N.A.P. - New Avengers' Project

di Dslock01
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** L'incidente ***
Capitolo 2: *** Il Santuario di New York ***
Capitolo 3: *** Una nuova vita ***
Capitolo 4: *** Visite dall'universo ***
Capitolo 5: *** Valk ***
Capitolo 6: *** Una vecchia amicizia ***
Capitolo 7: *** Gli Stark ***
Capitolo 8: *** La Mantide e il Falco ***
Capitolo 9: *** La donna del Dio Perduto ***
Capitolo 10: *** La scienziata spezzata ***
Capitolo 11: *** New Asgard ***
Capitolo 12: *** Gli eroi di Detroit ***
Capitolo 13: *** Il piano di Joy ***
Capitolo 14: *** Il peso di una singola Anima ***
Capitolo 15: *** Il tesoro del Tempo ***
Capitolo 16: *** Uno Spazio Ingombrante ***
Capitolo 17: *** Mutevoli Realtà ***
Capitolo 18: *** Un sacrificio per la Potenza ***
Capitolo 19: *** La famiglia Tyler ***
Capitolo 20: *** Rilevazioni ***
Capitolo 21: *** Una missione per Gadha ***
Capitolo 22: *** Un aiuto dal passato ***
Capitolo 23: *** Il primo Captain America ***
Capitolo 24: *** Nuovi sviluppi ***
Capitolo 25: *** Eitri ***
Capitolo 26: *** Progressi ***
Capitolo 27: *** Vecchie fiamme e nuovi allenamenti ***
Capitolo 28: *** Dichiarazioni di guerra ***
Capitolo 29: *** Il nuovo Guanto dell'Infinito ***
Capitolo 30: *** Piani d'attacco ***
Capitolo 31: *** Il Figlio dell'Infinito ***
Capitolo 32: *** L'ultima notte ***
Capitolo 33: *** Tormentata attesa ***
Capitolo 34: *** La battaglia ***
Capitolo 35: *** Nella tana del lupo ***
Capitolo 36: *** Fine dei giochi ***
Capitolo 37: *** Legami indissolubili ***
Capitolo 38: *** Lo Schiocco ***
Capitolo 39: *** Vittoria? ***
Capitolo 40: *** La forza dell'Unione ***
Capitolo 41: *** Il discorso ***
Capitolo 42: *** Il prezzo della vittoria ***
Capitolo 43: *** Una vita normale ***
Capitolo 44: *** Vite diverse, Destino comune ***



Capitolo 1
*** L'incidente ***


23 marzo 2035,
New York City.


«Donna. Quarant'anni. Incidente d'auto con conseguente compressione del torace e frattura multipla delle costole. Sospettata perforazione di organi interni dovuta al tessuto osseo danneggiato. Condizioni critiche: si richiede urgentemente una sala operatoria per estrarre le schegge ossee nel tentativo di salvarle la vita», concluse il medico con professionale freddezza

In testa alla barella che trasportava il corpo martoriato di quella povera donna, il dottore non poté fare a meno di domandarsi se fosse possibile salvarle la vita.

Probabilmente le ossa spezzate avevano già perforato il cuore e i polmoni, ma come la prima lezione di medicina universitaria gli aveva insegnato, avrebbe fatto del suo meglio per salvarla.

La lettiga imboccò l’ennesimo corridoio piastrellato di bianco.

Il medico dovette scuotere la testa per schiarirsi la mente e concentrarsi sulla sua paziente.

Diede un’occhiata al suo elegante orologio da polso e tirò un sospiro di sollievo.

Sei e trenta.

Per fortuna, l’ospedale non era affollato a un’ora tanto mattutina.

«Dottor Owen, cosa dobbiamo fare con la bambina?», gli domandò l’infermiera più vicina.

Indicò con una mano avvolta in un guanto di lattice una ragazzina che seguiva silenziosamente la loro barella.

«Quella è la figlia?», domandò, confuso.

Difatti, la piccola non somigliava affatto alla donna in bilico tra la vita e la morte, distesa su quella barella.

La madre possedeva un fisico asciutto, lunghi capelli di un naturale biondo e una carnagione pallida.

Il medico immaginò che gli occhi, ora serrati per la sofferenza, fossero di una tonalità chiara come l’azzurro o il verde.

Quella ragazzina, invece, era caratterizzata da corti capelli castani scuri legati ai lati della nuca in due piccole code, bassa statura e occhi di una tonalità molto scura.

Evidentemente, la bambina aveva ereditato i tratti fisici del padre…

A quel pensiero, un nuovo dubbio si insinuò nella sua mente.

«Che fine ha fatto il padre?», s’informò.

Il paramedico, posto sulla parte posteriore della lettiga, sollevò gli occhi nella sua direzione e negò con il capo.

«Morto sul colpo», aggiunse. «Dobbiamo considerare un miracolo che la bambina non si sia fatta nulla. Siamo stati costretti a portarla con noi sull’ambulanza perché non voleva separarsi dalla madre.»

«Un miracolo vivente», tagliò corto, facendo cenno a una giovane stagista di avvicinarsi.

«Sì, Dottor Owen?», gli domandò la giovane, una volta raggiunta la barella.

«Fammi il piacere di occuparti di questa ragazzina mentre noi cerchiamo di salvare la vita alla madre, grazie.»

La donna, una graziosa biondina dai fianchi rotondi, annuì, si piegò gentilmente all’altezza della piccola quando questa le passò dinnanzi e l’afferrò per gli avambracci.

«Piccola, devi venire con me», le sorrise. «Lasciamo che i medici si occupino di tua madre mentre ci prendiamo qualcosa di caldo, va bene?»

La bambina tentò di divincolarsi dalla presa della stagista per riprendere l’inseguimento della barella che si stava rapidamente allontanando, quando la donna intensificò la stretta.

«So che è difficile», le sussurrò, «ma non puoi fare nulla per aiutare tua madre. Resta qui e aspetta che il personale medico faccia il suo dovere.»

Stretta fra le braccia della donna, la ragazzina seguì impotente la lettiga con lo sguardo finché non scomparve alla sua vista, poi scoppiò in lacrime.

Presa alla sprovvista, la stagista la strinse forte a sé, nel tentativo di consolarla.

D’istinto, la ragazzina seppellì il volto nel camice della donna e continuò a singhiozzare per diversi istanti, sporcando di muco e lacrime il tessuto azzurro.

«Su, piccola, calmati. Piangendo non aiuterai la tua mamma», la richiamò la stagista, carezzandole i corti capelli castani, memore dei gesti che sua madre era solita ripetere durante i suoi momenti tristi.

Le sue parole ottennero presto l’effetto desiderato: la bambina sollevò gli occhi gonfi di pianto in direzione del suo viso e tirò su con il naso.

«Credi che la mamma possa davvero riprendersi?», domandò con voce nasale.

La stagista le rivolse un sorriso radioso.

«Ne sono sicura, piccola. Il Dottor Owen è uno dei migliori chirurghi. Grazie a lui, tua madre sarà di nuovo in piedi in men che non si dica», rispose.

Poi, notando che la ragazzina teneva gli occhi puntati sulla macchia bagnata generata dalle sue lacrime, si sbrigò ad aggiungere: «Non preoccuparti per questa sciocchezza! Ho centinaia di camici. Ora, poiché credo che il tuo nome non sia “piccola”, desidero sapere come ti chiami.»

La ragazzina annuì subito, asciugando gli ultimi residui di lacrime con la manica della maglia nera che indossava al di sotto di una larga salopette di jeans.

«Mi chiamo Maya McInnos. Tu?», si presentò, porgendole una mano.

La donna le strinse con forza la mano.

«Il mio nome completo è Laura Mary Green, ma puoi chiamarmi Lou.»

Maya assentì con un cenno del capo e si sforzò di sorriderle, quando il suo stomaco emise un famelico brontolio.

La donna trattenne a stento una risata mentre guance della giovane si tingevano di rosso per l’imbarazzo.

«Immagino che tu non metta del cibo sotto i denti da un bel po’. Che ne dici di un buon sandwich? Di là, in sala ristoro, ho tutto ciò che occorre», propose.

Si allontanò lungo il corridoio, nella direzione opposta a quella imboccata dalla barella.

Maya le trotterellò dietro, affamata.

“La mamma non se la prenderà se mangio qualcosa”, si disse, “solo per qualche istante e, quando uscirà, sarò lì ad aspettarla”.

Mentre procedevano lungo quella corsia, Maya ebbe la possibilità di guardarsi intorno: il pavimento e le pareti erano caratterizzati dalla stessa tinta grigiastra mentre sul soffitto, di una tonalità più chiara, erano sistemate delle lampade al neon, distanti l’un l’altra alcuni metri.

Sedie di plastica rossa e tavoli bianchi dov’erano sistemate alcune riviste completavano l’opera.

Maya sospirò, costringendosi a distogliere lo sguardo dall’arredamento.

Quel grigiore contribuiva solamente a farla sprofondare ulteriormente nella tristezza.

Lou accelerò improvvisamente il passo e Maya fu costretta a correre per starle dietro.

Imboccarono rapide un secondo corridoio identico al precedente e, successivamente, si fermarono dinnanzi a una camera che riportava sulla porta la targa: “Area di ristoro-Ammesso solo personale ospedaliero”.

La donna spalancò la porta con una mano e fece cenno con il capo a Maya di entrare.

La ragazzina non esitò a varcare la soglia, seguita a breve distanza da Laura.

La sala di ristoro era una camera pratica, dalle pareti tempestate di poster appartenenti al personale.

Era caratterizzata da un ampio frigorifero dov’era contenuto il cibo da consumare durante le pause e alcuni tavoli dall’aria comoda dove accomodarsi.

In quel momento, nella stanza erano presenti soltanto un paio di infermiere dall’aria simpatica che discutevano animatamente con quello che Maya riconobbe come un paramedico.

I tre sembravano così presi dalla loro conversazione da non accorgersi neppure del loro arrivo.

Curiosa, Maya tese l’orecchio per origliare qualche stralcio della loro conversazione.

«...Giuro di non aver mai assistito a qualcosa del genere. L’auto era praticamente distrutta, ma quella bambina è rimasta illesa, come se uno scudo o una cosa simile l’avesse protetta.»

«Sì, ho visto anch’io com’era ridotto il conducente. La testa si è praticamente spaccata in due! Spero soltanto che non abbia sofferto quando è morto. Mi chiedo soltanto se l’altra vittima riuscirà a salvarsi...»

La giovane percepì il cuore sprofondarle nel petto.

Morto…

Il suo papà era morto!

Il suo papà era morto e nessuno aveva avuto il coraggio di dirglielo!

Percepì le lacrime salirle di nuovo agli occhi, ma questa volta non fece nulla per reprimerle.

Com’era potuto accadere?

Il paramedico a cui aveva chiesto chiarimenti sulle condizioni del suo papà le aveva assicurato che il genitore non era in pericolo di vita.

Sentì la rabbia montarle dentro, affiancandosi al suo dolore.

Perché quell’uomo aveva deciso di mentirle?

Credeva forse che avrebbe dato di matto?

Credeva forse che nasconderle una verità del genere l’avrebbe aiutata?

Richiamati dai singhiozzi, i tre avventori si voltarono nella sua direzione.

L’uomo le riservò un’occhiata carica di confusione prima di strabuzzare gli occhi.

«Quella è la ragazzina di cui vi stavo parlando. Visto? Non racconto balle, io!», esclamò, additandola.

«Ti sembra questo il momento di gridare ai quattro venti che hai ragione? Non vedi che la ragazzina sta soffrendo!», lo fulminò l’infermiera più corpulenta, assestandogli una pacca sulla nuca.

Nel frattempo, Lou si era avvicinata nuovamente alla giovane e l’aveva guidata verso la sedia più vicina.

«Su, piccola, non piangere! Questo non aiuterà i tuoi genitori», ripeté, nel tentativo di consolarla.

Maya non le rispose, limitandosi a seppellire il viso fra le mani e continuare a piangere, incurante delle persone che la circondavano.

Cos’avrebbe fatto ora?

Il suo papà non c’era più e la sua mamma lottava disperatamente per restare in vita.

A quel pensiero, l’ennesima domanda si materializzò nella sua mente.

Cosa sarebbe accaduto se anche sua madre fosse morta?

Si sarebbe ritrovata sola, orfana...

Subito, il volto sorridente del padre si materializzò nella sua mente.

I suoi ridenti occhi castani, i capelli profumati di gel sistemati sempre all’indietro, il sorriso sghembo che le riservava in ogni occasione…

Come avrebbe potuto vivere senza il suo papà?

Lou tentò di scuoterla nuovamente, quando la più corpulenta della infermiera scosse la testa con forza.

«Lasciala in pace per un po’. È un bene che si stia sfogando in questo modo. Il dolore impiegherà meno tempo ad attenuarsi.»

In quell’istante, il cellulare del paramedico emise un lungo fischio, annunciandogli la fine della sua pausa.

L’uomo salutò quindi le tre colleghe con un cenno del capo e uscì, il telefonino stretto nella mano destra.

Poco dopo, anche le altre due donne lasciarono la sala di ristoro per intraprendere un nuovo turno.

Lou prese posto accanto a Maya, torcendosi nervosamente le mani.

Nonostante fosse la primogenita di una numerosa famiglia, non aveva mai dovuto consolare uno dei suoi fratelli in un’occasione simile.

Cos’avrebbe dovuto fare?

Insistere o abbandonarla semplicemente al suo dolore?

Maya cambiò posizione sulla sedia: con le gambe portate al petto, la ragazzina aveva appoggiato la fronte sulle ginocchia e si era nascosta gli occhi con le mani.

Malgrado non potesse vedere i suoi occhi, Lou comprese dai suoi singhiozzi che la giovane stava continuando a piangere.

Sospirò e, seguendo il consiglio della collega, decise di lasciarla un po’ sola a sfogarsi.

Quello, rifletté, era l’unico modo in cui poteva aiutarla in quel momento.

Si alzò e mosse qualche passo verso l’uscita, lo sguardo fisso sulla ragazzina in lacrime.

«Se mi cerchi sono in infermeria a compilare un po’ di scartoffie. Non esitare a chiamarmi in caso di necessità», l’avvisò, chiudendosi la porta alle spalle.

Maya, distrutta, continuò a piangere per ore prima che la stanchezza avesse la meglio, costringendola a cadere in un sonno privo di sogni.



* * *



23 marzo 2035, 5:00 P.M.,
New York City.


«Svegliati, Maya, svegliati», la chiamò una voce familiare.

La ragazzina spalancò gli occhi e stiracchiò i muscoli doloranti, dovuti alla scomoda posizione in cui si era assopita.

«Mamma», mormorò ancora assonata. «Sei tu?»

Poi, quando i ricordi delle precedenti ore le tornarono alla mente, la ragazzina si ritrovò a darsi della stupida.

Sua madre era in sala operatoria.

Come avrebbe potuto svegliarla?

«Certo che sono io!», esclamò nuovamente la voce. «Non riconosci neppure la voce della tua mamma?»

Maya sobbalzò, spiazzata.

Che il dolore per la morte del padre l’avesse fatta impazzire?

«Tu non puoi essere mia madre! Il dottor Owen la sta operando in questo momento!»

«Sì», rispose la voce, improvvisamente stanca. «So benissimo cosa sta accadendo al mio corpo fisico, piccola.»

La ragazzina non poteva credere alle sue orecchie.

Corpo fisico?

Di cosa diamine stava parlando quella voce?

«Io sono…confusa», ammise infine. «Come puoi essere qui se ti stanno operando? È perché riesco a udire solamente la tua voce?»

Silenzio per qualche istante, poi uno scintillio si materializzò dinnanzi agli occhi di Maya.

Con le sopracciglia aggrottate, la ragazzina tentò di avvicinarsi, quando il luccichio scomparve, sostituito da una figura umana dai tratti abbozzati.

Sconvolta, Maya indietreggiò di diversi passi, fermandosi solo quando la sua schiena batté contro la parete.

Occhieggiò la porta in cerca di una via di fuga, ma la figura si era sistemata proprio di fronte all’uscio, in modo da impedirle di scappare.

Atterrita, la ragazzina osservò la figura evanescente levitare nella sua direzione.

«Maya», la rimproverò la figura. «Davvero non riesci a riconoscere tua madre?»

«Tu non sei la mia mamma!», le gridò contro la giovane. «Lei non è un fantasma o qualsiasi cosa tu sia!»

La figura evanescente ridacchiò e si avvicinò di qualche altro metro.

Spaventata, Maya tentò di scivolare lungo la parete, in modo da raggiungere la porta, ora libera, e chiedere aiuto.

«So che è un po’ complicato da capire, ma quella che vedi è la mia Proiezione Astrale. In pratica, quel che ora sta parlando con te è il mio spirito. Ora, se mi concentro ancora un po’, dovrei assumere una forma più precisa», le spiegò la figura con pazienza.

Lentamente, i suoi tratti fisici andarono affinandosi, abbandonando la loro confusa forma: i capelli iniziarono ad allungarsi e tingersi di biondo, gli occhi assunsero una leggera colorazione azzurra, il fisico si fece più magro, mettendo in risalto il seno e i fianchi ben definiti.

Ben presto, agli occhi di Maya comparve la figura evanescente di sua madre, fasciata in quello che riconobbe come un camice da paziente.

«Ora va meglio?», le domandò la proiezione astrale, le mani premute sulle anche.

La figlia annuì tremante e si protese d’istinto per abbracciarla, concludendo con lo stringere fra le braccia null’altro che aria.

«Mi dispiace, piccola, ma questa è solo una proiezione. Volevo dirti che la mia operazione sta andando alla grande e che mi riprenderò molto presto», le annunciò con un sorriso.

Maya sorrise, raggiante.

«Ma è grandioso!», esultò. «Quando ti dimetteranno voglio...»

«Tuttavia, desidero che tu vada a vivere con alcuni miei conoscenti mentre sarò in riabilitazione», continuò la madre, interrompendola. «Si tratta di una piccola famiglia. Sono davvero simpatici e ti divertirai molto con loro.»

In risposta, la ragazzina gonfiò le guance, seccata.

«Non ho voglia di andare a vivere con zia Flora e i suoi odiosi gemelli! Non fanno altro che discutere fra loro delle cose più stupide e mi prendono sempre in giro», protestò.

La donna negò con il capo, trattenendo una piccola risata.

«Non intendevo mandarti da zia Flora, non preoccuparti. Voglio inviarti in un luogo dove ti insegneranno a padroneggiare quello che ora stai vedendo. Dimmi, non ti piacerebbe possedere una forma astrale come questa?», domandò, indicando il suo corpo semitrasparente.

Maya annuì, improvvisamente interessata.

Poteva davvero imparare qualcosa del genere?

La donna assentì a sua volta.

Poi, sotto lo sguardo confuso della figlia, protese il braccio in direzione della parete vicina e, unendo l’indice e il medio, prese a disegnare cerchi con la mano.

Un sottile filo di energia arancione fuoriuscì dalle dita della Proiezione Astrale, disegnando un piccolo e crepitante vortice dalla forma circolare.

Al suo interno, Maya occhieggiò sbalordita il profilo di un edificio piuttosto vissuto dalla vernice color ambrata tendente all’arancione, caratterizzato dalla presenza di molte finestre e un tetto spiovente azzurro scuro.

Sulla parete frontale, un piano sopra l’ingresso, spiccava una grande finestra dalla forma circolare, protetta dall’esterno da una spessa grata dalla strana fantasia.

«Non farti ingannare dalle apparenze», sorrise la madre con dolcezza. «Questo luogo è davvero accogliente e i suoi abitanti sono molto simpatici. Appena supererai il portale, devi chiedere di Strange. Mi raccomando, spiegagli la situazione con chiarezza e non avere paura. Può sembrare un uomo un po’ burbero, ma è davvero buono. Capito?»

Maya annuì, ripetendo mentalmente il nome dell’uomo che avrebbe dovuto cercare.

Non aveva mai sentito parlare di lui, ma dal momento che la sua mamma l’aveva nominato, quell’uomo doveva possedere davvero un buon cuore.

Il vortice magico crepitò e si schiarì leggermente.

“Dannazione!” imprecò mentalmente la proiezione. “Sapevo di essere arrugginita nell’uso della magia, ma credevo di essere in grado di mantenere un portale per più di qualche minuto”.

«Credo sia il momento di separarci, Maya. Ricorda ciò che ti ho detto, comportati bene e studia con costanza. Io verrò a riprenderti quando sarò totalmente guarita», mormorò poi, rivolgendosi alla figlia.

Malgrado si impegnasse a donare alla sua voce un tono allegro, Maya percepì tutta la tristezza che la madre tentava di nasconderle.

«Sei sicura che vada tutto bene, mamma?», domandò.

La donna le mostrò un sorriso smagliante, mettendo a nudo i denti candidi.

«Va tutto a meraviglia, tesoro. Dimmi, ti ho mai mentito?»

La piccola scosse la testa con forza.

«Allora fidati di me ed entra nel portale. Sono sicura che ti divertirai un mondo al Santuario. Ah, ricordati di aggiungere che sei la figlia di Paige McInnos. So che non ci crederai, ma sono piuttosto famosa da quelle parti!», scherzò, prima di indicarle il portale con una mano.

La ragazzina accennò una piccola risata e tentò nuovamente di abbracciare il genitore, ritrovandosi a stringere l’aria fra le braccia per la seconda volta.

Paige piegò leggermente la testa verso destra e allungò una mano in direzione della figlia, sfiorandole un codino castano con le dita.

Maya avvertì un brivido di freddo attraversarle la schiena, ma sopportò in silenzio mentre le dita evanescenti della madre correvano lungo il suo volto per poi fermarsi sul suo mento in un’invisibile carezza.

«Mi mancherai tanto, piccola mia», mormorò, regalandole un leggero bacio sulla fronte.

«Mi mancherai tantissimo anche tu, mamma», rispose Maya, mesta.

Nonostante fosse contenta che sua madre stesse bene, si sentiva davvero triste all’idea di trascorrere del tempo lontana da lei e dal fratello Marcus, rimasto a casa con la baby-sitter.

Il portale d’energia arancione crepitò una seconda volta e Paige fu costretta a interrompere quel contatto, spingendola leggermente verso il vortice.

«Questo è davvero il momento di andare», l’avvisò.

Con gli occhi lucidi di lacrime, Maya annuì ed eliminò i pochi metri che la dividevano dal portale con alcuni passi malfermi.

«Promettimi che tornerai a prendermi. Promettimi che non te ne andrai, come ha fatto papà», mormorò.

Con il cuore in pezzi, Paige si portò una mano al petto e annuì.

«Parola di mamma, tornerò a prenderti. Costi quel che costi», le giurò.

Rassicurata, Maya annuì e si accinse a imboccare il vortice con un solo passo.

La ragazzina scomparve presto alla vista della donna e il portale si richiuse dietro di lei con un crepitio.

Rimasta sola nella stanza, la proiezione astrale di Paige scoppiò in un pianto liberatorio.

Le doleva dannatamente aver mentito alla sua bambina, ma saperla in mani sicura la rassicurava.

Il maestro Strange le avrebbe insegnato la migliore magia e, in caso non fosse sopravvissuta all’incidente, era certa che l’avrebbe aiutata a superare anche la sua perdita.

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Capitolo 2
*** Il Santuario di New York ***


23 marzo 2035, 5:45 P.M.,
177A Bleecker Street,
New York City.


Il viaggio attraverso il portale non fu affatto movimentato come Maya se l’era aspettato.

Niente tunnel bianchi, nessuno sballottamenti fra le dimensioni… niente di niente.

Il portale si era rivelato una semplice porta, crepitante di magia, che conduceva nei pressi dell’edificio che sua madre le aveva mostrato.

Ora che lo strano vortice l’aveva abbandonata in quel vicolo per poi chiudersi alle sue spalle, Maya non poteva fare altro che raggiungere quella strana abitazione e incontrare Stephen Strange.

Si sistemò la salopette di jeans sul petto e si passò una mano tra i corti capelli castani, nel tentativo di darsi una pettinata.

“La prima impressione che fai su un estraneo è la più importante. Per questo bisogna presentarsi sempre impeccabili”, ripeteva spesso il suo papà.

Certo, lui era un uomo d’affari, ma non guastava mai apparire in ordine.

Stirata l’ultima piega con le mani, la ragazzina si decise finalmente a lasciare il vicolo e dirigersi verso l’abitazione.

Facendo attenzione a non calpestare nulla di viscido, si allontanò dalla parete in cui era scomparso il portale e imboccò il marciapiedi più vicino.

Come ogni strada di New York che si rispettasse, quel viale era ingombro di persone impegnate nelle attività più quotidiane, dalla passeggiata pomeridiana in compagnia del cane alla spesa delle casalinghe con al seguito i propri bambini.

Memore delle numerose gite in città per visitare zia Flora, Maya si schiacciò contro la parete più vicina, in modo da non intralciare il continuo via vai.

Maya osservò che l’edificio dava esattamente su un crocevia, caratterizzato da una pavimentazione di cemento ben pulito e dalla presenza di alcuni alberi, intervallati a lampioni e semafori.

Malgrado fossero presenti molti edifici dalla struttura simile lungo quella via, la ragazza non ebbe alcuna difficoltà a riconoscere quello giusto: le bastò osservare l’enorme finestra dalla forma circolare, decorata dalla particolare grata che sua madre le aveva mostrato.

Strinse i pugni per farsi coraggio e mosse gli ultimi passi che la dividevano dall’ingresso principale.

Salì in fretta i quattro gradini e si ritrovò a fissare la porta, centinaia di pensieri ad affollarle la mente.

Come avrebbe reagito Strange quando gli avrebbe spiegato ciò che era accaduto?

Sua madre aveva anche accennato ad altri abitanti di quello strano edificio.

Loro l’avrebbero accettata?

Sospirò, chiedendosi se non fosse meglio raggiungere la cabina telefonica più vicina e chiamare l’ospedale, chiedendo a Lou di venire a prenderla.

Tuttavia, quando fu sul punto di tornare indietro, la porta a vetri tinteggiata di verde si aprì.

Una donna sulla quarantina uscì, il sacchetto dell’immondizia stretto in una mano.

Maya la osservò incuriosita, studiandone l’aspetto.

I lunghi capelli scuri, raccolti in un’ordinata crocchia sulla nuca, mettendo in risalto un bel viso a forma di cuore e due piccoli occhi castano dorato, incorniciati da leggere rughe.

Indossava un comodo vestito azzurro a maniche lunghe, decorato da una fantasia a farfalle variopinte e un paio di comodi mocassini dello stesso colore.

Quando lo sguardo di Maya incrociò quello della donna, quest’ultima si limitò a sorriderle con gentilezza.

«Ciao, piccola. Posso sapere cosa fai qui?», domandò, piegandosi leggermente sulle ginocchia per raggiungere la sua altezza.

«La mia mamma mi ha detto di venire qui e parlare con Stephen Strange», rispose prontamente Maya.

La donna strabuzzò gli occhi, visibilmente sorpresa.

«Perdona la mia confusione, ma dovresti spiegarmi meglio la tua situazione? Che ne dici di accompagnarmi al bidone e raccontarmi la tua storia per la strada?»

La ragazzina annuì e seguì la donna in direzione del vicolo in cui era svanito il portale.

«Stamattina, io, la mia mamma e il mio papà ci stavamo dirigendo verso la casa di zia Flora, nel Bronx, quando c’è stato un incidente per la strada. Non ho ben capito cos’è successo, ma sembra che il guidatore di un camion abbia perso il controllo e il suo mezzo si sia schiantato contro le auto della corsia opposta. La nostra auto è stata colpita in pieno. Io sono rimasta illesa, ma il mio papà…», s’interruppe bruscamente, tentando di reprimere le lacrime quando il dolore per la perdita del padre la colpì nuovamente al cuore.

Intuito il destino dell’uomo, la donna le donò un sorriso comprensivo e le batté una mano sulla spalla.

A quel contatto, Maya si ricompose rapida e riprese la narrazione, asciugandosi gli occhi lucidi con la manica della maglia nera.

«Poi, ho scoperto che il mio papà era morto sul colpo mentre la mia mamma è stata trasportata d’urgenza in ospedale. Lì, mentre la stavano operando, la sua Proiezione Astrale è venuta da me nella sala ristoro per gli infermieri, dicendo che mi avrebbe inviato qui per parlare con un certo Strange. Ha insistito sul fatto che fosse necessario evidenziare che sono figlia di Paige McInnos», terminò.

Gli occhi della donna si illuminarono nell’udire quel nome.

«Sei davvero Maya, la bambina di Paige e Robert?», le chiese, incredula.

Maya trasalì.

«Come fai a conoscere il mio nome?», esclamò, sbalordita.

L’altra aggrottò le sopracciglia, confusa.

«Paige non ti ha raccontato nulla del suo passato nel Santuario di Kathmandu?»

Santuario?

Kathmandu?

Cosa diamine stava blaterando quella donna?

Dalla sua espressione confusa, la donna comprese che Paige aveva lasciato Maya allo scuro del suo passato.

«Beh, in ogni caso, io non sono la persona più adatta per spiegarti la situazione. Lascerò che sia il Dottore a metterti al corrente della gloriosa impresa di tua madre.»

Raggiunto il vicolo, la signora si avvicinò al bidone dell’immondizia più pulito e vi lanciò all’interno la sua busta.

Un gatto spelacchiato trotterellò fuori dal suo nascondiglio e balzò nel secchio per assicurarsi qualche buon boccone di cibo avanzato.

Le parole della donna non fecero che confondere ulteriormente la ragazzina.

Quale “gloriosa impresa” aveva compiuto sua madre?

Da quel che ne sapeva, infatti, la sua mamma non aveva mai fatto nulla fuori dall’ordinario.

«Magda!», chiamò una voce all’improvviso, risvegliando Maya dai suoi pensieri.

In quell’istante, un giovane uomo si avviò correndo nella loro direzione.

«Joy!», lo rimproverò la donna quando il ragazzo l’ebbe raggiunta. «Quante volte ti ho detto di non uscire in strada vestito così!»

Maya osservò con attenzione l’aspetto di Joy, incuriosita.

Il ragazzo presentava un fisico esile e dai suoi tratti delicati, quasi femminei.

Sul viso, incorniciati da corti capelli biondo platino ben pettinati, spiccavano occhi azzurri estremamente chiari e un naso sottile, ma ben disegnato.

Tuttavia, ciò che attirò maggiormente l’occhio di Maya furono gli abiti: una casacca a maniche lunghe, un paio di pantaloni infilati in pesanti stivali appena sotto il ginocchio tenuti fermi da lunghe bende nere, una tunica a giromanica aperta sul davanti e tenuta ferma alla vita da una spessa cintura intrecciata da cui pendeva un curioso oggetto che Maya non riconobbe.

Il tutto, rigorosamente nero.

La ragazzina si domandò perché quel ragazzo indossasse qualcosa di così particolare.

«Hai visto per caso il mio taccuino?», domandò a Magda. «Su quel quadernetto sono scritti tutti i miei incantesimi e tu sei l’ultima che è entrata nella mia stanza.»

Maya strabuzzò gli occhi.

Incantesimi?

In che covo di matti l’aveva inviata sua madre?

Magda si prese il mento con l’indice e il pollice, riflessiva.

Qualche istante più tardi, rispose: «Se è quel taccuino tutto rotto, la Cappa l’ha trovato nel cortile e l’ha portato a Wong. Credo l’abbia ancora lui.»

Il ragazzo la ringraziò con un cenno e fece per allontanarsi, quando il suo sguardo venne catturato da Maya.

«E questa ragazzina chi è?», chiese.

La donna sorrise e spinse leggermente la giovane in direzione di Joy.

«Questa è Maya, la figlia di Paige Mcinnos», sorrise.

Il ragazzo strabuzzò gli occhi azzurri, visibilmente emozionato.

«Davvero? Allora tua madre ti avrà insegnato moltissimi incantesimi!», esclamò eccitato. «Che ne dici di insegnarmene un paio?»

Il ragazzo fece per avvicinarsi a Maya, ma quest’ultima indietreggiò, intimorita.

Joy gli riservò un’occhiata confusa, quando Magda scosse la testa.

«Joy, la situazione è molto complessa. Non so se ti ricordi del nostro ultimo incontro con Paige, ma ha mantenuto l’ultima promessa fatta al Dottore. Maya è rimasta allo scuro del passato di sua madre e non conosce nulla della magia», spiegò al ragazzo.

Quest’ultimo storse il naso, infastidito.

«Io ho sempre creduto che fosse una stupidaggine», mormorò.

Magda lo rimproverò con un’occhiataccia.

«Vuoi darmi torto?», continuò Joy, testardo. «Paige aveva un potenziale magico enorme e, se sua figlia fosse stata allenata da subito, a quest’ora sarebbe già stata abilissima.»

Di norma, Maya avrebbe difeso la madre con accanimento, ma in quell’occasione non sapeva davvero cosa dire o pensare.

Tutto quel che stava accadendo era sbalorditivo e, nello stesso tempo, terribilmente spaventoso.

Sua madre possedeva un passato glorioso nel campo della magia e, per qualche motivo, aveva deciso di tenere lei e Marcus allo scuro dell’intera faccenda.

Ma perché?

Di certo, vi era qualcosa che Magda e Joy le stavano nascondendo.

Poi, le ultime parole scambiate con sua madre le vennero alla mente: doveva parlare con Strange.

E subito.

Come a leggerle nel pensiero, la donna le afferrò gentilmente un braccio e la condusse verso l’entrata dell’edificio.

Maya la seguì senza opporre resistenza e, insieme a Joy, fecero il loro ingresso nello strano edificio.

Superata la porta a vetri, Maya prese a guardarsi attorno, stupita.

L’ingresso si immergeva in un’enorme sala sorretta da colonne di nuda pietra meravigliosamente decorate, intervallate a tavolini in legno pregiato dov’erano conservati eleganti soprammobili e strani oggetti di cui non comprendeva l’utilizzo.

Le ampie finestre, decorate da spesse tende di raso rosso, illuminavano la sala di luce naturale, donandole anche un’aria cupa.

Al centro della sala, al termine di una rampa di scale protetto da un tappeto di raso rosso scuro, troneggiava una splendida statua.

Avvicinandosi, la ragazzina si ritrovò a studiare il profilo di un guerriero androgino privo di capelli, ritratto in posizione di combattimento.

A qualche centimetri dalle mani del guerriero erano presenti dei complicati mandala circolari dalle tinte arancioni che sembravano illuminare la camera di luce propria.

Maya comprese di trovarsi dinnanzi alla rappresentazione di una persona che, in passato, doveva aver compiuto grandi opere.

«Bella, vero?», le domandò Joy, orgoglioso. «Questa statua l’ho realizzata io.»

Maya sgranò gli occhi, esterrefatta.

«Davvero? Come hai fatto a renderla così reale?»

Il ragazzo sorrise, battendosi un indice sulla tempia sinistra.

«Intelletto e un po’ magia, tutto qui.»

«Posso sapere chi ritrae?»

Joy s’incupì leggermente, ma non perse il sorriso.

«Questa è la mia mamma», le spiegò, una chiara nota di tristezza nella voce. «Abbiamo vissuto insieme soltanto cinque anni prima che morisse a causa di un uomo di nome Kaecilius. È una lunga storia e non mi sembra il caso di raccontartela in questo momento.»

Maya chinò il capo, comprensiva.

Ora che sapeva anche lei cosa comportasse perdere un genitore, sentiva che non era davvero il momento di risvegliare ricordi così dolorosi.

Inoltre, era certa che sarebbe scoppiata in lacrime per l’ennesima volta al ricordo di suo padre.

«Scusami se ti ho rattristato, non volevo.»

Joy le scompigliò i capelli in un gesto fraterno.

«Se volete scusarmi, io andrei in biblioteca a riprendere il mio taccuino. Buona fortuna con il maestro, Maya», si congedò a quel punto, imboccando le scale che davano sulla sinistra.

Poco dopo, Joy scomparve oltre la soglia di un pesante portone di legno scuro.

Magda spinse Maya nella direzione opposta, indicandole una seconda porta cremisi.

«Quello è lo studio di Strange», le spiegò. «In questo momento è immerso nella meditazione. Basterà spiegargli la tua situazione con chiarezza e sono certa che ti accoglierà con piacere.»

La ragazza deglutì rumorosamente, improvvisamente spaventata.

Se quell’uomo l’avesse mandata via in seguito al loro incontro?

Cosa le sarebbe accaduto?

In quella circostanza, avrebbe dovuto ricontattare Lou dell’ospedale o chiamare Zia Flora?

Malgrado la sua mente fosse piena di dubbi, Maya raccolse tutto il suo coraggio e si incamminò verso la sua meta.

Percorse in fretta l’ultima rampa di scale con il cuore in gola e portò una mano alla maniglia d’ottone.

«Ah, un ultimo accorgimento!», gridò Magda dal piano inferiore. «Ricorda di chiamarlo Dottore! Non sopporta essere chiamato Signor Strange. Buona fortuna!»

La giovane annuì e si decise ad abbassare la maniglia, il battito furioso del cuore che le tamburellava nelle orecchie.

La porta si aprì con un cigolio e, quando fu entrata, si richiuse alle sue spalle con un tonfo secco.

Maya notò all’istante che la camera richiamava molto lo stile dell’ingresso: pareti di legno, pavimento di pietra ricoperto da un ampio tappeto rosso cupo, scaffali colmi di pesanti tomi rilegati in pelle e bassi tavolini su cui erano posti oggetti dall’aspetto mistico.

Il dettaglio che colpì maggiormente l’occhio di Maya, però, fu l’imponente finestra circolare che illuminava a giorno la camera.

Diviso in sedici diverse sezioni sistemati in una circonferenza, il vetro riportava un particolare mandala, dove linee curve e spezzate si incontrava in uno splendido disegno che dava suoi palazzi di New York.

«Gradirei che bussassi prima di entrare», la rimproverò una voce profonda, riportandola alla realtà. «Nessuno ti ha insegnato le regole basilari dell’educazione?»

Maya si diede della sciocca.

«Mi dispiace molto», si scusò, «la mia testa era altrove.»

«Scuse accettate, ragazzina, ma la prossima volta ti lascerò fuori se non busserai», replicò la voce, prima che la figura di un uomo le levitasse incontro, facendola sobbalzare.

Rischiarato dalla luce proveniente dalla finestra alle sue spalle, Maya notò che Strange indossava gli stessi strani abiti di Joy, tranne che di una tonalità blu navy e, a drappeggiargli le spalle, vi era una splendida cappa rosso cupo dal colletto inamidato.

Il mantello, come gonfiato da un invisibile vento, permetteva al dottore di levitare in aria.

Pochi istanti più tardi, l’uomo le stava dinnanzi e la osservava con i suoi indecifrabili occhi azzurro ghiaccio.

Maya distolse subito lo sguardo, intimorita dai suoi occhi perforanti.

«Posso sapere cosa ti ha condotto qui?», le domandò.

La ragazzina fece per parlare, quando la Cappa si sollevò dalle spalle di Strange e, come dotata di vita propria, le si gettò addosso.

Spaventata, la giovane tentò di indietreggiare verso la porta per sfuggire al mantello, quando la sua schiena batté contro il legno dell’uscio.

In un riflesso istintivo chiuse le palpebre in attesa del peggio, quando si ritrovò avvolta in un caldo e rassicurante abbraccio.

Confusa e sollevata nel contempo, Maya spalancò gli occhi: la Cappa si era stretta intorno alle sue spalle, ricoprendo il suo intero corpo con la sua calda stoffa.

«Wow», mormorò. «Non sapevo che le cappe potessero muoversi da sole. Tutto questo è stupefacente.»

Come per ringraziarla del suo complimento, il mantello strofinò il colletto contro la sua guancia in una lieve carezza.

Strange tossicchiò, portandosi un pugno alle labbra.

A quel cenno, la cappa le regalò un’ultima stretta e l’abbandonò per riprendere il suo posto attorno alle spalle del dottore.

«Direi che piaci molto alla Cappa della Levitazione», osservò, la voce leggermente più morbida. «Dovresti esserne onorata, l’ho vista uccidere delle persone.»

Maya tirò un istintivo sospiro di sollievo.

«Ora, desidererei che tu mi spiegassi cosa ci fai nel mio Santuario e perché Magda non ti ha sbattuta fuori gridando come una matta», continuò.

Maya annuì e, quando fece per raccontargli come fosse giunta al Santuario, un piccolo lampo di luce l’accecò per un istante.

Riacquistata la vista, si ritrovò seduta su una comoda poltrona foderata di raso rosso.

Dinnanzi a lei, affondato in una poltrona simile alla sua, vi era il dottore.

«Scusami», accennò un sorriso alla vista della sua espressione stravolta, «ma sembra che tu abbia molto di cui parlarmi e volevo mettermi comodo. Ora, comincia pure.»

Maya, gli occhi fissi sulle sue scarpe, ripeté a Strange ciò che aveva già raccontato a Magda, evidenziando il nome di sua madre come lei le aveva raccomandato.

Quando ebbe concluso, la giovane sollevò lo sguardo per incontrare quelli glaciali dell’uomo.

Il dottore si stava strofinando il curato pizzetto brizzolato con una mano ricoperta da lievi cicatrici sulle nocche, meditabondo.

«Dal momento che resterai con noi per un po’, immagino che io debba spiegarti cosa accadde e perché tua madre ti abbia inviato qui da me», rifletté allora, leggermente seccato.

Sospirò e una semplice tazza di tè bianca comparve in una delle sue mani.

Prese un piccolo sorso e alzò la tazzina in ceramica nella sua direzione.

«Tè?», domandò.

La ragazzina negò con il capo.

«No, grazie. Sono a posto», rispose.

Il dottore annuì e sollevò gli occhi in direzione della finestra circolare, come se stesse raccogliendo i propri pensieri.

Poco dopo, riprese a parlare.

«Circa tredici anni fa, un terribile titano proveniente dallo spazio si diresse verso la Terra alla ricerca della Gemma del Tempo, uno dei manufatti magici più importanti mai esistiti. Il suo scopo finale era creare il Guanto dell’Infinito, una potente arma che, unendo il potere delle sei Gemme dell’Infinito, avrebbe potuto distruggere metà dell’universo. Gli Avengers e i Maestri delle Arti Mistiche della Terra, tra cui io, tentammo di combatterlo. Ed è durante questo scontro che tua madre diede prova di essere un’eroina. Thanos, questo il nome del titano, riuscì a eliminare metà dell’universo, compreso me e la maggior parte dei Maestri della Terra. Tra i pochi sopravvissuti, vi era tua madre. Malgrado la situazione, tua madre non si arrese: incoraggiò i restanti Maestri a darsi da fare e, insieme, protessero la Terra dalle minacce provenienti dalle altre dimensioni per mantenere intatto l’equilibrio dell’universo. Cinque anni più tardi, quando Thanos fu finalmente sconfitto, la metà dell’universo eliminata fece ritorno. Fu anche grazie a tua madre se questa realtà non fu sopraffatta dalle molte minacce provenienti dagli altri universi. Al mio ritorno, scoprii che tua madre non si era arresa perché aveva conosciuto un uomo che amava e, in quel momento, era incinta di circa sei mesi. Mi confessò che desiderava donare al suo piccolo il futuro più roseo possibile. Due mesi più tardi, infatti, abbandonò il Santuario di Kathmandu, dove aveva vissuto fino ad allora, e si allontanò per sempre dal mondo della magia con il suo compagno, il padre della sua creatura. Questo, fino a oggi.»

Maya avvertì un capogiro, improvvisamente esausta.

In un solo giorno aveva subito un incidente d’auto da cui era miracolosamente scampata pressoché illesa, aveva perso il padre e scoperto infine che sua madre, prima di trovare lavoro come cassiera, era un’eroina dai mirabili poteri.

Si prese la testa dolorante fra le mani.

«So che quello che hai appena scoperto è destabilizzante, specialmente per una ragazzina come te, ma credo che Paige abbia compiuto la scelta più giusta inviandoti qui da me», continuò Strange. «Avverto in te un forte potenziale magico che, se allenato, potrebbe portarti a divenire una grande Maestra delle Arti Mistiche. Tuttavia, per iniziare l’addestramento, ho bisogno che tu mi comunichi le tue intenzioni.»

Si interruppe, riservandole un’occhiata dura.

«Non ho alcuna intenzione di sprecare il mio tempo con una ragazzina svogliata e indolente.»

Maya sollevò la testa nella sua direzione e gli restituì un’occhiata altrettanto affilata.

Era giunta a un bivio: attendere con le mani in mano che sua madre venisse a prenderla o sfruttare il suo soggiorno al Santuario per imparare qualcosa di utile sulla magia.

La risposta sembrava piuttosto ovvia.

«Sono pronta, Doctor Strange», affermò convinta. «Cominciamo quando vuoi.»

L’uomo sorrise compiaciuto, passandosi una mano fra i corti capelli castani scuri, ingrigiti sulle tempie.

In fondo, avere quella ragazzina come allieva si sarebbe rivelato più interessante del previsto.

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Capitolo 3
*** Una nuova vita ***


17 aprile 2045, 11:00 A.M.,
177A Bleecker Street,
New York City.


Fulminea, Maya batté il pugno della mano destra contro il palmo della sinistra per poi incrociare le mani aperte sul petto, i palmi rivolti verso l’interno.

Subito, due crepitanti mandala d’energia dalla forma circolare si materializzarono a pochi centimetri dalle sue mani.

La ragazza sorrise compiaciuta e assunse la posizione di combattimento, le gambe leggermente divaricate e gli avambracci portati in avanti per proteggersi.

I mandala si posizionarono verticalmente dinnanzi a lei, ad assumere la funzione di scudi.

Pochi attimi dopo, un raggio d’energia verde colpì gli scudi di Maya, costringendola a indietreggiare.

La ragazza strinse i denti, nel tentativo di resistere all’attacco, quando la sua difesa prese rapidamente a indebolirsi.

«Arrenditi, contro di me non avrai mai speranze!», esclamò Joy, dall’altro capo della stanza.

Dalla sua mano aperta fuoriusciva l’energia smeraldina che Maya tentava di contrastare.

«Sai bene che non mi arrenderò mai!», gli gridò la ragazza in risposta.

Uno degli scudi energetici cedette, disperdendosi nell’aria sotto forma di minuscole scintille di luce.

Proteggendosi con lo scudo rimasto, Maya sollevò la mano libera e scagliò contro Joy un lampo d’energia simile al suo, di un arancione molto chiaro.

I due raggi si scontrarono con un boato, distruggendosi a vicenda in una pioggia di scintille.

«Parità?», domandò allora la ragazza, portandosi una mano guantata alla fronte, per ripulirla dal sudore.

Joy grugnì il suo assenso.

«Un po’ di scudo e spada?», propose l’uomo a quel punto.

Maya annuì prontamente ed evocò una spada di guizzante energia simile a fiamme nella mano sinistra.

Nella mano destra, invece, era riapparso il mandala circolare che fungeva da scudo.

Il ragazzo la imitò e i due presero posto l’uno dinnanzi all’altro.

Fu Joy a menare il primo fendente, che andò a cozzare contro l’arma di Maya.

In quel momento, la porta della sala degli allenamenti si spalancò e Magda fece il suo ingresso.

I capelli, ora brizzolati, erano tagliati all’altezza del collo e alcune rughe erano comparse attorno ai suoi occhi e alle sue labbra.

«Scusate il disturbo, ragazzi, ma la soap opera è finita e la Cappa cominciava davvero ad agitarsi lontano da Maya», spiegò ai due.

Subito, un mantello color zaffiro levitò nella camera e si adagiò sulle spalle di Maya, avvolgendola nel suo caldo abbraccio.

«Sai che non devi dare di matto quando siamo lontani», la rimproverò la ragazza, mentre la cappa le accarezzava le guance con il colletto.

Joy sbuffò, seccato.

«Avrei potuto insegnarti a levitare sfruttando la tua energia interna, invece di affidarti a quella strana Cappa!», affermò, incrociando le braccia al petto.

Maya gli riservò un’occhiataccia.

«La mia Cappa non è affatto strana», ribatté, accarezzando con delicatezza il soffice tessuto.

«Oh, davvero?», riprese Joy, ironico. «Come definisci tu un oggetto magico a cui piacciono le soap opera e disprezza i libri di magia, da cui, fra l’altro, è nato?»

Maya non replicò, scuotendo il capo con forza.

Fra la sua Cappa della Levitazione e Joy non era mai corso buon sangue, soprattutto perché il suo oggetto magico si era rivelato, già dal loro primo incontro, molto particolare.



22 luglio 2038,
177A Bleecker Street,
New York City.


Maya sorrise raggiante, il pacco ben stretto tra le mani.

Sulla carta, decorata da una stampa rappresentante coriandoli variopinti e piccoli cappellini a cono, era riportata l’elegante scritta: “Buon quindicesimo compleanno”.

Erano trascorsi ormai tre anni dal suo arrivo al Santuario di New York e, per festeggiare il suo compleanno, Strange e Wong le avevano preparato quel regalo.

Joy e Magda, invece, avevano decorato i cupcake che avrebbero gustato quel pomeriggio, durante il tè.

«Che aspetti ad aprirlo?», le domandò Joy, eccitato almeno quanto lei. «Sono curioso di scoprire cosa ti hanno regalato.»

«Posso aprirlo?», domandò a Strange e Wong, seduti all’altro capo dell’ampio scrittoio presente nella biblioteca.

Il dottore annuì con un sorriso accennato mentre il bibliotecario, immerso nella lettura di un vecchio libro dalle pagine ingiallite, si limitò a un cenno affermativo con la mano.

Maya ringraziò entrambi e si sbrigò a strappare la carta, rivelando il suo contenuto: una splendida cappa color zaffiro, foderata internamente con un morbido tessuto verde cupo.

La ragazza accarezzò l’oggetto con delicatezza, incredula.

«Grazie mille!», esclamò, estasiata. «Non ho mai avuto qualcosa di così bello!»

Nell’udire quelle parole, la cappa si animò di vita propria e si adagiò fluttuando intorno alle sue spalle.

Maya strabuzzò gli occhi, sorpresa.

Wong e il Maestro le avevano regalato una Cappa della Levitazione!

D’istinto, si alzò e raggiunge i due Maestri delle Arti Mistiche, cingendo le loro spalle in un abbraccio affettuoso.

«Siete davvero i migliori!», esultò. «Non potevo ricevere regalo migliore!»

Sciolse subito l’abbraccio quando notò le guance di Wong colorarsi di rosso, sintomo dell'imbarazzo che stava provando.

«Sono contento che ti piaccia. In questo modo, potrai rapportarti con un oggetto magico. Ti concederà la levitazione e gioverà molto al tuo studio delle Arti Mistiche», le spiegò Strange.

Maya annuì e, come a confermare le parole del suo creatore, la Cappa si strinse intorno alle sue spalle.

«Visto, Joy?», si rivolse poi all’amico. «In questo modo potrò stare al tuo passo durante gli allenamenti.»

Joy roteò gli occhi, seccato.

«Credo sia stata una pessima idea regalarle questa cappa, Maestro», affermò. «In questo modo, Maya non sentirà mai l’esigenza di imparare a utilizzare la sua energia interna per levitare, affidandosi soltanto a quell’oggetto.»

La ragazzina serrò la mascella e incrociò le braccia al petto.

Perché, per una volta, Joy non poteva semplicemente essere contento per lei?

L’amico si sentiva libero di giudicare tutto e tutti senza curarsi minimamente delle emozioni e dei pensieri altrui.

Certo, i consigli di Joy erano spesso preziosi, ma una persona poco paziente avrebbe potuto facilmente irritarsi dinnanzi a quei commenti.

«Io lo considero un ottimo regalo, invece», lo rimbeccò, «finché non imparerò a controllare completamente la mia energia interna, questa Cappa mi permetterà di aiutarvi in caso di necessità.»

Il ragazzo le riservò un’occhiataccia.

Fu allora che il mantello si sollevò dalle sue spalle e si gettò su Joy, bloccandogli braccia e gambe.

Joy, furente di rabbia, prese a lottare con tutte le sue forze per divincolarsi dall’abbraccio della Cappa, quando questa schiaffeggiò le sue guance con il colletto.

«Maya!», sbraitò. «Poi chiedere alla tua Cappa di lasciarmi andare?»

Maya e Strange scoppiarono in una risata divertita, guadagnandosi un’occhiata fulminante da parte del malcapitato.

Persino Wong, nascosto dietro il suo libro, accennò un sorriso.


«Credo si sia fatto tardi per il nostro allenamento», affermò Joy, riportando Maya al presente.

Maya concordò con un cenno del capo e si mosse verso il pesante portone d’ingresso, seguita a breve distanza da Magda e Joy.

«Ci vediamo fra cinque minuti in biblioteca?», propose il ragazzo, una volta nell’ampio corridoio che conduceva all’ingresso principale.

«Sì, dammi il tempo di…»

«Voi due non entrerete nella biblioteca conciati così!», li rimproverò Magda, afferrando entrambi per le strette casacche marroni che utilizzavano durante l’allenamento.

«Adesso andrete nelle vostre camere e vi renderete presentabili. Siete i Maestri del Santuario di New York, accidenti! Cosa accadrebbe se qualcuno in cerca dei Custodi vi trovasse in queste condizioni?»

Nonostante le argomentazioni della donna fossero labili, Maya annuì, intimorita dal cipiglio che aveva assunto.

Magda sorrise compiaciuta mentre i due ragazzi si avviavano in direzione delle rispettive camere.

Non importava quanto fossero cresciuti e divenuti potenti, dentro sarebbero rimasti sempre gli stessi ragazzini che rimproverava per aver rotto una delle porcellane a causa di un incantesimo mal riuscito.



* * *



17 aprile 2045, 12:00 A.M.,
177A Bleecker Street,
New York City.


Maya si chiuse la porta alle spalle con un tonfo leggero.

Si liberò rapidamente dei guanti d’allenamento a mezze dita e dei pesanti stivali, sistemando entrambi nell’ampio armadio dirimpetto al suo letto.

Fatto questo, sfiorò con delicatezza il colletto della Cappa e questa, dopo averle accarezzato una guancia, si sollevò dalle sue spalle e si adagiò con leggiadria sulla trapunta patchwork sistemata sul letto.

La ragazza la ringraziò con un sorriso e si sfilò la casacca a maniche corte e gli ampi pantaloni neri, gettandoli nella cesta del bucato posta accanto alla porta.

Entrò nel bagno e si infilò nella doccia, lasciando che l’acqua calda rilassasse i suoi muscoli indolenziti dall’allenamento.

Mentre insaponava gli ondulati capelli castani tagliati all’altezza del collo con lo shampoo profumato all’essenza di albicocca che Magda si ostinava a comprarle, si ritrovò a riflettere su tutto ciò che era cambiato in quei dieci anni di addestramento.

Era cresciuta, si era migliorata nella magia fino a divenire un’abile Maestra delle Arti Mistiche e aveva sostenuto Joy quando era stato costretto ad assumere il controllo del Santuario di New York.

Sospirò tristemente, ricordando come, ben sei anni prima, il Maestro Strange e gli Avengers fossero scomparsi nel nulla quando una nuova minaccia proveniente dall’universo aveva messo in pericolo la Terra.

Dopo tutti quegli anni, nessuno era ancora riuscito a scoprire esattamente cosa fosse accaduto.

Lo Stato affermava che il valoroso gruppo di eroi si fosse sacrificato per la salvezza della Terra.

Altri, invece, sostenevano che si fosse trattato di un incidente.

Fatto stava che sia il nuovo nemico che gli Avengers erano scomparsi senza lasciare alcuna traccia.

Straziati da quella notizia, lei e Joy aveva cercato informazioni ovunque, sperando con tutto il cuore che il loro Maestro fosse ancora in vita.

Tuttavia, dopo un anno di buchi nell’acqua, i due erano stati costretti ad arrendersi e, con l’aiuto di Magda e Wong, Joy era divenuto Stregone Supremo.

Persino Wakanda, dopo la scomparsa del proprio re e di gran parte del suo esercito, aveva chiuso tutti i porti e le comunicazioni con l’esterno, finendo con lo sparire da ogni mappa.

Malgrado i Maestri del Santuario avessero tentato più di una volta di ricontattarli, sembrava che il regno fosse scomparso nel nulla.

Maya chiuse il rubinetto e uscì dalla doccia.

Rabbrividì nell’istante in cui i suoi piedi nudi sfiorarono il pavimento gelato del bagno e si sbrigò a stringersi nell’accappatoio candido.

Mosse poi qualche passo verso lo specchio e si sbrigò a pettinarsi, sfiorando con le dita le ciocche bianche che facevano capolino qua e là fra i folti capelli.

Malgrado fosse trascorso molto tempo dal giorno in cui un incantesimo sbagliato aveva tinto permanentemente parte dei suoi capelli di bianco, Maya aveva deciso di non porvi rimedio.

Era divertente guardarle e ricordare dei suoi primi tentativi di magia.

Inoltre, le donavano un tocco particolare che la rendeva, in un certo senso, diversa.

Non che si ritenesse brutta, ma non era, oggettivamente, esile e bella come una modella o un’attrice.

Tuttavia, il suo aspetto non le dispiaceva più di tanto: i suoi fianchi larghi, nonostante tutto l’allenamento magico a cui si sottoponeva, e la sua bassa statura non definivano affatto ciò che era dentro.

L’importante, come suo padre amava ripetere, era quello che si era nel cuore.

Perché, Maya, nessuno è contento se la persona che ti trovi davanti, nonostante abbia l’aspetto di un dio, possiede il cervello di un criceto.

Sorrise tra sé e sé delle parole di suo padre e si sbrigò a vestirsi di tutto punto: casacca a maniche lunghe e pantaloni azzurri, tunica a giromanica blu scuro e stivali al ginocchio.

Concluse allacciandosi in vita la cintura intrecciata per tenere ferma la tunica e vi agganciò il suo prezioso Sling Ring, un monile in bronzo provvisto di due anelli per l’indice e il medio, collegati fra loro da una spessa placca di metallo posta in orizzontale.

Grazie a quel piccolo oggetto, era possibile aprire varchi magici in grado di collegare tra loro luoghi lontani anni luce.

Studiò il suo riflesso per l’ultima volta e sorrise soddisfatta.

Ora sì che sembrava una vera Maestra delle Arti Mistiche: aspetto fresco, abiti puliti, capelli in ordine e sguardo determinato.

La Cappa si sollevò dal suo letto e si posò sulle sue spalle, avvolgendola nel suo rassicurante abbraccio.

«Pronta a un altro paio di ore di studio?», domandò al mantello.

Quest’ultimo utilizzò il colletto per schiaffeggiare leggermente la sua guancia, indignato.

Maya ridacchiò e si chiuse la porta alle spalle mentre il sole, fuori dalla finestra, raggiungeva il proprio culmine nel primaverile cielo azzurro, illuminando il primo pomeriggio newyorkese.

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Capitolo 4
*** Visite dall'universo ***


14 maggio 2045,
177A Bleecker Street,
New York City.

«Sveglia, Maya, sveglia!», esclamò una voce gentile, costringendola ad aprire gli occhi.

Dinnanzi a lei si ergeva Magda, le mani sui fianchi in una posa impaziente e la Cappa della Levitazione avvolta intorno alle sue spalle.

«Cosa c’è?», mugugnò assonata. «Oggi è domenica!»

Diede un’occhiata alla sveglia posta sul comodino, sistemata accanto a due foto incorniciate: la prima era stata scattata il giorno del suo quindicesimo compleanno e ritraeva tutti gli abitanti del Santuario di fronte a dei cupcakes, mentre la seconda, ritagliata da un articolo di giornale, rappresentava una bella donna dai capelli chiari sulla quarantina, abbracciata a un bambino di circa quattro anni.

La donna indossava un pesante pigiama bianco e, al di sotto della giacca sbottonata sul petto, era possibile intravedere una spessa benda che le avvolgeva il torace.

Insieme alla foto spiegazzata, era riportato un piccolo trafiletto, ritagliato anch’esso da un giornale:


“Paige McInnos, trentotto anni, è l’unica sopravvissuta dell’incidente avvenuto il ventitré marzo dove suo marito, Robert McInnos, quarant’anni, ha perso la vita. Il Dottor Owen, il chirurgo che ha operato il miracolo, ha affermato che la paziente è ora vittima di amnesia, dimostrando di ricordare solamente del figlio Marcus. Per fortuna, la donna è ora in via di guarigione e ben presto tornerà a casa.”


Maya evitò le due foto con lo sguardo e lesse l’orario: sette e quarantacinque del mattino.

«Si può sapere cosa vuoi a quest’ora?», le domandò, infastidita. «Sai benissimo che la domenica è l’unico giorno in cui posso dormire liberamente!»

Magda sbuffò seccata.

«Non ti permetterò di sprecare la tua domenica a letto! Hai ventidue anni e dovresti pensare a divertirti un po’!»

La ragazza sospirò e nascose il volto sotto il cuscino, sperando che la donna si arrendesse e la lasciasse riposare.

La donna le strappò di dosso la leggera coperta patchwork, scoprendo così la larga t-shirt bianca e i consunti pantaloncini che Maya utilizzava come pigiama.

«Sbrigati ad alzarti! Oggi io e te andremo a fare spese al centro commerciale e ti compreremo qualche nuovo capo d’abbigliamento. Ho guardato nel tuo armadio e ho notato che possiedi solo un paio di t-shirt e qualche jeans consumato mentre le tuniche, le casacce e i pantaloni abbondano!», commentò.

Seccata, Maya si sollevò sui gomiti e gettò un’occhiata incendiaria in direzione della donna.

«Contenta, ora?», domandò esasperata, mentre posava i piedi sul freddo pavimento piastrellato di grigio.

Magda annuì compiaciuta e spinse la scompigliata ragazza verso il bagno, ordinandole di prepararsi in fretta.

«Dal momento che possiedi soltanto delle squallide t-shirt, ho deciso di prestarti questo vestito proveniente dall’armadio di mia nipote. Dovrebbe starti abbastanza bene», considerò, consegnandole un semplice abito dalla gonna corta.

La giovane annuì controvoglia e si sbrigò a lavarsi e indossare il vestito, caratterizzato da un top bianco a giromanica e una gonna al ginocchio dai motivi floreali verde e azzurro.

Abituata ai lunghi pantaloni e alla tunica, Maya si ritrovò ad arrossire vistosamente quando si diede un’occhiata alla specchio.

Malgrado si impegnasse a curare il suo corpo con creme e rasoio per eliminare i peli superflui, vedere le sue gambe scoperte era davvero imbarazzante.

Uscì rapidamente dalla sala e si diresse all’armadio, dove recuperò l’unico paio di parigine che possedeva e un paio di scarpe da ginnastica bianche.

Magda la lasciò fare: l’importante, per lei, era che Maya abbandonasse per un po’ la divisa da Maestra delle Arti Mistiche e si divertisse un po’ come tutti i suoi coetanei.

La dura vita da Maestra delle Arti Mistiche l’aveva trasformata in un’adulta senza darle neppure la possibilità di godersi la sua età, impegnata com’era nello studio, nell’addestramento e nelle continue lotte contro creature provenienti dalle altre dimensione.

Una volta che si fu allacciata le scarpe, la Cappa fece per raggiungere Maya, quando la donna l’afferrò per il colletto e negò con il capo.

«Tu rimani qui», le ordinò.

La ragazza fece per opporsi, quando un’occhiata di fuoco di Magda la costrinse a tacere.

Malgrado la donna non possedesse capacità magiche particolarmente spiccate, quando la rabbia possedeva la sua mente, i poteri di Magda sfuggivano al suo controllo, portandola a distruggere qualsiasi cosa le fosse vicina.

Molte volte, lei stessa era stata costretta a intervenire, portando con sé la donna nella Dimensione Specchio affinché si calmasse del tutto.

Era stato il Maestro Strange a spiegarle che, vent’anni prima, Magda aveva scoperto di possedere un grande potenziale magico, ma non era mai riuscita a controllarlo a causa della paura.

Con il passare degli anni, però, la donna non aveva più tentato di padroneggiare la magia e così, libera dai vincoli che la mente poneva, il suo pieno potenziale si sprigionava quando l’istinto aveva la meglio sulla ragione.

La ragazza si limitò a raggiungere il suo comodino e aprire il primo cassetto del mobiletto, estraendone un’elegante catenella d’argento a cui era appeso un piccolo pendente a forma di pentacolo.

Maya sistemò il monile intorno al polso e si sbrigò ad affiancare Magda lungo il corridoio.

«Bel bracciale», si congratulò la donna. «Spero soltanto che non sia uno dei talismani che Joy si diverte tanto a fabbricare.»

La ragazza scosse il capo.

«In realtà questo è il talismano forgiato da me e Joy poco dopo il mio arrivo al Santuario. Questo bracciale, in caso d’emergenza, materializza un abito molto più comodo per lottare», le spiegò.

La donna le gettò un’occhiata carica di rimprovero.

Possibile che Maya dovesse sempre pensare al peggio?

Insomma, non poteva godersi una semplice giornata al centro commerciale senza pensare alla possibile distruzione della Terra?

Tuttavia, Magda preferì tacere: non le andava di discutere ulteriormente con lei e rovinarsi l’umore.

“L’importante”, si disse, “è che sono riuscita a trascinarla fuori di casa. Che abbia portato con sé un talismano non cambia molto la situazione.”

Le due abbandonarono quindi il Santuario e si diressero verso il vicolo dove, circa dieci anni prima, Maya era comparsa dopo aver attraversato il portale evocato da sua madre.

A quell’ora del mattino, il crocevia era sgombro di persone, tranne per i pochi che portavano a spasso i cani o chi approfittava della bella giornata per dedicarsi a un po’ di jogging.

Magda e Maya non ebbero difficoltà a infilarsi nella stradina deserta.

La ragazza estrasse quindi lo Sling Ring dalla tasca del vestito, pronta a evocare il crepitante vortice di energia che le avrebbe condotte al centro commerciale.

«Materializzati nel solito stanzino delle scope al secondo piano», le consigliò Magda.

Maya annuì e chiuse brevemente le palpebre, concentrandosi sulla struttura del centro commerciale.

Immaginò il secondo piano, delineandone i dettagli nella sua mente.

Quando ebbe messo a fuoco lo sgabuzzino delle scope, si focalizzò sulla sua porta di legno scheggiato.

Riaprì gli occhi e prese a descrivere dei movimenti circolari con la mano libera dallo Sling Ring, l’immagine dello sgabuzzino fisso nella mente.

Un vortice di scintille arancioni generarono un portale dalla forma circolare, grande a sufficiente per permettere il passaggio di una persona.

Afferrò quindi la mano di Magda e raggiunse il vortice, sparendo al suo interno.

Poco dopo, le due comparvero all’interno del piccolo ripostiglio, strette fra i ripiani colmi di prodotti per le pulizie e i cinque secchi correlati di spazzolone sistemati sul pavimento ricoperto di polvere.

Come al solito, il portale si chiuse alle loro spalle con un lieve crepitio prima che Maya e Magda potessero uscire dallo stanzino.

Vennero subito investite dalla confusione e dal chiasso presenti nell’imponente edificio.

Maya si guardò attorno, intimidita.

Abituata alla perenne quiete del Santuario, si sentiva un pesce fuor d’acqua in quel luogo: centinaia di voci si intrecciavano fra loro in un eterno chiacchiericcio che colpivano le sue orecchie come frustate.

Per un attimo, l’istinto di tornare nello sgabuzzino si fece impellente, quando Magda l’afferrò per il braccio destro e la guidò gentilmente verso il magazzino più vicino.

«So che è un po’ difficile trovarsi catapultati in una baraonda simile dopo aver passato un intero mese senza uscire dal Santuario, ma vedrai che ti ci abituerai subito», mormorò a un palmo dal suo viso.

Maya annuì e seguì mansueta la donna verso il negozio di vestiti, evitando accuratamente di scontrarsi con adolescenti in cerca di nuovi abiti, donne in tacchi a spillo e pellicciotto accompagnate dall’annoiato marito o compagno o, semplicemente, gruppetti di ragazzi alla ricerca di un passatempo domenicale.

«Eccoci arrivati!», le annunciò Magda con un sorriso incoraggiante.

La ragazza occhieggiò curiosa all’interno delle vetrine: su manichini bianco pallido erano sistemati centinaia di capi d’abbigliamento dall’aspetto più variegato: tutine per bambini, felpe e pantaloni alla moda per adolescenti, completi eleganti per le grandi occasioni e persino abiti da sera cosparsi di paillette.

Dubbiosa, sollevò lo sguardo sulla colorata insegna sistemata al di sopra dell’ingresso principale che annunciava:



“Da Jenny”

“Vestiti e accessori per tutte le età e le occasioni”.

«Sei sicura che qui dentro troveremo qualcosa che possa piacermi?», domandò a Magda, scettica.

L’altra annuì sicura e la spinse verso le trasparenti porte automatiche dell’ingresso.

All’interno, l’ampio locale era diviso in diverse sezioni numerate, separate fra loro da alti scaffali in legno assicurati al pavimento piastrellato di bianco.

Nelle diverse aree del negozio si aggiravano indaffarati i clienti più variegati, guidati nelle vendite da sorridenti assistenti con indosso una divisa bianca e azzurra.

«Posso aiutarvi, signore?», domandò loro una robusta assistente sulla cinquantina con cordialità.

Magda le sorrise e spinse leggermente Maya nella sua direzione, in modo che la donna potesse vederla meglio.

«Abbiamo bisogno di rifare il guardaroba a questa giovane», l’informò poi. «Può mostrarci qualcosa di femminile che potrebbe piacerle?»

L’assistente alle vendite prese a osservare con occhio critico la giovane che si strofinava imbarazzata la nuca, prima di rivolgersi nuovamente a Magda.

«Credo di avere molti capi d’abbigliamento che possano starle molto bene addosso. Vorrei che mi attendesse ai camerini mentre vado a prendere un po’ di vestiti.»

Magda annuì riconoscente e, quando la donna fu scomparsa in uno dei molti reparti, si diresse insieme alla giovane verso i camerini.

«Mi sento a disagio qui dentro», le confessò Maya all’improvviso, imboccando l’ennesima corsia.

Apprezzava molto lo sforzo della donna, ma non vedeva davvero l’ora di tornare alla tranquillità del Santuario.

«Lo so, tesoro, ma…»

All’improvviso, gli altoparlanti sistemati negli alti angoli del negozio si accesero e gracchiarono all’unisono, sintomo che la direzione del centro commerciale avrebbe presto condiviso un annuncio nei negozi dell’intero edificio.

Maya sollevò gli occhi al soffitto, sperando con tutta se stessa che non si trattasse di sconti speciali di cui Magda avrebbe voluto approfittare, trascinando ulteriormente il suo supplizio in quel negozio.

«A tutti i nostri lavoratori e a tutti i clienti», gracchiò la voce metallica, «vi chiediamo di restare calmi e tenervi lontani dal primo piano per motivi di sicurezza. Un soggetto non identificato in chiaro stato confusionale ha preso di mira il padiglione numero tre. Ripeto, allontanatevi subito dal primo piano. L’uomo è pericoloso e armato.»

Il panico prese presto il controllo della folla: clienti e assistenti si sbrigarono a barricarsi nelle sezioni più interne del negozio, con la speranza di sfuggire al pazzo armato presente ora nell’edificio.

La ragazza trasalì e, dopo essersi scambiata un’occhiata d’intesa con Magda, si gettò nel primo camerino disponibile.

Tirò la tenda con uno strattone, in modo da nascondere la sua identità, e sfiorò il pendente a forma di stella con le dita.

Subito, i suoi abiti vennero sostituiti da una completa uniforme nei toni del argento.

Nascose in fretta il volto sotto l’ampio cappuccio della tunica e chiuse gli occhi.

Si concentrò sulla respirazione, nel tentativo di separare il suo corpo fisico dal suo spirito.

Prima di gettarsi nella mischia, doveva assolutamente farsi un’idea dell’avversario che avrebbe dovuto affrontare.

Solo in questo modo avrebbe potuto affrontarlo al meglio, evitando il minor numero di vittime possibili.

Per questo, avrebbe dovuto raggiungere il primo piano attraverso la Proiezione Astrale e, successivamente, raggiungerlo con un portale.

Quando avvertì lo spirito abbandonare il corpo, Maya riaprì le palpebre.

Ora, la sua Proiezione Astrale stava levitando ad alcuni centimetri dal suolo mentre il suo corpo, privo dell’anima, si era accasciato sul pavimento piastrellato in una posizione scomposta.

La Proiezione si sbrigò ad attraversare levitando il muro che la divideva dall’esterno e si precipitò verso il padiglione numero tre.

La vista che le si palesò di fronte le gelò il sangue nelle vene.

Quello che la direzione del centro commerciale aveva definito come “un soggetto non identificato in stato confusionale”, era chiaramente un essere proveniente da un altro pianeta o persino da un’altra dimensione.

Presentava una carnagione viola pallido, un fisico alto e ben proporzionato e lunghi capelli color carbone tenuti lontani dal volto da un dorato cerchietto rigido.

L’unico tratto umano, su quel viso privo di naso, erano i penetranti occhi azzurri, lucenti come laghetti d’acqua pura.

Lo strano essere era impegnato nella distruzione del padiglione tre, attaccando furiosamente chiunque gli fosse vicino con quella che Maya riconobbe come una pistola.

Tuttavia, al posto dei proiettili, l’arma scagliava raggi laser molto simili a quelli che lei e Joy erano in grado di generare.

La Maestra strinse i pugni quando il suo sguardo incontrò i corpi delle dieci vittime colpite, riversi sul pavimento nelle posizioni più diverse.

In un angolo, si stagliava persino il cadavere di una donna in avanzato stato di gravidanza.

Furiosa, chiuse gli occhi, si riconcentrò sul suo corpo e venne catapultata nuovamente all’interno del suo involucro di carne e ossa.

Riaprì le palpebre e afferrò senza esitare lo Sling-Ring appeso alla sua cintura intrecciata, l’immagine della donna incinta ormai priva di vita impressa nella mente.

Generato il portale d’energia, si catapultò al suo interno senza esitazione.

Si materializzò a pochi metri dalle vittime di quell’essere ed evocò due scudi circolari d’energia, pronta a combattere.

Tuttavia, prima che potesse catturare su di sé l’attenzione del nemico, quest’ultimo scagliò un raggio energetico in direzione di un bambino singhiozzante, rannicchiato su se stesso a causa della paura.

Fulminea, la giovane raggiunse il piccolo e unì gli avambracci di fronte a sé, in modo che i due scudi si unissero fra loro a formarne uno abbastanza grande per difendere sé stessa e il bambino.

Il raggio colpì la difesa magica ed entrambi gli attacchi si dissolsero nell’aria in una pioggia di scintille.

«Lascia stare questi innocenti e vediamocela io e te!», gridò, scagliandogli addosso uno dei suoi attacchi.

L’avversario schivò l’attacco con sorprendente velocità e le sparò un ulteriore proiettile, respinto da un altro scudo.

«Mettiti al sicuro!», ordinò al bambino, mentre raggiungeva l’alieno.

Maya materializzò uno scudo nella mano destra ed allungò quella libera in direzione della pistola laser.

Un fascio di luce arancione fuoriuscì dal suo palmo aperto e si avvolse intorno al polso del nemico con uno schiocco secco, simile a quello di una frusta.

L’alieno tentò di divincolarsi, quando Maya diede uno strattone al raggio d’energia, strappandogli l’arma dalla mano.

La pistola aliena rimbombò sul pavimento, a qualche metro di distanza da lui.

«Mi arrendo!», esclamò a quel punto, chinando il capo. «Ottimo lavoro, guerriera umana!»

La ragazza non abbassò la guardia, in attesa di un attacco a tradimento.

L’avversario sollevò entrambe le braccia al soffitto, in chiaro segno di resa.

«Come puoi vedere, non ho intenzioni ostili nei tuoi confronti», continuò l’alieno.

«Ah sì?», replicò Maya, rabbiosa. «Non so cosa sia “pacifico” per te, ma puntare la tua arma sul questo padiglione e uccidere una decina di persone non è proprio il modo giusto di approcciare gli essere umani!»

Sul volto dell’alieno si aprì un piccolo sorriso genuino che mise in mostra i suoi denti candidi.

«Lo so bene, ho studiato molto le vostre affascinanti abitudini prima di raggiungere questo pianeta. Prometto sul mio onore che non ho alcuna mira di conquista sulla Terra. Tutto ciò che desidero è mettervi al corrente del terribile pericolo che correte», le spiegò.

Maya aggrottò le sopracciglia, confusa.

Possibile che quell’alieno stesse raccontando la verità?

Tuttavia, quella sua speranza si infrangeva contro la realtà dei fatti: aveva ucciso degli innocenti, tra cui una donna incinta e un paio di bambini.

“Non ho alcuna intenzione di aiutare un assassino!” si ripromise.

Una risata proveniente dall’alieno catturò la sua attenzione, riportando alla realtà.

«Non devi preoccuparti per loro», la rassicurò, accennando ai corpi esanimi sul pavimento. «Il raggio della mia pistola non è affatto mortale, ma contiene una sostanza che provoca una morte apparente, come se fossero congelati. Tempo un’ora e si riprenderanno tutti, senza alcuna conseguenza.»

Maya gli riservò un’occhiata carica di sorpresa.

«Se non desideravi far loro del male, perché li hai attaccati?»

«Molto semplice, in realtà. Dal momento che su questo pianeta non ho alcun potere, ho deciso di rivolgermi ai più alti difensori della Terra, ovunque essi fossero. Per richiamarli, avrei dovuto ricorrere a uno stratagemma e non vi era nulla di meglio di un attacco pseudo-terroristico. Quindi, eccoci qui. Allora, mi aiuterai?»

Maya restò a osservarlo per qualche istante, meditabonda.

Cos’avrebbe dovuto fare?

Fidarsi di lui e condurlo al Santuario per interrogarlo o rinchiuderlo in un’altra dimensione per il resto dei suoi giorni?

C’era qualcosa, in quegli occhi dalle iridi acquamarina, che le ispirava fiducia.

«Gettate le armi a terra e nessuno dei presenti si farà male!», intimò all’improvviso una voce alle loro spalle, costringendola a girare su se stessa per incrociare lo sguardo del nuovo arrivato.

Dietro di lei, un gruppo di tre poliziotti li osservava circospetti.

Le pistole erano puntate su di loro e i tre non aspettavano che una loro reazione aggressiva per sparare.

«Afferra l’arma!», esclamò d’istinto, in direzione dell’alieno.

Mentre la creatura recuperava la sua pistola, Maya afferrò lo Sling Ring ed evocò rapidamente un portale.

Afferrò il braccio dell’alieno e lo trascinò nel vortice poco prima che il poliziotto più vicino sparasse il suo primo proiettile.

L’alieno non ebbe il tempo di ribellarsi.

Pochi istanti più tardi, il centro commerciale era scomparso, sostituito da uno edificio sorretto da colonne finemente lavorate, caratterizzato da oggetti dall’aspetto peculiare e tappeti e tende color rosso cupo.

Si guardò intorno, disorientato.

In che luogo l’aveva condotta quella guerriera terrestre?

«Benvenuto nel Santuario di New York», gli diede il benvenuto Maya, comparso al suo fianco. «Sei nel posto giusto: non esiste luogo più magico di questo su tutta la Terra.»

Mentre l’altro le sorrideva riconoscente, la Maestra sperò di non aver preso una decisione sbagliata fidandosi di quella creatura.

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Capitolo 5
*** Valk ***


13 maggio 2045, 11:30 A.M.,
177A Bleecker Street,
New York City.


«Tu e Magda eravate al centro commerciale quando la direzione ha annunciato che uno squilibrato stava aggredendo delle persone nel padiglione tre. Ti sei diretta verso quel padiglione, hai protetto un ragazzino con la tua magia per poi disarmare quest’alieno e trascinartelo qui in un portale quando è arrivata la polizia. Ho capito bene?», ricapitolò Joy, incredulo.

Maya storse il naso di fronte a quel resoconto, ma prima che potesse parlare, l’alieno prese la parola.

«So che può sembrare una pazzia per te, Stregone Supremo, ma avevo davvero bisogno di entrare in contatto con i Guardiani della Terra. Ho studiato a lungo le vostre storie e tradizioni prima di raggiungere la Terra e ho scoperto che molte minacce sono state sventate da un gruppo variegato di eroi che portavano il nome di Avengers. Tuttavia, sei primavere fa, se non erro, tutti i vostri eroi sono scomparsi nel nulla. A questo punto, vorrei domandarvi se sapete cos’è accaduto loro.»

Maya sgranò gli occhi e si sollevò d’istinto dalla poltrona in cui era sprofondata qualche minuto prima.

«Tu sai cos’è successo?», domandò, speranzosa. «Noi abbiamo svolto ricerche su ricerche e non siamo riusciti a trovare uno straccio d’informazione utile!»

Joy la fulminò con lo sguardo per quello scatto improvviso.

Tuttavia, lo Stregone Supremo non la riprese, curioso almeno quanto lei di scoprire cosa fosse accaduto al suo maestro e al resto degli Avengers.

«Non posso biasimarvi, anch’io ho dovuto fare molte ricerche per scoprire esattamente quanto accaduto e vi confermo che non sono affatto buone notizie», confessò loro l’alieno.

«Ti invito a raccontarci ciò che sai senza omettere alcun dettaglio. Alla fine del tuo resoconto, io e Maya decideremo se è davvero il caso di preoccuparci e correre ai ripari», lo spronò Joy con voce pacata.

Nonostante cercasse di risultare calmo, Maya comprese dal ritmico picchiettare dello stivale destro sul pavimento in parquet che l’amico era nervoso almeno quanto lei.

Lo straniero annuì e sorbì un sorso del tè aromatico che Joy gli aveva offerto, poi si sistemò meglio sulla poltrona di raso rosso dove venivano fatti accomodare gli ospiti.

«Ora, credo conosciate già cosa siano le Gemme dell’Infinito, ma ripetere il concetto non vi farà certo male e aiuterà me durante la narrazione. Dunque, all’origine del nostro universo, sei cristalli elementari vennero sparpagliati per il cosmo dall’Esplosione della Vita o, come lo chiamate voi terrestri, Big Bang. Queste sei Gemme rappresentano gli aspetti essenziali della vita: Spazio, Realtà, Tempo, Mente, Anima ed Energia. Chi le avesse recuperate tutte avrebbe avuto l’intero universo alla sua mercé. So da fonti certe che, non molti anni fa, la Gemma del Tempo era custodita proprio su questo pianeta, sotto la protezione di voi Maestri delle Arti Mistiche. Dico bene?»

S’interruppe, in cerca di una conferma.

Maya e Joy annuirono prontamente, esortandolo a continuare con occhiate impazienti.

«Circa ventotto anni fa, un titano di nome Thanos tentò di impadronirsi delle sei Gemme dell’Infinito e distruggere metà degli abitanti dell’Universo, in modo che, la parte rimanente, potesse vivere nella prosperità. Tuttavia, nonostante fosse riuscito nella sua impresa, gli Avengers riuscirono infine a sconfiggerlo una volta per tutte grazie al sacrificio di Tony Stark. Malgrado la sua minaccia si fosse del tutto spenta, vi era qualcuno che non si era affatto arresa alla sua scomparsa: Vither, il suo braccio destro.»

Si fermò una seconda volta, massaggiando il mento levigato con le lunghe dita affusolate, come se stesse raccogliendo le idee.

Qualche istante più tardi, riprese a parlare dopo aver sorbito un ulteriore sorso di tè.

«Vither è una splendida donna, se devo dire la mia: corpo sottile e atletico, carnagione pallida, capelli candidi, occhi di una particolare sfumatura rosa. Insomma, quella che voi definireste come una “albina”. Comunque, come stavo spiegando poco fa, in seguito alla morte di Thanos, Vither impazzì per il dolore. Malgrado questo, però, trovò la lucidità necessaria per mettersi alla ricerca delle Gemme dell’Infinito. Infatti, nonostante tutto il suo impegno, Thanos non era riuscito a distruggere le Gemme, come raccontò agli Avengers prima di essere decapitato, ma si limitò a nasconderle con la speranza che non fossero mai ritrovate. Tuttavia, le sue speranze furono infrante: essere furono ritrovate dagli Avengers stessi e nuovamente distribuite in diversi luoghi dell’universo. Questa volta, però, ognuna di esse venne affidata a un guardiano dalla forza stupefacente. Neppure questo accorgimento riuscì a fermare Vither e la forza della sua disperazione: una volta recuperate le sei Gemme, avrebbe riportato in vita il suo maestro e, in seguito, avrebbero controllato insieme l’andamento dell’universo come le più potenti divinità mai esistite. Infatti, per evitare che le pietre venissero nuovamente rubate, Vither aveva intenzione di fondersi con esse tramite un antico incantesimo ideato probabilmente da uno stregone.»

«Tutto questo è impossibile!», sbottò Joy. «Nessuno è in grado di fondersi con un oggetto magico, neppure il più potente degli stregoni!»

Maya annuì, concorde.

Quello era uno dei precetti su cui si fondava l’ordine dei Maestri delle Arti Mistiche, il primo che aveva appreso durante il suo addestramento.

L’alieno scosse la testa.

«Per nostra sfortuna, il pianeta natale di Vither, Sixir, è così intriso di energia magica che i suoi stessi abitanti sono in grado di fondere il loro stesso essere con la magia che li circonda. Vither sarebbe riuscita a divenire un tutt’uno con le Gemme dell’Infinito poiché avrebbe unito la sua stessa materia con esse.»

Maya e Joy si scambiarono un’occhiata incredula.

Era davvero possibile possedere una magia così potente da permettere l’unione del proprio essere con le Gemme dell’Infinito?

«A ogni modo», riprese lo sconosciuto, strappandoli alle loro riflessioni, «Vither recuperò tutte le Gemme, ma quand’era ormai pronta a unirsi a loro e riportare Thanos in vita, intervennero gli Avengers. Da ciò che sono riuscito a scoprire, i vostri guerrieri lottarono a lungo contro Vither e il suo esercito e, alla fine, riuscirono a contrastare l’incantesimo generato da quella pazza. Nel combattimento, le Gemme andarono distrutte. L’esplosione generata spedì l’intero pianeta su cui avevano lottato in un’altra dimensione, ma Vither riuscì a salvarsi grazie alla sua magia, teletrasportandosi pochi istanti prima del disastro.»

Maya tirò un istintivo sospiro di sollievo mentre i suoi occhi si inumidivano di lacrime.

Il maestro Strange era vivo!

Certo, disperso in un’altra dimensione, ma comunque vivo!

La giovane avrebbe tanto desiderato gettare le braccia al collo del loro ospite e abbracciarlo per aver comunicato loro una notizia così lieta, quando quest’ultimo riprese il suo racconto.

Questa volta, la sua elegante voce aveva assunto un tono triste.

«Ora, le Gemme dell’Infinito, create dall’esplosione che ha generato l’universo, hanno assunto alcune delle caratteristiche del cosmo stesso: come la natura, anch’esse sono in grado di rigenerarsi, a volte in forme totalmente inaspettate. Nel nostro caso, le Gemme si sono reincarnati in delle creature viventi. Le più innocenti fra le creature viventi: dei bambini. Sei bambini, dispersi su diversi pianeti in tutto il cosmo. Il primo di questi piccoli, la reincarnazione della Gemma della Mente, è originario del mio pianeta e il suo nome è Tanar. Era mio compito proteggere il piccolo Tanar, ma…»

La voce gli si ruppe in gola e l’ospite scoppiò in un pianto disperato.

Lacrime rosse simile a gocce di sangue scivolarono lungo le sue guance dalla carnagione viola e caddero sul suo completo nero, macchiandolo.

«Ascolta…», iniziò Maya, interrompendosi bruscamente quando si fu resa conto di non avergli domandato neppure quale fosse il suo nome.

Sorrise imbarazzata e gli pose una mano sulla spalla, in un blando tentativo di confortarlo.

«Non c’è bisogno di continuare il tuo racconto. Io e Joy possiamo inserirci nei tuoi ricordi e dare un’occhiata in prima persona.»

L’alieno scosse forte la testa, spaventato.

«Non è nulla d’invasivo, non preoccuparti», si sbrigò ad aggiungere Joy, riservando all’amica l’ennesima occhiataccia della giornata.

Possibile che Maya non fosse in grado di dimostrare un minimo di tatto?

Era chiaro che quel giovane avesse affrontato le pene dell’inferno a causa di Vither e della sua diabolica magia e, per aggiungere la beffa al danno, Maya gli proponeva di entrare nella sua mente con un incantesimo per scandagliare i suoi ricordi!

Il ragazzo scosse nuovamente la testa, ma la Maestra delle Arti Mistiche fu più rapida: afferrò la tunica nera di Joy e sfiorò con una mano la fronte del loro ospite, il nome di Vither fisso nella mente.


Anno terrestre 2045,
Mese di febbraio,
Pianeta Novas.


«Torna subito qui, Tanar!», esclamò una donna piuttosto corpulenta. «Se continui così, finirai per cadere e farti male.»

Il bambino dalla pelle violacea smise di correre all’inseguimento di una tartaruga dal guscio muschiato e fece per tornare dalla donna, quando la sua attenzione venne attirata da una lucertola.

Tanar si sdraiò quindi sulla pancia per osservare meglio l’animale, dimenticandosi del richiamo.

«Non c’è bisogno di essere così dura con lui, Asha», la rimproverò l’uomo al suo fianco, battendole giocosamente una mano sulla spalla. «Non puoi chiedere a un bambino di sei anni di non giocare quando si è immersi nella natura.»

Asha sbuffò seccata e sollevò gli occhi scuri sul giovane uomo, le braccia incrociate sul petto formoso.

«Tu sei il suo guardiano, Valk. Dovresti essere tu a rimproverare il ragazzino, non io che sono la sua balia!», lo apostrofò.

Valk scosse il capo, un sorriso ancora dipinto sulle labbra sottili.

«Per quanto sia speciale, Tanar è solo un bambino. Suvvia, lasciamo che si godi un po’ la sua infanzia.»

La donna sollevò lo sguardo al cielo sereno, ma preferì non replicare.

I due si accomodarono sotto un albero dai rami nodosi e carichi di foglie nere, beandosi della morbidezza dell’erba a contatto con la loro pelle, gli occhi puntati sulla figura di Tanar che saltellava all’inseguimento di una libellula color mare.

Il piccolo distese una mano in direzione dell’animale e i suoi occhi si accesero di una particolare luce dorata.

La libellula si immobilizzò a mezz’aria, raggiunse la mano del bambino e si posò sul suo palmo.

«Tanar!», gridò allora Valk, facendo sussultare il bambino.

Il contatto mentale con la libellula si interruppe bruscamente e l’insetto volò via, spaventato.

«Tanar», ripeté l’uomo, una volta che ebbe raggiunto il ragazzino, «sai benissimo che non devi utilizzare i tuoi poteri per controllare le menti di coloro che ti sono accanto.»

«Ma si trattava di una libellula!», replicò il piccolo, risentito.

«Questo non giustifica il tuo gesto. I tuoi poteri devono essere utilizzati soltanto in caso di estremo pericolo. Se qualcuno tenta di attaccarti, allora puoi utilizzare i tuoi poteri di controllo mentale per fuggire. Fino ad allora, come io e i tuoi maestri ti abbiamo ripetuto molte volte, la tua magia deve restare rinchiusa qui dentro», gli spiegò, battendo delicatamente un dito sulla tempia sinistra del bambino. «Siamo d’accordo?»

Il piccolo annuì solenne e Valk lo gratificò con una rapida carezza sul capo.

«Ora torna a giocare e ricorda ciò che ti ho detto.»

Tanar gli regalò un veloce sorriso e riprese l’inseguimento della libellula, ruzzolando di tanto in tanto sull’erba verde del campo.

L’uomo gli diede le spalle per raggiunse Asha, quando il grido lancinante del bambino lo fece sobbalzare.

«Tanar!», chiamò voltandosi, la mano ferma sulla fondina della sua pistola.

Ciò che vide gli gelò il sangue nelle vene: sollevato dal suolo, Tanar, il suo protetto, si divincolava freneticamente per liberare il suo collo dalla ferrea presa di una donna dal fisico statuario.

I lunghi e ordinati capelli candidi incorniciavano un volto cereo, dove brillavano un paio di occhi dalle iridi tinte di un rosa delicato, sormontate da sopracciglia talmente chiare da sembrare invisibili.

Il naso, dritto e fine, terminava appena prima delle labbra, null’altro che una linea sottile sul volto perlaceo.

Valk estrasse fulmineo la pistola dal suo fodero, quando la donna parlò.

«Prova ad attaccarmi e ammazzo il bambino.»

La sua voce era poco più che un sussurro, ma Valk rimase immobile, impietrito dal terrore.

«Lascialo andare», le intimò, immobile. «Tanar non è altro che un bambino, non ha fatto nulla di male.»

La donna ghignò, mettendo in risalto una lunga fila di denti perlacei.

Valk rabbrividì: in quella smorfia non vi era alcun sentore di divertimento, solo lucida follia.

Agli occhi di Valk, sembrava una belva affamata che si apprestava ad assaltare la sua vittima.

Tanar gemette e smise di lottare, ormai a corto di ossigeno.

«Posa l’arma o il ragazzino muore. Sbrigati a compiere la tua mossa, sento che il suo tempo è ormai agli sgoccioli», pronunciò calma.

Valk liberò la presa sulla pistola e quest’ultima cadde con un leggero tonfo, attutito dall’erba.

«Ora liberalo!», gridò, rabbioso.

La donna allentò leggermente la presa sul collo di Tanar e il bambino rantolò, la gola ancora bloccata dalle dita del suo aggressore.

Valk fece per avvicinarsi, quando la donna intensificò la presa.

Il bambino boccheggiò di nuovo.

«Vediamo se mi sono spiegata bene. Tu stai lontano, il piccoletto respira. Tu ti avvicini, il piccoletto smette pian piano di respirare», si interruppe, avvicinando il volto livido del bambino al suo. «Desideri forse che muoia?»

«Ti prego, Valk, fa quel che dice», ansimò Tanar.

«Sentito, Valk, dai retta al bambino che avresti dovuto proteggere», lo beffeggiò la donna.

Ora, sul suo volto, era presente un vero sorriso, divertita da quella situazione agghiacciante.

L’uomo ringhiò e strinse i pugni fino a sbiancare le nocche, ma indietreggiò di diversi passi.

L’avversaria annuì soddisfatta e, quando Valk si fu allontanato, lasciò cadere il ragazzino.

Tanar si portò una mano al petto e scoppiò in una convulsa tosse.

Valk approfittò di quel momento per correre in aiuto del piccolo, quando l’albina sogghignò.

Fulminea, si frappose fra il piccolo e l’uomo.

Prima che quest’ultimo potesse difendersi, lo colpì all’altezza dello stomaco con un calcio.

Valk fu sbalzato indietro di diversi metri, finendo con il battere la schiena contro un albero vicino.

Strinse i denti e cercò di rialzarsi, quando Asha intervenne: raggiunse l’aggressore alla massima velocità consentitole dalle sue gambe tozze e tentò di colpirla al volto con un pugno.

L’attacco della nutrice sembrò andare a segno, ma, nell’attimo in cui un sorriso di trionfo faceva capolino sul suo volto, l’albina l’agguantò per le vesti e la sollevò di qualche centimetro dal suolo con una sola mano.

«Nessuno. Può. Toccarmi.», scandì con lentezza. «Nessuno.»

Sollevò il braccio libero all’altezza del volto di Asha e sfiorò con un dito la fronte della balia, che si divincolava ora furiosamente, nel tentativo di sfilarsi l’ampia veste e fuggire.

Quando il dito gelido della donna lambì la sua carne, la vittima emise un grido lancinante che fece trasalire Valk.

Gli occhi di Asha si ribaltarono mostrando il bianco della sclera e, pochi istanti più tardi, il punto toccato dalla donna albina prese a brillare di luce propria.

Rapidamente, il chiarore si diffuse in ogni parte del corpo tra le sue strazianti urla di dolore e, nell’istante in cui Valk riuscì a rialzarsi sulle gambe malferme, un boato irruppe nella radura.

Atterrito, il guardiano di Tanar sollevò lo sguardo sulla donna albina.

Il suo cuore perse un battito: Asha si era dissolta in un’esplosione di luce azzurrina, lasciando al suo posto solamente le pesanti vesti marrone chiaro.

La donna lasciò cadere gli indumenti che stringeva ancora tra le mani e, dopo aver riservato a Valk un’ultima occhiata ammonitrice, afferrò il bambino per il colletto della casacca dorata.

«Mi prenderò cura di lui, non temere», mormorò, rivolta più a se stessa che a lui.

A quel punto, l’albina sollevò il braccio verso l’alto.

Una nube nera avvolse la donna e il recalcitrante Tanar, nascondendoli alla sua vista.

In un battito di ciglia, la coppia si dissolse nell’aria come una coltre di fumo.

Valk restò a lungo immobile nel tentativo di metabolizzare cosa fosse accaduto, lo sguardo fisso sulle vesti abbandonate di Asha.

Una donna albina aveva appena ucciso una delle sue più care amiche e rapito Tanar, il bambino che aveva promesso di proteggere a costo della sua stessa vita.

Perché aveva rapido Tanar?

E cosa ne avrebbe fatto del suo giovanissimo protetto?

Qualsiasi fosse la sua intenzione, però, non poteva lasciarla impunita.

La rabbia si fece largo fra i mille sentimenti che avevano riempito il suo animo, donandogli un po’ di conforto.

Ovunque si fosse nascosta quella donna, lui l’avrebbe ritrovata e, dopo aver recuperato Tanar, non avrebbe esitato a ucciderla, come lei aveva fatto con Asha.

Alzò lo sguardo liquido verso il cielo e si asciugò rabbiosamente le lacrime con la manica della casacca.

Sì, quella sarebbe stata la sua nuova missione: stanare quella donna e riprendersi Tanar.

Per Asha, per Novas e, soprattutto, per sé stesso.



13 maggio 2045, 11:50 A.M.,
177A Bleecker Street,
New York City.


Maya boccheggiò mentre veniva riportata alla realtà, pallida come un cencio.

Joy, al suo fianco, sembrava essere nelle sue stesse condizioni, la carnagione più cerea del solito e gli occhi cerulei strabuzzati.

«Quella donna era Vither?», mormorò in un filo di voce, nel tentativo di assimilare la visione che la mente di Valk aveva mostrato loro.

L’alieno annuì, tremante.

La giovane Maestra avvertì il cuore sprofondarle nel petto quando intuì il vero motivo della presenza di Valk sulla Terra.

«Sul nostro pianeta è nascosta una delle sei reincarnazioni delle Gemme dell’Infinito, non è vero? È per questo che sei qui?», chiese, sperando con tutta sé stessa di sbagliarsi.

Valk allungò una mano verso la sua e la strinse forte.

«Mi dispiace davvero, guerriera terrestre», si scusò, desolato, «ma mi occorre davvero il vostro aiuto. Solo uniti riusciremo a sconfiggere Vither una volta per tutte.»

Joy tossicchiò dopo aver trangugiato il tè contenuto nella sua piccola tazza in ceramica.

«Stando a ciò che ci hai spiegato e al ricordo a cui abbiamo assistito di persona, credo ci sia un solo modo per eliminare Vither e recuperare il ragazzino», esordì, attirando su di sé l’attenzione dei due.

Maya gli riservò un’occhiata carica di curiosità, in attesa che l’amico continuasse.

Lo Stregone Supremo incrociò le braccia al petto.

«Innanzitutto, dovremo recuperare le cinque reincarnazione delle Gemme dell’Infinito disperse nell’universo. Una volta che avremo a disposizione i cinque bambini e i loro strabilianti poteri, potremo attirare Vither sulla Terra e sconfiggerla una volta per tutte», spiegò loro, serio.

Valk aggrottò le sopracciglia color carbone, confuso.

«Non saprei, Stregone Supremo. Voi guerrieri della Terra siete in grado di localizzare le tracce magiche lasciate dalle Gemme?»

Joy si portò una mano al volto, strofinandosi il mento liscio.

«Sì, ne siamo in grado», proferì una voce pacata alle loro spalle.

Allarmato, Valk si alzò e raggiunse con la mano la fondina della sua pistola, pronto ad attaccare il nuovo arrivato.

«Fermo, Valk», lo placò Maya, battendogli delicatamente una mano sul braccio. «Lui è Wong, il guardiano della biblioteca del Santuario. Ti assicuro che puoi fidarti di lui.»

L’alieno scrutò con sospetto il bibliotecario.

L’anziano Maestro era avvolto in una semplice divisa color melanzana, stretta in vita da una spessa cintura intrecciata.

Il capo, privo di capelli, metteva in risalto il volto ricoperto di rughe, concentrate principalmente intorno alle labbra sottili e agli occhi dai tratti orientali.

«Stavi origliando come tuo solito?», domandò la giovane al bibliotecario, le mani poste sui fianchi.

Il bibliotecario scosse la testa con forza.

«Joy mi ha chiesto di assistere al vostro colloquio, in caso avesse avuto bisogno di un mio consiglio», spiegò, scambiando un’occhiata d’intesa con lo Stregone Supremo, che annuì soddisfatto.

Maya fece per replicare, lamentandosi di non essere stata informata della presenza di Wong nel loro colloquio, quando Joy l’anticipò.

«Che ne dici di questo piano? Credi possa funzionare?», domandò all’anziano Maestro.

Wong annuì lentamente, la fronte aggrottata.

«Potrebbe funzionare, ma impiegheremo molto tempo a recuperare le reincarnazioni delle Gemme, soprattutto perché potremmo contare solo sugli abitanti del Santuario di New York. Gli Stregoni del Santuario di Kamar-Taj non sono affatto pronti ad affrontare un'emergenza simile con tutti quei giovani inesperti!»

Lo sguardo cristallino di Valk si oscurò, preoccupato.

«Non abbiamo molto tempo per intervenire», mormorò. «Secondo una mia stima, Vither dovrebbe impiegare un lasso di tempo che corrisponde al vostro anno per giungere sulla Terra alla ricerca della Gemma.»

Maya e Joy rivolsero lo sguardo su Wong.

Quel periodo di tempo sarebbe stato sufficiente per recuperare i cinque bambini e studiare un modo per utilizzare al meglio il potere delle Gemme?

L'uomo si adombrò.

«In dodici mesi riusciremmo forse a recuperare i bambini, ma non avremmo abbastanza tempo per analizzare il potere delle Gemme…»

«Vuoi dire che avremmo bisogno di aiuto, dico bene?», lo interruppe Maya.

Il custode della biblioteca la fulminò con lo sguardo, ma assentì.

Joy si portò di nuovo la mano al mento, riflettendo sul da farsi.

A chi avrebbero potuto chiedere aiuto se non potevano rivolgersi ai Maestri del Santuario di Kathmandu?

Maya fece lo stesso, quando un’idea le attraversò repentina la mente.

«Ma certo!», esclamò euforica, alzandosi di scatto dalla poltrona. «Ci sono altre persone che possono aiutarci!»

I tre le riservarono un’occhiata confusa.

«Rifletteteci», continuò. «Se sulla Terra è presente la reincarnazione di una delle Gemme, è possibile che siano nate altre persone con capacità fuori dal comune. Inoltre, i precedenti Avengers avranno di certo lasciato degli eredi: figli, nipoti, fratelli… Insomma, qualcuno che possa aiutarci!»

«Hai quindi intenzione di arruolare una nuova generazione di Avengers come fece Nick Fury?», ricapitolò Joy, piuttosto scettico.

«Sì, se vuoi metterla così», concordò la giovane Maestra. «Ci basterà contattarli e chiedere loro di aiutarci. In questo modo, potremo dividerci e recuperare i cinque bambini nello stesso periodo. Inoltre, avremmo il tempo necessario per studiare a fondo i loro poteri.»

Lo Stregone Supremo fece per replicare, quando Wong intervenne.

«Potrebbe funzionare», disse soltanto.

Quelle parole bastarono a illuminare gli occhi di Maya: il bibliotecario era sempre stato una persona di poche parole e, con il tempo, la ragazza aveva imparato ad apprezzarlo.

Nonostante fosse estremamente riservato, l’uomo le si era affezionato molto e, a suo modo, riusciva a dimostrare la sua fiducia nei suoi confronti.

«Fidati di me, Joy. Farò in modo di contattare il maggior numero di persone.»

Joy sembrò riflettere sulle sue parole, poi annuì.

«Hai sei mesi, non un giorno di più», le concesse infine.

Maya gli sorrise, riconoscente.

Aveva una nuova missione: rintracciare coloro che li avrebbero aiutati a salvare l’universo dalla minaccia di Vither.

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Capitolo 6
*** Una vecchia amicizia ***


16 maggio 2045, 8:25 A.M.,
177A Bleecker Street,
New York City.


La Cappa della Levitazione si strinse intorno alle spalle di Maya e le accarezzò le guance con il colletto inamidato, facendola sorridere.

In risposta, la ragazza passò delicatamente la mano sul morbido tessuto del suo oggetto magico e si sbrigò a raggiungere la biblioteca.

«Wong!», esclamò seria, una volta varcata la soglia. «Ho bisogno del tuo aiuto.»

Il bibliotecario sollevò lo sguardo dal pesante tomo ingiallito deposto sulla sua scrivania e le riservò un’occhiata infastidita.

«Non so quante volte te l’ho ripetuto: devi bussare prima di entrare!», la rimproverò aspramente.

Maya ignorò le sue parole e si sedette sulla poltrona dirimpetto alla scrivania di Wong.

Il custode della biblioteca strinse gli occhi in due fessure e richiuse il libro con uno schiocco secco.

A quel punto, intrecciò le dita sul tavolo, pronto ad ascoltare la richiesta della giovane.

«Ho bisogno di un nuovo Sling Ring», gli spiegò Maya. «Il mio l’ho regalato a Magda dopo averlo modificato. Ora lo Sling Ring può aprire un portale verso il nostro Santuario in caso di estremo pericolo.»

L’uomo aggrottò le sottili sopracciglia, accentuando le rughe che solcavano la sua fronte.

«Perché mai hai dato il tuo Sling Ring a Magda? Sai benissimo quel che accade quando perde le staffe e scatena tutta la sua energia magica! Come ti è saltato in mente di donarle un oggetto magico tanto potente?»

«Ho dovuto!», replicò la giovane, leggermente alterata. «In caso non riuscissimo a trovare nessuno in grado di aiutarci a recuperare le Gemme dell’Infinito, saremo costretti a dividerci e, anche se pericolosa, Magda potrebbe davvero rendersi utile.»

Wong sospirò stanco e sollevò gli occhi verso l’ampio soffitto a volta.

«Speriamo non ci sia bisogno di giungere a un punto simile», mormorò.

La giovane annuì seria e pregò mentalmente che la missione di cui si era fatta carico andasse a buon termine, permettendo loro di rintracciare un numero sufficiente di persone in grado di aiutarli.

Il bibliotecario sollevò allora una mano e disegnò un piccolo portale arancione, sufficiente appena per il passaggio di un braccio, diretto verso la stanza delle armi.

Infilò la mano all’interno del vortice e la ritirò poco dopo, tenendo stretto nel palmo uno Sling Ring dorato.

La piastra superiore, normalmente scevra di incisioni, era decorata da una piccola sfera di quarzo rosso sistemata proprio nel mezzo.

«Prendilo pure», la rassicurò Wong con un sorriso accennato, «questo Sling Ring è opera dell’Antico, la madre di Joy. Fino a oggi sei stata soltanto un’allieva, ma, ora che hai una missione a tutti gli effetti, sei degna di essere considerata una vera Maestra delle Arti Mistiche. Tua madre sarebbe sicuramente molto fiera di te.»

Maya abbassò gli occhi al pavimento, improvvisamente triste.

Dieci anni erano ormai trascorsi dal momento in cui aveva lasciato sua mamma e suo fratello Marcus e, nonostante il tempo, quella separazione bruciava ancora terribilmente nel suo cuore.

...Parola di mamma, tornerò a prenderti. Costi quel che costi.…

Quelle erano state le ultime parole che la Proiezione Astrale di sua madre le aveva rivolto.

Purtroppo, dal giorno del suo risveglio, Paige aveva perso ogni ricordo che riguardasse Maya, probabilmente a causa del forte trauma ricevuto.

Nel giorno in cui Strange le aveva comunicato la terribile notizia, la ragazza aveva deciso di mantenere le distanze dalla sua famiglia, aspettando con pazienza che la salute di sua madre migliorasse un po’.

Negli anni successivi, però, Paige non aveva più recuperato la memoria e Maya aveva deciso di continuare la sua vita al Santuario di New York, rinunciando all’idea di riunirsi alla sua famiglia.

Wong, accortosi dell’improvviso turbamento della giovane, si sbrigò a cambiare argomento.

«Come hai intenzione di strutturare la ricerca di questi fantomatici nuovi Avengers?», domandò, porgendole il suo nuovo Sling Ring.

Il volto di Maya s’illuminò mentre legava l’oggetto magico alla cintura.

«Devi sapere che, durante il periodo precedente all’incidente che mi ha portato al Santuario, io e un bambino di nome Storm erano estremamente amici. Mangiavamo insieme la zuppa d’avena alle elementari e ci proteggevamo a vicenda dai bulli che ci tormentavano. In questi dieci anni ci siamo ovviamente persi di vista, ma devi sapere che, ieri, ho trovato sul giornale un articolo che parla di lui.»

S’interruppe, indossò lo Sling Ring e aprì un piccolo portale arancione sprizzante di scintille, molto simile a quello evocato da Wong poco prima.

Tuffò il braccio all’interno del vortice e recuperò dal comodino un foglio di giornale ben lisciato e ripiegato su se stesso un paio di volte.

Wong lo dispiegò e il suo sguardo si soffermò sulla foto in bianco e nero riportata sul frontespizio: il mezzobusto di un robusto ragazzo sui vent’anni dai lunghi capelli scuri.

Indossava un’ampia t-shirt scura e un paio di occhiali erano sistemati in equilibrio precario sulla punta del naso a patata.

Gli occhi rivolti al fotografo, scuri e sottili, spiccavano sotto due folte sopracciglia dalla forma irregolare.

Dalle sue labbra storte in un ghigno e dai poliziotti presenti nell’inquadratura, il Maestro delle Arti Mistiche comprese che quel giovane in carne doveva aver commesso qualcosa che andava contro la legge.

Si concentrò sull’articolo, improvvisamente interessato.

“Storm Wilson, ventidue anni, è stato arrestato la scorsa notte nel suo appartamento nel Bronx, New York. Il giovane, di professione hacker con lo pseudonimo di Justice_hand, era ricercato dalla polizia da ormai quattro settimane per essere penetrato all’interno dei database federali, appropriandosi di materiale protetto dalla C.I.A. Il ragazzo, detenuto al momento in un luogo sconosciuto ai media, è stato raggiunto dalla polizia grazie alla telefonata della stessa madre, Mona Wilson (cinquant’anni), affermando di essere preoccupata per l’avvenire del figlio. Secondo fonti certe, Wilson sarebbe ora sotto interrogatorio da agenti scelti della polizia federale”.

Riconcentrò la propria attenzione su Maya, in trepidante attesa di una sua reazione, e le restituì l’articolo.

«Spiegami il tuo piano», le chiese soltanto.

Maya annuì.

«Come tu e il Maestro Strange mi avete raccontato in molte occasioni, gli Avengers sono nati grazie a Nick Fury e ai suoi fedeli collaboratori, Maria Hill e Phil Coulson. Per questo motivo, ho pensato che nei database dello S.H.I.E.L.D. possano essere contenute delle informazioni sui successori degli Avengers e su persone con speciali capacità che potrebbero aiutarci nel recupero delle Gemme dell’Infinito. Tuttavia, dal momento che nessuno degli abitanti del nostro Santuario possiede una conoscenza informatica abbastanza buona da permetterci di penetrare all’interno degli archivi segreti dello Stato, ho pensato di rivolgermi a un vero hacker. E ieri, leggendo il giornale di Magda, ho scoperto che il mio migliore amico d’infanzia è detenuto dalla polizia federale proprio per essere entrato nei file segretati della C.I.A. Dimmi tu se questo non è destino!», gli illustrò, gesticolando ampiamente con le mani.

Wong le riservò un’occhiata dubbiosa.

«Tu hai intenzione di entrare in una prigione altamente sorvegliata dalla C.I.A., recuperare il tuo amico d’infanzia che è divenuto un hacker, portarlo qui, spiegargli che Vither sarà qui fra circa dodici mesi alla ricerca di una delle reincarnazione delle Gemme dell’Infinito e chiedergli di aiutarti», enumerò scettico, un sopracciglio sollevato. «Dubito fortemente che funzionerà.»

La ragazza sbuffò seccata e incrociò le braccia al petto.

«Sì, ma non dirlo con quel tono!», lo rimproverò. «Tutto pronunciato così suona stupido!»

Poi, con tono più serio, aggiunse: «Allora, tu cosa proponi di fare?»

Wong tacque per qualche istante prima di battere una mano sull’articolo di giornale.

«Possiamo davvero fidarci di lui?», le domandò.

«Nulla è certo in questo mondo, Wong. Esistono soltanto un’infinita schiera di possibilità che ci vengono presentate e a cui noi affidiamo le nostre speranze», pronunciò una voce alle loro spalle, facendo sobbalzare Maya.

Joy si fece largo nella biblioteca, avvolto nella sua solita divisa nera, stretta in vita da una fascia grigia.

«Dove l’hai letta questa? In un Biscotto della Fortuna?», domandò Maya, ironica.

Lo Stregone Supremo le riservò un’occhiataccia, ma preferì non rispondere.

«Allora? Possiamo fidarci sì o no di questo Storm?», ripeté Wong, riacquistando l’attenzione di Maya.

Maya assentì senza esitazione.

«Come hai visto tu stesso, Storm è invischiato in una situazione disperata. Basterà promettergli che, se ci aiuterà, lo tireremo fuori da quel carcere. Qualsiasi persona accetterebbe senza pensarci due volte», gli spiegò, alludendo all’articolo di giornale.

Il bibliotecario assentì piano mentre Joy, seduto in un angolo della biblioteca, roteava gli occhi, chiaramente infastidito.

«Sarà meglio che questo tuo piano suicida funzioni, Maya. Sappi che il Santuario di Kathmandu ha bisogno di una nuova insegnante per i principianti...», l’avvertì, lasciando cadere di proposito il discorso.

«Non ci sarà bisogno di inviarmi a Kamar-Taj», lo tranquillizzò la ragazza, «sei mesi saranno più che sufficienti per rintracciare un numero sufficiente di guerrieri per ritrovare le Gemme dell’Infinito!»

«Lo spero», si limitò a rispondere lui, mentre Maya utilizzava il suo nuovo Sling Ring per raggiungere Storm, con la speranza che l’amico fosse rimasto il ragazzino timido e simpatico che aveva conosciuto da bambina.



* * *


16 maggio 2045, 9:30 A.M.,
???


Storm si passò una mano tra i disordinati capelli scuri e rabbrividì.

Le mani, intrappolate nelle manette fissate al tavolo degli interrogatori, cominciavano a prudere e dolere nella zona intorno ai polsi.

Dopo essere stato interrogato per ore sugli argomenti più disperati, gli agenti erano usciti dalla camera, portando con loro il suo laptop.

Da quel momento erano passati minuti, forse ore, ma nessuno aveva ancora fatto ritorno.

“La mamma questa volta l’ha fatta grossa!”, pensò tra sé e sé, furioso. “Appena esco di qui mi sentirà, e come se mi sentirà!”

Fu in quell’istante che udì un crepitio, simile a quello delle fiamme.

Poco dopo, un portale energetico arancione si materializzò sulla parete sinistra della sua cella.

Atterrito, Storm tentò di indietreggiare.

Tuttavia, le manette lo tennero inchiodato al tavolo, impedendogli di muovere un solo passo verso la porta.

«Storm Wilson!»,chiamò una voce femminile. «Sono davvero felice di rivederti!»

Una sorridente ragazza con indosso una tunica dalle tinte argentate uscì dal portale.

«Chi sei tu?», le domandò con voce tremante, mentre il vortice d’energia sulla parete spariva tra le scintille.

Storm avvertì il cuore martellargli frenetico nel petto, rimbombandogli nelle orecchie.

Che gli agenti avessero riempito la sua cella di gas allucinogeno?

Quella giovane era forse una sua immagine mentale?

La ragazza chinò leggermente il capo di lato e gli riservò un’occhiata interrogativa.

«Non mi riconosci? So che sono passati molti anni, Storm, ma non credo di essere cambiata così tanto», commentò, rivolgendosi più a se stessa che a lui.

Possibile che fosse cambiata così tanto da non essere riconosciuta da quello che aveva considerato il suo migliore amico fino all’incidente dei suoi genitori?

Nel frattempo, Storm aveva ripreso a lottare con le manette che lo tenevano bloccato al tavolo, tentando con tutte le sue forze di sfuggire a quella stravagante donna che affermava di conoscerlo.

Maya scoppiò a ridere, colpita dall’incredulità di quella situazione.

«Storm, calmati. Non sono qui per farti del male. Sono Maya. Maya McInnos, la ragazzina che usciva con te da scuola e che ti difendeva da Arthur Douglas quando ti prendeva in giro per l’apparecchio e il sovrappeso. Ti ricordi di me, ora?»

Il ragazzo strabuzzò gli occhi, improvvisamente più pallido di un cencio.

«Non è possibile!», balbettò con voce rotta.

Gocce di sudore freddo gli imperlarono il volto grassoccio.

Ricordava molto bene il giorno in cui sua madre, bianca come un cadavere e con le lacrime agli occhi, le aveva annunciato che l’auto su cui Maya e la sua famiglia stavano viaggiando era rimasta vittima di un incidente.

“Il padre di Maya è già morto, figliolo, mentre sua madre è sotto i ferri. Maya è rimasta illesa e, in caso sua zia non voglia accoglierla in casa sua, verrà a vivere con noi per un po’.”


Tuttavia, quella sera stessa, la polizia aveva avvertito sua madre che Maya era scomparsa nel nulla e, da allora, non erano più giunte notizie dell’amica.

E ora, dopo dieci anni, una giovane donna ricompariva tramite un portale magico, sostenendo di essere la sua amica perduta.

«Maya è scomparsa dieci anni fa, nell’ospedale in cui era stata ricoverata sua madre. Come puoi essere sopravvissuta tutti questi anni senza che nessuno ti vedesse?»

La giovane Maestra delle Arti Mistiche ridacchiò.

«Tu non cambi mai, vero? Mi hai appena visto uscire da un portale magico e ti domandi come io sia riuscita a sopravvivere lontano dalla società?»

Storm aggrottò le folte sopracciglia e fece per riprendere la parola, quando udì il ticchettio degli stivali di un agente avvicinarsi di buona lena alla sua cella.

«Dobbiamo andare», annunciò allora Maya, seria.

Evocò una spada di guizzante energia arancione, la brandì con entrambe le mani e, sotto gli occhi strabuzzati di Storm, distrusse le manette che lo tenevano legato al tavolo degli interrogatori.

L’arma scomparve e, con un gesto fulmineo, Maya disegnò uno dei suoi portali con lo Sling Ring.

Fatto questo, afferrò il braccio dell’amico e lo spinse all’interno del portale.

Con il cuore in gola, Storm superò il vortice.

Per un attimo fu tutto buio, poi le pareti scure di un ampio corridoio si materializzarono ai suoi occhi.

«Benvenuto nel Santuario di New York, Storm Wilson», pronunciò una voce pacata alle sue spalle. «Spero che Maya non abbia fatto un errore portandoti qui.»

Il ragazzo si voltò per incontrare gli occhi freddi di un uomo sui trent’anni con corti capelli color platino e un fisico longilineo, ma ben costruito.

«Joy!», lo rimproverò Maya, ricomparsa a sua volta. «Non spaventarlo. Mi occuperò io di lui. Vedrai che sarà molto utile alla nostra missione.»

Lo Stregone Supremo le riservò una lunga occhiata colma di sottintesi, poi voltò loro le spalle e ritornò nella biblioteca, non prima di aver fulminato Storm con un ultimo sguardo.

Un brivido di paura attraversò la schiena del ragazzo quando Magda aprì la porta della sua camera e s’immerse nel corridoio, accompagnata dalla Cappa di Maya.

Il mantello si gettò sulle spalle della ragazza e la strinse in un forte abbraccio, facendo ridacchiare la sua Maestra.

«Magda, Cappa, vi presento Storm Wilson, mio amico d’infanzia e abile hacker», annunciò, indicando il giovane.

La donna scrutò Storm per alcuni istanti, poi accennò un piccolo sorriso rassicurante e gli porse la mano.

«Piacere di conoscerti, Storm.»

Il ragazzo allungò la propria mano in direzione di quella di Magda e la strinse, titubante.

«Magda, puoi prepararci qualcosa da mettere sotto i denti e portarlo in salotto, per favore? Immagino che impiegheremo un po’ di tempo a spiegare a Storm tutto ciò che sta accadendo», le chiese Maya.

«Ma certo!», rispose la donna, battendole una mano sulla spalla.

«Buona fortuna», le augurò poi sotto voce.

La giovane annuì e fece cenno a Storm di seguirla verso il salotto.



* * *


16 maggio 2045, 13:15 A.M.,
177A Bleecker Street,
New York City.


«Fammi capire bene», ricapitolò Storm, quando Maya ebbe terminato la sua lunga spiegazione. «Un’aliena albina si è messa in testa di recuperare sei diversi bambini, incarnazioni di quelle che tu chiami Gemme dell’Infinito, per riportare alla vita il suo antico padrone. Una di queste reincarnazioni è ora presente sulla Terra e tu e i tuoi “colleghi” magici siete alla ricerca di questi bambini per salvare l’universo. Giusto?»

Sprofondata nella sua comoda poltrona di velluto azzurro, Maya annuì, seria.

Il ragazzo si sporse dalla sua sedia e recuperò dal basso tavolino un altro sandwich al burro di arachidi e marmellata preparati da Magda.

«Tutto questo è davvero molto interessante», affermò con la bocca piena, «ma cosa c’entra con me?»

«È qui che arriviamo al punto», continuò la giovane Maestra. «Vither sarà qui entro un anno e, con le sole forze di cui disponiamo, non riusciremo mai a recuperare tutti e cinque i bambini rimasti. Per questo, ho deciso di contattare il maggior numero di persone con poteri speciali possibile per aiutarci a recuperare le Gemme. Fino a pochi giorni fa non sapevo, però, come ricercare questi fantomatici aiuti, quando ho trovato sul giornale l’articolo che parlava del tuo arresto per essere penetrato nei database federali. A quel punto, ho capito che tu potevi aiutarmi...»

«Fammi indovinare», la interruppe il ragazzo, «vuoi che io mi introduca nei sistemi informatici della S.H.I.E.L.D. per raccogliere informazioni riguardanti gli Avangers e quelli che sono i loro successori, non è così?»

Maya annuì.

«Ci aiuterai?», gli chiese poco dopo.

L’hacker si portò l’ennesimo sandwich alle labbra e masticò con gusto, ingoiando il boccone insieme a un sorso di tè ai mirtilli che Magda coltivava e preparava personalmente.

La ragazza attese con pazienza che riprendesse a parlare, sorseggiando a sua volta il tè.

«Sì, si può fare», rispose infine, passandosi il dorso della mano destra sulla bocca per ripulirla dalle briciole, «ma cosa ci guadagno io da tutta questa situazione?»

Maya congiunse le mani in grembo e la Cappa si avvolse ulteriormente intorno al suo corpo.

«Innanzitutto la tua libertà e, in caso riuscissimo a recuperare tutti i bambini, prometto di realizzare un tuo desiderio, nei limiti del possibile. Ti basta come ricompensa?»

Storm considerò a lungo la sua proposta, massaggiandosi il doppio mento ricoperto da una lieve peluria castana.

«Va bene», accettò infine, una nuova luce accesa nelle iride scure, dietro le spesse lenti. «Tuttavia, dovrai procurarmi un computer, una stanza in cui lavorare tranquillamente e un buon hamburger. Per quanto questi sandwich possano essere buoni, mi manca davvero il fast food.»

Maya assentì e sorrise: aveva appena compiuto un passo in avanti verso il successo della sua missione.



* * *


19 maggio 2045, 10:00 A.M.,
177A Bleecker Street,
New York City.


Maya si accomodò sul morbido divano presente nello studio di Joy, tra Wong e Magda.

Magda storse il naso quando si accorse che entrambi i ragazzi indossavano le loro uniformi di allenamento: le corte casacche senza maniche, i guanti a mezze dita, gli ampi pantaloni scuri e gli stivali al ginocchio.

Infatti, se non fosse stato per Storm, che aveva chiesto all’intero Santuario di raggiungerlo per comunicare loro i risultati del suo lavoro, i due Maestri si sarebbero ritirati nelle rispettive camere per rinfrescarsi e indossare le consuete tuniche.

Tre giorni era trascorsi dal momento in cui Maya l’aveva aiutato a evadere dal carcere e, dopo avergli procurato un laptop, l’hacker si era ritirato nella camera che Magda gli aveva indicato.

La paziente donna gli portava i pasti e, al termine della giornata, riprendeva i vassoi vuoti e lasciava al suo posto un cambio di abiti e biancheria puliti.

«Eccoci qui», esordì Storm, risvegliando Magda dai suoi pensieri. «Mi scuso per l’attesa, ma dovete sapere che, in seguito alla mia prima visita al loro database, la Polizia Federale ha rinforzato le sue difese e ho dovuto lavorare non poco per poter penetrare all’interno dei sistemi dello S.H.I.E.L.D., l’organizzazione responsabile della formazione degli Avengers. Ho scoperto che Nick Fury, colui che ha dato vita a questo progetto, è scomparso circa sei anni fa, ma una sua collega, una certa Maria Hill, ha tenuto aggiornata la lista delle persone che una volta facevano parte del progetto. Sono penetrato quindi nel suo computer e ho trovato qualcosa di molto interessante che ho riassunto in questo file, guardate qui.»

Maya voltò il capo verso lo schermo del computer e lesse.



“Soggetti da arruolare in caso di S.P.M.:

Pepper Potts-Stark;

Victor Stark;

Morgan Stark;

Athena Odinson;

Cooper Barton;

Deborah Collins;

Connor Smith;

Greyson James Rogers;

Paige ???;

Minus Tyler;

abitanti dei santuari di New York, Kathmandu e Londra(?);

superstiti di New Asgard;

superstiti di Wakanda.”


«Per cosa sta S.P.M.?», domandò Magda, perplessa.

«Situazione di pericolo mondiale», rispose semplicemente Storm, lo sguardo fisso sulla figura di Maya, ancora impegnata nello studio del documento.

Nella mente di Maya centinaia di pensieri si frapponevano ora l’uno sopra l’altro, frenetici.

Quando aveva affidato a Storm il compito di raccogliere informazioni su dei possibili nuovi difensori della Terra, la ragazza non si sarebbe mai aspettata che qualcuno interno al sistema della S.H.I.E.L.D. avesse raccolto una lista precisa di soggetti come, per esempio, la legittima moglie di Tony Stark e i suoi figli.

«Allora?», le domandò l’hacker con orgoglio, in attesa di complimenti.

«Hai fatto davvero un ottimo lavoro!», esclamò la giovane, un ampio sorriso sul volto. «Tuttavia, ho ancora bisogno di te. Trova tutte le informazioni che puoi sulle persone contenute in questa lista e, quando avrai concluso, vieni subito a riferirmelo. Siamo finalmente giunti a una svolta!»


Angolo dell'autrice:
Salve a tutti! Se siete arrivati fin qui, vi ringrazio per aver dato una possibilità al N.A.P.!
Se desiderate, lasciate pure una recensione per aiutarmi a migliorare come scrittrice, mi farebbe molto piacere.
Inoltre, ne approfittò per comunicarvi che aggiornerò il N.A.P. con la cadenza di tre giorni, tre capitoli alla volta.
Detto questo, vi ringrazio nuovamente per l'attenzione e per la pazienza e vi do appuntamento a lunedì.
D.S.Lock

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Capitolo 7
*** Gli Stark ***


1 giugno 2045, 9:25 P.M.,
Stark Industries - Sede principale,
New York City.

Virginia “Pepper” Potts, sessantadue anni, moglie di Antony Edward Stark da circa ventisette anni e vedova da ventuno, poteva essere descritta come una delle donne più coraggiose che fossero mai vissute a New York.

Rimasta sola a quarant’anni con una bambina di cinque anni e incinta di due mesi, la donna si era ritrovata a portare avanti le Stark Industries come nuova presidentessa e, nel frattempo, crescere i suoi due bambini, Morgan e Victor.

E, da circa sei anni, in seguito alla scomparsa degli Avengers, Pepper si era ritrovata di nuovo nell’armatura di Rescue, a combattere il crimine al massimo delle sue possibilità.

Ora, ventun’anni dopo la scomparsa di Tony, Pepper era una donna più che soddisfatta della sua vita.

Inoltre, dal momento che sua figlia Morgan aveva totalmente assunto le redini della multinazionale dopo aver completato il dottorato in economia, la prospettiva di prendersi una lunga vacanza aveva cominciato ad accarezzare la sua mente, magari in una località tutta sole e mare.

Soltanto Victor restava un’incognita: il giovane aveva appena conseguito la laurea in robotica e, da ciò che aveva compreso dalle sue parole, suo figlio desiderava seguire le orme di Tony, rivestendo il ruolo di Iron Man.

Sistemata sulla comoda poltrona di velluto rosso presente nel suo ufficio al piano più alto della Stark Tower, Pepper teneva gli occhi fissi sull’enorme finestra a vetri.

Fuori, il sole stava tramontando su New York, colorando di rosso e oro i profili grigi e neri dei grattacieli appartenenti alla città definita come la Grande Mela.

Nove milioni di persone abitavano la sua città.

Nove milioni di innocenti che Pepper era certa che, in caso di nuove minacce, lei e gli agenti della S.H.I.E.L.D. non sarebbero mai stati in grado di proteggere da soli.

Vi era bisogno che un gruppo di nuovi Avengers sorgesse, ma, dopo la scomparsa di Nick Fury e della maggior parte dei Vendicatori, nessuno al dipartimento della S.H.I.E.L.D. aveva finanziato il progetto capeggiato da Maria Hill.

Tuttavia, Maria non si era mai data per vinta e, con il passare degli anni, aveva raccolto un considerevole numero di possibili persone da contattare in presenza di situazioni di pericolo mondiale.

E, in quella lista, comparivano anche Morgan e Victor.

Sospirò.

Malgrado fosse orgogliosa della decisione dei suoi figli, Pepper non era sicura di poter sopportare la vista di Morgan e Victor con indosso delle armature simili a quelle del padre.

Saperli su un campo di battaglia senza alcuna certezza che tornassero sani e salvi l’angosciava profondamente.

Aveva visto Tony sacrificare se stesso per il bene della Terra e ancora, dopo vent’anni, ricordava con le lacrime agli occhi il momento in cui la vita abbandonava il suo corpo, martoriato dal Guanto dell’Infinito.

Se uno dei suoi figli avesse fatto la stessa fine, sarebbe di certo impazzita…

«Mamma, posso entrare?», domandò in quell’istante la familiare voce di Victor, fuori dalla porta.

«Certo, tesoro, entra pure», rispose la donna, asciugandosi una lacrima con il dorso della mano.

Victor premette la mano sul pannello digitale e la porta meccanica si aprì, permettendogli di entrare nell’ufficio.

Pepper si ritrovò a osservare con orgoglio il suo secondogenito e, per l’ennesima volta, constatò con una fitta al petto che Victor era tutto suo padre: alto un metro e settantacinque, fisico ben proporzionato e corti e disordinati capelli scuri.

Nell’ultimo anno, Victor si era fatto persino crescere il pizzetto, molto simile a quello di Tony.

L’unico tratto fisico che lo identificava come suo figlio erano i limpidi occhi azzurri e i radi e sottili peli e capelli color cannella che spuntavano sulle tempie e nella barba.

Come al solito, Victor indossava una t-shirt dei Black Sabbath e un paio di consunti jeans strappati sulle ginocchia, coordinati a delle converse nere sporche di olio per motori.

«Cosa ci fai qui?», gli chiese, curiosa. «Credevo che tu e Morgan fosse fuori per la cena.»

Victor scosse il capo con forza.

Poi, estrasse dalla tasca dei consunti jeans un piccolo dispositivo argenteo dalla forma cubica.

«Ho terminato il mio nuovo progetto e volevo che tu fossi la prima a vederla», le annunciò con orgoglio.

Pepper raccolse con delicatezza l’invenzione del figlio e lo portò all’altezza degli occhi, studiandola con interesse.

Victor le sorrise e premette un dito sulla sua invenzione.

Subito, il cubo s’illuminò e un raggio d’energia rosso cupo fuoriuscì dal centro della creazione, colpendo Pepper direttamente al petto.

La donna batté le palpebre, confusa.

Fu allora che il cubo cominciò a mutare forma, avvolgendosi intorno alle dita della sua mano.

Nel giro di pochi istanti, il materiale prese ad arrampicarsi su per il suo avambraccio fino alla spalla, ricoprendo poi il busto.

Infine, l’invenzione di Victor si impossessò del suo bacino e delle sue gambe.

In men che non si dica, Pepper indossava un’armatura Mark 85 completa nei toni del grigio e dell’argento.

«Come puoi vedere, ho ovviato al problema creato dalle armature su misura. Quel materiale che ti è strisciato addosso, chiamato Metam, è una recente scoperta da parte di un gruppo di ricerca di Sidney e ha la straordinaria capacità di “memorizzare” qualsiasi cosa si desideri per ricrearla successivamente. Quel piccolo laser, invece, ha misurato le tue dimensioni e ha adattato l’armatura al tuo corpo. Che ne pensi?», le spiegò allora.

«È geniale, Victor, davvero!», si complimentò Pepper, ammirata.

Il ragazzo arrossì vistosamente e sua madre si ritrovò a sorridere: nonostante Victor fosse la copia fisica di suo padre, era stata Morgan a ereditare il carattere tenace e sicuro di Tony che, spesse volte, sfociava nella superbia, nell’antipatia e nell’egocentrismo.

Victor, malgrado fosse in grado di proteggersi da solo se provocato, era più timido, tranquillo, altruista e modesto della sorella, specialmente se si trattava delle sue invenzioni.

Tuttavia, Pepper sapeva che entrambi avevano un cuore buono e questa era la cosa più importante.

«Grazie», sorrise il ragazzo, avvicinandosi per premere il pulsante presente sull’armatura all’altezza del collo niveo della madre.

L’armatura scomparve in un guizzo di luce argentata e il cubo riapparve nel palmo aperto della donna.

Pepper lo riconsegnò al figlio, quando s’udì un crepitio che allertò entrambi.

Il suono s’intensificò e un portale d’energia arancione si materializzò dinnanzi ai due.

Poco dopo, due figure ne fuoriuscirono.

Pepper percepì il cuore sprofondarle nel petto nell’istante in cui sua figlia Morgan venne spinta nel suo ufficio, legata come un salame da una lunga frusta d’energia arancione.

Fulmineo, Victor indossò la sua armatura, pronto ad attaccare la ragazza che teneva in ostaggio sua sorella, quando quest’ultima aprì entrambi i palmi delle mani e le sollevò in aria, in chiaro segno di resa.

La frusta d’energia si smaterializzò, lasciando Morgan libera.

«Non sono qui per farvi del male», commentò la giovane con voce pacata. «Tuttavia, necessitavo che fosse tutti nella stessa camera, in modo da poter parlare con voi una volta sola.»

Pepper studiò con attenzione la ragazza, soffermandosi soprattutto sul suo abbigliamento: una casacca a maniche lunghe, un paio di ampi pantaloni, stivali al ginocchio, una tunica a giromanica aperta e una spessa cintura intrecciata.

Tutto possedeva una sfumatura di un tenue verde, tranne che per l’ampia cappa che le avvolgeva le spalle, di un bel color zaffiro.

Un ricordo le attraversò dolorosamente la mente: quella non era la prima volta che un personaggio abbigliato in quel modo spuntava da un portale, portando con sé brutte notizie.

Quasi venticinque prima, Stephen Strange si era materializzato nel parco in cui stava passeggiando con Tony e aveva portato il suo allora fidanzato con sé.

Che quella fosse una dei suoi allievi?

«Il mio nome è Maya McInnos e sono una Maestra delle Arti Mistiche. Abito nel Santuario di New York e, come la signora Potts saprà, noi Maestri ci occupiamo di difendere la Terra dalle diverse minacce provenienti da altri universi. Al momento, purtroppo, il nostro pianeta è minacciato da qualcuno che, da soli, non possiamo combattere. Per questo, stiamo cercando rinforzi per aiutarci nella sconfitta di Vither, questo è il suo nome. Se mi permette di spiegare, potrete accettare liberamente di aiutarmi oppure no. Tutto ciò che vi chiedo è concedermi un po’ del vostro tempo», si presentò la ragazza.

«Concederti un po’ del nostro tempo?», ripeté Morgan, incredula. «Pensi che dopo avermi rapito dal mio ufficio e trascinato in un portale, io ti lasci parlare? Faresti meglio a sparire, prima che chiami la polizia.»

Maya ignorò bellamente le parole della ragazza, lo sguardo fisso su Victor e Pepper.

«So che la mia visita la spaventa, signora Potts. Il mio maestro, prima di sparire nel nulla insieme al resto degli Avengers, mi ha raccontato molte volte il suo primo incontro con suo marito e come Tony Stark e Nebula abbiano rischiato la morte se non fosse stato per Captain Marvel. Tuttavia, come ben sa, è necessario che coloro che sono in grado di proteggere la Terra intervengano per concedere un futuro a tutti gli innocenti che abitano il nostro pianeta. Suo marito ne era ben consapevole e sono sicura che anche lei sappia quanto questo sia importante», si rivolse alla donna.

A quel pensiero, Pepper avvertì gli occhi inumidirsi di lacrime.

«Dannazione! Parla, ragazza, parla», la sollecitò con voce tremante, «spiegami perché sei venuta qui e poi vattene.»

«Davvero?», l’apostrofò Morgan, sconvolta. «Mamma! Mi ha appena rapito e tu la lasci parlare?»

«Zitta, Morgan! Lascia che parli e, quando avrà finito, decideremo se crederle oppure no. Comincia pure», intervenne allora Victor, spogliandosi della sua armatura.

Il cubo si materializzò di nuovo nella sua mano mentre Maya iniziava il suo lungo resoconto.

Ripercorse dunque con perizia di dettagli il suo incontro con Valk, la visione di Vither, il recupero di Storm e la lista di soggetti che l’hacker aveva reperito dal computer di Maria Hill.

Infine, chiese loro di prendersi per mano.

«Perché?», domandò Victor, curioso e impaurito nel contempo.

«Così potrete vedere ciò che ho visto io nei ricordi di Valk», spiegò loro con semplicità.

Pepper e Victor afferrarono le mani di Morgan, ancora ricalcitrante, e Maya sfiorò con due dita la fronte del ragazzo.

Pochi istanti più tardi, i tre Stark erano pallidi in volto e con gli occhi sbarrati.

«Tutto questo è pazzesco!», balbettò Victor a quel punto. «Dobbiamo assolutamente impedire che quella matta s’impossessi delle restanti reincarnazioni delle Gemme.»

Morgan annuì, bianca come un cencio.

Pepper, al suo fianco, assentì a sua volta.

«Vi ringrazio molto. Sono sic...», commentò allora Maya, profondamente sollevata.

«Mettiamo in chiaro una cosa, Abracadabra!», l’interruppe Morgan, brusca, puntandole un dito sul petto. «Non lo faccio per te o per il tuo stupido Santuario. Lo faccio per quei bambini che, altrimenti, finiranno nelle mani di quella squilibrata di Vither. Quindi mettiti bene in mente che, ora che faccio parte del tuo “progetto”, non sei né il mio capo, né un qualsiasi altro tipo di leader ti venga in mente. Siamo intesi?»

Maya contrasse la mascella, irritata.

«Non ho mai avuto intenzione di diventare il tuo capo, Stark! Tutto ciò che desidero è salvare quei bambini e sconfiggere Vither», rispose altera.

Subito, la Cappa della Levitazione si sollevò dalle sue spalle e si gettò su Morgan, avvolgendosi intorno al suo corpo in un abbraccio da piovra.

Morgan emise un grido strozzato e Maya fu costretta a reprimere un sorriso mentre richiamava il suo oggetto magico a gran voce.

Pepper si portò le mani alle labbra, quando la roca risata di Victor echeggiò nell’ufficio e la Maestra non poté far altro che imitarlo.

Sentendola ridere, la Cappa sembrò calmarsi e liberò Morgan, levitando di nuovo sulle spalle di Maya.

Morgan riservò alla Maestra uno sguardo carico di risentimento.

Quest’ultima non vi badò molto, impegnata a studiare con attenzione il secondogenito di Pepper e Tony.

Al contrario di Morgan, Victor si presentava decisamente meno serio e più incline alla risata.

Maya tirò un sospiro di sollievo.

“Collaborare con lui sarà decisamente più semplice che con la sorella” rifletté.

Gli sorrise quasi inconsapevolmente e lui si sbrigò a restituirle il sorriso, interessato.

“Sì” pensò, evocando un nuovo portale arancione con cui tornare al Santuario. “Sarà decisamente interessante combattere al fianco degli Stark”.

«Victor», chiamò, prima di voltarsi. «Spero non ti offenderai se chiederò il tuo aiuto nel reclutamento di altre persone. Sembri avere la testa sulle spalle e sono certa che potrai aiutarmi a persuadere gli altri a lottare al nostro fianco.»

Il ragazzo non si fece pregare.

«Conta pure su di me e non esitare a contattarmi in caso di bisogno. Sai già come ritrovarmi, dico bene?»

La giovane lo ringraziò con un cenno del capo per poi sparire all’interno del suo portale magico.



* * *


15 giugno 2045, 8:20 P.M.,
177A Bleecker Street,
New York City.


Storm si portò la tazza di tè alle labbra e socchiuse gli occhi a causa dall’acidità della bevanda.

Privo dei tre cucchiai di zucchero che era solito aggiungere, il té era davvero impossibile da bere.

Malgrado avesse scoperto che Magda fosse una cuoca provetta, Storm non riusciva proprio a comprendere quella sua ossessione per il cibo sano.

La donna coltivava persino di persona mirtilli, fragole, more e ogni tipo di erba aromatica per insaporire le sue pietanze.

A Storm mancava terribilmente il cibo spazzatura, specialmente i prodotti grondanti di olio del McDonald’s e del Burger King’s.

Malgrado ciò, non poté fare a meno di sorridere tra sé, orgoglioso del suo lavoro.

Come Maya gli aveva chiesto, aveva raccolto più informazioni possibili sulle persone inserite nella lista di Maria Hill.

Era ormai giunto a un buon punto, tranne che per Connor Smith.

Difatti, l’hacker aveva reperito un solo dato su quel ragazzo: nato circa ventisette anni prima al St. Mary’s Hospital di New York, era stato riconosciuto soltanto dalla madre, Andrea Smith.

Dopo la sua nascita, più nulla.

Fu allora che Maya entrò nella camera, seguito da un ragazzo che Storm riconobbe come Victor Stark, la prima persona su cui aveva investigato e che la Maestra aveva già proceduto a reclutare.

«Storm, mi hai fatto chiamare?», domandò la ragazza, una volta che si fu chiusa il pesante portone di quercia alle spalle.

L’hacker annuì e fece cenno ai due di accomodarsi.

Victor occupò l’unica sedia vuota presente nella camera mentre Maya fece cenno alla Cappa di sollevarla di qualche centimetro dal suolo.

A quel punto, sedette con le gambe incrociate, posando le mani sulle cosce.

«Che ci fa qui Victor Stark?», domandò alla Maestra, curioso.

«Gli ho chiesto di aiutarmi durante il reclutamento», rispose Maya con semplicità.

Storm annuì e prese a spiegare loro le informazioni trovate durante le sue ricerche, soffermandosi poi sul problema creato dalle poche notizie riguardanti Connor Smith.

Victor si portò una mano al mento e prese ad accarezzarsi il pizzetto, meditabondo.

«Maya», chiamò, diversi minuti più tardi. «Se ricordo bene, mi hai raccontato che, dopo l’incidente che ti ha condotto in questo Santuario, sei scomparsa per un po’ dalla circolazione. Non potrebbe essere accaduta la stessa cosa a questo Connor?»

La Maestra delle Arti Mistiche annuì, concorde.

«Sì, potrebbe anche essere», suppose, «ma dovrò accertarmene. Cappa, per favore, puoi chiedere a Wong di venire qui. Lui conosce i nomi di tutti coloro che abitano i tre Santuari e di certo si ricorderà di qualcuno con quel nome.»

La ragazza si rimise in piedi mentre il mantello abbandonava le sue spalle.

La cappa raggiunse quindi la porta, l’aprì e si immesse nel corridoio, scomparendo alla loro vista.

Qualche minuto più tardi, Wong fece il suo ingresso nella camera con la Cappa stretta intorno alle spalle.

«Ottimo lavoro», si congratulò Maya e il suo oggetto magico, gongolante, l’avvolse nuovamente nel suo rassicurante abbraccio.

«Cosa desideri da me, Maya?», domandò Wong, incuriosito. «Stavo risistemando i libri presenti nella sezione ovest della biblioteca quando è arrivata la tua Cappa e ha preso a infastidirmi finché non l’ho seguita fin qui.»

«Avevamo bisogno del tuo aiuto, Wong», rispose la giovane. «Tu che sei il Maestro più anziano dei tre Santuari, vorrei chiederti se abbiamo mai avuto un allievo chiamato Connor Smith. Dovrebbe avere circa ventisette anni.»

Wong posò lo sguardo sul pavimento, riflettendo a fondo sulla domanda.

Poi, scosse il capo con sicurezza.

«Abbiamo avuto alcuni Connor, ma nessun di questi allievi ha mai portato il cognome Smith. Ne sono certo», rispose.

Il volto di Maya s’adombrò.

Se Connor non era un Maestro delle Arti Mistiche, dove poteva essere in quel momento?

«Grazie Wong e scusa se ti ho disturbato», sorrise al Maestro.

L’uomo la salutò con un cenno e abbandonò la camera senza alcun rumore.

«E ora come facciamo a ritrovare questo Connor?», chiese Storm, perplesso.

Maya fece spallucce, indecisa.

Victor riprese dunque la parola.

«Direi che dovresti continuare a cercare, Storm. Questa volta, però, raccogli tutte le informazioni che puoi sulla madre. Ho il presentimento che quella donna potrebbe nascondere qualcosa che potrebbe aiutarci.»

L’hacker soppesò per qualche istante le parole di Victor.

Infine, annuì.

«Farò come mi hai chiesto. Voi, nel frattempo, sbrigatevi a raggiungere la vostra prossima destinazione.»

Maya lo ringraziò con un sorriso e utilizzò lo Sling Ring per evocare un portale.

Victor, al suo fianco, pescò la sua invenzione dalla tasca dei jeans scuri e la sfiorò con un dito.

Poco dopo, il suo corpo venne avvolto dall’armatura argentata.

«Sai che stiamo andando soltanto a reclutare un paio di persone?», gli fece notare la ragazza, confusa.

«Lavorano allo S.H.I.E.L.D., Abracadabra. La prudenza non è mai troppa», replicò lui.

Maya storse il naso, infastidita da quel nomignolo, ma non replicò.

Si limitò a riservargli un’occhiataccia ed entrare nel vortice d’energia magica, seguita a breve distanza da un divertito Victor.

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Capitolo 8
*** La Mantide e il Falco ***


15 giugno 2045, 8:00 P.M.,
Quartier generale S.H.I.E.L.D.,
New York City.

Athena stiracchiò i muscoli e sbadigliò.

Il lavoro d’ufficio era decisamente la parte più noiosa del suo compito di agente certificato dello S.H.I.E.L.D.

Infatti, dopo aver sventato un attentato diretto a uno dei maggiori azionisti dello stato, Maria Hill l’aveva costretta a stendere un rapporto su tutte le prove che aveva raccolto e, successivamente, di come avesse compreso che il target era proprio Mason Darry.

«Che sia il più preciso possibile», le aveva ordinato Maria Hill. «Qualsiasi dettaglio ti venga in mente, tu inseriscilo nel rapporto. Capito, agente Odinson?»

La ragazza abbandonò la sedia girevole che occupava da circa quattro ore e si passò una mano tra i capelli biondi, legati in cima alla testa in una folta coda.

Il corpo, sottile e ben formato, era coperto soltanto da un’aderente tuta di spandex, completa di guanti e alti anfibi, il tutto rigorosamente nero.

I suoi occhi, di una chiara tonalità azzurra, possedevano una forma allungata e tendevano leggermente all’insù.

Occhi di guerriero.

Una volta in piedi, cliccò l’icona di stampa presente sull’editor di testo e attese con impazienza che la stampante rigurgitasse il suo resoconto.

Quando il suo rapporto fu totalmente stampato, ne assicurò un angolo con una graffetta e si diresse di buona lena verso l’ufficio di Maria Hill, in modo da consegnarle quei fogli e tornare a casa.

Avrebbe trascorso la serata con la sua famiglia, all’insegna del buon cibo preparato da sua madre e della visione di uno dei film fantascientifici preferiti di suo fratello Perseus.

Per un giorno, era davvero contenta di restarsene a casa dinnanzi a un bel film, invece che in un lussuoso ristorante dove gli uomini la invitavano spesso per cercare di conquistarla.

Athena sapeva di essere bella e, con il tempo, aveva imparato a utilizzare il suo aspetto come un’arma, ritrovandosi spesse volte a sfruttare il suo fascino per infiltrarsi in luoghi a cui pochi uomini avrebbero potuto accedere.

Tuttavia, fino a quel momento, nessuno degli uomini che avevano cercato di conquistarla era rimasto nella sua vita per più di qualche giorno, al massimo una settimana.

Giunta all’ufficio della Hill, bussò un paio di volte e attese che lei le rispondesse.

«Chi è?», domandò una voce severa dall’interno.

«Agente Odinson, comandante. Posso entrare?»

«Entra pure, Odinson.»

La ragazza fece forza sulla maniglia e aprì la porta.

L’ufficio di Maria Hill era terribilmente spartano per appartenere a un’ufficiale della S.H.I.E.L.D.: una scrivania di buon legno su cui era sistemato un PC portatile, una libreria stracolma di raccoglitori contenenti centinaia di pratiche e una finestra dotata di tendine rosa antico.

Athena le consegnò il rapporto e occupò la sedia dirimpetto alla scrivania, in attesa che Maria Hill potesse analizzare il suo lavoro.

L’ufficiale si piegò in avanti sulla scrivania, raccolse i fogli fra le mani ben curate e prese a leggerli con attenzione.

Nonostante avesse da poco compiuto sessant’anni, Maria Hill aveva fatto del suo meglio affinché il suo corpo non risentisse troppo dell’età, ricorrendo a un allenamento settimanale piuttosto severo e un arsenale di creme anti-age.

Grazie a tutte le sue cure, il suo viso presentava soltanto qualche ruga sulla fronte e attorno agli occhi azzurri.

I capelli, tagliati molto corti, erano stati tinti di nero, in modo da nascondere le prime ciocche grige.

«Va bene», ammise, una volta giunta all’ultima pagina. «Puoi andare, Odinson. Goditi pure la serata.»

«Lei cosa farà questa sera?», le domandò Athena, incuriosita.

La donna sollevò lo sguardo sulla giovane e le sorrise, cordiale.

Con il trascorrere degli anni, Athena e Maria avevano instaurato un rapporto decisamente più intimo di quello tra normali colleghi.

L’ufficiale aveva preso la giovane sotto la sua ala e Athena l’aveva ricompensata sbattendo il carcere decine di criminali, alcuni dei quali terribilmente pericolosi.

«Resterò in ufficio ancora un po’ e poi tornerò a casa. Non mi farà male un po’ di riposo», le rispose Maria, passandosi una mano sul volto stanco.

Athena le sorrise e si sporse dalla scrivania, in modo da avvicinare il suo volto a quello dell’ufficiale.

«Potrebbe venire a cena da noi, un giorno di questi. Mia madre è sempre contenta di avere ospiti a cena. Soprattutto in questo periodo, in prossimità delle sue ferie.»

Infatti, Jane Foster, astrofisica di fama mondiale, era stata pressoché costretta a prendersi un periodo di vacanza dal direttore del suo laboratorio, in modo da dedicare un po’ di tempo ai suoi figli e ai suoi passatempi.

Maria le batté una mano sulla sua per ringraziarla, ma negò con il capo.

«Mi piacerebbe molto, Odinson, ma per il momento ho ancora del lavoro da svolgere e, se non mi sbrigo, finirò con il trascorrere qui l’intero week-end.»

Athena accennò una risata e le voltò le spalle, raggiungendo in fretta la porta.

«Buonasera, allora», le augurò, prima di aprire l’uscio.

«Aspetta un attimo, agente Odinson», la richiamò.

La ragazza si riconcentrò su di lei, in attesa che parlasse.

«Stai molto attenta, ragazza. Ultimamente mi è stato comunicato che un hacker è riuscito a rompere i nostri protocolli di sicurezza e penetrare all’interno del mio computer. Il nostro ufficio di Elaborazione Dati non è ancora riuscito a comprendere di chi si tratti. Malgrado questo, ho saputo che un mese fa una ragazza proveniente dal Santuario di New York si è fatta viva con Pepper Potts e i suoi due figli. Il più giovane dei due, Victor Stark, ha persino deciso di aiutarla a reclutare nuove leve per sventare un fantomatico attacco proveniente dallo spazio. Quindi, se mai una ragazza in casacca e tunica dovesse apparire con al fianco il figlio di Iron Man, chiamami subito. Quei due e l’hacker che li sta aiutando vanno fermati prima che possano combinare guai seri. Siamo intesi?»

Athena annuì e Maria Hill la congedò con un cenno della mano, annunciandole che non vi era più bisogno di lei.

Poco dopo, l’agente si diresse verso l’uscita principale, rimuginando sulle ultime parole pronunciate dal comandante.

Possibile che una nuova minaccia si stesse avvicinando alla Terra?

In fondo, se una Maestra delle Arti Mistiche aveva deciso di reclutare altre persone, assumendo persino un hacker, doveva essere accaduto qualcosa di grave.

Athena e suo fratello Perseus erano avvezzi alla magia e al soprannaturale fin da bambini, imparando ad accettare quei due aspetti della loro realtà come un semplice elemento del mondo.

In fin dei conti, loro padre non era altri che Thor, il leggendario dio nordico del Tuono.

Come le aveva raccontato sua madre in più di un’occasione, lei e Thor avevano finito con il ravvicinarsi nei cinque anni trascorsi in seguito al famoso “Schiocco.”

Tuttavia, il loro rapporto non era durante che pochi mesi: Thor era caduto in una cupa fase di depressione a causa del suo fallimento e Jane, stanca dei suoi piagnistei, aveva finito per l’abbandonarlo, non riconoscendo in quel grasso pigrone il dio determinato e giusto di cui si era innamorata alcuni anni prima.

I due erano rimasti comunque in buoni rapporti e, quando Jane gli aveva annunciato di essere rimasta incinta, Thor non aveva esitato un attimo a riconoscere i bambini.

Da quel giorno, il dio aveva riconquistato la gioia di vivere ed era rimasto sempre al fianco dei gemelli fino al compimento dei loro diciannove anni.

Poi, quando una misteriosa minaccia si era abbattuta sull’universo, Thor si era unito al gruppo di Avengers che era infine riuscito a sconfiggere il nemico, ma non era più tornato indietro.

Oggi, a quasi ventisei anni, Athena e Perseus non avevano ancora scoperto cosa fosse accaduto a loro padre.

«Ehi, Mantide», la salutò una possente voce maschile.

Athena sorrise fra sé e sé, riconoscendo la fonte di quelle parole.

Alto un metro e ottanta e dal fisico ben allenato, Cooper Barton era considerato uno degli agenti della S.H.I.E.L.D. più capaci.

Maestro nel padroneggiare le armi bianche e fantastico nell’uso di quelle da fuoco grazie alla sua mira naturale, l’uomo possedeva il nome in codice Hawkeye, in ricordo del padre, scomparso anch’esso sei anni prima.

Il nome Mantide, invece, le era stato dato dallo stesso Cooper Barton dopo aver scoperto come utilizzasse gli uomini per entrare nei circoli più malfamati per poi eliminarli dall’interno, esattamente come le mantidi religiose che, dopo essersi accoppiate con i maschi, li uccidevano per nutrire le future larve.

«Cosa succede, Barton? Hai bisogno del mio aiuto?», domandò, voltandosi verso l’uomo.

Quest’ultimo si passò una mano fra i capelli castani, tagliati nel più particolari dei modi per un soldato tanto ligio al dovere: lunghi e ben pettinati sulla parte centrale del capo e rasati ai lati, mettendo in risalto gli occhi azzurro cielo.

«Volevo solo augurarti buon weekend, Mantide», le sorrise. «Cosa voleva il Grande Capo oggi?»

«Le ho semplicemente consegnato il mio rapporto sull’attentato ai danni di Meson Darry. Mi ha anche raccontato una strana storia», rispose Athena, sincera.

Hawkeye accennò una risata divertita.

«Fammi indovinare. Ha detto anche a te che un hacker è entrato nel sistema informatico della S.H.I.E.L.D. e che il figlio di Iron Man sta aiutando una ragazza del Santuario di New York a reclutare delle persone per combattere una fantomatica minaccia e, di conseguenza, chiamarla nel caso Victor Stark e la Maestra dovessero presentarsi a noi. Dico bene?»

Mantide annuì, greve.

«Credi che quei due siano davvero così pericolosi come dice Hill? Voglio dire, Victor Stark non è uno sprovveduto e, se ha deciso di aiutare quella ragazza, la sua storia dev’essere stata davvero molto convincente.»

«Non lo so, Athena. Non lo so dav...»

S’interruppe e fece cenno all’amica di tacere, tutti i sensi all’erta.

Poco dopo, s’udì un crepitio provenire dalla parete alle loro spalle.

I due si voltarono all’unisono, assistendo alla comparsa di un circolare portale d’energia arancione.

Subito, due figure ne fuoriuscirono: una giovane in tunica grigia e mantello azzurro e un ragazzo con indosso un esoscheletro di metallo nelle tinte del argento.

Athena estrasse fulminea le pistole che portava alla cintura, mentre Cooper sfoderò la katana agganciata sulla schiena.

«Agenti Athena Odinson e Cooper Barton», esordì Maya, solenne. «Non siamo qui per combattere. Tutto ciò che vi chiedo e un attimo del vostro tempo e, se non vorrete aiutarci, faremo come se non fosse mai successo niente. Cosa ne dite?»

In quell’attimo, un proiettile esplose dalla pistola di Athena.

Maya portò la mano sinistra in avanti e uno scudo d’energia magica decorato da un ricercato mandala comparve a difendere lei e Victor.

Il proiettile si scontrò contro la barriera di Maya e venne sbalzato verso il soffitto, dove si conficcò nel cemento armato.

«Posso domandarvi gentilmente di non cercare di ucciderci?», li rimproverò la Maestra quando lo scudo fu scomparso. «Ribadisco: siamo venuti in pace.»

«Perché dovremmo darvi retta?», ringhiò Athena, minacciosa. «Ai miei occhi siete solo una coppia di matti.»

Estrasse quindi il telefono dalla tasca, in modo da telefonare a Maria Hill.

«Perché possediamo delle risposte alle domande che vi stanno assillando da sei anni a questa parte», rispose Victor che, nel frattempo, si era privato dell’elmo dell’armatura per parlare più liberamente.

Entrambi gli agenti s’immobilizzarono, sconvolti.

Possibile che quei due sapessero davvero dove fossero finiti i rispettivi padri?

«Metti giù il cellulare, Mantide», la richiamò Hawkeye dopo qualche istante di silenzio, «io credo loro. Mi sembrano troppo convinti per essere dei bugiardi.»

Si rivolse quindi a Maya e la esortò a spiegarsi, quando una dura voce femminile li richiamò da lontano.

«Barton, Odinson. Cosa succede?»

In uno scatto, Maya creò un nuovo portale con lo Sling Ring e fece cenno ai tre di entrare.

«Svelti», sussurrò, «prima che ci veda.»

Victor fu il primo a superare il vortice d’energia, poi Cooper, che si trascinò dietro una recalcitrante Athena e, infine, Maya.

Quando Maria Hill giunse al corridoio, ciò che vide fu soltanto il proiettile conficcato nell’intonaco del soffitto.



* * *


15 giugno 2045, 8:35 P.M.,
New Brunswick,
New Jersey.


Il portale li condusse nel primo luogo che era venuto alla mente di Maya: il piccolo quartiere residenziale dove la famiglia McInnos abitava prima dell’incidente che aveva portato alla morte Robert e cancellato la memoria di Paige.

Erano comparsi nel retro una villetta in stile americano color mattone, con la bandiera a stelle e strisce piantata davanti alla veranda e l’erba verde ben tagliata nel piccolo cortile.

«Perché ci hai portato qui?», le domandò Victor, curioso.

«È il primo luogo che mi è venuto in mente», confessò la Maestra con un’alzata di spalle.

Si rivolse poi a Cooper e Athena e, con pazienza, raccontò loro tutto ciò che era accaduto dal giorno in cui aveva conosciuto Valk.

Quando giunse all’incontro con gli Stark, Cooper avvertì il cuore farsi più leggero.

Suo padre era ancora in vita!

Forse, se avessero catturato Vither e mandato in fumo il suo piano, suo padre e tutti coloro che erano finiti in quell’altra dimensione ignota avrebbero potuto tornare.

Athena, invece, scosse la testa con forza.

«Cosa mi assicura che voi non ci stiate riempiendo di bugie?», chiese, dubbiosa.

«Perché questa situazione mi sta a cuore esattamente come lo sta a te. Tu avrai perso un padre; io ho visto il mio maestro svanire da un giorno a un altro. Strange non è un uomo facile e neppure troppo espansivo, ma gli voglio bene e desidero riportarlo indietro. Come puoi vedere, siamo nella stessa barca, Athena. Allora, vuoi aiutarmi oppure no?», le rispose Maya, sincera.

Allungò una mano verso di lei, aspettando una sua risposta.

La figlia di Thor si mordicchiò le labbra, riflessiva.

Tutto quello che Maya le aveva spiegato le suonava impossibile, ma una voce, nella sua mente, le stava gridando che contattare Maria Hill sarebbe stato un enorme errore.

Poi, l’immagine di suo padre fece capolino nella sua mente: un gigante di quasi due metri con un fisico da culturista, lunghi capelli biondi che amava portare sciolti e un magico ombrello nero sempre appeso al braccio che, in caso di pericolo, si trasformava in Stormbreaker, la mitica ascia in grado di dominare i tuoni.

Nonostante potesse incutere paura, Thor possedeva il sorriso più radioso che Athena avesse mai visto e i suoi occhi, in grado di polverizzare con un solo sguardo, brillavano come zaffiri quando si posavano sui suoi figli, i suoi tesori.

Ricordava con una stretta al cuore la sua ultima visita, avvenuta soltanto qualche giorno prima che Vither lo spedisse in un’altra dimensione.



21 aprile 2039, 5:20 P.M.,
Sant’Antonio,
Texas.


Thor abbracciò i figli con entrambe le braccia e li strinse forte al petto marmoreo.

Athena rise e gli gettò le mani al collo, contenta di rivedere suo padre.

Era trascorso circa un mese dalla sua ultima visita e, ora che lo vedeva ricomparire, era ben felice di dimostrargli il suo affetto.

Perseus tossicchiò, avvertendo il padre che lo stava ormai schiacciando.

Poco dopo, il Dio Nordico sciolse la presa sui figli e li lasciò andare con un sorriso.

«Perseus», esordì poi con tono serio. «Ho bisogno che tu ti prenda cura di tua madre e tua sorella mentre io sono via. Ci siamo intesi?»

Un’espressione confusa si dipinse sui volti dei gemelli.

«Dove vai, papà?», domandò Athena.

Thor assunse un cipiglio preoccupato e abbassò gli occhi sul pavimento di moquette dell’appartamento di Jane e i ragazzi.

«È stata rivelata una nuova minaccia e Strange mi ha chiesto di intervenire, insieme al resto degli Avengers. Ascoltando il Dottore si tratta di qualcosa di serio e c’è bisogno dell’aiuto di tutti», spiegò loro.

«Possiamo aiutarti anche noi, papà!», esclamò Athena, fiduciosa. «Certo, non abbiamo ereditato tutta la tua potenza, ma sappiamo combattere entrambi e possiamo eliminare un po’ di tuoi nemici.»

Thor le riservò una lunga occhiata e le scompigliò i lunghi capelli biondi in un gesto affettuoso.

«So che siete due perfetti combattenti. In fin dei conti, siete i miei figli. Tuttavia, vostra madre non mi perdonerebbe mai se vi accadesse qualcosa e neppure io potrei giustificare me stesso per avervi messo in pericolo. Per stavolta resterete qui. Quando sarete un po’ più esperti, giuro che vi porterò con me.»

La figlia gli riservò un’occhiataccia, ma Thor scosse il capo con severità.

Aprì la bocca per replicare, quando Perseus pose una mano sulla spalla della sorella e scosse il capo.

«Papà ha ragione, Athena. Tra un mese abbiamo gli esami e dobbiamo prepararci. Sai bene quanto mamma tenga ai nostri risultati scolastici.»

Thor annuì concorde e scompigliò anche le corte ciocche fulve di Perseus.

«Grazie, figliolo. Sapevo che avresti capito e mi avresti aiutato a convincere tua sorella.»

Il ragazzo sorrise e Athena avvertì gli occhi inumidirsi di lacrime.

Si gettò fra le braccia di suo padre e lo strinse forte.

«Non voglio che tu vada via», singhiozzò. «E se non dovessi tornare più? Cosa faremo io e Perseus senza di te?»

Thor scoppiò in una roboante risata e le batté una mano sulla schiena con fare confortante.

«Tornerò, piccola, non temere», le sorrise. «Non potrei mai vivere senza voi due!»

Si separò da lei quel tanto che bastava per guardarla in volto e le afferrò il mento fra le dita, in modo che i loro occhi si potesse incontrare.

Bastò uno sguardo per frenare le sue lacrime.

Non riusciva a comprenderne il perché, ma, fin da piccola, i sereni occhi azzurri di suo padre riuscivano sempre a calmarla.

«Mi credi ora?», le domandò Thor.

La ragazza annuì e tirò su con il naso.

«Bene. Adesso, smettila di piangere. Sai che il mio cuore non sopporta quando ti vedo piangere. Vuoi che mi sciolga anch’io in lacrime?»

La giovane accennò un sorriso e si passò il dorso della mano destra sugli occhi, asciugandosi le lacrime.



15 giugno 2045, 8:35 P.M.,
New Brunswick,
New Jersey.


Nonostante le avesse promesso di far presto ritorno, Thor era scomparso e ora, quasi sei anni dopo, una giovane le svelava la terribile verità: suo padre era ancora vivo, ma disperso in un’altra dimensione.

Vither, il braccio destro di Thanos, stava cercando le reincarnazioni delle Gemme dell’Infinito per riportare in vita il suo antico padrone.

«Vither va fermata e, questa volta, non ho intenzione di starmene con le mani in mano», sancì allora e afferrò la mano che Maya le stava porgendo. «Conta pure su di me, Maya McInnos.»

La giovane Maestra sorrise, sollevata.

«E tu, Barton?», domandò allora Victor.

Cooper non esitò a rispondere.

«Anche mio padre era presente nello scontro contro Vither, Stark. Come Athena, anch’io credo che quella donna vada eliminata. Contate pure su di me.»

Victor assentì compiaciuto, prima di riprendere la parola.

«So che suonerà un’ovvietà, ma questa conversazione dovrà restare fra noi. Nessuno, specialmente Maria Hill, dovrà sapere quel che ci siamo detti.»

Athena gli riservò un’occhiataccia mentre Cooper accennava una risata.

«Davvero credi che andremo alla S.H.I.E.L.D. a gridare a destra e a manca quel che ci avete confessato oggi?», s’informò Hawkeye. «Siamo agenti certificati, accidenti!»

«Per quanto possiate essere certificati, Legolas, so che la Hill ne conosce una più del diavolo. Volevo solamente raccomandarvi di stare molto attenti», ribatté Victor, seccato.

Fu allora che Maya intervenne.

Utilizzò lo Sling Ring per generare due portali d’energia e fece cenno ad Athena e Cooper di varcare quello presente sulla destra.

«Questo varco vi riporterà alla S.H.I.E.L.D. Prima di separarci, però, vorrei domandarmi se posso contare su di voi per il reclutamento di altri aiuti.»

Athena e Cooper non esitarono ad annuire e, poco dopo, scomparire nel portale.

A quel punto, Maya si voltò verso Victor e gli sorrise con calore.

«Ce l’abbiamo fatta!», esclamò estasiata. «Abbiamo appena convinto due agenti della S.H.I.E.L.D. ad aiutarci!»

Victor assentì compiaciuto.

«Te l’avevo detto che sarebbe stata una passeggiata, Abracadabra. Forza, torniamo al Santuario.»

«Non prima di te, Iron Ass.»

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Capitolo 9
*** La donna del Dio Perduto ***


30 giugno 2045, 2:30 P.M.,
177A Bleecker Street,
New York City.


Maya fece il suo ingresso nella biblioteca e si accomodò sul divano rosso cremisi, fra Victor e Cooper.

Athena, invece, aveva preferito sedersi sulla comoda poltrona che Strange era solito occupare durante le sue numero ore di studio nella biblioteca.

Accanto a lei, Wong e Joy erano seduti su due eleganti sedie dallo schienale rigido, avvolti entrambi nelle tuniche dorate che Magda aveva lavato e stirato quella mattina stessa.

Magda e Valk erano gli unici in piedi.

Entrambi stavano distribuendo tra i presenti dei deliziosi muffin al cioccolato che Maya accettò con un sorriso grato e mangiò sorseggiando il suo tè ai mirtilli.

«Signori, vi ho chiamati qui per aggiornarvi sui possibili soggetti da reclutare», esordì Storm, attirando su di sé l’attenzione dei presenti.

Erano trascorse circa due settimane dalla sera in cui Maya e Victor si erano diretti alla S.H.I.E.L.D. e, in quel periodo di tempo, l’hacker aveva trascorso gran parte del suo tempo nella sua camera, raccogliendo più informazioni possibili su Andrea Smith e Deborah Collins, il soggetto più interessante presente nella lista di Maria Hill.

«Come mi hai chiesto, Victor, ho compiuto ulteriori ricerche e sono certo di essere giunto a un buon punto. Dal momento che non ho trovato ulteriori informazioni su Connor Smith, mi sono concentrato sulla madre e ho scoperto un background davvero molto interessante», fece una pausa, in modo da dare più enfasi alle sue parole.

Un silenzio carico di curiosità avvolse la biblioteca, in attesa che Storm riprendesse a parlare.

«Dovete sapere che Andrea è rimasta incinta molto giovane, a circa vent’anni. Tuttavia, dopo la nascita di Connor, la donna ha sofferto di depressione e alcoolismo e, a ventidue anni, è finita in una comunità per disintossicarsi. Gli assistenti sociali, dopo aver saputo che Andrea aveva partorito un bambino, si misero alla sua ricerca per prendersene cura, ma non riuscirono a trovarlo da nessuna parte. Qualche anno più tardi, Andrea si è disintossicata e ha trovato lavoro in uno Starbucks di Dallas ed è lì che abita ancora. Quindi, se volete incontrarla per chiederle informazioni su Connor, ho trovato anche il suo indirizzo.»

Un sorriso comparve sul volto di Maya e si congratulò con se stessa per aver scelto coinvolto Storm in quella missione.

«Invece, per quanto riguarda gli altri nomi presenti nella lista della Hill, ho trovato un soggetto molto interessante che, al momento, potrebbe trovarsi in serie difficoltà economiche. Infatti, la dottoressa Deborah Collins, stimata erpetologa, stava conducendo degli esperimenti su alcuni serpenti, quando, quasi un anno fa, qualcosa è accaduto. Non ho trovato alcuna informazione su questo evento, ma si è trattato di qualcosa di davvero grave. Difatti, poco dopo, il suo progetto è stato sospeso e, successivamente, eliminato. La donna è attualmente scomparsa nel nulla e credo che si sia rinchiusa in casa sua. Naturalmente, possiedo anche il suo indirizzo. Quindi, dal momento che siamo in così tanti, propongo di dividerci. Un gruppo andrà a incontrare Andrea Smith mentre l’altro può raggiungere l’abitazione di Deborah Collins e indagare su cosa sia accaduto alla dottoressa. Cosa ne dite?»

Maya annuì concorde, imitata ben presto dai presenti nella biblioteca.

«A questo punto, chi vuole andare a interrogare Andrea Smith?», domandò Joy, prendendo in mano la situazione.

Maya sollevò subito una mano, seguita a breve da Cooper, Valk e Storm.

Athena rivolse a Hawkeye un’occhiata confusa.

«Non guardarmi così, Mantide», l’apostrofò lui con un sorriso. «Rischiamo la vita tutti i giorni e, per una volta, voglio concedermi una semplice e tranquilla visita a Dallas. Non ci sono neppure mai stato a Dallas! Se tu voi dirigerti a casa della dottoressa Collins, io non ho nulla in contrario. Anzi, buona fortuna.»

Athena annuì e, quando Joy chiese chi volesse raggiungere l’abitazione di Deborah Collins, alzò un braccio insieme a Victor e Joy stesso.

Per quanto sorpresa dalla decisione dello Stregone Supremo di partecipare in prima persona alla missione, Maya preferì tenere per sé i suoi pensieri.

Joy era di natura permalosa ed era meglio non indispettirlo.

«Perfetto», concluse lo Stregone Supremo. «Preparatevi alla partenza. Per quanto riguarda il mio gruppo, dirigetevi al piano di sotto e aspettatemi qualche istante, in modo che io possa indossare degli abiti più consoni per il mondo esterno. Per quanto riguarda te, Valk, hai modo di mimetizzarsi nel mondo degli umani?»

L’alieno assentì, battendosi una mano sul petto, coperto da un’aderente tuta nero pece.

Subito, la tuta s’illuminò e l’aspetto di Valk di fronte ai loro occhi.

Qualche istante più tardi, un alto e giovane uomo dalla pelle scura sorrideva loro con cordialità.

Lunghi capelli neri acconciati in rasta gli ricadevano sulle spalle, tenuti lontani dal volto da una fascia color oro e indossava una comoda t-shirt bianca, un paio di jeans scuri e semplici scarpe da tennis bianche.

«Può andare bene questo aspetto?», domandò Valk, dubbioso.

«Caspita, figliolo, sei più che perfetto», si complimentò Magda con un sorriso. «Perché non hai cambiato prima il tuo aspetto?»

L’imbarazzo colorò di rosso le guance del giovane alieno e Maya ridacchiò, divertita.

«Maya, vai anche tu a cambiarti», la richiamò allora Wong con la sua voce indecifrabile.

La ragazza assentì e si diresse di corsa verso la sua camera prima che Magda l’acciuffasse per propinarle uno dei discutibili abiti dismessi di sua nipote.

Raggiunta la sua stanza, accarezzò il colletto della Cappa e le fece cenno di abbandonare le sue spalle.

Il mantello levitò fino al letto e si accomodò su di esso, lasciando che Maya si spogliasse della tunica color oro e indossasse una comoda t-shirt azzurra a maniche corte, lunga fino a metà coscia per nascondere i fianchi larghi, un paio di leggins neri e scarpe da tennis bianche e blu dalla suola rinforzata.

Si sistemò al polso il bracciale con il pendente a forma di stella e fece ritorno alla biblioteca chiudendosi la porta alle spalle, in modo che la sua Cappa non potesse seguirla.

«Storm, puoi mostrarmi una foto del luogo dove abita Andrea Smith? Per quanto la mia magia sia forte, per utilizzare lo Sling Ring ho bisogno di avere bene in mente la destinazione», chiese all’hacker, una volta che Cooper, Valk e Storm l’ebbero raggiunta.

Il ragazzo recuperò il telefono che aveva acquistato una settimana prima su Amazon e digitò in fretta e furia l’indirizzo:


“3699 McKinney Ave, Dallas”.


In pochi istanti, la locandina di un tranquillo centro commerciale di periferia, situato a pochi metri da un distributore di benzina Shell, apparve sullo schermo.

La caffetteria dava su una strada poco trafficata, costellata di villette molto simili fra loro dalla vernice scura e il tetto di tegole nei colori del grigio e del marrone, circondate da alti cespugli ben governati.

«Andrea non abita molto lontano dal suo posto di lavoro», spiegò Storm. «Ho anche scoperto che si è risposata con un certo Trevor e, insieme, hanno avuto una figlia di nome Chloe che, a detta mia, ha un profilo Instagram fin troppo fornito.»

Maya annuì distrattamente, recuperò il suo Sling Ring e procedette con l’evocazione.

Un sottile filo d’energia fuoriuscì dalle sue dita e, poco dopo, un portale circolare sprizzante scintille si materializzò nella vicina parete.

«Entrate pure», li invitò la giovane.

Valk fu il primo a varcare il vortice d’energia con sicurezza, seguito a breve da Cooper e infine da Storm.

«Buona fortuna a voi», augurò Maya a Joy, Victor e Athena prima di sparire a sua volta nel portale.



* * *


30 giugno 2045, 3:00 P.M.,
3699 McKinney Ave,
Dallas.


Nel sole del primo pomeriggio, il gruppo composto da Maya, Cooper, Valk e Storm si materializzò a pochi metri dallo Starbucks in cui Andrea Smith lavorava.

I quattro non esitarono a entrare.

Il locale, nonostante le dimensioni ridotte, aveva un’aria molto accogliente.

Costituito da una bella sala rettangolare dalle pareti ricoperte da carta da parati a strisce blu e bianche, presentava due ampie finestre a vetri da cui entrava molta luce naturale.

All’interno, erano presenti numerosi tavolini alti di formica rossa e sgabelli di metallo, occupati per lo più da adolescenti e giovane coppiette che civettavano.

Dietro all’imponente bancone di legno, si muovevano indaffarate due figure, una donna e un uomo.

Maya si concentrò sulla donna che avrebbe dovuto essere Andrea Smith: circa sulla cinquantina, la madre di Connor era alta e molto magra.

Indossava la comoda uniforme di Starbucks composta da una camicia grigia, un paio di pantaloni scuri, scarpe sportive e un grembiule verde menta con lo stemma della multinazionale in bianco riportato all’altezza del cuore, sulla destra.

Portava i lunghi capelli biondo veneziano raccolti in un’alta coda sulla nuca, incorniciando due infossati occhi verdi, un naso aquilino e labbra sottili.

L’uomo, invece, si rivelò un ragazzo sulla ventina, tarchiato e dal volto ricoperto di brufoli.

«Andrea Smith?», s’informò Cooper con discrezione, avvicinandosi al bancone.

La donna sollevò lo sguardo dal milkshake che stava preparando e squadrò l’agente con sospetto.

«Sì?», rispose. «Come posso esserti utile?»

«C’è un posto dove possiamo parlare in privato?», domandò Hawkeye. «Vorrei scambiare un paio di parole con te e credo tu possa aiutarmi.»

Andrea assottigliò lo sguardo, inspessendo le rughe intorno agli occhi.

«Perché? Chi sei tu?», replicò, sulla difensiva.

Cooper stirò le labbra sottili in un sorriso, recuperò un documento dalla tasca della camicia nera senza maniche e lo porse alla donna.

Andrea se lo rigirò fra le mani per alcuni istanti, poi indicò con la mano la porta del deposito.

«Entrate là. Vi raggiungo fra qualche istante e spero che questa sia l’ultima volta che la vostra organizzazione viene a importunarmi.»

Cooper sorrise soddisfatto, recuperò il suo tesserino e lo ripose nella tasca della camicia.

Maya gli riservò uno sguardo colmo di ammirazione e confusione.

«Come hai fatto a convincerla così presto?», domandò, raggiungendolo.

L’uomo accennò un sorriso e uno scintillio si accese nei suoi occhi azzurri.

Per un istante, la ragazza rimase rapita dal suo sguardo.

Scosse il capo e si diede subito della sciocca per quel suo momento di debolezza.

«Diciamo che essere un agente della S.H.I.E.L.D. apre un bel po’ di porte», rispose lui con semplicità e Maya sorrise a sua volta.

I quattro varcarono quindi la soglia del ripostiglio, una minuscola stanzetta dalle semplici pareti in cemento contenente i frigoriferi dov’erano conservate le merci deperibili del negozio che, da soli, occupavano metà dello spazio.

Oltre ai frigoriferi, erano presenti un tavolo per la pausa pranzo dei dipendenti e due sedie.

Storm collassò subito su una delle sedie, mentre gli altri tre rimasero in piedi, in attesa che Andrea arrivasse.

Poco dopo, la porta alle loro spalle si aprì di nuovo, rivelando l’ingresso della donna.

Andrea portava fra le mani un vassoio su cui erano sistemati un bricco d’acqua e quattro bicchieri di plastica trasparente contenenti dei milkshake.

«Servitevi pure, il primo giro è gratis. Se ne desiderato un secondo, però, dovete pagarlo», offrì loro, prendendo posto sulla sedia accanto a quella di Storm.

L’hacker agguantò un bicchiere e tracannò la bevanda senza troppi complimenti, mentre il resto della compagnia indugiò.

«Un sapore decisamente migliore delle tisane di Magda, non c’è che dire», esalò Storm, quando ebbe terminato.

Valk non esitò a offrirgli la sua, poco incline ad assaggiare qualcosa del genere con il rischio di sentirsi male l’indomani.

Il tempo trascorso sulla Terra gli aveva insegnato che i cibi e le bevande provenienti da quelli che gli umani definivano “fast food” non erano fatti per il suo organismo.

I piatti di Magda, invece, oltre a essere deliziosi, riusciva a digerirli senza alcuna conseguenza.

Cooper e Maya, invece, lasciarono i loro bicchieri intonsi.

«Allora, cosa volete sapere?», domandò Andrea allora.

Fu la Maestra delle Arti Mistiche a prendere la parola.

«Andrea, sappiamo del tuo passato. Ventisette anni fa, hai partorito un bambino che all’anagrafe è registrato come Connor. Tuttavia, non siamo riusciti a trovare alcuna informazione su di lui e, per questo, ti abbiamo cercato. Cos’è accaduto esattamente a Connor in tutti questi anni?»

La donna abbassò gli occhi sul tavolino, colta all’improvviso dai sensi di colpa.

«Connor può essere considerato il mio errore di gioventù. Come ho già raccontato all’agente Hill, quando avevo diciannove anni incontrai Svein, o questo era il suo nome all’epoca. Era un uomo molto bello, dall’aspetto curato, con lunghi capelli scuri tirati all’indietro, occhi smeraldini e un sorriso da togliere il fiato. Era un vero gentiluomo e me ne innamorai all’istante, nonostante la nostra relazione fosse molto particolare: lui appariva e scompariva quando voleva, giustificando la sua assenza come “impegni di lavoro”. Io, invece, cercavo in ogni modo di mantenermi dopo la morte di mia madre. Poi, accadde il disastro: rimasi incinta. Svein ne fu estasiato e, nei giorni successivi, decise che era giunto il momento di rivelarmi la verità: lui non era un uomo d’affari e non si chiamava neppure Svein. Il suo nome era Loki e non era un umano. Quando mi confessò di essere il Dio Asgardiano che aveva ucciso tutte quelle persone a New York, mi infuriai a morte e chiusi tutti i contatti con lui, gridandogli in faccia che non l’avrei mai fatto avvicinare al mio bambino…»

La voce le si ruppe in gola e i suoi occhi s’inumidirono di lacrime.

D’istinto, Maya allungò una mano verso il suo bicchiere e lo porse alla donna.

Andrea raccolse il contenitore, la ringraziò con un cenno e bevve un sorso.

Ora, la giovane Maestra comprendeva perché Maria Hill avesse inserito il nome di Connor Smith all’interno della sua lista: quel ragazzo era un semidio, esattamente come Athena.

Tuttavia, Athena e Connor avrebbero potuto rivelarsi molto diversi: come aveva appreso dal Maestro Strange, Loki era asgardiano soltanto d’adozione, dal momento che il suo regno di provenienza era Jutonheim, terra dei Giganti di Ghiaccio.

Si domandò con curiosità che poteri potesse mai possedere quel ragazzo.

Trascorsero alcuni istanti di silenzio, poi Andrea riprese a parlare, questa volta con voce commossa.

«Quando Connor nacque, vivevo a New York da qualche mese e lavoravo come cameriera in un ristorante giapponese. Tuttavia, quando uscii dall’ospedale, il mio datore di lavoro mi raddoppiò i turni e dovetti assumere una baby-sitter per poter badare al bambino. In quel periodo così stressante, mi avvicinai all’alcool e, ben presto, cominciai a presentarmi al lavoro ubriaca. La responsabile del ristorante mi licenziò e, in breve tempo, rimasi senza soldi. Ora mi vergogno di quello che feci allora, ma, ai miei occhi, Connor divenne un peso, un inutile spreco di soldi che, fra l’altro, non avevo. Così, decisi di liberarmene: recuperai il numero di telefono con cui, mesi prima, comunicavo con Loki e gli chiesi di incontrarmi. Il mio bambino aveva allora solo sette mesi. Loki si presentò all’appuntamento con la speranza che avessi cambiato idea sul nostro rapporto, ma io gli consegnai il bambino e gli chiesi di non cercarmi mai più. Due settimane dopo, finii in una comunità e mi disintossicai dalla mia dipendenza dall’alcool. Quando i servizi sociali indagarono sul mio conto e scoprirono di Connor, mi chiesero dove fosse e io non seppi come rispondere. Solo qualche anno dopo scoprii che Loki era morto, ucciso da quel titano pazzo che quasi ventotto anni fa minacciò di distruggere il nostro universo, e che Connor viveva a New Asgard.»

New Asgard, situata sulle coste più gelide della Scozia, era la cittadina fondata dagli Asgardiani sopravvissuti al Ragnarok, la distruzione del loro reame e, successivamente, all’attacco che Thanos aveva lanciato alla loro nave spaziale.

Da quel che Maya sapeva, gli abitanti di New Asgard si guadagnavano da vivere con la pesca e il trasporto di pesce in ogni angolo del mondo.

Infatti, gli Asgardiani erano rinomati per la loro velocità di consegna e l’ottima qualità del loro pesce.

Maya era stata molte volte a New Asgard.

Infatti, durante il suo secondo anno d’addestramento sotto la guida di Strange, aveva imparato come controllare l’elemento dell’acqua proprio in quel luogo.

Quando il Maestro l’aveva condotta in quella città, Maya sapeva padroneggiare soltanto il fuoco e l’aria.

«Questo è il miglior luogo dove apprendere il controllo dell’acqua. Ti raccomando, però, di utilizzare la Dimensione Specchio quando sperimenti la tua magia sulle onde. Per quanto tu possa essere dotata, bisogna sempre prestare attenzione a non modificare la nostra realtà. Come ben sai, gli uomini si impressionano facilmente e il villaggio che sorge qui vicino è popolato da persone che, purtroppo, hanno molto sofferto. Lasciamoli un po’ in pace, intesi?», le aveva spiegato il suo Maestro, accennando al villaggio alle loro spalle.

Ai tempi, New Asgard sorgeva nella parte più alta di una scogliera che dava sull’oceano.

Composta principalmente da piccole abitazioni in pietra dallo spiovente tetto verde e pescherecci di ogni forma e dimensione, la cittadina non sembrava lontanamente la nuova sede di una civiltà tanto fiorente come quella di Asgard.

Un dubbio si insinuò nei pensieri di Maya.

«Se sapevi che Connor abitava a New Asgard, perché non ti sei messa in contatto con lui?», domandò Cooper, dando voce ai pensieri di Maya. «Ci sono milioni di bambini, nel mondo, che sono orfani di entrambi i genitori e, spesso, devono attendere anni per poter essere adottati e, a volte, capita che non vengono neppure scelti!»

La nota di rimprovero presente nella voce di Hawkeye servì soltanto ad adombrare maggiormente lo sguardo di Andrea.

«Tu non puoi capire, ragazzo», pronunciò la donna, attirando su di sé lo sguardo dei quattro. «Quando ho saputo che mio figlio si trovava a New Asgard, ho svolto numerose ricerche su quella cittadina e ho scoperto che Connor viveva felice in una famiglia di Asgardiani. Desideravo davvero andare a trovarlo, rivelargli che ero sua madre, che non trascorreva un solo giorno senza che io pensassi a lui, ma non volevo rovinargli la vita. Era giusto che continuasse a vivere in tranquillità e così mi sono rifatta una vita e, diciassette anni fa, mi sono sposata con un buon uomo, Trevor. Insieme, abbiamo avuto una bambina che ora ha quasi sedici anni. Sapete, vorrei tanto che Connor conoscesse la mia Chloe...»

Calde lacrime bagnarono le guance della donna e Cooper, impietosito, le batté con delicatezza una mano sulla schiena.

«So che è stato molto difficile per te raccontarci questa storia e ti ringrazio per averci fornito così tante informazioni», sussurrò, pacato.

Maya si stupì della dolcezza con la quale l’uomo si era rivolto ad Andrea.

“In fondo anche gli agenti dello S.H.I.EL.D. hanno un cuore” constatò con un mezzo sorriso.

«Voi avete intenzione di contattare Connor, non è vero? Credete che abbia ereditato qualche potere da suo padre e volete convincerlo a combattere al vostro fianco», singhiozzò Andrea, gli occhi gonfi di pianto.

Cooper e Maya annuirono all’unisono, ma fu Valk a parlare a nome di tutti.

«Sì, lo faremo», le confermò. «Non c’è alcun motivo per nasconderlo. Dicci, vorresti che portassimo un tuo messaggio a Connor?»

La donna strabuzzò gli occhi e prese a scuotere il capo, frenetica.

«No, vi prego», annaspò. «Connor non deve sapere nulla di me. Per ora è meglio che io resti un fantasma nei suoi ricordi. Quando sarò pronta, prometto che sarò io a farmi viva. Esaudite la mia richiesta, per favore.»

I quattro assentirono di buon grado.

In fondo, il complicato stato di famiglia di Connor non era affar loro.

Avevano ottenuto le informazioni di cui avevano bisogno e, ora, non necessitavano d’altro che dirigersi verso New Asgard alla ricerca di Connor.

«Il nostro incontro può concludersi qui, Andrea. Grazie mille per aver risposto alle nostre domande. Il tuo contributo, anche se al momento può sembrare una violazione della tua privacy, servirà forse a salvare milioni di vite», si congedò Cooper, porgendo alla donna il fazzoletto di stoffa che portava in tasca. «Per quanto riguarda l’incontro con tuo figlio, non temere. Non riveleremo a nessuno che sei stata tu a indirizzarci da lui, te lo prometto.»

Andrea annuì e accennò un sorriso, utilizzando il fazzoletto dell’uomo per asciugare le ultime lacrime.

Maya, nel frattempo, recuperò il suo Sling Ring, nascosto in uno delle tasche dei pantaloni, e sorrise amabilmente alla donna.

«So di chiederti molto, Andrea, ma potresti prepararmi un nuovo milkshake con banane e fragole. È da un bel po’ che non ne bevo uno e ne ho una voglia matta. Per favore.»

La donna le riservò un’occhiata confusa, ma finì con il recuperare il suo vassoio e dirigersi verso la porta.

Quando fu scomparsa all’orizzonte, Maya strinse il pendente a forma di stella fra le dita e i suoi abiti si tramutarono presto in una completa tenuta da Maestro nei toni dell’argento dalla tunica verde spento.

Figurò nella sua mente New Asgard, cercando di ricordare più dettagli possibili sulla cittadina: le abitazioni dai tetti verdi e spioventi, i pescherecci, le strade di terra battuta e il grosso cartello bianco che annunciava il nome del villaggio.

A quel punto, prese a disegnare con l’indice e il medio una spirale d’energia arancione che, poco dopo, si tramutò in un portale.

«Prima voi», invitò i compagni a quel punto.

«Ehi, ma volevo anch’io un milkshake», si lamentò Storm, mentre Cooper attraversava il portale.

Valk storse il naso e afferrò l’hacker per le ascelle, spingendolo con delicatezza verso il portale.

«Non temere, Storm. Quando torneremo al Santuario, chiederò a Magda di preparartene uno con i suoi mirtilli», lo consolò la Maestra.

Storm le riservò un’occhiataccia prima di varcare il vortice magico, seguito a breve distanza da Valk.

Maya estrasse dalla tasca della tunica una banconota da cinque dollari e la lasciò sul tavolo come pagamento per il milkshake.

Poi, scomparve anche lei nel portale.





Angolo dell'autore:
Ma salve!
E come promesso, ecco i tre capitoli del lunedì!
Ora, abbiamo visto fatto la conoscenza di quattro nuovi personaggi: i due fratelli Stark, Athena Odinson e, dulcis in fondo, Cooper Barton!
Spero che questi nuovi personaggi vi abbiamo intrigato...
Detto questo, la smetto di blaterare e vi do appuntamento a giovedì con i capitoli numero dieci, undici e dodici.
Alla prossima!
D.S.Lock

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Capitolo 10
*** La scienziata spezzata ***


30 giugno 2045, 3:00 P.M.,
New Orleans,
Louisiana.


Victor fu il primo a varcare la soglia del portale magico dello Stregone Supremo, seguita a breve distanza da Athena e, infine, da Joy stesso.

Da quel che Storm aveva scoperto sul conto della donna, Deborah Collins era scomparsa dalla circolazione da circa un anno e, probabilmente, si era ritirata nella casa di New Orleans che si stagliava ora di fronte a loro.

A pochi metri dall’abitazione, scorreva tranquillo una branca del Mississipi.

L’abitazione di Deborah Collins appariva davvero accogliente dall’esterno: una casa a due piani in mattoni, con il tetto ricoperto di tegole rosse, le pareti tinteggiate di bianco e dotata di finestre a doppio vetro coperte da tendine candide.

Sul punto che dava sulla strada poco trafficata era presente una spaziosa veranda in legno e un piccolo, indisciplinato cortile dove l’erba cresceva incolta.

«Fate attenzione. Non sappiamo cosa ci attende lì dentro», li ammonì Joy, attirando l’attenzione dei suoi compagni.

Con indosso una camicia a scacchi neri e rossi, un paio di jeans scuri e scarpe da ginnastica chiare, Joy sembrava decisamente meno cupo che nella solita tenuta da Maestro.

Soltanto i corti capelli color platino, la pelle chiarissima e gli infossati occhi grigi collegavano quel giovane all’imperturbabile ruolo di Stregone Supremo che ricopriva ogni giorno.

Athena, invece, stretta in un succinto abito color menta, sembrava una modella.

«Non temere, Joy. Sappiamo entrambi come comportarci», rispose Iron Man.

Athena, accanto a lui, annuì.

Lo Stregone Supremo soppesò lo sguardo su entrambi per qualche istante, riflettendo.

Infine, assentì e si diresse verso l’abitazione di Deborah, scansando le poche persone indaffarate che percorrevano costantemente il marciapiedi.

Giunti alla veranda, Joy evocò due scudi energetici dall’intricato mandala decorativo, in caso quella donna si fosse rivelata pericolosa.

Nel frattempo, Athena estrasse una delle pistole dalla borsetta e ne tolse la sicura.

Victor, invece, strinse le dita intorno al cubetto che conteneva la sua armatura.

«Suoniamo il campanello?», domandò, indicando il piccolo pulsante presente sul lato destro della porta, nascosta dietro una zanzariera crivellata di fori.

Joy e Athena assentirono e il ragazzo premette l’indice sul tasto.

Lo squillo del campanello trillò per qualche attimo nell’ampia casa, ma nessuno rispose.

Frustrato, Victor riprovò.

Di nuovo, nessuna risposta.

«Adesso cosa facciamo?», chiese a quel punto. «Non sembra essere in casa.»

In silenzio, Joy raggiunse la porta e si piegò all’altezza della serratura, in modo da spiare all’interno.

Ciò che vide lo lasciò interdetto: il pavimento in legno era ricoperto di ogni sorta d’immondizia e polvere; inoltre, molti dei mobili erano stati distrutti e giacevano al suolo in pezzi.

«Cosa vedi?», s’informò Athena, curiosa.

«Direi che la situazione è decisamente più complicata di quanto Storm avesse prospettato», rispose allontanandosi dalla porta, in modo che i suoi compagni potessero dare un’occhiata all’interno.

«A questo punto non ci resta che buttare giù la porta. La dottoressa potrebbe trovarsi in grave pericolo», affermò Victor a quel punto e, senza attendere oltre, strinse le dita intorno alla sua armatura.

Prima che Joy potesse fermarlo, Iron Man allungò una mano ricoperta da uno spesso esoscheletro grigio.

Poco dopo, la porta venne eliminata da un potente raggio d’energia rosso.

I tre si avviarono dunque lungo il buio corridoio, stando attenti a tutto ciò che li circondava.

Raggiunsero presto il salotto.

Victor strabuzzò gli occhi di fronte a quella vista: il divano era stato rovesciato e strappato letteralmente in due.

Una parte era stata sbattuta contro la parete, mentre l’altra era stata rovesciata sul fondo.

Il tavolino da caffè era gettato in pezzi sul tappeto che ricopriva il pavimento in legno e, in un angolo, giacevano cocci di ceramiche e porcellane appartenenti a chissà quanti servizi da portata.

Tuttavia, ciò che lo sorprese di più erano i profondi solchi che qualcosa simile a degli artigli aveva scavato sul parquet.

“Qualcosa di sconvolgente è davvero successo qui dentro” rifletté preoccupato, i sensi all’erta.

All’improvviso, s’udì un fruscio.

Fulminea, Athena puntò la pistola verso la fonte di quel rumore, pronta a far fuoco, quando un gatto nero fuoriuscì con un balzo da un mucchio di cartacce.

Sotto gli occhi sbalorditi dei tre, il piccolo felino si stiracchiò, sbadigliò e si diresse di corsa verso le scale che collegavano il salotto al piano superiore.

«Un gatto», sospirò la donna con sollievo.

Victor aggrottò le sopracciglia e si mosse d’istinto verso le scale.

«Dove vai?», gli domandò Joy, confuso. «Dobbiamo ancora controllare le camere al primo piano.»

Victor si voltò verso di lui.

Il casco dell’armatura si ritrasse, lasciandogli il volto scoperto.

«Quel gatto è troppo curato per essere selvatico: appartiene di certo a qualcuno e credo che il suo proprietario sia al piano di sopra», spiegò.

Athena lo seguì e lo Stregone Supremo, poco convinto, tenne loro dietro.

Raggiunto il piano superiore, trovarono il gatto seduto sulle zampe anteriori, la coda che ondeggiava lentamente a destra e sinistra.

I suoi occhi, gialli come ambra, erano fissi sugli intrusi.

«Guardate, sembra che ci stia davvero aspettando», sorrise Victor.

Il gatto miagolò, si diresse verso una delle camere da letto e vi scomparve all’interno.

I tre lo inseguirono, trattenendo il fiato per la sorpresa.

Nella stanza, dove caos e sporcizia facevano da padroni, addossato a una parete, era sistemato un materasso sporco di ogni tipo di escremento.

Su di esso era stesa, su un fianco, una donna di colore.

Magrissima, sporca e nuda, la donna non sembrava dimostrare più di trent’anni.

Il gatto nero si accucciò ai piedi del letto e cominciò a fare le fusa.

La donna aprì le palpebre e allungò una mano scheletrica verso l’animale, accarezzando con delicatezza la sua testolina.

Athena le si avvicinò, prudente.

«Dottoressa Deborah Collins?», chiamò con voce chiara.

L’altra donna sollevò il capo quel tanto che bastava per guardarla meglio in viso e annuì.

L’agente della S.H.I.E.L.D. sospirò di sollievo, contenta che Deborah non avesse perso del tutto il senno.

«Siamo venuti a prenderla, dottoressa. Lei potrebbe esserci di grande aiuto», continuò, mitigando il tono di voce.

Questa volta, Deborah scosse il capo con forza.

«Io non posso aiutarvi», gracchiò con una voce flebile che, una volta, doveva essere stata dolce e pacata.

«Perché?», chiese Athena, delusa.

Se Deborah non avesse collaborato, avrebbero dovuto portarla via da quella casa con la forza.

Malgrado l’avesse appena conosciuta, sentiva, dentro di sé, che quella donna non merita di soffrire in una maniera simile.

Evidentemente, la dottoressa si era abbandonata di sua spontanea volontà a un finale tanto orribile.

Qualsiasi fosse il motivo, doveva essere davvero terrificante.

Deborah palleggiò lentamente il suo sguardo sui tre estranei.

I suoi occhi infossati, resi enormi dal viso scavato, erano di un naturale castano molto scuro.

«Voi lavorate per la S.H.I.E.L.D., vero? Se è così, dite pure a Maria Hill che ho deciso di farla finita. Io non sono Bruce Banner. Io non riesco a gestire il mostro che quel dannato incidente mi ha attaccato addosso. Non solo perdo il controllo quando mi arrabbio, ma quell’essere possiede persino un istinto di sopravvivenza. Lui prende sempre più spesso il controllo del mio corpo e non fa altro che cercare e ingurgitare cibo, in modo da tenere in vita il corpo che lo ospita. Per questo motivo sono stata costretta a incatenarmi al letto.»

Sollevò la gamba destra e mostrò loro il doppio filo di catene che la bloccavano al pavimento.

«Deborah, so che la situazione attuale ti spaventa, ma questo non è un motivo valido per mettere fine alla tua vita», intervenne Victor. «Tutti noi abbiamo a che fare con cose straordinarie e spaventose nelle nostre vite e nessuno di noi si è ancora suicidato. Malgrado la tua situazione ora ti sembri catastrofica, sono certo che, una volta che ti sarai rimessa, sarai felice di essere in vita.»

Si allungò verso la dottoressa per aiutarla a rialzarsi, quando Deborah si ritrasse di scatto e riprese a scuotere il capo.

«Voi non capite e, per quanto potrete dire e fare, non riuscirete mai a convincermi. Quindi, vi prego di andarvene prima che lui si risvegli», li ammonì, voltando loro le spalle.

Joy sospirò stanco e si fece più vicino alla donna, pronto a ricorrere alla forza.

Tuttavia, prima che potesse richiamare a sé la sua energia magica, Deborah cominciò a ringhiare.

Un brontolio di gola che non aveva nulla di umano.

Subito, l’aspetto della donna cominciò a mutare: il suo corpo scheletrico raddoppiò le sue dimensioni ricoprendosi di scaglie, i muscoli, prima appena accennati, erano ora bene in vista, attraversati da una spessa ragnatela di vene e, sulla parte inferiore della schiena, era comparsa una lunga coda scura, irta di creste ossee color avorio, presenti anche lungo la spina dorsale.

I tre sfoderarono le loro armi, pronti a combattere.

Deborah emise un ruggito gutturale e si voltò, cercando di colpirli con una sferzata di coda.

Il gatto nero soffiò e scappò all’esterno con il pelo ritto.

Joy sfruttò la sua energia per librarsi a qualche centimetro dal pavimento ed evocò uno dei suoi raggi d’energia, pronto a scagliarli contro la creatura che viveva nel corpo di Deborah.

A pochi metri, Victor portò in avanti una mano per caricare un nuovo raggio d’energia mentre Mantide aveva estratto dalla cintura anche la seconda pistola.

Ora che il muso della creatura era bene in vista, la compagnia realizzò perché la dottoressa fosse tanto spaventata dall’essere che abitava dentro di lei.

Il volto della donna aveva perso i suoi capelli crespi, assunto una forma allungata e si era riempita di denti, rassomigliando così il muso di un alligatore; le orecchie erano scomparse e il naso era stato sostituito da due fori verticali posizionati appena sotto gli occhi serpentini.

Un raggio d’energia partì dal palmo della mano di Victor, accompagnato da uno dei proiettili di Athena.

L’essere spalancò le fauci e ingoiò il proiettile, mentre il colpo di Iron Man s’abbatté sulle squame scurissime che ricoprivano il suo corpo senza provocare alcun danno.

Joy scagliò il suo attacco e il fascio energico assunse la consistenza di una frusta, arrotolandosi intorno al massiccio polso destro della creatura.

La creatura lottò per liberarsi, ma Joy non si fece cogliere alla sprovvista.

Stringendo nella mano il laccio d’energia, ne evocò un altro per immobilizzare la sua gamba destra e tirò con forza.

Deborah gridò e riprese a tirare mentre lo Stregone Supremo cominciava a perdere terreno.

«Victor!», chiamò, allarmato. «Cerca di indebolirlo sul lato sinistro. Non credo resisterò a lungo.»

«Ricevuto!»

Iron Man si portò alla sinistra della creatura sfruttando i propulsori negli stivali e, raggiunto il suo muso affusolato, gli riservò un pugno sulla mascella.

Victor avvertì il suo intero corpo sussultare per il contraccolpo mentre l’essere ruggiva in un misto di rabbia e dolore.

Ringhiò e spalancò le fauci, sputando quel che il ragazzo riconobbe come sostanza altamente corrosiva color verde acido.

Victor ebbe appena il tempo di gettarsi sul lato destro per evitare di essere colpito.

La pozza d’acido che si formò sul pavimento divorò rapidamente le assi di legno, formando un grosso buco.

«Così non andremo da nessuna parte», gridò Athena, attirando l’attenzione dei suoi compagni.

«Che facciamo allora?», ribatté Victor, schivando una nuova ondata di acido.

Alcune gocce colpirono la sua armatura, corrodendo le parti colpite.

«Joy, continua a tirare sulla destra e tieniti pronto a farlo collassare. Victor, spingilo verso destra. Io cercherò di farlo ragionare.»

Iron Man strabuzzò gli occhi al di sotto del casco, ma si sbrigò a eseguire gli ordini quando incrociò lo sguardo fermo di Athena.

Si scagliò quindi contro l’essere con tutta la sua forza, spingendolo verso destra.

«Joy, vai!», urlò.

Lo Stregone Supremo prese a tirare con tutta la forza che aveva in corpo.

L’essere crollò sul pavimento e Joy utilizzò la sua frusta energetica per immobilizzarlo.

Quest’ultimo prese a dimenarsi con tutte le sue forze, nel tentativo di liberarsi.

«Tu!», gridò Athena, imperativa. «Ascoltami bene. So che possiedi un istinto di sopravvivenza e credi che siamo venuti per farti del male, ma non è così. Noi siamo qui per portare Deborah al sicuro. Ti prometto che, quando abbandonerai il suo corpo, prenderemo Deborah e la porteremo con noi al Santuario di New York. Le daremo del cibo, la copriremo e l’aiuteremo a riprendersi. Che ne dici? Ci lascerai?»

La creatura smise di lottare e incatenò il suo sguardo a quello di Athena.

Le due si scrutarono per diversi istanti e, poco dopo, Mantide le sorrise con dolcezza.

Allungò una mano verso il suo muso e lo accarezzò un paio di volte, nonostante la paura le stesse attorcigliando le viscere.

La creatura chiuse pigramente gli occhi ambrati per godersi quel momento e, un attimo più tardi, il suo aspetto mutò.

Al termine della trasformazione, il corpo di Deborah, stretto nel raggio energico di Joy, giaceva svenuto.

«Ce l’abbiamo fatta!», esclamò Victor, euforico. «Ora non ci resta che portarla al Santuario e rimetterla in sesto. È incredibile! Raptorha deciso di aiutarci!»

«Raptor?», ripeté Athena, confusa.

«Sì», confermò il ragazzo. «Mi sembra un nome più che azzeccato per la creatura che abbiamo steso. Non pensate anche voi?»

Spazientito, Joy sollevò gli occhi al cielo e liberò il corpo della donna.

Athena sollevò il corpo di Deborah e lo adagiò con delicatezza su una spalla mentre lo Stregone Supremo spezzava le catene con un altro colpo d’energia.

Poi, recuperò il suo Sling Ring dalla tasca ed evocò un portale diretto al Santuario.

Victor, invece, si gettò all’inseguimento del gatto: di certo, una volta sveglia, Deborah avrebbe voluto avere il suo animaletto al suo fianco.

Il piccolo felino si era rintanato in cucina, nascosto sotto uno dei pochi mobili sopravvissuti a Raptor.

Il ragazzo premette il pulsante all’altezza del collo e l’armatura scomparve all’interno del suo cubetto.

«Una volta tornati a casa ti darò una bella aggiustata», mormorò fra sé e sé, rinfilandosi il gadget nella tasca dei jeans.

«Su, su, piccolino», l’invitò con voce gentile. «Vieni qui.»

Il micio soffiò, spaventato.

«Dai, vieni», lo pregò, piegandosi sulle ginocchia per raggiungere il gatto.

L’animale sembrò calmarsi e gli annusò a lungo le mani con il nasino umido.

«Siamo riusciti a salvare la tua amica umana, piccolo. La stiamo portando al Santuario per rimetterla in sesto. Ti va di venire con noi? Credo le farebbe piacere vederti, quando si sveglierà.»

Il gatto miagolò e cominciò a fare le fusa.

«Lo prenderò per un sì», realizzò il ragazzo con un’alzata di spalle.

Si allungò e afferrò il gatto per la collottola, posandoselo poi contro il petto.

Il felino gli leccò una mano con la lingua ruvida e Victor non poté trattenere una risatina mentre faceva ritorno al piano superiore.

«Sei tornato appena in tempo, Victor», lo apostrofò Joy, indicandogli il portale.

Il ragazzo gli sorrise grato e seguì Athena all’interno del vortice magico, diretti di nuovo al Santuario.

Joy fu l’ultimo ad attraversare il portale, riflettendo sulle prossime mosse da compiere per rimettere in sesto il loro nuovo acquisto.

Di certo, Raptor si sarebbe dimostrato un ottimo alleato.



* * *


30 giugno 2045, 8:30 P.M.,
177A Bleecker Street,
New York City.


Deborah si risvegliò con un mugugno.

Diverse parti del corpo le dolevano e i crampi allo stomaco erano ora più lancinanti che mai.

“La morte è ancora lontana” rifletté con rammarico, gli occhi chiusi. “Sento ancora troppo dolore”.

Avvertì una strana sensazione sulla pelle.

Il suo corpo era avvolto in qualcosa di morbido e confortevole che l’erpetologa riconobbe, con sorpresa, come una camicia da notte.

Inoltre, dal collo in giù, percepiva il piacevole peso di un piumino.

Che avesse iniziato a delirare?

Com’era possibile che qualcuno le avesse infilato una camicia da notte e l’avesse coperta con una calda trapunta?

A meno che…

Possibile che i tre agenti dello S.H.I.E.L.D. che si erano presentati in casa sua fossero riusciti a sconfiggere la creatura che abitava il suo corpo e l’avessero portata con loro?

Una parte di lei sognava che fosse davvero accaduto, ma sapeva che ciò era impossibile.

Chi si sarebbe mai preso la briga di accudirla, dopo aver visto il mostro che era divenuta?

Un anno era trascorso dal terribile incidente che le aveva rovinato la vita.

E pensare che soltanto dodici mesi prima era considerata l’erpetologa più capace della sua università…

La sua ricerca su serpenti e alligatori era ammirata dai maggiori esponenti del suo settore: creare un siero tratto dagli scarafaggi che rendesse i rettili capaci di sopravvivere a una possibile apocalisse nucleare.

La sua intenzione, una volta studiato approfonditamente il mutamento dei rettili, era proporre lo stesso studio sui mammiferi e, infine, sugli uomini.

Poi, Daisy, il piccolo alligatore su cui stava sperimentando il siero che aveva creato, l’aveva morsa.

Alcuni giorni erano trascorsi senza che nulla accadesse, ma quando il rettore dell’università le aveva comunicato che la sua ricerca non stava giungendo a nessuna conclusione soddisfacente e che, di quel passo, avrebbero cancellato il suo progetto, l’essere si era scatenato in tutta la sua potenza.

Il suo laboratorio, il suo lavoro, la sua reputazione… tutta la sua vita era stata distrutta da quella creatura che, come un cancro, le viveva dentro.

Per undici mesi, dopo il suo licenziamento, aveva tentato di liberarsi della creatura in ogni modo possibile, ma invano.

Soltanto dopo l’ennesimo tentativo fallito si era arresa all’idea che, per proteggere l’umanità dalla mostruosità che ospitava, avrebbe dovuto morire con lei.

«Sei sveglia, cara?», domandò una voce gentile, risvegliandola dai suoi pensieri.

Confusa, Deborah riaprì piano le palpebre, ritrovandosi dinnanzi il volto cordiale di una robusta donna sulla cinquantina.

I capelli, striati di grigio, erano raccolti in un’ordinata crocchia sulla nuca e un paio di occhiali dalla montatura nera incorniciavano i piccoli occhi dorati.

Attorno alle sue spalle, era presente il più particolare dei capi di abbigliamento: un mantello color zaffiro dal colletto alto.

«Ti ho portato un po’ di succo, tesoro», continuò la donna, porgendole un bicchiere di plastica chiuso da un tappo salva-goccia, dotato di cannuccia. «Sei gravemente disidratata e denutrita. Bisogna che torni lentamente a ingerire liquidi, prima di passare a una dieta più solida.»

Deborah non rispose, interdetta.

La S.H.I.E.L.D. aveva davvero deciso di aiutarla?

La signora con la cappa le venne incontro e le avvicinò la cannuccia alle labbra.

«Bevi, piccola. Bevi se vuoi rimetterti», la incitò.

Deborah scosse il capo con forza e rifiutò la bevanda.

«Di’ ai tuoi colleghi che non ho cambiato idea. Morirò portandomi dietro il mostro che vive dentro di me», ripeté, sicura.

La donna serrò la mascella e, contro ogni preavviso, la schiaffeggiò con forza.

«Stammi bene a sentire, ora», sibilò minacciosa, sotto gli occhi increduli della ragazza. «Joy e gli altri mi hanno raccontato ciò che ti è accaduto e credo tu abbia preso la decisione più stupida. La morte non è mai una scelta. Ora, bevi questo e cerca di darti una svegliata. Sei troppo giovane per morire così!»

Le portò di nuovo il bicchiere alle labbra e, questa volta, Deborah beve qualche sorso di succo, impaurita dalla reazione della donna.

Si odiò per essere così codarda: aveva deciso di farla finita, ma non aveva avuto il coraggio di combattere contro quella donna soltanto perché l’aveva rimproverata.

Perché era così debole?

Perché il suo stupido istinto di sopravvivenza si ostinava a salvarla?

Magda le accarezzò con dolcezza la guancia.

«Brava, tesoro. Aggrappati alla vita. Vedrai che, quando ti sarai ripresa, tutto questo ti sembrerà una pazzia», la gratificò.

Una lacrima scese lungo la sua guancia destra e la Cappa l’asciugò rapida con un suo lembo.

«Dormi ora. Fra un’ora tornerò con un altro bicchiere. È di vitale importanza tenerti ben idratata», si congedò a quel punto.

Le baciò la fronte e le chiuse gli occhi con una mano.

La dottoressa, esausta, cadde in un sonno senza sogni.



Angolo dell'autore:
Salve!
Ed ecco a voi il capitolo numero dieci dove facciamo la conoscenza di Deborah e del "calmo" e "amichevole" Raptor.
Come avrete ben inteso, Deborah è ispirato al personaggio di Bruce Banner e Hulk, ma in una chiave un po' più "rettile".
Devo confessarvi che il personaggio di Deborah è forse quello più complesso e su cui sono più incerta, come se non fosse davvero, in un certo senso, "completo".
Voi cosa ne pensate?
In ogni caso, vi lascio al prossimo capitolo.
D. S. Lock

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Capitolo 11
*** New Asgard ***


30 giugno 2045, 4:00 P.M.,
New Asgard,
Scozia.


New Asgard si materializzò presto agli occhi di Maya, Cooper, Storm e Valk.

Il portale si era chiuso nelle vicinanze del cartello che dava ai visitatori il benvenuto a New Asgard.

Da quel punto, i quattro avevano una vista integrale sulla cittadina, con le sue piccole abitazioni dai tetti verdi e le pareti oro e arancione, i capannoni per la conservazione dei pesci, i piccoli pescherecci al largo e i meravigliosi fiordi che davano sull’oceano cristallino.

«Che facciamo ora?», domandò Storm. «Sappiamo che il ragazzo si trova in questa cittadina, ma non conosciamo né il suo indirizzo, né le persone con cui abita.»

Maya annuì e assunse un’espressione pensierosa.

Strange e Wong avevano sempre insistito sulla sua istruzione e, nel corso del suo addestramento, aveva letto centinaia di libri riguardanti gli argomenti più variegati.

Proprio da quelle fonti aveva scoperto che, in seguito alla sconfitta di Thanos, Thor aveva affidato a Valchiria il governo degli Asgardiani, in modo da partire con i Guardiani della Galassia e, nel frattempo, prendersi cura dei suoi bambini.

Tuttavia, Maya non sapeva se, durante il primo scontro degli Avengers contro Vither, fosse presente anche Valchiria e se, di conseguenza, fosse scomparsa a sua volta.

«Credo che dovremmo semplicemente avvicinare uno di loro e domandargli se può condurci dal suo capo. Che ne dite?», propose infine.

Storm aggrottò le sopracciglia, confuso.

«Davvero? Credevo avresti tirato fuori qualche strano gadget magico o incantesimo sconvolgente. Insomma, fin ora sei stata tutta portali e scudi energetici...»

La Maestra delle Arti Mistiche rise di gusto.

«Tutto qui, Storm, davvero. A volte bisogna ricorrere agli stratagemmi più semplici. Se vuoi vedere un paio di gadget interessanti, rivolgiti all’agente della S.H.I.E.L.D. qui presente!»

Indicò Cooper con un sorriso e si diresse verso l’abitazione più vicina, dove un asgardiano in salopette verde e stivali di gomma stava raccogliendo dei pesci vivi da un secchio d’acciaio.

«Scusami, signore!», lo chiamò la giovane.

L’uomo sollevò lo sguardo dal secchio, incatenando i suoi grandi occhi scuri a quelli di Maya.

«Cosa desideri da me, Maestra terrestre?», rispose.

Maya non fece una piega nell’udire quell’appellativo.

«Siamo qui per conferire con il vostro sovrano. Saresti così gentile da indicarci la sua abitazione?»

L’uomo annuì deciso e le indicò il capannone più grande della cittadina.

«Valchiria lavora lì in questo momento. Andate pure a parlarle, sarà contenta di staccare dal lavoro per un po’», li informò.

La ragazza lo ringraziò con un sorriso e fece cenno ai suoi compagni di dirigersi verso il capannone.

Man mano che si avvicinavano all’edificio, mille pensieri s’insinuarono nella mente di Maya.

Come avrebbe spiegato a Valchiria il loro problema?

E, soprattutto, se Connor abitava davvero a New Asgard, lei l’avrebbe lasciato andare?

Valchiria era la regina e Connor, come mezzo asgardiano, avrebbe dovuto sottostare alla sua decisione.

«A cosa stai pensando, Maya?», le domandò Cooper, risvegliandola dai suoi pensieri.

Maya gli riservò uno sguardo, indecisa.

Avrebbe potuto confrontarsi con Cooper?

In fondo, l’uomo si era rivelato un ottimo stratega, soprattutto grazie ai numerosi anni trascorsi come agente della S.H.I.E.L.D.

Una vocina, dentro di lei, le stava gridando che poteva davvero fidarsi di Cooper.

«E se avessimo fatto tutta questa strada invano?», confessò di getto. «Avremmo perso un sacco di tempo e uno dei più promettenti soggetti presenti nella lista di Maria Hill. Ho paura, Cooper, paura che Valchiria non lascerà venire con noi il ragazzo.»

L’uomo scoppiò a ridere.

Una risata genuina che mise in evidenza le piccole rughe di espressione intorno alle labbra.

Maya aggrottò le sopracciglia, irritata.

Perché rideva?

Lei si era confidata e lui osare ridere!

«Su, Maya, non arrabbiarti. Ho riso soltanto perché pensavo avessi una motivazione più preoccupante. Non temere per Valchiria, sono sicuro che ci darà il permesso di portare il ragazzo con noi: New Asgard si trova sulla Terra e, se l’intero pianeta è in pericolo, farà del suo meglio affinché le reincarnazioni delle Gemme dell’Infinito vengano recuperati. Ora fammi un bel sorriso, sei molto più carina quando non sei arrabbiata», la rabbonì Cooper.

Il volto della giovane andò in fiamme di fronte a quel complimento e si sbrigò a raggiungere l’ingresso del capannone.

L’uomo, rimasto indietro, ridacchiò.

Cooper l’aveva appena definita “carina”?

“Farà così con tutte le donne che conosce, Maya, non farti illusioni. Come potrebbe trovare te attraente quando ha a che fare ogni giorno con ragazze come Athena?” la rimproverò la sua parte razionale.

A quel pensiero, Maya avvertì una strana sensazione di dispiacere.

Che Cooper avesse cominciato a piacerle?

Scosse il capo con forza per eliminare quell’ultimo pensiero dalla mente, quando Valk le rivolse la parola.

«Maya, siamo arrivati. Non credi sia il momento di bussare?», domandò, alla vista dello sguardo assente dell’amica.

La giovane tornò subito in sé, decisa a concentrarsi unicamente sulla loro missione.

Storm bussò quindi al portone d’ingresso in legno del capannone, in attesa che qualcuno venisse ad aprire.

Poco dopo, l’uscio si aprì e una giovane e snella donna apparve sulla soglia.

La ragazza portava lunghi capelli castani a incorniciare due splendidi occhi verde smeraldo e un nasino all’insù.

«Sì?», domandò.

«Siamo qui per incontrare la tua regina. Abbiamo davvero bisogno di conferire con lei», rispose Cooper e Maya evitò con attenzione il suo sguardo.

L’asgardiana studiò il gruppo per diversi istanti.

Infine, assentì.

«Entrate», concesse loro, «ma fate in fretta. La nostra regina è molto impegnata.»

Hawkeye la ringraziò con un sorriso e fece cenno ai suoi compagni di seguirlo all’interno.

Il capannone era suddiviso su due piani: il primo, costruito in legno e metallo, era dedicato per lo più alla conservazione del pesce e pullulava di asgardiani affaccendati nell’essiccazione.

Il pianterreno, invece, era cosparso di fieno e conteneva una dozzina di cavalli che stavano consumando il loro pasto, sorvegliati con attenzione da un’alta donna dalla pelle color cioccolato.

I lunghi capelli erano ora legati in una coda in cima alla testa e indossava dei comodi abiti da lavori color cannella, corredati alti stivali da lavoro.

In quel momento, la donna stava accarezzando con dolcezza il manto candido di un pegaso.

«Sua Maestà», la chiamò l’asgardiana che aveva aperto loro la porta. «Queste persone desiderano convenire con voi.»

Valchiria si voltò, posando i suoi severi occhi scuri su di loro.

«Una Maestra delle Arti Mistiche, un agente della S.H.I.E.L.D., un alieno sotto copertura e un umano», li apostrofò. «Ditemi, come posso esservi d’aiuto?»

Cooper e Valk aggrottarono le sopracciglia, confusi.

Come aveva potuto quella donna indovinare chi fossero in realtà?

La regina rise.

«Non ci è voluto molto per indovinare. Tu, ragazzo, sei la copia esatta di tuo padre Clint Barton. Inoltre, conoscendo Barton, ho dedotto che suo figlio non avrebbe mai potuto svolgere un lavoro che non preservasse la sicurezza della Terra. Mentre tu, alieno, devi sapere che ho trascorso molti dei miei anni come cacciatrice per un uomo che faceva combattere le mie prede come gladiatori. Nella mia lunga carriera ho visto molte delle tute che camuffano l’aspetto. Allora, tornando al motivo della vostra visita, cosa desiderate?»

Maya non esitò a spiegarle, con dovizia di particolari, tutto ciò che era accaduto dall’arrivo di Valk sulla Terra, soffermandosi soprattutto sull’indagine svolta da Storm per recuperare più informazioni possibili su Connor.

Valchiria ascoltò attenta la sua narrazione, incupendosi istante dopo istante.

«...Quindi, desidereremmo incontrare Connor e domandargli se desidera aiutarci nella ricerca delle reincarnazioni delle Gemme dell’Infinito. Tu puoi aiutarci?», concluse.

Valchiria annuì, convinta.

«Per vostra fortuna, Connor è piuttosto popolare da queste parti. Lui è il miglior maniscalco di New Asgard e, nel tempo libero, si occupa di allenare i giovani», spiegò loro.

La ragazza tirò un sospiro di sollievo.

«Ottimo. Dove possiamo incontrarlo?», chiese Storm, impaziente di tornare al Santuario.

«Non dovrete attendere a lungo per conoscerlo. Basterà mandarlo a chiamare. Harleen!», chiamò, autoritaria.

La giovane che aveva aperto loro la porta corse incontro alla sua regina, rivolgendole un profondo inchino.

«Sua Maestà?»

«Corri a chiamare Connor. Riferiscigli che la sua possibilità di riscattarsi è finalmente giunta», ordinò Valchiria.

Harleen annuì e scomparve per qualche attimo, per poi tornare in compagnia di un ragazzo.

Maya aggrottò le sopracciglia, confusa.

La sua mente aveva costruito un’immagine totalmente differente, basandosi sull’aspetto di Andrea, ma quel che si ritrovava di fronte era tutto un altro paio di maniche.

Il ragazzo, alto circa un metro e ottanta e caratterizzato da un fisico muscoloso, possedeva corti e lisci capelli scuri pettinati all’indietro, un naso all’insù e labbra sottili, chiaramente ereditate da sua madre.

Ciò su cui si soffermò, però, furono i suoi occhi.

Infatti, mentre l’occhio destro presentava una chiara tonalità azzurra, il sinistro era invece di un bel verde smeraldino, donando al suo sguardo un particolare effetto che Maya non sapeva spiegarsi.

Indossava un’ampia casacca verde d’allenamento, un corpetto blu con i bottoni, un paio di comodi pantaloni marroni e stivali alti al ginocchio.

«Valchiria. Posso domandarti perché mi hai fatto chiamare?», domandò Connor, risvegliando la Maestra dai suoi pensieri.

«Questi giovani sono venuti fino a New Asgard per parlare con te. Ciò che hanno da comunicarti è davvero molto importante e desidererei che tu li ascoltassi con attenzione. Poi, sarai libero di decidere se aiutarli o rifiutare la loro offerta», rispose la regina, invitando i quattro a spiegarsi.

Questa volta, fu il turno di Storm di spiegare al nuovo arrivato le lunghe ricerche da lui compiute, omettendo di proposito l’incontro con Andrea.

Quando l’hacker giunse alla conclusione, Connor si lasciò sfuggire un sospiro stanco.

«Sembra una situazione piuttosto complicata», affermò.

I quattro annuirono in contemporanea.

«Allora, ci aiuterai?», l’incalzò Storm con impazienza.

«Ascoltatemi, se fosse per me, lo farei molto volentieri. Tuttavia, non posso partire: come Valchiria vi avrà già detto, io sono il responsabile sia dell’addestramento dei giovani guerrieri, sia dell’armamento di New Asgard. Se, come mi avete detto, questa Vither è davvero così pericolosa, dovrò subito duplicare gli sforzi nella mia fucina, in attesa che quella donna e il suo esercito si facciano vivi. È nostro dovere combattere per difendere la Terra», si scusò Connor.

Storm strabuzzò gli occhi, sconvolto.

«Tu stai scherzando, vero?», s’infuriò, una nuova luce accesa negli occhi scuri. «Noi abbiamo mosso mari e monti per ritrovarti e tu rifiuti di aiutarci con un pretesto tanto stupido? Beh, amico, non ci vuole un genio per comprendere che te la stai facendo nelle mutande. Asgard è stato un popolo di guerrieri per generazioni e sono certo che ci sono centinaia di asgardiani che prenderebbero senza esitazione il tuo posto nell’armeria e nel campo d’addestramento. Perciò, se proprio vuoi tirarti indietro, confessa chiaro e tondo che hai paura e noi ce ne andremo. Tutto ciò che ti chiediamo è sincerità.»

Connor strinse i pugni, sorpreso e furioso nel contempo.

Fece per rispondergli per le rime, quando Valchiria intervenne, posandogli una mano sulla spalla.

«Il ragazzo ha ragione, Connor. Ammetto che nessuno è abile come te con le reclute, ma a New Asgard sono presenti molti guerrieri davvero capaci che possono sostituirti e lo stesso vale per l’armeria. Sei libero di andare con loro e aiutarli nella ricerca delle Gemme dell’Infinito.»

Connor accennò un sorriso sincero e si passò una mano tra i capelli, pensieroso.

Prese quindi a studiare con attenzione i quattro e Maya si domandò, con curiosità, cosa ne pensasse di loro.

Poco dopo, il figlio di Loki riprese la parola.

«Mia regina», pronunciò, «riferisci, per cortesia, a chi si occuperà dell’addestramento delle reclute che i fratelli Zerik sono finalmente pronti a ricevere le loro spade. Inoltre, Adris può sostituirmi nell’armeria. Ah, ho promesso a Xenda delle nuove punte di lance. Sarebbe bello se Adris potesse forgiarle.»

Sorrise trionfante e si voltò verso Maya e i suoi compagni.

«Ho deciso di aiutarvi, ma a una sola condizione: quando avremo recuperato le reincarnazioni delle Gemme dell’Infinito e sconfitto Vither, desidero che voi mi aiutaste a recuperare il recapito di una persona che desidero davvero incontrare. È possibile farlo?»

«Dipende se la persona che cerchi è innanzitutto umana e, in seguito, se è ancora rintracciabile», intervenne Storm con professionalità. «Inoltre, bisogna considerare numerose informazioni come...»

Cooper sollevò gli occhi al cielo, esasperato, mentre Maya metteva a tacere l’hacker, coprendogli la bocca con una mano.

«Non starlo a sentire, Connor. Vedrai che, quando Vither sarà sconfitta, riusciremo a trovare questa persona in men che non si dica. Quindi, affare fatto. Ti andrebbe di venire con noi al Santuario di New York? Ci sono centinaia di camere pronte a essere occupate e la cucina è molto buona.»

Connor sembrò soppesare l’idea per qualche istante, poi assentì.

«Perfetto, allora possiamo anda…Storm!», gridò disgustata, le dita bagnate dalla saliva dell’amico. «Che schifo!»

«Lo sapevo che avrebbe funzionato», esultò quest’ultimo con fierezza. «È il trucco che utilizzavo quando eravamo bambini e i bulli ci prendevano di mira. Io ero sempre pronto a rispondere a tono e le avrei prese puntualmente, se non fosse stato per te che, spesso e volentieri, mi chiudevi la bocca con la tua mano. Ricordi?»

«Sì e ricordo che ogni volta facevo questo», replicò lei, afferrando la t-shirt dell’amico e pulendosi le mani sul tessuto.

Storm ridacchiò quando Cooper tossicchiò, attirando la loro attenzione.

«Sì?», domandò Maya, rossa per l’imbarazzo.

«Credo sia giunto il momento di tornare al Santuario. Puoi procedere con uno dei tuoi portali?»

La ragazza si sbrigò a indossare lo Sling Ring che portava al collo ed evocò un nuovo portale.

«Prima gli ospiti», esordì la ragazza, indicando Connor.

Il ragazzo non esitò a varcare la soglia del vortice, seguito a breve distanza da Valk e Storm.

Cooper fu l’ultimo a tornare al Santuario, riservandole una strana occhiata che Maya non riuscì a decifrare.

Aggrottò le sopracciglia e, confusa, gli tenne dietro.

Prima, però, salutò con un ampio sorriso Valchiria e Harleen.



* * *


30 giugno 2045, 6:00 P.M.,
177A Bleecker Street,
New York City.


«Maya!», la chiamò Magda, sollevata. «Ho bisogno di parlarti, subito.»

La ragazza aggrottò le sopracciglia, confusa.

Magda appariva scarmigliata: i capelli in disordine, il sobrio vestito a fiori non stirato e una macchia di caffè sul mento.

«Certo. È una cosa privata o vuoi parlarne qui?», s’informò.

La donna scosse il capo e le indicò la camera vicina.

Maya annuì prima di rivolgersi a Storm.

«Amico, presenta Connor al resto della compagnia. Torno fra poco.»

L’hacker le strizzò un occhio e Maya si avviò a passo spedito verso la camera attigua con Magda al fianco.

Fu la prima a varcare la soglia, seguita da Magda, che si chiuse la porta alle spalle.

«Allora, di cosa volevi parlarmi?», domandò a quel punto.

Magda sospirò stancamente e le fece cenno di sedersi.

«È così grave?», chiese preoccupata, accomodandosi sulla poltrona.

«Si tratta di Deborah Collins, la giovane che hai chiesto a Joy, Victor e Athena di recuperare. La ragazza è arrivata qui in uno stato pietoso: è gravemente malnutrita e disidrata e credo che soffra anche di un qualche tipo di depressione. Sono riuscita a farla bere, per lo più succo di mirtilli e acqua, ma per quanto riguarda il cibo, niente di niente. Ti confesso che sono molto preoccupata per Deborah. Devi aiutarmi, Maya! Dobbiamo trovare una motivazione che la sproni a mangiare. Magari, con le tue parole, risveglierai qualcosa in lei che la convinca ad attaccarsi alla vita.»

Maya tacque per qualche istante, meditabonda.

Fu allora che la Cappa della Levitazione si sollevò dalle spalle di Magda e si avvolse intorno a quelle di Maya.

La Maestra sorrise d’istinto e si alzò.

«Andrò subito a parlarle, Magda. Sta tranquilla.»

Magda si rilassò contro lo schienale della sua sedia e abbandonò il capo sul poggia-testa, esausta.

«Grazie, cara. Deborah è stata sistemata al secondo piano, nella camera adiacente alla mia.»

Maya le batté delicatamente una mano sulla spalla e si diresse verso la camera che la donna le aveva indicato.

Non impiegò molto tempo a salire le due rampe di scale di legno scuro che conducevano al piano superiore, riflettendo su come avrebbe dovuto comportarsi per convincere la dottoressa ad aiutarli.

«Non ci voleva davvero», affermò ad alta voce.

La cappa le accarezzò con dolcezza le guance con il colletto e Maya ridacchiò per il solletico.

«Maya, aspetta. Vengo con te!», la richiamò una voce femminile, seguito dal ticchettio di un paio di stivali.

Poco dopo, Athena la raggiunse, portando fra le mani una ciotola colma di un liquido che la Maestra riconobbe come brodo di pollo e verdure.

«Magda ha riferito anche a me che Deborah si rifiuta d’ingerire qualsiasi cosa che non sia succo di frutta o acqua. Per questo, ho deciso di portarle un po’ di zuppa, in modo da non costringerla a masticare, ma butterà giù un alimento che l’aiuterà nella sua ripresa. Che ne pensi?»

«Ottima idea», concordò. «Ora dovremo soltanto convincerla a mangiare. Tu che l’hai condotta qui, cosa ne pensi di lei?»

Athena abbassò lo sguardo e scosse la testa, desolata.

«È ferita nell’anima. Quella creatura, Raptor, si è insinuata di prepotenza nel suo corpo e condiziona moltissimo la sua vita. È questo il motivo che l’ha spinto a cercare il suicidio: uccidendo se stessa, avrebbe eliminato quell’essere per sempre. Inoltre, ho constatato che quella creatura è dotata di un qualche tipo di coscienza: si era impossessata di Deborah, ma quando ha compreso che non le avremmo fatto del male, ci ha concesso di portare con noi il corpo esanime della dottoressa.»

Maya assentì ed eliminò la distanza che la separava dalla camera di Deborah accompagnata da Athena.

Bussò alla porta e chiese il permesso di entrare, guadagnandosi, in risposta, soltanto un grugnito.

«Lo prendo per un “entrate”», dedusse, facendo forza sulla maniglia.

Un forte odore di urina colpì con violenza i loro nasi e Athena fu costretta a trattenere il fiato.

La Cappa della Levitazione coprì il naso della sua Maestra con il colletto, permettendole di respirare con la bocca.

Deborah, coperta fino agli occhi dal piumino, esalò un sospiro.

«Dottoressa», esalò Athena con estrema calma. «Abbiamo capito che hai sporcato il letto con i tuoi bisogni. Scopriti, per favore, in modo da poter cambiare le lenzuola.»

Gli occhi scuri di Deborah scrutarono le due ragazze per qualche istante, poi abbassò lentamente le coperte, in modo da scoprire la grossa macchia bagnata di urina sul copriletto.

«Toglila dal letto e mettile addosso una nuova camicia da notte. Puoi trovarle nel cassetto più in alto di quell’armadio. Io mi occupo di cambiare le lenzuola», intervenne Maya.

Athena assentì, appoggiò il piatto di zuppa sul comodino e sollevò con delicatezza la giovane, passandole una mano sotto la testa e l’altra sotto le caviglie.

La depose sulla poltrona sistemata accanto alla piccola finestra e recuperò dal cassetto dell’armadio una nuova e semplice camicia da notte rosa antico.

Poi, porse l’indumento alla donna e le sorrise, rassicurante.

«Puoi cambiarti da sola? Non vorrei mancarti di rispetto», le domandò.

Deborah annuì e cercò con lo sguardo un luogo in cui cambiarsi, quando Maya le indicò l’uscio di legno che si affacciava sulla parete alla loro sinistra.

«Quella porta conduce al bagno. Lì puoi cambiarti con calma e, se ti fa piacere, puoi farti una doccia», spiegò, sistemando le lenzuola nella cesta per i panni sporchi.

Deborah annuì e raggiunse il bagno con passo malfermo, mentre Maya sistemava con attenzione il copriletto sul materasso, eliminando le pieghe con decise pacche.

Athena fece per aiutarla, ma la ragazza scosse il capo e accennò alla porta del bagno con il capo.

«Controlla che non si faccia male con i rasoi o tenti di ingoiare uno spazzolino. Con lei non si sa mai», sussurrò.

La figlia di Thor si avvicinò alla porta e spiò l’interno attraverso la toppa.

Per fortuna, la dottoressa era davvero entrata nella doccia e si stava insaponando con cura le gambe scheletriche, ripulendosi per bene dai residui di urina rimastole addosso.

«Tutto a posto», la tranquillizzò Athena con un sospiro di sollievo.

Maya annuì e, quando Deborah uscì dal bagno, pulita e infagottata nella nuova camicia da notte, attese con pazienza che Athena le offrisse la sua zuppa prima di parlare.

Deborah si risistemò nel letto e sollevò le coperte fin sotto il mento.

«Bevi questo, Deborah. Così potrai rimetterti in sesto», le sorrise Athena, porgendole il piatto di minestra.

Inconsciamente, la donna si portò la mano alla guancia, carezzando il punto dove Magda l’aveva schiaffeggiata.

Non ne comprendeva il motivo, ma quella donna le faceva paura, esattamente come quella bellissima donna bionda, Athena, le ispirava una grande fiducia.

Per quanto riguardava quella ragazza con indosso quella strana divisa, non sapeva ancora cosa pensare di lei.

Fu allora che il suo stomaco brontolò, alla ricerca di cibo.

Il volto di Athena s’illuminò e, con delicatezza, avvicinò il piatto alle labbra della dottoressa, invitandola a bere.

Deborah socchiuse le labbra sottili e lasciò che il sapore asprigno di pomodoro e carne le finisse giù per la gola.

La minestra era un po’ fredda, ma la trovò deliziosa.

Ingurgitò a grandi sorsate il contenuto del piatto, esalando un sospiro di piacere quando Athena allontanò il piatto, ormai vuoto.

Maya simulò quindi un colpo di tosse per attirare l’attenzione della dottoressa.

«Prima di spiegarle nei dettagli il motivo per cui si trova qui, dottoressa, vorrei domandarle che idea si è fatta di noi. Parli liberamente, nessuno prenderà le sue parole sul personale, qui.»

«Voi tutti fate parte della S.H.I.E.L.D. e vi ostinate a tenermi in vita per una motivazione che mi è ancora oscura. Tuttavia, so che siete arrivati fino a me grazie a Maria Hill: quella donna, poco dopo il mio incidente, è venuta a cercarmi all’università, chiedendomi di accompagnarla al vostro quartier generale, ma io mi sono categoricamente rifiutata. Però, ora che ha scoperto che ero sul punto di morire, ha mandato quei tre agenti per portarmi qui e piegarmi al suo volere. Personalmente, trovo tutto questo disgustoso…», esalò la donna con voce roca, prossima alle lacrime.

D’istinto, Athena si sporse verso di lei e le afferrò una mano, stringendola tra le sue.

Malgrado quella donna fosse stata coinvolta nella sua cattura, Deborah non poté fare a meno di regalarle un debole sorriso di ringraziamento, quando Maya riprese la parola.

«Dottoressa, ciò che ha affermato è piuttosto lontano dalla realtà. Le confesso che le persone che ho contattato provengono da una lista stilata da Maria Hill, ma per il resto noi non c’entriamo nulla con la S.H.I.E.L.D. Lasci che le spieghi dall’inizio il motivo per il quale Joy, Victor e Athena siano venuti a casa sua e l’abbiano portata qui.»

Si cimentò allora in un lungo resoconto su Vither e le sue terribili imprese, la fine dei primi Avengers, l’arrivo di Valk sulla Terra, le reincarnazioni delle Gemme dell’Infinito e infine la squadra che la ragazza aveva deciso di arruolare per ritrovare i cinque bambini rimasti nell’universo e sventare la rinascita di Thanos.

«È per questo motivo che ho bisogno anche del suo aiuto, Deborah. Per fermare Vither. Allora, che ne pensa? Si unirà alla nostra causa, quando si sarà ripresa?», concluse, speranzosa.

La dottoressa scosse il capo con forza.

«No, non vi aiuterò. La creatura che si è impossessata di me va eliminata e l’unico modo per farlo è uccidere me stessa. Ora, vi prego di riaccompagnarmi a casa. Vi sono grata per avermi nutrito e ospitato, ma voglio tornare a New Orleans.»

Maya le riservò un’occhiata colma di sottintesi e sorrise.

«Sapevo avrebbe risposto così, dottoressa. Tuttavia, ci ripenserebbe se le dicessi che forse esiste un modo per liberarla da questa “cosa” che l’ha posseduta?»

Deborah scoppiò in una cupa risata di scherno.

«Ho provato di tutto e di più, ragazza. Come credi di potermi aiutare tu?»

La giovane Maestra non batté ciglio di fronte alla sua provocazione.

«Lei ha cercato la soluzione nella scienza, ma esistono altri campi da sondare per il suo problema. Campi che trascendono la realtà conosciuta. Per ora, però, desidero soltanto che mi prometta che, nel caso riuscirò a trovare un metodo per aiutarla, lei aiuterà noi. Allora?»

«Trovami la situazione, ragazza, e io vi aiuterò in ogni modo possibile», accettò la dottoressa, porgendole la mano scheletrica.

Maya la strinse con forza nella sua e, senza aggiungere oltre, scomparve oltre la soglia.

Athena, invece, rimase, le mani ancora strette intorno alla sua.

«Non dovresti andare anche tu?», le domandò Deborah, dispiaciuta.

La stretta di Athena la rassicurava e doversi separare così presto da lei la rattristiva.

Mantide negò.

«Preferisco restare ancora un po’, per assicurarmi che tu stia bene.»

La dottoressa sorrise, grata.

Qualcosa, dentro di sé, le stava sussurrando che 1uella donna, così simile a un angelo, era forse l’unica persona di cui poteva fidarsi davvero.



Ciao di nuovo!
Abbiamo finalmente fatto la conoscenza di Connor e abbiamo rivisto Valchiria, la Regina di New Asgard in persona!
Direi che Maya e i suoi hanno avuto davvero un grande onore!
Nella seconda parte, invece, abbiamo visto come il cuore di mamma di Magda l'abbia spinta a chiedere aiuto a Maya e da come, da brava scienziata, Deborah sia piuttosto scettica sull'uso della magia.
Chissà se riuscirà Maya a convincere Deborah ad aiutarla...
Vi lascio al prossimo capitolo per scoprirlo!
D. S. Lock

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Capitolo 12
*** Gli eroi di Detroit ***


8 luglio 2045, 4:00 P.M.,
Detroit,
Michigan.


Un portale d’energia arancione si materializzò in uno stretto vicolo di Detroit.

Maya, Athena e Connor ne fuoriuscirono, cinti in abiti civili.

Greyson, il prossimo nome presente nella lista di Maria Hill che avrebbero dovuto reclutare, era stato localizzato lì.

Esattamente com’era accaduto con gli Stark, Storm non aveva avuto difficoltà a trovarlo: Greyson James Rogers era famoso nella zona per essere ciò che più si avvicinava a un supereroe in tutta Detroit.

Difatti, stando alle parole dell’hacker, da circa dieci anni l’uomo pattugliava costantemente la città di Detroit avvolto in abiti neri, spesso in compagnia di una donna dai corti capelli rossi che aveva individuato nel nominativo“Paige ???”, presenti entrambi negli archivi della S.H.I.E.L.D.

Storm non aveva impiegato molto a scoprire l’appartamento in cui abitavano i due, in uno dei quartieri più malfamati della città.

Così, dopo la solita riunione di aggiornamento, lei, Connor e Athena erano partiti alla ricerca di Greyson, mentre Cooper, Victor e Morgan avevano raggiunto Phoenix per trovare Minus Tyler, l’ultimo nome presente sulla lista.

Maya si strinse nella giacca di denim e fece cenno ai compagni di seguirla.

I due, con indosso t-shirt consunte, pantaloni aderenti, anfibi borchiati e giacche di jeans, tutto rigorosamente nero, sembravano usciti da un film post apocalisse zombie.

Lei, invece, sembrava aver perso miseramente la lotta con il suo armadio: t-shirt chiara, blue jeans, stivali appartenenti alla divisa di Maestra che indossava all’interno del Santuario e una giacca di due misure più ampie.

Vestirsi così era stata un’idea di Magda, in modo che potessero, a detta sua, “mimetizzarsi nell’ambiente”.

Maya sbuffò a quel pensiero e si diresse di buon passo verso il condominio che Storm aveva indicato loro: un’alta costruzione industriale di grigi mattoni crudi, con un centinaio di finestre più simili a feritoie, sufficiente appena per il passaggio dell’aria.

Sulla fiancata, invece, era stato realizzato uno spettacolare graffito che ritraeva un uomo avvolto in una lunga palandrana nera e una splendida donna con corti e ricci capelli rossi e occhi verde smeraldo.

L’ingresso, uno spesso portone di ferro di bassa qualità con i vetri scheggiati, era stato lasciato aperto.

I tre varcarono quindi la soglia, entrando in un ingresso dal pavimento di piastrelle ben pulito, in cui era presente soltanto una comoda scrivania.

Dietro la scrivania era seduto un uomo di colore sulla cinquantina, con indosso una t-shirt nera e una salopette di jeans.

Sul petto, all’altezza del cuore, era applicato un badge riportante le parole “Mr. S. Sanders. Usciere e Tuttofare”.

«Buongiorno», li salutò Sanders. «Come posso esservi utile, ragazzi?»

Athena raggiunse la scrivania e riservò all’usciere un sorriso smagliante.

«Il mio nome è Mary e questi sono i miei amici, John e Sonia. Siamo qui per parlare con Greyson Rogers. Abbiamo un “problema” a cui soltanto lui può porre rimedio. Sarebbe così gentile da indicarci il numero del suo appartamento?»

L’uomo assunse un’espressione incuriosita e si sporse leggermente verso di lei.

«Cosa intendi con “problema”?», s’informò.

Athena scosse il capo e inspirò rumorosamente dal naso, prossima alle lacrime.

«Si tratta del mio ex, Charlie. Siamo stati insieme due anni. All’inizio, tutto andava a meraviglia. Lui era l’uomo perfetto per me e non vedevo l’ora che mi chiedesse di sposarlo, quando, un giorno, tornò a casa ubriaco. Gli feci notare che si stava comportando come un idiota e, quando gli tolsi la bottiglia di mano, mi colpì in pieno viso. Con il tempo, la situazione non fece che degenerare e, quando decisi di lasciarlo, non la prese molto bene. Venne a cercarmi e, quando mi trovò… diciamo solo che sono finita in ospedale per tre settimane. Per questo siamo qui, per chiedere a Greyson di intervenire.»

Singhiozzò e si sollevò la t-shirt all’altezza del seno, scoprendo una lunga cicatrice che correva diagonalmente dal fianco destro fino all’inguine.

Maya trattenne a stento la sua sorpresa: sapeva che la storia dell’ex violento era tutta una messinscena, ma come si era procurata una cicatrice del genere?

Di certo era legata a qualche missione affidatale dalla S.H.I.E.L.D.

Sanders abbassò gli occhi sul legno della sua scrivania, gli occhi lucidi.

«Mi dispiace molto per quel che ti è accaduto, Mary, ma la violenza non è mai la soluzione. Tuttavia, se mi prometterai che chiederai a Greyson soltanto di stordirlo e consegnarlo alla polizia, ti indicherò il suo numero di appartamento. Me lo giuri?», le propose con tono dolce.

Athena si portò il palmo aperto al petto e lo batté con forza, giurando.

«Perfetto. Piano Sei, appartamento B», sorrise l’usciere, indicando la rampa di scale posta alla loro destra. «Dovrete salire a piedi, però, l’ascensore è momentaneamente fuori uso. Ah, bussate prima di entrare.»

I tre lo ringraziarono con un sorriso grato e presero a incespicarsi su per le grigie scale di cemento.

Quando furono lontani dalle orecchie di Sanders, Maya si affiancò ad Athena e le rivolse uno sguardo ammirato.

«La storia dell’ex violento da dove viene fuori? Cioè, so che è tutto falso, ma sei stata impeccabile! Come hai fatto?», le domandò.

Athena fece spallucce e la sua mano corse d’istinto alla cicatrice che le correva lungo l’addome.

«Diciamo che quando sei un’agente della S.H.I.E.L.D. devi imparare ad arrangiarti e la recitazione fa parte della sopravvivenza. Essere una spia del governo non è proprio tutto rose e fiori», rispose.

Maya fu colpita da una strana sensazione di deja-vu: Cooper le aveva rivolto delle parole simili quando gli aveva domandato come avesse convinto Andrea a concedere loro un colloquio.

Subito, il complimento che lui le aveva fatto le tornò alla mente e il suo volto si colorò di rosso.

Come a leggerle nel pensiero, Athena si fece seria.

I suoi occhi, azzurri come il più terso dei cieli estivi, erano fissi su di lei.

«Siamo arrivati», annunciò loro Connor. «Appartamento 6-B.»

Le due si voltarono in contemporanea, ritrovandosi di fronte alla porta blindata dell’abitazione di Greyson.

Fu Connor a bussare, estraendo la penna dal taschino della giacca.

Tolse il tappo e, in un attimo, una spada si materializzò nella sua mano.

Maya notò con sorpresa che l’elsa color argento era scarsamente decorata, limitandosi a dei sobri motivi a spirale.

Nel pomolo, invece, era incastonato una splendente gemma color smeraldo.

Athena si portò una mano alla cintura, dov’erano sistemate le sue pistole, e allentò la sicura.

Maya, invece, materializzò una delle sue sfere d’energia nel palmo della mano sinistra, pronta a scagliarla contro Greyson in caso li avesse percepiti come una minaccia e avesse deciso di attaccarli.

Qualche istante più tardi, s’udirono dei leggeri passi raggiungere la porta.

«Chi è?», domandò una voce maschile.

«Greyson Rogers?», rispose Athena, seria. «Desidereremo parlare con te di un argomento molto delicato. Potresti farci entrare?»

Silenzio per qualche istante, poi la serratura scattò e la figura di un uomo comparve sulla soglia.

Maya lo studiò con attenzione: il giovane possedeva una corporatura robusta e atletica, occhi verdi incorniciati da capelli biondi lunghi fino alle spalle, un naso sottile e labbra piene.

Connor trasformò in fretta la spada in biro e la risistemò nella tasca della giacca di denim.

Gli occhi color smeraldo di Greyson li scrutarono per alcuni attimi, quando Maya prese la parola.

«Grazie per averci aperto, Greyson. Ti dispiacerebbe farci entrare, adesso? Prometto che non siamo qui con il proposito di farti del male e, nel caso non decidessi di aiutarci, ce ne andremo senza farti alcuna pressione.»

L’uomo si grattò la nuca, meditabondo, poi annuì.

I tre vennero dunque condotti in un minuscolo salottino, dove la giovane donna dai capelli rossi ritratta nel graffito stava bevendo una tazza di cioccolata, avvolta in un plaid a tema scozzese.

Come Greyson, anche lei indossava un paio di corti pantaloncini e una t-shirt consunta.

La ragazza scattò subito in piedi, scrutandoli tutti con suoi occhi smeraldini.

«Calmati, Paige, non sono nemici», intervenne il suo coinquilino, cingendole affettuoso un fianco con un braccio. «Sono qui solo per parlare.»

Malgrado le rassicurazioni di Greyson, Paige allungò una mano nella loro direzione e un fulmine fuoriuscì dal suo palmo.

Fulminea, la Maestra la imitò, concentrandosi sugli incantesimi di trasfigurazione che Wong le aveva insegnato negli.

Prima che potesse colpirli, il fulmine scomparve in una pioggia di petali di ciliegio che accarezzò loro il volto prima di sparire in minuscole scintille rosate.

Allibita, Paige tentò di evocare una nuova saetta, quando Greyson la fece voltare e l’abbracciò con forza.

«Shhh», le sussurrò con dolcezza, tenendola stretta a sé. «Sono nostri alleati e non vogliono farci alcun male. Hai capito, Paige? Non ci faranno alcun male.»

Afferrò dunque il mento della compagna fra le dita, in modo che potesse guardarlo in viso, e le sorrise, rassicurante.

La donna annuì e, dopo aver rivolto ai nuovi arrivati uno sguardo vacuo, si diresse barcollando verso quella che Maya immaginò come la sua camera da letto.

«Scusatela. Paige è la ragazza più buona del mondo quando la si conosce e i suoi poteri sono davvero utili, ma è muta dalla nascita ed è iperprotettiva nei miei confronti», mormorò stancamente Greyson, lasciandosi sprofondare nel divano. «Allora, di cosa volevate parlarmi?»

Maya e Athena si alternarono quindi nel resoconto di quanto accaduto dall’arrivo di Valk sulla Terra, intervallati spesso dall’annuire attento di Connor.

Giunti alla conclusione, Greyson si passò una mano tra i lunghi capelli lisci, dubbioso.

«Una domanda», esordì. «La S.H.I.E.L.D. sa di questa situazione? Voglio dire, hanno aperto una pratica sulla ricerca di questi bambini?»

La giovane Maestra aggrottò le sopracciglia, confusa da quella domanda.

Tuttavia, decise di essere sincera con Greyson.

“Una collaborazione deve avere delle fondamenta stabili, basate sulla verità. Negli affari così come nella vita”.

Quelle erano le parole preferite di suo padre Robert, quand’era ancora in vita, e lei aveva sempre tentato di metterle in pratica.

«Due delle persone che ho contattato per aiutarci fanno parte della S.H.I.E.L.D., ma mi fido ciecamente di loro e so che non spiffereranno mai a Maria Hill ciò stiamo organizzando.»

Athena, al suo fianco, annuì con convinzione.

Greyson posò gli occhi sulla Maestra e la studiò per lunghi istanti, smeraldo contro ambra.

Infine, sorrise, si alzò e le porse la mano.

«Affare fatto, Maya. Ritieni me e Paige tuoi alleati», annunciò, mentre la giovane stringeva forte la sua mano.

«Ah, non preoccuparti per Detroit. In caso di minaccia in cui tu non possa intervenire, manderò uno dei molti Maestri che vivono a Kamar-Taj a risolvere la situazione», lo tranquillizzò.

Greyson la ringraziò con un cenno del capo e sciolse la presa, quando Paige fece ritorno.

La donna attraversò il salotto con passo fermo, stringendo tra le mani due spessi plichi di fogli.

Raggiunse Maya e fece scivolare i documenti sul suo grembo, per poi regalarle un piccolo sorriso a cui mancavano tre denti.

Si sedette quindi accanto a Greyson e lui le cinse le spalle con un braccio con fare rassicurante, lo sguardo fisso sulla Maestra.

«Devi essere speciale, Maya, se Paige ha deciso di mostrarti il nostro passato. Deve aver sentito il nostro dialogo e riconosciuto in te qualcuno di cui fidarsi.»

La ragazza abbassò gli occhi sui dossier che la taciturna donna le aveva consegnato.

Sotto il simbolo della S.H.I.E.L.D., un’aquila stilizzata nei toni del nero, era scritto:

“Soggetto 991-Progetto Thunder”

Aggrottò le sopracciglia e lesse il titolo del documento successivo:

“Soggetto 992-Progetto R.R.”

«Cosa significano queste diciture?», domandò, confusa. «Perché la S.H.I.E.L.D. dovrebbe svolgere degli esperimenti su dei soggetti umani?»

Athena si sporse dalla poltrona e recuperò un dossier mentre Maya, seduta fra i due, condivise il suo con Connor.

Maya, Connor e Athena divorarono in fretta le pagine, il volto sempre più scuro man mano che procedevano nella lettura.

Quando ebbero concluso, Maya riusciva a trattenere a stento l’indignazione.

Connor, al suo fianco, stringeva così tanto i pugni da sbiancare le nocche, mentre Athena, lo sguardo fisso su Paige, serrava le dita attorno al dossier del progetto Thunder.

«Tutto questo è raccapricciante», esalò Mantide, sconvolta. «Com’è possibile che Hill sostenga un qualcosa di simile?»

Maya concordò con un cenno del capo: quei documenti altro non erano che precisi resoconti su quel che Paige e Greyson avevano dovuto sopportare.

In particolare, Greyson, generato dalle cellule di Steven Rogers, il famoso primo Captain America, e la super spia Natasha Romanoff, la Vedova Nera, aveva vissuto la sua vita all’interno di una camera blindata.

Le registrazioni si interrompevano all’improvviso nel duemilatrenta, quindici anni prima, il periodo in cui, evidentemente, i due erano riusciti a fuggire.

Come a leggerle nel pensiero, Greyson prese la parola.

«Credo che Maria Hill, come Nick Fury prima di lei, sappia che la S.H.I.E.L.D. svolge degli esperimenti su dei soggetti umani, ma non si sia mai interessata in modo serio alla faccenda. Sinceramente, non posso far altro che biasimarla: lei si occupa solamente della difesa e dello spionaggio, mentre la parte di ricerca e sperimentazione è compito di tutt’altro personale.»

Athena tirò un sospiro di sollievo: sapere che Maria Hill fosse innocente era rassicurante.

Se il suo capo si fosse rivelata davvero invischiata in quella situazione, Athena era certa che non sarebbe mai più riuscita a lavorare fianco a fianco con lei senza giudicarla un mostro.

«Come avete fatto a scappare?», s’informò allora Connor, curioso. «Eravate rinchiusi in una struttura altamente sorvegliata e, da quanto scritto su questi dossier, non eravate che dei ragazzini, quindici anni fa.»

Paige gettò un piccolo verso spaventato e si raggomitolò sul divano, nascondendo il volto nella t-shirt di Greyson.

Lui le carezzò la schiena con fare rassicurante, lo sguardo fisso su Maya, Athena e Connor.

«Siamo riusciti a scappare per pura fortuna, in realtà. Il soggetto 990, sistemato nella camera accanto a quella di Paige, era nato con il potere del fuoco. Non era in grado di controllare i suoi poteri e, un giorno, riuscì a eludere la difesa che i ricercatori avevano eretto e diede fuoco alla struttura. I sistemi informatici vennero messi fuori uso e io e Paige riuscimmo a scappare grazie alla distrazione delle guardie e alla baraonda creata dagli scienziati. È stato allora che abbiamo raggiunto Detroit, immaginando che in questa città la S.H.I.E.L.D. non sarebbe mai venuta a cercarci e fino a oggi nessuno è ancora venuto a prenderci.»

«E come avete deciso di combattere il crimine?», domandò Maya.

Un sorriso comparve sul volto di Greyson.

«In realtà non lo abbiamo deciso di nostra volontà. Un giorno, mentre eravamo in un piccolo negozio di alimentari, non molto lontano da qui, un ladro si è presentato alla cassa e ha minacciato di sparare alla proprietaria se non gli avesse consegnato tutto l’incasso. Non so esattamente cosa sia scattato nella mia mente, ma sentivo di dover intervenire e lo stesso anche Paige, vero?»

La ragazza annuì con forza.

«Siamo quindi riusciti a mettere fuori combattimento il rapitore e consegnarlo nelle mani della polizia. Qualche giorno dopo, una vicina si è presentata al nostro appartamento, chiedendoci di aiutarla per mandare in prigione il suo violento ex, ricercato dalla polizia per reati di furto e rapimento. Io e Paige siamo riusciti a sbatterlo in carcere e, da allora, sempre più persone hanno chiesto il nostro aiuto e noi li abbiamo aiutati come potevamo, fino a oggi almeno.»

Ora, Paige dormiva sul petto di Greyson.

Maya ringraziò il ragazzo con un sorriso e scattò in piedi, pronta ad andarsene.

Athena e Connor si alzarono nello stesso momento.

Il padrone di casa fece per imitarli per accompagnarli alla porta, quando Maya lo fermò con un cenno.

«Non preoccuparti. Non ce n’è sarà bisogno.»

La Maestra indossò il suo Sling Ring ed evocò un portale d’energia arancione.

In fretta, i tre scomparvero all’interno del vortice magico.

Greyson fissò allibito il portale chiudersi alle loro spalle, sconvolto.

In quale pazza impresa si era lasciato coinvolgere?



* * *


8 luglio 2045, 5:30 P.M.,
177A Bleecker Street,
New York City.


Maya bussò alla porta della biblioteca, la Cappa della Levitazione avvolta intorno alle spalle.

«Entra pure, Maya», rispose la profonda voce di Wong.

La giovane entrò e raggiunse in fretta il tavolo di pregiato legno e metallo posto tra le decine di scaffali stracarichi di libri.

Accomodato su una comoda sedia dallo schienale foderato di morbido tessuto, l’anziano Maestro era occupato nello studio di un’enorme mappa galattica, affiancato da Valk.

Sul lato opposto del tavolo, invece, Magda era immersa nella lettura di un pesante tomo.

Ora che Deborah aveva deciso di abbandonare il suo proposito di suicidio, riprendendo a nutrirsi con regolarità, la donna aveva preso l’abitudine di trascorrere ogni momento libero in biblioteca, entusiasta per aver ricevuto la sua prima missione importante.

«Cosa volevi sapere, Maya?», domandò a quel punto Wong, alzando gli occhi su di lei.

«Ero venuta qui per chiedere aggiornamenti sui vostri studi», rispose, sincera.

Infatti, sia Wong che Magda avevano ricevuto una missione.

Joy aveva chiesto a Wong di individuare le auree delle reincarnazioni delle Gemme dell’Infinito e localizzarle su una mappa galattica, mentre Magda era stata incaricata proprio da Maya di trovare un incantesimo che permettesse di imbrigliare la creatura che abitava il corpo di Deborah e renderla inoffensiva.

Certo, non sarebbe stata lei a eseguire l’incantesimo a causa dei problemi con i suoi scoppi di rabbia ed energia distruttiva, ma avrebbe avuto il merito di aver trovato il modo per donare a Deborah una vita più serena.

Valk sollevò lo sguardo su di lei e sorrise con entusiasmo.

«Lavorare con Wong è davvero fantastico, Maya. Abbiamo già localizzato tre delle cinque Gemme rimaste nell’universo e abbiamo scoperto che non una, ma ben due Gemme dell’Infinito sono sulla Terra! Tuttavia, ci occorrerà qualche altro giorno di lavoro per poter identificare in modo preciso il luogo dove sono nascoste.»

Gli occhi della giovane Maestra s’illuminarono nell’udire la buona notizia.

Magda, invece, era scura in volto.

«Non sono riuscita a trovare nulla di utile fin ora», le annunciò, mesta. «Ho già cercato in una decina di tomi diversi. Niente di niente.»

Maya le si avvicinò e le batté una mano sulla schiena.

«Non buttarti giù, Magda», la incoraggiò. «Vedrai che riuscirai a trovare una soluzione. Anche il maestro Strange era solito trascorrere giorni e giorni sui libri prima di trovare l’incantesimo che gli serviva, ricordi?»

La donna le regalò un piccolo sorriso e annuì, riponendo nel rispettivo scaffale il grosso tomo rilegato in cuoio che stava sfogliando.

Si alzò e si avviò di buon passo verso la porta.

«Ho bisogno di una pausa. Vado a preparare un po’ di tè. Ne volete una tazza?», offrì loro.

Maya annuì di buon grado e si sedette al posto occupato poco prima da Magda.

La Cappa della Levitazione si sollevò dalle sue spalle e levitò al seguito della donna.

«Dove sta andando il tuo oggetto magico?», domandò Valk, curioso.

«Con Magda. Sono quasi le quattro e sul canale centoventidue comincia “Cuore selvaggio”, la loro soap opera preferita. Quei due la seguono dalla prima puntata, andata in onda circa due anni fa», gli spiegò lei con un sorriso.

«Vuoi dirmi forse che uno degli oggetti magici più potenti che io abbia mai visto sia un patito di programmi tv?», esclamò l’alieno, sconvolto.

«Ti sembrerà strano, ma è davvero così», confermò Maya, estraendo da una tasca dei pantaloni dorati il foglio di pergamena che aveva stillato al suo ritorno dall’appartamento di Greyson e Paige.

Diede una veloce occhiata ai venti titoli riportati nella lista e annuì, soddisfatta del suo lavoro.

Si alzò e si sbrigò a trovare e sistemare i libri sul tavolo in due pile precise.

«Cosa sono quelli?», domandò Wong con la sua voce profonda.

«Sono solo un paio di libri che mi sono venuti in mente questo pomeriggio. Credo che possano essere una buona base di partenza per Magda per trovare la soluzione al problema di Deborah», rispose lei con semplicità.

L’anziano Maestro le scoccò un’occhiataccia e fece per rimproverarla, quando Maya l’anticipò.

«So bene che Magda potrebbe risolvere da sola il problema di Deborah, ma dobbiamo guardare in faccia la realtà: il tempo stringe e in meno di nove mesi Vither sarà qui. Fin ora possiamo contare soltanto sull’aiuto di otto persone presenti nella lista di Maria Hill, degli abitanti abili al combattimento di New Asgard e dei Maestri del Santuario di Kamar-Taj.»

Wong era meravigliato dalle parole di Maya: nonostante Joy fosse stato nominato Stregone Supremo, in quel momento era Maya a somigliare più a Strange.

In lei rivide il suo occhio critico e la sua forza di volontà, pronta a tutto pur di salvare la Terra.

Sorrise, orgoglioso della determinata Maestra delle Arti Mistiche che aveva aiutato a formare e istruire.

Era sicuro che, ovunque fosse finito, anche Stephen era fiero di quel che Maya era divenuta.

Magda fece ritorno in biblioteca, portando con sé un vassoio su cui erano adagiate quattro tazze e un piatto colmo di biscotti ai lamponi.

Maya la ringraziò con un sorriso radioso e inzuppò il suo biscotto all’interno della sua tazza di tè, assaporando assieme l’aspro dei lamponi e il dolce della bevanda.

«Sei insuperabile nella cucina, Magda», si complimentò la giovane, infilandosi in bocca un secondo biscotto.

La donna annuì lusingata mentre Wong e Valk si servivano a loro volta.

«Maya», la chiamò la donna, una volta che ebbe gustato il quinto biscotto. «Joy ti sta cercando. Non so esattamente cosa desideri, ma sembra importante.»

La ragazza assentì e si diresse di buon passo verso lo studio di Joy, appartenuto in precedenza al Maestro Strange.

Giunta di fronte al pesante portone di quercia, bussò e attese con pazienza che lo Stregone Supremo le desse il permesso di entrare.

«La porta è aperta», rispose Joy.

La giovane entrò e si chiuse l’uscio alle spalle, raggiungendo lo scrittoio dietro il quale era accomodato lo Stregone Supremo.

Alle sue spalle, i raggi del sole penetravano dalla magnifica finestra decorativa di fronte alla quale aveva incontrato Strange per la prima volta, rischiarando l’ambiente con la loro luce naturale.

«Magda mi ha riferito che volevi vedermi», esordì. «Come posso aiutarti?»

Joy le riservò un’occhiata penetrante.

Come al solito, i suoi occhi affilati, di un azzurro pallidissimo, sembrarono scrutare ogni angolo della sua anima.

Maya sostenne con tranquillità il suo sguardo: non aveva nulla da nascondergli.

La trasparenza era parte integrante del loro rapporto, insieme alla piena sincerità e fiducia che riponevano uno nei confronti dell’altro.

Erano confidenti, oltre che colleghi di studio e, in seguito alla scomparsa del Maestro Strange, erano divenuti anche buoni amici.

«Ti ho fatto chiamare qui per domandarti a che punto sei con le ricerche di alleati. Voglio un tuo resoconto preciso sulle forze su cui possiamo contare al momento.»

Maya annuì e si dilungò in una lunga spiegazione della situazione in cui versava la sua missione.

«Ora non ci rimane altro che attendere il ritorno di Cooper, Victor e Morgan per il reclutamento di Minus Tyler», concluse la ragazza.

Joy annuì, soddisfatto.

«Meglio di quanto credessi, Maya, ben fatto», la gratificò. «Quando tutti i nostri alleati saranno tornati al Santuario, ti chiedo di riunirli nella biblioteca per organizzare la ricerca dei Figli dell’Infinito.»

La ragazza assentì e Joy le fece cenno di congedarsi.

Maya non se lo fece ripetere due volte e si diresse verso l’uscita, chiudendosi la porta alle spalle.



Salve!
In questo capitolo abbiamo fatto la conoscenza di Paige e Greyson, i due eroi di Detroit!
Cosa ne pensate di loro due?
Personalmente, sono l'accoppiata che preferisco di più, in questo momento.
Detto questo, vi auguro buona lettera e a domenica con il prossimo aggiornamento!
D.S.Lock.

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Capitolo 13
*** Il piano di Joy ***


8 luglio 2045, 4:00 P.M.,
Phoenix,
Arizona.


Cooper sollevò gli occhi al cielo, spazientito.

Nel momento in cui Maya gli aveva chiesto di dirigersi a Phoenix insieme ai fratelli Stark per arruolare Minus Tyler, non avrebbe mai immaginato di ritrovarsi in una situazione simile.

Difatti, da quando le aveva riferito di essere stato incaricato da Maya di accompagnarli in quella missione, la ragazza gli aveva raccontato con accortezza di dettagli come, quasi un mese prima, la giovane Maestra l’avesse immobilizzata con i suoi poteri e costretta a entrare nel suo portale.

In passato, Cooper le avrebbe dato ragione, ma considerato il forte carattere di Morgan e la sua indole poco incline agli imprevisti, Cooper era convinto che, se si fosse trovato in una situazione simile, avrebbe optato per la stessa soluzione.

Secondo le coordinate di Storm, Minus abitava in una villetta a due piani nelle vicinanze della periferia.

Mentre Morgan e Cooper discorrevano fra loro, Victor ne approfittò per ammirare il panorama dell’Arizona, uno dei pochi stati americani che non aveva mai visitato.

Phoenix, in particolare, era un luogo davvero singolare: situata in una piccola valle fertile, era circondata da deserto roccioso, caratterizzato da chiare tinte rosse e gialle.

Man mano che si allontanavano dal centro città, i tre s’inoltrarono sempre più nel deserto, trovandosi ben presto circondati da alti speroni di roccia rossa modellati dal tempo e dalle intemperie, punteggiati da cactus e bassi cespugli.

Giunti finalmente a destinazione, Cooper si domandò preoccupato cosa fosse accaduto a quella villetta: i vetri delle finestre erano stati infranti e buona parte del lato destro dell’abitazione non esisteva più, distrutto da un incendio.

Ciò che era rimasto della casa era sporco di cenere e annerito dalle fiamme.

«E ora cosa facciamo?», domandò Victor. «Secondo Storm l’abitazione dovrebbe essere questa.»

Hawkeye si portò una mano al mento, meditabondo.

«Ehi, voi!», li chiamò una gracchiante voce dall’alto, attirando la loro attenzione.

I tre sollevarono lo sguardo in contemporanea, incrociando gli occhi severi di un’anziana molta simile a un condor, con la gobba, il naso a becco e i brizzolati capelli tagliati cortissimi.

«Siete alla ricerca dei Tyler?», domandò loro la donna, aggrappata alla ringhiera del suo balcone.

«Sì. Sa dove sono andati?», replicò Cooper, speranzoso.

La donna sembrò riflettere per qualche istante, poi si sporse leggermente dal balcone e indicò loro la strada che si immetteva nel deserto con un dito bianco e ossuto.

«Due giorni fa la madre e le gemelle si sono dirette a tutta velocità verso il deserto a bordo della loro monovolume. Per quanto riguarda il padre e il figlio maggiore, non so proprio dove possano essere», rispose.

Cooper sollevò gli occhi al cielo e sbuffò, spazientito.

Quell’inconveniente non ci voleva proprio: Storm aveva assicurato loro che sarebbe stato un viaggio tranquillo, soprattutto perché i Tyler potevano essere descritti come la più normale e noiose delle famiglie americane.

Composta da madre casalinga, padre impresario e tre figli, un maschio di vent’anni e due bambini di cinque.

Stando alle parole dell’anziana vicina, erano trascorsi ormai due giorni dalla sparizione della famiglia.

Come avrebbero potuto ritrovarli?

«Potrebbero essere ovunque», rifletté ad alta voce. «Dobbiamo tornare al Santuario per adesso. Una volta lì, chiederemo l’aiuto di Storm e vedrete che, nel giro di qualche giorno, avrà trovato Minus e suo padre.»

I fratelli Stark assentirono all’unisono, concordi.

«Il problema ora è: come torniamo al Santuario di New York? È stato Joy ad accompagnarci qui, ma come può venire a riprenderci se non abbiamo modo di comunicare con lui?», s’informò Victor, preoccupato.

Difatti, Joy non possedeva neppure un cellulare.

«Strano che McInnos non abbia pensato a questo. Rapisce la gente, ma non è in grado di darci un qualsiasi tipo di talismano che possa metterci in comunicazione con lei», commentò Morgan, sottolineando il cognome della ragazza con la voce.

«In realtà, Maya ci ha pensato e ha trovato anche la soluzione», la rimbeccò Cooper, estraendo dalla tasca dei pantaloni scuri un corto laccio nero con al termine un piccolo pendente.

Il pentacolo, realizzato in acciaio, portava inciso al centro la dicitura “MM” in minuscoli caratteri.

«In caso dovreste trovarvi nei guai», aveva detto Maya, consegnandogli il talismano. «Basterà sfiorare le mie iniziali pensando a me e io apparirò.»

Victor rise di cuore all’espressione sconvolta ritratta sul volto della sorella maggiore.

Era sempre così difficile coglierla di sorpresa e, ogni tanto, era davvero gratificante sapere che neppure la grande Morgan Stark, direttrice delle Stark Industries, era infallibile.

Hawkeye accarezzò con delicatezza l’incisione sul talismano, la figura di Maya nella mente.

Non fu difficile per lui ricreare mentalmente l’immagine della ragazza: il suo metro e sessanta di altezza, le sue morbide curve sempre avvolte nella divisa da Stregone, gli ondulati capelli scuri striati di bianco, gli occhi castani e infine il suo sorriso, il tratto che più l’aveva colpito.

Senza contare la sua intelligenza, la sua determinazione e il modo in cui era arrossita quando l’aveva definita carina.

Avvertì il suo cuore battere più forte.

Aggrottò le sopracciglia, confuso.

Erano trascorsi anni dal momento in cui aveva pensato a una donna in una maniera così intima.

Che la giovane Maestra delle Arti Mistiche avesse iniziato a piacergli?

Scosse il capo con forza e si diede dello stupido, quando un portale arancione, sprizzante scintille, si materializzò di fronte ai loro occhi.

Poco dopo, la familiare figura di Maya ne uscì, avvolta in una divisa nei toni del bianco e del nero.

Salutò Victor con un cenno del capo e lui le rispose con un caldo sorriso.

«Abracadabra»,l’apostrofò Morgan.

«Stark», replicò la giovane, prima di concentrarsi sull’agente della S.H.I.E.L.D.

«Cooper, vedo che mi hai chiamato. Cosa vi è successo?»

L’uomo le fece un rapido resoconto sulla situazione e, quando ebbe concluso, Maya assunse un’espressione preoccupata.

«Torniamo al Santuario. Storm saprà cosa fare», concordò infine.

Generò un nuovo portale e fece cenno al gruppo di entrare.

Victor vi entrò senza troppe remore, seguito a breve dalla sorella maggiore.

Cooper attraversò il portale dopo di loro, ma non prima di aver rivolto a Maya uno sguardo penetrante.

La giovane sostenne i suoi occhi senza esitazione e Cooper avvertì una strana scossa percorrergli la schiena.



* * *


8 luglio 2045, 5:00 P.M.,
177A Bleecker Street,
New York City.


Storm strinse l’ultima vite e sorrise fra sé e sé, soddisfatto.

Appoggiò il cacciavite accanto alla sua ultima creazione e annuì.

Ora, un minuscolo drone nero dalla forma circolare, simile a una moneta, si stagliava sul tavolino da caffè presente nella sua camera.

“Questo è il primo di molti altri” pensò, posando lo sguardo sulla scatola colma d’attrezzatura che Victor gli aveva procurato.

«Storm!», lo chiamò la familiare voce di Maya.

La porta si aprì con uno schianto e la ragazza entrò, accompagnata da Victor e Cooper.

Morgan, invece, preferì restare fuori.

«Sai che prima di entrare bisogna bussare?», la rimproverò seccato, riponendo il drone nella sua scatola per poi chiudendola con un colpo secco.

«Sì, Wong me lo ripete tutte le volte», sorvolò la giovane con un’alzata di spalle, «ma avevamo urgente bisogno di te.»

Cooper si fece avanti e spiegò al hacker, con accortezza di dettagli, ciò che era accaduto a Phoenix.

Quando ebbe concluso, Storm aveva assunto un’espressione confusa.

«Strano», esordì, le folte sopracciglia aggrottate. «Non ho trovato nessuna informazione sull’incendio che ha divorato metà della loro abitazione. Eppure ho cercato soltanto ieri informazioni su di lui...»

«Sei in grado di trovare Minus e suo padre?», domandò Maya, speranzosa.

Storm annuì lentamente e raggiunse il portatile sul letto.

«Non dovrei impiegare molto tempo», affermò, «dammi qualche ora e avrai tutte le informazioni che cerchi.»

Maya lo ringraziò con uno smagliante sorriso, quando i suoi occhi caddero sulla scatola di latta nera sistemata al di sotto del tavolino da caffè.

«Cosa c’è lì dentro?», chiese, incuriosita.

Storm scosse la testa con forza.

«Mai sentito parlare di progetti Top Secret? Non ho intenzione di parlartene finché non mi sarò assicurato che ogni dispositivo sia operativo e funzionante.»

La Maestra sembrò delusa, ma preferì non insistere oltre.

Fece quindi cenno al gruppo di muoversi verso la cucina, affermando che Magda sarebbe stata più che contenta di preparare loro qualcosa da mettere sotto i denti.

Maya non poteva credere ai propri occhi: sedute al grande tavolo di quercia che troneggiava al centro della stanza, Athena e Deborah stavano consumando un’abbondante quantità di muffin ai mirtilli sotto lo sguardo soddisfatto di Magda.

Alle sue spalle, sia Victor che Cooper strabuzzarono gli occhi.

Entrambi avevano constatato le condizioni in cui l’erpetologa versava soltanto pochi giorni prima e vederla mangiare con così tanto gusto era davvero un miracolo!

Deborah sollevò lo sguardo dal suo piatto e lo posò sui nuovi arrivati.

Si alzò di scatto, raggiunse Maya e le gettò le braccia al collo, stringendola forte a sé.

«Grazie mille, Maya, grazie davvero», sussurrò con voce rotta dall’emozione.

La ragazza le batté una mano sulla schiena per rassicurarla, palleggiando un’occhiata confusa da Athena a Madga, nel tentativo di comprendere cosa fosse accaduto.

«Ho trovato la formula giusta, Maya», intervenne Magda con fierezza. «Tra quei libri che hai lasciato sulla scrivania c’era un incantesimo che fa proprio al caso di Deborah. L’unica cosa che occorre, ora, è il tuo contributo pratico.»

Maya trattenne a stento la propria sorpresa: era certa che Magda avrebbe trovato la soluzione al problema di Deborah, ma non così presto!

«Posso vedere il libro?», s’informò, spingendo dolcemente Deborah verso la sua sedia.

La dottoressa raggiunse il tavolo e prese un nuovo muffin, masticandolo con gusto.

Magda, invece, estrasse un piccolo tomo da una delle molte tasche del vestito a fiori.

Lo sfogliò per qualche istante, mostrandole infine la corretta pagina.

“Incapsulamento di Entità”
“Incantesimo in grado di catturare e rinchiudere in un talismano una qualsiasi entità sovrannaturale o fisica che infesti un corpo o un oggetto, che sia esso vivo o inanimato. Per ricorrere all’Incapsulamento di un’Entità, è consigliata una lunga e consolidata esperienza nella pratica delle arti mistiche: infatti, l’incantesimo che occorre a trasferire l’essere all’interno di un oggetto non animato è molto complicato e potrebbe essere davvero dannoso per un Maestro alle prime armi. Inoltre, l’amuleto che dovrà contenere l’entità dovrà essere fabbricato dal Maestro stesso, sfruttando la sua energia magica attraverso le istruzioni riportate nel capitolo quindici: fabbricazione di talismani e scaccia-Maligno.”


«Si può fare», sentenziò infine, «ma avrò bisogno di tempo per costruire il talismano in cui rinchiudere Raptor. Tuttavia, come d’accordo, per procedere ho bisogno che Deborah mi confermi che ci aiuterà davvero nella ricerca delle reincarnazioni delle Gemme dell’Infinito.»

Deborah sollevò il capo e annuì con vigore, stringendo con forza la mano di Athena.

«Perfetto, allora», annuì la Maestra. «Ti prometto, Deborah, che non appena avremo recuperato le cinque reincarnazione delle Gemme e sconfitto Vither, mi metterò subito al lavoro su questo incantesimo.»

La dottoressa assentì soddisfatta, infilandosi in bocca l’ennesimo dolcetto.



* * *

23 luglio 2045, 9:15 A.M.,
177A Bleecker Street,
New York City.


Joy fece il suo ingresso nella biblioteca dopo che si fu accertato che tutti i presenti fossero entrati.

Avvolto in un’impeccabile divisa nera, lo Stregone Supremo macinò i pochi metri che lo dividevano dall’imponente tavolo su cui era già stata stesa la mappa stellare che Wong e Valk avevano portato a termine la notte precedente.

Nella biblioteca erano stati sistemati quattro lunghi divani foderati di stoffe di diverso colore e stampe in cui erano sprofondati coloro che, nella sua mente, Joy amava chiamare New Avengers.

Victor, Morgan, Pepper, Maya, Cooper, Connor, Deborah, Athena, Storm, Greyson, Paige, Magda, Valk e Wong.

Tutti avevano puntato il proprio sguardo su di lui, in attesa che iniziasse a parlare.

Eddie, il gatto nero di Deborah, si era accoccolato su uno scaffale e ronfava tranquillo.

«Per iniziare», esordì lo Stregone Supremo, «vi ringrazio per esservi riuniti qui con così poco anticipo, ma avevo bisogno di vedervi subito, tutti quanti. Come avrete già notato, le cinque reincarnazioni delle Gemme dell’Infinito sono state finalmente identificate e localizzate su questa mappa astrale.»

Batté un dito sulla pergamena.

«Ora, credo sia giunto il momento di dividerci e recuperare le Gemme, prima che Vither decida di cambiare idea e mettersi alla loro ricerca prima dell’anno che Valk ha pronosticato. Prima, però, vorrei conoscere la vostra opinione. Cosa ne pensate?»

Un silenzio carico di tensione calò nella biblioteca, quando Maya alzò una mano e gli dedicò un sorriso fiducioso.

«Io credo in te, Joy. So che non prendi mai decisioni alla leggera e, se ci hai proposto un piano simile, sarà perché ci hai riflettuto molto. Io sono con te.»

Joy la ringraziò con un cenno del capo e, ben presto, tutti i presenti annuirono, concordi con Maya.

«Resta un problema, però», s’intromise Greyson, confuso. «Come dovremo dividerci per recuperare le Gemme dell’Infinito? Insomma, come possiamo sapere se lavoriamo bene insieme?»

Lo Stregone Supremo non si fece trovare impreparato: estrasse il consunto taccuino nero in cui aveva raccolto, negli anni, tutti i suoi incantesimi e pensieri, e raggiunse una delle ultime pagine.

«Ho riflettuto tutta la notte sui gruppi che avrei dovuto inviare in missione e sono arrivato a un risultato che considero soddisfacente. Prima, però, desidero che Valk e Wong ci illustrino la mappa che hanno realizzato in questi giorni di duro lavoro.»

Wong e Valk si alzarono, posizionandosi ai lati del tavolo dov’era stata sistemata la mappa stellare.

«Come potete vedere», iniziò l’anziano Maestro con la sua voce calma e profonda, «su questa mappa io e Valk abbiamo riportato tutti i punti in cui ho percepito la presenza delle Gemme dell’Infinito.»

Wong sollevò una mano e, in quell’istante, delle rappresentazioni tridimensionali dei diversi pianeti si materializzarono sulla mappa.

I globi levitavano ora placidi al di sopra della pergamena, sotto gli occhi stupefatti di gran parte della compagnia.

Maya, Joy e Magda sorrisero di fronte alla loro sorpresa.

Wong scoccò le dita e dei vividi punti rossi comparvero su quattro dei molti pianeti presenti, due dei quali concentrati sulla Terra.

«Ehi, quella è New Asgard!», esclamò Connor, sconvolto. «Davvero una delle reincarnazioni delle Gemme si trova lì?»

Joy annuì, greve.

«Si tratta della Gemma dell’Anima, la più instabile e potente. Il bambino che ne è la reincarnazione riesce a rubare e controllare le anime di coloro che lo circondano. Se non ti dispiace, Connor, vorrei che tu, Greyson e Paige vi dirigiate a New Asgard e lo portasse qui.»

I tre assentirono all’unisono, quando il figlio di Loki aggrottò le sopracciglia.

«Ma come faremo a riconoscerlo? Io ho vissuto a New Asgard per gran parte della mia vita e non mi sono mai accorto che un bambino del mio villaggio fosse in grado di controllare le anime», domandò, confuso.

«Di quello non devi preoccuparti, Wong ha pensato anche a quello», lo rassicurò lo Stregone Supremo, prima di riconcentrarsi sul suo discorso.

«Per quanto riguarda la seconda Gemma dell’Infinito presente sulla Terra, quella del Tempo, vorrei che fossero Athena e Deborah a recuperarla, insieme alla signora Potts. Come potete vedere dalla mappa, la reincarnazione di questa Gemma si trova in Finlandia, esattamente ad Helsinki, la capitale. Non dovrebbe rivelarsi una missione complicata, ma in caso di emergenza, confido che riusciate a recuperare il bambino o la bambina senza troppe difficoltà.»

Le tre donne assentirono e Joy le ringraziò con un cenno.

«Passando ora agli altri tre pianeti.»

Indicò con un dito un pianeta molto simile alla Terra, con nuvole, un’atmosfera e un unico e grande continente circondata dall’oceano.

«Questo è Raback e, dalle informazioni raccolte, è governata da un’oligarchia piuttosto pacifica. Tuttavia, la reincarnazione della Gemma dello Spazio è davvero ben custodita e, per recuperarla, sarà necessario ricorrere a una terapia d’urto. Quindi, desidererei che voi, Maya, Cooper e Victor, vi dirigiate su questo pianeta e portiate qui la Gemma.»

Quando i tre confermarono, Joy indicò un pianeta costituito solamente da acqua cristalline.

«Questo è Warset. So che può sembrare un pianeta ostile, ma è abitato, non preoccupatevi. La popolazione vive sott’acqua ed è davvero particolare: si tratta di esseri mutanti in grado di assumere le forme e gli aspetti più variegati. La Gemma della Realtà è custodita su questo pianeta e vorrei che a recuperarla fossero Wong e Valk. Lavorate davvero bene insieme e credo che sareste più che capaci di portare a termine questo compito. Che ne pensate?»

Wong accennò un cenno d’assenso con il capo e Valk lo imitò.

«Infine, per quanto riguarda l’ultima Gemma, quella del Potere, si trova sul pianeta Pyrus che, come il nome suggerisce, è collegato al fuoco», spiegò, indicando l’ultimo pianeta, rosso vermiglio. «Di questo ci occuperemo io e te, Magda. Per te va bene?»

«Dici sul serio?», domandò la donna, confusa. «Io credevo di dover rimanere qui per prendermi cura del Santuario.»

Joy scosse il capo.

«No, questa missione necessita di persone che abbiano una base magica e tu, nonostante i tuoi problemi con il controllo della magia, sei stata allieva per lungo tempo sia di Wong che di mia madre. Ti chiedo dunque di accompagnarmi in questa missione, ti va?»

Magda si portò la mano al petto e liberò il pendente che portava nascosto sotto il vestito: uno Sling Ring di metallo nero, privo di qualsiasi decorazione o incisione.

Maya riconobbe subito quell’oggetto magico: il suo vecchio Sling Ring, modificato appositamente in modo che, in caso di estremo pericolo, reagisse alla magia di Magda per riportarla al Santuario.

«Sì», confermò infine, «ma se io vengo con te, Joy, chi resterà qui al Santuario?»

«Non preoccuparti per la custodia del Santuario, ci penserà Storm. Dal momento che non è ancora riuscito a trovare informazioni su Minus Tyler e la sua famiglia, credo sia giusto dargli il tempo di svolgere con calma le sue ricerche. Per quanto riguarda te, Morgan Stark, ho un paio di compiti importanti da affidarti.»

La ragazza sollevò lo sguardo annoiato dalla mappa stellare e si concentrò su di lui, improvvisamente interessata.

«Ah sì? Credevo che McInnos ti avesse fatto desistere dall’affidarmi qualsiasi tipo di compito.»

Maya le riservò un’occhiata esasperata e sospirò pesantemente.

Malgrado non provasse troppa simpatia nei confronti di quella ragazza, non avrebbe mai osato chiedere a Joy di escluderla dai loro piani.

Morgan era intelligente e molto coraggiosa: si sarebbe rivelata di certo un grande aiuto.

«Allora, cosa vuoi che faccia, Abracadabra?», lo apostrofò la ragazza con un sorriso ironico.

Sia Maya che Wong strinsero le labbra a quell’epiteto, ma lo Stregone Supremo non ci diede molto peso.

«Si tratta di compiti di cui vorrei parlare in privato», rispose tranquillo. «Ora, se ti va di seguirmi nel mio ufficio, ti spiegherò tutto nei dettagli.»

I due si diressero verso il suo ufficio personale e Maya aggrottò le sopracciglia, confusa.

Quali compiti necessitavano di così tanta segretezza?

«Cappa», sussurrò, non appena la porta della biblioteca si fu chiusa alle loro spalle, sfiorando con dolcezza il colletto. «Scopri quel che si stanno dicendo, per favore. Qui c’è qualcosa che non quadra.»

Il mantello le accarezzò le guance in segno d’assenso e si diresse verso la vicina finestra, scomparendo alla loro vista.

«Maya», la chiamò Connor, risvegliandola dai suoi pensieri. «Joy si è dimenticato di spiegarci come riusciremo a riconoscere le reincarnazioni delle Gemme dell’Infinito quando ci saremo separati. Voi Maestri avete i vostri poteri, ma noi no.»

Wong estrasse quindi da uno dei cassetti della sua scrivania quel che sembrava un cofanetto di legno e stoffa.

Depose lo scrigno sul tavolo e lo aprì, rivelando al suo interno cinque pesanti bracciali d’acciaio.

Al centro di ogni monile, appena sopra il polso, era incastonata una gemma trasparente che Maya riconobbe subito come un cristallo rivelatore: qualvolta uno di quei cristalli percepiva l’aura di un certo strumento o di una certa persona, assumeva un tonalità di colore scelta dall’ultimo Maestro che l’aveva utilizzata.

«Questi sono cristalli rivelatori», spiegò Wong, confermando la deduzione di Maya. «Vi basterà indossarli e, quando sarete al cospetto delle diverse reincarnazioni delle Gemme dell’infinito, si coloreranno di cinque colori diversi: verde per il Tempo, arancione per l’Anima, azzurro per lo Spazio, rosso per la Realtà e viola per il Potere. Con questi non avrete alcuna difficoltà nel riconoscere le Gemme dell’Infinito. Prendete uno dei bracciali per gruppo e indossateli. Vi chiedo per favore di trattarli con cura perché, una volta conclusa la missione, dovrete riconsegnarmi i cristalli: sono molto rari e trovarne altri così limpidi è davvero difficile.»

Athena, Valk, Greyson, Cooper e Magda si fecero avanti per prendere ognuno un bracciale.

Cooper fece per porgerlo a Maya, ma lei lo rifiutò con un sorriso.

«Non preoccuparti, riesco a percepire le auree delle Gemme dell’Infinito grazie ai miei poteri. Tienilo pure.»

L’uomo annuì e, poco dopo, indossò al polso destro il bracciale.

«Sono contento che Joy mi abbia affiancato a voi due», esordì Victor, stringendo le spalle dei due con entusiasmo.

Maya sorrise a sua volta, quando la Cappa della Levitazione rientrò dalla finestra e si avvolse intorno alle sue spalle.

Schiaffeggiò leggermente il volto della ragazza con il colletto, agitato.

«Che succede?», domandò Maya, confusa. «Non ti ho mai visto così nervosa.»

Chiuse gli occhi ed evocò l’incantesimo che il maestro Strange le aveva insegnato poco dopo aver ricevuto la sua Cappa della Levitazione: un semplice trucco per comunicare con il suo oggetto magico.

“Cos’è successo?” domandò tramite contatto mentale. “Cosa ha chiesto Joy a Morgan di tanto sconvolgente per farti tornare in questo stato?”

“Joy ha parlato a Morgan per qualche momento della faccenda di Minus Tyler, dandole il compito di reclutare il ragazzo una volta che Storm lo troverà” rispose la Cappa.

La sua voce era molto simile a quella del maestro Strange e Maya si ritrovò a sorridere, nostalgica.

“Tutto questo non mi sembra così sconvolgente” ribatté la giovane.

“Non mi hai lasciato finire, Maya”, l’interruppe la Cappa, severa. “Joy ha chiesto a Morgan di coinvolgere Maria Hill e l’intera S.H.I.E.L.D. nella difesa della Terra. Le ha dato il permesso di spifferare tutto quanto, compreso la nostra missione, le informazioni raccolte da Storm e anche i retroscena sulle vite di Paige e Greyson”.

Maya strabuzzò gli occhi, confusa e rabbiosa nel contempo.

Come si permetteva Joy di rovinare in quel modo ciò che lei e i suoi compagni avevano costruito in quei tre mesi di lavoro?

Inoltre, se la S.H.I.E.L.D. avesse scoperto che due dei suoi progetti perduti erano ora dalla loro parte, Maria Hill non avrebbe esitato un attimo a riportarli ai loro laboratori.

Riaprì gli occhi di scatto.

Si liberò dalla presa di Victor e si diresse a passo di corsa verso l’ufficio di Joy.

Giunse all’uscio dello studio con il cuore in gola.

Spalancò la porta senza troppa gentilezza, trovando Joy e Morgan immersi in una fitta conversazione.

«Maya!», la rimproverò lo Stregone Supremo seccato, scattando in piedi. «Quante volte ti ho detto di buss...»

«Oh, sta zitto, Joy!», lo interruppe furiosa, raggiungendolo in un paio di falcate.

Malgrado la ragazza fosse più bassa di lui di un paio di spanne, Joy avvertì una scossa di paura attraversargli la schiena.

Conosceva bene i poteri di Maya e, malgrado fosse sempre di buon umore, quando si arrabbiava poteva rivelarsi pericolosa quando Magda.

«Se non sbaglio, tre mesi fa, mi hai affidato la missione di reclutare più persone possibili per aiutarci nel momento in cui Vither fosse giunta sulla Terra, dico bene?», domandò, gli occhi accesi di una sinistra luce.

La sua voce, più alta di un’ottava, suonava acuta alle orecchie dello Stregone Supremo.

«Dico bene?», ripeté, impaziente.

«Sì!», rispose Joy a quel punto, più confuso che adirato.

«E non hai anche aggiunto che ogni decisione sarebbe stata presa da me?»

Lo Stregone Supremo annuì una seconda volta, sempre più preoccupato.

«Allora perché ti stai intromettendo nella mia missione?», sbottò. «Avevo specificato espressamente che la S.H.I.E.L.D. deve restare fuori dalla missione fin quando non avremo compreso come spiegare loro la situazione e, soprattutto, come proteggere Paige e Greyson. Ho promesso loro che, al momento, non avrei coinvolto Maria Hill e, nel caso l’avessi fatto, avrei chiesto la loro opinione.»

Il volto di Joy s’indurì quando realizzò che Maya aveva inviato la sua Cappa della Levitazione a spiarlo.

«Come ti sei permessa di origliare?», l’aggredì, furioso. «Questi non sono più affari solo tuoi. La S.H.I.E.L.D. possiede decine di agenti abili nel combattimento che potrebbero aiutarci nella lotta contro Vither. Ho chiesto a Morgan di metterla al corrente della situazione affinché pensi che non vogliamo ingannarla. Per guadagnarci la sua fiducia abbiamo bisogno di essere sinceri al cento per cento con lei. Questa non è forse quello in cui credi? La prossima volta che hai intenzione di spiarmi, Maya, ricordati che io sono lo Stregone Supremo e posso cacciarti da questo Santuario in qualsiasi momento. A Kamar-Taj c’è sempre bisogno di un insegnante per le reclute.»

Quella fu la goccia che fece traboccare il vaso.

«Non saresti mai diventato Stregone Supremo se il maestro Strange non fosse scomparso», sputò fuori la giovane, inviperita. «Se Wong non avesse rifiutato la carica, tu saresti un Maestro esattamente come me.»

Iracondo, Joy sollevò la mano e scagliò contro Maya un fascio d’energia dorata.

La ragazza si protesse il volto con le braccia, evocando l’intricato mandala con la funzione di scudo.

L’attacco dello Stregone Supremo scomparve in una pioggia di scintille, insieme allo scudo di Maya.

Morgan fece per alzarsi ed evocare l’armatura rosso e oro che suo fratello Victor le aveva donato, quando Maya la bloccò con un cenno.

«Cappa!», esclamò. «Adesso!»

Il mantello si sollevò dalle sue spalle e, fulmineo, si gettò su Joy, stritolandolo nel suo soffocante abbraccio di stoffa.

Lo Stregone Supremo lottò per liberarsi dalla presa dell’oggetto magico, quando Maya sollevò un braccio al soffitto, il palmo aperto rivolto verso l’alto.

Una sfera d’energia blu dalle dimensioni di un fagiolo comparve nella sua mano e la giovane la lanciò contro Joy.

La gemma di luce colpì l’uomo alla fronte: una forte scossa elettrica si propagò lungo la schiena di Joy in ogni angolo del suo corpo, mettendolo al tappeto.

Ormai inerme, la Cappa della Levitazione lo abbandonò sulla sua sedia prima di tornare dalla sua Maestra e stringersi intorno alle sue spalle.

«Che questo ti sia da lezione, Joy», sibilò. «Sei lo Stregone Supremo, eppure io e la mia semplice Cappa siamo riusciti a metterti al tappeto.»

Gli voltò le spalle e si diresse verso la porta con passo deciso.

«Ah, Morgan», si voltò di nuovo. «Non rivolgerti alla S.H.I.E.L.D., per cortesia. Sarò io a spiegare a Maria Hill la situazione quando e come avrò deciso e, soprattutto, dopo aver consultato Paige e Greyson.»

Aprì la porta e sparì nel corridoio, il cuore in subbuglio.

Malgrado le piangesse il cuore per aver trattato così male Joy, il ragazzo che considerava un fratello, quello era l’unico modo per fargli comprendere che quella missione era sua.

“Se la mia decisione dovesse rivelarsi sbagliata”, rifletté, “non esiterò un attimo a confessare il mio errore e consegnare a Joy il comando della missione. Tuttavia, fino ad allora, continuerò come ho deciso. Proprio come mi hai insegnato, maestro Strange.”



Angolo dell'autore:
Salve e buona domenica!
Ed eccoci finalmente arrivati a una svolta: Joy ha deciso di dividere i nostri amici in cinque diversi gruppi con mete e compiti ben decisi.
Come avrete già immaginato, nei prossimi capitoli seguiremo le avventure dei diversi gruppi in giro per l'universo alla ricerca delle cinque Gemme rimaste!
Vi lascio quindi al prossimo capitolo!
D. S. Lock

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Capitolo 14
*** Il peso di una singola Anima ***


3 settembre 2045, 11:15 A.M.,
New Asgard,
Scozia.


Connor strinse la mano di Maya con riconoscenza.

«Grazie per averci condotti a New Asgard con il tuo portale. Senza di te, avremo impiegato giorni per arrivare qui da New York.»

Maya scosse il capo con un sorriso.

«Non è nulla, Connor. Buona fortuna con la vostra missione», augurò loro. «Quando avremo terminato con la nostra missione, torneremo a prendervi.»

Alle sue spalle, sia Cooper che Victor, avvolto nella sua armatura nei toni dell’argento e del blu, assentirono.

«Buona fortuna anche a voi», replicò Connor con un sorriso, sollevando il polso dov’era sistemata la gemma rivelatrice.

Maya estrasse quindi dalla tasca dei pantaloni un sottile anello d’acciaio riportante la sigla J.M.K.

«Tieni, in caso dovesse trovarvi in difficoltà», glielo porse con un sorriso. «Vi basterà stringerlo, pensare a me, Joy o Wong e noi accorreremo in vostro aiuto. Mi raccomando, fatene buon uso.»

Connor annuì una seconda volta e, quando allungò la mano per prendere l’anello, Paige lo anticipò.

Recuperò il monile e l’indossò all’indice, sorridendo compiaciuta.

Il figlio di Loki fece per replicare, quando Greyson intervenne.

«Paige non voleva farti un torto, Connor. Semplicemente pensa che il cristallo rivelatore sia già una grande responsabilità e ha voluto alleggerirti il carico prendendo l’anello. Non è così?»

La donna assentì con convinzione, gli occhi fissi sul ragazzo.

Poco dopo, un portale arancione si materializzò nelle vicinanze di una delle villette di New Asgard e Maya, Cooper e Victor scomparvero al suo interno.

Rimasto soli, Connor, Paige e Greyson si avviarono verso il centro della cittadina.

«Che ne dite di trovare innanzitutto Valchiria?», propose Connor, giunti nelle vicinanze del capannone dov’erano alloggiati i cavalli. «Lei è divenuta la regina di New Asgard dopo che Thor ha abbandonato il regno e potrebbe esserci d’aiuto con la nostra ricerca.»

Paige assentì, seguito a breve da Greyson.

L’asgardiano si mise quindi in cammino verso l’alta scogliera dove, leggermente discosta dalle abitazioni degli altri asgardiani, si stagliava l’abitazione della regina.

Valchiria abitava in quella casa con Esto, il suo piccolo protetto.

Connor, abituato sin da adolescente a frequentare l’abitazione della regina, considerava Esto come un fratellino.

Orfano di entrambi i genitori, Valchiria l’aveva adottato qualche mese dopo la morte di suo padre Ivar.

Con il trascorrere del tempo, Esto si era rivelato molto portato nella magia e la regina di Asgard aveva insistito affinché il giovane fosse addestrato in quell’arte.

Mentre, per quanto riguardava il combattimento corpo a corpo, era stato proprio lui a insegnare al ragazzino le basi della scherma e l’utilizzo dell’arco.

«Connor!», lo chiamò una ragazza dai lunghi capelli scuri, correndogli incontro.

«Aralia!», replicò l’uomo con un sorriso.

La donna lo raggiunse e gli gettò le braccia al collo, euforica.

Aralia era stata il suo primo amore e, nonostante lei fosse ora sposata con Nervil e i due avessero da poco avuto un’adorabile bambina di nome Sif, i due erano rimasti buoni amici.

«La regina mi ha raccontato che una giovane Maestra delle Arti Mistiche è venuta fin qui per arruolarti in una sorta di missione di salvataggio della Terra. Da allora gli allenamenti delle reclute sono duplicati e le officine dei maniscalchi sono attive giorno e notte per costruire le migliori armature per tutti gli uomini in arme. Dimmi, la situazione è davvero così grave?»

Connor si fece subito serio e una ruga di preoccupazione rigò la sua fronte.

«Mi dispiace, ma credo sia proprio così. Tuttavia, quando i tempi saranno maturi, Valchiria vi spiegherà la situazione nei dettagli. Non sta a me anticipare i tempi.»

Aralia si fece scura in volto, quando una chiara voce richiamò Connor e la sua compagnia.

I quattro sollevarono gli occhi in contemporanea, ritrovandosi dinnanzi alla regina di Asgard, avvolta nella sua tuta da combattimento grigia.

Al suo fianco si stagliavano il bianco pegaso della donna e un robusto pony nero.

Il piccolo equino era cavalcato da un bambino che Greyson osservò con curiosità: il ragazzino era magro e allampanato, con lunghi capelli scuri che incorniciavano un viso allungato dai tratti severi.

Gli occhi, grandi e di una vivida tonalità di verde smeraldo, spiccavano sul viso, accentuati da zigomi alti, un naso sottile e una bocca dalle labbra carnose.

Il ragazzino cavalcò fino a raggiungerli e balzò giù dal pony, correndo incontro a Connor.

Quest’ultimo lo sollevò fra le braccia con un volteggio e lo strinse al petto con forza.

«Esto!», esclamò con orgoglio. «Hai finalmente imparato a cavalcare!»

Il ragazzino annuì con un sorriso smagliante sulle labbra e indicò il suo destriero con un cenno del capo.

«È tutto merito di Soul», gli spiegò, pacato. «Questo piccolo è pieno di pazienza e, in breve tempo, siamo divenuti un’ottima squadra.»

Connor sorrise a sua volta e gli scompigliò con affetto i lunghi capelli scuri.

Paige strabuzzò gli occhi, sconvolta.

Connor non l’aveva notato, troppo preso da Esto, ma la gemma rivelatrice aveva mutato aspetto: il suo cristallo, da prima trasparente, aveva assunto una chiara tinta arancione.

Strattonò il braccio di Greyson con forza e indicò il bracciale.

L’amico simulò quindi un eccesso di tosse per attirare l’attenzione di Connor.

Il figlio di Loki riservò a Greyson un’occhiata incuriosita e quest’ultimo sollevò il polso, battendo un dito sul suo orologio.

Connor non poté credere ai suoi occhi.

Esto…

Era Esto la reincarnazione della Gemma dell’Anima!

«Cosa ti succede, fratellone?», domandò il ragazzino.

“Fratellone” era l’appellativo con il quale il bambino si rivolgeva a lui, dal momento che, fino a qualche mese prima, i due erano soliti trascorrere gran parte del loro tempo insieme.

Il figlio di Loki era ammutolito.

A New Asgard erano presenti decine di bambini, perché proprio Esto?

Quel piccolo aveva già tanto sofferto e trovarsi all’improvviso in quella situazione così complicata non gli avrebbe fatto di certo bene.

Greyson si piegò leggermente in avanti, in modo che i loro occhi fossero alla stessa altezza.

«Esto, il mio nome è Greyson. So che non ci conosciamo, ma sono un amico del tuo fratellone», si presentò, porgendogli la mano.

Esto studiò l’uomo per qualche istante con i suoi penetranti occhi verdi, come a volergli scrutare nell’anima.

Infine, il ragazzino gli afferrò la mano, avvolta in un guanto a mezze dita, e la strinse con forza.

Quando il ragazzino ebbe sciolto la stretta, Greyson si fece serio.

«Posso farti una domanda, Esto?», chiese. «Mi risponderai con sincerità?»

Esto aggrottò le sottili sopracciglia, confuso, ma annuì.

«Connor mi ha detto che sei molto abile nell’utilizzo della magia. Quali sono gli incantesimi in cui sei più portato?»

Gli occhi di Esto s’illuminarono.

«Sono uno dei pochi Asgardiani in grado di controllare e rubare le anime», si vantò con orgoglio. «Tuttavia, devo prestare sempre molta attenzione. Se non mi concentro a dovere, la mia stessa anima sembra risentirne e il mio maestro mi ha spiegato che rischierei persino di perdere la mia coscienza nel caso qualcosa andasse storto. Ma perché mi hai fatto questa domanda?»

«Già, Greyson Rogers, perché?», intervenne Valchiria, una mano premuta sulla spalla del ragazzino con fare protettivo.

Il suo volto, di solito bonario, era ora contratto in un’espressione severa, quasi intimidatoria.

Greyson fece per replicare, quando Paige gli strinse un braccio.

“Lascia che sia Connor a parlare con lei” segnò fulminea, utilizzando il linguaggio che i due avevano concordato durante quei lunghi anni di convivenza. “Noi complicheremmo soltanto la situazione”.

Connor prese quindi la parola, pallido come un cencio.

«Devo parlarti, Valchiria. Ti dispiacerebbe entrare in casa con me?»

La donna lo scrutò per qualche attimo, poi assentì e si diresse verso la sua abitazione, facendo cenno al ragazzo di seguirla.

Quando fu entrato nell’ampio cottage della regina, lei gli chiuse la porta alle spalle.

Gli interni, malgrado fossero trascorse alcune settimane dal giorno in cui si era trasferito al Santuario di New York, erano rimasti gli stessi: spartani, ma accoglienti.

Nel salotto, composto da una piccola saletta in cui erano presenti due poltrone argentate e un elegante tavolino da caffè, aleggiava un piacevole odore di miele dato dai dolci che la donna era solita preparare per Esto.

Connor sprofondò in una poltrona mentre Valchiria occupò con eleganza quella dirimpetto.

«Allora, cosa succede? Perché il tuo collega ha posto quella domanda a Esto?», domandò la regina. «Mi stai facendo preoccupare, Connor!»

Il ragazzo non sapeva davvero da dove iniziare, ma si fece coraggio.

«Ricordi quando Maya venne qui per la prima volta?», esordì. «Quando ci spiegò la situazione di Vither e delle reincarnazioni delle Gemme dell’Infinito?»

La donna assentì, preoccupata.

«Sì, ricordo bene che Vither si è appropriata della reincarnazione della Gemma della Mente, mentre il resto delle Gemme è ancora dispersa per l’universo. Dico bene?»

Connor si sfilò la Gemma Rivelatrice dal polso e la sistemò sul tavolino da caffè, in modo che la regina potesse vedere il colore della pietra.

Valchiria era una dei pochi sopravvissuti alla prima battaglia contro Thanos e Connor confidava che riconoscesse al volo il nesso fra la tinta arancione della Gemma dell’Anima e la spiccata potenzialità di Esto in quel campo.

Valchiria osservò la gemma per qualche attimo, poi si portò una mano tremante alle labbra, sconvolta.

«Dimmi che non è vero, Connor, ti prego», biascicò, sconvolta. «Ti scongiuro, dimmi che non è vero!»

Connor tenne gli occhi fissi sul tavolino, ma non replicò.

Un silenzio carico di tensione calò fra loro e, poco dopo, Valchiria scoppiò in lacrime.

Il ragazzo si alzò e le avvolse un braccio intorno alle spalle, nel tentativo di confortarla.

«Mi dispiace molto, Valchiria, ma Esto è davvero la reincarnazione della Gemma dell’Anima», mormorò, stringendola a sé.

Con il cuore in pezzi, Connor lasciò che si sfogasse, bagnando di lacrime la sua casacca senza maniche.

«E adesso cosa accadrà?», gli domandò dopo diversi istanti, la voce rotta.

«Dovrò portare via Esto con me al Santuario», rispose il ragazzo, senza guardarla in volto. «Le Gemme dell’Infinito vanno riunite e studiate da Wong e Valk.»

«No!», gridò Valchiria, disperata.

Si liberò dalla presa di Connor e richiamò a sé la sua spada, pronta a combattere.

«Dovrai passare sul mio cadavere prima di portare via Esto da New Asgard!», urlò.

Il ragazzo sollevò le mani in alto, in chiaro segno di resa, ma Valchiria non abbassò l’arma.

Anzi, tentò un primo affondo di spada che Connor schivò abilmente.

Fulmineo, portò la mano alla tasca della casacca, ne estrasse la penna e tolse il tappo.

La spada si materializzò nel suo palmo, scintillando grazie alla luce proveniente dalle finestre vicine.

«Valchiria, fermati!», gridò il ragazzo, parando l’arma nemica. «Non voglio farti del male!»

La regina di New Asgard ringhiò e provò un nuovo affondo, rivolto questa volta alle gambe.

Connor indietreggiò e parò l’attacco, mirando poi al suo petto.

Valchiria bloccò il suo fendente e mormorò qualcosa che Connor non riuscì a comprendere.

Subito, una scossa elettrica si propagò lungo la spada, contraendo le sue dita in dolorosi spasmi.

Connor gridò quando la spada gli cadde dalle mani, ma non si fece prendere dal panico.

Allungò la mano destra verso l’avversaria e un raggio di ghiaccio si propagò dalle sue dita, pronto ad avventarsi su Valchiria.

La regina di Asgard prese a mulinare la spada, nel tentativo di bloccare l’attacco, ma venne colpita in pieno.

L’arma le cadde quindi dalle mani, congelata e inutilizzabile.

«Arrenditi, Valchiria!», ripeté Cooper. «Prometto sul mio onore che non gli verrà fatto alcun male.»

La donna scosse il capo con forza.

Nuove lacrime correvano ora lungo le sue guance.

«Non posso permetterti di portare via il mio bambino. Ho già perso troppe cose in questi anni: la mia gente, la mia terra, Loki, Thor, Bruce…»

Connor scosse a sua volta la testa e sospirò: era giunto il momento di mettere da parte le parole e battersi.

Il suo corpo perse il suo aspetto umano, assumendo la sua forma Jotun: la sua pelle si colorò di azzurro zaffiro e i suoi occhi si tinsero di una particolare tinta rubino.

Persino i suoi capelli, corti e pettinati all’indietro, possedevano ora delle sfumature blu.

Fin da quando aveva memoria, era sempre stato in grado di assumere quella forma e, con il tempo, aveva scoperto come sfruttarla in combattimento.

Infatti, come gli aveva insegnato il suo maestro di spada e difesa, suo padre era stato asgardiano di adozione, ma apparteneva alla razza dei Jotun, i Giganti di Ghiaccio provenienti da Jotunheim.

Rapido, recuperò la sua spada e richiamò a sé uno degli incantesimi che il suo maestro gli aveva insegnato: subito, due copie del Jotun comparvero di fronte agli occhi di Valchiria.

Confusa e sconvolta, la regina di Asgard estrasse i due pugnali che portava alla cintura e tentò di colpire le tre figure.

I tre Connor sollevarono le spade nel contempo, ma Valchiria indietreggiò e conficcò il proprio pugnale nel petto dell’avversario più a sinistra.

La proiezione non fece una piega e scomparve in una piccola esplosione di luce.

Fu allora che il vero Connor ne approfittò: estrasse dalla tasca interna della casacca un coltello da lancio con l’elsa placcata in argento, si portò alle spalle della donna con un movimento fulmineo e lo lanciò.

La regina emise un grido strozzato ed ebbe appena il tempo di gettarsi a terra per schivare l’arma.

Connor si gettò quindi sulla donna e le bloccò i polsi sopra la testa, bloccandola sul parquet con il suo peso.

«Ti ho sconfitto, mia regina», annunciò allora, a un soffio dal suo volto. «Mi dispiace molto per averti fatto questo, ma devo portare Esto con me. Senza i suoi poteri, la Terra non avrebbe alcuna possibilità.»

Gli occhi della donna si colmarono di lacrime e, poco dopo, smise di lottare.

Diversi istanti trascorsero in silenzio, rotti soltanto dai singhiozzi di Valchiria.

Secondo dopo secondo, Connor avvertì il cuore andargli in frantumi, ma si costrinse a non cedere.

Esto era la chiave di tutto e non poteva arrendersi, anche per il bene della stessa New Asgard.

«Hai vinto, Connor, ora lasciami andare», s’arrese infine.

«Promettimi che lascerai che Esto venga con me», l’obbligò. «Altrimenti io non mi muovo da qui.»

Valchiria strinse i denti, ma annuì lentamente.

Connor sorrise compiaciuto e si alzò, porgendo la mano alla regina per aiutarla.

Lei lo allontanò con uno spintone, raccolse la sua spada e si diresse verso l’uscita a grosse falcate.

Il ragazzo si rialzò, riassunse il suo aspetto umano e le corse dietro.

Al di fuori dell’abitazione, Esto e Greyson si stavano affrontando in una gara di velocità.

Esto, a cavallo di Soul, correva lungo la spiaggia di New Asgard, fiancheggiato senza troppe difficoltà da Greyson.

Paige, seduta su una roccia, osservava i due con un sorriso pacato sulle labbra.

«Esto!», chiamò Valchiria.

Il bambino diede di speroni e voltò il cavallo, correndogli incontro.

Greyson lo seguì a breve distanza, un’espressione confusa in volto.

Quando li ebbe raggiunti, Valchiria sollevò il ragazzino dalla sella e lo strinse forte al petto, trattenendo a stento le lacrime.

«Che succede, mamma?», domandò Esto, confuso. «Perché piangi?»

«Nulla, piccolo, nulla», replicò con voce tremula.

Lo abbracciò ancora per un po’, beandosi del profumo di lavanda degli abiti del suo piccolo.

Quattro anni…

Quattro anni erano trascorsi dal giorno in cui aveva adottato quel tremante bambinetto pallido e timido.

L’aveva cresciuto come suo figlio ed era giunto il momento di lasciarlo andare per il bene dell’universo stesso.

Quando si separarono, la regina di New Asgard si costrinse a sorridere.

«Esto, Connor e i suoi amici sono venuti a prenderti. Trascorrerai qualche giorno con loro e vivrai al Santuario dei Maestri di New York. È per il tuo bene, piccolo», spiegò, accarezzandogli i capelli.

«Perché?», domandò il ragazzino, sconvolto. «Non mi vuoi più, mamma? Ho fatto qualcosa di male?»

Le mani di Esto ora tremavano.

«No, no!», lo tranquillizzò la donna. «Non hai fatto nulla di male, figliolo. Tuttavia, non...»

«Conosci Thanos e le Gemme dell’Infinito, Esto?», domandò Greyson, interrompendo Valchiria.

Il ragazzino si costrinse ad annuire, confuso.

«Bene, ragazzo, devi sapere che, quando gli Avengers sconfissero per la prima volta Vither, la donna che aveva recuperato le Gemme per riportare in vita Thanos, queste ultime vennero distrutte e, poco dopo, esse si reincarnarono in qualcosa d’incredibile: degli esseri viventi. In particolare, dei bambini.»

Esto si portò le mani alle labbra, pallido come un cencio.

Valchiria si piegò alla sua altezza e lo abbracciò, riservando a Greyson un’occhiata colma d’odio.

«Toccava a me spiegargli la situazione», sibilò. «Non dovevi sputargli in faccia la verità in questo modo!»

Esto allontanò da sé la madre con una spinta delicata e si asciugò il volto con un gesto stizzito della mano.

«Sono la reincarnazione della Gemma dell’Anima, vero?», dedusse. «Voi siete incaricati di riunire tutte le Gemme, dico bene?»

Il volto di Greyson si aprì in un ampio sorriso e, per un attimo, Valchiria riconobbe l’incantevole e deciso profilo di Steve Rogers.

«Sei molto intelligente, Esto», replicò. «Quello che hai intuito corrisponde esattamente alla verità. Allora ti rivolgo un’ultima domanda: ti andrebbe di aiutarci a sconfiggere Vither, una volta per tutte?»

Il ragazzino si fece subito rigido e assentì, serio.

Paige e Connor non poterono far altro che annuire, orgogliosi della reincarnazione della Gemma dell’Anima.

«Perfetto», sentenziò Connor. «Saluta tua madre come si deve e preparati a venire con noi al Santuario di New York.»

Il bambino annuì e, subito, abbracciò stretta la donna che l’aveva cresciuto, la testa appoggiata sul suo petto.

Malgrado i suoi veri genitori fossero morti qualche anno prima, Esto non ne aveva mai risentito troppo: Valchiria gli aveva fatto da madre, da padre, da migliore amica…

Mentre Valchiria accarezzava la sua schiena con le lacrime agli occhi, il ragazzino le fece una tacita promessa.

Avrebbe fatto del suo meglio per proteggere la Terra e New Asgard e tornare da lei sano e salvo.



Angolo dell'autore:
Salve!
E, in questo capitolo, facciamo finalmente la conoscenza della prima Reincarnazione, quella della Gemma dell'Anima: Esto!
Vi aspettavate fosse il figlio adottivo di Valchiria?
Vi giuro, ha pianto anche a me il cuore quando ho dovuto separarli, ma "Show must go on", giusto?
Vi lascio al prossimo capitolo, dove vedremo il gruppo composto da Pepper, Athena e Deborah alla volta della Finlandia!
D. S. Lock

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Capitolo 15
*** Il tesoro del Tempo ***


3 settembre 2045, 7:30 P.M.,
Spazio aereo internazionale.


Deborah artigliò i braccioli della poltrona imbottita in cui Pepper l’aveva fatta accomodare, tentando disperatamente di tenere a freno la sua paura.

Se solo Raptor si fosse accorto del terrore che provava in quell’attimo, non avrebbe esitato a fare la sua comparsa e distruggere il velocissimo e lussuoso jet delle Stark Industries, diretto alla capitale finlandese.

«Su, dottoressa, non essere così spaventata», la incoraggiò Pepper, seduta ai comandi.

Era stata una sua idea utilizzare il jet della sua multinazionale per raggiungere la loro destinazione finale.

Certo, Wong si era offerto volontario di condurle ad Helsinki con il suo Sling Ring, ma Pepper aveva rifiutato categoricamente.

«Non preoccuparti per noi!», l’aveva tranquillizzato Rescue. «Ho un mezzo di trasporto più che adeguato a questa situazione.»

Era stato così che Deborah e Pepper erano salite sul jet mentre Athena aveva optato per un mezzo di trasporto decisamente più “singolare”: un jet pack.

Infagottata in una tuta termica grigio cenere, munita di casco e stivali, la figlia di Thor aveva riservato a Deborah un radioso sorriso.

«Perché non sali sul jet con noi?», le aveva domandato la dottoressa, confusa. «Insomma, non credi che utilizzare quel jet pack sia pericoloso?»

Athena aveva scosso appena il capo, ma la sua espressione gioiosa non si attenuò.

«Volare non è così spaventoso per me», l’aveva tranquillizzata. «L’ho sempre fatto con papà e la sua Stormbreaker e, quando mi sono arruolata nella S.H.I.E.L.D., ho subito imparato a volare con il Jet-Pack. Non temere, non correrò rischi inutili.»

Deborah le aveva riservata un’occhiata colma di timore e Athena non aveva esitato ad afferrarle la mano e stringerla con dolcezza.

«Andrà tutto bene, Deborah, davvero», aveva ripetuto.

Gli occhi scuri della dottoressa si erano incatenati a quelli cerulei dell’agente segreto.

Poi, quando il suo sguardo era caduto sulle sottili labbra di Athena, una scossa di desiderio era corsa lungo la sua schiena.

Nonostante avesse accettato da molti anni la sua attrazione amorosa per entrambi i sessi, Deborah si era data della stupida.

“Ti sembra il momento giusto per questi ragionamenti?” aveva riflettuto, sconvolta.

«Dottoressa!», aveva gridato allora Pepper, richiamandola all’ordine. «Sbrigati, altrimenti non giungeremo a Hensinki entro sera.»

«Deborah, posso farti una domanda?», esordì Pepper impostando il pilota automatico, riportandola al presente.

«Hai per caso affrontato psicologia nel tuo corso di studio? Per il finlandese ci penso io, ma credo che quel bambino si ritroverà molto spaesato dal momento che verrà portato in America su un jet.»

Un’espressione sconvolta comparve sul volto della donna.

«Non per mancarti di rispetto, Pepper», rispose, cauta, «ma io sono un’erpetologa, un’esperta di anfibi e rettili. Non ho seguito alcun corso di psicologia.»

Pepper sollevò gli occhi al soffitto e scosse la testa, contrariata.

«In ogni caso, dottoressa, spero mi darai comunque una mano con quel bambino», borbottò, frugandosi nella tasca dei pantaloni alla ricerca di chissà cosa.

Infine, ne estrasse un minuscolo dispositivo acustico che Deborah osservò con curiosità.

«Questo è un traduttore universale», le spiegò la donna. «Indossandolo, sarai in grado di comprendere tutto ciò che i funzionari pronunceranno. Ora, indossalo.»

La dottoressa annuì e lo inserì nell’orecchio destro.

«F.R.I.D.A.Y., attiva la traduzione automatica», ordinò Pepper.

«Subito, signora Stark», rispose la voce femminile dell’intelligenza artificiale.

Deborah udì un flebile scatto prodotto dal traduttore universale.

«Perfetto, ora non ci resta che atterrare ad Helsinki e trovare la reincarnazione della Gemma del Tempo», annuì Pepper, recuperando una bottiglietta d’acqua dal frigo bar.

Il silenzio regnò per diversi istanti, quando un leggero picchiettare attirò la loro attenzione: Athena, intabarrata nella sua tuta, le stava salutando con ampi cenni delle braccia.

Il sorriso che nacque spontaneo sul volto di Deborah non sfuggì a Pepper.

La spia compì una rapida capriola in aria per poi volare lontano, spensierata.

«Odinson ti piace, vero?», affermò Pepper, maliziosa.

Deborah, intenta a bere, rischiò di strozzarsi con l’acqua.

Tossì per alcuni secondi, poi sollevò gli occhi strabuzzati sulla donna e scosse la testa con forza.

«Non mentirmi, ragazza», l’ammonì la donna. «Conosco molto bene quello sguardo. È lo stesso che Bruce Banner rivolgeva a Natasha Romanoff. Tu e Athena siete una loro copia, spero con un futuro più felice.»

Le guance della scienziata si colorarono di rosso e abbassò d’istinto lo sguardo sul pavimento in ferro del jet.

«E anche se fosse?», chiese, rivolgendosi più a se stessa che a Pepper. «Sono certa che Athena non sia interessata alle donne. Anzi, credo sia già fidanzata con quel suo collega arciere.»

L’altra scoppiò a ridere, divertita.

«Cooper Barton e Athena Odinson, davvero?», replicò. «Si vede che non hai prestato attenzione all’atteggiamento di quell’uomo. Barton è già cotto di Maya, nonostante sia quasi dieci anni più piccola di lui, a occhio e croce.»

Deborah tacque per diversi istanti, quando F.R.I.D.A.Y. prese la parola.

«Siamo giunti a destinazione. Desideri attivare il nuovo dispositivo di localizzazione?»

«Sì, grazie F.R.I.D.A.Y.»

«Diamo inizio all’operazione Time. Pilota automatico attivo.»

Poco dopo, il jet si sollevò di quota, superando di molto la soglia delle nuvole.

Dal finestrino, Deborah ammirò dall’alto la splendida vista: Helsinki, nelle prime luci del tramonto di fine estate, riluceva del fascino delle città nordiche.

La capitale, composta per lo più da basse ville dal tetto di tegole e dai colori pastello, presentava anche alcuni strutture moderne come l’enorme ruota panoramica che Deborah ammirò con il fiato sospeso.

«Mettiti comoda, dottoressa, ci vorrà un po’ prima che F.R.I.D.A.Y. analizzi tutta la città», l’avvertì Pepper.

«Come farà la tua tecnologia a localizzare la Gemma?», s’informò la giovane, curiosa.

L’altra si voltò e le rivolse uno sguardo colmo di orgoglio.

«Questa è opera di mio figlio Victor. Non conosco esattamente quale tecnologia abbia utilizzato, ma credo sfrutti il potere della Gemma Rivelatrice di Athena. Victor mi ha semplicemente spiegato che F.R.I.D.A.Y. sarebbe riuscita a trovare la reincarnazione della Gemma dell’Anima attraverso degli impulsi. Tuttavia, come ripeto, ci vorrà un po’ per controllare le quasi 700mila persone che abitano Helsinki.»



* * *


3 settembre 2045, 9:00 P.M.,
Helsinki,
Finlandia.


«Signore, ecco a voi tutti i bambini ospiti del nostro orfanotrofio», spiegò loro la monaca responsabile degli orfani ospitati in quell’edificio decadente. «Scegliete pure il piccolo che desiderate. Vi prego però di sbrigarvi, tra un’ora dovremo portare i bambini a letto.»

Athena annuì in un misto di disgusto e tristezza.

Quando Pepper aveva scoperto, con sgomento, che la reincarnazione della Gemma del Tempo viveva in un luogo tanto desolato, si era messa subito in contatto con la direttrice dell’orfanotrofio.

La donna, una bella finlandese sulla quarantina dagli occhi azzurri e i capelli biondo platino, non aveva esitato un attimo ad accettare i quasi diecimila dollari che la signora Stark le aveva offerto per portare via un bambino senza passare attraverso la lunga e tortuosa burocrazia d’adozione europea.

E ora Deborah e Athena, cinte in due eleganti tailleur, per la prima nero e per la seconda grigio, si trovavano di fronte a un’orda di bambini.

Tutti i ragazzini, macilenti e con indosso uniformi di un azzurro slavato dotate di bottoni neri, si sistemarono presto in una lunga fila, le femmine sulla destra, i maschi sulla sinistra.

Athena prese a misurare la linea di bambini a lenti passi, lo sguardo fisso sulla mezza Gemma Rivelatrice che le era rimasta.

Superò i bambini senza ottenere alcuna reazione da parte della pietra.

Raggiunse quindi le bambine e le osservò una a una con occhio critico, quando giunse dinnanzi a una ragazzina di circa sei anni.

Ossuta, dalla pelle grigiastra e alta circa un metro e trenta, la piccola presentava grandi e incavati occhi azzurri, corti capelli biondi e un nasino all’insù.

La gemma rivelatrice si scaldò, assumendo in fretta una chiara colorazione smeraldina.

«Lei», sentenziò solenne, indicando la bambina. «Vogliamo questa piccola.»

La monaca raggiunge la ragazzina a grandi falcate.

«Questa piccola si chiama Astrid», spiegò loro, afferrando il braccino esile della bambina.

Quest’ultima lottò debolmente per liberarsi dalla sua stretta.

«È una bambina molto timida e silenziosa, ma vedrete che si scioglierà subito. Le piace molto il vostro cibo, specialmente la cheesecake. Quelle poche volte che abbiamo potuto dare loro questo dolce, sono sempre stata costretta a servirla per prima.»

Deborah abbassò gli occhi al suolo, costernata.

Quella piccola le era già simpatica e promise silenziosamente che, qualsiasi cosa fosse accaduta, si sarebbe presa cura di lei.

«Potrebbe andare a preparare la valigia della bambina, per favore?», chiese Athena alla responsabile. «Ci piacerebbe trascorrere un po’ di tempo con lei da sole, prima della partenza. Sa, per spiegarle la situazione.»

La monaca non esitò ad annuire e indicò loro una piccola porta consunta, a pochi metri dalla malmessa sala comune in cui i bambini trascorrevano le loro giornate.

«Quella è la mia cella. Lì potrete parlare quanto desiderate», le invitò.

Si rivolse dunque alla bambina con voce dura.

«Astrid, va con queste signore, vogliono parlare un pochino con te. Giusto per conoscerti meglio e sapere la tua opinione sull’adozione», udì Deborah attraverso il suo traduttore, qualche secondo dopo.

Astrid scrutò le due con i suoi incavati occhi azzurri, poi dedicò loro un breve cenno del capo e le seguì, mansueta, fino alla cella della monaca.

Entrate, Athena si chiuse la porta alle spalle e si piegò sulle ginocchia per raggiungere l’altezza della piccola.

«Astrid», iniziò, parlando in finlandese. «So che può essere uno shock per te, ma noi sappiamo dei tuoi poteri.»

Deborah strabuzzò gli occhi, confusa e sorpresa nel contempo.

Athena conosceva il finlandese?

Prese appunto mentale di domandarle quando avesse imparato una lingua tanto particolare e si concentrò sulla ragazzina, in attesa di una sua reazione.

Astrid tacque, gli occhi lucidi.

Deborah si sentì molto vicina alla bambina in quel momento: sapeva bene cosa volesse dire nascondere un potere così gravoso.

«Astrid», ripeté Athena. «Non c’è bisogno di nascondere a noi i tuoi poteri. Io sono figlia di un dio e Deborah, la donna accanto a te, possiede un amico speciale che, quando si arrabbia, prende il controllo del suo corpo e la fa diventare fortissima. Detto questo, che ne dici di parlarci un po’ dei tuoi poteri? Controlli davvero lo scorrere del tempo?»

Questa volta, la bambina non nascose la sua sorpresa.

La figlia di Thor approfittò del momento per assestare il colpo finale.

«Se ci parlerai del tuo potere, piccola, ti prometto che, una volta giunte a casa nostra, a New York, ti servirò una doppia porzione di cheesecake.»

Gli occhi di Astrid si accesero di gioia quando la piccola si decise finalmente a parlare.

«Fin da quando ho memoria, possiedo la capacità di controllare il tempo», iniziò con voce tremula.

Allungò una mano in direzione del tavolo, verso il cestino di mele che faceva da centrotavola.

Subito, il palmo della sua mano s’illuminò di un bagliore smeraldino.

Mosse leggermente la mano verso destra e i frutti presero pian piano a marcire: grosse chiazze marroni comparvero sulle bucce rosse e gialle e un forte odore dolciastro si espanse nella piccola camera.

Sotto gli occhi esterrefatti delle due donne, Astrid mosse poi il palmo verso sinistra e le mele tornarono al loro stato iniziale.

«Tutto ciò è fantastico!», esclamò Deborah, entusiasta.

Astrid le rivolse un’occhiata intimorita, quando Athena intervenne, traducendo le parole della dottoressa.

A quel punto, la bambina le regalò un piccolo sorriso.

«Oltre a quello che avete appena visto, sono anche capace di creare dei piccoli loop temporali in cui intrappolare una persona. Ci ho provato con Joseph qualche anno fa per vendetta e lui ha pianto per quattro giorni consecutivi. Se mi concentro al massimo, sono persino in grado di fermare lo scorrere del tempo nel giro di qualche metro», si vantò Astrid allora, contenta di poter parlare liberamente dei suoi poteri.

La porta si spalancò, rivelando la figura della monaca.

Sul suo volto, prima gioviale, era ritratta ora un’espressione di pura rabbia.

«Tu!», gridò, rivolta alla bambina. «Quante volte ti ho detto che non devi più parlare di queste sciocchezze! Non possiedi nessuno dei poteri demoniaci che hai nominato. Nessuno, mi hai capito!»

Raggiunse Astrid con l’intento di colpirla.

La piccola chiuse gli occhi in anticipo, ormai abituata alle percosse, quando un mugghio ferino sfuggì dalle labbra di Deborah.

«Non azzardarti a toccare la bambina», ringhiò, roca.

Le sue pupille si erano ristrette, le sue iridi stavano assumendo una colorazione dorata e i muscoli, appena accennati, si stavano pian piano gonfiando.

Nessuno può toccare la bambina, nessuno…

Per la seconda volta, dal momento in cui il suo progetto era stato cancellato, Deborah e Raptor erano d’accordo.

La monaca impallidì e prese a indietreggiare verso la porta della cella.

Si trattava di un incubo...

Sì, un terribile incubo...

Inciampando nella sua stessa veste nera, la donna lottò per qualche attimo con la maniglia con mani tremanti e scomparve nel corridoio.

Fulminea, Athena raggiunse l’erpetologa e l’abbracciò con foga, poggiando la testa di lei sul suo petto.

«Calmatevi, ora, calmatevi», sussurrò dolcemente. «Raptor, hai raggiunto il tuo obbiettivo. Guarda, Astrid è al sicuro. Quella donna non l’ha toccata soltanto grazie al tuo intervento. Grazie mille.»

Raptor sembrò fare le fusa al complimento di Athena, ma non accinse a ritirarsi nel corpo di Deborah.

Astrid raggiunse le due donne e cinse entrambe in un forte abbraccio, premendosi contro i fianchi di Athena e Deborah.

Scoppiò in un pianto liberatorio, cullata dal tepore di coloro che considerava ormai le sue due mamme.

Quando si furono separate, Astrid continuò a stringere con forza il braccio di Deborah.

Si affidò totalmente all’erpetologa, nonostante fosse Athena quella in grado di parlare con lei.

«Forza, andiamo a casa. Questo posto non mi piace affatto», pronunciò la figlia di Thor, afferrando a sua volta la mano libera di Deborah.

Le tre si avviarono quindi verso l’uscita del macilento orfanotrofio.

Accanto alla porta della cella della monaca, una piccola valigia di cartone era abbandonata sul pavimento, riversa su un lato.

La consunta etichetta, presente su un lato, recitava: “Astrid Martina …”

Deborah aggrottò le sopracciglia mentre Athena raccoglieva il bagaglio.

“Questa piccola non ha un cognome” realizzò. “Che sia stata abbandonata senza neppure lasciarle un cognome fittizio?”

D’istinto, frugò nella tasca del suo completo, estraendone una penna.

Lasciò a malincuore la mano di Athena e condusse la bambina accanto alla valigia, in modo che potesse leggere ciò che stava per scrivere.

“Astrid Martina Collins-Odinson” si leggeva ora sul piccolo bagaglio di cartone.

Un’espressione gioiosa si aprì spontaneo sul volto della bambina.

Athena strinse le dita intorno a quelle di Deborah e, poco dopo, le tre uscirono dall’edificio.



* * *


3 settembre 2045, 11:30 P.M.,
Spazio aereo internazionale.


Astrid riposava serena sul piccolo divano che Pepper le aveva indicato, la sparuta valigia ai suoi piedi.

Deborah, seduta sulla poltrona dirimpetto, osservava la piccola dormire, rigida come uno stoccafisso.

Infatti, dopo tutto quel che era accaduto, Athena era crollata dalla stanchezza, la testa poggiata sulla sua spalla.

«A quanto vedo, l’incontro con Astrid si è rivelato davvero faticoso», esordì Pepper, dal sedile del pilota.

«Sì», confermò la dottoressa in un sussurro, attenta a non destare Athena.

«Devo parlarti», aggiunse poi, alzandosi lentamente per sistemarsi sul sedile del copilota.

Athena grugnì nel sonno e la testa le ciondolò sul petto.

La dottoressa si allacciò la cintura e attese che Pepper impostasse il pilota automatico.

«Su, dottoressa, parla. Hai tutta la mia attenzione», l’incalzò la donna, mentre F.R.I.D.A.Y. prendeva il controllo del jet.

Il sedile di Pepper si girò di novanta gradi, permettendole di incrociare gli occhi di Deborah.

«Puoi fare qualcosa per tutti quei bambini?», chiese la dottoressa, arrivando dritta al punto. «Quell’orfanotrofio è un inferno! I bambini sono malnutriti e, molto probabilmente, anche abusati psicologicamente. Io non possiedo né le facoltà, né i soldi, per poter tirar fuori da quel luogo tutti quei piccoli… Tu puoi fare qualcosa, vero?»

Pepper si portò la mano al mento, meditabonda, esattamente com’era solito fare Victor.

«Non posso portarli via tutti da quel posto», annunciò, infine, «ma posso finanziare l’orfanotrofio e assumere i migliori tutori e psicologi affinché aiutino quei bambini. Non temere, Deborah, quei piccoli non saranno abbandonati a loro stessi.»

La giovane assentì contenta e, quando Pepper le batté una mano sulla schiena, non poté far altro che pensare trionfalmente che la missione era compiuta.

Astrid era finalmente con loro e, fin quando avesse avuto vita, sia lei che Raptor avrebbero unito le forze per proteggere quella bambina.



* * *


3 settembre 2045, 3:00 P.M.,
Pianeta Raback.


Come anticipato da Valk e Wong, Raback era estremamente simile alla Terra.

Giunti sul pianeta grazie a uno dei portali magici generati dallo Sling Ring, Maya, Cooper e Victor erano sbucati in un’ampia pianura colma di alberi da frutto, cespugli carichi di bacche ed erba verdeggiante.

Il cielo, di un azzurro leggermente più carico di quello della Terra, era limpido.

«Questo posto è fantastico», pronunciò ammirata la ragazza, affiancata presto dai suoi compagni.

I due annuirono, concordi.

Dopo alcuni istanti di silenzio, rotto soltanto dallo sciabordio di un fiume vicino, Victor prese la parola.

«Allora, ora che facciamo?», domandò. «Come faremo a ritrovare la reincarnazione della Gemma dello Spazio?»

Maya chiuse gli occhi e ricorse all’incantesimo su cui aveva lavorato in quei giorni sotto la guida di Wong.

La Cappa della Levitazione, stretta intorno alle sue spalle, prese lentamente a sollevarla, in modo da concederle una visione più elevata.

Lentamente, una dopo l’altra, le abitazioni dei Rabackiani comparvero nella sua mente e, con esse, le anime di coloro che vi abitavano.

Giunta infine alla reggia dell’oligarchia, Maya percepì, per qualche istante, l’aura della Gemma dello Spazio.

Fu allora che avvertì una dolorosa scossa raggiungerle la testa e le forze le vennero meno.

“Una barriera protettiva”, pensò la ragazza, preoccupata, mentre la Cappa la riportava al suolo.

Maya rischiò di cadere, quando due forti braccia l’afferrarono, impedendole di battere la faccia sull’erba.

Il suo volto assunse una tonalità porpora nel momento in cui si accorse di essere atterrata sul petto marmoreo di Cooper.

«Io…ehm…mi dispiace», farfugliò, imbarazzata. «La Gemma dello Spazio è protetta da un campo energetico che mi ha colpito. Desideravo vedere a chi appartenesse quell’aura, ma non ci sono riuscita. Sono riuscita però a scoprire che si trova nella reggia in cui tiene seduta l’oligarchia che comanda questo pianeta.»

Victor si batté trionfante il pugno sul palmo aperto dell’altra mano.

«Ora non ci resta che dirigersi alla Reggia e recuperare la Gemma dello Spazio. Forza, compagnia, in marcia!»

«F.R.I.D.A.Y., presta attenzione», continuò, rivolto all’assistente presente all’interno del suo nuovo congegno: il piccolo cubo in cui era contenuto la sua armatura era ora incorporato nel suo orologio d’argento. «Resta operativa. Al primo segnale di pericolo, dovrai intervenire.»

«Affermativo, signore», concordò F.R.I.D.A.Y.

Maya sorrise dinnanzi all’entusiasmo dimostrato da Victor e fece per seguirlo, ma Cooper la tenne stretta al suo petto, facendole palpitare più forte il cuore.

«Cooper», lo chiamò, debolmente, sfiorandogli un braccio, «se non mi lasci andare, non possiamo muoverci. Victor ci lascerà indietro se non ci sbrighiamo.»

L’uomo non accinse a muoversi, gli occhi azzurro ghiaccio fissi nei suoi.

«Ti dà forse fastidio, stare così?», domandò, di punto in bianco.

«No, no», negò subito la giovane, scuotendo la testa con forza. «Non mi dispiace affatto. In realtà, è piuttosto piacevole.»

Il suo volto si accese di rosso quando la consapevolezza delle parole appena pronunciate la colpì.

Si portò le mani al viso, imbarazzata.

“Dannazione”, pensò, “cosa diamine mi è passato per la mente?”

«Davvero?», indagò Hawkeye, la voce leggermente più roca.

Le sollevò il mento con due dita, in modo che i loro occhi si incontrassero: Cooper era alto un metro e settantacinque e vi erano quindici centimetri di altezza a dividerli.

Il cuore di Maya prese a battere più forte e la ragazza si diede subito della stupida.

“Su, Maya, hai ventidue anni, sei una Maestra delle Arti Mistiche e arrossisci come una dannata ragazzina” si rimproverò. “Datti un contegno, forza!”

Tuttavia, quando Cooper si piegò leggermente in avanti, il cuore di Maya accelerò nuovamente.

“Mi sta forse per baciare?”

I loro nasi si sfiorarono e l’uomo l’attirò a sé, ponendole un braccio intorno ai fianchi.

In quell’istante, s’udì uno scrocchio di rami rotti che richiamò l’attenzione di entrambi.

Cooper lasciò andare Maya e si portò in posizione d’attacco, sfoderando la sua katana.

La giovane, accanto a lui, materializzò un ampio e complicato mandala arancione nella mano destra e una sfera d’energia nella sinistra.

«F.R.I.D.A.Y., ora», esclamò Victor e il suo corpo venne presto avvolto dalla familiare armatura nei toni dell’argento e dell’azzurro.

Con tutti i sensi all’erta, i tre attesero che il nuovo arrivato si facesse avanti.

S’udì un leggero fruscio e, fulminea, una figura si materializzò nella loro visuale.

Maya strabuzzò gli occhi, sorpresa: di fronte a loro si stagliava un’anziana donna dalla pelle scarlatta, avvolta in diversi strati di stoffa simile a lana.

Le orecchie a punta, nascoste malamente da una zazzera di capelli bianchi, fremevano.

La vecchia li scrutò con i suoi sottili occhi dall’iride gialla e sibilò qualcosa che Maya non riuscì a intendere.

«Perfetto, davvero perfetto!», esclamò la giovane Maestra delle Arti Mistiche, dandosi della stupida. «Come ho fatto a non pensarci? Siamo giunti a Raback senza neppure pensare a come comunicare con gli abitanti locali.»

«In realtà, qualcuno ci ha pensato», la contraddisse Cooper, estraendo dalla tasca dei pantaloni a stampa militare tre sottili bracciali che la ragazza riconobbe al volo: quei monili traduttori erano, senza dubbio, opera di Joy.

«Quando te li ha consegnati Joy?», domandò, incredula.

«Qualche minuto prima della nostra partenza per New Asgard. Ha aggiunto che avrebbe desiderato affidarli a te, ma era certo che non avresti accettato.»

La ragazza annuì, greve: dal momento in cui si erano scontrati, circa due mesi prima, non si erano più rivolti la parola, evitandosi persino nei corridoi.

Ora, l’anziana rabackiana li stava fissando, un’espressione sorpresa sul volto privo di naso e sopracciglia.

«Indossate i bracciali, svelti. Conosco abbastanza bene le opere di Joy per sapere che sono realizzate pensando a Magda e ai suoi poteri instabili. Quindi, per coloro che possiedono un buon equilibrio energetico, non dovrebbero provocare alcun problema», spiegò loro.

I due compagni obbedirono e Maya calzò il suo, sistemandolo accanto al pendente a forma di stella.

Subito, una voce gracchiante giunse alle sue orecchie: «Chi siete, stranieri? Cosa desiderate dalla nostra pacifica pianura?»

«Non siamo qui per farvi del male», replicò Cooper, con voce sicura.

La donna natia strabuzzò gli occhi, sorpresa dall’improvvisa risposta dell’uomo.

«Cosa desiderate allora?», ripeté. «Non abbiamo né armi, né ricchezze. Siamo un popolo pacifico che vive di caccia, raccolta, pesca e agricoltura.»

«Tutto ciò che ci occorre è una guida per la Reggia», pronunciò Maya, senza avvicinarsi per non indispettire l’anziana.

Quest’ultima scoppiò in una risata sguaiata.

«La Reggia, davvero?», sbottò. «Non sapete che nessuno può entrare in quel luogo? Dal giorno in cui quella dannata ragazzina ha cominciato a spedire in altre dimensioni i suoi servi, il palazzo è stato schermato con la magia e un intero esercito è stato sistemato in sua difesa.»

Maya aggrottò le sopracciglia, preoccupata.

La reincarnazione della Gemma dello Spazio aveva imparato a controllare i suoi poteri e, per quanto avesse inteso, ne stava facendo un uso orribile.

«Come fai a sapere queste cose?», s’informò. «Sei già stata in quel luogo?»

L’anziana annuì e assunse un’espressione nostalgica.

«Sì, prima che quella ragazzina venisse al mondo, la Reggia era aperta a tutti. Quando i suoi poteri si sono scatenati, le cose sono cambiate drasticamente: senza freni e regole, Velia è divenuta la bambina più viziata di quest’universo.»

Con un sospiro di sollievo, Maya la raggiunse e le porse la mano.

«Se ti dicessi che siamo venuti su Raback per portarla via, mi aiuteresti a raggiungere la Reggia?»

Una nuova luce si accese negli occhi della rabackiana.

«La visione di Miles», mormorò la vecchia fra sé e sé, sconvolta. «Che corrisponda davvero alla realtà?»

La ragazza le rivolse un’occhiata confusa.

Tuttavia, prima che potesse dar voce ai suoi dubbi, l’anziana riprese a parlare.

«Ditemi, da che pianeta provenite?»

«Veniamo dalla Terra, uno dei pianeti del Sistema Solare, nella via Lattea», l’anticipò Victor.

La donna assentì.

«Venite con me, terrestri. Conosco qualcuno che può aiutarvi.»



Angolo dell'autore:
Salve di nuovo!
In questo capitolo abbiamo incontrato Astrid, la reincarnazione della Gemma del Tempo.
Spero che la sua storia non vi abbia rattristato troppo...
Ma cosa sta accadendo fra Cooper e Maya?
Lo scopriremo soltanto nei prossimi capitoli.
Detto questo, vi do appuntamento a mercoledì con i prossimi aggiornamenti!
D.S.Lock

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Capitolo 16
*** Uno Spazio Ingombrante ***


3 settembre 2045, 4:14 P.M.,
Pianeta Raback.


«Siamo qui, Miles. I Terrestri di cui tanto millantavi sono finalmente arrivati», esordì la rabackiana, entrando nella minuscola capanna in cui aveva condotto Maya, Victor e Cooper.

Miles sollevò gli occhi vermigli dal piatto di foglie che aveva di fronte a sé, un bel sorriso dipinto sul viso magro.

«Venite, venite», li invitò con gentilezza. «Siate i benvenuti nella mia casa. Sapevo che sareste venuti da me, nonostante non sapessi in quale ora del giorno.»

Indicò loro i cuscini sistemati sul pavimento di terra battuta, dirimpetto al tavolino dietro al quale Miles stava lavorando.

Maya rimase in piedi, restia a fidarsi.

In fondo, non sapevano chi era quell’individuo e, soprattutto, come avesse fatto a sognarli.

«Comprendo i tuoi timori, Maya McInnos», pronunciò il rabackiano, paziente, «ma, se vi accomoderete, mi darete la possibilità di spiegarvi con calma la situazione.»

La ragazza strabuzzò gli occhi, sconvolta.

Non solo quella creatura aveva letto i suoi pensieri, ma si era rivolto a lei con il suo vero nome.

Com’era possibile?

Da Maestra delle Arti Mistiche, aveva tentato più e più volte d’imparare a leggere nelle menti altrui, ma senza alcun risultato soddisfacente.

«Non prendertela, Maya. Non si può essere impeccabili in ogni branca della magia. Tu possiedi una grande padronanza negli incantesimi fisici, nel controllo degli elementi, nella creazione di proiezioni astrali e nella lettura dei ricordi, ma lasci a desiderare nella lettura della mente. Tutti abbiamo le nostre debolezze, persino io e Joy», la rassicurava spesso Wong in quei momenti.

Con il trascorrere degli anni, Maya aveva infine lasciato perdere, concentrandosi sulle discipline in cui era più versatile.

«Sedetevi, su», li esortò Miles per l’ennesima volta. «Anche voi, Cooper e Victor.»

I tre, esterrefatti, si accomodarono sui cuscini, in attesa che il rabackiano chiarisse loro quell’enigmatica situazione.

«Perfetto, ora che siamo tutti comodi, posso iniziare», riprese l’uomo. «Il mio nome è Miles, come Sutanab vi avrà già anticipato, e possiedo alcune capacità che voi terrestri considerereste come “soprannaturali”. Tra questi miei “poteri”, vi è anche la chiaroveggenza attraverso i sogni. In poche parole, vi ho visto giungere qui in molti dei miei ultimi sogni e, per scrupolo, ho chiesto a Sutanab di tenere un occhio sulla pianura in cui, infatti, siete comparsi. Ora, vorrei porvi alcune domande. La prima è: siete davvero venuti a portare via Velia da Raback?»

«Sì», assentì Maya, decisa, «ma soltanto per il tempo necessario a salvare il nostro pianeta. Poi verrà riportata qui.»

Accanto a lei, Victor e Cooper assentirono, darle man forte.

Miles li studiò per qualche attimo, come se cercasse di leggere le loro vere intenzioni.

Infine, l’uomo assentì.

«Ottimo, la ragazzina starà lontana per qualche mese, permettendoci di riorganizzare le nostre difese. Seconda domanda: come siete giunti qui?»

«Attraverso il mio Sling Ring», fu la risposta di Maya, estraendo da una delle tasche della tunica senza maniche il suo oggetto magico. «Questo permette a noi Maestri di teletrasportarci ovunque desideriamo, a condizione di avere bene in mente il luogo in cui vogliamo comparire.»

Miles si portò una mano al mento, meditabondo.

«Molto bene», sentenziò. «Vi aiuterò a giungere alla Reggia, ma dovrete farmi un favore. Prima di tornare sulla Terra, dovrete recapitare un mio messaggio a Misanger, uno dei Saggi al comando. Siamo d’accordo?»

I tre annuirono all’unisono e un’espressione di sollievo comparve sul viso di Sutanab.

Miles vergò in fretta il suo messaggio su un pezzo di pergamena, intingendo la penna all’interno di una piccola ciotola d’inchiostro rosso che lui stesso aveva estratto da alcune bacche.

Finalmente, dopo anni di paura a causa di quella ragazzina, Raback avrebbe potuto tirare un sospiro di sollievo.



* * *



Maya si premette il cappuccio della tunica sul capo, nascondendo per bene il volto.

Victor e Cooper si erano avvolti in due mantelli con il cappuccio, donati loro da Miles.

A fare loro da guida, avvolta nei suoi molti strati di vestiti, vi era Sutanab.

«Restate dietro di me», erano state le parole della natia quando Miles le aveva chiesto di guidarli all’interno della Reggia, verso le camere di Velia. «E tenete pronte le vostre armi. Non si sa mai cosa potrebbe capitarci.»

Ora, i quattro stavano percorrendo a passo svelto gli ampi corridoio di quell’immensa magione: i pavimenti e le pareti erano realizzati entrambi in bianca pietra levigata, abbelliti da tappeti, arazzi e affreschi; affiancate alle pareti, erano posizionati, in sequenza, decine di tavolini su cui erano sistemati degli oggetti che Maya non riuscì a riconoscere e statue raffiguranti centinaia di diversi soggetti.

Le grandi finestre, dalle vetrate a mosaico, illuminavano di calda luce il corridoio.

Sulla sinistra, invece, erano posizionate centinaia di porte realizzate in legno finemente cesellato.

Sutanab li guidò verso una delle ultime camere di quell’ampio corridoio e fece loro cenno di entrare.

«Questa è la camera di Misanger, l’anziano a cui dovete consegnare la lettera di Miles. Sono sicura che, una volta che avrà letto il messaggio di Miles, vi accompagnerà agli appartamenti della Gemma dello Spazio. Io mi fermò qui. Ne approfitterò per rivedere mia sorella», si congedò.

«Grazie mille, Sutanab, e buona fortuna», le augurò Cooper, porgendole la mano.

La donna annuì, afferrò la sua mano e la strinse con forza.

«Buona fortuna anche a voi. Spero che la vostra missione si concluda nel migliore dei modi.»

Maya annuì, grata e, mentre Sutanab si allontanava verso le stanze della servitù, bussò alla porta di Misanger.

Poco dopo, la porta si aprì e un anziano comparve sulla soglia.

Come i rabackiani incontrati fino ad allora, Misanger presentava una carnagione arancione, la mancanza di naso e orecchie affilate, ma gli occhi ferini non erano vermigli, bensì azzurro elettrico.

Lunghi capelli chiarissimi ricadevano ordinati alle sue spalle, decorate da campanelli e perle di legno.

«Misanger?», domandò Maya.

«Sì, con chi ho il piacere di parlare?», confermò l’uomo, scrutandoli attentamente con i suoi grandi occhi azzurri.

La ragazza estrasse la pergamena da una delle tasche della tunica e la porse all’anziano.

Misanger percepì un piacevole odore di frutti selvatici: Miles, era stato lui a inviargli quelle persone.

Aprì impaziente la lettera e cominciò a leggere.

“Mio caro amico,
ricordi del sogno di cui ti parlai, qualche tempo fa?
Allora, mi raccomandasti di smettere di lavorare fino a tardi e, successivamente, di bere uno dei molti decotti rilassanti che mi hai inviato in queste settimane. Tuttavia, proprio oggi, i protagonisti del mio sogno si sono materializzati nella selva vicina alla mia capanna. Dopo averli interrogati, ho trovato tutte le risposte alle mie domande: la loro pelle rosea, la presenza di quella strana protuberanza accanto alle narici e le orecchie dalla forma arrotondata sono dati dal loro pianeta di appartenenza, la Terra, presente nel Sistema Solare, nella via Lattea. Dalle loro parole, ho compreso che il loro pianeta è in pericolo e necessitano di recuperare alcuni bambini che possiedono poteri straordinari, distribuiti in tutto l’universo. Uno di questi bambini è, come puoi immaginare, Velia. Ti chiedo, dunque, in nome dell’antica amicizia che ci lega, di condurre questi tre terrestri negli appartamenti di Velia, in modo che possa trascorrere con loro qualche mese terrestre. Non temere per loro, vedrai che riusciranno a dare a quella giovane una buona dose di buone maniere e modestia.
In fede, Miles”

Misanger annuì alle parole che l’amico gli aveva rivolto e fece loro cenno di entrare.

«Venite», li esortò. «Conosco una scorciatoia che conduce direttamente agli appartamenti di Velia.»

I tre, dopo essersi riservati un’occhiata dubbiosa, seguirono l’uomo all’interno.

La camera di Misanger era arredata in modo semplice, ma elegante: un letto dalle lenzuola candide, uno scrittoio, un piccolo comodino e una spaziosa libreria chiusa da ante di legno e vetro dov’erano conservate pergamene e alcuni libri rilegati in pelle.

L’anziano raggiunse il solo arazzo presente nella stanza e lo arrotolò con cura, rivelando una minuscola porta dell’altezza di Maya.

Misanger fece loro cenno di seguirlo mentre apriva la porta.

I quattro s’inoltrarono nello stretto e buio corridoio, prestando bene attenzione a dove mettevano i piedi.

L’anziano li guidò per quelli che Maya calcolò come una decina di metri, poi svoltò a destra e, dopo un altro centinaio di metri, a sinistra.

Procedettero quindi in linea retta per circa cinque minuti, quando ecco che il gruppo intravide una lama di luce filtrare da un piccolo spiraglio, situato al di sopra della sagoma di una nuova porta.

«Eccoci arrivati», sussurrò Misanger. «Questa entrata conduce direttamente alle stanze di Velia. Un avvertimento: quella ragazzina possiede il controllo dello spazio e può teletrasportarvi ovunque desideri senza alcuno sforzo. Inoltre, è molto viziata. Quindi, fate attenzione a non irritarla, altrimenti correrete il rischio di non poter tornare più indietro.»

«Non preoccuparti, Misanger», lo tranquillizzò Maya, recuperando il suo Sling Ring dorato. «Grazie a questo e ai miei poteri, sarò in grado di ritornare facilmente nella sua camera. Victor e Cooper possiedono invece un piccolo amuleto di mia costruzione che, in caso vengano trasportati in chissà quale luogo del cosmo, mi invierà la loro posizione, in modo da poterli recuperare senza eccessive difficoltà.»

Si fermò e gli rivolse un sorriso incoraggiante.

«Come puoi vedere, siamo ben organizzati.»

«Lo spero proprio, amici miei, per il vostro bene e per la fiducia che Miles ripone in voi», replicò l’anziano, battendole una mano sulla spalla.

Maya accettò con gratitudine quel gesto d’affetto.

Dal loro arrivo su quel pianeta, Misanger era il primo a dimostrare loro un po’ di umanità.

I tre si prepararono dunque a entrare in azione: il corpo di Victor venne avvolto dall’esoscheletro della Mark 85, Cooper recuperò il suo arco e la faretra colma di frecce e Maya indossò lo Sling Ring all’indice e al medio della mano sinistra.

Misanger li osservò in un misto di curiosità e ammirazione: possibile che quei tre fossero in grado di fronteggiare i poteri di Velia?

Aprì loro la porta e li invitò a entrare con un cenno del capo.

«Buona fortuna», augurò loro, mentre i tre si introducevano negli appartamenti della Gemma dello Spazio.

La camera, arredata nei toni del rosa confetto e del viola, ricordò subito a Maya la camera che sua zia Flora aveva dedicato a sua cugina Emily, allora appena venuta al mondo.

Infatti, erano presenti persino una vistosa collezione di bambole rabackiane sistemate su un basso scaffale e un piccolo tavolino rosa equipaggiato di un servizio da tè in porcellana finemente dipinta.

«Dove sarà la bambina?», si domandò ad alta voce.

La porta posta alla loro destra si aprì e una bambina paffutella dalla pelle arancione fece il suo ingresso all’interno della camera.

I lunghi capelli castani erano legati in cima alla testa in due code, mettendo in evidenza un volto grassoccio in cui luccicavano un paio di occhi cristallini.

Le labbra carnose erano messe in evidenza dalla mancanza del naso, insieme alle orecchie affilate.

La donna indossava un lungo abito rosa confetto, delle scarpette bianche cariche di lustrini e, tra i suoi capelli, splendeva un piccolo diadema tempestato di diamanti.

“Viziata?” pensò Maya, sconcertata. “Ci vorranno un miracolo per inculcare un po’ di modestia in questa ragazzina.”

Fece per rivolgersi alla reincarnazione della Gemma dello Spazio, quando Victor l’anticipò.

«Velia», esordì con voce gentile. «So che possiamo sembrare strani, ai tuoi occhi, ma noi tre proveniamo da un piccolo pianeta nel Sistema Solare chiamato Terra. Ora, siamo qui per domandare il tuo aiuto. Sappiamo che sei dotata di poteri molto particolari: sei capace di controllare lo spazio, dico bene?»

La ragazzina scrutò i tre con diffidenza, ma finì con l’annuire leggermente.

«Perfetto!», festeggiò Victor, contento di quel lieve cenno. «Ti piacerebbe aiutarci a salvare il nostro pianeta? Dovresti venire a vivere con noi per qualche tempo, ma poi ti riporteremo a casa tua sana e salva. Cosa ne pensi?»

La ragazzina frugò nella tasca del vestitino e ne estrasse un dolcetto.

«Cosa guadagno, io, dal salvataggio del vostro pianeta?», domandò, sgranocchiando la sua barretta con la bocca aperta.

«Potrai assaggiare un sacco di pietanze terrestri, visitare il nostro splendido pianeta e...», iniziò Maya, nel tentativo di invogliarla.

«No, non mi interessa», l’interruppe la bambina. «Andate via, prima che vi faccia sparire io.»

Maya digrignò i denti e trattenne a stento la rabbia.

«Velia», ritentò, sfoderando la sua smorfia più convincente. «La Terra conta circa otto miliardi di anime, fra cui tantissimi bambini e donne. Con il tuo aiuto, piccola, saremmo in grado di salvare tutte queste persone. Te lo chiedo per favore, vieni con noi sulla Terra.»

La bambina gonfiò le guance, irritata.

«No, non ho voglia di salvare il vostro stupido pianeta. Arrangiatevi!», sbottò.

Fu quella la goccia che fece traboccare il vaso.

Maya raggiunse la ragazzina e la sollevò per il bavero del vestito.

Velia prese a gridare e dimenarsi, lacrime di rabbia le correvano ora lungo le guance.

«Lasciami andare, subito!», urlò con voce stridula. «Nessuno può toccare la principessa!»

La porta si aprì e un nugolo di soldati rabackiani fece irruzione nella camera della principessa.

Maya ne contò una decina, tutti provvisti di armatura completa nei toni del grigio e del marrone, spada e daga appesi al cinturone e alabarda stretta in pugno.

Prima che la guardia di Velia potesse raggiungere la loro protetta, Victor e Cooper partirono all’attacco.

Victor si sollevò dal pavimento grazie ai propulsori dell’armatura e colpì il soldato più vicino con un pugno al volto.

Il rabackiano incassò il colpo e tentò di contrattaccare, ma il ragazzo allungò il palmo della mano nella sua direzione e gli scagliò contro uno dei suoi attacchi energetici.

Il soldato si accasciò al suolo e svenne, ustionato, mentre due nuove guardie prendevano il suo posto.

Cooper estrasse la sottile katana dal fodero che portava sulla schiena e, fulmineo, si scagliò contro la guardia che gli si era parata davanti.

Menò un primo fendente al petto ma l’avversario parò l’attacco con la sua alabarda.

L’uomo ringhiò e tentò una nuova stoccata, ingaggiando così una lotta all’ultimo colpo con il suo avversario.

Maya, invece, evocò una sfera d’energia aranciata con la mano libera da Velia e la scagliò contro il muro di soldati che si stavano avvicinando.

Colpì una donna dal mento prominente al petto e quest’ultima venne sbalzata indietro, sbattendo contro il muro.

Fu allora che Velia le sfiorò il fianco con una manina.

Maya strabuzzò gli occhi quando il suo corpo venne avvolto da una calda luce blu.

Avvertì la sensazione di sollevamento che aveva sperimentato qualche anno prima, quando Joy aveva tentato di insegnarle il teletrasporto attraverso l’uso dell’energia interiore.

«Stupida ragazzina», esclamò rabbiosa e, con l’ultima energia rimasta, lasciò cadere Velia senza troppa gentilezza e la schiaffeggiò con forza.

«Maya!», esclamarono in coro Victor e Cooper, sconvolti, mentre la giovane spariva in una pioggia di scintille azzurre.

Un piccolo oggetto di metallo cadde a terra con un tintinnio.

Uno Sling Ring dorato.


3 settembre 2045, 6:00 P.M.,
???


Maya aprì le palpebre.

Acqua, null’altro che acqua.

“Quella ragazzina mi deve odiare davvero tanto”, rifletté, lottando per trattenere nei polmoni il poco ossigeno rimasto. “Se non mi sbrigo a teletrasportarmi, finirò con il morire a causa della mancanza d’aria”.

Portò una mano in avanti, in modo da evocare un portale, quando si accorse di non indossare più il suo Sling Ring.

Nervosa, prese a frugare nelle tasche della tunica, alla ricerca dell’oggetto perduto, ma non trovò nulla.

La realtà la colpì con violenza: era bloccata in quel luogo e, se non avesse trovato dell’aria nel giro di qualche minuto, sarebbe morta asfissiata.

Avvertì il fiato venire a mancare e, d’istinto, sollevò gli occhi verso la superficie.

Forse, lassù, avrebbe potuto trovare un po’ di ossigeno.

Con le poche forze rimaste, prese a nuotare verso l’alto.

Tuttavia, più saliva, più l’acqua diventava impenetrabile, acquistando le caratteristiche di un liquido viscoso.

Lottò per continuare a salire, quando il fiato le venne meno.

Boccheggiò, disperata.

“Ed è così che termina la mia vita”, pensò miseramente, quando i polmoni cominciarono a bruciare. “Uccisa da una ragazzina viziata, senza aver neppure portato a termine la mia missione...”

Si vergognò di sé stessa.

Chiuse gli occhi e un’amara lacrima si unì all’acqua che la stava rapidamente uccidendo.

Cos’avrebbe pensato il Maestro Strange di lei?

Lui era rimasto intrappolato in una diversa dimensione per salvare l’universo da Vither, mentre lei era morta affogata solo per aver perso il suo Sling Ring.

Per lo meno, la missione sarebbe rimasta in ottime mani: quelle di Joy.

“Joy” pensò amaramente. “A lui questo non sarebbe capitato. Lui è capace di teletrasportarsi sfruttando l’energia interiore.”

L’energia interiore, ma certo!

“Devi concentrarti sul tuo corpo, Maya. Devi distribuire la tua energia in eguale misura in ogni cellula del tuo corpo. Soltanto quando avrai raggiunto un equilibrio perfetto sarai in grado di teletrasportarti”.

Erano quelle le parole che, molti anni prima, il nuovo Stregone Supremo le aveva rivolto, nel tentativo di insegnarle la tecnica.

Maya raccolse gli ultimi stralci della sua energia nel petto e, pensando solo al battito del suo cuore, lasciò che essa fluisse in ogni angolo del suo corpo.

Quando avvertì la coscienza venir meno, materializzò nella mente l’immagine della cameretta rosa di Velia.

Fu allora che il suo corpo venne avvolto da una calda luce argentea e Maya percepì l’ormai familiare sensazione di sollevamento.


3 settembre 2045, 6:04 P.M.,
Pianeta Raback.


La boccata d’aria che le entrò nei polmoni fu ciò che di più dolce Maya avesse mai percepito in vita sua.

Era riapparsa al momento giusto: furiosi, Victor e Cooper avevano eliminato le restanti guardie e Velia, ora, si ritrovava senza difese.

Alla vista della ragazza, rossa in volto, grondante d’acqua e con i capelli scuri appiccicati al volto, la bambina avvertì una scossa di paura espandersi lungo la sua schiena.

Nessuno era mai tornato dai luoghi sconosciuti in cui li spediva.

Come aveva fatto Maya a tornare, senza neppure quel suo oggetto magico?

Negli occhi scuri della Maestra brillava ora una luce sinistra.

Raggiunse la piccola con passo fermo e la schiaffeggiò con forza per la seconda volta.

Lo schiocco secco delle dita di Maya sulla guancia della reincarnazione della Gemma dello Spazio risuonò nella sala.

Victor, sconvolto, fece per intervenire, quando Cooper lo fermò, afferrandolo per il braccio.

Credeva di aver compreso quali fossero le intenzioni di Maya.

La bambina, furiosa, tentò di sbarazzarsi di nuovo della ragazza, ma la Maestra non si fece trovare impreparata: richiamò a sé uno scudo e lo pose dinnanzi a sé, in modo che Velia non potesse raggiungerla.

Con i lucciconi agli occhi e le guance in fiamme, Velia tentò più e più volte di distruggere lo scudo di Maya, ma invano.

Qualche minuto più tardi, Velia crollò sulle ginocchia e scoppiò a piangere, disperata.

«Ora comprendi un po’ come funziona il mondo, piccola», la rimproverò Maya, seria. «Sei cresciuta credendo che fossi la creatura più forte di questo universo, ma sei soltanto una bambina.»

La ragazzina gemette più forte, disperata.

A quel punto, Maya credette di aver disarmato Velia una volta per tutte, ma Velia si sollevò di scatto e corse in direzione di Cooper e Victor.

Fulminea, la Maestra delle Arti Mistiche fece cadere lo scudo, afferrò la bambina per il bavero del vestito e le sfiorò la tempia con l’indice della mano libera: quello era uno dei primi incantesimi che aveva appreso dal Maestro Strange.

Subito, la bambina emise un ferino grido di frustrazione per poi accasciarsi tra le sue braccia come un fantoccio.

«È finita, finalmente», esalò, depositando Velia fra le braccia di Victor, improvvisamente esausta.

Si portò una mano ai capelli e li tirò all’indietro, in modo da liberare il suo volto dalle ciocche grondanti.

Ancora increduli, Victor e Cooper osservarono la giovane recuperare il suo Sling Ring e farlo sparire all’interno di una tasca della tunica.

Maya raggiunse di nuovo i suoi compagni, prese un grosso respiro e raccontò loro nel dettaglio cosa le era accaduto in seguito alla sua sparizione.

«Wow!», esclamò Victor, una volta terminato il suo resoconto. «C’è qualcosa che voi Maestri non siete in grado di fare?»

Maya forzò un sorriso rassicurante, quando avvertì la terra mancarle sotto i piedi.

Cooper, pronto, le passò un braccio intorno alla vita per sostenerla.

La Maestra lo ringraziò con un cenno e allungò una mano verso Victor.

«Prendi la mia mano, Victor. Utilizzerò il teletrasporto per tornare sulla Terra», lo informò.

Iron Man afferrò con sicurezza la mano di Maya, sistemandosi il corpo di Velia su una spalla.

In quel momento, la piccola porta da cui erano entrati si aprì e il volto di Misanger fece capolino dall’uscio.

Di fronte a quella vista, il rabackiano strabuzzò gli occhi: una decina di guardie giacevano al suolo, svenute, e Velia, ripiegata sulla spalla di Victor, aveva perso conoscenza.

«Misanger», lo richiamò Maya. «Mi dispiace molto per le guardie, ma dovrebbero riprendersi nel giro di qualche giorno. Per quanto riguarda Velia, ve la restituiremo quando la Terra sarà salva.»

Il consigliere, gli occhi fissi sulle guardie, annuì lentamente.

La giovane avrebbe desiderato restare per qualche altro attimo, in modo da rassicurare Misanger, ma avvertiva di essere ormai al tracollo.

«Tenetevi stretti», avvisò, prima di raggiungere l’equilibrio energetico per potersi teletrasportare.

Quando fu pronta, focalizzò nella sua mente l’immagine della biblioteca del Santuario di New York.

Avvertì una familiare sensazione di sollevamento e lei, Victor e Cooper scomparvero.

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Capitolo 17
*** Mutevoli Realtà ***


3 settembre 2045, 3:30 P.M.,
Pianeta Warset.


Warset poteva essere considerato uno dei pianeti più particolari che Valk avesse mai visitato.

Infatti, lui e Wong erano ora sospesi al di sopra delle acque grazie all’incantesimo del suo compagno di missione.

Composto da sole acque cristalline, quel piccolo pianeta ospitava le più particolari delle creature: metamorfi, in grado di cambiare il loro corpo in qualsiasi forma desiderassero.

«Eccoci qui», esordì, rivolgendosi a Wong. «Ora, come possiamo raggiungere gli abitanti di questo pianeta senza affogare?»

L’anziano stregone, avvolto in una magnifica divisa nei toni dell’ocra e del verde, la solita cintura intrecciata a cingergli i fianchi abbondanti, teneva gli occhi fissi sull’immensa distesa d’acqua sotto di loro.

Valk attese con pazienza che il Maestro rispondesse.

Infatti, durante i giorni trascorsi al suo fianco nella ricerca delle Gemme, il ragazzo aveva compreso che Wong era un uomo di poche parole, ma molto affidabile.

Wong stese la mano sulle acque e un accecante raggio di luce bianca ne fuoriuscì, illuminando a giorno un’ampia area.

Fu allora che Valk comprese.

Dal momento che non potevano inoltrarsi sott’acqua, sarebbero stati i metamorfi a raggiungerli.

«Valk», lo richiamò Wong con la sua voce profonda. «Non appena i metaformi saranno qui, fa parlare me. In questi anni ho avuto il tempo di studiare questo pianeta nel dettaglio: sono una popolazione relativamente tranquilla, ma quando si tratta di accogliere uno sconosciuto nel loro territorio non esitano ad abbattere ciò che considerano una minaccia.»

In circostanze diverse, Valk si sarebbe ribellato a gran voce a quel divieto, ma si fidava ciecamente dell’anziano Maestro.

Nei quattro mesi trascorsi sulla Terra, il ragazzo si era accorto di come Maya, Magda e Joy considerassero Wong un punto di riferimento: pronto ad aiutarli nelle difficoltà con i suoi saggi consigli e sostenerli nelle missioni e nelle scelte più difficili.

Una creatura spuntò dalle onde, seguita a breve da una seconda.

Valk osservò ammirato quel che doveva essere l’aspetto originario dei metamorfi: un corpo snello e flessuoso, trasparente come l’acqua in cui erano immersi.

Il volto era privo di qualsivoglia caratteristica, tranne che per due piccoli fori obliqui per il naso e un singolo occhio sistemato al centro del cranio trasparente.

Le palpebre prive di ciglia si aprirono e si chiusero con lentezza prima che la metamorfosi dei due esseri si attivasse.

Pian piano, i metamorfi assunsero l’aspetto di due terrestre, un uomo e una donna.

Entrambi presentava un fisico filiforme, un’altezza elevata, capelli color menta e iridi dalla sfumatura aranciata.

Valk li riconobbe come fratelli: gli unici elementi che li differenziavano erano gli abiti e il taglio dei capelli, molto corto per la giovane e all’altezza delle spalle per il ragazzo.

La donna indossava un corto vestito nei toni del bianco e del nero costellato di pizzo, mentre l’uomo, più sportivo, era avvolto in una morbida tuta da ginnastica color mare.

Entrambi erano a pieni nudi.

«Sconosciuti!», li apostrofò la donna con voce acuta. «Chi siete? Cosa fate sul nostro pianeta?»

Wong si fece avanti.

«Proveniamo dalla Terra, un pianeta presente nel Sistema Solare, nella via Lattea. Siamo qui per incontrare il vostro sovrano e discutere con lui di un argomento molto importante. Saresti così gentili da condurci da lui?», domandò ai due, i sottili occhi scuri fissi sui due nativi.

Il ragazzo scosse il capo con forza e scoprì i denti, minaccioso.

«Non avete alcun diritto d’incontrare Vailas. Inoltre, in questo momento non ha il tempo di conferire con nessuno.»

“Quel dannato ragazzino continua a dare problemi e di certo il nostro sovrano non avrà il tempo di parlare con un grassone pelato e la sua spalla viola” percepì Wong, intrufolandosi nei pensieri dell’uomo.

Strinse le labbra, infastidito dall’epiteto che il nativo gli aveva affibbiato.

«Siamo qui per risolvere il vostro piccolo problema», annunciò. «Ora, sareste così gentili da guidarci fino al vostro sovrano o dovremo arrangiarci da soli?»

Fu allora che la donna intervenne, scrutandoli a lungo con i suoi grandi occhi arancioni.

Wong non esitò a sollevare una barriera mentale sia sui suoi pensieri, sia su quelli di Valk, sicuro che quella donna stesse cercando di penetrare nelle loro menti, in modo da comprendere le vere ragioni del loro arrivo su Warset.

«Non c’è bisogno di ricorrere alla tua magia, ragazza», la rimproverò, un sorriso di scherno accennato sulle labbra sottili.

«Non vi abbiamo raccontato una menzogna: siamo qui per parlare con il vostro sovrano. Se ci condurrete alla sua presenza, porteremo via il ragazzino che tanto temete», ripeté con pazienza.

La donna digrignò i denti e Valk portò la mano alla custodia della pistola che portava agganciata al fianco.

Tuttavia, quando la mutaforma fu sul punto di attaccare, il fratello la fermò, ponendole una mano sulla spalla.

«Sareste davvero in grado di liberarci di Kimuack?», domandò loro, curioso.

Wong annuì senza remore.

«Sì. Il nostro pianeta corre un grosso rischio al momento e solo Kimuack può aiutarci a salvarlo.»

Trascorsero alcuni istanti di silenzio, in cui il solo rumore udibile fu il mugghio delle onde del mare.

«Va bene», sospirò infine l’uomo, passandosi una mano tra i lunghi capelli. «Vi condurremo a corte. Tuttavia, dovrete arrivarci da soli. Noi non conosciamo alcun modo per i terrestri come voi di giungere in città senza affogare.»

Valk fece per intervenire, ma Wong l’anticipò.

«Non temete per noi. Fate pure strada.»

I due warsetiani si rivolsero uno sguardo, annuirono nello stesso istante e si gettarono in acqua.

Valk si voltò verso anziano Maestro delle Arti Mistiche, sconvolto.

«E ora cosa facciamo?», domandò.

Wong sollevò allora le mani sopra il capo e una barriera d’energia azzurra li avvolse, formando una bolla intorno a loro.

«Wow!», esclamò Valk, estasiato.

Il Maestro sorrise a mezze labbra e abbandonò le braccia lungo i fianchi.

Mosse poi una mano verso il basso e la bolla in cui erano avvolti s’immerse a tutta velocità nell’acqua.

Contro ogni sua previsione, Valk non si sentì sbalzato verso l’alto: il suo corpo rimase invece immobile al centro della sfera protettiva.

Evidentemente, rifletté, all’interno di quella bolla non era applicata alcuna forza della fisica.

Mentre si dirigevano rapidi verso il centro del pianeta, raggiunsero i due fratelli dai capelli verdi.

Quando li ebbero avvistati, i nativi riservarono loro un’occhiata e accelerarono la loro andatura, tallonati dalla bolla protettiva di Wong.

Valk trascorse il viaggio osservando il panorama subacqueo con occhi pieni di meraviglia: Warset ospitava una vera e propria città!

Centinaia di mutaforma nella loro forma base si muovevano indaffarati tra alti palazzi dalla forma conica, realizzati in un materiale trasparente che Valk assimilò al vetro dei terrestri.

Tuttavia, le superfici degli edifici erano costruiti in modo che gli estranei non potessero vedere ciò che accadeva all’interno.

Strane creature acquatiche molto simili a delfini terrestri, con occhi bianco latte e una lunga criniera nera che si estendeva lungo tutto il loro corpo, trasportavano carretti realizzati in legno candido e carrozze aperte condotte da un mutaforma.

Poi, il palazzo reale si aprì di fronte ai loro occhi: un’alta e affusolata struttura, bianca come la neve, si ergeva fiera sulla città come una divinità benevola.

Sulle alte torri erano presenti altri mutaforma che stringevano tra le mani delle piccole pistole, molto simili a quella di Valk.

Wong sfiorò la spalla di Valk con una mano, in modo da richiamarne l’attenzione.

«Ascoltami bene, ragazzo. Quando saremo al cospetto del re, ti chiedo di parlare solo se interpellato. Lascia che mi occupi di tutto e, nel caso dovessimo lottare, non farti scrupoli: il nostro obiettivo è recuperare il bambino e condurlo al Santuario, a qualunque costo.»

Valk corrugò la fronte in un’espressione confusa.

Wong l’aveva portato con sé solo come spalla in caso si fosse svolta un combattimento?

«Non è come credi, Valk», lo rimproverò Wong.

Il ragazzo scosse il capo con forza, ricordandosi solo in quel momento che l’anziano Maestro, al contrario di Maya, era anche in grado di leggere il pensiero altrui.

«Ti ho portato con me perché ti rispetto, ragazzo. Quando il tuo protetto è stato rapito da Vither, non ti sei pianto addosso: ti sei messo in viaggio verso la Terra per chiederci aiuto. In questo modo, ci hai permesso d’intervenire e tentare di salvare l’intero universo», continuò l’anziano Maestro.

Il ragazzo non poteva credere alle sue orecchie: Wong si era appena congratulato con lui?

«Confido che terrai queste mie parole per te. Come ben sai, ho una reputazione da mantenere, specialmente con Maya e Joy», continuò Wong.

Valk scoppiò a ridere.

Fece per rassicurarlo, quando la voce del mutaforma più vicino li chiamò.

«Siamo arrivati», annunciò loro. «Da questo momento, sarà Avias a prendersi cura di voi.»

Un minuto mutaforma li raggiunse, acquistando l’aspetto di un terrestre dalla pelle candida, basso e tarchiato.

Indossava una tunica simile a quella di Wong nei toni del blu e del nero, ma ricamata d’oro e d’argento.

Il suo volto, dai tratti marcati, sembrava appartenere a un uomo sulla cinquantina, con folte sopracciglia, un naso schiacciato e una bocca sottilissima.

I capelli, presenti appena nella parte posteriore del cranio, erano grigi e radi.

«Salve a voi, signori», pronunciò con tono servile. «E benvenuti alla reggia di Warset. Se voleste seguirmi, vi condurrò dal nostro sovrano. Sonny e Saharas mi hanno riferito che sareste in grado di risolvere il nostro piccolo “problema”. Dico bene?»

Wong annuì lentamente e Valk lo imitò, guardingo.

Malgrado quell’uomo affermasse di avere delle buone intenzioni, il giovane aveva imparato, fin da bambino, a non fidarsi a prima vista degli sconosciuti.

«Ottimo», pronunciò allora Avias. «Forza, venite con me.»

Li invitò dunque a seguirlo.

La bolla magica di Wong gli tenne dietro senza difficoltà.

Il mutaforma li condusse quindi in direzione dell’imponente ingresso della stanza: una porta dalla struttura sottile e slanciata, realizzato in materiale simile allo scuro legno d’ebano terrestre.

Sull’ingresso era intagliata una scena di battaglia fra i mutaforma e delle creature simili a polpi con dieci tentacoli, le enorme teste nascoste da strani elmi decorati da alti crini.

Gli occhi, piccoli e affilati, trasmisero a Valk una strana sensazione di disagio.

Prima che potesse domandare alla loro guida cosa rappresentasse quell’incisione, i tre erano già penetrati all’interno.

Superarono in tutta rapidità l’ampio giardino presente nelle mura, dotato di diversi tipi di piante e alberi dalle foglie blu e viola e dai frutti rossi e ramificati come coralli.

Avias li introdusse in un alto corridoio dal soffitto affrescato a motivi floreali e le pareti di roccia stuccate di rosso e blu.

Ogni pochi metri erano presenti dei piccoli tavoli di roccia su cui erano sistemati dei soprammobili dall’aria sinistra, intervallati a statue di mutaforma che, in passato, dovevano essere stati dei grandi condottieri.

«Queste statue rappresentano la dinastia Araq, quella a cui appartiene Vailas, il nostro attuale regnante. Sono stati loro a liberare noi Motex dalla minaccia degli Apolitus, le creature che avete potuto ammirare nell’intaglio presente sulle porte dell’ingresso principale», spiegò loro la guida di fronte all’espressione curiosa di Valk.

Il ragazzo lo ringraziò con un cenno del capo e i tre proseguirono, entrando in quella che Avias identificò loro come la Sala del Trono: una camera realizzata in pietra grezza, dove gli unici oggetti di mobilio, appoggiati alla grigia parete, erano due troni di legno e metallo nero, foderati di morbido tessuto rosso.

Su di essi, erano accomodati due sottili mutex.

«Miei signori», pronunciò Avias, inchinandosi ai due regnanti. «Questi due stranieri, provenienti dal pianeta Terra, sono qui per chiedervi udienza. Mi hanno riferito che possono liberarvi dal vostro piccolo “problema”. Hanno il vostro permesso di parlare?»

I due motex si sporsero dai rispettivi troni e assunsero l’aspetto di due comuni terrestri.

Una donna sulla trentina dal fisico snello e slanciato, con lunghissimi capelli biondo platino, occhi viola e labbra rosse e carnose sorrideva loro benevolmente dal trono posto sulla destra mentre un uomo dal fisico massiccio, capelli scuri come inchiostro e gelidi occhi neri li scrutava con sospetto.

Entrambi indossavano succinti completi nei toni del blu e del nero che esaltava le loro snelle figure.

Valk e Wong sostennero lo sguardo di Vailas con fermezza mentre la bolla che li aveva condotti fin lì scoppiava, tramutandosi in due piccole sfere che si avvolsero intorno ai loro visi, permettendo loro di respirare sott’acqua.

Un silenzio carico di tensione calò fra loro, quando il re fece loro cenno di parlare con una mano.

«Il vostro consigliere ha ragione, sovrani», esordì Wong, senza distogliere lo sguardo da quello di Vailas. «Il mio nome è Wong e appartengo all’ordine dei Maestri delle Arti Mistiche che, da diversi secoli, si occupa di proteggere non solo la Terra, ma l’intero universo, dalle minacce provenienti da altre dimensioni. Ora, sono certo che voi siate a conoscenza di ciò che Thanos è stato in grado di compiere quasi ventotto anni fa…»

La regina trasalì e si portò le mani alla bocca, spaventata.

Vailas allungò una mano verso di lei e le strinse un braccio per farle coraggio.

«Come la signora mi ha confermato, la figura di Thanos è ancora ben impressa nella vostra memoria. Dovete sapere che oggi, Vither, il braccio destro del Titano Pazzo, si sta dirigendo verso la Terra per recuperare le reincarnazioni delle Gemme dell’Infinito, degli innocenti bambini. Vi chiedo quindi di affidarmi il piccolo che ospitate sul vostro pianeta affinché ci aiuti a sconfiggere Vither una volta per tutte. Si chiama Kimuack, giusto?»

Il sovrano si portò una mano alla barba scura e prese ad accarezzarla con le dita, meditabondo.

Valk e Wong tennero gli occhi fissi su di lui, in trepidante attesa.

Avias, dietro di loro, non staccava lo sguardo dal pavimento di pietra.

Infine, Vailas scosse il capo con forza.

«Ciò che mi hai riferito, Maestro Terrestre, è davvero allarmante. Tuttavia, quali garanzie offri? Voglio dire, potresti essere tu stesso un complice di questa Vither di cui mi hai parlato. E, se affidandoti Kimuack, portassi il mio pianeta alla rovina?»

«Comprendo i tuoi timori, Vailas, e per questo motivo ho portato con me la persona da cui tutto è iniziato. Infatti, Valk è il custode della reincarnazione della Gemma della Mente. Purtroppo, Vither si è diretta sul suo pianeta e ha portato via il bambino prima che potesse intervenire. Ora, se la regina volesse raggiungerci.»

Wong s’interruppe e volse lo sguardo alla pallida donna ancorata al suo trono, le unghie conficcate nei braccioli di fine tessuto.

Il sovrano fece per intervenire, quando il Maestro l’anticipò.

«Ho studiato a lungo il vostro pianeta e sono rimasto particolarmente colpito dalle doti magiche della regina Fainas. Non voglio farti alcun male, mia signora, soltanto che tu legga i ricordi di Valk per accertarti che ciò che vi sto raccontando è la verità. Puoi farlo?»

Fainas negò con il capo, sconvolta e impaurita dalla richiesta di quell’uomo.

Fu allora che Valk comprese: era quello il motivo per il quale Wong aveva insistito per portarlo con sé.

La lettura dei suoi ricordi.

Lo stregone sapeva che Vailas si sarebbe rivelato un sovrano particolarmente accorto e aveva deciso di giocarsi il tutto per tutto, spingendo la regina a leggere nella mente di colui che aveva incontrato Vither di persona.

Seguendo l’istinto, Valk allungò la mano in direzione della fondina della sua pistola, la sganciò con un gesto secco e la lanciò ai piedi dell’attonita regina.

Poi, si inginocchiò e tenne le mani ben sollevate in aria, in chiaro segno di resa.

«Mia sovrana», cominciò, «so che la situazione ti spaventa, ma devi leggere tra i miei ricordi. Soltanto quando avrai visto con i tuoi occhi quello che ho affrontato io, capirai davvero quale minaccia rappresenta Vither. Per favore.»

«Adesso basta», ringhiò il re, rabbioso. «Andat...»

Fainas, pallida come un cencio, si alzò e raggiunse Valk.

Senza proferire parola, pose le dita sulla fronte dell’uomo, chiuse gli occhi e s’immerse nei suoi ricordi.

Qualche istante più tardi, la donna riaprì gli occhi di scatto, sconvolta.

Si morse le labbra a sangue e, barcollando, raggiunse il marito e gli afferrò le mani.

«Hanno ragione, Vailas, hanno ragione!», sussurrò, tremante. «Quella donna… Quella donna è un mostro! Devi affidare loro Kimuack, subito!»

Vailas riservò alla compagna un’occhiata allarmata.

«Calmati, cara, calmati», tentò di placarla. «Parliamone con tranquillità. Ora, mostrami i ricordi di Valk.»

Fainas annuì con frenesia, chiuse gli occhi e lasciò che ciò che aveva carpito dalla mente di Valk si riversasse in quella del marito.

Il viso del sovrano impallidì e si sollevò dal suo austero trono.

Raggiunse Avias con poche falcate decise e gli riservò uno sguardo duro.

«Ordina a Rykuso e Gusas di condurre Kimuack alla mia presenza. Ricordatevi di bendarlo e incatenarlo, non voglio che si ripresenti il disastro di cinque giorni fa», ordinò al sottoposto.

Quest’ultimo assentì solerte e scomparve, non prima, però, di essersi esibito in una profonda riverenza.

Rimasti soli con i due sovrani, Valk si rialzò, recuperò la sua pistola e la sistemò alla cintura.

Wong gli riservò un’occhiata ammonitrice, invitando a non commettere più atti così impulsivi.

«Posso chiedere cosa intendevi con “disastro”?», continuò poi il Maestro, rivolgendosi al re.

Vailas sospirò pesantemente.

«Kimuack è un mutex piuttosto particolare. Noi siamo in grado di mutare il nostro aspetto esteriore in base alla nostra volontà mentre quel bambino, invece, non riesce a cambiare il suo fisico, ma la realtà che lo circonda. Nessuno dei nostri dotti ha mai scoperto perché possedesse questo dono. Tuttavia, grazie alle memorie di quel giovane, adesso conosco la verità: Kimuack è la reincarnazione della Gemma della Realtà ed è giusto che venga affidato a loro.»

La porta si aprì e Avias entrò, accompagnato da due guardie e una minuta figura di bambino.

Il piccolo, nella forma originale dei mutex, portava una pesante benda a coprirgli l’occhio e leggere catene ai polsi e alle caviglie.

Fainas si portò le mani alla bocca e singhiozzò, dispiaciuta.

Wong, invece, raggiunse il ragazzino, si piegò alla sua altezza e accarezzò con delicatezza la sua guancia.

Kimuack non si ritrasse, come pensato da Vailas, ma si fece persino più vicino.

«Il mio nome, piccolo, è Wong. Provengo da un accogliente pianeta del Sistema Solare chiamato Terra e necessito del tuo aiuto per salvarlo. Sono venuto fin qui per questo motivo e il tuo re è d’accordo con me. Ti andrebbe di trascorrere un po’ di tempo sulla Terra, insieme a me e ai miei compagni?»

Il bambino restò immobile, riflettendo, per poi gettarsi tra le braccia del Maestro in un tintinnio di catene.

Sorpreso, l’uomo finì con lo stringerlo forte al petto, sussurrandogli parole incoraggianti all’orecchio, nel tentativo di calmarlo.

«Allora è deciso», esordì Vailas. «Affido ufficialmente Kimuack alle vostre cure. Nel caso dovesse accadergli qualcosa, la responsabilità ricadrà su voi due e sul vostro intero pianeta. Siamo intesi?»

Wong assentì e si sollevò in tutta la sua altezza, il bambino aggrappato alla tunica.

Accarezzò quindi con dolcezza il capo liscio di Kimuack e sussurrò qualcosa che suonò incomprensibile alle orecchie dei presenti.

Subito, le catene caddero al suolo.

Un sorriso si aprì sulle labbra del piccolo mentre si liberava della benda che copriva il suo unico occhio.

Aprì e chiuse le palpebre per abituarsi alla luce e, quando vide Wong, lo abbracciò forte.

«Mi porterai davvero via da qui?», domandò, la voce attutita dalla stoffa.

«Sì, piccolo, ti stiamo portando con noi sulla Terra», gli confermò Wong, sorridendogli.

Kimuack sollevò l’occhio su di lui e ammiccò.

Poco dopo, il pavimento intorno a loro mutò: la fredda pietra assunse l’aspetto di un verde prato colmo di fiori di ogni forma e colore.

Il soffitto, invece, si era colorato di blu e popolato di nuvole bianche e vaporose, riproducendo un sereno cielo estivo.

I troni dei sovrani erano scomparsi, sostituiti da un ampio masso e un bel ciliegio in fiore.

Vailas, Fainas, Avias e le due guardie scossero il capo con forza, pallidi come cenci.

Valk aggrottò le sopracciglia: come poteva, quella visione paradisiaca, essere causa di uno sgomento simile?

«Andatevene subito, prima che quel moccioso cambi emozione», pronunciò la guardia più vicina, Gasuas.

Il viso del piccolo si corrugò in un’espressione imbronciata e il paesaggio che li circondava s’incupì: le nuvole divennero nere, un forte vento prese a soffiare scompigliando loro i capelli e l’albero perse rapidamente tutti i suoi fiori.

Wong raggiunse in fretta il piccolo, gli afferrò il braccio con delicatezza e lo fissò nell’occhio.

«Ascoltami, piccolo. So che è molto difficile mantenere la calma, ma devi provarci. I tuoi poteri sono molto sviluppati, ma non ti hanno insegnato a controllarli nel modo corretto. Io posso insegnarti, ma ho bisogno che tu stia calmo, ora. Siamo intesi?»

Kimuack sembrò riflettere per qualche istante sulle sue parole, poi annuì e gli tese la mano.

Subito, il paesaggio riassunse i suoi caratteri paradisiaci.

Sbalorditi, i mutex osservarono Wong afferrare la mano del piccolo, stringere le dita intorno al braccio di Valk e scomparire nel nulla, diretti verso la Terra.

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Capitolo 18
*** Un sacrificio per la Potenza ***


3 settembre 2045, 4:00 P.M.,
Pianeta Pyrus.


Magda oltrepassò il passaggio energetico arancione di Joy, emozionata.

Erano trascorsi molti anni dal giorno in cui si era diretta in missione in compagnia dell’Antico e, nel profondo, non vedeva l’ora di tornare in azione.

Certo, prendersi cura di Joy, Wong e Maya riempiva la sua vita di gioia e soddisfazioni, ma qualche volta era piacevole uscire dal Santuario di New York.

Si strinse nella cappa indaco che indossava e osservò meravigliata il panorama dinnanzi ai loro occhi: Pyrus, il pianeta su cui era collocata la Gemma del Potere, non differiva molto dalla Terra, ma comprendeva bene perché fosse correlato al fuoco.

Il cielo, l’erba e persino la foresta costellata di cespugli e aghifoglie che si apriva a loro possedevano le sfumature rosse, arancioni e gialle del fuoco.

«Questo luogo è splendido!», commentò ammirata.

Joy, al suo fianco, sorrise e annuì.

Magda sospirò, sollevata: negli ultimi giorni, il ragazzo era sempre smunto e triste e vedere un accenno di felicità sul suo volto era rassicurante.

I suoi occhi erano ormai incavati e i capelli dalla sfumatura argentata, di solito pettinati in un’ordinata capigliatura, erano scompigliati.

Tutto questo a causa della discussione avuta con Maya.

Lo Stregone Supremo considerava la giovane la sua migliore amica e sapere che non lo ritenesse degno del ruolo che ricopriva l’aveva sconvolto nel profondo.

Inoltre, essere stato sconfitto così facilmente aveva aggiunto la beffa al danno: l’enorme potenziale che credeva di possedere era stato disintegrato da Maya e dalla sua Cappa.

Da quel momento, i due non si erano più rivolti la parola, malgrado tutti i suoi tentativi di farli riappacificare.

Nel frattempo, Joy chiuse gli occhi ed elevò il proprio essere, pronto a ricorrere all’incantesimo per localizzare le auree.

La sua Proiezione Astrale si sollevò sulla foresta e percorse alcune miglia, alla ricerca dei nativi del luogo.

Tuttavia, tutto ciò che vide furono alberi, arbusti ed erbe dalle sfumature rosse.

“Evidentemente”, rifletté lo Stregone Supremo “le persone non abitano questa foresta. La situazione non mi sorprende affatto: questo luogo è terribilmente inquietante con tutto questo rosso, così simile al sangue”.

Tornò nel suo corpo e sospirò pesantemente.

«Dobbiamo raggiungere un villaggio. In questo posto non c’è anima viva», si rivolse a Magda.

La donna corrugò le sopracciglia, ma annuì.

Joy sapeva il fatto suo e Magda si fidava ciecamente di lui.

Fece quindi per incamminarsi verso nord, ricordando i momenti della sua infanzia in cui suo padre, capo scout delle giovani marmotte, era solito portarla con sé.

Joy le rivolse un’occhiata confusa e Magda si fermò.

«Cosa aspetti, Joy? Non dovevamo raggiungere un villaggio?»

«Volevi arrivarci a piedi?», domandò lui con una risata.

Magda si portò le mani suoi fianchi, irritata.

Il principio di un’aura rossa comparve intorno alla donna, quando il figlio dell’Antico le posò una mano sulla spalla, nel tentativo di calmarla.

«Ci arriveremo in volo, da degni Maestri delle Arti Mistiche quali siamo. Forza, andiamo.»

Le afferrò la mano, le raccomandò di tenersi stretta e bilanciò la sua energia interna, pronto a utilizzare la sua forza per levitare.

Magda avvertì presto i suoi piedi staccarsi dal suolo, prima il sinistro e, successivamente, il destro.

In un batter d’occhio, i due si ritrovarono a diversi metri di altezza, la foresta color sangue sotto di loro.

La donna assunse un’espressione ammirata: le era sempre piaciuto volare.

Prima al fianco dell’Antico, poi con Strange.

Qualche volta, la Cappa della Levitazione di Maya le permetteva di volare suoi grattacieli nelle notti sempre illuminate di New York.

Sollevò gli occhi al cielo: le nuvole, violacee come lividi, le apparivano così vicine da poter essere sfiorate con le dita.

Rapita, fece per allungare una mano, quando Joy accelerò di colpo l’andatura e fu costretta ad afferrare il suo braccio con entrambe le mani per non cadere.

«Mi dispiace, Magda, ma dobbiamo essere veloci. Prima troveremo la Gemma del Potere, prima torneremo al Santuario», si scusò il ragazzo ad alta voce, sovrastando il sibilo del vento nelle loro orecchie.

I due sfrecciavano ora in direzione nord, entrambi in posizione orizzontale.

Dopo quelli che le sembrarono pochi minuti, un minuscolo villaggio fece capolino fra i sottili aghifoglie: composto principalmente da un centinaio di basse e minute abitazioni di legno dal tetto ricoperto di frasche, il luogo sembrava disabitato.

Joy si fermò di colpo e aggrottò le sopracciglia, sorpreso.

“Il mio flusso magico è arrivato fin qui, ne sono certo! Perché allora non ho localizzato neppure un’aura?” rifletté.

Magda, al suo fianco, sembrava essere arrivata alla stessa conclusione: di certo era accaduto qualcosa in quel luogo.

«Questa situazione mi puzza, Joy», proferì Magda, preoccupata. «Scendiamo a controllare.»

Lo Stregone Supremo perse rapidamente quota, riportandoli con i piedi a terra.

Joy atterrò esattamente nella piazza del villaggio, intorno alla quale le capanne erano state costruite seguendo un particolare motivo a spirare.

Cestini colmi di verdura e frutta, appartenenti probabilmente alle donne del villaggio, giacevano rovesciati al suolo, come se i proprietari fossero stati costretti a fuggire in fretta e furia.

Stesso destino era toccato alle zappe e agli aratri, rovesciati su un fianco sulla poca terra coltivata.

Joy corrugò le sopracciglia e ricorse nuovamente all’incantesimo di rivelazione delle aure, questa volta concentrandosi sul villaggio disabitato.

Tuttavia, tutto ciò che riuscì a carpire fu l’anima di Magda e il suo enorme potenziale magico.

Fu allora che qualcosa si mosse nella foresta.

Magda trasalì e sollevò le braccia, evocando uno scudo protettivo di luce color arancio.

Joy tornò alla realtà in un istante, pronto ad accogliere la minaccia proveniente dal folto della selva: doveva trattarsi senza dubbio di un animale, le uniche creature a possedere auree tanto deboli da non poter essere localizzate.

Si portò in posizione di combattimento, quand’ecco che una creatura fuoriuscì dalla vegetazione: un essere dal corpo affusolato, simile a quello di un lupo, ricoperto di pelo castano, dai muscoli scattanti e dal muso colmo di zanne affilate lunghe un mignolo.

La coda, lunga due spanne e coperta di peli rossicci, si agitava frenetica, fendendo l’aria.

I suoi occhi, privi d’iride e pupilla, sembravano osservarli con sospetto.

Joy e Magda restarono immobili, tesi, in attesa di una reazione della creatura.

Quest’ultima sollevò il muso, annusò l’aria con il tartufo umido e guaì.

Subito, una figura si materializzò accanto al lupo: una creatura umanoide tozza, alta circa un metro e venti, con la pelle verde e grandi occhi privi d’iride.

Non indossava altro che un semplice gonnellino di foglie rosse alla vita.

Il nativo portò una mano sul capo del lupo e gli scompigliò il pelo fra le orecchie.

La creatura chiuse pigramente gli occhi per godersi quell’attimo di carezze, mugugnando soddisfatto.

Un filo di saliva sfuggì dalle sue fauci, cadendo sul pavimento di foglie.

Magda trasalì quando la vegetazione prese a corrodersi con un crepitio sommesso.

Da che inferno proveniva quella creatura?

«Siete qui per la Gemma del Potere, dico bene?», domandò loro il nativo, senza però muovere le labbra livide.

Joy rabbrividì, ma si costrinse ad annuire.

Malgrado il nativo e il suo animale gli trasmettessero una macabra sensazione di pericolo, era necessario andare avanti.

«Mi dispiace, ma non possiamo consegnarvi Drasta. Andatevene, perdete solo tempo restando sul nostro pianeta», annunciò loro l’essere, impassibile come una statua.

Joy avvertì il cuore fermarsi nel suo petto.

Tutta la fatica compiuta fino ad allora, le missioni affidate ai suoi compagni…

Come avrebbero potuto sconfiggere Vither con a disposizione solo quattro delle sei Gemme dell’Infinito?

Magda, al suo fianco, era impallidita di dispiacere e preoccupazione.

L’unica missione che le era stata affidata dalla scomparsa di Strange si sarebbe conclusa con un completo insuccesso.

«Temete che non vi riporteremo la bambina? Avete la mia parola d’onore: non appena Vither sarà sconfitta, vi restituiremo Drasta senza attendere un solo giorno. Per favore, è necessario che la vostra Gemma venga con noi sulla Terra», implorò Joy.

Il nativo scosse il capo con forza.

«Non è questione di fiducia, Stregone Supremo. Se vi concedessimo la custodia di Drasta, il nostro pianeta morirebbe, nel vero senso della parola. Vi prego di andarvene e non tornare più. La nostra risposta resterà no.»

Il ragazzo aggrottò le sopracciglia, confuso.

Sapeva per certo che le Gemme dell’Infinito erano molto potenti, ma considerare la Gemma del Potere “vitale” per Pyrus non era un’esagerazione?

Il nativo sembrò comprendere i suoi dubbi.

Voltò le spalle ai due Maestri e fece loro cenno di seguirlo.

Magda e Joy lo raggiunsero con poche falcate e gli tennero dietro mentre s’inoltrava nella foresta, il segugio che gli trotterellava al fianco.

Man mano che procedevano, gli alberi che li circondavano andavarono infittendosi, tanto che i Maestri furono costretti a rallentare per non inciampare sulle numerose radici che sbucavano dal terreno.

Joy batté fra loro i pugni e due sfere d’energia comparvero, levitando, a qualche centimetro dalle due mani.

Le sfere, sfavillanti di una calda luce rossa, illuminarono loro il percorso, sempre più scuro a causa delle folte chiome degli alberi.

Trascorsi alcuni minuti di affrettato cammino, i tre giunsero in un minuscolo spiazzo ricavato dal taglio e dalla rimozione di alcuni tronchi.

Il nativo raggiunse il centro della piazzetta naturale e prese a frugare tra le foglie marce, rivelando una botola di legno nascosta nella terra.

Si piegò sulle ginocchia e batté il pugno contro la botola, riproducendo due volte la medesima combinazione di picchiettii.

Toc, toc-toc, toc.

Toc, toc-toc, toc.

Pochi istanti più tardi, la botola si aprì con uno scatto, rivelando il volto rugoso di un secondo nativo.

«Il tempo è davvero gradevole, oggi, non trovi?», domandò il nuovo arrivato.

«Non saprei», rispose la loro guida. «Trovo che un po’ di viola non stonerebbe nelle ore mattutine.»

Il più anziano annuì soddisfatto e gli fece cenno di entrare.

Joy e Magda si mossero dietro di loro, curiosi.

Il lupo, invece, gettò un piccolo guaito e sparì nella foresta, diretto chissà dove.

Il gruppo venne introdotto in un lungo e stretto corridoio, rischiarato a giorno da numerose fiaccole.

Il soffitto, sostenuto da un centinaio di impalcature per evitare possibili crolli, svettava sopra le loro teste.

«Kaminal, puoi, per favore, spiegare ai nostri ospiti terrestri perché non possiamo affidare loro Drasta? Io ho tentato, ma non sembrano fidarsi delle mie parole», domandò la guida all’anziano, indicando Magda e Joy con un cenno del capo.

Kaminal sollevò gli occhi senza iride al soffitto, raccogliendo i propri pensieri.

«Permettetemi prima di raccontarvi la storia del nostro pianeta, Pyrus», esordì. «In questo modo, riuscirete a comprendere al meglio le nostre ragioni. Più di mille anni fa, Pyrus poteva contare su un nucleo energetico, che aiutava il nostro sole a sorgere e a tramontare, permetteva lo scorrere delle acque e la crescita degli alberi e persino l’alternarsi delle nostre stagioni. Tuttavia, con il passare dei secoli, la potenza del nucleo è andata pian piano consumandosi e, circa duecentosessanta anni fa, l’ultima traccia di energia si è esaurita. Le attività del pianeta rallentarono e Pyrus fu sul punto di collassare su se stesso, quando Ronnuard si fece avanti. Ronnuard è da considerarsi una vera e propria rarità: uno dei pochi abitanti di Pyrus a possedere un’aura. Egli aveva studiato per lunghi anni su diversi pianeti e aveva appreso che le creature viventi erano dotate di una straordinaria energia interna. Basandosi sui suoi studi, Ronnuard sfruttò la sua aura come fonte di energia, sacrificandosi per riportare questo pianeta alla vita. Da quel giorno, ogni cinquant’anni, quando l’energia dell’aura si esaurisce, un nuovo eroe si immola per permettere la sopravvivenza di Pyrus. Domani, all’alba, toccherà a Drasta sacrificarsi. Quella piccola possiede una delle aure più potenti mai rivelate sul nostro pianeta. È questo il vero motivo per il quale non possiamo affidarvi la bambina.»

«Volete sacrificare una bambina per il vostro pianeta?», esalò Joy, sconvolto.

Avvertì la rabbia farsi largo nel suo cuore.

Si trattava pur sempre di una bimba di sei anni!

Ora, il gruppo era giunto dinnanzi a un ampio e semplice doppio portone in legno bianco.

«Dietro questa porta è custodito il vecchio nucleo di questo pianeta. Se lo desiderate, potete entrare a dare un’occhiata. Vi chiedo solo di non toccare nulla. Non dobbiamo assolutamente compromettere il giusto funzionamento del nucleo», li invitò Kaminal.

Magda e Joy assentirono.

L’anziano e la loro guida fecero così forza sulle maniglie e li condussero all’interno.

Una minuscola camera vuota si rivelò ai loro occhi, avvolta in un’inquietante oscurità.

Kaminal sussurrò qualcosa che Magda e Joy non riuscirono a comprendere.

Si udì un rantolo di risposta e, poco dopo, una flebile luce rossa si accese, rischiarando la stanza.

Magda batté più volte le palpebre per abituare i suoi occhi alla luce.

Infine, intravide il profilo di colui che stava illuminando il luogo con la sua energia.

Si trattava di un anziano e decrepito nativo accasciato su un trono di legno, privo di capelli e dalla pelle incartapecorita.

Indossava solamente una consunta tunica realizzata in un tessuto che rassomigliava la canapa e un monile d’argento al collo, molto più simile a un collare che a una collana.

Quell’essere appariva esausto, quasi sul punto di morte.

All’improvviso, l’uomo sollevò gli occhi opachi su di loro, li batté pigramente e accennò un sorriso sdentato.

Magda gli restituì il gesto, commossa: quell’anziano era ormai sul punto di morire, ma riusciva ancora a mostrare loro un po’ di umanità...

Il sorriso dell’anziano si trasformò presto in un accesso di tosse rauca e Kaminal si sbrigò a raggiungerlo, battendogli una mano sulla schiena.

Malgrado gli sforzi, la tosse dell’uomo non accinse a diminuire e il suo volto divenne livido.

Kaminal strabuzzò gli occhi.

«Va a prendere Drasta, Jamalas. Credo sia giunto il momento di effettuare lo scambio. In fretta! Prima che Pyrus resti senza energia», gridò, rivolgendosi alla loro guida.

Quest’ultimo annuì e uscì di corsa dalla camera.

Il cuore di Joy perse un battito: se non avesse messo in fretta a punto un piano per proteggere Drasta, avrebbero perso per sempre la possibilità di riunire le Gemme dell’Infinito.

Magda, al suo fianco, sembrava pensarla alla stessa maniera.

Il suo volto si era irrigidito e la sua mano destra aveva preso a torturarsi il mento, assumendo un atteggiamento meditabondo.

Un’idea s’insinuò nella mente della donna.

Trasalì e deglutì a vuoto un paio di volte, nervosa.

Si trattava di un azzardo, ma, forse, avrebbe potuto salvare la reincarnazione della Gemma del Potere.

Tuttavia, il prezzo da pagare sarebbe stato estremamente alto…

«Dimmi, Kaminal, un’aura umana può essere sacrificata per offrire dell’energia al vostro pianeta?», domandò.

L’ascesso di tosse del vecchio nucleo si placò un po’ e Kaminal concentrò i suoi occhi bianchi su di lei.

«Auralis», mormorò.

Subito, l’aura di Magda si rivelò in tutta la sua potenza: il suo corpo venne contornato da un’accecante luce rossa e la sua pallida pelle prese a scintillare.

Persino i suoi capelli sale e pepe e le sue iridi avevano assunto il colore del sangue.

L’anziano si portò una mano alla bocca, sconvolto.

«La tua aura è uguale a quella di Ronnuard! Forse addirittura più potente. Potrebbe dare vita al nostro pianeta per almeno un secolo, ne sono certo. Se volessi prendere il posto di Drasta come sacrificio, noi saremmo più che contenti di affidarla al tuo collega. Che ne dici?», propose allora.

Magda non ebbe bisogno di pensare: se la sua immolazione avesse permesso loro di portare Drasta sulla Terra, era più che felice di sostituirsi al precedente nucleo.

Mosse un passo verso Kaminal, quando Joy le afferrò il braccio e la trascinò accanto a sé, scuotendo la testa con forza.

«Non pensarci neppure, Magda. Troveremo un altro modo per salvare Pyrus. Tu sei troppo importante per essere sacrificata così, come un animale da macello.»

La donna batté con delicatezza una mano sul braccio dello Stregone Supremo.

«Joy», lo chiamò, pacata. «Sappiamo entrambi che non esiste una soluzione diversa. Per salvare Drasta dobbiamo offrire qualcosa in cambio e quel qualcosa sono io.»

Joy si liberò dalla sua presa con uno strattone e negò con forza con il capo.

«Perché devi essere tu il sacrificio? Tu non sei neppure in grado di controllare la tua energia. Sei troppo importante per il Santuario e i suoi abitanti. Cosa farà Maya senza di te? E Wong? A me, invece, non pensi? Anch’io ho bisogno di te!»

Lacrime salate solcarono involontariamente il volto del ragazzo.

Magda avvertì il cuore sprofondarle nel petto: era lacerante vedere il giovane che considerava un figlio piangere in quel modo.

Portò una mano al volto di Joy e lo ripulì dalle lacrime con il pollice.

«Devo essere io il sacrificio, Joy, fronteggiamo la verità. Tu sei lo Stregone Supremo, sei indispensabile per il Santuario di New York e per la missione. Perciò, ascolta con attenzione il mio ultimo desiderio: aiuta Maya ad accettare la mia decisione e, insieme, sconfiggete Vither anche per me. Lo farai, vero?»

Il Maestro fece per replicare, quando lei raggiunse Kaminal e annuì, per confermare la sua decisione.

Quest’ultimo le restituì il gesto e le prese una mano, conducendola verso il trono.

«Puoi lasciarti andare, ora. Il tuo sostituto è qui, di fronte a te», annunciò a colui che occupava già il seggio.

Il decrepito nativo accennò un sorriso esausto.

Poi, i suoi occhi si rovesciarono, le labbra screpolate si socchiusero e un filo di saliva rossa ne fuoriuscì.

Infine, il suo petto smise di muoversi, segnandone la morte.

Kaminal si piegò alla sua altezza e ne baciò la fronte con dolcezza.

In quel momento, Jamalas fece ritorno, portando con sé un’esile bambina dalla pelle verde sui sei anni, con corti e disordinati capelli rossi e occhi bianchi.

Indossava un semplice vestito di foglie e delle scarpette di pelle consunta.

«Siamo qui, Kaminal. Perdonami per il ritardo, ma Drasta era nel mezzo di un allenamento», si scusò la loro guida.

L’anziano gli fece cenno con il capo di avvicinarsi.

Dubbioso, Jamalas lo raggiunse, trascinando con sé la bambina.

«Lascia la ragazzina al terrestre. Non abbiamo più bisogno di lei!», sbottò Kaminal, afferrandogli il braccio.

Il nativo sciolse la presa sul braccio della piccola e Joy l’avvicinò a sé con delicatezza, accarezzandole i capelli per calmarla.

«Non avere paura, piccola», la rassicurò. «Non sei più tu il sacrificio.»

Il viso di Drasta s’illuminò e Joy avvertì la rabbia montargli dentro: Magda, la donna che aveva preso il posto di sua madre per così tanti anni, stava per sostituirla e quella ragazzina aveva il coraggio di rallegrarsi?

D’istinto, sollevò una mano per schiaffeggiare la piccola e cancellare quell’espressione gioiosa, quando Magda lo fulminò con lo sguardo.

La consapevolezza lo colpì come un pugno allo stomaco.

Drasta non era altro che una bambina ed era naturale che gioisse nello scoprire che qualcun altro avrebbe preso il suo terribile fardello al suo posto.

Lasciò che la piccola stringesse le esili braccia intorno ai suoi fianchi e riposasse il capo sul suo ventre, impotente dinnanzi alle azioni di Jamalas e Kaminal.

Il più giovane dei due sollevò fra le braccia il cadavere del vecchio sacrificio mentre l’anziano benediva Magda con una serie di borbottii e sibili che lo Stregone Supremo non riuscì a comprendere.

Poi, la donna fu fatta accomodare sul trono di legno e vimini.

Mentre l’anziano si piegava su di lei per incatenarla per il resto della sua vita a Pyrus, Magda sorrise con amarezza.

L’enorme energia distruttiva, che le aveva precluso il titolo di Maestra delle Arti Mistiche, le donava ora la possibilità di salvare un pianeta e concedere la salvezza di una bambina innocente.

«Che il nuovo eroe dal cuore generoso possa sostenere Pyrus per gli anni a venire. Che il suo sacrificio non sia vano. Che il suo spirito e il suo cuore possano guidare la nostra gente verso un’era prospera», invocò Kaminal ad alta voce, a pochi centimetri dal suo volto.

L’energia che le scorreva nelle vene prese lentamente a defluire, concentrandosi nel trono in cui era accomodata.

L’aura rossa tornò a contornarla e Magda entrò pian piano in un piacevole torpore, privo di pensieri e preoccupazioni.

Mentre la sua coscienza abbandonava il suo corpo, tenne gli occhi fissi su Joy.

Il giovane non poté far altro che versare tutte le sue lacrime, rimproverandosi per aver permesso che Magda si sacrificasse.

Se solo fosse stato più pronto d’idee…

Se solo avesse studiato di più…

«Hai il nostro permesso di portare con te Drasta e tenerla per tutto il tempo che desideri. Grazie alla tua amica, il nostro pianeta è al sicuro per i prossimi cento anni», pronunciò l’anziano.

Joy annuì meccanicamente, gli occhi ancora fissi sulla figura immobile di Magda.



Salve!
Ecco giunti a uno dei punti più tristi del N.A.P.: il sacrificio di Magda.
Cosa ne pensate?
Mi è dispiaciuto così tanto, ma Magda è davvero un personaggio eroico e non credo sarebbe mai riuscita a stare ferma di fronte all'immolazione di una bambina.
Detto questo, vi do appuntamento a sabato!
A presto!
D. S. Lock

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Capitolo 19
*** La famiglia Tyler ***


3 settembre 2045, 10:15 A.M.,
177A Bleecker Street,
New York City.


Storm sollevò gli occhi al soffitto, stanco, ma soddisfatto.

In seguito alla partenza dei cinque gruppi alla ricerca delle reincarnazioni delle Gemme dell’Infinito, il ragazzo si era messo sulle tracce della famiglia a cui apparteneva l’ultimo elemento presente nella lista di Maria Hill, Minus Tyler.

Il suo compito non si era rivelato affatto semplice: dopo aver controllato la posizione GPS del cellulare del ragazzo senza ricavarne alcun risultato utile, era stato costretto ad attingere al telefono del padre e, successivamente, a quello della madre.

Infine, aveva localizzato l’indirizzo della nuova abitazione dei Tyler, basandosi sul segnale del telefono del padre, Hugo.

La mappa online aveva rivelato che le coordinate appartenevano a un edificio di legno dall’aria fatiscente, localizzata su una delle poche strade asfaltate che si diramavano nel rosso deserto dell’Arizona.

Aveva inoltre cercato informazioni sulla famiglia, individuando dettagli molto interessanti sulla vita di Hugo: l’uomo, infatti, era comparso sulle scene soltanto nel 2025, vent’anni prima.

Hugo Tyler, malgrado i suoi cinquant’anni, non aveva compiuto transizioni economiche se non prima della nascita del suo primo figlio, Minus.

Sospettoso, Storm si era domandato se quella di Tyler non fosse altro che una falsa identità.

Così, dopo aver scavato un altro po’ nel passato dell’uomo senza trovare nulla, era ricorso al riconoscimento facciale sfruttando una delle foto postate sul profilo Instagram di Minus.

Quel processo aveva portato a un risultato sconvolgente: il volto di Hugo combaciava perfettamente a quello dell’agente Cannoway della S.H.I.E.L.D., morto circa vent’anni prima, vittima di un incendio perpetrato da un’organizzazione mafiosa.

A quel punto, tutto era stato chiaro: ricercato dalla mafia, Fred Cannoway aveva lasciato la S.H.I.E.L.D. e assunto una nuova identità.

In seguito, si era sposato con Sonia Iggins e, insieme, avevano avuto Minus e le due gemelle.

Evidentemente, la mafia era ora riuscita a localizzare Hugo/Fred nella sua nuova casa a Phoenix e, da bravo agente della S.H.I.E.L.D., aveva condotto la famiglia in un luogo sicuro.

Un solo quesito persisteva nella mente di Storm: quali poteri poteva mai possedere il figlio di Hugo per interessare Maria Hill?

Fino ad allora, infatti, i nomi di coloro che erano stati riportati all’interno della lista della donna si erano rivelate delle persone con capacità straordinarie.

In quel momento, qualcuno bussò frettolosamente alla porta.

«Chi è?», domandò, massaggiandosi le tempie doloranti con le dita grassocce.

Che Maya e gli altri fossero già di ritorno?

«Sono Morgan. Mio fratello e Joy mi hanno riferito che sei stato incaricato di cercare Minus Tyler. Mi chiedevo come andasse la tua ricerca. Posso entrare, adesso?», rispose una fredda voce femminile.

«Sto arrivando, un attimo», ribatté l’hacker, alzandosi dal comodo pouf.

Si diresse verso la porta e l’aprì, trovandosi di fronte il volto corrucciato di una donna sulla trentina, con grandi occhi scuri, un sottile naso ben formato, labbra sottili e lisci capelli castani tagliati all’altezza delle spalle.

Indossava una comoda t-shirt bianca, un’aderente giacca di pelle nera, jeans monotono blu e scarpe da ginnastica nere.

Storm corrugò le sopracciglia, sorpreso dal cambiamento della donna.

In quei panni così informali, incuteva decisamente meno terrore rispetto alle precedenti occasioni in cui l’aveva incontrata.

«Entra pure», la invitò, indicandole la sedia foderata di raso dirimpetto al suo pouf. «Capiti proprio nel momento giusto!»

Morgan annuì e si accomodò, incrociando le gambe e le braccia.

Storm si sistemò di nuovo sul pouf, mostrandole lo schermo del laptop dov’erano riportati tutti i dati riguardanti Hugo Tyler e la sua famiglia.

Prese a spiegarle tutto ciò che aveva scoperto durante le sue ricerche, soffermandosi su ogni passaggio.

La donna ascoltò con interesse il suo resoconto e, quando ebbe concluso, rimase in silenzio per diversi istanti, raccogliendo i propri pensieri.

Infine, prese la parola.

«Hai fatto un buon lavoro, hacker. Ora non resta che dirigerci alla baracca che hai localizzato e domandare a Minus di unirsi alla nostra causa. Forza, preparati. Io, intanto, mi procuro un mezzo che possa condurci in Arizona in poche ore», ordinò con tono di comando, estraendo il cellulare dalla tasca della giacca.

Storm scosse il capo e le fece cenno d’interrompere la chiamata.

Morgan gli riservò un’occhiata confusa, il cellulare stretto nella mano destra.

«Cosa c’è che non va?», domandò, seccata.

«Non abbiamo bisogno di alcun mezzo di trasporto», rispose Storm.

Raggiunse il tavolino da caffè posizionato accanto al letto e frugò fra le carte sistemate su di esso, estraendone infine un post-it ripiegato più volte su se stesso.

«Questo risolverà tutti i nostri problemi di movimento», le spiegò.

«Come può un pezzo di carta aiutarci a raggiungere il deserto dell’Arizona?», chiese la donna.

Il ragazzo dispiegò per bene il foglio e le mostrò il contenuto: si trattava dell’immagine di un sorridente uomo di colore sulla quarantina, con radi capelli scuri, occhi neri e profondi, naso sottile e labbra carnose.

Indossava una delle divise appartenenti ai Maestri delle Arti Mistiche nei toni del blu e del verde, accompagnate da una cintura nera stretta attorno alla vita sottile.

Sotto la foto, erano riportate tre iniziali: M.J.S.

Fece per domandare nuovamente a cosa servisse esattamente quella foto, quando un familiare portale d’energia aranciata, sprizzante scintille, comparve alle loro spalle.

Memore del primo incontro con Maya, Morgan portò una mano all’elegante orologio d’argento, dove suo fratello aveva impiantato la sua armatura.

Subito, l’uomo della foto attraversò il vortice.

Tuttavia, il suo volto era ora segnato da profonde occhiaie e il sorriso era scomparso.

Storm salutò il nuovo arrivato con un cenno e gli allungò un biglietto, scritto con le diverse calligrafie di Wong, Joy e Maya, abitanti e responsabili del Santuario di New York.

Il Maestro delle Arti Mistiche raccolse la lettera fra le dita e lesse con attenzione.

Man mano che i suoi occhi scorrevano sulla pagina, il suo voltò andò adombrandosi.

Quando ebbe concluso, restituì il foglio all’hacker e aprì un nuovo portale d’energia con un rapido movimento della mano, lungo poco più di un braccio.

Infilò la testa al suo interno e pronunciò qualcosa che né Storm, né Morgan, riuscirono a comprendere.

Poco dopo, sotto gli occhi increduli di Morgan, due portali si materializzarono nella camera e due Maestri ne fuoriuscirono: un anziano e una donna, entrambi dai tratti orientali.

Indossavano larghi pantaloni e tuniche nei toni dell’oro, stretti in vita da fusciacche nere.

«Morgan, permettimi di presentarti Michael Jeremiah Smith, il Maestro responsabile del Santuario di Londra. Quelli alle sue spalle sono il Signor Ming e la sua assistente Momoko. Sono loro a occuparsi del Santuario di Kamar-Taj e dell’allenamento delle reclute. Joy mi ha lasciato il contatto di Michael in caso avessi dovuto allontanarmi dal Santuario di New York, in modo che non rimanesse scoperto», le spiegò Storm.

Michael le riservò un sorriso amichevole, mentre il Signor Ming e Momoko s’inchinarono brevemente, in cenno di rispetto.

Scampato il pericolo, Morgan abbassò la guardia e li salutò con un cenno.

«È un piacere conoscere la figlia del grande Tony Stark. Se non fosse stato per lui, Thanos avrebbe distrutto l’intero universo», commentò il Guardiano di Londra, stringendole forte la mano.

Morgan annuì in risposta: suo padre era morto alla soglia del suo quarto compleanno e, malgrado tutti i suoi sforzi, il ricordo di Tony era ormai sbiadito nella sua memoria, cancellato dal tempo.

“Ti amo tremila.”



Quella era la sola frase pronunciata da suo padre che ricordava ancora nitidamente.

Notato lo sguardo scuro della donna, Storm si sbrigò a cambiare argomento.

Mostrò ai Maestri lo schermo del suo portatile e spiegò loro brevemente quanto scoperto.

«...E questo è tutto», concluse, «ora, vi chiedo, per favore, di accompagnarci in questo luogo, in modo da incontrare Minus Tyler e chiedergli di unirsi alla nostra causa. Posso contare su di voi?»

I tre Maestri assentirono, decisi.

Michael fece quindi un passo avanti.

«Io mi occupo di accompagnare questi due giovani in Arizona. Ming, tu e Momoko sorvegliate il Santuario fino al mio ritorno. Poi, attenderemo insieme che lo Stregone Supremo torni qui per organizzare le difese. Siete d’accordo?»

«Sì, Michael», concordò Ming, mentre l’uomo raggiungeva Storm e Morgan.

Il Maestro studiò con attenzione le coordinate riportate sullo schermo del laptop dell’hacker, poi disegnò un portale d’energia utilizzando il suo sobrio Sling Ring.

Infine, li invitò a precederlo.

Senza alcun timore, Storm attraversò il vortice, scomparendo al suo interno.

Michael segnalò a Morgan di seguire l’hacker, ma lei si ritrasse, timorosa.

«È la prima volta che viaggi con un portale magico, dico bene?», domandò.

Morgan negò, rabbiosa al solo ricordo del primo incontro con Maya.

Fu sul punto di raccontarlo all’uomo, quando quest’ultimo le afferrò una mano e s’incamminò verso il portale, conducendo con sé la giovane.

Morgan avrebbe voluto replicare, impuntarsi, ma una voce razionale, nella sua mente, le stava sussurrando che quell’uomo non le avrebbe fatto alcun male.

«Buona missione!», augurò loro Momoko, prima che attraversassero il portale.

Il deserto dell’Arizona si aprì presto ai loro occhi.

Composto per lo più da massi e sabbia, il tutto era tinto di rosso acceso e dorato.

Il punto in cui erano comparsi dava su una strada asfaltata, attraversata per lo più da camion e automezzi di ogni genere.

La baracca in cui Hugo Tyler si era rifugiato con la famiglia si stagliava a pochi metri dalla strada: si trattava di una struttura a un piano costruita interamente in legno e cemento, con tegole di terracotta sbiadite sul tetto.

Pannelli fotovoltaici erano sistemati sul retro, probabilmente l’unica fonte di energia dell’intera casa.

L’ingresso, un semplice uscio blindato dalla maniglia di ferro, sembrava essere chiuso a chiave.

«Che ne dite di bussare?», propose Storm. «Voglio dire, ci basterà incontrare Hugo e la sua famiglia e spiegare loro la situazione. Mi sembra una soluzione più che realizzabile, dal momento che veniamo in pace.»

Prima che Michael e Morgan potessero protestare, raggiunse la porta e picchiò il pugno sulla superficie di ferro.

«Fermo, Storm!», lo bloccò la donna, irritata. «Ti sembra che un ex agente della S.H.I.E.L.D. non abbia impiantato un sistema di sicurezza sull’ingresso del suo rifugio? Credi che, bussando alla porta, ci accoglierà con cordialità e affetto?»

La porta si aprì con un cigolio e una donna sulla quarantina comparve sulla soglia.

Storm la riconobbe subito come Sonia Higgins, la moglie di Hugo.

Indossava un comodo e semplice abito di cotone candido alle ginocchia, mocassini color cammello e una felpa consunta di tessuto azzurro.

Dalle ricerche compiute, Storm si era accorto che tutti i figli di Hugo Tyler assomigliavano in modo impressionante alla madre: un’alta e slanciata figura, capelli scurissimi, occhi grandi e castani, naso camuso e labbra sottili.

«Oh, degli ospiti», esordì la donna. «Volete entrare? Ho dei muffin nel forno. Mio marito non è ancora tornato, ma possiamo fare quattro chiacchiere mentre aspettiamo il suo ritorno.»

Storm accettò con un sorriso grato sotto lo sguardo allibito di Morgan.

“Quel dannato hacker conosce qualcosa che io non so su questa famiglia. Ecco perché è così tranquillo” rifletté la donna.

«Venite oppure no?», li richiamò l’hacker.

Michael si sbrigò a seguirlo, insieme a una riluttante Morgan.

La piccola sala d’ingresso si apriva su un’ampia camera che fungeva sia da salotto che da cucina: erano presenti dei fornelli a gas, un ampio acquaio, un consunto frigorifero verde mela, un tavolo da pranzo corredato di cinque sedie, un forno e un mobiletto in cui erano riposti i piatti, ma anche una poltrona rivestita di stoffa patchwork, un divano e un piccolo tavolino da caffè a tre gambe.

«Prego, accomodatevi pure», l’invitò Sonia, accennando al divano.

Si diresse verso il forno e ne estrasse una teglia di fumanti muffin al cioccolato, deponendola poi sul tavolino da caffè.

Storm si portò un dolcetto alla bocca, masticando avidamente: erano giorni che non assaporava qualcosa di così delizioso.

Morgan, invece, si trattenne dal mangiare.

In fin dei conti, Sonia Tyler era una sconosciuta: chi le assicurava che non avesse intenzione di avvelenarli?

«Non temere, Morgan Stark, questi muffin sono a posto. Erano stati preparati per le mie bambine, che adorano il cioccolato», commentò la donna, lo sguardo fisso su di lei.

La ragazza strabuzzò gli occhi, sconvolta.

Che leggere nella mente fosse il potere di Minus Tyler?

Che il giovane avesse ereditato quel potere dalla madre, anziché dal padre?

«Puoi pensarlo forte, ragazza», la riprese Sonia con una risata. «Minus ha ereditato da me tutti i suoi poteri. Tuttavia, essi non permettono soltanto di leggere i pensieri altrui. Guardate qui!»

Sonia fissò i muffin per qualche istante ed essi si sollevarono in aria, restando sospesi.

«Psicocinesi, molto interessante», ammirò Michael. «Sono pochi i Maestri delle Arti Mistiche a padroneggiare quest’arte senza un oggetto magico. È davvero straordinario che possediate questo potere senza nessun addestramento magico alle spalle.»

Sonia assentì, una scintilla di orgoglio accesa negli occhi.

Un suv nero parcheggiò dinnanzi alla baracca di legno e, poco dopo, Hugo fece il suo ingresso nell’abitazione conducendo per mano le due gemelline, Helen e Marzia.

Dietro di loro, veniva Minus, carico di sacchetti stracolmi di cibo e beni di prima necessità.

Morgan studiò con attenzione l’aspetto di Hugo: alto e ben proporzionato, l’uomo possedeva acquosi occhi azzurri, un cranio rasato, naso aquilino e labbra carnose.

“Un uomo ordinario” considerò, “se non fosse per le ricerche di Storm, penserei che Hugo non avrebbe mai il coraggio di far parte di una società come la S.H.I.E.L.D.”

«Ah, eccovi qui!», li apostrofò Sonia, raggiungendo marito e figli. «Vi presento Storm Wilson, Michael Smith e Morgan Stark. Sono qui per parlare con te, Minus.»

Il ragazzo aggrottò le folte sopracciglia scure, incuriosito e preoccupato nel contempo.

Hugo, invece, si adombrò.

«Non temere, tesoro», lo placò la donna, afferrandogli la mano. «Sono amici. Ho letto la loro mente e non c’è nulla di malvagio in loro. Forse l’hacker è un po’ troppo goloso e la ragazza troppo egocentrica, ma sono brave persone.»

Storm e Morgan storsero il naso di fronte a quelle critiche, ma tacquero.

L’uomo sembrò riflettere sulle parole di Sonia, mentre Minus li studiava da capo a piedi con i suoi profondi occhi castani.

Poi, il volto del ragazzo si aprì in un sorriso.

«Voglio ascoltarli, papà», decise, rivolto a Hugo. «Come ha detto la mamma, sono delle brave persone. Tuttavia, percepisco che qualcosa li turba. Qualcosa di molto grave.»

Un silenzio carico di tensione calò nella stanza, rotto soltanto dalle vocine di Helen e Marzia che richiamavano a gran voce l’attenzione dei genitori.

Infine, Hugo sospirò e pose la mano sulla spalla del figlio.

«Minus, sta a te decidere. So che sei un ragazzo assennato e saprai scegliere saggiamente.»

Il ragazzo lo ringraziò con un cenno del capo.

Il padre gli restituì il cenno e, dopo aver preso in braccio una delle gemelle, si avviò verso le camere più interne dell’abitazione.

Sonia lo seguì, lasciando al figlio un po’ di tranquillità per conversare con i nuovi arrivati.

Non appena la madre si fu chiusa la porta alle spalle, Minus prese la parola.

«Conosco i vostri nomi e le vostre storie, ma non sono riuscito a trovare, nelle vostre menti, informazioni molto chiare sull’argomento per cui siete qui. Quindi, vi prego di spiegarmi nel dettaglio la situazione.»

Fu Storm a prendere in mano la situazione.

«Dal momento che conosci già i nostri nomi, ti metterò al corrente di ciò che sta accadendo nell’universo. Saprai di certo cosa accadde circa ventotto anni fa con Thanos, vero?»

Minus annuì, invitandolo a continuare.

«Purtroppo, il suo braccio destro, un’aliena albina di nome Vither, è riuscita a sopravvivere e ora va alla ricerca delle Gemme per ricostruire il Guanto dell’Infinito e riportare alla vita il suo Signore e la sua armata. Il suo primo tentativo è stato sventato dagli Avengers che, per fermare Vither, hanno sacrificato loro stessi e distrutto le Gemme dell’Infinito. Da quanto Maya mi ha riferito, tutti gli Avengers sono stati spediti in una dimensione parallela che neppure i Maestri delle Arti Mistiche riescono a raggiungere. In ogni caso, Vither è di nuovo a zonzo per l’universo e si è rimessa alla ricerca delle Gemme. Tuttavia, le sei Gemme dell’Infinito si sono reincarnate in delle creature viventi, esattamente dei bambini. Uno di loro, la reincarnazione della Gemma della Mente, è già stato rapito da quella donna. Gli altri cinque, invece, se siamo fortunati, sono già nelle nostre mani. In questo modo, potremmo attirare Vither sulla Terra e fermarla una volta per tutte. Ed è questo il motivo per cui siamo qui: cerchiamo anche il tuo aiuto per sconfiggere Vither. Dimmi, ti andrebbe di unirti a noi?»

Il ragazzo sembrava dubbioso.

Possibile che stessero raccontando la verità?

Fu allora che Michael si alzò e lo raggiunse con calma, ponendo un dito sulla sua fronte.

Minus strabuzzò gli occhi dinnanzi alla visione che Valk aveva mostrato a Maya e Joy quasi cinque mesi prima, durante il loro primo incontro.

Quando il flashback si fu concluso, il giovane boccheggiò, pallido come un cencio.

«Quella che mi hai mostrato è lei? È Vither?», domandò con un filo di voce.

Il Maestro delle Arti Mistiche annuì, il volto adombrato dalla preoccupazione.

«Ecco perché è necessario mettere un freno a quella donna», intervenne Storm. «Vorresti aiutarci?»

In quell’attimo, Minus capì di non potersi tirare indietro: malgrado avesse paura, doveva lottare.

Lottare per proteggere la sua famiglia.

Lottare per difendere la Terra.

Non avrebbe permesso a Vither di fare del male a quei bambini.

Se le sue sorelline si fossero trovate nella stessa situazione, come si sarebbe sentito?

Si sollevò, determinato, e raggiunse Storm per porgergli la mano.

«Sono pronto! Da dove iniziamo?»

L’hacker afferrò la mano che l’altro gli aveva porto e la strinse con rispetto: la missione che Maya gli aveva affidato era finalmente compiuta!



Angolo dell'autore:
Ciao a tutti!
Ed ecco reclutato anche l'ultimo componente del N.A.P.: Minus Tyler!
Non c'è poi così tanta azione in questo capitolo, ma prometto di rifarmi con i prossimi capitoli!
Detto questo, vi lascio al prossimo capitolo!
D. S. Lock

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Capitolo 20
*** Rilevazioni ***


3 settembre 2045, 6:30 P.M.,
177A Bleecker Street,
New York City.


Maya, Cooper e Victor comparvero nella familiare e accogliente biblioteca del Santuario di New York.

Subito, la ragazza crollò sulla poltrona più vicina, esausta.

La Cappa della Levitazione si sollevò allora dalle sue spalle e levitò verso il corridoio.

«Dove sta andando?», domandò Victor, incuriosito.

«Al bagno, a darsi una ripulita», rispose la ragazza, massaggiandosi stancamente le tempie. «La mia Cappa possiede una personalità piuttosto schizzinosa. Non sopporta né bagnarsi, né sporcarsi.»

In quel momento, avvertì un segnale di richiamo raggiungere la sua mente.

Evidentemente, Connor, Greyson e Paige avevano concluso la loro missione e necessitavano del suo aiuto per tornare al Santuario.

Si sollevò sulle gambe malferme e avvertì la stanza vorticarle intorno.

Scrollò il capo, nel tentativo di riacquistare il controllo.

«Aspettatemi qui», si rivolse ai due compagni. «Il gruppo che si è diretto a New Asgard ha bisogno di me per tornare al Santuario.»

Poi, quando il suo sguardo si soffermò sul corpo senza sensi di Velia tra le braccia di Victor, aggiunse: «Sdraia pure la ragazzina su uno dei divani. Ci vorrà un po’ prima che riacquisti i sensi.»

Iron Man annuì e la ringraziò con un cenno, mentre Cooper la raggiunse.

«Vengo con te», affermò l’uomo, deciso. «Ti si legge in faccia che sei provata dallo scontro avuto con Velia. Non posso fermarti, ma in caso accadesse qualcosa, potrei aiutarti senza esitazione.»

Maya fece per opporsi, ma lo sguardo inflessibile di Hawkeye la fermò.

Cooper aveva ragione: essere quasi affogata ed aver utilizzato il teletrasporto due volte avevano minato non poco il suo fisico.

Pescò dalla tasca della tunica lo Sling Ring e lo indossò, materializzando nella sua mente il profilo di New Asgard.

Disegnò rapida un portale e fece cenno al compagno di precederla.

Cooper entrò nel vortice d’energia che Maya gli stava indicando, contento di averla spuntata.

Poco dopo, entrambi si ritrovarono nell’ormai familiare New Asgard.

«Maya! Cooper!», li chiamò una voce tonante. «Finalmente siete qui!»

I due si voltarono verso la fonte di quella voce, accorgendosi che Connor, Paige, Greyson e un ragazzino a cavalcioni di un pony nero si stavano rapidamente avvicinando.

«Possiamo tornare al Santuario. Esto ha deciso di sua volontà di aiutarci», le riassunse Greyson, mentre Maya studiava con attenzione la reincarnazione della Gemma dell’Anima.

«Ti ringrazio molto, Esto», lo gratificò infine la Maestra.

Il ragazzino annuì e si sforzò di sorridere.

«Soul può venire con noi, vero?», domandò con voce tremante, accarezzando il collo del suo pony. «Prometto che mi prenderò cura di lui! Non vi peserà in nessun modo. Per favore.»

Maya corrugò le sopracciglia, domandandosi come avrebbe reagito Magda alla prospettiva di ospitare un pony nella sua abitazione.

Fece per replicare, quando Connor l’anticipò.

«Certo che puoi portare Soul con te! Al Santuario, dove abiterai per qualche tempo, c’è tutto lo spazio che desideri per tenere il tuo pony.»

La Maestra gli riservò un’occhiataccia, quando Paige le fece cenno di tacere.

“Quel pony deve essere molto importante per lui”, considerò Maya allora, riflettendo. “Se dovessimo separarli, come potremo guadagnarci la sua fiducia?”

«Va bene, Soul può venire con noi», decise infine, «ma dovrai prenderti cura di lui, specialmente perché noi abitanti del Santuario non ci siamo mai neppure avvicinati a un cavallo.»

«Sì!», festeggiò il ragazzino, abbracciando il muso del suo animale, che nitrì felice.

Connor ringraziò Maya con un sorriso radioso e la giovane Maestra contraccambiò, sistemandosi lo Sling Ring fra l’indice e il medio.

L’immagine della biblioteca si materializzò nella sua mente e Maya disegnò in fretta un nuovo portale.

«Questo è un vortice energetico che conduce al Santuario», spiegò al bambino. «Non avere paura e attraversalo come una normale porta. Ci porterà nella biblioteca del Santuario. Lì, penseremo a sistemare la tua stanza e allestire una stalla per il tuo pony.»

Esto annuì e, insieme a Connor e Soul, superò il portale.

Dopo di lui, seguirono Paige e Greyson, che la ringraziarono con un cenno.

Fece quindi segno a Cooper di procedere, quando l’uomo la raggiunse a grandi passi.

Hawkeye le cinse fulmineo la vita e l’attirò a sé, premendole il viso sul suo petto marmoreo.

Imbarazzata, Maya avvampò fino alle punte delle orecchie.

“Cosa diamine sta facendo?” si domandò.

«Sto per terminare quello che abbiamo cominciato su Raback», sussurrò l’uomo con voce roca, quasi a leggerle nel pensiero.

La giovane deglutì a vuoto, emozionata.

Prima che potesse elaborare la situazione, l’uomo le sollevò il mento con due dita e unì le labbra alle sue.

Maya avvertì una scossa attraversare per intero la sua spina dorsale e una piacevole sensazione di leggerezza si fece largo nel suo petto.

Chiuse lentamente gli occhi per godersi il momento e, d’istinto, socchiuse le labbra, lasciando che la lingua di Cooper esplorasse la sua bocca.

L’uomo posò con gentilezza le mani sui suoi fianchi e lei, di conseguenza, strinse le braccia intorno al suo collo, in modo da colmare i quindici centimetri buoni che li separavano.

Quando si separarono per riprendere fiato, Cooper la tenne stretta a sé.

«Ehi», lo riprese lei con un leggero sorriso, ancora rossa per l’imbarazzo. «Non vado da nessuna parte, tranquillo.»

L’uomo accennò una risata e sospirò di sollievo.

«So che può suonare come un cliché, ma è come se mi fossi entrata nell’anima. Malgrado ci conosciamo soltanto da quattro mesi, mi sei piaciuta dall’istante in cui hai convinto Athena ad aiutarti in questa missione. Ho pensato che fossi sensibile e dolce, ma seria e agguerrita nei momenti di difficoltà. Nelle missioni successive, hai solo confermato la mia idea originale.»

Maya tacque, la mente e il cuore in tumulto.

Si sentiva nervosa, euforica, impressionata, commossa...

Un silenzio carico di tensione cadde tra loro mentre la giovane tentava di mettere ordine nei suoi sentimenti.

Hawkeye sciolse la presa intorno al suo bacino e la giovane fu libera di allontanarsi.

Confusa, Maya sollevò gli occhi su di lui: lo sguardo di Cooper si erano adombrati all’improvviso, sintomo della sua tristezza.

«Ascolta», affermò, afferrandogli una mano ricoperta di cicatrici. «So che probabilmente aspetti una mia risposta. Tu mi piaci e anche parecchio, se devo confessarti la verità, ma non so davvero come gestire la situazione. Come ben sai, sono stata affidata a Strange quando avevo dodici anni e non ho mai potuto sperimentare cosa sia l’amore inteso come sentimento verso un’altra persona: Strange, Magda e Wong sono stati come dei genitori, mentre Joy è il fratello maggiore che non ho mai avuto. Concedimi un po’ di tempo per riflettere, te ne prego.»

Si sollevò sulle punte degli stivali e gli regalò un nuovo e rapido bacio sulle labbra.

Cooper chiuse gli occhi per godersi quel breve contatto, poi annuì e strinse con forza la sua mano, piccola e pallida, in confronto alla sua.

«Prenditi tutto il tempo che occorre per chiarire i tuoi pensieri. So che è difficile rapportarsi all’amore, specialmente alla prima esperienza», la rassicurò.

Poi, raggiunse a grandi passi il portale e l’attraversò, conducendo con sé la ragazza.

Il vortice d’energia si chiuse alle loro spalle con un crepitio.

Tornati al Santuario, Maya notò con piacere che anche il terzo e il quattro gruppo avevano fatto ritorno.

Il suo sguardo si soffermò sulla reincarnazione della Gemma della Realtà, studiandone con attenzione l’aspetto.

“Certo che gli abitanti di Warset sono davvero particolari”, constatò, osservando come la creatura fosse aggrappata alla stoffa dei pantaloni di Wong.

A quel punto, mancavano soltanto Joy e Magda, impegnati nel recupero della Gemma del Potere.

Tuttavia, la giovane non si preoccupò molto per loro.

Joy era lo Stregone Supremo e Magda sapeva come cavarsela.

Qualche istante più tardi, Joy si materializzò nella stanza, tenendo per mano una bambina dalla pelle verde foglia e corti occhi rosso fuoco.

Magda, invece, non si vedeva da nessuna parte.

Aggrottò le sopracciglia, domandandosi cosa fosse accaduto alla donna, quando Joy le gettò le braccia al collo e la strinse forte a sé, gli occhi cristallini gonfi di lacrime.

«Joy!», esclamò, presa alla sprovvista. «Cosa sta succedendo? Dov’è Magda?»

Nell’udire quel nome, lo Stregone Supremo scoppiò in lacrime.

«Mi dispiace…mi dispiace così tanto...», biascicò fra i singhiozzi, stringendola al petto magro.

Maya strabuzzò gli occhi, angosciata.

“Qualcosa di terribile deve essere accaduta a Magda”, realizzò con un tonfo al cuore. “Joy si è comportato così soltanto in un’altra occasione: la scomparsa di Strange”.

Malgrado le lacrime minacciassero di bagnare le sue guance, la giovane Maestra s’impose di essere forte.

Non poteva cedere.

Non ora.

Prima, avrebbe dovuto scoprire cos’era accaduto a Magda.

Con decisione, afferrò la mano nodosa del ragazzo, lo condusse con delicatezza verso la poltrona più vicina e lo fece sedere.

Prese dunque ad accarezzargli con dolcezza i capelli biondo argento, nel tentativo di tranquillizzarlo.

Pian piano, il ragazzo prese a calmarsi mentre le lacrime continuavano a scorrere sul suo volto, bagnando la casacca nera.

Qualche minuto più tardi, sotto gli sguardi attoniti dell’intera compagnia, il ragazzo sollevò gli occhi gonfi su Maya.

«Joy, raccontami cos’è accaduto a Magda, forza», lo incitò con ferma dolcezza.

L’uomo tirò su con il naso e posò lo sguardo sulla reincarnazione della Gemma del Potere, la bambina che aveva portato con sé da Pyrus.

Poi, con voce tremante, prese a raccontare ciò che era accaduto: il loro arrivo sul pianeta, la mancanza di aura nei suoi abitanti, l’incontro con Jamalas e la sua bestia, la conversazione con Kaminal e, infine, il sacrificio di Magda per salvare Pyrus e la piccola Drasta.

Giunto alla fine del suo resoconto, sia Maya che Wong era impalliditi per lo shock.

La giovane si portò le mani al volto e prese a singhiozzare, disperata.

Cooper l’attirò a sé e Maya nascose il volto nel suo petto, bagnando di lacrime la divisa nera della S.H.I.E.L.D.

L’intera compagnia abbassò lo sguardo al pavimento, desolati.

«Andiamo, forza», li incitò Pepper, invitando i presenti a lasciare la camera. «Lasciamoli un po’ soli.»

Rapidamente, uno dopo l’altro uscirono dalla biblioteca per concedere a Maya, Wong e Joy un po’ d’intimità.

Rimasero solamente i tre Maestri delle Arti Mistiche e Cooper, che stringeva a sé la ragazza.

“Perché, Magda?”, si domandò Maya, straziata. “Perché ti sei sacrificata? Noi abbiamo bisogno di te. Come faremo ora io, Wong e Joy?”

Avvertì il cuore sprofondarle nel petto al pensiero che la donna che considerava una seconda madre era divenuta la fonte d’energia di Pyrus.

«Non è morta, Maya, ricordalo», tentò di rincuorarla Coopert, accarezzandole la schiena con una mano. «Sono certo che troverete una situazione. Siete o non siete Maestri delle Arti Mistiche?»

Joy si alzò e scosse il capo.

«Non possiamo risolvere tutto con le nostre arti», rispose con amarezza. «Magda ha decisa di sua volontà di sacrificarsi per salvare Pyrus. Inoltre, in caso tornassimo su quel pianeta per recuperarla, i suoi abitanti immolerebbero Drasta e saremmo punto a capo.»

«Ma non possiamo lasciarla lì!», intervenne Maya in un singhiozzo, il volto segnato dalle lacrime.

Si separò da Cooper e raggiunse Wong.

L’uomo era sprofondato nella sua sedia foderata di morbida stoffa e fissava immobile dinnanzi a sé, pallido come un cencio.

Tuttavia, i suoi occhi erano asciutti.

«Wong!», lo chiamò. «Ti scongiuro, dimmi che hai qualche idea per salvare Magda...»

L’anziano Maestro sollevò gli occhi su di lei, fissandola a lungo.

Maya avvertì il suo cuore perdere un battito: conosceva Wong da circa dieci anni e aveva visto quell’espressione soltanto in pochissime occasioni.

Wong non aveva la più pallida idea di come salvare Magda.

Le lacrime salirono nuovamente ai suoi occhi e la giovane boccheggiò, a corto di aria.

Si portò le mani al petto e cadde sulle ginocchia.

«Maya!», esclamarono Cooper e Joy allarmati.

Hawkeye raggiunse la giovane e si piegò alla sua altezza, accarezzandole il capo nel tentativo di tranquillizzarla.

«Ho conosciuto poco Magda, ma sono sicuro non desiderasse questo», parlò. «Sono certo che vorrebbe che vi deste da fare per salvare l’universo, per non rendere vano il suo sacrificio.»

I tre Maestri sollevarono gli occhi su di lui.

“Ha ragione”, realizzò Maya, rialzandosi sulle gambe, molli come gelatina. “Magda non ha mai sopportato chi si piange addosso. Quando Strange scomparve insieme al resto degli Avengers, non si sciolse mai in lacrime davanti a noi. Lei era la forza del Santuario. Piangendo, non facciamo altro che deluderla.”

Si vergognò di se stessa: la donna si era sacrificata per permettere loro di sconfiggere Vither e loro stavano sprecando tempo utile piangendo!

Si asciugò il volto con la manica della casacca e si schiarì la gola, nel tentativo di riacquistare un po’ di lucidità.

«Dobbiamo sistemare le camere per accogliere i cinque bambini che abbiamo recuperato. Di certo saranno disorientati e confusi da questa situazione ed è nostro compito rassicurarli affinché possano comprendere a pieno il pericolo che corrono. Che l’intero universo sta correndo. Per questo, ho bisogno che mettiate da parte il dolore, come sto facendo io», la voce le si spezzò in gola, ma i suoi occhi rimasero asciutti.

«Joy!», chiamò, rivolgendosi allo Stregone Supremo. «Tu sei quello che sa farci meglio in cucina. Cerca di preparare qualcosa di commestibile per la cena dei bambini, mentre io mi occupo dei letti e delle camere.»

Il ragazzo sollevò gli occhi su di lui e si costrinse ad annuire.

«Wong, tu, invece, cerca fra i tuoi libri qualsiasi informazione utile sulle Gemme dell’Infinito e il loro utilizzo. Abbiamo bisogno di capire come utilizzare i cinque ragazzini per sconfiggere Vither una volta per tutte!»

Poi, si incamminò verso la porta senza attendere risposta, tallonata da Cooper.

C’era molto da fare prima che la notte scendesse su New York e non aveva tempo da perdere.

Inoltre, sperava, il lavoro le avrebbe impedito di pensare a Magda e al suo sacrificio.

Almeno per un po’.



Angolo dell'autore:
Salve!
Okay, non odiatemi per questo capitolo.
Infatti, mi dispiace molto aver aggiunto un attimo così desolante dopo la confessione di Cooper a Maya, ma era necessario...
Comunque, cosa ne pensate di Cooper e Maya?
Mi piacerebbe molto conoscere la vostra opinione fra questi due, perché io li trovo davvveeeeerrrroooo carini!
Stupidaggini a parte, vi lascio al prossimo capitolo!
Ciao!!!
D. S. Lock

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Capitolo 21
*** Una missione per Gadha ***


8 ottobre 2045,
ora diciannovesima del giorno,
New Sanctuary.


Gadha si muoveva rapida per i corridoi dell’astronave, dirigendosi verso la camera della sua Signora.

Come ogni giorno, a quell’ora della sera, la donna incontrava Vither per riferirle le informazioni acquisite sulle Gemme dell’Infinito.

Otto mesi erano trascorsi dal giorno in cui la sua padrona aveva recuperato la reincarnazione della Gemma della Mente.

Tanar, il bambino, era sistemato in una delle cabine più spaziose della nave, viziato e coccolato dalla schiera di servette al servizio di Vither.

Malgrado il piccolo fosse costretto a indossare un pesante collare da lei inventato per controllare i suoi poteri, il ragazzino viveva serenamente.

Svoltò a destra nello stretto corridoio e accelerò il passo, ansiosa di riferire alla sua Signora ciò che aveva scoperto.

Il ticchettio metallico dei suoi alti stivali neri riecheggiò sul pavimento in ferro, facendole da compagno.

Infine, raggiunse il portello in ferro che conduceva agli appartamenti di Vither, sorvegliato, come al solito, da Wallex e Built, le sue guardie del corpo.

Si trattava di due alieni provenienti da un minuscolo pianeta che ormai non esisteva più, scomparso dopo la collisione con un asteroide.

Entrambi presentavano una statura imponente, pelle bianchissima, occhi chiarissimi e un capo totalmente privo di capelli.

Gadha non li aveva mai sentiti proferire una sola parola, nonostante fossero provvisti di bocche colme di denti affilati.

Stringevano fra le mani delle lunghe e sottili lance, incrociate sul portellone per impedire a chiunque di entrare.

«Sono arrivata», proferì seria, raggiungendoli.

Wallex, la guardia più alta, vestito di un’armatura nera, la scrutò.

La donna sostenne il suo sguardo senza paura, sorridendogli rassicurante.

Qualche attimo più tardi, Wallex annuì lentamente e fece un cenno al compagno.

Built assentì a sua volta e i due sollevarono le lance, permettendole di passare.

Gadha li ringraziò con un sorriso ed entrò.

Come al solito, l’appartamento di Vither era cupo e silenzioso.

Le uniche fonti di luci erano le candele, sistemate a pochi decimetri l’una dall’altra.

Le flebili fiamme rischiaravano i pochi oggetti di mobilio presenti: una branda militare, una cassapanca in ferro, un minuscolo tavolo dove Vither consumava i suoi frettolosi pasti, un paio di sedie dall’aspetto poco comodo e un semplice trono di metallo affiancato alla parete che dava sull’unico oblò presente nella camera.

«Gadha», la chiamò Vither.

Gadha posò lo sguardo su di lei, mettendo in mostra i denti in un sorriso radioso.

Vither si alzò dal freddo trono di metallo e le afferrò le spalle sottili, attirandola a sé.

«Hai trovato qualcosa, mia cara, lo sento!», esclamò. «Riferiscimi tutto ciò che sai sulle Gemme dell’Infinito.»

Gadha arrossì a quel contatto, ma non si ritrasse.

«Ricordi quando ti riferii che il guardiano di Tanar ha deciso di mettersi in viaggio alla ricerca di aiuto per recuperare il bambino?», iniziò.

Vither assentì, esortandola a continuare.

I suoi occhi, dall’iride rosa pallido, erano fissi su di lei.

«Bene. Valk, questo il suo nome, si è diretto verso un pianeta del Sistema Solare chiamato Terra.»

Vither digrignò i denti.

Gli Avengers, coloro che avevano prima ucciso il suo padrone e, successivamente, mandato in fumo il suo primo tentativo di recuperare le Gemme dell’Infinito, proveniva esattamente da quel minuscolo pianeta.

Per sua fortuna, non avrebbe più dovuto occuparsi di loro: il gruppo di eroi era scomparso con la forma fisica delle Gemme.

Poco importava che fossero morti o confinati in un’altra dimensione: l’importante era essersi liberata di loro.

«Valk ha chiesto aiuto a un gruppo di Maestri del luogo», continuò Gadha, riportandola al presente. «Non so esattamente quale pericolo comportino questi terrestri, ma so che si sono dati molto da fare dal momento in cui hanno incontrato il guardiano di Tanar. Difatti, sono riusciti a localizzare le cinque reincarnazioni delle Gemme e le hanno riunite sul loro pianeta. Non so esattamente cos’abbiano intenzione di fare, ma è necessario dirigerci subito su quel pianeta e recuperare i bambini, prima che scoprano come utilizzare i loro poteri.»

Vither non faticò a comprendere la strategia messa in atto dai terrestri: dal momento in cui Valk aveva messo piede sul loro pianeta, avevano radunato in fretta e furia una squadra simile a quella dei precedenti Avengers.

Poi, dividendosi probabilmente in diversi gruppi, avevano recuperato le Gemme dell’Infinito rimanenti, in modo che non cadessero nelle sue mani.

La donna ringhiò, frustrata.

Questa volta non avrebbe preso la situazione sotto gamba: i nuovi Avengers sarebbe stati annientati prima che potessero divenire una seria minaccia per il successo della sua missione.

Il suo primo istinto fu quello di virare bruscamente la rotta dell’astronave e dirigersi sulla Terra, quando Gadha riprese a parlare.

«Se posso permettermi, mia Signora, dirigerci verso quel pianeta mi sembra un’ottima idea, ma non dovremmo attaccarlo senza alcun preavviso. Ho svolto alcune ricerche sui terrestri e ho trovato informazioni molto interessanti: gli umani sono simili agli animali sotto molti punti di vista. Quindi, se li attaccassimo subito, non esiterebbero a difendersi con tutti i mezzi a loro disposizione e, come già accaduto una volta, potrebbero sbaragliare il nostro piccolo esercito.»

La donna s’interruppe, in attesa di una reazione da parte della sua padrona.

Vither era al dir poco imprevedibile e Gadha desiderava assicurarsi che le sue parole non l’avessero indispettita.

Per fortuna, la sua Signora non sembrava affatto infastidita: la stava osservando con attenzione, le sottili sopracciglia candide aggrottate leggermente.

Rincuorata, continuò.

«Nei tuoi panni, tenterei di comunicare con loro tramite un emissario, proponendo loro un accordo: consegnarci le cinque Gemme dell’Infinito e permettere il ritorno del sommo Thanos in cambio della tua protezione. Se collaboreranno, la Terra e i pianeti d’origine di coloro che hanno recuperato i bambini saranno salvi quando tu e Thanos deciderete il da farsi. Che ne dici?», terminò, colma di aspettative.

Vither prese a torturarsi il mento con l’indice e il pollice, meditabonda.

In fondo, Gadha non aveva tutti i torti.

Non si diceva infatti: si prendono più mosche con il miele che con l’aceto?

«La tua strategia potrebbe funzionare», pronunciò lentamente, sovrappensiero. «Ma chi potrei inviare sulla Terra?»

Tacque e abbassò lo sguardo al pavimento, gli occhi lucidi.

Gadha non esitò a farsi avanti.

«Mi dirigerò io sulla Terra, mia Signora», si propose.

Un ampio sorriso si aprì sulle labbra di Vither, ma si morse la lingua per reprimerlo.

Malgrado sapesse che Gadha avrebbe eseguito ogni suo ordine senza alcuna esitazione, la donna non l’aveva mai costretta a fare alcunché.

Nel corso di quegli anni, la giovane si era legata a lei, considerandola più una madre che una padrona e, più di una volta, Vither aveva approfittato di quel legame.

«Ti ringrazio molto, mia cara», la gratificò Vither con un sorriso e Gadha avvertì il cuore palpitare più forte per la felicità.

«È un onore per me, mia Signora», rispose la ragazza. «Se non hai più bisogno di me, mi dirigerò subito verso la Terra con una delle navicelle.»

Vither scosse il capo e la sua sottoposta comprese che era giunto il momento di congedarsi.

Fece per allontanarsi e raggiungere la sua piccola astronave, quando la sua Signora le afferrò il braccio, trattenendola.

«Non ora», la bloccò. «Cena con me e, successivamente, ti riposerai per qualche ora. So quanto ti stanchi utilizzare la magia.»

Gadha la ringraziò con una riverenza e prese posto sulla sedia che lei le indicò.

Vither batté quindi le mani.

All’istante, le serve entrarono negli appartamenti della loro Signora, portando su dei vassoi d’argento ogni ben di dio.



* * *



La bambina si strinse nelle spalle, singhiozzando penosamente.

I lunghissimi e disordinati capelli, grigi come cenere, le nascondevano il volto, appiccicandosi alle guance dove scorrevano le lacrime.

Gli occhi, gonfi e arrossati, presentavano un’iride del più particolare dei colori: un giallo dorato, raro persino tra i suoi simili.

La sua pelle, bronzea, stonava con la veste candida che indossava, più grande di almeno due taglie.

Quel vestito le era stato infilato in fretta e furia dal padre che, dopo averle sussurrato alcune parole per tranquillizzarla, l’aveva rinchiusa in quella minuscola botola, situata sotto il letto dei suoi genitori.

Diverse ore erano trascorsi dall’istante in cui suo padre si era allontanato e, da quel momento, la ragazzina non aveva udito altro che grida disperate, urla disumane e sibili soffocati, provocati probabilmente dai colpi dei fucili energetici del nemico.

Tuttavia, ora che la situazione sembrava essersi calmata, la bambina pensò che fosse giunto il momento di uscire da quella botola e cercare i suoi genitori.

Di certo, Noelsh e Amaris, entrambi abili combattenti, dovevano essere sopravvissuti all’attacco.

Dovevano essere vivi!

Dovevano!

Si sollevò sulle punte dei piedi nudi, quando la botola si spalancò dinnanzi ai suoi occhi.

Poco dopo, il volto pallido di una donna fece capolino: indossava un elmo dorato dotato di placca nasale sui corti capelli candidi e, dalla sua posizione, la bambina intravide gli spallacci dorati del busto di un’armatura.

Occhi rosati colmi di curiosità erano fissi su di lei.

La ragazzina avvertì il sangue gelarne nelle vene: quella donna faceva parte dell’esercito del Titano Pazzo.

Di certo, ora che aveva scovato il suo nascondiglio, l’avrebbe catturata e condotta dal suo Signore, trasformandola in una schiava.

«Non ti farò alcun male, piccola», pronunciò il soldato, come se fosse riuscita a leggere nei suoi pensieri.

Si sporse verso di lei e le porse una mano ricoperta da uno spesso guanto in cuoio, le nocche protette da placche di metallo dorato.

Malgrado tremasse da capo a piedi, la piccola si costrinse ad afferrare la mano della donna.

Da sola non sarebbe mai riuscita a uscire da quella botola: le pareti erano troppo alte per lei e non era presente alcun appiglio su cui poter fare leva.

La donna la sollevò senza sforzo e la depose accanto a sé, ripulendole il volto bagnato di lacrime con una mano.

«Qual è il tuo nome?», le domandò con gentilezza.

«Gadha, signora», rispose, tremante.

«Il mio nome è Vither.»


25 ottobre 2045,
ora seconda del giorno,
New Sanctuary.


Gadha riaprì gli occhi, ritrovandosi sulla comoda branda presente nel suo alloggio, appena sotto l’unico oblò della camera.

Sospirò, ripensando al sogno appena avuto.

Era trascorso molto tempo dal giorno in cui aveva incontrato Vither, ma non l’aveva mai sognato prima di allora.

Difatti, Gadha era solita bloccare i suoi sogni con la magia, dal momento che gli incubi erano all’ordine del giorno.

Quella notte, invece, dopo essere tornata nella sua camera quando Vither l’aveva congedata, non aveva evocato l’incantesimo di annullamento dei sogni.

Si mise seduta su letto e il lenzuolo candido le scivolò sulle gambe, rivelando la corta casacca senza maniche che aveva indossato durante la notte.

Si strofinò gli occhi mentre gli ultimi stralci del suo sogno di dissolvevano.

Concluso, scese dalla branda e stiracchiò i muscoli intorpiditi, dirigendosi verso il proprio armadio.

Lo aprì e ne estrasse un cambio d’abito: casacca a maniche lunghe, pantaloni attillati, stivali al ginocchio e un mantello.

Tutto rigorosamente nero.

Indossò i nuovi abiti e sistemò quelli sporchi nella cesta ai piedi della branda: le serve della sua Signora sarebbero passate a breve e li avrebbero portati in lavanderia per lavarli e stirali con cura.

Malgrado i suoi vestiti potessero sembrare anonimi, erano realizzati in una stoffa aliena particolarmente resistente che si adattava a ogni tipo di temperatura, senza farle mai soffrire né il caldo, né il freddo.

Aprì il portellone di ferro e uscì nel corridoio, dirigendosi verso il deposito dove erano sistemate le navicelle.

Mentre percorreva a passo spedito il corridoio, Gadha si ritrovò a riflettere sulla lunga chiacchierata avuta con Vither la sera prima.

La sua Signora le aveva fatto mille raccomandazioni: non correre inutili rischi, tenersi il più lontano possibile dai pianeti considerati “pericolosi”, tenere sempre il segnalatore acceso affinché l’astronave madre potesse localizzare la sua posizione…

Sorrise fra sé e sé.

Nonostante Vither potesse essere considerata la sua padrona, la donna tendeva a trattarla più come una figlia che come una serva.

Dal giorno in cui l’aveva salvata da morte certa, il loro legame non si era mai logorato.

Persino in seguito al loro fallimento, quando gli Avengers avevano distrutto la forma fisica delle Gemme eliminando la maggior parte degli uomini di Vither, Gadha non aveva pensato per un solo istante di abbandonare la sua padrona.

Svoltò a destra e percorse gli ultimi metri che la dividevano dal deposito, ancora persa nei suoi pensieri.

“Cosa troverò sulla Terra?”, si domandò, curiosa. “Gli Avengers sono stati eliminati da questa realtà con la forma fisica delle Gemme dell’Infinito. Tuttavia, sembra che quel Valk abbia reclutato un bel po’ di persone in gamba, dal momento che hanno recuperato le cinque reincarnazioni delle Gemme in così poco tempo.”

Sospirò e si sforzò di essere ottimista: aveva studiato a lungo i terrestri e ne conosceva forze e debolezze.

I terrestri erano in grado di dimostrare un ingegno e una forza straordinari, ma erano fondamentalmente pavidi ed egoisti.

Gadha era certa che, per la salvezza del pianeta, avrebbero sacrificato con piacere le cinque reincarnazioni delle Gemme.

Infilò l’ingresso del deposito e un’enorme sala dall’ampio soffitto a cupola, interamente realizzato in metallo, si aprì di fronte ai suoi occhi.

Al suo interno erano sistemate dieci navicelle, utilizzate dai soldati per il pattugliamento e in caso di attacco esterno.

Di solito, il deposito brulicava di soldati, ma a quell’ora era praticamente vuota: il personale stava probabilmente riposando nei propri alloggi.

La donna si diresse verso la “Eagle”, la sua navicella preferita.

Si trattava di un jet nero dal muso affusolato, le ali sottili e ben due motori a propulsione che le avevano salvato la vita in più di un’occasione.

Difatti, sei anni prima, dopo la sconfitta di Vither, la Eagle si era rivelato l’unico jet rimasto intatto.

Grazie a quell’astronave, erano riusciti a raggiungere il pianeta più vicino, dov’erano stati curati.

Gadha si diresse verso il portello d’accesso e digitò il codice di apertura, ritrovandosi nella cabina di pilotaggio.

La branda e la piccola cucina, invece, erano posizionate verso la parte centrale dell’astronave.

Si ritirava lì di rado: preferiva dormire sul suo comodo sedile, tenendo la rotta sempre sotto controllo.

Raggiunse il sedile di pelle sintetica e si sedette, allacciandosi le doppie cinture di sicurezza che le attraversarono diagonalmente il fine torace.

«Va bene», disse a sé stessa, sporgendosi per premere il pulsante bianco dinnanzi a sé, a destra del pannello di comando. «Diamo inizio a questa nuova missione!»

Il motore si attivò e l’intero abitacolo s’illuminò, rischiarando il radar rivelatore e il sottile controller di metallo.

Sulla sinistra, erano presenti decina di pulsanti dai colori più disparati, ognuno con una diversa funzione.

Afferrò il controller fra le mani, molto simile a un manubrio.

Premette il pulsante giallo: il piccolo portello di metallo sistemato nella parte inferiore del pannello di controllo si aprì, rivelando un paio di cuffie che Gadha indossò subito.

«Attiva microfono», ordinò, dopo che si fu sistemata l’auricolare vicino alla bocca.

Udì un fischio e, poco dopo, una voce metallica annunciò: «Benvenuta sulla Eagle modello 125 plus, comandante Gadha. Come posso esserti utile?»

«Contatta il quartier generale», pronunciò.

«Collegamento in corso. Attendi qualche istante.»

La donna aspettò paziente, passandosi una mano tra i lunghi capelli grigi per riordinarli.

«Qui Genner dal quartier generale della New Sanctuary. Identifica la tua identità, ospite della Eagle», rispose una roca voce maschile, poco dopo.

«Genner, sono io, Gadha!», esclamò la donna, contenta di udire una voce familiare: quel soldato era uno dei pochi sopravvissuti alla disfatta di Vither, perdendo purtroppo una gamba e un occhio.

Da quel momento, Ganner era divenuto il tuttofare della New Sanctuary, svolgendo le funzioni più disparate, fra le quali il cuoco e il responsabile del quartier generale.

«È un piacere sentirti, Gadha. Cosa posso fare per te nel deposito?»

«Mi occorre che tu apra il portellone, in modo da permettermi l’uscita. La Signora mi ha affidato una nuova missione di vitale importanza.»

«Subito!»

La donna ringraziò brevemente il soldato e chiuse la comunicazione, puntando lo sguardo dinnanzi a sé.

Qualche istante più tardi, la parete di metallo del deposito si aprì quel tanto che bastava per permettere il passaggio del jet di Gadha.

La donna prese i comandi e, poco dopo, la Eagle si sollevò a qualche metro dal pavimento del deposito, pronta alla partenza.

Con il rombo del motore a propulsione nelle orecchie, Gadha avvertì l’eccitazione farsi largo nel suo petto: finalmente, dopo mesi di lavoro all’interno della New Sanctuary, sarebbe tornata alla sua vera vita, quella di esploratrice dello spazio.

La Eagle uscì dal portello e s’immerse nello spazio aperto.

Gadha sorrise: malgrado la missione le si prospettasse molto complessa, avrebbe fatto del suo meglio per portarla al termine.

Prima, però, si sarebbe goduta a pieno quel viaggio tra le stelle.



Angolo dell'autore:
Salve!
Eccoci giunti ufficialmente a metà del N.A.P.!
In questa prima parte abbiamo assistito al reclutamento degli elementi presenti all'interno della lista stillata da Maria Hill e il recupero delle cinque Gemme dell'Infinito.
Beh, in questo capitolo abbiamo dato uno sguardo a Vither attraverso gli occhi del suo soldato più affezionato, Gadha.
Spero questo capitolo vi sia piaciuto.
Detto questo, vi do appuntamento a martedì con i prossimi tre capitoli e posso anticiparvi che rivedremo una vecchia conoscenza!
D. S. Lock.

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Capitolo 22
*** Un aiuto dal passato ***


16 ottobre 2045, 11.00 A.M.,
177A Bleecker Street,
New York City.


Sei settimane erano trascorse dal momento in cui le cinque reincarnazioni delle Gemme dell’Infinito erano state condotte sulla Terra e, finalmente, la situazione andava migliorando.

Dopo aver appreso del sacrificio di Magda, i Maestri delle Arti Mistiche del Santuario di New York aveva cercato di sistemare al meglio i cinque bambini e Soul, il pony di Esto.

Inoltre, durante la prima settimana, si erano verificati numerose difficoltà e problemi, cominciando dalla comunicazione: l’unico in grado di parlare inglese era Esto, cresciuto in Scozia.

Le restanti reincarnazioni, quindi, erano state munite di bracciali dotati di pendenti interpreti per facilitare i discorsi.

Malgrado la giovane età, ogni bambino presentava un carattere ben definito che, nei primi giorni di convivenza, avevano provocato non pochi grattacapi.

Velia, prepotente, viziata e facile all’ira, aveva tentato di spedire nell’universo sia le reincarnazioni delle Gemme dell’Infinito che Maya e il resto degli abitanti del Santuario più di una volta.

Grazie al cielo, Maya, Joy e Wong dominavano la tecnica del teletrasporto e, quando qualcuno spariva, uno dei tre riusciva a localizzare in fretta la sua aura e, in pochissimo istanti, lo riportavano al Santuario, sgridando poi a tono la bambina.

Velia, tuttavia, si limitava a gonfiare le guance, tenere il broncio per qualche ora e tornare punto a capo.

Kimuack, nonostante l’indole gentile e ottimista, non riusciva a controllare per nulla il potere della sua Gemma: continuava a mutare la realtà in base al suo umore e, quando la rabbia o la paura prendevano il sopravvento, la camera in cui era presente assumeva spesso l’aspetto di un tornado o di un lago di lava, minacciando di ferire sé stesso o gli altri bambini.

Per fortuna, Wong aveva preso a cuore Kimuack, insegnandogli pian piano il controllo della Gemma della Realtà nei momenti in cui non si dedicava alla ricerca di informazioni sulle Gemme dell’Infinito.

Astrid, invece, controllava abbastanza bene la Gemma del Tempo, ma, dopo aver trascorso anni e anni in un orfanotrofio gestito da bigotte monache che le avevano inculcato a forza il concetto di potere demoniaco, era restia a utilizzare le sue capacità.

A lei pensavano Deborah e, in tutti i suoi momenti liberi, Athena.

Agli occhi di Maya, le due sembravano essersi davvero affezionate alla bambina.

Le stavano regalando di affetto e calore familiare e, di conseguenza, Astid aveva cominciato ad acquistare un po’ di fiducia in sé stessa.

Drasta ed Esto, invece, presentavano un carattere simile: pacifici, rispettosi e responsabili, ma in grado di tirare fuori tutta la loro determinazione nei momenti di difficoltà.

I due trascorrevano la maggior parte del loro tempo in compagnia di Connor, allenandosi nell’uso delle armi bianche e negli incantesimi più basilari, quali quelli di guarigione e quelli riguardanti gli elementi naturali: fuoco, terra, acqua e aria.

Grazie al cielo, dopo le prime due settimane, i cinque bambini avevano cominciato a stringere amicizia fra loro e persino Velia si era calmata un po’, limitandosi a sgridare animatamente le altre reincarnazioni quando l’indispettivano.

Tre settimane dopo il recupero delle cinque Gemme, Momoko e Harley, le assistenti di Ming, il responsabile del Santuario di Kamar-Taj, si trasferirono a New York.

Maya si ritrovò a ringraziare Ming dal profondo del cuore: le due giovani erano delle cuoche provette, molto più di Joy e Wong.

Inoltre, Momoko aveva un vero e proprio talento con i bambini, mentre Harley era una patita di cavalli.

Grazie alle disposizioni e ai consigli di quest’ultima, Maya aveva migliorato la stanza in cui era stato accomodato Soul, in modo da mettere l’animale più a suo agio.

Quando la situazione sembrava aver raggiunto un nuovo equilibrio, il gruppo aveva finalmente incontrato Minus Tyles.

Tutti sembravano averlo preso in simpatia, soprattutto dopo aver dato loro un assaggio dei suoi poteri come la lettura del pensiero.

Dopo aver saputo che il ragazzo non era addestrato nell’utilizzo delle armi da fuoco, Athena e Cooper si erano persino offerti di insegnargli qualcosa nei momenti liberi dal loro lavoro alla S.H.I.E.L.D.

In seguito alla missione di salvataggio delle Gemme, Cooper e Athena avevano deciso di trasferirsi al Santuario per qualche tempo, in modo da aiutare i suoi abitanti nella gestione nei bambini.

Infatti, Maya e Joy trascorrevano gran parte della loro giornata nella biblioteca, cercando informazioni sulle Gemme dell’Infinito e su come controllarle, soprattutto ora che si erano incarnate in quei sei bambini.

Wong aveva raccolto un centinaio di pesanti tomi contenenti ogni genere di conoscenza e i due giovani, ora dopo ora, li avevano controllati tutti.

Tuttavia, fino a quel momento, non erano riusciti a raccogliere alcuna informazione nuova.

In ogni libro, si narrava soltanto la battaglia che gli Avengers avevano condotto contro Thanos e di come Tony Stark e Natasha Romanoff si fossero sacrificati per il bene dell’intero universo.

E ora, giunta la sesta settimana, i tre avevano scandagliato ogni libro della biblioteca riportante qualche paragrafo sulle Gemme dell’Infinito senza trovare nulla, o quasi, di nuovo.

«Non possiamo andare avanti così!», sbottò Joy, esasperato, riponendo nel giusto scaffale l’ennesimo tomo. «Dopo un mese e mezzo di ricerca abbiamo trovato soltanto una descrizione dettagliata della storia che il Maestro Strange e Wong ci hanno ripetuto mille volte.»

Maya si morse la lingua per non rispondergli a tono.

Stava provando la sua stessa frustrazione, ma continuare a lamentarsi non li avrebbe di certo aiutati!

Al momento, erano i soli presenti nella biblioteca: Wong si stava occupando dell’addestramento di Kimuack, Momoko e Harley erano impegnate con la cena mentre i restanti abitanti del Santuario stavano intrattenendo i bambini.

La Cappa della Levitazione, stretta intorno alle spalle della giovane Maestra, colse il suo nervosismo e prese ad accarezzarle le guance con il colletto inamidato, nel tentativo di calmarla.

Maya la ringraziò donandole un paio di leggere pacche, persa nei suoi pensieri.

Se i libri, fonti di ogni conoscenza, non erano riusciti ad aiutarli, chi avrebbe potuto?

“Dovremo contare solo sulla nostra esperienza per sviluppare qualcosa in grado di sfruttare il potere delle Gemme dell’Infinito?” si domandò, le braccia conserte sul petto.

A un tratto, il volto di Joy s’illuminò.

«Ho trovato!», esclamò il ragazzo, sorridendo. «Noi ci siamo concentrati sui libri, ma abbiamo a disposizione delle persone che hanno combattuto contro Thanos! Perché non chiedere a loro?»

Maya aggrottò le sopracciglia, riflettendo.

Gran parte degli Avengers erano scomparsi durante la prima lotta contro Vither, ma Pepper e Valchiria non avevano partecipato a quella battaglia!

Espose i suoi pensieri a Joy e quest’ultimo scosse il capo, divertito.

«Non mi riferivo a loro, benché abbiano aiutato nel salvataggio del nostro pianeta. Io stavo pensando a Captain America.»

Maya gli rivolse un’occhiata sbigottita, come se fosse impazzito all’improvviso.

«Sam Wilson è scomparso insieme agli altri Avengers», gli fece notare, confusa.

Il sorriso dell’amico non si accinse a spegnersi, anzi, si allargò ulteriormente.

«Io non parlavo di Sam Wilson o Falcon, come veniva chiamato all’epoca, ma del primo Captain America, ovvero Steve Rogers.»

La ragazza sobbalzò.

«Non è possibile che Rogers sia ancora vivo! Wong e il maestro Strange ci hanno sempre raccontato che aveva circa centosei anni quando ha lasciato il suo scudo a Wilson. Oggi avrebbe circa centotrent’anni!»

«Centoventinove anni, per l’esattezza», la corresse Joy. «E, malgrado sia molto anziano, è ancora vivo. Si è ritirato in una piccola casa di riposo in Florida, dove trascorre le sue giornate con gli altri anziani. Possiamo andare a trovarlo e chiedergli aiuto. Sono certo che ci illustrerà subito tutto ciò che sa sulle Gemme dell’Infinito.»

Dopo un primo istante di smarrimento, la giovane annuì con vigore, una nuova luce accesa negli occhi.

«Andremo domani stesso e porteremo con noi anche Greyson e Paige», affermò con decisione.

I due, dopo essersi assicurati che Esto e Soul fossero al sicuro, erano tornati a Detroit.

«Il quartiere ha bisogno di noi, Maya», le aveva risposto Greyson quando lei gli aveva offerto una camera al Santuario. «Detroit è la nostra casa e non possiamo abbandonarla. Tuttavia, intendo mantenere la mia promessa e aiutarvi per sconfiggere Vither una volta per tutte.»

«Greyson merita di conoscere il grande eroe di cui è figlio», continuò e, prima che Joy potesse replicare, si alzò e si diresse verso l’uscita.

Rimasto solo, Joy scosse il capo di fronte al cambiamento di Maya.

Soltanto pochi mesi prima la giovane non si sarebbe mai permessa di abbandonarlo così e, spesso e volentieri, gli avrebbe dato ragione per evitare una discussione.

Si abbandonò sullo schienale della poltrona: dal momento in cui Valk era giunto al Santuario, tutti i suoi abitanti sembravano cambiati.

Il carattere di Maya si era fortificato e rafforzato, tanto da sfidare lui, lo Stregone Supremo, per affermare le sue idee, Magda aveva trovato il coraggio per sacrificare se stessa per il bene comune e persino Wong sembrava essersi addolcito.

Tutti erano cambiati, tranne lui…

Tutto ciò si sarebbe rivelato un bene o un male?



* * *



16 ottobre 2045, 9:30 P.M.,
Detroit,
Michigan.


Greyson si lasciò cadere sul divano e sospirò pesantemente.

Era esausto.

Quel giorno aveva sventato ben quattro rapine ed evitato che due studentesse venissero aggredite da una gang di giovani sbandati.

Paige lo raggiunse e si sedette accanto a lui.

«Tu non sei mai stanca, vero?», domandò Greyson con un sorriso.

Gli scompigliò i corti capelli rossi e Paige sbuffò, rivolgendogli un’occhiataccia.

“Sono stanca”, compose nel loro linguaggio, “ma non sono esagerato come te!”

«Esagerato a chi!», esclamò, piccato.

Assunse un falso broncio e incrociò le braccia al petto.

Paige ghignò divertita e gli scoccò un leggero bacio sulla guancia.

L’uomo sorrise e la cinse in uno stretto abbraccio.

Erano sempre stati soli, lui e Paige.

Dal giorno in cui erano fuggiti dai laboratori della S.H.I.E.L.D., si erano sempre spalleggiati e, con il trascorrere degli anni, Greyson era arrivato a considerare Paige una sorella.

Non certo di sangue, ma di cuore.

«Che ne dici di un panino e di un bel film, come ai vecchi tempi?», domandò, desideroso di rilassarsi un po’.

Paige scosse il capo, facendo ondeggiare le corte ciocche rosse.

“Mi dispiace, ma questa sera non posso”, segnò. “Connor mi ha invitato per cena, al Santuario. Poi, faremo una tranquilla passeggiata per il quartiere.”

Greyson strabuzzò gli occhi, sorpreso e confuso nel contempo.

Paige, la sua Paige, stava per uscire con Connor, il figlio di Loki!

«Com’è successo?», domandò, allibito. «Voglio dire, con tutto quel che è accaduto in questi giorni, dove ha trovato il tempo di chiederti di uscire?»

La ragazza arrossì leggermente mentre componeva la risposta.

“Quando Joy è tornato al Santuario annunciando che Magda si era sacrificata per il bene di Pyrus, siamo usciti dalla biblioteca e lì, nel momento in cui ti sei allontanato per discutere con Victor e Valk, Connor mi ha raggiunto e mi ha invitato a uscire. E io ho accetto. Per stasera dovrai fare a meno di me.”

Paige si alzò e si diresse verso la sua camera da letto per cambiarsi.

Di certo, la tuta nera, gli alti stivali e l’impermeabile con il cappuccio non erano indicati per un appuntamento.

Raggiunse l’armadio consunto dov’erano conservati i suoi effetti personali e recuperò il suo unico vestito da sera: un’elegante e semplice abito nero che arrivava appena al ginocchio.

Privo di maniche e con uno scollo a cuore, Paige era certa che rispecchiasse a pieno la sua personalità, semplice e raffinata.

Si concesse una rapida doccia e si cambiò, accompagnando al vestito un paio di ballerine scure e l’unica pochette presente nel suo armadio.

Si pettinò con cura i corti capelli rossi e, quando uscì dalla sua camera, ad attenderla non vi era soltanto Greyson, ma anche Maya e la sua Cappa della Levitazione.

Paige corrugò le sopracciglia, perplessa: Connor aveva inviato Maya a prenderla?

«Se ti stai chiedendo perché sono qui, Paige, è per via di Connor. Mi ha riferito che avete un appuntamento al Santuario ed eccomi qui. Se sei pronta, possiamo andare», le spiegò Maya, come se le avesse letto nel pensiero.

Paige annuì e raggiunse la Maestra delle Arti Mistiche.

Quest’ultima sorrise e disegnò rapida un portale con il suo Sling Ring, invitandola poi a superarlo.

Paige non esitò a varcare il vortice magico che, poco dopo, si chiuse alle sue spalle.

Greyson riservò a Maya un’occhiata confusa: se il suo compito era concluso, perché era rimasta nel suo appartamento?

Fece per dare voce ai suoi pensieri, quando lei l’anticipò.

«Ho bisogno di parlare con te, Greyson. Possiamo sederci? È importante.»

L’uomo annuì e l’invitò ad accomodarsi, trepidante.

Maya lo ringraziò con un cenno e si sedette, indecisa su come iniziare.

D’improvviso, l’idea d’invitare Greyson e Paige all’incontro con Steve Rogers non le sembrava più geniale come quella mattina, quando l’aveva proposta a Joy.

“Ora sei qui, però, e devi andare fino in fondo” si disse, decisa.

«Come ben sai, io e Joy ci siamo messi alla ricerca di informazioni utili sulle Gemme dell’Infinito e, soprattutto, su come utilizzare il loro potere ora che si sono reincarnate in delle creature viventi. Abbiamo cercato in ogni libro della biblioteca, raccogliendo pochissime informazioni nuove. Joy ha quindi proposto d’incontrare un vecchio Avenger per raccogliere la sua testimonianza. Mi domandavo se vi piacerebbe venire con noi, domani, in modo da incontrarlo. Allora, che ne pensi?»

«Ma certo che ci piacerebbe venire con voi», rispose l’uomo, «ma posso sapere di chi si tratta? Credevo che tutti gli Avengers, tranne Pepper Stark e Valchiria, fossero scomparsi con l’esplosione che ha eliminato le prime Gemme dell’Infinito.»

«Infatti, all’epoca, era troppo anziano per partecipare alla battaglia ed è rimasto sulla Terra, al sicuro. So che può sembrare incredibile, ma Steven Rogers è ancora vivo e dimora in una casa di riposo in Florida. È per questo motivo che ho voluto invitarti: meriti di conoscere tuo padre, o almeno, l’uomo che dovrebbe essere il tuo padre biologico. Dimmi, ti va ancora di accompagnarci?»

Greyson si era immobilizzato, atterrito.

Possibile che quell’uomo fosse ancora in vita?

Per tutti quegli anni, dal momento in cui era riuscito a scappare dai laboratori della S.H.I.E.L.D. insieme a Paige, aveva desiderato incontrare coloro a cui apparteneva il DNA che gli scienziati avevano utilizzato per generare la sua vita.

Tuttavia, Natasha Romanoff era morta ben prima che lui riuscisse a impossessarsi della sua cartella clinica.

Steve Rogers, invece, ritornato nel 1948 per restare con il suo storico amore, Peggy, era scomparso da ogni fonte d’informazione dal momento in cui aveva affidato il suo scudo di vibranio a Sam Wilson e Bucky Barnes.

Maya si sporse dal divano e batté con delicatezza una mano sul suo ginocchio, cercando di rassicurarlo.

«Capisco se non vuoi più accompagnarci in Florida», pronunciò con un sorriso di scusa. «Credevo solo che fosse giusto che tu sapessi che Steve Rogers è ancora vivo.»

La Cappa della Levitazione, colta il turbamento dell’uomo, si sollevò dalle spalle di Maya e si posò sulle sue, accarezzandogli le guance con i lembi del colletto.

Greyson sorrise leggermente, ma tenne gli occhi fissi in quelli di Maya.

Malgrado una voce, nella sua mente, lo stesse supplicando di rifiutare l’offerta della Maestra, la sua volontà, ben più potente, gli stava gridando che era giunto il momento di scoprire chi fosse davvero suo padre.

«Vi accompagnerò!», sentenziò, deciso. «Insieme a Paige, ovviamente. Ho bisogno di risposte e, anche se non gli rivelerò chi sono in realtà, incontrarlo mi farà di certo bene.»

Maya accettò la sua scelta con un sorriso e fece cenno alla Cappa di ritornare sulle sue spalle.

Il telefono di Greyson trillò, riportando i due alla realtà.

«Ci vediamo domani, allora», si congedò la giovane in tutta fretta, prima che Greyson potesse raggiungere il telefono posto sul tavolino da caffè.

L’uomo fece per salutarla, ma Maya era già scomparsa utilizzando il teletrasporto.



* * *


17 ottobre 2045, 9:00 A.M.,
Tampa,
Florida.


«Buongiorno!», salutò Maya con un sorriso, giunta dinnanzi al bancone della reception della casa di riposo.

La receptionist, una robusta donna sulla quarantina con lunghi capelli ossigenati raccolti in una treccia sulla nuca, occhi chiari e naso camuso, le sorrise con cordialità, mettendo in mostra i denti sbiancati da poco.

«Cosa posso fare per voi?», domandò, osservando con attenzione la giovane e la sua compagnia, composta da Joy, Greyson e Paige.

Tutti, sotto consiglio di Momoko e Harley, avevano indossato abiti informali, ma eleganti: Maya e Paige ostentavano camicette e pantaloni dalla linea morbida nei toni del grigio e del oro scuro, mentre Joy e Greyson camicie e pantaloni, accompagnati da mocassini.

Greyson, in particolare, aveva legato i lunghi capelli color miele in un mezzo chignon e accorciato un po’ la barba, assumendo un aspetto più ordinato e affascinante.

«Siamo qui per incontrare Howard Shield», rispose Joy per la compagnia, accennando un sorriso.

La donna della reception strabuzzò gli occhi, sorpresa.

«Howard Shield?», esalò in un soffio. «Voi siete qui per lui?»

«Sì», confermò Joy, sereno. «Potrebbe indicarci la camera in cui alloggia?»

La receptionist si riscosse e porse loro un modulo di registrazione, correlato da un paio di penne.

«Firmate il registro con i vostri nomi», spiegò loro, battendo rapida al computer l’ora e il giorno della visita.

«Perdonate la mia reazione, ma, dal momento in cui Howard è giunto qui, quasi cinque anni fa, viene a trovarlo soltanto la nipote due volte all’anno, durante le vacanze di Natale e in occasione del suo compleanno. Mi ha sorpreso molto che quattro giovani come voi siano giunti fin qui solo per incontrarlo.»

Mentre parlava, i quattro firmarono il registro con nomi fittizi.

Attesero poi con calma che la donna li registrasse all’interno del database.

«Scusate la mia curiosità, ma come fate a conoscere Howard?», chiese, digitando con studiata lentezza sulla tastiera.

«Howard è nostro parente», spiegò Joy, indicando sé stesso e Maya. «Nostra nonna, Johanna, ha deciso di organizzare una piccola riunione di famiglia. Ci ha inviato qui per invitare suo fratello alla rimpatriata.»

La donna annuì interessata e fece per porgere loro una nuova domanda, quando Greyson raggiunse il bancone e le donò un sorriso.

La receptionist arrossì leggermente e tenne gli occhi fissi sul monitor del computer, imbarazzata.

«Ha terminato con la nostra registrazione? Avremo un po’ fretta: veniamo da New York e ci piacerebbe molto visitare Disneyland prima di tornare a casa», le spiegò con ferma gentilezza.

Quest’ultima annuì comprensiva e indicò loro il corridoio che conduceva verso l’ala destra della casa di riposo.

«La camera di Howard è la 146. Dovreste trovarla subito, dal momento che è l’unica presente al quinto piano. Potete prendere l’ascensore, ma fareste molto più rapidamente con le scale.»

I quattro la ringraziarono con un sorriso e presero a salire le scale in legno in tutta fretta.

Mentre procedevano, Maya ebbe la possibilità di guardarsi intorno, ammirando il luogo che il primo Captain America aveva scelto come sua abitazione durante la vecchiaia: le pareti e il soffitto erano dipinte di un’elegante tinta di bianco, intervallate quale e là da piccoli quadri che raffiguravano i paesaggi più disparati, da coste paradisiache a territori montuosi.

Il pavimento, realizzato in legno chiaro, era ricoperto da un tappeto nei toni del rosso e del viola.

La giovane ammise che, nel caso avesse vissuto una vita come quella di Captain America, non avrebbe esitato a scegliere un luogo simile per il suo ritiro.

Dopo aver affrontato così tanti nemici e momenti difficili, la calma quasi letargica di quella casa di riposo era il giusto toccasana per una mente ormai stanca.

Poco dopo, i quattro giunsero finalmente dinnanzi all’ampio ingresso realizzato il legno di ebano che conduceva alla camera 146.

La compagnia rimase ferma di fronte alla porta, improvvisamente indecisa sul da farsi.

Dietro quella soglia abitava Steven Rogers, l’uomo che si era prestato ad assumere il siero del Super-Soldato, che aveva lottato centinaia di battaglie nei panni di Captain America, che aveva affrontato Thanos e maneggiato persino il Mjolnir, il leggendario martello di Thor.

Un timore referenziale si fece largo nel petto di Maya.

Come gli avrebbero spiegato la situazione?

Cosa sarebbe accaduto se l’anziano si fosse indispettito e non avesse dato loro informazioni?

Ricordava con minuzia di dettagli il carattere irascibile di Gerald, il suo nonno paterno.

Fece per dare voce ai suoi pensieri, quando Greyson raggiunse la porta e bussò con forza.

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Capitolo 23
*** Il primo Captain America ***


17 ottobre 2045 9:30 A.M.,
Tampa,
Florida.


Il pugno di Greyson raggiunse la porta sotto gli occhi sconvolti di Maya e Joy.

I quattro attesero con il fiato sospeso che qualcuno rispondesse, riflettendo febbrilmente sulle giuste parole da utilizzare per spiegare all’anziano Avenger la loro situazione.

«Chi è?», domandò una voce dall’interno.

Una voce roca, ma ancora potente.

Greyson studiò brevemente il corridoio, per accertarsi che nessun altro fosse presente sul piano.

«Siamo qui per scambiare qualche parola con lei, signor Rogers», rispose allora. «È molto importante per noi. Potrebbe aprirci la porta, per favore?»

L’uomo all’interno tacque per diversi istanti.

Infine, la porta si aprì con un leggero cigolio e una figura comparve sulla soglia.

Maya osservò con attenzione l’aspetto dell’uomo che, una volta, era stato Captain America.

Alto circa un metro e ottanta, presentava spalle larghe e una schiena leggermente curva a causa dell’età.

Il fisico, una volta imponente e dalla costruzione armoniosa, si era ora assottigliato, tanto da apparire smunto nel pigiama blu che l’uomo aveva indosso.

Il viso era ricoperto da una folta rete di rughe, specialmente intorno agli occhi e alle labbra mentre i capelli, bianchi con rade sfumature di grigio, erano pettinati all’indietro in una morbida onda.

L’anziano li scrutò con sospetto, quando i suoi occhi, di una tonalità cerulea, incrociarono quelli smeraldini di Greyson.

S’immobilizzò e impallidì, come se colto da un improvviso malore.

Maya avvertì il cuore sprofondarle nel petto: se averli incontrati si fosse rivelato troppo per Steve Rogers?

Fece per intervenire, quando l’anziano indietreggiò di un passo e indicò loro l’interno dell’appartamento con un cenno del capo.

«Entrate», proferì. «Il corridoio non è il luogo adatto per discutere.»

Tornò quindi all’interno e i quattro lo seguirono, fulminei.

Il piccolo appartamento dell’anziano Captain America si divideva in tre camere: un salotto corredato di cucinino, una camera da letto e un bagno.

Le pareti erano dipinte nelle tinte del azzurro cielo che sfumava pian piano in un pallido verde foglia sul soffitto, da cui pendeva un semplice lampadario dotato di tre bracci.

Il pavimento del salone, realizzato parquet, era ricoperto da un tappeto decisamente particolare: una bandiera degli Stati Uniti, con le sue stelle e le sue strisce.

«Prego, accomodatevi», sorrise Steve, indicando ai suoi ospiti un divano ricoperto da un opinabile copri-divano color cannella.

«So che non è il massimo, ma non ero preparato ad accogliervi», si scusò, mentre i quattro ragazzi prendevano posto.

Maya, che aveva raggiunto il divano per ultima, fu costretta ad accomodarsi su uno dei braccioli, sistemandosi come meglio poteva.

“Grazie al cielo non peso troppo”, rifletté con sollievo, “altrimenti, a questo punto, questo divano sarebbe già rotto.”

«Bene», sorrise l’anziano. «Di cosa volevate parlarmi?»

Joy prese dunque la parola e, con voce chiara, narrò all’uomo tutto ciò che avevano affrontato dal momento in cui Valk era giunto sulla Terra: l’accoglienza che il Santuario di New York aveva riservato all’alieno, l’arruolamento di coloro che avrebbero potuto aiutare nella nuova lotta contro Vither, le ricerche svolte da Wong e Valk per localizzare le reincarnazioni delle Gemme dell’Infinito, il piano che lui e Maya avevano escogitato per recuperare tutti i bambini nel minor tempo possibile, il sacrificio compiuto da Magda per salvare il pianeta Pyrus e la piccola Drasta e, infine, i mille libri sfogliati per trovare informazioni su come sfruttare il potere delle Gemme a loro vantaggio.

«...Ed è per questo che siamo venuti a cercarla», concluse lo Stregone Supremo. «Lei che ha vissuto la lotta contro Thanos di prima mano, potrebbe raccontarci cos’è davvero accaduto. Forse, in questo modo, capiremo come utilizzare le Gemme, specialmente ora che si sono incarnate in delle creature viventi.»

Il primo Captain America tacque per diverso tempo, riflettendo a fondo sulla questione.

Quei giovani…

Quei giovani gli ricordavano terribilmente la sua prima missione al fianco degli Avengers, durante il quale avevano dovuto combattere contro Loki e i suoi Chitauri per salvare New York.

Tuttavia, quel nuovo gruppo di eroi avrebbe dovuto affrontato una prova ben più ardua: Thanos si era rivelato uno dei nemici più pericolosi affrontati dagli Avengers, forse persino il peggiore.

Avvertì il cuore stringersi mentre ricordava la loro amara vittoria: Thanos era stato sconfitto grazie al sacrificio di Iron Man e al suo Schiocco.

Malgrado il suo carattere narcisistico e la sua indole saccente, Tony Stark possedeva un posto speciale nei suoi ricordi: le battaglie combattute insieme, le discussioni e i discorsi condivisi, i sentimenti che li avevano spinti ad affrontare i numerosi nemici che minacciavano la pace dell’universo…

Sì, era suo compito aiutare quei ragazzi e permettere loro di sconfiggere Vither senza sacrificare ulteriori vite.

«Dal momento che conoscete molto bene gli eventi che ci hanno condotto alla sconfitta di Thanos, chiedetemi pure tutto ciò che desiderate. Prometto di rispondere alle vostre domande come meglio potrò.»

Joy annuì, grato.

«Le andrebbe di spiegarci la tecnologia che si nascondeva dietro il Guanto dell’Infinito? Le nostre fonti sono piuttosto carenti su questo punto.»

Steve strabuzzò gli occhi azzurri, sconvolto.

Possibile che non sapessero da dove provenissero il Guanto dell’Infinito e la Stormbreaker, l’ascia di Thor?

Eppure, fra i pochi sopravvissuti alla venuta di Thanos e, successivamente, di Vither, erano presenti Wong, uno dei Maestri delle Arti Mistiche più anziani e competenti e Valchiria, la centenaria regina degli Asgardiani.

Dinnanzi all’espressione stranita dell’uomo, lo Stregone Supremo si sbrigò ad aggiungere.

«Sappiamo che sia il Guanto dell’Infinito che la Stormbreaker siano state forgiate dai Nani, ma Wong ci ha riferito che, malgrado il suo impegno, non è mai riuscito a localizzare il luogo dove l’ultimo nano vive. Per nostra sfortuna, non abbiamo mai avuto la possibilità di chiedere a Thor il nome del pianeta e come raggiungerlo. Lei possiede delle informazioni sull’argomento, vero?»

Captain America annuì e si piegò sul tavolino da caffè che aveva di fronte a sé, recuperando la fine bottiglia di vetro e un bicchierino da cocktail sistemato lì accanto.

Sotto gli sguardi increduli dei quattro giovani, si versò un po’ di liquore e lo ingurgitò in un unico sorso.

L’anziano deglutì il liquore senza fare una piega e sorrise, nostalgico.

«Quando ero giovane non bevevo alcoolici poiché li trovavo ripugnanti. Dopo aver assunto il siero del Super-Soldato, non mi facevano più effetto. Tuttavia, dal momento in cui mi sono ritirato qui, non disdegno un bicchierino, ogni tanto. Non posso ubriacarmi, ma il sapore non è affatto sgradevole come credevo in gioventù», ammise, senza rivolgersi a qualcuno in particolare.

Maya abbassò il capo, dispiaciuta.

Era palese che quell’uomo si sentisse un po’ inutile in pensione, specialmente dopo aver trascorso buona parte della sua vita a combattere le forze del male nei panni di Captain America.

Steve Rogers riprese a parlare, strappandola ai suoi pensieri.

«Il nano che state cercando si chiama Eitri e abita su una stella chiamata Nidavellir. Stando a quanto mi raccontò Thor, Thanos, dopo aver costretto i nani a forgiare il Guanto dell’Infinito, spense la loro stella e uccise tutti, tranne Eitri, a cui ruppe entrambe le mani. Tuttavia, Eitri riuscì a ottenere la sua vendetta forgiando la Stormbreaker, l’arma di Thor.»

“Il nome del nano è Eitri e vive su una stella chiamata Nidavellir”, ricapitolò mentalmente Maya, prendendo nota.

Non appena fossero tornati al Santuario di New York, avrebbe chiesto a Wong e Valk di localizzare in fretta quella stella: era certa che insieme, quei due, avrebbero scovato il nascondiglio del nano nel giro di pochi giorni.

«La ringrazio per l’informazione», sorrise Joy con sollievo. «Spero che Eitri sia ancora in vita e possa aiutarci a forgiare un’arma in grado di sfruttare il potere delle Gemme, malgrado ora siano dei bambini.»

Steve annuì lentamente, perso in chissà quale ragionamento.

«Avete altre domande?», chiese poi, gli occhi fissi sul tavolino da caffè.

Paige colse al volo l’occasione.

Si sporse dal divano e sfiorò il braccio di Greyson, che annuì prontamente.

La ragazza prese quindi a segnare, frenetica, mentre l’amico traduceva per lei, in contemporanea.

«Paige dice: “dal momento che lei è, di certo, ancora in buoni rapporti con le alte cariche della S.H.I.E.L.D., vorremo domandarle d’intercedere con quell’organizzazione, per il bene dell’intero universo. Avremo bisogno anche del loro aiuto per sconfiggere Vither e il suo esercito.”»

«Certamente», rispose l’uomo. «Mia moglie, Peggy, ha dato un forte contributo alla fondazione della S.H.I.E.L.D. Direi che la mia opinione vale ancora qualcosa al suo interno!»

«Inoltre», continuò Greyson, gli occhi fissi sulla figura di Paige. «Le chiediamo, per favore, d’intervenire per quanto riguarda me e Greyson. Sarò sincera con lei: sia io che Greyson siamo opera delle menti degli scienziati che lavorano nel reparto di ricerca e innovazione, nell’ala riservata ai progetti Top Secret. Io sono in grado di controllare l’elettricità e i fulmini, mentre Greyson è nato con le straordinarie capacità date dal siero del Super-Soldato. Per fortuna, siamo riusciti a fuggire e ora aiutiamo Detroit come possiamo. Se la S.H.I.E.L.D. sapesse che alcuni dei loro “esperimenti perduti” sono sopravvissuti e sono ora a piede libero, non esiterebbero un attimo a trovarci e internarci di nuovo.»

Paige e Greyson rabbrividirono al solo pensiero di tornare nelle grinfie della S.H.I.E.L.D.

Steve sospirò e scosse il capo, desolato.

«Non temete, ragazzi», li tranquillizzò, versandosi un secondo bicchiere di liquore ambrato. «Parlerò io con Maria Hill e, per quanto riguarda gli esperimenti svolti sugli esseri umani, non dovete più preoccuparvi. Non so se ne siete al corrente, ma, dopo la sparizione dei soggetti 991 e 992, Maria Hill è intervenuta nel reparto di ricerca e innovazione. Tutti coloro che erano rinchiusi al suo interno sono stati liberati e curati, in modo da rimettersi in sesto e svolgere, per quanto possibile, una vita normale.»

Paige si portò le mani alla bocca, sconvolta e sollevata nel contempo.

Greyson, invece, ostentava un sorriso smagliante.

«Suppongo che non lo sapevate, ma non ne sono sorpreso», continuò l’anziano. «L’intera faccenda è stata insabbiata alla perfezione, specialmente per tutelare i soggetti vittime delle sperimentazioni.»

Maya si rallegrò per Greyson e Paige: nessuno avrebbe più sofferto come loro e, coloro i quali erano vittime degli esperimenti, erano al sicuro adesso.

Di certo, l’incontro con il primo Captain America si era rivelato utile.

«Posso aiutarvi in qualche altro modo?»

La giovane Maestra si portò una mano al mento e prese a torturarlo con le dita, riflettendo.

Tuttavia, non le venne nulla in mente.

Joy, accanto a lei, sembrava essere dello stesso avviso.

«La ringraziamo per averci dedicato un po’ del suo tempo», gli sorrise lo Stregone Supremo, prima di alzarsi. «Lei ci ha dato una nuova pista su cui lavorare.»

Steve assentì con un cenno, si levò a sua volta e gli porse la mano.

Joy strinse le sue dita, mettendo fine al loro colloquio.

Il gruppo si avviò quindi verso l’uscita, quando l’anziano richiamò Greyson a gran voce.

«Figliolo», lo apostrofò. «Potrei parlarti un attimo in privato?»

Greyson aggrottò le sopracciglia, ma assentì.

Comprensivi, Joy, Maya e Paige uscirono sul pianerottolo, lasciando il giovane e l’anziano eroe da soli.

«Posso sapere cosa desidera da me?», domandò Greyson, confuso.

Steve gli sorrise e si avvicinò a lui.

«Ho letto il tuo fascicolo, Greyson», gli confessò. «So da quali geni sei stato creato e, devo confessartelo, ho sempre voluto conoscerti. Tuttavia, sapevo che un incendio era stato scatenato dal prigioniero 910 e credevo che tu e Paige fosse morti. Adesso, però, sei qui dinnanzi ai miei occhi. Malgrado tu abbia solo i miei geni, Greyson, sono felice che tu sia sopravvissuto e che sia divenuto un bravo ragazzo.»

Greyson indietreggiò di un passo, sconvolto.

Il suo sogno era appena divenuto realtà: Steve Rogers sapeva di essere il suo padre biologico!

Le sue guance si tinsero di rosso nell’udire il complimento che Captain America gli aveva rivolto.

Un sorriso nacque spontaneo sul suo volto.

Captain America gli aveva appena detto di essere fiero di lui!

«Io… Io la ringrazio, signore», balbettò imbarazzato, ma felice.

«Non darmi del Lei», lo rimproverò l’uomo bonariamente. «Suonerà strano, almeno per un po’, ma tu sei mio figlio e voglio coltivare un rapporto con te. Ovviamente se me ne darai l’occasione. Ti andrebbe di venire a trovarmi ogni tanto per chiacchierare? Mi piacerebbe condividere con te un po’ delle mie passate esperienze. Alcune sono davvero interessanti.»

Greyson strabuzzò gli occhi, domandandosi se avesse udito bene.

Stringere un legame con lui?

Davvero?

D’istinto, Greyson gli gettò le braccia al collo e lo strinse forte a sé, euforico.

Dopo un primo istante di disorientamento, Steve lo cinse a sua volta, sorridendo.

I due restarono a lungo abbracciati e il giovane avvertì una piacevole sensazione di calore espandersi nel suo petto.

Quello era, senza dubbio, affetto.

Malgrado avesse conosciuto suo padre da poco meno di un’ora, sentiva già di volergli bene: non importava che fosse questione di sangue o di immediata simpatia, ma percepiva, nel suo cuore, che poteva fidarsi di quell’uomo.

Quando si separarono, l’anziano eroe si sedette sulla propria poltrona e prese a respirare a grandi boccate, nel tentativo di riprendersi dalle forti emozioni appena avute.

Il ragazzo strabuzzò gli occhi e fece per avvicinarsi, ma l’uomo lo fermò con un cenno del capo.

«Non preoccuparti», lo tranquillizzò. «Con centoventinove anni sulle spalle, è normale che la mia salute sia un po’ compromessa.»

Greyson aggrottò le sopracciglia, ma tacque.

Gli avrebbe chiesto in seguito qual era in realtà la sua situazione di salute.

Fu allora che il giovane udì i suoi compagni bussare in modo frenetico e la voce preoccupata di Maya.

«Dobbiamo andare, Greyson, adesso! La receptionist si è insospettita e ha scoperto che non siamo affatto parenti di Steve. Ha chiamato le guardie e fra poco ci saranno addosso.»

La porta si aprì di scatto e i tre giovani entrarono.

Prima che il ragazzo potesse reagire, Maya gli afferrò il braccio mentre Joy faceva lo stesso con Paige.

«Ci rivedremo molto presto», promise, prima che Maya si teletrasportasse al Santuario di New York.



* * *


17 ottobre 2045, 2.00 P.M.,
177A Bleecker Street,
New York City.


«…E questo è tutto», terminò Maya, sprofondata nella comoda poltrona presente nella biblioteca.

Dopo aver fatto ritorno al Santuario di New York, Joy e Maya avevano convocato Wong e Valk per metterli al corrente delle informazioni raccolte durante la loro visita a Steve Rogers.

Paige e Greyson, invece, avevano deciso di tornare a Detroit per sostituire Harley, che si era occupata momentaneamente della sicurezza della città.

I volti dei due s’illuminarono all’istante, sollevati.

Ora che conoscevano il nome della stella, Nidavellir, localizzarla sarebbe stato davvero semplice.

«Perfetto!», pronunciò Valk, entusiasta. «Dateci un po’ di tempo per svolgere le nostre ricerche.»

Maya e Joy annuirono, soddisfatti.

“Finalmente la situazione volge in nostro favore”, rifletté la giovane Maestra con sollievo.

Il pesante portone in legno dell’ingresso si spalancò e Cooper e Athena entrarono di corsa nella biblioteca.

«Maya!», chiamò Hawkeye, allarmato. «Velia si è arrabbiata con Astid e Drasta e le ha teletrasportate. Inoltre, Kimuack si è spaventato e la camera si è tramutata in un vulcano in eruzione!»

La ragazza si sollevò di scatto dalla poltrona e si precipitò nel corridoio con Joy alle calcagna.

«Cappa!», gridò.

Il mantello la raggiunse levitando e si strinse intorno alle sue spalle mentre i due si gettavano nella camera che Wong aveva trasformato nella stanza dei giochi dei cinque bambini.

Come annunciato da Cooper, Kimuack aveva dato di matto: il pavimento della camera si era tramutato nella bocca di un vulcano, dove la lava bolliva e gorgogliava, pronta a esplodere.

Lapilli e cenere erano ovunque, appestando l’aria.

Esto e il suo pony, Soul, si erano ritirati nell’angolo più riparato della sala, stretti a Momoko.

Velia, invece, tremava rannicchiata su se stessa, a pochi metri dal cratere.

«Wong, occupati di Kimuack e Velia. Maya, tu poni rimedio a questo disastro. Io salvo Esto e Momoko», ordinò secco lo Stregone Supremo.

I due Maestri annuirono all’unisono, pronti.

Fulmineo, Joy si sollevò in aria sfruttando la sua energia interna e raggiunse in volo Momoko, Esto e Soul.

La Maestra aveva evocato una cupola d’energia dalle sfumature arancioni per difendere se stessa e il bambino e, quando lo Stregone Supremo le si affiancò, sospirò sollevata.

«Stringi forte il tuo pony, Esto», ordinò Joy al piccolo. «Adesso vi porterò al sicuro.»

Esto ebbe appena il tempo di abbracciare Soul: il Maestro afferrò la sua spalla e quella di Momoko e si teletrasportò nel suo studio, il luogo più sicuro del Santuario.

Wong sollevò la tremante figura di Velia dal pavimento con una mano e, dopo aver evocato in tutta fretta un portale che conduceva allo studio di Joy con il suo Sling Ring, la spinse al suo interno.

Poi, raggiunse Kimuack: la reincarnazione della Gemma della Realtà, fermo a pochi centimetri dalla bocca del cratere, osservava la lava con l’unico occhio sbarrato, preda del panico.

Il suo respiro era rapido e affaticato.

Lentamente, per non spaventarlo, Wong gli pose una mano sulla spalla esile e prese ad accarezzargli la testa.

«Calmo, Kimuack, calmo», pronunciò, pacato. «Ricorda il nostro addestramento, bambino. Respira e pensa a qualcosa di piacevole.»

Mentre Wong tentava di calmare Kimuack, la Cappa della Levitazione condusse Maya a pochi metri al di sopra del cratere.

La giovane Maestra infilò il suo Sling Ring e sollevò il braccio al soffitto, disegnando rapida un portale.

Subito, litri e litri d’acqua cristallina si riversarono nel cratere.

La lava, a contatto con l’acqua, cominciò a sfrigolare e una densa nuvola di vapore bianco si scatenò.

Wong evocò una cupola magica intorno a sé e a Kimuack per proteggersi dalla fitta nube.

Quando il magma sembrò del tutto raffreddato, Maya chiuse il portale che aveva aperto con l’oceano e ne evocò un secondo collegato con il cielo che sovrastava New York, in modo che il vapore potesse disperdersi senza conseguenze.

«Portami giù», ordinò infinr alla Cappa. «Devo concentrarmi per recuperare le bambine.»

Il suo oggetto magico obbedì all’istante e, poco dopo, i suoi stivali sfiorarono il pavimento ancora bollente.

La ragazza chiuse gli occhi e abbandonò il suo corpo, evocando la sua Proiezione Astrale.

Il suo corpo, privo di spirito, rimase in piedi solo grazie alla forza del mantello.

La giovane lo ringraziò con un rapido cenno, chiuse gli occhi ed espanse al massimo la sua mente, alla ricerca delle auree delle Gemme dell’Anima e del Potere.

Il cuore le balzò nel petto quando comprese in quale luogo fossero finite le due bambine: il pianeta acquatico sul quale era quasi affogata durante la sua visita su Raback.

Tornò nel suo corpo con un guizzo e si teletrasportò, concentrandosi sulle due auree.

Avvertì la familiare sensazione di sollevamento ed espirò profondamente, pronta ad affrontare l’acqua.

Quando raggiunse la sua destinazione, la visione che le si mostrò dinnanzi le gelò il sangue nelle vene: Astrid era ormai cianotica mentre Drasta era svenuta.

Allarmata, Maya raggiunse le bambine con un paio di bracciate e afferrò i loro abiti.

Nell’attimo in cui avvertì il fiato mancarle, raggiunse l’equilibrio del corpo e si teletrasportò al Santuario.

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Capitolo 24
*** Nuovi sviluppi ***


18 ottobre 2045, 3.00 A.M.,
177A Bleecker Street,
New York City.


«Maya!», la chiamò una voce nell’oscurità. «Maya, svegliati!»

La giovane, immersa nelle colti fino al collo, mugugnò infastidita.

“Chi è che disturba a quest’ora?” si lamentò mentalmente. “È notte fonda e sono ancora esausta!”

Infatti, dopo aver salvato le bambine, Maya si era occupata di rianimare Drasta, mentre Athena e Deborah si erano catapultate su Astrid, stringendola forte fra le braccia.

Astrid si era stretta alle sue due mamme, scoppiando in un pianto liberatorio.

Grazie al cielo, Deborah era riuscita a contenere Raptor, altrimenti la situazione sarebbe davvero precipitata.

Maya aveva dovuto infondere metà della sua energia vitale nel corpo della bambina prima che riaprisse gli occhi e rigettasse tutta l’acqua che le era penetrata nei polmoni.

La ragazza aveva passato con lentezza la mano sulla schiena di Drasta nel tentativo di rassicurarla ed era rimasta con lei finché non si era tranquillizzata, poi l’aveva affidata a Joy.

Poi, con la testa che le vorticava a causa dello sforzo, aveva sgridato duramente Velia, confinandola nella sua stanza finché lei e gli altri non avessero elaborato una punizione abbastanza severa da farle comprendere il madornale errore compiuto.

Quando la reincarnazione della Gemma dello Spazio aveva lasciato la camera, Cooper si era affiancato a Maya e le aveva cinto un fianco con il braccio, sorreggendola.

La Maestra l’aveva ringraziata con un caldo sorriso, prima di congedarsi per raggiungere la sua camera e riposare un po’.

Una volta che si era adagiata sul letto, era subito sprofondata in un sonno privo di sogni.

«Maya!», la chiamò di nuovo la voce. «Joy mi ha ordinato di svegliarti. Wong e Valk sono riusciti a localizzare Nidavellir, la stella di cui Captain America vi ha parlato.»

«Joy non può aspettare le sette di domattina?», replicò, esausta.

Malgrado la stanchezza, si mise a sedere sul letto, scoprendo le braccia e il petto, avvolti soltanto da una leggera t-shirt.

Nella penombra della sua camera, Maya riconobbe la bassa statura e la figura esile di Harley.

«Lo Stregone Supremo dice che è urgente», le riferì la ragazza, solerte. «Si scusa di averti disturbata, ma la tua presenza è necessaria per prendere una decisione.»

La giovane Maestra assentì e si alzò, strofinandosi gli occhi cespugliosi con le nocche.

«Andiamo allora», acconsentì, calzando le pantofole grigie ai piedi del letto.

La Cappa della Levitazione non esitò a raggiungere la sua Maestra e posarsi sulle sue spalle, riscaldandola.

Maya ringraziò il suo mantello con una leggera pacca e seguì Harley lungo il freddo corridoio illuminato da eleganti lampade, intervallate da bassi tavolini a tre gambe su cui erano sistemati alcuni oggetti magici.

Durante i suoi dieci anni di addestramento, Maya li aveva studiati tutti, prendendo nota delle loro facoltà magiche e del loro utilizzo.

Quando giunsero di fronte allo studio dello Stregone Supremo, Harley si fermò e le fece cenno di entrare.

L’altra annuì e si accostò alla porta.

Bussò brevemente ed entrò senza attendere risposta.

Valk e Wong erano accomodati di fronte alla faraonica scrivania di Joy.

Maya notò all’istante che, sul piano di legno finemente lavorato, era stata distesa la mappa stellare su cui erano state localizzate, in precedenza, le cinque Gemme dell’Infinito.

«Harley mi ha riferito che mi cercavi con urgenza», si rivolse all’amico, prima di raggiunse l’unica poltroncina vuota e accomodarsi. «Posso sapere il motivo di tanta fretta?»

Soffocò a stento uno sbadiglio mentre Joy deponeva la tazzina sul suo piattino dopo aver sorseggiato il suo tè.

«Illustrale ciò che hai spiegato a me poco fa», domandò a Valk, indicandogli Maya.

L’alieno annuì lentamente e, con l’aiuto di Wong, le riferì ciò che avevano scoperto.

«Nidavellir è una piccola stella non molto lontano da qui e Wong è riuscito a localizzare l’aura del nano che stiamo cercando, Eitri.»

Valk indicò uno dei globi che levitava al di sopra della mappa e Maya l’osservò con attenzione: si trattava di una struttura circolare, formata da diversi strati concentrici di metallo scuro.

Al suo centro, brillava il nucleo della stella, una fonte di luce bianca dai riflessi azzurri e viola.

«Comprendo che mettermi al corrente di quanto avete scoperto sia molto importante, ma non capisco perché mi abbiate tirato giù dal letto alle tre del mattino», domandò, ancora infastidita.

Lo sguardo di Valk si adombrò.

«La questione di Nidavellir era solo il prologo, in realtà», continuò l’alieno. «Il vero motivo per il quale ti abbiamo convocato qui riguarda Tanar, il mio protetto. Ti confesso che, mentre lavoravo con Wong per localizzare le cinque reincarnazioni delle Gemme dell’Infinito, gli ho domandato di tenere d’occhio Tanar per accertarmi che stesse bene. Fino a oggi, il bambino è rimasto sull’astronave di Vither e, a detta di Wong, è in buona salute. A quel punto, non è stato difficile per me e Wong, con l’aiuto di Momoko e Harley, localizzare le auree di tutti coloro che lavorano per Vither.»

S’interruppe e sospirò, rassicurato dall’apprendere che il suo protetto fosse vivo e ben nutrito.

Maya si sistemò meglio sulla poltrona, improvvisamente interessata.

Forse, se fossero stati abbastanza accorti, avrebbero potuto strappare Tanar dalle braccia di Vither.

«Tuttavia, qualcosa di strano e preoccupante si è verificato negli ultimi giorni: una navicella, con a bordo il braccio destro di Vither, si è staccato dalla nave madre e si sta dirigendo rapidamente verso la Terra.»

La giovane Maestra strabuzzò gli occhi, sconvolta da quella notizia.

Vither era davvero in grado di localizzare le Gemme dell’Infinito?

E, se ne era davvero in grado, perché non aveva recuperato subito le reincarnazioni delle Gemme?

Perché attendere otto mesi?

«Questo braccio destro è davvero solo?», domandò, meditabonda. «Non è accompagnato da Vither o da qualcun altro?»

«No, è sola», rispose prontamente Wong.

Maya si portò una mano al mento, pensierosa: se si trattava davvero di un intimo sgherro di Vither, perché inviarla sulla Terra, nella tana del lupo?

«Vi siete almeno fatti un’idea della ragione per il quale questo individuo sia diretto sulla Terra?», s’informò infine.

Valk annuì, greve.

«Io e Wong abbiamo elaborato una nostra teoria: dal momento che siamo in possesso delle cinque reincarnazioni delle Gemme dell’Infinito, credo abbia deciso d’inviare sul nostro pianeta una sorta di spia, in modo da avere un punto più preciso della situazione.»

Maya assentì a sua volta, preoccupata.

Quell’informazione cambiava del tutto le carte in tavola: Vither aveva iniziato a muoversi e ben prima dei dodici mesi pronosticati da Valk durante il loro primo incontro.

Era vitale dirigersi subito su Nidavellir e chiedere consiglio a Eitri, in modo da sconfiggere Vither una volta per tutte.

«Va bene», proferì infine, decisa. «Direi che è il caso di dividerci. Un piccolo gruppo di noi, tre o quattro componenti al massimo, si dirigerà verso Nidavellir per parlare con Eitri. Coloro che resteranno sulla Terra avranno il compito di trovare questa fantomatica spia di Vither ed estorcerle il maggior numero d informazioni possibili. Joy, se non ti dispiace, affiderai a te il compito di localizzare il braccio destro di Vither: possiedi delle doti diplomatiche decisamente migliori delle mie e sono certo che ricorrerai alla violenza solo se costretto.»

S’interruppe e volse lo sguardo allo Stregone Supremo.

Joy non esitò ad assentire, concorde.

La ragazza lo ringraziò con un sorriso e si alzò, pronta a congedarsi.

«Wong, Valk», continuò. «Vi ringrazio molto per l’informazione, avete fatto un ottimo lavoro.»

Valk arrossì imbarazzato mentre Wong si limitò a un rapido cenno del capo.

«Ora, Valk, mi piacerebbe che tu venissi con me su Nidavellir. Di certo avrai un’idea di come muoverti su quella stella, dal momento che siete stati voi a localizzarlo.»

«Conta pure su di me, Maya», rispose subito il ragazzo, un’espressione determinata ritratta sul volto. «Quando partiamo?»

«Subito, il tempo di svegliare gli altri due componenti della nostra spedizione.»



* * *


18 ottobre 2045, 3.45 A.M.,
177A Bleecker Street,
New York City.


Maya si accostò alla pesante porta che divideva la camera dal corridoio e bussò con delicatezza.

Attese qualche istante.

Silenzio.

Spazientita, bussò di nuovo, più forte.

«Athena, sono Maya! So che è presto, ma devo parlarti. È urgente», esclamò, sperando di non svegliare anche Deborah, Momoko e Cooper, che riposavano nelle camere attigue.

Non udì alcuna risposta.

Sollevò gli occhi al soffitto, seccata, domandandosi dove potesse essere finita la figlia di Thor, specialmente a un orario insolito come le tre del mattino.

Fu allora che una porta si aprì alle sue spalle.

“Brava Maya” rifletté la ragazza, dandosi della stupida. “Sei riuscita a svegliare qualcuno. Spera soltanto non sia Momoko, altrimenti preparati a ricevere una sfuriata. Sai quanto tiene al suo sonno!”

«Maya», sussurrò una voce mascolina.

La giovane Maestra sospirò di sollievo e si voltò, incontrando lo slanciato profilo di Cooper.

Subito, le sue gote si colorarono di rosso per l’imbarazzo e la ragazza indietreggiò, colta alla sprovvista.

L’uomo non indossava altro che un paio di boxer!

“Su, non essere stupida!” si rimproverò. “Hai ventidue anni e ti imbarazzi davanti a un uomo in mutande?”

«Cooper», rispose, sforzandosi di dare un contegno alla sua voce. «Mi dispiace averti svegliato così. Avrei bussato anche alla tua porta, certo, ma...»

Hawkeye aggrottò le sopracciglia, confuso.

«Per quale motivo avresti bussato alla mia porta?», domandò, facendosi più vicino.

Maya deglutì a vuoto un paio di volte, la bocca improvvisamente arida.

Malgrado la mente le gridasse di spiegare in fretta la situazione a Cooper e recuperare Athena per raggiungere Nidavellir, la giovane non riusciva a emettere un fiato.

«A cosa devo tutto questo imbarazzo?», domandò l’uomo, fermandosi a un passo da lei. «Credevo avessimo superato la fase del “appena conosciuti”.»

«Infatti è così, ma vederti in queste condizioni è imbarazzante!», rispose lei, abbassando gli occhi sul pavimento. «Sai, Joy e Wong non sono abituati ad andare in giro senza vestiti!»

Cooper rise di fronte all’imbarazzo dimostrato da Maya.

Era ovvio che la situazione le sembrasse strana: sua madre Paige l’aveva affidata a Strange alla tenera età di dodici anni e la ragazza era rimasta al Santuario per ben dieci anni, dedicandosi allo studio e all’apprendimento della magia.

Evidentemente, Maya aveva conosciuto soltanto la compagnia di Stephen, Magda, Joy e Wong e nessuno di loro sembrava tipo da girare per il Santuario in mutande.

Forse era meglio tornare nella sua camera e infilarsi una t-shirt e un paio di pantaloni, prima che la ragazza stramazzasse al suolo per la vergogna.

La giovane allungò una mano tremante verso la sua e la strinse con delicatezza.

«Mi dispiace per la mia reazione», si scusò, sollevando gli occhi su di lui.

Maya era ancora rossa in volto, ma gli stava sorridendo con dolcezza.

Gli scuri capelli in disordine, le gote arrossate e l’ampia t-shirt le donavano un aspetto innocente e ingenuo che trovava adorabile.

Sollevò gli occhi al cielo e sorrise fra sé e sé.

Certo che si era preso davvero una bella cotta per quella ragazza.

D’istinto, pose le mani sui suoi fianchi e la strinse a sé.

Maya avvertì il cuore accelerare i suoi battiti, ma non si oppose a quel contatto: Cooper le piaceva e, in fondo, cosa le impediva di godersi quell’istante?

Dal momento in cui l’aveva baciata, a New Asgard, aveva riflettuto a lungo sui sentimenti che provava per quell’uomo.

Infine, si era ritrovata ad ammettere che le sarebbe piaciuto molto approfondire la loro conoscenza.

«Cooper», sussurrò. «Ricordi quel che ti dissi a New Asgard?»

L’uomo annuì, le sopracciglia aggrottate.

Dove voleva arrivare?

«Volevo confessarti che, una volta conclusa la storia di Vither, mi piacerebbe molto uscire con te, conoscerti meglio… Insomma, fare ciò che le persone “normali” fanno. Tu che ne pensi?», gli confessò, il volto in fiamme e la voce tremante.

Cooper strabuzzò gli occhi cerulei, allibito.

La ragazza gli aveva appena confessato di voler uscire con lui?

Avvertì il cuore perdere un battito mentre la felicità si faceva largo nel suo petto.

La donna di cui si era innamorato aveva apertamente affermato di volerlo frequentare!

Al culmine della gioia, si piegò su di lei e premette le labbra sulle sue.

Maya chiuse gli occhi e aprì leggermente le labbra, lasciando che le loro lingue si intrecciassero in una tenera danza.

Il solito brivido di piacere si espanse lungo la sua spina dorsale e la giovane si beò di quel contatto.

Le mani dell’uomo scesero ad accarezzarle la schiena, prima di fermarsi sui fianchi.

La bocca di Cooper era così dolce, le sue mani così calde… era forse quello l’amore?

Portò le braccia al collo dell’uomo e lo strinse a sé, nel tentativo di eliminare i quasi quindici centimetri che li separavano.

Cooper l’assecondò, piegandosi un po’ in avanti.

Quando si separarono, a corto d’aria, lui la tenne stretta a sé.

«Ehi», lo richiamò lei, ridendo. «Non vado da nessuna parte.»

Hawkeye rise a sua volta, quando s’udirono dei leggeri passi provenire dalla vicina camera, quella appartenente a Deborah.

Maya non ebbe il tempo di liberarsi dalla stretta di Cooper che la porta si aprì e Athena s’inoltrò nel corridoio.

Avvolta in una vestaglia rosa un po’ troppo stretta, i lunghi capelli biondi in disordine e il volto privo di trucco, la donna sembrava molto più giovane e umana agli occhi della Maestra, abituata a vederla impeccabile nella sua aderente divisa della S.H.I.E.L.D.

Deborah, invece, era ferma sulla soglia della stanza con addosso un’ampia camicia da notte bianca che faceva piacevolmente contrasto con la sua pelle color ebano.

Quando Athena incrociò gli sguardi atterriti di Maya e Cooper, non poté fare a meno di ghignare, maliziosa.

«Bene, bene, bene», mormorò, scandendo le parole. «Cooper Barton e Maya McInnos, chi l’avrebbe mai detto?»

«Potrei dire la stessa cosa su di te, Mantide», rispose Cooper, nello stesso tono. «Tu e Deborah siete una coppia piuttosto affiatata, da quanto ho potuto udire questa notte.»

La figlia di Thor ridacchiò, mentre Deborah, ferma sulla soglia, abbassò gli occhi al pavimento, fortemente a disagio.

Athena raggiunse la sua compagna e l’avvicinò a sé, cingendola per un fianco.

La giovane Maestra s’intenerì di fronte a quella scena: la dottoressa meritava davvero un po’ di felicità, soprattutto dopo aver affrontare così tante difficoltà.

Lei, Athena e la dolce Astrid avevano composto una piccola famiglia che, probabilmente, una volta sconfitta Vither, sarebbe sopravvissuta.

«Nonostante mi faccia molto piacere sapere che Cooper si sia svegliato dal suo stato di coma emotivo, posso domandarti cosa ci fai qui a quest’ora, Maya?», domandò Mantide, riportando la giovane alla realtà.

Si separò da Cooper e assunse un’espressione seria.

«Credo sia giunto il momento di mettervi al corrente della nostra nuova missione.»



* * *


18 ottobre 2045,
177A Bleecker Street,
New York City.


La Cappa della Levitazione si strinse intorno alle spalle di Maya e quest’ultima sorrise.

Diede uno sguardo allo specchio, osservando il proprio riflesso: indossava una casacca a maniche lunghe e un paio di pantaloni nei toni dell’azzurro, pesanti stivali al ginocchio tenuti fermi da bende nere, una tunica a giromanica argentata aperta sul davanti e tenuta stretta in vita da una cintura intrecciata.

Studiò il suo volto nello specchio, controllando che lunghezza dei suoi ondulati capelli scuri sfiorasse appena le spalle.

Sfiorò con delicatezza le ciocche bianche presenti tra i suoi capelli e sorrise nostalgica al ricordo di Doctor Strange, il suo maestro.

D’istinto si domandò se, ovunque fosse disperso, il suo maestro fosse in grado di vederla e cosa ne pensasse delle sue decisioni.

Stava davvero prendendo le giuste scelte, insieme a Joy e al resto degli eroi che aveva reclutato?

Il suo sguardo cadde sull’orologio appeso alla parete: le cinque del mattino.

Era giunta l’ora di partire per Nidavellir.

Si diresse verso la porta e l’aprì, lasciandosi alle spalle la sua camera.

Raggiunse in tutta fretta la biblioteca, divenuta oramai il loro punto di ritrovo.

Quando vi entrò, notò che Cooper e Athena indossavano le uniformi della S.H.I.E.L.D., composta da casacca senza maniche e pantaloni a stampa militare per il primo e un’aderente tuta nera per la seconda.

Valk aveva optato invece per la tuta da combattimento nera con la quale era giunto sulla Terra.

«Siamo pronti a partire, allora», convenne.

I tre annuirono decisi e Maya recuperò il suo Sling Ring, agganciato alla cintura intrecciata.

Si concentrò dunque sulle immagini carpite dalla memoria di Wong, l’unico ad aver visto la superficie della stella grazie alla sua Proiezione Astrale.

Portò in avanti una mano per disegnare il portale, quando la porta si aprì alle loro spalle.

Deborah apparve sulla soglia, portando fra le braccia Eddie, il suo gatto nero.

«Vengo anch’io», pronunciò, avvicinandosi ad Athena e Cooper. «È giunto il momento che faccia la mia parte!»

I quattro le riservarono occhiate confuse.

«Deborah», la chiamò Athena, dolcemente. «Piacerebbe anche a me che ci affiancassi in questa missione, ma è essenziale che tu resti qui al Santuario: Astrid non si è ancora ripresa da quanto accaduto ieri e, soprattutto, Joy ha bisogno del tuo aiuto per trovare la spia di Vither e interrogarla. In caso la situazione degenerasse, Raptor sarebbe molto utile.»

La scienziata scosse il capo con forza e lasciò Eddie libero di raggiungere la vicina poltrona.

«Astrid sarà consolata da Momoko, Victor e gli tutti altri. È una bambina forte e saprà resistere un giorno senza di me. Inoltre, Joy è lo Stregone Supremo e sono certa che ha la situazione sotto controllo», replicò, gli occhi scuri fissi in quelli della compagna.

«Partirei più tranquilla sapendoti al sicuro», tentò nuovamente Mantide, avvicinandosi a lei.

Si piegò leggermente sulle ginocchia per raggiungere l’altezza della sua compagna e le baciò la fronte.

L’erpetologa fece per replicare, quando l’agente della S.H.I.E.L.D. la strinse a sé, afferrandole per i fianchi.

«Ti prego, ascoltami», la zittì. «So che saresti molto utile su Nidavellir, ma, per favore, resta qui al Santuario. Fallo per me. Dall’istante in cui siamo tornate dalla Finlandia con Astrid, quando mi hai confessato i tuoi sentimenti, è cresciuto dentro di me il bisogno di proteggere con tutte le mie forze te e la bambina. Per questa volta, non correre inutili rischi e preparati invece per la lotta che si profila all’orizzonte contro Vither.»

«Ma...», tentò di replicare la scienziata, quando Athena posò le labbra sulle sue.

Maya e Cooper distolsero lo sguardo, imbarazzati, mentre Valk osservò le due con crescente interesse.

Sul suo pianeta era vietato scambiarsi qualsiasi tipo di dimostrazione di affetto poiché gli anziani Saggi del Consiglio sostenevano che le effusioni fisiche inibivano la ragione.

L’unione dei corpi era consentita solamente per procreare figli e permettere alla loro popolazione di sopravvivere.

Poco dopo, quando le due donne si separarono, Deborah aprì le palpebre e annuì lentamente.

«Va bene», s’arrese infine. «Solo per questa volta, però. Promettimi che starai molto attenta. Io e Astid non ti perdoneremo mai se dovesse accaderti qualcosa!»

La figlia di Thor la baciò nuovamente, grata.

«Starò attenta, non temere», la tranquillizzò, prima di rivolgersi nuovamente a Maya. «Ora possiamo partire.»

La giovane Maestra assentì e rivolse all’erpetologa uno sguardo incoraggiante.

Maya si concentrò di nuovo sulla visione di Nidavellir e prese a disegnare il portale che li avrebbe condotti da Eitri.

Ben presto, un guizzante turbine d’energia aranciata comparve nella vicina parete e i quattro la attraversarono senza alcun timore.

Athena fu l’ultima e, prima di sparire del tutto, soffiò a Deborah un ultimo bacio.

Sarebbe tornata sana e salva, costasse quel che costasse.



Angolo dell'autore:
Salve e benvenuti a questo nuovo aggiornamento!
Come promesso, i nostri hanno rincontrato una vecchia conoscenza che spero vi abbia fatto piacere rivedere: l'unico e inevitabile Captain America!
Nel prossimo aggiornamento, venerdì sera, rivedremo anche un personaggio che senza dubbio uno dei miei preferiti: Eitri, l'armaiolo degli dei.
A presto!

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Capitolo 25
*** Eitri ***


18 ottobre 2045, 6:00 A.M.,
Nidavellir.


Maya strabuzzò gli occhi alla vista di Nidavellir, la stella che ospitava l’ultimo nano rimasto.

Un lucente nucleo interno dai riflessi azzurri e viola rischiarava gli anelli di metallo su cui, per molti secoli, avevano abitato i nani.

Quattro raggi d’energia bianca partivano dal nucleo della stella e si riversavano all’interno di alte torri che fungevano da fonte d’alimentazione per la fucina.

Sul diverse superfici della stella correvano sottili tubature attraverso il quale era incanalata l’energia di Nidavellir, in modo da illuminare il luogo.

«Raggiungiamo la fucina più vicina, forza», li incoraggiò Athena, prendendo a camminare. «Dobbiamo trovare Eitri e spiegargli la situazione, prima che sia lui a trovare noi e considerarci una minaccia.»

Cooper assentì, afferrò la mano di Maya e la spinse a seguirlo, mentre Valk, con gli occhi fissi sulla straordinaria costruzione, si mosse solo quando Athena lo richiamò da lontano, esortandolo a sbrigarsi.

Man mano che si avvicinavano alla prima fucina, Maya osservò ciò che la circondava con occhi colmi di meraviglia.

Accompagnati dal clangore metallico provocati dai loro stivali sul pavimento, la giovane Maestra ammirò l’universo infinito che si stendeva intorno a loro, soffermandosi sui lontani bagliori degli altri corpi celesti.

«L’Universo è davvero meraviglioso, non credi?», le domandò Cooper, attirando la sua attenzione.

Maya gli sorrise d’istinto, accorgendosi solo allora che l’uomo stringeva le dita intorno al suo polso.

«Prima che il maestro Strange sparisse, io, lui e Joy eravamo soliti osservare il cielo stellato per apprendere le diverse costellazioni. Malgrado sapessimo che, grazie ai nostri poteri, avremmo potuto localizzare le stelle e i pianeti senza eccessive difficoltà, studiare il cielo notturno insieme era divertente. Strange, Joy, Magda e Wong sono stati la mia seconda famiglia, soprattutto dopo che mia madre Paige ha perso la memoria a causa dell’intervento chirurgico che le ha salvato la vita», confessò a Hawkeye, nostalgica.

L’uomo annuì, comprensivo.

«Anche io e i miei fratelli, insieme a nostro padre Clint, trascorrevamo molto tempo nella natura. Nostro padre adorava gli spazi aperti, specialmente quelli dove poteva insegnarci il tiro con l’arco», le narrò, il naso all’insù per osservare le stelle. «Mia sorella Lila è particolarmente dotata nel tiro con l’arco ed è divenuta una sorta di guardiana della notte a New York. Nate, invece, è sempre stato più interessato ai suoi studi di legge piuttosto che alla protezione del nostro pianeta.»

Maya aggrottò le sopracciglia, confusa.

Nella voce di Cooper aveva letto una leggera nota di rimprovero: che Cooper non fosse in buoni rapporti con i suoi fratelli?

Fece per dare voce ai suoi dubbi, quando i suoi occhi scuri incontrarono quelli chiarissimi dell’uomo.

Con un tonfo al cuore, riconobbe al loro interno un misto di tristezza, nostalgia e rabbia: qualcosa di grave doveva essere accaduto fra Cooper e la sua famiglia.

Maya decise di non indagare ulteriormente.

Avrebbero affrontato quell’argomento in un’altra circostanza e solo se lui avesse desiderato aprirsi con lei.

Al momento, era necessario restare concentrati sulla missione.

«Siamo arrivati», pronunciò Athena qualche attimo dopo, fermandosi di fronte a una delle alte strutture metalliche che costituivano le fucine.

La Maestra osservò con attenzione la torre, studiandone i dettagli.

Un raggio d’energia proveniente dal nucleo s’incanalava in un unico punto di raccoglimento dalla forma concava.

Da lì, attraverso un intricato sistema di tubi e manopole, si distribuiva in ogni angolo della struttura, alimentando i fuochi sopra il quale erano sistemati degli enormi calderoni traboccanti di metallo in stato liquido.

«Eitri!», chiamò Athena a gran voce. «Eitri!»

I quattro attesero con il fiato sospeso una risposta, ma nessuno rispose.

Un minuto più tardi, la figlia di Thor tentò nuovamente.

Di nuovo, non ottennero alcuna risposta.

«Proviamo ad amplificare un po’ la tua voce», propose Maya.

Se non avessero trovato Eitri, sarebbero stati in grossi guai.

Solo il nano era in grado di aiutarli a trovare uno stratagemma per utilizzare le cinque gemme dell’Infinito a loro disposizione.

Senza di lui, si sarebbero trovati in serie difficoltà.

Raggiunse Athena e avvicinò la mano alla sua gola, sfiorando con l’indice e il medio il suo collo.

Evocò l’incantesimo e, poco dopo, le sue dita si tinsero di una calda luce arancione.

«Ora prova a chiamare Eitri», chiese a Mantide.

«Tappatevi le orecchie», avvertì poi Valk e Cooper, un attimo prima che Athena gridasse.

La sua voce, ora amplificata dall’incantesimo di Maya, rimbombò per l’intera Nidavellir.

I due uomini si portarono le mani alle orecchie, rintronati dall’urlo della donna.

Quando la voce di Athena si fu spenta, il silenzio calò nuovamente sulla stella.

I quattro attesero con il cuore sospeso mentre i secondi si susseguivano, sperando che il nano rispondesse.

I secondi si trasformarono presto in minuti e la speranza prese a scemare.

«Su, ragazzi», esordì Valk. «È evidente che, malgrado questa stella sia in funzione, non…»

S’interruppe brusco quando s’udì un tonfo, seguito poi da un secondo.

E un terzo.

Athena sorrise soddisfatta nell’istante in cui un’enorme figura comparve di fronte ai loro occhi.

Come aveva anticipato loro Wong, Eitri si rivelò una creatura molto particolare: gambe e braccia corte rispetto al busto, capo ricoperto da arruffati capelli lunghi e una folta barba scura.

Solo gli occhi verdi, contornati da lunghe ciglia, e il naso schiacciato erano visibili.

Il nano indossava un completo nero composto da casacca a maniche lunghe, pantaloni stretti rinchiusi in alti stivali al ginocchio e un grembiule color marrone scuro da maniscalco.

Le sue mani, protesi di metallo dai riflessi argentei, luccicavano alla luce emanata dalla stella.

La struttura fisica di Eitri poteva ricordare un uomo affetto da nanismo, ma la sua statura titanica smentivano del tutto l’immagine del nano presente nella mente di Maya.

Il nano li raggiunse con poche falcate, un’espressione diffidente ritratta sul volto.

«Eitri!», gridò Athena, attirando su di sé gli occhi smeraldini del fabbro. «Sono io, la figlia di Thor! Ti ricordi di me? Mio padre portò me e mio fratello Perseus sulla tua stella quando avevamo appena cinque anni.»

L’ultimo abitante di Nidavellir studiò l’aspetto della donna per diversi istanti, ricercando nella sua memoria il profilo di Athena.

«Athena», sussurrò, strabuzzando gli occhi. «È passato molto tempo dall’ultima volta che ti ho visto! Qual buon vento ti riporta sulla mia stella? Necessiti di qualche nuova arma per te o per tuo padre?»

La ragazza abbassò gli occhi al pavimento, dispiaciuta.

Eitri non sapeva dunque del primo scontro tra gli Avengers e Vither.

«Dovremo parlare di molte cose, Eitri», realizzò con tristezza. «In principio, però, vorrei presentarti i miei compagni di viaggio. Loro sono Maya, Cooper e Valk.»

Indicò in successione la giovane Maestra, Hawkeye e il guardiano di Tanar.

Il nano scrutò a lungo i tre, come se volesse analizzare persino le loro anime.

Infine, annuì in chiaro segno di saluto e riportò lo sguardo su Athena, in attesa che cominciasse il suo lungo resoconto.

La figlia di Thor tacque un istante per raccogliere i molti pensieri che le vorticavano nella mente, poi iniziò.



* * *


18 ottobre 2045, 7:00 A.M.,
Nidavellir.


«...Ed è per questo che siamo qui, Eitri. Abbiamo bisogno del tuo aiuto: conosci una tecnologia che potrebbe convogliare l’energia delle cinque Gemme a nostra disposizione, in modo da sconfiggere Vither una volta per tutte?», concluse Athena.

Il nano rimase in silenzio, il volto adombrato dalle rivelazioni della donna: possibile che gli Avengers, coloro che avevano sconfitto Thanos circa ventitré anni prima, fossero scomparsi tentando di fermare il braccio destro del Titano Pazzo?

Senza di loro, chi avrebbe combattuto Vither e la sua seconda venuta?

Subito, i suoi occhi si fermarono sulla compagnia che Athena aveva portato con sé.

Quei tre sembravano tipi svegli e dal cuore buono, ma erano giovani…

Troppo giovani per combattere contro una donna che era sopravvissuta alla sconfitta di Thanos e, nella propria pazzia, aveva spedito la squadra di eroi più promettenti della loro galassia in una dimensione alternativa.

«Eitri», lo chiamò Maya, notata la sua espressione pensierosa. «So che ti sembriamo degli sprovveduti ad affrontare Vither dal momento che, di certo, ai tuoi occhi appariamo come dei ragazzini. Tuttavia, ti assicuro che faremo del nostro meglio e anche di più per fermare Vither! È nostro dovere almeno tentare con tutte le nostre forze di eliminarla, soprattutto per le sei creature innocenti in cui le Gemme dell’Infinito si sono reincarnate! Ora, dimmi, puoi aiutarci oppure no?»

Eitri continuò a tacere, gli occhi fissi in quelli colmi di determinazione della giovane Maestra.

Cooper e Valk si portarono accanto alla giovane, pronti a darle man forte.

Athena assentì a sua volta, determinata.

Il nano sorrise di fronte a quella scena: anche negli occhi di Thor brillava quella stessa luce quando, tempo addietro, si era diretto su Nidavellir per chiedergli di forgiare un sostituito al suo Mijolnir.

Fu allora che prese la sua decisione.

«Vi aiuterò», sentenziò, «ma non sarà affatto semplice. Necessitiamo di una struttura su cui sistemare le reincarnazioni delle Gemme dell’Infinito. Forgerò dei piedistalli in grado di resistere alla potenza delle Gemme su cui sistemare i bambini. Quando il potere delle Gemme sarà canalizzato nella struttura, potremo creare un’arma simile al Guanto dell’Infinito. Allora, avrete in mano uno strumento estremamente potente da utilizzare contro Vither e i suoi uomini.»

Sorrisi sollevati si aprirono sui volti dei quattro.

«Tuttavia», riprese Eitri, «mi servirà un po’ di tempo e altre informazioni su Vither e sulle Gemme a nostra disposizione.»

«Non abbiamo molto tempo a nostra disposizione», rispose Valk, mesto. «Secondo la mia previsione, Vither avrebbe impiegato circa un anno terrestre per recuperare la seconda Gemma, presente sulla Terra, ma qualcosa è cambiato. Prima di dirigerti sulla tua stella, infatti, abbiamo scoperto che una navicella si è distaccata dall’astronave di Vither e si sta dirigendo verso il pianeta Terra.»

Eitri aggrottò le folte sopracciglia, preoccupato.

«Questa non ci voleva proprio», rimuginò il nano fra sé e sé. «Dovrò accelerare di molto un lavoro che avrebbe impiegato circa due mesi terrestri.»

Si rivolse poi a Maya.

«Con la potenza delle Gemme saresti in grado di spedire Vither e i suoi seguaci nella dimensione in cui sono stati spediti gli Avengers?»

«Sì, ma finirei con il morire. Le Gemme dell’Infinito possiedono una potenza tale da eliminare colui che tenta di utilizzarle, specialmente se terrestre. Tony Stark è morto proprio per questo motivo.»

Il nano si adombrò ulteriormente.

«Si presenta un grosso problema, allora: una volta che avremmo incanalato il potere delle Gemme in un Guanto dell’Infinito, come possiamo utilizzarlo senza un eroe che sacrifichi la propria vita?»

Athena sorrise a Eitri, rassicurante.

«Non temere, amico, conosco qualcuno che potrebbe schioccare le dita senza rischiare la vita.»

Maya gli riservò un’occhiata confusa, domandandosi dove volesse andare a parare.

Come a intuire i suoi dubbi, Athena riprese a parlare.

«Stavo parlando di Deborah. Esattamente come accaduto a Bruce Banner, anche lei ha tentato di utilizzare le onde gamma, solo che ha utilizzato un rettile come cavia. Sono certa che, se Deborah imparasse a controllare Raptor, potrebbe eliminare Vither e il suo esercito una volta per tutte!»

Un sorriso si aprì sul volto della giovane Maestra.

“Ma certo!” si disse. “È Raptor la chiave di tutto!”

«Perfetto!», ruggì il nano. «Mi metto subito al lavoro sulla struttura che ho in mente di realizzare. Vedrete, la mia opera sarà pronta nel giro di un mese.»

Maya estrasse dalla tasca della tunica un bracciale argentato riportante la sigla M.M. sul piccolo pendaglio dalla forma circolare che vi era agganciato.

Lo porse a Eitri con un sorriso e quest’ultimo, confuso, accolse il minuscolo monile nella sua immensa mano.

«Si tratta di un bracciale rivelatore», gli spiegò la ragazza. «Quando avrai bisogno di comunicare con noi, ti basterà sfiorare il pendaglio e pensare a me. In questo modo, avvertirò la tua chiamata e potrò tornare su Nidavellir.»

«Questo mi sarà molto utile», annuì Eitri e infilò il bracciale al mignolo della mano sinistra, come se fosse un anello.

Si diresse verso il calderone più vicino e prese a soffiare sulle fiamme con un enorme attizzatoio per farle divampare.

Il metallo, già incandescente, prese a scoppiettare come acqua che bolle.

Quello fu il segnale che Maya interpretò come il momento di congedarsi: recuperò il suo Sling Ring e materializzò un nuovo portale che conduceva alla biblioteca del Santuario di New York.

«Buon lavoro, Eitri!», augurò al nano, prima di fare cenno ai tre compagni di superare il portale.

«Buona fortuna, ragazzi. Vi servirà», ricambiò il nano, dedicando loro un ghigno.

I quattro sorrisero a loro volta mentre attraversavano il portale uno dopo l’altro: Valk, Cooper, Athena e, infine, Maya.



* * *


18 ottobre 2045, 7:30 A.M.,
Deserto di Tule,
Arizona.


«Eagle 125 plus è penetrata all’interno dell’atmosfera del pianeta Terra. Autopilota disabilitato. Prego, riprendere i comandi e procedere con l’atterraggio», riferì la metallica voce del navigatore.

Gadha aprì le palpebre, si strofinò gli occhi cespugliosi con le nocche e stiracchiò i muscoli indolenziti del collo.

“Non dormo decentemente da troppo tempo” rifletté con rammarico. “Non vedo l’ora di tornare alla New Sanctuary per rinchiudermi nella mia stanza e recuperare tutto il sonno perduto.”

Si sollevò dalla scomoda branda e si diresse verso il pannello dei comandi.

Stringendo fra le mani il controller, allacciò la cintura e si rivolse nuovamente al navigatore della Eagle.

«Localizza un luogo disabitato dove poter riposare qualche ora. Una foresta o un deserto sarebbero perfetti.»

«Subito, comandante Gadha.»

Alcuni istanti più tardi, l’immagine di un deserto roccioso dalle tonalità rosse apparve sullo schermo del navigatore.

«Questo luogo viene chiamato “Deserto di Tule”, nel continente America. Gli abitanti presenti sono per lo più piccoli gruppi nomadi e qualche curioso che sulla Terra viene definito “turista”.»

«Ottimo, mostrami le coordinate di questo luogo.»

Subito, la localizzazione del deserto apparve sullo schermo in un linguaggio dalle linee sinuose e tondeggianti che Vither adorava.

Si trattava di Sixires, la lingua che si parlava su Sixir, il pianeta d’origine della sua signora.

Vither aveva costretto ogni suo sottoposto ad apprendere quella lingua nella sua forma scritta, per conservare una tradizione del suo pianeta, ormai sul punto del collasso.

Difatti, come accaduto a Gadha, anche lei aveva un triste passato alle spalle: Sixir, il suo pianeta natale, era stato fra i primi ad aver sperimentato il metodo di “salvataggio” che Thanos dedicava a coloro che conquistava.

Metà popolazione era stata sterminata, in modo che l’altra metà potesse vivere senza alcun disagio.

Purtroppo, l’ordine Nero del Titano aveva decimato quelli che i nativi chiamavano i “Reggenti”, potenti e saggi maghi che si occupavano di controllare l’energia interna del pianeta, in modo che questa non superasse mai un certo picco.

Con la loro eliminazione, l’energia interna del pianeta era letteralmente esplosa.

Un terzo della popolazione era stato uccisa e, successivamente, su Sixir era caduto il gelo più assoluto.

Quando Thanos era tornato su Sixir, dove aveva costruito una base dell’Ordine Nero, aveva conosciuto e arruolato Vither all’interno del suo esercito, al fianco dei suoi uomini e delle sue figlie, Gamora e Nebula.

Vither era stata l’unica a rimanere al fianco di Thanos.

Tuttavia, durante la ricerca delle Gemme dell’Infinito e del primo Schiocco, lei era stata richiamata sul suo pianeta a causa di una grave rivolta che i nativi rimasti avevano scatenato.

Quando il Titano aveva schioccato le dita, Vither era sopravvissuta e, venuta a sapere che Thanos si era ritirato su un pianeta disabitato per godersi il dovuto riposo e distruggere il Guanto dell’Infinito, lei e i suoi pochi seguaci si erano messi alla sua ricerca.

Purtroppo, erano arrivati troppo tardi: gli Avengers avevano già provveduto a decapitare Thanos.

Gadha ricordò con dolore il ritrovamento del cadavere del Titano: il pavimento di paglia lercio di sangue rappreso, il corpo accasciato sul fianco destro, la testa rotolata vicino allo spartano giaciglio…

Vither si era accasciata sulle ginocchia accanto al corpo e aveva iniziato a piangere, scuotendo disperatamente il suo defunto padrone.

Era stato necessario l’intervento di dodici uomini per separare la donna dal corpo, in modo da poter ricomporre Thanos e innalzare una pira funebre.

Dopo aver appiccato lei stessa fuoco alla pira, la donna si era imposta una nuova missione, da portare a termine anche a costo della vita: riportare in vita il suo amato padrone.

Da quel momento, si erano susseguiti una lunga serie d’incontri con centinaia di maghi e fattucchieri appartenenti ai pianeti e alle stelle più variegati.

Poi, un mercante di rarità si era fatto avanti proponendole quella che esibiva come una pietra della resurrezione.

Quando Vither aveva visto la pietra, si era accorta immediatamente che si trattava della Gemma del Tempo.

Era stato così che la donna aveva scoperto che le Gemme dell’Infinito, come ogni elemento dell’Universo, erano in grado di rigenerarsi.

In breve tempo e con l’aiuto dei poteri di Gadha, Vither aveva recuperato le Gemme dell’Infinito, ma mentre cercava di unire al suo corpo le pietre, in modo da poter controllare il loro enorme potere, la squadra degli Avengers era intervenuta per fermarla...

«Obbiettivo in avvicinamento!», annunciò la voce del navigatore. «Prepararsi all’atterraggio!»

Gadha tornò in sé e portò lo sguardo all’ampio schermo che le concedeva la vista dell’esterno.

Si trovava al di sopra di un’ampia distesa di sabbia e rocce rosse e ocra, senza alcun cenno di civiltà per chilometri e chilometri.

Gadha sorrise fra sé e sé: finalmente, dopo giorni d’insonnia costante, aveva la possibilità di riposare per qualche giorno, localizzare i terrestri che Valk aveva reclutato e far loro la sua proposta.

L’incolumità della Terra in cambio delle cinque reincarnazioni delle Gemme dell’Infinito.

Gadha era certa che avrebbero accettato: la loro viltà e il loro egoismo si sarebbero rivelati e i cinque bambini sarebbero tornati con lei sulla New Sanctuary nel giro di qualche giorno.

Giunse presto nei pressi di un’insenatura naturale tra le quali scorreva un sottile corso d’acqua argentato.

La donna lo reputò subito il luogo adatto per accamparsi.

«Inizio protocollo d’atterraggio!», ordinò al navigatore.

«Protocollo d’atterraggio attivato», confermò la voce robotica della Eagle.

La donna annuì e iniziò la lenta discesa verso l’insenatura: il jet, docile, assecondò la sua manovra senza opporre alcuna resistenza.

Poco dopo, la Eagle s’infilò nell’insenatura, rasentando le estremità con le affusolate ali nere.

Gadha sorrise, fiera della sua manovra.

Malgrado fossero passati alcuni mesi dall’ultima volta che aveva pilotato la Eagle, la sua capacità alla guida non si era affatto arrugginita.

Decelerò e si abbassò ulteriormente di quota, fermandosi infine a qualche metro dal fiume.

«Atterraggio effettuato con successo», affermò la voce del navigatore. «Sbloccare il portellone?»

«Sì», rispose la donna, slacciando la cintura di sicurezza.

Doveva raccogliere l’acqua terrestre e depurarla per dissetarsi.

Si alzò, si stiracchiò e si diresse verso l’uscita.

«Apri il portellone», ordinò, stanca.

«Portellone aperto.»

La pesante porta di metallo si sollevò verso l’alto e Gadha s’immerse nell’aria calda del deserto, ispirando a pieni polmoni.

Raggiunse il corso d’acqua e s’inginocchiò per studiare l’acqua da vicino: un liquido incolore, inodore e, probabilmente, anche insapore.

Formò una conca con le dita e raccolse un po’ d’acqua, portandosela poi al volto.

Avvertì una piacevole sensazione di frescura sul volto e sul collo e Gadha sospirò, estasiata.

“Questo posto si rivelerà un ottimo nascondiglio” rifletté.

Fece per alzarsi, quando…

«Ferma dove sei», l’avvisò un’autoritaria voce maschile. «Mani bene in vista sopra la testa e non ti accadrà alcun male.»

Gadha sbuffò e maledisse il navigatore: i terrestri l’avevano localizzata in meno di cinque minuti.

Ora, avrebbe dovuto uccidere quell’uomo e ripartire per un nuovo nascondiglio.

Fulminea, estrasse la pistola che portava agganciata alla cintura, sollevò lo sguardo verso il terrestre e liberò un colpo.

Attese con il fiato sospeso che il proiettile colpisse il petto dello strano ragazzo biondo avvolto in quella particolare palandrana, ma lui non apparve affatto impaurito.

Il terrestre sollevò un braccio e uno scudo d’energia color arancione dal complicato tema a mandala si materializzò.

Il proiettile colpì lo scudo e scomparve in una nuvola di fumo.

Gadha strabuzzò gli occhi, sconvolta: i terrestri possedevano quel tipo di poteri?

«Abbassa l’arma. Questo è il mio ultimo avviso», ripeté il ragazzo, calmo.

Gadha digrignò i denti e fece per attaccarlo, quando lui sollevò gli occhi al cielo.

«Raptor, Connor, Victor», gridò l’uomo. «È tutta vostra!»

Subito, tre figure fecero il proprio ingresso nella sua visuale e Gadha, indietreggiò, atterrita.

Dinnanzi a lei si stagliavano un Jotun dai lunghi capelli pettinati all’indietro, occhi rossi e volto dai tratti delicati con indosso una leggera armatura in metallo nero che esaltava la sua figura scolpita, un uomo avvolto in un tecnologico esoscheletro nei toni dell’azzurro e dell’argento e una terrificante creatura rettile dalle fauci spalancate da cui gocciolavano rivoli di saliva corrosiva.

«Ragazzi, attaccatela», ordinò l’uomo vestito di nero. «Non uccidetela, però. Abbiamo bisogno di lei.»

Gadha impallidì, ma portò la mano alla seconda fondina e ne estrasse una nuova pistola.

Se avesse dovuto morire, avrebbe portato con sé almeno uno di quei guerrieri.

Victor sollevò un braccio e gettò contro la donna uno dei suoi raggi d’energia, mentre Connor estraeva la sua spada dal fodero, pronto a un combattimento corpo a corpo.

Raptor, invece, studiava la situazione con i sottili occhi serpentini, muovendo lentamente la coda a destra e sinistra in un continuo movimento.

Gadha schivò l’attacco di Victor gettandosi su un fianco, ma quell’attimo di distrazione servì a Connor per gettarsi su di lei.

Il Juton si esibì in una lunga serie di serrati affondi di spada che la donna riuscì a evitare solo grazie ai suoi anni di esperienza all’interno dell’esercito.

«Arrenditi, ragazza, sei ancora in tempo per salvarti la pelle», l’avvertì Connor, tentando un fendente dall’alto.

La donna ringhiò e scartò di lato, ma la spada colpì di sbieco il suo braccio destro, disegnandovi un lungo taglio.

Gadha si morse la lingua per non gridare di dolore, sollevò le pistole e fece per sparare di nuovo, quando Raptor ruggì e le si gettò addosso.

Connor ebbe appena il tempo di retrocedere: Gadha sparò e due raggi d’energia colpirono Raptor al petto, ma lui non fece una piega.

Afferrò la ragazza fra le forti zampe artigliate e prese a stringere, ringhiando furiosamente.

Gadha prese a dimenarsi, a mordere e lottare per liberarsi dalla presa di Raptor e la creatura iniziò a innervosirsi, ringhiando e battendo fra di loro le fauci da cui gocciolava la saliva acida.

Prima che la situazione degenerasse, Victor si sollevò sfruttando i suoi propulsori e colpì Gadha alla nuca con taglio della mano ricoperta dal guanto di metallo.

Gli occhi della donna si rovesciarono mostrando la sclera e si accasciò fra le zampe di Raptor come una bambola.

«Missione compiuta, Joy», riferì Victor, greve. «Ora non ci resta che portarla al Santuario.»

Lo Stregone Supremo annuì e raggiunse lentamente Raptor, evitando qualsiasi movimento brusco: quella creatura era un’arma potentissima, ma ancora fuori controllo.

La trasformazione di Deborah avrebbe potuto uccidere quella guerriera in un attacco di rabbia o panico e la missione che Maya gli aveva affidato sarebbe fallita.

«Va tutto bene, Raptor», sussurrò, tentando di rassicurare la creatura. «Metti giù quella donna, ho qualcosa di più buono per te.»

Estrasse dalla tasca della tunica un muffin preparato con la ricetta di Magda e stese il braccio verso il muso di Raptor, in modo che potesse odorarne il buon profumo.

Lo stratagemma sembrò funzionare: gli occhi serpentini della creatura si soffermarono sul dolcetto e le sue zampe allentarono leggermente la presa sul corpo della seguace di Vither.

«Ottimo», affermò Joy.

Lanciò il muffin in aria e Raptor lo afferrò al volo, ingoiandolo.

Si leccò le fauci con la lingua biforcuta e posò nuovamente lo sguardo sul ragazzo, in attesa di nuovi dolcetti.

«Metti giù la donna e ne avrai altri», rispose lui, estraendo un secondo dolcetto dalla tasca della tunica.

Raptor sembrò rifletterci su un attimo, poi liberò la presa sul corpo della seguace di Vither, facendola cadere.

Connor l’agguantò prontamente, prima che cadesse a terra e si ferisse.

Joy annuì soddisfatto e lanciò a Raptor altri due muffin.

«Torniamo al Santuario!», ordinò, prima di generare un portale con il suo Sling Ring.

Connor attraversò subito il vortice d’energia portando il corpo svenuto della donna fra le braccia, mentre Victor restò immobile, lo sguardo fermo su Raptor.

«Non possiamo lasciarlo qui!», esclamò, quando Joy gli domandò cosa lo preoccupasse. «Deborah si spaventerebbe a morte se si risvegliasse da sola nel deserto dell’Arizona e Athena ti scuoierebbe vivo!»

«Non preoccuparti», sorrise Joy.

Poco dopo, il corpo di Raptor si accosciò al suolo, recuperando le sembianze di Deborah.

Iron Man strabuzzò gli occhi, sconvolto.

«Polvere soporifera nei muffin», rispose lo Stregone Supremo con semplicità, piegandosi sul corpo nudo dell’erpetologa per sollevarlo fra le braccia. «L’unico modo per riportare Raptor alla ragione in poco tempo.»

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Capitolo 26
*** Progressi ***


18 ottobre 2045, 3.00 P.M.
177A Bleecker Street,
New York City.


Maya si gettò di schianto sul proprio letto, esausta.

Malgrado fossero appena scoccate le tre del pomeriggio, non vedeva l’ora di chiudere gli occhi e addormentarsi.

Era tornata da pochi minuti da Nidavellir e le buone notizie che quell’incontro aveva portato con sé avevano risvegliato la speranza nel suo cuore.

Finalmente, possedevano un piano d’azione: Eitri avrebbe costruito una struttura in grado di riversare l’enorme potenza delle cinque Gemme all’interno di un nuovo Guanto dell’Infinito che Raptor avrebbe poi utilizzato per far sparire Vither.

Semplice…

Se non fosse stato per la mancanza di controllo di Deborah su Raptor.

Difatti, malgrado la donna avesse cominciato pian piano a esercitare più controllo sulla sua trasformazione, Deborah era ancora ben lontana dall’essere in grado d’indossare il Guanto dell’Infinito e schioccare le dita.

Maya sospirò, confidando che Athena potesse davvero convincere l’erpetologa a prendere in mano la situazione e tentare seriamente di controllare gli impulsi animaleschi di Raptor.

Si alzò lentamente e si diresse verso l’armadio: nonostante fosse stanca morta, doveva prima liberarsi della divisa da Maestro e indossare qualcosa di più comodo per dormire.

Si spogliò in fretta della tunica, dei pantaloni e della casacca, sistemandosi all’interno della cesta del bucato.

Alla vista del contenitore color cielo, Maya avvertì un tonfo al cuore: Magda era solita svuotare quel cestino ogni mattina, portando con sé i vestiti sporchi.

Si domandò come stesse la donna in quel momento, bloccata sul pianeta Pyrus come suo nucleo d’energia.

“Quando Vither sarà sconfitta lavorerò giorno e notte sulla creazione di un nucleo d’energia artificiale” rifletté decisa, reprimendo a stento le lacrime. “Ti riavrò al mio fianco, Magda, costi quel che costi.”

Recuperò dall’armadio una t-shirt e un paio di pantaloni comodi e tornò a letto, pronta a concedersi qualche buona ora di riposo.

La giovane ebbe appena il tempo di posare la testa sul cuscino e chiudere gli occhi, quando s’udì bussare alla porta.

«Chi è?», borbottò, esasperata.

Sperò con tutta sé stessa che non si fosse presentato qualche problema urgente che richiedesse la sua presenza.

«Maya, sono io, Storm», rispose la voce dall’esterno. «Posso entrare?»

La giovane aggrottò le sopracciglia, confusa.

Cosa desiderava l’amico?

I due erano soliti incontrarsi in biblioteca o nella sala da pranzo, dove il ragazzo la informava spesso delle sue nuove invenzioni, pronte da utilizzare sul campo di battaglia.

«Entra pure», gli permise, mettendosi a sedere a gambe incrociate sul letto.

L’uscio si aprì con un leggero cigolio e Storm fece il suo ingresso nella camera.

Il ragazzo la raggiunse e le si sedette accanto.

Il materasso protestò con un cigolio quando tutto il peso di Storm cadde su di esso.

Maya attese con pazienza che il ragazzo parlasse.

«Stavo pensando, Maya, che io e te abbiamo ancora un conto in sospeso, dico bene?», esordì Storm.

La giovane Maestra aggrottò le sopracciglia in un’espressione confusa, nel tentativo di rievocare alla memoria quel “conto in sospeso”.

Notata la sua espressione accigliata, Storm sospirò.

«Quando mi hai affidato la missione di penetrare all’interno dei database della S.H.I.E.L.D., mi hai promesso che, se avessimo recuperato tutti gli elementi presenti nella lista di Maria Hill e le cinque reincarnazioni delle Gemme dell’Infinito, tu avresti avverato un mio desiderio. Ricordi, ora?»

Maya incrociò le braccia sul petto e si mordicchiò le labbra, ricercando nella sua memoria quella promessa.

Infine, annuì e sorrise.

«Ricordo il nostro conto in sospeso», annunciò. «Dimmi, qual è il tuo desiderio?»

Negli occhi di Storm si accese una nuova luce.

«Ricordi quando, durante il nostro 7th Grade, correvo dietro a Vanessa Mayer?», le domandò, un sorriso malinconico sul volto.

Maya assentì.

Da quel che ricordava, Vanessa era una ragazzina smilza e pallida come un vampiro, con capelli nerissimi e occhi scuri.

Storm si era preso una cotta per lei durante il loro 7th Grade, quando lui l’aveva aiutata nel compito finale di storia.

Il giorno in cui la professoressa aveva riconsegnato i compiti valutati, Vanessa si era voltata verso il banco che Storm condivideva con Maya e gli aveva dedicato un grosso sorriso riconoscente.

Da quel fatidico giorno al terribile incidente che si era preso la sua vita di suo padre e la memoria di sua madre, Storm le aveva ripetuto ogni giorno quanto Vanessa fosse fantastica e di come fossero fatti l’uno per l’altra.

«Ecco», continuò Storm. «Devi sapere che, dopo la tua scomparsa e il passaggio alle scuole superiori, io e Vanessa ci avvicinammo molto, tanto che, nell’anno precedente al college, intrecciammo una relazione. Entrambi scegliemmo l’indirizzo informatico e ci saremmo iscritti allo stesso istituto, quando mi misi nei guai con la polizia per la prima volta. Venni condannato a tre mesi di carcere per essere penetrato all’interno dei database della polizia federale per ritrovare il dossier di mio padre.»

S’interruppe, la voce rotta dall’emozione.

Maya gli batté con delicatezza una mano sulla spalla, comprensiva: Edward, il padre di Storm, era stato ucciso da un proiettile proveniente dalla pistola di un uomo che non era mai stato riconosciuto e condannato.

«Continua, per favore», lo invitò con dolcezza. «Cosa accadde dopo?»

Storm annuì e riprese a parlare.

«Fui condannato a tre mesi di carcere e Vanessa venne a trovarmi ogni giorno portando cibo e coca-cola, facendomi promettere che non mi sarei più messo nei guai. Purtroppo, però, ora che avevo il dossier di mio padre fra le mani, non potevo certo rinunciare alla ricerca del suo assassinio. Da quel momento, il mio rapporto con Vanessa è andato degradandosi. Fra alti e bassi, tuttavia, la nostra relazione è durata fino al momento del mio ultimo arresto, quando tu sei venuta a prendermi e mi sono imbarcato in quest’avventura. Ora, il mio desiderio è abbastanza semplice da avverare: voglio che tu mi conduca all’appartamento di Vanessa e le spieghi tutta la situazione nel dettaglio, in modo che sappia che sei tornata veramente e che non sono scomparso nel nulla.»

Maya strabuzzò gli occhi.

«Perdonami, desideri che io ti accompagni dalla tua ragazza per risanare la vostra relazione?»

Storm strinse le labbra, cogliendo la chiara nota incredula presente nella voce della giovane Maestra.

«La situazione non è così semplice, come ti ho già spiegato», replicò stizzito. «Vanessa pensa che l’abbia abbandonata per sempre, fuggendo chissà dove, magari con qualche altra donna.»

Storm aveva gli occhi lucidi e Maya avvertì i sensi di colpa scacciarla sotto il proprio peso.

«Va bene», acconsentì. «Domattina ti accompagnerò dalla tua Vanessa e le spiegherò per filo e per segno che sono stata io a portarti lontano da lei per tutto questo tempo.»

Un sorriso nacque spontaneo sulle labbra di Storm.

«Ti ringrazio molto, Maya. Vanessa è davvero importante per me, forse la persona più importante della mia vita.»

Maya ricambiò il suo sorriso, interrotto da uno sbadiglio che non riuscì a trattenere.

«Ti lascio riposare, amica», si congedò l’hacker, alzandosi. «Grazie ancora.»

L’amica aspettò che Storm uscisse per ributtarsi sul letto, il volto affondato nel cuscino.

Sfinita, chiuse gli occhi e si addormentò.



* * *


18 ottobre 2045, 7.15 P.M.,
177A Bleecker Street,
New York City.


Gadha riaprì le palpebre, ritrovandosi distesa in una piccola camera ben illuminata.

Era sistemata su un letto dalle lenzuola candide, profumate di bucato.

Si mise a sedere con uno sforzo e si accorse, con sorpresa, di non essere legata.

La testa le doleva a causa della botta ricevuta, diversi punti del corpo erano ricoperti di lividi causati dalla stretta di quell’enorme creatura rettile e, se non fosse abbastanza, il taglio sul braccio bruciava terribilmente.

Prese a massaggiarsi le meningi, sperando di alleviare l’emicrania che le stava divorando il cranio.

Avvertì un crepitio provenire dalla parete alla sua sinistra e un portale d’energia arancione, sprizzante scintille, si aprì di fronte ai suoi occhi.

Gadha si sollevò, i sensi all’erta per difendersi da possibili nuovi avversari, quando ecco che il giovane uomo biondo che le aveva intimato di arrendersi fuoriuscì dal vortice d’energia.

«Calma, ragazza, calma», le intimò, sollevando le braccia verso l’alto, in chiaro segno di resa. «Per il momento desidero soltanto parlare con te. Ti andrebbero quattro chiacchiere?»

Gadha studiò l’uomo per diversi istanti, riflettendo.

Che quel ragazzo fosse a servizio di Valk?

Difatti, possedeva delle capacità che i terrestri, secondo i suoi molti studi, di solito non presentavano.

Inoltre, aveva al proprio servizio un abile guerriero Juton e quella creatura mostruosa che il ragazzo aveva chiamato “Raptor”.

Che, inconsapevolmente, fosse entrata in contatto con coloro che stava cercando?

Si rilassò un po’ e si sedette di nuovo sul letto, colta dalla debolezza.

«Forza, parla!», lo esortò, sgarbata. «Cosa vuoi da me? Perché mi hai scatenato contro i tuoi uomini? Io non ti ho provocato in alcun modo.»

Un sorriso nacque sul volto del ragazzo mentre le si avvicinava con lentezza.

«Ti abbiamo messo al tappeto e portata qui perché sappiamo da dove provieni», rispose pacato, accomodandosi sulla sedia di vimini presente accanto al letto. «Tuttavia, il mio progetto originale era raggiungerti, costringerti alla resa e comprendere in modo pacifico perché tu, una delle seguaci più zelanti di Vither, ti fossi diretta sulla Terra da sola sulla tua astronave.»

S’interruppe e le rivolse un’occhiata penetrante.

Gadha sostenne il suo sguardo senza timore: in quella situazione, era lei a essere nel giusto.

Non aveva attaccato nessuno di sua iniziativa e, per aggiungere la beffa al danno, l’unica a essersi ferita era proprio lei!

«Ti andrebbe di spiegarmi cosa ti ha portato sul nostro pianeta?», ricominciò il ragazzo. «Prometto che, se ti rivelerai innocente, ti lascerò andare non appena ti sarai ripresa e Victor riparerà la tua navicella per la partenza.»

Gadha aggrottò le sopracciglia, riflettendo.

Quel ragazzo le stava davvero domandando di spiegargli il motivo per il quale aveva raggiunto la Terra?

Gadha annuì, ormai convinta: quel giovane era, senza dubbio, al servizio di Valk.

Soltanto coloro che erano al suo servizio avrebbero potuto sapere della sua Signora.

«Dov’è Valk?», domandò. «Voglio parlare con lui, non con un suo sottoposto.»

Il giovane scoppiò in una sincera risata divertita.

«Io, sottoposto di Valk?», esalò, dopo diversi istanti ininterrotti di risate. «Certo, Valk è stato di vitale importanza in alcune parti della nostra missione, ma essere sotto il suo comando? Bella, questa!»

Gadha lo fissò, sbalordita.

Quel ragazzo era forse impazzito?

Quando la risata si fu del tutto spenta, il terrestre accennò un piccolo sorriso.

«Qui nessuno è sottoposto di nessuno», le spiegò. «Tutti coloro che hanno aiutato nel recupero delle Gemme dell’Infinito hanno accettato in modo volontario d’impegnarsi nella missione che Valk ha portato con sé. Quindi, racconta pure a me cosa ti ha spinto a dirigerti sulla Terra da sola. Il mio nome è Joy e qui ricopro la carica di Stregone Supremo. In pratica, mi occupo del luogo in cui ti trovi e dell’ordine che mia madre ha costruito in quasi cinquecento anni di vita. Forza, ora racconta.»

Gadha annuì, ringraziando tutte le divinità che le venissero in mente.

Era finita davvero fra coloro che stava cercando!

Incrociò le braccia e le gambe sul materasso, com’era solita fare durante la meditazione e narrò a Joy ciò che l’aveva spinta sul pianeta Terra.

«Sono qui per proporre una tregua: la mia Signora, Vither, s’impegnerà a proteggere il vostro pianeta quando Thanos tornerà in vita mentre voi, terrestri, mi affiderete le cinque reincarnazioni delle Gemme dell’Infinito in vostra proprietà. Inoltre, avrete il perdono della mia Signora per quanto riguarda l’affronto alla mia persona e le ferite che mi avete procurato. Allora, cosa ne pensi? Personalmente, mi sembra un’offerta molto generosa per quanto riguarda il vostro pianeta e la sua sicurezza.»

Lo Stregone Supremo l’osservò a lungo, le dita intrecciate ferme sul grembo.

Gadha sorrise fra sé e sé: come aveva pronosticato, i terrestri erano creature estremamente egoiste e malvagie e quel giovane, malgrado le sue abilità magiche, non era diverso da loro.

“Perfetto” rifletté. “Adesso sorriderà, dirà che accetta l’accordo e condurrà qui i bambini senza neppure che io lo chieda”.

Joy si fece scuro in volto e scosse appena il capo.

«Mi dispiace molto, Gadha», mormorò, alzandosi, «ma non ho alcuna intenzione di accettare l’offerta della tua padrona. So bene che Vither ha intenzione di unire al suo corpo le sei Gemme dell’Infinito per riportare in vita Thanos e consegnarsi nelle sue mani come l’arma più potente dell’Universo. Se la tua Signora dovesse portare a termine il suo piano, non solo quei poveri bambini scomparirebbero nel nulla per una colpa che non possiedono, ma l’intero universo sarebbe in pericolo. Non possiamo permettere che ciò accada, per nessun motivo al mondo.»

La donna strabuzzò gli occhi, sorpresa e confusa nel contempo.

Quel terrestre aveva appena rifiutato la sua offerta?

«Ci hai pensato bene, Joy?», replicò. «Sai che, con il tuo rifiuto, la Terra non avrà alcuna speranza di salvezza? La mia padrona non esiterà un attimo a eliminare ogni creatura presente su questo pianeta, una volta recuperate le Gemme.»

«Se riuscirà a recuperare le Gemme», l’interruppe lo Stregone Supremo. «Vither è già stata fermata una volta e noi la fermeremo di nuovo.»

Gadha scoppiò in una cupa risata.

«Tu pensi davvero di poter sconfiggere la mia Signora?», esalò, tornando seria. «Certo che voi terrestri siete davvero più stupidi di quanto credessi!»

Joy non si arrabbiò, né strepitò, come lei si era attesa.

Anzi, la sua bocca assunse una piega amara e scosse il capo, rassegnato.

«Dei terrestri hanno fermato Vither una volta, dei terrestri la fermerà di nuovo», pronunciò lapidario, dandole le spalle.

Si diresse verso la parete e disegnò in fretta un portale utilizzando il suo Sling Ring.

«Non ho nulla contro di te, Gadha, ma l’offerta della tua Signora è ufficialmente rifiutata», affermò. «E da oggi considerati un’ospite a lungo termine del nostro Santuario. Non so ancora cosa farne di te, ma non uscirai da qui molto presto.»

Prima che Gadha potesse attaccarlo, Joy era già entrato nel vortice e quest’ultimo, con un crepitio, si era richiuso alle sue spalle.

Gadha non poté far altro che gridare e tartassare la porta di calci e pugni, reclamando furente la sua libertà.



* * *


18 ottobre 2045, 9:00 P.M.,
177A Bleecker Street,
New York City.


Athena raggiunse in fretta la camera dei giochi dei bambini.

Entrò senza neppure bussare, ritrovando al suo interno il suo obiettivo: Deborah e Astrid erano sedute sulla comoda poltrona patchwork, immerse nella lettura di un libro di favole.

Grazie a un pendente magico messo a punto da Wong, Astrid riusciva ora a comprendere e parlare fluentemente l’inglese.

Questo aveva semplificato molto il rapporto fra la bambina e Deborah, che ora poteva parlare tranquillamente con lei.

«Ragazze!», chiamò, avvicinandosi a loro. «Sono tornata e ho grandi notizie.»

Astrid si alzò di scatto e corse ad abbracciarla, immergendo il volto nella sua divisa.

La donna le carezzò i corti capelli biondi per poi piegarsi alla sua altezza e indicarle la porta.

«Ho una missione da affidarti, Astid», le spiegò con un sorriso. «Sono molto stanca e ho una sete tremenda. Ti andrebbe di raggiungere la cucina e versarmi un bicchiere d’acqua? Quando tornerai, riceverai una piccola ricompensa. Affare fatto?»

Astris assentì euforica e partì di corsa verso la cucina, richiudendosi la porta alle spalle con un tonfo.

«Harley e Momoko la tratterranno per un po’ nelle cucine», pronunciò Athena, rivolgendosi a Deborah, ancora seduta sulla poltrona. «Il tempo necessario per parlare con te di quanto accaduto. Ma prima...»

Si piegò su di lei e posò le labbra sulle sue, assaporandone il sapore.

La notte che avevano condiviso non si era conclusa nel migliore dei modi e l’agente della S.H.I.E.L.D. non vedeva l’ora di porvi rimedio.

Tuttavia, aveva promesso a Maya di parlare con Deborah ed era necessario che trattasse seriamente quell’argomento, prima che l’attrazione nei confronti della donna le annebbiasse la ragione.

Deborah le strinse il collo con le braccia e socchiuse le labbra, permettendole di approfondire quel bacio.

Le loro lingue danzarono in sincrono per diversi istanti e Athena percepì un piacevole calore propagarsi nel suo petto.

Quando furono costretta a separarsi, Athena aveva il fiato corto e il volto in fiamme.

L’altra le si fece più vicina e le afferrò la mano, stringendola tra le sue.

«Ciò che è accaduto questa notte...», iniziò, ma Athena scosse il capo, interrompendola.

«È stato tutto bellissimo, Deborah», terminò Mantide per lei. «Se fosse per me lo ripeterei anche in questo momento, ma ho bisogno di parlarti in modo serio, come mi ha chiesto Maya.»

Deborah corrugò le sopracciglia, curiosa e preoccupata nel contempo.

Athena le strinse la mano per infonderle un po’ di coraggio e prese a narrarle quanto accaduto durante l’incontro con Eitri: la splendida vista che si godeva su Nidavellir, il breve cammino fino alla fucina, l’incantesimo di amplificazione che Maya aveva utilizzato sulla sua voce per chiamare Eitri e infine, della strategia che il nano aveva proposto per sfruttare l’energia delle reincarnazioni delle Gemme dell’Infinito.

L’erpetologa si lasciò sfuggire un sospiro di sollievo.

Finalmente, la fortuna cominciava a girare a loro favore e quei poveri bambini non avrebbero sofferto durante l’estrazione dei loro poteri.

«…Una volta che i poteri delle Gemme si saranno concentrate all’interno del nuovo Guanto dell’Infinito, è necessario che qualcuno schiocchi le dita. Ed è qui che entri in scena tu, Deborah, o meglio, Raptor. Come ben saprai, tu e Bruce Banner avete avuto una trasformazione piuttosto simile: i raggi gamma hanno colpito entrambi e, a suo tempo, il dottor Banner schioccò le dita e riportò alla vita tutti coloro che erano stati eliminati da Thanos. Ora, tocca a te e a Raptor.»

La donna si portò le mani al volto e scosse il capo con forza, sconvolta.

Il suo peggiore incubo si stava realizzando: Raptor, la creatura che il morso di quel piccolo alligatore aveva risvegliato in lei, la causa del suo tentato suicidio…

Raptor era ora l’unica speranza che l’universo possedeva per salvarsi da Vither e al possibile ritorno di Thanos.

«Non posso, non posso», ripeté fra sé e sé, disperata. «Non sarò mai in grado di controllare Raptor, mai! Eitri come può pretendere che io lo faccia in un mese?»

Athena l’abbracciò e premette il volto di lei contro il suo petto, accarezzandole con dolcezza i capelli per rassicurarla.

«Puoi farcela, Deborah, ne sono certa!», l’incoraggiò con voce ferma. «Maya si è proposta di condurci in un luogo alternativo chiamato “dimensione-specchio”, dove potrai dare libero sfogo a Raptor senza danneggiare nulla. Inoltre, io, Maya, Joy e Wong ti aiuteremo come meglio potremo: io e Maya resteremo con te, nella dimensione-specchio, per allenarti, mentre i Maestri delle Arti Mistiche si concentreranno sulla ricerca di altri metodi per aiutarti a controllare Raptor. Non sei più sola, Deborah, te lo prometto.»

La donna singhiozzò sul suo petto e Athena avvertì i suoi vaporosi capelli solleticarle il mento.

«Non è necessario dirigersi subito nella dimensione-specchio per allenarsi», aggiunse. «Desidero solo che tu comprenda che è possibile controllare Raptor. Non sarà facile, certo, ma non accadrà nulla se fallirai: troveremo un altro metodo per controllare il potere delle Gemme dell’Infinito.»

Deborah pianse ancora a lungo sul suo petto, sfogando tutta la sua paura e la sua frustrazione.

Infine, quando ebbe versato tutte le sue lacrime sulla divisa di Athena, si accasciò sul suo petto, esausta.

«Ti porto a letto, hai bisogno di riposo», costatò l’agente della S.H.I.E.L.D., seria, sostenendola. «Forza, andiamo!»

Deborah annuì, debole, e si lasciò condurre docilmente verso la sua stanza.

Giunte nella camera, Deborah si liberò delle pantofole e si sdraiò sul letto, la mente carica di pensieri.

«Prova a dormire un po’», le suggerì Athena, accarezzandole la fronte con una mano.

«Tu non resti qui con me?», domandò l’altra, un accenno di tristezza nella voce.

La figlia di Thor sorrise e l’accontentò, sdraiandosi accanto a lei: dovette ammettere che, malgrado avesse bevuto ben quattro caffè da quella mattina, era davvero esausta.

Sbadigliò e si voltò su un fianco.

Deborah la imitò, in modo che le loro fronti si sfiorassero.

«Dovresti dormire anche tu», sussurrò l’erpetologa, a un soffio dalle sue labbra.

Athena assentì, le regalò un ultimo bacio e chiuse gli occhi.

Pochi istanti dopo dormiva, stringendo la mano di Deborah nella sua.

A quella vista, Deborah si sciolse: qualsiasi cosa fosse accaduta, qualsiasi ostacolo la vita le avesse messo dinnanzi, era certa che avrebbe avuto sempre quell’angelo biondo al suo fianco.

“E non intendo deluderla per nessun motivo al mondo”, rifletté decisa, chiudendo gli occhi. “Né ora, né mai”.

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Capitolo 27
*** Vecchie fiamme e nuovi allenamenti ***


21 ottobre 2045, 10.00 A.M.,
Manhattan,
New York City.


Maya si strinse nell’ampia giacca di denim e stirò una piega della t-shirt a strisce bianche e nere che Magda le aveva regalato diversi mesi prima.

Come promesso a Storm il giorno precedente, la giovane Maestra aveva raggiunto il piccolo appartamento di Manhattan che Vanessa aveva preso in affitto qualche settimana dopo la scomparsa del fidanzato.

Si diresse verso la porta di legno riportante l’elegante dicitura in ottone “Appartamento 88” e suonò il campanello, sperando che la ragazza fosse in casa.

Se così non fosse stato, sarebbero stati costretti a dirigersi verso la piccola pasticceria dove Vanessa lavorava come cameriera e donna delle pulizie.

Storm, accanto a lei, fremeva dalla voglia di rivedere la sua fidanzata di lunga data, spostando di continuo il peso del corpo da un piede all’altro.

Dall’interno non vi fu alcuna risposta.

Impaziente, Maya suonò di nuovo il campanello.

«Arrivo!», rispose un’acuta voce femminile che Storm accolse con un sorriso sollevato. «Se sei di nuovo tu, Patrick, giuro che ti uccido!»

«Non sono Patrick, tranquilla», rispose Maya. «Puoi aprire la porta, per favore?»

La giovane avvertì i passi di Vanessa raggiungere l’ingresso e fermarsi, riflettendo probabilmente se aprire loro la porta.

«Vanessa, sono Maya McInnos. Ti ricordi di me?»

«Maya!», esclamò la donna, spalancando l’uscio di scatto. «Sei davvero tu?»

Quando i suoi occhi scuri si fermarono su di lei, Vanessa l’afferrò per un braccio e la cinse in un lungo abbraccio che Maya ricambiò, titubante.

Malgrado fossero state amiche e compagne di classe, circa dieci anni prima, la Maestra non aveva mai considerato Vanessa una persona affettuosa.

Quando l’altra la lasciò libera, Maya si allontanò, in modo che lei potesse vedere Storm.

La donna digrignò i denti, furiosa.

«Tu!», lo apostrofò con disprezzo. «Come osi presentarti qui dopo cinque mesi di completa assenza! Cinque mesi, Storm!»

L’hacker si ritrasse, spaventato dallo sfogo di Vanessa.

Rivolse uno sguardo a Maya in cerca di aiuto e quest’ultima intervenne, ponendo una mano sulla spalla di Vanessa nel tentativo di placarla.

«Vanessa», chiamò. «È colpa mia se Storm non è potuto tornare subito da te. Dopo che sua madre lo ha denunciato e la polizia l’ha condotto in prigione, ho raggiunto il suo carcere. L’ho portato con me per affidargli un’importante missione che lui è riuscito a portare a termine in modo impeccabile. Dal momento che Storm è stato così gentile da aiutarmi, mi sono sentita in dovere di venire a trovarti insieme a lui per spiegarti la situazione. Ora, ti andrebbe di farci entrare in casa? Sono pronta a chiarire ogni tuo dubbio, ma non credo che il corridoio del tuo condominio sia il luogo più adatto.»

Vanessa palleggiò il suo sguardo da Maya a Storm, riflettendo sul da farsi.

Poi, finalmente, sospirò rassegnata e indicò loro l’uscio.

«Entrate», li invitò. «Accomodatevi.»

Maya e Storm annuirono ed entrarono nel piccolo appartamento.

La porta dava su un elegante salottino dalle pareti bianche e pulite, al cui centro spiccavano un tavolino da caffè su cui erano posizionati un libro e un laptop dall’aria vissuta.

Accanto al tavolino erano sistemate due poltroncine foderate di tweed dall’aria comoda e, alle sue spalle, una libreria straripante di tomi.

«Accomodati pure, Maya», sorrise Vanessa, accennando con il capo a una delle due poltroncine.

La giovane la ringraziò e si sedette.

Storm fece per imitarla, quando Vanessa lo fermò.

«Non tu!», lo apostrofò, velenosa. «Va in cucina e procurati una sedia.»

L’hacker abbassò lo sguardo al pavimento, ferito dalle parole della sua storica fidanzata.

Maya si dispiacque per lui: in fondo, era colpa sua se Storm era stato lontano per così tanto tempo.

Tuttavia, preferì tacere mentre il ragazzo raggiungeva la cucina e tornava, subito dopo, con una semplice sedia di vimini.

«Come ti ho anticipato nel corridoio», cominciò Maya, quando furono tutti seduti. «Sono stata io a costringere Storm a seguirmi, ma si trattava di una missione di vitale importanza. Prima, però, ho bisogno che tu mi prometta, su ciò che hai di più caro, che non racconterai a nessuno ciò che ti dirò.»

Vanessa aggrottò le sopracciglia, confusa, ma finì con l’annuire, vinta dalla curiosità.

Maya prese a narrarle ciò che era accaduto al Santuario dal momento in cui Valk aveva fatto la sua comparsa.

Man mano che il racconto procedeva, il volto di Vanessa assunse diverse sfumature di emozione: curiosità, sorpresa, paura, terrore, sconcerto…

«Ed eccoci qui, oggi, nel tuo appartamento», concluse Maya, occhieggiando la reazione della donna.

Vanessa aveva perso il poco colore presente sul suo volto già pallido, gli occhi erano strabuzzati e la bocca spalancata.

Un attonito silenzio calò pesante nel piccolo salotto, rotto soltanto dal piede di Storm che colpiva a ripetizione il pavimento di parquet.

«Quel che mi avete raccontato è impossibile!», esalò Vanessa. «Non è possibile!»

«Invece è proprio così!», ribatté l’hacker. «Non ti sembra già un miracolo che Maya sia tornata dopo dieci anni dalla sua scomparsa? Io l’ho vista evocare dei portali che conducono in diversi luoghi della Terra in pochissimi secondi, scagliare raggi d’energia e materializzare scudi come se fosse la protagonista di uno dei tanti Anime che abbiamo guardato insieme! Se questo è possibile, come puoi non credere a Vither, alle Gemme dell’Infinito e alla probabile fine del nostro universo?»

Vanessa trasalì di fronte allo sfogo di Storm: il ragazzo si era sempre rivelato pacato e tranquillo, persino durante i suoi molti arresti.

Maya decise d’intervenire: stese una mano sul tavolino, dov’era sistemato una tazza di caffè, ed evocò un semplice incantesimo di levitazione.

Il liquido si sollevò a mezz’aria, formando una piccola sfera scura a pochi centimetri dal bordo della tazza.

Vanessa impallidì e Maya mosse leggermente la mano a destra e sinistra, in modo che il caffè seguisse la direzione da lei indicata.

Schioccò le dita e la bevanda ricadde nel suo contenitore.

«So che è difficile crederci», aggiunse, sporgendosi dalla poltrona, «ma è esattamente ciò che è accaduto. Ora, lascio te e Storm da soli, in modo che possiate chiarire la situazione senza la mia presenza da terzo incomodo.»

Si alzò e sorrise a Vanessa, ancora a bocca aperta.

«Storm, chiamami con il pendente quando avrai terminato», si congedò, recuperando lo Sling Ring dalla tasca della giacca.

Disegnò in fretta un portale sulla parete e scomparve al suo interno.

Il desiderio di Storm era stato avverato: l’aveva accompagnato da Vanessa e le aveva spiegato la situazione nel dettaglio.

Ora, toccava al ragazzo riconquistare la sua storica fidanzata.

Entrò nel portale e li salutò, sventolando la mano.

Poco dopo, sotto gli occhi spalancati di Vanessa, il vortice magico si richiuse.

Storm sospirò e scosse il capo, rassegnato.

Avrebbe impiegato un bel po’ di tempo prima di tornare al Santuario.



* * *


23 ottobre 2045, 3.00 P.M.,
177A Bleecker Street,
New York City.


«Perfetto, Deborah», esordì Athena. «Ora, arrabbiati e scatena Raptor!»

La donna, stretta nella tuta d’addestramento nera che era solita indossare in servizio, la invitò ad attaccarla con un cenno della mano.

Accanto a lei, si stagliava Maya.

Come promesso, la giovane le aveva condotte all’interno della Dimensione-Specchio, il mondo parallelo che i Maestri delle Arti Mistiche utilizzavano per sperimentare nuovi incantesimi o perfezionare i più complicati.

«Questa dimensione», le aveva ripetuto la giovane quando Deborah le aveva chiesto per l’ennesima volta se fosse davvero sicuro liberare Raptor, «è chiamata così perché possiede gli stessi elementi della nostra realtà, ma ne è totalmente scollegato. Nella Dimensione-Specchio puoi rompere qualsiasi cosa desideri e, quando torneremo indietro, quel medesimo oggetto sarà ancora al suo posto, integro.»

Deborah aveva annuito, finalmente convinta.

E ora stava provando, per la prima volta, a evocare Raptor di sua volontà.

Concentrò la sua rabbia al centro del petto e lasciò che Raptor si scatenasse in tutta la sua potenza.

Subito, il suo corpo prese a trasformarsi, assumendo l’aspetto dell’ormai familiare gigantesco rettile nero.

Athena e Maya assunsero le rispettive posizioni di difesa, pronte ad accogliere qualsiasi accenno di attacco da parte di Raptor.

La creatura, tuttavia, sembrava abbastanza tranquilla: osservava le due con i sottili occhi serpentini, muovendo la lunga e affusolata coda a destra e sinistra, lentamente.

«Raptor!», chiamò Athena. «So che possiedi una vera e propria personalità che è molto diversa da quella di Deborah. Per questo motivo, io mi rivolgo direttamente a te. Tu sei l’unico in grado di schioccare le dita e utilizzare le Gemme dell’Infinito per distruggere Vither. Mi hai capito?»

La creatura tenne gli occhi puntati su quelli di Athena, ora carichi di determinazione.

Raptor non reagì in alcun modo.

«Non comprendi ancora la gravità della situazione, Raptor! Vither vuole attaccare e distruggere dei bambini innocenti. Fra di loro c’è anche Astrid, la nostra Astrid!»

Udito quel nome, l’enorme rettile gettò un ruggito e Athena sorrise, trionfante.

Finalmente, le sue parole sembravano aver smosso qualcosa nella creatura che abitava il corpo di Deborah.

«Mi aiuterai, Raptor? Aiuterai Astrid?», gridò la figlia di Thor, in modo da sovrastare i versi animaleschi della creatura.

Raptor, però, sembrava aver perso il barlume di ragione che l’aveva animato fino ad allora, lasciando briglia sciolta ai suoi istinti.

Fulminea, la donna recuperò un proiettile soporifero e lo infilò nella canna della sua pistola, pronta a colpire.

Maya, alle sue spalle, sollevò una mano al cielo, il palmo aperto verso l’alto.

Una crepitante sfera d’energia blu, dalle dimensioni di un fagiolo, si materializzò nella sua mano.

«Athena, addormentalo, ora!», gridò la Maestra, prima di scagliare il suo attacco sul Raptor.

L’agente della S.H.I.E.L.D. assentì e, mentre il corpo della creatura veniva attraversato da una scarica elettrica tra ferine grida di dolore, sparò una delle sue cartucce.

Il proiettile viaggio in linea retta per qualche secondo per poi penetrare nelle carni della creatura, appena sotto l’ascella destra.

Raptor ruggì e, poco dopo, cadde carponi al suolo, svenuto.

Il suo aspetto mutò di nuovo in quello di Deborah e Maya si spogliò in fretta della sua tunica, utilizzandola per coprire il corpo nudo dell’erpetologa.

Athena la ringraziò con un cenno e raccolse il corpo della donna fra le braccia, stringendola a sé.

«Sapevamo che non sarebbe stato facile», mormorò Maya, recuperando lo Sling Ring dalla cintura intrecciata. «Tuttavia, sei già stata in grado di aprire un contatto con Raptor. Questo è già un grande risultato!»

La figlia di Thor annuì appena alle parole consolatrici della Maestra, sovrappensiero.

Per essere la loro prima sessione di allenamento, avevano compiuto davvero dei buoni progressi.

Malgrado questo, però, avrebbero dovuto trovare un metodo più dolce per calmare Raptor e restituire a Deborah il suo corpo: mandare ogni volta la donna al tappeto le sembrava profondamente sbagliato.

«Il prossimo passo sarà insegnare a Deborah come riprendere il controllo del suo corpo in caso Raptor perda di nuovo la testa», ragionò ad alta voce, mentre Maya apriva il portale che le avrebbe riportate al Santuario.

Maya annuì, facendo cenno ad Athena di superare il vortice per prima.

«Informerò Joy e Wong su ciò che hai deciso e chiederò loro di svolgere qualche ricerca. Sono certa che, in qualche modo, potrebbero mettere a punto un amuleto in grado di aiutarla.»

Athena la ringraziò e, dopo essersi congedata, si diresse verso la camera di Deborah.

Entrò e depose con delicatezza il corpo dell’erpetologa sul letto.

Raggiunse quindi l’armadio, ne estrasse una delle lunghe e candide camice da notte che la dottoressa era solita indossare e tornò da Deborah.

Con estrema dolcezza, fece indossare alla compagna la camicia e la coprì con un lenzuolo, in modo che non prendesse freddo.

Fatto ciò, le diede un lieve bacio sulla fronte e uscì, chiudendosi la porta alle spalle.



* * *


25 ottobre 2045, 7.00 A.M.,
177A Bleecker Street,
New York City.


Una calda luce aranciata illuminò la camera a giorno e Gadha aprì le palpebre di scatto, allarmata.

«Calmati, Gadha», l’apostrofò una sconosciuta voce femminile. «Voglio solo parlare con te, senza farti alcun male.»

Gadha ringhiò e scosse il capo con forza.

«Non ho alcuna intenzione di ascoltare altre bugie!», ruggì, rabbiosa. «Tutto ciò che voglio è la mia libertà!»

Una risata divertita accompagnò l’ingresso di Maya nella camera tramite il portale.

«Tu pretendi di essere liberata?», domandò, ironica. «Tu che hai raggiunto la Terra per proporci di consegnare a Vither le reincarnazioni delle Gemme dell’Infinito in cambio della protezione della tua Signora?»

Gadha le rivolse un’occhiata velenosa, sollevandosi dal suo giaciglio.

Maya si accorse che la seguace di Vither la superava di almeno quindici centimetri, ma non si sentì affatto intimorita: sapeva proteggersi e, in caso di difficoltà, avrebbe trovato facilmente aiuto da parte di Joy.

«Non prendermi in giro, ragazza», l’avvertì Gadha, raggiungendola. «Dimmi semplicemente cosa vuoi e poi vattene. Se devo trascorrere qui i prossimi mesi, preferisco stare sola!»

«Joy mi ha riferito che sei qui solo come ambasciatrice e, secondo le usanze terrestri, non possiamo trattenerti oltre. Per questo motivo, ho chiesto a Victor di dare un’occhiata alla tua Eagle, in modo da permetterti un tranquillo ritorno. Tuttavia, prima di partire, dovrai portare alla tua padrona un mio messaggio. Siamo d’accordo?»

Gadha strabuzzò i grandi occhi dalle iridi dorate.

«Mi lascerete davvero andare?», chiese in un filo di voce.

La giovane annuì, mesta.

«Sì, ma dovrai riferire alla tua Signora queste mie parole: “i terrestri non hanno alcuna intenzione di accettare la tua proposta. Se desideri le reincarnazioni delle Gemme dell’Infinito, dovrai raggiungere il nostro pianeta e prenderle con la forza! Ti stiamo aspettando e dovrai passare sui nostri cadaveri prima di mettere le mani sulle Gemme!”. Credi di ricordartelo o hai bisogno che mi ripeta?»

Gadha assentì, ancora sorpresa.

«Ho compreso il tuo messaggio», le confermò. «Prometto che lo ripeterò esattamente alla mia Signora. Quando sarò libera di partire?»

«Una settimana. Il tempo che Victor si assicuri che la tua astronave sia in grado di raggiungere la nave madre senza troppe difficoltà», fu la risposta di Maya.

Gadha sorrise.

Finalmente, dopo una settimana di prigionia, poteva tornare dalla sua Signora!

Sembrava troppo bello per essere vero!

Un dubbio s’insinuò nella sua mente: che quella giovane le stesse mentendo?

Lo Stregone Supremo con cui aveva parlato qualche giorno prima, Joy, le aveva assicurato che non l’avrebbe mai lasciata andare.

Specialmente perché possedeva delle informazioni che lui reputava indispensabili per evitare la vittoria di Vither.

Sospirò, domandandosi cosa avesse in mente quella ragazza.

«Cosa ne pensa il tuo capo, Joy, di questa tua iniziativa?», s’informò. «Da quel che ho compreso dal nostro ultimo incontro, Joy coordina e comanda coloro che vivono in questo Santuario. Da come sei vestita, di certo appartieni al suo stesso culto.»

Maya scoppiò in una sincera risata, molto simile a quella di Joy.

«Joy? Il mio capo?», esalò con voce strozzata. «Ti ha detto davvero questo?»

Gadha osservò la sua reazione, stranita.

Dannazione, in che genere di Santuario era finita?

Come poteva quella giovane, evidentemente una sottoposta, prendersi gioco del proprio padrone con tanta impudenza?

Se qualcuno dei suoi colleghi avesse osato insultare così la sua padrona, Vither non avrebbe esitato un attimo a ucciderli.

Un nuovo portale si aprì alle loro spalle e Joy fece il suo ingresso nella camera.

«Maya!», esclamò il ragazzo. «Che ci fai ancora qui? Credevo avessi già finito con Gadha.»

La giovane abbozzò un piccolo sorriso, indicandole la seguace di Vither con un cenno.

«Io avrei anche concluso, ma non crede che vogliamo davvero rilasciarla. Ci pensi tu, vero?»

E, prima che l’uomo potesse rispondere, Maya era già sparita in un nuovo vortice d’energia.

Rimasto solo con Gadha, Joy sospirò, stanco.

Gadha, invece, aggrottò le sopracciglia, sempre più confusa: possibile che quel ragazzo fosse davvero a comando di quel Santuario?

Joy riprese la parola.

«Quel che Maya ti ha riferito corrisponde alla realtà: dopo aver a lungo discusso con gli altri, abbiamo compreso che non sei altro che un’ambasciatrice. Non abbiamo alcun diritto di trattenerti. Tornerai dalla tua Signora e le porterai il nostro messaggio.»

«Gli altri?», s’informò la donna. «Hai bisogno di consultarti con altre persone per prendere delle decisioni? Non ti sei dichiarato la massima autorità di questo Santuario?»

Joy scosse il capo con forza.

«Ti sbagli. Ho semplicemente detto che regolo e guido coloro che abitano il Santuario, ma non sono io a capo della missione con lo scopo ultimo di fermare la tua Signora.»

«E chi sarebbe a capo della missione?», domandò, perplessa.

Joy indicò con un cenno il punto della parete dove Maya era sparita poco prima.

«È Maya che ha reclutato e organizzato la resistenza», rispose infine.

Gadha non poté credere alle sue orecchie.

Quella giovane…

Quella giovane aveva davvero organizzato le squadre che avevano recuperato le cinque reincarnazioni delle Gemme dell’Infinito?

«Sorprendente, vero?», continuò Joy, cogliendo i suoi pensieri. «Questa è la conferma che gli umani sono decisamente migliori di come li avevi considerati al tuo arrivo sulla Terra. Se fossi in te, trarrei un’utile lezione da quest’esperienza: mai sottovalutare il tuo nemico. Gli umani sono sì superbi, egoisti e avidi, ma possiedono anche grandi qualità come la generosità, la tenacia, il coraggio e la bontà, cose che la tua padrona non capirà mai.»

Gadha digrignò i denti di fronte a quell’offesa, ma lo Stregone Supremo la ignorò.

«Rifletti sulle mie parole, ti lascio sola.»

Le voltò la schiena e rientrò nel suo portale, che si richiuse alle sue spalle.

Rimasta sola, Gadha si gettò sul letto, un po’ più leggera.

Avrebbe potuto tornare alla New Sanctuary con una risposta da parte della Terra: un’aperta dichiarazione di guerra per Vither.



Angolo dell'autore:
Salve e benvenuto all'appuntamento del venerdì!
In questi tre nuovi capitoli abbiamo rivisto il caro Eitri e abbiamo scoperto il desiderio di Storm. Ve lo aspettavate?
Detto questo, il prossimo aggiornamento sarà lunedì e assisteremo all'organizzazione dei nostri eroi all'arrivo di Vither.
La lotta è sempre più vicina, ormai.
Stay tuned!!

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Capitolo 28
*** Dichiarazioni di guerra ***


7 novembre 2045,
ora terza del giorno,
New Sanctuary.


Ganner si strofinò l’occhio rimasto con le nocche della mano destra e sbadigliò, esausto.

Vither gli aveva affidato il turno di guardia notturna, affermando che fosse di vitale importanza che lo spazio intorno alla New Sanctuary fosse tenuto sotto controllo in ogni ora del giorno.

Specialmente ora che Gadha si era diretta verso la Terra per offrire le loro condizioni di pace.

Tuttavia, per quanto Ganner fosse onorato di servire Vither, l’uomo doveva ammettere che la vita nell’esercito gli mancava tremendamente.

La lotta in prima fila, la spada stretta in pugno, l’eccitazione della battaglia, il sangue dei nemici fra le sue mani…

Tutto ciò era sfuggito dalle sue mani quando gli Avengers avevano distrutto la forma fisica delle Gemme dell’Infinito.

Lui era sopravvissuto per puro miracolo all’esplosione, ma aveva perso sia l’occhio sinistro che la gamba dal ginocchio in giù.

Da quel giorno, aveva continuato a servire Vither, ma svolgendo altri compiti.

Si passò una mano fra i folti capelli scuri che gli coprivano la fronte, chiedendosi annoiato se non fosse il momento di tagliarli.

Diede un’occhiata al piccolo orologio posto accanto al pannello di comando presente nella sala di ricezione della New Sanctuary e sospirò.

“Ancora due ore alla fine del mio turno”, rifletté. “Non vedo l’ora di buttarmi sulla branda e dormire fino a cena”.

Uno dei sensori s’illuminò di rosso e un fischio irruppe nella stanza, risvegliando Genner dal suo torpore.

L’uomo trasalì e si sbrigò ad afferrare il microfono, aprendo la comunicazione con l’esterno: una navicella era entrata nello spazio di sicurezza della New Sanctuary.

«Fermo dove sei, straniero!», intimò attraverso la radio-trasmittente. «Sei tenuto a metterti in comunicazione con me per chiarire il nome della tua astronave e il motivo per il quale sei entrato nel nostro spazio sicuro.»

Il microfono crepitò, annunciando il collegamento aperto dal jet estraneo.

«Qui parla Gadha, dalla navicella Eagle. Chiedo il permesso di rientrare alla nave madre dopo aver adempito alla mia missione sulla Terra.»

Ganner tirò un sospiro di sollievo: per fortuna, non si trattava di una minaccia.

«Apro subito il portellone, Gadha», assicurò, affrettandosi a digitare i comandi sul pannello. «Spero che la tua missione sia andata a buon fine.»

Gadha rimase in silenzio mentre il portellone del deposito si apriva lentamente e la Eagle faceva il suo ingresso nella New Sanctuary.

«Desideri che avverta Vither del tuo arrivo?», domandò Ganner, insospettito dal suo silenzio. «Credo che alla Signora farà piacere sapere che sei finalmente tornata.»

«Sì, ti ringrazio», replicò Gadha, stanca. «Devo confrontarmi con lei al più presto.»

Ganner aggrottò le sopracciglia, preoccupato dal tono della donna.

Evidentemente, doveva essere accaduto qualcosa nel corso della missione che Vither le aveva affidato.

Tremò al solo pensiero di vedere la sua padrona arrabbiata e si augurò seriamente che Gadha non portasse con sé notizie troppo negative.



* * *



7 novembre 2045,
ora quarta del giorno,
New Sanctuary.


Gadha si fermò di fronte al portellone in ferro che conduceva agli appartamenti di Vither.

Come al solito, Wallex e Built erano fermi sulla soglia, le lance incrociate di fronte al portale.

«Sono qui per conferire con la mia Signora», riferì alle due guardie, sostenendo i loro sguardi. «Sono tornata dalla missione che mi ha affidato e gli esiti non sono troppo promettenti.»

Le creature tennero gli occhi fissi su di lei, scrutandola con attenzione.

Infine, Built annuì e fece cenno a Wallex di sollevare la sua lancia, lasciandole libero il passaggio.

«Grazie», li gratificò con un piccolo sorriso, mentre il portellone si apriva verso l’alto.

Entrò e il portello si chiuse alle sue spalle, impedendole ogni via di fuga.

Scosse il capo con forza.

“Scappare come una vigliacca?”, rifletté, vergognandosi di sé stessa. “Come ho potuto solo pensarci?”

«Gadha!», la chiamò Vither, accomodata mollemente sul suo trono. «Cominciavo davvero a preoccuparmi, mia cara. Prego, siediti! Gradisci qualcosa da bere prima di annunciarmi l’esito della tua missione?»

La giovane si sedette, rigida, sulla sedia che Vither le aveva indicato e rifiutò la sua offerta con un garbato cenno del capo.

«Allora, avanti, cara. Raccontami cosa è accaduto dal momento in cui sei partita dalla New Sanctuary a bordo della tua Eagle.»

Gadha annuì e prese a narrarle ogni dettaglio della sua missione: la partenza, l’arrivo sul pianeta, il rapimento avvenuto da parte di Joy e dei suoi seguaci, il suo periodo di prigionia e, infine, l’incontro con Maya.

«…le sue parole, mia Signora, sono state: “i terrestri non hanno alcuna intenzione di accettare la tua proposta. Se desideri le reincarnazioni delle Gemme dell’Infinito, dovrai raggiungere il nostro pianeta e prenderle con la forza! Ti stiamo aspettando e dovrai passare sui nostri cadaveri prima di mettere le mani sulle Gemme!”», concluse, gli occhi velati di lacrime.

Man mano che il suo racconto procedeva, il volto di Vither aveva assunto diverse sfumature d’emozione: confusione, incredulità, sconcerto, divertimento e, infine, rabbia.

Quando il silenzio tornò negli appartamenti di Vither, Gadha non riuscì a trattenere le proprie lacrime.

Singhiozzò e tentò di celare la propria debolezza nascondendo il viso fra le mani guantate.

Aveva fallito la missione su tutta la linea e, in questo modo, aveva deluso profondamente la sua Signora.

Lei mi ha salvato la vita, mi ha presa sotto la sua ala e io la ripago così?

Prese a singhiozzare più forte, le lacrime ormai irrefrenabili.

«Gadha, mia cara», la richiamò Vither, «non c’è bisogno di piangere. A tutti capita di sbagliare. Siamo mortali e il fallimento è parte di noi.»

Vither prese ad accarezzarle con dolcezza i capelli, cercando di tranquillizzarla.

La ragazza lasciò che tutta la delusione e la rabbia che covava dentro di sé si liberasse.

La sua padrona accolse con pazienza i singhiozzi e le lacrime, mormorando parole incoraggianti per rassicurarla.

Qualche minuto più tardi, quando Gadha diede cenno di essersi placata, Vither riprese a parlare.

«Come ti dicevo, mia cara, il fallimento della tua missione non è così grave come credi: avevo già messo in conto che i Terrestri avrebbero rifiutato la nostra offerta. Tuttavia, devo ammettere che, se ti avessero consegnato le cinque Gemme in cambio della loro incolumità, ci saremmo risparmiate un bel po’ di grattacapi.»

Gadha assentì, inspirando rumorosamente l’aria dal naso.

«Bene, piccola, hai il permesso di ritirarti nella tua camera e riposare un po’», sorrise Vither. «Quando ti sarai ripresa, domattina, potremo discutere insieme sulla miglior strategia da adottare per raggiungere la Terra ed eliminare i nostri nemici!»

La giovane ringraziò la propria Signora con un profondo inchino e si diresse verso il portello.

Si pulì il volto con la manica della tunica, in modo che le guardie del corpo di Vither, all’esterno, non potessero vedere la sua debolezza.

Superò Wallex e Built senza degnarli di uno sguardo e raggiunse la sua camera.

Entrò e sprofondò nella branda dalle lenzuola bianche, ancora vestita di tutto punto.

Non ebbe il tempo di riflettere su ciò che era accaduto: si addormentò senza neppure accorgersene.



* * *



10 novembre 2045, 1.00 P.M.,
177A Bleecker Street,
New York City.


Maya si torturò il mento tra il pollice e l’indice, riflettendo.

Di fronte a sé, assicurato alla bacheca da diverse puntine dalle capocchie azzurre, vi era un ampio poster realizzato da lei dove figuravano le foto di tutti coloro che avevano deciso di aiutarli nella lotta contro Vither.

Dopo aver studiato con attenzione coloro che abitavano il Santuario di New York e le loro capacità, si concentrò su Minus Tyler e la sua famiglia.

Dal momento in cui Storm aveva reclutato il giovane, Maya non aveva mai scambiato più che un saluto con lui.

Doveva assolutamente convocare Minus, Cooper e Athena per comprendere quale compito affidargli sul campo di battaglia.

Prese mentalmente appunto, quando il suo sguardo cadde sulla nota conclusiva che aveva segnato nel pie di pagina.


“Maria Hill e il suo gruppo scelto di agenti della S.H.I.E.L.D.”


Si mordicchiò le labbra, domandandosi se Steve Rogers avesse davvero mantenuto la sua promessa: spiegare la loro situazione a Maria Hill e chiedere aiuto al suo dipartimento quando Vither avrebbe attaccato la Terra.

“Dovrò chiedere a Greyson a che punto è suo padre”, rifletté. “Altrimenti dovrò rivolgermi a Pepper. Lei, di certo, saprebbe cosa fare”.

Valk fece il suo ingresso nella biblioteca, tutto trafelato.

«Maya!», la chiamò. «Oggi ho chiesto a Wong di aprire un contatto con Eitri, per comprendere a che punto fosse. Lui ha risposto che il lavoro procede a buon passo e che, entro la prossima settimana, potremo dirigersi su Nidavellir e ammirare la struttura che sta costruendo.»

Un sorriso sollevato apparve sul volto della ragazza.

«Grazie mille per l’aggiornamento, Valk!», lo ringraziò, allegra. «Hai altre notizie?»

L’altro assentì, gli occhi fissi sulla mappa concettuale che Maya aveva costruito.

«Ho incontrato Athena e Cooper nel corridoio e mi hanno chiesto di riferirti che ti stanno aspettando nella camera di Deborah. Credo vogliano mostrarti qualcosa.»

Maya corrugò le sopracciglia, sorpresa: i due agenti della S.H.I.E.L.D. avevano preso ad allenare Deborah affinché imparasse al più presto come controllare Raptor, ma erano trascorse appena due settimane dall’inizio del loro addestramento.

“I risultati non possono essere già rilevanti” si disse. “Cosa vorranno mostrarmi?”

Si sollevò dalla poltrona e si diresse verso il piano superiore, dov’erano sistemate le camere di Cooper, Deborah e Athena.

Si fermò di fronte alla stanza di Deborah, bussando con discrezione.

«Chi è?», domandò la voce dell’erpetologa dall’interno.

«Sono Maya», rispose con voce chiara. «Posso entrare? Valk mi ha riferito che Athena e Cooper mi stavano cercando e che dovevo raggiungerli qui. Posso entrare?»

Deborah tacque per qualche istante e la Maestra udì chiaramente i bisbigli di Cooper e Athena.

Cosa stavano combinando quei tre, là dentro?

Attese con pazienza che la scienziata rispondesse, ticchettando la punta del pesante stivale destro sul parquet.

«Deborah?», la richiamò dopo diversi istanti.

«Ora puoi entrare, Maya», le permise Athena e Maya fece forza sulla maniglia.

Ciò che si ritrovò di fronte la lasciò a bocca aperta: Deborah si era trasformata in Raptor e teneva gli occhi serpentini fermi su di lei, studiando ogni suo movimento.

Cooper e Athena erano a fianco della creatura, le armi custoditi nei rispettivi foderi.

Allarmata, Maya concentrò la sua energia nei palmi delle mani ed evocò uno scudo dall’intricato mandala, pronta a difendersi.

Raptor si erse in tutta la sua altezza e prese a ringhiare, spaventato.

Athena allungò una mano verso il fianco della creatura e prese ad accarezzare le scaglie con dolcezza, sussurrando parole confortanti per calmarla.

«Abbassa le difese, Maya», la richiamò Cooper. «Non c’è alcun pericolo.»

La Maestra lo fulminò con lo sguardo: Raptor era lì, di fianco a lui, ringhiante e con gli occhi iniettati di sangue, e lui affermava che non c’era pericolo?

Tuttavia, decise di assecondarlo: si fidava del giudizio di Athena e Cooper.

Lo scudo d’energia scomparve e Maya incrociò le braccia sul petto, in attesa di una spiegazione.

«Raptor, riconosci Maya?», domandò Athena, rivolgendosi alla creatura.

L’enorme rettile scrutò la giovane per qualche istante, poi assentì con il muso affusolato.

«Sai quindi che non ti farebbe mai del male, vero?», riprese la figlia di Thor con pazienza, continuando ad accarezzargli il fianco.

Raptor annuì di nuovo.

«Allora non c’è bisogno di attaccarla, non trovi?»

La creatura sembrò rifletterci, poi si abbassò all’altezza del volto di Maya.

La Maestra trattenne il fiato, in attesa della prossima azione di Raptor.

Quest’ultimo aprì leggermente le fauci e lappò la guancia della giovane con la sottile lingua serpentina.

D’istinto, lei sollevò una mano e gli donò una leggera carezza che Raptor accolse chiudendo le palpebre.

«Tutto ciò è eccezionale!», ammise, ammirata. «Possibile che abbiate compiuto tutti questi progressi in due settimane? Voglio dire, sapevo che foste dei bravi agenti della S.H.I.E.L.D. e degli ottimi guerrieri, ma non credevo foste in grado di fare dei miracoli.»

Un sorriso imbarazzato nacque sulle labbra di Cooper, mentre Athena si limitò ad annuire, soddisfatta del suo operato.

«In realtà non è stato così difficile», spiegò la figlia di Thor. «È bastato portare un po’ di pazienza come si fa con i bambini quando imparano qualcosa di nuovo. Io e Cooper ci siamo limitati a parlare con lui, incoraggiarlo quando dava i primi cenni di miglioramento e calmarlo quando era vittima della rabbia e dei suoi istinti. Grazie a questo, oggi Raptor riesce a mantenersi mansueto e comprendere con chiarezza ciò che gli diciamo.»

«Qualsiasi cosa abbiate fatto, ottimo lavoro», ripeté Maya con un sorriso, dedicando a Raptor un’ultima carezza. «Ora non ci resta che insegnargli come utilizzare l’arma su cui Eitri sta lavorando.»

Il volto di Athena si adombrò.

«Su questo potremmo avere qualche problema», considerò, preoccupata. «Raptor è certamente migliorato moltissimo, ma dubito saremo in grado di spiegargli un concetto così complicato come utilizzare un’arma simile. Io e Cooper faremo del nostro meglio per insegnargli che dovrà schioccare le dita una volta che il Guanto sarà pronto, ma non posso prometterti nulla. Per questo motivo, ci chiedevamo se Wong e Joy fossero riusciti a forgiare un qualche tipo di talismano per placare un po’ la personalità di Raptor.»

Maya negò, amareggiata.

«Joy e Wong si sono impegnati nella ricerca di un possibile incantesimo che riuscisse a inibire la personalità di Raptor, in modo che Deborah potesse prendere il controllo del corpo, ma non sono riusciti a trovare nulla. Joy mi ha spiegato che la personalità di Raptor è legata così tanto a quella di Deborah che l’unico modo per indebolirla sarebbe eliminare per sempre la trasformazione e, questo, al momento, non è possibile.»

Un silenzio carico di tensione calò nella camera di Deborah.

Raptor chiuse le palpebre e il suo corpo prese lentamente a mutare, riacquistando l’aspetto di Deborah.

Fulminea, Athena resse il corpo esausto dell’erpetologa, coprendola con l’ampia vestaglia bianca sistemata sul letto.

«Credo sia giunta l’ora di uscire», considerò Cooper, rivolgendosi a Maya. «Lasciamo che Athena e Deborah possano dormire in pace per qualche ora.»

«Rifletterò sulla situazione e parlerò nuovamente con Joy e Wong, non temere», promise Maya ad Athena, prima di raggiungere la porta insieme a Cooper.

Rimasti soli nel corridoio, Maya non esitò a invitare l’agente della S.H.I.E.L.D. a seguirla verso la cucina per prendere insieme un caffè.

Infatti, i due erano soliti trascorrere insieme la serata, sorseggiando caffè e chiacchierando, ritrovandosi spesso a parlare fino a tardi.

Insieme, i due raggiunsero l’ampia sala che, per diversi anni, era stata il regno di Magda: in ogni angolo era posizionata una florida pianta aromatica con tanto di sottovaso decorato da variopinti motivi floreali e, alle pareti, erano sistemati alcuni acquerelli che lei stessa aveva realizzato.

Uno, in particolare, ritraeva uno scorcio della biblioteca, dov’erano ritratti i quattro abitanti del Santuario: una Maya quindicenne sorrideva alla pittrice, seduta accanto a un giovane Joy con lo sguardo fisso su un libro; Wong e Joy, invece, erano immersi in una fitta conversazione, un tomo aperto dinnanzi a loro.

La giovane sorrise malinconica alla vista di quel ritratto, ricordando colei che l’aveva realizzata.

Cooper seguì il suo sguardo e le si avvicinò, passandole una mano intorno alla vita.

«Vedrai che riuscirete a trovare un modo per recuperare Magda senza spegnere Pyrus. Ne sono sicuro.»

La giovane annuì, sperando con tutta se stessa che Cooper avesse davvero ragione e che, presto, Magda sarebbe tornata da loro, con il suo solito sorriso dolce e le sue maniere cordiali.

Raggiunse la cucina, recuperò in fretta il bollitore, lo riempì d’acqua e lo sistemò sul fornello.

Poi, estrasse dalla mensola la piccola scatola di latta dov’erano contenuti gli infusi naturali che Magda era solita realizzare con le piante che coltivava nella serra.

«Caffè o tè?», s’informò, rivolgendosi all’agente della S.H.I.E.L.D.

«Caffè, grazie», rispose lui, «nero e senza zucchero.»

Maya annuì e inserì una nuova capsula all’interno della macchinetta del caffè, sistemando una tazza pulita al di sotto del distributore.

«Serviti pure!», lo invitò, quando la tazza si fu riempita.

Cooper annuì e recuperò il suo caffè mentre Maya terminava la preparazione del suo tè.

Infine, i due si accomodarono intorno all’ampio tavolo di quercia che era solito ospitare i pasti degli abitanti del Santuario.

«Hai fame? Harley e Momoko hanno lasciato una confezione di biscotti al cioccolato sulla mensola.»

L’uomo le sorrise cordiale, ma rifiutò con un cenno del capo.

«La dietologa della S.H.I.E.L.D. mi ha impedito tassativamente di consumare dolci per almeno due settimane perché mi ha trovato ingrassato. Diciamo che la cucina di Harley è deliziosa, ma non è proprio un toccasana per la salute!»

Maya ridacchiò e sorseggiò un po’ del suo tè alla fragola, assaporandone soddisfatta il sapore dolciastro.

Cooper abbassò gli occhi sul suo caffè e Maya si sentì improvvisamente in colpa per aver riso.

Che l’agente ci fosse rimasto male?

«Se vuoi sapere la mia opinione, non sei affatto grasso. Anzi, sei fra le persone più in forma che conosca», si affettò ad aggiungere, appoggiando la sua mano su quella di lui.

L’uomo sorrise e intrecciò le loro dita mentre Maya avvampava.

Malgrado quei gesti stessero diventando man mano sempre più frequenti, la ragazza non ci si era ancora abituata.

«Sai, stavo riflettendo: una volta che Vither sarà sconfitta, vorrei approfittare delle molte ferie arretrate che ho accumulato negli anni per partire per un viaggio in Europa, dove vivono mia madre e mio fratello Nate. Ti andrebbe di venire con me? Un po’ di riposo gioverebbe anche a te.»

Maya si concentrò sulla propria tazza, riflettendo sulla proposta di Cooper.

In effetti, dal momento in cui Doctor Strange e il resto degli Avengers erano scomparsi, lei e Joy non si erano mai presi una pausa dall’addestramento e dalle ricerche.

“Una piccola vacanza non mi farà di certo male” rifletté. “In fondo, non ho mai visto l’Europa: Germania, Italia, Francia, Olanda… così tante nazioni affascinanti!”

«Non c’è bisogno di rispondermi ora», affermò Cooper, risvegliandola dai suoi ragionamenti.

«Sì», rispose lei, d’istinto.

Hawkeye le riservò uno sguardo confuso.

«Sì, mi darai la tua risposta più tardi o sì verrai con me?»

«Sì, mi piacerebbe molto accompagnarti nel tuo viaggio in Europa.»

L’uomo tirò un istintivo sospiro di sollievo e un sorriso nacque sul suo volto.

Una volta sconfitta Vither, sarebbe partito per un lungo viaggio con Maya, la giovane donna che, da cinque mesi a quella parte, occupava un posto speciale nel suo cuore e nella sua mente.

Cogliendo l’attimo, si alzò e fece per piegarsi all’altezza della giovane per baciarla, quando la porta della sala si aprì, rivelando l’entrata di Harley nella cucina.

«Oh, non sapevo ci fosse qualcuno, soprattutto a quest’ora», commentò sorpresa.

«Ehi, Harley!», la salutò Maya. «Stavamo prendendo un tè, te ne va una tazza?»

Gli occhi di Harley si accesero di gioia.

«Sì, grazie mille», fu la sua risposta mentre Maya si alzava e si dirigeva verso i fornelli per defilarsi da quella situazione imbarazzante.

Cooper fece per seguire la giovane, quando il suo telefono prese a vibrare.

«Pronto?», domandò.

«Sono Athena!», rispose la voce di Mantide. «Deborah si è addormentata e mi sto annoiando. Ti andrebbe di allenarti un po’ con me?»

«Arrivo subito!», esclamò, cogliendo la situazione al balzo.

Chiuse la comunicazione, si congedò dalle due Maestre e si diresse verso la camera di Athena.

Sì, un po’ di allenamento gli avrebbe fatto di certo bene!

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Capitolo 29
*** Il nuovo Guanto dell'Infinito ***


16 novembre 2045, 8.00 A.M.,
177A Bleecker Street,
New York City.


«Forza, bambini, prendetevi per mano», ordinò Athena alle cinque reincarnazioni delle Gemme dell’Infinito. «Abbiamo bisogno di teletrasportarci e non vorrei perdere nessuno.»

Astrid afferrò le mani di Drasta ed Esto, mentre quest’ultimo stringeva un braccio di Kimuack.

Velia, invece, incrociò le braccia al petto e assunse un’espressione contrariata che Maya accolse con uno sbuffo esasperato.

«Velia, prendi la mano di Drasta», la rimproverò. «E non rispondere!»

La ragazzina le riservò un’occhiata carica di odio che la giovane Maestra colse a muso duro.

«Non costringermi a ripetere», l’avvisò, indicando Drasta, «altrimenti dovrò di nuovo metterti in punizione e, fidati, non ho alcuna voglia d’inventare altri castighi soltanto per insegnarti il giusto comportamento. Se mi troverò costretta, prometto che questa volta non dovrai spazzare soltanto i pavimenti della biblioteca, ma spolverare tutti i libri presenti al suo interno. E con tutti, intendo tutti!»

Velia impallidì al solo pensiero di tutti i noiosi e pesanti tomi presenti nella biblioteca.

Quanto tempo le sarebbe servito per spolverare tutti quei libri?

Giorni, probabilmente anche settimane!

Di controvoglia, si avvicinò a Drasta, pallida per il timore, e strinse la sua mano.

«Perfetto», convenne Maya. «Ora possiamo andare. Voi siete pronti?»

Athena, Deborah e Cooper annuirono, pronti a partire alla volta di Nidavellir.

«Prendetevi per mano, per favore, e formate un cerchio con i bambini.»

I tre raggiunsero il cerchio già creato dai bambini mentre Maya si preparava a utilizzare il teletrasporto.

Chiuse gli occhi e regolò il suo respiro, in modo da raggiungere l’equilibrio energetico che le occorreva per teletrasportare tutti su Nidavellir.

Quando fu pronta, allungò una mano verso la spalla di Athena e la strinse.

«Tenetevi forte!», li avvertì, materializzando nella sua mente il profilo della stella abitata da Eitri.

L’intera compagnia si sollevò dal terreno e, in pochi attimi, scomparvero.



* * *


16 novembre 2045, 8.10 A.M.,
Nidavellir.


Eitri non poté credere ai suoi occhi quando un intero gruppo di terrestri si materializzò sulla piattaforma dove stava lavorando.

«Eitri!», lo salutarono subito Maya, Cooper e Athena con un ampio sorriso.

Alla vista dell’enorme nano che li stava osservando con crescente curiosità, i cinque bambini si nascosero dietro Deborah.

«Non siate spaventati da Eitri», li rassicurò Athena, raggiungendoli. «È molto alto, ma vi assicuro che è una delle creature più buone che abbia mai conosciuto.»

Il volto del nano avvampò per imbarazzo.

Tossicchiò per darsi un contegno e indicò loro l’impalcatura che si stagliava alle loro spalle.

Maya studiò la struttura con interesse: si trattava di cinque alti piedistalli che, alla base, andavano a collegarsi a un rettangolo di un materiale scuro su cui erano sistemati altrettanti cristalli trasparenti.

Tubi di una sostanza simile al vetro si snodavano attraverso l’intera struttura, collegando i piedistalli alla struttura principale.

La giovane incrociò le braccia, domandandosi dubbiosa come una struttura così semplice potesse aiutarli nella costruzione di un nuovo Guanto dell’Infinito.

Tuttavia, Eitri era riuscito a forgiare armi leggendarie come il Mjolnir e il Stormbreaker.

Di certo sapeva il fatto suo per quanto riguardava le armi.

«Se volete accomodarvi sui piedistalli», invitò allora il nano, rivolgendosi ai bambini, «potrò farvi vedere come funziona la mia nuova creazione.»

Le reincarnazioni delle Gemme dell’Infinito si guardarono l’un l’altro, scambiandosi occhiate dubbiose.

«Su, bambini», li esortò Athena, incoraggiante. «Non avvertirete alcun dolore e, in questo modo, ci aiuterete nella nostra missione. Non è vero, Eitri?»

Il nano cercò di addolcire lo sguardo e indicò di nuovo i cinque piedistalli su cui avrebbero dovuto sistemarsi i bambini.

«Vi prometto che non vi accadrà alcun male. Dovrete semplicemente sistemarvi su quelle piattaforme e la mia macchina si occuperà di tutto.»

Gli adulti attesero con pazienza che i bambini si dirigessero verso la struttura, quando Velia prese la parola.

«Se proprio dobbiamo salire su quel coso, come ci arriviamo così in alto?», domandò, piccata.

Maya alzò gli occhi al cielo, esasperata: possibile che quella ragazzina avesse sempre da ribattere?

Fece per rimproverare Velia, quando Eitri l’anticipò.

«Siccome sei stata così coraggiosa da proporti come prima volontaria, ti svelerò un piccolo segreto. Avvicinati alla struttura, forza!»

Velia impallidì e si guardò intorno: gli occhi dei presenti erano tutti puntati su di lei, compresi quelli di Drasta, solita tenere lo sguardo fisso al suolo a causa della timidezza.

Ora, non poteva più tirarsi indietro: se solo avesse dimostrato la sua paura, gli altri bambini avrebbero riso di lei.

Era pur sempre la principessa di Raback e non avrebbe permesso a nessuno di deriderla come una codarda!

Raddrizzò le spalle e raggiunse il primo pilastro con espressione impassibile.

Quando si fermò di fronte alla struttura rettangolare su cui erano sistemate i cinque cristalli, Eitri mormorò una parola che Maya non riuscì a comprendere.

Nell’immediato, la struttura emise un breve cigolio e una sottile scala a pioli realizzata in metallo si aprì agli occhi di Velia.

«Sali pure, ragazzina.»

La bambina deglutì e, poco dopo, iniziò la lenta scalata verso la cima dell’alto piedistallo.

«Cappa», sussurrò Maya, accarezzando il colletto del suo mantello. «Assicurati che Velia non si faccia male in caso, per favore.»

La Cappa della Levitazione si sollevò dalle sue spalle e si appostò alla base della scaletta, in modo da attutire una possibile caduta di Velia.

Per fortuna, la bambina riuscì a raggiungere la cima del piedistallo senza troppe difficoltà.

«Non è poi così pericoloso, vero?», le chiese Eitri, in modo da convincere anche le altre reincarnazioni delle Gemme.

Velia scosse il capo e sorrise, orgogliosa.

Incoraggiati dal successo di Velia, i quattro bambini raggiunsero il proprio piedistallo e, sotto lo sguardo vigile degli adulti, scalarono rapidi le scale a pioli.

«Perfetto», convenne il nano. «Ora state immobili. Potreste avvertire un po’ di stanchezza, ma non vi farà alcun male.»

I cinque assentirono, pronti.

Eitri accennò un sorriso e tirò con forza la leva collegata al corpo principale della sua creazione.

La struttura emise uno sbuffo di vapore e numerosi cigolii riempirono la sala: i piedistalli s’illuminarono mentre i cinque bambini venivano contornati da auree di luce di diversi colori.

Maya osservò ammirata le diverse auree: arancione per Esto, viola per Drasta, verde per Astrid, blu per Velia e rosso per Kimuack.

Pian piano, le auree dei piccoli vennero incanalate nei sottili tubi che si diramavano lungo tutta la struttura, convogliando nella parte rettangolare vicino al quale era sistemato Eitri.

Cigolando e sferragliando, la creazione di Eitri stava rapidamente pompando l’energia delle cinque Gemme all’interno del serbatoio principale, dove sarebbe stata conservata per forgiare il nuovo Guanto dell’Infinito.

Maya si concentrò sui cinque bambini per accertarsi che non stessero soffrendo.

Sospirò, sollevata, quando si accorse che le reincarnazioni delle Gemme dell’Infinito erano stanche, ma non davano alcun cenno di dolore.

Gli occhi di Athena e Deborah, invece, erano fissi sulla figura di Astrid: la piccola si era seduta sulla piattaforma a gambe incrociate e attendeva, calma, che l’invenzione di Eitri facesse il suo dovere.

Qualche minuto più tardi, il nano tirò di nuovo la leva e le piattaforme si spensero, insieme alle cinque auree di luce.

«Voi, lassù! Tutto bene?», gridò l’armaiolo degli dei. «Avvertito qualche dolore?»

I cinque negarono, sollevati.

«Potete anche scendere ora!»

Prontamente, i bambini ripercorsero le scalette a pioli e si raccolsero intorno ai quattro adulti.

«Ben fatto, ragazzi», si congratulò Maya con un sorriso, battendo una mano sulla spalla di Velia. «Sono fiera di voi!»

La ragazzina strabuzzò gli occhi, sconvolta: Maya, colei che per prima l’aveva sconfitta e messa dinnanzi alla cruda verità, si era appena dichiarata orgogliosa di lei!

Fece per dar voce ai suoi pensieri, quando Eitri li chiamò, chiedendo loro di avvicinarsi alla struttura rettangolare.

Subito, Maya si accorse che i cristalli trasparenti avevano assunto i colori delle Gemme dell’Infinito.

«Signore e signori, permettetemi di presentarvi il nuovo Guanto dell’Infinito!», esultò, mentre estraeva dalla struttura rettangolare la sua nuova opera.

Tutti i presenti ammirarono estasiati la creazione di Eitri: un guanto in metallo argentato, con cinque delle sei gemme dell’Infinito sistemate nelle rispettive nicchie all’altezza delle nocche.

Soltanto la Gemma della Mente, localizzata sulla parte superiore del palmo, era assente.

Un silenzio attonito regnò su Nidavellir per qualche attimo, quando Astrid raggiunge Eitri, scuotendo il capo.

«Hai commesso un errore, sai?», gli fece notare, la testa piegata leggermente su un lato.

Il nano aggrottò le sopracciglia, confuso.

«Errore?», ripeté. «Quale errore potrei aver commesso?»

«La misura della mano. Quel guanto è molto più grande della mano di Deborah e Raptor non ha una zampa così imponente.»

Il volto dell’armaiolo si rilassò.

«Non temere, piccola, ho pensato anche a quello», sorrise enigmatico, facendo cenno all’erpetologa d’avvicinarsi.

Deborah si sistemò di fronte a Eitri, rigida per la paura.

Lui le rivolse un sorriso incoraggiante e le porse il Guanto dell’Infinito, evidentemente troppo largo per il suo polso sottile.

«Non avere paura, ragazza, indossalo!», la esortò.

La donna indossò alla meglio il Guanto, facendo attenzione affinché non si sfilasse.

Inaspettatamente, l’arma s’illuminò e Deborah l’avvertì stringersi intorno al suo polso fino ad adattarsi alla sua mano.

«Incredibile!», esclamò Maya, colpita. «Il Guanto è realizzato in un materiale in grado di espandersi e restringersi. Davvero ammirevole.»

Eitri arrossì, colpito dai complimenti della giovane.

Certo, sapeva di essere uno dei migliori armaioli della Galassia, ma ricevere l’ammirazione di qualcuno era sempre gratificante.

«Ma le funzionalità non terminano qui!», riprese, entusiasta. «Come potete vedere, sulla parte centrale del Guanto ho lasciato un alloggiamento per la Gemma della Mente e un piccolo marchingegno in grado di estrarre l’energia della sua reincarnazione.»

«Gemma della Mente?», l’interruppe Athena, confusa. «Il Guanto dell’Infinito non è completo così com’è?»

Eitri scosse il capo, amareggiato.

«Di certo la presenza di cinque Gemme rende il Guanto un’arma estremamente potente. Tuttavia, avrete bisogno che l’energia di tutte le pietre sia contenuto nel Guanto per poter eseguire il famoso “schiocco” di cui avete bisogno per eliminare definitivamente Vither da questo universo.»

Maya avvertì il cuore sprofondarle nel petto.

Tanar era prigioniero di Vither da circa nove mesi e, ora che Gadha era tornata alla navicella-madre con il secco rifiuto della Terra alla sua proposta, avrebbe certamente sorvegliato quel bambino giorno e notte.

“Come diamine faremo a recuperare anche l’energia di Tanar?” si domandò, sgomenta.

Intuiti i suoi dubbi, Cooper le si avvicinò e le cinse i fianchi con un braccio, protettivo.

«Troveremo un modo per recuperare anche Tanar, esattamente come abbiamo fatto con loro», l’incoraggiò con decisione, indicando i cinque bambini che lei e la squadra avevano recuperato.

«Hai ragione», ammise riluttante, «ma la situazione non si rivelerà affatto semplice. Per localizzare le precedenti Gemme abbiamo dovuto scontrarci soltanto con i loro custodi mentre Tanar sarà protetto dall’intero esercito di Vither! Come faremo?»

«Come abbiamo fatto fin ora: lottando con tutte le nostre forze», intervenne Athena, una scintilla di determinazione accesa negli occhi chiari.

Maya si diede subito della sciocca: aveva reclutato persone straordinarie, studiato centinaia di incantesimi per localizzare e recuperare cinque delle sei Gemme dell’Infinito senza mai perdersi d’animo.

“Hai sempre creduto ciecamente nella riuscita del nostro piano per salvare la galassia dalla minaccia di Vither e ora, che sei a un passo dal compimento di questa missione, vuoi tirarti indietro?” si domandò, vergognandosi di se stessa.

«Avete ragione, entrambi!», sentenziò decisa, ringraziandoli con un rapido abbraccio. «Non possiamo arrenderci proprio adesso. Appena tornati al Santuario, cominceremo a organizzare il salvataggio di Tanar. Quando Vither arriverà sulla Terra, troverà la sua sconfitta!»

L’intero gruppo esultò a quelle parole e persino Eitri non poté nascondere un sorriso.



* * *



20 novembre 2045, 9:30 P.M.,
Sede Principale S.H.I.E.L.D.,
New York City.


La porta dell’ufficio si aprì lentamente e Steve Rogers entrò con l’andatura lenta e un po’ claudicante tipica di una persona anziana.

Non appena si fu accorta dell’identità del nuovo arrivato, Maria scattò in piedi e lo gratificò con un sorriso.

«Steve!», lo salutò, facendogli cenno di accomodarsi. «Da quanto tempo non ci vediamo? Quale buon vento ti porta qui?»

L’uomo si sedette e rispose al suo saluto con un sorriso garbato.

«Gradisci un caffè? Un tè? Un alcoolico?», gli offrì, cordiale. «Ho sentito che ultimamente vai matto per il liquore. Ottima scelta per affogare i dispiaceri dell’età.»

«No, sono a posto. Non preoccuparti», rispose l’anziano. «E, per rispondere alla tua domanda, sono qui per parlarti di qualcosa di molto serio.»

La voce greve di Steven mise subito Maria in allarme.

«Sai che sono a tua completa disposizione», gli ricordò.

Steve Rogers la ringraziò con un cenno.

Si udì bussare e Maria sollevò gli occhi sulla porta, seccata.

«Sono impegnata al momento!», esclamò con voce chiara, in modo che l’agente al di là della soglia potesse udirlo bene. «Ripassa più...»

«Entra pure, Pepper», intervenne il primo Captain America. «Stavamo aspettando soltanto te.»

Dinnanzi agli occhi di una stupefatta Maria, Pepper Potts fece il suo ingresso nello spartano ufficio.

La donna salutò i due presenti e, senza attendere il permesso di Maria, occupò la sedia accanto a quella di Steve.

«Posso domandarvi il motivo per il quale avete organizzato questa sorta di riunione nel mio ufficio?», domandò, leggermente piccata.

Essere a capo di tutti gli agenti della S.H.I.E.L.D. le aveva insegnato a temere gli imprevisti che, spesso e volentieri, complicavano non poco il suo lavoro.

«Non avercela con Pepper, le ho chiesto io di venire», tentò di placarla l’anziano. «Necessitavo di qualcuno che avesse vissuto di prima mano le missioni di recupero.»

Maria aggrottò le sopracciglia, ancora più confusa: di cosa diamine stavano parlando quei due?

Tuttavia, prima che potesse chiedere nuovamente spiegazioni, Steve si decise a vuotare il sacco.

«Come ben sai, circa cinque mesi fa, Pepper ti ha riferito che una giovane Maestra proveniente dal Santuario dei Maestri di New York si è diretta alle Stark Industries per chiedere il loro aiuto contro una certa Vither. Sono certo che tu abbia fatto delle ricerche su Maya McInnos per farti un’idea precisa sul suo conto, ma non credo tu abbia trovato molto, dico bene?»

Maria annuì, tentando di comprendere dove volesse andare a parare: come aveva già evidenziato il primo avenger, McInnos era scomparsa circa dieci anni prima, poco dopo l’incidente che aveva ucciso suo padre Robert e mandato sua madre Paige in coma per diversi giorni.

Evidentemente, Strange aveva accolto la ragazzina sotto la sua ala dal momento che la madre, Paige, aveva a lungo prestato servizio come Maestra nel Santuario di Kathmandu.

«Ovviamente», continuò l’anziano, «con tutto ciò che hai da fare qui alla S.H.I.E.L.D. non avrai prestato molto attenzione alle azioni di quella ragazza e degli altri Maestri del Santuario di New York, ma devo ammettere che si sono dati molto da fare in questo periodo: hanno reclutato tutti coloro che sono presenti all’interno della tua lista di “Situazione di pericolo mondiale” e recuperato cinque delle sei Gemme dell’Infinito.»

«Le Gemme dell’Infinito?», l’interruppe Maria, incredula. « Quelle Gemme dell’Infinito? Non erano state distrutte sei anni fa?»

Pepper negò, cupo.

«La forma fisica delle Gemme è stata distrutta, non la loro essenza», spiegò. «Come mi ha illustrato Wong, si sono reincarnate in delle forme di vita senzienti in ogni angolo del nostro Universo. Posso assicurarti che tutto ciò che ti abbiamo raccontato corrisponde alla verità: io ho partecipato al recupero dalla Gemma del Tempo e la piccola Astrid può controllare davvero il flusso del tempo.»

Il silenzio calò pesante nell’ufficio: numerosi pensieri mulinavano nella mente di Maria mentre tentava di elaborare ciò che Pepper e Steve le avevano appena comunicato.

“Quindi Fury e gli Avengers si sono sacrificati per nulla?” realizzò, rabbiosa. “Quella dannata creatura è tornata per reclamare le Gemme dell’Infinito e cosa abbiamo noi adesso, per difendere il pianeta? Soltanto gli agenti della S.H.I.E.L.D. e quello sparuto gruppo di Asgardiani che si trova a New Asgard.”

Maria avvertì il cuore sprofondarle nel petto.

Ricordava bene ciò di cui Thanos e Vither erano capaci e quanti sforzi e sacrifici erano stati necessari per sconfiggerli.

«So a cosa stai pensando», parlò Steve, distogliendola dal suo lungo fiume di riflessioni. «E posso rassicurarti, almeno su alcuni punti.»

Ancora una volta, Maria si ritrovò ad attendere con il fiato sospeso che quei due continuassero.

«Come ti ho anticipato prima, Maya ha reclutato tutti coloro che avevi individuato e annotato in quella tua lista e ha allertato sia gli Asgardiani che i Maestri delle Arti Mistiche di ogni Santuario terrestre. Valchiria e Joy, lo Stregone Supremo, si sono detti d’accordo a combattere contro Vither per proteggere il pianeta. E qui giungiamo al motivo per il quale ti ho raccontato tutto questo: Maya e i suoi hanno domandato il tuo aiuto e quello dei tuoi uomini. Tuttavia, per cause di forza maggiore, si sono rivolti a me per intercedere per loro conto. Dimmi, saresti disposta ad aiutarli?»

Maria rivolse a entrambi uno sguardo in tralice.

«La risposta mi sembra ovvia, Rogers», rispose, secca. «Soltanto collaborando avremo qualche possibilità di sconfiggere Vither.»

Pepper e Steve si scambiarono un’occhiata d’intesa, certi che la comandante della S.H.I.E.L.D. avrebbe risposto in quel modo.

«Tuttavia, Pepper, dovrai accompagnarmi da loro il prima possibile. Ho bisogno di capire su quante forze possiamo contare», aggiunse.

«Oh, non hai bisogno che sia io ad accompagnarti», replicò la donna. «Ti basterà chiedere ai tuoi due migliori agenti.»

«Odinson e Barton, vero?», constatò Maria con un amaro sorriso. «Sapevo che loro c’entravano qualcosa. Cinque mesi fa entrambi facevano i salti di gioia quando si trattava di straordinari e ora sono i primi ad abbandonare l’ufficio alla fine del loro turno. Inoltre, quel loro trasferimento improvviso...»

«Bene», l’interruppe Steve, alzandosi. «La nostra missione qui è conclusa. I tuoi agenti provvederanno domani a condurti al Santuario e metterti al corrente di tutti i dettagli. Ti auguro buona fortuna, Maria, e buon lavoro.»

La donna avrebbe voluto intervenire, ma il primo avenger si era già diretto verso la porta.

Pepper lo imitò in tutta fretta.

Rimasta sola, Maria rivolse un’occhiata alla foto che teneva sulla scrivania, accanto al computer: tutti gli agenti della S.H.I.E.L.D. dell’anno 2008.

In mezzo a loro, spiccava il volto del direttore, Nick Fury.

«Fury», mormorò, le braccia incrociate al petto. «Credo dovrò ripercorrere i tuoi passi: il mondo necessita di nuovi Avengers e sembra che il destino me li abbia serviti su un piatto d’argento.»

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Capitolo 30
*** Piani d'attacco ***


25 novembre 2045, 10.15 A.M.,
177A Bleecker Street,
New York City.


Joy entrò nella biblioteca con una strana sensazione di deja-vu.

Di fronte a lui, infatti, erano accomodati tutti coloro che avrebbero preso parte alla missione di salvataggio di Tanar.

Due mesi erano trascorsi dal momento in cui si erano divisi per recuperare le Gemme.

Due mesi dalla perdita di Magda…

Lo Stregone Supremo avvertì la tristezza prendere possesso del suo cuore.

Tuttavia, fu solo questione di un attimo.

Si schiarì la gola per darsi un tono e raggiunse il suo posto al tavolo attorno al quale i suoi alleati erano già sistemati.

Quando si fu seduto, Harley e Momoko si alzarono in sincrono e chiusero le porte della biblioteca.

Il silenzio calò nella sala, in attesa che Joy iniziasse a parlare.

L’uomo ringraziò i presenti con un cenno.

«Vi ringrazio per esservi riuniti qui oggi», esordì. «Come tutti sappiamo, il tempo per organizzarci stringe. Infatti, dal giorno in cui abbiamo liberato Gadha, l’ambasciatrice che Vither aveva invitato sul nostro pianeta, la nave madre ha raddoppiato la sua velocità e si sta dirigendo verso la Terra. Secondo i pronostici di Wong e Valk, che si sono occupati di monitorare la New Sactuary, Vither sarà qui fra quindici giorni. Dico bene?»

I diretti interessati, seduti uno accanto all’altro alla sua destra, annuirono cupi.

«Dobbiamo sbrigarci a preparare il piano di difesa della Terra. Come abbiamo concordato qualche giorno fa, per sconfiggere definitivamente Vither, avremo bisogno di recuperare Tanar, la reincarnazione della Gemma della Mente. Uno dei primi punti di discussione di oggi riguarda proprio la missione di salvataggio: chi si occuperà di penetrare nella navicella di Vither per recuperare il bambino?»

Subito, tre mani scattarono in aria: Maya, Greyson e Valk.

Cooper, Peage e Athena rivolsero ai tre sguardi preoccupati: malgrado avrebbero desiderato seguirli per aiutarli, sapevano che le loro capacità erano più utili sul campo di battaglia.

Difatti, i fulmini che Peage era in grado di scagliare e le mirabili doti nel combattimento dei due agenti della S.H.I.E.L.D. avrebbero fatto decisamente comodo alla difesa.

«Maya, Greyson e Valk», enumerò lo Stregone Supremo. «Qualcun altro vuole candidarsi per la missione?»

Una quarta mano si sollevò, titubante.

«Minus Tyler», lo chiamò Joy, sorpreso. «Sei sicuro della tua scelta?»

Il ragazzo annuì, solenne.

«Sono sicuro», confermò, una nuova luce accesa negli occhi castani.

Lo Stregone Supremo l’osservò per lungo tempo, poi si aprì in un sorriso.

«Puoi partecipare alla missione, ma dovrai stare appiccicato agli altri e, se ti ordineranno di scappare, tu non metterti a fare l’eroe. Fuggi! Mi hai capito?»

«Agli ordini!», scattò il ragazzo.

Maya non riuscì a trattenere una risatina e Minus divenne paonazzo per l’imbarazzo.

«Ora che abbiamo chiarito questo punto», intervenne Maria Hill, «direi che è giunto il momento di concentrarci sulle forze che avranno il compito di proteggere la Terra. Di quante persone disponiamo e, soprattutto, quanti di voi hanno abilità utili in combattimento?»

«Possiamo innanzitutto contare sugli Stregoni dei Santuari di Londra, New York e Kathmandu. Koshiro, quanti Stregoni con un addestramento completo sono presenti a Kamar-taj?»

Koshiro, l’anziano nonno di Momoko, si alzò.

«Circa cinquecento», rispose. «Potremo anche contare su alcune reclute che dovrebbero terminare l’addestramento in poco tempo e aiutarci nella lotta.»

Joy annuì, soddisfatto.

«Valchiria», chiamò poi, rivolgendosi alla regina di New Asgard, seduta fra Connor e Athena. «I tuoi guerrieri sono pronti alla lotta?»

La donna si alzò a sua volta, in modo che tutti i presenti potessero vederla.

«Gli Asgardiani sono pronti e armati di tutto pronto», annunciò decisa. «Ogni uomo e donna in grado d’impugnare una spada è pronta al combattimento, mentre i bambini e gli anziani resteranno a New Asgard, al sicuro.»

«Di quante spade stiamo parlando?», l’interruppe Maria, impaziente.

«Milletrecentoquarantadue spade e altrettanti cavalli», rispose la regina con precisione.

Maria si mordicchiò le labbra, riflessiva.

“Milletrecento asgardiani e cinquecento stregoni. Queste sono le forze su cui possiamo contare?”

Prima che potesse dare voce ai suoi pensieri, Joy riprese a parlare.

«Grazie per l’intervento, Valchiria.»

La donna lo ringraziò con un elegante cenno del capo e si risedette, incrociando le gambe e le braccia.

«Ora, Maria, passo a presentarti coloro che tu stessa ci hai indicato nella tua lista.»

La donna osservò con interesse i personaggi che le venivano presentati, soffermandosi sui punti di forza e di debolezza di ognuno.

Quando Joy ebbe concluso, la direttrice della S.H.I.E.L.D. avvertì il peso che le gravava sul petto allentarsi un po’: malgrado potessero contare soltanto su millesettecento guerrieri, tutti sembravano possedere un’ampia gamma di abilità combattive su cui fare leva per difendere la Terra.

Si giunse presto alla fine della lista e Maria si accorse che mancava ancora un elemento.

«I Wakandiani. Dove sono i superstiti di Wakanda?»

Joy s’incupì.

«Abbiamo fatto di tutto per rintracciare quel che rimane di Wakanda dopo la sparizione dei loro regnanti, ma non siamo riusciti a trovare nulla», si scusò, tenendo gli occhi fissi sul pavimento.

Si udì bussare alla porta e un sorriso comparve sulle labbra di Joy.

Maya riservò un’occhiata confusa all’uscio, domandandosi di chi potesse mai trattarsi.

«Chi è?», s’informò Momoko.

«Sono Steve», si annunciò una voce forte. «Joy mi ha chiesto gentilmente di venire al Santuario per discutere di strategia. Posso entrare?»

Fulminea, Momoko aprì la porta e il primo avenger fece il suo ingresso nella biblioteca con andatura claudicante.

Sotto gli occhi esterrefatti di Maya, Athena e Deborah si alzarono e si diressero in tutta fretta verso l’esterno.

La giovane Maestra si voltò d’istinto verso Joy.

Lo Stregone Supremo non sembrava affatto sorpreso da quell’apparizione.

Anzi, stava persino sorridendo!

«Cosa sta accadendo?», gli chiese, confusa. «E perché sembrate tutti al corrente di questa situazione a parte me?»

Cooper le si fece più vicino, sistemandosi sulla sedia occupata poco prima da Athena.

«Joy ha deciso di omaggiare Captain America con un piccolo dono che potrebbe essergli davvero utile durante la lotta. Athena e Deborah si sono alzate per andare a prendere Astrid.»

Maya non impiegò molto a comprendere il piano di Joy: utilizzare il potere della Gemma del Tempo sul corpo dell’uomo per poter restituire all’anziano avenger il vigore della giovinezza.

«Non credo sia giusto nei suoi confronti», rifletté in un sussurro, rivolgendosi più a se stessa che a Hawkeye. «Ha affrontato decine di nemici e sofferto molto, prima di tornare indietro nel tempo per restare con sua moglie Paggie. E se fosse ormai stanco di lottare? Insomma, centotrenta anni non sono pochi.»

Prima che Cooper potesse replicare, la porta si aprì e Astrid entrò, accompagnata dalle due donne.

Allungò una manina verso l’anziano e mosse il polso verso sinistra.

Subito, il suo palmo s’illuminò di una calda luce verde e, prima che Steve potesse proteggersi, il suo corpo venne contornato dalla stessa aura smeraldina.

Rapidamente, l’aspetto dell’anziano prese a mutare: i capelli assunsero di nuovo un bel color miele, le rughe scomparvero dal suo volto e il suo corpo riassunse la forza e il vigore della gioventù.

Quando la luce scomparve, Steve era tornato al suo antico splendore.

Joy sorrise, soddisfatto del suo piano.

«Joy!», chiamò Maya furente, raggiungendolo. «Come diamine hai potuto farlo? E senza chiedere neppure il suo permesso!»

Lo Stregone Supremo si limitò a tacere mentre Captain America realizzava ciò che era appena accaduto, tastandosi con orrore il petto e le gambe nuovamente scolpite e il volto privo di rughe.

«Sono tornato giovane…», farfugliò. «Com’è possibile?»

«Molto semplice, signore. Abbiamo sfruttato l’energia della Gemma del Tempo di…», gli spiegò Joy, subito interrotto da Maya.

«Non so cosa sia venuto loro in mente», si scusò la giovane, rivolgendo all’amico uno sguardo di fuoco, «ma la riporteremo subito al suo aspetto originario.»

Steve sembrò non udire la sua voce, gli occhi azzurro cielo puntati sul profilo dello Stregone Supremo.

«Perché avete organizzato tutto ciò alle mie spalle?»

Il suo tono di voce era pacato, ma Maya colse una scintilla di rabbia brillare nei suoi occhi.

«Semplice. Il nostro piano necessita di qualcuno che sia in grado di guidare e organizzare le nostre forze e chi meglio di lei? Il primo avenger, colui che ha attraversato innumerevoli battaglie ed è stato persino in grado di maneggiare il Mjolnir», rispose Joy, carico di speranza.

Il silenzio calò pesante nella sala.

Astrid, spaventata da quella quiete, si nascose dietro le gambe di Deborah.

L’erpetologa posò una mano sul suo capo e l’accarezzò, nel tentativo di rassicurarla.

Greyson si alzò e raggiunse deciso il padre.

«Joy ha senza dubbio sbagliato nel nascondere il suo intento, ma la sua ragione è valida. Chi potrebbe guidarci alla vittoria se non Captain America in persona? Ti prego, accetta di guidarci in questa missione. Per il bene della Terra.»

Steve rivolse il suo sguardo a Greyson e avvertì un moto di orgoglio farsi largo nel suo cuore: quel giovane, il figlio che la S.H.I.E.L.D. gli aveva inconsapevolmente donato, era davvero coraggioso e leale.

Poi, i suoi occhi si spostarono rapidi su Maya, Joy, Deborah, Athena, Cooper, Paige…

Tutti lo stavano osservando e Steve riconobbe nei loro occhi la familiare luce della speranza.

Tutti loro credevano in lui, speravano nella sua guida per salvare il loro pianeta…

«Non vi deluderò», mormorò a mezze labbra.

I presenti si sporsero sulle proprie sedie, in modo da udire ciò che l’uomo aveva appena proferito.

«Avete bisogno di una guida e sono orgoglioso di poter assumere questo compito!», ripeté, più sicuro che mai. «Prometto che utilizzerò tutte le mie conoscenze per portarci alla vittoria contro Vither. Vedrete che, insieme, riusciremo a proteggere la Terra!»

Un’ovazione generale percorse l’intera sala e un sorriso nacque spontaneo sulle labbra di Steve.

Malgrado fossero passati molti anni dall’ultimo discorso che aveva tenuto, la piacevole sensazione di rispetto era sempre la stessa.

«Quando avremo concluso con Vither, dovrete restituirmi la mia età. Siamo d’accordo?»

Joy annuì e si concesse un sospiro, sollevato dall’esito positivo della sua avventatezza.

Nonostante ingannare Steve Rogers affinché accettasse di guidarli nella battaglia contro Vither fosse moralmente sbagliato, lo Stregone Supremo non aveva trovato altro modo per convincerlo.

“In fondo, il fine giustifica i mezzi, no?” rifletté, “E il fine è stato raggiunto: Captain America ha accetto di partecipare alla nostra missione.”

Maya non poté far altro che tacere: non condivideva il suo piano, ma doveva ammettere che Joy aveva avuto un’idea geniale.

Steve era senza dubbio la guida perfetta per quella missione.



* * *



27 novembre 2045,
ora tredicesima del giorno,
New Sanctuary.


Vither si passò una mano fra i lunghi capelli candidi, scompigliandoli.

Malgrado la New Sanctuary fosse ancora lontana dalla Via Lattea, avvertiva chiaramente su di sé gli occhi di coloro che la sorvegliavano da settimane: i Maestri della Terra.

Si morse un labbro, furiosa con sé stessa.

I terrestri non avevano soltanto recuperato le cinque Gemme dell’Infinito sotto i suoi occhi e trattato Gadha come una misera prigioniera, ma avevano avuto l’impudenza di dichiarare guerra!

Una dichiarazione di Guerra… a lei!

Udì la voce di Gadha provenire dall’esterno.

«Mia Signora, mi avete fatto chiamare?»

«Sì, Gadha, entra pure.»

Il portellone metallico si aprì e Gadha entrò, conducendo con sé una giovane aliena dalla pelle grigiastra cinta in uno stretto vestito bianco e azzurro dalle ampie maniche in cui tener nascoste le mani.

«Come promesso, mia Signora, ho portato con me Roxan», le annunciò Gadha, esibendosi in un piccolo inchino.

Vither la ringraziò con un rapido cenno del capo e Roxan si fece avanti, il capo chino.

I lunghi capelli argentati le caddero sul volto, nascondendolo.

«Roxan, come sta il bambino?», domandò l’albina. «Si fida già di te e delle tue sorelle

La donna si morse le labbra, riflettendo.

«Tanar è un bambino molto intelligente. Ha compreso che lo trattiamo con tanto riguardo perché ci servirà in futuro per un preciso scopo che, al momento, non conosce», spiegò.

Vither tenne gli occhi dall’iride rosata fissi su di lei, aspettando che continuasse.

«Malgrado stia sempre all’erta, però, Tanar si fida molto di noi: io e le mie sorelle lo trattiamo come se fosse un nostro fratellino e il piccolo non esita a seguire le nostre istruzioni. All’inizio era molto restio e chiedeva costantemente il perché di ogni cosa, ma ora è molto più rilassato. Sa che non vogliamo fargli del male.»

Gadha non riuscì a trattenere una smorfia di disgusto: Roxan e le sue sorelle, giovani di sesso femminile che Vither aveva reclutato su diversi pianeti, erano solite intrattenersi con passatempi promiscui che lei considerava deplorevoli.

Pensare che il piccolo Tanar fosse stato invischiato in una situazione simile le gelava il sangue nelle vene.

Più volte aveva chiesto alla sua Signora di togliere la reincarnazione della Gemma della Mente dalle mani di quelle donne, ma Vither non aveva voluto sentire ragioni.

Il piccolo andava protetto, curato e viziato per quel po’ di tempo che gli restava da vivere e chi meglio di Roxan e le sue sorelle potevano occuparsi di lui, maestre nell’arte del piacere?

“Spero soltanto che quella depravata non l’abbia violentato per insegnargli i “piaceri della vita”, come li chiama lei”, rifletté.

«Molto bene», convenne la sua Signora, strappandola alle sue riflessioni. «Voglio che, da domani, trascorra i miglior giorni della sua vita. Tra sette giorni esatti, ho intenzione di procedere con l’Assimilazione della Gemma della Mente.»

Gadha avvertì un moto di tristezza farsi largo nel suo petto.

In quei giorni aveva trascorso molto tempo con Tanar, trovandolo uno dei bambini più dolci e sensibili che avesse mai conosciuto.

Sapere che quel piccolo sarebbe stato assimilato dalla sua Signora per acquisire il suo potere le dispiaceva molto.

Tuttavia, aveva promesso di servire Vither per il resto della vita e doveva tenere fede ai suoi principi.

Roxan annuì e s’inchinò, attirando su di sé lo sguardo di Gadha.

«Desiderate altro, mia Signora?», domandò.

Vither rifletté qualche istante sulle sue parole, poi negò con il capo.

«Puoi andare, Roxan, io e te abbiamo finito. Ricorda ciò che ti ho detto, per il bene del piccolo Tanar.»

La donna si erse in tutta la sua statura e, dopo aver dedicato all’albina un ultimo sguardo, si diresse verso il portellone.

Gadha fece per seguirla, quando la sua Signora la richiamò.

«Tu rimani, mia cara. Dobbiamo discutere sulla strategia d’attacco da adottare sul campo di battaglia.»

Vither si accomodò sul suo trono, facendo cenno a Gadha di sedersi su una delle scomode sedie presenti nella spartana camera.

La sottoposta eseguì l’ordine e aspettò che l’altra le rivolgesse la parola.

«Come ben sai, Gadha, tra tredici giorni giungeremo sulla Terra. Come ti ho anticipato, per il giorno del nostro atterraggio, conto di aver già assimilato il potere della Gemma della Mente. In questo modo, sarò in grado di manipolare qualsiasi mente. Sono certa che questo potere ci sarà molto utile, specialmente con menti semplici come quelle umane.»

S’interruppe, in attesa di una sua reazione.

Gadha concordò con un cenno del capo: malgrado fosse stata catturata e tenuta prigioniera per diversi giorni da alcuni terrestri molto particolari, la donna aveva costatato che la quasi totalità degli umani era fragile.

Con il potere della Gemma della Mente, Vither avrebbe potuto facilmente dominare su tre quarti della popolazione terrestre.

Il problema erano quei Maestri e tutti coloro che avevano deciso di aiutare Valk…

«Perfetto», convenne la sua Signora. «E ora, dal momento che sei la mia consigliera più preziosa e una guerriera formidabile, desidero che tu mi dia una mano a elaborare un piano di attacco.»

Nelle ore che seguirono, Gadha e Vither discussero a lungo su ciò che li attendeva sulla Terra.

La giovane descrisse alla sua Signora, con accortezza di dettagli, il panorama terrestre, la sua atmosfera e, soprattutto, i personaggi che aveva incontrato nel suo periodo di prigionia: il ragazzo nell’armatura blu e argento, il possente juton, lo strano rettile che l’aveva quasi uccisa, Joy e infine Maya.

Quando fu giunta a Joy e Maya, Vither aggrottò leggermente le sopracciglia: un gesto quasi impercettibile che Gadha, nei suoi lunghi anni di servizio, aveva imparato ad associare all’interesse.

«Una volta conquistata la Terra, credo prenderò uno di questi Stregoni terrestri al mio servizio, ovviamente come schiavo», mormorò, sovrappensiero. «Sono certa che le loro abilità potrebbero tornarci molto utili in futuro.»

Gadha e Vither si fermarono solo a tarda notte, dopo aver organizzato in modo efficiente i tremila soldati che abitavano la New Sanctuary, in accordo con le condizioni del terreno terrestre.

«Sei soddisfatta, mia Signora?», domandò Gadha, sbadigliando esausta.

Vither si alzò e le batté con delicatezza una mano su una spalla.

«Puoi andare a riposarti, mia cara. Non potevamo organizzare meglio il nostro esercito.»

Gadha la ringraziò con un sorriso e, dopo averle dedicato un ultimo inchino, si diresse verso il portellone di metallo.

«Ah, Gadha», la richiamò la sua Signora, quando fu ormai a un passo dal pulsante d’accensione. «Preferirei che da oggi in poi tu stessi lontano da Tanar e dagli appartamenti di Roxan e le sue sorelle. Il bambino è piccolo, ma non è certo stupido: avrà compreso che qualcosa non va e tenterà in tutti i modi di controllare la mente di qualcuno per liberarsi e tornare dal suo custode, Valk. Non vorrei mai trovarmi costretta ad attaccarti, mia cara. Mi capisci, vero?»

La giovane non dovette voltarsi per sapere che i suoi occhi, dall’iride rosata, si fossero colorati di rosso: accadeva spesso quando la rabbia l’assaliva e Gadha aveva imparato a non contrariarla mai in quelle occasioni.

Quando era di pessimo umore, Vither era in grado persino di eliminare i suoi più stretti collaboratori solo perché avevano osato contraddirla.

«Farò come desiderate, mia Signora», rispose soltanto, aprendo il portellone.

Si gettò nel corridoio prima che Vither potesse aggiungere altro e, dopo aver salutato Wallex e Built con un cenno del capo, si diresse verso la propria camera.

Entrò e si gettò sulla sua branda, addormentandosi non appena la sua testa ebbe toccato il cuscino.



* * *



9 dicembre 2045,
ora ottava del giorno,
New Sanctuary.


Sette giorni…

Per Gadha, quei sette giorni erano davvero volati via.

Vither, invece, sembrava aver atteso con impazienza ogni istante che la divideva dall’Assimilazione del potere di Tanar.

Finalmente, il momento era giunto.

Roxan aveva già drogato e legato il bambino su una delle scomode sedie presenti nella spartana camera di Vither.

Gadha osservò con attenzione il piccolo attraverso le sbarre della gabbia che Vither aveva fatto sistemare nella sua camera per concedere a Gadha, Wallex e Built di assistere alla scena e intervenire, in caso la situazione si fosse complicata.

«Fai attenzione, mia Signora», la pregò Gadha, mentre Vither usciva dalla gabbia per dare finalmente inizio alla cerimonia di Assimilazione.

Dalla sua posizione protetta, Gadha assistette alla scena con il fiato sospeso.

La sua Signora raggiunse con passo rapido Tanar, gli accarezzò con dolcezza una guancia e, infine, chiamò a raccolta i suoi poteri, ricoprendosi di un bagliore rosato.

Lentamente, un’aura di luce dorata contornò il corpo dormiente del bambino mentre Vither iniziava a salmodiare una lenta nenia nella sua lingua natale.

Man mano che la nenia avanzava, Gadha notò come l’aura dorata di Tanar sembrasse scemare sempre più, assorbita da quella rosa di Vither.

Vither, le palpebre serrate e i lunghi capelli candidi fluttuanti a causa del potente flusso d’energia, sembrava un’apparizione celestiale ai suoi occhi.

Tuttavia, il suo sguardo fu presto catturato dalla visione di Tanar, che sembrava star avvizzendo come un fiore.

Era impallidito all’improvviso e sembrava dimagrito di almeno una decina chili.

Le guance scavate, gli occhi infossati, il colorito cinereo e il capo rovesciato sul lato destro gli conferivano l’aspetto di un piccolo cadavere.

“Ancora qualche istante e sarà tutto finito”, rifletté Gadha. “Finalmente quel bambino smetterà di soffrire.”

D’improvviso, gli occhi di Tanar si aprirono di scatto e la giovane avvertì il cuore sprofondarle nel petto: se Vither avesse messo fine all’incantesimo prima che si fosse concluso, cosa sarebbe accaduto?

Alle sue spalle, Wallex e Built scattarono sull’attenti, in attesa di sviluppi.

Sviluppi che non tardarono ad arrivare: il bambino spalancò la bocca e gettò un grido straziante.

Gadha, Wallex e Built osservarono la scena con il fiato sospeso.

Per fortuna, l’urlo di Tanar non sembrava essere giunto alle orecchie di Vither.

La loro Signora continuò a salmodiare l’incantesimo di Assimilazione mentre Tanar lottava e gridava, cercando di liberarsi.

La lotta del bambino durò poco: Vither lo stava privando non solo dell’energia della Gemma della Mente, ma anche della forza vitale.

Man mano che l’aura rosata di Vither cresceva, quella dorata del bambino s’affievoliva sempre più.

Poi, il bambino reclinò il capo all’indietro, gli occhi rovesciati a mostrare il bianco della sclera.

Sulla sua fronte, splendeva ora una pietra ovale gialla che Gadha riconobbe atterrita come la forma fisica della Gemma della Mente.

«Promettimi di sorvegliare Tanar a costo della tua stessa vita, Valk. Secondo i Saggi del Consiglio, se il bambino dovesse morire, la stessa Gemma della Mente cesserebbe di esistere. La Gemma della Mente e la vita del bambino sono legate indissolubilmente.»

Vither strabuzzò gli occhi e mise fine all’incantesimo, lasciando a Tanar un ultimo barlume di vita.

Quelle parole…

Quelle parole non provenivano dal bambino.

Erano frutto della memoria stessa della Gemma che, probabilmente, era intervenuta per salvare la sua vita e quella di Tanar.

Infatti, durante la prima ricerca delle Gemme, Vither si era accorta che la Gemma della Mente sembrava avere una sensibilità propria e, in quel momento, ne aveva avuto la conferma.

Inoltre, a parlare era stata una voce adulta e roca, non la sottile vocina di Tanar.

Il corpo del bambino giaceva sulla sedia, pallido come un cencio, ma ancora vivo.

«Mia Signora!», la chiamò Gadha allarmata, raggiungendola. «Cos’è successo? Stai bene?»

Vither annuì e si addolcì di fronte alla preoccupazione di Gadha.

«Sto bene, mia cara», la tranquillizzò, ponendole una mano sulla spalla destra. «Semplicemente, non avevo compreso l’importanza della vita di Tanar. Senza di lui, l’energia della Gemma della Mente sparirebbe. Per fortuna, la Gemma mi ha fermato in tempo.»

Stese una mano verso Wallex, alle spalle di Gadha, e concentrò su di lui i poteri che aveva appena ottenuto dall’Assimilazione.

Subito, l’energumeno si immobilizzò, gli occhi vacui.

“Inchinati dinnanzi alla tua signora, Wallex. Voglio vedere il tuo volto al livello del pavimento”, pensò.

Wallex si piegò in un inchino tanto profondo da toccare il pavimento metallico della camera con la punta del naso.

Vither sorrise soddisfatta e provò lo stesso comando con Built.

Il secondo uomo ripeté il gesto di Wallex.

“Perfetto, rialzatevi”, comandò.

I due si sollevarono sotto gli occhi di un estasiata Gadha: la sua padrona possedeva davvero i poteri della Gemma della Mente!

“Potete riacquistare il controllo delle vostre menti”, ordinò Vither.

Le sue guardie del corpo riacquistarono la propria volontà e presero a guardarsi intorno, confusi.

«Potete andare. Vi ringrazio per esservi prestati alla mia prima sperimentazione», li congedò con un piccolo sorriso. «Andate a chiamare Roxan, per favore. Necessito del suo aiuto con Tanar.»

Wallex e Built annuirono e uscirono, lasciando Vither e Gadha da sole.

«Questo è il primo passo verso il risveglio del sommo Thanos, mia cara», annunciò l’albina, solenne. «Ora non ci resta che raggiungere la Terra e recuperare le altre Gemme dell’Infinito.»

Gadha si sciolse in un sorriso sollevato: la sua Signora aveva ottenuto il potere che tanto desiderava e Tanar, malgrado fosse malconcio, era ancora vivo.

“Non mi resta che convincere la Signora a togliere Tanar dalla custodia di Roxan e le sue sorelle”, rifletté decisa. “Ora che sappiamo che il piccolo delle sopravvivere, non lo lascerò nelle mani di quelle arpie!”

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Capitolo 31
*** Il Figlio dell'Infinito ***


«Promettimi di sorvegliare Tanar a costo della tua stessa vita, Valk. Secondo i Saggi del Consiglio, se il bambino dovesse morire, la stessa Gemma della Mente cesserebbe di esistere. La Gemma della Mente e la vita del bambino sono legate indissolubilmente», sussurrò una voce solenne nell’oscurità.

Valk sollevò gli occhi verso colui che aveva appena parlato.

A qualche metro da lui, si stagliava Fanier, il suo maestro: un anziano dalla lunga barba bianca, la carnagione violacea e grandi occhi scuri.

Indossava ancora l’ampia tunica bianca del Consiglio dei Saggi e, per un attimo, Valk sperò che quello non fosse soltanto un sogno.

Purtroppo, però, sapeva bene di trovarsi in un mondo onirico: il suo maestro era morto alcuni giorni dopo avergli affidato il ruolo di guardiano di Tanar.

Il suo corpo era stato quindi cremato e le ceneri liberate sulle sponde del fiume sacro Anars.

Evidentemente, qualcun altro stava cercando di comunicare con lui.

«Valk!», lo richiamò il suo Maestro. «Ho un messaggio urgente per te.»

Il guardiano di Tanar aggrottò le sopracciglia.

Che tutto ciò fosse solo frutto della sua mente?

“Non ho mai avuto delle visioni oniriche finora”, rifletté. “La presenza di Fanier deve significare necessariamente qualcosa.”

«Qual è il messaggio che porti, maestro?», domandò, curioso.

«Sono qui per parlarti di Tanar, Valk», rispose l’altro, il volto adombrato dalla preoccupazione. «Vither ha tentato di assorbire totalmente l’energia vitale del bambino per inglobare nel suo essere la forza della Gemma della Mente.»

Valk avvertì il suo cuore perdere un battito.

Tanar, il bambino che Fanier e il Consiglio dei Saggi avevano deciso di affidargli, era forse morto?

Le lacrime minacciarono di bagnargli le guance, quando il suo maestro riprese la parola.

«Malgrado tu sia un pessimo custode, il bambino è ancora vivo: la Gemma della Mente è intervenuta in suo aiuto, risvegliando nella memoria del bambino un ricordo che gli ha salvato la vita. Infatti, se il piccolo morisse, il potere della Gemma sparirebbe con lui.»

Valk assentì, leggermente sollevato.

«Sono qui per parlarti anche del Figlio dell’Infinito», riprese il Maestro e l’allievo gli riservò uno sguardo confuso.

«Cosa intendi con “Figlio dell’Infinito”?», ripeté.

«Il Figlio dell’Infinito è una creatura potentissima, in grado di racchiudere in sé i poteri delle sei Gemme. Egli è dotato di straordinari poteri: controllare le menti e lo scorrere del tempo, manipolare a proprio piacimento le anime altrui, teletrasportarsi in qualsiasi posto del cosmo con un semplice pensiero e persino mutare la realtà intorno a sé.»

«Intendi forse un’unione dei sei bambini in un corpo solo? Come sarebbe possibile un miracolo simile?»

«Ci sono due modi per dare vita al Figlio dell’Infinito: l’assimilazione di ogni singola Gemma nel proprio corpo, come sta cercando di fare Vither, oppure l’unione dei corpi fisici delle Gemme», continuò Fanier. «Ora sai cosa fare, vero? Certo, il nano ha costruito un’arma mirabile, ma una volta recuperato Tanar dovrete assolutamente dare vita al Figlio dell’Infinito, altrimenti Vither avrà la possibilità di raggiungere i bambini e assimilarli tutti, in modo da divenire invincibile.»

Valk assentì: avrebbero dovuto recuperare Tanar e, dopo aver permesso a Deborah di assorbire la potenza della Gemma della Mente nel Guanto, tutti i bambini si sarebbero uniti a formare il Figlio dell’Infinito.

Allora, il Figlio dell’Infinito avrebbe impedito a Vither di assimilare l’energia delle restanti reincarnazioni delle Gemme.

Inoltre, se fosse accaduto qualcosa di male a Deborah, l’unione dei bambini avrebbe potuto sconfiggere Vither al posto suo.

«Vedo che hai compreso le mie parole», si complimentò il suo maestro, un sorriso compiaciuto sulle labbra sottili. «Ho portato a termine la mia missione e credo sia giunto il momento di congedarmi.»

«Tu non sei Fanier, vero?», gli domandò il giovane, prima che l’altro si voltasse.

Il suo maestro sorrise, mostrando due file di candidi denti color perla.

«Hai ragione, Valk, non sono Fanier. Quella che vedi di fronte ai tuoi occhi non è altro che una proiezione che la tua mente mi ha dato.»

«Tu sei la Gemma della Mente», sostené Valk, ormai convinto. «Non so come tu abbia fatto a raggiungermi, ma ti ringrazio molto per l’aiuto. Vither va fermata, per il bene dell’intero universo.»

La proiezione della Gemma della Mente gli dedicò un breve applauso, prima che una luce dorata si sprigionasse dalla sua persona.

Valk chiuse d’istinto gli occhi per ripararsi da quel bagliore.

Quando riaprì le palpebre, il suo maestro era sparito.



* * *



5 dicembre 2045,
177A Bleecker Street,
New York City.


Valk scattò seduto sul letto, i lunghi capelli corvini madidi di sudore.

Si pizzicò un braccio e trasalì per il dolore, accertandosi di essere davvero sveglio.

“Ho davvero ricevuto una visione” constatò sorpreso, “proveniente persino dalla stessa Gemma della Mente!”

Diede un’occhiata alla piccola sveglia digitale posta sul comodino.

Una e quaranta del mattino.

Sospirò e si alzò, calzando in fretta le pantofole.

Recuperò la vestaglia e si diresse di corsa verso la camera di Joy: era necessario avvertire tutti i “New Avengers”, come li aveva nominati Maria Hill, dei nuovi sviluppi.

Raggiunta la camera dello Stregone Supremo, prese a bussare frenetico sul legno di quercia della porta.

«Joy!», lo chiamò con urgenza. «Joy! Apri!»

Pochi istanti dopo, avvertì che qualcuno, dall’interno, si stava alzando.

«Un attimo», rispose Joy soffocando uno sbadiglio. «Arrivo!»

La serratura scattò e l’uomo comparve sulla soglia, i capelli biondi scarmigliati, gli occhi gonfi di sonno e una vestaglia azzurra al di sopra del candido pigiama.

«Valk!», lo apostrofò, sorpreso. «Che si fai qui a quest’ora? È accaduto qualcosa?»

L’altro annuì, greve.

Subito, il volto di Joy assunse un’espressione seria.

«Entra e raccontami tutto», l’invitò.

Valk lo seguì e si accomodò sulla comoda sedia posizionata dirimpetto alla scrivania, dietro il quale era sistemata la poltrona nera di Joy.

«Vuoi un caffè?», gli offrì lo Stregone Supremo, materializzando un bricco di ceramica e un paio di tazzine con uno schiocco di dita.

«Sì, ti ringrazio», mormorò, servendosi. «Credo di averne davvero bisogno.»

Sorseggiò la bevanda e, per un attimo, si beò del sapore amarognolo del caffè non zuccherato.

Joy, invece, si limitò a versare il liquido nella sua tazza, in attesa che si raffreddasse.

Subito, Valk gli raccontò del suo sogno, soffermandosi su ogni dettaglio.

Quando ebbe concluso, il volto di Joy si era adombrato.

«Bisognerà avvertire tutti quanti», considerò.

Senza perdere tempo, recuperò da un cassetto della scrivania un piccolo pendente su cui erano incise le iniziali M e W.

Sfiorò con un indice le lettere intarsiate, in modo da attivare il potere del talismano.

«Aspettiamo un attimo, adesso, il tempo che Maya e Wong si sveglino.»

Valk annuì e i due attesero in silenzio che i due Maestri raggiungessero la camera di Joy.

Pochi minuti più tardi, una scarmigliata Maya con indosso una comoda t-shirt e un paio di pantaloni della tuta fece il suo ingresso nella stanza dello Stregone Supremo, insieme a Wong, impeccabile in una tunica color lavanda anche a quell’ora della notte.

«Posso sapere perché ci hai convocato a quest’ora?», domandò la giovane, sbadigliando. «È accaduto qualcosa di grave?»

Valk non esitò a riportare anche a Maya e Wong ciò che la Gemma della Mente gli aveva annunciato.

Dieci minuti più tardi, la ragazza si era risvegliata dal suo torpore e aveva assunto la stessa espressione cupa di Joy, mentre Wong si era portato una mano al mento, meditabondo.

«Come ha detto Valk, è necessario avvertire tutti», riprese Joy. «Maya, Wong, voi due andate a chiamare gli altri. Io e Valk prepareremo la biblioteca.»

I due annuirono e si allontanarono ciabattando lungo i corridoi, bussando a ogni porta.

«Riunione d’emergenza!», gridò la Maestra, in modo che tutti potessero udirla. «Tutti in biblioteca nel giro di cinque minuti, per favore. Valk e Joy hanno importanti sviluppi sulle Gemme dell’Infinito!»

Poco dopo, tutti i “New Avengers” erano riuniti nella biblioteca, assonnati e scarmigliati.

Maya sprofondò in uno dei quattro divano, tra Cooper e Victor.

«Ora che ci siamo tutti», esordì Joy, muovendosi fra i presenti, «passo la parola a Valk, in modo che possa mettere a conoscenza anche voi del suo straordinario incontro.»

Valk lo ringraziò con un cenno del capo e, con pazienza, ripeté per la terza volta il suo incontro onirico con la Gemma della Mente.

Deborah si portò le mani alle labbra, atterrita.

«Astrid e i bambini», sussurrò con voce tremante. «Vuol dire che dovremo separarci per sempre da loro quando si uniranno nel Figlio dell’Infinito?»

Athena le strinse la mano con delicatezza, carezzandole il dorso con il pollice.

Valk sollevò gli occhi al soffitto, riflettendo.

La Gemma della Mente gli aveva riferito che i bambini avrebbero dovuto unirsi per creare il Figlio dell’Infinito, ma non aveva specificato nulla di quel che sarebbe accaduto in seguito.

I bambini si sarebbero separati?

Il Figlio dell’Infinito si sarebbe rivelata di certo una creatura ineluttabile…

Una volta sconfitta Vither, cosa ne sarebbe stato di lui?

«Non conosco la risposta alla tua domanda, Deborah», ammise infine, sincero.

Deborah soffocò a stento un singhiozzo e Maya provò dispiacere per l’erpetologa.

Lei e Athena si erano legate molto alla piccola Astrid e separarsi dalla bambina si sarebbe rivelato davvero doloroso per loro.

«Mi dispiace molto», riprese Joy, lo sguardo basso, rivolto alle due donne, «ma è necessario per la salvezza del nostro universo. Mi capite, vero?»

Athena, gli occhi lucidi, assentì senza aggiungere nulla.

Deborah, invece, si sciolse in un pianto disperato.

Quattro giorni…

Quattro giorni li separavano dall’arrivo della New Sanctuary sulla Terra.

Quattro giorni non sarebbero mai bastati a lei e Athena per accettare la perdita della piccola Astid.

Maya si mordicchiò le labbra, meditabonda.

«Sì», esclamò infine, scattando in piedi. «Esiste una soluzione!»

I presenti sobbalzarono, presi alla sprovvista.

«Cos’hai in mente, Maya?», le domandò Joy, curioso di ascoltare l’idea dell’amica.

«La chiave sei tu, Deborah! Puoi utilizzare la Gemma del Tempo per riportare il Figlio dell’Infinito al momento che precede la loro unione, come Thanos fece per recuperare la Gemma della Mente quando Scarlet Witch fu costretta a uccidere Visione per impedire al titano di recuperarla.»

L’erpetologa tenne gli occhi scuri fissi su di lei, poi un ampio sorriso si aprì sul suo volto.

«Maya, non so come ti sia venuto in mente, ma sei un vero genio!», esclamò Victor, maledicendosi per non averci pensato.

Morgan, invece, sollevò lo sguardo al soffitto, dedicando al fratello una gomitata negli stinchi.

I due fratelli, infatti, si erano trasferiti al Santuario per prepararsi al meglio alla battaglia che avrebbero dovuto affrontare quattro giorni dopo.

«Tu che ne pensi, Joy? Potrebbe funzionare?», domandò Athena, rivolta allo Stregone Supremo.

Prima di esultare, necessitava di sapere se la proposta di Maya fosse davvero applicabile.

Non che dubitasse delle conoscenze della giovane, ma necessitava che lo Stregone Supremo, massima autorità del Santuario di New York, confermasse le sue parole.

Joy tacque, perso nei suoi ragionamenti.

Poco dopo, assentì.

«Sì, potrebbe funzionare», rispose.

Athena si sciolse in lacrime, abbracciando stretta Deborah.

Avrebbero riavuto indietro la loro bambina!

“Una volta terminata questa stupida guerra, adotteremo Astid e, insieme, faremo una lunga vacanza” rifletté la figlia di Thor. “In modo da dimenticare tutta questa brutta faccenda”.

Joy si sollevò e raggiunse il centro della sala.

«Il nostro piano ha subito un forte cambiamento, ma non dobbiamo demotivarci», esordì con voce chiara. «Come abbiamo concordato, Maya, Valk, Greyson e Minus si occuperanno di recuperare Tanar, mentre gli altri combatteranno contro l’esercito di Vither.»

S’interruppe e i presenti annuirono, decisi.

«Nel momento in cui Tanar sarà sotto la nostra protezione, Maya teletrasporterà tutti i componenti del suo gruppo al Santuario, dove ci saranno i bambini e Deborah ad attenderli. Lì, la nostra Deborah assorbirà la potenza della Gemma della Mente e i bambini si uniranno a formare il Figlio dell’Infinito. Deborah, tu allora evocherai Raptor e schioccherai le dita. Tutto chiaro?»

Nuovamente, i “New Avengers” assentirono, solerti.

«Perfetto, se avete capito, possiamo tornare tutti a letto. Buonanotte», li congedò.

I presenti non se lo fecero ripetere due volte: uno dopo l’altro, uscirono dalla biblioteca, dirigendosi verso le proprie camere.

Maya fu fra gli ultimi insieme a Cooper, sbadigliando assonnata.

«Ti vedo stanca», osservò Hawkeye, preoccupato. «Da quanto tempo non riposi in modo decente?»

«Se con “decente” intendi “tutta la notte”, allora più di un mese. Spesse volte resto sveglia a riflettere su tutto ciò che sta per accadere. Inoltre, quando non sono i pensieri a tormentarmi, sono il ricordo di Magda che si è sacrificata per la nostra missione o il fatto che, malgrado il nemico sia ormai alle porte, non sappiamo se sia possibile riportare in questa dimensione il maestro Strange e gli altri.»

Parlando, i due avevano ormai raggiunto la camera di Maya.

«Cerca di riposare, Maya, lo dico per il tuo bene. Solo in questo modo potrai prepararti al meglio per la battaglia. Ricordati che solo con un adeguato numero di ore di sonno è possibile affrontare la giornata in modo proficuo», le consigliò l’uomo e la giovane Maestra lo ringraziò con un leggero sorriso.

Maya si domandò se non fosse il caso d’invitarlo a entrare: lei e Cooper erano ormai coinvolti in una relazione e avrebbero potuto condividere un momento “intimo”.

“In fondo, potremmo non sopravvivere a questa missione”, rifletté con amarezza. “Potrebbe essere la nostra unica possibilità”.

«Buonanotte», le augurò l’uomo, riportandola al presente.

«Ah, ehm, buonanotte anche a te», rispose Maya, nascondendo la propria delusione.

Cooper aggrottò le sopracciglia, confuso.

Perché il volto di Maya si era oscurato all’improvviso?

Tuttavia, prima che potesse chiedere delucidazioni, la giovane si era chiusa la porta della sua camera alle spalle.

Come le aveva consigliato Cooper, calciò le pantofole e si gettò di schianto sul letto.

Chiuse gli occhi e si concentrò sul proprio spirito.

Subito, la figura eterea della sua Proiezione Astrale si sollevò al di sopra del suo corpo che cadde in un calmo riposo.

Poco dopo, la Proiezione si posizionò a gambe incrociate e prese a meditare, levitando a qualche metro dal suo corpo.

Se desiderava dare il meglio contro Vither e il suo esercito, necessitava di calmare la sua mente e riposare il suo corpo.

Per il bene di tutti coloro che amava.

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Capitolo 32
*** L'ultima notte ***


9 dicembre 2045, 11:30 P.M.,
177A Bleecker Street,
New York City.


Cooper serrò gli occhi, cercando invano di addormentarsi.

Malgrado avvertisse la stanchezza data dal lungo allenamento avuto quel giorno con Athena, non riusciva a chiudere occhio.

Si voltò supino e prese a fissare il soffitto candido della sua camera.

Cinque ore…

Cinque ore e avrebbero potuto affrontare Vither e i suoi uomini.

«La New Sanctuary sarà qui domani, alle prime luci dell’alba», avevano annunciato Valk e Wong quella sera stessa, appena terminata la cena. «Secondo i nostri pronostici, dovrebbero attaccare una zona molto vicina al punto dove la navicella di Gadha è atterrata circa due mesi fa. Abbiamo già avvertito Maria Hill delle coordinate esatte e tutti gli abitanti della zona saranno evacuati a breve.»

Tutti i presenti avevano accolto la notizia con un misto di sollievo e nervosismo.

Avrebbero potuto finalmente mettere la parola fine a quell’incubo, ma il pensiero della battaglia imminente gravava sui loro animi.

Erano davvero pronti ad affrontare Vither?

Avrebbero avuto vittime?

Quanti sarebbe stati i caduti?

Hawkeye scosse il capo, sforzandosi di eliminare quei pensieri negativi dalla sua mente.

Ce l’avrebbero fatta.

Dovevano farcela!

Un brivido freddo gli corse lungo la schiena al solo pensiero della sconfitta.

Se solo avessero perso, Vither avrebbe assorbito la potenza delle Gemme dell’Infinito e le avrebbe utilizzate per riportare in vita Thanos.

A quel punto, nulla avrebbe fermato il Titano Pazzo dal distruggere l’Universo e ricostruirlo come più desiderava.

Loro, di certo, sarebbero stati tutti catturati e uccisi nei modi peggiori.

In quel momento, avvertì un leggero picchiettare alla porta.

«Chi è?», domandò, confuso.

«Cooper, sono io, Maya», rispose la giovane in un sussurro. «Posso entrare?»

L’uomo aggrottò le sopracciglia, confuso.

Si alzò, raggiunse la porta e l’aprì, ritrovandosi dinnanzi Maya, ancora vestita di tutto punto.

«Maya, che ci fai qui?», le domandò. «Come ti ho detto due giorni fa, dovresti essere a letto ora. Come potrai affrontare Vither al massimo delle tue capacità se non dormi?»

La giovane non indietreggiò di fronte al suo rimprovero.

«Neppure tu stai dormendo, a quanto vedo», gli fece notare, sorridendo. «Adesso posso entrare o intendi lasciarmi sulla soglia?»

Cooper, sempre più confuso, assentì.

Maya non se lo fece ripetere e s’intrufolò nella camera.

«Sai, è molto tempo che rifletto sulla nostra situazione», esordì, accomodandosi sul bordo del letto, «e mi chiedevo se non fosse giunto il momento di portare la nostra relazione a un “livello superiore”.»

Parlando, il suo volto si era acceso per l’imbarazzo.

Cooper strabuzzò gli occhi, domandandosi se stesse parlando seriamente: Maya gli stava davvero chiedendo di fare l’amore con lei?

Lentamente, la raggiunse e le si sedette accanto, posando la sua mano su quella di lei.

«Sei davvero sicura di ciò che vuoi?», chiese. «Se non ti senti totalmente pronta, possiamo attendere altro tempo. Non sei costretta solo perché...»

«Perché stiamo per affrontare Vither?», lo interruppe la giovane, ferita. «Credi che io sia qui soltanto per questo? Sperimentare prima di morire?»

L’uomo scorse la delusione negli occhi scuri di Maya.

«No, assolutamente», si sbrigò a smentire, stringendo la sua mano nella propria. «Desidero solo che tu sia certa del passo che stiamo per compiere… Sicura che sia io la persona giusta.»

Il silenzio calò per qualche istante nella sala, poi Maya scoppiò a ridere.

«Credi che mi sarei presentata alla tua porta se non fossi certa di voler dormire con te?», commentò con un sorriso sincero. «La vera domanda qui è: tu sei pronto?»

Cooper avvertì il cuore sprofondargli nel petto mentre la Maestra si faceva più vicina, il viso ormai a pochi centimetri dal suo.

Cos’avrebbe dovuto fare?

Maya sembrava davvero sicura di sé: le pupille leggermente dilatate, le guance accese per l’eccitazione…

“Sei uno stupido, Cooper”, si rimproverò. “Perché devi porti tutti questi dubbi? Di cosa hai paura?”

Maya chiuse gli occhi e lo baciò, cingendo il suo collo con le braccia per avvicinarlo a sé.

Lui l’assecondò, lasciando che le loro lingue s’intrecciassero in una dolce danza che provocarono piacevoli brividi lungo la schiena di Maya.

Quando si separarono, ormai privi di fiato, l’uomo era giunto a una decisione.

Lei e Maya meritavano quel momento di felicità.

Dopo mesi trascorsi a preoccuparsi per le reincarnazioni delle Gemme dell’Infinito, per la sicurezza del pianeta Terra e dell’universo e aver sofferto per la perdita di Magda, potevano permettersi di essere egoisti.

Soltanto per quella volta…



* * *



15 dicembre 2045, 1:30 A.M.,
177A Bleecker Street,
New York City.


Deborah fissava il soffitto, nel tentativo di riprendere fiato dopo l’ennesimo amplesso.

Accanto a lei, Athena era nelle sue stesse condizioni: il fiato corto, i lunghi capelli in disordine, le guance vermiglie e gli occhi chiusi.

“Certo che è meravigliosa anche in questo stato”, rifletté, ammirata. “Qualcuno, lassù, deve amarmi davvero per avermela invita.”

Come se avesse appena letto i suoi pensieri, la figlia di Thor si voltò su un fianco e le sorrise, radiosa.

«Credo di non essere mai stata così felice e appagata in tutta la mia vita», le confessò, un’espressione beata ritratta sul volto dai tratti delicati.

L’erpetologa avvertì il cuore battere più forte quando lei portò una mano alla sua guancia, baciandola teneramente.

«Promettimi che non correrai inutili rischi quando ti troverai sul campo di battaglia», la pregò, gli occhi d’improvviso lucidi.

Athena le sorrise con dolcezza.

«Te lo prometto su ciò che ho di più caro», le promise, battendosi una mano all’altezza del cuore. «Sappi che ho tutta l’intenzione di tornare sana e salva da te. Poi, potremo adottare legalmente Astrid e diventare una vera famiglia.»

Deborah si portò una mano alla bocca, commossa.

«Tuttavia, anche tu dovrai fare del tuo meglio!», continuò Athena.

Subito, la donna assentì con foga: se Athena avesse dato il tutto per tutto, lei non sarebbe stata da meno!

Uno sbadiglio colse la figlia di Thor di sorpresa.

Deborah sorrise, intenerita.

«Credo sia giunto il momento di riposare, almeno per qualche ora», concluse, sollevando le lenzuola candide fin sopra il petto.

Athena annuì, stanca.

Chiuse gli occhi e si addormentò immediatamente.

L’erpetologa, invece, rimase a osservare il soffitto per un altro po’ di tempo, persa nei suoi pensieri.

Poche ore li separavano dallo scontro finale con Vither e la sua mente era colma di dubbi.

Sarebbero riusciti a sconfiggere Vither e i suoi uomini?

Quante persone avrebbero dovuto sacrificarsi per salvare la Terra e il loro universo?

Il cuore le sprofondò nel petto: se Athena fosse stata fra le vittime?

Certo, lei le aveva promesso che non avrebbe corso inutili rischi, ma nulla le assicurava davvero la sua sopravvivenza.

Concentrò lo sguardo sulla giovane che le riposava accanto, imprimendo ogni dettaglio del suo aspetto nella sua mente.

Subito, si ritrovò a scuotere il capo con forza, sforzandosi di essere ottimista.

Athena e tutti i suoi amici sarebbero tornati sani e salvi.

Chiuse gli occhi e, finalmente, si addormentò, esausta.



* * *



15 dicembre 2045,
177A Bleecker Street,
New York City.


L’orologio a pendolo presente nel lungo corridoio dell’ala destra del Santuario segnò le due del mattino.

Connor fissò il cielo stellato attraverso la grande finestra del salone.

Il giovane assunse un’espressione decisa, la mano ferma sulla spada che lui stesso aveva forgiato e migliorato con il tempo, fino a trasformarla in una vera e propria opera d’arte.

Tre ore e la New Sanctuary sarebbe atterrata nel deserto vicino a Phoenix, portando con sé Vither e i suoi sottoposti, pronti a dare battaglia per impadronirsi delle reincarnazioni delle Gemme dell’Infinito.

«Che ci fai qui a quest’ora, ragazzo?», domandò una voce maschile alle sue spalle.

Connor si voltò lentamente e sussultò, sorpreso.

Dinnanzi a lui, avvolto nel suo classico costume rosso e bianco, si stagliava Captain America.

«Non riesco a dormire, signore», rispose il ragazzo, sincero.

Steve gli si avvicinò e annuì, posando a sua volta lo sguardo sulla finestra.

«Ti capisco, non capita spesso di ritrovarsi a lottare per la salvezza della Terra», esordì, gli occhi azzurri fermi sul cielo ancora scuro. «Non avrei mai creduto di dover affrontare, a quasi centotrenta anni, una battaglia simile a questa.»

Un sorriso amaro nacque sulle labbra di Connor: suo padre Loki era stato il primo nemico che gli Avengers avevano dovuto affrontare e ora si ritrovava a combattere al fianco di quegli stessi eroi per il bene dell’universo intero.

«Tutto questo è curioso, non trovi?», domandò Steve, risvegliandolo dai suoi pensieri.

«Curioso?», ripeté il ragazzo, confuso.

Captain America si voltò verso di lui, serio.

«Sì, molto curioso. Io e te, qui. Non mi sarei mai aspettato di avere una conversazione civile con te, il figlio di Loki. Devo ammettere che ho odiato immensamente tuo padre durante il nostro primo incontro, specialmente perché ha attaccato New York con un’ondata di Chitauri. E ora, sorprendentemente, scopro che tu, il figlio di Loki, sei cresciuto con un’indole buona e un carattere schivo, ma gentile.»

Connor avvertì le guance colorarsi di rosso a causa di quell’inaspettato complimento.

Captain America, l’originale Captain America, l’aveva appena definito una persona “buona e dal carattere gentile”.

Fece per ringraziarlo, quando i profili di due figure familiari comparvero nella sua visuale.

L’asgardiano li riconobbe subito: dinnanzi a lui, vestiti e armati di tutto punto, si stagliavano Greyson e Paige.

Entrambi avevano indosso le divise nere che li avevano accompagnati nelle numerose pattuglie che tenevano a Detroit.

«Anche voi svegli, vedo», osservò Greyson. «Evidentemente, tutti siamo preoccupati per lo scontro con Vither e i suoi uomini.»

Paige assentì, scura in volto.

Connor avvertì il cuore palpitare più forte alla vista di Paige.

Dal momento in cui si erano diretti a New Asgard per recuperare Esto, Connor e Paige si erano avvicinati sempre più, fino a uscire insieme.

Malgrado non fosse ancora scoccato alcun bacio, Connor avvertiva una certa affinità con la giovane e gli sarebbe piaciuto uscire ancora con lei, una volta eliminata la minaccia di Vither.

Greyson, accortosi dello scambio di sguardi fra i due, affiancò Steve e gli fece cenno di seguirlo.

Captain America assentì e le sue guance si colorarono di una chiara tonalità di rosso, prima di seguire il figlio nella camera attigua per lasciare ai due un po’ d’intimità.

Rimasti soli, Connor estrasse dalla propria tasca un taccuino e lo porse alla donna.

«In questo modo, potremo comunicare fra noi senza bisogno della continua traduzione di Greyson», le spiegò, notando l’espressione confusa della donna.

Paige assentì e prese a scrivere in tutta fretta sul blocchetto.

“Ottima idea, Connor”, lesse il giovane, il cuore un po’ più leggero. “Volevo domandarti una cosa, prima di andare.”

«Prego, sai che puoi chiedermi tutto ciò che vuoi.»

Paige accennò un piccolo sorriso, scrivendo rapida.

“Ti andrebbe di uscire di nuovo con me, quando tutto questo sarà finito?”

«Ma certo!», esclamò Connor, entusiasta. «Non vedo l’ora!»

Paige sorrise radiosa e riprese a scrivere.

“Tuttavia, prima di poter uscire di nuovo con me, dovrai sopravvivere alla battaglia di oggi.”

Connor scoppiò in una roca risata, cingendole i fianchi per avvicinarla a sé.

La strinse in un rapido abbraccio, tenendola stretta contro il suo petto.

«Vedrai che tornerò», le assicurò e, sollevando gli occhi a incrociare quelli del ragazzo, Paige riuscì a scorgere tutta la determinazione che lo animava.

In quel momento, comprese che l’uomo avrebbe fatto del suo meglio per tornare da lei.

Connor non ebbe neppure bisogno del taccuino per comprendere ciò che Paige stava pensando.

Sciolse la stretta sui suoi fianchi e le scompigliò i corti capelli rossi con affetto.

«Non temere per le nostre vite. In fin dei conti, l’attacco è guidato dal primo e inimitabile Captain America», tentò di rassicurarla.

Paige rimase immobile per qualche istante, riflettendo.

Infine, assentì e prese a scrivere in tutta fretta.

“Grazie mille, per tutto.”

«Non devi ringraziarmi, davvero», rispose, arrossendo per l’imbarazzo.

Paige ridacchiò e gli regalò un’ultima stretta, prima di fargli cenno di seguirla verso il salone, dove Steve e Greyson erano scomparsi poco prima.



* * *



15 dicembre 2045, 4:00 A.M.,
177A Bleecker Street,
New York City.


Maya si voltò su un fianco e riaprì le palpebre, infastidita dalla luce dell’elegante lampada lasciata accesa sul comodino.

Si sollevò a sedere e prese a strofinarsi un occhio, ancora assonnata.

Accanto a lei, Hawkeye dormiva profondamente su un fianco, immerso nelle coltri blu fino al collo.

Alla vista dell’uomo, tutto ciò che era accaduto poche ora prima le tornò alla mente.

Arrossì imbarazzata, ricordando i gemiti, gli ansimi e tutte le emozioni provate quelle notte.

Si portò le mani al volto, rimembrando di come avesse gridato il nome di Cooper quando entrambi avevano raggiunto il picco massimo del piacere.

Si domandò cosa ne pensasse ora di lei.

Avvertì un nodo formarsi alla base del suo stomaco.

Se il loro rapporto non gli fosse piaciuto?

Se lei non gli fosse piaciuta?

Trasalì e si alzò di scatto, recuperando in fretta gli indumenti che giacevano scomposti sul pavimento.

Un’ora scarsa li divideva dall’arrivo di Vither sulla Terra e lei era nuda, nel letto di Cooper, domandandosi se il loro rapporto gli fosse piaciuto!

Indossò in fretta la casacca e i pantaloni, in modo da coprirsi, e si diresse verso la porta.

«Maya!», si sentì chiamare, la mano premuta sulla maniglia d’ottone. «Intendi andartene così dalla mia camera, senza neppure salutarmi?»

D’istinto, si voltò verso Cooper: l’uomo si era alzato a sedere sul letto, le lenzuola a coprirgli le gambe incrociate.

«Mi dispiace molto», si scusò, mordicchiandosi le labbra. «Non volevo svegliarti. Anche se, riflettendoci, tra qualche minuto sarebbero comunque passate Momoko o Harley a bussare a ogni porta per svegliarci.»

Un sorriso nacque sincero sulle labbra dell’uomo.

Si alzò e la raggiunse, cingendola in uno stretto abbraccio.

Maya arrossì e Cooper ridacchiò.

«Ti imbarazzi ancora?», le domandò, posando un bacio delicato sulla fronte. «Dopo quello che abbiamo condiviso stanotte?»

Maya sospirò sollevata di fronte a quel gesto tenero.

«Mi dispiace», ripeté lei, ricambiando il suo abbraccio. «Non mi sono ancora abituata a… questo

Cooper assentì, comprensivo.

Maya avvertì una piacevole sensazione di calore percorrere la sua spina dorsale.

«Sono stata davvero fortunata a trovarti, Cooper», gli confessò, dando libero sfogo ai suoi sentimenti. «Se dovesse accadermi qualcosa, oggi, desidero soltanto che tu sappia che io ti amo.»

L’uomo s’irrigidì e fece per risponderle, quando Maya gli gettò le braccia al collo e lo baciò con passione.

Cooper socchiuse le labbra, in modo che le loro lingue potessero intrecciarsi.

Fu allora che si udì bussare alla porta, seguita dalla chiara voce di Harley.

«Sveglia Barton, Joy vuole incontrare tutti nella biblioteca prima di partire.»

Subito, Maya recuperò lo Sling Ring appeso alla cintura ed evocò un portale che conduceva alla sua camera.

Salutò l’uomo con un ultimo e rapido bacio sulle labbra e scomparve all’interno del crepitante vortice d’energia.

Non appena il portale si fu richiuso alle sue spalle, Harley spalancò la porta.

«Allora Barton, hai sentito cos’ho detto!», esclamò piccata. «Perché non mi hai rispost...»

S’interruppe, arrossì e indietreggiò quando si accorse che Cooper era nudo.

“Cosa diamine avrà combinato questa notte?” si domandò, sconvolta.

«Raggiungici una volta che ti sarai vestito», farfugliò, richiudendo l’uscio con forza.

Cooper scosse il capo e scoppiò a ridere, dirigendosi verso il bagno.

“Certo che non c’è modo migliore per iniziare una battaglia epocale con una confessione d’amore”, rifletté, infilandosi sotto la doccia. “Maya non poteva certo aspettare un momento migliore”.

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Capitolo 33
*** Tormentata attesa ***


10 dicembre 2045, 5:00 A.M.,
177A Bleecker Street,
New York City.


«Coloro che parteciperanno al combattimento sul campo, prendetevi per mano», ordinò Joy. «Cerchiamo di formare un cerchio, in modo da facilitare il teletrasporto.»

Maya assentì e si alzò dalla poltrona patchwork in cui era sprofondata durante la riunione nel quale Joy, Wong, Valk e Steve avevano chiarito e specificato gli ultimi dettagli riguardanti la missione.

Raggiunse in fretta il gruppo e si posizionò fra Greyson e Minus, stringendo le loro mani.

Il palmo della mano di Minus era pregno di sudore e Maya gli rivolse un sorriso incoraggiante.

«Vedrai che andrà tutto bene, Minus», tentò di rassicurarlo. «Attieniti al piano e recupereremo il piccolo Tanar in men che non si dica. Non è vero, Valk?»

Il guardiano del bambino assentì e Maya vide la determinazione risplendere nei suoi occhi cristallini.

Minus sembrò rilassarsi mentre Joy li richiamava all’ordine.

«Possiamo andare?», domandò, accertandosi con lo sguardo che coloro che avrebbero combattuto contro Vither fossero pronti alla partenza: Pepper, Victor e Morgan Stark, Athena, Cooper, Connor, Greyson, Valk, Minus, Wong, Steve e infine Maya.

Joy la studiò a lungo, accorgendosi solo allora di quanto la giovane fosse cresciuta in quei mesi: ora, con indosso una divisa nei toni dell’azzurro e del grigio e la Cappa della Levitazione sulle spalle, Maya sembrava davvero un’altra persona.

Una vera guerriera.

«Allora andiamo», sentenziò, chiudendo gli occhi.

L’immagine del deserto dell’Arizona si materializzò nella sua mente e Joy procedette con l’equilibrare la sua energia interna, in modo da teletrasportarsi.

Poco dopo, il gruppo era scomparso.

Deborah sospirò e si lasciò cadere sul divano, accanto a Harley e Momoko.

Come concordato nei giorni precedenti, Deborah sarebbe rimasta al Santuario per difendere le reincarnazioni delle Gemme dell’Infinito, in attesa che il gruppo di Maya tornasse con il piccolo Tanar.

A quel punto, lei avrebbe assorbito il potere della Gemma della Mente all’interno del suo Guanto dell’Infinito e schioccato le dita.

Storm si sollevò dal pouf blu e si diresse verso la porta.

«Dove vai, Storm?», domandò Deborah, voltando la testa nella sua direzione. «Dovremmo restare qui e attendere che ritornino.»

L’hacker si fermò, la mano ferma sulla maniglia.

«Se voi riuscite ad attendere immobili il loro ritorno, fate pure. Io non ho alcuna intenzione di restare con le mani in mano», affermò, un’espressione seria sul volto rubicondo.

«Che intenzioni hai?», continuò l’erpetologa, incuriosita. «Sai bene che non possiamo lasciare il Santuario per nessun motivo. Come pensi di raggiungere il campo di battaglia senza muoverti di qui?»

Un ampio sorriso nacque sulle labbra di Storm.

«Vieni con me, Deborah, e anche vuoi due», le invitò, facendo cenno alle tre donne di seguirlo. «Avrò bisogno di un po’ della vostra magia.»

Momoko e Harley gli rivolsero occhiate perplesse.

La scienziata, invece, seguì senza esitazioni l’hacker nel corridoio.

«Forza, ragazze!», le esortò. «Vediamo almeno che cos’ha da mostrarci. Non siete curiose?»

Harley si levò a sua volta dal divano e, dopo aver afferrato la compagnia di studi per un braccio, uscì dalla biblioteca.

Il piccolo gruppo raggiunse in fretta la camera di Storm.

Storm aprì la porta e le invitò a entrare con un rapido cenno del capo.

Una volta dentro, indicò loro la scrivania, dove si accomodò e recuperò un ampio cestino nero per l’immondizia.

Deborah aggrottò le sopracciglia, confusa.

Infatti, nel cestino erano sistemati centinaia di minuscoli oggetti simili a monete da un dollaro totalmente nere.

«Cosa sono?», s’informò, raccogliendo uno di quegli strani dispositivi fra il pollice e l’indice.

Lo avvicinò al viso e lo studiò: sul nero uniforme spiccavano minuscoli circuiti che convogliavano nel centro, dov’era presente un chip bianco perla.

«Quella che tieni in mano, Deborah, è un’arma letale», le spiegò Storm, serio.

Subito, la donna risistemò l’oggetto nel suo cestino.

Il ragazzo ridacchiò, divertito.

«Ora, credo vogliate vedere come funzionino queste bellezze, vero?», domandò.

Le tre annuirono, interessate.

Storm recuperò una delle sue creazioni e premette il chip bianco.

Subito, la moneta si sollevò levitando, abbandonando la sua mano.

«Distruggi!», esclamò.

Il chip bianco presente sulla struttura circolare si colorò di rosso e prese a svolazzare per la camera, sbattendo sulle pareti e le porte alla ricerca di una via d’uscita.

«Come potete vedere, una volta pronunciata la parola-chiave, il dispositivo si mette alla ricerca di un obiettivo», spiegò alle tre, orgoglioso. «Una volta trovato il suo bersaglio, si aggrappa a esso ed esplode. Li ho programmati in modo da procurare danni nel raggio di un metro. Che ne pensate?»

Deborah avvertì l’eccitazione iniziale scemare.

«L’idea non è male», cominciò, ponderando con attenzione le parole, «ma una volta liberate le tue creazioni sul campo di battaglia, non si aggrapperanno anche ai nostri?»

Storm scoppiò a ridere.

«Certo che ci ho pensato!», esclamò. «Li ho programmati in modo che riconoscano sia il DNA che l’aspetto di ogni persona appartenente al nostro esercito, compresi gli agenti della S.H.I.E.L.D. che lotteranno al nostro fianco e i Maestri appartenenti agli altri due Santuari. Soddisfatte, ora?»

«Tu hai davvero recuperato i nomi e il DNA di tutti coloro che saranno sul campo di battaglia oggi?», ripeté Momoko, incredula. «E le hai incorporate all’interno delle tue creazioni?»

«Certamente. Io e Vanessa abbiamo creato il database e inserito uno a uno tutti coloro che lotteranno oggi per difendere la Terra. Non abbiamo controllato una sola volta, ma ben dieci. Infine, ci siamo rivolti a Wong che, per sicurezza, ha promesso di evocare un piccolo sigillo di difesa sui nostri guerrieri non appena si saranno riuniti tutti sul campo di battaglia. Siete finalmente convinte?»

Harley e Momoko acconsentirono, persuase: se Wong, uno fra i Maestri più abili e saggi della Terra, aveva deciso di aiutare Storm, evidentemente credeva che quelle “monete” potevano davvero funzione come armi.

Un sorriso stirò le labbra dell’hacker, quando i suoi occhi incrociarono il volto scuro di Deborah.

«Vedrai che andrà tutto bene, dottoressa», l’incoraggiò, battendole una mano sulla spalla. «Il gruppo di Maya sarà qui in men che non si dica con Tanar e tu potrai finalmente schioccare le dita per distruggere Vither una volta per tutte.»

La donna sembrò riflettere sulle sue parole, poi annuì.

“Si, ce la faremo” si disse, sforzandosi di essere ottimista. “Adesso Raptor è abbastanza controllabile da poter evocare la potenza del Guanto dell’Infinito senza dare di matto.”

«Ora che anche Deborah sembra convinta, possiamo passare alla parte più entusiasmante del piano. Momoko, Harley, Wong mi ha riferito che lui stesso vi ha insegnato un incantesimo per assistere al combattimento senza muovervi di qui. È vero?»

«Sì», confermò Momoko per entrambe, «si tratta di una semplice Elevazione dello Spirito. Maya ti avrà certamente parlato della Proiezione Astrale, no? L’incantesimo di Wong è molto simile, ma non necessita un’intera separazione dello spirito dal corpo. Questo ci permette di restare vigili, malgrado parte del nostro spirito sia lontano da qui.»

«Perfetto, ascoltate con attenzione: utilizzerete i vostri poteri per assistere al combattimento e, una volta che Wong avrà gettato il suo incantesimo di protezione sull’esercito, tornerete qui e aprirete un portale diretto al campo di battaglia. Deborah, tu mi aiuterai ad accendere tutti questi dispositivi nel cestino e…»

S’interruppe, si diresse verso il letto e recuperò altri due scatoloni colmi delle sue invenzioni, tutte uguali.

«...e negli scatoloni. L’unica pecca di queste mie creazione è l’attivazione. Ognuno di loro è un piccolo miracolo dell’informatica e della robotica, ma è un sistema a sé stante: anche impegnandomi, non sono riuscito a costruire una sorta di telecomando che potesse attivarli tutti insieme.»

L’erpetologa comprese, dal suo tono amareggiato, di come quel inconveniente infastidisse non poco l’hacker.

«Va bene così, Storm, non temere», tentò di consolarlo. «Sarò ben felice di aiutarti ad accendere tutti questi dispositivi. Basta premere il chip bianco nel centro, giusto?»

Storm si riscosse e le rivolse un sorriso grato.

«Allora siamo d’accordo», concluse. «Diamo dunque inizio al nostro piano!»

«Potete assistere anche voi, se lo desiderate», li invitò Harley, avvicinandosi a Deborah e Storm. «Conosco un piccolo trucco che potrebbe mostrarvi ciò che vede il mio spirito. Basta tenere una mano sulla mia spalla.»

Subito, le mani dei due si posarono sulla spalla sinistra della Maestra.

Le due chiusero gli occhi e si concentrarono sulle aure di Joy, Maya e Wong, quelle più forti e riconoscibili.

Quando furono certe di aver localizzato bene le auree, le due lasciarono che parte del proprio spirito abbandonasse il corpo, in modo da proiettarsi sul campo di battaglia.

Deborah e Storm assistettero immobili alla scena.

«Chiudete anche voi gli occhi», li invitò Harley. «Se potete, concentratevi sulla mia energia interna, anche se non sono sicura riusciate a percepirla.»

I due eseguirono l’ordine.

Deborah avvertì una strana sensazione di sollevamento dal terreno.

Qualche istante più tardi, il deserto dell’Arizona si aprì di fronte ai suoi occhi.



* * *



10 dicembre 2045, 5:30 A.M.,
Deserto di Tule,
Arizona.


Maya osservò l’ampio deserto rosso dell’Arizona, assaporando quegli ultimi momenti di tranquillità prima dell’imminente battaglia.

Dinnanzi ai suoi occhi, l’esercito che avrebbe lottato contro Vither si stava velocemente formando.

Migliaia di crepitanti portali d’energia arancione di ogni dimensione stavano accompagnando l’entrata in scena della legione dei Maestri delle Arti Mistiche appartenenti ai Santuari di Kath-mandu.

«Cinquecentotrentasei guerrieri», osservò Joy orgoglioso, al suo fianco. «Non eravamo così tanti neppure durante la lotta contro Thanos. Vedrai che ce la faremo.»

Maya gli sorrise, convinta.

«Maya!», la chiamò Connor, raggiungendola. «Ho bisogno del tuo aiuto!»

La giovane si voltò, concentrandosi sul giovane.

Con indosso indumenti di cuoio rinforzato, il pettorale d’acciaio, un ampio mantello argentato drappeggiato intorno alle spalle e la spada agganciata alla cintura, Connor sembrava un vero e proprio guerriero.

I lunghi capelli corvini, pettinati all’indietro, mettevano in risalto gli occhi dalle iridi azzurre e verdi.

«Cosa succede?», domandò, allarmata. «Qualche problema con la tua armata?»

Connor scosse il capo.

«Nulla di cui preoccuparsi. Valchiria mi ha inviato da te per chiederti di evocare un portale per condurre qui l’armata Asgardiana. Tutti sono già pronti al combattimento, armati di tutto punto.»

Maya sospirò di sollievo e indossò lo Sling Ring che portava agganciato alla cintura.

Focalizzò nella sua mente l’immagine di New Asgard e, nel giro di qualche attimo, un ampio portale si materializzò di fronte a loro.

Un maestoso pegaso dal pelo candido fuoriuscì dal vortice, portando sulla groppa Valchiria, splendida nella sua armatura argentata.

«Avanti, New Asgard!», gridò con tutto il fiato che aveva in gola.

La giovane Maestra ammirò i guerrieri di New Asgard attraversare il vortice energetico.

Prima i cavalieri, impettiti e fieri nelle loro armature leggere, poi i fanti a piedi, gli elmi già calzati e le mani ferme sulle spade o sulle asce, pronti al combattimento.

Quando tutti i guerrieri ebbero superato il portale, Valchiria ordinò all’esercito di schierarsi accanto ai Maestri delle Arti Mistiche.

Ordinati e rapidi, gli Asgardiani si disposero in file precise: la cavalleria prese posto sulla parte anteriore, in modo da gettarsi alla carica non appena la loro regina avrebbe dato l’ordine, mentre la fanteria sarebbe intervenuta in seguito, sfruttando il caos scatenato dalla cavalleria.

Nell’istante in cui terminarono la formazione, il pegaso di Valchiria planò nella loro direzione e si sistemò dinnanzi al suo esercito, pronta a guidarli.

Connor sorrise soddisfatto e si congedò da Maya e Joy, dirigendosi verso la sua armata.

«Direi che Valchiria ha davvero mantenuto la sua parola», commentò Joy mentre l’enorme portale spariva in una pioggia di scintille.

«Puoi dirlo forte», gli confermò Maya, gli occhi ancora fissi sull’armata Asgardiana.

“Certo che, visti così, disciplinati e impeccabili nelle loro armature, sembrano davvero invincibili”, rifletté. “Spero si rivelino così anche sul campo di battaglia”.

Captain America raggiunse i due Maestri, lo scudo di vibranio legato alla schiena.

Dietro di lui, venivano Greyson e Paige, entrambi avvolti nelle divise nere che erano soliti indossare durante il pattugliamento di Detroit.

Connor, in groppa a uno splendido stallone sauro accanto al pegaso di Valchiria, richiamò i nuovi arrivati e li salutò con ampi gesti delle braccia.

Greyson, Paige e Steve ricambiarono, prima di volgere di nuovo la propria attenzione su Maya e Joy.

«Dove sono Hill e i suoi uomini?», domandò lo Stregone Supremo. «Avremo bisogno anche del loro aiuto. Secondo i nostri calcoli, Vither e il suo esercito saranno qui tra poco meno di un’ora.»

Maya si concentrò sull’aura di Gadha e il suo volto si oscurò: la New Sanctuary sarebbe entrata nell’atmosfera terrestre nel giro di trenta minuti.

«Saranno qui entro quindici minuti, non temete», li rassicurò Captain America. «Piuttosto, Maya, tu e gli altri dovreste prepararvi per penetrare nell’astronave di Vither.»

«Ha ragione, signore», convenne la ragazza, ricercando con lo sguardo Minus e Valk.

I due stavano discutendo con Cooper e Athena sulle possibili tecniche da mettere in campo quando Maria e il suo esercito li avrebbero raggiunti.

Maya li chiamò e i due la raggiunsero in pochi istanti.

«Dobbiamo prepararci per la nostra missione», annunciò. «Siete pronti?»

Minus, Valk e Greyson acconsentirono, determinati.

«Ottimo. Attendete qui il mio ritorno.»

Chiuse gli occhi ed evocò la propria Proiezione Astrale.

Lo spirito abbandonò la carne nel giro di qualche istante e il corpo si accasciò al suolo.

Subito, la Cappa della Levitazione intervenne a sostenerla, deponendola poi tra le braccia di Joy.

«Fa molta attenzione, Maya», raccomandò Joy, rivolgendosi alla figura eterea che levitava a pochi centimetri dal suolo.

«Non preoccuparti, Joy, starò attenta.»

Chiuse gli occhi e si concentrò sull’aura magica di Tanar.

Poco dopo, il suo spirito scomparve, materializzandosi nella New Sactuary.

Con tutti i sensi all’erta, Maya prese a osservare ciò che la circondava.

L’interno della navicella di Vither si rivelò decisamente più ordinato e splendido di come se l’era immaginata: lo stretto corridoio in cui era comparsa comprendeva un pavimento di metallo ferrigno grigio plumbeo e pareti dello stesso colore.

Il soffitto, piatto e basso, permetteva appena il passaggio di una persona.

Nel varco, erano presenti decine di portelloni senza maniglia e Maya comprese che dovevano possedere una serratura meccanica che si apriva su comando, dal basso verso l’alto.

Si concentrò sull’aura della reincarnazione della Gemma della Mente e la seguì, attraversando la parete più vicina.

Quando raggiunse la camera in cui Tanar era rinchiuso, annullò la sua aura, in modo che gli sgherri di Vither dotati di poteri non potessero localizzarla.

Il suo sguardo venne subito catturato dalla raffinatezza con il quale era stato arredato il salottino.

Il soffitto e le pareti erano tinte di rosso e i mobili, nei toni del rosa pesca, offrivano un piacevole contrasto di colori.

Tanar e Gadha, accomodati su un ampio divano, stavano discorrendo.

Lo sguardo di Maya si soffermò a lungo sull’aspetto del bambino.

L’unica volta che aveva avuto l’occasione di vederlo, nei ricordi di Valk, il bambino era magro, sorridente e abbronzato dalle lunghe ore passate all’aperto con il suo guardiano e Asha, la sua balia.

Ora, Tanar appariva molto più robusto, con i capelli neri tagliati corti e pesanti ombre scure sotto gli occhi.

La ragazza si dispiacque per lui: tutto, nel suo aspetto, richiamava una terribile stanchezza.

Evidentemente, in quei mesi, il bambino aveva superato non poche difficoltà.

«Sei preoccupato per ciò che sta per accadere?», gli domandò Gadha, risvegliando Maya dai suoi pensieri. «Insomma, si tratta pur sempre del tuo guardiano.»

Tanar prese a mordicchiarsi le labbra e impallidì.

“È ovvio che tenga ancora a Valk. Tuttavia, non può certo riferire alla più stretta collaboratrice di Vither che prega per la nostra vittoria” rifletté Maya.

«Puoi parlare liberamente con me, Tanar», riprese Gadha. «Te l’ho ripetuto molte volte dal momento in cui sei passato sotto la mia tutela.»

Tanar annuì con lentezza e sollevò lo sguardo dal pavimento di marmo.

«Mi piace trascorrere del tempo con te, Gadha, ma spero che Valk e il suo esercito riescano a sconfiggere la tua Signora», confessò alla donna, torcendosi le mani in grembo. «Voglio tornare sul mio pianeta natale, riabbracciare i Saggi del Consiglio e dedicare una degna sepoltura ad Asha. Lei è stata una delle molte vittime innocenti che la ricerca delle Gemme ha portato con sé.»

Il silenzio calò nella camera e Maya temette per l’incolumità del bambino.

Cosa diamine gli era saltato in mente?

«Comprendo il tuo punto di vista, Tanar, ma questa volta la mia Signora non perderà. Già una volta ha affrontato gli Avengers e ne è uscita più forte che mai. Inoltre, il suo esercito è più potente e motivato che mai», replicò Gadha, pacata.

«Tuttavia, tu non conosci l’esercito che Valk ha riunito», controbatté Tanar, iniziando a innervosirsi. «Da quel poco che voi mi avete riferito, tutti coloro che Vither ha affrontato sono scomparsi in un’altra dimensione. Di conseguenza, i guerrieri che affronterete sono totalmente sconosciuti alla tua Signora.»

Una roca voce maschile risuonò dall’altoparlante posto nel corridoio.

«Gadha è pregata di dirigersi negli appartamenti della comandante Vither. Ripeto, Gadha è richiesta negli appartamenti della comandante.»

L’aliena scattò in piedi e raggiunse il portellone metallico.

«Tanar, resta qui e attendi il mio ritorno», ordinò al bambino, prima che il portale si aprisse, permettendole l’uscita.

Maya rimase quindi sola con il bambino.

Tanar sollevò gli occhi su di lei e accennò un sorriso stanco.

«So che sei qui, ragazza», mormorò, in modo che gli uomini di Vither, nel corridoio, non potessero udirlo. «Ora che sai dove mi trovo, ti prego di venire a salvarmi al più presto possibile. Comincio davvero ad avere paura, qui.»

Maya lo raggiunse levitando e gli regalò un sorriso incoraggiante.

«Verremo a salvarti, Tanar, non temere», sussurrò a sua volta. «Resisti un altro po’. Giusto il tempo d’iniziare l’attacco alla New Sanctuary

Il bambino annuì, speranzoso.

Maya gli regalò una rapida carezza e richiuse gli occhi, riprendendo il contatto con il suo corpo.

“Te lo prometto, Tanar, verremo a recuperarti”, promise mentalmente, mentre il suo spirito piombava di nuovo nel suo involucro fisico.

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Capitolo 34
*** La battaglia ***


10 dicembre 2045, 6:00 A.M.,
Deserto di Tule,
Arizona.


Maya riaprì le palpebre di scatto e si rimise in piedi, liberandosi dalla gentile presa di Joy.

«Sei riuscita a vedere Tanar?», l’interrogò Valk, speranzoso.

La giovane Maestra assentì e il guardiano si lasciò sfuggire un sospiro di sollievo.

«Raccontaci tutto ciò che hai visto, in fretta!», l’esortò lo Stregone Supremo.

Maya riferì con accortezza di dettagli l’interno della navicella di Vither e il colloquio a cui aveva assistito fra Tanar e Gadha.

«…Infine, quando Gadha è uscita, Tanar ha sollevato gli occhi su di me e mi ha implorato di salvarlo. Non so come abbia fatto a percepire la mia Proiezione Astrale, ma credo di essere riuscita a tranquillizzarlo», concluse. «Ora, non ci resta che andare a salvarlo.»

Il volto di Valk si adombrò.

Maya pose una mano sul suo braccio e tentò un sorriso rassicurante.

«Lo salveremo, non dubitare. Gliel’ho promesso!»

“E ho intenzione di mantenere la mia promessa”, rifletté, decisa.

In quell’istante, il cielo si oscurò e nell’aria risuonò il forte rumore dei rotori di un nugolo di caccia militari.

A una cinquantina di metri dal suolo, un centinaio di aerei dalla nera struttura sottile e affusolata, con la dicitura S.H.I.E.L.D. su entrambe le fiancate, si stavano disponendo in un’ordinata configurazione a cuneo, in attesa che la New Sanctuary giungesse sul campo di battaglia.

«Neppure Maria Hill ha lesinato per quanto riguarda il suo esercito», commentò ammirata.

Joy, con lo sguardo fisso al cielo, accennò un piccolo sorriso: adesso che tutte le loro forze erano schierate, riusciva a percepire chiaramente la loro potenza.

Ora più che mai, la vittoria contro Vither gli sembrava una concreta possibilità, non solo una remota speranza.

«A proposito di Maria Hill», esordì Maya, risvegliando lo Stregone Supremo dai suoi pensieri. «Eccola lì. Non si può dire che la sua entrata in scena passi inosservata.»

Joy rise, divertito.

La comandante della S.H.I.E.L.D. si era lanciata da uno degli aerei di testa, un ampio paracadute bianco a frenare la sua caduta.

Maya e Joy seguirono con lo sguardo la sua parabola discendente, domandandosi perché non fosse rimasta sul suo jet, un posto strategico molto più sicuro della terra ferma, dove avrebbero combattuto sia gli Asgardiani che i Maestri delle Arti Mistiche.

«Barton, Odinson!», chiamò, una volta raggiunto il suolo.

Fulminei, i due agenti la raggiunsero, aiutandola a liberarsi dal paracadute.

«Sono atterrata qui per accertarmi che i miei due migliori agenti siano pronti all’imminente battaglia», confessò, gli occhi lucidi dall’emozione.

Evidentemente, tornare sul campo come semplice agente dopo diversi anni di direzione doveva essere davvero eccitante per Maria.

«Siamo armati e pronti per adempire alla missione!»

Athena scattò sull’attenti, un ampio sorriso aperto sul volto dai tratti fini.

Cooper l’imitò mentre Maya e Joy li raggiungevano.

«Stregone Supremo, come promesso, ecco qui il mio esercito!», esclamò rivolgendosi a Joy, indicando il cielo ingombro di aerei. «Ogni agente della S.H.I.E.L.D. in grado di maneggiare un’arma è qui per darci man forte contro Vither. Ditemi, ora, quanto tempo manca al loro arrivo?»

«Due minuti, secondo più, secondo meno», intervenne Wong, raggiungendo il gruppo. «Direi che sia giunto il momento di raggiungere tutti le nostre posizioni e prepararci per l’attacco.»

Tutti i presenti si allertarono.

«Barton, Odinson, vi auguro buona fortuna. Non esponetevi a inutili rischi», raccomandò Maria, preoccupata.

«Agli ordini, signora!», risposero i due agenti all’unisono.

Prima che la donna potesse controbattere, una scaletta di corda venne calata di fronte a lei dall’aereo più vicino.

Hill si arrampicò sui pioli, sparendo alla loro vista.

Joy si portò una mano alla gola, le dita illuminate da una calda luce arancione.

Maya ebbe appena il tempo di far cenno a Cooper e Athena di ripararsi le orecchie.

«In posizione!», ruggì Joy e l’incantesimo amplificò la sua voce, in modo da raggiungere tutti i presenti. «Vither sarà qui fra meno di due minuti!»

Un silenzio carico di tensione calò nella zona.

Poi, ognuno raggiunse la propria postazione.

In men che non si dica, gli occhi di tutti erano fissi verso l’alto, dove un’ombra scura si stagliava tra le rade nuvole candide.

«Eccoli», annunciò lo Stregone Supremo. «Tenetevi pronti!»

I Maestri delle Arti Mistiche evocarono i loro primi scudi protettivi, i cavalli dell’armata degli Asgardiani scalpitarono nervosi e ognuno dei jet militari liberò i propri cannoni esterni.

Maya avvertì il cuore accelerare i propri battiti mentre raggiungeva i compagni con il compito di recuperare Tanar.

«Tenetevi fuori dalla mischia e statemi sempre vicino», raccomandò loro. «Non appena Vither e i suoi usciranno allo scoperto, ci teletrasporteremo nella navicella e salveremo Tanar.»

I tre sfoderarono le armi, determinati.

La giovane Maestra evocò a sua volta uno scudo d’energia arancione dal complicato mandala decorativo.

Captain America, posto in prima linea, strinse con sicurezza il proprio scudo di vibranio: era stato Victor a procurarglielo, costruendolo a immagine e somiglianza del vecchio scudo, sparito insieme a Sam Wilson e Bucky Burnes.

L’ombra della New Sanctuary si fece sempre più vicina, mentre tutti attendevano con il fiato sospeso che Vither si rivelasse.

Infine, la figura dell’astronave fu ben visibile nel cielo: un perfetto cuneo scuro, dalla forma affusolata e la struttura elegante.

Sotto gli occhi dei presenti, la New Sanctuary si fermò a una decina di metri dal suolo e i due portelloni presenti suoi fianchi si aprirono, rivelando l’uscita di un centinaio di piccoli jet monoposto, repliche dell’astronave madre.

Dall’ampio portello sulla pancia, invece, discese l’ordinata fanteria di Vither: un migliaio di soldati di ogni forma e colore della pelle, provenienti chissà da quali pianeti.

In pochi istanti, l’esercito si preparò per l’attacco, sistemandosi su numerose file mentre gli aerei si disponevano tutt’attorno alla nave madre, pronti a difenderla.

“Sembrano un nugolo di mosche”, pensò Maya, assumendo la posizione di attacco. “Fastidiose e molto difficili da eliminare.”

«Terrestri!», pronunciò una mielosa voce femminile attraverso gli altoparlanti della New Sanctuary. «Questa è la vostra ultima possibilità: consegnateci le Gemme dell’Infinito e il vostro pianeta sarà salvo. Qual è la vostra risposta?»

Joy fece per evocare l’incantesimo di amplificazione della voce per replicare, quando Captain America prese la parola.

D’istinto, lo Stregone Supremo rivolse il suo incantesimo su Steve, in modo che la sua risposta potesse risuonare nell’intera deserto.

«Non ti consegneremo mai le reincarnazioni delle Gemme dell’Infinito!», gridò l’uomo con decisione. «Fatevi pure avanti! Noi combatteremo con tutte le nostre forze per proteggere le Gemme, la Terra e l’intero universo! Fin quando uno di noi resterà in piedi, continueremo a lottare per la salvezza del pianeta!»

Si fermò e una luce si accese nei suoi occhi.

«New Avengers!», urlò, alzando in alto lo scudo di vitranio.

«Assemble!»

Urla di determinazione e battaglia si sollevarono dall’esercito alle sue spalle.

«Se questa è la vostra risposta, preparatevi alla battaglia!», annunciò l’altoparlante della nave madre.

La voce sembrava aver perso ogni traccia di emozione.

«All’attacco!», gridò la voce di Vither.

L’esercito di Vither si mosse all’istante: la fanteria iniziò la sua carica mentre i jet e le affusolate astronavi aprirono il fuoco sui New Avengers.

«Maria, Joy, Valchiria!», chiamò Captain America, «fate del vostro meglio!»

«Sì!», risposero i tre all’unisono, pronti al combattimento.

La cavalleria di Asgardiani fu la prima a procedere, scatenandosi in tutta la sua potenza, guidati da Connor e Valchiria.

Accompagnati dal tuonare degli zoccoli sul duro terreno di roccia e sabbia, gli Asgardiani si fecero largo nella mischia, mietendo vittime a destra e manca con le lunghe picche e le spade.

I guerrieri rimasti nelle retrovie, invece, avevano imbracciato balestre e archi e scoccavano dardi e frecce infuocate sul nemico, cercando di eliminare più avversari possibili.

Poco più lontano, Wong e una metà degli Stregoni avevano innalzato un’alta barriera d’energia per proteggersi dagli attacchi aerei nemici: con le mani tese verso l’alto, i Maestri delle Arti Mistiche proteggevano l’armata con la loro energia vitale.

L’altra parte, guidati da Joy, si era gettata all’attacco insieme alla cavalleria Asgardiana.

Tra i soldati, Cooper, Athena e Connor si erano presto distinti per le loro capacità.

Connor, a cavallo del suo sauro, macinava morte impugnando una spada in ogni mano e tenendosi saldo soltanto con le gambe ai fianchi dell’animale.

Athena, a pochi metri da Wong e gli altri Maestri che si occupavano di tenere alta la barriera difensiva, si arrabattava con il mitra e le due pistole che teneva legate alla cintura.

Diversi uomini cadevano uno dopo l’altro, colpiti dai suoi proiettili infallibili.

Nella mischia, Cooper, stringendo nella mano la sua fedele katana, feriva uno dopo l’altro i soldati che tentavano di attaccarlo.

Ad alcuni metri dal suolo, Morgan, Victor e Pepper, protetti dalle proprie armature, colpivano e distraevano al meglio delle loro possibilità le piccole navi nemiche, schivando con abilità gli attacchi nemici.

In alto, gli aerei della S.H.I.E.L.D. sparavano a tutto spiano sull’esercito di Vither, protetti dalla barriera magica dei Maestri delle Arti Mistiche.

«Fate fuoco sugli Stregoni!», ordinò la voce di Vither dalla nave madre. «Sono loro a tenere alta la barriera!»

Le navicelle corressero la mira, attaccando il gruppo compatto di Maestri con le mani alte verso il cielo.

«Tenete duro!», gridò lo Stregone Supremo, incoraggiando il suo esercito. «La barriera non deve cadere per nessun motivo.»

I Maestri tennero le mani sollevate verso l’alto, resistendo con coraggio.

Captain America raggiunse l’alieno più vicino con un pugno e lanciò lo scudo.

L’arma rimase in aria per diversi metri, abbattendo tre nemici dalla pelle color ebano, tranciando il netto la testa dell’ultimo prima di tornare indietro.

Maya, schiena a schiena con Greyson, parò un colpo di spada con il suo scudo d’energia che esplose in una pioggia di scintille aranciate.

La maestra evocò una spada d’energia e sferrò un fendente, diretto al petto dell’avversaria, un’aliena dai lunghi capelli verdi e la pelle rossa, priva di naso e dotata di un solo occhio.

L’avversario parò la sua stoccata e ringhiò, provando poi un colpo dall’alto.

Fulminea, Maya sollevò una mano al cielo, evocò una minuscola sfera d’energia blu e la scagliò sulla sua nemica.

Una forte scossa elettrica si propagò lungo il suo corpo e la donna collassò al suolo, svenuta.

Greyson mandò al tappeto l’avversario più vicino con un calcio.

A pochi metri da loro, Valk colpiva gli obiettivi prossimi a lui con la sua pistola dal raggio paralizzante mentre Minus aveva evocato una blanda barriera difensiva con i suoi poteri psichici, eliminando con la telecinesi coloro che si avvicinavano a lui.

«Cosa stiamo aspettando?», domandò Greyson. «Non dovremmo entrare in azione?»

Maya negò, evitando un nuovo attacco diretto alla sua testa.

Contrattaccò con una sfera d’energia arancione che sbalzò il nemico lontano.

«Aspettiamo almeno che la Eagle esca dal portellone, in modo da avere Gadha fuori dai piedi», commentò, indicando loro il cielo. «In questo modo, avremo un’avversaria in meno a bloccarci la strada.»

Greyson aggrottò le sopracciglia, ma non ebbe il tempo di domandare altro che un nuovo scagnozzo di Vither lo attaccò.

«Copritemi, per favore, ho bisogno di comunicare con Steve per metterlo al corrente del nostro piano», chiese a Greyson, Minus e Valk.

Maya sollevò allora una barriera intorno a sé e si concentrò sull’aura di Captain America.

“Signore, mi sente?” trasmise tramite pensiero. “Sono Maya McInnos. Le sto parlando tramite contatto mentale.”

“Sì, Maya, ti sento” rispose la voce interiore dell’uomo, preoccupata. “Cosa succede? Perché non siete ancora entrati nell’astronave madre?”

“I soldati presenti all’interno della nave sono ancora troppi.”

“Non temere, da ora cominceremo a lottare sul serio.”

“La ringrazio, signore.”

Maya riprese a lottare.

«Storm!», gridò Wong, rivolgendosi al cielo. «Libera i tuoi marchingegni. L’esercito è completamente protetto.»

Maya riservò un’occhiata stravolta all’anziano Maestro, poco lontano.

Lui e Storm si erano forse messi d’accordo?

Avvertì la rabbia ribollirle nelle vene: aveva pregato Storm di stare fuori dai guai e veniva a scoprire che l’amico aveva chiesto a Wong di aiutarlo!

Un portale si aprì nel cielo tempestato di navicelle aliene e aerei della S.H.I.E.L.D.

Una pioggia di quelle che Maya riconobbe come un nugolo di monete nere come il carbone venne liberato sul campo di battaglia.

I minuscoli dispositivi presero a levitare nell’aria e dirigersi verso l’esercito di Vither, ronzando come insetti.

Maya osservò sconvolta l’effetto della primo dispositivo: una moneta si aggrappò a una navicella e, dopo aver assunto un bagliore rosso, esplose.

L’astronave precipitò al suolo, investendo un gruppo di soldati di Vither.

Ben presto, i dispositivi di Storm si scatenarono in tutta la loro potenza: sciami di minuscoli macchinari si aggrapparono alle diverse navicelle di Vither per poi saltare in aria.

Le piccole astronavi seguirono il destino della loro compagna, collassando sullo stesso esercito di Vither.

L’esercito terrestre, incoraggiato dallo scompiglio che i dispositivi di Storm stavano provocando nelle forze avversarie, ne approfittarono per recuperare fiato.

«New Avengers!», gridò Captain America. «Continuate così! Finché qualcuno di loro resterà in piedi, continueremo a lottare per il bene della Terra!»

Nuove grida di assenso si sollevarono, preparandosi a lottare con ulteriore determinazione.

«Uomini, non indietreggiate!», esclamò la voce di Vither attraverso gli altoparlanti della nave madre. «Non permette a nessuno di distruggere la nave madre!»

Il portellone dedicato alle navicelle si aprì e un nuovo centinaio di minuscole astronavi ne fuoriuscirono.

«Fate fuoco sulle navicelle!», ordinò Maria Hill dall’aereo principale. «Cerchiamo di eliminarne il maggior numero possibile. Non credo che i Maestri di Wong, laggiù, possano tenere questa barriera ancora a lungo.»

Sulla terra ferma, la stanchezza cominciava a farsi sentire fra i Maestri guidati da Wong.

Con le braccia ancora tese verso il cielo, gli Stregoni apparivano tesi e spossati, i capelli madidi di sudore appiccicati ai volti e i pugni stretti.

«Resistete, ancora un po’», tentò d’incoraggiarli Wong, le mani a sua volta tese verso l’alto. «La difesa dell’intero esercito dipende da noi!»

I Maestri, stringendo i denti, si obbligarono a resistere.

La battaglia riprese a infuriare intorno a loro, senza che i due eserciti riuscissero a imporsi l’uno sull’altro: quando i terrestri recuperavano un po’ di vantaggio, la nave madre vomitava fuori nuovi uomini e soldati, per equilibrare di nuovo gli esiti della lotta.

Nel corso del combattimento, altri due portali d’energia si aprirono sul campo di battaglia, riversando sull’esercito di Vither nuovi dispositivi costruiti da Storm e altre astronavi vennero distrutte.

Nell’istante in cui l’ennesima navicella si schiantò al suolo, il portellone posto sul lato sinistro della nave madre si aprì e un jet dall’aspetto famigliare ne fuoriuscì.

«La Eagle!», gridò Maya, liberandosi dei nemici più vicini con una scarica di attacchi energetici. «Greyson, Minus, Valk! Dobbiamo andare, adesso!»

I tre la raggiunsero in fretta e Maya allungò loro una mano.

«Afferrate il mio braccio!», ordinò, serrando gli occhi e concentrandosi sull’aura di Tanar.

Nel momento in cui i tre uomini strinsero il suo braccio, il lancinante grido di Joy irruppe nella piana.

Tuttavia, prima che potessero scoprire cos’era accaduto, i quattro si erano già teletrasportati all’interno.



* * *



10 dicembre 2045, 7:15 A.M.,
Deserto di Tule,
Arizona.


Cooper si voltò di scatto verso la fonte di quell’urlo.

Cos’era accaduto a Joy?

Colpì il nemico più vicino con un fendente di katana diretto al petto, compì un mezzo giro su sé stesso e ne decapitò un altro.

Partì di corsa verso l’esercito di Maestri, falciando tutti coloro che tentavano di fermarlo.

In breve, raggiunse il corpo di Joy.

La scena che si trovò dinnanzi gli gelò in sangue nelle vene: un imponente alieno vestito totalmente di nero, dalla pelle candida e il capo privo di capelli, aveva colpito lo Stregone Supremo alle spalle con un colpo d’energia, mettendolo al tappeto.

Joy era caduto al suolo, svenuto.

L’energumeno, un ghigno malevolo dipinto sul volto, stava per riservargli il colpo di grazia.

Fulmineo, Cooper si frappose fra il corpo di Joy e il suo avversario.

Quando quest’ultimo scagliò un ulteriore colpo d’energia, l’uomo prese a mulinare la katana.

Come gli aveva insegnato Maya settimane prima, quello era uno dei piccoli trucchi per elidere le onde d’energia.

Il candido attacco energetico venne spazzato via dalla spada di Cooper, disintegrandosi in centinaia di piccole scintille di luce.

«Vigliacco! Non si deve mai attaccare un nemico disarmato!», gridò l’agente della S.H.I.E.L.D., furente. «Ora il tuo avversario sono io! Vediamo come te la cavi con me.»

L’alieno sembrò studiarlo per qualche istante, poi ghignò ed estrasse a sua volta una spada dal fodero che portava sulla schiena.

Alle sue spalle, Cooper si accorse che una creatura identica al suo nuovo nemico stava affrontando senza alcuna difficoltà due asgardiani armati di asce.

“Quei due sono di certo fratelli, ma non esiterei a credere che siano cloni” rifletté Cooper.

Il suo avversario emise un gorgoglio che il fratello accolse con un piccolo ringhio.

Quest’ultimo, in una singola mossa, colpì entrambi gli asgardiani con il suo spadone a due mani.

Le asce dei due vennero distrutte e Cooper notò il terrore farsi largo sui volti degli asgardiani.

I due indietreggiarono, ma fu tutto inutile: l’alieno colpì entrambi, mozzando il braccio di uno e ferendo l’altro al petto con la sua arma.

Gli asgardiani collassarono al suolo.

Cooper digrignò i denti, furioso.

“Questi due sono dei veri mostri!” realizzò. “Se dovessi affrontarli entrambi, finirei di certo sconfitto.”

Quasi a rispondere ai suoi pensieri, il rombo di un tuono echeggiò nel deserto e il cielo si coprì rapido di grigie nuvole gonfie di pioggia.

I due alieni gemelli sollevarono per un attimo il capo verso il cielo, preoccupati dall’improvviso cambiamento del tempo.

Cooper sorrise: sapeva cosa comportava quel cambiamento repentino del clima.

Athena era finalmente scesa in campo!

Infatti, come figlia del Dio Nordico delle tempeste, aveva ereditato dal padre l’abilità di controllare i tuoni e l’elettricità.

Poco dopo, ecco Athena raggiungerlo a passo spedito, stringendo fra le mani una sottile daga che Mantide utilizzava nelle occasioni più disperate.

«Perdonami per l’attesa, Cooper», si scusò con espressione cupa. «Adesso diamoci dentro. Io prendo quello a destra, tu quello a sinistra. D’accordo?»

Hawkeye assentì e i due si gettarono all’attacco nello stesso istante, le spade sfoderate.

Gli alieni gemelli assunsero le loro posizioni d’attacco, pronti al combattimento.

Cooper saltò e menò un fendente dall’alto.

L’alieno parò l’attacco con il suo spadone e contrattaccò con una stoccata diretta al fianco.

L’uomo schivò con un movimento fulmineo, risollevando l’arma e provando un nuovo affondo al petto.

L’alieno l’eluse con il suo spadone e attaccò di nuovo, dando inizio a una nuova danza di fendenti e parate.

Cooper approfittò di quel momento per studiare lo stile di combattimento del suo avversario.

L’alieno basava i suoi attacchi sulla forza bruta poiché la sua stazza gli impediva di schivare con fluidità i suoi assalti, limitandosi a pararli con lo spadone.

Per vincere, avrebbe dovuto fare affidamento sull’agilità e sulla diversità di statura.

Pochi metri più in là, Athena stava affrontando con abilità il suo avversario, destreggiandosi tra parate e stoccate.

Cooper parò l’ennesimo affondo e si preparò per mettere fine a quel combattimento.

L’alieno era senz’altro un abile guerriero, ma lui aveva l’agilità e l’esperienza dalla sua parte.

Indietreggiò ed estrasse dal fodero che portava sulla schiena la seconda katana, preparandosi all’attacco finale.

L’avversario sollevò lo spadone e tentò un nuovo fendente dall’alto, quando Cooper agì: parò la lama nemica con la katana destra e, rapido, attaccò il fianco con la sinistra.

L’alieno ringhiò per il dolore mentre un flusso di sangue scarlatto sgorgava dalla ferita aperta all’altezza dell’anca.

Furioso, strinse l’elsa del suo spadone fra le mani e menò una stoccata diretta al petto di Cooper.

L’agente della S.H.I.E.L.D. ebbe appena il tempo d’indietreggiare per evitare che la spada gli forasse il torace.

Tuttavia, la lama entrò in contatto con la sua pelle, disegnando una lunga lacerazione.

Cooper avvertì la ferita bruciare e digrignò i denti.

“Ora ne ho davvero abbastanza!” rifletté rabbioso, riprendendo a combattere con tutta la sua forza, le katane ben strette fra le mani.

Con ritrovato vigore, coinvolse di nuovo l’avversario in una rapida danza di fendenti e parate, alla ricerca di un punto scoperto da attaccare.

Infine, riuscì finalmente a trovare la falla nel suo schema di mosse: il fianco sinistro, ora coperto per impedirgli d’infierire sulla zona lesa, gli impediva di coprire altre zone vitali come il petto.

Tentò un assalto al fianco con la katana sinistra e, quando il nemico si adoperò per proteggersi, Cooper lasciò cadere al suolo la seconda spada ed estrasse dalla cintura il corto pugnale che era solito portare con sé, lanciandolo fulmineo nel petto dell’avversario.

L’alieno rantolò dolorosamente e cadde sulle ginocchia.

Lo spadone gli sfuggì dalle mani e l’alieno portò la mano al pugnale conficcato nel suo torace, cercando di estrarlo.

Hawkeye afferrò la katana con entrambe le mani e decapitò il suo nemico, mettendo fine al combattimento.

La testa dell’avversario ruzzolò via e il corpo si accasciò al suolo carponi.

Cooper sollevò gli occhi al cielo e sbuffò: il suo pugnale era ormai perduto.

Recuperò la seconda katana e l’infilò nel fodero, respirando a pieni polmoni per recuperare un po’ di fiato.

Portò una mano al petto, seguendo il profilo della ferita che quell’alieno gli aveva procurato.

Il tessuto della sua tuta da combattimento era lacerato e i lembi erano bagnati di sangue.

In quell’istante, Athena assestò al suo avversario il colpo di grazia.

Sollevò la spada verso il cielo e un fulmine si abbatté sulla lama.

L’arma, crepitante di elettricità e accesa di luce azzurra, venne scagliata contro l’alieno che non riuscì a schivarla.

La spada si conficcò nel petto dell’uomo e il suo corpo venne folgorato dalla potenza del fulmine.

Il cadavere carbonizzato si accasciò al suolo.

«Forza, portiamo Joy al sicuro», esalò Athena. «Prima che il campo si riempia di nuovo.»

Cooper assentì, si issò il corpo di Joy su una spalla e prese a correre verso il campanello di Maestri che combattevano contro gli scagnozzi di Vither.

“Fai in fretta, Maya!” pregò mentalmente Hawkeye. “Non so per quanto tempo riusciremo ancora a resistere.”

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Capitolo 35
*** Nella tana del lupo ***


10 dicembre 2045, 7:15 A.M.,
New Sanctuary.


Maya, Greyson, Valk e Minus si materializzarono nella camera dove la giovane Maestra aveva incontrato il piccolo Tanar.

Nel piccolo salottino, purtroppo, non era rimasto nessuno.

Maya aggrottò le sopracciglia, perplessa: dov’era Tanar?

Eppure, era sicura di aver percepito chiaramente l’aura della Gemma della Mente prima di teletrasportarsi in quel luogo.

«Dov’è Tanar?», domandò Valk, impaziente di rivedere il suo protetto.

Maya scosse il capo.

«Non so cosa sia accaduto, ma giuro di essermi teletrasportata seguendo la sua aura.»

«Va bene. Non puoi utilizzare ora i tuoi poteri per localizzarlo?»

La giovane annuì e chiuse gli occhi, concentrandosi sull’aura della reincarnazione della Gemma.

L’individuò nei pressi degli appartamenti di una creatura che sembrava avere in sé una parte della Gemma della Mente.

Strabuzzò gli occhi, pallida come un cencio.

«Vither!», esalò. «Vither l’ha condotto nelle sue stanze e lo tiene accanto a sé. Evidentemente, ha deciso che l’unico modo per proteggerlo è tenerlo molto vicino a sé.»

Valk sospirò, mentre Greyson e Minus assumevano un’espressione preoccupata.

Un silenzio carico di tensione calò nel salottino mentre i quattro riflettevano.

«Cosa facciamo ora?», domandò Minus, la mano ferma sulla fondina della pistola che suo padre gli aveva regalato qualche giorno prima. «Dovremo tentare di affrontare Vither?»

«Sì!», risposero i tre compagni all’unisono.

«Ora che siamo all’interno della nave madre, dobbiamo portare a termine la nostra missione e recuperare quel bambino», continuò Greyson, risoluto. «E se dovremo affrontare Vither per salvare Tanar, ben venga!»

«Non potrei essere più d’accordo», convenne Valk e Maya assentì a sua volta.

I quattro si decisero quindi a uscire dall’elegante salottino.

La Maestra serrò le palpebre e chiese alla compagnia di afferrare la sua mano.

Dal momento che non potevano muoversi nei corridoi per evitare scontri con possibili pattuglie di soldati, avrebbero dovuto ricorrere al teletrasporto.

«Possiamo andare», le confermò Valk.

Maya annuì e, dopo aver localizzato di nuovo l’aura di Tanar, lasciò che la sua energia interna raggiungesse l’equilibrio e richiamò il teletrasporto.

Pochi secondi dopo, i quattro si ritrovarono negli appartamenti privati di Vither: si trattava di una camera ammobiliata in modo spartano, rischiarata da una grande quantità di candele che spargevano nell’aria un odore dolciastro che Maya non riuscì a identificare.

«Tanar!», chiamò Valk, teso. «Dove sei?»

«Maestro Valk!», gridò la voce acuta del bambino mentre sfrecciava fra le braccia del suo custode. «Sei venuto a prendermi, finalmente!»

«Sì, piccolo mio, sì!», lo rassicurò il guardiano, stringendolo forte al petto. «Ora ti porteremo via di qui, non temere.»

Maya s’intenerì di fronte a quella vista, ripensando al suo maestro e di quanto le sarebbe piaciuto riabbracciarlo.

Un lento battito di mani riecheggiò allora nella stanza, trasformandosi poi in un applauso concitato.

«Che scena commovente», esordì una voce beffarda. «Quasi quasi mi dispiace distruggere la promessa che Valk ti ha fatto, piccolo.»

Una figura scivolò fuori dalla semioscurità e Maya avvertì il cuore sprofondarle nel petto.

Dinnanzi a loro si stagliava ora una splendida donna dal fisico scultoreo, con ordinati capelli bianchi lunghi fino alla vita a incorniciare un volto dai tratti delicati.

Indossava un’ampia casacca bianca senza maniche, un paio di pantaloni neri aderenti e pesanti stivali al ginocchio.

I suoi occhi, di una particolare tonalità di rosa, erano fissi su di loro.

Malgrado ne fosse intimorita, la ragazza sostenne il suo sguardo senza esitazione: non le avrebbe mai dato la soddisfazione di vederla tremare di fronte a lei.

«Tu sei Maya, dico bene?», le domandò Vither.

La sua voce aveva un tono dolce, quasi carezzevole, ma Maya avvertì la paura correrle lungo la schiena.

«Sono io», le confermò. «Come fai a conoscere il mio nome?»

Vither accennò una risata argentina.

«Non mi aspettavo una domanda tanto stupida dalla giovane che mi ha causato così tanti grattacapi!», continuò, tornando subito seria. «Ovviamente è stata Gadha. Dal momento che l’avete lasciata andare dopo averle praticamente spiegato tutto il vostro piano, non ho fatto altro che ricostruire quel che vi ha portato a mettervi contro di me.»

La giovane si diede della sciocca per non averci pensato.

Avevano liberato Gadha proprio per quel motivo: affinché Vither sapesse che la Terra non si sarebbe mai piegata a lei senza lottare.

Fece per replicare, quando l’albina riprese a parlare.

«Tagliamo corto con i convenevoli, comincio a stancarmi. Arriviamo al sodo: chi di voi vuole morire per primo?»

La sua voce aveva perso ogni nota di dolcezza, trasformandosi in un basso ringhio.

Valk afferrò il bambino e lo nascose dietro di sé, protettivo.

Maya valutò in fretta la situazione: loro quattro avrebbe potuto davvero sconfiggere Vither?

Quella donna era davvero temibile: riusciva a padroneggiare la magia, assorbire nel suo essere il potere delle Gemme dell’Infinito e manipolare la loro potenza, senza contare la sua invidiabile prestanza fisica.

“Non possiamo permetterci di rischiare inutilmente la nostra vita”, rifletté. “Per ora non ci resta che fuggire.”

Per quanto quel gesto potesse essere considerato vile, l’incolumità di Tanar era la priorità al momento.

«Quel che pensi non è realizzabile qui», la rimproverò Vither, divertita. «I miei appartamenti sono protetti dalla mia magia e il teletrasporto qui non funziona. Non potrete uscire da qui se non dopo avermi eliminato o sotto forma di cadaveri.»

La giovane Maestra ringhiò frustrata, ma non si diede per vinta.

Evocò uno scudo energetico dal complicato mandala e una sfera di energia arancione nell’altra, pronta ad attaccare.

Vither abbozzò un sorriso e allungò una mano carica d’energia rosata verso di loro.

Fulminea, Maya lanciò la sfera energetica contro la donna, prima che quest’ultima potesse utilizzare la forza della Gemma della Mente su di loro.

Seccata, l’albina fu costretta ad abbandonare l’incantesimo per evocare una cupola protettiva rosa pallido.

La sfera d’energia si abbatté sulla barriera, esplodendo in una pioggia di scintille.

«Valk, Greyson, scappate con Tanar e trovate un modo per fuggire dalla nave madre. Io e Minus ci occuperemo di sconfiggere Vither», ordinò Maya.

Greyson e Valk assentirono decisi.

Minus deglutì un paio di volte a vuoto, impaurito, ma si portò accanto alla Maestra delle Arti Mistiche, pronto a darle man forte.

«Sentiamo, ragazza, come hai intenzione di lasciar fuggire i tuoi compagni?», chiese Vither, un sorriso di scherno sulle labbra.

«Molto semplice, in realtà», rispose Maya, sorridendole derisoria.

Si portò in posizione di combattimento e unì le mani di fronte al petto, in cenno di preghiera.

Poco dopo, sei esatte copie di Maya si aprirono a ventaglio attorno a lei, levitando a qualche metro dal suolo grazie alle rispettive Cappe della Levitazione.

«La magia non può aprire quel portellone, ma la forza bruta sì», le spiegarono le sette Maya all’unisono.

Vither scoppiò in una sincera risata.

«Su questo potresti aver ragione, ragazza, ma credi vi lascerò il tempo di tentare di forzare la porta?»

Scattò in avanti e tentò di colpire la giovane, quando le sette sosia di Maya sollevarono intorno a loro una cupola protettiva trasparente, crepata ogni tanto da una scarica d’energia arancione.

«Trovate un modo per forzare la porta, forza!», gridarono le copie a Greyson e Valk, mentre Vither si preparava ad abbattere lo scudo con le sue sfere d’energia. «Non la tratterrò a lungo.»

Greyson e Valk raggiunsero la porta in fretta in furia.

Quest’ultimo stringeva la mano di Tanar nella sua: ora che aveva riabbracciato il suo protetto, non l’avrebbe lasciato andare per nessun motivo al mondo.

Vither scagliò sulla barriera due sfere d’energia rosa pallido che esplosero a contatto con lo scudo energetico.

Maya strinse i denti, lottando con tutte le sue forze per mantenere in piedi lo scudo.

«Dannazione, ragazzi! Cosa state combinando lì? Questa barriera non resisterà ancora a lungo», esalò, rivolgendosi a Greyson e Valk che tentavano di forzare il portello.

Mentre Greyson affrontava il portello con la forza bruta, tentando di abbatterlo a spallate, Valk si era sistemato accanto al pannello di comando, inserendo febbrilmente diversi codici nel tentativo di forzare la combinazione.

Tuttavia, la porta rimase sigillata.

Minus, atterrito, osservava la situazione.

Vither ringhiò frustrata e unì le mani di fronte a sé, pronta a evocare una nuovo incantesimo.

Una creatura d’energia rosata dalle forme affusolate, molto simile a un drago orientale, fuoriuscì dalle mani unite dell’albina, abbattendosi sulla barriera retta dalle sette sosia di Maya.

La giovane non ebbe neppure il tempo di difendersi: il sinuoso drago attraversò la sua barriera senza difficoltà, le fauci spalancate, eliminando anche le sei copie di Maya.

La ragazza si ritrovò sbalzata all’indietro, battendo malamente la schiena contro una delle pareti di ferro della New Sanctuary.

Malgrado la fitta di dolore alla schiena, Maya si rialzò e raggiunse il resto del gruppo, frapponendosi fra loro e Vither.

Un’espressione infastidita comparve sul volto dell’albina.

«Cominci a darmi suoi nervi, ragazza», esalò mentre Maya le scagliava contro una nuova sfera energetica.

La donna schioccò le dita e l’attacco di Maya si scontrò contro una nuova barriera.

Maya non rispose, dando una veloce occhiata dietro di sé: Minus aveva raggiunto Greyson e insieme riservavano al portellone spallate e calci coordinati, mentre Valk continuava a infierire sul pannello di controllo.

Un’idea sfiorò d’improvviso la sua mente: se la sua energia non poteva aprire la porta, sarebbe stata la magia stessa di Vither a farlo.

Sollevò una barriera mentale per impedire all’avversaria di leggerle il pensiero e divaricò leggermente le gambe, assumendo così una posizione più comoda.

Congiunse quindi le mani e sei sosia si aprirono a ventaglio dietro di lei, levitando grazie alle Cappe della Levitazione.

Evocò quindi una nuova barriera difensiva intorno a sé e agli altri, pronta a difendere sé e i suoi compagni.

«Certo che sei davvero stupida, ragazza!», la schernì, un sorriso di trionfo sul volto. «E pensare che ti credevo più intelligente. La stessa tattica non funziona due volte con me!»

Unì le mani di fronte a sé ed evocò un nuovo drago d’energia rosata che scagliò contro la barriera di Maya.

Nell’istante in cui l’attacco di Vither fece per abbattersi sul suo scudo energetico, Maya comprese che era giunto il momento di intervenire.

«Adesso!», urlò.

Le sette Cappe della Levitazione si sollevarono dalle spalle della Maestra e dalle sue sosia e si avventarono sull’albina.

Con le braccia bloccate intorno ai fianchi e gli occhi coperti, Vither perse il controllo del dragone d’energia.

«Giù!», gridò Valk, gettandosi a terra stringendo Tanar al petto per proteggerlo.

Greyson e Minus l’imitarono a loro volta, poco prima che il drago rosato si abbattesse sul portellone, producendo un’ampia breccia al suo interno.

La creatura di luce gettò un ruggito di dolore e scomparve in un’esplosione di scintille.

«Tutti fuori!», ordinò Maya, precipitandosi all’esterno al seguito della compagnia.

Vither ringhiò rabbiosa e la tinta rosata delle sue iridi assunse un’inquietante tonalità di rosso.

Convogliò tutta la sua energia al centro del suo petto per poi rilasciarla, distruggendo sei delle sette Cappe della Levitazione.

Impaurito, il vero oggetto magico si agganciò alle spalle di Maya prima che quest’ultima varcasse la soglia.

«Prendetevi per mano, rapidi!», abbaiò la giovane, il cuore che le batteva all’impazzata nel petto.

Fulmineo, Valk afferrò la mano di Maya, tenendo il bambino stretto al petto.

Greyson acchiappò al volo la maglia di Minus e strinse a sua volta il braccio di Maya.

La Maestra chiuse gli occhi e materializzò nella sua mente il Santuario di New York.

Vither ruggì ed evocò due globi d’energia rosati che l’albina scagliò contro il suo gruppo, ma invano.

Maya riuscì a teletrasportarci un attimo prima che l’attacco dell’albina la colpisse.

Furente, Vither ringhiò, inferocita.

“Se credi di avermi sconfitto, ragazza, sei solo un’illusa”, rifletté, sferrando un pugno alla breccia presente nel portellone. “Questo era solo l’inizio! Ora che conosco il tuo modo di combattere e la tua aura, non mi sarà difficile ritrovarti e, questa volta, non avrò alcuna pietà, né per te, né per i tuoi compagni.”

Un sorriso ferino si delineò sul suo volto pallido e i suoi occhi rossi scintillarono.

“Non mi fermerai, ragazza, non ora che sono a un passo dal compimento della mia missione.”



* * *



10 dicembre 2045, 9:00 A.M.,
Deserto di Tule,
Arizona.


«Joy!», lo chiamò la familiare voce di Wong.

Lo Stregone Supremo riaprì gli occhi.

«Dove mi trovo?», domandò, massaggiandosi le tempie con le dita per calmare il feroce mal di testa che gli stava divorando il cranio. «Cosa mi è successo?»

«Da quel che Barton mi ha riferito in fretta e furia, ho compreso che, in un attimo di distrazione, un nemico ti ha colpito alle spalle con un attacco energetico. Barton è intervenuto appena in tempo per impedire al tuo nemico di darti il corpo di grazia e lui e Athena hanno eliminato quei due con le loro spade. Barton ti ha poi portato qui di corsa e io ti ho curato come meglio ho potuto», riassunse l’anziano Maestro.

Il ragazzo si alzò di scatto.

Un capogiro lo colse di sorpresa, costringendolo ad afferrare il braccio di Wong per reggersi in piedi.

«Quanto tempo è passato dal momento in cui ho perso conoscenza?», domandò, allarmato. «E perché sei qui con me? Non dovresti essere con il tuo gruppo di Maestri a tenere alta la barriera?»

«Calmati, ragazzo!», lo rimproverò Wong, severo. «Sei rimasto svenuto per soltanto un’ora. Io, invece, ho lasciato i Maestri che reggono la barriera nelle mani di Michael. Credo sia in grado di tenere sott’occhio la situazione per qualche istante.»

Joy tirò un sospiro di sollievo.

Era rimasto fuori gioco soltanto un’ora: la lotta era ancora aperta.

Attese un istante affinché la testa smettesse di girargli e si sollevò a qualche centimetro dal suolo.

«Ti ringrazio per l’aiuto, Wong», lo gratificò, un’espressione determinata sul volto. «Ora che sto bene, però, ho bisogno che tu faccia ritorno ai tuoi Maestri. È di vitale importanza che la barriera resti in piedi. Gli aerei della S.H.I.E.L.D. non resisteranno a lungo senza lo scudo protettivo.»

L’anziano Maestro annuì, raggiunse di nuovo il suo esercito e sollevò le mani al cielo, in modo da sostenere a sua volta la barriera protettiva.

Joy prese quota e studiò dall’alto il campo, cercando di farsi un’idea di come stesse procedendo la battaglia.

Malgrado la stanchezza cominciasse a farsi sentire, Joy realizzò soddisfatto che le loro forze stavano per avere la meglio.

Si accorse persino che, nel breve periodo in cui era rimasto svenuto, un gran numero di agenti della S.H.I.E.L.D. erano scesi sul campo, affiancando gli Asgardiani e l’esercito di Maestri.

A un centinaio di metri da lui, i tre Stark continuavano a combattere contro le navicelle avversarie, distruggendole con le proprie armature e aiutando i jet della S.H.I.E.L.D. attirando l’attenzione dei nemici su di loro, già tempestati dai dispositivi ideati da Storm.

A terra, invece, le armate continuava a scontrarsi al massimo delle loro forze, guidati dall’implacabile Captain America.

Tra i combattenti si distinguevano i guerrieri che Maya aveva contattato in quegli otto mesi: Cooper e Athena lottavano schiena a schiena contro una decina di nemici dal fisico massiccio che sembravano appartenere alla stessa razza mentre Connor, smontato dal dorso del suo cavallo, stava spalleggiando gli Asgardiani che lottavano nella mischia, esortando i compagni a continuare il combattimento.

Persino Paige si era scatenata in tutta la sua potenza: con i piedi ben saldi al suolo, colpiva gli avversari vicini con le sue scariche elettriche, mandandoli al tappeto all’istante.

Malgrado la giovane si stesse impegnando per non folgorare a morte i nemici, Joy si accorse che Paige aveva causato un gran numero di vittime che giacevano scomposti al suolo, calpestati dai loro stessi compagni nella confusione della battaglia.

Raggiunse il piccolo esercito di Maestri delle Arti Mistiche e atterrò nel mezzo della mischia, evocando una spada e uno scudo d’energia arancione decorato da un complicato mandala per difendersi.

«Forza, Maestri!», gridò con tutto il fiato che aveva in gola. «Facciamo vedere loro di cosa siamo capaci!»

Urla di giubilo si sollevarono dai Maestri che, incoraggiati dallo Stregone Supremo, ripresero a lottare con ritrovato vigore.

La Eagle, il jet di Gadha, prese velocità e raggiunse la posizione di Joy.

Il jet venne subito preso di mira dagli aerei della S.H.I.E.L.D.: quattro degli aerei più vicini crivellarono di proiettili l’affusolata struttura della Eagle, ma quest’ultima ne uscì indenne.

Joy avvertì il cuore sprofondargli nel petto.

Gadha aveva evocato una barriera difensiva intorno al suo aereo, molto simile a quella retta da Wong e gli altri Maestri.

Ora, la Eagle, dopo essere penetrata tra la compatta cortina di aerei della S.H.I.E.L.D., si stava rapidamente avvicinando al punto in cui si trovava lo Stregone Supremo.

I Maestri sollevarono le mani verso l’alto e dozzine di raggi d’energia dei colori più diversi colpirono la figura sempre più vicina della navicella di Gadha.

Tuttavia, la barriera eretta intorno all’astronave resistette al terribile attacco combinato degli Stregoni.

I cannoni presenti sulle fiancate caricarono un attacco al plasma da sparare sull’esercito.

«Maestri! Sollevate la barriera difensiva contro gli attacchi fisici!», ordinò Joy, sollevando le braccia al cielo, protetto da un soldato asgardiano munito di ascia da combattimento.

Un reticolato d’energia si frappose fra l’esercito di terra e i proiettili al bianco plasma incandescente lanciato dai cannoni della Eagle.

Per fortuna, il plasma venne bloccato dalla barriera e, sotto gli occhi dei presenti, si raffreddò in tutta fretta e calò al suolo sotto forma di melma scura.

Gadha non desistette e i cannoni d’energia caricarono un nuovo attacco che seguì lo stesso destino del precedente.

Joy strinse i denti per la fatica: mantenere la barriera era davvero faticoso e lo Stregone Supremo comprese che un terzo attacco avrebbe distrutto la loro difesa.

“Devo impedire che Gadha scagli un altro attacco, altrimenti un terzo del nostro esercito sarà fuori gioco nel giro di un istante” rifletté.

Chiuse gli occhi e si concentrò sull’aura magica di Gadha, localizzandola all’istante.

Raccolse tutta la sua energia e si teletrasportò nella Eagle.

Quando riaprì gli occhi, ad accogliere lo Stregone Supremo furono le basse e strette pareti in ferro della camera di pilotaggio.

Si abbassò per evitare di colpire il soffitto piano con la testa e raggiunse il sedile del pilota, fermo accanto ai comandi.

Uditi i suoi passi, Gadha attivò il pilota automatico e il sedile compì una rotazione, voltandosi per osservarlo bene in volto.

«Sapevo che ci saremmo rivisti, Stregone Supremo», sorrise. «Non avrei mai creduto così presto, però, e in un luogo simile.»

Joy le riservò uno sguardo stranito.

Era molto cambiata dal momento in cui si erano separati: era molto più magra, i capelli erano tagliati corti e mettevano in risalto il volto emaciato, dove gli occhi erano cerchiati da profonde occhiaie nerastre.

«Gadha», rispose, circospetto. «Non posso dire che sia un piacere vederti. Specialmente perché avresti fatto esplodere metà dell’esercito terrestre se non fosse stato per la nostra barriera difensiva.»

L’aliena non perse il suo sorriso.

«Devo ammettere che il tuo esercito di Maestri è davvero una seccatura, ma sono certa che un altro colpo al plasma distruggerà del tutto il vostro scudo.»

Joy evocò uno scudo energetico nella mano destra e una sfera d’energia in quella sinistra, pronto al combattimento.

«E credi che io ti permetta di attaccare di nuovo il mio esercito?»

Gadha si slacciò lentamente la cintura di sicurezza e si alzò.

I due avversari si osservarono a lungo, in attesa che uno dei due scagliasse il primo attacco.

Fu Joy a iniziare, scagliando la sfera d’energia sulla donna.

Gadha si difese elevando una barriera d’energia e l’attacco di Joy si disintegrò in una pioggia di scintille.

«Dannazione!», imprecò lo Stregone Supremo fra i denti.

«Cannone al plasma pronto all’attacco», annunciò il navigatore con voce metallica.

«Spara», rispose Gadha.

Joy trasalì.

D’istinto, rivolse una mano verso il pannello dei comandi e liberò un getto di fiamme.

La sua fiammata si abbatté contro una nuova barriera.

La sua avversaria sorrise trionfante mentre Joy avvertiva il panico farsi largo nella sua mente: l’astronave di Gadha era prossima a distruggere la barriera eretta dai suoi compagni e lui non riusciva a trovare una soluzione!

“Che razza di Stregone Supremo sono se non riesco neppure a risolvere una situazione simile?” rifletté, ormai disperato. “Questo non sarebbe mai successo se Maya o Wong avessero assunto la carica al posto mio.”

Avvertì le lacrime pizzicargli gli occhi.

Aveva fallito…

Aveva fallito come Stregone Supremo e come Maestro delle Arti Mistiche…

«Cosa succede, Joy?», domandò la donna, beffarda. «Ti sei appena accorto di essere spacciato?»

Furono quelle parole a risvegliare Joy dal suo torpore.


«Mamma, perché trascorriamo così poco tempo insieme?»
«Perché ho delle responsabilità, piccolo. Il mio compito è proteggere la Terra e l’universo dalle minacce provenienti dalle altre dimensioni insieme agli altri Maestri dei tre Santuari. Senza di noi, i bambini come te non riuscirebbero a vivere un’infanzia spensierata.»
«Gli altri Maestri non possono fare a meno di te per qualche ora in più?»
«No, Joy, non possono. Io sono lo Stregone Supremo, la loro guida. Il mio compito consiste nel consigliarli, nel guidarli e, a volte, persino proteggerli. Ora forse non capisci, piccolo, ma fra qualche anno ci riuscirai, ne sono certa.»


Fu allora che capì.

Certo, lui non possedeva l’esperienza di Wong, né la determinazione di Maya, ma, come gli aveva insegnato sua madre molto anni prima, lui era la guida dei Maestri delle Arti Mistiche e, che gli piacesse o meno, aveva delle responsabilità nei loro confronti.

Vi era un unico modo per proteggere l’esercito e avrebbe di certo consumato buona parte della sua energia per metterlo in pratica.

Più determinato che mai, raggiunse con poche falcate una delle pareti del jet sotto gli occhi di Gadha.

«Cos’hai intenzione di fare?», gli domandò la donna, ormai certa della sua vittoria.

Lo Stregone Supremo non le rispose, limitandosi ad appoggiare una mano sulla superficie metallica della parete, avvertendola fredda al tatto.

Chiuse gli occhi e raccolse a sé tutta la sua energia magica.

Fu questione di un attimo prima che l’intera Eagle sparisse in un lampo di luce viola, portando con sé anche Joy e Gadha.

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Capitolo 36
*** Fine dei giochi ***


10 dicembre 2045, 8:40 A.M.,
177A Bleecker Street,
New York City.


Maya, Greyson, Minus, Valk e il piccolo Tanar caddero sul freddo pavimento della biblioteca, esausti e provati dalla battaglia contro Vither, ma vivi.

«Ce l’abbiamo fatta», esalò Minus, ancora pallido. «Siamo davvero al Santuario di New York...»

Maya si alzò e, nonostante si sentisse esausta e la schiena le dolesse, si diresse verso la camera di Storm, seguita a breve distanza da Valk con Tanar tra le braccia.

«Sbrigatevi!», esclamò rivolta a Minus e Greyson, imboccando rapida il corridoio. «È solo una questione di minuti. Fra poco Vither ci raggiungerà e non ho alcuna intenzione di vederla piombare qui prima che il Guanto sia completo e che i bambini si siano uniti nel Figlio dell’Infinito.»

I due le stessero subito dietro, dure espressioni determinate dipinte suoi volti.

Il gruppo marciò in silenzio per qualche istante, accompagnati solamente dal ticchettio dei pesanti stivali sul parquet del corridoio.

Quando giunsero nella camera di Storm, l’hacker e Deborah erano impegnati nell’osservare la lotta tramite Harley.

«Deborah!», chiamò Maya e l’erpetologa trasalì, riaprendo gli occhi di scatto.

«Siete tornati!», esclamò, meravigliata. «E avete recuperato anche Tanar. Come...»

«Avremo tempo in seguito per raccontare come abbiamo salvato Tanar», l’interruppe Maya. «Ora, completa il Guanto e mettiamo fine a questa pazzia.»

Deborah le rivolse un’occhiata preoccupata, accorgendosi che l’amica era pallida e aveva il fiato corto.

Qualsiasi cosa fosse accaduta, Maya doveva aver affrontato una dura lotta.

Annuì e batté una mano sul pesante bracciale d’argento stretto intorno al suo polso esile.

Subito, il bracciale s’illuminò e prese a trasformarsi, assumendo l’aspetto del Guanto dell’Infinito che Eitri aveva forgiato.

«Tanar, ora abbiamo bisogno del tuo aiuto», intervenne Valk, inginocchiandosi all’altezza del suo protetto. «Tu sai di essere l’incarnazione della Gemma della Mente, giusto?»

Il ragazzino annuì, ingoiando un bolo di saliva.

«Allora sai anche che necessitiamo del tuo potere per poter sconfiggere Vither una volta per tutti. Ci aiuterai, vero?»

Il bambino sembrò riflettere sulle parole di Valk.

«Certamente», replicò infine con decisione, rivolgendosi a Deborah. «Fa quello che devi.»

Valk avvertì gli occhi farsi lucidi di fronte a quella risposta.

Tanar, il bambino che aveva amato e protetto come un figlio, si stava rivelando un vero eroe.

Maya gli batté una mano sulla spalla, comprensiva.

«Grazie, Tanar», sorrise Deborah, prima di allungare la mano guantata in direzione del bambino.

Il Guanto reagì al contatto con l’ultima Gemma e, come accaduto con le altre reincarnazioni, il corpo di Tanar venne avvolto da una sfolgorante aura dorata.

Maya assistette estasiata al rito di Assimilazione della Gemma da parte del Guanto dell’Infinito.

Tanar impallidì, ma non si mosse di un millimetro mentre la Gemma della Mente si materializzava nella sua nicchia, situata sulla parte superiore del palmo.

Poi, tutto finì: l’aura dorata scomparve e Tanar cadde sulle ginocchia, subito sostenuto da Valk.

«Stai bene, Tanar?», domandò, preoccupato.

«Sì, maestro, sto bene», rispose il bambino, malgrado il suo volto avesse assunto una colorazione terrea. «Sono solo un po’ stanco.»

Valk non si rilassò, rivolgendo il suo sguardo a Maya.

«Non esiste qualche incantesimo che possa dargli un po’ di energia?», domandò.

La giovane scosse il capo con forza.

«Esistono incantesimi simili, ma non abbiamo abbastanza tempo per utilizzarne uno. Mi dispiace.»

Valk strinse le labbra in una sottile linea, chiaro sintomo di malcontento.

«In realtà possiamo utilizzare un incantesimo che potrebbe restituire a Tanar un po’ di energia», s’intromise Momoko.

Maya la fulminò con lo sguardo.

«Non ti permetto di mettere in pericolo la tua stessa vita, Momoko. Neppure se ne va di mezzo l’intero universo.»

Valk riservò alle due un’occhiata sconvolta.

Momoko desiderava davvero rischiare la propria vita per il bene di Tanar?

Fece per domandare ulteriori chiarimenti sul quell’incantesimo, quando Momoko l’anticipò.

Raggiunse il bambino con poche falcate decise e batté l’indice della mano destra contro la fronte di Tanar.

Maya fece per bloccarla, ma troppo tardi: un’accecante luce rosata investì tutti i presenti mentre l’energia vitale di Momoko si riversava in ampie onde guaritrici sul piccolo.

Maya, le palpebre serrate, cercò a tentoni Momoko, in un disperato tentativo di fermarla.

Quando la luce si dissolse, i presenti assistettero inorriditi alla scena: Tanar aveva riassunto il colorito viola tipico della sua razza mentre Momoko giaceva a terra, riversa su un fianco, i lunghi capelli neri a ricaderle sul volto livido.

«Stupida, sei solo una stupida!», ringhiò Maya, inginocchiandosi al fianco della donna, imitata da Harley, preoccupata a morte per l’amica.

«Valk!», chiamò la Maestra, mentre lei e Harley controllavano i polsi e la gola di Momoko per assicurarsi che fosse ancora viva. «Prendi Tanar e dirigiti verso la camera dei bambini insieme a Greyson e Storm. Deborah, tu sai già cosa fare. Minus, per favore, accompagna Deborah nel cortile e assicurati che non le accada nulla. Io e Harley, nel frattempo, ci assicureremo che Momoko non ci lasci oggi.»

Tutti i presenti assentirono prima di dividersi e dirigersi verso le rispettive destinazioni.

Rimaste sole, le due si accorsero con estremo sollievo che il cuore di Momoko, seppur debolmente, batteva ancora.

«Ci è mancato davvero poco», sospirò Harley, un peso in meno sul cuore. «Comunque sapevo che ce l’avrebbe fatta. Momoko è davvero un osso duro.»

«Ciò non giustifica il fatto che abbia donato a Tanar tre quarti della sua energia vitale senza preoccuparsi della sua sopravvivenza!», replicò Maya, ancora furente.

«Hai ragione», convenne la compagna, «ma è meglio così. Grazie al suo sacrificio, Momoko ha rimesso in sesto il bambino in modo che possano formare questo fantomatico “Figlio dell’Infinito” prima che Vither si materializzi qui.»

Maya non replicò.

Malgrado il gesto di Momoko fosse stato estremo, era stato di grande utilità: Tanar era ora in piena forma e, se la fortuna li avesse aiutati, Raptor sarebbe riuscito a scoccare le dita prima del ritorno di Vither.



* * *



10 dicembre 2045, 9:00 A.M.,
177A Bleecker Street,
New York City.


Deborah, tallonata da Minus, si muoveva rapida per i corridoi, alla volta del cortile dove lei, Athena e Cooper erano soliti allenarsi per controllare Raptor.

Lì, spesso in compagnia di un Maestro delle Arti Mistiche, Raptor era libero di sfogarsi.

“In quelle situazioni, però, erano presenti due dei migliori agenti della S.H.I.E.L.D. e un Maestro capace come Maya o Joy a tenere d’occhio la situazione” considerò Deborah, inoltrandosi nell’ennesimo corridoio. “Oggi saremo solo io e Minus. Spero che questo ragazzo sia davvero in grado di difendersi in caso Raptor perda il controllo.”

D’istinto, riservò al giovane un’occhiata critica: poco più di un ragazzino, ma, come le aveva spiegato più volte Storm, Minus possedeva un grande potenziale.

Inoltre, bisognava considerare che Minus era stato allenato da Cooper e Athena.

«Non temere per me, Deborah», lo rassicurò il giovane, dedicandole un sorriso comprensivo. «Sono in grado di badare a me stesso.»

Deborah dissolse subito lo sguardo, dandosi della sciocca.

“Eppure Storm mi aveva spiegato che è in grado di leggere nel pensiero” rifletté, avvampando per l’imbarazzo.

Minus accennò una risata divertita, mentre la porta che conduceva al cortile si spalancava autonomamente di fronte ai loro occhi.

«Non sono solo in grado di leggere nel tuo pensiero», le spiegò. «Diciamo che riesco a scavare nella tua mente per carpire emozioni e segreti.»

L’erpetologa entrò nel cortile circolare, il luogo dove Maya e Joy erano soliti allenarsi.

Si trattava di un piccolo cortile dal pavimento di pietra, costellato di alberi da frutto e piante ornamentali sistemati in grandi vasi di ceramica grigia finemente decorate.

Ad alcuni metri dai vasi, erano sistemate statuette orientali che avrebbero dovuto aiutare i Maestri durante la meditazione.

«Resta all’erta, Minus», raccomandò al ragazzo mentre raggiungeva il centro. «Se Raptor dovesse perdere il controllo, non esitare a colpirmi e mettermi al tappeto. Siamo intesi?»

«Sì, non temere», rispose lui.

Deborah gli rivolse un ultimo sorriso mentre avvertiva il suo cuore accelerare i battiti, rimbombandole fastidiosamente nelle orecchie.

Chiuse le palpebre e si abbandonò alla rabbia, sperando con tutta se stessa che i mesi di allenamento al fianco di Deborah e Cooper dessero i loro frutti.

Lentamente, l’aspetto della donna prese a mutare: i muscoli s’ingrossarono, le sue dimensioni raddoppiarono, il suo corpo si ricoprì di scaglie nere e i capelli crespi si ritirarono.

Gli occhi si schiarirono fino a raggiungere una colorazione dorata, le pupille si restrinsero assumendo un aspetto ferino, il viso si trasfigurò in un affusolato muso dalle zanne prominenti e una coda scura lunga circa un metro crebbe all’altezza del coccige.

Minus assistette estasiato alla metamorfosi della donna e, quando questa cessò, attese con il fiato sospeso che Raptor compiesse la sua prima mossa.

Raptor rivolse su di lui la sua attenzione e l’osservò a lungo, quasi a volergli leggere l’anima.

Minus rimase immobile, il cuore in gola.

“Per favore, Raptor, non prendermi come una minaccia” pregò mentalmente.

Il loro scambio di sguardo durò soltanto pochi istanti.

Raptor batté le palpebre un paio di volte, come riportato al presente, e si concentrò sul pesante guanto argentato che gli ricopriva la zampa destra.

Sollevò lentamente la zampa all’altezza del muso affusolato ed estrasse la lingua biforcuta, in modo da analizzare il Guanto.

Minus rimase immobile, studiando con attenzione i movimenti di Raptor.

Fino a quel momento, l’alter ego mostruoso di Deborah non aveva dimostrato alcun cenno di aggressività o rabbia e questo andava già interpretato come un segnale positivo.

Raptor non sembrava aver alcun intenzione di schioccare le dita, impegnato com’era ad analizzare il Guanto dell’Infinito.

Il giovane si domandò se non fosse il caso d’intervenire per ricordare alla creatura quel che Athena e Cooper le avevano ripetuto numerose volte in quei giorni.

Fece per avvicinarsi a Raptor, quando quest’ultimo indietreggiò, ringhiando sommessamente.

Minus si fermò e indietreggiò, ritornando nella sua posizione iniziale.

Malgrado Raptor tollerasse la sua presenza, non poteva avvicinarsi.

Deborah avrebbe dovuto fare tutto da sola…

«Raptor!», lo chiamò, sperando che almeno la sua voce potesse risvegliare qualche ricordo in quella creatura. «Ricorda ciò che Athena e Cooper ti hanno insegnato! Schiocca le dita.»

Al nome di Athena, Raptor sembrò reagire: sollevò il muso affusolato e rivolse lo sguardo nella sua direzione.

Rincuorato per aver attirato la sua attenzione, Minus si indicò la mano destra e schioccò le dita.

Le pupille di Raptor si dilatarono e la creatura s’immobilizzò.



«Ascoltami bene, Raptor», esordì la voce calma e dolce di Athena.

Raptor assentì lentamente: ascoltare non era difficile e, spesso e volentieri, se svolgeva correttamente i compiti che Athena e Cooper gli affibbiavano, riusciva a guadagnarsi un buon boccone.

«Ora, dai un’occhiata alla tua zampa destra.»

La creatura eseguì, accorgendosi con curiosità che il suo arto era imprigionato in un guanto d’argento.

D’istinto, fece per sfilarselo, quando Athena lo bloccò, ponendo una mano sulla sua zampa.

«Non è pericoloso, Raptor», gli spiegò. «Anzi, è il mezzo attraverso il quale ci aiuterai durante la nostra missione. Mi segui?»

Il rettile rifletté per qualche attimo, poi annuì.

«Il tuo unico compito consiste nello schioccare le dita intrappolate all’interno del Guanto, così.»

S’interruppe, sollevò il braccio destro e schioccò tra loro il medio e il pollice.

Raptor osservò con attenzione i suoi movimenti, incuriosito.

«Hai capito cosa fare?», gli domandò la donna, le mani posate sui fianchi.

L’alter ego di Deborah piegò leggermente il capo verso destra, confuso.

Athena si ritrovò a sospirare, ma non perse la pazienza.

«Non preoccuparti, Raptor, ora ripeto», riprese, accarezzando il muso della creatura con dolcezza. «Vedrai che ce la faremo. Io credo in te.»



Raptor ritornò in sé.

Come le aveva spiegato più e più volte Athena, non doveva fare altro che schioccare le dita della zampa destra, in modo da salvare Athena e le persone gentili che avevano accolto Debotah all’interno di quel Santuario.

Infatti, prima che Athena e i suoi amici venissero ad aiutare lui e Deborah, l’erpetologa aveva deciso di mettere fine alla loro vita, incatenandosi al letto.

Ora che Deborah aveva trovato una compagna e una bimba a cui badare, la vita di Deborah, e di conseguenza la sua, erano in salvo.

Sollevò la mano e fece per schioccare le dita, quand’ecco che una luce abbagliante si scatenò di fronte ai loro occhi, accecandoli.

Con le palpebre serrate, Minus si concentrò sui pensieri di Raptor, alla ricerca di una strada per avvicinarsi alla creatura.

Era di vitale importanza che l’alter ego di Deborah non perdesse il controllo, almeno fin quando non avesse schioccato le dita.

Cercò di concentrarsi anche sulla figura comparsa in quella luce accecante, ma quest’ultima sembrava aver elevato uno scudo intorno alla sua mente.

Avvertì il cuore accelerare prepotente nel suo petto: Vither li aveva trovati!

Solo lei e alcuni dei Maestri più abili sarebbero stati in grado di proteggere così i suoi pensieri.

«Raptor!», chiamò, sforzandosi di suonare calmo. «Schiocca le dita, ora!»

«Non sprecare il fiato, ragazzo», commentò una voce bassa e ringhiosa, facendolo rabbrividire. «Apri pure gli occhi e osserva in che condizione è la vostra ultima speranza.»

Minus spalancò le palpebre e avvertì il panico invadergli la mente: Vither aveva immobilizzato Raptor con i suoi poteri.

Cinque fasci d’energia rosata avevano bloccato i polsi, le caviglie e il collo al pavimento in pietra del cortile.

Raptor ringhiava e lottava per liberarsi dalla magia di Vither, ma invano.

Il giovane fece per accorrere in aiuto di Raptor, quando l’albina intervenne.

«Fermo dove sei», gli intimò. «Avvicinati e il lucertolone muore. Mi hai capito?»

Gli occhi di Vither, ora rossi, scintillarono minacciosi.

Minus si bloccò, tremendamente indeciso sul da farsi: se si fosse avvicinato, la donna non avrebbe esitato un attimo a uccidere Raptor, ma non poteva neppure restare lì con le mani in mano!

Seguendo l’istinto, tentò di avvicinarsi di un passo.

Vither ghignò, strinse il pugno illuminato di luce rosata e la banda d’energia che bloccava il collo di Raptor prese a stringersi.

La creatura boccheggiò alla ricerca di aria, rantolando penosamente.

«Maledetta!», ringhiò il ragazzo, indietreggiando di diversi passi. «Lascialo andare.»

Malgrado avesse eseguito l’ordine di Vither, la donna non accinse ad allentare la presa sul collo di Raptor.

La creatura continuò a lottare con tutte le sue forze per liberarsi, ma i suoi tentativi furono del tutto inutili.

Minus allungò una mano verso i vasi di fiori più vicini e ricorse alla telecinesi.

Subito, i vasi si sollevarono a mezz’aria e, quando il giovane indicò Vither con la mano, sfrecciarono in quella direzione.

Vither sibilò una parola che Minus non riuscì a comprendere e una barriera rosata si materializzò intorno a sé.

I vasi s’infransero contro la barriera, schizzando intorno a sé pezzi di ceramica distrutta, terra e carcasse di piante aromatiche.

Quel diversivo diede al giovane il tempo di raggiungere Raptor e provare a liberarlo con i suoi poteri.

Tuttavia, tutti i suoi tentativi furono nulli: l’energia di Vither, già forte, era ora alimentata da una Gemma dell’Infinito, rendendola quasi indistruttibile.

«Patetico», commentò Vither, sollevando la mano libera verso il cielo. «Credo sia giunto il momento di mettere fine a questa messinscena. Addio, ragazzo.»

Una sfera d’energia si materializzò nella sua mano libera e, quando lei la scagliò contro Minus e Raptor, il giovane si guardò attorno, cercando qualcosa da scagliare contro la donna o da utilizzare come scudo.

Purtroppo, non riuscì a trovare nulla di utile.

Tutto ciò che riuscì a fare fu chiudere gli occhi nel momento in cui la sfera d’energia giunse a pochi centimetri da loro, in attesa della fine.

“Ho fallito”, realizzò, sull’orlo delle lacrime. “Maya mi ha affidato una missione e io ho fallito. Non sono riuscito a proteggere Raptor e ora la nostra speranza sparirà con noi due. Speriamo che il Figlio dell’Infinito possa riuscire nella missione...”

«Mi dispiace molto, Vither, ma ti è andata male», esordì una chiara voce familiare.

Un sorriso sollevato nacque sulle labbra di Minus mentre riapriva le palpebre.

Maya si era frapposta fra Vither e Minus, difendendo lui e Raptor dall’attacco dell’aliena albina con uno dei suoi scudi d’energia.

Il volto di Vither si contrasse in un’espressione furiosa.

«Ora cominci a darmi davvero sui nervi, Maya!», sibilò, minacciosa. «È pensare che, a un primo sguardo, ti avevo considerata abbastanza intelligente da riconoscere la tua inferiorità.»

La giovane non si scompose, la barriera d’energia sollevata intorno a sé, Minus e Raptor, ancora bloccato al suolo.

«Diamo inizio al secondo round, Vither», sorrise, beffarda. «Che ne dici?»

La figura di Harley si materializzò alle loro spalle.

«Harley, libera Raptor!», le chiese Maya, urgente.

Fulminea, Harley raggiunse la metamorfosi di Deborah e tese la mano in direzione delle bende d’energia che lo tenevano bloccato al suolo.

Subito, cinque raggi d’energia azzurra si propagarono dalle punte delle sue dita, dirigendosi verso Raptor.

Vither serrò il pugno e i fasci d’energia si strinsero ulteriormente intorno al collo, ai polsi e alle gambe della creatura.

Raptor emise un verso strozzato, ma l’incantesimo di Harley aveva ormai sortito il suo effetto: l’energia azzurra distrusse quella rosata di Vither e l’alter ego di Deborah fu di nuovo libero.

La creatura si sollevò, in preda alla furia più cieca.

Ormai fuori controllo, Raptor caricò Harley, le zanne sfoderate.

Un sorriso nacque sul volto di Vither: malgrado non avesse ucciso il bestione, quest’ultimo era ormai fuori controllo e, in quelle condizioni, non avrebbe mai potuto schioccare le dita.

«Sembra che io abbia vinto», annunciò.

Maya non si fece intimidire.

Era necessario mantenersi lucida e analizzare la situazione: Vither aveva messo fuori gioco Raptor, ma non era a conoscenza del Figlio dell’Infinito.

“Abbiamo ancora una possibilità”, si disse. “Tutto ciò che dobbiamo fare è trattenerla qui il tempo necessario affinché i bambini possano unirsi.”

Si sollevò a mezz’aria grazie alla sua Cappa, raggiungendo l’avversaria.

«A noi due!», l’avvertì, evocando l’ennesimo scudo energetico. «Oppure sei troppo codarda per affrontarmi?»

Vither l’imitò, pronta al combattimento.

«Fatti pure sotto, Maya. E questa volta, non attenderti alcuna pietà da parte mia.»

L’albina le scagliò contro un fascio d’energia che Maya riuscì a parare.

“Spero che i bambini siano già riusciti a generare il Figlio dell’Infinito”, rifletté. “Non riuscirò a trattenerla a lungo.”

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Capitolo 37
*** Legami indissolubili ***


10 dicembre 2045, 9:15 A.M.,
177A Bleecker Street,
New York City.


Valk scese di corsa le scale che conducevano al secondo piano.

Tanar, a cavalcioni sulle sue spalle, cingeva così forte il suo collo da mozzargli il fiato.

«Se non ce la fai più, Valk, posso darti il cambio», gli propose Greyson, pochi metri dietro di lui.

Storm, non abituato alla corsa, era rimasto in cima alla rampa, il fiato grosso e il volto già ricoperto di sudore.

«Ti ringrazio, Greyson, ma devo rifiutare», rispose, imboccando lo stretto corridoio che conduceva alla camera dei bambini. «Tanar è il mio protetto e, ora che l’ho ritrovato, non mi separerò da lui molto presto.»

«Ben detto, maestro», replicò Tanar con un sorriso.

Greyson annuì e riprese a correre, tutti i sensi all’erta: nel caso Vither avesse inviato qualche suo sgherro al Santuario, non si sarebbe fatto trovare impreparato.

«Storm, sbrigati!», gridò, rivolgendosi all’amico più indietro. «Dobbiamo muoverci, prima che Vither ci raggiunga.»

L’hacker assentì e riprese a correre, annaspando.

«Siamo quasi arrivati», annunciò Valk, il fiato corto.

Poco dopo, i tre varcarono la soglia della camera delle reincarnazioni delle Gemme dell’Infinito.

La camera, un ampio locale dalla forma rettangolare, conteneva cinque letti singoli, altrettanti condomini di legno scuro, due scrivanie con annesse sedie da ufficio girevoli e una sedia a dondolo.

Le diverse trapunte, sotto insistenza di Momoko, possedevano lo stesso colore: una pura tonalità di bianco che potesse donare ai bambini una parvenza di normalità.

«Quei cinque bambini non necessitano di ricordarsi di essere le reincarnazioni delle Gemme dell’Infinito anche quando vanno a letto.»

Quelle erano state le parole della giovane quando lei e Maya avevano arredato la camera dei bambini.

In quel momento, tutti e cinque i bambini era accomodati suoi propri letti, in attesa che qualcuno venisse a prenderli, come aveva domandato loro Deborah.

«Valk! Greyson!», li chiamò subito Kimuack, raggiungendoli.

Valk sorrise e gli regalò una rapida carezza sul capo: malgrado il preferito del piccolo fosse Wong, il legame fra lui e il bambino si era rinforzato molto in quei mesi.

Fu allora che Tanar scese dalle spalle del suo Maestro.

Le cinque reincarnazioni osservarono il nuovo arrivato con curiosità.

«Questo è Tanar, il mio protetto», lo presentò Valk rapido. «Lui è come voi, la reincarnazione della Gemma della Mente.»

I bambini raggiunsero Tanar e presero a bombardarlo di domande, quando Valk li interruppe.

«Gli chiederete tutto ciò che desiderate più tardi. Ora, Tanar, cosa sai del Figlio dell’Infinito?»

Tanar impallidì all’improvviso, mentre gli altri bambini assumevano un’espressione confusa.

«Che succede, Tanar?», indagò Valk.

La reincarnazione della Gemma della Mente sembrò riflettere sulle parole da proferire, quand’ecco che s’udì uno scalpitio provenire dall’esterno.

Greyson liberò la pistola dalla fondina che portava appesa al fianco e lo scudo che Victor gli aveva procurato, molto simile a quello del padre.

Valk lo imitò, frapponendosi fra la porta e i bambini, spalla a spalla con Greyson.

«Qualsiasi cosa tu debba fare, falla ora, Tanar!», esclamò. «Mi fido di te, piccolo.»

Tuttavia, prima che il suo protetto potesse rispondergli, lo scalpiccio di passi si fece sempre più vicino.

«Se non vi dispiace, io resto in disparte», si giustificò Storm, raggiungendo un angolo della camera. «In questa situazione temo di non esservi di grande utilità, specialmente in un incontro corpo a corpo.»

«Mettiti pure al sicuro, Storm», lo rassicurò Greyson. «Ti sei già rivelato molto utile durante la battaglia. I tuoi dispositivi hanno distrutto molte delle navicelle degli uomini di Vither.»

Valk strinse le dita sudate intorno all’impugnatura della sua pistola.

All’improvviso, la porta si spalancò e una dozzina di creature comparvero sulla soglia.

Valk le osservò con attenzione: presentavano un fisico flessuoso, braccia sottili, un muso allungato da faina, orecchie da topo e occhi da rettile molto simili a quelli di Raptor, ma nei toni del rosso.

Indossavano delle ampie casacche e pantaloni stretti infilati in corti stivali alla caviglia.

Il tutto era rinforzato con del metallo scuro all’altezza delle ginocchia, dei gomiti e il volto era difeso da un elmo dotato di placca nasale.

Il tutto rigorosamente nero per spiccare sul candore della loro pelle.

Anche loro impugnavano delle pistole molto simili alla sua e Valk avvertì una scarica di paura attraversargli la schiena.

“Non riusciremo mai a sconfiggerli tutti” realizzò con rammarico. “Ma possiamo tenerli occupati il tempo necessario affinché i bambini riescano a unirsi fra loro per generale il Figlio dell’Infinito. A quel punto, dovrebbero pensarci loro.”

Greyson scattò verso la creatura più vicina e la colpì alla testa con il bordo dello scudo, distruggendo il suo elmo.

Quando l’uomo gli assestò un secondo colpo alla testa, un’ampia lacerazione si aprì sulla sua fronte e il sangue prese a fuoriuscire, copioso.

Gli occhi dell’alieno si rovesciarono mostrando la sclera ed egli cadde riverso sulla pancia, svenuto.

Quello non servì a fermare il resto degli sgherri di Vither che si limitarono a calpestare il corpo del proprio compagno.

Greyson non esitò a gettarsi nella mischia, colpendo chiunque riuscisse a raggiungere con lo scudo di vibranio e la pistola, che si rivelò scagliare proiettili elettrizzati che, a contatto con un corpo, si vaporizzavano nell’aria.

In questo modo, il guardiano di Detroit si limitava per lo più a stordire e ferire i suoi nemici, senza essere obbligato a ucciderli per metterli fuori gioco.

Valk, sistemato in modo da fare da scudo ai bambini e a Storm, aveva già sparato ad almeno quattro alieni, sfuggiti agli attacchi di Greyson.

Malgrado l’impegno, Valk era preoccupato: Greyson stava certamente portando alto il nome di suo padre, ma cominciava a dare i primi cenni di cedimento.

«Storm, proteggi i bambini!», esclamò, prima di gettarsi a sua volta nella mischia, in modo da dare man forte a Greyson.

Greyson gli riservò un rapido sguardo grato quando Valk lo raggiunse e assestò all’alieno più vicino un calcio in pieno petto, sbattendolo contro la parete opposta.

I due ripresero quindi a lottare con ritrovato vigore, schiena contro schiena.

Storm, dall’angolo della camera in cui si era rifugiato, osservò atterrito la situazione: Valk aveva raggiunto Greyson e, al momento, i due lottavano con tutte le loro forze per eliminare gli alieni che Vither aveva messo loro alle calcagna.

Le sei reincarnazioni delle Gemme, nel frattempo, sotto indicazione di Tanar, avevano composto un’ellisse, tenendosi per mano.

In quel momento, Tanar stava salmodiando una lenta litania in una lingua a lui sconosciuta.

Con il trascorrere dei minuti, la voce del ragazzino si faceva sempre più acuta mentre le sei auree dei bambini si materializzavano alle loro spalle.

All’improvviso, si udì il grido di Valk.

Un alieno aveva raggiunto il guardiano di Tanar al petto con un colpo di pistola.

L’uomo si portò una mano al petto, dove il sangue sgorgava libero e avvertì il fiato venirgli meno.

Greyson lanciò il suo scudo, in modo da creare uno spazio intorno a sé per concedere a Valk un po’ di respiro.

«Valk, calmati», tentò di rassicurarlo, dopo averlo raggiunto. «Respira lentamente, altrimenti peggiorerai la situazione.»

Lo scudo di vibranio tornò da lui dopo aver seguito un’orbita ellittica, tramortendo altri due alieni.

All’interno della camera, Tanar aveva strabuzzato gli occhi e si accingeva a interrompere la litania.

D’istinto, Storm lo raggiunse e gli appoggiò una mano sulla clavicola.

«Non fermarti, Tanar», lo spronò. «Non abbiamo abbastanza tempo per replicare il tuo rito. Valk si è gettato nella mischia per permettervi di unirvi nel Figlio dell’Infinito.»

Il ragazzino assentì e riprese a salmodiare, gli occhi velati di lacrime.

Nel corridoio, la situazione era al collasso: Valk si era accasciato sul pavimento, la schiena premuta contro la parete di pietra e la mano stretta sul petto nel tentativo di fermare l’emorragia, costringendo Greyson a battersi per entrambi.

L’uomo, malgrado il suo impegno, cominciava a perdere colpi.

Posizionato fra Valk e la porta, Greyson lottava sia per proteggere il corpo dell’amico, sia per impedire che i sei alieni rimasti potessero penetrare nella camera dei bambini e disturbare l’evocazione del Figlio dell’Infinito.

“Spero che il rituale di Tanar non duri ancora molto” pensò l’uomo spaventato, assestando l’ennesimo colpo di scudo a uno degli sgherri di Vither. “Non credo resisterò ancora a lungo.”



* * *

10 dicembre 2045, 10:00 A.M.,
177A Bleecker Street,
New York City.


L’ennesimo scudo d’energia evocato da Maya s’infranse e la giovane venne sbalzata al suolo.

La Cappa della Levitazione riuscì ad attutire la caduta, impedendole di sbattere contro uno dei pochi vasi rimasti in piedi.

La giovane la ringraziò con una rapida carezza all’altezza del colletto e le ordinò, tramite controllo mentale, di raggiungere di nuovo Vither.

La Cappa levitò di nuovo in direzione dell’avversaria e le due ripresero le posizioni di combattimento, pronte a riprendere.

Il loro scontro sembrava procedere in parità: Vither, malgrado presentasse molte meno ferite di Maya, aveva un respiro molto più affaticato.

Nonostante numerose parti del corpo le dolessero, Maya era fiera di se stessa: era stata in grado di tenere testa a Vither, la donna che aveva spazzato via l’intera squadra degli Avengers con la sua follia.

Nel cortile, Minus era rimasto solo alle prese con Raptor: Harley era stata costretta ad allontanarsi nell’istante in cui aveva percepito tre auree sconosciute dirigersi verso la biblioteca, dove Momoko giaceva senza sensi, promettendogli di tornare appena possibile.

L’alter ego di Deborah, fuori controllo, si era avventato contro il primo bersaglio mobile che si era trovato dinnanzi.

È questo bersaglio si era rivelato proprio Minus.

Per fortuna, il ragazzo si era rivelato dotato di grande agilità e prontezza di riflessi e ora Minus si stava adoperando per sfiancare la creatura con i suoi poteri psichici, scagliandogli contro qualsiasi oggetto gli capitasse a tiro, nella speranza che la stanchezza potesse, in qualche modo, placarlo.

«Non sembra che il ragazzino laggiù se la stia cavando bene», pronunciò Vither, attirando su di sé l’attenzione di Maya. «Forse dovresti aiutarlo e lasciarmi andare.»

La giovane le regalò un sorriso sghembo ed evocò un nuovo scudo protettivo.

«Aiutare Minus e lasciarti andare?», ripeté, retorica. «Sono anni che non mi diverto tanto in una lotta. Riprendiamo?»

Vither ringhiò e le scagliò addosso un nuovo attacco energetico.

Maya evocò a sua volta uno scudo che eluse il raggio d’energia di Vither.

Poi, unì i palmi delle mani in avanti e scagliò contro avversaria una lingua di fuoco arancione.

Vither non si scompose, evocando l’ennesima barriera.

La vampata energetica generata da Maya si infranse sul suo scudo, dissolvendosi nel giro di pochi istanti.

Maya approfittò di quell’attimo di distrazione per richiamare una fiammeggiante spada d’energia e uno scudo dal complicato mandala a proteggere il suo braccio destro.

Menò il primo fendente, pronta a mettere fine a quel combattimento.

“A furia di colpi energetici il nostro incontro non sta andando da nessuna parte” rifletté. “È giunto il momento di utilizzare le maniere forti”.

Vither non si fece cogliere impreparata: invocò a sua volta uno spadone a due mani dall’elsa finemente intarsiata con foglie e fiori di pesco con il quale parò il suo attacco.

«Non sapevo fossi anche tu in grado di evocare un’arma spirituale. Sul mio pianeta, solo i guerrieri più abili ne erano in grado», ammise l’albina. «Ti stai rivelando un’avversaria decisamente più temibile di quel che prospettavo. Quando ti avrò sconfitto, sarò più che felice di salvare le tue spoglie prima di eliminare questo miserabile pianeta.»

Maya avvertì una scossa di paura attraversarle la spina dorsale.

Se avesse perso quella battaglia, avrebbe finito con il divenire un soprammobile nella camera di Vither.

Assestò un nuovo fendente, diretto al fianco destro dell’avversaria.

L’albina schivò con un movimento fluido e si scagliò su Maya, tentando un affondo.

Lei parò con il suo scudo e quest’ultimo andò in frantumi.

La giovane non si fece intimidire.

Generò un nuovo scudo e si gettò nella mischia, dando vita a uno scontro senza esclusioni di colpi.

Para, affonda, attacca, schiva…

Un combattimento che sarebbe terminato soltanto quando una delle due contendenti fosse stata ferita a morte.

Quando, dopo un tempo immemore, le due si separarono per riprendere fiato, Maya realizzò con orgoglio di aver ferito Vither a un braccio, lacerando una manica dell’ampia casacca bianca.

L’avversaria, invece, era riuscita a colpirla a una gamba, disegnando una leggera lacerazione sul suo polpaccio.

Sollevò la spada e si preparò a un nuovo attacco, quando una creatura aliena entrò nel cortile di corsa.

Vither si esibì in un sorriso trionfale.

«Mia Signora!», gridò la creatura, tenendosi a debita distanza da Raptor e Minus, ancora impegnato nel tentativo di calmare l’alter ego di Deborah. «La Gemma della Mente si è riunito agli altri bambini e si stanno preparando per unirsi in quella che il protettore della Gemma ha definito “Figlio dell’Infinito”. Gli altri stanno tentando di fermarli, ma la porta della loro camera è sorvegliata dal protettore e da un giovane armato di uno scudo indistruttibile.»

Il sorriso di Vither si spense mentre le sue iridi si coloravano di rosso e, in un istante, si teletrasportò nella camera dei bambini.

Maya non perse tempo.

«Minus, cerca in ogni modo di calmare Raptor», gridò, rivolgendosi al giovane.

«Conta su di me!», rispose il ragazzo, mentre la giovane localizzava le auree di Valk e Greyson.

Maya scomparve a sua volta.

Rimasto solo in compagnia di Raptor, Minus si decise a ricorrere alla sua ultima risorsa.

“É evidente che io non sarò mai in grado di riportare questo bestione alla ragione da solo”, realizzò, scagliando l’ennesimo vaso contro l’enorme rettile.

Quest’ultimo si protesse il muso con le braccia e continuò a caricarlo.

Minus soffocò un’imprecazione e si ritrovò a pregare affinché la sua ultima carta lo portasse alla vittoria.

Materializzò nella sua mente la figura di Athena, con l’intenzione di chiederle aiuto.

In quel momento, la figlia di Thor era l’unica persona in grado di calmare Raptor.

“Athena!”, chiamò, quando si fu accertato di aver instaurato un contatto mentale con lei.

Attese con il fiato sospeso che la donna rispondesse, il cuore che gli palpitava furioso nel petto.

Istante dopo istante, la speranza cominciò ad affievolirsi.

Nel frattempo, Raptor, ormai senza più freni, continuava a farsi sempre più vicino.

“Eppure il contatto mentale ha sempre funzionato” pensò, ormai in preda al panico. “Non riesco a capire...”

“Minus?” rispose la familiare voce di Athena, colma di urgenza. “Cosa succede? Perché hai aperto un contatto mentale con me?”

“Athena, grazie al cielo hai risposto! Ho urgente bisogno del tuo aiuto. Vither ci ha raggiunto al Santuario di New York e, per fartela breve, Raptor è fuori controllo. Ti scongiuro, chiedi a Joy o a uno dei Maestri di teletrasportarti qui.”

L’agente della S.H.I.E.L.D. tacque.

Minus avvertì il cuore sprofondargli nel petto.

“Ti prego, Athena! Raptor ha davvero dato fuori di matto e sono certo che, se non verrai subito qui, Raptor non esiterà a farmi la pelle.”

“Ho capito, Minus. Arriverò a breve. Nel frattempo, cerca di tenerlo impegnato.”

“Grazie, Athena, grazie!”

Un sorriso nacque spontaneo sulle labbra di Minus.

Ora, non gli restava che resistere il tempo necessario all’arrivo di Athena.



* * *



10 dicembre 2045, 10:30 A.M.,
???


Joy schivò l’ennesimo pugno di Gadha, sollevando gli occhi al soffitto della Eagle, seccato.

Gadha ringhiò, sempre più furiosa.

«Come ti ho ripetuto più volte, attaccarmi non ti porterà a nulla. Senza di me, non potrai tornare dalla tua padrona. Se mi eliminerai, resterai sola in questa dimensione a morire di fame.»

«Riportami sul campo di battaglia, subito!», urlò lei, sull’orlo delle lacrime. «La mia Signora ha bisogno di me. Io sono il suo braccio destro.»

«Lo so bene», rispose Joy, pacato. «È proprio questo il motivo per il quale ti ho condotto in questa dimensione. Tu sei una delle persone più capaci che militano nelle file dell’esercito di Vither.»

Malgrado la donna che aveva di fronte fosse da considerare una nemica, Joy non la reputava pericolosa, soltanto una povera giovane che Vither aveva plasmato e corrotto con la sua malata ideologia.

Lo Stregone Supremo non aveva alcuna intenzione di farle del male: quando Wong gli avrebbe comunicato la vittoria della Terra, avrebbe riportato indietro la Eagle e la sua pilota sani e salvi.

In caso di sconfitta, invece...

Scacciò quel pensiero dalla testa, sforzandosi di essere ottimista.

Gadha si accasciò lungo la parete del jet, piangendo penosamente.

Tutto era perduto…

La sua missione, la promessa fatta a Vither…

Tutto irrimediabilmente sfuggito dalle sue dita come cenere nel vento.

La sua Signora l’aveva salvata da una morta certa, l’aveva cresciuta come una figlia e, quand’era stata abbastanza adulta, le aveva affidato missioni di vitale importanza che aveva sempre portato a termine.

Almeno fino ad allora…

Ora, tutto era sfumato a causa di quel dannato umano!

Per la seconda volta dal loro incontro, quell’uomo era riuscito a sconfiggerla senza alcuna difficoltà.

Prese a singhiozzare con più forza, furiosa con sé stessa per aver sottovaluto i poteri dei Maestri delle Arti Mistiche.

Se solo avesse elevato uno scudo di protezione che ancorasse la Eagle alla dimensione corrente…

In fondo, non le sarebbe costato che qualche ricerca in più…

E ora si ritrovava bloccata nella sua navicella con il suo peggior nemico.

Si coprì gli occhi gonfi con le mani, cercando almeno di nascondere il suo volto dallo sguardo compiaciuto del suo nemico.

Aveva perso, ma non gli avrebbe dato la soddisfazione di vederla così umiliata.

Tuttavia, Joy non scoppiò a ridere, né le rinfacciò la sua vittoria, come si era immaginata.

Invece, lo Stregone Supremo la raggiunse.

Gadha si ritrasse, cercando febbrile la pistola che teneva agganciata alla cintura, ma invano.

Joy si piegò alla sua altezza e Gadha trasalì, atterrita.

“E così che termina la mia vita?” rifletté con un groppo in gola. “Lontano dalla mia Signora e in una dimensione alternativa completamente oscura.”

Lottò per non farsi prendere dal panico e tenere gli occhi aperti, ma la paura ebbe la meglio: chiuse le palpebre in attesa della morte, tremando.

Lo Stregone Supremo sollevò una mano e le accarezzò il capo con delicatezza, sorridendole dolcemente.

«Non temere, Gadha, non ti farò alcun male», tentò di placarla. «Non ho nulla contro di te. Sei solo una vittima inconsapevole di tutta questa faccenda, esattamente come le reincarnazioni delle Gemme dell’Infinito. Come ti ho promesso, ti riporterò nella nostra dimensione quando gli esiti della battaglia saranno decisi.»

La donna percepì le dita affusolate di lui sfiorare i suoi capelli, sconvolta dalla sua reazione.

Non l’aveva uccisa, non l’aveva neppure colpita…

La stava consolando!

Fece per parlare, ma non riuscì ad articolare una sola parola.

Joy l’udì biascicare qualcosa d’incomprensibile e scoppiare di nuovo in lacrime.

Mosso a compassione, si sedette accanto a lei e le cinse le spalle con un braccio, nel tentativo di confortarla.

Gadha si lasciò andare totalmente, tuffando il volto nel petto di Joy.

Strinse le dita intorno alla tunica nera dell’uomo e diede sfogo al suo dolore, soffocando i suoi singhiozzi nel tessuto morbido.

D’istinto, Joy riprese ad accarezzarle i capelli, sussurrandole parole rassicuranti all’orecchio.

Malgrado Gadha fosse da considerare una delle nemiche più pericolose della Terra, lo Stregone Supremo non riusciva a considerarla una minaccia.

Se Maya e gli altri fossero riusciti a sconfiggere Vither, non avrebbe esitato a ospitare Gadha al Santuario tutto il tempo che le occorreva per riprendersi e organizzare una nuova vita.

«Sei una povera ragazza che non merita di andare a fondo con quella matta di Vither», sussurrò, tenendo Gadha contro il suo petto.

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Capitolo 38
*** Lo Schiocco ***


10 dicembre 2045, 10:30 A.M.,
Deserto di Tule,
Arizona.


Athena sollevò la daga al cielo, gridando con tutto il fiato che aveva in gola.

Il terreno tremò mentre un fulmine si abbatteva sulla lama della spada.

Mulinando la daga crepitante d’elettricità, la figlia di Thor colpiva ovunque riuscisse ad arrivare, dirigendosi di corsa verso la zona dove i Maestri delle Arti Mistiche tenevano alta la barriera.

Le parole di Minus continuavano a echeggiarle nella mente.

Le sue peggiori paure si erano realizzate: Raptor aveva perso il controllo e si era gettato sul giovane, cercando di scaricare su di lui tutti i suoi istinti.

Se non fosse subito intervenuta, Raptor sarebbe riuscito a sopraffare le difese di Minus e attaccarlo, mandando in fumo la loro unica speranza di salvezza.

Colpì una donna dalla pelle pallida alla gola e raggiunse infine Wong e il suo plotone di Maestri.

Athena strinse i denti, arrabbiata e preoccupata nel contempo.

I Maestri delle Arti Mistiche erano cerei e ormai a corto di fiato, ma tutti tendevano ancora le mani al cielo.

Alcuni erano persino in ginocchio, attingendo alle loro ultime tracce d’energia per tenere alta la barriera.

«Wong!», chiamò, allarmata. «Ho bisogno del tuo aiuto, adesso!»

L’anziano Maestro la raggiunse in tutta fretta, le mani ancora tese verso l’alto.

«Che succede, ragazza?», domandò, esausto.

«Minus mi ha parlato tramite contatto mentale e mi ha riferito che Raptor ha perso il controllo. La situazione è grave e l’unica in grado di riportare Raptor alla ragione sono io. Ho bisogno che uno dei tuoi mi conduca al Santuario. Ti scongiuro», lo implorò con voce spezzata.

Se Wong non avesse acconsentito ad aiutarla, Raptor avrebbe finito con il distruggere il Santuario e svenire in una delle camere, risvegliandosi ore dopo nel corpo di Deborah.

A quel punto, Vither avrebbe già assimilato le reincarnazioni delle Gemme dell’Infinito e tutto sarebbe stato perduto.

Avvertì una stilettata al cuore all’idea della piccola Astrid nelle mani di quella pazza.

Wong non esitò ad annuire.

«Smith!», esclamò.

Un uomo di colore sulla quarantina lo raggiunse di buon passo.

«Ti affido il comando dei Maestri fino al mio ritorno. Devo accompagnare Athena al Santuario. Tornerò al più presto.»

Michael annuì e una scintilla di orgoglio si accese nei suoi profondi occhi scuri.

«Conta pure su di me, maestro Wong», gli promise, battendosi una mano all’altezza del cuore.

Wong lo ringraziò con un cenno del capo e afferrò il braccio della donna, materializzando l’immagine della biblioteca nella mente.

Poco dopo, i due erano già scomparsi alla volta del Santuario.

Quando la biblioteca comparve alla loro vista, Athena si accorse che non erano soli: Momoko giaceva svenuta sul lungo tavolo, protetta dalla barriera energetica di Harley.

Tre creature dalla figura sinuosa e la pelle grigiastra stavano attaccando le due con le loro pistole energetiche.

Athena si gettò nella mischia, la daga stretta in pugno.

Colpì il primo avversario alle spalle, conficcando la lama tra le sue scapole.

La creatura gettò un grido lancinante mentre la daga penetrava nel suo corpo per poi fuoriuscire dal petto.

Athena liberò la spada dal cadavere con uno strattone e si scagliò sul secondo, mentre Wong si occupava del terzo.

L’avversario di Athena tentò di spararle, ma fu troppo lento: la figlia di Thor gli tagliò la mano di netto prima che quest’ultimo potesse premere il grilletto.

La creatura gridò in preda al dolore, pregando il proprio compagno di aiutarlo, ma quest’ultimo non rispose.

Wong l’aveva raggiunto al petto con un globo d’energia che, a contatto con la sua pelle, era esploso in una pioggia di scintille incandescenti.

Le scintille avevano raggiunto persino i suoi occhi e ora egli gridava penosamente, le dita premute sulle palpebre.

Athena strinse le dita sudate intorno all’elsa e, con un movimento fluido, conficcò la spada nel petto della creatura che aveva mutilato.

Il suo avversario cadde in ginocchio, portandosi le mani al petto squarciato, da cui fuoriusciva copioso il sangue.

Boccheggiò, un rivolo di sangue gli colò dalle labbra e gli occhi si rovesciarono, mostrando la sclera.

La donna estrasse la daga mentre Harley atterrava l’ultimo avversario con un colpo alla nuca.

«Harley», chiamò l’agente della S.H.I.E.L.D., raggiungendo a grandi passi la porta. «Dove sono Raptor e Minus?»

«Al cortile. Dovresti già conoscere la strada.»

Athena la ringraziò con un veloce cenno del capo e si avviò correndo verso il cortile, la testa colma di pensieri.

La daga, grondante di sangue, era ancora stretta nella sua mano.

Le sue gambe la condussero verso il cortile, mentre la sua mente vagava.

Sarebbe riuscita ad arrivare in tempo?

Sarebbe riuscita a riportare Raptor alla ragione?

E, sopratutto, Minus era ancora vivo?

Soltanto quando fu giunta nel cortile Athena si riscosse.

La scena che le si palesò dinnanzi le fece balzare il cuore in gola: Minus, ormai allo stremo delle forze, si stava proteggendo il volto con i gomiti, in attesa che Raptor lo caricasse per l’ennesima volta.

Athena considerò rapida la situazione.

Realizzò che non avrebbe avuto il tempo di correre in aiuto del ragazzo: Raptor era troppo vicino.

Tuttavia, se non fosse intervenuta, Minus sarebbe stato certamente ferito gravemente, se non peggio…

Tutto ciò che riuscì a fare fu gridare il nome della creatura, sperando che questo potesse risvegliare la ragione dell’alter ego di Deborah.

Minus l’udì e un moto di speranza si fece largo nel suo petto.

Athena, la persona più vicina a Deborah e Raptor, era finalmente accorsa in suo aiuto.

Raptor s’immobilizzò e ricercò con lo sguardo la fonte di quella voce, muovendo lentamente la coda.

Athena lo raggiunse di corsa, nascondendo il tremante corpo di Minus dietro di sé.

«Mi riconosci, Raptor?», domandò, scandendo bene le parole.

La creatura la scrutò irrequieto, lo sguardo fermo sulla sua daga insanguinata.

Compresa la situazione, Athena si piegò lentamente e depositò la spada al suolo, rialzandosi con le mani bene in vista.

«E ora, mi riconosci?»

Raptor e Athena si studiarono per interminabili istanti.

Infine, l’enorme rettile si piegò su di lei e le leccò il volto con la sottile lingua biforcuta.

Tutta la tensione di Athena si sciolse e la donna si concesse un sorriso mentre avvicinava la mano al muso affusolato di Raptor per accarezzarlo.

«Bravissima, Athena!», gridò Minus, attirando su di sé l’attenzione dei due. «Svelta, fagli schioccare le dita.»

L’agente della S.H.I.E.L.D. assentì e si voltò verso Raptor, che l’osservava attento, rapito dai suoi movimenti.

«Raptor», esordì, pacata. «Ricordi quel che ti ho insegnato la scorsa settimana?»

L’enorme rettile rimase immobile, riflettendo sulle parole pronunciate da Athena.

Poi, annuì lentamente, ondeggiando la lunga coda affusolata.

«Perfetto», sorrise la donna, sollevando la mano destra dinnanzi agli occhi della creatura.

Schioccò quindi il medio e il pollice fra loro, nella speranza che quest’ultimo la imitasse.

Rapido, Raptor sollevò la zampa intrappolata nel Guanto dell’Infinito.

Schioccò le dita.

Subito, le sei Gemme s’illuminarono e il materiale argentato di cui era costruito il Guanto prese rapidamente a scaldarsi.

Allarmato, Raptor tentò di sfilarsi il Guanto, ma quest’ultimo sembrava ancorato al suo braccio.

Ringhiò e prese a picchiare il braccio sul pavimento del cortile, ma invano.

La temperatura prese a salire sempre più, finché il calore non divenne insopportabile.

Raptor avvertì le squame del braccio friggere al di sotto del metallo e gettò un grido lancinante, cercando di sfilarsi il Guanto ormai incandescente.

Minus e Athena assistettero alla scena, sconcertati.

Cosa diamine stava accadendo al Guanto dell’Infinito?

Eitri non aveva mai accennato a una possibile reazione dell’arma dopo lo Schiocco.

Un terribile dubbio s’insinuò nella mente di Athena: che il Guanto si stesse in qualche maniera distruggendo, portando con sé anche Raptor?

A quel punto, la temperatura era così elevata che il metallo aveva preso a sciogliersi, gocciolando sul pavimento.

In preda alla sofferenza, Raptor aveva stretto l’arto superiore tra i denti, nel tentativo di strapparlo per eliminare quel dolore lancinante.

In una frazione di secondo, Athena realizzò con orrore che quello era il metodo più indolore per liberarsi della poltiglia incandescente che era stato pochi istanti prima il Guanto dell’Infinito.

Recuperò la daga insanguinata e raggiunse Raptor a passo di corsa.

«Adesso ti libero, Raptor, sta fermo.»

La creatura gridò più forte, ma si sforzò di restare immobile.

Sollevò in alto la daga e troncò di netto l’avambraccio della creatura, salvando per pura fortuna il gomito.

L’avambraccio amputato rotolò lontano, sporcando la pietra di sangue e metallo sciolto.

Raptor gettò un ultimo grido lancinante e si accasciò al suolo, battendo il muso sul pavimento.

Il suo corpo prese a mutare: le sue dimensioni si dimezzarono, i muscoli si ritirarono e riacquistò le tue fattezze umane.

Quando la metamorfosi si fu conclusa, Deborah era riversa sul pavimento, nuda, il sangue che zampillava copioso dal moncherino.

Minus si privò della maglia mimetica e della t-shirt e li gettò ad Athena, che subito vi avvolse all’interno il corpo stremato dell’erpetologa.

«Minus, chiama Harley e Wong!», ordinò, comprimendo la zona dell’arto ferito con la t-shirt del ragazzo.

Minus assentì e si concentrò sulle menti dei due Maestri.

I due accorsero al suo richiamo, materializzandosi nel cortile nel giro di qualche istante.

«Sappiamo già tutto», tagliò corto Wong, quando Minus tentò di spiegargli la situazione.

Raggiunse il corpo di Deborah e si piegò sul moncherino.

Osservò l’amputazione per qualche istante, poi annuì tra sé e sé e allungò una mano verso la ferita, mormorando parole che suonarono incomprensibili alle orecchie di Minus e Athena.

Le dita di Wong e la ferita si colorarono di una calda luce arancione e, lentamente, la lacerazione prese pian piano a rimarginarsi.

Qualche minuto più tardi, la ferita era chiusa.

«Siamo riusciti a prendere la ferita in tempo», sancì infine con sollievo. «Tuttavia, ci vorrà un po’ affinché si riprenda.»

Athena tirò un istintivo sospiro di sollievo, lo sguardo fisso sul corpo privo di sensi di Deborah, avvolta nella maglia mimetica di Minus.

«Il sacrificio del suo avambraccio è almeno servito a fermare Vither?», domandò, rivolgendosi all’anziano Maestro.

«Sì», assentì quest’ultimo. «Abbiamo visto i nostri nemici sparire nel nulla in un’esplosione di polvere. Il Guanto dell’Infinito costruito da Eitri ha sortito l’effetto sperato.»

Harley raggiunse il corpo di Deborah e le appoggiò l’indice della mano destra sulla fronte.

«Sei certa di quel che stai per fare?», domandò Wong alla sua giovane allieva, un cipiglio preoccupato dipinto sul volto. «Hai già utilizzato questo genere d’incantesimo su qualcuno?»

«Sì, maestro Wong», rispose Harley. «Io e Momoko ci siamo allenate molto su questo genere di incantesimi, ma devo ammettere, peccando di superbia, di essere un po’ più abile di lei per quanto riguarda il passaggio d’energia. Sarà questione di un attimo.»

Wong tacque, poi si allontanò lentamente, facendo cenno a Minus e Athena di seguirlo.

Il ragazzo lo seguì senza remore, mentre Athena rimase inginocchiata accanto a Deborah.

«Non temere, Athena», la rassicurò Harley con un tenue sorriso. «Solo per qualche istante, allontanati da Deborah. Non vorrei mai che fossi investita dalla mia energia. Ciò che farò è semplicemente trasmettere un po’ della mia energia a Deborah, in modo che possa riprendersi un po’ più velocemente.»

La figlia di Thor si sollevò e, dopo aver riservato alla Maestra un’ultima occhiata d’avvertimento, raggiunse ad ampie falcate Wong e Minus.

Harley intonò lentamente l’incantesimo di trasferimento d’energia e un’accecante luce smeraldina si sprigionò dalla punta del dito appoggiato alla fronte di Deborah.

Athena, Minus e Wong chiusero le palpebre, in attesa che il bagliore sprigionato da Harley si dissolvesse un po’.

Harley avvertì la sua energia fluire al di fuori del suo corpo, concentrandosi in quello di Deborah.

Qualche minuto più tardi, la giovane interruppe il flusso, ormai prossima allo svenimento.

Infine, la luce scomparve e i tre furono liberi di aprire le palpebre.

Athena emise un sospiro di sollievo e raggiunse di nuovo Deborah, raccogliendola fra le braccia.

La donna non si era risvegliata, ma sul suo volto era presente un’espressione rilassata.

Strinse l’amata al petto e le baciò con dolcezza la fronte.

Nel frattempo, Wong aveva aiutato Harley a rialzarsi, sostenendola per impedire che ricadesse sulle ginocchia.

«Grazie, Harley», la gratificò l’agente della S.H.I.E.L.D. e la Maestra le riservò il suo miglior sorriso.

Wong recuperò il suo Sling Ring e disegnò un portale d’energia arancione.

«Entrate, forza», esortò i presenti. «Questo portale è collegato direttamente al Santuario di Kamar-taj. Lì saremo al sicuro e Harley e Deborah potranno riprendersi in tranquillità. Non temete per Momoko e quelli rimasti al Santuario, ci penserò io.»

Athena avrebbe voluto rifiutare, rispondere che sarebbe dovuta tornare sul campo di battaglia per contare le vittime, ma non ne possedeva le energie.

Inoltre, la persona che più necessitava di lei era ora fra le sue braccia, svenuta e provata dalla lunga lotta.

Raggiunse il portale e scomparve al suo interno, diretta verso il Santuario di Kamar-taj.



* * *



10 dicembre 2045, 11:00 A.M.,
Deserto di Tule,
Arizona.


Cooper inspirò a grandi boccate, sperando di recuperare un po’ di fiato.

Attorno a lui, erano presenti una dozzina di cadaveri, vittime delle sue katane.

Gocce di sudore colavano lungo il suo volto e la sua schiena, miscelandosi al sangue delle lacerazioni che la battaglia aveva lasciato sul suo corpo.

Una in particolare, presente sul braccio destro, era terribilmente dolorosa.

Tuttavia, finché avrebbe avuto forza, avrebbe continuato a combattere.

Strinse le dita della mano sinistra intorno all’elsa della katana lordata di sangue, e si preparò per l’ennesimo scontro.

La lotta tra l’esercito di Vither e quello terrestre procedeva senza che nessuna delle due fazioni riuscisse a prevalere sull’altra.

Malgrado i terrestri rimasti fossero in numero inferiore, gli Asgardiani, gli agenti della S.H.I.E.L.D. e i Maestri delle Arti Mistiche, ora guidati da Michael Smith, continuavano a lottare al massimo delle loro possibilità.

I Maestri addetti alla barriera erano ridotti in ginocchio, ma le loro mani erano ancora tese verso il cielo, tenendo ben alto lo scudo protettivo.

Cooper dovette ammettere che quella barriera si era rivelata estremamente utile, salvando gran parte dei jet appartenenti alla S.H.I.E.L.D. dai proiettili energetici delle navicelle provenienti dalla New Sactuary.

L’ennesimo sgherro di Vither raggiunse Cooper, brandendo una spada molto simile alla sua.

L’agente della S.H.I.E.L.D. divaricò leggermente le gambe per assumere una posizione di maggiore stabilità e sollevò la spada, pronto ad affrontare il suo nuovo avversario.

L’avversario, un alto e sottile alieno dalla carnagione scura e occhi totalmente privi d’iride, ringhiò e abbatté la sua spada su quella dell’uomo.

Per un attimo, le lame indugiarono, dando luogo a una prova di forza.

Cooper avvertì i muscoli dolere per la fatica e lo sforzo.

L’altro sorrise, pensando di aver avuto facile vittoria, quand’ecco che un grido lancinante si sollevò alle loro spalle.

Sorpreso, il rivale di Cooper si voltò e il sangue gli gelò nelle vene: i suoi alleati, uno dopo l’altra, stavano rapidamente svanendo in cumuli di cenere.

L’agente della S.H.I.E.L.D. avvertì una bolla di gioia espandersi nel suo petto.

«Ce l’hanno fatta!», gridò con tutto il fiato che aveva in gola, al culmine della gioia. «Ce l’hanno fatta!»

Tutti i guerrieri terrestri si fermarono, udendo la tonante voce di Cooper.

Nel giro di pochi istanti, tutti gli sgherri di Vither presenti sul campo si tramutarono in polvere, svanendo nell’aria.

Poi, sotto gli occhi attoniti dei presenti, venne il turno delle navicelle e della New Sanctuary.

L’enorme nave madre emise un cupo gorgoglio di sofferenza prima che anche essa si smaterializzasse in una nube di cenere, accompagnato a breve dalle navicelle.

Un silenzio carico di tensione calò nel deserto dell’Arizona.

Che fosse davvero finita?

Che il gruppo guidato da Maya fosse davvero riuscito a recuperare Tanar?

Che Raptor avesse davvero eseguito lo Schiocco?

Tutti i presenti restarono immobili, restii ad abbassare la guardia.

Persino Captain America teneva lo scudo ben sollevato, i sensi all’erta.

E se quella si fosse rivelata una trappola congegnata da Vither?

«Avengers!», chiamò allora Michael, la voce amplificata dall’incantesimo. «Abbassate pure la guardia. È davvero finita, le aure di tutti i seguaci di Vither sono scomparse nel nulla.»

I Maestri furono i primi a rilassarsi: la barriera s’infranse mentre coloro che erano stati impegnati nel combattimento si riunirono ai loro compagni, sorreggendo i più provati.

Vista la reazione dei Maestri, Valchiria ordinò al suo pegaso di librarsi nel cielo, in modo da poter vedere dall’alto la sua gente.

«Asgardiani!», gridò. «Ricomponete le linee!»

Connor e la sua gente si riunirono rapidi nei ranghi, conducendo i cavalli sopravvissuti per le briglie.

Poco dopo, anche Maria Hill comandò agli agenti che avevano combattuto a terra di riacquistare le loro posizioni iniziali, in modo da contare coloro che erano ancora in grado di reggersi in piedi.

Poco dopo, i tre eserciti di terra erano compatti e ordinati mentre i jet atterravano uno dopo l’altro.

L’elicottero di Maria fu l’ultimo a guadagnarsi il suolo.

La comandante smontò e raggiunse Cooper e gli altri agenti della S.H.I.E.L.D., il mento sollevato e la schiena erta, orgogliosa.

«Agenti! Sono fiera di voi. Avete lottato con forza e determinazione e, grazie al nostro coraggio, siamo riusciti a vincere!», pronunciò, emozionata.

Tuttavia, i suoi agenti non parteciparono alla sua felicità.

I loro occhi erano fermi sul campo di battaglia, dov’erano gettati i corpi dei caduti.

Cooper contò un centinaio di agenti della S.H.I.E.L.D., qualche asgardiano e un paio di Maestri delle Arti Mistiche.

Hawkeye si domandò quanti cuori avrebbero spezzato le morti di quelle persone.

Genitori, familiari, compagni, amici…

Come avrebbero reagito quando Maria, Valchiria e Smith avrebbero annunciato loro la morte dei loro cari?

Di certo ci sarebbero stati lacrime, grida, strepiti…

Come ben sapeva, ogni battaglia possedeva sì i suoi lati positivi, ma anche i suoi devastanti lati negativi.

E le vittime erano decisamente uno dei peggiori.

«Procederemo ora con il recupero e il riconoscimento delle vittime», annunciò Maria, riportando Cooper al presente. «Tutti gli agenti che sono in grado di reggersi in piedi diano una mano. Coloro che, invece, sono feriti, procederemo immediatamente con il trasporto dei casi più gravi in ospedale. Tutto chiaro?»

«Sissignora!», risposero gli agenti all’unisono, sull’attenti.

Cooper fu uno degli agenti che si incamminò verso i cadaveri, pronto a svolgere il suo dovere fino alla fine.

Doveva dare un nome a quei cadaveri, in modo che i familiari e gli amici avessero almeno una tomba su cui piangerli.

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Capitolo 39
*** Vittoria? ***


10 dicembre 2045, 11:00 A.M.,
177A Bleecker Street,
New York City.


Maya riaprì gli occhi, realizzando rapida la situazione: Valk era ferito al petto e Greyson era ormai al tracollo, circondato da sgherri di Vither.

Tuttavia, prima che potesse reagire, Vither raggiunse levitando la soglia della camera dei bambini.

D’istinto, Greyson scagliò il suo scudo di vibranio in direzione dell’albina, sperando che questo potesse fermarla.

Vither non si scompose, limitandosi a distendere una mano in direzione dell’arma.

Subito, una forte folata di vento si scatenò dalla sua mano, scompigliandole i lunghi capelli bianchi.

Lo scudo venne investito dal getto d’aria e cambiò la sua traiettoria.

L’arma finì contro uno degli scagnozzi di Vither rimasti in piedi, colpendolo all’addome.

La creatura gemette e si accasciò al suolo, tenendo una mano premuta sulla zona lesa.

«Dannazione», imprecò Greyson fra i denti, recuperando al volo lo scudo.

Maya ringraziò mentalmente il figlio di Captain America: Greyson aveva distratto abbastanza a lungo Vither per permetterle di anticiparla.

Distese entrambe le braccia in avanti e raccolse tutta la sua energia nei palmi delle mani, pronta a dare fondo alla sua potenza.

“Non sei l’unica a conoscere degli incantesimi di evocazione” rifletté, sperando che il suo attacco andasse a buon termine.

Salmodiò la breve formula di evocazione ed ecco che un falco d’energia aranciata fuoriuscì dalle sue mani.

Con le ali semitrasparenti spalancate e gli occhi luccicanti d’energia vermiglia, il falco stridette e si avventò su Vither con gli artigli sfoderati.

Maya attese con il fiato sospeso che il falco colpisse l’avversaria.

«Difesa!», gridò uno dei sottoposti dell’albina e i quattro sgherri di Shinan rimasti in piedi si disposero intorno alla propria padrona, nel tentativo di difenderla.

Fu tutto inutile: il falco acquistò maggiore quota evitandoli prima di gettarsi in picchiata verso il suo obiettivo.

Vither digrignò i denti e fece per sollevare una barriera d’energia per difendersi, ma fu troppo lenta.

Il falco si abbatté sulla figura della donna, colpendola al braccio.

Vither urlò in preda al dolore e Maya avvertì la speranza farsi largo nel suo petto.

Che il suo falco fosse davvero riuscito a ferire Vither?

Tuttavia, il suo trionfo resistette pochi istanti: l’albina gridò in preda alla rabbia e il suo corpo venne avvolto da un alone di luce rosata.

Le sue iridi, già rosse, si scurirono, assumendo la tinta del sangue.

Il falco d’energia tentò di avventarsi di nuovo su di lei, ma invano.

A Vither bastò uno schiocco di dita per liberarsi dall’attacco di Maya, facendolo esplodere in una pioggia di scintille arancioni.

Maya tremò, accorgendosi di come l’aura di Vither si fosse visibilmente incrementata.

«Sono stanca di tutti i vostri inutili tentativi di fermarmi. Fin ora ho portato pazienza, chiedendovi per ben due volte di arrendervi, ma siete stati così stupidi da rifiutare la mia offerta di pace. Ora, dovrete affrontarne le conseguenze.»

Il suo pugno destro si colorò di energia rosata e tre draghi ne fuoriuscirono, avventandosi sui guerrieri presenti.

Il corpo di Maya venne avvolto dal corpo sinuoso del drago orientale senza che lei potesse elevare uno scudo d’energia per difendersi.

La creatura evocata da Vither strinse le spire della coda intorno al suo collo, iniziando a stringere.

Maya boccheggiò e lottò per liberarsi, ma senza esito: il drago le aveva bloccato le braccia lungo il corpo, impedendole di evocare un incantesimo protettivo.

Ben presto, la giovane Maestra avvertì il fiato mancarle.

Il panico si fece largo nel suo petto mentre i restanti due draghi avvolgevano Valk e Greyson nelle loro spire.

Valk, già ferito al petto, emise un grido lancinante quando la creatura si strinse intorno al suo torso, sollevandolo a qualche metro dal suolo.

Greyson, invece, tentò di colpire la creatura con il suo scudo, ma quest’ultima sembrava composta di pura energia: l’arma semplicemente attraversò il corpo evanescente del drago, rimbombando penosamente sul pavimento.

Vither sorrise trionfante di fronte a quella vista.

I suoi nemici erano ormai prossimi al soffocamento e, a dividerla dalle Gemme dell’Infinito, vi era soltanto un debole umano tremante di paura.

Lentamente, levitò fino alla camera dei bambini sotto lo sguardo terrorizzato di Maya, Greyson e Valk.

All’interno, Tanar era ancora occupato con l’evocazione dell’incantesimo di unione, salmodiando ad alta voce parole che risultavano incomprensibili persino alle orecchie di Vither.

Mosse qualche passo verso le reincarnazioni delle Gemme dell’Infinito che, a discapito della situazione, continuavano a tenersi ostinatamente per mano.

«F-f-f-ferma d-d-dove s-s-se-sei!», farfugliò una voce maschile, attirando l’attenzione dell’albina.

Storm, tremante e pallido come un cencio, raggiunse Vither e i suoi sottoposti e si frappose fra loro e i bambini.

Vither sollevò un sopracciglio, infastidita da quel fragile umano.

«Togliti dai piedi», lo ammonì. «Sei troppo debole per costituire una minaccia e non meriti la morte. Allontanati e avrai salva la vita.»

«Mai!», gridò Storm, una nuova luce accesa nei sottili occhi scuri. «Finché sarò in piedi non ti permetterò di prendere i bambini. Troppi sforzi e sacrifici sono stati fatti per lasciarti passare senza lottare.»

«Storm, scappa!», urlò Maya dall’esterno con il suo ultimo soffio d’aria. «Non fare l’eroe. Scappa!»

Il drago d’energia strinse ulteriormente la presa intorno al suo collo.

Maya avvertì i sensi venirle meno.

La sua mente, un istante prima traboccante di possibili vie di fuga per liberarsi dall’attacco energetico di Vither, era ora vuota, vacua.

“Ed è così che termina la mia vita” si disse, le palpebre già chiuse per accogliere la morte. “Almeno potrò ricongiungermi a papà senza rimpianti. Ho fatto tutto quello che era in mio potere per combattere Vither, ma lei si è dimostrata molto più forte di me...”

«Maya, aiutami!»

Il grido di Storm ruppe il silenzio, seguito da un tonfo sordo.

La giovane strabuzzò gli occhi, allarmata.

Cos’era accaduto all’amico?

Che Vither avesse osato davvero colpire Storm, ben sapendo che quest’ultimo era pressoché impotente?

La rabbia invase l’intero essere di Maya.

Vither aveva osato colpire un innocente senza alcun rimorso.

Questa era l’ennesima nefandezza di cui l’albina si era macchiata per inseguire il suo pazzo ideale.

Ma non l’avrebbe passata liscia…

Non le avrebbe permesso di raggiungere i bambini…

Non ora che aveva osato colpire Storm, il ragazzino che prima era stato il suo migliore amico e successivamente uno dei suoi più stretti collaboratori.

“La pagherai cara” si ripeté, rabbiosa. “Dovrai passare sul mio cadavere prima di poter mettere le mani sui bambini. Te lo giuro!”

«Vither!», gridò con tutto il fiato che aveva in corpo, raccogliendo la sua energia al centro del petto.

Mormorò rapida l’incantesimo di evocazione e un falco d’energia arancione si sollevò al di sopra della sua testa.

Il falco stridette e si avventò sul muso del drago, ghermendo i suoi occhi con gli artigli.

La creatura evocata da Vither emise un basso e dolorante ringhio di gola mentre lottava contro il falco, nel tentativo di liberarsi dell’invadente rapace.

Subito, Maya avvertì la pressione sul suo collo allentarsi e l’aria le invase i polmoni.

Prese una profonda boccata d’aria nel momento in cui il suo falco accecò il drago rosato di Vither.

Quest’ultimo ruggì una seconda volta per poi sparire in una pioggia di scintille rosate.

Maya tirò un sospiro di sollievo mentre la Cappa della Levitazione la deponeva al suolo.

«Libera quei due!», ordinò al falco, accennando con un cenno del capo a Greyson e Valk: il primo, malgrado fosse ormai a corto d’ossigeno, tentava ancora di divincolarsi dalla presa ferrea del drago; il secondo, invece, aveva perso i sensi.

Il rapace d’energia si gettò sul drago che intrappolava Greyson.

Maya lo lasciò al suo compito e raggiunse di corsa la camera dei bambini.

La vista che si aprì ai suoi occhi le fece ribollire il sangue nelle vene.

Storm giaceva supino, immobile sul pavimento.

Al centro del suo petto, era presente un piccolo cratere da cui fuoriusciva una cascata di sangue e fluidi corporei.

Vither non l’aveva solo ferito, ma aveva colpito per uccidere, lanciando contro l’hacker una sfera d’energia.

Non le servì essere un dottore per comprendere che Storm sarebbe morto a breve.

Malgrado il suo volto fosse contratto in un’espressione tremendamente dolorosa, il ragazzo era ancora vigile e cosciente.

Storm incrociò il suo sguardo e le indicò le sei reincarnazioni delle Gemme dell’Infinito con un leggero cenno del capo.

Maya assentì e si concentrò sui bambini: i sei si tenevano ancora per mano, pallidi come cenci.

Tanar, con voce tremante, continuava imperterrito la sua evocazione.

Con orrore, realizzò che Vither era ormai a un palmo da Tanar.

Furiosa, Maya raggiunse l’albina e la colpì alla guancia con un gancio sinistro.

Presa alla sprovvista, Vither indietreggiò di diversi passi, permettendo a Maya di frapporsi fra lei e i bambini.

L’albina sputò a terra un grumo di sangue, la mano premuta sulla parte lesa.

«Come diamine hai fatto a liberarti dal mio drago?», ringhiò, furiosa.

Maya sorrise trionfante, sostenendo il suo sguardo.

«Come hai visto con i tuoi occhi, non sei l’unica in grado di evocare una creatura d’energia.»

Evocò quindi uno scudo d’energia, in attesa che Vither attaccasse.

D’improvviso, s’udì un doloroso grido ferino che penetrò i timpani dei presenti.

Maya riconobbe all’istante la fonte di quel verso e impallidì.

Quello era Raptor!

Cosa diamine era accaduto affinché la creatura gridasse in modo tanto lancinante?

Che Minus l’avesse colpito mortalmente?

Avrebbe tanto desiderato localizzare l’aura della creatura per assicurarsi che stesse bene, ma sapeva che utilizzare i suoi poteri in quel modo non le avrebbe permesso di proteggere i bambini.

La sua energia era ormai agli sgoccioli.

Fu allora che accadde: gli sgherri di Vither s’immobilizzarono e collassarono sul pavimento, privati della propria vita.

Poco dopo, i loro colpi si tramutarono in polvere.

La polvere grigia indugiò per qualche istante nell’aria per poi smaterializzarsi.

Maya avvertì un improvviso moto di gioia crescere nel suo petto mentre un ampio sorriso compariva sulle labbra esangui di Storm.

Vither, gli occhi strabuzzati e le labbra strette in una linea sottilissima, sembrava aver compreso cosa stava accadendo.

«Hai perso, Vither», annunciò Greyson, varcando la soglia della camera. «Raptor è riuscito a schioccare le dita e tutti i tuoi sottoposti sono scomparsi. Tu seguirai a breve il loro stesso destino.»

Il ragazzo era ferito e provato dal lungo combattimento, lo scudo sistemato sulla schiena e le braccia impegnate nel sostenere il corpo senza sensi di Valk.

Maya attese che Vither, ormai giunta al capolinea, gridasse, strepitasse, tentasse di attaccarli per sfogare la sua frustrazione, ma non fu così.

La donna scoppiò invece a ridere, una risata piena e colma di divertimento che fece rabbrividire Greyson e Maya.

«I miei sottoposti possono essere scomparsi, ma io non seguirò il loro destino. Il mio essere contiene l’energia di una delle Gemme dell’Infinito e, per questo motivo, sono immune da quel che definite “Schiocco”. In questo momento, io e Tanar possediamo la stessa energia», spiegò ai presenti. «E ora, credo sia giunto il mio turno di mettere davvero fine a questa storia.»

Vither si sollevò a diversi centimetro dal suolo e scattò verso le sei reincarnazioni delle Gemme dell’Infinito.

I corpi dei sei bambini si erano ora ricoperti delle rispettive auree, chiaro segno che il rituale intonato da Vither stava ormai per concludersi.

Maya realizzò che il Figlio dell’Infinito sarebbe nato a breve.

Tuttavia, se Vither si fosse avvicinata ai bambini, avrebbero perso la loro unica speranza di vincere.

“Pochi istanti, mancano solo pochi istanti”, rifletté, febbrile. “Come posso trattenerla? La mia energia è ormai agli sgoccioli.”

La situazione era tragica.

Se solo non fosse stata costretta a utilizzare tutta quell’energia…

A quel punto, Vither non distava che pochi metri dai sei bambini.

D’istinto, diede ordine alla Cappa di elevarsi fino al soffitto.

Chiuse gli occhi e ricorse al primo incantesimo che le venne in mente.

Il petto di Maya prese a scintillare, mentre le ultime scintille di energia si tramutavano in luce.

Nel giro di un istante, il suo intero corpo raggiunse la luminosità del sole.

Maya avvertì la pelle bruciarle, ma si costrinse a terminare la formula.

Era questione di vita o di morte.

Vither non ebbe il tempo di chiudere le palpebre: un raggio di luce colpì i suoi occhi, accecandola momentaneamente.

L’albina gridò e tentò di generare un incantesimo che avrebbe potuto spazzare via Maya e interrompere il rito delle Gemme dell’Infinito, ma invano.

Il raggio d’energia, privo di un bersaglio, finì con lo scontrarsi contro la parete opposta.

Persino Greyson fu costretto a portarsi la mano libera agli occhi per proteggersi.

Quando la luce scomparve, la Cappa riportò la giovane al suolo e lei cadde in ginocchio, ormai priva di qualsiasi energia.

Fu allora che la nenia di Tanar si concluse.

Ora, alle spalle della Maestra delle Arti Mistiche, si stagliava il Figlio dell’Infinito.

Maya studiò la creatura che la fusione delle Gemme aveva generato, notando con un sorriso esausto che il ragazzino presentava i tratti fisici appartenenti a tutte e sei le reincarnazioni.

I lunghi capelli rossi di Drasta, la pelle violacea di Tanar, l’unico occhio di Kimuak, ma di una tonalità cristallina che ricordava le iridi di Velia insieme alle orecchie affilate, il corpo filiforme e atletico di Esto e i tratti del volto fini e delicati di Astrid.

Indossava un’ampia casacca scura a maniche lunghe, pantaloni bianchi, stivali alla caviglia neri e una tunica azzurra senza maniche che Connor aveva donato a Esto qualche mese prima.

Vither gettò un grido furioso e allungò una mano verso il Figlio dell’Infinito, cercando di colpirlo con una sfera energetica dai toni rosati, ma quest’ultimo non fece una piega.

Il Figlio dell’Infinito si limitò a battere le mani e il globo d’energia scomparve in una pioggia di scintille.

Per la prima volta, dal loro incontro, Maya vide un’ombra di paura attraversare gli occhi di Vither.

Sorrise fra sé e sé e si rialzò, raggiungendo Storm con passo barcollante.

L’hacker aveva bisogno d’aiuto urgente, prima che fosse troppo tardi.

Se Storm fosse morto, non sarebbe mai riuscito a perdonarselo.

Perché, in fin dei conti, era stato lei a trascinarlo nella sua ricerca e, malgrado le preoccupazioni e i pericoli, non si era mai tirato indietro di fronte ai compiti che lei gli aveva affidato.

Il ragazzo aveva preso a rantolare, segno che la morte era ormai alle porte.

«Respira, Storm, respira», sussurrò, avvicinando una mano alla ferita della giovane. «So che è molto doloroso, ma devo almeno tentare di fermare l’emorragia. Io sono priva di potenza, ma devo almeno provare.»

Sapeva che, ricorrendo a un incantesimo di guarigione, avrebbe finito con lo svenire, ma avrebbe almeno salvato la vita di Storm.

«No, non mettere in pericolo la tua vita per me», ansimò Storm, ormai privo di forza. «Sono felice di esserti stato d’aiuto.»

«Taci!», lo rimproverò, preparandosi a ricorrere alla sua energia vitale.

Prese a sussurrare l’incantesimo, la bocca improvvisamente arida.

Lentamente, le sue dita presero a colorarsi di una calda luce arancione e lo stesso accadde con la ferita presente sul petto di Storm.

Tuttavia, la poca energia rimasta servì solo a fermare l’emorragia.

La ferita presente nel petto dell’hacker era profonda e, di certo, doveva aver toccato un organo o un’arteria vitale.

Maya avvertì la tristezza, lo sconforto e il dolore impadronirsi di lei quando realizzò che la sua energia vitale non avrebbe salvare l’amico.

«Mi dispiace, mi dispiace», mormorò, stringendogli forte la mano. «Se solo fossi un po’ più forte… Sono riuscita solo a fermare l’emorragia… Di questo passo, finirai di certo per morire.»

Un sorriso sofferente crepitò sulle labbra dell’hacker.

«Per favore, di’ a Vanessa che l’amo. Ti scongiuro», boccheggiò, la bocca ormai piena di sangue. «Dille che avrei desiderato sposarla.»

Maya assentì, mentre lacrime salate le solcavano il volto.

«È tutta colpa mia!», gridò, furente. «È tutta colpa mia!»

«Non è vero», esalò l’hacker, lo sguardo rivolto verso quello colmo di lacrime di lei. «Non è sempre possibile salvare tutti, lo sai.»

«Ma perché tu?», gridò. «Tu sei il più indifeso e innocente di noi…»

Le lacrime percorsero le sue guance, bagnando la mano del ragazzo che stringeva ancora fra le sue.

Storm boccheggiò ancora una volta, tossì e il capo ricadde sul lato destro, privo di vita.

«Storm!», chiamò con tutto il fiato che aveva in gola. «Storm!»

Il ragazzo non rispose, gli occhi ormai vitrei.

«No, no, no, no!», ripeté come un mantra, prendendo a scuoterlo con forza. «Non puoi morire, non puoi morire!»

Storm non accinse a muoversi e Maya avvertì l’energia vitale l’amico abbandonare il suo corpo fisico, diretta chissà dove.

«Farò del mio meglio per mantenere la mia promessa, te lo giuro», sussurrò, prima di poggiare un dolce bacio sulla sua fronte e chiudere le sue palpebre. «In qualsiasi posto andrai, sono certa che ti sei guadagnato il paradiso.»

Greyson le si avvicinò, sistemando con attenzione il corpo di Valk accanto alla parete, in modo che la sua schiena fosse ben dritta.

S’inginocchiò a sua volta accanto alla ragazza, battendole comprensivo una mano sulla spalla.

«So che è difficile, Maya», pronunciò, stringendola al petto con affetto fraterno, «ma non è colpa tua… Ogni guerra ha le proprie vittime e Storm è una di loro. Come hai detto anche tu, il suo sacrificio non è stato vano. Guarda là!»

Le sollevò il mento con un dito e le indicò Vither e il Figlio dell’Infinito, a cui, nella foga del momento, non aveva prestato alcuna attenzione.

Maya osservò con estremo piacere come l’albina stesse lottando per rompere la barriera che il bambino aveva innalzato intorno a sé.

Il ragazzino, contornato da un’aura di luce composta dai sei colori delle Gemme, non sembrava affatto faticare.

Anzi, sul suo volto era dipinta un’espressione infastidita, come se Vither non fosse altro che una zanzara.

Maya sorrise amaramente.

Greyson aveva ragione: il sacrificio di Storm non era stato vano.

Vither sarebbe perita per mano della creatura che Storm e decine di guerrieri, a prezzo della loro stessa vita, avevano aiutato a generare.

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Capitolo 40
*** La forza dell'Unione ***


10 dicembre 2045, 11:30 A.M.,
177A Bleecker Street,
New York City.


La barriera del Figlio dell’Infinito scomparve e il ragazzino s’incamminò lentamente verso Vither, contornato ancora dalla luce generata delle Gemme dell’Infinito.

L’albina approfittò del momento per raggiungere il ragazzino con un flebile colpo energetico, un tentativo di distrarlo per evocare l’incantesimo di assimilazione.

Al Figlio dell’Infinito bastò battere le palpebre per liberarsi dell’attacco di Vither, continuando a procedere nella sua direzione.

«Ti conviene arrenderti», le intimò, serio. «So che sei troppo orgogliosa per ammetterlo, ma la mia forza è nettamente superiore alla tua. Evita inutili sofferenze.»

Maya si accorse, con un brivido, che la voce del Figlio dell’Infinito era un’unione delle voci dei sei bambini, come se essi stessero parlassero insieme, nello stesso istante.

Vither scosse il capo e le sue iridi si tinsero di rosso.

«Arrendermi a un passo dalla vittoria?», domandò. «E perché mai?»

L’espressione infastidita del Figlio dell’Infinito si accentuò e Maya trattenne il respiro di fronte al vertiginoso aumento dell’energia magica del bambino.

«Che succede?», le domandò Greyson, accanto a lei.

«L’aura del Figlio dell’Infinito», rispose la giovane Maestra, «ha raggiunto un picco altissimo, molto simile a quello di Joy e del maestro Strange quando attingono a tutta la loro potenza.»

Greyson assentì, lo sguardo fisso sul ragazzino.

Non capiva esattamente come Maya riuscisse a misurare le “auree”, ma sapeva cos’erano in grado di fare Joy e Strange, entrambi grandi Stregoni Supremi.

E, se l’unione delle reincarnazioni delle Gemme dell’Infinito era riuscito a raggiungerli e, forse, anche a superarli, avevano ormai la vittoria in pugno.

Il ragazzino allungò una mano verso l’alto, le dita ben aperte.

Una gemma d’energia iridescente dalle dimensioni di un fagiolo comparve a qualche centimetro dalla sua mano.

Il ragazzino raccolse il piccolo globo energetico nel palmo e lo lanciò contro Vither.

Quest’ultima elevò uno scudo d’energia rosata intorno a sé per difendersi, ma fu tutto inutile.

La minuscola gemma scintillò alla luce proveniente dal lampadario a soffitto e si abbatté sullo scudo, disintegrandolo all’istante.

La gemma esplose in centinaia di schegge incandescenti che colpirono Vither.

La donna gridò, portandosi le braccia al volto nel tentativo di proteggere gli occhi.

Sotto lo sguardo di Maya e Greyson, i frammenti della minuscola sfera del Figlio dell’Infinito finirono con il colpire diversi punti del suo corpo, ustionandola.

Il Figlio dell’Infinito rimase impassibile di fronte alla sofferenza della sua avversaria, avvicinandosi ulteriormente a lei.

«Arrenditi», ripeté con lo stesso tono pacato, «altrimenti il dolore che stai provando in questo momento sarà solo un assaggio di ciò che proverai.»

«Mai!», gridò Vither, furente. «Non ora!»

L’unico occhio della fusione si offuscò, fermo su quelli vermigli di Vither.

«Addio, allora», si limitò a mormorare, prima di assumere una posizione di attacco, molto simile a quella di Maya: gambe leggermente divaricate e pugni sollevati.

Vither evocò un nuovo scudo, concentrando in esso gran parte della sua energia magica.

Si maledisse per aver permesso a quell’attacco energetico di penetrare nella sua difesa.

Evidentemente, la Gemma dell’Energia aveva potenziato l’attacco della fusione, permettendo a quella minuscola sfera iridescente di acquisire quel potere smisurato.

Tuttavia, la sua protezione non servì a nulla: il Figlio dell’Infinito schioccò le dita e la sua difesa si infranse di nuovo con un nonnulla.

Vither, per la prima volta dopo anni, provò paura.

Il ragazzino scomparve quindi alla vista, comparendo poi alle sue spalle.

L’albina strabuzzò gli occhi e fece per scansarsi, quando l’aura del ragazzino assunse una colorazione rosso fuoco.

Il suo corpo prese a brillare e tre copie del ragazzo comparvero alle sue spalle, sorridendo beffarde.

L’albina impallidì di fronte alle tre proiezioni del Figlio dell’Infinito.

Vither evocò tre sfere d’energia e le scagliò contro i cloni del ragazzino, ma i suoi attacchi energetici finirono con lo svanire nel nulla poco prima di colpire i corpi dei ragazzini.

Fu allora che accadde: due delle proiezioni si abbatterono su Vither e la tennero ferma, mentre le restanti sollevarono un braccio al cielo.

La giovane prese a lottare contro i due sosia per divincolarsi dalla loro presa, ma invano.

«Addio, Vither», ripeterono i quattro ragazzini in coro.

La donna tentò d’attingere alla propria energia per liberarsi dalla presa della creatura, ma fu tutto inutile.

Due sfere d’energia iridescenti dalle dimensioni di mele mature si materializzarono nelle mani delle proiezioni libere.

Vither gridò disperata e riprese a lottare con disperato vigore, quando i bambini che la tenevano stretta mutarono: il loro corpo sembrò sciogliersi e assunsero l’aspetto di due serpenti dalle scaglie iridescenti.

La donna venne presto avviluppata nelle spire dei due enormi rettili e, prima che potesse tentare una possibile difesa, le due sfere d’energia la colpirono in pieno.

Un grido disumano si espanse nella camera da letto dei bambini e Maya si obbligò a osservare la terribile scena che si stava consumando di fronte ai suoi occhi.

A contatto con l’energia iridescente, i due serpenti erano esplosi a loro volta, inondando la camera di luce.

Maya chiuse le palpebre per evitare di essere accecata, ma rimase concentrata, in modo da percepire l’energia vitale di Vither.

Trattenne il fiato mentre un sorriso si faceva largo sul suo volto.

L’aura di Vither, solo qualche istante prima così vivida, s’affievolì sempre più fino a scomparire nel nulla.

«Abbiamo vinto», sussurrò allibita, rivolgendosi a Greyson. «L’aura di Vither è totalmente scomparsa. Il Figlio dell’Infinito ce l’ha fatta!»

Quando la luce si fu dissolta del tutto, Maya notò il sorriso sollevato presente sul volto dell’amico.

Il corpo di Vither giaceva sul pavimento, riverso sulla schiena.

Diversi punti del suo corpo erano ustionati e la casacca che indossava sembrava aver preso fuoco, così come i lunghi capelli bianchi.

Il Figlio dell’Infinito levitava a qualche metro dal suolo, ancora fresco come una rosa.

«È morta davvero?», esalò Greyson, timoroso.

«Sì, ma solo per poco», rispose il ragazzino. «Malgrado Vither abbia delle colpe terribili, ho dei programmi migliori per lei.»

Le sue mani s’illuminarono di una calda luce smeraldina e, sotto gli occhi stupefatti di Maya e Greyson, evocò un incantesimo di mutazione temporale sul cadavere di Vither.

La giovane Maestra assistette alla scena con il fiato sospeso.

Fu come guardare una scena in reverse: il corpo di Vither si rianimò mentre gli anni scorrevano al contrario, trasformandola prima in un’adolescente filiforme, poi in una bambina dai grandi occhi rosati e infine in una neonata.

Maya non esitò ad avvicinarsi e raccogliere la bambina tra le braccia, avvolgendola in quel che rimaneva degli abiti dell’ex seguace più fedele di Thanos.

La neonata gorgogliò prima di sbadigliare, esausta.

Intenerita da quella minuscola creatura, Maya le regalò una rapida carezza sulla testolina ricoperta da una rada peluria bianca.

Avrebbe dovuto odiare la bambina che ora stringeva fra le braccia a causa di tutte le morti che aveva provocato, ma il suo cuore non glielo permetteva.

Il Figlio dell’Infinito aveva fatto in modo che Vither potesse avere una seconda possibilità.

Ora che era tornata una neonata, sarebbe stata una loro responsabilità adoperarsi affinché crescesse in un ambiente sano.

«Ciò che pensi è corretto, Maya», le confermò il ragazzino, riportandola alla realtà, «ma avrò tempo in seguito per spiegarvi ciò a cui ho in mente. Credo che, al momento, sia più importante riunire la squadra e prenderci cura di Valk.»

Greyson assentì e si accinse a raccogliere nuovamente il corpo senza sensi di Valk tra le braccia.

Maya, invece, si limitò ad accomodarsi meglio la bimba tra le braccia che, rassicurata dal suo leggero dondolare di fianchi, chiuse le palpebre e si addormentò.

«Figlio dell’Infinito», chiamò, confusa su come rivolgersi alla fusione. «Al momento non ho la forza necessaria per teletrasportarci. Saresti così gentile da sfruttare i tuoi poteri per condurre Greyson, Valk e questa piccolina al Santuario di Kamar-taj? Quello è il posto più tranquillo e sicuro per permettere a Valk di riprendersi e a Greyson di riposarsi.»

Il ragazzino la scrutò con il suo unico occhio, poi annuì lentamente.

Maya lo ringraziò con un sorriso e depose con delicatezza la neonata fra le braccia della fusione.

Vither emise un debole lamento, ma non si destò.

Quando Greyson fece ritorno, la fusione delle Gemme aveva preso a cullare con dolcezza la bambina, affinché non si svegliasse.

«Appoggia la tua mano sulla mia spalla, Greyson», l’istruì. «La nostra destinazione è Kamar-Taj.»

L’uomo annuì, stanco.

Depose la mano sulla spalla del ragazzino, ma subito si ritrasse quando si accorse che Maya non sarebbe andata con loro.

«E tu, Maya?», le domandò. «Perché non vieni con noi?»

«Ho ancora un compito da svolgere, qui», mormorò, facendo cenno al corpo di Storm, riverso nel suo stesso sangue. «Comprendimi, non posso lasciarlo qui così. Una volta concluso con la salma di Storm, vi raggiungerò.»

I suoi occhi erano nuovamente velati di lacrime e Greyson acconsentì, impietosito.

Posò una mano sulla spalla del Figlio dell’Infinito e assentì, facendogli cenno di procedere.

Il corpo del Figlio dell’Infinito s’illuminò di un sottile alone rossastro e, nel giro di qualche istante, i quattro scomparvero nel nulla.

Rimasta sola, Maya raggiunse barcollando il cadavere di Storm e si lasciò cadere accanto a lui.

Lasciò che le lacrime scorressero sulle sue guance e prese a singhiozzare penosamente, stringendosi nelle spalle.

«Storm, perché proprio tu?», mormorò, disperata. «Perché?»

Si sentì una stupida.

Non vi era una risposta alla sua domanda e, di certo, non sarebbe stato Storm a risponderle.

“La guerra è guerra, Maya”, si disse. “Storm non è altro che l’ennesima vittima di questa terribile sciagura. Tutto ciò che puoi fare e lottare affinché non ci siamo altre battaglie come questa.”

Appoggiò una mano sul petto squarciato di Storm e mormorò un incantesimo di combustione.

Una forte fiamma arancione consumò la carne di Storm, lasciando al suo posto una grande quantità di cenere.

Recuperò lo Sling Ring, agganciato alla sua cintura intrecciata, e lo utilizzò per generare un portale abbastanza grande per permetterle il passaggio di un braccio, diretto verso la camera degli artefatti.

Raccolse una delle centinaia di urne decorate presente al suo interno, frutto di anni e anni di passatempi dell’Antico, la madre di Joy, e ritrasse il braccio.

Il portale si chiuse e la ragazza utilizzò il suo ultimo barlume d’energia per generare un debole venticello che raccolse le ceneri di Storm in un unico punto.

Depose la teca a terra e sollevò leggermente la mano destra.

Il flusso d’energia creò un piccolo turbine che, dopo aver raccolto tutta la cenere, spiccò un “balzo” e scomparve all’interno della teca.

Con un sospiro esausto, la giovane Maestra chiuse l’urna totalmente bianca con il coperchio spoglio da qualsiasi decorazione.

In quel momento, avvertì le forze venirle meno e cadde sulle ginocchia.

Poco dopo, stramazzò a terra, svenuta.



* * *



10 dicembre 2045, 7:00 P.M.,
177A Bleecker Street,
New York City.


«Maya!», la chiamò una familiare voce colma d’urgenza. «Maya! Svegliati, forza!»

La giovane riaprì lentamente gli occhi, esausta.

Batté più volte le palpebre per mettere a fuoco colui che l’aveva chiamata e sospirò sollevata quando realizzò che si trattava di Cooper.

Si sollevò con uno scatto e gettò le braccia al collo dell’uomo, contenta che fosse sopravvissuto alla battaglia.

L’agente della S.H.I.E.L.D. la strinse forte a sé, sussurrandole parole rassicuranti all’orecchio.

«Sei sopravvissuto!», esultò lei, avvertendo le lacrime risalirle agli occhi. «Non lasciarmi. Ti prego, almeno tu non lasciarmi.»

Cooper tacque, cullandola con dolcezza per calmarla.

Dopo aver concluso con il recupero dei cadaveri e il loro riconoscimento, l’uomo si era diretto a Kath-mandu insieme ai restanti Maestri delle Arti Mistiche.

Lì si era imbattuto negli altri sopravvissuti e aveva appreso dal Figlio dell’Infinito in persona che Maya aveva preferito restare al Santuario di New York per occuparsi della salma di Storm e, malgrado le molte ore trascorse, non era ancora tornata.

A quel punto, aveva chiesto a Wong di aprire un portale diretto al Santuario, preoccupato per l’assenza della giovane.

Ed era lì che aveva trovato il suo corpo privo di sensi, accanto all’urna in cui erano state sistemate le ceneri di Storm.

«Riesci a camminare?», domandò a Maya, quando la giovane si fu calmata. «Il portale di Wong non dista molto.»

Maya annuì e si alzò, incerta.

Strinse l’urna di Storm fra le mani e, appoggiandosi a Cooper, raggiunse il luminescente portale d’energia arancione.

Maya fu la prima ad attraversare il vortice energetico, immergendosi nell’atmosfera familiare ed esotica del Santuario di Kamar-taj.

La ragazza respirò a pieni polmoni: malgrado appartenesse al Santuario di New York, era solita dirigersi a Kamar-taj per consultare la fornitissima biblioteca e visitare alcuni dei Maestri con cui aveva instaurato un forte legame d’amicizia.

Cooper la seguì, stringendole il braccio con sicurezza.

«Maya!», la chiamò Joy, correndole incontro e cingendola in un abbraccio frantuma-ossa.

La giovane, le mani occupate dall’urna di Storm, non poté ricambiare la sua stretta, limitandosi a trattenere le lacrime.

Lasciò che lo Stregone Supremo la stringesse ancora un po’, scaricando su di lei tutto il suo sollievo.

Quando sciolse l’abbraccio, Joy l’osservò, attento.

Rabbrividì nell’istante in cui i suoi occhi si fermarono sull’urna in cui erano conservate le ceneri di Storm.

«Mei!», chiamò.

Una giovane donna dalla pelle pallida e il capo rasato, avvolta in una lunga tunica nera, raggiunse Joy e Maya.

«Cosa desiderate, Stregone Supremo?», gli chiese con una leggera riverenza.

«L’urna che Maya stringe fra le mani, occupati di condurla nella Sala dei Morti e darle la giusta benedizione.»

Mei assentì solerte e si voltò verso Maya, allungando le braccia per prendere la teca funeraria dalle sue mani.

«Ti prego, prenditi cura di lui. Quando avrò recuperato le forze, dovrò riportarlo alla sua famiglia affinché possano donargli una giusta sepoltura. Da quanto ricordo, sua madre è una fervente cattolica.»

«Non temere, mi prenderò cura di lui», la rassicurò Mei, sorridendole.

Maya le affidò l’urna che quest’ultima raccolse fra le braccia, stringendola al petto come se si trattasse di un tesoro di valore inestimabile.

Si congedò quindi da Maya e Joy con un breve inchino si diresse a grandi falcate verso una delle camere più interne.

«Vieni, Maya, raggiungiamo un luogo più tranquillo. Ho bisogno di confrontarmi con te su ciò che è accaduto all’interno del Santuario di New York e su alcune decisioni importanti da prendere», l’invitò lo Stregone Supremo, indicandole con un cenno l’ampio corridoio areato che conduceva al suo studio.

Cooper li raggiunse, cingendo il fianco di Maya con fare protettivo.

«Vengo anch’io», affermò, calmo. «Credo di aver bisogno anch’io di comprendere esattamente cosa sia accaduto in questa battaglia.»

Joy non si oppose.

I tre si avviarono verso l’ufficio di Joy, pronti ad affrontare l’ennesimo discorso.

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Capitolo 41
*** Il discorso ***


10 dicembre 2045, 9:00 P.M.,
Santuario di Kamar-taj,
Kathmandu.


L’acqua fredda lambì piacevolmente la sua pelle bollente.

Maya sospirò soddisfatta mentre l’acqua bagnava anche i suoi ondulati capelli scuri, striati di bianco sulle tempie a causa di un incantesimo sbagliato risalente a nove anni prima.

Quel pomeriggio stesso, una delle Maestre del Santuario si era occupata di accorciarli all’altezza delle scapole e restituire loro un aspetto decente.

Deterse con attenzione il suo corpo con la morbida spugna impregnata di sapone all’estratto di mandarino, il preferito degli abitanti del Santuario di Kamar-taj.

Fece attenzione a non rovinare le bende che Mei aveva applicato intorno alle ferite riportate durante lo scontro con Vither, concentrate per lo più intorno alla gamba destra e al braccio sinistro.

Chiuse il rubinetto della doccia e uscì dalla cabina appannata di condensa, avvolgendosi in un comodo accappatoio di spugna rosa.

Si frizionò i capelli con un asciugamano dello stesso colore e raggiunse la toiletta, osservando il profilo del suo volto nello specchio.

Sospirò quando i suoi occhi incrociarono gli occhi gonfi e rossi, i capelli scarmigliati e il colorito pallido.

Cos’era accaduto alla florida e sorridente Maestra di qualche mese prima?

“Quella Maya non ha dovuto reclutare quelli che Maria ha rinominato New Avengers, trascorrere notti insonni alla ricerca delle Gemme dell’Infinito e soprattutto non ha visto Storm morire di fronte ai suoi occhi” rifletté con il magone, sforzandosi di trattenere le lacrime.

Nelle ultime ore non aveva fatto altro che piangere e singhiozzare sulla spalla di Joy e, successivamente, di Cooper.

I due avevano tentato di tranquillizzarla, ma quando si erano resi conto che le serviva soltanto sfogare il suo dolore, non avevano esitato a sostenerla.

S’incamminò verso l’armadio presente accanto al letto e ne trasse una divisa nei toni del nero e dell’oro, i colori che tutti i Maestri avrebbero indossato quella sera in segno di lutto.

Strinse la cintura intrecciata al di sopra della tunica dorata senza maniche e si accomodò sul letto per indossare i pesanti stivali al ginocchio.

Quando ebbe terminato, si diede un’ultima occhiata allo specchio e sistemò i capelli.

Avrebbe di gran lunga preferito cenare nella sua camera e andare a dormire presto per mettere finalmente la parola fine a quella giornata, ma il Figlio dell’Infinito aveva annunciato che quella sera avrebbe tenuto un discorso, sostenendo che la presenza di tutti fosse di vitale importanza.

Inspirò profondamente e raggiunse la porta.

La Cappa della Levitazione abbandonò il letto e si avvolse intorno alle sue spalle, carezzandole le guance con il colletto.

«Grazie, amico», mormorò con un sorriso. «Dove sarei oggi, se non fosse per te?»

Il mantello la strinse in un caldo e morbido abbraccio, lusingato dalle parole della sua Maestra.

Maya si beò della sensazione rassicurante del tessuto sulla sua pelle e attese paziente che la Cappa la lasciasse libera per raggiungere la Sala Grande.

Quando il suo oggetto magico la lasciò andare, Maya aprì il pesante portone di quercia e s’inoltrò nel corridoio dall’alto arco a volta.

Una piacevole brezza serale lambiva le finestre prive di vetri protettivi.

Il refolo di vento le scompigliò i capelli e lei accelerò il passo, imboccando uno dei corridoi più interni.

Superò una decina di porte tutte uguali, le camere appartenenti ai Maestri che abitavano il Santuario, fino a raggiungere la Sala Grande.

Il portone di legno di betulla, alto, sottile e decorato da fini intarsi rappresentanti foglie e rami di edera, era spalancato, in modo che tutti i presenti potessero riunirsi nella sala.

Varcò la soglia e osservò l’interno della camera, alla ricerca di un posto tranquillo in cui sistemarsi per assistere al discorso del Figlio dell’Infinito.

I Maestri del Santuario avevano sistemato ampi divani e comode stuoie su cui accomodarsi, ricoprendo quasi interamente il pavimento in granito.

Per fortuna, al momento, oltre ad alcuni Maestri, non era ancora presente nessuno.

Raggiunse uno dei divani più vicini al palchetto di legno su cui lo Stregone Supremo era solito tenere i suoi importanti discorsi e si accomodò.

Incrociò le gambe e attese con pazienza che l’ampia sala si riempisse, domandandosi curiosa cosa avesse in mente il Figlio dell’Infinito.

Man mano che la sua mente si riempiva dei pensieri più variegati, gli ospiti del Santuario entrarono uno dopo l’altro, occupando sempre più posti.

Tra le facce conosciute, Maya riconobbe Victor, Morgan e Pepper Stark, bendati e ricoperti dell’unguento curativo verde marcio proveniente direttamente dai cortili interni del Santuario.

In seguito, anche Connor, Valchiria, Paige, Minus e Maria Hill occuparono i loro posti all’interno della Sala Grande, sistemandosi sull’ampio divano dalla fantasia patchwork, accanto a lei.

I cinque la salutarono con semplici cenni del capo.

Poco dopo, anche Greyson, Paige e Steve Rogers fecero il proprio ingresso nella sala.

Maya aggrottò le sopracciglia: l’originale Captain America era ritornato un anziano.

Evidentemente, il Figlio dell’Infinito doveva aver accolto la sua richiesta, restituendogli la sua forma originale.

Non poté trattenere un sorriso di fronte a quella scena: stretto al braccio di Greyson per sostenersi, l’anziano avenger sembrava davvero felice e sollevato.

Aveva adempiuto alla sua missione di guida nell’esercito ed era giusto che ritornasse alla sua quieta vita da anziano.

Athena e Cooper furono gli ultimi a entrare, pallidi e stanchi.

In particolare, la figlia di Thor, dopo aver condotto Deborah all’infermeria, aveva preso posto accanto al suo letto, vegliandola con preoccupazione.

Malgrado l’erpetologa fosse ormai fuori pericolo, non si era ancora svegliata.

Athena avrebbe voluto restare al suo fianco, ma Joy e Cooper l’avevano esortata a lasciare la compagna per qualche ora, in modo da udire e riferire successivamente a Deborah ciò che il Figlio dell’Infinito, di cui Astrid faceva ora parte, aveva detto loro.

Cooper raggiunse Maya e le si sedette accanto, battendole delicatamente la mano sulla coscia.

Quest’ultima gli sorrise mentre Athena si accomodava accanto a Valchiria, lo sguardo fisso sul piccolo palco dove il Figlio dell’Infinito sarebbe a breve comparso.

La Cappa della Levitazione si sollevò dalle spalle di Maya.

Quando la sua Maestra assentì, levitò fino ad Athena e cinse le sue spalle nel suo morbido abbraccio.

La figlia di Thor si lasciò cullare dalla stretta rassicurante dell’oggetto magico, beandosi del tessuto caldo a contatto con la sua pelle.

Finalmente, il Figlio dell’Infinito fece il suo ingresso nella sala, scortato da Joy e Wong, entrambi avvolti in un’uniforme scura, molto simile a quella di Maya.

Con gli occhi di tutti i presenti fissi su di loro, i tre percorsero solennemente i pochi metri che li dividevano dal palchetto di legno.

Maya si accorse che il ragazzino si era cambiato d’abito, optando per una sobria divisa composta da una candida tunica priva di maniche, un paio di pantaloni neri e pesanti stivali al ginocchio dalla suola rinforzata.

Soltanto la cintura di stoffa stretta intorno ai fianchi magri donava al suo aspetto un tocco di colore: essa, infatti, possedeva tutti i colori appartenenti alle Gemme dell’infinito.

Giallo, rosso, verde, viola, arancione e blu.

Quando ebbero raggiunto il palco, Wong e lo Stregone Supremo presero posto sulle ultime stuoie rimaste.

Il Figlio dell’Infinito, invece, rimase in piedi.

«Innanzitutto, vorrei ringraziarvi tutti per esservi riuniti qui. So che è molto difficile e che sarete stanchi, provati e feriti, ma ciò che ho da dirvi è di vitale importanza. Per questo motivo, vi chiedo di prestare particolare attenzione a ciò che vi riferirò», esordì, serio. «Come ben sapete, io sono la creatura nata dall’unione delle reincarnazioni delle Gemme dell’Infinito. Possiedo le capacità e le caratteristiche di tutti loro, ma sono una persona. Ho un mio pensiero e dei miei valori e, per questo motivo, ho deciso di utilizzare i miei poteri affinché la fusione non si sciolga mai più.»

Athena trasalì.

Astrid…

Non avrebbe più rivisto la sua bambina…

Come avrebbe potuto riferirlo a Deborah?

La sua compagna adorava quella bambina e avevano avuto intenzione di adottarla al termine della battaglia…

Il Figlio dell’Infinito rivolse il proprio sguardo nella sua direzione e accennò un leggero sorriso.

«Non sarà molto facile comprendere la mia decisione, dal momento che molti di voi si sono affezionati alle singole reincarnazioni delle Gemme dell’Infinito, ma sono sicuro che capirete. È per il bene supremo: non ho alcuna intenzione di mettere di nuovo l’intero universo in pericolo. Non posso permettere che una nuova Vither o, peggio, un nuovo Thanos, possano rinascere. I miei poteri, ora quasi illimitati, possono aiutare l’equilibrio dell’intero universo.»

S’interruppe e tutti i presenti restarono in silenzio, in attesa che riprendesse il suo discorso.

Athena, Wong, Valchiria e Connor tennero gli occhi fissi sul pavimento, cercando di elaborare il dispiacere e la delusione: non avrebbero mai più potuto rivedere i bambini a cui si erano affezionati.

In particolare, la figlia di Thor e la regina di New Asgard erano sull’orlo delle lacrime.

Entrambe si erano affezionate così tanto ad Astrid ed Esto da considerarli dei veri e propri figli.

Sarebbe stato difficile vivere senza di loro, ma la decisione presa era più che saggia.

Il Figlio dell’Infinito, una delle creature più potenti dell’universo, sarebbe stato di grande aiuto per mantenere la pace nell’universo.

«Vi ringrazio per la vostra comprensione», riprese il ragazzino. «Per questo motivo, ho deciso di farvi un piccolo regalo.»

Sollevò in alto entrambe le mani e il suo corpo si ricoprì dall’aura colorata delle Gemme dell’Infinito.

Le sue mani si tinsero di luce rossa e un portale sprizzante scintille si aprì alle sue spalle.

Maya avvertì il fiato morirle in gola quando intravide una sagoma estremamente familiare fare il suo ingresso nella sala.

Si alzò di scatto e raggiunse il nuovo arrivato di corsa, gettandogli le braccia al collo.

«Maestro!», esclamò, stringendolo con affetto. «Maestro! Sei tornato! Sei davvero tornato!»

Prima che Strange potesse risponderle, venne raggiunta anche da Joy, che strinse entrambi in una stretta frantuma-ossa.

Poco dopo, dal portale d’energia fuoriuscirono uno dopo l’altro tutti gli Avengers scomparsi sette anni prima.

Subito, Athena si gettò fra le braccia del padre, singhiozzando penosamente.

Cooper raggiunse Clint e i due si osservarono per lunghi istanti, indecisi su come rapportassi.

Infine, fu il padre a stringerlo in un forte abbraccio, gli occhi colmi di lacrime.

«Sei cresciuto molto, figliolo», lo gratificò con un sorriso commosso. «Sono orgoglioso di te.»

Accomodati sul divano, gli Stark si strinsero in un abbraccio di gruppo.

Purtroppo, Tony non sarebbe mai tornato.

A pochi metri da loro, Steve Rogers strinse con forza la spalla di Greyson, sorridendo dolcemente.

Victor e Morgan non avrebbero più avuto la possibilità di rivedere loro padre, abbracciarlo, condividere con lui i momenti buoni e cattivi…

Steve decise allora che Greyson non avrebbe subito lo stesso destino: per il tempo che gli restava da vivere, sarebbe stato al fianco del figlio come un vero padre, ascoltandolo e sostenendolo come meglio poteva.

Paige raggiunse Connor e lo cinse in un forte abbraccio, comprensiva.

Lei e Connor erano nella stessa situazione: entrambi possedevano amici stretti e legami indissolubili con diverse persone, ma erano orfani di entrambi i genitori.

Infatti, lei non aveva mai conosciuto chi fossero i suoi genitori, mentre Connor possedeva probabilmente ancora una madre, ma non ricordava nulla di lei.

Il figlio di Loki la strinse con delicatezza a sé, sorridendo con dolcezza.

In men che non si dica, il portale del Figlio dell’Infinito si chiuse dietro di loro.

Tutti gli Avengers erano ora presenti nella Sala Grande del Santuario di Kamar-taj: Falcon, Winter Soldier, Thor, i Guardiani della Galassia, Bruce Banner, Hawkeye, War Machine, Ant Man, Wasp, Captain Marvel, Doctor Strange e molti altri ancora che Maya non riuscì a riconoscere.

L’unione delle Gemme dell’Infinito sorrise soddisfatto.

Uno dopo l’altro, i nuovi arrivati furono fatti accomodare su stuoie e divanetti e il Figlio dell’Infinito procedette con lo spiegare loro la situazione, soffermandosi rapidamente sulle varie fasi della strategia che avevano portato alla salvezza della Terra e dell’Universo.

Quando ebbe concluso, gli originari Avengers si ritrovarono a sorridere, orgogliosi di ciò che persone tanto giovani erano riuscite a realizzare in così poco tempo.

«...Ed ecco come siete tornati in questa dimensione», concluse il Figlio dell’Infinito. «Ora posso continuare con il mio discorso.»

Sorrise ai presenti e posò il suo sguardo su Maya.

«Passiamo quindi alla decisione più importante: cosa accadrà alla piccola Vither e a Gadha?»

Infatti, dal momento in cui Joy e Gadha erano tornati nella loro dimensione, la giovane sostenitrice di Vither era stata rinchiusa in una delle camere più interne del Santuario e sorvegliata da un plotone di dieci Maestri, in attesa che si decidesse il suo destino.

Maya intervenne, sollevando in alto la mano destra.

«Come prima spettatrice della rinascita di Vither e Maestra delle Arti Mistiche che ha concluso il suo percorso di studi, mi offro come tutrice della bambina. Sono certa che, crescendo in un ambiente sano come il Santuario di New York, sotto gli occhi vigili miei, di Joy, Wong e del maestro Strange, possa controllare i suoi poteri e utilizzarli per un bene superiore.»

Il leggero ghigno presente sul volto del Figlio dell’Infinito si allargò mentre Maya raggiungeva il palchetto di legno a passo deciso.

«Cosa diresti se ti dicessi che ho intenzione di affidare Vither al consiglio dei Saggi di Novas?»

«Ti direi che stai sbagliando. E anche di grosso», rispose lei, tranquilla. «Qui, sulla Terra, avrebbe una casa, una famiglia, dei Maestri che potrebbero insegnarle a padroneggiare i suoi poteri. Malgrado abbia causato dolori e preoccupazioni a tutti noi, sono pronta a giurare che nessuno di noi le farà mai pesare ciò che è stata. Non dubito certo che il pianeta di Valk sia ospitale, ma cosa ci assicura che la tratteranno bene? Chi ci conferma che, una volta cresciuta, non le rinfaccino ciò che è stata?»

Tutti i presenti sembrarono riflettere sulle parole pronunciate da Maya.

Il Figlio dell’Infinito, invece, si limitò a studiarla, un cipiglio curioso a deformargli la fronte liscia.

«Sembri molto sicura di te stessa, Maya, ma chi mi assicura che tu non faccia la medesima cosa?», le domandò.

Un sorriso sincero si aprì sulle labbra della giovane Maestra.

«Nessuno può assicurartelo, Figlio dell’Infinito, ma posso prometterti che farò del mio meglio. Inoltre, come hai detto tu stesso all’inizio, la salvezza dell’universo è partita proprio dal Santuario di New York. Nessuno ha più diritto di me a prendersi cura di Vither.»

In altre circostanze non si sarebbe mai permessa di sbattere in faccia al Figlio dell’Infinito il suo merito, ma sentiva che la piccola Vither doveva essere affidata a loro.

Dal momento in cui aveva stretto quella neonata fra le braccia, aveva percepito una sorta di sintonia, un legame che non si sapeva spiegare.

In cuor suo sapeva che la bambina doveva restare al Santuario con lei, Joy, Wong e il Maestro Strange.

«Io sono d’accordo con Maya», intervenne Joy, sollevandosi dal divano.

Raggiunse la ragazza e le si affiancò, pronta a darle man forte.

«Saremo ben felici di accogliere e crescere la piccola al nostro Santuario. Oggettivamente, siamo i più indicati.»

Poco dopo, tutti i Maestri presenti nella Sala Grande si alzarono, in sostegno dello Stregone Supremo.

«Grazie mille», li gratificò Joy, prima di rivolgersi di nuovo all’unione delle Gemme dell’Infinito.

Un sorriso si era formato sulle labbra della creatura.

«Hai vinto, Maya», annunciò. «Ti affido ufficialmente Vither, con la certezza che tu e gli altri Maestri farete del vostro meglio per donarle un futuro più sereno e felice.»

Maya accettò le sue parole con un cenno del capo.

«Per quanto riguarda Gadha, ho deciso di lasciarla libera. L’unico luogo in cui non potrà tornare sarà la Terra. Victor, Morgan, conto su di voi per quanto riguarda il procurarle una navicella in grado di permetterle di lasciare il pianeta.»

«Conta pure su di noi», rispose Victor, orgoglioso. «Procureremo a Gadha la migliore navicella.»

Maya notò all’istante come lo sguardo di Joy si fosse adombrato.

D’istinto, si allungò verso di lui e gli batté una mano sulla schiena, nel tentativo di rassicurarlo.

Conosceva Joy da circa dieci anni e aveva imparato davvero molto su di lui: Gadha era entrata nel suo cuore.

Infatti, lo Stregone Supremo l’aveva vista piangere sulla sua spalla e l’aveva consolata.

Nessuno sarebbe rimasto impassibile di fronte a quella vista, neppure la più insensibile delle creature.

Il figlio dell’Antico la ringraziò con un rapido cenno del capo, restando ritto al suo posto.

Malgrado stesse soffrendo, il giovane non poteva permettersi di apparire debole di fronte ai Maestri delle Arti Mistiche che, sei anni prima, l’avevano accettato come Stregone Supremo.

Esattamente come sua madre, avrebbe affrontato il dolore e le avversità a testa alta.

Strange lo raggiunse a sua volta e gli batté una mano sulla spalla, comprensivo.

Persino la Cappa della Levitazione di Maya abbandonò Athena e si avvolse intorno alle sue spalle, nel tentativo di tranquillizzarlo.

«Ora che abbiamo preso anche questa decisione, credo sia giunto il momento di discutere l’ultimo punto che avevo in mente: la mia partenza. So che sarà molto difficile per tutti, ma ho deciso di lasciare la Terra e trovare un luogo tranquillo in cui ritirarmi, in modo da sorvegliare indisturbato l’equilibrio dell’intero universo. Non so se ci rivedremo mai e, per questo motivo, vorrei ringraziarvi tutti per avermi aiutato a nascere.»

Il silenzio calò nella Sala Grande per l’ennesima volta mentre i presenti cercavano di elaborare le parole che il Figlio dell’Infinito aveva appena pronunciato.

Fu allora che Maya piegò un ginocchio al suolo e chinò il capo, esibendosi nel massimo segno di rispetto di cui era capace.

«Ti ringrazio, Figlio dell’Infinito», dichiarò. «So che stai facendo tutto questo per il bene dell’intero universo, in modo che nessun altro possa recuperare le Gemme e utilizzarle per scopi malvagi. Mi dispiace solo che tu non possa mai più assaporare le sensazioni date da una vita normale.»

Uno dopo l’altro, tutti gli Avengers presenti nella sala seguirono l’esempio di Maya, il capo chino e un ginocchio poggiato sul pavimento in marmo.

Di fronte a quella vista, una lacrima rigò il volto del ragazzino.

Athena si sollevò e lo raggiunse, cingendolo in un forte abbraccio.

Malgrado si trattasse di una delle creature più potenti dell’universo, si trattava pur sempre di un bambino.

Era naturale che si sentisse sotto pressione di una situazione simile.

L’unione delle Gemme accolse con un singhiozzo la stretta di Athena, intervallando le sue lacrime a parole di ringraziamento.

Quando si fu calmato, gli Avengers si rialzarono, sorridendo comprensivi a quel che reputavano un piccolo eroe.

«Addio a tutti», si congedò, un sorriso tremulo sulle labbra. «Prometto che vi sarà sempre un posto nel mio cuore, per tutti voi.»

Voltò leggermente il capo verso Athena.

«Ti prego, Athena, chiedi a Deborah e Valk di perdonarmi. So che entrambe sognavate di adottare Astrid per donarle una vita felice, ma comprenderai anche tu che non è possibile. Ricorda a Valk di non biasimarsi: è stato il miglior guardiano che Tanar potesse desiderare.»

La voce di Astrid, leggermente stridula, sovrastò le voci delle altre reincarnazioni delle Gemme.

Athena, gli occhi nuovamente lucidi, annuì.

«Non temere, piccolo, ci penso io», lo rassicurò. «Tu occupati soltanto di trovare un luogo tranquillo in cui rifugiarti e, una volta che ti sarai sistemato, potremo venire a trovarti, qualche volta.»

Il ragazzino le regalò un ultimo sorriso, prima di schioccare le dita.

Il corpo della creatura venne contornato da un’aura rossa e, poco dopo, scomparve nel nulla.

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Capitolo 42
*** Il prezzo della vittoria ***


17 dicembre 2045, 10:00 A.M.,
Manhattan,
New York City.


Maya si strinse nell’ampia giacca di denim che, mesi prima, Magda le aveva regalato.

Cooper, accanto a lei, le cinse un fianco e l’attirò a sé, nel tentativo di rassicurarla.

La giovane gli sorrise, stringendo al petto l’urna funeraria di Storm.

Come aveva promesso all’amico poco prima che spirasse, Maya aveva raggiunto l’abitazione della famiglia di Storm per consegnare loro le sue ceneri.

Maria Hill, presidentessa del dipartimento di difesa della S.H.I.E.L.D., aveva insistito affinché fosse lei a spiegare la situazione alla famiglia Wilson, in modo da occultare le informazioni più scottanti.

Quando Maya aveva cercato di replicare, la donna le aveva assicurato che la versione che avrebbe fornito ai Wilson non avrebbe occultato i meriti di Storm e il suo eroico sacrificio.

A quel punto, la giovane Maestra si era limitata ad assentire, impuntandosi soltanto affinché fosse lei a consegnare i resti dell’amico nelle mani della sua famiglia.

E ora lei e Cooper si trovavano di fronte alla palazzina di sei piani dove li attendevano Mona, la madre di Storm, e Vanessa.

«Sei pronta?», le domandò Cooper.

Maya annuì e si diresse verso il piccolo bancone dietro il quale era accomodato il portiere, un uomo sulla cinquantina dal ventre prominente, pallido e stempiato.

«Buongiorno», lo salutò Maya. «Può essere così gentile da indicarci in quale appartamento abita Mona Wilson?»

L’uomo sollevò lo sguardo dal libro aperto di fronte a sé e studiò l’aspetto dei due nuovi arrivati.

«Posso conoscere i vostri nomi?», indagò.

Cooper estrasse dalla tasca dei jeans scuri il tesserino della S.H.I.E.L.D. e lo porse all’uomo.

«Come può vedere, siamo della polizia internazionale», gli spiegò, mentre gli occhi del portiere erano fissi sul documento di Cooper. «Siamo qui per incontrare la signora Wilson. Ora potrebbe indicarci dove si trova il suo appartamento?»

«Quarto piano, appartamento D», comunicò loro, restituendo il tesserino a Cooper. «Tuttavia, agenti, posso assicurarvi che Mona è una donna splendida. Non le verrebbe mai in mente di compiere illegalità. Pensate che, quasi un anno fa, ha persino denunciato il suo stesso figlio!»

«Non si preoccupi, signore, non siamo qui per arrestare nessuno», lo rassicurò Hawkeye, prima di dirigersi verso l’ascensore.

«Dovrete prendere le scale», li corresse l’usciere. «L’ascensore ha smesso di funzionare giorni fa e l’assistenza deve ancora inviare qui un suo tecnico.»

I due salirono lentamente la rampa di scale, accompagnati solo dal ticchettio dei loro stivali sui gradini di cemento.

Giunti al quarto piano, la coppia si fermò di fronte al pesante portone che conduceva all’appartamento D.

Maya si domandò, preoccupata, cosa sarebbe accaduto quando avrebbe varcato quella soglia.

Per la signora Wilson, infatti, lei era scomparsa dieci anni prima, probabilmente deceduta in qualche incidente.

Ed ora eccola lì, di fronte al suo appartamento, con le ceneri del figlio fra le braccia.

Per un attimo, ebbe l’idea di abbandonare la teca di Storm dinnanzi alla porta e fuggire, lasciando Vanessa e Mona a piangerlo.

Si diede subito della vigliacca di fronte a quel pensiero.

Storm le aveva affidato una missione ben precisa e lei gli aveva promesso che l’avrebbe portata a termine, a qualsiasi costo.

Raggiunse la porta e sollevò un pugno, bussando con delicatezza.

Il silenzio cadde nel corridoio mentre Cooper e Maya attendevano impazienti una risposta.

Poi, la maniglia scattò e il viso pallido di Vanessa fece capolino.

Maya provò un immediato dispiacere nei suoi confronti.

Gli occhi di Vanessa erano rossi a causa delle molte lacrime versate e profonde occhiaie segnavano il suo sguardo, chiaro sintomo della mancanza di sonno.

La Maestra avrebbe voluto manifestarle il suo dolore, ma un nodo alla gola le bloccò sul nascere ogni parola.

La raggiunse e le tese l’urna funeraria di Storm.

Vanessa, d’istinto, accolse con un singhiozzo la teca fra le mani, nuove lacrime a rigarle le guance.

«Vanessa», pronunciò, la voce roca. «Ho bisogno di parlare con te, in privato. Riguarda Storm e le sue ultime parole.»

La ragazza singhiozzò più forte, stringendo al petto quel che restava del suo storico fidanzato.

«Vanessa, cara», la chiamò una seconda voce femminile dall’interno. «Chi è alla porta?»

«Signora, siamo agenti della S.H.I.E.L.D. Siamo stati incaricati di...»

La porta si spalancò di botto, interrompendo Cooper.

L’abbondante profilo di Mona Wilson comparve sulla soglia, affiancando a Vanessa.

Come Maya ricordava, la donna presentava sottili occhi scuri leggermente rivolti verso l’alto sovrastati da folte sopracciglia dalla forma irregolare, labbra carnose, naso a patata e lunghi capelli sale e pepe raccolti sulla nuca da un elastico.

«Mio figlio!», esclamò, la voce acuta. «Dov’è mio figlio?»

Tremante, Vanessa le indicò con un cenno del capo la sobria urna funeraria.

Un nuovo silenzio carico di tristezza riempì il corridoio.

Cooper attirò la giovane Maestra a sé, trasmettendole tutto il suo coraggio.

Fu allora che lo sguardo di Mona cadde sulla giovane Maestra, soffermandosi sul suo volto.

Impallidì e indietreggiò verso la porta, sconvolta.

«Maya», esalò in un filo di voce. «Maya, sei davvero tu? Come può essere? Tu sei scomparsa dieci anni fa!»

«Si tratta di una lunga storia, signora Wilson», la glissò la ragazza con gentilezza. «Le prometto che gliela racconterò. Al momento, però, devo parlare in privato con Vanessa, è molto importante.»

Mona la scrutò per qualche altro istante, poi assentì lentamente e si riconcentrò sulla nuora.

Quest’ultima le porse l’urna funeraria.

La signora Wilson raccolse le ceneri del figlio tra le braccia e rientrò, barcollando.

Quando i passi di Mona si furono esauriti nell’appartamento, Vanessa gettò le braccia intorno al collo di Maya e riprese a singhiozzare.

Maya lasciò che la giovane si sfogasse, accarezzandole la schiena con una mano e sussurrandole parole rassicuranti all’orecchio.

Malgrado lei stessa si sentisse terribilmente vulnerabile, era Vanessa ad aver più bisogno di lei in quell’attimo.

Quando Vanessa si fu un po’ calmata, la giovane l’allontanò con delicatezza e le sorrise.

«M-mi di-di-dispia-ce», farfugliò la donna, indicando l’ampia macchia scura presente sulla t-shirt bianca di Maya, causata dalle sue lacrime.

«Non preoccuparti per questa sciocchezza», la rassicurò, battendo un dito sulla macchia.

Quest’ultima scomparve con un piccolo sbuffo di vapore e Vanessa accennò un sorriso malinconico.

«Cosa volevi dirmi?», la sollecitò. «Prima avevi accennato alle ultime parole di Storm.»

Maya abbassò gli occhi sul pavimento, cercando di rievocare alla mente le ultime parole di Storm.

Quando fu certa di aver raccolto i suoi pensieri, la Maestra prese a parlare.

«Devi sapere che ero l’unica persona presente al capezzale di Storm quando ha abbandonato questa terra. Ho tentato in ogni modo di riportarlo in vita con la mia magia, ma sono riuscita soltanto a tamponare l’emorragia. Tuttavia, gli ho donato la forza sufficiente per esalare le sue ultime parole. Mi ha pregato di dirti che ti amava moltissimo e che avrebbe desiderato sposarti, ma non ha mai avuto l’occasione giusta per chiederti la mano.»

«Ha davvero detto così? Ne sei certa?»

Vanessa si premette una mano sul cuore.

«Sì, lo ricordo con precisione», le confermò, sforzandosi di reprimere le lacrime.

Alla vista degli occhi lucidi di Maya, Cooper fece per raggiungerla, quando Vannessa strinse di nuovo le braccia intorno al collo della Maestra, stringendola a sé.

Stretta l’una contro l’altra, le due ragazze cercarono confronto l’una nelle braccia dell’altra.

Malgrado fossero così diverse, erano accomunate dal dolore per la perdita di Storm.

Entrambe scoppiarono in lacrime, consumate dalla sofferenza.



* * *



20 febbraio 2046, 8:00 A.M.,
177A Bleecker Street,
New York City.


Maya sollevò il pugno e bussò al portone di quercia che conduceva al nuovo studio di Stephen Strange.

Il suo vecchio ufficio era divenuto proprietà di Joy, malgrado non fosse più lo Stregone Supremo.

«Avanti!», rispose la voce pacata di Strange.

La giovane spinse la maniglia e spalancò la porta, entrando.

All’interno, erano stati sistemati un resistente scrittoio in legno, una comoda sedia foderata, due poltrone per i visitatori e un’ampia libreria colma di tomi.

Sul pavimento era steso un ampio tappeto rosso decorato da un complicato mandala dorato che attutì il ticchettio dei suoi pesanti stivali al ginocchio.

«Porti ancora il lutto, Maya?», le domandò Strange, osservando la sua divisa nei toni del nero e dell’oro. «Anche dopo due mesi?»

«Sì, maestro», gli sorrise la giovane, malinconica. «Storm non è stato seppellito che due settimane fa e non mi sento ancora pronta a liberarmi di questi colori.»

«E Cooper cosa ne pensa di questa tua scelta?», rincarò lo Stregone Supremo. «Non dovevate partire insieme per l’Europa?»

Maya si strinse nelle spalle, negando con il capo.

«Dovevamo partire, ma non me la sento di lasciare il Santuario ora che ci è stata affidata la piccola Vither. Inoltre, io e Joy siamo impegnati nella realizzazione di un amuleto in grado di contenere l’energia di una stella. In questo modo, potremo sostituire Magda con questo talismano.»

«Perché non mi avete chiesto aiuto?», s’informò Strange, il tono di voce improvvisamente duro.

Maya deglutì a vuoto, dandosi della stupida per non aver considerato prima l’impatto delle sue parole sul suo maestro.

Malgrado non lo desse a vedere, Strange teneva molto a Magda e, molto probabilmente, l’aveva ferito sentire che lei e Joy non l’avessero interpellato per quanto riguardava la generazione dell’amuleto che avrebbe potuto riportarla a casa.

«Sinceramente, maestro, speravamo di potercela cavare da soli. Non per offenderti, ma in questi sei anni di lontananza abbiamo imparato a contare molto di più su noi stessi.»

Strange l’osservò per lunghi istanti con i suoi sottili occhi azzurro ghiaccio.

Maya sostenne il suo sguardo con serenità.

Maestro e allieva.

Azzurro contro castano.

Infine, un sorriso increspò le labbra di Strange.

«Sei cresciuta davvero molto, Maya», affermò, lo sguardo fisso sul tappeto rosso che ricopriva il pavimento in assi di legno. «Quando Paige ti inviò da me, quasi dieci anni fa, non avrei mai creduto che saresti divenuta una Maestra così capace. In realtà, malgrado il tuo potenziale, non avrei scommesso un soldo bucato su di te: mi sembravi gracile, debole e spaventata dalla vita. Sono felice di essermi sbagliato.»

Maya aggrottò le sopracciglia, indecisa su come interpretare quelle parole.

Doveva dimostrarsi felice?

Offesa?

«Ti ringrazio... almeno credo.»

«Siediti, Maya», l’invitò, indicandole la poltroncina più vicina. «Devo parlarti di qualcosa di molto importante.»

Maya si accomodò, accavallando le gambe.

«Tè?», le offrì.

«Sì, grazie», rispose, cordiale.

Un set d’argento da tè comparve sulla scrivania di legno pregiato, completo di teiera, zuccheriera e tazzine finemente decorate da fiori di ciliegio, sottili cucchiaini e un piattino carico di biscotti secchi.

«Il solito?»

«Il solito.»

Strange sfiorò la teiera con la punta delle dite affusolate.

La teiera si sollevò a mezz’aria e servì nella tazza di Maya un liquido ambrato che emanava un forte odore di limone.

Maya lo ringraziò e raccolse la tazza fra le dita.

Mormorò una parola e il tè raggiunse la giusta temperatura.

Soddisfatta, si portò la tazza e ne sorbì un sorso.

Strange attese con pazienza che Maya allontanasse la tazza dalle labbra prima di riprendere a parlare.

«Di cosa volevi parlarmi, maestro?», domandò la giovane, anticipandolo.

«Si tratta di tua madre», rispose Strange. «In questi anni ti sei informata sul suo destino?»

Maya aggrottò le sopracciglia, confusa.

Dove voleva arrivare Strange?

Perché nominare sua madre dopo ben dieci anni di lontananza?

«No, ho mantenuto la mia promessa: non mi sono messa in contatto con lei, in attesa che fosse mia madre a ricordarsi di me e arrivasse da sola al Santuario.»

«Molto bene», annuì il maestro. «Sapevo che la mia visione era corretta.»

«Visione?»

Strange distolse lo sguardo e si concentrò sulla sua tazza.

«Ciò che ti ho riferito prima di sparire non corrisponde esattamente alla verità. Tua madre ha davvero perso la memoria, ma soltanto per il primo anno del tuo addestramento. In realtà, quattordici mesi dopo l’inizio del tuo addestramento, tua madre venne al Santuario a cercarti, pronta per portarti via con sé. Ricordo con precisione quel giorno: venne appoggiata a un bastone da passeggio, uno splendido sorriso sulle labbra all’idea di riabbracciarti. Le offrii del tè e Paige mi spiegò che, dopo un percorso con uno psicologo, suo intimo amico, era riuscita a recuperare la memoria. Mi riferì che avrebbe voluto subito correre a recuperarti al Santuario, ma che il suo psicologo le aveva consigliato di riprendersi totalmente prima di raggiungerti.»

Si fermò, in modo che Maya potesse assimilare tutto ciò che le aveva appena riferito.

La ragazza avvertì il cuore sprofondarle nel petto.

Perché il maestro Strange le aveva mentito?

Perché l’aveva tenuta allo scuro della completa ripresa di sua madre?

Impallidì, realizzando ciò che sarebbe potuto accadere se sua madre fosse davvero venuta a riprenderla, nove anni prima.

Sarebbe tornata a scuola, avrebbe rincontrato Storm e Vanessa, avrebbe avuto una vita normale…

E si sarebbe lasciata l’addestramento di Maestra delle Arti Mistiche alle spalle.

La Cappa della Levitazione, colto il suo turbamento, le accarezzò le guance con il colletto.

«Perché?», mormorò in misto di rabbia e dolore. «Perché mi hai mentito, Stephen

Udire il suo nome pronunciato dalle labbra di Maya colpì lo Stregone Supremo nel profondo.

La giovane era solita rivolgersi a lui chiamandolo maestro o Strange.

«Perché, mi chiedi?», ripeté. «Molto semplice. Affinché accadesse ciò che doveva accadere. Se ti avessi permesso di abbandonare il Santuario con tua madre, la storia non avrebbe seguito lo stesso corso.»

«Cosa intendi dire? Hai forse visto qualcosa nel futuro?»

Lo Stregone Supremo assentì.

«Qualche giorno prima che tua madre tornasse al Santuario per portarti con sé, durante una delle mie meditazioni, vidi per la prima volta quanto fosse vicina la minaccia di Vither. Indagai nel futuro e, dopo aver assistito alla distruzione della forma fisica delle Gemme dell’Infinito e alla nostra successiva scomparsa, scorsi per qualche istante ciò che saresti stata in grado di fare se fossi rimasta al Santuario di New York, completando il tuo addestramento come Maestra. Tuttavia, la mattina che tua madre si presentò al Santuario, mentre tu eri fuori con Joy per un allenamento, mi accorsi che il futuro era cambiato: a lottare contro Vither vi erano sì gli asgardiani, gli agenti della S.H.I.E.L.D. e i Maestri delle Arti Mistiche, ma non erano presenti né tu, né Deborah, né Minus…

Puoi comprendere da te ciò che sarebbe accaduto, vero?»

Maya scosse il capo con forza, furiosa.

«Non mi sarei teletrasportata nella New Sanctuary e Raptor non avrebbe potuto schioccare le dita, ma avremmo comunque vinto la battaglia!», lo aggredì, stringendo i pugni con rabbia.

Strange la fulminò con lo sguardo.

«Ti sbagli. E anche di grosso», la rimproverò. «Il tuo aiuto, in questa missione, non è stato importante, ma vitale: sei stata tu a incontrare Valk, tua l’idea di reclutare quella che Maria Hill ha rinominato come N.A.P. e altri innumerevoli contributi alla missione. Guarda in faccia la realtà, Maya: senza di te, la Terra avrebbe avuto molte più vittime e perdite di quelle avute.»

Maya abbandonò il capo sul petto e scosse lentamente il capo, incredula.

Il suo maestro le aveva mentito, l’aveva abbindolata affinché restasse al Santuario…

E perché?

Per il bene della Terra?

Per l’universo?

Se non fosse stato per quell’inganno, forse Storm sarebbe stato ancora vivo e Deborah non avrebbe sacrificato il suo avambraccio…

«So che è difficile, Maya», continuò lo Stregone Supremo. «E non voglio metterti fretta, ma ho bisogno di consegnarti un’ultima cosa prima di congedarti.»

Estrasse dal cassetto della scrivania un pezzo di pergamena ripiegato su sé stesso e lo consegnò alla giovane.

«Prima di sparire, mi sono tenuto in contatto con tua madre, comunicandole le tue condizioni di salute e i tuoi progressi. Quello riportato sul quel foglio è il suo indirizzo. Quando mi riferì il suo indirizzo, aggiunse: “Quando la Terra sarà salva, Strange, desidererei che tu consegnassi questo indirizzo a Maya. Dille che ci sarà sempre un posto per lei a casa mia”», le spiegò lo Stregone Supremo. «Ora la scelta spetta a te.»

D’istinto, Maya strinse il foglio al petto, indecisa sul da farsi.

Avrebbe dovuto dirigersi subito da sua madre?

Attendere di recuperare un po’ di calma?

Si udì bussare alla porta con urgenza, accompagnato dal pianto disperato di un neonato.

Strange sollevò gli occhi al soffitto a volta, seccato.

Da due mesi a quella parte, quel pianto era ormai divenuto familiare all’interno del Santuario di New York.

«Entra pure, Joy!», permise.

La porta si aprì e il figlio dell’Antico comparve sulla soglia con Vither, urlante, fra le braccia.

Il Maestro salutò lo Stregone Supremo con uno stanco cenno del capo e raggiunse Maya.

Alla vista della giovane, Vither allungò le manine nella sue direzione per essere presa in braccio.

Maya fu più che felice di accogliere la piccola sulle sue ginocchia, facendola saltellare.

Subito, la bambina si quietò.

La ragazza le sorrise e le ripulì il volto bagnato di lacrime con il fazzolettino che portava in una delle molte tasche della tunica.

«Siamo più calmi ora, eh?», mormorò, mentre la piccola prendeva a succhiarsi le dita, chiaramente affamata.

Sì, forse era giunto il momento della colazione.

«Ti ringrazio per avermi svelato la verità, maestro», pronunciò mentre si alzava, sistemandosi la bambina contro la spalla destra. «Prometto che rifletterò con attenzione sulla questione prima di agire. Per ora, però, devo occuparmi di questa piccolina.»

Strange assentì, soddisfatto.

Maya si diresse quindi verso l’esterno, facendo scivolare l’indirizzo della madre in una tasca della tunica nera.

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Capitolo 43
*** Una vita normale ***


3 marzo 2046, 8:00 P.M.,
Brooklyn,
New York City.


Deborah sorrise radiosa quando la mano bionica si mosse, portandole il cucchiaio di minestra alle labbra.

Finalmente, dopo una settimana di tentativi, era riuscita a controllare la protesi artificiale che Victor le aveva regalato.

«Sì, ce l’ho fatta!», esalò, compiaciuta.

Un ampio sorriso nacque sulle labbra di Athena.

«Lo sapevo che ce l’avresti fatta!», esultò, euforica. «Come aveva detto Victor, ti sarebbe servito soltanto un po’ di esercizio!»

Deborah sorbì il minestrone e ne assaporò la nota amarognola.

Nulla le era mai sembrato così delizioso, malgrado quella sera si fossero limitate a scongelare uno dei molti preparati presenti nel congelatore di Athena.

Difatti, dopo essersi ripresa dalla battaglia che aveva portato alla sconfitta di Vither, Deborah e Athena si erano trasferiti nella graziosa villetta che Mantide divideva con sua madre Jane e suo fratello Perseus, a Brooklyn.

Jane e Perseus l’avevano subito accolta con calore all’interno della famiglia.

In particolare Jane, ormai in pensione, le era stata di gran compagnia durante il periodo di convalescenza.

L’erpetologa avvertì la gioia farsi largo nel suo petto.

Aveva raggiunto il suo obiettivo: una vita serena.

Una compagna da amare e un futuro lavoro nei laboratori della S.H.I.E.L.D., finalmente libera da Raptor.

Portò una mano al ciondolo di pietra grezza che pendeva dal suo collo, agganciato a una fine catenella.

Infatti, come le aveva promesso alcuni mesi prima, Maya aveva lavorato sull’incantesimo che Magda era riuscita a scovare nella biblioteca.

Tempo una settimana e Maya le aveva consegnato un ciondolo di pietra grezza che, non appena aveva sfiorato le sue dita, aveva assunto l’aspetto di un alligatore stilizzato, privo della zampa destra.

«Come ti avevo promesso, Raptor è adesso rinchiuso al suo interno. Come scritto nella guida, ora non ti resterà che indossarlo per il resto dei tuoi giorni, in modo che la creatura rinchiusa al suo interno possa vivere in contatto con il tuo essere, ma sia rinchiuso all’interno del talismano, dove non potrà nuocere a nessuno», le aveva spiegato Maya.

Deborah aveva faticato qualche istante per elaborare le parole della giovane Maestra, sconvolta.

Raptor era davvero rinchiuso all’interno di quel talismano?

Possibile che fosse finalmente libera?

«Non è un sogno, Deborah», l’aveva rassicurata Maya, intuiti i suoi pensieri. «Raptor è davvero rinchiuso all’interno di questo amuleto e, se ti assicurerai di indossarlo come ti ho raccomandato, sarai libera di arrabbiarti come e quando ti pare senza trasformarti in un enorme coccodrillo.»

Deborah le aveva gettato le braccia al collo e l’aveva stretta a sé, nascondendo il volto rigato di lacrime sul suo petto.

«Stavo pensando», esordì Athena, riportandola al presente, «dal momento che ti stai riprendendo alla grande e io ho già fatto domanda di trasferimento, perché non richiedere un’adozione?»

Il cucchiaio dell’erpetologa cadde nella ciotola con un leggero tonfo metallico, schizzando un po’ di minestra sulla tovaglia a quadri rossi e bianchi.

«Richiesta di adozione?», domandò alla compagna, incredula. «Intendi per un bambino? Mio e tuo?»

Athena rise sinceramente di fronte allo stupore di Deborah.

«Certamente», rispose. «Ti sei rivelata fantastica con Astrid e, dal momento che abbiamo tutti i requisiti per adottare un bambino, mi chiedevo perché aspettare ancora.»

Deborah si domandò se la richiesta di Athena non fosse prematura: erano sposate da soli due mesi e, malgrado adorasse i bambini, il dolore per la perdita di Astrid era ancora vivo nel suo cuore.

«Non c’è bisogno di prendere una decisione ora», continuò Athena, intrecciando le sue dita a quelle della moglie. «Vorrei solo che tu ci pensassi. Va bene?»

Deborah assentì, prima di sporgersi verso di lei e baciarla.

Quando si separarono, Athena si alzò, stringendo ancora la mano di Deborah nella sua.

«Ti dispiace saltare il dolce?», sussurrò lasciva, accennando all’entrata della camera da letto.

«No, per niente», rispose Deborah, alzandosi a sua volta.



* * *



25 maggio 2046, 3:30 P.M.,
177A Bleecker Street,
New York City.


«Sei sicura che non desideri che ti accompagni?», le domandò Cooper.

Vither, stretta fra le sue braccia, riposava tranquilla con il pollice stretto fra le labbra.

«Sicurissima», rispose Maya, sorridendogli con gratitudine. «Ho bisogno che qualcuno resti qui con Vither mentre sono via. Come puoi ben vedere, questa piccoletta ti adora.»

L’agente della S.H.I.E.L.D. assentì lentamente, dirigendosi verso la culla che Joy e Wong avevano regalato alla piccola come pegno di benvenuto al Santuario.

Adagiò la bambina al suo interno e la coprì con la trapunta rosa pesca, accertandosi che la piccola non prendesse freddo.

Cinque mesi erano trascorsi dalla conclusione della battaglia e Cooper doveva ammettere di essersi davvero affezionato a quella piccoletta, nonostante non si fosse dimenticato ciò che Vither era stata nella sua vita precedente.

«Io vado, allora», gli annunciò Maya. «Posso affidarti Vither per qualche ora? Giusto il tempo di scambiare due parole con mia madre e, se sarò fortunata, anche con Marcus. Dovrei tornare entro le cinque.»

«Certo, puoi contare su di me», replicò l’agente della S.H.I.E.L.D., osservando Maya infilarsi la giacca di demin.

«Grazie mille», lo gratificò la giovane con un sorriso, battendogli delicatamente una mano sulla spalla.

Si concentrò quindi sull’indirizzo che Strange le aveva fornito ben tre mesi prima.

Fra il matrimonio di Athena e Deborah, la cura di Vither e la fabbricazione del talismano per Pyrus, la Maestra non aveva avuto né il tempo, né il desiderio di riflettere sulla sua famiglia perduta.

Tuttavia, quando, tre giorni prima, Joy si era diretto su Pyrus per riprendere Magda con sé, la giovane aveva deciso d’incontrare sua madre Paige.

In quel modo, lei e Joy avrebbero potuto dedicarsi totalmente alle cure di Magda.

Serrò le palpebre e si teletrasportò.

Quando riaprì gli occhi, una graziosa villetta a due piani dai mattoni a vista e il tetto di tegole verdi si presentò di fronte a lei.

Maya osservò il tutto per qualche istante, soffermandosi sui nomi riportati sulla casella della posta.



“P. & M. McInnos”

Sì, l’abitazione era quella, senza alcun dubbio.

Si decise ad attraversare il vialetto e dirigersi verso il pesante portone, protetto da una zanzariera a maglie strettissime.

Raggiunse il campanello e premette il pulsante rosso.

Quando il trillò del campanello risuonò nella casa, Maya avvertì il cuore profondarle nel petto.

Paige e Marcus erano in casa?

E, se erano in casa, come avrebbero reagito nel rivederla dopo dieci anni?

“Forse avrei dovuto avvertirli del mio arrivo, prima di piombare qui” si ritrovò a riflettere, torturandosi un ciuffo di capelli con le dita.

Lo scattare della serratura la riportò al presente.

«Chi è?», domandò una voce familiare e un sorriso nacque spontaneo sulle labbra di Maya.

Quella era la voce di Paige!

La voce di sua madre!

Fece per parlare, quando Paige l’anticipò.

La donna spalancò la porta e aprì la cerniera della zanzariera, gettando le braccia al collo della figlia.

«Maya!», esalò, il volto già bagnato di lacrime. «Maya!»

La ragazza realizzò che, malgrado gli anni passati, sua madre non era cambiata.

Certo, qualche ruga in più era comparsa sul suo volto e i suoi capelli erano ora più grigi che biondi, ma il suo abbraccio e il suo calore non erano mutati.

«Mamma! Mi dispiace così tanto… Se solo avessi saputo… Se il maestro mi avesse messo al corrente...»

Percepì le lacrime pizzicarle gli occhi, ma si sforzò di non piangere.

Sapeva bene che, se fosse scoppiata a piangere, avrebbe preso anche a singhiozzare e balbettare.

«Non rimproverarti inutilmente, tesoro», sussurrò Paige, stringendola a sé con forza. «Come Strange ti avrà di certo riferito, mi sono tenuta informata sulla tua crescita e su tutti i tuoi progressi. Sono davvero fiera di te, Maya. Sono orgogliosa di ciò che sei diventata e di quel che hai fatto. Accidenti, hai salvato l’universo!»

S’interruppe per riprendere fiato e Maya si scostò un po’ dalla madre, lo spazio necessario per vederla bene in viso.

Gli occhi della donna erano arrossati a causa delle lacrime versate e il suo naso gocciolava.

«Va tutto bene, mamma», tentò di rassicurarla. «Ora sono qui, di fronte a te. La minaccia di Vither e ormai lontana e noi del Santuario stiamo lavorando affinché la bambina cresca come una giovane a posto.»

Paige assentì le sorrise e Maya si ritrovò a imitarla, sollevata.

«Allora, Salvatrice del Mondo, ti va una tazza di tè?», le offrì la donna e Maya la seguì di buon grado.

La madre la guidò prima verso l’anticamera e, successivamente, in direzione della cucina.

Si trattava di una piccola stanza dal soffitto basso e le pareti ricoperte di carta da parati rosa pallido.

Al suo interno erano sistemati un fornello a quattro fuochi, un comodo piano da lavoro, un lavandino, un frigorifero e un tavolo dall’aria traballante, corredato di tre sedie.

«Prendi posto, tesoro», l’invitò Paige, indicandole il tavolo.

Maya la ringraziò e si accomodò sulla sedia più vicina, facendo attenzione a non appoggiare i gomiti sul tavolo, preoccupata di provocare qualche danno.

La madre raggiunse il frigorifero di metallo e ne estrasse una caraffa di tè.

Recuperò due bicchieri e appoggiò il tutto sul tavolo.

«Ghiaccio?», le offrì. «Ne ho un contenitore pieno in freezer.»

«No, grazie.»

Aspettò che la donna le riempisse il bicchiere per poi portarselo alle labbra, assaporandone il piacevole sentore di limone.

«Marcus!», gridò Paige. «Vieni in cucina, abbiamo un’ospite! E lascia quel dannato telefono al piano di sopra!»

Maya abbandonò il bicchiere sul tavolo e attese con impazienza l’arrivo del fratello.

L’ultima volta che l’aveva visto aveva appena compiuto quattro anni ed era accaduto prima dell’incidente che si era portato via suo padre e quasi ucciso sua madre.

Ai tempi, non era altro che un bambinetto pallido e mingherlino, con corti capelli scuri e acquosi occhi azzurri ereditati da loro madre.

Si udì uno sbuffo seccato e, poco dopo, un ragazzino fece il suo ingresso nella cucina.

Maya l’osservò, confusa e incuriosita nel contempo.

Malgrado si attendesse un cambiamento, non se ne immaginava certamente uno così radicale: Marcus si era tinto i capelli di verde, presentava numerosi piercing a naso, labbra e orecchie e alcuni tatuaggi sulle braccia, messi in mostra dalla canottiera nera che indossava.

«Marcus, saluta la nostra ospite», l’invitò Paige.

Marcus sbuffò e salutò Maya con uno svogliato cenno del capo.

«Piacere di rivederti, Marcus», lo gratificò Maya, incerta.

Il ragazzino accennò un nuovo gesto del capo e rivolse a sua madre uno sguardo in tralice, come per chiederle chi fosse quella giovane donna.

Prima che Paige potesse rispondergli, Maya l’anticipò.

«Ti sembrerà strano, Marcus, ma sono tua sorella maggiore Maya.»

Il ragazzino strabuzzò gli occhi e la squadrò da capo a piedi, cercando di comprendere come quella ragazza potesse essere sua sorella, scomparsa ben dieci anni prima.

«Non è possibile», mormorò infine, ancora incredulo. «Mia sorella è scomparsa molti anni fa. Dillo che sei qui per approfittare di mia madre per estorcerle dei soldi. Non posso credere che una viscida ciarlatana come te possa essere Maya!»

Maya si sollevò furente e sbatté una mano sul tavolo traballante.

«Chi sei tu per giudicarmi?», lo apostrofò, rabbiosa. «Sono davvero tua sorella Maya. Se desideri credermi, buon per te. Al contrario, non mi interessa. Tuttavia, non ti permetto di chiamarmi “approfittatrice”! Non cerco soldi e non ne ho bisogno. Tutto ciò che volevo ottenere dall’incontro di oggi era semplicemente rivedere la mia famiglia dopo dieci anni di lontananza.»

Un silenzio imbarazzato calò nella piccola cucina mentre Marcus continuava a scrutarla con odio e disprezzo.

Paige era interdetta.

Cos’avrebbe dovuto fare?

Prendere le difese di uno dei suoi figli o lasciare che si chiarissero da soli?

Maya si alzò e le dedicò un sorriso sincero, raggiungendola.

«Mi dispiace molto per aver irritato Marcus», si scusò, il capo chino. «Credo sia giunto per me il momento di andare. È stato davvero piacevole rivederti, mamma.»

Marcus le riservò un’occhiata truce che Maya sostenne senza difficoltà.

«Mi dispiace molto, tesoro, ma non devi preoccuparti. Marcus ha solo bisogno di un po’ di tempo. Sai come sono fatti gli adolescenti, no?»

Maya annuì lentamente, malgrado ricordasse bene di non essere mai stata un’adolescente turbolenta.

Certo, aveva avuto anche lei i suoi alti e bassi, ma Magda, Strange, Joy e Wong erano sempre stati abili nel gestirla, calmandola prima che potesse scaricare la sua rabbia ingiustificata su qualcuno o qualcosa.

«Arrivederci, allora», si congedò, rivolgendosi a entrambi.

Poco dopo, equilibrò la propria energia e sparì.



* * *



27 maggio 2046, 6:30 P.M.,
177A Bleecker Street,
New York City.


Magda riacquistò conoscenza, avvertendo il morbido letto sotto di sé.

Mugugnando, si voltò su un fianco, le palpebre ancora chiusi.

«Ma che ore sono?», si domandò. «Dev’essere ancora notte fonda. Sono esausta.»

Fu sul punto di riaddormentarsi, quando udì una voce familiare chiamarla con urgenza.

«Magda! Sei davvero sveglia?»

«Joy», biascicò, la voce impastata di sonno. «Cosa ci fai nella mia camera? Lasciami riposare. È ancora presto.»

Silenzio.

Passi affettati che abbandonavano la camera.

Silenzio.

Magda si rigirò sulla schiena, sperando che il sonno la riaccogliesse fra le sue braccia.

Poi, Joy fece ritorno, portando con sé una seconda persona.

«Magda», sussurrò una voce femminile che la donna riconobbe come quella di Maya. «Puoi aprire gli occhi, per favore?»

La giovane era preoccupata e, malgrado si sentisse esausta, Magda eseguì la sua richiesta.

Maya si portò le mani alle labbra mentre i suoi occhi si riempivano di lacrime.

Sul viso di Joy, invece, era comparso un sorriso orgoglioso.

«Ci vedi, Magda?», le domandò la giovane.

«Certo, Maya, non farmi domande sciocche! Ti vedo e ti sento benissimo», rispose, seccata.

Fece per scalciare le coperte che le coprivano le gambe per alzarsi, ma non ci riuscì.

Atterrita, si accorse di non avere più potenza nelle gambe, come se le avesse tenute ferme per interi mesi.

Inoltre, il suo corpo appariva mutato drasticamente: le ossa erano scoperte, tutto il grasso sembrava scomparso, i muscoli apparivano atrofizzati e la sua pelle aveva assunto un colorito grigiastro.

Cosa diamine le era accaduto?

«Non ricordi nulla di quel che ti è accaduto?», indagò Joy, riservandole un’occhiata stupefatta.

«Non capisco», replicò. «Cosa dovrei ricordare?»

Joy si accomodò sulla sedia imbottita sistemata accanto al letto di Magda.

«Il nome “Pyrus” ti dice qualcosa?», tentò di nuovo.

Magda rifletté per qualche istante sulle parole di Joy, poi assentì.

«Si tratta del pianeta su cui dobbiamo dirigersi io e te per recuperare la reincarnazione della Gemma del Potere. Dico bene?»

Joy sollevò gli occhi al cielo.

Sarebbe stato necessario un bel po’ di tempo per spiegare a Magda tutto ciò che era accaduto in quei mesi.

Maya, invece, si limitò a osservare la donna con cipiglio preoccupato.

Che Magda si fosse davvero dimenticata del suo eroico sacrificio?

«Non posso crederci», mormorò fra sé e sé. «Davvero non ricordi nulla?»

La donna le riservò un’occhiata confusa e Maya comprese che stava raccontando la verità.

Che gli abitanti di Pyrus avessero eliminato di proposito la sua memoria affinché non ricordasse nulla?

«Ciò che sto per rivelarti potrà essere destabilizzante, ma hai perso la memoria», annunciò Joy.

Avvicinò la mano alla fronte di Magda e le mostrò quanto accaduto su Pyrus: il pianeta deserto, l’incontro con il lupo, la presenza di abitanti privi di aura vitale, il nascondiglio sotterraneo e infine il suo sacrificio.

Quando tornò in se stessa, Magda era esterrefatta, le labbra leggermente aperte e gli occhi strabuzzati.

«Davvero? Ciò che mi hai mostrato corrisponde davvero alla verità?», chiese con un filo di voce.

«Sì, purtroppo sì», rispose Maya, ricordando il dolore provato nell’istante in cui Joy le aveva riferito del sacrificio della donna.

«Cos’è accaduto in seguito? Il mio sacrificio è almeno servito a qualcosa? Drasta è salva?»

Maya assentì.

«Drasta si è salvata grazie a te e, se non fosse stato per il tuo sacrificio, non avremmo mai potuto evocare il Figlio dell’Infinito, la mitica creatura formata dalla fusione di tutte le Gemme. È stato proprio il Figlio dell’Infinito a sconfiggere Vither mentre Deborah si è occupata del suo esercito. Ora, la pace regna sul nostro universo. Inoltre, siamo riusciti a riportare nella nostra dimensione anche il maestro Strange e tutti gli altri Avengers scomparsi sei anni fa.»

Un sorriso stanco nacque sulle labbra di Magda.

«E Deborah, come sta?», chiese.

Malgrado il poco tempo trascorso insieme, Magda si era affezionata molto a Deborah.

Specialmente dopo averla aiutata a uscire dalla pericolosa depressione in cui era caduta prima che Maya le promettesse di aiutarla a liberarsi di Raptor una volta sconfitta Vither.

«Sta molto bene, Magda, non temere. Come le avevo promesso, sono riuscita a forgiare un talismano in grado di contenere Raptor. Inoltre, lei e Athena si sono sposate due mesi fa e stanno facendo richiesta allo Stato per adottare un bambino.»

La donna annuì, sollevata.

Poi, ricadde sul cuscino, esausta.

«Credo sia giunto il momento di lasciarti riposare», considerò Joy, afferrando Maya per un braccio. «Cerca di dormire, Magda. Fra qualche ora ti porterò la cena.»

Magda ebbe solo la forza di annuire prima di chiudere gli occhi.

Si addormentò all’istante.

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Capitolo 44
*** Vite diverse, Destino comune ***


16 luglio 2046, 2:00 A.M.,
177A Bleecker Street,
New York City.


Il pianto di Vither la svegliò nel cuore della notte.

Maya sbuffò seccata e si mise seduta.

Le lenzuola caddero in avanti, scoprendole il petto nudo.

Strofinandosi un occhio, la giovane afferrò il baby monitor sistemato sul comodino e diede un’occhiata allo schermo: Vither si era svegliata e piangeva a squarciagola.

“Probabilmente ha avuto un incubo”, rifletté. “Aveva cominciato a dormire per più di quattro ore a notte prima di svegliarsi”.

Cooper si rigirò nel sonno, sistemandosi a pancia in giù sul materasso.

Facendo attenzione a non svegliare il compagno, Maya scivolò fuori dal letto e indossò la vestaglia azzurra sistemata accanto alla porta.

Si strinse il nodo intorno alla vita e si inoltrò nel corridoio in punta di piedi.

Ora che Vither aveva compiuto sette mesi, gli abitanti del Santuario avevano deciso, di comune accordo, di trasferirla in una camera tutta sua.

«In questo modo», le aveva detto Joy, «tutti gli abitanti del Santuario avranno la possibilità di raggiungere la sua stanzetta e consolarla. Inoltre, tu avrai la tua intimità con Cooper. In fondo, state insieme da pochi mesi e vorrete godervi il vostro tempo insieme.»

Maya aveva deciso di fare una prova e, per quanto le mancasse avere la piccola Vither accanto a sé, doveva ammettere che quel metodo si stava rivelando davvero efficace.

Raggiunse la porta della cameretta di Vither ed entrò.

«Ehi, piccolina, tutto bene?», domandò, sollevando la bambina fra le braccia. «Di solito mi svegli più tardi. Hai avuto un incubo?»

Vither continuò a singhiozzare mentre Maya la cullava, tentando di calmarla.

Poco dopo, quando ebbe la bambina smise di piangere, la giovane Maestra si accomodò sulla sedia a dondolo che Joy aveva sistemato accanto alla finestra che dava sul cortile.

«Vediamo di darti da mangiare, Vither, così posso tornare a letto», mormorò, soffocando uno sbadiglio.

Afferrò lo Sling Ring che portava agganciato al collo e lo utilizzò per evocare un piccolo portale arancione che dava sulla cucina.

Infilò il braccio al suo interno e recuperò uno dei biberon pieni di latte, tenuti sempre pronti nella dispensa.

Ritrasse il braccio e, dopo aver riscaldato rapidamente il latte sussurrando un incantesimo, avvicinò la bottiglietta alle labbra della bimba.

Subito, Vither prese a poppare con voracità, afferrando il biberon con le manine.

Nel giro di qualche minuto, tutto il latte era scomparso.

«Certo che avevi fame, eh?», le domandò con una risata, sistemando la piccola sulla spalla per farle fare il ruttino.

Concluso, riprese a cullarla, cercando di farle riprendere sonno.

Infine, quando si fu assopita, Maya si alzò e sistemò la piccola nel suo lettino, coprendola con il lenzuolo rosso fuoco.

Sorrise, regalandole un’ultima carezza sulla testolina, coperta ormai da una folta peluria bianca che Magda aveva preso l’abitudine di sistemarle in due piccoli codini.

Silenziosa, uscì dalla camera e si chiuse la porta alle spalle, in modo che la bambina potesse riposare tranquilla.

Raggiunse la sua camera e si risistemò sotto le lenzuola dopo essersi liberata dalla vestaglia.

Cooper borbottò qualcosa e si voltò su un fianco, avvolgendo le proprie braccia intorno al bacino di Maya.

L’avvicinò a sé e la strinse, infilando il volto nell’incavo della sua spalla.

«Si è tranquillizzata?», le domandò, la voce impastata di sonno.

«Sì, aveva solo un po’ di fame.»

L’uomo assentì mentre l’ennesimo sbadiglio coglieva Maya.

«Se desideri, la prossima volta posso alzarmi io. Sai che non mi pesa.»

«Ti ringrazio», sorrise lei. «Sono solo molto stanca. Ieri notte Magda ha dato di matto e non si è addormentata prima che l’alba sorgesse.»

Infatti, dal momento in cui Magda era ritornata da Pyrus, era tormentata da continui incubi che la tenevano sveglia.

Per di più, il continuo altalenare dei suoi sentimenti aveva portato a continui scoppi di energia che avevano costretto i Maestri del Santuario, a turno, a trascorrere la notte al fianco della donna, in modo che la situazione non degenerasse.

«Chi controlla Magda, oggi?», le domandò Cooper, riportandola al presente.

«Valk», rispose. «In questo modo, possono tenersi compagnia a vicenda. Ultimamente, anche lui ha qualche difficoltà nell’addormentarsi.»

Terminato il suo compito di guardiano di Tanar, Valk aveva deciso di restare un altro po’ sulla Terra, in modo da studiare più approfonditamente i costumi e le tradizioni del pianeta.

In realtà, Maya sospettava che Valk avesse paura di tornare sul suo pianeta e raccontare al Consiglio dei Saggi ciò che era capitato in quei mesi.

Tuttavia, Valk era un suo grande amico e non gli avrebbe mai intimato di lasciare il Santuario, specialmente dopo essersi proposto di fare compagnia a Magda durante le sue notte insonni.

Cooper la strinse più forte a sé.

«Che ne dici di tornare a dormire?», s’informò. «Sto morendo di sonno.»

Maya sorrise e si voltò a fronteggiarlo, appoggiando la propria fronte contro quella di lui.

«Grazie», mormorò, stampandogli un rapido bacio sulle labbra. «Grazie, di tutto.»

Cooper sorrise, intenerito.

«Per cosa?», replicò. «Se non fosse stato per te, non sarei mai stato in grado di rivedere mio padre. Sono io che dovrei ringraziarti.»

Maya sorrise, prima che Cooper le si avvicinasse e posasse le proprie labbra sulle sue.

La giovane Maestra avvertì il cuore accelerare i propri battiti e chiuse gli occhi, godendosi quel momento.

Sì, la sua vita poteva essere colma di ostacoli e difficoltà, ma non l’avrebbe mai cambiata con nulla al mondo.



* * *



21 luglio 2046, 8:00 P.M.,
Brooklyn,
New York City.


Deborah osservò il bambino riposare tranquillo nella sua culla.

Sorrise intenerita quando Kevin contrasse il volto nel sonno e si portò il pollice alle labbra.

«Certo che è davvero carino, non trovi?», le domandò Athena, avvicinandosi alla culla.

L’erpetologa assentì, la mano bionica premuta sulla spalletta della culla.

«La prossima volta che tuo padre viene a trovarci, gradirei che non lo portasse con sé su quell’astronave di matti. Quel procione non me la racconta giusta», replicò Deborah, sollevando lo sguardo sulla moglie.

Grazie all’intervento di Pepper e Maria Hill, il bambino era stato affidato loro in tempo record: in fin dei conti, Athena e Deborah erano state vitali per la salvezza dell’universo e lo Stato aveva voluto ringraziarle.

La storia di Kevin non aveva fatto che accelerare il suo affidamento alle due donne: sua madre era deceduta a causa di un cancro appena dopo averlo partorito e il padre, agente della S.H.I.E.L.D., era caduto nella battaglia contro Vither.

Athena accennò una breve risata, riportando Deborah al presente.

«Non dovresti dubitare di Rocket. Quel procione ha aiutato nel salvataggio dell’universo e si è rivelato un vero e proprio padre per Groot, sai? Lui e mio padre sono molto amici e non mi dispiace affatto che Kevin li conosca. Specialmente ora che hanno deciso di trascorrere un po’ di tempo sulla Terra.»

«Lo so, ma desidero che Kevin abbia un’infanzia il più normale possibile e, detto fra noi, i Guardiani della Galassia non si possono considerare esattamente “normali”.»

«Anch’io sono cresciuta con loro e ti assicuro che la mia infanzia è stata molto felice. Inoltre, nessuno dei nostri amici può essere considerato “normale”. Desideri forse tenere Kevin lontano dagli Avengers del N.A.P.?»

«No, certo che no!», smentì Deborah di scatto, richiamando alla mente le immagini dei restanti componenti del New Avengers Project, il nome che Maria Hill aveva dato al nuovo gruppo di Avengers che avevano sconfitto Vither.

“In questo modo”, aveva comunicato loro la direttrice della S.H.I.E.L.D., durante l’ultima riunione da lei indetta, “in caso di una nuova minaccia o di una possibile scomparsa da parte degli Avengers appena ritornati, saprò a chi rivolgermi.”

Kevin aprì gli occhi e scoppiò in lacrime.

Subito, Athena si piegò sulla culla e raccolse il bambino fra le braccia, nel tentativo di calmarlo.

«Credo che abbia bisogno di un cambio di pannolino», mormorò, quando la puzza le giunse alle narici. «Non preoccuparti, ci penso io. Tu comincia a preparare la cena, per favore, sto morendo di fame.»

Deborah assentì e, dopo averla ringraziata, si diresse di buon passo verso la cucina.

Pensò di preparare una veloce omelette, quando udì la voce di Perceus chiamare lei e Athena dal piano di sopra.

«Ehi, Perceus, cosa succede?», domandò, raggiungendo l’uomo.

Malgrado fossero gemelli, Athena e Perceus era piuttosto diversi.

Mentre la prima possedeva lunghi capelli biondi, occhi azzurro cielo e tratti del volto e del corpo molto simili a quelli di Thor, il secondo presentava corte ciocche rosse, occhi verdi e un aspetto decisamente pingue per essere il figlio di una divinità.

«Io e la mamma volevamo sapere se ci raggiungerete per la cena», l’invitò Perceus, risistemandosi gli occhiali dalla montatura nera scivolati sulla punta del naso. «Mia madre ha preparato le lasagne.»

Deborah assentì con l’acquolina alla bocca.

Jane era estremamente portata nella cucina, specialmente ora che aveva il tempo di sperimentare grazie al pensionamento.

«Accetto con piacere e sono certo che Athena sarà felice almeno quanto me», gli confermò.

Perseus annuì e lasciò che Deborah tornasse al piano di sotto per avvertire Athena.

Poco dopo, Athena e Deborah tornarono al piano superiore, portando Kevin fra le braccia, ora addormentato.

«Perché non l’avete lasciato al piano di sotto?», domandò Perseus, osservando il piccolo dormiente, la testolina posata sul petto di Athena.

«È stato una mia idea», gli spiegò la sorella.

Raggiunse il seggiolino sistemato accanto alla poltrona su cui sua madre era solita accomodarsi nei momenti in cui si prendeva cura del suo nipotino, quando entrambe erano a lavoro.

«Ho paura che possa svegliarsi mentre stiamo cenando e scoppi in lacrime non vedendoci lì con lui.»

Il suo gemello scoppiò a ridere, fulminato immediatamente da un’occhiataccia di Jane.

«E pensare che prima di adottarlo eri tu che dicevi di non volerlo viziare troppo.»

«Questo non è viziare», lo rimproverò la madre, passandosi una mano fra i capelli sale e pepe, «Kevin ha appena cinque mesi e necessita di cure. Alla sua età, tu piangevi non appena mi allontanavo da te.»

Perceus tacque, rosso in volto per la vergogna.

Deborah ridacchiò, divertita.

Athena sistemò il bambino dormiente nel seggiolino, lo assicurò con le cinghie e, successivamente, lo coprì con una leggera coperta giallo limone.

Kevin continuò a riposare, la bocca tutta gengive leggermente socchiusa.

«Venite a mangiare, forza», le invitò Jane, servendo due grosse porzioni di lasagna nei piatti di Athena e Deborah.

«Mamma, non è troppo?», domandò l’agente della S.H.I.E.L.D., scrutando la sua razione di cibo.

«Non dire sciocchezze, Athen!. Avete bisogno di energia per prendervi cura del mio nipotino.»

L’immagine della sua famiglia si fece largo nella mente di Deborah: sua madre intenta ai fornelli, suo padre sprofondato nel divano di fronte al televisore, suo fratello intento a studiare matematica piegato sui libri…

Chissà come stavano?

Erano anni che non aveva loro notizie.

Si domandò se fosse ancora possibile recuperare il loro rapporto.

In fondo, Kevin era anche loro nipote.

“Sì”, decise, “Domani cercherò i loro contatti e tenterò di comunicherò loro che Raptor non è più un problema. Inoltre, scommetto che vorranno incontrare Kevin.”

«Cosa succede, cara, non hai fame?», le domandò Jane, risvegliandola dai suoi pensieri. «Non hai toccato nulla.»

La giovane si riscosse e affondò la forchetta nella lasagna, portandosene una generosa quantità alla bocca.

Ingoiò il boccone e le sorrise, riconoscente.

«È buonissima, Jane», la gratificò. «Ero solo persa nei miei pensieri.»

Jane le restituì il gesto e ricominciò a mangiare, rivolgendo a Perceus una domanda riguardante il turno di lavoro dell’indomani per accordarsi sul pranzo.

Deborah percepì una piacevole sensazione di calore propagarsi nel suo petto: quella era davvero la felicità.

Una famiglia che teneva a lei, un nuovo lavoro che adorava, una compagna che l’amava e un bambino da crescere insieme.

Sì, la sua vita era decisamente completa.



* * *



25 luglio 2046, 7:00 P.M.,
New Asgard,
Scozia.


«Ottimo lavoro, Connor», si complimentò Valchiria, sorridendo soddisfatta. «La pesca è stata davvero fruttuosa oggi.»

Il ragazzo la ringraziò con un cenno del capo, osservando le reti da pesca ricolme di ogni tipo di frutto di mare: pesci spatola, merluzzi, tonni, polpi e persino alcuni pesci gatto proveniente da uno dei fiumi vicini.

«Di questo passo, avremo i soldi necessari per comprare e addestrare altri cavalli e forgiare delle nuove spade. La battaglia contro Vither ci ha colto davvero alla sprovvista e abbiamo perso più cavalli e armi di quanto mi aspettassi», continuò la regina.

Malgrado indossasse la salopette di gomma verde e gli stivali al ginocchio, l’aura da generale non l’aveva affatto abbandonata.

Connor, invece, privato dei suoi abiti di cuoio rinforzato, il pettorale dell’armatura e la sua spada, si sentiva davvero fuori luogo.

Paige attraversò la passerella e si affiancò ai due, lo sguardo fisso sulle reti da pesca.

«Paige», la chiamò Valchiria, sorridendole cordiale. «Connor mi ha raccontato che ti sei unito alla sua ciurma di pescatori. Penso tu abbia portato fortuna alla “Lady Sif”.»

La ragazza scoppiò a ridere e Connor la imitò, sinceramente divertito.

La regina di New Asgard aggrottò le sopracciglia, confusa.

Cosa aveva detto di così divertente?

«Perdonaci, Valchiria. Non è stato a causa delle tue parole, ma devi sapere che è grazie a Paige se siamo riusciti a pescare così tanto: ha utilizzato i suoi poteri per stordire i pesci, in modo che non potessero sfuggire dalla rete», le spiegò Connor.

Valchiria soppesò le parole dell’uomo, palleggiando il suo sguardo fra i due.

Infine, rivolse tutta la sua attenzione su Paige.

«In questo caso, ti ringrazio per l’aiuto. Di questo passo, la Lady Sif diverrà il nostro peschereccio più fruttuoso.»

Paige la ringraziò con un cenno del capo.

«Valchiria!», chiamò uno dei pescatori della Warrior, uno dei pescherecci più piccoli di New Asgard. «Ivar e i suoi sono rimasti bloccati al largo. Sembra che abbiamo terminato il carburante prima del dovuto.»

«Arrivo. Comunica a Ivar che sarò lì a breve.»

Si congedò da Connor e Paige e si diresse verso le stalle, raggiungendo il suo stallone alato.

Malgrado avessero potuto raggiungere il peschereccio via mare, utilizzare il pegaso era decisamente più veloce e comodo.

Pochi minuti dopo, gli abitanti di New Asgard osservarono il pegaso candido spiccare il volo con Valchiria in groppa.

Il cavallo alato raggiunse la Warrior e, dopo che Valchiria si fu informata sulla posizione del peschereccio di Ivar e fissate alle sacche da sella due taniche di benzina, partì a tutta velocità verso nord.

Connor e Paige la seguirono con lo sguardo finché non fu scomparsa all’orizzonte.

«Che ne dici di tornare a casa? La Lady Sif per oggi ha finito e non resta che scaricare il pesce», propose Connor.

La ragazza acconsentì e i due raggiunsero rapidi la piccola abitazione di Connor, una delle tipiche case dalla struttura esile tinta di verde e dal tetto spiovente.

«Casa, dolce casa», pronunciò il ragazzo, sfilandosi gli stivali di gomma e l’impermeabile giallo. «Sono davvero esausto. Tu, no?»

Paige sistemò i propri stivali nella scarpiera posizionata accanto all’ingresso e lasciò l’anta aperta, in attesa che Connor la imitasse.

Il ragazzo sorrise fra sé e sé.

In seguito alla battaglia in cui avevano sconfitto Vither, la loro conoscenza si era evoluta in una vera e propria relazione che stava procedendo a gonfie vele.

Paige aveva portato con sé non solo l’amore, ma anche una buona quantità di nuove abitudini.

La scarpiera era solo una di quelle, dal momento che la giovane si era rivelata una vera e propria maniaca dell’ordine.

Connor infilò gli stivali nella scarpiera e sistemò l’impermeabile all’attaccapanni, muovendosi poi verso il salone.

«Qualche idea per la cena?», domandò.

Paige lo raggiunse e compose una frase nel linguaggio che aveva ideato con Greyson.

“Mi dispiace, ma non posso restare stasera. Ho promesso a Greyson di cenare con lui.”

Connor annuì, comprensivo.

Negli ultimi mesi, Greyson si era avvicinato molto a una ragazza di Detroit che aveva salvato da un potenziale stupro.

Da quel giorno, tra Greyson e Jessica vi era stato un continuo tira e molla e quella sera, per l’ennesima volta, la ragazza aveva dato buca all’eroe di Detroit.

«Allora ti lascio andare, ma, a questo punto, credo che Greyson dovrebbe mollarla. Dovrebbe aver compreso che Jessica non ha alcuna intenzione di avere una relazione seria con lui.»

Paige recuperò dalla cintura il piccolo Sling Ring che Maya le aveva donato.

«Questo Sling Ring è speciale», le aveva spiegato la Maestra delle Arti Mistiche. «Non ha bisogno di alcun addestramento magico per essere utilizzato, ma conduce soltanto a un’unica destinazione. L’ho creato apposta per te: ti basterà indossarlo, disegnare un portale ed esso ti condurrà a New Asgard o a Detroit in base ai tuoi pensieri.»

Allora, Paige l’aveva abbracciata per ringraziarla del magnifico regalo.

La ragazza sollevò una mano e disegnò rapida un portale d’energia verde.

Si voltò verso Connor e depositò un leggero bacio sulle sue labbra prima di sparire all’interno del portale, diretta a Detroit.

Giunta al suo appartamento, la ragazza trovò Greyson accomodato sul divano in canottiera e pantaloncini, un barattolo di gelato al cioccolato stretto fra le mani.

Alla televisione stavano trasmettendo un reality show che Paige considerò subito di pessimo gusto.

«Paige», la salutò il ragazzo, infilandosi in bocca l’ennesimo cucchiaio di gelato. «Sei già qui? Credevo saresti rimasta a New Asgard ancora un po’!»

La donna sospirò e lo raggiunse, togliendogli la confezione di gelato dalle mani.

«Ehi! Che fai?», la rimproverò con fastidio, tendendo le mani verso di lei per recuperare il barattolo.

“Ti rendi conto di come ti sei ridotto, Greyson?”, compose Paige con la mano libera. “Questo soltanto perché Jessica ti ha dato buca?”

Greyson abbassò lo sguardo al pavimento e assottigliò le labbra, irritato.

«Ha avuto un imprevisto e non poteva davvero incontrarmi», la giustificò, poco convinto.

“Non mentire, Greyson. Jessica ha avuto imprevisti per gli ultimi due appuntamenti e quando vi incontrate non fate altro che litigare. Credo che anche tu abbia compreso che la vostra relazione è tossica per entrambi.”

Il ragazzo si morse le labbra con forza, addolorato.

«Sono ben consapevole che il nostro rapporto è tossico», replicò con voce tremante.

“Allora perché non tronchi i rapporti con lei?”

Greyson sollevò lo sguardo e Paige notò, con un nodo alla gola, che gli occhi dell’amico erano lucidi di lacrime.

«Perché non ho ancora lasciato Jessica, mi chiedi? La risposta è molto semplice: mi sento solo. Dal momento in cui tu e Connor vi siete messi insieme, passi molto tempo in sua compagnia. Mi manca molto il tempo che trascorrevamo insieme. Inoltre, papà ha cominciato a stare male e sua nipote non vuole neppure farmi avvicinare al suo ospedale.»

Una lacrima rigò il volto di Paige che subito lo raggiunse e lo cinse in uno stretto abbraccio.

L’uomo la strinse a sé e si sciolse in lacrime, dando sfogo a tutti i suoi sentimenti.

Paige non ebbe bisogno di comporre alcuna parola.

Si erano ritrovati molte volte in quella situazione e quell’abbraccio stava parlando per entrambi: nonostante non fossero fratelli di sangue, lo erano certamente nel cuore.

Lei ci sarebbe sempre stata per lui e lui ci sarebbe sempre stato per lei.

Qualsiasi cosa accadesse.

Quando si staccarono, Greyson asciugò le lacrime passandosi la mano sugli occhi e accennò un piccolo sorriso malinconico.

«Domani andrò a casa di Jessica e taglierò i ponti con lei. Poi, raggiungerò l’ospedale di papà: costi quel che costi, devo essere presente durante i suoi ultimi giorni di vita. Sento che glielo devo…»

Paige cercò di restituirgli il sorriso e, con mani tremanti d’emozione, compose: “Verrò con te.”

Perché era questo che faceva una famiglia: restare unita, nel bene e nel male.



* * *



25 luglio 2046, 7:30 P.M.,
Stark Industries - Sede principale,
New York City.


Victor sollevò lo sguardo al cielo, osservando la splendida torre che sua madre e Maria Hill avevano fatto costruire.

I lavori, sollecitati dalla S.H.I.E.L.D., erano stati completati in sette mesi precisi ed era pronta a entrare in funzione.

Come specificato nel progetto originale, la torre sarebbe servita come nuovo quartier generale degli Avengers e del neonato N.A.P., progetto di cui Maria Hill andava molto orgogliosa.

Infatti, come Nick Fury molti anni prima, l’attuale direttrice della S.H.I.E.L.D. aveva proceduto con l’ufficializzare il progetto chiamato New Avengers Project e dedicare loro alcuni piani della nuova torre.

Inoltre, la maggior parte di coloro che avevano lottato contro Vither avevano dato a Maria Hill la loro piena disponibilità: in caso di minaccia o pericolo, il N.A.P. sarebbe intervenuto.

Per il bene della Terra e dei suoi abitanti.

Victor abbassò lo sguardo sui piani inferiori della torre, dove sarebbero stati sistemati i laboratori di ricerca.

Iron Man sapeva che, fra i loro progetti, vi era la localizzazione del Figlio dell’Infinito.

Dopo aver pronunciato il suo ultimo discorso, il ragazzino era davvero scomparso e, da quel momento, si erano perse del tutto le sue tracce.

Persino gli abitanti di Wakanda, con la loro tecnologia avanzata e la geniale mente di Shuri concentrata sulla ricerca, non aveva ancora ottenuto alcun risultato.

“Scommetto che nessuno troverà il Figlio dell’Infinito se lui non vorrà farsi trovare”, rifletté il giovane, accarezzandosi il pizzetto scuro, striato da alcuni peli rossi. “Ho conosciuto Velia e, se quel ragazzino ha solo la metà delle sua caparbietà, allora non lo troveranno mai.”

«Victor!», lo chiamò la familiare voce di sua sorella. «Dove sei?»

«Qui, accanto alla vetrata.»

Morgan lo raggiunse con poche falcate, affiancandolo all’enorme vetrata che separava la Stark Tower dall’esterno.

«Cosa stavi guardando?», gli domandò la sorella, curiosa.

Victor notò che indossava ancora il sobrio completo nelle tonalità del grigio che portava ogni giorno in ufficio.

Evidentemente, Morgan era appena uscita da una riunione.

«Osservavo la nuova torre degli Avengers», le rispose, sincero. «Mi domandavo se, ora che tutti gli Avengers, sia i vecchi che i nuovi, sono riuniti, riusciremo a restare uniti. Non vorrei mai che si avesse una nuova Civil War. Pensa a cosa accadrebbe se si scatenasse una guerra fra noi ora che gli Avengers sono così tanti: vittime, danni, una nuova scissione...»

«Calma, fratellino, non credi di correre troppo?», lo interruppe Morgan, trattenendo una risata. «Non credo proprio che si scatenerà una nuova Civil War. Maria Hill e il suo pugno di ferro non lo permetteranno. Inoltre, credo che tutti gli Avengers siano impegnati in ben altre cose, come rifarsi una vita dopo essere stati confinati sei anni in una dimensione parallela, per esempio.»

Victor sollevò gli occhi al cielo, infastidito dall’ironia della sorella di fronte a una questione così rilevante.

«Ma se accadesse, cosa farebbe la S.H.I.E.L.D. a fermare un intero esercito come i Maestri delle Arti Mistiche o gli Asgardiani?», insistette.

Morgan scoppiò a ridergli in faccia.

«Tu credi che Valchiria e Connor permetterebbero agli Asgardiani di ammutinarsi? Senza dire che, per quanto possa starmi antipatica, Maya non è certo una guerrafondaia e lo stesso vale per Joy. Stammi a sentire, ti stai preoccupando inutilmente.»

«Tu prendi tutto con leggerezza», la rimproverò il fratello.

«E tu ti preoccupi per un nonnulla.»

«Possibile che non riusciate a discutere senza punzecchiarvi a vicenda?», intervenne Pepper, entrata nella stanza nel frattempo.

«È colpa di Victor, non fa altro che preoccuparsi per cose inutili», tentò di spiegarle Morgan, prima che Pepper la interrompesse con un cenno della mano.

«Non voglio sapere nulla. Mi piacerebbe soltanto che voi due andaste d’accordo per una sera. Potete farlo per me? Vorrei consumare una cena tranquilla con i miei figli.»

Victor e Morgan si scambiarono un’occhiata, poi assentirono: per quella sera, avrebbero potuto andare d’accordo per il bene della madre.

«Ah, figliolo», lo richiamò allora Pepper. «Oggi ha chiamato Minus. Tu eri rinchiuso nel tuo laboratorio e gli ho chiesto di richiamare domani.»

Victor scosse lentamente il capo, esasperato.

In seguito alla battaglia contro l’esercito di Vither, il ragazzo si era convinto che solo addestrandosi ogni giorno avrebbe potuto migliorare le proprie capacità e i suoi poteri.

E, dopo essersi trasferito con la famiglia nella nuova torre, Minus aveva preso l’abitudine di rivolgersi a Victor per ottenere diverse tecnologie che lo aiutassero con il suo addestramento.

Tuttavia, il ragazzo aveva distrutto una grande quantità di macchinari che Victor non aveva ancora riparato.

«Non è nulla di preoccupante, mamma», la tranquillizzò con un sorriso. «Minus avrà rotto l’ennesima apparecchiatura.»

Un sorriso si aprì sulle labbra di Morgan.

«F.R.I.D.A.Y., apri il tetto», ordinò, mentre batteva una mano sull’orologio d’argento che portava al polso.

Subito, la sua nuova armatura nei toni dell’argento e del blu ricoprì il suo corpo.

«L’ultimo che arriva alla torre paga il conto!», esclamò divertita, attivando i propulsori per il volo.

Il tetto, una cupola di vetro, si ritirò in una manciata di secondi e Morgan scattò verso l’alto, dirigendosi verso l’Avengers Tower.

Madre e figlio accennarono a loro volta un sorriso prima di attivare le loro armature, rossa e oro per Victor e cobalto e argento dorato per Pepper.

Entrambi abbandonarono la Stark Tower, all’inseguimento di Morgan.

Ben presto il ragazzo superò sua madre e affiancò la sorella, dando vita a uno scontro testa a testa.

Pepper sorrise fra sé e sé.

Tony sarebbe stato senz’altro orgoglioso dei suoi figli.



* * *



5 Agosto 2046, 11.00 A.M.
???


Il Figlio dell’Infinito sorrise, sollevato.

Sette mesi erano trascorsi dalla sua partenza e la situazione sulla Terra e nell’universo procedeva a gonfie vele.

Malgrado i componenti del N.A.P. avessero sentito la sua mancanza, sembrava che tutti si stessero ricostruendo una vita.

La fusione delle Gemme dell’Infinito era solito osservare periodicamente i componenti del N.A.P., per accertarsi che le gentili persone che avevano recuperato e protetto a rischio della loro stessa vita le reincarnazioni delle Gemme stessero bene.

Per fortuna, dopo un iniziale periodo di ripresa, le vite di tutti sembravano aver ritrovato la tranquillità.

«Mio signore», lo chiamò una voce familiare. «Dovresti riposarti un po’. Sei rimasto in questa posizione per almeno quattro ore.»

Il Figlio dell’Infinito riaprì l’occhio, rivelando la sua iride cristallina.

Il suo corpo smise di brillare e si depose con dolcezza sull’erba, ai piedi del grande albero che aveva scelto quella mattina.

Subito, Soul lo raggiunse al galoppo e gli lappò la guancia con la lingua umida.

«Ti ringrazio, Gadha», sorrise alla donna di fronte a sé, accarezzando il muso del suo pony. «Avevo bisogno di accertarmi che sulla Terra tutto procedesse per il verso giusto. In fondo, saranno loro i futuri paladini del nostro universo.»

Gadha accennò un sorriso intenerito.

Nonostante quel ragazzino potesse essere considerato una delle creature più potenti dell’interno universo, riponeva le sue speranze in un gruppo di umani.

Certo, terrestri con capacità uniche, ma pur sempre mortali.

«Sbagli a pensare a loro come semplici mortali», la rimproverò bonariamente il Figlio dell’Infinito. «Da soli possono essere deboli, ma insieme hanno creato un’armata inarrestabile che è riuscita persino a fermare la tua Signora. I terrestri hanno i loro difetti, certo, ma possiedono una forza nascosta che viene dal cuore che li rendono nemici temibili.»

Gadha assentì, l’immagine di Joy fissa nella mente.

“Lui è davvero speciale” rifletté fra sé e sé. “Spero di rivederlo, un giorno.”

Tuttavia, non sapeva spiegarsi cosa lo rendesse così speciale.

Era una sensazione a pelle, che nasceva dal suo istinto…

Il suo stomaco gorgogliò, annunciandole che era giunta l’ora di mettere qualcosa sotto i denti.

Il Figlio dell’Infinito accennò una risata e si rialzò, dirigendosi verso la capanna di roccia che avevano scelto come dimora, seguito a breve da Soul.

Quel pianeta verde si era rivelato una vera manna dal cielo: ricco di frutti, abitato da poche creature e con un clima simile a quello terrestre.

Un luogo idilliaco su cui trascorrere il resto della vita in pace e armonia con la natura.

Sì, Gadha si considerò davvero fortunata: dopo aver tanto penato, aveva finalmente trovato la sua felicità a fianco del Figlio dell’Infinito.



Angolo dell'Autore:
Salve e benvenuti all'epilogo del N.A.P.!
Lo so, avevo detto che avrei pubblicato ogni tre giorni tre capitoli, ma ho dovuto anticipare la pubblicazione degli ultimi capitoli a causa di impegni personali che mi terranno impegnata nei prossimi mesi.
Spero non vi dispiaccia avere a vostra completa disposizione l'intera storia!
Detto questo, il progetto del N.A.P. vi è piaciuto, sentitemi liberi di lasciare una recensione, che positiva o negativa che sia: mi piacerebbe molto conoscere cosa ne pensate di questa storia.
Detto questo, vi ringrazio immensamente per essere arrivati fin qui!
A presto!

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