VOGLIO UN BRAVO RAGAZZO {TAEKOOK}

di Elisa_Malse
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** 1 ***
Capitolo 2: *** 2 ***
Capitolo 3: *** 3 ***
Capitolo 4: *** 4 ***



Capitolo 1
*** 1 ***


JUNGKOOK'S POV:

Mia nonna ha sempre affermato che fare dolci è il miglior rimedio contro la tristezza. È una nonna adorabile, e faceva biscotti talmente buoni da leccarsi i baffi, ma si sbagliava di grosso. Da più di due anni ormai sfornavo nella mia bakery torte di ciliegie, paste, croissant, bagel, e qualunque altro dolciume si possa immaginare. E avevo capito che i dolci sono un rimedio solo contro il girovita e ogni proposito di seguire una dieta.

E comunque non ero una persona triste. Avevo compiuto da poco venticinque anni e mi ero reso conto di non poter aspettare che la vita venisse a bussare alla mia porta. Chiamatemi pure ingenuo e tardo di comprendonio, ma ero convinto che se fossi rimasto sempre umile, avessi lavorato sodo e mi fossi comportato da bravo ragazzo, tutto il resto sarebbe venuto da sé. Così la mia vita trascorreva serena, tranquilla, normale, un giorno dietro l'altro, mentre il tempo passava sempre più veloce. Se mi fossi distratto un attimo, mi sarei ritrovato ancora vergine a ottant'anni, a sfornare cupcake così buoni da provocare orgasmi spontanei. Pasticcera dalle doti strabilianti, ma dalla vita grama. Ecco, quello non era esattamente il mio sogno. Nel mio cuore sapevo che se avessi continuato a evitare le opportunità che mi si presentavano davanti con la stessa caparbietà con cui evitavo il filo interdentale – eccetto il giorno prima di andare dal dentista – sarei diventato un pasticcere vecchio, brontolone e illibato.

Sfornare dolci era facile. Aveva una sua logica. Aggiungete questo, togliete quello, infornate a questa temperatura, lasciate riposare per un certo tempo. È una scienza, quindi, se si segue la ricetta e si presta attenzione a ciò che si fa, si sa quel che si ottiene. Per questo amavo l'arte della pasticceria. Fare dolci era il mio rifugio, mi faceva sentire al sicuro. Se mia sorella e Hoseok, il mio unico dipendente, non mi avessero continuamente punzecchiato perché, a loro dire, mancavo del tutto di vita sociale, avrei vissuto solo per il mio lavoro. Nei fine settimana mi piaceva andare in avanscoperta nei mercatini di zona per scovare prodotti locali freschi, mi appassionava testare nuove ricette e provare a perfezionare quelle classiche. La pasticceria era la mia vita. Non mi sarei sorpreso di avere una farcitura di ciliegie al posto del sangue. Di sicuro sul viso avevo più spesso farina che altro. C'era la pasticceria e c'era la mia vita. Forse un giorno le due cose avrebbero trovato piena realizzazione: si sarebbe avverato il mio sogno di allargare il locale e perfezionare le mie ricette, così da raggiungere finalmente quella felicità piena che ancora mancava alla mia vita. Altri giorni, invece, mi sembrava di vivere in una gabbia rivestita di torte e dolci: deliziosa, ma pur sempre una gabbia.

Sì, amavo quel che facevo, ma no, nonna, la pasticceria non era un toccasana.

Dovevo solo dare un'occhiata al vecchio e consunto testo universitario che avevo messo sotto il piedino del forno, comperato di seconda mano. Uno dei piedini era più corto degli altri, giusto quel tanto che bastava per infilarci sotto un libro, e ridare equilibrio al tutto. Biologia marina e dinamica di un ecosistema raro. Gli autori avevano preso una manciata di paroloni scientifici, li avevano mescolati tra loro come dentro un frullatore, e avevano pensato che gli studenti della facoltà si sarebbero sentiti dei geni portando a spasso quel tomo. Poi, avevano pensato bene di metterlo in vendita a trecento dollari. Così quando alla biblioteca della facoltà mi avevano offerto dieci dollari per acquistarlo, avevo mandato a farsi fottere loro e i dieci dollari.

Be', tecnicamente avevo pensato che potevano andare a farsi fottere. In realtà, avevo sorriso educatamente, li avevo "ringraziati" e poi, per calmarmi, avevo sentito Matt Costa tornando a casa. Da una vita lavoravo a contatto col pubblico e sapevo che non era corretto prendersela con la persona dietro al bancone per una cosa indipendente dalla sua volontà.

Così negli ultimi sei o sette anni avevo usato quel libro in una maniera diversa. Se non avevano intenzione di ridarmi trecento dollari, lo avrei impiegato in trecento modi diversi. All'inizio, lo usai come fermaporta nel dormitorio del college durante il periodo in cui frequentai la facoltà di sociologia, che mi dotò di una laurea utile a raccogliere polvere in uno schedario dimenticato chissà dove. Ci andai a sbattere contro, ci inciampai e, senza pensarci troppo, lo umiliai – la volta in cui ci picchiai contro l'alluce lo chiamai "ciccione", il che, devo ammetterlo, fu un po' esagerato, ma non avevo certo intenzione di scusarmi con un libro. Poi, quando non fungeva da fermaporta, mi era servito per schiacciare i ragni. Lo avevo usato anche per dormirci sopra, tutte le volte in cui il gatto prendeva possesso del mio cuscino. Ci avevo anche scarabocchiato dentro. E adesso? Fungeva da supporto al mio forno. In poche parole, era la colonna portante della mia attività.

Certo, forse l'immagine è un po' esagerata. Ma la verità è più simile all'impasto di quanto si creda. Date loro una tiratina da una parte, un'aggiustatina dall'altra, lavorateli un po' con le mani, e voilà. Con le dovute accortezze si manda giù anche la verità più amara. O il muffin più dolce.

Tutto sommato, dopo tanti anni, potevo dire di aver recuperato almeno venti dollari. Me ne restavano ancora duecentottanta. Ovviamente, c'era un'altra ragione per cui avevo tenuto quello stupido libro mentre avevo venduto tutti gli altri costosi testi per pochi spiccioli. Era stato in quel tomo che, per la prima volta, avevo scarabocchiato il suo nome, dentro un cuoricino. E lo avevo tenuto stretto al petto, proprio sul cuore impazzito dalla gioia, la prima volta che avevamo parlato alla fine di una lezione. Jimin. Il ragazzo dei miei sogni, che poi si era trasformato in un viscido stalker. Dovevo ringraziare lui della mia verginità, almeno in parte. Non so se esista un disturbo post-traumatico da depravato, ma se c'è, Jimin mi aveva causato proprio quella sindrome. Avevo acquisito un'abilità straordinaria: tenere a debita distanza chiunque avesse un pene a meno che non si trattasse dei miei amici etero. Quindi, conservare quel libro era per me come avere sempre davanti agli occhi un avvertimento: "Attento al pene, porta guai e insidie".

Posai l'ultima torta di ciliegie sul tavolo d'acciaio infarinato, vicino al forno. Le torte sembravano perfette. E lo erano. Ero bravo a fare i dolci. Avevo un quaderno pieno di ricette con le relative modifiche apportate nel corso degli anni per trovare il perfetto equilibrio di sapori e consistenze. Pagine e pagine in cui avevo annotato la differenza tra aggiungere una tazza di zucchero, oppure una tazza di zucchero piena fino all'orlo, oppure parzialmente piena, o aggiungerne solo metà alla volta, e così via. Se la pasticceria era un'arte, io ero uno scienziato folle. Il mago dei cupcake. La gente entrava nel mio locale per concedersi un peccato di gola, e poteva scommetterci le chiappe che avrebbe gustato delle vere prelibatezze.

I dolci non avevano curato il senso di vuoto che si annidava nel segreto del mio cuore, ma mi avevano dato uno scopo da perseguire. Sapevo di essere bravo, e prima o poi avrei ampliato il locale. Il primo passo, comunque, era riuscire a pagare le bollette, impresa titanica, ahimè. Ma se fosse stato così facile conquistare il mondo, lo avrebbero fatto tutti.

La mia sorellina Dawon passò a salutarmi. Lavorava come redattrice alla «Big Hit» e si fermava sempre a prendere un bagel mentre andava al lavoro. Con passo molleggiato, lasciando ondeggiare i suoi capelli biondi corti, si avvicinò al bancone. Spostò gli occhiali da sole sulla testa e ammiccò.

Mi pulii le mani sporche di farina e, tanto per non sbagliare, diedi un piccolo calcio al libro. Avrei preferito dare un calcio a lui, ma mi dovetti accontentare del libro. Peccato che non funzionasse come una bambola vudù.

«Come sta il mio vergine preferito stamattina?», mi chiese allegra.

«Lo sai che posso sputarti nel bagel, vero?». Mi preparai a qualche nuova battutina. Dawon tirava fuori il discorso sulla mia verginità più o meno una volta al mese, forse nei giorni in cui avevo il viso più sciupato.

«Oooh, la saliva di un vergine. Ho sentito che ha poteri magici. Ti prego, ne voglio un po' insieme al formaggio spalmabile».

«Sei disgustosa. L'unico potere della mia saliva è di sicuro antiafrodisiaco, a giudicare dai miei trascorsi».

«Mmm. Allora ne faccio volentieri a meno».

«Sai, se la smettessi di sbandierare così spesso e a voce alta la mia verginità, forse tutti quelli che frequento non ne sarebbero al corrente».

«Tutti quelli che frequenti. Okay. Cioè Hoseok e la nonna?»

«Cretina», borbottai. Mi voltai e cominciai a lavorare l'impasto con una certa energia, a pugni stretti. Non era quella la tecnica giusta per ottenere la consistenza perfetta, ma era un ottimo antistress.

«Be', penso ci sia anche...».

«Di lui non parliamo, ricordi?», chiesi.

«Jungkook, non fa bene tenersi tutto dentro. Non hai mai visto Io, me e Irene? In quel film Jim Carrey pensa che sia una buona idea reprimere le emozioni, e cosa gli succede?».

Scrollai le spalle. «Va a finir male?»

«Assolutamente. Ha uno sdoppiamento della personalità, diventa schizofrenico. Se non stai attento, finirai per ospitare nella tua testolina un altro ragazzo folle di nome Kookie, che comincerà a litigare coi bambini di sei anni nelle tavole calde. È questo che vuoi?»

«Domanda retorica?».

Si appoggiò al bancone e mi guardò come fossi un animale ferito, triste. «Voglio solo che tu sia felice».

«Be', e io voglio che mia sorella si preoccupi di meno della mia inesistente vita sessuale e di più di ciò che conta davvero».

«Oh, certo. Il sesso non conta. Vallo a dire agli uomini e alle donne di ogni epoca: ragazzi, ci siamo sbagliati. Fermi tutti. Uomini, tenete a bada i vostri uccelli. Distruggete gli stampi dei vibratori. Donne, chiudete le gambe, la festa è finita! Da sempre il sesso è sopravvalutato!».

«Stampi per vibratori? Sul serio?».

Scrollò le spalle. «Come pensi che li realizzino?».

La guardai di traverso. «Preferisco non pensarci. Sto solo cercando di dirti che non ho la smania di farmi la prima cosa che si muove».

«Forse invece dovresti. Pensaci. Hai venticinque anni, cazzo. Venticinque anni di attesa durante i quali ti sei costruito l'idea che fare sesso deve essere un avvenimento memorabile, sconvolgente. Hai delle aspettative troppo alte, ragazzo mio. Togliti quel bastone che hai su per il culo, smettila di essere così rigido e bacchettone, e lasciati andare».

«Togliermi il bastone che ho su per il culo e lasciarmi andare... Perle di saggezza di Dawon. Potrei fartele incidere sulla lapide?»

«Chi te lo dice che morirò io per prima? Io ti farò incidere: "Qui giace il più vecchio e triste vergine al mondo. Se avesse permesso a un ragazzo di spingersi quindici centimetri dentro di lui, forse non sarebbe finito due metri sotto terra"».

Tirai fuori un bagel dalla vetrina e senza troppa grazia lo farcii con un'abbondante dose di formaggio spalmabile. Più di quanto piacesse a lei, ma non mi importava. Lo avvolsi nella carta oleata e glielo porsi. «Ecco il tuo bagel. Hoseok dovrebbe arrivare tra qualche minuto e, grazie a te, mi stressa ancora di più e si inventa qualunque cosa pur di farmi uscire con qualcuno. Quindi perché non ti concedi un attimo di pausa e non lasci che continui lui a tormentarmi al tuo posto?».

Prese il bagel. «Gliel'ho detto solo perché desideravo che fosse lui a toglierti le ragnatele dalla ciliegina. Come facevo a sapere che si sarebbe buttato a capofitto nel ruolo di amico, trasformandosi nel signor Cupido?».

Feci una smorfia. «A volte il tuo talento nell'usare immagini strampalate è davvero eccessivo e anche un po' inquietante».

«Quanto sei dolce! Ehi, cos'è questa?», chiese prendendo la busta che avevo aperto e lasciato sul bancone.

Gliela strappai di mano. «Niente. Pubblicità spazzatura».

«Ah, certo, la cara vecchia pubblicità spazzatura con su scritto "avviso di sfratto" per attirare l'attenzione. Proprio il genere che ricevo sempre anch'io. Okay, ragazzo, rimani illibato». Mi lanciò un bacio e uscì col bagel in mano.

Quando se ne fu andata, guardai la lettera. Era l'avviso che mi comunicava che avevo una settimana di tempo per pagare l'affitto del mio appartamento se non volevo essere sfrattato. Non sapevo proprio come avrei potuto fare: tra due settimane sarebbe scaduto anche l'affitto del locale, e quella era già la terza rata che saltavo nell'arco dell'anno. Sospirai. Avevo sempre trovato un modo per restare a galla, e l'avrei dovuto fare anche questa volta. Ancora qualche settimana, qualche altro cliente, e poi grazie al mio lavoro ce l'avrei fatta a sistemare tutto.

Diedi una bella scossa all'impastatrice che subito cominciò a borbottare e a lavorare come doveva. La maggior parte dei macchinari della mia bakery avevano conosciuto tempi migliori, ma almeno erano miei. Mi sentivo molto orgoglioso di essermi potuto permettere col mio lavoro di comprare ogni utensile della pasticceria. Il locale era il mio bambino e le torte di ciliegie... le figlie del mio bambino? Meglio non rifletterci troppo, il concetto risultava alquanto strampalato. Amavo la mia bakery: anche quando sembrava che tutto attorno stesse per crollare, sapevo di poter contare sul mio locale. Il mio piccolo santuario, che a volte, però, mi appariva come una gabbia.

Hoseok arrivò puntuale, come sempre. Era appena uscito dall'università, un ragazzo molto affascinante, forse addirittura anche troppo bello, ma per chissà quale ragione, fin da quando ci eravamo conosciuti, lo avevo considerato come un fratello minore. E lui doveva aver pensato la stessa cosa, perché appena aveva iniziato a lavorare per me il nostro rapporto era diventato simile a quello tra due fratelli che si ritrovano dopo tanto tempo. Lui voleva sistemarmi, mentre io mi preoccupavo di tenerlo lontano dai guai, che lui attirava come una calamita.

Aveva i capelli scompigliati, qualche tatuaggio, ma nulla di esagerato, e una corporatura muscolosa coi bicipiti ben sviluppati tipici di chi è abituato a stendere l'impasto con le mani. Aveva gli occhi di un marrone intenso. «Appuntamento galante stasera?», domandò.

«Sai, Dawon mi ha appena fatto un discorsetto per spronarmi un po'. Magari potremmo evitare di parlare della mia verginità oggi?», e cominciai a togliere delicatamente le torte dagli stampi.

Mi si avvicinò, si piegò sul bancone, mi diede un colpetto sul braccio, e mi rivolse il suo solito sguardo comprensivo, carico di sincero affetto. Da una parte ero un po' stanco dei ripetuti tentativi di Hoseok di procacciarmi appuntamenti, ma dall'altra sapevo che si preoccupava solo perché mi voleva bene, quindi non potevo rimproverarlo né avercela con lui. «Senti cosa devi fare. Oggi scegli un ragazzo. Uno qualunque». Fece un sorriso raggiante, come se gli fosse appena venuta un'idea. «Il primo ragazzo che compra una torta di ciliegie. Scegli lui. Ma devi osare un po'. Sii te stesso. Fa' un po' l'intraprendente, di' qualcosa per provocarlo. Non devi chiedergli di uscire. Devi solo, ecco, fargli un complimento, e poi stiamo a vedere come va a finire».

Sospirai. «Mettiamo il caso che faccia come hai detto tu: che succede se il primo ragazzo che entra a comprare una torta di ciliegie ha i baffi folti come i classici pedofili, o delle caccole appiccicate su una manica?»

«Okay. Diciamo allora il primo ragazzo che compra una torta di ciliegie ma che non fa scattare l'allarme "viscido pervertito". Che ne pensi? Ma poi, chi cavolo ha le caccole sulle maniche? Con quale genere di ragazzi sei abituato a uscire?»

«Divertente», dissi, cercando di smorzare il suo entusiasmo perché non pensasse che ero davvero d'accordo con quell'idea. Sia lui che Dawon forse credevano che il sesso avrebbe potuto risolvere tutti i miei problemi. Io non ne ero tanto sicuro, pur cogliendo l'ironia della mia sorte: il ragazzo che sforna ogni giorno torte di ciliegie per tutti ma che non ha mai fatto assaggiare la sua ciliegina a nessuno... Beh, forse è meglio dire il suo cannolo.

«Non c'è niente da ridere», disse Hoseok. «Voglio fare una scommessa. Sono serio, Jungkook».

«Una scommessa?»

«Proprio così. Hai presente i giorni di ferie che ho accumulato?»

«Sì...», dissi esitante, spaventato perché non capivo dove voleva andare a parare.

«Accetta la scommessa, oppure li prenderò tutti durante la settimana della fiera».

Mi prese il panico. La mia bakery si trovava a Seoul, vicino a Insa-dong, ma una delle opportunità migliori per farsi conoscere era partecipare alla gara di dolci che si svolgeva durante la fiera di Sheffield. Arrivavano anche quelli di Food Network e intervistavano alcuni dei vincitori. Voleva dire assicurarsi una montagna di lavoro, e Hoseok sapeva che non avevo nessun altro a parte lui che potesse aiutarmi a preparare i dolci e tutto il resto.

«Non lo faresti mai», dissi.

Scrollò le spalle. «Penso che ti debba porre solo una domanda. Ti senti fortunato, verginello? Eh, che mi dici?»

«Bastardo», gemetti.

Aveva un'aria schifosamente compiaciuta, mi aveva messo con le spalle al muro, e lo sapeva. «Allora ci stai?»

«Lo sai che non posso dirti di no. Ma le regole sono quelle che hai detto. Dico una cosa da intraprendente. Una sola. E finisce lì».

«Ti chiedo solo questo. Per ora».

Fine della storia. In fondo era un po' quel che avveniva quasi tutte le mattine tra me e Hoseok, a parte quella ridicola scommessa, ovvio. Una nuova tecnica di persuasione un tantino aggressiva ma vincente, che il mio amico, di solito così mite e dolce, sapeva mi avrebbe subito convinto ad accettare la sua proposta. Dopo qualche minuto, però, me ne ero già dimenticato.

Preparammo la vetrina coi dolci, infornammo il pane, che perdeva fragranza prima dei dolci, e per ultimo facemmo un mucchio di bagel. I bagel si vendevano molto bene di mattina, e tanti clienti entravano per comprarli e poi prendevano anche un filone di pane da mangiare più tardi, o una torta per il dopo cena.

Yuri fu la prima cliente, come avveniva quasi tutti i giorni. Avrei giurato che avesse un tailleur pantalone per ciascun giorno dell'anno perché non le avevo mai visto indossare due volte lo stesso abito firmato. Era sulla quarantina e incarnava la donna che mi sarebbe piaciuto diventare prima o poi, ovviamente al maschile. Forte. Autorevole. Sicuro di sé. Elegante. Non so perché, ma dubitavo che tenesse un vecchio libro universitario da usare come sacco da boxe per scaricare la frustrazione accumulata a causa di un ex ragazzo, che si era rivelato uno stalker.

Abbassai lo sguardo e mi soffermai a guardare il mio grembiule sporco di farina e gli insignificanti jeans che portavo sotto. Indossavo anche una semplice maglietta rosa con il colletto, che recava sul petto il nome e il logo del locale: «The Bubbly Baker». Il logo era composto da un signore cicciottello con un cappello da panettiere che stava facendo un grosso pallone con una gomma da masticare. Forse sarebbe stato più realistico chiamare il locale: «Il pasticcere che ha qualche difficoltà a guardarti negli occhi», oppure «Il buco della ciambella intatto di Jungkook», ma avevo il sospetto che non fossero nomi altrettanto indicati per una bakery.

Mi ringraziò e ripeté la battuta che faceva tutte le mattine. «Devo correre se voglio evitare di scontrarmi col traffico», e rise. «Non letteralmente, ovvio».

Non ho mai capito se la battuta era che lei doveva mettersi "letteralmente" a correre, o che lei doveva scontrarsi "letteralmente" con un mare di gente per strada. A ogni modo, le sorrisi e la salutai con un cenno della mano mentre usciva, proprio come facevo ogni mattina.

Nelle ore seguenti passò parecchia gente, alcuni clienti abituali, qualche faccia nuova, e altri che erano già venuti ma non potevano dirsi clienti affezionati. Io mi preoccupavo di rifornire le vetrine quando finivano i dolci e il pane, mentre Hoseok serviva. Mi piaceva il contatto con il pubblico, ma avevo la tendenza a far scappare i clienti, pur senza volerlo. Prima di Jimin, quando si trattava di fare nuove amicizie, ero il re del "troppe e troppo presto", così piano piano ero passato al "neppure una e mai", atteggiamento che mi aveva portato dritto alla mia esistenza quasi solitaria.

Sentii tintinnare la campanella sopra la porta d'ingresso e mi voltai per dare il benvenuto al cliente che stava entrando, accogliendolo almeno con un sorriso e un cenno del capo, ma quando lo vidi rimasi impietrito. Era alto e aveva un fisico atletico, i capelli scuri e un po' in disordine che gli davano quel senso di trascuratezza che solo gli uomini che appartengono alla crema della società possono permettersi di sfoggiare. Gli ricadevano un po' sul viso perché mancavano di uno stile ben definito, ma gli conferivano comunque un'aria sexy e sembravano dire: "A che serve uno stupido pettine o un gel per domarci, con un viso e un fisico del genere?". E dal mio punto di vista, potevo solo che essere d'accordo. Certo, non mi sarei mai sognato di parlarne coi capelli dello sconosciuto... non a voce alta, almeno.

Indossava il suo completo elegante con la stessa spavalderia del cattivo di un film. Aveva lasciato aperti troppi bottoni della camicia perché il suo abbigliamento potesse dirsi "professionale", e sembrava fiero che si intravedessero i tatuaggi sul petto e sugli avambracci. Era lampante che fosse un uomo sicuro di sé, con una personalità provocatoria e ribelle, bisognava esser ciechi per non accorgersene.

E io ci vedevo bene. Ero rimasto immobile, con le labbra socchiuse, gli occhi spalancati e le mani abbandonate lungo i fianchi, finché all'improvviso mi accorsi che Hoseok lo stava volutamente ignorando.

Lo sconosciuto mi fissava con due occhi scuri da togliere il fiato, i più belli che avessi mai visto. Inarcò lentamente le sopracciglia. Ebbi la sensazione che il tempo si fermasse. Non so dire quanto durò quell'imbarazzante silenzio. Tre secondi? Quattro?

«"Il pasticcere frizzante"», disse con una splendida voce tenebrosa, un perfetto timbro virile. «Di sicuro non si riferisce al suo carattere, altrimenti dovrebbe chiamarsi "Il pasticcere catatonico"».

Adesso sapevo come devono sentirsi i pesci quando vengono pescati nel mare. Un attimo prima pensano agli affari loro, e l'attimo dopo l'universo si capovolge. In un solo istante, nulla sarà mai più uguale a prima. Anche se riuscissero a saltar giù dalla barca, ormai saprebbero che esiste un universo sconosciuto, meraviglioso, che li attende in superficie. O nel mio caso, che esiste un uomo super sexy al cui confronto chiunque altro sembra una scialba imitazione, una copia taroccata del vero maschio.

Si schiarì la voce. «Oppure mi sta guardando in quel modo perché non siete ancora aperti e avete dimenticato di chiudere la porta a chiave?».

Il suono della sua voce mi fece ripiombare nella realtà. Strinsi le labbra, deglutii – anche se mi sentivo la gola secca – e riuscii a mettere insieme qualche parola, a riprova che anch'io ero un essere umano come tutti gli altri.

«Sono assolutamente aperto. Siamo aperti», aggiunsi in tutta fretta, appena vidi il lampo divertito nel suo sguardo. «Il negozio è aperto. Ecco».

«Bene», disse lentamente. «Allora posso avere un bagel?»

«In realtà», disse Hoseok comparendo dietro al bancone con un'espressione in viso che non prometteva nulla di buono per me, ma solo guai in vista, «li abbiamo appena finiti. Ma di sicuro gradirà la nostra torta di ciliegie».

Lo sguardo dello sconosciuto si posò sulle dozzine di bagel alle nostre spalle che avevamo già sistemato in attesa di tagliarli, farcirli e venderli. «E quelli sono...».

«Da esposizione. Non commestibili», disse Hoseok. «Se provasse a mangiarne uno, si rovinerebbe i suoi bei denti».

«E cosa ci faccio con una torta di ciliegie alle nove di mattina?», domandò.

«Uhm, be'», balbettò Hoseok, «potrebbe portarla al lavoro? Mangiarla insieme ai suoi colleghi. Lavora da qualche parte, no?».

Adesso sembrava infastidito. «Sì. Certo».

«Lo scusi», mi intromisi di colpo. «Stava scherzando. Questi bagel sono assolutamente commestibili. Vede?».

Ne afferrai uno dall'espositore e gli diedi un morso molto più grande del necessario. Fui costretto a masticare quell'enorme pezzo di pane mentre Hoseok e quell'uomo mi guardavano con un misto di confusione e imbarazzo.

Mi schiarii la gola. «Perfettamente commestibili», ripetei, con meno veemenza.

«Allora prenderei un bagel perfettamente commestibile, per cortesia. Uno che lei non abbia già morso, se possibile».

Cercai di controllare il flusso del sangue perché non si concentrasse tutto nelle guance che ormai dovevano essersi infuocate. Non gli chiesi nemmeno quale tipo di bagel volesse, ne presi uno e glielo misi in un sacchetto che posai sul bancone.

«E prendo anche la sua ciliegia*».

Iniziai a tossire e, visto che stavo deglutendo, quasi mi strozzai. Mi mancò il fiato e cominciai a fare degli strani singhiozzi, tanto che Hoseok dovette darmi qualche pacca sulla schiena, un po' troppo decisa, a dir la verità.

«La mia ciliegia?», chiesi. "Ma come accidenti fa a sapere che sono vergine, e che razza di uomo è uno che... che... così, di punto in bianco, dice una cosa del genere? E anche se...".

«La sua torta di ciliegie», disse, ma la calma con cui osservava il mio imbarazzo mi fece capire che l'ambiguità della prima frase non era stata affatto involontaria.

Confezionai la torta e gliela posai sul bancone. Hoseok mi diede una leggera gomitata, come se non fossi già tristemente consapevole del perché avesse convinto lo sconosciuto a chiedere una torta di ciliegie. Adesso avrei dovuto fargli un complimento, flirtare un po'. Lo sapevo.

Lo sconosciuto pagò e si avviò verso la porta. Sentivo una specie di mano invisibile stretta attorno alla gola. Forse era un aiuto divino, perché sono sicuro che se avessi aperto bocca sarei morto dalla vergogna.

«Aspetti!». Hoseok mi diede un'altra gomitata. «Il mio amico voleva chiederle una cosa».

Il tizio girò appena la testa e mi guardò con la coda dell'occhio. Era impossibile, eppure avrei giurato, dall'espressione del suo viso, che lui sapeva esattamente quali pensieri mi attraversavano la mente in quel momento. E quale brivido mi attraversava il corpo.

«Non ho capito il suo nome», dissi.

Vidi Hoseok che mi guardava con un'espressione come a dirmi "e questo lo chiami flirtare?", ma cercai di ignorarlo. Ero scombussolato, okay?

«Taehyung», disse con un sorrisetto malizioso. «E io posso chiamarti Pasticcino?».

Fu un miracolo se non svenni, perché tutto il sangue mi affluì in viso e avvampai. Sapeva che ero vergine. Non so come aveva fatto, ma lo sapeva. Forse esisteva una società segreta in cui gli uomini fighi si passavano i nomi dei ragazzi gay vergini in città. O forse bastava guardarmi, e lo si capiva subito.

Sapevo che Hoseok non mi avrebbe dato pace se mi fossi limitato a chiedergli il nome, quindi mi feci coraggio e mi buttai, tentando di fare l'intraprendente un po'. Ma sarebbe stato un po' come cercare di mettere in moto una vecchia carretta arrugginita e ferma da venticinque anni.

«Puoi chiamarmi come preferisci», dissi. Ci mancò poco – davvero poco – che mi mettessi anche una mano sul fianco, ridicola parodia della donna seduttrice sensuale, ma perfino io mi resi conto che sarebbe stato davvero troppo. Riuscii quasi a sentire Hoseok farsi piccolo piccolo accanto a me: si sforzava di non ridere e intanto avrebbe voluto sprofondare sotto terra. A parte il fatto che detestavo l'idea che qualcuno mi chiamasse Pasticcino, quasi fosse il nome d'arte di una "bella di notte", per il resto della vita sarei stato perseguitato dal ricordo della mia voce bassa e suadente con cui avevo risposto alla sua domanda.

A questo punto Taehyung si voltò del tutto, mi fissò, strinse gli occhi e mi regalò un mezzo sorrisetto. Se notò il mio imbarazzo, non lo diede a vedere. «Attento. Potrei prenderti in parola».

Hoseok al mio fianco, preso dall'entusiasmo, agitò il pugno, e mi distrasse. «Davvero?», chiesi.

In quello scambio di battute dovevo contare anch'io qualcosa, ma con quella risposta titubante rinunciai al mio ruolo di interlocutrice intelligente, sebbene sembrò non accorgersene né preoccuparsene. Rimase fermo e continuò a osservarmi, quasi non avesse più fretta di andar via, perfettamente padrone della situazione. Si mise il bagel in bocca e lo tenne tra i denti. Si infilò pericolosamente la torta di ciliegie sotto il braccio e afferrò un vaso decorativo pieno di fiori che abbelliva il bancone. Mi salutò con un cordiale cenno del capo e si voltò per andarsene.

«Ma cosa fai?», chiesi. Il mio cervello sembrava ancora latitante, ma ero abbastanza sicuro che mi stesse rubando i fiori.

«Scusami», farfugliò tenendo il bagel in bocca. «Rubo oggetti. È una malattia», o almeno fu quello che mi parve avesse detto.

Senza neppure un ammiccamento o un sorriso, lasciò il negozio.

«Wow», disse Hoseok cominciando a battere lentamente le mani, con un entusiasmo che non mi sentivo di condividere. «Un uomo davvero bello, molto bello. Ti ha preso la ciliegia e deflorato in un colpo solo. Complimenti».

Mi appoggiai sui gomiti e sospirai, benché, fino a quel momento, non mi fossi reso conto che stavo trattenendo il respiro. «In teoria», dissi stizzito. «La torta di ciliegie l'ha pagata. Ha rubato solo i fiori».

Hoseok grugnì. «Ragazzaccio, sei proprio un monello».

Gli diedi un colpo sul braccio, ma sorrisi. «Sei terribile. È stata tutta colpa tua. Lo sai, no?».

Andò dove Taehyung aveva preso il vaso con i fiori e trovò un biglietto da visita. «Colpa mia di cosa? Perché ho fatto in modo che Thor ci provasse con te, o perché ti ha lasciato il suo numero di telefono?»

«Fammi vedere», dissi strappandoglielo di mano. «Kim Taehyung», lessi lentamente. «Amministratore delegato della Galleon Enterprises? L'hai mai sentita?»

«Galleon?». Hoseok si riprese il biglietto. Lo fissò e scrollò le spalle. «Mai sentita. Ma so cos'è un amministratore delegato».

«Dev'essere una società piccola se l'amministratore delegato va in giro a rubare fiori nelle pasticcerie».

«E chi se ne frega. Quel tizio potrebbe anche essere l'amministratore delegato di un chiosco di hotdog. Non avresti potuto ricevere un'offerta più esplicita della sua. Ci sta».

Lo schernii. «Se non ti conoscessi, direi che vorresti uscirci tu».

Scoppiò a ridere. «Sono certo che alcuni uomini ne sarebbero contenti. Io l'ho detto solo per dire. Per me sei come un fratello, e ho notato l'espressione che hai a volte».

«Quale espressione?», domandai, anche se avevo in qualche modo intuito a cosa si riferisse.

«Quello di un ragazzino al ballo delle medie alla quale nessuna ragazza ha rivolto la parola per tutta la sera?»

«Sono davvero così patetico?».

Mi sorrise con tenerezza. «Patetico? No. Ma non sopporto di vederti così. Quel tizio si merita una possibilità: dagliela. La cosa peggiore che potrebbe accadere?»

«Che mi faccia a pezzetti e mi chiuda in un congelatore? O forse che mi mostri la sua collezione di animali imbalsamati?».

Hoseok sollevò lo sguardo e dondolò la testa avanti e indietro come se stesse valutando le opzioni. «Okay. Riformulo la domanda: la cosa migliore che potrebbe accadere?».

Sorrisi. «Ammette di essere un amante della pasticceria, e così ci mettiamo a fare dolci insieme, mangiamo la glassa imboccandoci, e poi ci spalmiamo lo sciroppo al cioccolato su tutto...».

«Accidenti. Attento a non confessargli questa fantasia. Né a lui, né a nessun altro, in realtà. Altrimenti dovremo cambiare il nome al locale e chiamarlo "Il pasticcere depravato"».

«Comunque, non importa. Non ho intenzione di supplicarlo per uscire con me. Hai una vaga idea di quanto sarebbe umiliante? Dovrà ritenersi fortunato se deciderò di telefonargli».

◦•●◉✿✿◉●•◦

Un paio d'ore più tardi, durante la pausa pranzo, tirai fuori il biglietto da visita e digitai con cura il suo numero sul cellulare, una cifra alla volta. Mi trovavo nella mia caffetteria preferita. Seoul pullulava di caffetterie ma io preferivo quella perché tutti i giorni aveva un messaggio diverso, irriverente e sarcastico, scritto col gesso su una lavagnetta. Quella volta la frase era: "Consiglio... Una mela al giorno toglie tutti di torno, se la lanci abbastanza forte".

Mi portai il cellulare all'orecchio e, per ingannare l'attesa, cominciai a mordermi il labbro mentre osservavo la mia gamba "ballare" su e giù, fuori controllo, per l'agitazione. Stavo facendo una cosa davvero stupida, mi stavo umiliando, lo so. Cercai di non pensarci troppo. Mi vennero in mente tutte le volte in cui avevo sognato a occhi aperti una scena simile, con mille varianti – tranne la parte in cui lui mi rubava i fiori. Dovevo fare almeno un piccolo sforzo. Lo dovevo a me stesso.

«Galleon Enterprises», rispose una donna con una voce che alle mie orecchie suonò scocciata. Mi sembrò addirittura di sentire la sua aria di superiorità, la vidi che mi guardava dall'alto in basso. Davvero impressionante.

«Posso parlare con Taehyung?», chiesi. Cercai di apparire sicuro di me, ma non ci riuscii.

«Taehyung... dovrebbe essere più preciso. Il cognome?»

«L'amministratore delegato», dissi. «Kim Taehyung».

Pausa.

«Vuole che le passi Kim Taehyung?»

«Sì», risposi, un po' più convinto stavolta. «Mi ha lasciato il suo biglietto da visita».

«Mmm», disse. «Le ha lasciato il biglietto da visita. Davvero? Deve essere molto speciale».

Incredibile la sfacciataggine di quella donna. Era chiaro che la Galleon non poteva essere un chiosco di hotdog, come avevamo ipotizzato per scherzo, perché altrimenti non ci sarebbe stata una segretaria, ma comunque quella donna doveva abbassare le penne. «Come fa a essere certa che io non sia un'importante uomo d'affari? E se stessi chiamando per definire un contratto da un milione di dollari?». Mi batteva forte il cuore e avevo le guance in fiamme per l'indignazione. L'insolenza di quella segretaria mi aveva fatto venir voglia di colpire qualcosa. Dov'era quello stupido testo universitario quando ne avevo bisogno?

Un'altra pausa.

«Lo è?»

«No, ma non è questo il punto...».

«No. Lei non è un uomo d'affari. Perché questo è il numero che Taehyung dà alle donne o agli uomini sulle quali vuol fare colpo. Quindi la metterò in attesa, gli dirò che lo ha chiamato, e a quel punto lui mi dirà di abbassarle il telefono in faccia. A lui piace che le donne o gli uomini, poverini, si impegnino e gli vadano dietro», sospirò. «Attenda».

Sentii un clic, e attaccò un'irritante musichetta. Mentre aspettavo, cominciai a battere il piede a terra e a fissare con sguardo stizzito tutto e niente in particolare. Ero tentato di dire a Hoseok di sostituirmi mentre andavo alla Galleon Enterprises, qualunque società fosse, a cercare quella donna. Forse usava un vecchio telefono dei tempi della scuola, di quelli col filo, che avrei potuto girarle attorno al collo per soffocarla. Poi avrei accoppato Taehyung e i suoi biechi giochetti, colpendolo con un fermacarte. Sospirai. In realtà non avrei mai soffocato la segretaria né accoppato Taehyung. Ma una cosa era certa: se non mi avesse risposto, non gli sarei andato dietro. Questa telefonata rappresentava già il limite oltre il quale non avrei spinto la mia dignità, grazie tante.

La musichetta si interruppe e sentii un nuovo clic sulla linea.

«Pasticcino?». Una voce profonda. La sua.

«Sì?», dissi in un sussurro. Non ero fiero di quanto mi galoppasse il cuore, e all'improvviso un moto d'orgoglio mi esplose in petto. La sua intenzione era di abbassarmi il telefono in faccia, giusto? Feci una smorfia e scossi la testa. «Cioè, no. Sì, sono il ragazzo che ti ha venduto la torta di ciliegie. Ma il mio nome è Jungkook».

«Bene, Jungkook. Oggi sono terribilmente occupato. Riunioni che mi conciliano il sonno. Telefonate da ignorare. Sai, il genere di cose che fa un amministratore delegato. Quindi se hai tanta voglia di parlare, puoi venire alla festa in maschera che diamo stasera per il lancio pubblicitario di un film in uscita. Di' ai ragazzi della sicurezza che ti chiami Pasticcino, e ti faranno entrare. Oh, tengo i tuoi fiori in ostaggio. Quindi se li vuoi indietro, farai meglio a venire».

Balbettai qualche sillaba senza senso, ma riattaccò prima che potessi formulare una qualche parola. Fissai il cellulare come se gli fossero spuntate le corna. Quell'uomo era insopportabile, e lo sapeva. Sapeva anche di essere talmente bello da potersi permettere tutto, tanto l'avrebbe comunque fatta franca. Per un pelo. Solo per un pelo. Col passare delle ore, l'idea di andare alla festa si insinuò nel mio cervello, e piano piano vi attecchì. Tenni le labbra cucite con Hoseok perché ero certo che mi avrebbe convinto ad andarci, che mi avrebbe supplicato di partecipare. Da tempo ormai mi lamentavo perché sentivo che la vita mi sfuggiva di mano e passava veloce, no? In fondo, non era obbligatorio cercare Taehyung alla festa. Magari avrei passato una bella serata, semplicemente indossando una maschera e un abito elegante. Per una volta, avrei voluto agire d'istinto e fare una cosa forse solo un tantino pericolosa. Ero sempre più tentato di andare.

◦•●◉✿✿◉●•◦

In inglese cherry vuol dire sia "ciliegia" sia "verginità", da qui il doppio senso su cui si gioca.

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Capitolo 2
*** 2 ***


TAEHYUNG'S POV:

C'era un posto nel mio ufficio che nessuno conosceva, nemmeno mio fratello gemello che condivideva con me il ruolo di amministratore delegato della società, e al quale piaceva pensare di sapere tutto. "Mi dispiace, Namjoon, ma questa cosa è solo mia". Mi avvicinai alla libreria posta accanto alla scrivania. Il mobile aveva un aspetto molto costoso, com'era giusto che fosse. Infatti avevo pagato una piccola fortuna a un'arredatrice francese per sistemarmi l'ufficio. Il ricordo era un po' nebuloso riguardo ai particolari, ma mi pare che le mie istruzioni fossero state qualcosa del tipo: "Quelli che entrano qui devono farsela addosso, perché il mio ufficio deve incutere rispetto. Altrimenti, lei non avrà fatto bene il suo lavoro". Fortunatamente, invece, aveva fatto un ottimo lavoro.

Se le pareti del mio ufficio potessero parlare, non direbbero nulla, perché saprebbero di non doversi abbassare a spifferare qualcosa. La perfezione arriva a tanto!

Non avevo letto un solo libro tra quelli conservati nell'immensa libreria, che aveva anche una scala scorrevole per arrivare ai ripiani più alti. Era stata una mia richiesta speciale, e a volte chiudevo le veneziane e mi escludevo dal resto del mondo, poi prendevo la rincorsa e ci saltavo sopra, curioso di vedere fin dove sarei arrivato scivolando sui binari.

Presi un fermacarte di vetro a forma di globo e lo posai sulla libreria. Alla base aveva una calamita che azionava un meccanismo dietro la porta. Attesi mentre si susseguivano vari scatti metallici decisi, una delizia per le mie orecchie, e alla fine si aprì una porta.

Ebbene sì. Nel mio ufficio avevo un antro segreto, la tana del mascalzone. Era meravigliosa, proprio come l'avevo desiderata.

Mi piaceva definire quel nascondiglio segreto "la stanza dei trofei". Non era enorme perché purtroppo mi ero dovuto contenere, visto che avevo fatto tutto all'insaputa di mio fratello. Un'opera troppo ambiziosa avrebbe sottratto spazio al mio ufficio, e Namjoon l'avrebbe notato. E invece non ne doveva sapere nulla, perché avevo un'intera sezione della mia stanza dei trofei dedicata proprio a cose che avevo fregato a quel bacchettone represso, ossessivo compulsivo, che diceva di essere mio fratello. Avevo sistemato lo spazio a disposizione come fosse una galleria d'arte, completa di piedistalli di marmo e teche di vetro. Il mio oggetto preferito era una banana, perfettamente gialla, al centro della stanza. Avevo pagato un chimico per rivestirla di una vernice trasparente in grado di conservarla intatta. Si poteva ancora vedere il nome che mio fratello aveva scritto sopra la buccia col pennarello indelebile, a lettere cubitali. "Namjoon".

Accarezzai con affetto la teca e sorrisi. Sì, potevo disporre di molto tempo e di tanti soldi a mio piacimento. No, non mi sentivo in colpa per questo. Sì, avevo un problemino: rubavo oggetti. No, non avevo intenzione di cambiare. La diagnosi ufficiale era cleptomania, ma detta così era da sfigati. Mi piaceva prendere cose altrui. Avevo iniziato perché io e Namjoon eravamo cresciuti in una famiglia povera, e a quel tempo la nostra condizione poteva rappresentare una giustificazione. Poi però, avevo capito che rubavo perché mi piaceva farlo, non perché avessimo bisogno di soldi. Nel corso degli anni mi ero dovuto preoccupare di trovare vari posti in cui nascondere il mio bizzarro bottino, quindi adesso la stanza dei trofei rappresentava l'apoteosi del mio lavoro di ricerca. Lì avevo concentrato i miei pezzi migliori. La punta di diamante era la banana di Namjoon, ma avevo anche l'asciugamano che usava in auto per detergersi il sudore dopo le partite di squash. Sorrisi ripensando a quanto si era incazzato quando non lo aveva più trovato. Avevo anche un paio di occhiali da sole di mio fratello, e una teca incorniciata con dentro vari calzini singoli che gli avevo rubato dal comò. Erano tutti spaiati. Mi sentivo leggermente in colpa per questo trofeo. Namjoon sarebbe stato capace di avere un orgasmo se nella sua giornata si fosse attenuto alla lettera a quanto scritto in agenda, ma allo stesso tempo sapevo che avere i calzini spaiati gli avrebbe fatto andare in corto circuito il cervello, poverino.

Oh, be'. Peggio per lui. Ero nato un minuto e sette secondi prima, il che mi conferiva la responsabilità di essere il fratello maggiore, e quindi ero obbligato a prenderlo un po' in giro e a fargli qualche scherzo. Alcuni fratelli lo avrebbero definito un lavoro, ma se uno si divertisse a fare il proprio lavoro, chi mai potrebbe dire di aver lavorato un solo giorno nella vita? Tra i vari trofei, avevo spillatrici prese in giro per l'ufficio e appartenenti per lo più a persone che non sopportavo. Penne fregate a cameriere sgarbate, e perfino una spilletta con scritto "I Recycle", che un qualche coglione si era attaccato sullo zaino - sul serio, con tutte le cose di cui ci si potrebbe vantare, lui aveva scelto proprio quella. La raccolta differenziata? Per quanto l'avevo trovata assurda, ero stato quasi tentato di buttarla nella spazzatura, ma alla fine aveva prevalso il mio bisogno di tenere quel che rubavo. Certo, non collezionavo tutto. A volte fregavo degli oggetti solo per capriccio, e poi me ne sbarazzavo. Quando mi sentivo particolarmente audace, cercavo di rubare al contrario, ovvero mettevo quel che avevo sgraffignato tra le cose di un altro, senza che questi se ne accorgesse. Guardai l'ultimo trofeo della mia collezione. Il vaso di fiori che avevo preso quella mattina in pasticceria. Lo avevo sistemato su uno dei piedistalli in marmo vicino alla parete di fondo.

Mentre lo osservavo, non potei fare a meno di socchiudere gli occhi e mettermi a riflettere. Qualunque altro oggetto presente nella stanza apparteneva a persone che, anche solo in minima parte, mi avevano fatto incazzare. Forse si trattava di una specie di sciocco tentativo da parte mia di fare un po' di giustizia, o forse mi divertiva far incazzare quelli che se lo meritavano di più. Quel vaso, invece, era diverso.

Pasticcino non mi aveva fatto incazzare. Anzi, mi piaceva. Sembrava un bibliotecario un po' frigido, inibito, maldestro, alla quale però sarei volentieri andato dietro - in senso letterale e figurato. Era anche sexy, il che non guastava, ma non era noioso. Io attraevo ragazze e ragazzi sexy ma noiosi, un po' come Starbucks attira ragazze attraenti che indossano leggings. Un esercito di Barbie col culo sodo dopo ore e ore di ginnastica, e il viso che non ha mai visto un raggio di sole senza uno strato di crema con fattore di protezione duecento. La maggior parte di loro ha un unico passatempo: se stesse. Si prendono cura di sé e si preoccupano del proprio corpo quasi fosse un lavoro a tempo pieno, il che va pure bene in teoria, ma io ero uscito con parecchie ragazze del genere. Erano tutte uguali. Per non parlare dei ragazzi.

Noiosi. Scontati. Superficiali.

Il pasticcere, invece, era il genere di ragazzo che mi intrigava. Mi era stato facile capire, dall'espressione del suo viso, la battaglia interiore che stava combattendo. Gli piacevo, ma era abbastanza intelligente da essersi reso conto che ero uno stronzo. In poche parole, lui per me rappresentava una sfida. Proprio quello che mi ci voleva.

Avergli lasciato il biglietto da visita poteva sembrare una mossa un po' disperata. Di solito mi piaceva che fossero gli uomini a venirmi dietro, ma c'era qualcosa in lui che mi aveva spinto a fare un passo in più, perché non ero così sicuro che sarebbe venuto a cercarmi, se non gli avessi dato un aiutino. E la cosa mi aveva intrigato. Così, quando mi aveva telefonato, avevo perfino infranto la consuetudine di liquidarlo usando l'arma della fredda indifferenza della mia segretaria, a cui ricorrevo invece con tutte le ragazze o i ragazzi che mi chiamavano.

Non ero nemmeno così sicuro che si sarebbe presentato alla festa quella sera. Dipendeva da lui. Dopotutto, sapevo dove trovarlo e, se il mio istinto non si era sbagliato su di lui, i fiori non erano l'ultima cosa che volevo rubargli. C'era dell'altro, il biscottino sul gelato - o tra le sue gambe, a voler essere precisi.

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Capitolo 3
*** 3 ***


JUNGKOOK'S POV:

Se per ripensamento si intende meditare in modo più ponderato sulla bontà di una nostra scelta, nel momento in cui il taxi si fermò davanti al palazzo in cui si sarebbe tenuta la festa di Taehyung, io ne avevo avuti già duecentomila. Dire però che quello era il “duecentomillesimo” ripensamento non suonava troppo bene, ma anche parlare di semplici “ripensamenti” non dava l’idea esatta dei seri dubbi che continuavano a frullarmi in testa riguardo a quella serata.

Volevo andare alla festa. Questo era certo. La parte orgogliosa e cocciuta di me, però, voleva anche dimostrare a Taehyung che non ero uno di quei ragazzi che corrono dietro ad altri bei ragazzi.

Ma, cavolo, un invito del genere capita una volta sola nella vita. Da sempre, sempre, avevo sognato di partecipare a una festa in maschera.

Credo che mi attirassero le maschere sul viso e i vestiti eleganti. Tutti avrebbero indossato maschere, smoking e abiti meravigliosi. Ci sarebbero stati lustrini e paillette e gioielli luccicanti. Una serata sfavillante e sfarzosa, come le feste in stile hollywoodiano. L’avrei conservata per sempre tra i miei ricordi più belli, come un fascio di luce a squarciare il buio di una notte illuminata appena dal bagliore delle stelle.

Era l’unica occasione in cui avrei potuto far finta che la mia vita fosse come l’avevo sempre sognata: traboccante di promesse, dove ogni più piccola scelta generava qualcosa di incredibile. Alla fine, questa fu la decisione che prevalse. Mi sarei goduto la mia notte magica, grazie tante, e Taehyung sarebbe venuto in seconda battuta. Quella era la mia favola e volevo viverla come l’avevo sognata.

Uscito dal lavoro, comprai l’abito e le scarpe in un negozio dell’usato, dove però non trovai la maschera. Mi feci coraggio ed entrai in uno di quei negozi specializzati in abiti e accessori per feste eleganti che, inspiegabilmente, sono aperti tutto l’anno, anche se sono sicuro che la gente vi compri qualcosa solo per Halloween.

Quando posai la maschera, la ragazza dietro al bancone mi guardò con una strana espressione: forse aveva visto Eyes Wide Shut e pensava che le maschere andassero acquistate solo per “certe” occasioni, come nel film. Che andasse a fanculo. Io ero stato invitato a una festa molto elegante, a cui, come se niente fosse, avrebbero partecipato stelle del cinema e miliardari. E per quel che ne sapevo io, non c’era alcun convito orgiastico con gente nuda nel seminterrato del palazzo. Ecco il “duecentounmillesimo” ripensamento. Comunque, se avessi avuto sentore di sette orgiastiche, avrei usato le mie scarpe di una marca chiaramente taroccata come arma di difesa, e sarei fuggito. Quello almeno era il piano provvisorio, considerato che non avevo armi migliori da impiegare.

Mi aspettavo un corpulento bodyguard all’entrata, e invece l’indirizzo che mi aveva dato corrispondeva a un palazzo nel centro di downtown. Scesi dal taxi e mi guardai attorno. Erano già le nove passate. A Seoul le strade pullulano sempre di gente, a qualsiasi ora. Anzi, di notte si animano ancora di più.

All’inizio pensai di essere nel posto sbagliato, ma poi vidi fermarsi una limousine dalla quale uscirono, uno dietro l’altro, alcuni uomini e donne in abiti eleganti e maschere sul viso. Gli uomini indossavano maschere semplici, sul genere di quella del Fantasma dell’Opera, che coprivano solo gli occhi e una parte del naso. Quelle delle donne, invece, erano alcune piumate e appariscenti, altre delicate, in pizzo, e nascondevano appena i loro volti.

Mi misi la maschera, costata appena due dollari, che si teneva su con un semplice elastico. Oh, be’. I ricchi pagano un sacco di soldi per sembrare poveri, no? Non era colpa mia se conoscevo un metodo efficace per essere povero: investire tutti i miei soldi in una bakery che mi garantiva a malapena di guadagnare il necessario per pagare le bollette. A volte riuscivo anche a spendere un po’ per cose sciocche, come il mangiare e il bere.

Raddrizzai le spalle, mi feci coraggio, e con passo leggiadro, quasi stessi ballando un valzer, mi avviai verso l’entrata, come se avessi trascorso tutta la vita a partecipare a serate simili. Avevo visto parecchi film in cui i protagonisti facevano “il colpaccio”, e ormai avevo capito che il trucchetto sta tutto nel far credere agli altri di sentirsi a proprio agio in quel che si fa. Arrivai all’entrata prima dell’allegra comitiva della limousine, tirai la porta ma non si aprì. Lanciai un rapido sguardo alle mie spalle e abbozzai un sorriso del tipo “mi capita tutte le volte, perché ci vengo sempre”. Tirai di nuovo. Ancora nulla.

Feci un passo indietro e sollevai una mano, il palmo verso l’alto, con una risatina nervosa. «Penso che siamo arrivati un po’ in anticipo», suggerii.

Si avvicinò uno dei signori e spinse la porta. Si aprì subito e io rimasi immobile, pietrificato, in attesa che la comitiva entrasse compiaciuta.

Li feci passare tutti, sospirai, e schiacciai mentalmente il tasto “restart”. «Niente di grave, Jungkook. Indossi una maschera, no? Quindi puoi anche permetterti di essere un po’ imbranato stasera!».

E in quel momento vidi un’altra coppia che mi passava accanto, e mi resi conto che forse aveva ascoltato tutto il discorsetto d’incoraggiamento che mi ero fatto a voce alta. Mi misi una mano sull’orecchio, dove era certo che non avessi il bluetooth, ma mi voltai ugualmente e sorrisi. «Il bluetooth», dissi convinta. «Quando parliamo senza avere nulla in mano sembra sempre che parliamo da soli».

La coppia proseguì senza commentare.

Non ero ancora neppure entrato e già il buon vecchio tasto “reset” aveva avuto il suo bel daffare. Spinsi la porta, la aprii ed entrai. «Bastarda», mormorai rivolto alla porta quando fui sicuro che stavolta nessuno mi stesse ascoltando. Nell’atrio c’era silenzio e su quei pavimenti di lusso le mie scarpe risuonarono come degli spari. Provai a camminare facendo meno rumore possibile, ma fallii miseramente mentre mi avvicinavo a una donna in piedi dietro una specie di leggio, come quello che usano le hostess in aeroporto, ma più piccolo. Un’enorme doppia porta si stagliava alle sue spalle.

«Ho l’invito», le dissi. Aveva già trovato nella lista i nominativi delle persone davanti a me, e le aveva fatte entrare.

«Okay», disse. Era senza maschera quindi non ebbi neppure il beneficio del dubbio nel chiedermi se davvero mi stava guardando come fossi un’idiota.

«Dovrei essere sulla lista come… Pasticcino». Pronunciai il nome in un sussurro, le guance in fiamme. Da qualche parte, Taehyung stava ridendo, ne ero sicuro.

Inarcò un sopracciglio. «Pasticcino?»

«Mi scusi, potrebbe solo…». Sporsi il collo per cercare di dare una sbirciatina alla lista, ma lei la tirò su in tutta fretta, premendosela sul petto come volesse proteggere chissà quali segreti, e mi fulminò con un’occhiataccia.

Poi con molta calma distolse lo sguardo da me e lo abbassò sulla lista. Dopo qualche istante le sfuggì un piccolo grugnito di delusione. «Entri pure, Pasticcino».

«Grazie», replicai con una certa veemenza. «Comunque io mi divertirò alla festa mentre lei resterà qui fuori dietro questo stupido leggio».

«Pura invidia», disse piccata.

Mi meravigliai molto che mi fossi abbassato a dire una cosa simile, ma quella donna era orribile quasi quanto la segretaria con cui avevo parlato al telefono quando avevo chiamato Taehyung. In effetti… ero quasi certo che fosse la stessa persona. Stare di guardia all’entrata durante una festa aziendale forse faceva parte dei doveri di una segretaria.

La superai e tirai appena la porta, giusto per essere sicuro di non doverla spingere. Grazie al cielo, si aprì.

L’ambiente all’interno era ancora più spettacolare di come me l’ero immaginato. La sala era in stile industrial chic, con i mattoncini e le travi a vista, i mobili ultra moderni, una scala a chiocciola in ferro battuto che conduceva a un open space al secondo piano dove dozzine di persone stavano ballando e conversando. La cosa più impressionante era la parete di fondo, tutta di vetro, con una vista mozzafiato sul centro di Seoul e sui palazzi e grattacieli circostanti, tutti illuminati.

E gli invitati. Anche con le maschere, si vedeva che erano il fior fiore della società. Sembrava la versione adulta di una festa di liceali dove venivano invitati solo gli studenti più popolari – proprio il genere di festa alla quale non ero mai stato invitato.

Esaminai con attenzione la folla di uomini e donne in abiti eleganti, tutti con una maschera sul viso. Mi chiesi se sarei stato capace di riconoscere Taehyung dopo averlo fissato inebetito solo per pochi attimi quella mattina. Per quanto difficile, cercai di non mettermi a confronto con gli uomini snelli, dai loro generosi capi di Gucci e dal corpo perfetto presenti alla festa. In fondo Taehyung aveva invitato me. Era ovvio che gli piacessi. O almeno era quello che continuavo a ripetermi.

La musica era invitante ma non troppo scatenata, così da non risultare inappropriata per quella ricca élite. Gli invitati bevevano vino e champagne da calici col gambo lungo e sottile. Alcuni ballavano, altri sedevano coi loro bicchieri in mano, altri gironzolavano, ridendo e conversando. Dovunque posassi lo sguardo vedevo lustrini, gioielli, paillette: luccicava tutto, proprio come avevo immaginato. Pensai che bere qualcosa mi avrebbe aiutato a vincere un po’ di agitazione, quindi decisi che dovevo assolutamente trovare il posto dove tutti facevano rifornimento.

Finalmente trovai una specie di open bar. C’erano alcuni calici di champagne già riempiti. Ne presi uno, aspettai, mi guardai attorno, e con cautela bevvi un sorso. Quando vidi che non arrivava nessuno a rimproverarmi o a chiedermi soldi, capii che erano gratis. Bingo.

Con il calice in mano, mi avviai verso le scale. Non avevo ancora deciso se cercare o meno di parlare con Taehyung: volevo prima vedere se riuscivo a riconoscerlo. Mi girai e avvertii la presenza di un uomo alto incombere su di me. Sentii le farfalle nello stomaco, convinto che si trattasse di Taehyung.

Ma quando mi soffermai a guardargli la forma del viso, le labbra, la corporatura e la postura, fui assalito da un senso di disagio e inquietudine che mi scombussolò tutta. Feci un mezzo passo indietro. Non era Taehyung.

«Jimin?», domandai esitante.

Abbozzò un sorrisetto. Quel ghigno odioso fu l’unica risposta di cui avevo bisogno. Park Jimin. L’ex infernale. La ragione per cui, di quando in quando, traevo così tanto piacere a prendere a calci un vecchio testo universitario. Il ragazzo che da leggermente noioso era diventato col tempo una delusione totale e si era trasformato nel classico stalker quando avevo deciso di non vederlo più.

«Dovresti essere a Pusan».

«Ho ricevuto un’offerta di lavoro. Ho capito che era dalle tue parti, quindi, come avrei potuto rinunciarvi?»

«Non sarebbe stato difficile: così avresti evitato di passare per uno stalker», dissi. Cercai di apparire calmo attraverso il mio tono di voce, anche se dentro di me volevo urlare.

«Mi sei mancato, Jungkook. Siamo stati bene insieme».

Scossi la testa. Troppo cose da affrontare tutte in una volta, non ce la facevo a mettermi di nuovo a discutere con lui. Cercai di aggirarlo per raggiungere le scale, ma mi afferrò per un braccio.

«Jungkook. Dài. Ho fatto un lungo viaggio per parlarti, il minimo che tu possa fare è starmi ad ascoltare».

«No. Non è questo il minimo che possa fare. Non voglio neppure chiederti come accidenti hai fatto a sapere dove mi trovavo, o come hai fatto a entrare. Perché chiedertelo significherebbe che in qualche modo mi importa di te. Quindi farò davvero il minimo che posso fare, e cioè me ne andrò senza parlarti un secondo di più».

«Non è stato difficile. So dove pranzi e passavo di là per caso quando ti ho visto chino su qualcosa. Sembravi molto concentrato e così ho guardato meglio. Avevi in mano il biglietto da visita niente meno che dell’amministratore delegato della Galleon Enterprises. Non potevi avere a che fare con una società di marketing multimilionaria, così ho fatto due più due».

«Cosa? Mi hai seguito tutto il giorno? Mi sei stato dietro mentre comperavo abito e maschera per venire alla festa, e poi sei corso a comprare il necessario anche per te? Ma come hai fatto a passare dall’ingresso?»

«Non sono passato. Ho usato l’entrata sul retro», disse sorridendo, quasi si aspettasse un applauso di fronte a tanto ingegno.

Sentii lo stomaco contrarsi. Il viscidume e il raccapriccio che mi trasmetteva penetrarono dentro di me come un veleno, e per un attimo pensai che avrei anche potuto vomitare.

«Ho cercato di dirtelo in modo gentile, Jimin. Ma non ha funzionato. Devi farla finita. Ti prego». Era davvero troppo per la mia serata magica e scintillante.

Cercai di liberare il braccio, ma lui mi strinse più forte e mi attirò a sé. Con tutta la forza che avevo mi tirai indietro, e per la prima volta fui preso dal panico.

In quel momento, da un gruppo di invitati mascherati alle nostre spalle, venne fuori un uomo che afferrò Jimin per il polso. Dovette stringerglielo forte perché lui subito allentò la presa su di me e abbassò la mano.

«Di solito», disse, e riconobbi immediatamente la voce, «quando una ragazza o un ragazzo tenta di allontanarsi e ti respinge significa che vuole essere lasciata o lasciato in pace». Il profilo perfetto del viso, le labbra carnose, i capelli arruffati, mi avrebbero fatto capire che era Taehyung anche se non avesse parlato. Non avevo alcun dubbio sull’identità del mio cavaliere mascherato.

«Di solito è una buona idea impicciarsi dei fatti propri», disse Jimin mettendoglisi davanti con aria di sfida. Ai miei occhi Jimin era sempre apparso molto alto, e invece Taehyung lo superava di almeno tre o quattro centimetri.

«Ma che razza di uomo va in giro con le mentine?». Taehyung fece un sorprendente gioco di prestigio con le mani, da vero professionista, e fece apparire tra le dita due mentine.

Rimasi confuso finché non vidi Jimin tastarsi le tasche. Guardò Taehyung con occhi torvi e cercò di strappargli le mentine di mano, ma Taehyung richiuse il pugno e se le infilò in tasca.

«Senti, brutto stronzo», disse Jimin. «Che ne dici di farmi parlare con il mio ragazzo e di levarti dai coglioni? Puoi pure tenerti le mentine».

«Il tuo ragazzo?», chiese Taehyung, volgendo leggermente la testa verso di me e guardandomi per la prima volta. Abbozzò un sorriso impercettibile, perché capissi di tenergli il gioco. «Lascia che ti dica una cosa. Stamattina l’ho deflorato. In realtà, ho anche pagato per prendermi la sua ciliegia. A proposito, deliziosa», disse con un leggero cenno del capo verso di me.

Nonostante la paura mi facesse battere forte il cuore, dovetti soffocare una risata.

Jimin scattò furibondo e afferrò con forza Taehyung per il bavero dello smoking. Taehyung neppure trasalì. Rimase immobile, guardandolo dall’alto, lo stesso sorriso tranquillo e divertito sulle labbra.

«A dir la verità…». Tirò fuori le mentine dalla tasca della giacca e le rimise in quella di Jimin. «Adesso capisco perché te le porti dietro».

«Cosa?», chiese Jimin.

«Il tuo alito».

Jimin serrò le labbra e continuò a guardare Taehyung, scuro in volto. Non riuscivo a capire se volesse davvero dargli un pugno in faccia, oppure se stesse solo scervellandosi per trovare un modo di uscire da quella situazione senza sembrare più stupido di quanto non fosse.

«Al diavolo», disse infine, e lasciò andare Taehyung. «Senti, Jungkook. So che forse essere comparso qui all’improvviso può avermi fatto passare per uno stalker».

«Non conosco l’intera vicenda», lo interruppe Taehyung. «Ma avendo detto “so che forse essere comparso qui all’improvviso può avermi fatto passare per uno stalker”, vuol dire che ci sono delle buone possibilità che tu lo sia davvero».

«Nessuno ti ha chiesto nulla, stronzo», gli inveì contro, poi si concentrò di nuovo su di me. «Il fatto è che mi manchi. Mi dispiace che le cose non siano andate bene tra noi, ma spero che tu possa darmi un’altra opportunità».

«In quanti altri modi devo dirtelo?», domandai, ormai esausto.

«Vattene, stalker». Taehyung cominciò a spingere Jimin su una spalla perché si allontanasse. «Gli hai fatto il tuo bel discorsetto. È evidente che al momento lui non voglia parlarne. Sono sicuro che ha il tuo numero, quindi, se dovesse cambiare idea, ti può sempre richiamare. Però adesso te ne devi andare».

Jimin oppose una debole resistenza mentre Taehyung lo allontanava da me e lo spingeva verso un ragazzo della sicurezza, al quale fece un cenno perché lo accompagnasse fuori.

Io, per tutto il tempo, ero rimasto fermo e mi ero limitato a osservare quel che accadeva. Non riuscivo a credere che Jimin fosse venuto fin lì solo per avere una seconda opportunità. E inoltre mi sembrava incredibile che Taehyung fosse apparso all’improvviso nei panni del cavaliere dall’armatura scintillante, pronto a salvarmi dal cattivo di turno.

Taehyung tornò qualche attimo dopo e mi fece un piccolo inchino. Sentivo una strana energia scalpitare dentro di me – come se un monello, birichino e giocoso, fosse stato rinchiuso in un recesso della mia mente, in attesa dell’occasione propizia per saltare fuori. Evidentemente la mia maschera non era servita a garantirmi l’anonimato. Sia Taehyung che Jimin non avevano avuto problemi a riconoscermi, eppure io mi sentivo diverso indossandola sul viso. Forse la leggera euforia che sentivo dipendeva dallo champagne, fatto sta che l’agitazione di poco prima era del tutto svanita. Volevo dimenticare lo spiacevole incidente di Jimin. Volevo ancora che quella fosse la mia serata magica, e lui non me l’avrebbe rovinata.

Mi sarei divertito.

«Non avere quell’aria così compiaciuta», dissi a Taehyung, sorpreso da quanto la mia voce suonasse sicura. «La prossima volta che vuoi fare la parte del cavaliere senza macchia, intanto dovresti evitare di comportarti da cazzone».

Abbozzò un sorrisetto malizioso. «Vuoi dire che il mio uccello ha attirato troppo l’attenzione?».

Senza volerlo, abbassai lo sguardo sotto la sua cintura, ma subito lo riportai in alto e mi concentrai sulla maschera bianca che gli copriva gli occhi. «Parlavo in senso figurato», dissi. «Sì. E adesso hai anche dimostrato che non riesci a sostenere una conversazione senza infilarci qualche battutina sconcia nel mezzo. Per la maturità che dimostri ti do tre».

Prese un bicchiere dal vassoio del cameriere che ci stava passando accanto, e me l’offrì. «La maturità è sopravvalutata».

«E l’attitudine a non rubare le cose altrui? Anche quella è sopravvalutata?»

«Terribilmente».

Non riuscii a trattenere una risatina. Era davvero incorreggibile, e quasi se ne vantava. Di solito, detesto gli uomini che mostrano anche solo il minimo accenno di stronzaggine. Un modo di fare troppo diretto e insolente ha il potere di farmi allontanare. Ma con lui era diverso, era un uomo assolutamente sicuro di sé, e quindi anche quei difetti del suo carattere mi risultavano stranamente affascinanti. Mi piaceva anche il modo in cui giocava con le parole, riuscendo a rendere la conversazione brillante. E stimolante. E seducente.

Dovevo aver appoggiato lo champagne da qualche parte perché, a un certo punto, mi offrì un altro bicchiere. Era vino rosso, che di solito non bevevo, perché mi faceva venire il mal di testa, ma pensai che avrei potuto fare un’eccezione. Dopotutto, se lo champagne era riuscito a darmi quella leggera euforia che mi aveva fatto diventare tanto audace, quali meraviglie avrebbe potuto compiere un altro po’ di alcol?

Ne bevvi un sorso e inarcai le sopracciglia, piacevolmente sorpreso.

«Buono?», chiese.

«Migliore della compagnia».

Si portò una mano al petto con fare melodrammatico. «Così mi uccidi».

«Non so perché, ma ne dubito».

Scrollò appena le spalle, sulle labbra ancora quel sorrisetto vago di divertimento, come a dire che la nostra conversazione era solo un gioco, così come quella festa – e la vita stessa, del resto. Bastava uno sguardo, con o senza maschera, e si capiva che era un uomo che non si lasciava toccare da nulla. Né dai problemi, né dalle preoccupazioni. Lo invidiavo per questo, e ne ero affascinato. Mi sarebbe piaciuto avere un approccio alla vita come il suo.

«Mi chiedo se la tua lingua ha un sapore deciso tanto quanto è tagliente quando parli», disse. «O se invece è dolce tanto quanto la tua torta di ciliegie…».

«Ti è piaciuta?», domandai. Il suo palese tentativo di seduzione sfumò appena menzionò la torta. Prima di ogni altra cosa ero un pasticcere, e credo che mi importasse di più la sua opinione sulla mia torta che il terreno insidioso sul quale mi avrebbe condotto continuando quella conversazione.

«Era buona, ma mancava qualcosa».

Provai un tuffo al cuore. Erano anni che cercavo di perfezionarne la ricetta. Avevo provato varie combinazioni di ingredienti, di preparazioni, di tecniche di cottura. Il pensiero che non gli fosse piaciuta mi ferì più di qualunque altro insulto. «Cos’aveva che non andava?», chiesi, perdendo in un batter d’occhio la finta compostezza e disinvoltura che avevo sfoggiato così bene fino a quel momento, proprio come la maschera che avevo sul viso.

«Be’», disse. «Aveva bisogno di più… bicarbonato?». Mantenne un’espressione seria più o meno per un secondo, poi sulle labbra comparve il sorrisetto familiare.

Misi una mano sul fianco, sorridendo. «Il bicarbonato?»

«Proprio così. Per la lievitazione. Il bicarbonato aiuta a far crescere l’impasto».

Inarcai un sopracciglio. «Avviserò l’associazione nazionale dei pasticceri. Per tutto questo tempo abbiamo sempre sbagliato. Pensavamo che servisse il lievito».

«Il lievito?»

«Per rendere più grosse le bolle d’aria nell’impasto. Sono segno di una buona lievitazione».

«Tu e le tue bolle. Bolle nei dolci. Bolle nelle bibite. Chiappe che fanno ribollire il sangue», mormorò.

«Cosa?»

«Ti ho “bollato” come fissato», sospirò prima che riuscissi a capire se stesse scherzando o meno. Quindi si picchiettò il mento con un dito e continuò a osservarmi, facendo finta di prendere nota mentalmente di qualcosa.

«Allora?», chiesi. «Che significa quello sguardo?»

«Che ti sto studiando per cercare di inquadrarti. Un pezzetto alla volta, Pasticcino».

«Mi chiamo Jungkook. E buona fortuna, se vuoi davvero inquadrarmi. Mi fai sapere quando avrai finito? Potrebbe fare comodo anche a me conoscermi più a fondo».

«Al momento, Pasticcino, ecco quel che ho capito». Mi tolse il bicchiere dalle mani, con un gesto rapido ed elegante, bevve un sorso di vino e mi porse di nuovo il bicchiere. «Scusa», disse notando la mia espressione indignata. «Quello che non ti appartiene ha sempre un sapore migliore, no?». Tacque, e mi accarezzò con lo sguardo, per sottolineare il significato dell’allusione contenuta in quelle parole.

«Proprio così», dissi. Cominciavo a sentirmi di nuovo nervoso. Parlare con Taehyung significava essere impegnato in una costante schermaglia verbale, e più parlavamo, più mi rendevo conto che era lui a condurre il gioco. Cercai in tutta fretta di riempire quel silenzio assordante perché avvertivo che un uomo come Taehyung era in grado di fare cose pericolose anche in silenzio, ricorrendo solo ai suoi occhi penetranti e all’impercettibile fremito delle sue labbra sensuali. «Alle elementari e alle medie avevamo l’abitudine di scambiarci le cose che portavamo per pranzo», dissi, più che altro per riempire il silenzio e non perché pensassi davvero che si aspettava una risposta. «Le caramelle gommose Airheads erano come oro. Potevi scambiarne una quasi con tutto. Perfino con un contenitore pieno di crocchette di pollo e patatine fritte. Soprattutto se erano di quel gusto misterioso. Quelle bianche. Se te le eri scambiate, avevano un sapore molto più buono che se te le avesse date la mamma».

«Quelle bianche erano allo zucchero filato. Mistero risolto».

Cercai di ricordarmene il gusto, e mi trovai d’accordo con lui. «Stavi dicendo che mi avevi inquadrato?», chiesi a bruciapelo. Devo ammettere che morivo dalla voglia di sapere cosa pensava di me, anche se mi terrorizzava l’idea che mi dicesse cose spiacevoli.

«Giusto, ma poi mi hai costretto ad aggiungere alla lista di cose che ho capito su di te “gli piace interrompere quanti cercano di introdurre una pausa a effetto nella conversazione”».

Arrossii. «Non mi ero reso conto che fosse una pausa a effetto».

«“A volte manca del più elementare spirito d’osservazione”», disse in tono didattico, come se stesse dettando un appunto a qualcuno per farlo trascrivere.

«Ehi!», esclamai ridendo, e gli diedi un colpo sul braccio. Appena mi resi conto di quel che avevo fatto, ritirai la mano, un po’ troppo in fretta, a dir la verità, e la mia risata si spense. Sembrò non aver notato la mia reazione, perché si limitò a osservarmi con attenzione da dietro la maschera, gli occhi scuri socchiusi e penetranti.

«“Manesco”…».

«Ti conviene passare a elencare qualche lato positivo o dovrò metterti alla prova per vedere se riesci a bere il resto del vino anche al volo».

«Giusto. I lati positivi. Be’, purtroppo quella parte della lista è segreta. Almeno finché non l’avrò completata. Ovvero finché non avrò avuto la possibilità di valutare anche le tue parti intimamente segrete».

Lo fulminai con lo sguardo.

«Dovresti vedere la tua faccia. Adesso capisco perché ti chiamano Pasticcino. Così rosso come il colore del tuo viso quando sei incazzato ti fa sembrare assolutamente adorabile».

«Nessuno mi chiama Pasticcino. A parte te, pur avendoti detto che il mio nome è Jungkook».

«Forse dovresti cercare di non essere così adorabile quando sei incazzato. Così le persone non ci prenderebbero gusto a stuzzicarti».

Mi sentii avvampare ancora di più. Stavo per replicare quando un altro uomo e una donna si avvicinarono a Taehyung. Le maschere celavano i loro volti, ma mi ritrovai a guardare incredulo Taehyung e quell’altro uomo. Avevano la stessa altezza, la stessa corporatura. Identici occhi, bocca, ovale del viso, perfino le stesse orecchie. L’unica differenza era che il nuovo arrivato aveva i capelli perfettamente pettinati, mentre quelli di Taehyung erano arruffati come glieli avevo visti in mattinata. L’altro portava anche un fazzoletto di seta nel taschino della giacca – non ricordo mai come si chiama.

«Stai torturando un altro povero ragazzo?». Il nuovo arrivato aveva perfino la voce quasi uguale a quella di Taehyung. Il tono, però, era più freddo. Più serio.

«Pasticcino, lui è mio fratello, Namjoon», lo presentò. «Siamo gemelli, ma io sono nato alcuni secondi prima, quindi sarò sempre il più forte e il migliore dei due».

«In base alle statistiche, tu sarai solo quello che morirà prima», disse Namjoon con garbo.

«Io sono Lisa». La donna mi sorrise affabile e mi porse la mano. Indossava uno splendido vestito bianco tra l’elegante e lo sportivo, e aveva una grazia innata, la stessa che un giorno avrei voluto raggiungere anch’io. Nonostante l’abito mozzafiato, un viso adorabile, bellissimo, e il fatto che il gemello di Taehyung le tenesse un braccio sulle spalle, si capiva che era una ragazza semplice e dolce. Mi piacque all’istante.

«E io sono Jungkook», dissi, stringendole la mano.

Mi accorsi che era rimasta spiazzata udendo il mio nome.

«Taehyung trova divertente chiamarmi Pasticcino», le spiegai.

«Oh, fidati, so quel che ti fa penare», disse Lisa. «Ho dovuto sopportare un mucchio di volte i suoi fallimentari tentativi di essere spiritoso. Mi dispiace che adesso usi te come discarica personale della sua comicità spazzatura».

«Ehi!». Taehyung sorrideva nonostante il tono ferito della voce. «Discarica personale della mia comicità spazzatura? Gesù, Lisa. Sei stata contagiata dalla freddezza di Namjoon. La cosa un po’ mi ferisce».

«Oh», fece Lisa, e il suo sorriso divenne esitante. «In realtà non era mia intenzione…».

«Lisa, non rammaricarti», la interruppe Namjoon. «L’ego di Taehyung incassa bene i colpi con cui lo bastoniamo. Purtroppo, sono quasi certo che riuscirà a sopravvivere anche stavolta».

«Comincio a pensare che questo scontro non sia alla pari, e fatemi dire una cosa… se devo lottare uno contro tre, preferirei che nel mucchio ci fosse un cazzo in meno. Soprattutto se il suddetto cazzo appartiene a mio fratello».

«Va bene un cazzo in più, se quel cazzone non sei tu. Ho capito», disse Namjoon, tingendo di una nota comica il suo tono serio.

Soffocai una risata.

In quel momento Taehyung fece cadere qualcosa che teneva in mano, ma non riuscii a vedere bene di cosa si trattasse. Vidi solo che all’improvviso si piegò davanti a Namjoon e poi si rialzò, infilandosi un oggetto in tasca. Sul momento non capii, ma quando guardai di nuovo Namjoon, notai che il fazzoletto bianco di seta che portava al taschino della giacca era scomparso.

«Bene», Taehyung si stiracchiò facendo finta di sbadigliare, «a proposito di cazzoni. Non devi incontrarti con quel signor Nababbo?».

Namjoon sospirò. «Ti rendi conto che se mai venisse a sapere come lo chiami, rinuncerebbe all’istante a essere nostro cliente?»

«Lo so, ma non posso farne a meno».

«Ovvio. Vieni, Lisa. Io invece devo trovare il signor Yie per farmi vedere anche solo per un attimo. È stato un piacere conoscerti, Jungkook», disse educatamente, poi si allontanò con Lisa.

«Ora capisco. Tu sei il gemello cattivo e lui…».

«Quello ossessivo compulsivo. Penso che se uno ci si mette d’impegno riesce anche a fargli cagare cubetti di ghiaccio. Sbriciolati, naturalmente».

All’improvviso, scoppiai a ridere. «Un’immagine un po’ inquietante».

«Benvenuto nel mio mondo». Tirò fuori dalla tasca della giacca un fazzoletto bianco di seta e si soffiò il naso, anche se avrei scommesso che non aveva il naso chiuso. Guardò il fazzoletto abbozzando appena un sorriso, e lo lasciò cadere a terra.

«A che scopo prenderlo se poi te ne sbarazzi?», domandai.

Sembrò leggermente sorpreso. Forse non si aspettava che mi accorgessi del furto. «Be’, nella collezione non può rientrare tutto».

«Posso chiederti a quale collezione ti riferisci?».

Ci rifletté un attimo. «Si potrebbe definire la mia “stanza dei trofei”. Gioca bene le tue carte e forse un giorno te la mostrerò».

«Un giorno», dissi lentamente. «Sembra che tu abbia grandi progetti per noi due. Comincio a bloccare l’agenda?»

«Solo le notti».

Mi mordicchiai un labbro, di lato. «Fai sempre così?»

«Se faccio avance sessuali “non-troppo-velate” ai bei ragazzi? No, di solito no».

Mia nonna dice sempre che quando ti fanno un complimento, mai mettersi a sindacare, se non vuoi che sia l’ultimo. Quindi, sebbene non fossi del tutto convinto che mi trovasse bello, soprattutto visti gli uomini splendidi presenti alla festa, sorrisi e incassai. «Capisco… e questi bei ragazzi ai quali di solito non fai avance sessuali, come si comportano se invece lasci sottintendere qualche allusione “non-troppo-velata”?»

«Vedi», disse, e si avvicinò di un passo. In quel momento persi qualunque sicurezza, e cominciai a sentirmi a disagio. La sua vicinanza era travolgente. Logorante. «In questo momento faccio fatica a pensare ad altri ragazzi, o a quel che è successo in passato. Ho in mente solo una cosa, che prevale su tutti gli altri».

«E sarebbe?», dissi con un filo di voce.

«Un ragazzo», rispose. Tacque e mi accarezzò con lo sguardo, poi schiuse appena le labbra e quel minimo gesto, così sensuale, mi lasciò tramortito e mi accese tutti i sensi. «Un ragazzo che ho incontrato oggi. È un po’ rigido. Un tantino sarcastico. E ribatte sempre».

«Sembra proprio tremendo». Riuscii ad articolare solo poche parole sussurrate, perché avevo la gola stretta in una morsa e la bocca secca.

«E questo è il bello. Non sono mai stato attratto da ragazzi del genere, ma questo… penso che mi piaccia».

«Sono sicuro che ne sia lusingato».

«Lo sei?»

«Sono cosa?».

Sorrise. «Vuoi che te lo dica senza tanti giri di parole? Va bene, hai vinto tu». Sollevò l’indice e lo posò proprio sotto la mia clavicola dove la leggera scollatura della mia camicia lasciava la pelle scoperta. Premette leggermente, e subito un brivido mi percorse tutto, facendomi venire la pelle d’oca.

Cominciò a muovere il dito. Forse disegnò o scrisse qualcosa, non ne ho idea. Il mio mondo divenne lui, le sue lunghe ciglia, i suoi penetranti occhi scuri, le labbra morbide, assolutamente peccaminose, e il dito che si muoveva lasciando una scia di fuoco sul mio corpo. In quel momento non sentivo più né la musica né le persone attorno a noi.

Dopo un po’ tolse il dito e mi guardò impaziente. «Ecco. Te l’ho detto senza giri di parole. Hai capito?»

«Cosa?», chiesi. Non avevo prestato la minima attenzione a quel che aveva disegnato.

Scrollò le spalle. «Alcuni uomini, anche se glielo scrivi sulla pelle, non lo afferrano. Oh, be’, peggio per te».

«Ehi!», dissi, abbozzando un sorriso. «Dài, scrivilo di nuovo».

«Nah. Hai avuto la tua buona occasione, e l’hai sprecata».

Non era nel mio stile, ma misi le mani sui fianchi, perché Taehyung aveva il dono di provocarmi fino a farmi perdere il lume della ragione. «Sei assurdo».

«Ho una sete assurda. Vado a rubare qualcosa di forte».

«Le bevande sono gratis. Non le puoi rubare».

«Beata innocenza. Ancora per quanto?», disse con voce nostalgica. «Rubare è solo una questione di punti di vista. E poi l’occasione fa l’uomo ladro, Pasticcino. Ma non ti preoccupare, te lo insegnerò presto».

Detto questo, se ne andò e io mi chiesi cosa accidenti avesse voluto dire.

Dopo qualche secondo, una donna mi picchiettò delicatamente sulle spalle per farmi girare verso di lei.

Con o senza maschera, era davvero bellissima. Aveva zigomi pronunciati, labbra carnose, grandi occhi verdi con ciglia lunghe e un corpo da far girare la testa. Con un sapiente movimento del capo, spostò indietro i capelli corvini, facendoli ricadere sulle spalle, come a dire “sono meglio di te in tutto, e sta’ pur certo che lo so bene”.

«Sì?», chiesi.

«Scusami se ti disturbo», disse con voce suadente, come una gatta che fa le fusa. Mi regalò un sorriso che mi sembrò affabile e allo stesso tempo involontariamente sexy. Una parte di me fu subito incantata, ma in un angolino della mente qualcosa mi disse di stare attenta a questa donna. «Mi chiamo Kim Jennie. Potrei essere definita la presidentessa del club delle ex ragazze di Kim Taehyung».

«Oh», dissi. Non sapevo come altro rispondere alla sua presentazione.

«Non preoccuparti. Questa non è una scenata di gelosia né un tentativo di minaccia. Sono qui in veste d’amica. Mi sono già trovata nella tua stessa posizione. Taehyung è molto bravo a fare promesse. Ti convincerà che è un brav’uomo, anche se un po’ ruvido nei modi di fare e con qualche lato del carattere da smussare. Ti prometterà qualunque cosa pur di arrivare al suo obiettivo. Ti sedurrà. Si prenderà quello che vuole, e poi passerà a un’altra, o addirittura a un altro. Lo ha fatto con tutti noi, e ora lo farà anche con te».

«Be’», dissi un po’ piccato. «Apprezzo l’avvertimento, ma sono adulto. Penso di poter decidere da solo con chi avere una relazione sentimentale».

Mi rivolse un sorriso forzato. «Ovvio». Mi strinse la spalla un po’ più forte del necessario. «Ascolta. Non prenderlo come un fatto personale, ma Taehyung torna sempre da me strisciando quando le sue avventure finiscono male. A volte non so neppure io come faccio a sopportarlo, ma che vuoi, sarò speciale».

Sorrisi, ma senza calore. Non era mia abitudine essere antipatico, ma questa donna sprigionava un’asfissiante puzza di stronzaggine che aveva il potere di tirar fuori il lato combattivo e indisponente del mio carattere. «Scusa, penso di aver capito male. Hai detto che sei la presidentessa del club delle sue ex ragazze, o del club delle sue fan?».

Strinse le labbra, dove era rimasto stampato quel suo sorriso finto. «Buona fortuna, caro. Taehyung si mangia in un boccone i ragazzi come te, e poi li risputa prima ancora di colazione». Mi salutò agitando le dita, e le unghie laccate e ben curate luccicarono. Si allontanò camminando come se sfilasse in passerella, poi scomparve tra la folla.

Stavo ancora cercando di trovare un senso all’incontro con la regina di ghiaccio quando Taehyung tornò con due calici di champagne. Me ne offrì uno, ma lo rifiutai appena vidi tracce di rossetto sul bordo.

«Non pensi di esserti spinto un po’ troppo oltre con questa storia del furto?», domandai. Ancora non avevo deciso se parlargli o meno di Jennie. Da una parte morivo dalla voglia di sentire la sua versione dei fatti, dall’altra sapevo che non mi doveva alcuna spiegazione. Forse meritava che gli dessi la possibilità di farsi conoscere senza doversi prima difendere dalle affermazioni di una ex fuori di testa.

«Furto è un parolone. Ho una leggera tendenza alla cleptomania. È una malattia. Prenderesti mai in giro una persona malata? Inoltre puoi riprenderti i fiori in qualunque momento. Basta che tu venga nel mio ufficio. Si può dire che li ho presi in prestito, non rubati. Per quanto riguarda la tua ciliegia invece… Non contavo di ridartela».

«Funziona così?», chiesi, ignorando il commento sulla ciliegia. «I fiori sono serviti per il vecchio trucchetto “ho dimenticato qualcosa a casa tua”, ma con l’aggiunta di una leggera tendenza alla cleptomania?»

«Esatto».

«Mmm. Be’, puoi tenerteli».

Si picchiettò il mento con un dito. «Capisco. È evidente che ho rubato l’oggetto sbagliato. Deduco che devo passare di nuovo a farti una visitina in negozio».

«Non posso certo impedirtelo».

«Ma se potessi, lo faresti?». Nella sua voce era scomparso il tono giocoso, colsi solo un’acuta nota di sincerità. Lo aveva fatto di nuovo. Appena mi convincevo che non prendeva nulla sul serio, ecco che lasciava trapelare un inaspettato coinvolgimento emotivo.

«Forse», dissi. Ed era vero. Forse glielo avrei impedito, per non temere il futuro, l’ignoto, per sfuggire alla possibilità che quello che c’era tra noi mi facesse piombare addosso una catastrofe annunciata. Oppure lo avrei lasciato venire, perché non capita tutti i giorni che uomini come Taehyung entrino nella tua vita. Se mi fossi dovuto basare sulle mie esperienze passate, erano trascorsi vent’anni prima che un uomo come Taehyung si presentasse alla mia porta, e di sicuro non volevo aspettare i sessant’anni per avere un’altra occasione.

«Allora meglio che tu non abbia altra scelta». In quel momento sollevò lo sguardo verso il ballatoio alle mie spalle. Poi lo spostò su di me, mi sorrise distratto, e infine lo sviò di nuovo. Mi voltai per vedere cosa stesse guardando, e lei era lì. Jennie, la regina di ghiaccio, la regina delle stronze del club delle ex ragazze di Kim Taehyung. Abito nero, capelli corvini, nastro nero di pizzo attorno al collo, maschera con sottili orecchie da gatta. Sentii una fitta di gelosia, amara come un veleno, e il cuore mi si arrestò. Forse aveva detto la verità, dopotutto.

«Be’», disse. «Avevo pensato di ballare un po’ con te. Poi ti volevo fare una serenata. E infine ti avrei portato in un luogo appartato e avrei completato la deflorazione iniziata stamattina, senza tanti eufemismi, ma… sfortunatamente devo occuparmi di un’altra cosa. Sarà quindi per la prossima volta».

Non aspettò che replicassi. Mi lasciò lì, immobile, con un’espressione inebetita in faccia. Puntò dritto verso il ballatoio, e all’improvviso mi resi conto che non volevo sapere la verità. Volevo solo fuggire, conservare intatta la magia di quanto ci eravamo detti nascosti dietro una maschera. Se fossi scappato subito, avrei sempre potuto ripensare a quel momento dicendomi che forse mi ero sbagliato. Se invece avessi avuto la certezza che Jennie aveva detto la verità, mi sarei chiuso ancora di più in me stesso. Sarebbe stata l’ennesima esperienza negativa che mi avrebbe tenuto per sempre a distanza da qualunque rappresentante del sesso maschile, e dal suo pene esuberante.

Ero stato molto stupido ad andare alla festa. Taehyung era affascinante e bellissimo, e probabilmente ero stato un’idiota anche solo a pensare di poter essere qualcosa in più di un piacevole diversivo nella sua vita. E io avevo forse aspettato così tanto tempo per essere solo il semplice diversivo di un uomo?

In fondo, ero solo un ragazzo che Taehyung aveva incontrato quella mattina in pasticceria. Le attenzioni che mi aveva rivolto erano state speciali per me, ma forse per lui quella era stata una giornata come tante. Non avevo nemmeno il diritto di essere arrabbiato, quindi decisi di sentirmi stupido e ingenuo. Sì. Stupido e ingenuo. Se la mia vita fosse stata scritta in uno dei miei ricettari, vi avrei trovato tutte le possibili varianti di appena due emozioni che mi avevano accompagnata nel corso degli ultimi venticinque anni. Allarme spoiler: indipendentemente da come le avessi amalgamate, avrei ottenuto sempre un’abbondante dose di delusione con l’aggiunta di un pizzico di imbarazzo.

La ricetta della mia vita. Mmm, squisita!

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Capitolo 4
*** 4 ***


TAEHYUNG'S POV


Il mattino dopo la festa avevo pensato di passare a tormentare un po’ il pasticcere, ma non ne avevo avuto il tempo. Quel rompipalle di mio fratello aveva avuto bisogno di me in ufficio, visto che stavamo cercando di concludere un importante contratto commerciale con un nuovo grosso cliente. Namjoon godeva a occuparsi di tutti gli aspetti organizzativi della nostra società. Lui si occupava delle ricerche di mercato, creava i contatti e gli appoggi giusti, coordinava le attività, progettava ed eseguiva. Penso che provasse quasi un piacere fisico quando tutto procedeva senza intoppi. Io, invece, amavo il rischio.

Mi piaceva provare a fare ciò che chiunque altro sano di mente non avrebbe mai fatto. Mi eccitavo ancora di più al pensiero che un eventuale errore da parte nostra ci sarebbe potuto costare milioni di dollari, se non la reputazione della società. In realtà, ero cazzuto e ci sapevo fare nel mio lavoro, quindi non sbagliavamo mai.

Okay, a volte le mie idee si rivelavano un fiasco. Mi era capitato di perdere qualche milione e avevo fatto incazzare alcune importanti società.

Ma non erano quelle le cose che contavano. Avevo una mente febbrile. E quando uno è un genio creativo, capita di dover rischiare un po’, o di pestare i piedi a qualcuno, e una volta o due capita anche di dare fuoco all’ufficio. Probabilmente quest’ultima eventualità non è così frequente come le prime due, ma quando il processo creativo necessita di una sostanza un po’ dolce e appiccicosa, allora capita anche di dover gettare una canna nel cestino della spazzatura se tuo fratello irrompe all’improvviso nel tuo ufficio. Così, se nel suddetto cestino c’è una certa quantità di carta straccia – be’, mi avete capito.

Nonostante tutto, però, anche Namjoon riconosceva che ero bravo nel mio lavoro. Doveva farlo. Una volta quel cazzone era stato un po’ troppo arrogante con me, così, se non mi avesse leccato un po’ il culo, lo avevo minacciato di lasciare la società. In quell’occasione, perse qualche anno di vita per causa mia. Gli piace dire che vivrà più a lungo di me. Vedremo.

In quel momento il lavoro e mio fratello potevano aspettare. Avevo già dedicato loro due giorni, forse tre. Ormai il pasticcere doveva aver pensato che non fossi più interessato, quindi dovevo sbrigarmi a sistemare le cose prima che qualche altro bastardo si facesse avanti e cercasse di mettere le mani sulla sua torta di ciliegie.

Nemmeno a farlo apposta, in quel preciso momento la brutta faccia di Namjoon comparve nel mio ufficio. Eh sì, eravamo gemelli identici, ma il suo viso era brutto, doveva farsene una ragione.

«Cosa c’è?», chiesi. «Stavo per andare a vivere un po’, vuoi smerdarmi pure un’idea così piacevole?».

Mi lanciò un’occhiata disgustata. «In realtà sono venuto per chiederti del ragazzo della festa. Un paio di sere fa, ricordi?».

Lo guardai con sospetto. Notai che, a differenza di quel che faceva sempre, non era piombato dentro come una furia, ma era rimasto fermo sulla soglia con le mani in tasca. Davvero strano per Nam. Qualcosa bolliva in pentola.

«È stata Lisa a spingerti a venire?»

«Sì». E adesso sembrava ancora più in imbarazzo.

«E ti ha detto di non dirmelo?»

«Sì», sospirò.

Gli diedi una pacca sulla spalla.

«Colpa di quella storia della telepatia tra gemelli. Ci credono tutti a questa stronzata. Non sei obbligato a dirle che sei talmente negato come bugiardo che saresti capace di perdere tutti i nostri soldi giocando a poker con dei mocciosi».

«Il poker è tutta questione di fortuna. Chiunque può perderci tanti soldi».

«Ed è per questo che sei una schiappa a poker. Comunque, non importa. Sei bravo in altre cose. Tipo… mettere in ordine i frigoriferi altrui. Ti piace tanto, vero?», domandai, come se lo stessi incoraggiando.

«Già. Proprio come a te piace tanto rubare le borsette alle signore anziane».

«Mai fatto», dissi. «Te lo ripeto per la millesima volta. Era una tote bag, una borsa grossa e capiente, non una borsetta. E la signora mi aveva rubato il posto al parcheggio».

«Allora?», chiese, e finalmente entrò nella stanza e si mise seduto sulla sedia reclinabile accanto alla mia scrivania. «Il ragazzo…».

«Innominato. Stavo proprio per andare da lui a infastidirlo un po’ prima che mi comparisse davanti la tua brutta faccia».

«Be’, cos’è successo dopo che vi abbiamo lasciati soli alla festa? L’hai liquidato?»

«Perché Lisa è tanto interessata a lui? Non ti ha mai mandato a far domande sugli altri con i quali perdo il mio tempo».

«Le è sembrato che tu lo guardassi in modo diverso rispetto a come guardi di solito gli altri».

«Be’, e cosa la renderebbe un’esperta in questo campo? Da quel che ne so io, Lisa combina guai, quindi si può dire esperta solo nell’arte di attirare gli incidenti più assurdi».

«Attento», ringhiò. «Stai parlando di mia moglie».

Sollevai le mani e abbozzai un sorriso, a mo’ di scusa. «Era così, tanto per dire. La sua vita è un mix esplosivo di sfortuna e pessimo tempismo. Mi sorprende che tu la lasci uscire di casa senza un elmetto in testa».

Namjoon mi lanciò un’occhiataccia, ma sapeva che quello era il massimo delle scuse che poteva aspettarsi da me, così proseguì imperterrito. «Non ha mai preteso di essere un’esperta, soprattutto per quel che ti riguarda. Chi ti conosce non è così stupido da pensare di riuscire a capirti. Non ti capisci nemmeno tu».

«Accetto il complimento».

«Era solo curiosa. E così mi ha mandato a indagare».

«Ecco il suo primo errore. Avrebbe fatto meglio a mandare un topo da laboratorio. Avrebbe dato meno nell’occhio».

Proprio come mi sarei aspettato, Namjoon fece una piccola smorfia sentendo nominare il topo. Non lo avrebbe mai ammesso, ma era terrorizzato da quegli esserini così simpatici. Ed era anche giusto. Se Namjoon fosse stato un supereroe, infatti, sarebbe stato Mastro Lindo, quindi doveva detestare i topi, simboli di sporcizia e disordine.

«Allora?», incalzò. «Cos’è successo con lui alla festa? Devi raccontarmi qualcosa, altrimenti Lisa mi manderà di nuovo a interrogarti. Risparmia a entrambi questo supplizio. Ti prego».

Incrociai le braccia e mi appoggiai alla parete. «Be’, è successa Jennie».

«Cazzo», sibilò. «Quella Jennie?»

«La sola e l’unica».

«Pensi che siano stati mamma e papà a mandarla?»

«Forse», risposi. «Sgancio sempre qualcosa a entrambi quando mi chiedono soldi, ma può darsi che siano stanchi del contentino. Non capisco però perché si fidino di Jennie e siano convinti che lei darà loro una percentuale se dovesse riuscire a incastrarmi in un matrimonio».

«Perché sono due deficienti».

«Dài, Namjoon. Stai sempre parlando dei nostri genitori».

«Lo so bene».

Sorrisi. «Avranno pure una lunga lista di eccezionali fallimenti ma… Be’, sono comunque due persone intraprendenti e ambiziose. Bisogna riconoscere loro il merito di possedere il buon vecchio spirito coreano».

«Già. Sono così intraprendenti e ambiziosi che da quando abbiamo avuto successo, si danno da fare per arraffare i nostri soldi».

«Il diavolo si nasconde nei dettagli, lo sai».

«Lo hai mai incontrato?», chiese Namjoon.

«E sapresti dirmi anche quante dita gli piace che gli mettano nel culo».

Namjoon fece una smorfia. «A volte mi dimentico quanto tu sia immaturo».

«Se maturità significa avere una venerazione per le banane, seguire con rigidità orari programmati, usare schemi e diagrammi colorati, allora sì, sono immaturo».

«Se hai finito… Cos’hai intenzione di fare con Jennie?»

«Quello che faccio sempre», dissi semplicemente.

«Scopartela un po’, lasciare che ti freghi decine di migliaia di dollari, e poi metterci un mucchio di tempo a renderti conto che sei stato un idiota?»

«Uh, no», dissi. «È accaduto solo due o tre volte. Io mi riferivo a tutte le altre volte in cui le ho detto di sparire».

Namjoon mi fissò con un’espressione accusatoria, pronto a rettificare un concetto che non si capacitava di aver appena udito. «Più volte in passato hai fatto la figura del perfetto coglione con lei. Prendimi pure per pazzo se mi viene il dubbio che la cosa possa ripetersi».

Alzai lo sguardo al soffitto e cercai di trovare una falla nella sua analisi, ma non mi riuscì. «Senti. Ho qualche problemino con i legami affettivi. Okay? Comunque, è successo mesi e mesi fa. Non l’ho nemmeno baciata in bocca. Adesso poi ho messo gli occhi sul pasticcere».

Namjoon fece un ampio sorriso, e scosse la testa. «Funziona così per te? L’importante è che non le baci in bocca?»

«Non vale solo per me», replicai. «È una cosa risaputa. O forse si riferisce solo alle prostitute? Ma cazzo, non sono andato a parlarle di questo alla festa. Adesso mi interessa il ragazzo della torta di ciliegie. Sì, lo so, non sarei dovuto andare a letto con Jennie. Mai. Ma è successo tempo fa. Tanto tempo fa. Stavolta l’ho mandata a fanculo. Quindi sto imparando».

«Il ragazzo della torta di ciliegie lo sa? Lo sa che ti interessa e che hai liquidato Jennie?»

«Chi sei, Dr. Phil?»

«Sono quello che verrà torchiato dalla moglie appena rientrerò in ufficio e le riferirò i particolari di questa storia».

Lo guardai storto. «Se il pasticcere non ha ancora capito che mi interessa, allora qualcuno dovrà anche spiegargli che Babbo Natale non esiste».

«Cosa?»

«Lascia stare. Voglio dire, sì. Dovrebbe sapere che mi interessa».

«E sa perché stavi parlando con Jennie?»

«Cos’è, devo avere una cazzo di autorizzazione da parte sua per parlare con una donna?»

«No. Ma non dovresti nemmeno essere così ingenuo da non capire come l’ha vissuta lui. Cos’hai fatto? L’hai piantato in asso e sei corso ad affrontare Jennie?»

«Più o meno», dissi lentamente. «Sapevo che se Jennie avesse capito che ero interessato a Jungkook, avrebbe trovato il modo di mandare tutto a puttane. Non ho avuto altra scelta. Quella donna è spietata».

Namjoon sospirò e intanto si alzò in piedi. «Capisco. Quindi devo dire a Lisa che mio fratello ha rovinato tutto con il ragazzo che a lei piace».

«Calma. Tu hai i tuoi modi e io i miei».

«E il tuo modo sarebbe?»

«Più alto è il rischio, più c’è soddisfazione», dissi. «Cioè, pensaci. Se dovesse spaventarsi per un’inezia come questa, vuol dire che posso risparmiarmi ulteriori seccature. Devi mettere alla prova un uomo per sapere se è proprio quello giusto che vuoi tenerti stretto».

Namjoon inarcò le sopracciglia. «E da quando in qua ti interessa tenerti stretto un uomo o donna, che sia?».

Liquidai la sua domanda con un mugolio sprezzante, anche se mi aveva turbato. Aveva ragione. Non avevo mai cercato una donna per un rapporto serio e duraturo. Cercavo piacevoli diversivi. E soprattutto, che fossero passeggeri. «Okay, signor Agente Segreto. Abbiamo finito. Se Natasha dovesse sentire che il suo istinto da reporter non è rimasto soddisfatto, allora dille di venire a lamentarsi direttamente con me. Siamo d’accordo?»

«Non sempre», disse. «Ma ora ho del lavoro da sbrigare».

Lo salutai con le mani aperte, agitando le dita, senza sapere bene cosa volesse significare un gesto del genere. Forse volevo comunicargli qualcosa del tipo “ecco qui un pezzo grosso che lavora, cari miei”. Namjoon mi ricompensò con un mugugno contrariato, e uscì dalla stanza.

Di solito avevo l’autista per spostarmi. In questo modo evitavo di perdere tempo e, per averne uno a disposizione in qualunque momento, gli pagavo in anticipo lo stipendio di un anno intero. Quel giorno però decisi di prendere la metropolitana, cosa assolutamente insolita per me.

Forse volevo concedermi un po’ di tempo per riflettere. La considerazione fatta da Namjoon mi aveva turbato e volevo andare a fondo per capire perché gli avessi dato quella risposta. “Devi mettere alla prova un uomo per sapere se è proprio quello giusto che vuoi tenerti stretto”.

Riuscii a sedermi perché la metropolitana era poco affollata: infatti era troppo presto per essere l’ora di pranzo, e troppo tardi per essere l’ora in cui i pendolari vanno al lavoro.

Mi chiesi se il mio fosse stato un semplice lapsus. Uno dei miei passatempi preferiti era irritare mio fratello, per questo in genere dicevo qualsiasi cosa mi saltasse in mente, fondata o meno, solo perché sapevo che in questo modo gli avrei dato sui nervi. Ma quella perla di spinosa saggezza mi era sfuggita dalle labbra con una tale facilità. Non sembrava né una bugia ben congegnata né una sagace frecciatina. Sembrava solo…

Appoggiai indietro la testa, contro il finestrino, e fissai le maniglie che si muovevano delicatamente mentre il treno scivolava sottoterra.

Scesi poco dopo e, prima di uscire in superficie, dovetti attraversare una stazione puzzolente. Una volta fuori, l’aria mi sembrò addirittura tersa, cosa che non avrei mai pensato camminando per le strade di Seoul. Mentre procedevo verso la sua bakery, sentii un fruscio in un vicolo. Forse avevo già deciso in cuor mio di perdere un po’ di tempo, cosa del tutto anomala per me, perché subito mi allontanai dal fiume di persone indaffarate e mi addentrai tra i due edifici.

Mi avvicinai a una pila di scatoloni fradici, e vidi che qualcosa si muoveva.

Feci un salto indietro, mi avvicinai di nuovo, gli occhi socchiusi. Gli scatoloni si aprirono e saltò fuori un cucciolo tutto lercio. Aveva in bocca un osso di pollo che aveva già spolpato. Vedendolo, mi ricordai del cane che avevamo da bambini – lo avevamo tenuto per miracolo perché i nostri genitori erano così poveri che riuscivano a malapena a sfamare Namjoon e me, figuriamoci un cane. Una sera dopo cena papà gli diede da mangiare un osso di pollo, senza sapere che gli ossi sono nocivi per gli animali. Alcuni frammenti lacerarono le pareti interne dello stomaco del nostro cane che quindi non fu più in grado di mangiare, e alla fine fummo costretti a sopprimerlo.

Mi avvicinai cauto al cucciolo, nella speranza di togliergli l’osso di bocca.

Mi ringhiò. Quello stronzetto aveva davvero avuto la faccia tosta di ringhiarmi contro? Sembrava un meticcio. Di razza non meglio identificata, aveva il pelo marrone, con le orecchie nere e una macchia beige sotto uno degli occhi. Doveva avere meno di due mesi.

«Senti, stronzetto», dissi a bassa voce perché non volevo che qualche passante mi sentisse parlare con un cane. «O me lo dai tu, o te lo prendo io».

Fece un passo indietro, e rizzò il pelo mentre quel ridicolo ringhio si faceva più basso – e con “più basso” intendo leggermente più intenso del verso di un usignolo.

«Possiamo farla breve o farla lunga. Decidi tu».

Mi ignorò, e intanto continuava a indietreggiare tenendo sempre stretto tra i denti il suo bottino.

«Dammelo!», urlai e scattai in avanti cercando di strappargli l’osso di bocca. Fui rapido, ma lui lo fu di più. Tirò la testa indietro, si voltò e partì a razzo lungo il vicolo sgambettando veloce tanto quanto le sue piccole zampette gli consentivano.

Non avevo certo intenzione di farmi infinocchiare da un cucciolo randagio, così gli corsi dietro.

Lo stavo per raggiungere. Pensava di fregarmi, quel birbante. Nel mio folle inseguimento, saltai bidoni della spazzatura, vecchi scatoloni, pozzanghere, e schivai anche un cassonetto, ma non mollai. Stava per sbucare nella strada dall’altra parte del vicolo quando all’improvviso si bloccò. Il cucciolo si trovò davanti una marea di persone che camminavano, una barriera umana che gli impediva il passaggio, così si fermò proprio dove volevo io.

Lo raggiunsi da dietro, afferrai l’osso e glielo strappai di bocca.

Lo tenni sollevato sopra la testa e guardai il cane dall’alto con aria sprezzante. «Il tuo primo errore è stato volermi sfidare, stronzetto».

Si accovacciò e iniziò a guaire.

«Sì, certo, peggio per te. Non mi lascerò commuovere dalle moine di un cucciolo. Puzzi da morire e chissà quante malattie hai, ma non ti farò suicidare con un cazzo di osso di pollo».

Guaì di nuovo, gli occhioni tristi puntati sul suo trofeo.

Sospirai. Non ero tipo da prendersi cura di un animale. A essere del tutto sincero, non ne volevo uno in casa anche perché temevo di dimenticarmi di dargli da mangiare o di portarlo fuori. Così lo guardai, scrollai leggermente le spalle e mi feci largo tra la folla. A Seoul c’erano abbastanza rifiuti perché riuscisse a sopravvivere da solo. Accidenti, magari dopo un forte acquazzone sarebbe anche potuto passare per un cucciolo adorabile e qualcuno si sarebbe lasciato intenerire e lo avrebbe preso in casa. Ma quel qualcuno non ero certo io. Avevo già compiuto la mia buona azione quotidiana salvandogli la pellaccia puzzolente.

Il folle inseguimento nel vicolo, in realtà, mi aveva portato vicino alla pasticceria, più precisamente di fronte al locale, ma dall’altra parte della strada.

Una volta raggiunta la bakery, avvertii una leggera stretta allo stomaco. Non saprei neppure dire quante volte avevo fatto una cosa simile in passato, eppure non mi ero mai sentito in agitazione. Ecco un altro comportamento del tutto insolito da parte mia. Irrompere nella vita di un uomo, travolgendola come un uragano, e dichiarargli apertamente che mi interessava. Sì, che mi interessava. Ma presentarmi nel suo locale dopo che lui non aveva fatto nulla per ricontattarmi? Bisognava ammettere che un simile comportamento superava un po’ il limite del semplice “interessamento”. Sfiorava quasi la disperazione, e questo, per me, era un territorio sconosciuto.

Ripensai alla parte finale della conversazione con Namjoon, e mi sentii un po’ a disagio. Quand’è che avevo deciso di smetterla di divertirmi cambiando una donna o un uomo a settimana? Appena poche ore prima di conoscere il pasticcere, avevo deciso di richiamare una ragazza a cui ero stato dietro un paio di giorni. Ora che ci pensavo, alla fine non l’avevo più richiamata. Da quando avevo rubato i fiori al pasticcere, non avevo neppure flirtato con un altro uomo o donna. Tecnicamente non ero nemmeno uscito con una donna, a dimostrazione del fatto che forse ero già pronto a dargli l’esclusiva?

Mi passai una mano tra i capelli e mi sfuggì un sospiro confuso, che altro non era che un sospiro come tutti gli altri ma con la fronte corrugata. Come quello che facciamo quando ci svegliamo nel mezzo della notte completamente nudi davanti a un frigorifero che non conosciamo. E che precede l’ovvia domanda “ma che cazzo ci faccio qui?”.

Mi liberai la mente da tutti questi pensieri e aprii la porta della pasticceria. Confuso o meno, sentii il profumo del pane appena sfornato, e mi accorsi di avere fame. Era venuto il momento di smetterla di psicanalizzarmi e di tornare a fare quello che facevo di solito. Agire senza pensare alle conseguenze.

Mi sentii avvolgere anche da un delizioso profumo di paste e torte appena sfornate. Jungkook stesso ne aveva lasciata una leggera scia alla festa in maschera, addirittura ore dopo essere uscito dal locale. Quell’aroma mi era già familiare. Mi ricordava quanto aveva spalancato gli occhi quando mi ero avvicinato a lui. Quanto gli batteva forte il cuore quando gli scrivevo sulla pelle.

Il mio dolce Cannolo illibato. Il ragazzo coi grandi occhi innocenti, che profumava di farina e di pane fragrante. Com’era giusto che fosse. Aveva un profumo delizioso, ed ero certo che avesse anche un sapore delizioso.

Dietro al bancone rividi lo stesso ragazzo dell’ultima volta. Gli lanciai una veloce occhiataccia, tanto per sicurezza. Sapevo che era impossibile, eppure avrei giurato di essere un po’ geloso all’idea che Jungkook lavorasse tutti i giorni da solo in pasticceria con lui. La gelosia, però, non era un sentimento che mi apparteneva più di tanto. Ho sempre pensato che riguardasse uomini poco sicuri di sé. Di cosa si dovrebbe essere gelosi se sei il migliore e il tuo ragazzo lo sa? A ogni modo, lanciargli un’occhiataccia poteva essere utile. Tanto per precauzione.

Jungkook era in piedi dietro al bancone con il grembiule sporco di farina e uno sbaffo bianco sul sopracciglio. Il suo aspetto era adorabile. Aveva i capelli legati in una minuscola coda di cavallo un po’ arruffata, e le unghie corte, il che mi fece pensare che forse se le mangiava come me.

«Sei consapevole che hai un cucciolo che ti segue, vero?», domandò.

«Cosa?», chiesi voltandomi, e abbassai lo sguardo. «Merda. Ti avevo detto di sparire», gli dissi.

Il cucciolo abbaiò e cominciò a scodinzolare.

«Tanto non te lo do», gli dissi, sollevando un po’ di più l’osso. «Per cortesia, me lo puoi buttare?», chiesi a Jungkook, porgendogli l’osso.

Lo guardò come se gli stessi porgendo un cadavere il che, tecnicamente, era in parte vero. «Puoi spiegarmi?»

«Questo stronzetto vuole l’osso, e invece non può averlo. Fine della storia».

L'altro ragazzo dietro al bancone mi guardava con una tale intensità che mi domandai quale fosse il suo orientamento sessuale. In passato avevo visto solo delle donne, e Jungkook, guardarmi in quel modo. Poi mi si erano avvicinate e in maniera nemmeno troppo velata mi avevano fatto capire che volevano che ci provassi. Contento lui, ma io non ero interessato a “incrociare la spada” di nessun cavaliere a parte con quella del mio pasticcere, quindi stavolta gli era andata male.

Jungkook prese l’osso e lo buttò nel cestino che aveva accanto. «Okay… Missione compiuta».

«Grazie. Visto?», chiesi, rivolto al cane. «Bottino sparito. Adesso va’ via».

«Non essere cattivo con lui», protestò Jungkook. Uscì da dietro al bancone e si accovacciò per accarezzargli le orecchie e la testa. Si fermò, fece una smorfia, poi continuò a coccolarlo. «Puzza come un cassonetto della spazzatura, ma è adorabile».

«Credo che non sia un “lui” ma una “lei”», disse il ragazzo del quale non ero affatto geloso.

Io e Jungkook inclinammo la testa di lato e abbassammo lo sguardo.

«Be’, lei resta comunque una stronzetta», dissi.

«Penso che le piaci», disse Jungkook continuando ad accarezzarla. «Poverina. Non hai un fiuto infallibile con le persone ma in compenso puzzi da morire».

«Stavo pensando che io e te potremmo andare da qualche parte», dissi. «Sai, una specie di appuntamento. Con annessi e connessi».

Jungkook si tirò su e si pulì le mani nel grembiule. Un’espressione triste gli offuscò il viso, spazzando via qualunque altra emozione. «Sono onorato, e te ne sono davvero grato, ma… no. Non penso che dovremmo uscire insieme».

«Potremmo andare a… aspetta, cosa?», domandai.

«Scusami. Ho avuto un po’ di tempo per pensarci. Credo non sia una buona idea. Per nessuno dei due».

Mi ci volle qualche secondo per elaborare una risposta. Certo, mi era già capitato un rifiuto, ma in passato ero sempre stato in grado di prevederlo. Questa volta mi era piombato addosso del tutto inaspettato. Jungkook sembrava l’immagine perfetta dell’innocenza. Un vergine dalla sessualità repressa e con un fuoco dentro che non vedeva l’ora di divampare. Pensavo di averlo inquadrato, e credevo che il desiderio che covava nell’intimo avrebbe vinto su qualunque altra cosa. Voglio dire, avanti, come fai a restare vergine per vent’anni e passa, e a non aver voglia di farti la prima cosa che si muove?

«Rispetto, ma non condivido», dissi infine.

Mi sorrise con un’espressione triste. «Be’, dovrei anche pensare ai miei clienti quindi, se non c’è altro, devo tornare a occuparmi dei cannoli che stavo preparando. Le bollette non si pagano da sole, sai».

Si tirò su e si avviò dietro il bancone. Era imbarazzante ma dovevo disperatamente trovare un modo per recuperare la situazione o rischiava di sfuggirmi di mano. Così dissi la prima cosa che mi venne in mente.

«Diventa il mio chef personale», proposi.

Si fermò di colpo. «Cosa?», domandò.

«Il mio chef personale. Solo di sera, dopo che hai finito qui, e in questo modo il tuo locale non ne risentirà. Potrai usare i soldi in più per comprare nuova… roba, che so. Qualunque cosa comprino i pasticceri quando possono disporre di un mucchio di soldi. Impastatrici? Aggeggi per stendere l’impasto delle torte? Macchinari per confezionare cupcake?».

Lentamente un sorriso gli comparve sulle labbra. «Si chiamano planetarie. È vero, l’impasto si stende col mattarello, ma i cupcake si confezionano ancora crudi. Si cuociono direttamente nei pirottini di carta».

Sollevai una mano. «Okay. Il punto è che i soldi ti sarebbero utili, no? Fa’ tu il prezzo».

«Non se ne parla. Anche se la tua proposta fosse seria, non posso…».

«La Galleon farà pubblicità alla tua pasticceria. Che ne dici? Non sarebbe beneficenza, ma uno scambio equo. Niente soldi. Niente assegni. Puro marketing. Gli affari aumenteranno così tanto che non saprai come fare», dissi.

Il suo amico, che fino a quel momento era rimasto dietro al bancone a guardare il nostro scambio di battute quasi fosse una partita di tennis, all’improvviso cadde a terra. Il rumore del suo corpo che si afflosciava sul pavimento fu piuttosto forte, considerato l’assoluto silenzio di Jungkook.

Guardai il punto in cui fino a poco prima il ragazzo stava in piedi. «Sta bene?».

Jungkook trasalì, come se la mia voce l’avesse riscosso da una specie di trance, poi guardò il suo amico. «Presto si riprenderà, gli capita a volte».

«Di svenire?».

All’improvviso Hoseok si tirò su, rosso in volto ma sorridente. «Sto bene! Continuate. Prego». Prese un biscotto dalla vetrina accanto e se lo mise in bocca, senza mai distogliere lo sguardo da noi due. «Ipoglicemia», disse con un filo di voce, come se quella fosse una spiegazione del tutto logica per essere caduto a terra come un sacco di patate vuoto.

«Perché mi fai un’offerta del genere?», mi chiese Jungkook diffidente.

«Questo sarebbe il momento in cui la maggior parte dei ragazzi inventerebbe una scusa. Risparmio a entrambi il teatrino. Ti sto facendo quest’offerta perché voglio tentare di conquistarti, mentre vedo che tu vuoi tenermi a distanza. Possiedo la migliore società di marketing del mondo. Basta una mia parola e un team di esperti si metterà al lavoro per ideare la campagna pubblicitaria giusta per Il Pasticcere Glitterato. Un’idea geniale. Ammettilo».

«Il Pasticcere Frizzante. Di sicuro l’idea è geniale, tranne la parte in cui dici che voglio tenerti a distanza chissà perché. Stai dando per scontato di potermi comprare? Che opinione hai di me?»

«Ti reputo un uomo assennato e ragionevole. Ma nessuno può far tutto da solo se vuole sfondare. Bisogna saper cogliere i colpi di fortuna che ci capitano nella vita, e nel tuo caso devi solo cucinare per me. Dopo avermi preparato la cena, vai via. Puoi anche ignorarmi, se vuoi. Sappi però che se rifiuti la mia offerta, mi vedrai qui tutte le sere, perché verrò a tormentarti finché non mi dirai di sì. Inoltre potresti fare davvero il botto grazie alla nostra campagna pubblicitaria, sai?».

Mi guardò a lungo, e capii che gli stavano frullando tante idee per la testa. Hoseok addentò il quarto o quinto biscotto, gli occhi sgranati come fosse in attesa del colpo di scena di una soap opera.

«Accetto», disse Jungkook, «ma a una condizione. Devi portarti a casa questa povera bestiola, così la troverò da te quando verrò a cucinare. E devi anche farle un bel bagno».

Abbassai lo sguardo sul cane, che mi guardò compiaciuto con un cazzo di sorrisetto merdoso. E probabilmente era proprio il sorrisetto di una cagnetta che mangiava anche la merda. «Ti rendi conto che la stai condannando ad avere un padrone negligente, che forse la trascurerà?»

«Dovrai coccolarla se vuoi che io venga da te. Offerta non negoziabile. E quando la vedrò, sarà meglio che sia contenta e profumi come una rosa».

Inspirai a fondo ed espirai dal naso. Come ero arrivato a tanto? Una cazzo di torta di ciliegie e, dopo essermi sempre fatto pregare dalle donne e dagli uomini, adesso ero io a supplicarne uno. Al diavolo. C’ero dentro fino al collo. Impossibile tornare indietro.

«Va bene».

«Devi darle un nome», aggiunse.

La guardai a lungo, un’espressione sofferente in volto. «Gremlin?», suggerii.

«Ma è un nome orribile».

«In fondo non mi dispiace», e Hoseok disse la sua.

«Troppo tardi», dissi, guardando la cucciola che scodinzolava euforica. «Gremlin ha già deciso che le piace. Ci vediamo stasera. Alle sei in punto, o sei licenziato». Mentre mi dirigevo alla porta notai il menù esposto su una specie di lavagnetta nera di sughero, scritto con lettere che si potevano staccare e riattaccare. Mi fregai la V come “vergine”, pensando alla sua v-card: un “biglietto da visita” del locale che mi richiamasse alla mente la ciliegina più squisita che volevo conquistare, tanto per usare un eufemismo.

Avrebbe dovuto ringraziarmi per quel che avevo intenzione di fare. Ma, ahimè, i cavalieri senza macchia non sono mai apprezzati. Dovevo prepararmi quindi a subire persecuzioni e incomprensioni sulla via impervia che mi avrebbe condotto alla mia nobile meta. Dopotutto, chi ha mai detto che sia facile fare il buono?

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