The Mastermind

di AlexSupertramp
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** Capitolo 1 - Due amici ***
Capitolo 3: *** Capitolo 2 - La lettera ***
Capitolo 4: *** Capitolo 3 - Chiarimenti - prima parte ***
Capitolo 5: *** Capitolo 3 - Chiarimenti - seconda parte ***
Capitolo 6: *** Capitolo 4 - Frammenti di passato e presente ***
Capitolo 7: *** Capitolo 5 - Un mare torbido di confusione ***
Capitolo 8: *** Capitolo 6 - Vuoi davvero essermi amico? ***
Capitolo 9: *** Capitolo 7 - La tempesta perfetta ***
Capitolo 10: *** Capitolo 8 - Come ci si dimentica di te? ***
Capitolo 11: *** Capitolo 9 - Quando tutto accade ***
Capitolo 12: *** Capitolo 10 -Sensi di colpa ***
Capitolo 13: *** Capitolo 11 - Decisioni ***
Capitolo 14: *** Capitolo 12 ***
Capitolo 15: *** Capitolo 13 - Ti racconto cosa ho fatto ***
Capitolo 16: *** Capitolo 14 - Ci conosciamo da parecchio ***
Capitolo 17: *** Capitolo 15 - Il fondo di caffé del passato ***
Capitolo 18: *** Capitolo 16 - Effetto domino ***
Capitolo 19: *** Capitolo 17 - Una maschera alla volta ***



Capitolo 1
*** Prologo ***


The Mastermind

Prologo
 
Metà giugno 2003

Carissimo Hayama, come stai?
Sono già passati due mesi dalla mia partenza, ma fra due settimane sarà tutto finito e potrò tornare a casa. Io sto abbastanza bene anche se ho avuto qualche piccola disavventura che poi ti racconterò. Il tempo passa in fretta ma tu mi manchi… 


Scrivere quelle parole le aveva fatto un certo effetto. Era strano ammetterlo e, soprattutto, era strano provarlo, ma lei sentiva la sua mancanza terribilmente. Nonostante ciò iniziare a scrivere quella lettera le aveva dato una gioia infinita, come se quei fogli di carta fossero il capo di un filo invisibile che la collegavano in modo impercettibile all’oggetto posto esattamente alla sua coda. Più che oggetto, sarebbe più corretto dire soggetto.
Si sentiva felice di aver deciso di scrivere quella lettera al suo amico Akito Hayama e davvero non vedeva l’ora di poterla inviare. Tuttavia qualcosa le sfuggiva, non era del tutto convinta di quanto aveva scritto… chissà, forse era troppo poco. Un'altra bozza accartocciata nel cestino della carta.

Caro Hayama,
come stai? È passato un altro giorno di riprese, è andato tutto bene anche se il regista oggi mi ha sgridata. Io ti penso sempre e sapere che ti avrò al mio fianco mi fa affrontare il lavoro con più serenità.  Ti ricordi le foto del signor Tanaka? Se ripenso a queste cose mi viene voglia di essere con voi. Vorrei essere a scuola con tutti i miei amici e soprattutto con te!! Ormai manca poco al mio ritorno e ti assicuro che conto i giorni. Appena arrivo ti telefono, spero che mi riconoscerai perché adesso sono diventata una diva del cinema. 
Ora ti saluto.
Sana.


Dannata indecisione, sembrava che ora tutto quadrasse e che le parole scritte fossero proprio quelle giuste. Aveva quasi sigillato quella busta sulla quale aveva scritto il nome del destinatario, stranamente emozionata. Un nome che si era scoperta a pronunciare nella sua mente più volte di quanto avesse mai fatto da quando lo conosceva.

Per un attimo era stata convinta di aver concluso la sua opera e di essere pronta a consegnare la missiva al suo manager cosi che potesse spedirla in paese, ma si fermò ancora una volta… il cestino della carta era colmo di manoscritti incompiuti.

Caro Akito,
non riesco proprio a finire questa lettera. A dir la verità non ti ho raccontato tutto quello che mi è successo. Ho avuto parecchi problemi a causa di un articolo pieno di falsità in cui si dichiarava che io e Naozumi Kamura ci amiamo. Ho preso un sacco di botte da un gruppo di sue ammiratrici. L’unica cosa che mi consola e mi dà forza è sapere che tu ci sei...


Sì, quello era decisamente ciò che sentiva il bisogno di dirgli. Era strano come, per capirlo, aveva dovuto scrivere numerose bozze chilometriche di quella che aveva creduto più volte essere la versione definitiva del piccolo romanzo. Sentiva la necessità di dirgli che la storia raccontata su lei e Kamura era una menzogna e che lei non aveva nessun fidanzato o amore sbocciato tra ciak e telecamere. Sentiva il bisogno di giustificare le dicerie che circolavano ormai da troppo tempo e chissà lui cosa aveva pensato, non sentendola e non ricevendo nessuna spiegazione.
Normalmente non si era mai posta il problema di spiegare al suo migliore amico quello che c'era dietro le quinte di tante notizie false. Quale poteva essere il problema, allora. Tuttavia ora era diverso. Perché mai, poi, questo non seppe spiegarselo. Sapeva solo che era diverso e che doveva dirgli che era tutto falso e che, nonostante fossero lontani e non parlassero da più di un mese, il solo pensarlo le dava tanta forza e che ormai non riusciva proprio ad immaginare la sua vita senza di lui.
Continuò a scrivere quella lettera per parecchio tempo, senza cancellare nemmeno una singola parola questa volta. Ogni singola lettera corrispondeva alla valanga di pensieri che aveva dentro da un po' di tempo e si sentì nuovamente felice, esattamente come quando aveva iniziato qualche giorno prima.
Era emozionata, contenta e impaziente, imbarazzata ma investita da una strana forma di coraggio che la spinse a piegare il foglio e rimetterlo nella busta, questa volta sigillandola definitivamente.
Fu il signor Maeda ad offrirsi di imbucare la lettera per Sana e fu Sana stessa a dirgli che non era più necessario perché qualsiasi piano, qualsiasi programma, qualsiasi pensiero, qualsiasi sentimento lei avesse provato fino a cinque minuti prima era stato completamente cancellato dalla notizia appena ricevuta proprio dal destinatario della busta. Quasi le venne da ridere al pensiero di quanto avesse desiderato fare quella telefonata e adesso non voleva altro che tornare indietro e lanciare quel cellulare in mezzo alla foresta.
La vita era difficile e il destino era proprio strano, pensò. Si sentiva davvero come all’interno di un vortice, totalmente incapace di muoversi. Per gli amanti della scienza, quello poteva essere un succulento richiamo alla legge di Murphy secondo cui, se qualcosa può andar male – la telefonata in mezzo al bosco – lo farà – la notizia che le aveva dato Hayama. Ma, sempre per quegli amanti della scienza e della legge di Murphy, se qualcosa poteva andare ancora peggio – la lettera per Hayama consegnata a Maeda affinché questi la spedisse – sicuramente sarebbe andato proprio così – Maeda che va in paese e imbuca la lettera, convinto che Sana gli si era opposta solo per non arrecargli disturbo.
Nonostante ci sforziamo di controllare gli eventi, questi andranno da soli e prima ci mettiamo l’anima in pace riguardo la nostra impossibilità di governare i fili dall’alto, prima impariamo a gestire la nostra vita.


*Note d'autrice*

Ciao a tutti, mi chiamo Alex e questa è la prima storia che pubblico in questo Fandom. Erano anni che non entravo in questo sito (infatti avevo un altro account con cui pubblicavo le mie storie ma, essendo passati secoli, non sono più riuscita ad entrare con quello e qualche anno fa ne feci semplicemente un altro). Ultimamente, complice la clausura forzata, ho rispolverato vecchie passioni. Una tra molte è quella verso questo anime che mi ha praticamente fatto compagnia durante tutti i primi anni dell'infanzia e adolescenza. Dunque, detto ciò, vorrei spendere qualche parole riguardo la FF: la storia parte da un punto ben preciso dell'anime, infatti, le parole riportate nei vari tentativi di Sana di scrivere quella lettera ad Akito sono esattamente quelle dell'episodio n. 60, quindi ho deciso di mantenere la stessa atmosfera (per quanto ciò possa essere possibile trascrivendo in prosa una storia raccontata come manga). 
Per quanto riguarda il contenuto di questo primo capitolo, mi sono sempre chiesta cosa sarebbe successo se alla fine quella famosa lettera (il cui contenuto resta ancora un mistero, ma che fa bn sperare in qualcosa di molto profondo) fosse giunta a destinazione e come sarebbe cambiata la storia. Ecco che vi propongo una mia personale visione di questo racconto, sperando che vi piaccia almeno un pò.
Un saluto a tutti,
Alex

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Capitolo 2
*** Capitolo 1 - Due amici ***


Capitolo 1

Due Amici
Fine febbraio 2007

L’aria era decisamente fredda e, nonostante non nevicasse ormai da più di dieci giorni, le temperature non volevano proprio decidersi a salire di qualche grado. Ne bastavano anche due o tre, secondo Akito Hayama, il giusto clima per far sì che il suo viso non si ibernasse a vita durante le costanti corse di primo mattino. Spesso usciva di casa quando né suo padre né sua sorella erano ancora nei paraggi e quasi sempre, al suo ritorno, li trovava seduti al tavolo della cucina a fare colazione. Quella mattina non fu un’eccezione: «Buongiorno figliolo, sei andato a correre?». Per Akito quella era una domanda retorica, la seppe riconoscere ma non sottolineò l’ovvietà della risposta. «Già!» si limitò a dire prendendo poi una bottiglia d’acqua dal frigo e portandosela alla bocca. Faceva freddo ma lui era comunque tornato a casa sudato e accaldato. Dall’altra parte della stanza fu sua sorella a continuare il rito mattutino. «Ho preparato le uova strapazzate. Sbrigati o farai tardi a scuola e farai far tardi anche me. Cosa c’è da correre tutti i giorni dico io, con questo freddo poi.» borbottò distrattamente continuando a dedicarsi alle uova, spalle al resto dei presenti. Akito la guardò alzando un sopracciglio, quasi senza accorgersene: «È tardi, mi cambio e vado a scuola, non preoccuparti. Ci vediamo», concluse secco, dirigendosi verso la sua stanza al piano di sopra. Non riusciva proprio a capire perché quella famiglia ritenesse così strano il fatto che andasse a correre ogni mattina all’alba, noncurante di gelo o afa, salute o malattia, apocalisse o calma piatta. Probabilmente non avevano ancora capito quanto lo sport lo aiutasse a tenere a bada la sua indole ribelle. Aveva bisogno di disciplina, lui lo sapeva bene, e la corsa all’alba insieme al karate erano il suo codice disciplinare, quel giorno più di tutti gli altri.
Dopo una doccia veloce, si vestì rapidamente senza nemmeno controllare allo specchio il risultato finale. A che serviva? Tanto erano tutti uguali, lui e i compagni, infiocchettati in quelle divise fatte con lo stampino. Non che gli dispiacesse particolarmente indossare quei pantaloni scuri sormontati da una candida camicia e una giacca grigio scuro. Quelli erano vestiti come altri, solo tutti uguali.
Scese le scale rapidamente, salutò con un cenno della mano la sua famiglia e si diresse a scuola.
L’edificio che ospitava le classi delle superiori si trovava esattamente nello stesso comprensorio di quello delle medie per cui, nel momento di passaggio, il nuovo tragitto da percorrere non era stato affatto lungo. Non che quell’evento lo avesse scalfito più di tanto, semplicemente era stato promosso in terza media per passare alla prima superiore dove ora frequentava l’ultimo quadrimestre, ormai prossimo al termine.
Quella mattina la prima persona che incontrò nel cortile alberato della scuola fu Tsuyoshi che, come tutte le mattine in realtà, si affrettava a raggiungere il suo amico per fare quattro chiacchiere in santa pace. «Buongiorno, ti sei allenato anche oggi?» domandò con il sorriso sulle labbra. Akito dal canto suo non gli rivolse nemmeno uno sguardo continuando a camminare dritto davanti a sé, come se la punta del suo naso fosse collegata da un righello invisibile la cui altra estremità terminava proprio in corrispondenza dell’ingresso della scuola. «Vedo che siete tutti dei gran fan della mia forma fisica. Sì Tsuyoshi, mi sono allenato anche oggi», rispose seccato, socchiudendo gli occhi per evitare che il fastidio che provava venisse percepito all’esterno. Non c’era nulla da fare, quel ragazzo era davvero molto suscettibile alla curiosità altrui.
Lo sguardo di Tsuyoshi, infatti, si fece prima interrogatorio e poi annoiato benché conoscesse ormai molto bene il suo migliore amico. «Mamma mia, possibile che tu sia sempre così imbronciato. Hai mai considerato l’idea che questi allenamenti ti facciano più male che bene?» domandò, consapevole e anche un po' divertito che quella domanda avrebbe colto nel segno. Akito si voltò di scatto verso l’amico, rifilandogli un secco «No!» per poi voltarsi nuovamente verso la traccia immaginaria disegnata tra la sua faccia e l’ingresso.
Tsuyoshi lo guardò allontanarsi, riflettendo sul fatto che forse sarebbe stato meglio non chiedere nulla al suo amico, soprattutto riguardo i suoi preziosi allenamenti. La carrellata di pensieri fu interrotta da una stretta leggere sul suo braccio, sensazione che lo fece sorridere istintivamente perché sapeva bene cosa vi si nascondeva dietro. O meglio, chi. «Buongiorno Tsuyoshi», esclamò Aya posandogli un bacio di saluto sulla guancia, «È nervoso anche oggi?» gli chiese, indicando con un cenno del capo la chioma bionda dinanzi a loro che aveva ormai raggiunto la tanto agognata meta. Tsuyoshi fece spallucce, circondandole le spalle con il braccio ed esortandola a riprendere anche loro la processione quotidiana. «Lo conosci ormai Aya, lui è fatto così. Ci preoccuperemo quando verrà a scuola circondato da farfalle che gli svolazzano intorno», disse con un sorriso tranquillo. La sua ragazza lo imitò, smettendo di preoccuparsi per il loro comune amico perché, come le aveva fatto notare Tsuyoshi, Akito era semplicemente fatto così. Si innervosiva con poco e chi non era attento a cogliere le sfumature delle conversazioni, non avrebbe nemmeno capito il motivo per cui si era innervosito. Tsuyoshi lo sapeva, così come Aya e una piccola manciata di altre persone nel mondo.
Hayama fu il primo ad entrare in classe, raggiunse il suo banco e si sedette in silenzio nell’attesa che quel momento venisse drammaticamente spazzato via dal mucchio di compagni che stava per imitarlo. Ripensò al fatto che lui e Tsuyoshi erano amici dalle elementari ormai, quasi come se fosse la sua balia. In realtà non la pensava affatto così perché era consapevole e abbastanza contento del fatto che loro due fossero amici, benché diversi come il sale e lo zucchero.
L’oggetto dei suoi pensieri si materializzò proprio in quell’istante, seguito dalla sua sempre verde ragazza, come d'abitudine negli ultimi tre mesi, quasi tutte le mattine i due si assicuravano che il loro comune amico si tenesse lontano dai guai per poi tornare nelle loro rispettive classi. Tsuyoshi, Aya ed Akito erano stati messi in classi diverse e per la prima volta dopo anni non condividevano più così tanto tempo insieme a scuola. 
«Sai che ho sentito che per la fine dell’anno scolastico vogliono organizzare una specie di festa in spiaggia a Kansai Rinkai? Pare che ci sia anche un concerto!» lo informò con un sorriso felice. Akito lo guardò perplesso alzando le sopracciglia: «In spiaggia? A febbraio?» chiese pensando al freddo di quella stessa mattina. «Dico, ma siamo pazzi?» chiese indifferente, la festa in spiaggia era l’ultimo dei suoi pensieri. Tsuyoshi quasi cadde dalla sedia per lo sgomento: «Ma che dici, ci sarà il fuoco, la gente… e poi sarà l’occasione giusta per poter riscaldare la mia adorata Aya con le mie mani», iniziò portando entrambe le braccia verso sé stesso, simulando una sorta di abbraccio romantico. «Ci verrai vero?» continuò una volta ricompostosi. «Non ci penso nemmeno», fu la secca risposta di Akito, incrociando le braccia e chiudendo gli occhi, noncurante del fatto che fosse a scuola e che la lezione era ormai prossima all’inizio. Il fatto che fosse seduto in ultima fila non era che un vantaggio per permettere alla sua voglia di ascoltare il professore di scienze di fuggire lontano verso mondi paralleli.
«Ma dai, non puoi perderti la festa di fine anno, è un evento epocale», continuò Tsuyoshi già proiettato sulla spiaggia insieme alla sua ragazza. Il suo interlocutore in realtà aveva già smesso di ascoltarlo pensando bellamente agli affari suoi. Tsuyoshi però era davvero insistente: «Akito, ma mi ascolti?» domandò all’amico assorto. «Certo, la spiaggia. Credo che sarò impegnato quel giorno», si limitò a dire indifferente, ricevendo come risposta uno sbuffo annoiato. Sperava di essere riuscito a divincolarsi da quel discorso inutile con la sua secca risposta e grazie all’intervento del professore che aveva appena iniziato la lezione, i commenti di Tsuyoshi furono stroncati sul nascere.
Finalmente aveva tutto il tempo per non sentire nessuno, il professore compreso, e tornare ad immaginarsi lontano da quel posto. Il problema, in generale, non era tanto la gente o le lezioni, era più che altro una questione di noia abissale, sentimento che veniva totalmente cancellato nelle due ore pomeridiane passate in palestra a fare karate. Quell’attività, nata quasi come una sfida contro sé stesso per dimostrare a qualcuno di avere una passione per cui lottare, era diventata davvero una cosa importante al quale si dedicava con tutto sé stesso. Aveva fatto passi da gigante negli ultimi anni e poteva considerarsi davvero fiero degli avanzamenti di grado ottenuti in così poco tempo. Era praticamente il primo della classe e ne era davvero contento, nonostante la sua mono-espressione perenne non tradisse nessun sentimento diverso dall’indifferenza. Tuttavia quel giorno, la noia non era l’unico sentimento che lo invadeva.
Lo scorrere lento dei suoi pensieri fu interrotto dalla campanella che annunciava la fine delle lezioni e l’inizio della pausa pranzo. Era convinto che se fosse andato a mensa con gli altri avrebbe dovuto ribadire ancora una volta la sua decisione di marinare la festa del secolo, cosa di cui non aveva per niente voglia. Uscì dall’aula guardando distrattamente in fondo al corridoio, dove si susseguivano uguali le insegne che nominavano le varie sezioni dell’istituto. Ce n’erano davvero tante, ogni classe conteneva circa 15 studenti e se faceva un rapido calcolo, pensò che quella scuola era davvero più affollata del centro città in piena ora di punta.
Scrollò le spalle, voltandosi verso la parte opposta, lontano dal fondo del corridoio, e si diresse verso l’uscita con l’intento di evitare il pranzo comune, gli amici presi dalla festa in spiaggia e chiunque altro gli desse noia. Ma la noia arrivava puntuale, in stile orologio svizzero, anche quando faceva palesemente finta di dormire sdraiato sul prato del cortile. «Stamattina ho detto ad Aya che non c’era da preoccuparsi e che tu sei fatto così e basta», esordì Tsuyoshi mentre si sedeva sull’erba accanto all’amico. «Però ora inizio a cambiare idea. C’è qualcosa che non va?» domandò sinceramente in pena. Akito però non aprì nemmeno gli occhi «Pensi ci sia qualcosa che non va?» chiese a sua volta, come in un gioco senza fine. Sarebbe stato mai capace di rivelare a qualcuno cosa provava dentro di sé? Probabilmente no, per questo era sempre tranquillo all’apparenza, perché si era rassegnato al fatto che i suoi sentimenti, tutti, sarebbero rimasti dentro di lui, sepolti da strati su strati di orgoglio, fierezza e convinzione che se dici cosa provi allora ti esponi, e ti scotti di brutto. Tuttavia, non ricevendo nessun tipo di riscontro da parte dell’amico, decise che almeno un occhio aperto glielo poteva concedere e lo scrutò attento, nell’attesa che la seconda ondata di domande si schiantasse contro la sua faccia.
«Sei depresso a causa di Fuka?» azzardò Tsuyoshi cercando di indovinare cosa avesse reso il suo migliore amico più scontroso e taciturno del solito. Akito questa volta aprì entrambi gli occhi guardando l’altro con fare interrogativo: «Fuka?» disse solo, cercando lui stesso il filo conduttore di quella conversazione. «Andiamo, perché dopo tutti questi anni sei ancora così restio a parlarmi dei tuoi problemi? Guarda che non sono un cretino e ti conosco bene, caro il mio signor Hayama. So bene quando l’asticella dello scorbutometro sale esponenzialmente e una volta sapevo anche il perché. Ora mi sembra complicato riuscire a capire il o i motivi che ti spingono ad essere di nuovo l’emarginato dannato che eri un tempo però, dannazione, dammi una mano…» concluse, più o meno, agitandosi più del solito. Era vero, Akito pensò, che lui sapeva quando e perché il suo umore cambiava in peggio ed era anche vero che lui non gli aveva mai dato nessuna conferma di niente. Lo guardò portandosi un indice al viso: «Io sarei un emarginato dannato?» domandò con sguardo finto innocente. Tsuyoshi pensò che se almeno il suo senso dell’umorismo discutibile fosse ancora lì a far capolino, forse non avrebbe ricevuto una risposta manesca ai suoi tentativi di farlo parlare. Ma avrebbe ricevuto una risposta di qualsiasi genere?
In quell’istante Akito si voltò guardando dritto davanti a sé: «Ieri sera mio padre mi ha chiesto di sistemare delle cose in soffitta, roba vecchia accumulata li chissà da quanto» raccontò, suscitando la curiosità di Tsuyoshi. Il povero amico era lì che pendeva dalle sue labbra, come se stesse ascoltando la soluzione di un mistero antico mille mila anni. «Beh ci sono andato…» aggiunse, spostando una mano verso la tasca dei suoi pantaloni. Tsuyoshi stava cercando disperatamente di risolvere il rebus, facendo quadrare insieme le parole: Akito, depressione, scatole vecchie, soffitta… rendendosi conto di non essere affatto bravo con i rompicapi. Attese quindi un avanzamento della storia ma le parole di Akito si erano interrotte, chissà forse sul più bello. In compenso continuava a frugare nelle tasche dei pantaloni tirando fuori, alla fine, un foglio stropicciato che custodì tra le dita per parecchi secondi prima di fare qualcosa o dire altro. Si voltò verso Tsuyoshi fissandolo per poi passargli il foglio, come se fosse una reliquia antica. «Era tra alcuni vecchi libri, è stato un caso che io lo abbia trovato», aggiunse dando il giusto tempo al suo amico perché capisse cosa fosse l’oggetto in questione. Lesse la prima riga e riconobbe subito il logo delle poste statali, chiunque lo avrebbe riconosciuto: «È un avviso…» commentò Tsuyoshi, «… di giacenza» terminò l'altro, che conosceva a memoria ogni singola virgola di quell’avviso. Perfino il numero di serie composto da dodici cifre e cinque numeri alternati. L’aveva letto un centinaio di volte, non aveva fatto altro per tutta la notte, se qualcuno gli avesse chiesto di rispondere a sessanta quesiti su quel foglio, lui avrebbe preso sicuramente il massimo con lode. Non si curò di guardare l’espressione di Tsuyoshi mentre leggeva l’avviso, perché sapeva che vi avrebbe letto la sua stessa espressione di qualche ora prima, solo meno coinvolta. Quando però non udì suono alcuno si decise a controllare che l’amico fosse ancora vivo. Aveva esattamente la sua stessa espressione della sera precedente. «Ma questa è…» tentò di confermare, lasciando ad Akito il tempo di riprendere a guardare davanti a sé e di finire la sua frase: «… una lettera di Sana».


*Note d'autrice*
Beh, rieccomi con il primo vero capitolo della storia. Che ve ne pare? Devo confessarvi che sia questo che quello precedente erano già pronti per cui è stata necessaria solo una revisione. Spero di essere veloce nel postare i prossimi ma, sicuramente, non più di uno alla settimana.

Ringrazio ancora chi ha recensito, letto e seguito questa storia e spero che anche questo capitolo vi piaccia.

Baci

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Capitolo 3
*** Capitolo 2 - La lettera ***


Fine febbraio 2007
 
«Chissà cosa c’è scritto… ma di quanto tempo è? Oh mamma Akito, non sto più nella pelle. Ma ti rendi conto? Una lettera di Sana!» Tsuyoshi lanciava parole a raffica come una mitragliatrice su un carrarmato in piena guerra. Akito si sentiva colpito e affondato ad ogni sillaba pronunciata dal suo amico, come se il suo cervello da solo non avesse fatto già il suo sporco lavoro per tutta la notte precedente. «Che cosa farai ora? La ritirerai vero? Gli uffici postali chiudono tardi, se ci sbrighiamo siamo ancora in tempo», lo esortò Tsuyoshi, controllando il suo orologio da polso e scattando in piedi pronto ad andare in missione. Akito, dal canto suo, non si mosse di un millimetro dalla sua posizione. Era da quando aveva trovato quell’avviso che cercava di far confluire tutte le sue forze verso la terra della pace interiore ed era davvero fiero di sé stesso per il fatto che ci stesse riuscendo. Se non teneva conto degli scatoloni in soffitta che aveva fatto volare con un calcio la sera precedente.
Non riusciva a non pensare al fatto che quella ragazza sarebbe per sempre rimasta un’egoista, e quell’ultimo evento aveva confermato la sua già solida tesi. Era una ragazza egoista e basta.
«Tu mi fai troppe domande», constatò soltanto, riprendendo a seguire nuovamente il turbinio di pensieri che lo stavano schiacciando come un macigno. Tsuyoshi si voltò bruscamente verso il suo amico: «Akito, dobbiamo leggere quella lettera», si intromise. «Semmai devo leggerla», precisò lui, alzandosi dal prato e infilandosi le mani nelle tasche dei pantaloni. Cosa credeva Tsuyoshi? Che non ci avesse già pensato ad andare subito a ritirare il pezzo di carta della ragazza egoista? Il vero problema non era come e quando leggerla, quelle erano mansioni abbastanza facili da svolgere. La domanda era: aveva realmente voglia di sapere, dopo quattro anni, cosa ci fosse scritto su quella lettera? O meglio, aveva davvero voglia di ripiombare in questioni morte e sepolte?
«Io non ti capisco… magari è importante. Magari quella lettera potrebbe davvero cambiare ogni cosa. E poi non avevi detto che la questione era chiusa? Che male può farti leggere le parole della tua vecchia migliore amica?» lo provocò apposta, sperando di scatenare la reazione che desiderava: lui che andava alle poste e leggeva quella lettera. «L’hai detto, la questione è chiusa. E ora non mi scocciare più!» concluse, dando un calcio al cestino della spazzatura e dicendo addio per sempre alla terra della pace interiore.  Senza voltarsi verso il suo amico si allontanò da lì, rimuginando sul da farsi incurante dei richiami di Tsuyoshi e del fatto che, in lontananza, lui continuava a lanciargli frasi offensive sulla sua strafottenza. Akito in realtà non si sentiva per niente strafottente, e proprio non capiva perché nessuno riuscisse a mettersi nei suoi panni. «Dico ma siamo matti», iniziò a dire ad alta voce, camminando distrattamente sul prato verde. «E io ora dovrei pure andare alle poste e ritirare quella stupida lettera… dopo quattro anni. Ma chi me lo fa fare», continuava noncurante della gente che lo guardava come se fosse appena uscito da una casa di cure. Non sapeva proprio come affrontare quella situazione, dopo così tanto tempo. Il problema non era il contenuto della lettera, ancora ignoto. Per quanto ne sapeva poteva tranquillamente essere una cartolina con su disegnata una caricatura buffa della faccia di Sana, oppure un insulto per lui da parte della sua ex migliore amica. No, il contenuto non era affatto importante. Ciò che davvero contava era quel maledetto collegamento a qualcosa che aveva tentato di seppellire sotto strati di cemento armato e che, a quanto pareva, tanto armato non era stato. Si sentiva ancora terribilmente legato a Sana e quella leggera debolezza che provava proprio non gli andava giù. «Dannata, dannata Kurata!» esclamò in un impeto di rabbia. Ma perché la ragazza egoista non ne voleva proprio sapere di uscire dalla sua testa? Era già uscita dalla sua vita, cosa le costava ora andarsene via anche da quel luogo così intimo?
Si fermò un istante a riflettere, accorgendosi solo allora che involontariamente si era trovato proprio davanti all’ufficio postale non troppo distante dalla scuola. Prese l’avviso di giacenza tra le mani, leggendone ancora una volta il breve contenuto. C’era scritto solo il suo nome, l’indirizzo e il mittente. Data di spedizione: 16 giugno 2003. Quando lei era impegnata con le riprese di quello stramaledetto film. Aveva sempre sostenuto, a sé stesso naturalmente, che quel periodo aveva segnato la loro separazione, un graduale allontanamento iniziato proprio il primo giorno delle medie, quando aveva scoperto che non sarebbero più stati compagni di classe.
Abbassò lo sguardo, pensando con rammarico che era bastato davvero poco per far sì che quell’amicizia, apparentemente profonda, finisse nell’abisso dei ricordi. Poi era arrivato quel film, Kamura e infine Fuka. Tutto era stato irrimediabilmente compromesso, fino a quel giorno di quattro anni dopo, quando aveva scoperto per puro caso che Sana aveva cercato di mettersi in contatto con lui durante il suo ritiro in montagna ma, per chissà quale strano scherzo del destino, l’aveva scoperto troppo tardi perché quella lettera non gli era mai arrivata.
Una voce meccanica annunciò il numero di prenotazione che corrispondeva a quello che aveva ritirato lui una volta entrato nell’ufficio postale. Di nuovo rimirò il foglio che gli avrebbe permesso di agganciarsi di nuovo a lei dopo così tanto tempo. Era giusto quello che stava facendo? Probabilmente no, per nessuno, ma le sue gambe si mossero in automatico senza rispondere ai neuroni razionali del suo cervello orgoglioso, raggiungendo la gentile signorina allo sportello che lo accolse con un sorriso di forma.
«Come posso esserti utile?» gli chiese. Akito non le rispose, si limitò a fornirle la prova tangibile del fatto che tra i loro scaffali, probabilmente quelli più impolverati, c’era qualcosa che gli apparteneva. «Dunque vediamo… una lettera. Tesoro, ma è del 2003, non sono sicura che sia ancora nei nostri uffici. Sai la posta non ritirata dopo così tanto tempo viene semplicemente catalogata e archiviata, sarà molto complicato trovarla», lo informò dispiaciuta, forse perché l’espressione afflitta del suo viso era più eloquente di mille parole di supplica. Akito guardò l’impiegata stringendo i pugni sul banco dinanzi a lei, gesto che le fece capire che doveva tentare il tutto e per tutto per trovare quel pezzo di carta. «D’accordo, ora faccio un tentativo e cerco nel nostro database generale, ma non ti prometto nulla», disse soltanto, iniziando a premere velocemente i tasti del portatile che aveva davanti. Lui seguì ogni minimo movimento, non era possibile che la vita si prendesse così gioco di lui, era veramente tutto ridicolo. Perché mai aveva trovato quel dannato avviso se poi non poteva avere la sua lettera? Evidentemente lassù c’era qualcuno che si divertiva proprio a prenderlo in giro. Magari stava facendo uno sforzo inutile, magari su quella lettera non cera scritto niente di troppo importante, magari Sana gli aveva solo raccontato inutili aneddoti sulle giornate di ripresa del film, o peggio ancora voleva dirgli che si era messa con Kamura, cosa che lui sapeva fin troppo bene. A quel pensiero avrebbe voluto tirare un calcio a qualcosa di molto pesante ma dovette trattenersi, «Lasci perdere!» disse solo, condizionato dalla sua stessa immaginazione. «Ma no, lasciami provare, non mi costa nulla cercare…», rispose lei distrattamente, senza distogliere lo sguardo dal computer. Il rumore dei tasti stava innervosendo Akito, che si maledisse per essere entrato lì. «Me ne vado», le comunicò voltandosi velocemente verso l’uscita, mangiato vivo dall’orgoglio che gli stava dicendo in tutte le lingue del mondo di non farsi più prendere da Sana, come un tempo.
«Aspetta!» urlò la giovane impiegata con un sorriso soddisfatto stampato in volto. Lui invece non si voltò, deciso ad abbandonare l’assurda idea di leggere quella lettera. «Ci sono, l’ho trovata!» lo informò più felice di lui. Akito si fermò, smettendo nuovamente di essere razionale, e si girò di scatto verso la donna. «Dunque, eccola. È stata depositata proprio qui, sei fortunato», concluse con un grosso sorriso. Beh, fortunato non era proprio il suo aggettivo ma, per una volta, Akito si sentì sollevato. Almeno non avrebbe dovuto fare i salti mortali quella volta… si sentì di colpo stanco.
Dopo qualche minuto d’assenza la donna ritornò alla sua postazione con una busta tra le mani. Lo sguardo di Akito si fece profondo e il suo cuore prese a battere un po' più forte. Nemmeno ci fosse lei in quella busta, pensò scioccamente cercando di reprimere ogni emozione.
«Mi sembra di capire che questa lettera sia molto importante per te… buona lettura allora», concluse la donna. Akito si allontanò, pensando che le parole di quella giovane impiegata fossero l’ennesima presa in giro di quella giornata. Se avesse considerato la lettera di Sana una buona lettura allora doveva essere diventato matto sul serio.
Strinse la busta e iniziò a correre, sperando di fuggire dai suoi stessi pensieri ma sapeva bene che sarebbe stato tutto inutile. Ormai aveva iniziato a giocare per cui a che serviva farsi tanti problemi? Avrebbe letto quella lettera e poi l’avrebbe gettata nell’immondizia, tornando a fare la sua vita di sempre.
Si ritrovò nel parco, seduto su una panchina che aveva preso il posto di quel gazebo teatro di tanti ricordi con lei. Era proprio lì che lei lo aveva salvato e sarebbe stato proprio lì che lui l’avrebbe lasciata andare. Stupidamente si riscoprì intento a cercare con lo sguardo un cestino della spazzatura e lo trovò proprio a pochi passi dalla panchina. Sentendosi un po' più sicuro si sedette e aprì la busta.
 
Caro Akito,
non riesco proprio a finire questa lettera. A dir la verità non ti ho raccontato tutto quello che mi è successo. Ho avuto parecchi problemi a causa di un articolo pieno di falsità in cui si dichiarava che io e Naozumi Kamura ci amiamo. Ho preso un sacco di botte da un gruppo di sue ammiratrici. L’unica cosa che mi consola e mi dà forza è sapere che tu ci sei…
 
Alzò le sopracciglia sorpreso da quelle prime parole… prima di tutto Sana di rado lo chiamava per nome. In realtà erano anni che non lo chiamava affatto, pensò. Poi quando mai gli aveva raccontato qualcosa prima di quella lettera? Si fermò su quella frase riguardo Kamura, sempre e solo Kamura. Gli dava sui nervi e ogni volta che lo vedeva in TV doveva affrettarsi a cambiare canale per preservare l’integrità fisica del loro televisore. L’ultima frase lo tramortì perché lui pensava la stessa cosa, a quel tempo il solo pensiero della sua esistenza su questa Terra lo spingeva ad andare avanti e a sentirsi quasi felice.
 
sai, mi sono ritrovata a contare i giorni che mi separano dalla fine delle riprese. Mancano esattamente quattordici giorni e mezzo, non so dirti quante ore perché sai che la matematica non è il mio forte, ma quello che conta è che questo periodo è quasi finito e io non vedo l’ora di tornare da te.
Mi manchi moltissimo, ogni tanto cerco di immaginare tu cosa faresti al mio posto quando non so proprio che granchi prendere e devo dire che questo mi aiuta molto a fare chiarezza dentro e prendere la giusta decisione. A proposito di chiarezza, penso ancora a quella mattina quando sei venuto a salutarmi e mi chiedo ogni giorno cosa tu volessi dirmi. Sarà qualcosa di bello? È così strano pensare che tu, sempre così musone e taciturno, sia corso da me per dire di volermi parlare. Non riesco proprio ad immaginare che notizia tu voglia darmi ma sono molto contenta che abbia scelto me come confidente. Sono contenta di quanto profondo sia il nostro rapporto e, anche se spesso litighiamo perché per capirti ci vorrebbe un interprete, penso che io adesso senza di te non possa proprio più stare.
Oddio, ahahah questa lettera è diventata una sorta di confessione… ah, ti ho raccontato della gelosia di Rei verso la signorina Asako? Dovresti vederlo, si è calato nei panni del manager distaccato ma si vede lontano un miglio che dentro di sé bolle di rabbia quando lei è costretta a girare le scene a letto con il suo partner. E tu, Hayama, sei mai stato geloso? Non riesco a spiegarti perché ma non mi sento per niente a mio agio a girare certe scene con Naozumi. Mi vieni sempre in mente tu e penso a cosa diresti se mi vedessi tra le sue braccia. Ti assicuro però che tra noi non c’è niente! Ti ho già detto che mi sono arrabbiata molto quando ho letto quegli articoli falsi sul nostro conto e ho pensato subito a te, avrei voluto telefonarti per spiegarti come stavano le cose ma qui il telefono non prende da nessuna parte. Sembra di stare su un’isola deserta ahaha! Io penso che sarebbe molto strano per me vederti con qualcuna, lo so che non sei un attore e che non c’è pericolo che tu ti ritrovi a girare scene romantiche ma, se ci penso, la cosa non mi rende affatto felice. La nostra amicizia potrebbe finire e io non voglio questo, nella maniera più assoluta. Quindi, fammi il favore di non diventare mai un attore. Ah, a proposito, come vanno gli allenamenti? Io sono molto fiera di te e spero che tu possa sentire lo stesso per me, mi sto impegnando moltissimo per questo film e se riuscirò a fare un buon lavoro, sarà solo merito tuo, perché ti penso sempre e questo mi aiuta a non essere triste per la tua lontananza.
Oh mamma, mi sembra di aver scritto così tanto, probabilmente ti sarai già annoiato e non sarai nemmeno arrivato a questo punto. Però sappi che presto tonerò da te e voglio che ci vediamo più spesso, anche se questo vorrà dire rinunciare a qualche lavoro. Recitare mi piace moltissimo ma qui, su queste montagne, ho capito che per la mia felicità tu sei assolutamente necessario.
Ora ti lascio, perché devo preparami alla prossima scena e mettere il ghiaccio alla gamba. Questa è un’altra storia che spero di raccontarti molto presto, quando finalmente ci rivedremo.
Con affetto
Sana.
 
Forse lesse quella lettera qualcosa come sei o sette volte e in nessuna di queste il suo cuore smise di battere così forte. Aveva lo sguardo ipnotizzato da quella moltitudine di parole che si susseguivano sul foglio bianco, pronte a colpirlo come gli aghi di mille spilli invisibili. Le sue mani cominciarono a tremare leggermente, non seppe capire se per la rabbia o l’emozione. Ma come diavolo le era venuto in mente di scrivergli quella lettera? Come si era permessa di dirgli quelle cose e poi sparire nel nulla? Il cuore non voleva saperne di rallentare la sua corsa e ora la rabbia iniziava ad aumentare sul serio. Strinse le dita sul foglio fino ad accartocciarlo, tentato come non mai di dargli fuoco e dimenticare quella storia. Ma come faceva? Lei non immaginava nemmeno quante volte lui avesse sognato di sentirle dire quelle parole e ora che invece erano addirittura scritte, indelebili nero su bianco, come faceva a dar fuoco a quel passato che stava ritornando lentamente a galla?
«Stupida ragazzina egoista… sei solo una stupida!» imprecò, stringendo talmente forte i pugni da sentire le unghie conficcarsi dolorosamente nella pelle. Lui le mancava? Avrebbe rinunciato a lavorare così tanto per poterlo vedere più spesso? E allora perché aveva permesso che si sentisse così solo? Si alzò di scatto, dando un forte calcio alla panchina sulla quale era seduto solo pochi istanti prima. Un calcio, due, tre, quattro… non smetteva di colpirla come le parole di Sana non smettevano di colpire lui. «E dove sei finita allora? Dov’è finito tutto questo sentimento di mancanza, eh? Sciocca babbea!» continuò borbottando e calciando la panchina, finché questa si schiodò appena dal terreno.
Si era sbagliato di grosso quando, quattro anni prima, le aveva detto che finché erano vivi non si sarebbero persi di vista perché era successo esattamente il contrario.
Di colpo si bloccò ripensando a quella frase. Restò immobile per un secondo prima di scattare come un lampo e iniziare a correre, lontano da quel parco, lungo una strada che conosceva alla perfezione. Corse più veloce di sempre, più veloce di quando correva per allenarsi in vista delle gare di karate mentre tuoni in lontananza annunciavano l’arrivo di quello che probabilmente sarebbe stato un forte temporale. Continuava a stringere la lettera tra le mani quando le prime gocce di pioggia si posarono sul suo viso senza arrecargli il minimo fastidio. Era troppo impegnato a controllare i battiti del suo cuore.
Dopo pochi minuti si ritrovò dinanzi a quella villa, dopo così tanto tempo pensò che non era cambiato proprio niente e si sentì quasi più tranquillo, come se percepisse la possibilità di riprendere il controllo della situazione. La luce del sole orami era già un ricordo e la pioggia si era fatta più incessante quando accorciò rapidamente la distanza tra lui e la porta d’ingresso. Cominciò a battere un pugno abbastanza forte da farlo trasalire. Che cosa avrebbe fatto ora? Di colpo iniziò a pensare di aver commesso un errore, ma fu solo un istante perché la rabbia che provava dentro era molto più forte di qualsiasi altro debole sentimento.
Fu proprio lei a comparire dietro la porta ormai spalancata. Indossava dei pantaloncini corti e una maglia sottile coperta da un cardigan di lana che le arrivava a metà coscia. Si strinse nei vestiti quando una folata di aria gelida li soprese scompigliando i capelli ad entrambi.
«H-Hayama? C-che ci fai qui?» domandò sorpresa, con un filo di voce che stava quasi per spezzarsi come un ramoscello secco. Lui aveva lo sguardo abbassato, aveva bisogno di tempo per trovare il coraggio di guardarla in faccia ma quando lo fece, notò che i suoi capelli le arrivavano fino al seno. Si riscoprì sorpreso nell’arrossire leggermente. Strinse poi la lettera tra le dita più forte che poteva inchiodando lo sguardo in quello di lei.
«Sei una babbea», disse soltanto, raccogliendo tutta la volontà che possedeva affinché lei non notasse il tremito nella sua voce. Chissà se ci era riuscito.
Sana sbatté le palpebre per qualche istante, adattando il suo viso ad un’espressione interrogativa. «Ma che vuoi?» riuscì solo a replicare corrucciando il viso. Akito sollevò un braccio allentando la presa estenuante sul foglio di carta stropicciato per fare in modo che lei capisse cosa gli stava succedendo.
«Tu… sei solo una babbea!» aggiunse con rabbia senza toglierle gli occhi di dosso. Capì subito che lei stranamente aveva collegato tutto, lo capì dalla sua bocca semi aperta e dall’espressione triste che le si era disegnata in volto, «E non sai nemmeno scrivere», concluse a voce bassa. Quell’istante in cui si guardarono durò un milione di anni, lui con lo sguardo duro e lei con gli occhi lucidi. Da dove saltava fuori quella lettera dopo così tanto tempo?
Quel gioco di sguardi fu interrotto da una voce fuori campo che stava pronunciando il nome di Sana un po' troppe volte. Quella era una voce che Akito conosceva molto bene, nonostante volesse dimenticarla.
Kamura comparve alle spalle della ragazza e lo salutò con un’espressione decisamente poco amichevole. Quello era un imprevisto che lui non aveva calcolato mentre metteva in atto il suo piano di raggiungerla. Si rese conto che quel piano faceva acqua da tutte le parti e che aveva fatto davvero una gran cazzata a farsi vedere così da lei. Indietreggiò di qualche passo, ormai zuppo fino all’osso.
«Dovresti rientrare altrimenti ti prenderai un malanno», Kamura si rivolse a Sana, senza però distogliere lo sguardo da Akito. «Dovresti andartene a casa anche tu Hayama, sembri un pulcino bagnato», aggiunse senza cambiare minimamente l’espressione sul volto. Sana, dal canto suo, non riuscì a dire proprio nulla perché mai nella sua vita si sarebbe aspettata di dover affrontare una situazione del genere. Akito le si era palesato davanti con quella lettera, dopo tanto tempo, dandole della babbea e sconvolgendole l’esistenza per l’ennesima volta. Non fece in tempo ad emettere suono che Hayama le aveva già dato le spalle, dileguandosi come un fulmine sotto quel diluvio torrenziale, scomparendo rapidamente nel buio della sera. Istintivamente alzò un braccio come per fermarlo «No, aspetta…» emise flebilmente, non potendo fare a meno di pensare che in quella situazione si sentiva veramente una gran babbea.  
 

**Note d'autrice
Ciao a tutti e rieccomi con un aggiornamento. Pensavo di metterci più tempo a scrivere questo capitolo, e invece è praticamente venuto giù da solo.
Come al solito vediamo il nostro Akito alle prese con la sua doppia personalità e con un destino che sembra sempre andargli contro. Oppure no? xD
Quale sarà la reazione di Sana alla scenetta di Kamura? E Akito riuscirà a mettere l'orgoglio da parte?
Spero che questa parte vi sia piaciuta e che continuerete a leggere questa storia. Ringrazio tutte voi per aver recensito i capitoli precedenti e chi preferisce, segue o semplicemente legge la storia.
Al prossimo aggiornamento.

Alex

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Capitolo 4
*** Capitolo 3 - Chiarimenti - prima parte ***


Capitolo 3

Chiarimenti

Parte prima

Fine Febbraio 2007
 
Sana era rientrata in casa e, nonostante i riscaldamenti fossero accesi al massimo, continuava a sentire freddo. Si portò un indice alle labbra senza smettere nemmeno per un istante di ripensare a tutto quello che era appena successo. Hayama si era presentato alla sua porta e quasi stentava a credere che fosse proprio lui. Certo, molto più alto di quanto lo ricordasse e con i lineamenti del viso più duri. Era molto lontano dal bambino delle elementari di cui ancora conservava il forte ricordo ma, era pur sempre Akito Hayama, nonostante tutto. Lo sguardo però era rimasto esattamente lo stesso, duro e di ghiaccio, in grado di pietrificare anche un manichino. Se ripensava ai suoi occhi su di lei mentre le mostrava quella lettera le venivano ancora i brividi lungo la schiena e si toccò involontariamente proprio in quel punto, come se ci fosse qualcosa che le dava fastidio. Che cosa doveva fare adesso? Era passato così tanto tempo, eppure la tristezza che aveva letto negli occhi di Akito quando Kamura aveva fatto la sua trionfale apparizione dietro di lei le fece provare un gran senso di colpa. In colpa  per cosa poi? Per aver permesso a Naozumi di palesarsi sull’uscio di casa sua mentre Hayama le spiattellava in faccia qualcosa che lei aveva scritto quasi una vita fa? Perché lui aveva capito qualcosa che lei gli aveva nascosto per così tanto tempo, mandandolo sicuramente in una nuova confusione? Perché mai doveva sentirsi in colpa? Nonostante non riuscisse a trovare nessun reale e razionale motivo che giustificasse quel suo strano sentimento, altro non poteva fare, in quel momento, che sentirsi terribilmente in colpa.
Cominciò a camminare in circolo percorrendo il perimetro della sua stanza cercando di trovare la via d’uscita a quell’improvvisa situazione assurda che si era venuta a creare. «Che faccio, che faccio… che faccio?» continuava a domandare a sé stessa mordendosi nervosamente le unghie e continuando a percorrere il tracciato circolare che stava disegnando sul pavimento. Si bloccò all’istante sbattendo i piedi per terra, «ma perché diamine l’ho lasciato andare così… sono una babbea», ripeté le parole che le aveva rifilato proprio Akito quella sera. Di nuovo un enorme senso di colpa la trafisse pensando allo sguardo del suo vecchio migliore amico che la pietrificava come una Medusa*. In quell’esatto istante, mentre Sana si malediva e imprecava contro sé stessa, Kamura fece la sua comparsa nella stanza. «Hai lasciato la porta aperta», constatò come se stesse chiedendo il permesso di entrare nella sua vita. «Oh… ciao», rispose lei, come se invece avesse completamente dimenticato la sua esistenza e se ne fosse accorta solo in quel preciso istante. Kamura alzò le mani come a farle capire che le sue intenzioni erano pacifiche e lei lo immaginò sventolare una grossa bandiera bianca, dopo la sua precedente uscita con Akito, agli occhi dei più decisamente poco felice. Sì, perché nonostante lei certe cose ancora non le comprendesse molto bene, era sicura che il tono usato da Kamura nell’invitare Hayama a defilarsi fosse molto vicino a quello che utilizzerebbe un cane, se ne avesse la possibilità, nell’atto virile di marcare il proprio territorio.
«Sana, cerca di mantenere la calma…» la implorò il ragazzo, conoscendo fin troppo bene le potenziali reazioni che avrebbe potuto mostrargli di lì a qualche minuto. Lei era sconvolta, e forse pure lui. Insomma, vedere Akito Hayama comparire come un giapponese Patrick Swayze senza argilla da modellare** proprio davanti alla porta di lei, dopo qualcosa come cinque ere geologiche, non gli aveva certo arrecato gli stessi benefici di una passeggiata lungo un viale albereto in piena stagione di fioritura dei ciliegi. Lui lo sapeva, lei lo sapeva e pure l’altro lo sapeva. Decise di ignorare il sentimento di inquietudine e di avvicinarsi alla ragazza.
«Ma io sono calma…» sentenziò lei con uno sguardo confuso. Lui le rivolse un debole sorriso: «Beh, a giudicare dalla tua faccia, mi sembri tutto tranne che calma. Ed è normale sai?» continuava ad avvicinarsi, forse voleva solo abbracciarla. Ma lei indietreggiò, probabilmente per lo strano sentimento di colpa. Che cosa faccio? Andiamo, c’era una sola cosa che potesse fare.
«Però mi sento… io, mi sento», farfugliò senza badare minimamente all’osservazione fatta da Kamura. «Io mi sento… in colpa», ammise abbassando lo sguardo, la voce si era fatta tremante ed era diventato molto difficile per lei continuare a parlare senza tradire l’emozione che sentiva nel suo petto. In fondo cosa era successo? Aveva semplicemente rivisto Akito dopo anni ed era semplicemente precipitata in quello sguardo che credeva di aver dimenticato per sempre.
Naozumi questa volta abbandonò le braccia lungo la sua stessa figura, stringendo forte i pugni per concentrarsi su qualcos’altro, qualcosa che non fosse il viso di lei pronto ad esplodere in un mare di lacrime. Perché lui la conosceva bene perciò una delle reazioni che aveva messo al vaglio poco prima era l’imminente apertura del rubinetto situato proprio dietro quegli occhi nocciola che tanto amava.
Puntuali come le lancette di un orologio svizzero, le lacrime di Sana fecero capolino solcando le sue guance arrossate e bagnandole completamente. «Per favore va’ via, ho bisogno di stare da sola, ti prego… scusami», riuscì a dire tra i singhiozzi. Già, ormai lei singhiozzava come una bambina e l’inquietudine nel cuore di Kamura sgomitava prepotente sostituendo qualsiasi sentimento di gioia o sicurezza avesse mai provato. Sapeva bene che Sana non si sarebbe limitata a piangere e sapeva altrettanto bene che non sarebbe stata la sola a versare lacrime quella notte.
Lui lo sapeva, lei probabilmente l’avrebbe realizzato poi, all’altro sicuramente non importava un accidente.
Sconfitto da quella constatazione si decise a lasciare la scena di quella commedia che, era sicuro come era sicuro che ogni giorno sarebbe sorto un nuovo sole, non sarebbe mai finita. «Me ne vado, ma solo fisicamente e solo questa sera. Sappi che non ho nessuna intenzione di lasciarti andare!» quasi si sorprese di sé stesso per aver messo tanta enfasi in quelle parole. Ma quando si trattava di lei, di quella storia… della loro storia, non poteva comportarsi da vigliacco. Ma non era nemmeno stupido e sapeva che non avrebbe ottenuto un ragno dal buco se l’avesse forzata a provare qualcosa che, in quel momento, era molto lontano dai sentimenti che la tormentavano. D’altronde sapeva che prima o poi il momento di quel confronto sarebbe giunto, doveva solo sentirsi preparato ed affrontare lo tzunami-Hayama. E che ci voleva? Lui in un film aveva anche interpretato il ruolo di un ninja spietato che aveva il compito di far fuori chiunque si mettesse sulla sua strada. Doveva solo indossare quegli stessi panni e far fuori chiunque volesse attentare alla sua felicità.
 
***
 
Erano passati quanti? Dieci, cento, mille anni da quando Hayama le aveva fatto sapere, con un modo molto alla Hayama, che lui ora aveva scoperto tutto, e quanti altri anni erano passati nell’indecisione sul da farsi? Altri mille probabilmente.
Quel temporale invernale non voleva proprio saperne di arrestarsi e il solo fatto di essere appoggiata al vetro della finestra con il naso e la fronte schiacciati contro di esso la facevano sentire in un’altra dimensione. Possibile che la paura di rivedere quello sguardo duro fosse più forte della voglia di arginare quel terribile senso di colpa? E poi, ancora, colpa per cosa esattamente? Guardò i suoi occhi nel riflesso del vetro e si domandò nuovamente cosa volesse dal profondo del suo cuore. Quante volte si era fatta quella domanda in quegli anni? Quante volte aveva scoperto che ciò che voleva semplicemente non coincideva con quello che poteva avere e questo non per sua volontà. Ma per quella beffarda di un destino che aveva deciso per lei, quando aveva scoperto di essere arrivata semplicemente troppo tardi a capire certe cose, un terribile, terribile ritardo.
Certo era che, probabilmente, se anche avesse capito in tempo di amare il suo vecchio migliore amico, non era affatto sicura che le cose sarebbero cambiate. Probabilmente lui avrebbe scelto comunque Fuka, se avesse capito che era di una scelta che si stava parlando, o no? Ma quegli occhi, gli occhi che aveva visto pochi attimi prima che le vomitassero addosso tutta quella freddezza insieme a quelle poche, efficaci parole, l’avevano fatta ripiombare in uno stato di incertezza dovuto alla perenne inconsapevolezza dei suoi sentimenti verso di lei.
Perché lei, di cosa provasse Hayama non ne aveva la più pallida idea. Non lo sapeva allora e continuava ad ignorarlo, dolorante del fatto che, invece, con i suoi di sentimenti aveva dovuto fare i conti molte volte ormai.
«Adesso basta!» urlò all’improvviso, come se si fosse appena svegliata da un lungo letargo. «Ma come si permette di presentarsi a casa mia a quest’ora e andarsene senza nemmeno una spiegazione?» iniziò a lanciare fuori parole e sbuffi all’unisono, in preda ad un’irrazionale quanto improvviso moto di rabbia. Si sfilò rapidamente il cardigan di lana e aprì le ante del suo grande armadio, assumendo un’espressione ancora più imbronciata. «Quello scimmione troglodita… ma adesso mi sente. Oh, se mi sente!» incalzarono in automatico parole non troppo gentili riservate al suo vecchio amico. Con una ritrovata energia, prese velocemente un maglione color crema e un paio di jeans e, ancor più velocemente indossò il tutto perché, si sapeva, l’aria esterna a febbraio, e con quel diluvio, potevano arrecare parecchi danni.
Si fiondò al piano di sotto e, incurante dello sguardo interrogativo di Rei e della presenza di sua madre che invece ticchettava le dita velocemente sulla tastiera del suo portatile, spalancò la porta di casa sua pronta a partire per il fronte di una guerra che ormai non la spaventava nemmeno più. 
 
***
 
Avvolta in quel nuovo, improvviso sentimento di rabbia in cui navigava ormai a vele spiegate, Sana si lanciò letteralmente lungo la strada appena illuminata dalle luci dei lampioni, rese flebili dall’incessante scrosciare della pioggia.
Nonostante avesse sapientemente indossato un impermeabile, ciò non era servito granché e in poco meno di qualche minuto aveva già la frangia e le punte dei capelli completamente zuppi. Ma, in quel momento, non aveva nessuna importanza. Quello che contava era raggiungerlo e continuare – o iniziare – quel tentativo di conversazione che aveva avuto più o meno luogo fuori la porta di casa sua, con un Hayama fradicio e incazzato e una lei sorpresa e congelata. Così, decisa a chiarire una volta per tutte che quella lettera era stata inviata per sbaglio e che per nessun motivo al mondo sarebbe dovuta finire tra le sue mani – nonostante fosse indirizzata proprio al proprietario di quelle suddette mani – era giunta a destinazione.
Stringendosi nelle spalle e facendo un profondo respiro, di quelli che ti ordina il medico affinché possa ascoltare il suono dei tuoi polmoni, si decise a premere il dito sul campanello di casa Hayama.
Si sporse appena verso quelle che erano le finestre che davano sul loro soggiorno e, nel vederle illuminate dalla luce che proveniva dall’interno, sussultò un secondo: «Oh mamma, sono in casa», disse ad una sé ritrovatasi in ansia nel constatare il fatto che la casa non si fosse svuotata all’improvviso.
«Coraggio Sana! Un tempo affrontare Hayama era il tuo secondo mestiere. Devi solo spolverare la divisa da lavoro», cercò di darsi coraggio ma non fu del tutto sicura dell’efficacia di quella specie di jingle motivazionale.
In quell’esatto istante, mentre lei era alle prese con qualcosa come cinque o sei personalità diverse di sé stessa, la porta si aprì rivelando la figura cresciuta di Natsumi Hayama che indossava un’espressione mista tra la sorpresa e la confusione, realizzando all’istante chi era stato ad interrompere la preparazione della cena.
«Sana?» dicendo in vero e proprio tono di domanda, presa alla sprovvista da quell’apparizione. E chi se lo aspettava!
«Ehi… ciao Natsumi», rispose lei con un sorriso nervoso. Ormai era fatta, niente più ripensamenti.
«Oh cielo, perdonami. Sono così sorpresa di vederti che non ho nemmeno pensato al fatto che tu sia completamente zuppa. Coraggio, entra in casa», la esortò, constatando un po' in ritardo che oltre a lei e alla vecchia amica di suo fratello, c’era anche il diluvio universale a far parte del cast principale di quella scena.
«Sì, grazie tante», riuscì a dire sempre più nervosa e ripensando alla parola usata da Natsumi. Coraggio. «A dire la verità sono venuta a trovare Hayama», e con quell’affermazione aveva non solo risposto all’imminente domanda di Natsumi ma si guadagnò anche tutti i riflettori di casa puntati addosso, affinché i telespettatori potessero gustarsi l’ultimissima stagione della Never friends- ending story.
«Sì certo, certo», commentò Natsumi con un sorriso quasi maligno. Ma da quand’era che somigliava così tanto ad Hayama, pensò di rimando Sana. Effettivamente Natsumi doveva essere il capo fan club della telenovela Kurata-Hayama ma di questo Sana non se ne accorse nemmeno. Aveva i nervi fin troppo a fior di pelle per poter cogliere certe dietrologie per lei davvero troppo incomprensibili.
«È su, in camera sua. Va’ pure, io torno in cucina», e sparì dal suo campo visivo, dopo averle rivelato l’attuale posizione di suo fratello.
Quella scalinata le sembrò infinita come il numero di gradini che conducono all’Olimpo ma, quando fu in cima alla vetta, desiderò ardentemente lanciarsi nel vuoto retrostante con una capriola. Se non altro per la scena che le si parò davanti, bloccandola in un nanosecondo.
Natsumi le aveva mentito, per metà, perché Hayama era sì al piano di sopra ma di certo non in camera sua e di sicuro lui, con quell’asciugamano annodata in vita non ci andava mica a dormire, quindi non poteva essere il suo nuovo pigiama. Anche il ragazzo, nel vedere quell’apparizione in cima alle scale, si bloccò all’istante spalancando occhi e bocca all’unisono, come se Sana fosse un fantasma assassino***.
Lei, in tutta risposta, abbassò subito lo sguardo voltando leggermente il capo di lato, lo spazio necessario per perdere la visuale su un Akito Hayama mezzo nudo appena uscito dalla doccia.
Sana non lo vide, ma lo sguardo di lui cambiò repentinamente indossando al volo la maschera dell’incazzato.
«Che sei venuta a fare fin qui?» esordì stringendo i pugni lungo i fianchi. Lei continuava a guardare per terra, riuscendo anche a scoprire un piccolo foro alla base del muro dal quale era appena uscita una formica, mise le mani avanti al culmine dell’imbarazzo.
«Scusa, ma ti sembra questo il modo di accogliere gli ospiti?» domandò sentendo le sue guance che andavano a fuoco.
«Mi pare di essere a casa mia, quindi posso vestirmi come mi pare».
«Cosa dici? Tu non sei vestito affatto».
Lui non le rispose, continuando come se Sana non avesse nemmeno aperto bocca: «E poi tu non sei un ospite, perché nessuno ti ha invitata!» concluse, avvelenando un’occhiata con del cianuro e lanciandogliela addosso un attimo dopo.
«Sei sempre il solito maleducato, Hayama! Avrei potuto dirti la stessa cosa quando prima ti sei presentato a casa mia come un morto che cammina, ma non l’ho certo fatto», raccontò, fiera delle sue buone maniere ma anche arrabbiata, tanto da aver distolto lo sguardo dal foro nel muro. Ora Akito si emergeva dinanzi a lei, in tutta la sua -mezza- nudità.
«Infatti ci ha pensato Lady Kamura». Ad Akito i modi di Kamura erano sempre risultati davvero troppo sdolcinati. Comunque era riuscito a colpirla tanto da lasciarla senza parole. Senza aspettare oltre, lui diede le spalle a Sana, raggiungendo a passi veloci la porta della sua camera, frizionando con un asciugamano i capelli ancora bagnati.
«Ehi tu! Dove credi di andare?» urlò piantandogli un indice sulla schiena. Lui, di risposta girò appena il capo tanto quanto bastava a rivolgerle l’ennesima occhiata fulminante. «A vestirmi… vuoi farmi compagnia?» rispose, senza mutare minimamente l’espressione in viso.
«Sei un gran maniaco Hayama» asserì furiosa e imbarazzata, tanto da fare una rapida giravolta su sé stessa affinché il suo sguardo si potesse focalizzare su un punto, possibilmente opposto all’Hayama –mezzo- nudo. Sentì la porta della sua stanza chiudersi dietro di lei e, istintivamente, si portò entrambe le mani in volto, forse per misurare di quanti gradi fahrenheit erano arrivate a bruciare le sue povere gote. Erano decisamente un forno, e a nulla serviva il fatto di essere ancora completamente bagnata. Di nuovo il rumore di serratura si palesò portandola a ritornare nella stessa posizione di poc’anzi. 
La porta di camera Hayama era leggermente aperta, investendo il corridoio buio di un pallido bagliore di luce. Ciò che vedeva era una scena degna di un film horror e così si aspettò per un istante di veder sbucare The Walking Hayama**** affamato di cervello. O di cuore?
Raccolse il tacito invito di lui e attraversò il fascio di luce, ritrovandosi Akito proprio di fronte – e vestito. Tirò un sospiro di sollievo, poteva tornare a respirare regolarmente. Nemmeno un attimo di tregua che fu immediatamente colpita in pieno viso da qualcosa di morbido e poco più pesante di un lenzuolo. Subito ispezionò l’oggetto alieno con le mani, scoprendo che altro non si trattava che di un asciugamano.
«Hayama, ma che schifo», disse accompagnando quell’affermazione con una smorfia di disgusto.
«È pulita, scema. Non vedi che è asciutta» la informò sottolineando con il tono di voce l’ovvietà della cosa. «Asciugati, che mi rovini il pavimento», terminò, chiudendo anche il cassetto da cui aveva pescato l’oggetto alieno con un tonfo.
«Oh… g-grazie», balbett
ò.


* Medusa, figura della mitologia greca. E' una delle tre gorgoni che, secondo la leggenda, erano in grado di trasformare in pietra chiunque incrociasse il loro sguardo.
** Citazione al film Ghost nel quale, perchi non lo sapesse, il nostro Patrick interpretava il ruolo di un fantasma. Famosa del tornio e del vaso d'argilla.
*** Citazione alla scena iniziale del film "The Grudge".
**** Ovvissima citazione a The Walking Dead xD

*Note d'autrice*

Ciao a tuttee, come vedete questo capitolo è interrotto. Ebbene sì, il mio secondo nome è suspance ahah. In realtà il motivo principale è la lunghezza diq eusto capitolo e, per evitare di farvi crollare davanti al pc, ho pensato di dividerlo in due parti. A dire la verità non sono molto soddisfatta di questa prima parte, penso che sia un momento molto importante della storia e non so se sono riuscita a rendere le cose come volevo. Voi che ne pensate?
Vorrei davvero, ancora, ringraziarvi per i vostri commenti perché mi danno la giusta carica per continuare questa storia.
Grazie, grazie, grazie <3
Un bacio e al prossimo capitolo, anzi alla prossima parte.


Alex

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Capitolo 5
*** Capitolo 3 - Chiarimenti - seconda parte ***


Capitolo 3

Chiarimenti

Seconda parte


Raccolse il tacito invito di lui e attraversò il fascio di luce, ritrovandosi Akito proprio di fronte – e vestito. Tirò un sospiro di sollievo, poteva tornare a respirare regolarmente. Nemmeno un attimo di tregua che fu immediatamente colpita in pieno viso da qualcosa di morbido e poco più pesante di un lenzuolo. Subito ispezionò l’oggetto alieno con le mani, scoprendo che altro non si trattava che di un asciugamano.
«Hayama, ma che schifo», disse accompagnando quell’affermazione con una smorfia di disgusto.
«È pulita, scema. Non vedi che è asciutta» la informò sottolineando con il tono di voce l’ovvietà della cosa. «Asciugati, che mi rovini il pavimento», terminò, chiudendo anche il cassetto da cui aveva pescato l’oggetto alieno con un tonfo.
«Oh… g-grazie», balbettò.
«Comunque la domanda è sempre valida: che sei venuta a fare?» si ripeté, appoggiando la schiena contro la finestra e incrociando le braccia. Aveva ormai assunto l’aria di una commissione d’esame.
«Mh?» Sana si chiese davvero se avesse fatto bene ad andare lì. Alzò un sopracciglio. «Credo che dovremmo parlare, io e te.»
«Ti ascolto», fece lui chiudendo gli occhi.
Sana si massaggiò le tempie, constatando con non troppa sorpresa che le abilità di Hayama di farla innervosire erano state promosse ad un livello decisamente avanzato.
«Ok… non so come tu abbia ricevuto quella lettera.»
«Me l’hai inviata tu», la interruppe senza nemmeno guardarla.
«Beh no, non è esattamente così. Cioè sì, ma no.»
«Sì o no?» questa volta schiuse un occhio.
«Prima sì… e poi no.»
«Kurata sto per perdere la pazienza. Se non sai parlare prendi un dizionario!»
«Ah, a proposito… com’è che non saprei scrivere io?» disse all’improvviso, fulminata dal ricordo delle parole di Akito fuori alla porta di casa sua.
«Il perché tu non sappia farlo non devo di certo spiegartelo io», lui continuava con il tono insolente, guadagnandosi la medaglia d’oro nel campionato internazionale degli orgogliosi. Purtroppo, come succedeva sempre con Sana, e questo lui lo ricordava fin troppo bene, a prevalere era sempre stato l’orgoglio e mai e poi mai avrebbe ammesso certi sentimenti. Almeno non in quel preciso istante.
«Come ti permetti?»
«Si dice “che pesci prendere” non “che granchi”!» la informò, ripensando alle parole di quella lettera.
Sana si grattò in testa con una mano «Ah sì?»
«Comunque, mi stai distraendo», commentò lei ritrovando la calma necessaria per districare quel discorso ingarbugliato. «Ti sembra il modo di presentarti a casa mia con quella lettera per poi andare via, senza nemmeno uno straccio di spiegazione?» e lì, Sana, aveva toccato il tasto per far sì che la bomba-Akito si sganciasse. Lui aveva finalmente aperto entrambi gli occhi e all’istante il volto si era fatto duro come il ghiaccio.
«Ora mi stai davvero dando sui nervi, Kurata! Se c’è qualcuno che deve dare una spiegazione, quella sei tu. E, per la cronaca, se il tuo fidanzato non avesse fatto l’isterico, la questione ormai sarebbe già risolta!»
Sana era a dir poco scioccata, prima di tutto per aver sentito dalle sue labbra parole come fidanzato e tuo nella stessa frase e quasi le venne un capogiro. Inoltre, nonostante tutti quei giri di parole la stessero confondendo tremendamente, non poteva fare a meno di essere d’accordo con Hayama. D'altronde lui aveva ricevuto quella lettera in ritardo, c’erano scritte delle cose che lei ricordava benissimo e, dopo tutto quel tempo, andare ad aprire un vaso di Pandora così vecchio di certo non era il massimo, per nessuno dei due.
«Hai ragione… ti spiegherò tutto», ammise abbassando lo sguardo in segno di resa.
«Sono tutt’orecchi», concluse lui ritrovando la calma, almeno apparente, di poco prima.
«È vero, quella lettera l’avevo scritta per te ed avevo tutta l’intenzione di inviartela. A dire la verità stavo per farlo quando…»
«Quando?» chiese lui impaziente.
«Quando la signorina Asako mi informò di aver trovato un posto in cui la ricezione del cellulare era abbastanza buona e ti telefonai» raccontò, abbastanza imbarazzata, «ma non era come pensi. Quella non è una confessione!» si affrettò subito a precisare.
«Certo, e io sono una pattinatrice sul ghiaccio», aggiunse con un sarcasmo amaro e fin troppo spazientito, alzando un sopracciglio.
«Non sono affari miei in che modo passi le giornate, Hayama.»
«Ti prego Sana, va’ avanti», si limitò a dire decisamente innervosito, ormai quasi privo della pazienza utile per affrontare quella discussione.
«Comunque, non so perché sia stata spedita ugualmente. Deve esserci stato un malinteso con il signor Maeda… sta di fatto che ora è qui e tu l’hai letta. Mi dispiace molto Hayama, non volevo…» ma lui non la fece finire, perché la pazienta era ormai terminata.
«Tu non volevi? Hai idea di che cosa significhi ritrovarsi catapultato indietro nel tempo di ben quattro anni così…»
«Lo so.»
«No che non lo sai. E lasciami finire!» disse duramente. Lei serrò la bocca, gli occhi iniziavano a farsi languidi. Oh no, quello era un pessimo segno.
«Io, sono molto arrabbiato. Perché sei una stupida babbea che per anni non ha fatto altro che pensare a sé stessa senza accorgersi di quello che le succedeva intorno e ora mi arriva questa stupida lettera. E credimi Sana, queste non sono parole che si dicono così, tanto per dire.» finalmente la bomba era esplosa. Quantificare i danni in quel momento era ancora troppo prematuro, considerando il fatto che Sana era ancora più confusa di prima.
«Ma che dovevo fare eh? Tu hai scelto Fuka e io…»
«Cristo Sana, cosa c’entra Fuka adesso?»
«Ma c-come, lei è la tua ragazza…»
«Non parlare di cose che non sai, fammi almeno questo favore», suggerì secco, senza toglierle gli occhi di ghiaccio di dosso. La confusione nella quale navigava Sana aveva assunto la dimensione di una piscina contenente chilometri e chilometri cubici di frasi senza alcun senso. Perché era così agitato nel parlare di Fuka? Possibile che non stessero più insieme? D'altronde lei ormai non sapeva praticamente più nulla dei suoi vecchi amici e ricostruire i pezzi di quegli anni sarebbe stato più complicato del risolvere un cubo di Rubik.
«Oh no, io non… mi dispiace Hayama.» Non riscì a trattenersi dal mostrargli le sue “consoglianze”.
«Basta, io ci rinuncio Sana. Perché non capisci che io voglio parlare di me e te? Non di Fuka, di Kamura o di chiunque altro essere abiti su questa Terra», Akito Hayama era diventato sorprendentemente loquace quella sera. Ma, a conti fatti, quante volte in quegli anni aveva rimuginato sulle cose successe – soprattutto su quelle non successe – riflettendo sul fatto che, effettivamente se Sana era stata ottusa, lui era stato fin troppo orgoglioso e se è vero che le cose si fanno in due, quella situazione non rappresentava di certo un’eccezione. Parlare quindi era doveroso.
«Comunque adesso è acqua passata. Io… sto con Naozumi.» Ma, nonostante Akito si sforzasse di appendere al chiodo rabbia e orgoglio, si rese conto di aver appena fatto un avanzamento di carriera e che non era ancora tempo di rinunciare a quella divisa.
«E allora tornatene da lui!» Quelle parole risuonarono quasi come un ordine. E alla fine le emozioni crollarono per entrambi. Gli occhi di Sana tornarono lucidi per la seconda volta nel giro di un’ora e quelli di Akito si indurirono ancora di più. Una lacrima riuscì a liberarsi e si palesò davanti allo sguardo di lui che, per un attimo, si addolcì appena. Akito aveva sempre avuto un debole per le sue lacrime, e nemmeno il bagno d’orgoglio di quella sera era riuscito a mantenere l’integrità della sua corazza. Dal canto suo, Sana non seppe darsi una risposta sul perché avesse deciso di informarlo sul suo stato sentimentale proprio in quel momento. Poteva pensare che Akito, in fondo, conoscesse già le sue vicende visto che lo sapevano tutti ma, nonostante la sua notorietà arrivasse prima di lei stessa in qualsiasi occasione, aveva deciso di getto che quello era il momento adatto per dirlo ad Akito. Sì, perché lei doveva dirglielo.
Ma allora perché aveva ripreso a piangere a singhiozzi?
«Mi dispiace se ti ho confuso, mi dispiace che quella lettera ti sia arrivata comunque… spero che riuscirai a perdonarmi», riuscì a dire asciugandosi le lacrime con il dorso di una mano. Akito non sapeva cosa rispondere perché era letteralmente diviso in due: una parte avrebbe voluto stringerla a sé, l’altra avrebbe invece avrebbe voluto lanciarla giù dalla finestra.
Optò per un lungo e pesante sospiro, lasciando che le spalle si abbandonassero totalmente alla forza di gravità.
«Ora 
è meglio che vada…» lo informò mentre si voltava verso la porta d’ingresso dando le spalle al suo vecchio migliore amico. Lui, di risposta, vagliò in un nanosecondo i possibili scenari che si sarebbero proiettati di lì a qualche minuto e tra questi c’era quello di non vederla per chissà quanto altro tempo. Probabilmente mai più, e quella era un’opzione che Akito Hayama proprio non riusciva a mandare giù, nonostante tutto quello che si erano detti quella sera. E così, con uno scatto felino, degno di tutte le volte in cui era stato paragonato ad un leopardo, ridusse la lontananza con Sana in meno di tre passi trovandosi lei di spalle a soli pochi centimetri di distanza.
Senza pensarci due volte allungò le sue mani verso di lei cingendole la vita in un abbraccio che aveva un profondo sapore di tristezza. Le sue dita si strinsero contro il suo impermeabile e poco importava che fosse ancora completamente bagnato perché ad Akito l’unica cosa che importava in quel momento era quella di stabilire un contatto fisico con la persona che lo tormentava da sempre e che rischiava di non andare mai più via dal suo cervello. Affondò il viso nei suoi capelli e nonostante fossero fradici, emanavano comunque un forte profumo di buono e lui si perse completamente.
Sana sussultò a quell’inaspettato contatto domandandosi se avrebbe mai trovato la forza di liberarsi da quell’abbraccio che la fece sentire immediatamente in pace con il mondo. In quegli ultimi anni della sua vita si era sentita molto spesso una bugiarda, verso sé stessa e verso gli altri e quell’improvvisa constatazione non fece altro che aumentare la sua voglia di piangere. Nonostante in quel momento si sentiva come se niente di brutto potesse mai più accaderle.
Le sue mani si mossero da sole e raggiunsero quelle di Akito affinché le loro dita potessero intrecciarsi perché non c’era niente al mondo che volesse di più, e non importava quanto fosse sbagliato perché finalmente aveva realizzato di aver smesso di mentire.
«Mi sei…» abbozzò a voce impercettibile. Lui spostò appena il volto di lato come per sentire meglio le sue parole.
«… mi manchi».
Allora lui la strinse ancora più forte, ispirando a pieni polmoni la sua essenza per intrappolarla per sempre nella memoria. Ancora una volta il destino lo stava prendendo in giro perché lo aveva messo nel posto per lui perfetto ma, purtroppo, non destinato a durare a lungo.
«Io lo so che lo senti anche tu, quanto ancora siamo legati nel profondo. Mentire non serve a niente Sana…» E nell’udire quelle parole, il suo cervello si risvegliò dal torpore in cui era capitolato e allentò la presa sulle dita di lui. Si divincolò dolcemente dalla sua stretta avvicinandosi alla porta della sua stanza. Allungò una mano sulla maniglia: «Allora, arrivederci Akito», concluse senza voltarsi, lasciandolo solo nella sua stanza, a rimuginare su quanto accaduto.
A lunghe falcate raggiunse l’uscita di quella casa e corse via, sotto la pioggia, confondendo le gocce sul viso con le lacrime che continuavano a scenderle copiose.
Akito invece era rimasto esattamente nella stessa posizione di quando lei era ancora presente davanti a lui e, non appena si fu ripreso, strinse dapprima entrambi i pugni per poi sferrarne uno contro il muro accanto allo stipite della porta. Voleva distruggere qualcosa per sentirsi meno distrutto lui.
Fu la voce di sua sorella a distogliere l’attenzione sulla sua furia «Akito la cena è pronta, scendi.»
«Non ho fame», rispose lui.
«Ma papà ha portato il sushi.»
«Ti ho detto che non ho fame», e ad accompagnare la sua voce piena di rabbia ci fu solo il tonfo della porta serrata al resto del mondo.


*Note d'autrice*
Buonasera popolo di Efp, eccomi con la seconda, e ultima xD, parte del capitolo. Ci ho messo dei giorni a cercare di renderlo perfetto, almeno ai miei occhi, ma continuo a trovarci errori. Quindi, alla fine, ho deciso di postarlo così com'è, tanto si è capito che questi due passeranno ancora un pò di spatecamenti, come si dice dalle mie parti.
Detto ciò, mi rendo conto che i sentimenti espressi siano molto confusi e se diete d'accordo con me, era proprio quello che volevo esprimere. In realtà quella confusa è sempre Sana perché la ragazza proprio non ce la può fare a prendersi Akito per i capelli e portarselo Dio solo sa dove. Vi anticipo che molto presto, prestissimo, saprete cosa si cela dietro questi anni vissuti separati e colgo l'occasione per darvi uno spoiler sul prossimo capitolo che si intitolerà: "Frammenti di passato e presente". Spero proprio che vi piaccia e che continuerete a leggere.
Come sempre vi ringrazio anche solo per dare un'occhiata a questa storia.
Baci a tutte e alla prossima,
Alex
 
 
 

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Capitolo 6
*** Capitolo 4 - Frammenti di passato e presente ***


Capitolo 4
 
Frammenti di passato e presente
 
 
Settembre 2003
 
Le luci della città contribuivano a tenerla sveglia, nonostante la stanchezza infinita che sentiva dopo aver girato quasi tre puntate del suo programma. Appoggiò la fronte contro il vetro dell’auto di Rei e sospirò, esausta, continuando a seguire con lo sguardo il susseguirsi di strade, cose e persone ad una velocità triplicata.
«Sei stanca?» le domandò Rei voltandosi solo per un’istante alla sua destra. Voleva controllare che espressione avesse, ma il suo viso era rivolto verso la parte opposta e, per evitare un incidente, dovette rinunciare al suo scopo.
«Tremendamente. Non vedo l’ora di buttarmi a letto», disse quasi scocciata. «Qual è il programma di domani?»
«Oh vediamo, devi registrare solo un episodio del programma e poi hai un servizio fotografico con Kamura per la pubblicità di una marca di abiti molto popolare».
«E per dopodomani?» incalzò senza spostare il viso dal finestrino.
«Beh ora non ricordo, dovrei consultare l’agenda. Sai ultimamente ti richiedono in tanti e…»
«Tienimi impegnata Rei», lo interruppe con quella richiesta che a Rei sembrò quasi d’aiuto.
 
Sana era tornata a casa nella metà del tempo previsto, bagnata e in lacrime, decisamente sconvolta. Il suo stato destò l’attenzione di tutti gli abitanti di quella casa, suscitando l’improvvisa preoccupazione di Rei. Lui, più di tutti, si sentiva estremamente protettivo nei confronti di quella ragazza e moriva dalla voglia di correrle dietro, lungo le scale che l’avevano riportata in camera sua. Fu un’eloquente occhiata della signora Kurata a fargli capire che forse la sua protetta aveva bisogno di riflettere su una serie di questioni irrisolte e che doveva farlo da sola.
In camera sua, con la testa affondata nel cuscino del suo letto, Sana proprio non la smetteva di piangere e di pensare ad Akito, a quello che era successo e, soprattutto, alle sue ultime parole che ancora le riecheggiavano in testa.
«Credevo che avessi smesso… di farmi piangere», espresse un pensiero a voce alta, una voce rotta dal pianto incessante. Il bip del cellulare la fece smettere per un secondo, il tempo necessario per leggere la mail di Naozumi che le era appena arrivata.
 
Gennaio 2004
 
«Akki, mi piacerebbe tantissimo visitare il tempio quest’anno», fu la voce di una Fuka fin troppo su di giri a distogliere l’attenzione di Hayama dalla vetrina di un negozio di elettronica. «Ma se ci sei già andata con i tuoi genitori», le rispose sorpreso del fatto che la ragazza volesse di nuovo scarpinare fin sulla cima di quel tempio per due volte nella stessa settimana.
«Lo so, ma non l’ho fatto con te», aggiunse accompagnando l’affermazione con un sorriso sincero. Quel connubio di tenerezza mandò Akito in ebollizione e, causa un forte imbarazzo, si voltò dal lato opposto alla ragazza limitandosi a confermare con un «Ok» la sua bizzarra richiesta.
E in quel momento il volto di Sana che presentava il suo solito programma, apparve in tutti i televisori esposti nella vetrina del negozio.
 
Nonostante le strade fossero ancora bagnate a causa del violento temporale della notte precedente, il cielo era tremendamente azzurro, dimentico di tutta la violenza di cui si era reso protagonista solo poche ore prima. Akito, come aveva già previsto lui stesso insieme a tutto il resto del Creato, non aveva chiuso occhio e camminava a stento verso l’ingresso della scuola, mosso da chissà quale forza a lui sconosciuta.
Tsuyoshi, come da copione, si palesò accanto a lui salutandolo con una pacca sulla spalla: «Ciao Akito, come va… ehi, ma che hai combinato?» domandò l’amico, sorpreso di vederlo non solo trasalire al suo leggerissimo colpetto ma anche perché il rossore scuro che gli circondava gli occhi non era certo un segno di buon auspicio. Ora due erano le cose, pensò Tsuyoshi: o aveva passato la notte a correre per tutta la città, cosa probabile, o non aveva dormito nonostante fosse rimasto nel suo letto, cosa ancora più verosimile.
«Non ho dormito», si limitò a fornire la spiegazione essenziale affinché Tsuyoshi capisse che quel giorno l’umore di Akito avrebbe raggiunto la quota più bassa degli ultimi dieci anni.
«Oh, ieri volevo telefonarti ma poi sono uscito con Aya, eh beh sai in certi momenti tu non riempi proprio i miei pensieri e quindi…», iniziò a raccontargli la sua giornata quando Akito si voltò verso di lui con un’espressione mista di rabbia e pena. Era decisamente stanco.
«Sì scusa, comunque volevo chiederti della lettera. Hai deciso cosa fare?» domandò curioso, stringendosi nel cappotto.
«È venuta a casa mia».
«Di chi parli?»
«Di Sana», e il labbro inferiore di Tsuyoshi raggiunse la stessa quota dell’umore di Akito.
 
Marzo 2004
 
La torta di compleanno per Sana troneggiava sul tavolo del ristorante come una regina nel giorno della sua incoronazione. Questa volta le cose erano state fatte in grande perché, ad organizzare le celebrazioni, era stato Kamura. La tristezza della ragazza era una cosa alla quale lui proprio non riusciva ad essere indifferente e, sperando di strapparle uno di quei sorrisi contagiosi che ormai erano diventati sempre più rari, le aveva regalato quella serata in compagnia dei suoi cari più stretti: sua madre, Rei, la signora Shimura e naturalmente lui, Naozumi Kamura.
«Buon compleanno Sana» le dissero in coro, un coro che riuscì per un attimo a colmare il vuoto che sentiva dentro. Guardò Kamura e gli rivolse un sorriso di ringraziamento. Quello di certo non apparteneva all’album “the best of”, ma era già qualcosa, pensò il ragazzo sorridendole di rimando. Sana si guardò intorno, dopo tutto quella giornata non era stata affatto male e se escludeva il fatto di aver avuto un’intera giornata libera dal lavoro – quindi libera per pensare -, poteva addirittura definirsi abbastanza felice. Un sentimento certo momentaneo, ma sempre lontano dallo stato di tristezza che la avvolgeva quando si fermava a pensare.
Di colpo la sua attenzione fu catturata dal tavolo accanto, dove un bambino che rideva di gioia aveva appena scartato il suo regalo di compleanno: il modellino di un dinosauro. E la sua felicità svanì.
Era stata breve ma intensa.
 
“So che è stata una serata difficile ma lo sai, io ci sono sempre per te. Vorrei che ne potessimo parlare da vicino, che ne dici se ci vedessimo stasera? N”.
Avere la capacità di fare due cose contemporaneamente era, a detta di molti, una prerogativa tutta al femminile. Una prima rivincita verso quella che era diventata una vera e propria guerra per la parità dei sessi e, forse, anche un elemento per dichiarare quella che per qualcuno era la fin troppo palese superiorità delle donne. Tuttavia, nonostante Sana appartenesse al genere in rosa, proprio non ci riusciva a fare due cose contemporaneamente per cui, decisa a rileggere per la milionesima volta la mail di Naozumi, trascurò bellamente il suo caffellatte che divenne in poco tempo più freddo di un ghiacciolo.
Giocherellava con il cellulare in attesa di ricevere l’ispirazione giusta per rispondergli ma sapeva perfettamente che, ispirazione o non, una risposta gliela doveva. Almeno quella, considerato ciò che era successo la sera prima e il fatto che aveva letteralmente lasciato Naozumi a friggere nell’olio dell’impazienza in attesa di ricevere sue notizie.
“Hayama mi ha abbracciata, e non stavo così bene da anni”. L’aveva scritto sul serio? Sussultò come se ci fosse stata una scossa di terremoto. In un secondo cancellò quel messaggio e, sorprendendosi del fatto di stare combattendo davvero con troppe personalità di sé stessa, scrisse un semplice “Ti aspetto alle sette.” E inviò.
 
Ottobre 2004
 
«Buon compleanno Akito», recitarono i presenti. Nonostante l’avversione di Akito Hayama verso i compleanni fosse cosa ormai nota anche ai muri della scuola, Fuka e Tsuyoshi non vi avevano certo badato. La più discreta Aya si era chiesta invece se quella piccola festa a quattro facesse davvero piacere al loro taciturno amico ma, di certo, non aveva osato imporre la sua visione delle cose ad una troppo entusiasta Fuka, eccitata al pensiero di rifilare al suo ragazzo una “vera e propria festa di compleanno coi fiocchi”, per dirla con il suo strano accento. Akito invece, seduto dal lato della persona più importante della serata, non sapeva proprio come reagire a quella che aveva definito, nella sua testa, la fiera dell’entusiasmo inutile. Poi pensò di colpo al fatto che già una volta qualcuno aveva deciso di trascinarlo a quella fiera per festeggiare il proprio compleanno e anche in quell’occasione, alla fine dei conti, non aveva saputo come reagire se non presentandosi a mani vuote.
«Ehi, ma a che pensi?» Gli chiese Fuka, un po’ frustrata per il fatto di non possedere capacità telepatiche. A volte capire Akito era veramente molto difficile. «Mh?» rispose lui rivolgendole uno sguardo confuso. E furono gli occhi di lei, colmi di gioia e speranza che lo fecero tornare al tavolo insieme ai presenti, i quali erano in attesa che spegnesse le quattordici candeline disposte in circolo sulla torta.
 
«Come ti senti adesso?» la domanda di Tsuyoshi era quanto mai pertinente ma anche un po' retorica. Akito lo guardò, ingoiando un pezzo di sushi avanzato dalla cena della sera precedente. Alzò le spalle e non rispose. Tsuyoshi però sapeva bene cosa gli passasse per la testa perché sapeva perfettamente che rivedere Sana era qualcosa che lui desiderava da tanto. Indipendentemente dai risvolti narratigli.
«Ok, bene. E ora cosa pensi di fare?»
«Non lo so, per adesso finisco di pranzare», lo informò con un atteggiamento disinteressato. «Va bene, ma lei come ti è sembrata?» Tsuyoshi insisteva, cominciando a perdere la pazienza.
«Come al solito… come una che parla, tanto, ma che non ti fa mai capire un bel niente di quello che dice».
«E questo è tipico di Sana», convenne il suo amico occhialuto. Si sentiva sinceramente dispiaciuto per non essere in grado di aiutare quei due. Insomma, lui ci aveva provato ma Sana era sempre stata più ottusa di un angolo di 180° e i suoi sforzi si erano rivelati vani in ogni occasione. Per non parlare di Akito e del suo famoso orgoglio, la cui notorietà aveva fatto ormai il giro del paese. Sospirò in segno di sconfitta. «Però in quella lettera lei ha scritto delle cose importanti. Come può non tenerne conto?» rifletté accompagnando quel tono pensieroso con un’espressione confusa disegnata in viso. Le teorie elaborate in quegli anni diventavano sempre più difficili da tenere in piedi, e il fatto che Sana stesse ufficialmente con Naozumi Kamura era il dato di fatto più complesso da mettere da parte.
«Ho un’idea: perché non la inviti alla festa sulla spiaggia?» Propose Tsuyoshi, fin troppo entusiasta.
«Ma sei diventato scemo? E poi io non ci vengo a quella stupida festa», concluse arrabbiato ma anche decisamente imbarazzato.
 
Febbraio 2005
 
Rei le aveva detto che la capitale inglese era considerata da tutti come una specie di santuario della recitazione e lei si era fatta trascinare in quell’avventura che l’avrebbe vista protagonista per i successivi sei mesi. Insomma, la sua carriera andava alla grande ma il suo desiderio di sfondare a teatro stava diventando sempre più forte e alla fine si convinse di frequentare quella prestigiosa accademia d’arte drammatica.
Respirò l’aria fredda di Londra a pieni polmoni. Dalla sua camera d’albergo riusciva chiaramente a vedere in lontananza le luci intermittenti del London Eye e si immaginò per un attimo in una di quelle carrozze, ferma in cima alla ruota, a guardare la gente diventare formiche sotto i suoi occhi. Pensò alle altezze e le venne in mente che una cosa del genere non avrebbe mai potuta farla con Hayama.
«Che cosa stai facendo, in questo momento?» domandò al vento, appoggiando i gomiti sulla ringhiera del balcone. Ormai non sapeva più nulla di nessuno dei suoi vecchi amici e, considerato il fatto che ormai aveva deciso di diplomarsi alle medie da privatista, dubitava seriamente che le cose sarebbero cambiate.
La suoneria del cellulare la riportò immediatamente alla realtà. Il numero sconosciuto la fece sussultare e così, con una voce tremante, rispose incerta.
«Credo che non ti faccia bene uscire all’aria aperta senza nemmeno una sciarpa».
«Naozumi? Sei tu? Ma come fai...»
«Se abbassi lo sguardo, troverai una risposta alla domanda che stavi per farmi». E lo trovò lì, appoggiato all’auto di un taxi con le quattro frecce accese che guardava in alto verso il suo quarto piano.
«Avevo un’incredibile voglia di fish and chips», la informò.
 
Aveva trascorso l’intera giornata sdraiata a letto, cosa che non era proprio da lei. Aveva pregato Rei di disdire il disdibile e per fortuna, quel giorno la sua agenda non era stracolma come un uovo.
Continuava a fissare il soffitto, il dorso della mano poggiato sulla fronte e i lunghi capelli ramati che si aprivano a ventaglio sul materasso, una musica un po' troppo triste continuava a riecheggiare tra le pareti della sua stanza.
Se in quegli anni si era chiesta se fosse stata brava a mentire agli altri, in quel momento si rese conto di non essere stata poi un fenomeno nel mentire a sé stessa. Alla fine i nodi erano giunti tutti al pettine e lei capì d’improvviso il significato di quel proverbio.
«Oh mamma, e adesso che faccio?» Continuava a domandarsi decisamente avvilita. Dei tocchi leggere alla porta la fecero cambiare posizione dopo chissà quante ore, così spostò il viso in direzione del suono. «Non voglio vedere nessuno», disse soltanto, convinta che dietro quella porta ci fosse Rei preoccupato come al solito.
«Posso entrare?» Ma la voce dolce di sua madre confutò la sua teoria, spingendo gli angoli delle sue labbra verso il basso. «Mamma…» Era bastato sentire la sua voce per farle sciogliere in un secondo quel nodo che ormai aveva firmato un contratto di permanenza nella sua gola.
Misako Kurata entrò nella stanza di sua figlia con la più dolce delle espressioni possibili.
«Perché stai piangendo?» Le chiese guardandola con un lieve sorriso.
«Io… non lo so, non riesco a smettere», riuscì solo ad ammettere senza poter fornire una valida risposta a sua madre.
«Dovresti chiederti il perché e, soprattutto, dovresti accettare la risposta. E ricordati che si è crudeli solo quando si feriscono le persone di proposito. Tienilo a mente mia cara.» Disse quelle parole accarezzandole dolcemente i capelli, prima di aggiungere: «Non pensi di esserti nascosta abbastanza?» Sana non capì, e la guardò confusa.
«Non credi sia arrivato il momento di affrontare la situazione e di tornare a scuola? In fondo nella vita si ha bisogno anche degli amici e i tuoi, ne sono certa, sono ancora lì che ti aspettano»
 
Marzo 2005
 
Akito ricordava perfettamente quand’era il giorno del suo compleanno e ricordava anche quanto fosse forte la sua voglia di dimenticarlo. Non la vedeva da anni ormai, da quando non era più tronata a scuola dopo le riprese di quel film. Da quando lui aveva accettato di stare con Fuka e di provare a dimenticare tutto quello che non era mai successo nella realtà, ma solo nella sua testa.
L’incontro per ottenere la tanto sospirata, quanto rimandata, cintura nera si avvicinava sempre più e lui non faceva altro che allenarsi dal mattino alla sera. Stava trascurando tutto, anche la scuola, anche gli amici, anche lei.
Il televisore acceso in salotto gli diede il bentornato e, nonostante non desiderasse altro che farsi una doccia e dormire, si soffermò per un istante a guardare le immagini che si susseguivano veloci a causa di uno zapping incalzante di sua sorella, un po' troppo annoiata. Poi il quadro si fermò di colpo su di lei, che veniva intervistata insieme a lui. Dallo sfondo che c’era dietro le loro figure capì che si trovavano all’estero. In realtà fu la mail di Tsuyoshi, arrivata come un fulmine in un giorno di sole ad indurlo a sferrare l’ennesimo calcio contro la parete del corridoio.
Prese di nuovo il telefono, tanto per essere sicuro che era proprio Tsuyoshi a dover malmenare il giorno seguente. Quelle parole “Ehi, hai visto la tv? Sana è insieme a Naozumi” furono la causa del violento lancio di cui fu protagonista il suo cellulare, prima di rompersi in mille pezzi.
 
«Dove stai andando? Le lezioni non sono ancora finite», lo informò seguendolo come un’ombra seguirebbe chiunque essere umano dotato di volume tridimensionale.
«In palestra», si limitò a fornirgli l’essenziale, come sempre.
«Mh… ti accompagno.» Tsuyoshi era diventato ancora più insistente.
«Non dovresti andare in classe?» gli chiese spazientito.
«Beh mi sono ricordato che devo fare delle compere in centro». Tsuyoshi gli camminava dietro cercando di tenere il passo di Hayama. Aveva come l’impressione che il suo amico stesse cercando di seminarlo.
«Guarda che non mi serve la balia», si limitò a dire con un tono spazientito.
«Ma che dici, è che devo andare nella tua stessa direzione», lo informò l’amico puntandosi un indice sotto il mento. «Pensavo: se per Sana le parole che ti ha scritto quattro anni fa non hanno più importanza, perché mai si è affrettata a raggiungerti a casa tua nel bel mezzo di un diluvio?» Domandò a sé stesso più che all’amico.
Akito non gli ripose limitandosi ad un’alzata di spalle. «Cioè io non lascerei mai Aya a casa mia per correre dietro ad un fantasma del passato. Non sei d’accordo Akito?»
Questa volta Hayama si fermò per un attimo, il tempo giusto per darsi uno slancio in avanti e avanzare di circa tre passi in uno. L’unica risposta che seppe fornire al suo amico fu semplicemente quella di dileguarsi, lasciando Tsuyoshi nel bel mezzo del suo contorto ragionamento.
 
Ottobre 2005
 
«Non mi sembra vero di essere a Tokyo», rivelò lei mentre passeggiavano insieme in quel parco non troppo lontano dal centro città. Il fatto di essere così noti a volte diventava un serio problema. Per fortuna Kamura era un vero e proprio esperto nell’eludere le folle e alla fine riuscivano sempre a passare inosservati, o quasi.
«Già, sembra passato un secolo», aggiunse lui voltandosi leggermente verso il profilo di lei. Riuscì a scorgere un leggero sorriso su quel viso troppo impegnato a guardare per terra. Era incredibile come Sana riuscisse ad essere quasi un’altra persona sul palcoscenico, tanto da far dubitare persino a sé stesso di quanto avesse sofferto in quei mesi. Nonostante tutto, stare lontana dalla sua città non le aveva fatto poi così bene e, Kamura ne era certo, se non fossero tornati a casa la sua vitalità extra-riflettori si sarebbe spenta per sempre. Ora doveva solo impegnarsi ad alimentare quella piccola fiammella.
La sua mano si mosse alla ricerca di quella di lei e quando la trovò, si scoprì sorpreso nel vedere che Sana non si era allontanata. Al contrario aveva accolto quel tocco caldo cercando a sua volta le sue dita. Probabilmente l’espressione di Kamura fu fin troppo sorpresa per passare inosservata: «Che c’è? Mi piace quando mi prendi per mano». A quelle parole tanto attese, il suo cuore perse un battito per ritrovarne poi tre tutti insieme dopo solo un istante. Decise che quello era il momento giusto e successe tutto in pochi minuti. Lui che tacitamente la pregava di fermarsi, due corpi uno di fronte all’altro e una distanza tra due labbra cancellata giusto in tempo, per evitare ripensamenti.
Quella volta lei riuscì a trattenere il solito pianto che giungeva puntuale ogni volta che lui le si avvicinava, se non per una minuscola lacrima solitaria quasi invisibile ad occhio nudo.
 
Guardò l’orologio a muro alla parete di camera sua e si sentì quasi a disagio nel constatare che mancavano solo cinque minuti alle sette. Aveva deciso cosa indossare solo pochi minuti prima, ricoprendo il tutto con un montgomery beige e un cappello scuro. Si era seduta sul letto della sua stanza in attesa che Kamura arrivasse, come promesso, alle sette di quella stessa sera. Aveva le mani sudate ed era emozionata, ma non di quel sentimento di ansia felice che si prova quando il tempo da trascorrere prima che inizi il momento gioioso era troppo. Le sue emozioni vertevano verso quella negatività che proprio non riusciva a rinchiudere nella parte più profonda della sua anima. Era giunto il momento delle spiegazioni e lei non si sentiva affatto pronta. Il suono del campanello la distolse da quei pensieri.
Il Naozumi Kamura che si ritrovò davanti assomigliava solo lontanamente a quello che aveva visto il giorno precedente, poco prima che Hayama tornasse nella sua vita come una valanga in pieno inverno.
Era triste ma, nonostante lei avesse capito perfettamente il suo stato d’animo, le rivolse un sorriso sincero e, lei ne era convinta, innamorato.
«Ciao Sana. Vorrei portarti in un posto».
 
Aprile 2006
 
«Ragazzi ma ci pensate? Siamo finalmente studenti delle superiori. Non credete che dovremmo festeggiare?»
«E perché mai? Non saremo nemmeno gli ultimi», commentò Akito senza troppa voglia, distruggendo completamente l’entusiasmo di Tsuyoshi. Senza approfondire oltre quella conversazione, mise un braccio introno alla spalla di Fuka e la trascinò lontano dall’altra coppia che si allontanava dal comprensorio scolastico.
Quando furono abbastanza lontani, Akito lasciò le spalle della sua ragazza per nascondere le mani in tasca, provocando in Fuka un’espressione mista alla confusione e alla delusione.
«Ti va un gelato?» Le chiese continuando a guardare davanti a sé. Lei, di risposta, diede un’occhiata in giro trovando poi una panchina non troppo lontano, per poi rivolgere il viso ad Akito. «Possiamo sederci un attimo?» Gli chiese soltanto, raggirando la sua proposta. Lui acconsentì tacitamente.
«Sai, ieri stavo sfogliando l’annuario scolastico. Ci sono talmente tante belle foto, sono ricordi che custodirò gelosamente per tutta la vita», iniziò a raccontare e Akito aveva come l’impressione che quella sarebbe stata una conversazione decisamente impegnativa.
«Poi mi sono resa conto che nelle ultime due foto di gruppo lei non c’è e mi sono chiesta cosa sarebbe successo se le cose fossero andate diversamente».
«Di chi parli?» Chiese Akito, temendo di aver capito invece fin troppo bene il soggetto di quel discorso. Si sentì di colpo irrequieto.
«Lo sai benissimo di chi parlo. Certe volte penso che se lei fosse tornata a scuola noi…»
«Ma che sciocchezze dici». Cercò di sembrare convincente, nonostante si fosse fatto quella stessa domanda un milione di volte.
«A volte mi sento così stupida. Ad avere paura di un suo ipotetico ritorno… mi dico che non devo sentirmi così, perché tu sei innamorato di me. No?»
Lui si voltò verso di lei, in preda all’imbarazzo e anche ad un leggero panico. Si sentiva messo alle strette da qualcuno che credeva non sarebbe mai stata in grado di farlo. Non per mancanza di coraggio, certo che no. Semplicemente per non rovinare tutto.
«Sana non tornerà a scuola, stai serena.» Disse lui, sollevato per aver trovato una via di fuga.
«Io non posso più evitare di non vedere certe cose… e so bene che alla fine è anche colpa mia. Perché avrei potuto fare le cose con calma, capire se iniziare a frequentarsi fosse giusto o meno. Ma io lo volevo troppo» concluse abbassando lo sguardo per evitare quello di lui.
«Fuka io… non capisco.»
«Mi chiedo perché in questi anni tu non mi abbia mai baciata, abbracciata o…  fatto altro.» Sospirò con una punta di amara sensazione di sconfitta.
«Ma io, ecco… non pensavo badassi a questo genere di cose», disse arrampicandosi su degli specchi estremamente lisci. Approfittando della scusa dell’imbarazzo evitò il suo sguardo fin quando potette, perché sapeva bene che quelli erano solo i primi nodi venuti al pettine. E di certo lui non era affatto il tipo da trascurare certe cose o al quale non piacessero. Si sentiva improvvisamente scoperto.
«Mi piacerebbe non dover più pensare di essere stata solo la sua sostituta nel tuo cuore.» Si limitò a dirgli prima di alzarsi in piedi, dandogli le spalle, affinché non vedesse le sue lacrime.
 
Gli allenamenti erano stati particolarmente duri quel giorno e Akito ne fu estremamente felice. Concentrarsi sul karate gli aveva sempre permesso di ritagliarsi il suo personale angolo di benessere e da quell’angolo erano sempre stati tagliati tutti fuori: la sua famiglia, i suoi amici, Fuka, e perfino lei. Ma, puntuale come un orologio, la conversazione della sera precedente insieme al profumo dei suoi capelli bagnati lo avevano colpito in pieno viso non appena aveva smesso di pensare a come difendersi durante una simulazione con il suo maestro.
Strinse i pugni talmente forte da riuscire a percepire le unghie penetrargli la carne, si sentì improvvisamente perso perché non aveva la più pallida idea di cosa fare. Avrebbe voluto rivederla perché quelle poche ore non gli erano affatto bastate. Ma rivederla voleva dire anche discutere di nuovo su loro due, semmai esistesse un loro due, e lui non aveva ancora le idee troppo chiare. Pensò poi alle parole di Tsuyoshi e al fatto che potessero avere un senso. D'altronde il suo amico non era a conoscenza del loro abbraccio, del suo abbraccio a lei, e nonostante ciò si era interrogato sulle reali motivazioni che avevano spinto Sana a correre letteralmente a casa sua. Spesso si era interrogato sui suoi sentimenti, soprattutto negli ultimi mesi della sua vita. E anche in quell’occasione non riusciva a non chiedersi se quello che aveva sempre provato per Sana non fosse altro che riconoscenza per averlo salvato da sé stesso.
 
Dicembre 2006
 
Era stata Sana a decidere di festeggiare la vigilia di Natale insieme a Naozumi all’istituto Kamura, nonostante lui le avesse proposto ogni sorta di alternativa affinché lei potesse ridere e divertirsi. Ma aveva considerato anche il fatto che a Sana i bambini piacevano da morire, senza contare l’inspiegabile buon umore di cui la ragazza si era circondata da qualche settimana a quella parte.
Sempre bardati come due spie del governo, i due attori si erano presentati all’istituto appena in tempo per iniziare la cena della vigilia, insieme a qualcosa come venticinque bambini di tutte le età.
«Ti prego, falla ancora… quella faccia è troppo buffa», la pregò uno dei bambini più piccoli e Sana, con uno dei suoi sorrisi da “best of” riprese per la milionesima volta ad imitare le numerose espressioni di Naozumi alla vigilia di ogni prima a cui lei aveva assistito. Il solo fatto che lei ridesse di gusto, come non accadeva spesso, fece dimenticare al ragazzo il fatto che la sua fidanzata lo stesse palesemente prendendo in giro davanti a tutti i presenti.
Poi l’attenzione di lei fu catturata da un bambino solitario, che mangiava in silenzio in un angolo dell’enorme tavolo imbandito. Per un attimo i presenti sparirono di colpo e si ritrovò sola insieme a quel ragazzino imbronciato che le rievocò un turbinio di ricordi dolorosi. La tristezza di quel bambino solo la fece sentire in colpa, perché si rese conto di averlo abbandonato mettendo al primo posto la possibilità che lei potesse essere felice lontano dalle due persone che le avevano spezzato il cuore.
 
«Ma questo è…»
«Sì, il posto in cui tu, finalmente, hai deciso di non respingermi più. Circa due anni fa» concluse lui, tenendo la mano di lei stretta alla sua. Per niente al mondo avrebbe lasciato quella presa, nemmeno in un momento decisivo per la loro storia.
«Naozumi mi dispiace per ieri sera, non so cosa mi sia preso. Rivederlo per me, è stato come un fulmine a ciel sereno.» Sana ammise con una estrema onestà il fatto che rivedere Hayama l’aveva letteralmente sconvolta. Ma Kamura lo sapeva, perché la conosceva ormai come le sue tasche.
«Non devi scusarti, te l’ho già detto. In fondo è normale sentirsi in quel modo nel rivedere una persona importante»
Sana fu sconvolta dalla lucidità con cui Kamura aveva pronunciato quelle parole e non seppe cosa rispondere.
«Lo so che Hayama per te è e sarà sempre importante, e io posso accettarlo credimi. Ma, allo stesso tempo, non pensi che quello che abbiamo costruito fino ad oggi sia qualcosa di altrettanto importante?»
«Ma certo che lo penso, se non ci fossi tu nella mia vita non saprei proprio come fare», disse sinceramente guardandolo negli occhi. Lui sorrise e le accarezzò il viso con il dorso dell’indice, perché si fidava ciecamente di lei.
«Solo che, io non…»
«Ascoltami Sana, io per te farei qualsiasi cosa credimi. Scalerei una montagna con su solo un paio di sandali se tu lo volessi. Ci sarò sempre, ti supporterò sempre e lo so che tu hai bisogno di questo. Come ne hai avuto per tutti questi anni, nonostante tutto.»
Le sue parole la fecero sentire piccola e indifesa, perché era dannatamente vero. Non sapeva spiegarsi perché, dopo aver saputo di Fuka e Akito, si fosse sentita così distrutta, ma ciò di cui era certa era l’appoggio che Kamura le aveva sempre offerto. A volte anche senza volere nulla in cambio. Si spaventò improvvisamente all’idea di dover cambiare tutta la sua vita rimettendosi in gioco e, di getto, si lanciò verso di lui cercando le sue braccia affinché la stringessero. Naozumi si sentì di colpo sollevato.
«I sentimenti cambiano così come le persone. Ti prometto che mi impegnerò al massimo affinché tu possa essere felice insieme a me, perché ti amo e amare significa anche questo.»
A quelle parole sussultò un istante, perdendo tutto il coraggio che aveva racimolato nelle ore precedenti per comunicargli la sua decisione.
 
Gennaio 2007
 
Akito la guardò sorpreso, cercando di interpretare le emozioni e i sentimenti che lo stavano assalendo in quell’istante. La decisione di Fuka di trasferirsi in un’altra scuola lo aveva colto davvero alla sprovvista.
«Sai che amo la ginnastica e mi piacerebbe tremendamente diplomarmi per diventare un’insegnante affermata. Per la mia preparazione, la Jimbo non potrebbe darmi il futuro che desidero».
Lui la guardò e si accorse subito dell’espressione triste della sua ragazza nel pronunciare quelle parole.
«Ma… avresti potuto parlarmene. La scuola in cui andari è lontana, e noi…» non riuscì a finire la frase. «Credimi Akito, ci ho pensato veramente tanto. Ci scambieremo delle email, se lo vorremo entrambi ma ormai ho deciso, e i miei sono d’accordo.»
Una folata di vento gelido si intrufolò tra i loro capelli distogliendo entrambi dal turbinio di tristezza in cui erano piombati. Lui, che non era mai stato un tipo troppo espansivo, si lanciò verso di lei e la abbracciò forte lasciandola completamente interdetta.
«Mi mancherai», riuscì solo a dire.
«Anche tu, Akito.»
Terminò quella conversazione districandosi dalle sue braccia e fuggendo via, consapevole di aver preso quella decisione con fin troppo ritardo.
 
Riprendere in mano l’uniforme scolastica la fece sentire improvvisamente indifesa ma, in fin dei conti, sua madre aveva ragione. Non aveva più nessun senso nascondersi ancora e lei era stanca di vivere come un’adulta nel corpo di una sedicenne. Aveva bisogno di leggerezza, dei suoi amici e anche di commettere qualche sciocchezza perché si era negata per fin troppo tempo. Accarezzò con la punta delle dita la gonna a pieghe decisamente più corta di quella che aveva indossato nell’unico anno di scuola media, impostò poi la sveglia per  il mattino seguente non riuscendo ad evitare di sentire il battito del suo cuore che aveva ripreso di nuovo la sua folle corsa.


 
*Note d'autrice*

Salve a tutti, eccomi con l'aggiornamento. Questa volta è lungo quanto i dieci comandamenti di Mosé ma proprio non me la sono sentita di dividerlo in due parti. Non ci sarebbe stato un filo logico conduttore e questo capitolo è importante proprio perché fa da legante a quanto scritto prima e a quanto posterò in seguito.
Bene detto ciò, scusandomi per avervi provocato il bruciore agli occhi, spero che almeno ne sia valsa la pena. Come avrete notato, i sentimenti sono un pò confusi proprio perché dietro a tutta la vicenda ci sono troppe cose non dette ma provate, e troppi legami instaurati su sentimenti che sono tutto tranne che d'amore. E ora capirlo e accettarlo diventa veramente difficile, considerando poi i soggetti diciamo che sarà un'impresa titanica.
Aspetto con ansia i vostri commenti e di sapere cosa ne pensate. 
Vi ringrazio tutti come sempre, siete la mia giuoia.
Al prossimo aggiornamento
Alex

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Capitolo 7
*** Capitolo 5 - Un mare torbido di confusione ***


Capitolo 5
 

Un mare torbido di confusione
 
«Siamo molto lieti di accogliere sua figlia nel nostro istituto. Naturalmente dovrà sostenere un esame integrativo tra qualche settimana e il consueto esame di fine anno per passare in seconda. Ma sono sicuro che non avrà nessun problema.»
Alle parole del preside Sana iniziò a sudare come se improvvisamente quella stanza si trovasse sotto il forno di una fabbrica siderurgica. Effettivamente non aveva pensato a quell’eventualità e il fatto che lo studio, in quegli anni, avesse occupato un posto così marginale nella sua vita non giocava affatto a suo favore. Si grattò appena la testa cercando di mascherare il disagio, per non dire terrore, dietro un sorriso fin troppo nervoso: «Sì sì, e che ci vuole?»
«Brava figliola, questo è lo spirito giusto per affrontare gli esami. Ora, se è tutto, vogliate scusarmi. Ho una videochiamata con mio fratello che si trova alle Hawaii.»
«Beato lui», commentò Sana a voce impercettibile. Sua madre invece non si era affatto scomposta, forse per evitare che Maro perdesse l’equilibrio e cadesse sul tavolino di vetro della sala professori dove erano state ricevute.
«La ringraziamo molto signor Yoshida e ci saluti tanto suo fratello.»
Sana rivolse un’occhiata perplessa alla donna che, con un sorriso trionfale, si elevò dritta da quella posizione per poi lasciare la stanza. Come sua madre, lei fece lo stesso salutando il preside con una mano e allontanandosi dalla scrivania camminando all’indietro, come un gambero dell’oceano.
«Mi raccomando mia cara, ora devi impegnarti sul serio. Altrimenti verrai bocciata, e tutto ciò che otterrai sarà un futuro incerto, fatto di lavori faticosi e orari massacranti, con la concreta possibilità di non riuscire nemmeno ad arrivare alla fine del mese. Chissà, potresti addirittura finire sotto un ponte.» Sana rivolse a sua madre l’ennesima occhiata perplessa.
«L’hai descritto proprio nei minimi dettagli, eh?» Non sorprendendosi affatto. «È il mio lavoro figliola, e ora fila in classe» concluse, dandole le spalle e allontanandosi lungo lo stretto corridoio che conduceva all’uscita dell’istituto.
Sana tirò un profondo sospiro. Iniziò a ispirare ed espirare lentamente cercando di trovare il giusto ritmo necessario per cominciare quella prima giornata a scuola, dopo mezza vita trascorsa lontana da quello che per lei era stato un vero e proprio inferno. «Coraggio Sana, ora vai in classe e saluta i tuoi compagni. Sicuramente qualcuno ti darà una mano a studiare per gli esami e tu non finirai sotto nessun ponte», si disse da sola, cercando di motivare la sua voglia di studiare a tornare da lei, come un figliol prodigo. Lentamente si mosse verso quella che doveva essere la sua aula, la prima B e, calendario alla mano, appurò che alla prima ora aveva letteratura Giapponese. Sghignazzò soddisfatta, pensando che tutto sommato qualche libro in vita sua l’aveva pure letto e che probabilmente lo scenario tragico descritto da sua madre non era altro che un modo per spaventarla più del necessario.
«Sana? Sei davvero tu?» Una voce fin troppo conosciuta la distolse dai suoi pensieri, completamente rivolti alle opere antiche di cui non riusciva a ricordare nemmeno un singolo autore. Si voltò lentamente, come se dietro di lei ci fosse davvero uno Yokai in carne ed ossa.
Ma il viso dolce di Aya confutò la sua teoria. La sua espressione passò dalla sorpresa, all’imbarazzo per poi finire nella felicità espressa da un sorriso a quindicimila denti.
«Eh… ecco, s-sì» rispose incerta, non sulla sua identità. Di quello era abbastanza sicura. L’incertezza era dovuta alla reazione della sua vecchia e cara amica Aya, che non vedeva da anni, e che si trovava proprio davanti a lei come un fantasma riapparso dall’oltretomba. Aspettò un suo cenno prima di fare qualsiasi mossa ma quando la ragazza allargò le braccia, si sentì improvvisamente stupida ad essersi fatta tutti quei problemi. Si abbracciarono all’unisono stringendosi più forte di sempre.
«Caspita, e chi se lo aspettava. Che gioia rivederti… dimmi che sei qui per restarci», le suppliche di Aya la fecero sentire incredibilmente bene perché la cosa che più temeva era la delusione che avrebbe potuto leggere negli occhi dei suoi vecchi amici dopo tutto quel tempo trascorso lontani. Ma scoprire che sua madre aveva ragione la rese immensamente felice. «Beh sì, ho deciso di tornare a scuola per non finire sotto un ponte», la informò una volta allontanatasi dal suo abbraccio.
«Cosa? Di che ponte parli?»
«No, niente. A proposito, in che classe sei?» La speranza era sempre l’ultima a morire.
«Nella A. Quest’anno ci hanno divisi, Tsuyoshi è nella C», la informò con una punta di tristezza. Purtroppo non ritrovarsi in classe insieme era la causa per stare più distanti di quanto non avessero mai voluto, considerando tutte le attività extra scolastiche obbligatorie potevano vedersi solo durante il pranzo.
«Oh Tsuyoshi… devo subito andare a salutarlo e dirgli che mi dispiace per non essermi fatta viva prima». Sana aveva ritrovato il carburante necessario per alimentare la sua bocca visto che le parole le uscirono a raffica con un tornado equatoriale, scompigliando i capelli ad una Aya confusa e frastornata.
«Sì sì, certo Sana, ma dopo. Ora dovremmo andare in classe. Non credo ti faccia bene arrivare in ritardo il primo giorno.»
«Oh no no, devo diventare una studentessa modello altrimenti mi tocca il ponte». Aya proprio non riusciva a seguirla e così decise di sorvolare e cambiare discorso.
«Tu invece in che classe sei? Vediamo se siamo almeno vicine.»
«Sono nella B», disse continuando a camminare accanto all’amica. L’ultima cosa che voleva in quel momento era perdersi nella sua stessa scuola.
«Ah, allora sei in classe con Hayama!»
«Ha-Hayama?»
Aya colse al volo l’espressione disperata della sua amica e collegò ogni istante trascorso insieme a Sana ed Hayama prima che lei sparisse per tutto quel tempo, oltre alle mille teorie elaborate da Tsuyoshi ogni volta che Akito era pensieroso o giù di morale. Si rese conto di dover dire qualcosa di confortante perché l’espressione avvilita di Sana parlava per sé e per tutti quelli che conosceva.
«Ma la tua sezione è proprio accanto alla mia, ci vedremo non appena comincia l’intervallo per il pranzo. Ti sarò vicina, non temere.»
La magra consolazione che quelle parole provocarono in Sana fu percepita anche da Aya che, prendendola per un braccio la strinse a sé cercando di trascinarla verso la sua aula. La sentiva tremendamente rigida, come se avesse preso a braccetto un palo della luce e si sentì immediatamente preoccupata per la sua amica che sembrava stesse andando al patibolo, subito dopo la condanna a morte.
Sana, dal canto suo, stava cercando di applicare tutte le sue forze per non dare a vedere a nessuno, oltre sé stessa, la tensione che provava e dimenticò immediatamente tutti i buoni propositi di qualche minuto prima che la vedevano trasformata in una studentessa modello, pronta a varcare la soglia di una prestigiosa università internazionale.
Si fermò all’istante trascinando in quella pausa anche Aya: «Mia mamma mi ha detto che devo essere spensierata e che devo essere felice del fatto di avere degli amici che mi vogliono bene. Sono un’adolescente al primo giorno di scuola e mi sento molto felice.»
«Sana, ti senti bene?» Aya non riusciva più a seguire i cambiamenti di umore della sua ritrovata amica e la guardò seriamente preoccupata. Lei, di risposta, sghignazzò in un modo quasi sinistro divincolandosi dalla stretta dell’altra. Alzò un pugno al cielo e, Aya ne era convinta, se fossero state le protagoniste di un film in quel momento avrebbero sentito una musica trionfale accompagnare la scena. «Ci vediamo a pranzo amica mia, ora devo andare in classe.» E dette quelle parole, lasciò Aya da sola nel corridoio intenta ad osservare i capelli ramati di Sana che le ondeggiavano liberi sulle spalle, seguendo la sua figura che si dirigeva verso l’ignoto.
Probabilmente, però, l’ottimismo momentaneo era rimasto indietro perché quando l’insegna della sua aula -  e di Hayama – comparve come uno spauracchio dinanzi al suo viso si sentì crollare. Che fine aveva fatto tutta la vitalità di poco prima?
Dalle voci un po' troppo animate provenienti dall’aula capì che il professore non era ancora arrivato e quella constatazione la fece sentire un po' meglio. Almeno uno dei mille propositi di quella giornata era stato mantenuto. Aprì la porta dell’aula e il suo cuore si fermò perché Akito si trovava appoggiato all’armadietto in fondo alla classe, proprio in direzione del suo sguardo. Aveva gli occhi chiusi e le cuffie nelle orecchie, completamente assorto in chissà quale canzone o qualsiasi cosa stesse ascoltando. L’immagine che aveva davanti le sembrò un déjà vu, solo che quella volta lui non era il capo di nessuna banda di teppisti e non c’era nessun insegnante in lacrime che cercava disperatamente di placare la guerriglia scatenata dai suoi scagnozzi. In quel momento, invece, Akito era calmo come un neonato dopo la poppata quotidiana e pensava esclusivamente ai fatti suoi.
L’unico pensiero che riuscì ad elaborare fu quello di fingere di non essere sé stessa e, presa da un panico improvviso, si mise una ciocca di capelli tra le labbra e il naso, come se bastasse a renderla qualcun altro. Nonostante ce l’avesse messa tutta a camuffarsi, il suo viso era decisamente troppo noto e, quando il rumore della porta che si chiudeva dietro di lei arrivò anche alle orecchie dei presenti, calò improvvisamente il silenzio. L’apocalisse era iniziata.
«Ehi, ragazzi… ma quella è Sana Kurata!» L’ovvia constatazione di un ragazzo con i capelli scuri quanto i suoi occhi fu abbastanza interessante da richiamare anche gli altri sguardi che si posarono subito su Sana, che nel frattempo si era piegata su sé stessa cercando di nascondersi dietro un ramoscello immaginario. «No no, ti sbagli…» Fu la prima, stupida, cosa che le venne in mente. Si era dimenticata che di lì a breve il professore l’avrebbe presentata davanti a tutti.
E la seconda Apocalisse ebbe luogo proprio alle sue spalle, perché fu il trambusto di tutti gli studenti che si alzavano dalle loro sedie e si avvicinavano a lei a svegliare Akito dal suo torpore indifferente. Aprì gli occhi e quando scorse una testa rossa immersa nella folla dei suoi compagni di classe tolse immediatamente le cuffie dalle orecchie staccandosi da quell’armadio come se vi fosse rimasto incollato da una vita con la resina. Probabilmente uno dei sogni che aveva fatto la notte precedente aveva preso vita davanti a lui, ma il battito a dir poco accelerato del suo cuore tradì la possibilità che aveva vagliato di essere in preda ad un delirio onirico. Quella che aveva davanti era davvero Sana, in uniforme scolastica, che sorrideva imbarazzata a quelli che probabilmente avrebbe condiviso con lei in quanto compagni di classe.
Strinse i pugni e fece qualche passo verso il suo banco, di scatto afferrò la sedia con entrambe le mani e la tirò verso di sé facendo abbastanza rumore da catturare l’attenzione degli altri. In quel teatrino di stridii e spostamenti di sedie e banchi, perché fare qualsiasi altra cosa per farle capire che lui l’aveva notata era troppo complicato quindi si sedette a braccia conserte fissandola insistentemente come se la sua schiena fosse improvvisamente diventato un bersaglio sul quale lui stava lanciando le sue freccette appuntite che, ad una ad una le si conficcavano addosso. E lei le percepì tutte.
Si voltò lentamente verso di lui con un’espressione incomprensibile per chiunque, alzando debolmente una mano in cenno di saluto. Si sentì la persona più stupida del mondo ma allo stesso tempo, anche quella più imbarazzata al pensiero che gli altri potessero notare quanto veloce batteva il suo cuore.
«Calma ragazzi, oggi abbiamo una nuova arrivata a quanto pare», la voce del signor Suzuki, almeno quello era il nome che Sana aveva letto accanto all’insegnamento di letteratura Giapponese, catturò nuovamente l’attenzione di tutti che si ricomposero in un nanosecondo. La ragazza si sorprese nel constatare quanto diversa fosse la concezione di disciplina nella sua nuova classe. Non era affatto abituata.
Lei invece rimase in piedi perché sapeva benissimo che ora la attendevano le presentazioni ufficiali alla classe e, racimolando tutto il coraggio rimastole, si avvicinò al professore con un sorriso nervoso.
«Lei è Sana Kurata e da oggi farà parte della vostra classe. È un po' indietro con le lezioni ma saremo ben felici di aiutarti a recuperare» si limitò a dire il professore, trascurando volutamente il fatto che tutti sapevano perfettamente chi lei fosse e nessuno aveva prestato minimamente attenzione al fatto che la sua carriera scolastica era appesa ad un filo.
«Coraggio Sana, va’ a sederti», la fece cenno il signor Suzuki indicando con la mano l’unico posto ancora libero, o forse reso tale apposta per lei, al centro della classe. Camminando tra i banchi non fece nemmeno caso a tutti gli sguardi che seguivano i suoi movimenti. Era talmente abituata ad essere guardata finché non spariva dalla vista altrui che ormai non ci badava nemmeno più. L’unico sguardo che proprio non riusciva a sostenere era quello di Akito Hayama che, come una statua di cera, la fissava con uno sguardo decisamente troppo profondo. Poteva definirlo addirittura arrabbiato e, presa da quella sfilata tra i banchi che stava per giungere al termine, non riuscì a fare a meno di domandarsi perché mai il suo ex amico- nonché-compagno di classe la stesse guardando come se lei avesse appena commesso una strage. Si sentì raggelare e, d’istinto, scosse appena la testa rivolgendogli uno sguardo confuso cercando di domandargli con la sola forza del pensiero quale fosse il suo problema in quel momento.
Per fortuna – o sfortuna – il banco di Hayama era abbastanza vicino a quello di Sana cosicché appena lei si fu sistemata a dovere al suo posto, pronta a seguire la prima ora di lezione, lui si sporse in avanti cercando di raggiungerla affinché il suo tono di voce risultasse poco più che un leggero soffio di vento alle orecchie indiscrete degli altri.
«Mi spieghi che diavolo ci fai qui?» La gentilezza di Hayama nel darle il bentornato era davvero degna di nota, pensò Sana distorcendo le labbra in un’espressione di diniego.
«Studio, non si vede?»
«Ah sì? E da quando?»
«Da oggi! Si può sapere qual è il tuo problema Hayama?»
Akito la guardò cambiando espressione in un secondo. Se quella domanda aveva destato in lui un’iniziale sorpresa, i pensieri che presero forma nella sua testa riguardo alle parole, secondo lui decisamente inopportune, di lei trascinarono il suo viso in un concentrato di rabbia che si rifletté in maniera fin troppo eloquente nel suo sguardo indurito. Sana aveva perso il conto di tutte le volte che glielo aveva visto fare da quando si erano rivisiti. Le venne l’ennesimo brivido dietro la schiena.
«Sei tu il mio problema!» Questa volta il tono della sua voce aveva raggiunto qualche decibel in più pertanto dovette ricomporsi all’istante per tentare di non provocare una reazione del professore.
Sana di risposta si voltò dandogli le spalle e abbassando appena il capo, non riuscì a replicare in nessun modo. Probabilmente proprio l’assenza di una sua risposta indusse Akito a domandarsi se non avesse esagerato, se non fosse stato troppo duro con lei. In fondo ciò che provava realmente non era affatto rabbia ma qualcosa che si avvicinava molto di più alla paura di averla di nuovo davanti agli occhi tutti i giorni, senza poter fare nulla per impedirlo. Allungò appena una mano nella sua direzione senza però nemmeno oltrepassare il proprio banco, per poi ritirarla immediatamente contro di sé.
Le prime ore di quella giornata trascorsero velocemente, senza che né Sana né Akito si rivolgessero nuovamente la parola, lui riusciva a scrutare solo i capelli lunghi, sciolti sulle spalle di lei, e lei invece i numeri mischiati a lettere incomprensibili sul libro di algebra. Si sentiva completamente persa nell’avere a che fare con numeri e calcoli e proprio non riusciva a tenere il passo con il resto della classe. Più il professore spiegava e più lei si fletteva sul libro, quasi a finirci con il naso dentro, con la speranza che le nozioni fuoriuscissero da quelle pagine e le finissero dritte nel cervello cosicché potesse cominciare a svolgere almeno uno degli esercizi che il professore aveva loro assegnato.
«Signor Fukuda, proprio non riesco a risolvere questi esercizi. Le dispiacerebbe ripetere la spiegazione?» Hayama non si era mai esposto in classe, e nemmeno ne aveva avuto mai bisogno visti i suoi voti ma, quella volta in particolare, alzò la mano richiamando l’attenzione dell’insegnante il quale, sorpreso, riprese a spiegare nuovamente la regola che stava alla base di quegli esercizi.
Sana aveva finalmente alzato il capo dal libro spostandolo verso il professore che aveva ripreso la stessa spiegazione di qualche minuto prima.
«Ora ti è chiaro Akito come vanno svolti questi esercizi?»
Lui spostò rapidamente lo sguardo verso Sana accorgendosi che ora le mani le erano finite tra i capelli come se la disperazione che provava fosse qualcosa di troppo difficile da sostenere. Tornò quindi nuovamente al signor Fukuda «È che sono molto complessi…»
«Complessi? Sei sicuro di star bene?»
«Forse mi starò ammalando», rispose tranquillo, noncurante dello sguardo confuso del professore che, da buon insegnante devoto all’arte dell’apprendimento, riprese nuovamente a spiegare le stesse identiche regole di matematica. Akito si voltò verso Sana sperando che quella fosse la volta buona e che qualcosa fosse riuscita ad entrare in quella testa vuota. E allora si accorse che anche lei si era voltata verso di lui perché aveva capito tutto il teatrino che aveva montato su. Di rimando, Hayama imbarazzato le fece un cenno con il capo indicando l’altra estremità dell’aula dove si trovava il professore per poi tornare a svolgere i suoi, semplicissimi, esercizi. Sana invece non smise di guardarlo ma, con il cuore che le batteva tremendamente forte, si impose di ascoltare la spiegazione del professore per non rendere vano il gesto di Akito.
Il suono del campanello che finalmente annunciava la fine delle lezioni e l’inizio della pausa pranzo permise a Sana di tirare un profondo sospiro di sollievo perché, nonostante grazie all’intervento di Hayama fosse riuscita a svolgere la maggior parte degli esercizi, si trovava ancora alle prese con il più difficile e le era venuto un gran mal di testa.
«Finalmente, non ne potevo più», esalò spalmandosi letteralmente sul banco noncurante di libri e fogli pieni di calcoli scarabocchiati. Si destò da quella posizione solo quando si rese conto che l’aula era ormai vuota e che tutti i suoi compagni erano andati alla mensa scolastica. Tutti tranne uno.
«Non preoccuparti, il professore capirà presto che sei una schiappa in matematica e ti darà una mano», la voce di Akito alle sue spalle la fece voltare immediatamente. Era in piedi di fronte a lei con lo zaino sulle spalle pronto ad andare chissà dove. Sana si elevò per raggiungerlo «Grazie, per prima insomma» riuscì a dire in preda ad un tremendo imbarazzo. Si chiese seriamente da quand’era che il suo vecchio migliore amico avesse cominciato a farle quell’effetto e sicuramente tutto ciò che era successo a casa sua qualche giorno prima non aveva fatto altro che alimentare quel sentimento di disagio che provava ogni qualvolta gli fosse così vicino.
«Senti, non sapevo che saremmo finiti in classe insieme. Se l’avessi saputo avrei fatto di tutto per evitarlo…»
«Evitarlo?» Chiarì lui un po' confuso.
«Sì. Insomma, so che non vuoi avere niente a che fare con me quindi possiamo essere semplici compagni di classe e basta».
Akito strinse i pugni decisamente troppo forte perché le nocche si sbiancarono totalmente sotto la pressione delle sue dita. Quella ragazza voleva veramente mandarlo al manicomio e l’unica cosa a cui riusciva a pensare era il karate, il suo angolo di pace, e alla palestra che avrebbe raggiunto di lì a breve. Si voltò dandole le spalle e avviandosi verso la porta senza nemmeno salutarla.
«Hayama, sei il solito maleducato! Potresti almeno salutare» gli inveì contro, noncurante di qualsiasi possibile reazione da parte di lui.
«Hai detto che volevi evitarmi? Bene, comincia a farlo da subito» dicendo quelle parole scomparve dalla su vista lasciando la stanza senza nemmeno accorgersi che ad aspettare Sana fuori la loro classe c’era Aya che aveva assistito a tutta la scena.
Sana sbuffò rumorosamente sbattendo i piedi per terra «Non ti sopporto Hayama, ti eviterò con tutta me stessa.» Quelle parole provocarono un’espressione di sconcerto nella sua amica che era appena entrata nella stanza, con l’intento di calmarla.
«Sana ma che succede? Avete già litigato?»
«Naturalmente, perché non cambierà mai. Sarà sempre il solito maleducato mostro introverso e scorbutico»
«Non credi di esagerare un po’ adesso?»
«No! E adesso andiamo in mensa, ho fame!» Concluse Sana prendendo Aya per mano e trascinandola fuori dall’aula dove si era resa appena conto che la stretta vicinanza con Akito Hayama le avrebbe causato non pochi problemi.

 
*** 
                                        
«Sana, non ci posso credere. Non puoi capire quanto ci sei mancata in questi anni.» Tsuyoshi era dannatamente felice di ritrovarsi lì seduto al tavolo della mensa insieme a Sana. Lui era sempre stato un tipo molto malinconico per certi versi, e il pensiero che l’antico gruppo di amici si fosse sgretolato come una statua di sabbia lo aveva sempre reso estremamente triste. Tuttavia il fatto che Sana fosse tornata a seguire regolarmente le lezioni gli dava un barlume di speranza rispetto alla possibilità che potessero tornare ad essere quelli di un tempo. Certo bisognava convincere Akito a non comportarsi come un cavernicolo ma di quello, ne era sicuro, si sarebbe occupato in un altro momento.
«Sì amici, mi sei mancati così tanto e mi sento terribilmente in colpa per essere sparita così. Ma sapete, il lavoro mi ha completamente risucchiata, in più quei sei mesi a Londra sono stati intensissimi» raccontò lei, con una punta di imbarazzo. Sperava con tutta sé stessa che nessuno di loro le avrebbe fatto domande sulla sua vita privata.
Alla piccola riunione si erano aggiunti anche Hisae e Gomi che non facevano altro che tempestare Sana di domande: «Quindi ora lavorerai di meno? Le lezioni qui sono diventate incredibilmente impegnative sai?»
«Sì, me ne sono accorta. L’ora di matematica è stata un incubo ad occhi aperti e non ce l’avrei mai fatta se non fosse stato per…» si interruppe all’improvviso suscitando la curiosità dei presenti.
«Beh sì, se il signor Fukuda non avesse rispiegato quelle cose incomprensibile per circa re volte di fila» riuscì a divincolarsi dal labirinto nel quale si era cacciata con le sue stesse mani, e si sorprese di essere stata in grado di mostrarsi così tranquilla nell’esprimere qualcosa che nella sua testa era strettamente collegata ad Akito. E a proposito di lui, che era sparito subito dopo la lezione, si chiese improvvisamente se quel giorno l’avrebbe rivisto a scuola. Poi, d’un tratto, accertò l’assenza di qualcun altro. Rivolse un’occhiata ad Aya e poi ad Hisae e fu quest’ultima a capire la sua tacita domanda.
«Lo sai, Fuka non frequenta più la nostra scuola e ormai la vedo così di rado» Il cuore di Sana cominciò a battere un po' più forte perché a quel nome erano legati tanti momenti tristi della sua vita e non solo per via di Akito. Aveva sempre considerato Fuka una sua cara amica nonostante il poco tempo passato insieme e sapere che probabilmente non l’avrebbe più rivista le provocò uno strano sentimento di malinconia.
«Come… come mai?»
«Beh lei ci ha detto che questa scuola non le avrebbe permesso di diventare una brava insegnante di ginnastica per cui ha deciso di trasferirsi altrove. Sono passati ormai quasi tre mesi» Fu Tsuyoshi a rivelarle l’arcano e lei di risposta, abbassò lo sguardo sentendosi improvvisamente incupita.
Non potette fare a meno di collegare quell’informazione con quanto appreso indirettamente da Akito qualche sera prima rendendosi conto che quei due probabilmente non stavano più insieme sul serio. Avrebbe tanto voluto indagare oltre ma, allo stesso tempo, non voleva mostrare ai suoi amici quanto invece i suoi pensieri fossero totalmente occupati da Akito Hayama e dalla voglia di sapere cosa ci fosse dietro quel suo atteggiamento così indurito.
«Ragazzi, mi è venuta un’idea. Perché non organizziamo una gita per festeggiare il fatto che siamo di nuovo tutti insieme? Potremmo andare ad Hakone e fare un salto alle terme, ho sentito che è un posto incredibile» La proposta di Tsuyoshi fu abbastanza apprezzata dai presenti che gli rivolsero un grosso sorriso di gioia.
«Oh sì, sarebbe fantastico. Mi piacerebbe moltissimo passare qualche giorno in mezzo alla natura» Aya era su di giri e Hisae e Gomi la seguirono a ruota iniziando a programmare l’evento nei minimi dettagli vagliando tutte le possibili attività da fare in poco più di due giorni. Dalle terme alle passeggiate in montagna, fino alla possibile cena nell’albergo con la vista migliore sul lago Ashi.
«Tu cosa ne dici Sana?» le chiesero in coro Aya e Hisae porgendole uno sguardo di supplica perché timorose di una possibile risposta negativa dovuta alla possibilità che lei avesse probabilmente già qualcosa da fare insieme al suo manager.
Sana di risposta si sentì un po' alle strette perché se da un lato aveva una voglia incredibile di andare via e godersi i suoi ritrovati amici, dall’altra c’era una serie di note stonate che la inducevano a pensare alla possibilità che quella non era poi un’idea grandiosa.
 «Beh ecco, dovrei controllare i miei impegni di lavoro e…» si interruppe pensando a Naozumi e a come avrebbe reagito all’idea di lei che trascorreva una notte fuori con la possibile presenza di Hayama. Si sentì improvvisamente irrequieta.
«Dai Sana, saranno solo due giorni. Non ci vediamo da così tanto tempo e penso che sia un’ottima occasione per stare insieme» Tsuyoshi era così insistente che nessuno osava ormai più contraddirlo quando l’argomento erano gli amici e i festeggiamenti.
«Sì ecco, beh penso possa andare bene ecco…» Alla fine aveva ceduto, sia a ad uno Tsuyoshi disperato sia alla propria voglia di trascorrere del tempo con i suoi amici, dimenticando per un attimo tutti i momenti tristi che aveva vissuto in quegli anni e soprattutto, pensando alle parole di sua madre che l’aveva spinta finalmente a prendere la decisione di continuare a coltivare anche la sua adolescenza.
«Grandioso, scriverò subito una mail ad Akito così potremo organizzare il viaggio.»
Ecco, quella era proprio l’informazione di cui Sana avrebbe fatto volentieri a meno durante il processo di autoconvincimento nell’aver preso la decisione giusta rispetto all’idea della gita.
Magari non sarebbe nemmeno venuto, considerando il fatto che in classe le aveva fatto chiaramente capire che non voleva avere nulla a che fare con lei, e magari tutte le sue paure erano davvero infondate perché sarebbe stata una semplice gita tra amici, in un posto incantevole, lontano dal set e dai libri di scuola.

 
***
  
«Così Fuka si è trasferita. Deve essere stato doloroso per Hayama» Sana proprio non riusciva ad evitare di pensare a quel discorso e, approfittando di essere finalmente rimasta sola con Aya, mostrando nonchalance cercò di estrapolare all’amica informazioni aggiuntive sul caso Fuka-Akito.
Aya la guardò sorpresa per poi rivolgerle un tenero sorriso non appena resasi conto che le gote della sua amica si erano colorate leggermente di rosso.
«Sai, Akito non ne ha mai parlato apertamente ma credo che ci sia rimasto davvero male. Dopotutto sono stati insieme così tanto tempo» E a Sana quelle parole provocarono uno strano senso di fastidio.
«Ma sono anche convinta che entrambi sapessero che quello era l’unico epilogo possibile perché siamo cresciuti Sana, e certe cose diventano fin troppo evidenti.»
Le parole di Aya risultarono abbastanza difficili da capire per Sana che le rivolse un’occhiata confusa. Ne sapeva davvero troppo poco per trarre delle conclusioni accettabili alla sua mente, che stava già viaggiando verso mondi paralleli. Aya di risposta alzò gli occhi al cielo constatando che in quegli anni la scaltrezza della sua amica si era fermata ad un livello nemmeno lontanamente sufficiente per capire certe cose. Ma lei, a differenza del suo amato Tsuyoshi, non amava particolarmente intromettersi in maniera diretta nelle decisioni altrui e la lasciò navigare nel suo mare torbido perché sperava che un giorno certe cose le avrebbe capite da sola.
«Quindi Hayama…»
«È proprio lì davanti a noi», la informò facendole un cenno con il capo in direzione del loro amico appoggiato al muro della strada che le due stavano percorrendo per tornare a casa. «Ci vediamo domani allora» disse semplicemente allontanandosi da lei e rivolgendo un tacito saluto ad Akito prima di sparire dal campo visivo di entrambi.
Sana si fermò davanti a lui, alzando un braccio per salutarlo.
«Che ci fai qui? Guarda che il muro si regge anche da solo»
Lui non rispose nemmeno a quella che lei era convinta essere un’osservazione pungente e si avvicinò di qualche passo.
«Posso accompagnarti a casa?»
Quella richiesta la colse un po' alla sprovvista e non riuscì ad emettere suono, acconsentì con un leggero cenno del capo iniziando a camminare verso la stessa direzione.
«Ti sei allenato oggi?»
Lui le rispose mostrandole il fagotto con la divisa da karate piegata e legata con una cintura scura.
«Mh, quindi ora sei cintura nera?»
Akito le rispose alzando le spalle infilandosi poi le mani in tasca. Sana iniziò ad innervosirsi per la giornata del mutismo che Hayama aveva deciso di istituire proprio lì, accanto a lei.
«Devo dirti di aver comprato un biglietto per Marte per farti parlare?»
«No, potresti dirmi come te la passi. Sarebbe più semplice»
«Oh adesso vuoi sapere come sto? In classe mi è sembrato invece che volessi evitarmi come la peste»
«Sei una babbea» la rimbeccò lui con uno sguardo duro.
«E tu sei un ragazzino maleducato.»
«Può darsi. Gira a destra!» Le ordinò avanzando il passo e sorpassandola verso la direzione che le aveva appena comunicato. Sana si bloccò guardando le spalle di Hayama allontanarsi di qualche metro: «Ehi tu, dove stai andando?»
«In un posto, ragazzina»
«E non chiamarmi ragazzina» urlò accelerando il passo affinché non lo perdesse di vista. Cominciò a chiedersi se in quegli anni non gli fosse successo qualcosa di brutto al cervello perché aveva come l’impressione che Hayama si stesse comportando come un cavallo impazzito.
Tuttavia in pochi minuti la destinazione misteriosa le fu svelata perché, nonostante il gazebo non ci fosse più, le era impossibile non riconoscere gli alberi che un tempo lo circondavano e si sentì subito agitata. Hayama si sedette sulla panchina che aveva preso il posto dell’antica struttura, battendo poi una mano sul posto vuoto accanto a lui affinché Sana lo raggiungesse e si sedesse proprio lì. Lei sbuffò fingendosi annoiata. «Quanto durerà la tua protesta verso il linguaggio verbale?»
«Volevo parlarti di Fuka» esordì facendo cadere Sana da un pero. Era stato lui stesso a dirle di non volerne parlare e quell’improvviso cambiamento di rotta la destabilizzò completamente.
«Noi, ci siamo lasciati ecco. Lei si è trasferita in un’altra scuola circa tre mesi fa e non ci siamo più sentiti da allora.»
Sana ascoltò le sue parole completamente rapita, noncurante del battito del suo cuore che aveva ripreso a correre come un pilota di formula uno. Si chiese seriamente quale fosse il motivo per cui Hayama le stava raccontando quelle cose.
«È stata lei a volerlo ma… devo confessarti una cosa» Il cuore di Sana ormai aveva già percorso cento giri ad una velocità supersonica e iniziò a pensare a cosa avrebbe potuto rispondergli una volta finita quella confessione. D’altra parte, il cuore di Akito si trovava esattamente dietro quello di lei intento a raggiungere il capofila di quella gara mortale.
«Non ne potevo più. Non di Fuka ma di tutto quello che lei rappresentava e mi sento un vigliacco perché l’ho fatta soffrire e lei non se lo merita.»
«Hayama…»
«No aspetta, fammi finire. Quando mi ha detto che si sarebbe trasferita stavamo affrontando un periodo di crisi perché lei diceva che io non le manifestavo il mio affetto.»
«Senti, io non voglio sapere cosa facevate tu e Fuka quando…» La pole position era dannatamente vicina.
«Quale parole non ti è chiara di “fammi finire”, eh?» la rimbeccò lui con un tono spazientito. Aveva completamente dimenticato quanto fosse difficile parlare con lei. Di rimando Sana si rimpicciolì su sé stessa sprofondando le mani nei lembi del cappotto in corrispondenza delle ginocchia.
«Lei voleva qualcosa da me che io non potevo darle ed è questo quello che mi fa sentire un vigliacco. Perché avrei dovuto dirglielo molto tempo fa, ma all’epoca eravamo solo due ragazzini e…» Sana si sforzò di non fargli notare che la sua età anagrafica non gli permetteva ancora nemmeno di bere una birra e che, tutto sommato, le cose non erano poi così diverse ma non fiatò aspettando che lui continuasse.
«E alla fine se n’è accorta da sola e ha deciso di piantarmi in asso, lasciando la scuola e gli amici», aggiunse infine restando poi in silenzio. Sana capì che il suo discorso era finito tuttavia le cose non le sembravano affatto più chiare di prima. Continuava a navigare in un torbido mare di confusione. Lo guardò cercando di percepire i suoi pensieri.
«Volevo che lo sapessi, tutto qui», disse alzandosi poi dalla panchina e rivolgendole uno sguardo sorpreso: «Che fai ancora lì?»
«Eh?»
«Ti accompagno a casa», le ricordò aspettando che Sana si decidesse ad alzarsi e a seguirlo verso l’uscita del parco. La ragazza era decisamente confusa perché proprio non riusciva a capire il motivo per cui lui le avesse detto quelle cose, in quel modo e su quella panchina. Lo raggiunse afferrandolo per un braccio cosicché lui si fermò all’istante voltandosi nella sua direzione.
«Perché mi hai detto quelle cose?»
«Te l’ho detto, volevo che lo sapessi», si limitò ad accompagnare quell’affermazione con un’alzata di spalle. Sana però non si accontentò di quella misera spiegazione e insistette lo sguardo su di lui che la fissò per un lunghissimo istante. Poi lasciò cadere il fagotto del karate per terra e di slancio afferrò Sana per le spalle con entrambe le braccia senza fare però troppa pressione. La fissava domandandosi seriamente se quella ragazza avesse qualche sorta di disturbo dell’attenzione perché, a suo avviso, era stato abbastanza chiaro con lei ed era convinto che perfino i muri avessero capito il motivo per cui lui le avesse raccontato certe cose. Ma le parole purtroppo erano così difficili da pronunciare per lui e proprio non riusciva ad essere più esplicito di così. La spinse leggermente verso il tronco di un grosso albero che si trovava proprio alle sue spalle senza staccarle minimamente gli occhi di dosso e, lasciando andare la presa sulle sue spalle, alzò lentamente una mano verso il suo viso.
Sana dal canto suo non riusciva a muovere nemmeno un muscolo e questo per un numero esponenziale di ragioni: 1. Cosa stava facendo Hayama con quella mano verso il suo viso? 2. Dove era finita la sua razionalità in quel momento in cui ne aveva disperatamente bisogno per divincolarsi da quella posizione? 3. Quanto batteva forte il cuore di Akito? 4. Tanto quanto il suo? 5. Da quand’era che Hayama le sembrava così bello? 6. Che anno, mese, giorno, ora, minuto, secondo era?
Le dita di lui si avvicinarono ai suoi capelli e il profumo di lei era talmente forte che, Hayama era convinto, gli sarebbe rimasto nel cervello finché avrebbe avuto le necessarie facoltà per usarlo. Spostò delicatamente una ciocca di capelli rossi dal volto di lei con una dolcezza che Sana non gli aveva mai visto addosso e non fece altro che continuare a guardarla rendendola totalmente priva di qualsiasi volontà che non fosse quella di restare lì davanti a lui finché il mondo non fosse finito. L’altra mano di lui si posò sul suo viso e con un pollice le accarezzò lievemente uno zigomo diventato quasi incandescente per quanto il sangue le pompava forte nelle vene e, con una lentezza disarmante, poggiò delicatamente le labbra sull’altra guancia lasciandole un bacio che lei probabilmente non avrebbe dimenticato nemmeno con un elettroshock.
Rimase immobile lasciando muovere poi Hayama liberamente nel suo gesto di allontanarsi piano da lei, con il volto rivolto verso il basso, un po' troppo imbarazzato per riuscire a sostenere la sua reazione.
«Coraggio, andiamo a casa.» Le disse quelle parole con una calma straordinaria, riprendendo il suo fagotto da terra e incamminandosi verso casa di Sana. Il tragitto fu percorso in silenzio perché entrambi probabilmente erano troppo impegnati a ripensare alla storia del bacio e quando la gigantesca villa di Sana comparve dinanzi a loro, Hayama si fermò voltandosi verso di lei.
«Tsuyoshi mi ha detto della gita», le disse con un tono tranquillo.
«Lo so. Ci andrai?»
«Tu?»
«Credo di sì»
«Allora non mi dispiacerebbe.» Concluse tornando a darle le spalle e lasciandola lì, davanti al cancello chiuso di casa sua a navigare nel solito mare torbido in preda ad una folle confusione.

*Note d'autrice*

Rieccomi con il capitolo 5. Mi scuso nuovamente per l'immane lunghezza, questa volta sono più di 10 pagine word e temo che questa smania non mi abbandonerà per i successivi capitolo.
Vi confesso che è stato un parto plurigemellare perché tra il lavoro, la preparazione di un colloquio importante (pensate che il tizio che mi intervisterà si chiama Eric xD) non so come io abbia fatto a scriverlo. Ma bando alle ciance, cose ve ne pare? Sana poraccia è sempre più confusa e il fatto di ritrovarsi in classe con Akito non le semplifica di certo le cose. Considerando poi la sua babbeaggine, pure il povero Hayama non se la passa proprio bene. Non vedo l'ora di farvi leggere i prossimi capitoli che sono già praticamente scolpiti nel mio cervello. 
Fatemi sapere cosa ne pensate.
Vi ringrazio come sempre per i commenti perché quelli, per me, sono fondamentali.
Vi abbraccio

Alex
 
 

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Capitolo 8
*** Capitolo 6 - Vuoi davvero essermi amico? ***


Capitolo 6
 
Vuoi davvero essermi amico?
 

Akito Hayama era tornato a casa decisamente scombussolato dopo la giornata trascorsa all’insegna di tutti quei colpi di scena. Insomma, non era ancora riuscito ad elaborare il fatto che Sana fosse tornata a scuola, figuriamoci accettare che da quel momento in poi se la sarebbe ritrovata tutti i giorni a due banchi di distanza. Senza contare l’epilogo al parco e quel mezzo bacio che le aveva rifilato proprio nel posto in cui lei, qualche anno prima, aveva finto di essere sua madre facendogli accettare il fatto che quest’ultima non fosse morta a causa sua e che quello che tutti chiamavano dono, la vita stessa, gli era stato dato proprio da quella ragazzina dai capelli rossi che si era calata nel personaggio alla perfezione.
Si chiuse in camera sua stendendosi sul letto, percependo all’improvviso un’immensa stanchezza come se avesse passato ore ed ore a sorreggere tutta la volta celeste. Chiuse gli occhi e ripensò a quel bacio. Avrebbe voluto che fosse diverso, decisamente diverso perché proprio quel pomeriggio si era reso conto che per Sana non provava solo una manciata di forti sentimenti la cui natura era ancora talmente complicata che ormai aveva rinunciato a definirli con un nome. Il fatto di essersela ritrovata davanti a così pochi centimetri di distanza, con quel profumo che ancora riusciva a percepire e quelle labbra che gli erano state talmente vicine da riuscire a sentirne quasi il sapore lo avevano mandato completamente su di giri, facendogli capire che avrebbe voluto decisamente andare oltre quel casto bacio sulla guancia. Aveva sentito, e continuava a sentire al buio della sua stanza, un’irrefrenabile voglia di toccarla, di scoprire che forma avesse il suo corpo, di accarezzarla più a fondo e di far sì che quel primo, leggero bacio tra loro potesse diventare qualcosa di molto più profondo. Sbuffò cercando di far rilassare i suoi muscoli divenuti davvero troppo tesi mentre pensava a Sana, al suo viso e al fatto che la nuova uniforme scolastica delle ragazze avesse quella gonna così corta che gli impediva di dimenticare che effetto gli facesse indossata da lei.
Si voltò su un fianco guardando la parete vuota davanti a sé, interrogandosi sulla possibilità reale che quelle immagini nella sua testa si concretizzassero e, soprattutto, sul fatto che nonostante fosse decisamente strano, certi pensieri continuava a rivolgerli sempre e solo a lei. Il flusso di quelle riflessioni fu interrotto dal suono fastidioso del telefono che gli provocò un impercettibile sussulto. Si spinse verso il comodino accanto al letto e, leggendo il nome di Tsuyoshi, si alzò di scatto per ricomporsi come se fosse stato beccato in flagrante a fare qualcosa che proprio non avrebbe dovuto.
«Ehi, che fine hai fatto oggi?» Il tono interrogativo di Tsuyoshi gli fece saltare qualche nervo perché ultimamente si sentiva fin troppo controllato dal suo migliore amico.
«In palestra» si limitò a dire, come sempre.
«Hai ricevuto il mio messaggio? Io e Aya stiamo organizzando il viaggio in treno, non dovrebbe essere troppo lontano. Cosa ne pensi?»
«D’accordo», Hayama aveva ripreso la sua crociata contro la comunicazione verbale.
«Ok. Senti un po', come stai? Deve essere stato strano per te rivedere Sana a scuola. Io sono molto felice invece perché la sua mancanza si è sentita tutta e…»
«Devi dirmi altro?» Lo interruppe Akito iniziando a sentirsi estremamente a disagio per la piega che stava prendendo quella conversazione.
«Insomma Akito, quando la smetterai di avere questo atteggiamento? Non pensi che questa potrebbe essere una seconda occasione? Lo so che Sana non è cambiata affatto e per certe cose è ancora una bambina ma non pensi che ci sia dell’altro sotto?»
Oh certo, la presenza di Naozumi Kamura nella sua vita, pensò lui di rimando. Ma preferì tenere quei pensieri per sé.
«Lo so bene che non ci arriva a certe cose ma non pensi che potresti aiutarla a cambiare? Non pensi che ne varrebbe la pena se solo ti decidessi ad essere più diretto con lei?» Evidentemente nemmeno a Tsuyoshi erano sfuggiti gli atteggiamenti immutati di Sana, così come non erano sfuggiti ad Aya.
«Diretto? E cosa dovrei fare sentiamo», disse con un tono più tranquillo. Si sorprese di quanto le parole di Tsuyoshi gli interessassero in quel momento, stranamente non pensò che il suo amico stesse delirando e si distese sul letto aspettando una sua risposta.
«Sono anni che ti dico di parlarle chiaramente. Poi c’è stata Fuka di mezzo che, ecco come dire, ti ha fatto prendere una strada decisamente inaspettata. Ma non pensare che io non ti conosca e che non abbia capito come stai adesso perché si vede lontano un miglio che i tuoi sentimenti per Sana sono ancora terribilmente forti. Allora vuoi aspettare altri quattro anni? Magari decidere di rapirla all’altare il giorno del suo matrimonio?»
A quelle ultime domande Akito trasalì restando letteralmente senza parole. Non che quella reazione gli fosse estranea, semplicemente in quell’occasione non aveva deciso lui di sua spontanea volontà di non replicare a quel discorso fin troppo sensato.
«Ecco, allora muoviti e aiutami ad organizzare questa gita!» E per la prima volta fu Tsuyoshi a chiudere quella conversazione in anticipo.
 
***
 
Il pomeriggio dopo la scuola era stato semplicemente risucchiato dallo scorrere del tempo perché Sana non si era nemmeno resa conto di che ore fossero quando Naozumi aveva bussato alla porta della sua stanza. Aveva trascorso qualche ora a rimuginare sugli eventi di quel primo giorno di scuola, sugli atteggiamenti altalenanti di Hayama nei suoi confronti e infine, prevedibile come il caldo d’estate, aveva riflettuto su quel bacio. Naturalmente presa da tutti quei pensieri, come avrebbe potuto mai trovare il tempo di ricordarsi dell’appuntamento che aveva con Naozumi proprio quella sera? Lui le aveva chiesto di accompagnarlo a vedere un nuovo teatro sponsorizzato dall’istituto Kamura e ci teneva tremendamente che lei fosse presente. Il problema per Sana era che la sua mente si trovava ancora in un altro universo, un mondo alternativo fatto di Akito Hayama e di baci dati all’ombra di un albero in una fredda giornata di febbraio per cui, memore di questo, si sforzò tremendamente affinché il suo ragazzo non capisse di avere la sola compagnia del suo corpo.
Quando arrivarono al teatro, Kamura era stranamente silenzioso e non gli importava nulla di tutto ciò che avrebbe dovuto fare, il suo unico pensiero era rivolto a Sana e al fatto che la sua espressione gli faceva capire quanto in realtà lei in quel momento fosse assente.
La prese per mano trascinandola verso di sé e conducendola verso le poltrone disposte nella prima fila. Si sedettero vicini continuando a restare in quel nervoso silenzio.
«Com’è andata a scuola?» Fu lui a prendere l’iniziativa distogliendola dai suoi pensieri.
«Mh bene, mi sono resa conto di essere parecchio indietro e non sarà facile recuperare. Ma ce la metterò tutta», disse lei con un tono un po' imbarazzato. 
«Credo sia normale. E i tuoi amici?»
«I miei amici?» Domandò lei di rimando, non essendo affatto sicura di quale fosse il reale scopo di Kamura.
«Sì insomma, che effetto ti ha fatto rivederli dopo così tanto tempo?»
«Oh… è stato strano, ma bello. Mi sono davvero mancati e ho capito di aver fatto la scelta giusta perché mi sono resa conto di avere realmente bisogno di loro»
«Di loro?»
«Sì certo»
«E Hayama? L’hai rivisto?» Quella era la domanda da un milione di dollari alla quale non sapeva proprio come rispondere. La verità per lui sarebbe stata decisamente scomoda ma Sana pensò che non aveva assolutamente alcun senso mentire, perché in fondo anche Naozumi sapeva perfettamente che non c’erano certo alternative al fatto di non rivederlo frequentando la stessa scuola. Figuriamoci poi la stessa classe.
«Sì, sono in classe con lui», ammise, sentendosi inspiegabilmente più libera. Lo sguardo di Kamura assunse una forma strana, riflesso della preoccupazione che sentì invaderlo all’improvviso, perché si rese conto che la situazione stava diventando più complessa di quanto pensasse.
«Capisco. Beh potrebbe essere un’occasione per recuperare la vostra amicizia.»
«Amicizia?»
Kamura non seppe darsi una spiegazione a quella affermazione ma sentiva il bisogno di dire ad alta voce qualcosa che desiderava accadesse con tutto sé stesso, lui non voleva altro che quei due restassero amici e che non ci fossero più didascalie strane nel loro rapporto. Probabilmente non aveva fatto una gran mossa, d’altronde non era mai stato un gran giocatore, ma sperò con tutto sé stesso di essere riuscito a convincere almeno uno dei due presenti.
«Che ne pensi del teatro?» Cambiò discorso.
Sana si guardò intorno come se si fosse appena resa conto di dove fosse.
«Oh, è carino. Credo che sia una bella cosa, quella che stai facendo per l’istituto. Sei sempre così buono.»
Ma a Kamura quelle parole dettero decisamente fastidio perché in quella situazione non voleva affatto apparire come il bravo ragazzo che ingoiava sale affinché gli altri potessero vivere felici le loro vite a suo discapito. Lui si sentiva più che mai un combattente e avrebbe combattuto fino alla fine.
«Il mio amico Tsuyoshi sta organizzando una gita ad Hakone per il prossimo fine settimana. Andremo alle terme e staremo un po' insieme, in fondo non ci vediamo da anni e vorrei proprio…»
«Ci sarà anche lui?» La interruppe, voltandosi verso di lei e guardandola con insistenza. Sana invece scappò dal suo sguardo rivolgendo gli occhi verso la moquette scura del teatro. «Credo di sì, lui e Tsuyoshi sono molto amici.»
«Allora non voglio che tu vada!» Lo disse d’impulso, mandando al diavolo i suoi buoni propositi verso la ripresa della vecchia amicizia tra Sana e Akito. Si sentì di colpo ferito e arrabbiato e pensare alla sua ragazza da sola, in montagna con lui, lo mandava su tutte le furie. Sana invece cadde dal pero, per l’ennesima volta.
«Cosa?» Riuscì solo a dire, completamente estranea a quella nuova versione di Naozumi Kamura che man mano prendeva forma davanti ai suoi occhi.
«Non voglio Sana, non voglio passare il prossimo weekend a chiedermi cosa tu stia facendo in compagnia di quello lì» e le parole la travolsero come delle rapide nel nord America.
«Ma cosa dici? E non pensi a quello che voglio io? Non pensi che magari io voglia trascorrere del tempo con i miei amici dopo anni trascorsi solo con te?» Questa volta era lei ad essere arrabbiata e non fece molta attenzione a ciò che le sue labbra gli riversarono addosso.
«Certo che ci penso, ma non credo che sia necessario che tu e Hayama passiate la notte insieme in una baita di montagna»
«Cosa c’entra Hayama?»
Kamura si diede un piccolo colpo sulla fronte con il palmo della mano rendendosi conto che gli anni passati non avevano donato nemmeno un briciolo di sagacia a quella ragazza che non capiva mai niente. Si domandò seriamente se non fosse il caso di farle un diagramma dettagliato per farle capire la situazione ma, considerando la sua avversione per i numeri, si rese conto che avrebbe solo peggiorato le cose.
«Ma come fai a non capire? Perché non capisci che io sarei tremendamente geloso se tu passassi la notte con la persona di cui eri innamorata fino a poco tempo fa» Quelle parole la fecero nuovamente cadere da un pero ormai completamente spoglio di tutti i suoi frutti. Soprattutto le fecero comprendere i sentimenti di Kamura verso di lei e improvvisamente si rese conto di averlo ferito, e che in fin dei conti poteva capire bene cosa lui provasse. Sorrise piegando la testa verso un lato e mandando il ragazzo in totale confusione.
«Ma non devi preoccuparti di questo, ci saranno le mie amiche e poi Hayama mi detesta. Sono sicura che non mi rivolgerà nemmeno la parola»
Kamura non badò minimamente a quelle parole che non avevano nemmeno un briciolo di senso ma fu invece immediatamente rincuorato dall’idea che gli balenò in testa: «E se venissi anche io? Insomma potrebbe essere carino no? Conoscere meglio i tuoi amici», le propose con un ritrovato sorriso. Sana non riuscì ad articolare una risposta immediata perché proprio non si aspettava una simile proposta. Naozumi era sempre impegnato con il lavoro e per lei, lui rappresentava qualcosa di totalmente lontano dal suo mondo scolastico. «Sì beh, credo vada bene», riuscì solo a dire un minuto prima che lui la abbracciasse.
 
Lunedì
 
Sana correva, disperatamente e affannosamente, verso il cancello ancora aperto della sua nuova scuola. Correva e si malediceva per il fatto che fosse di nuovo in ritardo perché non c’era cosa al mondo che amasse di più del dormire fino a tardi.
«Ferma, ferma fermaa» cominciò ad urlare al cancello che lentamente si stava per chiudere proprio davanti ai suoi occhi, agitandosi disperatamente e facendo cenno chissà a chi con un braccio di fermare l’avanzata di quell’ammasso di ferraglia e permetterle di entrare nel cortile della scuola.
Con un balzo lungo due volte le sue gambe fece un salto di cui si sorprese lei stessa riuscendo ad oltrepassare miracolosamente il cancello e atterrando come la protagonista di un videogioco d’azione proprio davanti ai suoi amici, i cui capelli furono scompigliati dalla folata di vento provocata da tutta quell’agitazione.
«Ce l’ho fatta!» Annunciò ai quattro venti, assumendo la posizione di un super eroe che aveva appena salvato il mondo dall’apocalisse.
«Sana, ti senti bene?» Tsuyoshi le rivolse un’occhiata stranita notando che la sua amica stava letteralmente grondando sudore, probabilmente a causa del fatto di non aver mai saltato così in alto in vita sua.
«Benissimo! Buongiorno amici» si rivolse a lui, Aya ed Hisae cercando di mascherare il fiato corto che la stava quasi uccidendo.
«Ciao Sana, vedo che sei in ritardo», notò Hisae scoppiando poi subito a ridere, seguita a ruota da Tsuyoshi e Aya.
«Per Kurata la puntualità è un optional.» Commentò una voce fuori campo. Sana si voltò rivolgendo ad Hayama uno sguardo di sfida, continuando a sudare copiosamente.
«E per te lo è la gentilezza», gli rifilò, constatando invece quanto lui fosse al contrario tranquillo e in perfetto ordine.
«Rilassati e asciugati, altrimenti ti si vedrà il reggiseno. Sempre che tu abbia iniziato a portarlo», aggiunse lanciandole un fazzoletto in pieno viso per poi allontanarsi, accelerando appena il passo verso l’ingresso della scuola.
«Sei un maniaco Hayama» gli urlò dietro lanciandogli il fazzoletto senza avere la minima possibilità di colpirlo. Decise poi di seguire il suo consiglio e si ricompose sotto lo sguardo attonito dei presenti.
Per fortuna era riuscita ad arrivare almeno in tempo per l’inizio delle lezioni, ma quando si sedette al suo posto si rese conto di stare vivendo l’ennesimo dramma della giornata. Si colpì la fronte con una mano sbuffando a voce decisamente troppo alta.
«Ma perché sono così sbadata, eppure ero convinta di averlo messo qui da qualche parte…» cominciò a dire a sé stessa frugando nervosamente nella sua borsa.
«Sana hai bisogno di aiuto?» una voce la distolse dalla sua ricerca e quando alzò gli occhi, si ritrovò davanti il ragazzo che l’aveva riconosciuta per primo durante la prima ora di lezione la settimana precedente.
«No no, ho solo dimenticato il libro di algebra. Sono così imbranata», si scusò con un sorriso imbarazzato. Aveva appena sbandierato ai quattro venti la sua totale mancanza di organizzazione.
«Puoi sederti accanto a me, così possiamo condividere il mio. Io sono Haruki, ma puoi chiamarmi Haru», le disse in totale confidenza, porgendole una mano.
«Io credo invece che tu possa tornartene al tuo posto», disse all’improvviso un Hayama spuntato dal nulla come un fungo. Più che le sue parole, fu il suo sguardo ad indurre il povero Haruki a rivedere i suoi piani rispetto al condividere qualcosa con Sana Kurata. Gli rivolse un sorriso nervoso «Certo Hayama, ma cosa mi è preso non lo so nemmeno io», si giustificò facendo parecchi passi indietro verso il suo posto in prima fila.
Sana invece assistette alla scena più confusa che mai, constatando quanto il suo sguardo indurito funzionasse ancora perfettamente e domandandosi infine perché i Kami avessero dimenticato Hayama durante la distribuzione di grazie e gentilezza all’intero genere umano.
«Si può sapere cosa ti è preso?» Si limitò a dire con uno sguardo ostile. La cosa che più la spaventava era il dover fare i conti con la lezione di matematica senza il libro, al secondo giorno di scuola, proprio un attimo dopo che qualcuno era stato tanto gentile da offrirle il suo aiuto.
Hayama nemmeno le rispose, tornando al suo posto tranquillo come sempre. Lei si voltò dandogli le spalle ma, dopo qualche minuto, fu colpita in piena testa da qualcosa di molto pesante.
«Prendi, e domani cerca di non dimenticare nulla», le disse semplicemente, porgendole il suo libro di algebra. Sana rimase interdetta e lo guardò chiedendosi seriamente come avrebbe fatto lui senza il prezioso testo, ma tutto quello che ricevette fu una sua alzata di spalle indifferente, un attimo prima che la voce del signor Fukuda si palesasse.
 
Martedì
 
«Ma tu guarda se si può essere così sfortunati nella vita», constatò Sana nel sollevare con due bacchette di legno un pezzo di sushi completamente privo di qualsiasi condimento oltre il consueto riso in bianco. Lo guardò come se fosse un alieno appena sbarcato sul pianeta Terra per poi riporlo nuovamente nella sua confezione aggiungendo alla scena un’espressione di delusione. «Avevo dimenticato che in questa mensa il buon cibo è qualcosa di totalmente estraneo. Ora mi tocca restare a scuola per il recupero a stomaco vuoto», aggiunse infine sbuffando e poggiando il mento sul palmo di una mano.
«Allora ragazzi, io e Aya abbiamo controllato praticamente tutto. Dobbiamo solo decidere a che ora partire sabato mattina.» Tsuyoshi non stava davvero più nella pelle e non vedeva proprio l’ora di partire per quella gita insieme ai suoi amici. Aya lo seguiva a ruota e aveva assunto ormai l’aria di chi non pensava ad altro se non alla notte da trascorrere abbracciata al suo ragazzo. Akito invece continuava a sorseggiare la sua acqua frizzante, indifferente rispetto a qualsiasi cosa e quell’atteggiamento fece cambiare completamente umore a Tsuyoshi. Avrebbe dovuto riconsiderare le sue capacità persuasive con lui perché evidentemente la telefonata di qualche giorno prima non gli era affatto bastata a convincerlo a darsi una mossa.
«Dovremmo decidere ragazzi, io direi di partire presto», continuò rivolgendosi soprattutto ad Hayama che, di rimando, non lo stava nemmeno guardando.
«Presto? Che intendi?» Sana commentò un po' spaventata all’idea della sveglia all’alba nell’unico giorno in cui non c’erano le lezioni a scuola. Hayama la guardò perplesso, domandandosi seriamente quando quella ragazza sarebbe cambiata, rispondendosi da solo con un secco e deciso mai.
«Ok ok, d’accordo, partiremo prestissimo e ci divertiremo un mondo. A proposito, avete nulla in contrario se mi raggiungerà Naozumi sabato sera?» Disse tutto d’un fiato. I suoi amici smisero tutti di pranzare e la guardarono con un miscuglio differente di espressioni in viso. L’unico a non palesare nulla fu Hayama e fu anche l’unico di cui Sana cercò di interpretare la reazione. Nulla, come si aspettava.
«Beh, credo di no», fu il solito diplomatico Tsuyoshi a dire qualcosa, nonostante lui fosse quello più deluso di tutti. «Era una gita tra amici, ma immagino che trattandosi del tuo ragazzo, possiamo considerarlo tale, vero?» mentì spudoratamente, perché la presenza di Naozumi avrebbe creato non pochi problemi all’autostima del suo migliore amico. Ma leggere lo sguardo preoccupato sul volto di Sana bastò per farlo riflettere su quanto, effettivamente, ci fosse bisogno di creare invece problemi a lei. Immediatamente si voltò verso Akito che si era alzato dal tavolo per andare chissà dove. Tsuyoshi proprio non sapeva più a chi dei due star dietro.
L’organizzazione della gita fu interrotta dalla fine della pausa pranzo, momento in cui Sana realizzò di dover tornare in classe per le successive quattro ore affinché potesse recuperare in vista dell’imminente esame.
«Addio amici, vi ho voluto bene», disse in maniera decisamente teatrale allontanandosi dal tavolo dove invece il resto dei presenti continuava a domandarsi perché la loro amica fosse circondata da un’aurea tanto oscura. In fondo erano solo quattro ore.
Ma Sana non era dello stesso avviso e trascorse il resto del pomeriggio con le mani tra i capelli, da sola nell’aula, cercando di ricordare tutti quei difficili avvenimenti di storia antica che proprio non ne volevano sapere di restare fermi nel suo cervello.
«Ma a chi interessano queste cose, sono passate e strapassate e studiarle non servirà proprio a nessuno», disse a voce alta, continuando a sfogliare il libro di testo come se fosse scritto in cuneiforme.
Di colpo sentì la porta dell’aula aprirsi dietro di lei e sobbalzò all’idea che il professore fosse già tornato pronto a tempestarla di domande. Con sorpresa però appurò che del professore non c’era alcuna traccia. «Quanto sei ignorante Kurata», commentò Akito, richiudendo la porta alle sue spalle.
Lei pensò rapidamente ad una risposta pungente da rifilargli ma lui fu più veloce, prendendo una sedia e sedendovisi al contrario, proprio di fronte a lei. Poi poggiò un pacco sul suo banco ostacolando la già difficile lettura del libro.
«Vedi, tu sbagli proprio il metodo. Se riuscissi a schematizzare gli eventi e capirne le cause potresti ricordare tutto con più semplicità» le disse, prendendo il suo libro e cominciando a sottolineare qualche frase qua e là. Lei invece prese il pacco sul banco e lo aprì, sgranando gli occhi non appena le fu chiaro il contenuto.
«Mi hai preso del sushi?» constatò rivolgendogli un’occhiata imbarazzata.
Lui di risposta alzò le spalle e prese le quattro bacchette porgendone due alla ragazza. «Avevo fame» disse agguantandone poi un pezzo «E tu devi alimentare quel cervello vuoto che ti ritrovi. Non ho nessuna voglia di stare a sentire le stesse spiegazioni per i prossimi sei mesi solo perché tu sei troppo stupida per ricordarti le cose», aggiunse continuando a gustare la pietanza.
Sana non disse nulla, perché il gesto di Akito, mascherato come al solito da atteggiamento ostile verso il mondo, la rese tremendamente felice e studiare in quel mondo, con lui che le spiegava le cose, le sembrò tutto a un tratto la cosa più semplice del mondo.
 
Mercoledì
 
Per fortuna l’ora di matematica non era stata pesante quanto Sana aveva previsto e, dopo aver raccolto il necessario per la successiva ora di ginnastica lei e Aya passeggiavano per i corridoi della scuola intente a raggiungere la palestra.
«Che gioia condividere l’ora di educazione fisica, almeno potremo scambiare quattro chiacchiere» disse Sana piena di felicità. Aya di rimando la guardò un po' perplessa: «In teoria dovremmo svolgere gli esercizi di ginnastica sai», commentò con una leggera risata, notando quanto la sua amica fosse estranea ai doveri scolastici.
«Ma certo, ed è quello che faremo amica mia» aggiunse poco prima che la sua attenzione venisse catturata da qualcosa – qualcuno – esattamente di fronte a loro. Aya seguì lo sguardo di Sana notando che di fronte a loro c’era Hayama con la borsa della palestra sulle spalle, che parlava con due ragazze fuori l’ingresso di una delle aule lungo il corridoio. In realtà c’era una ragazza che parlava con lui, perché la seconda si limitava a stare in silenzio con il capo chino accanto a quella che con tutta probabilità, era una sua amica. 
Sana restò immobile osservando con attenzione i movimenti dei tre, notando che l’unica a parlare era proprio la ragazza in piedi davanti ad Akito il quale ci mise davvero poco a capire di essere osservato. Dopo poco, infatti, si voltò verso le due che non si erano minimamente mosse dalla loro posizione nel bel mezzo del corridoio rivolgendo la sua attenzione soprattutto a Sana, che si sentì raggelare. Subito dopo tornò a voltarsi verso la ragazza che gli parlava – per dirgli cosa poi? – facendo un cenno con le spalle senza aggiungere altro. Di colpo le due sorrisero all’unisono giungendo le mani in segno di ringraziamento. La seconda ragazza, quella muta, gli rivolse appena un sorriso prima che lui si allontanasse per raggiungere la palestra della scuola.
Sana rimase in silenzio per qualche minuto, non accorgendosi dello sguardo di Aya fisso su di lei. «Sana? Tutto bene?». Quante volte si era sentita rivolgere quella domanda negli ultimi tempi?
«Che? Sì sì, certo. Andiamo in palestra!» Disse accelerando il passo lungo il corridoio. Lanciò uno sguardo alla ragazza che aveva visto parlare con Hayama rivolgendole un’occhiata corrucciata perché proprio non riusciva a spiegarsi chi fosse e soprattutto cosa volesse da Akito. Le venne in mente quella volta, di quattro anni prima, quando assistette ad una scena molto simile in cui due ragazze si erano avvicinate ad Hayama per chiedergli una foto da dare ad una delle due. Quella volta però lui non era stata molto gentile con quelle due ammiratrici anzi, gli si era rivolto in maniera decisamente sgarbata, suscitando l’ira e il dispiacere delle povere malcapitate. Cose che invece non era successa qualche minuto prima.
Si mise una mano sul mento cercando di farsi un’idea ipotetica della conversazione avvenuta tra i tre, pensando che non c’era altra spiegazione se non quella a cui era giunta: Hayama aveva accettato un appuntamento con quella ragazza.
Di colpo prese Aya per un braccio e la trascinò verso la palestra usando tutta la forza che possedeva.
Quell’ora passò veloce come una saetta e Sana non faceva altro che pensare alla scena di poco prima. Hayama non si era degnato nemmeno di guardarla in faccia durante gli esercizi di educazione fisica e lei, di rimando, aveva fatto lo stesso. Se non teneva conto delle mille volte in cui i suoi occhi avevano acquisiti capacità rotatorie simile a quelle di un camaleonte, per accertarsi che lui fosse lì, da solo, senza nessuna ragazza nei paraggi.
Ma poi, in fondo, a lei cosa importava della vita sentimentale del suo vecchio amico?
Sbuffò cominciando ad essere davvero stufa di quella situazione strana nella sua testa, decise di continuare a camminare nel cortile della scuola, godendosi quei pochi minuti liberi prima dell’inizio dell’ennesimo pomeriggio di recupero. Mentre camminava sul prato del cortile la sua attenzione fu catturata da una chioma bionda seduta sul prato con i gomiti poggiati sulle ginocchia.
Si avvicinò senza nemmeno pensarci su un istante, camminando con le braccia incrociate dietro la schiena fingendo noncuranza.
«A cosa pensi?» Disse semplicemente fermandosi in piedi accanto a lui. Hayama alzò la testa, ricevendo uno strano sorriso dalla ragazza.
«Cose mie». Il sorriso di Sana si trasformò in un’espressione mista di sconforto e noia, perché Hayama proprio non ce la faceva ad essere gentile con lei.
«Mh, capisco. Ti dispiace?» domandò indicando un posto indefinito accanto a lui sul prato. Akito alzò le spalle, osservandola mentre lei si sedeva stando attenta a non far sollevare troppo la gonna durante quel lento movimento. Proprio il lento movimento che impedì ad Akito di rivolgere l’attenzione altrove perché troppo impegnato ad essere rapito dalle sue gambe scoperte che si allungavano esili sull’erba. Si voltò dalla parte opposta e lei, per fortuna, non si accorse nemmeno dell’improvviso imbarazzo che assalì il suo compagno di seduta in viso.
«Tra un po' inizio il recupero. Devo confessarti di essere un po' preoccupata perché non riesco proprio a starvi dietro. Comincio a temere di non passare gli esami» confessò di getto, giocando nervosamente con le maniche dell’uniforme.
«Tu che sei preoccupata per la scuola?» gli chiese lui sorpreso, evidentemente non era affatto abituato a vederla in quelle vesti.
«Certo, che cosa credi? Non voglio essere bocciata.» Questa volta il suo sguardo si spostò nella sua direzione rivolgendogli un’espressione preoccupata che destò immediatamente l’interesse di Hayama.
«Stai tranquilla, vedrai che non accadrà»
«E tu come fai a saperlo?»
«Non lo so, ma lo spero» disse stendendosi poi sull’erba accanto a lei. Chiuse gli occhi e fece un profondo respiro. «Ti aiuterò io» aggiunse infine con un tono tranquillo.
In quel momento una terza figura si avvicinò alla scena e Sana, che non riuscì nemmeno a ripondergli, riconobbe subito la ragazza muta che aveva fatto compagnia alla più loquace amica sull’uscio della classe dove Hayama si era fermato prima dell’ora di ginnastica.
«Akito Hayama?» Quasi disse in tono di domanda destando ormai di tutti.
«Ah ciao Fumiko, andiamo?» le disse sollevandosi da quella posizione. Rivolse un’occhiata a Sana che di rimando lo guardò se fosse diventato un alieno e assunse un’espressione corrucciata.
«Comunque non mi serve il tuo aiuto» gli sputò addosso, prima di sollevarsi con un balzo e lasciare i due completamenti interdetti.
«Ho detto qualcosa che non andava?» si preoccupò Fumiko.
«No lasciala stare, è un po' svitata» concluse allontanandosi insieme a lei.
 
Giovedì
 
Sana era nervosa ma non riusciva a comprenderne il motivo. Sicuramente il test di logica che avrebbe dovuto affrontare quel pomeriggio contribuiva a farla sentire in quel modo ma, era certa, c’era qualcos’altro sotto. Camminava distrattamente per il corridoio della scuola e quando si accorse di essere di fronte all’aula di quella ragazza, quella Fumiko, che il giorno precedente si era portata via Hayama chissà dove, si sentì subito ancora più irrequieta.
Si sporse appena oltre la finestra che dava all’interno della classe e, come una ladra, cercò di non farsi beccare da nessuno cercando con lo sguardo quel viso che non avrebbe mai potuto dimenticare.
Fumiko era seduta quasi in fondo alla classe, aveva in testa un cerchietto rosso che le incorniciava i capelli corti e neri che a malapena le coprivano la nuca. Aveva un’aria strana, sembrava infelice a giudicare da quello sguardo che non riusciva proprio a sollevarsi dal banco. Purtroppo le abilità fisiche di Sana erano tutto tranne che notevoli e, complice un davanzale davvero troppo stretto su cui arrampicarsi, scivolò su sé stessa rovinando clamorosamente a terra.
«Ahi, ma chi diavolo l’ha costruita questa scuola così?» imprecò a voce alta massaggiandosi il fondoschiena decisamente provato da quella caduta.
«Sana ma che ci fai lì per terra?» la voce di Aya la fece voltare di scatto. C’era anche Hisae che rideva di gusto per quella scena esilarante.
«Ehm, sono caduta» si giustificò lei con un sorriso imbarazzato, mentre cercava di alzarsi senza badare alle fitte al fondoschiena. «Stavo andando in classe e sono inciampata» continuò massaggiandosi la nuca.
«Mh, beh noi stiamo andando in classe, vieni?» dissero le due quasi all’unisono.
«Sì sì, certo. Volevo vedere una cosa» aggiunse Sana, accelerando poi il passo verso quelle che erano le loro classi in fondo al corridoio.
«Sana, ma quella non è la classe di quella ragazza…»
Sana si voltò di scatto verso Aya notando che Hisae aveva assunto un’espressione incuriosita. «Che ragazza?»
«Ah non lo so, ci sono talmente tante ragazze», Sana aveva iniziato a sudare.
«Ieri abbiamo visto Hayama che parlava con due ragazze proprio fuori da quella classe» fu Aya a rivelarle l’arcano e Hisae si dimostrò ancora più curiosa avvicinandosi alle due amiche per non farsi sentire: «Hayama che parlava con due ragazze? Non ci posso credere»
«Oh sì sì, dovevi vederlo. Aveva un’aria così gentile e dolce» disse Sana facendo una smorfia.
«Non credi di esagerare? Aveva la sua solita faccia» la ammonì Aya portando la conversazione su un piano più realistico.
«Credimi Hisae, quella non era la sua solita faccia. La sua solita faccia è questa» disse Sana assumendo un’espressione incupita, accigliando lo sguardo e portando con entrambi gli indici della mano gli angoli della bocca verso il basso.
«Mh, devo dire che non riesco proprio a immaginarmelo. Lui non parla mai con nessuno, figuriamoci con due ragazze»
«Chi è che parla con due ragazze?» Tsuyoshi interruppe la loro segreta conversazione avvicinandosi ad Aya. Insieme a lui c’era anche Akito che non si degnò nemmeno di voltarsi verso di loro.
«Hai sentito Akito? Qui le ragazze stanno parlando di qualcosa di scottante» disse cingendo le spalle della sua fidanzata con un braccio. Lui replicò con la solita alzata di spalle palesando tutto il suo disinteresse verso qualsiasi fosse l’argomento oggetto del dibattito. Si spinse quindi verso Sana prendendola per un braccio.
«Ehi, ma che modi sono?»
«Muoviti, dobbiamo studiare e sei già in ritardo», disse trascinandola verso l’aula, noncurante dei tentativi di lei di divincolarsi da quella presa.
«Ma che dici, non sono affatto in ritardo» protestò lei di rimando.
«Lo sei per le mie ripetizioni» concluse portandosela via sotto lo sguardo attonito degli altri.
«Ragazzi, non vi sembra di vedere qualcosa di già visto?» commentò Hisae con un’espressione fin troppo perplessa in viso.
«Credo che non ci abitueremo mai a quei due» aggiunse infine Tsuyoshi, con un leggero sorriso in volto.
 
***
 
«Quante volte devo spiegartelo? Se aggiungi una X qui l’espressione non ti verrà mai. Possibile che tu sia così ottusa?» Akito stava per perdere la pazienza e, considerando che erano passati solo dieci minuti, era già un bel record.
«Mh, ma come faccio a capire se tu ti spieghi in questo modo? Sei davvero un pessimo insegnante»
«Lo capirebbe chiunque. Su muoviti, riprovaci»
Sana abbassò lo sguardo, obbedendo al volere del suo improvvisato insegnante ma, quando si accorse di aver finalmente raggiunto il risultato sperato, sul suo viso si disegnò un grosso sorriso.
«Ehi, hai ragione. Era davvero così semplice?»
«Te l’ho detto, se tu mi ascoltassi invece di perderti come una bambina dell’asilo supereresti l’esame senza problemi» la ammonì voltandosi dalla parte opposta a dove era lei.
«Certo, se tu fossi un pochino più gentile» Sana commentò a voce troppo bassa perché Akito si voltò verso di lei un po' confuso.
«Sono sicura che alle altre ti rivolgi con toni molto più comprensivi» continuò lei.
«Le altre non sono così ottuse.»
«Quindi ammetti di avere una ragazza?» Sana iniziò a far partire la raffica di parole incontrollate scollegando completamente il cervello. Si sentiva in preda ad uno strano sentimento di insofferenza al quale diede completamente agio di riversarsi su Hayama.
«Ma che stai blaterando?» la ammonì lui sentendosi immediatamente preso da un tremendo imbarazzo.
«Oh andiamo, a me puoi dirlo. D’altronde Fuka non c’è più.»
Il sentimento di Hayama di imbarazzo si trasformò in qualcosa di molto più forte perché di scatto si levò dalla sedia sbattendo una mano sul banco di Sana. Questi trasalì provando un improvviso senso di paura.
«Non accetto che sia tu a dirmi cose di questo genere. Tu stai con Kamura e quello che faccio non sono affari tuoi.» Le urlò quasi in faccia, dando un calcio al banco immediatamente accanto a quello di Sana, uscendo dall’aula.
Questa volta l’aveva sparata veramente grossa, pensò lei in totale confusione.

Sabato 
Hakone – ore 22:46
 
Come se quella fosse la strada che percorreva fin da quando era bambino per tornare a casa dopo un pomeriggio passato da un amico o a fare ripetizioni o, semplicemente, dopo essere uscito a fare quattro passi, percorse con le dita quel corpo quasi per intero.
Voleva lasciarsi qualcosa per la fine, no non voleva scoprirlo tutto così di getto perché sarebbe stato troppo, probabilmente. Sentiva un desiderio forte crescergli dal profondo dell’anima, da qualche parte giù in fondo allo stomaco, dove si trovavano tutti i sentimenti, le emozioni, il malessere. Si concentravano tutte lì le sensazioni e, in quel momento, si chiese se non fosse proprio lì che si trovasse il suo cuore, in un posto nascosto nei meandri del suo stomaco, perché era proprio lì che lo sentiva battere così forte.
Si scoprì a sentirsi così impaziente di toccarle le gambe, già scoperte da quel vestito così corto che inaspettatamente le aveva visto addosso e che gli era piaciuto così tanto, nonostante il leggero fastidio che aveva provato nel rendersi conto che così avrebbe dovuto condividerla con gli sguardi di altre persone, una in particolare. Ma in quel momento non aveva più alcuna importanza perché era lui ad averla tra le braccia, era lui a sentirne il profumo inondargli qualsiasi organo cosciente, era lui a sentire il profilo del suo corpo adattarsi maledettamente bene al suo. Era convinto che quello era il loro posto giusto, il loro posto perfetto e finalmente, poterne constatare la perfetta adesione di entrambi, gli aveva dato quella conferma che il suo cuore non aveva nemmeno bisogno di ricevere.
Le dita continuarono a percorrere il profilo di quelle gambe fin su verso la parte superiore della coscia infilando appena la punta delle dita sotto la gonna stretta del vestito, tracciandone il perimetro, per poi afferrarla per i fianchi e sollevarla di qualche centimetro da terra, sorprendendosi che fossi così leggera. Avrebbe potuto farlo con una sola mano, ma in quel modo avrebbe privato l’altra della gioia di stringerla e il suo corpo del desiderio di averla addosso. Perché in quel momento lui provava un miscuglio penetrante di emozioni che comprendevano sì la gioia di tenerla tra le braccia, ma anche il desiderio di sentire il corpo di lei incastrato al suo, come il tassello di un Tetris durante una partita vincente. La alzò da terra, sentendo le sue gambe allacciate saldamente ai suoi fianchi, le mani salde sul suo corpo e quelle di lei intrappolate tra i suoi capelli senza mostrare la minima voglia di essere liberate. La gioia che provava in quel momento era dovuta anche alla percezione che lui aveva del desiderio di lei, esclusivamente fisico probabilmente, ma comunque desiderio. Lei lo provava almeno tanto quanto lo provava lui, a giudicare dal suo respiro affannato e dalle sue mani salde su di lui.
La trascinò in avanti cercando di fare brevemente mente locale rispetto alla stanza in cui si trovavano e inciampò in qualcosa di solido. Una mano lasciò il corpo di lei per andare in avanscoperta e capire cosa li avesse intralciati, scoprendo con le dita una superficie piana e fredda, perfetta per l’occasione. La fece sedere proprio lì, spingendo il suo corpo contro il suo e facendo in modo che le sue gambe potessero dischiudersi ancora un po' portando istintivamente le mani nuovamente sulle cosce, consapevole del fatto che quel vestito troppo stretto non avrebbe retto a quella posizione, dandogli l’opportunità di poter disegnare il profilo dei suoi fianchi con senza nessun ostacolo tessile.
Spinse il suo viso verso il suo collo, schiudendo le labbra sulla sua pelle per far sì che la sua lingua potesse finalmente assaggiare quel profumo solamente percepito, fece un profondo respiro che scoprì essere pieno esclusivamente di lei, in ogni modo umanamente concepibile, lei in quel momento era ovunque dentro di lui. Nella sua testa, nelle sue narici, nelle sue labbra, nello stomaco… ogni minima parte del suo corpo stava scolpendo il suo nome a caratteri cubitali.
Le sue labbra abbandonarono il collo per esplorare nuovi orizzonti, fatti di angoli nascosti del suo viso che riuscì a scoprire solo in quel momento, con l’aiuto del più intimo dei cinque sensi: il tatto. E così le baciò l’angolo sotto l’orecchio, il lobo morbido, la guancia, il mento e quando lei spinse la testa all’indietro, fornendogli un tacito permesso, lui continuò giù nuovamente lungo il collo arrivando fino alla piccola vallata tra le clavicole. Cominciava a sentirsi incredibilmente impaziente di vederla completamente priva di qualsiasi barriera, sia fisica che mentale. Ormai aveva intrapreso una strada senza via d’uscita, inclusa la possibilità di tornare indietro facendo una pericolosa inversione a U, capovolgendo totalmente il senso di marcia. Era in ballo tutto, lui, lei, e pure l’altro. Ma in quel momento l’unica cosa che importava davvero era strapparle di dosso quel vestito diventato ormai inutile e scoprire finalmente che sapore avesse il suo corpo.
Ma di colpo furono invasi da una luce accecante che li colse in fragrante, l’uno incastrato nel corpo dell’altra, le mani di entrambi dedite alla sola crociata di rendere familiare anche gli angoli più remoti di loro stessi, il viso di lei che si perse totalmente negli occhi di lui, domandandogli tacitamente quale sarebbe stata la loro successiva mossa perché troppo inesperta per prendere qualsiasi iniziativa.
Lui le sfiorò una guancia con le dita per poi posare l’intero palmo su quella superficie setosa accarezzandola con la punta del pollice. Avvicinò lentamente il suo viso verso lo sguardo perso di lei, baciandole poi dolcemente le palpebre. Prima una, poi l’altra. Spostandosi poi lungo il viso prima di raggiungere le sue labbra, spingendo delicatamente la lingua oltre le proprie per accarezzarne la sua in un bacio che significava tutto.
Sussultarono entrambi, staccandosi l’uno dall’altra e voltandosi verso la medesima direzione, quando qualcuno bussò alla porta di quella stanza, gridando i loro nomi.


*Note d'autrice*
Ciao  a tutti popolo di EFP. Eccomi con il nuovo capitolo, scritto in cento anni più o meno. E' stata dura ma alla fine ce l'ho fatta.
Io lo so, tranquilli, che ora mi odierete. Ne sono pienamente consapevole ma, se avete imparato a conoscermi un pochino, avrete capito che far stare le persone sulle spine è la mia specialità ahahha. Scherzi, e crudeltà, a parte, il motivo per cui ho deciso di chiudere il capitolo in questo modo è dovuto a ragioni di tempistiche. Avrei voluto far partire i nostri giovani amiciui per la gita in questo capitolo e sarei voluta arrivara al punto descritto alla fine ma, per ragioni di stile, lunghezza ecc. non potevo scrivere un capitolo di 30 pagine per cui ho deciso di dare spazio al rapporto ritrovato (più o meno) di Sana e Akito e di chiudere con una specie di spoiler. Naturalmente è uno spoiler genuino, quindi ancora non sappiamo chi sono i due appiccicati e intenti a spupazzarsi alla fine del capitolo. Cosa ne pensate voi?
In tutto ciò per me è stato quasi divertente far dire a Sana quanto studiare la storia sia inutile perché dovete sapere che nella vita io sono un'archeologa ahaha e ovviamente non la penso esattamente come lei, e mi schiero più dalla parte di Hayama :D
Spero che nonostante tutto il capitolo vi piaccia e che continuerete ad essere così gentili da seguirmi e commentarmi. Vi ringrazio sempre di super super cuore.
Baci
Alex

 
 

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Capitolo 9
*** Capitolo 7 - La tempesta perfetta ***


Capitolo 7
 

La tempesta perfetta
 
 
Il tempismo di Tsuyoshi nel chiedere ad Akito di accompagnarlo a comprare un regalo per il compleanno di sua sorella era stato veramente impeccabile. Non aveva lasciato spazio di replica al suo amico il quale, malauguratamente, quel giorno non aveva davvero nulla da fare. Nemmeno un misero allenamento o una corsa intorno al perimetro della città. Niente di niente. Affranto da quel pomeriggio completamente libero, si era visto quasi costretto ad accompagnarlo, soprattutto dopo che Tsuyoshi gli aveva ricordato delle innumerevoli volte in cui era stato lui ad accompagnarlo a comprare – e a scegliere – un regalo per Fuka.
Il contesto gli riportò alla mente la sua relazione con quella ragazza che ormai era completamente fuori dalla sua vita. In effetti sentiva la sua mancanza ma sapeva perfettamente che quel sentimento non aveva nessun secondo nome, l’aveva capito a spese di più di una persona o forse lo aveva sempre saputo. Stava di fatto che trovava perfettamente normale che gli mancasse, così come invece trovava anomala la terribile mancanza che aveva sempre sentito di Sana.
«Che ne dici di questo? Mi sembra vada di moda tra le ragazzine», gli domandò Tsuyoshi sventolandogli in faccia una specie di robottino rosa. Akito guardò quell’affare con un’espressione stranita: «E questo cosa sarebbe?»
«A quanto pare serve a registrare ed inviare brevi messaggi. Non so in che modo funzioni ma pare ce l’abbiano tutti».
Akito alzò le spalle disinteressandosi completamente all’argomento una volta scoperta la natura dell’oggetto. «Potresti essere più originale» commentò voltando le spalle a Tsuyoshi e dirigendosi verso lo scaffale delle bambole. «Senti chi parla, se fosse stato per te a quest’ora Fuka conserverebbe un’intera collezione di riviste sul karate.»
«Beh non sarebbe stato affatto male», si limitò a dire a voce bassa, noncurante della possibilità che Tsuyoshi non lo avesse nemmeno sentito. Poi la sua attenzione fu catturata da un oggetto disposto sullo scaffale proprio all’altezza dei suoi occhi, una bambola con i capelli rossi raccolti in due buffe code e un microfono stretto nella mano di stoffa. Pensò di essere stato preso di mira da una sorta di delirio di persecuzione e si domandò se fosse umanamente possibile vedere una persona in qualsiasi cosa, animata e non, gli si palesasse davanti.
«Assomiglia a Sana vero?» Tusyoshi pareva quasi gongolare, mettendo in secondo piano il motivo principale della loro presenza in quel negozio.
«Può darsi.»
«Mi dispiace che alla gita venga anche Kamura. Non sono riuscito a dirle di no…»
Akito rimase immobile davanti a quella bambola infilandosi le mani in tasca per poi voltarsi dalla parte opposta allo sguardo del suo amico.
«Dovresti parlarle sai?»
«Ti hanno mai detto che sembri un disco rotto?» Hayama cominciava a sentirsi decisamente infastidito da quei discorsi sempre uguali. Erano anni che il registro non cambiava.
«Se te lo dico è perché sono tuo amico e ti voglio bene. Penso che tu stia facendo una sciocchezza a lasciar correre le cose in questo modo.»
Ma Akito ne aveva davvero abbastanza e così sventolò una mano in faccia al suo amico allontanandosi da quel maledetto scaffale.
«Ehi dove credi di andare?»
«A casa», lo informò brusco uscendo dal negozio senza nemmeno voltarsi. Tsuyoshi sbuffò rilassando le spalle e continuando a tenere stretto il robottino per sua sorella. Lo portò davanti al viso scrutandolo con attenzione «E tu robottino, non pensi anche tu che Akito sia uno sciocco orgoglioso?» domandò per poi sentirsi immediatamente uno stupido per essersi ridotto a chiedere l’opinione di un ammasso di plastica rosa.
Hayama si sentiva frustrato e anche decisamente arrabbiato. Non riusciva a capire perché non potesse starsene semplicemente per gli affari suoi e avere il tempo necessario per pensare. Gli sembrava che tutto dovesse finire da un giorno all’altro e che se non si fosse mosso in tempo il mondo gli sarebbe crollato sulle spalle. Era una questione di tempistiche, quasi sempre sbagliate, ma comunque di tempistiche. Semplicemente non si erano mai trovati nel famoso posto giusto al famoso momento giusto e gli sembrava così complicato fare in modo che questo succedesse. Pensava di essere riuscito a smettere di pensare a quelle questioni e che, Fuka o no, la sua vita avrebbe preso la sua direzione consapevole del fatto che lei non vi avrebbe mai fatto parte. Era una cosa che aveva iniziato ad accettare nonostante la vedesse un po' ovunque. E comunque aveva iniziato ad accettare pure quello, imparando a conviverci rassegnato ancora una volta al fatto che lei nella sua vita avrebbe ricoperto sempre il ruolo di una specie di fantasma onnipresente. Tutto questo prima di trovare quella lettera in soffitta – parlando di tempistiche, quello era stato il caso che aveva confermato la teoria -  e che lei ripiombasse nella sua vita a peso morto, occupando un posto così ingombrante quanto invece non lo fosse quel banco disposto a poco più di un metro di distanza dal suo. Eppure non era una semplice presenza in classe, non lo era mai stata. Sana era sempre stata molto di più, anche prima che lui se ne accorgesse. Il problema era dirglielo e anche a quel pensiero si rese conto nuovamente di quanto il destino fosse crudele. Lui non era avvezzo alle parole, per una serie infinita di motivi, e lei non era avvezza a comprendere le sfumature del linguaggio non verbale. Non era solo il tempo ad andare contro di loro, ma anche la loro stessa natura perché per quanto potesse essere palese la profondità del loro legame, era altrettanto evidente il fatto che fossero totalmente incapaci di gestirlo se non battibeccando continuamente. Paradossalmente la paura di un rifiuto era davvero in fondo alla lista di quei motivi. Lui si vergognava, si sentiva tremendamente in imbarazzo e in più era orgoglioso, un sentimento davvero complicato da gestire e che spesso e volentieri prendeva le redini della sua vita, facendogli fare la prima cosa che gli passava per la testa. L’orgoglio era sempre stato uno scudo per lui, per non piangere quando Natsumi lo insultava perché troppo piccolo per poter preparare la cena al suo posto e lasciarla giocare con le amiche oppure quando suo padre non gli faceva nemmeno gli auguri al compleanno. L’orgoglio era sempre stata la sua risposta a quegli avvenimenti troppo duri da affrontare a soli cinque anni, pensava che c’erano solo due modi di reagire: piangere o mandarli al diavolo. E aveva sempre scelto il secondo, semplicemente perché lui era fatto così e non perché qualcuno aveva permesso che lo diventasse. Poi si era indurito con il tempo, facendo di quel suo aspetto caratteriale non solo una difesa ma anche un’arma d’attacco. Se lanci prima tu la pietra forse l’avversario scappa e non cercherà di colpirti.
Naturalmente fino all’arrivo di Sana nella sua vita. L’unica a tenergli testa, l’unica a non essersi arresa andando al di là delle semplici apparenze, la prima ad averlo fatto sentire a casa e l’ultima con la quale lui desiderava sentirvisi.
Quel turbinio di pensieri e riflessioni aveva completamente catturato la sua attenzione impedendogli di rendersi conto dove le sue gambe lo stessero portando quasi per inerzia. Aveva lasciato Tsuyoshi alle prese con il regalo per la sua sorellina e un po' si sentì in colpa per averlo abbandonato così senza nessun motivo logico. D’altronde era pur vero che Tsuyoshi conosceva molto bene i suoi punti deboli e puntualmente glieli spiattellava davanti. Cominciò a pensare che il suo amico, apparentemente pacifico, avesse un lato sadico che mostrava solo a lui.
«Hayama?»
Lui alzò la testa dall’asfalto che sembrava essere diventato così interessante, tanto da aver catturato il suo sguardo per tutta la durata di quella marcia senza meta. Finalmente si rese conto di dove fosse, un quartiere residenziale fatto di case, alberi, cortili circondati da muretti e cancelli in ferro battuto, persone random e Sana Kurata.
«Sana?»
La sua sorpresa fu talmente inaspettata che le labbra pronunciarono d’istinto il suo nome senza nemmeno pensare alla sua consueta abitudine di rivolgersi a lei usandone quasi esclusivamente il cognome.
«Che ci fai qui?» chiese lei sorpresa, stringendosi nel cappotto.
«Cosa? Ma che domanda è? Sto camminando…» rispose lui un po' infastidito. Insomma quella città non era mica sua, perché diavolo era così sorpresa di trovarlo lì.
«Ma ti sei reso conto di dove sei?»
Akito si guardò rapidamente intorno riconoscendo subito due o tre punti familiari che gli permisero di capire all’istante dove le sue gambe lo avessero portato. Per inerzia.
«Ah… ci sono finito per caso», si giustificò lui leggermente imbarazzato. Insomma, che diavolo ci faceva davanti il cancello della villa di Sana? Decise che mai più si sarebbe messo a riflettere per strana perdendo il controllo delle sue stupide gambe.
«Mh. Vuoi fare una passeggiata?»
Lui alzò le spalle e lei capì che quello, nella lingua di Akito Hayama, voleva dire sì.
«Che cosa stavi facendo?» chiese lei mentre camminavano distrattamente per le strade affollate di Tokyo.
«Ero con Tsuyoshi, doveva comprare un regalo per il compleanno di sua sorella.»
«Oh davvero? Quindi è il suo compleanno, le telefonerò e le farò gli auguri», disse lei saltellando e sorridendo felice al pensiero di distribuire un po' di gioia alle persone intorno a sé. Lui la guardò perplesso domandandosi davvero da dove prendesse sempre tutta quell’allegria.
«E che cosa le ha regalato?»
«Un robottino rosa… credo.»
«In che senso credi?»
Hayama si voltò leggermente dalla parte opposta abbassando il tono della voce nel fornirle la risposta: «Non posso esserne certo perché me ne sono andato!»
«Ma perché?»
«Perché mi ero annoiato», disse lui, sentendo nuovamente quel senso di colpa riaffiorargli in petto.
«Ma quand’è che cambierai atteggiamento?» Sbuffò poi lei, incrociando le braccia al petto ma continuando a camminare accanto a lui.
«Non è colpa mia se certe cose mi annoiano.»
«Beh potresti fingere ogni tanto, almeno per il tuo migliore amico»
«Non è nelle mie corde», disse secco, difendendo come sempre il suo dissenso verso le bugie sotto qualsiasi forma.
«Mh.»
«Cosa?»
«Niente. Pensavo che in fondo sei sempre stato sincero, nonostante tutto. Ti ricordi quando hai cercato di strangolarmi?» Domandò lei ridendo, come se quell’avvenimento non avesse mai avuto nessuna connotazione negativa. Lui la guardò sorprendendosi della felicità con cui trattava quel ricordo.
«Lo trovi divertente?»
«Non sto ridendo, sorrido perché pensare a quel ricordo mi riporta indietro nel tempo e mi fa ricordare tante cose», disse continuando a sorridere felice. Akito rimase alquanto perplesso perché per lui quello non era affatto un ricordo felice. Ripercorse brevemente la sua carriera di bullo incallito, dalle minacce ai ricatti fatti ai loro professori, fino a ricordare perfettamente il momento appena descritto da Sana. Lui che le stringeva le dita al collo, cercando di fermare i suoi tentativi di farsi largo nella sua esistenza.
«E ti rende felice?»
«Beh se ci pensi, è lì che è iniziato tutto. Certo avresti potuto evitare di fare certe cose ma, allo stesso tempo, se non l’avessi fatto noi non saremmo qui», constatò tranquilla. Hayama non si era preparato alla possibilità che loro due affrontassero dei ricordi insieme, in effetti si aspettava che quella passeggiata terminasse con il solito litigio fatto di parole pungenti lanciate come giavellotti l’uno verso l’altro, cosa che effettivamente poteva ancora accadere, ma non di certo si aspettava quello. Considerando anche il fatto che la loro ultima conversazione si era conclusa con lei che gli chiedeva della “sua ragazza” e lui che la abbandonava alle sue equazioni, furioso per l’argomento trattato. Si sorprese che quel pomeriggio invece, Sana sembrava così tranquilla.
«Già.» Breve e poco intenso, ma pur sempre qualcosa.
«Mh, Hayama…»
«Cosa?»
«Grazie per l’aiuto che mi dai a scuola. Senza di te non avrei capito un bel niente.»
«Questo lo so bene.»
«Ehm, ecco in questo caso sarebbe stato meglio fingere, per esempio.» Sana accompagnò quella battuta con una smorfia imbronciata sul viso, proprio non riusciva a capire perché Hayama non riuscisse ad essere più carino e dolce con lei. Poi si sorprese immediatamente per quel pensiero, arrossendo di conseguenza.
«Che ti prende?»
«Niente. Adesso devo andare, ho un servizio fotografico e sono già in ritardo.»
«Certo, capisco.»
Hayama si sentì improvvisamente triste, non riuscendo a capirne realmente il motivo. Insomma Sana non stava partendo per il fronte, si sarebbero rivisti il mattino seguente alla stazione per andare insieme ad Hakone, eppure si sentì vuoto. Probabilmente perché quella conversazione gli era piaciuta, vederla sorridere in sua compagnia gli era piaciuto ed il fatto che quel breve momento fra loro fosse già finito lo rese subito triste.
«Hayama, ci vediamo domani?» disse lei battendo le mani davanti al suo viso in trance.
Lui sussultò.
«Vedi di non fare tardi Kurata, che non ho voglia di perdere il treno per colpa tua», la sua risposta sarcastica aveva il disperato tentativo di mascherare il suo essere assolutamente distratto di quel giorno.
«Certo che no, ho già tutto pronto.» Rispose lei con un sorriso, agitando una mano per salutarlo. Eh sì, quel pomeriggio gli era decisamente piaciuto.
 
***

«Bene, credo di aver preso tutto.»
Sana si trovava in piedi davanti al suo letto dove si riversavano vestiti e cianfrusaglie alla rinfusa che, in teoria, avrebbe dovuto portare l’indomani alla gita ad Hakone. In realtà il fatto di aver detto ad Hayama di essere pronta non corrispondeva proprio alla verità, lei era pronta ma non si poteva dire la stessa cosa della sua valigia, a giudicare dalla confusione della sua stanza.
Mise un indice sotto il mento guardando l’ammasso caotico di vestiti dinanzi a lei «Forse dovrei portare qualcos’altro. Oh, non sono affatto soddisfatta» si lamentò brontolando a voce alta.
Il suono del suo cellulare la distolse dal conteggio di abiti e costumi che stava cercando di fare.
«Sana, sei pronta? Io non vedo l’ora di partire» la voce di Hisae rispecchiava totalmente quello che doveva essere il suo stato d’animo.
«Certo, ho messo già tutto in valigia. Ho portato tre costumi, due maglioni pesanti, quattro paia di jeans e una quantità sufficiente di cioccolato per sfamarci durante la nostra nottata insieme», disse allegra lanciandosi sul letto nel bel mezzo di quell’assurda confusione.
«Ehm, non hai portato nulla di carino?»
«Carino? In che senso?»
«Qualcosa di carino, di molto corto e stretto. Ce l’hai vero?» chiese Hiase un po' titubante.
«Mm, credo di sì. Ma non capisco a cosa dovrebbe servirmi», Sana sentì la sua amica sbuffare al telefono. «Andiamo Sana, domani sera ci sarà una festa organizzata dall’hotel in cui alloggeremo. Non vorrai dirmi che ci verrai con un maglione e un paio di jeans?»
«Una festa? Non ne sapevo niente». La risposta di Sana fu laconica come se la sua amica le avesse detto qualcosa di assolutamente alieno ed estraneo. Immaginò lo scenario, l’hotel addobbato a festa, la musica e tutto ciò che ci si aspetta da una festa e le venne un moto di agitazione.
«Se tu fossi più presente lo sapresti, dove hai la testa? Te l’abbiamo detto ieri durante la pausa pranzo»
«Beh, scusami. Ieri è stata una giornata difficile» si giustificò lei, ripensando rapidamente agli eventi del giorno prima. In effetti la breve passeggiata con Hayama non aveva minimamente contribuito a riportarle alla mente la loro precedente conversazione, nonostante lui ne fosse addirittura protagonista. Si sorprese del fatto di aver ripreso quel flusso di pensieri, riportando alla mente il viso spaesato della nuova amica di Akito. Amica poi, da quand’è che Hayama aveva delle amiche?
«Poco importa, metti qualcosa di carino in valigia e tieniti pronta. Ci divertiremo un mondo» e attaccò la telefonata, lasciando Sana un po' preoccupata.
Tutto sommato era contenta di quella festa, lei adorava le feste e il pensiero di trascorrere una serata divertente con i suoi amici dopo anni passati lontani la riempiva di gioia. Ma, perché c’era un ma ed era anche bello grosso, si ricordò improvvisamente che proprio la sera della festa l’avrebbe raggiunta Naozumi e, non seppe spiegarsi il perché, ma fu invasa da un improvviso senso di disagio al pensiero di dover affrontare la presenza del suo ragazzo in uno spazio in cui era contemplata anche la presenza di Akito Hayama.
 
***

Tsuyoshi e Aya erano arrivati in perfetto orario ed entrambi si chiedevano se il resto della compagnia avrebbe fatto altrettanto visto che il loro treno sarebbe partito di lì a pochi minuti. In una manciata di secondi furono raggiunti da Hisae, Mami e Gomi, infine da Akito.
«Ragazzi, manca solo Sana e il treno sta per partire», constatò Hisae un po' in ansia. Il ritardo che accompagnava costantemente Sana era qualcosa alla quale erano più che abituati ma, vista l’occasione, si aspettavano di non doverla aspettare a lungo e, soprattutto, di non essere costretti a prendere il treno successivo.
Hayama guardò l’enorme orologio al centro della stazione che batteva il tempo con delle lunghe lancette di ferro. Pensò che a quel punto, vista la probabilità quasi certa di dover ritardare il loro viaggio, avrebbe potuto continuare a dormire ancora un po'.
«Eccomi, ci sono», urlò Sana a qualche metro di distanza, correndo nella loro direzione. Akito la osservò sollevando un sopracciglio mentre la ragazza si affannava a raggiungerli nel minor tempo possibile.
«Scusatemi, ma la sveglia…» Si giustificò con un sorriso imbarazzato.
«Non preoccuparti, siamo ancora in tempo per prendere il nostro treno», la informò gentile Aya, anche se ancora in preda ai residui dell’ansia che quel ritardo le aveva provocato.
Hayama fece qualche passo verso Sana e nel passarle poi avanti le tirò appena una ciocca di capelli facendola sussultare. Il fatto poi che si fosse dileguato in meno di un secondo impedì a lei di poter ribattere in qualsiasi modo.
«Hayama, ma che modi sono», protestò, accorciando la distanza tra loro con tre grosse falcate.
«Così impari a non ascoltarmi mai», disse luì avanzando velocemente il passo verso il treno in procinto di partire, sotto lo sguardo perplesso dei loro amici. Tsuyoshi in realtà era abbastanza soddisfatto, nonostante i modi di Hayama fossero discutibili, pensò che quei due stavano tornando pian piano ad essere quelli di un tempo. E se qualche Kami dall’alto ci avesse messo un po' di buona volontà, potevano anche raggiungere il livello di complicità che lui tanto sperava per i suoi amici.
«Tsuyoshi? Tesoro? Guarda che sono saliti tutti.» A svegliarlo fu Aya che lo aveva afferrato per un orecchio trascinandolo verso il loro vagone.
Il viaggio fu abbastanza lungo da permettere a tutti di schiacciare un pisolino. Tutti tranne Hayama, il cui mal di qualsiasi mezzo di trasporto ormai era cosa nota. Gomi accanto a lui dormiva beato come un bambino così come Tsuyoshi ed Aya, seduti di fronte a loro e appoggiati l’uno all’altra. Akito si domandò come facessero a stare così appicciati anche mentre dormivano. Tutto questo tra un conato di vomito e l’altro. Riuscì a voltarsi verso Hisae e Sana sedute vicine nella fila di posti accanto alla sua, la prima appoggiata al finestrino e la seconda con il capo rivolto all’indietro e la bocca leggermente aperta.
Ad Akito venne immediatamente da sorridere, internamente, nello scrutare quella buffa figura che tanto era venerata da milioni di fan in tutto il paese. Si rese conto che anche lui poteva tranquillamente considerarsi parte di quel gruppo, anche se la natura del suo attaccamento a quella ragazza aveva delle radici molto più concrete.
In quell’istante Sana aprì un occhio e chiuse la bocca, accorgendosi di quelli ambrati di lui fissi nella sua direzione. «Mi stai spiando?» Domandò lei, assonnata e confusa.
«Ma che dici?» Hayama cercò di riprendere la sua posizione originale con la faccia puntata dritto davanti a sé, fissando un punto preciso, come fanno i ballerini per completare un giro su loro stessi.
«Sì invece! Che vuoi?»
«Hai la bava che ti penzola dalla bocca.»
«Cos?» Sana saltò quasi sulla poltrona del treno, asciugandosi immediatamente con il dorso della mano quella che era davvero bava e che si trovava davvero all’angolo delle sue labbra.
Le attenzioni di tutti furono catturate dalla voce meccanica che annunciava la prossima fermata e tutti all’unisono si prepararono per scendere ad Hakone.
«Ragazzi che ne dite di andare direttamente a vedere gli Onsen?» Tsuyoshi, che era diventato immediatamente il team leader del gruppo, propose di raggiungere subito le sorgenti termali trovando il consenso di tutti. D’altronde era quella la meta principale da visitare in quei giorni e furono immediatamente tutti d’accordo.
Il posto era davvero incantevole, c’erano alberi alti in ogni dove e la neve, non ancora completamente sciolta, ricopriva ogni cima come un candido cappello. I fumi termali poi donavano allo scenario una nota di mistero che contribuiva a rendere quel luogo una meta così ambita per gruppi provenienti da tutto il paese. Era davvero stracolmo di gente e trovare uno stabilimento termale libero fu una vera e propria impresa.
«Questo qui ha dei posti liberi ma le vasche delle ragazze sono separate da quelle dei ragazzi» li informò Tsuyoshi dopo aver preso i pass d’ingresso per tutti. Le ragazze non fecero una piega alla notizia così come Akito, Gomi invece sperava di condividere quel bagno con qualcuno del sesso opposto e la sua delusione si lesse chiaramente in viso.
«Così però non sarà divertente»
«Perché? Speravi di spiarci in costume?» lo provocò Hisae scoppiando poi a ridere.
«Voi non rientrate certo tra ciò che io definisco divertente»
Hisae si fece rossa in viso e la sua rabbia fu trattenuta dalla stretta di Sana che la allontanò dal gruppo di maschi per evitare quella che poteva trasformarsi in una rissa, conoscendo la sua amica.
«Andiamo Hisae, qui non c’è niente da vedere nemmeno per noi» commentò indifferente allontanandosi insieme ad Aya e Mami. Akito assistette alla scena con un’espressione indifferente, nonostante in cuor suo non avesse particolarmente gioito all’idea di separare il gruppo.
Le acque termali erano calde e accoglienti, un vero contrasto con l’aria fredda che le circondava e qualcuno avrebbe detto anche che proprio quel contrasto faceva incredibilmente bene alla salute. A quel pensiero Sana si domandò in che modo avere la testa congelata e il corpo bollente potesse fare davvero bene ma, tutto sommato, non le dispiaceva affatto.
«Ahh, amiche mie, questo era proprio quello che mi ci voleva. Sono così felice di essere riuscita a liberarmi dai miei impegni ed essere qui con voi» annunciò spalmandosi contro il bordo della piscina riscaldata.
«Sono d’accordo, è un posto incredibile» aggiunse Aya godendosi quel momento rilassante.
«Io invece non vedo l’ora che inizi la festa di stasera. Ma ci pensate? Avremo tutta la notte a disposizione per ballare e scatenarci» l’euforia di Hisae si poteva toccare con un dito tanto era tangibile. Aya, Sana e Mami la guardarono con un sorriso.
«Non stai più nella pelle vero?»
«Già, e tu Sana? Non sei contenta che questa sera arrivi anche Kamura? Io al tuo posto sarei al settimo celo», Hisae sembrava aver davvero deciso di sprigionare tutta la sua euforia ma, nonostante l’apparente bagno rilassante, Sana iniziò a sentirsi molto nervosa.
«Sì sì, non vedo l’ora» riuscì solo a dire, immergendo metà del viso nell’acqua bollente.
«E Hayama?» la voce di Mami fece capolino nel discorso trascinando con sé un cumulo di sguardi esterrefatti. Quello di Hisae batteva decisamente tutti gli altri.
«Scusa che c’entra Hayama?» diede voce ai suoi pensieri.
«Oh andiamo, non ditemi che non vi siete accorte di come guarda Sana?»
«Perché come mi guarda?»
«Ma se è dalle elementari che è cotto di te. Mi sorprende che tu non te ne sia accorta» Mami si dimostrò essere la più scaltra di tutte, forse preceduta solo da Aya che era avvantaggiata nel conoscere parecchi retroscena grazie a Tsuyoshi.
«Ma che sciocchezze, fino a due minuti fa stava insieme a Fuka. Poi non avevate parlato di una ragazza l’altro giorno a scuola?» domandò Hisae rincarando la dose di imbarazzo nelle vene di Sana.
«Sarà, ma io sono assolutamente certa di quello che dico. Per me Hayama è sempre stato innamorato di Sana. Lo vedrebbe anche un ceco»
Alle parole di Mami, Sana decise che era arrivato il momento di dileguarsi e abbandonare il palcoscenico dal momento che essere la protagonista di quella conversazione iniziava a starle decisamente stretto.
«Sana, ma dove vai?» la rimbeccò Aya.
«Mi è venuta una fame da lupi. Vi aspetto al bar» e così dicendo sparì come un fantasma senza catene.
Il contatto con l’aria gelida sembrò dare un lieve sollievo al calore che sentiva in corrispondenza delle guance. La conversazione intavolata dalle sue amiche l’aveva fatta sentire tremendamente a disagio ed era sicura che le sarebbe servito molto più di qualcosa da bere al bar per calmarsi. Si avvolse nell’asciugamano e raggiunse il corridoio all’interno della struttura che l’avrebbe poi condotta agli spogliatoi femminili. Non si era nemmeno accorta di non essere la sola ad aver deciso di abbandonare così presto le sorgenti termali.
Sussultò quando vide la chioma bionda di Akito emergere dal grosso asciugamano bianco fornitogli dal complesso termale. Lui si voltò ed ebbe la stessa reazione quando vide Sana in piedi alle sue spalle, con i lunghi capelli bagnati che le ricadevano sulle spalle.
«Ciao.»
Lui non le rispose e la scrutò interamente come se non riuscisse nemmeno a riconoscerla. Il fatto di essere stati in vasche separate gli aveva impedito di vedere il suo corpo nascosto solo dal costume e, nonostante non avesse detto nemmeno una parola, la delusione che aveva provato nell’apprendere della divisione dei settori era stata abbastanza difficile da mandare giù.
«Che hai?» Gli domandò lei sentendosi improvvisamente inquieta.
Lui alzò le spalle, «Niente, pensavo.»
«E a cosa?»
«Al tuo costume»
«Ma come ti viene in mente?»
«Non lo so, però se tu fossi abbastanza donna ora me lo mostreresti.»
Le labbra di Sana si spalancarono come il portale d’ingresso di un castello medievale. Si sentì più accaldata di quanto non fosse nella piscina termale, in preda ai discorsi di Hisae, Aya e Mami. Assunse poi un’espressione accigliata e in un minuto si sfilò l’asciugamano bagnata di dosso, l’appallottolò alla bell’è meglio e gliela lanciò in faccia facendolo barcollare per un istante.
«Sei un maniaco» aggiunse passandogli davanti e avviandosi al suo spogliatoio.
Lui si voltò e la guardò riuscendo finalmente nel suo intento. «Sarà, almeno però ora sei in costume» commentò privo di qualsiasi espressione in viso.
Lei però si rese conto di essere effettivamente mezza nuda davanti a lui e in uno scatto allungò un braccio verso di lui, afferrando con tutta la forza di cui disponeva l’oggetto che gli aveva lanciato in faccia solo pochi istanti prima. Si nascose nuovamente in quell’asciugamano e sparì dalla sua vista, borbottando frasi sconnesse. Hayama, invece, trattenne lo sguardo sull’ingresso degli spogliatoi femminili ancora per pochi minuti, per poi dirigersi nella direzione opposta a quella di Sana.
Il gruppo di amici aveva trascorso il resto del pomeriggio in giro per Hakone, sfruttando ogni angolo di quella piccola e graziosa cittadina. Si erano persi per le strade della città ammirando le architetture tipiche che richiamavano uno stile templare, antico di secoli e secoli. Poi Aya aveva insistito nel far visita al famoso tempio e tutti insieme si erano arrampicati fin sulla cima dell’enorme rampa di scale che dava accesso alla struttura sacra. Aya sosteneva che da lì la vista del monte Fuji era la migliore.
Decisero di fermarsi lì ad ammirare il panorama prima di raggiungere l’hotel che li avrebbe ospitati quella notte. Sana non seppe spiegarsi il motivo ma, l’idea di quella notte la faceva sentire terribilmente nervosa e a disagio. Senza contare il fatto che Akito aveva passato l’intera giornata a infastidirla: prima aveva preso in giro la sua scarsa conoscenza delle tradizioni giapponesi quando lei si era chiesta perché mai il santuario Jinja fosse tappezzato di rappresentazioni di draghi, ma lei si era vendicata proponendo – e raccogliendo i consensi di tutti – di fare un giro sulla funivia, talmente alta che erano riusciti ad intravedere il Tokyo Sky Tree in lontananza. Oltre alla faccia blu di Hayama.
L’hotel invece era davvero degno di nota e la vista sul lago Ashi era mozzafiato, proprio come aveva garantito Tsuyoshi.
«Ragazzi, queste sono le nostre camere. Io e Aya, Akito e Gomi, Hisae e Mami e poi, Sana e…Naozumi verrà vero?»
«Sì ehm, a dire il vero credo che sarà qui in tempo per la festa» lo informò lei, un po' imbarazzata. L’idea di spiattellare davanti a tutti il fatto che lei e Kamura avrebbero dormito insieme non le piaceva affatto ma, d’altronde, che senso aveva oscurare quella che sarebbe diventata a conti fatti un’evidenza?
Hayama invece raccolse la chiave della sua stanza dalle mani di Tusyoshi e diede le spalle a tutti, senza dire una parola, dirigendosi verso la porta numero sedici. Si chiese improvvisamente perché aveva accettato di andare con loro in quello stupido posto, dormire con Gomi in quello stupido hotel e vedere, il mattino seguente, la faccia soddisfatta di Kamura come prima cosa della giornata.
«Sana, vieni in camera con noi ora. Dobbiamo prepararci per la festa» nonostante Sana fosse in trance, Hisae riuscì a riportarla alla realtà proponendole un comizio tra donne in preparazione alla famosa festa di quella sera.
 
***
 
«Sì, assolutamente questo. Voi che ne dite ragazze?» Domandò Hisae alle altre una volta che Sana aveva indossato il terzo degli abiti proposti. Si domandò perché improvvisamente l’attenzione era rivolta tutta su di lei come se fosse la star della serata.
«Non pensate sia troppo corto? Poi scusate, voi cosa indosserete? Non capisco perché il mio abbigliamento deve diventare un affare di Stato» commentò cercando di allungare un po' la stretta gonna che le fasciava a malapena le cosce.
«Perché hai portato degli abiti inadatti e dovresti ringraziarmi per aver messo questo in valigia. Ti avevo detto qualcosa di stretto e corto»
«Ma questi sono stretti e corti» protestò Sana esponendo la sua merce alla folla.
«Andiamo, quelli che hai portato andrebbero bene per una processione religiosa, non certo per questa serata. Fidati, Naozumi non avrà occhi che per te» disse la sua amica in preda ad un’assurda euforia.
«Sono sicura che non sarà l’unico ad essere rapito da te stasera» Mami aveva ripreso lo stesso discorso della piscina e Sana si sentì nuovamente a disagio.
«Va bene, d’accordo. Direi che siamo pronte. E tu Hisae, pensi che Gomi noterà questo scollo vertiginoso?» l’intervento tempestivo di Aya spostò l’attenzione altrove e Sana pensò di doverla ringraziare perché di nuovo era stata in grado di salvarla da un tremendo imbarazzo.
«Ma non dire sciocchezze, non mi interessa cosa noterà Gomi questa sera» rispose imbronciata, suscitando le risate di tutte le presenti perché se Mami aveva capito di Sana e Akito, un po' tutti avevano invece capito qual era l’oggetto del desiderio della loro amica Hisae.
 
***
 
Nonostante le ore anzi, i mesi passati ad indossare scarpe con i tacchi alti richieste a causa del suo lavoro, Sana non si era mai abituata a portarli bene e, nel tragitto tra le loro camere e l’enorme sala dove si sarebbe tenuta la festa, rischiò di cadere ben cinque volte, maledicendo la sua scelta e rimpiangendo di non aver indossato qualcosa di molto più adatto alle sue capacità.
La musica aveva già raggiunto un livello assordante e le luci soffuse resero davvero difficile le operazioni di ricongiungimento del gruppo. Il primo a notare le ragazze fu Tsuyoshi, probabilmente munito di un qualche chip di riconoscimento che segnalava la sua presenza, nel raggio di pochi metri, alla sua dolce metà. Si erano messi tutti in tiro e perfino Akito, vestito con un paio di jeans chiari e una camicia scura con le maniche arrotolate sugli avanbracci, risultava perfettamente ambientato alla situazione. Sana lo osservò attentamente, pensando che effettivamente non si erano mai trovati in contesti simili, per cui non potette fare a meno di constatare quanto stesse bene quella sera. Si domandò cosa pensasse lui di lei, invece, fasciata in quell’abito color verde acqua che le lasciava scoperto fin troppo per i suoi gusti.
Quando poi Hayama decise di avvicinarsi proprio a lei, privo di qualsiasi espressione in viso che potesse anticiparle un qualche sorta di reazioni, il suo cuore iniziò a battere un po' più forte, cominciando ad adattarsi al ritmo della musica.
«Ciao.» Le disse semplicemente, scrutandola poi fino all’ultimo capello.
«Ciao», lei rispose, rendendosi protagonista di una delle conversazioni più interessanti della storia.
«Stai bene stasera.»
«Anche il tuo verde non mi dispiace.»
«Sì beh, peccato che queste siano un po' scomode.» Disse lei con un sorriso, mostrandogli le scarpe che le permettevano di raggiungere quasi il suo sguardo.
«Sei sicura di saperci camminare?»
«Certo, sono un’attrice cosa credi?» rispose leggermente infastidita dalla sua aria strafottente.
«Rilassati, stavo scherzando», e così dicendo si allontanò dirigendosi verso il bar, lasciando Sana nel bel mezzo della sala gremita di gente. Non ebbe il tempo di metabolizzare il tutto perché la sua attenzione fu catturata dalla vibrazione del cellulare, segno che le era appena arrivata una email.
Il mittente era Kamura: Tesoro, pare ci sia una tormenta in arrivo e i collegamenti saranno interrotti. Ho chiesto a Maeda di prenotare un volo privato, tranquilla. Farò il possibile per esserci. N.
Lesse il messaggio due volte domandandosi quale fosse in realtà il suo stato d’animo dopo quella notizia e così alzò lo sguardo verso l’enorme vetrata della sala, avvistando dei pallidi fiocchi di neve iniziare a fare la loro comparsa sulla scena. Quella non le sembrava affatto una tormenta ma, evidentemente, le condizioni meteo erano destinate a peggiorare in fretta.
Si guardò rapidamente intorno alla ricerca dei suoi amici, intravedendoli insieme intenti a ballare sotto le note della musica che continuava a pompare dalle casse. Si era aspettata una situazione decisamente diversa e non era affatto sicura che quello fosse il tipo di festa che facesse per lei. Si sentiva un po' un pesce fuor d’acqua e si domandò come si sentisse Hayama in quel momento. Quelle riflessioni la indussero a domandarsi immediatamente dove fosse lui, quindi guardò verso il bar ma di Hayama non c’era traccia. Anche tra i suoi amici, lui era l’unico a mancare all’appello mentre la neve iniziava a scendere molto più abbondante, segno che Kamura le aveva effettivamente detto la verità riguardo l’imminente tormenta.
Si avvicinò al suo gruppo e iniziò a muoversi cercando di seguire il ritmo della musica, nonostante la sua mente fosse presa da tutt’altro.
«Ragazzi, ma dov’è Hayama?» Domandò Mami appena Sana li raggiunse. Probabilmente la sola comparsa di lei aveva indotto i presenti a chiedersi dove invece fosse il loro amico.
«Non lo so. Era andato al bar ma pare essere scomparso», li informò Sana.
La neve, mista ad una pioggia battente, si stava facendo largo vertiginosamente spazzando via tutti i ricordi legati alla giornata soleggiata appena trascorsa, accompagnata poi da una serie di lampi e tuoni degni del peggior temporale di montagna mai visto.
Sana iniziò ad essere nervosa, un po' per la sua avversione verso quel tipo di clima e un po' perché non sapere dove fosse Hayama la rendeva inspiegabilmente inquieta. Di colpo poi la musica si abbassò e le luci al contrario divennero più accese.
«Gentili ospiti, come potrete vedere è in corso una tormenta per cui vi raccomandiamo caldamente di restare all’interno della nostra struttura per evitare qualsiasi tipo di inconveniente. Il centro meteorologico di Hakone ci ha appena avvertiti del possibile pericolo di valanga, a causa della forte pioggia, quindi vi invitiamo a restare al chiuso e vi ricordiamo di stare lontani dalle finestre. Siamo a vostra disposizione, vi auguriamo una buona serata.» Fu una voce gentile di donna ad informare i presenti di quanto stesse accadendo.
«Buona serata? Rischiamo di essere travolti da una valanga, come facciamo a passare una buona serata?» commentò Gomi a voce un po' troppo alta, facendosi immediatamente prendere dal panico.
«Ma che sciocchezze, questo hotel non è mica fatto di paglia», commentò Hisae.
Fu in quel momento invece che un forte tuono riecheggiò prepotente tra le pareti della sala e probabilmente quella non fu la sola conseguenza, perché improvvisamente furono tutti al buio. La musica si era interrotta, sostituita solo da qualche grida e da un vociare sempre più insistente. Sana allungò un braccio in cerca di qualcosa, e quando i suoi occhi si abituarono alla sola luce esterna della notte si rese conto di aver afferrato il braccio di Aya. 
Nuovamente udirono la stessa voce che li aveva avvertiti dell'imminente tormenta, rassicurarli che si trattava solo di un Blackout e che a breve avrebbero ripristinato tutti i servizi. Infine si raccomandarono vivamente di non avvicinarsi alle finestre. Sana strinse il braccio di Aya, non tanto per la paura ma per l'inquietudine che provava causata dal fatto di non sapere dove fosse finito Hayama.
«Ragazzi, credo sia il caso di trovare Akito.» Tsuyoshi sembrò dare voce alle sue paure perché il tono della sua voce era tutt'altro che tranquillo.
«Proviamo a telefonargli?» Propose Hisae e in un secondo Tsuyoshi tiró fuori il cellulare per un tentativo.
«É spento!» Annunciò poi subito il responso con un'espressione di delusione. Il sopracciglio destro di Sana allora si sollevò immediatamente, «Ma certo, siamo nel bel mezzo di una tormenta, al buio, e lui cosa fa? Spegne il cellulare», constatò lei decisamente furiosa. Insomma perché non si era degnato di dire dove avesse intenzione di andare, considerato poi il fatto che in teoria lo scopo di quella gita era di stare tutti insieme. Tsuyoshi ribadì la necessità di trovarlo e di organizzarsi di conseguenza.
«Già, sarebbe il caso che restassimo insieme almeno noi.» Aggiunse Gomi, cercando di immaginare dove potesse essere finito il loro amico.
«Io vado a cercarlo al primo piano. Conoscendolo avrà evitato sicuramente di salire più in alto», convenne Sana facendo qualche passo indietro verso la porta d'ingresso della sala. Accese poi la torcia del cellulare per illuminare il percorso.
«Forse non dovremmo separarci…» Aya era d’accordo con la proposta di Gomi e sembrava davvero preoccupata all'idea di dividere il gruppo e di andare in giro da sola al buio in quel posto diventato improvvisamente tetro.
«Ci sono cinque piani in quest'hotel, se li controlliamo tutti separatamente ci metteremo molto meno tempo a trovarlo.» La risolutezza di Sana dimostrata in quell'occasione sorprese davvero tutti. Con quella torcia improvvisata si voltò dando loro le spalle: «Tenete i cellulari accesi mi raccomando.»
 
***
 
«Hayama, se ti prendo ti insegno io a spegnere il cellulare in situazioni di emergenza.» Sana borbottava a voce alta cercando di non distrarsi troppo perché camminare al buio indossando quelle scarpe alte non era proprio il massimo. Percorse a fatica la metà del corridoio del primo piano e di Hayama non c'era nemmeno l'ombra. Senza contare il fatto che la maggior parte delle porte erano chiuse a chiave, fatta eccezione per un piccolo bagno di servizio e la porta che dava accesso all'uscita d'emergenza.
Qui niente. Tu, novità?
Il messaggio di Tsuyoshi rincaró la dose di angoscia perché a quanto pareva, Hayama si era davvero volatilizzato.
«Accidenti a te Hayama, ma cosa ti ha detto il cervello?» Questa volta il tono della sua voce era molto più forte e dovette sforzarsi molto per non urlare al vento altre imprecazioni contro il suo amico scomparso. Digitò velocemente un messaggio di risposta per Tsuyoshi in cui lo informava che anche la sua ricerca si stava rivelando un buco nell'acqua. Riuscì a malapena ad inviare il messaggio perché qualcosa di non ben identificato si frappose tra le sue gambe e il corridoio buio, causandole un'imminente perdita dell'equilibrio, già precario di suo. Istintivamente cercò un appiglio con le mani ma le pareti lisce del corridoio non erano proprio idonee allo scopo di sostenerla e così cadde, per la prima volta quella sera. E tutto ciò che sentì fu un improvviso dolore lancinante alla caviglia sinistra. Provò subito a rimettersi in piedi su entrambe le gambe, ma il dolore era davvero troppo forte e per un attimo temette di essersela rotta. Tastò quindi leggermente il punto indolenzito e le sembrò che fosse tutto al suo posto e che non ci fossero strane protuberanze.
«Coraggio Sana, non è niente di grave, puoi ancora camminare.» Si fece forza, alzandosi lentamente subito dopo essersi sfilata le scarpe dai piedi, probabile causa di quell'incidente. Cominciò poi ad avanzare saltellando sull'unico piede sano, raggiungendo l'ultima porta di quel lungo corridoio. Il fatto che fosse aperta le regalò un briciolo di speranza: si trattava del vano lavanderia.
Spinse la porta verso l'interno ed illuminò la stanza con la torcia del cellulare: c'era una serie di grosse lavatrici spente, lenzuola ammassate ovunque e una sagoma umana contro luce alla finestra che si era mossa verso di lei.
«Sana?» Il suono della voce di Akito le rivelò l'identità misteriosa facendola sentire immediatamente in pace. Per poi provare, un istante dopo, un sentimento di rabbia incontrollabile.
«Hayama accidenti a te, ma che ci fai qui? Ti stiamo cercando da ore.» Disse Sana enfatizzando leggermente l'intera situazione.
«Davvero? Ero venuto a vedere il lago», disse lui con il tono più tranquillo del mondo.
«Cosa? Il lago? Ma non vedi che è tutto pieno di neve e c'è una bufera lì fuori?»
«Beh, prima si vedeva benissimo.»
Sana era completamente rossa in viso e non certo per l'imbarazzo. Avrebbe voluto strozzarlo e di certo non gli avrebbe mai rivelato quanto si era spaventata nel non riuscire a trovarlo. In quel momento sentì una fitta alla caviglia causata dal fatto di aver appoggiato il piede ferito leggermente a terra, e una smorfia di dolore le si disegnò in viso.
«Ehi, stai bene?» Le chiese Hayama scattando in piedi e in un gesto fulmineo la raggiunse in meno di un secondo, afferrandola per la vita. Lei, d'istinto, si appoggiò a lui, sentendo un improvviso sollievo alla gamba.
«Che hai combinato?»
«Sono inciampata, e per causa tua!» Rispose piccata lasciandosi trasportare da Akito verso il centro della stanza.
«Non sarà successo perché tu, su quei trampoli, non sai camminarci?»
In effetti quella era la verità nuda e cruda e Sana proprio non se la sentì di contraddirlo solo per orgoglio, anche perché scoprì di sentirsi incredibilmente bene tra le sue braccia. Lui l'aiutò a sedersi per terra per poi Ispezionare la caviglia che nel frattempo si era gonfiata a dismisura.
«Non credo sia rotta…»
«Da quand'è che sei un medico?»
«Guarda che di queste cose ne vedo continuamente in palestra. Sono molto più esperto di te», la informò tranquillo. «Con un po' di ghiaccio dovrebbe fare meno male.» Disse guardandosi intorno cercando qualcosa che potesse aiutarla.
«Già, ma dove lo prendo del ghiaccio?» Disse più a sé stesso che a lei.
Akito si sollevò lasciando Sana perplessa con uno sguardo confuso. Sperava vivamente che non avesse intenzione di andare chissà dove e lasciarla lì come un salame mentre lui spariva di nuovo. Lo vide cercare qualcosa per tutta la stanza sbuffando rumorosamente, lanciando per aria le lenzuola disseminate in terra come se queste nascondessero proprio ciò di cui aveva bisogno. Poi, improvvisamente, ebbe un'illuminazione perché si fermò di scatto voltandosi verso la finestra.
«Ma certo, che stupido», disse lanciandosi verso la finestra e aprendola con non poche difficoltà. Non appena l'aria fredda riuscì a intromettersi in quel luogo, una forte folata di vento scompigliò i capelli biondi di Hayama andando poi a sbattere contro la porta di ingresso ancora aperta che, con una forza innaturale, si chiuse alle loro spalle provocando un rumore assordante. Come se nulla fosse successo Akito si spinse oltre il davanzale della finestra, raccogliendo con entrambe le mani una manciata di neve fredda, cercando di conservarne il più possibile. Si avvicinò poi a Sana, trovandola con le braccia avvolte su sé stessa nel tentativo di riscaldarsi in quell'ambiente divenuto improvvisamente gelido. La guardò per un istante prima di poggiare la neve sulla sua caviglia, provocandole un sussulto causato dal contatto con la temperatura glaciale del suo ghiaccio improvvisato.
«Va meglio così?» Si accertò lui ricevendo un cenno affermativo del capo come risposta positiva.
«Che stupida, ero venuta a cercarti preoccupata che ti fosse successo qualcosa e alla fine quella che si è ferita sono io», Sana era leggermente imbarazzata, sia per l'epilogo della sua ricerca sia per la situazione in cui si trovava, con Hayama intento a tenerle la gamba con le mani per accertarsi che la neve facesse il suo dovere. A quelle parole però, lui alzò lo sguardo verso di lei incontrando i suoi occhi leggermente smarriti.
«Non c'era motivo di preoccuparsi.» Disse poi indifferente.
«Se tu non lo avessi notato fuori di qui c'è una tormenta, la corrente elettrica è saltata e per di più c'è il rischio di valanga. Se questi non sono buoni motivi per preoccuparsi…»
«Intendevo, preoccuparsi per me. Non ce n'era motivo.»
Sana scrutò il suo viso cercando di trovare una risposta decente a quella sciocca affermazione. Ma come poteva dire una cosa del genere, se c'era qualcosa di positivo che avesse provato negli ultimi giorni quello era il sollievo e la felicità che aveva avvertito quando aveva realizzato che la sagoma alla finestra era proprio Hayama.
«Non essere sciocco. Eravamo tutti preoccupati, io mi sono anche slogata una caviglia per correre a cercarti» Disse lei spostando poi leggermente lo sguardo, allontanandolo da quello pericoloso di Hayama. Sentì poi un tocco sfiorarle la guancia e si voltò verso quella che era la sua mano mentre la accarezzava delicatamente.
«Mi dispiace…  averti fatta preoccupare.»
L'imbarazzo che provò Sana in quel momento raggiunse livelli davvero esponenziali e nei secondi successivi all'impeto di gentilezza di cui fu protagonista Hayama, cercò un modo rapido e indolore per sottrarsi a quel tocco, perché il fatto che il suo cuore avesse iniziato a battere così forte e che il suo sguardo la rendeva quasi incapace di intendere e di volere non promettevano nulla di buono.
Raccolse quindi l'ultimo rantolo di raziocinio e cercò il suo cellulare pensando, che dover avvisare gli altri che stavano entrambi bene poteva essere una scusa più che plausibile.
«Dovremmo avvisare Tsuyoshi e dirgli dove siamo…» Sussurrò concentrandosi sulle sue dita che stringevano il cellulare. Lui dal canto suo si allontanò da lei, almeno dal suo viso, continuando ad occuparsi della caviglia che sembrava aver smesso di gonfiarsi.
«Oh no, quaggiù non c'è campo» Lo avvisò agitando velocemente il cellulare in aria con la speranza che riuscisse miracolosamente ad agganciarsi ad un qualsiasi tipo di segnale.
«Guarda che non funziona così. Andiamo, ti porto in braccio», annunciò Hayama offrendo le sue braccia alla ragazza seduta per terra.
«So camminare da sola, grazie.» Disse cercando di tirarsi in piedi. Purtroppo, nonostante non fosse nulla di grave, si ricordò ancora dell'importanza di avere due gambe ben funzionanti anche nel compiere piccoli gesti come rialzarsi da terra e fu allora che Hayama le andò in aiuto, tirandola su per la vita. Lei si divincolò rapidamente saltellando sul piede sano in direzione della porta. Ma quando Akito provò ad aprirla qualcosa non funzionò come avrebbe dovuto.
«Che succede? Perché non si apre?»
«Deve essersi bloccata quando ho aperto la finestra. Forse è per questo che l'avevano lasciata spalancata…» La informò lui fingendo totale estraneità ai fatti.
«Cosa? Perché non me l'hai detto? L'avremmo bloccata con qualcosa»
«Come facevo a saperlo, l'ho capito dopo aver aperto la finestra.» Rispose lui calmo come se nulla fosse accaduto.
«Fantastico. E ora come facciamo?»
«Rilassati, non siamo mica all'inferno. Qualcuno ci troverà.» Akito era decisamente tranquillo, cosa che non si poteva dire di Sana che, invece, diventava sempre più nervosa. Lo seguì con lo sguardo mentre richiudeva la finestra da cui continuava ad entrare aria gelida e ripensò alla situazione. Era bloccata in una stanza nascosta insieme ad Hayama, al buio, in mezzo ad una bufera di neve e come se non bastasse, Naozumi sarebbe probabilmente arrivato di lì a poco.
«Ok, cerchiamo di mantenere la calma.»
«Guarda che io sono calmissimo.» La informò cominciando ad appallottolare alcune lenzuola formando una sottospecie di seduta che poi indicò a lei con un gesto del braccio. Le aveva preparato un giaciglio dove poter riposare la gamba ferita e lei, a fatica, prese a saltellare nuovamente sul piede sano per raggiungere il cumulo di lenzuola, mormorando un «Grazie», prima di essere aiutata da lui a trovare la giusta posizione.
«Sei nervosa.» La sua voce e le sue parole furono per Sana una specie di schiaffo in pieno viso, e si domandò come avesse fatto lui a capirlo. Era convinta di apparire rilassata ma a quanto pareva non agli occhi di Hayama.
«Io? No, cosa dici?»
«A me sembri nervosa…» Incalzò lui sedendosi a gambe incrociate accanto a lei.
«Beh sfido chiunque a non essere nervosi in una situazione come questa. Hai visto che tempaccio lì fuori?»
«Non parlo di quello», disse indicando con un dito la bufera che continuava a scagliarsi su quella cittadina di montagna, «Ma di questo», continuò riprendendo lo stesso gesto con la mano, questa volta per indicare però loro due seduti vicini, in una stanza al buio. Sana cercò di intravedere i suoi occhi nonostante fosse buio, pensando che il modo di esprimersi di Hayama le ricordava molto un interprete della lingua dei segni.
«No no assolutamente, sono perfettamente a mio agio.» Mentì.
«Anche io, ma sono anche nervoso.» Le confessò voltando lo sguardo verso la finestra.
Sana pensò che l'ultima volta che avevano parlato in quel modo, confessandosi i loro pensieri, risaliva a parecchio tempo prima, a quando sua madre aveva pubblicato quel libro. A quel tempo Hayama le aveva detto che ci sarebbe stato per lei, e che se avesse avuto voglia di piangere avrebbe trovato sempre la sua spalla su cui farlo. Poi dopo era cambiato tutto e si erano completamente persi.
Pensare a quel momento nel bosco fu abbastanza doloroso per Sana, i cui occhi divennero improvvisamente lucidi, pronti a sganciare una bomba fatta di lacrime e singhiozzi. Nonostante il buio, Akito si accorse che qualcosa non andava: «Che ti prende?»
«Penso che tu sia stato un bugiardo». A quelle parole lui spalancò lo sguardo cercando di capire a cosa lei si stesse riferendo: «Bugiardo?»
Sana ripercorse mentalmente gli ultimi quattro anni della sua vita, percependo come una carezza sul braccio, l'incredibile mancanza che aveva sentito di Akito, e di tutto ciò che lui aveva sempre rappresentato per lei. Non solo la persona di cui si era scoperta essere innamorata, ma anche il suo migliore amico, quello da cui aveva sempre ricevuto, sorprendentemente, un appoggio incondizionato. La persona che era riuscita a capirla, nonostante la sua perenne maschera di allegria e spensieratezza. Il sentimento di mancanza era poi stato sostituito dal dolore della consapevolezza di averlo perso per sempre, sotto ogni forma plausibile, e infine la rabbia, causata dall'ammissione a sé stessa di non poter fare ormai più nulla per cambiare lo stato delle cose.
Quel breve, intenso viaggio nella memoria dei suoi sentimenti fu qualcosa di davvero troppo forte per lei perché, senza nemmeno rendersene conto, delle lacrime lente avevano preso a rigarle il viso dal momento che le emozioni che provava, tutto ciò che sentiva in quel momento, era troppo forte per essere ignorato. Allora aveva deciso di sciogliere tutte le sue barriere, perché erano diventate così pesanti da non essere più in grado di sostenerle. Aveva deciso di liberarsi delle bugie dette a tutti, inclusa sé stessa, e lo fece piangendo.
«Avevi detto che quando avrei avuto voglia di piangere, potevo venire da te e che ci saresti stato sempre. Ma non è stato così…»
Quelle parole scossero Akito che all'istante ripensò al momento in cui le aveva fatto quella promessa che, a conti fatti, non era stato in grado di mantenere.
«Sana io, non immaginavo che le cose sarebbero andate a finire così.»
«Ma l'hai scelto tu!» Il suo tono si trasformò leggermente, diventando più duro. Lo sguardo di lui si fece invece confuso.
«Tu hai scelto di stare con lei!»
Paradossalmente la sua immobilità fisica dovuta alla caviglia dolorante, in qualche modo, contribuì ad immobilizzare anche il suo cuore che, anziché scappare come era abituato a fare, si fermò a guardare negli occhi il suo carnefice. Quello faceva parte del processo di liberazione che stava attraversando in quel momento.
«Io sono stato costretto…»
«Non credo che Fuka ti abbia piantato una pistola alla tempia.»
«Non parlo di lei, ma di quello che ho provato dopo aver saputo…  tu non puoi capire quanto è stato…»
Hayama non era decisamente bravo con le parole, soprattutto quando doveva spiegare i suoi sentimenti, e Sana iniziò a sentirsi confusa.
«É stato difficile, per me, accettare quelle cose e Fuka non mi dispiaceva. Mi sento un ragazzino…»
«Hayama potresti spiegarti meglio?»
Lui abbassò lo sguardo e strinse i pugni, cosa che forse lei non riuscì nemmeno a vedere.
«Vedere te…  e Kamura, ovunque. Insieme. Io non ci sono riuscito, ad accettarlo.»
Sana spalancò gli occhi davanti a quelle parole.
«Ma non era vero. Sono stati i giornalisti a inventarsi tutto…»
«Lo so.»
«Come…»
«La tua lettera, ricordi?» Già, la lettera che gli aveva scritto durante le riprese e che gli era arrivata dopo così tanto tempo.
«Era vero?»
«Cosa?»
«Quello che hai scritto in quella lettera. Era vero che…  per la tua felicità, io ero assolutamente necessario?» Riprese alla lettera il punto del testo che lei aveva scritto quattro anni prima. Aveva bisogno di sapere, nonostante si sentisse ormai totalmente scoperto. Forse il buio della stanza lo aveva reso più coraggioso nell’esprimere certe cose.
Sana ricordava perfettamente cosa avesse scritto in quella lettera, quattro anni prima e, in quel momento, si sentì piccola e indifesa, perché tutte le sue barriere non esistevano più. C’era solo lei, con Akito, e quello sguardo leggermente illuminato dalla luce esterna che l’aveva quasi ipnotizzata.
«Era… era quello che… insomma, sì io pensavo quelle cose», disse poi abbassando leggermente lo sguardo, alla disperata ricerca di un appiglio per poter sfuggire a quegli occhi.
«E allora perché non me l’hai detto prima?»
«Cosa? Io ho cercato… te l’ho scritto, ma poi tu hai scelto Fuka»
«Io non sapevo nemmeno di aver fatto una scelta, Sana», questa volta fu lui ad alzare la voce, perché come si era detto troppe volte, era solo una questione di tempistiche. E quelle rivelazioni non facevano altro che confermare quella regola.
«L’unica scelta che ho fatto, è stata quella di reprimere i miei sentimenti per te.»
Se in quel momento Sana si fosse trovata sull’orlo di un precipizio era sicura che la perdita dell’equilibrio, causata da Akito Hayama e delle parole che le aveva detto in quel momento, l’avrebbe fatta cadere all’indietro in un tempo talmente breve da non farle nemmeno rendere conto di aver perso per sempre il contatto con la terra. Si immaginò la scena e provò un incredibile senso di vuoto, simile a quello che si prova quando si sogna di cadere da un albero, seguito poi da un brivido lungo le braccia.
«Hayama io non… non avevo idea», balbettò incerta.
«Eri l’unica a non averla», aggiunse infine a quella sorta di confessione mezza abbozzata. Lui era convinto di essere stato fin troppo esplicito con lei, attraverso quei baci rubati durante l’infanzia. Aveva sempre pensato che tutto ciò che aveva fatto per lei, anche indirettamente, sarebbe stato sufficiente a chiunque per capire la natura dei suoi sentimenti. Ma con il tempo aveva capito anche che chiunque non era Sana Kurata e che, probabilmente, lui non sarebbe mai riuscito ad indovinare il giusto codice d’accesso per comunicare con lei.
«Che stupida…»
«Puoi dirlo forte, ecco», disse lui, incrociando le braccia sul petto.
Lei sbuffò, tralasciando però quella battuta.
«Sono stata una sciocca a credere di poter reprimere certe cose. Io mi sento meglio…»
Akito la guardò cercando di capire cosa stesse pensando, sentendo poi un improvviso bisogno di stringerla a sé, consapevole del fatto che lei probabilmente non avrebbe retto a quel gesto. La loro situazione era sempre stata precaria e, in quel momento forse, lo era ancora di più. Istintivamente però allungò una mano verso il suo braccio, lasciando che le dita sfiorassero delicatamente la sua pelle. Era come una necessità, sentiva che se non l’avesse toccata, se non avesse stabilito un contatto fisico con lei, anche lieve, sarebbe morto. Scomparso per sempre dalla faccia della Terra. Era veramente una necessità.
«E lo pensi ancora?»
Sana lo guardò senza dire una parola.
«Quello che hai scritto in quella lettera», chiarò un dubbio che lei gli aveva sottoposto solo con lo sguardo. Lei sentì il suo cuore battere come un ossesso nel gesto di avvicinare la sua mano a quella di lui, ancora impegnata a cercare un contatto con la sua pelle. Trovò le sue dita interrompendo qualsiasi mossa lui avesse intenzione di fare e fece in modo, in un rapido gesto, di unire le loro mani stringendole forte. Continuando a tenerle intrecciate, portò le loro dita unite sulla sua fronte e sospirò, ma non di quei sospiri dovuti a qualcosa di negativo. Quello era dovuto al fatto che proprio non era più in grado di trattenere dentro certe cose.
«Mh», riuscì a dire solo questo, totalmente incapace di esprimersi a parole perché i pensieri che le affollavano la testa erano in contraddizione l’uno con l’altro. Pensò immediatamente a Kamura che sarebbe arrivato di lì a breve e si sentì improvvisamente in colpa. Ma qualsiasi riflessione lei stesse elaborando su qualsiasi cosa non riguardasse Akito non poteva fare assolutamente nulla contro il fatto che lui si era avvicinato pericolosamente al suo viso, accarezzandolo con la mano libera. Lei allora scostò quell’intreccio di dita per ritrovarsi faccia a faccia con i suoi occhi ambrati, ad una distanza appena sufficiente per farvi passare una pallina da Ping Pong.
«Non farò niente, che non vorrai anche tu» le sussurrò vicinissimo, rassicurandola sul fatto di aver abbandonato ormai la sua indole di irruento baciatore incallito. Questa volta lei doveva capire cosa c’era dietro i suoi gesti e non voleva lasciare assolutamente nulla al caso. Non poteva permettersi di lasciarle fraintendere qualcosa e così aspettò, un secondo, poi due, tre… il tempo necessario perché lei realizzasse che ormai non c’era modo di tornare indietro. Perché in fondo un indietro non c’era mai stato.
Lui si avvicinò lentamente alle sue labbra ma, sorprendentemente, sentì qualcosa che davvero non si sarebbe aspettato perché fu la bocca di lei a cercare per prima la sua. Sana aveva cancellato la pallina da ping pong nell’esatto istante in cui era scattato il quarto secondo, lanciando quasi un urlo interiore quando aveva finalmente assaggiato la morbidezza delle labbra di Akito. Sì, perché lei le aveva già assaporate in passato, ma mai con quella consapevolezza e con quel desiderio tale da spingerla quasi ad urlare.
Akito invece ottenne il permesso tanto desiderato, quindi afferrò con veemenza il suo viso con entrambe le mani lasciando che la lingua si spingesse oltre le labbra di lei, dischiudendole il giusto indispensabile per trovare poi la sua e accarezzarla. Finalmente le famose tempistiche sbagliate sembravano essere andate al diavolo e quando la sentì sospirare forte, tanto da riuscire a percepire l’aria sul suo viso, infilò una mano tra i suoi capelli continuando a baciarla con passione, lasciando finalmente che le sue mani potessero esplorare quel corpo tanto desiderio.


*Note d'autrice*
Ciao a tutti, eccomi con il capitolo successivo. Come vi avevo anticipato, si tratta di un capitolo molto ricco di avvenimenti e finalmente vi ho svelato chi è la coppia accoppiata del precedente spoiler. Complimenti a chi ha indovinato, naturalmente mai avrei potuto descrivere una scena simile tra Sana e Naozumi, sarei morta di crepacuore.
Detto ciò, che ve ne pare? Ci sono ancora tante cose da svelare ma tutto a tempo debito :)
Come sempre vi ringrazio di CUORE per i commenti, le visualizzazioni, le preferenze ecc. Grazie, grazie, grazie.
Spero di riuscire ad aggiornare quanto prima, intanto vi mando un bacio e alla prossima.
Alex 

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Capitolo 10
*** Capitolo 8 - Come ci si dimentica di te? ***


Capitolo 8
 
Come ci si dimentica di te?

Le tempistiche, quei maledetti affari crono-temporali, erano diventate il pensiero fisso di Hayama perché, in quel momento, proprio non riuscì a trovare un’altra ragione per il fatto che le cose andassero sempre nell’esatto opposto rispetto alla sua volontà. Avrebbe gradito un cenno, un avviso, pure un segnale di fumo, qualsiasi cosa che lo potesse preparare a tutto quello che venne dopo quell’ora passata al buio con Sana, nel vano lavanderia di un hotel qualunque al centro di Hakone. Invece nulla. Le tempistiche sbagliate della sua vita avevano ripreso a fare capolino proprio nel momento in cui credeva di trovarsi finalmente nel posto giusto al momento giusto e, siccome non era proprio famoso per la sua pazienza, dovette trattenersi molto dal distruggere a suon di calci e pugni tutte le lavatrici presenti nella stanza.
Sana invece ebbe una reazione diametralmente opposta perché, se Akito era rosso di rabbia in viso, lei era rossa per l’imbarazzo ma, soprattutto, per il terrore che la invase non appena riconobbe, tra le voci che li stavano chiamando dall’altro lato della porta, quella di Naozumi.
In un impeto di panico, e forse anche di imprevedibile istinto di sopravvivenza, raccolse tutta la forza di cui ancora disponeva e allungò le braccia verso Akito, spingendolo via dal suo corpo tremante. Lui fece qualche passo indietro, leggermente disorientato da quella brusca reazione di lei. D’accordo, oltre quella porta c’erano tutti i loro amici – più un intruso decisamente poco desiderato – pronti ad entrare con l’intento di salvarli, ignari del fatto che avevano scelto proprio il momento peggiore per farsi vivi. E d’accordo, quello che stavano facendo qualche minuto prima avrebbe causato uno shock notevole a più di uno dei presenti – l’intruso indesiderato in cima alla lista –  ma non riusciva a trovare nessuna buona ragione che giustificasse il terrore dipinto sul viso di Sana.
Così si avvicinò lentamente a lei con le mani alzate in segno di pace, come ci si avvicina ad un grosso felino impaurito pronto ad avere una qualsiasi reazione istintiva, anche la più pericolosa.
«Che cosa ho fatto?» Sussurrò lei agitata, infilandosi le dita tra i capelli. Quello che prima era terrore si era trasformato in disperazione e forse anche pentimento, perché nello sguardo di Sana non c’era più nessuna traccia di quello che lui vi aveva letto un istante prima che si baciassero. Ora lei era in preda ad una serie tumultuosa di emozioni contrastanti, con l’evidente prevalenza di un sentimento di pentimento e colpa verso il suo fidanzato, che urlava il suo nome oltre la porta.
«Ehi calmati un momento, non l’hai fatto da sola,» Akito provò a correggerla, sperando che lei accettasse di dividere con lui la marea di emozioni che le stava risucchiando tutto l’ossigeno.
Sana spostò lo sguardo dal pavimento agli occhi di Hayama, e in quel momento lui si accorse che doveva agire in fretta per evitare di perderla di nuovo, in tutti i modi possibili in cui si può perdere qualcuno.
Le mise entrambe le mani sul viso, sperando che quel gesto contribuisse a trasmetterle la calma necessaria di cui avevano entrambi bisogno per affrontare quella situazione.
«Ascoltami, manteniamo la calma. La risolveremo insieme…»
«Calma? Io non mi riconosco Hayama, come faccio a calmarmi? Gli ho fatto una cosa terribile…» Balbettò agitata, non riuscendo a trattenere una lacrima che nuovamente si palesò davanti allo sguardo impaurito di Akito. Temeva seriamente di aver contribuito ad aumentare la possibilità di non poterla toccare mai più, perché non aveva saputo rispettare le famose tempistiche.
In quel momento sentirono la porta che cedeva alle spinte dei loro amici e, con un’agilità che avrebbe dovuto contenere a causa della caviglia slogata, si lanciò a terra abbandonando quella lavatrice dove lui l’aveva poggiata qualche minuto prima, quando erano ancora nel bel mezzo del vortice di passione che li aveva travolti.
Il dolore che sentì contribuì ad incrementare il suo pianto e lei non potette sentirsi che sollevata, perché aveva un ragionevole motivo con cui giustificare il suo stato d’animo. Così, velocemente, cercò di sistemare il vestito e i capelli ancora arruffati, sotto lo sguardo impassibile di Hayama che, invece, era rimasto immobile accanto a lei, aspettando l’imminente ingresso degli altri.
E così accadde, dopo qualche minuto speso ad ascoltare i rumori provenienti dall’esterno, la porta si aprì e Tsuyoshi e Gomi fecero il loro ingresso, seguiti da Kamura e infine dalle ragazze.
La prima cosa che cercò Hayama fu lo sguardo di Sana non appena il suo fidanzato fece la sua comparsa nella stanza, cercando di interpretare le sue emozioni. Ma quello che percepì non preannunciava nulla di buono perché, alle lacrime di lei unite alla caviglia palesemente gonfia, Kamura gli si scagliò immediatamente contro.
«Che cosa le hai fatto?» Gli urlò in faccia afferrandolo per il colletto della camicia. Tutti i presenti, Sana inclusa, spalancarono la bocca a quella scena perché se era appurato che Kamura non fosse assolutamente una persona incline alla violenza fisica, era altrettanto evidente la rabbia disegnata sul suo viso che probabilmente gli aveva fatto abbandonare per un attimo i panni del ragazzo mingherlino e pacifista che al massimo avrebbe detto un’offesa per esprimere il suo dissenso.
Hayama invece, che alla violenza fisica era più che abituato, abbassò appena lo sguardo inchiodando i suoi occhi in quelli di Naozumi che, per un attimo, vacillò perdendo tutta la sua sicurezza. Con un gesto repentino, gli afferrò entrambe le mani con un pugno, stringendogliele e allontanandole dal suo collo. Era stato fin troppo facile, pensò, perché non si era nemmeno sforzato di spingerlo via.
«Non devi toccarmi!» Sibilò visibilmente irritato. Evidentemente il suo sguardo fu molto più eloquente delle sue parole perché, dopo averlo fissato su Kamura per due minuti, quest’ultimo indietreggiò di qualche passo.
Tsuyoshi si lanciò frapponendosi tra i due, leggermente intimorito dal fatto di poterle prendere seriamente da Akito che, accecato dalla rabbia com’era, non avrebbe fatto alcuna distinzione tra lui e il reale bersaglio. Ma sorprendendo in primis sé stesso, Hayama non si mosse più, allungando le braccia lungo il corpo e abbassando lo sguardo.
«Se hai osato anche solo torcerle un capello sappi che io…» Kamura non sapeva proprio cosa stesse dicendo perché se c’era una cosa così lontana dalla realtà era la probabilità che Akito potesse mai riversare la sua rabbia sulla persona più importante della sua vita. Ma questo Naozumi non lo sapeva, o semplicemente lo ignorava, facendosi forza con le lacrime di Sana la cui origine gli era palesemente ignota.
«Naozumi… calmati» E fu proprio Sana a distogliere l’attenzione del ragazzo verso Hayama e Tsuyoshi, saltellando di due passi verso di loro. «Sono caduta perché era buio e mi sono fatta male. Ma non è nulla di grave… siamo, noi siamo rimasti chiusi dentro… per errore» si giustificò. Ma quelle ultime parole avevano il sapore di duplice significato e Akito percepì il messaggio di Sana: quello che era successo era stato un errore.
Kamura allora si precipitò verso di lei dandole un lieve bacio sulla guancia, bacio che spinse Hayama, dall’altra parte della stanza, a rivolgere lo sguardo alla bufera che ancora si scagliava contro il vetro della finestra. Si sentiva così stupido nel ruolo di terza parte di quel triangolo, stupido per aver pensato che bastasse così poco per far sì che le cose si rimettessero al loro posto. Non aveva fatto i conti con qualcosa così grande come il senso di colpa, un sentimento che stava cominciando a provare lui stesso per aver causato una sofferenza a Sana.
Quest’ultima fu presa sulle spalle da Kamura perché effettivamente la caviglia era veramente molto gonfia da impedirle di camminare da sola. E Hayama si sentì ancora più stupido, per non essere stato in grado nemmeno di curarla a dovere.
Le ragazze, ancora sconvolte per la scena di poco prima, rivolsero un’occhiata a Sana che rispose loro con un sorriso.
«Tranquille, non è niente. Un po' di riposo e tornerò come nuova» disse alzando un braccio in segno di vittoria. I due poi sparirono dalla stanza.
Tsuyoshi fece segno ad Aya di lasciarlo solo con Akito e lei, cercando di risalire al motivo di quella richiesta, propose agli altri di avviarsi verso le stanze perché i loro amici dovevano sistemare la porta che era stata letteralmente scassinata.
Rimasti soli, Akito voltò le spalle al suo amico avvicinandosi alla finestra per osservare la pioggia fitta.
«Cosa è successo?»
«Non è il momento!»
«Io invece credo di sì» Gli rispose duro. Akito si voltò di scatto lanciandogli un’occhiata talmente cattiva da fare sfiorare a Tsuyoshi l’idea di darsela a gambe.
«Sì, insomma, penso che ti farebbe bene parlare… ecco, hai una faccia… terribile» disse indietreggiando appena. Si sentiva un po' più sicuro a pochi passi dall’ingesso.
«Non c’è niente da dire. L’hai sentita, è caduta e si è fatta male. Fine della storia»
Tsuyoshi sospirò, arreso all’idea che non avrebbe cavato un ragno dal buco con Akito in quelle condizioni. Era più che sicuro che sotto ci fosse dell’altro ma era anche consapevole che difficilmente il suo migliore amico gli avrebbe raccontato altro.
«D’accordo. Sappi però che se vuoi parlare io…»
«Ma sei sordo? Lasciami in pace! E ora rimettiamo apposto questo disastro.» Concluse avviandosi verso la porta mezza rotta. I successivi minuti trascorsero nel più totale silenzio e Tsuyoshi si sentiva davvero dispiaciuto per non essere in grado di fare nulla per il suo amico. Poi si rese conto che, in fin dei conti, non erano più dei bambini e che Akito probabilmente aveva davvero bisogno di stare da solo, ed elaborare qualsiasi cosa fosse successa in quella stanza. Lo osservò a lungo, aveva uno sguardo completamente perso, e il suo corpo pareva muoversi per inerzia, perché doveva farlo, e non perché dietro ci fosse un qualsiasi tipo di volontà da parte sua.
Il compito di rimettere a posto il danno si stava rivelando più complicato del previsto e all’ennesimo tentativo di Hayama andato a vuoto di risistemare la porta si scatenò l’inferno. Preso da uno scatto d’ira, il ragazzo scaraventò un potente calcio contro la parete di legno già provata, incidendo la sua taglia sulla superficie della porta. Quello che ne restò fu un grosso buco dal quale Tsuyoshi riuscì a intravedere il corridoio dell’hotel e Akito che se ne andava, di spalle, lasciandolo solo a sistemare anche quel danno provocato da lui.
«Ehi dove vai? Guarda che qui ci tocca pagare i danni sai?» gli urlò dietro stando attento a reggere quello che restava della porta d’ingresso del vano lavanderia.
Hayama non si degnò nemmeno di fargli sapere che lo aveva sentito perché semplicemente si dileguò, lasciandolo lì con la tormenta ancora in atto. Si sentiva troppo nervoso per pensare e se c’era una cosa che aveva imparato su sé stesso era il tempo necessario per metabolizzare gli eventi. Il suo personale tempo necessario, e aveva tutta l’intenzione di trascorrerlo da solo.
Si chiuse nella stanza e, nonostante ci fosse anche Gomi con lui, il fatto che stesse dormendo già come un sasso gli fece tirare un sospiro di sollievo perché non aveva nessuna voglia di affrontare nessun tipo di discorso, con nessuna delle persone presenti in quell’hotel. Lei compresa.
Si tolse le scarpe lasciandole all’ingresso della camera e si sdraiò sul suo letto rivolgendo lo sguardo al soffitto leggermente illuminato dalla luce esterna. Ripensò a quella sera, alla festa che aveva frequentato per qualcosa come cinque minuti, alla sua decisione di allontanarsi da lì cosciente del fatto di non voler vedere arrivare Kamura che si portava via non solo le attenzioni di Sana, ma anche la possibilità che lui potesse approfittare di quel tempo per trascorrerlo con lei.
Quando Sana si era mostrata in quel vano lavanderia, preoccupata e con una caviglia gonfia come un melone, si era sentito più in colpa del dovuto perché il fatto che volesse vedere il lago da quella stupida stanza era solo un’ignobile scusa per restare da solo, lontano da quei due. Ma le conseguenze di quel gesto, seppur involontario o comunque non ponderato affinché scaturisse una simile reazione a catena, erano bastate e avanzate a fargli capire di aver preso una decisione affrettata. Troppo istintiva. Poi la mente andò avanti con i ricordi, raggiungendo il momento in cui avevano parlato, quando lei gli aveva confessato il dolore che aveva provato negli anni in cui erano stati separati, gli anni in cui lui non aveva mantenuto quell’antica promessa.
A pensarci bene non si era mai soffermato a pensare, in effetti, a lei come fosse stata in quel tempo. Era sempre stato concentrato sui suoi sentimenti, su quelli di Fuka, ma mai si era soffermato a riflettere su quelli di Sana. Si era domandato molte volte, troppe volte, cosa stesse facendo e anche cosa stesse provando, ma mai aveva riflettuto sulla possibilità di conoscerla abbastanza bene tanto da poterci arrivare anche da solo, a capire come stesse. Non aveva pensato al fatto di averla delusa, in qualche modo, perché troppo preso a considerare la sua di delusione quando si era reso conto che lei era semplicemente fuggita da tutto e da tutti.
Le parole di lei di quella sera, invece, gli avevano fatto capire quanto si fosse sbagliato in passato, rispetto a quello di cui era sempre stato convinto. E non solo riguardo la presunta relazione scoppiata sul set tra Sana e Kamura. Si era sbagliato sul fatto di essere convinto che lei stesse bene, che fosse felice e che il loro rapporto, il loro profondo rapporto, a prescindere dall’amore e dall’evoluzione che per lui quel sentimento aveva subito, fosse qualcosa di percepito su un unico binario.
Ma, nonostante quella nuova consapevolezza, era altrettanto sicuro che quel momento trascorso insieme in quella stanza l’aveva decisamente sconvolta. Così come aveva sconvolto anche lui.
Fece un profondo respiro cercando di trattenere, insieme all’ossigeno, anche la possibilità che ci fosse ancora una speranza per loro due, in qualsiasi modo possibile. In fondo quello che era successo era pur sempre una prova tangibile di una serie di menzogne a cui lui aveva assistito negli ultimi tempi, e se lo avesse saputo Tsuyoshi, era sicuro che lo avrebbe detto. Quel bacio – quello che lei aveva dato a lui – insieme a tutto il resto, doveva pur significare qualcosa, indipendentemente da come sarebbe andato il seguito. E Akito ormai non era più un bambino delle medie, inerme di fronte a sentimenti così forti come il primo innamoramento. Non era certo nemmeno un uomo ma, sicuramente, non più un bambino e si sentiva perfettamente in grado di affrontare le conseguenze di quella notte.
Improvvisamente sentì il cellulare squillare e scattò in piedi cercando velocemente quell’affare in una delle tasche dei suoi jeans. Il suono si fermò perché evidentemente altro non si trattava che di un messaggio, ma comunque si voltò verso Gomi per accertarsi che quel prolungato bip non lo avesse svegliato.
Tutto taceva.
Il suo cuore prese a battere più forte quando lesse il suo nome nel mittente. Era un messaggio di Sana.
“Mi dispiace per quello che è successo stasera. Non so proprio cosa mi sia preso, spero riuscirai a perdonarmi.”
Lesse il messaggio parecchie volte e si sentì scosso, deluso, ferito più un’altra serie di sentimenti negativi che cercò di scacciare via lasciando il posto solo ad un’indefinibile rabbia. Se lui si sentiva pronto ad affrontare le conseguenze di quella notte, non si poteva dire la stessa cosa di lei che gli aveva appena ribadito, nero su bianco, che tutto quello che c’era stato era da considerarsi solo un madornale errore.
Allora, noncurante di Gomi che ronfava placidamente nel letto accanto al suo, scaraventò il suo cellulare contro il muro, mettendoci tutta la forza che quella rabbia improvvisa era riuscita a fornire al suo corpo. E come se avesse desiderato solo quello, si sentì sollevato quando l’oggetto si frantumò in cento pezzi, provocando un rumore abbastanza forte da far sussultare il suo compagno di stanza.
Come poteva Sana essere così codarda ed egoista? Cosa credeva, che lui navigasse in un mare di gioia e felicità? Che l’avesse programmato? Non meritava nemmeno uno straccio di confronto. Perché sceglieva sempre la persona sbagliata da far soffrire? Perché sceglieva sempre Akito? In quel caso, si poteva parlare di scelta consapevole? Perché se lui si stava domandando una serie infinita di perché, lei aveva deciso semplicemente di ignorare l’accaduto convinta di poter convivere benissimo con tutte le emozioni che la stavano assalendo.
Quando Kamura uscì dal bagno della loro stanza, Sana mise velocemente il cellulare sotto una gamba sperando di essersi ricordata in tempo di silenziare il volume, in caso lui avesse risposto. Cosa di cui dubitava fortemente, se ancora conosceva Hayama come un tempo.
Naozumi fece rapidamente il giro del letto, sedendosi accanto a lei. Si sentiva abbastanza inquieto dopo quello che era successo, e si sentiva anche un po' stupido perché era sicuro che Sana non gli avesse raccontato proprio tutto.
«Mi vuoi raccontare cosa è successo stasera con Hayama?»
«Ma niente, cosa vuoi che sia successo? Mi ha semplicemente dato una mano quando sono caduta e…» Sana si sentiva irrequieta a mentire così spudoratamente. Avrebbe voluto scappare, come sua consueta abitudine, ed evitare di affrontare sia Naozumi che Akito. Non voleva vedere nessuno dei due, eppure era costretta a dover spiegare al primo cosa avesse fatto insieme al secondo, consapevole di dover continuare a mentire.
«Siamo rimasti chiusi in quella stanza, è stato un incidente insomma» continuò la sua spiegazione, omettendo l’epilogo di quell’incidente. Si sentiva tremendamente in colpa e non riuscì a dire altro perché avrebbe fatto troppa fatica a trattenere il pianto che saliva pian piano a galla.
«Mh, Sana io… ecco perché non volevo che tu venissi qui da sola» disse cercando di mantenere la calma.
«Ti ho già detto che non è successo nulla, sei paranoico» questa volta lei alzò la voce, attaccando per prima con la speranza che quella conversazione fisse presto.
«Ah sì? Dimmi che le facce che avevate quando sono entrato nella stanza sono frutto delle mie paranoie»
«Andiamo, che facce hai visto? Mi faceva male la caviglia ed ero spaventata per la tormenta, che ti aspettavi? Una danza di gioia?»
«Questo è un altro motivo per cui non volevo che venissi»
Sana spalancò gli occhi confusa.
«Sapevo che avremmo finito per litigare, e io non voglio litigare con te.» Kamura si era calmato, perché non aveva proprio la forza di continuare a procedere in quella direzione. Il sentiero intrapreso era troppo oscuro e denso di imprevisti e preferì mettere a tacere tutte le sue voci interiori che gli suggerivano di continuare ad indagare nel cuore della sua ragazza.
«Mi dispiace…» riuscì a dire abbassando lo sguardo. Si sentì estremamente fragile in quel momento perché mai si sarebbe aspettata un simile epilogo per quella gita. Mai avrebbe pensato che sarebbe finita a parlare in quel modo con Hayama e, soprattutto, mai avrebbe ammesso prima di quella sera che i suoi sentimenti per lui erano tutt’altro che spariti. E forse la stessa cosa valeva anche per Akito.
Il problema era agire perché se c’era una cosa che non sopportava era ferire le persone e in quel momento lo sguardo di Naozumi era abbastanza inequivocabile, lei sapeva perfettamente che non era uno stupido e avrebbe dovuto pensare in fretta alla decisione da prendere.
Chiuse gli occhi e appoggiò la testa sul cuscino, sentì il corpo di Kamura appoggiarsi al suo e una sua mano stringere le sue dita come poco prima lei aveva stretto quelle di Hayama. Si maledisse per essere stata così affrettata nel decidere di cedere alle emozioni.
«Ti ricordi di quel documentario che devo girare in Egitto?»
Lei se ne ricordò in quel preciso istante. Mugugnò qualcosa in risposta.
«Tra qualche giorno dovrò partire, mi sento inquieto però, e mi perderò anche il tuo compleanno»
«Nun succederà nulla.» Non aveva nemmeno aperto gli occhi, si sorprese nell'aver scoperto la sua bravura non solo a mentire, ma a costruire addirittura un'altra sé stessa. Non riusciva proprio a riconoscersi ma si disse che omettere certi dettagli era necessario perché una persona buona come Naozumi non soffrisse per qualcosa che non sarebbe dovuto accadere.
 
***
 
Tsuyoshi pensò che se non avesse visto con i suoi occhi la tormenta della sera prima, non avrebbe mai creduto che un simile temporale si fosse abbattuto su Hakone perché, a giudicare dallo scenario che si intravedeva dalle finestre della sala ristorante, sembrava tutto tranquillo e pacifico. C’era ancora la neve ma i raggi del sole stavano lentamente provvedendo a far sparire anche quell’ultima traccia di quanto era successo la sera prima.
Afferrò con le dita una tazza di thè bollente ancora fumante e aspettò qualche secondo prima di portarla alle labbra. Lo sguardo di Aya, seduta proprio di fronte a lui, trasudava tristezza e delusione perché di certo quell’epilogo silenzioso tra i presenti era l’ultima cosa che si sarebbe aspettata da quella gita. E Tsuyoshi si sentì leggermente in colpa per essere stato lui l’insistente artefice di quel fine settimana. Senza contare che al tavolo mancavano Akito, Sana e Naozumi, i protagonisti delle loro numerose domande senza risposta.
«Io l’avevo detto comunque» esordì Mami bevendo poi un sorso di thè dalla sua enorme tazza.
«A chi scusa?» rispose Gomi un po' confuso.
«È un modo di dire sciocco. L’avevo detto io che tra Sana e Hayama c’era qualcosa»
«Ma che dici? Sana si è fatta male perché non sa camminare molto bene a quanto pare, e lui l’ha aiutata. Non mi sembra che ci sia qualcosa di più complicato dietro» Gomi insisteva con la sua visione semplicistica del mondo.
«Oh Gomi, mi sembri un bambino certe volte» questa volta fu Hisae ad intervenire, cosciente del fatto che Mami non avesse poi tutti i torti.
«Non ti sei accorto della faccia che ha fatto Kamura quando li ha visti insieme in quella stanza? Di certo la caviglia di Sana non è stata la sua prima preoccupazione»
«Sarà come dici, di certo quel Kamura ha rischiato grosso mettendo le mani addosso ad Hayama»
«Ragazzi, perché non cambiamo argomento?» li esortò Tsuyoshi, ormai saturo di quelle dinamiche.
«Che argomento?»
In quel momento Kamura e Sana, appoggiata a lui per poter camminare meglio, fecero la loro comparsa nella sala. Aya notò immediatamente non solo due occhiaie intorno agli occhi della sua amica ma, anche la sua totale inespressività. Forse era ancora stanca, o le faceva davvero male la gamba perché si sarebbe aspettata un sorriso, un saluto, un cenno di vita.
«Sana, hai fame? Ci sono così tante cose buone» Naozumi le indicò il tavolo ricco di cibo al quale erano seduti i suoi amici.
«Mm, in realtà mi sento un po' stanca.»
«Tra poco torneremo a casa…»
«Che vuol dire che tornerete a casa? Non ripartite con noi questa sera?» domandò Tsuyoshi un po' in ansia.
«Credo che sia meglio portare Sana da un medico. Non credo sia nulla di grave ma sarebbe bene non rischiare» lo informò Kamura continuando a tenere lei stretta con un braccio.
«Ma non preoccupatevi, Naozumi è sempre così ansioso», lei intervenne nel discorso prendendo leggermente in giro Kamura.
«Ma che dici, mi preoccupo lo stretto necessario», ribatté lui fingendo di essere infastidito. In realtà Sana aveva ragione nell’affermare l’estrema preoccupazione di lui nei suoi confronti ma, in quell’occasione, c’era qualcosa di strano che andava al di là della semplice caviglia slogata. Probabilmente anche i suoi amici se n’erano accorti perché nessuno aveva riso a quella battuta.
In quel momento la porta di ingresso dell’albergo si aprì e dall’uscio comparve Hayama in tenuta da corsa con le scarpe imbrattate di neve. Si fermò un istante all’ingresso per toglierle via prima di accorgersi delle voci dei suoi amici prevenire dalla sala ristorante. Alzò lo sguardo e vide la figura indistinguibile di Sana che si appoggiava con un braccio alla spalla di Kamura. Quell’immagine gli provocò un leggero sussulto perché sapeva perfettamente che di lì a breve avrebbe dovuto sostenere di nuovo il suo sguardo. Gli venne immediatamente in mente il messaggio di lei della notte precedente e una leggera rabbia iniziò a risalire a galla. Era riuscito a calmarsi grazie alla sua abituale corsa mattutina ma, entrare in hotel e vedere quei due come prima immagine della giornata, cancellò tutto ciò che c’era stato prima.
«Akito!»
La voce di Tsuyoshi rese vano ogni suo tentativo di sparire in camera senza essere notato da nessuno. Il fatto che lo avesse chiamato a voce così alta gli rendeva impossibile non essere notato da lei. Sana, infatti, si voltò di scatto verso di lui mormorando il suo nome, il viso completamente privo di qualsiasi espressione. D’accordo, c’era Kamura al suo fianco e le sue doti d’attrice, divenute sempre più elogiabili, la rendevano probabilmente in grado di mascherare ogni emozione. Ma addirittura restare totalmente impassibile, dopo quello che era successo?
Le espressioni di Kamura invece si palesarono eccome, perché sul viso del ragazzo comparve una vera e propria maschera di ostilità e Akito, ne era certo, era dedicata esclusivamente a lui.
«Sana e Kamura stanno andando via, la sua caviglia sembra farle male sul serio,» lo informò Tuyoshi, ricevendo un’occhiata ostile pure lui. Sembrava il festival della negatività, e Sana si sentiva in mezzo a due fuochi, nonostante gli altri non avessero percepito nulla di quanto stesse provando.
«Ma non è niente di grave,» disse, con la sua maschera di cera. Akito le rivolse una rapida occhiata: «Buon per te.»
E quelle furono le uniche parole che riuscì a rivolgerle prima di voltarsi verso l’ascensore che lo avrebbe riportato in camera sua. Si pentì per il tono duro con cui le aveva parlato, all’istante, ma si ricordò anche del fatto che lei sembrava essersi completamente dimenticata di quello che avevano vissuto insieme la notte precedente. Lui pensò che fosse davvero un’egoista a trattarlo in quel modo perché, al di là di ciò che provavano, si era dimostrato più che disponibile a starle vicino e aiutarla ad affrontare quelle che, era convinto, erano emozioni fin troppo forti. Le stesse che stava provando lui.
Decise che la tattica migliore era quella di dileguarsi e lasciarla perdere, perché se era vero che non desiderava altro che prenderla e portarla via lontano dalle mani di quel damerino dai capelli celesti, era altrettanto vero che la capacità di Sana di fargli saltare tutti i nervi non era affatto svanita negli anni e, per evitare di peggiorare la situazione, decise di andarsene in camera sua a preparare lo zaino. Se c’era una cosa che non voleva assolutamente fare era restare in quella stupida città termale a rimuginare sugli stupidi eventi.
 
Inizio marzo 2007
 
Sana si mise una mano sul petto, tanto per constatare per l’ennesima volta l’effetto che faceva al suo cuore l’ingresso della scuola superiore Jimbo. Le avrebbe messe entrambe, le mani sul petto, se l’altra non fosse stata impegnata a reggere la stampella che il medico le aveva consigliato di portare per qualche giorno, vista la sua ostinazione nel non voler stare a letto a riposarsi. E a pensare.
Fece qualche passo a fatica, cercando di non mettere la caviglia malandata a terra quando sentì qualcosa afferrarle un braccio. O meglio, qualcuno.
«Non mi aspettavo di vederti a scuola sai» la voce impassibile di Akito la fece quasi saltare, cosa che non andava affatto bene per le sue condizioni di salute.
«Non sarà certo una slogatura a fermarmi» rispose lei alterata, svincolando il suo braccio dalla presa di lui, un po' troppo salda.
«Non mi riferivo certo a questo. Certe volte mi fai quasi paura.»
«Eh?»
«Sei strana Kurata.» Aggiunse, porgendole una mano in segno d’aiuto.
«Preferisco strisciare piuttosto che essere aiutata da te.»
«Fa’ un po' come vuoi!»
E lei vide la sua chioma bionda di spalle fare qualche passo allontanandosi appena. Tirò un sospiro di sollievo perché era convinta che non appena si fossero rivisti, lui avrebbe in qualche modo ripreso il discorso della sera ad Hakone. Siccome non se la sentiva di affrontarlo si sentì immediatamente al sicuro quando lo vide allontanarsi per entrare a scuola.
Poi capi subito perché lui non aveva fatto il minimo cenno alla loro esperienza nella stanza lavanderia: dietro di lei c'erano Tsuyoshi, Aya e Hisae. Sana era convinta che se non ci fossero Stati loro ad attentare alla loro privacy, avrebbe dovuto affrontare Hayama, cosa per cui non era assolutamente pronta. Decise di provare ad ignorarlo, nonostante il fatto che avrebbero condiviso tutte le ore insieme. Ma se le possibilità che si ritrovassero da soli erano decisamente alte, per il fatto che erano in classe insieme, la realtà si dimostrò totalmente diversa da quel cumulo di probabilità e, arrivato il momento del pranzo, lei si dileguò come una ladra mischiandosi nella massa di studenti intenti a raggiungere la mensa.
Aveva previsto tutto: si sarebbe seduta tra Tsuyoshi e Aya i quali avrebbero dovuto accettare la momentanea separazione e, con un po’ di fortuna, Akito non si sarebbe unito nemmeno al loro tavolo. Lei sarebbe tornata in classe, lentamente ma ci sarebbe tornata, e finito il recupero Rei si sarebbe prodigato per recuperarla fin dentro l'aula. Quella caviglia di stava dimostrando un'ancora di salvezza.
Aveva previsto tutto o meglio, aveva creduto di farlo, perché quando era arrivata in mensa, per ultima nonostante avesse cercato di sgattaiolare via dall'aula per prima, si rese conto che c'era una previsione finita fuori dalla lista: Akito seduto insieme alla tizia della settimana precedente, quella tale Fumiko. Lei sorrideva timida guardando, chissà perché, il cibo di Hayama. Lui mangiava e basta, con la sua solita espressione.
Eppure Sana iniziò a provare una rabbia incontrollata. Si domandò perché lui avesse deciso di bidonare il tavolo dei suoi amici per sedersi con quella, senza contare il fatto che a lei aveva a malapena rivolto la parola. Ma come si permetteva? Soltanto lei avrebbe potuto, eventualmente, scacciarlo dal loro tavolo.
Sana iniziò a saltellare velocemente verso il centro della sala, la sua andatura goffa destò l'attenzione di un po’ tutti i presenti che notarono anche gli sbuffi provenienti dalle sue labbra. Anche Akito fu attirato dal rumore metallico dell'affare che la sorreggeva e alzò lo sguardo verso di lei. E come un’onda che distrugge un castello di sabbia, anche la rabbia di Sana fu distrutta dallo sguardo fermo e deciso di Hayama che la spinse a voltarsi immediatamente dalla parte opposta.
Ma cosa credeva di fare? Andare lì e fargli una scenata di gelosia? Proprio lei? Iniziava sul serio a dubitare di sé stessa e della sua lucidità. Abbassò la testa e pensò per due secondi a come avrebbe potuto svincolarsi da quella situazione in cui si era messa quando qualcuno la chiamò, Aya. Si sentì scioccamente salva per aver trovato una via di fuga, seppur momentanea, quindi scappando anche dallo sguardo di Akito, si diresse a fatica verso il tavolo dei suoi amici con la speranza che almeno loro non le chiedessero nient’altro.
 
***
 
Sana iniziò a pensare di aver fatto una grossa sciocchezza a tornare a scuola in quelle condizioni. Di certo non era nulla di grave, niente se paragonato alla sua promozione in bilico che necessitava più di un pomeriggio di recupero. Il problema era che ci impiegava un tempo interminabile a raggiungere qualsiasi posto con quella stampella e la caviglia gonfia, facendo una fatica immane.
Sbuffò esausta quando si ritrovò finalmente davanti alla sua classe poco prima che iniziasse l’ennesimo pomeriggio di recupero. Purtroppo il fatto di essere così lenta le impedì di sfuggire all’ennesimo incontro con Hayama – e Fumiko al seguito – che sembrava averle messo una calamita addosso. Vide i due salutarsi non appena Akito si era accorto della sua presenza a qualche metro di distanza, una distanza che le sue gambe, entrambe funzionanti, erano perfettamente in grado di colmare in pochi minuti. Sana cercò di accelerare il passo verso la classe, ma il suo terzo arto metallico era così difficile da gestire che in tre secondi avvertì chiaramente la presenza di Hayama alle sue spalle, anche perché lui le puntellò un dito sulla spalla.
«La smetti di fuggire? Sei lenta come una lumaca, oltretutto…»
«Non sto fuggendo, sono in ritardo per il recupero»
«Non trattarmi da stupido. Lo so che mi stai evitando»
«Evitarti? Ma no…» ma ogni tentativo di fuga, ennesimo, si sarebbe rivelato quanto meno inutile perché Hayama conosceva Sana meglio di quanto lei credesse.
«Questo è il tuo modus operandi. Sei come un serial killer.»
«Io sarei un serial killer?» Lei questa volta rivolse uno sguardo stranito ad Akito che, di rimando, le si avvicinò ancora di più facendola vacillare.
«Sì, ti comporti sempre allo stesso modo. Ecco perché ero convinto che avresti marinato le lezioni e saresti scomparsa di nuovo,» disse quelle ultime parole con lo sguardo rivolto per terra e lei, per la prima volta, vide sul suo viso la sofferenza che anche lui aveva provato in quegli anni lontani.
«Hayama…»
«Ora possiamo parlare? Per favore…»
Sana si sentì completamente disarmata, sapeva che almeno quello glielo doveva dopo quello che era successo ma l’apparizione di Fumiko dietro le spalle di lui la fece piombare nuovamente in un baratro di rabbia. Perché lei aveva fatto soffrire qualcuno di proposito, Naozumi per la precisione, e lui se ne andava in giro con quella lì per poi scocciarla con la sua voglia di parlare.
«Akito, non mi hai detto a che ora possiamo vederci oggi…» Per la prima volta Sana sentì la sua voce e pensò che fosse dolce, femminile, docile e timida. Un po' l’esatto contrario della sua. La guardò bene e pensò anche che non era affatto male anzi, in circostanze diverse avrebbe detto anche che fosse carina.
«Ah già. Ci vediamo alle quattro in punto.» Disse semplicemente ricevendo da lei un timido sorriso in risposta. Poi lo sguardo di Fumiko si spostò verso Sana e, come se la vedesse per la prima volta nella sua vita, le rivolse un’espressione confusa. Poi salutò entrambi con un cenno della mano e così come era venuta, sparì dalla loro vista.
«Dicevamo?» Hayama insisteva.
«Niente!»
«Oh andiamo Sana, quando la smetterai di comportarti come una bambina?»
«Quando tu mi lascerai in pace!» Sì, l’aveva detto sul serio. «Dovresti andartene sai, la tua amica mi sembra persa senza di te»
Hayama alzò entrambe le sopracciglia, davvero sorpreso di sentirle dire quelle cose. Cosa c’entrava Fumiko in quel discorso? Possibile che fosse ancora così ottusa, proprio come sosteneva Tsuyoshi?
«Ci risiamo. Mi sto arrabbiando sul serio!»
«Fa’ pure, che me ne importa.»
Ma la pazienza di Hayama, che aveva davvero i minuti contati, si esaurì come acqua nel deserto e, spinto da un’irrefrenabile rabbia improvvisa, raccolse Sana come un sacco di patate e se la mise sulle spalle. Le proteste della ragazza furono abbastanza vane, visto il fatto che non solo la sua forza era pari al quadruplo della sua, ma in quelle condizioni non aveva davvero nessuna speranza di vincere la gara.
«Hayama, sappi che quando toccherò di nuovo terra, rimpiangerai di avermi trasportata come uno dei tuoi sacchi da boxe.»
Lui di rimando ridacchiò divertito e, per un brevissimo attimo, Sana rimpianse di non poter godere di quel raro spettacolo. Ma fa un attimo davvero breve.
La portò in infermeria, era completamente vuota e loro furono finalmente lontani da occhi e orecchie indiscrete.
«Bene, per colpa tua salterò il recupero e perderò l’anno!»
«Se lo perderai sarà solo a causa della tua ignoranza.»
Sana incrociò le braccia al petto, poggiando tutto il suo peso sul piede destro.
«Coraggio, dimmi quello che devi e facciamola finita.»
Hayama sospirò e strinse i pugni cercando di trovare le parole, poche, adatte a quel momento con lei. Era stato così convinto di volerle parlare che non aveva minimamente pensato a cosa dirle.
«Com’è andata con Kamura?»
«Gli ho mentito, gli mento da giorni…» Disse lei con un’infinita tristezza in viso. Hayama mugugnò.
«Ora lui non c’è e mi sembra di essere tornata a respirare. Sono orribile.»
«Mi sembrava che anche tu lo volessi!»
«Per questo sono orribile… ma che mi sta succedendo? Io non ho mai tradito nessuno in vita mia. E anche tu non sei un granché visto come tratti quella ragazza.»
«Sana non provocarmi di nuovo.»
«Sei tu quello che prima mi bacia come se fosse l’ultimo giorno del mondo e poi prende ed esce con un’altra, e sarei io a provocarti?»
«Tu non guardi oltre la punta del tuo naso, sciocca babbea,» disse con un tono un po' troppo arrabbiato per poi ridimensionarsi subito, avvicinandosi a lei: «Perché continui a parlare di cose che non sai?»
«Allora dimmele queste cose.»
«Perché, ti interessano?»
«Si!»
Questa volta fu il tono di lei a farsi duro, nonostante non fosse nella posizione per farlo, diede voce ai suoi pensieri più profondi con una semplice particella affermativa. Lui arrossì di colpo. Poi fece un solo passo verso di lei, colmando la distanza in meno di un minuto, Sana non si mosse perché si sentiva completamente paralizzata da quello sguardo così deciso. Hayama era deciso a farle capire certe cose ed era convinto di essere sulla strada giusta perché Sana era ancora lì, appoggiata al muro dell'infermeria, con i palmi delle mani contro la parete. Era agitata, lui riusciva a sentirlo, ma era ancora lì.
Akito le accarezzò il viso con entrambe le mani, percorrendolo interamente come se lo stesse disegnando. Le spostò poi una ciocca di capelli dalla fronte.
«Non possiamo farlo…  non di nuovo,» Riuscì a malapena a marmorare Sana, con un leggero filo di voce fuoriuscito chissà come dalla sua gola in fiamme.
Akito non le rispose nemmeno, avvicinando lentamente il suo viso a quello di lei, per darle la possibilità di concretizzare la frase di poc'anzi. Ma non accadde nulla.
Allora le baciò il collo schiudendo appena le labbra sulla sua pelle, riusciva chiaramente a sentirne il profumo e si sorprese a pensare che davvero avrebbe potuto stare così fino alla fine dei suoi giorni. Non c'era nient'altro che desiderasse fare in quel momento, allora strinse le braccia intorno al suo corpo e di rimando lei fece la stessa cosa, percorrendo la sua schiena con le dita, fino a stringerle contro il tessuto morbido della camicia.
«Hayama…»
«Mh?» Mugugnò appena, senza interrompere ciò che stava facendo. Non lo avrebbe fatto per niente al mondo, solo se lei gli avesse chiesto di smettere, cosa che sperava vivamente non accadesse.
Dopo la notte ad Hakone aveva capito di provare un profondo desiderio verso di lei, verso quel corpo. Non c'erano solo sentimenti antichi a giocare la loro partita. Akito desiderava Sana in un modo che faceva quasi male, un desiderio fisico che riusciva sempre ad avere la prima parola in ogni discorso affrontato con lei.
«Dovremmo…  fermarci.»
Akito annuí con il viso completamente affondato nell'incavo del suo collo. Nemmeno Sana credeva alle parole che lei stessa aveva pronunciato ormai completamente rapita da lui, dal suo profumo, dal valore del suo corpo, da ciò che immaginava sarebbe potuto succedere di li a qualche minuto. E le venne un brivido lungo il ventre scoprendo di non desiderare altro che accadesse, qualsiasi cosa, che lui continuasse a baciarla e che non smettesse mai.
Emise un leggero, quasi impercettibile gemito, che spinse Akito a lasciar stare il collo allontanandosi da lì, si spostò verso il suo viso e rimase quasi imbambolato nel vederla completamente abbandonata a lui, ne era certo, in quel momento lei voleva lui almeno tanto quanto lui volesse lei.
Di getto le baciò le labbra e lei rispose immediatamente a quel gesto, schiudendo la bocca appena affinché le loro lingue si incontrassero nuovamente in quel gioco pericoloso e proibito. Non pensava più a niente, nemmeno alla caviglia dolorante, al fatto di essere in un posto sì vuoto, ma comunque ancora potenzialmente pronto ad accogliere studenti ammalati. L'unica cosa che riempiva la sua testa era il profumo di Akito, le sue labbra morbide e la lingua che si muoveva incredibilmente bene insieme alla sua, quasi come se avessero preso lezioni di danza insieme. Poi lui le cinse la vita e dolcemente la spinse contro il lettino accanto a loro, non ne poteva più di sentirla così lontana, nonostante fossero appiccicati. Voleva sentire il suo corpo su di lei, un perfetto complice della gravità, che avrebbe fatto il proprio lavoro egregiamente.
La spinse appena verso il basso, continuando a baciarla, si insinuò sul suo corpo non riuscendo più a distinguere il battito del suo cuore da quello di lei. Si scostò solo un istante, il tempo necessario per ammirare il suo viso confuso. Gli piaceva da morire e non riusciva a credere che finalmente quel desiderio che le leggeva negli occhi, nonostante la confusione, fosse dedicato solo a lui. Sana invece provava una miriade di sensazioni contrastanti perché, se da un lato moriva anche lei dalla voglia di continuare a baciare quelle labbra tremendamente morbide e buone, dall’altro non riusciva a fermare i pensieri che la assillavano tanto da farle scoppiare la testa. Era chiaro a tutti, ormai, che aveva intrapreso una strada pericolosa, ma alla fine il fatto di averla imboccata insieme a lui le diede un briciolo di sicurezza in più. Pensava addirittura di poter gestire quella faccenda senza far soffrire nessuno. In quel momento, nonostante fosse consapevole di stare tradendo il suo fidanzato di nuovo, non riusciva a sentirsi in colpa per quanto era felice di trovarsi tra le braccia di Hayama.
Lui di nuovo azzerò le distanze, e affondò le sue labbra in quelle di Sana che inaspettatamente non chiedevano altro. La sentì sospirare, pesantemente, e si chiese se avrebbe potuto mai fermarmi qualora lei glielo avesse chiesto. Ma non fu lei a farlo bensì dei rumori provenienti dal corridoio che si avvicinavano pericolosamente. Akito si fermò all’istante e alzò appena la testa rivolgendo lo sguardo alla porta d’ingresso. Sana invece sgranò gli occhi spingendo le sue mani contro il petto di Hayama esercitando una forza sufficiente affinché lui capisse di dover abbandonare la nave all’istante.
«Che state facendo qui dentro?» L’infermiera tornata dalla pausa pranzo rimase a dir poco allibita nel vedere Sana stesa sul lettino e Akito capitolato per terra esattamente dalla parte opposta.
«Ero venuta a riposare, ho una caviglia slogata,» disse indicando la candida fasciatura all’estremità della gamba sinistra. Ancora una volta quell’incidente le aveva salvato la vita, e la reputazione.
«E tu giovanotto?» disse appoggiando le mani sui fianchi.
«Oh lui mi ha portata qui perché da sola non riuscivo a camminare…»
«E sono caduto, perché lei è troppo pensate.» Aggiunse lui massaggiandosi la nuca per la botta appena presa. Sana gli lanciò un’occhiataccia che ricevette in risposta la sua solita alzata di spalle.
«D’accordo, ora però dovete andare perché devo sistemare.» L’infermiera non parve molto convinta da quel racconto ma Sana e Akito ne approfittarono per svignarsela. O meglio lui se la svignò, mentre lei cominciò a saltellare sul piede sano, mettendoci circa un quarto d’ora a raggiungere il corridoio.
«Ce la fai da sola?» Hayama riapparve dietro l’angolo dell’infermeria come un fantasma.
«Non vorrei che ti rompessi qualcosa, sai sono così pesante.» Proferì lei irritata. La cosa divertì molto Hayama, seppur dentro di sé, e si avvicinò a lei cingendola per la vita con entrambe le braccia. Le diede un bacio veloce sul collo provocando qualcosa come sette infarti di fila al cuore già provato di Sana. Poi controllò l’orologio.
«Devo andare o farò tardi. Ti chiamo…» ma non riuscì a finire la frase perché sentì immediatamente un senso di confusione inondargli il cervello. La sua testa fece qualche giro metaforico su sé stessa a causa del sonoro ceffone che Sana gli aveva appena mollato con tutte le sue forze. Quasi barcollò anche lei.
«Ma sei diventata matta?» la accusò portandosi immediatamente una mano sul punto dolente.
«Sei un pervertito, ecco cosa sei. Guarda che me lo ricordo, che hai un appuntamento con la tua amica» gli urlò in faccia, voltandosi poi dalla parte opposta riprendendo la sua goffa avanzata su un piede solo. Aveva anche perso la stampella e si domandò seriamente quanti secoli ci avrebbe messo ad arrivare in classe. Probabilmente a recupero finito.
Quando poi lui la fermò, stringendole un braccio, pensò che quella era la volta buona in cui sarebbe caduta di nuovo, rompendosi qualche altro arto o addirittura restando invalida a vita. Il tutto a causa di Hayama il pervertito.
«Ti racconterò di lei, ma siccome a differenza tua Fumiko è una persona puntuale, non voglio farla aspettare. Ma non è come pensi.»
«Ah no? A me sembra invece proprio così.»
«Bene, e ora cosa farai? Mi manderai un altro messaggio stanotte in cui ribadisci che è stato un errore?»
«Puoi contarci!»
Lui sbuffò pesantemente, rilassando le spalle anche un po' compiaciuto per quella scenetta che ai suoi occhi era totalmente fuori luogo.
Si avvicinò poi prendendo il suo viso tra le mani e posandole un lieve bacio sulle labbra prima di voltarsi e avviarsi verso l’uscita della scuola.
Sana non seppe spiegarsi come si sentiva un quel momento, di certo orribile per il senso di sollievo che sentì pensando a Naozumi lontano mille mila chilometri. Si limitò a sfiorarsi le labbra con le dita alla ricerca dell’ultima traccia di Hayama.


*Note d'autrice*

Eccomi con il capitolo dei sensi di colpa. Dunque, che dire a parte che è stato veramente un parto. E' difficile immedesimarsi in qualcuno che vive o compie un tradimento perché, oltre all'oggettivo senso di colpa (a meno che non sei una bestia ahaha) credo siano reazioni estremamente soggettive e personali. Però avevo in mente questo fin dal primo capitolo, far interfacciare Sana con cose che succedono davvero nella vita e che, spesso, non sono per forza delle cattive azioni. O comunque non fatte con cattiveria. A voi cosa ve ne pare? Spero di essere stata abbastanza IC, soprattutto per Sana che è la mia spina nel fianco eheh.
Detto ciò aspetto il vostro sempre indispensabile parere. Finalmente sono in vacanza, quindi spero di riuscire a postare il prossimo capitolo in tempi più brevi.
Come sempre vi ringrazio, TUTTI, per recensire, preferire, seguire o leggere questa storia. Siamo oltre la metà e non manca tantissimo alla fine :D
Un bacio a tutti
Alex

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Capitolo 11
*** Capitolo 9 - Quando tutto accade ***


Capitolo 9

Quando tutto accade
 
Sana era tentata dal seguire Akito e scoprire cosa dovesse fare, alle quattro in punto, insieme a Fumiko. Era ancora sigillata in classe a causa del recupero e, come se non bastava, Rei sarebbe arrivato a momenti per prelevarla e portarla direttamente agli studi televisivi. Ma tutto ciò che voleva fare era pedinare Hayama, scoprire la natura di quell’appuntamento, e tornarsene a casa a pensare alla persona orribile che era.
Già, perché se Hayama occupava il novanta per cento dei suoi pensieri, l’altro dieci per cento era esclusivamente rivolto al suo fidanzato, impegnato in Egitto e lontanissimo da lei. Forse era quello il motivo per cui era ricaduta tra le braccia del suo migliore amico, si sentiva sola e aveva bisogno di attenzioni.
Ma quella notte ad Hakone non era affatto sola, pensò, eppure le attenzioni di Hayama le aveva desiderate eccome. Sbuffò sonoramente, lasciandosi andare sul banco quasi a peso morto.
«Signorina Kurata, devo dedurre che le lezioni di recupero non sono di suo interesse.»
«Cosa? No no, sono attentissima.»
Riuscì a ricomporsi all’istante.
«Mh… devo dire che i suoi voti sono leggermente migliorati, comunque.»
«Ah sì?»
Sana si dimostrò più sorpresa del suo insegnante e per un attimo si sentì più leggera. Almeno uno dei suoi problemi sembrava essere in procinto di essere risolto.
Per fortuna il recupero era ormai giunto al termine e quando lei, a fatica, raggiunse il corridoio esterno alla sua aula, Rei era già lì ad aspettarla con una stampella di riserva.
Sana gli sorrise andandogli incontro.
«Come è andata oggi?» Le domandò una volta in macchina, guardando la strada dritto davanti a loro.
«Bene. Rei, posso farti una domanda?»
«Certo Sana-chan.»
«Pensi sia possibile essere una persona crudele, pur non considerandosi tale?»
Rei ci pensò su due minuti cercando di capire la natura di quella domanda. Nonostante ormai avesse sedici anni, Sana per certi versi gli sembrava ancora una bambina e, nonostante tutto, non era così insolito che lei gli rivolgesse domande di quel tipo. Il problema era trovare le parole giuste per risponderle.
«Beh, credo che nella vita di una persona ci siano infinite situazioni da affrontare, e non sempre esiste un codice, una regola per farlo nel modo giusto. A volte è inevitabile che qualcuno soffra.»
Sana restò immobile, attentissima alle parole del suo manager.
«Credo anche che spesso facciamo troppa fatica a prendere atto delle sfumature che hanno le persone, perché ci aspettiamo sempre dei comportamenti lineari… ma non sempre accade. Ma dimmi, è successo qualcosa?»
«No no, ero solo curiosa. Ho letto un libro di recente, in cui la protagonista tradisce il fidanzato con un altro. Ma nonostante i sensi di colpa e il fatto di ritenersi una persona buona, continua a farlo… proprio non riesce a smettere», raccontò quella storia priva del coraggio necessario per continuare a guardare Rei in faccia, timorosa di essere scoperta. Che lui capisse che la protagonista di quel libro altri non era che Sana Kurata, stella nascente della televisione giapponese.
«Oh, è come finisce il libro?»
«Non lo so, ho smesso di leggerlo.»
Rei la guardò perplesso per un attimo, il tempo sufficiente per capire che qualcosa la turbava. Erano alcuni giorni che Sana era diversa, pensierosa, triste, assente e a lavoro rendeva ai minimi storici. Certo non era quella la sua principale preoccupazione: a lui interessava in primis la sua salute e il suo benessere, e quando Sana era troppo euforica o troppo silenziosa c’era sicuramente qualcosa che non andava.
Nonostante tutto, l’essere triste e sovrappensiero, la giornata agli studi televisivi fu abbastanza produttiva e Sana riuscì a registrare i due episodi in programma per quel pomeriggio. Qualcuno le chiese se fosse stanca, un altro la trovò dimagrita, molti le chiesero cosa avesse fatto alla gamba, tutti nominarono Naozumi e il suo documentario in Egitto almeno una volta in sua presenza. Rei fu molto attento ai suoi cambiamenti d’umore e d’espressione e notò facilmente il rabbuiarsi del suo viso quando il nome di Kamura saltava fuori come un canguro impazzito. Evidentemente il problema di Sana risiedeva lì, nella sua storia complicata con Naozumi Kamura.
Il viaggio di ritorno durò quasi un’eternità, probabilmente perché nessuno dei due presenti proferì parola: Rei era decisamente troppo impegnato a pensare alla salute della sua protetta, quanto a quest’ultima, le sue attenzioni erano rivolte tutte ad Hayama e al suo misterioso pomeriggio con Fumiko.
Aveva controllato il cellulare ad ogni fugace pausa tra un ciak e l’altro, con la speranza di trovare un suo messaggio, un avviso di chiamata… qualsiasi cosa la potesse ricondurre a lui. Ma non aveva trovato mai niente. Se non una email di Kamura in cui le allegava una foto di lui con le piramidi di Giza sullo sfondo. Un sorriso un po’ malinconico, di cui Sana si attribuì ogni colpa.
Il cellulare lo aveva controllato anche poco prima di entrare nella strada privata di casa Kurata, ma di Hayama non c’era traccia, volatilizzato nel nulla.
Insieme a Fumiko.
Sana sentì le guance arrossarsi e accaldarsi, nonostante l’aria fredda della sera. Si mise le mani sul viso e sentì il suo cuore battere più forte al pensiero di Akito insieme a quella ragazza, al tormento che la stava dilagando nel non sapere che fine avesse fatto e alla telefonata che lui aveva promesso di farle ma che non era mai arrivata.
Rei si fermò davanti al cancello della sontuosa villa: «Tu inizia a scendere, io vado a parcheggiare.»
Sana annuì distrattamente, aprendo la portiera dell’auto per inerzia, e con qualche movimento goffo dovuto alla stampella con cui andava in giro, lasciò solo Rei nell’abitacolo caldo della sua macchina.
Fece qualche passo impiegandoci più tempo del dovuto quando ad un tratto dovette fermarsi per dare alla sua mente il tempo di realizzare ciò che aveva davanti.
«Ciao.»
Hayama era fermo dietro il tronco di un albero, posto esattamente al lato destro del cancello d’ingresso di casa sua. Non fece nulla, perché se avesse dovuto seguire il suo istinto, Hayama probabilmente ne sarebbe uscito con qualche livido in faccia. Sì, perché si sentiva arrabbiata, furiosa, perfino tradita. Gli rivolse un’occhiata accigliata e si morse un labbro, come a catalizzare proprio lì tutti quei sentimenti negativi.
«È successo qualcosa?»
Il suo tono di innocenza e sorpresa le fece saltare qualche nervo.
«Avevi detto che mi avresti chiamata», piagnucolò infine, dando completamente sfogo alla sua preoccupazione ma, soprattutto, alla sua tremenda gelosia.
«Ah…»
Il monosillabo di Hayama non contribuì ad attenuare la rabbia di Sana.
«Ma mi rendo conto che fossi troppo impegnato per chiamarmi.»
Hayama alzò un sopracciglio quasi stordito da quel commento di lei. Era sempre più convinto che nella caduta quella notte ad Hakone avesse perso anche qualche rotella, perché era più strana del solito.
Il silenzio stampa di lui fu sufficiente a spingere la volontà di Sana ad abbandonare la scena e, a fatica, iniziò a saltellare sul piede sano, alternando a quei movimenti, qualche falcata meccanica sostenuta dalla stampella di plastica. Ma lui la raggiunse bloccandola per un braccio, il che la costrinse a voltarsi alle sue spalle.
«Non ho più il cellulare.»
«Che significa?»
«Che non ce l’ho più. È caduto e si è rotto.»
Sana rifletté qualche minuto. Poi la sua rabbia aumentò.
«Avresti potuto dirmelo, anziché promettere una chiamata che non avresti potuto comunque fare.»
«Me ne sono dimenticato, ecco perché sono venuto a casa tua.»
Sana si fermò ad osservare il suo viso, la sua espressione imbarazzata e non riuscì a coglierne il motivo. Che avesse qualcosa di scomodo da rilevarle?
«D’accordo, comunque ti ascolto.»
«Senti, non è che posso entrare in casa? Sto congelando», disse lui, tremando appena per l’effettivo freddo della temperatura esterna. Sana probabilmente non aveva percepito quanti gradi mancassero al raggiungimento di una temperatura ideale, perché era comodamente custodita in un caldo cappotto di lana – con tanto di sciarpa e guanti – ma Akito no, probabilmente era uscito per la sua corsa serale e li, all’addiaccio, c’era rimasto, in attesa che Sana tornasse a casa dai suoi impegni lavorativi.
Lei spalancò gli occhi sfilandosi al volo la pesante sciarpa che aveva al collo.
«Oh sì certo, non mi ero accorta che facesse così freddo.»
«È naturale, hai scuoiato un bisonte lanoso e te lo sei messo addosso.»
«Devo preservare la mia forma fisica, sono una donna dello spettacolo.»
Dicendo ciò avvolse Hayama nella sua pesante sciarpa, riuscendo anche a fare un secondo giro sul ragazzo. Lui rimase immobile, fissando la sua espressione impegnata ad infiocchettarlo per bene affinché non sentisse più freddo. Allora sentì lo stesso incredibile impulso che aveva già provato diverse volte, quando era solo un bambino e non era nemmeno in grado di dare un nome a quella sensazione. Quindi si sbilanciò leggermente verso di lei rubandole un bacio sulle labbra come non faceva dai tempi delle elementari. In quello, Akito si era sempre considerato un maestro indiscusso e, benché con Fuka avesse decisamente perso qualche punto, si sentì immediatamente pronto ad avanzare di livello.
Sana, dal canto suo, fu sorpresa proprio come ai vecchi tempi. Tuttavia il fatto che si era scoperta di desiderare e amare i baci che le dava Hayama, fece sì che la reazione fosse completamente diversa. E lo abbracciò, gettandogli letteralmente il pesante mantello lanoso al collo facendolo vacillare un po’.
Un paio di colpetti di tosse ricordarono ai due ragazzi di non essere soli in un’isola deserta.
«Sana? Ma cosa stai facendo?»
Akito fu nuovamente scaraventato a qualche metro di distanza dalle braccia di Sana che, a fatica, la aiutarono a ripristinare l’equilibrio perso durante lo scatto funesto.
«Rei… niente! Hayama è venuto a trovare la mamma.»
Entrambi i presenti assunsero un’espressione stranita e confusa, poi il più adulto assottigliò lo sguardo traendo ben altre conclusioni.
«D’accordo.»
Poi rivolse un’occhiata incupita ad Akito che gli rivolse un’alzata di spalle indifferente. Il sangue che correva tra i due continuava ad essere tutt’altro che buono e Sana, la cui preoccupazione principale era di essere stata colta in fragrante, fece qualche passo a fatica verso Rei.
«Io e Hayama dobbiamo parlare. Per favore, non dire niente.»
Il tono di supplica di Sana intenerì profondamente Rei, che non riusciva proprio a dirle di no. E capì anche la natura dei discorsi della ragazza di quel pomeriggio.
«Sta’ tranquilla. Coraggio, entrate in casa.»
Hayama non frequentava casa Kurata da molto tempo, da anni in realtà. Non si sorprese affatto di trovare la signora Kurata con un grosso luna park costruito sulla sua testa, luogo in cui Maro stava compiendo numerosi giri di ottovolante, noncurante della possibilità di finire nella bollente tazza di the che la signora stava sorseggiando.
Hayama era seduto sul divano del loro soggiorno, accanto Sana iniziava ad essere nervosa perché voleva assolutamente trovare il modo di poter parlare con lui divincolandosi dalla scusa che lei stessa aveva rifilato un po’ a tutti. Rei era in piedi accanto alla porta della stanza con le braccia conserte.
«Akito, come ti va la vita?»
La signora Kurata gli rivolse un sorriso tranquillo, come se in quegli anni Hayama fosse stata comunque la presenza costante nella vita di sua figlia che era sempre stato.
«Non mi lamento.»
«Bene. E la tua famiglia?»
«Stanno bene anche loro.»
La madre di Sana fece un sorriso soddisfatto prima di attingere nuovamente al suo the, tranquilla. Rilassò le spalle prima di alzarsi in piedi davanti ai due ragazzi: «Ora vi lascio soli. Immagino abbiate qualcosa di cui discutere e io ho un romanzo da finire.»
La sua figura statuaria circumnavigò i due ragazzi, posizionandosi proprio accanto a sua figlia. Le si avvicinò ad un orecchio, sussurrando qualcosa a proposito di precauzioni da prendere non prima di averle rivolto uno strano sorriso beffardo. Sana scattò in piedi come una suricata vigile nella savana rivolgendo uno sguardo infiammato a sua madre:
«Ma che razza di consigli mi dai, mamma?»
Akito rivolse il viso verso Sana, la quale sembrava stesse per provare l’esperienza dell’autocombustione spontanea.
«Che succede? Che ti ha detto tua madre?»
«Oh niente.»
Fu la signora Kurata a rispondergli, sparendo poi dalla stanza lasciando solo l’eco della sua sonora risata. Hayama si domandò se fosse sul serio solo la madre adottiva di Sana perché, se non lo avesse saputo con certezza, non avrebbe avuto alcun motivo di dubitare della massiccia condivisione di geni da parte di entrambe.
Quanto a Sana, l’imbarazzo che l’aveva travolta fece sì che non rispondesse delle sue azioni, quindi, acciuffò Hayama per il collo della felpa che indossava e lo spinse verso la porta che conduceva al corridoio, faticando non poco a tenere a bada sia lui che la sua caviglia slogata.
Nonostante l’impresa fosse stata ardua, i due riuscirono a trovare un momento di solitudine nella camera di Sana.
Hayama si guardò intorno: quella era la prima volta che metteva piede in camera sua. Alzò gli occhi al soffitto e si stupì di trovarlo tappezzato di fotografie, si immaginò il momento in cui lei le aveva attaccate trovando un posto per farlo decisamente insolito.
«Così posso vederle e pensare.»
«Beh, potevi farlo anche se le avessi messe altrove.»
«Ma a me piacciono lì dove sono!»
«D’accordo.»
Hayama rispose con un tono di voce decisamente annoiato. Aveva capito che con Sana non c’era verso di poter replicare andando contro le sue idee o le ragioni per cui agiva in un modo o in un altro. D'altronde quell’aspetto era talmente radicato in lei che Akito si convinse del fatto di non poter fare a meno nemmeno più di quello, escludendo alcune sue reazioni esagerate.
Sana si sedette sul davanzale della finestra di casa sua imbronciando il viso. Hayama pensò che l’altra sua personalità, quella che gli aveva gettato le braccia al collo in cortile quando lui l’aveva baciata a tradimento, era finita chissà dove e si domandò se avrebbe avuto l’occasione di poterci avere a che fare nuovamente nel breve termine.
«Coraggio Hayama! Sputa il rospo e dimmi cosa sei venuto a fare a casa mia a quest’ora.»
«Te l’ho detto, ho rotto il cellulare e sono venuto a dirtelo di persona.»
«Pensavo avessi altro da dirmi.»
Lei si posizionò indice e pollice sul mento, come un moderno Sherlock Holmes in procinto di interrogare – ed incastrare – il presunto colpevole di un misfatto. E Hayama, agli occhi di Sana, aveva appena compiuto uno spiacevole misfatto.
«Altro?»
Sana si sentì invadere da una rabbia incontrollabile, possibile che Akito non capisse il suo stato d’animo e che avesse trascorso la giornata a pensare a cosa aveva di tanto urgente da fare insieme a quella Fumiko? Allora lo afferrò nuovamente per il colletto della felpa, scaturendo un moto di sorpresa nello sguardo di Hayama.
«Perché non mi racconti dove sei stato oggi?»
Quasi gli urlò in faccia.
«Ehi, cos’è tutta questa violenza?»
«Possibile che tu non capisca mai niente?»
Hayama la guardò in viso e, inaspettatamente, le sue labbra si piegarono leggermente all’insù, rivelando alla sua improvvisata assalitrice un piccolo quanto soddisfatto sorriso.
«Cos’è quello?» Sana gli puntò un dito sul viso – dopo averlo liberato dalla presa delle sue mani – condendo il tutto con uno sguardo sgomento.
«Niente.»
Hayama si divincolò mettendo le mani dietro la schiena, come se stesse nascondendo qualcosa e a Sana sembrò che gli fossero spuntate un paio di orecchie da leopardo in mezzo alla zazzera bionda.
«Va bene, ho capito. Non vuoi parlarmi di lei… lo capisco.»
E di colpo assunse un’espressione accigliata abbassando lo sguardo in modo da poter sfuggire da quello di lui. Akito invece aveva appena realizzato di averla provocata un po’ troppo e che, nonostante quelle buffe manifestazioni di gelosia in fondo lo facessero sentire così bene come non accadeva da tempo, capì anche di aver tirato troppo la corda, in un momento in cui lei non aveva proprio bisogno di sentire addosso il peso di altre incertezze.
«No aspetta un attimo.»
«Che altro vuoi?»
Sana rilassò le spalle e si sedette sul grande letto in mezzo alla sua stanza. Fu raggiunta da Hayama che fece la stessa cosa, poco distante da lei.
«Io non sto facendo tutto questo casino per niente. Se ci fosse un’altra, nella mia testa, ora non sarei qui.»
Hayama aveva sempre avuto una grande abilità, fin da quando erano bambini. Aveva trasformato, probabilmente nemmeno per sua stessa volontà, la sua incapacità di pronunciare lunghi e conditi discorsi nell’atto più semplice e primordiale di andare dritto al punto, utilizzando sempre e solo poche parole.
Quelle essenziali.
In quel momento non era più necessario rivelare la natura del suo rapporto con quella ragazza, perché erano bastate quelle poche parole dette con uno sguardo serio ed insistente, puntato dritto negli occhi di Sana. E lei si sentì stupida, colta da un profondo imbarazzo e disagio perché si era comportata in maniera impulsiva e infantile, senza tenere conto di lui e di quanto fosse dentro a quella storia.
«Comunque, Fumiko è la nipote del mio maestro di Karate. Purtroppo a scuola ha dei voti peggiori dei tuoi, il che mi fa provare una profonda pena per quella ragazza…»
«Ehi, ma come ti permetti? Io sto recuperando alla grande!»
«Ah davvero?»
«Sì, è esattamente quello che mi hanno detto a scuola oggi.»
«Buon per te. Ad ogni modo, oggi ho passato il pomeriggio a darle ripetizioni di matematica. Perché il maestro mi ha pregato di farlo.»
«Non ci credo, sei diventato così buono Hayama?»
«Beh, in realtà mi ha promesso che per i prossimi due mesi non mi farà mai più sedere sui talloni. Qualunque cosa accada. Mi è sembrata un’offerta ragionevole.»
Sana sbuffò seguendo afflitta lo sguardo beffardo di Hayama.
«Povera Fumiko…»
«Ma sentila, fino a cinque minuti fa eri gelosa marcia.»
«Io gelosa? Ma cosa dici, io non sono gelosa di nessuno.»
Lui non le diede retta, si sollevò appena, il movimento necessario per accorciare ancora di più le distanze tra loro e di colpo allungò un braccio verso di lei, cingendole le spalle piccole. La attirò verso il suo petto, facendo in modo che anche l’altro braccio compiesse la stessa azione nel primo, in una stretta che a Sana, inizialmente, sembrò quasi inopportuna. Si sentiva rigida e un po’ a disagio essere abbracciata in quel modo da Hayama, nella sua stanza, sul suo letto.
«Kurata?»
«Sì…»
«Come stai?»
«Sono molto confusa, ho così tante cose per la testa. Non so proprio cosa fare…»
Sana abbassò lo sguardo, appoggiando il viso sul petto del ragazzo. Ripensò rapidamente agli ultimi eventi trascorsi, a quello che era successo nelle ultime settimane della sua vita. In cima alla lista c’era sicuramente la ricomparsa di Hayama nella sua esistenza e tutto ciò che questo aveva comportato: dal suo ritorno a scuola fino a quella notte ad Hakone e alle bugie raccontate a Naozumi. Non faceva altro che sentirsi in colpa per il solo fatto che la ritrovata presenza di Hayama nella sua vita la facesse stare così bene, e non riusciva a capire quale fosse la strada giusta da intraprendere affinché nessuna delle persone a lei care soffrisse a causa sua.
Hayama non proferì parola, si limitò solo a spostare una mano dalla schiena ai suoi capelli, iniziando ad accarezzarglieli distrattamente, passandosi qualche ciocca tra le dita. Quel lento movimento, quasi ipnotico, permise ai muscoli di Sana di allentare la tensione creatasi appena le braccia di lui l’avevano stretta e, probabilmente, quella ritrovata tranquillità fu percepita anche da Akito.
«Senti, lo so che è difficile… lo è anche per me.»
Quelle parole ebbero nuovamente il potere di farla riflettere, così come succedeva un tempo, quando lei ed Hayama erano solo due bambini, con problemi sulle spalle troppo grandi per la loro età. Lui aveva sempre avuto il potere di rassicurarla, di trovare il modo di farla sentire più leggera perché riusciva a trasmetterle la sua voglia di prendersi una parte di quei problemi che tanto l’affiggevano. Era stato così per la faccenda del libro di sua madre, per il fraintendimento verso i suoi stessi sentimenti nei confronti di Rei. Ogni volta che si era sentita persa, sola o in difficoltà, lui c’era sempre stato.
Sana alzò lo sguardo verso di lui incontrando i suoi occhi ambrati.
«Anche io sono confuso riguardo ciò che sta succedendo. Però, allo stesso tempo, ho anche capito che non posso rinunciare a questo, proprio perché ci sono delle persone che hanno sofferto. Mi dispiace, ma io non posso proprio rinunciare a te e all’averti nella mia vita.»
Poi aggiunse: «E lo so che per te è lo stesso, non puoi negarlo. C’è qualcosa che ci tiene legati.»
Sana pensò che quello era il discorso più lungo che aveva sentito fare ad Hayama. Non aveva letto incertezza, titubanza né lui aveva pronunciato frasi sconnesse o a metà. Era stato chiaro, per la prima volta le aveva detto di non poter fare a meno di lei. Si sentì felice, nonostante tutto, e sorrise sprofondando il viso nella sua tenera stretta. Pensò che lui aveva ragione, aveva sempre avuto ragione sulla natura di quel loro rapporto così profondo e speciale.
Akito spinse una mano sotto il mento di lei, sollevandole leggermente il viso in modo da poterla guardare direttamente negli occhi. Proprio quegli occhi che gli sembravano così fragili e confusi e di cui lui non riusciva più a fare a meno.
La accarezzò con la punta delle dita avvicinando poi il suo viso in modo da dimezzare la già insulsa distanza tra loro. Le diede un leggero bacio sulle labbra senza fare troppa pressione, senza forzarla troppo perché voleva che le fossero ben chiare le sue intenzioni e quanto profondo fosse il loro rapporto, quanto andasse al di là di tutto ciò che era successo e che stava accadendo in quel momento.
Fu lei ad approfondire quel bacio stringendo le sue braccia intorno al suo corpo, schiudendo le labbra in un movimento quasi disperato, perché l’unica cosa che in quel momento la faceva sentire viva sul serio era stare lì tra le sue braccia, e dimenticò il fatto di essere una traditrice e di aver mentito a qualcuno di importante. Perché quel qualcuno non sarebbe mai stato importante tanto quanto lo era Hayama.
Poi tutto accadde con estrema lentezza perché se c’era una cosa che Akito desiderava con tutto sé stesso era fare l’amore con lei, nonostante volesse con altrettante forze evitare di turbarla, in qualsiasi modo. L’aveva capito quella notte di qualche settimana prima ad Hakone, quando finalmente era riuscito a toccarla come sognava di fare da tempo, da sempre probabilmente.
Tuttavia, il fatto che fu lei ad attirarlo a sé ancora più forte di quanto non avesse fatto lui, gli diede la spinta necessaria per trovare il coraggio di varcare quella soglia. E allora spinse il suo corpo verso il suo lasciando che entrambi raggiungessero la superficie del letto. Lei agganciò le sue mani al collo di Akito facendosi guidare verso quel cammino di cui anche lui ignorava imprevisti ed avversità. Si distese su di lei afferrandole la gamba slogata con una mano, tirandola verso di loro, continuando a fissarle intensamente gli occhi. Sana si sentì per un attimo indifesa e completamente in balia di quel suo sguardo duro e intenso, quegli occhi ambrati così duri volevano dire mille cose: erano stati la sua sfida alle elementari, la sua pena nel saperlo un bambino lasciato solo dalla sua famiglia, il suo conforto in più di un’occasione, e il suo primo dolore quando si era resa conto di amarlo. Se c’era una cosa sulla quale Hayama aveva ragione, era la profondità del loro rapporto e lei aveva capito di doverci fare i conti, con o senza la presenza di Naozumi nella sua vita.
Akito le accarezzò il viso prima di baciarla di nuovo, cercò si sollevarsi appena per evitare di premere troppo sul suo corpo e, con un movimento un po’ troppo impacciato, si spostò appena facendo pressione sulle gambe. Lei aveva una camicetta leggera, azzurra, che lasciava intravedere un reggiseno dai toni leggermente più chiari. Quando le sue dita si avviarono verso la fila di bottoni e ne sfilarono il primo dalla sua asola, Akito rivolse uno sguardo a Sana, e lei capì che lui voleva accertarsi che volesse anche lei la stessa cosa e che fosse pienamente consapevole di quanto si stessero spingendo oltre qualsiasi confine si erano mai delineati intorno. Allora lei mise le mani sulle sue e le spostò piano verso il secondo bottone facendogli capire che lei non lo avrebbe più fermato.
Nonostante l’inesperienza e l’imbarazzo, Akito sentiva di stare facendo le cose nel modo giusto perché, per la prima volta dopo tanto tempo, si sentiva di nuovo a casa spogliato di quella costante voglia di fuggire che gli aveva tenuto compagnia durante gli anni senza Sana. Quindi le tolse l’indumento restando per un attimo a guardare il suo seno coperto solo da quell’intimo valicabile, Sana si sentì improvvisamente in imbarazzo e istintivamente si portò entrambe le mani proprio su quella parte del suo corpo che era stata molto spesso oggetto di derisione proprio da parte di Hayama. Se solo fosse riuscita a leggergli nel pensiero, avrebbe scoperto che forse lui non vedeva con i suoi occhi qualcosa di così bello da molto tempo. E fu allora che lui le afferrò dolcemente i polsi spingendoli via prima di avvicinare le sue labbra per baciarle delicatamente quel leggero rigonfiamento iniziale che andava poi scomparendo, ai suoi occhi, sotto il tessuto di pizzo bianco che lo custodiva. Continuò a baciarla tracciando un disegno invisibile lungo il suo ventre, fino al bottone che sigillava la gonna a pieghe che indossava. Sana fu percossa sa un brivido che non aveva mai provato prima, si avvicinava solo a quanto avesse provato quella notte ad Hakone, quando per un momento si era sentita pronta ad accogliere ogni desiderio di Hayama. Ma quando lo provò lì, sul suo letto, esattamente sotto di lui che sembrava essere comandato da una strana forza che gli impediva di staccare le sue labbra dal suo corpo, aveva provato un brivido forte che era nato nella parte basse del suo ventre, e l’aveva travolta come un’onda dell’oceano avrebbe travolto un castello di sabbia.
Hayama alzò il viso osservando l’espressione sul volto di lei: gli sembrò bella, stanca, libera e si sentì così forte ma, allo stesso tempo, completamente disarmato. Allora si tolse velocemente la felpa e i jeans lasciandoli abbandonati a sé stessi nell’angolo più remoto di quel letto, teatro della loro prima volta, e tornò a lei. Continuando a guardare il suo viso, le sfilò la gonna che andò a far compagnia ai suoi indumenti e, appoggiato sui suoi stessi gomiti, le accarezzò il viso spostando i capelli di lato. La baciò, prima dolcemente e poi con estrema passione, respirando quasi a fatica l’ossigeno che sembrava essere divenuto ormai secondario. Quello di cui aveva bisogno ce l’aveva proprio lì, sotto di lui, tra le sue braccia, sulle sue labbra. Le loro lingue si toccarono a lungo, aumentando così quella potente sensazione piacevole e sconosciuta che entrambi sentivano all’altezza del ventre. Sana aveva sempre immaginato la sua prima volta come un evento condito di imbarazzo e timidezza, tuttavia l’unica cosa che non provava nel trovarsi completamente nuda sotto il suo corpo caldo era proprio l’imbarazzo perché sentiva anche lei di trovarsi finalmente a casa.
E fecero l’amore per la prima volta. Quella fu la prima volta che Akito e Sana apprendevano il significato di appartenenza, di completezza e di famiglia.
Restarono a lungo in silenzio, l’una tra le braccia dell’altro, noncuranti del fatto di poter essere scoperti da qualcuno o che si era fatto davvero molto tardi per Akito, la cui famiglia lo stava aspettando per cena. Quindi lui si piegò su un lato appoggiando la testa sul palmo della mano: «Dovrei andare a casa.»
«Non puoi proprio restare?» piagnucolò lei sporgendo le labbra in un leggero broncio dispiaciuto.
«Conosci mio padre, se non torno in tempo per la cena penserà che mi abbiano rapito.»
«Mh…» Lei poi si voltò dalla parte opposta, dando le spalle ad Hayama che la guardò confuso.
«Ma perché te la prendi così?»
«Niente, va’ via se devi.»
Hayama allora si allontanò da lei scivolando via dalle lenzuola che coprivano entrambi e si rivestì, stranamente attento a non farsi vedere da lei. Tuttavia Sana si era ormai voltata a scrutare proprio lui cercando di capire le sue intenzioni. Avrebbe voluto restare tra le sue braccia per tutta la notte, si sentiva spaventata all’idea di dover affrontare quasi certamente un’orda di pensieri complicati non appena si fosse ritrovata sola in quel letto.
«Te ne vai?»
«Già.»
Sana abbassò lo sguardo fissando un punto indefinito tra le lenzuola sfatte e si domandò il perché lui fosse diventato così freddo all’improvviso, tanto da non voler restare ancora lì con lei.
Akito in realtà si rese conto di non sapere cosa fare, perché gli sembrò che quella foga e sicurezza acquisiti poco prima di fare l’amore con lei fossero svaniti, lasciando il posto ad un leggero senso di imbarazzo.
«D’accordo, ci vediamo allora.»
In realtà bastò il tono di quelle poche parole pronunciate da lei a far tornare ad Akito la voglia di non avere nient’altro davanti agli occhi se non il suo viso e, ora che lo aveva scoperto del tutto, anche il suo corpo. Hayama si voltò nuovamente verso di lei raggiungendola al centro del suo letto a baldacchino, la guardò a lungo prima di afferrarla e stringerla a sé in un lungo abbraccio. Sprofondò il viso tra i suoi capelli lunghi e profumati beandosene per qualche minuto. Quando poi si allontanò da lei, poggiò le sue labbra sulle sue in un fugace bacio di saluto.
«Ci vediamo domani a scuola.»
Questa volta lei sorrise annuendo con la testa seguendo con lo sguardo Hayama che lasciava la sua stanza. 
***
Sana si sentiva leggera, nonostante avesse trascorso la notte completamente in bianco. Non aveva fatto altro che pensare a quanto successo con Hayama la sera precedente, alle sue mani sul suo corpo, a quella strana e nuova sensazione che aveva provato quando lo aveva sentito dentro di lei per la prima volta, e quando ci pensava si sentiva ancora più leggera e su di giri.
Naturalmente quei pensieri felici erano stati accompagnati anche da sprazzi di tristezza, ogni qualvolta la sua mente spostava l’attenzione da Akito Hayama a Naozumi Kamura. Stranamente però, non si sentiva più così orrenda come qualche giorno prima, e si disse che quella ritrovata serenità era dovuta alla decisione che lei aveva appena preso, proprio dopo aver fatto l’amore con Akito.
Quel giorno andò a scuola senza stampella, la sua caviglia stava molto meglio e, nonostante fosse ancora abbastanza lenta, decise di riprendere a camminare sulle sue gambe.
«Sana, ciao.»
La voce di Aya, che si sbracciava da lontano per attirare la sua attenzione, arrestò la sua camminata verso la scuola.
«Ehi Aya, buongiorno.»
«Vedo che sei guarita»
«Oh sì, sto molto meglio. Guarda riesco anche a girare su me stessa.» così dicendo compì un paio di giravolte sull’unico piede sano.
«Sì d’accordo, ma sta’ attenta.»
«Non preoccuparti, oggi mi sento più forte di un leone.» disse, scoprendo leggermente un braccio per mostrare un inutile muscolo bicipite.
«Guarda che così rischi di slogarti anche l’altra caviglia.»
Il tono insolente di Akito Hayama aveva fatto la sua comparsa sulla scena insieme a Tsuyoshi. Sana lo guardò perplessa, insistendo il suo sguardo nel suo. Sentiva il cuore batterle forte e quando vide le guance di lui colorarsi appena di rosso, non potette fare a meno di ripensare nuovamente a quanto fosse successo il giorno prima, nell’intimità della sua stanza.
«Sei una sciocca.»
E così dicendo si avviò verso l’ingresso della scuola, separandosi da lei.
«Ehi, sei caduto dal letto stamattina?»
Mel frattempo erano stati raggiunti anche da Hisae e Gomi che, insieme all’altra coppia, iniziarono a godersi il solito spettacolo mattutino.
Akito poi si voltò appena verso Sana, facendole segno con le dita di avvicinarsi a lui e affiancarlo in quella marcia verso la scuola. Lei restò sorpresa per qualche istante, un po’ confusa su quel suo strano atteggiamento. Quando gli fu accanto, lui restò in silenzio.
«Volevi dirmi qualcosa?»
«Mh…»
«Eh?»
«Ciao.»
Sana si grattò la testa confusa, cercando di decifrare l’ennesima espressione verbale di Hayama, senza successo. Poi d’un tratto, capì.
«Oh certo, ora capisco. Non volevi dare nell’occhio.»
Il suo viso si distese in un sorriso e, di getto, afferrò il suo braccio stringendolo con entrambe le mani. Probabilmente non era stato molto chiaro, pensò Akito.
«Non preoccuparti, stanotte ho preso una decisione: parlerò con Naozumi. Non posso continuare così, non posso farlo soffrire.»
«Dici sul serio?»
«Sì. Sarà dura, questo lo so. Ma Naozumi è buono e merita la verità.»
Hayama si sentì di colpo invadere da una strana felicità, qualcosa che aveva provato raramente nella sua vita. La espresse con una specie di ghigno a cui Sana nemmeno prestò attenzione.
«Certo, dovrò stare comunque attenta ai giornalisti, quindi forse è meglio che per un po’ non ti avvicini troppo.»
«Sana…»
«Sul serio Hayama, sarebbe un disastro se lo venisse a sapere così, leggendo una notizia su un giornale o peggio ancora, con una fotografia.»
«Guarda che…»
«Sarebbe una tragedia e io non potrei sopportarlo.»
«Kurata!»
«Ma cosa c’è?»
Akito si limitò ad indicarle le sue mani strette al suo braccio in un gesto decisamente troppo confidenziale per due amici. Sana granò gli occhi, prima di compiere un balzo di due metri nella parte opposta ad Hayama. Rivolse poi un’occhiata imbarazzata ai loro amici.
«Ci vediamo in classe», urlò, defilandosi in pochi secondi da quella scomoda situazione.
Le prime ore di lezione passarono in fretta e Sana si domandava costantemente cosa stesse pensando Akito e cosa provasse, dopo quanto successo. Presa dai suoi intricati pensieri, non si accorse che il suo cellulare aveva preso a vibrare come un forsennato.
Dopo qualche minuto, la sua attenzione finalmente fu catturata dal nome di Rei sul display che continuava a chiamarla insistentemente. Pensò che doveva essere piuttosto strano che la chiamasse nonostante sapesse che era a lezione e che non poteva rispondere. Tuttavia l’insistenza del suo manager iniziò a preoccuparla sul serio: non era mai successo, se non per ragioni serie.
Aveva deciso di chiedere il permesso per uscire dall’aula quando lesse il messaggio di Rei. Per un attimo credette che il cuore le si fosse fermato nel petto e dovette raccattare tutte le sue forze per riuscire ad alzarsi e chiedere di poter uscire dall’aula.
Digitò nervosamente il numero del suo manager appena fuori il corridoio, aspettandosi il peggio.
«Rei… cos’è successo?»
Il suo viso divenne completamente pallido.
«D’accordo, ti aspetto qui», disse atona.
Quando si voltò fu l’espressione di Hayama, che l’aveva raggiunta all’esterno preoccupato, a spingerla a toccarsi il viso, bagnandosi le punta delle dita con le sue stesse lacrime.
«Sana…?»
«Naozumi… ha avuto un incidente.»


*Note d'autrice*
Ciao a tutti, eccomi con il capitolo 9. Questo è stato veramente complicato da scrivere, soprattutto la scena madre eeheh. Spero di essere stata soddisfacente e non troppo smielata ecco. So che mi odierete di nuovo, per come ho fatto finire il capitolo, ma non potevo farli lievitare tra farfalle e fiorellini troppo a lungo, sennò che storia è ?:D
Detto ciò, spero che questo capitolo vi piaccia, vi ringrazio sempre per i commenti, i messaggi, e anche solo per leggere i miei capitoli.
Infine mi faccio un po' di pubblicità: per chi non lo sapesse, ho iniziato la stesura di una nuova storia, sempre in questo fandom. Si tratta di un AU che mi sta prendendo molto. Mi piacerebbe sapere cosa ne pensate, la trovate qui:  https://efpfanfic.net/viewstory.php?sid=3927145&i=1
Un bacio enorme e alla prossima
Vostra Alex

 
 
 
 
 
 
 
 
 
 

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Capitolo 12
*** Capitolo 10 -Sensi di colpa ***


Capitolo 10

Sensi di colpa


Akito Hayama aveva ripreso a correre.
Correva al mattino presto, quando suo padre e sua sorella dormivano e non potevano vedere quanto quell’attività lo rigenerasse da troppe notti insonni.
Insieme alle sue gambe, anche i suoi pensieri correvano ad una velocità difficile da controllare. Gli sembrava tutto uno scherzo, quello che era successo nelle due settimane precedenti a quell’ennesima, folle corsa. Gli sembrava di stare vivendo all’interno del trailer di un film, dove le immagini si susseguono a raffica, una dietro l’altra, dando solo una piccola anticipazione di quella che sarà la vera e propria trama del film. E se il regista è bravo, tutte le supposizioni che si fanno sull’ipotetica trama, potrebbero rivelarsi sbagliate, conducendo poi lo spettatore al fatidico colpo di scena finale. Ecco, lui sentiva che tutte le supposizioni elaborate durante la visione delle scene passate della sua vita lo avevano bellamente ingannato, portandolo al fatidico colpo di scena finale.
Correva anche in quel momento, noncurante di Tsuyoshi che lo stava chiamando disperatamente dalla finestra spalancata della sua aula.
Tsuyoshi lo sapeva bene che il suo amico non era una persona paziente né tantomeno riflessiva e pacata. Anzi, lui la pazienza di aspettare una telefonata di Sana o la pacatezza di starsene buono e lasciarle i suoi spazi non ce l’avrebbe mai avuta. E proprio quando il suo amico gli aveva raccontato, utilizzando solo verbo e complemento, che qualcuno aveva avuto un incidente, Tsuyoshi si era sforzato di non andare subito in panico, a causa della mancanza di soggetto nella frase pronunciata da Hayama. Quest’ultimo, senza mostrare la minima espressione, si era quantomeno sforzato di precisare che la vittima in questione era Naozumi e che Sana, dopo una serie di scene da trailer fuorvianti, era scappata via per correre in ospedale da quello che era, a conti fatti, il suo fidanzato.
«Ma in che senso un incidente? È grave? Ce la farà?» era stata questa la reazione di Tsuyoshi alla rivelazione di Hayama.
«E io che ne so? Non mi ha detto niente.»
«Mmm, capisco. Immagino che lei ora sia distrutta e che voglia stare vicino al suo ragazzo.»
«E chi lo sa…» aveva concluso Hayama, guardando distrattamente fuori dalla finestra.
Tsuyoshi lo aveva guardato perplesso, perché sapeva bene che il pericolo che stava correndo Naozumi, qualsiasi esso fosse, non era l’unico pensiero che tormentava il suo amico e, istintivamente, gli aveva poggiato una mano sulla spalla, sperando di trasmettergli un po’ di serenità.
Akito, poi, si era voltato verso di lui, fissandolo negli occhi.
Tsuyoshi era trasalito, perché si era reso conto che quello sguardo aveva ancora il potere di paralizzare.
«Io e lei…»
Al suo amico non erano state ben chiare quelle parole, quei due pronomi pronunciati senza contesto, ma aveva sentito immediatamente un profondo senso d’ansia crescergli nello stomaco.
«Noi siamo stati…»
Poi ad Akito era squillato il cellulare datogli in prestito da suo padre e, dopo avergli dato uno sguardo, si era rabbuiato e aveva smesso di parlare. Allora Tsuyoshi gli aveva toccato nuovamente una spalla per partecipare a quel suo improvviso stato d’animo, ma tutto quello che aveva ricevuto in cambio era stata una violenta strattonata.
E Akito aveva ripreso a correre, noncurante del suo amico che aveva iniziato a chiamarlo disperatamente.
Alla fine pensò di non aver niente da perdere, che ormai aveva messo in gioco davvero tutto, nella sua vita, per quella ragazzina egoista che continuava a piombargli addosso appena lui girava lo sguardo lontano da lei. E quindi si decise che non aveva più senso aspettare, che quello che c’era stato tra loro era quanto di più vero avesse sentito da quando aveva memoria e che, come le aveva detto solo il giorno prima, non poteva proprio rinunciare ad averla nella sua vita. Anche se avesse dovuto combattere con i suoi sensi di colpa per sempre.
Non si sentiva affatto crudele per non provare nessun sentimento di pena per quell’attore da quattro soldi che ora si trovava in un letto d’ospedale. Al contrario, si sarebbe sentito un ipocrita se avesse iniziato a provare pietà per il suo eterno rivale.
E continuò a correre, fino a raggiungere l’ospedale in cui lei gli aveva detto di trovarsi.
Quando Sana gli aveva mandato quel messaggio, quando era ancora in compagnia di Tsuyoshi, era bastato il ricordo del suo corpo tremante sotto di lui, del suo profumo, delle labbra che lo aveva baciato ovunque solo qualche ora prima, a fargli ignorare quel suo “Mi dispiace, ma ora ha bisogno di me”.
Il respiro affannato, causato dalla tremenda corsa attraverso quattro isolati, aveva catturato l’attenzione di molte persone che vagavano distrattamente per la Hall di quell’enorme edificio. Esaminò con lo sguardo tutte le persone presenti, medici, infermieri, pazienti in sedia a rotelle e qualche donna incinta accompagnata dal proprio marito. Ma di persone a lui familiari non c’era nessuna traccia. Era convinto che almeno occhiali da sole e la signora Kurata fossero lì, a dare sostegno alla loro protetta.
Evidentemente erano tutti al reparto in cui era stato portato Naozumi e lui non aveva la minima idea di quale fosse. In realtà non sapeva un bel niente riguardo l’incidente.
Si avvicinò all’accettazione dell’ospedale dove c’era una donna di mezza età con la testa immersa completamente nello schermo piatto di un computer. Si sporse appena verso l’infermiera che, dopo qualche minuto di silenzio, si accorse di una faccia dall’espressione dura che guardava proprio nella sua direzione.
«Posso aiutarti, ragazzo?»
«Sono qui, per qualcuno…»
«D’accordo. È ricoverato qui?»
«Credo di sì.»
«Sei piuttosto vago, vuoi dirmi il suo nome? Posso provare a fare una ricerca.»
«Kamura.»
L’infermiera dovette associare quel nome a qualcosa di piuttosto rilevante perché il suo viso trapelò un’espressione di preoccupazione. Poi giunse il dispiacere.
«Mi dispiace, ma non posso fornire nessun’informazione.»
Hayama strinse i pugni.
«Dannato attore!»
«Come, scusa?» l’infermiera trasalì.
«Niente, non si preoccupi.»
Sapeva che non sarebbe stato facile oltrepassare la barriera che il suo manager, la sua agenzia, e forse pure Sana avevano costruito per proteggere la privacy di Naozumi Kamura. Era sempre stato così, era sempre stato preso di mira da orde di fan scatenate pronte a tutto pur di avere anche solo una ciocca di quei capelli così poco giapponesi. Si immaginò il putiferio che si sarebbe scatenato, se qualcuno fosse venuto a sapere che l’idolo di tante ragazzine aveva avuto un incidente ed era ricoverato proprio lì.
Sapeva perfettamente che quell’infermiera aveva fatto voto di omertà e che non avrebbe rivelato l’identità dell’attore a nessuno, quindi, decise di mettere in atto il piano B.
Prese il cellulare dalla tasca e scrisse: Sono all’accettazione dell’ospedale. Scendi, per favore. E inviò all’unica persona che aveva bisogno di vedere in quel momento.
Si passò una mano tra i capelli cercando un posto libero tra le decine di sedie in plastica disposte nell’ingresso dell’ospedale. Ma decise di sedersi su un muretto di pietra costruito intorno ad un enorme bonsai, che troneggiava proprio al centro della sala di accettazione, e poggiò i gomiti sulle ginocchia.
Si sentiva irrequieto, sapeva dentro di sé, che Sana non avrebbe mai avuto il coraggio di abbandonare Kamura in una situazione del genere, se poi aggiungeva le centinaia di sensi di colpa che proprio insieme avevano dato loro modo di esistere beh, avrebbe potuto appendere ad un chiodo la sua voglia di non rinunciare alla sua presenza nella sua vita. Sentiva uno strano senso di sconfitta e di solitudine, aveva la netta sensazione che rischiava di perderla sul serio e non come era successo ad Hakone, quando proprio Kamura aveva fatto irruzione nel vano lavanderia, e per poco non li beccava in flagrante.
No, quella volta era diverso, perché lui la conosceva meglio di quanto lei pensasse e qualsiasi sentimento Sana provasse per lui, non sarebbe mai stato forte abbastanza quanto il suo senso di altruismo, la sua indole al sacrificio per la felicità altrui. Non in quella occasione.
Continuava a sentirsi irrequieto e l’unica distrazione era rappresentata dalle venature rosacee del pavimento di marmo sotto i suoi piedi. Iniziò a seguire quei percorsi dovuti alla composizione fisica di quel materiale, rendendosi conto di esserci finito quasi con il naso contro, per quanto si stava curvando su se stesso.
Poi sussultò, quando qualcosa si poggiò sulla sua spalla.
«Ehi…»
Quando si voltò, faticò non poco a riconoscere il viso che aveva davanti. Sana era sempre stata una persona allegra, sì, ma soprattutto espressiva. Si capiva subito se era felice, arrabbiata o, solo raramente, triste, perché lei non lo era mai. Almeno non davanti a chi non la conosceva bene.
Tuttavia, nonostante lui fosse stato abituato a tutte le espressioni di Sana Kurata fin dalla sesta elementare, in quel momento si rese conto che avrebbe dovuto aggiungere un dato a quel suo personale repertorio: l’assenza di espressioni. E se ad Hakone le era sembrata apatica e priva della sua solita gioia di vivere, quando l’aveva incrociata insieme a Kamura proprio il mattino seguente a quel loro primo vero contatto dopo anni, in quel momento avrebbe scommesso qualsiasi cosa sul fatto di non vedere più nemmeno un briciolo di vitalità in quegli occhi che lo avevano salvato dal baratro.
Si alzò in piedi abbassando poi lo sguardo per raggiungere il suo.
«Kurata…» non sapeva nemmeno cosa dire, nonostante fosse stato proprio lui a pregarla di raggiungerlo.
«Ero su… non possiamo vederlo, ecco. Lui sta…» questa volta era Sana a non articolare bene le frasi e, complici singhiozzi e lacrime che avevano fatto la loro comparsa sul suo viso come frammenti di una bomba esplosa, si mise entrambe le mani in viso. Akito si sentì stranamente sollevato per il fatto che almeno ora sembrava essere tornata espressiva come un tempo, nonostante avrebbe preferito vederle in viso un sorriso, piuttosto che quelle lacrime versate per Nazoumi. Poi, fece un passo verso di lei, poggiando le sue mani sui suoi polsi, cercando di liberare il suo viso da quel sipario.
«No, che fai? Non devono vedermi qui…» riuscì a dire, prima che le lacrime tornassero a confondere la sua voce.
«Ok.» lui rispose flebilmente, come se ognuna delle sue lacrime fosse in realtà una coltellata inflitta direttamente a lui. Non riusciva proprio a sentirsi altruista e a penare che, in quel momento, c’era qualcuno che meritava davvero quelle lacrime. Allora cinse le spalle di Sana con un braccio, cercando di coprirla quanto più poteva, e la trascinò lungo il corridoio adiacente l’ingresso dell’ospedale, proprio verso il percorso indicato dai segnali che conduceva ai bagni pubblici.
Si assicurò che fossero vuoti, prima di aprire una delle quattro porte bianche e chiuderla alle loro spalle. Allora, allungò nuovamente le sue mani verso quelle della ragazza, ancora piantate sul viso e, questa volta, lei non oppose resistenza scoprendo gli occhi gonfi e arrossati per le troppe lacrime.
«Cosa è successo?» le domandò, guardandola con insistenza.
Lei sospirò, sciogliendo le mani dalle sue.
«Non lo so. So solo che era in Egitto, per girare un documentario. Ha avuto un incidente durante le riprese… dicono che sia caduto e abbia sbattuto la testa. Sembrava stesse bene, nonostante tutto. Poi però durante il viaggio di ritorno…» si interruppe, cercando il pavimento con lo sguardo per sfuggire al viso di Hayama.
«Non so cosa sia successo, Rei ha parlato con il signor Maeda ma sai, le notizie vengono sempre confuse. Pare che ora lui non risponda agli stimoli eh… forse è stato l’aereo, oppure avrebbero dovuto curarlo meglio laggiù, non lo so.»
Mentre Sana raccontava gli avvenimenti in maniera confusa, Akito riuscì ad intravedere nuovamente delle lacrime rigarle il viso e ancora una volta si sentì impotente, solo ma anche arrabbiato. Razionalmente sapeva di non averne diritto, ma non riusciva proprio a controllare le sue emozioni.
Allora avvicinò le mani al suo viso, poggiando un dito sul mento di lei. Con l’altra le asciugò una lacrima che per poco non le finiva sul petto. Ma lei lo guardò confusa.
«Tu… non dovresti essere nemmeno qui.» mormorò lei.
«Ma che dici?»
«Non volevo che venissi, non ti ho scritto quel messaggio perché tu ti precipitassi qui.»
«Non l’ho fatto per quello.»
«Beh, non dovresti essere qui. Io adesso devo stargli vicino… ha bisogno di me.»
«D’accordo. E noi?»
«Non c’è veramente un noi, Hayama.»
Lui sgranò gli occhi, perché se si era chiesto quale potesse essere la sua reazione a quei fatti, nemmeno la sua più fervida immaginazione gli avrebbe suggerito una risposta simile. Possibile che ora lei negasse tutto?
«Kurata, non dire sciocchezze. Non voglio che tu non gli stia vicino, ma non puoi escludermi dalla tua vita adesso.»
«Ora sono molto confusa, non posso occuparmi anche di questo.»
«Non ti sto chiedendo niente, ma non puoi dimenticare quello che c’è stato, andiamo.»
Lui non se n’era nemmeno accorto, ma le sue mani erano finite dritte sui polsi di lei, bloccandole i movimenti. Quando Sana spostò lo sguardo sulle sue dita serrate intorno alle sue braccia, corrugò la fronte opponendo poi resistenza a quella stretta.
«Così mi fai male. Mi fai male Hayama, tu e tutti questi sensi di colpa.»
«Ci risiamo… non mi sembra io ti abbia costretto a fare nulla.»
«Già, proprio come Fuka, vero?» lei alzò la voce e lui si sentì confuso, che c’entrava Fuka in quel discorso?
«Ma che stai dicendo?»
«Quello che ho detto. Io non posso dimenticare, ma tu l’hai fatto eccome.»
«Sana, per favore, potresti smetterla di dire tutte queste sciocchezze e calmarti?»
Akito si era accorto che quella conversazione stava andando verso toni molto più duri di quanto avesse voluto, e sapeva anche che lei era profondamente sconvolta.
«No che non mi calmo. Ti presenti qui, come se avessi chissà quale diritto, senza curarti del fatto che quello che è successo a Nazoumi è tremendo, e mi dici che non posso dimenticare quello che c’è stato. Magari è proprio quello che voglio.»
E in quel momento, Hayama lasciò la presa su di lei, senza smettere di guardare quel viso che, all’improvviso, gli sembrava così ostile.
«Non ti credo…»
«Pensi di poter venire qui, e sconvolgere la vita delle persone che ti stanno intorno?»
«Quella, in effetti, è una tua prerogativa.» mormorò lui, nemmeno tanto sicuro di volerlo dire. Me lei nemmeno vi prestò attenzione.
«Beh, non funziona così. Sono passati anni da quando io ho capito di amarti, gli stessi anni che tu hai speso insieme ad un’altra persona. Se non avessi letto quella vecchia lettera, forse non ti saresti nemmeno preoccupato di sapere che fine avevo fatto!»
Sana non era mai stata una persona cinica e razionale, se avesse dovuto descriverla, avrebbe sicuramente debellato quegli aggettivi dalla lista. Ma, in quel momento, non si sorprese affatto di quelle parole così intrise di rabbia e risentimento. Pensò di essere diventato il suo capro espiatorio perché Sana non riusciva più a contenere quei sensi di colpa che la stavano dilaniando.
«Ok, penso di aver capito che tu ora ti senta in colpa…»
«No Hayama, non è il senso di colpa a parlare. È la tristezza, il dolore e la solitudine che ho provato in questi anni, e la rabbia che sentivo quando ti sei presentato a casa mia dopo quella lettera. Solo che ero troppo felice di rivederti, per darle conto.»
«E non pensi che io sia stato anche peggio?»
«No, affatto. Altrimenti mi avresti cercata! E non avresti continuato quella storia con la mia migliore amica.»
«Ti ho spiegato come sono andate le cose, in più eravamo solo dei ragazzini all’epoca.»
«Ma io ti amavo lo stesso, nonostante fossi una ragazzina.»
«Beh anche io, e ho cercato di fartelo capire in ogni modo!»
«Avresti potuto dirmelo, avresti potuto cercarmi… invece hai lasciato che io scappassi.»
«Non ne sono stato in grado.» ammise abbassando il tono della voce insieme al suo sguardo, che raggiunse il pavimento candido del bagno.
Sana sospirò, rilassando finalmente le spalle.
«Va bene, non voglio più accusarti di niente. Ora però devo andare.»
«No aspetta…» si sporse verso di lei, tendendo le braccia in un goffo tentativo di abbracciarla. Ma lei si divincolò prontamente, spostandosi verso la porta di quello stretto abitacolo.
«Devo andare sul serio, Rei e mia madre si staranno chiedendo che fine abbia fatto.»
«Sana, questa mattina volevi stare con me. Ieri, io e te, abbiamo fatto l’amore per la prima volta…»
Lei alzò lo sguardo verso di lui, permettendo all’ennesima lacrima di rigarla il viso.
«Lo so…» poi spostò nuovamente lo sguardo altrove. Si voltò dandogli le spalle e aprì la porta del bagno.
«Ci vediamo a scuola.» disse, lasciandolo lì solo con un mare di dubbi che gli assalirono il cervello.
E quando la porta si richiuse davanti a lui, sferrò un pugno talmente forte da dilaniarsi la pelle delle nocche delle dita. Un rivolo di sangue comparve sul suo pugno e solo quando lui guardò quel liquido rosso, si rese conto di essere ancora vivo. Almeno il suo corpo lo era.
E riprese a correre, lungo il corridoio dell’accettazione, all’esterno nel parcheggio auto pieno di macchine ferme, lungo il viale che lo avrebbe condotto lontano dal posto in cui pensava di averla vista per l’ultima volta.
Corse come non faceva da anni, da quando lei era partita per girare quel film e lo aveva lasciato in balia della solitudine. Si chiese se le parole che gli aveva rifilato non avessero un qualche fondamento ragionevole di esistere perché, in fin dei conti, le cose erano andate esattamente come le aveva descritte lei. Una nuova versione di Sana, piena di rabbia e risentimenti.
Possibile che fosse vero il fatto di non aver mai fatto niente per lei? Possibile che avesse ragione.
Senza nemmeno accorgersene, si ritrovò nel solito parco dove il suo corpo pareva volerlo portare ogni volta che nella sua vita succedeva qualcosa che, in qualche modo, era collegato a Sana Kurata. Senza nemmeno riflettere sul fatto che lui e sana, per la prima volta, si erano detti di amarsi.
Si sedette sulla solita panchina, stremato, lasciando completamente andare le forze dalle sue braccia. Poi, prese il cellulare e digitò un messaggio.
 
Dopo circa una ventina di minuti di attesa, Hayama sentì il suono inconfondibile di passi che calpestavano foglie secche cadute al suolo.
«Ho fatto più in fretta che potevo.»
Akito alzò lo sguardo e Tsuyoshi dovette pensare che era successo davvero qualcosa di importante per averlo spinto a chiedergli di andare lì al parco, perché effettivamente non aveva mai visto quell’espressione sul viso del suo amico.
Hayama non gli rispose e rivolse lo sguardo per terra, ormai quello era diventato il suo sport preferito.
Tsuyoshi quindi, si sedette accanto a lui su quella panchina cercando di decodificare la tristezza del suo amico che, con sua estrema certezza, era dovuta a qualcosa che era successo con Sana.
«Cosa è successo?» disse, spostando lo sguardo verso il pugno ferito del suo amico.
«Sono andato da lei in ospedale.»
«E…?»
«Mi ha cacciato.»
Tsuyoshi lo guardò confuso perché non riusciva a darsi una spiegazione plausibile al comportamento della loro vecchia amica. Allora insistette: «Magari non voleva che i giornalisti vi vedessero, sai come vanno queste cose.»
«No, non è per quello.»
«Allora perché l’ha fatto scusa? Se sei così sicuro che non è stato per non attirare l’attenzione.»
«Perché non vuole più vedermi.»
«Ma che significa? Perché dovrebbe volere una cosa del genere?»
Akito allargò entrambe le braccia poggiandole sullo schienale della panchina e fece un lungo sospiro.
«È successo qualcosa, in queste ultime settimane.»
«Beh, in effetti è dalla sera ad Hakone che mi sembri strano.» Akito non rispose, rivolgendogli solo un’occhiata che per Tsuyoshi fu abbastanza eloquente. Di colpo collegò tutti i punti incogniti.
«Non dirmi che voi due…»
«Già.»
«Aspetta, spiegati meglio. Sana ha un ragazzo!»
«Lo so anch’io. Ma è successo ugualmente.»
«Cosa?»
«Andiamo Tsu, devo farti un disegno?» rispose lui, iniziando a sentire un tremendo imbarazzo assalirgli le membra.
«Cosaa? Sul serio? Ma nemmeno io e Aya ci siamo spinti così oltre.»
«Cosa vuoi che ti dica? Posso darti qualche consiglio, se vuoi.»
Tsuyoshi sentì l’aria di presa in giro, nonostante la situazione sembrasse fin troppo drammatica, e arrossì, domandandosi quando il suo migliore amico fosse diventato così intraprendente in certe faccende.
«No, grazie. Me la cavo da solo.»
«Non direi!»
«Beh, non siamo qui per parlare di me. Mi spieghi cosa ti è saltato in testa?»
«Ma scusa, non eri tu a dirmi ogni santo giorno di doverle parlare? Ora che vuoi?»
«Infatti io ti avevo detto di parlarle, non di saltarle addosso.»
«Parlare è sopravvalutato.» aggiunse lui, con un tono tranquillo.
Tsuyoshi rilassò le braccia, arreso alla mancanza di tatto di Akito che spesso non si curava affatto di addolcire certe pillole.
«D’accordo. Scommetto però che ora lei si sente in colpa, e che ti ha cacciato per questo motivo.»
«Già, lo penso anche io.»
«Perché non mi hai ascoltato e ti sei precipitato lì da lei? Penso che adesso abbia bisogno di un po’ di spazio. Non deve essere facile per lei…»
«Io volevo vederla. Non ci resisto così, a sapere che soffre e a non poter fare niente. Mi sembra addirittura di peggiorare la situazione con la mia sola esistenza.»
Tsuyoshi lo guardò intristito, perché si vedeva lontano un miglio che Hayama stava dannatamente soffrendo. Non lo aveva mai visto così, non gli aveva mai sentito dire certe cose, nemmeno per Fuka.
«Lasciale un po’ di tempo per accettare le cose. Dalle la possibilità di scollegare quello che lei ha fatto con te dall’incidente a Kamura.»
«E io cosa posso fare, nel frattempo?»
«Direi di aspettarla.»
«Mi sembra di non fare altro, nella vita.»
«Già.» rifletté Tsuyoshi.
«Mi ha accusato di non averla mai cercata, in questi anni. Che ha sofferto per me… e che sono stato bravo ad andare da lei solo dopo aver ricevuto quella lettera. Forse ha ragione…»
Spostò le braccia dallo schienale della panchina e poggiò i gomiti sulle ginocchia, sprofondando le dita tra i capelli. Iniziava a sentirsi terribilmente in difetto per quello che aveva fatto, per il suo modo di essere stato con Fuka, quando sapeva dentro di sé di non esserne innamorato.
Eppure lo aveva fatto. E Sana aveva ragione.
Ma per qualche strano motivo, in quelle ultime settimane, aveva iniziato a pensare che per loro due ci potesse essere una seconda possibilità, ora che i loro sentimenti erano diventati più forti della loro reciproca mancanza di coraggio nell’ammetterli. Lui si era sentito così convinto di poterla avere nella sua vita che la possibilità di perderla davvero gli lacerava lo stomaco.
«Che importanza ha quello che è successo?» rifletté Tsuyoshi.
«Evidentemente, per lei ne ha.»
«Io credo che Sana si senta in colpa e basta. Credo che cacciarti via in quel modo sia stato solo un tentativo di redenzione, perché mentre Kamura stava male, lei era insieme a te.»
«Dici?»
«Credo di sì. Io ci scommetterei…»
«Su cosa?»
«Su voi due. Anche se siete sempre stati due testoni.»
Akito osservò il suo amico alzarsi in piedi e fare qualche passo oltre la panchina.
«Dalle un po’ di tempo, vedrai che le cose si sistemeranno.» disse infine aspettando immobile che il suo amico facesse una qualsiasi mossa. Allora Akito si alzò a sua volta, seguendo il suo amico e insieme si allontanò da quel parco, diventato sempre più colmo di ricordi legati a lei.
 
Il tragitto verso casa si era svolto in silenzio da parte di entrambi. Akito cercava di trovare il modo di stare vicino a Sana senza farla sentire troppo sotto pressione. Aveva pensato di tornare da lei in ospedale, magari dopo qualche giorno. Oppure, meglio ancora, fare un salto a casa sua. Ma subito dopo si era domandato se non fosse troppo, e se non stesse invadendo la sua vita, come lei lo aveva accusato di fare.
Era convinto che, se la situazione fosse stata inversa, lei non gli sarebbe sembrata affatto invadente.
Quando i due amici si separarono, Akito si trovava a soli pochi metri di distanza dal cancello di casa sua, troppo intento a dare retta ai suoi pensieri perché si accorgesse della figura in piedi, proprio davanti al suo ingresso.
Solo in quel momento si ricordò del suo appuntamento con Fumiko.
«Ciao.» disse lei timidamente, una volta che lui si era avvicinato abbastanza da sentire la sua voce.
«Sono in ritardo. Avevo delle cose da fare.»
«Non preoccuparti, non sono qui da molto.»
Lui le rivolse una fugace occhiata prima di aprire il cancello di casa e farle segno di seguirlo. Quando entrarono c’era un silenzio tombale, probabilmente né suo padre né sua sorella erano in casa, allora si diresse direttamente in camera sua seguito dai passi felpati della ragazza dietro di lui.
Il pensiero di doverle dare ripetizioni in quel momento, dopo tutto quello che era successo, non lo allettava particolarmente, avrebbe preferito restare da solo e continuare a trovare un modo per risolvere i suoi problemi con Sana. Ma quando si era quasi convinto a proporle di posticipare quell’incontro, lei aveva già tirato fuori libri e quaderni, sfogliando uno di questi con un’estrema concentrazione.
Sospirò arreso, raggiungendo la ragazza alla scrivania accanto al letto.
«Devo ringraziarti, sono riuscita a prendere la sufficienza all’ultimo compito in classe.»
«Bene.» disse lui, secco e monotono.
Lei gli sorrise, un po’ in imbarazzo, continuando a sfogliare il quaderno pieno di esercizi e formule scritte e riscritte più volte. Quando Akito vide quegli scarabocchi, pensò nuovamente a Sana e al fatto che difficilmente sarebbe stato altrettanto bravo a spiegarle le nuove regole di algebra, visto quanto era distratto in quel momento.
«Però c’è un passaggio, qui, che proprio non riesco a capire. Ho provato così tante volte, che alla fine mi è venuto un gran mal di testa.»
«Fa’ vedere.» le chiese, sporgendosi verso di lei per avere una visuale completa dell’esercizio. La guardò poi con la coda degli occhi, notando che lei aveva abbassato lo sguardo arrossendo leggermente.
«Non riesci a risolverlo perché qui c’è una formula sbagliata. Se togli questi numeri vedrai che l’espressione ti verrà.» constatò, allontanandosi nuovamente. Si appoggiò poi alla finestra aspettando che lei facesse quell’esercizio.
«Hai ragione, ora il risultato è giusto. Il problema è che non riesco mai a capire quale formula usare per far funzionare le cose.»
«Già» constatò lui distrattamente, pensando che quella poteva essere una metafora idonea a spiegare il modo in cui si sentiva in quel momento. Mentre Fumiko continuava a svolgere i suoi compiti, lui prese il cellulare dalla tasca e, benché non aveva sentito nessun suono o vibrazione, decise di controllarlo comunque, con la speranza di avere un qualsiasi tipo di cenno di vita da parte di lei.
Ma nulla.
«Hayama, potresti controllare questa formula?»
«Come, scusa?»
Lei si voltò verso di lui e lo ritrovò ancora con il cellulare tra le mani, beccato in flagrante.
«Aspetti una telefonata?» disse lei, con un sorriso nervoso.
«No. Qual è il problema con questa formula?»
«Non ci capisco niente, è questo il vero problema.»
Lui prese il suo quaderno e iniziò a leggere i numeri e le lettere messi insieme, circondati da qualche segno alfanumerico messi qui e lì apposta per confondere gente come Fumiko, o Sana. Dovette passare qualche secondo in più del normale perché a Fumiko sembrò che anche lui avesse qualche difficoltà con quell’esercizio.
«Mi sembri distratto oggi. Se preferisci, possiamo rimandare a un altro giorno…»
Lui alzò lo sguardo verso il suo viso.
«Sì scusami, oggi è stata una giornata pesante. Possiamo rimandare a domani, se puoi.»
«Nessun problema.» rispose lei, continuando a presentargli quello strano sorriso nervoso che gli aveva mostrato in quel breve tempo insieme. Quella ragazza gli era sembrata abbastanza timida fin da subito, forse per lei era difficile trovarsi di pomeriggio nella stessa camera in compagnia di un ragazzo, pensò Hayama.
«Potremmo studiare a scuola domani. Dopo le lezioni.»
Lei però alzò le spalle, mentre raccoglieva le sue cose disseminate sulla scrivania del padrone di casa.
«In realtà, qui mi sento più tranquilla.»
«Ah sì?»
Lei annuì con un debole cenno del capo.
«Come vuoi allora.»
«Sai, tra una settimana ci sarà l’Hinamatsuri.»
«Lo so.»
«Ci sarà festa ovunque, fuochi d’artificio… la mia classe sta organizzando di andare insieme ad assistere allo spettacolo.»
Akito continuò a guardarla, cercando di capire quale fosse il punto dove la ragazza volesse arrivare. E di nuovo le vide addosso quel sorriso nervoso, gli sembrò che fosse anche arrossita.
«Ecco mi chiedevo, magari potresti venire con noi. Se ti va…»
La ragazza abbassò lo sguardo, stringendo la cartella scura con le dita di entrambe le mani. Aveva detto quelle parole tutte d’un fiato lasciando ad Akito un’espressione inebetita sul viso.
«Guarda io…» ma lei non lo fece finire di parlare.
«C’è ancora una settimana. Fammi sapere se ti va, sarà divertente. Io ora vado.» e, così dicendo, girò velocemente su se stessa dando le spalle ad Akito, ancora imbambolato e incollato al davanzale della finestra. Non si aspettava una simile richiesta da parte di Fumiko, perché tutte le sue attenzioni era rivolte solo ed esclusivamente ad una persona. Così come era sempre stato. E proprio tutti quei pensieri su Sana che gli affollavano la mente, gli avevano sempre impedito di vedere le cose con la giusta lucidità, compresa quella discussione avuta qualche ora prima nel bagno dell’ospedale.
Si lasciò andare contro la parete della sua stanza, sedendosi a terra e continuando a stringere il cellulare con una mano. Aveva voglia di sentire la sua voce perché aveva la percezione che, nella sua testa, era stata sostituita da quella di Fumiko, le cui parole continuavano a riecheggiare nella sua mente.
Decise che non avrebbe rispettato il patto che aveva fatto con Tsuyoshi al parco e che il giorno dopo sarebbe tornato in ospedale da lei, perché era fermamente intenzionato a recuperare il tempo perso, e tutti gli errori fatti in un passato che ormai sembrava dannatamente irrecuperabile.


*Note d'autrice*
Ciao a tutti ed eccomi con il decimo capitolo di questa storia. E' successo il putiferio, I know, ma Sana doveva esplodere.
Non posso rivelare, ovviamente, cosa accadrà, ma vi dico solo che questo scontro era necessario. Al di là della questione Incidente-Kamura, perché quello che è successo dopo il ritrovamento di quella lettera è stato troppo veloce per dare la possibilità ad entrambi, soprattutto a Sana, di riflettere. Inoltre, sono diciassettenni in preda alle emozioni (e agli ormoni) quindi mi è sembrato naturale dare priorità a quell'aspetto. Ma poi, quando lei è stata costretta a riflettere sugli avvenimenti trascorsi, diciamo che si è fatta due conti in tasca. Ora, avrà detto quelle cose solo in preda ai sensi di colpa? Oppure le pensa sul serio e ha capito che Hayama, in quegli anni, una telefonata la poteva fare? Boh, who knows ahah.
Vorrei inoltre precisare che l'Hinnamatsuri è una festa gapponese che si svolge il 3 marzo ed è nota anche come festa delle bambole. In questa festa, vengono celebrate le bambine alle quali vengono donate delle bambole (le Hinna) che diciamo raccolgono la sfortuna delle bambine. E' una festa nella quali le persone pregano per la bellezza e la salute delle bambine di famiglia. Tutta Tokyo viene addobbata a festa e mi piaceva l'idea di mettere questa festa nella mia storia. Ora, Hayama andrà con Fumiko? Bo, who knows (aridaje xD).
By the way, spero che questo capitolo vi sia piaciuto e attendo come sempre i vostri pareri, sperando di non aver spezzato i cuori di nessuno con questo scontro nel bagno tra Sana e Aki.
Vi ringrazio come sempre per tutte le visualizzazioni, i commenti e i messaggi. Siete nel mio corazon ormai.
Con tantissimo affetto,

Vostra Alex

 

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Capitolo 13
*** Capitolo 11 - Decisioni ***


Capitolo 11
 
    
 
La prima cosa che noterai è una certa separazione l'uno dall'altro
Sì, è una bugia, è che ci crediamo da tempo immemore
Ablaze - Alanis Morissette 

 
Quando Hayama le aveva mandato quel messaggio sul cellulare, dicendole di trovarsi proprio all’ingresso dell’ospedale dove avevano ricoverato Kamura, Sana aveva sentito il suo cuore battere più forte del normale. E si sentì subito immediatamente un’egoista.
Sapeva, dentro di sé, che quella reazione non era dovuta al fatto che lei in quel momento si trovava proprio al capezzale del suo ragazzo e che Akito rappresentava solo la distrazione che le impediva di stargli vicino come avrebbe dovuto. Lo sapeva che quello non era il vero motivo, ma allo stesso tempo non riusciva a fare a meno di prendere a pugni proprio quella parte di sé che stava spingendo a galla la vera ragione di quel cuore impazzito.
Quanto tempo era passato da quando lei e Hayama avevano trascorso quelle ore di intimità nella sicurezza della sua stanza? Quanti secoli sentiva fossero trascorsi dal momento in cui aveva fatto l’amore con lui per la prima volta, fino all’istante in cui l’aveva cacciato in quel modo via dalla sua vita?
A Sana sembrò davvero un’eternità, e si passò una mano tra i capelli cercando nei meandri della sua coscienza la strada più giusta da percorrere affinché nessuna delle persone a lei più care soffrisse. E per l’ennesima volta le sembrò un’impresa titanica.
C’era stata prima Fuka, a causa della quale aveva deciso di farsi semplicemente da parte e sparire dalla vita di tutti i suoi vecchi amici. Poi era stato il turno di Naozumi, il suo fidanzato, la persona che aveva cercato di fare tutto ciò che era in suo potere per renderla felice di nuovo e lei lo aveva tradito. A quel pensiero, giunto come una nave rompighiaggio, si morse un labbro così forte che un istante dopo il suo palato venne travolto da uno sgradevole sapore ferruginoso.
E poi c’era…
«Ehi… Sana-chan?»
Lei si voltò di scatto, e Rei corrugò la fronte quando vide gli occhi della sua pupilla arrossati e ancora lucidi per le lacrime versate. Allora, con una strana calma che non pensava nemmeno di poter avere in una situazione del genere, si sedette accanto a lei sulla fila di sedie in plastica che definivano il perimetro del corridoio di fronte alla stanza in cui Naozumi dormiva.
«Sana… tutto bene?»
«Rei… sei tu?»
La sua faccia era completamente stravolta, e Rei sentì uno strano senso di nausea risalirgli lungo l’esofago quando si rese conto che Sana, in quel momento, probabilmente aveva bisogno d’aiuto tanto quanto il suo ragazzo. Solo che in un modo diverso, e la consapevolezza di non essere probabilmente la persona che doveva sedere accanto a lei in quel momento lo fece sentire ancora peggio.
«Sana-chan, vuoi che ti porti qualcosa da bere? Un tè?»
«No, io vorrei…»
«Dimmi, ti porto tutto ciò che vuoi…»
«Dov’è?»
A quel punto Rei non potette fare a meno di sentirsi confuso, perché non era proprio sicuro di aver capito a chi si stesse riferendo Sana. Allo stesso tempo però, temeva che anche solo una domanda fuori luogo, in quel momento, avrebbe potuto mandarla in frantumi, come una statua di cristallo.
Allora la guardò intensamente, poggiandole una mano sulla spalla.
«Dov’è la mamma?» furono le uniche parole che Sana riuscì a dire.
«Oh… sì certo, la maestra è…»
Rei però si accorse subito del profondo cambiamento nello sguardo di lei, perché i suoi occhi le si riempirono nuovamente di grosse lacrime. Allora si voltò alle sue spalle, dove la signora Kurata li stava osservando in piedi, a qualche metro di distanza.
«Mamma…» fu l’unica parola che Sana riuscì a pronunciare tra i singhiozzi, fiondandosi tra le braccia di sua madre.
«Io non volevo… mi sento così in colpa e sono disperata, perché non avrei dovuto farlo…»
«Adesso calmati Sana…»
«Ma come faccio? Io… Naozumi è lì e io…»
A quel punto, Misako la afferrò per le spalle, spingendola a sollevare poi la testa per raggiungere il suo sguardo.
«Sana, Nazomi è lì perché ha avuto un incidente. E per quanto queste siano cose che ci fanno male, noi non abbiamo nessun controllo su questo. Non dovresti dannarti così a causa di quello che tu pensi sia la ragione di ciò che è successo. Piuttosto, essere pronta ad accettare quello che ne consegue, capisci?»
«Ma è proprio questo… come faccio io adesso ad essergli di conforto?»
«Dovresti semplicemente fare quello che il tuo cuore ti sta dicendo in questo momento. Non possiamo disperarci per le conseguenze delle nostre azioni, quello che però possiamo provare a fare è accettarle e accettare il fatto che siamo esseri umani che ogni tanto fanno degli errori. Sta a te, adesso, capire qual è la strada giusta per accettare quello che sta accadendo… non scappare dal dolore. Se sei tormentata, tormentati fino in fondo.»
Sana guardò sua madre in silenzio, mentre sentiva che le ultime lacrime che aveva appena versato stavano percorrendo l’ennesimo viaggio sul suo viso, fino a caderle sul collo. Pensò brevemente a quelle parole, e non era del tutto convinta di averne colto appieno il significato. Tuttavia, nonostante tutto, le parole di sua madre la fecero sentire stranamente più leggera, come se quel peso che sentiva sullo stomaco di fosse dimezzato.
«Ora ascoltami, perché ho parlato con i medici di Naozumi. Sono tutti d’accordo nel trasferirlo in un altro ospedale dove riceverà le cure migliori.»
«Ma che significa? Dove vogliono portarlo?»
«Al Medical Center di Nagano… i dottori sono ottimisti sulla sua completa ripresa, ma dovrà necessariamente andare lì il prima possibile.»
«Nagano…»
«Proprio così. Verrà trasferito domani stesso.»
La signora Kurata raggiunse poi Rei, che aveva ascoltato tutta la conversazione senza dire nemmeno una parola. Lei si sedette accanto al manager di sua figlia, e Sana la raggiunse in poco tempo afferrandole entrambe le mani.
«Voglio andarci anche io!»
A Sana quelle parole uscirono di getto, perché la prima cosa che la sua mente ricordò fu il viso di Nazoumi in quel letto d’ospedale.
«Cosa?»
La risposta giunse all’unisono da parte di entrambi, e sua madre guardò Sana cercando di scorgere anche la più invisibile delle sfumature nel suo sguardo deciso.
«Voglio andare a Nagano. Naozumi ha bisogno di me ora, e io non posso abbandonarlo proprio. Lui con me è stato…»
«Sana, ne sei proprio sicura? Hai capito quello che ti ho detto prima?»
«Non lo so mamma. Non so se ho davvero capito le tue parole fino in fondo, ma tu mi hai detto di seguire quello che il mio cuore mi suggerisce di fare. E io sento che andare a Nagano sia la scelta giusta per…»
«Sana-chan ma così…»
«Rei, per favore, potresti disdire i miei impegni qui a Tokyo? Per adesso voglio concentrarmi su questo e sulla guarigione di Naozumi.»
«D-d’accordo.»
La titubanza nella voce di Rei non venne nemmeno notata da Sana che, apparentemente, aveva trovato il modo per sollevare quel peso enorme che sentiva premere sempre di più sul suo petto. Sua madre le aveva detto di affrontare il dolore, e lei avrebbe fatto così. Si convinse così rapidamente che quella fosse la strada giusta da percorrere per rimediare ai suoi errori che non si accorse nemmeno dello sguardo preoccupato di sua madre.
E pensò che quello non era affatto un sacrificio, perché Naozumi per lei aveva fatto molto di più in tutti quegli anni.
E di nuovo quella voce dentro di sé fu messa a tacere, schiacciata in un angolo della sua coscienza, quella che, a detta sua, era la parte più egoista di se stessa.
 
***
 
«Akito, hai avuto notizie di Sana?»
A quella domanda che Tsuyoshi gli porse mentre addentava un grosso cheesburger che aveva preso alla mensa scolastica, lui scosse semplicemente la testa.
«Mh… quindi non sai come sta Kamura?»
Di nuovo, il suo capo fece lo stesso movimento. Poi si decise anche lui ad addentare distrattamente il suo panino senza spostare minimamente lo sguardo dal piatto.
«E cosa pensi di fare adesso?»
«Andrò all’ospedale di nuovo.»
«Sei sicuro che sia la scelta giusta? Forse dovresti…»
«Perché non la pianti con tutte queste domande?»
Il tono di Hayama si rivelò essere duro come quello di un tempo, ma Tsuyoshi in realtà non pensò che quel suo scatto d’ira potesse essere il preludio di qualcosa di più serio. Sapeva bene che il suo amico, in realtà, stava soffrendo molto all’idea di avere semplicemente le mani legate. Oltretutto, rifletté per un istante sul comportamento di Sana e, per quanto la capisse e comprendesse la sua voglia di stare da sola, continuava a pensare che non fosse giusto, in realtà, il modo in cui lei lo stava escludendo dalla sua vita.
Mentre la sua mente vagava tra quei pensieri astratti, quasi non si accorse che il loro tavolo era stato raggiunto da una figura che mise a fuoco solo qualche momento dopo.
«Ciao Hayama…»
«Oh… ciao.»
«Scusami se ti disturbo, ma volevo chiederti se avevi pensato alla mia proposta…»
Tsuyoshi guardò quella ragazza in piedi accanto ad Akito con uno sguardo perplesso. Non ricordava affatto di averla mai vista, inoltre si sentiva quasi trasparente visto che lei non si era nemmeno presentata.
«No, non direi.»
«Capisco… volevo dirti che i miei amici stanno organizzando il pranzo e io pensavo di portare del sushi. Posso portarne anche per te, in caso decidessi di venire ecco.»
In realtà Akito non seppe spiegare a se stesso quell’improvvisa rabbia nata dal nulla, né si rese conto se era stata proprio Fumiko e la sua proposta a scatenarla. L’unica cosa a cui pensò fu di raggiungere la ragazza con il suo sguardo in un tempo così breve che non riuscì nemmeno a quantificarlo.
«Ehi, cos’è che non ti è chiaro? Non ho pensato alla tua proposta e non mi interessa il tuo pranzo.»
Tsuyoshi restò immobile, perché lo scatto improvviso di Akito, che si era alzato in piedi davanti a quella ragazza lo aveva completamente interdetto. Ma si rese subito conto che quella reazione spropositata non aveva colto alla sprovvista solo lui, perché quella tizia indietreggiò di qualche passo prima di abbassare lo sguardo al pavimento.
«O-ok… scusa.»
Lei continuò ad indietreggiare allontanandosi gradualmente dal tavolo di Akito e Tsuyoshi, senza mai guardare nessuno dei due in faccia, finché non accelerò il passo allontanandosi definitivamente da lì. A quel punto Tsuyoshi avrebbe voluto fare mille domande al suo amico, ma si rese conto che quello probabilmente non era affatto il momento adatto perché sussultò nuovamente quando la mano chiusa a pugno dell’altro si scaraventò sul tavolo, facendo sobbalzare i loro vassoi.
«Dannata!» esclamò soltanto, prima di dare le spalle a Tsuyoshi e allontanarsi dalla mensa a passo svelto.
 
***
 
«Sana, hai pensato a come farai con la scuola?»
La voce della signora Kurata la fece riemergere da uno strano stato di catalessi in cui Sana era piombata appena aveva aperto la sua valigia da riempire. Quella valigia, però, continuava ad essere vuota, nonostante fossero passate molte ore da quando lei, sua madre e Rei erano tornati a casa dall’ospedale.
«Mammina…»
«Eri tornata da poco a frequentare le lezioni… hai pensato a come fare?»
«Be’, in effetti potrei continuare a prendere lezioni private. Inoltre, non sappiamo quanto tempo staremo a Nagano… magari tornerò in tempo per il diploma.» disse lei, in un sorriso che destò l’attenzione di sua madre.
A quel punto, Misako raggiunse sua figlia al centro della stanza per sedersi poi sul bordo del suo letto a baldacchino. Osservò tacitamente i movimenti meccanici di Sana, che aveva iniziato a piegare alcuni vestiti per poi riporli nel vano ancora vuoto. In quel momento non poteva sapere che la mente di Sana era andata direttamente all’ultima volta che aveva preso quella valigia dall’armadio, quando era partita per Hakone insieme ai suoi amici. E, inevitabilmente, ripensò proprio alla sera in cui lei e Akito erano rimasti chiusi nel vano lavanderia di quell’albergo.
Fece un profondo sospiro, e scosse appena la testa.
«Sana…»
Allora lei si voltò sorridendo nuovamente a sua madre: «Dimmi. Sto cercando di riempire questa valigia, ma sai non ho proprio idea di che tempo faccia laggiù e forse dovrei portare cose pesanti… tu cosa ne pensi?»
«Sana, ascoltami. Sei proprio sicura di non dimenticare qualcosa?»
«Assolutamente no, sono sicura che dimenticherò qualcosa… ma a Nagano ci saranno dei negozi, no?»
A quel punto Misako si alzò in piedi per poi inginocchiarsi ai piedi di sua figlia che, per qualche strana ragione a lei stessa ignota, evitò lo sguardo di sua madre finché le fu possibile.
«Domani andremo a scuola e parleremo con il preside.»
«Oh… andremo?»
«Esatto.»
«Ma non è necessario che venga anche io, non credi?»
«E invece è proprio necessario. Inoltre, non vuoi salutare i tuoi amici prima di andare via?» ma Sana non rispose a quella domanda, restò solo immobile e immersa nei suoi pensieri. Non si accorse nemmeno del bacio che sua madre le depositò sulla fronte prima di lasciare la sua stanza.
 
***
 
«Ehi!»
Akito ci aveva messo più tempo del previsto a ricordare la classe di Fumiko, ma quando la vide seduta all’ultimo banco e la chiamò facendole segno di uscire fuori dall’aula, non provò nulla.
Fumiko si guardò intorno per qualche istante, prima di alzarsi lentamente dal suo posto e andare verso l’uscita dell’aula.
L’unica cosa di cui si rese conto furono gli sguardi incuriositi dei suoi compagni di classe, accompagnati da un sottile brusio che non destò minimamente l’attenzione di Akito.
«Puoi venire con me un attimo?» le domandò lui, appena lei gli fu abbastanza vicina da riuscire a sentirlo.
«Io prima… non intendevo…»
«Vieni o no? Qui c’è troppa gente.»
A quel punto, la ragazza fece qualche passo oltre la porta d’ingresso della sua aula e lo seguii nel corridoio, finché Akito non si fermò accanto ad una finestra abbastanza isolata.
«Davvero Hayama, io prima non intendevo fare pressione sulla tua decisione…»
«Lo so.»
Akito la guardò per un istante, mentre Fumiko cercava di capire la natura di quelle parole. Si domandò allora cosa avesse provocato in lui quell’improvviso scatto d’ira, perché fino ad un minuto prima era convinta di essere stata semplicemente troppo invadente, e impaziente, nel voler sapere qualcosa che in effetti le stava abbastanza a cuore.
«Ok.» si limitò a dire, pesando attentamente le parole da usare in seguito. Akito a quel punto si appoggiò con i gomiti sul davanzale della finestra e guardò il cortile esterno, dove alcuni studenti di altre classi stavano facendo educazione fisica.
«Non è che non mi piaccia il sushi…»
«Ah no?»
«È che, in questo momento, sono preso da altro.»
«Sì certo lo capisco… in verità, pensavo che la nostra uscita potesse distrarti in qualche modo.»
«È complicato…»
«Immagino.»
Hayama si aspettò qualcosa, che in realtà non arrivò. Non si era mai posto nessuna domanda riguardo le intenzioni di quella ragazza, tuttavia immaginava che il suo strano rapporto con Sana le fosse saltato agli occhi. In ogni caso, quando si erano incrociate qualche giorno prima nei corridoi, di certo doveva essersi fatta qualche idea. Eppure, le domande ulteriori sulla sua situazione con Kurata che lui si aspettava, non arrivarono affatto e lui si voltò verso Fumiko, chiedendosi a quel punto cosa avesse immaginato allora.
Ma lei gli stava sorridendo, e lui rilassò le spalle.
«Sul serio, mi farebbe piacere se tu venissi con noi alla festa e sono contenta che ti piaccia il sushi. Ne poterò di più, nell’eventualità che tu decida di venire…»
«Mh… ci penserò.»
«Bene… sentiti libero di fare ciò che vuoi.»
E Akito sbuffò, perché il punto era proprio quello: quand’era stata l’ultima volta in cui si era sentito davvero libero?
 
***
 
Varcare il cancello della scuola superiore Jimbo per l’ennesima ultima volta rappresentò per Sana una sorta di cesura con una serie di pensieri che ormai affliggevano la sua mente da diverso tempo. E per quanto si sforzasse di pensare ad altro, a Naozumi e alla sua scelta, a quanto questa fosse giusta e alla sua partenza per Nagano, non riusciva a prevedere la sua reazione nel momento in cui avrebbe incrociato Hayama nei corridoi della loro scuola.
Avrebbe dovuto percorrere gli avvenimenti delle ultime settimane, riflettendoci a fondo, ma nonostante tutto la sua mente continuava a scacciare quel pensiero razionale.
«Sana… cosa fai lì impalata?»
Sua madre la chiamò, voltandosi rapidamente nel suo kimono giallo a fiori.
«Sì mammina, eccomi…» ma in realtà non era affatto sicura di quell’affermazione. Quella notte non aveva chiuso occhio, e quel famoso peso che sentiva all’altezza del petto era ritornato incalzante, facendola vacillare. Sentì il suo cuore battere più forte esattamente nello stesso momento in cui le sue gambe si mossero in direzione di sua madre che le stava tendendo un braccio aspettandola a pochi passi da lei.
La prima cosa che riconobbe, appena mise piede nel suo istituto superiore, fu l’odore del gesso e del legno dei banchi nonostante si trovasse ancora lontana da qualsiasi aula. Ma il silenzio tombale che regnava in quel posto la fece sentire a disagio: si aspettava qualcosa da un momento all’altro, proprio come era successo il primo giorno di ritorno a scuola dopo quattro anni di assenza, quando aveva incontrato Aya proprio lì, in quei corridoi.
Ma i minuti passavano lentamente, e non accadeva nulla. A quel punto, Sana si sentì in diritto di sospirare profondamente, provando una certa sensazione di sollievo quando vide il nome del preside inciso sulla targa di metallo affissa proprio sulla porta davanti a sé.
Si mise una mano sul petto, poi sentì quella di sua madre che le stringeva la spalla.
«Sei sicura?»
«S-sì… anzi, sai vado un attimo in bagno. Mi scappa…» le disse, accompagnano quella frase con un sorriso e divincolandosi dalla presa di sua madre.
Non sapeva spiegare il motivo per cui aveva sentito l’esigenza di scappare, nonostante la sensazione di sollievo appena provata quando avevano finalmente raggiunto la porta del preside. Sentiva che da una parte quella era la strada giusta, ma dall’altra aveva una strana sensazione di vicolo ceco che proprio non riusciva a definire chiaramente.
L’unica cosa di cui era certa riguardava Hayama e il fatto che se solo l’avesse visto, avrebbe potuto vacillare e cadere. Allora si precipitò nel bagno delle ragazze più in fretta che poteva, chiudendosi la porta alle sue spalle.
Sana fece un enorme respiro, appoggiando poi la fronte alla porta del bagno. In quel momento avrebbe voluto avere la facoltà di tele-trasportarsi in un luogo lontano, magari direttamente a Nagano evitando tutti quei passaggi e soprattutto il pericolo di incontrare qualcuno.
Si sentiva una vigliacca per non essersi fatta sentire con nessuno dei suoi amici ed era convinta che con quel gesto li avrebbe persi per sempre. D’altronde però, cos’altro avrebbe potuto fare in quella situazione? In che modo avrebbe potuto aiutare Naozumi e redimersi da quello che gli aveva fatto?
Fece l’ennesimo sospiro prima di appoggiare la mano sulla maniglia della porta… si rese conto che stare lì rinchiusa con sua madre che l’aspettava dal preside non l’avrebbe condotta da nessuna parte. Ma proprio quando si era decisa ad uscire, sentì un rumore provenire dal vano principale del bagno e allora si bloccò all’istante. Sapeva bene che né Hayama né Tsuyoshi potevano entrare nel bagno delle donne, ma sentì comunque la necessità di aspettare che la strada fosse libera prima di uscire e raggiungere sua madre. Appoggiò la schiena alla porta e chiuse gli occhi, cercando di rilassarsi.
«Tu ci andrai alla festa dell’Hinnamatsuri?» disse una voce che proveniva da un punto indistinto oltre la porta su cui era appoggiata.
«Certo che sì, non aspetto altro.»
Sana a quel punto sorrise, perché sentì un profondo sentimento di invidia per quelle due voci sconosciute che ridevano e parlavano allegramente di quella festa alla quale anche lei avrebbe voluto prendere parte, se solo la sua testa non fosse stata così piena di cose che, improvvisamente, le sembrarono pesanti come macigni.
«Grandioso. Io pensavo di preparare dei dolci… tu?»
«Classico bento sempre verde. Non ho nessuna intenzione di passare la giornata ai fornelli.»
«Già… pensa che Fumiko preparerà il sushi. Sai quanto le ci vorrà?»
A quel punto Sana non seppe spiegarsi il motivo per cui il suo cuore iniziò a battere più forte. L’unica cosa di cui era consapevole era che le sembrò di sentirlo riecheggiare nelle orecchie.
«Mah… lei ora ha il ragazzo. È normale sai?»
«Ah ti riferisci al tipo di ieri pomeriggio? Quello che è venuto a prenderla fuori la nostra classe?»
«Proprio così, il tizio della sezione A. Anche io gli preparerei del sushi, se lui volesse.»
Sana sentì qualcosa rompersi, ma stranamente nessuna delle due voci sconosciute batté ciglio. Forse non avevano sentito nulla, oppure a loro non importava che qualcosa di così grosso avesse fatto quel tale rumore nel rovinare a terra. Strinse le dita intorno al colletto della sua uniforme cercando disperatamente di allentarlo. Com’è che quel bagno era diventato così stretto?
«Comunque, visto che io il ragazzo non ce l’ho vi accontenterete del bento.»
«Così però dubito ne troverai uno…»
«E chi se ne frega sai?» disse una delle due, mentre si aggiustava la frangetta allo specchio. Il suo sguardo però si spostò immediatamente verso la sua amica quando la porta chiusa alle loro spalle si spalancò con forza. Sana era uscita di corsa da lì ma quei secondi erano stati sufficienti perché le due ragazze si guardassero dritto in faccia.
«Ma quella non era Sana Kurata?»
 
***
 
Akito camminava e sentiva il rumore dell’erba bagnata che si piegava sotto la punta delle sue scarpe. Non aveva piovuto, ma il prato dell’enorme cortile dell’ospedale era comunque bagnato a causa dei numerosi irrigatori che provvedevano costantemente ad irrigarlo.
Si guardò proprio la punta delle scarpe di tela e notò una piccola chiazza scura che si allargava man mano che le sue gambe si inoltravano lungo il sentiero erboso.
Si sentiva teso e agitato, non aveva assolutamente idea di cosa lo aspettasse una volta varcata la soglia dell’ingresso dell’ospedale, ma sapeva bene che aveva raggiunto il suo limite.
Non vedeva o sentiva Sana da più di due giorni, e aveva appena deciso che quello era il tempo massimo che le aveva concesso per pensare e riflettere su quella situazione. Era fermamente deciso a non farsi da parte e lei avrebbe dovuto accettarlo, affrontare la realtà senza scappare almeno una volta nella vita. Ormai aveva perso il conto di tutte le volte in cui, negli ultimi tempi, aveva temuto che lei fuggisse di nuovo e visto il suo pessimo rapporto con le tempistiche, aveva deciso di giocare d’anticipo e rimediare prima che fosse troppo tardi.
Allora si infilò le mani nelle tasche dei jeans e si avvicinò all’accettazione dell’ospedale, scoprendo con sollievo che ad accoglierlo non c’era la stessa infermiera della volta precedente.
«Ciao, come posso aiutarti?»
«Sono qui… per un paziente.»
«Puoi dirmi il suo nome?»
«Si tratta di… mio cugino.» biascicò abbassando lo sguardo. Se c’era una cosa nella vita che mai avrebbe pensato di fare era proprio recitare, e sperava di essere risultato credibile nonostante la sua palese avversione per le bugie. D'altronde, sapeva anche che probabilmente Sana si sarebbe negata al telefono e proprio non era riuscito a trovare un’alternativa migliore per poterla vedere.
«Oh… e come si chiama tuo cugino?»
Il sorriso dell’infermiera aumentò il suo senso di disagio.
«Kamura.»
Nel pronunciare quel nome, si aspettò che dall’altra parte gli arrivasse immediatamente un rifiuto. Ma i secondi passarono, così come i minuti e mentre aspettava, notò che le dita dell’infermiera si muovevano velocemente sulla tastiera del suo computer, senza rifilargli nessun “no” di risposta.
Allora Akito appoggiò i gomiti sul banco dell’accettazione, avvertendo il cuore battere leggermente più forte.
Forse ce l’aveva fatta.
«Qui non c’è nessun Kamura…»
«Come?»
Probabilmente era stato ricoverato con un nome fittizio, avrebbe dovuto immaginarlo.
«O meglio, non c’è più…»
«I-n che senso?»
«Eh, che il paziente Nazoumi Kamura è stato trasferito questa mattina in un’altra struttura.»
«Dove?»
«Scusa, ma non dovresti saperlo se sei suo parente?»
Hayama strinse i pugni e pensò rapidamente a qualcosa da dire all’infermiera, solo che quest’ultima lo anticipò riprendendo a muovere velocemente le sue dita sulla tastiera del computer.
«Sono spiacente, ma non posso dirtelo…»
In realtà Akito aveva smesso di ascoltarla o di prestarle attenzione. La prima cosa che fece fu allontanarsi da lì e afferrare nervosamente il cellulare che suo padre gli aveva dato. Compose il numero di Sana, al diavolo tutto, ma la voce metallica che lo informava che il cliente non era raggiungibile arrivò dopo nemmeno un secondo.
E nuovamente sentì la sensazione soffice di erba bagnata sotto i piedi, ma non riuscì a percepirne il rumore perché aveva ripreso a correre e non aveva il tempo per soffermarsi su quei dettagli.
Aveva una strana sensazione, sentiva che le cose gli stavano pericolosamente sfuggendo dalle mani, ma stranamente si percepì leggermente in vantaggio rispetto al suo rapporto con le tempistiche. Non seppe spiegarsi il motivo di quella sensazione, probabilmente più che percezione doveva essere speranza la sua, solo che non era stato in grado di riconoscerla propriamente.
Aveva sempre pensato che gli anni della sua infanzia fossero stati i peggiori, e la cosa più sorprendente era che lo aveva capito solo dopo, quando qualcuno glielo aveva fatto notare. Probabilmente perché non aveva ancora nessun termine di paragone: aveva sempre vissuto solo quello. Allora che senso aveva, a suo tempo, fermarsi a pensare su come stesse vivendo davvero la sua vita di bambino.
Poi era accaduto qualcosa, era successo tutto contro la sua volontà e si era ritrovato travolto da quell’uragano. Ma la sua visione delle cose era di se stesso intrappolato proprio all’interno dell’occhio del ciclone.
Aveva corso tutto il tempo, per l’ennesima volta non si era fermato nemmeno un attimo a guardarsi indietro, né a ripensarci.
In poco tempo e con il fiatone, si ritrovò nuovamente davanti al cancello della villa di Sana. Era tutto esattamente come lo ricordava, e si sentì anche un po’ stupido rendendosi conto che, in realtà, non era passato poi molto tempo dalla sua ultima visita.
Solo che non ci voleva pensare veramente.
Premette il dito contro il pulsante del citofono, e in poco tempo, senza aspettare che lui si annunciasse, il cancello si aprì e da lontano riuscì a scorgere la figura della signora Kurata in piedi sull’uscio dell’enorme porta di ingresso.
Fece quei pochi passi che lo portarono ad una distanza tale da lei da fargli capire immediatamente cosa stesse succedendo, solo guardando l’espressione sul suo viso.
«Hayama…»
«Devo parlarle…»
La signora sospirò e congiunse le braccia all’altezza del ventre.
«Mi dispiace Akito…»
«Non me ne frega niente se le dispiace, io devo parlare con lei!»
«Lo so, ma…»
«Se lo sa, la faccia scendere allora.» il suo tono era diventato duro, nonostante stesse avendo a che fare con un adulto, ad Akito non importò affatto. Strinse i pugni e fece un passo verso la signora, ma questi alzò immediatamente un braccio, nel tentativo di fermarlo.
«Mi dispiace, ma Sana non è qui.»
«Allora la aspetterò.»
«Non è possibile perché…»
«Non mi interessa…»
«Non è possibile perché Sana se n’è andata con Nazoumi a Nagano!»
Questa volta fu il tono di Misako a farsi duro, ma ad Akito in realtà non importò granché. Non si curò affatto dell’espressione della signora Kurata, né delle sue mani che si erano allontanate tra loro per cadere lungo i suoi fianchi. In realtà, in quel momento, si curò di pochissime cose e una tra le queste furono le sue scarpe, che sentì ormai completamente bagnate. Sentì in quel momento che il senso di moltissime cose gli stava semplicemente sfuggendo dalle dita e pensò al tempo, alla lunghezza di certe giornate che non avrebbe mai voluto rivivere. Si sentì nuovamente travolto da quell’uragano, ma in un modo decisamente più sgradevole, poi il tutto lasciò semplicemente spazio ad una rabbia frenetica che lo condusse a sparire rapidamente da lì.
Percorse il vialetto della villa di Sana a ritroso così velocemente, arrivando a qualche isolato più in là in un tempo così breve che pensò immediatamente a cosa avrebbe fatto nel momento in cui la sua corsa si sarebbe arrestata. Aveva le mani legate e la libertà circoscritta ad un unico reale sentimento di rabbia che gli stava esplodendo attraverso le nocche delle sue mani.
Solo a quel punto sentì una fitta pungente e guardò il suo pugno conficcato nel tronco di uno degli alberi di quel maledetto parco. Avrebbe voluto raderlo al suolo seduta stante, ma un rivolo di sangue caldo che cadeva proprio dalla sua mano gli ricordò che lui non aveva il potere di fare nulla.
Allora abbassò lo sguardo, e vide le sue scarpe completamente bagnate che calpestavano una colonia di formiche impazzite ai piedi di quel tronco.
«Maledetta egoista…»
Akito tirò su col naso, ma un istante dopo si passò una mano sul viso. La sentì umida e si domandò se quello non fosse altro che il suo stesso sangue, scaturito da quella rabbia così difficile da gestire.
«Dannazione Sana… ma perché?» imprecò nuovamente, e sentire la sua stessa voce pronunciare una frase che era convinto di aver solo pensato nell’intimità della sua testa gli provocò una strana scossa.
Non sapeva cosa fare adesso, ma non se lo chiese nemmeno. Improvvisamente gli sembrò tutto difficile ed estremamente ingiusto e si domandò se quella altro non fosse che la giusta punizione per tutto ciò che aveva fatto in passato.
Forse non meritava che aggrapparsi a qualcosa nell’esatto istante in cui questa gli sfuggiva poi dalle mani, in un eterno loop di tempistiche sbagliate. Poi pensò che forse stava dando troppo peso a quell’aspetto perché Sana aveva fatto una scelta, nonostante sapesse bene quali fossero i loro sentimenti reciproci. E nuovamente sentì una profonda fitta alle mani.
Aveva sempre pensato che iniziare a fare karate lo avrebbe aiutato a superare la sua non tenacia, ma quello che ancora non aveva compreso in realtà era invece proprio la sua incredibile forza di volontà e la sua tenacia nel voler restare in quel mondo.
E ancora non aveva realizzato quanto in quel momento quel forte sentimento di rabbia avesse assunto la funzione di spirito guida della sua vita e lo stesse conducendo lungo un sentiero che non avrebbe mai immaginato di iniziare a percorrere sul serio.
 
 
*Note d'autrice*
Non ci credo nemmeno io. Mi ci è voluto un anno per aggiornare, ma alla fine chi va piano va sano e lontano :D.
Detto ciò, la complice di questo ritorno è stata proprio la canzone che vi ho messo in questo capitolo e da cui è tratta la frase che ho messo all'inizio. Mi ha ispirata, mi ha fatto pensare a questi due e a come stava andando la storia e ho iniziato a scrivere. Ho scritto questo capitolo in pochissimo tempo, cosa che non succedeva da un po' e sono contenta di essere tornata ad aggiornare questa mia, prima storia.
Dunque, diciamo che le vicende qui erano abbastanza prevedibili, ma tutto ciò che sta succedendo era la sola direzione in cui i personaggi potevano andare e spero che vi piaccia.
Non so quando riaggiornerò, sono tempi impegnati e duri eheheh. D'altronde Mastermind è sempre stato un cavallo impazzito che non si cura di tempi e settimane.
Vi mando un grosso bacio e alla prossima
Alex

 
 
 
 
 

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Capitolo 14
*** Capitolo 12 ***


Capitolo 12 

«Sai… per un momento mi sono chiesto dove fossi finita.» 
«Ma se sono stata qui per tutto il tempo…»
«Ti sbagli. Se fossi stata davvero qui con me, me ne sarei accorto. Non credi?»
«E’ che sei troppo distratto…»
«Già, sono distratto da te… e sai bene che a breve ci saranno gli esami di fine anno. Come farò a concentrarmi con te nei paraggi?»
«Posso sempre sparire per un po’» disse lei, imbronciando il viso. Lui allora le sfiorò il braccio scoperto dall’uniforme estiva.
«Non dirlo neanche per scherzo.» Sussurrò, avvicinando lentamente il viso a quello di lei. Le sue labbra non si mossero al contrario della faccia che lentamente raggiungeva le labbra di lei.
«Stop!» Si sentì all’improvviso. Una voce decisa e abbastanza infastidita aveva interrotto l’idillio lasciando interdetti i due protagonisti. Poi lei scosse leggermente la testa e si voltò verso il punto da cui era arrivato quel grido.
«Era buona?» Domandò scostandosi una delle due trecce dal collo.
«Poteva essere meglio… decisamente.» Commentò lui, grattandosi il mento con le dite.
«Possiamo sempre rifarla, no?» Suggerì lei, cercando l’approvazione del suo compagno di lavoro con un gesto del capo. Lui però non colse l’insistenza di lei, e la sua attenzione fu catturata da tutt’altro perché si mise una mano nella tasca dei pantaloni, da cui estrasse un cellulare.
«E quando Sana? Non c’è tempo… l’episodio deve andare in onda alla fine di questa settimana. Domani abbiamo altre scene impegnative e dio solo sa quanto ci metteremo a girarle.» Disse il regista, iniziando a gesticolare animatamente con le mani e dando poi le spalle a Sana e al suo partner di scena. 
In effetti erano sul set da circa sette ore e il giorno dopo sarebbe stato lo stesso e Sana pensò che una pausa, di almeno qualche ora, era quello che le serviva. Quindi si sentì sollevata quando il signor Dae-su le aveva detto che non avrebbero ripetuto la scena e che per quel giorno avrebbero finito. Anche perché lei quella sera aveva un impegno a cui non aveva nessuna intenzione di rinunciare.
A quel punto si voltò verso Do Yoon agitandogli vistosamente una mano davanti al viso.
«Allora se abbiamo finito io andrei… si è fatto davvero tardi.»
«Sì, sì… d’accordo. Ci vediamo domani.» Replicò lui con non troppo interesse. Non le aveva nemmeno rivolto lo sguardo perché era davvero troppo assorto ad affondare il naso insieme a tutto il resto del suo viso nello schermo illuminato del suo smartphone.
Tuttavia, Sana non badò più di tanto a quell’atteggiamento e rivolgendo un rapido saluto a tutto il resto della troupe si avviò velocemente verso l’auto del suo manager che la stava aspettando sorseggiando un caffè nero da cui usciva ancora una copiosa nuvola di fumo bollente.
«Non ti sei cambiata?» Le domandò scrutandola stranito. Nel frattempo, però Sana si era sciolta rapidamente le due trecce che era costretta a portare per interpretare il suo personaggio.
«Non c’è tempo Ryu, devo scappare a casa. Hai dimenticato l’evento di stasera?» Domandò lei guardando la sua immagine riflessa nel piccolo specchietto del cruscotto della macchina. I suoi capelli erano leggermente ondulati e cercò di fare un rapido calcolo mentale del tempo in cui li aveva tenuti legati in quelle due trecce.
«Certo che sì. Di solito però ti cambi nel camerino…»
«Lo so, ma ero stufa di stare lì sul set. Poi in questo modo domani sarò già pronta per venire a lavoro, no?» Domandò retorica con un grosso sorriso sul viso.
Ryu le sorrise a sua volta spingendo il piede sull’acceleratore. Nonostante l’entusiasmo della sua cliente per la serata di beneficienza a cui sarebbero presto andati, lui non vedeva l’ora di tornare a casa, abbracciare sua moglie e andarsene a dormire. Stare seduto ore e ore sul sedile della sua auto era qualcosa che lo sfiniva e avrebbe dato qualsiasi cosa perché Sana in quel momento gli annunciasse di aver deciso di rinunciare alla serata.
Tuttavia, quell’annuncio non arrivò mai. 
«Ci vediamo più tardi Ryu.» Lo salutò Sana prima di avanzare velocemente verso l’ingresso del palazzo in cui viveva nel pieno centro di Seoul. Quegli ascensori ultraelettronici, in cui bastava digitare il codice del proprio appartamento per volare verso chissà quale piano, le ricordavano spesso la città in cui era nata e cresciuta. Seoul, in fondo, non era troppo diversa da Tokyo. La stessa cosa non si poteva dire certo per la gente e lei, nei primi tempi di vita in quel nuovo paese lo aveva pensato spesso: non c’è niente che mi ricordi casa a parte i grattacieli e le luci abbaglianti.
In fondo però le stava bene così e ormai non aveva più nemmeno il tempo di pensare a queste o a quelle differenze.
Digitò velocemente il codice di ingresso del suo appartamento al quindicesimo piano dell’edificio e quando entrò notò subito le scarpe di Lee - Eun disposte parallele l’una accanto all’altra su quello che lei avrebbe chiamato Genkan.
«Lee?» Lo chiamò sorpresa sfilandosi le scarpe a sua volta.
«Sono in cucina…» lo sentì replicare. Allora anche lei sfilò velocemente le sue di scarpe e lo raggiunse in cucina. Lo trovò intento a sorseggiare una tazza di quello che doveva essere probabilmente tè, e a sfogliare una rivista.
«Come mai sei qui?» Gli domandò, raggiungendolo. Lui, in risposta, la scrutò attentamente da capo a piede.
«Ma come perché? Avevo voglia di vederti, no?» Disse lui con un sorriso. Lei gli rispose con la stessa espressione.
«A proposito, come sono andate le riprese?»
«Oh… sfinenti.» Disse lei, con un grosso sospiro a cui seguì anche un rilassamento delle spalle che Lee riuscì a vedere chiaramente.
A quel punto lui si alzò dalla sedia e la raggiunse in pochi passi. Le sfiorò delicatamente il braccio per poi poggiarle un leggero bacio sulla fronte.
«Dovresti rinunciare a questi ruoli.» Osservò lui mentre Sana si lasciava andare su una delle sedie disposte intorno alla penisola che regnava nella sua cucina.
Dai grossi finestroni della stanza, che fungevano quasi da parete, riusciva a vedere tutta la città illuminata e qualche volta quella vista le metteva una leggera malinconia, che tuttavia non riusciva quasi mai a spiegarsi.
«Perché dovrei?» Domandò incuriosita.
«Sono solo stancanti, ti fanno interpretare sempre lo stesso personaggio e così la tua carriera non decollerà mai. Non puoi continuare a impersonare adolescenti liceali alla tua età…»
«Io li trovo emozionanti invece.» Ribatté lei, con un filo di broncio.
«Mah… non ti capisco. Potresti sfruttare al meglio il tuo talento e invece continui a lavorare in questi drama senza speranze.» Insistette lui alzando le sopracciglia. In quel momento Sana si domandò seriamente il motivo perché a Lee Eun interessasse così tanto quali ruoli le proponevano di interpretare. In fondo a lei quel lavoro le piaceva e alle volte le sembrava di poter riscrivere qualcosa per poi smettere di pensarci subito dopo.
«A me va bene così.»
«D’accordo Sana, cosa devo dirti?»
«Niente Lee… io, comunque, tra un po’ devo uscire. Tu che piani hai?» Gli chiese sfilandosi la cravatta rossa che la sua uniforme di scena prevedeva che indossasse.
«Seon-yo ha organizzato una serata a Itaewon… e a questo proposito. Mi sono accorto che la mia carta di credito si è smagnetizzata.»
«Sul serio?»
«Già… ho provato a chiamare la mia banca, ma dicono che prima di lunedì è impossibile risolvere il problema.»
«E come farai fino alla prossima settimana?» gli chiese lei, leggermente preoccupata.
«Onestamente non lo so. Pensavo di chiedere una mano a mia madre per poi ridarle tutto, certo…»
«Ma no, tua madre ha già i suoi problemi. Ti aiuto io Lee…»
«Sana, io davvero non voglio crearti problemi lo sai.» fece lui, abbassando la testa per nasconderle il suo sguardo imbarazzato. Sana però non lo notò nemmeno ed estrasse velocemente una carta dal suo portafogli.
«Tranquillo, poi me li ridarai. Tanto si tratta di aspettare qualche giorno.»
«Al massimo tre o quattro.» Disse lui enfatizzando la voce su quei numeri. Poi le sorrise, prima di baciarle la bocca velocemente.
«Sei davvero il mio angelo… e ora ti lascio in pace così potrai stare tranquilla e goderti la tua serata.» Disse lui, raccogliendo rapidamente le sue cose. Lei gli sorrise, senza nemmeno guardare la sua mano che infilava in tasca la carta che gli aveva appena donato.
Pensò che non vedeva l’ora di uscire di nuovo da quell’appartamento e che avrebbe dovuto chiamare Ji-won per la serata. In effetti avrebbe potuto chiedere a lei un passaggio e liberare Ryu. 
Almeno per quella volta.
 
***
 
Alla fine, aveva chiamato Ji-Won che si era mostrata subito entusiasta di andare insieme alla serata di beneficienza che l’agenzia per cui lavoravano aveva organizzato quella sera.
«Chissà se ci sarà anche Mu-chi stasera…» domandò a Sana, mentre si aggiustava lo scollo del vestito color pesca che aveva indossato.
«Perché non dovrebbe? Anche lui lavora per la nostra agenzia.» replicò Sana, guardandosi intorno. Ricordò subito la prima volta che era stata al Four Season hotel, che coincideva anche con il primo di quel genere di eventi a cui aveva preso parte e pensò subito che era passato davvero molto tempo da allora. 
«Be’ perché lui in realtà non è mica il tipo che si fa vedere spesso in giro.»
«Ah no?»
«No, però incrocio le dita.» disse subito dopo Ji-Won, prendendo Sana per un braccio per trascinarla nella grande hall adibita per la serata.
La sala era piena di gente, le luci soffuse e il bancone bar richiamò immediatamente l’attenzione di Ji-Won. Salutarono velocemente tutte le persone che man mano incontravano lungo il cammino e, dopo qualche sorriso di troppo, a Sana venne immediatamente voglia di un drink.
«Com’è che si chiamava quel coso che abbiamo bevuto insieme l’ultima volta?» domandò all’amica che le rispose alzando lo sguardo al cielo in cerca di una risposta. Poi sgranò gli occhi.
«Ah, dici il Manhattan?»
«Sì, quello. Ordiniamone subito uno.» disse Sana, alzando un braccio per richiamare l’attenzione di uno dei barman dietro al bancone. E in pochi minuti entrambe si ritrovarono con un bicchiere a forma di triangolo rovesciato stracolmo di un liquido scuro.
Quando però Ji-Won avvicinò il suo bicchiere alle labbra, la sua attenzione fu catturata da un punto indistinto della sala e, immediatamente, sgranò gli occhi. Sana, di riflesso, guardò nella sua stessa direzione e sorrise quando capì il motivo di quel cambio di espressione.
«Non ci credo! È venuto sul serio…» esclamò Ji-Won spostando subito lo sguardo altrove. Non ebbe il tempo di fare nulla, perché Sana alzò immediatamente un braccio, agitandolo vistosamente per farsi vedere dal ragazzo, oggetto di interesse di Ji-Won, che era appena entrato nella sala insieme ad un altro ragazzo.
«Ma che fai???» disse Ji-Won, visibilmente agitata. Cercò di fermare le braccia dell’altra, ma il tentativo giunse troppo in tardi perché Mu-chi si stava già dirigendo verso di loro.
«Ti aiuto no? Con tutta questa gente chissà quando ci avrebbe viste…»
«E chi ti dice che volevo ci vedesse?»
«Ma che dici? Un attimo fa non vedevi l’ora che venisse.» replicò Sana interdetta. Eppure, era convinta che la sua amica non aspettasse altro.
«Sì, ma non così…»
«Ehi ragazze, ci siete anche voi…» le interruppe una voce che a Ji-Won fece immediatamente battere il cuore un po’ più forte. Un po’ come quando ti spingono giù senza preavviso e tu non hai il tempo di capire cosa stia succedendo intorno a te.
«Certo che ci siamo, lavoriamo per la stessa agenzia.» disse Sana, come se quella fosse la domanda più ovvia del mondo.
«Sì, Sana vuole dire che non ci saremmo perse questa festa per niente al mondo» aggiunse Ji-Won, cercando di riportare la conversazione su un piano normale. Ma Mu-chi sollevò entrambe le sopracciglia.
«Io me la sarei persa volentieri invece.» 
«E allora perché sei venuto?» continuò Sana, in tono tranquillo. A quella battuta, che lei non aveva affatto concepito come tale, l’accompagnatore di Mu-chi ridacchiò sotto i baffi, ma quel gesto fu notato da tutti i presenti.
«Be’, non ha tutti i torti.» commentò lo sconosciuto, quando lo sguardo di Mu-chi si fece piuttosto insistente.
«Tu dovresti essere dalla mia parte, Eunji.»
«Perché invece non bevete qualcosa?» li interruppe Ji-Won indicando il suo bicchiere, il cui contenuto era ormai giunto alla metà.
«Buona idea.» replicò immediatamente Mu-chi avvicinandosi al bancone. In quel momento, anche l’altro fece qualche passo e in un gesto del tutto disinvolto, allungò la sua mano verso Sana.
«Questo maleducato non ci ha nemmeno presentati. Io sono Park Eunji…»
«Sana Kurata. Lavori anche tu per la K Agency?» disse lei, stringendogli la mano.
«Oh no, no. Sono un comune mortale amico di Mu-chi. Tu invece non sei di queste parti, vero?» le domandò, appoggiandosi al bancone e dando le spalle a Mu-chi e Ji-Won che, nel frattempo, erano impegnati entrambi ad ordinare da bere.
«Già, si sente così tanto?» domandò lei, indicando se stessa. Eppure, pensava di essere ormai in grado di parlare la loro lingua più che bene.
«Be’ no, ma è la tua fama a tradirti. Sei giapponese vero?»
«Eh, sì. Prendiamo da bere?» disse subito lei, cercando poi l’attenzione di uno dei barman.
«Sai, ci vado spesso a Tokyo.» aggiunse, ordinandosi poi rapidamente un Manhattan insieme a Sana.
«Davvero? Io invece non ci vado mai.» replicò lei, cercando di affondare un sorriso leggermente nervoso nel bicchiere che le era appena arrivato.
«Ma dai. Io ci vado per lavoro, ho un’azienda di esportazione e ci farò un salto proprio il mese prossimo. Non vai nemmeno a trovare la tua famiglia?» continuò con le sue domande e Sana, in quel momento, non riuscì a spiegarsi l’improvviso sbalzo di temperatura perché iniziò a sentire davvero un gran caldo.
«Vengono loro qui. Che caldo che fa eh… scusami, ma vorrei prendere un po’ d’aria.» disse all’improvviso, scostandosi dal bancone. A quel punto Eunji seguì il suo movimento.
«Oh d’accordo, ti accompagno. In effetti qui fa un po’ caldo.»
Tuttavia Sana era già sgusciata via tra la folla, alla ricerca dell’uscita di quella sala, cercando di non rovesciarsi addosso gli ultimi residui del suo Manhattan. Eunji faticò non poco a trovarla, e la vide affacciata alla ringhiera del grande terrazzo che circondava la sala principale.
«Meglio, no?» le domandò, raggiungendola in pochi minuti.
«Decisamente.»
«Sai, non sono proprio abituato a queste serate. Di solito le nostre uscite di lavoro sono molto più noiose.» argomentò lui, continuando a stringere il suo bicchiere in una mano.
«Peccato.»
«Tu ci vieni spesso?»
«Be’, sono divertenti, no? Perché non dovrei?»
«Non saprei. In effetti, sembrano divertenti.» aggiunse lui, avvicinandosi ancora un po’ a Sana che, nel frattempo, si domandò dove fosse finita Ji-Won.
E lui forse se ne accorse, perché guardò nella stessa direzione di lei.
«Secondo me la tua amica è insieme al mio amico.»
«Oh sì, speriamo. Non vedeva l’ora che venisse… oh.» disse poi, mettendosi una mano sulla bocca. «Questo forse non avresti dovuto saperlo.»
A quella battuta e al modo in cui Sana aveva cercato di tornare sui suoi passi, Eunji sorrise divertito.
«Sei simpatica, Kurata. Non pensavo che le star della televisione fossero così.»
«Siamo anche noi dei comuni mortali, e puoi chiamarmi Sana sai?»
«D’accordo, Sana. E cosa fai nel tuo tempo libero?»
«Oh, di quello non ne ho davvero. Lavoro, tantissimo, e poi dormo. Quando posso mi piace dormire fino a tardi.» raccontò lei velocemente, e Eunji si sentì immediatamente sollevato, perché gli sembrò di vederla finalmente a suo agio. Probabilmente era quello il punto da battere finché caldo.
«Ricordo di aver visto una serie in cui interpretavi una ragazza povera che aveva vinto una borsa di studio in un liceo prestigioso. Carina, devo dire.» commentò, nonostante non lo pensasse sul serio.
«Oh sì, ho adorato recitare in quel drama. Sai, la gente pensa che siano delle stupide storie d’amore lontanissime dalla realtà. Eppure io trovo che il romanticismo faccia bene all’anima, e che tutti noi dovremmo provare un amore travolgente. E così triste, quando non accade.» raccontò con un sorriso rivolto verso l’orizzonte che avevano di fronte. 
«Già, hai ragione. Ci vorrebbe un po’ più di romanticismo. Ora, per esempio, vorrei che apparisse all’improvviso…» disse, per poi bloccarsi subito dopo, senza finire la frase. Sana lo guardò corrugando la fronte, cercando di capire cosa stesse facendo mentre Eunji si guardava intorno, spostando lo sguardo rapidamente da un punto all’altro della terrazza. Poi il suo viso si illuminò all’improvviso e si allontanò di qualche passo. Sana lo osservò incuriosita mentre lui si avvicinava ad un enorme vaso disposto proprio accanto alla porta finestra della terrazza. Eunji trafficò per qualche secondo con l’enorme pianta che fuoriusciva proprio da quel vaso poi si voltò nuovamente verso di lei, raggiungendola con un grosso sorriso dipinto in viso.
«Dicevo…»
«Ma che fai?» domandò Sana, che proprio non riusciva a chiudere le labbra per lo stupore.
«Se in questo momento avessi con me un fiore, lo regalerei a te. Ma un momento… un fiore io ce l’ho eccome.» disse lui con un sorriso, porgendo a Sana un fiorellino bianco che aveva bellamente strappato dalla pianta della terrazza. Eunji rimase qualche secondo con il braccio teso e il fiore davanti al viso di Sana che, in risposta, corrugò le sopracciglia.
Si morse appena le labbra, pensando che in effetti quello era proprio un gesto da serie televisiva e si disse che avrebbe dovuto suggerirlo al regista l’indomani perché, era sicura, qualsiasi ragazza sarebbe caduta ai piedi di un uomo in grado di fare una cosa così carina.
«Ehm, io…» balbettò lei, abbassando lo sguardo sui suoi piedi. Contemporaneamente anche il braccio di Eunji si fletté leggermente e il fiore si allontanava sempre di più dal viso di Sana.
«Lo so, lo so. È brutto ed è già appassito, però ti prometto che se accetterai il mio invito a cena mi farò perdonare.» disse lui in tono ironico. Il suo intento era di farla sorridere, tranne per la proposta della cena. In quello era serio eccome.
«Ma no, che dici. Il fiore è carino… è che le piante… è per la pianta, soffrono…» disse in modo quasi scoordinato, tanto che Eunji corrugò la fronte cercando di capire il punto di quello strano parlare. Però Sana in quel momento estrasse di scatto il cellulare dalla piccola borsa che indossava e sgranò gli occhi.
«Oh, scusami, mi è appena arrivato un messaggio di Ji-Won. Devo andare da lei, credo sia successo qualcosa di serio perché mi ha chiesto di raggiungerla subito in bagno. Scusami davvero, ci vediamo dopo, ok?» disse lei, dandogli le spalle mentre cercava senza successo di nascondere una smorfia del viso.
Eunji avrebbe voluto seguirla, ma aveva anche capito che quella non era affatto la strategia giusta da adottare così restò lì, rigirandosi tra le dita il fiore ormai appassito che aveva strappato a quella pianta.
Sana invece ci mise qualche minuto a trovare Ji-Won, perché era ancora doveva l’aveva lasciata, seduta al bancone del bar intenta a parlare con due ragazzi che non aveva mai visto. Quando l’amica la vide, agitò un braccio, e Sana si sentì sollevata.
«Ma dov’eri?» domandò Ji-Won, alzando appena il tono della voce per sovrastare la musica che iniziava ad essere sempre più forte.
«Fuori. Senti, ma se ce ne andassimo da qui?» propose lei, avvicinandosi all’orecchio dell’amica.
«Non è una cattiva idea, anche perché Mu-chi è sparito e io mi sono stufata. Andiamo al Blue Sky?» disse, entusiasta.
Sana allora ricordò all’istante le pareti fluorescenti e il colore blue predominante di quel posto, e pensò che in fondo il blue è un colore rilassante. Quindi le venne immediatamente voglia di andarci. 
«Perfetto.» rispose rapidamente, per poi lasciare quella festa e tutte le persone che invece sembravano stessero per iniziare a scaldarsi proprio in quel momento.
 
Settembre 2015
 
«Ohi… ma che ore sono?»
Sana bofonchiò a se stessa quelle parole senza nemmeno pensare realmente al loro significato. Si mise una mano sulla fronte, premendo leggermente i polpastrelli sulla pelle affinché quel leggero pulsare si affievolisse e la lasciasse in pace. 
Ci mise una manciata di minuti a capire che quel suono insistente non veniva dalla sua testa, bensì da qualcosa che si trovava a qualche centimetro di distanza dal suo letto.
Quando si rese conto che a produrre quella vibrazione fastidiosa era il suo cellulare, immediatamente tutti i neuroni addormentati del suo cervello furono messi in allarme e lei si alzò di scatto dal letto perché aveva finalmente capito che era terribilmente in ritardo.
«Accidenti, ma perché non mi è suonata la sveglia.» domandò a se stessa quando lesse il nome del suo manager che illuminava ad intermittenza lo schermo del suo cellulare.
«Scusami Ryu, ma la sveglia non è suonata…» si affrettò a dire lei, mentre acciuffava vestiti a caso dal suo armadio.
«Sana, è più di mezz’ora che provo a chiamarti.» rispose l’altro, con tono seccato.
«Lo so, lo so. Due secondi e scendo…» 
Ma in realtà quei due secondi si trasformarono in diversi minuti prima che il suo manager la vedesse comparire dall’ingresso dell’edificio in cui abitava.
Sana si sentiva ancora decisamente stordita, perché la sera precedente era rincasata più tardi del previsto e, nonostante non avesse bevuto troppo, si sentiva decisamente fuori forma. Probabilmente quella sensazione era dovuta al fatto che, in realtà, aveva dormito molto male e che aveva faticato non poco ad addormentarsi, nonostante la stanchezza.
«Bene, quali sono i programmi di oggi?» domandò lei, mentre frugava intensamente nella sua borsa. Ryu la guardò per un istante, prima di tornare con l’attenzione alla strada davanti a sé.
«Oggi termineranno le riprese dell’ultimo episodio, che andrà in onda venerdì. Dovreste finire intorno alle sei… »
«Poi?» domandò subito lei, guardando soddisfatta un elastico colorato per i capelli che aveva appena tirato fuori dalla borsa.
«Poi alle otto inizieranno le riprese per una puntata speciale del talk show per ragazzi con un talento speciale.»
«Oh sì, giusto. Devo trovare un costume adatto…»
«Costume?»
«Certo, un costume. Qualcosa che li faccia ridere… non voglio che si crei un’aria da funerale.»
«Be’, puoi sempre fare una battuta, non credi?»
«Non lo so, spesso la gente non ride alle mie battute.» constatò lei, guardando fuori il finestrino. Le strade erano già piene di gente indaffarata, che correva per raggiungere chissà quale posto di lavoro. E sana, per un solo istante, si domandò come fossero quelle vite e se quella gente che vedeva scorrere attraverso il vetro della macchina, era felice o almeno soddisfatta di ciò che aveva.
Poi, si voltò nuovamente verso Ryu.
«Domani, invece?»
«Domani mattina hai una riunione con il regista della prossima serie che girerai, e il pomeriggio dobbiamo volare agli studi della NTV perché dovrai partecipare ad una specie di gioco a premi con il cast del drama che termina oggi. Una cosa per promuoverlo insomma.»
«D’accordo.» rispose lei, con un filo di sollievo che non riuscì a trattenere nella voce.
«Ricordati che la settimana prossima partiamo…»
«Oh sì, giusto. Non vedo proprio l’ora… mi sembra un sogno.»
«Dovresti aver ricevuto i biglietti via mail.» la informò lui mentre imboccava l’ingresso degli studi televisivi di Seoul.
«Sul serio? Aspetta che controllo.» fece lei, iniziando a digitare qualcosa sul cellulare. Aprì la sua mail e, in effetti, tra le quindici lettere non lette c’era quella a cui si riferiva Ryu: una mail inviata dallo studio fotografico per cui avrebbe posato la settimana successiva. Andare alle Hawaii per pubblicizzare una crema idratante le sembrava veramente una cosa folle. Poi però, non riuscì a trattenere lo sgomento quando aprì il file allegato a quella lettera digitale.
«Ma questo biglietto…» 
«Sì, faremo scalo a Tokyo. Avevo anche pensato di andare a trovare mia madre, ma sarà uno scalo velocissimo. Credo un paio d’ore al massimo...» la informò lui. Quello che però il suo manager non riuscì a vedere furono le spalle della sua cliente, che si abbassarono lentamente seguendo il ritmo di un intenso quanto silenzioso sospiro.
Ma la frenesia di quella intensa ultima giornata di lavoro cancellò ogni tipo di pensiero e Sana, insieme a tutto il resto del cast, si era impegnata davvero molto affinché il regista fosse soddisfatto. Avevano appena terminato la scena finale e mentre tutti loro si complimentavano per il lavoro svolto, il cellulare di Sana iniziò a vibrare.
«Oh, ciao Lee.» rispose lei, allontanandosi di qualche passo dal resto del gruppo. 
«Sana, come stai?» le domandò velocemente. Sana sentì anche un frastuono di sottofondo e pensò che Lee dovesse essere sicuramente per strada.
«Bene, abbiamo appena finito. Ma tu dove sei?»
«In giro, stavo cercando una cravatta nuova. Piuttosto, tu che piani hai per i prossimi giorni?»
«Oh, non te l’ho detto? Tra qualche giorno parto per le Hawaii… è per lavoro.» gli raccontò, nonostante fosse abbastanza sicura di averne parlato già con lui. Probabilmente aveva solo fatto confusione, altrimenti Lee se ne sarebbe ricordato.
«Sul serio? E quando?» le domandò Lee-Eun. 
«La settimana prossima. Ho davvero un mucchio di cose da fare sai prima di partire.» gli disse lei, mettendosi una mano davanti alla bocca, come se nessuno dovesse ascoltare quelle parole. In verità, c’era talmente tanta confusione sul set che sarebbe stato impossibile sentire anche solo una sillaba.
«Capisco. Peccato… pensavo di invitarti ad uscire.»
«Oh, davvero? Che avevi in mente?»
«Ma niente di speciale. Volevo portarti a mangiare qualcosa e poi magari andare alle terme. Però mi sembra di aver capito che lavorerai tutti i giorni fino alla tua partenza.»
«Proprio così. Domani mi daranno un nuovo copione, inizieremo una nuova serie tv e ci sarà anche Ji-Won.» disse lei con entusiasmo. Non poteva certo vedere l’espressione di Lee-Eun dall’altro capo del telefono che faticava nel cercare di ricordare chi fosse Ji-Won.
«Fantastico, sono contento per te. Anche io avrò da lavorare tanto, c’è questo nuovo articolo che mi hanno affidato in redazione…» iniziò lui, ma Sana lo interruppe quasi subito con una specie di urlo.
«Che bello Lee-Eun, sono così contenta per te. Dobbiamo festeggiare.» 
«Sì, sì certo. Il fatto è che dovrò andare spesso in centro… per le interviste agli avvocati di questo studio legale prestigioso. Se tu non dovessi partire, potrei fermarmi più spesso da te, così la mattina non dovrei svegliarmi all’alba. Dovrò andare praticamente a due isolati da casa tua…» disse lui, scandendo lentamente ogni parola, come se le stesse ricercando con una lente di ingrandimento all’interno di un enorme cesto di vimini.
«Oh, mi dispiace… però se vuoi puoi comunque fermarti da me. Io non ci sarò, ma non è un problema.» disse lei, voltando lo sguardo verso il resto del gruppo. C’era chi si abbracciava, chi si asciugava qualche lacrima e lei, in quel momento, desiderò solo raggiungere quel gruppo e chiudere la telefonata.
«Ne parliamo più tardi, ora devo salutarti.» concluse lei sbrigativa.
«Ma certo. Buona giornata.» fece lui, nello stesso identico tono.
 
Inizio ottobre 2015
 
Sana si allacciò le cinture non appena il segnale sulla sua testa si era acceso. Lanciò una rapida occhiata alla sua destra dove c’era Ryu appoggiato contro il finestrino ovale dell’aereo su cui viaggiavano da più di un’ora. Aveva gli occhi chiusi e le labbra aperte, allora lei controllò che anche la sua cintura fosse ben allacciata dal momento che il capitano aveva appena annunciato l’imminente atterraggio all’aeroporto di Tokyo.
Lei, di solito, era una che sugli aerei dormiva. Lo faceva anche sui treni, in auto e su qualunque mezzo di trasporto il cui spostamento prevedeva una durata di tempo superiore ai venti minuti.
Eppure, quella sera di inizio ottobre non era riuscita a chiudere occhio nemmeno per venti secondi. O meglio, lo aveva fatto, ma la mente continuava ad essere vigile.
Contava le ore che la separavano dal volo successivo e in quel lento susseguirsi di numeri, minuti e ore, il suo cervello non aveva proprio trovato il tempo di staccare la spina.
Dal finestrino riusciva chiaramente a vedere i puntini luminosi che man mano che l’aereo perdeva quota, si ingrandivano sempre più, fino ad assumere la forma di case illuminate, grattacieli vissuti e strade affollate. Riuscì chiaramente a distinguere la torre di Tokyo illuminata che sovrastava ogni altro edificio e si disse, tra se e se, che quel panorama non era affatto cambiato in tutti quegli anni.
Poi, il suo corpo sussultò lievemente non appena il velivolo toccò terra, e quando uno degli Stewart diede loro il benvenuto all’aeroporto internazionale di Narita, sentì improvvisamente la testa che le girava.
«Ryu?» lo chiamò, mentre l’aria si riempiva del suono metallico delle cinture di sicurezza che venivano slacciate, una ad una, da tutti i passeggeri pronti a scendere dall’aereo.
«Ehi… Sana?» disse lui, sgranando gli occhi come chi viene strappato con la forza da un magnifico sogno.
«Siamo arrivati.» disse lei, stringendo la cintura di sicurezza tra le dita. 
«Oh bene, ci abbiamo messo poco vero?»
«Sì, decisamente poco.» rispose lei, recuperando il suo bagaglio a mano dalla cappelliera come se fosse un automa. 
«Bene, recuperiamo le nostre cose e andiamo al prossimo terminal. Abbiamo circa un’ora per la coincidenza.» la informò Ryu, guardando velocemente il suo orologio. Sembrava aver recuperato le sue facoltà intellettive in un nanosecondo perché Sana, pensò, al suo posto ci avrebbe messo molto più tempo nel capire chi o dove fosse.
Entrambi allora si affrettarono ad uscire dal velivolo, senza prestare troppa attenzione all’equipaggio che li salutava, ringraziandoli caldamente per aver scelto la loro compagnia aerea. Percorsero il lungo corridoio degli arrivi che li separava da tutto il resto della struttura aeroportuale, fino a raggiungere un bivio che li avrebbe poi condotti al terminal 4, quello per le partenze intercontinentali.
«Dobbiamo andare di la.» suggerì Ryu, indicando il corridoio di sinistra.
«Oh certo.» lo seguì Sana, accelerando il passo. Non guardò l’orologio, ma pensò immediatamente che il tempo a loro disposizione stesse per scadere.
Entrambi allora, forse influenzati l’uno dall’altra, iniziarono ad accelerare il passo sempre di più fino ad arrivare quasi alla fine di quel lungo corridoio che li avrebbe condotti al terminal 4.
A quel punto però, Sana cominciò a sentire qualcosa. Si trattava di un leggero prurito nel profondo della gola. Allora tossì, cercando di schiarirsi la gola, ma quella sensazione fastidiosa non diminuì. Le sembrò addirittura che stesse peggiorando, nonostante gli innumerevoli colpi di tosse.
«Ryu, senti anche tu…?» domandò all’altro, e proprio in quel momento lei e tutti gli altri passeggeri che si stavano recando verso il terminal 4 sentirono un suono assordante, simile alle sirene di un’ambulanza, solo che non si trovavano per strada ma all’interno di un lungo corridoio che cominciava a riempirsi di fumo, man mano che il suono di quell’allarme aumentava.
«Sana, tappati la bocca!» riuscì a dire Ryu, prima di tossire per l’ennesima volta. E Sana seguì il suo consiglio, nonostante ormai il fumo aveva nascosto ogni cosa, comprese le altre persone.
Si chiese cosa stesse succedendo, e pensò subito ad un incendio, ma la sua lucidità iniziava ad essere compromessa man mano che il fumo le inondava i polmoni.
Sentì poi uno scossone che la fece cadere in un batter d’occhio, e l’ultima cosa che vide furono i passi veloci delle persone che scappavano intorno a lei.
 
Ospedale universitario di Tokyo – inizio ottobre 2015
 
«Dottore, è lei in turno al pronto soccorso?» domandò Yuuki, un’infermiera assunta da poco più di due mesi all’ospedale universitario di Tokyo.
«In verità oggi avrei dovuto essere in cardiologia, ma visto quello che è successo in aeroporto direi che saremo tutti qui.» le rispose il dottore.
«Oh, bene. Allora prenda questa cartella e vada al letto quindici per favore.» gli disse Yuuki porgendo un tablet al dottore che iniziò a scorrere velocemente con le dita.
«È questa la paziente?»
«Sì, Sana Kurata. La trova al letto quindici.» ripeté Yuuki con un sorriso.
A quel nome, il dottore alzò gli occhi dal tablet, ma non disse nulla. Spese i successivi minuti della sua vita a cercare quel nome ricoverato al letto quindici.
«È quella lì. Dice che sta bene e che vuole essere dimessa subito. Per favore, ci pensi lei.»
Ma l’altro era ormai troppo impegnato a collocare quell’immagine di quella ragazza che sbraitava agitando le braccia nel magazzino dei ricordi della sua mente di adolescente.


Note d'autrice
Bo', io non lo so quanti secoli sono passati dall'ultima volta in cui sono passata da queste parti. Di sicuro quasi un anno da quando ho aggiornato questa storia.
Mi dispiace avervi fatto aspettare, ma è stato un anno semplicemente folle all'insegna di aerei, partenze, trasferimenti, viaggi ecc. Insomma, avrei potuto scrivere nel dettaglio anche la tiritera che gli assistenti di volo dicono sulla sicurezza prima di ogni decollo. Ma ve l'ho risparmiata.
Detto ciò, spero che ci sia ancora qualcuno a leggere e se ci siete, fatemi sapere cosa ne pensate.
Vi mando un bacio enorme.
Alla prossima
Alex
 
 
 
 
 
 

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Capitolo 15
*** Capitolo 13 - Ti racconto cosa ho fatto ***


Capitolo 13 

Ti racconto cosa ho fatto


La sveglia suonò allo stesso orario di sempre, eppure Akito quel mattino faticò non poco ad aprire gli occhi e iniziare una nuova giornata di lavoro.
Perlustrò mentalmente gli impegni che aveva e considerò seriamente l’idea di darsi malato e restare a letto tutto il giorno.
Il punto però era che sapeva perfettamente quale sarebbe stata la reazione del suo capo, se non si fosse presentato in ufficio nel giro di qualche ora. Quindi sbuffò, si tirò giù dal letto e andò dritto in cucina percorrendo quei pochi metri quadrati che lo separavano dalla sua tazza di caffè del risveglio. 
Abbassò la testa e la sua attenzione fu catturata dal cellulare che si illuminò, perché gli stava arrivando una serie di messaggi da diversi contatti, ma alla fine decise di mettere il telefono in tasca e pensarci dopo.
Grazie alla fermata della metro, che si trovava proprio ad una manciata di passi da casa sua, Akito riuscì ad arrivare addirittura in anticipo a lavoro, nonostante le nefaste previsioni. Infilò il dito nel rilevatore di impronte che avrebbe registrato il suo orario di ingresso, e poi prese l’ascensore per filare dritto al quinto piano dell’edificio.
«Hayama, ti voglio nel mio ufficio tra due minuti!» lo accolse proprio il suo capo, puntandogli un dito dritto sul viso.
Allora Akito appoggiò rapidamente la borsa al suo posto, e se ne andò nell’ufficio del suo capo, pentendosi di non aver mai comprato dei tappi per le orecchie trasparenti.
«Siediti Hayama…» fece lui, indicandogli una sedia, «quel programma, quello script… non funziona. Non te ne eri accorto?»
«Se me ne fossi accorto…» rispose lui, accavallando le gambe e sollevando entrambe le sopracciglia.
«Non usare questo tono con me. Se ti dico di fare una cosa, devi farla come dico io. Ora chi li sente a quelli lì?» si gonfiò lui, per poi infilarsi una mano tra i pochi capelli che gli restavano e si affacciò alla gigantesca vetrata. Akito fu catturato da quel gesto per qualche secondo.
«L’ho fatta esattamente come mi hai detto tu. Forse è proprio questo il motivo per cui non funzionano.» replicò lui incrociando le braccia sul petto. In realtà si stava chiedendo quale fosse il motivo di quel fallimento, visto che nelle sue mani funzionavano perfettamente. 
«D’accordo, ora cerchiamo di risolvere il problema, altrimenti questi non ci pagano.» disse il suo capo, tornando lentamente alla sua scrivania.
Quel colloquio mattutino durò ancora mezz’ora prima che Akito potesse tornare alla sua scrivania, nel bel mezzo di tante altre, e continuare il suo lavoro.
«Che è successo, amico?» si sentì domandare alle sue spalle. Allora spinse la schiena contro la sedia e la ruotò di qualche grado, finché l’espressione interrogativa di Watanabe, il suo collega, non incrociò il suo sguardo annoiato.
«Il capo si è infuriato perché a quanto pare il programma che abbiamo venduto la settimana scorsa non funziona.» spiegò semplicemente, giocherellando con una matita spuntata.
«Ah no?»
«Già… pare che abbia fatto saltare tutti i sistemi informatici della compagnia e ora vogliono che lo riscriviamo gratis.»
«Addirittura? Come è potuto succedere?»
«Non ne ho idea…» rispose sovrappensiero, aggrottando la fronte. Ritornò poi rapidamente al suo posto, e la sua attenzione fu catturata dallo schermo del cellulare che si illuminò due o tre volte. 
Decise che quello però non era affatto un buon momento per controllare chi lo stesse cercando, quindi tornò al suo lavoro, iniziando a controllare il vecchio programma che aveva scritto per cercare di risolvere quel problema.
Nonostante fosse ottobre, l’aria era ancora decisamente calda e Akito si pentì amaramente di essere uscito con la giacca pesante quel mattino. Erano le sei del pomeriggio, ma nonostante l’ora le temperature continuavano ad essere decisamente alte e ben presto si ritrovò a sperare che Hisae avesse organizzato quell’incontro in un posto al chiuso e con l’aria condizionata.
Alzò poi la testa e si rese conto che il bar indicato dalla ragazza nei messaggi sul cellulare era proprio davanti al suo naso e immaginò che almeno all’interno l’aria condizionata funzionasse alla perfezione.
Poi, attraverso i vetri delle pareti, riuscì a vederla mentre si sbracciava per far sì che lui la vedesse e potesse raggiungerli.
«Hayama, siamo qui!» urlò quasi lei, alzandosi dalla sedia su cui era seduta. Lui le fece un rapido cenno con il capo, poi fece qualche passo verso di lei e solo in quel momento si accorse della presenza di Tsuyoshi.
«Ehi.» disse soltanto prima di sedersi ad una delle tre sedie libere presenti al tavolo.
«Oh Akito, come va?» domandò Tsuyoshi, sollevando improvvisamente la testa dal suo cellulare.
«Avete già preso da bere?» domandò invece lui ad entrambi.
«Io sì, Tsu voleva aspettare che ci fossimo tutti, ma secondo me ci vorrà ancora tempo.» disse lei, avvicinandosi alle labbra la sua tazza di tè bollente. A quel punto però Tsuyoshi allungò lo sguardo verso il menu abbandonato nel mezzo del tavolo e Akito, fermando una delle cameriere, si ordinò una birra.
«Ehi Hayama, inizi così presto?» lo prese in giro Hisae, ma lui le rispose con un’alzata di spalle.
«Quasi quasi ti seguo, sai?» fece Tsuyoshi ordinandosi una birra a sua volta.
«È depresso.» commentò Hisae, indicando Tsuyoshi all’altro.
«Ma che depresso… è solo che a lavoro è un casino. In più non capisco perché le ragazze si innamorino così facilmente…»
«In che senso?» gli chiese Akito, improvvisamente catturato dalla conversazione.
«L’altro ieri sono uscito con questa ragazza. E niente, siamo andati a cena fuori e poi lei è voluta andare in un karaoke. Era abbastanza brilla e ci siamo divertiti, è stata una bella serata, però poi non è successo nient’altro. Oggi, all’improvviso, mi ha chiamato dicendomi che sono un mascalzone, perché sono sparito. Ma che dovevo fare?» raccontò lui, sollevando le spalle.
«Andare dritto al punto.» commentò Akito. Poi, Hisae si sporse verso Tsuyoshi.
«Te l’ho detto: devi usare uberhorny se vuoi solo spassartela per una notte.»
«Ma che dici? Non è mica quello il problema?»
«Oh, sì che lo è. La tua aria da bravo ragazzo ti precede e la gente non ci crede che tu voglia solo divertirti, a meno che non lo dica espressamente. Cosa che tu non fai.» continuò Hisae senza nessun filtro.
«Ma certo che lo faccio. Sono sempre chiaro sulle mie intenzioni.» rispose lui, quando si sentì un leggero ghigno provenire dal punto in cui era seduto Akito. Hisae si mise a ridere e Tsuyoshi lo colpì leggermente con la punta della scarpa.
«Lo faccio, credimi.» rimarcò.
«Ne sei sicuro? No, perché le tue amiche non la pensano come te.» disse Akito in una leggera smorfia di dolore, avvicinando poi la sua birra alle labbra.
«Be’ cerco di essere anche galante. Non è che le donne siano degli oggetti.»
«Stai divagando Sasaki.» continuò Hisae.
«E tu dovresti essere d’accordo, visto che sei una donna.»
«E invece è proprio questo tuo atteggiamento ad offendere il mio essere donna. Tu pensi che solo voi maschi volete divertirvi in quel modo? Magari se tu fossi stato onesto fin da subito, le cose sarebbero andate diversamente. Non credi? Invece di infiocchettare il pacco inutilmente.» sentenziò lei, con tono arrabbiato.
«Ehi, non c’è bisogno di arrabbiarsi. E io non infiocchetto nessun pacco.»
«Eppure, ho sempre pensato che lo sciupafemmine del gruppo sarebbe diventato lui.» concluse Hisae, indicando Akito con un gesto del capo. Quest’ultimo non rispose, avrebbe voluto scoppiare a ridere se solo fosse stato uno di quelli che, in compagnia dei suoi amici e nel bel mezzo di un bar quasi vuoto, esternano le loro emozioni con una ricca e sonora risata.
Ma quello non era di certo lui.
Poi sia Tsuyoshi che Hisae alzarono lo sguardo, e quest’ultima si pentì un po’ di quello che aveva appena detto.
«Perché dovrebbe essere uno sciupafemmine?»
A quel punto anche Akito si voltò, ritrovandosi alle sue spalle la sua ragazza che finalmente li aveva raggiunti.
«Oh, Fumiko. Ma no, scherzavo… e comunque nemmeno Tsuyoshi è uno sciupafemmine. Per la cronaca.» si giustificò Hisae. Fumiko si sedette proprio accanto ad Akito dandogli un leggero bacio sulla guancia. Quest’ultimo le cinse la vita, e quando sentì le labbra di lei sfiorargli il viso, strinse le sue dita sul suo corpo un po’ di più.
«Ma sì, scherzavo. Conosco bene Akito.»
A quelle parole Hisae si sentì improvvisamente sollevata. Era un po’ di tempo ormai che Akito e Fumiko uscivano insieme, ma nonostante tutto non riusciva a sentirsi se stessa al cento per cento quando uscivano e c’era anche lei. Nel profondo del suo inconscio, ogni volta che organizzava qualcosa, sperava sempre che lei non ci fosse. E ogni volta che quella speranza si faceva largo, provava un sottile senso di imbarazzo.
«Quindi, di cosa parlavate?» domandò lei, attirandosi a sé l’unico menu presente sul tavolo.
«Di Tsuyoshi.» risposero all’unisono Akito e Hisae. A quel punto Tsuyoshi si sentì abbastanza frustrato e incompreso, e decise di vertere l’attenzione su altro.
«Perché non parliamo d’altro invece? Tipo, come sono andate le vostre giornate?» domandò lui, incrociando le braccia sul tavolo.
«Come sempre Tsu. Oggi abbiamo consegnato il progetto definitivo di restauro di un edificio in pieno centro. Staremo a vedere…» disse lei, sollevando le spalle. Avrebbe volentieri sbuffato per quel cambio d’argomento di conversazione.
«E tu Akito? Come è andata la tua giornata?» continuò Tsuyoshi.
«Ma davvero ti interessa?» domandò Hisae, lasciandosi scappare una risatina.
«Già, l’argomento di prima era più interessante.» confermò anche Akito, sorseggiando tranquillamente la sua birra. Hisae accentuò la risata, e Tsuyoshi sbuffò sonoramente. In quel quadretto ben definito, scolpito nel tempo da anni di solida amicizia, Fumiko si ritrovò a sorridere senza tuttavia provare davvero un senso di divertimento per ciò che stava accadendo. 
«A me invece interessa com’è andata la tua giornata.» disse Fumiko all’improvviso verso Akito, accompagnando quell’affermazione con un sorriso. Lui la guardò per qualche minuto, poi sospirò leggermente. 
«Poteva andare meglio.» si limitò a dire, ma sapeva bene che quella risposta avrebbe innescato una reazione a catena verso la sua ragazza. Eppure, per qualche ragione, aveva scelto consapevolmente di innescarla.
«Perché? È successo qualcosa?» domandò lei, di conseguenza, e ad Akito venne immediatamente voglia di tornare indietro nel tempo e rimangiarsi subito quella frase.
«Non esattamente. Dobbiamo riscrivere un programma da capo, niente di importante comunque.» raccontò velocemente.
«Oh, capisco. Be’, vedrai che sarà meglio di prima.» lo incoraggiò Fumiko, appoggiandogli una mano sul ginocchio.
«Lo spero bene.» concluse lui.
«Almeno voi non siete stati sopraffatti da milioni di pazienti arrivati in ospedale per l’incidente in aeroporto.» aggiunse Fumiko, lasciandosi poi andare con le spalle lungo lo schienale della sedia. A quel punto Akito la scrutò e si rese conto dei profondi segni della stanchezza sul viso della sua ragazza.
«Oh, cavolo è vero. Ho sentito dell’incidente. Deve essere stato un delirio in ospedale.» disse Tsuyoshi, ricordandosi solo in quel momento di aver letto della notizia scorrendo le pagine dei principali motori di ricerca sul suo cellulare proprio quella mattina.
«Già. Io non ero al pronto soccorso, quindi me la sono cavata con poco. Però…» ma non terminò la frase, perché la sua attenzione fu catturata da un movimento lesto di Hisae, che si sporse oltre il tavolo, verso la porta di ingresso.
«Oh eccolo, finalmente.» disse, indicando un’altra figura che si stava avvicinando al loro tavolo. A quel punto tutti i presenti si voltarono verso il punto indicato da Hisae, dove c’era il loro comune amico Gomi Shinichi che, lentamente, li stava raggiungendo.
Il suo viso sembrava stanco, nonostante l’abbigliamento e tutto il resto fossero impeccabili come sempre. Tuttavia, quando si lasciò cadere sull’ultima sedia libera, rilassò le spalle appoggiandole completamente allo schienale.
«Ragazzi aiuto, sono distrutto.» esordì ai presenti.
«Be’, ora puoi rilassarti.» gli disse Hisae, porgendogli il menu affinché anche lui potesse scegliere qualcosa da bere e dare ufficialmente il via alla serata.
«Oh, grazie. Allora, di cosa parlavate?» domandò lui distrattamente. In realtà la sua attenzione si concentrò principalmente sul menu, e sulla perenne indecisione tra una birra ghiacciata e qualsiasi altra bevanda alcolica.
«Di Tsuyoshi.» insistette Hisae, cambiando nuovamente argomento di conversazione.
«Oh, aggiornatemi allora.» commentò lui, domandando poi una birra alla cameriera di turno. A quel punto anche Akito ne ordinò un’altra, seguito da Hisae e Fumiko.
Tsuyoshi invece stava ancora bevendo la prima.
«Non c’è nessuna novità. Te l’ho già raccontato Shin… la storia della tizia del karaoke.» disse lui monotono.
«Ah sì… be’, quindi è finita così?»
«Ma certo, come volevi che finisse?»
«Bo, che ne so. Magari avevi cambiato idea.» disse Gomi, passandosi una mano tra i capelli. In quel momento però, la cameriera fece ritorno al loro tavolo, appoggiando un vassoio pieno di birre. A turno, ognuno dei commensali prese la propria e solo a quel punto Tsuyoshi ordinò la sua seconda birra.
Appena Gomi riuscì ad afferrare la sua birra, se la portò alla bocca facendo un sorso così profondo che ne svuotò quasi l’intero contenuto. Allora Hisae lo guardò alzando un sopracciglio.
«Tutto bene Shin?» gli domandò, leggermente ironica.
«Adesso sì. Oggi a lavoro è stato un inferno.» spiegò brevemente, continuando a bere la sua birra.
«Benvenuto nel club.» lo raggiunse Akito.
«Oddio ragazzi, una volta le nostre serate erano più divertenti.»
«Non è mica colpa mia se c’è stato un incidente enorme all’aeroporto e ho finito il turno circa dieci ore dopo il previsto?» raccontò Gomi, alzando la mano per richiamare l’attenzione della cameriera.
«Sì, Fumiko ne stava parlando qualche attimo fa. Avevo letto della notizia stamattina e volevo chiamarti.» disse Tsuyoshi, in tono serio.
«E perché? Non ero mica io quello in aeroporto.»
«Ma cosa è successo esattamente?» chiese Hisae.
«Pare ci sia stato un incendio al terminal 4.» le disse Akito, senza aggiungere altro.
«Non lo so, e non mi interessa nemmeno. So solo che il mio turno non finiva più. Quando ti ho visto andare via ti ho invidiata da morire.» aggiunse Gomi rivolgendosi a Fumiko. Lei gli lanciò un debole sorriso, perché in effetti l’essere andata via molto prima di lui per raggiungere Akito e gli altri l’aveva fatta sentire leggermente in colpa. Ma le infermiere avevano un ruolo molto diverso rispetto ai medici.
«Scusa. È che non ero in pronto soccorso e me la sono scampata.» mormorò lei, sollevando le spalle. Alla fine, non poteva farci comunque nulla.
«Che schifo di medico che sei.» intervenne Hisae, prendendo in giro Gomi.
«Vorrei vedere te a lavorare per quaranta ore di fila in un giorno. Questo è come quando facevo il cameriere ed entrava sempre gente per cenare all’ultimo momento e la serata non finiva mai.»
«Stai sul serio paragonando servire zuppe e panini al salvare delle vite?» domandò Tsuyoshi, sgranando gli occhi. A quel punto si sentì la risata leggera di Fumiko, che accompagnò quella specie di battuta fatta da Gomi.
«Io non mi farei mai curare da te. Per carità!» aggiunse Hisae, mostrando un’espressione indignata.
«E invece c’è un mucchio di gente che viene in ospedale solo perché ci sono io. Certo, alcuni sono veramente una seccatura, tipo oggi…» e in quel momento, la sua bocca si fermò lasciando la frase a mezz’aria. 
«Oggi cosa?» domandò Hisae, senza troppa curiosità. In realtà era completamente assorta nel suo cellulare perché stava cercando un posto divertente dove passare il resto della serata.
«Niente, me lo stavo quasi dimenticando. Oggi mi è capitata una tizia che proprio non ne voleva sapere di stare ferma e farsi curare. Continuava a dire di star bene e che aveva una coincidenza per Honolulu, quando invece aveva due costole incrinate e un lieve trauma cranico.» raccontò Gomi velocemente.
«Probabilmente stava scappando da te, Dottor Gomi.» continuò a prenderlo in giro Hisae.
«Sì sì, certo. Vabbè, comunque, il punto è un altro… noi questa tizia la conosciamo benissimo. Quando ho letto il suo nome sulla cartella clinica non ci volevo credere.» annunciò lui, cercando di creare una sottospecie di suspence che, in realtà, catturò solo la curiosità di Hisae e Tsuyoshi, perché Akito stava in realtà pensando di ordinare un’altra birra, ma era indeciso su quale scegliere. Quanto a Fumiko, probabilmente in altre circostanze anche lei sarebbe stata sulle spine, tuttavia in quella situazione era abbastanza sicura che di chiunque si trattasse, lei non avrebbe comunque riconosciuto la paziente di Gomi in nessuna delle persone che conosceva.
«E dai, che ci vuole a finire un racconto.» sbraitò Hisae spazientita, distogliendo l’attenzione dalla lista dei migliori locali di Tokyo.
«Ebbene, sto parlando di miss Sana Kurata, la nostra ex compagna di classe.» terminò finalmente, crogiolandosi in una strana soddisfazione, come se avesse appena rivelato in anticipo il nome del successivo presidente del Giappone.
«Cosa?» fece Tsuyoshi, spalancando le labbra. Lui fu quello che mostrò la reazione più spropositata, perché aveva pensato spesso a Sana in quegli anni, domandandosi un mucchio di cose, senza mai ricevere una risposta. Hisae invece non disse nulla, almeno non subito. Pensò che il mondo fosse veramente minuscolo, perché l’ultima volta che aveva letto qualcosa sulla sua vecchia amica di scuola, l’aveva scoperta essere in America per uno spettacolo teatrale che non aveva avuto per niente successo. D'altronde però Tokyo era pur sempre la sua città natale, nonostante tutto.
Fumiko invece pensò che si fosse sbagliata, perché in effetti quel nome lo aveva già sentito, e di colpo ricordò quel paio di volte in cui l’aveva incrociata nei corridoi della loro scuola superiore insieme ad Akito. E parlando di quest’ultimo, lei istintivamente si voltò verso di lui, costatando il fatto che il suo sguardo era incollato sul menu, senza prestare attenzione a nient’altro. 
«Proprio così», disse Gomi, rivolgendosi a Tsuyoshi, «E credimi che se non avessi letto il suo nome, l’avrei riconosciuta ugualmente.»
«Be’, è un’attrice famosa. È ovvio.» sentenziò Tsuyoshi.
«Non è mica così famosa.» commentò finalmente Hisae. A quel punto Tsuyoshi la guardò, e capì immediatamente il tono di quella battuta.
«E come sta?» domandò subito Tsuyoshi.
«Oh, niente di grave, le ho dato trenta giorni di riposo e le ho fasciato le costole in modo che si ristabilizzino in breve tempo. Poi certo dovrà controllarsi spesso…»
«Be’, intendevo come sta in generale. Ma sono comunque contento che non si sia fatta male.» continuò Tsuyoshi, e a quel punto non riuscì più a trattenersi e si voltò lentamente verso Akito.
Quest’ultimo però sembrava completamente disinteressato alla cosa, perché aveva appena chiuso il menù e alzato la mano per chiamare l’attenzione della cameriera. 
«Mi sembra stia bene, un po’ nevrotica forse. Ma quello lo era già da ragazzina.» commentò Gomi ridacchiando, ricordando mentalmente l’esuberanza della loro vecchia compagna di classe che, a quanto pareva, non l’aveva affatto abbandonata nel corso di quegli anni.
«Mamma mia, è passata una vita. Quasi non me la ricordo più… mi piacerebbe rivederla.» disse Tsuyoshi di getto, senza rifletterci troppo.
«Ma sul serio?» intervenne Hisae all’improvviso.
«Be’ sì, perché?»
«Perché Sana Kurata si è comportata male con tutti noi. È sparita, poi è tornata, poi è sparita di nuovo senza dire mai niente a nessuno. Dimmi tu che razza di amica è una che si comporta così?» spiegò, leggermente infervorata. Anche se da bambina non aveva mai dato peso a certi comportamenti, con la maturità dei suoi venticinque anni vedeva certe cose in modo completamente diverso. E il comportamento di Sana verso tutti loro era stata una di quelle cose.
«Avrà avuto le sue buone ragioni.» continuò Tsuyoshi, evitando di proposito di incontrare lo sguardo di Hayama.
«Ma figurati, per me poteva fare quello che le pareva. Dico solo che sarebbe stato carino se ci avesse almeno salutati.»
«Su questo ha ragione, devi ammetterlo.» intervenne Gomi.
«Siete rancorosi, a quanto vedo.» fece Tsuyoshi con sguardo stranito.
«No Tsu, siamo stufi di essere trattati così da lei.» disse Hisae, sollevando le spalle. In realtà non vedeva Sana da più di otto anni né la sentiva da altrettanto tempo, ma per un attimo si domandò perché avesse usato il presente e perché, soprattutto, ce l’avesse ancora così tanto con lei.
«Va bene, voi la pensate così. Io invece voglio salutarla… è in ospedale?» domandò Tsuyoshi a Gomi. A quel punto però si sentì un suono metallico, e il tavolo a cui erano seduti fu investito da una leggera vibrazione. Tsuyoshi, Hisae e Gomi si voltarono verso Akito, che nel frattempo si era alzato sotto lo sguardo sorpreso di Fumiko.
«Dove vai?» domandò Hisae quando lo vide raccogliere le sue cose e prendere la mano di Fumiko.
«A cena fuori con la mia ragazza. Vuoi venire con noi, per caso?» domandò ad Hisae tranquillo, con tono ironico.
«E la nostra serata?»
«Fate finta che ci sia anche io.» disse semplicemente, pensando che in effetti l’indomani aveva una questione decisamente spinosa da risolvere a lavoro. Non aveva intenzione di alzare troppo il gomito e le premesse di quella serata non sembravano affatto andargli in contro.
«Che palle Hayama.»
«Ciao.» disse enfatizzando il tono di quel saluto. Diede loro le spalle e stringendo la vita di Fumiko attirandola a sé.
«Mh…» commentò Hisae pensierosa.
«Che?» domandò Gomi, ma a quel punto gli altri due si scambiarono un fugace sguardo decisamente complice.
Fumiko invece, si sentiva profondamente stanca. Nonostante non avesse lavorato lo stesso numero di ore di Gomi, si era svegliata comunque alle quattro del mattino e tutto il trambusto legato all’incidente aveva coinvolto anche gli altri reparti, almeno dal punto di vista psicologico. Si sentiva quindi, tremendamente stanca e ringraziò Akito per aver deciso di andare via e rinunciare ad una serata in cui, molto probabilmente, avrebbero fatto tardi di sicuro. 
«Dove andiamo?» domandò poi improvvisamente, alzando il viso verso di lui.
«Ho voglia di sushi. A te va?»
«Perché no?»
«Potremmo prendere del sushi da asporto e andare a casa mia.» propose lui. A quel punto Fumiko rilassò le spalle.
«Mi sembra un’idea geniale!» rispose lei, afferrandolo per un braccio e accelerando il passo per poter stare alla sua andatura.
E alla fine fecero proprio così: ordinarono una montagna di sushi da asporto, un paio di birre in lattina e andarono a casa di lui. 
Akito abitava al terzo piano di un edificio non troppo alto, vicino alla fermata della metro Shiodome ad una manciata di kilometri da Roppongi. Fumiko si fermava da lui di tanto in tanto, soprattutto nei fine settimana e aveva imparato a considerare quel piccolo appartamento come qualcosa di molto familiare.
«Non hai rifatto il letto, Aki.» sentenziò quando notò le coperte ammucchiate al centro del materasso.
«Ho fatto tardi stamattina.» rispose lui, disponendo le vaschette di sushi sul tavolo. Appoggiò poi le bacchette accanto ai piatti e si aprì una lattina di birra.
«Dovresti essere più ordinato. Non te l’hanno mai detto?»
«In realtà lo sono eccome. Questo qui è solo un caso.» disse, indicando la camera da letto con un cenno della testa.
«Be’ forse lo eri in un’altra vita. O cento anni fa… dovrei chiederlo alla tua ex fidanzata.» disse lei, ridacchiando sotto i baffi. Akito però non accolse la battuta, se non con un’alzata di spalle. E quel tacito gesto non fece altro che aumentare la curiosità di Fumiko.
«Che hai? Ti vergogni?» continuò lei, senza abbandonare quel tono da presa in giro che sembrava divertirla parecchio.
«Ho fame, in realtà.»
«Guarda che me la ricordo. Sana Kurata frequentava la nostra scuola.» insistette ancora, su quella scia di pseudo domande. 
«E allora?» le rispose Akito, senza guardarla. Sembrava essere totalmente assorto dal tentativo di aprire la vaschetta di sushi. Fumiko a quel punto pensò che dovesse avere davvero molta fame.
«Allora niente. Semplice curiosità… non è che mi abbia raccontato poi molto della tua vita.»
«E vuoi sapere tutto stasera?»
«Be’, tutto no. Però dai, è divertente. Quando penso alla me sedicenne mi viene sempre da sorridere.»
«In realtà non c’è molto da dire.» le disse sollevando lo sguardo verso di lei e porgendole un pezzo di sushi con le bacchette. Fumiko allora dischiuse la bocca e accolse il cibo che lui le aveva dato senza battere ciglio.
«Impossibile che non abbia niente da raccontarmi. Kurata era così famosa all’epoca, anche se non mi ricordo proprio cosa facesse di preciso. Poi immagino lei sia stata la tua prima fidanzatina… io ti ho raccontato di Kenta-kun.» disse lei sorridendo e coprendosi le labbra con una mano, per evitare di farsi vedere da lui mentre masticava.
«E’ passato tanto tempo… nemmeno me la ricordo.» commentò lui, intingendo un uramaki nella salsa di soia.
«Già, è vero. Ed eri parecchio scorbutico all’epoca. Ora lo sei solo di tanto in tanto.»
«Perché mi sono evoluto.» sentenziò lui con lo stesso tono di sempre, nonostante quella voleva essere una battuta di spirito.
«Ora sei più saggio, in effetti.» disse lei con tono addolcito. Gli mise entrambe le mani sul viso, stringendogli le guance con le dita. Akito però, con un movimento lento, quasi impercettibile, si divincolò da quella presa.
«Invece io penso che questo sushi stia perdendo colpi, sai?» 
«Dici sul serio? Eppure, era il tuo preferito.»
«Si sarà evoluto pure lui, in peggio però.» disse con il suo solito tono da monosillabo. Eppure, nonostante ciò, a Fumiko quella battuta fece ridere e pensò anche che quel sushi non era poi così diverso da tutte le altre volte. Le sembrava esattamente identico a quello di sempre, ma non andò oltre.
Entrambi aprirono le loro lattine di birra, continuando la cena senza affrontare discorsi troppo profondi o complicati. Fumiko si disse che l’indomani le aspettava una dura giornata di lavoro e l’unica cosa di cui aveva voglia era finire la cena e mettersi a letto con Akito, lasciandosi coccolare dalle sue braccia mentre vedevano un film, scelto da lui, che lei comunque non avrebbe visto veramente perché, come tutte le volte, sarebbe crollata quasi subito.
E in effetti la serata andò proprio così e Fumiko, che era sempre puntuale al lavoro come un orologio svizzero, si era alzata prestissimo lasciando Akito ancora sotto le coperte in una semi catalessi. Poi aveva consumato una veloce colazione al bar sotto casa del suo ragazzo e, sentendosi estremamente riposata, si avviò verso l’ospedale per iniziare il suo turno.
Quella mattina non ci fu molto da fare, almeno in confronto alla giornata precedente in cui c’era stato il caos dell’incidente in aeroporto. Aveva fatto il suo consueto giro di visite nel reparto in cui stava lavorando da ormai sei mesi, poi si diresse verso la bacheca dei turni degli specializzandi e constatò il fatto che anche Gomi era di turno insieme a lei. Si domandò per un attimo se anche lui fosse riposato quanto lei, oppure la serata organizzata da Hisae era finita in chissà quale bar a bere chissà quale quantità di alcol. Sorrise a quel pensiero, perché immaginò Gomi stravolto a cercare di riprendersi bevendo chissà quanto caffè.
Diede una rapida occhiata all’orologio.
«A quest’ora deve essere già al quarto.» disse, tra se e se.
Poi all’improvviso le venne in mente il discorso della sera precedente e l’attenzione che gli amici di Akito avevano dato ad una paziente ricoverata proprio in quell’ospedale. 
Fumiko si morse un labbro e pensò che avrebbe potuto dare al volo una sbirciatina alla sua stanza e che in fondo nessuno se ne sarebbe accorto perché la cosa sarebbe passata del tutto inosservata.
Fece quindi una rapida ricerca e scoprì che Sana Kurata era ricoverata al terzo piano, al reparto di ortopedia, a solo una manciata di metri al di sopra della sua testa. Spinta allora dalla curiosità di vedere come era diventata l’ex bambina prodigio della televisione giapponese, si munì di cartella clinica e raggiunse rapidamente il piano. Non sarebbe entrata nella sua stanza, l’avrebbe osservata da lontano e non avrebbe detto niente a nessuno, nemmeno ad Akito.
Quando si trovò davanti alla porta spalancata della stanza centodue, si appoggiò con la schiena al muro e cercò di aguzzare la vista. Lei era seduta sul letto, ma non si vedevano fasciature vistose. Tendeva un braccio verso il televisore collocato in alto sulla parete, come in tutte le camere della degenza, e lo agitava energicamente. Il problema era che da quel punto proprio non riusciva a vedere il suo viso, perché aveva dei capelli davvero lunghi e senza rendersene conto fece qualche passo verso la stanza.
Fu in quel momento che Sana si voltò proprio verso di lei, facendola sussultare. Fumiko si sentì scoperta e avrebbe voluto fare marcia indietro, perché quello non era il suo reparto e non aveva ragione di essere lì.
Eppure, Sana la vide.
«Mi scusi, signorina infermiera… ho bisogno di aiuto!» disse agitando il braccio vistosamente.
Fumiko non ebbe scelta e dovette raggiungerla. Quando entrò nella sua stanza riuscì finalmente a vedere il suo viso, e si rese conto che non era affatto cambiato dall’ultima volta che l’aveva vista. I lineamenti erano sempre gli stessi, gli occhi grandi un po’ stanchi erano tramortiti da occhiaie di stanchezza che comunque non ne compromettevano la bellezza. Si sentì davvero a disagio.
«Sì, certo. Eccomi, cosa succede?» disse, mantenendo il solito tono professionale che usava con tutti.
«Mi scusi, non volevo disturbarla, ma il televisore non funziona. Ci sto provando da un’eternità, ma il telecomando non va… dovrei controllare una cosa molto importante. Lei pensa di riuscire ad aggiustarlo?» le disse con un tono alquanto disperato. Eppure, era stata estremamente gentile.
«Oh…s-sì certo. Ora ci provo.»
«La ringrazio infinitamente, mi farebbe davvero un favore enorme.» le disse, congiungendo le mani.
Fumiko si avvicinò al televisore, cercando il motivo di quel malfunzionamento, e subito si accorse che la presa non era inserita nella corrente. La mostrò a Sana con un sorriso.
«Ecco qual è il problema.»
«Oh, che stupida. Non mi ero accorta che fosse spento… be’, in realtà non avevo proprio controllato.» rispose, battendosi leggermente il palmo di una mano sulla fronte. Fumiko osservò attentamente quel gesto, cercando di captarne la familiarità. Eppure, con lei aveva scambiato sì e no due parole, così tanto tempo fa che nemmeno lo ricordava il momento preciso. Però i gesti che quella ragazza compiva mentre era a letto e cercava di raggiungere il suo scopo, rimbalzando lo sguardo prima dal telecomando al televisore e poi viceversa, avevano per lei una strana aria familiare.
«Non riesco a trovare il canale… oggi dovrebbe andare in onda l’ultimo episodio di una serie per cui ho lavorato e mi avevano detto che nell’ultima scena avrebbero aggiunto Ji-ho. Lei è una mia cara amica, ma non mi ha più detto nulla. È tutto il giorno che provo a chiamarla, ma il cellulare non funziona…» disse lei a raffica, Fumiko si sentì improvvisamente frastornata.
«Ji-ho?» domandò.
«Sì, Ji-ho. È la mia migliore amica di Seul.»
«Ed è lì ora?»
«In teoria sì.»
«Be’, forse è per questo che non riesce a mettersi in contatto con lei. A causa del roaming internazionale…» le spiegò Fumiko, un po’ confusa.
«Oh, ma certo. Che stupida.»
«Che sta succedendo qui?» la interruppe una voce che entrambe riconobbero al volo. Fumiko si voltò, trovandosi Gomi a pochi passi da lei e cercò immediatamente una scusa plausibile per il fatto di trovarsi lì nella stanza di Sana.
«Io ero di passaggio qui, e lei…» ma Gomi non le prestò troppa attenzione, dirigendosi verso la paziente. 
«Be’ vedo che stai bene, Kurata.» constatò lui senza prestare troppa attenzione alla frase tagliata di Fumiko. In effetti, nonostante quello non fosse il suo reparto, lavorava comunque in quell’ospedale e nulla le vietava di trovarsi lì, anche senza motivo. Almeno questo fu quello che pensò.
«Te l’ho detto, sto bene. Dovresti dimettermi, dottor Gomi.» disse lei sbuffando. Probabilmente aveva preso le parole del suo vecchio compagno di classe troppo sul serio perché spostò rapidamente le coperte dalle gambe e fece per alzarsi. Tuttavia però, Gomi la fermò all’istante.
«Hai una laurea in medicina e io non ce lo hai detto? Se ti ho detto che devi stare in osservazione per qualche giorno vuole dire che sarò io a dirti quando puoi tornare a casa. Oltretutto Tsuyoshi sarà qui a breve… ha insistito per venirti a trovare, spero non ti dispiaccia.» disse senza troppa enfasi, mentre controllava i parametri della sua paziente che lampeggiavano sul monitor proprio accanto al suo letto. 
In quel momento però, Gomi non si accorse dell’improvviso pallore sul volto di Sana, e continuò la sua visita.
«Tsuyoshi? Ma perché gli hai detto che sono qui?» fece Sana, di getto.
«Bo, perché eravamo in classe insieme ed è uscito fuori l’argomento. Cos’è? Sei ricercata e nessuno può conoscere la tua posizione?» la prese in giro lui.
«Ma cosa dici? È che a volte i giornalisti non mi danno pace…» si giustificò lei, cercando di nascondersi dietro un sorriso nervoso. Sospirò pesantemente, perché si sentiva nervosa e non riusciva proprio a dare un nome e un motivo a quella sensazione di vuoto frenetico che si ingigantiva nel petto.
Nessuno poteva sapere cosa stesse provando, e quanto forte fosse il suo desiderio di prendere la valigia, le stampelle e la fasciatura intorno al torace e tornare in Corea. Nemmeno Fumiko, che in quel momento si domandò se il miglior amico del suo ragazzo si sarebbe presentato in ospedale durante il suo turno. Lei prendeva difficilmente l’iniziativa con il gruppo di amici di Akito, ma pensò che in fondo quella sera avrebbe potuto proporgli di vedersi tutti insieme così da rimediare all’assenza della serata precedente.


Note d'autrice
Ciao a tutti gente, spero che ci siate ancora. Io più o meno sì, nonostante mi trovi per l'ennesima volta in quest'anno in viaggio. Avevo però qualche ora di pausa e ho deciso di concludere questo capitolo, che era mezzo pronto già da un po' e postarlo.
Non mi dilungherò in queste nda, perché credo ci sia poco da dire se non che spero davvero che questo fandom torni in vita. Inoltre, per chi mi conosce, sa che c'è una spiegazione dietro tutto ciò e che prima o poi (xD) arriverà.
Spero che vi piaccia.
Un bacio
Alex

 

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Capitolo 16
*** Capitolo 14 - Ci conosciamo da parecchio ***


Capitolo 14

Ci conosciamo da parecchio

Tsuyoshi riusciva a sentire il rumore dei suoi stessi passi, mentre percorreva il lungo corridoio dell’ala orientale dell’ospedale universitario di Tokyo.
Allentò il ritmo della sua camminata, piegò la gamba e si guardò velocemente la suola delle scarpe, pensando di averne una decisamente rumorosa. In realtà il corridoio che stava percorrendo era semplicemente vuoto, motivo per cui non sentiva altro che i suoi passi. 
Gomi gli aveva suggerito di andare lì in ospedale subito dopo l’orario di visita in modo tale da riuscire a fare quattro chiacchiere con la loro vecchia amica senza essere disturbati. Lo aveva rassicurato di non preoccuparsi e che lo avrebbero fatto entrare non appena lui avesse detto alla reception che era lì per vedere il dottor Gomi.
Allora lui aveva fatto esattamente così: appena uscito dal lavoro, aveva preso la metro e si era recato dall’altra parte della città, a Shinjuku. Quando aveva ricevuto il messaggio di Gomi, in cui gli diceva che poteva andare lì quando voleva, aveva pensato che quella fosse davvero una gran fortuna: avere un amico medico che ti permette di saltare la fila quando poteva. Di certo non lo avrebbe mai fatto in caso di urgenza, non avrebbe mai scavalcato qualcuno in difficoltà… ma quella gli sembrava davvero un’occasione da cogliere.
“Quindi le hai detto che mi piacerebbe andare a trovarla in ospedale?” aveva scritto a Gomi quello stesso pomeriggio.
“Certo! Puoi venire quando vuoi.” 
Aveva riletto quel messaggio già un paio di volte nel corso del tragitto in metro, perché in realtà aveva avuto qualche timore nell’attendere la risposta della sua amica. Insomma, erano passati così tanti anni e lei non si era mai fatta viva: magari non aveva mai voluto farlo, aveva pensato. Tuttavia, quella risposta di Gomi lo aveva rincuorato e gli permise di attraversare il lungo corridoio spoglio con una certa tranquillità.
Diede un’occhiata al cellulare, leggendo il messaggio dell’amico in cui gli spiegava il percorso da fare per raggiungere la stanza di Sana. Quindi, continuò ancora per qualche minuto, poi prese l’ascensore che lo avrebbe condotto al sesto piano dell’edificio, dove erano collocate le camere singole per chi desiderava trascorrere una degenza in privato.
Gomi non gli aveva spiegato bene come fosse organizzato quel piano, ma gli aveva dato il numero della stanza di Sana che, in teoria, doveva trovarsi in fondo all’ennesimo corridoio che stava percorrendo. Non prestò molta attenzione alla gente in camice bianco che gli gravitava intorno indaffarata, aveva solo un unico obiettivo e quello era trovare la stanza della sua amica e frenare quell’improvviso senso di imbarazzo che lentamente si insinuava nelle sue viscere.
Poi, come nulla fosse, la sua attenzione fu catturata da una stanza illuminata da cui proveniva un chiacchiericcio che gli risuonò in un certo modo familiare. E in pochi istanti vide la sua vecchia amica che parlava al telefono agitando velocemente le braccia per aria. Gli venne immediatamente da sorridere, perché pensò che quell’immagine l’aveva vista così tante volte nel corso della sua adolescenza che non gli sembrò per niente diversa da un qualsiasi ricordo lontano. E sperò che fosse davvero così quando, timidamente, batté un paio di volte il pugno contro la porta della stanza.
Lei si voltò di scatto con un sorriso che, all’istante, si trasformò in un’espressione completamente diversa.
Tsuyoshi ci lesse confusione, sorpresa e poi qualcosa che non riuscì a definire.
«Sana?» disse, con un marcato punto interrogativo al seguito di quel nome. Era strano, pensò, perché se c’era una cosa di cui non fosse in dubbio in quel momento, era proprio l’identità della persona che aveva davanti.
«Mh…»
«Sono io… Tsuyoshi.» disse, indicando se stesso con una mano. A quel punto l’espressione sul viso di lei si trasformò nuovamente, ma Tsuyoshi decise di non badarci più di tanto ed entrò nella stanza avvicinandosi al suo letto.
«Oddio, Tsuyoshi!» esclamò sobbalzando con tutto il resto del corpo. Poi, voltò il capo verso il cellulare, «Scusa, ti richiamo.» disse velocemente al telefono, «Ma sei davvero tu?» domandò poi, scostando rapidamente un lembo della coperta che le copriva le gambe per metà.
«Ma che fai? Non dovresti muoverti, hai avuto un incidente!» disse lui, accorrendo al suo capezzale.
«Ma no, sto benissimo. Possibile che nessuno mi creda?»
«Certo che ti credo, ma comunque non dovresti rischiare così.» disse, fermandosi a qualche passo dal suo letto. La guardò qualche istante, ricordando perfettamente ogni particolare del viso della sua vecchia amica che, nonostante gli anni, non era affatto cambiato, tranne la lunghezza dei capelli ramati che le arrivavano quasi fino allo stomaco. Le sorrise, istintivamente, e quando quell’espressione fu lampante, anche Sana sorrise come se quel sorriso fosse saltato dal viso di Tsuyoshi Sasaki, il suo vecchio amico delle elementari, e fosse approdato proprio sul suo, mettendo finalmente le cose a posto.
Tsuyoshi allora si gettò letteralmente su di lei, stringendola in un abbraccio talmente forte che tradì le sue reali condizioni di salute, facendole uscire un leggero gemito di dolore.
«Oh, scusa, scusa. Non volevo farti male.» disse subito lui, scostandosi da quell’abbraccio e sedendosi ai piedi del letto.
Sana si aggiustò i capelli, scostandoli dal viso e sistemandoli dietro alle orecchie.
«Non ci posso credere sai? Quando ho saputo che eri ricoverata qui non ci ho pensato nemmeno due volte a venire a trovarti. Come stai?» le domandò di getto.
«Be’ annoiata, decisamente annoiata Tsu.» rispose, utilizzando quel nomignolo che mise ancora di più a proprio agio il ragazzo seduto al bordo di quel letto scomodo.
«Immagino, però dovresti stare a riposo. Vedrai che guarirai prima.»
«Ma io mi sento già guarita… mi sento in prigione piuttosto. Comunque, tu come stai? È passato tanto tempo… su raccontami qualcosa. Come sta Aya?»
A quella domanda, che chiunque avrebbe trovato più che naturale, il sorriso sul viso di Tsuyoshi perse qualche colpo. Ma Sana non se ne accorse finché lui non sospirò pesantemente.
«Che succede? Non stai bene?» domandò lei.
Allora Tsuyoshi pensò che non fosse cambiata affatto, e in qualche modo quella constatazione lo rasserenò.
«No, sto bene, sto bene. Semplicemente sono successe tante cose in questi anni che non basterebbe una serata intera per raccontartele tutte. Immagino sia stato lo stesso anche per te. Ho letto da qualche parte che ora vivi in Corea.» disse di fretta, interrompendo l’ipotetica scia di domande da parte di Sana.
«Già, proprio così. Lavoro lì, ma in fondo non è molto diverso da Tokyo. È sempre tutto così frenetico.»
«Sai, mi è capitato spesso di vedere qualche puntata di quelle serie in cui lavori.» la informò con un sorriso.
«Davvero? E ti piacciono?»
«Be’, le adoro. Ma non dirlo a…» rimase per un istante con la frase troncata a mezz’aria perché si rese subito conto di non avere idea di come finirla. Insomma, era così contento che l’imbarazzo iniziale che aveva sentito fosse semplicemente svanito e si chiese il senso di innescare un’inutile reazione spiacevole.
«A nessuno. Mi prenderebbero in giro.»
«Lo farebbero perché non capiscono niente. Io trovo che siano storie così appassionanti, è ovvio che nella vita reale certe situazioni sono molto rare, ma è proprio questo il bello, non trovi?»
«Esatto, sono perfettamente d’accordo con te.» disse convinto, «Non capisco proprio cosa ci sia da criticare.» continuò imperterrito su quella crociata.
«Un po’ come è successo adesso a noi: rivedersi dopo così tanto tempo, e per puro caso.», sottolineò nuovamente Tsuyoshi, «Quando sei andata via anni fa, non abbiamo avuto nemmeno il tempo di salutarci.»
«Già, successe tutto così in fretta. Mi dispiace molto per essere sparita.» replicò lei, con un velo leggero di imbarazzo calato all’improvviso sulla sua faccia.
«Non preoccuparti, ormai è acqua passata. Spero che alla fine le cose siano andate bene.»
«Sì, si è risolto tutto.» disse lei, senza fornire ulteriori dettagli. Tsuyoshi sapeva, per vie traverse, che Sana era andata via per seguire Kamura, ma in quel momento non ebbe il coraggio di chiederle altro perché la sua espressione, che rivelava un improvviso senso di perdita e confusione, gli fece solo una gran tenerezza. Abbassò lo sguardo, concentrandosi sulle pieghe del lenzuolo di quel letto che stava inavvertitamente stringendo. A quel punto però, la loro attenzione fu catturata dal rumore di qualcosa che batteva contro la porta della stanza di Sana.
«Scusate, vi disturbo?»
Tsuyoshi riconobbe subito Fumiko, nonostante avesse l’uniforme da infermiera, i capelli legati e uno strano berretto bianco legato ai capelli con una forcina scura.
«Oh, Fumiko, ciao. Ma certo che no, entra pure.»
«Sì, sì entra pure signorina infermiera. Ma voi vi conoscete?» domandò Sana, con un sorriso confuso. Poi, senza dar loro il tempo di rispondere, si picchiettò la fronte con il palmo della mano: «Ma certo, che stupida. Gomi lavora qui… chissà quante volte vi sarete incontrati.»
«Be’, sì in effetti ci conosciamo un po’ tutti.» ammise Tsuyoshi, senza darle troppe spiegazioni.
«Come ti senti oggi?» chiese invece Fumiko, avvicinandosi al letto di Sana per controllare le informazioni sulla sua cartella clinica. 
«Molto bene, anzi benissimo. Forse quella testa vuota di Gomi si deciderà a dimettermi.» disse lei con uno sbuffo annoiato. Al ché Tsuyoshi la guardò con uno dei suoi grossi sorrisi.
«Spero proprio che lo faccia presto, così potremmo organizzarci e andare a bere qualcosa insieme. Che ne dici?» le domandò entusiasta.
Sana però, in quel momento, provò una strana sensazione. Sentì una specie di vuoto allo stomaco, lo stesso identico vuoto che aveva sentito quando il suo aereo stava atterrando sulla pista dell’aeroporto di Tokyo. La stessa sensazione che aveva provato quando Gomi le aveva detto di Tsuyoshi e del suo desiderio di andare a trovarla all’ospedale.
Solo che non riusciva proprio a scovarne l’origine.
«Be’, mi dispiace Tsu, ma temo di dover partire subito. Sai, avevo un impegno di lavoro alle Hawaii e questo stupido incidente ha complicato tutto.»
«Un impegno di lavoro? Be’ dubito fortemente che nelle tue condizioni Gomi ti lascerà piena di libertà di agire. Anche se dovesse dimetterti a breve, è probabile che tu debba tornare qui per togliere le bende e fare ulteriori controlli.» la informò Fumiko, riponendo delicatamente la cartella clinica ai piedi del letto di Sana.
«Ma posso farli anche alle Hawaii i controlli, o a Seul.» replicò lei, leggermente preoccupata.
«Così però ti perdi il miglior medico della città.» esclamò una voce aggiuntasi proprio in quel momento. 
«Ma mi dici invece quand’è che hai intenzione di dimettermi? È noioso stare qui, lo sai?» replicò Sana, incrociando le braccia sul petto e riservando a Gomi uno sguardo decisamente imbronciato.
«Per me puoi andartene anche ora. Sappi però che Fumiko ha ragione e che dovrai tornare qui tra una settimana per controllare la frattura alle costole e il ginocchio.» disse tranquillo, avvicinandosi a Tsuyoshi, «Ehi, amico. Domani sera sono libero. Organizziamo qualcosa?» gli disse, dandogli una pacca sulla spalla.
«Finalmente un giorno di tregua. Ne stavo parlando anche con Sana.» gli disse con un sorriso, poi rivolse l’attenzione alla sua vecchia amica: «Nemmeno te lo avessi chiesto due secondi fa. Ti va di unirti? Berremo qualcosa, niente di complicato. Verrò a prenderti personalmente e mi assicurerò che tu non ti faccia male.» le disse tutto d’un fiato. Sana in quel momento però si sentì totalmente incapace di riflettere davvero, e percepiva tutto quello che le stava accadendo intorno come un gigantesco déjà vu e lei, che era la protagonista di quella visione, se ne stava dall’altra parte a guardare la scena con in mano una grossa scatola di popcorn. O almeno era proprio quello ciò che avrebbe voluto fare.
«Non sono sicura che sia una buona idea. Insomma, sono ancora fratturata.» disse flebilmente.
Tsuyoshi la guardò stranito.
«Ma non avevi detto che volevi andare alle Hawaii?» domandò Gomi, infilandosi le mani nelle tasche del camice bianco. 
«Sì, infatti. Sarei partita per lavoro, ma ad essere sincera mi sento ancora un po’ malino.»
«Se fai attenzione, dal punto di vista medico puoi uscire senza problemi. Dovresti approfittarne e concederti una serata all’insegna dell’alcol, come farà il sottoscritto.» disse Gomi, scatenando una sottile risatina in Fumiko che, in tutto quel tempo, si stava chiedendo perché quei due stessero insistendo così tanto nel convincere Sana ad uscire.
«Vedi? Ti passo a prendere io e mi assumo ogni responsabilità sulla buona riuscita di questa serata.» continuò Tsuyoshi, alzandosi in piedi come se quella posizione garantisse ai presenti la veridicità delle sue parole.
Sana non disse nulla. Rivolse al suo amico un sorriso finto come quelli che indossava alle serate che la sua agenzia di Seul organizzava per promuovere le programmazioni televisive, e pensò che avrebbe trovato una scusa qualsiasi l’indomani stesso per declinare l’invito. 
Non aveva senso continuare quella conversazione, anche perché cominciava a percepire dentro di sé un sentimento ancora diverso da quello precedente. Sentimento che aveva tutta la voglia di reprimere.
 
***
 
Dopo aver salutato Sana, promettendole che sarebbe andato a prenderla il giorno successivo, Tsuyoshi si era congedato anche da Gomi. In realtà era quest’ultimo ad essere praticamente scappato in sala operatoria lasciando il suo amico sull’uscio del grande ingresso dell’ospedale di Tokyo. 
Mentre camminava velocemente per raggiungere la stazione della metro, Tsuyoshi acciuffò il suo cellulare componendo rapidamente il numero di Hisae.
«Sono a lavoro, l’hai dimenticato?» rispose lei, in tono duro.
«A quest’ora? Ma sono quasi le nove.»
«Cavolo, non me lo ricordare. Comunque, dove sei?»
«A Shinjuku.»
«A fare?»
«In realtà volevo dirti che Shin domani ha la serata libera. Potremmo uscire e andare a bere. Che ne dici?»
«Fantastico. Perché sei a Shinjuku?» insistette lei, impedendo a Tsuyoshi ogni possibilità di sviare a quella domanda. 
«Sono andato in ospedale.» disse di getto.
«Alla fine ci sei andato? Certo, immaginavo.»
«Verrà anche lei, l’ho invitata ad unirsi a noi.»
«Oh, e ti ha detto che viene?» chiese lei, in tono sorpreso.
«Proprio così. Andrò a prenderla personalmente.»
«Così non scappa?» rispose lei, prendendolo in giro. Tsuyoshi sentì dall’altro lato il suono inconfondibile della risata di Hisae. Sorrise anche lui in realtà, nonostante non amasse quel tipo di ironia.
«Stupida che non sei altro, ti ricordo che ha avuto un incidente e non è ancora in formissima.»
«Ah, certo, certo. Capisco.»
«Piuttosto, secondo te dovrei dirlo ad Akito?» domandò lui alzando leggermente la voce per evitare che il trambusto della metropolitana impedisse ad Hisae di sentire ciò che le aveva appena detto.
«Ad Akito? E perché mai?» domandò lei sorpresa.
«Come perché? È di Sana che stiamo parlando. Sai benissimo quello che c’è stato tra loro in passato e non mi sembra giusto tenergli nascosto che lei verrà con noi.» raccontò velocemente ciò che per lui era pura ovvietà.
«Quello che c’è stato tra loro quando non sapevano ancora leggere, Tsu. Eddai, sono passati secoli… non pensi che ad Hayama non importi più niente di Sana Kurata? E poi lui sta con un’altra.» disse quelle ultime parole sollevando un sopracciglio, ma questo Tsuyoshi non riuscì a vederlo.
«Proprio perché lui ora ha una relazione stabile…»
«Statica…»
«Quello che è. Credo sia giusto che lo sappia.» insistette lui, faticando a tenere il cellulare stretto all’orecchio a causa della gente che lo stava letteralmente schiacciando contro la porta del vagone della metropolitana.
«E invece no. Se glielo dici, così come lo stai dicendo a me, renderai questo pensiero gigante, cosa che non è. Perché alimentare un fuoco per niente? Lascialo in pace e se proprio devi, portati Kurata alla serata, ma lascia perdere i vecchi ricordi.» disse lei in tono tranquillo. 
Tsuyoshi rifletté qualche istante, e pensò subito che la sua amica avesse ragione, in un certo qual modo, per cui decide di evitare l’argomento con Akito e far finta che Sana Kurata non fosse stata la persona più importante della sua vita.
«Ha conosciuto anche Fumiko in ospedale.» borbottò lui.
«Ecco, vedi? Lascia perdere e fatti gli affari tuoi.» insistette Hisae, ottenendo dall’altra parte quello che le sembrò un sospiro.
«Va bene, senti io ora devo tornare al lavoro. Stai attento in metro.» tagliò corto Hisae per poi riagganciare. Tsuyoshi guardò il cellulare oscurato e sospirò nuovamente. Sentiva un enorme peso sul petto al solo pensiero di nascondere qualcosa al suo migliore amico. Sapeva bene che erano passati anni dall’ultima volta in cui lui aveva pronunciato il nome di Sana e in tutto quel tempo l’argomento era diventato quasi un tabù, fino a scivolare nel dimenticatoio delle cose non rilevanti. Tuttavia, sentiva che c’erano troppe cose non dette e gli venne una leggera ansia al pensiero di quella serata tutti insieme.
Si domandò se non avesse fatto una cazzata ad invitare Sana ad uscire con loro, e improvvisamente ricordò perfettamente la gita ad Hakone che lui stesso aveva organizzato molti anni prima. 
Si mise una mano in tasca, mentre camminava verso il suo appartamento di Koenji, ma la trovò inspiegabilmente vuota. Allora perlustrò tutte le tasche dei pantaloni, insieme a quelle della giacca, ma del suo cellulare non c’era traccia.
«Cavolo, mi hanno rubato il cellulare.» constatò, bloccandosi per un attimo a pochi metri da casa sua.
 
***
 
E come Gomi le aveva anticipato, Sana era stata dimessa il giorno dopo la visita di Tsuyoshi. Era stato Ryu ad accompagnarla a casa di sua madre, nella vecchia villa di famiglia in cui era cresciuta e in quel momento aveva deciso di trascorrere tutto il suo tempo sul divano del soggiorno, pensando ad una scusa plausibile per evitare la serata organizzata da Tsuyoshi.
Ci aveva riflettuto a lungo nelle ultime ore, pensando che in fondo avrebbe potuto anche fare un salto e bere qualcosa con i suoi vecchi compagni di classe. D'altronde, se ciò che la circondava non la faceva sentire a suo agio, avrebbe potuto chiamare Ryu che, certamente, sarebbe corso al suo cospetto nel giro di un istante. 
Il punto si ingarbugliava quando pensava proprio a ciò che l’avrebbe circondata.
Era davvero consapevole di quello che l’aspettava? Quindi, quando il pensiero di accettare l’invito di Tsuyoshi si concretizzava e si immaginava seduta in chissà quale locale con i suoi vecchi amici, ecco che appariva l’altra metà di sé che le diceva che andare a quella serata non valeva assolutamente la pena e che molto presto sarebbe tornata a Seul, alla sua vita di sempre.
Di colpo pensò a Ji-ho e al fatto che erano riuscite a sentirsi solo per pochi minuti, il tempo di dirle quello che era successo. Poi, nulla più.
Si tirò su con la schiena a fatica, e afferrando il cellulare compose il numero di Tsuyoshi. Con sua sorpresa, il cellulare risultava irraggiungibile. Guardò velocemente l’ora e pensò di essere ancora in tempo per disdire l’appuntamento.
Riprovò nuovamente, ma nulla.
«Mh, e adesso?» disse tra sé e sé, in tono leggermente allarmato. Improvvisamente, ciò che avrebbe dovuto fare le fu chiaro come il sole.
Si alzò dal divano e acciuffò la stampella che le avevano dato in ospedale perché il suo ginocchio non era ancora in grado di sostenere da solo il peso del suo corpo, e si avvicinò maldestramente alla finestra. Il sole stava calando e il cielo si era tinto di una serie di striature che iniziavano dall’azzurro e finivano nel rosso accesso. Sana sospirò, e compose nuovamente il numero di Tsuyoshi, ma il risultato era sempre lo stesso: il cellulare del suo amico era spento.
Pensò che l’unica cosa saggia da fare fosse inviargli un messaggio in cui gli comunicava di non poter uscire di casa perché si sentiva stanca e le ferite le facevano molto male. Inviare quel messaggio fu sorprendentemente più facile del previsto, perché dall’altra parte non c’era nessuno che potesse contestarle in diretta la bugia che aveva appena detto.
Tuttavia, aveva appena deciso di non sentirsi a suo agio con l’idea di uscire con i suoi compagni di classe e, di getto, lanciò il cellulare sul divano senza aspettare la risposta del suo amico. 
Trascorse il resto del pomeriggio in casa, migrando dal salone alla sua vecchia camera una quantità di volte indefinita. Si sentiva solo il rumore delle sue ciabatte e del piede della stampella e pensò che quando era bambina sua madre usciva molto raramente. In effetti, da quando era tornata aveva incrociato il suo sguardo al massimo un paio di volte. D'altronde però anche lei si era costruita una vita in quegli anni e il fatto che sua figlia fosse a casa dopo tanto tempo non le aveva certo impedito di seguire la sua lezione di intreccio dei cestini in vimini.
Il sole era ormai calato e il cielo era diventato un’enorme massa scura da cui, di tanto in tanto, spuntava qualche punto luminoso a fatica tra le luci della città. A quel punto Sana pensò che avrebbe potuto saltare la cena e andare dritta a dormire: si sentiva stanca ma soprattutto non vedeva l’ora che quella giornata volgesse al termine.
E aveva proprio deciso di fare un bagno caldo, prima di sentire il suono del campanello della porta richiamarla in allarme.
«Sarà la mamma…» si disse, avviandosi verso l’ingresso della grande villa. 
Tirò verso di sé la grande porta di legno, ma sul suo viso si disegnò immediatamente un’espressione esterrefatta quando vide che non si trattava di sua madre, bensì di Tsuyoshi, infagottato in un’enorme giacca a vento.
«Tsuyoshi?» domandò sorpresa.
«Sana… ma sei ancora in pigiama?» domandò lui, restituendole un’espressione di stupore quando la vide vestita con dei pantaloni di almeno due taglie più grandi ed un maglione lungo fino alle cosce.
«Non è un pigiama.» replicò lei, senza nemmeno rendersi conto di quanto avesse detto.
«Oh… immaginavo ti saresti vestita diversamente. Se sei pronta, possiamo andare.»
«Andare dove?» domandò lei, stringendosi il maglione all’altezza del collo. Improvvisamente si rese conto di quanto facesse freddo. 
«Sicura di sentirti bene? Eravamo d’accordo di uscire stasera e che ti sarei venuto a prendere.» le spiegò lui brevemente.
«Oh, quello. È che ho cercato di chiamarti…»
«Diamine, mi hanno rubato il cellulare quindi ero praticamente irraggiungibile. Ad ogni modo, cosa volevi dirmi?»
«Che non mi sento ancora benissimo e che forse è meglio se resto a casa.»
«Oh no, Sana perché? Non vorrai darmi buca proprio ora? Prometto che non faremo tardi e che non ti affaticherai affatto.»
«Sì lo so, però Gomi ha detto che le mie ferite non sono guarite…»
«Guarda che Gomi è lì che ci aspetta in macchina. Sei fortunata, perché se dovessi star male avresti il tuo medico proprio a portata di mani.»
«Già, che fortuna…» borbottò lei, cercando di nascondere i suoi veri pensieri.
«Su, andiamo che è già tardi.»
«Ma non posso mica uscire così?» constatò lei, indicando i suoi stessi vestiti.
«Sbrigati allora, Gomi non ha molta pazienza.» disse lui con un leggero sorriso.
Alla fine, Sana si sentì quasi costretta ad accettare quell’invito, e in pochi minuti si ritrovò ad indossare un paio di jeans ed un maglioncino a collo alto, seduta sul sedile posteriore dell’auto di Gomi.
Si strinse nelle spalle, chiedendosi come sarebbe andata quella serata. Si disse che in fondo non sarebbe durata troppo, e che prima o poi sarebbe tornata a casa e non ci avrebbe più pensato.
«A quest’ora c’è sempre un gran casino per strada. Anche a Seul è così?» domandò Tsuyoshi rivolgendo a Sana un’occhiata attraverso lo specchietto dell’auto.
«Ma che domande fai? Seul è grande quanto Tokyo, secondo te non c’è nessuno per strada?» replicò Gomi, imboccando l’autostrada in direzione Chiba.
Quando Sana lesse quel cartello, si voltò di scatto verso Tsuyoshi.
«Dove stiamo andando? Chiba è lontana.» constatò Sana, con un tono leggermente allarmato.
«Rilassati Kurata, è solo la direzione verso Chiba. Stiamo andando a Sumida… ehi Tsu, hai sentito Hisae?»
«Come facevo a sentirla?»
«Oh certo, l’avevo dimenticato.» disse lui, colpendosi appena la fronte.
«Mi aveva detto che avrebbe chiamato Akito per un passaggio.» rifletté Tsuyoshi a voce alta.
«Bene, altrimenti possiamo passare noi.»
In quel momento, nessuno dei due se ne accorse ma Sana si sentiva lentamente sprofondare nel sedile morbido dell’auto di Gomi. Il trovarsi lì con quei due, sentir loro pronunciare dei nomi che aveva semplicemente incollato alla parete dei ricordi lontani le diedero l’idea di star vivendo in una specie di bolla di cristallo. Le sembrava di sentire i suoi ovattati e per un attimo si domandò se non fosse il caso di domandare a Gomi se il suo stato di salute non fosse peggiorato, perché riusciva a sentire il suo stesso cuore pulsarle nella gola.
Si sentì strana, fin quando Tsuyoshi non le sfiorò il ginocchio sano con la punta delle dita.
«Siamo arrivati. Visto che era vicino?» la informò con il migliore dei suoi sorrisi.
Sana iniziava a sentirsi alquanto inquieta e si pentì subito di aver assecondato l’insistenza di Tsuyoshi. Quest’ultimo invece si strinse nella giacca e si affrettò a raggiungere il lato posteriore del passeggero per aiutare la sua amica a scendere dall’auto. 
«Grazie.» disse lei timidamente, afferrando la stampella su cui si appoggiò rapidamente per evitare di cadere. Tutto ad un tratto sentì che le ferite dell’incidente si erano aperte vertiginosamente e che da sola quella stampella non era affatto sufficiente a sostenerla.
«Oh guarda, c’è Hisae.» disse Gomi all’improvviso, raggiungendo a passi veloci una ragazza vestita in un lungo cappotto scuro e i capelli legati in uno chignon.
Tsuyoshi prese Sana sottobraccio e la condusse verso Hisae e Gomi a pochi metri da loro.
«Guarda un po’ chi c’è con noi?» disse Gomi alla ragazza che si strinse nel cappotto, prima di incrociare le braccia sul petto.
«Ciao Hisae, da quanto tempo?» disse Sana, in tono imbarazzato. Senza che l’altra parlasse, aveva capito subito che le cose erano molto cambiate dall’ultima volta in cui si erano viste e all’istante inserì quell’incontro nella lista delle cose che l’avrebbero circondata quella sera di cui avrebbe fatto volentieri a meno.
«Ciao. Vedo che stai meglio.» disse lei, senza aggiungere altro. Poi rivolse la sua attenzione a Tsuyoshi: «Hai prenotato? Non ho nessuna intenzione di aspettare qui fuori. Si gela.»
Sana pensò che l’atteggiamento di Hisae fosse molto cambiato perché non la ricordava affatto così. I suoi ricordi adolescenziali la ponevano in un contesto diverso, in cui lei era schietta e diretta, ma anche dolce e amorevole. Il perfetto equilibrio tra Aya e Fuka. Solo che nessuna delle due ora era lì, e Sana si domandò quante altre cose fossero cambiate in quei lunghi anni di lontananza.
«Sì, ho prenotato e ci stanno aspettando. Dov’è Akito?» domandò, spostando lo sguardo oltre Hisae per cercare di trovare il suo amico.
«Sta arrivando. Sai com’è fatto quando non trova parcheggio… mi sono fatta lasciare qui.» disse lei, per poi fare un cenno con il capo subito dopo, verso la direzione opposta al locale.
«Oh, eccolo lì.»
Sana non seppe spiegarsi il momento in cui il suo sguardo si era mosso per seguire quello di Tsuyoshi in cerca dell’unico elemento mancante. Non si spiegò nemmeno la sensazione che stava provando perché non rientrava in nessuna di quelle provate negli ultimi otto anni della sua vita. E seppure l’avesse provata prima, l’aveva semplicemente dimenticata. L’unica cosa che riuscì a capire era che quella sensazione le sembrava molto simile a quello che aveva provato in macchina poco prima.
Poi però, quando lo vide, si rese conto del tempo che era passato, degli anni trascorsi lontana da quella città e da quelle persone perché Akito era profondamente diverso da come lo ricordava. I capelli biondi erano sempre gli stessi, il ciuffo che gli cadeva sulla fronte era sempre lo stesso, ma il suo viso era diverso. Probabilmente era dovuto al fatto di avere davanti un adulto ormai, e non più un ragazzino di sedici anni. Stava di fatto che di domandò quando era stata l’ultima volta in cui aveva ricordato il suo viso. 
E poi era alto, molto più alto dell’Akito Hayama dei suoi ricordi.
Quando lui fu abbastanza vicino da poter cogliere ogni sfumatura sul suo viso, Sana distolse lo sguardo, ma era abbastanza sicura che lui non si fosse nemmeno accorto della sua presenza. Era impegnata però, troppo, a impedire al battito del suo cuore di arrivarle in cima alla gola e farla soffocare.
«Ehi, ma dove hai parcheggiato? A Shinjuku?» lo prese in giro Gomi, guadagnandosi un’occhiataccia da parte del suo amico.
«Questo è perché a te piace fare il giro del mondo per berti una birra.» replicò lui senza troppa enfasi. 
Quella voce, pensò Sana, l’avrebbe riconosciuta tra mille. Nonostante il tempo e la crescita di Akito, la sua voce l’avrebbe davvero riconosciuta tra mille.
«D’accordo, ora possiamo entrare?» domandò Hisae, tremando leggermente per il freddo.
«Sì, certo. Ehi Akito, c’è anche Sana con noi stasera.» disse Tsuyoshi rivolgendo un’occhiata al suo amico. 
«Mh?» disse Akito volgendo lo sguardo a Sana che continuava ad essere tenuta sottobraccio da Tsuyoshi. La guardò per un istante, poi la sua attenzione fu catturata dalla stampella che sosteneva l’altro lato della ragazza.
Non le disse nulla, si limitò soltanto a sollevare entrambe le sopracciglia.
«Un incidente… il terminal dell’aeroporto è andato a fuoco.» disse lei, sfoggiando un debole sorriso nel tentativo di mascherare altro.
«Giusto, me l’avevano detto.» si limitò a dire, prima che Hisae lo acciuffasse per un braccio, trascinandolo verso l’ingresso del locale.
Sana non ebbe il tempo di replicare, perché Akito, Gomi e Hisae si erano già allontanati per raggiungere il tavolo che Tsuyoshi aveva prenotato il giorno precedente. A quel punto, quest’ultimo rivolse un’occhiata a Sana.
«Tutto bene?» le domandò.
«Ma certo. Non vedo l’ora di bere qualcosa.» disse lei, con un enorme sorriso stampato in viso. In realtà, avrebbe voluto tele-trasportarsi il più lontano possibile, magari in Alaska, e rinchiudersi in un igloo insieme a pinguini e orsi polari. Era convinta che se non ci fosse stato Tsuyoshi da una parte e la sua stampella dall’altra, le sue gambe si sarebbero sciolte e lei sarebbe finita a terra in un batter d’occhi. Di nuovo, si domandò perché aveva accettato quell’invito.
«Dai, entriamo. Qui inizia a fare davvero freddo.» disse Tsuyoshi, trascinandola verso l’ingresso di quel posto a lei totalmente sconosciuto.
Quando entrarono nel locale, Sana sentì immediatamente il tepore della sala riscaldata e di getto, si sbottonò il cappotto che indossava. Tsuyoshi non la smetteva di sorreggerla, trascinandola verso il tavolo in un angolo del locale, la aiutò a sedersi afferrando la stampella e riponendola contro la parete dietro di lei. Sana si sentì leggermente in imbarazzo, perché Hisae aveva osservato la scena tutto il tempo. 
Invece, non si poteva dire lo stesso degli altri due che erano intenti a decidere cosa ordinare da bere.
«Io prendo una birra scura.» disse Akito, scostando via il menù verso Tsuyoshi.
«Che monotonia Hayama.» lo prese in giro Hisae, ordinando invece un gin con acqua tonica. Gli altri si limitarono ad imitare Akito, Sana invece ordinò una tequila.
«Kurata, vedo che segui i miei consigli alla lettera.» disse Gomi, riservandole un’occhiata piena d’orgoglio.
«E’ solo una tequila.» replicò lei.
«Ma certo, tu ora vivi in Corea. Ho sentito dire che lì si alza parecchio il gomito.» continuò a prenderla in giro, senza prestare troppa attenzione agli altri.
«Non saprei. Credo bevano come tutti gli altri.» disse soltanto, sorridendo di tanto in tanto.
«Eppure avevo letto che lì l’alcol è un problema serio.»
«Che c’è, stai pensando di trasferiti in Corea per caso?» domandò Hisae, seguendo quella domanda con una risatina.
«Mai dire mai nella vita.»
«Faresti una brutta fine, secondo me. Ti ricordi la scorsa estate al mare?» disse lei, acciuffando il bicchiere che uno dei camerieri le aveva appena portato.
«La scorsa estate?» chiese Gomi, in tono innocente.
«Non fare il cretino. Ce lo ricordiamo tutti quando volevi fare il bagno nudo, alle tre del pomeriggio, perché eri già ubriaco.» ricordò lei con un sorriso diveritito.
«Ti scandalizzi con poco, vedo.» ribatté Gomi, tranquillo.
«E’ che ci tengo alla mia fedina penale. Se non fosse stato per Hayama, ora ti avrei già ucciso.»
A quel punto Akito partecipò alla conversazione alzando il bicchiere di birra imitando il gesto di un brindisi, mentre Tsuyoshi e Gomi ridacchiavano, ricordando quell’episodio accaduto solo pochi mesi prima.
Sana invece si sentiva completamente fuori luogo, come un pesce fuor d’acqua che cercava disperatamente di tornare al suo piccolo acquario familiare. Hisae e Gomi continuavano a punzecchiarsi a vicenda, ricordando questo o quell’evento, e Tsuyoshi li seguiva a ruota, ridacchiando di tanto in tanto. Akito non sembrava molto partecipe, se non per qualche battuta rifilata a Gomi, standosene lì a bere la sua birra. Eppure, nonostante le sue poche, pochissime parole, a Sana diede l’impressione che perfino lui si sentisse a suo agio, nel suo personale acquario fatto di pesci-Gomi, Hisae e Tsuyoshi.
Di colpo, sentì l’irrefrenabile voglia di allontanarsi da lì. 
Guardò il cellulare, ma non c’era nessun messaggio o chiamata persa che le desse una scusa plausibile per uscire da quel locale e restare fuori fino alla fine della serata.
«Poi, comunque, devo dire che da quando Tsuyoshi è diventato lo sciupafemmine del gruppo, c’è un gran via vai di donne da queste parti.» disse Gomi, soffocando una risata e interrompendo per un istante il flusso di pensieri nella testa di Sana.
Tsuyoshi arrossì.
«Non esco con una ragazza da molto tempo.» disse lui.
«Sì, certo. Dall’altro ieri.» commentò Hisae, ridendo divertita.
In quel momento lo sguardo di Akito fu catturato dall’ingresso del locale, ma Sana non notò nulla che non fosse diverso dal via vai di gente a cui aveva assistito fino a quel momento. Evidentemente però per Akito non doveva essere la stessa cosa perché si alzò tenendo stretta in una mano la sua birra e dicendo agli altri che sarebbe tornato in un attimo, sparì rapidamente tra la folla.
Hisae si voltò per un istante verso il punto in cui era sparito Hayama, poi tornò a Tsuyoshi: «Be’, dicevamo. Mi avevi detto di averne conosciuta un’altra proprio due giorni fa.»
«Sì, ma non è una notizia così degna di nota.» continuò lui, leggermente imbarazzato.
A quel punto, Sana pensò che il bagno sarebbe andato più che bene per sparire. Allora si alzò lentamente e afferrò la sua stampella.
«Scusate, io vado in bagno.» disse mostrando a tutti una specie di sorriso imbarazzato, ma l’unico a prestarle davvero attenzione fu Tsuyoshi, che le chiese se avesse bisogno d’aiuto.
Sana si congedò velocemente, rifiutando la proposta di Tsuyoshi, e si diresse verso il bagno. In realtà ciò che voleva fare davvero, oltre a fuggire via da lì, era raggiungere il bancone del bar e ordinare altre due o tre tequila.
A fatica, raggiunse il bancone gremito di gente, finché un paio di ragazze allontanandosi le lasciarono finalmente il posto per poter ordinare.
«Una tequila per favore.» disse al barista, picchiettando distrattamente la punta delle dita sulla superficie di legno usurata del bancone. Il suo bicchiere le comparve sotto il naso come una pozione magica elaborata da una strega potente, e lei si sentì subito meglio al pensiero di poter bere tranquilla, lontana dagli occhi degli altri.
Avvicinò le labbra al bicchiere, sentì l’odore della tequila penetrarle una narice.
«Scusami...» sentì quella voce in maniera decisamente distinta, perché proveniva a pochi centimetri di distanza dal suo orecchio.
Sana si voltò, trovandosi accanto un ragazzo sconosciuto che le stava rivolgendo un enorme sorriso.
«Scusami, posso vedere la tua faccia?» le disse semplicemente. Sana pensò che fosse l’ennesimo ragazzo con l’ennesima scusa per rimorchiare una ragazza sola ad un bar. Tuttavia, le sembrò che il suo modo di farlo fosse abbastanza bizzarro.
«La mia faccia?» domandò a sua volta, senza capire bene cosa volesse dire con quella domanda.
«Sì, la tua faccia… ti sto guardando da un po’ e mi sono detto “quella ragazza ha un viso familiare, dov’è che l’hai conosciuta, Jun”, ma non mi viene in mente nulla. Allora ho pensato di avvicinarmi e vedere il tuo viso da vicino e ora sono sicuro di conoscerti, ma proprio non ricordo dove sia successo. Che ci siamo conosciuti, dico.» le raccontò velocemente, sorridendo fin troppo spesso.
«Ehm, mi dispiace ma credo ci sia un errore. Io non vivo qui, è impossibile che ci siamo conosciuti.» disse lei, con un tono divertito. In realtà, nonostante stesse bramando la sua tequila saldamente custodita nel bicchiere che stringeva tra le dita, quel ragazzo le trasmise uno strano senso di leggerezza.
«Dici sul serio? Che strano…» disse lui, finché entrambi furono raggiunti da qualcuno di inaspettato.
«Kurata?»
E di nuovo Sana pensò che quella voce avrebbe potuto riconoscerla tra mille, nonostante gli anni, nonostante la musica e nonostante l’altro.
«Ma certo, Sana Kurata. In tv, ecco dove ti ho visto.» disse quindi l’altro. Sana strinse il bicchiere di tequila più forte.
Si ritrovò in mezzo, tra quello sconosciuto e Akito, fuoriuscito da chissà dove. Sentì dentro il petto una strana sensazione, e di colpo le venne un’improvvisa quanto inaspettata voglia di far sparire tutto e tutti e chiedergli il motivo per cui si trovasse lì.
Poi, notò l’espressione sul viso del ragazzo sconosciuto.
«Non dirmi che la conosci, Akito.» disse lui, chiamandolo per nome.
«Ci conosciamo da parecchio.» replico lui, secco.
«Che bizzarro.» replicò lui, senza sapere che Sana stava pensando le stesse identiche parole.
 
 
 *Note d'autrice*
Rieccomi dopo meno di un anno, è un record. Non aggiornavo di domenica mi sa dai tempi di Upside Down...
Bene, ci addentriamo nel vivo di questa seconda parte della storia, dopo il salto temporale. Cosa ne pensate?
Secondo voi chi è il tizio che abborda (?) Sana al bancone del bar?
Fatemi sapere cosa ne pensate. Spero che vi piaccia.
Un bacio
Alex 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 

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Capitolo 17
*** Capitolo 15 - Il fondo di caffé del passato ***


Capitolo 15 - Il fondo di caffé del passato

La sensazione che Sana stava provando in quel momento si avvicinava molto all’imbarazzo e al disagio, perché si era sentita subito fuori contesto quando Akito li aveva raggiunti. Si era domandata il motivo per cui lui fosse lì, e l’identità di quel tizio sconosciuto aveva soddisfatto la sua curiosità dopo pochissimi istanti.
Akito si era appoggiato al bancone del bar e aveva domandato una birra alla spina, l’altro invece continuava a tenere tra le dita il suo bicchiere di birra ormai quasi vuoto, rivolgendo a Sana di tanto in tanto un’occhiata sorridente.
«Assurdo che vi conosciate.» disse Jun sorridendo in modo del tutto naturale, quasi per inerzia, ma a quel sorriso non ricevette alcuna risposta. 
«Già. Voi invece… voi siete amici?» domandò Sana, con un velo di titubanza. Non ebbe il coraggio di rivolgere ad Akito nemmeno il minimo sguardo, perché non aveva nessuna intenzione di scoprire quale sarebbe stata la sua reazione, nonostante la curiosità, figuriamoci se gli avesse fatto una domanda come quella. Ormai aveva capito bene che Akito non aveva alcuna voglia, o interesse, ad interagire con lei perché da quando li aveva raggiunti a quel bancone non l’aveva nemmeno guardata in faccia. In verità non l’aveva fatto per niente durante tutta la serata, fin da quando era arrivato in compagnia di Hisae qualche ora prima.
«Sì, e anche colleghi. Lavoriamo per la stessa azienda di servizi di informatica.» disse lui senza troppa esitazione né enfasi. Mentre Jun parlava, Hayama era concentrato a leggere qualcosa sul suo cellulare, ma Sana non riuscì a tenere il suo sguardo su di lui a lungo, perché Jun continuava a parlare, senza smettere mai.
«Credo di averti vista in tv proprio recentemente. Per questo ero convintissimo che ci conoscessimo…» continuò lui, parlando all’altra in un tono decisamente confidenziale. Sana, per qualche strana ragione, si sentì ancora più a disagio. Spostò lo sguardo nuovamente verso Hayama, ma lui aveva gli occhi fissi sul suo cellulare.
«Sì, è una cosa che mi capita spesso.» mentì lei, una volta tornata con lo sguardo a Jun. In realtà frequentava quasi esclusivamente le serate organizzate dalla sua agenzia a Seul e non le capitava praticamente mai di trovarsi in una situazione simile, in un bar qualunque insieme a persone lontane dal suo mondo.
«Certo, immagino. Quindi non abiti qui… e dove vivi?» le domandò, mandando giù l’ultimo sorso di birra. Sana corrugò la fronte.
«Prima hai detto che non abiti da queste parti. Quindi mi chiedevo: dov’è che abiti?» precisò Jun.
«Oh, sì… in verità ora lavoro a Seul, quindi abito lì. Sai, non potrei vivere a Tokyo e lavorare da un’altra parte.»
«Be’ no di certo.» commentò Jun con una leggera risata. A quel punto Akito rivolse lo sguardo ad entrambi e si mise il cellulare in tasca. Sana notò subito i suoi movimenti mentre dava le spalle al bancone per avvicinarsi a loro due. Pensò che avesse deciso di partecipare a quella conversazione, e si chiese stupidamente cosa avrebbe potuto dirgli. Lui però si rivolse solo all’amico.
«Ho letto solo ora il messaggio. Comunque ne possiamo parlare domani direttamente in ufficio.» gli disse. A quel punto l’altro gli rivolse un semplice sorriso, alzando poi il suo bicchiere di birra quasi vuoto.
«E comunque, non avevi detto di essere in ritardo per qualcosa, Watanabe?» domandò poi in tono tranquillo al suo collega.
«Già, che peccato però. Mi sarebbe piaciuto restare ancora un po’.» terminò, rivolgendosi a Sana. In pochi secondi si staccò dal bancone del bar e si infilò una mano in tasca. Rapidamente ne estrasse un cartoncino porgendolo poi alla ragazza.
«Non mi sono nemmeno presentato: mi chiamo Jun Watanabe e questo è il mio biglietto da visita. In caso ti andasse di fare una passeggiata qui a Tokyo.» aggiunse con lo stesso sorriso che aveva mostrato a Sana per tutta la sera. Lei guardò quel cartoncino per un istante, il tempo di capire cosa fare, e poi rivolse lo sguardo al ragazzo. Aveva i capelli scuri, folti e leggermente mossi, con qualche ciuffo che gli ricadeva sulla fronte, ma in modo diverso da quelli di Akito.
«Certo… grazie.» rispose Sana, stringendo quel cartoncino bianco tra le dita. A quel punto Jun la salutò con un semplice gesto della mano, poi si congedò da Akito con una pacca sulla spalla, prima di avviarsi verso l’uscita del locale.
Sana rimase immobile per qualche istante, rigirandosi tra le mani un paio di volte il biglietto da visita di Jun Watanabe - tecnico informatico, poi alzò lo sguardo verso Akito quando si rese conto che lui le aveva appena dato le spalle per allontanarsi dal bancone.
«Hayama!»
Quando pronunciò quel nome la sua voce sembrò diversa persino a se stessa, e Sana si stupì di aver detto il nome di Akito a voce alta. Una voce per giunta non sua. 
Quel richiamo però fu sufficiente a fermare l’altro, che voltò appena il capo verso di lei, rivolgendole un’occhiata interrogativa.
«Io… be’ io volevo sapere…» disse flebilmente, domandando poi a se stessa per quale motivo lo avesse fermato in quel modo. Insomma, se avesse avuto il tempo e la voglia di scavare oltre lo strato di frottole che si era raccontata per anni, probabilmente qualche domanda da fargli l’avrebbe perfino trovata. Tuttavia, non era certo quello il momento di arrivare a sbrogliare certe consapevolezze non ancora raggiunte.
«… quindi lavori in un’azienda informatica?» concluse, senza mettere troppa enfasi in quella domanda.
«Già.» 
Lui invece le rispose senza esitare, infilandosi le mani nelle tasche dei pantaloni. Sana però notò che in quel momento Akito si era voltato completamente verso di lei.
«Oh, bene. E… ti piace?» continuò con gli interrogativi di circostanza, e senza accorgersene incrociò entrambe le braccia sul petto.
Akito a quella domanda scrollò le spalle.
«Non è male.»
«Mi fa piacere. E il karate?» azzardò lei, in un impeto di coraggio.
«Il karate?» domandò lui a sua volta, come se quella domanda lo avesse catapultato improvvisamente in un mondo parallelo. 
«Be’ sì, il karate. Ti alleni ancora?» domandò lei con ovvietà.
«Ho smesso da una vita, Kurata.» rispose lui, sollevando le sopracciglia. 
«Oh… mi dispiace.»
«Non è mica una cosa grave.» disse accompagnando quella frase con un’alzata di spalle. A quel punto però la sua attenzione fu catturata da altro, un punto indistinto verso cui si mossero le pupille dei suoi occhi, e in pochi istanti estrasse il cellulare dalla tasca posteriore dei jeans. Sana cercò di decifrare il suo viso mentre osservava lo schermo dello smartphone, ma si sentì come se fosse davanti ad un muro di cinta impenetrabile. Poi lui le rivolse nuovamente lo sguardo.
«Scusa, ma a questa devo rispondere.» disse, poi si voltò e tappandosi un orecchio, appiccicò il cellulare all’altro e rispose a quella telefonata, allontanandosi dalla folla accumulatasi al bancone.
Sana non seppe che espressione fare, e decise di rimanere immobile per qualche istante, finché non si ricordò del bicchiere di tequila praticamente mai bevuto, e lo mandò giù in meno di un istante.
Guardò poi quel bicchiere vuoto come si osserva il fondo di una tazza di caffè, solo che ciò che lei avrebbe voluto sapere in quel momento non era affatto il suo futuro, bensì il suo passato e ciò che era successo nel corso di quei lunghi anni, responsabili di aver creato l’enorme distanza tra lei e tutto ciò che c’era prima e che aveva iniziato a divorarla appena aveva messo piede a Tokyo. Senza che nemmeno se ne accorgesse.
D’altronde, pensò, era più che normale che lei non sapesse nulla di nessuno dei suoi vecchi amici, per non parlare del fatto che lei e Akito si erano lasciati in un modo a dir poco brusco. Anzi, non si erano lasciati affatto, perché lei aveva semplicemente levato le tende, come aveva già fatto tante altre volte nella sua vita. E si sentì improvvisamente una sciocca, perché si rese conto di essere l’unica al mondo a dare ancora importanza ad un evento che, molto probabilmente, avevano ormai dimenticato tutti.
Tutti, tranne Tsuyoshi. Lui sembrava essere l’unico a trattarla ancora come se fossero gli amici di una volta.
A Sana sembrò assurdo il fatto che in quel momento riusciva addirittura a sentirne la voce, del suo amico, nella sua testa confusa.
Poi, qualcosa la scosse sul serio.
«Ehi Sana, stai bene?»
«Tsuyoshi?» domandò lei incredula, quando il viso del suo amico si materializzò a pochi centimetri dal suo. Si rese conto troppo tardi di essere stata appena inghiottita dai suoi stessi pensieri.
«Sembravi in trance.» fece lui, staccandole le mani dalle spalle.
«Oh, scusa Tsu, ero solo sovrappensiero. Che succede?»
«Niente, ma Shin ha appena ricevuto una chiamata urgente ed è dovuto tornare in ospedale.»
«Oh sul serio?» disse lei afferrando la stampella che aveva appoggiato al bancone.
«Già. Però ho chiesto un passaggio ad Akito… così non tornerai tardi a casa.» disse Tsuyoshi, cercando di interpretare l’espressione sul viso dell’amica. Tuttavia, malgrado i suoi sforzi, non rilevò nulla di troppo evidente e pensò quindi che per lei non ci fosse alcun problema.
«Va bene, d’accordo.» rispose lei, facendo qualche passo appoggiata alla stampella. In realtà pensò che avrebbe preferito rincasare direttamente all’alba se questo l’avesse aiutata ad evitare un tragitto in macchina accompagnato da silenzi imbarazzanti o frasi di circostanza. Ma, come aveva detto Tsuyoshi, quando entrambi tornarono al loro tavolo, sia Akito che Hisae erano già pronti ad andare via.
Sana fece un sospiro profondo, che si bloccò da qualche parte al centro del suo petto.
«Siete pronti?» domandò Hisae a entrambi, stringendosi nell’enorme sciarpa che le avvolgeva il collo. Sana si domandò dove l’avesse presa, perché prima non gliel’aveva vista. O almeno così credeva.
Akito invece bevve velocemente l’ultimo sorso di birra poi estrasse le chiavi della sua auto e fece segno agli altri di seguirlo all’esterno. 
«Aspettate qui.» disse indicando poi il punto in cui aveva parcheggiato. Tsuyoshi però accelerò il passo e lo seguì, lasciando Sana da sola con Hisae.
Quest’ultima continuava ad aggiustarsi la sciarpa intorno al collo e a guardare nella direzione in cui erano spariti Tsuyoshi ed Akito. Sana invece strinse le dita intorno alla stampella, rivolgendo lo sguardo a Hisae che, proprio in quel momento, si voltò a guardarla.
«Mi dispiace che Gomi sia dovuto andare via.» disse ad Hisae, con una leggera punta di imbarazzo. 
«Già. Ma con lui è sempre così…»
«Sì, immagino. Chi l’avrebbe mai detto che sarebbe diventato un dottore…» commentò Sana, cercando di sorridere. 
«E invece… Tranquilla però, perché continua ad essere la solita testa vuota di un tempo.» rispose Hisae, con un leggero sorriso. Allora Sana non riuscì a capire se lei stesse sorridendo per condividere qualcosa con lei, oppure perché pensare a Gomi in quel modo, insieme a tutti gli altri suoi amici, la facesse stare così bene al punto da sorridere anche quando parlava di loro. D’altronde le erano sembrati così affiatati nel ricordare la loro estate insieme, che quella teoria poteva essere più che fondata. Tuttavia, Sana sperò che la prima opzione fosse quella giusta, e non riuscì nemmeno a spiegarsi il perché di quella speranza lontana. In fondo, non sarebbe rimasta a lungo in Giappone e sperare che i suoi vecchi amici provassero ancora un minimo di affetto per lei non avrebbe comunque avuto alcun seguito.
Sarebbe andata via in ogni caso.
«Già, è stato lui il primo ad insistere perché uscissi stasera, nonostante l’incidente. Invece di dirmi di stare al riposo eccetera.»
«Ma figurati. Per lui bere e fare baldoria sono al primo posto nella lista dei pilastri portanti della vita.»
Sana guardò Hisae che invece continuava a tenere lo sguardo fisso verso il punto in cui erano spariti Akito e Tsuyoshi. Avrebbe voluto chiederle come se la passava e cosa faceva ora per vivere, ma qualcosa le stava dicendo che lei non aveva in realtà molta voglia di fare conversazione, perché quelle frasi buttate lì avevano lo stesso sapore di quelle scambiate con Akito poco prima. 
Poi quell’idea si concretizzò, quando Hisae scattò in avanti appena l’auto di Akito fece la sua comparsa.
«Siete lenti come lumache, mi sono congelata qui fuori.» disse lei, infilandosi in macchina, sedendosi esattamente dietro Akito. Sana la seguì, ma più lentamente cercando di non fare qualche danno alla macchina di Hayama con la sua stampella.
D’istinto, guardò in avanti in corrispondenza dello specchietto retrovisore, e sussultò quando incrociò lo sguardo di Akito fisso su di lei.
«Andiamo, ci abbiamo messo un secondo.» disse Tsuyoshi, rivolto ad Hisae. Quest’ultima corrugò la fronte, mentre accanto a lei, a pochi centimetri, Sana abbassò lo sguardo seguendo nuovamente un istinto che non riusciva più a comprendere. Chiuse rapidamente la porta, e solo in quel momento il suo sguardo si levò nuovamente verso Akito, per scoprire che proprio in quell’istante lui aveva distolto il suo, partendo con l’auto.
Sana a quel punto si voltò verso Hisae, ma lei aveva lo sguardo fisso in avanti.
«Hayama portami subito a casa, ho freddo e domani mattina lavoro presto.»
«Desidera altro, Kumagai?» le rispose lui ironico.
«Desidero tante cose. Cose che tu non puoi darmi però.»
«Oh, che peccato.»
«Vorresti, ma non puoi.»
«Potrei, ma non voglio.» disse lui, continuando a mantenere un’espressione priva di lettura.
«Sì, certo Hayama. Su, muoviti.» concluse lei, facendo trasparire un sorriso leggere. Sana, che aveva seguito i loro movimenti in un religioso silenzio, non si rese conto di aver corrugato la fronte perché probabilmente alla base di quell’espressione si faceva largo la curiosità di conoscere la natura di quel rapporto.
Eppure, le era sembrato abbastanza chiaro nel corso della serata. Hisae, Akito, Tsuyoshi e Gomi erano amici da anni e, a differenza sua, erano sempre rimasti a Tokyo senza mai perdersi di vista. Questo, naturalmente, aveva generato un rapporto molto profondo tra loro, fatto di ricordi e momenti passati insieme, così come battute ironiche e confidenza che Sana riusciva a percepire anni luce lontana da lei.
Nonostante questo, però, c’erano numerosi tasselli che non le tornavano. Poi si domandò se davvero volesse che quel puzzle si completasse, finché il suo corpo non sussultò. Istintivamente appoggiò il palmo di una mano contro il sedile di Tsuyoshi e guardò verso Akito che, nuovamente, aveva gli occhi su di lei. Solo in quel momento allora si rese conto che erano fermi, e che Hisae stava raccogliendo le sue cose per poi uscire dall’auto.
Sana guardò fuori dal finestrino, assottigliando lo sguardo. Si domandò dove fossero, perché la sua memoria non riusciva a cogliere nessun oggetto o edificio a lei familiare. Poi, ad un tratto, notò un cancello di ferro che dava su un parco poco illuminato. Riconobbe il parco di Ikebukuro all’istante, collegando il fatto che Hisae ora viveva in quel quartiere.
Non disse nulla, ma si limitò ad osservare la ragazza di spalle raggiungere un alto edificio di fronte il parco di Ikebukuro per poi appoggiare la fronte al finestrino della macchina, mentre Akito ripartiva lentamente.
Tsuyoshi invece abitava ancora nello stesso quartiere di quando erano ragazzini. Nonostante il tempo, Sana ricordava ancora abbastanza bene il giorno in cui lei e Akito erano andata a casa del loro comune amico ad aiutarlo con il trasloco, subito dopo il divorzio dei suoi genitori.
Ripensò per un istante a quel ricordo lontano, quasi appartenente alla vita di qualcun altro, e per l’ennesima volta si domandò quanto del vecchio Akito Hayama che conosceva ci fosse in quella macchina. Di se stessa, della Sana Kurata che aveva trascinato a forza tutta la sua classe molti anni prima, non c’era rimasto davvero più nulla, pensò. Forse l’apparenza, quella continuava a restare immutata. Ma la forza che un tempo sentiva di avere, l’ardore che la muoveva in ogni cosa che faceva, aveva lasciato il posto a ben altre sensazioni.
«Ehi, Sana… ci sei?» le domandò all’improvviso Tsuyoshi, agitando una mano davanti al suo viso. Sana fu colta alla sprovvista, perché all’improvviso aveva completamente dimenticato dove si trovasse. 
«S-sì… sì, dimmi.»
«Dicevo, allora io vado.» disse lui.
Sana si domandò dove stesse andando, ma lui non le diede il tempo di trasformare quel pensiero in una frase concreta.
«Spero proprio di riuscire a rivederti prima che tu parta. Possiamo organizzare ancora una serata insieme, se ti va.» aggiunse, uscendo dall’auto di Akito. Si diresse poi verso la sua porta, e la aprì.
Sana lo guardò come se fosse approdato da un altro pianeta, ma Tsuyoshi le rispose con un sorriso divertito. 
«Non vorrai mica fargli fare da taxi?» le domandò, indicando Akito con un cenno del capo. A quel punto lei guardò in direzione dell’altro, e lo trovò impegnato a trafficare con qualcosa che custodiva all’interno del cruscotto. Rivolse poi un debole sorriso a Tsuyoshi.
«No, certo che no.»
Tsuyoshi poi ne approfittò per salutare la sua vecchia amica con un abbraccio, ma per qualche strana ragione Sana non lo trovò così assurdo. Anzi, ricambiò il gesto volentieri, per poi prendere il suo posto accanto ad Akito.
Quando Tsuyoshi scomparve dalla loro vista, Sana rivolse lo sguardo verso Hayama e scoprì che ciò che stava cercando nel cruscotto della sua auto non era altro che il caricabatterie del cellulare. Rimase qualche istante a fissare lo schermo scuro del cellulare, finché la voce dll’altro non la riportò alla realtà.
«Abiti sempre lì?» le domandò, guardandola senza alcuna espressione specifica.
Sana annuì con il viso, finché poi Akito non partì lasciandosi alle spalle l’edificio in cui abitava Tsuyoshi. Tutt’ad un tratto le sembrò così normale che lui sapesse perfettamente dove abitasse.
La macchina di Akito era una comunissima utilitaria di colore scuro, con gli interni in tela grigia. Non aveva chissà quale tecnologia avanzata o luce strana che si accendeva con il semplice tocco delle dita. L’unica cosa lontanamente tecnologica che aveva era il caricabatterie del cellulare collegato al foro in cui, di norma, ci si accendeva le sigarette. Ma quello, pensò Sana, ce lo avevano tutte le auto.
Avvicinò poi l’indice verso il cruscotto, e solo allora lesse la scritta “Toyota”, proprio mentre cercava il pulsante che le avrebbe permesso di aprire il finestrino del suo lato.
Accarezzò le lettere in rilievo di quella marca disposta al centro del cruscotto come se stesse esplorando le pareti di una grotta mai penetrata, una ad una, poi spostò le dita di qualche centimetro più in là e poi, nuovamente verso di lei, finché altre dita la raggiunsero.
Sana alzò lo sguardo verso Akito che invece continuava ad essere concentrato sulla strada davanti a sé, ma in quel momento sentì l’aria fredda che le solleticava il viso. Si voltò verso il suo finestrino aperto di appena un quarto.
Poi l’auto si fermò ad un semaforo rosso.
«Grazie, non riuscivo a capire come si aprisse.» disse lei, abbozzando un sorriso. Hayama però non distolse mai lo sguardo dalla strada, se non per un istante quando controllò il suo cellulare ancora in carica.
«Me ne ero accorto.» rispose poi lui, senza troppa enfasi.
In poco tempo, l’auto di Akito si riempì dell’aria gelida proveniente dall’esterno, quindi lui guardò Sana poco prima che il semaforo tornasse ad essere verde.
«Hai davvero così caldo?» le domandò lui ad un tratto, sorprendendola.
«Chi? Io?» domandò lei a sua volta.
«Sei tu quella che ha aperto il finestrino, o no?»
«Ah… be’, non è che avessi proprio caldo. È che volevo prendere una boccata d’aria.» si affrettò a spiegare, per poi iniziare a chiudere nuovamente il finestrino.
«Non mi dà fastidio, comunque.» le disse Akito.
«Oh no, non vorrei che ti ammalassi per colpa mia. L’aria in effetti è davvero fredda.»
«Non sarà certo un po’ di aria fresca a farmi ammalare, Kurata.»
E nel sentirgli pronunciare il suo nome, per la seconda volta quella sera, si domandò fugacemente se per quella conversazione potesse esserci un briciolo di speranza.
«E invece potrebbe eccome. Qui fa molto più freddo di Seul, l’avevo quasi dimenticato questo gelo.» disse lei senza nemmeno pensare alle sue stesse parole e al fatto di aver appena ricordato ad alta voce tutti quegli anni lontani dalla sua casa, dai suoi vecchi amici e dalla vita che conduceva molto prima che tra lei e Akito ci fossero quelle frasi di circostanza. Eppure, pensò brevemente, se ci pensava attentamente i momenti di imbarazzo tra lei e l’altro non erano stati rari nemmeno poco prima della sua sparizione. Sempre che quello che stava vivendo in quell’auto fosse un momento di imbarazzo per entrambi. 
Poi lui si voltò appena verso di lei.
«Sei proprio sicura che a Seul non faccia così freddo?»
«Certo che lo sono. Ci vivo da un sacco di tempo ormai, cosa credi?» rispose lei, accigliata.
«D’accordo, non è mica così importante.» 
A quella risposta secca Sana non rispose subito, perché si rese conto di essere stata troppo brusca nella sua risposta. In realtà, pensava semplicemente di aver dimenticato com’era quando erano due ragazzini e come erano le loro conversazioni.
Si guardò le mani, le dita intrecciate senza averlo fatto con una vera consapevolezza o volontà, poi si voltò verso Akito, che continuava ad avere lo sguardo inchiodato sulla strada.
«Tu invece… abiti ancora lì?» sottintendendo la casa che condivideva con suo padre e sua sorella Natsumi. 
«Sono andato via da parecchio.»
«Oh, be’, certo. Che domande…»
Quell’osservazione da parte di lei però non ebbe nessun seguito, perché la risposta di Akito le sembrò secca, priva di qualsiasi volontà di approfondire l’informazione. Eppure, Sana si sentì così curiosa di sapere dove vivesse in quel momento, e con chi. 
Poi decise di smettere di pensarci perché, in fondo, non erano affari suoi con chi il suo antico primo amore divideva la vita e un’ipotetica casa.
«Scusa, ti dispiace se mi fermo un attimo?» disse poi lui all’improvviso. Lei lo guardò e quasi le sembrò che quella voce arrivasse da un interfono, e si domandò quale fosse il motivo di quella richiesta. Però Akito in realtà aveva già voltato l’auto verso un konbini poco distante, senza dare il tempo a lei di chiedergli il motivo di quella pausa.
«No, tranquillo. Fa’ pure.» gli rispose soltanto, quando l’auto era ormai già ferma davanti all’ingresso del konbini. Hayama, senza fiatare, spense l’auto, staccò il cellulare dalla carica e si precipitò verso l’ingresso dello store. Sana osservò la scena impasse, guardando l’altro mentre chiedeva qualcosa al commesso che in pochi istanti gli aveva indicato un punto in fondo al negozio, dietro gli scaffali.
«Ma certo… il bagno.» disse a se stessa, sentendosi fiera di quella scoperta. In pochi minuti poi, afferrò la stampella e uscì anche lei, avviandosi verso il negozio. 
Quando raggiunse il konbini sentì subito il tepore del calore del negozio, rendendosi conto di quanto effettivamente fuori facesse freddo. Poi notò molte cose disposte sugli scaffali del konbini che non vedeva da tanto tempo, da quando aveva lasciato il Giappone. Quel tipo di negozi, nello specifico un Seven Eleven, esisteva anche a Seul, ma alcuni prodotti non li aveva mai più visti. Uno tra i tanti la zuppa soba con i noodles istantanei*.
A quel punto Sana si avvicinò proprio alle confezioni di soba, di svariati gusti, e ne prese subito una tra le mani.
«Che buona che sei…» disse alla confezione, rigirandosela tra le mani. E in quel momento, probabilmente ispirato dall’oggetto che Sana teneva tra le mani, il suo stomaco brontolò rumorosamente.
«Cosa darei per mangiarti qui, ora e subito.» mormorò, con un tono della voce decisamente sconfitto. Insomma, era assolutamente consapevole che quello non era il momento per sedersi in un Convenience Store e mangiare una zuppa di noodles, mentre il suo accompagnatore – che probabilmente non aveva tutta quella voglia di passare chissà quanto tempo in sua compagnia - era in bagno.
«Però mi manchi così tanto, ed ho così fame…» quasi rispose al suo stesso pensiero.
Poi ad un tratto si sentì osservata.
«Da quand’è che non mangi, Kurata?» le domandò Akito, materializzatosi all’improvviso accanto a lei.
«Da molte ore, direi.» rispose lei, continuando a mantenere il tono della voce di poco prima.
Prese quindi la difficile decisione di riporre la confezione di soba sullo scaffale, accanto alle altre confezioni identiche, pensando che avrebbe mangiato a casa sua. Non la soba, certo… ma qualcosa l’avrebbe pur trovata. Poi si sistemò la stampella e si voltò verso l’uscita del konbini, ma in quel momento Hayama mosse solo un braccio, proprio in direzione della confezione di soba abbandonata sullo scaffale. 
Sana lo guardò stranita, mentre lui si rigirava la confezione di noodle istantanei tra le mani. Le sembrò che stesse leggendo il contenuto di quella zuppa sul retro della confezione, ma poi si disse che nessuno al mondo si sarebbe messo a leggere cosa ci fosse in quella roba invece di mangiarsela. 
In realtà, Hayama stava facendo altro.
Afferrò un’altra confezione di noodle al brodo di pollo e le mostrò entrambe a Sana.
«In effetti… anche io non mangio da parecchio.» le disse, avviandosi verso il microonde disponibile a tutti i clienti del negozio. Sana lo osservò senza fiatare, perché quella sua azione le sembrò così assurda. Probabilmente perché non se lo sarebbe mai aspettato, nonostante non riuscì a darsi una spiegazione per quel pensiero. In fondo, non stava facendo nulla di così assurdo.
Al di là di tutto, Sana si sentì sollevata e anche contenta in quel momento, e non certo per la zuppa che avrebbe mangiato di lì a poco.
Almeno, non solo per quello.
Si sedettero entrambi al tavolo disposto proprio davanti al vetro del negozio e Sana, incurante della temperatura dei noodle, aprì la sua confezione in fretta e furia, bruciandosi le mani con il brodo bollente.
«Ahi, che male.» esclamò subito. Akito la guardò, puntandole poi le bacchette in faccia.
«Ma che fai?» le domandò retorico.
«Cerco di mangiare.»
«Be’, dovresti sapere che se metti qualcosa in un microonde poi diventa bollente.»
«Certo che lo so.» disse accigliata. Poi aggiunse «E tu dovresti sapere che non si puntano le bacchette sul viso di qualcuno. È da maleducati.»
«Ah sì?»
«Guarda che frequento un sacco di posti di lusso… so bene come ci si comporta a tavola.» disse lei, avvolgendo una grossa manciata di noodle con la punta delle sue bacchette. Lui però non rispose, limitandosi a rivolgerle una specie di ghigno che lei, sulla base dei suoi ricordi, interpretò come una smorfia positiva.
In quel momento, mentre mangiava i suoi noodle accanto ad Akito, che faceva lo stesso, le venne in mente un pensiero improvviso e del tutto spontaneo. Pensò che in fondo aveva fatto bene ad accettare l’invito di Tsuyoshi e che, magari, con il tempo i suoi vecchi amici avrebbero anche potuto riaccettarla di nuovo. Quel momento passato insieme ad Hayama, seppur in silenzio, le sembrò così intimo e naturale che sperò di non terminare mai la sua zuppa.
Tuttavia, quel momento arrivò e Akito accartocciò la sua confezione di zuppa ormai vuota e la gettò via.
«Ci sei?» le domandò, afferrando le chiavi della sua auto dalla tasca dei suoi pantaloni.
«Sì, certo. Ho finito.» rispose lei, afferrando la stampella e avviandosi verso l’uscita del negozio, seguendo Hayama che si avviava verso la sua auto.
Sana entrò velocemente, tornando al suo posto e sfregandosi le mani con l’intento di riscaldarsi. Si strinse nelle spalle, finché Akito non le rivolse un’occhiata sollevando un sopracciglio. Non disse nulla, limitandosi a chiudere il finestrino del lato di Sana che lei aveva inavvertitamente lasciato aperto.
«Ci voleva proprio quella zuppa. Ora posso tornare a casa e infilarmi dritta nel letto.» disse lei, senza nemmeno accorgersi del gesto di Akito. Quest’ultimo invece aveva infilato la chiave nella toppa, ma quando provò ad accendere l’auto l’unica cosa che sentì fu il rumore del motore che cercava di collaborare per poi cedere.
Sana allora si voltò verso di lui, con uno sguardo interrogativo.
«Che succede?» domandò, senza però ricevere risposta.
Akito rilassò le spalle e, pensando che quel tentativo di accendere la sua auto non fosse andato a buon fine a causa del freddo, decise di aspettare qualche secondo. Si diede un’occhiata in giro, per passare il tempo, poi impaziente ci riprovò.
Di nuovo sentì il rumore della fatica del motore che, lentamente, si affievoliva fino a scomparire.
«Dannata auto.» imprecò, riprovando più e più volte ad accendere la macchina, senza però riuscirci mai.
Sana era ormai quasi sparita nel suo cappotto e quando Akito se ne accorse, accese subito l’aria calda. Tuttavia, l’auto continuava a non volerne sapere di partire.
«Ti è mai successo prima?» domandò lei.
«Qualche volta.» 
«Come qualche volta? E tu continui ad andare in giro con un’auto rotta?»
«Calmati Kurata. Di solito dopo un po’ parte…» disse in tono deciso, appoggiando entrambe le mani sul volante dell’auto. Sana non disse nulla, finché non si udì nuovamente il gracchiare del motore che cercava di sollevarsi sotto l’ennesimo tentativo da parte di Akito di accendere l’auto.
A quel punto il ragazzo fece un profondo sospiro finché non batté violentemente la mano stretta a pugno sul volante. E lo fece talmente forte che all’improvviso suonò l’antifurto della sua stessa auto.
«Chi è che deve calmarsi…» sussurrò Sana, facendogli quasi il verso, ma stando ben attenta a non farsi sentire. 
Akito non emise alcun suono, limitandosi a restare immobile con le mani fisse sul volante. Sana, dal canto suo, aspettava trepidante una qualsiasi soluzione da parte del ragazzo, rendendosi conto solo in quel momento che il suo corpo stava tremando vigorosamente.
«D’accordo, faremo così.» disse lui all’improvviso, senza dare a Sana alcun margine di comprensione. Estrasse poi dalla tasca dei pantaloni il suo cellulare e la ragazza immaginò che stesse per chiamare aiuto, ringraziando mentalmente il fatto che lui lo aveva caricato poco prima di fermarsi a quel konbini.
Entrambi attesero gli squilli dall’altra parte, finché le labbra di Akito non si mossero.
«Sono io. L’auto si è fermata di nuovo… sì.»
A quel punto Sana capì che aveva chiamato qualcuno che conosceva già il problema della sua macchina.
«Sì, scusami. Sono fermo al parcheggio di un konbini non lontano da casa di Tsu. Ti mando la posizione.» disse, per poi riagganciare subito dopo. Si rimise il cellulare in tasca rivolgendo un’occhiata a Sana.
«Hai ancora freddo?» le domandò stupito.
«Be’, siamo in inverno. Credo sia normale.» 
«Comunque ci metterà poco ad arrivare.» disse soltanto, senza specificare di chi stesse parlando. Allora Sana pensò che si trattasse sicuramente di qualcuno che lo conosceva bene, perché Hayama aveva menzionato non solo Tsuyoshi, ma addirittura casa sua. E in quel momento si scoprì stranamente curiosa di scoprire chi sarebbe giunto a salvarli, di lì a breve a quanto pareva.
«Speriamo.» disse lei, infine, stringendosi ancora di più nella giacca.
Akito non replicò in alcun modo, limitandosi a guardare fuori dal finestrino in attesa di fari familiari. Appoggiò la fronte contro la mano chiusa a pugno, il gomito sul davanzale del finestrino serrato dell’auto. E in quel momento, mentre la sua attenzione e i suoi pensieri erano immersi in un mare completamente diverso, lo sguardo di Sana si posò proprio su di lui. Pensò che quello fosse il primo momento della serata in cui aveva davvero la possibilità di osservare il suo viso senza avere la preoccupazione di occhi inquisitori addosso. E pensò anche che sì, in effetti era cresciuto, il suo viso da bambino aveva lasciato il posto a lineamenti più duri e marcati, ma i capelli erano rimasti gli stessi. Il colore era lo stesso, così come la lunghezza e il modo di portarli spettinati davanti al viso, e in quella posa concentrata, sembravano ancora più disordinati. 
Poi lui si voltò di scatto e lei si sorprese di quanto lo spazio in quella macchina fosse ridicolo.
«Stai bene Kurata?» le domandò in un tono stranito.
«Sì… sì, certo. Piuttosto, pensi che dovremo aspettare ancora molto?»
Lui si guardò nuovamente intorno, finché entrambi non furono abbagliati da due fari che lampeggiavano proprio davanti a loro.
«Non penso.» disse lui, infilandosi le chiavi della sua auto in tasca. Fece poi segno a Sana di seguirlo ed entrambi scesero dall’auto.
Sana si rese conto di quanto freddo faceva fuori solo quando quell’aria gelida le tagliò letteralmente il viso. Poi vide finalmente qualcuno uscire dall’auto appena giunta, e corrugò la fronte quando capì chi aveva davanti.
«Akito!» disse la ragazza. Sì, perché da quell’auto uscì fuori una ragazza con un lungo e pesante cappotto che le arrivava fino alle caviglie. Nonostante il pesante indumento e una grossa sciarpa avvolta al collo, Sana riconobbe subito l’infermiera che le aveva fatto visita durante il suo ricovero all’ospedale di Gomi.
E si domandò cosa ci facesse lì.
Poi il modo in cui lei abbracciò Akito, nonostante l’ingombrante indumento, non lasciarono dubbi all’interpretazione. Perfino ad una come Sana Kurata.
«Sarete morti di freddo. Come stai Sana?» le domandò, una volta che il suo sguardo si era posato proprio su di lei. Sana in quel momento si voltò verso la sua spalla e si accorse che la mano di quella ragazza proprio in quel punto. 
«Bene…»
«Eppure ti avevo detto di usare la mia auto stasera.»  si rivolse poi ad Akito, appoggiandogli una mano sul braccio, «Comunque andiamo, altrimenti vi congelerete sul serio.» concluse, avviandosi verso la sua auto, affiancata da Akito.
Sana ci mise qualche secondo prima di muoversi, poi appoggiandosi alla stampella si avviò verso l’auto della ragazza parcheggiata a pochi passi da loro.
«Mi sa che non ci siamo mai presentate. Io sono Fumiko Haruki.» disse mentre infilava le chiavi nell’auto. 
«Piacere, Sana Kurata.» disse, senza riflettere sul fatto che l’altra sapesse perfettamente il suo nome.
«Oh, lo so, lo so. Non ti ricordi, ci siamo viste in ospedale. Vedo che stai meglio.»
«Sì, sono quasi guarita ormai.» 
Fumiko era ormai partita e mentre chiacchierava con Sana, Akito si era infilato in un religioso silenzio.
«Avrei voluto essere dei vostri stasera, ma sai com’è… il lavoro.»
«Sì immagino.»
«Magari sarà per un’altra volta.» aggiunse con un sorriso.
Sana rispose allo stesso modo, senza però proferire parola. Si domandò quanto tempo ci volesse ancora per arrivare a casa sua perché per qualche motivo che non riusciva a capire, si sentiva completamente fuori luogo in quel posto.
Poi, finalmente, notò il vialetto di casa sua e si domandò come facesse quella ragazza a sapere dove abitava.
«Ora gira a destra.» disse poi Akito all’improvviso, finché l’auto non si fermò.
«Eccoci. Spero non sia troppo tardi per te. Akito, perché non l’accompagni?» disse Fumiko.
«Oh no, no. Non ce n’è bisogno. Sono praticamente arrivata.» si affrettò a dire lei, fiondandosi fuori dall’auto in pochissimi istanti.
Solo quando era ormai fuori, si voltò verso i due all’interno dell’auto.
«Grazie per il passaggio. Io vado.» disse in fretta, e stringendosi nel cappotto si avviò verso il cancello di casa sua. 
Era successo tutto così in fretta che non riusciva ancora a capire cosa stesse provando. C’era però una cosa che non riusciva a togliersi dalla testa, e quella cosa era proprio il nome di quella ragazza, Fumiko.
Si avviò lentamente verso la porta di ingresso di casa sua, e man mano che si allontanava dall’auto ormai già andata, si sentiva sempre più strana. Se ne avesse capito il motivo, avrebbe definito quella sensazione sotto il nome di delusione, ma proprio non riusciva a decifrare il suo stato d’animo.
Si infilò la mano libera in tasca, per proteggersi dal freddo, e sotto le dita sentì subito qualcosa. 
Dalla tasca del cappotto estrasse un cartoncino ruvido, che le era stato dato solo qualche ora prima. Con la punta dell’indice sfiorò le lettere in rilievo che formavano il nome di Jun Watanabe e immediatamente accanto il suo numero di cellulare.
 
 
 
 
 ** Immagino che in Corea si trovi di tutto, quindi questa è una mera licenza poetica.

*Note d'autrice*
Dopo anni, secoli e millenni sono di nuovo qui. Ci ho messo una vita a scrivere questo capitolo è vero, ma a mia discolpa posso dire che sono in Africa da due mesi e non ho avuto praticamente tempo di fare nient'altro. Approfitto del coprifuoco e alla clausura dovuto a manifestazioni per pubblicare.
Avrei voluto mettere una canzone come sempre, ma qui sta succedendo un po' un casino e il Governo ha tagliato l'accesso ad alcuni social. Spero che per il prossimo capitolo sarà tutto risolto.
Ma ciancio alle bande... che ve ne pare? Spero che questa sfilza di pippe mentali vi piaccia e che mi facciate sapere la vostra opinione.
Grazie a tutti quelli che ancora mi seguono, siete preziosi.
Tanti baci
Alex

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Capitolo 18
*** Capitolo 16 - Effetto domino ***


Capitolo 16 - Effetto domino
 
Sana aveva cercato di dormire quella notte. Si era girata e rigirata più volte in quelle ore buie, convinta che fosse la posizione scomoda in cui era o la costrizione della gamba fasciata ad impedirle di dormire.
Eppure, nonostante gli innumerevoli tentativi, non aveva chiuso occhio. Nemmeno per un’ora.
Durante quella notte insonne aveva pensato a moltissime cose. Si era chiesta quando avrebbe potuto togliere le bende e tornare a Seul, alla sua vita di sempre. Aveva pensato ai suoi impegni cancellati e al fatto che, molto probabilmente Ji-Won non si stava perdendo nemmeno una festa e si domandò se avesse combinato qualcosa con quell’attore che le piaceva tanto e di cui non ricordava nemmeno il nome. In effetti, il pensiero successivo ci concentrò sul numero dei giorni trascorsi da quando non sentiva la sua amica e quella constatazione le provocò una strana sensazione che non riuscì però a spiegarsi.
A quel punto si girò nuovamente nel letto, cambiando posizione. Tuttavia, sentì ben presto una fitta alla gamba fasciata e dovette tornare immediatamente alla posizione di prima. Pensò che quella gamba fasciata fosse davvero scomoda e che la stampella con cui andava in giro le impediva di fare qualsiasi momento e che, qualche ora prima, ci aveva messo davvero una vita a raggiungere la porta di casa sua, una volta uscita dalla macchina di Akito. Quindi, la sua mente andò proprio a ripescare gli eventi di quella serata in compagnia dei suoi vecchi compagni di classe, l’incontro con quel Jun Watanabe e il viaggio di ritorno insieme a lui, fino alla scoperta di Fumiko e della sua relazione con Hayama.
Sana a quel punto si rigirò lentamente dall’altra parte, sprofondando la faccia nel cuscino, finché non emise l’ennesimo gemito di dolore, causato dalla sua gamba malconcia.
«Che palle!» mugugnò, finché non voltò leggermente il viso verso la finestra della sua camera perché in quel momento un timido raggio di sole la stava avvisando dell’alba imminente.
Possibile che non fosse riuscita a chiudere occhio nemmeno per un minuto?
«Morirò, me lo sento.» disse lentamente, senza nemmeno preoccuparsi di scostare un ciuffo di capelli dagli occhi che le impedivano la vista completa dell’alba su Tokyo.
In fondo Gomi, che era il suo medico, le aveva detto di riposarsi il più possibile. Quindi Sana proprio non trovava alcun motivo per alzarsi e fare chissà cosa. Non aveva dormito, era stanca e voleva tornare a Seul. Cosa che non poteva comunque fare.
Fu in quel momento però che il suo cellulare vibrò insistente, proprio quando aveva deciso di non voler fare nulla in quella giornata, ma quel suono pedante sembrò quasi richiamarla alla realtà e al fatto che, nonostante tutto, aveva ancora degli impegni di lavoro a cui doveva dare conto, malgrado le sue condizioni di salute.
E proprio come un monito, il suo manager Ryu la stava chiamando in quell’esatto istante.
«Pronto…» disse lei, con la voce impastata.
«Sana, stavi dormendo?» domandò lui dall’altra parte, come un tono di voce quasi sbalordito. 
«Magari.» si lasciò sfuggire lei, ma Ryu non sembrò farci minimamente caso, «Tu, invece, non dormi mai?» gli chiese.
«Vorrei tanto credimi, ma mi hanno appena chiamato da Seul.»
Sana a quel punto pensò con un pizzico di sollievo che la malattia dell’insonnia doveva essere davvero comune, più di quanto credesse, e fece un debole sorriso.
«Non è un po’ presto? Che ore sono lì?» disse, appellandosi ad un fuso orario inesistente.
«Be’ Sana, mi dispiace dirtelo per telefono, ma sono convinto che in breve tempo la notizia farà il giro di internet, quindi prima è meglio è.»
«Che notizia Ryu?» domandò allora Sana. Questa volta la sua voce era cambiata, divenendo improvvisamente seria.
«Mi dispiace, ma ho appena sentito il produttore della serie per cui avevi girato il primo episodio a Seul prima di partire, e hanno deciso di sostituirti con un’altra attrice.» disse lui, con un tono da confessione. 
«Cosa? Ma perché?» domandò lei, che a quel punto si era alzata di scatto dal letto provando una tremenda fitta alla gamba.
«Be’, mi hanno detto che non potevano più aspettarti e che il lavoro doveva continuare, anche senza di te. Mi dispiace Sana, ho provato a dirgli che hai bisogno di riposo e che non dipende da noi, ma non c’è stato verso. D’altronde il contratto che hai firmato parla chiaro: non avrebbero tollerato a lungo la tua assenza.»
Sana non disse nulla, si lasciò semplicemente andare rilassando le spalle e facendo scivolare il cellulare lungo la sua guancia. In quel momento, inspiegabilmente, percepì un forte senso di vuoto dentro di sé e si domandò il motivo di quella sensazione così forte. Possibile che a scatenarla fosse stata quella notizia? In fondo aveva girato così tante serie in Corea e sapeva perfettamente come funzionava il mondo della televisione lì. I ritmi erano serrati e non si ammettevano errori o assenze. Mai.
Eppure, le sembrò di sentire le parole di Ryu che le scorrevano addosso e si sgretolavano sui palmi aperti delle mani fino a schiantarsi sulla sua gamba dolorante.
«Sana? Ci sei?»
«Sì, scusa. D’accordo, capisco. Ci rifaremo presto, me lo sento.» 
E Ryu si sentì quasi sollevato nel sentirle pronunciare quelle parole di speranza, perché pensò che probabilmente la notizia non doveva averla scioccata più di tanto.
«Ma certo. Vedrai che appena torneremo ci chiederanno scusa e verranno…»
«Scusami Ryu, ma ora vorrei riposare un po’.» disse lei, interrompendo il flusso di parole del suo manager. Riagganciò il telefono senza aspettare la sua risposta e si lasciò andare nuovamente sul letto. Aprì le notizie della prima pagina internet e scoprì che Ryu aveva ragione: ne stavano già parlando tutti. La notizia della sostituzione di Sana Kurata, tornata in Giappone dopo anni di vita a Seul, e della felicità di Park Ji-Won nell’accettare il ruolo dell’amica e collega era praticamente ovunque.
Nel leggere quelle parole, Sana provò qualcosa, ma non seppe proprio decifrare cosa. Era una sensazione diversa da quella di prima, non sentì un vuoto. Bensì provò quasi imbarazzo, ma non ne capiva il motivo. 
Continuò a leggere la notizia di Ji-Won e del suo nuovo ruolo da protagonista in una serie romantica ambientata durante gli anni del liceo senza prestare troppa attenzione alle parole che stava leggendo, tanto che dovette rileggere nuovamente la notizia. Poi, chiuse la pagina di internet e aprì la sua rubrica telefonica. Il nome di Ji-Won compariva proprio in cima alla lista, perché aveva provato a chiamarla proprio la sera precedente, appena tornata a casa dopo la serata con Tsuyoshi e gli altri. Ma, come tutti i precedenti tentativi, anche quella chiamata non aveva ricevuto risposta. 
Sana quindi andò dritta tra i messaggi inviati, ripescando la sua conversazione con Ji-Won in fondo alla lista. Tuttavia, una volta aperta esitò qualche istante, finché non chiuse tutte le finestre aperte sul suo cellulare e lo appoggiò sul comodino accanto al letto. E fu in quel momento che notò il biglietto da visita che le aveva dato Jun Watanabe la sera precedente. Ricordò poi perfettamente di averlo appoggiato proprio lì dopo averlo osservato per un bel po’ di tempo prima di infilarsi al letto. Lesse il suo nome seguito dal numero di cellulare, poi lo sguardo si spostò proprio sul logo dell’azienda informatica dove sia lui che Hayama lavoravano, la “Keywords Studios” di Shinjuku. Si domandò quale fosse il ruolo di Akito lì dentro, e come ci fosse finito a lavorare lì. Insomma, ricordava bene quanto lui fosse bravo alle superiori, soprattutto in matematica. Così bravo da dare addirittura ripetizioni ai suoi compagni di classe. 
A quel punto Sana alzò lo sguardo dal bigliettino da visita di Watanabe, e si mise involontariamente una mano sulle labbra dischiuse.
«Fumiko…» sussurrò, ricordando improvvisamente quel nome e dove lo aveva già sentito. Improvvisamente, grazie a quel bigliettino da visita, ricordò perfettamente chi fosse Fumiko, e ricordò anche la gelosia che aveva provato al tempo quando aveva scoperto che lei e Akito si conoscevano. Le venne da sorridere, pensando a quanto fosse bizzarra la vita. Poi, fece un profondo sospiro.
«Che fame!» disse all’improvviso, lasciando andare il bigliettino di Jun e trascinando la sua gamba fasciata oltre il bordo del letto. All’improvviso quasi dimenticò la stanchezza dovuta alla sua notte insonne che aveva lasciato il posto ad un’improvvisa e tremenda fame.
Con un po’ di fatica raggiunse il piano di sotto, dove trovò la signora Yazumi, la nuova domestica assunta da sua madre appena un anno prima, intenta a preparare la colazione.
«Buongiorno signora Yazumi, che profumo...» commentò lei. Ma dall’altra parte non ricevette risposta. Allora Sana si avvicinò leggermente a lei, ma sussultò sui suoi stessi passi quando sentì qualcuno afferrarle le braccia.
«Non risponde mai, perché è stata abituata così dai suoi vecchi datori di lavoro, che non le permettevano di rivolgere loro la parola.» disse la voce inconfondibile di sua madre. A quel punto Sana rilassò le spalle: «Mamma, mi hai spaventata!»
«Io ci provo a parlarci, ma è come se fosse un gatto randagio.» disse lei, ignorando sua figlia. 
In quel momento la signora Yazumi servì la colazione per entrambe, senza dire nemmeno una parola.
«Vedi, figliola?»
«Sì, vedo.» commentò Sana, osservando i movimenti sicuri ma silenziosi della domestica. Poi raggiunse sua madre al tavolo da pranzo, e nel vedere quella così grossa quantità di cibo le passò inspiegabilmente la fame. Allora decise di bere solo una tazza di tè verde. 
«Però è una cuoca straordinaria. Dovresti provare tutto.» commentò sua madre, agguantando una fetta di crostata alla marmellata. Sana non aveva alcun dubbio sulla veridicità di quelle parole, semplicemente il suo stomaco aveva cambiato idea.
«Lo so mamma. Ormai è una settimana che sono qui.»
«Una settimana? A me sembra un’eternità. Forse perché non ti sei fermata mai così a lungo.»
«Già, ma sai com’è.» disse Sana, indicando la sua gamba fasciata.
«Spero non ti faccia troppo male, perché mi piacerebbe che mi accompagnassi questa sera.»
«Accompagnarti dove?» fece lei, appoggiando la tazza di tè bollente sul tavolo. Sua madre allora la guardò per qualche istante, assottigliando lo sguardo.
«Non te l’avevo detto? Oggi ho la presentazione del mio nuovo libro in un posto molto importante.»
«Oh… non me lo ricordavo. Scusami, mamma.»
Sua madre a quel punto si alzò in piedi, lasciando la sua fetta di crostata a metà insieme ad una tazza di caffè ancora fumante.
«Ci passerà a prendere il mio editore oggi pomeriggio. Vestiti bene, andremo in un posto molto alla moda.» disse soltanto, dando le spalle a sua figlia e avviandosi verso il suo studio.
«Ma mamma, potresti spiegarti meglio?»
«Vestiti bene, mia cara.» riuscì a sentire da lontano Sana.
«Sì, ma dimmi almeno dove si trova questo posto alla moda.» replicò Sana tra sé e sé, perfettamente consapevole del fatto che ormai l’attenzione di sua madre era stata catturata chissà da cosa e che difficilmente la sua domanda avrebbe ricevuto una risposta.
Diede un altro sguardo al suo cellulare, ormai divenuto silenzioso, e poi finì la sua tazza di tè.
Quel pomeriggio in realtà non aveva nessun impegno, così come non lo avrebbe avuto il giorno successivo perché Ryu, che cercava disperatamente di trovarle un ingaggio lì in Giappone, non era riuscito a rimediarle nulla. O meglio, nulla che lei potesse fare considerando le condizioni della sua gamba. 
Le avevano offerto un paio di pubblicità, ma erano tutte troppo impegnative. Nonostante il disappunto di Sana, Ryu aveva dovuto rifiutare tutte le offerte. Quindi, non aveva proprio niente di meglio da fare se non decidere cosa indossare per la serata di presentazione del libro insieme a sua madre.
«Ma sì, questo andrà bene…» disse tra sé e sé, esplorando un semplice vestito rosa, leggero e a maniche lunghe. Nonostante fossero in ottobre, la temperatura era ancora abbastanza calda.  
Allora Sana lo indossò, aggiungendo poi una giacca leggera, poi afferrò la sua stampella e scese al piano di sotto dove trovò sua madre ad aspettarla seduta sul divano del soggiorno.
«Vado bene così?» le domandò, indicando il suo abbigliamento.
«Ma certo tesoro, stai benissimo.»
«Oh be’, mi ero preoccupata quando hai detto di vestirmi bene sai.»
«Oh ma figurati, non hai idea della gente come si concia qui a Tokyo.» disse la madre, avviandosi poi verso la porta d’ingresso.
«Il tuo editor è arrivato?»
«Da un pezzo!»
«Ma come?» replicò Sana, che cercò di accelerare il passo dietro sua madre, la quale però non si scompose più di tanto. E allora Sana pensò che non fosse cambiata affatto in quegli anni.
E ad attenderle fuori il vialetto di casa loro c’era un uomo sulla cinquantina, vestito di tutto punto e appoggiato a quella che doveva essere certamente la sua auto.
«Signora Kurata… finalmente.» le disse, con il tono della voce un po’ annoiato. Poi volse il suo viso verso Sana, che camminava dietro sua madre.
«Oh, lei deve essere la signorina Sana Kurata. Venga, lasci che le dia una mano.» si affrettò a dirle. 
«Non si preoccupi, posso…»
«Non lo dica nemmeno per scherzo.» si precipitò lui verso Sana, afferrandola per un braccio e aiutandola a raggiungere la sua auto.
«No, davvero non ce n’è bisogno…»
«L’anno scorso mi sono rotto una gamba e sono stato a letto per un mese. Dopo non riuscivo a fare proprio niente da solo, quindi la capisco e la aiuto volentieri.» raccontò l’uomo, ormai giunti alla sua auto nella quale la signora Kurata si era già messa comoda da un pezzo.
Sana ascoltò le parole dell’editor di sua madre sperando di non fare la sua stessa fine, poi gli sorrise, leggermente inquieta, e si sedette accanto a lei nel sedile posteriore.
Durante il tragitto in macchina, che durò davvero poco, Sana diede un’occhiata al suo cellulare un paio di volte. Aprì la sua vecchia conversazione con Ji-Won, scorrendo con l’indice gli ultimi messaggi che aveva ricevuto, risalenti ormai a più di una settimana prima. In quel momento il cellulare le vibrò fra le mani perché le era appena arrivato un messaggio di Lee in cui le chiedeva il numero della donna che le puliva l’appartamento una volta alla settimana.
“Vorrei che fosse tutto impeccabile per quando tornerai.” Recitava così il messaggio.
Sana sbuffò, senza nemmeno sapere il perché di quel gesto che richiamò l’attenzione di sua madre, che le rivolse subito un’occhiata.
«Non si farà tardi e non ci sarà nessuno della stampa. È una serata che mi sono offerta di fare in collaborazione con un ente benefico.»
«Lo so, mamma.» le disse soltanto, infilando il cellulare nella borsa senza preoccuparsi di rispondere a quel messaggio. In fondo sapeva che il motivo per cui non aveva battuto ciglio davanti all’invito di sua madre era perché di lei poteva fidarsi, e non c’era nemmeno bisogno di chiederglielo.
In quel momento però, sentì nuovamente quella sensazione di vuoto che aveva provato proprio quella mattina, eppure continuava a non riuscire a capirne il motivo. E di nuovo il suo cellulare le vibrò tra le mani. 
Sana si morse un labbro e aspettò qualche secondo prima di controllare l’origine di quella vibrazione: era sicura che fosse un altro messaggio di Lee e si rese conto di non avere nessuna voglia di rispondergli, né tantomeno leggere qualche altra sua richiesta. Poi però, subito dopo, decise che forse c’era la remota possibilità che si sbagliasse, allora accese lo schermo, ma con suo stupore scoprì che non era affatto Lee. Qualcuno l’aveva appena aggiunta ad un gruppo su Lime*.
Aprì la conversazione e scoprì che era stato Tsuyoshi Sasaki ad averla aggiunta ad una chat di gruppo chiamata “Vecchi amici”.
Sana sorrise, perché quel nome pensò che fosse adatto a loro solo se l’avessero esclusa all’istante da lì. Poi aprì la chat e selezionò il tasto che le avrebbe rivelato i membri di quel gruppo. Naturalmente l’unico numero che conosceva era quello di Tsuyoshi, ma riuscì a riconoscere gli altri dai loro nomi memorizzati su Lime. C’era Gomi e Hisae naturalmente, poi Tsuyoshi e infine Akito.
Sana cliccò proprio sul numero di Hayama, ma con un pizzico di delusione scoprì che non aveva nessuna immagine del profilo.
«Oh, siamo arrivate.» disse sua madre all’improvviso, allungando la testa verso l’ingresso di un lussuoso albergo di Jinbōchō. Sana a quel punto distolse l’attenzione dal suo cellulare, riponendolo nella borsa.
Il suo editor, il signor Harumi, aveva aperto la porta per entrambe e a Sana venne da sorridere perché quel tizio, più che un editor, le sembrò un autista e forse sua madre era proprio in quel modo che lo trattava. 
«La presentazione inizierà tra un quarto d’ora, dovremmo sbrigarci.» disse lui alla signora Misako che, in effetti, accelerò il passo verso l’ascensore che condusse tutti loro al decimo piano dell’albergo. Era proprio lì, nella lussuosa sala conferenze, addobbata per l’occasione con un lungo tavolo pieno di cibo e bibite, che si sarebbe svolta la presentazione dell’ultimo libro di Misako Kurata, “Le sue maschere.”
Sana si addentrò nella grande sala, camminando lentamente tra la gente, per raggiungere un punto non troppo lontano da cui assistere alla presentazione del libro di sua madre. Ricordava perfettamente quando gliene aveva parlato, più o meno un anno prima e a quel tempo quel racconto abbozzato, la cui trama era ancora tutta nella testa della scrittrice, le sembrò così folle da piacerle subito.
Appoggiò la stampella alla parete dietro di lei e si sistemò lì, in piedi, in un angolo non troppo lontano dal tavolo del buffet, ma abbastanza dal palco su cui sua madre avrebbe tenuto la sua intervista. Da quando era entrata in quella grande sala nessuno le aveva rivolto occhiate strane, ma Sana pensò che la prudenza non fosse mai troppa e che era meglio starsene un po’ in disparte. Nonostante quello che le aveva detto sua madre.
In fondo la notizia del suo apparente abbandono delle scene televisive in Corea si stava rapidamente diffondendo ed era sicura che prima o poi avrebbe dovuto rilasciare qualche intervista. Quindi, incrociò le braccia sul petto e aspettò che la folla si sedesse nell’esatto istante in cui sua madre comparve sul palco, tenendo tra le mani un microfono scuro. 
Si guardò un’ultima volta intorno, cercando di realizzare il numero di persone presenti a quell’evento, ma nonostante la stanza non fosse enorme, era comunque gremita di gente. Tuttavia, il suo posto in disparte le permise comunque di scorgere un viso familiare che proprio in quel momento aveva incrociato il suo sguardo, sorridendole.
Quando le fu abbastanza vicino, Sana pensò che non avrebbe mai potuto confondersi, perché aveva visto quella faccia per la prima volta soltanto poche ore prima.
«Immagino di non dover essere più di tanto sorpreso, visto che sei la figlia dell’autrice del libro di stasera. Sciocco io a non averci pensato subito.» disse Jun Watanabe, quando le fu praticamente accanto.
«Già, peccato che non possa dire la stessa cosa. Sono sorpresa eccome.» rispose lei afferrando la stampella appoggiata alla parete dietro di lei.
«Be’, in effetti in una città così grande quante probabilità ci sono di incontrare la stessa persona dopo meno di ventiquattro ore dalla prima volta in ci si conosce?»
«Non saprei, poche? Immagino.»
«Molto poche, e io con i numeri ci so fare.»
Sana allora pensò immediatamente al fatto che quel tipo lavorava in un’azienda informatica, la stessa azienda in cui lavorava Hayama.
«Immagino. Io invece sono una vera frana, mi dispiace.» disse lei, con un sorriso imbarazzato.
«Ad ognuno il suo.»
«E cosa ci fai qui? Sei un fan di mia madre?»
«Oh no, no.» disse come se si stesse giustificando di qualcosa che Sana comunque non riusciva a capire. Poi, rendendosi conto del tono, si grattò leggermente la fronte con le dita di una mano.
«Cioè questo libro l’ho letto, e mi è anche piaciuto. Ma non sono qui per questo, sto dando una mano a mio padre. Lui lavora in questo hotel e ha organizzato l’evento di stasera.»
«Oh, capisco. Quindi, stai lavorando?»
«Più o meno: mi assicuro che non succedano casini.» disse sbrigativo, poi si spostò di qualche metro verso il tavolo del buffet e raccolse due bicchieri pieni, porgendone uno a Sana.
«Non dovresti aspettare la fine della presentazione?»
«Tranquilla, ho un canale preferenziale, ricordi?» le disse, strizzandole un occhio. Allora Sana accennò un sorriso, afferrando il bicchiere ancora a mezz’aria tra lei e Jun e lo portò alle labbra.
Poi entrambi si voltarono verso il palco quando sentirono il battito di mani della folla.
«Mi premeva dire una cosa con questo libro.» disse Misako Kurata dall’alto del palco su cui era seduta. Aveva un tono serio, una veste in cui Sana l’aveva vista raramente.
«Nonostante l’indossare una maschera, nella vita, sia quasi sempre la strada più facile, non dobbiamo dimenticare mai le conseguenze che questa scelta comporta. A volte, sfilarsi la maschera di dosso, diventa pesante come un macigno.» concluse Misako.
Sana rimase in silenzio, con il bicchiere pieno tra le dita. Avrebbe voluto accompagnare anche lei l’applauso che aveva seguito l’ultimo discorso di sua madre, ma per qualche motivo non ci riuscì. Probabilmente, pensò lei, applaudire, tenere un bicchiere in una mano e la stampella in un’altra le avrebbero reso l’azione impossibile. Allora ci aveva semplicemente rinunciato.
«Saggia tua madre.» sentì dire a Jun all’improvviso, e quelle parole la ricondussero nuovamente in quella sala piena di gente.
«Già...»
«Comunque, parlando d’altro. Sono contento che ci siamo incontrati per caso. Speravo in una tua chiamata, ma avevo già deciso che avrei chiesto il tuo numero ad Hayama, sai?»
A quel nome, Sana sobbalzò visibilmente. Se avesse avuto il bicchiere tra le labbra, avrebbe certamente riversato tutto il suo contenuto in faccia a qualcuno.
«Hayama?»
«Sì, Hayama. Il mio collega e tuo amico… siete amici, no?» domandò lui, leggermente confuso.
«Amici, sì… vecchi amici.» e di colpo le venne da sorridere ripensando proprio al nome che Tsuyoshi aveva dato a quella chat di gruppo in cui era stata aggiunta solo poco prima.
«Appunto. Ma non ce n’è stato bisogno.»
«Sei diretto tu, eh?» commentò Sana, con un pizzico di disagio. Lui invece si lasciò sfuggire una risatina divertita.
«Pensavo si fosse capito anche ieri sera…» aggiunse lui, in tono tranquillo.  
Sana si sentì ancora più a disagio in quel momento; quindi, decise di affondare il viso nel bicchiere di vino frizzante che le aveva portato Jun. Poi qualcosa vibrò nella sua borsa, e pensò che quella potesse essere una scusa perfetta per distogliere l’attenzione da Jun e dal suo essere così diretto.
Si accorse che le era appena arrivato un messaggio nella chat di gruppo “Vecchi amici”.
“Ragazzi ho aggiunto Sana al gruppo! Così possiamo organizzare un’altra uscita tutti insieme” scriveva Tsuyoshi. A quel messaggio ne seguì un altro di Gomi: “Ehi Kurata! Io ci sono sempre per una bevuta… quando volete.”
Sana si sentì per un istante in una bolla fuori dal mondo. Non riusciva a decifrare le sue emozioni, ma per un momento le sembrò di provare un certo fermento all’idea di quei messaggi. Poi però tutto tacque, fatta eccezione per un pollice all’insù inviato da Hisae.
Si domandò se fosse il caso di rispondere, e soprattutto cosa dire. Inoltre, si domandò il motivo del disagio che stava provando. A quel punto allora decise che ci avrebbe pensato dopo, e infilò repentinamente il cellulare nella borsa prima di continuare a bere il suo vino frizzante.
«Tutto ok?» le domandò Jun.
«Come?»
«Tutto ok? Mi sembravi su un altro pianeta.» disse con un sorriso titubante. 
«Oh, sì sì. Stavo solo leggendo una cosa.»
«Deve essere stata una cosa importante. Ad ogni modo, ti chiedo scusa ma devo raggiungere mio padre al piano di sopra. Sono contento però di averti rivista.» disse lui, cogliendo Sana alla sprovvista.
«Oh, d’accordo… sono contenta anche io.» disse lei, senza chiedersi se lo fosse sul serio o meno.
«Allora ci vediamo, Sana Kurata. Spero presto…» concluse in fretta con un sorriso, appoggiando poi il suo bicchiere vuoto sul bancone del buffet. Così in fretta che Sana non riuscì nemmeno a replicare, perché in pochi istanti Jun Watanabe si era letteralmente dileguato. 
Sana aggrottò le sopracciglia e continuò a guardare nella direzione in cui Jun era andato, e si rese conto che insieme a lui era sparita anche quella sensazione di strano disagio che stava provando poco prima. Tuttavia, si domandò anche perché mai fare tutta quella scena se poi, alla fine, il numero di telefono non glielo aveva nemmeno chiesto.
«Mmm…» si lasciò uscire involontariamente, continuando a volgere l’attenzione verso la grande porta che Jun aveva attraversato. Ma nonostante il tempo, lui non tornò più nella sala in cui Misako stava presentando il suo libro, e Sana sorprese se stessa a guardare sempre nella stessa direzione più di quanto si fosse aspettata.
Eppure, lui non l’aveva messa affatto a suo agio, anzi. 
Quando finalmente lei e sua madre tornarono a casa, dopo che quest’ultima aveva rifiutato più di un invito a cena da parte di editor e giornalisti, Sana finalmente sentì le spalle rilassarsi un po’. Tuttavia, nella solitudine della sua stanza, quella sera strana di fine ottobre, ricominciò a pensare alla sua vita, alla città che l’aveva ospitata fino a meno di un mese prima e al lavoro che aveva appena perso.
Si lasciò andare sul grande letto a baldacchino della sua vecchia camera di bambina e si perse nel bianco alienante del soffitto sopra di lei.
«Eppure mi piaceva…» sussurrò tra se e se, appoggiando il dorso della mano sulla fronte.
Rimase lì in quella posizione per un tempo indefinito, finché non fu sopraffatta dalla stanchezza della notte insonne trascorsa.
 
*** 

Era passata una settimana da quando Sana aveva perso il lavoro in Corea, ma Ji-Won non l’aveva mai richiamata, né tantomeno le aveva inviato un messaggio. Aveva pensato molte volte di contattarla lei per prima, ma per un motivo che non riusciva a capire non ci era mai riuscita. A volte si chiedeva come stessero andando le riprese, dicendo a se stessa che il mondo dello spettacolo funzionava così: correva veloce, e se ti fermavi solo un attimo per un infortunio, non si sarebbe di certo fermato anche lui.
Era trascorsa una settimana anche da quando era stata alla presentazione del libro di sua madre in quell’hotel di lusso in cui aveva incontrato Jun Watanabe. Ma nonostante le sue parole dirette, non lo aveva mai più rivisto né tantomeno sentito. Per qualche ragione, aveva preso tra le dita il suo biglietto da visita più volte in quei giorni, ma anche in quell’occasione non aveva fatto nulla.
Erano trascorsi sette giorni esatti da quando Tsuyoshi aveva creato quella chat di gruppo chiamata “Vecchi amici”, ma da quel messaggio iniziale in cui lui stesso invitava gli altri a dare a Sana il benvenuto in quel gruppo, promettendo un’uscita tutti insieme, non era successo più nulla. Nessuno aveva scritto niente e Sana, un paio di volte, aveva pensato di proporre lei stessa un’uscita, ma poi aveva subito pensato al modo in cui Hisae le si era rivolta, alla non partecipazione di Akito a quei due messaggi scritti, e aveva cambiato idea all’istante.
Era passata una settimana in cui aveva pensato più e più volte di voler tornare a Seul, ma allo stesso tempo se ripensava a se stessa in quel posto le veniva una strana nausea. 
Allora guardò verso Ryu che guidava accanto a lei, mentre l’auto scura del suo agente imboccava l’uscita verso l’ospedale universitario di Shinjuku.
«Se oggi ti tolgono il gesso, con un po’ di fortuna saremo di ritorno a Seul prima di Natale.»
«Già…» rispose lei, chiedendosi cosa stesse sperando in cuor suo.
«Non devi essere triste Sana. Lo so che perdere quella parte è stato un duro colpo, ma sai com’è il mondo della televisione. Sono sicuro che non appena tornerai a Seul, pioveranno offerte di lavoro come se fosse la stagione dei monsoni.» disse lui ridacchiando.
«Dici? È che mi annoio così tanto a non far nulla. Forse potrei fare qualche lavoretto qui… che ne pensi?»
«Be’, ci avevo già pensato. Io però credo sia meglio far calmare le acque. Sai, fin quando non sarai tu a rilasciare un’intervista e a spiegare che non te ne sei andata per un capriccio, nessuno saprà come stanno le cose e i produttori qui sono abbastanza suscettibili all’opinione della gente.»
«Pensano che sia stata io ad abbandonare la serie?» domandò lei stranita.
«No, ma potrebbero pensarlo se non li smentisci.»
«Be’, anche se fosse? Che gliene importa alla gente?» domandò lei, con un tono infastidito.
«Ricordati che sei un personaggio pubblico, e l’opinione della gente conta più di ogni altra cosa.»
«Lo so, ma io…» solo che le parole le si fermarono in gola. Avrebbe voluto dire che lei non c’entrava nulla con quella decisione, ma non lo fece. Pensò che Ryu avesse ragione, solo che rilasciare un’intervista in quel momento le sembrava una cosa così lontana. Per qualche assurdo motivo, da quando era tornata a Tokyo si sentiva una specie di estranea a tutto, e quel mondo dello spettacolo che aveva frequentato da anni, e che era ormai il suo pane quotidiano, le sembrava invece lontano anni luce. Eppure, come faceva a non esserci più dentro? Cosa avrebbe fatto?
L’auto di Ryu imboccò una strada laterale, finché non entrò nel parcheggio sotterraneo dell’ospedale.
«Stai tranquilla, vedrai che oggi ti toglieranno quelle bende, farai un po’ di riabilitazione e ce ne torneremo a casa. Anzi, mi impegnerò affinché tu possa farla a Seul…»
«D’accordo Ryu.» disse lei assecondandolo. Poi afferrò la sua stampella e uscì dall’auto del suo manager, dirigendosi verso l’ascensore del parcheggio che l’avrebbe condotta al piano dell’ospedale.
Gomi le aveva fissato quell’appuntamento una decina di giorni prima, dicendole che l’avrebbe ricevuta quel pomeriggio al piano di medicina generale. Allora Sana si ritrovò al piano dell’accoglienza, finché non trovò la reception con quattro impiegati, pronti a smistare i pazienti in visita.
«Salve, devo vedere il dottor Gomi.» disse, con una punta di titubanza. Chiamare il suo vecchio compagno di classe dalla testa calda dottore la faceva ancora sorridere. 
«Certo, mi faccia controllare. Può dirmi il suo nome per favore?» disse la ragazza dall’altra parte del bancone.
«Sono Sana Kurata.»
A quel punto la ragazza la osservò per qualche istante poi, presa da una sorta di imbarazzo, abbassò subito lo sguardo, concentrandosi sullo schermo del computer davanti al suo naso. Sana corrugò la fronte, finché la ragazza non le rivolse uno strano sorriso.
«Mi dispiace, ma deve aspettare un po’ perché il dottore ora è impegnato con un altro paziente.»
«Oh, sul serio? Ma lui…» disse lei, pensando al fatto che Gomi le aveva detto di presentarsi lì proprio a quell’ora.
«Non ci vorrà molto. Può accomodarsi nella sala d’attesa alle sue spalle.» le disse, indicando un punto proprio dietro di lei.
«D’accordo.» disse Sana arrendevole. A quel punto fece qualche passo verso la sala d’attesa, ma riuscì chiaramente a sentire uno strano mormorio alle sue spalle. Allora si voltò, scoprendo la ragazza dell’accoglienza che sussurrava qualcosa a bassa voce alla sua collega, seduta accanto a lei. Quest’ultima fissò Sana per un istante, finché non distolse lo sguardo quando lei corrugò nuovamente la fronte. Si domandò cosa stesse succedendo, tuttavia le due ragazze si ricomposero tornando ai loro posti, con i visi incollati allo schermo dei loro computer.
Sana allora si avviò verso la sala d’attesa e quando vi entrò cercò un posto libero con lo sguardo. Esaminò ogni punto di quella grossa stanza piena di gente, sulle cui teste pesavano dei grossi monitor su cui venivano annunciati i turni dei pazienti. Era quasi piena, finché non scorse un paio di sedie libere in fondo alla stanza, davanti ad una grossa vetrata che dava sui grattacieli di Shijuku. 
Mentre raggiungeva quei posti, non riuscì a fare a meno di sentire gli occhi delle persone che la seguivano, come se stesse facendo una sfilata, nonostante la stampella e la gamba fasciata non le davano un’aria chissà quanto elegante. Eppure, sentiva i loro sguardi proprio dietro alla schiena. Poi riuscì a sentire una ragazza che diceva alla persona accanto a lei che quella era Sana Kurata, e che ne era assolutamente sicura. 
Sana si sentì improvvisamente a disagio, e ripensò di colpo alle parole di Ryu.
Quando raggiunse i due posti liberi però, il suo cuore sussultò all’istante quando si accorse della persona che occupava una delle sedie in fondo alla sala. Lui non l’aveva vista, perché aveva la testa china sul cellulare ed era impegnato a leggere chissà cosa, a giudicare dal suo viso concentrato. Ma lei lo aveva visto eccome.
«Hayama…» sussurrò stupita. In quel momento l’unica cosa che riuscì a pensare fu di andare via, ma nonostante le era sembrato di aver sussurrato il suo nome con un leggero filo di voce, lui doveva averla sentita perché di colpo alzò lo sguardo verso di lei.
«Kurata?»
Pronunciò il suo nome con un tono di sorpresa. Poi abbassò lo sguardo sulla sua gamba fasciata.
«Ciao… Hayama.» disse di nuovo, avvicinandosi a lui. A quel punto Akito si voltò verso il posto vuoto accanto a lui e recuperò la sua giacca, liberandolo per lei.
«Grazie.» replicò Sana, sedendosi goffamente accanto a lui. Gli era così vicino che riuscì a sentire anche il suo profumo, e si domandò se fosse lo stesso della sera in cui l’aveva riaccompagnata in macchina.
«Sei qui per Gomi?»
«Già, ma a quanto pare è impegnato. Eppure, mi aveva detto di venire a quest’ora.»
«E’ un medico, è normale che non se ne stia con le mani in mano.» disse lui in tono tranquillo. Aveva smesso di guardare il cellulare e Sana si voltò leggermente verso di lui.
«Lo spero per la mia gamba.» replicò con un sorriso nervoso. Poi Hayama la scrutò per qualche istante in più, finché non corrugò la fronte.
«Pensavo, l’ultima volta che ci siamo visti eri nella stessa situazione.» disse Akito, cogliendo Sana completamente alla sprovvista. Per qualche ragione assurda, pensava che lui avesse semplicemente dimenticato ogni cosa e che fosse un Akito Hayama diverso. Una nuova persona, senza i ricordi legati a Sana Kurata. 
Sana abbassò lo sguardo e si guardò la gamba.
«Questo la dice lunga sulle mie abilità motorie…» disse sorridendo, cercando di sembrare divertente e nascondere l’imbarazzo.
«Mi sorprende che tu sia arrivata integra fino ad ora, in effetti.»
Akito disse quelle parole mantenendo un’espressione neutrale, ma Sana ricordava bene il suo strano senso dell’umorismo e si sentì finalmente a suo agio, dopo un tempo incredibilmente lungo.
«Be’ anche tu non sei cambiato dall’ultima volta.» gli disse, in tono di sfida. Ma lui si voltò e fissò lo sguardo su di lei per qualche istante.
«Dici?»
«Be’… sì, nel senso che le tue battute fanno sempre pena.» 
«Sarà, ma mi sembrava un sorriso quello lì.» disse lui, continuando a mantenere la stessa espressione seria. Allora Sana non riuscì più a reggere il suo sguardo, e tornò quindi alla sua gamba.
«Tu invece cos’hai? Qualche problema al cervello per caso?»
«Non sono qui per vedere un dottore.»
«Oh, quindi l’ospedale è il posto in cui passi il tuo tempo libero?»
«Più o meno. Sto aspettando una persona.»
A quel punto Sana collegò Akito al fatto che Fumiko, la sua ragazza, lavorasse proprio in quell’ospedale. E di colpo si sentì incredibilmente stupida.
«Ma certo, sei qui per Fumiko.»
«Sai, lavoro proprio qui vicino…»
Sana pensò che quello fosse il momento giusto per alzarsi e levare le tende. Non aveva nessuna voglia di aspettare lì insieme a lui l’arrivo della sua ragazza, quindi si voltò per afferrare la stampella che aveva appoggiato sulla sedia vuota accanto a lei, ma in quel momento furono raggiunti da un gruppo di tre ragazze che non aveva mai visto in vita sua.
Le tre ragazze si misero proprio davanti ai due e Akito le guardò con aria stranita.
«Sei Sana Kurata vero?» disse una delle tre, quella più alta.
«S-sì.» rispose Sana, pensando che probabilmente quelle ragazze erano delle fan e che le avrebbero chiesto solo un autografo. A quel punto sfoggiò loro un sorriso, che però non fu affatto ricambiato.
«È vero quello che c’è scritto qui sopra?» le domandò, mostrandole lo schermo del suo cellulare dove c’era una sua foto legata ad un articolo in cui si parlava del suo abbandono alle scene.
«Be’ sì. Vedi, mi sono infortunata, quindi…»
«Quindi non reciterai più? Aspettavamo con ansia questa serie.»
«No, purtroppo in questa non ci sarò, ma Ji-Won è bravissima.»
«Be’ non ci sembra giusto. Dovresti esserci tu. Poi per che cosa?» disse la ragazza, indicando la gamba di Sana. 
A quel punto Akito si alzò in piedi afferrando la sua giacca con una mano.
«Perché non la lasciate in pace?»
«Scusa, è tu chi saresti?» 
«Zitta Eriko, magari è il suo fidanzato.» le sussurrò l’altra di colpo.
«Ma Sana sta insieme a Lee, te lo sei scordato?»
Sana in quel momento avrebbe voluto che gli dèi degli inferi avessero aperto una botola per trascinarla giù con loro e sparire per sempre dalla vista di Hayama. Come facevano quelle ragazze a sapere della sua relazione con Lee?
Hayama però non sembrò affatto turbato, al contrario la prese per mano e la attirò a sé facendole segno di seguirlo.
«Forse dovremmo scattare loro una foto.» disse la più alta. Ma in quel momento Akito la fulminò con uno sguardo: «Forse invece dovreste togliervi dai piedi.» 
E il suo tono di voce fu così duro che le ragazze non trovarono il modo di replicare. Sembrava essere tornato l’Akito Hayama che Sana aveva conosciuto alle elementari, e lei si sentì quasi sollevata nel constatare che in qualche modo riusciva a riconoscerlo ancora così bene, nonostante tutto. Poi si sentì trascinare verso la porta che dava alle scale di emergenza.
«Ti accompagno da Gomi.» disse lui, continuando a tenere la mano di Sana stretta nella sua. Quella stretta però a lei sembrò così pesante che non riuscì a reggerla a lungo, così appena furono entrambi fuori dalla sala e in disparte sul piano delle scale antincendio, Sana lasciò la mano di Akito.
«Non preoccuparti, non ce n’è bisogno. Anzi, ti chiedo scusa, ma non pensavo che anche qui in Giappone ci fossero persone che mi seguono con tanto ardore.» si giustificò lei, con un sorriso imbarazzato. 
«Be’, ultimatene si legge solo di te.» disse alzando il cellulare in aria. Allora Sana alzò le sopracciglia, rendendosi conto con sorpresa che anche Akito aveva letto la notizia riguardo il suo lavoro.
«Già, è una bella patata da pelare.»
«Gatta, Kurata.» la corresse lui. Poi le tese nuovamente la mano: «Andiamo?»
Sana lo guardò per qualche istante, immobile, in quel minuscolo vano dalle pareti bianche. Non si era affatto resa conto che in quegli anni aveva messo da parte così tante cose da averle semplicemente dimenticate. In tutto quel tempo aveva deciso di scindere alcune parti di se stessa, ma non aveva fatto i conti con la difficoltà di ritrovare quelle parti quando ormai l’altra metà era così radicata. E in quel momento rivedere Hayama che aveva capito il suo disagio, senza nemmeno averglielo chiesto, aveva scatenato in lei così tante sensazioni assopite che si sentì di colpo incredibilmente sciocca.
Possibile che non riuscisse a fare nulla per evitare di sentirsi in quel modo?
In quel momento Akito la guardò e sollevò entrambe le sopracciglia, in un’espressione di sorpresa. Sana non capì subito, ma poi sentì le sue guance bagnate raffreddarsi. Si toccò il viso con la punta delle dita e si rese conto solo in quel momento che stava piangendo. Probabilmente la sensazione di imbarazzo aumentò, perché improvvisamente si sentì un nodo in gola talmente stretto da avere difficoltà a respirare.
«Io…» riuscì a dire, finché Akito non si avvicinò a lei di qualche passo.
«Io…» ripeté mettendosi una mano sul viso.
«Kurata…»
«Io… non ce la faccio più.» riuscì a dire, prima che il nodo in gola si sciogliesse, impedendole di parlare perché finalmente, si sentì sopraffatta da qualcosa. Hayama allora le appoggiò una mano sulla spalla, stringendo appena la presa con le dita. A quel punto Sana si aggrappò con una mano al suo braccio, stringendo la presa a sua volta.
Per qualche minuto in quelle scale si sentì solo il suono del suo pianto strozzato, perché lei stava cercando in tutti i modi di trattenersi, ma nonostante tutto proprio non ci riusciva perché sentiva che qualcosa le avrebbe impedito di respirare per sempre se non avesse pianto tutte le sue lacrime.
Mentre le sue lacrime continuavano a sgorgare sotto lo sguardo confuso di Akito, due infermiere comparvero alle loro spalle e si precipitarono verso Sana.
«Cosa succede? Si è fatta male?»
Sana le guardò frastornata, e si sentì di colpo persa ora che la sua mano non era più aggrappata al braccio di Akito. Tuttavia, non riuscì a parlare subito, quindi intervenne Hayama.
«Sì, la stavo accompagnando al piano di sopra. Ha una visita con Gomi Shinichi.»
A quel punto le infermiere guardarono la gamba fasciata di Sana, poi tornarono con lo sguardo ad Hayama.
«Mmm, d’accordo. Ma ditelo al dottore che sente così male.»
Sana a quel punto si asciugò le lacrime in fretta, aggiustandosi poi i capelli e cercando di tornare ad uno stato presentabile.
«Sì, glielo dirò.» rispose lei, con la voce rotta. 
Guardò le infermiere andare via, ma non aveva il coraggio di posare il suo sguardo su Hayama perché ora che le lacrime avevano smesso di offuscarle la mente, si sentì tremendamente in imbarazzo. E ringraziò mentalmente la vibrazione del suo cellulare, che usò come scusa per guardare per l’ennesima volta altrove.
Scoprì che le era appena arrivato un messaggio, e sgranò gli occhi quando lo lesse, decisamente sorpresa.
“Ti avevo detto che in qualche modo avrei avuto il tuo numero. Ciao, Sana Kurata.” 
A quel punto Sana si voltò verso Hayama, perché molto probabilmente era stato lui a dare il suo contatto a Jun Watanabe. Allora serrò le labbra e pensò che fosse davvero arrivato il momento del suo appuntamento con Gomi.



* app di messaggistica molto usata in Giappone

*Note d'autrice*

Eccomi di ritorno dopo una lunga (manco tanto) assenza. Ci eravamo lasciati con me in Africa e senza social, e ora ci ritroviamo con me in Inghilterra e senza una vita social xD Scherzi a parte, diciamo che il tempo, il freddo e il lavoro aiutano poco in questo.
Ho finalmente aggiunto una cazone che amo, parte della colonna sonora di un anime che adoro, Death Note. Non vedevo l'ora di piazzarvela da qualche parte, quindi beccateve sta Solitude :D.
Dunque, non commenterò troppo questo capitolo perché lascio la parola a voi. Dico solo una cosa, anzi vi chiedo: ma sto Jun? Un po' psicolabile? Che ne pensate? Sono curiosa di leggere i vostri commenti, e approfitto come sempre per ringraziarvi tutti perché dopo quasi tre anni e un EFP ormai quasi vuoto, la vostra presenza in questa storia non solo è fondamentale, ma mi riempie come sempre il corazon di gioia.
Un bacio

Alex

 

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Capitolo 19
*** Capitolo 17 - Una maschera alla volta ***


Capitolo 17

Una maschera alla volta
 
«D’accordo Hayama, io adesso devo proprio andare.» disse Sana infilandosi il cellulare in tasca. Senza nemmeno rendersene conto però, con il dorso della mano si asciugò un’ultima lacrima dal viso.
«Ti accompagno.» replicò lui, senza aggiungere altro. Sana però aggrottò la fronte.
«Ti ringrazio, ma non ce n’è bisogno. Anzi, hai già fatto abbastanza.»
Ma Akito sembrò non ascoltarle nemmeno quelle parole, e si avviò verso le scale d’emergenza che conducevano ai piani superiori dell’ospedale. Non le rispose affatto, si limitò soltanto ad incamminarsi verso il reparto in cui lavorava Gomi.
«Sul serio, non c’è alcun bisogno che mi segui.» disse Sana con un tono deciso, ma allo stesso tempo ancora traballante. Lentamente, anche lei accompagnata dalla sua stampella, si stava avviando verso i piani superiori, facendo uno sforzo enorme per raggiungere e cercare di superare il passo di Akito. Quest’ultimo la guardò confuso.
«Kurata? Ma che stai facendo?»
«Vado da Gomi, Hayama. Non si vede?»
Akito però non le rispose, e Sana a quel punto si fermò nel bel mezzo delle scale antincendio e si voltò verso di lui.
«Vorrei andarci da sola.» gli disse, questa volta un po’ più decisa.
«Andiamo comunque nella stessa direzione.»
«Non mi importa Hayama.»
Akito a quel punto si sentì davvero frustrato, perché non riusciva proprio a comprendere quel cambio di umore così repentino. Sana per lui era sempre stata un mistero, una tavoletta incisa con una scrittura sconosciuta. Tuttavia, nonostante ricordasse bene quanto lei fosse sempre stata complicata da comprendere, quell’atteggiamento gli sembrava davvero troppo.
«Si può sapere che ti prende?» domandò lui, spazientito. 
«Niente, cosa vuoi dire?»
«Non ti sembra di esagerare?»
«Be’ non mi sembra ti stia chiedendo chissà cosa.» replicò lei, ma il suo tono duro tradiva qualsiasi parola. 
«Non è questo, Kurata.» disse lui, guardandola fissa negli occhi. Probabilmente stava cercando una chiave di lettura per quell’atteggiamento.
«E allora cosa?»
«Be’ mi sembravi… normale, fino a poco fa.» azzardò Akito, continuando a mantenere un tono deciso.
Sana aggrottò la fronte.
«Normale?» domandò, anche se le sembrò che quella domanda fosse improvvisamente evaporata, nell’esatto istante in cui quella parola era entrata a contatto con l’aria di quel posto.
«Più normale di così…» aggiunse in fine, in tono accigliato. Allora Akito le rivolse l’ennesima occhiata confusa.
«Non mi sembravi arrabbiata due minuti fa.» specificò lui, perché si era reso perfettamente conto dell’atteggiamento ostile che Sana aveva assunto all’improvviso.
«Non lo sono nemmeno ora.» insistette lei, appoggiandosi saldamente alla sua stampella. Le sembrò tutto ad un tratto di sentirsi indebolita.
«Non sono arrabbiata Hayama. Le persone si arrabbiano se gli altri le feriscono, quindi io perché dovrei sembrarti arrabbiata?» disse di getto, senza nemmeno pensare realmente al senso di quelle parole. E Hayama, infatti, un senso proprio non riusciva a trovarlo in quella stramba discussione nata dal nulla.
«Mi dispiace, ma io proprio non riesco a seguirti.» disse lui, arrendevole.
«Lascia perdere, non ha nessuna importanza. E ora, se vuoi scusarmi…» disse sbrigativa, voltandosi di scatto e dando le spalle ad Hayama. Il suo intento, quello di Sana, era scappare via da lì e raggiungere lo studio di Gomi dove, se non altro, avrebbe potuto rilassarsi e smettere di pensare a tutto quello che le stava succedendo in quel momento. Tuttavia, aveva fatto davvero male i conti con il circondario, perché si sentì afferrare per un braccio così forte che il punto focale del suo equilibrio già precario si perse per un istante. 
Sana si voltò trovandosi quasi addosso ad Akito, allora la sua testa entrò nel panico più totale.
«Kurata?»
«Lasciami andare Hayama. Gomi mi sta aspettando.» riuscì a dire, senza accorgersi che il suo corpo stava cercando in tutti i modi di divincolarsi dalla presa dell’altro. Tuttavia, le sembrò di non avere via di scampo, se non quella di supplicarlo involontariamente con lo sguardo, perché lei quella vicinanza non l’avrebbe retta a lungo. E si domandò come facesse invece lui a sostenerla con tale tranquillità. Poi, si rese conto che tutti quei tentativi di liberarsi dalla presa di Akito si erano susseguiti nella sua testa perché lei si trovava sempre nella stessa identica posizione.
«Ti vuoi calmare? Mi sembri impazzita.» replicò lui, sempre più confuso.
«Sono in ritardo, Hayama. Lasciami andare da Gomi... almeno lui non potrà dare il mio numero al primo che capita.» si lasciò sfuggire lei, senza nemmeno riflettere. Nonostante quel verbo, riflettere, l’aveva sempre appartenuta poco, negli ultimi anni della sua vita aveva fatto di tutto per evitare che certe cose uscissero nuovamente dalla sua mente senza controllo. Eppure, in quell’occasione, aveva commesso il suo primo fallimento dopo molto, molto tempo.
«Il tuo numero?» 
Hayama iniziava invece a perdere la pazienza, oltre a sentirsi sempre più confuso.
«Sì, il mio numero di telefono. Io non avrei mai…»
«Akito?»
Una voce fuori campo interruppe per sempre le parole di Sana. Nonostante nessuno dei due poteva vedere il punto esatto da cui proveniva quella voce, entrambi smisero quasi di respirare.
Poi Hayama lentamente lasciò andare la presa sul braccio di Sana e si voltò verso la sua ragazza ferma sull’ingresso del piano, accanto alle scale d’emergenza.
Sana si aggrappò velocemente alla ringhiera delle scale con una mano, mentre l’altra continuava a tenere salda la presa sulla stampella. Si sentì improvvisamente una sciocca e desiderò con tutte le sue forze di sparire da lì per sempre.
Eppure, continuava ad essere lì.
«Che sta succedendo qui?» domandò Fumiko con uno sguardo stranito. Allora Hayama fece qualche passo verso di lei, dando definitivamente le spalle a Sana.
«La stavo accompagnando da Gomi.» disse lui sbrigativo. 
«Già, ci siamo incontrati per caso. Poi io sono stata assalita da alcune fan un po’ strane, e nelle mie condizioni era veramente difficile riuscire a gestire la cosa da sola. Per fortuna Hayama mi ha dato una mano… ma adesso posso andare anche da sola. Grazie. Ciao.»
Sana fece quel monologo in un batter di ciglia, indossando la migliore delle sue maschere, tanto che nessuno dei suoi spettatori ebbe il tempo di capire, o replicare. 
Nonostante Fumiko le avesse chiesto se fosse sicura di riuscire a raggiungere lo studio di Gomi da sola, Sana si era congedata in fretta da entrambi, cercando di scalare due gradini alla volta senza rompersi l’osso del collo. Naturalmente non ci riuscì, ma si sentì sollevata quando capì che nessuno dei due alla fine l’aveva seguita.
 
Gomi, che l’aveva accolta nella grande sala che condivideva con gli altri medici specializzandi del suo corso, le aveva dato altre tre settimane di riposo. La sua gamba non era migliorata affatto, anzi a detta di Gomi sembrava essere addirittura peggiorata, il che lo aveva spinto a domandarle se non se ne fosse andata in giro a correre la maratona della città metropolitana di Tokyo.
Nei giorni successivi a quella visita – e all’incontro con Hayama – Sana aveva ripensato alle parole di Gomi più e più volte. 
Il fatto di dover restare in Giappone per almeno altre tre settimane non le sembrò affatto l’aspetto peggiore della vicenda visto che ormai a Seul non aveva più un lavoro, né nient’altro da fare. Almeno non nell’immediato. Inoltre, l’idea di tornare in Corea e dover affrontare Ji-won, Lee, i suoi ex colleghi e tutti i suoi fan la terrorizzava. Allo stesso tempo però pensare di restare lì a Tokyo le bloccava il flusso d’ossigeno in gola, nonostante in Giappone l’interesse per la sua vita privata era andato scemando giorno dopo giorno.  Tuttavia, a quel pensiero – restare in Giappone per almeno un altro mese - la sua mente tornò inevitabilmente a quello che era successo in ospedale con Akito, prima dell’arrivo tempestivo della sua fidanzata.
Aveva letto diverse volte il messaggio da parte di Jun Watanabe sul suo cellulare, e ogni volta si era domandata perché Hayama gli avesse dato il suo numero senza nemmeno chiederle il permesso. Insomma, lei nella situazione inversa non lo avrebbe mai fatto. Avrebbe sicuramente pensato a Fumiko e al fatto che Hayama era una persona impegnata. Poi si rese conto che la situazione inversa non era proprio paragonabile, ma comunque continuava a pensare che avrebbe dovuto chiederle il permesso prima di dare il suo contatto ad uno sconosciuto.
Si lasciò andare sul letto a peso morto, sentendo una leggera fitta alla gamba. Probabilmente Gomi aveva ragione e avrebbe dovuto riposarsi di più e prendersi cura di se stessa. Invece aveva passato tutto il suo tempo ad andare in giro con Ryu e sua madre. Di quel passo sarebbe rimasta a Tokyo almeno fino al nuovo anno. E quel pensiero la portò inevitabilmente indietro nel tempo, a moltissimi anni prima quando per lei e i suoi vecchi amici, festeggiare insieme il Natale era un evento che aspettavano davvero con gioia.
Sana sbuffò, si lasciò andare sul letto a baldacchino della sua vecchia stanza avvertendo una leggera fitta alla gamba.
«Ahi!» esclamò di riflesso, rendendosi conto che non stava affatto guarendo. Poi, distrattamente, ripescò il cellulare dalla tasca dei pantaloni, iniziando a far scivolare distrattamente l’indice sullo schermo del suo cellulare, finendo nuovamente tra le chat di line. Aprì la chat di gruppo in cui l’aveva invitata Tsuyoshi qualche giorno prima, finché non cliccò sul profilo di Akito. Continuava a non avere nessuna immagine del profilo e come messaggio personale ne aveva uno preimpostato dall’applicazione in cui diceva che ora anche lui stava utilizzando quell’app per inviare messaggi.
Rimase ferma sul profilo di Hayama, finché un rumore improvviso non la fece sobbalzare, ma solo in un secondo momento, quando capì che quel rumore non era altro che sua madre che bussava alla porta della sua stanza, realizzò di aver premuto per sbaglio il tasto di chiamata sul numero di Akito.
«Oddio!» esclamò in preda al terrore. A quel punto scattò in avanti, sedendosi sul letto senza nemmeno pensare alla sua gamba indolenzita, affrettandosi a terminare la chiamata partita per sbaglio. Poi, di getto, spense il cellulare e lo lanciò dall’altra parte del letto, proprio nel momento in cui comparve il viso di sua madre nella stanza.
«Mammina.» disse lei, con un sorriso nervoso.
«Tutto bene?» le domandò sua madre, titubante.
«Certo. Va tutto alla grande.»
«Oh… se lo dici tu. Comunque, hai una visita.» le disse, spalancando la porta della sua stanza. In quel momento il cuore di Sana, che stava già correndo abbastanza veloce, iniziò a scalpitare. Non riusciva a spiegarsi il motivo di quell’agitazione, ma era convinta che dietro quella porta poteva esserci veramente chiunque, pronto a sconvolgerle nuovamente l’esistenza.
Tuttavia, il viso sorridente di Tsuyoshi la fece calmare all’istante. 
«Ciao Sana, posso entrare?»  domandò lui, leggermente imbarazzato.
«Ma certo, entra pure.»
Sua madre invece fece un passo indietro, lasciando a Tsuyoshi il via libera per la camera di sua figlia.
«Scusatemi, ma mi è appena arrivato un nuovo copricapo e devo proprio correre giù a provarlo.» disse semplicemente, defilandosi. 
Tsuyoshi la guardò allontanarsi, poi rivolse il suo sguardo a Sana, sollevando le sopracciglia.
«È bello vedere che qualcuno tra noi non è cambiato affatto.» disse con un sorriso.
«Già, mia madre non cambierà mai.» disse, guardandolo poi con uno sguardo interrogativo.
«Mi trovavo da queste parti, e ho pensato di venire a trovarti. Non ci vediamo da quella volta in cui siamo usciti tutti insieme; quindi, mi sono detto che forse avrei potuto farti visita. Spero di non disturbare.»
«Ma figurati, nessun disturbo.» disse Sana, anche se in quel momento sentiva di avere davvero bisogno di un po’ di tregua per pensare lucidamente alla sua vita.
A quel punto Tsuyoshi si avvicinò a lei, che continuava a restare immobile sul suo letto. Poi si guardò intorno scorgendo uno sgabello, lo afferrò e le si sedette di fronte, accavallando le gambe.
«In realtà sono venuto perché ero un po’ preoccupato per te. La parte invece riguardo al fatto che mi trovassi nelle vicinanze… quella be’ è vera.» disse con un sorriso imbarazzato.
«Preoccupato?» domandò Sana, un po’ confusa.
«Be’ sì, ultimamente se ne leggono di tutti i colori sul tuo conto.»
«Ah, ti riferisci a quello?» disse poi lei, abbassando lo sguardo. Per un istante si domandò cosa avesse letto Tsuyoshi, e quale delle tante notizie su di lei lo avesse spinto a preoccuparsi in quel modo.
«Be’ sì. Ho pensato che non sia proprio piacevole essere su tutti i giornali di gossip. In più forse qui ti sentirai sola… insomma, ho pensato che forse avessi bisogno di una spalla su cui sfogarti e sono venuto ad offrirti la mia.»
«Ti ringrazio Tsu, sei carino. In effetti non è un gran momento…» disse lei, sinceramente, per la prima volta dopo tanto tempo. In fondo Tsuyoshi cosa avrebbe potuto pensare di lei, dopo quelle parole? Di certo se non l’aveva abbandonata anni prima, continuando a mostrarle la sua amicizia anche dopo quello che era successo in passato e il modo in cui lei era semplicemente sparita dalla vita di tutti, non l’avrebbe certo fatto ora. O almeno così credeva. Quindi pensò che per un attimo, un solo istante nella vita, poteva permettersi di lasciarsi andare e far scivolare dalle sue spalle tramortite un po’ di quel peso che sentiva ormai da un tempo davvero difficile da quantificare.
«Immaginavo. Però devi stare tranquilla, perché vedrai che il lavoro tornerà. Certo che i giornalisti non hanno proprio un minimo di etica. Mettersi in agguato fuori il tuo appartamento a Seul solo per fotografare il tuo ragazzo… non ci potevo credere quando l’ho letto. Ci credo che ti senta sola qui senza di lui.»
A quelle parole Sana sussultò, perché non si aspettava affatto di dover affrontare una conversazione del genere.
«Oh, be’ sai come sono fatti i giornalisti.» rispose, senza dare troppe spiegazioni. La verità era che il suo rapporto con Lee non se lo sapeva spiegare nemmeno lei, solo che nessuno fino a quel momento glielo aveva fatto notare e quindi, le era sempre andato bene.
«Comunque, non sapevo avessi un ragazzo.»
«In verità non è che sia proprio il mio ragazzo.»
«Ah no?» domandò lui, sorpreso.
«Be’, è una situazione un po’ difficile da spiegare», spiegò Sana velocemente, rannicchiandosi nelle sue stesse spalle. «Lee e io ci conosciamo da un po’, ed è l’unica persona che frequento a non essere parte del mondo dello spettacolo.» concluse lei, domandandosi in realtà cosa avrebbe pensato Tsuyoshi se fosse stata davvero sincera sulla presenza di quell’uomo nella sua vita.
«Oh, certo. Capisco. Ad ogni modo, credo sia davvero difficile vivere la propria vita sotto gli occhi di tutti, insomma è una cosa che penso da quando ti conosco.»
«A volte lo è. Altre volte invece è l’unica cosa che amo fare.»
«Sì, è naturale.»
«Invece tu come stai?» domandò lei. Le sembrò che parlare di sé fosse diventato improvvisamente abbastanza.
«Bene, sto abbastanza bene. Naturalmente non conduco una vita appassionante come la tua, d’altronde chi mai si apposterebbe sotto il mio appartamento? La cosa più eccitante che mi è successa nell’ultimo mese è stato uscire con una ragazza che fa le pulizie allo zoo.» raccontò lui, mantenendo in viso quel sorriso imbarazzato con cui era entrato nella camera di Sana. Quest’ultima sorrise di rimando, ricordando con nostalgia che il suo vecchio amico Tsuyoshi era ormai single e che quella che sembrava la relazione perfetta, destinata a durare per sempre, era invece un rapporto tra due ragazzi che, come tanti altri, era semplicemente finito.
«Be’ mi sembra comunque interessante.»
«Per un impiegato in un’azienda farmaceutica lo è eccome.»
«Chi lo avrebbe detto che sareste diventati tutti medici.» commentò quindi lei, senza considerare ad alta voce che in quel “tutti” aveva incluso anche una persona che in realtà non aveva mai fatto parte della loro infanzia.
«Ma io non sono un medico. Mi definirei più un segretario.» riferì Tsuyoshi divertito.
«Be’ ha comunque a che fare con i malati.» disse Sana, e Tsuyoshi sentendole fare quel commento pensò che in fondo anche l’ingenuità della sua vecchia amica era rimasta immutata nel tempo.
«Niente affatto. Non potrei mai lavorare in un ospedale. È per questo che scelsi la facoltà di economia all’università, nonostante i piani iniziali erano diversi.»
«Quali piani?»
«Be’ Aya voleva che entrambi frequentassimo medicina, ma come ti ho già detto non è un lavoro che mi si addice.»
«Ed è per questo che non state più insieme?» domandò Sana, aggrottando la fronte. Quell’argomento le stava particolarmente a cuore.
«No, almeno non credo. È stata lei a lasciarmi sai? Quasi due anni fa, durante il suo tirocinio ad Osaka. Diciamo che il fatto che ci sentissimo due volte alla settimana e che non parlassimo di nulla era già un chiaro segnale.»
«Mi dispiace molto Tsu. Eravate così felici.»
«Sono passati anni Sana. E poi ora lei vive lì e lavora all’ospedale di Osaka. Lei e Gomi avevano iniziato insieme, ma lui è diventato un medico, mentre Aya invece ha scelto di diventare un’infermiera pediatrica.»
Il breve racconto di Tsuyoshi suscitò in Sana una miriade di sentimenti contrastanti, perché improvvisamente si rese conto di non conoscere affatto quelle persone e che tutti quegli anni avevano immagazzinato nelle loro anime una serie di ricordi indelebili che li avevano resi le persone che erano: dei completi sconosciuti. D’altronde però, anche lei era diventata una persona diversa, e nessuno dei suoi amici, pensò, aveva la minima idea di quello che aveva dentro.
«Spero, comunque, che tu stia bene.»
«Ma certo. All’inizio è stata dura, lo ammetto. Poi per fortuna Akito e Shin mi sono stati vicino e grazie a loro ho capito che in realtà tra me e Aya ormai c’era solo affetto fraterno. In realtà devo dirti che mi sono proprio divertito con loro due: non facevamo altro che passare tutte le notti nei locali di Shinjuku.»
Sana si raddrizzò sul letto, senza nemmeno accorgersene.
«Con uno come Gomi non faccio fatica a crederti.» esclamò, anche se in realtà avrebbe voluto chiedergli qualcosa in più su Hayama. 
«Be’ non che Akito si annoiasse. A quel tempo non aveva impegni con nessuna.» disse lui, come se l’avesse letta nel pensiero. Sana lo guardò confuso.
«E Fumiko?»
«Oh, guarda che stanno insieme da pochissimo. È successo per caso una sera in cui io e Akito siamo andati ad una festa organizzata da Gomi e alcuni suoi colleghi. È lì che si sono rivisti.»
Per chissà quale ragione da quando Sana aveva scoperto della loro relazione aveva sempre pensato che durasse dai tempi delle superiori, quando lui le faceva ripetizioni di matematica. Evidentemente quella sua convinzione andava dritta ad aggiungersi a tutte quelle cose che sapeva sul conto dei suoi vecchi amici, ma che ormai non corrispondevano più alla verità.
«Capisco… mi sembrano carini insieme.» disse Sana, domandandosi poi subito dopo da quale antro remoto del suo cervello le fosse venuto in mente quel commento. In effetti ricordò solo in quel momento della chiamata ad Hayama partita per sbaglio e del suo cellulare spento.
«A proposito, questa sera c’è una specie di evento organizzato dall’azienda di Akito. Niente di formale, lui lavora per una piccola compagnia e saremo quattro gatti. Ora gli dico che ci sei anche tu.» disse lui senza nemmeno chiederle se ne avesse voglia o meno.
«Oh no, io questa sera non posso proprio.» replicò allarmata.
«Ma dai, non ci vediamo mai e mi hai appena confessato di sentirti sola e spaesata. Ci sarà anche Hisae, credo sia una buona occasione per voi due di parlare un po’.» disse, alzandosi dallo sgabello e avvicinandosi alla finestra. Si era messo il cellulare all’orecchio, senza più prestare attenzione alle proteste di Sana.
«Guarda che io proprio non posso, davvero. Poi è rischioso per me venire, sarà pieno di giornalisti in giro.»
Ma Tsuyoshi aveva smesso di ascoltarla. Per una volta aveva seguito il consiglio di Gomi, e dovette ammettere a se stesso che ignorare le persone funzionava alla grande perché ormai l’unica cosa che sentì furono le parole di Akito quando rispose dall’altra parte del telefono.
«Ti disturbo?»
«No, dimmi.» replicò Hayama, chiudendo ad icona la pagina internet che stava consultando. Si domandò cosa volesse nuovamente Tsuyoshi, visto che lo aveva chiamato meno di un’ora prima.
«Allora ci vediamo stasera?»
«Sì, di nuovo. Hai qualche problema?» gli domandò, riaprendo distrattamente la stessa pagina che stava consultando poco prima.
«No. Verrà anche Sana con noi, sono qui a casa sua e tra un po’ chiameremo un taxi.»
Akito non rispose, né si sorprese più di tanto visto che Tsuyoshi gli aveva già anticipato la sua volontà di farle visita. Si limitò a voltarsi verso la porta del suo studio, chiusa, cercando di capire se dalla cucina del suo appartamento provenisse qualche rumore.
Poi tornò alla sua pagina internet.
«Un taxi?»
«Già. È un po’ lontano, e Sana non può ancora camminare da sola.»
«D’accordo.»
«Allora ci vediamo dopo.» 
«Ok… ehi?» disse Akito, prima che Tsuyoshi riagganciasse. Era riuscito a fermarlo in tempo, ma poi fu lui a fermare anche le sue stesse parole.
«Dimmi.»
«Non prendere la tangenziale ovest, altrimenti non arrivate più.» rispose distrattamente, riagganciando la chiamata senza nemmeno attendere la risposta dell’altro.
Gli occhi di Akito rimasero fissi sull’elenco delle chiamate in uscita ed entrata. Poi, qualcuno bussò alla porta della stanza e di nuovo ridusse ad icona la pagina sullo schermo del suo computer.
«Disturbo?» domandò Fumiko, con solo metà del corpo visibile ad Akito.
«No, entra pure.»
«Come va il lavoro?»
«Più o meno. Ma penso di aver quasi finito.»
«Giusto in tempo per la festa.» commentò lei, con un sorriso nervoso. 
«Non che mi vada di andarci.»
«Spero ci sia almeno da bere.» disse lei, avvicinandosi alla scrivania a cui era seduto il suo ragazzo. Si appoggiò lì, senza indugiare oltre, passandosi poi una mano tra i capelli.
«Tu a che ora finisci? Vuoi che venga a prenderti?» disse lui, fermo sulla sedia. 
«Finisco tardi, alle tre. Però se a quell’ora sarai ancora in giro, accetto volentieri la tua offerta.» disse lei, con una strana sensazione nel petto. Per la prima volta da quando si era messa insieme ad Akito provò le stesse sensazioni che provava quando era circondata dai suoi amici, e non sapeva più dire nulla che non fosse stato ben ponderato qualche attimo prima che uscisse dalle sue labbra. Nei giorni precedenti aveva avvertito quella sensazione così tante volte che spesso si era recata a lavoro con più anticipo del solito, senza nemmeno capirne il motivo.
Dopo la scena a cui aveva assistito in ospedale, si era resa conto che la presenza di Sana Kurata, lì a Tokyo, la metteva a disagio e si era ritrovata a desiderare più e più volte che partisse il prima possibile per tornarsene in Corea.
«D’accordo, ti vengo a prendere.» aveva risposto Akito.
«E Sana come sta? Gomi mi ha detto che la sua gamba sembra essere peggiorata.» domandò di getto. 
«Non ne so nulla. Ma se lui dice così, evidentemente la sua gamba è peggiorata.»
Eppure, quella spiegazione non soddisfò nessuno dei due. Akito, che dopo l’accaduto dell’ospedale era tornato a casa sua insieme a Fumiko, non riusciva a capire perché continuava a domandarsi il motivo del cambio d’umore di Kurata. Aveva capito che c’entrava il suo numero di cellulare, ma proprio non riusciva a risolvere quell’enigma. Ci aveva pensato così spesso nei giorni successivi, senza trovare mai una soluzione a quell’enigma, che ad un tratto lavorare a quei codici complicati gli era sembrata la cosa più semplice del mondo. Tuttavia, però, nonostante gli sforzi, né i codici né il rompicapo Kurata gli tornavano in qualche modo.
«Mi dispiace per lei. Ad ogni modo pensò che mi riposerò un po’ prima di uscire.» gli disse lei, senza cambiare la sua posizione nemmeno di un centimetro. Akito però la guardò, annuendo con il capo.
«Faresti bene a dormire un po’, in effetti.» concluse, appoggiando una mano su quella di Fumiko per un istante, prima di recuperare il mouse del suo computer. 
Fumiko a quel punto gli sorrise, poi lentamente si avvicinò al suo viso per dargli un bacio, ma fu anticipata dalle mani di Akito che la attirarono a sé con una velocità maggiore di quanto lei avrebbe potuto. Tuttavia, quel gesto, in quel momento, fu sufficiente a farla sentire un po’ più leggera per affrontare quel nuovo, estenuante, turno di lavoro in ospedale.
Ma se Fumiko si era sentita sollevata, dopo quel bacio da parte di Akito, quest’ultimo invece continuava a provare uno strano sentimento che però non riusciva a definire. Aveva dato l’ennesima occhiata al suo cellulare ancora un paio di volte dopo che la sua ragazza aveva lasciato il suo appartamento per andare in ospedale, ma non sapeva nemmeno lui cosa aspettarsi da quello schermo.
Inoltre, si sentiva tremendamente frustrato perché continuava a non venire a capo del problema che aveva a lavoro ormai da diverse settimane, e quell’aspetto non faceva altro che complicargli l’umore.
«Dannati.» sussurrò con lo sguardo fisso sullo schermo del computer. Si sentiva improvvisamente intrappolato, in balia di due tecnologie che lo stavano mandando in tilt senza che lui riuscisse davvero a prenderne il controllo. Eppure, lui con quella roba ci lavorava, da anni, pensò.
Di colpo però si rese conto che si era fatto davvero tardi, e che quello stupido evento organizzato dalla sua azienda sarebbe iniziato da lì a breve. Pensò all’ultima telefonata di Tsuyoshi e al fatto che quell’invito era stato buttato in mezzo ad una conversazione, senza avere davvero il peso che l’amico gli aveva dato. Tuttavia, nonostante tutto, sentì improvvisamente la testa meno pesante a quel pensiero. Quindi, si decise a spegnere il computer e afferrando le chiavi della sua auto, si avviò verso il parcheggio sotterraneo del suo condominio.
Nonostante Akito avrebbe sicuramente tardato all’evento, Tsuyoshi aveva deciso di trascinare Sana in un taxi molto prima del previsto perché, a detta sua, Shinjuku a quell’era diventava una trappola per auto. Sana si era stretta nelle spalle e nella sua ormai fedele stampella, ma si era anche resa conto che il suo vecchio amico non avrebbe ammesso alcun rifiuto per cui si era ritrovata ad acconsentire ancora una volta ad un invito per un evento in cui ci sarebbero stati tutti i suoi vecchi compagni di classe. Di nuovo.
Ad un tratto allontanò lo sguardo dal finestrino del taxi e si voltò verso Tsuyoshi.
«Verrà anche Gomi?» gli domandò.
«Non credo. Gliel’ho detto, ma non mi ha nemmeno risposto e di solito quando fa così è perché deve lavorare.»
«Oh, capisco.» rispose lei, con una punta di delusione. Probabilmente era dovuto al fatto che Gomi era il suo medico, ma si era anche resa conto che in sua compagnia non si sentiva affatto a disagio e aveva sperato per un attimo che ci fosse anche lui, perché aveva avuto l’impressione che la sua presenza aveva spesso smorzato la tensione che invece percepiva quando era insieme agli altri.
«Senti, posso farti una domanda?» esordì Tsuyoshi improvvisamente.
«Una domanda?» ripeté Sana, leggermente allarmata. Guardò fuori dal finestrino e si rese conto che il taxi era fermo in mezzo ad una miriade di auto che non si muovevano di un centimetro. Improvvisamente si sentì intrappolata.
«Sì, è da quando ci siamo rivisti che volevo chiederti di Naozumi. Insomma, nonostante le notizie sui giornali, nessuno di noi ha idea di cosa sia successo davvero.»
A quelle parole Sana tirò un sospiro di sollievo, perché dal tono di Tsuyoshi si era preparata davvero al peggio. Sospirò abbassando appena lo sguardo.
«Be’ quello che hanno scritto i giornali all’epoca è vero. Almeno la maggior parte di quello che è stato detto… Naozumi ci ha messo davvero tanto a riprendersi e per i tre anni successivi al suo incidente abbiamo vissuto praticamente insieme. Poi lui, all’improvviso, si è stancato di me e mi ha lasciata. È stato poco prima che mi trasferissi a Seul.»
Tsuyoshi, a quel tempo, aveva letto della lenta ripresa di Naozumi Kamura e del suo parziale ritiro dalle scene. Aveva trascorso molti mesi in una clinica di riabilitazione di Kagoshima, ma di Sana Kurata si diceva poco o nulla; quindi, tutti loro avevano sempre immaginato che gli fosse rimasta accanto e che stessero ancora insieme. Fin quando non era stata Hisae, molti anni dopo, a leggere la notizia del ritorno alle scene di Kamura e del suo fidanzamento con una modella cinese. 
«Mi dispiace, deve essere stato un periodo difficile.» disse Tsuyoshi, sinceramente dispiaciuto.
«Già.» si limitò a dire Sana. Naturalmente c’era molto altro dietro quella storia raccontata a Tsuyoshi, nello stretto abitacolo di un taxi imbottigliato nel traffico serale di Shinjuku, ma Sana pensò che non avesse senso raccontarla. In verità erano sensazioni, sentimenti che aveva provato molti anni prima e che probabilmente non sarebbe nemmeno stata in grado di spiegare a parole. Eppure, aveva provato molte cose quando Naozumi l’aveva lasciata, dicendole che in quel modo lui non ce la faceva più a stare con lei.
«Sai, in un certo senso ti capisco.» continuò Tsuyoshi, «Quando Aya mi ha lasciata è stata dura, lo ammetto. Ma più che altro provavo una strana sensazione, come se avessi fallito in qualcosa di davvero importante…»
Sana ascoltò quelle parole, chiedendo a se stessa lei cosa avesse provato davvero e se fallimento era la definizione giusta anche per i suoi sentimenti. In fondo, non era mai riuscita a trovare un colpevole per quello che era successo a lei stessa in tutti quegli anni. Insomma, chi aveva fallito? E in cosa?
A quel punto però, il taxi iniziò a muoversi di nuovo, e in poco tempo li portò a destinazione. Giusto in tempo perché quella conversazione terminasse, pensò ironicamente Sana.
«Bene, ci siamo.» disse lui, pagando il tassista e uscendo velocemente dall’auto. Sana invece si guardò lentamente intorno, esplorando il grosso edificio che si alzava davanti a loro. 
«E’ qui che lavora Hayama?» domandò, indicando tutti quei piani sopra le loro teste. Si sentì poi una sciocca, perché nel momento in cui pronunciò quel nome, la sua mente tornò al giorno in cui si erano incontrati in ospedale, e si domandò se non fosse il caso di tornarsene a casa sua, pure a piedi. Insomma, quello tra lei e Hayama era stato un vero e proprio litigio, e lei cosa stava facendo? Si presentava ad una festa organizzata proprio dai suoi colleghi?
«Senti Tsu, forse è meglio che io…»
«Oh, ecco Akito.» la interruppe lui, agitando una mano davanti alla faccia di Sana. In verità lei ebbe la sensazione che le sue parole non erano nemmeno state ascoltate, e le venne un colpo al cuore quando Tsuyoshi pronunciò quel nome. Si voltò lentamente, ma si sorprese di quanto lui in realtà fosse già vicino a loro.
«Aspettate da molto?» domandò Hayama, infilandosi le chiavi dell’auto nella tasca dei pantaloni.
«In verità siamo appena arrivati. C’è un casino infernale per strada, come hai fatto a trovare il parcheggio per l’auto?»
«Ho il posto riservato ai dipendenti.» spiegò brevemente lui, poi fece segno all’amico di seguirlo verso l’ingresso dell’edificio. Tutti e tre si recarono agli ascensori al piano terra, e Sana si sentiva sempre più a disagio. Pregò che il piano di Hayama fosse uno dei più bassi, ma quando lo vide premere il pulsante con il numero venti sospirò desolata, in vista di quel viaggio lungo.
Si appoggiò contro la parete dell’ascensore, stringendo con entrambe le mani la sua stampella. Guardò poi le spalle di Hayama e si domandò quand’è che gli erano diventate così grosse. Era sicura che a sedici anni non le aveva così, nonostante gli allenamenti.
«Ora scrivo il piano anche ad Hisae. Mi ha appena mandato un messaggio per dirmi che ha finito ora di lavorare.» li informò Tsuyoshi, ma nessuno dei due proferì parola. 
«Poi lei prende la metro di solito, non ci metterà molto.» continuò, nonostante il silenzio dei due.
Quel viaggio sembrò a Sana davvero interminabile, e il silenzio in cui erano avvolti tutti e tre rese quel momento ancora più pesante. In un impeto di imbarazzante presa di posizione, pensò che forse sarebbe stato meglio dare una mano a Tsuyoshi a smorzare la tensione; quindi, aprì la bocca ma l’unica cosa che sentì uscire fu l’aria, che le andò pure di traverso. Allora iniziò a tossire, lasciando con una mano la presa sulla stampella.
«Ehi, tutto ok?» le domandò Tsuyoshi. Anche l’attenzione di Akito era stata catturata dalla sua gola capricciosa, perché si era voltato appena verso di lei.
«C’è polvere, probabilmente.» disse quest’ultimo, guardandosi intorno. Tsuyoshi lo guardò, leggermente sorpreso, poi finalmente l’ascensore si fermò e le porte si aprirono.
Sul pianerottolo del ventesimo piano c’era già qualcuno con in mano un bicchiere di qualcosa, intento a parlottare con qualcun altro e nessuno prestò attenzione a loro tre. Arrivati in quello che di solito era un normale ufficio, Tsuyoshi si voltò verso i due suoi amici.
«Scusate, devo scappare in bagno.» disse, guardandosi intorno alla ricerca del bagno per gli uomini. Allora Akito gli indicò un punto in fondo alla sala, prima di vedere il suo amico defilarsi.
Sana pensò che forse il bagno potesse essere un’ottima scusa per sparire a sua volta. Anche se l’aveva già usata molte volte in passato, pensò che Akito probabilmente non se ne sarebbe nemmeno accorto e fece per voltarsi, quando lui però le si avvicinò di qualche centimetro.
«Prendiamo da bere?» le domandò, cogliendo Sana alla sprovvista.
«Tu vuoi bere?» riuscì a dire, ma se ne pentì immediatamente. Che razza di domanda era?
«Vuoi fare altro?» rispose retorico. Poi senza pensarci troppo, spinse leggermente una mano contro la schiena di Sana indicandole un punto non troppo lontano da loro in cui avevano allestito un piccolo tavolo con delle cose da bere. Lei, di risposta, si lasciò condurre da lui, dimenticando improvvisamente il motivo dell’imbarazzo che stava provando da quando aveva messo il piede fuori da quel dannato taxi.
Akito diede una rapida occhiata a quello che c’era da bere sul tavolo, poi prese una birra per lui e ne offrì una a Sana.
«Oh, no grazie. Troppo amara.»
«Amara?»
«Già. Preferisco bere del vino.» replicò sotto lo sguardo tranquillo di Hayama. In effetti, pensò Sana, quella era una situazione tranquilla in cui lei si trovava ad una normalissima festa, in compagnia dei suoi vecchi amici che non vedeva da tempo. Si disse che doveva smetterla di ingigantire le cose e che, in un modo o nell’altro, poteva pure provare a divertirsi. Quindi, con una nuova filosofia che prendeva piede nei meandri reconditi della sua coscienza, si versò un bicchiere di vino bianco sentendosi di colpo più leggera. Poi lui le si avvicinò nuovamente.
«Mi hai chiamato, oggi pomeriggio?» esordì all’improvviso.
Quella domanda la mandò seriamente nel pallone e sentì tutto in un colpo la sua nuova filosofia di vita che volava via, lasciando il posto al frenetico desiderio di rifugiarsi nel bagno delle donne. 
«Io?»
«Sì. Ho trovato una tua chiamata persa.» disse lui, bevendo un sorso di birra.
«Oh? Davvero? Deve essere partita per sbaglio.» si giustificò lei, avvicinando il bicchiere di vino alle labbra.
«Ho pensato che volessi dirmi qualcosa.»
«No, no niente affatto.» si affrettò a precisare lei. Poi le venne in mente la loro discussione in ospedale, e di colpo le parole di Hayama acquistarono un senso. In fondo quella era l’ultima volta che si erano visti, e ripensò al fatto che lui aveva dato il suo numero ad uno sconosciuto e il senso di rabbia risalì a galla, come un panino al tonno andato a male.
«E poi, se c’era qualcuno che doveva chiamare qualcun altro, be’ non ero di certo io.»
«Ci risiamo con questa storia.»
«Non me la sono mica dimenticata, Hayama.»
«Mi spieghi a chi avrei dato il tuo numero se nemmeno ce l’avevo prima che mi chiamassi?» domandò Hayama, mentre sentiva l’ultimo briciolo di pazienza abbandonare il suo corpo. Insomma, perché non gli diceva esattamente le cose come stavano? Invece gli sembrò di avere tra le mani un cubo di rubik.
Sana però lo guardò confusa. 
«Be’, io pensavo che… visto che Tsuyoshi…» avrebbe voluto precisare che entrambi facevano parte di una chat di gruppo, che c’era anche il suo numero tra i partecipanti, ma le parole proprio non ne volevano sapere di uscire fuori dalla sua bocca formando qualcosa che avesse un senso. In effetti, che cosa si aspettava? Perché mai tutto ad un tratto, sentiva solo un enorme senso di delusione.
«Ehi state già bevendo?» li interruppe Tsuyoshi, tornato dalla sua spedizione in bagno. A quel punto Sana decise di approfittare di quel piccolo momento di confusione per dare le spalle ad entrambi e cercare una rapida via di fuga. Probabilmente la sua testa sarebbe esplosa molto presto.
Poi incrociò un viso familiare.
«Sana Kurata, il destino deve volermi davvero bene.» esclamò Jun Watanabe a voce talmente alta che lo sentirono tutte le persone che si trovavano nel raggio di qualche metro.
Sana strinse il bicchiere di vino ancora più forte, e pregò che quei calici fossero fatti di un vetro abbastanza resistente a quel tipo di situazione.
«Guarda un po’, ci siete proprio tutti.» aggiunse, avvicinandosi ai tre. Akito non rispose, limitandosi a bere la sua birra. Tsuyoshi invece gli sorrise. Si erano già visti in precedenza, ma si sorprese che quel tipo si ricordasse di lui.
L’attenzione di Jun poi si spostò interamente su Sana, e la guardò dritto negli occhi.
«Continuiamo ad incontrarci. Mi considero un tipo insistente, ma vedo che non c’è stato bisogno di mandarti un altro messaggio.» le disse, strizzandole un occhio.
In un altro momento della sua vita, in un’altra dimensione e in un’altra città, forse Sana si sarebbe lasciata anche andare a quelle avances. Se si fosse trovata a Seul, ad uno degli eventi a cui era solita partecipare, probabilmente con un tipo come Jun si sarebbe anche potuta divertire. Il punto era che si trovava a Tokyo, e le sembrava di indossare altri panni che non riusciva più a riconoscere, o a ricordare.
Poi si sentì afferrare una mano.
«Coraggio, andiamo a ballare.» le propose Jun.
«Aspetta, non posso…» cercò di dire lei, sollevando la sua stampella a mezz’aria. Ma Jun le sorrise divertito.
«Tranquilla, è la benvenuta.» concluse sorridendo, trascinandola al centro della sala.
Tsuyoshi invece, che aveva assistito a tutta la scena, rivolse una rapida occhiata al suo amico che di colpo si era scolato l’intero contenuto della bottiglia di birra.
«Tu lo sapevi che quel tipo ci sta provando con Sana?» gli domandò.
«Come facevo a saperlo?»
«Be’, siete colleghi… magari ti ha parlato di lei.»
«Io e Watanabe non parliamo.» lo seccò Hayama, afferrando un’altra bottiglia di birra.
«E non pensi che dovresti indagare? Sana è una nostra amica e…»
«E chi se ne importa.» concluse Akito, portando alle labbra la bottiglia di birra appena stappata. Tsuyoshi smise di parlare, concentrandosi soltanto su quel Jun che faceva fare a Sana dei lenti movimenti, stando attento a non perdere il suo terzo arto.
In effetti, lei si sentì alquanto tranquilla nonostante stesse ballando con una stampella e una gamba ridotta in quel modo. Ovviamente i suoi movimenti erano comunque cauti, ma stava ballando a tutti gli effetti.
«Vedi che ci muoviamo benissimo noi tre insieme?» le disse Jun, indicando la sua stampella. Lei in quel momento però ne approfittò e si voltò rapidamente verso il punto in cui c’era il tavolo con le bevande, ma sentì una punta di delusione quando scoprì che i suoi amici non c’erano più. Tornò quindi a voltarsi verso Jun.
«Scusa, posso chiederti una cosa?»
«Ma certo principessa.» le rispose con un sorriso. Sana pensò che quell’appellativo avesse tutto un altro significato in quella circostanza.
«Come hai fatto ad avere il mio numero?»
«Non posso certo rivelare i miei segreti, così su due piedi.»
«Immagino che violare la privacy della gente faccia parte dei tuoi segreti.» lo apostrofò lei. A quel punto Jun fece una leggera risata.
«Invece io sono uno molto attento alla privacy. È che morivo dalla voglia di chiamarti e invitarti da qualche parte.»
«Credo che abbiamo un concetto molto diverso di privacy.»
Jun continuò a sorriderle, mentre invece Sana cominciava a sentirsi davvero infastidita da quell’atteggiamento.
«Guarda che non c’è niente da ridere. Sono un personaggio pubblico, e la privacy per me è vitale.»
«Oh, non sto ridendo per te. Lo so bene che sei una donna molto conosciuta. In effetti ti trovo molto carina quando ti arrabbi.»
Sana spostò rapidamente lo sguardo. I modi di quel ragazzo la mettevano in imbarazzo, non sapeva come comportarsi perché si trovava in bilico tra quello che vedeva lui e quello che vedevano i suoi amici. Quel pensiero la trascinò in un vortice di sensazioni che iniziarono a ingigantirsi proprio all’interno del suo petto e pensò che ormai non avesse nemmeno più importanza sapere chi avesse dato il suo numero a Jun.
«Scusa, ma vorrei dell’altro vino.» esordì all’improvviso, cercando una via di fuga.
«Oh… d’accordo. Aspettami qui, arrivo tra un istante.» e così dicendo, Jun Watanabe si dileguò. Sana strinse le dita intorno al manico della sua stampella, restando in quel punto ancora per qualche secondo. Perché si sentiva così diversa dalla se stessa che abitava a Seul? Perché all’improvviso quel genere di feste a cui era così abituata le trasmettevano solo un senso di angoscia?
Non si rese affatto conto del tempo che passava, ma quando si guardò intorno notando la sala semi vuota realizzò che di Jun non c’era più alcuna traccia. 
Decise quindi di prendersi da bere lei stessa e si avviò verso il bancone delle bevande, finché non si sentì afferrare per un braccio. Si voltò, ma non si sarebbe mai aspettata di vedere quel volto.
«Ehi!» esclamò Hisae, sollevando le sopracciglia. 
«Oh, ciao.»
«Queste feste che organizza l’azienda di Hayama sono sempre le stesse. Dai, vieni fuori in terrazza… sono tutti lì.» le disse, accennando un sorriso. A quel punto, Sana si sentì leggermente meno sola e l’idea di seguire la sua vecchia amica le sembrò la cosa più giusta da fare e l’unica sensata da qualche settimana a quella parte. E ad aspettarle in terrazza c’erano Tsuyoshi e Akito appoggiati al muretto. A quel punto Sana sgranò gli occhi.
«Un tempo soffriva di vertigini. Deve essere guarito…» commentò mentre camminava accanto ad Hisae.
«Ma che guarito. Secondo me sta sudando freddo… solo che qui deve fare il superuomo.» disse lei sorridendo divertita. Sana la seguì di rimando, finché non raggiunsero i loro amici.
«Oh Sana, eccoti.» disse Tsuyoshi. Akito la guardò per qualche minuto, senza proferire parola.
«Ragazzi, che ne dite di andare via da qui? Queste feste sono sempre noiose.» propose Hisae, appoggiandosi con la schiena contro il muretto della terrazza.
«E dove proponi di andare?» chiese Tsuyoshi.
«Bo, magari a Kabukicho o dove vi pare.»
«Be’ c’è un posto in cui incendiano i cocktail. Potremmo andare lì… non è lontano, possiamo andarci a piedi.»
«Tsu, i cocktail li incendiano da trent’anni ormai.» lo prese in giro Hisae. Anche Sana sorrise, perché in effetti lo sapeva perfino lei che quella trovata non era affatto una novità.
«Sì, lo so. Non ho mica detto che sono i primi a farlo… ma a quanto pare hanno un sacco di cose buone.»
«D’accordo, d’accordo. Vada per il barbecue di cocktail. Tanto mi sembra di capire che non ci sono altre proposte.» terminò Hisae, che si allontanò dalla ringhiera per avviarsi verso l’uscita di quel posto, seguita anche dai suoi amici. Fu in quel momento che Sana si accorse della presenza di Jun sulla terrazza, intento ad intrattenere una conversazione piuttosto piacevole, a giudicare dalla quantità di sorrisi distribuiti, con una ragazza dai capelli a caschetto e la frangia che le copriva le sopracciglia. 
Pensò alla sua bibita mai arrivata e, inspiegabilmente, provò una spiacevole sensazione. Non si rese conto di essersi fermata fin quando si sentì tirare appena per un braccio. Akito, senza dire nulla, la stava esortando a seguirlo e raggiungere Hisae e Tsuyoshi che avevano ormai già lasciato la terrazza.
Prima di raggiungerli però, Akito fu fermato a sua volta da un uomo che Sana non aveva mai visto in vita sua.
«Hayama, dove stai andando?»
«E’ tardi e domani ho da fare.» replicò secco.
«Certo. Ti aspetto domani nel mio ufficio, e se non hai ancora risolto il problema fatti aiutare da Watanabe.» 
Da quelle parole, pronunciate con una sicurezza tangibile, Sana aveva capito che quell’uomo doveva essere qualcuno di importante lì dentro. Solo che Hayama aveva cambiato completamente espressione del viso. Sana osservò le sue mani strette a pugno e si domandò quale fosse il suo ruolo all’interno di quell’azienda e quando aveva preso la decisione di lasciar perdere il karate.
«Hayama?» sussurrò quasi, finché non spuntarono nuovamente i volti di Hisae e Tsuyoshi.
«Ehi, ma ci siete?» domandò lei.
«Avviatevi, tanto noi veniamo in macchina.» replicò Akito.
«Oh… d’accordo. In bocca al lupo per il parcheggio allora.» disse Hisae, trascinandosi via Tsuyoshi. Sana si voltò verso Akito, con uno sguardo interrogativo.
«Con quella gamba così conciata ci metteremmo un’eternità.» si giustificò, poggiando per la seconda volta in quella sera la sua mano dietro la schiena di Sana, con la sola differenza che quel contatto si prolungò finché non lasciarono la sala dell’evento.


*Note d'autrice*

Eccomi, sorprendentemente, dopo soli tre mesi. Ma che sta succedendo?? Bo, non lo so, sta di fatto che sono contenta di essere riuscita a pubblicare questo capitolo perché a breve ripartirò per l'Africa e se vedemo direttamente tra qualche mese.
Dunque, mi dispiace avervi lasciato così, co sti due che se ne vanno, mano su schiena, nel parcheggio dell'edificio per fare due metri di strada ahahah però ecco il capitolo è già più lungo del solito, quindi beccatevi sto cliffhanger <3
Spero comunque che vi piaccia e che troverete il tempo per farmi sapere cosa ne pensate, mentre sarò in mezzo ad un deserto a lottare con serpenti e scorpioni.
Vi ringrazio come al solito, non smetterò mai di dirlo.
Baci
Alex
 

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