Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.
Lista capitoli: Capitolo 1: *** The world on the right | prima parte *** Capitolo 2: *** The world on the right | seconda parte *** Capitolo 3: *** The world on the right | terza parte (finale) ***
Capitolo 1 *** The world on the right | prima parte ***
I riflessi di Marco non sono più quelli di
una volta.
Tutto ciò che avviene alla sua destra, di fatto, per lui non esiste.
È una logica sbagliata; estremamente limitata
e limitante.
Se ne rende conto da solo, e non ha bisogno di alcuna comprova di ciò.
Del resto, se realmente fosse così, pure Jean che nel bel mezzo di una riunione
strategica si accascia a terra allora non dovrebbe esistere.
Certo, non sa se prima ha barcollato, se ha mostrato segni di affaticamento, o
altro. Non saprebbe dire proprio nulla.
Sono giorni che Jean è sempre alla sua destra; più o meno da quando ha
deciso che al posto di una pietra, su quel litigio, Marco ci avrebbe messo
silenzi e respiri rumorosi.
Sa solo che è avvenuto.
Ed è avvenuto proprio in quella discarica di non-esistenza in cui lo ha
crudelmente rilegato.
“Jean—?”
Solo adesso si rende conto di quanto alle sue labbra sia mancato articolare
quel nome.
“Jean!”, grida.
Prima che possa anche solo raggiungerlo, altri lo hanno già fatto al posto suo.
“Che cosa è successo?”
“Jean!”
“Jean—! Che succede, Jean!?”
“Spostatevi!”
C’è anche lui a terra, adesso.Jean è
rientrato alla sua sinistra appena in tempo perché ne veda il volto e il collo
percorso dalle mani leste della caposquadra Hange che, spasmodiche, si muovono
e si allungano interrogando punti che a Marco fanno paura.
“State tranquilli – sta bene, sta
respirando.” si premura ad annunciare al suo pubblico la scienziata, sollevando
una mano, ed è più o meno il segnale che i suoi polmoni malconci attendono per
tornare ad espandersi ancora.
“È bollente. Ha la febbre alta.” Il palmo di Hange sembra non riuscire a
credere a ciò che sente sulla fronte di Jean; il retro della mano scivola sul
collo, spera forse in una risposta migliore che, però, non trova.
“Da quanto tempo sta così male?!”
“I—io—” balbetta, sente lo sgomento fluirgli
in volto “Io non lo so—”
La parte razionale di Marco sa che la nota di amarezza nel tono di Hange non è
rivolta a nessuno se non alla situazione stessa. Eppure, proprio quella parte,
sembra accidentalmente finita insieme a tutte quelle cose che adesso è incapace
di percepire; perché altrimenti non sentirebbe le viscere lacerarsi come se
venisse divorato da qualcosa di peggiore di un gigante.
“Jean,” Hange si volta, colpisce in punta di dita le guance sudate “Jean, mi
senti?!” gli scuote le spalle, poi il petto. “Jean!” chiama ancora.
Per un attimo, quello stupido sembra
ridestarsi; lo fa nel momento in cui il Comandante Smith allunga un braccio per
allentare ulteriormente il colletto del cappotto, portando al termine ciò che,
nella foga, Hange ha lasciato a metà.
Ed è a quel punto che Jean mugola qualcosa che
suona più come un lamento.
Fa per riaprire gli occhi, ma dopo i primi tentativi andati a vuoto, rinuncia;
probabilmente in favore ad un mondo meno arcigno.
“Portiamolo subito in infermeria, Moblit,” comanda Hange, dopo aver
supervisionato il modo in cui il suo assistente lo solleva di peso e se lo
adagia al petto, “Nifa, vai in laboratorio, ci sono
degli antifebbrili in infusione. Prendi quelli sullo scaffale in fondo,
dovrebbero essere quasi pronti. Ne velocizzeremo la sedimentazione in
infermeria. Abel, tu rimani qui. Annota sul rapporto quanto stabilito da Erwin
circa le munizioni di domani e trasmetti le informazioni al reparto
rifornimenti.”
“Signorsì.”
“Non sarà nulla di ché, vedrai—”
Marco si volta solo quando la mano poggiata su ciò che resta del suo braccio
destro comincia a parlare.
È Sasha.Che lo guarda come un ingrato
come lui non dovrebbe mai essere guardato.
“Dovresti dire al tuo fidanzato di mangiare di più. Negli ultimi giorni
ha a malapena toccato cibo.”
Dovrebbe dirgli tante cose in realtà; a patto che Jean voglia ancora sentirle.
---
“Non so—cosa diavolo mi sia preso—e neanche,”
Jean batte i denti, muove lentamente il viso da un lato e poi dall’altro del
tavolo operatorio in una smorfia ad occhi chiusi – “N-neanche perché—perché
abbia parlato in quel modo…”
La vista di Marco non è più quella di una volta.
Gli è rimasto un solo occhio, e anche quello a volte non è perfetto.
Sotto il panno imbevuto d’acqua ghiacciata che Moblit preme sulla fronte però,
le vene delle tempie di Jean può vederle fin troppo bene. Sono rigonfie e
pulsanti, quasi trasparenti.
Vede anche le fasce muscolari del collo tendersi quando il panno si sposta su
di esso, lo sente soffiare e schioccare la lingua sul il palato allo stesso
modo in cui ha fatto quando lui ha gettato ai suoi piedi la giacca
dell’uniforme, voltando le spalle al suo nome gridato nel vento.
“Ha quaranta di febbre.”
Hange non si scompone. Assorbe la notizia con composta dignità, mentre
concentrata, travasa e miscela varie fiale sul bordo del tavolo.
L’occhio di Marco ha deciso di lavorare così bene però da catturarlo, quel
cipiglio angosciato che al di là delle lenti, le arriccia gli angoli degli
occhi, anche se solo per alcuni istanti.
“Non sono dati attendibili,” risponde
distaccata, senza distogliere l’attenzione da ciò che sta facendo. Declina con
un cenno della mano il termometro che il suo assistente le porge,
“La temperatura non si misura nel modo e nel luogo in cui intendi tu,”
Moblit schiude la bocca per dire qualcosa.
Poi, arrossendo, sceglie di tacere.
“Sta tranquillo, è un antifebbrile potente, questo”.
Lo descrive a lui, quasi come ne attendesse l’approvazione.
Prima che Marco si chieda il perché, Hange si è già appostata accanto a Jean,
recuperandone la pezzuola che all’allontanarsi di Moblit verso la
strumentazione in ebollizione, è scivolata su di un lato del cuscino. La bagna
di nuovo, la poggia sulla guancia di Jean.
“Jean—” chiama, chiudendone la faccia tra le mani, come fosse un uccellino da
maneggiare con cura.
Marco ha un sussulto nel vedere le palpebre di Jean fluttuare, “ho bisogno del
tuo aiuto per capire come farti stare meglio,”
Jean schiude gli occhi in due linee sottili e acquose, incrocia lo sguardo
della caposquadra intontito,
“Ma—Marco—” bisbiglia, e Marco non saprebbe
neanche spiegarsi quand’è che i suoi piedi si siano mossi sino a raggiunger il
suo capezzale.
“È qui,” trilla Hange, dalla destra
che non vede. “Guardalo, è proprio qui con te!” lo trascina bruscamente per la
una spalla, la batte con vigore per rimarcarne la presenza.
E al diavolo la decenza, nel suo campo
visivo, Marco ci entra forza, occupandolo per intero così come per intero
occupa il suo.
“Marco—” bisbiglia ancora, questa volta senza
voce.
Perché i suoi occhi, al di là di qualsiasi febbre, lo trovano.
Lo trovano, e si appigliano al suo viso come fosse l’unica cosa al mondo capace
di tirarlo fuori dalla sua destra, da quell’ingorgo di silenzio e
inutilità in cui lui, come il più crudele degli idioti, lo ha da giorni
rilegato.
“Non so davvero…perché ti ho detto quelle
cose orrende—”
Il mento tremolante e quell’espressione impaurita è solo ciò che non riesce a
trattenere, perché se Marco provasse solo a immaginare l’orrore dello stare alla
sua destra, la sua limitata fantasia fallirebbe nell’immaginare cosa ne
verrebbe fuori.
Quel labbro inferiore dischiuso, proteso in
avanti come ogni qualvolta Jean trattiene qualcosa di scomodo, Marco lo
battezza con una lacrima, che si affretterebbe ad asciugare prima che Hange
possa vederla, se solo ad essa non facesse seguito un’altra, e poi un’altra e
poi un’altra ancora.
“Mi dispiace, Jean—” bisbiglia, chino sul suo viso, le labbra a strofinarne
tempie salate “Mi domando come tu possa stare così male per un idiota come me—”
“Che sciocchezze! Mica sta ‘così male per un idiota come te’ –” fa eco Hange, insaccando la
testa nelle spalle, “sta male perché il nostro caro Jean ha avuto la
splendida idea di prendersi qualcosa, e di prendersela proprio bene. Per
cui, adesso, sarà così gentile da aiutarmi a scoprire cos’è, e poi sarà tutto a
posto, dico bene, Jean?”
Jean risponde roteando gli occhi nelle
palpebre pesanti, che non è esattamente la risposta più attesa ad una simile
domanda, ma la scienziata non sembra intenzionata a perdersi d’animo.
Marco solleva la testa, tira su con il naso, e tra i singhiozzi si lascia
consolare dalla mano che Hange gli strofina un paio di volte tra le vertebre,
prima di guidarlo fuori dallo spazio in cui deve lavorare.
“Non ho idea di cosa sia accaduto tra voi, ma
qualunque cosa sia, non mi sembra irrisolvibile, no?”
Lo sguardo che gli regala, è lo stesso che sia lei che Jean gli hanno regalato
tante e tante volte durante i suoi interminabili mesi di convalescenza, e che
col tempo, ha cominciato a considerare come una sorta di balsamo per ferite che
non può vedere.
“No,” Marco scuote la testa, si passa la mano sul volto, “No, non lo è—" o
per lo meno, lo spera. Si passa anche la mano sotto la benda che gli copre
l’occhio destro, soffoca l’ennesimo singhiozzo.
“Devo solo riuscire a farmi perdonare—”
“Beh, dovrà riuscire a farsi perdonare anche lui da te, visti gli spaventi a
cui ti sottopone—”
Il cappotto di Jean, Moblit lo ha rimosso già da prima, la camicia è dunque la
prossima a cadere.
Hange sfila ad uno ad uno i bottoni dalle asole senza tradire più di tanto il
nervosismo del vedere Jean tornare a boccheggiare affannoso contro il cuscino.
Ne scopre il petto e l’addome, lo passa velocemente in rassegna sotto le lenti prima di toccarne dei punti specifici dei fianchi e
dello stomaco.
“Jean—?” chiama, “Sai dirmi cos’è successo? Hai dolore da qualche parte in
particolare?”
L’acqua gelida della pezzuola che Marco ha
appena rinnovato si divide in gocce e poi in rigagnoli, che come pulci
impazziti, corrono lungo la sua fronte disperdendosi in vari punti del suo
volto, e il fastidio è sufficiente per far sì che blateri qualcosa.
“Jean?”
“T—tutto—” sibila, tra i denti
stretti.
“Cosa?”
Tende gli avambracci perpendicolari al
torace, le nocche delle mani serrate ai bordi del lettino sbiancano. “Fa male—tutto—”
“Caposquadra, l’antifebbrile è pronto—”
annuncia Moblit come un messaggero dal cielo; e Hange non se lo fa dire due
volte.
---
“Non ami le iniezioni, lo so—” anticipa Marco
sospirando, perché non gli piace per niente il modo in cui Jean sta fissando
ciò che Hange ha in mano.
Probabilmente è solo un suo timore; nei rari istanti in cui sono aperti, le
pupille di Jean sembrano fuori fuoco. I denti, troppo impegnati, a battere non
gli permettono di proferire parola, ma c’è qualcosa nel modo in cui il suo
respiro affannoso si interrompe di colpo ogni qualvolta Hange cambia posizione,
che fa credere a Marco che quella mano sulla guancia, che con poca convinzione
tenta di voltarne il viso dall’altro lato, è esattamente dove dovrebbe stare.
“Questa temo dovrai fartela piacere, però.”
dice Hange, soddisfatta del farmaco giallognolo che brilla adesso nella sua
siringa, e Jean diventa più o meno simile a un gatto che arruffa il pelo prima
ancora che le si piazzi dall’altro lato del letto.
“Su, su –” cantilena allegra, con una nota di
sadismo, “Una punturina mi sembra un prezzo tutto sommato irrisorio da
pagare, se serve a sbarazzarsi di un simile febbrone da cavallo, non trovi
anche tu, Moblit?”
A labbra stirate e serrate, Moblit annuisce senza condividerne l’entusiasmo,
concentrato com’è a guidare Jean su di un fianco.
“Ci—” Marco ingoia qualcosa, ci riprova “ci
penso io, Signor Moblit. Non si preoccupi—” irrompe, perché non riesce ad ignorare
lo sguardo di Jean, e il modo in cui si è paralizzato quando la caposquadra gli
ha scostato i pantaloni dalle anche e il suo assistente ne ha immobilizzato
fianco e spalle.
È decisamente qualcosa che Marco sente di dover risolvere da sé.
Non sarà mai abbastanza, ma gli piace pensare di poter anche un po’ ricambiare
per tutte le volte in cui, imbrigliato dal dolore, era stato lui a sostenerlo.
Marco lascia cadere la mano sulle spalle
umidicce e tremanti, le cosce libere di Jean però, destano la preoccupazione
dell’assistente.
“Nei sei sicuro? Questa roba fa male—”
“Ma non dire assurdità, Moblit! Jean sentirà
a malapena un pizzico!”
Si premura Hange a correggere, con l’accompagnamento dei drammatici rantoli che
Jean ha preso a fare già da prima che la caposquadra cominci a sfregare un
batuffolo di ovatta su un lato della natica che, evidentemente, le piace molto.
La verità è, come al solito, a metà strada.
Hange lo punge in un momento in cui la mano
di Marco è sulla fronte, a tamponare con la pezza gelata proprio un punto in
cui poco prima ha sentito il calore aumentare.
Moblit frena un sobbalzo, Jean lo segue; stringe gli occhi, affonda i pugni e
un timido gemito tra il cuscino e il petto di Marco contro cui la febbre lo ha
fatto raccogliere, ma non si ribella.
Il ‘finirà in un attimo’ che Marco gli
ha sussurrato per tutto il tempo nelle orecchie come una litania, sortisce
l’effetto sperato.
“Hai visto? Non è stato così brutto, no?” squittisce Hange, massaggiando a
lungo la natica maltrattata come ogni qualvolta Marco le ha visto (più avvertito,
in verità) fare al termine di una iniezione,
“Moblit è sempre il solito esagerato. Crede che i soldati siano tutti dei
piagnucoloni come lui—”
Marco rilega a destra il tramutare del volto del vice-caposquadra Berner.
È sempre stato di una gentilezza e di una pazienza fuori dal comune con lui,
sente di dovergli questa cortesia.
“Il farmaco che ti ho somministrato potrebbe intontirti un po’, ma passerà
tutto con una bella dormita. Ad ogni modo, dobbiamo ancora capire la causa di
questo preoccupante rialzo di temperatura, perché l’antifebbrile farà scendere
la febbre ma non ne curerà la causa—”
Ed è l’estrema nonchalance di Hange a cogliere impreparato Marco, e non
sa dirsi neanche il perché – del resto, lui più di tutti, dovrebbe esser
abituato alla naturalezza con cui la caposquadra fa a meno di qualsiasi capo di
abbigliamento i suoi pazienti portino addosso.
È che avviene in un momento inatteso: Jean ha
ancora la testa affossata sul suo petto, e i suoi polpastrelli non hanno smesso
di grattarne la base della nuca, quando vede la caposquadra cominciare a
spingere verso le caviglie pantaloni e biancheria, che rimuove del tutto dopo
essersi disfatta con esemplare praticità anche degli stivali.
Marco arrossisce, e sente di farlo anche per
Jean che, intontito adesso anche dall’effetto del farmaco, sbava ad occhi
chiusi su uno dei suoi pugni, protrudendo le labbra lucide come un enorme
neonato.
Si sforza di non guardare come e dove la caposquadra stia frugando, sceglie
di concentrare alla sua sinistra solo sul volto luminoso di febbre di
Jean, sulla cui fronte, delle perle di sudore hanno cominciato già da un po’ a
fare la loro timida comparsa.
“Interessante,” Hange rompe di colpo il
silenzio, e Marco sobbalza.
Le vede sistemarsi meglio gli occhiali sul naso, fare cenno al suo assistente
di avvicinarle il lume, mentre con una mano sull’osso sacro, spinge Jean sulla
pancia.
Maldestro, Marco fa appena in tempo a far
scivolare via la testa di Jean dal posto occupato sul suo petto, prima di
vedere, con suo orrore, la caposquadra divaricarne una natica, direzionandone
la luce del lume.
“È da tanto che ha queste macchie qui?”
La mano che Marco si porta d’istinto alla bocca
per soffocare la sorpresa non sembra destabilizzarla.
Il crescente colorito paonazzo del suo assistente, neanche.
“Marco?”, richiama ancora la scienziata, in
attesa di una risposta.
“Non—non saprei—”, balbetta; il volto sempre più caldo e rosso, come se da un
momento all’altro potesse avvampare.
“Sei sicuro? Vieni a guardare meglio cosa intendo—” Il braccio che Hange stende
è troppo veloce, troppo improvviso perché la spalla di Marco possa schivarlo.
È partito da destra, non avrebbe
potuto avvisare il suo agguato neanche se lo avesse voluto.
Perché appunto, i suoi riflessi, non sono quelli di una volta.
Hange lo trascina accanto a sé, indicando in punta di dita la parete interna
della natica sinistra.
Marco riesce a vederla solo dopo alcuni secondi, ovvero quando decide ad aprire
le dita incollate a raggiera contro il suo unico occhio ancora buono.
“Ma—non state insieme voi due?”
Forse, Hange lo chiede perché il tremore e il rossore sul suo viso hanno
raggiunto dei picchi inattesi.
I dubbi, a quel punto, sono leciti.
Marco non risponde.
“Non—non lo so davvero, non—” ingoia un bozzo di saliva che scende giù pesante
e graffiante come una palla di cannone, “non ricordo—”
Evita di menzionare il fatto che Jean negli ultimi giorni sia stato alla sua destra
più di quanto avrebbe meritato.
Non è il caso.
Hange stira le labbra, mugola un ‘mmh’
poco convinto, prima di tornare a guardare lo strano arrossamento a forma di
bersaglio presente intorno all’area e perdersi tra i suoi pensieri.
Solo per un po’, però – solo per una manciata
di secondi in cui sembra divorare tutte le informazioni presenti in quella
macchia come alla ricerca di chissà quale segreto.
Poi, ridestandosi, ripiega sulla schiena i bordi della camicia appiccicata dal
sudore, rivelando una serie di macchie rosse arrabbiate. Molto arrabbiate.
Fin troppo, arrabbiate,
pensa Marco con orrore, quando su segnale di Hange, Moblit si premura a
sfilargli via la camicia.
Nessuno osa levare alcun commento.
Jean è troppo impegnato a galleggiare tra il sonno e la veglia, Marco ad
osservare le mani di Hange vagare silenziose sulla schiena di Jean ed esaminare
quelle macchie ad una ad una, Moblit ad assicurare la giusta illuminazione
all’indagine di quest’ultima.
Il silenzio cade sull’infermeria come una febbre: sono tutti in attesa di un
verdetto, di un cenno – e lo fanno respirando piano, come se temessero che
anche il rumore prodotto dai loro polmoni possa in qualche modo disturbare la
concentrazione della ricercatrice.
Eppure, c’è qualcosa di strano nel modo in cui Hange guarda quelle macchie;
Marco oserebbe definirla come una forma di diffidenza, di poca convinzione.
Le tocca, le preme ai bordi e intorno, le
osserva mentre perdono e riprendono colore, ma no – quel cipiglio non muta. E
non è normale.
Non è stupito infatti nel vedere la
caposquadra perderne interesse pochi istanti dopo.
Torna lesta alla natica di Jean, la separa dall’altra e la espone ancora.
Quella macchia sì che sembra avere presa su
di lei.
Quella sì che ha qualcosa da raccontarle.
Hange scuote la testa, contrae il labbro inferiore.
“Eppure, sono certa di averlo già visto da qualche parte—”
“No, non—non voglio un’altra iniez—ione, caposquadra
Hange…” blatera Jean ronfando, chiuso in un sonno ardente e ignorante,
fatto di bava schiumosa, implorazioni e frittate di riso.
Fine
prima parte ____________
NOTE: NON CORRETTA, NON BETATA.
Fanfiction scritta per la ‘KinkyBut Not Really Challenge’ del
gruppo Hurt/Comfort
Italia; è la prima parte di una fic da 11k circa.
Posterò le parti successive con un intervallo di una settimana l’una dall’altra
(ogni domenica).
Non ha una grande
trama; me ne scuso. È puro e semplice Hurt/Comfort.
Di cattivo gusto, per
giunta.
Può essere
considerata come un continuo della mia “Never forget we were
built to last”, tutt’ora in corso; ma in realtà, è un lavoro
indipendente (grazie al cielo).
Basta tenere conto del fatto che Marco sia sopravvissuto agli eventi canonici,
rimanendone comunque gravemente mutilato.
Marco rammenta ancora
la volta in cui Moblit gli disse di ricordare a memoria la posizione di ogni singolo
volume della biblioteca scientifica del corpo di ricerca; la febbre gli si era
alzata di colpo in un momento in cui né Jean, né Hange erano lì, convocati
d’urgenza alla capitale dopo una spedizione disastrosa.
Moblit aveva allora raccolto un paio di libri, mischiato qualcosa al volo e
gliela aveva fatta bere in fretta; poi, in attesa che facesse effetto, nervoso,
si era seduto al suo capezzale e si era messo parlare. Forse un po’ troppo, in
realtà. Perché aveva finito per rivelargli di ricordare la posizione anche di
quelli che, come in questo caso, avrebbe fatto meglio a non conoscere.
Il codice alfabetico differente del pesante tomo che Hange fa cascare sulla
scrivania è un segno inequivocabile. Marco schiude la bocca, lo stupore gli
solleva gli zigomi.
“Ma sono dei libri—” l’occhiata di Hange e di Moblit lo frenano dal terminare
la frase con ‘proibiti, provenienti dall’esterno’.
“C’è una ragione per la quale le aspettative di vita dei soldati che vengono
ricoverati all’interno dell’infermeria del corpo di ricerca è sempre così
alta—” spiega, con un’aria di chi non vuole esporsi troppo.
Marco impallidisce, si limita ad un cenno di assenso, poi torna a guardare il
libro.
La scrittura è
intelligibile, ma un’illustrazione mostra un segno simile a quello apparso
sulla natica di Jean.
“Borreliosi,” annuncia Moblit, lancia uno sguardo preoccupato ad Hange, rimane
in attesa.
A quel punto, i tentativi di Marco di esercitare qualsiasi controllo su se
stesso, falliscono ingoiati da un capogiro: “C—che cos’è?”
Del tutto familiare con i caratteri nel testo, Hange ne sintetizza ad alta voce
i contenuti.
“È un’infezione
trasmessa all’essere umano da zecche infette, che si attaccano all’individuo
ospite per nutrirsi del suo sangue.”
Aggiunge un’altra
manciata di dettagli che Marco non ascolta neppure, perché Jean alle sue spalle
ha ripreso a lamentarsi in preda ad un dolore misterioso esplosogli da qualche
parte, e basta quel fiato perché tutto, sopra, sotto, sinistra o destra,
per Marco smette di avere importanza.
“Jean—!” grida, forse
eccessivamente; il vecchio senso di colpa e disperazione torna a brandirlo
proprio in momenti simili, e proprio in momenti simili sente di non avere
assolutamente idea di cosa fare.
Hange rimane china
sul tomo, alienata dalla realtà; Moblit invece lo raggiunge, e le dita che
poggia sul collo e poi sul petto di Jean lo richiamano alla calma.
“Va tutto bene,”
insiste l’assistente, “è stato solo un crampo,”
“Fategli bere dell’acqua,” comanda Hange, senza distogliere lo sguardo dalla
pagina che ha appena voltato.
E Marco si premura a
tirarlo bene quel lenzuolo sulle gambe di Jean, prima di far scivolare il
braccio sotto le sue spalle, sollevarlo contro la propria schiena, e
avvicinargli alle labbra il bicchiere che Moblit gli ha appena versato.
Jean è più o meno
sveglio, anche se rimbambito – e fa tenerezza.
Dal suo petto, ruota gli occhi verso l’altro come a chiedergli ‘cosa diamine
dovrei farci con questo bicchiere?’
“Hai sentito Hange? Coraggio, bevi—”
“Voglio una frittata
di riso,” insiste con tono di stizzito. Soffia, mostrando i denti “non un’altra
iniezione da quella psicopatica. Le piace il mio culo, Marco. Il mio
culo. E dove diamine è la mia frittata di riso?”
Imbarazzato, Marco copre i suoi deliri con una serie di shhh, che si
augura Hange non lo abbia sentito. Non resiste alla tentazione di piegare il
collo e lasciare un bacio tra i capelli radi che ricoprono le tempie di Jean.
È così intontito da non riuscire neanche a riprenderlo per i toni.
“L’avrai, l’avrai non appena starai meglio” – assicura, quasi divertito “ma
prima bevi questo, è importante—"
“Se non berrai, sarò costretta davvero a farti un’altra iniezione, caro Jean
–” cantilena distrattamente Hange, mentre finisce di ricopiare una serie di
informazioni ben precise tratte dal libro, di cui attenta, tiene il segno con
l’indice della mano sinistra. “E te la farò proprio su quel culo di cui
hai una così alta considerazione—"
La frase, unita al crepitio della carta che Hange strappa, fa andare di
traverso l’acqua a Jean, che tossisce un paio di volte contro la sua cassa
toracica, poi, sfinito e lamentoso, poggia la testa sulla sua spalla.
Quella di sinistra, perché forse, nonostante tutto, dentro di sé
qualcosa gli dice di dover stare lì.
“Moblit,” La
scienziata si volta, consegna il foglietto al suo assistente. “Vai in
laboratorio, dì a Nifa di preparare questo composto; aiutala, se necessario–
con un po’ di fortuna, dovremmo avere tutti gli ingredienti già a disposizione.
È importante che sia pronto all’uso entro questa sera.”
Moblit scorre con gli
occhi la lista, poi annuisce e scompare, inghiottito dai tetri corridoi.
La sua uscita di
scena, porta un improvviso, inatteso silenzio.
Hange chiude il
libro, poi gli occhi. Raddrizza la schiena, tira un respiro profondo, simile a
quello che tira anche Marco dopo aver abbandonato il bicchiere vuoto da qualche
parte, e usato il suo braccio per stringere Jean al suo petto, ancora e
ancora.
Jean, dal canto suo, sfrega la testa contro l’incavo della sua spalla.
Solleva il mento, lo guarda per un istante, prima di mormorare qualcosa che
somiglia ad un ‘Dio, quanto ti amo’, seguito dall’ennesima richiesta
bizzarra, un sogghigno leggero, per poi, finalmente, chiudere gli occhi e
tornare a sognare (e sbavare).
“D’accordo,” dice
Hange, percorrendo la breve distanza che la separa dal lettino, “adesso si
comincia davvero a giocare,” annuncia, ma l’espressione sul viso non è
quella che Marco immaginerebbe di vedere in qualcuno che sta per giocare.
Sente il pomo d’Adamo sollevarsi e grattargli la gola arsa mentre deglutisce,
perché non c’è stata una sola volta in cui il rimboccarsi le maniche della
caposquadra non abbia portato a dei risvolti drammatici e Marco quasi
non si accorge che quello in cui cinge Jean non è più un abbraccio: è uno
scudo.
“Giocare?”
“Già,” risponde Hange
senza guardarlo. Si sciacqua le mani, e anche questo, non è un buon segno.
“Una caccia al tesoro!” si atteggia come a voler forzare un entusiasmo e una
leggerezza che questa volta, arranca ad ottenere. “Hai mai preso parte ad una
caccia al tesoro, Marco?”
Marco non capisce
cosa intende, ma importa poco.
Sa che non si aspetta davvero una risposta.
“Hange – mi dica la
verità—“ non è sicuro di dover fare questa domanda; non sa neanche perché
vorrebbe farla in realtà.
A spingerlo, è più la consapevolezza di conoscere bene quella cosa, quel
sentimento di disperazione e di sconfitta che ha vissuto su se stesso tante e
tante volte in quell’anno a questa parte.
“Jean—Jean riuscirà a—?”
Hange sospira; allontana lo sguardo pesante da loro due; probabilmente perché
sa di non essere poi così brava a mentire.
“È un’infezione seria, ne ho sentito parlare tempo fa. Pare abbia colpito uno
degli allevatori più conosciuti di Trost.”
“E com’è andata?”
Hange stringe le spalle; si avvicina alle caviglie di Jean, sembra cercare un
modo per ritardare quanto più possibile la risposta.
“È andata come spesso va a coloro che non hanno la fortuna di essere curati
nell’infermeria del corpo di ricerca.”
Marco china la testa,
scorge appena la linea del viso di Jean sulla sua spalla, il corpo morbido e
caldo abbandonato contro il suo petto, il respiro adesso incredibilmente
regolare – “Io—io non posso perderlo—” piagnucola “Non senza prima aver fatto
pace…”
Sa di essere patetico
mentre lo pronuncia con il viso deformato dalla colpa, ma sa anche che quella
sensazione è ciò che merita.
“Però ehi – qui siamo
nell’infermeria del corpo di ricerca!” Ci tiene a rimarcare Hange, stressando
bene alcune parole chiave, “Abbiamo affrontato infezioni ben peggiori. Ricordi
le tue ricadute? Quante volte hanno rischiato di portarti all’altro mondo? Ma
alla fine? Eccoti qui, ad abbracciare il tuo fidanzato che sta disseminando la
sua bava dappertutto,”
Si china velocemente,
passa la piega di una garza su di un angolo delle labbra di Jean
particolarmente generoso.
“Jean se la caverà.
Moblit e Nifa stanno già lavorando ad un medicamento; farò di tutto affinché
non abbi problemi.” osa temeraria annunciare, e Marco le è grato per quel suo
eccesso di fiducia verso qualcosa che, in fondo, sa di non poter controllare.
Del resto, lo riconosce: è lo stesso che Hange usava con lui ogni qualvolta
sentiva in cuor suo di essere ormai alle porte dell’Inferno, e invece, in
qualche modo, riusciva a convincerlo che non era così.
“Caposquadra Hange,”
“Grazie. Per—per tutto. Per quello che sta facendo per Jean, e anche – per
quello che ha fatto per me. Non ho scordato con quanta premura e quanta
pazienza ha saputo rimettermi in sesto.”
Perché Marco se le
ricorda tutte, le notti in cui Hange è rimasta al suo capezzale insieme a Jean,
a vegliarlo aspettando che la febbre scendesse, o a rendere più sopportabile la
sua spasmodica attesa di una nuova dose di antidolorifici ubriacandolo di
aneddoti più o meno realistici sui giganti.
Si ricorda ogni singolo sospiro della scienziata, e ogni singola volta in cui,
quasi materna, ha accarezzato capelli e guance bagnate, sue e di Jean, senza
mai perdersi d’animo.
Hange solleva gli occhi dalle caviglie di Jean che ha preso ad esaminare, gli
rivolge uno sguardo incerto, poi sorride.
Non dice niente, probabilmente perché qualunque cosa direbbe, suonerebbe come
una stupidaggine; Marco ne è convinto, e le è grato anche di questo.
“Forza, lavati le
mani, iniziamo questa ‘caccia al tesoro’ di cui ti parlavo,” dice, con
un sorriso minaccioso. “Dobbiamo trovare lei.”
“Lei?”
“O loro, a
seconda di quante siano—” si corregge, torna a girare sulla mano una caviglia
di Jean. “È molto probabile che la zecca che ha infettato Jean sia ancora sul
suo corpo. Dobbiamo cercarla, trovarla ed estrarla al più presto.”
Marco rabbrividisce,
il suo volto perde colore. “Quindi Jean in questo momento ha—”
Hange fa un cenno di
assenso con la testa, nel frattempo è già passata ad ispezionare l’altra
caviglia.
“Non possiamo averne la certezza, ma è molto probabile sia così – avanti,
staniamola! Dobbiamo passare in esame ogni centimetro del suo corpo, in
particolare le zone nascoste e coperte da peluria, ma non solo—”
Se la sola idea di un
parassita mortale a piede libero sul corpo di Jean può avergli messo addosso un
certo disagio, l’idea adesso di scandagliare ‘ogni centimetro del suo corpo,
in particolare le zone nascoste e coperte da peluria, ma non solo’ gli fa
sentire i morsi dell’agitazione mangiucchiargli tutto ciò che i titani gli
hanno risparmiato.
“Dai, diamoci da
fare!” incita Hange, e davvero – davvero, Marco si paralizza.
Lo fa nell’esatto istante in cui torna a sentire le labbra di Jean che si
aprono e si chiudono contro il suo petto, in un fruscio ritmico, e che in
qualche modo, gli fa, di colpo, percepire tutta la sua vulnerabilità.
“Jean—” lo scuote un po’, poi ancora un altro po’. Passa una mano sul viso,
inizialmente è una carezza, poi diventa qualcos’altro: un tocco volutamente
fastidioso. “Jean, svegliati—”
Hange solleva gli occhi. Qualunque cosa abbia intenzione di fare sollevando il
ginocchio destro di Jean, la interrompe “Cosa stai facendo, Marco?”
“Jean!” insiste
ancora, rosolato in volto dall’incapacità di fornire una risposta sensata alla
caposquadra.
“Marco, non è necessario svegliarlo. Lascia che dorma, gli farà bene—.”
Avvisa Hange, posando la mano sulla sua, che proprio non vuole più avere sul
suo petto il volto di Jean.
“Non—non posso toccarlo mentre è così—”
“Eh?” Hange strabuzza gli occhi, tira in dentro il mento “Di cosa stai
parlando? Così come?”
“Mentre…mentre
dorme!” grida, forse con più slancio e più trasporto di quanto Hange abbia
mai visto sino ad ora da parte sua.
La scienziata sobbalza; indietreggia turbata, solleva i palmi delle mani
all’altezza delle spalle in segno di resa.
Jean galleggia ancora in un limbo inesplorato, con le palpebre chiuse e la
bocca imbrattata, aperta in una vocale muta, e Marco quella testa la stringe
talmente forte da sentire il riverbero del cuore impazzito rimbalzare contro
una parte non meglio precisata della sua fronte. E brucia.
Di vergogna, ma anche di qualcosa che non ha ancora un nome.
“Va bene,” dice
Hange, ancora confusa dall’inattesa insorgenza. “Va bene, Marco. Non
innervosirti.”
Marco ha ancora l’occhio coperto da una patina tremolante, simile alla condensa
che si crea sui vetri della finestra in questi giorni di pioggia, e questa non
gli permette di vedere bene quello che sta accadendo neanche alla sua sinistra,
che comunque, già da un po’, rincorre frenetico ovunque perché diamine – a
volte deve proprio vederla per intero, la roba immonda che accade intorno a
lui. Solleva quel che rimane della sua spalla
destra, cerca di schiarirsi la vista strofinando le ciglia contro di essa, ma
non ci arriva.
“Non riesco a svegliarlo—” dice, con voce rotta, giusto perché sente le lacrime
tornare a riaffiorare sui suoi occhi senza una vera e propria motivazione, e ne
ha bisogno una.
Hange si avvicina titubante, allunga prima le dita verso Jean; procede verso il
suo collo quando realizza con uno scambio di sguardi che non l’avrebbe morsa.
“Jean—” chiama lei,
lo afferra piano da sotto le braccia e poi lo scosta; lo fa rotolare lentamente
sul lettino, prima di tastargli ancora la giugulare e poi la fronte. “Jean,
svegliati”
“Jean!” grida ancora Marco, le dita a muoversi frenetiche da un punto all’altro
del suo volto e del torace nudo.
“Sta bene,” rassicura Hange, prima che il panico possa esplodergli in corpo,
così come anche a lui sembra di sentire ticchettare “è solo un effetto
collaterale del farmaco: provoca stordimento e sonnolenza;”
Jean comincia ad aggrottare le sopracciglia e a mugugnare solo dopo che le
nocche di Marco e di Hange hanno battuto talmente tanto su quelle guance da
farle arrossare.
Si guarda intorno, spaesato ed esausto. Cerca di muovere la bocca, prima di
accorgersi che l’azione non è poi così scontata – “Che sta succedendo?”
borbotta infastidito, come se non avesse memoria degli eventi precedenti.
Hange allunga la mano, intinge lievemente la pezzuola nel bacile, ne approfitta
per portargli via il sudore che sembra aver invaso ogni singolo angolo del suo
volto.
“Scusami, Jean – io ti avrei anche lasciato dormire in pace, ma il tuo fidanzatino,
qui, ha qualche problema con il fatto che ti ispezionassimo mentre dormi—”
Sono, probabilmente, troppe informazioni.
Gli occhi di Jean ruzzolano verso sinistra, ricercano oltre le mani con cui
Hange gli cinge le gote.
“Marco?” biascica, debole.
Con la vergogna che è lì lì per mutare in umiliazione, Marco avverte rigagnoli
di sudore colargli sotto la camicia, lungo il torace atrofizzato. Non sa dire
se suo o di Jean, però.
Lo ha tenuto così tanto tempo sul petto che ormai, è come se fosse diventato un
degno sostituto di ciò che gli è stato tolto.
“Sono qui—” lo sfiora, con le parole e con le mani. “Sono qui, Jean—”
“Mi sembra che la
febbre stia scendendo,” il tocco di Hange è di nuovo sulla sua fronte, ma ci
rimane solo alcuni secondi. “È certamente un buon segno,” aggiunge, “ora, se
permetti—” perché è chiaro che non abbia altro tempo da perdere.
Marco annuisce alla scomoda richiesta, lascia che Hange scansi il lenzuolo che
lui stesso ha voluto tirare fino sotto al mento di Jean come un temporaneo
sipario mentre tentava di svegliarlo, e lascia anche che lo sguardo di Jean,
confuso e disorientato, lo fissi.
“Poi qualcuno mi spiegherà perché sono nudo, vero?” fa in tempo a domandare,
prima che la sua voce impastata si interrompa, per le risa isteriche che lo
colgono d’improvviso, poi per la mano che Marco gli preme sulle labbra per
zittirlo.
“Stiamo cercando—”
Hange solleva gli occhi dalle dita dei piedi di cui sta scrutando ed esaminando
fastidiosamente lo spazio tra ognuno; fa scivolare gli occhiali sul naso, il
ghigno tradisce una certa dose di curiosità verso la risposta che darà.
Marco si schiarisce la voce, pensa ad una decina di modi e una decina di
intonazioni in cui potergli dare la notizia.
“Un parassita che si annida sul tuo corpo.” si ferma, porta lo sguardo
distante, perché non è in grado di reggere quello di Jean che si deforma
dall’orrore “una zecca, con la precisione—”
“Una che—che cosa!?” raccogliendo forze che evidentemente non sapeva di avere,
Jean si divincola, balza seduto sul letto.
“Calmo! Devi restare fermo, Jean!” lo blocca Hange. E non è difficile
riportarlo al punto di partenza: lo sconsiderato movimento è sufficiente a
provocargli un capogiro da paura; probabilmente, sarebbe tornato a distendersi
anche senza l’intervento di qualcuno.
“Ho una—una bestia che mi corre addosso?!”
“È quello che stiamo
verificando,” risponde Marco, passandogli la mano tra i capelli – “Ma non
preoccuparti, io e la caposquadra Hange la troveremo e rimuoveremo!”
“Cristo—” Jean lancia
gli occhi al soffitto, impallidisce, e Marco si guarda intorno; perché se
Jeanè davvero un passo dal vomitare,
così come sembra, avrà bisogno di un catino, o qualcosa di simile.
Ma non accade.
Marco sente la presa del suo indice sulla manica.
“Vuoi dirmi che è stata una zecca a ridurmi in questo stato?” domanda, e Marco
ci pensa un attimo – è stata davvero solo la zecca?
“Sì, con molte
probabilità è così.” mente, anche un po’ a se stesso.
“È un problema molto
comune, soprattutto per chi, come noi, ha a che fare con i cavalli” aggiunge
Hange, mentendo.
E a quel punto, Jean esala profondo sospiro di resa, o per lo meno, prova a
farlo; perché le mani di Hange che vagano sul suo corpo, evidentemente, non
sono qualcosa che riesce facilmente ad ignorare.
Ancor meno riesce ad
ignorarle quando poggiano su uno dei suoi fianchi e spostano in alto la
striscia di lenzuolo arrotolata che la sua dignità aveva ancora a disposizione.
Lì Marco può vedere i tendini del collo tendersi, le braccia partire verso le
mani della caposquadra che vanno impudiche a sondare zone fin troppo azzardate
e…
“Fermo!” lo blocca, Marco; più con la voce, che con quel ridicolo tentativo
effettuato dal suo unico braccio di ostacolarne i movimenti “Lascia che la
caposquadra lavori—” e solo lui sa quanto sia stato difficile riuscire a
liquidare ciò che Hange sta facendo tra le sue gambe come ‘lavoro’.
Hange è pericolosamente curvata sul pube di Jean, una mano sollevata a
direzionarne il fascio di luce della lampada a olio verso l’aria di interesse,
l’altra a punzecchiare, stuzzicare e smanacciare l’inguine, dove ciuffetti di
peli rossi sembrano acuirsi ancora di più al passaggio di quelle dita fastidiose
e invasive.
“Ma che—che—che cosa sta facendo!?” grida Jean, scandalizzato. Ed è uno di quei
momenti in cui nessuno dei suoi ‘Shhh’ può davvero far qualcosa per
impedirgli di piegare le gambe e sfregare i talloni contro il rivestimento del
lettino, nell’ingenuo tentativo di potersi davvero sottrarre a quel tocco.
“Jean!” rimprovera Hange, secca. Così secca, che, probabilmente, poteva anche
fermarsi lì, ma continua – “È meglio per te che stai fermo, sai? Ci metto un
attimo a chiamare due-tre reclute a immobilizzarti braccia e gambe!”
E per quanto scorbutica possa esser stata, Marco non può che ammettere che sì,
quello era il tono giusto.
Perché Jean adesso è immobile; congelato come una statua di marmo sotto uno
sguardo così tagliente che quello stesso marmo sembra poterlo sbriciolare alla
prossima mossa falsa.
Solo dopo un paio di secondi di assoluto, pesante silenzio e staticità, Hange
sorride allegra, spinge i suoi occhiali in alto sul naso, Jean riprende a
respirare, e l’intero universo insieme a lui.
“Ma che bravo, vedo che hai capito – è proprio così che ti voglio,” miagola,
fastidiosa, “Adesso, apriamo bene queste gambe e fammi vedere se la nostra ospite
si nasconde qui, da bravo—”
E agli occhi di
Marco, è assolutamente incredibile la docilità con cui Jean si lascia
congiungere i talloni e poi allargare le gambe lasciandole ricadere ai lati.
Silenzioso e
rabbuiato in volto, Jean punta gli occhi verso un punto imprecisato del
soffitto; ingoia piano, a labbra strette, quasi temesse il suono scaturito
dalla sua gola possa in qualche modo disturbare il lavoro di Hange.
‘È stata
colpa tua’, lo
pungola una vocina interna. ‘Sei stato tu quello che ha preferito rilegarlo
a destra e lasciare che andasse a dormire nelle scuderie, piuttosto che
perdonarlo’ ma è un pensiero talmente cattivo, talmente crudele anche solo
da formulare mentalmente, che il senso di colpa che ne genera fa partire la
mano di Marco verso il volto di Jean prima ancora che il suo cervello realizzi
di averlo fatto.
“Ehi—”, bisbiglia, e il suo tocco su quella guancia distorta dalla tensione si
ferma per un istante; non va né avanti né indietro. Marco si ferma lì, a
guardarlo dentro gli occhi come non faceva da tempo, mandando a quel paese il
suo orgoglio scarnificato dalla vergogna.
“Lo sai che presto starai bene, vero?” bisbiglia, come una patetica ragazzina
di undici anni; e come una ragazzina di undici anni, Marco sa che Jean annuirebbe
volentieri, perché di fronte a quel sorriso ebete che le sue labbra sanno fare
in momenti simili, difficilmente saprebbe fare altro – ma Hange ha appena
insinuato un dito in parti che il corpo di Jean non apprezzano, e lo vede,
Marco – Jean è a tanto così dall’urlare, ed è per questo che di colpo, la sua
mano balza dalla guancia alle labbra, in un riflesso condizionato.
“Ssshh, non urlare—” gli intima con un filo di voce, “Fossi in te
eviterei di farla arrabbiare ancora…”
Jean freme,
trattenendo il respiro, e quando proprio non ce la fa, mugola un lamento umido
contro la sua mano; Marco capisce che deve proprio impegnarsi, perché Hange,
curvata adesso in un modo ancora più raccapricciante, proprio non sembra
aver finito con la sua ispezione, e diamine – non sa fin quanto le sue
stupidaggini possano tenere la mente di Jean lontano da quella tortura che si
sta consumando sotto ove-un-tempo-vi-era la cintura.
“Sai anche che sono stato un autentico imbecille, e che mi domando come tu
abbia ancora voglia stare con me, vero?” pronuncia, sconnesso – quasi
inavvertitamente.
E forse, sin dall’inizio, quella mano sulla bocca ci è finita proprio in
previsione di quella frase: perché in nessun altro modo Jean ascolterebbe
quelle parole sino in fondo, senza interromperlo o replicare con qualcosa di
stupido che lo avrebbe fatto bruciare di vergogna più di quanto già non faccia
già di suo.
“Cristo, Jean—” ridacchia nervoso “Tutto questo è davvero colpa mia—”
“Sei una zecca?”
L’interruzione di Hange giunge nel modo e nel momento meno atteso. Se non la si
fosse udita chiaramente, chiunque potrebbe dire non sia mai esistita.
Non smette di fare quel che sta facendo, non solleva neanche gli occhi dal
perineo di Jean contro cui alcune delle sue dita stanno indagando in maniera
oltremodo fastidiosa.
“Cosa?”
“Ti ho chiesto se sei una zecca, per caso –“ ripete svogliatamente, trattiene
un ciuffetto di peli pubici da una parte, sonda meglio un punto poco distante.
Marco si guarda intorno confuso. Jean alza lo sguardo su di lui, altrettanto
confuso.
Tempo scaduto.
“Beh, se lo fossi lo avresti già ammesso. Dunque, direi che la risposta è no,”
bofonchia la scienziata; cambia posizione dei gomiti, inclina il bacino di
lato, “E dato che è no, mi domando come faccia ad essere colpa tua.”
Lì, gli occhi li solleva. E Marco si sente più esposto di quanto Jean non lo
sia.
“Dorme—”, si interrompe,
abbassa gli occhi; diamine, da quanto non riesce più a dire una frase per
intero!? “–dorme nelle scuderie da giorni. Da quando abbiamo litigato…”
Jean sgrana gli
occhi.
“Beh, ma non gli hai detto tu di andare a dormire nelle scuderie.” Hange fa
spallucce, poco convinta.
“Però lo sapevo!” insiste, e a quel punto, Jean lotta, cerca di liberare le
labbra dal peso della sua mano, ma Marco non lo permette. “E non ho fatto
niente per impedirlo…”
“Ma non potevi però sapere che sarebbe stato attaccato da una zecca. Tutti
abbiamo dormito nelle scuderie almeno un paio di volte. Il tetto è il posto
migliore, in estate.”
Marco tace un paio di secondi, un po’ vorrebbe crederci, ma qualunque cosa
dirà, sa che è una battaglia persa.
“È comunque colpa
mia; l’ho rilegato a destra…”
“A destra?” Hange solleva un sopracciglio confusa.
“È una stupidaggine;” Marco sorride con il sorriso amaro di chi sa di non poter
essere compreso.
“No, sembra
interessante, invece. Cosa vuoi dire?”
Marco porta il peso sull’altra gamba, si addenta imbarazzato il labbro
inferiore, espande il sorriso –
“È che …la mia destra non esiste. Da quel lato non vedo, non sento – non c’è
niente da quella parte. E ho come l’impressione di aver messo Jean da quel
lato, negli ultimi giorni. Tra le cose che non esistono.”
Hange assorbe il suo
discorso in silenzio, come volesse dar un senso all’insensatezza di quel
concetto che, per la prima volta, pronuncia ad alta voce.
Poi, per niente impressionata, scuote la testa.
“Puoi sempre voltarti.”
“La tua ‘destra’
come la chiami tu, forse non esisterà più così come dici. Ma puoi voltarti.
Tramutarla in sinistra in qualsiasi momento.”
Marco dondola un po’
la testa, si perde nel concetto a cui gli si chiede di aggrapparsi.
“Ah, basta con la filosofia spicciola, non l’ho mai sopportata—” Hange taglia
corto, abbassa gli occhi, lo abbandona ai suoi pensieri tornando da Jean.
Marco fa la stessa
cosa, ma da un’altra parte del suo corpo.
Quando discosta la mano dalla sua bocca, Jean lo grazia. Lo guarda con sguardo
appiccicoso e cupo, lo sguardo di cui Marco ha più timore in assoluto, ma non
dice niente a parte, un blando, appena accennato ‘sei veramente uno stupido’.
“Forza, adesso basta
piangersi addosso. Vieni qui, credo di aver trovato qualcosa—”
È come una manna dal
cielo: Marco non se lo fa ripetere due volte.
Immaginare che la ragione per cui Hange lo abbia chiamato possa essere peggiore
dello stare lì, sotto lo sguardo punitivo di Jean, però, è qualcosa che il suo
cervello processa solo una volta di fronte alla drammatica, glaciale richiesta:
“Sollevagli il pene, per favore.”
Fine
seconda parte
--
NOTE: NON CORRETTA; NON BETATA
Ve lo avevo detto che sarebbe stata imbarazzante e cringe, no? Certo che ve lo
avevo detto. V_V
La terza e ultima parte tra una settimana!
Nel frattempo, veniteci a trovare sul gruppo Hurt/Comfort Italia,
gruppo da cui è nata questa fic (sfida ‘Kinky but not really’)
PS: Questa fic può essere
considerata come un continuo della mia “Never forget we were built to last”, tutt’ora in corso; ma in realtà, è un lavoro indipendente
(grazie al cielo). Basta tenere conto del fatto che Marco sia
sopravvissuto agli eventi canonici, rimanendone comunque gravemente mutilato.
Jean sobbalza. Marco fa altrettanto, ma non
sa dire se per la richiesta, o per il modo orrendo in cui Jean ha sputato la
sua domanda, gracchiandola con una forza che
probabilmente, non pensava neppure di avere.
Il riverbero dell’incredulità si leva nella stanza e la scombussola, la mette a
soqquadro: l’universo perde il suo normale equilibrio primordiale.
“Resta fermo dove sei, Jean.”
Hange non si scompone; non alza neanche più di tanto il tono.
La mano che poggia su quel ginocchio tremante, e l’occhiata di fuoco che
scaglia all’improvviso e che sembra capace di poter bruciare di colpo l’intero
mondo, è sufficiente perché il suo comando diventi perentorio.
Jean, tace.
Ammutolito come se gli avessero tagliato la lingua, torna ad appoggiare la nuca
sul lettino, levando uno sguardo vacuo e disperato al soffitto.
Hange lo fissa in quel modo per un’altra
mangiata di secondi, prima di voltarsi, di nuovo morbida in viso, e ripetere la
cortese richiesta a Marco, che torna a percepirsi come essere composto da
carne e ossa solo nell’istante in cui la caposquadra gli rivolge la parola.
“Allora,” sorride, rimodula il tono “spiego meglio,” si schiarisce la voce,
“voglio esaminare con maggiore attenzione l’area testicolare e perineale, e per
farlo, ho bisogno che qualcuno tenga sollevato il pene di Jean, e che lo faccia
qualunque cosa succeda—"
Il modo in cui calca le ultime parole è sufficiente perché il cuore dia uno
strattone al petto; lo stesso che probabilmente ha dato a Jean, che si lascia
sfuggire per errore un suono rauco dalla gola.
“Ti faccio vedere.” ne dà una dimostrazione pratica, e a quella vista, Marco ha
una vertigine, o un capogiro: una di quelle cose che fa sentire le gambe molli
e tremolanti, come fossero vittime di un ingranaggio difettoso del cervello, e
che peggiora drasticamente quando la scienziata, stanca del suo titubare,
prende la sua mano e la va a piazzare lì, dove gli è richiesto di stare,
sostituendola alla sua.
“Ecco, così—tieni ben saldo, mi raccomando—”
E un gemito fuoriesce, che gli piaccia o no.
Hange non sembra sorpresa, e infatti, non ha nulla da ridire al riguardo. Marco
si stringe nelle spalle, sente l’equilibrio venirgli meno, ma al contempo,
sente anche di dover prestare la massima attenzione – perché la fragilità
di Jean è tutta lì, sotto il suo palmo tremante e sudaticcio, e non può
permettersi di crollare proprio lì, proprio in quel momento.
Che resista, è anche la disperata, silente implorazione di Jean, che gli lancia
con uno sguardo che Marco volentieri rilega a destra; non vuole
incrociare.
Nel frattempo, Hange si è già rimessa al lavoro, e la serenità e concentrazione
con cui lo fa, ha del disumano.
A Marco verrebbe da pensare che quel mormorio intelligibile che gli sembra di
sentire nell’aria, sia in realtà il rumore dei suoi pensieri, che efficaci e
analitici, risolvono un enigma nascosto nel luogo meno opportuno che riesca a
immaginare, e non il ronzio di un insetto entrato per caso in quello spaccato
caotico delle loro vite.
Si rende conto che non è né l’uno né l’altro, quando il suo occhio si sposta
per la prima volta dal pavimento a Jean, e può vederle, quelle labbra pallide
muoversi meccaniche e rivolgere una nenia, forse addirittura una preghiera
all’etere, che si interrompe insieme al suo respiro, ogni qualvolta le dita
sue, o di Hange, finiscono per muoversi anche solo di un millimetro di troppo
sulla pelle tesa.
“Eccola qui,” di colpo, ogni cosa ritorna al suo posto.
Marco ha un momento di smarrimento; trasalisce, come se si stesse
improvvisamente risvegliando da un sogno.
Guarda Hange, poi di nuovo Jean – guarda anche quella mano che, forse sta
stringendo un po’ troppo, perché le ginocchia di Jean fanno per tendersi di
scatto, bloccate poi da un nuovo rimprovero – più lieve, c’è da dirlo – della
caposquadra.
“L’ho trovata—” smaniosa, Hange tira a sé il
lume.
Si china oltre ogni soglia della decenza. Il mignolo e l’anulare di una
mano spingono i testicoli che ricadono nella zona di suo interesse, e Marco è
sorpreso di non necessitare ulteriori spiegazioni: raccoglierli piano, con
delicatezza, è per lui istintivo.
“Shhhh”, sussurra a Jean, per l’ennesima
volta, perché può vedere le sue dita contorcersi contro l’aria, come ad
afferrare qualcosa che non riesce a vedere.
“Puoi stringermi il polso, se vuoi” dice, a
bassa voce “ma ti prego, ti prego: non muoverti.”
E pare incredibile anche a lui, come Jean faccia tutto quello che gli chieda,
privo di sbavature.
Hange nel frattempo ha allungato un braccio e afferrato una grossa lente di
ingrandimento poggiata sul carrello al suo fianco; continua imperterrita
nell’osservazione di ciò che sostiene aver trovato, e le ulteriori indagini non
fanno che confermarlo.
“È proprio una zecca…” annuncia, “guarda come
si è insidiata bene, questa piccoletta—” la pungola incuriosita con un’unghia.
“La prego, faccia in fretta, caposquadra Hange!” perché adesso che la conferma
è giunta, il viso di Jean ha assunto una tinta che va dal verdognolo al blu, e
il conato che ha fatto seguito al ‘mi sento male’,
bisbigliato prima di premersi da solo la mano contro le labbra, Marco lo ha
visto e soprattutto, sentito.
Hange solleva gli occhi, riprende consapevolezza del tempo. Si volta, afferra
un oggetto che Marco identifica come una pinzetta solo nel momento in cui ne
vede brillare le punte sotto la fiamma del lume.
“Va bene, questa potrà fare paura, ma prometto che sarà del tutto indolore, o quasi…”
dice, va per aggiungere qualcos’altro, ma decide di terminare lì il discorso.
Si volta verso Marco: “Mi raccomando,” intima, “vedi di tenere per bene quei gioielli
di famiglia. Non mollarli per nessuna ragione, intesi?”
Marco non può neanche immaginare che forma e che colore abbia assunto la sua
faccia quando ha annuito; ma alla caposquadra non sembra importare.
“Quanto a te, Jean: ti voglio assolutamente fermo. Fermo come una statua di
granito, perché altrimenti…”
Jean strabuzza gli occhi quando la pinzetta
rovente si avvicina pericolosamente alla sua pelle e tira.
Leva un grido.
Inorridito, Marco chiama il suo nome, poi quello della scienziata, ma la pinza
non lo ha sfiorato, in realtà.
Quando trova il coraggio di guardare oltre il ginocchio piegato, Marco si
accorge da sé che ha solo afferrato un piccolo pallino nero testardamente
ancorato al perineo di Jean, e che lotta per restarci mentre Hange ne studia la
giusta angolazione per tirarla via.
“Ancora un istante—” borbotta decisa, i denti stretti a sfilettarne la
concentrazione, “Fatto!” esclama, rinvigorita dalla vittoria.
Jean chiude gli occhi, esala con un gemito tutta l’aria che ha trattenuto,
riprende a respirare.
Marco sente il bisogno di fare altrettanto. Le gambe tornano ad essere di
gelatina (non si era neanche accorto fossero mutate, in realtà), la mano con
cui continua a scostare parti di Jean dal loro luogo prestabilito
riprende il tremore che sin dall’inizio aveva contraddistinto il suo operato,
ma il sollievo che investe la stanza dal momento in cui Hange innalza quella
bestiolina sgambettante, rende tutto molto differente da pochi istanti prima.
“Guarda! Sono riuscita ad estrarla per
intero, proprio come indicato sul manuale. Questo dovrebbe evitare ulteriori
complicazioni!” girando e rigirando la sua conquista sulle estremità della
pinzetta, Hange la osserva con occhi luccicanti di entusiasmo e soddisfazione,
“È incredibile come una tale piccoletta possa fare un simile casino— vuoi
vederla, Jean?”
“Forse è meglio di no…” Marco potrebbe indicare almeno una decina di punti in
supporto alla sua tesi, a partire dalla smorfia di orrore apparsa sul volto di
Jean e finire dal modo in cui si è affrettato a portare entrambe le mani agli
occhi, ma evita.
“D’accordo,” Hange si volta, fa cascare quanto rimosso in una ampolla di vetro
“la terrò per eventuali analisi,” annuncia, prima di riavvicinarsi.
“È finita?” mormora Jean con un fil di voce,
ed è quanto anche Marco desidererebbe sapere. Perché per quanto si dica il
contrario, l’abitudine a tenere in mano, beh – quel che sta tenendo in mano,
non crede la farà mai.
Guarda Hange, fa’ che la domanda rimbalzi su di lei.
“Solo un attimo. Disinfetto, esamino, e poi ti lascio in pace—”
Ed è davvero veloce ad applicare uno dei suoi
unguenti di cui Marco riconosce la fragranza, dare un’altra occhiata all’area,
e coprire tutto con un piccolo ritaglio di garza.
Un cenno del viso permette a Marco di liberare la presa sui genitali di Jean,
che tornano al loro posto con il più sentito sospiro di sollievo che Marco
abbia mai udito.
“Tutto finito,” avvisa Hange soddisfatta, mentre
si versa dell’acqua da una brocca sulle mani.
“Ho pulito e disinfettato il punto di estrazione con un unguento. Dovremo
tuttavia monitorare la lesione nei prossimi giorni, tenere traccia della tua
temperatura corporea e somministrare regolarmente il siero che Moblit sta
preparando con Nifa. Cominceremo questa sera.”
Marco è certo che Jean abbia capito meno
della metà di quanto detto da Hange, e forse è meglio così. Si affretta a
tirare il lenzuolo sino a sotto il mento, lascia che una carezza caschi sulla
sua fronte, adesso fredda e pallida.
Hange si avvicina, ne tasta clinica le guance e il collo, prima di portarsi i
pugni ai fianchi e sorridere soddisfatta.
“Certo che ci hai dato un bel daffare oggi,
eh?” domanda squillante, piegandosi sul suo viso “Ti senti meglio, adesso?”
L’imbarazzo fa schiudere la bocca di Jean; le pupille si muovono come se
tentassero di sfuggire al cono d’ombra proiettato dal volto sorridente della
caposquadra, prima di arrendersi, e braccato, annuire.
“La prossima volta che avrai un litigio con il tuo fidanzato, mi auguro per te
troverai un posto migliore dove dormire.”
“Lo terrò in mente,” balbetta; è ancora intontito, e adesso che la tensione è
venuta meno, sembra che le sue forze, ormai allo stremo, abbiano deciso di
battere la ritirata.
“Non ci sarà una prossima volta.” Marco si pente di averlo detto prima ancora
che le sue labbra finiscano di articolarlo. “Non sarò—” aggiunge, proprio
perché sa che peggio non può andare
“—non sarò così stupido una seconda volta.”
Jean ruota gli occhi verso il suo viso; Marco li sente premere, ma non è pronto
ad incontrarli.
Hange fa spallucce, solleva le mani in segno di resa, gira le suole dei suoi
stivali: “Va bene, va bene –queste cose però, risolvetevele da soli.”
La scienziata si muove verso uno dei letti
poco distante; ripesca da un armadio della biancheria da ospedale.
“Tieni, puoi indossare questi e riposare qui per qualche ora; se la febbre si
manterrà entro certi parametri, questa sera potrai tornare nella tua camera”
“Questa sì che è una bella notizia,” commenta Jean, per una qualche ragione
sollevato.
“Non esultare ancora,” rammenta Hange, “Non
sei guarito. Dovrai essere sottoposto a dei controlli giornalieri che dovranno
farci capire come evolve l’infezione. La malattia trasmessa dal morso di zecca
non è roba da poco, e potresti—”
“Hange,” Marco non ha molto tempo per pensare
a come interrompere l’emorragia verbale della caposquadra; si inventa qualcosa
sul momento, non riflette più di tanto – “Pensa potremmo restare un po’ da
soli, io e Jean?”
Non è sicuro sia suonato del tutto gentile,
ma la buona volontà di apparire tale, c’è stata.
È che non vuole sentire ancora una volta
quella storia; non vuole pensare davvero che qualcosa possa intersecarsi e
cambiare di nuovo i suoi progetti con Jean.
“Oh, certo—!” risponde, presa alla sprovvista; “naturalmente!” aggiunge ancora.
“Se è così, io ne approfitterei per andare a vedere come procede la
preparazione del siero; voi, però, vedete di non litigare ancora una volta. Ci
sono soldati convalescenti nella stanza accanto che vorrebbero riposare—”
“Caposquadra Hange—”, la richiama ancora, Jean. “Penso che nessuno si
augurerebbe di finire sotto le sue mani invadenti, ma rimango del parere che
siano le migliori sotto le quali si può capitare, in certi momenti.”
Hange rimane ferma con la mano sulla maniglia
della porta, come se avesse bisogno di un po’ di tempo a processare le
informazioni ricevute. Poi chiude gli occhi, distoglie lo sguardo e sorride.
“Dubito la penserai ancora così alla fine della terapia. Ma ad ogni modo, lo
prendo come un bel complimento, Jean.”
La scienziata abbandona l’infermeria; l’alone di inquietudine lasciato dalle
sue ultime parole, no.
-
“Da dove ti è uscita quella frase?!”
ridacchia Marco, rimasto solo con Jean, “Non ti credevo capace di tanta
gratitudine!”
“Cosa vuoi dire?” bofonchia rauco Jean, le guance che tornano ad arrossarsi
sotto la pezzuola che Marco ha ripreso a passargli sul viso, “Io sono sempre
stato un tipo riconoscente,”
“La verità è che ti sei sentito in colpa per
averla fatta arrabbiare a più riprese, ammettilo –”
“Che cosa!?” incalza ancora, scandalizzato – “Io non uso questi mezzucci!”
“D’accordo, d’accordo, non agitarti, o ti si
rialzerà la febbre”, Marco scuote la testa divertito.
Ed è tutto così naturale, tutto così
spontaneo, che a Marco verrebbe da chiedersi quando tutto ciò ha smesso di
rappresentare la normalità.
Quando è stato così stupido da porre il muro della sua destra a tutta
quella complicità.
Lo
aiuta a mettersi seduto, perché far leva sui gomiti, evidentemente, non gli
basta. Jean è debole e dolorante; la sua pelle è tornata pallida e calda al
tatto, ma c’è qualcosa in quell’accozzaglia di cose che non vanno, che
per una qualche ragione, gli dà fiducia: gli mette pericolosamente in testa che
tutto andrà bene, e a Marco quel pericolo piace.
“Vieni, indossa questa e vai a dormire –
dovrebbe essere della tua taglia,”
Marco lascia che Jean affondi il volto sul suo torace, perché è morbido e malconcio
come quel gattino che aveva da piccolo, e che si strusciava contro il suo petto
nei giorni più freddi.
Ai tempi poteva contare di entrambe le
braccia, e anche il suo abbraccio era più consistente; adesso, più che contare,
deve accontentarsi.
Recupera la mano di Jean dal polsino della camicia, tira fuori il colletto,
appiattendone le pieghe sulle spalle.
“Mi sei mancato così tanto…” bisbiglia Jean, e il calore del suo fiato è lo
stesso che avvampa lì, sin nelle profondità del suo petto, proprio dove le sue
labbra articolano quelle parole.
“Anche tu,” E poco importa se la sua voce si
incrina, perché diavolo – quell’umiliazione la merita tutta. “Anche tu mi sei
mancato, anche se cercavo di convincermi del contrario.”
Jean struscia la fronte contro il suo petto; adesso è il mento a poggiare. Lo
guarda in volto, e pensa sia un perfetto stronzo, vorrebbe dirgli Marco.
Perché quelle lacrime che gli ha punto l’occhio, adesso strisciano giù lungo le
guance, e sperava di nasconderle, ma – ah, che vadano a quel paese!
Merita anche questo!
“Mi dispiace davvero.”
“Non parliamone più, Jean—”
“Non so davvero cosa mi sia preso per
parlarti in quel modo…”
“Basta, così— davvero.”
E Marco lo sa che sta spalmando le sue lacrime un po’ su tutto il viso di Jean
mentre gli bacia le palpebre, e sa pure che non le confonderà con le sue, ma va
bene lo stesso.
Jean prende il suo mento tra le dita, lo bacia sulle labbra, e lui glielo
lascia fare.
E va bene lo stesso.
---
“Farà un po’ male, me ne scuso in anticipo,”
avvisa Moblit, mentre titubante, abbassa ancora un po’ il bordo dei pantaloni
di Jean, scoprendo meglio la natica irrigidita che si prepara a disinfettare.
Jean nasconde il viso nel cuscino, affida
alle piume di questo un’imprecazione oscena che neanche la mano di Marco tra i
capelli riesce a frenare.
“Non devi dire queste cose, Moblit!” rimprovera Hange, mentre attenta,
supervisiona con piglio severo l’intera operazione. “Il paziente va sempre
tranquillizzato!”
Moblit sospira, la siringa stretta tra le sue
dita sembra più un fardello che altro.
“Non potrebbe—” ingoia, “Non potrebbe
pensarci lei, per questa volta?”
Hange scuote la testa, incrocia le braccia al
petto, “No, sarò via spesso nei prossimi giorni, e non posso affidare
l’iniezione di un medicamento così importante a uno qualsiasi. Coraggio,
Moblit: disinfetta quella chiappa e buca, avanti!”
Jean sobbalza; rafforza la stretta delle mani
contro le orecchie, arpiona le unghie alle tempie come fossero artigli.
Marco si siede sul bordo del letto, ne avvicina la testa al grembo: quel modo
di fare di Jean proprio non gli piace.
“Per favore, Signor Moblit, faccia in fretta!” si fa carico dell’implorazione;
perché è certo che quel silenzio dietro il quale Jean si è chiuso non durerà
ancora a lungo.
Ed è forse un impeto di pietà, quello che
porta Moblit a continuare.
“Avanti, massaggia, non essere così teso! Non mica è il tuo sedere, quello!”
“Caposquadra, la smetta di parlare così, la prego!”
“Sei una vera e propria lumaca! Un po’ di grinta in quella mano!”
“Hange! Per favore!”
Il resto, sono solo suoni confusi, frasi
fuori luogo, implorazioni e lamentele. E sono talmente tante che Marco a
malapena riesce a distinguere i grugniti di Jean da quelli di Moblit, o di
Hange, o anche dai suoi stessi (perché a un certo punto, la frustrazione coglie
anche lui).
Alla fine, Moblit porta al termine l’impresa
tra gli urli eccitati di Hange, le richieste del primo di calmare i toni, e le
ciocche dei capelli di Jean tra le sue dita.
Finisce tutto prima di quanto preventivato, e forse non è stato poi così
terribile, o forse la ragione per cui Jean è rimasto immobile, senza emettere
alcun fiato, è perché in qualche modo, ha voluto graziarlo; o per lo meno,
questo è quanto Marco pensa nel sentire il viso immobile di Jean contro il
ventre.
Si affretta a tirare l’orlo scucito del
lenzuolo sulla sua natica prima che Moblit possa annunciare di aver finito;
tradisce una certa impazienza anche il modo in cui sottrae dalle mani del
vice-caposquadra il batuffolo di ovatta, continuando per lui il massaggio.
“Finito,”
“Per oggi,” rimarca Jean disilluso, il tono
rauco di chi ha fatto uno sforzo immane per trattenere la lingua.
Marco sorride, solidale.
Hange e Moblit stanno continuando a
gracchiarsi l’uno con l’altro, incastrati alla destra di un mondo che
non vede ma che sente, e che potrebbe vedere se si voltasse.
Non sa neanche lui perché cominci a pensare sia il momento giusto per chinarsi
sulle palpebre di Jean e baciarle; un bacio leggero, appena sfiorato, silente,
appartenesse ad un altro mondo.
Uno che non ha né destra, né sinistra.
Fine.
NOTE: NON CORRETTA; NON BETATA
E siamo arrivati alla parte finale di questa splendida avventura. Non
sono soddisfatta del risultato, ma mi sono divertita molto a scriverla e
commentarla con le amiche che mi hanno supportata durante la stesura, per cui, va
bene così! :D
Esiste una spin-off di questa fic,
ma la posterò più avanti.
Nel frattempo, veniteci a trovare sul gruppo Hurt/Comfort Italia, gruppo da cui è nata questa fic
(sfida ‘Kinkybutnotreally’) Grazie infinite a chiunque abbia letto! Non era una lettura comune, per
cui, il ringraziamento è doppio!
PS: Questa ficpuò
essere considerata come un continuo della mia “Neverforgetwewerebuilt to last”, tutt’ora in corso; ma in realtà, è un lavoro indipendente
(grazie al cielo). Basta tenere conto del fatto che Marco sia
sopravvissuto agli eventi canonici, rimanendone comunque gravemente mutilato.