Belong To Nowhere di Soul Mancini (/viewuser.php?uid=855959)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Forsaken ***
Capitolo 2: *** Runaway ***
Capitolo 3: *** Stripped ***
Capitolo 1 *** Forsaken ***
Bess
Forsaken
I piatti rimasero pieni quella sera. Esattamente come la
sera precedente.
Mi ero seduta a tavola ed ero rimasta a fissare la mia
porzione di sformato che qualche vicino ci aveva regalato –
non ricordavo chi
fosse stato esattamente. C’era un viavai continuo in quei
giorni attorno a casa
nostra: conoscenti, amici di famiglia, persino qualche parente che non
si
faceva vivo da anni. Io salutavo tutti in maniera meccanica, ma non li
guardavo
nemmeno in faccia e non li ascoltavo parlare; per quanto mi riguardava,
erano
tutti uguali e tutti anonimi.
Anche papà e Yelena lasciarono il loro piatto pieno. Mia
sorella provò a mandar giù qualche boccone, ma
poco dopo si arrese.
Quella sera a tavola c’era silenzio. Esattamente come la
sera precedente.
Di solito all’ora di cena la piccola zona giorno si
riempiva di musica. Uno di noi si sarebbe potuto alzare e avrebbe
potuto
poggiare la puntina sul vinile, ma sul piatto del giradischi era
situato ancora
Surrealistic Pillow dei Jefferson Airplane, uno
degli album preferiti di
mamma. Non avevamo il coraggio di sostituirlo con qualche altro disco,
ma non
avevamo nemmeno il coraggio di ascoltarlo senza di lei.
“Questa è la canzone che hanno suonato a
Woodstock” ci
spiegava sempre con entusiasmo appena le prime note di White
Rabbit
raggiungevano le sue orecchie. “Mi sarebbe piaciuto
partecipare al festival, ma
all’epoca avevo già messo la testa a posto: ero
sposata con vostro padre e voi
eravate già nate.”
Pensava sempre fuori dagli schemi, mia madre. Ascoltava
la musica delle nuove generazioni ed era una ribelle, un po’
come me.
Mi guardai attorno e mi accorsi, forse per la prima
volta, che oltre al vinile c’erano un sacco di altri oggetti
che le erano
appartenuti sparsi per la casa e che nessuno aveva avuto il coraggio di
toccare: la giacca leggera era ancora appesa
sull’attaccapanni all’ingresso, le
sue caramelle alla menta preferite stavano dentro una ciotolina sulla
mensola
del camino, sul bracciolo del divano era poggiato un libro letto per
metà –
sicuramente un classico inglese.
Distolsi lo sguardo: non ci volevo pensare. Preferivo
credere che da un momento all’altro mamma avrebbe fatto il
suo ingresso nella
stanza, si sarebbe scusata per il ritardo, avrebbe cenato con noi,
avrebbe
scartato una caramella alla menta e poi avrebbe ripreso in mano quel
volumetto
per portarlo a termine, per sapere come sarebbe andata a finire la
storia.
All’improvviso mio padre spezzò il silenzio,
lasciando
andare la forchetta sul piano del tavolo e trascinando la sedia
all’indietro.
Sobbalzai e mi voltai a guardarlo: mentre si metteva in piedi, lo vidi
barcollare appena e strizzare le palpebre.
“Che c’è?” gli
domandò Yelena preoccupata.
“Sto bene” replicò lui in tono piatto,
mentre si passava
una mano tra le ciocche corte e scompigliate. Nella penombra della
stanza le
sue occhiaie risaltavano ancora di più, ed era evidente
che non stesse
affatto bene.
Papà era un bell’uomo: io l’avevo sempre
ammirato perché
non dimostrava affatto la sua età, anche se qualche volta lo
prendevo in giro
perché le sue origini inglesi gli si leggevano in faccia.
Aveva i capelli
biondo cenere proprio come i miei, gli occhi grigio-verdi proprio come
i miei e
il viso delicato ma dai tratti ben definiti. La perfetta
rappresentazione della
sua personalità mite e tranquilla: papà era un
tipo misurato, raramente perdeva
la pazienza e non alzava mai la voce.
Tutto l’opposto di mamma, insomma. Forse era proprio quella
diversità che li aveva fatti innamorare l’uno
dell’altra – e si erano amati
tanto, ma davvero tanto.
Ma ormai non sembrava neanche più lui. Era come se fosse
invecchiato di colpo e non guardava più me e Yelena in viso
mentre ci parlava.
Lo osservai mentre strascicava i piedi fino al camino e
afferrava un mazzo di chiavi. Sembrava un automa più che una
persona.
“Cosa stai facendo?” gracchiai, la voce roca.
Chissà da
quante ore non aprivo bocca; la gola nel frattempo mi si era seccata.
“Mi sono appena ricordato che devo fare una cosa”
borbottò. La sua voce pareva provenire da un altro mondo.
“A quest’ora?” incalzò Yelena
dubbiosa.
Lui non si voltò a guardarci, si diresse a passo
strascicato verso l’ingresso. “Devo andare in un
posto. È importante.”
Quando posò le dita sulla maniglia, pronto a spalancare
il portoncino d’ingresso e uscire, lo stomaco mi si contorse
e sentii le
lacrime pizzicare agli angoli degli occhi; saltai in piedi e corsi da
lui,
afferrandolo per un braccio. “No, papà, ti prego,
non andartene!” lo supplicai.
Non era da me implorare in quel modo, ma a quella vista
il terrore mi aveva aperto in due il petto.
Non mi importava ciò che aveva da fare, non mi
interessava se si fosse trattato di vita o di morte: almeno
lui doveva
stare con noi, in quella casa che era già troppo vuota e mi
metteva i brividi.
E poi quale padre avrebbe lasciato le figlie da sole in
una situazione del genere?
“Ha ragione Bess” intervenne mia sorella, alzandosi
a sua
volta e muovendo qualche passo avanti. “E poi come ti salta
in mente di andare
in giro da solo in queste condizioni? Non stai bene,
papà!”
Lui allora si voltò lentamente e guardò entrambe
con
sguardo vuoto, come se non ci vedesse nemmeno. “Torno presto,
ve lo prometto.
Non mi succederà niente.”
Si divincolò dalla mia stretta – impresa quasi
impossibile,
visto che le mie dita stritolavano fortissimo il tessuto della sua
manica – e
uscì, lasciandoci confuse e spiazzate.
Non avevamo fatto in tempo a fare niente e ad aggiungere
altro; forse nessuna delle due credeva che se ne sarebbe andato davvero.
E invece eravamo sole.
Mi voltai a guardare Yelena, nel silenzio più assoluto.
La stanza, rischiarata solo dalla luce calda e debole di una lampadina,
mi
sembrava ancora più buia e piena di ombre.
Quel vuoto non lo sopportavo, assomigliava troppo al buco
che avevo al centro del cuore. Lo dovevo riempire con qualcosa, con qualcuno.
Se tendevo l’orecchio, in mezzo a quella quiete potevo
sentire la voce di mamma che canticchiava mentre lavava le stoviglie,
potevo
udire l’acqua scrosciare e le posate che tintinnavano e si
urtavano a vicenda.
Potevo sentire i suoi passi nella zona notte, quando faceva i suoi
soliti giri
di controllo per verificare se le camere da letto fossero in ordine.
E la potevo perfino vedere davanti al piano cottura,
seduta sul divano, di fronte alla finestra con lo sguardo rivolto
all’esterno.
Ogni riflesso somigliava al suo sorriso, ogni luce somigliava ai suoi
occhi,
ogni ombra era il suo profilo. E ogni filo d’aria tiepida che
mi sfiorava la
pelle era una sua carezza.
Era tutto così bello, ma anche così finto. Lei
non c’era,
e ora non c’era nemmeno papà.
Allora mi resi conto che tremavo fortissimo – che
diamine, l’estate stava per arrivare, faceva un caldo
impossibile e io stavo
tremando come una foglia! – e che le mie guance erano
bagnate, incrostate di
lacrime bollenti.
Non mi mossi finché non sentii le braccia di Yelena
avvolgermi e attirarmi al suo corpo. Mi strinsi a mia sorella con tutte
le
forze che avevo, mi aggrappai alla sua maglietta leggera e gliela
bagnai tutta.
Le nostre lacrime e i nostri singhiozzi si fondevano insieme,
perché anche lei
aveva cominciato a piangere – forse anche lei aveva paura di
quella casa e di
quel silenzio, anche se faceva finta di essere forte per me.
“Perché è andato via? Perché
ci ha lasciato qui da sole?
Io voglio che papà torni adesso, e voglio che torni anche la
mamma!” mormorai,
ma a ogni parola un singhiozzo mi costringeva a riprendere fiato.
“Oh, Bess” sospirò mia sorella mentre mi
carezzava i
capelli.
Avevo il capo posato sul suo petto e lo sentivo
sobbalzare.
“Mi prometti una cosa?”
“Tutto quello che vuoi” mormorò lei,
tenendomi così tanto
stretta da farmi quasi male.
“Promettimi che almeno tu non te ne andrai mai.”
Lei mi afferrò per le spalle e mi scostò appena
da sé, in
modo da potermi guardare negli occhi.
I suoi erano arrossati e pieni di sofferenza – erano
così
da quando, tre giorni prima, mi aveva preso da parte e tra i singhiozzi
mi
aveva detto che mamma aveva avuto un incidente stradale e non ce
l’aveva fatta.
Quello sguardo e quelle parole avevano segnato inesorabilmente la fine
della
mia infanzia.
“Ricordatelo sempre, Bess: qualsiasi cosa accadrà,
sarai
sempre la mia sorellina e nulla ci separerà. Io ci
sarò sempre,
affronteremo tutto insieme; ovunque sarai, io sarò con te.
Te lo giuro.”
“Per sempre?”
“Per sempre.” E la sua voce era rotta dal pianto.
Ci abbracciammo ancora e rimanemmo in quella posizione
per tantissimo tempo – a me parve
l’eternità.
Chissà se mamma poteva vederci, ovunque si trovasse.
Chissà quanto doveva ferirla vederci così e non
poter fare niente per noi.
Quando ci separammo, ci guardammo ancora una volta negli
occhi.
“E adesso che facciamo?” le chiesi.
“Mmh… innanzitutto potremmo sciacquarci il viso,
che
dici?” propose lei, accennando un sorriso.
Annuii e mi diressi verso il bagno. “Tu non vieni?”
“Sparecchio la tavola e ti raggiungo.”
Il bagno era illuminato soltanto dal chiarore della luna
piena per tre quarti; non mi preoccupai nemmeno di accendere la luce,
mi
fiondai al lavandino e inondai il mio viso già fradicio con
l’acqua fresca.
Magari mi avrebbe aiutato a svegliarmi da quel brutto incubo.
Mi rimisi dritta e, senza nemmeno asciugarmi, guardai
nello specchio davanti a me. Tra le ombre alle mie spalle mi sembrava
quasi di
scorgere il viso di mamma mentre si pettinava con cura i lunghi capelli
castano
scuro, uguali a quelli di Yelena.
Un capogiro mi costrinse a reggermi al bordo del lavandino
per non cadere e il respiro mi si mozzò. Non ce la facevo
più.
Tornai nella zona giorno e, ferma sulla soglia, osservai
Yelena mentre raccoglieva i bicchieri ancora disposti sulla tavola.
“Senti” esordii col tono più fermo che
mi venne in quel
momento, “io non so a che ora torna papà, ma in
ogni caso qui non ci voglio
rimanere. Non voglio restare a casa.”
Yelena si voltò per scrutarmi con attenzione, poi
annuì
lentamente. “D’accordo.” Tacque per
qualche altro secondo, probabilmente in
cerca di una possibile soluzione. “Possiamo andare dalla
signora Townsend. Ti
ricordi cosa ci ha detto oggi?”
Cercai di riportare alla mente la conversazione che
avevamo avuto con la nostra vicina quando era venuta a trovarci quel
pomeriggio, ma non mi era rimasto impresso nulla in particolare. Scossi
la
testa.
“Che potevamo chiedere a lei se avessimo avuto bisogno
d’aiuto, a qualsiasi ora
del giorno e della notte.”
“Allora andiamo da lei.”
Sapevo che a mia sorella non piaceva chiedere aiuto agli
altri, quindi se aveva proposto una cosa del genere doveva essere
davvero
disperata. Alla fine, anche se ai miei occhi era sempre stata una
specie di
supereroe, era soltanto una ragazzina di neanche diciott’anni
che aveva appena
perso la madre e doveva prendersi cura della sua sorellina di undici
anni.
Quando qualche minuto dopo ci chiudemmo la porta alle
spalle, sentii subito il cuore più leggero. Per la prima
volta realizzai che
potevo sentirmi a casa ovunque nel mondo, tranne che dentro la mia vera
casa.
Papà non tornò quella sera.
Io e Yelena non chiudemmo occhio: anche se la signora
Townsend ci aveva gentilmente lasciato una camera con due letti singoli
che era
appartenuta ai suoi figli, noi rimanemmo in soggiorno ad aspettare con
gli
occhi sgranati.
Lo vedemmo soltanto la mattina dopo, sul presto, e a
giudicare dallo sguardo annacquato e dall’alito pesante che
aveva, doveva aver
alzato parecchio il gomito. Ci riconobbe a stento quando ci vide.
La sera dopo andò esattamente allo stesso modo.
“Torno
presto” ci disse mentre usciva, ma rincasò
soltanto all’alba.
Allora cominciai a vedere mio padre come un bugiardo e
smisi di fidarmi di lui. Non sapevo più a cosa credere, ora
che il mio mondo
stava cadendo a pezzi.
Yelena era arrabbiata. Non riusciva a sopportare che, al
posto di stare con noi nel momento in cui avevamo più
bisogno di un padre, lui
andasse a stordirsi con l’alcol per tutta la notte.
Io invece ero soltanto disperata. Ogni volta che lo
vedevo uscire era una pugnalata e non esisteva un modo per dissuaderlo,
per riportarlo
indietro, per convincerlo a non andarsene. Suppliche, pianti isterici,
grida:
nulla serviva ad attirare la sua attenzione.
Eravamo sole, io e Yelena. Io ero con lei e lei con me,
ma a nessuno importava di noi. E ben presto anche quel viavai di
persone che
erano sembrate così gentili e bendisposte si
dissipò, lasciando il vuoto
attorno a noi e alla nostra casa.
Io stavo sempre peggio, giorno dopo giorno. All’inizio
ero rimasta sotto shock, in maniera talmente profonda da non riuscire
nemmeno a
soffrire; ma man mano che il tempo passava una voragine mi si apriva
nel petto.
Confondevo la realtà con gli incubi che sognavo di notte, mi
svegliavo tra le
lacrime, cercavo mia madre ma non la trovavo mai. E, giorno dopo
giorno,
realizzavo che lei non c’era più.
Era l’estate più fredda della mia vita. Avremmo
dovuto
fare tante cose: ci saremmo dovuti trasferire in una casa
più bella e in un
quartiere migliore, perché entrambi i miei genitori avevano
trovato un lavoro
ed erano riusciti a risparmiare un po’ di soldi, e forse
avremmo fatto pure le
nostre prime vacanze in famiglia.
Ma ormai era tutto sfumato. Io non credevo più a mio
padre.
Circa una settimana più tardi, ricominciò a
uscire anche
di giorno e io diedi per scontato che fosse tornato al lavoro. Non lo
vedevo
quasi mai, a volte non tornava per niente a casa; le poche volte che lo
incrociavo, era ubriaco marcio.
Una volta, sbirciando tra gli scaffali della piccola
dispensa, mi ero accorta che aveva conservato un sacco di alcolici
anche a
casa. Quando non usciva, stava comunque attaccato alla bottiglia per
tutto il
tempo: le sue scorte finivano in un battito di ciglia.
Yelena era sempre più incazzata. Gli insulti che
rivolgeva a nostro padre quando lui non era presente facevano venire i
brividi,
era quasi impossibile credere che una figlia li stesse rivolgendo al
loro
padre.
Io, invece, ero sempre più disperata. Cominciavo a vedere
tutto con una lucidità che una ragazzina di undici anni non
avrebbe dovuto
avere, ma la mia mente e il mio cuore non erano pronti ad accettare
queste
consapevolezze.
Quel giorno eravamo andate a fare una passeggiata al
tramonto, come spesso capitava. Nessuna delle due voleva rimanere a
casa per
troppo tempo, ci veniva il voltastomaco.
“Bess, devo dirti una cosa molto importante”
annunciò a
un tratto Yelena in tono basso ed estremamente serio.
Mi voltai a guardarla e notai che faceva fatica a
ricambiare lo sguardo, fissava l’asfalto bollente su cui
stavamo passeggiando.
Doveva essere grave davvero.
“Che c’è?” domandai. Avevo il
cuore in gola, ma cercai di
darlo a vedere.
“Ho cercato di posticipare il più possibile questo
momento, speravo di poter aspettare almeno qualche altro mese. Ma non
posso più
rimandare.”
Le mie gambe stavano cominciando a tremare, ma mi imposi
di andare avanti. “Che cazzo stai dicendo?”
Avevo cominciato a parlare come mia sorella. Mi aveva
contagiato.
Lei sospirò. “I soldi in casa stanno finendo: devo
cercare un lavoro, se non vogliamo morire di fame.”
Sgranai gli occhi e mi immobilizzai in mezzo alla strada.
“Non è possibile. Papà va a lavorare
ogni giorno, è lui che porta i soldi in
casa, e poi c’erano i risparmi che lui e mamma
avevano…”
“Papà non va a lavorare.”
Puntai i miei occhi nei suoi e non ci fu bisogno di aggiungere
altro.
Tutte le volte che lo vedevo uscire di casa andava a
bere.
Tutte le volte che lo vedevo uscire di casa andava a
spendere tutti i soldi che avevamo a fondo – e anche quelli
che non avevamo.
Perché quello di bere era un vizio che costava tanto.
Tutte le volte che lo vedevo uscire di casa andava a
sottrarre qualcosa dalle nostre vite, oltre all’affetto che
non ci dava più da
mesi.
“Non è giusto. Cazzo, non è
giusto!” esclamai, la voce
già incrinata da un pianto che avrei voluto trattenere.
Yelena mi regalò uno dei sorrisi più tristi che
le avessi
mai visto sulle labbra. “Da tre mesi non
c’è una sola cosa giusta. Ma ce la
caveremo, in un modo o nell’altro.”
Yelena era l’unica che si impegnava davvero per noi
– per
me. Mi aveva fatto una promessa e l’aveva mantenuta; avrei
sopportato la sua
lontananza se avessi dovuto, se lo meritava.
Annuii e nel frattempo serrai la mascella e i pugni,
sperando che mia sorella non se ne accorgesse. Adesso anche io
cominciavo a
essere incazzata con nostro padre – cominciavo a capire
Yelena.
Ero molto più debole di quanto dessi a vedere e di quanto
io stessa fossi disposta ad ammettere.
Ero stata convinta fino all’ultimo che avrei potuto
sopportare l’assenza di mia sorella –
l’ennesima assenza nella mia vita –, ma quando
arrivò il suo primo giorno di lavoro ero tremendamente
agitata.
Era stata assunta come cameriera in uno squallido bar che
si trovava ai margini dal quartiere; non era l’ideale, la
paga era bassa e i
clienti erano per la maggior parte delinquenti, gente poco
raccomandabile, ma
avevamo urgente bisogno di soldi e Yelena si accontentò.
Non aveva dei turni fissi: certe volte doveva lavorare di
mattina, certe volte nel pomeriggio. Il caso volle che il primo giorno
le
assegnassero la fascia oraria pomeridiana.
Mi ero svegliata con l’ansia, avevo trascorso la giornata
scolastica con un groppo in gola ed ero tornata a casa col terrore di
trovarla
vuota. Ma avevo tirato un sospiro di sollievo quando mi ero resa conto
che papà
era in bagno e si stava facendo una doccia.
Mi lasciai cadere sul divano e mi concentrai sui suoni
che oltrepassavano la finestra spalancata della zona giorno. Fuori si
respirava
ancora l’afa estiva, ma dentro casa nostra regnavano
perennemente penombra e
gelo.
“Beatrix.” La voce di mio padre mi fece sobbalzare
e mi
voltai a guardarlo: era sulla soglia, coi capelli ancora umidi e i
vestiti
leggeri e puliti – anche se un po’ spiegazzati. Mi
bastò guardarlo negli occhi
per capire che era sobrio quel giorno.
Sembrava quasi quello di un tempo, bello come l’avevo
sempre visto, anche se aveva pronunciato il mio nome in una maniera
distante
che mi aveva fatto male.
“Ciao papà.” Cercai di utilizzare lo
stesso tono
distaccato. In fondo non sapevo nemmeno io come comportarmi: da una
parte
volevo correre ad abbracciarlo e chiedergli di rimanere con me per
sempre,
dall’altra volevo gridargli in faccia che era uno stronzo
perché per colpa sua
Yelena lavorava in uno squallido bar.
“Dov’è Yelena?” mi
domandò.
“Al lavoro.”
E la conversazione crollò. In fondo da tre mesi a quella
parte non avevamo tanto da dirci, eravamo come degli sconosciuti.
Lo seguii con lo sguardo mentre apriva le ante della
credenza, rovistava in tutti i mobili della cucina e poi si recava in
dispensa,
alla ricerca di chissà cosa.
In realtà lo sapevo benissimo, ma non
volevo
ammetterlo nemmeno a me stessa.
Ogni secondo che passava, la voragine che avevo al centro
del petto si allargava. Non provava nemmeno a rivolgermi la parola,
anzi, non
mi guardava nemmeno.
La mamma mi chiedeva sempre: “Com’è
andata a scuola?”.
Ogni giorno, non appena rientravo. Invece papà forse nemmeno
lo sapeva, che era
ricominciata la scuola.
Lo vidi tornare presso il tavolo a mani vuote, mentre con
lo sguardo cercava freneticamente qualcosa sulle mensole e sui piani
dei
mobili. Quando individuò ciò che gli interessava,
scattò in avanti e lo afferrò
come farebbe un affamato con un piatto di cibo; il suo mazzo di chiavi
tintinnò
nel silenzio, il suono più atroce che le mie orecchie
avessero mai udito.
Allora capii. Mi ero fidata un’altra volta, mi ero persa
nel suo sguardo così colmo di lucidità, mi ero
illusa che lui sarebbe stato con
me perché l’avevo trovato a casa.
Avevo addirittura pensato che mi stesse aspettando.
E invece, ancora una volta, voleva lasciarmi da sola. Veramente
sola, perché stavolta non c’era Yelena accanto a
me.
Sola coi fantasmi del mio passato, sola con l’ombra di
mamma che abitava ancora a casa nostra, sola con i ricordi e col cuore
a pezzi,
sola come una bambina di undici anni non avrebbe mai dovuto essere
– ma ormai
non ero nemmeno più una bambina, anche io ero invecchiata di
colpo come mio
padre.
“Papà, non andartene” mormorai. Non
l’avevo mai più
supplicato da quella prima volta in cui era uscito, ma quel giorno non
riuscii
a trattenermi.
Lui sospirò e si diresse verso l’ingresso, ma non
disse
niente. Probabilmente non sapeva nemmeno lui cosa dire.
“Perché mi vuoi lasciare da sola?
Perché non rimani qui
con me?” Il mio tono di voce salì di
un’ottava e le ultime sillabe vennero
soffocate dal singhiozzo di un pianto che era in procinto di esplodere.
“Beatrix, tesoro… devo andare,
è una cosa
importante” bofonchiò.
“Non è vero!” Mi sarei potuta alzare,
sarei potuta andare
da lui e bloccarlo, artigliarlo per un braccio e impedirgli di uscire.
Avrei
potuto fare qualsiasi cosa per trattenerlo accanto a me, ma avevo preso
a
tremare e a singhiozzare talmente forte che non riuscivo a controllare
il mio
corpo: i muscoli non rispondevano, sentivo soltanto un dolore
opprimente
all’altezza del petto e i polmoni che si riempivano di piombo.
Osservai mio padre – quell’uomo sciupato e pieno di
rughe, particolari che prima di allora avevo ignorato –
attraverso gli occhi
appannati, la sua immagine era sfocata come la sua anima.
“Non andartene, non andartene…
rimani…” continuavo a
piagnucolare disperata. Non riuscivo nemmeno a passarmi le mani sul
viso per
asciugare le lacrime e scostare le ciocche.
“Torno presto, promesso.” Anche la sua voce era
sfocata.
“Non è vero neanche questo! Sei un bugiardo, un fottuto
bugiardo! Te ne stai andando come la mamma, mi lasci anche tu! Io non
voglio
che tu te ne vada!” strillai isterica. Sembravo una bambina
piccola, piangevo
fortissimo e mi colava il naso.
Solo che un brivido di gelo mi correva lungo la schiena,
e quella era una sensazione che nessun bambino provava.
Ma mio padre uscì lo stesso. Fu talmente egoista da
lasciarmi lì, in quelle condizioni, talmente sconvolta che
non riuscivo nemmeno
ad alzarmi.
Gridai con tutto il fiato che avevo in gola fino a farmi
bruciare i polmoni, conficcai le unghie nei palmi fino a farmi bruciare
la
pelle, ma dentro stavo gelando.
Il cuore mi batteva nella testa, le orecchie mi si
riempivano del suono del mio stesso respiro corto, gli occhi erano
serrati e
incrostati di lacrime. Il divano sembrava una trappola per il mio corpo
squarciato dai tremiti, intorpidito.
“Mamma… mamma…” Lo mormoravo
senza rendermene conto, le
chiedevo dove fosse.
Era tutta intorno a me, in quella casa che mi avvolgeva e
mi soffocava: era lì, mi guardava, mi parlava, mi
accarezzava, mi rassicurava –
io lo sapevo.
Solo che mamma era morta.
E anche io mi sentivo morire. E piangevo, e la chiamavo,
ed ero lontana da tutto e tutti.
Ero sola, vuota, morta, perché lei non
era con me.
La chiamavo ma non rispondeva, la cercavo con le dita ma non la
trovavo, la
volevo ascoltare ma non la sentivo.
Ero sola.
Tremavo, volevo urlare ma non ci riuscivo più.
Ero sola.
Tremavo, volevo alzarmi e andare via ma non riuscivo a muovermi.
Ero sola. Sola. Sola.
Sola.
Sola.
Sola.
Yelena mi trovò così.
Tremante, incapace di parlare, fradicia delle mie stesse
lacrime.
Ci misi un po’ per tornare alla realtà, per capire
che il
volto che vedevo era il suo e che le mani che mi stavano toccando erano
le sue.
Mi chiese come stavo e risposi con un singhiozzo, perché
non riuscivo a parlare.
“Oh mio dio, ha un attacco di panico”
mormorò
preoccupata. Poi si sedette accanto a me, mi prese tra le braccia e mi
cullò
finché non mi calmai.
La mia prima volta a casa da sola era stata un disastro.
Cominciai a soffrire abitualmente di attacchi di panico.
Mentre tutti gli undicenni giocavano tra loro e si preoccupavano di
apparire
più fighi degli altri, ecco i problemi che dovevo affrontare
io.
A volte mi sorprendevano quand’ero a scuola, altre volte
quando ero in giro con mia sorella; nella maggior parte dei casi mi
accorgevo
del loro arrivo e cercavo di reprimerli o limitarli, ma non era sempre
così
semplice.
Allora mi allontanavo da tutto e da tutti, mi nascondevo
in un angolo e aspettavo che il senso di oppressione, ansia e terrore
passasse
da solo.
Quando stavo a casa da sola – certe volte ero costretta,
visto che mio padre non tornava e Yelena aveva da lavorare –
la situazione
peggiorava: l’unica soluzione era allontanarmi, uscire di
lì e fare una
passeggiata.
Alla fine, pur di non restare chiusa tra quelle quattro
mura, stavo diventando una nomade. Conoscevo a memoria le strade del
mio
quartiere – anche se non erano decisamente il luogo
più adatto per una
ragazzina di undici anni – e imparai le tecniche per passare
inosservata. Non
studiavo più, non mi importava quale direzione stesse
prendendo la mia vita:
pioggia, sole, vento o neve, a qualunque ora e in qualunque giorno
della
settimana, io ero sempre in giro.
Anche se le strade erano inondate di ragazzi come me –
molti li conoscevo, frequentavano la mia stessa scuola – io
non mi avvicinavo a
nessuno e non mi facevo notare: volevo stare da sola.
Ciò che mi disgustava maggiormente di casa mia non erano
tanto i ricordi legati a mia madre – certo, anche quelli
continuavano a far
male –, quanto la possibilità di incontrare quello
stronzo di mio padre. Lui
non c’era mai, era vero, ma di certo se fosse rincasato non
mi avrebbe trovato
lì ad aspettarlo. Mi metteva il voltastomaco.
Adesso sì che ero davvero incazzata con lui, adesso
sì
che capivo mia sorella: da quando mi aveva lasciato sola quella volta,
il
risentimento che provavo verso di lui si era trasformato in odio vero e
proprio, profondo e viscerale.
Era talmente stronzo che non riusciva nemmeno a capire il
male che stava facendo a me e Yelena. Per avere un padre del genere,
avrei preferito
che anche lui fosse morto – o che magari la mamma fosse stata
al suo posto. Lei
in una situazione del genere ci avrebbe dato tutto l’amore
che le era possibile
donare, ne ero certa.
Quel giorno di metà ottobre sarebbe stato il compleanno
di mamma.
La mattina mi ero svegliata con un nodo in gola e,
rigirandomi tra le coperte e sbirciando verso la finestra, avevo avuto
l’impressione di scorgere il suo viso attraverso il vetro
sporco.
Dovevo fare qualcosa per lei, per festeggiarla.
Tutti gli altri giorni ero stata codarda, ma quella volta avrei
resistito.
Ero da sola, come ogni pomeriggio.
L’occhio mi cadde sul giradischi abbandonato sul mobile
accanto al camino, che nessuno aveva più toccato e usato da
giugno. Per fortuna
qualcuno – probabilmente Yelena – aveva tolto dal
piatto il vinile dei
Jefferson Airplane per evitare che si rovinasse; comunque la custodia
era
ancora là accanto, leggermente impolverata.
Mi accostai al mobile di soppiatto e, con dita tremanti,
portai fuori il disco e lo osservai con devozione. L’avevamo
ascoltato talmente
tante volte che alcuni punti sulla superficie erano rovinati, ma era
ancora uno
degli oggetti più belli che avessi mai visto.
Misi su il lato A – quante volte mamma aveva compiuto
quello stesso gesto! – e posizionai la puntina, col cuore in
gola. Non ero
certa di riuscire ad affrontare tutto ciò, ma ero certa di volerlo
fare.
Non appena l’inizio di She Has Funny Cars
riempì
il silenzio, gli occhi cominciarono a bruciarmi e una voragine mi si
aprì al
centro del petto. Ricordavo perfettamente le domeniche mattina piene di
sole in
cui mi mettevo in piedi sul divano e saltellavo seguendo quel ritmo
così
contagioso, finché mamma non mi intrappolava tra le sue
braccia e mi
rimproverava, perché il divano così si
sarebbe rotto e se l’avessi
sfondato ci sarei finita dentro e mi avrebbe inghiottito.
Ridevamo
tantissimo.
Brividi di emozione mi correvano lungo le braccia, la
schiena, il cuore, e potevo quasi percepire la presenza di mamma
accanto a me. Era
una sensazione stupenda e devastante allo stesso tempo.
Rimasi lì impalata per un tempo incalcolabile, a
osservare il disco e lasciarmi riempire le orecchie da quelle note
così
familiari, senza avere il coraggio di sedermi o compiere qualsiasi
altro
movimento. Solo quando il primo brano dell’LP giunse al
termine realizzai che
erano trascorsi solo poco più di tre minuti.
Ma il vero colpo al cuore lo ebbi quando Somebody To
Love esplose nella stanza con la sua proverbiale energia.
Avevo sempre
adorato quella canzone e avevo sempre amato sentire mamma che la
canticchiava
per me.
Mi diceva sempre che quella era la mia ninna nanna, che
la intonava tutte le volte che mi cullava tra le braccia per farmi
addormentare, e forse era per quello che ero così tanto
affezionata a quella canzone.
Resistetti solo fino alla seconda strofa. Poi, tremando
come una foglia e con le lacrime a rigarmi le guance, sollevai la
puntina e
corsi fuori, via da quella casa e da quei ricordi, lontana dal panico
che
minacciava di stritolarmi lo stomaco.
Una volta all’aria aperta mi sentii subito meglio; corsi
per qualche altro metro e poi mi fermai per riprendere fiato, i
singhiozzi a
squarciarmi il petto e gli occhi che bruciavano per le lacrime e la
luce
rossastra del tramonto. Camminai, camminai e camminai ancora, tenendo
lo
sguardo basso, cercando di non pensare a niente.
“Ehi! Hadley!”
Sobbalzai nel sentir pronunciare quelle parole ad alcuni
metri da me, ma non mi voltai: avevo ancora gli occhi arrossati e le
lacrime
secche sulla pelle, non volevo che qualcuno mi vedesse in quelle
condizioni.
Tanto sapevo già di chi si trattava: solo una persona mi
chiamava per cognome e con quell’inconfondibile accento.
Pensai che, se avessi
finto di non aver sentito e avessi continuato dritta per la mia strada,
avrei
potuto scamparla.
Ero stata poco attenta a non farmi notare quel giorno.
Ma tutte le mie speranze andarono in fumo quando avvertii
una presenza più vicina a me, alle mie spalle.
“Beatrix! Non fare la stronza,
tanto so che mi hai sentito!”
Fui costretta a fermarmi e sbirciare al mio fianco quando
mi sentii sfiorare la spalla: proprio come immaginavo, Viktor mi
scrutava
attentamente e mi rivolgeva uno dei suoi soliti sorrisetti ironici.
Era da almeno un anno e mezzo – da quando non
frequentavamo più la stessa classe – che non ci
avevo davvero a che fare, ma
lui non era cambiato per niente: spalle larghe, capelli castano chiaro
sempre
scompigliati, lineamenti decisi ma non troppo duri, leggero accento
dell’Est
Europa. Andavamo davvero d’accordo alle elementari, ma poi ci
eravamo persi di
vista – soprattutto da quando mia madre era morta e io avevo
smesso di
frequentare chiunque.
“Che c’è?” ribattei
bruscamente, infastidita dalla
situazione più che dalla sua presenza.
Lui aggrottò le sopracciglia. “Ma tu hai
pianto!”
“Non è vero” mi affrettai a chiarire, ma
ormai aveva
visto i miei occhi e aveva capito.
“Non ci casco! Cos’è
successo?” Mi afferrò per un polso –
quanto detestavo quel gesto! – e mi strattonò
leggermente per potermi osservare
meglio in viso.
“Non ci parliamo da una vita. Che te ne importa?”
sputai
acida, divincolandomi dalla sua presa.
Avevo sempre avuto un caratterino deciso, ma nell’ultimo
periodo mi capitava spesso di rispondere in maniera scontrosa, complice
tutta
la rabbia che avevo accumulato dentro in quei mesi.
Lui sospirò e piegò appena il capo di lato, in
cerca
delle parole da utilizzare.
“Mia madre è morta, lo sapevi?” sbottai
a un certo punto.
Perché l’avevo fatto?
Lui annuì e abbassò lo sguardo. “Lo
sanno tutti nel
quartiere.”
“E allora perché mi chiedi cos’ho se sai
già la
risposta?”
“Senti… mi è venuta
un’idea.”
Incrociai le braccia al petto e lo scrutai attentamente,
aspettando che parlasse.
“Ti porto nel mio posto preferito, dove ci sono tutti i
miei amici. È un luogo in cui tutti si possono divertire
come vogliono senza
mai essere giudicati… credo che ti farebbe bene distrarti un
po’, ora che sei
giù.” Sorrise appena sulle ultime parole, come se
volesse contagiarmi un
entusiasmo che invece non mi arrivò per niente.
Ci pensai su per qualche istante: non avevo la più
pallida idea di dove volesse portarmi, ma in fondo cos’avevo
da perdere? Mi
fidavo di Viktor, era un ragazzino a posto, e poi ovunque
sarebbe stato
meglio che a casa mia.
Annuii appena, al che Viktor mi strizzò l’occhio e
mi fece strada lungo la via,
nella direzione opposta rispetto alla mia dimora.
Squallore fu la prima parola che mi venne in mente
non appena mettemmo piede dentro quel locale. Ma era uno squallore che,
in
qualche modo, sapeva di casa.
Tutto era sudicio e immerso nella penombra: l’insegna
appesa all’ingresso, su cui campeggiava la scritta Alibi,
era scrostata
e sbiadita; il bancone era ricoperto di aloni sospetti, i tavoli erano
incrostati e pure i vetri di porte e finestre avevano una patina di
sporcizia.
A giudicare dal suo aspetto, pure il barista – che, come mi
aveva rivelato
Viktor, era anche il gestore del locale – non doveva vedere
una doccia da
parecchio tempo.
Eppure c’era qualcosa di affascinante e magnetico in
tutto ciò. I vinili di Led Zeppelin, Rolling Stones e Pink
Floyd appesi alle
pareti ingiallite, il giradischi addossato in un angolo e il piccolo
palchetto
su cui erano stipati batteria e amplificatori davano un tocco rock
all’atmosfera, facendo somigliare il locale a uno di quei pub
in centro dove
andavano a suonare le band importanti. Risate e imprecazioni si
mischiavano
alla musica, riempivano l’aria insieme al fumo che pizzicava
gli occhi e che
odorava di tabacco e marijuana.
In un primo momento provai una sorta di paura verso quel
luogo e la gente che lo frequentava, ma nel guardarmi attorno una
seconda volta
mi resi conto che si trattava di ragazzi come me, miei coetanei o poco
più
grandi, e la maggior parte li conoscevo già, anche se solo
di vista. Erano
ragazzi di cui giravano voci davvero tristi, che avevano alle spalle un
passato
difficile – del resto tutti in quel quartiere dovevano
lottare contro qualche
demone – e, anche se si ostinavano a ridere e bere tutti
insieme, non erano
davvero così felici come apparivano.
“Mio fratello mi sta chiamando.” La voce di Viktor
mi
riscosse dalle mie riflessioni. Eravamo ancora fermi vicino
all’ingresso.
Gli lanciai un’occhiata spaesata.
“Mi avvicino un attimo a sentire che vuole. Tu intanto
vai al bancone, ordina qualcosa. Ti raggiungo subito, okay?”
Annuii e lo osservai mentre si allontanava, dirigendosi
verso Bogdan – suo fratello – che stazionava in un
tavolino dall’altra parte
del locale, vicino al palchetto.
Non mi soffermai troppo a osservarli – preferivo che
Bogdan non mi notasse perché, a differenza di Viktor, non mi
ispirava troppa
fiducia: si diceva fosse immischiato in qualche affare losco che aveva
a che
fare con la droga – e mi diressi al bancone, senza
però mettermi in fila. Non
sapevo nemmeno cosa ordinare: non avevo mai assaggiato nulla di
alcolico, ma
avevo l’impressione che in un luogo del genere fosse
d’obbligo. Quindi decisi
di aspettare Viktor prima di combinare qualche disastro.
Nel frattempo ne approfittai per esaminare ancora i
presenti: erano tutti così diversi, così
spontanei e disinibiti. C’era chi si
vestiva in maniera eccentrica, chi sfoggiava la maglietta della propria
band
preferita, c’era chi si acconciava i capelli in maniera
bizzarra, se li tingeva
o se li ossigenava, poi c’era chi si era riempito la pelle di
piercing e
tatuaggi.
E le ragazze… erano così belle! Truccate, vestite
in modo
da mettere in risalto i punti più forti del loro corpo,
così sorridenti e così
maliziose, sempre con la situazione sotto controllo. Erano delle dee in
confronto a me, piccola e sciatta, magra e senza forme, così
bassa che col
mento arrivavo a malapena al piano di marmo del bancone.
Mi sarebbe piaciuto essere come quelle ragazze.
Qualunque fosse il demone che tutte quelle persone si
portavano appresso, erano riuscite in un modo o nell’altro a
metterlo da parte
ed erano diventate esattamente ciò che volevano essere.
“Ehi, biondina!” esclamò una voce fin
troppo squillante,
facendomi sobbalzare.
Mi voltai e aggrottai le sopracciglia. “Non
c’è bisogno
di gridare, sono qui a fianco, ti sento” misi in chiaro in
tono diffidente.
La ragazza che mi aveva appena rivolto la parola scoppiò
a ridere e mi sorrise. Era davvero bella: pelle olivastra, lineamenti
ispanici,
capelli lunghi e scuri, abiti colorati che le calzavano a pennello.
“Scusami,
hai ragione! Ti ho visto entrare con Vik poco fa… sei
nuova?”
Mi strinsi nelle spalle. “Sono nata qui.”
“Come ti chiami?”
“Bess” risposi automaticamente, utilizzando
l’abbreviativo con cui mi chiamava sempre Yelena.
“Io invece sono Fanny. Senti un po’…
prendi qualcosa? Una
birra?” mi chiese, accennando al barista che armeggiava con
qualche bottiglia
nella sua postazione.
“Ma veramente i minorenni non potrebbero comprare
alcolici” le feci notare dubbiosa.
“Ah, ma qui non si fa caso a queste cose, Charles non
chiede mai i documenti! Per questo l’Alibi è il
locale più frequentato del circondario:
pur di vendere e guadagnare, Charles dà via la roba a
chiunque.”
“Oh, beh, se la mettiamo
così…” Mi guardai attorno alla
ricerca di Viktor e lo avvistai che ancora conversava con suo fratello
e
qualche altro ragazzo, poi tornai a scrutare la mia interlocutrice.
“Ma credo
che non prenderò niente. Anzi: si sta facendo tardi, penso
che me ne andrò a
casa.”
All’improvviso mi sentivo inadeguata. Non era il posto la
causa di questa
sensazione: ero io, il mio aspetto, il mio atteggiamento.
“Sei sicura?” ribatté Fanny, ma non
c’era traccia di
scherno nella sua voce. Era dolcissima.
Annuii e mossi un passo verso la porta. Non mi preoccupai
di avvisare Viktor: avrebbe capito.
“Ma tornerai?” mi chiese Fanny quando le davo
già le
spalle.
Mi voltai giusto il tanto per rivolgerle un’ultima
occhiata. “Tornerò.”
Solo mentre ero già per strada realizzai che avevo
buttato fuori quella risposta senza neanche rifletterci. Non ne avevo
avuto
bisogno: lo sapevo, nonostante tutto, malgrado la mia iniziale
diffidenza. Non
sapevo quando e in quali circostanze, ma sarei tornata
all’Alibi.
Ora capivo come mai Viktor lo considerava il suo luogo
preferito: mi si era incollato sulla pelle dal primo momento in cui vi
avevo
messo piede.
Quella sera capii di avere un angolo di mondo a cui
appartenevo veramente. Quella sera capii chi sarei voluta diventare.
Mi guardai allo specchio e per la prima volta mi detestai.
Mamma mi diceva sempre che ero una bambina bellissima,
ma ora lei non mi diceva più un cazzo e io ero stufa di
essere una bambina.
Odiavo quel visetto pulito e dai tratti ancora infantili,
odiavo quei capelli biondo cenere così anonimi, odiavo i
miei occhi sgranati e
tristi, odiavo le mie spalle sottili e il petto troppo piatto.
Ma c’erano dettagli del mio aspetto che non si decidevano
a cambiare, altri che non sarebbero cambiati mai. Ma c’erano
tanti altri
dettagli che potevo raddrizzare per far emergere ciò che ero
– o meglio, ciò
che ero diventata.
Aggrottai le sopracciglia sottili con disappunto, mi
osservai nuovamente allo specchio e mi piacqui: più dura,
più incazzata, più
adulta.
Se nessuno – incluso mio padre – mi notava, avrei
fatto
in modo di attirare l’attenzione a modo mio.
Distolsi lo sguardo dallo specchio e improvvisamente mi
sentii più forte.
Se ce l’avevano fatta tutti quegli altri ragazzi, ce
l’avrei fatta anch’io.
Cominciai a rubare i soldi dal fondo comune e dai
portafogli di mio padre e Yelena. A volte mia sorella mi dava qualcosa
di sua
spontanea volontà, ma non mi bastava mai.
Forse mi sarei dovuta sentire in colpa, ma non era così:
del resto mio padre faceva la stessa cosa per alimentare il suo vizio
di merda,
quindi perché non potevo farlo anch’io?
Perché non potevo spendere tutto ciò
che volevo per delle cose futili? Nessuno mi avrebbe rimproverato,
anzi, forse
semplicemente nessuno se ne accorgeva: ero diventata la ragazzina
fantasma a
casa.
Comprai dei vestiti nuovi, mi rifeci il guardaroba:
lasciandomi guidare dall’istinto e dal gusto personale,
trovai nelle tinte
scure e negli indumenti dallo stile un po’ gotico
ciò che mi rappresentava
davvero. Non sarei stata alla moda, certo, ma sarei stata me stessa e
avrei
spiccato tra tutti gli altri.
Acquistai anche dei trucchi e mi esercitai parecchio per
applicarli al meglio. Adoravo il modo in cui certi make-up riuscivano a
rendere
la mia faccia più cattiva, mentre altri mi facevano apparire
più provocante e
maliziosa.
Cominciai a frequentare abitualmente l’Alibi e spesso mi
ci recavo anche dopo cena, anche perché di sera la casa era
sempre vuota e
nessuno mi imponeva di restarci. Di mio padre lo sapevo, ma in quel
periodo
anche mia sorella cominciò a uscire più spesso:
dopo essere tornata dal lavoro
– da uno dei suoi tanti lavori, per essere precisi
– del pomeriggio, si
truccava, si agghindava e usciva. Non avevo idea di cosa andasse a
fare, ma non
pensavo mai di chiederglielo – del resto anche lei si faceva
i fatti suoi e non
indagava sulla mia vita.
Inizialmente mi affidavo a Viktor e a Fanny, che diventò
la mia amica più stretta, ma ci misi davvero poco tempo a
conoscere tutti gli
altri ed entrare a pieno titolo nella cerchia. Mi era sempre venuto
semplice
fare nuove conoscenze e andare d’accordo con tutti, ma negli
ultimi sei mesi me
n’ero completamente scordata, tanto ero stata sopraffatta
dalla sofferenza e
dal dolore. Ma ora era tutto diverso: mi presentavo per ciò
che volevo essere,
mi comportavo e interagivo in base a come gli altri mi avrebbero dovuto
vedere,
ben presto costruii il mio personaggio e questo mi conferì
la sicurezza che mi
era mancata fino ad allora.
E soprattutto ottenni ciò che agognavo di più:
quando
arrivavo io, si voltavano tutti. Non passavo mai inosservata.
Le spese aumentavano giorno dopo giorno: cominciai a
fumare e mi servivano i soldi per le sigarette, assaggiai i miei primi
alcolici
e mi servivano i soldi per le birre, andavo in giro per la
città e mi servivano
i soldi per i mezzi pubblici, cercavo di rendere il mio look sempre
più
eccentrico e mi servivano i soldi per vestiti e accessori. E rubavo
senza scrupoli
dalle tasche della mia famiglia, ormai non mi sarebbe importato nemmeno
se mi
avessero scoperto.
Ormai la mia famiglia era altrove. Yelena era l’unica
persona che mi teneva ancorata al passato.
Quel giorno avevo un mal di pancia devastante e mi girava
la testa. Era cominciato tutto nel primo pomeriggio e non avevo saputo
come
spiegare quei sintomi: avevo pensato che si potesse trattare di un
qualche
strano attacco di panico, che mi si stava presentando sotto
un’altra forma, ma
scartai quasi subito l’idea.
Avrei voluto parlarne con qualcuno, magari con Yelena, ma lei
ovviamente non
c’era.
Mi recai all’Alibi con tutte le intenzioni di trovare un
modo per placare quel dolore. Entrai, salutai i miei amici con un cenno
e mi
diressi subito al bancone, posando i gomiti sul ripiano in marmo con
fare
deciso. “Una birra, grazie.”
“Wow, che determinazione! Se cominci a bere già da
ora,
tra qualche ora sarai fottuta!” commentò Viktor
mentre mi passava accanto.
Gli rivolsi un sorrisetto. “Fatti i cazzi tuoi.”
“Non era una critica, anzi! Non vedo l’ora di
vederti
sbronza!”
“Ammesso che tu rimanga sobrio abbastanza!”
“Bess, tesoro, ciao!” mi affianco Fanny,
regalandomi uno
dei suoi sorrisi magnetici.
“Ehi.” Afferrai la mia birra, che nel frattempo era
comparsa di fronte da me, ne presi un lungo sorso e poi mi voltai a
guardare la
mia amica. “Oggi mi voglio sconvolgere.”
Lei mi scoccò un sorrisetto complice.
“Quanto?”
“Voglio andarci giù abbastanza pesante.”
“Allora non ti basterà un’innocente
birra” affermò, intrecciando
le dita sotto il mento e lanciando un’occhiata a Charles, che
stava servendo
due ragazzi. “Ti fidi di me?”
“Chi non si fiderebbe di te?” ironizzai, dandole di
gomito e sghignazzando.
Fanny era una pazza, faceva tutto ciò che le saltava in
mente e provava qualsiasi sostanza le capitasse a tiro; spesso tirava
su anche
cocaina e usciva completamente di testa. Tutto sommato però
era uno spasso.
“Bene, allora allontanati e aspettami: ti porterò
qualcosa
di forte, uno dei miei drink preferiti!” esclamò.
“E cosa cambia se rimango qui?”
“No, dai, è una sorpresa!”
“Come vuoi.” Mi strinsi nelle spalle e mi
allontanai,
dirigendomi a passo spedito al tavolo di Viktor e i suoi amici.
Le sedie erano già tutte occupate: oltre al mio vecchio
compagno di scuola c’erano Bogdan – ormai avevo
superato il timore iniziale nei
suoi confronti –, Jeff – il migliore amico dei
fratelli polacchi – e alcune
ragazze con cui avevo già stretto amicizia.
Scostai bottiglie e bicchieri vuoti e mi accomodai con
nonchalance sul piano del tavolino. “Ehi, che si
dice?”
“Ciao bimba! Non hai una bella cera”
commentò Bogdan,
distogliendo per un attimo lo sguardo dalla biondina che gli sedeva
sulle
ginocchia.
“Quando mai ha una bella cera?” mi
sbeffeggiò Viktor,
prendendo una boccata dallo spinello che stringeva tra le dita.
Tirai un piccolo calcio a entrambi. “Che stronzi! Andate
a fanculo!”
Effettivamente però mi pareva di avere una guerra
nucleare dentro la pancia e no, non stavo affatto bene, anche se
cercavo di
nasconderlo e comportarmi come al solito.
“Allora… sapete chi suona oggi?”
domandai, accennando al
palchetto su cui era in corso un viavai di persone e strumentazione.
Una cosa che mi aveva colpito dell’Alibi era che si
tenevano piccoli concerti praticamente ogni sera.
“Dei tizi… non saprei.” Jeff si strinse
nelle spalle.
“Saranno pure dei tipi a caso, però li avete
visti?”
commentò Becky in tono malizioso, sporgendosi appena verso
di me.
“E allora?” incalzò Bogdan in tono
fintamente offeso.
“No, dico… il chitarrista, quello con gli occhi
verdi e i
capelli mossi… da uno così mi farei scopare
volentieri” proseguì la bionda con
un sorrisetto.
Becky sapeva il fatto suo. Aveva quindici anni e
probabilmente era già stata a letto con tutti i
frequentatori di sesso maschile
dell’Alibi.
“Beh, ma allora lo voglio vedere anch’io questo
chitarrista!” esclamai, aprendomi in un sorrisetto complice.
“Ma guarda te questi stronzi che vengono a rubarci le
donne…” bofonchiò Bogdan, voltandosi a
guardare prima suo fratello e poi Jeff.
Stavo per ribattere a tono con un commento ironico, ma
improvvisamente una fitta alla pancia mi fece strizzare gli occhi e
mordere il
labbro. Mi portai una mano sul ventre e serrai la mascella.
“Merda.”
“Che cazzo hai? Sei bianca in faccia…”
si preoccupò
Viktor, scrutandomi attentamente.
“Ho detto che non ho niente, porca puttana!”
sbottai.
“Nervosa la ragazza” aggiunse Bogdan.
“Senti, vuoi fare un tiro? Così ti rilassi un
po’”
propose allora il fratello minore, accennando alla sua stecca
d’erba.
Aggrottai le sopracciglia e ci riflettei su per qualche
istante. Non avevo mai provato a fumare nient’altro oltre
alle sigarette, ma in
fondo che avevo da perdere? La pancia mi faceva un male tremendo, avevo
la
mente incasinata e piena di pensieri negativi, avevo voglia di
dimenticare
tutto e divertirmi.
“Vediamo un po’.” Mi sporsi per sfilargli
lo spinello
dalle dita e presi una lunga boccata, senza pensarci troppo.
“Eccomi qua! E, Bess, ti presento la tua prima
tequila!”
esplose la voce di Fanny, attirando l’attenzione di tutti.
Si sedette accanto a me, sul tavolino, e mi porse un
bicchierino.
Bogdan fischiò d’approvazione. “La
nostra bimba perde la
verginità alcolica!”
“Ma veramente bevevo già da prima” gli
feci notare.
“Una birra ogni tanto non equivale a bere”
puntualizzò Viktor.
“Mi raccomando: giù tutta d’un
sorso!” Fanny mi batté su
una spalla e mi sorrise.
Non potei fare a meno di essere contagiata
dall’entusiasmo generale. Avevo il mio primo shot di tequila
tra le dita,
l’erba stava cominciando a fare effetto e sentivo che quella
sarebbe stata una
serata memorabile.
Ridevo, così tanto che non riuscivo nemmeno a parlare.
Senza motivo. Il mondo girava tutto intorno a me e mi faceva ridere.
Misi faticosamente a fuoco la faccia di Fanny, illuminata
solo dalle luci dei lampioni. Mi guardava e sorrideva.
Forse c’era freddo lì fuori, ma io non me ne
accorgevo.
“Cazzo! Volevamo vederti sconvolta ed è
ciò che abbiamo
ottenuto!” commentò la mia amica ridendo.
Anche io sghignazzavo senza interruzioni, sentivo la
testa leggera ed era bellissimo.
Sollevai lo sguardo al cielo. “Fanny?”
“Sì?”
“Ma siamo in piedi o sedute?”
Lei lanciò un gridolino e mi spintonò
leggermente. “Ma
che cazzo di domande fai?”
Rotolai di lato sul marciapiede – ah, forse eravamo
sedute! – e continuammo a ridere. Io non riuscivo nemmeno a
rimettermi dritta
con la schiena.
Ormai non sentivo più nessun dolore, avevo solo una
strana sensazione di caldo tra le cosce.
“Oh cazzo… Bess?” si ricompose Fanny
dopo un po’.
La guardai di sbieco. “Che
c’è?”
“Guarda i tuoi pantaloni.”
Cercai di risedermi meglio che potevo, abbassai lo
sguardo e allora notai una macchia scura sul tessuto
dell’interno coscia.
Forse mi sarei dovuta vergognare, e invece scoppiai di
nuovo a ridere, senza motivo. “Ah, ecco perché mi
faceva male la pancia…”
“È la prima volta che ti vengono?” mi
domandò Fanny,
strattonandomi per un braccio in modo che mi rimettessi dritta.
“Sì.”
“Allora congratulazioni: sei ufficialmente diventata
donna! Ora… come cazzo facciamo? Ti devo riaccompagnare a
casa, prima che
questo marciapiede si trasformi in uno scenario da film
horror…”
“No, col cazzo! Io voglio rimanere qui, mi sto divertendo
tantissimo!” protestai.
Proprio in quel momento lo stomaco mi si contorse
all’improvviso: mi chinai in avanti e cominciai a vomitare.
Forse avevo bevuto
un po’ troppo…
Da una parte mi veniva da ridere perché sembravo una
cretina, ma i conati mi scuotevano tutto il corpo e me lo impedirono.
Solo quando smisi mi resi conto che Fanny mi stava sorreggendo
e mi aveva tenuto i capelli perché non si sporcassero.
“Porca puttana” mormorò.
Trascorsero alcuni secondi di silenzio, poi io
ricominciai a ridacchiare. “Che schifo, adesso mi devo
comprare un paio di
scarpe nuove…”
“Prima sbronza e prime mestruazioni in un colpo solo:
benvenuta nel mondo degli adulti, Bess.”
Tra poco meno di un mese avrei compiuto dodici anni.
Nei giorni successivi fui costretta a restare a casa.
Qualche volta mi era capitato di bere la sera e
risvegliarmi il giorno dopo con un leggero mal di testa, ma quello era
il mio
primo hangover in piena regola.
E anche quando i postumi della sbornia cominciarono a
sfumare, le fitte lancinanti alla pancia rimasero lì e
continuarono a
torturarmi.
Stavo di merda. L’unica cosa che riuscivo a fare era
stare a letto, tremare e cercare la posizione in cui sembrava andare un
po’
meglio.
Yelena veniva da me e mi accudiva tutte le volte che non
era al lavoro, praticamente in quei giorni viveva dentro la mia camera.
Non
poteva essere tanto presente, ma faceva quel che poteva e io sapevo che
ci
metteva il cuore e tutta la buona volontà.
A volte ci pensavo: se ci fosse stata la mamma,
sicuramente si sarebbe presa cura di me. Le avrei parlato dei miei
sintomi e
lei mi avrebbe consolato, le avrei fatto le domande più
stupide sul ciclo e su
cosa comportasse diventare donna, anche se molte informazioni
già le sapevo
grazie a Yelena e alle ragazze dell’Alibi. Ma mi sarebbe
piaciuto essere ancora
per un po’ una bambina che andava a cercare conforto tra le
braccia della
mamma.
Se ci fosse stata lei, forse non mi sarei nemmeno
ubriacata così.
Formulare quei pensieri era inevitabile, ma subito
cercavo di scacciarli perché mi facevano male.
Potevo cambiare esteriormente, potevo crearmi una
maschera e convincere tutti che ero una ragazza forte, ma quella era
una ferita
che mi sarei portata appresso per sempre.
Di mio padre, ovviamente, nemmeno l’ombra. Era troppo
impegnato a far fronte alle sue sbronze per preoccuparsi anche delle
mie.
Era il terzo giorno di chiusura forzata in casa e io
stavo cominciando a stufarmi. Non ero più abituata e quel
posto mi piaceva
sempre meno.
Yelena mi aveva portato la cena, si era seduta sul bordo
del letto ed era rimasta a chiacchierare con me.
Non le avevo detto che mi ero presa una sbronza epocale,
era convinta che il problema fossero soltanto i dolori dovuti al ciclo.
A un tratto, mentre ridevamo tra noi, mia sorella
adocchiò l’orologio e subito si alzò.
“Devo andare” affermò mentre raccoglieva
i resti del mio
pasto.
Aggrottai le sopracciglia. “Dove?”
“Al lavoro.” Non mi guardò mentre lo
diceva.
“Ah. Okay.”
Già da qualche tempo avevo un sospetto riguardo a quelle
sue uscite notturne, ma non avevo mai avuto il coraggio di esprimerle.
Però
detestavo quando mi si nascondevano le cose e alla fine, lo sapevo, la
mia
curiosità avrebbe avuto la meglio.
“Yelena?” la richiamai, quando mia sorella mi dava
già le
spalle e si accingeva a uscire dalla stanza.
“Che c’è?”
“Girati.”
Mi diede ascolto e lasciò che i nostri occhi si
incrociassero.
“Dimmi la verità” ordinai in tono
mortalmente serio.
“Su che cosa?”
“Quando esci di sera vai a battere, non è
vero?”
Lei tacque e abbassò di colpo lo sguardo. Non disse
niente per interminabili secondi.
Quella risposta mi bastò.
“Lo sapevo” affermai.
“Bess, per favore… scusami! Lo so che ti ho
deluso, ma i
soldi in casa non bastano mai, il lavoro non è mai stabile e
mi pagano una
miseria! Io non volevo, però ho pensato
che…” cominciò a giustificarsi, quasi
in lacrime.
“Ma io non ti sto giudicando, cos’hai
capito?” la
interruppi.
“Cioè… non ti importa se sono una
prostituta?” mormorò.
Mi strinsi nelle spalle. “Se a te va bene, allora va bene
anche a me.”
“Grazie.” Tornò indietro e mi strinse in
un lungo
abbraccio.
Non ce l’avevo con lei, davvero: sapevo che era stata una
scelta obbligata, che non aveva avuto alternative. Ai miei occhi,
qualsiasi
lavoro sarebbe potuto essere rispettabile se lo era il fine a cui
serviva. E
Yelena si stava sacrificando per me.
Non ebbi il coraggio di chiederle se questo la facesse
star male: lei non smentì e non confermò.
Eppure sentivo che c’era qualcosa di sbagliato. Eppure la
rabbia nei confronti di mio padre continuava a crescere,
perché se sua figlia
era costretta a fare sesso con degli sconosciuti era soltanto causa
sua, e con
i soldi che lei guadagnava lui continuava a comprare da bere.
Certe volte la mamma mi mancava così tanto.
“Sono un po’ indecisa però.”
Presi una boccata dalla mia
sigaretta e posai lo sguardo sulle mie amiche.
“Il rosso potrebbe donarti” propose timidamente
Muriel.
Avevo legato parecchio con quella moretta da quando era
arrivata all’Alibi: somigliava tanto a me nel primo periodo e
io l’avevo presa
sotto la mia ala protettiva.
“Ma quale rosso! Vorrei qualcosa di
più… particolare,
appariscente. E scuro, soprattutto.”
“Ma cos’ha il biondo che non va? Hai dei capelli
stupendi!” cinguettò Fanny, prendendo una mia
ciocca liscia tra le dita.
“È anonimo. Fa cagare! Allora… che ne
dite del viola?”
Fanny scoppiò a ridere. “Ti prego, no!”
“Secondo me invece le starebbe bene!”
obiettò Muriel.
“Ehi ragazze! Quanto prendete a botta?” esplose la
voce
di Viktor, intrisa di ironia.
Sollevai lo sguardo e lo vidi avvicinarsi lungo la strada
insieme a Ives e Ethan – due ragazzi della nostra cerchia
– con la solita
stecca d’erba tra le dita.
Faceva sempre questa battuta idiota quando ci vedeva
accomodate sul gradino del marciapiede.
Gli mostrai il dito medio. “Una botta devi averla presa
tu da piccolo, in testa.”
“Era un complimento! Non capisci mai un cazzo!” mi
punzecchiò.
I tre si fermarono davanti a noi.
“Sì, vabbè… fammi fare un
tiro e taci!” lo liquidai con
un sorrisetto.
Lui mi passò lo spinello.
“Ragazzi, noi stavamo pensando di andare al mare
domani”
se ne uscì Fanny.
“Figo! Noi ci siamo!” esclamò Ives con
entusiasmo, per
poi voltarsi a guardare Ethan.
Lui si strinse nelle spalle. “Nel dubbio io entro e mi
prendo un Jack.”
Gli strizzai l’occhio. “Ma domani ti voglio al
mare, eh!”
“Certo, in bikini” ribatté in tono
scherzoso prima di sparire
all’interno del locale.
Era molto affascinante, Ethan.
“Sbaglio o sul lungomare c’è quel
chioschetto dove
andavamo sempre l’estate scorsa?”
domandò Viktor.
“Sperando che sia ancora tutto intero”
ironizzò Muriel
con una risatina.
“Io dovrei comprare un costume nuovo”
affermò Fanny con
una smorfia.
“Sapete dove si ferma il bus diretto al lungomare?”
si
informò Ives.
“Tra l’altro dovrò vendere un rene per
comprare i
biglietti…” bofonchiai.
Lui sorrise. “E chi lo paga il biglietto?”
Era il 3 giugno 1981, era l’anniversario di morte di mia
madre e io me ne stavo seduta su un sudicio marciapiede: pensavo al
colore di
cui mi sarei tinta i capelli e progettavo un piano per andare al mare
senza
spendere un soldo.
Un anno era stato capace di stravolgere del tutto la mia
vita: la mia famiglia si era distrutta e ne avevo trovato
un’altra, ero stata
strappata via dall’infanzia e mi ero scontrata con la vita
vera, mi ero chiusa
in un guscio e poi l’avevo spaccato, uscendone più
forte di prima. O forse ero
più debole, perché avevo perso me stessa e mi ero
imposta di non guardare più
al passato.
Ero giovane – troppo giovane – e incazzata col
mondo,
cercavo sorrisi e sguardi in ragazzi distrutti come me, forse con la
stupida
speranza di ritrovare, un giorno, il sorriso di mia madre.
Nessuno mi aveva dato delle indicazioni su come vivere,
nessuno mi aveva mostrato la strada giusta da percorrere,
così io ne avevo
costruito una tutta mia.
Non sapevo come, non sapevo se in modo giusto o
sbagliato, ma sarei andata avanti giorno dopo giorno, passo dopo passo
– dolore
dopo dolore.
♠
♠ ♠
Ciao a tutti e benvenuti al primo capitolo della mia
prima raccoltina incentrata sul personaggio di Bess!
Capitolone, visto che sono quasi diecimila parole…
SCUSATEMI, vi giuro che non pensavo
che sarebbe uscito così lungo, ma per come ho intenzione di
strutturare la
raccolta non lo potevo proprio dividerlo! A maggior ragione
perché la shot
partecipa a un contest, quindi dovevo dire tutto in questa sede XD
E… fa schifo. Lo detesto. Ci ho messo una vita a
scriverlo e man mano che andava avanti mi convinceva sempre meno,
quindi mi
scuso doppiamente perché davvero… lo stile fa
schifo, la struttura fa schifo e
probabilmente è la storia più brutta di tutta la
serie AHAHAHAH!
Ma la smetto di lamentarmi (come mio solito) e passo alle
note veramente importanti!
Innanzitutto vi lascio il pacchetto che ho scelto per il
contest di Vintage:
Genitori
fantasma:
Ovviamente
i genitori in questa storia non devono esserci. Possono essere morti,
lavorare
e viaggiare spesso e quindi lasciare il povero protagonista da solo,
senza uno
straccio d’affetto familiare. Per chiunque
sceglierà questa storia, dunque, i
genitori sono off limits.
Che poi questo pacchetto si prestava praticamente a tutti
i miei personaggi X’D
Per quanto riguarda i personaggi e le loro vicende, non
credo di dover aggiungere altre grandi spiegazioni: spero sia comunque
tutto
chiaro anche per chi non conosce la serie!
Unica precisazione: Surrealistic Pillow dei Jefferson
Airplane è un album pubblicato nel 1967 ed è il
simbolo del rock psichedelico
di quegli anni. Contiene, tra l’altro, due dei più
grandi successi della band (Somebody
To Love e White Rabbit).
Vi lascio di seguito i link delle canzoni che ho
menzionato (bellissime, vi consiglio di darci un ascolto se non le
conoscete
*-*):
White
Rabbit (è vero che l’hanno cantata a
Woodstock, per inciso)
She
Has Funny Cars
Somebody
To Love
La prima è contenuta nel lato B dell’LP, le ultime
due
nel lato A (come detto nella storia, sono rispettivamente la prima e la
seconda
traccia).
Spero che la storia vi sia piaciuta più di quanto piaccia
a me XD e spero che il personaggio di Bess vi abbia intrigato!
Non garantisco tempi brevi per quanto riguarda gli
aggiornamenti di questa raccolta, ma spero davvero di riuscire a buttar
giù un
secondo capitolo decente XD
Grazie mille a chiunque sia giunto fin qui e alla
prossima! ♥
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Capitolo 2 *** Runaway ***
Runaway
Mi misi supina sul telo da mare e chiusi gli occhi in
modo che il sole non li ferisse. “Detesto questo fottutissimo
costume intero,
fa decisamente troppo caldo.”
Muriel si sollevò sui gomiti, si sfilò gli
occhiali da
sole e me li passò, poi mi rivolse un’occhiata
divertita. “Devi imparare a non
farti nuovi tatuaggi d’estate.”
Misi su una smorfia. “Ho imparato a fare nuovi tatuaggi
quando ho i soldi per pagarli.” Afferrai l’oggetto
che mi stava porgendo e lo
indossai.
Gli occhiali da sole erano solo una delle tantissime cose
che io e Muriel condividevamo; da quando ci eravamo conosciute, ormai
quattro
anni prima, eravamo diventate praticamente inseparabili. Era
l’amica più
stretta che ero riuscita a trovare all’Alibi, colei con cui
trascorrevo la
maggior parte del mio tempo, anche se non riuscivo mai ad aprirmi e
confidarmi
del tutto come dovrebbero fare le migliori amiche.
Non ci riuscivo con nessuno a dire il vero.
Lei si sporse appena verso di me e sorrise, alcune
ciocche scure e ancora umide le piovvero sulle guance.
“Dai… perché non mi dici
di che si tratta?”
Risi beffarda e mi passai una mano sul fianco sinistro,
là dove sapevo esserci il nuovo disegno che avrebbe
marchiato a vita la mia
pelle. “No.”
Lei mise il broncio. “Perché?”
“Perché lo vedrete tutti quando sarà
ben guarito!”
“Ma non puoi fare un’eccezione nemmeno per
me?”
Le scoccai un altro sorrisetto. “No. Non sei mica
speciale!”
“Ah no? Rendimi gli occhiali allora!”
Cercò di risultare
minacciosa, ma le sfuggì una risatina.
“Col cazzo, li abbiamo comprati anche con i miei
soldi!”
Lo sciabordio delle onde faceva da sottofondo ai nostri
battibecchi, alle conversazioni e alle risate di tanti altri ragazzi
come noi.
A diversi metri da noi, in riva al mare, alcuni tra i più
piccoli giocavano a
pallone e si insultavano scherzosamente, mentre le loro voci si
mischiavano a
quelle di chi era immerso in acqua e si divertiva a nuotare e schizzare
i
propri amici; dietro di noi, il nostro fatiscente chioschetto di
fiducia era
gremito di gente ammassata attorno ai tavolini e il solito giradischi
sul
bancone diffondeva le note di un album degli AC/DC. Era incredibile
come,
nonostante ci trovassimo nell’anfratto più
malfamato del lungomare di Los
Angeles, si riuscisse a respirare quasi un’atmosfera allegra
ed estiva.
Era una calda mattinata di maggio che io avrei dovuto
trascorrere tra i banchi di scuola, erano passati quasi cinque anni da
quando
ero entrata a far parte della cerchia di scalmanati
dell’Alibi e da allora
nulla nella mia vita era cambiato. Le mie giornate si assomigliavano
tutte tra
loro, e in un certo senso mi andava bene così: uscivo,
andavo al locale,
qualche volta ci spostavamo a Hollywood in qualche altro pub
più in vista,
andavamo ai concerti e alle serate, d’estate ci trasferivamo
tutti sul
lungomare. Si beveva, si fumava, ci si sballava con ciò che
si aveva, si
scopava, si cantava e si ballava, tutto sommato ci si divertiva. Era il
mio
modo per sfuggire al malessere interiore che provavo e alla situazione
disastrosa in casa mia.
Per quanto riguardava quest’ultima, avevo imparato a
starci fuori più tempo possibile: non mancavo mai
all’Alibi, non avevo
rinunciato alla giornata al mare nemmeno quel giorno, nonostante il
tatuatore
mi avesse intimato di non esporre il nuovo tatuaggio al sole. Avevo
dovuto
usare un costume intero, pazienza.
Mancavo solo quando ero troppo malconcia per impersonare
il ruolo della solita Bess, ovvero quando avevo il ciclo –
ormai era tradizione
che stessi da schifo in quei giorni – e quando ero in preda a
un attacco di
panico.
Mentre io e Muriel battibeccavamo e ridevamo tra noi, una
pallonata proveniente dalla riva mi colpì alla gamba e non
ebbi la prontezza di
pararla. Infastidita e incazzata, scattai subito seduta e, una volta
afferrato
il pallone, trucidai con lo sguardo i ragazzini che si accingevano
già a raggiungermi
per riprendersi ciò che era loro.
Presi la mira e tirai dritto alle parti basse di uno dei
due, facendo perfettamente centro. “La prossima volta la
palla lanciatela a
fanculo, okay? Buon proseguimento di partita” li liquidai,
mentre il povero
malcapitato si piegava in due dal dolore.
“Nervosa la ragazza!” commentò Fanny
che, appena uscita
dall’acqua, stava camminando nella nostra direzione e aveva
assistito a tutta
la scena.
Ogni volta che la guardavo non potevo fare a meno di
pensare che fosse una dea: pelle ancora più abbronzata del
solito, fianchi
larghi, fisico da modella di origini caraibiche, bikini azzurro che
aderiva
perfettamente alle forme generose, capelli scuri e umidi che
incorniciavano un
viso angelico.
Nel primo periodo io e Muriel ci sentivamo degli esseri
insulsi in confronto a lei, così minute e anonime, ma pian
piano avevamo
acquisito sicurezza in noi stesse e imparato da lei. A me non
importavano più i
paragoni, perché sapevo perfettamente come attirare
l’attenzione sfruttando i
miei punti forti.
Mi misi in piedi. “Che c’è? Gli ho reso
la palla, tutto
qui!” Mi strinsi nelle spalle e mi guardai attorno.
“Mi sono rotta il cazzo di
stare al sole. Non è che per caso ti serve un telo da
mare?”
Fanny mi sorrise. “Me lo presteresti? Ah, grazie tesoro,
io l’ho dimenticato!” cinguettò.
Restituii gli occhiali da sole a Muriel e mi diressi
verso il portico in legno del chiosco, in cerca di un po’
d’ombra.
“Ehi Bess!” mi intercettò Oliver non
appena mi vide
salire i gradini. “Per caso hai visto Ives, Ethan e
Alick?”
Scrutai per un istante il cantante biondiccio, poi
lanciai un’occhiata attorno a me in cerca dei suoi compagni
di band. “Li ho
visti quanto te. Sicuramente Alick starà amoreggiando in
qualche angolo
appartato con May, mentre Ives e Ethan… staranno
amoreggiando tra loro, non so.
Ma posso prendere un sorso della tua birra, vero?” aggiunsi
poi, accennando al
bicchiere che stringeva in mano.
Lui rise. “Bess Hadley che chiede il permesso per fare
qualcosa?”
Gli sorrisi sorniona, per poi sfilargli la birra di mano.
“Infatti era una domanda retorica.” Presi un lungo
sorso, fresco e ristoratore,
poi gliela resi. “Come mai li cercavi? Qualcosa di
urgente?”
Il ragazzo mise su un’espressione enigmatica. “Se
te lo
dico, prometti di non prendermi per il culo.”
“Non te lo posso promettere.”
“Allora niente.”
Mi puntai le mani sui fianchi per risultare minacciosa.
“Parla o ti rubo nuovamente la birra.”
“Che paura!” ribatté lui in tono ironico.
“Oliver…”
Sospirò. “Da giugno comincio a vendere granite per
le
spiagge e quindi tutte le prove pomeridiane con gli Storm It Down
salteranno.”
Mi morsi il labbro, divenni paonazza, provai qualsiasi
cosa pur di non scoppiare a ridergli in faccia, ma dopo qualche istante
non
resistetti più ed esplosi in un accesso di risa
incontrollabile. “Tu andrai a vendere
granite? Col carretto colorato e tutto il resto?!”
“Sei una stronza! Io non so perché continuo ad
avere a
che fare con una testa di cazzo come te!” si finse offeso
lui, dandomi una
leggera spinta.
“Andiamo, è troppo bello! Un fottutissimo
venditore
ambulante di granite che passa lungo le spiagge con tanto di marmocchi
urlanti
appesi al carretto… Oliv, io ti adoro, prima o poi mi farai
crepare!” Mi
asciugai le lacrime che erano venute fuori a furia di ridere sotto lo
sguardo
torvo di Oliver.
“Non è divertente!”
“Oh, sì che lo è!”
“D’accordo.” Affilò lo sguardo
e una scintilla fece
brillare i suoi occhi verdi; prese l’ultimo sorso di birra,
poi gettò a terra
il bicchiere in plastica vuoto. “Visto che non hai mantenuto
la promessa,
adesso voglio sapere cosa ci nascondi con quel nuovo
tatuaggio!”
“Col cazzo!” Incrociai le braccia al petto.
“Bess Hadley, quel costume ti sta
d’incanto!” La voce di
Viktor alle mie spalle catturò la mia attenzione.
Beh, d’accordo che ero stata costretta a usare un costume
intero, ma non ne avevo certo scelto uno da vecchia zitella: era
ovviamente
nero, aveva un profondo scollo sulla schiena e un complesso intreccio
all’altezza del seno che gli dava un tocco gotico.
Mi voltai verso di lui e gli scoccai un sorriso: almeno
aveva apprezzato la scelta. Certo, a ricevere un complimento del genere
proprio
da Viktor non c’era gusto, ci conoscevamo da quando eravamo
bambini e non me lo
sarei portato a letto nemmeno se fosse stato l’ultimo uomo
sulla Terra.
“Bello, per chi mi hai preso? Mi sta bene qualsiasi
cosa”
ribattei, accostandomi a lui e posizionandomi tra lui e Josh. Le sedie
erano
finite, quindi ero costretta a stare in piedi.
“Nulla da ridire” commentò Josh,
squadrandomi da capo a
piedi con uno sguardo di fuoco.
Gli picchiettai sulla schiena. “Senti un po’, mi
hai
portato la roba che ti ho chiesto?”
Josh era lo spacciatore ufficiale della nostra cerchia,
colui che procurava ogni tipo di sostanza gli venisse chiesta. A quanto
pareva
si riforniva da un certo fratello maggiore di Ethan, ma non ne sapevo
tanto.
Io in genere gli chiedevo soltanto un po’ di marijuana,
sia perché non avevo tanti soldi da sperperare in droghe,
sia perché quella,
l’alcol e le sigarette mi erano sempre bastati. Una volta
avevo provato la
cocaina, ma ero stata inspiegabilmente male per due giorni e non ci
tenevo a
ripetere l’esperienza.
“Te la porto tra poco” mormorò il
ragazzo con fare complice.
“Ehi ragazzi, stasera chi viene al Rainbow? Ci sono un
paio di nuove band che vorrei sentire” propose Oliver, di
ritorno dal bancone
con un nuovo bicchiere di birra.
“Io ci sono!” accettai subito.
La mia vita andava avanti così da quattro anni e mezzo:
tutto allo sbando, tutto alla giornata, ogni ora sembrava promettere
qualcosa
di nuovo ma in fondo era uguale alla precedente. Avevo il culto della
libertà
ma, anche se mi illudevo e fingevo che andava tutto bene, sentivo che
la mia
salvezza – quel mondo, quello stile di vita – era
anche la mia prigione.
Spinsi la porta d’ingresso, leggermente preoccupata per
quello che avrei potuto trovare: non avevo nessuna intenzione di
incrociare mio
padre, nemmeno per sbaglio.
Doveva essere più di una settimana che non lo vedevo,
fatto che accadeva molto spesso. Così come io facevo il
possibile per non
tornare a casa, lui trascorreva la maggior parte del suo tempo tra bar
fatiscenti e qualsiasi altro punto vendita di alcolici. Sembrava
essersi
dimenticato di avere una dimora e io non potevo che ringraziarlo,
perché mi era
ormai impossibile trovarmelo davanti senza sbottare e urlargli in
faccia tutto
il mio disprezzo e odio.
La piccola zona giorno era deserta, ma la voce di mia
sorella mi giunse ovattata dal minuscolo andito che conduceva alle
camere da
letto, in cui tenevamo il telefono.
“Certo, più avanti possiamo metterci
d’accordo… puoi
ricordarmi le date, così le segno?”
Mi diressi verso il frigo e lo aprii, con l’intento di
cercare qualcosa da mettere sotto i denti. Ero quasi al verde
– il tatuaggio mi
era costato caro –, non era il caso di spendere altri soldi
per comprare la
cena d’asporto.
Non c’era tanta scelta, com’era prevedibile;
nessuno si
era preoccupato di fare la spesa.
“Certo, avete fatto bene. Quindi le ragazze non ci
saranno? Ah, capisco! Certo, è comprensibile!
Sarà una bella esperienza anche
per loro, anche perché il nostro quartiere non ha molto da
offrire!”
Afferrai un vasetto di yogurt e mi sedetti al tavolo,
domandandomi pigramente con chi stesse conversando Yelena. Dal tono
cordiale e
le frasi di circostanza che stava utilizzando, doveva trattarsi di
qualcuno con
cui non aveva molta familiarità.
“Sì, certo, se lo incrocio glielo dico. Okay,
allora ci
risentiamo più avanti. Ciao zia, buona serata!”
Zia?! Non ricordavo nemmeno di avere una zia o
comunque non credevo che qualche parente chiamasse ancora a casa nostra.
Udii mia sorella riappendere la cornetta e qualche
istante più tardi eccola che si affacciava sulla soglia.
“Ah, sei tu! Mi pareva
di aver sentito entrare qualcuno!”
“Chi era?” incalzai subito curiosa, mentre mi
portavo una
cucchiaiata di yogurt alle labbra.
Lei prese posto accanto a me. “È una storia lunga.
Allora… hai presente la zia Ruth, la sorella di
papà?”
Rimestai tra i miei ricordi in cerca di qualche
informazione compatibile, ma non mi venne in mente niente.
“Sposata con lo zio Lawrence…”
tentò di aiutarmi lei.
“Ma chi cazzo ci ha mai avuto a che fare con questa
gente?”
Yelena rise. “Effettivamente credo che io e te non li
abbiamo mai incontrati, dato che hanno sempre vissuto a Londra. Ma
qualche
volta hanno chiamato per gli auguri di Natale e stronzate del
genere.”
Mi strinsi nelle spalle, sempre più confusa. Sapevo che
tutti i parenti di mio padre abitavano in Inghilterra, ma non avrei
saputo
ricostruire quel ramo del mio albero genealogico.
“Ecco, comunque… hanno chiamato per dire che hanno
intenzione di fare un viaggio in California
quest’estate.”
“Beh, buona fortuna” bofonchiai con la bocca piena.
“Vorrebbero venire a trovarci, la zia Ruth vorrebbe
rivedere suo fratello dopo tanti anni. Che potevo fare? Le ho detto che
non
c’erano problemi.”
Lasciai cadere il cucchiaino dentro il vasetto semivuoto.
“Ma sei impazzita?! Probabilmente quella nemmeno sa che
nostro padre è un
alcolizzato!”
Lei scrollò le spalle e si sistemò una ciocca
castana
dietro l’orecchio. “Ho spiegato più o
meno questa situazione alla zia, lei si è
dispiaciuta parecchio e ha detto che ci tiene comunque a conoscere noi
due,
visto che non ci ha mai visto.”
Aggrottai le sopracciglia con fare scettico e ripresi a
mangiare. “Dopo sedici anni mia zia si accorge che esisto. Che
culo.”
“Anche lei aveva una famiglia da tirare su.”
“Hanno dei figli?” mi informai.
“Due figlie, gemelle. Ma non so se avremo occasione di
conoscerle perché i genitori hanno intenzione di spedirle in
un campo estivo
sulla costa insieme ad altri ragazzi della loro
età.”
Ero sempre più allibita. “Cioè, fammi
capire: vengono a
fare le vacanze di famiglia in California e al posto di stare tutti
insieme
mandano le figlie in mezzo a un branco di sconosciuti?”
Yelena si strinse nelle spalle. “La gente è
strana. La
zia Ruth ha detto che in questo modo le ragazzine avranno modo di
divertirsi e
godersi davvero le vacanze in California.”
“Secondo me lei e il marito se ne vogliono sbarazzare per
qualche giorno e rilassarsi in pace. Mi stanno già sul
cazzo. E poi quanto
devono essere ricchi per pagare il campo a entrambe le
figlie?”
“Se vengono tutti e quattro a fare un viaggio di dieci giorni
oltreoceano, sicuramente non stanno morendo di fame.” Yelena
si alzò e si
diresse verso l’imboccatura dell’andito.
“Vado a prepararmi per il lavoro. Tu
stasera che devi fare?”
“Il solito: mi faccio una doccia ed esco, probabilmente
andrò in centro con Muriel.”
“Okay.”
Anche da quel punto di vista nulla era cambiato: mia
sorella continuava a fare la prostituta per permettere alla famiglia di
tirare
avanti e per mantenere il vizio di mio padre, che si faceva ogni giorno
più
pesante e dispendioso. La situazione mi faceva ancora incazzare
tantissimo, ma
ormai avevo sviluppato una sorta di rassegnazione a riguardo. Tante
volte avevo
detto a mia sorella di scaricare nostro padre, che ci saremmo potute
creare una
vita senza di lui e che avrei potuto cercare un lavoro per aiutarla, ma
lei non
se l’era mai sentita di cambiare quella situazione. Non
voleva lasciarlo al suo
destino e non voleva che io interrompessi gli studi per andare a
lavorare come
aveva fatto lei.
Studi a cui, peraltro, non mi stavo neanche davvero
dedicando.
“Non è così male fare la donna di
strada” mi aveva detto
una volta, forse più per rassicurarmi che per confidarsi.
“Certo, i clienti non
sempre te li scegli, ma se ti capitano i migliori puoi addirittura
riuscire a
fare del buon sesso e divertirti.”
Le avevo creduto perché, anche se non lo facevo per
lavoro, sperimentavo sulla mia pelle cosa significasse scopare ogni
sera con un
ragazzo diverso.
Una sigaretta tra le dita, camminavo accanto a Muriel con
passo sicuro sul Sunset Strip, quel luogo che ormai conoscevo come le
mie
tasche. Mi comportavo come la padrona di casa e non avevo alcuna paura
di farmi
notare: avevo lasciato i capelli tinti di blu sciolti sulle spalle
nonostante
l’aria bollente dell’estate, mi ero truccata con
cura, avevo scelto i pantaloni
più aderenti che avevo nell’armadio e una canotta
dal tessuto leggero che
lasciava intravedere il mio corpo in trasparenza, ma soprattutto mi
muovevo in
quel modo sicuro e sfrontato che funzionava sempre per calamitare gli
sguardi.
In quegli anni avevo imparato che, ancora più
dell’abbigliamento, era l’impressione che si dava
di sé a determinare il
successo.
Muriel era bellissima, anche se forse non ne era del
tutto consapevole: sembrava la mia gemella, anche se i suoi capelli
erano corvini
e aveva l’aria innocente da brava ragazza che comunque
mieteva le sue vittime.
Pareva più timida e insicura di me, ma non si tirava
indietro quando c’era da
divertirsi coi ragazzi.
E poco importava se eravamo delle poveracce che non
possedevano nemmeno i soldi per prendere un bus e tornare al loro
quartiere:
quella sera ci sentivamo due regine.
Chiacchieravamo di progetti per l’estate –
concerti,
giornate sul lungomare, viaggi che non avremmo mai fatto –,
di tatuaggi e di
ragazzi, prendevamo tempo prima di scegliere un locale in cui entrare a
prenderci un drink, ci guardavamo attorno, salutavamo gente che
conoscevamo di
vista e ragazzi dell’Alibi che come noi avevano deciso di
trascorrere la serata
altrove, ogni tanto ci fermavamo a chiacchierare e flirtare con
qualcuno. Non
avevo paura di portare fuori le peggiori battute sconce del mio
repertorio, di
rubare tiri d’erba e sorsi di alcolici dai bicchieri altrui,
di ridere forte e
attirare l’attenzione; di essere la Bess che mi piaceva di
più, sgraziata e
mascolina ma al contempo sexy e bollente.
Io e Muriel ci fermammo di fronte alla soglia di un
locale piccolo e poco illuminato in cui poco prima avevamo visto
entrare Fanny
e Becky, indecise se fermarci là o cercare qualcosa di
meglio, quando un rombo
di motori alle nostre spalle attirò la nostra attenzione.
Ci voltammo e sul ciglio della strada notammo tre giovani
su tre moto lucide: avevano capelli lunghi, indossavano pantaloni in
pelle e
avevano un’aria da cattivi ragazzi che li rendeva ancora
più interessanti.
Io e Muriel li conoscevamo già, li incontravamo spesso
quando andavamo in giro per lo Strip e spesso ci eravamo finite a letto
insieme.
“Ehi ragazze! Che bomba che siete oggi!” ci
salutò uno
dei due mori, Logan, sfilandosi il casco.
Accennai un sorriso malizioso e mi accostai al suo mezzo
fino a sfiorarne la carrozzeria nera. “Ma salve! Che
c’è di nuovo?”
Con la coda dell’occhio notai che Muriel si era subito
fatta avanti col biondo di cui mi sfuggiva sempre il nome –
Kell o Ken, o forse
era Jen? – come suo solito: aveva una passione per i biondi,
non se ne lasciava
scappare nemmeno uno.
“Solita merda, solito sballo. Tu che hai combinato,
ragazzina?”
Presi un tiro dalla mia sigaretta. “Ragazzina
lo
dici a tua madre” risposi con aria impertinente, per poi
sbuffargli la boccata
di fumo direttamente in faccia. “Ho un nuovo tatuaggio,
comunque.”
Lui sorrise malizioso e si sporse per mollarmi una pacca
sul sedere. “Sei proprio una stronzetta. E di che tatuaggio
si tratta?”
“Eh no, questo lo devi scoprire tu” insinuai,
scuotendo
la testa in modo che le ciocche blu notte mi oscillassero sulle spalle
nude,
poi mi allontanai con una risatina furba e mi accostai a Erik,
l’altro moro.
Stavo per aprire bocca, quando notai un’ammaccatura piuttosto
appariscente sul fianco della sua moto argentea. “Che cazzo
è successo al tuo
gioiellino?”
Lui disse qualcosa, ma il suono del motore mi impedii di
capirlo.
“Cosa?” Mi sporsi maggiormente, sdraiandomi quasi
sul
manubrio.
“Ho detto che è stato uno stronzo con cui ho avuto
una
discussione!”
“E portala ad aggiustare, no?”
“Non ho soldi: abbiamo speso tutto per i biglietti del
concerto dei Mötley Crüe!”
Mi strinsi nelle spalle, poi mi guardai attorno con fare
annoiato. “Sentite, mi sono rotta il cazzo di questo posto.
Ci sapete arrivare
al mare?”
“Per chi ci hai preso, bimba? Ti portiamo anche in capo
al mondo” si pavoneggiò Erik, lanciandomi
un’occhiata infuocata.
“È un viaggio lungo” mi
informò Logan.
“Io ho tutta la notte.” Spostai lo sguardo
dall’uno
all’altro, gettai il mozzicone a terra e poi schioccai le
dita. “Però salgo con
quello che ha la moto migliore!”
Detto ciò tornai da Logan ed ero sul punto di
posizionarmi dietro di lui sulla sella, quando improvvisamente il
ragazzo
allungò una mano e sollevò il lembo della mia
maglia semitrasparente,
scoprendomi il fianco destro. “Ho trovato il
tatuaggio!”
Scoppiai a ridere. “Sei uno stronzo!”
Ammirò la complessa ragnatela in stile gotico che mi
marchiava la pelle pallida, poi accostò le labbra al mio
orecchio. “Ti rende
ancora più hot.”
Sorrisi, poi montai sulla moto e gli strinsi le braccia
attorno ai fianchi, lasciando scorrere accidentalmente una mano verso
il basso,
fin quasi all’altezza del suo inguine. “Portami al
mare e avrai la serata più calda
della tua estate.”
Sentivo l’eccitazione crescere in me, la pelle bollente a
contatto col corpo di Logan e con la sua moto, il vento tra i capelli e
il
cuore pieno di fame di libertà, vita, piacere.
Ero una cattiva ragazza, una stronzetta, una persona
sguaiata e volgare, ma mi divertivo un mondo. Eccome se mi divertivo.
Era il mio turno di essere sulla cima del mondo.
Non ero mai stata brava a recitare la parte della brava
ragazzina davanti ai parenti, non avevo mai conosciuto la tradizione
dei pranzi
di Natale costituiti da sorrisi falsi e conversazioni di circostanza,
non mi
avevano mai insegnato a portare rispetto a zii, cugini e nonni, e
nemmeno a
fingere di portarglielo.
Quando la zia Ruth e lo zio Lawrence arrivarono a casa
nostra, nel giorno che avevano stabilito con Yelena per telefono, io
ero
stravaccata sul divano e mi stavo occupando di una rapida manicure:
tagliavo e
limavo le unghie, avevo intenzione di laccarle di un colore scuro ma
ero ancora
indecisa tra blu notte e viola. In genere quelle erano operazioni che
condividevo con Muriel e Fanny, ma quel pomeriggio avevo promesso a mia
sorella
che le avrei fatto compagnia nell’affrontare gli zii. Non che
mi ci stessi
impegnando troppo.
Ero anche stata tentata di svignarmela, in fondo era stata
Yelena a invitarli a passare da casa nostra, ma la curiosità
mi aveva spinto a
rimanere.
Me ne pentii non appena li vidi entrare nella nostra
piccola cucina insieme a Yelena: li inquadrai come una coppia di
anonimi
inglesi facenti parte della classe borghese, di quelli che vivevano in
una
bella casa a due piani col prato ben curato e delimitato da una
staccionata
bianca, di quelli con la puzza sotto al naso e lo sguardo schivo di chi
sa di
essere superiore. Non avevo nulla da spartire con loro.
“Tu devi essere Beatrix” esordì la zia
Ruth in tono
cordiale non appena posò lo sguardo su di me. Pareva la
fotocopia al femminile
di mio padre: capelli biondi, lineamenti delicati e tipicamente
inglesi,
sguardo mite di chi non vuole osare.
Mi strinsi nelle spalle e continuai ad armeggiare con la
mia lima. “Bess, sì.”
“Molto piacere” esclamò in tono
forzatamente allegro.
“Che bella ragazza! Quanti anni hai? Immagino tu sia
all’incirca coetanea delle
mie figlie.”
Inarcai un sopracciglio. “Perché, loro quanti anni
hanno?”
“Tredici.”
Le scoppiai quasi a ridere in faccia. “Io ne devo
compiere diciassette quest’anno.”
“Ah…”
Yelena attese che anche lo zio Lawrence avesse varcato
l’uscio prima di richiuderlo. “Prego, accomodatevi!
Cosa posso offrirvi?” tentò
di essere gentile.
Yelena era molto più abile di me quando c’era da
trattare
civilmente con gli adulti. Da una parte la ammiravo,
dall’altra mi chiedevo
cosa l’avesse portata a ficcarsi in quella situazione con
quei due sconosciuti
che ci ostinavamo a chiamare zii.
“Niente, siamo a posto, grazie comunque”
affermò la zia,
sistemandosi una ciocca che le era sfuggita dalla coda di cavallo.
Spostai lo sguardo dalla sua sobria figura a quella di
suo marito, un uomo possibilmente ancora più anonimo dai
capelli corti e
castani; non aveva aperto bocca da quand’era arrivato e si
era limitato a un
cordiale gesto di saluto, aveva la tipica aria da impiegato che
lavorava otto
ore al giorno in un ufficio con il condizionatore e un mucchio di
scartoffie
sulla scrivania.
Ma davvero quelli erano miei parenti? Non biasimavo mio
padre per essere fuggito dall’Inghilterra e aver inseguito il
sogno di sposare
mia madre.
La stanza era immersa in un’afa che però era
gelida e
sapeva di disagio, inadeguatezza.
“Allora… Richard non è in
casa?” proseguì la zia Ruth,
accennando un sorriso incerto.
Ecco, era esattamente quello che avrei voluto evitare: le
domande su mio padre. Non sapevo se avrei retto.
“No, ecco…” Yelena prese posto attorno
al tavolo insieme
a loro. “È una situazione complicata. Da quando
mia madre ha avuto l’incidente
lui si è lasciato andare, come ti spiegavo anche al
telefono, e ora io e Bess
stiamo cercando di cavarcela con le nostre forze.”
“Non è una bella situazione”
commentò mestamente la zia.
Che osservazione intelligente. Ci voleva il genio
della lampada per capirlo…
“Sembrava così felice quando è partito
per stare con
vostra madre tanti anni fa… pensavamo che stesse facendo una
follia, pensavamo
che si sarebbe messo nei guai…”
“Invece lui e mia madre stavano benissimo, la vera
disgrazia è stato l’incidente. È da
allora che è diventato un alcolizzato” la
interruppi io, quasi con rabbia. Avevo intuito fin
dall’inizio che la famiglia
di mio padre non avesse accolto con troppa gioia la sua scelta, dunque
ci
tenevo a puntualizzare che non era colpa di mia madre se le cose erano
andate
così.
Se avessero anche solo osato parlar male di mia madre in
casa mia, in casa sua, non avrei esitato un attimo
a buttarli fuori
senza troppi complimenti.
“Mi dispiace tantissimo per lui e soprattutto per
voi”
disse lei in tutta risposta.
“Dispiaciti solo per noi: tuo fratello ha scelto il suo
destino. Nessuno l’ha obbligato a bere fino a sfondarsi il
cervello” me ne
uscii in tono lugubre, poi mi resi conto – anche tramite
l’occhiataccia che mi
lanciò Yelena – che forse avevo un po’
esagerato. Del resto c’erano tante
dinamiche che loro non conoscevano, e Ruth era pur sempre una sorella
preoccupata per il suo fratellino minore.
Beh, non mi importava.
Mi schiarii la gola e sollevai due boccette di smalto per
le unghie. “Blu o viola?”
Yelena mi scoccò l’ennesimo sguardo ammonitore,
poi si
voltò verso gli zii e abbozzò un sorriso,
cercando di prendere in mano la
situazione e portandoci fuori da quell’attimo di tensione.
“Comunque l’ho
avvisato che sareste venuti, sono sicura che tornerà a casa
a momenti.”
Beh, se arriva lui me ne vado io, almeno ho la scusa
per non stare con questi due.
“Comunque, come vi state trovando in California? È
la
prima volta?”
“Molto bella” prese la parola lo zio Lawrence,
cogliendomi di sorpresa. Quindi non era muto!
“Davvero stupenda! Anche le ragazze sembravano entusiaste
quando le abbiamo lasciate al campo estivo… abbiamo avuto
qualche problema con
i mezzi pubblici, ma in linea di massima…” prese a
sproloquiare la zia Ruth, ma
ben presto io smisi di prestare attenzione e cominciai a laccarmi le
unghie con
meticolosità. Figuriamoci se mi interessava
l’andamento delle loro stupide
vacanze borghesi in un hotel a cinque stelle con vista mare.
Ascoltando distrattamente i loro discorsi, appresi che le
gemelle – Crystal e Joice – frequentavano una
scuola privata e avevano una
pagella brillante, che la zia Ruth lavorava come assistente nello
studio di un
avvocato e lo zio Lawrence, esattamente come avevo immaginato, era un
uomo di
ufficio che si occupava di faccende riguardanti il marketing o il
management o
qualche altra fesseria simile. Avevano una casa in un tranquillo
quartiere
residenziale di Londra non meglio identificato, una bella macchina e
amavano le
attività da svolgere tutti insieme in famiglia.
Mi infastidivano.
“E voi invece, ragazze, cosa fate o cosa pensate di
fare?”
La domanda della zia Ruth piovve come un fulmine a ciel
sereno e io, che stavo passando il pennellino intriso di blu notte
sull’ultima
unghia, sollevai il capo di scatto per verificare la reazione di mia
sorella.
Yelena si schiarì appena la gola e si sistemò una
ciocca
castana dietro l’orecchio, segno del suo disagio che solo io
potevo cogliere.
“Io lavoro come cameriera…
beh, in vari locali. Quindi mi divido tra un
bar qua vicino durante il giorno e un pub in centro durante
la notte,
cerco di tenermi il più impegnata possibile
perché… sapete, i soldi sembrano
non bastare mai, praticamente abbiamo solo queste entrate e i datori di
lavoro
non sono poi così generosi” dichiarò
con un leggero nervosismo nella voce.
Logicamente non poteva rivelare che la sua principale occupazione era
quella di
battere per le peggiori vie della città.
La zia annuì con un’espressione contratta sul
viso, quasi
dispiaciuta, poi si voltò verso di me. “Tu,
Beatrix?”
“Studio… più o meno.”
Lei rise. “Più o meno?”
Ma non poteva farsi i cazzi suoi?
Mi strinsi nelle spalle. “La scuola che frequento, ma
tutta la situazione in generale, non mi motivano particolarmente a
studiare.”
“E non hai un obiettivo?”
Sbattei le palpebre, quasi confusa. Era da più di cinque
anni che non avevo obiettivi, se non quello di arrivare a fine giornata
ancora
viva e tutta intera.
“Insomma…” Zia Ruth si mosse sulla
sedia, per la prima
volta da quando era arrivata pareva a disagio. “Cosa ti
piacerebbe fare in
futuro? Non hai un lavoro in testa in particolare, un
sogno…”
“Perché, secondo te qui mi è concesso
sognare?” ribattei
d’istinto, sollevando le mani in segno di resa.
“Non so se vi siete guardati
attorno mentre venivate qui. Vi siete resi conto di che quartiere si
tratta?
Sono nata e cresciuta in un posto in cui le siringhe stanno agli angoli
delle
strade, in cui i bambini giocano con la spazzatura e sulle stesse vie
in cui di
notte avvengono stupri e sparatorie. I miei genitori ci hanno provato a
portarci via da questo posto, era una soluzione provvisoria
perché all’inizio
non avevano tanti soldi, ma poi è successo il casino e
nostro padre si è
arreso, io e Yelena ci siamo arrese, e ora siamo qui.” Feci
una pausa e
richiusi la confezione dello smalto che avevo appena finito di
applicare. “Insomma,
come posso avere un sogno se non mi è mai stato concesso di
sognare? Studio in
una scuola che fa obiettivamente cagare, perché è
l’unica che ci possiamo
permettere, e anche se la completassi il mio titolo di studi non mi
servirà a
niente. Nessuna università accetterebbe tra i suoi studenti
una ragazza del
ghetto, nessun datore di lavoro onesto assumerebbe una disgraziata.
Quindi, se
proprio devo dirvi cosa mi aspetto dal mio futuro… penso che
sarò una morta di
fame, che salta da un lavoro di merda a un altro giusto per campare. E
non
perché l’abbia deciso, ma perché non ci
sono tante alternative.”
Solo allora mi accorsi che nella stanza era caduto un
silenzio assoluto e tre paia di occhi increduli erano rivolti verso di
me.
Quindi mi strinsi nelle spalle e accennai un sorriso,
cercando nella mia mente qualcosa da dire per uscire da quella surreale
situazione. “Beh, se mi va bene possono assumermi in qualche
hotel di Santa
Monica e posso godere anch’io della vista
mare…”
“Però” riprese la parola la zia Ruth
dopo qualche altro
pesante attimo, “immagina di vivere in una situazione
diversa. Cosa potresti
fare?”
Non capivo proprio questo suo insaziabile interesse per
le mie aspirazioni, cominciava a darmi seriamente fastidio.
“Qualsiasi cosa. Potrei fare letteralmente qualsiasi
cosa. Mi piace stare in mezzo alla gente, quindi… un lavoro
in cui si deve
avere a che fare con le persone, non so. Come dicevo prima, non ci ho
mai
pensato.”
“Io le dico sempre che è meglio che continui a
studiare,
perché questo può darle qualche chance in
più” prese la parola Yelena. Era
rimasta palesemente scioccata dal mio discorso: sapeva bene quale fosse
il mio
pensiero a riguardo, ma certo non si aspettava che lo esponessi davanti
ai
nostri zii.
La verità era che non sapevo fingere di essere qualcosa
di diverso da ciò che ero, a maggior ragione se avevo la
possibilità di
sbattere in faccia la merda che era la mia vita a due borghesucci che
un
quartiere malfamato non l’avevano mai attraversato nemmeno
per sbaglio.
Continuammo a chiacchierare del più e del meno, cercai di
partecipare attivamente al discorso senza risultare troppo ostile nel
mentre
che lo smalto si asciugava sulle mie unghie. Continuavo a non digerire
troppo
la presenza di quei due, ma man mano che li conoscevo cominciai a
notare anche
i loro pregi oltre che i loro difetti: lo zio Lawrence parlava poco e
niente,
forse perché era un tratto del suo carattere o forse
perché lo disgustavamo, e
ciò significava che si faceva i fatti suoi e non era di
disturbo; la zia Ruth invece,
nei suoi abiti estivi ma non troppo appariscenti, spesso dimostrava
più
sensibilità e capacità di ascolto rispetto a
ciò che la sua figura composta e
fredda lasciava presagire.
Non era trascorso poi tanto tempo quando la coppia decise
di andar via: il sole stava cominciando a tramontare e, come Yelena
aveva
suggerito loro nei giorni precedenti, era meglio non spostarsi per il
quartiere
quando faceva buio. Che io e lei lo facessimo ugualmente era un altro
discorso,
non eravamo due turiste sprovvedute.
Quando mia sorella aprii la porta d’ingresso per
accompagnarli all’esterno, si trovò faccia a
faccia col volto sfatto di mio
padre.
La zia Ruth sobbalzò incredula e sgranò gli
occhi, per
poi mormorare: “Richard”.
Non appena vidi la faccia del nuovo arrivato, lo stomaco
mi si contorse per il disgusto e la rabbia: era palesemente sbronzo, si
reggeva
in piedi a malapena e aveva quello sguardo stralunato che non avevo mai
imparato a sopportare.
“Ah, perfetto, allora ne approfitto e me ne vado
anch’io!” sbottai, alzandomi dal divano e
sgusciando fuori dall’abitazione come
farebbe una ladra, come se improvvisamente quella non fosse casa mia.
Mio padre parve non notarmi nemmeno, nonostante gli
passai proprio accanto.
Mi allontanai di qualche metro e mi accesi una sigaretta,
inspirando avidamente e tentando di darmi una calmata. Ero arrivata a
un
livello di insofferenza in cui anche solo vederlo mi faceva un male
quasi
fisico.
Alle mie spalle lo sentivo biascicare qualcosa in
risposta a Yelena e alla zia Ruth, li sentivo interagire e parlare in
tono
concitato, ma feci il possibile per ignorarli e fingere che non
esistessero. Ne
approfittai per fare ordine nei miei pensieri: quella sera
probabilmente sarei
andata all’Alibi, il giorno dopo mi sarei recata sul
lungomare con le ragazze –
dovevo ricordare di rendere a Becky la crema solare che mi aveva
prestato
qualche giorno prima! – e quel fine settimana ci sarebbe
stato un concerto
degli Storm It Down a cui ero indecisa se assistere, visto che Fanny ci
aveva
parlato di una nuova discoteca che voleva assolutamente farci
conoscere…
“Tutto bene?”
Sobbalzai e per poco la sigaretta non mi sfuggì di mano;
mi voltai verso lo zio Lawrence, che si era improvvisamente
materializzato
accanto a me, e gli rivolsi un’occhiataccia.
“Ti ho spaventato?”
“Sì.” Era la prima volta che mi
rivolgeva la parola
direttamente, non sapevo come gestirlo.
“Sei scappata” osservò. Pareva a sua
volta a disagio,
pronunciava ogni parola come se non ne fosse sicuro.
Sbuffai fuori il fumo. “È quello che faccio ogni
volta
che mio padre torna a casa, evito di condividere con lui qualsiasi
ambiente.”
Calò il silenzio per qualche secondo, poi lo zio
commentò
in tono piatto: “Non dev’essere bello”.
Quanto detestavo le frasi di circostanza…
Mi strinsi nelle spalle. “La maggior parte delle volte
rincasa in questo stato pietoso, a volte è pure peggio:
certo che non è bello.”
Presi una boccata di fumo e fissai un gattino randagio che, in fondo
alla
strada, giocherellava con un fazzoletto che qualcuno aveva gettato per
terra.
“Avete mai provato a parlarci?”
Risi amaramente. “Ho smesso di provarci anni fa, ho
capito che è inutile. Quindi, per non diventarci pazza,
semplicemente lo evito
e stiamo tutti più sereni, anche se non è bello e
non è facile. Ma sai una
cosa?” Mi voltai verso di lui. “Se restassi dentro
quella casa, l’epilogo della
faccenda potrebbe svolgersi in due modi: o quello là mi
porta al suicidio, o lui
finisce sotto terra e io in prigione. E, anche se non sembra, io ci
tengo sia
alla mia vita che alla mia fedina penale.”
Lo zio Lawrence tacque e lanciò uno sguardo alle nostre
spalle, dove sua moglie stava ancora parlando col fratello. A dirla
tutta lo
preferivo nella sua versione taciturna, dal momento che la zia Ruth era
già
abbastanza ficcanaso per entrambi.
Dopo circa un minuto la donna salutò e prese a camminare
lentamente verso di noi con la faccia di chi è appena stato
al funerale di un
suo parente. Evidentemente, anche se l’aveva perso di vista
anni prima, ritrovare
suo fratello in quelle condizioni l’aveva scossa.
“Sai Beatrix, sei una ragazza davvero matura” se ne
uscì
all’improvviso lo zio, quando sua moglie era ancora a qualche
metro da noi e
non poteva sentirci.
Gli rivolsi un’occhiata stralunata.
Lui si strinse appena nelle spalle. “Sei riuscita a
trovare un modo per affrontare la situazione, e sei stata attenta
affinché
nessuno si facesse male. Molte persone al posto tuo sarebbero
impazzite.”
Gli sorrisi beffarda. “E chi ti dice che io sono sana di
mente?”
Mi sopravvalutava: non poteva nemmeno immaginare quanta
sofferenza ci fosse dietro, quante suppliche a mio padre, quante
lacrime,
quanti attacchi di panico, quanto odio, quante fughe.
Non poteva nemmeno immaginare cosa significasse osservare
quella che sarebbe dovuta essere la mia casa e non
sentirmi a casa per
niente.
“Ci abbiamo riflettuto molto in questi giorni”
esordì lo
zio Lawrence, spostando lo sguardo da me a Yelena e viceversa.
Quella era la terza – e, si supponeva, ultima –
volta che
li vedevamo nell’arco della loro vacanza, che era giunta
ormai al nono giorno e
stava per concludersi. Il caso aveva voluto che tutte le volte
anch’io fossi
presente a casa, nonostante non fosse premeditato.
Ora, seduta al tavolo insieme a loro e a mia sorella,
attendevo con fare scettico che si decidessero a parlare: non appena
erano
entrati in casa, avevano annunciato che dovevano farci una proposta e
che era
il caso di parlarne seriamente e con calma, tutti insieme.
Non che mi fossi esaltata troppo, però ormai ero curiosa.
Si scambiarono uno sguardo, poi la zia Ruth riprese:
“Siete delle brave ragazze, entrambe. Siete intelligenti,
forti, avete tanta
voglia di fare e, nonostante la situazione difficile, non vi siete
arrese e
avete sempre trovato la forza di reagire; siamo fermamente convinti che
sareste
in grado di fare tante cose, se solo ne aveste la
possibilità. Io e lo zio vi
abbiamo osservato molto in questi giorni, abbiamo notato
l’ambiente che vi
circonda e il modo in cui siete costrette a vivere, e pensiamo che non
sia
giusto. Non lo meritate, ma siete capitate in questa situazione senza
poter
fuggire. Vostro padre – mio fratello – avrebbe
dovuto esservi di supporto,
reagire con voi e lottare per voi nel momento più difficile
della vostra vita,
invece ha imboccato una strada sbagliata e a rimetterci siete state
anche voi…
e io, in quanto sua sorella e in quanto vostra zia, mi sento in parte
responsabile.”
“Non potevi saperlo, non avresti potuto fare niente in
ogni caso” la interruppe Yelena, ma la zia sollevò
una mano per fermarla.
“Il punto è che avete bisogno di un aiuto, un
aiuto che
nessuno vi ha mai dato ma che meritate, perché dovete essere
libere di vivere
come due ragazze di diciassette e ventitré anni. E noi, che
siamo gli unici
parenti con cui siete in contatto e abbiamo la possibilità,
vogliamo darvelo.”
Improvvisamente il cuore mi era finito nella gola, la
pelle mi si era imperlata di sudore ovunque e l’aria si era
fatta più calda e
rarefatta. Non sapevo assolutamente cosa aspettarmi, ma avevo
l’impressione che
fosse qualcosa di grosso. Già solo il fatto che qualcuno
volesse aiutarci in
qualsiasi modo, anche solo regalandoci un paio di vecchie scarpe, era
una
novità sufficiente a destabilizzarmi.
La zia fece una pausa, prese un sorso d’acqua e
proseguì:
“Vi stiamo offrendo la possibilità di trasferirvi
a Londra con noi”.
“Cosa?!” esplosi, incapace di
trattenermi.
Zio Lawrence annuì. “Cambiare aria potrebbe farvi
bene,
potrebbe essere l’occasione di lasciare questa casa e questo
quartiere, anche
solo temporaneamente. Potremmo aiutarvi dal punto di vista economico
finché ne
avrete bisogno, potreste stare a casa nostra che è molto
grande, se vi va
potreste riprendere con gli studi o vi potremmo aiutare a trovare un
lavoro… in
un luogo migliore e con delle migliori condizioni.”
Non sapevo nemmeno a cosa pensare, come reagire – non
sapevo nemmeno se stessi ancora respirando, se fossi ancora viva, se mi
trovassi dentro un sogno. Riuscivo soltanto a guardare con occhi
sgranati
quelle due persone che poco più di una settimana prima erano
dei perfetti
sconosciuti e ora invece mi stavano aprendo la loro casa.
“Perché? Cioè, perché lo
volete fare, se ci conoscete a
malapena?” mormorò Yelena, anche lei sotto shock.
Lo zio accennò un sorriso, forse il secondo che gli
vedevo fare da quando lo conoscevo. “Possiamo farlo;
perché no?”
“Abbiamo capito che siete due persone leali e dotate di
buon senso, siamo certi che vi possiamo dare piena fiducia e speriamo
che in
questo modo vi possiate costruire quel futuro che non avete mai avuto.
E poi
facciamo pur sempre parte della vostra famiglia.”
Io ormai ascoltavo solo distrattamente; la mia mente era
già partita verso Londra, mi immaginavo già sui
pullman rossi a due piani, tra
le pittoresche strade di Camden, con la bocca spalancata davanti
all’immensità
del London Eye e lo stadio di Wembley, sulle famose strisce pedonali di
Abbey
Road. E immaginai tutto questo come se facesse parte della mia vita di
tutti i
giorni.
Era talmente bello che facevo fatica perfino a pensarlo.
Lanciai un’occhiata colma di emozione a mia sorella, ma
non riuscii a leggere la risposta nei suoi occhi. Forse era in dubbio
perché
era una persona orgogliosa, detestava chiedere aiuto e sentirsi in
debito con
gli altri; dopotutto però se gli zii avevano deciso di farci
una proposta del
genere voleva dire che ne erano sicuri e che se le sentivano, che non
sarebbe
stato un peso per loro.
Mi costrinsi a tornare con i piedi per terra e prestare
nuovamente ascolto alla conversazione in atto: Yelena, esattamente come
avevo
immaginato, aveva preso a borbottare che era qualcosa di troppo grande,
che non
potevamo accettare e che nel caso saremmo sempre state in debito.
“Ovviamente potete prendere tutto il tempo che volete per
pensarci, non possiamo pretendere che prendiate una decisione
così importante
nel giro di qualche ora. Ma, qualsiasi cosa sceglierete di fare alla
fine,
sappiate che per noi è un vero piacere e non lo facciamo per
avere qualcosa in
cambio, ma soltanto perché vogliamo il vostro
bene” disse la zia Ruth,
l’espressione più serena del mondo dipinta in viso.
Improvvisamente avevo una voglia matta di saltarle al
collo, riempirla di baci e ringraziamenti, implorarla di portarmi
subito via di
lì. Alla sola idea di non vedere mai più quel
tavolo sempre incrostato, quelle
sedie sempre vuote, quelle pareti sempre fredde, quelle strade piene di
scarti
e la faccia di mio padre mi veniva da piangere.
“Grazie” riuscii soltanto a mormorare, la voce
rotta da
un’emozione che mai avevo provato prima e a cui non sapevo
dare un nome.
Da una settimana viaggiavo a tre metri da terra, su una
nuvola di gioia che solo io potevo vedere. Mi svegliavo pensando a
Londra e mi
addormentavo pensando a Londra.
Non ne avevo ancora fatto parola con nessuno dei miei
amici, avrei annunciato la notizia alle persone che mi stavano
più strette solo
quando fossi stata certa di partire davvero. La zia Ruth e lo zio
Lawrence
erano ripartiti per l’Inghilterra ormai, ma non li avevo
ancora chiamati per
dar loro conferma.
Oltretutto io e Yelena, tra i mille impegni delle nostre
giornate, non avevamo ancora avuto occasione di riparlarne seriamente.
“Ma ci pensi? Io e te che ricominciamo tutto a
Londra!” esclamai
mentre, davanti allo specchio, applicavo l’ombretto scuro
sulla palpebra
destra. Tramite lo specchio lanciai un’occhiata a mia
sorella, che si trovava
alle mie spalle ed era appena uscita dalla doccia, poi ripresi a
parlare. “Alla
fine è quello che abbiamo sempre voluto, no? Quante volte
abbiamo detto che
saremmo scappate insieme, che ce l’avremmo fatta e che ci
saremmo lasciate alle
spalle tutta questa merda? Ma mai ci saremmo aspettate che fosse
così facile…
chi se l’aspettava questa proposta? E poi Londra è
praticamente dall’altra
parte del mondo, cazzo! Se avessi i soldi, partirei anche
adesso!”
“Beh, Bess, non è mica tutto bianco o tutto
nero” esalò
mia sorella mentre si tamponava i capelli con un asciugamano.
Mi voltai verso di lei, poi afferrai un rossetto
dall’astuccio dei trucchi e tornai a rivolgermi allo
specchio. “Beh,
ovviamente. Ora lo sto dipingendo come qualcosa di fottutamente
esaltante – lo
è, cazzo! – ma è normale che ci saranno
delle difficoltà. Chi se ne fotte,
tanto non saranno mai gravi come quelle che abbiamo qui.”
“Bess.”
Il tono perentorio che utilizzò per chiamarmi mi
costrinse a voltarmi, leggermente allarmata.
“Sì?”
“Io non ho mai detto che avevo intenzione di
accettare.”
Mi puntai le mani sui fianchi e aggrottai le
sopracciglia. “Ancora con questa storia del debito eterno con
gli zii e del
fatto che non possiamo accettare qualcosa di così grande? Ci
hanno detto di non
preoccuparci, no? Poi noi siamo delle persone oneste e non appena ci
saremo
sistemate restituiremo loro tutto! Non ti sembra un buon
compromesso?”
“E se non fosse per quello?” ribatté lei
dopo qualche
secondo con titubanza, forse timorosa della mia reazione.
Sentii il sangue defluire dal viso. “Cosa?!”
Lei sospirò. “Ecco, adesso con te non si
può più parlare,
ti stai già incazzando.”
“Ma di cosa dobbiamo parlare? Pensavo fosse palese,
insomma… pensavo fosse scontato! È da quando
eravamo delle poppanti che
parliamo di scappare, di farci una vita altrove, di andare
via!” cominciai a
inalberarmi.
“Ma nessuno te lo vieta.”
“Ah, a me. E tu allora?”
Lei mi diede le spalle con la scusa di raccattare i
vestiti e indossarli, ma sapevo che l’aveva fatto apposta per
non incrociare il
mio sguardo. “Se tu vuoi partire, chi sono io per
impedirtelo? Ma non sono
costretta ad accettare a mia volta, se invece preferisco restare
qui.”
“Cioè, un attimo… quindi secondo te ci
dovremmo dividere?”
sbottai, la voce intrisa di isteria.
Non sapevo nemmeno più definire se quello che mi stava
montando dentro era rabbia o semplicemente terrore allo stato puro.
Tutto mi
sarei aspettata dalla mia vita, ma non di affrontare una conversazione
come
quella, non di sentirmi dire quelle cose proprio da Yelena.
Lei tacque ma, anche se non potevo vederla, mi accorsi
che annuiva impercettibilmente.
Avevo voglia di picchiarla, di distruggere il bagno, la
casa, il mondo.
“Cosa cazzo stai dicendo? Ma tu sei completamente
andata!” gridai con tutto il fiato che avevo nei polmoni.
Lei, con addosso solo mutandine e reggiseno, si voltò
finalmente verso di me. “La smetti di urlare? Spiegami cosa
c’è di male: non
tutti possiamo avere le stesse aspirazioni.”
“Sai com’è, fino a ieri che io sappia la
nostra
aspirazione era stare unite contro tutto e tutti! Piuttosto, spiegami tu
perché ora non vuoi partire! Spiegami perché
dall’oggi al domani hai cambiato
tutti i nostri progetti e vuoi restare in questo posto di merda, porca
puttana!
Dimmelo! Dimmi: cosa ti trattiene qui? Cos’hai da
perdere?”
Lei non rispose, nei suoi occhi lessi una profonda paura
ma in quel momento non mi importava.
“Nostro padre, eh? Quel pezzo di merda? Vuoi continuare a
mantenerlo per tutta la vita e perdere tutte le occasioni?”
“Non è per lui.”
“E allora per chi? Chi hai da perdere? Chi ti resta, se
io me ne vado?” continuai a sbraitare.
Lei afferrò l’abitino che indossava sempre quando
andava
a battere e lo infilò in silenzio.
“Non mi hai risposto!” le feci notare.
“C’è qualcuno, okay?”
“Qualcuno chi?”
“Cosa te ne importa?”
“Scusa, ma penso di avere il diritto di sapere per chi
stai infrangendo le promesse che mi hai fatto per anni e anni, non
credi?”
Lei sospirò e borbottò qualcosa di
incomprensibile.
“Cosa?”
“Ho detto: Mark.”
Volevo morire. Avevo davvero sentito un nome maschile
uscire dalle labbra di mia sorella? Lei mi stava tradendo in quel modo per
un ragazzo?
Impiegai qualche secondo a digerire il colpo. “Chi cazzo
sarebbe Mark?”
“Un cliente.”
“Un cliente?!”
“Ma non è come tutti gli altri,
lui…”
“Ho capito, chiudiamo il discorso.” Lanciai il
rossetto
sulla specchiera con rabbia, le mani mi tremavano e sentivo che se non
avessi
lasciato subito la stanza avrei potuto fare qualcosa di cui pentirmi.
“Senti un po’, innanzitutto non hai il diritto di
gridarmi contro in questo modo e nemmeno di giudicare le scelte che
faccio! Io
ho tutto il diritto di restare qui, che sia per un uomo, che sia per
nostro
padre o che sia perché in questo posto del cazzo mi trovo
bene e sono contenta
di marcire qui! Questo non implica che non ti vorrò bene
ugualmente, ma
possiamo entrambe prendere le nostre decisioni, o lo puoi fare solo tu?
Vuoi
partire a Londra e all’improvviso dobbiamo essere tutti
pronti a seguirti?”
Il cuore rischiava di esplodermi nel petto. Non aveva
capito un cazzo, non aveva assolutamente idea di cosa tutto
ciò significava per
me.
Feci per lasciare il bagno, ma quando fui sulla soglia mi
fermai e mi voltai nuovamente verso mia sorella e le lanciai
un’occhiata
velenosa. “Sei una stronza, una traditrice e
un’egoista. Ti sei dimenticata di
tutte le volte che mi hai fatto delle promesse, ti sei dimenticata di
quanto mi
hai detto che ci saresti stata sempre, che non ci saremmo mai separate,
che ci
saremmo sempre salvate a vicenda. Ti sei dimenticata di tutti i sogni e
i
progetti, delle promesse che abbiamo fatto a nostra madre quando
eravamo
abbracciate a piangere e speravamo che lei ci vedesse
dall’alto, ti sei
dimenticata di tutte le volte che abbiamo fatto fronte comune davanti a
nostro
padre, ti sei dimenticata della rabbia e della speranza che abbiamo
condiviso.
Questo è il tuo modo per dimostrarmi che non mi lascerai mai
sola, eh? Questo
per te significa stare per sempre insieme, scappare, costruirci un
futuro
altrove con le nostre forze? Hai dimenticato tutto, hai rinnegato
tutto, e
l’hai fatto per una testa di cazzo che ti scopa come fossi
una bambola
gonfiabile e poi insieme alla grana ti dà una carezza per
farti stare buona,
per un pezzo di merda che dopodomani ti scaricherà
perché sei soltanto una
puttana come un’altra e per lui non vali niente. Per questo
rovini tutta la tua
vita e anche la mia, infrangi tutte le promesse, ti fotti il
futuro… che cazzo
devo dirti, eh? Pensavo di averti dalla mia parte, invece sei come
tutti gli
altri! Sei una merda, sappilo, sei una delusione, e spero che tu
rimanga qui a
marcire e vivere la tua vita da troia fallita per il resto dei tuoi
giorni!”
Sferrai un pugno allo stipite della porta, mentre lacrime di rabbia
infuriavano
con impeto sul mio viso.
Yelena era ammutolita, mi guardava con occhi sgranati e
terrorizzati come fossi un’aliena proveniente da un altro
pianeta.
“Adesso io me ne vado, mi sbronzo per bene, e domani
quando esco dall’hangover la prima cosa che faccio
è chiamare la zia per dirle
che mi sto fiondando a Londra, e sai
perché? Perché oggi ho capito che
qui non mi è rimasto davvero più niente, e
soprattutto spero di dover vedere il
meno possibile la tua faccia del cazzo!”
Anche Yelena aveva cominciato a piangere in silenzio, ma
le sue lacrime non contavano nulla per me in quel momento; girai i
tacchi e,
senza alcun ripensamento, corsi fuori di casa e sbattei la porta
talmente forte
che le pareti tremarono. Sperai che crollassero, come erano crollate le
mie
certezze e com’era crollato il mio intero mondo.
Camminai e piansi come una disperata, rovinandomi il
trucco e singhiozzando come una bambina. Come al solito nessuno si
interessò a
me, da quelle parti si era abituati a vedere scene ben peggiori.
Non capivo perché la mia vita dovesse per forza rivelarsi
una catastrofe totale. Ma, nonostante i drammi che mi ritrovavo a
vivere ogni
giorno, nulla era paragonabile a quella rottura se non la morte di mia
madre.
Tutti i legami più forti e importanti nella mia vita si
erano rotti; avevo
sedici anni, ero sola al mondo e avevo vissuto dei lutti troppo pesanti.
Se l’Alibi non fosse esistito, avrei cercato un posto
tranquillo per suicidarmi in pace.
Invece, con le guance incrostate di trucco. spinsi la
solita porta sudicia che cadeva a pezzi, mi diressi a passo di marcia
verso il
bancone e, senza nemmeno controllare chi ci fosse dietro e se mi stesse
ascoltando, annunciai: “Voglio l’alcolico
più forte che c’è a
disposizione”.
Nonostante la mia sete di cambiamento e il mio disprezzo
verso il luogo in cui vivevo, amavo l’Alibi e tutte le
persone che stavano al
suo interno.
Quando avevo chiamato la zia Ruth per annunciarle che
sarei andata a Londra, il mio primo pensiero era corso ai miei amici e
a quanto
mi sarebbero mancati nonostante tutto. Era stato grazie a quel luogo e
a quelle
persone che ero riuscita a sopportare la situazione di merda che avevo
in casa,
non riuscivo nemmeno a contare le volte in cui mi ero divertita e mi
ero
lanciata in avventure pazze e sconsiderate, non contavo più
le uscite con le
ragazze per le strade di Hollywood, le risate sul lungomare, i
concerti, le
sbronze, le notti insonni e le nuove conoscenze, il sesso, i momenti
spensierati trascorsi senza badare al passato e al futuro.
Era quello, in fondo, il luogo in cui ero diventata
grande. Avevo all’incirca altri sei mesi per godermelo prima
di lasciarlo
andare, un lasso di tempo che in quel momento mi sembrava brevissimo.
I miei zii avevano programmato il mio trasferimenti per i
primi mesi dell’86, l’anno seguente,
così da poter gestire con calma tutte le
faccende burocratiche, in modo che loro potessero dare con calma la
notizia
alle figlie e preparare per me la loro stanza degli ospiti. Il
pochissimo tempo
in cui stavo a casa lo trascorrevo al telefono con la zia per discutere
sul da
farsi e su come organizzarsi.
Ma ormai la mia dimora la evitavo come contenesse un focolaio
di peste, perché avevo ben due persone da evitare: mio padre
e mia sorella.
Quel giorno di metà settembre mi ero trascinata al locale
nonostante fossi a malapena nelle condizioni per alzarmi dal letto e
camminare.
Ormai non c’era scusa che tenesse: per stare lontana da casa
ero pronta a
sfidare anche il ciclo, l’unico motivo che in genere era in
grado di tenermi
tra le mura domestiche. Era qualcosa di devastante, mi provocava dolori
talmente forti che certe volte mi portavano a rimettere o a svenire,
temevo
terribilmente quell’appuntamento mensile.
Così, più pallida del solito e con un make up
approssimativo, me ne stavo addossata alla parete esterna accanto alla
porta
d’ingresso, laddove i ragazzi si radunavano durante il
pomeriggio per fumare,
chiacchierare e sperare in qualche soffio di vento ristoratore. In
genere io e
le ragazze che frequentavo arrivavamo un po’ più
tardi, ma avevo voglia di
vivere al massimo quegli ultimi mesi losangelini. Fosse stato per me,
all’Alibi
ci avrei pure dormito.
Presi una boccata di fumo e mi guardai attorno: nessuno
sembrava fare caso a me, nessuno si accorgeva che stavo male. Non
succedeva mai,
ero davvero brava a camuffare i miei malesseri e i miei stati
d’animo negativi,
ma quel giorno non mi ci stavo nemmeno impegnando e constatare che
tutti se ne
fregavano del mio volto cereo e del mio aspetto trasandato non mi
faceva
piacere. Dopotutto ero una persona che mirava a stare al centro
dell’attenzione.
Alcuni ragazzi, tra cui i componenti degli Storm It Down
eccetto Oliver, giunsero al locale e mi passarono accanto per entrare.
Li
salutai e in cambio ricevetti un cenno da Ethan e un sorriso da Ives,
Alick e
May, ma null’altro. Li vidi scomparire oltre la pesante porta
e sbuffai,
chiedendomi cosa ci facessi lì. Pareva quasi che se non mi
impegnavo ad
attirare l’attenzione, nessuno si accorgeva di me.
“Ehi, Bess!”
Mi sorpresi nel notare che Ives si era staccato dal
gruppetto e mi aveva raggiunto, posando a sua volta una spalla alla
parete
scaldata dal sole. Qualche volta in effetti capitava che ci fumassimo
una
sigaretta insieme, visto che condividevamo quel vizio.
“Ehi” replicai senza troppo entusiasmo, tenendo lo
sguardo basso.
“Tutto bene? Hai una faccia stranissima, l’ho
notato
subito non appena ti ho visto” mi domandò
preoccupato.
“Oh, finalmente qualcuno che se ne accorge”
borbottai con
un filo di voce. Ed era paradossale che a chiedermelo fosse stato un
ragazzo
che in fondo conoscevo a malapena.
Rivolsi lo sguardo all’ingresso del locale, domandandomi
se qualcun altro ci avrebbe raggiunto, ma ciò non avvenne.
Mi veniva da
vomitare pure per il malumore, oltre che per i dolori lancinanti che mi
trafiggevano la pancia.
“Cos’hai?” si allarmò allora,
notando la smorfia di
sofferenza sul mio viso.
“Non potresti capire.”
“Perché?”
“Perché sei un uomo.”
Scrutai il suo viso che per diversi secondi fu una
maschera di confusione, poi parve capire e annuì.
“Cazzo, mi dispiace. Non ti
avevo mai visto così…”
“Beh, diciamo che in genere me ne sto a casa mia e non
rompo il cazzo a nessuno con i miei drammi e i miei dolori.”
“E come mai oggi sei uscita lo stesso?”
Come potevo spiegarglielo?
Venni colta da un capogiro e serrai per un attimo le
palpebre. Stavo davvero di merda.
“Bess?” mi richiamò Ives, afferrandomi
d’istinto un
braccio.
Mi venne da ridere. “Ives, sono poggiata alla parete, non
cado. Tranquillo.”
Lui sorrise a sua volta. “Ah già.”
Lasciai trascorrere qualche istante di silenzio, in cui ognuno
inspirò una boccata dalla propria sigaretta.
“Sai… tra qualche mese mi trasferisco a
Londra” me ne
uscii all’improvviso. La notizia in ogni caso si sarebbe
diffusa, prima o poi
l’avrei data da tutti, tanto valeva cominciare da qualche
parte.
“Cosa?” sbottò il ragazzo sorpreso.
Annuii.
“Ma è fighissimo! Cioè… cosa
si dice in questi casi,
congratulazioni?” si entusiasmò lui, per poi
ridacchiare.
Non potei fare a meno di sorridere a mia volta: mi aveva
sempre fatto una gran tenerezza.
“Già. Andare via da qui è sempre stato
il mio sogno,
quindi inutile dire che sono al settimo cielo.
Però…”
“Perché deve esserci sempre un però?”
commentò lui
ironico.
“Perché la vita è una merda e tutte le
cose devono essere
per forza complicate” risposi ridacchiando.
“Però…?”
Mi guardai attorno e accennai a ciò che ci circondava.
“Questo è il posto in cui sono cresciuta, la gente
che è cresciuta con me, e
anche se odio ammetterlo tutto ciò mi mancherà.
In fondo è questo il posto che
ho sempre considerato casa… ed ecco,
è per questo che sono venuta qui
nonostante stessi da schifo: voglio godermi ogni momento che mi rimane
qui, con
voi.” Ero tentata di distogliere lo sguardo dalle iridi
azzurre del mio
interlocutore, perché detestavo parlare di questioni
così delicate e nel contempo
permettere agli altri di leggermi dentro, ma ero curiosa di sapere come
avrebbe
reagito.
Lui annuì, si scostò una ciocca corvina dal viso
e buttò
fuori una boccata di fumo. “Sai, c’è una
frase che Ethan dice a volte, che ho
sempre trovato molto bella e che è perfetta per questa
situazione; non so dove
l’abbia sentita, non so se è opera sua, ma in ogni
caso te la voglio dire. Casa
tua, Bess, si trova ovunque andrai. Il concetto, insomma, è
che forse non
apparteniamo davvero a un luogo, ma sono i luoghi in cui noi siamo che
ci
appartengono, e quando li lasciamo li portiamo sempre dentro. Quando tu
partirai per Londra l’Alibi non scomparirà, noi
non scompariremo, e anche se
dovesse esplodere tutto – speriamo che non capiti,
perché comunque qui ci sono io
– l’Alibi non scomparirà mai dentro di
te, te lo porterai sempre appresso. Ora
non so se quello che ho appena detto ha un senso perché oggi
ho già fumato e
bevuto abbastanza, ma ciò che volevo dire
è… questo posto è casa tua
perché
l’hai reso tale, perché qui ci sei tu e ci sono le
persone con cui vuoi stare,
ma qualsiasi posto potrà essere casa tua. E se un giorno
vorrai tornare qui,
noi ci saremo ancora, a perdere tempo tutto il giorno e ad
aspettarti.”
Concluse il suo discorso un po’ serio e un po’
sconclusionato con un sorriso
raggiante.
“Dovevi fare il filosofo, non il bassista” ribattei
con
una risatina; era il mio modo di ringraziarlo.
All’improvviso una fitta più forte delle altre mi
sorprese e mi piegai appena in avanti, strizzando gli occhi.
“Porca troia…”
“Bess, non svenire! In genere sono io quello che collassa,
non so cosa si fa!” si allarmò subito Ives.
“Essere una donna è una merda… okay,
sto bene.” Mi
raddrizzai e cercai di darmi un contegno, anche se la situazione non
sembrava
migliorare. “Forse è il caso che entro e mi siedo
da una parte, prima di
collassare per davvero.”
“Ma, senti…”
“Dimmi.”
Ives sorrise. “Possiamo fare il brindisi di addio quando
sarà il momento di andare a Londra?”
“Col cazzo, io detesto gli addii e le cerimonie
inutili!”
“Dai…”
“Ho detto: col cazzo!”
Mi sarebbero mancati i momenti come quelli.
Ma forse Ives – anzi, Ethan – aveva ragione: come
avevo
reso quel posto casa mia, avrei potuto trovare una dimora anche a
Londra, anche
in ogni angolo di mondo.
E forse avrei trovato delle altre persone a cui affidare
un piccolo pezzetto del mio cuore.
♠
♠ ♠
CE
L’HO FATTA.
HO
SCRITTOOOOOOOO FINALMENTE HO SCRITTOOOOOOO E PIU’ DI
DIECIMILA PAROLE, PIANGOOOOOOO!!!!!!
Scusate
quest’esordio per niente professionale, ma esco
da un blocco dello scrittore che mi ha tolto la gioia di vivere (?) e
riuscire
a scrivere un capitolo del genere di getto è una
soddisfazione immensa! Non so
assolutamente come sia venuto il capitolo ma sono talmente al settimo
cielo che
non fa nulla anche se dovesse fare schifo AHAHAHAH sono felicissima che
sia
venuto fuori!
Anche
perché tengo tantissimo a questa raccolta e la
volevo aggiornare *________________*
Dunque, qui
abbiamo un bel po’ di colpi di scena, come
vedete ^^ forse chi segue la serie alcune cose le aveva già
intuite, oppure
avrà trovato risposte a domande che si poneva da tempo, per
esempio: cosa ha
spinto Bess a trasferirsi a Londra?
Alcune delle
scene iniziali, che sembrano inserite per
“temporeggiare”, in realtà le ho pensate
apposta per dare un’idea di come la
ragazza vive e di come effettivamente le cose siano rimaste immobili
dal
capitolo scorso ^^
Sono molto
curiosa di sapere che ne pensate del conflitto
tra Bess e Yelena, che è stata una delle scene
più dure da scrivere per quanto
riguarda i contenuti… senza dubbio Bess ha avuto una
reazione tremenda, in
parte potrebbe avere ragione ma d’altro canto deve capire che
lei e Yelena non
saranno per sempre insieme in ogni caso… ah, Bess…
La smetto di
divagare e lascio a voi i commenti, ma
intanto segnalo alcune note/riferimenti.
Il fatto che
Oliver dovesse passare l’estate a vendere
granite sul lungomare appare anche nella storia “The only way
I can love”,
forse qualcuno se lo ricorderà… ed è
stato proprio durante l’estate dell’85!
Molti
riferimenti, come quello del solito chiosco
fatiscente sulla spiaggia e la band degli Storm It Down (formata da
Oliver,
Ethan, Ives e Alick) compaiono in altre storie della serie, ma qui
risultano
comunque marginali e spero non abbiano compromesso la comprensione
della
storia!
Hollywood, in
particolare alcune boulevard come il Sunset
Boulevard, sono famosi (e lo sono stati soprattutto negli anni Ottanta)
per i
famosi locali che ospitavano le rock band del momento, attorno a cui
ruotava
tutta la vita notturna losangelina.
Infine la frase
che Ives riporta a Bess, “Casa tua si
trova ovunque andrai”,
è già comparsa in una mia storia e forse qualche
attento lettore l’ha riconosciuta. Si tratta di una frase che
Arthur, uno dei
fratelli maggiori di Ethan, dice a quest’ultimo quando
è ancora bambino nella
shot “The world is yours, take it all”. Ho trovato
plausibile che questa frase
gli sia rimasta dentro e che l’abbia ripetuta qualche volta
davanti a Ives, il
suo migliore amico!
Insomma, spero
che questa chilometrica lettura non vi
abbia affaticato troppo (XD) e… ci vediamo presto col
prossimo e ultimo
capitolo, prometto di non far attendere altri quattro mesi XD
Alla
prossimaaaaa! ♥
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Capitolo 3 *** Stripped ***
Stripped
Toccai per la prima volta il suolo inglese il giorno di
San Valentino del 1986; trovai ad accogliermi una sinistra foschia, un
freddo
pungente e un cielo plumbeo che sapeva di pioggia. La mia nuova vita
non
prometteva nullo di troppo spettacolare, insomma.
Circondata da volti sconosciuti – anche se dopo
innumerevoli ore di volo cominciavano a risultare familiari –
e segnati dalla
stanchezza, mi mossi in fretta per recuperare il mio misero bagaglio e
dirigermi verso l’uscita. Zio Lawrence sicuramente mi stava
già aspettando
all’esterno della struttura, come mi aveva preannunciato per
telefono qualche
giorno prima, e non volevo farlo attendere troppo; già
sapevo di essere
un’ospite e un’intrusa che avrebbe fatto irruzione
nella sua famiglia, non
volevo arrecare ulteriore disturbo.
Mentre camminavo tra la folla col mio piccolo trolley
pieno fino a scoppiare mi venne da sorridere: chissà cosa
pensavano tutti
quegli sconosciuti che mi vedevano passare. Chissà che
effetto doveva fare
vedere una ragazzina minuta e troppo magra che non dimostrava affatto i
suoi
diciassette anni, totalmente vestita di nero e coi capelli tinti di
blu, con lo
sguardo basso, una sigaretta tra le dita e l’espressione
corrucciata di chi ha
voglia di spaccare la faccia a chiunque le rivolga la parola.
Eppure eccomi lì, sempre la stessa, sempre sola. Pronta
–
più o meno – a ricominciare da capo ancora una
volta.
Fuori dall’aeroporto mi guardai attorno in cerca di mio
zio; lo trovai accanto alla sua auto, che mi faceva cenno di
avvicinarmi. Era
da solo.
“Ciao Bess. Com’è andato il viaggio? Sei
stanca?” mi
domandò con la sua solita distaccata cortesia quando
l’ebbi raggiunto,
prendendo il mio bagaglio per caricarlo in macchina.
“Ciao zio. Tutto bene, non c’era granché
da fare
sull’aereo…” Mi sforzai di rivolgergli
un sorriso cordiale, sebbene quelle
conversazioni di circostanza mi irritassero parecchio.
“Grazie mille per il
passaggio, comunque.”
“Figurati, non ti avremmo mai lasciato arrivare da sola
fino a casa.” Richiuse lo sportello del portabagagli, poi
apri la portiera dal
lato del passeggero in un gesto di galanteria, per invitarmi a salire.
“Andiamo?”
Salii sulla vettura senza fiatare. Non ero
particolarmente in vena di parlare quel giorno, ancor meno se il mio
interlocutore consisteva nello zio Lawrence: non avevo nulla contro di
lui, ma
non avevamo nulla da spartire e il suo atteggiamento così
composto e freddo mi
metteva a disagio.
Ero cresciuta per strada, non sarebbe stato facile ambientarmi
in una famiglia britannica di classe medio-alta come quella dei miei
zii.
Il viaggio in auto trascorse in silenzio per i primi
minuti: lo zio Lawrence, concentrato sulla guida, fissava la strada
dritto
davanti a sé e io facevo altrettanto, seguendo con gli occhi
le goccioline che
avevano cominciato a rigare il parabrezza. Nell’abitacolo
riecheggiava solo la
radio in sottofondo e il ticchettio irregolare della pioggia.
A riscuotermi da quello stato di torpore fu una melodia
che giunse alle mie orecchie, accompagnata da una voce che non mi era
del tutto
nuova ma che non ero capace di identificare; proveniva dalle casse
dello
stereo. Affinai l’udito e mi misi in ascolto, rapita: si
trattava di una
canzone che non avevo mai sentito, completamente diversa dalla solita
roba
allegra o melensa che passavano in radio; aveva un’atmosfera
quasi tetra, resa
ancora più suggestiva dai suoni elettronici.
Come
with me into the trees
We'll lay on the grass and let the
hours pass
Take my hand, come back to the land
Let's get away just for one day
Quella voce
calda, che mi invitava a fuggire via quasi
sussurrandomi all’orecchio, mi faceva quasi venir voglia di
piangere.
Let me see
you
stripped down to the bone
Let
me see you
stripped down to the bone
Mi accorsi
solo allora che una miriade di brividi avevano
cominciato a percorrermi la schiena e le braccia, coperte da un
giubbotto forse
troppo leggero. Ma non avevo freddo – sentivo perfino la mia
anima tremare.
Metropolis
has
nothing on this
You're
breathing in fumes, I taste when we kiss
Take
my hand,
come back to the land
Where
everything's ours for a few hours
Let me see
you
stripped down to the bone
Let
me see you
stripped down to the bone
Non avevo mai sentito una canzone più bella e
coinvolgente di quella. Più la ascoltavo e mi lasciavo
rapire da
quell’atmosfera, più sentivo la mia anima che si
spogliava fino all’osso,
proprio come recitava il ritornello.
Mi sentivo capita e rassicurata, sentivo di essere stata
colpita e affondata.
Let me
hear you
make decisions
Without
your
television
Let
me hear you
speaking just for me
Let me see
you
stripped down to the bone
(Let
me hear
you speaking just for me)
Let
me see you
stripped down to the bone
(Let
me hear
you crying just for me)
Let
me see you
stripped down to the bone
(Let
me hear
you speaking just for me)
Mentre il
brano volgeva al termine, gettai un’occhiata in
direzione di mio zio per la prima volta dopo diversi minuti: continuava
a
guidare rilassato e non sembrava essersi accorto di nulla.
Certamente. Come poteva accorgersi della tempesta che si
era scatenata dentro di me? Come poteva intuire che il sorrisetto ebete
che mi
si era dipinto in faccia dipendeva dalla canzone che avevamo appena
sentito?
Lui, con tutta probabilità, non l’aveva nemmeno
ascoltata.
Continuai a prestare attenzione alla voce dello speaker,
nella speranza che annunciasse il titolo del brano.
“Abbiamo appena ascoltato il nuovo singolo dei
Depeche
Mode, pubblicato esattamente quattro giorni fa! Anticiperà
un album? Chi può
dirlo…”
Ecco come mai avevo avuto l’impressione di conoscere
quella voce: avevo già sentito qualche canzone dei Depeche
Mode, li passavano
alle feste o in discoteca a volte. Tuttavia non potei fare a meno di
rimanere
spiazzata: li avevo sempre confusi tra i mille insignificanti gruppi
dell’ultimo periodo, mentre quella nuova canzone era
così diversa dal solito.
Così profonda, così speciale.
Chissà come si intitolava.
Sarebbe stata la colonna sonora della mia nuova vita, ne
divenni improvvisamente consapevole. Avrei fatto qualsiasi cosa per
ritrovarla,
a costo di comprare tutti gli album della band e ascoltarli uno a uno
per
cercarla.
“Zio?”
“Sì?”
“Posso cambiare?” domandai, accennando
all’autoradio.
Lui annuì. “Metti pure la musica che
preferisci.”
La ricerca cominciava in quel momento.
Due ragazzine di tredici anni, quasi identiche, mi
guardavano con la stessa espressione corrucciata e scettica,
aggrottando le
sopracciglia sottili e conferendo ai loro lineamenti delicati un
aspetto più
affilato.
Avevano entrambe occhi verde smeraldo, una lunga e
fluente chioma di capelli castani e lisci, erano slanciate e la loro
pelle
diafana spiccava in contrasto con gli abiti colorati e glitterati che
indossavano.
Se non fossero state vestite con indumenti diversi, le
avrei confuse.
“Questa è nostra cugina?”
gracchiò la prima, portandosi
una mano sotto il mento.
“E verrà a stare da noi?” aggiunse
l’altra in tono
sommesso, giocherellando nervosamente col braccialetto verde che
indossava.
Inarcai un sopracciglio e lanciai una fugace occhiata a
zia Ruth.
Già, mi ero quasi scordata di quest’ostacolo: le
gemelle.
Non ci eravamo mai incontrate prima e non avevo idea di cosa
aspettarmi, ma
certamente non potevo immaginare di trovarmi davanti due mocciose
abbigliate
all’ultima moda che mi scrutavano dall’alto in
basso. D’accordo, l’ospite ero
io, ma loro avevano pur sempre tredici anni.
Cercai comunque di mantenere la calma e non ribattere con
uno dei miei soliti commenti cattivi: ci conoscevamo da meno di un
minuto e già
le cose non stavano andando benissimo, dovevo provare a mantenere un
rapporto
civile se volevo condividere la casa con loro. Mi sforzai di sorridere,
ma le
mie labbra si contorsero in una smorfia. “Sono io,
sì. Piacere, Bess.”
Loro mi scrutarono come se avessi avuto un terzo occhio
sulla fronte.
“Andiamo ragazze, presentatevi” le
incitò allora la madre
con un ampio sorriso che tradiva un profondo imbarazzo.
“Io sono Joice” bofonchiò quella col
braccialetto verde,
abbassando subito lo sguardo.
“Quindi tu devi essere Kristen?” mi rivolsi
all’altra,
sperando di aver azzeccato il nome. Zia Ruth e zio Lawrence le avevano
nominate
un sacco di volte, non potevo sbagliare.
“Crystal” mi corresse lei in tono piccato.
Ecco, appunto.
“Vieni tesoro, ti mostro la casa e ti accompagno in
camera tua: sarai stanca dopo il lungo viaggio” intervenne
subito la zia nel
disperato tentativo di levarmi dall’imbarazzo.
Mi inquietava il modo di esprimersi che avevano lei e lo
zio: parevano appena usciti da un libro inglese di fine Ottocento.
La seguii fuori dal soggiorno, ma subito il borbottio
delle due gemelle catturò nuovamente la mia attenzione.
“Hai sentito con che accento parla?
Quant’è sguaiata…”
“In America parlano tutti così secondo
te?”
“E poi hai visto come si veste? Il nero fa schifo, e poi
quella roba sembra vecchia di anni!”
Mi immobilizzai in mezzo al corridoio e strinsi i pugni.
D’accordo, ci avevo provato, ma la mia pazienza aveva un
limite.
Tornai indietro e mi affacciai di nuovo alla soglia per
poterle squadrare da capo a piedi. “Ah, non vi piacciono i
miei vestiti?
Peccato… ma tanto non avevo intenzione di
prestarveli!”
Loro sobbalzarono e ammutolirono per diversi istanti. Joice
puntò lo sguardo sul piano lucido del tavolo attorno a cui
erano sedute, mentre
Crystal prese coraggio e mi guardò dritto in faccia.
Sostenni il suo sguardo con sfrontatezza.
“Senti Beatrix, mettiamo le cose in chiaro: questa
è casa
nostra, tu sei l’ospite, quindi non ti conviene
sfidarci” sputò la ragazzina,
gonfiando il petto e assumendo una posa da dura che non le si addiceva
per
nulla.
Ero tentata di riderle in faccia, ma ero troppo incazzata
perfino per quello. “Appunto. È questa
l’accoglienza che riservi agli ospiti?
Non stai dando una bella immagine di casa tua.”
“Ragazze, che succede? Crystal, Joice!” intervenne
zia
Ruth, accortasi della discussione in atto.
Scacciai la questione con un gesto noncurante e le
rivolsi un debole sorriso. “Tutto finito, tranquilla, ora
puoi portarmi a
vedere la casa.”
La donna lanciò un’occhiata scettica alle figlie,
poi
tornò in corridoio con l’intento di farmi strada.
Feci per seguirla, ma prima di lasciare nuovamente il
soggiorno mi soffermai un’ultima volta su Crystal e Joice.
“Se avete qualcosa
contro di me, ditemelo pure in faccia: non ho nessun
problema.”
Quando mi allontanai mi sentii immediatamente stupida a
essermi accanita contro due ragazzine, ma come al solito avevo agito
d’istinto.
In ogni caso c’erano delle mancanze di rispetto che non
tolleravo, e il fatto
che le mie cugine avessero solo tredici anni non poteva giustificarle.
“Ti stavano dando fastidio? Devi scusarle, ci
vorrà un
po’ perché si abituino, sono sempre state abituate
a essere solo loro due” si
preoccupò subito la zia Ruth. In realtà non era
parsa troppo sconvolta
dall’atteggiamento maleducato delle figlie.
Mi strinsi nelle spalle. “È
comprensibile.”
La casa della famiglia Middleton era la classica dimora
tipo di una famiglia britannica: situata in un tranquillo quartiere
residenziale, a pochi minuti di una fermata della metro che permetteva
di
raggiungere agevolmente il centro di Londra, era circondata da un
giardino
ricoperto di erba verde brillante fresca di tosatura. Le stanze,
spaziose e numerose,
erano distribuite tutte su un piano: quelle della zona giorno erano
rivolte a
sud e inondate dalla luce che filtrava da grandi vetrate, tutto
l’opposto delle
camere da letto.
Era una casa così bella e ben arredata, con i mobili ben
coordinati in ogni stanza e un sacco di soprammobili e quadri eleganti,
ma al
contempo risultava così fredda e ostile. Sembrava troppo
ordinata e tirata a
lucido per essere abitata; mi trasmetteva un senso di straniamento e
oppressione insopportabili.
Il mio concetto di casa prevedeva
tutt’altro.
“Qui c’è la stanza degli ospiti, che
abbiamo preparato
per te, proprio a fianco a quella delle ragazze”
spiegò zia Ruth una volta
giunte nel piccolo corridoio su cui si affacciavano le camere da letto
e il
bagno della zona notte.
Feci il mio ingresso nell’unico angolo di pace che
sarebbe stato solo mio e mi sedetti sul bordo del letto, guardandomi
attorno con
circospezione: era tutto così anonimo.
“Ti piace?” domandò la zia con un
sorriso colmo di
speranza.
“Sì… mi devo ancora
ambientare” concessi. Non ero affatto
brava a mentire, accidenti.
“Ti lascio un po’ da sola, così puoi
sistemare le tue
cose, darti una rinfrescata e riposarti” annunciò
lei, per poi sparire
nell’andito e richiudere la porta con delicatezza.
Mi sdraiai sul materasso senza nemmeno preoccuparmi di
togliere le scarpe e solo allora mi resi conto di quanto mi facesse
male la
schiena: avevo pur sempre affrontato più di dodici ore
stipata su un sedile
troppo duro e scomodo.
Chiusi gli occhi, perché ero certa che se mi fossi
guardata nuovamente intorno avrei dato di stomaco. Non ero
più così certa di
aver fatto la scelta giusta: ero fuggita per stare lontana da mio
padre, da mia
sorella che ormai mi aveva voltato le spalle e dal mio passato troppo
pesante,
non avevo avuto dubbi sul fatto che andare a Londra e ripartire da zero
fosse
l’unica soluzione per me, ma ora che mi ritrovavo sola e
spaesata in un luogo
completamente nuovo cominciavo a essere spaventata. Mi ripetevo sempre
– e
facevo sempre credere a tutti – che ero abbastanza forte da
riuscire a
cavarmela in ogni situazione e che nulla poteva davvero sconvolgermi,
ma non
potevo mentire a me stessa.
La mia Los Angeles mi mancava già. Yelena mi mancava
già,
anche se odiavo ammetterlo. E detestavo quell’ambiente
così freddo e quadrato,
quella famiglia inospitale e quella città immersa nel
grigiore.
E chissà quanto mi sarebbe costato ricominciare la
scuola…
Più mi lasciavo trascinare da quei pensieri, più
sentivo
il cuore sfondarmi la gabbia toracica e il respiro farsi irregolare.
Sapevo
esattamente cosa stava per accadere, ma non l’avrei permesso:
mi misi a sedere
di scatto, spalancai gli occhi e presi un profondo respiro. Non mi
sarei fatta
prendere da un attacco di panico durante la mia prima giornata a
Londra. Quella
sarebbe stata la mia nuova vita, mi sarei lasciata alle spalle tutte le
mie
vecchie fragilità.
Mi misi in piedi a fatica con l’intento di recuperare il
mio walkman all’interno del trolley – ascoltare
musica mi rilassava sempre – e
solo allora mi accorsi di essere osservata.
Mi voltai di scatto verso la porta: era socchiusa e un
paio di occhietti verdi mi scrutavano attraverso la stretta fessura.
Non appena
incrociarono i miei, l’uscio sbatté di scatto e
delle risatine si propagarono
per il corridoio.
Sentendo la rabbia montare dentro, percorsi in poche
falcate lo spazio che mi separava dalla maniglia e la tirai con forza.
“Che
cazzo avete da guardare?”
Stava andando tutto a puttane, ed ero arrivata solo da un
paio d’ore.
Cominciai ad andare a scuola pochi giorni dopo il mio
arrivo a Londra. I miei zii avevano scelto per me un liceo piuttosto
buono,
anche se non si trattava di un istituto privato come quello che
frequentavano
Crystal e Joice.
Non avrei mai potuto pretenderlo, del resto; a dirla
tutta mi sentivo già fortunata a poter terminare gli studi e
a stare lontana
dal mio vecchio quartiere, in cui perfino la scuola era intrisa di
criminalità
e disagio.
Fin dal primo giorno decisi di mantenere un profilo basso
sia con i professori che con i miei compagni di classe; non avevo
nessuna
voglia e nessun interesse a socializzare in quel luogo, sapevo che non
avrei
trovato qualcuno che potesse condividere il mio stile di vita.
Dal momento che a Los Angeles avevo perso un paio d’anni,
ì miei compagni erano tutti più piccoli di me e
ciò non era troppo
rassicurante. Non era soltanto una questione di età
anagrafica: semplicemente
avevo vissuto molto più di loro, ero già invecchiata
e avevo commesso
molte stronzate, mentre quei ragazzini stavano cominciando a staccarsi
da mamma
e papà in quel momento ed erano a malapena al loro primo
tiro di sigaretta.
Mi imposi di mantenere la calma e soprattutto di
rimettermi a studiare seriamente – attività che
non mi era mai pesata e che mi
veniva pure piuttosto semplice. Non ero molto sicura di riuscire nei
miei
obiettivi, ma dopo qualche settimana appresi che i miei voti non erano
affatto
male e che riuscivo a non cedere alle provocazioni dei miei compagni.
Evitavo
di rispondere ai professori – cosa che fino a quel momento
era stata
impensabile – e talvolta mi ritrovavo a essere dalla loro
parte quando
rimproveravano i miei compagni.
Non ero diventata meno ribelle del solito, ero solo più
matura e soprattutto avevo imparato a farmi i cazzi miei. In fondo
l’unico mio
obiettivo in quel luogo era prendere il diploma.
Per gli altri liceali ero soltanto la tipa bizzarra e
taciturna con i capelli blu e la sigaretta sempre tra le dita. Nessuno
sembrava
particolarmente interessato ad attaccare bottone con me –
forse li intimorivo –
e, anche in quelle rare occasioni in cui qualche coraggioso si faceva
avanti,
mi mantenevo sempre distaccata.
L’unica persona con cui trascorrevo il mio tempo durante
le ore scolastiche era Tara, una ragazza taciturna ed emarginata come
me. Era
bellissima, aveva un fisico mozzafiato, un viso armonico e dei lunghi
capelli
mossi color cioccolato che facevano invidia alla maggior parte delle
ragazze,
ma era talmente timida che si ritrovava a essere sempre
nell’ombra e non essere
notata da nessuno. Era palese, si trovava a disagio in mezzo alla gente
e non
riusciva a rispondere quando qualcuno le rivolgeva la parola; mi
raccontò che
questi suoi problemi erano sfociati in vere e proprie crisi
d’ansia, e che la
sua incapacità di parlare in pubblico l’aveva
portata a essere rimandata perché
non riusciva ad affrontare le interrogazioni, per quanto studiasse e si
preparasse.
Nonostante i nostri background fossero completamente
diversi, la sentivo affine a me in un certo senso. Non potevamo
considerarci
amiche, ma ci tenevamo compagnia a vicenda, racchiuse
com’eravamo nella nostra
solitudine.
“Perché lei può uscire anche di sera e
noi no?” Crystal
incrociò le braccia al petto e mise su un broncio
indispettito, che faceva
somigliare ancora di più il suo visetto delicato a quello di
una bambina.
“Perché tu e Joice avete tredici anni, non
è bene che
andiate in giro per Londra quando fa buio” ribatté
zia Ruth pazientemente,
affettando la torta appena sfornata che aveva preparato quel pomeriggio.
“Ma potrebbe succederle comunque qualcosa, anche se ha
diciassette anni! Perché è da sola! Invece noi
siamo in due!” contestò Joice,
dando di gomito alla gemella per cercare il suo appoggio.
“Grazie mille per l’augurio” ribattei
piccata,
consultando l’orologio da parete.
“Dai, mamma! Io e Joice vogliamo solo andare a fare
shopping! Ti giuriamo che andremo solo in giro per negozi e saremo a
casa
all’ora che vuoi tu!” tentò ancora
Crystal, sbattendo le ciglia con fare
implorante.
“Ho detto di no. E questo mese vi ho già portato a
fare
shopping.”
Forse era il caso di defilarmi: quelle due palle al piede
stavano già cominciando a farmi venire mal di testa. Era
bastato poco più di un
mese di convivenza per portarmi al limite della sopportazione; quello
era uno
dei motivi per cui cercavo di stare lontano da casa il più
possibile.
“Ma adesso sta uscendo la nuova collezione estiva”
piagnucolò Joice con tanto di labbro inferiore tremante.
“Papà!” sbottò quindi
Crystal, voltandosi di scatto verso
lo zio Lawrence che, accomodato sulla poltrona, era intento a leggere
il
giornale.
Lui non si scompose e alzò solo per un attimo gli occhi
dalla pagina. “Avete sentito la mamma? Non se ne
parla.”
“Non è giusto! Io esco lo stesso!”
ringhiò la ragazzina,
pestando un piede a terra.
“Crystal!” la rimproverò sua madre senza
troppa
convinzione.
“D’accordo, si sta facendo tardi”
annunciai, afferrando
la mia borsa e dirigendomi verso l’uscita del soggiorno.
“Ciao cara! Divertiti e stai attenta!” mi
salutò zia
Ruth, seguita subito dopo dallo zio.
“Ma non è giusto… perché lei
può e noi no?” sentii ancora
Joice.
Mi voltai e guardai dritto negli occhi prima lei e poi
Crystal. “Sapete perché io posso e voi no?
Perché io qui non ho né mamma né
papà che dicono ciò che devo fare, e poi sono
quasi maggiorenne.”
Se alle orecchie delle mie cugine suonava come un motivo
per cui vantarsi, alle mie suonava come una verità
tremendamente triste. Quelle
due non si rendevano nemmeno conto di quanto fossero fortunate ad avere
due
genitori che si preoccupavano e non facevano mancar loro niente.
Non risposero, ma sulle labbra di Crystal potei leggere
un ti odio appena sussurrato.
Decisi che non valeva la pena spaccarle la faccia e mi
allontanai, pronta a lasciarmi tutto alle spalle e immergermi nel caos
di
Londra. Ormai scene del genere erano all’ordine del giorno,
non ricordavo un
solo giorno di pace da quando avevo messo piede in quella casa.
Raggiunsi la fermata della metro e attesi l’arrivo del
mio treno.
C’erano degli aspetti della mia nuova vita per cui potevo
ritenermi abbastanza fortunata: innanzitutto avevo piena
libertà sulla mia vita
e potevo gestirmi totalmente da sola, non avevo orari da rispettare o
imposizioni di alcun tipo. I miei zii sapevano bene che fino a qualche
mese
prima me l’ero sempre cavata con le mie sole forze e mettermi
dei paletti a
quel punto, a quasi diciotto anni, sarebbe stato davvero ridicolo;
avevo
promesso loro che non avrei causato problemi – non era di
certo mia intenzione
mancare di rispetto alle persone che avevano deciso di ospitarmi senza
ricevere
niente in cambio – e loro, reputandomi una ragazza matura e
responsabile,
avevano riposto in me la più totale fiducia.
Qualche stronzata avrei anche finito per combinarla,
perché fuori dai guai non ci sapevo proprio stare, ma non li
avrei mai e poi
mai coinvolti.
In secondo luogo lo zio Lawrence e la zia Ruth avevano
messo a mia disposizione i loro soldi e, oltre a darmi una sorta di
paghetta
settimanale, erano disponibili a darmi degli extra nel caso ne avessi
avuto
bisogno. Io in ogni caso non approfittavo mai della loro
bontà e cercavo di non
spendere troppo: gli unici costi che dovevo affrontare riguardavano le
sigarette e le tinte periodiche, oltre a qualche sfizio occasionale
riguardante
trucchi e vestiti. Comunque mi facevo bastare ciò che mi
davano – ero sempre
stata abituata a mantenermi con molto meno, quello per me equivaleva al
lusso.
Forse non avrei mai fatto davvero l’abitudine a quel
tenore di vita.
Emersi dalla metro e per prima cosa mi recai al negozio
di dischi a qualche metro di distanza. Sceglievo sempre quella fermata
proprio
perché, passando da quelle parti, mi fermavo a osservare la
vetrina e scoprire
le nuove uscite in ambito musicale. Non avevo ancora fatto nessun
acquisto, non
mi era mai veramente importato: nelle cuffie del mio walkman
risuonavano sempre
le solite cassette che avevo portato con me da Los Angeles e che mi
ricordavano
le giornate spensierate trascorse all’Alibi con i miei amici.
Quella sera però, quando giunsi davanti alla solita
vetrina gremita di vinili e riviste, un articolo in particolare
attirò subito
la mia attenzione. Si trattava di un album con la copertina dalle tinte
cupe,
su cui tuttavia spiccavano le scritte Depeche Mode
e Black
Celebration sulla parte alta. Era la prima volta che mi
capitava di
vederlo, sicuramente si trattava di una nuova uscita.
Non avevo affatto dimenticato la canzone che mi aveva
rubato il cuore non appena ero giunta a Londra, udita quasi per caso
nell’auto
di mio zio; avevo continuato a cercarla per tutto il tempo, ma in quel
mese non
avevo avuto tante occasioni di ascoltare la radio.
Forse poteva essere contenuta in quel nuovo album.
Senza nemmeno rifletterci su, entrai nel negozio e
cominciai a cercare la versione in audiocassetta dell’album
– l’unico formato
che potevo acquistare, dal momento che non avevo un giradischi.
Il proprietario del negozio mi lanciò un’occhiata
dalla
sua postazione dietro il bancone, ma non disse nulla.
Trovai ciò che mi interessava sullo scaffale delle
novità,
presi in mano la custodia e la feci ruotare per poter leggere la
tracklist. Un
brivido mi corse lungo la schiena quando, al numero sette, trovai il
titolo Stripped.
Non sapevo il nome della canzone che mi era piaciuta, ma
avevo riconosciuto quella parola: il cantante l’aveva
ripetuta un sacco di
volte durante il ritornello. Doveva essere quella, senza dubbio.
Tra i titoli ne trovai alcuni che mi intrigarono fin da
subito: Black Celebration – la title
track –, A Question Of Lust,
Here Is The House, World Full Of Nothing,
Dressed In Black.
C’era qualcosa di sinistro, magico e meraviglioso tra quelle
tracce, qualcosa
che mi rappresentava davvero. Solo a stringere quella cassetta tra le
dita, mi
pareva di avere in mano un frammento del mio cuore.
Senza rifletterci troppo su, mi accostai al bancone e vi
poggiai il mio acquisto. “Prendo questo.”
Non avevo nemmeno controllato il prezzo, ma non
importava.
Con la borsa occupata dalla mia nuova cassetta e lo
stomaco pieno di un raviolo al vapore acquistato da un ambulante
cinese,
passeggiavo per le pittoresche vie di Camden. Era la prima volta che
visitavo
quel quartiere di sera e lo trovai ancora più bello e
suggestivo del solito: mi
ricordava tanto l’atmosfera delle boulevard di Los Angeles,
col chiacchiericcio
dei ragazzi che si disperdeva nell’aria e la musica che
fuoriusciva dalle porte
spalancate dei locali. Era il luogo degli eccentrici come me, mi
sentivo a
casa. E nonostante fossi sola non avevo paura, camminavo a testa alta,
quasi
come se avessi calcato quelle vie un milione di volte.
Un pub in particolare attirò la mia attenzione: una band,
probabilmente punk, si stava esibendo dal vivo al suo interno e alcuni
ragazzi
erano sparpagliati sul marciapiede di fronte all’ingresso,
intenti a fumare e
chiacchierare tra loro. A giudicare dal poco che si poteva scorgere,
l’ambiente
non doveva essere molto grande ma aveva un aspetto accogliente,
conferitogli
dalle luci calde e rossastre delle lampade a muro.
Mentre mi facevo più vicina, sentii subito gli sguardi
dei presenti addosso. Era esattamente ciò che volevo:
conoscevo bene sia le
strategie per passare inosservata sia quelle per farmi notare, e quello
era il
momento adatto per sfoggiare le seconde.
Mi fermai accanto a due ragazzi che mi parevano dei tipi
a posto – uno aveva capelli quasi del tutto rasati ed enormi
occhi scuri,
l’altro sfoggiava dei dread castano chiaro e stringeva tra le
dita uno spinello
– e mi accesi una sigaretta con nonchalance.
“Ehi.”
“Ehi” ribatté il tipo dai capelli corti,
accennando un
sorriso.
“Vuoi un tiro?” offrì gentilmente
l’altro, accennando
alla stecca d’erba.
Mi aprii in un sorriso. “Gentile! Accetto solo se
è roba
di qualità” puntualizzai.
Lui annuì. “Garantito.”
Mi passò la canna e io aspirai una boccata. Era da quando
avevo lascialo Los Angeles che non fumavo un po’
d’erba; non era mai stato uno
dei miei principali vizi e non conoscevo nessuno spacciatore affidabile
da
quelle parti.
“Americana?” indagò quello coi capelli
rasati.
“Beccata. Vengo dalla mitica California” confermai.
“Che figata!” si entusiasmò subito lui.
“Oh sì. Comunque questa roba è
buonissima, dovete
presentarmi il vostro pusher” aggiunsi, prendendo un altro
tiro prima di
riconsegnare lo spinello al proprietario.
Lui lo afferrò e sorrise soddisfatto. “Te
l’avevo detto!
Sarà fatto. Prima però dobbiamo aspettare che
scenda dal palco.”
“Ah, è uno della band?”
“Il bassista.”
“Quindi conoscete i tipi che stanno suonando?”
Il ragazzo dai capelli corti fece un ampio cenno di
assenso e ridacchiò. “Conosciamo ogni singola band
che si esibisce nel
sobborgo.”
“Quindi siete abituali della zona. Questa è una
buona
notizia!”
“Tu invece sei qui di passaggio o hai intenzione di
restare?” mi chiese il ragazzo coi dread.
“Resto. Non so per quanto, ma di certo resterò per
un
po’.” Lanciai un’occhiata
all’ingresso del locale. “Ehi, io sono curiosa di
sentire la band! Chi viene dentro con me?”
I due ragazzi sorrisero e mi seguirono.
Non appena mi ritrovai avvolta dalla musica e da quegli
sconosciuti tutti da scoprire, una scarica di adrenalina mi invase le
vene. Mi
sentivo a casa, nel mio ambiente, e improvvisamente avevo voglia di
essere la
Bess di sempre: volevo divertirmi, ridere, stringere amicizia,
flirtare, avere
gli occhi di tutti addosso, essere la star. Volevo indossare nuovamente
quella
maschera che negli anni passati avevo faticato tanto per costruire e
che ormai
era una parte della mia identità.
Ordinai da bere e poi mi gettai sotto il palco, pronta a
scatenarmi e provocare chiunque avesse posato lo sguardo su di me.
Meno di un’ora dopo mi trovavo schiacciato contro la
porta del bagno, ansimante e col corpo in fiamme, con la mano di un
perfetto
sconosciuto infilata nelle mutandine. Era esattamente ciò
che volevo e che
avevo cercato.
Eccomi, la vecchia Bess con le sue vecchie abitudini.
Eccomi, la solita puttanella che si divertiva a fare baldoria e sesso
col primo
che capitava.
Beh, non esattamente il primo. Ci voleva anche
buon gusto per scegliere la giusta scopata.
Mi lasciai sfuggire un gemito spudorato, poi spinsi via
il ragazzo – un moretto ben piazzato niente male –
e mi calai i pantaloni,
scalciandoli via. Rivolsi un sorriso malizioso al mio amante
occasionale, poi
gli diedi le spalle e mi piegai leggermente in avanti.
“Prendimi. Fammi vedere
ciò che sai fare!”
Certe cose non sarebbero mai cambiate, perché in fondo mi
andavano bene così.
“Si può sapere cosa stai facendo in camera
mia?” ringhiai
quando, una volta rientrata da scuola, trovai Crystal che frugava tra i
miei
vestiti.
Vivere con quelle due marmocchie si rivelava ogni giorno
più complicato: ora che mi avevano conosciuto meglio, si
sentivano ancora più
in diritto di ficcare il naso nella mia vita e tormentarmi.
Lei sobbalzò e si voltò di scatto.
“Stavo cercando… non
trovo più la mia giacca rossa, in camera mia e di Joice non
c’è. Volevo vedere
se l’avevi rubata tu!”
“Rubata? E cosa dovrei farmene?” sbottai.
“Ma magari è finita nella tua stanza per
sbaglio.” Joice ci
raggiunse e si piazzò sulla soglia, ispezionando
l’ambiente con lo sguardo.
“Potevate anche chiedermelo come fanno tutte le persone
normali, invece che intrufolarvi come delle ladre in camera mia e
frugare senza
il mio permesso” feci notar loro, mentre riordinavo alcuni
trucchi che avevo
lasciato sul comodino quella mattina, per via della fretta.
“Ma dovevo immaginarlo: una che si veste sempre da vedova
non può avere una giacca rossa in camera. Poi gli altri
vestiti si spaventano
per tutto quel colore” mi punzecchiò Crystal col
suo solito tono impertinente.
“Una tipa che ascolta questa musica strana non può
mica vestirsi di rosso”
aggiunse dopo qualche istante di silenzio.
Tra le due lei era la peggiore: se in Joice si poteva
intravedere un minimo di umanità, Crystal era una sorta di
mostro. Viziata,
egoista, impertinente e irrispettosa.
Lasciai ricadere l’eyeliner che avevo in mano e mi voltai
a guardarla: la ragazzina soppesava la mia audiocassetta di Black
Celebration, la sventolava in aria e la osservava con
disprezzo.
Feci un balzo in avanti con l’intento di strappargliela
dalle mani e la incenerii con lo sguardo. “Lasciala subito.
Hai capito?”
Poteva prendersi anche tutto il mio armadio, ma quella
cassetta doveva lasciarla stare. Era l’oggetto
più prezioso che possedevo.
“E se invece non la lascio?” mi sfidò,
nascondendola
dietro la schiena.
Non esisteva nessuno al mondo in grado di farmi incazzare
tanto. In preda a un accesso d’ira, la immobilizzai e le
afferrai una ciocca di
capelli, strattonandola. Lei strillò e tentò di
dimenarsi, ma non mollai la
presa.
“Lascia subito quella cassetta o ti stacco i capelli uno
a uno” la minacciai in un ringhio.
“Ma solo se tu ci presti i tuoi trucchi”
provò a
contrattare. Piccola bastarda, non cedeva nemmeno sotto ricatto.
“Lascia. Quella. Cazzo. Di. Cassetta” ripetei,
scandendo
bene ogni parola e tirandole nuovamente i capelli per ribadire il
concetto.
Lei piagnucolò per qualche istante e poi mi
restituì la
copia di Black Celebration senza fare ulteriore
resistenza.
“Tanto quella musica fa pure schifo”
bofonchiò una volta
liberatasi dalla mia presa.
“Certo, tu sì che ci capisci qualcosa di
musica” replicai
ironica, sistemando il mio album preferito il più lontano
possibile dalle
grinfie di Crystal.
“Madonna, lei sì che è veramente
brava!” intervenne
Joice, puntandosi le mani sui fianchi.
“Certo…” Evitai di far notare loro che
Madonna non era
nemmeno capace di cantare.
“E poi hai visto il suo stile? È troppo
bella!” proseguì
la ragazzina, assolutamente convinta della sua posizione.
“Sì…”
“Preso! Scappa, Joice!” strillò
all’improvviso Crystal.
Feci appena in tempo a vederla correre via con un mio
kajal in mano, al fianco della gemella, e non ebbi nemmeno il tempo di
reagire.
Le loro grida e risate si persero in corridoio, poi la porta della loro
stanza
sbatté forte.
Feci uno scatto in avanti con l’intento di inseguirle,
poi mi passai una mano sulla fronte. Era dura, tremendamente dura.
Cos’avevo fatto di male per dover combattere contro
quelle due mocciose?
C’erano giorni, più di altri, in cui il suolo
sembrava
cedere sotto i miei piedi e volermi inghiottire.
C’erano giorni in cui le mura della casa sembravano
volermi schiacciare, sommandosi al peso della mancanza che provavo nei
confronti della mia vecchia vita. Quella vita che mi ero voluta
lasciare alle
spalle, ma che in fondo mi aveva seguito fino a lì.
C’erano giorni in cui Crystal e Joice facevano il
possibile per farmi impazzire, e ci riuscivano talmente bene che non
avevo più
la pazienza per tener loro testa. C’erano giorni in cui
riuscivano a darmi
fastidio anche se infilavo le cuffie del walkman e impostavo il volume
al
massimo.
C’erano giorni in cui il panico mi coglieva alla
sprovvista, ma ormai avevo imparato cosa dovevo fare in quei casi per
riprendere il controllo di me stessa: mettere in riproduzione Black
Celebration, uscire di casa e camminare. Non avevo mai una
meta ben
precisa, non mi saltava nemmeno in mente di prendere la metro e recarmi
in
centro. Camminavo per le vie quasi deserte del quartiere, mi lasciavo
avvolgere
dalla musica e respiravo a fondo, finché le lacrime non mi
si asciugavano sulle
guance e tornavo a sentirmi tutta intera.
Quel pomeriggio di inizio giugno era così.
Pensavo che non me ne sarebbe importato niente e che il
mio cervello avrebbe addirittura rimosso quell’informazione,
eppure lo sapevo benissimo:
era la prima volta che trascorrevo l’anniversario di morte di
mia madre lontano
da casa. In un luogo in cui a nessuno importava davvero di me, in cui
non
potevo sfogarmi con nessuno, in cui non avevo una sola persona con cui
distrarmi.
Non appena rimisi piede in casa dopo la scuola un forte
senso di colpa mi invase, insieme alla prima dose di panico dritta in
vena. Lo
conoscevo fin troppo bene e sapevo anche che, se non avessi fatto al
più presto
qualcosa per calmarmi, quel giorno non ne sarei uscita troppo
semplicemente.
L’unica cosa che volevo era farmi trovare nel bel mezzo
di una crisi dai miei zii e dalle mie cugine – non ero
nemmeno certa che
sapessero di quel mio piccolo problema, era
qualcosa che avevo sempre
gestito da sola –, perciò infilai le cuffie alle
orecchie e uscii di nuovo
senza preoccuparmi di salutare o avvisare, con le lacrime che
già mi
ustionavano la pelle del viso e la sensazione di vuoto al centro del
petto.
Camminai e piansi mentre ascoltavo le voci di Dave Gahan
e Martin Gore accarezzarmi le orecchie, e mi sentii infinitamente
stupida e
patetica. Non sapevo nemmeno dire per quale motivo mi sentissi
così disperata,
se per la mia attuale vita o per tutto ciò che avevo perso.
La verità era che
quel senso di vuoto e solitudine avevo cominciato a provarlo
esattamente sei
anni prima e nessuno era mai stato in grado di colmarlo davvero. Volevo
sentirmi ancora una volta una bambina indifesa e fragile che si
rifugiava tra
le braccia della madre, invece ero più sola che mai.
Sollevai gli occhi al cielo, chiedendomi se lei mi stesse
osservando da lassù, ma una coltre di nubi grigiastre mi
impedivano di scorgere
l’azzurro. Anche loro si prendevano gioco di me, si
divertivano a scatenare
quel senso di claustrofobia che mi toglieva il respiro.
Le lacrime smisero di piovere giù per le mie guance
quando finalmente Stripped inondò le mie
orecchie, infondendomi l’ormai
familiare senso di pace e libertà. La mia adorata Stripped,
colei che mi
aveva fatto conoscere il gruppo musicale che mi aveva salvato la vita e
continuava a salvarla ogni giorno, la mia dose di serotonina
giornaliera, la
mia canzone preferita in assoluto.
Come with
me
into the trees
We'll
lay on
the grass and let the hours pass
Take
my hand,
come back to the land
Let's
get away
just for one day
Ascoltai quelle parole, quasi ipnotizzata, ed ebbi una
voglia matta di fuggire e lasciarmi davvero tutto alle spalle, di
afferrare
questa mano immaginaria e lasciarmi trascinare via, lontano dalla
società che
mi ingabbiava ogni giorno di più. Di provare quella
libertà che mi ero sempre
illusa di avere, ma che non era mai stata mia.
Giunta circa alla metà del brano, mi guardai attorno per
la prima volta da quando ero uscita di casa e mi resi conto che le mie
gambe mi
avevano condotto automaticamente nel mio luogo preferito, quello in cui
mi
rifugiavo sempre quando volevo stare da sola. Si trattava semplicemente
di un
piccolo spiazzo piastrellato e delimitato da un basso muretto. Non vi
erano né
panchine né aiuole, ma all’estremità
opposta rispetto alla strada vi era un
parapetto oltre il quale si poteva ammirare il verde rigoglioso di un
parco.
Non avevo mai capito a quale luogo portasse esattamente quel piccolo
strapiombo, forse si trattava di un giardino privato e recintato a cui
non si poteva
accedere – probabilmente era perfino abbandonato, dal momento
che la
vegetazione cresceva indisturbata – ma non mi ero mai posta
il problema: a me
bastava osservarlo dall’alto.
Quando avevo scoperto quello scorcio per un attimo mi ero
sentita un po’ come Mary Lennox, la protagonista de Il
Giardino Segreto,
ma poi mi ero data della cretina e avevo ricordato a me stessa di avere
diciassette anni.
Mi recai a passo spedito verso la mia meta mentre, ancora
con la musica a palla nelle orecchie, mi accendevo una sigaretta, ma
rallentai
di botto e mi sfilai le cuffie quando mi accorsi che lo spiazzo non era
deserto
come al solito.
Un ragazzo dai capelli biondi, che indossava una camicia
chiara a maniche corte e un paio di jeans, se ne stava con i gomiti
poggiati
sul parapetto e fumava una sigaretta in silenzio, guardando dritto
davanti a
sé. Non fui in grado di distinguere nessun altro dettaglio,
dal momento che mi
dava le spalle, ma ero grata per il fatto che non si fosse voltato e
accorto
della mia presenza: dovevo essere in condizioni pessime e sicuramente
non ero
dell’umore per fare delle nuove conoscenze.
Esaminando l’ambiente con più attenzione notai una
moto
nera e lucente, che non avevo mai visto da quelle parti, parcheggiata
sul
ciglio della strada. Ne rimasi subito attratta e mi soffermai a
guardarla: ero
sempre stata affascinata dalle moto e, sebbene non fossi in grado di
guidarne
una, ero sempre salita volentieri con i ragazzi che mi offrivano un
passaggio.
Era tremendamente bello sfrecciare su uno di quei bolidi lungo la costa
della
mia adorata California, col vento tra i capelli e il mare azzurro che
scorreva
al mio fianco…
Mi riscossi da quei ricordi talmente belli da far male e
mi domandai se fosse il caso di defilarmi, prima che lo sconosciuto si
accorgesse della mia presenza. Ma ormai avevo perso troppo tempo: un
attimo
prima che muovessi il primo passo, lui si voltò e mi
adocchiò, per poi mettere
su un’espressione sorpresa.
Che tempismo…
Ormai ero in ballo, tanto valeva danzare; non era da me
fuggire come una bambina colta con le mani nel sacco.
Fingendo indifferenza, presi una boccata di fumo dalla
mia sigaretta e sostenni il suo sguardo. In quel modo potei scorgere
anche i
dettagli del suo viso: doveva avere una ventina d’anni, aveva
il volto dai
lineamenti affilati ma non eccessivamente aggressivi da tipico inglese,
i
capelli mossi non troppo corti gli incorniciavano il viso e si
agitavano appena
per via della brezza. Ma ciò che mi colpì
maggiormente furono i suoi occhi
grigio-azzurri segnati da una profonda tristezza.
Mi venne quasi da ridere: possibile che dovessi attirare
a me tutte le anime più distrutte e dannate? Dovevo avere
una qualche
maledizione.
Lui accennò un sorriso, probabilmente fraintendendo la
mia espressione.
Ero tentata di lasciarlo perdere e andare via per
davvero, ma in fondo quello era il mio luogo
preferito e avevo tutto il
diritto di starci. Mi accostai alla balaustra e vi posai i gomiti a mia
volta,
stando ben attenta a tenere le distanze da quel ragazzo. Fissai un
punto
davanti a me, tra l’erba alta e rigogliosa, ma percepivo
benissimo che il
biondo mi lanciava occhiate di tanto in tanto. Sicuramente era
incuriosito,
anche se cercava a sua volta di fingersi distaccato.
Dopo circa un minuto decisi di dargli una soddisfazione.
“È tua la moto?”
Lui annuì. “Non proprio in realtà:
è di mio fratello
maggiore, ma ormai non la usa più e si può dire
che l’ho ereditata.”
Aveva un modo di parlare gentile e calmo e una voce
piuttosto musicale. Perfettamente in sintonia col suo aspetto, in
effetti.
“È molto figa. Stravedo per le Harley
nere” ammisi, per
poi voltarmi nella sua direzione. “Non l’avevo mai
vista da queste parti.”
Mi sorpresi per la nonchalance con cui stavo conducendo
quella conversazione, visto che ero appena uscita da un attacco di
panico.
Sicuramente avevo ancora gli occhi gonfi di pianto e la voce roca,
forse un po’
di trucco mi si era sciolto e incrostato sulle guance, ma non avevo
modo di
nascondere tutto ciò.
“Nemmeno io ti avevo mai visto da queste parti. E il tuo
accento non è inglese, di sicuro”
osservò.
“Che orecchio!” ironizzai; pure una scimmia se ne
sarebbe
accorta. “Infatti vengo da Los Angeles. O meglio, sono per
metà inglese e per
metà americana, ma ho sempre vissuto in
California.”
“Wow, Los Angeles” commentò con aria
sognante.
Annuii e aspirai l’ennesima boccata di fumo. “Sono
arrivata a Londra qualche mese fa.”
Lui mi guardò stranito.
“Che c’è?” incalzai, inarcando
un sopracciglio.
“No, è che… sei qui da sola? Sembri un
po’…” bofonchiò, leggermente
in imbarazzo.
Mi fece quasi tenerezza: sembrava un ragazzo un po’
ingenuo e timido, non sapeva bene come comportarsi.
“Sembro un po’ piccola, intendi? Me lo dicono
tutti. Ma
in realtà ho diciassette anni, a dicembre di
quest’anno ne compio diciotto.”
Lui sgranò gli occhi.
“E comunque sto dai miei zii, che abitano qui
vicino”
puntualizzai. “Tu? Siamo vicini di casa e lo scopriamo solo
ora?”
“Non proprio… ho fatto un po’ di strada
perché volevo…
stare da solo.” Distolse lo sguardo e finì la sua
sigaretta, prima di
schiacciare il mozzicone sulla balaustra.
“Anche io volevo stare da sola, pensa che
coincidenza… e
in genere venire qui è la soluzione
migliore…” gli feci notare, più per
metterlo alla prova che per cattiveria. Non volevo farlo sentire
davvero in
colpa, in fondo quello era suolo pubblico.
Anche se un po’ la sua presenza mi aveva infastidito,
specialmente all’inizio.
Lui continuò a fissare davanti a sé, senza avere
il
coraggio di spostare lo sguardo su di me. “Non ci vengo mai,
non sapevo che
fosse il tuo posto.”
“Mio… ancora non l’ho
comprato” gli concessi,
accennando un sorriso. “Giornata di merda?” gli
chiesi poi, sperando di porre
rimedio alla mia aggressività che l’aveva
palesemente messo in difficoltà.
Non lo facevo apposta a essere stronza, probabilmente lo
ero di natura.
“Parecchio” ammise, il tono di voce più
basso di
un’ottava. Sembrava davvero distrutto.
“È qualcosa a cui si può porre
rimedio?” mi informai
ancora, improvvisamente curiosa.
“Non saprei, ma a questo punto credo proprio di no.”
“Oh.” Lasciai cadere il silenzio e continuai a
fumare.
Non volevo comunque essere troppo invadente.
“Anche tu non sembri troppo contenta e in pace col
mondo”
notò lui dopo diversi secondi.
Mi finsi stupita. “Davvero? Cosa te lo fa pensare?”
scherzai.
Lui ridacchiò. “La rigiro a te: è
qualcosa a cui si può
porre rimedio?”
D’accordo, quel tipo era più sveglio di quanto mi
fosse
sembrato. Stava cominciando a piacermi.
E mi aveva anche posto una domanda a cui non sapevo
rispondere.
Mi strinsi nelle spalle. “Casini in famiglia.”
Il riassunto della mia intera esistenza, in pratica.
“Senti, non ci conosciamo e non voglio sembrare
inopportuno, ma…” Distolse nuovamente lo sguardo.
“Se ti va di parlarne, io ti
ascolto volentieri. A volte aprirsi con un perfetto sconosciuto
può essere
terapeutico.
“E chi mi assicura che non userai i cazzi miei per
ricattarmi?” scherzai.
Lui rise. “Ma se non so nemmeno il tuo nome!”
“Ah già!” Gettai il mozzicone a terra e
lo schiacciai con
la punta della scarpa. “Per riassumere, si può
dire che adattarsi in un luogo
totalmente nuovo non è impresa facile e la famiglia dei miei
zii non mi sta
dando una mano, specialmente le mie cugine. Non auguro nemmeno al mio
peggior
nemico di vivere con loro.”
Omisi giusto un paio di dettagli, come l’anniversario di
morte di mia madre, l’alcolismo di mio padre, la situazione
di merda che mi
aveva spinto a trasferirmi, gli attacchi di panico e il senso di
spaesamento
che provavo ancora nei confronti di Londra. Del resto non mi sarei mai
aperta
così tanto con nessuno.
“Comprensibile.”
“A te invece che è successo?” gli chiesi.
“Beh…” Si passò una mano tra
i capelli, a disagio. “Oggi
io e la mia ragazza abbiamo rotto dopo quattro anni di
relazione.”
Sgranai gli occhi. “Cazzo!”
“Già.”
“Quattro anni!” Non riuscivo nemmeno a immaginare
un
legame così duraturo, visto che i miei rapporti con
l’altro sesso erano durati
al massimo il tempo di una scopata.
“Quando è cominciata io avevo sedici anni. Siamo
praticamente cresciuti assieme.” La sua voce era colma di una
sofferenza che
era quasi difficile da ascoltare: doveva tenerci davvero tanto.
“E scommetto che è stata lei a
lasciarti.”
“Sì.”
“Che stronza!”
Lui sorrise mestamente. “Non è stata stronza,
semplicemente ha capito che stavamo crescendo e prendendo direzioni
diverse.”
Sospirai. “D’accordo, non dico mai la cosa giusta.
Sto
zitta!”
Lui rise. “Comunque ora che entrambi abbiamo svelato
qualcosa di compromettente sul nostro conto possiamo anche rivelarci i
nomi. A
nessuno dei due conviene ricattare l’altro.”
Sorrisi appena e gli tesi la mano – mi resi conto solo
allora che mentre parlavamo ci eravamo fatti più vicini.
“Bess. Devo pure
stringerti la mano come fanno i vecchi?”
Lui scoppiò a ridere e la afferrò. “I
vecchi?”
“Andiamo, a Los Angeles nessuno sotto i
quarant’anni si
presenta con una stretta di mano!”
“Nemmeno con i professori universitari?”
“E che ne so? Sono ancora al liceo! Comunque non mi hai
detto il tuo nome.”
“Ah già!” Rise nuovamente. “Io
sono Cole.”
Annuii. “Cole. Quindi tu ne sai più di me riguardo
all’università, suppongo” indagai,
studiandolo con attenzione.
Lui si strinse nelle spalle. “Ci studio.”
“Indirizzo?”
“Filosofia.”
Sollevai gli occhi al cielo. “Oddio.”
Lui piegò la testa di lato e sorrise sornione.
“Adoro vedere
la reazione della gente quando svelo la mia facoltà.
Comunque cos’hai contro la
filosofia?”
“Beh… non serve a un cazzo!”
“Oh, sì che serve. A un sacco di cose.”
Sollevai un sopracciglio. “Per esempio?”
Cole ci rifletté su per un attimo, poi schioccò
le dita.
“Sai cosa sostiene Nietzsche, uno dei più grandi
filosofi tedeschi?”
Scossi il capo.
“Senza musica la vita sarebbe un errore”
enunciò
lui, accennando al mio walkman.
Sorrisi beffarda. “A questo ci ero arrivata pure io, e
non sono neanche Nietzsche! Però ha ragione”
dovetti riconoscere, mentre
estraevo la mia cassetta preferita e me la rigiravo tra le mani. La
amavo così
tanto che anche solo averla a contatto con la pelle mi faceva stare
meglio.
“Cos’è?” si
incuriosì lui dopo una veloce sbirciata.
“Black Celebration dei Depeche Mode.
Conosci?”
Lui scosse il capo. “Beh, veramente… non sono
molto
pratico, non ascolto quasi niente.”
“Ma come? Studi Nietzsche e non segui i suoi consigli?
Che razza di filosofo sei?” lo presi in giro, teatralmente
indignata.
Lui scoppiò a ridere. “In mia discolpa posso dire
che a
casa mia non si ascolta quasi mai musica, i miei genitori preferiscono
il
silenzio.”
“Che tristezza” commentai, pescando
un’altra sigaretta
dal pacchetto. “Ne vuoi una?” proposi a Cole.
“No, grazie, io non fumo.”
Mi accigliai. “E quello che avevi prima tra le dita
cos’era, un bastoncino di liquirizia?”
“Era un caso eccezionale. Ma ora non ho più voglia
di
fumare.”
Ci scambiammo uno sguardo che significava tanto. Cole mi
stava implicitamente ringraziando perché ero riuscita,
grazie alle mie continue
chiacchiere, a distrarlo e fargli dimenticare anche solo per un istante
il
motivo per cui si trovava là.
E anche io, dovevo ammetterlo, mi ero del tutto ripresa
dall’attacco di panico e anche il senso di angoscia mi aveva
abbandonato.
Ma come al solito mi sentii in dovere di aggiungere
qualcosa per rovinare il momento quasi carino che si era andato a
creare.
“Certo che sei strano, comunque.”
Lui sorrise. “Anche tu non scherzi, a dire il vero.”
“Cole?”
“Sì?”
“Ho il trucco sbavato sulle guance, vero?”
Lui sorrise – aveva proprio un bel sorriso, gentile e
luminoso. “Sì.”
“Cazzo!”
“Che importa? Siamo solo noi due.”
“Faccio spavento sicuramente” mi lamentai,
passandomi il
dorso di una mano sulla guancia – come se ormai potesse
servire a qualcosa.
“È da più di mezz’ora che
parliamo e ancora non sono
scappato. Secondo te sono spaventato?”
Feci spallucce. “In effetti se ancora non sei fuggito a
gambe levate, o non sei un essere umano o hai una pazienza
invidiabile.”
Ci sorridemmo e io sentii che Cole non sarebbe più
scappato.
E sentii che nemmeno io sarei più scappata.
Ma soprattutto sentii che forse, dopo anni di ricerca,
avevo trovato qualcuno in grado di farmi sentire a casa. Almeno un
po’.
Mi richiusi l’uscio alle spalle, sentendo il rombo della
moto di Cole che sfrecciava via per la strada.
Io e lui continuavamo a vederci spesso, era l’unico che
potessi considerare un amico da quando ero arrivata a Londra. Spesso
andavamo
in giro sulla sua moto o ci recavamo in centro per confonderci tra la
folla e ricercare
nuove avventure.
Lui era totalmente diverso da me, potevamo considerarci
agli antipodi: Cole era un bravo ragazzo, proveniente da una buona e
tranquilla
famiglia, con un carattere mite e tanti sogni per il futuro. Studiava
all’università, rigava dritto e non si metteva mai
nei guai.
Il nostro legame era quasi surreale – l’avevo
pensato fin
da subito – ma c’erano tante cose che ci
accomunavamo: la passione e la
curiosità per l’arte, il modo di pensare fuori
dagli schemi, il senso
dell’umorismo e perfino la riservatezza sulle questioni che
ci riguardavano.
Quando stavo con lui mi sentivo più pulita,
più
matura, più spensierata; una ragazza come tante altre. Era
una sensazione che
per le strade di Los Angeles non avevo mai provato.
Mi trovavo ancora nell’ingresso, intenta a sfilarmi il
giubbotto in pelle che indossavo sempre quando salivo in moto con Cole,
quando
mi resi conto di essere osservata. Aggrottai le sopracciglia e lanciai
un’occhiata a Joice e Crystal, che se ne stavano in piedi
all’imboccatura del
corridoio con gli occhi colmi di curiosità e aspettative.
“Che avete?” sbottai, già temendo la
conversazione che si
sarebbe sviluppata.
“Chi era quel tizio?” incalzò subito
Crystal con malizia.
“Quale tizio?”
“Il biondo con la moto. Ti abbiamo appena visto con lui
qui fuori!”
“Ma voi non vi fate mai i cazzi vostri?” le
liquidai
irritata, superandole e dirigendomi verso camera mia.
Ma, com’era prevedibile, non avevano intenzione di
mollare: mi stettero alle calcagna continuando a ridacchiare e portare
fuori
congetture.
“È il tuo ragazzo?” domandò
Joice.
Mi venne quasi da ridere: Cole, il mio ragazzo?!
“Non vi riguarda.”
“Ma noi lo vogliamo sapere! Dai!” insistette Joice.
Lei e
la gemella si erano intrufolate fin dentro la mia stanza.
Sbuffai e le ignorai, andando in cerca di qualcosa di più
leggero da indossare. Faceva un caldo tremendo quella sera.
“Possiamo sapere almeno come si chiama?”
proseguì
Crystal, tuffandosi sul mio letto.
“Volete uscire o preferite che vi spedisca fuori a suon
di calci in culo?”
“Se non ci vuole dire niente è perché
sono davvero
fidanzati” insinuò Joice in tono cospiratorio,
ridacchiando.
“Non è il mio ragazzo! Contente? Che ve ne
importa?”
Joice lanciò un gridolino. “Ma come no?
È così bello…”
“Ora che so che non state insieme, posso farmi avanti
io”
cinguettò Crystal.
Mi voltai lentamente e le lanciai un’occhiata allibita.
“Tu?!”
Lei sorrise sorniona e si passò le dita tra i lunghi
capelli perfettamente pettinati. “Sei gelosa? Se non te lo
prendi tu, è davvero
un peccato lasciarlo a qualcun altro! È così
bello… e così sexy! Con quella
moto poi…”
Scoppiai a ridere: era surreale sentir parlare così una
ragazzina di nemmeno quattordici anni che fino al giorno prima pestava
i piedi
per avere le caramelle da mamma e papà. Mi strinsi nelle
spalle. “Se vuoi provaci
pure, ma ho molti dubbi che farai breccia nel cuore di Cole.”
Joice e Crystal erano delle bambine in confronto a lui,
al massimo avrebbe potuto far loro da baby sitter.
“Oh, si chiama Cole? Ha anche un nome stupendo!” si
entusiasmò lei, lanciando un’occhiata complice a
Joice.
“Oddio…” bofonchiai tra me, richiudendo
l’anta
dell’armadio. “Adesso ve ne potete andare?
Grazie.”
“Sei gelosa?” si informò Joice.
“Sì, tantissimo” ribattei in tono
sarcastico.
“Quando vi dovete vedere la prossima volta?”
continuò
Crystal.
Ora basta.
Mi avvicinai a loro, afferrai Crystal per la maglietta e
la strattonai per farla alzare dal mio letto, poi la spinsi verso
l’uscita e
feci altrettanto con la gemella, prendendola per un polso.
“Sparite o non
risponderò più delle mie azioni!”
Ignorai le loro proteste e, una volta sola, chiusi con
forza la porta e girai la chiave. Mi stavo già pentendo di
essere rincasata e
non aver direttamente cenato fuori.
Le acque torbide del Tamigi scorrevano e ribollivano
davanti ai nostri occhi; quando faceva caldo avevo
l’impressione che fossero
ancora più sporche del normale, che si trasformassero quasi
in una palude. Non
che mi interessasse troppo, ma quando la scrutavo sentivo la forte
mancanza del
mio amato Oceano Pacifico, in cui tante volte mi ero immersa.
Sbuffai fuori una nuvola di fumo e lanciai una fugace
occhiata a Cole, che se ne stava appollaiato sull’erba al mio
fianco e aveva a
sua volta lo sguardo perso nel fiume. “Un’altra
volta mi ero addormentata in
spiaggia dopo un falò” ripresi il racconto che
avevo lasciato a metà, “e il
giorno dopo mi sono risvegliata con la faccia tempestata di punture di
zanzara.
Ti giuro, sembravo un colabrodo!” Sorrisi al ricordo per
metà traumatico e per
metà esilarante. Mi piaceva condividere le follie che mi
erano capitate – e che
avevo combinato – con Cole, era il modo più
sincero che avevo per raccontargli
del mio passato. Non gli parlavo quasi mai delle parti più
brutte e dolorose,
ma semplicemente perché speravo di dimenticarle e rivangarle
non avrebbe
aiutato.
Cole rise. “Un ricamo sulla faccia, praticamente! Ti
prego, dimmi che hai una foto ricordo!”
“Non ce l’ho, e se ce l’avessi
sicuramente non la
sbandiererei ai quattro venti!” Gli diedi di gomito.
“Tu ci ridi sopra, ma
quegli stronzi dei miei amici hanno davvero provato a unire i puntini
per
vedere se saltava fuori un disegno…”
“Geniali!”
“Bastardi” lo corressi, per poi sorridere
nostalgica. “E
quella non è stata nemmeno la volta peggiore! Non hai idea
dello sfogo e
dell’infiammazione che ho avuto quando ho fatto
questo” raccontai, accennando
al piercing al sopracciglio destro.
“Quando l’hai fatto?”
“Mmh… due o tre anni fa, più o meno. E
proprio quel fine
settimana dovevo andare a un concerto in Sunset Strip, ero disperata!
Io e
Muriel avremo finito almeno due confezioni di fondotinta per coprire
quel
casino!” Ridacchiai, rivivendo nella mente quel momento
disastroso eppure a suo
modo magico. “Però alla fine è stato
divertente…”
Persi nuovamente lo sguardo nel fiume e repressi un
sospiro. Avevo sempre pensato di non appartenere a nessun luogo in
particolare,
avevo sempre detestato la mia casa e il mio quartiere che mi aveva
tolto la
voglia di sognare, mi ero sempre lamentata della mia vita e del mio
continuo
senso di insoddisfazione; quando mi si era presentata
l’occasione di partire,
l’avevo fatto senza pensarci due volte e senza mai voltarmi
indietro.
Ma in fondo, per quanto mi costasse ammetterlo, mi
mancavano quelle giornate della mia vecchia e incasinata vita. Mi
mancava
l’Alibi, mi mancavano i locali di Hollywood e i concerti glam
rock, mi mancava
il mare. Mi mancavano Muriel, Fanny e tutti i miei amici, mi mancavano
i
ragazzi con cui andavo a letto.
Forse stavo arrivando a sentire la mancanza addirittura
di Yelena e di mio padre.
Anche se faticavo a definire Los Angeles casa, un
frammento di me probabilmente era rimasto laggiù.
“Ehi” mormorò Cole, sfiorandomi appena
un braccio per
attirare la sua attenzione.
Non risposi e non mi mossi.
“Momento di nostalgia?” proseguì lui, la
voce gentile e
venata di apprensione.
“Detesto ammetterlo” replicai soltanto, prendendomi
la
testa tra le mani. Non era da me comportarmi così, in genere
cercavo di
mostrarmi sempre contenta e forte, ma certe volte il vuoto al centro
del petto
si faceva troppo grande. E a Cole non potevo nascondere niente, non ne
sentivo
il bisogno.
Lui non aggiunse altro ma, dopo qualche istante di
esitazione, si accostò maggiormente a me e mi
circondò le spalle con un
braccio.
Rimasi spiazzata, quasi spaventata da quel contatto:
nessuno mi dedicava mai gesti d’affetto come quello, nessun
ragazzo osava
sfiorarmi a meno che il suo intento non fosse quello di portarmi a
letto – non
gliel’avevo mai concesso, del resto.
Eppure non mi sentivo a disagio, sapevo che Cole era mio
amico e fidarmi di lui mi veniva spontaneo. Abbandonai il capo sulla
sua spalla
e mi accoccolai accanto a lui, godendomi quell’insolito
attimo di dolcezza e
sentendo pizzicare gli occhi. Era una sensazione che mi faceva sentire
debole,
patetica, ma non fui in grado di sottrarmi a quell’abbraccio.
Restammo in silenzio per diversi minuti, Cole non compì
nessun altro gesto e si limitò a tenermi vicina con una
naturalezza talmente
bella da spezzarmi il cuore. Non sapevo cos’avessi fatto per
meritare un amico
del genere, ma improvvisamente – forse per la prima volta
dopo anni – mi sentii
fortunata.
Era vero, non appartenevo a nessun luogo, la mia anima
era nomade e non si era mai davvero sentita a casa. Ma un frammento di
essa
apparteneva a quell’angolo di mondo accanto a Cole; un
frammento apparteneva
alla mia vecchia casa, un frammento apparteneva all’Alibi, un
altro frammento
apparteneva alle strade colorate di Camden e chissà in quali
altri luoghi avrei
lasciato un pezzetto di me.
Quanti altri casini avrei combinato, quante altre volte
mi sarei spezzata le ossa e quanti cocci avrei dovuto raccogliere da
terra per
rimettere insieme quel casino che era la mia vita. Ma in fondo avevo
solo
diciassette anni e la mia strada la dovevo ancora trovare, la mia casa
la
dovevo ancora cercare.
Quindi mi sarei rialzata e sarei andata avanti. Con le
mie forze e le mie insicurezze, come sempre, ma non mi sarei mai
fermata.
♠
♠ ♠
E siamo giunti al terzo e ultimo capitolo di questa
raccolta interamente dedicata a Bess! Forse qualcuno dirà
“finalmente”, visto
che tirando le somme sono in tutto 30.000 parole, ma a me dispiace
tantissimo.
Amo Bess, ho amato scrivere la sua storia e potrei scrivere ancora e
ancora; la
stesura di questa raccolta è di un’importanza
enorme, sia per me in quanto
autrice sia per la serie.
Ma non temete: questa ragazza ha ancora tanto da dire e
sicuramente tornerà presto, in altre storie e in altre
situazioni.
Ed ecco che, con la parentesi londinese, introduco un
nuovo personaggio: Cole. Che ve ne pare di lui?
Non mi sento di aggiungere tanto, vi lascio solo a una
piccola notina: Black Celebration è il
quinto album dei Depeche Mode,
pubblicato il 17 marzo del 1986; seppur non tra i più
celebri lavori della
band, segnò il passaggio della band da un synth pop allegro
tipico degli anni
Ottanta un sound più cupo e denso di sperimentazioni, quello
che ha reso famosi
e riconoscibili i Depeche Mode. Questi ultimi sono e sempre saranno il
gruppo
preferito di Bess – spoiler non spoiler XD – e ho
pensato che questo fosse il
disco giusto per farglieli scoprire, in una fase della vita
così delicata.
Stripped è la settima traccia
dell’album, nonché
primo singolo estratto (10 febbraio 1986); a mio parere è di
una bellezza e una
potenza incredibili. Vi lascio qui il link:
Stripped
Grazie a chiunque sia giunto fin qui, spero davvero che
leggere questa storia vi abbia emozionato e coinvolto come hs
emozionato e
coinvolto me scriverla!
Ci si vede presto per un nuovo viaggio e una nuova
avventura ♥
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