Dean Winchester - L'estate nel cuore

di vero_bonnie
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo 1 ***
Capitolo 2: *** Capitolo 2 ***
Capitolo 3: *** Capitolo 3 ***
Capitolo 4: *** Capitolo 4 ***
Capitolo 5: *** Capitolo 5 ***
Capitolo 6: *** Epilogo ***



Capitolo 1
*** Capitolo 1 ***


Capitolo 1
Martedì 29 aprile 1975
 
 
Dean fletté le braccia e diede una leggera spinta al carrello su cui era disteso per tirarsi fuori da sotto la macchina, senza smettere di canticchiare sommessamente con la sua voce roca e sgraziata. Fece per alzarsi, ma subito i suoi muscoli indolenziti cedettero e dovette appoggiarsi al cofano per recuperare l’equilibrio. Chiuse gli occhi e tirò un sospiro profondo. Una volta in piedi, mosse un paio di passi incerti e posò gli attrezzi sul bancone. Andò nel retro a lavarsi rapidamente le mani sporche di grasso, poi sollevò a malincuore la puntina del giradischi dal vinile e la musica cessò, infilò il disco nella copertina, attento a toccarlo solo sul bordo e mai sui solchi, poi lo mise da parte e afferrò la giacca di pelle che, ore prima, aveva lanciato distrattamente in un angolo. Nell’uscire, si bloccò un istante quando il suo sguardo si posò su una fotografia appesa. John Winchester e Bobby Singer, abbracciati e sorridenti, in mezzo all’officina. Sul retro della fotografia, Dean lo sapeva, c’era scritto: 13 settembre 1953. Se la ricordava, quella foto. L’aveva scattata lui, infatti era un po’ storta e sfocata – dopotutto, aveva quattro anni all’epoca. Sam era appena nato. E sua madre stava per morire.
Spense l’interruttore delle luci e uscì in strada. Con uno scatto chiuse a chiave il portone del garage, sopra il quale campeggiava la scritta al neon Bobby’s.
Si voltò e d’un tratto la sua espressione dura sembrò addolcirsi appena. Di fronte a Dean, eccola, lei così bella, lei che gli aveva rubato il cuore, un gioiello tra le altre, l’unica… Quel magnifico modello di Chevrolet Impala. Dean aprì la portiera che cigolò sonoramente, si sedette dietro al volante e richiuse la portiera, gettando poi la giacca sul sedile del passeggero dove ancora conservava la collezione di cassette di suo padre, che Dean aveva ereditato insieme alla macchina. Infilò la chiave nel cruscotto, la girò e il motore dell’Impala si accese con un ruggito; subito il numero di giri calò e si stabilizzò su un rombo sommesso. Sentila, come fa le fusa.
Ingranò la prima e partì, diretto verso casa. Gli occhi fissi sull’asfalto celavano un’ombra scura che, per quanto Dean cercasse di ignorare, era sempre presente. Proseguì per le strade di periferia nel crepuscolo della sera, sforzandosi di non pensare a niente. Abbassò il finestrino e lasciò entrare nell’abitacolo l’aria fresca della primavera, un vento deciso che gli sferzava il volto. Un’altra estate a casa, e ogni volta gli pareva la prima. Era come se la guerra avesse cancellato in lui ogni ricordo dell’esistenza dell’estate e, da quando era tornato, gli pareva di riscoprirla ogni anno da capo come se dovesse imparare da zero. Sentì montare una smania irrazionale, come se l’arrivo dell’estate portasse con sé una promessa, un bisbiglio appena udibile – vivi ad alta voce, corri per le strade deserte, sei a casa adesso sei a casa sei a casa – ma subito il principio di sorriso distorse le sue labbra in una smorfia. Che senso ha l’estate se non è rimasto più nessuno? Che senso ha l’estate se niente importa più, che senso ha se si è da soli, che senso ha se non c’è più nulla che si teme di perdere?
Dean sterzò bruscamente e accostò sul lato della carreggiata. Serrò con forza gli occhi e quando li riaprì si rese conto di aver stretto i pugni con talmente tanta forza che le sue unghie avevano scavato nella carne dei palmi, lasciandovi un marchio a mezzaluna. Sbatté la mano destra sul volante, inghiottendo le lacrime. Poi ripartì.
Dopo pochi minuti era arrivato. Parcheggiò in fondo alla via e si diresse verso casa. Camminava a passo spedito, i pugni sepolti in profondità nelle tasche della giacca, con una certa pesantezza nell’incedere degli stivali sull’asfalto, ancora soffocato dai pensieri di poco prima. Un forte vociare lo riscosse. Dean sollevò lo sguardo e solo allora intravide in lontananza una folla di persone che bloccava il passaggio, una massa nera in netto contrasto con il cielo porpora e arancio e violetto. Erano raccolti sotto casa sua, dove spesso c’erano disordini, proteste studentesche contro la guerra, perché in quella stessa via c’era un centro di reclutamento. Dean corrugò la fronte e per un istante prese in considerazione l’idea di fare il giro largo per la strada parallela, ma questo avrebbe significato allungare di molto il ritorno a casa e lui davvero non si reggeva più in piedi. L’unica cosa che voleva era finire quel goccio di brandy che era avanzato e buttarsi a letto, sperando in un sonno senza sogni. Già pregustandosi quel gusto dolce che gli faceva solleticare la lingua, si avviò deciso verso la folla e prese a farsi strada tra la gente. C’era chi urlava slogan invocando il ritiro delle truppe, c’era chi agitava striscioni che schernivano il presidente Nixon – il quale in realtà si era dimesso già l’anno precedente per lo scandalo Watergate, ma era ancora visto come il principale responsabile della carneficina in Asia e per questo sempre attuale (quasi nessuno nominava mai Kennedy, Johnson o gli altri, chissà perché). Da ogni parte Dean era assordato dalle voci concitate e dalle grida, respirava l’alito caldo e alcolico dei manifestanti, lo raggiungevano zaffate di fumo di sigaretta e l’odore agro-dolciastro della marijuana. In un attimo, Dean si sentì soffocare. La vista gli si annebbiò, prese a girargli la testa, ed ecco che Palo Alto si trasformò nella giungla del Vietnam e Dean si ritrovò catapultato in un vortice di immagini grigie – il cielo immenso sopra di lui, i boati assordanti delle granate, le detonazioni delle bombe e le grida di chi in ogni momento perdeva un arto o la vita o un compagno, la monotonia di quel mondo in bianco e nero dove anche il sole pareva sul punto di spegnersi, con quella sua luce fioca che appiattiva i paesaggi, prendeva in giro Dean e la sua voglia di estate e spegneva il soffio vitale negli occhi dei soldati, e un attimo dopo Dean soffocava sotto il peso inerte di Benny Lafitte, e i suoi occhi spalancati, pieni di lacrime, erano fissi in quelli senza vita di Benny che lo squadravano come per accusarlo – perché io muoio e tu sopravvivi? – e il suo cadavere, appesantito dall’elmetto, dalle armi e dalle munizioni, premeva contro il suo corpo proprio come il corpicino di suo fratello quando se l’era stretto addosso per trascinarlo fuori dalla casa in fiamme, e il petto di Dean iniziava a bruciare come il fuoco che aveva divorato la loro casa – e non solo – e le sue mani si aggrappavano febbrilmente al corpo di Benny, i suoi piedi scalciavano inutilmente contro la sabbia, le sue labbra si torcevano in una preghiera muta…
E, d’un tratto, Dean era libero. Aprì gli occhi e si ritrovò a terra, steso sulla schiena in mezzo alla gente, mentre alcuni studenti aiutavano un loro compagno a rialzarsi. “Scusa, amico”, farfugliò il ragazzo che gli era caduto addosso. Lo sguardo vacuo confermò a Dean che si trattava semplicemente di un ubriaco che aveva perso l’equilibrio e gli era finito sopra. Il ragazzo sparì tra la folla coi suoi amici.
Dean annaspò in cerca d’aria, gli occhi frenetici traboccavano dei colori vivaci di quella serata californiana, accecandolo dopo l’immagine in bianco e nero che l’aveva appena trascinato via con sé, come il sole che faccia capolino da dietro le nuvole dopo una vita intera nell’oscurità. Incapace di alzarsi, il corpo ancora teso e pronto a scattare come per salvarsi di nuovo la vita, abbassò lo sguardo sulle mani che gli tremavano e con un brivido scoprì un pezzo di vetro conficcato nella spalla. Quella spalla. Era caduto su cocci di bottiglia. Lasciò il frammento lì dov’era, un po’ per non sbloccare l’emorragia, un po’ perché non era ancora padrone di sé. All’improvviso qualcuno lo afferrò per le spalle e lo alzò in piedi, mozzandogli nuovamente il respiro e strappandogli un gemito per la ferita riaperta.
“Ehi, mi dispiace, ho visto cos’è successo…”
A pochi centimetri dal viso di Dean c’era un paio di occhi di un blu impossibile, un blu che aveva visto solo una volta in tutta la sua vita ma che non aveva mai dimenticato. Era faccia a faccia con Castiel Novak.
“Dean?”
Dean sbatté le palpebre un paio di volte, come per accertarsi di aver messo a fuoco correttamente il volto che aveva davanti. Faceva di nuovo fatica a respirare, ma il ricordo del Vietnam era svanito. Aveva imparato che andava e veniva senza una vera logica, e non poteva mai immaginare quando sarebbe ricomparso. Un po’ come Castiel Novak.
“Quanto tempo”, sussurrò Castiel, un principio di sorriso sulle labbra.
Dean l’osservava con gli occhi spalancati. Quando si rese conto che Castiel lo teneva ancora per le spalle, e che la sua mano era proprio lì dove c’era la cicatrice, appena al di sotto del frammento di vetro, per un attimo si sentì mancare e quasi perse l’equilibrio. Castiel lo strinse più forte e, quando lo vide stabile, lasciò andare la presa e si mise a scandagliare la folla, dicendo: “Non preoccuparti, ora chiamo qualcuno e ti procuro un po’ d’acqua.”
Ma Dean si era già voltato ed era corso via.
 
Dean si richiuse la porta alle spalle e ci si accasciò contro. La spalla gli bruciava come non faceva da mesi. Con uno scatto d’ira si strappò via la giacca e scoprì la pelle nuda tirando giù il collo della maglietta. La ferita si era riaperta e Dean poteva vedere chiaramente la carne viva che pulsava, rossa di sangue fresco. Si trascinò a fatica in bagno, poi si spogliò con movimenti rapidi e rimase ad osservarsi nello specchio. Era da prima della guerra che non lo faceva. Non voleva vedere il corpo martoriato da cicatrici e ustioni, l’espressione dura sul viso e lo sguardo spento dove una volta c’erano due occhi luminosi color smeraldo, le guance scavate e la barba di qualche giorno, le occhiaie scure, i capelli biondo cenere troppo lunghi che gli cadevano in ciocche scombinate sulla fronte, le mani nervose dalle dita lunghe e affusolate che non la smettevano mai di tremare, le ossa sporgenti – clavicole, costole, creste iliache sembravano sul punto di strappare la pelle e fare capolino. Ma soprattutto, non voleva vedere la cicatrice sulla spalla. Quella cicatrice che combaciava perfettamente con la forma della mano di Castiel Novak.
Dean sferrò un pugno contro lo specchio. Non gli importò che si fosse rotto. Poi, con movimenti svelti e precisi da soldato, disinfettò la ferita e applicò una medicazione, alla bell’e meglio, come poteva con una mano sola.
Tornò in cucina alla ricerca di quell’avanzo di brandy che aveva lasciato la sera prima e si chiese distrattamente se sarebbe bastato. Nel dubbio scartò un nuovo blister di sonniferi e ne inghiottì uno insieme a un copioso sorso di brandy. Al di là del vetro del bicchiere, notò la fotografia appesa al frigorifero. Sam l’aveva ritagliata dal giornale, all’epoca, quando ancora viveva in quell’appartamento insieme a Dean, l’appartamento che John aveva lasciato ai figli insieme all’Impala. La fotografia era rimasta a lui quando Sam aveva comprato casa con Jessica.
In primo piano c’era Dean, serio nella sua uniforme e con una medaglia al collo, che dava la mano ad Alan Henderson, membro del consiglio comunale di Palo Alto. Appena dietro, Castiel Novak guardava Dean sorridendo. La didascalia diceva: Il veterano Dean Winchester premiato per il suo servizio e sacrificio in Vietnam, assieme al chirurgo che gli ha salvato la vita.
Dean scosse la testa, sbatté con forza il bicchiere sul tavolo e se ne andò a letto.

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Capitolo 2
*** Capitolo 2 ***


Capitolo 2
Mercoledì 30 aprile 1975
 
 
La sveglia suonò alle sette del mattino seguente, ma Dean aveva già gli occhi aperti, aggrovigliato nelle lenzuola fradicie di sudore. Quella merda di sonnifero non è servita a un cazzo. Dovevo aprire un’altra bottiglia di brandy.
Con uno scatto d’ira calò una manata sulla sveglia, che si spense, poi si tirò su dal letto, scalciò via i pantaloni della tuta con cui aveva dormito e si diresse verso il bagno. Lasciò scorrere per un attimo l’acqua della doccia, per aspettare che si scaldasse ma soprattutto per farsi coraggio. Serrò con forza la mascella, chiuse gli occhi e con un respiro profondo fece un passo avanti sotto il getto. E, come ogni volta, l’acqua che scorreva sulla sua pelle gli parve quella rossa di sangue – suo o altrui non avrebbe saputo dirlo – delle risaie del Vietnam, e per un attimo gli parve di essere di nuovo immerso fino alle cosce in quell’acqua viscosa, accucciato tra i cadaveri degli altri soldati. I movimenti frettolosi delle mani insaponate si lasciavano dietro una scia di brividi che lo spronavano a porre fine a quella sofferenza. Dean trattenne il fiato mentre sciacquava via il sapone e il sudore della notte insonne e riprese a respirare solo quando chiuse l’acqua e uscì dalla doccia. Mentre si asciugava bruscamente il corpo, ansimava come se fosse rimasto in apnea per chissà quanto tempo. Le mani tremanti lasciarono cadere un paio di volte i jeans prima di riuscire a indossarli, e ogni volta un flebile dai cazzo esalava dalle sue labbra. Quando il suo sguardo cadde sullo specchio che aveva rotto la sera prima, e per un attimo i suoi occhi riflessi tra le crepe gli parvero blu come quelli di Castiel Novak, Dean sbottò ad alta voce: “Cazzo!”
Lasciò lo specchio così come stava, infilò una maglietta nera e una camicia a quadri e se ne andò in cucina. Dopo un paio di uova spinte in fretta dentro uno stomaco ostinatamente chiuso, Dean uscì e scese in strada. Il sole illuminava di una vivace luce calda la via dove, durante la notte, i manifestanti si erano dispersi. Erano rimaste bottiglie vuote sul marciapiede, un paio di cartelloni abbandonati, mozziconi di sigaretta e spinelli negli angoli. Dean tirò dritto verso il fondo della via, dove aveva parcheggiato l’Impala, quasi marciando.
Guidò lentamente fino al garage, parcheggiò e si presentò al lavoro. Bobby lo accolse con il solito cenno del capo, che celava in realtà un profondo dolore nel vedere ridotto così il figlio del suo migliore amico. Ma, solo un paio d’ore dopo, Bobby venne da lui e gli chiese di andarsene.
“Bobby, ho bisogno di quei cazzo di soldi, lo sai”, protestò Dean.
“Lo so, figliolo, e ti pagherò”, rispose Bobby, calzandosi meglio il cappellino da baseball in testa. “Ma so anche che oggi non sei in grado di lavorare.”
“Come sarebbe a dire?”
Bobby lo osservò in silenzio, poi spostò lo sguardo sulla chiave inglese che Dean teneva in mano. “Che ci stai facendo, con quella?”
Dean esitò. Si rese conto che non sapeva come rispondere.
 “Quel che voglio dire, Dean, è che lavori troppo. Ti stai ammazzando, qua dentro. Fino a che ora sei rimasto, ieri?”
Dean non ne aveva la minima idea. Il concetto di tempo era molto confuso, da quand’era tornato. “Non lo so”, ammise.
Bobby sospirò. “Facciamo così. Finisci di cambiare l’olio a quella Mustang, poi vattene a casa. E domani è il primo maggio, ci rivediamo venerdì. D’accordo?”
Dean deglutì, arricciando le labbra in quel modo tutto suo che faceva comparire due fossette proprio sopra il labbro superiore. Fece una tenerezza immensa a Bobby, che per un attimo rivide in lui il bimbo che aveva appena perso la madre.
“No.”
“Dean”, lo ammonì Bobby, con sguardo torvo.
“Andrò via prima”, concesse lui, “ma lasciami lavorare ancora un po’. Ne ho bisogno.”
Bobby sospirò, conscio che Dean non stava più parlando di soldi, ma della sua testa. “Alle quattro voglio che porti il culo fuori da qua.”
“Sissignore”, replicò Dean, lo sguardo fisso oltre la spalla di Bobby.
“E piantala di chiamarmi così”, sbottò Bobby, tornando dietro il bancone. “Non sono quel pazzo di tuo padre, né uno dei tuoi superiori in quella fogna di musi gialli dove ti hanno spedito. Sono solo un vecchio scorbutico che si è stancato di vederti in queste condizioni.”
Dean lasciò andare le mani, che non si ricordava di aver stretto spasmodicamente intorno alla chiave inglese, e si voltò proprio mentre nell’officina risuonava il tocco, gentile ma deciso, di una mano che bussava sul portone aperto.
“Ciao, Dean.”
Castiel Novak stava sulla soglia, i capelli neri spettinati e un impermeabile che gli fasciava il corpo, minuto e sottile solo in apparenza. Dean scacciò dalla mente le immagini del corpo nudo di Castiel sotto di lui e di quei muscoli pieni e sodi che avevano popolato i suoi sogni per tanto tempo.
Bobby squadrò Dean e Castiel, a metà tra il perplesso e il sospettoso, ma subito tornò a dedicarsi alle vecchie fatture che stava mettendo in ordine.
Dean rimase immobile di fianco alla Ford Mustang su cui stava lavorando, mentre Castiel muoveva qualche passo verso di lui ed entrava nel cono di luce gettato dai neon. “Volevo vederti”, spiegò Castiel, fermandosi davanti a lui.
Dean l’osservò in silenzio per un istante, poi chiese: “Perché?”
L’accenno di sorriso sulle labbra di Castiel sembrò vacillare appena. “Non vuoi accettare la visita di un vecchio amico?”
Dean lo scrutò, serio, ma non trovò traccia di nient’altro, in quegli occhioni azzurri, che non fossero, semplicemente, buone intenzioni. Lo disgustò. E subito dopo, gli solleticò il cuore. Dean s’inumidì appena le labbra e finalmente si risolse a sussurrare un grazie, stringendo la mano affusolata che Castiel gli porgeva.
“Dean”, chiamò Castiel con voce sommessa. Al sentire il proprio nome, Dean s’irrigidì, ma sollevò lo sguardo nel suo. “So che stai lavorando, e mi dispiace piombare qui così, ma pensavo… Se ti va, magari potremmo mangiare qualcosa insieme, stasera. Sono in ferie fino a lunedì.” Sembrò riflettere, poi aggiunse: “È un po’ che non ci vediamo.”
Dean era sul punto di replicare, acido, qualcosa del tipo ci siamo visti ieri, ma si morse la lingua. Un panino e una birra. Un jukebox. Castiel seduto davanti a lui sui divanetti della tavola calda. Mi piacerebbe.
L’osservò in silenzio. Poi mormorò: “Mi piacerebbe.”
Castiel sorrise, e fu come se agli occhi di Dean i colori si fossero fatti improvvisamente più intensi. “Passi a prendermi alle sette?”
Dean annuì.
 
Alle sette meno cinque, Dean parcheggiò l’Impala esattamente davanti al vialetto della casa di Castiel. Era una villetta a due piani in una bella zona residenziale. Dean ricontrollò l’indirizzo che Castiel gli aveva scritto su un biglietto e, quando fu sicuro di essere nel posto giusto, spense il motore e si abbandonò contro il sedile. Non appena le sue dita girarono la chiave nel cruscotto, presero a tremare più violentemente del solito. Dean strinse i pugni e li ficcò nelle tasche della giacca, ma non servì a niente. Quando iniziò anche a mancargli il respiro, decise che ne aveva avuto abbastanza. Si allungò oltre l’abitacolo e dal vano del cruscotto estrasse un barattolino di pastiglie. Ne mandò giù una a secco e si affrettò a mettere via la confezione per non rischiare di farsi prendere la mano e finirla tutta. Non che sarebbe stata la prima volta. Si sforzò di respirare profondamente ad occhi chiusi, e proprio quando li riaprì vide che Castiel si stava affacciando alla finestra. Gli fece segno di entrare, poi sparì di nuovo. Dean sospirò e con uno sforzo che lo lasciò quasi senza fiato si impose di uscire dalla macchina. Subito si strinse nella giacca: non si era reso conto che aveva iniziato a tirare un forte vento, stranamente freddo per la stagione. Lanciò un’occhiata al cielo e vide che continuavano ad addensarsi grosse nuvole scure. Grigie. Come il Vietnam.
Dean si riscosse con stizza e si avviò lungo il vialetto. Arrivato sotto il portico, bussò appena con le nocche e Castiel aprì la porta. “Scusami, non ho fatto in tempo a prepararmi.”
“Che è successo?”, chiese Dean, entrando in casa.
“Ho fatto tardi al lavoro”, rispose Castiel, chiudendo la porta alle sue spalle e facendogli segno di sedersi sul divano.
“Credevo fossi in ferie”, disse Dean, rimanendo in piedi a osservare la casa. Mobili di qualità, una bella radio, una grande televisione – un modello appena uscito, a colori, Dean l’aveva visto su una rivista. Lo stipendio da chirurgo non aveva niente a che vedere con quello da meccanico, per quanto gonfiato dai sussidi statali per veterani.
“C’è stata un’emergenza”, spiegò Castiel, sparendo in un’altra stanza per andare a cambiarsi.
“Mmm”, fece Dean, lanciando un’occhiata fuori dalla finestra. Proprio allora il fragore di un tuono esplose pochi isolati più in là, subito scavalcato dal ricordo dei bombardamenti, e Dean sussultò violentemente. Sbatté il lato del pugno contro il muro, incazzato per quanto si sentiva debole. E per fortuna che ho appena preso un tranquillante, pensò con ironia amara.
“Rimaniamo a casa, se preferisci.”
Dean si voltò. Castiel lo guardava, vagamente preoccupato, appoggiato allo stipite in fondo alla stanza. Dean capì che aveva visto la scena.
“No.”
Fece per avviarsi verso la porta d’ingresso, ma le gambe gli cedettero e per poco non perse l’equilibrio. Si aggrappò al davanzale della finestra, ma di nuovo le ginocchia lo tradirono e lui si lasciò cadere sul divano. Un altro tuono, ancora più vicino, fece sì che Dean artigliasse il bracciolo con tutte le sue forze come per non lasciarsi trascinare via dai ricordi.
Riaprì gli occhi. Non era consapevole di averli chiusi. Castiel l’osservò ancora un istante, poi girò sui tacchi e sparì in cucina. “Metto su la cena”, annunciò.
“No, davvero, ce la faccio”, insistette Dean, alzandosi finalmente in piedi, ma Castiel non rispose. Dean lo raggiunse controvoglia e, proprio mentre entrava in cucina, iniziò a piovere. E, subito dopo, a diluviare.
Castiel gli lanciò un’occhiata. “Visto? È meglio se stiamo a casa”, sentenziò, aprendo il frigorifero. Dean l’osservò in silenzio mentre cercava qualcosa con cui raffazzonare una cena per due. “Non ho granché”, si scusò Castiel, armeggiando nel frigo. Dean lo vide improvvisamente in difficoltà. “Forse posso mettere su un…?”
“Faccio io”, lo interruppe Dean, e solo quando Castiel si fece da parte per lasciargli il suo posto davanti al frigo, si chiese perché si fosse offerto. Non cucinava più da quand’era stato arruolato, non come prima almeno. Analizzò comunque il contenuto del frigo e – porca puttana, mi tocca farlo sul serio – si rese conto che c’erano tutti gli ingredienti per riprodurre il timballo di sua madre.
Poco dopo, la casseruola era in forno. Era ancora presto, avrebbero comunque mangiato a un’ora decente. Castiel aveva appoggiato i gomiti al bancone della cucina e osservava la cena al di là del vetro del forno.
“Wow”, disse. Dean finì di lavarsi le mani nel lavandino e lanciò un’occhiata interrogativa a Castiel mentre afferrava uno straccio per asciugarsi.
“Sono proprio un disastro, a cucinare”, constatò Castiel. “Non ho idea di come tu abbia fatto a preparare quella cosa. Che roba hai detto che è?”
“Timballo di maccheroni”, rispose Dean, gettando lo straccio da parte. Andò a sedersi a tavola. “Tu hai apparecchiato”, offrì come consolazione.
Castiel rise brevemente. “Già”, fece, andando a sedersi di fronte a Dean. “Come sai la ricetta a memoria?”
Dean abbassò lo sguardo. “È una ricetta di mia madre. La preferita di Sammy. L’avrò fatta un centinaio di volte.” Castiel sembrò voler chiedere qualcosa, ma Dean lo precedette. “Mia madre è morta quando eravamo piccoli. Sam aveva solo sei mesi, io quattro anni. E mio padre, diciamo che era come se non ci fosse. Ho dovuto imparare a cucinare e occuparmi di Sam.”
Ci fu un attimo di silenzio, e Dean distese le labbra in una smorfia. Perché gli racconto i cazzi nostri? Ma era Castiel, non uno sconosciuto.
“Mi dispiace”, disse Castiel. Dean non rispose e Castiel pensò che fosse meglio deviare il discorso. “Come sta Sam?”
Gli occhi di Dean sembrarono riacquistare un po’ di luce. “Sam è un cazzo di secchione”, dichiarò, e Castiel rise. Si sollevò leggermente anche l’estremità delle labbra di Dean. “È entrato a Stanford con una borsa di studio che copre tutte le spese. Giurisprudenza.”
“Siete molto legati, non è vero?”, chiese Castiel, ammirato. “Me lo ricordo, testardo come un mulo. Non siamo mai riusciti a sbatterlo fuori dall’ospedale, è rimasto con te ogni notte quand’eri ricoverato.”
Dean s’irrigidì impercettibilmente. “Sì, siamo molto legati”, disse dopo un attimo di esitazione, ma poi si zittì di nuovo, in un continuo andirivieni di indecisione riguardo a se e cosa raccontare. Gli occhi di Castiel erano luminosi e sinceri e Dean tornò a respirare più facilmente, ma decise comunque che per il momento era abbastanza. Si alzò e accese la televisione.
Ha una televisione in soggiorno e una in cucina e io è già tanto se posso permettermi di tenere la macchina di papà. Wow. Almeno questa televisione è in bianco e nero.
Castiel non protestò all’evidente tentativo di Dean di cambiare argomento. Accettò il corso della conversazione e osservò Dean che cambiava canale un paio di volte, finché non si bloccò sul telegiornale.
Il presidente sudvietnamita Dương Văn Minh, detto Big Minh, in carica da soli due giorni, ha annunciato la resa incondizionata.
Dean si accasciò sulla sedia.

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Capitolo 3
*** Capitolo 3 ***


Capitolo 3
Mercoledì 30 aprile 1975
 
 
Il presidente sudvietnamita Dương Văn Minh, detto Big Minh, in carica da soli due giorni, ha annunciato la resa incondizionata.
Sullo schermo era inquadrato il giornalista Dan Rather, in primo piano con alle spalle una cartina del Vietnam. Era l’edizione serale del telegiornale della CBS.
La resa è arrivata dopo sole quattro ore dalla partenza dell’ultimo americano da Saigon, la città ora rinominata Hồ Chí Minh dai Viet Cong.
Dean dava parzialmente la schiena a Castiel per guardare la TV, ma percepiva il suo sguardo sulla nuca. Lo ignorò, anche se bruciava. Cercò piuttosto di concentrarsi per combattere il senso di nausea che montava nel suo stomaco.
Il conduttore diede la linea a un altro giornalista e sull’apparecchio presero a scorrere immagini di elicotteri e di file di persone – famiglie intere, americane e sudvietnamite – che venivano portate via dalla città appena caduta. Dean guardava, ma sembrava non cogliere la portata di quel che vedeva. Ci volle qualche minuto perché se ne rendesse conto. La guerra era finita.
Dean si alzò di scatto, facendo strisciare la sedia sul pavimento con uno stridio acuto, aggirò il bancone della cucina sbattendo i piedi ad ogni passo e come un ossesso si mise ad aprire e chiudere tutti gli sportelli della credenza. “Dove lo tieni? Dov’è l’alcol? Ce l’avrai una cazzo di bottiglia, una!”
Castiel lo raggiunse e si limitò a posare le proprie mani su quelle di Dean, chiedendogli silenziosamente di fermarsi. Dean lo guardò come se non lo riconoscesse. Non c’era traccia di pietà, negli occhi di Castiel, solo una calma forzata: stava mantenendo i nervi saldi per entrambi, dando a Dean un punto di riferimento a cui ritornare quando gli pareva di non poter più uscire dalla propria testa. Castiel rimase immobile a stringergli le mani, guardandolo negli occhi, finché il respiro di Dean non tornò a farsi più lento e profondo. Allora Castiel lo lasciò andare, spense la televisione e tirò fuori una bottiglia di gin dal mobile su cui era sistemata la TV.
“Solo un bicchiere. Sei a stomaco vuoto”, concesse Castiel, posando la bottiglia sul tavolo. Dean si sedette, senza incrociare lo sguardo di Castiel, e versò il gin. Castiel si sedette e sollevò il suo bicchiere. “A Saigon.”
Gli occhi di Dean sfrecciarono nei suoi, poi annuì brevemente e bevve il suo gin a collo. Sbatté il bicchiere sul tavolo mentre corrucciava le labbra e serrava forte gli occhi per il gusto amaro che gli bruciava in gola. Ma l’attimo dopo era passato e si trovò ad allungare la mano verso la bottiglia.
“A-ha”, fece Castiel, spostando la bottiglia fuori dalla sua portata. “Un bicchiere, ho detto.”
Dean non rispose, ma non protestò neanche. Osservò Castiel che finiva lentamente il suo gin in piccoli sorsi continui, senza lasciar trasparire alcuna smorfia.
“La spalla come va?”
Dean per poco non si soffocò con la sua stessa saliva. “Perché?”
“Voglio sapere se ho fatto un buon lavoro.”
“Si è riaperta ieri sera”, disse Dean, “quando quello stronzo mi ha fatto cadere.”
Castiel corrugò la fronte, preoccupato. “Sono passati quattro anni, non dovrebbe…”
“Sono caduto su dei vetri di bottiglie rotte”, tagliò corto Dean. “Ho disinfettato e messo una garza. Tutto a posto.”
Castiel socchiuse appena gli occhi. “Fammi dare un’occhiata.”
Dean lo fissò con aria di sfida per un istante, poi si spostò di lato sulla sedia, si sfilò la camicia e tirò su la manica della maglietta che portava sotto.
Castiel non commentò il bendaggio approssimativo, ma lo disfò lentamente. Trasalì quando vide la ferita.
“Ha ancora quella forma strana”, constatò, con un accenno di sorriso.
Dean si irrigidì. Perché cazzo tira fuori questa storia, adesso. “Sì. La tua mano.”
“Mi è sempre sembrato buffo.”
“Farsi asportare la pelle dalla coscia per ricostruire un braccio ustionato non è buffo”, scattò Dean, ma allo sguardo ferito di Castiel si pentì immediatamente. “Scusa”, disse Dean, abbassando lo sguardo. “Intendevi la forma della cicatrice. Lo so.”
Castiel sembrò accettare le scuse. Si alzò, andò in bagno a prendere il necessario per una nuova medicazione e tornò a sedersi davanti a Dean. “È stata la mia prima operazione seria”, disse, iniziando un nuovo bendaggio. Dean lo guardò – non lo sapeva. “Ero giovane, ero terrorizzato che qualcosa andasse storto. Eri più morto che vivo quando ti hanno portato in sala. Sfigurato. Ustioni di terzo grado sul 60% del corpo. Me la sogno, a volte, quella scena. La barella bianchissima e tu rosso sangue, la carne viva…”
Dean ascoltava, come stregato. Non voleva ricordare e allo stesso tempo non riusciva a intervenire per porre fine al discorso. Le mani di Castiel lavoravano sul suo braccio, e lui le percepiva come fossero bollenti.
“Ti abbiamo tenuto dentro per ore. Non finiva più. E quando finalmente abbiamo potuto riportarti in reparto, Sam era lì, addormentato su una sedia in corridoio. Era ormai notte fonda.” Fermò la garza per richiudere la fasciatura e tornò a sollevare lo sguardo negli occhi di Dean. “Che cosa ti era successo?”
Dean alzò gli occhi su Castiel. Non se l’aspettava. Non aveva mai chiesto i dettagli, perché farlo ora?
Eppure si ritrovò a raccontare. “Eravamo in un paesino, vicino a una risaia”, iniziò, lanciando un’occhiata alla bottiglia di gin. “Ho l’impressione che ci siano solo risaie, in quel posto di merda. Comunque. Un informatore ci aveva fatto sapere che in quel villaggio c’era un covo di VC. Ah, Viet Cong”, specificò, quando si accorse dello sguardo confuso di Castiel. “Dovevamo radere tutto al suolo. C’è stata un’esplosione che ha dato fuoco al villaggio, non so che cosa sia successo, non ho visto. E il corpo…”, Dean esitò, deglutì e di nuovo guardò verso la bottiglia di gin. Poi scosse brevemente la testa e riprese. “Il corpo di Benny Lafitte, un mio commilitone – un mio amico – mi è stato catapultato addosso dall’esplosione. In quella, c’è stato un crollo.”
“Un albero…?”
“Sull’anca, sì. Ti ricordi le fratture.” Non era proprio una domanda, ma Castiel annuì. “Sono rimasto intrappolato in un incendio per colpa di un cadavere e un albero, come un cazzo di hamburger schiacciato dentro un panino. Assurdo. Benny era steso su di me e mi fissava con quei suoi occhi morti. Non so per quanto tempo sono rimasto così, a respirare il suo alito da cadavere. Ce l’avevo in faccia, pareva che stesse per baciarmi.”
Castiel abbassò lo sguardo per un istante, come per dar tempo al racconto di sedimentare. “Dunque le ustioni. E, immagino, i danni ai polmoni per colpa del fumo.”
“No”, lo interruppe Dean ancor prima che potesse finire la frase. Castiel inclinò la testa lateralmente e per un istante Dean rimase senza fiato – aveva dimenticato questo suo gesto, di quand’era perplesso. Era talmente Castiel che si ritrovò a boccheggiare. Si riscosse. “No”, ripeté, “i danni ai polmoni… quello è colpa dell’agente arancio.”
Castiel spalancò gli occhi. Sapeva. L’americano medio non sapeva. Ma Castiel non era l’americano medio. “Ho letto che più di due milioni di soldati americani sono stati esposti e… non so quanti, uccisi dalle complicazioni dell’agente arancio.”
Dean annuì. Non conosceva i numeri, ma sì. “Tutti sanno del napalm, ma l’agente arancio è anche peggio.”
Castiel si versò un altro bicchiere di gin. Dean l’osservò mentre beveva, un’espressione neutra sul viso a nascondere la brama, la fame che lo divorava dall’interno – e non per il timballo di Mary Winchester nata Campbell, ma per il gin sulle labbra di Castiel. E anche per le labbra di Castiel.
Dean scosse la testa, occhi spalancati, per riscuotersi.
“Dean.”
“Cosa?”
“Ti ho chiesto se ti va di continuare.”
Dean riuscì finalmente a mettere a fuoco il viso di Castiel dall’altra parte del tavolo. “Cosa?”
“A raccontare.”
Inconsciamente, Dean s’inumidì le labbra – se pensando al gin o alle labbra di Castiel, non gli era chiaro. Merda. Si versò un altro bicchiere e lo bevve tutto d’un fiato. Castiel l’osservò senza dire niente.
 “Sono svenuto”, riprese Dean “Mancanza di ossigeno, ustioni, fatto sta che sono andato in blackout. Quando mi sono svegliato, l’incendio era scemato, c’era solo qualche focolaio qua e là. E io ancora lì con Benny e l’albero. Insomma, non riesco a muovermi. Sono più di là che di qua. Ed ecco che sento un rumore, un elicottero sta puntando proprio verso di me. E si lascia dietro una scia bianca.”
“Agente arancio”, sussurrò Castiel con tono quasi incredulo.
“Già. Allora cerco di liberarmi, voglio alzarmi in piedi, per farmi vedere, ma sono mezzo morto. Cerco di tirarmi via di dosso Benny, ma c’è l’albero che lo blocca, e quello continua a fissarmi coi suoi occhi vuoti, l’avrei preso a sberle. Surreale. Non c’è verso di tirarmi su. Sono steso a terra con gli occhi piantati nel cielo e aspetto che l’elicottero mi passi sopra. L’unica cosa che posso fare è sfilare a Benny il berretto che portava e prendere a sbandierarlo con il braccio buono.”
“Ti hanno visto.”
“Incredibilmente”, confermò Dean. “E hanno mandato i soccorsi. Ma ormai mi avevano ben che spruzzato con quella merda, come uno scarafaggio col Raid.”
Castiel teneva gli occhi fissi sul bicchiere di Dean che si riempiva di nuovo di alcol. “Dean”, provò ad ammonirlo, ma lui si scolò tutto il bicchiere in un sorso, con sguardo di sfida. Castiel annuì e desistette.
In quella suonò il campanello del forno. Dean trasalì appena e Castiel fece finta di non accorgersene, mentre si alzava per andare a prendere la teglia.
Mangiarono in silenzio, alternando momenti di agio a momenti di tensione, senza alcun motivo preciso, ma Dean non ci diede troppo peso: era abituato a non potersi fidare delle sue emozioni. Nel dubbio, continuava a versarsi gin nel bicchiere, che gli pareva sempre vuoto. Castiel non diceva niente, ma lo guardava preoccupato. A Dean non importava. Non appena gli pareva che iniziasse ad importargli, beveva un altro bicchiere.
“Okay”, fece Castiel quando ebbero finito di mangiare. “Adesso basta, devo distrarti.” Si alzò e andò ad aprire una piccola vetrina in un angolo, dove c’era un giradischi. Estrasse un vinile e lo mise sul piatto. Dean l’osservava, nient’altro che un’immagine sfocata in fondo alla stanza, mentre sistemava la puntina nel solco e tornava a voltarsi verso di lui. Only the lonely iniziò a suonare e Castiel gli porse le mani. Dean scosse la testa, sogghignando, ma Castiel venne a prenderlo di peso, con una risata. Dean oppose resistenza, ma sentiva le membra pesanti e un attimo dopo leggere e non riusciva a far sì che facessero esattamente quel che voleva lui. Per cui si ritrovò con le braccia sui fianchi di Castiel a ondeggiare, incerto, in mezzo alla cucina.
Rise per quanto si sentiva instabile, ma al primo ritornello tornò immediatamente serio. Lesse negli occhi di Castiel il timore di un altro attacco d’ira, ma Dean sollevò una mano e gli carezzò delicatamente la guancia. Lento, tremante. Aveva paura di romperlo, in un certo senso. L’attimo dopo si ritrovò a poggiare le labbra sulle sue. Non gli era chiaro come fosse finito lì, ma gli andava bene. Le labbra di Castiel erano morbide come le ricordava. La sua mano scese dalla guancia alla nuca, per stringere Castiel vicino a sé, e il bacio divenne più famelico.
“Cas”, bisbigliò al suo orecchio, percorrendo la sua schiena con le mani, come per imparare da capo le sue forme. “Cas, mi sei mancato.”
“Anche tu, Dean”, mormorò Castiel, passandogli le dita tra i capelli, più lunghi di quanto ricordasse. Gli sfuggì un gemito di sorpresa quando Dean lo sollevò, mosse qualche passo incerto e lo sbatté contro il muro. Castiel gli avvolse il bacino con le cosce, d’istinto, e si ritrovò ad aggredire la sua bocca mentre la mani tiravano il ciuffo biondo per sollevargli il viso.
“Ti amo, Dean, ti amo da morire…”
Ma Dean non aprì gli occhi, perso nel suo torpore alcolico, e gli richiuse la bocca con la sua.

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Capitolo 4
*** Capitolo 4 ***


Capitolo 4
Giovedì 1 maggio 1975
 
 
Dean spalancò gli occhi, ansimante, fradicio di sudore, e si ritrovò steso scompostamente a terra. Un improvviso fascio di luce lo accecò.
“Ma che…?!”
“Ti ho preparato il caffè”, lo informò Castiel, mentre apriva le tende di entrambe le finestre del soggiorno. “Ti farà bene.”
“Oh, buongiorno anche a te, bellezza”, mugugnò Dean, acido, guardando Castiel in cagnesco.
“Ehi, avevi bisogno di svegliarti. Stavi urlando in un modo atroce.”
Dean cambiò subito espressione, si alzò in piedi e iniziò a rivestirsi, frenetico. “Non volevo neanche restarci, qua. Tu e il tuo cazzo di divano minuscolo, non ci sto nemmeno, devo essere caduto nel sonno”, borbottò mentre le dita tremanti si incastravano nei bottoni della camicia. “Adesso tolgo il disturbo, comunque.”
“Dean”, fece Castiel con un sospiro, bloccandolo mentre afferrava la giacca per andarsene. “Rimani. Bevi il caffè con me”, disse, guardandolo dritto negli occhi. E aggiunse subito: “Scusami.”
Dean sbuffò, derisorio. Patetico. L’ho appena trattato di merda ed è lui che chiede scusa a me. Davvero patetico. Subito dopo si rese conto dell’assurdità di quel pensiero e scosse la testa. “No, scusami tu. Il caffè lo bevo volentieri.”
Ma proprio mentre pronunciava quella frase, lo colse un conato e Dean si ritrovò piegato in due, le gambe che lo reggevano a malapena. Castiel accorse e lo cinse con le braccia attorno alla vita per trascinarlo, quasi di peso, fino al bagno. Gli sorresse la testa finché i conati cessarono, poi rimase con lui mentre si sciacquava il viso e gli diede uno spazzolino che teneva di riserva.
“Hai macchiato la maglietta”, gli fece notare con un ghigno quando Dean ebbe finito di lavarsi i denti. “Ma sono abbastanza sicuro che sia dentifricio.”
“Merda”, sbottò lui a bassa voce.
“Mi dispiace non averti nemmeno prestato un pigiama”, disse Castiel, dirigendosi verso la cucina. Dean lo seguì e lo guardò posare sul tavolo due tazze di caffè e due piatti di uova e pancetta. “Ma ieri sera sei crollato e non volevo svegliarti.”
Ieri sera. D’un tratto la serata riemerse, vivida, nei ricordi di Dean e il panico iniziò a montare. Avevano davvero…? Merda. Merda merda merda. Non è possibile, come cazzo è possibile…
“Ehi.” Gli occhi di Dean si sollevarono di scatto a incrociare quelli di Castiel. “Va tutto bene. È stato bello.”
“Non ho… fatto qualcosa di male?”, chiese lui. “Non ti ho fatto male?”
Castiel spalancò gli occhioni blu, incredulo. “Cosa? No. No, certo che no. Che cosa stai dicendo?”
Dean deglutì, incapace di fare altro. “È che… Okay. Bene.”
“Non ti ricordi?”, chiese Castiel, e a Dean parve che il tono fosse vagamente triste.
Dean scosse la testa. “Poco. Molto poco.”
Castiel abbassò lo sguardo e le sue spalle sembrarono calarsi un po’. Subito si voltò e disse: “Vieni a mangiare”, mentre si sedeva a tavola. Dean lanciò uno sguardo alla colazione e sentì lo stomaco ribellarsi, ma si sedette lo stesso. Poi Castiel sorrise, e lo stomaco di Dean tornò al suo posto.
Ma non durò a lungo.
“Cazzo!”, gridò, alzandosi in piedi. “È domani!”
Castiel lo guardò incredulo mentre Dean aggirava il bancone della cucina per andare a controllare il calendario appeso al muro. “Cosa, è domani?”
Dean sospirò appena ebbe verificato la data e si accasciò contro il frigorifero. “Il compleanno di Sam.”
Castiel si alzò e lo raggiunse con i suoi passi leggeri. “E quindi? Hai dimenticato di prendergli un regalo?”, chiese, inclinando la testa con quel suo fare perplesso.
“Magari”, sbuffò Dean. “Potrebbe essere una scusa per non andarci.”
Castiel aggrottò le sopracciglia. “Dean, tu adori tuo fratello. Che cosa c’è che non va con il suo compleanno?”
Dean sospirò. “Non mi va di parlarne”, sbottò poi, aggirando Castiel per tornare verso la tavola.
“Dean”, fece Castiel con tono dolce, seguendolo. “Andiamo. A me puoi dirlo.”
“Perché dev’esserci qualcosa da dire?!”, esplose Dean, girandosi a guardarlo. “Perché devi sempre psicanalizzarmi? Eh? Mi hai guarito quella volta, adesso non è più compito tuo occuparti di me. Lasciami in pace.”
Castiel lo guardava impassibile mentre Dean camminava avanti e indietro sulla soglia della cucina. Aspettò che si fermasse. “Che hai da guardare?”, ruggì Dean.
“Hai finito?”, chiese Castiel, per niente impressionato. Dean non rispose, sorpreso. “Bene, allora parlo io”, fece Castiel, e si alzò per raggiungere Dean. “Voglio sapere degli incubi: che cosa sogni, da quanto tempo va avanti. Voglio sapere delle pillole. Voglio sapere di tuo fratello. Voglio sapere tutto e voglio che tu sappia che puoi dirmi tutto. Ma non ti forzerò, se non vuoi. Sarò qui ad aspettare che tu voglia aprirti. E se non succederà mai, pazienza. Sarò comunque qui. Solo, non respingermi in questo modo, perché non vado da nessuna parte. E perché una volta avevi buone maniere, Dean Winchester. Non deludermi.”
“Ho già deluso tutti, Cas.” Castiel l’osservò, in attesa che continuasse, ma Dean chiese invece: “E comunque, perché t’importa tanto?”
“Perché sei venuto a letto con me, stanotte?”
Dean si bloccò, senza fiato. “Cosa?”
Castiel aveva parlato con tono piatto, senza lasciar trasparire alcuna emozione, e a Dean pareva di morire. “Mi hai sentito.”
Messo alle strette, Dean sbottò: “Perché ce l’avevo duro – non lo so, Cas, che razza di domanda è?”
Castiel annuì. Fece un sospiro profondo, poi si sedette e iniziò a mangiare, senza staccare gli occhi dal piatto.
Dean sgranò gli occhi. “Cas?”
Castiel sollevò lo sguardo su di lui, senza smettere di masticare. “Mmm?”
Dean lo guardava sconvolto. “Che stai facendo?”
“Colazione”, rispose Castiel a bocca piena. “Tu che stai facendo?”
Dean aprì la bocca per ribattere, ma non gli venne in mente niente, così la richiuse. Poi la riaprì e la richiuse di nuovo.
Castiel venne in suo aiuto mentre continuava a mangiare, imperturbabile. “Dico, cosa ci fai ancora qui. Se volevi solo scopare, puoi anche andartene, adesso.”
Per un attimo Dean non si mosse. Castiel sapeva che in quell’attimo Dean stava cercando di combattere l’istinto di scappare, salire in macchina e sparire senza farsi più vedere. Per cui gli lasciò un paio di secondi. Poi, senza staccare gli occhi dal caffè, parlò di nuovo: “Ma se scegli di restare, a me fa piacere.”
 
Dean insistette per lavare i piatti, anche quelli della sera prima. Castiel accettò di buon grado e lo aiutò, asciugando e riponendo ogni cosa al suo posto quando Dean ebbe finito. L’intimità della scena era un dolore costante nel petto di Dean, ma lui fece del suo meglio per ignorare la sensazione. Ogni volta che gli pareva di non farcela, lanciava un’occhiata fuori dalla finestra: durante la notte aveva smesso di piovere e ora il sole primaverile era riapparso in tutto il suo vigore. Alla fine Dean percepì di nuovo dentro sé quella smania di estate e si sentì soffocare.
“Usciamo di qui”, disse, tirando fuori le chiavi della macchina dalla tasca. Castiel le riconobbe e, ricordandosi la venerazione di Dean per l’Impala, venerazione che non era sicuro di capire appieno, ridacchiò e lo seguì fuori.
Quando imboccò l’autostrada, la Bayshore Freeway appena fuori Palo Alto, Dean sentì che Castiel stava per chiedergli spiegazioni. “Voglio vedere il mare”, lo anticipò.
Castiel si rilassò impercettibilmente. “Half Moon Beach?”, chiese.
Dean scosse la testa. “Miramar Beach.”
Meno di un’ora dopo erano arrivati. Non avevano parlato molto durante il viaggio, ma quelle poche parole che si erano scambiati erano state piacevoli per entrambi. Il resto lo aveva fatto Bob Seger, con il suo album Beautiful loser. Dean era corso in negozio a comprare la cassetta appena era uscito, pochi mesi prima, e l’aveva già consumata a furia di ascoltarla. Anche lui si sentiva un beautiful loser.
Si sistemarono direttamente sulla sabbia, incuranti del fatto che non avevano né costumi, né asciugamani, né sedie sdraio. Non importava. C’era il sole e faceva caldo come fosse agosto, nessuna traccia del temporale della sera prima. C’era una leggera brezza salmastra. L’oceano. La spiaggia piena di gente, venuta a passare in compagnia il giorno festivo. E c’erano loro due.
“Dean”, fece Castiel. “Perché siamo qui?”
“Volevo vedere il mare”, ripeté Dean.
“Lo so, me l’hai detto. Intendo, perché proprio qui? Half Moon Beach è molto più vicina. È lì che vanno tutti, da Palo Alto.”
Dean annuì e per qualche istante non disse nulla. Proprio quando Castiel credeva che avrebbe lasciato cadere il discorso, Dean parlò. “I miei genitori ci hanno raccontato di questa spiaggia. Ma non l’avevo mai vista e ho voluto venirci con te.”
Castiel accennò un sorriso, ma non intervenne. Dean continuò: “La mia famiglia è del Kansas. Anche Sam e io siamo nati a Lawrence, poi Sam si è trasferito qui quando è entrato a Stanford e io l’ho raggiunto al ritorno dal Vietnam. Ma tanti anni fa i miei erano in vacanza a San Francisco e decisero di esplorare la California in macchina. Un giorno finirono qui e, dopo aver passato la giornata in spiaggia, andarono a cena fuori in uno di questi ristoranti sul lungomare – non so quale, ma magari non esiste nemmeno più. C’era una terrazza, mangiarono fuori. Lo so perché mia madre mi raccontò di aver visto il riflesso della luna nel diamante dell’anello, prima di capire che cosa stesse succedendo. Mio padre le chiese di sposarlo proprio qui, guardando questo oceano. Mia madre diceva sempre che questo era il suo posto preferito al mondo.”
Castiel sorrise. “È splendido”, convenne, senza distogliere lo sguardo dal viso di Dean. Dean non colse il sottinteso.
Rimasero in silenzio per qualche minuto, poi Dean prese di nuovo la parola. “Gli incubi sono iniziati quando sono rimasto ferito. Ma non sogno il Vietnam. O almeno, non solo. Sogno l’incendio in cui è morta mia madre. E a volte si confonde con l’incendio in Vietnam.” Dean esitò, si fece coraggio e riprese. “Mia madre è morta nell’incendio che ha distrutto la nostra casa il 2 novembre 1953. Io avevo quattro anni, Sam sei mesi esatti. Mio padre tornò dentro a prendere la mamma… Ma per lei non c’era niente da fare e anche mio padre non è mai più stato lo stesso. Iniziò a bere, a sparire per giorni interi. E a metterci le mani addosso quelle rare volte che era a casa. Sam l’ho praticamente cresciuto io. Da quella notte, quando mio padre mi disse di prendere mio fratello e portarlo fuori dalla casa in fiamme, è sempre stato il mio compito occuparmi di lui. Papà continuò a lavorare all’officina, Bobby glielo permetteva solo perché erano amici. Finché, nel ’65, mio padre non ce la fece più: si arruolò in Marina e si fece spedire in Vietnam, immagino per soddisfare un inconscio istinto suicida. È morto il 18 dicembre di dieci anni fa, durante l’operazione Harvest Moon insieme ad altri 44 disperati. E quando sono stato mobilitato io, sapevo di essere l’ennesimo pezzo del puzzle della nostra famiglia ad abbandonare Sam… L’ultimo pezzo. E non me lo sono mai perdonato.” Dean si fermò un istante per prendere fiato, gli occhi al cielo, e fu grato a Castiel perché non parlò. “Quindi se ho gli incubi e gli attacchi di panico”, riprese, la voce rotta, “se bevo e prendo quelle maledette pastiglie, se basta un tuono a farmi frignare come un bambino – e se sono così stronzo, e se non riesco a parlarti come vorrei, e come meriti – ecco, non sono sicuro che sia dovuto solo alla guerra.”
Castiel osservò per qualche istante Dean che fissava il mare e tamburellava le dita sulla coscia – giusto per tenere le mani occupate e concentrarsi su qualcosa che non fosse Sam, nella speranza vana che Castiel facesse lo stesso. Invece Castiel gli posò una mano sulla sua per fermare il tic nervoso. Dean si voltò di scatto e ritrasse la mano come un animale ferito, ma subito si riprese e posò la sua mano su quella di Castiel. “Scusa”, mormorò. “Non lo faccio apposta.”
“Lo so.”
Questo scatto aveva ricordato a entrambi la sfuriata di quella mattina, riguardo al discorso su Sam che adesso aleggiava tra loro, tanto pesante da oscurare un po’ il sole. Eppure la mano di Castiel era così sottile e delicata sulla sua pelle che Dean, per la prima volta, era sul punto di cedere e abbandonarsi completamente al tocco confortante di quelle dita che gli avevano salvato la vita. Per un istante si cullò nell'idea di aprire le gabbie e lasciar liberi i propri demoni, di mostrare a Castiel gli angoli più bui della propria anima, certo che non sarebbe stato accusato, certo che sarebbe stato al sicuro da ogni cosa – persino da se stesso. Ma subito si riscosse e il suo viso si indurì. Che cazzo dici, Winchester. È solo un dottore che ti sei scopato un paio di volte. Piantala di fare la femminuccia. I ricordi della loro prima notte insieme, appena Dean era stato dimesso dall’ospedale pochi anni prima, riemersero e lo travolsero come un fiume in piena, mozzandogli il respiro. D’un tratto sentiva caldo e divenne consapevole del sudore che gli incollava i capelli sulla fronte. Una stretta al petto gli impediva di respirare. E all’improvviso ecco che tutto ciò che riusciva a vedere era un blu intenso e infinito.
“Respira”, sussurrò Castiel, piano ma con voce ferma e decisa.
Dean si rese conto che il blu che l’aveva inghiottito era il colore degli occhi di Castiel, che gli si era seduto di fronte e che ora gli stringeva forte le ginocchia con le mani, senza togliergli gli occhi di dosso. Dean sbatté le palpebre un paio di volte e si sforzò di far combaciare il proprio respiro con quello di Castiel. Gli sembrava che lo stesse strappando via dall’inferno per la seconda volta.
Non appena riacquistò un minimo di lucidità, i pensieri ritornarono e con loro anche il bisogno di scappare o respingere Castiel. Eppure non riusciva ad alzarsi e non riusciva a formulare le parole non voglio più vederti – non nella sua testa, né tantomeno ad alta voce. Perché non era vero. Le mani di Castiel erano forti ma delicate sulle sue gambe e dicevano sono qui per te, ma non c’è bisogno di mettere in piedi sceneggiate e in qualche modo Dean sentiva che era davvero così, che con lui non aveva bisogno delle mura e delle barriere che usava per tenere lontane le persone per proteggersi e per proteggerle.
“Mi dispiace per com’è finita, quella volta.”
Ora fu il turno di Castiel di trasalire e irrigidirsi, preso alla sprovvista e punto sul vivo. Ma non disse nulla e si limitò a guardare Dean con un pizzico di sospetto negli occhi.
“Ero a pezzi. Lo sono ancora, ma allora… Era la prima volta che mi sentivo così. Così come mi fai sentire tu. E non sapevo che cosa farmene, di quei sentimenti, perché era tutto nuovo. Quindi sono scappato, che è quello che faccio sempre, sono sparito. Ma con te stavo bene. Con te sto bene come credevo che non sarei mai più stato. Con te sto bene come nei miei primissimi ricordi, quando la sera prima di dormire chiedevo a mia madre di raccontarmi la storia dell’anello scintillante sulla spiaggia in California. E l'unica persona al mondo con cui mi ero sentito così, finché non ti ho conosciuto, era Sam.”
Castiel era immobile, ma non gli toglieva gli occhi di dosso.
“Domani è il compleanno di Sam”, riprese Dean. “Dà una festa a casa sua e non voglio andarci. È vero. Ma non chiedere. Ci sto male.”
Castiel alzò una mano in segno di resa – l’altra stringeva ancora le dita di Dean. Decise che già quel ci sto male era un passo avanti. “Potrei venire con te”, propose, d’istinto. “Voglio dire, se può aiutare.”
Dean si voltò verso di lui e nel farlo gli cadde l’occhio sulle loro mani intrecciate. Ecco di nuovo il bisogno di scappare, nonostante tutto ciò che aveva appena detto.
Voleva dire che non gli serviva un tutore perché era perfettamente in grado di gestire suo fratello. Voleva dire che Castiel avrebbe fatto meglio ad andarsene finché era in tempo, perché Dean non sapeva che cosa stesse succedendo nella sua stessa vita ed era da anni ormai che aveva perso il controllo. Voleva dirgli di lasciarlo in pace, perché non aveva bisogno della sua pietà e Castiel non aveva bisogno dei suoi problemi. Ma voleva anche dirgli che gli piacerebbe. Andare al compleanno di Sam con Castiel. Gli piacerebbe un sacco.
Deglutì. Tornò a guardare Castiel e gli si strinse il cuore. “Se per te non è un disturbo”, riuscì a dire a fatica, evitando il suo sguardo.
Castiel sorrise, perfettamente conscio del divario tra l’intensità di ciò che Dean provava e ciò che invece aveva deciso di dire. “È un piacere.”

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Capitolo 5
*** Capitolo 5 ***


Capitolo 5
Venerdì 2 maggio 1975
 
 
Dean si stupì di quanto gli sembrasse naturale. Aveva parcheggiato l’Impala davanti alla casa di Castiel e stava aspettando che uscisse. Era il terzo giorno di fila che passavano assieme, la seconda volta che andava a prenderlo a casa. Senza contare tutto ciò che era successo quattro anni prima. Non ci aveva pensato troppo, ma ora che era lì gli pareva tutto così… giusto.
Diede ancora un paio di colpi veloci al clacson ed ecco che Castiel uscì di casa, chiuse la porta a chiave e si diresse verso di lui con un gran sorriso. Era abbagliante. Dean si ritrovò a ricambiare il sorriso mentre un nuovo calore si accendeva nel suo petto, come una fiamma che divampa non appena vengono smosse le braci.
 
“Ehi, stronzo.”
Sam si voltò di scatto e i capelli lunghi ondeggiarono attorno al suo viso mentre si illuminava. “Ehi, cretino”, rispose, tirando a sé Dean in un abbraccio rude ma intenso. Dopo un attimo, Dean finse di tossire mentre borbottava qualcosa che assomigliava vagamente a un non riesco a respirare e Sam lo lasciò andare con una risata. Si rivolse a Castiel e gli strinse la mano con entusiasmo. “Dottor Novak, che piacere rivederla”, esclamò. “Grazie per essere venuto.”
“Grazie a te, Sam, ma dammi del tu, per favore. Non vorrai farmi sentire più vecchio di quel che già sono.”
Sam rise e un attimo dopo erano immersi in un acceso dibattito su temi che Dean decise andavano oltre la sua comprensione – due cervelloni del genere, un chirurgo e un futuro avvocato, erano troppo da gestire contemporaneamente per un meccanico veterano col disturbo post traumatico da stress e un serio problema di alcolismo. Soprattutto con Jessica, radiosa al fianco di Sam, costante memento di ciò che sarebbe successo quella sera. Dean riuscì a malapena a farle un cenno prima di voltarsi e dirigersi verso la porta del giardino. Si disse che Castiel sarebbe stato bene, se ne sarebbe occupato Sam. Lui aveva bisogno di prendere aria e scrollarsi di dosso quella sensazione di essere sbagliato. Uscendo, afferrò una cassa di bottiglie senza nemmeno preoccuparsi di controllarne il contenuto.
 
Dean trasalì violentemente quando sentì una mano posarsi sulla sua spalla e rovesciò qualche goccia dalla bottiglia che teneva in mano. “Ehi!”, esclamò, mentre una sagoma familiare si sedeva davanti a lui sull’erba. Erano seminascosti in un angolo in fondo al giardino, Dean era abbastanza sicuro che dal portico non si riuscisse a vederli.
“Ti ho cercato dappertutto”, disse infatti Castiel. Non suonò come un’accusa, eppure Dean si sentì in colpa. Dopotutto, nella vita si era sempre sentito in colpa per qualunque cosa, come se tutto fosse responsabilità sua. Si strinse nelle spalle e bevve un altro sorso perché non sapeva cos’altro fare – il che succedeva piuttosto spesso, ora che ci pensava. Castiel lanciò un’occhiata all’etichetta della bottiglia che Dean teneva in mano, piena per tre quarti, e subito dopo notò la bottiglia vuota ai suoi piedi.
Adesso sì che si incazza, pensò Dean e chiuse gli occhi con un sospiro insofferente, pronto a sopportare la scenata.
“Dean, che cosa sta succedendo?”
Dean riaprì gli occhi. “Cosa?”
“Ti ho chiesto che cosa sta succedendo”, ripeté Castiel, posandogli una mano sul ginocchio, così come aveva fatto in spiaggia il giorno prima mentre Dean gli parlava della sua famiglia.
Dean osservò la mano di Castiel, confuso. Tutto qua? Tornò a guardare Castiel in viso, ma non c’era traccia di disapprovazione: la testa appena inclinata, gli occhi grandi, le labbra schiuse e il tocco caldo… Era preoccupato. Davvero preoccupato.
Castiel ritrasse la mano – e Dean si sentì cadere appena in avanti, alla ricerca di quel contatto che gli era stato tolto – per sfilargli di mano la bottiglia, con delicatezza, e posarla da parte. “Credo tu abbia bisogno di parlare con qualcuno, Dean”, disse con voce gentile, come se potesse cullarlo finché non si fosse addormentato. “Se vuoi, puoi farlo. Altrimenti starò qui con te a guardare le stelle.”
Dean lo fissava, incapace di muoversi.
“O forse preferisci che vada a chiamare Sam?”, aggiunse Castiel un attimo dopo, ansioso di fare la cosa giusta.
“No... no, va bene così”, rispose Dean, incerto. Si era aspettato di tutto tranne che Castiel si sedesse davanti a lui in silenzio a guardare le fottutissime stelle. Sam avrebbe fracassato la bottiglia contro un albero, anche se poi l'avrebbe abbracciato. Suo padre avrebbe fracassato lui contro un albero, e non si sarebbe mai sognato di abbracciarlo. Forse sua madre avrebbe reagito come Castiel. Ma Dean non poteva saperlo.
Respirò profondamente un paio di volte, sforzandosi di non lasciar vagare il proprio sguardo su Castiel che, fedele alla sua promessa, aveva sollevato appena la testa verso il cielo.
“Sam sta per chiedere a Jessica di sposarlo”, sputò infine tra i denti. Pronunciare quelle parole fece riemergere l'impulso di afferrare la bottiglia, e Dean dovette combattere con tutte le sue forze per resistere. Castiel riportò lo sguardo su di lui, senza fare nulla per mettergli fretta.
“Gli ho dato la mia benedizione, perché cos'altro potevo fare?”, continuò Dean, una smorfia amareggiata sul viso. “E poi, voglio dire, se lo merita, visto quanto ha sofferto. E lei è perfetta, sono perfetti insieme, avranno una vita perfetta...”
Dean s’interruppe e chinò la testa. Quando tornò a sollevare lo sguardo, aveva gli occhi lucidi. “Io invece sono uno stronzo con mille problemi che non farà mai un cazzo della propria vita”, riprese, stavolta con una violenza nella voce che fece indietreggiare appena Castiel. Dean non se ne accorse. “Venderei l'anima per veder scorrazzare per casa mia una banda di marmocchi che mi somigliano – ma sono destinato a rimanere solo. Prima o poi tutti mi abbandonano. Mamma e papà. Benny Lafitte, coi suoi cazzo di occhi vuoti. L’infermiera Charlie e il novellino Kevin, saltati in aria su una mina. Tutta la gente che ho visto morire dall’altra parte dell’oceano, sotto la mia responsabilità. E ora Sam.” Si passò le mani sul viso, poi guardò Castiel negli occhi. “Non posso vivere senza di lui, Cas. Non posso. Lui è tutto ciò che ho.”
Piangeva, ormai. E anche Castiel percepiva negli occhi il peso di tutto ciò che Dean non aveva detto: il suo rifiuto di legarsi a qualcuno per paura di essere lasciato solo, il suo terrore di aprirsi per poi vedersi chiudere la porta in faccia. Il modo in cui era sparito, anni prima, non appena la loro relazione era diventata qualcosa di più di un rapporto tra medico e paziente, e poi qualcosa di più di un’amicizia. Il modo in cui ancora oggi non riusciva a fidarsi di lui, il modo in cui si chiudeva a riccio quando Castiel nominava la cicatrice sulla sua spalla perché gli riportava alla mente quella notte di quattro anni prima, quando Castiel aveva posato sopra la propria mano e avevano riso e lui aveva baciato quella specie di impronta mentre facevano l’amore per la prima volta.
Dean trasalì nel percepire il tocco caldo di Christa sul suo braccio. “Dean”, disse Castiel, e lui sentì di volersi immergere in quel suono e viverci per sempre. “Non sei una persona cattiva”.
Dean tirò su col naso e serrò con forza gli occhi, unico segno che diceva a Castiel che l'aveva sentito. Si detestò ancora di più per quanto si stava mostrando vulnerabile in quel momento. “Devo esserlo, visto che tutti mi abbandonano”, obiettò. “Resterò solo”.
“Non resterai solo, se permetterai alle persone di amarti”.
Gli occhi di Dean incontrarono quelli di Castiel, e d'un tratto gli sembrò che spostare le pupille fosse la cosa più difficile al mondo. Aprì la bocca per dire qualcosa – non sapeva nemmeno lui che cosa, in realtà – ma non ne uscì niente.
“Ehi, gente! Tornate dentro, devo fare un annuncio importante!”
Dean si riscosse e guardò verso la casa: Sam si sporgeva dalla porta sul retro per richiamare gli invitati che erano usciti in giardino. Sospirò e si asciugò le lacrime col dorso della mano.
“Possiamo rimanere qui, se non vuoi vedere”, sussurrò Castiel.
Dean scosse la testa. “No. No, va bene. Andiamo.”
Fece per alzarsi, ma ricadde pesantemente sull’erba. Castiel accorse e lo aiutò a tirarsi su, ma dovette sorreggerlo quando le gambe gli cedettero di nuovo. Si ritrovò a stringerlo a sé, un braccio oltre le spalle e una mano sulla nuca. Dean inconsciamente si raggomitolò contro il suo petto e lì rimase, in attesa del momento in cui avrebbe smesso di tremare. Accadde un minuto dopo, quando il panico cedette spazio al calore che Dean aveva imparato ad associare a Castiel. Infilò la testa nell’incavo tra la spalla e il collo di Castiel, poggiando lo zigomo sulla sua clavicola, e si prese un altro istante per lasciarsi cullare in quel calore che diceva non sei una persona cattiva e lascia entrare le persone e butta giù il muro.
Castiel posò una guancia sulla sua fronte. Dean alzò la testa e per una frazione di secondo le loro labbra s’incontrarono.
“Andiamo.”
Sam era inginocchiato in mezzo al salotto e in mano reggeva l’anello che Dean l’aveva aiutato a scegliere. I presenti trattennero il respiro, ma Dean conosceva Jessica e conosceva la luce che vedeva ora sul suo viso: la ragazza, con le lacrime agli occhi, bisbigliò un timido proprio mentre Dean e Castiel rientravano in casa. La stanza esplose in un boato di grida esultanti mentre Sam si alzava in piedi e sollevava la ragazza per la vita, facendole fare una piroetta in aria per poi tornare a posarla delicatamente a terra e infilarle l’anello al dito.
 
Attesero la fine della festa, prima di raggiungere Sam e Jessica. Dean avanzò verso suo fratello e lo tirò forte contro di sé in un abbraccio che probabilmente incrinò le costole a entrambi. Dopo un paio di pacche sulle spalle, riuscì a dirgli all’orecchio: “Sono fiero di te, fratellino.” Poi lasciò andare Sam e baciò Jessica sulle guance. “Di voi”, si corresse, facendole l’occhiolino.
Castiel strinse forte la mano di Sam e si congratulò anche con Jessica, che d’un tratto sembrava nervosa: aprì la bocca come per dire qualcosa, ma poi ci ripensò.
“Jess?”, chiese Sam, che aveva notato il gesto.
“Avrei… una cosa da dire”, spiegò Jessica, torturandosi una ciocca di capelli con piccoli gesti rapidi delle dita. Si guardò attorno, aspettando che gli ultimi invitati se ne andassero e si chiudessero la porta alle spalle, poi tornò a posare lo sguardo su Sam. “E va bene, ve lo dico perché altrimenti potrei esplodere. Dopotutto siamo in famiglia, no?”
Dean sentì montare la nausea. Per lui, famiglia aveva sempre significato Sam e nient’altro. Capendo che Jessica stava comprendendo se stessa, Sam, Dean e Castiel in quella parola, Dean si chiese dove avesse lasciato le bottiglie di prima. Ma non appena Jessica parlò di nuovo, si riscosse.
“Sono incinta.”
Dean non era sicuro di aver capito bene. Tutti i suoni erano ovattati e le sagome sfocate. Immaginava che quello sul viso di Sam fosse un sorriso distorto dal pianto, ma non riusciva a distinguerlo con chiarezza. Si sentì mancare. E non appena percepì un singhiozzo arrampicarsi nella gola, ecco che un tocco fermo lo riportò alla realtà: calò lo sguardo e scoprì che la sua mano destra era artigliata a quella di Castiel. Lo guardò confuso. Non ricordava di avergli preso la mano. Ma Castiel osservava Sam e Jessica, abbracciati, e piangeva anche lui coprendosi la bocca con l’altra mano. Dean non riuscì a trattenersi. Un sorriso si fece strada sulle sue labbra e lui non fece nulla per impedirlo.

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Capitolo 6
*** Epilogo ***


Epilogo

Per l’ennesima volta in pochissimi giorni, Dean parcheggiò davanti al vialetto della casa di Castiel. Ma lui non scese dalla macchina. Rimase immobile a fissare la strada davanti a sé, in silenzio. Sembrava che stesse analizzando ogni dettaglio della via in cui abitava, che stesse riscoprendo il quartiere. Anche Dean si sentiva così. Come se stesse riscoprendo da capo qualcosa che aveva creduto erroneamente di conoscere. Castiel, la sua vita, la sua famiglia… Non sapeva esattamente che cosa. Forse tutto.
“Cas?”, chiese Dean, risolvendosi a tirare il freno a mano e spegnere il motore.
Castiel evitava il suo sguardo e non dava segno di volersi muovere. Finalmente parlò. “Prima ti ho detto che non resterai solo, se permetterai alle persone di amarti”, disse, continuando a fissare un punto imprecisato in lontananza. “Pensi di potermi lasciare entrare?”
Dean rimase in silenzio.
“Io voglio amarti, Dean”, disse Castiel, voltandosi a guardarlo. “Mi lascerai entrare?”
“Cas, non farlo.”
Castiel sapeva che quelle poche parole racchiudevano in sé una vita intera di abbandono e dolore e che in realtà volevano dire non amarmi se poi mi abbandonerai anche tu e allora rispose: “Non vado da nessuna parte, Dean. E nemmeno Sam.”
Per un lungo momento, tutto ciò che riempiva l'aria limpida della notte fu il verso dei grilli. Poi, il fruscio della giacca di Dean contro il sedile mentre il suo corpo si protendeva lentamente verso Castiel. Dean si bloccò a un soffio da lui, tanto vicino che Castiel avrebbe potuto contare le lentiggini sul suo naso – ma lui le conosceva già a memoria.
Dean rimase semplicemente lì, come sospeso, finché non si lasciò andare: le loro labbra si incontrarono e il calore divampò nel petto di Dean come un’estate intima e personale, un’estate che non l’avrebbe più colto alla sprovvista perché stavolta, quest’estate sarebbe rimasta sempre nel suo cuore.

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