L'Elisir di lunga vita

di edoardo811
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Il sole, il mare e la luna ***
Capitolo 2: *** Il mezzosangue in fuga ***
Capitolo 3: *** Le sette virtù ***
Capitolo 4: *** Il Monte Tate ***
Capitolo 5: *** Nuove e vecchie conoscenze ***
Capitolo 6: *** Colibrì ***
Capitolo 7: *** I fantasmi del passato ***
Capitolo 8: *** La Valle dell'Inferno ***
Capitolo 9: *** Esilio ***
Capitolo 10: *** Le rovine di Hachiōji ***
Capitolo 11: *** Il santuario Meiji ***
Capitolo 12: *** La resa dei conti ***
Capitolo 13: *** Le Tribune Negishi ***
Capitolo 14: *** Il Coniglio Lunare ***
Capitolo 15: *** Il Monte Fuji ***
Capitolo 16: *** Il viaggio continua ***



Capitolo 1
*** Il sole, il mare e la luna ***


Il Sole, il Mare e la Luna

 

 

Il suono delle foglie calpestate dai suoi stivali riempì l’aria, mentre percorreva il sentiero all’ombra dei ciliegi brulli. L’aria fredda e pungente soffiava sul suo volto, ma non gli diede importanza. Non pativa il freddo. O il caldo.

Spostò lo sguardo verso il bordo del sentiero, ammirando la maestosa città che si stagliava ai piedi della montagna. Pensò a tutti quei mortali che abitavano laggiù, in quelle strade affollate, chiassose, in quei palazzi colorati dalle forme stravaganti.  

A volte li invidiava. Sarebbe piaciuto anche a lui vivere nella beata ignoranza come loro, lontani da quel mondo, preoccupati solo dei loro problemi comuni e delle loro vite quotidiane.

Alzò lo sguardo verso il cielo, accorgendosi delle striature arancioni che illuminavano con pigrizia la valle. Si stava facendo sera. Strinse con forza il grosso sacco che teneva sotto il braccio e affrettò il passo.  

Non riusciva a credere che Minoru volesse farsi tutta quella tratta da solo. Quel vecchio con le gambe atrofizzate e gli occhi impregnati dalle cataratte non sarebbe riuscito neanche a fare due passi con quell’affare pesantissimo sulle spalle. Ancora una volta, si domandò come facesse a vivere in quell’angolo nascosto della montagna. Si domandò come riuscisse a fare moltissime cose, in realtà.

Passò sopra un ponte di legno rosso sottile, accanto ad un anfratto della montagna da cui sgorgava pigramente una cascata. Si fiondava in quel baratro senza fondo tra le pareti rocciose, sollevando una lieve bruma. Non mancava molto ormai alla destinazione.

Continuò a salire, incrociando alcuni mortali con le teste incastrate dietro a quelle loro scatolette di plastica, intenti ad osservare il cielo. Non fecero caso a lui. Passò accanto a loro senza che lo degnassero di uno sguardo.

Si infilò in un sentiero dismesso, coperto di erbacce alte, segno che poche persone passavano di lì. La stradina era a forma di conca, sprofondava in un pendio offuscato dalla vegetazione prima di risalire e sbucare in una radura circondata da alti alberi e fitti cespugli. Non era molto grande, ma abbastanza per ospitare una casa rustica e un deposito per la legna da ardere.

Il caminetto sbuffava del fumo grigio, indicandogli che Minoru lo stava aspettando. Raggiunse la porta e la aprì senza neanche bussare, conscio del fatto che il vecchio Ishii lo avrebbe riconosciuto immediatamente.

«Sei tu Naosuke?» fu infatti la voce roca e bonaria che sopraggiunse non appena mise piede nell’anticamera.

«Sì, ho portato la sua spesa.»

«Yare-yare! Porta tutto in cucina allora, grazie!»

Naosuke si sfilò gli stivali di ferro e chiuse la porta, la sua pelle che veniva accarezzata dal torpore della casa, cozzando con quegli spifferi freddi di fine settembre a cui si era abituato.

Salì il gradino che portava al corridoio e svoltò subito a sinistra, entrando in cucina. Trovò il vecchio Ishii inginocchiato al tavolino, intento a fumare dalla sua fidata kiseru1 e a lisciarsi la lunga barba bianca. «Lascia tutto sul ripiano, figliolo.»

Il ragazzo obbedì e posò il sacco di iuta sul ripiano della cucina, coricandolo di lato. Alcune patate dolci rotolarono fuori.

«Grazie per essere andato tu a prenderlo, Naosuke» gli disse il vecchio Ishii.

«Era il minimo che potessi fare per ripagarla della sua ospitalità» rispose Naosuke, con un sorriso. Si abbassò il cappuccio, scoprendo i capelli neri e spettinati.

«Sciocchezze, figliolo. La tua sola compagnia è più che sufficiente per ripagarmi. Ormai non c’è più nessuno a cui importi di queste mie ossa vecchie e stanche…»

Il sorriso di Naosuke si fece mesto. Sapeva qualcosa sull’essere soli e dimenticati.

Minoru si alzò dal tavolino, lisciandosi lo yukata2 blu oceano. «Preparo la cena, tu vai pure a riposarti. Ti chiamo quando è pronto.»

Naosuke lasciò che il vecchio si mettesse sul ripiano e si allontanò, sgranchendo le gambe e le braccia dopo la lunga camminata. Percorse il corridoio e raggiunse l’ultima stanza a destra. Si chiuse la porta scorrevole alle spalle non appena fu dentro e cominciò a spogliarsi. Spalancò l’armadio e il suo sguardo catturò subito i vestiti con cui era arrivato in quel luogo, un paio di settimane prima. I pantaloni neri, le placche di metallo e la cintura. Da un lungo fodero spuntava un’impugnatura scarlatta, con una sfera di vetro simile ad un occhio che parve scrutarlo con aria critica.

La ignorò e prese il samue2 scuro che Minoru gli aveva prestato, poi chiuse l’armadio. Indossò quei vestiti decisamente più comodi con uno sbuffo soddisfatto. A cena, il vecchio Ishii posò di fronte a lui una ciotola di sukiyaki fumante, dall’odore incantevole.

«Attento, scotta» lo avvertì, ma Naosuke ormai aveva già iniziato. Non usò nemmeno le bacchette, afferrò la ciotola rovente e se la portò alle labbra, cominciando a trangugiare quella pietanza.

«Ma come fai a non bruciarti mai?» gli domandò allora il vecchio Ishii, seduto di fronte a lui, guardandolo con aria corrucciata. O almeno, sembrava che fosse corrucciato, era difficile interpretarlo con tutte quelle rughe.

Naosuke abbassò la ciotola e rispose con un’alzata di spalle. «Sono molto resistente.»

«Me ne sono accorto figliolo.»

Cenarono in silenzio, con solamente il rumore delle bacchette di Minoru che tintinnavano e i mugugni appagati di Naosuke a riempire la stanza. Per fortuna il vecchio Ishii poteva solamente sentirlo e non vederlo, altrimenti lo avrebbe cacciato di casa impartendogli di apprendere le buone maniere a tavola.

Non poteva farci niente, quel cibo era delizioso. Ancora una volta, non riusciva a credere a come quel vecchietto gracile e miope fosse così capace in cucina. Era di certo una persona interessante, Minoru Ishii. Un anziano che si era ritirato nelle montagne, quasi in autoisolamento, che compensava la scarsa vista con un incredibile udito, incredibili riflessi e un senso dell’umorismo incredibilmente datato.

La teiera sopra la stufa cominciò a fischiare con vigore. Dopo aver portato via le ciotole ormai vuote, Minoru gli posò di fronte una tazzina con dentro un liquido arancione intenso, dall’odore molto forte. Naosuke la avvicinò al naso. «Che cos’è?»

L’uomo si riaccomodò al suo posto. «Infuso di alghe. L’ho preparato con quelle che ho avanzato. Avanti, provalo, è delizioso.»

Cominciò a sorseggiarlo con gusto. Incuriosito, Naosuke assaggiò quella bevanda bollente e per poco non la rigettò sul tavolo, non per il calore, ma per via di quel suo saporaccio amaro e orripilante.

«Allora, come ti sembra?»

«Molto… molto buono…»

«Ne sono lieto! Vorrà dire che lo preparerò più spesso!»

Naosuke rispose che era un’ottima idea, appurandosi di buttare via un po’ di alghe la prossima volta che sarebbe andato a ritirare la spesa per lui.

«Dunque, caro Naosuke, che storia vorresti sentire questa sera?» gli domandò il vecchio Ishii, mentre posava la tazzina e cominciava ad armeggiare con la sua pipa.

Lo sguardo del ragazzo scivolò lungo le pareti spoglie della cucina, soffermandosi sulla bandiera del Giappone, appesa accanto a un quadro con un uccellino sopra un ramoscello, in riva ad un fiume. Si concentrò sul simbolo del Sol Levante. «Che ne dice della storia sulla regina degli dei?»

«Vuoi forse dire la grande Amaterasu?»

Naosuke si irrigidì. Sapeva che finché non sarebbe stato lui a pronunciare quei nomi non avrebbe corso alcun rischio. Agli dei non importava dei mortali che li chiamavano. Tuttavia, si sentiva comunque a disagio in presenza di qualcuno che li nominava senza alcun riguardo.

«Sì, lei» rispose, dando un’altra possibilità all’infuso e facendo una smorfia ancora più disgustata di prima.

«Figliolo, così mi riempi il cuore di gioia! La storia di Amaterasu e i suoi fratelli è una delle mie preferite! Dunque: in principio, gli antichi dei assegnarono la creazione della vita sulla terra a due individui, Izanagi e Izanami. Essi ebbero otto figli, che divennero le principali isole del Giappone. Dopo di loro, Izanami diede alla luce molti altri figli ed isole minori, ma perì quando mise al mondo il suo ultimo figlio, il dio del fuoco Kagu-Tsuchi.»

Naosuke abbassò la tazzina, irrigidendosi. Il vecchio Ishii non ci fece caso e continuò con il suo racconto: «Dopo la sua morte, Izanami cadde nello Yomi e vi rimase intrappolata quando si cibò di alcuni frutti che trovò laggiù, trasformandosi così in un demone. Devastato per la sua morte, Izanagi andò a cercarla nello Yomi, ma fuggi da lei terrorizzato quando si accorse del suo aspetto demoniaco. Quando ritornò in superficie purificò il proprio corpo, e così facendo nacquero altri tre figli: Amaterasu, la più grande, nacque quando lavò il suo occhio sinistro. Essendo la più grande, a lei diede il dominio del sole. Susanoo, il più piccolo, nacque quando lavò il suo naso. Per via del suo carattere burrascoso, gli assegnò il dominio dei mari e delle tempeste. Il figlio mezzano, Tsukuyomi, invece nacque quando lavò l’occhio destro. Lui ottenne il dominio della luna.»

Naosuke serrò le labbra. Sì, conosceva Susanoo. Gli avevano parlato spesso di lui. E conosceva anche Tsukuyomi.

«Izanagi decise dunque di ritirarsi, lasciando il posto di sovrano proprio a sua figlia Amaterasu. Questo fu causa di numerosi conflitti tra lei e Susanoo, geloso di tutte le attenzioni che la sorella sembrava sempre ricevere da chiunque. Tentò dunque di sfidarla per ottenere il suo posto, ma dopo essere stato sconfitto da una mossa molto astuta di lei si infuriò e distrusse i suoi campi, le sue coltivazioni e terrorizzò le sue tessitrici al punto tale da causare la morte di una di loro. Devastata per l’accaduto, Amaterasu fuggì nella caverna di Amano-Iwato e con la sua scomparsa il sole svanì dal mondo, facendolo piombare in un buio eterno.»

«Questa storia la conosco» disse Naosuke, posando le mani sulle ginocchia. «Per convincerla ad uscire, gli altri dei appesero uno specchio sopra un albero fuori dalla caverna e organizzarono una festa. Attirata dal rumore, lei si affacciò fuori e quando vide il suo riflesso nello specchio si rese conto di quanto fosse importante la sua luce per il mondo.»

«Esatto, figliolo. Dopo l’accaduto, Susanoo venne punito con l’esilio dal Takama-ga-hara, il grande altopiano del paradiso che fa da casa degli dei. Si ritrovò quindi a vagare nel nostro mondo e arrivò nella regione di Izumo, dove conobbe il terribile Yamata no Orochi, un drago con otto teste e otto code in procinto di divorarsi l’ultima figlia di una coppia di contadini, una bellissima vergine. Susanoo si innamorò di lei e per salvarla uccise il dragone, tagliandogli tutte le teste e tutte le code. Mentre tagliava la quarta coda, la sua spada si ruppe. Nascosta proprio dentro la coda, trovò la leggendaria Kusanagi-no-Tsurugi, anche conosciuta come Ama no Murakumo, la Spada del Paradiso. Susanoo consegnò così la spada ad Amaterasu, in segno di pace, e si sposò con la vergine. Da quel giorno, i due fratelli vivono in armonia.»

Naosuke conosceva anche quel racconto, anche se udì soltanto una parola su tre dopo che Yamata no Orochi venne menzionato. Emozioni contrastanti nacquero dentro di lui. Afferrò di nuovo la tazzina e provò a scacciare quei pensieri concentrandosi sul sapore terribile dell’infuso. «E che mi dice del terzo fratello? Di lui non si sa niente?»

«Tsukuyomi, dici? In realtà, esiste anche una leggenda su di lui. Vedi, a differenza di Susanoo, Tsukuyomi era molto legato ad Amaterasu. Erano sempre insieme, per questo motivo, all’epoca, era possibile vedere sia il sole che la luna in cielo nello stesso tempo. Un giorno, la dea del cibo Ukemochi invitò Amaterasu a un ricco banchetto, ma lei, non potendovi partecipare, chiese a Tsukuyomi di prendere il suo posto. Così lui scese sulla terra ed incontrò la dea, che cominciò ad offrirgli un pranzo delizioso. Tuttavia, mentre il pranzo procedeva, Tsukuyomi scoprì Ukemochi tirare fuori dal naso e da altri orifizi indecenti quello stesso cibo che gli stava offrendo. Sì, anche dall’ano.»

L’infuso scese dalla bocca di Naosuke come un fiumiciattolo, rituffandosi nella tazzina. 

«Infuriato e disgustato per quello che era successo, Tsukuyomi uccise la dea senza esitazione e ritornò nel palazzo celeste. Non appena Amaterasu scoprì l’accaduto, si infuriò con il fratello e lo cacciò dal palazzo. Da quel giorno, sole e luna non si sono mai più visti assieme e la loro scissione portò alla nascita del giorno e della notte.»

Naosuke appoggiò la tazza di infuso sul tavolo, non molto desideroso di berne ancora. Si domandò per quale motivo Amaterasu si fosse comportata così con Tsukuyomi. Avrebbe voluto vedere lei al suo posto. Ora si che comprendeva perché Tsukuyomi fosse tanto infuriato con lei.

«Non… non la conoscevo questa storia» mugugnò, quando si rese conto che era finita.

Il vecchio Ishii si strinse nelle spalle. Posò anche lui la tazzina sul tavolo, per prendere un’altra boccata con la pipa. «Si tratta comunque di una leggenda molto vecchia, e come per molte altre leggende non esiste una versione ufficiale. Alcuni sostengono che sia stato Susanoo ad uccidere Ukemochi, per esempio. In ogni caso, non è una storia reale, non c’è bisogno di essere precisi. Sono solo leggende.»

Un sorriso amaro scappò dalle labbra di Naosuke. Tutto quello che aveva visto e vissuto gli era sempre sembrato abbastanza “reale”. Lui stesso faceva parte di una leggenda creata per spaventare i bambini, o meglio, la sua specie lo faceva, eppure era lì, proprio in quella stanza, a parlare proprio con quell’uomo.

Piuttosto “reale” come cosa.

Distese il sorriso mentre Minoru si riportava la tazzina di infuso alle labbra e pensò ancora una volta a quanto, nel profondo, invidiasse i mortali per la loro ingenuità. Poi, si rese conto che l’uomo stava per bere dalla sua tazza, quella dove aveva appena risputato l’infuso. Spalancò l’occhio. «Non beva!»

 

***

 

Quella notte, come molte altre, Naosuke non riuscì a dormire. Ogni volta che la giornata si esauriva e si ritrovava a trascorrere il tempo solo in compagnia di sé stesso, fiamme altissime, grida terrorizzate e scene raccapriccianti occupavano la sua mente, impedendogli di tenere chiuse le palpebre.

Non dormiva molto, in realtà, non ne aveva bisogno, ma a volte era gradevole assopirsi. Soprattutto se poteva farlo in un letto vero e non sotto a degli alberi nei boschi come un animale selvatico.

Per fortuna il vecchio Ishii non vedeva ad un palmo dal naso, quindi non avrebbe mai potuto sospettare di chi stesse ospitando realmente. Era convinto che fosse un ragazzo normalissimo, che aveva deciso di fare una sosta durante il suo viaggio tra le montagne, e a lui andava bene così.

Anche i mortali che aveva incrociato quando era andato a ritirare la spesa per lui non l’avevano mai degnato di un secondo sguardo. Nessuno di loro poteva vedere quello che le loro menti non sarebbero riuscite a comprendere. In occidente, quella barriera che c’era tra lui e i mortali si chiamava Foschia. Da quelle parti non sapeva come si chiamava, ma il principio era lo stesso.

Avrebbe potuto chiamarla Nebbia. Suonava bene.

Non sapeva se il vecchio Ishii non riuscisse a vederlo per via della Nebbia, o della sua pessima vista, ma non aveva importanza. La cosa più importante era che gli aveva dato un tetto, buon cibo e anche un po’ di compagnia, dopo tanto tempo trascorso da solo, ed era determinato a far sì che la verità non venisse a galla.

Sapeva di non poter rimanere lì per sempre. Sapeva che prima o poi avrebbe dovuto riprendere il suo viaggio, ma il pensiero di quello che lo attendeva al di là di quelle montagne ancora lo spaventava. Poteva attendere qualche giorno in più. Erano passate giusto un paio di settimane, dopotutto.

Realizzando ormai di essere con la mente da tutt’altra parte che in quella stanza, decise di alzarsi dal futon per fare qualcosa di più produttivo. Aprì l’armadio, trovando ancora una volta quell’occhio cremisi che lo scrutava critico.

Spalancò la finestra e uscì con passo leggero per non fare rumore, tenendo stretta nella mano l’elsa della sua katana. La lama scarlatta mandò fiochi bagliori pallidi sotto il riflesso della luna e delle stelle. Camminò fino a raggiungere il centro della radura, trovandosi di fronte alla casa del vecchio Ishii.

Inspirò e sollevò la katana di fronte a sé, reggendola con entrambe le mani. Poi scattò, decapitando un avversario immaginario che si era parato di fronte a lui. Si voltò e fletté la katana, difendendosi da un altro assalitore. Rimase immobile, con la lama puntata verso il basso, in diagonale, e le gambe piegate.

Si concentrò sul proprio battito cardiaco e sul suo respiro, mentre si immaginava decine e decine di guerrieri senza volto che comparivano attorno a lui, armati fino ai denti. Sorrise, poi cominciò a muoversi. Saltò in mezzo agli avversari invisibili, schivando i loro affondi, parando le loro stoccate e rispondendo ad ogni colpo con la sua katana, neutralizzandoli uno dopo l’altro.

Allenò la sua postura, i suoi riflessi, i suoi movimenti. Nonostante non toccasse quella spada da giorni, era come se non l’avesse mai lasciata in quell’armadio. Il suo sguardò vagò in ogni direzione, coprendo ogni angolo di quella radura per compensare il fatto che avesse un lato cieco.

Aveva faticato, all’inizio, a combattere così, ma non c’aveva messo molto ad abituarsi. E il fatto che avesse un handicap così grande, non aveva fatto altro che spronarlo a diventare perfino migliore.

Cambiò mano, allenandosi anche a combattere con la sinistra. Non faceva altro da due anni, ormai. Da quando…

S’interruppe di scatto. Gli avversari nella sua mente svanirono in un istante. La radura si svuotò, lasciando spazio solamente ad una figura che prima non c’era.

Una figura magra, in ginocchio mentre si teneva un braccio, che lo guardava con degli occhi verdi carichi di sconforto. Naosuke abbassò la katana, ricambiando quello sguardo mentre una sensazione che ormai conosceva bene si faceva largo dentro di lui, una sensazione che provava ogni volta che pensava a lei.

Rimorso. 

Strinse le palpebre, prendendo una grossa boccata d’aria, e le riaprì. La figura era svanita. La stretta nel suo stomaco, invece, no.

Aumentò la presa sulla katana e abbassò la testa. Erano passati due anni ormai. Eppure, per lui era come se fosse trascorso solo un giorno.  

Un solo giorno da quando aveva perso lei.

Udì un fruscio improvviso. Qualcosa forò l’aria. Si scansò e il kunai indirizzato alla sua testa proseguì dritto, schiantandosi contro la porta della casa. Naosuke l’osservò allibito, poi strinse i denti e sollevò la katana. 

«Chi va là?!» domandò, verso i cespugli da cui era provenuto il kunai.

Nessuna risposta. Altri shuriken e kunai saettarono nella notte, diretti verso di lui. Li respinse con la spada, uno ad uno, in uno scrociare di tintinnii metallici. A giudicare dalle direzioni da cui provenivano, i loro lanciatori dovevano essere diversi.

«Se non uscite allo scoperto verrò a prendervi io» rantolò, quando anche l’ultima lama cadde a terra senza arrecare alcun danno.

Per un istante, nulla accadde. Naosuke sentì alcune gocce di sudore imperlargli la fronte, mentre i suoi sensi erano affinati al massimo. Tre figure uscirono dalla boscaglia, parandosi di fronte a lui, davanti al sentiero. Quando vide l’unica via di fuga bloccata, Naosuke assottigliò le labbra.

Un rumore di rametti calpestati provenne alle sue spalle. Arrischiò un rapido sguardo, accorgendosi di altri due individui che stavano uscendo dalla vegetazione dietro casa di Minoru, avvicinandosi. L’avevano circondato. E questa volta la sua immaginazione non c’entrava nulla.

«Finalmente ti abbiamo trovato, mezzosangue» disse uno di loro, rivelando la voce di una donna. Naosuke riportò la sua attenzione sulle tre figure di fronte a lui e quella in mezzo fece un passo avanti, mostrandosi alla luce della luna.

Un kimono nero, chiuso, mostrava le sue gambe pallide e sottili, le caviglie coperte da calze a rete. Un corpetto protettivo scendeva fino alla cintura piena di kunai ancora da utilizzare e con un tantō3 riposto nel fodero. Quello che all’inizio gli era sembrato un cappuccio, in realtà era una fulgida chioma di capelli ebano che scendevano attorno alla sua testa, formando una frangia ordinata sotto la quale due piccoli occhi lo spiavano con aria divertita. Dal naso in giù una sciarpa rossa le copriva il resto del volto.

Una kunoichi.

Lo sguardo di Naosuke cadde sul simbolo rosa ricamato sul kimono, un fiore con così tanti petali da sembrare una proiezione astratta. Lo riconobbe immediatamente: era una camelia, il simbolo del Clan Tsubaki. Il gruppo di kunoichi che gli dava la caccia.

«Era da molto che ti cercavamo» disse ancora la donna, estraendo il tantō. Le sue compagne la imitarono, sguainando wakizashi e kodachi4. Si sfilò la sciarpa, scoprendo il viso ovale e appuntito, con uno sfregio che le attraversava la guancia. «Naosuke Itomi.»

Naosuke spalancò l’occhio. Erano poche le persone a cui aveva rivelato il suo vero nome ed era certo che quella donna non fosse tra loro. Notando la sua espressione, lei sorrise gelida. «Il braccio destro di Yamata no Orochi. Meglio conosciuto come Naito.»

 

 

 

 

Pipa tradizionale giapponese

Indumenti tipici giapponesi

Arma bianca tipo pugnale

Spade tipo katana, ma con la lama più corta




Beh, amici miei, che dire. Ci siamo. In questo momento mi sento piuttosto emozionato, non penso di poter dire molto, anche per timore di dire qualcosa di stupido. Comunque sia, ero indeciso su cosa fare come prossima storia. Avevo in mente un’altra cosa, in realtà, con altri personaggi, ma poi ho capito che la scelta migliore da fare era soltanto una.

Volevo mostrare più di questo personaggio, da cui si può tirare fuori così tanto, e soprattutto volevo mostrare il Giappone, la mia visione di questo paese, almeno, vista in una chiave… “Riordiana?“ 

Non credo che questa storia si possa definire proprio un “sequel” forse è meglio dire “spin-off” tuttavia, come avrete potuto intuire, i fatti della storia si svolgono *dopo* quelli della Spada del Paradiso, e ci saranno sicuramente riferimenti e rimandi a quella storia, perciò, se non l’avete ancora letta, sarebbe meglio farlo. I primi capitoli si potranno leggere anche come quelli di una storia a sé stante, ma poi comunque la storia farà il suo corso e, nel bene e nel male, occorrerà sapere quello che è successo nella Spada del Paradiso per capire cosa sta succedendo qui. 

Quindi… sì, insomma, sono un po’ nervoso perché mi rendo conto che questa storia è un salto nel vuoto. Sono personaggi originali mai visti prima e non è nemmeno una storia che si può davvero leggere come qualcosa di a sé stante, ma confido nel fatto che, a coloro che la leggeranno, possa piacere. 

Perciò, grazie per aver letto, grazie per essere arrivati fin qui, spero di sapere la vostra, su cosa ve ne pare dell’idea di mettere leggende giapponesi, come si sono sembrati Naito e il vecchio Ishii, le kunoichi e soprattutto la leggenda dei tre fratelli (ora sapete perché alla luna non piace il sole, in Giappone).

E nulla, grazie ancora e alla prossima! (p.s. non è necessario leggere la raccolta per comprendere questa storia!)

 

 

 

 

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Capitolo 2
*** Il mezzosangue in fuga ***


Il mezzosangue in fuga

 

 

Correva in mezzo ai boschi, il cuore che rischiava di esplodergli nel petto, le gambe sottili che faticavano a reggere il passo, gli occhi rigati dalle lacrime. Le foglie si alzavano al suo passaggio e gli uccellini appollaiati tra gli alberi fuggivano spaventati.

Era stato uno sciocco. Si era avvicinato troppo a quelle case e loro l’avevano visto e avevano subito iniziato ad inseguirlo. Avrebbe dovuto ascoltare la mamma. Era troppo tardi ormai.

Alle sue spalle, grida furiose, schiamazzi e anche risate si sollevavano fragorose, facendolo sussultare per la paura. Erano sempre più vicini. 

Affrettò il passo, ignorando i rami più bassi che gli graffiavano il volto, ignorando il dolore al petto e ai piedi. Se lo avessero raggiunto, gli avrebbero fatto lo stesso che avevano fatto alla mamma.

Corse verso alcuni cespugli e saltò per scavalcarli, tagliandosi con alcune spine. La terra mancò da sotto i suoi piedi all’improvviso. Gridò per la sorpresa e poi per il dolore, mentre il mondo roteava su sé stesso e si ritrovava sballottolato tra foglie, pietre e rami. 

Quando tutto smise di vorticare, si ritrovò con la schiena sull’erba, il viso puntato verso il cielo, paralizzato da un terribile bruciore alle ginocchia e ai gomiti. Gemette e tentò di rialzarsi, faticando a reggersi sulle braccia tremolanti.

«Eccolo là!» gridò una voce aspra. 

Drizzò la testa, accorgendosi degli uomini che superavano il cespuglio e iniziavano a scendere il pendio dal quale lui era rotolato. La loro vista lo spronò a rimettersi in piedi e ad ignorare il dolore. 

Barcollò tra gli alberi, cercando di mettere più distanza possibile tra loro e sé stesso, anche se sapeva che ridotto in quel modo non sarebbe mai riuscito a fuggire. Erano sempre più vicini, mancava pochissimo. 

A quel pensiero, altre lacrime scesero dai suoi occhi. Non poteva fare altro che chiedersi perché. Perché gli davano la caccia? Perché volevano fargli del male?

Perché… avevano ucciso la mamma?

La vista gli si appannò. Cercò di asciugarsi gli occhi, ma sbatté contro qualcosa. Cadde all’indietro con il volto dolorante. Gli sembrò di essersi appena schiantato contro un muro. Sollevò a fatica lo sguardo, per poi accorgersi di due gambe magrissime proprio di fronte a lui. Spalancò gli occhi, paralizzandosi per lo stupore. 

Aveva sbattuto contro una persona. Un uomo che sembrò accorgersi di lui solo in quel momento. Si voltò con una lentezza straziante, rivelando un paio di occhi rossi come il sangue, nascosti tra dei lunghissimi capelli neri e sporchi. La sua pelle era pallida, con sfumature bluastre. Non aveva mai visto niente del genere.

Quando incrociò il suo sguardo, Naosuke avvertì un lungo brivido percorrerlo. La schiena gli formicolò per la paura. L’ultima volta che aveva provato una sensazione simile, era stato quando aveva visto l’uomo coi capelli rossi.

Gemette per la paura. Doveva fuggire, ma non riusciva a muoversi. Le grida dei suoi inseguitori sopraggiunsero proprio in quel momento. Si voltò e li vide arrivare attraverso gli alberi, i forconi, le falci e altri attrezzi affilati tra le mani. Tutti i loro sorrisi scomparvero non appena si accorsero dell’uomo misterioso, che non si mosse di un solo passo; rimase per tutto il tempo ad osservare Naosuke con insistenza.

«Ma… ma cosa…» disse uno degli uomini, prima che l’individuo misterioso grugnisse all’improvviso, facendo sussultare di sorpresa tutti gli altri. Si premette le mani sulle tempie e indietreggiò, mugugnando come se fosse appena stato ferito. Fece un’espressione così sofferente che Naosuke per un istante si sentì in pensiero per lui.

Lo sconosciuto drizzò di nuovo la testa e si accorse degli uomini armati. Uno sguardo molto diverso balenò nei suoi occhi. Un cupo ringhio uscì dalla sua gola, così forte che sembrò che la terra stesse tremolando, poi scattò verso di loro.

Gli uomini gridarono e tentarono di sollevare le armi, ma fu tutto inutile. Vi furono urla di terrore e versi strazianti, che fecero accapponare la pelle di Naosuke. Sapeva che non avrebbe dovuto osservare quella scena, ma rimase pietrificato, incapace di guardare altrove. Vide quegli uomini che lo avevano inseguito per tutto quel tempo cadere a terra, uno dopo l’altro, con gli occhi spalancati, le bocche contorte e i volti sporchi di rosso.

Alla fine ne rimase solo uno, che crollò in ginocchio con gli occhi pieni di lacrime. Non c’era più alcuna traccia del sorriso cattivo che aveva avuto fino a pochi attimi prima. Sollevò le mani e abbassò la testa. «T-Ti prego» sussurrò spaventato. «T-Ti prego, non ucciderm…»

Si interruppe quando il collo gli fu afferrato. 

«Feccia mortale» sussurrò lo sconosciuto, sollevando quell’uomo da terra. La sua voce era roca e debole, come se stesse per spegnersi da un momento all’altro. Un forte brivido attraversò la schiena di Naosuke non appena la udì. 

Vi fu un grido straziante, seguito da un orribile scricchiolio, un rumore che si conficcò nelle sue orecchie e che non sarebbe mai più riuscito a dimenticare. La testa dell’inseguitore rotolò a terra, la bocca ancora spalancata in quel grido terrificante, gli occhi strabuzzati e sangue che colava a fiotti dal collo. Naosuke gridò e si rannicchiò a terra, per non guardare più. Altre lacrime cominciarono a scendergli dagli occhi, mentre il corpo tremava incontrollabile. 

Quell’uomo… quel mostro aveva ucciso tutti quegli uomini. Aveva il loro sangue sulla sua veste strappata. E ora sarebbe toccato a lui. Avrebbe voluto scappare, ma non riusciva più a muoversi, forse per la paura, forse per il dolore alle gambe. 

Delle mani si posarono su di lui, scostando le sue braccia. Tentò di dimenarsi e di scalciare, urlando a perdifiato, ma non appena riaprì gli occhi si accorse dell’espressione dell’uomo misterioso. Gli stava sorridendo, ma non era un sorriso cattivo come quello degli uomini che l’avevano inseguito. 

«Come ti chiami?» gli domandò, con tono calmo.

Naosuke lo osservò di rimando, sconvolto alla vista di quel sorriso. 

«N-Naosuke» sussurrò spaventato. 

L’uomo gli porse una delle sue mani scheletriche. «Alzati Naosuke, coraggio.»

Il bambino afferrò la mano con un gesto quasi involontario, incapace di pensare. L’uomo lo tirò su come un ramoscello. 

«Sei stato bravo, Naosuke. Sei riuscito a non farti prendere da loro.» 

Lo sconosciuto avvicinò una mano al suo volto e gli scostò la frangetta, scoprendo le sue piccole corna. La sua espressione si fece più severa. «Chi sono i tuoi genitori?»

Naosuke deglutì, troppo spaventato per ritrarsi da lui. «M-Mia madre si chiamava Akane Itomi.»

«E tuo padre?»

«N-Non lo so… non mi ha mai parlato di lui.»

L’uomo sembrò farsi pensieroso per un istante, continuando a scrutarlo intensamente con quegli occhi rossi come il sangue. Naosuke non riusciva a capire. Perché quell’uomo gli stava facendo quelle domande? Perché lo aveva aiutato? Perché non lo odiava anche lui come tutti gli altri?

«Così il tuo nome è Naosuke?» gli domandò, tornando a sorridergli. «Naosuke Itomi?»

«S-Sì.»

«Ed è un nome importante per te?»

«Sì, è… è il nome che mia madre mi ha dato.»

L’uomo si accovacciò di fronte a lui, arrivando all’altezza del suo volto. «E tua madre era importante per te?»

Questa volta, Naosuke cercò di rispondere con determinazione. «Era molto importante per me.» Strinse i pugni, cercando di sembrare sicuro, ma la sua voce tremolò comunque. «Lei… lei mi ha protetto. Mi ha sempre voluto bene.»

«Deve essere stato bello.»

Naosuke annuì, sentendo altre lacrime che scendevano dai suoi occhi. «Sì… sì lo è stato.»

La mano dell’uomo si posò sulla sua spalla, facendolo raddrizzare. Incrociò di nuovo il suo sguardo, notando un’espressione gentile, apprensiva, molto diversa da quelle spaventate e disgustate che le altre persone gli avevano sempre rivolto. «Loro… i mortali… continueranno a darti la caccia, Naosuke» cominciò a dire, accennando a ciò che rimaneva dei suoi inseguitori. «A loro non piacciono quelli come noi.»

«Tu… tu sei come me?»

«Non proprio. Ma siamo simili, Naosuke, molto più di quanto immagini.» L’uomo gli sorrise di nuovo. «Se vuoi che i mortali smettano di inseguirti, dovrai venire con me.»

Naosuke spalancò gli occhi. Arrischiò uno sguardo verso i suoi inseguitori, i mortali. Quell’uomo li aveva uccisi tutti, senza nessuna difficoltà, nonostante fosse così magro e pallido. Lo aveva salvato. Nessun’altro prima di allora lo aveva fatto. Soltanto sua madre.

Tornò a guardare quegli occhi cremisi e assottigliò le labbra. «D-Davvero… davvero posso venire con te?»

Il suo salvatore si rialzò in piedi, passandogli la mano tra i capelli, con un tocco molto più delicato, così delicato da farlo sussultare di nuovo. «Certo che puoi, Naosuke. Ma se vuoi farlo, dovrai avere un nome nuovo.»

«Un… nome nuovo?»

«Il nome che hai adesso rappresenta quello che sei in questo momento: un bambino solo, fragile, spaventato. Se vuoi venire con me, dovrai diventare qualcosa di nuovo. Dovrai diventare forte, dovrai diventare coraggioso, dovrai staccarti dalla tua vita attuale. Solo così i mortali non saranno più una minaccia per te.»

Naosuke lo guardò dal basso, assorto. Quello che gli aveva detto… era tutto quello che aveva sempre voluto. Da quando la mamma era morta, non aveva fatto altro che scappare. Ma era stanco di scappare. Non voleva più fuggire da quelle persone. Lo odiavano anche se lui non gli aveva fatto niente di male. Non era giusto. Doveva essere lui ad odiare loro, non il contrario. Pensò a quello che l’uomo aveva appena fatto a quei mortali e strinse i pugni.

Tutti quanti avrebbero pagato per quello che gli avevano fatto. Soprattutto l’uomo con i capelli rossi che aveva ucciso la mamma. Avrebbe seguito l’individuo misterioso. Sarebbe diventato più forte. E avrebbe dato la caccia all’uomo con i capelli rossi e lo avrebbe ucciso, proprio come lui aveva ucciso la mamma.

«Voglio… voglio venire con te» concluse, con tono deciso.

L’uomo gli sorrise di nuovo, stringendogli con forza una spalla. «Allora, da questo momento in poi, il tuo nome sarà Naito. Sarà l’unione di Naosuke Itomi, il nome che ti è stato dato da tua madre. Un nome che ti ricordi le tue radici, che ti ricordi ciò che eri prima di conoscermi, e che ti ricordi sempre tua madre, che per te ha avuto così tanta importanza. Un nome che simboleggi il passaggio della tua vecchia vita e sancisca l’inizio di quella nuova.»

Un sorriso nacque anche sul volto di Naosuke. 

Naito… suonava davvero bene. 

All’epoca, ancora non sapeva quello che sarebbe successo dopo. Non aveva idea che quello sarebbe diventato il giorno più importante della sua vita.

Quel giorno, Naosuke Itomi morì. E al suo posto nacque Naito, il braccio destro di Orochi. 

 

***

 

«Pensavi davvero di poter fuggire per sempre, Naosuke?» domandò la donna. Si avvicinò a lui, imitata dalle sue compagne.

«Non chiamarmi così» sibilò Naito. «Non ti ho dato il permesso di farlo.»

Quella rise deliziata. «Uno sporco mezzosangue che mi dice cosa devo o non devo fare! Ora le ho sentite tutte.» Lo indicò con il tantō. «Uccidetelo.»

Le kunoichi non se lo fecero ripetere. Scattarono verso di lui, come ombre nella notte, le lame che luccicavano sotto la luna e le vesti scure che si mischiavano tra le tenebre.

Naito strinse la presa attorno alla katana ed espirò, liberando la mente da ogni altro pensiero. Non appena la prima wakizashi si ritrovò ad un palmo dal suo naso sollevò il polso, bloccandola con la sua spada cremisi.

Vi furono due sibili alle sue spalle e ritirò la katana, scartando di lato, evitando l’assalto delle donne dietro di lui. L’ultima si fiondò contro il suo fianco, incontrando ancora una volta solamente il piatto della sua spada.

«Lasciatemi in pace» sibilò, facendo pressione con la katana e allontanandola da lui.

Le quattro si raggrupparono e lo circondarono, muovendosi attorno a lui e studiandolo meticolose. Non sembrarono affatto desiderose di rispettare la sua richiesta. Naito sollevò la katana. «Non ve lo chiederò di nuovo. Andatevene.»

Quelle risero, imitate dal loro capo. 

«Non ti lasceremo mai in pace, Naosuke» disse proprio quest’ultima. «Non finché non ti avremo ucciso.»

Le kunoichi lo attaccarono da ogni lato. Naito roteò la katana attorno a sé, deviando, parando e respingendo attacchi da ogni direzione in un turbinio di rintocchi metallici. Le sue avversarie erano veloci, ninja di primo ordine, e non gli stavano dando un solo istante di tregua.

Serrò la mascella, quando una spada per poco non gli squarciò il ventre. Stava combattendo senza armatura, quindi era più esposto, ma anche molto più veloce. 

«Forse non avete capito…» Scattò verso una delle kunoichi, così rapido da coglierla di sorpresa. «LASCIATEMI IN PACE!»

Abbatté la katana contro la sua wakizashi, con una forza tale da disarmarla. La donna gridò, afferrandosi il polso, e Naito la atterrò con un calcio. Le altre tre provarono di nuovo a colpirlo a tradimento, ma lui si voltò e mulinò la katana, raggiungendo il volto di una di loro e strappandole via la sciarpa nera. Quando udì il suo grido, Naito si paralizzò. La vide cadere a terra, portandosi la mano sopra un piccolo taglio sul mento. Era ancora viva.

Rilassò le spalle e si accorse delle due kunoichi rimaste. Quelle esitarono e lui ne approfittò. Abbatté la katana sopra una di loro, che riuscì a riscuotersi appena in tempo per pararla, rimanendo tuttavia bloccata con le lame pressate tra loro a pochi centimetri dal volto. Naito udì l’ultima ninja scattare verso di lui e un istante prima che potesse colpirlo scartò di lato, lasciando che le due si scontrassero tra di loro e ruzzolassero a terra con un grido di dolore misto a sorpresa.

Osservò le quattro donne a terra dall’alto, impassibile. Le aveva avvertite di lasciarlo stare. Se l’erano cavata perfino con poco.

Un altro kunai forò l’aria. Dimenò la katana, deviandolo. Il capo delle kunoichi avanzò verso di lui e Naito serrò la mascella: non era ancora finita.

«Non male, mezzosangue» disse la donna. «Dopotutto, c’è una ragione se Orochi ti ha scelto come suo braccio destro.»

«C’è anche una ragione se i soldati che avete sempre mandato ad uccidermi non sono mai tornati» sibilò Naito. Osservò assorto lo sfregio sul volto della sua inseguitrice. Non sembrava dovuto ad un’arma, ma ad un artiglio. «Carino quello. Non ricordo di avertelo lasciato.»

La kunoichi si sfiorò la cicatrice, il suo sorriso che non accennava a svanire. «Non sei stato tu, infatti. È stata quella stupida monca.»

Naito spalancò l’occhio.

Monca?

Vide la donna scattare verso di lui e si riscosse. Parò il pugnale e lo spinse via con la katana. Tentò un affondo, ma lei saltò all’indietro, evitandolo. Afferrò altri tre kunai e glieli lanciò. Naito li deviò, trovandosi di nuovo il pugnale diretto verso il suo volto.

Incrociò la lama con quella della donna per minuti interi e per tutto il tempo il sorriso di lei non mutò di una virgola. Serrò la mascella. Roteò la lama, disarcionandola e tentò un affondo, ma quella si ritrasse di nuovo. La sua mano agguantò l’aria, rapida come un fulmine, e raggiunse il suo volto. Naito indietreggiò, ma si mosse troppo tardi: un forte bruciore gli assalì la guancia. Si accarezzò una ferita lieve ma sanguinante, mugugnando per il dolore.

Drizzò lo sguardo e vide l'avversaria sorridergli, mentre gli mostrava una fila di lame appuntite posate sopra le dita. Delle neko-te. «Questo non l’hai schivato, Naosuke.» 

Naito digrignò i denti. Sollevò di nuovo la katana, ma venne colpito da un improvviso senso di spossatezza. La vista gli si appannò.

«Che succede, Naosuke? Qualcosa non va?» domandò ancora la donna, sempre con quel tono di scherno. Riuscì a vederla mentre si avventava su di lui, il tantō che brillava nel suo pugno. «Non temere, presto starai molto meglio!»

Riuscì a pararlo, ma i suoi riflessi erano diventati molto più lenti. Gemette, mentre la kunoichi rideva. «Forse ti ho sopravvalutato, prima. Non sembri affatto il braccio destro di Yamata no Orochi in questo momento!»

«Taci» sibilò Naito, respingendo un’altra pugnalata. Il mondo cominciò a vorticare attorno a lui. Tra le macchie indistinte, riuscì a scorgere ancora una volta la donna che lo attaccava. Deviò un altro affondo, ma non sarebbe riuscito a resistere ancora a lungo in quelle condizioni.  

Si ritrovò il tantō ad un palmo dal naso, pressato contro la sua katana. Il ghigno della kunoichi si deformò, diventando quasi demoniaco. «I mesi in fuga ti hanno rammollito, Naosuke.»

«Smettila… di chiamarmi così…» riuscì a sibilare lui.

«Naosuke! Naosuke Naosuke Naosuke!»

Naito sentì la rabbia crescergli nel corpo. Quella donna stava cominciando a dargli sui nervi. Il desiderio irrefrenabile di cancellare per sempre quel sorriso dal suo volto cominciò a farsi strada in lui.

«Che sta succedendo qui?!» domandò una voce aspra all’improvviso, sovrastandoli entrambi.

Naito trasalì. Arrischiò uno sguardo verso la casa e malgrado la vista sfocata vide il vecchio Ishii in piedi fuori dalla porta, con il fodero di una katana appeso alla cintura. «Naosuke, sei tu? Cos’è questo fracasso?!»

«Torni dentro!» gridò Naito, prima che la kunoichi si spostasse fulminea, mirando con il tantō al suo fianco. Riuscì a pararlo con un urlo di rabbia, ma i versi di protesta di Minoru lo costrinsero a voltarsi un’altra volta.

Vide le altre kunoichi mentre afferravano l’uomo e lo trascinavano di peso giù dai gradini della casa, ignorando i suoi versi di protesta: «Ah! Che maniere!»

Lo costrinsero a mettersi in ginocchio e una di loro gli puntò al collo la wakizashi. «Arrenditi mezzosangue, o il vecchio muore.»

«Ma vi sembra forse il modo di trattare un anziano?!» interrogò ancora il vecchio Ishii, con voce più infastidita che spaventata.

Naito serrò la mascella, osservando le donne con odio. 

«Signor Minoru Ishii» asserì la leader delle kunoichi, con una risatina. «Mi duole comunicarglielo in questo modo, ma temo che per tutto questo tempo sia stato raggirato. Colui che conosce come Naosuke Itomi in realtà è un pericoloso criminale in fuga.»

Le rughe di Minoru si fecero ancora più profonde. «Ma che andate blaterando?! Naosuke è un bravo ragazzo! E poi si può sapere chi siete?!»

«Può chiamarmi Meishu» disse la donna. Si allontanò da Naito all’improvviso, senza staccargli gli occhi di dosso. «E non c’è nessun malinteso. Un mandato di cattura pende sulla testa di Naosuke Itomi. Siamo qui per questo.» Un altro ghigno le apparve sul volto. Bisbigliò il resto delle parole in modo che soltanto Naito la sentisse: «Sembra che tu tenga al vecchio, Naosuke. Ti consiglio di arrenderti, se non vuoi che muoia.»

Naito sentì il sangue ribollirgli nelle vene. Poteva anche essere un pericoloso criminale, ma in quel momento a tenere in ostaggio un innocente non c’era lui. Ma dopotutto, se era finito in quella situazione era soltanto colpa sua. Era rimasto fermo nello stesso luogo per troppo tempo e aveva permesso a chi gli stava dando la caccia di trovarlo. E adesso il vecchio Ishii era rimasto coinvolto. Un lato di lui avrebbe voluto fuggire, abbandonarlo al suo destino. Ma quello era lo stesso lato che l’aveva spinto a fare tutto ciò di cui in seguito si era pentito.

Rilassò le spalle e abbassò la katana, mentre pensava a come uscire da quella soluzione in maniera alternativa. Non si sarebbe consegnato a quelle donne, questo era certo. La testa continuava a girargli, si sentiva debole e stanco, ma forse poteva ancora liberare Minoru da quelle arpie e riuscire a portarlo in salvo.

«Un mezzosangue che si affeziona ad un mortale. Ah! Ora le ho anche viste tutte» cantilenò Meishu.

«Sentite, signore, sono sicuro che si tratti tutto di un grosso malinteso» disse ancora Minoru, con voce divenuta calma all’improvviso. «Naosuke non è affatto la persona a cui state dando la caccia, ne sono sicuro. Perché non proviamo tutti a calmarci e a risolvere la faccenda in maniera civile?»

Finalmente, il sorriso vacillò dal volto di Meishu. Gli lanciò uno sguardo seccata. «Signore, devo chiederle di non intromettersi ancora, o potremmo arrestare anche lei.»

«Arrestarmi? Oh, santo cielo no! Non c’è alcun verso che queste ossa stanche possano resistere in una prigione. Ma…» Minoru arricciò il naso. «… non posso nemmeno lasciare che portiate via un ragazzo innocente.»

La mano del vecchio si chiuse all’improvviso attorno al polso della kunoichi che lo stava tenendo in ostaggio. Quella squittì per la sorpresa, ma non poté fare altro: si ritrovò scagliata in avanti e atterrò sulla schiena con un grido di dolore, dopo aver compiuto una capovolta a mezz’aria. Le sue tre compagne indietreggiarono di sorpresa mentre Minoru si rimetteva in piedi.

«Yare-yare» borbottò quest’ultimo, spolverandosi lo yukata. «Forse è ora che impariate un po’ di buone maniere.»

Le donne si riscossero e si fiondarono su di lui, mulinando le spade per uccidere. Il vecchio Ishii non sembrò impressionato. La più vicina affondò la wakizashi, ma lui si scansò e dimenò il polso, colpendola all’elsa e disarmandola con un unico, secco movimento. Minoru roteò e la colpì allo stomaco con un calcio – con tanto di pantofole da notte sui piedi. La kunoichi si piegò, gli occhi spalancati per la sorpresa.

Le ultime due lo attaccarono simultaneamente, una di fronte e una alle sue spalle. Minoru sguainò la katana che teneva nel fodero e, con enorme stupore, Naito constatò che era fatta di legno. Non era una katana, ma un bokken. Il vecchio sollevò il dorso della mano libera e colpì la kunoichi alle sue spalle dritta sul naso, ribaltandola all’indietro, dopodiché parò l’assalto di quella che aveva di fronte con il bokken.  

«Dovresti migliorare la tua tecnica, signorina» la ammonì, mentre quella muggiva frustrata nel tentativo di colpirlo. I suoi affondi e le sue stoccate andarono tutti a vuoto, cozzando contro la spada di legno con dei rumori sordi. La cosa più sconvolgente, era che Minoru stava combattendo usando solo una mano, tenendo l’altra dietro la schiena.

«Yare-yare, questi giovani d’oggi» disse con voce stanca, per poi roteare il polso quando le armi si ritrovarono pressate l’una contro l’altra. Disarmò la kunoichi e si fiondò su di lei, sferrando un colpo con l’elsa della spada anche sul suo naso, spedendola a terra assieme alle sue amiche.

Naito non riuscì a credere ai suoi occhi. E non fu l’unico.

«Ma… ma cosa…» sussurrò Meishu, accanto a lui, con sguardo e voce increduli.

Vederla così sbalordita fece nascere un sorriso divertito sul volto di Naito. «Sembra che la tua strategia ti si sia rivolta contro.»

Meishu lo scrutò con odio. Urlò a squarciagola, perdendo ogni traccia della sua compostezza, e lo attaccò di nuovo. Naito dimenò la katana, punendo la sua avventatezza. La disarmò colpendole il tantō con il piatto della katana e gliela puntò alla gola, facendola irrigidire.

«Basta così» ordinò. «Non voglio farvi del male.»

L’espressione di Meishu tradì ogni emozione. «Schifoso mezzosangue» sibilò. «Non sarai sempre così fortunato…»

«Nemmeno voi» ribatté Naito. 

Meishu ringhiò di rabbia, ma non rispose. Il ragazzo barcollò verso il vecchio Ishii. La sua vista calò sensibilmente e gli scappò un gemito, ma rimase comunque in piedi.

«Devo chiedervi di andarvene dalla mia proprietà adesso» ordinò Minoru, quando lo raggiunse. 

«Chi sei tu?!» domandò Meishu, gli occhi carichi di veleno.

«Il signor Minoru Ishii, no? L’hai detto tu stessa.»

«Stai mentendo!» Meishu raccolse il tantō da terra e glielo puntò. «Non puoi essere una persona comune! Nessun uomo potrebbe mai neutralizzare da solo quattro kunoichi del Clan Tsubaki come hai fatto tu! Chi sei veramente?»

Un mugugno scappò dalle labbra del vecchio Ishii. Rinfoderò il bokken e si portò le mani dietro la schiena. «Il mio vero nome è Miyamoto Musashi.»

«C-Che cosa?!» domandò Meishu, facendosi attonita all’improvviso. Anche le altre kunoichi sgranarono gli occhi per la sorpresa.

«Il samurai?» bisbigliò una di loro, quella con il taglio ancora sanguinante sul mento.

«Mi definisco più uno spadaccino. Ma sì, sono io.»

Naito corrugò la fronte. Non era sicuro di aver sentito molto bene. Il vecchio Ishii aveva detto di avere un altro nome?

«Ma com’è possibile?! Miyamoto Musashi è morto più di quattrocento anni fa!» sbraitò Meishu, ormai priva di alcun contegno.

L’uomo si osservò le mani grinzose. «Davvero? Eppure io mi sento piuttosto vivo.» 

Naito non ci stava capendo più nulla. Avrebbe voluto parlare, ma dalla bocca non gli uscì nemmeno un verso. La forza di gravità cominciò farsi molto più forte all’improvviso.

Le kunoichi si rimisero in piedi una ad una, affiancando Meishu. Per un momento, nessuna di loro sembrò sapere cosa fare, incluso il loro capo. Scoprire la vera identità del vecchio Ishii, chiunque egli fosse, sembrava averle scosse per davvero.

Dopo un lungo attimo di riflessione, Meishu fece un cenno alle sue compagne e iniziò ad indietreggiare. «Ci rivedremo, Naosuke…» sibilò.

«Cercate di avvisare con un po’ di anticipo quando tornerete» ribatté il vecchio Ishii. «Così potrò preparare un po’ di infuso d’alghe anche per voi.»

Meishu gli lanciò un’ultima occhiataccia, ma non replicò. Tutte e cinque si ritirarono di nuovo tra le ombre della notte.

Fu solo quando le vide svanire che Naito sentì i nervi sciogliersi. Prese una grossa boccata d’aria, poi si voltò verso Minoru con un sorriso.

Le gambe gli cedettero prima che potesse ringraziarlo per l’aiuto.

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Capitolo 3
*** Le sette virtù ***


Le sette virtù

 

 

Il bastone colpì Naito sulla guancia, scaraventandolo a terra.

«Ancora.»

Naito ricacciò le lacrime. Afferrò il bastone che gli era caduto dalle mani e si rialzò sulle gambe tremolanti, di fronte all’Uomo Pallido. Riuscì a malapena a mettersi in posizione che quello si era già mosso di nuovo, così veloce che non riuscì nemmeno a vederlo. Questa volta lo colpì al fianco, mozzandogli il respiro e facendolo finire in ginocchio. 

«Ancora.»

Con un gemito, Naito tentò di raddrizzarsi, ma l’Uomo Pallido gli sferrò una randellata sull’altro ginocchio, tenendolo immobilizzato. Gridò e cadde carponi, il bastone che gli scivolava di nuovo dalle mani. 

«Ancora.»

Il bambino singhiozzò, affondando le dita nella terra. Gattonò verso il bastone, ma prima che potesse prenderlo l’Uomo Pallido gli sferrò un calcio allo stomaco, facendolo ruzzolare via. La vista gli si appannò, mentre il dolore ricopriva ogni cosa. 

«Ancora.»

Lo colpì. Ancora, ancora e ancora, sempre più forte. Le ginocchia di Naito si riempirono di abrasioni, così come il suo volto. Cominciò a sanguinare dalle guance, dalla bocca e dalla fronte. 

Si ritrovò a terra, ancora. Puntini neri apparvero nei suoi occhi mentre osservava il cielo striato di arancione. Provò a rialzarsi, ma le forze gli mancarono. Gli occhi rossi dell’Uomo Pallido apparvero all’improvviso sopra di lui, squadrandolo truci dall’alto. Affondò le unghie nel suo collo e lo sollevò come un fuscello, portandolo all’altezza del suo volto. I suoi denti aguzzi si incrinarono. «Non hai sentito, Naito? Ho detto “ANCORA!”»

Lo scagliò a terra. Il mondo si capovolse mentre rotolava sulle pietre della riva del fiume e si apriva altri squarci sulla pelle e sui vestiti ormai logori. Si raddrizzò sui gomiti tremanti come foglie, le lacrime che cadevano copiose dai suoi occhi. 

Sentì la voce dura dell’Uomo Pallido provenire da qualche parte indistinta dietro di lui. «Stai forse piangendo, Naito?» 

Naito sussultò. Tentò di nuovo di rialzarsi, ma le gambe gli cedettero. Udì un verso di disappunto provenire dall’uomo. «Come speri di difenderti dai mortali se a malapena riesci a reggerti in piedi? Pensi che ci andranno piano con te solo perché sei un poppante? Alzati, Naito! ALZATI!»

Il bambino strinse i denti e si rialzò sulle ginocchia doloranti. Un calcio al fianco lo costrinse a rimanere a terra. Gli mozzò il respiro. Giacque sulla ghiaia, incapace di respirare, emettendo soltanto dei gemiti. 

«Sono stanco di ripetertelo, Naito» disse ancora l’Uomo Pallido. Sentì a malapena la sua voce a causa del forte fischio nelle sue orecchie. «Non sei più con tua madre. Lei potrà anche averti abituato ad una vita di ozio, ma io non sono così. Non sono una debole mortale che vuole convincerti di essere qualcosa che non sei.»

Naito lo guardò dal basso, gli occhi rigati dalle lacrime. Nonostante il dolore, riuscì a dire: «L-Lascia stare mia madre…»

L’uomo sogghignò. Un sorriso cattivo, come quelli delle persone che avevano ucciso la mamma. «Perché dovrei? È colpa sua se sei così patetico. È colpa sua se ora sei qui a piangere.» 

«S-Smettila…»

«Sono contento che sia morta. Era solo una schifosa puttana.»

Il dolore svanì all’improvviso dal corpo di Naito. Un urlo furioso uscì dalla sua bocca e si rialzò in piedi di scatto, animato da un’energia del tutto nuova. Non gli avrebbe mai permesso di parlare in quel modo della mamma. Si avventò su di lui senza nemmeno il bastone, non desiderando altro che di cancellare quell’odioso sorriso dal suo volto. Per un secondo, la pelle dell’Uomo Pallido sembrò tingersi di rosso.

Sferrò un pugno con tutta la forza che aveva verso la sua vita. La mano dell’Uomo Pallido si chiuse attorno al suo polso, immobilizzandolo. Naito spalancò gli occhi. Tentò di dimenarsi, ma senza successo. Sollevò lo sguardo e vide ancora una volta gli occhi cremisi dell’Uomo Pallido, che lo scrutavano dall’alto come due fari spettrali che potevano leggergli nell’anima. Il colore della sua pelle era tornato normale. 

«Sì, Naito. Vedo che cominci a capire.» Gli sorrise di nuovo, ma questa volta non era più quel ghigno cattivo. Era un sorriso soddisfatto. «La senti, Naito? La senti la rabbia che scorre nelle tue vene? Pensa a quello che i mortali hanno fatto a tua madre. Non ti fa arrabbiare? Non ti fa infuriare?»

Naito assottigliò le labbra e annuì. Sì, lo faceva arrabbiare. Lo faceva infuriare. Quei mostri non avrebbero mai dovuto ucciderla. Lei non aveva fatto niente di male. 

«E allora usala, Naito. Usa la tua rabbia! Usala per tirare fuori la tua vera forza!» L’Uomo Pallido si accovacciò di fronte a lui e l’afferrò per le spalle. «I mortali non avranno nessuna pietà di te, Naito. E io non ho alcuna intenzione di difenderti per sempre. Dovrai imparare ad essere indipendente. Dovrai imparare a sfruttare la tua rabbia, dovrai imparare a sfruttare il lato di te che tua madre ha cercato di assopire. Solo così sarai abbastanza forte da poterla vendicare.»

«Quale… quale lato di me?» domandò il bambino, non comprendendo il suo discorso. 

Il sorriso dell’Uomo Pallido si distese. «Il lato che ti rende come me, Naito.»

Naito schiuse le labbra, confuso. Avrebbe voluto fare altre domande, ma udì uno spostamento d’aria. Subito dopo, il suo mento fu colpito in pieno da un pugno dell’Uomo Pallido. Non sentì più la bocca. Il mondo si capovolse e si schiantò con il volto sulle pietre, sbattendo sulle corna. La sua fronte pulso terribilmente, uno sbuffo d’aria uscì dalla sua bocca erosa dal sudore e le ferite. Venne di nuovo afferrato per il collo e sollevato fino a ritrovarsi di fronte al volto dell’Uomo Pallido, che sogghignò di nuovo. «E adesso, Naito, ancora.»

Lo lasciò andare, facendolo cadere scomposto a terra. 

«Andremo avanti fino alla sera» stabilì l’Uomo Pallido. Recuperò i bastoni e gettò a Naito il suo, poi alzò lo sguardo verso il cielo tinto di rosso. «Abbiamo ancora un’ora, circa. E sarà meglio che tu non pianga più, o ti lascerò qui a marcire. Ci siamo capiti?»

Naito strinse i pugni e annuì. Chiuse le mani attorno al bastone e si rialzò. Pensò alle sue parole, pensò alla rabbia che provava nel suo corpo ogni volta che gli tornava in mente ciò che i mortali avevano fatto alla mamma, e sentì i polmoni bruciare. E poi osservò l’Uomo Pallido, che continuava a fissarlo dall’alto con quel sorriso spietato.

Un giorno, promise a sé stesso, sarebbe riuscito a colpirlo durante quegli allenamenti. E lo avrebbe colpito così forte da restituirgli ogni livido, ogni taglio e ogni cicatrice che gli aveva inferto. 

Un giorno, lo avrebbe colpito così forte che sarebbe stato l’Uomo Pallido a piangere e non più lui. 

 

***

 

Si svegliò di soprassalto quando qualcuno gli versò qualcosa nella bocca. Si mise a sedere, tossendo e sputacchiando un liquame con un saporaccio terribile.

«Yatta! Vedo che il mio infuso fa miracoli!»

Naito si voltò verso il volto sorridente del vecchio Ishii. Stava per urlargli di non provare mai più a fargli uno scherzo del genere, poi realizzò che si trovava di nuovo nella sua cucina. Erano accanto al tavolino, mentre la teiera sbuffava sopra la stufa a legna. Si massaggiò tra le corna.

«Cosa… cos’è successo?» domandò, con voce impastata.

«Sei svenuto dopo che quella vipera ti ha avvelenato» rispose Minoru con un’alzata di spalle. «Per fortuna non sei davvero umano, altrimenti quel veleno avrebbe potuto ucciderti.»

Quando udì quelle parole, Naito si ricordò quello che era successo. Le kunoichi, Meishu… veleno. Ma certo. Doveva averlo cosparso sulle neko-te. Che ingenuo, avrebbe dovuto ricordare che la tattica prediletta delle kunoichi era avvelenare gli avversari. Ma per fortuna, era svenuto quando loro erano già andate via. L’immagine del vecchio Ishii che attaccava quelle donne balenò nella sua mente. L’aveva salvato. Quel vecchio incartapecorito in calzamaglia e pantofole da notte l’aveva salvato. Poi, realizzò tutto quello che gli aveva appena detto e spalancò l’occhio. «Un momento… tu sai che non sono umano?!»

Il vecchio Ishii prese un sorso di quell’infuso che piaceva solo a lui. «Sarò vecchio e non ci vedrò molto bene, Naosuke, ma penso di saperli ancora riconoscere i versi a tavola di qualcuno di umano e di qualcuno che non lo è.»

Le guance di Naito bruciarono, ma non per il veleno. Abbassò la testa. «Mi… mi dispiace di averle mentito…» mormorò. «E mi dispiace di essere rimasto. L’ho solo coinvolta in questa faccenda.»

«Su, su, non ti abbattere Naosuke.» Minoru gli sorrise di nuovo accomodante. «La tua compagnia è riuscita a far battere di nuovo questo cuore vecchio e stanco. Forse non sarai un umano nell’aspetto, ma lo sei nell’animo, e questo tanto mi basta.»

Un timido sorriso nacque sul volto di Naito. «Non… non ha paura di me, quindi?»

Questa volta Minoru ridacchiò. «Figliolo, ti posso assicurare che nella mia vita ne ho viste di ogni, non mi impressiono più come un tempo.»

Per un istante, il ragazzo lo osservò confuso. Poi si ricordò quello che aveva detto Meishu con voce sconvolta. «Come… come ha detto di chiamarsi realmente?»

Il vecchio Ishii avvicinò la pipa dalla bocca. «Il mio vero nome è Miyamoto Musashi.»

«Davvero… davvero ha più di quattrocento anni?» domandò Naito, incredulo, e anche realizzando con una sorta di strano sollievo che non era stato l’unico a mentire quando si erano conosciuti.

Altre rughe sembrarono comparire dal nulla sul volto di Miyamoto. «Temo di sì, figliolo.»

«Ma… ma com’è possibile?» rispose il ragazzo, ignorando il tono quasi triste del vecchio. «È… è forse un dio, o…»

Un’altra risatina tiepida. «Un dio, addirittura? No, figliolo, niente del genere. Sono solo… come posso dire? Sono solo una leggenda che è diventata realtà.»

«Una… una leggenda?»

«Non hai mai sentito parlare di me? Miyamoto Musashi?»

Con un po’ di imbarazzo, Naito denegò con la testa. Per tutta risposta il vecchio gli sbuffò addosso del fumo, che lui scacciò via stizzito. Non capì se l’avesse fatto apposta oppure no.

«Vedi, Naosuke, ai miei tempi ero… uno spadaccino conosciuto in tutto il Giappone. Ovunque io andassi, le voci delle mie gesta, dei miei duelli e degli avversari che avevo sconfitto mi seguivano, rendendomi quasi una divinità per le persone comuni. La gente ha eretto santuari e templi dedicati a me, nominato scuole in mio onore. La mia storia è diventata oggetto di studio, di venerazione perfino, alcuni mi hanno davvero considerato un dio. Ho vissuto una vita lunga e piena e poi, ormai vecchio e malato, sono deceduto. Ma non sono mai svanito per davvero.»

Nonostante la storia incredibile che stava raccontando, il vecchio Musashi sembrava triste. Bevve un altro sorso di infuso, per poi sospirare. «La mia storia è rimasta intatta, così come i miei libri, i miei insegnamenti, la mia arte, ogni cosa è stata preservata dai miei figli e dai miei allievi. La gente ha continuato a venerarmi, a tenermi vivo nei loro ricordi, e tutto questo, in qualche modo, ha fatto sì che io non me ne andassi mai veramente. Forse… forse Miyamoto Musashi è morto davvero quel giorno, nel lontano diciassettesimo secolo. Ma… qualcosa di lui è rimasto comunque. Non sarei qui, altrimenti.»

Naito schiuse le labbra. Ecco che cosa intendeva dire. Musashi Miyamoto era stato un uomo qualsiasi, che tuttavia si era distinto così tanto tra le folle da diventare quasi una divinità per loro, da diventare così famoso che, dopo quattrocento anni, la sua leggenda ancora viveva. In tutti i sensi.

In un certo senso, la sua storia era molto simile a quella degli yōkai, o perfino degli dei. Personaggi di fantasia, quasi, ma così ramificati nelle menti delle persone da essere diventati reali. Naito non sapeva se fosse nato prima il mito e poi l’uomo, o viceversa, o se fosse una bizzarra combinazione di un po’ tutte quelle cose, tuttavia sapeva che c’era un motivo se mostri come Orochi, o gli dei stessi, avevano bisogno di essere ricordati e di essere venerati.

Se non ci fosse stato nessuno a farlo, non sarebbero esistiti.

In un certo senso anche lui, un han’yō, esisteva grazie ad una leggenda. Forse Miyamoto non aveva mentito quando aveva detto che si trattava “solo” di leggende. «Quindi… lei sa che le storie che mi ha raccontato, in realtà, sono tutte vere?»

«Le storie sugli dei, dici?» Il vecchio Musashi si strinse nelle spalle. «Suppongo che se la mia leggenda è diventata reale, allora anche molte altre lo siano. Dei, yōkai, altre figure di spicco della storia del nostro paese… immagino che esistano anche loro, o che siano ancora vivi, come me. Tu stesso non sei umano, del resto. Ma… una parte di me, nel profondo, ha sempre desiderato che in realtà fossero tutte menzogne. Ho deciso di diventare Minoru Ishii e di ritirarmi qui, tra le montagne, sperando di poter svanire davvero.» Un altro sorriso amaro apparve sul suo volto. «Prima ho detto che il mondo mi ha dimenticato, ma non è del tutto vero. Sembra che in fin dei conti non voglia lasciare che questo povero vecchio scompaia una volta per tutte.»

«Ma… perché vorrebbe svanire?» domandò Naito, stupito. «Non è forse il sogno di molti poter vivere per sempre?»

Miyamoto distese quel sorriso amaro. «Ho visto tutti i miei cari morire prima di me, Naosuke. I miei figli adottivi, i miei allievi, sono stato al funerale di tutti loro, dal primo all’ultimo. Loro non sapevano che fossi io, ma io sapevo fossero loro. E tutti i miei studi non sono bastati per trovare il modo di riportarli indietro. La morte non si può curare, Naosuke. Si può solo… prevenire. Non mi rimane più nessuno, e non posso nemmeno legarmi a qualcuno, o la storia si ripeterebbe. Non ho più ragioni per vivere.»

La tristezza nei suoi occhi e in quel sorriso fecero stringere il petto di Naito, che distolse lo sguardo contagiato da quella sensazione. Anche lui sapeva cosa si provava a perdere qualcuno di caro. Non faticò affatto a comprendere il desiderio del vecchio Musashi dopo quelle parole.

«Chi erano quelle donne Naosuke? Perché ti davano la caccia?»

Quella domanda lo fece irrigidire. Sapeva che prima o poi gliel’avrebbe fatta, dopo tutto quello che era successo era il minimo. Tuttavia, l’idea di rispondergli non lo allettava affatto. Non voleva che scoprisse chi fosse realmente, specie dopo il modo gentile in cui l’aveva trattato.

Sapeva anche, però, che non poteva nascondergli la verità. Gli aveva portato cinque kunoichi in casa, in fin dei conti, era ovvio che si aspettasse una risposta piuttosto esaustiva e soprattutto vera. 

Naito spostò lo sguardo verso la finestra, dove la notte ancora regnava sovrana. Non poteva più restare lì. Ormai lo avevano trovato, era solo questione di tempo prima che tornassero perfino più numerose. Quel pensiero lo aiutò ad accettare il fatto che, dopo aver sentito la sua storia, Miyamoto avrebbe potuto cacciarlo di casa a colpi di bokken.

«È… è una storia lunga» buttò fuori, dopo aver preso una grossa boccata d’aria.

«Mi pare di aver messo in chiaro che il tempo per me non è un problema» ribatté il vecchio Musashi, di nuovo con un sorriso gentile.

Anche Naito riuscì a sorridere di nuovo. «Sì, direi che l’ha fatto.»

Cominciò a raccontare. Parlò del Clan Tsubaki, di quel poco che sapeva di loro, almeno. Spiegò che erano un gruppo di kunoichi addestrate per vedere, combattere e uccidere yōkai. Qualsiasi tipo di yōkai, inclusi i mezzosangue come lui.

Disse anche che avevano più di un motivo di odiarlo, visto che era anche stato parte dell’esercito di Orochi. Si aspettò che il vecchio Musashi reagisse sorpreso quando gli disse di aver conosciuto un personaggio delle leggende che gli aveva raccontato, invece rimase impassibile. Naito non seppe se sentirsi sollevato o deluso dalla cosa.

Raccontò della sua militanza nell’esercito di Orochi, spiegando i motivi per cui aveva scelto di unirsi a lui. Parlò del suo viaggio in occidente, del tentativo di Orochi di mettere le mani su Ama no Murakumo e della disfatta che tutta quella storia era stata.

Si domandò se ci fossero altri sopravvissuti dell’esercito da qualche parte. Aveva visto Hikaru precipitare contro una parete, ma era una kitsune, non poteva essere morta per quello. Forse era scappata. Di tutti gli altri non gli importava granché, a dire il vero. Gli tornò in mente quello che Meishu gli aveva detto. Una “monca” le aveva lasciato quella cicatrice sulla guancia.

Che… che si tratti di lei?

Espirò. No, non poteva essere così. Forse aveva capito male.

Proseguì con il racconto e spiegò che dopo il viaggio in America era tornato in Giappone, dove aveva trascorso qualche mese prima di incontrare il vecchio Musashi, all’epoca Ishii.  

«Non… non vado fiero di quello che ho fatto» concluse, con la testa bassa. Al pensiero delle persone che aveva ferito, sentì lo stomaco stringersi di nuovo. Al pensiero di una ragazza in particolare sentì anche un altro subbuglio, molto diverso da quello dovuto ai rimorsi, ma si sforzò di ignorarlo.

Un lungo mugugno pensieroso provenne dalle labbra sigillate del vecchio Musashi, mentre si accarezzava la barba. «Immagino che ora tu sia alla ricerca della tua redenzione.»

«Redenzione?» domandò Naito, confuso sia dall’affermazione che dalla reazione così pacata di Miyamoto. Non gli aveva fatto mentito dicendogli che non era facile impressionarlo.

«Scusa, è il mio lato di spadaccino a parlare» rispose l’uomo, con un altro sorriso accomodante. «Intendo dire che adesso stai cercando di voltare pagina e di staccarti da quei fatti.»

Naito si strinse nelle spalle. «Sì, suppongo di sì.» 

«In tal caso, ho qualcosa che potrebbe fare al caso tuo.» Miyamoto posò la pipa sul tavolo e si alzò in piedi, aiutandosi con il fodero del bokken. Barcollò verso una credenza e cominciò a rovistare in un cassetto. Borbottò tra sé e sé finché non tirò fuori un libro sottile e coperto di polvere, foderato di nero. Ci soffiò sopra e gli diede alcuni colpetti, per poi portarglielo soddisfatto. «Ecco qua.»

Naito prese il libro e lo osservò incuriosito. Al centro della copertina di pelle erano raffigurati tre kanji color oro.  

 

 

 

 

«Che cos’è?»

«Quello è il Bushido, figliolo. Un codice di condotta morale che è stato adottato da tutti i più grandi spadaccini, samurai e militari del nostro paese. Se sei alla ricerca della tua redenzione, allora ti consiglio di studiare tutte e sette le virtù del Bushido e di imparare a vivere seguendole ogni giorno. Se lo farai, il tuo cammino sarà molto meno tortuoso.»

Naito accarezzò i kanji sul libro, meravigliato. Aveva sentito parlare del Bushido, ricordava alcuni soldati di Orochi che si vantavano di rispettarne i valori, anche se lui era sicuro che gli unici valori che quei tardi avessero mai posseduto davvero, fossero quelli del sakè nel loro sangue.   

«Davvero vuole farmi questo dono?» domandò, sorpreso dalla grandezza che quel gesto avesse.

«Terzo principio del Bushido, Jin, Compassione: un samurai coglie ogni opportunità per essere di aiuto ai propri simili.» 

Miyamoto distese il suo sorriso mentre Naito spostava lo sguardo su di lui, incredulo. «Io… non ho parole per ringraziarla.»

Il vecchio Musashi cominciò a scuotere una mano. «Su, su, non serve che mi ringrazi. Sono io a dover ringraziare te. Non mi interessa ciò che quelle donne hanno detto, Naosuke. Il pericoloso criminale che cercavano non ha nulla a che vedere con la persona che mi ha fatto compagnia in queste settimane.»

Naito strinse con forza il Bushido.

Durante gli anni trascorsi con Orochi, aveva imparato a disprezzare tutti i mortali, senza fare distinzioni. Ma poi, ne aveva conosciuti alcuni che gli avevano fatto capire che in realtà non erano tutti uguali.

Alcuni di loro… erano stati gentili con lui. 

Si alzò in piedi. «Grazie ancora per l’ospitalità.» 

«Uhm… questa frase ha l’aria di essere un saluto» borbottò Miyamoto, corrucciato. O forse lo sembrava per via delle rughe.

Naito si imbarazzò, sentendosi anche un po’ dispiaciuto. «Sì, io… non posso più rimanere qui. Il Clan Tsubaki mi ha trovato, è solo questione di tempo prima che tornino. Mi danno la caccia da tempo, non si arrenderanno tanto facilmente, soprattutto non dopo essere state umiliate in quel modo.»

Un sorrisetto divertito scappò dalle labbra del vecchio Musashi. «Su, su, sono sicuro che se tornassero potremmo risolvere la questione in maniera civile. Potrei offrire loro un po’ di infuso di alghe, per esempio.»

«Non… non credo funzionerebbe» si oppose Naito, ricacciando indietro una smorfia disgustata.

«Dici di no? Beh, vorrà dire che lo offrirò a te quando tornerai!»

Il ragazzo spalancò l’occhio. «Ehm…»

«Primo valore del Bushido, Naosuke: Gi, Onestà. Un samurai è sempre scrupolosamente onesto nei rapporti con gli altri. Se pensi che il mio infuso sia rivoltante, non devi esitare a dirmelo.»

«È la cosa più rivoltante che abbia mai bevuto» ammise allora Naito di getto. «E di cose rivoltanti, mi creda, ne ho mangiate e bevute parecchie.»

Miyamoto rovesciò la testa all’indietro, prorompendo una roca risata. «Esatto, vedo che inizi ad imparare!»

Anche Naito cominciò a ridere. Gli fece male la gola, tanto era passato dall’ultima volta che aveva riso in maniera sincera come quella. Non appena se ne rese conto, però, si interruppe subito. Il suo buonumore venne ben presto rimpiazzato di nuovo da quel dolore al petto che non voleva saperne di dargli tregua.

«Mi mancherai, Naosuke» concluse Miyamoto, che per fortuna non si era accorto del suo cambio di umore.

Naito cercò di scassare la tensione con un altro sorriso. «Tornerò a trovarla, glielo prometto.»

«Quinto valore del Bushido, Makoto, Completa Sincerità: quando un samurai esprime l’intento di compiere un’azione, essa è già da considerarsi compiuta. Se davvero intendi tornare, Naosuke, allora non devi promettere. Parlare e agire sono la stessa cosa.»

Naosuke chinò la testa, grato a quell’uomo per tutto quello che aveva fatto per lui. Gli sarebbe mancato, doveva ammetterlo. Era stata la cosa più simile ad un amico che avesse incontrato dopo così tanto tempo. Proprio per questo doveva andarsene, se il Clan Tsubaki fosse tornato per lui, avrebbe potuto metterlo di nuovo in pericolo.

Anche se forse, dopo l’umiliazione subita, sarebbero potute tornare comunque. A quel pensiero, le sue labbra si contrassero. «Miyamoto, se quelle donne dovessero tornare che cosa farà?»

Lo vide stringersi nelle spalle, senza mostrare particolare sconforto nel volto. «La cosa non mi preoccupa molto, in realtà. L’idea di combattere non mi spaventa. Anzi, suppongo che se mi uccidessero mi farebbero soltanto un favore. Se solo avessi saputo prima che le leggende erano reali… forse avrei potuto cercarlo e darlo a loro…» borbottò tra sé e sé, prima di alzare lo sguardo e sorridere di nuovo accomodante. «Scusa, stavo confabulando. Parti adesso?»

«Temo di sì. Mi sono trattenuto anche troppo» rispose Naosuke con un moto di angoscia, dovuto alle parole del vecchio Musashi. Il fatto che desiderasse di scomparire, di morire perfino, gli fece capire quanto stesse soffrendo davvero.

«In tal caso, Naosuke.» Il vecchio Musashi si chinò. «Buona fortuna.»

Naosuke ricambiò l’inchino. «Dōmo arigatō.»

Poco dopo, gli stivali di Naito calpestarono l’erba della radura di fronte alla casa del vecchio Musashi. Sollevò lo sguardo verso il cielo stellato e strinse con forza la bisaccia con dentro il Bushido e alcune provviste che aveva a tracolla, accanto al fodero della wakizashi. La katana, invece, era di nuovo dietro la sua schiena, e anche le placche di armatura erano tornate. 

Inspirò profondamente l’aria pungente della notte e si voltò ancora una volta verso l’uomo che aveva conosciuto come Minoru Ishii, divenuto poi Miyamoto Musashi, e gli rivolse un ultimo saluto. 

Sull’uscio di casa, Miyamoto lo ricambiò, per poi accorgersi del kunai rimasto piantato nella porta dallo scontro precedente e sradicarlo con espressione confusa. 

O forse… erano le rughe a farlo sembrare così. 

Naito sollevò il cappuccio sopra i capelli, poi cominciò a camminare. 

Il viaggio riprendeva.

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Capitolo 4
*** Il Monte Tate ***


Il Monte Tate

 

 

Naito affondò i denti nel pesce, vorace, e gli strappò via la testa. Masticò con voga, divorandone gli occhi, il cervello, gli organi, perfino le lische, che si ruppero tra i suoi denti con degli scricchiolii. 

Non avrebbe mai creduto che la sua mandibola potesse essere così forte da rompere le ossa. La mamma gli aveva sempre preparato cibo delizioso, morbido, caldo. Ma da quando aveva conosciuto l’Uomo Pallido non mangiava quasi mai. Era costretto ad accontentarsi di frutta, funghi e ortaggi che trovava in giro, talvolta di pesci o animaletti selvatici, crudi. E la cosa più sorprendente, era che il loro sapore gli piaceva pure. Gli piacevano le lucertole, gli piacevano i roditori, gli piacevano gli uccellini, e gli piaceva sentire i loro ossicini che si rompevano tra i suoi denti. 

Ogni tanto, però, si fermavano come quella sera. Accendevano un fuoco e ci mettevano sopra quello che trovavano. Quella volta, Naito aveva catturato due pesci da un ruscello. Li avevano infilzati con dei ramoscelli e li avevano tenuti sopra il fuoco finché non avevano sentito odore di bruciato, un odore così invitante e delizioso che per poco Naito non aveva avuto la bava alla bocca. 

Divorò quel pesce in pochissimi minuti, inebriato dal suo sapore, dal suo odore, accecato dai crampi della fame. Non appena lo finì, si osservò i palmi ormai vuoti abbattuto, mentre il suo stomaco continuava a contorcersi. Avrebbe dovuto catturarne uno più grosso. 

«Tieni» disse all’improvviso l’Uomo Pallido, porgendogli il suo. Naito lo scrutò sorpreso, mentre lo fissava dall’altra parte del fuoco, gli occhi cremisi che luccicavano tra le fiamme. 

L’odore del pesce arrivò al suo naso, facendogli girare la testa. «Ma… tu non lo mangi?»

L’Uomo Pallido sollevò le spalle. «Se lo mangiassi o meno, non farebbe alcuna differenza. Da quando ho memoria, non esiste cibo in grado di saziarmi, né che abbia sapore. Potrei mangiare cento di questi pesci e non sentirei comunque nulla.»

Timidamente, Naito afferrò il pesce. «Non… non c’è proprio nulla che possa toglierti la fame?»

Quello sogghignò crudele. «Magari la carne dei mocciosi che fanno troppe domande.»

Naito sussultò e si riguardò dal dire altro. Mangiò il secondo pesce in silenzio e sentì finalmente i morsi della fame placarsi. Si domandò come potesse l’Uomo Pallido vivere avendo sempre fame, senza sentire alcun sapore per giunta. Doveva essere davvero dura. 

Spostò lo sguardo su di lui, trovandolo concentrato sul ruscello avvolto dalla notte. Quando non si allenavano o non erano in viaggio, capitava spesso che l’Uomo Pallido si smarrisse in quel modo. Fissava il nulla, come se stesse riflettendo su qualcosa, ma la sua espressione rimaneva sempre vuota, vacua, come se in realtà non ci fosse niente nella sua mente.

Cercava di ricordare. Non ricordava nulla, l’Uomo Pallido, nemmeno il suo nome. Non sapeva chi fosse, non sapeva perché si trovasse lì, non sapeva quale fosse il suo scopo. L’unica cosa che sapeva per certo, era che odiava gli umani. 

Ancora una volta, Naito provò un moto di pena per lui. Non doveva essere bello non sapere chi si era. Certo, lui aveva perso la mamma, però aveva ancora il suo ricordo. Ricordava i suoi sorrisi dolci, le sue carezze, la sua voce gentile che cantava per farlo addormentare. 

Si domandò se anche l’Uomo Pallido avesse avuto da qualche parte qualcuno come la mamma, qualcuno che gli voleva bene, che l’avesse accarezzato e che gli avesse sorriso. Forse era in pensiero per lui. Forse lo stava cercando, ma l’Uomo Pallido non poteva saperlo. O forse anche quella persona era stata uccisa dai mortali. Forse era per questo che lui ricordava di odiarli così tanto. 

«Cos’è quello sguardo, Naito?» gli domandò senza nemmeno voltarsi, facendolo trasalire di nuovo. «Mi stai forse commiserando?»

Naito rimase in silenzio, imbarazzato. L’Uomo Pallido si voltò verso di lui, facendo schioccare la lingua. «Tsk. Stupido moccioso. Faresti meglio ad imparare al più presto una cosa, Naito: io non sono tuo amico. Ti ho tenuto con me solo perché potresti tornarmi utile, ma se dovessi trovarmi in una situazione in cui la tua vita sarebbe in pericolo e salvarti comporterebbe un pericolo anche per me, io ti lascerei morire. E sarà meglio che anche tu faccia lo stesso in caso contrario. Se dovessi scegliere tra salvare me, o te stesso, pensa sempre, sempre, a te stesso. Pensa sempre a quello che conta di più.»

L’Uomo Pallido riportò lo sguardo sul fiume. «Se davvero desideri vendicare tua madre e diventare più forte, dovrai smettere di cedere alle tue emozioni mortali. In uno scontro di cui ne va della tua vita, ti rallenterebbero e basta. Sei un mostro, Naito, come me. Impara a comportarti da tale. Un mostro non ha amici, né famiglia. Un mostro non ha bisogno di nessuno a parte sé stesso.»

Naito assottigliò le labbra e distolse gli occhi da lui. L’Uomo Pallido aveva ragione, loro non erano amici. Era spietato con lui. Lo picchiava, gli faceva patire la fame e gli aveva fatto capire che nel mondo nessuno sarebbe mai stato buono con lui. L’unica che l’aveva fatto era la mamma, e lei era morta.  

Ma a Naito andava bene così. Perché anche lui stava usando l’Uomo Pallido. Era rimasto con lui perché sapeva che con i suoi insegnamenti avrebbe imparato a combattere e a difendersi da solo dai mortali che gli davano la caccia. 

Non lo considerava suo amico, non gli voleva bene, anzi, lo odiava. Se l’Uomo Pallido fosse morto, un giorno, lui ne avrebbe gioito.

E se invece non fosse successo, se l’Uomo Pallido non fosse morto, allora sarebbe stato Naito stesso, usando gli stessi insegnamenti che lui gli aveva impartito, ad ucciderlo.

 

***

 

Naito attraversò le valli del Tateyama, il volto nascosto dal cappuccio e la mano premuta sopra la bisaccia. Il suo occhio scrutò le ampie distese di verde, condite dal bianco delle nevicate e dalle ragnatele di ruscelli.

L’aria fredda del mattino punse la cicatrice sull’occhio. Era in viaggio da diversi giorni ormai, non mancava molto alla sua destinazione. Aveva percorso sentieri di montagna, valli e fiumi, accompagnato dal sole che splendeva, dai giorni di pioggia e dalle nevicate sporadiche. Non era ancora inverno, ma era pur sempre in montagna.

La sera si fermava per riposare le gambe e osservare le stelle, come faceva da quando era bambino. Ogni tanto scivolava in sonni inquieti, ma duravano poco, e finivano tutti allo stesso modo: fiamme altissime che si alzavano, grida strazianti in sottofondo e lui che si svegliava di soprassalto.

Viaggiare non era un problema per lui. Era abituato. Quando aveva conosciuto Orochi, l’aveva portato in ogni angolo del Giappone, visitando templi, monumenti, villaggi.

E uccidendo tutti i mortali sul loro percorso. 

Qualche mese prima, invece, aveva imparato a spostarsi nello Yomi. Essendo demone per metà, quel luogo non poteva ancorarlo come accadeva ai mortali. Sfruttare lo Yomi era stato molto utile per raggiungere l’occidente.

Laggiù, le regole le faceva Izanami, la dea della morte. Dea solo di nome, in realtà era un demone tanto quanto loro e gli altri dei non avevano alcun controllo sul suo regno. Non aveva battuto ciglio quando li aveva visti attraversare casa sua. Anzi, quando aveva scoperto che il piano di Orochi era quello di uccidere gli dei, lei gli aveva chiesto di risparmiare Izanagi, così da poter essere lei stessa a staccargli la testa.

Ma dopo che il piccolo dio greco che tanto avevano cercato di uccidere l’aveva accecato ad un occhio, aveva fatto a pezzi tutti loro, aveva restituito Ama no Murakumo ed era anche riuscito a sfuggire dalle grinfie di Izanami, laggiù aveva iniziato a tirare un’aria piuttosto pesante, per questo motivo Naito aveva preferito girarci alla larga.

Ripensare a quel piccolo dio fece nascere una smorfia infastidita sul suo volto. Quel ragazzo era la persona più ostinata a rimanere in vita che avesse mai conosciuto. Sapeva di non dover esistere, ma aveva lottato con le unghie e con i denti per ricamare il suo posto nel mondo. Ed era proprio per quello che aveva iniziato a rispettarlo, nonostante i loro trascorsi. E in un certo senso, lo invidiava perfino. Perché lui c’era riuscito davvero, aveva trovato una casa e persone che gli volevano bene.

E si era ricongiunto con sua sorella. Al pensiero di lei, Naito sentì un brivido lungo la schiena.

Forse un giorno li avrebbe rivisti. Non lo sapeva. In quel momento, aveva altro da fare.

Sapeva di essere vicino ormai. Ricordava quell’altopiano sul monte Tate. Era passato anche di lì mentre fuggiva dai suoi inseguitori. Quello che non ricordava, invece, erano tutti quei mortali che brancolavano. Se ne andavano in giro sbraitando le loro lingue arcaiche, facendo un trambusto tale da far impallidire uno stormo di tengu. C’era un nome per loro, un nome che lo faceva rabbrividire ogni volta che lo udiva.

Turisti.  

Non avevano alcun rispetto per quei luoghi, per le tradizioni, per coloro che li abitavano. Tutto quello che volevano era inquinare il paese con la loro immonda presenza e scattare “fotografie” con quegli affari di vetro e plastica grossi quanto un pugno che reggevano tra le mani, i cellulari.

Non aveva la più pallida idea di come funzionassero quegli aggeggi. Forse i mortali non erano gli unici a non poter scorgere ciò che le loro menti non potevano comprendere.

Cercò di evitarli il più possibile, passando per sentieri nascosti e meno frequentati. Di tanto in tanto incappava in loro, ma grazie alla Nebbia non sembrarono accorgersi che non era un umano. Anche se non credeva che sarebbero fuggiti se si fossero accorti di chi fosse in realtà. Era sicuro che avrebbero cercato di fotografare anche lui.  

Si rese conto che molti di loro dovevano proprio arrivare dall’America, per via della lingua. Sentirli parlare inglese gli ricordò quando aveva deciso di impararlo, prima di partire con Orochi per l’occidente. Non era stato davvero costretto a farlo, ma era stato bello per una volta dedicarsi a qualcosa che non fosse l’uccidere qualcuno.

Orochi, Hikaru, Bunzo e tutti gli altri, invece, sapevano parlare ogni lingua al mondo, forse perché erano mostri antichissimi, a differenza sua. Non era molto sicuro di come funzionasse il tutto.

Si sedette all’ombra di un albero, mentre il sole mandava i suoi raggi lungo tutta la valle. Doveva essere quasi mezzogiorno. Alcuni kodama fuggirono terrorizzati da lui, ma non se ne curò. Afferrò un kaki dalla bisaccia e cominciò a masticare rumorosamente, mentre sfogliava il Bushido. Aveva letto e memorizzato tutti i valori in quei giorni, ma non era ancora sicuro di sapere cosa il vecchio Musashi intendesse dire, quando gli aveva parlato di percorsi meno tortuosi.

E soprattutto non credeva davvero che quei valori potessero addirsi ad uno come lui. Erano stati scritti da mortali, per mortali. Lui invece era un mezzo demone. Non riusciva ad immaginarsi una situazione in cui “Gentile Cortesia o “Dovere e Lealtà potessero tornargli utili.

Ma se il vecchio Musashi, un samurai con più di quattrocento anni, gli aveva fatto quel dono e dato quel consiglio, significava che davvero ci credeva. Per questo motivo Naito si sarebbe comunque impegnato al meglio delle sue capacità per rispettare quel codice.

Alcuni schiamazzi gli fecero drizzare la testa. Si accorse di un gruppetto di mortali che stava andando verso la riva di un fiume e intuì che il suo piano di trovare un luogo tranquillo fosse naufragato. Facevano un chiasso infernale, specialmente i due mocciosetti che si spintonavano tra loro mentre un uomo e una donna cercavano di calmare gli animi. Assieme a loro, una coppia di anziani stava confabulando su quanto stupendo fosse quel luogo, mentre si asciugavano il sudore dalla fronte.

Osservandoli, una strana sensazione pervase il corpo di Naito. Non era più fastidio, o rabbia. Era qualcosa di molto diverso, ma di altrettanto doloroso.

Quei mortali erano noiosi, rumorosi, irritanti. Ed erano una famiglia.

Naito sentì una fitta di dolore al petto. Rimase immobile, a ammirarli da lontano mentre si mettevano in riva al fiume e uno dei due anziani, l’uomo, si allontanava da loro per scattare una fotografia. La madre invitò i figli a sorridere e loro, dopo un po’ di resistenza, la accontentarono facendo delle smorfie. Malgrado il chiasso che stavano facendo, per lui fu impossibile non notare la serenità nei loro sguardi.

Conosceva quella sensazione. L’aveva provata anche lui, una volta, tanto, tanto tempo prima.

Aveva perso un occhio, un corno si era spezzato, aveva subito lividi e tagli da cui aveva pensato di non guarire più, e nessuno di questi traumi si avvicinava al dolore che sentiva ogni volta che ripensava a sua madre Akane. Poteva ancora vederla nitida di fronte a lui, il caschetto di capelli neri come i suoi, il viso magro e il sorriso gentile. La sua voce dolce, le sue ninnenanne, le sue carezze, i suoi baci.

Erano bei ricordi, quelli. E quanto, quanto gli faceva male pensarci.   

L’immagine di sua madre scomparve, venendo rimpiazzata da una ragazza, la stessa che aveva visto la sera in cui era stato attaccato dal Clan Tsubaki.

Quegli occhi verdi e spenti, tristi, che un tempo aveva visto felici proprio in sua compagnia. Ripensò alle notti di guardia che avevano trascorso insieme, ad osservare la luna. Le loro risate che si smarrivano in luoghi celati, lontani dall’accampamento, da cui non avrebbero mai dovuto farsi sentire. Momenti trascorsi tirando fuori quel lato di loro che non avrebbero mai, mai dovuto tirare fuori. Troppo tardi l’avevano capito. Ormai era tutto finito. Aveva perso anche lei.

Aveva perso Hachidori.

Il fiume esplose all’improvviso, seguito dalle urla dei mortali. Naito trasalì, ritornando con la mente a quel momento. Qualcosa uscì fuori dall’acqua e afferrò uno dei bambini, il maschio, per poi svanire rapido com’era apparso nel fiume. Accadde tutto così in fretta che per un istante nemmeno lui riuscì a comprenderlo.

I mortali rimasero immobili, paralizzati, sconvolti tanto quanto lui. La bambina cominciò a piangere mentre la donna cadde in ginocchio, le mani tra i capelli. Urlò disperata il nome del figlio con tutto il fiato che aveva in corpo.

Non appena udì quel grido lancinante, una scarica di brividi percorse il corpo di Naito. L’aveva già sentito una volta. Non sarebbe rimasto fermo dopo averlo sentito di nuovo. Si mosse in automatico. Lasciò andare il Bushido e si fiondò verso il fiume, passando accanto ai mortali rimasti pietrificati.

Individuò immediatamente un kappa che nuotava sott’acqua a grande velocità, stringendo tra le braccia il bambino che malgrado tutto si stava ancora dimenando.

Sapeva quello che i kappa facevano ai bambini. Il solo pensiero rischiò di fargli rigettare il kaki. Accelerò il passo, correndo a filo con quella bestia e riuscendo a scorgere il suo sorrisetto crudele sotto la cresta dell’acqua. Attese il momento giusto per saltare, ma non appena vide il bambino smettere di dimenarsi, realizzò che non c’era più tempo da perdere.

Saltò in acqua spingendosi con quanta forza aveva nelle gambe. Piombò addosso al kappa, che sembrò accorgersi di lui soltanto quando si ritrovò il suo pugno premuto sopra il brutto muso. Una nuvola di bolle uscì dal suo becco, mentre Naito gli strappava il bambino dalle mani e se lo stringeva al petto.

Ritornò a riva con un salto, seguito da un’altra pioggerella d’acqua. Avvicinò l’orecchio al naso del piccoletto, rendendosi conto che respirava ancora. Un sorriso nacque sul suo volto: aveva trovato un altro piccolo guerriero.

Il fiume esplose di nuovo. Naito si voltò, trovandosi di fronte il kappa con il becco piegato e coperto di sangue marrone. 

«Che stai facendo, schifoso mezzosangue?!» muggì, con la voce ovattata a causa della ferita. «Quella è la mia preda!»

Naito strinse le labbra mentre lo fronteggiava. «E allora perché non vieni a riprendertela?»

Il kappa non se lo fece ripetere. Sfoderò i denti affilati e storti e si fiondò su di lui starnazzando come un animale impazzito. Naito attese finché non fu abbastanza vicino: il kappa agguantò l’aria, ma solo quello trovò, aria.

Grugnì per la sorpresa mentre Naito si scansava, proteggendo il bambino con un braccio e afferrando la wakizashi con la mano libera. Affondò la lama nel petto rimasto scoperto del kappa, che strabuzzò gli occhi per lo stupore.

«La prossima volta che hai fame, mangia un kaki» disse, mentre rigirava la lama nella sua carne.

Un lungo mugugno provenne dal kappa, che gli lanciò uno sguardo vitreo. Naito lo spinse indietro ed estrasse la wakizashi. Il kappa stramazzò a terra e l’acqua gli cadde dalla conca sopra la testa, facendogli emettere un gorgoglio soffocato. Si girò e cominciò a strisciare verso il fiume a fatica. Naito pensò di finirlo, quando alcuni versi affannati alle sue spalle lo fecero voltare.

Si ritrovò la donna di poco prima di fronte a lui, gli occhi spalancati ancora coperti di lacrime. Dietro di lei, l’uomo stava reggendo la figlia in braccio, mentre i due anziani ancora stavano faticando per raggiungerli, rossi in viso. Tutti loro erano sconvolti.

Naito rinfoderò la spada prima che la vedessero e consegnò il bambino alla donna. «È ancora vivo» le disse, in inglese.

Lei se lo strinse al petto e cadde in ginocchio, dove gli bagnò la testa con un pianto agitato. «D-Domo» gli bisbigliò, tra un singulto e l’altro, con un forte accento. «Domo… arigato gozaimasu»

Un sorriso nacque sul volto di Naito. Li aveva sentiti parlare in inglese, ma udire quel ringraziamento in giapponese significò mille volte tanto per lui. Si inginocchiò di fronte a lei, mentre pensava al valore del Bushido che Miyamoto gli aveva insegnato, la Compassione.

“Un samurai coglie ogni possibilità di essere di aiuto ai propri simili.”

Chinò la testa in segno di rispetto, senza dire nulla.

«C-Che cos’era quello, un coccodrillo?!» farfugliò uno dei due anziani, l’uomo, che ancora stava reggendo in mano quel cellulare, ora puntato verso di Naito.

«Harold! Smettila di riprendere e chiama i soccorsi!» protestò l’altra vecchietta.

Il padre del ragazzino posò invece la figlia a terra e si avvicinò a lui. Tirò fuori alcune banconote mortali dalle tasche e gliele porse. «Tenga. So che non è molto, ma…»

«Non mi deve niente» lo fermò Naito, agitando le mani. Si voltò, per lanciare una rapida occhiata dietro le sue spalle. Una scia di sangue marrone conduceva da dove si era trovato il kappa fino al fiume. «State lontani dai fiumi, d’ora in poi. Possono essere pericolosi» concluse, tornando a guardare l’uomo.

Quello lo fissò per alcuni istanti, concentrandosi come se non riuscisse a vederlo bene. Naito cominciò a sentirsi a disagio.

«M-Mister?»

Il ragazzo abbassò la testa e si accorse della bambina che lo guardava dal basso. «G-Grazie per averlo salvato…» gli bisbigliò.

Un altro sorriso apparve sul volto di Naito. Le arruffò i ricciolini senza dire altro e cominciò ad allontanarsi, mentre la madre del ragazzino continuava a piangere e gli altri lo scrutavano atterriti.

«Ha cacciato un coccodrillo con un ombrello…» bisbigliò il vecchio di nome Harold, con quel coso premuto all’orecchio, per poi sussultare. «S-Sì, pronto? Soccorsi! S-o-c-c-o-r-si! S-O-S! Emergency! Cara, tu conosci il giapponese, puoi parlarci tu con questi?»

Naito ritornò all’albero dove aveva lasciato le sue cose. Si asciugò le mani ancora bagnate e prese il Bushido. Quando lo girò, lo trovò aperto sulla la pagina del primo valore, Eroico Coraggio.

“Elevati sopra le masse che hanno paura di agire.”

Si voltò di nuovo verso quei mortali riuniti attorno al bambino e una sensazione nuova si fece largo dentro di lui: la consapevolezza di aver appena evitato che la vacanza di quella famiglia si trasformasse in una tragedia, che gli infuse una strana sensazione di benessere.

Forse era quello che Miyamoto intendeva dire, quando aveva parlato di percorsi meno tortuosi. Forse non si era riferito solo a percorsi fisici. Naito abbassò lo sguardo sul Bushido e distese il sorriso.

Prese le sue cose e si allontanò.  

 

***

 

Era passato molto tempo dall’ultima volta che era stato lì. Eppure, quando arrivò alla cima di quell’ultimo sentiero, il panorama che trovò stagliato di fronte a lui era proprio come l’ultima volta che l’aveva visto, almeno un decennio prima.

Un villaggio eretto tra le montagne, un angolo di mondo celato in mezzo alle pareti di quella valle dove pochi avevano il privilegio di abitare. Un monte torreggiava in lontananza, dal quale sgorgava una cascata che finiva con lo sfociare in un largo torrente. Scivolava imperterrito lungo la valle, mandando schizzi sulle rive dove erano state costruite case rustiche di mattoni e legno nero. Stradine di ciottoli si diramavano tra di loro, all’ombra degli alberi. Delle edere rigogliose ricoprivano le abitazioni, intervallando con il loro verde il grigio ed il nero.

Ricordava quel villaggio alla perfezione. Quando era bambino lo aveva sempre ammirato da lontano, ammaliato. Aveva sempre emanato un’aura di pace, quiete e armonia, gli era sembrato davvero un paradiso. Sua madre, però, non gli aveva amai permesso di scendere laggiù e lui l’aveva odiata per questo. Soltanto anni dopo, aveva compreso perché li gliel’avesse proibito. E quanto gli era costato comprendere.

Percorse il villaggio saltando sopra i tetti di tegole delle vie meno affollate, per dare meno nell’occhio possibile. Quel posto non era come gli altri in cui era stato; la Nebbia era molto più debole lì. Da quelle parti c’erano templi, santuari, sacerdoti. La gente credeva molto di più, lassù. Se qualcuno l’avesse visto, avrebbe potuto accorgersi che in realtà non era un vero umano.

Per fortuna, gli abitanti del villaggio parevano tutti piuttosto presi con la loro quotidianità. Le donne stendevano i panni, i bambini giocavano, i turisti girovagavano, nessuno fece caso a lui.

Riuscì a oltrepassare le case e infilarsi di nuovo nella vegetazione, percorrendo un sentiero che saliva ancora, arrivando perfino più in alto. Distanziandosi dal villaggio e avvicinandosi di più alla cascata, Naito riuscì a sentirne il fragore lontano, che giunse alle sue orecchie suscitando in lui un effetto quasi calmante.

Un effetto che, lo sapeva, non sarebbe durato ancora molto.

Gli alberi sempreverdi, grossi e alti, cominciarono poco per volta ad essere sostituiti da tronchi grigi e carbonizzati. L’erba verde e rigogliosa cominciò ad ingiallirsi fino a svanire del tutto, rimpiazzata da della terra nera e arida. E man mano che questo cambiamento avveniva, la stretta attorno al suo petto si faceva sempre più forte.

Un gruppo di corvi si alzò in volo gracchiando infastidito quando passò sotto il cadavere dell’albero su cui si erano appollaiati.

Continuò a salire, la mente annebbiata dai ricordi, il cuore che batteva all’impazzata nel petto, il respiro che si faceva pensante. E poi, arrivò in cima.

Ad attenderlo, trovò esattamente quello che credeva di trovare. E la cosa, anziché tranquillizzarlo, lo spaventò ancora di più.

Una casa di due piani, di legno, completamente carbonizzata. Le pareti erano annerite, le finestre rotte, il tetto sfondato. Il giardino dove un tempo crescevano piante e fiori di ogni tipo era una stuoia di terra secca, dove nemmeno le erbacce avrebbero avuto il coraggio di nascere. Poco distante c’erano una rimessa, completamente distrutta, erosa dalle fiamme, e un pozzo sfondato, con le pietre che ne coprivano la bocca.

Quella… era la sua destinazione, la sua meta, la fine del suo viaggio. Era arrivato.

Era arrivato a casa.

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Capitolo 5
*** Nuove e vecchie conoscenze ***


Nuove e vecchie conoscenze

 

 

Naito deviò la katana che mirava al suo volto e rispose con un colpo della sua. Vi fu un rumore disgustoso, seguito da un grido di dolore. Il mortale stramazzò ai suoi piedi, con uno squarcio profondo sul volto, il sangue che colava dalla carne viva. 

L’ultimo uomo rimasto in quel tempio gettò a terra le armi e si inginocchiò. Sollevò le mani, gli occhi rigati di lacrime. «T-Ti prego, abbi pietà di me!»

Il rumore dei passi di Naito si alternò con quei gemiti spaventati e con il crepitio delle fiamme che stavano avvolgendo ogni cosa. Si fermò di fronte a lui e lo scrutò dall’alto, per poi sibilare con quanto veleno avesse in corpo: «Voi avete avuto pietà per mia madre?» 

«I-Io non…»

La frase non trovò conclusione. A seguire un altro rumore bagnato ci fu il tonfo sordo della testa del mortale che rotolava sul pavimento. 

Naito scrutò la decina di uomini che giaceva sul suolo priva di vita, chi mutilato, chi decapitato. Un brivido di piacere gli percorse la spina dorsale. Quello si meritavano, per ciò che gli avevano fatto. Tutti avrebbero pagato per la morte di sua madre.

Il rumore di un lento applauso lo fece voltare verso l’ingresso, dove Hikaru lo stava osservando con un sorriso malizioso. 

«Davvero impressionante, Naito-kun» si complimentò. «Non ti è nemmeno servito il mio aiuto.»

Il ragazzo serrò la mascella. Non si sarebbe mai fatto ingannare da quel sorriso, o da quel volto. Quella donna non gli piaceva per niente e non si sarebbe mai sentito davvero al sicuro in compagnia soltanto di lei. Non aveva importanza quello che dicevano gli altri, per lui le kitsune erano creature subdole ed infime che miravano soltanto al loro tornaconto.

Passò accanto ad Hikaru senza degnarla di uno sguardo, e la sentì ridacchiare divertita. Mentre si allontanavano, alle loro spalle giunse il fragore del tempio che crollava per via dell’incendio, così forte da scuotere la terra. Ne avevano distrutto un altro, ma non dovevano adagiarsi sugli allori. Non si sarebbero fermati finché non avrebbero dato alle fiamme ogni singolo tempio in Giappone, finché ogni simbolo del potere degli dei ed ogni loro seguace non sarebbe stato spazzato via. Infondo, i mortali che gli avevano rovinato la vita, l’avevano fatto perché mossi da un dio. Gli dei erano i veri responsabili di tutto quello che gli era successo. E avrebbero pagato. Così come avrebbero pagato le loro stupide marionette mortali.

Scesero il sentiero della montagna, che si trovava sull’orlo di un altissimo precipizio. Naito arrischiò un’occhiata verso la gola e non riuscì a vederne nemmeno il fondo, a causa della fitta nebbia che saliva da laggiù. Lungo le pareti rocciose, cespugli, edere e fiori crescevano a dismisura alimentati dagli spilli d’acqua che filtravano tra le crepe, tappezzandole con i loro colori variegati.

«Davvero magnifico, vero Naito-kun?» disse Hikaru, anche lei con lo sguardo posato sul panorama. «Sapere che un giorno tutto questo apparterrà solo a noi mi riempie il cuore di gioia.»

«Tu non ce l’hai un cuore.» Naito le lanciò un’occhiata di sdegno. «E smettila di chiamarmi “Naito-kun.”»

«Posso sempre strapparne uno a un mortale e fingere che sia mio» rispose Hikaru con naturalezza, per poi distendere il suo sorrisetto. «Naito-kun.»

Naito si morse la lingua, ma non cedette a quella ovvia provocazione. 

«Faremo meglio a sbrigarci» proseguì la donna, alzando lo sguardo verso il cielo. «Lord Orochi ha detto che questa sera stessa ci saremmo rimessi in marcia.»

Un grugnito sfuggì dalla bocca di Naito, infastidito dal modo in cui Hikaru chiamava sempre Orochi. Si era unita a loro pochi mesi prima, eppure si comportava come se fosse la sua seguace più fedele. E lo stesso facevano i suoi compagni. Ma loro non conoscevano Orochi come lo conosceva Naito. Non c’avevano viaggiato assieme per tutto il Giappone, attraversando monti, laghi, fiumi e valli. Non gli erano rimasti accanto mentre recuperava i suoi ricordi uno alla volta.

E Naito era sicuro che, proprio per questo, tutti loro fossero invidiosi di lui. Non potevano accettare il fatto che tra tutti quanti fosse proprio un mezzosangue colui di cui Orochi si fidava maggiormente. 

Arrivarono a valle e raggiunsero il palazzo immerso nel bosco che avevano sgomberato giusto un paio di giorni prima da quegli sgradevoli mortali. Un gigantesco edificio con il tetto squadrato e un immenso cortile di fronte.

Una decina di altri individui si trovava lì, in attesa. Mostri. Oni, kappa, una donna con la bocca squartata, una specie di orco tozzo, alcuni umanoidi con le braccia lunghissime, altri con la testa di mollusco. Naito non conosceva i loro nomi, né gli interessava impararli. Quelle erano tutte le altre creature che avevano sentito di Orochi e avevano deciso di unirsi a lui in quella battaglia contro gli dei e i mortali. Erano sparpagliati per il cortile, a vagare come un manipolo di polli senza testa. In mezzo a loro, l’assenza di qualcuno si faceva sentire: quella di Orochi stesso. 

Hikaru marciò verso un tengu seduto su un gradino, intento a sghignazzare in compagnia uno tsuchinoko. Entrambi si stavano versando generose quantità di sakè nello stomaco. 

Un’espressione di puro disgusto marciò sul volto della kitsune, mentre intrecciava le mani dietro la schiena. «Bunzo, Chioiji.»

I due drizzarono lo sguardo. Il tengu fece un sorrisetto idiota e si pettinò le ali attaccate alle tempie, forse cercando di fare buona impressione, o forse perché annebbiato dal liquore. «Oh, Hikaru! Come stai?»

«Dov’è Lord Orochi?» replicò lei, gelida, mentre Naito l’affiancava. «Ci aveva detto di trovarci tutti qui prima di sera.»

«Il padrone? Non saprei…» borbottò il tengu, mentre lanciava un’occhiata carica di sdegno verso Naito, che non si fece troppi scrupoli a ricambiare. 

«È andato via qualche ora fa» si intromise Chioiji, alzando appena il muso dalla sua ciotolina di sakè. «Ci ha ordinato di non seguirlo. Credo stesse cercando di ricordare qualcos’altro.»

Hikaru annuì. «Capisco. Allora lo aspetteremo anche noi.» Scoccò un’occhiata maliziosa a Naito. «Dico bene, Naito-kun?»

Quando pronunciò quel nome, Chioiji sibilò divertito e Bunzo emise una specie di starnazzo singhiozzante, la sua stupida risata. Naito si allontanò da loro prima che cominciassero a tartassarlo. Tra tutti i soldati di Orochi, quei tre erano quelli che lo detestavano di più. E il sentimento era reciproco. 

Hikaru era stata la prima ad unirsi ad Orochi, dopo di lui. Aveva detto di avere un conto in sospeso con Inari, cosa che aveva sorpreso Naito, visto che era la dea delle volpi, nonché uno degli dei più potenti in assoluto, seconda solo ad Amaterasu e pochi altri.

Non era scesa molto nei dettagli, aveva solamente detto che un tempo serviva Inari, e che poi aveva capito che in realtà era soltanto una dea bugiarda come tutti gli altri. Naito non aveva idea di cosa le fosse successo, né aveva mai indagato, Orochi invece era stato felice di accoglierla. Dopotutto, Hikaru era una volpe a nove code, forte come poche creature al mondo, e odiava la dea che un tempo serviva. Per Orochi, tutti quelli che avevano una motivazione personale per distruggere gli dei erano i benvenuti.

E poi erano arrivati Bunzo e Chioiji. Non avevano un motivo davvero valido per odiare gli dei, in compenso erano degli ottimi lecchini. 

Dopo di Naito, quei tre erano i più alti nella gerarchia, per questo motivo non aspettavano altro che l’occasione per poterlo screditare e prendere il suo posto. E forse anche trovare una scusa per farlo bandire dall’esercito, o meglio ancora, ucciderlo. 

“Poveri illusi.”

Nato raggiunse un angolo dello spiazzale lontano dal resto dei mostri e sguainò la katana. Rimase per qualche istante ammaliato dall’acciaio rosso rilucente e da quell’elsa così particolare. Aveva preso possesso di quella spada da un soldato che aveva ucciso qualche mese prima, uno che si era vantato di essere un cacciatore di yōkai. Gli aveva detto che l’elsa era formata dall’occhio che aveva strappato ad un Ushi-Oni1

Una spada davvero stupefacente. Per questo motivo, dopo aver ucciso a mani nude quel mortale, Naito aveva deciso di tenersela come trofeo. 

La storia dietro la sua wakizashi, invece, era molto più corta, un po’ come la lunghezza della sua lama: l’aveva portata via ad un samurai ubriacone che pensava di essere invincibile. Poco prima di essere ucciso da lui, gli aveva blaterato che solamente i samurai di élite potevano adoperare il daishō2. E per questo motivo, Naito aveva deciso di adottarlo a sua volta, giusto per mostrare a quei pidocchiosi umani che perfino uno “sporco mezzosangue”, come amavano definirlo, poteva essere uno spadaccino di élite. 

Avere due spade di quel tipo era molto utile. Per i combattimenti rapidi, poteva estrarre la wakizashi e finire in fretta, per quelli prolungati invece la katana era ideale. Anche se spesso, più per orgoglio che per altro, decideva di utilizzare la katana anche per scontri brevi, giusto per mostrare la sua superiorità.

Era divertente vedere i sorrisi beffardi degli umani trasformarsi in espressioni terrorizzate quando realizzavano di essere spacciati. Forse Orochi era stato davvero troppo duro con lui, quando era ancora un bambino, ma i suoi violenti allenamenti, nel bene e nel male, avevano dato i loro frutti: ora si sentiva intoccabile.

Cominciò ad affettare l’aria, allenandosi da solo come di consueto, alternando le spade, migliorando la sua postura e il controllo del proprio respiro. Da bambino, sentiva il fiato mancargli dopo soli pochi minuti di allenamento. Ora, poteva andare avanti per ore ed ore senza sentire un briciolo di stanchezza. 

Non si rese nemmeno conto di quanto tempo passò così. Fu solo quando udì un frastuono provenire dagli altri mostri che si rese conto che il sole stava tramontando. Si voltò confuso e notò due figure scendere dalla montagna per avvicinarsi al cortile. La prima era Orochi, che avanzò con un sorriso soddisfatto, il kimono nero aperto che svolazzava dietro di lui. La seconda, invece, sembrava un tengu.

I mostri si avvicinarono a loro, Naito incluso. Udì uno strano verso provenire da Bunzo, un lungo gracido baritonale che pareva a metà tra lo sconvolto e l’indignato. E non appena Naito vide bene il tengu alle spalle di Orochi, capì il motivo di quella reazione. 

Non era un vero tengu. Non sembrava nemmeno un vero mostro, in realtà. Dal suo yukata strappato spuntavano le braccia e le gambe ricoperte di piumaggio rosso e viola, che si concludevano con le mani e i piedi muniti di artigli affilati come lame. Ma le similitudini con i tengu si concludevano lì.

Non aveva le ali sulle tempie. Il viso era umano, la cosa più umana che Naito avesse mai visto in mezzo a tutti quei mostri, perfino più di Hikaru quando era camuffata. La pelle era rosa, le guance erano scavate, il naso era sottile e pronunciato, molto più lungo di uno normale ma non come quello di un tengu, non doveva essere nemmeno un terzo del naso di Bunzo. Una cascata di lunghi capelli lillà cadevano sulle sue spalle, facendo da cornice a due occhi verdi e rilucenti. 

Naito non riuscì a credere ai suoi occhi. Era una mezzosangue. 

«Molto bene. Vedo che siete tutti qui.» Orochi volse un braccio verso di lei. «Date il benvenuto alla nostra nuova compagna.» 

La ragazza sembrò irrigidirsi, ma resse lo sguardo di tutti quei mostri che la osservavano con disgusto. Bunzo in particolare non sembrava per niente felice della sua presenza. 

«Coraggio, presentati» la invitò Orochi. Tra tutti, sembrava l’unico a non essere turbato da lei. 

Quella fece un passo avanti, affondando gli artigli nella sabbia. Naito notò due kama3 appesi alla sua cintura, più il fodero di un tantō. I suoi occhi erano duri, la sua espressione seria. Malgrado si trovasse in una zona a lei ostile, rimase comunque composta, dimostrando una fermezza di spirito che lo stupì. 

«Il mio nome è Hachidori» si presentò. Nonostante il tono severo, la sua voce era soave, molto diversa da quella graffiante dei tengu. «E anch’io voglio distruggere gli dei.»

 

***

 

Naito camminò con passo incerto, facendo vagare lo sguardo su quel luogo in cui era nato, in cui era cresciuto, cercando qualcosa, qualsiasi cosa che fosse rimasta intatta, qualcosa che potesse indicargli che forse non tutto era andato perduto.

Non trovò nulla.

Raggiunse il centro dello spiazzale e si trovò al cospetto di quella casa che quando era bambino aveva sempre immaginato enorme e che invece, adesso, pareva poco più che una catapecchia qualsiasi. Dove un tempo sua madre stendeva i panni, ora non c’era più niente. La finestra da cui lui osservava le stelle era sparita. Gli alberi che circondavano la casa erano tutti morti. Era tutto svanito.

Affondò gli stivali nella terra arida, quella stessa terra su cui quegli uomini avevano trascinato sua madre urlante per ucciderla a sangue freddo di fronte ai suoi occhi terrorizzati.

Cadde in ginocchio senza nemmeno rendersene conto, mentre i ricordi di quel giorno terribile si facevano largo nella sua mente.

Era ancora un bambino e stava guardando le stelle. Aveva visto alcune luci arancioni farsi largo tra gli alberi attorno alla casa ed era andato ad avvisare sua madre. Lei, spaventata, gli aveva ordinato di nascondersi. Qualcuno aveva sfondato la porta ed era entrato in casa proprio mentre lui stava finendo di bloccare la botola della soffitta. Aveva sentito sua madre gridare disperata e si era sporto di nascosto dalla finestra, accorgendosi di quel gruppo di persone che la stava trascinando in mezzo allo spiazzale. Tra di loro era spiccato un uomo alto con capelli e barba rossi, che aveva iniziato a gridarle qualcosa, qualcosa che lui non era riuscito a capire.

Lei provava a liberarsi, a dimenarsi, ma gli uomini erano tanti, erano armati, e la stavano tenendo ferma. Poi, era arrivato quel grido, quel grido straziante, proveniente da quella voce rotta e disperata che da quel giorno non aveva più smesso di tormentarlo.

«SCAPPA NAOSUKE!»

Gli aveva scosso le ossa. E poi l’uomo con i capelli rossi l’aveva colpita di nuovo.

Sua madre aveva smesso di gridare e aveva smesso di dimenarsi all’improvviso. Era caduta a terra, con la veste sporca di rosso, e non si era più alzata.

Non appena aveva visto la scena, Naito aveva trattenuto a stento un grido. All’inizio aveva creduto che fosse solamente inciampata, o svenuta. Poi, però, si era reso conto che quel rosso era sangue. Gli occhi gli si erano riempiti di lacrime ed era rimasto paralizzato, finché non aveva iniziato a sentire odore di bruciato, un calore intenso provenire dal pavimento e anche alcune nuvolette di fumo nero che filtravano attraverso le assi di legno. Si era accorto del cielo striato di arancione. E poi, l’uomo con i capelli rossi aveva sollevato lo sguardo proprio verso quella finestra, mostrando un ghigno crudele. Un sentimento di paura che mai aveva provato prima di allora lo aveva scosso dalla testa i piedi. Era indietreggiato ed era caduto a terra, ma era sicuro che l’avesse visto. L’uomo sapeva che lui era lì. Quel pensiero l’aveva fatto riscuotere.

Era sceso dalla soffitta, trovando casa sua completamente avvolta dalle fiamme. Aveva gridato terrorizzato, ma era riuscito ad uscire dal retro, un attimo prima che il soffitto gli crollasse addosso. Si era voltato, osservando casa sua, il luogo dov’era cresciuto, dove sua madre lo aveva accudito, lo aveva protetto e lo aveva amato, bruciare di fronte ai suoi occhi. Le fiamme si erano attaccate poi al prato e agli alberi vicini, iniziando a consumare ogni cosa.

Aveva sentito gli schiamazzi di quegli uomini, delle grida, e aveva visto alcune ombre che facevano il giro della casa, muovendosi verso di lui. A quel punto, con le guance rigate dalle lacrime e un terribile dolore al petto, aveva cominciato a correre nel bosco, mentre di fronte ai suoi occhi la scena di sua madre che veniva uccisa in quella maniera selvaggia continuava a ripetersi senza dargli un attimo di pace.

Naito affondò le dita nel terreno, stringendo le palpebre con forza. Ancora in quel momento, a distanza di tutti quegli anni, continuava a porsi la stessa domanda. Perché l’avevano fatto? Perché l’avevano uccisa? Sua madre era stata solo una vittima, prima delle pulsioni di demone spietato e fuori controllo, e poi della crudeltà degli uomini e degli dei. Non era stata colpa sua. L’unico errore che aveva commesso, era stato amarlo.

Forse… forse Naito sarebbe dovuto morire davvero, quel giorno. Forse così lei avrebbe avuto salva la vita.

O forse… se lei aveva scelto di lottare così tanto per proteggerlo, se aveva scelto di sacrificare la sua stessa vita per salvarlo… significava che aveva visto qualcosa in lui che nessun’altro prima di allora aveva mai visto.

Non aveva visto un mezzosangue. Non aveva visto un mezzo demone. Non aveva visto un bastardo. Aveva solo visto suo figlio.

Naito strinse i denti. Le spalle gli si alzarono contro il suo volere, per poi abbassarsi di colpo. Alcune lacrime scesero dal suo occhio senza che nemmeno se ne rendesse conto. E non appena lo realizzò, tentò di fermarsi, ma non ci riuscì.

Quel pianto non volle saperne di svanire. Serrò le palpebre e gli scappò un gemito, mentre scavava nella terra con le dita. Gli fecero male i polmoni e la gola. Non ricordava nemmeno l’ultima volta che aveva pianto. Sapeva solo che non riusciva più a fermarsi. Iniziò piano, con dei lievi sussulti, finché lunghi mugugni gutturali non iniziarono ad uscirgli dalla gola, mischiandosi con la devastazione e la malinconia di quel luogo morto che un tempo aveva chiamato casa.

La sua paura più grande era sempre stata quella: cadere in preda alle emozioni in quel modo, alla vista della sua vecchia casa, e al ricordo di Akane che moriva soltanto per proteggerlo.

«Che scena patetica» disse una voce tonante all’improvviso. 

Naito trasalì e si voltò di scatto, la vista ancora appannata dalle lacrime, e si accorse che qualcuno era apparso dietro di lui, alla cima del sentiero. Non appena lo vide bene, spalancò l’occhio.

Era un oni, con la pelle di un colore rosso denso. I capelli neri e sporchi gli arrivavano all’altezza del collo, mentre due lunghe corna gialle spuntavano dalla fronte. Una collana di perle color bronzo era adagiata sui suoi pettorali nudi e larghi. Sogghignò, i canini inferiori che spuntavano fuori dalla mascella pronunciata, rivolti verso l’alto come un secondo paio di corna. «E tu saresti il braccio destro di Orochi? Lì in terra a piangere come un neonato? Deve trattarsi di un malinteso.»

«Chi sei tu?» domandò Naito, mentre si rimetteva in piedi e avvicinava la mano al fodero della wakizashi. 

Un suono gutturale provenne dall’oni, mentre il suo petto si gonfiava e si sgonfiava a intermittenza. Le catene che aveva legate attorno ai polsi tintinnarono quando sollevò un lungo kanabō4 di ferro. Se lo appoggiò alla spalla, non curandosi degli aghi affilatissimi della mazza che toccavano la pelle nuda. «Ma come, Naosuke, Orochi non ti ha mai parlato di me? Eppure mi conosceva bene. Dopotutto… è grazie a me se sei vivo.»

Un lungo brivido percorse la schiena di Naito. Rimase paralizzato, mentre l’oni lo scrutava dall’alto con i suoi occhi gialli e luminosi.

«Non te lo chiederò un’altra volta» sibilò Naito, sguainando la spada corta. La sua voce si indurì. «Chi sei?!»

«Lo sai chi sono, Naosuke.»

Naito strinse la presa della wakizashi fino a farsi male alla mano. «No invece. Non lo so.» Scattò verso di lui all’improvviso, il dolore, la tristezza e l’angoscia provati nel vedere casa sua svaniti come vapore. «E non mi interessa!»

Si ritrovò faccia a faccia con lui. Sferzò l’aria con la wakizashi, desideroso di cancellare quell’odioso sorriso dal suo volto, ma venne intercettato dal kanabō. Cercò di pararlo, ma non appena la mazza impattò sulla spada Naito gridò per un’atroce fitta di dolore al braccio. Venne scaraventato via, perdendo la presa sulla wakizashi. Atterrò sulla schiena e rimase immobile, non sentendosi più il braccio.

«Patetico.»

Vide la mazza scendere su di lui come una mannaia. Rotolò, schivandola per un soffio, e si rimise in piedi. Dovette contorcersi per raggiungere l’elsa con il braccio sinistro, ma riuscì a sguainare la katana. Espirò, osservando gli occhi luminosi dell’oni e il suo sorriso sadico che non accennava a svanire. 

«È questo quello che il terribile Yamata no Orochi ha tirato su? Un ragazzino fragile e spaventato?»

Naito digrignò i denti, poi attaccò di nuovo. Mulinò la katana, mirando al suo collo, ma quello la deviò con il kanabō e lo colpì al petto con un calcio. Le placche di armatura si incrinarono e una chiazza di sangue gli uscì dalla bocca mentre veniva di nuovo scaraventato a terra, con un grido soffocato. Non sentì più la katana tra le mani, non riuscì nemmeno più a respirare. Si accasciò sui gomiti e tentò di rialzarsi. La voce dell’oni provenne da sopra di lui, gutturale e divertita: «Non ho mai capito perché Orochi abbia deciso di salvarti. Forse ha deciso di accontentarsi, visto che gli altri erano già tutti morti.»

Il ragazzo sentì la rabbia sgorgare dentro di lui. Fece per rialzarsi, ma il kanabō si schiantò sulla sua schiena, dove non indossava protezioni. Un urlo atroce gli uscì dalla gola, mentre gli spuntoni della mazza si conficcavano nella sua carne, bruciando come cento aghi intrisi di veleno. Non riuscì più a muoversi, paralizzato dal dolore.

Vi fu un rumore disgustoso e l’oni estrasse la mazza. Il dolore per gli aghi che venivano estratti fu peggio di quello provato quando si erano conficcati. Naito boccheggiò, l’occhio spalancato, perle di sudore scivolavano tra le corna, poi stramazzò sul suolo. Cominciò a sentire freddo, prima lungo la schiena, poi lungo tutto il corpo.

«Guardati. Non riesci neanche più ad alzarti.»

L’oni lo girò sulla schiena con un piede. Naito sussultò quando toccò la terra con la pelle martoriata. Venne afferrato per il collo e stretto con forza. Mugugnò e tentò di liberarsi, ma fu tutto inutile. Era come cercare di scansarsi di dosso una montagna. 

Sentì il proprio corpo afflosciarsi mentre veniva sollevato da terra. L’oni lo portò all’altezza del suo volto con una mano sola. Emise ancora quella risata sommessa, la collana di perle che tintinnava all’alzarsi e all’abbassarsi del suo petto. «Non posso credere che il mio sangue scorra in te, Naosuke. Non sei neanche un briciolo di quello che sono io.»

Naito spalancò l’occhio.

«Sì, Naosuke» annuì quello. «Hai sentito bene.»

Lo scaraventò verso la casa. Naito non percepì nemmeno l’aria che sferzava su di lui. Non percepì nulla, finché schegge di legno carbonizzato non esplosero addosso a lui. Quel poco che rimaneva della parete esterna crollò sotto il suo peso, investendolo. La voce dell’oni provenne in lontananza, come un ronzio nelle sue orecchie: «Sei debole, Naosuke. Hai lasciato che Akane ti plagiasse. Ti sei messo a bighellonare con dei mocciosi greci e con un samurai raggrinzito. Hai perfino salvato la vita di un mortale.» Udì anche un sospiro, quasi di delusione. «Ma dove ho sbagliato con te?»

Quella frase lo fece riscuotere. Si rimise in piedi tra i detriti e barcollò in mezzo a quella che un tempo era stata casa sua. Tornò nel giardino arido e squadrò il mostro dal basso, il respiro pesante, simile ad un ringhio, i denti serrati e i pugni contratti.

Il sorriso non svanì dal volto dell’oni. «Cos’è quella faccia, Naosuke? Speri forse di intimidirmi?»

Naito sentì la rabbia schizzargli fino al cervello. Dimenticò il dolore al corpo, il dolore per quello che era successo a casa sua, il dolore per quello che era successo a sua madre, e venne travolto da un’energia tale da farlo sentire in grado di abbattere qualsiasi avversario.

Urlò a pieni polmoni. Un urlo lancinante e disumano, che riecheggiò in tutta la valle, facendo fuggire altri corvi. Scattò con una rapidità mai avuta prima, il pensiero di spaccare la testa di quell’essere che ardeva dentro di lui, alimentandolo. Raccolse la katana da terra mentre correva e non si fermò.

Non era riuscito ad uccidere Orochi con le sue mani, ma avrebbe ucciso lui, quell’oni, suo padre.

Quando se lo ritrovò di fronte saltò e mirò al suo volto con la lama cremisi. Immaginò il suo enorme cadavere ai suoi piedi, riverso in una pozza di sangue, il sorriso svanito, la sua odiosa voce che non avrebbe più infastidito nessuno.

Invece fu colpito di nuovo. Crollò a terra con il naso rotto, mentre l’oni ancora tendeva la mano chiusa a pugno rivolta verso di lui. «Che cos’era quello, Naosuke?»

Naito serrò la mascella. Provò ad alzarsi, ancora una volta, questa volta convinto che sarebbe stata l’ultima, ma l’oni fu sopra di lui in un istante. L’ombra di un altro pugno oscuro il cielo. Le nocche del mostro si schiantarono su di lui, strappandogli un altro grido strozzato.

«Stavi forse cercando di usare il tuo lato demoniaco contro di me?»

Un altro pugno. Naito rimase schiacciato a terra. Non sentì più il volto. L’oni lo afferrò per l’incavo di una placca di armatura sul torace e lo sollevò di nuovo, incrociando il suo sguardo. «Credi forse che ti basti starnazzare come un tengu per trasformarti in un demone come me? Pensi davvero che questo possa aiutarti a sconfiggermi?!»

Il sorriso svanì dal volto dell’oni. Iniziò a scrutarlo con disprezzo. «Non hai capito proprio niente, Naosuke.» Gli sferrò un altro pugno, questa volta allo stomaco. Le placche di armatura si creparono mentre Naito boccheggiava, altri rivoli di sangue che gli scivolavano dalla bocca. «Come speri di combattere contro di me se cadi a terra a piangere come un poppante alla vista di una casetta bruciata?!»

Lo schiantò sul suolo. Naito non gridò nemmeno più quando la schiena ferita raschiò sopra la terra. L’oni abbatté un altro pugno su di lui. Gli sembrò di avere le labbra gonfie, al punto da arrivare fino all’altezza del naso. Un altro pugno allo stomaco ruppe completamente le placche dell’armatura. Udì un tintinnio metallico. Con la vista appannata e coperta di puntini neri, vide l’oni sfilarsi una catena dai polsi. Lo fece voltare, poi gliela legò attorno al collo e cominciò a strattonare.

Un gorgoglio strozzato provenne dalla gola di Naito. Il respiro cominciò a mancargli. L’oni tirò con forza la catena, strappandogli un altro gemito. «Tu non sei un demone, NaosukeSei solo un umano con le corna.»

Una lacrima solcò la guancia di Naito. L’oni lo lasciò andare di colpo. Stramazzò a terra, con il respiro affannato, non riuscendo a vedere nulla. Sentì il peso del mostro spostarsi dalla sua schiena, lasciandola libera.

«Stai piangendo. Di nuovo. Sei una vera delusione, Naosuke. Non vali nemmeno la pena di essere ucciso.»

Naito non sentì più nulla. Immagini e suoni cominciarono a mischiarsi, rendendogli impossibile capire cosa stesse succedendo attorno a lui.

«Non avresti dovuto ridurlo così, Ōtakemaru» sibilò all’improvviso la voce di una donna, infastidita. «Lui ci serviva. Anche se è solo un insetto, era comunque al servizio di Yamata no Orochi.»

La voce dell’oni giunse seccata in risposta. «Mi ha mancato di rispetto. È fortunato che non l’abbia ucciso.»

«Quindi che facciamo? Ce lo portiamo dietro?»

«No. Lasciamolo qui. Diremo che l’hanno catturato quelle cagne del Clan Tsubaki e che noi siamo arrivati tardi.»

«Il Re non la prenderà bene.»

«Non m’importa del Re. Se davvero ci teneva a prendersi mio figlio, avrebbe dovuto farlo di persona, non mandare me.»

Un mugugno provenne dalla donna, ma nessun’altra risposta. Rumore di passi, le voci che si allontanavano. Se n’erano andati. 

Naito rimase fermo, con il respiro debole. Tentò di controllare le dita, ma non ci riuscì. Il suo intero corpo non rispondeva ai comandi. Era paralizzato. L’unica cosa che poté fare, fu aprire gli occhi. Erano ancora appannati, ma riuscì comunque a vedere qualcosa.

Delle ombre, che spuntarono dalla boscaglia e si avvicinarono a lui, le lame delle katane che scintillavano tra le loro mani. Fiori rosa ricamati sui loro abiti scuri. Una di loro gli si accovacciò di fronte, mostrando lunghi capelli neri e una cicatrice sul volto. «Pare che la fortuna ti abbia abbandonato, Naosuke Itomi.»

Naito non trovò nemmeno la forza di rispondere. Non trovò la forza di fare niente. Rimase impassibile, ad osservare il sorriso beffardo di Meishu.

Vi fu un grido all’improvviso. Una delle kunoichi venne colpita da qualcosa e cadde in ginocchio con una mano premuta sulla spalla. Meishu si rialzò di scatto. 

Altre grida, seguite da un urlo furibondo di Meishu. Naito osservò una macchia scura che balenava in mezzo alla radura, lanciando kunai e dimenando una spada corta, ma soprattutto creando scompiglio tra le kunoichi.

Chiuse l’occhio e lo riaprì, vedendo ora Meishu, furiosa, mentre incrociava il tantō con la wakizashi della nuova arrivata, senza riuscire a scalfirla.

Chiuse ancora una volta l’occhio e quando lo riaprì la vide mentre saettava in mezzo alle kunoichi, respingendole una ad una.

Cercò di concentrarsi su quella figura che stava affrontando da sola tutte quelle donne. Sentiva di averla già vista. Aveva già visto quei balzi leggiadri, quei movimenti così rapidi e aggraziati da sembrare il volo di un colibrì.

Versi di battaglia si sollevarono, sovrapponendosi tra loro. Le kunoichi capeggiate da Meishu attaccarono tutte insieme la loro avversaria, che volteggiò in aria facendo sventolare un mantello.

Naito avrebbe voluto alzarsi, avrebbe voluto combattere, aiutarla, ma non ci riuscì. Non riuscì a fare nulla. Gli occhi gli si appesantirono. 

L’ultima cosa che vide, furono i piedi e la mano muniti di artigli della sua salvatrice. 

 

 

 

 

 

 

 

Yōkai temibile, le fattezze variano in base alle leggende, tendenzialmente sono quelle di un mostro marino con la testa da bovino e il corpo da ragno.

 2Il nome che ha la coppia delle due spade usate dai samurai, la katana, la spada lunga, e la wakizashi, quella corta. 

3Tipo di arma simile al falcetto, che può essere usato in coppia. La similitudine con il nome “Kamaitachi” deriva dal fatto che, tradotto, kamaitachi significa “donnola con le falci” (Kensuke, Nagata, Sato, mi mancate).

Un tipo di arma molto violenta, una lunga mazza coperta di punte di metallo, spesso associata a personaggi malvagi, come gli oni.

Qui lascio il disegno di Hikaru che ho fatto: https://www.deviantart.com/edoardo811/art/Hikaru-la-kitsune-La-Spada-del-Paradiso-888475594

 

 

 

 

Salve amici, spero abbiate passato un felice ferragosto. Io, personalmente, sì, ma sono una persona semplice e mi accontento con poco.

Spero che il capitolo vi sia piaciuto, grazie per aver letto, grazie a Fenris, Farkas, Roland e Nanamin per le recensioni, ora cercherò di rispondere a quelle che mancano, e nulla, ci siamo tolti l’introduzione dai piedi, ora possiamo addentrarci nella storia, e scoprire perché cavolo si chiama “l’Elisir di lunga vita” anche se nessun elisir è stato ancora menzionato. 

Grazie per aver letto e alla prossima!

 

 

 

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Capitolo 6
*** Colibrì ***


Colibrì

 

 

Naito si sdraiò sopra il tetto del palazzo, per osservare il cielo stellato. Un lungo sospiro esausto gli sfuggì dalla bocca, mentre alle sue orecchie non giungeva altro che il silenzio dell’accampamento assopito ed il fruscio del vento tra gli arbusti.

Il fatto che dormisse poco lo rendeva l’uomo di guardia ideale e la cosa in realtà nemmeno lo infastidiva. Stare da solo gli piaceva.

Soprattutto da quando era arrivata Hachidori.  

Per Hikaru, Bunzo, Chioiji e tutti gli altri era difficile sopportare un solo mezzosangue, due era chiedere troppo. E la cosa peggiore era che si comportavano come se fosse solo colpa sua. Meno pensava a quello che dicevano su loro due e meglio era. Anche perché altrimenti sentiva il desiderio di decapitare qualcuno. 

Se non altro, le fila di Orochi si stavano rafforzando ogni giorno di più. Sempre più mostri si stavano unendo alla causa, avevano anche un nekomata dalla loro parte. Di quel passo, avrebbero potuto distruggere chiunque avesse cercato di fermarli, Dei inclusi.

«Che ci fai qui?» domandò una voce all’improvviso.

Naito si irrigidì. Riconobbe quel tono sottile. Si voltò appena, prima di scorgere la figura di Hachidori, in piedi alle sue spalle. Si era arrampicata sul tetto senza neanche fare un suono. 

«Tu che ci fai qui» rispose lui con tono acido, realizzando che quella era la prima volta da quando era entrata a far parte dell’esercito di Orochi che le rivolgeva la parola. 

«Te l’ho chiesto prima io.»

«Ma io sono un tuo superiore. E se ti faccio una domanda, devi rispondere.»

La vide assottigliare le labbra con espressione infastidita, mentre i suoi artigli affondavano dentro un fagotto che reggeva in una mano. «È il mio turno di guardia.»

Naito corrucciò la fronte. Nessuno rispettava mai l’ordine dei turni di guardia. A parte rare occasioni, lo lasciavano sempre a lui. «Non serve, ci penso io qui. Puoi tornare a dormire.»

«Certo, così finisco nei guai per non aver obbedito agli ordini» replicò lei piccata.

«Ci parlerò io con Orochi, gli dirò che sono stato io ad ordinarti di andartene.»

«Scusa.» Hachidori andò a sedersi accanto a lui senza fare troppi complimenti. Fece penzolare le zampe nel vuoto, oltre la sporgenza, e posò il fagotto accanto a sé. «Ma gli ordini di Orochi sono superiori ai tuoi.»

Naito piegò le labbra in una smorfia. Distolse lo sguardo da lei. «Come ti pare. Io non me ne andrò da qui.»

«Come vuoi.»

La ragazza estrasse un grosso cosciotto di carne dal fagotto. Ci affondò dentro gli incisivi affilati come i suoi artigli e cominciò a strappare via dei grossi pezzi. Masticò rumorosamente, senza curarsi dei brandelli che le cadevano addosso e le sporcavano i vestiti. Naito la osservò con una smorfia disgustata. «Non puoi fare più piano?»

Gli occhi verdi di lei penetrarono la notte, squadrandolo da capo a piedi. Alcuni pezzi di carne erano incastrati tra i suoi denti. «Dipende. Me lo stai ordinando?»

 «Sì.»

Uno strano luccichio balenò nel suo sguardo. Le sue labbra si arricciarono appena verso l’alto. «Le mie umili scuse. Farò più piano.» Avvicinò il cosciotto alla bocca come se si stesse muovendo nelle sabbie mobili e staccò un pezzetto microscopico coi denti, senza fare il minimo rumore. «Ecco, sei felice adesso?»

«Non sono mai felice.»

«Me ne sono accorta.» Hachidori distese appena il sorrisetto. Abbassò lo spuntino e incrociò il suo sguardo. «Perché mi odi?»

La domanda lo fece sussultare. «Io non ti odio.»

«E allora perché mi eviti come un malanno da quando sono arrivata? Non avevo nemmeno mai sentito la tua voce prima d’ora.»

Naito esitò. Distolse lo sguardo da quegli occhi color thè. «Hai sentito cosa dicono di te, vero?»

«Che Orochi mi ha presa tra le sue file perché voleva darti una compagna.»

La naturalezza con cui diede quella risposta lo lasciò atterrito. Tornò a guardarla, trovandola appoggiata con i gomiti sulle tegole e uno sguardo di indifferenza dipinto sul viso. 

«E dunque? Possono dire quello che vogliono, non significa che sia vero. E in ogni caso…» Hachidori fece di nuovo uno strano sorrisetto, per poi spostare lo sguardo verso i boschi che li circondavano. «… puoi rimanere sereno, Naito-kun. Non ho affatto intenzione di essere la tua compagna.» 

Uno strano fastidio percorse le viscere di Naito quando udì quell’affermazione. «Non mi chiamo così. Solo Naito.» 

«Forse se ti fossi presentato da solo non mi sarei sbagliata.» 

Naito ricacciò indietro una risposta colorita. Non aveva nessuna intenzione di litigare con lei. Ci pensavano già tutti gli altri a tormentarlo. Diede alcuni colpetti sui pantaloni impolverati e si alzò in piedi. «Va bene allora, continua pure con il tuo turno di guardia. Buonanotte.»

Si diresse verso l’altro lato del tetto per scendere, ma la voce di lei giunse ancora alle sue orecchie: «Non ti sarai mica offeso?»

«Offeso? No.» Naito la scrutò con la coda dell’occhio, severo. «Infastidito? Sì.»

Il sorriso di Hachidori si fece più flebile. «Ti chiedo scusa.»

Lo disse con voce calma, gentile. Non c’erano tracce di divertimento né nel suo tono, né nel suo sguardo. Sembrava sincera. «Sono solo un po’ nervosa» proseguì, distogliendo lo sguardo da lui e riportandolo verso la boscaglia. «Da quando sono qui, gli altri mi trattano come un’appestata. Speravo che… che almeno tu non fossi come loro. Ma comprendo il tuo disagio, trovandoti in mia presenza. Al tuo posto proverei lo stesso.»

Naito schiuse la bocca, sorpreso e anche un po’ confuso. Forse non era stato del tutto corretto, con lei. Era una mezzosangue, proprio come lui, e sicuramente la sua vista aveva sorpreso lei tanto quanto aveva sorpreso lui. E inoltre, se Orochi l’aveva accolta, significava che aveva scorto qualcosa in lei, proprio com’era successo con lui. 

Tornò a sedersi accanto a lei. «Sono io a doverti chiedere scusa. È solo che agli altri non piaccio affatto. E il tuo arrivo ha… peggiorato la situazione, per me. Ma non è colpa tua. Mi dispiace di averti fatto credere che ti odiassi.»

Cercò di non guardarla, mentre pensava al ridicolo vociare che si era fatto su di loro. Come se credessero che lui fosse soltanto un animale da salotto che per vivere aveva bisogno di mangiare, dormire e procreare. Non si rendevano nemmeno conto che stavano descrivendo loro stessi, in quel modo. Forse era quella la cosa che più lo infastidiva, il fatto che non realizzassero di essere peggiori di lui sotto qualsiasi aspetto. 

Udì il fruscio della sua testa che si voltava verso di lui e notò quegli occhi scrutarlo ancora, luminosi e magnetici. «Non preoccuparti. Sono… felice di averti finalmente potuto parlare.»

Naito la osservò, ancora una volta confuso dalle sue parole. E ancora una volta, il suo sorriso gentile faceva intuire che fosse sincera. Cercò di sorridere anche lui. «Anch’io» ammise.

«Così, tu sei il soldato scelto di Orochi?» gli domandò lei, mentre afferrava di nuovo il cosciotto. Lo avvicinò alle labbra, prima di fermarsi e lanciargli un’occhiata. «Posso?»

«Certo, perché non dovresti?»

«Intendo, “posso fare rumore?”»

Un altro sorriso scappò dalle labbra di Naito, mentre sollevava le spalle. «Certo… basta che non mi annaffi con qualche pezzetto.»

«Yum!» Hachidori aggredì lo spuntino con voracità, strappando via i pezzi di carne più succosi e rosicchiando quelli che rimanevano attaccati all’osso. Naito si domandò da che animale arrivasse quel cosciotto. Non ne aveva mai visto uno simile. 

«Sì, sono io» rispose alla domanda di prima. 

«E come mai? Insomma, dici che tutti ti detestano, eppure…»

«Sono con lui da più tempo. Da quando ancora nemmeno ricordava di essere “Orochi.”»

«Oh. E quanto tempo è?»

Naito ci mise un po’, ma riuscì a fare il conto esatto. «Una decina di anni, poco più poco meno.»

Hachidori fece un verso sorpreso. «Così tanto?»

Quel tono di voce fece nascere un altro sorriso, questa volta compiaciuto, sul suo volto. «Già.»

«Incredibile. Da come ne parla, credevo fosse Hikaru quella che lo conosceva meglio.»

Il sorriso svanì dal volto di Naito. «Hikaru è molto abile ad ingannare le persone. Non farti abbindolare.»

Vi fu un attimo di silenzio. Con suo enorme stupore, Naito cominciò a realizzare che discutere con lei non lo infastidiva come accadeva con gli altri. E quel silenzio non gli sembrò nemmeno pesante. Si sentiva… a suo agio. Si appoggiò con i gomiti sul tetto e distese anche lui le gambe oltre il bordo per stare più comodo. 

«Cosa significa il tuo nome?» gli domandò Hachidori, mentre rosicchiava l’osso ormai completamente pulito. 

«È l’unione del mio vecchio nome. Un nome che mi ricordi il dolore del passato, per incitarmi a combattere per il futuro.»

Hachidori sorrise. «Profondo.»

«Sì… è vero. È stato Orochi a chiamarmi così, però, quando ero ancora bambino. L’idea è sua.»

Lei fece un verso quasi di delusione. «E io che speravo avessi una vena artistica.»

Per qualche motivo che non riuscì a comprendere, Naito si sentì imbarazzato. «E… il tuo nome, invece? Perché proprio “colibrì?”»

«Perché…» Hachidori si appoggiò sui gomiti come lui. Entrambi alzarono lo sguardo verso la luna. «… anche se non ho le ali come i tengu, voglio volare ovunque io voglia. Voglio che sia il mio spirito ad avere le ali. Voglio che possa batterle libero. Come un colibrì.»

«È… molto bello» mormorò Naito, con un sorriso colpito. 

«E l’ho scelto da sola» precisò lei, cancellandoglielo subito.

La senti ridacchiare e si rilassò. Era piacevole parlare con qualcuno di simile a lui. E soprattutto qualcuno che non lo disprezzava per partito preso.

Hachidori spezzò l’osso con un rumore secco e si portò una metà alla bocca, per succhiare via il midollo. Naito non aveva mai visto una simile voracità. Quella carne doveva essere davvero deliziosa.

«Scusa, avrei dovuto offrirtene un boccone» mormorò lei, accorgendosi del suo sguardo. 

Naito scosse la testa. «No, non preoccuparti. Sono curioso però, che animale era?»

«Un gigantesco porco» rispose Hachidori. Sogghignò, mostrando i denti affilati ancora imbrattati. «Però uno di quelli bipedi, che se ne vanno in giro bracciando le armi e decantando di essere “difensori degli dei” e “cacciatori di mostri.”»

«Un… un mortale?»

Il sorriso di lei si fece più ampio. «Sì.»

Naito spalancò gli occhi. «Ma… ma tu sei mortale per metà…»

Hachidori ruttò e un pezzetto di carne schizzò fuori dalla sua bocca, smarrendosi nella notte. «E allora? Ho anche mangiato carne di tengu una volta.»

«Non… non dovresti impazzire, o…»

Venne interrotto dalla risata di lei, che questa volta ricordò davvero lo starnazzo di un tengu. Il suo naso lungo e sottile puntò verso le stelle mentre rovesciava la testa all’indietro. «Sei proprio adorabile, Naito-kun.»

Ancora una volta, Naito assottigliò le labbra infastidito. «Non sono adorabile. E non chiamarmi Naito-kun!»

Lei continuò a ridacchiare, incurante. «Comunque, se non ti va la carne umana, ti consiglio quella di tengu. È davvero deliziosa.»

«Non sono interessato» mugugnò Naito, ancora turbato da quanto aveva appena scoperto. «Ma se un giorno volessi mangiarti Bunzo, posso aiutarti a spennarlo.»

Hachidori gettò di nuovo il capo all’indietro. «AAAAK!»

Per un istante, Naito pensò che avessero allertato qualche bestiaccia nella foresta. Non appena si accorse di Hachidori che si copriva la bocca, con espressione mortificata, realizzò che invece era stata lei. Sentì le labbra tremolargli. «Che… che cos’era quello?»

«N-Niente!»

Le spalle di Naito vennero colpite da un sussulto. Uno sbuffò d’aria gli uscì dalla gola, seguito da un altro e poi da un altro ancora, simili a dei gemiti. Ma non erano veri gemiti. Era una risata. Una risata che crebbe man mano che si accorgeva dell’espressione di Hachidori farsi sempre più imbarazzata. 

Sentì dolore allo stomaco e fu costretto ad afferrarselo, mentre lei cominciava ad inviperirsi. «C-Che stai facendo? Perché ridi?!»

Naito si accasciò sul tetto, quasi colpito da degli spasmi. Sentiva male ai polmoni, ma più pensava a quel verso, e all’espressione di Hachidori, più gli era difficile calmarsi.

Non ricordava nemmeno l’ultima volta che aveva riso così. 

Sentì la risata più tenue di Hachidori accostarsi alla sua. 

«Va bene, va bene, faceva ridere» gli concesse, sdraiandosi accanto a lui. I suoi capelli si diramarono come una ragnatela sopra le tegole. Odoravano di terra ed erba, come un bosco. «Ora potresti smetterla però? Non… non riesco a controllare quei versi. È imbarazzante…»

«S-Scusa» riuscì a rispondere lui, con il petto che doleva. Si voltò verso di lei e si accorse del suo viso messo di profilo: un punto rosa pallido, morbido, illuminato dalla luce delle stelle. La sua risata cessò quasi all’istante, mentre lo osservava. Un’altra strana fitta lo colpì allo stomaco.

Hachidori si accorse del suo sguardo e lo ricambiò. Naito lo distolse subito, con un sussulto. La ragazza ridacchiò di nuovo, facendolo irrigidire.

«Quindi… nessun rancore tra di noi, giusto? Domani mi rivolgerai di nuovo la parola?»

Naito avvertì un altro pizzicore, questa volta alle guance. «S-Sì, certo…»

Udì il suono di un mugugno soddisfatto. «Bene.»

Nessuno dei due disse più nulla. Rimasero immobili, a fissare il cielo l’uno accanto all’altra, con i rumori del bosco a fare loro compagnia. 

Anche se Naito a malapena registrò ognuna di queste cose, perché la sua concentrazione rimase unicamente su quella strana sensazione al suo stomaco e alle sue gambe. 

 

***

 

Il dolore fu la prima cosa che notò, così forte da fargli pentire di essersi svegliato. La schiena, il volto, il petto, tutto era pervaso da un bruciore agonizzante. Nemmeno quando aveva perso l’occhio si era sentito così. Credeva di poter svenire di nuovo.

La vista era ancora appannata, il suo respiro roco e pesante, come un rantolio. Ci volle un po’ prima che riuscisse a realizzare di essere dentro ad un futon, con un tetto di legno sopra la testa. Udì alcuni rumori provenienti da una zona indistinta attorno a lui. Tentò di raddrizzarsi, prima di essere pietrificato da una scarica alla schiena. Stramazzò sul materasso, gemendo di nuovo. 

«Sta fermo» ordinò una voce acuta. «Rischi di riaprire le ferite.»

Naito cercò di guardarsi attorno, per capire chi aveva parlato, ma non riuscì a vedere nessuno. Un’altra fitta di dolore lo costrinse a tenere bassa la testa. 

«Ma sei sordo? Ti ho detto di stare fermo.»

Un lungo mugugno di protesta gli sfuggì dalla gola. Sentì uno strano suono provenire da chiunque gli stesse parlando. «Non sei affatto cambiato, Naito-kun.»

«Huh?» Naito spalancò l’occhio. «… aitoun?»

Di nuovo quel suono. Sembrava una risata. «Riposa, su. Parleremo quando starai meglio.» Un’ombra apparve sopra di lui. Riuscì a scorgere un sorriso. «Sta tranquillo. Sei al sicuro qui.» 

Naito sentì l’occhio appesantirsi. L’ultima cosa che notò prima che tutto si facesse buio, furono delle iridi color thè che lo osservavano intensamente.

 

***

 

«Che cos’è quello?»

«È un mostro!»

«N-No, io non…»

Una pietra lo colpì in faccia, facendolo gridare. Cadde in ginocchio, con la guancia che bruciava e le lacrime agli occhi. Vide quei bambini afferrarne altre. 

«Vattene mostro!»

Cominciarono a lanciargliene a decine. Cercò di proteggersi come meglio poteva mentre si tuffava di nuovo in mezzo ai boschi, per scappare da quel villaggio.

«Mamma!» gridò, correndo dalla donna che gli dava le spalle, abbracciandole la schiena. 

Lei si voltò, osservandolo dall’alto con quel sorriso dolce e gentile. Gli accarezzò la guancia ferita, avvolgendola in un piacevole torpore. Si sentì rinvigorito e il dolore per il sasso che gli avevano lanciato svanì. Poi, sentì caldo, così tanto caldo che gli sembrò di bruciare. Gridò e si separò da sua madre. Continuava ad osservarlo, continuava a sorridergli, ma il suo corpo intero era avvolto dalle fiamme. 

«Mamma!» urlò inorridito. 

«Scappa Naosuke» sussurrò lei, sempre senza smettere di sorridergli. 

Le fiamme crebbero, investendola nella sua interezza, accecandolo. Gridò e cadde all’indietro. Ogni cosa si fece buia. Si sentì precipitare. Urlò ancora, sbracciandosi e chiamando aiuto, ma nessuno accorse. 

Riaprì gli occhi e vide uomini armati di forconi e torce che lo circondavano.  

«Vi prego… dovete aiutarmi…» implorò, spaventato. «Mia… mia madre è in pericolo! Vi supplico!»

«Uccidiamolo!» urlò uno di loro, mentre si avvicinavano a lui.

«No… vi prego… pietà! Pietà!»

Un forcone gli perforò il petto. Crollò a terra e il buio inghiottì di nuovo ogni cosa. 

L’Uomo Pallido apparve in mezzo alle tenebre, colpendolo con un bastone così forte da rompergli un dente. «Stai piangendo di nuovo, Naito? Come speri di vendicare tua madre così? Avanti, alzati! Alzati e combatti!»

«Non… non ci riesco…»

«E allora morirai» sussurrò l’Uomo Pallido, torreggiando sopra di lui e osservandolo carico di odio. 

«Sei una vera delusione, Naosuke» bisbigliò un oni dalla pelle rossa, apparendo accanto all’Uomo Pallido. «Non alzarti. Rimani a terra. Muori.»

«Ti ho detto alzati, Naito! ALZATI!»

«STA GIÙ!»

«COMBATTI!» 

«MUORI!»

«V-Vi prego… mia… mia madre… aiutatemi…»

«Solo tu puoi aiutare te stesso, Naito.»

«Arrenditi, Naosuke. Non hai speranze.»

«Non… non sono un mostro…»

«Sì che lo sei, Naito. Sei come me.»

«Sono… sono un mostro…»

«No, Naosuke. Sei solo un umano con le corna.»

Una figura perforò le tenebre. Una ragazza coperta di piume, con il naso lungo e sottile, che gli sorrise. Era bellissima. La creatura più bella che avesse mai visto. 

«Naito…» bisbigliò, ad un palmo dalle sue labbra. Gli accarezzò la guancia, dolce. 

«Naito…» sussurrò di nuovo lei con voce incrinata, ora a terra, in ginocchio, in lacrime.

«Questa è la fine che meritano quelli come voi» bisbigliò Bunzo al suo orecchio, sogghignando crudele. 

«Io so quello che sono. E tu, Naito, che cosa sei?» gli domandò Hikaru, con sguardo severo.

«O sei con noi, o sei contro di noi, Naito» sibilò Orochi, lo sguardo carico di veleno.

«Che… che cosa vuoi?» mormorò una ragazza con i capelli arancioni, mentre si teneva il braccio spezzato, i suoi occhi di quel colore così familiare, così stupendo, che lo osservavano incrinati dalla paura. 

«Mi dispiace…» avrebbe voluto dire.

«Vendetta» fu quello che gli uscì.

«Non lo vedi che è finita, razza di idiota! Orochi è morto! Ho fatto a pezzi il vostro patetico esercito! Avete perso! Perso! Uccidere Rosa non ti servirà a niente di niente!» gridò il piccolo dio armato di Ama no Murakumo, accanto ad un qilin furibondo.

«Non volevo farle del male…»

«Tu non hai la più pallida idea di che cosa io abbia trascorso.»

«L’orgoglio precede la caduta. Sei forte, ma sei anche arrogante.» Un forte bagliore rosso lo accecò. «Puoi essere meglio di così, Naito.»

«Meglio… di così?»

«Non finisce qui.»

«Un samurai aiuta sempre i suoi simili» disse il vecchio Musashi, con un sorriso. Un forte calore, molto diverso dal solito, scosse il petto di Naito.

Le tenebre si amalgamarono. Tutti loro apparvero dal nulla, circondandolo. Orochi, l’oni rosso, Hikaru, Bunzo, i mortali, i greci. Alte fiamme si sollevarono dal nulla, mandando striature scarlatte sui loro volti tetri. 

L’uomo con i capelli rossi si erse in mezzo a loro, stringendo Akane tra le braccia. Sogghignò verso di Naosuke e una sensazione di sconforto lo assalì, paralizzandogli le gambe. «T-Ti prego, non farlo…»

Ma lui non lo ascoltò. 

«Scappa Naosuke» sussurrò Akane, prima che l’uomo la pugnalasse.

«MAMMA!» Corse verso il suo corpo, afferrandola per le guance e sporcandosi le mani piccole con il suo sangue. Gli occhi vennero invasi dalle lacrime. «Mamma…» Sollevò la testa, accorgendosi di tutti quegli spettatori che erano rimasti lì, ad osservarlo in silenzio. «Aiutatemi… vi prego… aiutatemi…» 

Nessuno si mosse. Nessuno fece nulla. Naito cominciò a ringhiare come un animale. Sguainò la katana. «Vi ucciderò tutti.»

Tutto svanì ancora una volta. Mentre l’oscurità ricopriva ogni cosa, una voce risuonò nella sua mente, possente e autoritaria. «Mai ridere. Mai piangere. Mai amare.»

Naosuke cadde in ginocchio. «Mamma… Hachidori… Rosa…»

«Mi dispiace…» sussurrò Naito.

 

***

 

Naito riaprì l’occhio. La luce accecante forò la sua iride, abituata al buio. La socchiuse infastidito e si mise a sedere. Percepì dolore alla schiena, soffuso, come una pulsazione sorda. Gemette, ma riuscì a sopportarlo. Si massaggiò la testa, mentre nella sua mente il riverbero di urla non accennava ad attenuarsi. 

Fece una smorfia irritato. Un incubo. Perfino peggiore del solito. Lo scacciò via dalla mente, quasi ordinandogli di sparire, e si guardò attorno confuso. Era dentro una casa. Neanche. Sembrava una capanna, interamente di legno. Quella era l’unica stanza. Da una finestra filtrava la luce del giorno, battendo su di lui.

Che posto era quello? Non ricordava di esserci andato. E nemmeno ricordava tutte quelle fasciature sul suo corpo. 

Il suo corpo seminudo, constatò con stupore. Aveva soltanto i pantaloni addosso. L’intero torace era scoperto, lasciando libera la pelle bianca e coperta di bende. Si accarezzò le fasce, mugugnando di dolore non appena le sfiorò. 

Ripensò a quello che era successo. E non appena lo fece, se ne pentì amaramente. Era… stato sconfitto. Di nuovo.

“Da mio padre.”

Affondò i denti nelle labbra fino a sentire dolore. Per un momento, pensò di aver sentito male. Non poteva crederci, era escluso. Era sempre stato convinto che suo padre nemmeno sapesse della sua esistenza, o che addirittura fosse stato ucciso dopo aver ingannato sua madre.

Allo stesso tempo, sapeva che quel demone non avrebbe avuto alcun motivo di mentirgli. Lo aveva anche chiamato per nome. Aveva chiamato Akane per nome. Solo Orochi conosceva il nome di quella donna. Forse era stato proprio lui a rivelarglielo, ma non aveva alcun senso. Perché avrebbe dovuto? No, non c’erano dubbi: suo padre… era vivo. E lo aveva quasi ucciso.

Era stata colpa sua, lui aveva attaccato per primo. Aveva commesso l’errore più grave che un combattente avrebbe mai potuto commettere e si era lasciato provocare. E ne aveva pagato le conseguenze. 

Naito affondò le unghie sulle ginocchia. Non l’aveva solo sconfitto, l’aveva distrutto. Non si era mai trovato in una situazione del genere, di fronte ad un avversario così superiore a lui. L’aveva fatto sentire insignificante. Era fortunato ad essere ancora vivo.

“Umano con le corna” l’aveva chiamato. Serrò la mascella, mentre rabbia e vergogna vorticavano dentro di lui come una tempesta. 

Suo padre sapeva che Naito era sopravvissuto. Sapeva che sarebbe tornato lì, alla sua vecchia casa. E sapeva anche quello che aveva fatto con i greci, con Miyamoto e anche che aveva salvato la vita di quel bambino. Perché, se sapeva tutto quello, non lo aveva mai cercato prima? Perché l’aveva fatto solo in quel momento?

Dovevano portarlo da un “re.” Questo aveva detto quella donna che aveva sentito parlare con lui. Non aveva idea di chi fosse lei, non aveva mai sentito la sua voce prima di allora, e credeva che la cosa più vicina ad un “re” fosse proprio Orochi, ma lui era morto. 

Abbassò la testa ed inspirò. Avrebbe potuto pensarci per ore, ma non avrebbe mai trovato la risposta alle domande che aveva. L’unica cosa che contava era che fosse ancora vivo. Non solo. Era al sicuro, come gli aveva detto quella voce, prima che svenisse di nuovo.

Vide la sua cintura e i foderi delle sue spade posati sul tavolino accanto al futon, vicino a un vaso con dentro dei fiori di ciliegio appassiti.

Quella, unita alle fasciature, fu la conferma che chiunque l’avesse portato lì, non era ostile. Non gli avrebbe lasciato le armi a portata di mano, altrimenti. Ma mancava qualcosa, la sua bisaccia. Notò una credenza malridotta in un angolo della stanza e si alzò a stento. Barcollò verso il mobile e cominciò a rovistarci dentro, trovando solo ciarpame, piatti, posate e recipienti sporchi e impolverati. 

Strinse le labbra in una smorfia, frustrato. Non se ne sarebbe andato da nessuna parte senza il Bushido.

«Non ti hanno mai detto che non è carino curiosare tra le cose degli altri?» 

Naito si raddrizzò di colpo. Si voltò verso la porta, pronto a scattare verso le sue spade. Non appena vide la figura in piedi di fronte a lui, però, l’unica cosa che poté fare fu rimanere immobile, con l’occhio spalancato per la sorpresa. 

E per l’angoscia.

Una ragazza era entrata senza fare alcun rumore e lo stava osservando con espressione divertita, gli occhi verdi puntati su di lui, belli e penetranti. Proprio come li ricordava. 

«Ciao, Naito-kun» sorrise, mostrando una fila di denti affilati sotto al naso lungo e sottile.

«Ha… Hachidori…» sussurrò Naito.

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Capitolo 7
*** I fantasmi del passato ***


I fantasmi del passato

 

 

«Che cosa significa, Lord Orochi?» domandò Hikaru, con una rara vena di tensione nella voce. 

«Proprio quello che ho detto. Sto diventando troppo potente» rispose Orochi, eretto, lo sguardo perso nel vuoto mentre dava la schiena a tutti loro. «Sto riacquistando sempre più ricordi e recuperando le mie forze. La voce del mio ritorno già è giunta alle orecchie sbagliate, di questo passo anche gli dei si accorgeranno della mia presenza. E se dovesse succedere, verranno a sterminarci tutti.»

Hikaru, Bunzo e Chioiji si scambiarono alcuni sguardi tesi. Rimasto a braccia conserte e con la schiena appoggiata alla parete, distante da loro, Naito assottigliò le labbra. 

«Quindi che cosa dobbiamo fare, Lord Orochi?» proseguì la kitsune. 

Orochi strinse la presa attorno alla sua falce. «Combattere è da escludere. Anche se bevessi sangue di vergine, non potrei abbattere tutti gli dei. Nemmeno con il vostro aiuto. Sarebbe un massacro.»

Naito si irrigidì. Sentire parlare Orochi in quel modo non era cosa di tutti i giorni. Sembrava teso tanto quanto loro. Si voltò, scrutandoli uno ad uno con i suoi occhi scarlatti. «Per il momento, la mia unica possibilità è rimanere nascosto nello Yomi.»

Hikaru squittì come un pollo. «Lo Yomi?!»

«Gli dei non hanno alcun potere su quel luogo» proseguì Orochi, ignorando il tono della donna. «Lì potrò viaggiare indisturbato e recuperare il resto delle mie forze e dei miei ricordi. Da questo momento in poi, dovremo muoverci separati.»

Orochi si avviò verso una cartina militare del Giappone allargata sopra un ripiano. Toccò con la punta della falce uno sprazzo di terra situato a sud-ovest, affacciato alla costa settentrionale. «Io mi recherò qui, nella Prefettura di Shimane, al Santuario di Suga. Ho… avuto un ricordo, legato a questo luogo. Voi, invece, dovrete continuare a spostarvi. Non lasciate che i nostri inseguitori vi raggiungano.» 

«So dove potremmo andare» disse Hikaru, indicando anche lei un punto sulla cartina, non molto distante da quello indicato da Orochi. «Qui ci sono le rovine di Takeda. Userò i miei poteri per tenere i mortali lontani. Nessuno verrà a disturbarci.»

«Molto bene» convenne Orochi. Si allontanò dalla cartina, imitato dagli altri. Li scrutò uno ad uno, mentre si disponevano in semicerchio attorno a lui. «Ci rivedremo là. In mia assenza…» Posò gli occhi su Naito, che si raddrizzò, ricambiando lo sguardo senza alcuna esitazione. «… lascio il comando a te, Hikaru.»

Orochi spostò lo sguardo su Hikaru, che fece un ampio sorriso. «Non la deluderò, Lord Orochi.»

«Che cosa?!» sbottò Naito incredulo, affondandosi le dita nelle braccia. «Perché lei?!»

«Non sei pronto per guidare un esercito di mostri, Naito» rispose Orochi lanciandogli una fugace occhiata.

Naito schiuse le labbra, mentre Bunzo gorgheggiava divertito e Chioiji frustava l’aria con la lingua. Hikaru distese il sorrisetto, puntando i suoi occhi famelici su di lui.

«Hikaru è antica e potente quasi quanto me. Non ci sarà alcun rischio di insubordinazione con lei al comando. Non sono sicuro di poter dire lo stesso se lo lasciassi a te» proseguì l’uomo. Naito percepì della rabbia trapelare dal suo tono di voce. Non aveva idea del perché. Non ricordava di aver fatto nulla di male, soprattutto qualcosa che avrebbe potuto infastidirlo. Tuttavia, sapeva che discutere era inutile. Serrò la mascella e chinò il capo con un gesto seccato.

«Non temere, Naito-kun. Il tuo ruolo di vice rimarrà invariato» aggiunse Hikaru, strappando dei versi di protesta a Bunzo e Chioiji. 

Doveva essere una buona notizia, ma Naito capì subito le intenzioni di lei. L’aveva fatto apposta, per provocarlo. Era il suo modo per dirgli che non sarebbe mai andato oltre il secondo posto. Strinse i pugni con forza dietro la schiena e si inchinò anche di fronte a lei. 

Quando lasciò la stanza evitò lo sguardo di qualsiasi mostro sul suo cammino, per non rischiare di esplodere e decapitarne qualcuno per la rabbia.

Solo una persona riuscì ad avvicinarsi a lui. 

«Allora, che vi ha detto?» gli domandò Hachidori, affiancandolo, mentre si allontanava lungo il cortile.

Le spiegò brevemente la situazione, cercando di non far trapelare il suo disappunto, ma senza riuscirci.

«Mi dispiace Naito. Ma forse è meglio così. Se ci fossi stato tu al comando, gli altri avrebbero potuto crearti problemi di proposito solo per intralciarti.»

Quella riflessione riuscì a farlo calmare. Smise di camminare verso non sapeva nemmeno dove ed espirò, rilassando le spalle. «Sì, forse hai ragione. Ma credo che dovremo comunque fare attenzione. Fino ad ora nessuno ci ha fatto nulla perché c’era anche Orochi. Senza di lui…»

«Che ci provino pure» sbottò Hachidori, facendo formicolare gli artigli. «Gli strapperò quei vermiciattoli che hanno al posto del…»

«Sì, è tutto chiaro» la interruppe Naito, sorridendo divertito. Se non altro, lei riusciva sempre a farlo stare meglio.

Partirono quella sera stessa. Abbandonarono l’accampamento e scesero lungo la montagna, attraversando un villaggio che gli altri avevano dato alle fiamme mentre lui era con Hikaru sulla montagna. La vista di quelle case bruciate fece nascere emozioni contrastanti dentro di lui, ma si sforzò di ignorarle. Quei mortali non avevano mosso un dito per aiutarlo, quando era stata casa sua a bruciare. Non aveva alcun motivo di provare pena per loro, vecchi, donne o bambini che fossero.

Presto, quel luogo sarebbe stato cancellato dalla memoria delle persone. Sarebbe divenuto soltanto un altro villaggio deserto e abbandonato, perso in mezzo alle montagne. Nessuno ne avrebbe sentito la mancanza, nessuno avrebbe notato la differenza1.

Superarono la muraglia che circondava il villaggio e percorsero un sentiero che conduceva ad un ponte di legno, oltre il quale iniziava la salita di un altro pendio. 

Hikaru procedeva in testa, celata nel suo aspetto di donna umana, con Chioiji sulla spalla, Bunzo accanto e il nekomata al seguito. Naito e Hachidori avevano chiuso la fila. Da laggiù, il ragazzo poteva constatare quanto numerosi fossero davvero diventati. Erano almeno un centinaio. E Orochi aveva detto che la presenza di tutti loro non poteva più mascherare la sua forza, nemmeno con una volpe a nove code. 

Sapeva che Orochi fosse potente, ma non avrebbe mai immaginato fino a quel punto. Non riusciva neanche a carpire una forza tale da sovrastare quell’esercito. Eppure, aveva comunque detto di non poter abbattere gli dei.

«A cosa pensi?» gli domandò Hachidori, interrompendo i suoi ragionamenti.

Notò i suoi occhi verdi che lo scrutavano incuriositi. Ogni volta che lui rimaneva concentrato su qualcosa, lei se ne accorgeva. Diceva che lo capiva dalla sua espressione. Capiva quando era teso, o angosciato, o, come accadeva in maniera più sovente, arrabbiato. Ed era sempre pronta ad ascoltarlo. Incrociò il suo sguardo e fece per rispondere, ma esitò per un istante, quando incrociò quelle iridi luminose. Provò uno strano fastidio al petto, come quasi tutte le volte che la guardava, ma si sforzò di ignorarlo. 

«Pensavo a quello che ha detto Orochi. È così forte da sovrastare tutti noi, ma allo stesso tempo non può battere gli dei, nemmeno con il nostro aiuto. Se nemmeno una simile forza può batterli, che cosa può?»

«Non lo so» ammise Hachidori, scostandosi una ciocca dei capelli color lavanda da di fronte al viso. «Ma da quanto ha detto, non è nemmeno ancora al picco della sua forza effettiva. Sono sicura che ha un piano.»

Un lungo mugugno pensieroso scappò da Naito, che non rispose. Per il momento, l’unica cosa che potevano fare era raggiungere questo nuovo rifugio e attendere prossime istruzioni. 

Iniziarono a percorrere il ponte. Le assi di legno scricchiolarono al loro passaggio, mentre sotto di loro il fiume scorreva con forza, proseguendo a perdita d’occhio. Il rumore dell’acqua che scorreva gli ricordò la cascata vicino a casa sua. Chiuse gli occhi, trattenendo a stento un sospiro che sicuramente Hachidori avrebbe sentito. Non voleva allarmarla e soprattutto non voleva rischiare di parlare del suo passato con lei. Era qualcosa che Orochi aveva vietato ad entrambi. Dovevano dimenticarsi le loro vite precedenti e concentrarsi soltanto su quello che erano in quel momento, soldati al suo servizio, mostri, proprio come lui. 

Anche per quel motivo nessuno dei due aveva mai rivelato il suo vero nome all’altro. Le loro identità mortali non esistevano più, Naosuke non esisteva più, esistevano solo Naito e Hachidori.

Quando arrivarono circa a metà di quel ponte che non sembrava avere fine, udirono alcuni schiamazzi provenire dalla testa del gruppo. Naito corrucciò la fronte e cercò di alzare la testa per vedere cosa diamine stesse succedendo, ma il resto dei mostri di fronte a lui gli bloccò la visuale. L’unica cosa che riuscì a scorgere, furono alcune fiamme che divampavano, seguite dalle grida ben distinguibili di Hikaru. 

I mostri cominciarono ad agitarsi e a ruggire e Naito intuì che erano sott’attacco. Imprecò sotto i denti e sguainò la katana. Un lunghissimo tentacolo blu spuntò all’improvviso dall’acqua, accompagnato dal frastuono delle onde e da altissimi schizzi. Naito spalancò gli occhi per la sorpresa mentre lo osservava agguantare una manciata di mostri sul ponte per trascinarli via, in un turbinio di grida sorprese.

Vi fu un’esplosione improvvisa. Il ponte saltò in aria, facendo volare pezzi di legno come pioggia. Una voragine si aprì di fronte a loro, inghiottendo alcuni mostri, che svanirono nel fiume con degli strilli allibiti. 

«Indietro!» esclamò Naito, saltando via prima che il ponte scoppiasse ancora di fronte a loro, facendo svanire altri mostri nell’acqua. 

«Ma che succede?!» esclamò Hachidori, sguainando i kama mentre indietreggiavano. Dall’altra parte del ponte, tra gli schizzi d’acqua, i mostri che si disperdevano disordinati e i pezzi di legno che saltavano in ogni direzione, vide Bunzo, Hikaru e i mostri rimasti in vetta al gruppo alle prese con delle figure vestite di nero, che li stavano circondando. 

«Dobbiamo raggiungerli!» gridò ancora Hachidori, per farsi sentire in mezzo al trambusto. 

Fece per correre, ma Naito la fermò mettendole un braccio di fronte. «Aspetta!» Puntò la katana di fronte a loro, un istante prima che il tentacolo blu tornasse fuori dall’acqua, scaraventando via altri mostri. Si accorse che in realtà non era un tentacolo, ma un braccio. Un lunghissimo braccio, sottile, dal carnato bluastro, che dopo aver mietuto altre vittime puntò proprio su di loro. 

«Giù!»

Naito si abbassò per non farsi colpire, imitato da Hachidori, e sollevò la katana, riuscendo ad aprire un taglio su quell’arto gigantesco. Un poderoso urlo fece tremare il ponte, mentre il braccio sanguinante si ritirava sott’acqua. Per un momento, tutto tacque. Poi, due mani afferrarono il cornicione ed una figura si issò dal fiume, seguita da un’esplosione d’acqua. Atterrò di fronte a loro, facendo scricchiolare pericolosamente il ponte, accompagnata da una pioggia scrosciante. 

Naito spalancò gli occhi. Era una donna gigantesca, alta almeno otto metri. Sulla testa, incastrate tra i lunghissimi capelli neri, c’erano cinque candele che in qualche modo erano ancora accese. Non poté badare molto alle candele, comunque. Il suo sguardo scivolò immediatamente sul corpo di lei, che era coperto appena da una vestaglia bianca, così bagnata da lasciar comunque intravedere quello che avrebbe dovuto coprire. 

Le guance di Naito bruciarono all’improvviso, mentre si sforzava di guardarla negli occhi nonostante la loro abissale differenza di statura. Aveva la pelle blu, ma non sembrava la carnagione naturale. Era molle e raggrinzita, come se fosse morta annegata.

«Mostri maledetti» sibilò quella, con voce tonante, facendo vagare lo sguardo sopra i pochi yōkai che ancora le erano attorno, Naito e Hachidori inclusi. «Avete distrutto quel villaggio… chi mi venererà adesso?!»

Si fiondò su di loro, abbattendo il pugno su un gruppetto di oni e spazzandoli via. Naito non riuscì a credere ai suoi occhi. Non sapeva se essere intimorito da quella donna o deluso dal comportamento penoso dei suoi compagni, che stavano morendo uno dietro l’altro sotto i suoi colpi.

«È una Hashihime2» borbottò Hachidori a denti stretti, mentre piegava le gambe per attaccare.

Naito la imitò. «Una “donna del ponte”?»

«Più una “dea” del ponte.»

Il ragazzo assottigliò le labbra. Si metteva male. Dopo aver afferrato e scaraventato oltre le colline una Yuki Onna, la Hashihime si voltò verso di loro, furibonda. «La pagherete per quello che avete fatto!» 

Si fiondò su di loro con un salto. I due mezzosangue scartarono di lato per non essere spappolati da lei. Naito evitò un pugno che si schiantò sul ponte, aprendo un’altra voragine. Hachidori la attaccò alle spalle, ferendole una gamba, ma quella si limitò solo a muggire infastidita prima di voltarsi verso di lei, regalando un’apertura a Naito. 

Le saltarono attorno, evitando i suoi pugni devastanti e ferendola ad ogni occasione. Forse la sua forza era quella di una dea, ma la sua tecnica era quella di uno scolaro alle prime armi. Non poteva reggere il confronto contro due guerrieri come loro. Non era la prima volta che combattevano assieme, nessun avversario poteva reggere il confronto con loro due.

«Maledetti ibridi!» tuonò, sfondando di nuovo il ponte proprio nel punto in cui Naito si era trovato un istante prima. 

Hachidori arrivò dietro la sua testa con un salto. Affondò la lama del kama nel suo collo fino al manico, strappandole un urlo agonizzante. Naito saltò e la infilzò al petto, in mezzo ai seni. Quella rovesciò la testa all’indietro, ruggendo per il dolore. 

I due ragazzi ritirarono le armi e saltarono a terra, ferendola ancora una volta alle gambe, Naito da davanti e Hachidori da dietro. La fecero crollare in ginocchio, il corpo blu ricoperto di sangue scarlatto. «La pagherete… la pagherete!»

«Torna nel tuo stupido fiume!» sbottò Hachidori, trafiggendola alla schiena. La donna si inarcò e Naito ne approfittò. Saltò di nuovo e mulinò la katana, incontrando la carne del suo collo e attraversandola di netto. La testa della “dea” volò dritta in acqua, smarrendosi tra le onde agitate del fiume. 

Il corpo mastodontico stramazzò sul ponte ed esplose come un pallone gonfio d’acqua, investendoli entrambi. 

«AH!» Hachidori si rialzò in piedi con un verso di protesta, scostandosi le ciocche di capelli fradici da di fronte al viso. «Schifosa vacca.»

Un sorriso sfuggì dalle labbra di Naito. Rinfoderò la spada gocciolante. «Sei stata brava.»

Gli occhi di Hachidori sembrarono brillare. Gli rivolse un ampio sorriso. «Grazie!» Rimase in silenzio per un istante, ad osservarlo, per poi sbattere le palpebre. «Oh, giusto, anche tu sei stato bravo… credo.»

Le labbra di Naito si inclinarono verso il basso. «Non sei simpatica.»

Per tutta risposta, quella ridacchiò. Si avvicinò a lui e gli posò la mano sul braccio. «Dai, Naito-kun. Lo sai che scherzo.»

Naito avrebbe voluto rispondere, ma le parole si rifiutarono di uscirgli dalla gola quando incrociò il suo sguardo ed il suo sorriso gentile. Poteva sentire gli artigli di lei posati sul suo braccio, ma nonostante fossero così affilati, lo stavano comunque toccando con delicatezza. Quel contrasto era incredibile. Ancora una volta, Naito avvertì uno strano sussulto al petto.

«Stai bene?» domandò Hachidori, facendosi preoccupata. 

Lui trasalì. Era rimasto di nuovo fermo a fissarla come un fantoccio di legno. «Sì, sto bene… e non chiamarmi Naito-kun!» si riscosse, riacquistando la sua espressione tipica.

Hachidori ridacchiò un’altra volta. Aprì la bocca per dire ancora qualcosa, ma una terza voce li fece voltare. «Che è successo qui?!»

Hikaru era di fronte a loro, assieme a Bunzo e al resto dei mostri rimasti in testa. Tutti loro sembravano un po’ percossi, ma comunque in buone condizioni. L’unica priva di alcun segno era la kitsune, che aveva assunto il suo aspetto volpino, con le nove code che spuntavano da sotto il kimono rosso. Osservò inviperita loro due, i buchi nel ponte e le pozzanghere rimaste dei loro compagni spappolati dai pugni della Hashihime. «Perché vi siete fermati?! E dove sono tutti gli altri?!»

«Una Hashihime ci ha attaccati» spiegò Hachidori tornando seria e separandosi da Naito. 

«Una Hashihime?» ripeté Hikaru, con venature di incredulità. «E voi l’avete sconfitta?»

«Sì.»

La kitsune serrò le labbra, osservandoli meticolosa, prima di riportare l’attenzione sul ponte sfondato. Non sembrava davvero convinta, ma allo stesso tempo doveva aver realizzato che simili danni non potevano essere stati arrecati dal nulla. E soprattutto mancavano almeno trenta yōkai all’appello, non potevano essersi volatilizzati. 

«Riprendiamo la marcia» concluse Hikaru, lanciando un’occhiata velenosa verso di Naito. «Tu rimarrai in testa con me, Naito. Hachidori chiuderà la fila.»

Naito corrucciò la fronte. Non l’aveva chiamato con quello stupido nomignolo. Sembrava davvero furibonda. Si scambiò un’occhiata con Hachidori, che pareva sorpresa tanto quanto lui. L’idea di separarsi da lei non gli piacque per nulla.

«ORA!» tuonò Hikaru, facendoli trasalire entrambi. La volpe si voltò senza più attendere e Naito lanciò un ultimo sguardo ad Hachidori, che ricambiò con aria angosciata, dopodiché si mise al seguito del suo comandante.

Percorsero il ponte, evitando i crateri lasciati dalla Hashihime. Per tutto il tempo, Naito sentì gli occhi di Bunzo, Chioiji e tutti gli altri puntati sulla sua nuca. Affiancò Hikaru, che si stava ritrasformando in una donna, sempre con quell’espressione adirata sul volto. Non l’aveva mai vista così, aveva le vene sul collo tese come la corda di un arco. Superarono il ponte e si accorse di decine e decine di corpi senza vita a terra, tutti di donne avvolti in kimono e happi neri, con dei simboli rosa ricamati sopra. «Cos’è successo, Hikaru? Chi sono queste donne?»

«Il maledetto Clan Tsubaki» ringhiò lei, procedendo con passo spedito. «Danno la caccia a Lord Orochi e a tutti i suoi sostenitori.»

Tsubaki. Camelia. Naito ripensò alla leggenda di Orochi, al fatto che, dopo la sua morte per mano di Susanoo, le camelie avessero iniziato a sbocciare dalla terra bagnata del suo sangue. Erano i fiori che venivano utilizzati per ricordare le sue vittime di millenni e millenni prima. Forse erano donne in cerca di vendetta. 

Non erano state molto fortunate.

«Quell’Hashihime era con loro?» domandò a quel punto Naito.

«Non ne ho idea. Non sono nemmeno sicura che mi abbiate detto il vero» aggiunse Hikaru, lanciandogli un’altra occhiata carica di veleno. 

«Stai scherzando, spero. Come avete fatto a non vedere quella donna gigantesca?»

Hikaru volse il braccio verso il cadavere di una di quelle kunoichi. «Eravamo un po’ impegnati, come puoi vedere. L’unica cosa che so, caro Naito, è che la tua resa è stata piuttosto scadente in questi ultimi tempi. Spero che anche tu te ne sia reso conto.»

«Ma che stai dicendo?» sbottò lui, infastidito. «Ho sempre svolto ogni incarico che mi è stato assegnato. In che modo sarebbe “scadente”?»

«Non sei più concentrato su quello che conta davvero. Tutti quanti se ne sono accorti.» Hikaru lo scrutò severa un’ultima volta. «Perché credi che Orochi abbia lasciato il comando a me? Non sei meritevole di fiducia, Naito.»

Naito schiuse le labbra. «Non… non capisco.»

«Sarà meglio che tu capisca, e in fretta anche. O non finirà bene per te.»

Dopo quella frase, Hikaru non gli rivolse più la parola. Naito avanzò in silenzio, confuso dalle sue parole. Non sembrava che la sua rabbia derivasse solo dal disastro sul ponte. Non avrebbe anche menzionato Orochi, altrimenti. 

Cercò quasi d’istinto lo sguardo di Hachidori, per sentirsi più tranquillo, ma sapeva di non poterlo trovare, non in quel momento almeno. 

Abbassò la testa e strinse i pugni. Il rumore dei loro passi si smarrì in mezzo ai boschi.

 

***

 

«Hai fame?» domandò Hachidori, sollevando una lepre ed un grosso uccello morti che reggeva tra gli artigli della mano sinistra.

Naito rimase in silenzio, l’occhio puntato su di lei, convinto di essere ancora dentro un sogno. Avrebbe provato a darsi un pizzicotto, se solo non fosse stato paralizzato.

«Cos’è quella faccia, Naito-kun? Non sei felice di rivedermi?» domandò lei, sogghignando.

«Sei… sei viva…»

«Vedo che l’occhio buono ti funziona ancora bene, Naito-kun!»

Il ragazzo era troppo sconvolto per accorgersi del suo tono e delle provocazioni. Non poteva indietreggiare ancora, perché il suo corpo non poteva attraversare le pareti. «Ma… come…»

«Perché sei così sorpreso?» domandò Hachidori, il sorriso che svaniva dal volto. «Credevi davvero che non ce l’avrei fatta?»

Naito non rispose. Il suo unico occhio rimase puntato su quelli di lei per diversi istanti. E, proprio come quando ancora militavano nell’esercito di Orochi, provò ancora quella sensazione. Quella sensazione che aveva cercato in ogni modo di dimenticare.

Il suo sguardo non era mutato affatto in quei due anni, nemmeno il suo volto. Il carnato rosa, le guance asciutte, le labbra fini e il naso lungo, ogni cosa era come la ricordava. L’unica differenza erano i capelli color lavanda, che un tempo le arrivavano fino alla schiena e che adesso le giungevano appena al collo.

Ma non era quello ciò su cui voleva focalizzarsi. La sua iride finì con lo scendere sul mantello che indossava, messo in modo da coprirle l’intero fianco destro, dalla spalla fino alla vita. Anche Hachidori abbassò la testa, osservandoselo. Le scappò un lungo sospiro. «Immagino di doverti delle spiegazioni.»

«Mi dispiace» sussurrò Naito di getto, stringendo con forza i pugni senza nemmeno accorgersene. «Avrei… avrei dovuto… fare di più. Sarei dovuto venire a cercarti, avrei dovuto…»

«Naito.»

Si interruppe, osservandola mentre gli sorrideva di nuovo, anche se questa volta sembrò soltanto triste. «Va… va tutto bene, Naito.»

Quel sorriso fu più doloroso di qualsiasi ferita gli avessero mai inflitto. Non andava bene, invece. Nulla andava bene.

«Sono felice di vederti» proseguì Hachidori, avvicinandosi a lui, sempre con quel sorriso sul viso.

Naito avrebbe voluto dirle che per lui era lo stesso. Avrebbe voluto dire così tante cose che non sapeva nemmeno da dove iniziare, ma non gliene uscì neanche una. Rimase in silenzio, percependo l’aria di quella capanna farsi sempre più opprimente.

Il sorriso svanì dal volto di Hachidori, che rimase triste e basta. Smise di avvicinarsi a lui ed abbassò la testa afflitta. Gli diede le spalle e andò a posare i due animaletti sul tavolino. Si sedette e, senza dire altro, afferrò l’uccello e gli staccò la testa con un solo morso. Il rumore delle ossa che scricchiolavano tra i suoi denti fu l’unico a riempire la stanza. Naito rimase in piedi ad osservarla, sempre convinto di trovarsi di fronte ad un’allucinazione dovuta al dolore.

Il suo stomaco brontolò all’improvviso, molto più forte di quanto avrebbe voluto, riuscendo a far nascere un sorrisetto sul volto di Hachidori. «Ho preso la lepre per te, se vuoi» gli disse, prima di puntare all’ala dell’uccello e azzannarla con quella voracità che aveva sempre avuto.

Titubante, Naito si avvicinò. Si sedette dall’altra parte del tavolo, mettendosi in diagonale a lei, e afferrò con timidezza la lepre. Affondò i denti nel collo e tirò via la carne grassa, i filamenti che si impigliavano tra gli incisivi. Mangiarono in silenzio. Per tutto il tempo, Naito cercò di pensare alle parole giuste da dire, senza riuscire a trovarne nessuna. Rimase con la bocca chiusa a far vagare lo sguardo dal suo pasto ad Hachidori.

«Ho lavato la tua maglia nel fiume» disse lei all’improvviso, senza guardarlo. «L’ho stesa fuori, ad asciugare. Purtroppo la tua armatura era completamente distrutta. Sono riuscita a recuperare solo le tue armi e la tua cintura.»

«Oh… grazie…» mormorò Naito, sorpreso. «E… per caso… per caso hai trovato anche la mia bisaccia?»

Hachidori abbassò l’uccello, scrutandolo con le guance gonfie, in un’espressione quasi buffa. «Mh?»

«La mia bisaccia. C’era… una cosa dentro. Era importante. L’hai trovata?»

«Non saprei…» rispose lei, dopo aver deglutito. Posò la sua preda sul tavolo, facendosi pensierosa. «A meno che…» Nascose la mano sotto il mantello ed estrasse qualcosa, con un altro sorrisetto divertito. «… tu non stia parlando di questo.»

Naito spalancò l’occhio, osservando il Bushido stretto tra i suoi artigli.

«Da quando ti piace leggere, Naito-kun?» Hachidori infilò le dita tra le pagine e lo aprì, reggendolo nel palmo della mano. Iniziò a leggere con voce bassa e impostata: «Rei: Gentile Cortesia.»

Il ragazzo sentì le guance bruciare. «R-Ridammelo!»

Fece il giro del tavolo e cercò di strapparglielo dalle mani, ma quella si sdraiò su un fianco, spingendolo via con i piedi e continuando a leggere. «I samurai non hanno motivo di comportarsi in maniera crudele! I samurai non hanno bisogno di mostrare la propria forza! Un samurai è gentile anche coi propri nemici!»

«Ridammelo ho detto!»

«Lo sapevo che avevi una vena artistica, nel profondo!» rise lei.

«S-Sta zitta!»

«AAAK!»

Naito le afferrò le caviglie e le spostò le gambe, riuscendo ad ergersi sopra di lei ma inciampando nell’impeto del momento.

«AH!» esclamarono entrambi, quando lei se lo ritrovò sdraiato sopra, i loro volti a pochi centimetri di distanza. Hachidori smise di ridacchiare e Naito si ammansì come un cucciolo spaventato. Si osservarono per diversi istanti, in silenzio imbarazzato, il naso morbido di lei che sfiorava il suo, solleticandoglielo.

Naito sentì il calore del corpo di Hachidori che saliva, soffiando su di lui. Poi, di nuovo il suono della sua risata. Gli sorrise di nuovo, questa volta in maniera dolce. «Mi sei mancato.»

Un lungo brivido lo percorse da capo a piedi. Si alzò di scatto, allontanandosi come se lei avesse appena preso fuoco, cercando di ignorare quella sensazione che lo stava attanagliando. «Potresti… potresti ridarmelo?»

Hachidori lo scrutò dal basso con le labbra dischiuse. Si raddrizzò e gli passò il libro con espressione di nuovo mesta. «Sì, certo…»

Naito tornò a sedersi dal suo lato del tavolo, tenendo il Bushido sulle ginocchia e facendo di tutto per non guardarla. Osservò la lepre che aveva lasciato sopra il ripiano e all’improvviso non sentì più molta fame.

«Che… che cos’è successo, Naito?» domandò di nuovo Hachidori, mentre anche lei tentava di rimettersi a mangiare, imbarazzata. «Chi… chi ti ha attaccato? Chi ti ha ridotto in quelle condizioni?»

Quella domanda lo portò a guardarsi le fasciature. Il pensiero che lei l’avesse spogliato per medicarlo lo fece sussultare di nuovo. Paradossalmente, trovò più semplice parlare di come fosse quasi morto piuttosto che dirle quanto le era mancata. «Mio padre.»

«Che… che cosa?»

Naito assottigliò le labbra. Diede un altro morso alla lepre e masticò con lentezza, per ragionare sulle parole giuste da usare. Le raccontò quello che era successo, quasi bisbigliando per la fatica. Ancora non riusciva a crederci, e non si riferiva solo all’aver conosciuto suo padre. Non poteva credere di aver incontrato prima lui e poi rivisto lei. Era convinto che nessuna di queste due cose sarebbe mai accaduta.

Quando parlò della conversazione che aveva udito prima che arrivasse il Clan Tsubaki, Hachidori sobbalzò, sbattendo il ginocchio contro il tavolino. «Ōtakemaru?!»

Il tono allarmato di lei lo fece trasalire. Incrociò il suo sguardo, accorgendosi della sua espressione angosciata. «Che succede?»

«Hai… hai detto che quella donna l’ha chiamato “Ōtakemaru”?» domandò Hachidori, scandendo bene le parole.

«Sì…»

«E… tu non sai chi sia?»

Il suo silenzio fu una risposta piuttosto chiara per la ragazza. Si sentì un po’ imbarazzato per questo, ma non era mai stato ferrato su quel genere di cose. L’esperta era sempre stata Hachidori, che prese un profondo sospiro. «Ōtake… insomma, tuo padre, è… è uno dei demoni più potenti che siano mai esistiti in Giappone. Come Orochi, o la leggendaria kitsune Tamamo-no-Mae.»

Naito serrò le labbra, non sapendo cosa pensare in merito a quella scoperta. Doveva sentirsi sollevato del fatto di aver perso contro uno dei demoni più potenti del Giappone? O triste perché non aveva avuto speranze contro di lui nonostante avessero lo stesso sangue nelle vene?

O ancora peggio, il fatto che avesse perso nonostante il suo sangue e gli allenamenti di Orochi?

«Ma certo…» disse all’improvviso Hachidori, interrompendo i suoi pensieri. Aveva smesso di assalire l’uccello e aveva lo sguardo smarrito nel vuoto. «Mio… mio padre… è Sōjōbō, il re dei tengu. Il tengu più potente del Giappone.»

Naito sbatté le palpebre, stupito. «Tu conoscevi tuo padre?»

«Io… sì, però… non mi va di parlarne» rispose lei, stringendosi nelle spalle. «Ma ora che abbiamo scoperto chi è il tuo, tutto mi è più chiaro.»

«Che vuoi dire?»

«Non ti sei mai chiesto perché noi fossimo gli unici mezzosangue che Orochi ha preso con sé?»

Naito esitò. Qualche volta ci aveva pensato, in realtà, ma non ci si era mai soffermato troppo a lungo. Aveva creduto che gli altri mezzosangue preferissero rimanere nascosti e non combattere.

«Entrambi i nostri padri sono due dei demoni più potenti del Giappone, potenti quasi quanto lui» spiegò Hachidori, titubante. «Forse… Orochi stava cercando di riunire la progenie degli yōkai più forti. Forse… voleva renderci come loro.»

Per una volta, sembrò lei a non voler incrociare lo sguardo di Naito. E lui non ci mise molto a capire perché. Aveva appena detto che non era stato per merito loro se Orochi li aveva considerati. Però quella teoria non quadrava. Orochi non poteva sapere che Naito fosse figlio di questo Ōtakemaru. All’epoca non ricordava nulla, nemmeno il suo vero nome.

O forse… in realtà lo sapeva. E l’aveva ingannato. Per quale motivo avrebbe proprio dovuto incontrarlo, quel giorno? Aveva sempre pensato che fosse stata una coincidenza, un incontro fortuito, ma forse non era davvero così. Forse Orochi aveva calcolato tutto.

Quel bastardo.

Naito si affondò le unghie nei palmi. L’aveva trovato che era solo un bambino e da quel giorno non aveva fatto altro che cercare di inculcargli la sua dottrina in testa. Doveva pensare come lui, agire come lui, parlare come lui. Come un mostro.

Voleva plasmarlo a suo piacimento. Voleva avere dalla sua parte qualcuno che potesse eguagliare la potenza di Ōtakemaru. E quando aveva visto che non poteva davvero riuscirci, quando aveva capito che per Naito ciò che contava davvero non era più la vendetta, gliel’aveva fatta pagare.

E Naito, come uno stupido, l’aveva comunque seguito in occidente. Si era lasciato abbindolare dalle sue chiacchiere e dalle sue promesse vuote. Strinse i denti per la rabbia senza nemmeno rendersene conto, placandosi solo quando si accorse di Hachidori che lo osservava angosciata.

Si riscosse, prendendo un profondo respiro. «Hai… hai detto che tuo padre è il “re” dei tengu?»

«Sì… perché?»

«Quella donna e mio padre… hanno menzionato qualcosa a proposito di un re. Hanno detto che avrebbero dovuto portarmi da lui, e che mi conosceva perché ero il braccio destro di Orochi.»

«Non credo stessero parlando di Sōjōbō. Soltanto i tengu si rivolgono a lui come “re.” E tuo padre è molto più potente del mio, non si sottometterebbe mai a lui» rispose la ragazza, quasi un con velo di tristezza nella voce. Quasi come se non stesse alludendo soltanto ai loro genitori.

«Quindi… c’è un altro re?» domandò Naito, cercando di ignorare il nodo allo stomaco.

«Non lo so. Forse…» Hachidori esitò, prima di scuotere la testa. «… devo pensarci.»

A quel punto, Naito dubitava che avrebbero anche potuto capire chi fosse quella donna con suo padre. Non l’aveva vista, aveva sentito soltanto la sua voce e Ōtakemaru non l’aveva chiamata per nome. L’unica cosa che sapeva era che dopo il dio misterioso che aveva aiutato Orochi, altri stavano cominciando a muoversi nell’ombra per fare soltanto il fato sapeva cosa.

E lui voleva trovarsi il più lontano possibile da tutto quello.

«Grazie… grazie per avermi salvato dal Clan Tsubaki» disse infine Naito, ripensando a quella figura che volava addosso alle kunoichi, allontanandole da lui. Aveva riconosciuto quelle acrobazie. Era lo stile di combattimento dei tengu, che padroneggiava le mosse aeree.

Hachidori accennò un sorriso incerto. «Immagino… che siamo pari, adesso.»

Naito non rispose. Diede un altro morso alla lepre, abbassando la testa. Poteva sentire gli occhi di lei che lo scrutavano con insistenza. Udì ancora una volta il suo sospiro abbattuto e sentì una stretta al petto, quella stessa stretta che aveva percepito diversi giorni prima, quando la sua immagine gli era balenata nella mente nel cortile del vecchio Musashi.

Rimorso.

«Come… come hai fatto a trovarmi?» domandò, prima che il silenzio si facesse opprimente.

«Ho visto Meishu e le sue passare da queste parti. Credevo fossero di nuovo venute per me, invece mi hanno ignorata. Ho subito capito che stavano cercando qualcun altro.»

«Quindi la conoscevi» mormorò Naito.

Hachidori finì in quel momento di mangiare la sua preda. Sogghignò di nuovo, mostrando alcune piume incastrate tra i denti. «Chi pensi le abbia lasciato quella cicatrice?»

Naito ripensò allo sfregio di Meishu e a quello che gli aveva detto quando l’aveva affrontata. Un piccolo sorriso riuscì finalmente a nascere sul suo volto.

«Che succede? È forse un sorriso quello che vedono i miei occhi?» domandò Hachidori, facendo un verso sorpreso.

Le labbra di Naito si abbassarono, strappandole una risatina. «Ecco, questo è il Naito-kun che conosco!»

Il ragazzo soppresse un altro sorriso, avvicinando di nuovo la lepre alle labbra.

«La… la mangi tutta quella?» domandò ancora Hachidori osservandolo con occhi bramosi, rischiando di farlo sorridere di nuovo.

Naito strappò la zampa posteriore della lepre e la cedette alla ragazza, che si avventò di nuovo vorace su di lei.

«Che è successo a Meishu? L’hai uccisa?» domandò lui, dopo altri attimi di silenzio.

Hachidori smise di attaccare la zampa, rabbuiandosi. «No. Sono riuscita a ferire le sue compagne, ma lei è riuscita a scappare incolumeLa prossima volta non le andrà così bene.»

Altro silenzio. Il fatto che avessero così tanto da dirsi rendeva difficile conversare in maniera ordinata.

«Ho saputo di…» riprese la parola Hachidori, prima di guardare ancora una volta bramosa la lepre. Aveva già finito la zampa. Naito sospirò, poi gliela cedette tutta.

«Yum!»

Divorò di gusto anche la lepre, sporcandosi il volto. «Grazie Naito-kun. Dicevo, ho saputo di quello che è successo in occidente… però non riuscivo a crederci. È… è vero che è stato un massacro?»

Naito storse le labbra. “Massacro” sembrava riduttivo. Raccontò anche quella storia. Parlò dei viaggi nello Yomi, dei piccoli dei greci, di Ama no Murakumo e del piano di Orochi. In realtà, tutto quanto era filato liscio, tolti alcuni intoppi qua e là, principalmente dovuti all’ottusità di Naito. Ma avevano comunque catturato una vergine ed erano in procinto di scambiarla per Ama no Murakumo. Sarebbe andato tutto benissimo… se solo quel piccolo dio non li avesse sterminati tutti.

Edward. Dubitava che avrebbe mai dimenticato quel nome. Così come non si sarebbe dimenticato del suo amichetto, Konnor. 

Se aveva perso la voglia di vendicarsi, alla fine, era stata anche causa loro. Non sapeva se odiarli per questo od essergli grato.

E poi c’era lei, la vergine, Rosa. Naito alzò lo sguardo, accorgendosi degli occhi di Hachidori ancora puntati su di lui mentre parlava. Sussultò per un istante. Erano uguali a quelli di Rosa. O forse… erano quelli di Rosa ad essere uguali a quelli di Hachidori.

«Quindi… l’ho scampata bella» concluse Hachidori, a racconto concluso, senza accorgersi del suo tentennamento.

«Suppongo di sì…» mormorò Naito, stringendosi nelle spalle. Se non altro lei era ancora viva.

«Davvero… davvero non vuoi più vendicarti?»

Naito non rispose, limitandosi a conficcarsi ancora di più le dita nelle spalle.

«Vuoi davvero arrenderti così?» insistette Hachidori.

«Sì.»

«Non… non puoi dire sul serio.»

«Sono serissimo invece.»

Hachidori sembrava incredula. «Ma… perché?»

Naito inspirò profondamente. «Perché ho scoperto la verità.»

Osservò la ragazza, con il suo unico occhio. Aveva perso l’altro, eppure, da quando era tornato in Giappone, aveva iniziato a vederci molto meglio di prima. «Gli dei non possono essere sconfitti, Hachidori. Non siamo nemmeno riusciti a sconfiggere i loro figli. È una battaglia a senso unico.»

«Quindi… a te sta bene che continuino ad ordinare ai loro seguaci di darci la caccia?»

Ancora una volta, Naito rimase in silenzio. Non gli stava bene, affatto. Ma non c’erano molte alternative. Combattere da soli era un suicidio e dopo la disfatta di Orochi non era affatto in vena di unirsi a qualche altro folle che programmava di rovesciare gli dei. E in ogni caso, i mostri detestavano i mezzosangue tanto quanto, se non di più, degli stessi dei e mortali. Soltanto Orochi aveva cercato di includere anche loro, e Naito aveva appena scoperto che in realtà l’aveva fatto per via dei loro genitori.

Chissà quanti mezzosangue Orochi aveva ignorato durante il suo percorso. E chissà quanti ne aveva uccisi senza dire mai nulla. Nemmeno lui era diverso dagli altri mostri, o dagli dei che avevano cercato di assassinare Naito.

Tuttavia, qualcuno di diverso in realtà c’era

«Puoi essere meglio di così. Sta solo a te riuscire a capirlo.»

«Forse gli dei non possono fare niente per te, Naito, ma tu… tu puoi ancora fare qualcosa.»

«Non mi interessa ciò che quelle donne hanno detto, Naosuke. Il pericoloso criminale che cercavano non ha nulla a che vedere con la persona che mi ha fatto compagnia in queste settimane.»

Konnor, Edward, il vecchio Musashi. Non sapeva perché non l’avessero ucciso e basta. Non sapeva che cosa avessero visto in lui. In compenso, aveva capito quello che avevano cercato di dirgli.

«L’unico modo per cambiare le cose…» cominciò a dire, ponderando bene sulle parole. «… è quello di cambiare la percezione che gli altri hanno di noi. Se… se dimostrassimo agli dei e ai mortali che… che non siamo quello che credono, che meritiamo anche noi di vivere a prescindere da chi siano i nostri genitori, forse… forse ci lascerebbero stare.»

«“Forse?”»

Naito si strinse nelle spalle. «È l’unica opzione che rimane. L’alternativa è nascondersi o farsi uccidere.»

Ora fu il turno di Hachidori di rimanere in silenzio. Tenne gli occhi posati su di lui, assorta. Naito non conosceva la sua storia, ma sapeva che nemmeno per lei era stato facile, in passato. In particolare da quando era stata allontanata dall’esercito di Orochi, era certo che i mortali, il Clan Tsubaki in particolare, le avessero reso la vita un inferno. Era sicuro che gli avrebbe dato del folle per pensarla in quel modo, e forse non avrebbe avuto tutti i torti.

Invece, la sentì sospirare profondamente un’altra volta. «Hai qualche idea su come potremmo fare?»

Naito batté le palpebre, credendo di aver sentito male. «“Potremmo?”»

Hachidori riacquisì la sua solita compostezza. «Sì, potremmo. Cos’è, credi davvero che dopo così tanto tempo ti lascerei da solo? Non dureresti una settimana senza di me. Se proprio vuoi andare a suicidarti in qualche folle modo, lascia almeno che ti accompagni.»

Il ragazzo schiuse le labbra, sconvolto. E anche intimorito. «Hachidori…»

«Ti prego, Naito» disse ancora lei, affondando gli artigli sul tavolino. Il suo sguardo cambiò, facendosi quasi implorante. E anche la sua voce si abbassò, diventando un sussulto venato di tristezza. «Non… non faccio altro che pensare a… a quella maledetta notte. So… so di aver sbagliato e so che… che hai tutte le ragioni per odiarmi. Lo capisco. Ti chiedo solo di… darmi un’occasione. Non sei l’unico che cerca di rimediare ai suoi errori. Lascia che venga con te. Ti prego.»

La stretta al petto di Naito tornò a farsi sentire. Osservò il mantello che Hachidori indossava, per coprire quel marchio indelebile che mai sarebbe riuscita a cancellare. Aveva già pagato per i suoi errori. Non aveva bisogno di farsi perdonare da lui. Non c’era nulla per cui dovesse perdonarla. Sospirò a sua volta, per poi abbozzare un sorrisetto. «Possibile che tu debba sempre credere che io ti odi?»

Vide la sua espressione cambiare di nuovo e le sue labbra ritornare verso l’alto. «Non… non sei arrabbiato con me?»

«Non ho fatto altro che provare rabbia per tutta la vita, Hachidori. Sono stanco. Anche se volessi odiarti, non credo proprio di poterci riuscire in queste condizioni.»

«Oh… questo… mi fa stare meglio… credo.»

Una tenue risata sfuggì dalla gola di Naito, ma si impose di ricacciarla subito indietro. Purtroppo, però, ormai Hachidori l’aveva sentita. «Naito-kun!» esclamò con un ampio sorriso. «Era forse una risata quella??»

«No. E smettila di chiamarmi Naito-kun. Non era divertente all’inizio e non lo è adesso.»

Per tutta risposta, Hachidori ridacchiò. «Va bene, va bene… non mi hai ancora detto quello che hai in mente, comunque. Come speri di far cambiare idea su di noi?»

Naito esitò. Il nulla aleggiò nella sua mente. La teoria era sempre la più semplice, del resto. Dovette sembrare davvero smarrito, perché Hachidori sogghignò di nuovo, scuotendo la testa. «Fammi capire bene, Naito, prima fai lo spavaldo con “dobbiamo cambiare la percezione su di noi” e poi quando ti chiedo cosa pensi di fare rimani a bocca aperta come una carpa koi?»

Le guance di Naito bruciarono per l’ennesima volta. «E tu ce l’hai un’idea, invece, visto che ti diverti tanto a sbeffeggiarmi?»

«Sì.»

«Visto… aspetta, cosa?»

Hachidori distese il suo sorriso, lanciandogli un’occhiata che gli penetrò l’anima. «So cosa possiamo fare, Naito-kun.»

«Che… che cosa allora?» domandò lui, sempre più incredulo.

«Hai mai sentito parlare… dell’Elisir di lunga vita?»

 

                                                                                                                                                                                        

 

 

1Questa è un po’ una teoria inventata da me, anche per non lasciarmi dei buchi di trama dietro. I templi, i villaggi i santuari e così via distrutti dai mostri sono stati “dimenticati” o meglio “oscurati” dalla Foschia/Nebbia, rendendoli semplicemente luoghi distrutti da cause naturali e/o abbandonati, e magari un giorno diventeranno parte della "leggenda dei mostri che si aggiravano per i monti a fare fuori tutti". E così il ciclo delle leggende continua, all'infinito.

2In soldoni, le Hashihime sono un po’ come gli spiriti dei fiumi, solo che loro vivono sotto i ponti (letteralmente) dei corsi d’acqua, e le persone che popolano i villaggi vicino a questi ponti sono soliti venerarle in santuari e altari dedicati a loro. Sono molto gelose e territoriali, e se sentono qualcuno parlare bene di un altro ponte che non sia il loro sono solite, come si dice in gergo, ad “incazzarsi come iene”. Delle tipette interessanti, insomma.

Qui lascio il disegno che ho fatto di Hachidori: https://www.deviantart.com/edoardo811/art/Hachidori-la-mezza-tengu-l-Elisir-di-lunga-vita-889964709

 

 


Salve amici, eccoci alla fine del nuovo capitolo! Grazie per aver letto, spero vi sia piaciuto!

Faccio alcune precisazioni, non vi ruberò molto tempo. Innanzi tutto, parliamo di quando è ambientata questa storia, per togliere ogni dubbio. 

Dunque, la timeline completa è questa: la Spada del Paradiso è ambientata all’inizio dell’estate, durante le prime settimane di giugno, e la raccolta si spalma lungo i mesi successivi, luglio e agosto. Questa storia qui, invece, è ambientata un paio di mesi dopo, siamo nel cuore dell’autunno, a metà ottobre, circa. Quindi i fatti della Spada sono molto recenti, in sostanza, e i due anni di cui Naito fa accenno sono riferiti all’episodio in cui lui e Hachidori si sono separati, che è accaduto, appunto, due anni prima i fatti della Spada (infatti lei non c’era in quella storia). 

Poi, parliamo del padre di Naito per un secondo. Dunque, Ōtakemaru, come Orochi, è un demone che esiste davvero nel folklore, così potente da essere considerato un “kijin” cioè mezzo demone (ki) e mezzo dio (jin). 

Stando alle mie ricerche, Orochi non è un kijin, è solo un dragone potentissimo, perciò a rigor di logica il padre di Naito sarebbe più forte di lui, tuttavia Orochi è molto più antico di Ōtakemaru e anche di tantissimi altri mostri, e per sconfiggerlo c’è voluto un dio, mentre per quasi tutti gli yōkai comuni sono “bastati” dei samurai (che a questo punto possiamo considerare i “semidei” giapponesi), quindi penso sarebbe corretto pensare che alla fine sia Orochi il più forte… tra quelli che ho mostrato fino ad ora, ovvio.

Comunque sia, più luce verrà fatta sulla faccenda, sia del “re” misterioso che della donna sconosciuta.

Ringrazio Nanamin, Roland, Farkas e Fenris per le recensioni, e invito anche chi legge in maniera costante, ma non l’ha ancora fatto, a recensire. Dopotutto, è anche merito dei temerari che recensiscono se questa storia esiste e prosegue. 

Bene, grazie mille, ai recensori in particolare, e nulla, per il momento è tutto, ci vediamo al prossimo aggiornamento!

 

 

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Capitolo 8
*** La Valle dell'Inferno ***


La valle dell’Inferno

 

 

«L’Elisir di lunga vita?!» domandò Naito, convinto di aver sentito male.

«L’Elisir di lunga vita» annuì Hachidori, con un sorriso soddisfatto.

Naito la osservò ancora per qualche istante. «L’Elisir di lunga vita…» ripeté, scuotendo la testa con un sorrisetto incredulo.

«Questa conversazione non ha alcun senso.»

«No, quello che dici tu non ne ha!» esclamò a quel punto lui. «L’Elisir di lunga vita fa parte di una leggenda cinese, non giapponese! Non so tu, ma io non ho nessuna intenzione di invischiarmi con altre culture. Mi è bastato conoscere i greci.»

«Ti sbagli, Naito. L’elisir esiste anche qui in Giappone.»

«Ah sì? E allora dov’è?»

Hachidori esitò. «È questo il punto. Nessuno l’ha mai trovato. Ma c’è, ne sono sicura.»

«Come puoi dirlo con certezza?» interrogò allora Naito. 

«Una volta ho… ho sentito Hikaru che ne parlava con gli altri.»

Naito venne pervaso da una sgradevole sensazione di déjà-vu. Perché c’era sempre quella volpe di mezzo?!

«Ha detto che esiste, ma che è stato nascosto bene» proseguì Hachidori, tamburellando nervosa con gli artigli sopra il tavolino. «Se riuscissimo a trovarlo… forse i mortali ce ne saranno grati.»

«Anche se davvero esistesse, e continuo a dubitarne, non vedo come potrebbe aiutarci. Se gli dei scoprissero che abbiamo trovato il modo di diventare immortali, non pensi che si arrabbierebbero ancora di più?»

«Io… non ne sono sicura, ma non credo che l’elisir dia davvero l’immortalità. “Allunga” la vita, e basta. Può significare un mucchio di cose diverse. Potrebbe essere la cura per qualsiasi malattia, o magari rimarginare una ferita mortale, oppure potrebbe donare qualche anno di vita in più a chi lo beve, ma non può rendere immuni alla morte. Non esiste nulla di così potente.»

«E allora perché è così ben nascosto?»

«Non lo so» ammise Hachidori, stringendosi nelle spalle. «Quello che so è che non abbiamo un’alternativa migliore. Se due mezzosangue riuscissero a trovare l’elisir, qualcosa che migliaia e migliaia di guerrieri, samurai e anche mostri non sono mai riusciti a trovare, e lo donassero ai mortali, o anche agli dei come gesto di pace… non pensi che getterebbe una nuova luce su tutti noi?»

Naito assottigliò le labbra. Se la mettevano in quel modo, era un piano con una parvenza di senso. Tuttavia non era affatto convinto. «Sì, forse hai ragione. Ma sei davvero sicura di volerlo cercare per donarlo ai mortali?»

«Che vorresti insinuare?» chiese lei, con uno strano tono di voce.

«Voglio dire che se davvero riuscissimo a trovarlo, allora da una parte avremmo qualcosa che forse potrebbe cambiare le cose. Dall’altra, invece, avremmo l’Elisir di lunga vita tutto per noi. Penso che qualcosa del genere farebbe gola a chiunque, anche a chi è mosso dalle più nobili intenzioni.»

«Vivere per sempre costretti a fuggire e a combattere non è vita, Naito. L’unica cosa che l’elisir può fare per noi è aumentare la durata di questo supplizio. Se dovessimo trovarlo, non ho alcuna intenzione di usarlo per me stessa» disse Hachidori, con voce dura. Sembrava perfino offesa.

Naito annuì. «Perdonami, non volevo sembrasse che stessi dubitando di te. Avevo bisogno di essere sicuro.»

«Puoi esserlo. Anche se… se abbiamo preso strade diverse per un po’, rimani comunque… rimani comunque mio amico, Naito-kun. Puoi fidarti di me.»

Hachidori gli sorrise di nuovo e Naito ricambiò timidamente. Orochi era morto, non doveva sentirsi più intimorito dalla presenza di lei. La conosceva, sapeva che era una brava persona. Non era giusto nei suoi confronti che fosse così rigido, specie con tutta la fatica che lei stava facendo per andargli incontro. Non doveva essere affatto semplice, dopo tutto quello che era successo tra loro.

«Anche… anche tu mi sei mancata» mormorò, di getto. Se ne pentì non appena lei lo guardò stranita. «Oh… va bene, ma questo cosa c’entra adesso?»

Naito spalancò l’occhio, percependo quell’ormai molto familiare pizzicore alle guance. «E-Ecco… tu prima me l’hai detto e io non… non…»

La risatina divertita di lei interruppe il suo patetico spettacolino. «Sono felice di sentirlo, Naito-kun. Ora però dovremmo concentrarci su altro.»

Il ragazzo annuì di nuovo, grato che per una volta non avesse deciso di rincarare la dose. Sapeva, comunque, che prima o poi lei gliel’avrebbe rinfacciato. «Sai da dove potremmo cominciare a cercare l’elisir?»

«Meglio. Forse conosco chi può dirci dov’è.»

Naito schiuse le labbra, osservando il sorrisetto di lei mentre si allargava. «Conosci la Valle dall’Inferno, Naito-kun?»

«Non… non vorrai mica dire…» cominciò Naito, realizzando immediatamente dove stesse andando a parare. 

«Sì» confermò Hachidori, sempre con quel sorriso soddisfatto che in quel momento sembrava più minaccioso che rassicurante. «Prendi le tue cose, Naito-kun. Partiamo subito!»

 

***

 

C’era qualcosa di diverso nell’aria. Naito se ne accorse non appena mise piede fuori. Il cielo era chiaro, ma non sembrava davvero sereno. Era come se si fosse congelato un’istante prima di peggiorare. Il sole splendeva, ma i suoi raggi sembravano freddi. 

Inspirò ed espirò, buttando fuori nuvole di fiato condensato. Trovò la sua maglia appesa sopra un filo per stendere i panni, appena fuori dalla capanna di Hachidori. La indossò sopra le fasciature, sentendosi subito più tranquillo. Non gradiva affatto l’idea di essere a petto nudo di fronte alla sua compagna di viaggio, anche se coperto da bende. 

Indossò la cintura e si mise a tracolla i foderi delle spade e la bisaccia. Sollevò il cappuccio sopra i capelli e pensò di essere tornato come nuovo, tolte le placche di armatura mancanti. Avrebbe dovuto fare più attenzione da quel momento in poi.

Hachidori lo affiancò. Sotto il mantello che le copriva il fianco si intravedevano una camicia e dei pantaloni strappati color kaki. Teneva alcuni kunai appesi alla cintura, più il fodero di una wakizashi nascosto dal mantello. Erano le stesse armi delle kunoichi del Clan Tsubaki. Doveva averle rubate da loro, quando era rimasta disarmata due anni prima. Naito sentì ancora una volta il rimorso consumarlo dall’interno, ma lei non sembrò accorgersene.

«La Valle è ad un giorno di viaggio da qui» esordì lei, lanciandogli un’occhiatina. «Ma possiamo fare molto prima.»

«Vuoi viaggiare nello Yomi?»

«Quello è il modo con cui siete andati in occidente, giusto?»

«Sì… però…» Naito esitò. Provò a concentrarsi, a richiamare l’oscurità di quel luogo, sentirsi un tutt’uno con essa, come Orochi gli aveva insegnato. Sarebbe dovuto sprofondare nel terreno, il suo corpo avrebbe dovuto dissolversi e avrebbe dovuto ritrovarsi proprio lì, di fronte a quella capanna, ma nel mondo dell’oscurità, dove non c’era alcuna luce.

Non accadde nulla. Rimase fermo, accanto ad Hachidori.

Strinse i pugni, corrucciato. 

«Naito? Stai bene?»

La voce preoccupata di lei lo fece riscuotere. «Non… non ci riesco, Hachidori. Mi dispiace.»

«A fare cosa?»

Naito spostò lo sguardo su di lei, accorgendosi della sua espressione confusa. «A… a viaggiare nello Yomi» spiegò, incerto. «Non… non ci riesco.»

«Non ho mai detto che avremmo dovuto farlo, Naito-kun.»

Hachidori ridacchiò di nuovo, forse per l’espressione da carpa koi che lui fece. 

«E… e allora come dovremmo muoverci più rapidamente?» domandò Naito.

«Uhm… correndo?»

Naito aprì bocca per rispondere, ma rimase in silenzio.

«Non dirmi che sei fuori allenamento, Naito-kun» aggiunse Hachidori, squadrandolo divertita. 

«N-No, certo che no…» mugugnò lui, imbarazzato per non averci pensato prima. Aveva trascorso settimane camminando, perché non mosso da alcuna fretta. L’idea di correre nemmeno gli aveva sfiorato la mente.

Hachidori cominciò a camminare verso il bosco. «Dai, sbrighiamoci. Cerchiamo di arrivare entro sera.»

«Va… va bene.» 

I due compagni cominciarono a correre. Mentre seguiva Hachidori, Naito ripensò a quello che era successo poco prima. Non era riuscito a viaggiare nello Yomi. Non era riuscito a fare ciò che i demoni come lui avrebbero dovuto senza difficoltà. Le parole di suo padre gli rimbombarono nella mente:

«Non sei un demone, Naosuke. Sei solo un mortale con le corna.»

Naito strinse i denti, scacciando l'immagine di quel bastardo.

 

***

 

Proseguirono a lungo nel bosco, lasciandosi alle spalle una scia di foglie che svolazzavano sospinte dal loro passaggio.

Erano dei mezzosangue, erano molto più veloci e prestanti di qualsiasi mortale, ed erano anche allenati, perciò avrebbero potuto continuare finché non sarebbero arrivati. Non parlarono molto durante il viaggio, soltanto Hachidori di tanto in tanto interrompeva il silenzio per dare le giuste indicazioni, anche se non era davvero necessario. 

Erano mostri per metà, dopotutto, le montagne erano la loro casa, sapevano orientarsi piuttosto bene, in maniera che Naito non sapeva spiegarsi davvero. Era come se fosse normale, per lui. Ad aiutare, poi, c’era anche il fatto che avesse percorso già quella strada, ma in verso opposto.

Quel tragitto avrebbe richiesto un giorno di camminata, per loro durò giusto un paio d’ore. A giudicare dalla posizione del sole, erano partiti dalla capanna di Hachidori poco prima di mezzogiorno ed ora doveva essere pomeriggio inoltrato. Il cielo stava già cominciando a scurirsi, in quel periodo dell’anno le giornate duravano sempre di meno. Quel giorno in particolare, la notte sembrava quasi impaziente di giungere per coprire quel cielo quasi fittizio.

Dovevano sbrigarsi, se si fosse fatto buio sarebbe stato molto più difficile per loro fare ciò che Hachidori aveva in mente. 

La sua idea non convinceva affatto Naito, ma ancora una volta, era l’unica scelta che avevano. Per trovare l’elisir dovevano cominciare da qualche parte, o da qualcuno, e colui che stavano cercando, nel bene e nel male, era la persona giusta.

Creatura, giusta.

Uscirono dalla vegetazione, arrivando in cima ad una vetta. Da lì, le valli del monte Tate si stagliarono maestose, smarrendosi verso l’orizzonte. Naito osservò di nuovo quel paesaggio che già aveva visto, mentre era diretto verso casa. Non avrebbe mai creduto che ci sarebbe tornato tanto presto. Il suo sguardo scivolò sui fiumi che attraversavano le valli innevate e verdi e si domandò se da qualche parte ci fosse ancora quel kappa che aveva avuto il dispiacere di conoscere.

«Ci siamo.» Hachidori indicò un’alta cappa di nebbia bianca che si sollevava in lontananza, circondata da una fitta boscaglia nascosta tra delle colline verdi, viola e rosse. La Valle dell’Inferno si trovava laggiù. «Sbrighiamoci.»

Scesero lungo il pendio, affrettando il passo. Oltrepassarono quella foresta ancora ricoperta di neve, dagli alberi spogli e secchi, come spettri prosciugati dal clima freddo, e sbucarono sull’orlo di una gola formata da scogliere ripide e appuntite, così alte da far venire le vertigini. Da lassù poterono scorgere un lungo fiume dall’acqua bianca per via del vapore che saliva fino in cielo, mandando quella cappa che loro due avevano intravisto in lontananza. 

Decine, forse centinaia di scimmie erano immerse in acqua, anche se alcune stavano cominciando ad arrampicarsi sulle scogliere per rifugiarsi di nuovo nei boschi, in vista della sera.

Eccola, la Valle dell’Inferno. Un nome altisonante ed evocativo per definire delle sorgenti termali naturali dove le scimmie andavano a farsi il bagno durante i climi più rigidi1

Scesero lungo la scogliera, facendo attenzione a dove mettevano i piedi. Naito pensò che Hachidori avrebbe faticato, invece i suoi piedi e la sua mano artigliati le resero la discesa molto più semplice di quanto lo fu per lui. 

Riuscì ad arrivare a riva senza precipitare o dilaniarsi e seguì la compagna verso il fiume, dove quelle bestiacce continuavano a farsi il bagno incuranti. 

«Tieni la mente libera e lascia parlare me, Naito-kun» mormorò Hachidori. Naito fu molto felice di obbedire.

Quando furono abbastanza vicini alcune scimmie si allarmarono, emettendo i loro fastidiosissimi striduli. Dovettero rendersi conto che non erano due mortali andati a gettargli del cibo. Chi si trovava sulla loro sponda del fiume cambiò immediatamente lato e tutte andarono a mettersi a fianco di una scimmia più grossa, che posò il suo sguardo annoiato sui nuovi arrivati.

Naito ricambiò quello sguardo, serrando le labbra. Poteva sembrare davvero un grosso macaco, ma i suoi occhi erano molto più grandi del normale, venati di rosso, le pupille spiritate. Le sue mani erano lunghe e affusolate, il pelo era sporco e irto nonostante fosse a mollo nell’acqua calda.

Satori2. Lei e tutte le altre lo erano. I mortali credevano fossero semplici scimmie, ma lui e Hachidori potevano vederli per quello che erano realmente. E a Naito non piacevano per niente le satori. Le aveva già incontrate, assieme ad Orochi. Erano ottime fonti di informazioni, ma erano anche imprevedibili e, soprattutto, meschine.

«Che cosa vuoi questa volta, Hachidori?» mugugnò proprio la scimmia più grossa, osservando la ragazza con fare svogliato.

«Panji» affermò Hachidori. «Siamo qui per…»

«L’Elisir di lunga vita» borbottò Panji, con voce annoiata. Il suo sguardo era vitreo, assente. Non sembrava nemmeno che riuscisse a vederli. «Non siete i primi a venire a chiedermelo. E come ho detto anche a tutti gli altri, non ho idea di dove sia. Ora levatevi dai piedi. Ti ho già detto che non voglio pidocchiosi mezzosangue attorno al mio fiume.»

Hachidori strinse la mano a pugno. Naito fece un passo avanti, commettendo l’errore di infastidirsi.

Panji posò gli occhi pigri su di lui. «Sei arrabbiato perché ho offeso la tua amica… Naito-kun?»

Naito serrò le labbra, lanciando un’occhiata ad Hachidori, che dal canto suo sembrò arrossire imbarazzata. 

«Ti chiedo scusa, “solo” Naito, ma Hachidori ti aveva detto di non pensare a niente, e invece è proprio quello che stai facendo.» Un inquietante sorriso prese forma sul volto della satori. I sorrisi delle scimmie erano sempre orribili da guardare. «Ma vedo che Naito e Hachidori non sono nemmeno i vostri reali nomi… ditemi un po’, sarebbe un vero peccato se li scoprissi e li rivelassi, giusto? Oppure potrei dire io quello che voi non avete il coraggio di dirvi a vicenda… per esempio il tuo desiderio più recondito» borbottò, lanciando un’occhiata eloquente ad Hachidori, che si irrigidì.

«Sei a conoscenza di quello che pensa davvero la tua amica, Naito? O forse per te è “più” che un’amica…»

Le altre scimmie cominciarono a sghignazzare sotto i baffi. Alcune si alzarono dall’acqua, mostrando gli artigli. Panji rimase immobile, compiaciuto. «Andatevene, prima che vi faccia pentire di essere venuti fin qui. Ci sono così tante cose che potrei dire che…»

Non terminò la frase. Naito scattò verso di lui, attraversando l’intero fiume con un balzo e afferrandolo per il collo. Panji strillò di sorpresa e si ritrovò catapultato sulla riva, la lama della wakizashi pressata contro al collo. Il suo sguardo spiritato si incrinò con una vena di paura. 

«Dì un po’, questo l’avevi previsto, stupido lancia escrementi?» sibilò Naito.

«Devi migliorare con gli insulti, Naito-kun» borbottò Hachidori, affiancandolo.

Panji rimase a bocca aperta, mentre le altre scimmie fuggivano via terrorizzate, riversandosi fuori dall’acqua e arrampicandosi sulle pareti come se avessero visto un Ashura. Tipico delle satori, facevano le spavalde con i numeri ma non appena una di loro veniva aggredita tutte fuggivano a gambe levate.

Nel giro di poco tempo, il “capo” delle satori rimase solo soletto in compagnia di due mezzosangue che non si fecero alcuno scrupolo ad immaginare quello che avrebbero adorato fargli se non li avesse aiutati.

«L-La mia carne non ha affatto un buon sapore!» piagnucolò con voce spaventata, rivolto ad Hachidori. «E la mia pelliccia non tiene caldo!» aggiunse, ora verso di Naito.

«L’elisir» ordinò Hachidori. «Ora

«V-Ve l’ho già detto, non lo so dove sia! Nessuno lo sa!»

Naito e Hachidori si scambiarono uno sguardo. Lei si strinse nelle spalle.

«Aspettate, non fatemi allo spiedo!» esclamò ancora Panji, tentando di dimenarsi inutilmente dalla presa di Naito. «D’accordo, forse… forse qualcosa lo so, ma non è niente di certo! Sono solo voci che ho sentito in giro! E no, non le ho sentite dalla tua amica Hikaru» disse anche, sempre a Naito. «Okay, non è tua amica, ma hai capito cosa intendo dire!»

Il ragazzo serrò la mascella. Era difficile rimanere a mente vuota, bastava una semplice parola per evocare dei pensieri che quello sgorbio avrebbe potuto leggere e usare contro di lui.

«Non lo farei mai, te lo giuro!» petulò ancora Panji, strappandogli un ringhio infastidito. «Dicci cosa sai dell’elisir e falla finita!»

«Sono solo voci, come ho detto prima, però pare che l’imperatore l’abbia nascosto alle Tribune Negishi!»

«Le Tribune Negishi?» domandò Naito, confuso. 

«Imperatore?» fece eco Hachidori. «Intendi l’imperatore del Giappone? Della famiglia reale?»

«Sì, sì! Lui!» 

Naito corrucciò la fronte. «Pensi che l’imperatore avesse l’elisir?» 

«“Io” non penso nulla, sono gli altri a farlo! Io riporto solamente quello che sento» protestò Panji, prima di ammansirsi sotto lo sguardo eloquente di Naito. 

«Le… le Tribune Negishi erano un ippodromo» cominciò a spiegare la satori. «Commissionato dall’imperatore Meiji, che durante la seconda guerra mondiale venne riconvertito a base militare. Dicono che durante quel periodo abbiano aggiunto tunnel sotterranei e una stanza segreta, blindata, impossibile da accedere. E dicono che l’imperatore Shōwa abbia voluto custodirci la sua arma più potente, che sperava potesse ribaltare le sorti della guerra. Tuttavia, gli americani vinsero prima che potesse usarla3

Naito non era un esperto di storia, ma sapeva quello che era successo un secolo prima. Orochi non era stato l’unico ad immischiarsi con gli occidentali con risultati catastrofici. Conosceva quello che i mortali avevano fatto al loro paese. E a quel pensiero, sentiva la pelle accapponarsi. Lui era un mostro, aveva conosciuto mostri, aveva lavorato per uno che si nutriva di vergini. Eppure la sua storia, a confronto con quello che gli americani avevano fatto, sembrava una favoletta da raccontare ai bambini.

Quando pensava a storie di quel tipo, si domandava perché mostri come Orochi volessero uccidere i mortali. Gli sarebbe bastato rimanere fermi e lasciare che loro si autodistruggessero da soli, come stavano già facendo, del resto. 

«Quindi… credi che l’imperatore volesse usare l’elisir per ribaltare le sorti della guerra?» domandò Hachidori, sorpresa. 

«Ho già detto che “io” non…» Panji si interruppe, decidendo invece di annuire e basta. «Gli… gli americani si impadronirono delle Tribune, dopo la vittoria, ma non seppero mai dell’esistenza della camera, che rimase sigillata. Secondo le voci, qualunque cosa ci fosse al suo interno, è ancora lì.»

«Perché l’imperatore non è mai tornato a riprendersela?» domandò allora Naito, scettico.

«Credo di saperlo io» mormorò Hachidori, smarrendosi con lo sguardo nel vuoto. «Quando il Giappone ha perso la seconda guerra mondiale… l’imperatore Hirohito Shōwa è stato costretto ad ammettere di non avere alcuna discendenza divina4. E forse, per questo motivo… ha preferito non cercare più l’elisir. Forse era l’elisir a rendere la famiglia reale… “divina.”»

Naito ricordò la leggenda di Jinmu, il primo imperatore. Dicevano fosse un discendente diretto di Amaterasu, motivo per cui si era sempre creduto che la famiglia reale fosse divina, ma lui non ci aveva mai creduto davvero. Forse i primissimi imperatori erano davvero “divini”, ma a distanza di così tanti secoli e millenni il sangue di Amaterasu che scorreva nei loro discendenti doveva essersi ridotto ad una frazione infinitesimale, al punto da renderli “mortali” tanto quanto i loro sudditi. 

Il fatto che l’imperatore avesse accesso a qualcosa come l’elisir era plausibile, tuttavia la teoria di Hachidori non lo convinceva. Ripensò a quello che aveva imparato da Orochi e da Miyamoto. 

«E se invece…» cominciò a dire, lasciando andare Panji, che squittì ancora spaventato. «… il legame tra l’imperatore e gli dei si fosse davvero reciso, dopo che ha dichiarato di non essere un loro discendente? Magari non ha scelto di non cercare più l’elisir. Magari… l’ha dimenticato. Un po’ come i mortali che quando smettono di avere fede “dimenticano” gli dei, o i mostri. Forse la Nebbia gli ha cancellato la memoria.»

«La Nebbia?» domandò Hachidori, confusa, e per una volta Naito si sorprese di essere quello che sapeva di più dei due. Con un sorriso compiaciuto, le spiegò quello che aveva scoperto in occidente. La “Foschia”, il velo invisibile che si poneva tra quelli come loro e i mortali, che celava le loro reali fattezze. 

«Sapevo che alcuni mortali fossero ciechi come talpe» mormorò la ragazza, a spiegazioni concluse. «Ma non credevo che ci fosse proprio un nome per… ehi!» Hachidori scagliò un kunai ad un centimetro dall’orecchio di Panji, che stava cercando di strisciare via. «Non abbiamo ancora finito con te!»

Un lungo gemito straziato provenne dalla satori, che si girò di nuovo sulla schiena, sollevando le mani in segno di resa. «Vi prego, vi ho detto tutto… oh, sì, giusto. Le Tribune si trovano Yokohama, proprio a sud di Tokyo.»

«Grazie, levati dai piedi adesso» concluse Hachidori, minacciandolo con un altro kunai. Panji non se lo fece ripetere e si arrampicò sulla scogliera, svanendo in pochissimi istanti in mezzo alle tenebre della sera appena giunta.

«Tokyo?» sibilò Naito, per nulla tranquillo. «Dobbiamo davvero andare là?!»

«Non Tokyo, Yokohama» precisò Hachidori, sorridendo.  

«… dobbiamo proprio?»

«Dai, Naito-kun! Sarà divertente! Capisco che tu abbia trascorso tutta la vita con Orochi, in mezzo a boschi, montagne e così via, ma forse è anche ora che visiti il mondo reale. Siamo nel ventunesimo secolo, non nel dodicesimo!»

Il pensiero non piacque per niente a Naito. Era già stato in una grande città, San Francisco, e tutto quel caos gli era bastato e avanzato. Non aveva voglia di ripetere l’esperienza, che fosse Yokohama, Tokyo, Kyoto e così via. Perfino andare a ritirare la spesa di Minoru in una cittadina microscopica rispetto a quelle gli aveva dato il voltastomaco.

Quelli come lui erano fatti per la montagna. C’era un motivo se nelle leggende demoni e mostri avevano sempre casa sopra dei monti. Lassù le regole erano diverse, le tradizioni erano rimaste pressoché intatte e le battaglie tra gli yōkai e i samurai non erano mai davvero terminate. E forse per i mezzosangue come Naito questo poteva essere un problema, specie quando erano bambini, ma se non altro aveva imparato a conoscere quei luoghi e a viverci e muoversi al loro interno. Non poteva farlo in un posto come Tokyo, o Yokohama, o San Francisco, invece. Lì poteva succedere di tutto. Purtroppo, sapeva di non avere molta scelta. 

«Siamo davvero sicuri che stiamo facendo la scelta giusta?» domandò ad Hachidori, mentre si allontanavano lungo la riva del fiume, accompagnati dalla notte calante. «Insomma, Panji ha detto che non siamo stati i primi a chiedergli dell’elisir. Cosa ci garantisce che qualcuno non l’abbia già trovato?»

«Nulla» rispose lei, con brutale onestà. «Ma allo stesso tempo, se qualcosa fosse davvero uscito da questa camera blindata, penso che l’avremmo già scoperto.»

«Magari l’hanno già svuotata e hanno tenuto il segreto» suggerì Naito. 

«O magari nessuno l’ha mai trovata.»

«Magari non esiste nemmeno.»

Hachidori sospirò. «Ascolta, Naito, so che potrebbe trattarsi di un viaggio inutile, ma non…»

«Non abbiamo altra scelta» concluse il ragazzo, anche lui con un sospiro.

«Smettila di lamentarti, Naito-kun. Magari non troveremo nulla, ma… saremo insieme, no?»

Per fortuna, lei non riuscì a vedere le guance di lui che si arrossavano in mezzo al buio. 

«Cos’è che stava dicendo Panji? “Più” che un’amica?»

«Stavo… solo cercando di confonderlo…» biascicò Naito, più rigido di un morto.

Hachidori si avvicinò a lui, battendo la spalla contro la sua. «Ma davvero?»

Poteva davvero essere grato alla notte. Se avesse visto la sua faccia, Hachidori non lo avrebbe mai più lasciato in pace.

«E… e allora tu, con il tuo desiderio recondito? Di che si tratta?»

Per un secondo, sembrò che l’aria fosse stata risucchiata via dal corpo della sua compagna di viaggio. La sentì annaspare e allontanarsi rapida da lui. «N-Non è niente…»

Naito avrebbe dovuto sentirsi appagato dalla sua reazione imbarazzata. Invece, si sentì ancora più a disagio. Chissà che razza di pensiero deviato doveva essere per far fuggire via lei in quel modo. 

Sentì caldo, di nuovo, e si sforzò di andare avanti e soprattutto di rimanere concentrato su come camminare per non inciampare come un povero fesso.

Ripensò a Panji. C’erano molte altre domande che avrebbe potuto fargli, in realtà. Chi fosse il re, chi fosse la donna assieme a suo padre, se aveva sentito qualcosa a proposito delle loro reali intenzioni… e se sapeva dove avessero rinchiuso Kate Model.

Era stato tentato di fermarlo e chiedergli ciascuna di quelle cose, ma non l’aveva fatto. In qualche modo, sapeva che se avesse avuto la risposta a quelle domande, non si sarebbe più dato pace pur di andare fino in fondo.

E in quel momento, immischiarsi in faccende di quel tipo era l’ultima cosa che voleva fare. Aveva un solo obbiettivo: l’Elisir di lunga vita. E lo avrebbe trovato.

Dopo, solo dopo, avrebbe potuto pensare a suo padre, al re, alla madre del piccolo dio e a tutto il resto.

Spostò lo sguardo su Hachidori, che camminava in silenzio, avvolta nelle ombre. Con quei capelli era davvero graziosa. Gli scappò un gemito non appena ci pensò e per poco non inciampò per davvero.

«Naito-kun? Ti senti bene?» domandò Hachidori, con voce stranita.

«S-Sì…» rispose lui, anche se il sibilo che provenne dalla sua gola parve più il verso di uno tsuchinoko ubriaco.

Si sentì osservato da lei e provò l’irrefrenabile desiderio di fuggire via. Poi, la sentì ridacchiare. Le loro spalle si sfiorarono di nuovo e Hachidori non disse nulla, lasciandolo con il cuore che batteva all’impazzata nel petto e quel calore più forte di una sorgente termale che lo avvolgeva in quella stretta tanto spaventosa quanto gradevole.

 

***

 

Il fuoco crepitava in mezzo alla riva, mandando scintille che si disperdevano nell’aria. Il fiume continuava a scrociare accanto a loro, emettendo quell’interminabile suono calmante. Un cumulo di pesci e animaletti selvatici morti era stipato accanto a loro. Hachidori li stava divorando crudi, senza risparmiare niente. Naito, invece, prima di mangiarli preferiva abbrustolirli sul fuoco, come faceva da bambino. Non c’era niente di meglio del sapore della carne così bruciata da essere nera.

Non si erano parlati molto, dopo aver incontrato Panji. Forse per l’imbarazzo dovuto a quello che lui aveva detto, o forse perché nessuno dei due sapeva davvero come rapportarsi di nuovo con l’altro, memori di ciò che era successo tra di loro.

Ancora una volta, lo sguardo di Naito scivolò sul mantello di Hachidori, illuminato dai bagliori arancioni delle fiamme. Non sarebbe mai riuscito a darsi pace per quello che aveva fatto. Lei non fece caso a lui, troppo presa dalla sua cena.

Naito addentò un pezzo di pesce annerito, concentrandosi sul suo sapore salato e amarognolo per smettere di pensare a quella dannata notte.

«Posso chiederti una cosa, Naito?»

Quella domanda improvvisa gli fece drizzare la testa. Hachidori lo stava osservando dall’altro lato del fuoco, la luce delle fiamme che gettava strane sfumature sul suo viso. «Non devi rispondere, se non te la senti.»

«Chiedi pure» mormorò Naito, sentendosi a disagio.

«Quella… quella casa distrutta, dove ti ho trovato… era casa tua, vero?»

Naito schiuse le labbra. Da una parte si sentì sollevato che la domanda riguardasse quello e non chissà che altro. Dall’altra, sentì ancora quella stretta allo stomaco che arrivava ogni volta che pensava alla sua vecchia vita. «Sì» rispose, con un filo di voce. Tenere nascosta la cosa non sarebbe servita a nulla, tanto. 

«Ci… ci abitavi con tua madre?»

«Sì.»

Vi fu un attimo di silenzio. Hachidori abbassò il suo pesce, mentre la sua espressione si contorceva in una angosciata. «E… cos’è successo? Chi è stato a…»

«I seguaci di un dio» rispose lui, affondandosi i denti nelle labbra. «Mia madre… era una sacerdotessa, in un templio vicino a Kyoto. Si chiamava Akane. Mio padre l’ha… insomma… contro la sua volontà, e quando il dio a cui quel templio era dedicato ha scoperto che aveva avuto un figlio da un demone… si è infuriato. Ha ordinato a mia madre di consegnarmi a lui, per essere giustiziato, ma lei… si è rifiutata, ed è fuggita. Si è rifugiata vicino a quel villaggio, tra le montagne. Ha provato a crescermi e a tenermi nascosto, ma ci hanno comunque trovati. Hanno bruciato la casa e mia madre… lei è morta per proteggermi.»

«Mi dispiace, Naito» sussurrò Hachidori.

Naito si strinse nelle spalle, rimanendo in silenzio. Le fiamme, gli sguardi folli di quegli uomini, quel mostro coi capelli rossi balenarono di nuovo nella sua mente, facendolo irrigidire. Non era stato proprio sincero. Non erano stati solo i seguaci di un dio a trovarli, quella notte, ma non voleva pensarci. Erano passati dodici anni da quella storia, e il pensiero di quello che era successo ancora faceva nascere in lui il desiderio di fuggire e nascondersi come un bambino spaventato.

«Hai scelto di combattere per questo motivo?» domandò allora la sua compagna di viaggio. 

«All’inizio no. Orochi mi ha trovato mentre fuggivo da alcuni mortali che mi inseguivano, e mi ha preso con sé. Non sapevo ancora, all’epoca, perché loro mi odiassero o perché avessero ucciso mia madre. Nemmeno Orochi, in realtà, sapeva perché volesse uccidere i mortali. Con il tempo, però, ha iniziato a ricordare. E man mano che ricordava, io scoprivo la verità. La morte di mia madre è stata causata da quel dio. Ho scoperto che quelli come me… come noi… non sono voluti, qui. E ho deciso di voler cambiare le cose.»

Naito scosse la testa, abbassando lo spiedino con il pesce. «Ma la violenza… porta solo violenza. La rabbia porta solo rabbia. Uccidere non è la soluzione. Avrei dovuto capirlo prima.»

«E come avresti potuto capirlo prima? Orochi… lui…»

«Sarei dovuto andarmene. Avrei dovuto capire chi fosse in realtà quando… quando…» Naito osservò ancora una volta il mantello di Hachidori, che questa volta se ne rese conto. 

La ragazza ci appoggiò la mano sopra, sospirando. «Smettila di darti pene, Naito. Non è stata colpa tua.»

«Non sarebbe dovuta finire così…» disse ancora lui con voce incrinata. 

Osservava Hachidori, ma non vedeva solo lei. Hachidori era Rosa. Era Konnor. Era Edward. Era tutte le persone che aveva ferito, ucciso, o a cui aveva fatto del male in un modo o nell’altro. Hachidori era stata soltanto un’altra vittima, una delle tante, tantissime. Era stata la prima, però, che avrebbe dovuto aiutarlo ad aprire gli occhi, ma non era successo. Dopo di lei, aveva continuato a fare del male. 

Aveva attaccato i piccoli dei. Aveva ucciso delle persone. Aveva quasi condannato Rosa a morte. Si era comportato da mostro, come Orochi gli aveva imposto. Ancora non capiva perché Konnor l’avesse lasciato in vita. Non se lo meritava. 

«Smettila.»

Hachidori si alzò in piedi e fece il giro del fuoco, parandosi di fronte a lui. Naito la osservò dal basso, sorpreso. Sembrava arrabbiata con lui. Ma durò poco. La sua espressione vacillò e le labbra le tremolarono. Si inginocchiò di fronte a lui, incrociando il suo unico occhio. Poi, strinse le palpebre e lo abbracciò di getto, appoggiando la guancia sulla sua spalla. 

«Smettila… di incolparti…» bisbigliò, lasciandosi andare ad un lento pianto. La sua schiena iniziò ad alzarsi e ad abbassarsi mentre il suono dei suoi gemiti si alzava sopra il crepitio del fuoco e lo scrociare del fiume. «È stata tutta colpa mia. È stata solo colpa mia.»

Il suo braccio lo circondò, facendolo irrigidire. Il suo tocco era morbido, caldo e delicato proprio come lo ricordava, nonostante non potesse abbracciarlo per intero. «Mi dispiace, Naito. Perdonami» sussurrò lei, premendosi contro di lui, facendo aderire i loro corpi. 

Naito venne avvolto dal suo torpore e si irrigidì. «Ti ho già perdonata, Hachidori. Non eri in te. Orochi…»

«Avrei potuto ribellarmi, come hai detto tu. E non l’ho fatto. Sono stata una stupida.»

«Hachidori…»

«Mi dispiace, Naito. Ho… ho rovinato tutto. Ti ho… ti ho tradito.»

Un dolore insopportabile colpì il petto di Naito. Sentì le labbra tremolargli e la vista appannarsi, ma si sforzò di mantenere il controllo. «Possiamo… possiamo sistemare le cose, Hachidori.»

«D-Davvero?»

Con il cuore che martellava all'impazzata, Naito la circondò per le spalle, stringendo a sé quel corpo magro e tremolante. Percepì il suo calore avvolgerlo ancora e la sua pelle formicolò. «Certo. Io… io tengo a te. Non voglio perderti di nuovo.»

Lei allontanò appena il volto dalla sua spalla, trovandosi di nuovo all’altezza dei suoi occhi. «Dici… dici sul serio?» mormorò, con voce sorpresa.

Naito le accarezzò una guancia, annuendo impacciato. «Sì.»

Un piccolo sorriso nacque sul volto di lei. Appoggiò la fronte sul suo petto, rannicchiandosi contro di lui. «Non… non lasciamoci più.»

«Non succederà» la rassicurò Naito, passandole la mano tra i capelli con delicatezza, il cuore che batteva all’impazzata. 

«Lo… lo prometti?»

Naito fece per rispondere, poi si ricordò le parole del vecchio Musashi. Sorrise. «Quando un samurai esprime un’intenzione, essa è già da considerarsi compiuta.»

Sentì la risatina di Hachidori. «Questa l’hai letta in quel libro, vero?»

«Sì, e non vedo perché tu debba trovarla una cosa divertente» borbottò lui.

«Non lo trovo divertente. Anzi… penso sia bello che anche tu stia cercando di cambiare dopo quello che Orochi ti ha fatto.»

Il ragazzo storse le labbra, stringendo le ciocche di lei tra le dita. Rosa, Konnor ed Edward balenarono nella sua mente.

Cambiare… già.

«Grazie per… per quello che hai fatto, Naito-kun. Grazie per avermi perdonata. E grazie per avermi salvata.» Hachidori alzò di nuovo la testa, arrivando all’altezza dei suoi occhi. Distese il suo sorriso timido e gentile. Era bellissima. Proprio come la ricordava.

Gli accarezzò la guancia, mentre i loro nasi si sfioravano. Naito rimase paralizzato, ipnotizzato dal suo sguardo, dal suo viso e dal suo tocco delicato. 

«Naito-kun…» sussurrò lei con voce tremolante. La vide socchiudere gli occhi e inclinare la testa, per accorciare le distanze tra loro. 

Come quella notte.

Una tempesta di emozioni prese vita nel corpo di Naito, mentre vedeva le labbra di Hachidori avvicinarsi alle sue. Il volto di Orochi balenò nella sua mente, seguito da urla disperate. Tutto accadde in un lampo.

Felicità, tristezza, paura, si insinuarono nella sua mente come kunai scagliati nelle tenebre. Le sue mani si chiusero sulle spalle di Hachidori, fermandola un istante prima che potesse fare ciò che in quella notte che aveva cambiato per sempre le loro vite non erano riusciti a fare.

Lei spalancò gli occhi, facendo un verso sorpreso. Le loro labbra erano così vicine che sarebbe bastato un solo millimetro per farle incontrare. Naito non si mosse, scrutandola con la bocca semiaperta, incapace di pensare o di parlare. La allontanò delicatamente da lui, mentre il suo stomaco si contorceva ed un dolore straziante lo lacerava al cuore. 

«Non… non posso…» sussurrò, con un filo di voce. 

«N-Naito…» mormorò Hachidori, mentre la sua espressione di stupore si trasformava in una di delusione.

«Mi dispiace Hachidori… non… non posso…» bisbigliò ancora lui, distanziandola da sé e distogliendo lo sguardo, incapace di reggere quegli occhi venati di tristezza.  

Nella sua mente, Orochi sogghignò. Naito poteva vedere la sua espressione compiaciuta e divertita mentre si sdraiava sulla ghiaia, facendo di tutto per non voltarsi più verso di Hachidori.

Strinse i denti, avvertendo ancora una volta quella sensazione di rimorso così forte da occupare tutto il resto. E quando percepì, alle sue spalle, Hachidori sospirare e allontanarsi, il dolore si amplificò ancora di più.

Chiuse l’occhio, cercando di non pensarci, ma era impossibile non farlo. Era impossibile ignorarlo. Era molto più forte di qualsiasi ferita gli avessero mai inflitto. Una lacrima gli rigò la guancia, ma se la pulì immediatamente.

«Mai ridere. Mai piangere. Mai amare.»

La notte avvolse ogni cosa. E in qualche modo, complici le ferite che ancora lo fiaccavano, Naito riuscì ad addormentarsi senza esplodere in lacrime.

 

 

 

 

 

1Il Parco delle scimmie di Jigokudani: https://it.wikipedia.org/wiki/Parco_delle_scimmie_di_Jigokudani

2Le Satori sono un tipo di yōkai che può leggere nella mente con un solo sguardo. Possono essere pericolose perché, essendo in grado di leggere nel pensiero, possono prevedere qualsiasi attacco. Allo stesso tempo, se le si attacca senza pensare a nulla, le si può cogliere di sorpresa. Siccome loro non sono vere combattenti, ma fanno semplicemente scena con i numeri, ferendone una, il capo in particolare, è molto probabile che tutte le altre fuggano via terrorizzate, cosa che è successa qui.

3 Le Tribune Negishi sono un luogo che esiste davvero, e la storia riguardante la seconda guerra mondiale è anche vera. Vennero riconvertite da ippodromo a base militare, prima giapponese e poi americana, durante l’occupazione degli americani al termine della guerra, e al giorno d’oggi giacciono lì, nella periferia di Yokohama, abbandonate e divorate da ruggine e edere, perciò potete immaginare come sono nel momento in cui la storia è ambientata, vent’anni più avanti. Sono una meta ambita di esploratori urbani, e sono nate queste leggende in cui esistano dei tunnel sotterranei (assieme a fantasmi e cose del genere, insomma, i grandi classici) e quindi eccoci qui. In realtà noi sappiamo che è tutto vero, però la Foschia ci nasconde la verità, rip. Comunque ne riparlerò meglio senz’altro, ora ho solo dato una rapida spiegazione.

4Un po’ di storia, mentre che ci sono. Sì, sono riuscito ad incastrare la seconda guerra mondiale in una ff del cavolo, non chiedetemi come perché non lo so nemmeno io: https://it.wikipedia.org/wiki/Dichiarazione_della_natura_umana_dell%27imperatore

 

 

 

 

Salve gente, grazie per aver letto, e spero che il capitolo vi sia piaciuto!

Dunque, facendo ricerche per le mie storie, mi sono imbattuto in queste due cose: Satori, e Valle dell’Inferno in cui le scimmie si fanno il bagno. E niente, questo è stato il risultato. In realtà, nel mito le satori non si trovano nella Valle dell’Inferno, ma da un lato ho pensato che la Foschia potrebbe semplicemente camuffare le scimmie che si trovano lì, e dall’altro… beh, anche alle satori piaceranno i bagni caldi, no?

Il fatto che possano leggere nel pensiero, poi, le rende praticamente delle enciclopedie viventi, con tutte le menti che analizzano ogni giorno e tutte le voci che sentono, che siano di mostri o di persone, ed essendo yōkai sono immortali, quindi sono in giro da diverso tempo, e di cose ne avranno sentite parecchie.

Riguardo il discorso tra i due ragazzi e Panji (che è un nome ricavato da Chinpanjī, scimpanzé in giapponese) in realtà all’inizio non sapevo bene come svilupparlo, finché, sempre facendo ricerche di location per la storia, ho scoperto la storia delle Tribune, della leggenda dei tunnel sotterranei (che in realtà non ci sono, ma con un pizzico di Foschia tutto è possibile) e ho visto anche che la storia di questo edificio si intersecava con la seconda guerra mondiale, e da lì mi sono collegato alla dichiarazione della natura umana dell’imperatore (in Giappone l’imperatore è sempre stato visto come una vera e propria divinità, almeno, finché non è successo quello che è successo), quindi il resto è venuto da sé, in questo misto di leggenda, storia e realtà.

Ovviamente, non sappiamo che cosa ci sia davvero sotto le Tribune, in questo momento della storia, non sappiamo nemmeno se i tunnel esistono oppure no, però, ehi, continuate a leggere e lo scoprirete! E continuate a leggere e scoprirete anche cosa cavolo è successo tra Naito e Hachidori. E vedrete anche qualche altra location giapponese… Tokyo, magari. Chissà…

Grazie per aver letto, e alla prossima!

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Capitolo 9
*** Esilio ***


 

Voglio ringraziare infinitamente Roland per questo fantastico disegno di Hachidori: https://www.deviantart.com/rlandh/art/Hachidori-890292617

Grazie infinite! E buona lettura a tutti quanti! Sarà un capitolo molto felice e molto allegro, tranquilli!

 

 



Esilio

 

 

Naito si sedette sul bordo della sporgenza, facendo penzolare le gambe lungo quelle mura che scendevano fino ad essere inghiottite dal bosco. 

In lontananza, gli schiamazzi e le risa degli altri giungevano come irritanti versi striduli, facendogli serrare le labbra infastidito. Viaggiavano per non farsi trovare dai loro inseguitori, eppure facevano quel baccano infernale ogni volta che si fermavano per la notte. Non aveva idea di come non li avessero ancora trovati. I poteri di Hikaru per camuffarli dovevano essere molto più potenti di quanto immaginasse.

Se non altro, il panorama era gradevole. Avevano raggiunto le rovine del castello di Takeda quel pomeriggio, trovandolo come un semplice colle con in cima delle muraglie diroccate, alberi e macchioline di vegetazione.

Poi, era salita la nebbia, coprendo ogni cosa eccetto la cima, dove si erano accampati per la notte. Naito non aveva mai visto niente del genere. Non appena il sakè aveva cominciato a scorrere tra i membri dell’esercito, aveva approfittato della prima situazione buona per allontanarsi e godersi in pace e tranquillità la vista di quello strano fenomeno.  

La nebbia avvolgeva la collina, dando l’impressione di star galleggiando sopra alle nuvole, in una conca nascosta tra i monti. Era incredibile.

«Non ce la fai proprio a rimanere con gli altri, vero?» domandò una voce.

Hachidori si sedette accanto a lui, piantando i palmi a terra e facendo ondeggiare le gambe oltre la sporgenza, con espressione di puro rilassamento.

«Perché, tu ci riesci?» domandò Naito, abbozzando un sorriso. 

«Non sarei qui se ci riuscissi.»

Il sorriso svanì dal volto di Naito. «Stai dicendo che sono solo un rimpiazzo?»

«Forse» rispose lei con un’alzata di spalle. 

Quella frase gli diede molto più fastidio di quando avrebbe immaginato. Distolse lo sguardo da lei, lasciandosi scappare un grugnito di disappunto.

«O forse mi piace la tua compagnia, Naito-kun.»

Naito sussultò, tornando a guardare Hachidori ed accorgendosi adesso del suo sorriso gentile e dei suoi occhi luminosi puntati su di lui. Ricambiò lo sguardo senza sapere cosa rispondere, rimanendo incantato da quelle iridi e da quel viso.

Era da diverso tempo che si comportava così, ormai. Ogni volta che la osservava, ogni volta che lei gli rivolgeva uno sguardo, ogni volta che gli sorrideva, sentiva uno strano calore nel petto e si sentiva incapace di pensare a qualsiasi cosa che non fosse lei. 

Era… così bella.

«Naito-kun?» domandò lei, facendolo trasalire. Sembrava trovarlo divertente. «Ti sei di nuovo incantato?»

Naito distolse lo sguardo, sentendosi le guance in fiamme e farfugliando qualche parola di scusa. Si rese conto che aveva detto “di nuovo” e si sentì ancora più in imbarazzo. Chissà quante volte doveva essersi accorta degli sguardi di lui. Avvertì uno stretto nodo alla gola, di cui sentì il bisogno di liberarsi. «Anche… anche a me piace la tua compagnia» mormorò, osservando la nebbia.

Per un istante, non udì alcuna risposta. Realizzò solo in quel momento che cosa avesse detto davvero e spalancò gli occhi. Stava pensando a cos’altro dire, quando sentì la mano di lei posarsi sulla sua. Trasalì e sollevò lo sguardo, incrociando di nuovo gli occhi di Hachidori, che distese il suo sorriso gentile. Non sembrava turbata dalle sue parole, tutt’altro. Naito ricambiò timidamente, girando la mano in modo da incrociare le dita con le sue. Come sempre, erano calde e morbide nonostante gli artigli.

«Non era davvero il mio turno, quella sera» disse lei all’improvviso.

Naito corrucciò la fronte. «Che intendi dire?»

Per la prima volta da quando la conosceva, Hachidori parve imbarazzarsi. «La sera… in cui ci siamo parlati. Ti avevo detto che ero salita per il turno di guardia, ma era una bugia. Non toccava a me. Però… ti avevo visto lassù, da solo e… e ho pensato fosse una buona occasione per parlarti.»

Distolse lo sguardo da lui, mentre le fossette sulle sue guance si tingevano di colore. «Quando sono arrivata… mi sono subito accorta di te. Te ne stavi sempre in disparte, sullo sfondo, non parlavi quasi mai, ti allenavi e basta. Eri così… misterioso. Mi hai incuriosita. Così ho voluto conoscerti. Sentivo che tu non eri affatto come tutti gli altri, Naito-kun. E… ho avuto ragione.» Tornò ad osservarlo, allargando quel bellissimo sorriso. Si avvicinò di qualche centimetro, tenendo stretta la sua mano. «Non sei affatto come loro.»

Naito strinse più forte la sua mano senza rendersene conto, sorpreso delle sue parole, mentre il suo cuore cominciava a battere così forte da fargli male. Vide Hachidori farsi più vicina e anche lui accorciò le distanze.

«Sono felice di averti conosciuto» sussurrò ancora lei, ora così vicina da sfiorargli il volto con la punta del naso. 

«Anch’io… anch’io sono felice, Hachidori» rispose lui, avvertendo quella familiare sensazione di calore avvolgerlo completamente, questa volta, però, senza allarmarlo. Questa volta, fu gradevole.

Non si rese conto di quanto si fossero avvicinati finché non percepì il respiro caldo di lei soffiare sul suo viso. Hachidori inclinò la testa, in modo che il naso non le fosse d’intralcio mentre chiudeva le distanze, le palpebre serrate, le guance rosse accese. 

Naito non sapeva bene cosa stesse facendo. Non sapeva perché avesse avvicinato così tanto le labbra a quelle di Hachidori. Sapeva soltanto che quel calore stava continuando a crescere, a pulsare dentro di lui sempre più forte. Quando le loro labbra si sfiorarono, gli sembrò che il petto gli si fosse incendiato. Una sensazione nuova, che mai aveva provato, si fece largo dentro di lui. 

Ma non durò.

Nonostante avesse gli occhi chiusi, avvertì comunque Hachidori che si separava da lui all’improvviso. Vi fu un grido spaventato, proveniente proprio da lei. Naito spalancò le palpebre, ma prima che potesse davvero vedere qualcosa venne afferrato per le spalle e trascinato all’indietro. La terra si staccò da sotto di lui e per un attimo fluttuò in aria, prima di schiantarsi rovinosamente a terra. 

«Lasciami! Lasciami!» 

Naito udì le urla di Hachidori e si mise carponi, scrollando la testa per scacciare via quella sensazione di disorientamento. Sollevò lo sguardo, credendo che fossero sotto attacco, e rimase pietrificato.

«Che sta succedendo qui, Naito?» domandò la figura pallida e magra di Orochi, che lo fissava truce dall’alto. Alle sue spalle, Hikaru aveva stretto un braccio attorno al collo di Hachidori, che tentava di scalciare e liberarsi gridando furiosa. 

«Lasciami! Lasciami cagna schifosa!» sbraitò Hachidori, sferrando una gomitata che rimbalzò sul naso di Hikaru senza scalfirla. La kitsune sbatté le palpebre un paio di volte, poi sospirò e sferrò un pugno nel fianco della ragazza, mozzandole il respiro.

«Non rendere le cose più difficili» le disse con voce svogliata, prima di serrare la presa attorno al suo collo, così forte da sollevarla da terra. Hachidori annaspò, il suo viso assunse strane tonalità. Spalancò la bocca in un grido muto, affondando gli artigli nel braccio di Hikaru e dimenandosi senza alcun risultato.

Naito spalancò gli occhi. Scattò verso di lei, cercando il manico della wakizashi, ma venne afferrato per il braccio prima che potesse sguainarla. 

«Ti ho fatto…» Orochi lo fece voltare verso di lui, prima di sferrargli un pugno allo stomaco. «… una domanda!»

Naito si piegò, cadendo in ginocchio, gli occhi spalancati per il dolore e la sorpresa, il fiato che gli mancava. Sollevò lo sguardo, atterrito, incrociando le iridi iniettate di sangue dell’uomo. 

«La… la sta uccidendo» riuscì a boccheggiare. Riuscì a rimettersi in piedi a fatica, ma un altro pugno, questa volta in faccia, lo fece ruzzolare di nuovo a terra. Stramazzò sul suolo di ghiaia ed erba, sentendo una guancia in fiamme, ma non più nello stesso modo di prima. Tentò di sollevarsi sui gomiti e la mano di Orochi si strinse attorno al suo collo, tirandolo su. Naito gridò, mentre le dita dell’uomo affondavano nella sua carne, stringendo così forte da non farlo respirare. 

«Non te lo chiederò ancora, Naito» rantolò Orochi, scrutandolo dal basso con la bocca contratta in un ringhio, le vene che sporgevano sul suo volto squamoso. «Che cosa stavate facendo voi due?!»

«N-NAITO!» gridò Hachidori, tendendo una mano verso di lui. 

La sua voce riuscì a farlo riscuotere. Anche lui tese una mano verso di lei, mentre con l’altra cercava di liberarsi. «Hachidori!»

Non aveva idea di cosa stesse succedendo, ma non aveva importanza. Si sarebbe liberato e sarebbe corso da lei, a qualsiasi costo. 

«No…» biascicò Orochi all’improvviso, la sua voce parve l’eco di una caverna profonda. La presa attorno al collo di Naito aumentò, così forte da fargli sentire i polmoni in fiamme ad ogni respiro. Il mondo ruotò all’improvviso attorno a lui. Avvertì le dita di Orochi staccarsi dal suo collo e l’aria che sferzava di nuovo sul suo corpo. Si schiantò ancora una volta a terra, rotolando incontrollabile. Tremando per la sorpresa, per la rabbia e per il dolore, Naito si rimise in ginocchio e osservò di nuovo Hikaru.

La voce di Orochi sfregiò di nuovo l’aria, tagliente come una lama: «Lasciala andare, Hikaru.» 

La kitsune ricambiò lo sguardo di Naito con espressione incolore, poi lasciò andare Hachidori e la spinse verso di lui. La ragazza barcollò per qualche metro, prima di inciamparsi e cadere. 

«Hachidori!» Naito la raggiunse, mentre lei tossiva e si massaggiava la gola, annaspando in cerca d’aria. Il sollievo che provò nel vedere che stava bene sovrastò ogni altra cosa. «Hachidori» ripeté, accarezzandole la guancia, mentre lei sbatteva le palpebre confusa e spaventata. 

«N-Naito… che… che sta succedendo?»

«Non… non lo so…» 

Decine e decine di ombre si stagliarono alla luce della luna, circondandoli. Alzò lo sguardo, trovando l’intero esercito di Orochi stipato attorno a loro. Sguardi carichi di disprezzo e sadico divertimento si amalgamarono, rivolti verso di lui. Non aveva mai temuto quegli esseri, ma la vista di tutti loro riuniti in quel modo lo inquietò. Strinse la mano di Hachidori, facendo vagare lo sguardo tra i mostri, Hikaru e Orochi, soffermandosi proprio su quest’ultimo. «Che cosa significa tutto questo, Orochi?!»

«Dimmelo tu, Naito» rispose l’uomo, avvicinandosi a loro. «Dimmelo tu cosa significano le vostre mani intrecciate. Dimmelo tu che cosa stavate cercando di fare, prima. Dimmelo tu perché, al mio ritorno, mi sono trovato di fronte la patetica scena del mio soldato migliore che si sbaciucchiava con una mocciosa.»

Hachidori sussultò. Si girò a fatica su un fianco e osservò prima Orochi, poi Naito. Il ragazzo incrociò quegli occhi verdi che aveva sempre trovato così belli, ora sporcati da una vena di paura.

«Ti sei… innamorato» biascicò Orochi, sputando quella parola come se fosse il peggior insulto mai uscito dalla sua bocca. 

Naito spalancò gli occhi, avvertendo la mano di Hachidori che si stringeva ancora più forte alla sua. Udì alcune risa divertite provenire dalla folla, specie il gorgoglio di Bunzo, che si stava godendo con un ghigno la scena in prima fila.

«Tu… un demone… il mio secondo in comando, il mio soldato migliore… innamorato» sibilò Orochi, contraendo le mani, i denti così stretti che sembrava stessero per spaccarsi, le vene così gonfie da scoppiare. «Ma come ho potuto lasciare che accadesse…»

Hachidori aveva un’espressione di terrore puro dipinta sul volto. Sembrava stesse per crollare da un momento all’altro in pianti e grida. Naito non l’aveva mai vista così. Era sempre stata sorridente, allegra, sempre pronta con qualche commento per infastidirlo. Quegli occhi arrossati, quella smorfia spaventata, erano… sbagliati. 

«Dovrei uccidervi entrambi» disse ancora Orochi. «Ma sarebbe un peccato sprecarti così, Naito. Voglio darti una possibilità.»

Versi di disappunto si sollevarono tra i mostri, mentre Naito osservava quell’individuo sentendo la rabbia crescergli nel corpo. Orochi ricambiò quello sguardo impassibile. Le parole che uscirono dalla sua bocca furono come il rantolio di una belva feroce: «Uccidi la ragazza e ti risparmierò la vita.»

Un gemito scappò da Hachidori, mentre Naito sentiva il respiro mozzarsi. Non poteva dire sul serio. Rimase immobile, a ricambiare lo sguardo dell’uomo, aspettandosi che rettificasse l’ordine, ma non accadde nulla di tutto ciò. Orochi era sincero. Voleva davvero che uccidesse Hachidori. 

«Te lo scordi.» Naito lasciò andare la mano della sua compagna, alzandosi in piedi per mettersi allo stesso piano di Orochi. «Io non le farò del male.» 

Il naso di Orochi si arricciò. Non sembrò affatto gradire quella risposta, ma a Naito non importò, così come non gli importò di aver disobbedito ad un ordine per la prima volta, così come non si curò del fatto che Orochi avesse appena minacciato di ucciderlo. 

Non aveva importanza. Le parole di Orochi non avevano importanza. In quel momento, contava solo Hachidori.

«Va bene» rispose Orochi. Trafisse Hachidori con un altro sguardo e lei, rimasta in ginocchio, emise un gemito spaventato. «Hachidori. Uccidi Naito.»

«C-Che cosa?» bisbigliò Hachidori, rialzandosi in piedi a fatica. 

«Hai sentito. Uccidi Naito e ti risparmierò la vita. E non solo. Uccidilo e avrai anche il suo posto al comando.»

Altri versi infastiditi si sollevarono tra i mostri. Hachidori iniziò a tremare come una foglia, con le palpebre spalancate.

«Non puoi dire sul serio» sbottò Naito, digrignando i denti. «Lo Yomi ti ha consumato il cervello, Orochi. Io non farò del male ad Hachidori. E lei non lo farà a me.»

Si voltò verso di Hachidori, in cerca della sua conferma. Ciò che vide, invece, mandò una scarica di brividi lungo tutto il suo corpo. Una sensazione che mai aveva provato prima di allora si fece largo dentro di lui, una stretta opprimente che per poco non gli trasformò le gambe in fuscelli.

«Mi… mi dispiace, Naito» sussurrò Hachidori, gli occhi velati di lacrime, mentre sguainava il tantō. 

Naito fece un passo all’indietro, credendo di trovarsi di fronte ad un’illusione. La sua mente a malapena registrò il viso devastato di lei o la lama stretta nel suo pugno. «Hachidori… no…» 

Le risate che si sollevarono tra i mostri risuonarono come lo scroscio della pioggia, distante ed ovattato. «La ragazza comincia a piacermi» gracchiò la voce distorta di Bunzo, in qualche punto imprecisato. 

«Che stai facendo, Hachidori?» domandò Naito, con un sussurro.

Lei sollevò il tantō, la lama tremolante che emanava bagliori agitati. «Mi dispiace» ripeté, prima di emettere un grido lancinante e fiondarsi su di lui. Naito rimase immobile finché non percepì la lama ad un palmo dal suo stomaco. Afferrò il polso di Hachidori prima che potesse trafiggerlo, tenendolo fermo senza nessuno sforzo. Le sfuggì un verso sorpreso, mentre lui la fissava atterrito. «Hachidori…»

«L-Lasciami» rispose lei, prima di strattonare con forza. «Ho detto lasciami!» urlò, dimenandosi dalla presa di Naito, prima di gridare di nuovo e dimenare il pugnale verso il suo volto. Naito lo schivò, scattando all’indietro, e lei continuò ad incalzarlo, senza dargli un solo istante per reagire.

Il tantō non lo sfiorò nemmeno. Continuò ad evitare gli attacchi, che erano veloci, ma anche grossolani, dettati dalla paura. Afferrò di nuovo il polso di Hachidori, bloccandolo a poca distanza dal suo volto. «Hachidori, ti rendi conto di quello che stai facendo?»

«I-Io non morirò» rispose lei, con voce incrinata.

«E quindi… vuoi… uccidermi?» 

Hachidori gemette. I loro sguardi si incrociarono di nuovo e Naito nemmeno la riconobbe più. I suoi occhi brillavano di paura e follia. Non sembrava più la ragazza di pochi minuti prima. Non era più la Hachidori con cui aveva passato le ultime settimane.

Non era… la persona che gli aveva fatto sentire quel calore. Sembrava priva di ogni controllo. 

«Torna in te… ti prego…» la implorò, sentendo le guance calde e bagnate.

Le labbra di Hachidori tremolarono, mentre altre lacrime le cadevano dagli occhi. «Mi dispiace, Naito» sussurrò di nuovo, prima di dimenarsi e affondare il tantō. 

Vi fu un tintinnio metallico. Hachidori barcollò all’indietro, mentre Naito stringeva la wakizashi con cui aveva appena deviato la pugnalata. 

I due mezzosangue si guardarono di nuovo. 

«Perché Hachidori…» domandò ancora lui, stringendo con forza l’impugnatura della katana, fino a sentire dolore alle dita. «Perché…?»

«Sta… zitto…» ansimò lei, prima di attaccare di nuovo.

Le lame si incrociarono di nuovo, a mezz’aria, e Naito scorse ancora quegli occhi un tempo così belli, ora macchiati di rabbia.

«Hachidori…»

«Zitto.»

«Perché…»

«ZITTO!»

Il tantō si scontrò ancora con la wakizashi. Il respiro di Hachidori era diventato un gorgoglio furibondo. «Io non morirò.»

Naito piegò le labbra, sentendo gli occhi in fiamme e il petto chiuso in una stretta che non lasciava alcuno scampo. «Nemmeno io.»

Le lame si incrociarono ancora e ancora, riempiendo la notte con i loro tintinnii metallici. Più Hachidori lo attaccava e più sentiva la rabbia crescere dentro di lui. Non riusciva a credere a quello che stava succedendo. Non riusciva a credere che lei fosse disposta ad ucciderlo. Dov’erano finiti i discorsi sul trovarsi bene insieme? Dov’era finita la ragazza che gli aveva detto di essere felice di averlo conosciuto?

Dov’era finita… la Hachidori che stava per baciare?

La wakizashi si schiantò di nuovo contro il tantō. I due mezzosangue si scrutarono ancora una volta. 

«Ribelliamoci» sussurrò Naito, in un ultimo disperato tentativo. 

«Che… che cosa?»

Naito lanciò uno sguardo verso i mostri che li circondavano, in attesa di festeggiare la morte di uno di loro e probabilmente di gettarne il cadavere ai rovi. Non si erano mossi, erano immobili come statue, con sorrisi inquietanti scolpiti sui loro volti. Sembravano le opere di uno scultore impazzito.

Osservò anche Hikaru ed Orochi, immobili ed inespressivi, messi alle estremità di quel piccolo spiazzale in cui li avevano costretti a combattere come belve in trappola. «Possiamo batterli… se uniamo le forze» mormorò ancora lui, tornando ad incrociare quello sguardo sconvolto. «Ti prego, Hachidori… ribelliamoci… scappiamo, insieme. Non abbiamo bisogno di loro.»

«Ma che stai dicendo…» rispose lei, scuotendo la testa. «Tu sei pazzo…»

«Hachidori…»

«Smettila…» Hachidori roteò il polso, disarcionandolo. «… di parlare!» tuonò, prima di avventarsi sul suo ventre rimasto scoperto. 

I denti di Naito si incrinarono. Udì lo spostamento d’aria generato da Hachidori, il pugnale che lo sfiorava mentre lui si scansava. Sollevò la katana e, per un istante, tutto si tinse di rosso. Urlò furibondo e calò la lama.

Il grido straziante di Hachidori sovrastò completamente il suo. Naito indietreggiò, con il fiato grosso e la gola arsa, mentre osservava la ragazza stramazzare in ginocchio, la testa rovesciata all’indietro e un’orribile ferita sul braccio.

Ci mise qualche istante prima di capire quello che era appena successo. E quando lo fece, inorridì. Hachidori si accasciò a terra, tenendosi per il braccio sanguinante, mentre i versi divertiti dei mostri si sollevavano, mischiandosi con i suoi gemiti.

«Finiscila, Naito» ordinò Orochi, facendolo voltare di scatto verso di lui. Era ancora lì, ad osservarlo, impassibile. «Uccidila. Forza.»

Naito a malapena lo sentì. I sussulti di Hachidori stavano sovrastando ogni suono, ogni voce, ogni pensiero. «N-Naito…» bisbigliò lei, prima di affondare con forza le dita intrise di sangue attorno alla ferita.

Quella ferita che lui le aveva inflitto.

«Naito» disse ancora la voce di Orochi. «Uccidila. ORA!»

Il respiro di Naito si calmò, mentre scrutava dall’alto Hachidori e il senno ritornava in lui. Sollevò la wakizashi, poi serrò la mascella e scattò verso di Orochi. 

Se lo ritrovò di fronte in un istante, il collo in bella vista, pronto per essere trapassato da parte a parte. Qualcosa lo colpì allo stomaco, così forte da farlo piegare e da fargli perdere la presa sulla katana. Venne rispedito a terra, boccheggiando per il dolore. Affondò le dita nel terreno per rialzarsi, ma Orochi fu su di lui in un istante. Un altro pugno lo colpì sulla guancia, con la forza di una frana. 

«Schifosissimo ingrato.»

Naito si voltò, ricevendo un altro pugno, che lo costrinse a rimanere a terra.

«Con tutto quello che ho fatto per te.»

Un altro pugno. Sentì il sangue coprirgli il volto. 

«Tu osi puntarmi contro la tua spada?!»

Un altro ancora. Naito non sentì più il volto. Non sentì più nulla, a malapena riuscì a scorgere Orochi che lo scrutava dall’alto. «Tiratelo su» ordinò. «E tirate su anche lei.»

Qualcuno lo afferrò sotto le ascelle, trascinandolo in piedi di peso. Avvertì le zampe artigliate di Bunzo, più la sua risatina che giungeva al suo orecchio. «Questa è la fine che si meritano quelli come te.»

Naito lo sentì a stento. Il suo sguardo rimase focalizzato su di Orochi, mentre si avvicinava ad Hachidori, tenuta ferma da alcuni mostri mentre Hikaru osservava in silenzio, in disparte. 

«Ho fatto un errore a prenderti con me» le rantolò, prima di mandare un cenno ad un altro gruppetto di mostri. «Toglietele tutto.»

Quelli sogghignarono e si avventarono su di Hachidori, che spalancò gli occhi terrorizzata. Nonostante si muovesse a malapena, provò comunque a gridare ed a scalciare. Riuscì ad allontanare un oni con un calcio, ma un altro subito dopo di quello prese il suo posto. Le strapparono via lo yukata, scoprendo il suo corpo pallido.

«Che state facendo?!» tuonò Naito, riscuotendosi. «Non toccatela!»

«Sta zitto, stupid…» Naito non lasciò che Bunzo finisse la frase. Un’ondata di energia improvvisa lo pervase da capo a piedi, divampando come un incendio. Si liberò dalla presa dei suoi aguzzini con un urlo. Fece per correre, ma Bunzo si parò di fronte a lui e cercò di agguantarlo. «Dove pensi di anda…»

Naito gli afferrò il braccio e glielo piegò al contrario con un gesto secco, facendolo strillare come una capra di montagna. Gli sferrò un pugno sopra il naso, scaraventandolo a terra, e corse verso Hachidori. Altri mostri si frapposero, ma fecero tutti la stessa fine di Bunzo. Si fece largo spezzando braccia, gambe, sferrando pugni e testate, finché non sguainò la katana e cominciò a brandirla contro di loro, colpendo per uccidere. Una scia di yōkai mutilati stramazzò alle sue spalle.

«LASCIATELA STARE!» sbraitò, mozzando il collo di una rokurokubi. Udì il grido terrorizzato di Chioiji da qualche parte in mezzo alla ressa, finché una luce non balenò all’improvviso. Hikaru apparve come un miraggio di fuoco e fiamme, le nove code che spuntavano dall’abito e il muso volpino proteso verso di lui. Lo colpì allo stomacò con il palmo della mano, mozzandogli il respiro prima che potesse reagire. 

Cadde di nuovo a terra venendo subito circondato dal resto dei mostri. Pugni e calci scesero su di lui come pioggia. Cercò ancora di ribellarsi e di gridare, ma Hikaru l’aveva ridotto peggio di quanto avrebbe pensato. I mostri lo sovrastarono, restituendogli un livido per ogni loro compagno caduto per mano sua. Il dolore era insopportabile, agonizzante, ma non era nulla in confronto alla rabbia dentro di lui. 

«Basta così» ordinò la voce di Orochi, sollevandosi sopra il caos. I mostri si tolsero di mezzo, lasciando che Naito, riverso a terra, potesse osservare l’uomo mentre puntava una katana alla gola di Hachidori, che era tenuta immobile per le braccia da due oni. Malgrado tutto, provò sollievo nel vedere che non l’avevano spogliata completamente. Aveva ancora una fascia sopra i seni e l’intimo. Il resto del corpo era nudo, la pelle era liscia e glabra, fino alle spalle e alle ginocchia da cui spuntavano le piume che arrivavano fino alle mani e ai piedi.

I loro sguardi si incrociarono di nuovo. Il suo viso era arrossato dal pianto, la luce della luna rifletteva sopra sulle sue lacrime, le labbra erano strette in un’espressione devastata. Quella vista fu insopportabile per lui.

«Hai finito di uccidere la tua gente, Naito?» domandò Orochi, con voce grave.

Naito affondò le dita nel terreno. «La “mia” gente?!» urlò. «Questa non è la mia gente! Siete solo delle bestie prive di senno!»

Orochi avvicinò la lama al collo di Hachidori, premendo sulla carne. Lei gemette e Naito si allarmò. «Fermo!»

L’uomo rimase immobile, a fissarlo dall’alto. Una striscia di sangue cominciò a scendere dal collo di Hachidori, facendo ringhiare Naito per la rabbia: «Se la uccidi… giuro che vi sterminerò tutti. Uno per uno. Vi strapperò le unghie, le dita, gli arti, vi squarterò pezzo dopo pezzo e lascerò tutto ai vermi. Hai capito?!»

Orochi serrò la mascella. Naito riconobbe quello sguardo che gli rivolse. Spalancò gli occhi e gli urlò di non farlo, ma era troppo tardi: la katana scese su Hachidori.

Un urlo straziante si levò in cielo, perforando la notte, riecheggiando in tutta la valle. Naito rimase immobile, paralizzato, mentre osservava il braccio di Hachidori cadere a terra. La ragazza crollò in ginocchio, afferrandosi il moncherino sanguinante. Le sue urla gli si conficcarono nella mente, imprimendo cicatrici indelebili. Il suo pianto lacerante lo scosse dall’interno, riportando in auge emozioni che credeva di aver dimenticato.

«Hai finito di fare l’eroe, Naito?» sibilò Orochi, afferrando Hachidori per i capelli e minacciando di sgozzarla. «O preferisci che la tua amichetta venga smembrata pezzo dopo pezzo?»

Hachidori era pallida come la luce della luna. Incrociò ancora una volta lo sguardo di Naito, ma non sembrava nemmeno più in sé. «Hachidori…» sussurrò lui, incapace di fare qualsiasi altra cosa. In qualche modo, riuscì a trovare la forza di guardare di nuovo Orochi. «T-Ti prego… lasciala andare…» 

La katana rimase lì dov’era, i capelli di Hachidori stretti nel pugno dell’uomo. «Perché dovrei, Naito? È colpa sua se siamo finiti in questa situazione.»

Naito strinse i pugni. Ancora una volta, si sentì pervaso da una rabbia incontrollabile. Il desiderio di alzarsi, combattere e ucciderli tutti si insinuò nella sua mente, carezzandolo come un sussurro. Incrociò lo sguardo di Orochi e pensò a quando era ancora un bambino, alla promessa che aveva fatto a sé stesso. 

Poi, incrociò anche lo sguardo di Hikaru, che si era di nuovo portata accanto all’uomo. Non disse nulla. Si limitò soltanto a scuotere la testa in maniera quasi impercettibile, con uno sguardo che mai le aveva visto fare prima, come se avesse capito le sue intenzioni. 

A quel punto, la rabbia sfumò da dentro di lui. Realizzò che se si fosse mosso di un altro passo, Hachidori sarebbe morta. O peggio.

«Farò… farò quello che vuoi…» bisbigliò Naito, abbassando la testa. «Ma… non ucciderla. Ti scongiuro.»

«Guarda come ti sei ridotto. Tutto solo per lei.» Orochi punse il collo di Hachidori con la katana, strappandole un altro gemito di dolore, o forse di paura. Scrutò Naito con aria disgustata. «Da adesso in poi, obbedirai ad ogni mio ordine, senza discussioni. Imparerai a comportarti come un vero mostro. E ci dimenticheremo di questa faccenda. Tutto chiaro, Naito?»

«S-Sì» mormorò Naito. Qualsiasi cosa, pur di salvarla.

«Legatelo.»

Naito registrò a malapena le mani che si posavano su di lui, costringendolo a mettersi in ginocchio. Il suo sguardo rimase focalizzato su di Hachidori, il terrore che Orochi potesse ancora ucciderla occupò tutto quanto. Gli strinsero delle catene attorno ai polsi e alle caviglie, prima di schiacciarlo a terra. Non emise un solo suono.

Quando fu immobilizzato, Orochi lasciò i capelli di Hachidori, che stramazzò a terra. «Vattene da qui» le ordinò. «Hai due minuti per sparire dal mio campo. Se sarai ancora nei paraggi…» Lanciò uno sguardo ai mostri che continuavano ad osservare il corpo seminudo di Hachidori, famelici. «… ti darò in pasto a loro. E poi ti ammazzerò con le mie mani.»

L’espressione terrorizzata non abbandonò Hachidori. Incrociò ancora una volta lo sguardo di Naito, ma lui a malapena riuscì a vederla, a causa della vista appannata. 

Quella ragazza, quella mezzosangue, la sua amica, la sua compagna di viaggio, l’unica persona con cui fosse mai riuscito ad andare d’accordo, che l’aveva compreso, che gli era stato vicino, che l’aveva fatto sentire bene, abbassò la testa la testa afflitta e non la alzò più. Con gambe tremanti di fatica, si rimise in piedi e si allontanò barcollando, tenendosi per il moncherino, svanendo nella notte. 

Naito la osservò finché di lei non rimase soltanto il ricordo. Gemette, affondandosi le unghie nei palmi. Gli occhi cremisi di Orochi si piantarono di nuovo su di lui, brillando tra le tenebre e causandogli un brivido lungo la schiena. «Mi hai deluso, Naito. Portatelo via.»

Ancora una volta, Naito nemmeno registrò la folla di mostri che cominciava a circondarlo, celando Orochi dalla sua vista.

«AAAAAGGGH! Mi ha rotto un braccio! Mi ha rotto un braccio!» strillò Bunzo, apparendo nel suo campo visivo mentre si teneva il braccio piegato in posizione innaturale. Hikaru lo raggiunse con passo pesante e glielo afferrò, piegandoglielo nell’altro verso con un rumore disgustoso. Bunzo rovesciò di nuovo la testa all’indietro, gridando ancora più forte, prima di calmarsi. «Oh… va meglio ora… grazie, Hik…»

La kitsune gli sferrò un pugno allo stomaco, trasformando la frase in un risucchio d’aria. «Chiudi quella dannata bocca» rantolò, prima di afferrarlo per il naso storto e trascinarlo via.

Anche loro svanirono alla sua vista. Mentre i mostri lo portavano via, Naito riuscì soltanto pensare a quello che era appena successo. E a come avesse appena perso la seconda persona che aveva mai amato.

 

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Capitolo 10
*** Le rovine di Hachiōji ***


 

Le rovine di Hachiōji

 

 

«Sei un mostro, Naito, come me. Smettila di ingannare te stesso» sibilò la voce di Orochi, nella sua mente. «Combatti, Naito. COMBATTI!»

Naito si svegliò di soprassalto, per poco non gridando a perdifiato. La pigra luce del mattino batté su di lui, l’aria fredda e pungente si insinuò sotto i suoi abiti, accarezzando le ferite fasciate. Si massaggiò la testa, mugugnando infastidito, cercando di scacciare via dalla propria mente l’ennesimo incubo fatto di voci sovrapposte, grida e fiamme. Non ricordava nemmeno l’ultima volta che aveva dormito in pace.

«Buongiorno, Naito-kun.» Naito drizzò la testa e per poco non stramazzò a terra per lo stupore. Hachidori era immersa nel fiume, con solamente il collo che spuntava dall’acqua. I suoi vestiti erano sulla riva, accanto al fuoco spento. Tutti i suoi vestiti.

«Ora capisco perché le satori vengono sempre qui.» Hachidori affondò in acqua fino alle guance con un mugugno compiaciuto, il suo naso lungo puntò verso l’alto come un ago. «L’acqua è meravigliosa.»

Naito la sentì a malapena. L’unica cosa che riusciva a fare, era pensare al fatto che lei fosse nuda a pochi metri di distanza da lui.

«Vuoi farti un bagno anche tu, Naito-kun?»

Naito sussultò. «U-Un bagno?»

Insieme?!

Gli sembrò di avere il viso intero in fiamme.

«Dai, vieni! Si sta benissimo!»

«I-Io…» Naito esitò. «Credo… credo che dovremmo ripartire…»

Non ebbe il coraggio di guardare la sua espressione. Udì un lungo sospiro esausto, poi vi fu un forte scroscio. «Noioso» si lamentò lei, uscendo dal fiume. Naito trattenne il respiro e fece ogni cosa in suo potere per non spostare lo sguardo anche solo di un millimetro verso la sua compagna di viaggio. La sentì mentre si chinava sui suoi vestiti. «Puoi guardare se vuoi, Naito-kun. Non mi arrabbio mica.»

«N-Non mi permetterei mai» bisbigliò lui.

«Come vuoi.»

Naito tenne lo sguardo puntato verso tutt’altra direzione, mentre udiva il rumore di lei che si rivestiva, anche se riuscì comunque a scorgere il colore acceso delle sue piume scurite dal bagno. «Mi puoi aiutare con questo?»

Hachidori era girata di spalle, con di nuovo indosso i pantaloni color kaki strappati, la schiena però era ancora nuda. La lunga fascia che usava come reggipetto le penzolava dalla mano alzata.

«Ti… ti serve una mano per vestirti?» domandò Naito, sorpreso.

Lei lo fissò con la coda dell’occhio, le labbra premute tra loro in una smorfia indecifrabile. Naito ci mise qualche istante prima di rendersi conto di quello che aveva appena detto e spalancò l’occhio, mortificato. «C-Cioè, i-insomma, voglio dire…»

La risata di Hachidori si levò in aria all’improvviso. «Sì, Naito-kun, mi serve una mano.»

Sentendosi ancora più imbarazzato, Naito si avvicinò a lei. Rimase ipnotizzato per un istante dalla pelle morbida, pallida e ancora bagnata della sua schiena liscia e immacolata. E nonostante avessero trascorso tutto il giorno prima correndo, e all’aperto, il suo corpo emanava un odore gradevole, come di terra umida.

Il suo sguardo, poi, scivolò sul suo avambraccio destro, ridotto ormai ad un moncherino cicatrizzato. Il suo braccio dominante, quello con cui aveva sempre combattuto e che aveva perso per colpa sua.

Gli aveva detto di non sentirsi in colpa, ma la verità era che non si sarebbe mai dato pace per quello che aveva fatto. Con lo stomaco contorto dal rimorso, prese un’estremità della fascia che Hachidori gli stava porgendo. Lei se la fece passare di fronte al petto e gli consegnò l’altra estremità. «Stringi bene Naito-kun.»

Naito ignorò il brivido che lo percorse quando le sfiorò la pelle e annodò la fascia sulla sua schiena. Tirò con forza, strappandole un grido. «Troppo!»

«S-Scusa!» Naito allentò la fascia, valutando l’idea di gettarsi nel fiume e possibilmente non riemergere più.

Hachidori si massaggiò il petto, borbottando qualcosa di incomprensibile. Si voltò verso di lui e Naito alzò lo sguardo, anche se intravide comunque la riga dei suoi seni che si tuffava sotto alla fascia. Un altro brivido lo percorse, mentre si sforzava di reggere lo sguardo di Hachidori senza tradire le sue reali emozioni. Ci fu un istante di silenzio. L’espressione della ragazza era indecifrabile, Naito invece cominciò a sentirsi a disagio, con lo stomaco che si annodava per l’imbarazzo causato dal corpo ancora seminudo di lei, con le sue piume lillà che parevano petali di un fiore profumato e bagnato.

«Volevo chiederti scusa per ieri sera.» Fu proprio lei a rompere il silenzio per prima. «Non avrei dovuto… insomma…»

«Non devi scusarti» la interruppe Naito, sorpreso dalla sua affermazione. «È… è solo che…»

«Fingiamo che non sia mai successo.» Hachidori si chinò per prendere la camicia, distogliendo lo sguardo da lui. «Riprendiamo il viaggio e basta.»

Naito avrebbe voluto rispondere che non voleva fare così. Avrebbe voluto dire che non voleva fingere che non fosse successo nulla, che era sbagliato, ma non ci riuscì. La cosa che gli fece più male, fu il tono triste che Hachidori aveva usato.

Lasciò che finisse di vestirsi e raggiunse il fiume, per buttarsi un po’ di acqua calda sul volto e darsi una ripulita. Incrociò lo sguardo del proprio riflesso, e odiò con ogni fibra del suo essere quel ragazzo pallido e scarno che sembrava fissarlo con un sorrisetto beffardo. «Bravo, Naito. Vedo che hai imparato» gli disse, con la voce di Orochi.

Naito digrignò i denti e si alzò prima di dare un pugno sopra l’acqua come uno stupido. Vide Hachidori coprirsi il braccio mancante con il suo mantello e provò un’altra fitta di dolore.

Presero le loro cose e ricominciarono a correre.

 

***

 

Viaggiarono in silenzio. In diverse occasioni Naito valutò come scusarsi per quello che era successo la sera prima, ma non trovò mai il coraggio di parlare. D’altra parte, Hachidori nemmeno sembrava interessata a fare conversazione.

Meglio per lui, così poteva continuare a torturarsi silenziosamente, alla ricerca di quelle parole giuste da dire che era certo non sarebbero mai arrivate.

Proseguirono per un paio di ore verso sud-est, prima di fermarsi per una pausa e mettere qualcosa sotto i denti.

Dalla sua bisaccia, Hachidori tirò fuori i pesci avanzati dalla sera prima, che ormai avevano una strana tonalità. «Meglio finirli prima che si guastino» mugugnò, afferrandone uno e staccandogli la testa con un solo morso.

Naito ne prese un altro, un grosso salmone, e affondò i denti nella carne succosa. La sera prima gli era passato di nuovo l’appetito, quindi approfittò per recuperare la cena saltata. Entrambi si isolarono nei loro pensieri, il rumore dei denti che masticavano fu l’unico a riempire l’aria. Di tanto in tanto, tuttavia, Naito riuscì a scorgere Hachidori mentre gli lanciava delle occhiatine fugaci. Sembrava che anche lei volesse dirgli qualcosa, in fin dei conti.

Si fece coraggio e decise di parlare per primo: «Mi dispiace per… per quello che è successo, Hachidori. Non volevo ferirti.»

Hachidori abbassò il pesce. «Sta tranquillo, Naito-kun. È stata colpa mia. Avrei dovuto capire che… che dopo tutto quello che è successo, tu…»

«Non si tratta solo di quello.» Naito abbassò lo sguardo, ripensando a quello che Orochi gli aveva fatto dopo aver cacciato Hachidori. Sentì le viscere contorcersi per la rabbia, prima che si calmasse con un lungo sospiro. «Concentriamoci sull’elisir, per adesso. Quando lo troveremo, se ancora lo vorrai… potremo… insomma… parlarne di nuovo. Non voglio… dimenticare quello che è successo, Hachidori.»

«Nemmeno io.»

Naito sollevò la testa, accorgendosi del suo sorriso gentile, un po’ imbarazzato. «Va bene, Naito-kun. Quando troveremo l’elisir… ne riparleremo. Nemmeno io voglio dimenticare quello che c’è stato tra di noi.»

Timidamente, Naito ricambiò il suo sorriso. Non solo aveva perso Hachidori già una volta, ma aveva perso l’opportunità di essere felice assieme a lei. Non avrebbe lasciato che accadesse di nuovo. Aveva paura di quelle emozioni dentro di lui, aveva paura di quello che avrebbero potuto scatenare, ma non gli importava. Voleva… doveva fare un tentativo. Doveva accettare i suoi sentimenti, senza esserne spaventato. E forse… forse avrebbero potuto essere davvero insieme, e felici. Prima, però, dovevano trovare l’elisir.

«Pensi mai… pensi mai agli altri?» domandò Hachidori all’improvviso, interrompendo i suoi pensieri.

«Gli altri?»

«Gli altri come noi. I mezzosangue» spiegò lei, incassando la testa tra le spalle. «Pensi mai a… a dove potrebbero essere? Pensi mai a… cercarli?»

Naito abbassò lo sguardo. «Non l’ho mai fatto» ammise. «So che… ce ne sono altri, come noi. E… a volte, penso che sarebbe bello incontrarli. Ma non ho mai pensato di cercarli. Non credo nemmeno che vogliano essere trovati.»

Diede un altro morso al pesce, pensando a quello che era successo quando avevano trovato lui. Non voleva che a quei pochi mezzosangue che in qualche modo erano riusciti a sopravvivere toccasse la stessa sorte. Lui meglio di chiunque altro sapeva che avrebbero preferito essere lasciati in pace.

«Tu vorresti cercarli?» domandò ad Hachidori.

«Non saprei… penso che sarebbe bello se riuscissimo a incontrarne altri. Potremmo… unire le forze.» Hachidori si sdraiò a terra, appoggiando il gomito dietro di lei. Naito ripensò ai greci, al loro rifugio tra le colline, dove potevano sentirsi tranquilli e al sicuro.

Di solito, almeno. Finché non arrivava un mezzo demone a rapire ragazze che non c’entravano nulla. Con una fitta di dolore allo stomaco, tentò di allontanare quel pensiero, e si domandò se una cosa del genere, un campo, potesse esistere anche per quelli come loro. Forse, trovando l’elisir, avrebbero potuto crearlo.

«A volte mi chiedo anche se io sia l’unica figlia di mio padre» proseguì Hachidori. «Lui… mi ha detto che ci sono soltanto io, ma non gli ho mai creduto. Mi sembra impossibile che un demone millenario e conosciuto come lui possa avere solo una figlia mezzosangue, con tutti i mortali che abitano il monte Kurama e che lo venerano come un dio. Sono convinta che abbia avuto relazioni anche con altre mortali, oltre a mia madre.»

«Credi… di avere dei fratelli?»

«Non lo so. Forse. Se ci sono, mi piacerebbe incontrarli.»

Naito pensò a suo padre. Anche lui si domandò se sua madre fosse l’unica mortale ad averlo incontrato. Ne dubitò altamente. Il pensiero di poter avere anche lui dei fratelli nascosti chissà dove in Giappone fece nascere un forte senso di inquietudine dentro di lui. Non aveva idea di come avrebbe potuto reagire se per caso, un giorno, ne avesse incontrato uno. Non era nemmeno sicuro di volerli davvero incontrare.

Ammesso che fossero sopravvissuti. Ōtakemaru aveva detto qualcos’altro, durante il loro incontro, riguardo gli “altri” che erano tutti morti. Che… si fosse riferito ai suoi altri figli?

Un lungo brivido gli percorse la schiena. I mortali avevano fatto ogni cosa in loro potere per ucciderlo quando ne avevano avuta l’occasione. Nel bene e nel male, lui si era salvato soltanto grazie ad Orochi. Gli doveva la vita, su questo non c’erano discussioni. Ma forse i suoi fratelli, ammesso che esistessero, non erano stati altrettanto fortunati.

«Sembra che… tu conosca bene tuo padre» cominciò a dire, osservando Hachidori. «Siete… legati?»

Lei si strinse nelle spalle. «Non direi. Ho vissuto con lui per tanto tempo, sul monte Kurama, prima di unirmi ad Orochi, ma… non l’ho mai capito davvero. Lui… era benvoluto, dagli dei, una volta. Ma poi… le cose sono cambiate. Non so perché, ma hanno cominciato a detestare anche lui. E lui non ha mai mosso un dito per cambiare le cose. È come se non gliene importasse nulla. Quando sono diventata abbastanza grande me ne sono andata. Non ha nemmeno cercato di fermarmi. Non credo mi volesse davvero attorno. Deve averlo fatto solo perché mia madre non c’era più.»

«Cosa… cosa le è successo?»

Hachidori si mordicchiò un labbro. «Mio padre mi ha detto che è morta dandomi alla luce.»

«Mi dispiace…»

«Non devi, Naito-kun.» La ragazza gli sorrise. «Però… grazie. La tua presenza mi dà conforto.»

Anche Naito sorrise. Era sollevato di vedere che non fosse arrabbiata con lui ed era felice di aver scoperto qualcosa sul suo passato. Orochi aveva insegnato loro che le loro vite, prima di incontrarlo, non contavano affatto, ma ormai non facevano più parte del suo esercito, né rispettavano più i suoi ideali.

Quasi tutti i suoi ideali.

Naito represse una smorfia. Si rese conto che nessuno dei due aveva ancora rivelato il suo vero nome all’altro. Avrebbe potuto farlo, in realtà, ma c’era qualcosa che lo frenava. Forse era per via del fatto che era stato Naito per così tanto tempo che ormai nemmeno si sentiva più Naosuke Itomi. Magari per Hachidori era lo stesso.

Ripartirono poco dopo aver finito tutti i pesci, visto che Hachidori aveva insistito per non farli guastare. Naito osservò il cielo grigio. Il sole era nascosto dalle nuvole, rendendogli impossibile capire che ora fosse. Quel tempo non gli piaceva per niente. Forse era dovuto al clima invernale, ma Naito aveva comunque una strana sensazione. Si augurò che fosse solo un abbaglio. Senza perdere ulteriore tempo, seguì la compagna in mezzo alla boscaglia.

 

***

 

Aveva creduto che, di quel passo, sarebbero arrivati a Yokohama verso sera, ma si era sbagliato. C’era ancora luce quando arrivarono ai piedi di una montagna, trovandosi di fronte un sentiero fatto di gradini di pietra che conduceva verso la cima. Accanto ad esso c’era un cartello di legno marcio, con le scritte sbiadite.

I due ragazzi si fermarono e lo sguardo di Naito scivolò sul grosso torii1 proprio all’inizio del sentiero.

«Queste… sono le rovine del castello di Hachiōji» mormorò Hachidori, avvicinandosi all’ingresso.

Naito corrucciò la fronte. «Il castello infestato?»

«Proprio quello.» Hachidori ridacchiò, accorgendosi della sua espressione. «Qual è il problema, Naito-kun? Non dirmi che credi davvero a queste storie.»

«Ho conosciuto un uomo che aveva più di quattrocento anni, oltre che mostri, demoni e perfino dei. Direi che posso crederci eccome.»

«I fantasmi non esistono, Naito-kun» ribatté lei, alzando gli occhi al cielo.

«Che mi dici delle Aoandon?»

Hachidori esitò. «Non sono veri fantasmi, sono incarnazioni della paura e del…»

«E le Yuki-Onna?»

«Spiriti delle nevi che…»

«E gli Yūrei allora? E…»

«Va bene, ho capito!» sbottò Hachidori, voltandosi verso di lui. «Facciamo il giro allora!»

A Naito venne da sorridere. «Non volevo dire questo. Sto dicendo che dovremmo fare attenzione se passiamo di qui.»

Hachidori gli lanciò un’occhiataccia infastidita. «Lo so che dobbiamo fare attenzione. Yokohama è proprio dietro questa montagna. Siamo quasi arrivati, non possiamo abbassare la guardia proprio ora.»

Naito tese un braccio verso il sentiero. «Bene. Dopo di te allora.»

La sua compagna di viaggio grugnì, poi cominciò a salire i gradini stizzita. Naito si mordicchiò un labbro per non ridere, poi cominciò a seguirla. Un tintinnio gli fece abbassare la testa. Aveva appena calpestato una spessa catena arrugginita, celata tra le foglie. Corrucciò la fronte e fece vagare lo sguardo attorno a sé, mentre raggiungeva Hachidori, ormai distante.

Di quel luogo restavano soltanto alcune mura sepolte dai cespugli e dalle foglie cadute, costruite lungo il monte in modo da creare una fortezza inespugnabile sopra la montagna. Qualcosa che avrebbe potuto davvero funzionare, se solo all’epoca della sua caduta non avessero lasciato a malapena poco più di mille uomini per difendersi dall’attacco di un esercito di quindicimila.

Era stato un massacro, il castello era stato raso al suolo poco tempo dopo e adesso circolavano leggende sul fatto che i soldati uccisi ancora vagassero da quelle parti, come spiriti in pena memori di una battaglia che avevano perso e che non avevano mai avuto speranze di vincere.

Non videro alcun fantasma, tra la vegetazione. In compenso, videro delle ragnatele. All’inizio erano sembrate solo mucchi di neve, ma poi Naito si era reso conto che la neve non poteva avvolgere interi alberi in quel modo.

Non ne avevano vista nessuna ai piedi del monte, ma più si avvicinavano alla cima e più queste aumentavano. Da poche e sporadiche passarono quasi al ricoprire tutta l’area attorno al sentiero, appese ai rami come panni sbrindellati. Naito strinse la presa sul manico della wakizashi, scambiandosi uno sguardo con Hachidori. Avrebbero dovuto fare davvero attenzione.

Arrivarono in cima, trovandosi di fronte le rovine del castello. C’erano monumenti e lapidi in memoria dei soldati, consumati dal tempo e dalle intemperie, coperti di muschio e, di nuovo, ragnatele. Gli spiazzali con sprazzi di erbacce giallognole erano intervallati da mura e gradinate di pietra diroccate. C’erano altri cartelli, altri segnali, indicazioni, ma era tutto sbiadito, come se chiunque ce li avesse messi non tornasse lì da tanto tempo.

Una recinzione di legno era stata costruita attorno alla base della montagna, da lassù potevano vederla bene, ma proprio come il cartello che avevano trovato all’ingresso, era marcita. Oltre la recinzione, potevano scorgere in lontananza la cittadina di Hachiōji, seguita dalla figura ben più mastodontica di Tokyo, che malgrado la distanza appariva come una valle immensa di macchie colorate. Sul lato opposto, invece, il monte Fuji svettava fino ad arrivare alle nuvole, sovrastando ogni cosa con la sua possente figura.

Procedettero in silenzio. Le rovine emanavano un’aria di desolazione e disperazione. Non c’erano spettri, eppure la sensazione che lì ci fosse stata una guerra impossibile da vincere era quasi tangibile nell’aria. Ogni lapide, ogni mura diroccata, ogni erbaccia raccontava la storia di quello che era successo lassù.

Attraversarono un ampio spiazzale di erba rada, intervallato da pietroni squadrati conficcati nel terreno, forse ciò che rimaneva di alcune fondamenta. Naito fece attenzione a non calpestare nessuna di quelle ragnatele sparpagliate un po’ ovunque. Sembravano alquanto appiccicose. Ed erano tante, tantissime.

«Occhi aperti, Naito-kun.»

Naito posò lo sguardo su Hachidori, che sussultò, distogliendo lo sguardo frettolosa. «C-Cioè… h-hai capito cosa voglio dire… superiamo questo posto in fretta.» Sembrava tesa, nonostante la sicurezza mostrata poco prima. E Naito non la biasimò, tutte quelle ragnatele non promettevano nulla di buono.

Erano quasi arrivati al fondo dello spiazzale quando qualcosa si mosse tra la vegetazione limitrofa. I due compagni sguainarono le armi, ma un sibilo proveniente alle loro spalle fece voltare Naito. Mulinò la katana, che si infranse contro una manciata di kunai, deviandoli.

«Gentile da parte vostra spostarvi assieme» disse una voce ormai familiare. «Renderà la vostra cattura molto più veloce.»

Delle ombre apparvero tra le rovine del castello, spostandosi proprio come gli spettri che tanto lo avevano impensierito, circondandoli su ogni fronte. Erano almeno una ventina. Tra di loro, Naito individuò con una smorfia la lunga chioma nera di Meishu. Quando fu abbastanza vicina, notò anche che c’era qualcosa di diverso in lei: era più trasandata dell’ultima volta, percossa perfino.

La sua frangetta ordinata non era più così ordinata, sulla sua guancia destra c’era sempre lo sfregio lasciato da Hachidori, ma non era tutto: anche sulla sinistra aveva dei segni, due profondi solchi, sottili ma ben visibili e soprattutto precisi, come se le fossero stati inflitti con cura, senza che lei si opponesse.

«Non ti sei ancora stancata di fallire, Meishu?» La voce di Hachidori era carica di collera. «Vattene, prima che massacriamo te e le tue amiche. Non siete riuscite a catturarci da soli, cosa vi fa credere di poterci prendere insieme?»

Meishu strinse i denti. Vederla senza quel sorrisetto provocatorio fu strano per Naito. E ancora più strano, fu accorgersi della sua reale espressione. Non sembrava arrabbiata, ma più angosciata. Come se sapesse di trovarsi in una situazione scomoda.

«Non vogliamo combattere, Meishu» si intromise lui. Posò una mano sul braccio di Hachidori, che aveva estratto la sua wakizashi, e la invitò ad abbassarla. «Vogliamo fare ammenda. Siamo stanchi di fuggire e di lottare per la nostra vita. Anche noi meritiamo di poter vivere in pace.»

«Vivere in pace?! Dopo aver servito Yamata no Orochi?! L’unica cosa che voi sporchi mezzosangue meritate è la morte!»

«Meishu, ascoltami…»

«Non ho alcuna intenzione di ascoltarti, Naosuke Itomi.»

Hachidori sussultò, mentre Naito spalancava l’occhio.

Meishu ritrovò il suo ghigno provocatorio. «Ma come, non hai detto il tuo vero nome alla tua amichetta? Non ti fidavi abbastanza di lei, Naosuke?»

Naito strinse i pugni, accorgendosi dello sguardo di Hachidori che si posava su di lui. Non si voltò verso di lei, rimase concentrato unicamente su quella vipera che si trovava di fronte a loro e che gli puntò addosso il tantō. «Uccideteli.»

Le kunoichi scattarono, altri kunai sfrecciarono nell’aria. Naito li deviò di nuovo con la katana e serrò le labbra. Quella non ci voleva proprio. Non voleva combattere di nuovo contro di loro, specialmente non con Hachidori che sembrava davvero pronta ad ucciderle tutte. Fare ammenda con le mani sporche di ulteriore sangue sarebbe stato ancora più difficile.

Un istante prima che le donne li raggiungessero, un fortissimo ruggito fece arricciare la pelle di Naito. Si voltò verso la vegetazione, da cui era provenuto quel fruscio poco prima dell’arrivo di Meishu. Gli alberi si piegarono all’improvviso come fuscelli, alcuni crollarono perfino; un’ombra enorme si stagliò in mezzo alla boscaglia, prima di spiccare un gigantesco balzo e atterrare di fronte a loro con così tanta forza da far tremare il terreno.

All’improvviso, tutte quelle ragnatele trovarono un significato. E Naito si diede dell’idiota per non averci pensato prima. Quel luogo non era infestato dai fantasmi. Era infestato da molto peggio.

Un ragno gigantesco, con la pelle marrone striata di macchie nere e un terrificante muso umanoide, bianco come la neve. Fece vagare un paio di enormi occhi gialli e acquosi su tutti loro. Uno tsuchigumo.

Naito sentì Hachidori indietreggiare, sfiorandogli la spalla, mentre le kunoichi rimasero paralizzate per qualche istante. Meishu non mosse un muscolo, forse per lo stupore, forse per la paura.

Prima ancora che chiunque di loro potesse fare qualsiasi cosa, lo tsuchigumo si voltò e spruzzò delle ragnatele verso alcune delle donne, che non riuscirono a scansarsi in tempo. Gridarono terrorizzate mentre venivano imprigionate da quella trappola mortale. 

Subito dopo fu il caos. Il ragno cominciò a saltare e ad attaccare all’impazzata tutti i presenti, le urla delle donne si mischiarono tra di loro, in mezzo ad esse Naito riuscì a distinguere quelle di Meishu, che tentava di riportare l’ordine. Sollevò la katana, pronto a combattere, ma la mano artigliata di Hachidori si strinse attorno al suo braccio con forza, strappandogli un gemito sorpreso. «Andiamo via!»

Hachidori cominciò a correre, trascinandoselo dietro. Naito la seguì sbigottito, lanciando diverse occhiate verso la battaglia a senso unico che incombeva tra le kunoichi e lo tsuchigumo. Almeno una mezza dozzina di donne giaceva a terra immobile e lo stesso numero era stato intrappolato in delle ragnatele. Meishu provò a saltare tra le zampe del ragno e a contrattaccare, ma il suo pugnale e i suoi artigli avvelenati non parvero nemmeno scalfire la pelle dura dello tsuchigumo. Gridò altri ordini alle sue compagne, ma nessuna di loro sembrò ascoltarla.

Quando Naito e Hachidori raggiunsero il bosco, lasciandosi le rovine alle spalle, un urlo disperato provenne da Meishu. Quello fu il momento in cui lui si riscosse. «Non possiamo abbandonarle!» esclamò, smettendo di correre all’improvviso.

«Che cosa?!» Hachidori si fermò. «Vuoi davvero aiutarle?! Volevano ucciderci!»

«Se le aiutiamo capiranno che non siamo malvagi!»

«Ma sei pazzo?! Andiamocene!»

Naito scosse la testa. «Abbandonarle sarebbe come ucciderle.»

«Non è colpa nostra se quel bestione è sbucato fuori! Se fosse successo a noi loro non ci avrebbero aiutati!»

«Noi non siamo loro. Dobbiamo essere meglio di così.»

«Ma…»

«Un samurai è gentile anche coi propri nemici.» Naito sollevò la katana, determinato, mentre ricordava quegli stessi versi del Bushido che lei gli aveva letto. «Se vuoi andare avanti, Hachidori, fa pure. Io torno indietro.»

Hachidori non sembrava affatto convinta. Una parte di Naito sperava che lei lo seguisse. Un’altra, invece, non l’avrebbe biasimata se avesse scelto di non aiutare le kunoichi. Il Clan Tsubaki non era certo stato clemente con loro, forse a ragione, o forse no, ma in quel momento non aveva importanza.

«Ci vediamo alle Tribune» disse ancora Naito, prima di scattare verso la direzione da cui erano appena arrivati. Sentì Hachidori chiamarlo, ma non si voltò. Sperò soltanto di riuscire ad arrivare in tempo. Nella sua mente balenarono i volti di Orochi e suo padre. Se avessero scoperto quello che stava cercando di fare, lo avrebbero disprezzato con ogni fibra dei loro esseri. Strinse i denti, scacciando quei pensieri. Di loro non gli importava nulla: avrebbe salvato le kunoichi a qualsiasi costo.

Ritornò nello spiazzale ed individuò Meishu mentre tentava di rialzarsi sui gomiti e lo tsuchigumo che la braccava ad una decina di metri di distanza, pronto per il colpo di grazia. Naito rinfoderò la katana e accelerò il passo, mentre il ragno spiccava un altro balzo.

Non si accorsero di lui. Rapido come un’ombra, saltò addosso alla donna, scansandola un istante prima che il ragno si avventasse su di lei. Rotolarono a terra, in un miscuglio di grida e versi di dolore mentre le loro schiene ruzzolavano sul terreno dissestato.

Al termine della corsa, si ritrovarono uno sopra l’altra. «Stai bene?» chiese lui, afferrandola per le spalle.

Meishu schiuse le labbra, rimanendo in silenzio, osservandolo come se fosse stato un’allucinazione. Naito incrociò il suo sguardo. Non sembrava ferita gravemente, solo molto scossa. Il ruggito frustrato del ragno li fece voltare entrambi.

«Alzati!» esclamò Naito, afferrando la mano di Meishu e aiutandola a rimettersi in piedi.

«Ma… che stai facendo?» domandò la donna, con un filo di voce.

Naito spostò l’attenzione sul ragno che li stava per caricare e sguainò di nuovo la katana. «Secondo te?! Attenta!» Spinse via Meishu prima che la zampa dello tsuchigumo li schiacciasse entrambi, poi dimenò la katana, abbattendogliela contro. Non la perforò, ma il colpo fu tale che il ragno emise uno strano verso, forse di dolore.

Puntò quegli occhi giganteschi e raccapriccianti su di lui, dimenticandosi di Meishu, per fortuna, o per sfortuna, non poteva ancora dirlo con certezza. Naito cominciò a correre e il ragno lo inseguì, sparando ragnatele e pestando le zampe furibondo nel tentativo di schiacciarlo. «Aiuta le tue compagne!» urlò a Meishu, rimasta da qualche parte imprecisata alle loro spalle.

Una zampa si schiantò a terra, nel punto in cui Naito si era trovato un istante prima. Rotolò a terra e si alzò, mulinando la spada, questa volta colpendo una giuntura della zampa e mozzandogliela. Il ragno si inarcò, emettendo un verso straziante, ma Naito sapeva di averlo soltanto fatto infuriare. Il peggio doveva ancora venire.

Lo tsuchigumo non gli diede un attimo di tregua. Naito digrignò i denti, mentre passava da un lato all’altro dello spiazzale nel tentativo di non lasciarsi sovrastare dalla creatura. Una pioggia di ragnatele lo investì, ma riuscì a schivarle o ad affettarle con la spada. Per lui quelle non erano un problema; il problema vero erano quelle zampe indistruttibili.

Non passò molto prima che il ragno capisse come affrontarlo. Gli tsuchigumo erano creature intelligenti, capaci di adattarsi in fretta. Quello sapeva che la spada era pericolosa e attaccava veloce, schiantando le enormi zampe su di lui e ritirandole subito dopo, senza dargli il tempo di contrattaccare. Di tanto in tanto, Naito riusciva a mettere a segno un colpo, ma mai abbastanza forte da mutilarlo ancora.

Se non altro, era riuscito ad allontanarlo dalle kunoichi. Arrischiò alcune occhiate verso Meishu, accorgendosi di come stesse soccorrendo le sue compagne rimaste intrappolate tra le ragnatele. Non sapeva se sperare che loro lo aiutassero oppure no. L’unica cosa che sperava, era che avessero capito che lui non era più lo stesso mostro a cui avevano dato la caccia anni prima. Non era più il braccio destro di Orochi.  

Un’ombra lo sovrastò completamente. Si accorse troppo tardi della zampa dello tsuchigumo che arrivò di lato, colpendolo al fianco. Gridò, mentre veniva scaraventato via come un insetto. La katana gli sfuggì dalle mani mentre si schiantava con la schiena su uno dei pietroni. Le ferite inflitte da suo padre si rianimarono in un tutt’uno, lacerandolo di dolore. Fu come se l’intero corpo gli si fosse incendiato all’improvviso. Boccheggiò, tentando di rialzarsi, e osservò la figura imponente del ragno che si avventava su di lui.

Strinse i denti, maledicendosi per la sua idiozia. Si preparò a scattare, sperando che il corpo riuscisse a reggere lo sforzo, quando qualcosa perforò l’aria. Un kunai si conficcò nell’occhio del mostro, che si inarcò di nuovo con uno strillo straziante.

Hachidori balenò in mezzo al cielo come un lampo lillà. «Sei sempre il solito, Naito-kun!» esclamò inviperita. Corse attorno al ragno, tempestandolo di kunai finché non ottenne la sua attenzione. Le spruzzò alcune ragnatele, ma Hachidori le schivò avvitandosi nell’aria. «Sempre a doverti far salvare da me!»

Nonostante il suo tono infastidito, a Naito venne da sorridere, felice del fatto che fosse tornata ad aiutarlo. Si rimise in piedi e sguainò la wakizashi, per poi unirsi alla sua amica. Con un occhio in meno ed un avversario da battere in più, lo tsuchigumo sembrò entrare in crisi, specialmente perché i due mezzosangue erano rapidi, attaccavano da ogni direzione e soprattutto in maniera sincronizzata proprio come quando erano nell’esercito di Orochi.

Anche se era passato moltissimo tempo dall’ultima volta che avevano affrontato insieme una minaccia, nessuno dei due aveva scordato l’alchimia naturale che avevano sviluppato. Hachidori saettò tra le zampe posteriori del ragno rapida e aggraziata, con salti così leggiadri da far credere di saper davvero volare come un tengu. Naito attaccò quelle anteriori, abbattendo la spada con forza nel tentativo di mutilarne altre.

Lo tsuchigumo muggì frustrato e provò a schiacciarli entrambi, ma senza successo. Ogni suo attacco a vuoto veniva ricambiato con un taglio, ma non era abbastanza per abbatterlo.

«La pancia, Naito-kun!» gridò Hachidori, poco prima di saltare per evitare un altro attacco. Si capovolse nell’aria e atterrò sulle zampe, sopra ad un’altra roccia. Puntò la spada verso il ragno. «La pancia è l’unico punto debole!»

Naito annuì e scattò. Corse sotto al corpo del ragno, ma quello saltò non appena si avvicinò, portandosi a distanza di sicurezza e facendo un lungo verso roco, quasi di scherno. Anche lui conosceva il proprio punto debole: non avrebbe permesso che si avvicinassero così facilmente. Avrebbero dovuto trovare la giusta apertura per colpire.

Altri kunai fendettero l’aria, scontrandosi con la pelle del ragno, alcuni penetrandola, facendolo mugugnare ancora. Meishu e le sue compagne corsero in cerchio, circondando lo tsuchigumo e tempestandolo con i loro pugnali da lancio.

«Non so cosa tu abbia in mente, Naosuke Itomi» esclamò proprio la leader, correndo verso il fianco destro del ragno, i capelli che sferzavano dietro di lei come fruste, le neko-te pronte a cavare occhi e il tantō stretto nel pugno. «Ma sarà meglio che funzioni!»

«Smettila di chiamarlo così!» tuonò Hachidori, adirata, per poi fiondarsi anche lei sullo tsuchigumo, sul fianco sinistro.

«Io lo chiamo come mi pare!»

«Voglio vedere come farai dopo che ti avrò strappato la lingua!»

«Potreste litigare più tardi?!» urlò Naito, mentre caricava frontalmente.

«Ha cominciato lei!» risposero all’unisono.

L’unico occhio di Naito incrociò l’unico dello tsuchigumo, che emise un lungo gorgoglio, sotto la pioggia di kunai. Quando i tre furono abbastanza vicini, quello spiccò un balzo oltre le loro teste per allontanarsi: proprio quello che Naito si era aspettato.

Si fermò di scatto, piantando i piedi a terra, e si voltò, sfrecciando verso il punto in cui il ragno sarebbe atterrato. Saltò, atterrando sopra un’altra pietra, e prese lo slancio. Mentre la creatura atterrava, Naito raggiunse la pancia scoperta, puntando la wakizashi con un urlo furibondo. Penetrò la carne grassa, priva di protezioni, e un verso straziante si sollevò dal ragno, così potente da riecheggiare in tutte le rovine.

Quella bestiaccia si schiantò rovinosamente a terra, emettendo un altro strillo strozzato. Naito saltò via prima di fare la sua stessa fine, atterrando in ginocchio ad una manciata di metri di distanza.

Lo tsuchigumo rimase sul suolo, a dimenare le zampe ferite, in preda alle convulsioni. Poi, smise di lottare. Le zampe si accasciarono, così come il muso, mentre il sangue continuava a scendere a fiotti dallo squarcio che Naito aveva aperto sulla sua pancia. Cominciò a sciogliersi in una pozzanghera di liquame nero e un silenzio irreale scese di nuovo tra i resti di quel castello.

Naito rimase fermo, con l’adrenalina che ancora scorreva a mille nel suo sangue, il respiro pesante e il cuore che batteva all’impazzata nel petto.

Una mano si posò sulla sua spalla. Si voltò di scatto e tutta la tensione sfumò da dentro di lui, mentre si accorgeva del sorriso di Hachidori. «Ben fatto, Naito-kun.»

Il ragazzo ricambiò il suo sorriso, rialzandosi in piedi. Stava per dirle lo stesso, quando un rumore di passi li fece voltare entrambi. Le kunoichi li avevano di nuovo circondati, con le armi ancora sguainate. Naito sussultò per la sorpresa, mentre Hachidori allontanava la mano dalla sua spalla con un gesto secco. «Che state facendo?!» sibilò. «Volete davvero combattere ancora, dopo che vi abbiamo salvate?!»

Nessuna risposta. Tra le donne, Naito individuò Meishu, che lo stava osservando con espressione indecifrabile. Il ragazzo sollevò un braccio di fronte ad Hachidori, che aveva di nuovo sollevato la wakizashi. «Ferma» disse, mentre faceva vagare lo sguardo sulle kunoichi. Non erano nemmeno la metà di quelle che erano poco prima, a causa di quello tsuchigumo, e sembravano tutte quante ancora scosse da quello che era appena successo, Meishu in particolare.

«Non siamo più i soldati di Orochi a cui state dando la caccia, Meishu» cominciò a dire, severo. «Non vi avremmo salvate, altrimenti. Vogliamo… essere meglio di così.»

Le labbra di Meishu divennero una riga impercettibile. Non sembrava affatto disposta ad ascoltarli. Naito sentì Hachidori irrigidirsi, mentre le kunoichi continuavano ad avvicinarsi, pronte ad attaccare al segnale della leader.

«Naito…» cominciò Hachidori, con un sussurro. «… non possiamo…»

Meishu sollevò un braccio all’improvviso, interrompendo sia lei che l’avanzata delle sue compagne. Per tutto il tempo, non staccò gli occhi da quello di Naito. «Abbassate le armi» ordinò, mentre il braccio le ricadeva lungo il fianco. «Ce ne andiamo.»

Un susseguirsi di mormorii sorpresi si sollevò in aria. «Ma Meishu…» disse una di loro, con voce agitata. «… Tamashī ha detto…»

«Lo so cos’ha detto Tamashī» la interruppe Meishu, con una strana smorfia. «E non ha importanza. Se non fosse stato per lui, non sarei viva. E nemmeno voi. Gli dobbiamo tutte la vita.»

Altri sussulti. Naito sentì i propri nervi sciogliersi, sorpreso e anche sollevato, mentre il volto di Meishu si velava di un’ombra cupa e le sue compagne abbassavano le armi una per una, chi più riluttante e chi meno.

«Non pensare di essere al sicuro adesso, Naosuke» disse ancora Meishu, con voce roca. «Hai salvato me, ma questo alle mie compagne non importerà. Verranno comunque a cercarvi. Per quanto ne sappiamo, il vostro potrebbe essere un imbroglio.»

«Che cosa?!» sbottò Hachidori, raschiando i piedi sul suolo per la rabbia. «Che razza di imbroglio…»

«Non c’è nessun imbroglio, Meishu» la interruppe Naito, frapponendosi tra loro due prima che venissero dette parole di troppo. «Vogliamo davvero cambiare. Siamo stanchi di fuggire e di combattere.»

Meishu scosse la testa. Ora, sembrava soltanto triste. «Non spetta a me giudicarlo. Ho ricevuto l’ordine di catturarvi vivi o morti, non di ascoltare la vostra storia. Sto rinunciando ad ogni cosa lasciandovi andare via, perché vi devo… vi dobbiamo la vita. Vi consiglio di approfittarne e di far perdere le vostre tracce.»

«Meishu, ascolta…»

«Andiamocene» lo ignorò la donna, indicando alle compagne di allontanarsi con un cenno del mento. Naito rimase immobile, con le labbra schiuse, mentre le kunoichi cominciavano ad indietreggiare, tutte loro con lo sguardo puntato su di lui e su Hachidori. Meishu li osservò un’ultima volta con una strana espressione, concentrandosi soprattutto su Naito. Chinò la testa, in un gesto rapido e quasi impercettibile, dopodiché seguì le sue compagne e si ritirò tra i resti del castello di Hachiōji.

Per la seconda volta, il silenzio scese tra le rovine. Naito rimase immobile, ad osservare il punto in cui la chioma ebano di Meishu era scomparsa. Non era andata come aveva previsto, affatto. Sembrava perfino che, salvando le kunoichi, avesse creato un problema anche più grosso di quello in cui già si trovava. Hachidori lo ridestò dai propri pensieri, afferrandogli di nuovo il braccio. «Faremmo meglio ad andare anche noi, Naito-kun» mormorò, con voce incolore.

Naito assottigliò le labbra e annuì. Nonostante tutto, il pensiero di aver salvato delle vite, a discapito di chi fossero e di quello che gli avevano detto, lo fece sentire meglio, proprio com’era successo con quel bambino. Ancora una volta, pensò alle espressioni deluse o perfino schifate che Orochi e suo padre avrebbero fatto, vedendolo.

E, ancora una volta, a Naito non importò. Mentre si allontanavano, arrischiò un’occhiata verso di Hachidori, che pareva dubbiosa tanto quanto lui. Un piccolo sorriso nacque sul suo volto. «Grazie… per essere tornata» disse.

«Non devi ringraziarmi» rispose Hachidori, prima di voltarsi imbarazzata e farfugliare: «Non… non ti avrei mai abbandonato, Naito-kun.»

Naito distese il sorriso e posò la mano sulla spalla di Hachidori, che fece un’espressione sorpresa. Un forte calore nel petto lo assalì, mentre incrociava quegli occhi verdi che per lui ormai erano divenuti un rifugio sicuro, un punto di riferimento.

Hachidori gli sorrise e si avvicinò a lui, sfiorandogli il fianco. Una nuova sensazione si fece largo dentro di Naito, mentre proseguiva accanto alla sua compagna di viaggio: una sensazione di benessere che solo in rare occasioni aveva provato prima di allora. Un sentimento dovuto al fatto che, per una volta, si sentiva certo di aver fatto la cosa giusta.

Forse non aveva ottenuto quello che sperava, ma non poteva dire di starsene andando a mani vuote.

 

 

 

 

I torii sono quelle strutture che si vedono spesso nei media giapponesi. Vengono considerati come dei “portali” che danno accesso ad un santuario o comunque un luogo sacro. Ne troveremo molti altri nel corso della storia. https://it.wikipedia.org/wiki/Torii

 

 

 

 

Salve gente, voglio solo fare due precisazioni sulle rovine di Hachioiji. Dunque, esistono davvero, ovviamente, e sono un'attrazione turistica delle parti della cittadina di Hachioiji, per l'appunto. La storia è scritta nel capitolo, erano una fortezza che è stata distrutta in una battaglia completamente a senso unico, al giorno d'oggi le rovine sono lì, e sono visitabili. Non sono abbandonate come nella mia storia, insomma. Diciamo che, essendo noi nel futuro, ho pensato che magari, sì, ecco, fossero rimaste incustodite per un po' e poi chiuse al pubblico (la catena che calpesta Naito all'inizio del sentiero) che quindi quel simpatico ragnone abbia deciso di farne la sua dimora, con la Foschia che mascherava le ragnatele come neve, e così via.
Non ho messo note sullo tsuchigumo, e sulle altre creature che sono menzionate perché il primo viene spiegato nel capitolo, mentre le altre erano solo "comparsate" che non appariranno nella storia, ma volevo comunque mettere i loro nomi perché informandomi su di loro ne sono rimasto affascinato. Ok, premessa inutile finita, scusate la rottura di scatole. Comunque, per citare la mia amica Nanamin, ancora una volta Meishu parte alla velocità della luceeeeeee

Ringrazio, ovviamente, come sempre, Nanamin, Roland, Farkas e Fenris per le loro recensioni e il loro supporto importantissimo! Grazie davvero di cuore, e alla prossima!

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Capitolo 11
*** Il santuario Meiji ***



11

Il Santuario Meiji

  

 

Gli incubi non l’avevano mai abbandonato davvero, ma quella volta fu molto peggio di tutte le precedenti. Un senso di disperazione e di tristezza che soltanto quando aveva perso sua madre lo assalì, mentre scene orribili scorrevano di fronte a lui. 

Hachidori in lacrime. Hachidori a terra. Hachidori senza un braccio. Hachidori con una lama puntata alla gola. 

E lui che non poteva fare niente per salvarla.

Un dolore lancinante lo accompagnò non appena riaprì gli occhi. Lo sentiva al volto, allo stomaco, al petto. 

Soprattutto al petto. Era atroce, insopportabile. E non era dovuto ad una ferita, o ad uno dei pugni che aveva ricevuto. Era qualcosa di molto diverso, e perfino più agonizzante. Si accentuava ogni volta che pensava a quello che era successo, soffocandolo.

Si guardò attorno, realizzando di trovarsi dentro uno stanzino di pietre. Era seduto a terra, aveva le gambe libere, le braccia invece erano immobilizzate, i polsi legati da delle catene a degli anelli incassati nella parete. 

«Questa volta l’hai fatta grossa» disse una voce all’improvviso.

Naito abbassò lo sguardo, accorgendosi di Chioiji che lo osservava dal centro della stanza. Lo tsuchinoko fece vibrare la lingua. «Non capisco proprio perché il padrone non ti abbia ucciso.»

«Levati di torno» sibilò Naito, per poi sferrargli un calcio. Non riuscì a raggiungerlo, era troppo distante, ma riuscì comunque a fargli prendere un bello spavento. 

Chioiji saltò da terra con un grido, ritirandosi ancora di più. «L-La smetterai di fare così, mezzosangue! Presto avrai la lezione che ti meriti!»

Per tutta risposta, Naito strattonò le catene con un grido, facendolo fuggire via terrorizzato dalla porta. «Liberatemi! LIBERATEMI!» urlò, dimenando i polsi. «HIKARU! OROCHI! FATEMI USCIRE, BASTARDI!»

Nessuno rispose. Continuò a urlare e a strattonare le catene senza alcun risultato, mentre quel dolore al petto cresceva a dismisura dentro di lui, mischiandosi con una rabbia accecante. 

Non seppe per quanto tempo andò avanti in quel modo. Sapeva solo che avrebbe voluto distruggere quel luogo mattone dopo mattone, uccidere chiunque si trovasse sul suo percorso e correre da Hachidori, pregando che fosse ancora raggiungibile e, soprattutto, viva.

Quando riaprì gli occhi nuovamente, realizzò di aver perso di nuovo i sensi. Non c’erano finestre, quindi non poteva sapere se fosse giorno, o notte. Non sapeva nemmeno se si trovasse ancora alle rovine di Takeda, in realtà. Digrignò i denti, tirando di nuovo le catene. Non riusciva a credere che bastasse così poco per tenerlo imprigionato. Aveva distrutto interi edifici a mani nude, come potevano delle semplici catene intrappolarlo così? Forse erano opera di Hikaru.

Piegò i polsi, tentando di farli scivolare tra gli anelli, ma erano troppo stretti. Con un altro grido frustrato, sbatté un piede a terra. «Liberatemi…» sussurrò, avvertendo un’altra dolorosa fitta al petto. «Hachidori…»

Un rumore di passi lo fece raddrizzare. Hikaru entrò nella stanza proprio in quel momento, con l’aspetto di donna mortale. Lo scrutò dall’alto per diversi istanti, senza dire nulla, con espressione indecifrabile. L’ultima cosa che Naito ricordava della kitsune, era lei che si avventava su di lui circondata dalle fiamme. E soprattutto ricordava di lei mentre tentava di soffocare Hachidori. 

«Liberami…» sibilò, con voce carica di odio. 

«Sai bene che non posso farlo, Naito-ku…»

«NON CHIAMARMI COSÌ!» tuonò lui. Per un istante, Hikaru perse la sua compostezza. «È tutta colpa tua…» proseguì Naito, con un rantolio. «Quando sarò libero, ti ucciderò, Hikaru. Ti mozzerò le code una per una e ti caverò gli occhi.»

La donna fece una smorfia infastidita. «Smettila con le minacce, Naito. Se sei in questa situazione è solo colpa tua. Ho provato ad avvertirti, ma non hai ascoltato.»

Naito strinse i denti. Non aveva idea di che cosa stesse blaterando e non gli importava. Voleva solo strapparle quella maledetta lingua. 

«Ora datti un contegno. Orochi ha voluto darti un’altra possibilità, faresti meglio a sfruttarla.»

Quando udì quel nome, Naito si irrigidì. «Dov’è adesso?» rantolò, desideroso di incontrarlo per sputargli in un occhio e poi tagliargli la gola. 

«Nello Yomi. Tornerà questa sera.» Hikaru portò le mani dietro la schiena. «Perciò approfitta di questo tempo per calmarti, se non vuoi che ti uccida.»

Un ghigno nacque sul volto di Naito, ma solo perché l’alternativa sarebbe stata urlare ancora più forte. «Mi farebbe solo un favore.»

«Hachidori era così importante da farti desiderare di essere ucciso?»

Il tono con cui gli rivolse quella domanda lo infastidì, come se le avesse appena detto una follia. «Sì» rispose, con un ringhio. «Sì, lo era. Ed era anche molto più importante di tutti voi e della vostra stupida guerra.»

Hikaru scosse la testa. «Non hai idea della gravità delle tue parole, Naito.»

«E tu non hai idea di cosa io stia passando» replicò Naito, affondandosi le dita nei palmi. «Perciò taci. Non hai alcun diritto di rivolgerti a me così.»

«Ti sbagli. Lo so invece.»

La rabbia si ritirò all’improvviso da dentro di lui, per far spazio allo stupore. Tra le migliaia, milioni di risposte che si era aspettato di sentire, quella era in assoluto l’ultima. Per la prima volta da quando la conosceva, Hikaru non sembrò volerlo guardare in faccia. Sembrava… triste. «Anch’io ho conosciuto una persona, molto tempo fa. Un uomo, mortale. Ma non era come gli altri. Lui… lui era diverso» disse, con voce quasi nostalgica. Si strinse nelle spalle, a disagio, come se quel pensiero le arrecasse dolore. «E quando mi sono resa conto di quello che stava succedendo, quando mi sono resa conto di come il mio cuore battesse in maniera diversa tutte le volte che lo vedevo, vuoi sapere cos’ho fatto?»

Ritornò a fissarlo truce, le sue iridi color ambra si tinsero di un fiammeggiante arancione. «L’ho ucciso. Gli ho strappato l’anima e me la sono divorata. E adesso, ogni volta che chiudo gli occhi, la sua espressione terrorizzata mi perseguita.»

«Ma… perché l’hai fatto?» riuscì a sussurrare Naito. 

«Perché, mi domandi? Perché è la mia natura, ecco perché. Sono una kitsune. E mi nutro delle anime degli uomini. Non esiste che io possa innamorarmi di loro.»

«E non hai pensato che invece… le cose potessero andare diversamente?»

Una fredda risata provenne dalla gola di Hikaru. «In che modo avrebbero potuto, Naito? Ritirandomi con lui in una baita tra le montagne?» Un ghigno sadico le deturpò il viso. «Magari allevando un piccolo mezzosangue come te?»

Naito tacque, mentre lei si voltava verso la porta, i pugni contratti dietro la schiena. «Sono una volpe a nove code, non una moglie, tantomeno una madre.» Gli lanciò ancora un’occhiata sottecchi. «Io so quello che sono. E tu, Naito, che cosa sei?»

Non attese una risposta. Si avviò verso la porta senza dire altro e lasciò la stanza, abbandonandolo. I minuti successivi li trascorse fissando il vuoto, mentre le parole di Hikaru riecheggiavano nella sua mente. 

 

***

 

Scesero la collina, lasciandosi alle spalle le rovine di Hachiōji. Intere pianure e valli ricoperte di palazzi si stagliarono di fronte a loro, a perdita d’occhio. Erano quasi arrivati, ormai. Il cielo era ancora grigio, nuvoloso, era difficile capire che ora fosse ma dopo tutto il tempo passato Naito suppose che fosse ancora pomeriggio. Se si fossero sbrigati sarebbero arrivati prima della sera.

«Yokohama è da quella parte.» L’indice di Hachidori indicò un punto imprecisato nell’orizzonte. «Invece, quella è Tokyo» aggiunse, accennando alla gigantesca macchia di palazzi in lontananza che ricopriva ogni cosa. «Se passassimo di lì prima di andare a Yokohama?»

Naito corrucciò la fronte. «A Tokyo?»

Hachidori annuì. «C’è… un posto che potremmo visitare. Potremmo trovare informazioni utili.»

«Non… non saprei…» mormorò Naito, incerto. «Che posto? E che informazioni, soprattutto.»

«Un santuario dedicato all’imperatore Meiji. Il santuario Meiji, per l’appunto. Panji ha detto che è stato lui a far costruire le Tribune Negishi. Magari possiamo trovare qualcosa in più a riguardo… sempre meglio che andare là all’oscuro di tutto, no?» Hachidori si scostò una ciocca di capelli da di fronte al volto, mentre osservava il cielo. «E poi, presto farà sera, Naito-kun. Non abbiamo alcuna fretta di arrivare, possiamo fare una sosta a Tokyo e andare alle Tribune domattina.»

Naito non era affatto convinto. La sua espressione dovette parlare per lui, perché Hachidori gli lanciò uno sguardo di suppliche. «Oh, dai, Naito-kun! Ti prego!» Si portò la mano di fronte al petto, mentre il mantello si spostava leggermente, come se avesse provato a muovere anche l’altro braccio. «Per favore! Sono stata a Tokyo soltanto una volta… mi piacerebbe molto rivederla. E…» distolse lo sguardo. «… mi piacerebbe… vederla assieme a te.»

Le guance di Naito pizzicarono, mentre lei si osservava i piedi imbarazzata. Un piccolo sorriso nacque sul suo volto. Senza di lei, quel viaggio non sarebbe nemmeno mai esistito. Era grazie a lei se avevano una destinazione, era stata sua l’idea di cercare l’elisir, era stata di enorme aiuto e anche di ottima compagnia. Era giusto che lui ricambiasse il favore, accettando la sua proposta. E poi, aveva ragione, cercare ulteriori informazioni sarebbe stato sicuramente meglio che andare alle Tribune senza avere la più pallida idea di come muoversi. «Va… va bene, Hachidori. Andiamo a Tokyo.»

Lei tornò ad osservarlo sbalordita. «Dici… dici davvero?»

Naito annuì. «Sì.»

«Chi sei tu? Dov’è il Naito noioso e rompiscatole che ho sempre conosciuto?» domandò allora Hachidori, con uno strano tono di voce.

Il sorriso di Naito vacillò. «Davvero… davvero pensi che io sia noioso e rompiscatole?»

«Sei la persona più noiosa che conosco» ribatté lei, afferrandolo per il braccio e sorridendo smagliante. «Forza, sbrighiamoci prima che faccia buio!»

«Ma… ma…» Le proteste di Naito non vennero ascoltate. Hachidori cominciò a trascinarlo lungo la collina a passo spedito.

 

***

 

Naito aveva sempre visto quelle gigantesche città da lontano. Kyoto, Osaka, Nagasaki e la stessa Tokyo, ma non era mai stato in mezzo ad una di esse. Soltanto in occidente aveva trascorso del tempo a San Francisco e a New York, ma non si era sempre concentrato sul suo dovere, non era mai andato a passeggio in mezzo alle strade e ai mortali come invece fece quella volta.

La sensazione che stava provando era indescrivibile. Era combattuto tra il desiderio di fuggire il più lontano possibile da lì e non voltarsi più indietro e, allo stesso tempo, quello di passarci più tempo possibile, per continuare ad ammirare quei palazzi immensi, quelle luci multicolore e quei paesaggi meravigliosi.

E soprattutto, per godersi il calore della mano di Hachidori stretta attorno alla sua. Sentiva il cuore battergli all’impazzata nel petto e le guance in fiamme, mentre lei lo guidava tra le vie gigantesche di Tokyo. Le uniche volte che gli lasciava la mano, erano per indicargli qualcosa che catturava la sua attenzione, per poi cercarla di nuovo rapida, quasi come se temesse che lui potesse scappare via come un cucciolo terrorizzato dal chiasso di quel luogo.

Era una paura legittima, in realtà, ma si sarebbe premurato di non farglielo mai sapere.

C’era tantissima gente, nonostante il periodo dell’anno. Le strade erano straripanti di persone, abitanti del luogo e non. I turisti la facevano da padroni, come sempre, ma ormai Naito nemmeno ci faceva più caso ai loro schiamazzi e ai loro cellulari.

All’inizio l’idea di camminare in mezzo ai mortali l’aveva messo a disagio, ma più passava il tempo più si rendeva conto che a nessuno importava niente di loro due. La Nebbia li aveva coperti completamente, mischiandoli assieme a loro e spacciandoli come semplici ragazzi umani.

I veicoli mortali passavano accanto a loro a singhiozzi, cercando di districarsi in mezzo al caos. Automobili e autobus, così si chiamavano. Li aveva già visti tante volte, ma non era mai stato a bordo di uno di loro. Si domandò cosa si provasse. A giudicare da come i loro conducenti faticassero perfino a fare un metro, probabilmente non doveva essere una bella sensazione.

Ogni angolo, ogni incrocio, ogni punto in cui guardava era un’esplosione luci e suoni. Scritte, immagini, disegni, insegne, tutto si mischiava in un turbinio di colori sgargianti. Quando Hachidori gli disse che essendoci ancora luce naturale molte ancora nemmeno erano accese, lui faticò a crederci. Stando alle sue parole, quella città di notte assumeva tutto un altro volto.

La cosa più sorprendente, era la quantità incalcolabile di paesaggi diversi. Si passava da punti completamente civilizzati fatti di vetro, acciaio e cemento a luoghi più tranquilli, giardini, alberi, edifici rustici di legno e lanterne di carta al posto dei lampioni di ferro. Vide anche una gigantesca torre, rossa e appuntita. Hachidori gli disse che era un’antenna, per mandare segnali in ogni angolo del mondo attraverso l’aria, con delle onde elettromagnifiche. Da come glielo spiegò, sembrò che avesse imparato la definizione a memoria senza capirci davvero qualcosa. Di sicuro, lui non ci aveva capito niente.

I palazzi più alti, i grattacieli, sovrastavano ogni cosa, torreggiando come giganti su di loro. E allo stesso tempo, anche loro sembravano insignificanti se paragonati al monte Fuji in lontananza, poco visibile a causa del cielo nuvoloso, ma comunque presente in tutta la sua grandezza.

Camminarono a lungo, rimanendo l’uno accanto all’altra, le mani unite, e più tempo passavano così, più Naito scopriva di sentirsi… bene. Il disagio iniziale era svanito, rimpiazzato da una dolce e calma sensazione di pace.

«Da questa parte, Naito-kun» disse Hachidori, accennando con il mento ad una molto meno affollata. Erano arrivati ad una zona quasi priva di persone, o di automobili. Un luogo residenziale, stando alle parole di Hachidori. Ai turisti non importavano molto quei posti, loro erano più attratti dal caos, le luci e il chiasso dei quartieri centrali. Lì, invece, trovarono villette, veicoli parcheggiati, alberelli e soprattutto silenzio. Le sue orecchie faticarono ad accettare tutta quella quiete dopo il tempo trascorso nel cuore della capitale.

Naito si voltò verso la compagna, ritrovandosi a sorridere senza nemmeno rendersene conto. Strinse la mano con più forza, e lei se ne accorse. Si voltò e i loro sguardi si incrociarono. Naito distese il sorriso e lei lo ricambiò. «Hai visto, Naito-kun? Te l’avevo detto che ci saremmo divertiti.»

«Sì… è vero. Scusa se… se ho dubitato di te» rispose lui, prima di abbassare l’occhio. «E… scusa se sono stato noioso.»

La sentì ridacchiare e battere di nuovo la spalla contro di lui. «Non sei davvero noioso, Naito-kun. Hai solo bisogno di riabituarti alla compagnia degli altri.»

Naito sorrise di nuovo. Il suo cuore batté mentre la osservava. Non importava quante volte la guardasse, non importava quanto pensasse a quello che era successo tra di loro, rimaneva ammaliato dal suo aspetto ogni volta come se fosse la prima.

Hachidori non possedeva la stessa bellezza di Hikaru, delle mortali o delle piccole dee che aveva incontrato in occidente. La sua bellezza era diversa. Aveva le guance scavate, il naso lungo, i capelli arruffati, i denti affilati e un po’ storti, qualcosa che molti avrebbero definito imperfezioni. Ma per lui non erano imperfezioni. Erano ciò che rendeva Hachidori, Hachidori. Senza quelle “imperfezioni” non sarebbe stata diversa da chiunque altra.

Senza quelle imperfezioni, non sarebbe stata bella. 

Perché lei era bella. Era bellissima. E nessuno avrebbe mai potuto convincerlo del contrario. Ripensò a quello che era successo la sera prima, in riva al fiume, e lo stomaco gli si annodò.

Orochi… era stato lui a fargli quello. Naito abbassò la testa, mentre ripensava a tutto quello che era successo da quando Hachidori era stata esiliata. Orochi aveva fatto ogni cosa in suo potere per plagiarlo, per portarlo dalla sua parte. E alla fine c’era riuscito.

Alla fine, Naito aveva dimenticato le emozioni. L’unica cosa che aveva continuato a coltivare, era stata la rabbia. La rabbia lo aveva portato in occidente, assieme ad Orochi. La rabbia gli aveva fatto aggredire Rosa. La rabbia gli aveva fatto trafiggere Konnor. La rabbia l’aveva portato al gioire per la morte di Orochi, o almeno, quella che aveva creduto fosse la sua morte.

La rabbia lo aveva portato fin dov’era arrivato. E poi, aveva perso. Konnor l’aveva sconfitto. E dentro di lui non era rimasto più nulla, se non il rimorso. Ora, guardandosi indietro, poteva scorgere la fila di errori madornali che aveva commesso. Una lista così grande che non riusciva nemmeno a vederne la fine.

E soprattutto, ora non sapeva più cosa fosse. La domanda di Hikaru risuonò nella sua mente: «E tu, Naito? Che cosa sei?»

Naito assottigliò le labbra. Orochi aveva visto un demone, in lui. Konnor, Edward ed il vecchio Musashi avevano visto un uomo. Suo padre, invece, non aveva visto né l’uno né l’altro. Solo un mortale con le corna.

Chi aveva ragione?

Conosceva la risposta a quella domanda. Suo padre aveva ragione. Era un mortale con le corna. Non era un demone, ma allo stesso tempo non era nemmeno un uomo.

Non voleva più essere un mostro. Aveva salvato vite umane, aveva perso il desiderio di combattere e di vendicarsi. Allo stesso tempo, non era riuscito a baciare Hachidori. Non era riuscito a provare di nuovo quell’amore per lei.

Non era un mostro, ma non era neanche un uomo. Non era… niente. 

Strinse i pugni. Non sarebbe finita così.

«Naito-kun?»

La voce di Hachidori lo fece ridestare. Non si era nemmeno reso conto che avevano continuato a camminare. Si erano fermati di fronte ad un cancello bianco chiuso, al termine della strada. Diversi cartelli erano appesi, uno segnava degli orari di apertura e di chiusura, uno aveva la scritta “NO DRONES” sotto ad uno strano disegnino, una specie di aggeggio con quattro lame rotanti barrato di rosso, e per finire quello che stavano cercando loro:

 

 

明治神宮 


Meiji Jingu

 

 

«Siamo arrivati. Il santuario di Meiji è qui» mormorò Hachidori, lasciandogli la mano e avvicinandosi. Allungò il collo, per guardare oltre al cancello. «Non sembra ci sia ancora qualcuno. A quest’ora è chiuso.»

«Quindi, che facc…» Naito si interruppe quando vide Hachidori scavalcare. Fece un sorrisetto. Avrebbe dovuto aspettarselo.

La imitò e saltò oltre il cancello, raggiungendola di fronte ad un alto torii di cemento, da cui cominciava una stradina che si smarriva in mezzo ad un corridoio di alberi.

Hachidori fece un passo avanti. «Da questa parte.»

«Sei già stata qui?» chiese Naito, guardandosi attorno circospetto. Aveva una strana sensazione. Doveva essere perché si trovavano presso un luogo sacro. Dopo gli avvenimenti nelle rovine di Hachiōji, avrebbe preferito non attraversare più torii per un bel po’ di tempo.

«No, ma è un santuario piuttosto famoso. Ne ho sentito parlare spesso.» Gli sorrise, intuendo il suo stato d’animo. «Non preoccuparti, Naito-kun, non ci fermeremo a lungo. Siamo in casa degli dei, dopotutto. Non credo proprio che siamo i benvenuti.»

Tese la mano verso di lui e Naito la osservò sorpreso, prima di sorridere e stringergliela di nuovo. «Andiamo allora» concluse.

Superarono il torii e percorsero quella stradina in mezzo alla vegetazione. Erano sempre a Tokyo, eppure era quasi impossibile da credere. C’erano vasti prati e una fitta rete di alberi disposti in modo da coprire la città, circondando quella zona come una barriera. Se non fosse stato per la strada di cemento e per alcuni dei palazzi più alti che spiccavano in lontananza, Naito avrebbe creduto di essere di nuovo dentro ad un bosco.  

Avanzarono in silenzio. Naito fece vagare lo sguardo lungo quel luogo, meravigliato. Inevitabilmente, il suo occhio finiva sempre con il posarsi su Hachidori. Quando lei se ne accorse gli sorrise, stringendogli la mano più forte. «Sono… felice che…» Si interruppe, distogliendo lo sguardo imbarazzata. «Insomma… n-non importa.»

«Ehm… okay?» rispose Naito. L’espressione che fece Hachidori lo fece ridacchiare.

«Anch’io sono felice» ripose, dandole un colpetto con la spalla come lei aveva fatto con lui.

Hachidori lo osservò sorpresa. Naito distese il sorriso. Era vero, si sentiva davvero felice. Ed era grazie a lei. Non aveva idea di come avesse potuto rimanergli accanto dopo quello che aveva fatto la sera prima. Non aveva idea di come avesse deciso di perdonarlo.   

O forse, in realtà, lo sapeva. Hachidori aveva fatto tutto quello perché davvero teneva a lui. Perché gli voleva bene. O forse… forse perché anche lei lo amava.

A quel pensiero, per poco non si inciampò da solo.

«Naito-kun! Stai bene?» domandò lei, allarmata.

«S-Sì…» biascicò lui, sperando di non essere rosso in volto quanto credeva. Hachidori ridacchiò di nuovo, lasciandogli la mano per stringersi al suo braccio, appoggiando la guancia sulla sua spalla. Naito si irrigidì come un muro, sentendo il respiro mancargli.

Nessuno dei due disse più nulla. Continuarono a camminare stretti in quel modo finché il paesaggio non cambiò di nuovo. La vegetazione si diradò e un altro torii comparve di fronte a loro, questo però era fatto di legno.

La strada di cemento venne rimpiazzata da un pavimento di piastrelle di marmo, che li condusse ad un gigantesco complesso di edifici disposto a quadrato, con uno spiazzale immenso al proprio interno. Quando entrarono nel cortile, Naito individuò subito quello che stavano cercando: l’ingresso del santuario era di fronte a loro, al fondo dello spiazzale, un lato di quel quadrato con il tetto rosso e alto, decorato con travi, ampie finestre e porte contornate d’oro.

Quattro giganteschi alberi erano eretti agli angoli del cortile, torreggiando sopra di loro. In disparte, vide una struttura di legno, di forma esagonale, piena di mensole e scaffali stipate di lettere e fogli di carta, preghiere e auguri dei visitatori.

Un forte senso di inquietudine percorse il corpo di Naito mentre procedevano verso l’ingresso. Si guardò attorno, sorpreso da tutta quella calma e tutto quel silenzio. Il luogo era stato chiuso ai visitatori, tuttavia si aspettava almeno la presenza di qualche sacerdote, o sacerdotesse. Invece nulla. Non c’era nessun altro a parte loro.

«Forza» bisbigliò Hachidori, portandolo quasi di forza verso l’ingresso del santuario.

«Aspetta» mormorò lui, fermandosi.

Lei sembrò allarmarsi. «Che succede?»

Naito esitò. Forse quello non era il momento più adatto per farlo. Allo stesso tempo, quei pensieri nella sua mente non gli davano più pace. Si sentiva bene, con Hachidori. Si sentiva davvero bene. «Volevo… volevo dirti che continuo a pensare a quello che è successo ieri sera, e…»

«Ma… proprio adesso?» chiese lei, perplessa.

«Io…» Naito si interruppe, accorgendosi della sua espressione. Non sembrava solo perplessa, sembrava agitata. «Ma… stai bene?»

«Sì, certo che sto bene. Forza, sbrighiamoci, prima che qualcuno si accorga che siamo qui.»

«No, aspetta. È… è importante, Hachidori.»

Lei si irrigidì. «Naito, forse…»

«Mi dispiace» buttò fuori lui, tutto d’un fiato. «Ti ho… ti ho ferita, ieri notte. Non… non volevo.»

«Naito-kun…»

«Orochi. Lui… mi ha proibito di… di provare emozioni. Qualsiasi emozione. Voleva che fossi un mostro, come lui. Voleva trasformarmi. Ha usato il mio sangue demoniaco contro di me. Ha fatto leva sulla mia rabbia, sul mio desiderio di vendicarmi. Voleva farmi dimenticare tutto quello che provavo. E c’è riuscito. Ma non voglio più essere come lui. Non voglio… essere un mostro. E… non voglio nemmeno essere quello che mio padre mi ha definito. Voglio… essere diverso. Stare con te me l’ha fatto capire, Hachidori.»

Si avvicinò a lei, sorridendole. Hachidori rimase in silenzio, mentre le accarezzava la guancia dolcemente. «Voglio… voglio rimanere con te, Hachidori. Voglio cambiare le cose, aiutare la nostra gente. Dimenticare tutto quello che è successo. Ricominciare, insieme a te.»

La vide schiudere le labbra, mentre un’espressione molto diversa appariva sul suo viso delicato e morbido. Anche da sbalordita, rimaneva comunque bellissima. «Mi serve… solo… che tu porti pazienza, Hachidori. Non… non sono bravo, con i sentimenti. Ho… ho paura di commettere altri errori. E… non voglio commettere altri errori. Non voglio perderti di nuovo. Voglio… voglio iniziare ad amare di nuovo. Voglio amare te, Hachidori» concluse, avvicinandosi ancora, così vicino da poter sentire il suo respiro su di lui. Quando riuscì finalmente a dirglielo, si sentì incredibilmente meglio. Molto meglio di quanto avrebbe mai immaginato.  

«N-Naito…» mormorò lei, con voce tremolante.

Naito si accorse presto che la sua reazione non era quella che si era aspettata. Era sorpresa, sì. Ma era uno stupore diverso da quello che aveva creduto all’inizio. Sembrava… intimorita. Spaventata.

Il sorriso svanì dal volto di Naito. «Che succede?»

Lei non rispose. Rimase immobile, ad osservarlo interdetta. All’improvviso, la sua mano si chiuse di nuovo attorno al suo braccio. «Dobbiamo andarcene da qui.»

Cominciò a trascinarlo via, verso la direzione da cui erano venuti. Naito si lasciò tirare, colto alla sprovvista dal suo cambio di tono e di atteggiamento. «Ma che sta succedendo, Hachidori? Che ti prende?»

«N-Non posso spiegare. Dobbiamo andare via. Dobbiamo…»

Una cortina di fiamme esplose di fronte a loro, facendoli sobbalzare all’indietro. Hachidori gridò, sbattendo contro di Naito, che rimase a bocca aperta. Le fiamme si mossero sopra il marmo, come se avessero vita propria, tracciando un cerchio invalicabile attorno a loro. Il calore era immenso, la luce accecante. «No…» bisbigliò Hachidori, ma Naito a malapena la sentì. I suoi occhi rimasero fissi su quelle fiamme, alte, vive, arancioni accese. La mente si rifiutò di collaborare con lui.

Vide delle figure muoversi al di là del muro infuocato. Si avvicinarono a loro, mischiandosi in mezzo alla luce.

Una voce si sollevò, sovrastando completamente il crepitio assordante del fuoco. «Eccovi, finalmente! Vi stavamo aspettando!»

Naito spalancò l’occhio. Aveva già sentito quella voce. E aveva già visto quel fuoco.

Le fiamme si diradarono. Di fronte a loro, erano apparse decine e decine di uomini in armatura completa da samurai, armati di katane, kanabō e kusarigama. Sembravano mortali, ma erano tutti quanti grossi quasi quanto degli oni.

Erano disposti di fronte e di fianco a loro, in modo da bloccare il passaggio verso le uscite. Naito indietreggiò, paralizzato.

«Era da molto che aspettavo questo momento, caro Naosuke» disse di nuovo quella voce, alle loro spalle. Entrambi i ragazzi si voltarono e ancora una volta Naito sentì il respiro mancargli.

Un uomo era apparso di fronte all’ingresso del santuario. Era alto almeno due metri e mezzo, con lunghi capelli rossi che baluginavano nell’aria. Sembravano muoversi seguendo un vento che non esisteva, come dotati di vita propria, guizzando come le fiamme di poco prima.

Non appena lo vide, Naito sentì la temperatura alzarsi all’improvviso, come se quell’incendio non si fosse mai davvero spento. Non riuscì più a muoversi, non riuscì nemmeno più a respirare, paralizzato da quel terrore viscerale che lo stava lentamente trasformando di nuovo in Naosuke Itomi, il bambino solo, debole e spaventato che era fuggito nei boschi.

Il ghigno di quell’uomo fu ben visibile perfino da quella distanza. Lo stesso che aveva visto dodici anni prima, quando casa sua era stata data alle fiamme.

Lo stesso che aveva quando aveva ucciso Akane.

«Pensavi di poter scappare per sempre?» disse ancora quello, le spalle che si alzavano in una roca risata, facendo tintinnare l’armatura. Il suo sguardo scivolò su di Hachidori, che si irrigidì. La stretta attorno alla sua mano aumentò.

«Ti ringrazio per avermelo portato, Hachidori. Sei stata di grande aiuto.»

Naito riuscì a ridestarsi solo quando udì quelle parole. Si voltò verso Hachidori con un gesto lento e meccanico, credendo di aver sentito male. Incrociò il suo sguardo e si accorse della sua espressione devastata. «N-Naito-kun…»

Sentì il respiro farsi più pesante. Il cuore accelerò i propri battiti, mentre osservava quella ragazza, mentre nella sua mente tutto cominciava a farsi più chiaro. Il suo comportamento agitato, la sua insistenza nel compiere quella deviazione, la sua fretta nel visitare quel luogo.

L’oscuro desiderio menzionato da Panji.

Lasciò la mano di Hachidori e fece un passo indietro. Per tutto il tempo, non staccò gli occhi da lei. «Era… era una trappola…» sussurrò, faticando lui stesso a crederci.

Hachidori abbassò la testa. Quella fu la conferma. Un lungo brivido percorse il corpo di Naito. Non poteva crederci. Non voleva crederci.

«È passato tanto tempo…» disse ancora l’uomo con i capelli rossi, avvicinandosi a loro. «… ma sono sicuro che ti ricordi di me, vero Naosuke?»

Naito strinse i pugni, soffocando un brivido di paura. Non rispose, mentre i fatti di quella notte balenavano di fronte a lui, come le fiamme che avevano carbonizzato casa sua.

Ritornò con la mente a quando era ancora bambino, a quando aveva conosciuto Orochi solo da poco. A quando lui l’aveva portato sulle montagne di Kyoto, per mostrargli quel santuario, il santuario di Agata. A quando aveva scoperto che i mortali che avevano ucciso sua madre erano stati mandati da un dio.

E che era stato proprio quello stesso dio ad ucciderla di fronte a lui.

L’uomo si fermò a pochi metri da lui. Da quella distanza, poté percepire il calore che irradiava, intenso, cocente. Anche l’armatura che aveva indosso sembrava patire il caldo. Il metallo era arancione acceso, le placche color cremisi, e ribolliva e sfrigolava sopra di lui mandando pennacchi di fumo.

Il viso dell’uomo, coperto da sprazzi di barba incolta, era deturpato di orrende cicatrici, come se fosse stato fatto a brandelli e poi rimesso insieme alla rinfusa, cosa vera, peraltro.

Quello di fronte a lui… era l’ultimo figlio di Izanami e Izanagi. Quello che aveva ucciso la madre venendo al mondo e che era stato fatto a pezzi dal padre infuriato.

Kagu-Tsuchi, il dio del fuoco.

«Finalmente posso uccidere il bastardo che la mia sacerdotessa ha messo al mondo» disse Kagu-Tsuchi.

 

 

 

 

 

Saaaalve. Come va? Mi odiate? Secondo me no. Da quando è apparsa Hachi le visite alla storia sono calate drasticamente hahaha (un bel po' di sostenitori della Rosa/Naito, immagino) beh, che dire, spero che questo insegni qualcosa, non date mai niente per scontato. Anche se le persone che non leggono più probabilmente non scopriranno mai questa cosa, però vabbé, peggio per loro. 

Un po' di informazioni inutili poi vado. La torre vista nel capitolo è ovviamente la Torre di Tokyo, con le sue onde elettromagnifiche. 

Riguardo il flashback all'inizio, la discussione tra Naito e Hikaru, in realtà ci sono kitsune madri e mogli. Ci sono kitsune buone e kitsune malvage e Hikaru rientra nella seconda categoria. Può essere una madre, può essere una moglie, certo, ma è lei che rifiuta di esserlo, perché è una volpe a nove code, ed è una creatura troppo potente, orgogliosa e anche un po' disillusa, per accettare di trasformarsi in qualcos'altro. Spero, comunque, che questa sua sfaccettatura vi sia piaciuta, non avevo molte pretese all'inizio su Hikaru, l'ho creata così perché serviva qualcuno che rimpinguasse l'esercito di Orochi, ma devo dire che è un personaggio che può essere interessante, se raccontato bene. 

Qui vi lascio un disegno fatto da Roland, un piccolo tributo alle kitsune: https://www.deviantart.com/rlandh/art/The-Kitsune-and-the-flower-891183109

Grazie per aver letto, grazie mille Roland per la fanart e le recensioni, grazie mille anche a Nanamin per avermi aiutato e grazie ai recensori (lettori che avete smesso di leggere perché c'è Hachidori, sappiate che vi siete fatti un nemico per tutta la vita) e alla prossima!

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Capitolo 12
*** La resa dei conti ***


Salve gente, faccio una rara nota ad inizio capitolo per mettere due link, due colonne sonore per questo capitolo che mi sono state molto d'aiuto, la prima è una canzone, la seconda è un OST vera e propria, così almeno ce n'è per tutti i gusti (io personalmente sono tipo da canzoni, ma posso comprendere chi invece preferisce le OST).

Canzone: https://www.youtube.com/watch?v=eRqIbk9VDwo

OST: https://www.youtube.com/watch?v=AtZG8jzFDZ8


Grazie per aver aperto il capitolo e buona lettura!



12

La resa dei conti

 

 

I minuti sembrarono ore e le ore sembrarono giorni, confusi e indistinti. Una massa di pensieri che si accalcavano tra loro creò un ingorgo nella sua mente. Rabbia, odio e tristezza lacerarono il suo petto come lame affilate ed intrise di veleno. Fame e sete si palesarono, unendosi a quel tormento. Perché non l’avevano ucciso e basta? Perché rinchiuderlo lì dentro? Non gli era bastato quello che avevano già fatto? Perché prolungare quell’agonia ancora di più?

Continuò a chiamare gli altri, a ordinare loro di liberarlo, ma nessuno arrivò mai. Poteva immaginare quello che stavano dicendo alle sue spalle. Era certo che si stessero prendendo gioco di lui e di quello che era successo. Se si fosse liberato, giurò a sé stesso che li avrebbe sterminati tutti. Nessuno di loro l’avrebbe mai più deriso.

Non aveva idea di che ora fosse quando qualcun altro mise piede nella sua cella. Aveva urlato così tanto che si sentiva privo di energie, ma non appena si accorse del volto viscido di Orochi si riaccese come un incendio. 

Le catene tintinnarono quando provò a scattare verso di lui per spappolargli il cranio. Tirò con tutta la forza che aveva, ignorando il dolore, la stanchezza, i morsi della fame, ogni cosa. Voleva che pagasse per averlo costretto a combattere con Hachidori. Era stata colpa sua, soltanto colpa sua. Le catene non si smossero. Non c’erano dubbi ormai che fossero intrise di magia.

«Non ti sei affatto calmato, vedo» furono le parole di Orochi, mentre lo esaminava impassibile. Dietro di lui, Hikaru rimase in silenzio, vicina alla porta e cupa in viso. 

«Lasciami andare» sibilò Naito, scrutandolo con odio.  

Orochi non rispose. Continuò a guardarlo inespressivo, prima di voltarsi. «Hikaru.»

La donna si irrigidì. «Sì, Lord Orochi?»

«Avvicinati.»

Hikaru obbedì, anche se sembrava intimorita. «Che cosa c’è, Lord Or…»

Orochi la afferrò per il collo, soffocando il resto della frase. Naito spalancò gli occhi atterrito, mentre Hikaru gridava e veniva sollevata da terra come una piuma. Le vene si tesero sul volto di Orochi e le sue dita affondarono sul collo della kitsune, facendola boccheggiare. «Ti avevo dato un ordine preciso, Hikaru. Ti avevo detto di tenere d’occhio quei due. Te lo ricordi?»

La donna provò a rispondere, ma lui serrò ancora di più la presa, strappandole un altro verso strozzato. «Te lo ricordi?!»

Con molta fatica, rossa in volto, Hikaru riuscì ad annuire. 

«E allora perché ci troviamo in questa situazione, Hikaru? Puoi spiegarmelo? No, certo che non puoi. Non puoi spiegarmi nulla, se soffochi.» Nonostante le sue parole, Orochi non la lasciò andare. Chiunque sarebbe già morto, dopo una simile stretta. Ma Hikaru era una kitsune, non poteva morire così. Avrebbe continuato a soffrire finché non l’avrebbe lasciata andare, o finché non sarebbe riuscita a liberarsi, ed entrambe le possibilità sembravano parecchio remote. 

Naito assottigliò le labbra, osservando la scena inquieto. Hikaru sembrava così sofferente che gli venne da provare pena per lei nonostante tutto quello che aveva fatto. Orochi lasciò andare la donna all’improvviso, spingendola a terra. La kitsune cadde sul pavimento, tossendo e massaggiandosi la gola, i capelli che le coprivano scompostamente il viso arrossato.

«Sapevo che non avrei dovuto lasciare questo compito a te, Hikaru» disse ancora l’uomo, collerico.

Hikaru tenne la testa bassa, senza rispondere. Sembrava tutta un’altra persona rispetto alla kitsune potente e orgogliosa che avevano conosciuto. Orochi riportò poi l’attenzione su di Naito e lui ricambiò il suo sguardo, digrignando i denti. Se credeva di intimidirlo, si sbagliava di grosso. 

«Dove ho sbagliato con te, Naito?»

Il suo tono lo lasciò di sasso. Sembrava… deluso. Ferito. Come se fosse stato Naito a fargli del male e non il contrario.

«Sei vivo grazie a me. Sei diventato ciò che sei diventato grazie a me. È grazie a me se adesso i mortali non possono nemmeno toccarti. E tu, per ricambiare la mia generosità… ti sei innamorato.»

Come la prima volta che l’aveva detta, quella parola uscì come un insulto dalle sue labbra quasi inesistenti. «Ti sei dimenticato quello che ti ripetevo sempre, quando eri ancora un poppante? Ti sei dimenticato tutti i miei insegnamenti?!»

«Ma quali insegnamenti?» sbottò Naito, stanco di sentirlo parlare. «Le tue bastonate, intendi? Le ricordo bene, quelle. Ho ancora i segni su tutto il corpo.»

«Non farti beffe di me, moccioso.» Orochi si avvicinò e si chinò di fronte a lui, per poi dire con un sussurro cavernoso: «Ti posso assicurare che tutto quello che hai subito non è nulla in confronto a quello che potrei farti in questo momento.» 

Naito stirò le labbra in un sorrisetto. Non rispose. Dalla sua bocca uscì soltanto uno schizzo di saliva che lo centrò in pieno occhio. Orochi si ritrasse, grugnendo infastidito e ripulendosi, prima di ringhiare di rabbia. Si mosse così rapido che Naito nemmeno riuscì a vederlo. Lo colpì in pieno volto con un pugno, talmente forte da fargli sbattere la testa contro il muro. Gli sembrò di avere la testa schiacciata tra due pareti di roccia. Sputò a terra una grossa chiazza di sangue. Non sentiva più la bocca, ma riuscì comunque a sogghignare. «Tutto qui? Sarebbe questo il gran male che potresti farmi?»

Un altro pugno lo fece gridare. Accasciò la testa e tossì, sentendosi le guance come corrose. 

«Visto che hai la memoria corta, lascia che sia io a rinfrescartela.» Orochi si alzò in piedi, per scrutarlo con odio dall’alto. «Ti ho detto di dimenticare le emozioni mortali. Quelle emozioni che provano gli stessi a cui stiamo dando la caccia. Quelle emozioni che ti rallenterebbero e che ti renderebbero debole. Ricordi, adesso?»

Naito tenne la testa bassa. Cominciò a produrre un lungo rantolio sommesso. «Kono yarou…»

Orochi gli sferrò un calcio al fianco. Le coste si spezzarono, lacerandolo dall’interno. Si accasciò nuovamente, con alcune lacrime che scivolavano dagli occhi. 

«Stai piangendo. Tutto questo solo per una stupida mocciosa.»

«Non era… una stupida mocciosa…» biascicò Naito, riuscendo ad incrociare di nuovo il suo sguardo. Le catene tintinnarono ancora. Il dolore non era nulla a confronto della rabbia che stava provando. 

«Sei davvero patetico. Potresti possedere qualsiasi donna tu voglia, mortali e non, e non solo hai scelto uno sgorbio, ma te ne sei perfino innamorato

«Sta’ zitto…»

«Non ha nemmeno esitato un istante quando le ho detto di ucciderti. A lei non importava niente di te, Naito. Ti stava solo usando.»

«STA’ ZITTO!» 

Orochi schiantò il piede contro il petto di Naito, così forte che si sentì un orribile scricchiolio. Naito rovesciò la testa all’indietro, gridando a perdifiato. Sentì i polmoni in fiamme e altro sangue che gli colava dalla bocca. Quando Orochi si allontanò di nuovo, il ragazzo si accasciò su sé stesso, boccheggiando. Tossì di nuovo, raschiandosi la gola arsa, e sputò un’altra grossa chiazza rossastra. «Va’… va’ all’Inferno, Orochi.»

«Toglimi una curiosità, Naito. Se fossero stati i mortali a catturare Hachidori, o perfino gli dei, tu che avresti fatto? Saresti rimasto concentrato su quello che conta davvero, come ti ho sempre insegnato, oppure ti saresti suicidato nell’inutile tentativo di salvarla? O peggio ancora, avresti compromesso tutti noi solo per lei?»

Quella domanda colse Naito alla sprovvista. E la cosa peggiore, fu che provò anche a pensare a una risposta. 

«Pensa soltanto a come hai reagito quando ho minacciato di ucciderla» proseguì Orochi. «Avresti permesso anche agli dei di manovrarti così?»

Naito tacque. Non seppe perché, ma cercò lo sguardo di Hikaru che però si voltò immediatamente, lasciandolo solo. A quel punto, strinse con forza i pugni. «L’hai detto tu che devo pensare a quello che conta di più, no?» rispose. «Hachidori è quello che conta di più.»

«Sei davvero un ingenuo, Naito. Non l’avresti mai salvata da loro. Ti avrebbero sfruttato finché non avresti esaurito la tua utilità e poi avrebbero ucciso sia lei che te. Non sarebbero mai stati clementi come me.» 

Un sorriso incredulo nacque sul volto di Naito. «Clemente? Tu?!»

«Siete entrambi ancora vivi, sbaglio? Hai stretto un accordo con me, Naito. Avresti imparato a essere un vero mostro e in cambio avrei risparmiato la vita della tua amichetta. Io ho rispettato la mia parte dell’accordo, adesso spetta a te farlo.»

Naito ripensò a quello che aveva detto la sera prima, ammesso che fosse passato solo un giorno. Strinse i denti furibondo. «Mi hai costretto tu ad accettare. Quell’accordo non vale niente.»

«Capisci, adesso, perché i tuoi sentimenti sono pericolosi? Perché possono essere usati contro di te. Proprio come ho fatto io. Per questo motivo non devi provarne, Naito. Sarebbero la tua rovina. Non provare sentimenti è il vantaggio più grande che si possa avere contro i propri nemici.» 

Gli occhi di Orochi sembrarono brillare. Per un istante, a Naito sembrò di essere tornato a quando era ancora un bambino in viaggio con lui. Ripensò a quella sera in cui gli aveva detto che non erano amici, che non doveva legarsi a nessuno, che per un mostro l’unica persona che contava era sé stesso.  

«Non vuoi più vendicarti, Naito? Non vuoi più farla pagare agli dei per quello che ti hanno fatto? Vuoi davvero rinunciare a tutto quello che ti ho dato solo per una manciata di piume che ti ha rivolto un sorriso?»

Una katana apparve nella sua mano, sfiorando la gola di Naito prima che potesse rispondere a tono. Si morse la lingua e fissò l’uomo dal basso. «Non potrai salvarti fuggendo con la tua amichetta, Naito. Tu, la tua specie intera, non avrete pace in questo mondo finché gli dei esisteranno. Se vuoi cambiare le cose, dovrai continuare a servirmi. Dovrai imparare ad essere un vero mostro. Non ti servono le emozioni, Naito. L’unica cosa che ti serve… è la tua rabbia.»

S’inginocchiò di nuovo di fronte a lui, scrutandolo severo, uno sguardo che non ammetteva alcuna obiezione. «Non hai idea di quanto sia potente il sangue demoniaco che scorre dentro di te. Solo io posso aiutarti a controllarlo. Solo io posso mostrarti come diventare più forte. Solo io posso salvarti.»

Naito serrò la mascella. Nella sua mente riapparve il momento in cui Orochi mozzava il braccio ad Hachidori, soltanto per ferirlo. Ripensò a quando, da bambino, aveva promesso a sé stesso che un giorno lo avrebbe ucciso. Mai come in quel momento desiderò di poterlo fare. 

Sapeva di non poterci riuscire. Non in quelle condizioni, almeno. Non era ancora al suo livello. Abbassò la testa, stringendo con forza i pugni. «Cosa… cosa vuoi che faccia?» domandò, con un filo di voce. Un dolore atroce lo colpì al petto non appena finì di rivolgergli quella domanda.

Quanto era patetico. Quanto era debole. Ma le cose sarebbero cambiate. Dovevano cambiare.

Un lento sorriso apparve sul volto viscido dell’uomo, la pelle sembrò tendersi più di una corda. «Sarai riammesso nell’esercito, ma verrai privato della tua posizione in comando. Se vorrai riprendertela, dovrai dimostrare davvero di esserne degno. Dovrai dimostrarmi che tu e la tua specie meritate un posto nel mondo che creerò dopo aver annientato gli dei. E soprattutto…» 

Orochi si alzò in piedi e consegnò la katana a Hikaru, che la prese frettolosa, senza incrociare lo sguardo di nessuno dei due. «… dovrai rinunciare alle tue emozioni, Naito. Niente più risate al chiaro di luna. Niente più piagnistei. E soprattutto, niente più amore. Mai ridere. Mai piangere. Mai amare. Fallo… e diventerai inarrestabile. Nessuno potrà fermarti, nemmeno quel figlio di cagna di Kagu-Tsuchi.»

Non appena quel nome venne menzionato, Naito s’irrigidì come il marmo. Osservò Orochi dritto negli occhi, le labbra contratte in una smorfia di odio puro, ma questa volta non era rivolta a lui. 

«Sì, Naito, questo è ciò che voglio vedere da te. Servimi. Combatti. Vendicati. Il mondo…» Orochi strinse la mano a pugno, distendendo quel ghigno sadico e innaturale. «… diverrà il nostro parco dei divertimenti. Nessuno ci potrà fermare. Diventeremo noi dei. E saremo noi a perseguitare chi è diverso.»

Le urla di Akane risuonarono nella sua mente. Si sentì come se il calore di quelle fiamme non se ne fosse mai andato davvero. Rivide il sorriso crudele del dio che aveva ucciso un’innocente di fronte a lui.

Avrebbe pagato. Tutti avrebbero pagato. 

«O sei con noi, o sei contro di noi, Naito. Dunque, cosa scegli?»

Naito guardò Hikaru, che questa volta non si voltò. Non disse nulla. Si limitò soltanto a muovere il capo, come aveva fatto quella notte, in un movimento quasi impercettibile, e annuì. All’improvviso, a Naito furono chiare le sue intenzioni dietro la sua visita precedente. E furono anche chiare le sue parole, quando gli aveva detto di aver cercato di metterlo in guardia. 

Riportò lo sguardo su Orochi e strinse i pugni. Tutti avrebbero pagato. Quel bastardo incluso. «Con voi.»

«Giurami fedeltà.»

«Ti… ti giuro la mia fedeltà.»

«Hikaru.» Orochi rivolse un cenno alla kitsune. «Liberalo.»

La donna si affrettò ad obbedire. Mentre era inginocchiata di fronte a lui, ad armeggiare con le catene, i loro sguardi si incrociarono. La sua espressione era indecifrabile. Non sembrava arrabbiata, o triste. Per un secondo, Naito avrebbe giurato che fosse perfino… sollevata. 

Quando i polsi furono liberi, Naito se li massaggiò con una smorfia. Per un istante, pensò di attaccare, ma cacciò via quell’idea suicida. Non avrebbe avuto nessuna speranza contro di loro, perfino se fosse stato armato e al pieno delle forze. Orochi gli aveva promesso la forza. E gli aveva promesso la vendetta. Lo avrebbe ascoltato. E poi, quando sarebbe venuto il momento, avrebbe fatto ciò che aveva giurato di fare da bambino.

«Da questo momento in poi, Naito…» proseguì Orochi, quando si fu rialzato. Gli sorrise di nuovo, glaciale e crudele. «… non sarò più solo “Orochi” per te. Dovrai rivolgerti a me come “Lord Orochi” o “padrone”, proprio come fanno tutti i tuoi compagni. Tutto chiaro?»

Ancora una volta, Naito fu costretto a mordersi la lingua. Tutto il lecchinaggio da parte degli altri aveva dato alla testa di quel folle. Si limitò ad annuire e a chinare la testa. «Sì… Lord Orochi.»

«Molto bene. Sei congedato, Naito. Va’ pure a rifocillarti.»

Mentre lasciava la stanza, Naito si fermò ancora una volta accanto ad Hikaru. I due si guardarono per qualche istante, poi il ragazzo assottigliò le labbra e si chinò anche di fronte a lei. Vide la sua espressione di sorpresa, ma non ci diede importanza. 

Abbandonò la cella mentre si massaggiava i polsi, soffocato dal peso dell’umiliazione e di tutto quello che era successo.

Avrebbe avuto la sua vendetta. Li avrebbe uccisi tutti, dal primo all’ultimo.

Quelle parole riecheggiarono nella sua mente, facendolo irrigidire. 

Mai ridere. Mai piangere. Mai amare.

Era certo che non sarebbe riuscito a dimenticarsele molto presto.

 

***

 

«Ammetto che per un po’ ho creduto che fossi riuscito davvero a sfuggirmi» cominciò Kagu-Tsuchi, mentre lo soppesava con quello sguardo divertito. «È stato molto astuto da parte tua rimanere nascosto nell’ombra di Yamata no Orochi. Ti ha aiutato a mascherare le tracce. Adesso, però, lui non è più qui per difenderti. Sei da solo.»

Naito digrignò i denti. Si concentrò su Hachidori, che ora si era allontanata da lui e teneva lo sguardo basso. La voce gli uscì come un sibilo per via della rabbia, dell’incredulità e anche della delusione: «Perché? Perché l’hai fatto, Hachidori?»

«Su, su, non prendertela con lei.» Kagu-Tsuchi distese il suo ghigno. «Sono stato io a dirle di farlo. Non è certo colpa sua. Coraggio, Hachidori, avvicinati.»

Dall’espressione che fece, Hachidori sembrò voler soltanto fuggire via. «I-Io…»

Il dio si indurì all’improvviso. «Avvicinati, ho detto.»

Hachidori sussultò. Naito lesse la paura nel suo sguardo, mentre obbediva al dio, avvicinandosi esitante. Rimase ad osservare, percependo l’esercito di uomini alle sue spalle, pronti ad attaccare al suo minimo passo falso. Sapeva cosa stava succedendo. Kagu-Tsuchi si stava prendendo il suo dolce tempo prima di ucciderlo. Naito avrebbe potuto fare qualcosa, qualsiasi cosa, combattere, fuggire, parlare, ma non ci riusciva. Era paralizzato per la paura, e sconvolto dal tradimento. Non fu nient’altro che uno spettatore silente alla scena stagliata di fronte al suo unico occhio.

«Sei stata brava, Hachidori. Ecco.» Kagu-Tsuchi sollevò le mani e due fiammate apparvero nei suoi palmi, tingendogli il viso di rosso. Hachidori indietreggiò spaventata, ma non venne colpita dal fuoco. Quando le fiamme svanirono, uno scrigno di ceramica era apparso tra le mani del dio. «Questo è per te» spiegò, posandolo a terra e aprendolo.

Hachidori fece di nuovo un passo avanti e allungò il collo verso il forziere, prima di schiudere le labbra. «Avanti, prendilo» incalzò il dio. «Te lo sei meritato.»

Incerta, Hachidori allungò la mano verso lo scrigno ed estrasse qualcosa che Naito non riuscì a riconoscere subito. Quando, però, si accorse di alcune protuberanze lunghe e sottili all’estremità di quella specie di cilindro, realizzò che si trattava di un braccio finto. Era lungo e sottile, uguale a quello che lei ancora aveva, solo che era fatto di ceramica, con giunture di ferro e rivestito di lacci di cuoio nero.

Kagu-Tsuchi si impettì. «Ti piace? L’ho creata apposta per te. Avanti, provala.»

Hachidori scostò il mantello e infilò il moncherino dentro la cavità sul lato opposto del braccio, affondandolo fino alla spalla. Vi fu un suono, come lo scatto di una molla, e Hachidori fece un verso sorpreso. Subito dopo cominciò a muovere il braccio finto, a piegarlo e a comandare le dita, con sguardo sempre più sbalordito.

«Uno dei miei lavori migliori» affermò il dio soddisfatto, avvicinandosi a lei. La afferrò per il braccio nuovo e cominciò a tirare i lacci, stringendo con forza. «Così non rischierai che ti cada» spiegò, prima di lasciarla andare. «E pensare che c’è chi crede che la ceramica sia superata. Bah! Stupidi umani con la loro plastica, il loro titanio e il loro silicone!»

Naito si ricordò che Kagu-Tsuchi, oltre che il dio del fuoco, era anche quello della ceramica e degli artigiani. Rimase senza parole, a osservare Hachidori mentre rimirava meravigliata il suo nuovo braccio. «I-Io… n-non ho parole…» bisbigliò. «C-Credevo… credevo che…»

«Che ti avrei uccisa?» la interruppe Kagu-Tsuchi, prima di scoppiare a ridere. «Volevo farlo, sì.» Si fece serio all’improvviso. «Dopo che mi hai deluso la prima volta.»

Lo stupore di Hachidori venne rimpiazzato dallo sgomento, mentre il dio spostava l’attenzione su di Naito. «Avrebbe dovuto consegnarti a me fin dall’inizio. Ma poi ha pensato di potermi imbrogliare e di mettersi alla ricerca dell’Elisir di lunga vita insieme a te» spiegò, prima di accarezzare la guancia di Hachidori con un gesto lento. La ragazza gemette spaventata, ma non si ritrasse.

«Hai commesso un errore a correre dalle satori, Hachidori. Lo sai che hanno la lingua lunga, vero? Poche ore dopo la vostra visita alla Valle dell’Inferno, tutto il Giappone era a conoscenza delle vostre intenzioni.» Kagu-Tsuchi sogghignò. «Credevi di potermi imbrogliare, piccola mezzosangue? Credevi che trovando l’elisir, saresti riuscita a sopravvivere alla mia ira?»

Non la lasciò rispondere. Chiuse la mano attorno alle sue guance come una tenaglia, strappandole un grido di sorpresa.

«Lasciala!» esclamò Naito facendo un passo avanti. Nello stesso istante, un lungo fruscio metallico si diradò per il cortile del santuario, costringendolo a rimanere fermo: i mortali avevano sollevato le armi.

«Perché dovrei, Naosuke? Ti ha tradito, dopotutto.» Il dio strinse la presa attorno ad Hachidori, che urlò di dolore e tentò di liberarsi senza successo. «Perché vorresti che la lasciassi andare?»

Naito esitò. Quella reazione fece ridere ancora una volta Kagu-Tsuchi. «Guardati, Naosuke! Nonostante tutto quello che Hachidori ti ha fatto, ancora ti ostini a volerla difendere!»

Strinse ancora più forte Hachidori, che sbiancò e piegò la testa all’indietro. Naito stava per correre verso di lei ma il dio la lasciò andare all’improvviso. La ragazza barcollò all’indietro, massaggiandosi le guance arrossate con il respiro affannato.

«Volevo uccidervi entrambi alle rovine di Hachiōji…» disse Kagu-Tsuchi, mentre scrutava Hachidori ora con espressione schifata. «… ma poi, ho avuto un’idea migliore. Mentre tu affrontavi quella bestiaccia, ho avuto una piccola discussione con la tua amichetta, e le ho detto di portarti qui. Ucciderti in questo luogo… sarà molto più soddisfacente.»

Ancora una volta, Hachidori non ricambiò lo sguardo di Naito. Tenne la testa china e continuò a massaggiarsi le guance con aria devastata.

«Hai… hai pianificato tutto» sussurrò Naito stringendo i pugni per la rabbia. «Sapevi che quella era casa mia. Sapevi che ero tornato dall’occidente. Mi stavi aspettando. Volevi… volevi consegnarmi a lui.»

Nessuna risposta.

«Non volevi davvero usare l’elisir come pegno di pace. Volevi tenerlo per te. Perché sapevi che Kagu-Tsuchi ti avrebbe ucciso in ogni caso, anche se mi avessi davvero consegnato a lui. Sapevi di avere i giorni contati e hai tentato in tutti i modi di salvarti» proseguì Naito. Le parole ormai gli uscivano in automatico dalla bocca. «E quando stavo combattendo con quello tsuchigumo… non sei… tornata indietro per me. Sei tornata perché lui te l’ha ordinato.»

«N-Naito…» provò a dire lei, con un soffio di voce.

«Perché?! Perché l’hai fatto?!» Ora Naito stava gridando. «Perché non mi hai detto la verità subito?! Avremmo potuto affrontare Kagu-Tsuchi insieme! Perché non…»

S’interruppe di scatto. Aveva già vissuto quella situazione. Stava accadendo la stessa cosa che era successa quella dannata notte. Tutto si stava ripetendo. La realizzazione di quello lo sconvolse più del tradimento stesso. L’unica persona di cui si era mai fidato… lo aveva tradito.

Due volte.

La voce di Kagu-Tsuchi risuonò ovattata alle sue orecchie: «Ancora non ci sei arrivato, Naosuke? A lei non importa niente di te. Non le è mai importato nulla. Ti ha sempre usato.»

Naito ripensò alla sera prima. E non solo. Andò anche oltre, a quando, sempre in quella notte maledetta, Hachidori lo aveva attaccato. «Hachidori» sussurrò. «Quello… quello che… che c’è stato tra noi… era… solo una bugia?»

Hachidori sembrava sull’orlo di una crisi. Non rispose. Non disse nulla.

«Hachidori» insistette Naito, con la voce incrinata. «Ti prego… ti prego, dimmi che non era una bugia…»

Altro silenzio. L’unica cosa che lei fece, fu abbassare la testa. La risposta era chiara. E fece più male di qualsiasi ferita che avesse mai ricevuto.

«Perché…» Naito non stava più gridando. La sua voce si stava spegnendo lentamente, ogni secondo trascorso era una scheggia di vetro che si conficcava nel suo petto. «Perché…»

Un’altra risata tonante lo fece sussultare. Il dio si portò le mani sullo stomaco, mentre rovesciava la testa all’indietro. «Davvero pensavi che qualcuno potesse amare uno sgorbio come te? Sei solo un illuso, Naosuke, un mostro ripugnante, un errore che cammina. Non meriti di vivere, e di certo non meriti di amare. Ma finalmente qualcuno te l’ha fatto capire. Ed è per questo motivo…» Kagu-Tsuchi si avvicinò di nuovo ad Hachidori. «… che ho deciso di risparmiarti, mia cara Hachidori.»

Hachidori drizzò la testa all’improvviso. «D-Davvero?»

«Sì. Il modo in cui hai deluso il tuo amico, il modo in cui ti sei presa gioco di lui, il modo in cui l’hai usato… mi ha colpito, davvero. Avrei potuto farlo a pezzi, centimetro dopo centimetro, e non sarei comunque riuscito a fargli lo stesso male che gli hai fatto tu. Io posso dilaniare il suo corpo, ma tu… tu hai fatto ben di peggio. Hai dilaniato il suo spirito.»

La sorpresa svanì dal volto di Hachidori, rimpiazzata dallo sgomento. Questa volta fu lei a cercare lo sguardo di Naito, che era rimasto impassibile, ad ascoltare, mentre ogni tassello andava al proprio posto, mentre, finalmente, riusciva a scorgerla per quello che era davvero.

Non l’aveva mai amato. Non aveva mai tenuto a lui. Quelle emozioni che lei gli aveva fatto provare… erano state soltanto una trappola. Una trappola mentale che l’aveva condotto lì, ad una trappola reale. Non credeva che sarebbe mai arrivato il giorno in cui avrebbe rimpianto di non aver obbedito ad Orochi, ma accadde. Orochi aveva sempre avuto ragione. Le emozioni lo avevano indebolito e basta.

«E adesso…» Un’altra potente fiammata si accese nel palmo di Kagu-Tsuchi. Quando si consumò, lasciò posto ad una katana lunga due metri dalla lama arancione intenso che emanava fumo come l’armatura. «… è giunto il momento di concludere questa faccenda durata per troppo tempo. È ora che tu muoia.»

Mentre osservava il dio avvicinarsi a lui, il pensiero di fuggire, o di combattere, non gli sfiorò nemmeno la mente. Era finita. Aveva perso, su tutti i fronti. Era stato sconfitto da un avversario ben più grande di lui, dei mostri, degli dei stessi.

Quelle emozioni da cui Orochi lo aveva messo in guardia, quelle emozioni che gli aveva proibito di provare, stavano per essere la causa della sua morte.

«Che succede, Naosuke? Non vuoi ribellarti? Non vuoi combattere?» lo incalzò il dio, ormai a pochi passi da lui. Il calore emanato dalla sua katana gli fece formicolare la cicatrice sull’occhio. «Sei così triste da non voler nemmeno seguire il tuo istinto di sopravvivenza?»

Naito non rispose. Lanciò un ultimo sguardo verso Hachidori, che era ancora lì, ad osservarlo, con le labbra che tremolavano. Vide alcune lacrime scivolarle sulle guance. Osservò quel braccio finto che Kagu-Tsuchi le aveva donato.

Una rabbia accecante cominciò a pervaderlo. Si era lasciato accecare dalle emozioni, di nuovo. Era stato un vero stupido. Se era finito in quella situazione, poteva solo incolpare sé stesso. Non avrebbe dovuto farlo. Non avrebbe dovuto credere di poter amare. Non avrebbe dovuto…

Hachidori svanì all’improvviso di fronte alla sua vista. Al suo posto apparve Rosa. Ripensò a quella sera in cui l’aveva attaccata. L’aveva trovata da sola, in quell’arena semibuia. Stava cantando. La sua voce… era la cosa più bella che avesse mai sentito. I suoi occhi stupendi, il suo viso incantevole, la passione nel suo sguardo, il coraggio che aveva mostrato affrontandolo anche se sapeva di non avere alcuna speranza contro di lui.

Pensò a Konnor, a quando lo aveva trafitto, e a come, nonostante questo, lui avesse continuato a combattere, lo avesse sconfitto e non solo, l’aveva perfino risparmiato.

Pensò ad Edward, a come aveva reagito quando gli aveva detto che la sua vita era stata un errore. Da che pulpito, poi.

Pensò agli uomini che aveva ucciso mentre era al servizio di Orochi. Pensò a tutto il male che aveva fatto sin da quando era venuto al mondo. Alla rabbia che aveva provato, al sangue che la sua spada aveva assaggiato, le vite che aveva strappato.

Aveva ucciso, ferito, rapito perfino. Si era comportato come un mostro, come Orochi aveva preteso da lui.

Era davvero meglio, vivere così? Consumati dall’odio, dal rancore, dal desiderio di vendetta?

Pensò alle risate con Hachidori al chiaro di luna. Pensò a quando aveva pianto per la morte di sua madre. Pensò a quando aveva sentito il cuore battergli quando aveva visto Hachidori la prima volta. E pensò anche a come avesse ripreso a battergli, dopo tanto tempo, quando aveva visto Rosa.

Pensò a come si era sentito quando stava per baciare Hachidori, a quello che aveva provato standole accanto, sfiorandola, carezzandola, a quel calore che l’aveva avvolto quando aveva immaginato un futuro insieme a lei, lontano da tutto quello.

Pensò a come si era sentito quando aveva visto Rosa. A quando l’aveva sentita cantare. Pensò a come si era sentito quando Konnor l’aveva risparmiato, a come si era sentito quando Edward gli aveva mostrato il lato vulnerabile di sé, quando gli aveva detto di avere paura, di non voler morire, e soprattutto quando gli aveva detto di non arrendersi. Pensò alle serate in compagnia del vecchio Musashi, ad ascoltare le sue storie, in un luogo che aveva potuto chiamare casa dopo dodici anni passati a vivere come un miserabile.

Era davvero… sbagliato, provare sentimenti diversi dalla rabbia? Era davvero sbagliato… pensare di poter essere più umano?

«Hai più cose in comune con noi che con Orochi.»

«Continua a combattere per la giusta causa.»

«Un samurai aiuta sempre i propri simili.»

Naito osservò Kagu-Tsuchi senza alcun timore negli occhi. Lui aveva deciso che non poteva lasciarlo vivere soltanto per via del sangue che scorreva nelle sue vene. Non aveva mai considerato lui come persona. Ma se l’avesse fatto, che cosa sarebbe cambiato? Naito aveva trascorso la vita con qualcuno che l’aveva obbligato ad essere qualcosa che in realtà non aveva mai voluto essere. Troppo tardi aveva capito che in realtà avrebbe potuto essere qualcos’altro. Troppo tardi aveva capito di aver sempre avuto una scelta.

Konnor ed Edward gli avevano fatto capire che poteva essere migliore. E il vecchio Musashi gli aveva mostrato come essere migliore.

Aveva salvato Rosa. Aveva salvato un bambino. Aveva salvato Meishu e le sue compagne. Aveva fatto del bene. E si era sentito bene. Se l’avesse capito prima… forse non si sarebbe trovato in quella situazione.

Forse… Hachidori lo avrebbe amato davvero, se fosse stato diverso. Forse… era per quello che sua madre l’aveva salvato. Perché credeva che lui sarebbe potuto essere diverso. Una brava persona, e non una macchina da guerra al servizio di un demone. Come avrebbe reagito Akane vedendolo così? Che cosa avrebbe pensato di lui se avesse scoperto tutto quello che aveva fatto? Non era stato cresciuto così, da lei. Lei non avrebbe mai voluto qualcosa del genere da lui.

Lei avrebbe voluto un figlio capace di ridere, di piangere e di amare. Non qualunque cosa lui fosse diventato invece.

Malgrado tutto, un sorriso amaro nacque sul suo volto.

Il dio si corrucciò. «Uh? Si può sapere che hai da sorridere?»

«Ho commesso degli errori» rispose Naito, abbassando lo sguardo. «Non ne vado fiero. Ho odiato. Ho provato rabbia. Ho voluto vendicarmi. Sono… stato consumato da queste emozioni. E ho rinunciato a tutto il resto. Sono… stato uno sciocco. Non mi sono reso conto del male che ho fatto agli altri, e a me stesso. Ma ora… ora ho capito. Se potessi tornare indietro… riderei. Piangerei. E amerei. Lo farei dieci, cento, mille volte. La rabbia genera rabbia. La violenza porta violenza. E la vendetta non è la soluzione.» Spostò lo sguardo su Hachidori, che era rimasta a bocca aperta. «Mi… mi dispiace, Hachidori, per quello che è successo. Mi… mi dispiace di averti fatto del male. Ma voglio che tu sappia che… anche se non ricambi i miei sentimenti, sono… sono felice di averti conosciuta. Perché in quegli attimi in cui ho creduto che tra noi potesse davvero esserci qualcosa mi… mi sono sentito bene. Mi sono sentito… umano.»

Altre lacrime scesero dagli occhi di Hachidori. Si portò la mano di fronte alla bocca, tremando.

Qualcosa sferzò l’aria. Naito stramazzò a terra, mentre un dolore accecante gli percorreva il fianco. Kagu-Tsuchi ritirò la katana, con sguardo furioso. «Un “umano”?! TU?! Tu sei quanto di più lontano ci sia dall’essere un umano!»

Naito gemette, premendosi una mano sul fianco e trovandolo caldo e bagnato. Tentò di sollevarsi, ma Kagu-Tsuchi lo colpì al volto con un calcio, facendolo gridare. Rimase supino, mentre nella periferia del suo campo visivo vedeva i mortali in armatura torreggiare silenziosi su di lui da un lato e i capelli fiammeggianti del dio del fuoco dall’altro.

La voce di Hachidori si sollevò, carica di preoccupazione. «Naito!»

Riuscì a drizzarsi, incrociando lo sguardo di lei, e le sorrise di nuovo. Nonostante l’avesse tradito, nonostante l’avesse usato, era stanco di provare rabbia. Se quella doveva essere la sua fine… se ne sarebbe andato in maniera dignitosa, con la testa alta, e un sorriso sincero. «Devi… andare avanti da sola, Hachidori. Promettimi… promettimi che troverai l’elisir. Promettimi che… che ci penserai tu, ad aiutare quelli come noi.»

«Naito…» sussurrò lei, prima che la voce le si incrinasse.

Udì un verso roco, gutturale. Kagu-Tsuchi digrignò i denti, ringhiando furibondo. «Hai tanta voglia di sorridere, Naosuke?» disse, sferrandogli un ceffone con la mano coperta di fiamme. Naito gridò e stramazzò a terra, sentendosi come se gli avessero iniettato del fuoco nel viso. Provò a rialzarsi sui gomiti, avvertendo la propria vita venire risucchiata via, secondo dopo secondo, dalla ferita al fianco.

«Tirate su quel bastardo!»

Lo afferrarono per le braccia e lo costrinsero a sollevarsi sulle ginocchia. Le piastrelle si bagnarono del suo sangue ed un tuono scosse il cielo all’improvviso, facendo tremare la terra.

«Come osi a paragonarti ad un umano?! Non sei umano, sei solo un abominio!» Kagu-Tsuchi avvicinò la mano alla cintura e gli strappò via la bisaccia. «Ho saputo che ti piace la lettura, mezzosangue. Ti dispiace se do un’occhiata?» Prese il Bushido e lo esaminò meticolosamente, ridacchiando. «Non ci posso credere. Non solo ti credi un umano, ma perfino un samurai.»

Naito spalancò l’occhio. «R-Ridammelo!»

Kagu-Tsuchi scoppiò in un’altra risata tonante. «Direi che in questo momento un libro è l’ultima cosa che ti serve.»

«Ridammelo…» rantolò Naito, irrigidendosi.

«Altrimenti? Che cosa mi fai?» Kagu-Tsuchi distese il suo ghigno. Dopodiché, il libro prese fuoco tra le sue mani. Naito inorridì. «NO!»

«Tenetelo fermo!»

I mortali lo afferrarono con presa salda, impedendogli di muoversi. Kagu-Tsuchi rovesciò il palmo, disperdendo la cenere del libro, e si avvicinò puntandogli la katana. «Non hai idea del disonore che mi hai portato, quando si è sparsa la voce che una mia sacerdotessa ti aveva messo al mondo. Pagherai per tutto quello che mi hai fatto, bastardo.»

Naito strinse i denti. Sentì l’occhio inumidirsi. Con la vista appannata, si accorse di Hachidori, rimasta immobile, alle spalle di Kagu-Tsuchi. La sua espressione era molto diversa rispetto a prima. Sembrava arrabbiata. Furiosa.

Ma non con lui.

La vide accarezzare il manico della wakizashi. Quando Naito capì cosa stava succedendo, era già troppo tardi.

Hachidori scattò verso Kagu-Tsuchi e la lama scintillò nelle sue mani, ad un palmo dalla schiena del dio. Ma lui fu più veloce di lei.

Con un solo movimento le conficcò la katana nel ventre, squarciandolo, trapassandole la schiena. Affondò la lama fino all’elsa e la sollevò da terra, impalandola. Un verso orribile scappò dalle labbra di Hachidori. Un fiume di sangue le colò dalla bocca, mentre entrambe le braccia le ricadevano a penzoloni lungo fianchi e la wakizashi precipitava a terra con un tonfo metallico.

«Schifosa mezzosangue! Che cosa credevi di fare?!» sbraitò Kagu-Tsuchi, prima di estrarre la katana con un gesto secco, facendo schizzare il sangue sulle mattonelle. Hachidori crollò in ginocchio, le mani premute sulla ferita, le labbra sporche e lo sguardo vitreo.

Per un secondo, il tempo sembrò fermarsi. Naito rimase paralizzato, senza fiato. Quando la vide accasciarsi su un fianco, il suo grido lacerò l’aria. Urlò il nome della ragazza con così tanta forza da sentire dolore alla gola. Volle correre da lei, ma un dolore lancinante lo colpì alla schiena. Abbassò lo sguardo e vide qualcosa spuntargli dal ventre: la lama bagnata di un’altra katana.

Boccheggiò, riuscendo a scorgere con la coda dell’occhio uno dei mortali in armatura che l’aveva trafitto. La spada venne ritratta e Naito crollò carponi, premendosi una mano sulla ferita che sanguinava copiosamente. Non riuscì più a respirare.

La voce di Kagu-Tsuchi esplose sovrastando il suo grido: «Guarda, Naosuke! Questa sarà la stessa fine che farai anche tu!» Afferrò Hachidori per la testa e la sollevò come un fantoccio, mostrandogli il volto pallido, la bocca schiusa e gli occhi vacui di lei. Le pupille si mossero ancora verso la sua direzione. Sembrò volergli dire qualcosa, ma non le scappò neanche un suono.

«Hachidori…» bisbigliò Naito. Aveva cercato di aiutarlo. Aveva cercato di aiutarlo… e Kagu-Tsuchi le aveva fatto quello.

«Mi assicurerò che tu non ami mai più, Naosuke. Mi assicurerò che tu non possa provare più nulla» rantolò Kagu-Tsuchi, lasciando andare Hachidori, che si riversò sul pavimento.

«Hachidori…»

Il dio sogghignò. «Non riesci proprio a dire altro?»

Nella sua mente, Naito rivide quell’uomo mentre uccideva sua madre. Rivide casa sua in fiamme. Pensò a tutto il dolore che gli aveva provocato. Pensò al fatto che, se non fosse stato per lui, non avrebbe mai incontrato Orochi. Non avrebbe mai fatto nulla di tutto quello che aveva fatto.

E non gli era bastato nemmeno quello. Aveva bruciato il Bushido. Aveva ucciso Hachidori. Gli aveva portato via tutto. E l’aveva fatto con quel ghigno odioso in faccia, come se provasse enorme piacere in tutto ciò.

«La senti, Naito? La senti la rabbia che scorre in te?» domandò Orochi nella sua mente, sogghignando, prima di diventare serio all’improvviso. «Usala. Sfruttala per diventare inarrestabile. Combatti, Naito.»

«Quando avrò finito con voi, darò la caccia ad ogni mezzosangue esistente.» Kagu-Tsuchi sollevò la katana. «La smetterete di inquinare il mondo con la vostra immonda presenza!»

Naito sentiva dolore al fianco, stava perdendo sangue dal ventre, ma non gli importava.

Niente aveva importanza.

«Muori, schifoso mezzosangue!»

La voce di Orochi esplose nella sua testa: «COMBATTI!»

La katana scese su di lui. Naito urlò a squarciagola. E tutto si tinse di rosso.

Qualcosa accadde. Non sapeva cosa. Non era chiaro. I sorrisi si capovolsero. Le espressioni divertite divennero di terrore. Grida terrorizzate si sollevarono. Vide del sangue sulle sue mani. Era suo, o era dell’uomo che aveva appena squartato?

Un corpo si accasciò a terra, dilaniato. Un altro lo seguì subito dopo. L’armatura non serviva a molto, se si era senza testa.

Tutto era una macchia indistinta. E allo stesso tempo, poteva percepire ogni cosa. Percepiva i fiotti di sangue che scivolavano dalla sua fronte. Percepiva i movimenti degli uomini che lo circondavano. Vedeva il loro sudore che gocciolava, sentiva i loro respiri, notava ogni fremito, anche i più impercettibili tremolii delle palpebre e le prime gocce di pioggia che cominciavano a cadere.

Le grida proseguirono. Udì qualcuno implorare per la sua vita. Con che coraggio potevano chiedere qualcosa di simile, dopo tutto quello che gli avevano fatto?

«Feccia mortale» disse una voce roca, ovattata e baritonale. Non l’avrebbe mai riconosciuta, se non fosse uscita proprio dalla sua gola. «Non valete niente.»

Una katana si avvicinò alla sua schiena, ma si voltò fulmineo e la bloccò con una mano. Strinse le dita sulla lama, tagliandosi, e la spaccò senza battere ciglio. L’uomo che aveva provato a trafiggerlo fece un’espressione di terrore puro, che rimase impressa sulla sua testa rotolante.

Il suo respiro divenne un ringhio. Gli sembrava di avere le mani più grosse. Non riusciva a tenere la bocca chiusa, come se non ci fosse più spazio a sufficienza per i denti.

I mortali caddero ai suoi piedi uno ad uno. Non riuscivano nemmeno a colpirlo e i pochi attacchi che andarono a segno rimbalzarono sul suo corpo senza neanche scalfirlo. Non potevano fermarlo. Nessuno poteva.

Da una parte, vedeva rosso, come se si trovasse di fronte ad una vetrata di quel colore. Dall’altra, invece, riusciva a vedere normalmente il cielo nuvoloso e il santuario grigio e silenzioso.

E poi, lo vide: arancione, fiammeggiante, con pennacchi di fumo che si sollevavano dal suo corpo. Kagu-Tsuchi era arretrato, il volto sfigurato da un’espressione attonita oltre che le cicatrici. L’armatura sibilava ad ogni goccia di pioggia che ci cadeva sopra.

Accanto a lui erano rimasti soltanto tre mortali. Dov’erano finiti tutti gli altri? Come avevano fatto a finire in quella situazione?

Non aveva importanza. Niente aveva importanza. L’unica cosa che contava, era la vendetta.

«M-Mio signore» disse uno dei mortali, con voce flebile. «Non… non possiamo… AGH!» La katana di Kagu-Tsuchi lo trafisse al petto all’improvviso. Gli altri due uomini gridarono di sorpresa, mentre il dio estraeva la spada e lasciava che il corpo cadesse a terra a peso morto. Si volto verso i suoi altri sottoposti, sogghignando, dopodiché uccise anche loro, sotto gli sguardi atterriti di entrambi e di quello disinteressato di Naito.

Cominciò a ridere, mentre gettava via l’ultimo corpo come un torsolo di mela ai porci. La spada si incendiò nelle sue mani, emanando forti bagliori, poi gliela puntò addosso. «I miei complimenti, Naosuke. Hai ucciso questa feccia inutile, ma ora voglio proprio vedere…»

L’urlo di Naito riecheggiò in tutto il santuario, smarrendosi nell’etere, così forte che le sue stesse orecchie non riuscirono a sopportarlo. Poi si fiondò contro il dio, che per un istante pareva aver perso la voglia di ridere.

Lo vide sollevare una mano verso di lui; una coltre di fiamme ne scaturì, ma Naito la evitò senza alcun problema. Alle sue spalle udì il boato delle mura del santuario che esplodevano. Continuò ad accorciare la distanza che c’era tra loro ed estrasse la katana, il cui manico sembrava più piccolo del solito.

Kagu-Tsuchi lo tempestò di fiamme, ma nessuna lo colpì: era troppo veloce, riusciva a vederle ancora prima che si riversassero fuori dal suo palmo. Balzò su di lui e mirò con la katana al collo, l’unico punto vitale scoperto dall’armatura. Sentì caldo all’improvviso. Vide la sua katana, il suo braccio, il suo intero corpo circondato dalle fiamme. L’aveva colpito.

E a lui non importò. Niente, niente, poteva fermarlo. Non si sarebbe fermato finché non avrebbe sentito Kagu-Tsuchi implorarlo di risparmiargli la vita. Avrebbe avuto la sua vendetta. Quel bastardo avrebbe pagato.

Non riuscì a raggiungere il collo; la katana cozzò contro quella di Kagu-Tsuchi, che muggì per lo sforzo. «Ma… ma che cosa?!» disse, prima che Naito roteasse, mulinando la spada verso il suo volto. Il dio deviò l’attacco e saltò all’indietro, allontanandosi mentre il ragazzo atterrava di fronte a lui, ancora in fiamme.

Non sarebbe fuggito ancora. Tutto quello sarebbe finito lì, in un modo o nell’altro, con lui a terra morto, o con lui in piedi sul cadavere di quel figlio di cagna.

«Come… com’è possibile?!» sibilò Kagu-Tsuchi. Naito emise un altro ringhio, poi scattò nuovamente. Azzerò la distanza in un istante e ancora una volta la katana sbatté con un assordante clangore contro quella di Kagu-Tsuchi, il cui sguardo mutò ancora una volta. Non sembrava più così sicuro di sé.

«Aspettavo questo momento da tanto tempo» rantolò Naito, prima di urlare di nuovo.

La pioggia batté su di loro mentre le katane si scontravano con ferocia, emanando fiamme e scintille che si disperdevano nell’aria. Naito sentiva il calore delle fiamme propagarsi su di lui, intenso e soffocante. O forse quel calore proveniva da dentro di lui. Kagu-Tsuchi non sembrava più forte come prima, tantomeno veloce. Sembrava perfino più basso. Come se anche lui fosse diventato un mortale come gli altri che aveva ucciso. Naito saltò e urlò a perdifiato, schiantando la spada con tutta la forza che aveva contro quella del dio, che fu costretto a piegare le ginocchia sotto il suo peso.

«Tu cadrai» disse ancora, cavernoso.

Kagu-Tsuchi digrignò i denti e lo allontanò facendo pressione con la katana. Sollevò di nuovo la mano per incenerirlo, ma Naito era già scattato. Le gocce di pioggia rimasero ferme accanto a lui per un istante. Subito dopo si ritrovò il volto del dio di fronte, che non riuscì a fare altro che spalancare gli occhi.

Uno di loro sarebbe caduto. E quel qualcuno non era Naito.

Gli conficcò la spada nel collo fino all’elsa. Un gorgoglio soffocato provenne da Kagu-Tsuchi, che stramazzò a terra con Naito sopra.

«Credevi che avresti trovato di nuovo un bambino spaventato, figlio di cagna?» sibilò Naito, con quella voce roca e possente. «Credevi che avrei avuto paura di te? Credevi che me ne sarei rimasto fermo dopo che hai distrutto tutto quello che avevo?!»

Kagu-Tsuchi non rispose. Era troppo occupato a dimenarsi per gli spasmi e ad affogare nel suo stesso sangue color oro.

Naito rigirò la katana, facendolo gorgogliare ancora più forte. «RISPONDI!» urlò, riversando tutta la sua collera sul dio. Gli aveva portato via tutto. Solo perché era nato.

Lo avrebbe squartato. Lo avrebbe fatto a pezzi microscopici e lo avrebbe gettato ai porci.

Sentì le fiamme esaurirsi. Aveva caldo. C’era odore di bruciato. Si accorse di avere i vestiti a brandelli e la pelle sotto di essi ustionata ed annerita. La pioggia continuò a scendere, mentre il crepitio delle fiamme tutt’attorno a loro continuò incessante.

«Hai ucciso mia madre. Hai ucciso Hachidori. Hai bruciato il Bushido. Pagherai. Pagherai per ciò che hai fatto» rantolò Naito. Estrasse la katana. Kagu-Tsuchi era un dio, era immortale. Non sapeva come ucciderlo. Ma avrebbe trovato un modo. «Finalmente… avrò la mia vendetta

Mentre si preparava a decapitarlo, il suo sguardo scivolò sul cortile. E per la prima volta riuscì a vedere bene quello che era successo.

Non c’era più un esercito di mortali, lì. C’erano soltanto cadaveri irriconoscibili, mutilati, sfigurati, fatti a pezzi in tutti i sensi. Isolotti di carne sopra laghi di sangue, mentre le pareti di legno del santuario erano coperte di fiamme che stavano consumando lentamente ogni cosa. Il suo sguardo scese su Kagu-Tsuchi, esanime, che aveva il collo squartato e gli occhi serrati.

Fu come se la sua mente avesse subito uno strappo. Smise di vedere rosso. Riuscì di nuovo a chiudere la bocca. La spada divenne più pesante nelle sue mani e un bruciore agonizzante cominciò a pervadergli il corpo, al quale nemmeno la pioggia sembrava riuscire a porre rimedio.

Rilassò le spalle e la katana scese lungo il suo fianco. Il respiro si fece pesante e il cuore rischiò di esplodergli nel petto.

Era… era stato lui. Lui aveva fatto tutto quello. Aveva fatto a brandelli quegli uomini. E aveva sconfitto un dio. Nella sua mente, Orochi lo guardò con una scintilla di malizia nello sguardo. «Hai visto, Naito? Non era difficile.»

«Uhhh…» Kagu-Tsuchi riaprì gli occhi, mentre il collo cominciava a rimarginarsi. «Tu… schifoso… bastardo… lurido mezzosangue…» sibilò. «Come hai osato… ferire un dio?! Come hai…»

Si interruppe quando Naito avvicinò la katana al suo volto. Anche se non si sentiva più invincibile come prima, poteva comunque colpirlo ancora, con tutta la forza che aveva, ed era sicuro che Kagu-Tsuchi l’avrebbe sentito.

«Vattene» sibilò Naito, con il fiato pesante. «Lasciami stare. Non cercarmi più. Mai più. O la prossima volta finirà molto peggio per te.»

Kagu-Tsuchi strinse i denti. «Credi davvero che te la caverai così, sporco mezzo…»

«VATTENE!» La voce di Naito si incrinò per la rabbia. «Lasciami stare! Non farti più vedere! E sta' alla larga dagli altri mezzosangue…» Avvicinò la katana al naso di Kagu-Tsuchi, che si ritrasse con un sussulto. Gli rivolse lo stesso sguardo spaventato che aveva visto decine, centinaia di altre volte, nei visi delle persone che aveva ucciso. «… hai capito? Sparisci.»

Il dio incrociò il suo occhio e non disse nulla. Sembrò accorgersi solo in quel momento dell’incendio che divampava che stava consumando tutto il santuario. A quel puntò, chiuse la bocca e il suo corpo cominciò a brillare di un’accecante luce arancione. Le fiamme lo circondarono e Naito saltò all’indietro prima di essere investito.

Vi furono una luce accecante, da cui Naito distolse lo sguardo, e un’altra esplosione, seguita da una vampata di calore. Le ustioni sul corpo del ragazzo si rianimarono, assieme alle sue ferite. La pioggia smise di scendere, per un istante. Dopodiché, Kagu-Tsuchi era svanito.

La pioggia riprese di nuovo a cadere. E Naito crollò in ginocchio. Rinfoderò la katana e si osservò le mani tremanti, i guanti consumati dalle fiamme, macchiati di sangue. Fece vagare di nuovo lo sguardo lungo il santuario. Le mura continuavano a crepitare, il fuoco aveva intaccato anche gli alberi e il ricettacolo con le preghiere dei visitatori. Neanche la pioggia sembrava riuscire ad arrestarle.

La vista di tutti quei cadaveri gli provocò una fitta di dolore più grande di qualsiasi altra avesse mai provato. Che cosa aveva fatto? Aveva ucciso quegli uomini. No… li aveva fatti a pezzi. Come una belva affamata.

Dopo tutto quello che era successo. Dopo Konnor, Edward e Miyamoto… aveva sterminato un esercito intero

Cominciò a tremare incontrollabile. Che cosa era successo? Come ci era riuscito?

Non riuscì più a reggere quella visuale. Sentiva di poter vomitare, disgustato da ciò che stava vedendo, da quell’odore nauseante e, soprattutto, disgustato da sé stesso.

Con tutti suoi buoni propositi, le sue buone intenzioni, il desiderio di cambiare… aveva finito di nuovo con il fare quello che Orochi aveva sempre preteso da lui. Era diventato un mostro.

E adesso? Che diamine avrebbe fatto?

«Na… ito…»

Quella voce flebile lo fece trasalire. Hachidori sollevò debolmente una mano. Naito si precipitò da lei. «Hachidori!»

S’inginocchiò e le prese il volto tra le mani. Un lungo brivido gli percorse il corpo. Era ancora viva, ma non sarebbe mai sopravvissuta. Il taglio nel ventre era troppo profondo, era pallidissima, e non sembrava nemmeno riuscisse a vederlo. La schiena di Naito fu colpita da uno spasmo. Abbassò la testa, stringendo i denti. «Perché… perché ti sei sacrificata, Hachidori? Perché...»

«Non… non potevo abbandonarti…» sussurrò Hachidori. Gli sorrise con le labbra intrise di sangue. «Mi… dispiace, Nato-kun…» Avvicinò la mano alla sua guancia, carezzandolo. Nonostante fosse gelida, nonostante la pioggia che batteva su di loro, Naito sentì comunque il calore di Hachidori avvolgerlo. «… ti ho… tradito. E imbrogliato. Ho… ho avuto quello che meritavo.»

«Hachidori…»

«Perdonami… Naito-kun. Non avrei… non avrei dovuto farlo. Non avrei dovuto… ignorare i tuoi sentimenti. Meriti… meriti meglio di così.» Una lacrima solcò la guancia di Hachidori. «… ai… ri…»

«Che cosa?» sussurrò Naito, con voce rotta.

«K-Kairi» boccheggiò Hachidori, prima di sorridergli di nuovo. «Mi… mi chiamo Kairi.»

Naito gemette di nuovo. «È… è un nome bellissimo…»

«Anche… Naosuke è un bellissimo nome. Non… non vergognarti… di quello che sei… sei… straordinario, Naosuke. Ricordatelo sempre.»

Altre lacrime scivolarono sulle sue guance. «Non sono straordinario… Kairi.» Naito abbassò la testa, incapace di ignorare quello che era appena successo. Aveva trucidato quegli uomini. Voleva cambiare le cose, voleva far capire al mondo che i mezzosangue non erano quello che tutti credevano, voleva… essere diverso. E invece si era comportato proprio come voleva Orochi. «Sono… sono un mostro…»

«Non sei un mostro… Naosuke. Un mostro… non si comporta come te. Tu… sei diverso. Tu… provi emozioni… emozioni pure. Devi solo… smettere di reprimerle.» Lo accarezzò di nuovo, distendendo quel sorriso. «Non… non lasciare che… che quello che è successo oggi ti segni per sempre … non rinunciare… ai sentimenti. Non rinunciare… a ciò che ti fa stare bene. Ridi, se vuoi ridere. Piangi, se vuoi piangere. Ama… se vuoi amare. Lo farai?»

Naito strinse i denti per il dolore al petto. Alcune lacrime cominciarono a scendergli dagli occhi. Cercò di ricacciarle, ma non ci riuscì. «Lo… lo farò» sussurrò.

«Me… me lo prometti?»

«Quando un samurai esprime un’intenzione… essa è già da considerarsi compiuta.»

Kairi riuscì a ridacchiare. «G-Giusto…» Gli asciugò le lacrime, tremando come una foglia. «Sii felice… Naosuke-kun. Te lo meriti.»

«Ka… Kairi…» bisbigliò ancora Naosuke, prima di chinare la testa. Un forte gemito gli scappò dalle labbra, mentre le spalle gli si alzavano e abbassavano contro il suo volere. Si sentì come quando aveva rivisto casa sua. Gli sembrò di sprofondare, schiacciato dal peso del mondo. Avrebbe voluto soffocare sotto la pioggia, svanire per sempre, senza lasciare tracce.

Perché si sentiva così? Kairi l’aveva tradito. L’aveva usato. Perché era così triste? Perché… non voleva perderla?

La mano di Kairi si separò dal suo volto. Ricadde a terra, accanto a lei. Chiuse gli occhi, con quel sorriso impresso sul volto.

«Ti… ti amo, Kairi» sussurrò, prima che la voce gli si incrinasse. «Ti ho… sempre amata…»

Non gli rispose. Non poteva più rispondergli. Naosuke prese il suo volto tra le mani, accarezzandola. «Addio… colibrì. Vola… vola libera.» Il dolore si amplificò nel suo petto. Si accasciò sopra di lei, non riuscendo più a contenersi. La sollevò, premendo la fronte contro la sua, bagnandole il viso di lacrime mentre la pioggia grondava su di lui.

Non aveva idea di quanto tempo trascorse così, piangendo. Sapeva solo che non credeva di poter più smettere. Non pianse soltanto Kairi. Pianse anche Akane. Pianse casa sua e tutto quello che aveva perso.

Non era riuscito a piangere davvero la morte di sua madre, a causa della sua fuga continua. Non era riuscito a piangerla mentre era con Orochi, perché non gliel’aveva mai concesso. Non era riuscito a piangerla dopo, perché si era presentato suo padre, che l’aveva quasi ucciso. Non era mai riuscito a tirare fuori davvero quel dolore dentro di sé. Quella volta, non ci fu nulla a fermarlo.

Doveva esserci lui al posto di Kairi. Avrebbe dovuto esserci lui al posto di Akane. Tutto quello che era successo… era stato solo per causa sua. Aveva coinvolto tutte le persone con cui era entrato in contatto. Aveva fatto del male a chiunque si fosse avvicinato a lui. Non avrebbe dovuto essere ancora vivo. Non era giusto.

Pianse finché non esaurì le lacrime. Si sentiva vuoto, consumato. Allo stesso tempo, tutto il dolore provato si era affievolito. Era ancora presente, ma meno intenso. Si passò una mano sopra la guancia, per asciugarsi le poche lacrime rimaste, e prese una lunga boccata d’aria. Ora, con la mente più lucida, realizzò quanto futili fossero stati i pensieri di poco prima. Aveva detto a Kairi che non avrebbe permesso a quello che era successo di segnarlo e l’avrebbe fatto.

Non aveva idea di come, ma l’avrebbe fatto. Avrebbe mantenuto la parola, come un vero samurai, come il Bushido gli aveva insegnato.

Un rumore si alzò in aria all’improvviso. Una specie lungo lamento, fastidioso e acuto. Dapprima basso e distante, cominciò a farsi sempre più forte. Naito sollevò lo sguardo, accorgendosi di diverse luci, rosse, gialle e blu che balenavano nel cielo ormai notturno. Il rumore si fece così forte da diventare assordante.

Naito strinse i denti. Non aveva idea di cosa stesse succedendo ma non aveva alcuna intenzione di rimanere lì per scoprirlo. Afferrò Kairi sotto la schiena e le ginocchia e la sollevò. Non l’avrebbe lasciata lì.

Cominciò a correre, la sorgente di quel rumore pareva ormai alle sue spalle. Le luci tingevano il cielo, ad intermittenza, e in mezzo al frastuono e al ticchettio della pioggia udì alcune voci, di uomini. Spiccò un balzo e arrivò sopra il tetto del santuario, da dove poté scorgere decine e decine di quelle automobili mortali, dalle quali uomini vestiti di nero e blu si stavano riversando fuori per correre dentro al santuario. C’era anche un altro mezzo, rosso, gigantesco, pilotato da mortali che avevano indosso lunghi cappotti gialli e marroni. Alcuni di loro sollevarono un tubo e iniziarono a spruzzare acqua contro le pareti ancora in fiamme, per domare l’incendio.

Osservò tutta quella folla riversarsi nel cortile del santuario e si ritirò in mezzo alle tenebre della sera calante. Non voleva essere nei paraggi quando si sarebbero accorti di quello che era successo lì.

Ne aveva abbastanza di quel luogo. Ne aveva abbastanza di Tokyo, dei mortali, di tutto quanto.

Con il favore della notte fuggì dal Santuario Meiji prima che qualcuno lo vedesse, con un macigno nello stomaco, le gambe distrutte, le ferite che ancora sanguinavano e lo spirito più a brandelli che mai.

 

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Capitolo 13
*** Le Tribune Negishi ***



13

Le Tribune Negishi 

 

 

Quello era il luogo più strano che avesse mai visto. Era stato in templi tra le montagne, villaggi antichissimi e santuari in tutto il Giappone, ma non aveva mai visto qualcosa di simile a quelle venti case dispose a forma di U. Erano tutte completamente diverse tra loro, in mezzo ad uno sprazzo di verde tra le colline appena fuori quella città colossale che i mortali chiamavano “New York.”

Quando Orochi aveva detto che sarebbero andati in occidente, non aveva avuto idea di cosa aspettarsi. Non credeva sarebbe stato così diverso dal Giappone, ma si era sbagliato. Ogni cosa lì era più grossa, più rumorosa e più caotica. 

I mortali da quel lato del mondo erano una mandria di belve senza cervello, grasse, informi e ripugnanti. Non sembravano nemmeno in grado di parlare la loro stessa lingua. 

Non c’aveva messo molto prima di capire di odiare con tutto sé stesso i Gloriosi Stati dell’America Unita. Bastava soltanto quel nome per fargli capire quanto pomposi fossero i suoi abitanti. Voleva andarsene al più presto e tornarsene al museo dall’altra parte del paese. Là, perlomeno, si sentiva come in Giappone, nonostante tutte le sculture e i quadri dedicati agli dei che avrebbe voluto distruggere uno dopo l’altro. 

Cercava una persona. Un mezzosangue, come lui, ma il padre di quello era un dio. Naito conosceva storie di persone che discendevano dagli dei, ma non le aveva mai incontrate davvero. Giusto un paio di cialtroni che affermavano di esserlo e che erano stati fatti a pezzi da lui. All’inizio era diffidente, ma non appena aveva messo piede in quel luogo aveva capito che Orochi non gli aveva mentito. Tutti i ragazzini che vivevano lì emanavano un’aura di potere incredibile, che in nessun mortale aveva mai visto. Un’aura che ricordava molto quella dell’uomo che aveva ucciso sua madre. Non appena l’aveva percepita, aveva sentito la rabbia montargli nel corpo.

E non appena aveva percepito quel potere di gran lunga superiore a quello di tutti gli altri, aveva capito di aver trovato il suo obbiettivo.

Edward Model. Orochi aveva detto che era lui a possedere Ama no Murakumo. Come fosse possibile che quell’arma fosse finita in mano ad un moccioso, Naito non poteva comprenderlo. 

Gli era bastato vederlo anche da lontano per percepire l’incredibile energia che emanava. Aveva trascorso qualche giorno a studiarlo. Se ne andava sempre in giro con una ragazza dai capelli arancioni sgargianti, il cui potere era quasi insignificante se messo a confronto con quello di Edward. Non aveva potuto avvicinarsi troppo per studiarli meglio, ma era impossibile non riuscire a notarli.

Li aveva anche visti battibeccare, qualche volta. Erano molto affiatati, l’aveva intuito con un solo sguardo. 

In un certo senso… gli ricordavano lui e Hachidori. La differenza principale però era che loro due erano fratelli, anche se non si assomigliavano per niente. Naito non ci mise molto per capire che, per quanto Ama no Murakumo potesse renderlo potente, Edward aveva comunque un punto debole: quella ragazza. 

E Naito l’avrebbe sfruttato.

La sera in cui attuò il suo piano arrivò quando vide quei due dividersi. Edward uscì da un grosso edificio circolare. La ragazza, che era entrata con lui, non lo seguì. Nessun altro oltre a loro era entrato. Il che significava che lei era ancora dentro, da sola. 

Il momento ideale per muoversi.

L’oni accanto a lui emise uno dei suoi soliti versi incomprensibili mentre si avvicinavano. Naito fece una smorfia. Non aveva idea del perché Orochi gli avesse ordinato di non andare da solo. Per poco, quell’essere senza cervello non si era fatto scoprire da un poppante. Era stanco di essere sempre affiancato dagli altri mostri. Avrebbe potuto portare a termine quell’incarico da solo. Ma come al solito, non aveva voce in capitolo. 

Dopo aver sbrigato quel compito, si augurò di tornare ad essere uno degli uomini di punta. Era stanco di obbedire a Bunzo, Hikaru e addirittura a Chioiji. 

Sfruttarono lo Yomi per teletrasportarsi dentro l’edificio senza dare nell’occhio. Le ombre si plasmarono attorno a lui, diventando un tutt’uno con il suo corpo. Percepì il mondo svanire e sprofondò nella terra, controllando quell’oscurità di cui anche il suo essere era composto per metà.

Orochi gli aveva insegnato come fare. Gli aveva anche spiegato che lo Yomi non poteva imprigionare i demoni, perché loro non avevano un’anima come quella dei mortali. Potevano diventare un tutt’uno con le tenebre e sfruttare quel luogo per muoversi molto più rapidamente del normale. Era stato così, dopotutto, che erano arrivati in America. Ed era sempre così che era riuscito a passare da San Francisco a New York nel giro di pochi minuti.

Il mondo cambiò. Erano sempre in quello strambo “campo”, ma ora era deserto, avvolto da ombre fittissime, senza nemmeno la luce della luna e delle stelle. Entrarono nell’arena e Naito si concentrò, riuscendo a scorgere la versione reale di quell’edificio. Vide la ragazza seduta in un angolo, completamente isolata, mentre suonava una chitarra. Rivolse un cenno all’altro oni, poi riemersero di nuovo. 

Rimasero nascosti nell’ombra, dietro alcune gradinate di legno. Ordinò al suo compagno di rimanere fermo e fece un passo avanti. Stava per mostrarsi, quando la voce di lei si sollevò nell’aria mentre pizzicava le corde dello strumento, creando una melodia soffusa. 

Stava cantando.

Naito si fermò senza nemmeno rendersene conto, concentrandosi su quel suono. Dopo tanto tempo trascorso ad obbedire ad ordini, uccidere, combattere per Orochi, circondato da creature ripugnanti, la voce di quella mezzosangue sembrò qualcosa di irreale, aulico perfino. Una finestra sul mondo che si era lasciato alle spalle quando aveva rinunciato a tutto per seguire Lord Yamata no Orochi. 

Quella ragazza… aveva una bella voce. Anche sua madre cantava, quando era bambino. Riusciva sempre a farlo addormentare…

Il mezzo demone si riscosse. Ma che diamine gli era preso? Aveva una missione da svolgere. Uscì dal nascondiglio e sguainò la katana. Non appena il metallo sibilò contro il fodero, la piccola dea saltò in piedi spalancando gli occhi.

Erano verdi. Come quelli di Hachidori. 

«Chi sei tu?» gli domandò. Nonostante la sorpresa, la sua voce rimase ferma. 

Naito avanzò nella zona illuminata dalle torce, causandole un sussulto non appena si palesò nelle sue fattezze. 

«Non muoverti» le ordinò, nella sua lingua, con voce piatta. «Non voglio combattere con te. Sono qui per tuo fratello

«M-Mio fratello?»

«Ti useremo come esca» proseguì Naito, mentre anche l’altro oni usciva allo scoperto, bloccandole ogni via di fuga. «Rimani immobile. Non fare niente di avventato e non ti sarà fatto nulla. L’unico che vogliamo è Edward

La vide indurirsi, mentre li scrutava entrambi. «Che cosa volete da lui?»

«Non è cosa che ti riguarda. Collabora e avrai salva la vita

L’altro oni emise uno strano ringhio. Non sembrava d’accordo con Naito, ma le decisioni spettavano a lui. Usare la ragazza come ostaggio sarebbe stato molto più semplice di affrontare Edward a viso aperto. Aveva Ama no Murakumo, dopotutto. La spada avrebbe reso un avversario pericoloso chiunque la brandiva.

La mezzosangue affondò la mano attorno al manico della chitarra. «Non ho nessuna intenzione di collaborare con voi.» Posò l’altra mano sulla cassa dello strumento e, sotto lo sguardo attonito di Naito, lo vide trasformarsi in una spada simile ad una katana, ma dalla lama molto più corta e molto più curva.

La strinse con entrambe le mani. «Non so cosa vogliate da mio fratello, ma vi assicuro che da qui ve ne andrete a mani vuote.» 

Naito storse il naso, mentre l’oni muoveva un passo in avanti, facendo formicolare gli artigli. Gli ordinò di fermarsi e si rivolse di nuovo alla ragazza: «Getta la spada

Quella sorrise. «Te lo puoi scordare

Sembrava davvero sicura di sé. Il suo sguardo era carico di determinazione, il suo sorriso pure. Non aveva affatto paura di loro due. Nonostante fosse appena una ragazzina, si stava mostrando molto più coraggiosa di gran parte dei samurai che Naito aveva affrontato. 

«Me ne occupo io» disse all’oni, avvicinandosi alla piccola dea. 

«Cos’era quello, giapponese?» domandò lei, prima di scattare verso di lui. «Ma che razza di mostri siete?!»

Le spade si scontrarono a mezz’aria, a pochi centimetri dal volto del mezzo demone, che rimase impassibile. La ragazza era veloce. Forte, anche. Naito fece pressione con la lama e la allontanò da sé. Lei saltò all’indietro, poi attaccò di nuovo. Mirò al suo fianco destro, ma Naito riconobbe la finta. La spada della ragazza deviò direzione all’ultimo istante, mirando invece al suo fianco sinistro, ed incontrò la katana di Naito con un clangore assordante. 

La piccola dea strinse i denti, chiaramente non si era aspettata che lui riuscisse a parare quell’attacco. Non demorse, però, perché ritirò la spada e si lanciò in una raffica di stoccate.

Era brava. Mirava ai punti deboli, rapida e precisa, al punto da far sembrare i suoi attacchi dei lampi di luce, senza dargli un attimo di tregua. Naito indietreggiò, stringendo la katana con entrambe le mani, e continuò a deviare le sue stoccate, a schivare i suoi affondi e a parare le sue sferzate, in una tempesta di tintinnii metallici.

Qualsiasi mostro comune sarebbe stato già sopraffatto da lei. Ma lui non era un mostro comune. All’ennesima parata, Naito passò al contrattacco. Scartò di lato e mirò al fianco della ragazza, che riuscì a scansarsi con un sussulto sorpreso. La piccola dea mulinò la spada verso il suo collo ma Naito la respinse con un gesto secco, prima di sferzare l’aria. La ragazza indietreggiò con un grido e alcuni ciuffi di capelli arancioni ondeggiarono sospinti nell’aria, tracciando una barriera immaginaria tra i due avversari mentre rimanevano in stallo, a studiarsi. 

«Arrenditi, piccola dea» disse Naito, abbassando la katana. «Non rendere le cose più difficili.»

La piccola dea si passò il polso sopra le labbra, la fronte madida di sudore. Strinse la presa sulla spada e non rispose, gettandosi di nuovo contro di lui. Tracciò un arco di profilo, tentando un'altra finta, questa volta mirando al suo volto, ma Naito fu più veloce. Dimenò la katana e la intercettò, abbattendo il piatto della lama sul suo polso. La ragazza gridò di sorpresa e di dolore mentre la spada le saltava via dalle mani. Si ritrovò la katana puntata al collo e strabuzzò le palpebre, rimanendo immobile. 

«Ferma» ordinò Naito, duro.

Lei strinse i pugni e serrò le labbra, osservandolo dritto negli occhi. La durezza nel suo sguardo lo colse di sorpresa. Nessuno aveva mai reagito così, prima di allora. Aveva appena perso, si trovava con una spada alla gola, eppure lo stava fissando senza alcun timore. Quella reazione lo infastidì. 

«Chi siete?» domandò di nuovo lei.

«Ti ho già detto che non è cosa che ti riguarda. Adesso arrenditi, o…»

Quella si mosse all’improvviso, così veloce da coglierlo alla sprovvista. Scostò la katana da di fronte a sé e si gettò sulla sua spada, recuperandola dopo aver eseguito una capriola sulla terra. Gliela puntò da inginocchiata. «Non sarò la vostra esca. Piuttosto preferisco la morte.»

Naito serrò la mascella, irritato. Quella mocciosa stava complicando troppo le cose. Scattò di nuovo verso di lui, mentre alle sue spalle udiva l’oni ridacchiare divertito. Sentire quel verso lo aiutò a realizzare che, se non si fosse occupato di lei in fretta, probabilmente lui si sarebbe intromesso.

Le spade cozzarono di nuovo tra loro. La piccola dea lo attaccò con rinnovato vigore, non rallentò di un solo battito, come se fosse incapace di esaurire le proprie energie. Naito capì che non si sarebbe mai arresa. Poteva ammirarla, per questo. E allo stesso tempo, gli dispiacque per lei: aveva trovato l’avversario sbagliato con cui mostrarsi coraggiosa.

In un istante si fiondò su di lei, abbattendo la katana con forza. Quella riuscì a pararla e provò a raddrizzarsi, ma Naito la investì con una pioggia di attacchi da cui lei non poté fare altro che ritrarsi, difendendosi come poteva con gesti sempre più impacciati e grossolani. 

Era veloce, era brava, era resistente. 

Ma non era al suo livello. 

Notò una vena di paura nel suo sguardo, mentre si difendeva a malapena dall’ennesimo affondo. 

«Te l’avevo detto di non rendere le cose più difficili» sibilò Naito. 

La piccola dea digrignò i denti. Nonostante avesse capito di non avere speranze, nonostante fosse spaventata, gridò a perfidiato e si gettò su di lui. Quello fu il suo primo, ed unico, errore. La spada mirò al suo petto e Naito si spostò un istante prima di essere trafitto. Si ritrovò a fianco a lei e le afferrò il polso. La ragazza spalancò quei suoi occhi così grandi e luminosi per la sorpresa, ma non poté fare altro. 

Naito le torse il braccio, spezzandoglielo con uno scricchiolio orribile. La piccola dea perse la presa sulla spada e rovesciò la testa all’indietro, emettendo un grido lancinante, ma lui la zittì sferrandole un ceffone con la parte delle nocche. La piccola dea ruzzolò a terra, il grido che si perdeva in un gemito di dolore. Tentò di issarsi sulle ginocchia con il braccio ancora funzionante, ma si fermò non appena la katana di Naito la punse appena sotto al mento.

I loro sguardi si incrociarono di nuovo. Lei lo guardò dal basso, tenendosi con forza il braccio rotto, le labbra contratte in una smorfia di dolore. Si stava ancora sforzando di sembrare determinata, ma questa volta era solo un bluff. Per Naito sarebbe stato impossibile non notare quella vena di paura che finalmente sporcò quegli occhi così familiari, eppure distanti come un ricordo sbiadito. 

Per un momento, qualcosa accadde nella sua mente. Per un istante, l’immagine di lei cambiò, e al suo posto Naito rivide Hachidori, durante quella notte dannata di due anni prima. Avevano la stessa espressione sconfitta, però la piccola dea non stava piangendo, né lo stava implorando. Forse non voleva dargli quella soddisfazione. «Che… che cosa vuoi?» gli domandò invece. 

Naito assottigliò le labbra. Sollevò la katana, costringendola a scoprire il collo. Quella non batté ciglio, reggendo il suo sguardo nonostante la paura, la testa alta nonostante il tremolio nella sua voce.

Le parole gli uscirono dalla gola come un ringhio. Voleva ciò che contava di più in assoluto: «Vendetta.»

Si mosse fulmineo e la colpì ancora una volta al volto con le nocche, tramortendola. Il gemito che fece quando stramazzò a terra rimase impresso nella sua mente, così come la sua voce spaventata, molto differente da quella melodiosa che aveva usato per cantare. 

Sentì il respiro farsi roco, mentre osservava la ragazza riversa a terra, inerme. Anche il suo corpo assomigliava a quello di Hachidori, con i capelli sgargianti e la figura snella. Avvertì un formicolio alla schiena e strizzò le palpebre, massaggiandosi la tempia. Che diamine gli stava succedendo tutto ad un tratto?

«Rosa!»

Naito sussultò. Quella era la voce di Edward. Fece un cenno all’oni ed entrambi si ritirarono nell’ombra, per ricevere il loro ospite.

 

***

 

Si risvegliò nel bosco, con la luce del giorno ad illuminarlo. Sentiva la testa pesante, ma riuscì comunque a sollevarla e ad allontanare la fronte da quella di Kairi. Attraverso i rami degli alberi, i raggi del sole filtravano pigri, gettando ombre su di lui. Assottigliò le palpebre e riportò lo sguardo su quella persona che aveva amato e perduto.

La notte prima, dopo la sua fuga da Tokyo, aveva voluto dare a Kairi una degna sepoltura, ma la stanchezza, unita al dolore per le ferite ancora aperte, aveva avuto la meglio su di lui. Era crollato, al riparo dalla pioggia sotto quel grosso albero, e doveva essersi addormentato, o forse era svenuto.

E per tutto il tempo l’aveva tenuta tra le braccia. Kairi non si era sciolta come gli altri mostri, forse perché era per metà mortale. Da un lato, sarebbe stato meglio così. Se fosse scomparsa, Naito avrebbe potuto superare la cosa più facilmente. Invece, così, più tempo passava ad osservarla e più sperava che si svegliasse da un momento all’altro come da un sonno. Sapeva che era impossibile. Non si sarebbe mai svegliata. Non avrebbe mai più sentito la sua voce, né l’avrebbe mai potuta rivedere con quel sorriso sulle labbra.

Sentì una fitta allo stomaco e si sforzò di ignorarla.

Quanto era patetico. Kairi, Hachidori, non aveva importanza, entrambe l’avevano sfruttato per avere quello che volevano. E nonostante questo, lui era ancora lì, a desiderare che tutto quello non fosse mai successo veramente, a desiderare di vederla di nuovo. Come se le cose fossero cambiate, se lei fosse stata ancora viva. Lei non l’aveva mai amato davvero. Il suo era un desiderio inutile, oltre che impossibile.

Eppure, per quanto si sforzasse, non riusciva a rinunciare a quel pensiero. Non gli importava nulla se lei non lo amava, voleva solo che si risvegliasse, che stesse bene. Voleva solo… che fosse ancora viva.

Prima sua madre, poi tutti quegli uomini che aveva ucciso, poi Hachidori. Tutti morivano attorno a lui. Persone che amava, persone che odiava, non aveva importanza: ovunque andava la morte lo seguiva come un’ombra incapace di saziarsi.

Un rumore improvviso attirò la sua attenzione. Sembrava un battito di ali. Anzi, di diverse ali.

Naito adagiò Kairi a terra e si alzò in piedi a fatica. Le ferite al ventre e al fianco, dove Kagu-Tsuchi l’aveva colpito, si stavano già rimarginando, ma bruciavano ancora terribilmente e gli dolevano ad ogni passo. E le ustioni di cui il suo intero corpo era ricoperto non erano da meno. Sentiva la pelle sussultare ad ogni spiffero d’aria. Non aveva idea di come riuscisse ancora a proseguire.

Barcollò oltre i rami dell’albero riuscendo a non inciampare, e poté ammirare il cielo ancora nuvoloso ma ben più sereno del giorno prima, finché non si accorse di due puntini tra le nuvole che si stavano facendo sempre più vicini. Assottigliò lo sguardo e riuscì a vederli meglio. Avevano gambe e braccia a penzoloni e si muovevano grazie a delle ali sotto la testa.

Erano dei tengu.

Naito schiuse le labbra e si voltò verso Kairi. Non poteva essere una coincidenza. Indietreggiò, mentre quelli atterravano proprio di fronte a lui. Uno aveva il piumaggio rosso, l’altro arancione. Entrambi avevano un aspetto quasi umano, tolti i nasi lunghi e gli artigli affilati caratteristici. Al posto delle piume i loro visi erano coperti da due candide barbe bianche e lunghe. Naito sapeva che più un tengu avesse un aspetto umano più esso era antico e potente, un po’ come le kitsune a cui invece aumentava il numero di code.

D’istinto avvicinò la mano alla wakizashi, ma il tengu rosso lo fermò con un cenno. «Calmo.» Sia lui che il suo compagno avevano uno sguardo duro, le labbra strette in un’espressione indecifrabile. «Non siamo qui per combattere. Siamo qui per la figlia del re.»

Quindi erano lì proprio per Kairi. «Che… che cosa volete farle?» domandò Naito, titubante, senza allontanare la mano dall’impugnatura della katana più corta. Dubitava di poterli battere, ma non abbassò la guardia per un solo istante.

«La riporteremo sul monte Kurama, dove la sua morte verrà onorata» disse il tengu rosso.

«Siamo stati mandati da Sōjōbō in persona» aggiunse quello arancione. «Ciò che è successo al Santuario Meiji è giunto anche a lui.»

Se Naito ricordava bene, il monte Kurama si trovava vicino a Kyoto, a centinaia di chilometri di distanza da lì. E in una sola notte, la notizia di quello che era successo a Tokyo aveva già fatto tutta quella strada. Non osava immaginare dove altro fosse arrivata. Forse anche alle orecchie di suo padre e di questo fantomatico “re” che tanto lo cercava, e a questo punto anche il Clan Tsubaki doveva essere già al corrente di tutto. Come se davvero avesse bisogno di altre attenzioni su di sé dopo quello che aveva fatto.

I tengu si avvicinarono e Naito si accorse che quello rosso aveva una coperta sottobraccio. Capì ben presto che le loro intenzioni erano genuine, e davvero non volevano combattere. Erano lì per Kairi, per riportarla a casa. Naito ritrasse la katana, incapace di usarla in ogni caso, e si fece da parte mentre i due tengu avvolgevano nella coperta la ragazza che aveva amato, celando infine il suo volto pallido che non sarebbe mai più stato capace di rivolgergli quei sorrisetti beffardi che un tempo tanto lo avevano infastidito, e che ora tanto avrebbe voluto rivedere almeno una volta.

«Come mai Sōjōbō… ha deciso di mandarvi?» domandò, mesto, mentre i due tengu finivano di avvolgere la figlia del re. «Credevo che non gli importasse nulla di sua figlia.»

«Te l’ha detto lei, suppongo» disse quello arancione. Il suo tono stanco sorprese Naito, che era l’ultima cosa che si sarebbe aspettato. «Il nostro re è saggio e potente. Qualunque sia la ragione che l'ha spinto a disinteressarsi a sua figlia, noi non la metteremo in discussione.»

«E se davvero non gli fosse importato nulla di lei, non ci avrebbe mandati qui» concluse quello rosso.

«Certo, ha iniziato ad importargli dopo che è morta» sbottò Naito. Forse non avrebbe dovuto mettere tutto quel veleno nelle sue parole, ma era stanco dell’ipocrisia di tutti quelli che lo circondavano. «Sōjōbō avrebbe dovuto interessarsi a Kairi prima che finisse in quella situazione, non dopo. Avrebbe potuto evitare la sua morte, anziché onorarla.»

Per un istante, l’espressione del tengu arancione si indurì, ma quello rosso sollevò una mano: «Mantieni la calma, Hōkibō. Il ragazzo è scosso. Sono certo che non intendeva mancare di rispetto al nostro re.»

Hōkibō continuò ad osservare intensamente Naito ancora per qualche momento, prima di rilassare le spalle.

«Quanto a te, sappiamo bene chi sei, Naito, braccio destro di Yamata no Orochi. Sōjōbō ha voluto che portassimo qualcosa anche a te» proseguì il tengu rosso. Fece un cenno ad Hōkibō, che consegnò a Naito la bisaccia che portava a tracolla.

Naito la aprì confuso, trovandoci dentro dei vestiti stropicciati, fogli di carta e due lunghi cilindri neri, con la punta che si allargava come un imbuto.

«Ti serviranno per continuare il tuo viaggio verso le Tribune Negishi» spiegò Hōkibō.

Naito spalancò l’occhio per lo stupore. «Come sapete di…» Si interruppe, accorgendosi di quanto inutile fosse quella domanda. Anche Kagu-Tsuchi sapeva tutto del loro viaggio. Chissà quanti sapevano già tutto. Maledette satori, la prossima volta che ci avrebbe avuto a che fare, sarebbe stato per decapitarle una ad una.

«Perché ha voluto farmi questo dono?» domandò Naito.

«Era per entrambi, a dire il vero.» Il tengu rosso sospirò. «Immagino che il re fosse dispiaciuto con sua figlia, e che volesse aiutarla a finire il viaggio. Purtroppo, lei non gli ha mai parlato del suo reale stato d’animo. È scappata quando era ancora una bambina, e lui ha preferito lasciarla andare. La sua morte l’ha colpito molto più duramente di quanto tutti noi potessimo immaginare.»

Naito rimase in silenzio, stringendo la bisaccia con forza. Abbassò lo sguardo, limitandosi ad annuire flebilmente. Il macigno nel suo stomaco si fece dieci volte più pesante all’improvviso.

«Non troverai nulla alle Tribune.» La voce improvvisa di Hōkibō lo costrinse a raddrizzarsi.

Il tengu rosso provò a dire: «Avanti Hōkibō, non…»

«Il ragazzo deve sapere che sta facendo un viaggio a vuoto, Saburō.»

«Che… che significa?» si intromise il ragazzo, osservando prima Hōkibō e poi Saburō, che adesso si trovavano uno di fronte all’altro, ai lati della coperta che avvolgeva Kairi.

«Non sei il primo che va a cercare cosa si cela là sotto» spiegò Hōkibō. «Sono sempre tornati tutti a mani vuote.»

«Dobbiamo rispettare la volontà di Sōjōbō, Hōkibō. Se lui vuole che il ragazzo continui il suo viaggio, allora dobbiamo lasciare che lo faccia» lo ammonì Saburō.

Hōkibō abbassò la testa e non disse altro.

«Buona fortuna, Naito» concluse Saburō prima che entrambi spiccassero il volo, reggendo il corpo di Kairi per le sue estremità.

«No, aspettate!» Naito tese una mano verso di loro, ma ormai erano già partiti. Li guardò afflitto mentre si allontanavano, e gli sembrò che il contenuto della bisaccia si fosse fatto più pesante all’improvviso.

Un silenzio irreale scese nel bosco, un silenzio a cui non era più affatto abituato dopo i due giorni trascorsi con Hachidori. Soltanto in quel momento realizzò che, ancora una volta, era rimasto da solo.

 

***

 

La prima cosa che fece fu controllare i vestiti nuovi. Erano abiti semplici, simili a quelli indossati dai due tengu, calzoni larghi color kaki e un happi grigio e stropicciato. L’idea di vestirsi come un tengu non lo allettava, ma ormai la sua divisa era ridotta a poco più che un cencio bruciacchiato. Era crivellata di buchi a causa del fuoco e delle ferite che aveva subito, ma non solo. La sera prima non ci aveva fatto molto caso, ma sembrava anche più larga. Le asole erano molto più grosse e diversi strappi, specialmente all’altezza del petto, sembravano essere partiti dall’interno, non dall’esterno, come se ad un certo punto quei vestiti fossero implosi.

Naito si osservò le mani. C’era stato un momento, durante il suo scontro con Kagu-Tsuchi, in cui gli erano parse più grosse di come lo erano in quel momento. I guanti strappati raccontavano la stessa storia. Se li sfilò e li gettò via, ormai inutilizzabili.

Ripensò a quello che era successo al santuario, a quella sensazione di forza che aveva provato. Le parole di Orochi, dopo tutto quel tempo, acquisirono significato. Non gli aveva mentito dicendogli che sarebbe potuto essere inarrestabile e che la sua rabbia fosse un’arma letale. Aveva sbaragliato da solo, ferito, un intero esercito. E aveva sconfitto un dio. Non un dio qualsiasi, ma il dio che da quando era nato aveva cercato di ucciderlo, quello che gli aveva portato via tutto quello che aveva mai avuto.

L’aveva fatto gridare, l’aveva fatto sanguinare e soffrire. Avrebbe dovuto sentirsene fiero, finalmente si era vendicato. E invece, si sentiva ancora peggio di prima.

Controllò il resto del contenuto della bisaccia, per smettere di pensare a quei bastardi che gli avevano rovinato la vita. Non aveva idea di cosa fossero i due cilindri di ferro, riuscì solo a capire che l’estremità più larga era fatta di vetro. Naito ci piantò l’occhio sopra, per studiarlo. Passò con il dito sopra una parte in rilievo del cilindro e il vetro si accese all’improvviso, accecandolo. Mugugnò e l’oggetto gli cadde dalle mani, mandando la sua luce pallida sopra i ciuffi d’erba. Lo afferrò di nuovo e passò il dito sulla superficie, riuscendo spegnerlo. Era una specie di fonte di luce, senza fuoco. Forse funzionava con l’elettricità, come le lampadine che usavano i mortali. Lo posò di nuovo nella bisaccia assieme all’altro – erano destinati uno a lui e uno a Kairi, chiaramente – e per finire controllò i fogli di carta.

Il primo era una cartina del Giappone, con segnato sopra il punto dove dovevano trovarsi le Tribune Negishi, a pochi chilometri di distanza dalla baia di Tokyo. L’altro, invece, pareva una raffigurazione delle Tribune stesse. C’erano un’immagine dell’edificio e una sorta di schema, che a Naito parve indecifrabile. In un angolo di quel foglio c’era anche un logo che riconobbe come l’Emblema del Giappone: un crisantemo color oro, con sedici petali. Quel foglio proveniva direttamente da mani imperiali. Come avesse fatto Sōjōbō a procurarselo, non voleva nemmeno saperlo.

Rimise tutto dentro la bisaccia e la chiuse. Dopodiché, contemplo il modo più semplice per sbarazzarsene per sempre. Avrebbe potuto scavare una buca e lasciarcela dentro, o magari scaraventarla in cielo con tutta la forza che aveva. Altrimenti potuto distruggerla con la sua katana, farla a brandelli a mani nude, oppure gettarla in un fiume.

Per quale motivo avrebbe dovuto continuare il suo viaggio verso le Tribune Negishi? Ormai era tutto finito. Kairi era morta. Aveva ferito un dio e ucciso tutti quegli uomini, macchiandosi le mani di molto più sangue di quanto la sua katana avesse mai assaggiato. Da quel momento in poi, Kagu-Tsuchi e i suoi seguaci non avrebbero fatto altro che desiderarlo ancora più morto di quanto già non facessero. Che senso aveva continuare quella stupida ricerca? Ormai non ci sarebbe stato più alcun perdono, per lui. Non dopo tutto quello che aveva fatto al Santuario Meiji. In ogni caso, sarebbe stato condannato.

Ammesso che l’elisir fosse davvero alle Tribune, oltretutto. Quel tengu non era stato molto ottimista, a riguardo.

Allo stesso tempo, sapeva che non poteva davvero tirarsi indietro. Se l’avesse fatto, sarebbe stato come sputare in faccia su Hachidori e su tutti quelli come lui. Lei poteva anche averlo tradito, ma era morta per colpa di quel viaggio. Tutti i mezzosangue sarebbero morti, in un modo o nell’altro, se non avesse cambiato le cose.

Poteva scegliere: andare avanti, portare a termine la missione, non per sé ma per la sua specie, per tutti quei bambini spaventati come lo era stato lui, per tutti quei mezzosangue che non volevano altro che vivere in pace, come lui, oppure poteva gettare la spugna e andarsi di nuovo a nascondere nell’attesa di essere trovato e ucciso da Kagu-Tsuchi, il Clan Tsubaki oppure il “re”, mentre il resto della sua specie veniva condannato a quell’esistenza miserabile che per millenni li aveva accomunati tutti.  

Doveva andare avanti. Doveva portare a termine quel dannato viaggio, per Kairi, per i mezzosangue. Non aveva più il Bushido, ma ricordava tutti quanti i valori scritti su di esso, e sapeva che nessuno di essi si sarebbe rispecchiato in una sua resa.

Cominciò a spogliarsi e ad indossare i vestiti nuovi. Afferrò la vecchia divisa e strappò le maniche ormai irrecuperabili per usarle come bende di fortuna, stringendole con forza specialmente sulla ferita al fianco, dopodiché indossò quel vestito ormai ridotto ad una canotta sotto all’happi di Sōjōbō, in modo da poter di nuovo sollevare il cappuccio sopra la testa. Non era abituato a starci senza.

Legò la cintura alla vita, mise la bisaccia a tracolla e batté i piedi in modo da far aderire bene gli stivali dalla punta di ferro. Il suo occhio si smarrì nel bosco mentre stringeva i pugni determinato.

Aveva un viaggio da portare a termine.

 

***

 

Poche ore dopo, la meta apparve di fronte a lui. Osservò Yokohama dal tetto di quell’altissimo palazzo. Era quasi impossibile riuscire a distinguere dove finisse quella città e iniziasse Tokyo, visto che sembrava tutto quanto un unico gigantesco insieme di edifici stravaganti. Si era premurato, comunque, di evitare la capitale come un malanno. Non aveva nessuna intenzione di rimetterci piede per molto tempo.

La differenza principale tra le due città era che Yokohama era formata perlopiù da piccole case come quelle della zona residenziale. Non cercava di attirare l’attenzione come Tokyo, era molto più modesta della capitale.

Quando Panji aveva detto che le Tribune Negishi erano abbandonate, non si sarebbe mai aspettato di trovarle proprio nel bel mezzo di una città. Erano circondate da uno sprazzo verde, come il Santuario Meiji, ma molto più piccolo e meno celato. Le strade di Yokohama si trovavano a poche centinaia di metri di distanza, affollate di automobili come sempre. A differenza del santuario, quel luogo non era isolato e avvolto nel silenzio.

Le Tribune altro non erano che tre grosse torri affacciate sopra delle tribune vere e proprie, fatte di legno ormai marcito. La torre di destra era completamente ricoperta di edere, tanto da essere verde nella sua interezza. Una recinzione di filo spinato teneva i pochi mortali nei paraggi alla larga, anche se nessuno sembrava molto interessato a quell’edificio in ogni caso. Pareva quasi che fosse stato creato con l’unico scopo di essere dimenticato lì.

Avvicinarsi fu semplice. Scavalcare la recinzione e infilarsi nell’edificio lo fu ancora di più. Il portone era bloccato da una catena così arrugginita che bastò un colpo di spada per spezzarla.

I problemi iniziarono non appena entrò.

L’intero edificio sembrò sussultare quando spifferi di aria si insinuarono al suo interno dopo quelli che dovevano essere anni se non decenni. Un odore ripugnante gli invase le narici; quella puzza di chiuso, muffa, ratti morti e anche vivi era micidiale perfino per qualcuno che ne aveva viste e passate tante come lui.

Avanzò nell’atrio d’ingresso, facendo vagare lo sguardo lungo le pareti scrostate e sporche, coperte di polvere e ruggine. Il pavimento era tappezzato di cocci di vetro e calcinacci, con la maggior parte delle piastrelle rotte o mancanti. Ad ogni suo passo susseguiva un rumoroso scroscio di ciottoli.

Ogni stanza era uguale. Pareti un tempo bianche ormai marroni, finestre con le sbarre rotte, topi che squittivano negli angoli e che fuggivano via da lui e ruggine. Molta ruggine. Naito controllò la mappa dell’edificio, rigirandola tra le mani diverse volte, cambiando angolazione, non sapendo nemmeno cosa stava guardando con esattezza. Era un insieme di quadrati, righe, cerchietti e una miriade di altri simboli che nemmeno conosceva.

Abbassò il foglio con un sospiro esausto. Di quel passo non sarebbe andato da nessuna parte. Forse assieme ad Hachidori avrebbe avuto una possibilità maggiore di…

Controllò di nuovo la mappa, le mani che tremolavano. Non poteva pensare a Kairi proprio in quel momento. Ci mise diversi istanti, poi riuscì a capire che quei quadrati in realtà raffiguravano proprio le stanze, ma viste dall’alto. Riconobbe l’ingresso in cui era stato, i corridoi che aveva attraversato e individuò anche la stanza in cui si trovava in quel momento. C’erano delle scale che conducevano al piano superiore, ma non se ne curò. Non doveva salire, ma scendere.

Entrò in un’altra stanza, in una zona interna della struttura, dove la luce delle finestre faticava ad arrivare. Fitte ombre apparvero attorno a lui tutto ad un tratto, gettando una sfumatura ancora più tetra su quel luogo già tetro di suo. Fece diversi passi e si accorse di una parete gialla ricoperta di strani disegni. Erano sbiaditi e sfigurati, ma era impossibile non riconoscerli: erano volti umani, con naso, occhi e bocca. Ed erano piuttosto inquietanti. Mentre si avvicinava al muro per studiarlo meglio, qualcuno parlò con voce annoiata: «Dannati esploratori urbani.»

Naito si voltò di scattò, avvicinando la mano alla wakizashi. Spalancò l’occhio per la sorpresa. Di fronte a lui erano apparsi due uomini, con indosso strane uniformi decorate con le bandiere del Giappone. I loro corpi emanavano bagliori bianchi, anzi, erano proprio loro ad essere bianchi. I loro piedi non toccavano neanche terra, stavano fluttuando nell’aria, e poteva perfino vedere attraverso di loro. Naito rimase senza fiato. Erano degli yūrei1.  

«Quando la smetteranno di venire ad importunarci?» disse uno dei due, scuotendo la testa con disappunto.

«Era da un po’ che non se ne vedevano, però» obiettò l’altro. «Ricevere qualche visita di tanto in tanto è gradevole.»

«Bah!»

«Come… come mi avete chiamato?» domandò Naito, inghiottendo lo stupore. «Esploratore… urbano?»

Entrambi spalancarono gli occhi. «Ma… ma mi ha sentito?» domandò il primo, con un sussurro di voce.

«Io… non credo ti abbia solo sentito.» Il secondo sollevò una mano e cominciò a muoverla. «Credo… credo che riesca anche a vederci…»

Naito scrollò la testa, rendendosi conto di essere rimasto a seguire con lo sguardo quella mano come un cagnolino ammaestrato. «Certo che vi vedo!» sbottò. «Sto cercando l’ingresso dei tunnel sotterranei. Sapete dirmi dove sono?»

Due espressioni di puro sconforto apparvero sui loro volti trasparenti. Non risposero alla sua domanda: gridarono terrorizzati, come se il fantasma l’avessero visto loro, e si tuffarono nella parete più vicina, svanendoci dentro.

Per un istante Naito rimase pietrificato da quella reazione. «Ehi! Tornate qui!» gridò quando riuscì a riscuotersi. Uscì dalla stanza e provò a fare il giro della parete per inseguirli. Vide le luci guizzare in mezzo a corridoi e pareti e li udì parlare ancora, lanciandogli perlopiù maledizioni e sbottando qualcosa a proposito dei “cacciatori di fantasmi” che non li avrebbero più lasciati in pace, qualunque cosa significasse.

Provò a raggiungerli, ma non ci mise molto capire che si trattava di una battaglia impossibile. Non avrebbe mai potuto rimanere al passo di qualcuno capace di attraversare quelle mura labirintiche. Le luci svanirono in un anfratto completamente buio e da lì non riemersero più.

Naito soffocò un’imprecazione. Guardandosi attorno, realizzò di non avere idea di dove fosse finito. La luce era quasi assente lì, le stanze erano tutte uguali e la mappa non gli fu di alcun aiuto, perché non ricordava che strada avesse fatto.

Sospirò pesantemente, dandosi dell’idiota. Osservò l’anfratto oscuro di fronte a lui e pensò che a quel punto poteva anche fare un tentativo lì dentro. Tirò fuori il cilindro di ferro dalla bisaccia e lo accese. Era avvero comodo, doveva ammetterlo. Avanzò tra le tenebre facendosi luce grazie a quell’affare e trovò un corridoio basso e stretto, con un cartello illeggibile che penzolava dal soffitto. Lo percorse, arrivando ad un vicolo cieco. A quel punto lasciò cadere le braccia a peso morto lungo i fianchi. Per un istante contemplò l’idea di rinunciare. E poi la scacciò via con la stessa velocità con cui era arrivata. Non si sarebbe fermato ad un palmo dall’arrivo.

Ritornò sui suoi passi, pensando di rientrare nelle stanze con più luce, quando un rumore si alzò in aria all’improvviso. Basso, quasi impercettibile, ma lui l’aveva sentito.

Toc. 

Abbassò lo sguardo, osservando il pavimento impolverato e perfettamente liscio, con le piastrelle intatte. Strano, perché erano distrutte ovunque meno che lì. Fece un passo indietro. E poi un altro di nuovo in avanti.

Toc.

Ricontrollò la mappa. In quello che doveva essere un corridoio notò qualcosa: un quadratino, posto al centro di esso. Questa volta sbatté il piede con forza.

TOC.

Si accovacciò e diede una spolverata al pavimento, insudiciandosi le mani. Batté le nocche sopra le piastrelle, continuando a sentire quel suono sordo in risposta. C’era un doppio fondo.

Il cilindro di ferro sobbalzò in aria quando sferrò un pugno contro il pavimento, così forte da crepare le piastrelle. Le pareti, abituate al silenzio da chissà quanti anni, sembrarono gemere. O forse erano quei due yūrei che ancora girovagavano.

Non fu difficile sfondare il pavimento: gli bastò pensare ai volti di Orochi, Kagu-Tsuchi e suo padre al posto di quelle piastrelle. Quando, infine, con l’ennesimo pugno aprì un piccolo cratere, realizzò di averci visto giusto. Allontanò la mano sanguinante dalle macerie e afferrò di nuovo il cilindro di luce, puntandolo nella voragine. Vide degli appigli di ferro conficcati nel cemento scendere in profondità, inghiottiti nel buio. Sorrise. L’aveva trovato.

Finì di scoperchiare quella botola nascosta e puntò di nuovo la luce. L’aria avvizzita uscì fuori con uno sbuffo. La scala sembrava scendere per chilometri e chilometri, tanto che non poteva vedere il fondo di quel baratro. Non appena si affacciò avvertì qualcosa: le ossa fremettero e la pelle si accapponò, mentre i suoi sensi si animavano tutti in un istante, intimandogli di stare alla larga da quel luogo.

Il messaggio era chiaro: pericolo.

Naito sorrise di nuovo. Sì, era vicino. Molto vicino. Strinse il cilindro tra i denti e afferrò i pioli, calandosi nelle tenebre.

 

***

 

I tunnel erano tutti uguali. Erano di cemento, con pareti lisce e levigate coperte di muffa. Dal soffitto penzolavano delle luci rotte e spente. L’unica fonte di illuminazione era il cilindro di ferro.

I suoi passi riecheggiavano nel vuoto, smarrendosi nelle tenebre come gemiti in quel luogo desolante e chiaramente non più abituato alla presenza della vita. Non aveva idea di dove stesse andando. C’erano dei cartelli con delle indicazioni, ma erano tutte sbiadite e illeggibili. Sōjōbō gli aveva dato anche una mappa dei tunnel, ma era così intricata e complessa da essere indecifrabile per lui. C’erano almeno cento corridoi che si intersecavano tra di loro, così tanti sbocchi, vicoli ciechi e bivi che era impossibile riuscire ad orientarsi, non al buio, almeno. Con le luci accese e i cartelli leggibili, forse, avrebbe avuto una possibilità.

Trovò diverse porte sigillate. Aprirle non fu un problema, ma non portavano da nessuna parte, solo a stanze spoglie con l’eccezione di assurdi macchinari arrugginiti pieni di schermi rotti. Quel luogo era stato una base militare, forse quelli erano equipaggiamenti ormai perduti della seconda guerra mondiale.

Il tanfo era insostenibile. Non aveva idea di cosa fosse, magari era la puzza di chiuso, ma non ne era sicuro. Era troppo forte per essere solo l’odore della muffa e degli escrementi di topo.

Entrò nell’ennesimo corridoio e tutto ad un tratto sentì di nuovo la pelle arricciarsi. Si guardò attorno, muovendo la luce in mezzo alle tenebre, sentendosi osservato, ma non vide nessuno. Non c’era niente, là sotto.

Serrò le labbra e proseguì, domandandosi se la puzza non lo stesse facendo impazzire. Sentì il ticchettio di alcune gocce d’acqua. Alzò la luce e si accorse di alcune tubature gocciolanti, attaccate al soffitto come edere. Cominciò a seguirle. Se serviva acqua là sotto, doveva esserci un motivo valido. Lo condussero ad altre stanze chiuse, perlopiù bagni, o infermerie deserte, ma niente di utile.

Mentre procedeva a tentoni nell’ennesimo corridoio, udì lo squittio di un topo. Abbassò la luce e vide quella bestiolina correre dentro una spaccatura nella parete, una fessura di pochi centimetri di larghezza e alta quasi due metri. Lo ignorò e proseguì, ma non appena passò di fronte a quella crepa la pelle gli si accapponò all’improvviso, scuotendolo da capo a piedi. Spostò di nuovo la luce e spalancò l’occhio: la crepa era cresciuta da sola all’improvviso. Ora era abbastanza larga da permettergli di passarci attraverso.

Naito indietreggiò fino a sbattere contro la parete opposta, trattenendo il respiro. Rimase immobile e puntò la luce nel crepaccio. L’oscurità non si diradò. Era come guardare un mantello nero, delle tenebre così fitte da non cedere nemmeno al bagliore del cilindro di ferro. Non sembrava nemmeno che ci fosse qualcosa lì dentro, eppure quel topo l’aveva appena attraversato.

Ancora una volta, un brivido gelato gli scosse l’intero corpo. Forse aveva visto male, forse non era passato nessun topo. Mosse un passo, avvicinando la luce verso quelle tenebre che non lasciavano alcuno scampo. Di nuovo, non vide nulla attraverso di esse. Guardò a terra, in cerca di qualcosa da lanciare, ma non trovò nulla. Accartocciò la cartina del Giappone che gli aveva dato Sōjōbō, ormai inutile, e la scagliò dentro la crepa. Non appena la pallina di carta venne inghiottita Naito indietreggiò di nuovo, sbattendo la schiena con forza. Sentì le gambe tremargli.

Una sensazione orribile cominciò ad assalirlo, ma non era la stessa che aveva sentito prima, quando si era sentito osservato. Si sentì come se si trovasse al cospetto di Orochi, Kagu-Tsuchi e Ōtakemaru allo stesso tempo. Che stava succedendo? Perché era così spaventato all’improvviso?

Poi, un odore penetrante riempì l’aria. Era forte, così forte da cancellare ogni altra cosa. Si insinuò nelle sue narici con prepotenza, dandogli alla testa. Arrivava dal crepaccio. Non appena lo riconobbe, Naito spalancò le palpebre.

Greci. Era lo stesso odore che aveva sentito avendo a che fare con loro, con quel gigante e i suoi sgherri in particolare, ma anche nel bosco del campo dei piccoli dei.

Com’era possibile? Come faceva ad esserci puzza di greci lì sotto, in dei sotterranei a Yokohama, in Giappone?!  

In un gesto quasi disperato, controllò la cartina dei tunnel, anche se era ben consapevole che non gli sarebbe servito a nulla. Qualcosa gli suggeriva che quella spaccatura di fronte a lui non fosse presente su nessuna mappa.

Abbassò il foglio, realizzando quanto fosse inutile il suo gesto, e riportò la luce sul crepaccio. Non appena lo fece, per poco il cilindro non gli cadde dalle mani. Il varco era sparito. L’odore dei greci aleggiò in aria ancora per qualche istante, prima di dissolversi anch’esso.

Per un istante, pensò di essersi sognato tutto. La pelle d’oca che gli ricopriva il corpo intero, però, raccontava una storia diversa. Espirò profondamente, per darsi un contegno. Qualunque cosa fosse successa, qualunque cosa fosse quel passaggio nascosto, non voleva saperne altro.

Con il cuore che batteva all’impazzata nel petto, si allontanò da quel corridoio.

 

***

 

Seguì altre tubature, tentando in tutti i modi di scacciare quella sensazione orribile che aveva cominciato ad attanagliarlo. Non era da lui provare paura, non così immotivata, almeno. Quel crepaccio, quell’oscurità, quel vuoto… non aveva idea di che cosa si trattasse, ma era bastato trovarsi in sua presenza per capire che era qualcosa di oltre la sua comprensione, di antico e potente.

Aveva sentito il desiderio improvviso di addentrarsi in quelle tenebre. Era stato come se lo stessero chiamando. Il passaggio si era perfino allargato in modo da farlo passare, quasi ad invitarlo a proseguire, come se fosse stato… vivo. Una creatura pronta ad inghiottirlo. Ma Naito aveva sentito che, se davvero l’avesse fatto, se davvero fosse entrato là dentro, non ne sarebbe mai uscito vivo.

Cominciava ad avere perfino dei dubbi su quei dannati tunnel, a dire il vero. Ormai si era perso, non aveva idea di dove fosse ed era stato un vero idiota a non segnare il percorso per trovare la strada del ritorno. Se non altro, quelli non puzzavano di greci e non scatenavano in lui quel terrore viscerale.

Quel posto era un labirinto. Ora capiva perché erano tutti tornati a mani vuote da lì. E quel pensiero, non faceva altro che renderlo ancora più determinato ad essere il primo a trovare la stanza nascosta.

Qualcosa si mosse all’improvviso al fondo del corridoio. Puntò la luce e avvicinò la mano alla wakizashi. Altri topi uscirono dalle tenebre, squittendo all’impazzata. Erano almeno una decina e correvano spediti. Gli passarono accanto senza nemmeno curarsi di lui. Riconobbe il loro comportamento: erano spaventati.

Naito puntò la luce verso la direzione da cui erano provenuti e abbozzò un sorrisetto. Lui non era un topo. Avanzò con rinnovato vigore, incappando in altri ratti in fuga, che gli mostrarono la strada giusta da percorrere.

L’ultimo ratto che vide sbucò fuori da un anfratto buio al termine di un lunghissimo corridoio. Non appena posò lo sguardo su quelle tenebre, sentì di nuovo la pelle formicolare. Non provò la stessa sensazione che aveva provato dinnanzi al crepaccio, però. Era diversa. Avvertì una strana energia provenire da laggiù, gli sembrò familiare, ma non riuscì a riconoscerla.

Affrettò il passo e la luce forò le tenebre, rivelando qualcosa che non si sarebbe mai aspettato di vedere: un portone di ferro a doppio battente, spesso mezzo metro e alto tre, completamente scardinato e riverso sul pavimento. Si avvicinò incredulo, notando la sua superfice deformata e divorata dalla ruggine. Era squarciata a metà, con così tante ammaccature da far pensare che fosse stata buttata giù da un esercito di oni.

Qualcuno era già stato lì.

«Maledizione…» sibilò, riaprendo bocca dopo tanto tempo. Superò il portone ridotto ad un tappeto ed entrò in una stanza gigantesca, così grande da sembrare un edificio a sé stante. Al centro di essa, avvolto nelle tenebre, c’era un piedistallo vuoto. Naito avvertì di nuovo la pelle formicolare. Non era lì.

L’elisir non era lì.

Per un attimo, pensò che quella non fosse la stanza che cercava. Fece per controllare di nuovo la mappa, quando una luce accecante divorò le tenebre, penetrandogli l’occhio. Strinse le palpebre con forza, mentre macchioline rosse e arancioni si diradavano di fronte a lui.

Quando si calmarono, riaprì tremolante l’occhio. La stanza era illuminata da diverse luci sfarfallanti e sfrigolati. Notò le pareti tappezzate di macchinari mortali e schermi spenti, armadi sigillati e mensole impolverate. E soprattutto ebbe una visione più nitida di quel piedistallo squadrato.

«Sei arrivato tardi» disse una voce all’improvviso.

Naito avvertì un’altra scarica di brividi scuotergli l’intero organismo. Quella voce… l’aveva già sentita. Si voltò di scatto, sguainando la wakizashi, e rimase a bocca aperta.

Qualcuno era apparso di fronte a lui. Qualcuno. Naito non aveva idea di che cosa fosse. Aveva il corpo umanoide, avvolto in un kimono blu, giallo e rosso che arrivava fino a toccare terra. I capelli erano lunghi e ingialliti come steli d’erba appassiti. Il volto era allungato e coperto di rughe, la mascella sporgente e due grosse corna viola che spuntavano dalla fronte, di cui una più lunga dell’altra, biforcuta. Un occhio era giallo, l’altro rosso, un terzo occhio, un ovale verticale, era dipinto in mezzo ad essi.

Sembrava un oni. Il suo fisico largo e possente suggeriva proprio quello. Ma un oni non si sarebbe mai truccato come quello. La pelle pallida del suo viso era inzaccherata di aloni colorati. Le labbra erano arancioni e carnose, l’occhio giallo era circondato da una macchia azzurra, quello rosso da una verde.

Gli sorrise, e fu la cosa più orripilante che Naito avesse mai potuto vedere. Aveva i denti lunghi e affilati, proprio come quelli degli oni. Eppure, c’era qualcosa che non quadrava. Anche i lineamenti del suo volto, non sembravano affatto quelli di un oni. Di un oni maschio, perlomeno.

«Questo luogo è stato già depredato molto tempo fa. Se si considerano vent’anni “molto tempo”» gli disse, con quella voce profonda, femminile, che si conficcò nella mente di Naito come un pugnale. «Per quelli come me, non sono altro che un battito di ciglia.»

Naito spalancò l’occhio, indietreggiando contro il proprio volere. All’improvviso capì. Era una kijo, una femmina di oni. Non ne aveva mai incontrata una prima di allora. Erano rarissime, come i maschi delle kitsune. «Chi… chi sei tu?» domandò, con un sussurro di voce.

«Mi chiamo Ibaraki» cominciò a dire lei, unendo le mani dietro la schiena. «Abbassa la spada, Naito. Non sono qui per combattere.»

Lui non ascoltò. Soprattutto perché non aveva detto il suo nome a quella donna. «Dov’è l’elisir?»

Ibaraki lo scrutò con una scintilla di divertimento nello sguardo. «Non è qui. Non c’è mai stato, a dire il vero. Sopra quel piedistallo, era stato riposto un oggetto ben più potente dell’elisir. Un’arma, per l’esattezza. Un’arma così potente da squarciare il cielo e la terra.»

«Che… che arma?»

«Credo che tu la conosca bene. Ti sei già imbattuto in essa.»

La cicatrice sull’occhio di Naito cominciò a formicolare. Quella strana energia che avvolgeva l’aria gli fece di nuovo accapponare la pelle. Schiuse le labbra, atterrito. Erano dei residui. I residui del potere di quella spada con cui si era scontrato una volta. «Ama no Murakumo…» sussurrò, incredulo.

La kijo annuì soddisfatta. «Sì, Naito. L’imperatore Shōwa voleva usare Ama no Murakumo per vincere la guerra. Ma Amaterasu non voleva che si facesse un uso così improprio della sua spada. Quell’arma non è fatta per uccidere i mortali, per quanto crudeli e spietati essi possano essere. Così, delusa dal comportamento dell’imperatore ormai accecato dalla guerra e disgustata dalle atrocità che erano state commesse, recise ogni legame con lui e la famiglia imperiale.»

Naito osservò di nuovo il piedistallo deserto. Non era stato l’imperatore, quindi, a recidere il legame. Non di sua volontà, perlomeno.

Ibaraki fece alcuni passi avanti. «Amareggiata per quello che era successo, Amaterasu decise di lasciare la spada qui, sperando che il mondo si dimenticasse di essa. Un simbolo del suo potere, utilizzato per scopi così nefasti, per lei era inaccettabile. Perciò, Ama no Murakumo rimase qui per molto tempo, dal giorno in cui l’imperatore Shōwa venne privato dal legame con Amaterasu, fino a vent’anni fa, quando una persona è riuscita a trovarla.»

Naito avvertì un tuffo al cuore. Le parole gli uscirono come un sussurro intimidito, mentre l’ultimo pezzo di quel puzzle che Orochi aveva tentato di ricomporre per tanto tempo andava finalmente al suo posto: «Kate Model…»

«Sì.» Ibaraki si passò la lingua tra i denti, come se trovasse quel nome delizioso. «Kate Model… non era donna mortale qualsiasi. Lei… riusciva a vedere. Era intelligente, informata, una vera esperta della nostra storia. E sapeva come spostarsi in fretta, passando dal Giappone all’occidente in un battito di ciglia. È stato così che ha trovato questo luogo. Ha fatto esplodere quelle porte e ha preso Ama no Murakumo.»

Ibaraki lanciò un’occhiata al portone distrutto. «Una donna con molte risorse, appoggiata da un’organizzazione che la pagava profumatamente per i suoi lavori. Ci ha depredati per anni in questo modo, eludendo mostri e perfino dei, lavorando nell’ombra. I pochi che l’hanno scoperta e che hanno provato ad inseguirla non sono mai tornati.»

Naito ripensò a quel crepaccio che aveva visto poco prima, la puzza di greci che aveva intasato l’aria. Che… fosse collegato in qualche modo a tutta quella storia?

«Questo almeno…» proseguì la sconosciuta. «… finché il Re non l’ha catturata.»

«Il… il Re?» domandò Naito, con un bisbiglio, prima di comprendere, finalmente, perché la voce di quella kijo fosse così familiare: era la stessa della donna che aveva sentito parlare con suo padre.

Si dimenticò di Kate Model e sollevò di nuovo la wakizashi, strappando una smorfia a Ibaraki. «Suvvia, Naito, ti ho già detto che non sono qui per combattere. Ho solo un messaggio per te. Da parte del Re.»

Naito non abbassò la guardia nemmeno per un istante. «Che genere di messaggio?»

«Per prima cosa, ti porge le sue scuse per il comportamento di tuo padre.»

La schiena gli fece male all’improvviso. Nonostante fossero passati alcuni giorni, quelle ferite ancora non erano guarite. «Non me ne faccio niente delle scuse» sibilò.

Ibaraki ridacchiò. «Sì, lo immagino. Ti farà sentire meglio sapere che Ōtakemaru è stato punito severamente per ciò che ha fatto.»

«No invece. C’è altro?»

«Sì, c’è. Il Re vorrebbe incontrarti. Ci sono molte cose che vorrebbe chiederti, riguardo Yamata no Orochi, Ama no Murakumo e la vergine.»

«La… vergine?» sussurrò Naito, sperando di aver capito male.

Ibaraki gli tolse subito quella speranza. «Quella che stavate per sacrificare a Yamata no Orochi.»

La gola di Naito si riempì di sabbia. «Perché… perché vuole sapere di lei?»

«Te lo dirà lui stesso, se vieni con me.»

Naito affondò le dita nel manico della wakizashi. Quella storia non gli piaceva per niente. «Non so cosa vi aspettate da me, ma vi posso assicurare che non ho le risposte che cercate. Non so nulla né di Orochi, né della spada, né della vergine.»

Gli occhi bicolore di Ibaraki lampeggiarono. Lo scrutò per diversi istanti con interesse, sembrava che si stesse domandando quale tortura l’avrebbe fatto gridare di più. «Anche se non avessi le risposte che cerchiamo…» cominciò a dire, lasciando intendere molto bene il fatto che non gli credeva minimamente. «… il Re desidera che tu ti unisca a noi. È rimasto molto… colpito, da ciò che hai fatto a quello schifoso dio del fuoco.»

Anche il Re aveva saputo, quindi. Nonostante se lo fosse aspettato, averne la conferma fece comunque irrigidire Naito.

«Tutti i guerrieri più forti del Giappone si stanno unendo a noi. Perfino tuo padre, che è sempre stato solitario, ha giurato fedeltà al Re. Non sarebbe mai successo se non fosse stato sicuro di fare la scelta giusta» proseguì Ibaraki. «E adesso che la povera Hachidori è morta, anche Sōjōbō si mobiliterà. Non lascerà che i responsabili della morte di sua figlia rimangano impuniti.»

Naito sentì una stretta allo stomaco. Il pensiero di quello che era successo a Kairi avrebbe continuato a tormentarlo per molto tempo, forse non se ne sarebbe mai più andato. E il re dei tengu si era già mobilitato, per fargli avere le risorse che l’avevano condotto fino a lì. Era chiaro che pure lui non sarebbe stato uno spettatore silente ancora per molto.

«Presto, molto presto, dichiareremo guerra alla razza umana. E tu saresti una risorsa molto preziosa per le nostre fila.»

«Che… che cosa?» domandò il ragazzo, con un sussulto.

Il sorriso della kijo gli ricordò quelli che aveva visto in Orochi: i sorrisi di un pazzo, folle, assetato di sangue e potere. Ormai sapeva riconoscerli. E sapeva anche che doveva tenersene alla larga. «Gli dei sono divisi. Amaterasu non è mai stata così vulnerabile. Ha chiesto aiuto ai greci, perché sa di non potersi fidare della sua gente. E noi abbiamo alleati potenti, anche in occidente. I tempi sono maturi, Naito. È giunta l’ora che gli yōkai si riprendano il controllo del Giappone. E giunta l’ora che i mortali svaniscano e gli dei cadano. Una nuova era, Naito, sta per avere inizio. E quando arriverà, ti converrà trovarti dalla parte giusta.»

Naito serrò la mascella. «È una minaccia?»

«Consideralo più un monito.» Ibaraki parlò con voce più apprensiva: «Lo so cosa desideri. Vorresti che la tua specie venga trattata con maggiore rispetto. Ma questo non accadrà mai, non nel modo che speri tu, almeno. Trovare l’elisir, compiere gesta nobili, niente di tutto questo servirà a qualcosa. Agli occhi degli dei, sarete sempre mostri. E se pensi che Kagu-Tsuchi smetterà di darti la caccia, ti sbagli di grosso. Se davvero vuoi cambiare le cose, unisciti a noi. Solo così potrai avere quello che cerchi.»

Ibaraki gli diede le spalle e cominciò ad allontanarsi. «L’epoca degli dei sta per giungere al termine. Presto, tutti loro e i tutti quelli schierati dalla loro parte verranno spazzati via. Rifletti bene sulla nostra proposta, Naito. Se accetti, ci troverai sul monte Ōeyama.»

«E se non accettassi?»

Ibaraki si fermò, lanciandogli un’occhiata sottecchi. Le file dei denti si strinsero tra loro in un ghigno orribile. «Vorrà dire che la prossima volta che ci incontreremo non sarà in termini così amichevoli.» Fece ancora qualche passo, poi la sua figura tremolò. Un istante dopo, era scomparsa.

Le spalle di Naito si rilassarono solo in quel momento. Buttò fuori una grossa boccata d’aria e rinfoderò la wakizashi, mentre pensava a che razza di disastro quel viaggio fosse stato.

Le Tribune Negishi si erano rivelate un buco nell’acqua. Hachidori non c’era più. E adesso, quello. Una nuova guerra, gli dei divisi e vulnerabili, e il Re che voleva conoscerlo per fargli domande su Orochi e la vergine.

Il pensiero che fossero interessati a Rosa lo fece rabbrividire. Che cosa volevano quei mostri da lei?

Dalle parole di Ibaraki, era chiaro che presto o tardi si sarebbero incontrati ancora. Avrebbe mentito se avesse detto che tutta quella faccenda non lo intimoriva almeno un po’.

E poi… Kate Model. Quello che aveva scoperto sulla madre di Edward lo aveva sconvolto quasi quanto tutto il resto. Lei era arrivata alle Tribune per prima e aveva trovato Ama no Murakumo.

E il Re l’aveva catturata.

Mentre si allontanava dalla stanza deserta, sentì lo stomaco farsi pesante. Grazie alle luci di nuovo accese riuscì a ritrovare la strada che aveva fatto con molta più facilità. Quando arrivò alle scale che conducevano all’uscita cominciò a salire controvoglia, conscio del fatto che, una volta fuori da lì, il suo fallimento sarebbe diventato più reale che mai.

 

 

 

 

 

 

1 I fantasmi della mitologia giapponese. Yurei è il termine generico, ma in realtà ne esistono molti tipi, in base a come avviene il decesso e a chi era la persona deceduta, alcuni sono spirti che cercano vendetta, altri anime che sono semplicemente “intrappolate” nel nostro mondo e che prima di andarsene devono risolvere le loro turbe. Questi nel capitolo erano due semplici soldati giapponesi che si sono abituati alla quiete delle Tribune Negishi. 

A proposito delle Tribune, la questione dei tunnel sotterranei l’ho recuperata da una leggenda metropolitana, facendo ricerche su luoghi abbandonati e/o infestati, ho anche dato un’occhiata ad alcune pagine di esploratori urbani per farmi un’idea degli interni dell’edificio e cose così, insomma, giusto per rendere un po’ più “reale” il tutto (lol, realtà, in una storia del genere, vabbé va). 

E niente, scusate le precisazioni inutili, spero che il capitolo vi sia piaciuto e grazie per aver letto!

 

 

 

 

 

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Capitolo 14
*** Il Coniglio Lunare ***


14

Il Coniglio Lunare

 

 

Naito si sedette a terra, facendo penzolare le gambe sopra la cresta dell’acqua. Alcuni piccioni volarono via spaventati da lui, perdendosi nell’orizzonte al di là della baia di Yokohama. Il tempo era peggiorato di nuovo, il cielo era tinto di grigio, con altre nuvole gonfie di pioggia. Nonostante le nubi e il freddo i mortali girovagavano numerosi come sempre, vagando nei negozi, consumando spuntini e scattando fotografie.

Una gigantesca ruota spiccava in un isolotto sopra il mare di fronte a lui, girando in senso orario come un orologio. Malgrado fosse giorno poteva comunque intravedere le luci multicolore accese sopra di essa, mentre dietro di lei alcuni strani trabiccoli correvano sopra lunghi serpentoni di acciaio a tutta velocità. Dalle urla che sentiva provenire da quel luogo, Naito intuì che avrebbe fatto meglio a girarci alla larga. Forse era una specie di isola delle torture1.

Abbassò lo sguardo sopra il mare incolore, concentrandosi sull’odore della salsedine e osservando alcuni dei pesci più piccoli e ingenui che si avvicinavano alla riva. Le provò tutte pur di non pensare ai suoi fallimenti, ma sapeva di non poter fuggire per sempre.

Le parole di Ibaraki risuonavano nella sua mente senza dargli un attimo di tregua. Gli dei erano vulnerabili. I guerrieri più potenti si stavano riunendo per distruggerli. E il Re voleva anche lui.

Non aveva trovato l’elisir e Hachidori era morta. Aveva perso tutto per colpa di quel viaggio. E per finire il verme responsabile della sua miseria, Kagu-Tsuchi, era ancora a piede libero e gli avrebbe ancora dato la caccia. Perché era un dio, e poteva fare qualsiasi cosa volesse. Quel pensiero gli faceva ribollire il sangue nelle vene.

L’aveva lasciato andare perché sperava che la smettesse di dargli la caccia, ma avrebbe dovuto saperlo che non sarebbe mai successo. Non avrebbe smesso finché uno di loro due non sarebbe morto.

Ibaraki gli aveva detto di raggiungere lei e il Re sul monte Ōeyama. Lo conosceva, si trovava vicino a Kyoto, proprio come il santuario di Kagu-Tsuchi e molti altri. Il pensiero di farlo cominciò a stuzzicarlo. Che altro gli rimaneva, tanto?

«Ciao!» disse una voce all’improvviso.

Naito si voltò e si accorse di un uomo in piedi accanto a lui, sorridente. Aveva i capelli corti, sembravano quasi color oro, e un paio di occhiali con le lenti scure. Non sembrava nemmeno un uomo in realtà, non doveva essere molto più vecchio di lui.

«Ti dispiace se mi siedo?»

«Sì» gracchiò Naito. Non aveva idea di chi fosse, o cosa volesse, ma non aveva alcuna intenzione di perdere tempo con qualche stupido mortale incapace di vederlo per quello che era davvero.

Quello rise, producendo un bel suono. «Siamo di buonumore, eh?»

Lo ignorò e si sedette comunque accanto a lui. Non appena fu più vicino Naito sentì la pelle arricciarsi. Avvertì il desiderio irrefrenabile di fuggire, o di sguainare la spada, ma lo sconosciuto non sembrò prestare la minima attenzione a lui. Ispirò l’aria a pieni polmoni e distese quel sorriso che sembrava incapace di svanire dal suo volto.

«Amo il Giappone, sai? Un tempo ci venivo spesso. Poi… le cose sono cambiate.» Allungò una mano verso il cielo e si premette l’altra sopra il cuore. «Sono tornato. Il grandioso Giappone… e…» La sua espressione si fece vacua per un istante. «Ehm… accidenti, è passato troppo tempo dall’ultima volta che ne ho fatto uno…»

«Ma tu sei pazzo» bisbigliò Naito.

«Ma tu sei pazzo» ripeté quell’altro contando con le dita. «Cinque sillabe! Hai un talento naturale!»

Naito decise di aver sentito abbastanza. Si alzò in piedi e fece per allontanarsi, ma il ragazzo lo chiamò. «Aspetta, Naito!»

«Come sai il mio nome?» Naito si voltò lentamente, avvicinando la mano alla wakizashi.

«So molte cose, Naito. O preferisci che ti chiamo Naos…»

«No.»

Il ragazzo ridacchiò di nuovo e sollevò le mani. «Va bene. E Naito sia.» Gli fece cenno di sedersi. «Siediti, coraggio. Non mordo mica. A meno che tu non me lo chieda.» Si sfilò gli occhiali per strizzargli l’occhio. Aveva iridi azzurre, cristalline.

«Perché dovrei chiederti di mordermi?» borbottò Naito, allontanando la mano dalla spada. Si sedette di nuovo, a debita distanza, conscio del fatto che da lì a breve si sarebbe pentito della sua decisione.

«È solo un… modo di dire… non importa.» Lo sconosciuto arrossì appena. Mise via gli occhiali e si appoggiò sul lungomare con i gomiti. «Allora, Naito, che cosa farai adesso?»

«In… in che senso?»

«La tua prossima mossa. Che cosa farai?»

«E a te che diamine importa?»

Lo sconosciuto rise di nuovo. «Gli assomigli tanto, lo sai?»

«A chi?»

«A Edward.» Il ragazzo gli rivolse uno strano sorriso. «Avete… lo stesso sguardo.»

Naito si paralizzò. Per un istante, nella sua mente i capelli e il colore degli occhi di quel tizio mutarono, divenendo più scuri, marroni. Si immaginò quel sorriso trasformato in una smorfia corrucciata e rimase senza parole.

«Sei… sei uno dei fratelli di Edward» bisbigliò, realizzando perché lo sconosciuto emanasse così tanto potere.

Il ragazzo corrucciò la fronte, prima di annuire. «Ah, sì… fratello, certo. Esatto!»

«Ma… che ci fai qui? Pensavo che voi piccoli dei…»

«Su, su, rilassati. Sono qui… per chiacchierare. Puoi stare tranquillo.» Gli rivolse un cenno del braccio. «Allora, non mi hai ancora risposto. Non hai trovato quello che cercavi nelle Tribune. Quindi, qual è la tua prossima mossa?»

«E… e tu come sai…»

«Ha importanza?» Lo sconosciuto alzò un sopracciglio. Per un istante assomigliò anche a Rosa. Avevano visi simili, con gli occhi luminosi e la pelle abbronzata. Naito avvertì uno strano nodo al petto quando pensò a lei.

«Non sono qui per parlare di me, Naito, e credimi, mi piacerebbe tanto farlo. Non hai idea di quante cose incredibili io abbia…» Il ragazzo si fermò, schiarendosi la gola. «Scusa, ho avuto un lapsus. Dicevo, non sono qui per parlare di me. Non ha importanza cosa voglio io. Quello che conta è cosa vuoi tu.» Riportò lo sguardo sui gabbiani che volavano lungo la baia. «Allora? Che cosa farai?»

Naito si strinse nelle spalle. Si era già posto quella domanda da solo, e non aveva trovato nessuna risposta. «Non… non ne ho idea» ammise.

Non sapeva nemmeno perché stesse ascoltando quello sconosciuto, a dire il vero. Poteva anche essere un fratello di Edward, ma non significava che si fidasse davvero di lui. Però non sembrava ostile. Per il momento poteva assecondarlo.

«Potrei… potrei tornare in occidente. Devo dire ad Edward quello che ho scoperto su sua madre…» mormorò, anche se l’idea di tornare in America non lo allettava per niente. Non così, almeno.

«Mh.» Lo sguardo del ragazzino si smarrì nel mare. Nei suoi occhi balenò una durezza improvvisa che rare volte Naito aveva visto in qualcuno. In qualche modo, non seppe spiegarsi come, sembrò anche più vecchio di quello che il suo aspetto giovanile avrebbe lasciato intendere. «Sì… credo che dovresti farlo. Hai in mente anche altro?»

«Voglio…» Naito tacque. Non aveva idea di che altro potesse fare. Unirsi al Re? Distruggere gli dei? Sicuramente non poteva dirlo ad un piccolo dio.

No… c’era qualcos’altro che gli impediva di dire quelle parole. Il fatto che in realtà non volesse farlo davvero. Non voleva partecipare a nessuna guerra, né distruggere alcun dio. Non era bastato tutto quello che gli era successo per farglielo capire? La vendetta era inutile. Combattere, uccidere, versare sangue era inutile, e anche sbagliato.

E poi… non voleva schierarsi di nuovo contro i piccoli dei. Non era giusto. Non voleva… rischiare di combattere ancora contro di Rosa. O Edward. O Konnor. O tutti i loro amici. Doveva… essere meglio di così. Doveva continuare a combattere per la giusta causa. Aveva un dovere da compiere, come mezzosangue, come persona, come samurai.

Questo gli avevano insegnato Konnor ed Edward. Questo gli aveva insegnato Miyamoto tramite il Bushido.

«Voglio… voglio aiutare la mia specie» mormorò, abbassando la testa. «Voglio che tutti capiscano che… che non siamo malvagi, che siamo costretti a combattere per sopravvivere.»

«Molto bene.» Lo sconosciuto sembrò davvero soddisfatto della risposta, per qualsiasi motivo. «E come pensi di fare?»

Naito affondò le dita nel cornicione. «Devo… devo trovare l’elisir. Devo finire questo maledetto viaggio.»

«Sai dove andare?»

La determinazione di Naito si affievolì in un istante. «No…» ammise, afflitto. «Ma… so che non devo fermarmi. Non adesso. Non posso vanificare tutti i miei sforzi in questo modo. Non… non posso rendere vano il sacrificio di…» la sua voce si incrinò.

Una lacrima gli rigò la guancia. Fece per asciugarsela, ma si fermò. La lasciò correre finché non cadde in mare, smarrendosi tra le onde calme. La sua lacrima era insignificante rispetto a quell’oceano. Eppure, il dolore che provava era più forte di uno tsunami.

Kairi.

Faceva ancora male. Perché? Perché doveva fare così tanto male?

La mano dello sconosciuto si posò sulla sua spalla all’improvviso, facendolo trasalire. Era come se si fosse teletrasportato accanto a lui. Fece per ritrarsi, ma incrociò il suo sguardo, e si accorse del suo sorriso gentile. Strane immagini balenarono nella mente di Naito. Immagini… belle. 

Sua madre che gli posava un piatto di ravioli fumanti di fronte, prima di dargli un bacio tra le corna. Konnor che lo lasciava in vita, rivolgendogli uno sguardo di rispetto. Edward che gli stringeva la mano con quel sorrisetto beffardo che Naito all’inizio aveva detestato, ma che poi aveva imparato ad accettare.

Hikaru che gli rivolgeva quello sguardo apprensivo, sollevato. Lui e Kairi che ridevano seduti su quel tetto, la notte in cui si erano conosciuti. Lui che ascoltava le storie del vecchio Musashi, seduto nella sua cucina con un sorriso rilassato.

La voce melodiosa di Rosa che gli provocava un brivido lungo la schiena.

«Io non credo di poterti aiutare con il tuo problema.»

Lo sconosciuto allontanò la mano da lui, facendolo riesumare dalla breve sosta in quelle immagini così strane, così belle. Nonostante le sue parole non smise comunque di rivolgergli quel sorriso che, non importava quanto tragica potesse essere una situazione, sembrava comunque volergli dire che tutto sarebbe andato per il meglio.

«Però, posso dirti una cosa. A volte, la soluzione ai nostri problemi…» Si sfiorò il naso, distendendo quel sorriso rischiaratore. «… si trova proprio sotto al nostro naso.»

«Che… che significa?» domandò Naito.

Quello gli strizzò di nuovo l’occhio. «Significa che conosci già chi ti può aiutare.»

Naito schiuse le labbra. Distolse lo sguardo e lo riportò sul mare in quiete, per riflettere su quelle parole. Chi avrebbe potuto aiutarlo a trovare l’elisir? Tutte le persone che conosceva erano morte, o si trovavano in America, o erano mostri. Tutte…

Spalancò l’occhio. Fu come se un fulmine si fosse abbattuto su di lui. C’era qualcuno che poteva aiutarlo, invece. Qualcuno di saggio e ben informato sul mondo che li circondava. Qualcuno che conosceva.

«Meglio che vada adesso» proseguì il ragazzino, rimettendosi in piedi. Sollevò lo sguardo verso il cielo grigio e una striatura di angoscia gli percorse il volto. «Mi sono trattenuto troppo a lungo. Ma sono felice di averti incontrato, Naito. Farai grandi cose, vedrai.»

Il corpo di Naito ebbe un lieve sussulto. «Ma… chi sei tu?» domandò con un filo di voce. Non poteva essere soltanto un piccolo dio.

Lo sconosciuto gli rivolse un altro sorriso, anche se questa volta non parve davvero felice. Sembrava… triste. Stanco, anche. «Te l’ho detto. Sono un amico di Edward. E se lui si fida di te… allora anch’io mi fido. Qualunque cosa accada, Naito, non arrenderti. Mai. Solo così troverai quello che cerchi.»

Naito rimase in silenzio, non sapendo cosa rispondere. Forse parlava dell’elisir, ma non ne era davvero sicuro. Quelle parole… sembravano avere un significato molto più profondo. Riportò lo sguardo sul mare, riflettendo su ciò che aveva appena capito grazie a quello sconosciuto.

La soluzione era stata di fronte al suo occhio per tutto quel tempo, ma era stato così distratto da tutto il resto che non c’aveva prestato alcuna attenzione. Ora però sapeva cosa fare. Aveva un nuovo obiettivo.

Si voltò di nuovo verso lo sconosciuto per ringraziarlo, ma non lo vide da nessuna parte. Saltò in piedi per lo stupore e si guardò attorno, ma di lui non c’era nessuna traccia, era svanito nel nulla.

L’istinto di Naito lo riportò ad osservare il cielo. Solo in quel momento realizzò che lo sconosciuto stava per chiamarlo Naosuke, quando né Edward né nessun altro dei piccoli dei conosceva quel nome. Il ragazzo strinse i pugni e i denti con forza, scrutando quei nuvoloni cupi con la schiena che formicolava.

«Dōmo arigatō.»

Naito chinò la testa di fronte al cielo, convinto che quello sconosciuto l’avrebbe sentito, chiunque egli fosse.

Poi, cominciò a correre.

 

***

 

Non ricordava l’ultima volta che aveva corso così velocemente. Decine, centinaia di chilometri vennero spazzati via da lui in grandi falcate. Yokohama divenne un ricordo lontano alle sue spalle, così come tutte le montagne che aveva attraversato assieme ad Hachidori. Non aveva un solo istante da perdere.

Viaggiò per un giorno e una notte. La pioggia lo consumò, il vento sferzò su di lui, i morsi della fame lo divorarono. Non si fermò mai, né per mangiare, né per bere, tantomeno per dormire. Fame, sete, freddo e stanchezza erano preoccupazioni secondarie. L’unica cosa che ardeva dentro di lui era il desiderio di rivedere quel vecchio incartapecorito che tanto era stato gentile con lui e che tanto l’aveva aiutato.

Era quasi sera quando percorse quei sentieri che già aveva attraversato settimane prima. Era tutto rimasto invariato, perfino il tempo pareva lo stesso di quando la sua avventura era iniziata. La cascata era ancora lì, i mortali che si avventuravano per i sentieri anche, la città colorata ai piedi della montagna non era mutata di una virgola.

Una sensazione di nostalgia gli percorse il corpo. In un certo senso, fu come tornare a casa per lui.

«Miyamoto!» urlò quando attraversò la radura. Spalancò la porta di casa senza nemmeno bussare. «Miyamoto, sono io! Sono Naosuke!»

La voce del vecchio arrivò dalla cucina, roca e aspra proprio come la ricordava: «Naosuke? Sei davvero tu?»

Un sorriso apparve sul volto di Naito. Irruppe in cucina senza nemmeno togliersi gli stivali.

«Ho così tante cose da dirle che…» Tacque non appena entrò nella stanza. Il vecchio Musashi era lì, seduto al tavolino con una tazzina fumante tra le mani, il viso rugoso come non mai, lo yukata blu indosso e il bokken e la kiseru poco distanti.

E non era da solo.

Dall’altra parte del tavolino c’era una donna. Anzi, senza il kimono nero e il corpetto d’armatura appariva più come una ragazza che non poteva essere molto più grande di Naito, con lunghi capelli ebano e degli sfregi sulle guance.

«Tu?!» esclamò Naito.

Non appena lei incrociò il suo sguardo divenne più rossa del vecchio Musashi quando mangiava piccante. Abbassò la testa imbarazzata, senza rispondergli, e prese un sorso nervoso dalla tazzina che anche lei stava stringendo.

«Ma… ma…» cominciò Naito, senza trovare le giuste parole. Fece vagare lo sguardo tra Miyamoto e lei, incredulo. «Che ci fai qui?!»

«È venuta a trovarmi questa mattina!» esclamò il vecchio Musashi tirandosi in piedi, sorridente come se fosse tutto normalissimo per lui, prima di corrucciarsi. «E a lei piace il mio infuso, a differenza tua!»

Ci volle ancora qualche istante prima che Naito si riprendesse dallo stupore. Poi realizzò che lei non stava cercando di ucciderlo, anzi sembrava molto più presa da quel liquame arancione, perciò poteva preoccuparsene più tardi.

«Miyamoto, devo chiederle una…» Fece un passo in avanti, ma una stanchezza terribile lo assalì. Le gambe cedettero contro il suo volere e si ritrovò a precipitare. Si sarebbe schiantato con la faccia sul pavimento se Meishu non l’avesse afferrato al volo per i fianchi. Aveva posato la tazzina e si era alzata in un baleno, con una prontezza di riflessi incredibile.

«G-Grazie» sussurrò Naito, trovandosi all’altezza del suo viso.

«P-Prego» replicò lei, sembrando, per quanto possibile, anche più imbarazzata di lui. Lo aiutò a sedersi al tavolo e i morsi della fame lo assalirono con la forza di un terremoto.

«Naosuke, hai una pessima cera» commentò molto delicatamente il vecchio Musashi, mentre si sedeva di nuovo. «Dovresti mangiare qualcosa. E cambiarti quei vestiti. E farti anche un bagno, magari.»

Quelle parole fecero interrogare Naito sulle effettive capacità visive del vecchio. «Non... non c’è tempo! Ho bisogno di sapere…»

«Niente discussioni» obiettò il vecchio Musashi, alzando una mano grinzosa. «Ti sei precipitato in casa mia in condizioni indecenti senza nemmeno salutare come si deve. Avrei potuto sorvolare se ci fossimo trovati in una situazione comune, ma abbiamo un’ospite, come avrai potuto notare. Impara po’ di buone maniere, Naosuke.»

Meishu arrossì di nuovo. «N-Non è un problema, davver…»

«Vai a farti un bagno. E dopo mangia qualcosa. Poi potremo parlare» continuò il vecchio Musashi, perentorio.

Naito spalancò la bocca. «Ma… ma Miyamoto…»

«Ti va di aiutarlo, Ami?»

Le proteste di Naito si chetarono all’improvviso. Spostò lo sguardo su Meishu, che sembrava voler sprofondare nel pavimento. «Ami?!»

Lei sospirò e si alzò in piedi, porgendogli una mano. Naito la afferrò come in trance e si fece accompagnare verso il bagno.

«Non… non sono più Meishu» gli spiegò, facendo di tutto per non guardarlo mentre lo aiutava a camminare.

Naito si accorse che ora sulla guancia “sana” non aveva più due segni, ma tre. Tre lunghe linee rosa. Corrucciò la fronte, ma prima che potesse chiederle altro erano arrivati. Si appoggiò alla vasca con una smorfia di dolore e Meishu, o Ami, gli sfiorò il fianco. «Lo sai che stai sanguinando?»

«Eh?» Naito abbassò lo sguardo, accorgendosi dell’happi di Sōjōbō intriso di sangue, nel punto dove Kagu-Tsuchi l’aveva colpito. La ferita doveva essersi riaperta mentre correva e le fasce di fortuna non erano servite a molto. Tutto ad un tratto capì perché il vecchio Musashi avesse reagito in quel modo. In effetti non era proprio in condizioni accettabili per stare in un salotto. «Ehm… sì, lo sapevo…» bisbigliò, sentendosi soffocare.

Ami sollevò un sopracciglio, ma gli rivolse comunque un timido sorriso. «Sono… sono felice di rivederti» disse all’improvviso.

Quella era l’ultima cosa che Naito si sarebbe aspettato di sentire da lei. Incrociò il suo sguardo e si rese conto di non aver mai notato il colore dei suoi occhi, prima di allora. Erano proprio come il cielo estivo.

«Grazie» mormorò, incapace di trovare parole migliori.

«Dov’è… dov’è Hachidori?»

L’espressione di Naito dovette parlare per lui. Si irrigidì e strinse con forza il bordo della vasca, prima di sussurrare a fatica: «Hachidori… sapeva a cosa andava incontro.»

Scorse a malapena Ami mentre abbassava la testa. «Mi dispiace.»

Naito annuì, senza guardarla. Ami non indagò oltre e lui le fu grato per questo. Sentiva che se avesse pensato ancora a Kairi sarebbe crollato.

«Che… che significa che non sei più Meishu?» le domandò dopo un attimo di silenzio.

Una strana ombra balenò sul viso di Ami. Puntò l’indice verso i tre tagli sulla sua guancia tonda. «Dovevo catturarti, ma ho fallito tre volte. La punizione per chi fallisce tre volte è l’esilio dal clan.» Inspirò profondamente. «Non sono più Meishu. Sono di nuovo… me. Ami Yamamoto.»

Molte cose furono chiare a Naito quando udì quelle parole. Ecco perché Meishu aveva due tagli sulla guancia, alle rovine di Hachiōji. Ed ecco perché le sue compagne erano sembrate così angosciate quando aveva deciso di non affrontare più lui e Hachidori. Sapevano che lei sarebbe stata esiliata. Lei stessa aveva detto di stare rinunciando a tutto, ma li aveva comunque lasciati andare. Naito avvertì una strana fitta allo stomaco, colpito dal suo senso dell’onore.

«Ma… perché sei qui?»

«Non… non sapevo dove altro andare.» Ami si strinse nelle spalle. «Quando entri a far parte del Clan Tsubaki devi esprimere un giuramento e dimenticare la tua vita passata. Amici, famiglia, casa, tutto. Devi lasciarti ogni cosa alle spalle e ricominciare da zero. La tua unica casa e la tua unica famiglia sono il clan. Puoi sceglierti un nome e quello diventa la tua nuova identità, altrimenti te ne danno uno loro. E se vieni esiliato…»

«Devi ripartire di nuovo da capo» concluse Naito.

Ami annuì. «La mia famiglia è morta molto tempo fa, Nao… Naito. Sono entrata nel Clan Tsubaki perché non avevo più nulla. E adesso non ho nemmeno più il clan.»

«Sono… sono stati i mostri?»

La sua vecchia cacciatrice non rispose. Il dolore nei suoi occhi raccontò tutto quello che c’era da sapere.

«Mi dispiace» sussurrò Naito. I mortali che aveva ucciso a Tokyo balenarono nella sua mente. Strinse gli occhi, cercando di scacciarli, ma gli fu impossibile. Sentì la propria pelle accapponarsi.

«Non… non devi.» Ami prese una grossa boccata d’aria, prima di rivolgergli un altro sorriso. Sembrava avergli letto nel pensiero. «Tu… mi hai salvata. Non sei come loro.»

Naito la osservò per qualche istante, prima di annuire. Sì, invece. Era proprio come loro. Come Orochi, come suo padre, come tutti gli altri.

Ami aveva perso la sua seconda famiglia per lasciare in vita un mostro, un assassino. Se l’avesse saputo non sarebbe stata così gentile con lui, e Naito non avrebbe potuto biasimarla per questo.

«Ti lascerò dei vestiti puliti davanti alla porta» concluse Ami mentre apriva l’acqua della vasca. «Quelli mettili in quella cesta.» Indicò un cesto di vimini in un angolo del bagno, prima di fare un sorrisetto. «Così possiamo bruciarli.»

Il ragazzo corrucciò la fronte, ma poi lei rise. Non era il tipo di risata a cui l’aveva abituato però, fredda e maliziosa. Era molto più genuina.

«Sto scherzando.» Ami gli sorrise un’altra volta, gesto che lui si ritrovò a ricambiare senza neanche accorgersene.

Quando Ami uscì dal bagno, Naito afferrò una botticina di bagnoschiuma sul bordo della vasca e se ne mangiò un po’, prima di svuotare il resto nell’acqua senza troppi complimenti e creando così una montagna impressionante di schiuma. Visto che il vecchio Musashi l’aveva costretto a fare un bagno, tanto valeva che se lo godesse.

Le sue ferite sussultarono quando entrò in contatto con l’acqua calda, ma il fastidio divenne ben presto sollievo. Lavò la pelle incrostata di polvere accumulata nei tunnel, sangue e sudore, sentendosi decisamente meglio. Soltanto dopo essersi fermato realizzò quanto gli era costata quella corsa attraverso mezzo paese. Sentiva le gambe intorpidite, i piedi distrutti e, soprattutto, aveva così tanta fame che si sarebbe potuto mangiare un wagyū2 intero.

Fuori dalla vasca controllò le sue ferite di fronte allo specchio. A parte quella sul fianco che si era riaperta – ma che non stava più sanguinando – il resto si era quasi rimarginato del tutto. Rimase concentrato sul suo aspetto. Era pallido, con il fisico secco e asciutto. Era così magro che i muscoli del petto e delle braccia sembravano voler irrompere fuori dalla pelle. Visto così sembrava molto definito, ma in realtà non era nemmeno paragonabile a un oni adulto come suo padre. Alcune vene sporgevano qua e là lungo il viso e il collo, intervallate dai molteplici graffi e cicatrici accumulati durante gli anni con Orochi.

I capelli neri come la pece erano cresciuti ancora, arrivando fino al collo. Per un istante pensò di legarli in una coda rivolta verso l’alto, come quelle dei samurai che aveva incontrato, ma poi accantonò l’idea. Preferiva tenerli sciolti.

Ami gli lasciò dei pantaloni e una camicia neri, assieme a un happi blu scuro. Tornò in cucina con i capelli bagnati e le gambe intorpidite, trovando il vecchio Musashi che le stava raccontando chissà cosa. Doveva essere una storia divertente, perché lei stava ridacchiando.

«Eccoti, finalmente» sorrise Miyamoto. Gli indicò una ciotola di ramen fumante che sembrava aspettare solo lui. «Questo è per te. Mangia, forza.»

Lo stomaco di Naito borbottò alla sola vista di quella pietanza.

«Di che parlavate?» domandò, ignorando completamente le bacchette che gli avevano lasciato e portandosi la ciotola alla bocca. Quel cibo caldo fu come una carezza gentile per il suo stomaco stanco e ferito. Il bagno l’aveva fatto stare meglio, ma quella bontà lo fece rinascere.

«Le stavo dicendo di prepararsi ai versi che fai a tavola» rispose il vecchio mentre Naito si abbuffava come suo solito. Allontanò la ciotola di scatto, accorgendosi dello sguardo divertito di Ami. Se le sue guance avessero potuto andare a fuoco, l’avrebbero fatto.

«Non… non è divertente…» si lamentò imbarazzato, ma non dovette sembrare molto convincente. Ami si coprì la bocca prima di ridere un’altra volta.

«Ami mi ha raccontato quello che è successo alle rovine di Hachiōji» proseguì il vecchio Musashi, con un ampio sorriso. «Ben fatto, figliolo. Sei tornato ad aiutarla nonostante i vostri trascorsi, come un vero samurai. E anche tu, Ami» aggiunse, spostando lo sguardo su di lei. «Ciò che hai fatto ti rende onore.»

«La… la ringrazio» mormorò lei. «E… la ringrazio anche per avermi ospitata.»

«Non avrei mai potuto abbandonare una giovane e promettente kunoichi come te in difficoltà» rispose Miyamoto con un sorriso.

Ami sembrò arrossire di nuovo. «Non… non mi sembra ancora vero di trovarmi al suo cospetto. Da bambina ho letto tutti i suoi libri, sa? È… sempre stato d’ispirazione, per me.»

Miyamoto chinò il capo. «Sono onorato di sentirlo.»

Naito finì di spazzare via il ramen proprio in quel momento. «Miyamoto» disse senza nemmeno riprendere fiato. «Detesto interrompervi, ma ho bisogno che mi ascolti. Devo… devo chiederti una cosa.»

«Ma certo figliolo, chiedi pure.»

Naito si mordicchiò un labbro, ponderando sulle parole giuste da usare. Si accorse che anche Ami lo stava guardando incuriosita e sospirò. «Forse è meglio partire dall’inizio.»

Raccontò tutto quanto. Parlò del viaggio tra le montagne, del bambino che aveva salvato, del suo scontro con suo padre Ōtakemaru – a cui Ami reagì spalancando gli occhi – di Hachidori, la Valle dell’Inferno, ogni cosa. Quando arrivò alla parte del Santuario Meiji esitò. Non voleva raccontare cosa fosse successo là, per paura di quello che avrebbe potuto scatenare. Miyamoto era stato gentile con lui e Ami… non stavano cercando di uccidersi a vicenda, e gli sarebbe piaciuto che le cose rimanessero così.

Ma avrebbe davvero potuto mentire, omettere quella parte? Non era giusto nei loro confronti. Il Bushido non gliel’avrebbe permesso. Aveva promesso che avrebbe seguito quei valori e l’avrebbe fatto, non gli importava se potessero ritorcersi contro di lui. Se voleva migliorare, doveva anche accettare le conseguenze delle sue azioni.

Così prese un lungo respiro e parlò di Kagu-Tsuchi, di quello che aveva fatto quando era bambino, della morte di Akane e del motivo per cui Naito era diventato quello che era diventato, fino ad arrivare allo scontro al Santuario Meiji.

Ami inorridì durante quella parte. Miyamoto invece abbassò la testa e unì le mani in segno di preghiera.

«Mi… mi dispiace» sussurrò Naito, incapace di sostenere quelle reazioni. «So che ho sbagliato. Ma… ero… privo di controllo. Non… non ho potuto…» Si osservò le mani che tremolavano sulle ginocchia. «Quando… quando Kagu-Tsuchi ha ucciso Hachidori io…»

Non riuscì a continuare. Rimase in silenzio, in attesa. L’aria sembrò farsi molto più pesante. Aveva risucchiato via tutto il buonumore e aveva portato ancora una volta i suoi problemi in casa di altri, guastando le loro vite con quella nebbia di morte che girava attorno a lui. Miyamoto probabilmente l’avrebbe sbattuto fuori, o peggio, ma non gli importava: preferiva essere solo ma con la coscienza pulita, piuttosto che mentire a quell’uomo.

«Naosuke.»

Naito drizzò la testa, incrociando lo sguardo di Miyamoto. Era severo come rare volte l’aveva visto.

«Sei stato molto coraggioso a raccontare la verità. Se ci avessi mentito, noi non l’avremmo saputo. Avresti potuto uscirne pulito ai nostri occhi. Ma tu hai scelto la strada più ardua. Sei stato onesto, come un vero samurai.»

«Un samurai è gentile con i propri nemici.» Naito affondò le dita nelle ginocchia. «Io non lo sono stato. Non sono un vero samurai. Non sono… niente. Ciò che ho fatto è imperdonabile. E infatti… infatti non sono qui per cercare perdono. Il perdono per me non esiste più. Ma… ma posso ancora fare qualcosa… per impedire che questo accada di nuovo. Posso aiutare quelli come me ad ottenere la vita che meritano. Liberi, privi di vessazioni. Pagherò per quello che ho fatto. Lo farò senz’altro. Ma prima… prima devo salvare quelli come me. Prima che facciano la mia stessa fine. Prima che… altro sangue venga versato.»

«Sì, capisco. Vuoi farlo perché hai un dovere nei loro confronti.»

Naito annuì senza più guardarlo. Si accorse che Ami lo stava guardando con espressione indecifrabile. Sembrava arrabbiata, e con tutte le ragioni per esserlo.

«Che cosa vuoi dire, Ami?»

La voce di Miyamoto la fece sussultare. Si riscosse in fretta però, e scrutò Naito direttamente negli occhi. Ponderò ancora per qualche istante sulle parole, poi chiuse le palpebre per concentrarsi. «Quando… quando sono entrata nel Clan Tsubaki… credevo di sapere che cosa fosse giusto e cosa fosse sbagliato. I mostri avevano ucciso la mia famiglia e io li odiavo con tutta me stessa. Li odiavo perché… mi avevano portato via tutto. Il clan è diventato la mia nuova famiglia. Erano mie amiche, mie sorelle. Con loro ho dato la caccia ai mostri in tutto il Giappone per anni. Finché… finché…»

Ami abbassò lo sguardo. «… finché uno di loro non mi ha salvato la vita. Lo stesso giorno, ho perso la fiducia e il rispetto delle mie sorelle e sono stata esiliata dalla mia seconda famiglia. In un solo giorno… tutto quello in cui credevo è andato in fumo.»

Naito schiuse le labbra, mentre lei tornava a guardarlo seria in volto.

«Mi hanno insegnato che i mostri non piangono. Che non hanno amici. Che godono del dolore altrui. Tu però soffri per quello che hai fatto, Naito. Hai pianto per tua madre. Hai pianto per Hachidori, che era tua amica. E stai piangendo anche adesso.»

Il ragazzo si accorse delle lacrime scese dal suo occhio. Se le sfiorò con le dita, senza distogliere lo sguardo da Ami.

«Per tutto questo tempo in cui ti ho dato la caccia, tu non hai mai voluto affrontarmi davvero. Hai sempre cercato di evitare lo scontro perché non volevi farmi del male. Hai salvato quel bambino e hai salvato anche me. E poi… hai ucciso quegli uomini. Gli stessi che avevano ucciso tua madre e che ti avevano portato via tutto quanto proprio com’è successo a me. Uomini, non mostri. Hai cercato di evitare lo scontro con loro, proprio come con me, ma non ti hanno lasciato scelta. Io…»

Ami scosse la testa. «Io non lo so, Naito, se ciò che hai fatto ti rende buono o cattivo. Non lo so se è giusto o sbagliato. Ma so che… che avevi tutto da perdere e niente da guadagnare raccontandoci questa storia, però l’hai fatto comunque. Dovrà pur significare qualcosa.»

Riportò lo sguardo su Miyamoto. «Questo… questo è quello che avevo da dire.»

«Mh…» Il vecchio assottigliò le palpebre, scrutandola con intensità. La ragazza si irrigidì, ma prima che potesse dire altro lui le sorrise. «Ben detto, Ami.»

Ami arrossì di nuovo e chinò la testa farfugliando qualche ringraziamento, mentre Naito faceva vagare lo sguardo dall’uno all’altra senza più capirci nulla.

«Figliolo» lo chiamò Miyamoto. «Sono felice davvero che tu stia cercando di seguire i principi del Bushido. Da quello che mi hai detto, mi pare chiaro che per te siano molto importanti. Ma esistono momenti in cui nemmeno il Bushido è una legge infallibile. Secondo il Bushido esistono soltanto bianco e nero, bene e male, ma la vita non è solo o l’uno o l’altro. Non esiste solo una cosa. Bene e male, uomini e mostri...»

Il vecchio lo indicò con la kiseru. «… mezzosangue. La vita è tutto questo e molto di più. La vita è fatta di scelte, scelte difficili, molto spesso, che ci portano a dubitare di ciò in cui crediamo realmente, che ci portano a dubitare dei nostri principi. Ed è come ci poniamo di fronte a quelle scelte, che capiamo chi siamo noi davvero. Nonostante i tuoi errori, nonostante i tuoi sbagli, nonostante il male che credi di aver fatto, hai comunque perseverato. Non hai mai distolto il tuo sguardo dall’obiettivo principale, da ciò che vuoi realmente.»

Naito avvertì un brivido udendo quelle parole così familiari. Ciò che voleva realmente. Ciò che contava di più in assoluto.

«Aiutare quelli come te. Per impedire che altri spargimenti di sangue avvengano. Per diventare una persona migliore. Credi di non meritare perdono, credi di essere condannato, ma vuoi comunque salvare la tua gente perché hai un dovere nei loro confronti.»

Miyamoto cominciò a sollevare le dita mentre parlava. «Credi di aver infranto i valori del Bushido, ma durante questo viaggio, Naosuke, sei stato scrupolosamente onesto. Sei stato eroico quando hai salvato quel bambino. Sei stato compassionevole verso quella madre disperata. Sei stato sincero quando hai detto che ci saremmo rivisti. Sei stato onorevole in ogni situazione in cui ti è stato concesso di esserlo. Sei stato gentile verso i tuoi nemici, quando ti è stato concesso. E sei rimasto leale alla tua causa.»

Gli sorrise. Aveva sette dita alzate, una per ogni principio del Bushido. «Puoi credere di non meritare più perdono, puoi credere di non poter diventare mai un samurai, puoi credere di aver smarrito la retta via, ma sappi che invece non l’hai mai, mai, lasciata. Hai seguito i sette principi, sia nel bene che nel male, e sei giunto fino a qui. Ora di fronte a me non c’è più quel ragazzo smarrito che ho conosciuto qualche settimana fa, quello che non sapeva che cosa voleva essere: di fronte a me c’è qualcuno che sa quello che vuole, che è disposto a combattere per averlo e che è disposto a farlo in maniera onorevole. Di fronte a me c’è un uomo. Un futuro samurai di prim’ordine.»

Mentre osservava il vecchio fumare la pipa come se nulla fosse, Naito pensò di trovarsi in un’allucinazione. Sentì le labbra tremolargli di nuovo.

«Bada bene, Naosuke.» Miyamoto sollevò un indice prima che il buonumore lo contagiasse troppo. «Quello che hai fatto è grave e ci saranno conseguenze, su questo non ho dubbi. Ma vedo che sei disposto ad accettarle e questo ti rende immenso onore. Ho detto che di fronte a me c’è un futuro samurai e lo penso davvero, ma sappi che quel giorno è molto lontano e sappi anche che, da questo momento in poi, la tua strada sarà ancora più tortuosa.»

Quella doveva essere la prima volta in cui il vecchio lo rimproverava. Naito abbassò di nuovo la testa e annuì in imbarazzo, anche se, in un certo senso, quel rimprovero lo fece sentire meglio: significava che Miyamoto davvero credeva in lui.

«Sei ancora in tempo ad abbandonare tutto, Naosuke. Puoi scappare. Io non ti cercherò né denuncerò. Nemmeno Ami lo farà. Puoi essere ancora libero, se vuoi.»

«Non intendo scappare» rispose subito Naito. «Neanche per sogno.»

Miyamoto sorrise: quella era proprio la risposta che voleva sentire. «Molto bene, figliolo.»

Ami gli posò una mano sulla spalla, rivolgendogli un cenno. A quel punto anche Naito riuscì a sorridere incredulo. «Grazie… a tutti e due, grazie.»

Una nuvoletta di fumo li investì entrambi, strappandogli dei versi di sorpresa.

«Di niente» gracchiò Miyamoto, riportandosi la pipa alla bocca. «Allora figliolo, stavi dicendo? Cos’è successo dopo il Santuario Meiji? Forza che sono curioso!»

Naito fece una smorfia e scacciò via il fumo, mentre Ami tossicchiava. Fu un sollievo per lui andare avanti e potersi lasciare i fatti di Tokyo alle spalle. Quelle azioni lo avrebbero tormentato ancora, ma sapere di non aver perso la fiducia in Miyamoto fu molto rincuorante. Così concluse il racconto, parlando delle Tribune e di Ibaraki.

«Ibaraki?!» Ami sgranò gli occhi. Sembrava aver appena visto… Ibaraki stessa.

«La conosci?» domandò Naito.

«I-Io… sì, certo che la conosco. Ci siamo imbattute anche in lei, un paio di volte.» La ragazza rabbrividì. «Non è mai finita bene… è molto, molto pericolosa. Anche se… hai detto… “Re”?»

«Sì…»

Ami si carezzò le cicatrici sulla guancia, incupendosi. Scambiò un’occhiata con Miyamoto, che annuì.

«Ma… come? Dovrebbe essere morto!» protestò lei.

«Anch’io dovrei esserlo. Eppure eccomi qui.»

«Ehm… che state facendo? Voi due sapete qualcosa?» si intromise Naito.

«Il Re è uno dei demoni più pericolosi che si siano mai visti» cominciò il vecchio Musashi, buttando fuori altro fumo. «Le leggende dicono che è stato ucciso molti secoli fa. Tuttavia, tu hai conosciuto Ibaraki, la sua vice e compagna. E hai detto che sono stanziati sul monte Ōeyama, che è proprio la casa su cui il Re era stanziato ai tempi in cui è stato sconfitto la prima volta. Non ci sono dubbi, si tratta proprio di lui.»

«Ma… ma chi è?»

Ami e il vecchio Musashi si scambiarono un altro sguardo. Lei sembrava in procinto di svenire, o di vomitare, o tutte e due le cose.

Il vecchio invece era grinzoso e impassibile come sempre. «La verità è pericolosa, Naosuke» disse infine. «Scusa davvero figliolo, ma non credo sia bene che tu conosca la sua reale identità. Non dopo tutto quello che hai trascorso, non solo negli ultimi giorni, ma per tutta la vita. Posso dirti, tuttavia, che è qualcuno che conosce bene Yamata no Orochi. Qualcuno che di certo non ha preso bene la sua morte.»

Naito sussultò. Ripensò alle parole di Ibaraki. Il Re aveva catturato Kate Model perché cercava la spada. E Orochi aveva scoperto dove quella donna si trovasse, ma non l’aveva rivelato a nessuno. Quindi… quindi quei due erano in contatto già da molto tempo. Ma perché non avevano unito le forze?

Una mano si posò di nuovo sulla sua spalla. Ami lo guardò angosciata. «Ti senti bene?»

«Sì, sì» mormorò lui dopo un attimo di esitazione, anche se non pensò di essere molto convincente.

«Se il Re ti sta dando la caccia, Naosuke, faresti meglio a svanire al più presto» concluse Miyamoto, grattandosi la barba. «Non credo che si arrenderà tanto facilmente.»

Naito fece alla smorfia. Già, era giunto a una conclusione simile anche lui.

«Ma non siamo qui per parlare del Re, giusto? A te interessa l’elisir.»

La voce di Miyamoto lo fece riscuotere. Con tutte quelle discussioni aveva quasi scordato perché era corso lì. «Ecco… tu… lei ha detto che, se avesse saputo che le leggende erano reali, avrebbe potuto cercare “qualcosa” per darlo ai suoi cari. Ha anche detto che la morte non si può curare, ma solo prevenire. Si… si riferiva all’elisir, vero?»

Miyamoto sbuffò fuori del fumo, poi annuì. «Sì, mi riferivo a quello.»

Il ragazzo ebbe un tuffo al cuore. «Lei… lei sa dove si trova?»

«Sapere è un concetto molto astratto, quando si parla di questo genere di cose, figliolo.»

Naito corrucciò la fronte.

«Significa che non è una risposta semplice da dare» spiegò Ami con voce paziente.

«O-Oh… l’avevo capito.» Naito pensò di poter morire per l’imbarazzo.

«In ogni caso, permettetevi di fornirvi un quadro più generale affinché possiate capire appieno da dove provengono i miei ragionamenti. Dunque, posso dirvi che nel corso di questi secoli ho capito un paio di cose importanti. La principale è che non esiste mai una sola versione dei fatti. Molto spesso, la verità risiede nel mezzo. Un’altra cosa che ho capito, poi, è che molto spesso tendiamo a copiarci gli uni con gli altri. Per esempio, greci e romani. Oppure, cinesi e giapponesi.»

Miyamoto sorrise. «L’elisir è una leggenda cinese, dico bene? Beh… sì, è vero, lo è. E allo stesso tempo… no, non proprio. Non è solo cinese, almeno. Fa anche parte della cultura araba. Quella europea. Gli stessi greci hanno la loro versione dell’elisir, che chiamano “Nettare e Ambrosia.” Quindi, perché anche il Giappone non dovrebbe averlo?»

Sembrava diventata una lezione di storia. Ami e Naito si scambiarono uno sguardo, perplessi. Inginocchiati al tavolino, di fronte al vecchio Musashi, parevano quasi dei suoi allievi.

«Per comprendere davvero se l’elisir esiste o meno, abbiamo bisogno di considerare anche altre leggende. Noi, ora, faremo riferimento a due di esse in particolare, che potrebbero sembrare slegate, ma in realtà non lo sono affatto, e presto capirete il motivo: la prima è quella del Coniglio Lunare. La conoscete?»

«Io… sì, credo di sì» mormorò Ami. «Parla di un viaggiatore, anziano e stanco, che dopo un lungo viaggio si fermò in una foresta abitata da una scimmia, uno sciacallo, una lontra e un coniglio. Era così stremato che chiese loro aiuto. La scimmia, lo sciacallo e la lontra gli procurarono frutta, pesce e carne. Il coniglio, invece, essendo capace solo di raccogliere erba che non sarebbe servita, decise di gettarsi nelle fiamme di un falò per donare sé stesso al viaggiatore. Meravigliata dal suo sacrificio, la dea cinese della luna Chang’e lo immortalò sulla luna, con una sagoma che è visibile tutt’oggi.»

«Molto bene» annuì Miyamoto, con un sorriso. Ami si impettì, lanciando un’occhiatina compiaciuta a Naito, che roteò gli occhi.

«Questa è la versione più famosa. Ma non è quella di cui abbiamo bisogno noi» proseguì il vecchio Musashi. Il sorriso svanì dal volto di Ami rapido com’era apparso e Naito sghignazzò.

«Esiste un’altra versione» proseguì l’uomo, dopo aver sorseggiato un po’ di infuso. «Parla di un uomo che abitava sulla luna e che un giorno decise di scendere sulla terra. Un uomo molto affamato, che si imbatté in questi animali. Non c’erano lo sciacallo e la lontra, ma una volpe e di nuovo la scimmia e il coniglio. Il resto è pressappoco identico, la scimmia e la volpe gli procurarono del cibo e il coniglio si sacrificò. Qui la storia diverge. Non viene fatta alcuna menzione della dea Chang’e. Viene solo detto che l’uomo che viveva sulla luna, commosso dal sacrificio del coniglio, decise di portarlo con sé proprio sulla luna, rendendolo immortale. E non solo. L’uomo gli diede un pastello ed un mortaio, secondo alcuni per aiutarlo a creare impasti di riso, secondo altri, invece, proprio per creare l’elisir. Ora, Naosuke…»

Miyamoto gli rivolse un cenno del capo. «Ricordi l’ultima leggenda che ti ho raccontato? Quella dei tre fratelli?»

Non appena la menzionò, Naito spalancò l’occhio. L’uomo sulla luna, affamato, che scese sulla terra. «Tsukuyomi» sussurrò incredulo.

«Esatto Naosuke. Tsukuyomi scese sulla terra, mandato da Amaterasu per partecipare a quel banchetto dove uccise la dea del cibo. Venne esiliato dal regno degli dei per questo e dunque si ritirò nell’unico altro luogo in cui poteva andare: il suo regno, la luna. Tempo dopo, affamato, scese di nuovo sulla terra in cerca di cibo, ma non avrebbe potuto chiederlo a nessuno per via di ciò che aveva fatto ad Ukemochi. E questo ci conduce alla leggenda del Coniglio Lunare.»

Il vecchio Musashi bevve un altro sorso. «Per molti, non esiste alcun collegamento tra queste due leggende. È solo… una coincidenza, per così dire. Ma non esistono le coincidenze, quando si tratta di dei e miti. La verità sta sempre nel mezzo, miei cari. E secondo me, l’elisir esiste davvero. E Chang’e, non me ne voglia a male, non c’entra nulla con tutto questo. Tsukuyomi è il dio stai cercando. Trova Tsukuyomi e troverai l’elisir.»

Naito rimase senza parole. Il vecchio Musashi aveva trovato la soluzione così in fretta che non sapeva nemmeno come reagire. Ma dopotutto aveva vissuto quattrocento anni, e a quanto pareva era stato un maestro per moltissimi allievi. Chissà quante altre cose incredibili sapeva.

Sorgeva un problema, però: Tsukuyomi non era un dio gentile, stando ai racconti che giravano su di lui. Aveva ucciso Ukemochi, a ragione o torto non era importante. Aveva litigato con Amaterasu, motivo per cui Naito sentiva che fosse lui il dio traditore, e per di più era esiliato. Trovarlo non sarebbe stato affatto semplice e, ammesso che ci fosse riuscito, non credeva proprio che l’avrebbe aiutato.

Allo stesso tempo, quella era l’unica opzione che aveva. E sembrava anche la più plausibile. Non c’erano dicerie o satori di mezzo, era il vecchio Musashi a crederlo, e se lui ci credeva, allora anche Naito l’avrebbe fatto.

«Va bene» annuì, determinato. «Come posso trovarlo?»

«Si potrebbe contattare in un suo santuario» suggerì Ami. «A Kyoto c’è il santuario Matsunoo Taisha, con un altare dedicato a lui.»

«Non credo proprio che risponderebbe» replicò il vecchio Musashi. «Tsukuyomi… non è qualcuno di molto attento agli uomini. Perché dovrebbe, dopo essere stato esiliato? Ormai è un dio solo di nome, non adempie più ai suoi doveri. L’unico modo per farsi ascoltare da lui, è incontrarlo di persona.»

«Dove?» chiese Naito.

Miyamoto prese un’altra boccata dalla pipa. Sbuffò un’altra nuvoletta di fumo, con una calma straziante, mentre Naito e Ami aspettavano trepidanti la sua risposta.

«Questa è una bella domanda» disse poi. «Per trovare la risposta, dobbiamo basarci su quello che sappiamo. Sappiamo che Tsukuyomi è l’uomo sceso dalla luna. Sappiamo che è stato esiliato dal Takama-ga-hara. E, questa cosa la imparerete adesso, il Takama-ga-hara non si trova davvero nella stratosfera, in un luogo inaccessibile. La casa degli dei si trova proprio sopra il monte Takamagahara, qui in Giappone, ed è accessibile tramite un ponte celeste sospeso nell’aria. Il fatto che chiunque non invitato provi ad attraversalo venga scaraventato giù in un attimo… quello è un altro discorso, non è rilevante, al momento. Quello che conta, è sapere che la casa degli dei si trova sopra un monte.»

Naito cominciò a seguire il ragionamento. «Crede… crede che Tsukuyomi sia sopra un altro monte?»

«È quello che penso, sì.»

«Ma… e quella storia su di lui che scese dalla Luna?» si intromise Ami. «Non sarebbe più plausibile che lui… sì, insomma, abiti sulla Luna?»

«E come dovrei arrivarci, sulla Luna?» ribatté Naito.

«Cerco solo di essere razionale, Naos… Naito» borbottò lei. «Tsukuyomi è il dio della Luna. Ed è sceso dalla Luna, secondo il mito. Quindi perché non…»

«Per lo stesso motivo per cui Amaterasu non vive sul Sole, mia cara. Nel bene e nel male, i kami hanno bisogno di avere un collegamento con la Terra. Dopotutto è qui che vengono venerati, non nel cielo» spiegò Miyamoto. «Ma ciò che dici è sensato, Ami. Tsukuyomi non vivrà sulla “Luna”, ma credo che, tra tutti i monti che potrebbe scegliere dove abitare, ne voglia uno che sia molto vicino ad essa. Un luogo che… lo faccia sentire a casa.»

«Il Monte Fuji» sussurrò allora Ami. «È il monte più alto del Giappone, quasi il doppio del Monte Takamagahara. Tra tutti, è quello che più si avvicina alla Luna.»

Miyamoto sorrise. «Esatto.»

«Il Monte Fuji» ripeté Naito. Assottigliò le labbra e si alzò in piedi. «Posso farcela in un giorno.»

«Uh? Un momento, vuoi partire subito?» domandò il vecchio Musashi, sbigottito.

«Io…» Naito non riuscì a reggere il suo sguardo. «Mi dispiace, Miyamoto, ma non posso trattenermi. L’ho già messa in pericolo una volta, non posso permettere che accada di nuovo. Specialmente dopo quello che è successo a Tokyo.»

«Mhh…» Il vecchio Musashi si accarezzò la barba. «Sì, capisco. Allora, permettimi di salutarti come si deve.»

Si alzò dal tavolo e andò a rovistare nella cucina, tornando poco dopo con una fiasca di sakè e tre bicchieri. Ne consegnò uno ad Ami e uno a Naito e poi tornò al suo posto. Li servì entrambi e poi riempì il proprio.

«Un brindisi. Rendiamo onore a te, Naosuke, all’uomo che stai diventando. Rendiamo onore ai compagni caduti…» Lanciò uno sguardo di solidarietà a Naito, che lo colpì nel profondo, molto più forte di quanto avrebbe voluto. «… e a quelli trovati» concluse, sorridendo ad Ami.

La ragazza ricambiò il sorriso, scambiandosi uno sguardo prima con lui, poi con Naito. Sembrava genuinamente felice.

Miyamoto alzò il bicchiere, tenendolo con una mano e appoggiando le dita dell’altra sotto la base. Chinò la testa verso di loro e Ami lo imitò. Naito, che non aveva mai fatto niente del genere, si ritrovò a emularli un po’ imbarazzato, ma comunque incapace di contenere la propria gioia.

«Kanpai!» esclamò Miyamoto.

«Kanpai!» fece eco Ami.

Naito sentì le labbra tremolare. «Kanpai» concluse, prima di buttare giù il sakè in un sol sorso.

Non aveva mai bevuto prima di quel momento, quindi non sapeva cosa aspettarsi. Era molto forte, bruciava la gola e non aveva proprio un buon sapore, ma era sempre meglio dell’infuso di alghe. E poi non contava il sapore: contava il momento. Quando si separò dal bicchiere avvertì la testa girare lievemente.

Uno strano verso provenne da Ami, che si allontanò dalla tazzina strizzando le palpebre. «È… forte» disse ridacchiando.

«Ah, eccome se lo è!» Miyamoto sospirò compiaciuto. «Questo è il sakè dei Tre Dei! Così forte da essere velenoso per i demoni!»

Naito spalancò la bocca. «M-Mi ha fatto bere del veleno?!»

Per tutta risposta il vecchio Musashi rovesciò la testa all’indietro e scoppiò a ridere. «Mi mancherai un sacco figliolo!»

Il ragazzo non capì se Miyamoto si riferisse al fatto che stava per partire, o che stava per morire avvelenato.

«Allora, ne volete ancora?»

Il vecchio cominciò a servirsi di nuovo. Naito denegò, posando la tazzina sul tavolo, mentre Ami accettò un secondo bicchiere.

Al terzo bicchiere, il vecchio Musashi cominciò a raccontare barzellette sporche, momento in cui Naito seppellì il viso tra le mani mentre Ami ridacchiava rossa in volto, forse per il sakè, forse per l’imbarazzo.

Al quarto bicchiere, Miyamoto parlò della volta che Naito era scappato via terrorizzato dal gabinetto dopo aver tirato lo sciacquone – a quel punto il mezzosangue pensò che forse avrebbe potuto porre rimedio alla vita che non sembrava voler finire del vecchio – e al quinto bicchiere si addormentò sul tavolino, sbattendo la fronte.

Anche Ami sembrava appisolata, con il volto appoggiato sulle braccia a mo’ di cuscino. Naito li osservò entrambi e sospirò, un po’ deluso dal loro comportamento, e soprattutto deluso dal fatto che lui era stato il più maturo. Lui. 

E poi si ritrovò a rivolgere un ampio sorriso a quell’immagine che trasmetteva così tanta pace e familiarità. Gli dispiacque perfino andarsene dalla cucina così calda e accogliente, ma sapeva di non avere più tempo da perdere.

Non avrebbe mai creduto che il vecchio Musashi si sarebbe rivelato così importante, per lui. Non aveva mai avuto un padre, tantomeno un maestro, o un mentore, solo un uomo folle e assetato di vendetta che aveva cercato di renderlo un mostro. Ma forse… forse ora poteva considerare il vecchio Musashi come quella figura di riferimento che non aveva mai avuto.

«Tornerò a trovarla» mormorò al vecchio, rialzandosi in piedi. E non doveva promettere: era un samurai, la sua parola era già azione.

Spostò lo sguardo su Ami, la cui presenza lì ancora lo lasciava ancora sorpreso, ma in senso positivo. Non avrebbe mai creduto di rivederla, non così almeno, ma era felice che fosse successo. Si augurò che anche lei riuscisse a trovare di nuovo il suo posto nel mondo.

Si allontanò dalla casa del vecchio Miyamoto Musashi, inspirando l’aria fredda della notte a pieni polmoni. Non credeva di essersi trattenuto così tanto, ma la luna piena in cielo la raccontava in maniera diversa. Fu proprio su quella che si soffermò con lo sguardo. Era uguale a quella sera, quella in cui era tornato al campo dei greci per parlare con Edward. Era stato allora che gli aveva detto di diffidare di Tsukuyomi. Presto, avrebbe scoperto se le sue teorie erano fondate oppure no.

«Naito» lo chiamò Ami all’improvviso, alle sue spalle. Lo raggiunse di corsa, fermandosi di fronte a lui. «Stai… stai partendo?»

«Sì. Non posso trattenermi oltre.»

«Potresti… salutare Miyamoto, prima.»

«Dopo le storie che ha detto su di me?» Naito fece una smorfia. «Non esiste proprio.»

Ami ridacchiò. «Sì… capisco.»

La sua espressione cambiò all’improvviso. Cominciò a massaggiarsi il braccio e fece un passo verso di lui. Sembrava molto imbarazzata. «Ascolta, Nao… Naito… io… io…»

«Che cosa c’è, Ami?»

Gli sguardi dei due ragazzi si incrociarono. Ami fece un altro passo in avanti, trovandosi faccia a faccia con lui. «Io…» Serrò le labbra e piantò i piedi a terra. «Io voglio venire con te.»

Naito corrucciò la fronte. «Vuoi dire… sul monte Fuji? A cercare Tsukuyomi?»

Ami annuì determinata. «Sono… sono viva grazie a te. Vorrei ricambiare accompagnandoti. Il Monte Fuji… c’è un motivo se è considerata una montagna sacra, viva perfino. È un luogo protetto. E tu… insomma, tu non puoi scalarlo da solo. Potrebbe… potrebbe essere pericoloso.»

Il viaggio con Hachidori balenò nella mente di Naito, facendolo irrigidire. Sapeva che non era giusto mettere loro due a confronto, ma il pensiero che qualcosa di simile potesse accadere di nuovo gli bastò per fargli capire non poteva lasciarla venire con lui. Nel bene e nel male, anche Ami era rimasta troppo coinvolta in tutta quella faccenda. Non voleva che altre persone si facessero male.

Meishu era forte, di certo sapeva badare a sé stessa, ma Naito si sarebbe sentito meglio sapendola al sicuro, lontana da quella folle storia.

Aveva iniziato quell’avventura da solo. E l’avrebbe finita, da solo.

«Preferisco andare avanti da solo, Ami. Soprattutto se è pericoloso come dici tu. Non voglio che ti succeda qualcosa per causa mia.»

L’espressione di lei si fece smorta. «Naito, ascolta…»

«Vuoi ricambiare il favore?» la interruppe sollevando una mano, prima di sorriderle. Accennò con il mento alla casa. «Rimani con Miyamoto. Fagli compagnia. Ne ha bisogno, dopo tanto tempo da solo. Prenditi cura di lui. Promettimi che lo farai, e saremo pari.»  

Ami si mordicchiò un labbro e fece vagare lo sguardo da lui all’abitazione. «Va bene. Rimarrò con lui» acconsentì, sembrando anche sollevata. Non molto promettente come cosa, ma Naito si sforzò di non pensarci.

«Buona fortuna, Ami. Spero che tu riesca a trovare la tua strada» concluse, con un inchino.

«Mi… mi sono sbagliata, sul tuo conto» rispose lei. «Purosangue, mezzosangue, demone, umano… non ha importanza quello che sei. Conta quello che fai. Sei mosso da nobili ideali.» Ricambiò l’inchino. «Spero che tu riesca a trovare l’elisir. Buona fortuna, Naito.»

«Naosuke.»

Ami drizzò la testa sorpresa, e Naito distese il sorriso. «Puoi chiamarmi Naosuke.»

Ancora una volta, lei gli sorrise sincera. Quella stessa ragazza che un tempo era stata sua nemica e che ora sembrava tutta un’altra persona. Forse era quello che Konnor intendeva dire quando gli aveva detto di poter essere migliore. Quello significava essere migliori.

Naito si allontanò lungo il sentiero salutandola un’ultima volta, augurandosi di incontrare di nuovo anche lei al suo ritorno dal vecchio Musashi.

La luna era ancora lì, a scrutarlo impassibile. Naito sollevò lo sguardo e sorrise determinato verso di essa.

Tsukuyomi, il dio che aveva voltato le spalle a tutti gli altri. Naito avrebbe scoperto chi era davvero.

Un viaggio, l’ultimo viaggio, l’attendeva.

 

 



1 Lo Yokohama Cosmoworld, un parco dei divertimenti che si vede piuttosto spesso in serie o film ambientati in Giappone (appare in Alice in Borderland, per esempio). Quindi sì, non è un’isola delle torture, ma Naito non le sa queste cose

2 Il bovino giapponese

Qui lascio il disegno di Meishu/Ami: https://www.deviantart.com/edoardo811/art/Meishu-la-kunoichi-L-Elisir-di-lunga-vita-888501870

 

 

 

Salve gente, non mi dilungherò molto. Spero che il capitolo vi sia piaciuto e colgo l’occasione per dirvi, con un po’ di tristezza, ma in realtà neanche troppa, che siamo alle fasi finali della storia. Mancano solo più due capitoli. Ve lo comunico così perché mi rendo conto che il finale potrà sembrare molto “improvviso” quindi voglio partire prevenuto. 

Sì, la storia potrà sembrare che si interrompa proprio sul più bello ma… beh, era questo il mio intento. Scusate gente, ma sto costruendo il mio piccolo universo alla MCU e ci voleva lo stand alone di Naito per introdurlo al futuro (ovvio che tornerà) ma comunque vi spiegherò meglio quando ci troveremo alla fine, ora vi stavo solo avvisando perché mi sembrava corretto nei vostri confronti.

Altra comunicazione, lunedì tornerò con un capitolo della raccolta, che sarà molto importante, o almeno, sarà l’inizio del… “nuovo inizio”. Sì detto così non ha senso ma capirete più avanti, quindi ancora una volta voi che continuate a leggere l’Elisir avete lo scoop. 

E no, non voglio creare una ship tra Naito e Meishu. Volevo solo mostrare che Naito è cambiato e che, nel bene e nel male, ciò che ha appreso da Konnor si sta trasferendo anche su altri. Naito è passato dall’essere quello che è stato migliorato a quello che sta a sua volta migliorando gli altri (Hachidori e Meishu su tutti). 

Character arcs lads, character arcs. 

Grazie per aver letto, grazie ai recensori e alla prossima!

 

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Capitolo 15
*** Il Monte Fuji ***



15

Il monte Fuji

 

 

Naito osservò il bozzolo di tenebre in cui Rosa era stata rinchiusa e serrò le labbra. Le cose non sarebbero dovute andare in quel modo. Avrebbe dovuto prendere Ama no Murakumo, non rapire quella ragazza.

La cicatrice all’occhio lo fece sussultare all’improvviso. Nonostante i giorni passati, ancora gli faceva male. Forse scontrarsi con quel gigante non era stata una buona idea; il suo corno spezzato era un segno piuttosto evidente del fatto che ancora non era abituato a combattere con un lato cieco. Se non altro, quella batosta gli aveva dato una lezione: combattere contro gli immortali era un’idiozia.

Affondò le mani in quella prigione oscura e liberò la ragazza. Non appena vide il suo volto pallido ed emaciato si fermò, rimanendo paralizzato. 

Era… bellissima. 

Uno strano brivido gli percorse la schiena. Perché non riusciva a smettere di pensarci?

Perché ogni volta che ripensava alla sua voce, ai suoi occhi, al suo viso, avvertiva quella stretta così forte al petto? 

Liberò Rosa e la afferrò sotto la schiena e le ginocchia. Sentì le mani sussultare a contatto con quel corpo soffice e caldo. Nonostante il tempo trascorso imprigionata, la sua pelle profumava di qualcosa che lui non riuscì a riconoscere, un odore dolce e inebriante nel quale avrebbe potuto perdersi per ore se solo avesse potuto, ma purtroppo non aveva tempo da perdere. Mancava poco all’arrivo del piccolo dio e loro dovevano farsi trovare pronti. La adagiò sopra il letto al fondo della stanza, dopodiché lo sguardo gli cadde sul braccio spezzato. Glielo sfiorò, lasciandosi scappare uno sbuffo pensieroso.  

Bunzo, Chioiji e Hikaru arrivarono in quel momento, a schernirlo come al solito. Purtroppo per loro, grazie al lavoro svolto, Naito aveva riacquisito il suo status di vicecomandante. Si era rotto la schiena per due anni, obbedendo ad ogni ordine. Non aveva portato Ama no Murakumo ad Orochi, ma lui aveva comunque ammirato il modo in cui avesse affrontato la spada, senza morire. E soprattutto aveva apprezzato quell’altro dono che gli aveva portato: la sorella del piccolo dio, un ostaggio perfetto. E non solo, era anche una vergine. Avrebbero potuto chiedere qualsiasi cosa ad Edward, così, ed erano certi che lui gliel’avrebbe data. Non avrebbe mai permesso che la sua adorata sorella morisse. 

«Così sarebbe questa la ragazza?» domandò Hikaru, avvicinandosi al letto ed osservando Rosa con uno strano sguardo. «È davvero graziosa. È quasi uno spreco doverla uccidere, non trovi anche tu, Naito-kun?»

Naito si irrigidì. Non era passato molto prima che quella riprendesse a chiamarlo con quel nomignolo. Ciò che era successo nella cella di quella prigione sembrava quasi essere uscito dalla sua mente, come se non fosse mai accaduto. «Non chiamarmi così» rispose, velenoso. «Lo detesto. E comunque non la uccideremo. Orochi ha stretto un patto con il ladro.»

«Giusto, il patto…» borbottò Bunzo, affiancandoli. Avvicinò la mano al volto di Rosa, con uno sguardo e un sorriso grondanti di viscidume. Naito gli bloccò il polso senza esitare un solo istante. «Che stai facendo?» sibilò.

«Tu che stai facendo?! Lasciami, schifoso mezzosan…»

Il pugno di Naito si infranse sul suo naso, scaraventandolo a terra. Le urla di Bunzo furono una sinfonia per le sue orecchie, mentre si contorceva sul pavimento. 

«Orochi è stato chiaro» asserì Naito. «La ragazza non va toccata.»

Bunzo ululò di rabbia, ma Naito lo ignorò. Aveva un compito da svolgere. Afferrò il polso di Rosa e si preparò a raccogliere il suo sangue come Orochi gli aveva ordinato, ma Hikaru lo fermò. Aveva avvertito una presenza oltre a loro. 

Si trasformò in volpe e saltò verso un punto imprecisato, agguantando l’aria con una mano. Rimase immobile per qualche istante, a guardarsi intorno e a tenere le orecchie drizzate verso l’alto, poi si ricompose. «È svanita.»

«Chi era?» domandò Naito, osservando i muri diffidente. Quel museo era la cosa più simile a casa loro, ma la cosa andava in entrambi i versi. Anche gli dei avevano maggiore influenza, lì dentro. Dovevano stare attenti.

«Non lo so» rispose Hikaru. Lanciò un’occhiata disgustata a Bunzo. «Va a darti una ripulita, Bunzo. Qui proseguiamo noi.»

Bunzo protestò con la voce storpiata dal naso rotto. «Ma quel bastardo mi ha…»

Hikaru si indurì. «Ora, Bunzo.»

Quel pennuto fastidioso sussultò, poi obbedì. Lasciò la stanza ma non senza aver lanciato un altro sguardo adirato verso di Naito. 

«Anche tu Chioiji.»

Lo tsuchinoko emise un verso che parve più lo squittio di un topolino, e anche lui si dileguò. Quando rimasero soltanto in due, un silenzio pesante calò tra loro. Naito intuì che se aveva voluto rimanere sola con lui era perché stava tramando qualcosa, ma non si lasciò distrarre. Graffiò il palmo di Rosa con la wakizashi, per poi far scivolare il suo sangue dentro una piccola botticina di ceramica, con dipinto sopra un kanji: . Sangue. 

Le tamponò la ferita con delicatezza. Ancora una volta, un brivido lo percorse mentre le toccava la mano. 

La voce di Hikaru perforò l’aria all’improvviso, facendolo irrigidire: «A che gioco stai giocando, Naito?» 

Lui le lanciò un’occhiata sottecchi. «Che vuoi dire?»

«Sai benissimo che la ragazza verrà uccisa. Il sangue che stai raccogliendo adesso non serve per completare il rituale. È solo un antipasto.»

Naito diede le spalle alla kitsune e assottigliò le labbra, riportando lo sguardo sopra il viso di Rosa. Ancora faticava ad accettare che si parlasse di lei come “cibo.” 

«Naito.» Hikaru si avvicinò a lui. Non poteva vederla, ma poteva percepire i suoi occhi conficcati sulla sua nuca. «Non dirmi che speri davvero che la ragazza si salvi.»

Altro silenzio. Naito drizzò la testa, osservando la finestra che si affacciava sugli edifici di San Francisco, di quel mondo così diverso rispetto a quello in cui era nato e cresciuto. Ogni cosa era diversa, lì. Anche lui si sentiva diverso.

Era irrequieto. Stanco. Voleva solo che quella storia maledetta finisse. 

Hikaru si mise accanto a lui, silenziosa come un’ombra. Non disse nulla e rimase concentrata anche lei sulla finestra. 

Le vene di Naito vennero travolte da un’altra scarica di brividi soffusi, quando riportò la sua attenzione sul volto pallido e soffice di Rosa. Il cuore cominciò a battergli con insistenza nel petto. Sfiorò il braccio rotto della ragazza svenuta e serrò la mascella. «Puoi guarirlo?» domandò all’improvviso.

Con la coda dell’occhio, si accorse di Hikaru che si voltava per scrutarlo con attenzione, le palpebre sottili. Naito ricambiò lo sguardo, avvertendo i nervi a fior di pelle, ma non per via della kitsune. Più pensava a cosa stava succedendo, più pensava a quello che sarebbe accaduto nel giro di poche ore, più sentiva il proprio stomaco annodarsi.

«Posso guarirla, sì. Ma sei sicuro di volerlo?» domandò infine Hikaru, dopo quel lungo attimo di silenzio. Quella domanda non sembrava riferirsi soltanto alla richiesta di guarirla.

Naito strinse i pugni. «Sì.»

Hikaru annuì. La sua espressione era indecifrabile. Si scostò una ciocca di capelli da di fronte al viso, rimasta libera dalla crocchia, dopodiché massaggiò con delicatezza il braccio di Rosa, che si illuminò di una pallida luce rossa.

Quando concluse il lavoro, diede le spalle al letto e serrò le palpebre. «Ricordi la domanda che ti ho fatto, due anni fa?»

Allora anche Hikaru se la ricordava. 

«Sì» rispose Naito. Non aveva mai smesso di pensarci.

«E la tua risposta qual è?»

«Non lo so.»

«Sarà meglio che ci pensi in fretta, allora.» Hikaru si allontanò da lui, dirigendosi verso la porta. Si fermò sull’uscio e un profondo sospiro scappò dalla sua gola, le spalle che si alzavano e riabbassavano lentamente. «Alla fine di questa giornata, Naito, quella risposta potrebbe salvarti la vita.»

Se ne andò, lasciandolo da solo con i suoi pensieri e con quella domanda che da due anni continuava a torturarlo.

Che cos’era lui?

Hachidori balenò di nuovo nella sua mente. Ferita, sanguinante, pallida e spaventata. Subito dopo rivide Rosa, in quell’arena buia, con la stessa espressione sul suo volto.

A quel pensiero, Naito si incupì.

Non avrebbe mai potuto immaginare che quella sarebbe stata l’ultima conversazione che avrebbe avuto con Hikaru.

 

***

 

Era stanco di quel tragitto. Quando tutto sarebbe finito, Naito ripromise a sé stesso che non avrebbe più messo piede nelle valli del Monte Tate per molto, molto tempo.

Procedette a passo spedito, ignorando la pioggia che batteva su di lui, la neve che scendeva, il vento tagliente e gli sporadici sprazzi di sole che di tanto in tanto facevano capolino in mezzo a quel clima rigido.

Non c’era più un solo attimo da perdere. Sia il Clan Tsubaki che gli uomini del Re l’avevano già trovato, era certo che era solo questione di tempo prima che riapparissero. Doveva trovare l’elisir prima che lo raggiungessero. Quando lo avrebbe consegnato agli dei, sperando che il piano funzionasse, allora avrebbe potuto pensare al resto dei suoi problemi.

Il Monte Fuji apparve sullo sfondo, imponente e maestoso, facendo sembrare tutto il resto delle pulci al suo confronto. Non c’era mai stato, nemmeno Orochi l’aveva mai portato lassù. Se ne era sempre tenuto alla larga, forse perché non ci trovava niente di interessante, o forse perché spaventava pure lui. E forse per questo motivo avrebbe dovuto spaventare anche Naito, ma in realtà non lo fece affatto. Dopo tutto quello che aveva vissuto, una montagna era l’ultima delle sue preoccupazioni. Qualunque cosa lo attendeva lassù, era pronto ad affrontarla.

Aveva viaggiato per un altro giorno intero, quindi era di nuovo notte quando cominciò la salita. Pioveva a dirotto, i sentieri erano scivolosi e infangati, completamente deserti e poco illuminati dal bagliore fioco della luna. Naito strinse i denti, mentre gli stivali affondavano nella terra inzuppata e i vestiti si infradiciavano. Forse avrebbe dovuto aspettare il giorno dopo prima di salire.

Non passò molto prima che la pioggia diventasse neve e l’aria cominciasse a rarefarsi. Naito avanzò imperterrito, stringendosi bene dentro l’happi di Miyamoto; il freddo era tale che perfino lui stava cominciando a patirlo.

Fitte nubi avvolgevano il monte. Normalmente era impossibile scorgerne la cima in ogni caso, ma a causa di quello strato denso di nuvole gli sembrava di star marciando a tentoni verso una dimensione ultraterrena.

C’era qualcosa nell’aria, cominciò a realizzare. Una forte presenza, un’energia opprimente come una cappa nella quale era impossibile respirare. I passi cominciarono a costargli sempre più fatica, gli stivali affondavano nel terreno di dita e dita di profondità, rendendogli quasi impossibile camminare. Il freddo divenne sempre più brutale, al punto che i cominciò a battere i denti contro il suo volere. Non gli era mai successo niente del genere, prima di allora. Negli inverni più rigidi e nelle estati più torride, non aveva mai patito né il freddo né il caldo. In quel momento invece gli sembrava di poter congelare.

Un forte vento iniziò a ruggire contro di lui, mentre la terra tremava con irruenza, rischiando di fargli perdere l’equilibrio. Strinse i denti, costretto a lottare contro quelle violentissime intemperie. Era come se la montagna si stesse rivoltando contro di lui per impedirgli di andare avanti. Tutt’un tratto gli tornò in mente quello che Ami gli aveva detto prima di partire.

Il Monte Fuji era sacro. Vivo. 

A quel punto comprese: la montagna non era abitata da creature pericolose. La montagna era la creatura pericolosa. Un mostro colossale che minacciava di farlo precipitare nell’oblio con quel vento e quel terremoto inarrestabili.

Naito piantò i piedi a terra e trattenne il respiro, attingendo a tutte le proprie forze per resistere; non avrebbe permesso ad una roccia gigante di fermarlo.

La voce di una donna tuonò nell’aria all’improvviso, facendolo trasalire: «Torna indietro

Il ragazzo venne sbalzato all’indietro da una folata di vento molto più forte e finì con la schiena a terra, inzaccherandosi le gambe e le braccia di neve e fango, il corpo che vibrava incontrollabile a causa degli scossoni della montagna.  

«Creatura immonda. Non sei la benvenuta qui. Vattene, prima che ti distrugga

«Chi… chi parla?» domandò Naito, al vuoto. La sua voce si smarrì in mezzo alla nevicata come un gemito spaventato.

L’intera montagna sembrava parlare, con un tono fragoroso che pareva il rumore di una frana: «Il mio nome è Konohana Sakuya-hime e sono la dea che protegge questo luogo. Non permetterò a un mostro come te di violarlo

«Non… non voglio violare niente!» gridò Naito, ora in ginocchio, le mani che affondavano nella fanghiglia. «Voglio solo arrivare in cima!»

«E perché mai vorresti arrivare in cima? Io so chi sei. Hai attaccato il Santuario Meiji. Sei pericoloso. Non ti permetterò di insediarti nel mio regno

«C-Che cosa?!» Naito sentì il sangue gelargli nelle vene, ma non per il freddo. «Io non ho attaccato il Santuario Meiji! È stato Kagu-Tsuchi! Lui mi ha…»

Il Monte Fuji sembrò scuotersi dall’interno, tanto da farlo scivolare su un fianco. «Silenzio! Non te lo ripeterò ancora: torna indietro o pagane le conseguenze.»

Mentre lottava per rimettersi in piedi, Naito avrebbe voluto urlare tutta la sua rabbia e la sua frustrazione, ma si trattenne. Una montagna intera stava per abbattersi su di lui, gridare non sarebbe servito a niente. «Non voglio fare niente di male a questo luogo!» esclamò, stringendo i pugni. «Sto solo cercando Tsukuyomi!»

Per un momento, la voce tacque. La terra smise di tremare, il vento cessò e anche la neve parve scendere con meno insistenza. «… Tsukuyomi? Davvero?»

Una luce apparve di fronte a lui all’improvviso, squarciando le tenebre. Una luce… rosa, seguita da un fortissimo profumo di ciliegi in fiore.

Una donna apparve in mezzo al sentiero, levitando sopra la neve fangosa. Lo scrutò severa per alcuni istanti. Era giovane, con il viso ovale e capelli lunghi e rosa, intrecciati con rametti di ciliegio da cui erano sbocciati dei fiori rigogliosi nonostante non fossero collegati a nessun albero.

«Sei qui per mandare via quell’impiastro?» gli domandò, fluttuando rapida verso di lui. Il suo kimono dello stesso colore dei fiori sventolò nell’aria, come una vestaglia fatta di petali rosa e bianchi. Non c’era più alcuna traccia del suo tono severo e austero di poco prima: ora era squillante e spazientito. «Finalmente! Dopo tutti questi millenni stavo cominciando a perdere le speranze! Perfino Kuninotokotachi1 si è levato di torno quando quello è arrivato! Mi ha mollata qua, sola con quell’assassino, ti rendi conto?!»

Naito riuscì a rimettersi a fatica in piedi, non credendo alle sue orecchie. «U-Un momento… che cosa?»

Sakuya-hime agitò le mani infastidita. «Da quando quel vile è stato esiliato si è piazzato qui abusivamente. Le ho provate tutte per farlo andare via. Tempeste, nevicate, terremoti, ma niente da fare, lui non vuole saperne di sparire! Ho chiesto aiuto ad Amaterasu, ma nemmeno lei vuole avere niente a che fare con lui! Sono disperata! Allora, sei qui per cacciarlo?»

«I-Io… sì. Sì, è così» biascicò Naito, pensando di essere appena incappato di fronte al più grosso colpo di fortuna di sempre. O alla più grande stramba che avesse mai incontrato. «Quindi… quindi Tsukuyomi è davvero qui?»

«Sì, sì! Si è perfino costruito un palazzo! Ma come si è permesso?! La mia bella montagna… insidiata in questo modo, come se i mortali non l’avessero già rovinata abbastanza! È terribile…»

«Già… terribile.»

«Oh, ma tu…» La dea gli sorrise colma di gratitudine. «… sei qui per aiutarmi! Allora non sei malvagio come dicono!»

«N-No, certo che no…»

«Grazie! Grazie!» Sakuya-hime si spostò e gli indicò il sentiero con un braccio. «Prego, continua sempre dritto, non puoi sbagliarti! Mi raccomando, concialo per le feste anche da parte mia!»

«Uhm… va bene.» Naito le passò accanto, premurandosi di girarle alla larga, mentre quella continuava a sorridergli con sguardo spiritato.

«Finalmente riavrò la mia montagna!» la sentì esultare, mentre lui procedeva lungo il sentiero. Deglutì al pensiero di come avrebbe reagito quando avrebbe scoperto che in realtà lui non era affatto lì per aiutarla. Ma per allora si augurava di trovarsi già molto distante dal Monte Fuji.

Proseguì, intontito e un po’ sballottolato da tutto quello che era successo. Se non altro ora la montagna non stava più combattendo con lui. Camminare era molto più semplice quando non c’erano trombe d’aria, la terra che tentava di risucchiarlo e la grandine che lo travolgeva.

Anche se era partito proprio per quello, sapere che davvero Tsukuyomi si trovava lì fece nascere emozioni contrastanti in lui. Nel bene e nel male, quella era davvero la fine del suo percorso. Avrebbe incontrato il dio che era stato esiliato e avrebbe scoperto la verità, se davvero lui era il traditore che aveva liberato Orochi oppure no, e soprattutto, in un modo o nell’altro, avrebbe avuto l’Elisir di lunga vita. Non se ne sarebbe andato per nessuna ragione senza di esso.

Stava albeggiando quando arrivò in cima. Era stanco, ferito, coperto di neve e fango, e qualcosa gli diceva che la parte peggiore doveva ancora arrivare.

Si fermò per qualche minuto, per riprendere fiato e riposare un po’ le gambe. La nebbia era salita, avvolgendo il paesaggio a valle del monte, ma lasciando scoperta la cima. Quella vista gli ricordo le Rovine Takeda. Provò una fitta allo stomaco al pensiero di ciò che era successo laggiù, due anni prima.

Che cosa sarebbe successo se Hachidori l’avesse ascoltato, quella notte? Se si fossero ribellati insieme a Orochi? Forse sarebbero morti entrambi. Anzi, sicuramente sarebbe andata così. Eppure, avrebbe preferito fosse successo quello. Avrebbe preferito morire credendo che anche lei ricambiava i suoi sentimenti, piuttosto che vivere fino a scoprire che lei aveva sempre cercato di usarlo e poi vederla spirare di fronte ai suoi occhi.

Scacciò via quei pensieri. Rimpiangere Kairi era inutile. Per una volta, si ritrovò a fare affidamento agli insegnamenti di Orochi: doveva rimanere concentrato su quello che contava, ossia trovare Tsukuyomi.

Continuò a camminare, avvicinandosi verso il gigantesco cratere sulla cima del Monte Fuji. Sapeva che si trattava di un vulcano inattivo da tanto tempo e si augurò che non decidesse di svegliarsi proprio mentre lui era in visita. Ne dubitava, ma con la sua sfortuna non poteva essere certo di nulla.

Fece vagare lo sguardo lungo il paesaggio brullo, fatto di rocce, sabbia e neve. Visto da lontano il Monte Fuji era meraviglioso. Visto da vicino… un po’ meno. Naito costeggiò il cratere. Quella dea della montagna aveva menzionato un palazzo, perciò si voltò in ogni direzione sperando di riuscire a scorgerlo. Non vide nulla, a parte un torii grigio e solitario in lontananza. In assenza di alternative migliori, Naito si avvicinò per studiarlo meglio. Quando lo raggiunse constatò di aver fatto un viaggio a vuoto. Non c’era nulla, lì. Il torii si affacciava sul bordo del monte, dove quel mare di nebbia stava coprendo ogni cosa senza lasciare scampo.

Il sole cominciò a filtrare l’oscurità del primo mattino, illuminando la cima con le sue striature rossastre. Pensò che forse avrebbe potuto attendere il giorno per controllare meglio quel luogo, quando qualcosa si mosse tra la neve accanto al torii all’improvviso.

Un coniglietto bianco spuntò fuori quasi dal nulla, reggendo in bocca un ramoscello. Naito schiuse le labbra per la sorpresa. Il vecchio Musashi aveva parlato proprio di un coniglio. L’animaletto corse fino al cratere e vi si tuffò dentro senza un solo attimo di esitazione. Naito si riscosse dallo stupore e lo inseguì fino al bordo, da dove lo vide saltellare agilmente tra la neve e la terra nera, dirigendosi verso un cumulo di pietre al fondo della conca brulla.

Naito assottigliò le palpebre confuso, poi lo vide meglio. Non era soltanto un cumulo di rocce: c’era un edificio laggiù. Con il buio non l’aveva notato, ma ora, man mano che la luce si faceva più forte, poteva vederlo meglio. La struttura era simile a quella dei templi in cui era già stato, alte colonne grigie con più tetti neri squadrati e a spiovente sovrapposti gli uni sugli altri.

Non ci mise molto a notare anche un altro dettaglio: stava svanendo. Man mano che la luce aumentava sulla valle, quel palazzo sembrava mimetizzarsi sempre di più tra le rocce, come se rigettasse i raggi del sole.

Non ci aveva pensato, ma forse per trovare Tsukuyomi occorreva che ci fosse la luna piena. E, per ovvi motivi, il sole non doveva piacergli affatto. Naito si maledisse per non averlo capito subito e saltò nel cratere, cominciando a correre con quanto fiato avesse ancora nel corpo. Non era un coniglietto, ma grazie alla sua agilità riuscì ad attraversare la conca in breve tempo, senza scivolare sopra la neve.

Più si avvicinava, più il palazzo sembrava farsi più grande. Quello che era parso una catapecchia da lontano ora sorgeva tra le rocce come un imponente edificio di più piani, anche se dall’aspetto molto trascurato, con le pareti scrostate e i tetti rotti. C’erano alcune statue rovinate ai lati del portone d’ingresso, raffiguranti una figura con i capelli lunghi e lo sguardo severo. Dovevano essere le statue del dio, ma stavano diventando sempre più difficili da vedere. Naito si rese conto di avere la luce del giorno alle calcagna, in tutti i sensi. Solo in quel momento si domandò cosa sarebbe successo se il palazzo fosse svanito con lui dentro. Sarebbe svanito anche lui? Sarebbe… morto?

Per un attimo pensò di fermarsi e aspettare la notte dopo. Poi, però, si accorse del portone che iniziava ad aprirsi lentamente da solo, per far entrare il coniglietto. A quel punto decise di mandare al diavolo il buonsenso e si gettò al suo seguito.

Il portone si chiuse con un pesantissimo tonfo un istante dopo il suo ingresso, mandando un getto d’aria tale da farlo barcollare. Naito si guardò alle spalle, accorgendosi di quel colosso di legno alto almeno cinque metri completamente sigillato a bloccare l’uscita. Da lì non sarebbe più passato.

Riportò l’attenzione sull’ingresso, accorgendosi delle pareti bianche, marmoree, con lanterne di carta appese che mandavano la loro fioca luce nel corridoio spoglio. Il pavimento era sporco, coperto di neve a tratti quasi sciolta, a tratti ancora fresca, terra e sabbia, come se in quel luogo fossero sempre entrate persone che non si erano mai prese la briga di pulirsi le scarpe. E conigli, anche.

Avanzò incerto sopra il lungo tappeto rosso e logoro, tenendosi pronto a sguainare le armi al primo segnale di pericolo, e si addentrò nella casa del dio.

La prima cosa che notò fu l’odore. Aveva dormito di nascosto in alcune stalle durante le sue fughe da bambino. L’odore che stava sentendo non era forte come quello, ma era simile, di pelo e mangime per animali.

Le pareti erano di quel colore bianco e spento, con alcune patine di muffa negli angoli. Di tanto in tanto incappò in alcuni arazzi e quadri, raffiguranti individui senza volto. Nel senso che il volto era stato strappato via dalle tele, lasciando un cratere al loro posto. Alcuni erano scarabocchiati con disegni volgari di matita o inchiostro, altri invece sembravano stati investiti da intere secchiate di vernice. Naito non riconobbe i soggetti dei disegni, ma non ci mise molto a capire che doveva trattarsi di altri dei.

Qualcuno non doveva aver preso affatto bene l’esilio.

Entrò in un grosso atrio colonnato, che portava a diverse stanze chiuse da porte scorrevoli di carta e legno. Una era spalancata e conduceva in un altro corridoio, che pareva addentrarsi ancora più in profondità. L’odore si fece più intenso e per terra cominciò a scorgere qualcosa, oltre alla sporcizia. Alcuni residui di carote mangiucchiate, teste di insalata consumate a metà e lasciate a marcire e una miriade di altri ortaggi sgranocchiati e abbandonati a loro stessi.

Un arazzo molto più grosso degli altri era appeso nell’atrio. Questa volta Naito riconobbe chi rappresentava: Amaterasu, la regina degli dei, che sorgeva in mezzo a due montagne illuminando i suoi sudditi. L’unico motivo per cui intuì che si trattava di Amaterasu fu la veste bianca e rossa tipica delle sue raffigurazioni e i raggi del sole che sorgevano da dietro di lei, perché il viso non era affatto il suo: al suo posto era stato disegnato quello di un’altra persona, un uomo con i capelli nivei, come se stesse cercando di prendere il suo posto con la forza.

Naito rimase paralizzato ad osservare quel dipinto. Cominciò a domandarsi se fosse saggio proseguire. Le premesse, per il momento, non sembravano affatto buone. Forse Tsukuyomi era davvero sceso dalla Luna, ma alcune rotelle gli erano sicuramente rimaste lassù.

Udì un fracasso in lontananza all’improvviso, come il rumore di qualcosa che si rovesciava. Sguainò la wakizashi senza esitare e osservò il corridoio oltre l’atrio. Il rumore era arrivato da là. Assottigliò le labbra e decise di andare avanti.

Non si sarebbe mai aspettato quello che lo attendeva.

Sbucò in una balconata che si affacciava su un’immensa stanza, che sembrava in tutto e per tutto un’officina. C’erano banchi da lavoro, tavoli lunghissimi, utensili, mensole cariche di fiasche, barattoli e contenitori pieni fino all’orlo di sostanze a lui irriconoscibili. Non era l’officina, tuttavia, la parte più sconvolgente, ma chi ci stava lavorando.

Conigli. Decine, centinaia di coniglietti bianchi, eretti sulle zampe posteriori sopra degli sgabelli e che, dotati di pestelli e mortai, stavano macerando foglie, erbe e chissà che altro, producendo un rumore costante e regolare simile al ticchettio di un orologio. In un angolo di quel salone immenso notò un altro coniglio, con il pelo grigio, intento a ripulire i cocci di qualche vaso che era caduto a terra. Con scopetto e paletta, stretti nelle zampine.

Naito pensava di averne viste tante, durante i suoi viaggi. Era stato il servitore di un mostro millenario che aveva cercato di rovesciare il mondo. Aveva conosciuto dei, piccoli dei, demoni, di tutto e di più.

Tutto quello gli sembrò molto più assurdo di qualsiasi altra cosa avesse mai visto. I conigli pestavano dentro i mortai, poi andavano a versare qualunque intruglio stessero producendo dentro una gigantesca vasca posta al centro della stanza, con al suo interno delle pale che giravano mosse da un perno attaccato al soffitto. Il macchinario produceva un forte ronzio, pari a quello di uno stormo di mille vespe.

Non ebbe idea di quanto tempo trascorse così, immobile, a osservare quella scena, incapace di credere al suo occhio. Probabilmente avrebbe continuato ancora per ore, se una voce alle sue spalle non avesse parlato all’improvviso: «E tu chi sei?!»

Per poco Naito non precipitò dalla balconata per lo spavento. Si voltò di scatto, sollevando la wakizashi, prima di essere investito da un’aura di potere tale da fargli accapponare la pelle.

Un uomo era apparso di fronte a lui, chiuso dentro un kimono nero e blu, con ghirigori scintillanti. Aveva lunghissimi capelli bianchi legati in una coda, su cui era riposta una tiara con incastonata una gemma a forma di mezzaluna, che lasciavano scoperto il volto glabro e allungato, dagli zigomi alti, macchiato da un’espressione severa. Gli occhi erano scuri come la notte, le iridi bianche come due lune piene.

Naito rimase pietrificato di fronte a lui. Si rese conto che i ghirigori sul suo kimono si muovevano da soli, animati da una vita propria. Non erano semplici puntini bianchi, ma stelle. Intere costellazioni erano sparpagliate lungo il suo abito.

«Allora?!» incalzò l’uomo con voce seccata, facendo un passo verso di lui. «Rispondi! Chi sei?! Come hai fatto ad entrare?!»

«I-Io…» Naito non aveva idea di cosa stesse succedendo, ma non riusciva a parlare come avrebbe voluto. Era come paralizzato di fronte a lui.

«Ti ha mandato quella lagnosa di Sakuya-hime, vero?! Beh, va pure a riferirle che io non ho alcuna intenzione di andarmene da qui finché mia sorella non verrà a implorare strisciando il mio perdono per ciò che mi ha fatto! Solo allora, forse, considererò l’opzione di sloggiare! Tutto chiaro?!»

Quando menzionò sua sorella e la dea della montagna, Naito riuscì a riscuotersi. Non c’erano dubbi: quello… quello era davvero Tsukuyomi.

Il dio esiliato, colui che aveva voltato le spalle agli altri e ucciso Ukemochi. Uno dei tre figli di Izanagi, nonché fratello minore della regina stessa degli dei.

L’aveva trovato. Non gli sembrava vero. Ora, però, iniziava la parte difficile. «Non… non sono qui per questo» riuscì a formulare, parlando a fatica a causa dello stupore e anche, in parte, del timore che stava provando.

Tsukuyomi conficcò gli occhi sulla wakizashi di Naito, che soffocò un’imprecazione. Si affrettò a rinfoderarla e sollevò le mani in segno di resa. «Non voglio combattere. Sono qui per l’Elisir di lunga vita.»

«L’ELISIR DI…» Il dio alzò la voce e gli puntò contro un indice. Per un istante le stelle sul kimono si trasformarono in vortici di luce fuori controllo, ma si calmarono quando anche lui si ammansì. Si schiarì la gola e ostentò finta ignoranza. «Non so di cosa parli. Non c’è nessun Elisir di lunga vita qui. Ora sparisci, prima che ti scaraventi giù dal monte personalmente.»

Naito ignorò la minaccia. «Sì che è qui invece. Lo stanno producendo quei conigli.»

«Ti stai sbagliando. Tu cerchi Chang’e, la mia corrispettiva cinese. Qui produciamo solo dolci di riso. Mi dispiace, hai fatto un viaggio a vuoto, addio adesso.»

Lo stupore e il timore di Naito cominciarono ad essere rimpiazzati da una profonda sensazione di fastidio. Lanciò uno sguardo verso i conigli e gli intrugli verdognoli nei loro mortai. «Quello non mi sembra affatto riso.»

Le guance di Tsukuyomi diventarono paonazze. Si morse un labbro, mentre le costellazioni ricominciavano a dare di matto. «Stammi bene a sentire, piccolo impertinente, non ho alcuna intenzione di darti l’elisir, chiaro?!»

«Quindi lo produci davvero tu…» mormorò Naito.

«Certo che lo produco io! Chang’e si è presa tutto il merito, ma sono io che l’ho creato, io ho salvato la vita di quel coniglio, non lei! Quella… quella… quella gran donna…» Tsukuyomi arrossì di nuovo, forse al pensiero della dea cinese. Ridacchiò da solo, poi sembrò ricordarsi di Naito e riacquisì la sua aria arrabbiata.

«In ogni caso, la risposta è no! È sempre la stessa storia con voialtri, vi fate vedere soltanto quando volete chiedermi un favore, o quando volete accusarmi di qualcosa che non ho fatto! Mai uno che venga a fare un favore a me! Mai uno che venga a chiedermi scusa! È tutto un “Tsukuyomi, fai questo, Tsukuyomi, fai quello, Tsukuyomi, vattene da qui!” oppure “Ama no Murakumo è sparita: è colpa di Tsukuyomi! Hanno fatto evadere Yamata no Orochi: è colpa di Tsukuyomi! Hanno rubato quello stupido specchio: COLPA DI TSUKUYOMI! SEMPRE E SOLO COLPA MIA!»

«Un momento… quale specchio?» domandò Naito.

«Bah!» Tsukuyomi si incamminò lungo il balcone, diretto verso una porta che conduceva ad una rampa di scale. Naito cominciò a seguirlo tenendosi a debita distanza, mentre il dio della luna si metteva a sproloquiare senza controllo: «Ha davvero importanza? Quello che conta è che tutti quanti sono convinti che io stia cospirando alle spalle di mia sorella, ma non hanno nessuna prova! Mi accusano e basta, come sempre!»

Scesero al piano di sotto e si addentrarono nell’officina. I conigli smisero di impastare e saltarono tutti sull’attenti non appena video il dio. Sollevarono perfino le zampette in dei saluti militari, ma Tsukuyomi gesticolò nervosamente anche verso di loro. «Sì, sì, tornate al lavoro.»

Sospirò esausto, posandosi le mani sui fianchi e rimanendo ad osservare la vasca al centro del salone. «Ho fatto un solo errore, millenni e millenni fa, e ancora oggi ne pago le conseguenze. Tutti mi trattano come se fossi l’origine di ogni male. Va bene, forse ho perso le staffe quella volta, e con questo? Chiunque avrebbe fatto la stessa cosa ad Ukemochi! Sono stato pure gentile a darle quella morte rapida!»

«Quindi non sei stato tu a far evadere Orochi?» domandò Naito, sentendosi a disagio.

«E perché avrei dovuto? Io non voglio avere nulla a che fare con quell’essere abominevole.»

«Ma… e chi è stato, allora?»

«E io che diamine ne so? Probabilmente qualche dio geloso di mia sorella. Forse mio fratello minore, o forse uno dei miei fratellastri più grandi. Sono in tanti a volere il suo posto, sai?»

«Però… il tuo litigio con… tua sorella, allora? Insomma, avrebbe senso se… se…»

«Se cercassi di vendicarmi? Non sei l’unico a pensarla così. Ma vi sbagliate. Non voglio il trono di mia sorella. Non voglio il suo stupido regno, ho già il mio, di regno!» Tsukuyomi allargò le braccia, accennando all’officina. «Qui comando io! E ho servitori fedeli! Non mi serve nient’altro!»

Vi fu un altro frastuono di ceramica che si rompeva. Il dio della luna si voltò verso il coniglio grigio. «Roger! È la terza fiala che rompi questa settimana! Quella te la detraggo dalla paga!»

Il coniglietto cominciò a pulire i cocci di ceramica, senza apparire turbato dalla minaccia.

Tsukuyomi scosse la testa con disappunto, anche se pareva abituato a quel genere di cose. «Come stavo dicendo, non voglio il trono di mia sorella. L’unica cosa che voglio da lei sono delle scuse per quello che mi ha fatto.»

«Intendi l’esilio?»

«Intendo dire tutto quanto!» urlò Tsukuyomi, voltandosi di nuovo verso di Naito. «Dimmi un po’, tu come ti sentiresti ad essere l’unico escluso della famiglia?! Non è piacevole, sai?! Quest’estate stavamo per scontrarci con i greci! E sai quando l’ho saputo io? Quando ormai il pericolo era già passato! Gli dei, tutti gli dei greci e giapponesi più importanti si sono incontrati al palazzo di mia sorella per stilare una tregua, tutti tranne me! Il mondo è stato sull’orlo del baratro e nessuno è venuto a dirmelo, l’ho scoperto da solo! Pensi che sia divertente?! Pensi che sia bello essere trattati in questo modo, dimenticati, abbandonati, ricordati soltanto per un errore commesso migliaia e migliaia di anni fa?! La mia unica compagnia sono questi conigli…» mormorò, accennando ad alcuni operai al lavoro coi pestelli. «… da quando quel piccoletto si è sacrificato per me, ho capito che loro sono gli unici di cui posso davvero fidarmi. Gli unici che non mi giudicano per quello che ho fatto.»

Il rumore di un'altra fialetta che si infrangeva a terra giunse alle loro spalle. Tsukuyomi sospirò pesantemente, ma non si arrabbiò. La sua espressione raccontava tutto quello che c’era da sapere. Naito non credeva che avrebbe mai visto un dio triste, eppure stava succedendo proprio di fronte al suo occhio.  Non aveva idea di che cosa stesse facendo, ma provò a confortarlo. Sì, aveva davvero bisogno di quel maledetto elisir. «Forse… forse se le chiedessi scusa lei…»

«Credi che cambierebbe qualcosa?!» tuonò Tsukuyomi, interrompendolo, comportandosi come se quelle parole fossero state un falò appena acceso sotto il suo fondoschiena. «Lei non vuole più saperne di me! Ai suoi occhi sono un assassino, ormai. Mi… mi ha cacciato perché aveva paura che potessi fare del male anche a lei.»

Strinse i pugni e i denti. Sembrava arrabbiato, ma Naito riconobbe il dolore nel suo sguardo. Tirò su con il naso, come se stesse per piangere.

«“Sei un dio malvagio” mi ha gridato, prima di esiliarmi dal Takama-ga-hara.» Sferzò l’aria con la mano, strizzando le palpebre con forza. «Beh, non sono io quello che ha sempre cercato di prendere il suo posto, non sono io quello che distrutto le sue risaie e che l’ha fatta fuggire in lacrime dentro una caverna! Sono sempre stato dalla sua parte, l’ho sempre supportata, perché era mia sorella! Non le avrei mai fatto del male, mai! Ma non si è fidata di me. Non… non è giusto.» Abbassò la testa e la sua voce si ridusse ad un sussurro incrinato: «Io… io le volevo bene.»

Qualcosa nel suo sguardo smarrito, nel suo tono di voce affranto, fece capire a Naito che era sincero. Non era lui il dio che aveva liberato Orochi. Era solo un povero disgraziato che era stato rigettato da tutti i suoi simili e che si era ritrovato tagliato fuori dal mondo. Un altro disgraziato con cui aveva molte più cose in comune di quando potesse immaginare.

«Mi dispiace» mormorò Naito, incapace di guardarlo ancora. Sapeva qualcosa sul convivere con uno sbaglio che non lasciava tregua. E lui aveva trascorso pochi mesi in quel modo, consumato dal rimorso. Tsukuyomi doveva aver passato tutti quei millenni così, a rimpiangere ciò che aveva perso, solo, ferito e abbandonato.

Naito rimase ad osservare i coniglietti al lavoro, assorto, e si domandò ancora una volta cosa si dovesse provare a vivere in quel modo, concentrati unicamente sul proprio dovere ed ignorando tutto il resto. Niente battaglie, guerre, faide tra dei, nulla, solo un mortaio, un pestello e un intruglio verdognolo.

Si accorse che Tsukuyomi si era fermato ad osservarlo con gli occhi socchiusi, come se si stesse domandando se fosse sincero oppure no. Naito resse lo sguardo, avvertendo di nuovo la pelle formicolare. Poteva essere strano, triste e pazzo quanto voleva, ma Tsukuyomi rimaneva comunque uno degli eredi di Izanagi. Irradiava energia pura, qualcosa che avrebbe fatto fuggire da lui perfino Kagu-Tsuchi.

«Sì, beh, non me ne importa niente se ti dispiace» sbottò, riacquistando il tono acido e scorbutico con cui si era presentato. «Non so nemmeno perché ti ho parlato di tutto questo, a dire il vero. Avanti, vattene da casa mia. Non te lo ripeterò ancora.»

Naito assottigliò le labbra. «Non posso andarmene. Non senza l’elisir.»

Tsukuyomi fece un sorrisetto beffardo. «Ma davvero? E dimmi, mezzosangue, per quale motivo dovrei consegnarti il mio bene più prezioso?»

«Perché…» Naito tacque, ponderando sulle parole giuste da usare. Non sapeva se il dio avrebbe creduto o meno a quello che stava per dirgli, ma aveva soltanto un modo per scoprirlo. Lo osservò dritto in quegli occhi che sembravano essere ritagli di notte e gli spiegò la sua situazione.

Al termine del racconto, Tsukuyomi serrò le palpebre. «Capisco. Vorresti farci del bene.»

«Sì. Sì, è così.»

«Non posso aiutarti.»

«Ascolta, io…» Naito si interruppe, prima di schiudere la bocca sbalordito. «Un momento, mi credi?!»

«Certo che ti credo. Non saresti arrivato fin quassù a chiedermelo, altrimenti. Inoltre, ciò che mi hai raccontato…» Tsukuyomi sospirò. «Io meglio di chiunque altro posso comprendere come ti senti. Ma non posso lasciare che tu consegni il mio elisir al Giappone.»

Lo stupore di Naito si mischiò con la delusione. «Ma… perché?»

«Perché? Hai davvero il coraggio di chiedermi “perché” dopo tutto quello che ti ho raccontato?» Le narici del dio si dilatarono come quelle di un Ushi-oni imbizzarrito. «I giapponesi non si meritano nulla da me. Sono l’ultima ruota del carro, per loro, il dio meno importante in assoluto. La gente a malapena si ricorda della mia esistenza.»

«Non è vero, esistono molti santuari dedicati a…»

«A me? Sì, certo, esistono. Li hai mai visti?»

Naito esitò. «Ehm…»

«Vai a darci un’occhiata, quando hai tempo. E dopo passa nei santuari che hanno eretto per i miei fratelli, o per quella presuntuosa di Inari, e prova a venire ancora a dirmi che ai giapponesi importa davvero qualcosa di me.» Tsukuyomi fece un verso infastidito. «Sono il dio della “Luna” nel paese del “Sol Levante”. Le cose erano difficili per me già da prima del mio esilio. Puoi solo immaginare come sono andate dopo.»

«Ma… e allora perché produci l’elisir?»

Tsukuyomi afferrò una fialetta da un bancone e gliela sventolò di fronte al naso. «Per darlo a tutti gli altri! Ho ordini che mi arrivano da ogni parte del mondo, India, Cina, Egitto, c’è anche un tizio francese che continua a ordinarlo. E anche i greci me lo chiedono, a volte. Usano il principio attivo dell’elisir per creare il nettare e l’ambrosia. O forse sono io a usare il principio attivo del nettare e l’ambrosia. Non mi ricordo, non ha importanza, il punto è che sono disposto a darlo a chiunque, chiunque, purché non sia un giapponese! Questo paese non merita la mia brillantezza. E la cosa include anche te. Mi dispiace per la tua storia, mi dispiace per i cari che hai perduto, ma non ti darò l’elisir.»

Naito non aveva alcuna intenzione di accettare “no” come risposta dopo tutto quello che aveva passato. In un modo o nell’altro, sarebbe uscito da lì con l’elisir. «Che cosa vuoi in cambio?»

«Mh?» Tsukuyomi posò la fialetta. «Che cosa?»

«Che cosa vuoi in cambio dell’elisir» spiegò Naito. «Hai detto che nessuno ti fa mai dei favori. Te ne farò uno io, purché sia… alla mia portata. Sei d’accordo?»

Tsukuyomi lo squadrò con le labbra socchiuse per lo stupore. Per un istante Naito pensò che stesse davvero per accettare, ma poi lo vide scuotere la testa, anche se con un sorrisetto. «Apprezzo la tua inventiva, ma non esiste nulla che tu possa darmi in cambio dell’elisir. Chiedimi qualsiasi altra cosa e sarò lieto di fartela avere, in cambio del giusto favore, ma l’elisir è fuori discussione.»

Naito strinse i pugni. La testardaggine di Tsukuyomi cominciava a dargli sui nervi. «Cerchi di attirare le attenzioni di tua sorella, vero?»

L’occhiata che gli rivolse Tsukuyomi fu molto diversa da tutte quelle che aveva ricevuto prima. «Che cosa vorresti insinuare?»

«Sto insinuando che sei esattamente come la tua luna, hai bisogno del sole per brillare. Senza, non sei niente.»

«Mezzosangue, ti consiglio di tacere, prima che…»

«Guarda questo posto.» Naito tese una mano verso un banco da lavoro al di sotto di un calendario con fotografie di conigli. «Tu questo lo chiami regno? Questi sarebbero sudditi?! Non offendetevi, non ce l’ho con voi» aggiunse, anche se i conigli non gli prestarono attenzione. «Dici di essere un dio brillante, ma io non vedo nessun dio qui. Vedo solo un codardo che ha paura di affrontare le conseguenze delle sue azioni.»

Sapeva di star correndo un rischio enorme a dire quelle parole, ma non aveva altra scelta. Aveva capito che persona fosse il dio. L’aveva capito… perché era proprio come lui.

Le stelle sul kimono di Tsukuyomi cominciarono a vorticare all’impazzata. Gli lanciò un’occhiata di odio puro, mentre le sue iridi si tingevano di rosso, come lune di sangue. Immagini orribili balenarono nella mente di Naito, morte, carestie, terremoti e distruzione. La pelle gli si arricciò di nuovo, mentre Tsukuyomi digrignava i denti. «Sarà meglio che inizi ad implorare il mio perdono, mezzosangue, perché altrimenti…»

«Hai commesso un errore.» Naito alzò la voce, reggendo lo sguardo del dio, sentendo le proprie ossa sussultare per via dell’energia disumana che stava impregnando l’aria. «Ma cos’hai fatto fino ad oggi per cercare di porre rimedio? Isolarti in questo modo, ad aspettarti delle scuse che sai che non arriveranno mai, non è la soluzione. Se davvero pensi di meritare la fiducia di tua sorella, se davvero ritieni di essere un dio importante, allora smettila di nasconderti e datti da fare per dimostrarlo, perché credimi, la gente non lo capirà da sola. Tua sorella soprattutto. Se davvero vuoi che le cose cambino, dimostra a tutti che non sei malvagio come credono.»

Il respiro di Tsukuyomi si fece pesante. Rimase immobile, ad osservarlo inespressivo. Naito era sicuro che lo avrebbe attaccato, e a quel punto non aveva idea di cosa avrebbe fatto. Di una cosa era certo, sarebbe uscito da quel luogo con l’elisir, in un modo o nell’altro. Aveva sconfitto Kagu-Tsuchi: avrebbe sconfitto anche lui.

All’improvviso, però, il dio distolse lo sguardo. Le iridi gli tornarono normali e il kimono smise di agitarsi. Un lungo mugugno gli scappò dalle labbra, mentre si voltava verso la vasca al centro dell’officina, dove quell’intruglio verdognolo continuava a girare ignaro di tutto. La profonda tristezza di poco prima lo assalì nuovamente e Naito realizzò di avere il cuore che minacciava di saltargli fuori dal petto. C’era mancato davvero un soffio.

«Pensi… pensi che dovrei ignorare quello che è successo con mia sorella?» domandò il dio, con voce smorta. «Anche se mi ha cacciato?»

«Penso solo che… covare rancore sia inutile» rispose Naito, attingendo a ciò che aveva imparato da Edward e da Konnor. «Le cose non vanno sempre come vorremmo. L’ho capito io, mio malgrado, e la mia vita non è che un frammento infinitesimale se paragonata alla tua. Perché non puoi capirlo anche tu?»

Tsukuyomi sospirò. Non sembrava esserci più alcuna traccia della sua furia di poco prima. «Non è così semplice, mezzosangue. Vorrei tanto che lo fosse. Però…» Gli lanciò un’occhiatina rapida, assottigliando le palpebre, prima di riportare l’attenzione sulla vasca. Cominciò a borbottare tra sé e sé: «E se fosse che… no, mi sto sbagliando… ma forse è davvero lui… non posso esserne certo. Però è un mezzosangue, deve pur significare qualcosa…»

Naito sbatté le palpebre un paio di volte. Cominciò a pensare che avesse del tutto perso il senno. «Ehm… scusa, ma che stai…»

Tsukuyomi si voltò di scatto, folgorandolo con un’occhiata molto diversa da quelle di prima. Ora, sembrava che ci fosse un luccichio malizioso nei suoi occhi. Batté le mani un paio di volte. «Ragazzi, per oggi può bastare così. Andate pure a riposarvi.»

I conigli posarono pestelli, mortai, attrezzi e quant’altro e scesero dagli sgabelli, dirigendosi in fila ordinata verso la porta che loro avevano preso per entrare. Le pale dentro la vasca si fermarono da sole all’improvviso, interrompendo quel ronzio interminabile.

«Tu» affermò Tsukuyomi, indicando Naito. «Seguimi.»

Cominciò a camminare senza nemmeno aspettarlo. Naito sbatté le palpebre un paio di volte, domandandosi cosa diamine gli fosse preso, e obbedì. Lo guidò verso una porta scorrevole al fondo dell’officina divenuta improvvisamente vuota e silenziosa. Attraversarono una stanza piena di scatoloni sigillati e impilati tra di loro, con sopra scritti indirizzi e nomi, probabilmente i clienti a cui era indirizzato l’elisir.

Lesse i nomi più svariati, la già menzionata Chang’e – a cui era dedicato uno scatolone molto più grande con tanto di bigliettini di auguri – e molti altri che non conosceva, come Asclepio, Khonsu, Ecate, Nicolas Flamel, Eris, mentre gli indirizzi indicavano Grecia, Francia, Egitto, Wyoming, Cina, Inferi, Tartaro, Alfa Centauri, e così via.

«Ultimamente siamo sommersi di richieste» borbottò Tsukuyomi, aggirando una pila di “Campioni Gratuiti” che sembrava reggersi in piedi per miracolo. Naito ipotizzò che Roger non passasse di lì molto spesso. «Poco male, finché mi pagano io non mi lamento» proseguì il dio.

«E con cosa ti pagano?»

«Oh, con un sacco di doni fantastici!» Tsukuyomi accennò alle costellazioni che ondeggiavano sul suo kimono. «Belle, vero? Sono opera di Nyx, la dea della notte. Le ha fatte in cambio di qualche migliaio di fialette. Un’altra gran donna. Sapere che c’è lei a fare compagnia alla mia Luna mi fa sentire molto meno solo. A quanto pare, però, lei è davvero una dea malvagia, quindi mi hanno proibito di farci altri affari. Peccato, credevo di piacerle.»

Naito corrucciò la fronte. Era strano per lui sentire parlare degli dei in quel modo, dopo tutti gli anni trascorsi a desiderare di ucciderli tutti. In effetti, era strano il solo fatto che si trovasse lì, in termini così pacifici con uno di loro, uno dei tre fratelli, per giunta. Se Orochi l’avesse visto…

Serrò le labbra. Orochi era morto. Non doveva più pensare a lui.

Arrivarono a un’altra zona del palazzo, dall’interno sembrava molto più grande che dall’esterno. L’odore che Naito aveva sentito all’ingresso gli aveva ricordato una stalla. Ora, erano finiti proprio dentro una stalla.

C’erano mucchi di fieno stipati contro le pareti, vaschette e mangiatoie vuote appoggiate alle rastrelliere e alle recinzioni per bovini. Nonostante fosse piuttosto grande, abbastanza da contenere almeno una ventina di mucche, ce n’era soltanto una, in un angolo indisturbato, che se ne stava con la testa china sopra un mucchietto di fieno.

Solo che non era una semplice mucca. Non appena furono più vicini, Naito si rese conto con un misto di sorpresa e orrore che il corpo, sì, era quello di un bovino, ma il muso, la testa, era quella di un umano.

«È un kudan2!» esclamò, non credendo ai propri occhi. Non ne aveva mai visto uno prima di quel giorno, ma sapeva cosa fossero. Erano molto rari, e con buona ragione: ogni volta che ne appariva uno, eventi terribili si verificavano.

«Sì» annuì Tsukuyomi, posandosi le mani sui fianchi. «È apparso qualche giorno fa sulla cima del Monte Fuji.»

«Ma perché l’hai portato qui?!» domandò Naito, inorridito. «Sono portatori di sventura!»

«Non sono loro a portare sventura. Loro annunciano che la sventura sta per arrivare. Sono messaggeri, profeti, per così dire. E…»

«La guerra scoppierà» borbottò il kudan proprio in quel momento, sollevando il muso dal fieno, con voce che ricordava proprio il muggito di una vacca, impossibile da capire se fosse maschile o femminile. «La notte eterna… giungerà.»

«Parla in rima» riuscì soltanto a dire Naito, forse perché era troppo sconvolto da quelle frasi per pensare ad altro.

«Le profezie devono essere in rima… suppongo.» Tsukuyomi sollevò le spalle. «Non ne ho idea. Non sono mica quel pallone gonfiato di Apollo. Fatto sta che…»

«L’araldo fallirà…» Il kudan si era accorto di loro e si era avvicinato, dimenticandosi del suo pasto. Conficcò i suoi occhietti proprio su di Naito, studiandolo con attenzione e producendo un lungo verso gutturale. Il suo volto era quello di uomo in tutto e per tutto, con capelli corti, neri, e le guance grassocce. «… se il mezzosangue non lo aiuterà» concluse, prima di voltarsi e tornarsene al suo fieno.

«È da quanto è qui che continua a ripetere le stesse frasi» spiegò Tsukuyomi, mentre Naito rimaneva immobile, atterrito. «L’araldo che fallisce, la guerra che scoppia, la notte che…»

«La vergine sanguinerà!» muggì il kudan.

Tsukuyomi fece una smorfia. «Sì, anche quello.»

Naito si riscosse. Era la seconda volta che qualcuno menzionava la vergine. Ed era anche la seconda volta che sentiva parlare di guerra. «Che… che significa tutto questo?»

«Io… non ne sono molto sicuro» rispose Tsukuyomi, massaggiandosi il mento. «So solo che araldi che falliscono, guerre che scoppiano e notte eterna non promettono bene.»

«Non… non ne hai parlato con gli altri dei?»

«Oh, certo, lo farei volentieri, ma c’è un problema: SONO IN ESILIO!» Tsukuyomi si schiarì la voce. «Scusa, non volevo urlare. Comunque, gli altri dei mi odiano, penserebbero che sto soltanto cercando di distrarli dai problemi più immediati.»

Naito appoggiò la mano sopra la recinzione, angosciato. «Quali problemi più immediati?»

«Mh? Mi pare di averlo già detto prima. Yata no Kagami è scomparso.»

«A-Aspetta… quel Yata no Kagami? Lo Specchio Sacro?!»

«Già. E senza di quello mia sorella rischia di spegnersi.»

L’aria venne risucchiata fuori dal corpo di Naito. Ecco cos’era lo specchio menzionato da Tsukuyomi, poco prima. Si riferiva a quello, Yata no Kagami, lo specchio che gli dei avevano appeso fuori dalla grotta di Amano Iwato per far uscire Amaterasu dopo la sua scomparsa3. «Che significa che… che la regina “rischia di spegnersi”? Credevo che fosse solo… sì, insomma, uno specchio. Perché dovrebbe essere così importante?»

«Perché l’essenza vitale di mia sorella è rimasta impressa in esso, dopo che è uscita da quella caverna. Aveva perso la sua luce, la sua voglia di vivere, e l’ha ritrovata grazie a quello specchio. Lo specchio, serve per aiutarla a illuminare il mondo. Senza, il suo potere è dimezzato. E più tempo trascorrerà senza di esso, più la sua luce continuerà ad affievolirsi, finché non si spegnerà del tutto. E questo kudan ha detto che “la notte eterna scenderà.”»

«La notte eterna giungerà!» urlò il kudan. 

«Scendere, giungere, è la stessa cosa!» replicò il dio, inviperito. Per tutta risposta, la mucca ripeté il verso esatto.

«Non accogliere mai un kudan in casa tua. Sono di pessima compagnia» si lamentò Tsukuyomi.

«Quindi… tua sorella rischia di spegnersi?» mormorò Naito, giusto per essere sicuro di aver capito bene quanto grave fosse la situazione. Ricordò all’improvviso le parole di Ibaraki, sul fatto che Amaterasu fosse vulnerabile. Non gli aveva mentito. E aveva parlato di una guerra, proprio come il kudan. 

Tsukuyomi scrollò di nuovo le spalle. «Già, così sembra.» Cercava di apparire disinteressato, ma Naito avrebbe giurato che fosse teso tanto quanto lui. «Ma non è tutto. Mia sorella non è stupida, sapeva di essere in pericolo, e in qualche modo sapeva che un mezzosangue sarebbe stato importante per il suo futuro. Quest’estate, dopo che la guerra è stata sventata, lei ha scelto un mezzosangue come suo campione. Gli ha donato Ama no Murakumo e l’ha incaricato di usare la spada per proteggerla. Tuttavia, l’ha chiamato in quel modo, “araldo.” E a quanto pare…»

«L’araldo fallirà» dissero Naito e il kudan insieme.

«Sì. Ma solo se…» Tsukuyomi lo scrutò con attenzione. «… “il mezzosangue non lo aiuterà.”»

Naito non ci mise molto a capire dove la discussione stava andando a parare. «Pensi… pensi che il mezzosangue sia io?!»

«Beh… diciamo che se fossi tu, sarebbe vantaggioso per tutti» spiegò Tsukuyomi. «Se tu aiutassi l’araldo a impedire la notte eterna, e dicessi a tutti che sono stato io, Tsukuyomi-no-mikoto, il dio della Luna, a mandarti… ne gioveremmo entrambi, non pensi?»

«Ma tu sei un dio, non faresti prima ad intervenire tu stesso? Perché non…»

«Hai sentito il kudan. Non si parla di “dei”, ma di un mezzosangue. Il fato non si può riscrivere, Naito. Le cose possono, e devono, andare solo in un modo. E in ogni caso, questa è la tua occasione per ottenere quello che vuoi. Quando gli dei vedranno un han’yō combattere per loro, realizzeranno che la tua specie non è malvagia. E allo stesso tempo, quando Amaterasu capirà che sono stato io a mandarti ad aiutarli, mi sarà debitrice eterna e sarà costretta a riammettermi nel Takama-ga-hara. Già mi immagino la sua faccia sorpresa quando scoprirà che è salva grazie a me. Ah! Non vedo l’ora. La farò strisciare ai miei piedi!»

Cercava di mostrarsi arrogante e pieno di sé, ma Naito intuì subito il suo reale stato d’animo. Era angosciato per Amaterasu e voleva davvero aiutarla, perché le voleva ancora bene, ma era troppo orgoglioso per ammetterlo ad alta voce. Un sorriso nacque sul suo volto senza che nemmeno se ne rendesse conto.

«Che hai da sorridere?»

«Nulla.» Naito riportò lo sguardo sul kudan, che continuava a mangiare e a muggire quei versi. Tra tutti loro, quello della vergine che sanguinava gli rimase più impresso. Che… che si trattasse di Rosa?

Anche il Re voleva sapere di lei. Non poteva essere solo un caso. Il pensiero che lei potesse essere in pericolo si conficcò nella sua mente, causandogli un nodo allo stomaco. Era di nuovo di fronte a una scelta: poteva dire di no, tirarsi indietro e lasciare che qualcun altro combattesse quella battaglia… oppure poteva combattere per la giusta causa.

Se fosse scoppiata davvero una guerra, i piccoli dei sarebbero corsi in aiuto dei loro genitori, Rosa inclusa. Ripensò a cosa quella ragazza avesse fatto solo per cercare di fermarlo. Lo aveva affrontato senza guardarsi indietro neanche una volta, per difendere le persone a cui teneva, per difendere suo fratello. Avrebbe dato la vita, se fosse stato necessario, per quella causa. E quel pensiero lo fece rabbrividire.

Ma non c’era solo lei. Edward, Konnor, i loro amici, il ragazzo che aveva incontrato a Yokohama, Kate Model…

Kairi. I mezzosangue. Tutti i mezzosangue, anche quelli per metà dei. Erano tutti coinvolti, tutti avrebbero combattuto, tutti avrebbero rischiato la vita. Alcuni di loro già l’avevano persa.

Naito strinse i pugni. «Va bene, Tsukuyomi. Ti aiuterò. Che cosa devo fare?»

«Mia sorella ha incaricato l’araldo di proteggerla» cominciò a spiegare Tsukuyomi, picchiettandosi il mento. «Ma stando al kudan, lui fallirà se non riceverà aiuto da un mezzosangue. Perciò, credo che la soluzione più logica sia mandarti in occidente, da lui. Trovalo, proteggilo e aiutalo a fare qualsiasi cosa mia sorella gli abbia ordinato di fare.»

«E come lo trovo?»

«Non sarà così difficile. È un semidio, dopotutto. Si chiama Edward Model.»

Naito spalancò l’occhio, il sorriso che si dileguava dal suo volto. «Edward?!»

«Lo conosci? Bene, renderà tutto più semplice. Forse dovrete ritrovare Yata no Kagami. Ci stanno già pensando il mio stupido fratello minore e i suoi lacchè a cercarlo, ma non credo proprio che troveranno nulla. Non credo nemmeno che vogliano trovarlo.» Tsukuyomi fece una smorfia. «Non riesco a credere che Amaterasu si fidi ancora di lui.»

Non sembrava correre affatto buon sangue tra lui e Susanoo.

«Tieni, prendi anche questo.» Tsukuyomi spalancò la mano: una fiaschetta di ceramica gli apparve nel palmo. «Un campione gratuito monouso del mio elisir.»

Naito era ancora scosso dall’idea di dover cercare proprio Edward. Di nuovo. Afferrò la fiaschetta con mano tremante.

«Se le cose si mettessero male, dovrebbe aiutarvi» spiegò il dio.

«Ehm… “dovrebbe”?»

«L’elisir è potente, ma è anche instabile. Può avere… molti effetti. Devi essere certo di volere quello giusto.»

«Perché deve sempre essere tutto così criptico?»

«Non hai idea di quante volte mi sia fatto la stessa domanda. Ma se il nostro piano funzionasse, l’araldo non fallirà, il che significa che forse riusciremmo a salvare mia sorella.»

«La notte eterna…»

«Abbiamo capito!» urlò Tsukuyomi, riuscendo, incredibilmente, a zittire il kudan.

Naito osservò la fiaschetta. Era bianca, chiusa da un tappino di sughero, con un solo kanji nero dipinto sopra: . Vita.

Così, quello era il suo nuovo obiettivo. Doveva tornare in America e trovare Edward. Non solo, doveva aiutarlo. Tutt’un tratto, la fialetta sembrò farsi molto più pesante, come se il suo contenuto non fosse più un semplice intruglio di dubbia provenienza ma qualcosa di molto, molto più grande. Qualcosa di più simile al “destino del mondo”, o diavolerie del genere.

Inoltre, il verso della vergine continuava a ronzargli in testa. Stava tornando in America, da Edward, per di più. Il che significava che…

Un brivido gli percorse la schiena.

Rosa.

L’avrebbe rivista.

«Allora, sei pronto?»

Naito trasalì. «Per cosa?»

«Per andare in occidente, no?» Tsukuyomi sollevò le mani, che cominciarono a brillare di bianco. Un sorrisetto folle apparve sul suo volto. «Forza, non abbiamo un solo istante da perdere!»

Naito spalancò l’occhio. «Un momento, che cosa stai…»

«Buon viaggio!» esclamò il dio, sferrandogli un ceffone che lo scaraventò verso il soffitto, in tutti i sensi. Naito urlò a perdifiato, mentre la terra si staccava dai suoi piedi e cominciava a volare incontrollabile. Attraversò il soffitto come se fosse fatto d’aria, sfrecciò in una stanzetta piena di conigli che sgranocchiavano carote, che alzarono le zampine in segno di saluto, e subito dopo si ritrovò in cielo, con il Monte Fuji che diventava un puntino indistinguibile alle sue spalle.

«E ricorda di dire a tutti che ti ho mandato io, Tsukuyomi-no-mikoto!» tuonò la voce del dio, da qualche parte imprecisata attorno a lui. «Buona fortuna! Che la Luna ti mostri la via, Naito!»

«AAAAAAAAAAAH!»

La terra svanì. Le nuvole lo circondarono, ogni cosa divenne una macchia indistinta. L’unica cosa a cui riuscì a pensare, fu che sarebbe morto all’atterraggio.

 

 

 

 

 

1 Il Monte Fuji nel mito è abitato da due divinità: Sakuya-hime è la dea che protegge la montagna, la stessa che abbiamo incontrato, Kuninotokotachi invece è il dio che abita sulla cima, che però in questa storia si è convenientemente levato di torno quando è arrivato Tsukuyomi. Che bella coincidenza!

I greci hanno l’oracolo, i romani l’augure, i giapponesi hanno la mucca parlante. Beh, che c’è? Non l’ho mica deciso io. Comunque il kudan è uno yōkai, mezzo uomo mezzo bovino, con il dono della profezia. Ogni volta che ne appare uno è per annunciare eventi catastrofici, ma ascoltandolo è possibile prevenirli.

3 Se ricordate, nel primo capitolo questa leggenda ci venne illustrata proprio da Miyamoto e Naito. E anche nell’ultimo capitolo della Spada del Paradiso possiamo trovare Amaterasu di fronte ad uno specchio, quello specchio.

 

 

 

 

Salve gente! Spero che questo lunghissimo capitolo vi sia piaciuto! Ammetto che per me è stata una faticaccia da scrivere, all’inizio, ma sono davvero soddisfatto del risultato finale e soprattutto sono soddisfatto di com’è venuto Tsukuyomi. Devo ammetterlo, inserire nuovi dei è stata una delle cose più belle di queste storie, i tre fratelli, Izanami, perfino Sakuya-hime è stata spassosissima, nonostante il breve cameo. Ah, sì, c’è anche Kagu-Tsuchi. Meglio non parlare troppo di lui.

Comunque, all’inizio pensavo di ricoprire il monte Fuji di mostri pericolosi, mi immaginavo Naito che arrivava in cima combattendo come un pazzo, però poi c’ho riflettuto meglio e, dopo alcune ricerche, mi sono reso conto che sarebbe stata una cosa stupida. Il monte Fuji è considerato un luogo sacro, quindi è sicuro per le persone che vanno a visitarlo, oltretutto è protetto proprio da Sakuya-hime, perciò ho deciso di farlo sì, pericoloso, ma per i mostri e non per i mortali. Però alla fine tutto si è risolto per il meglio, quindi hurrà!

Per finire, la parte finale in effetti ricorda un po’ quando Percy e Leo sono stati catapultati a Ogigia. E per quanto l’idea mi alletti… Naito non finirà ad Ogigia, però finirà in un posticino altrettanto interessante, prima di arrivare in America. L’ultimo capitolo sarà sempre il prossimo, ma prima di chiudere con il ritorno in America ci sarà una piccola tappa altrove e non vedo l'ora di mostrarvela. 

In ogni caso, spero davvero che il capitolo vi sia piaciuto, io mi sono divertito tantissimo. Riguardo il kudan e la profezia, ho fatto qualche ricerca e ho visto che il kudan in realtà non parla proprio in indovinelli o cose del genere, quindi non ho fatto nulla di troppo elaborato, ho solamente messo lo yōkai che… dice quello che accadrà. Semplice, veloce e pulito. 

E sì, Amaterasu continua a farsi rubare le cose. Povera. 

Bene, grazie per aver letto, spero che il capitolo vi sia piaciuto e, quasi dimenticavo, voglio ringraziare infinitamente Nanamin per questo bellissimo disegno di Tsukuyomi (e di Roger):

 

Tsukuyomi


Grazie mille, mi ha davvero lasciato senza parole! Penso che il nostro Tsukuyomi sia appena diventato il dio più gnocco mai visto. E grazie anche tutti voi per aver letto, ormai manca poco, solo più un capitolo e poi ci si rivedrà tutti, spero, ne Il Velo Invisibile! (e la raccolta, sì, sì, la raccolta). 

Alla prossima!

 

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Capitolo 16
*** Il viaggio continua ***



16

Il viaggio continua

 

 

Naito si svegliò di soprassalto. L’ultima cosa che ricordava era che stava gridando a perdifiato, mentre il mondo si faceva sempre più lontano. Pensò di stare precipitando, invece si rese conto di essere seduto a terra, sopra un pavimento di marmo gelido. Si guardò attorno e si massaggiò il volto, trovandolo tutto intero, con tanto di cicatrice sull’occhio e corno spezzato.

Si rese conto di essere dentro una casa. Una casa bella. Le pareti rosse decorate con tende orlate d’oro, mobili antichi e pregiati, degni delle più nobili regge, contornati di azzurro. C’erano ampie finestre da cui filtrava la luce intensa del giorno, ceramiche verdi con ghirigori sempre color oro sopra delle mensole, vasi di fiori di ciliegio rigogliosi e giganteschi arazzi raffiguranti monti, draghi, qilin e divinità. Una raffigurazione di Amaterasu lo stava scrutando severo, stringendo Ama no Murakumo tra le mani.

Come c’era finito lì? Era ancora in Giappone? Che diamine era successo?

«Ciao, Naito.»

Quella voce improvvisa lo folgorò come un fulmine. Si alzò di scatto e indietreggiò fino a sbattere contro una parete. Di fronte a lui c’era un uomo avvolto in un kimono bianco e oro, che gli sorrise divertito. «Che piacere averti qui.»

Naito non rispose. Rimase senza fiato, non riuscendo a capacitarsi di cosa il suo occhio gli stesse mostrando. Non poteva essere vero, era impossibile.

In mezzo alla stanza, seduto scompostamente dietro ad un tavolino imbandito… c’era Orochi.

«Sorpreso di rivedermi?»

Di nuovo, Naito rimase in silenzio. La mente rifiutava di collaborare con lui. Non aveva senso. Credeva che Orochi fosse morto! Perché era lì? E dov’era ?

Che diamine stava succedendo?!

«Hai una pessima cera, Naito» gracchiò l’uomo con un sorrisetto divertito. Sollevò una tazzina. «Vuoi bere qualcosa?»

Naito lo osservò come in trance, incapace di formulare una risposta.

«No?» proseguì Orochi. «Come preferisci.»

Afferrò una fiasca di ceramica dal tavolino, accanto quel vassoio pieno di leccornie – c’erano piatti di ravioli, carne e pesce alla piastra, verdure bollite e ramen. Orochi riempì la tazzina di sakè e se la portò alle labbra, cominciando a bere facendo lunghi versi appagati. Se ne separò con un sospiro soddisfatto, poi cominciò a mangiare i bocconcini di carne con semini di sesamo, afferrandoli con le mani e gettandoseli in bocca senza nemmeno masticare.

Il ragazzo non seppe più cosa pensare. Avrebbe dato qualsiasi cosa per capire cosa significasse tutto quello, che cos’era quel posto, perché era così lussuoso, perché Orochi fosse vestito in quel modo, perché fosse vivo, ma non riusciva a parlare. L’unica cosa che poté fare fu concentrarsi sull’aspetto dell’uomo.

Se non era morto, poco doveva esserci mancato, perché Orochi aveva un aspetto perfino peggiore di come Naito ricordasse.

I capelli lunghi gli scendevano disordinati sopra quel kimono che mai gli aveva visto indossare. In mezzo a quella stanza, con quell’abito addosso, pareva quasi un regale. Peccato solo che il suo volto fosse quello di un mostro viscido, squamoso e ricoperto di sfregi orribili da far sembrare quelli di Kagu-Tsuchi dei graffietti.

Lo squarcio che gli attraversava il viso a metà, quello donatogli da Edward, si era rimarginato male in una lunga linea rossa che cozzava con il suo pallore cadaverico dalle tonalità bluastre. Aveva gli occhi scavati, vitrei e iniettati di sangue, la pelle era coperta di cicatrici, non c’era un solo lembo rimasto intatto, pareva che mille rapaci dagli artigli affilati come kunai avessero provato tutti insieme a strappargli la faccia di dosso.

«Era da molto che cercavo di comunicare con te» proseguì Orochi, ignorando il suo silenzio. «Ma è difficile riuscire a trovarti addormentato abbastanza profondamente da creare un contatto. Di solito riuscivo solo a mandarti brevi messaggi.»

Naito corrucciò la fronte. Ripensò alle volte in cui, mentre provava a dormire, la voce di Orochi balenava nella sua testa. Quindi… non erano solo incubi. Non era solo la sua mente che gli faceva brutti scherzi. Era… era stato davvero Orochi.

Il ragazzo si osservò le mani incredulo. Provò a toccarsi il petto e con sorpresa realizzò di essere incorporeo. A quel punto spalancò la bocca: era un sogno. Stava sognando Orochi. Gli era successa la stessa cosa che era accaduta ad Edward mesi prima, quando l’uomo l’aveva contattato dal museo per mostrargli Rosa.

«Ma… ma com’è possibile?» Naito drizzò la testa. «Tu sei morto! Come hai fatto a creare un contatto con me?!»

«È semplice, Naito. Non sono morto.» Orochi accennò alla stanza e al tavolino. «Hai visto in che posto meraviglioso sono capitato? Cibo e bevande a volontà, vestiti pregiati, e guarda questa stanza! Pare proprio quella di una reggia, vero?» La sua voce si ridusse ad un sussurro cavernoso. La sua espressione appagata cambiò all’improvviso. Nei suoi occhi cremisi balenò un odio che solo rare volte Naito aveva visto in lui. «Sarebbe davvero il paradiso… SE SOLO SENTISSI QUALCOSA!»

Si alzò in piedi di scatto e rovesciò il tavolino, mandandolo in frantumi sul pavimento e cospargendolo di cibo e del sakè che esplose fuori dalla fiasca distrutta. Lanciò la tazzina contro un vaso di fiori, disintegrandoli entrambi. E per finire si voltò verso l’arazzo alle sue spalle, quello raffigurante Amaterasu, e lo sradicò dalla parete con un urlo furibondo. Rimase immobile dopo quell’impeto d’ira, le spalle che si alzavano e abbassavano, il respiro ridotto al rantolio di una belva feroce e ferita.

La terra tremolò all’improvviso. I pezzi del tavolino cominciarono a muoversi da soli, rimettendosi assieme sotto lo sguardo sconvolto di Naito. Il cibo ritornò da solo sul proprio vassoio, la fiaschetta di sakè si ricompose e il liquore venne risucchiato di nuovo al suo interno da una forza invisibile. L’arazzo, ancora a brandelli tra le mani di Orochi, si liberò con violenza dalla sua presa per ritornarsene sulla parete, di nuovo intatto, e anche la tazzina e il vaso si ripararono da soli con un rumore simile a ciottoli che venivano calpestati, ritornandosene sopra la mensola.

Nel giro di un istante, tutto il caos dovuto alla rabbia dell’uomo era scomparso e la stanza era più linda e pulita che mai.

Una risatina scappò dalle labbra di Orochi. Non era divertita, però. Sembrava quasi isterica. Si sedette di nuovo dietro il tavolino e si spolverò come se non fosse successo nulla. Drizzò di nuovo la testa verso di lui, sogghignando. Nei suoi occhi balenò una scintilla di pura e semplice follia. «Oh, giusto. Ogni cosa qui si aggiusta da sola quando… si rompe. Comodo, non trovi?»

«Che… che razza di posto è questo?» riuscì a dire Naito, non riuscendo a porre una domanda diversa da quella tra le migliaia che gli vorticavano in testa.

Il sorriso di Orochi parve di più una smorfia rabbiosa. «Te l’ho appena detto, Naito. Questo…» Spalancò le braccia. «… è il paradiso

Naito conosceva i modi di dire. Conosceva anche il sarcasmo. Non era così ingenuo. Eppure, la frase di Orochi non sembrò né l’uno né l’altro. C’era qualcosa nel modo in cui lo disse, nella sicurezza nel suo tono, in quello sguardo intriso di pazzia, che gli suggeriva che stesse dicendo il vero. E proprio per questo motivo, faticò ancora di più a crederci.

«Non mi credi, vero? Controlla tu stesso allora.» La porta che conduceva fuori si spalancò da sola all’improvviso, dopo un solo cenno della mano di Orochi. «Esci pure a dare un’occhiata, Naito. Io rimarrò qui ad aspettarti. Non devo andare da nessuna parte, tanto» aggiunse, facendo un’altra risata che di risata aveva ben poco e lanciando un altro piatto contro la parete.

Credendo di essere in preda alle allucinazioni, Naito gli diede le spalle e si diresse verso l’uscita. Fuori rimase ancora più a bocca aperta. L’autunno lì non era mai arrivato, perché il giardino era coperto di splendidi fiori all’ombra di ciliegi alti e floridi. Si concludeva con una staccionata rossa che si affacciava sopra uno strapiombo. Quando Naito vide il paesaggio, si dimenticò come respirare.

Era una valle meravigliosa, rinchiusa in una conca tra le montagne, così incredibile che non sembrava nemmeno essere stata creata per essere vista dall’occhio mortale. Decine, centinaia di case come quella alle sue spalle, con i tetti squadrati, le mura rosse e i giardini in fiore la ricoprivano, intervallate da fiumi che brillavano al sole, distese di verde immense, cascate e laghetti affollati di persone.

C’erano pesci nei fiumi, carpe koi dai colori sgargianti grosse quanto dei wagyū, e tartarughe con lunghissime code fatte di alghe che sostavano lungo le rive. Vide anche un gruppo di cani dal manto blu che giocavano tra di loro, emanando scintille dal pelo.

Scavate nella roccia sulla cima delle montagne c’erano statue gigantesche, di trenta metri d’altezza come minimo, raffiguranti quelli che Naito riconobbe immediatamente come dei, perché erano le stesse figure che aveva visto negli arazzi. Scrutavano quel luogo dall’alto con aria severa e protettiva, al punto che si sentì a disagio soltanto trovandosi al loro cospetto. Alcune erano state scolpite in modo da avere altre cascate di acqua cristallina che sgorgavano dagli occhi o dalla bocca.

Dall’altra parte della valle, alla cima di un lungo complesso di scale di marmo bianco e terrazzi immensi intervallati da ponti e altre cascate, spiccava un palazzo che avrebbe fatto sembrare qualsiasi altro edificio di quella valle microscopico. Era di almeno dieci piani, circondato da mura impenetrabili, ed emanava una luce così intensa da essere accecante.

Ai lati del portone d’ingresso si trovavano due creature mastodontiche, con criniere scarlatte e zanne così affilate che pure da quella distanza Naito poteva vederle. Annusavano l’aria e si guardavano attorno circospetti. Li riconobbe con un solo sguardo: erano dei komainu1, i guardiani che venivano messi a guardia dei templi e delle zone sacre più importanti in assoluto. E Naito non ci mise ancora molto per capire che quel palazzo doveva essere proprio la Zona Sacra per eccellenza. Il potere che irradiava arrivava fino a lui, facendogli accapponare la pelle.

Quella… era la reggia di Amaterasu.

Due statue della dea, identiche alla figura dell’arazzo, sorgevano nella roccia accanto al palazzo, con le mani strette nel grembo e la testa china in preghiera. Perfino da scolpita nella roccia immobile, la dea del sole appariva come la donna più stupefacente che fosse mai esistita. Una bellezza senza eguali, da togliere il respiro.

Per finire un torii immenso sorgeva al di là delle montagne, oltre il palazzo della regina, a fare da gigantesco varco d’ingresso per la valle.

Naito indietreggiò. Orochi non aveva affatto mentito. Non l’aveva mai visto, ma era bastata una semplice occhiata per capirlo.

Quel luogo era davvero il paradiso. Il Takama-ga-hara, l’altopiano del paradiso, la residenza degli dei, situato al di sopra del monte Takamagahara, collegato al mondo mortale tramite un ponte celeste fluttuante. Ormai aveva quella spiegazione ben impressa nella mente, grazie al vecchio Musashi. 

Non avrebbe mai e poi mai, in cento vite diverse, pensato di vedere quel luogo di persona. E Orochi si trovava lì. Lui si trovava lì. Per un attimo, pensò che Tsukuyomi lo avesse spedito troppo in alto, ma poi ricordò che non era davvero lì. Era solo un sogno. Un sogno maledettamente reale. Deglutì, incapace di fare altro.

Ora che poteva osservare il paradiso con il proprio occhio, si rese conto che il palazzo di Tsukuyomi era molto simile agli edifici che si trovavano lì, solo molto più decrepito e trascurato. Naito sentì un moto di tristezza per lui. Quel luogo era incantevole, poteva comprendere perché il dio della luna ne avesse patito così tanto l’esilio.

«Sì, Naito.» La voce di Orochi lo fece sobbalzare. Si voltò di scatto, trovandoselo di fronte, le mani unite dietro la schiena. Il suo sguardo era fisso sul palazzo di Amaterasu. Questa volta non ci provò nemmeno a nascondere l’odio viscerale e la rabbia dal proprio volto. «Siamo nella casa degli dei.»

«Ma… come?» domandò Naito. 

Orochi fece un passo avanti. Una luce azzurra balenò sotto al suo mento e venne trascinato all’indietro, con un mugugno adirato. Un collare di ferro era apparso attorno al suo collo, unito a una catena fatta di energia azzurra, la cui estremità giungeva proprio dalla reggia da cui erano usciti. Orochi barcollò, poi afferrò la catena e la strattonò con un urlo così forte da riecheggiare in tutta la valle. Naito si paralizzò, temendo che quelle urla avrebbero potuto attirare gli dei, ma l’uomo non sembrava affatto spaventato da quella prospettiva. 

«Lascia che te lo spieghi, com’è possibile» rantolò Orochi, smettendo di litigare con la catena. «La puttana di Amaterasu ha avuto la brillante idea di tenermi imprigionato qui, proprio sotto al suo naso, in modo da potermi tenere d’occhio da vicino. Mi hanno sigillato in questa reggia dove posso avere quantità inesauribili di cibo, bevande, e dove tutto quello che viene rotto si ripara da solo.»

Un altro ghigno deturpò il suo volto già deturpato. «Loro lo sanno, sanno, che non importa quanto di quel cibo io mangi, avrò sempre fame. Sanno che l’unica cosa in grado di dissetarmi è il sangue di vergine. Lo sanno che non desidero altro che radere al suolo questo luogo mattone dopo mattone. Sanno ogni cosa. E proprio per questo mi hanno dato tutto il cibo che non può saziarmi che desidero, tutte le bevande insapori che voglio e, soprattutto, non posso distruggere nulla che non venga riparato in un istante.»

Una ciocca di capelli gli cadde di fronte al volto, ma non se ne curò. «L’hanno fatto apposta, Naito. Per prendersi gioco di me. E vuoi sapere la parte più interessante? Non hanno nemmeno tempo per occuparsi me come vorrebbero. Non hanno tempo per sbarazzarsi di me una volta per tutte. Sai perché?»

Orochi non gli diede nemmeno tempo di pensare ad una risposta. Fu lui stesso a dargliela: «Perché, a quanto pare, gli dei hanno “minacce più immediate” a cui pensare. Io sono solo un pensiero secondario, per loro. Capisci, Naito? Io, Yamata no Orochi, il flagello di Izumo, uno dei mostri più antichi e temuti dai mortali, colui che regnava nel Giappone come un dio… un pensiero secondario

Emise di nuovo quella risata gorgheggiante, intrisa di rabbia e follia, come se nemmeno lui riuscisse a credere alle parole che aveva appena pronunciato. E in effetti, anche Naito faticava a crederci. Allo stesso tempo, sapeva anche che quella storia non era una bugia: Amaterasu rischiava di spegnersi. Gli dei lo sapevano, perciò era chiaro perché avessero dato la priorità alla ricerca di Yata no Kagami.

Se Orochi era al corrente di tutto quello, non lo diede a vedere. Continuò imperterrito col suo sproloquio: «Ma se gli dei credono che io rimarrò qui senza muovere un dito, allora si sbagliano di grosso. Me la pagheranno. Si pentiranno di non avermi ucciso quando ne hanno avuto l’occasione. Evaderò da questa prigione e li distruggerò uno ad uno. Susanoo, Amaterasu, Izanagi, Inari… li farò a pezzi e banchetterò con i loro cadaveri.»

Un’orribile sensazione si fece largo dentro di Naito. «Ma… ma perché mi hai fatto venire qui?»

La luce del giorno faceva sembrare Orochi ancora più cadaverico, e orripilante. «Perché tu dovrai aiutarmi a evadere.»

 «Che… che cosa?» Naito pensò di aver sentito male. «Stai scherzando?»

«Affatto.» Orochi gli diede le spalle e si incamminò di nuovo verso la sua “cella”. «Mi hai deluso, in occidente. Ti avevo detto di occuparti di quei piccoli dei, e hai fallito. Di nuovo. Se sono rinchiuso qui, è anche per causa tua. Perciò, ti ho contattato proprio per questo motivo: tu dovrai aiutarmi a evadere.»

Naito lo seguì come in trance, sempre più convinto di non star davvero vivendo quel momento. Tutto quello gli sembrava così assurdo che la domanda gli uscì più per riflesso incondizionato che per altro: «E come dovrei fare?»

Orochi tornò a sedersi al tavolino e sorrise proprio come se non aspettasse altro che quelle parole. «È molto semplice, Naito. Molto più di quanto tu possa immaginare.» Afferrò un piatto e lo strinse così forte da distruggerlo, non curandosi delle schegge che gli si conficcarono nel palmo. «Ti basterà uccidere la vergine.»

Perfino nel sogno, Naito sentì il proprio respiro mozzarsi. «C-Cosa?»

«Sei ripetitivo, Naito. Hai sentito bene: devi uccidere la vergine. Quando morirà, io potrò trasformarmi. Nessuna prigione potrà contenermi. Distruggerò la casa degli dei dall’interno e dopo li ucciderò uno ad uno.»

Naito osservò come in trance il piatto distrutto mentre si rimetteva insieme da solo. «Ma… ma credevo che per trasformarti dovessi…» Si irrigidì. «… mangiare Rosa.»

«Il rituale è stato completato. Ho già bevuto il suo sangue. È ancora dentro di me, e lo rimarrà per molto tempo. L’unica cosa che manca, è il suo sacrificio.» Orochi sorrise. «Quando la sua anima lascerà il suo corpo e verrà reclamata da Izanami, io mi trasformerò. Niente potrà più fermarmi. Gli dei hanno commesso un errore a lasciarmi in vita, Naito. Li colpirò alle spalle mentre saranno distratti. Quando si accorgeranno cosa sta succedendo, sarà già troppo tardi.» Sembrava davvero convinto che quella follia potesse funzionare.

«Ma non puoi affrontare tutti gli dei da solo» mormorò Naito.

«Certo che posso, Naito. Gli dei si sono rammolliti. Secoli, millenni, trascorsi nell’ozio, senza muovere un dito, a lasciare che altri combattessero le loro guerre. Sono deboli. Me ne sono accorto non appena ho rivisto Susanoo. Non è lo stesso uomo che mi ha sconfitto. Nessuno di loro è più lo stesso. Sono divisi. Sono fragili. Non avrebbero chiesto aiuto ai greci, altrimenti. Questa è l’occasione migliore che abbiamo per colpirli. È l’occasione migliore che hai per salvare la tua specie.»

Orochi sbatté il pugno sopra una tazzina, distruggendola proprio come il piatto. «Ti basterà solo uccidere quella ragazzina, Naito. Uccidi la vergine… e saremo liberi. Il mondo sarà nostro. Nessuno ci fermerà.»

«Tu sei pazzo» rispose Naito, scuotendo la testa. «Non farò del male a Rosa. Te lo puoi scordare.»

Il sorriso svanì dal volto di Orochi, così velocemente che non sembrava esserci mai stato. «Come, scusa?»

«Hai sentito. Non ho alcuna intenzione di ascoltarti, Orochi. Non ucciderò Rosa, né obbedirò più ai tuoi ordini. Non ho alcuna intenzione di assecondarti ancora in questa tua folle guerra contro gli dei.» Rosa, Edward, Konnor, Hachidori, il vecchio Musashi, Ami, perfino Tsukuyomi e Hikaru balenarono nella mente di Naito, facendogli annodare lo stomaco. «Sono… sono meglio di così.»

L’incredulità svanì dal volto di Orochi, rimpiazzata da una maschera di arroganza. «“Meglio” di che cosa, Naito? Dei mostri?» Una roca risata gli uscì dalla gola. «Puoi credere di essere quello che vuoi, ma la verità è che tu sei un mostro, esattamente come me. Niente di più, niente di meno.»

«Io non sono come te, Orochi.» Naito affondò le dita nei palmi, sentendo la rabbia montargli nel corpo. Era incredulo, e non solo per via della situazione, ma anche per la faccia tosta di quell’essere che ancora si ostinava a ripetergli che erano uguali quando in realtà non c’era niente di più lontano dalla verità. Orochi l’aveva indottrinato sin da bambino, per trasformarlo in un’arma, ma lui non era un’arma. Non era il suo maledetto burattino.

«E non ti aiuterò» aggiunse, deciso.

Gli diede le spalle e cominciò a ragionare su come interrompere quel contatto, quando la voce di Orochi fendette l’aria tagliente come una lama: «Kagu-Tsuchi la pensa in maniera diversa, Naito.»

Se l’avesse pugnalato alle spalle, probabilmente avrebbe avuto una reazione più pacata di quella. Incrociò di nuovo lo sguardo di Orochi, che sogghignò di nuovo. «Sì, so cos’è successo al santuario Meiji.»

Naito si irrigidì. «Come fai a saperlo?»

«So molte cose, Naito. So che hai annientato un esercito da solo. So che hai sconfitto Kagu-Tsuchi. Devo ammetterlo, il modo in cui l’hai sbaragliato… sono impressionato, davvero. Ma dopotutto…» Il ghigno dell’uomo si distese oltre i limiti a lui conosciuti. «… te l’ho sempre detto che la rabbia ti avrebbe reso inarrestabile. Finalmente ti sei deciso ad ascoltarmi.»

Naito si irrigidì al pensiero di quello che era successo a Tokyo. Più ci pensava e più rabbrividiva. Si era inebriato del sangue dei mortali come uno tsuchinoko col sakè. «Mi… mi stavo solo difendendo.»

Orochi rovesciò la testa all’indietro, scoppiando in una risata ben più grossa. «Puoi ingannare te stesso quanto vuoi, Naito, ma non puoi ingannare me. Hai finalmente tirato fuori il tuo lato demoniaco. Ti sei comportato da vero mostro.»

“Lato demoniaco.” Non era la prima volta che sentiva quella frase. Ōtakemaru aveva detto la stessa cosa, quando si erano incontrati.

«Tu… tu sapevi che mio padre è Ōtakemaru, vero?» domandò Naito, con un filo di voce.

«Non ne ero certo. All’epoca la mia mente era troppo annebbiata per poterlo capire. Tuttavia, sapevo che c’era qualcosa di speciale in te, Naito. Eri solo un poppante, ma emanavi molto più potere di tanti altri mostri.»

«Per questo mi hai salvato» mormorò il ragazzo. «Pensavi che sarei potuto diventare come mio padre.»

«E ho avuto torto?» Orochi sorrise glaciale. «Pensa soltanto a quello che hai fatto a quell’insulso dio. Credi davvero che quello sia il limite del tuo potere, Naito? Stai a malapena grattando la superficie. Se imparassi a controllare il demone dentro di te… potresti diventare inarrestabile. E presto ne avrai bisogno, perché adesso gli dei sono convinti che tu abbia attaccato il Santuario Meiji e ucciso degli uomini per vendicarti di quello che è successo a me.»

Naito fece una smorfia. Di cose stupide ne aveva sentite ma quella le batteva tutte. Non avrebbe mai fatto un simile gesto per vendicare Orochi. Tuttavia, dopo aver sentito le parole di Sakuya-hime, si aspettava una reazione simile da parte degli dei. Loro erano convinti che l’attacco era opera sua, anche se invece era stata solo colpa di Kagu-Tsuchi. Sfortunatamente nessuno avrebbe mai creduto a lui, soprattutto perché le sue mani erano anche sporche del sangue di tutti quei soldati che aveva ucciso. Il responsabile di un simile massacro non appariva affatto come un mezzosangue desideroso di riscattarsi. Quel pensiero lo costrinse ad abbassare la testa, afflitto.

La voce di Orochi continuò a incalzarlo, fastidiosa e graffiante come non mai: «Sei finito sulla lista nera degli dei, Naito, proprio come me. Per tua fortuna, se Amaterasu non ha tempo di occuparsi di me, sicuramente non ne troverà per te. Saresti già morto altrimenti. Tuttavia, Kagu-Tsuchi e i suoi figli non sono fedeli a lei. Ti daranno la caccia, e tu sei senza amici. Non sopravvivrai una settimana senza il mio aiuto. Vedi, Naito…» 

L’uomo afferrò la fiasca di sakè e cominciò a rovesciarla sul tavolino, imbrattando il vassoio e i piatti di cibo. «… io, te, perfino tuo padre, siamo come un fiume.» Finì di svuotare la fiasca, poi la scaraventò contro il muro, distruggendo pure quella. «Con un fiume ci si possono fare molte cose. Si possono usare per irrigare i campi. Si può sfruttare la loro forza con dei mulini. Si possono perfino arrestare, costruendo delle dighe. Ma se esiste una cosa che non si può cambiare in un fiume, Naito, quella è la sua direzione. Fintanto che esisterà, un fiume andrà sempre, sempre, in un’unica direzione. Un mostro, Naito, sarà sempre un mostro. Puoi fingere che non sia così, ma sai che non è vero. È dentro di te, è nel tuo sangue. Sei un mostro. Proprio come tuo padre. Proprio come me. Il fatto che tu stia cercando di negarlo è davvero patetico, soprattutto dopo quello che il tuo essere mostro ti ha permesso di fare. Non saresti qui se non fosse stato per il tuo lato demoniaco. E di sicuro non saresti qui se non fosse stato per me. Tu mi devi tutto, Naito. Perciò, adesso tu…»

«Maledizione, ma quanto parli?» sbottò Naito all’improvviso. «Adesso capisco come si sentiva Edward quando te la prendevi con lui.»

Per una volta Orochi parve davvero stordito. Il sorriso svanì dal suo volto orrido e smise anche di trafficare con le mani sopra il tavolino, rimanendosene immobile a osservare Naito. 

«Forse non sono stato abbastanza chiaro prima, Orochi, quindi te lo ripeterò ancora una volta: non ho alcuna intenzione di aiutarti. Ho chiuso con te. Lasciami in pace.»

Le vene sul collo di Orochi si gonfiarono, mentre il suo stupore dava spazio alla rabbia. «Ma che stai dicendo, stupido moccioso? Vuoi davvero rifiutare i miei ordini? Non l’hai capito che senza di me sei spacciato?!»

Naito arricciò le labbra. «Continui a ripeterlo. Dici che sono io ad essere quello spacciato, eppure sei tu quello che mi ha contattato. Sei tu quello che sta implorando il mio aiuto, non io. Sei tu quello in gabbia, tu quello che ha bisogno di me, non il contrario.» Scrutò l’uomo dall’alto, inflessibile. «Sei tu quello senza amici.»

Il tavolo gli volò addosso, attraversandolo senza colpo ferire. Si schiantò contro la parete in un’esplosione di vetro, ceramica e cibo.

«Schifoso figlio di una cagna bastonata» tuonò Orochi. «Sei vivo grazie a me! ME! Sei diventato ciò che sei diventato per merito mio! E tu osi voltarmi le spalle?! Osi davvero…»

«Falla finita!» urlò Naito, interrompendolo. «Tu mi hai usato! Volevi trasformarmi nella tua macchina da guerra personale! Volevi rendermi come mio padre! Non mi hai salvato la vita, Orochi, me l’hai rovinata. Sei responsabile tanto quanto Kagu-Tsuchi per tutto quello che mi è successo.» Si avvicinò all’uomo, scrutandolo negli occhi senza il minimo timore. Non era più un bambino. Non aveva più paura di lui. «Non sarò più il tuo burattino, Orochi. Non farò del male a Rosa. Ha sofferto troppo per causa tua.»

«Non posso credere a quello che sto sentendo» sibilò Orochi, scuotendo la testa con disappunto. Il tavolo riapparve di nuovo in mezzo a loro con un tremolio di piatti e posate, ma l’uomo non ci fece nemmeno caso. «Stai perfino chiamando quella bastardella per nome.»

Naito strinse i pugni fino a sentire dolore alle dita. «Non è una bastardella.»

Orochi rise. Non sembrava divertito, però. Sembrava in procinto di esplodere per la rabbia. «Ma certo. Ora capisco. È successo di nuovo.»

«Che cosa?»

«Avrei dovuto ucciderti quando ne avevo l’occasione» biascicò Orochi, ignorando la sua domanda.

«Ma non l’hai fatto.» Ora fu Naito a sorridere. «E adesso ci troviamo qui, con te in prigione, e io libero. Dimmi, come ci si sente?»

Un ringhio risuonò dalla gola di Orochi. «Ho commesso un errore madornale a tenerti in vita. Mi premurerò di rimediare strappandoti il cuore con le mie stesse mani.»

«Devi solo provarci» replicò Naito. La rabbia lo accecò, mentre ripensava a tutto quello che aveva patito per causa di quell’essere. Lo aveva salvato, era vero. E da quel momento in poi la sua vita non aveva fatto altro che tramutarsi in un autentico inferno.

Le bastonate, i morsi della fame, il terrore viscerale che aveva provato da bambino, ciò che era successo ad Hachidori, ciò che l’aveva costretto a fare, ogni cosa riemerse nella sua mente, riaprendo cicatrici che mai si erano davvero chiuse. E poi, in mezzo a quell’oceano di dolore, balenò una luce.

Una promessa. Un giuramento che aveva fatto molto tempo prima e che l’aveva spronato ad andare avanti, a inghiottire tutto quel fango che Orochi gli aveva fatto ingoiare.

«Sai, quando ero bambino, ho fatto una promessa a me stesso» cominciò a dire, sussurrando con calma le parole, in modo da far recepire bene il messaggio. «Ho promesso che se tu non fossi morto mentre ero in vita, allora ti avrei ucciso io. Vuoi venire a cercarmi, Orochi? Fai pure. Ti aspetterò.»

Le mani di Orochi si conficcarono nel tavolino. «Ne hai di fegato a parlarmi in questo modo, per essere uno che è scoppiato a piangere come un’infante quando la sua amichetta ha detto di non amarlo.» 

Il ragazzo spalancò l'occhio, mentre Orochi si alzava in piedi e si avvicinava a lui. 

«Che succede, moccioso, ho toccato un tasto dolente?» L’uomo emise una risatina roca. «Dimmi, cos’è che ti fa più male? Il fatto che Hachidori non ti amasse? Il fatto che ti abbia tradito non una, ma due volte? Oppure il fatto che è morta per causa tua?»

Il desiderio di cancellargli quel maledetto sorriso cominciò a crescere impellente dentro di Naito. Tuttavia, si riscosse in fretta. Era stanco di fare il suo gioco. Era stanco di avere le proprie emozioni manipolate da lui. Era stanco di avere paura di lui. Fece l’esatto opposto di quello che Orochi si sarebbe aspettato e sorrise. «Fammi un favore, Lord Orochi.»

Sporse il viso verso il suo, in modo da sussurrare il resto della frase ad un millimetro dalle sue labbra, l’occhio conficcato nei suoi: «Ricorda i tuoi insegnamenti, e non piangere quando ti taglierò la gola. Cerca di andartene con dignità.»

Un lento sorriso prese forma anche sul volto di Orochi. Un sorriso sadico e crudele. «Prega, bastardo, prega di morire prima che io riesca ad evadere, perché se dovessi metterti le mani addosso ti farò rimpiangere di non essere morto assieme a quella cagna di tua madre.»

Sferzò l’aria con la mano prima che Naito potesse rispondergli per le rime, colpendolo in pieno. La stanza scomparve e tutto si fece nero.

  

***

 

Di sicuro, non era morto. I morti non avrebbero sentito tutto quel dolore lungo la spina dorsale. Naito si mise a sedere, massaggiandosi tra le corna. Un lungo mugugno infastidito gli scappò dalle labbra, mentre sentiva la schiena come fosse un pezzo di legno.

Si trovava su una distesa d’erba, con degli alberi lì vicino e un laghetto che rifletteva la luce della luna. Sollevò proprio lo sguardo verso di essa. Quel pazzo di Tsukuyomi gli aveva sferrato un ceffone e l’aveva sparato in cielo come una saetta. Non aveva idea di dove fosse, come facesse ad essere ancora vivo, sapeva solo che non aveva alcuna intenzione di ripetere mai più una simile esperienza. «Potevi almeno avvisarmi!» urlò adirato. Naturalmente, dalla luna non giunse alcuna risposta.

Naito grugnì infastidito e controllò nella bisaccia per vedere se la fialetta di elisir era ancora intatta. In qualche modo, non era scoppiata in mille pezzi. Si accorse ben presto che non era da sola: ce n’era anche un’altra, identica a quella, con un bigliettino attaccato. Corrugò la fronte e lo lesse. Era scritto a mano, con una bella grafia:

 

Un piccolo omaggio per ringraziarti della compagnia. Fanne buon uso!

-Tsukuyomi-no-mikoto

 

Malgrado il volo, e l’atterraggio, a Naito venne da sorridere. Forse si era sbagliato su Tsukuyomi. Aveva qualche rotella fuori posto, ma non era un dio malvagio. Anzi, tutt’altro: era stato il primo dio a essere gentile con lui. A suo modo, certo.

Rimise le fialette nella bisaccia e si alzò in piedi a fatica. Barcollò per qualche metro, tenendosi una mano sulla schiena ed emettendo gemiti di fatica ad ogni passo. Conciato in quel modo, perfino il vecchio Musashi sarebbe sembrato un giovincello in confronto a lui.

Ripensare a lui gli causò un moto di angoscia. Non aveva nemmeno potuto dirgli di esserci riuscito, di aver davvero trovato Tsukuyomi. Tuttavia non si lasciò prendere dallo sconforto: se aveva deciso di assistere il dio della luna in quella missione, era anche per proteggere sia il vecchio, che Ami, che tutti gli altri. Li avrebbe rivisti, ne era certo, una volta che Amaterasu sarebbe stata salva.

Si guardò attorno. Era in un parco, con la strada poco distante, attraversata da alcune automobili. Poco distante da lui, vide un mendicante sdraiato sopra una panchina che lo osservava con gli occhi spalancati. Naito incrociò il suo sguardo e rimase immobile, imbarazzato. Si augurò che non l’avesse visto precipitare dal cielo e inveire contro la luna. Proseguì, decidendo di ignorarlo, e uscì dal parco.  

Non ci mise molto a capire di essere finito in una città. L’idea di attraversarne un’altra così presto dopo i fatti di Tokyo lo mise a disagio, ma sembrava notte fonda, e faceva freddo, perciò non vide molti mortali in giro. Anzi, non c’era proprio nessuno, a parte quel mendicante e le scarse automobili che passarono senza fare caso a lui.

E quando lesse alcune insegne scritte in inglese sopra cartelli e insegne di negozi, capì che Tsukuyomi non aveva mentito: l’aveva davvero rispedito in occidente. Come ci fosse riuscito senza ucciderlo, quello non l’avrebbe mai saputo. E un lato di lui avrebbe preferito rimanerne all’oscuro.

Non aveva idea di che città fosse quella, ma non sembrava affatto New York. I palazzi erano molto più piccoli, e molti meno. Forse Tsukuyomi avrebbe dovuto dargli qualche indicazione in più, prima colpirlo a tradimento in quel modo.

Mentre proseguiva si ritrovò inevitabilmente a ripensare al sogno che aveva fatto. Orochi era ancora vivo, ma non era quella la cosa che l’aveva scioccato maggiormente, così come non l’aveva fatto la vista del paradiso degli dei, per quanto stupefacente fosse stata.

Gli aveva detto di uccidere Rosa, per completare il rituale. E non era tutto: quel kudan aveva menzionato una vergine che sanguinava. Quel verso, in mezzo all’araldo che falliva, la notte che scendeva e la guerra che scoppiava, pareva quasi superfluo, inutile perfino. Ma doveva esserci un motivo se l’aveva pronunciato. Forse Naito si sbagliava ma sentiva che quella frase, qualunque cosa significasse, aveva un peso decisamente più importante di quello che dava a vedere. Queste informazioni, unite alle strane richieste di Ibaraki, gli fecero capire che tutto quanto, in qualche modo, era ancora collegato a lei, a Rosa.

Rosa… era in pericolo.

Si dimenticò dell’araldo, di Amaterasu, della sua missione, di ogni cosa. Il pensiero che lei rischiasse di nuovo la vita lo colpì al petto come una scheggia di vetro congelata. Assottigliò le labbra e abbassò lo sguardo, mentre proseguiva su quel marciapiede con lo stomaco in subbuglio al pensiero di quella ragazza.

Tutto quello era successo per causa sua. Se lui non l’avesse rapita lei non sarebbe mai diventata la vergine che tutti cercavano. L’aveva cacciata in quella situazione. Era stato un vero bastardo. Non aveva alcuna idea di come avrebbe potuto convincerla di non essere più suo nemico con tutto quello che le aveva fatto.

Un verso sorpreso lo riportò alla realtà. Drizzò la testa, accorgendosi di due ragazzini apparsi di fronte a lui. Uno aveva una matassa di capelli ricci sopra la testa ed era alto e secco, l’altro invece era più basso, con i capelli biondi e arruffati e una strana tavola con le ruote stretta sottobraccio. Lo osservavano con gli occhi spalancati e la bocca aperta.

«Ma… che cos’è?» sussurrò quello più alto, in inglese.

«Non ne ho idea, ma è troppo figo!» replicò l’altro, prima di sorridergli. «Ehi bello, stai facendo un cosplay o cose del genere?»

«Un… “kosplai”?» riuscì a biascicare Naito, in inglese.

«Aspetta un attimo… ma sì, lo so chi è!» esclamò quello con la tavola, ignorando la domanda. «È il tizio di quel video virale! Quello che ha salvato quel bambino!»

Il ragazzo coi capelli ricci lo scrutò con più attenzione. «Oh merda, è vero!»

Naito non ci stava capendo più niente. «Video… cosa?»

Quello biondo lo ignorò di nuovo. Tirò fuori un cellulare dalla tasca e glielo puntò addosso. «Non mi sembra vero! Ma che ci fai qui? Non eri tipo in Giappone due giorni fa?»

«E tu come fai a…»

«Tieni Andrew, riprendi tutto!» Il ragazzo mollò a terra la tavola con le ruote e lasciò il cellulare nelle mani del suo compagno, che a differenza sua sembrava angosciato.

«Sam, credo che forse dovresti lasciarlo in pace…»

Quel moccioso, Sam, sembrava davvero divertirsi un mondo ad ignorare gli altri. Si avvicinò a Naito con un sorrisetto idiota. «Ehi, quelle sono vere?» domandò, avvicinando una mano alla sua faccia.

Naito si ritrasse di scatto. «Non toccarmi.»

Sam continuava a sorridergli incurante. «Te ne vai sempre in giro conciato in quel modo?»

Non passò molto prima che Naito si accorgesse che gli stava osservando le corna. Si portò una mano sopra di esse, sentendosi in imbarazzo. «Riesci a vederle?!»

«Ehm, sì? Perché non dovrei? E quelle, invece, sono vere?»

Provò a toccargli le spade, ma Naito gli afferrò il braccio prima che potesse sfiorarlo. Lo sbatté contro la parete accanto a loro. In un istante, il ragazzino si trovò paralizzato e con la wakizashi puntata alla gola.

«Ho detto: NON. TOCCARMI.» 

«W-Wow, amico! Rilassati!» Sam provò a dimenarsi, ma aveva la forza di un moscerino. «A-Andrew, che stai facendo, aiutami!»

Andrew non si mosse. Rimase ad osservare la scena attonito, il cellulare puntato su di loro.

«Non ho alcuna intenzione di sprecare il mio tempo con due mocciosi» sibilò Naito. «Ditemi, che città è questa?»

Sam batté le palpebre. «E-Eh?»

«Che città è questa» ripeté Naito, spazientito.

«B-Bismarck!»

«Bismarck? Ed è vicina a New York?»

«Ma… ma che razza di domanda…»

«Rispondi! È vicina a New York?!»

«N-No! È quasi dall’altra parte del paese!»

Naito schiuse le labbra. «Che… che cosa?»

«M-Mi lasceresti andare?»

Mollò la presa senza nemmeno rendersene conto. Il ragazzino barcollò verso il suo compare, massaggiandosi la gola. «Certo che hai una stretta di ferro!»

Ora fu Naito ad ignorarlo. Rinfoderò la spada. «Da che parte è New York?»

Sam e Andrew si scambiarono uno sguardo veloce.

«Di là» dissero insieme, indicando due direzioni diverse.

Naito sospirò pesantemente. I Gloriosi Stati dell’America Unita e i suoi brillanti abitanti. Quanto non gli erano mancati. Spiccò un balzo, strappando due grida di sorpresa a quei mortali, e raggiunse il tetto del palazzo accanto a loro. Sentì ancora gli schiamazzi di quei due rompiscatole, ma li ignorò e cominciò a correre, saltando di tetto in tetto come aveva fatto a Yokohama.

Il profilo di quella cittadina dal nome assurdo cominciò a delinearsi di fronte a lui. Non era molto grande, di sicuro non come New York. In lontananza vide alcune catene montuose spiccare imponenti nella solitudine della notte, le cime coperte di neve.

Si fermò per ragionare sulla sua prossima mossa. Si domandò se Tsukuyomi avesse “sbagliato mira” o se l’avesse fatto apposta a mandarlo proprio lì. Oppure, non avendo idea di dove spedirlo, aveva optato per un punto a casaccio.

Poteva raggiungere New York in fretta, passando per lo Yomi. Tuttavia il pensiero di farlo fece nascere un brivido dentro di lui. Gli ritornò in mente quello che era successo al Santuario Meiji, le urla terrorizzate, il sangue sulle sue mani, Kagu-Tsuchi ai suoi piedi. E soprattutto gli tornò in mente Orochi, con quel suo maledetto ghigno compiaciuto. Non aveva alcuna intenzione di usare ancora il suo lato demoniaco per scendere in quel luogo infernale. Piuttosto avrebbe attraversato l’intera America a piedi, ma non sarebbe più abbassato al livello di Orochi. Non era come lui.

Puntò lo sguardo verso l’orizzonte. Ancora non gli sembrava vero di essere tornato in occidente. Non sapeva se sentirsi emozionato o spaventato all’idea di rivedere i greci. Una greca in particolare.

Naito deglutì. Che cosa avrebbe fatto Rosa quando lo avrebbe rivisto? Con tutta probabilità, avrebbe cercato di ucciderlo. Aveva detto a Edward di scusarsi con lei da parte sua, ma dubitava che sarebbe servito a qualcosa.

Ancora una volta, pensò al fatto che lei potesse essere in pericolo, e serrò la mascella. Aveva un’occasione, l’occasione che per tutta la vita aveva cercato, quella di dimostrare che i mezzosangue come lui meritavano di vivere, e l’avrebbe sfruttata, a qualsiasi costo.

Orochi, il Re, Kagu-Tsuchi e i suoi maledetti fratelli, il Clan Tsubaki, tutti loro avrebbero dovuto aspettare ancora un po’, prima di ucciderloAveva cose più importanti a cui pensare. 

Sarebbe tornato a New York. Avrebbe rivisto Edward, Konnor e tutti i loro amici. Avrebbe chiesto scusa per davvero, questa volta di persona. Avrebbe aiutato Edward, qualsiasi cosa significasse.

E soprattutto, avrebbe protetto Rosa a qualsiasi costo. Era per colpa sua se lei si trovava in quella situazione. Era stato lui a trascinarla in quella maledetta faccenda. E lui avrebbe rimediato.

Non aveva la più pallida idea di dove si trovasse quella “Bismarck” e tantomeno da che parte fosse New York, ma non ci avrebbe messo molto a capirlo. Affondò la mano nella bisaccia, tranquillizzandosi quando sentì la superficie dura delle due fialette di elisir, e sorrise verso il panorama notturno, illuminato dalle stelle e dalle luci della città addormentata.

Il viaggio non era ancora finito.

 

 

 

Guardiani di templi e santuari shintoisti. Sono raffigurati come due statue, una a bocca aperta che accoglie i visitatori e gli spiriti benevoli, l’altra invece con sguardo minaccioso per scacciare i malintenzionati. Ho deciso di renderli vere e proprie creature viventi in questo caso. Hanno anche ispirato diversi Pokémon, come Arcanine e Growlithe (ma è una cosa in comune con moltissimi yōkai e creature leggendarie giapponesi).

 

 

 

 

Salve gente. È con molta tristezza che vi comunico che questo, signori, è il finale dell’Elisir di Lunga Vita. Una storia di cui personalmente vado molto fiero, che mi ha divertito scrivere e che penso abbia tirato fuori il meglio da me. 

Naito era nato come personaggio secondario, al massimo, una sorta di cattivo minore da sconfiggere, poi però nel corso del tempo, con il discorso “mezzosangue” ho capito che poteva essere qualcuno da cui potevo tirare fuori molto di più. Anche se mai avrei pensato di dedicargli una storia intera, e invece eccoci qui e, sapete cosa, sono davvero felice di averla scritta. Non solo per Naito, ma anche per Hachidori, per Hikaru e last but not least, Orochi, il nostro cattivone. Ho mostrato più lati di ciascuno di questi personaggi, mostrato alcune delle loro ragioni, perché hanno fatto quello che hanno fatto, ho mostrato altri dei giapponesi e raccontato altre leggende, e soprattutto ho mostrato un po’ di Giappone, visto che nella Spada del Paradiso ho un po’ imbrogliato tutti quanti riducendo il viaggio solamente alla volta di San Francisco.

Rimangono molti quesiti, molte domande irrisolte, e con Orochi che trama nell’ombra tutto si infittisce ancora di più, lo capisco, ma non temete: presto tutto diventerà ancora più incasinato, perché ci ho pure buttato i romani in mezzo! Hurrà!

Scherzi a parte, mi rendo conto che su alcuni punti non sono stato chiarissimo riguardo la società giapponese. Chi sono gli “eroi” del Giappone? Chi sono i samurai? Chi sono le kunoichi? Come funziona il loro mondo, rispetto a quello occidentale riordiano? Beh, amici miei, ho lasciato indizi qua e là che spiegano come funziona la società giapponese (visto che comunque, vivendoci, Naito già la conosceva e non volevo fare spiegoni vari perché trovo che sia l’approccio sbagliato alle cose, non abbiamo visto un Percy, per esempio, che viene introdotto nel mondo greco per la prima volta e quindi per lui è tutto nuovo) ma temo che per un quadro più completo occorrerà aspettare ancora, magari un… viaggio in Giappone per trovare lo specchio perduto? Chissà, chissà.

Come finale ammetto che è un po’… “sottotono”? Però davvero non sapevo come altro farlo hahaha, mi dispiace. Spero, però, che la tappa nell’Olimpo giapponese vi sia piaciuta! Così abbiamo visto sia lo Yomi che il Takama-ga-hara.

E spero anche che il resto del capitolo vi sia piaciuto, come avrete potuto notare, un mortale ha “visto” Naito. E a quanto pare, Naito è diventato virale per aver salvato quel bambino. Heh, buffo eh? Chissà quali conseguenze ci saranno!

Ora, note un po’ più dolorose: sono un po’ indietro con la storia sui romani, vorrei scrivere almeno altri cinque o sei capitoli prima di iniziare a pubblicare e so già che ci vorrà un po’, quindi per un po’ da me ci sarà silenzio radio. Leggerò e recensirò, questo sì, ma per il Velo Invisibile, o anche la raccolta, ci vorrà un po’ di tempo. Ho anche notato che l’interesse per le storie è un po’ calato, quindi forse devo un attimo mollare il colpo e lasciar respirare un po’ le storie perché in effetti ho scritto moltissima roba e magari a qualcuno farebbe piacere recuperare tutto in questo periodo di silenzio radio. 

Le visite sono calate, certo, ma non i recensori! Ed è a voi che mi rivolgo ora: grazie mille a Fenris, Farkas, Roland (grazie in particolare per il disegno di Hachidori) e Nanamin (grazie anche a te in particolare per il disegno di Tsukuyomi, e poi un mega grazie gigantesco per aver mandato la segnalazione per le storie scelte, e soprattutto per aver betato, se non si dice così pazienza, un bel po’ di capitoli!). 

Quindi, grazie di cuore per le recensioni, grazie di cuore a chi ha letto ed è arrivato fino a qui, grazie Roland e Nanamin per aver preferito la storia, e niente, se non l’avete ancora fatto vi consiglio di leggere l’ultimo capitolo della raccolta, dove abbiamo iniziato la partita di cattura (o caccia) la bandiera, in cui i nostri vecchi eroi hanno fatto ritorno (e in cui vediamo in azione anche altri volti nel Campo Mezzosangue).

Bene, ho detto tutto, un ultimo immenso grazie a tutti voi e ci vediamo in futuro, spero presto, per prima cosa nella raccolta, che intendo finire prossimamente, e poi quando tutto sarà pronto comincerà l’avventura dei romani (in cui spero di rivedervi e/o leggervi)! In ogni caso posterò aggiornamenti vari ed eventuali nel prossimo capitolo della raccolta, su cui lavorerò a breve.

Fino ad allora, statemi tutti bene! Alla prossima!

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