Belong To Nowhere

di Soul Mancini
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Forsaken ***
Capitolo 2: *** Runaway ***
Capitolo 3: *** Stripped ***



Capitolo 1
*** Forsaken ***


Bess
Forsaken
 
 
 
 
I piatti rimasero pieni quella sera. Esattamente come la sera precedente.
Mi ero seduta a tavola ed ero rimasta a fissare la mia porzione di sformato che qualche vicino ci aveva regalato – non ricordavo chi fosse stato esattamente. C’era un viavai continuo in quei giorni attorno a casa nostra: conoscenti, amici di famiglia, persino qualche parente che non si faceva vivo da anni. Io salutavo tutti in maniera meccanica, ma non li guardavo nemmeno in faccia e non li ascoltavo parlare; per quanto mi riguardava, erano tutti uguali e tutti anonimi.
Anche papà e Yelena lasciarono il loro piatto pieno. Mia sorella provò a mandar giù qualche boccone, ma poco dopo si arrese.
Quella sera a tavola c’era silenzio. Esattamente come la sera precedente.
Di solito all’ora di cena la piccola zona giorno si riempiva di musica. Uno di noi si sarebbe potuto alzare e avrebbe potuto poggiare la puntina sul vinile, ma sul piatto del giradischi era situato ancora Surrealistic Pillow dei Jefferson Airplane, uno degli album preferiti di mamma. Non avevamo il coraggio di sostituirlo con qualche altro disco, ma non avevamo nemmeno il coraggio di ascoltarlo senza di lei.
“Questa è la canzone che hanno suonato a Woodstock” ci spiegava sempre con entusiasmo appena le prime note di White Rabbit raggiungevano le sue orecchie. “Mi sarebbe piaciuto partecipare al festival, ma all’epoca avevo già messo la testa a posto: ero sposata con vostro padre e voi eravate già nate.”
Pensava sempre fuori dagli schemi, mia madre. Ascoltava la musica delle nuove generazioni ed era una ribelle, un po’ come me.
Mi guardai attorno e mi accorsi, forse per la prima volta, che oltre al vinile c’erano un sacco di altri oggetti che le erano appartenuti sparsi per la casa e che nessuno aveva avuto il coraggio di toccare: la giacca leggera era ancora appesa sull’attaccapanni all’ingresso, le sue caramelle alla menta preferite stavano dentro una ciotolina sulla mensola del camino, sul bracciolo del divano era poggiato un libro letto per metà – sicuramente un classico inglese.
Distolsi lo sguardo: non ci volevo pensare. Preferivo credere che da un momento all’altro mamma avrebbe fatto il suo ingresso nella stanza, si sarebbe scusata per il ritardo, avrebbe cenato con noi, avrebbe scartato una caramella alla menta e poi avrebbe ripreso in mano quel volumetto per portarlo a termine, per sapere come sarebbe andata a finire la storia.
All’improvviso mio padre spezzò il silenzio, lasciando andare la forchetta sul piano del tavolo e trascinando la sedia all’indietro. Sobbalzai e mi voltai a guardarlo: mentre si metteva in piedi, lo vidi barcollare appena e strizzare le palpebre.
“Che c’è?” gli domandò Yelena preoccupata.
“Sto bene” replicò lui in tono piatto, mentre si passava una mano tra le ciocche corte e scompigliate. Nella penombra della stanza le sue occhiaie risaltavano ancora di più, ed era evidente che non stesse affatto bene.
Papà era un bell’uomo: io l’avevo sempre ammirato perché non dimostrava affatto la sua età, anche se qualche volta lo prendevo in giro perché le sue origini inglesi gli si leggevano in faccia. Aveva i capelli biondo cenere proprio come i miei, gli occhi grigio-verdi proprio come i miei e il viso delicato ma dai tratti ben definiti. La perfetta rappresentazione della sua personalità mite e tranquilla: papà era un tipo misurato, raramente perdeva la pazienza e non alzava mai la voce.
Tutto l’opposto di mamma, insomma. Forse era proprio quella diversità che li aveva fatti innamorare l’uno dell’altra – e si erano amati tanto, ma davvero tanto.
Ma ormai non sembrava neanche più lui. Era come se fosse invecchiato di colpo e non guardava più me e Yelena in viso mentre ci parlava.
Lo osservai mentre strascicava i piedi fino al camino e afferrava un mazzo di chiavi. Sembrava un automa più che una persona.
“Cosa stai facendo?” gracchiai, la voce roca. Chissà da quante ore non aprivo bocca; la gola nel frattempo mi si era seccata.
“Mi sono appena ricordato che devo fare una cosa” borbottò. La sua voce pareva provenire da un altro mondo.
“A quest’ora?” incalzò Yelena dubbiosa.
Lui non si voltò a guardarci, si diresse a passo strascicato verso l’ingresso. “Devo andare in un posto. È importante.”
Quando posò le dita sulla maniglia, pronto a spalancare il portoncino d’ingresso e uscire, lo stomaco mi si contorse e sentii le lacrime pizzicare agli angoli degli occhi; saltai in piedi e corsi da lui, afferrandolo per un braccio. “No, papà, ti prego, non andartene!” lo supplicai.
Non era da me implorare in quel modo, ma a quella vista il terrore mi aveva aperto in due il petto.
Non mi importava ciò che aveva da fare, non mi interessava se si fosse trattato di vita o di morte: almeno lui doveva stare con noi, in quella casa che era già troppo vuota e mi metteva i brividi.
E poi quale padre avrebbe lasciato le figlie da sole in una situazione del genere?
“Ha ragione Bess” intervenne mia sorella, alzandosi a sua volta e muovendo qualche passo avanti. “E poi come ti salta in mente di andare in giro da solo in queste condizioni? Non stai bene, papà!”
Lui allora si voltò lentamente e guardò entrambe con sguardo vuoto, come se non ci vedesse nemmeno. “Torno presto, ve lo prometto. Non mi succederà niente.”
Si divincolò dalla mia stretta – impresa quasi impossibile, visto che le mie dita stritolavano fortissimo il tessuto della sua manica – e uscì, lasciandoci confuse e spiazzate.
Non avevamo fatto in tempo a fare niente e ad aggiungere altro; forse nessuna delle due credeva che se ne sarebbe andato davvero.
E invece eravamo sole.
Mi voltai a guardare Yelena, nel silenzio più assoluto. La stanza, rischiarata solo dalla luce calda e debole di una lampadina, mi sembrava ancora più buia e piena di ombre.
Quel vuoto non lo sopportavo, assomigliava troppo al buco che avevo al centro del cuore. Lo dovevo riempire con qualcosa, con qualcuno.
Se tendevo l’orecchio, in mezzo a quella quiete potevo sentire la voce di mamma che canticchiava mentre lavava le stoviglie, potevo udire l’acqua scrosciare e le posate che tintinnavano e si urtavano a vicenda. Potevo sentire i suoi passi nella zona notte, quando faceva i suoi soliti giri di controllo per verificare se le camere da letto fossero in ordine.
E la potevo perfino vedere davanti al piano cottura, seduta sul divano, di fronte alla finestra con lo sguardo rivolto all’esterno. Ogni riflesso somigliava al suo sorriso, ogni luce somigliava ai suoi occhi, ogni ombra era il suo profilo. E ogni filo d’aria tiepida che mi sfiorava la pelle era una sua carezza.
Era tutto così bello, ma anche così finto. Lei non c’era, e ora non c’era nemmeno papà.
Allora mi resi conto che tremavo fortissimo – che diamine, l’estate stava per arrivare, faceva un caldo impossibile e io stavo tremando come una foglia! – e che le mie guance erano bagnate, incrostate di lacrime bollenti.
Non mi mossi finché non sentii le braccia di Yelena avvolgermi e attirarmi al suo corpo. Mi strinsi a mia sorella con tutte le forze che avevo, mi aggrappai alla sua maglietta leggera e gliela bagnai tutta. Le nostre lacrime e i nostri singhiozzi si fondevano insieme, perché anche lei aveva cominciato a piangere – forse anche lei aveva paura di quella casa e di quel silenzio, anche se faceva finta di essere forte per me.
“Perché è andato via? Perché ci ha lasciato qui da sole? Io voglio che papà torni adesso, e voglio che torni anche la mamma!” mormorai, ma a ogni parola un singhiozzo mi costringeva a riprendere fiato.
“Oh, Bess” sospirò mia sorella mentre mi carezzava i capelli.
Avevo il capo posato sul suo petto e lo sentivo sobbalzare.
“Mi prometti una cosa?”
“Tutto quello che vuoi” mormorò lei, tenendomi così tanto stretta da farmi quasi male.
“Promettimi che almeno tu non te ne andrai mai.”
Lei mi afferrò per le spalle e mi scostò appena da sé, in modo da potermi guardare negli occhi.
I suoi erano arrossati e pieni di sofferenza – erano così da quando, tre giorni prima, mi aveva preso da parte e tra i singhiozzi mi aveva detto che mamma aveva avuto un incidente stradale e non ce l’aveva fatta. Quello sguardo e quelle parole avevano segnato inesorabilmente la fine della mia infanzia.
“Ricordatelo sempre, Bess: qualsiasi cosa accadrà, sarai sempre la mia sorellina e nulla ci separerà. Io ci sarò sempre, affronteremo tutto insieme; ovunque sarai, io sarò con te. Te lo giuro.”
“Per sempre?”
“Per sempre.” E la sua voce era rotta dal pianto.
Ci abbracciammo ancora e rimanemmo in quella posizione per tantissimo tempo – a me parve l’eternità.
Chissà se mamma poteva vederci, ovunque si trovasse. Chissà quanto doveva ferirla vederci così e non poter fare niente per noi.
Quando ci separammo, ci guardammo ancora una volta negli occhi.
“E adesso che facciamo?” le chiesi.
“Mmh… innanzitutto potremmo sciacquarci il viso, che dici?” propose lei, accennando un sorriso.
Annuii e mi diressi verso il bagno. “Tu non vieni?”
“Sparecchio la tavola e ti raggiungo.”
Il bagno era illuminato soltanto dal chiarore della luna piena per tre quarti; non mi preoccupai nemmeno di accendere la luce, mi fiondai al lavandino e inondai il mio viso già fradicio con l’acqua fresca. Magari mi avrebbe aiutato a svegliarmi da quel brutto incubo.
Mi rimisi dritta e, senza nemmeno asciugarmi, guardai nello specchio davanti a me. Tra le ombre alle mie spalle mi sembrava quasi di scorgere il viso di mamma mentre si pettinava con cura i lunghi capelli castano scuro, uguali a quelli di Yelena.
Un capogiro mi costrinse a reggermi al bordo del lavandino per non cadere e il respiro mi si mozzò. Non ce la facevo più.
Tornai nella zona giorno e, ferma sulla soglia, osservai Yelena mentre raccoglieva i bicchieri ancora disposti sulla tavola.
“Senti” esordii col tono più fermo che mi venne in quel momento, “io non so a che ora torna papà, ma in ogni caso qui non ci voglio rimanere. Non voglio restare a casa.”
Yelena si voltò per scrutarmi con attenzione, poi annuì lentamente. “D’accordo.” Tacque per qualche altro secondo, probabilmente in cerca di una possibile soluzione. “Possiamo andare dalla signora Townsend. Ti ricordi cosa ci ha detto oggi?”
Cercai di riportare alla mente la conversazione che avevamo avuto con la nostra vicina quando era venuta a trovarci quel pomeriggio, ma non mi era rimasto impresso nulla in particolare. Scossi la testa.
“Che potevamo chiedere a lei se avessimo avuto bisogno d’aiuto, a qualsiasi ora del giorno e della notte.”
“Allora andiamo da lei.”
Sapevo che a mia sorella non piaceva chiedere aiuto agli altri, quindi se aveva proposto una cosa del genere doveva essere davvero disperata. Alla fine, anche se ai miei occhi era sempre stata una specie di supereroe, era soltanto una ragazzina di neanche diciott’anni che aveva appena perso la madre e doveva prendersi cura della sua sorellina di undici anni.
Quando qualche minuto dopo ci chiudemmo la porta alle spalle, sentii subito il cuore più leggero. Per la prima volta realizzai che potevo sentirmi a casa ovunque nel mondo, tranne che dentro la mia vera casa.
 
 
 
Papà non tornò quella sera.
Io e Yelena non chiudemmo occhio: anche se la signora Townsend ci aveva gentilmente lasciato una camera con due letti singoli che era appartenuta ai suoi figli, noi rimanemmo in soggiorno ad aspettare con gli occhi sgranati.
Lo vedemmo soltanto la mattina dopo, sul presto, e a giudicare dallo sguardo annacquato e dall’alito pesante che aveva, doveva aver alzato parecchio il gomito. Ci riconobbe a stento quando ci vide.
La sera dopo andò esattamente allo stesso modo. “Torno presto” ci disse mentre usciva, ma rincasò soltanto all’alba.
Allora cominciai a vedere mio padre come un bugiardo e smisi di fidarmi di lui. Non sapevo più a cosa credere, ora che il mio mondo stava cadendo a pezzi.
Yelena era arrabbiata. Non riusciva a sopportare che, al posto di stare con noi nel momento in cui avevamo più bisogno di un padre, lui andasse a stordirsi con l’alcol per tutta la notte.
Io invece ero soltanto disperata. Ogni volta che lo vedevo uscire era una pugnalata e non esisteva un modo per dissuaderlo, per riportarlo indietro, per convincerlo a non andarsene. Suppliche, pianti isterici, grida: nulla serviva ad attirare la sua attenzione.
Eravamo sole, io e Yelena. Io ero con lei e lei con me, ma a nessuno importava di noi. E ben presto anche quel viavai di persone che erano sembrate così gentili e bendisposte si dissipò, lasciando il vuoto attorno a noi e alla nostra casa.
Io stavo sempre peggio, giorno dopo giorno. All’inizio ero rimasta sotto shock, in maniera talmente profonda da non riuscire nemmeno a soffrire; ma man mano che il tempo passava una voragine mi si apriva nel petto. Confondevo la realtà con gli incubi che sognavo di notte, mi svegliavo tra le lacrime, cercavo mia madre ma non la trovavo mai. E, giorno dopo giorno, realizzavo che lei non c’era più.
Era l’estate più fredda della mia vita. Avremmo dovuto fare tante cose: ci saremmo dovuti trasferire in una casa più bella e in un quartiere migliore, perché entrambi i miei genitori avevano trovato un lavoro ed erano riusciti a risparmiare un po’ di soldi, e forse avremmo fatto pure le nostre prime vacanze in famiglia.
Ma ormai era tutto sfumato. Io non credevo più a mio padre.
Circa una settimana più tardi, ricominciò a uscire anche di giorno e io diedi per scontato che fosse tornato al lavoro. Non lo vedevo quasi mai, a volte non tornava per niente a casa; le poche volte che lo incrociavo, era ubriaco marcio.
Una volta, sbirciando tra gli scaffali della piccola dispensa, mi ero accorta che aveva conservato un sacco di alcolici anche a casa. Quando non usciva, stava comunque attaccato alla bottiglia per tutto il tempo: le sue scorte finivano in un battito di ciglia.
Yelena era sempre più incazzata. Gli insulti che rivolgeva a nostro padre quando lui non era presente facevano venire i brividi, era quasi impossibile credere che una figlia li stesse rivolgendo al loro padre.
Io, invece, ero sempre più disperata. Cominciavo a vedere tutto con una lucidità che una ragazzina di undici anni non avrebbe dovuto avere, ma la mia mente e il mio cuore non erano pronti ad accettare queste consapevolezze.
 
 
 
Quel giorno eravamo andate a fare una passeggiata al tramonto, come spesso capitava. Nessuna delle due voleva rimanere a casa per troppo tempo, ci veniva il voltastomaco.
“Bess, devo dirti una cosa molto importante” annunciò a un tratto Yelena in tono basso ed estremamente serio.
Mi voltai a guardarla e notai che faceva fatica a ricambiare lo sguardo, fissava l’asfalto bollente su cui stavamo passeggiando.
Doveva essere grave davvero.
“Che c’è?” domandai. Avevo il cuore in gola, ma cercai di darlo a vedere.
“Ho cercato di posticipare il più possibile questo momento, speravo di poter aspettare almeno qualche altro mese. Ma non posso più rimandare.”
Le mie gambe stavano cominciando a tremare, ma mi imposi di andare avanti. “Che cazzo stai dicendo?”
Avevo cominciato a parlare come mia sorella. Mi aveva contagiato.
Lei sospirò. “I soldi in casa stanno finendo: devo cercare un lavoro, se non vogliamo morire di fame.”
Sgranai gli occhi e mi immobilizzai in mezzo alla strada. “Non è possibile. Papà va a lavorare ogni giorno, è lui che porta i soldi in casa, e poi c’erano i risparmi che lui e mamma avevano…”
“Papà non va a lavorare.”
Puntai i miei occhi nei suoi e non ci fu bisogno di aggiungere altro.
Tutte le volte che lo vedevo uscire di casa andava a bere.
Tutte le volte che lo vedevo uscire di casa andava a spendere tutti i soldi che avevamo a fondo – e anche quelli che non avevamo. Perché quello di bere era un vizio che costava tanto.
Tutte le volte che lo vedevo uscire di casa andava a sottrarre qualcosa dalle nostre vite, oltre all’affetto che non ci dava più da mesi.
“Non è giusto. Cazzo, non è giusto!” esclamai, la voce già incrinata da un pianto che avrei voluto trattenere.
Yelena mi regalò uno dei sorrisi più tristi che le avessi mai visto sulle labbra. “Da tre mesi non c’è una sola cosa giusta. Ma ce la caveremo, in un modo o nell’altro.”
Yelena era l’unica che si impegnava davvero per noi – per me. Mi aveva fatto una promessa e l’aveva mantenuta; avrei sopportato la sua lontananza se avessi dovuto, se lo meritava.
Annuii e nel frattempo serrai la mascella e i pugni, sperando che mia sorella non se ne accorgesse. Adesso anche io cominciavo a essere incazzata con nostro padre – cominciavo a capire Yelena.
 
 
 
Ero molto più debole di quanto dessi a vedere e di quanto io stessa fossi disposta ad ammettere.
Ero stata convinta fino all’ultimo che avrei potuto sopportare l’assenza di mia sorella – l’ennesima assenza nella mia vita –, ma quando arrivò il suo primo giorno di lavoro ero tremendamente agitata.
Era stata assunta come cameriera in uno squallido bar che si trovava ai margini dal quartiere; non era l’ideale, la paga era bassa e i clienti erano per la maggior parte delinquenti, gente poco raccomandabile, ma avevamo urgente bisogno di soldi e Yelena si accontentò.
Non aveva dei turni fissi: certe volte doveva lavorare di mattina, certe volte nel pomeriggio. Il caso volle che il primo giorno le assegnassero la fascia oraria pomeridiana.
Mi ero svegliata con l’ansia, avevo trascorso la giornata scolastica con un groppo in gola ed ero tornata a casa col terrore di trovarla vuota. Ma avevo tirato un sospiro di sollievo quando mi ero resa conto che papà era in bagno e si stava facendo una doccia.
Mi lasciai cadere sul divano e mi concentrai sui suoni che oltrepassavano la finestra spalancata della zona giorno. Fuori si respirava ancora l’afa estiva, ma dentro casa nostra regnavano perennemente penombra e gelo.
“Beatrix.” La voce di mio padre mi fece sobbalzare e mi voltai a guardarlo: era sulla soglia, coi capelli ancora umidi e i vestiti leggeri e puliti – anche se un po’ spiegazzati. Mi bastò guardarlo negli occhi per capire che era sobrio quel giorno.
Sembrava quasi quello di un tempo, bello come l’avevo sempre visto, anche se aveva pronunciato il mio nome in una maniera distante che mi aveva fatto male.
“Ciao papà.” Cercai di utilizzare lo stesso tono distaccato. In fondo non sapevo nemmeno io come comportarmi: da una parte volevo correre ad abbracciarlo e chiedergli di rimanere con me per sempre, dall’altra volevo gridargli in faccia che era uno stronzo perché per colpa sua Yelena lavorava in uno squallido bar.
“Dov’è Yelena?” mi domandò.
“Al lavoro.”
E la conversazione crollò. In fondo da tre mesi a quella parte non avevamo tanto da dirci, eravamo come degli sconosciuti.
Lo seguii con lo sguardo mentre apriva le ante della credenza, rovistava in tutti i mobili della cucina e poi si recava in dispensa, alla ricerca di chissà cosa.
In realtà lo sapevo benissimo, ma non volevo ammetterlo nemmeno a me stessa.
Ogni secondo che passava, la voragine che avevo al centro del petto si allargava. Non provava nemmeno a rivolgermi la parola, anzi, non mi guardava nemmeno.
La mamma mi chiedeva sempre: “Com’è andata a scuola?”. Ogni giorno, non appena rientravo. Invece papà forse nemmeno lo sapeva, che era ricominciata la scuola.
Lo vidi tornare presso il tavolo a mani vuote, mentre con lo sguardo cercava freneticamente qualcosa sulle mensole e sui piani dei mobili. Quando individuò ciò che gli interessava, scattò in avanti e lo afferrò come farebbe un affamato con un piatto di cibo; il suo mazzo di chiavi tintinnò nel silenzio, il suono più atroce che le mie orecchie avessero mai udito.
Allora capii. Mi ero fidata un’altra volta, mi ero persa nel suo sguardo così colmo di lucidità, mi ero illusa che lui sarebbe stato con me perché l’avevo trovato a casa.
Avevo addirittura pensato che mi stesse aspettando.
E invece, ancora una volta, voleva lasciarmi da sola. Veramente sola, perché stavolta non c’era Yelena accanto a me.
Sola coi fantasmi del mio passato, sola con l’ombra di mamma che abitava ancora a casa nostra, sola con i ricordi e col cuore a pezzi, sola come una bambina di undici anni non avrebbe mai dovuto essere – ma ormai non ero nemmeno più una bambina, anche io ero invecchiata di colpo come mio padre.
“Papà, non andartene” mormorai. Non l’avevo mai più supplicato da quella prima volta in cui era uscito, ma quel giorno non riuscii a trattenermi.
Lui sospirò e si diresse verso l’ingresso, ma non disse niente. Probabilmente non sapeva nemmeno lui cosa dire.
“Perché mi vuoi lasciare da sola? Perché non rimani qui con me?” Il mio tono di voce salì di un’ottava e le ultime sillabe vennero soffocate dal singhiozzo di un pianto che era in procinto di esplodere.
“Beatrix, tesoro… devo andare, è una cosa importante” bofonchiò.
“Non è vero!” Mi sarei potuta alzare, sarei potuta andare da lui e bloccarlo, artigliarlo per un braccio e impedirgli di uscire. Avrei potuto fare qualsiasi cosa per trattenerlo accanto a me, ma avevo preso a tremare e a singhiozzare talmente forte che non riuscivo a controllare il mio corpo: i muscoli non rispondevano, sentivo soltanto un dolore opprimente all’altezza del petto e i polmoni che si riempivano di piombo.
Osservai mio padre – quell’uomo sciupato e pieno di rughe, particolari che prima di allora avevo ignorato – attraverso gli occhi appannati, la sua immagine era sfocata come la sua anima.
“Non andartene, non andartene… rimani…” continuavo a piagnucolare disperata. Non riuscivo nemmeno a passarmi le mani sul viso per asciugare le lacrime e scostare le ciocche.
“Torno presto, promesso.” Anche la sua voce era sfocata.
“Non è vero neanche questo! Sei un bugiardo, un fottuto bugiardo! Te ne stai andando come la mamma, mi lasci anche tu! Io non voglio che tu te ne vada!” strillai isterica. Sembravo una bambina piccola, piangevo fortissimo e mi colava il naso.
Solo che un brivido di gelo mi correva lungo la schiena, e quella era una sensazione che nessun bambino provava.
Ma mio padre uscì lo stesso. Fu talmente egoista da lasciarmi lì, in quelle condizioni, talmente sconvolta che non riuscivo nemmeno ad alzarmi.
Gridai con tutto il fiato che avevo in gola fino a farmi bruciare i polmoni, conficcai le unghie nei palmi fino a farmi bruciare la pelle, ma dentro stavo gelando.
Il cuore mi batteva nella testa, le orecchie mi si riempivano del suono del mio stesso respiro corto, gli occhi erano serrati e incrostati di lacrime. Il divano sembrava una trappola per il mio corpo squarciato dai tremiti, intorpidito.
“Mamma… mamma…” Lo mormoravo senza rendermene conto, le chiedevo dove fosse.
Era tutta intorno a me, in quella casa che mi avvolgeva e mi soffocava: era lì, mi guardava, mi parlava, mi accarezzava, mi rassicurava – io lo sapevo.
Solo che mamma era morta.
E anche io mi sentivo morire. E piangevo, e la chiamavo, ed ero lontana da tutto e tutti.
Ero sola, vuota, morta, perché lei non era con me. La chiamavo ma non rispondeva, la cercavo con le dita ma non la trovavo, la volevo ascoltare ma non la sentivo.
Ero sola.
Tremavo, volevo urlare ma non ci riuscivo più.
Ero sola.
Tremavo, volevo alzarmi e andare via ma non riuscivo a muovermi.
Ero sola. Sola. Sola.
Sola.
Sola.
Sola.
 
Yelena mi trovò così.
Tremante, incapace di parlare, fradicia delle mie stesse lacrime.
Ci misi un po’ per tornare alla realtà, per capire che il volto che vedevo era il suo e che le mani che mi stavano toccando erano le sue.
Mi chiese come stavo e risposi con un singhiozzo, perché non riuscivo a parlare.
“Oh mio dio, ha un attacco di panico” mormorò preoccupata. Poi si sedette accanto a me, mi prese tra le braccia e mi cullò finché non mi calmai.
La mia prima volta a casa da sola era stata un disastro.
 
 
 
Cominciai a soffrire abitualmente di attacchi di panico. Mentre tutti gli undicenni giocavano tra loro e si preoccupavano di apparire più fighi degli altri, ecco i problemi che dovevo affrontare io.
A volte mi sorprendevano quand’ero a scuola, altre volte quando ero in giro con mia sorella; nella maggior parte dei casi mi accorgevo del loro arrivo e cercavo di reprimerli o limitarli, ma non era sempre così semplice.
Allora mi allontanavo da tutto e da tutti, mi nascondevo in un angolo e aspettavo che il senso di oppressione, ansia e terrore passasse da solo.
Quando stavo a casa da sola – certe volte ero costretta, visto che mio padre non tornava e Yelena aveva da lavorare – la situazione peggiorava: l’unica soluzione era allontanarmi, uscire di lì e fare una passeggiata.
Alla fine, pur di non restare chiusa tra quelle quattro mura, stavo diventando una nomade. Conoscevo a memoria le strade del mio quartiere – anche se non erano decisamente il luogo più adatto per una ragazzina di undici anni – e imparai le tecniche per passare inosservata. Non studiavo più, non mi importava quale direzione stesse prendendo la mia vita: pioggia, sole, vento o neve, a qualunque ora e in qualunque giorno della settimana, io ero sempre in giro.
Anche se le strade erano inondate di ragazzi come me – molti li conoscevo, frequentavano la mia stessa scuola – io non mi avvicinavo a nessuno e non mi facevo notare: volevo stare da sola.
Ciò che mi disgustava maggiormente di casa mia non erano tanto i ricordi legati a mia madre – certo, anche quelli continuavano a far male –, quanto la possibilità di incontrare quello stronzo di mio padre. Lui non c’era mai, era vero, ma di certo se fosse rincasato non mi avrebbe trovato lì ad aspettarlo. Mi metteva il voltastomaco.
Adesso sì che ero davvero incazzata con lui, adesso sì che capivo mia sorella: da quando mi aveva lasciato sola quella volta, il risentimento che provavo verso di lui si era trasformato in odio vero e proprio, profondo e viscerale.
Era talmente stronzo che non riusciva nemmeno a capire il male che stava facendo a me e Yelena. Per avere un padre del genere, avrei preferito che anche lui fosse morto – o che magari la mamma fosse stata al suo posto. Lei in una situazione del genere ci avrebbe dato tutto l’amore che le era possibile donare, ne ero certa.
 
 
 
Quel giorno di metà ottobre sarebbe stato il compleanno di mamma.
La mattina mi ero svegliata con un nodo in gola e, rigirandomi tra le coperte e sbirciando verso la finestra, avevo avuto l’impressione di scorgere il suo viso attraverso il vetro sporco.
Dovevo fare qualcosa per lei, per festeggiarla. Tutti gli altri giorni ero stata codarda, ma quella volta avrei resistito.
Ero da sola, come ogni pomeriggio.
L’occhio mi cadde sul giradischi abbandonato sul mobile accanto al camino, che nessuno aveva più toccato e usato da giugno. Per fortuna qualcuno – probabilmente Yelena – aveva tolto dal piatto il vinile dei Jefferson Airplane per evitare che si rovinasse; comunque la custodia era ancora là accanto, leggermente impolverata.
Mi accostai al mobile di soppiatto e, con dita tremanti, portai fuori il disco e lo osservai con devozione. L’avevamo ascoltato talmente tante volte che alcuni punti sulla superficie erano rovinati, ma era ancora uno degli oggetti più belli che avessi mai visto.
Misi su il lato A – quante volte mamma aveva compiuto quello stesso gesto! – e posizionai la puntina, col cuore in gola. Non ero certa di riuscire ad affrontare tutto ciò, ma ero certa di volerlo fare.
Non appena l’inizio di She Has Funny Cars riempì il silenzio, gli occhi cominciarono a bruciarmi e una voragine mi si aprì al centro del petto. Ricordavo perfettamente le domeniche mattina piene di sole in cui mi mettevo in piedi sul divano e saltellavo seguendo quel ritmo così contagioso, finché mamma non mi intrappolava tra le sue braccia e mi rimproverava, perché il divano così si sarebbe rotto e se l’avessi sfondato ci sarei finita dentro e mi avrebbe inghiottito. Ridevamo tantissimo.
Brividi di emozione mi correvano lungo le braccia, la schiena, il cuore, e potevo quasi percepire la presenza di mamma accanto a me. Era una sensazione stupenda e devastante allo stesso tempo.
Rimasi lì impalata per un tempo incalcolabile, a osservare il disco e lasciarmi riempire le orecchie da quelle note così familiari, senza avere il coraggio di sedermi o compiere qualsiasi altro movimento. Solo quando il primo brano dell’LP giunse al termine realizzai che erano trascorsi solo poco più di tre minuti.
Ma il vero colpo al cuore lo ebbi quando Somebody To Love esplose nella stanza con la sua proverbiale energia. Avevo sempre adorato quella canzone e avevo sempre amato sentire mamma che la canticchiava per me.
Mi diceva sempre che quella era la mia ninna nanna, che la intonava tutte le volte che mi cullava tra le braccia per farmi addormentare, e forse era per quello che ero così tanto affezionata a quella canzone.
Resistetti solo fino alla seconda strofa. Poi, tremando come una foglia e con le lacrime a rigarmi le guance, sollevai la puntina e corsi fuori, via da quella casa e da quei ricordi, lontana dal panico che minacciava di stritolarmi lo stomaco.
Una volta all’aria aperta mi sentii subito meglio; corsi per qualche altro metro e poi mi fermai per riprendere fiato, i singhiozzi a squarciarmi il petto e gli occhi che bruciavano per le lacrime e la luce rossastra del tramonto. Camminai, camminai e camminai ancora, tenendo lo sguardo basso, cercando di non pensare a niente.
“Ehi! Hadley!”
Sobbalzai nel sentir pronunciare quelle parole ad alcuni metri da me, ma non mi voltai: avevo ancora gli occhi arrossati e le lacrime secche sulla pelle, non volevo che qualcuno mi vedesse in quelle condizioni.
Tanto sapevo già di chi si trattava: solo una persona mi chiamava per cognome e con quell’inconfondibile accento. Pensai che, se avessi finto di non aver sentito e avessi continuato dritta per la mia strada, avrei potuto scamparla.
Ero stata poco attenta a non farmi notare quel giorno.
Ma tutte le mie speranze andarono in fumo quando avvertii una presenza più vicina a me, alle mie spalle. “Beatrix! Non fare la stronza, tanto so che mi hai sentito!”
Fui costretta a fermarmi e sbirciare al mio fianco quando mi sentii sfiorare la spalla: proprio come immaginavo, Viktor mi scrutava attentamente e mi rivolgeva uno dei suoi soliti sorrisetti ironici.
Era da almeno un anno e mezzo – da quando non frequentavamo più la stessa classe – che non ci avevo davvero a che fare, ma lui non era cambiato per niente: spalle larghe, capelli castano chiaro sempre scompigliati, lineamenti decisi ma non troppo duri, leggero accento dell’Est Europa. Andavamo davvero d’accordo alle elementari, ma poi ci eravamo persi di vista – soprattutto da quando mia madre era morta e io avevo smesso di frequentare chiunque.
“Che c’è?” ribattei bruscamente, infastidita dalla situazione più che dalla sua presenza.
Lui aggrottò le sopracciglia. “Ma tu hai pianto!”
“Non è vero” mi affrettai a chiarire, ma ormai aveva visto i miei occhi e aveva capito.
“Non ci casco! Cos’è successo?” Mi afferrò per un polso – quanto detestavo quel gesto! – e mi strattonò leggermente per potermi osservare meglio in viso.
“Non ci parliamo da una vita. Che te ne importa?” sputai acida, divincolandomi dalla sua presa.
Avevo sempre avuto un caratterino deciso, ma nell’ultimo periodo mi capitava spesso di rispondere in maniera scontrosa, complice tutta la rabbia che avevo accumulato dentro in quei mesi.
Lui sospirò e piegò appena il capo di lato, in cerca delle parole da utilizzare.
“Mia madre è morta, lo sapevi?” sbottai a un certo punto.
Perché l’avevo fatto?
Lui annuì e abbassò lo sguardo. “Lo sanno tutti nel quartiere.”
“E allora perché mi chiedi cos’ho se sai già la risposta?”
“Senti… mi è venuta un’idea.”
Incrociai le braccia al petto e lo scrutai attentamente, aspettando che parlasse.
“Ti porto nel mio posto preferito, dove ci sono tutti i miei amici. È un luogo in cui tutti si possono divertire come vogliono senza mai essere giudicati… credo che ti farebbe bene distrarti un po’, ora che sei giù.” Sorrise appena sulle ultime parole, come se volesse contagiarmi un entusiasmo che invece non mi arrivò per niente.
Ci pensai su per qualche istante: non avevo la più pallida idea di dove volesse portarmi, ma in fondo cos’avevo da perdere? Mi fidavo di Viktor, era un ragazzino a posto, e poi ovunque sarebbe stato meglio che a casa mia.
Annuii appena, al che Viktor mi strizzò l’occhio e mi fece strada lungo la via, nella direzione opposta rispetto alla mia dimora.
 
Squallore fu la prima parola che mi venne in mente non appena mettemmo piede dentro quel locale. Ma era uno squallore che, in qualche modo, sapeva di casa.
Tutto era sudicio e immerso nella penombra: l’insegna appesa all’ingresso, su cui campeggiava la scritta Alibi, era scrostata e sbiadita; il bancone era ricoperto di aloni sospetti, i tavoli erano incrostati e pure i vetri di porte e finestre avevano una patina di sporcizia. A giudicare dal suo aspetto, pure il barista – che, come mi aveva rivelato Viktor, era anche il gestore del locale – non doveva vedere una doccia da parecchio tempo.
Eppure c’era qualcosa di affascinante e magnetico in tutto ciò. I vinili di Led Zeppelin, Rolling Stones e Pink Floyd appesi alle pareti ingiallite, il giradischi addossato in un angolo e il piccolo palchetto su cui erano stipati batteria e amplificatori davano un tocco rock all’atmosfera, facendo somigliare il locale a uno di quei pub in centro dove andavano a suonare le band importanti. Risate e imprecazioni si mischiavano alla musica, riempivano l’aria insieme al fumo che pizzicava gli occhi e che odorava di tabacco e marijuana.
In un primo momento provai una sorta di paura verso quel luogo e la gente che lo frequentava, ma nel guardarmi attorno una seconda volta mi resi conto che si trattava di ragazzi come me, miei coetanei o poco più grandi, e la maggior parte li conoscevo già, anche se solo di vista. Erano ragazzi di cui giravano voci davvero tristi, che avevano alle spalle un passato difficile – del resto tutti in quel quartiere dovevano lottare contro qualche demone – e, anche se si ostinavano a ridere e bere tutti insieme, non erano davvero così felici come apparivano.
“Mio fratello mi sta chiamando.” La voce di Viktor mi riscosse dalle mie riflessioni. Eravamo ancora fermi vicino all’ingresso.
Gli lanciai un’occhiata spaesata.
“Mi avvicino un attimo a sentire che vuole. Tu intanto vai al bancone, ordina qualcosa. Ti raggiungo subito, okay?”
Annuii e lo osservai mentre si allontanava, dirigendosi verso Bogdan – suo fratello – che stazionava in un tavolino dall’altra parte del locale, vicino al palchetto.
Non mi soffermai troppo a osservarli – preferivo che Bogdan non mi notasse perché, a differenza di Viktor, non mi ispirava troppa fiducia: si diceva fosse immischiato in qualche affare losco che aveva a che fare con la droga – e mi diressi al bancone, senza però mettermi in fila. Non sapevo nemmeno cosa ordinare: non avevo mai assaggiato nulla di alcolico, ma avevo l’impressione che in un luogo del genere fosse d’obbligo. Quindi decisi di aspettare Viktor prima di combinare qualche disastro.
Nel frattempo ne approfittai per esaminare ancora i presenti: erano tutti così diversi, così spontanei e disinibiti. C’era chi si vestiva in maniera eccentrica, chi sfoggiava la maglietta della propria band preferita, c’era chi si acconciava i capelli in maniera bizzarra, se li tingeva o se li ossigenava, poi c’era chi si era riempito la pelle di piercing e tatuaggi.
E le ragazze… erano così belle! Truccate, vestite in modo da mettere in risalto i punti più forti del loro corpo, così sorridenti e così maliziose, sempre con la situazione sotto controllo. Erano delle dee in confronto a me, piccola e sciatta, magra e senza forme, così bassa che col mento arrivavo a malapena al piano di marmo del bancone.
Mi sarebbe piaciuto essere come quelle ragazze.
Qualunque fosse il demone che tutte quelle persone si portavano appresso, erano riuscite in un modo o nell’altro a metterlo da parte ed erano diventate esattamente ciò che volevano essere.
“Ehi, biondina!” esclamò una voce fin troppo squillante, facendomi sobbalzare.
Mi voltai e aggrottai le sopracciglia. “Non c’è bisogno di gridare, sono qui a fianco, ti sento” misi in chiaro in tono diffidente.
La ragazza che mi aveva appena rivolto la parola scoppiò a ridere e mi sorrise. Era davvero bella: pelle olivastra, lineamenti ispanici, capelli lunghi e scuri, abiti colorati che le calzavano a pennello. “Scusami, hai ragione! Ti ho visto entrare con Vik poco fa… sei nuova?”
Mi strinsi nelle spalle. “Sono nata qui.”
“Come ti chiami?”
“Bess” risposi automaticamente, utilizzando l’abbreviativo con cui mi chiamava sempre Yelena.
“Io invece sono Fanny. Senti un po’… prendi qualcosa? Una birra?” mi chiese, accennando al barista che armeggiava con qualche bottiglia nella sua postazione.
“Ma veramente i minorenni non potrebbero comprare alcolici” le feci notare dubbiosa.
“Ah, ma qui non si fa caso a queste cose, Charles non chiede mai i documenti! Per questo l’Alibi è il locale più frequentato del circondario: pur di vendere e guadagnare, Charles dà via la roba a chiunque.”
“Oh, beh, se la mettiamo così…” Mi guardai attorno alla ricerca di Viktor e lo avvistai che ancora conversava con suo fratello e qualche altro ragazzo, poi tornai a scrutare la mia interlocutrice. “Ma credo che non prenderò niente. Anzi: si sta facendo tardi, penso che me ne andrò a casa.”
All’improvviso mi sentivo inadeguata. Non era il posto la causa di questa sensazione: ero io, il mio aspetto, il mio atteggiamento.
“Sei sicura?” ribatté Fanny, ma non c’era traccia di scherno nella sua voce. Era dolcissima.
Annuii e mossi un passo verso la porta. Non mi preoccupai di avvisare Viktor: avrebbe capito.
“Ma tornerai?” mi chiese Fanny quando le davo già le spalle.
Mi voltai giusto il tanto per rivolgerle un’ultima occhiata. “Tornerò.”
Solo mentre ero già per strada realizzai che avevo buttato fuori quella risposta senza neanche rifletterci. Non ne avevo avuto bisogno: lo sapevo, nonostante tutto, malgrado la mia iniziale diffidenza. Non sapevo quando e in quali circostanze, ma sarei tornata all’Alibi.
Ora capivo come mai Viktor lo considerava il suo luogo preferito: mi si era incollato sulla pelle dal primo momento in cui vi avevo messo piede.
Quella sera capii di avere un angolo di mondo a cui appartenevo veramente. Quella sera capii chi sarei voluta diventare.
 
 
 
Mi guardai allo specchio e per la prima volta mi detestai.
Mamma mi diceva sempre che ero una bambina bellissima, ma ora lei non mi diceva più un cazzo e io ero stufa di essere una bambina.
Odiavo quel visetto pulito e dai tratti ancora infantili, odiavo quei capelli biondo cenere così anonimi, odiavo i miei occhi sgranati e tristi, odiavo le mie spalle sottili e il petto troppo piatto.
Ma c’erano dettagli del mio aspetto che non si decidevano a cambiare, altri che non sarebbero cambiati mai. Ma c’erano tanti altri dettagli che potevo raddrizzare per far emergere ciò che ero – o meglio, ciò che ero diventata.
Aggrottai le sopracciglia sottili con disappunto, mi osservai nuovamente allo specchio e mi piacqui: più dura, più incazzata, più adulta.
Se nessuno – incluso mio padre – mi notava, avrei fatto in modo di attirare l’attenzione a modo mio.
Distolsi lo sguardo dallo specchio e improvvisamente mi sentii più forte.
Se ce l’avevano fatta tutti quegli altri ragazzi, ce l’avrei fatta anch’io.
 
Cominciai a rubare i soldi dal fondo comune e dai portafogli di mio padre e Yelena. A volte mia sorella mi dava qualcosa di sua spontanea volontà, ma non mi bastava mai.
Forse mi sarei dovuta sentire in colpa, ma non era così: del resto mio padre faceva la stessa cosa per alimentare il suo vizio di merda, quindi perché non potevo farlo anch’io? Perché non potevo spendere tutto ciò che volevo per delle cose futili? Nessuno mi avrebbe rimproverato, anzi, forse semplicemente nessuno se ne accorgeva: ero diventata la ragazzina fantasma a casa.
Comprai dei vestiti nuovi, mi rifeci il guardaroba: lasciandomi guidare dall’istinto e dal gusto personale, trovai nelle tinte scure e negli indumenti dallo stile un po’ gotico ciò che mi rappresentava davvero. Non sarei stata alla moda, certo, ma sarei stata me stessa e avrei spiccato tra tutti gli altri.
Acquistai anche dei trucchi e mi esercitai parecchio per applicarli al meglio. Adoravo il modo in cui certi make-up riuscivano a rendere la mia faccia più cattiva, mentre altri mi facevano apparire più provocante e maliziosa.
Cominciai a frequentare abitualmente l’Alibi e spesso mi ci recavo anche dopo cena, anche perché di sera la casa era sempre vuota e nessuno mi imponeva di restarci. Di mio padre lo sapevo, ma in quel periodo anche mia sorella cominciò a uscire più spesso: dopo essere tornata dal lavoro – da uno dei suoi tanti lavori, per essere precisi – del pomeriggio, si truccava, si agghindava e usciva. Non avevo idea di cosa andasse a fare, ma non pensavo mai di chiederglielo – del resto anche lei si faceva i fatti suoi e non indagava sulla mia vita.
Inizialmente mi affidavo a Viktor e a Fanny, che diventò la mia amica più stretta, ma ci misi davvero poco tempo a conoscere tutti gli altri ed entrare a pieno titolo nella cerchia. Mi era sempre venuto semplice fare nuove conoscenze e andare d’accordo con tutti, ma negli ultimi sei mesi me n’ero completamente scordata, tanto ero stata sopraffatta dalla sofferenza e dal dolore. Ma ora era tutto diverso: mi presentavo per ciò che volevo essere, mi comportavo e interagivo in base a come gli altri mi avrebbero dovuto vedere, ben presto costruii il mio personaggio e questo mi conferì la sicurezza che mi era mancata fino ad allora.
E soprattutto ottenni ciò che agognavo di più: quando arrivavo io, si voltavano tutti. Non passavo mai inosservata.
Le spese aumentavano giorno dopo giorno: cominciai a fumare e mi servivano i soldi per le sigarette, assaggiai i miei primi alcolici e mi servivano i soldi per le birre, andavo in giro per la città e mi servivano i soldi per i mezzi pubblici, cercavo di rendere il mio look sempre più eccentrico e mi servivano i soldi per vestiti e accessori. E rubavo senza scrupoli dalle tasche della mia famiglia, ormai non mi sarebbe importato nemmeno se mi avessero scoperto.
Ormai la mia famiglia era altrove. Yelena era l’unica persona che mi teneva ancorata al passato.
 
 
 
Quel giorno avevo un mal di pancia devastante e mi girava la testa. Era cominciato tutto nel primo pomeriggio e non avevo saputo come spiegare quei sintomi: avevo pensato che si potesse trattare di un qualche strano attacco di panico, che mi si stava presentando sotto un’altra forma, ma scartai quasi subito l’idea.
Avrei voluto parlarne con qualcuno, magari con Yelena, ma lei ovviamente non c’era.
Mi recai all’Alibi con tutte le intenzioni di trovare un modo per placare quel dolore. Entrai, salutai i miei amici con un cenno e mi diressi subito al bancone, posando i gomiti sul ripiano in marmo con fare deciso. “Una birra, grazie.”
“Wow, che determinazione! Se cominci a bere già da ora, tra qualche ora sarai fottuta!” commentò Viktor mentre mi passava accanto.
Gli rivolsi un sorrisetto. “Fatti i cazzi tuoi.”
“Non era una critica, anzi! Non vedo l’ora di vederti sbronza!”
“Ammesso che tu rimanga sobrio abbastanza!”
“Bess, tesoro, ciao!” mi affianco Fanny, regalandomi uno dei suoi sorrisi magnetici.
“Ehi.” Afferrai la mia birra, che nel frattempo era comparsa di fronte da me, ne presi un lungo sorso e poi mi voltai a guardare la mia amica. “Oggi mi voglio sconvolgere.”
Lei mi scoccò un sorrisetto complice. “Quanto?”
“Voglio andarci giù abbastanza pesante.”
“Allora non ti basterà un’innocente birra” affermò, intrecciando le dita sotto il mento e lanciando un’occhiata a Charles, che stava servendo due ragazzi. “Ti fidi di me?”
“Chi non si fiderebbe di te?” ironizzai, dandole di gomito e sghignazzando.
Fanny era una pazza, faceva tutto ciò che le saltava in mente e provava qualsiasi sostanza le capitasse a tiro; spesso tirava su anche cocaina e usciva completamente di testa. Tutto sommato però era uno spasso.
“Bene, allora allontanati e aspettami: ti porterò qualcosa di forte, uno dei miei drink preferiti!” esclamò.
“E cosa cambia se rimango qui?”
“No, dai, è una sorpresa!”
“Come vuoi.” Mi strinsi nelle spalle e mi allontanai, dirigendomi a passo spedito al tavolo di Viktor e i suoi amici.
Le sedie erano già tutte occupate: oltre al mio vecchio compagno di scuola c’erano Bogdan – ormai avevo superato il timore iniziale nei suoi confronti –, Jeff – il migliore amico dei fratelli polacchi – e alcune ragazze con cui avevo già stretto amicizia.
Scostai bottiglie e bicchieri vuoti e mi accomodai con nonchalance sul piano del tavolino. “Ehi, che si dice?”
“Ciao bimba! Non hai una bella cera” commentò Bogdan, distogliendo per un attimo lo sguardo dalla biondina che gli sedeva sulle ginocchia.
“Quando mai ha una bella cera?” mi sbeffeggiò Viktor, prendendo una boccata dallo spinello che stringeva tra le dita.
Tirai un piccolo calcio a entrambi. “Che stronzi! Andate a fanculo!”
Effettivamente però mi pareva di avere una guerra nucleare dentro la pancia e no, non stavo affatto bene, anche se cercavo di nasconderlo e comportarmi come al solito.
“Allora… sapete chi suona oggi?” domandai, accennando al palchetto su cui era in corso un viavai di persone e strumentazione.
Una cosa che mi aveva colpito dell’Alibi era che si tenevano piccoli concerti praticamente ogni sera.
“Dei tizi… non saprei.” Jeff si strinse nelle spalle.
“Saranno pure dei tipi a caso, però li avete visti?” commentò Becky in tono malizioso, sporgendosi appena verso di me.
“E allora?” incalzò Bogdan in tono fintamente offeso.
“No, dico… il chitarrista, quello con gli occhi verdi e i capelli mossi… da uno così mi farei scopare volentieri” proseguì la bionda con un sorrisetto.
Becky sapeva il fatto suo. Aveva quindici anni e probabilmente era già stata a letto con tutti i frequentatori di sesso maschile dell’Alibi.
“Beh, ma allora lo voglio vedere anch’io questo chitarrista!” esclamai, aprendomi in un sorrisetto complice.
“Ma guarda te questi stronzi che vengono a rubarci le donne…” bofonchiò Bogdan, voltandosi a guardare prima suo fratello e poi Jeff.
Stavo per ribattere a tono con un commento ironico, ma improvvisamente una fitta alla pancia mi fece strizzare gli occhi e mordere il labbro. Mi portai una mano sul ventre e serrai la mascella. “Merda.”
“Che cazzo hai? Sei bianca in faccia…” si preoccupò Viktor, scrutandomi attentamente.
“Ho detto che non ho niente, porca puttana!” sbottai.
“Nervosa la ragazza” aggiunse Bogdan.
“Senti, vuoi fare un tiro? Così ti rilassi un po’” propose allora il fratello minore, accennando alla sua stecca d’erba.
Aggrottai le sopracciglia e ci riflettei su per qualche istante. Non avevo mai provato a fumare nient’altro oltre alle sigarette, ma in fondo che avevo da perdere? La pancia mi faceva un male tremendo, avevo la mente incasinata e piena di pensieri negativi, avevo voglia di dimenticare tutto e divertirmi.
“Vediamo un po’.” Mi sporsi per sfilargli lo spinello dalle dita e presi una lunga boccata, senza pensarci troppo.
“Eccomi qua! E, Bess, ti presento la tua prima tequila!” esplose la voce di Fanny, attirando l’attenzione di tutti.
Si sedette accanto a me, sul tavolino, e mi porse un bicchierino.
Bogdan fischiò d’approvazione. “La nostra bimba perde la verginità alcolica!”
“Ma veramente bevevo già da prima” gli feci notare.
“Una birra ogni tanto non equivale a bere” puntualizzò Viktor.
“Mi raccomando: giù tutta d’un sorso!” Fanny mi batté su una spalla e mi sorrise.
Non potei fare a meno di essere contagiata dall’entusiasmo generale. Avevo il mio primo shot di tequila tra le dita, l’erba stava cominciando a fare effetto e sentivo che quella sarebbe stata una serata memorabile.
 
Ridevo, così tanto che non riuscivo nemmeno a parlare. Senza motivo. Il mondo girava tutto intorno a me e mi faceva ridere.
Misi faticosamente a fuoco la faccia di Fanny, illuminata solo dalle luci dei lampioni. Mi guardava e sorrideva.
Forse c’era freddo lì fuori, ma io non me ne accorgevo.
“Cazzo! Volevamo vederti sconvolta ed è ciò che abbiamo ottenuto!” commentò la mia amica ridendo.
Anche io sghignazzavo senza interruzioni, sentivo la testa leggera ed era bellissimo.
Sollevai lo sguardo al cielo. “Fanny?”
“Sì?”
“Ma siamo in piedi o sedute?”
Lei lanciò un gridolino e mi spintonò leggermente. “Ma che cazzo di domande fai?”
Rotolai di lato sul marciapiede – ah, forse eravamo sedute! – e continuammo a ridere. Io non riuscivo nemmeno a rimettermi dritta con la schiena.
Ormai non sentivo più nessun dolore, avevo solo una strana sensazione di caldo tra le cosce.
“Oh cazzo… Bess?” si ricompose Fanny dopo un po’.
La guardai di sbieco. “Che c’è?”
“Guarda i tuoi pantaloni.”
Cercai di risedermi meglio che potevo, abbassai lo sguardo e allora notai una macchia scura sul tessuto dell’interno coscia.
Forse mi sarei dovuta vergognare, e invece scoppiai di nuovo a ridere, senza motivo. “Ah, ecco perché mi faceva male la pancia…”
“È la prima volta che ti vengono?” mi domandò Fanny, strattonandomi per un braccio in modo che mi rimettessi dritta.
“Sì.”
“Allora congratulazioni: sei ufficialmente diventata donna! Ora… come cazzo facciamo? Ti devo riaccompagnare a casa, prima che questo marciapiede si trasformi in uno scenario da film horror…”
“No, col cazzo! Io voglio rimanere qui, mi sto divertendo tantissimo!” protestai.
Proprio in quel momento lo stomaco mi si contorse all’improvviso: mi chinai in avanti e cominciai a vomitare. Forse avevo bevuto un po’ troppo…
Da una parte mi veniva da ridere perché sembravo una cretina, ma i conati mi scuotevano tutto il corpo e me lo impedirono.
Solo quando smisi mi resi conto che Fanny mi stava sorreggendo e mi aveva tenuto i capelli perché non si sporcassero.
“Porca puttana” mormorò.
Trascorsero alcuni secondi di silenzio, poi io ricominciai a ridacchiare. “Che schifo, adesso mi devo comprare un paio di scarpe nuove…”
“Prima sbronza e prime mestruazioni in un colpo solo: benvenuta nel mondo degli adulti, Bess.”
Tra poco meno di un mese avrei compiuto dodici anni.
 
 
 
Nei giorni successivi fui costretta a restare a casa.
Qualche volta mi era capitato di bere la sera e risvegliarmi il giorno dopo con un leggero mal di testa, ma quello era il mio primo hangover in piena regola.
E anche quando i postumi della sbornia cominciarono a sfumare, le fitte lancinanti alla pancia rimasero lì e continuarono a torturarmi.
Stavo di merda. L’unica cosa che riuscivo a fare era stare a letto, tremare e cercare la posizione in cui sembrava andare un po’ meglio.
Yelena veniva da me e mi accudiva tutte le volte che non era al lavoro, praticamente in quei giorni viveva dentro la mia camera. Non poteva essere tanto presente, ma faceva quel che poteva e io sapevo che ci metteva il cuore e tutta la buona volontà.
A volte ci pensavo: se ci fosse stata la mamma, sicuramente si sarebbe presa cura di me. Le avrei parlato dei miei sintomi e lei mi avrebbe consolato, le avrei fatto le domande più stupide sul ciclo e su cosa comportasse diventare donna, anche se molte informazioni già le sapevo grazie a Yelena e alle ragazze dell’Alibi. Ma mi sarebbe piaciuto essere ancora per un po’ una bambina che andava a cercare conforto tra le braccia della mamma.
Se ci fosse stata lei, forse non mi sarei nemmeno ubriacata così.
Formulare quei pensieri era inevitabile, ma subito cercavo di scacciarli perché mi facevano male.
Potevo cambiare esteriormente, potevo crearmi una maschera e convincere tutti che ero una ragazza forte, ma quella era una ferita che mi sarei portata appresso per sempre.
Di mio padre, ovviamente, nemmeno l’ombra. Era troppo impegnato a far fronte alle sue sbronze per preoccuparsi anche delle mie.
 
Era il terzo giorno di chiusura forzata in casa e io stavo cominciando a stufarmi. Non ero più abituata e quel posto mi piaceva sempre meno.
Yelena mi aveva portato la cena, si era seduta sul bordo del letto ed era rimasta a chiacchierare con me.
Non le avevo detto che mi ero presa una sbronza epocale, era convinta che il problema fossero soltanto i dolori dovuti al ciclo.
A un tratto, mentre ridevamo tra noi, mia sorella adocchiò l’orologio e subito si alzò.
“Devo andare” affermò mentre raccoglieva i resti del mio pasto.
Aggrottai le sopracciglia. “Dove?”
“Al lavoro.” Non mi guardò mentre lo diceva.
“Ah. Okay.”
Già da qualche tempo avevo un sospetto riguardo a quelle sue uscite notturne, ma non avevo mai avuto il coraggio di esprimerle. Però detestavo quando mi si nascondevano le cose e alla fine, lo sapevo, la mia curiosità avrebbe avuto la meglio.
“Yelena?” la richiamai, quando mia sorella mi dava già le spalle e si accingeva a uscire dalla stanza.
“Che c’è?”
“Girati.”
Mi diede ascolto e lasciò che i nostri occhi si incrociassero.
“Dimmi la verità” ordinai in tono mortalmente serio.
“Su che cosa?”
“Quando esci di sera vai a battere, non è vero?”
Lei tacque e abbassò di colpo lo sguardo. Non disse niente per interminabili secondi.
Quella risposta mi bastò.
“Lo sapevo” affermai.
“Bess, per favore… scusami! Lo so che ti ho deluso, ma i soldi in casa non bastano mai, il lavoro non è mai stabile e mi pagano una miseria! Io non volevo, però ho pensato che…” cominciò a giustificarsi, quasi in lacrime.
“Ma io non ti sto giudicando, cos’hai capito?” la interruppi.
“Cioè… non ti importa se sono una prostituta?” mormorò.
Mi strinsi nelle spalle. “Se a te va bene, allora va bene anche a me.”
“Grazie.” Tornò indietro e mi strinse in un lungo abbraccio.
Non ce l’avevo con lei, davvero: sapevo che era stata una scelta obbligata, che non aveva avuto alternative. Ai miei occhi, qualsiasi lavoro sarebbe potuto essere rispettabile se lo era il fine a cui serviva. E Yelena si stava sacrificando per me.
Non ebbi il coraggio di chiederle se questo la facesse star male: lei non smentì e non confermò.
Eppure sentivo che c’era qualcosa di sbagliato. Eppure la rabbia nei confronti di mio padre continuava a crescere, perché se sua figlia era costretta a fare sesso con degli sconosciuti era soltanto causa sua, e con i soldi che lei guadagnava lui continuava a comprare da bere.
Certe volte la mamma mi mancava così tanto.
 
 
 
“Sono un po’ indecisa però.” Presi una boccata dalla mia sigaretta e posai lo sguardo sulle mie amiche.
“Il rosso potrebbe donarti” propose timidamente Muriel.
Avevo legato parecchio con quella moretta da quando era arrivata all’Alibi: somigliava tanto a me nel primo periodo e io l’avevo presa sotto la mia ala protettiva.
“Ma quale rosso! Vorrei qualcosa di più… particolare, appariscente. E scuro, soprattutto.”
“Ma cos’ha il biondo che non va? Hai dei capelli stupendi!” cinguettò Fanny, prendendo una mia ciocca liscia tra le dita.
“È anonimo. Fa cagare! Allora… che ne dite del viola?”
Fanny scoppiò a ridere. “Ti prego, no!”
“Secondo me invece le starebbe bene!” obiettò Muriel.
“Ehi ragazze! Quanto prendete a botta?” esplose la voce di Viktor, intrisa di ironia.
Sollevai lo sguardo e lo vidi avvicinarsi lungo la strada insieme a Ives e Ethan – due ragazzi della nostra cerchia – con la solita stecca d’erba tra le dita.
Faceva sempre questa battuta idiota quando ci vedeva accomodate sul gradino del marciapiede.
Gli mostrai il dito medio. “Una botta devi averla presa tu da piccolo, in testa.”
“Era un complimento! Non capisci mai un cazzo!” mi punzecchiò.
I tre si fermarono davanti a noi.
“Sì, vabbè… fammi fare un tiro e taci!” lo liquidai con un sorrisetto.
Lui mi passò lo spinello.
“Ragazzi, noi stavamo pensando di andare al mare domani” se ne uscì Fanny.
“Figo! Noi ci siamo!” esclamò Ives con entusiasmo, per poi voltarsi a guardare Ethan.
Lui si strinse nelle spalle. “Nel dubbio io entro e mi prendo un Jack.”
Gli strizzai l’occhio. “Ma domani ti voglio al mare, eh!”
“Certo, in bikini” ribatté in tono scherzoso prima di sparire all’interno del locale.
Era molto affascinante, Ethan.
“Sbaglio o sul lungomare c’è quel chioschetto dove andavamo sempre l’estate scorsa?” domandò Viktor.
“Sperando che sia ancora tutto intero” ironizzò Muriel con una risatina.
“Io dovrei comprare un costume nuovo” affermò Fanny con una smorfia.
“Sapete dove si ferma il bus diretto al lungomare?” si informò Ives.
“Tra l’altro dovrò vendere un rene per comprare i biglietti…” bofonchiai.
Lui sorrise. “E chi lo paga il biglietto?”
Era il 3 giugno 1981, era l’anniversario di morte di mia madre e io me ne stavo seduta su un sudicio marciapiede: pensavo al colore di cui mi sarei tinta i capelli e progettavo un piano per andare al mare senza spendere un soldo.
Un anno era stato capace di stravolgere del tutto la mia vita: la mia famiglia si era distrutta e ne avevo trovato un’altra, ero stata strappata via dall’infanzia e mi ero scontrata con la vita vera, mi ero chiusa in un guscio e poi l’avevo spaccato, uscendone più forte di prima. O forse ero più debole, perché avevo perso me stessa e mi ero imposta di non guardare più al passato.
Ero giovane – troppo giovane – e incazzata col mondo, cercavo sorrisi e sguardi in ragazzi distrutti come me, forse con la stupida speranza di ritrovare, un giorno, il sorriso di mia madre.
Nessuno mi aveva dato delle indicazioni su come vivere, nessuno mi aveva mostrato la strada giusta da percorrere, così io ne avevo costruito una tutta mia.
Non sapevo come, non sapevo se in modo giusto o sbagliato, ma sarei andata avanti giorno dopo giorno, passo dopo passo – dolore dopo dolore.
 
 
 
 
♠ ♠ ♠
 
 
Ciao a tutti e benvenuti al primo capitolo della mia prima raccoltina incentrata sul personaggio di Bess!
Capitolone, visto che sono quasi diecimila parole… SCUSATEMI, vi giuro che non pensavo che sarebbe uscito così lungo, ma per come ho intenzione di strutturare la raccolta non lo potevo proprio dividerlo! A maggior ragione perché la shot partecipa a un contest, quindi dovevo dire tutto in questa sede XD
E… fa schifo. Lo detesto. Ci ho messo una vita a scriverlo e man mano che andava avanti mi convinceva sempre meno, quindi mi scuso doppiamente perché davvero… lo stile fa schifo, la struttura fa schifo e probabilmente è la storia più brutta di tutta la serie AHAHAHAH!
Ma la smetto di lamentarmi (come mio solito) e passo alle note veramente importanti!
Innanzitutto vi lascio il pacchetto che ho scelto per il contest di Vintage:
 
Genitori fantasma:
Ovviamente i genitori in questa storia non devono esserci. Possono essere morti, lavorare e viaggiare spesso e quindi lasciare il povero protagonista da solo, senza uno straccio d’affetto familiare. Per chiunque sceglierà questa storia, dunque, i genitori sono off limits.
 
Che poi questo pacchetto si prestava praticamente a tutti i miei personaggi X’D
Per quanto riguarda i personaggi e le loro vicende, non credo di dover aggiungere altre grandi spiegazioni: spero sia comunque tutto chiaro anche per chi non conosce la serie!
Unica precisazione: Surrealistic Pillow dei Jefferson Airplane è un album pubblicato nel 1967 ed è il simbolo del rock psichedelico di quegli anni. Contiene, tra l’altro, due dei più grandi successi della band (Somebody To Love e White Rabbit).
Vi lascio di seguito i link delle canzoni che ho menzionato (bellissime, vi consiglio di darci un ascolto se non le conoscete *-*):
White Rabbit (è vero che l’hanno cantata a Woodstock, per inciso)
She Has Funny Cars
Somebody To Love
La prima è contenuta nel lato B dell’LP, le ultime due nel lato A (come detto nella storia, sono rispettivamente la prima e la seconda traccia).
Spero che la storia vi sia piaciuta più di quanto piaccia a me XD e spero che il personaggio di Bess vi abbia intrigato!
Non garantisco tempi brevi per quanto riguarda gli aggiornamenti di questa raccolta, ma spero davvero di riuscire a buttar giù un secondo capitolo decente XD
Grazie mille a chiunque sia giunto fin qui e alla prossima! ♥
 
 

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Capitolo 2
*** Runaway ***


Runaway
 
 
 
 
Mi misi supina sul telo da mare e chiusi gli occhi in modo che il sole non li ferisse. “Detesto questo fottutissimo costume intero, fa decisamente troppo caldo.”
Muriel si sollevò sui gomiti, si sfilò gli occhiali da sole e me li passò, poi mi rivolse un’occhiata divertita. “Devi imparare a non farti nuovi tatuaggi d’estate.”
Misi su una smorfia. “Ho imparato a fare nuovi tatuaggi quando ho i soldi per pagarli.” Afferrai l’oggetto che mi stava porgendo e lo indossai.
Gli occhiali da sole erano solo una delle tantissime cose che io e Muriel condividevamo; da quando ci eravamo conosciute, ormai quattro anni prima, eravamo diventate praticamente inseparabili. Era l’amica più stretta che ero riuscita a trovare all’Alibi, colei con cui trascorrevo la maggior parte del mio tempo, anche se non riuscivo mai ad aprirmi e confidarmi del tutto come dovrebbero fare le migliori amiche.
Non ci riuscivo con nessuno a dire il vero.
Lei si sporse appena verso di me e sorrise, alcune ciocche scure e ancora umide le piovvero sulle guance. “Dai… perché non mi dici di che si tratta?”
Risi beffarda e mi passai una mano sul fianco sinistro, là dove sapevo esserci il nuovo disegno che avrebbe marchiato a vita la mia pelle. “No.”
Lei mise il broncio. “Perché?”
“Perché lo vedrete tutti quando sarà ben guarito!”
“Ma non puoi fare un’eccezione nemmeno per me?”
Le scoccai un altro sorrisetto. “No. Non sei mica speciale!”
“Ah no? Rendimi gli occhiali allora!” Cercò di risultare minacciosa, ma le sfuggì una risatina.
“Col cazzo, li abbiamo comprati anche con i miei soldi!”
Lo sciabordio delle onde faceva da sottofondo ai nostri battibecchi, alle conversazioni e alle risate di tanti altri ragazzi come noi. A diversi metri da noi, in riva al mare, alcuni tra i più piccoli giocavano a pallone e si insultavano scherzosamente, mentre le loro voci si mischiavano a quelle di chi era immerso in acqua e si divertiva a nuotare e schizzare i propri amici; dietro di noi, il nostro fatiscente chioschetto di fiducia era gremito di gente ammassata attorno ai tavolini e il solito giradischi sul bancone diffondeva le note di un album degli AC/DC. Era incredibile come, nonostante ci trovassimo nell’anfratto più malfamato del lungomare di Los Angeles, si riuscisse a respirare quasi un’atmosfera allegra ed estiva.
Era una calda mattinata di maggio che io avrei dovuto trascorrere tra i banchi di scuola, erano passati quasi cinque anni da quando ero entrata a far parte della cerchia di scalmanati dell’Alibi e da allora nulla nella mia vita era cambiato. Le mie giornate si assomigliavano tutte tra loro, e in un certo senso mi andava bene così: uscivo, andavo al locale, qualche volta ci spostavamo a Hollywood in qualche altro pub più in vista, andavamo ai concerti e alle serate, d’estate ci trasferivamo tutti sul lungomare. Si beveva, si fumava, ci si sballava con ciò che si aveva, si scopava, si cantava e si ballava, tutto sommato ci si divertiva. Era il mio modo per sfuggire al malessere interiore che provavo e alla situazione disastrosa in casa mia.
Per quanto riguardava quest’ultima, avevo imparato a starci fuori più tempo possibile: non mancavo mai all’Alibi, non avevo rinunciato alla giornata al mare nemmeno quel giorno, nonostante il tatuatore mi avesse intimato di non esporre il nuovo tatuaggio al sole. Avevo dovuto usare un costume intero, pazienza.
Mancavo solo quando ero troppo malconcia per impersonare il ruolo della solita Bess, ovvero quando avevo il ciclo – ormai era tradizione che stessi da schifo in quei giorni – e quando ero in preda a un attacco di panico.
Mentre io e Muriel battibeccavamo e ridevamo tra noi, una pallonata proveniente dalla riva mi colpì alla gamba e non ebbi la prontezza di pararla. Infastidita e incazzata, scattai subito seduta e, una volta afferrato il pallone, trucidai con lo sguardo i ragazzini che si accingevano già a raggiungermi per riprendersi ciò che era loro.
Presi la mira e tirai dritto alle parti basse di uno dei due, facendo perfettamente centro. “La prossima volta la palla lanciatela a fanculo, okay? Buon proseguimento di partita” li liquidai, mentre il povero malcapitato si piegava in due dal dolore.
“Nervosa la ragazza!” commentò Fanny che, appena uscita dall’acqua, stava camminando nella nostra direzione e aveva assistito a tutta la scena.
Ogni volta che la guardavo non potevo fare a meno di pensare che fosse una dea: pelle ancora più abbronzata del solito, fianchi larghi, fisico da modella di origini caraibiche, bikini azzurro che aderiva perfettamente alle forme generose, capelli scuri e umidi che incorniciavano un viso angelico.
Nel primo periodo io e Muriel ci sentivamo degli esseri insulsi in confronto a lei, così minute e anonime, ma pian piano avevamo acquisito sicurezza in noi stesse e imparato da lei. A me non importavano più i paragoni, perché sapevo perfettamente come attirare l’attenzione sfruttando i miei punti forti.
Mi misi in piedi. “Che c’è? Gli ho reso la palla, tutto qui!” Mi strinsi nelle spalle e mi guardai attorno. “Mi sono rotta il cazzo di stare al sole. Non è che per caso ti serve un telo da mare?”
Fanny mi sorrise. “Me lo presteresti? Ah, grazie tesoro, io l’ho dimenticato!” cinguettò.
Restituii gli occhiali da sole a Muriel e mi diressi verso il portico in legno del chiosco, in cerca di un po’ d’ombra.
“Ehi Bess!” mi intercettò Oliver non appena mi vide salire i gradini. “Per caso hai visto Ives, Ethan e Alick?”
Scrutai per un istante il cantante biondiccio, poi lanciai un’occhiata attorno a me in cerca dei suoi compagni di band. “Li ho visti quanto te. Sicuramente Alick starà amoreggiando in qualche angolo appartato con May, mentre Ives e Ethan… staranno amoreggiando tra loro, non so. Ma posso prendere un sorso della tua birra, vero?” aggiunsi poi, accennando al bicchiere che stringeva in mano.
Lui rise. “Bess Hadley che chiede il permesso per fare qualcosa?”
Gli sorrisi sorniona, per poi sfilargli la birra di mano. “Infatti era una domanda retorica.” Presi un lungo sorso, fresco e ristoratore, poi gliela resi. “Come mai li cercavi? Qualcosa di urgente?”
Il ragazzo mise su un’espressione enigmatica. “Se te lo dico, prometti di non prendermi per il culo.”
“Non te lo posso promettere.”
“Allora niente.”
Mi puntai le mani sui fianchi per risultare minacciosa. “Parla o ti rubo nuovamente la birra.”
“Che paura!” ribatté lui in tono ironico.
“Oliver…”
Sospirò. “Da giugno comincio a vendere granite per le spiagge e quindi tutte le prove pomeridiane con gli Storm It Down salteranno.”
Mi morsi il labbro, divenni paonazza, provai qualsiasi cosa pur di non scoppiare a ridergli in faccia, ma dopo qualche istante non resistetti più ed esplosi in un accesso di risa incontrollabile. “Tu andrai a vendere granite? Col carretto colorato e tutto il resto?!”
“Sei una stronza! Io non so perché continuo ad avere a che fare con una testa di cazzo come te!” si finse offeso lui, dandomi una leggera spinta.
“Andiamo, è troppo bello! Un fottutissimo venditore ambulante di granite che passa lungo le spiagge con tanto di marmocchi urlanti appesi al carretto… Oliv, io ti adoro, prima o poi mi farai crepare!” Mi asciugai le lacrime che erano venute fuori a furia di ridere sotto lo sguardo torvo di Oliver.
“Non è divertente!”
“Oh, sì che lo è!”
“D’accordo.” Affilò lo sguardo e una scintilla fece brillare i suoi occhi verdi; prese l’ultimo sorso di birra, poi gettò a terra il bicchiere in plastica vuoto. “Visto che non hai mantenuto la promessa, adesso voglio sapere cosa ci nascondi con quel nuovo tatuaggio!”
“Col cazzo!” Incrociai le braccia al petto.
“Bess Hadley, quel costume ti sta d’incanto!” La voce di Viktor alle mie spalle catturò la mia attenzione.
Beh, d’accordo che ero stata costretta a usare un costume intero, ma non ne avevo certo scelto uno da vecchia zitella: era ovviamente nero, aveva un profondo scollo sulla schiena e un complesso intreccio all’altezza del seno che gli dava un tocco gotico.
Mi voltai verso di lui e gli scoccai un sorriso: almeno aveva apprezzato la scelta. Certo, a ricevere un complimento del genere proprio da Viktor non c’era gusto, ci conoscevamo da quando eravamo bambini e non me lo sarei portato a letto nemmeno se fosse stato l’ultimo uomo sulla Terra.
“Bello, per chi mi hai preso? Mi sta bene qualsiasi cosa” ribattei, accostandomi a lui e posizionandomi tra lui e Josh. Le sedie erano finite, quindi ero costretta a stare in piedi.
“Nulla da ridire” commentò Josh, squadrandomi da capo a piedi con uno sguardo di fuoco.
Gli picchiettai sulla schiena. “Senti un po’, mi hai portato la roba che ti ho chiesto?”
Josh era lo spacciatore ufficiale della nostra cerchia, colui che procurava ogni tipo di sostanza gli venisse chiesta. A quanto pareva si riforniva da un certo fratello maggiore di Ethan, ma non ne sapevo tanto.
Io in genere gli chiedevo soltanto un po’ di marijuana, sia perché non avevo tanti soldi da sperperare in droghe, sia perché quella, l’alcol e le sigarette mi erano sempre bastati. Una volta avevo provato la cocaina, ma ero stata inspiegabilmente male per due giorni e non ci tenevo a ripetere l’esperienza.
“Te la porto tra poco” mormorò il ragazzo con fare complice.
“Ehi ragazzi, stasera chi viene al Rainbow? Ci sono un paio di nuove band che vorrei sentire” propose Oliver, di ritorno dal bancone con un nuovo bicchiere di birra.
“Io ci sono!” accettai subito.
La mia vita andava avanti così da quattro anni e mezzo: tutto allo sbando, tutto alla giornata, ogni ora sembrava promettere qualcosa di nuovo ma in fondo era uguale alla precedente. Avevo il culto della libertà ma, anche se mi illudevo e fingevo che andava tutto bene, sentivo che la mia salvezza – quel mondo, quello stile di vita – era anche la mia prigione.
 
 
 
Spinsi la porta d’ingresso, leggermente preoccupata per quello che avrei potuto trovare: non avevo nessuna intenzione di incrociare mio padre, nemmeno per sbaglio.
Doveva essere più di una settimana che non lo vedevo, fatto che accadeva molto spesso. Così come io facevo il possibile per non tornare a casa, lui trascorreva la maggior parte del suo tempo tra bar fatiscenti e qualsiasi altro punto vendita di alcolici. Sembrava essersi dimenticato di avere una dimora e io non potevo che ringraziarlo, perché mi era ormai impossibile trovarmelo davanti senza sbottare e urlargli in faccia tutto il mio disprezzo e odio.
La piccola zona giorno era deserta, ma la voce di mia sorella mi giunse ovattata dal minuscolo andito che conduceva alle camere da letto, in cui tenevamo il telefono.
“Certo, più avanti possiamo metterci d’accordo… puoi ricordarmi le date, così le segno?”
Mi diressi verso il frigo e lo aprii, con l’intento di cercare qualcosa da mettere sotto i denti. Ero quasi al verde – il tatuaggio mi era costato caro –, non era il caso di spendere altri soldi per comprare la cena d’asporto.
Non c’era tanta scelta, com’era prevedibile; nessuno si era preoccupato di fare la spesa.
“Certo, avete fatto bene. Quindi le ragazze non ci saranno? Ah, capisco! Certo, è comprensibile! Sarà una bella esperienza anche per loro, anche perché il nostro quartiere non ha molto da offrire!”
Afferrai un vasetto di yogurt e mi sedetti al tavolo, domandandomi pigramente con chi stesse conversando Yelena. Dal tono cordiale e le frasi di circostanza che stava utilizzando, doveva trattarsi di qualcuno con cui non aveva molta familiarità.
“Sì, certo, se lo incrocio glielo dico. Okay, allora ci risentiamo più avanti. Ciao zia, buona serata!”
Zia?! Non ricordavo nemmeno di avere una zia o comunque non credevo che qualche parente chiamasse ancora a casa nostra.
Udii mia sorella riappendere la cornetta e qualche istante più tardi eccola che si affacciava sulla soglia. “Ah, sei tu! Mi pareva di aver sentito entrare qualcuno!”
“Chi era?” incalzai subito curiosa, mentre mi portavo una cucchiaiata di yogurt alle labbra.
Lei prese posto accanto a me. “È una storia lunga. Allora… hai presente la zia Ruth, la sorella di papà?”
Rimestai tra i miei ricordi in cerca di qualche informazione compatibile, ma non mi venne in mente niente.
“Sposata con lo zio Lawrence…” tentò di aiutarmi lei.
“Ma chi cazzo ci ha mai avuto a che fare con questa gente?”
Yelena rise. “Effettivamente credo che io e te non li abbiamo mai incontrati, dato che hanno sempre vissuto a Londra. Ma qualche volta hanno chiamato per gli auguri di Natale e stronzate del genere.”
Mi strinsi nelle spalle, sempre più confusa. Sapevo che tutti i parenti di mio padre abitavano in Inghilterra, ma non avrei saputo ricostruire quel ramo del mio albero genealogico.
“Ecco, comunque… hanno chiamato per dire che hanno intenzione di fare un viaggio in California quest’estate.”
“Beh, buona fortuna” bofonchiai con la bocca piena.
“Vorrebbero venire a trovarci, la zia Ruth vorrebbe rivedere suo fratello dopo tanti anni. Che potevo fare? Le ho detto che non c’erano problemi.”
Lasciai cadere il cucchiaino dentro il vasetto semivuoto. “Ma sei impazzita?! Probabilmente quella nemmeno sa che nostro padre è un alcolizzato!”
Lei scrollò le spalle e si sistemò una ciocca castana dietro l’orecchio. “Ho spiegato più o meno questa situazione alla zia, lei si è dispiaciuta parecchio e ha detto che ci tiene comunque a conoscere noi due, visto che non ci ha mai visto.”
Aggrottai le sopracciglia con fare scettico e ripresi a mangiare. “Dopo sedici anni mia zia si accorge che esisto. Che culo.”
“Anche lei aveva una famiglia da tirare su.”
“Hanno dei figli?” mi informai.
“Due figlie, gemelle. Ma non so se avremo occasione di conoscerle perché i genitori hanno intenzione di spedirle in un campo estivo sulla costa insieme ad altri ragazzi della loro età.”
Ero sempre più allibita. “Cioè, fammi capire: vengono a fare le vacanze di famiglia in California e al posto di stare tutti insieme mandano le figlie in mezzo a un branco di sconosciuti?”
Yelena si strinse nelle spalle. “La gente è strana. La zia Ruth ha detto che in questo modo le ragazzine avranno modo di divertirsi e godersi davvero le vacanze in California.”
“Secondo me lei e il marito se ne vogliono sbarazzare per qualche giorno e rilassarsi in pace. Mi stanno già sul cazzo. E poi quanto devono essere ricchi per pagare il campo a entrambe le figlie?”
“Se vengono tutti e quattro a fare un viaggio di dieci giorni oltreoceano, sicuramente non stanno morendo di fame.” Yelena si alzò e si diresse verso l’imboccatura dell’andito. “Vado a prepararmi per il lavoro. Tu stasera che devi fare?”
“Il solito: mi faccio una doccia ed esco, probabilmente andrò in centro con Muriel.”
“Okay.”
Anche da quel punto di vista nulla era cambiato: mia sorella continuava a fare la prostituta per permettere alla famiglia di tirare avanti e per mantenere il vizio di mio padre, che si faceva ogni giorno più pesante e dispendioso. La situazione mi faceva ancora incazzare tantissimo, ma ormai avevo sviluppato una sorta di rassegnazione a riguardo. Tante volte avevo detto a mia sorella di scaricare nostro padre, che ci saremmo potute creare una vita senza di lui e che avrei potuto cercare un lavoro per aiutarla, ma lei non se l’era mai sentita di cambiare quella situazione. Non voleva lasciarlo al suo destino e non voleva che io interrompessi gli studi per andare a lavorare come aveva fatto lei.
Studi a cui, peraltro, non mi stavo neanche davvero dedicando.
“Non è così male fare la donna di strada” mi aveva detto una volta, forse più per rassicurarmi che per confidarsi. “Certo, i clienti non sempre te li scegli, ma se ti capitano i migliori puoi addirittura riuscire a fare del buon sesso e divertirti.”
Le avevo creduto perché, anche se non lo facevo per lavoro, sperimentavo sulla mia pelle cosa significasse scopare ogni sera con un ragazzo diverso.
 
 
 
Una sigaretta tra le dita, camminavo accanto a Muriel con passo sicuro sul Sunset Strip, quel luogo che ormai conoscevo come le mie tasche. Mi comportavo come la padrona di casa e non avevo alcuna paura di farmi notare: avevo lasciato i capelli tinti di blu sciolti sulle spalle nonostante l’aria bollente dell’estate, mi ero truccata con cura, avevo scelto i pantaloni più aderenti che avevo nell’armadio e una canotta dal tessuto leggero che lasciava intravedere il mio corpo in trasparenza, ma soprattutto mi muovevo in quel modo sicuro e sfrontato che funzionava sempre per calamitare gli sguardi.
In quegli anni avevo imparato che, ancora più dell’abbigliamento, era l’impressione che si dava di sé a determinare il successo.
Muriel era bellissima, anche se forse non ne era del tutto consapevole: sembrava la mia gemella, anche se i suoi capelli erano corvini e aveva l’aria innocente da brava ragazza che comunque mieteva le sue vittime. Pareva più timida e insicura di me, ma non si tirava indietro quando c’era da divertirsi coi ragazzi.
E poco importava se eravamo delle poveracce che non possedevano nemmeno i soldi per prendere un bus e tornare al loro quartiere: quella sera ci sentivamo due regine.
Chiacchieravamo di progetti per l’estate – concerti, giornate sul lungomare, viaggi che non avremmo mai fatto –, di tatuaggi e di ragazzi, prendevamo tempo prima di scegliere un locale in cui entrare a prenderci un drink, ci guardavamo attorno, salutavamo gente che conoscevamo di vista e ragazzi dell’Alibi che come noi avevano deciso di trascorrere la serata altrove, ogni tanto ci fermavamo a chiacchierare e flirtare con qualcuno. Non avevo paura di portare fuori le peggiori battute sconce del mio repertorio, di rubare tiri d’erba e sorsi di alcolici dai bicchieri altrui, di ridere forte e attirare l’attenzione; di essere la Bess che mi piaceva di più, sgraziata e mascolina ma al contempo sexy e bollente.
Io e Muriel ci fermammo di fronte alla soglia di un locale piccolo e poco illuminato in cui poco prima avevamo visto entrare Fanny e Becky, indecise se fermarci là o cercare qualcosa di meglio, quando un rombo di motori alle nostre spalle attirò la nostra attenzione.
Ci voltammo e sul ciglio della strada notammo tre giovani su tre moto lucide: avevano capelli lunghi, indossavano pantaloni in pelle e avevano un’aria da cattivi ragazzi che li rendeva ancora più interessanti.
Io e Muriel li conoscevamo già, li incontravamo spesso quando andavamo in giro per lo Strip e spesso ci eravamo finite a letto insieme.
“Ehi ragazze! Che bomba che siete oggi!” ci salutò uno dei due mori, Logan, sfilandosi il casco.
Accennai un sorriso malizioso e mi accostai al suo mezzo fino a sfiorarne la carrozzeria nera. “Ma salve! Che c’è di nuovo?”
Con la coda dell’occhio notai che Muriel si era subito fatta avanti col biondo di cui mi sfuggiva sempre il nome – Kell o Ken, o forse era Jen? – come suo solito: aveva una passione per i biondi, non se ne lasciava scappare nemmeno uno.
“Solita merda, solito sballo. Tu che hai combinato, ragazzina?”
Presi un tiro dalla mia sigaretta. “Ragazzina lo dici a tua madre” risposi con aria impertinente, per poi sbuffargli la boccata di fumo direttamente in faccia. “Ho un nuovo tatuaggio, comunque.”
Lui sorrise malizioso e si sporse per mollarmi una pacca sul sedere. “Sei proprio una stronzetta. E di che tatuaggio si tratta?”
“Eh no, questo lo devi scoprire tu” insinuai, scuotendo la testa in modo che le ciocche blu notte mi oscillassero sulle spalle nude, poi mi allontanai con una risatina furba e mi accostai a Erik, l’altro moro.
Stavo per aprire bocca, quando notai un’ammaccatura piuttosto appariscente sul fianco della sua moto argentea. “Che cazzo è successo al tuo gioiellino?”
Lui disse qualcosa, ma il suono del motore mi impedii di capirlo.
“Cosa?” Mi sporsi maggiormente, sdraiandomi quasi sul manubrio.
“Ho detto che è stato uno stronzo con cui ho avuto una discussione!”
“E portala ad aggiustare, no?”
“Non ho soldi: abbiamo speso tutto per i biglietti del concerto dei Mötley Crüe!”
Mi strinsi nelle spalle, poi mi guardai attorno con fare annoiato. “Sentite, mi sono rotta il cazzo di questo posto. Ci sapete arrivare al mare?”
“Per chi ci hai preso, bimba? Ti portiamo anche in capo al mondo” si pavoneggiò Erik, lanciandomi un’occhiata infuocata.
“È un viaggio lungo” mi informò Logan.
“Io ho tutta la notte.” Spostai lo sguardo dall’uno all’altro, gettai il mozzicone a terra e poi schioccai le dita. “Però salgo con quello che ha la moto migliore!”
Detto ciò tornai da Logan ed ero sul punto di posizionarmi dietro di lui sulla sella, quando improvvisamente il ragazzo allungò una mano e sollevò il lembo della mia maglia semitrasparente, scoprendomi il fianco destro. “Ho trovato il tatuaggio!”
Scoppiai a ridere. “Sei uno stronzo!”
Ammirò la complessa ragnatela in stile gotico che mi marchiava la pelle pallida, poi accostò le labbra al mio orecchio. “Ti rende ancora più hot.”
Sorrisi, poi montai sulla moto e gli strinsi le braccia attorno ai fianchi, lasciando scorrere accidentalmente una mano verso il basso, fin quasi all’altezza del suo inguine. “Portami al mare e avrai la serata più calda della tua estate.”
Sentivo l’eccitazione crescere in me, la pelle bollente a contatto col corpo di Logan e con la sua moto, il vento tra i capelli e il cuore pieno di fame di libertà, vita, piacere.
Ero una cattiva ragazza, una stronzetta, una persona sguaiata e volgare, ma mi divertivo un mondo. Eccome se mi divertivo.
Era il mio turno di essere sulla cima del mondo.
 
 
 
Non ero mai stata brava a recitare la parte della brava ragazzina davanti ai parenti, non avevo mai conosciuto la tradizione dei pranzi di Natale costituiti da sorrisi falsi e conversazioni di circostanza, non mi avevano mai insegnato a portare rispetto a zii, cugini e nonni, e nemmeno a fingere di portarglielo.
Quando la zia Ruth e lo zio Lawrence arrivarono a casa nostra, nel giorno che avevano stabilito con Yelena per telefono, io ero stravaccata sul divano e mi stavo occupando di una rapida manicure: tagliavo e limavo le unghie, avevo intenzione di laccarle di un colore scuro ma ero ancora indecisa tra blu notte e viola. In genere quelle erano operazioni che condividevo con Muriel e Fanny, ma quel pomeriggio avevo promesso a mia sorella che le avrei fatto compagnia nell’affrontare gli zii. Non che mi ci stessi impegnando troppo.
Ero anche stata tentata di svignarmela, in fondo era stata Yelena a invitarli a passare da casa nostra, ma la curiosità mi aveva spinto a rimanere.
Me ne pentii non appena li vidi entrare nella nostra piccola cucina insieme a Yelena: li inquadrai come una coppia di anonimi inglesi facenti parte della classe borghese, di quelli che vivevano in una bella casa a due piani col prato ben curato e delimitato da una staccionata bianca, di quelli con la puzza sotto al naso e lo sguardo schivo di chi sa di essere superiore. Non avevo nulla da spartire con loro.
“Tu devi essere Beatrix” esordì la zia Ruth in tono cordiale non appena posò lo sguardo su di me. Pareva la fotocopia al femminile di mio padre: capelli biondi, lineamenti delicati e tipicamente inglesi, sguardo mite di chi non vuole osare.
Mi strinsi nelle spalle e continuai ad armeggiare con la mia lima. “Bess, sì.”
“Molto piacere” esclamò in tono forzatamente allegro. “Che bella ragazza! Quanti anni hai? Immagino tu sia all’incirca coetanea delle mie figlie.”
Inarcai un sopracciglio. “Perché, loro quanti anni hanno?”
“Tredici.”
Le scoppiai quasi a ridere in faccia. “Io ne devo compiere diciassette quest’anno.”
“Ah…”
Yelena attese che anche lo zio Lawrence avesse varcato l’uscio prima di richiuderlo. “Prego, accomodatevi! Cosa posso offrirvi?” tentò di essere gentile.
Yelena era molto più abile di me quando c’era da trattare civilmente con gli adulti. Da una parte la ammiravo, dall’altra mi chiedevo cosa l’avesse portata a ficcarsi in quella situazione con quei due sconosciuti che ci ostinavamo a chiamare zii.
“Niente, siamo a posto, grazie comunque” affermò la zia, sistemandosi una ciocca che le era sfuggita dalla coda di cavallo.
Spostai lo sguardo dalla sua sobria figura a quella di suo marito, un uomo possibilmente ancora più anonimo dai capelli corti e castani; non aveva aperto bocca da quand’era arrivato e si era limitato a un cordiale gesto di saluto, aveva la tipica aria da impiegato che lavorava otto ore al giorno in un ufficio con il condizionatore e un mucchio di scartoffie sulla scrivania.
Ma davvero quelli erano miei parenti? Non biasimavo mio padre per essere fuggito dall’Inghilterra e aver inseguito il sogno di sposare mia madre.
La stanza era immersa in un’afa che però era gelida e sapeva di disagio, inadeguatezza.
“Allora… Richard non è in casa?” proseguì la zia Ruth, accennando un sorriso incerto.
Ecco, era esattamente quello che avrei voluto evitare: le domande su mio padre. Non sapevo se avrei retto.
“No, ecco…” Yelena prese posto attorno al tavolo insieme a loro. “È una situazione complicata. Da quando mia madre ha avuto l’incidente lui si è lasciato andare, come ti spiegavo anche al telefono, e ora io e Bess stiamo cercando di cavarcela con le nostre forze.”
“Non è una bella situazione” commentò mestamente la zia.
Che osservazione intelligente. Ci voleva il genio della lampada per capirlo…
“Sembrava così felice quando è partito per stare con vostra madre tanti anni fa… pensavamo che stesse facendo una follia, pensavamo che si sarebbe messo nei guai…”
“Invece lui e mia madre stavano benissimo, la vera disgrazia è stato l’incidente. È da allora che è diventato un alcolizzato” la interruppi io, quasi con rabbia. Avevo intuito fin dall’inizio che la famiglia di mio padre non avesse accolto con troppa gioia la sua scelta, dunque ci tenevo a puntualizzare che non era colpa di mia madre se le cose erano andate così.
Se avessero anche solo osato parlar male di mia madre in casa mia, in casa sua, non avrei esitato un attimo a buttarli fuori senza troppi complimenti.
“Mi dispiace tantissimo per lui e soprattutto per voi” disse lei in tutta risposta.
“Dispiaciti solo per noi: tuo fratello ha scelto il suo destino. Nessuno l’ha obbligato a bere fino a sfondarsi il cervello” me ne uscii in tono lugubre, poi mi resi conto – anche tramite l’occhiataccia che mi lanciò Yelena – che forse avevo un po’ esagerato. Del resto c’erano tante dinamiche che loro non conoscevano, e Ruth era pur sempre una sorella preoccupata per il suo fratellino minore.
Beh, non mi importava.
Mi schiarii la gola e sollevai due boccette di smalto per le unghie. “Blu o viola?”
Yelena mi scoccò l’ennesimo sguardo ammonitore, poi si voltò verso gli zii e abbozzò un sorriso, cercando di prendere in mano la situazione e portandoci fuori da quell’attimo di tensione. “Comunque l’ho avvisato che sareste venuti, sono sicura che tornerà a casa a momenti.”
Beh, se arriva lui me ne vado io, almeno ho la scusa per non stare con questi due.
“Comunque, come vi state trovando in California? È la prima volta?”
“Molto bella” prese la parola lo zio Lawrence, cogliendomi di sorpresa. Quindi non era muto!
“Davvero stupenda! Anche le ragazze sembravano entusiaste quando le abbiamo lasciate al campo estivo… abbiamo avuto qualche problema con i mezzi pubblici, ma in linea di massima…” prese a sproloquiare la zia Ruth, ma ben presto io smisi di prestare attenzione e cominciai a laccarmi le unghie con meticolosità. Figuriamoci se mi interessava l’andamento delle loro stupide vacanze borghesi in un hotel a cinque stelle con vista mare.
Ascoltando distrattamente i loro discorsi, appresi che le gemelle – Crystal e Joice – frequentavano una scuola privata e avevano una pagella brillante, che la zia Ruth lavorava come assistente nello studio di un avvocato e lo zio Lawrence, esattamente come avevo immaginato, era un uomo di ufficio che si occupava di faccende riguardanti il marketing o il management o qualche altra fesseria simile. Avevano una casa in un tranquillo quartiere residenziale di Londra non meglio identificato, una bella macchina e amavano le attività da svolgere tutti insieme in famiglia.
Mi infastidivano.
“E voi invece, ragazze, cosa fate o cosa pensate di fare?”
La domanda della zia Ruth piovve come un fulmine a ciel sereno e io, che stavo passando il pennellino intriso di blu notte sull’ultima unghia, sollevai il capo di scatto per verificare la reazione di mia sorella.
Yelena si schiarì appena la gola e si sistemò una ciocca castana dietro l’orecchio, segno del suo disagio che solo io potevo cogliere. “Io lavoro come cameriera… beh, in vari locali. Quindi mi divido tra un bar qua vicino durante il giorno e un pub in centro durante la notte, cerco di tenermi il più impegnata possibile perché… sapete, i soldi sembrano non bastare mai, praticamente abbiamo solo queste entrate e i datori di lavoro non sono poi così generosi” dichiarò con un leggero nervosismo nella voce. Logicamente non poteva rivelare che la sua principale occupazione era quella di battere per le peggiori vie della città.
La zia annuì con un’espressione contratta sul viso, quasi dispiaciuta, poi si voltò verso di me. “Tu, Beatrix?”
“Studio… più o meno.”
Lei rise. “Più o meno?”
Ma non poteva farsi i cazzi suoi?
Mi strinsi nelle spalle. “La scuola che frequento, ma tutta la situazione in generale, non mi motivano particolarmente a studiare.”
“E non hai un obiettivo?”
Sbattei le palpebre, quasi confusa. Era da più di cinque anni che non avevo obiettivi, se non quello di arrivare a fine giornata ancora viva e tutta intera.
“Insomma…” Zia Ruth si mosse sulla sedia, per la prima volta da quando era arrivata pareva a disagio. “Cosa ti piacerebbe fare in futuro? Non hai un lavoro in testa in particolare, un sogno…”
“Perché, secondo te qui mi è concesso sognare?” ribattei d’istinto, sollevando le mani in segno di resa. “Non so se vi siete guardati attorno mentre venivate qui. Vi siete resi conto di che quartiere si tratta? Sono nata e cresciuta in un posto in cui le siringhe stanno agli angoli delle strade, in cui i bambini giocano con la spazzatura e sulle stesse vie in cui di notte avvengono stupri e sparatorie. I miei genitori ci hanno provato a portarci via da questo posto, era una soluzione provvisoria perché all’inizio non avevano tanti soldi, ma poi è successo il casino e nostro padre si è arreso, io e Yelena ci siamo arrese, e ora siamo qui.” Feci una pausa e richiusi la confezione dello smalto che avevo appena finito di applicare. “Insomma, come posso avere un sogno se non mi è mai stato concesso di sognare? Studio in una scuola che fa obiettivamente cagare, perché è l’unica che ci possiamo permettere, e anche se la completassi il mio titolo di studi non mi servirà a niente. Nessuna università accetterebbe tra i suoi studenti una ragazza del ghetto, nessun datore di lavoro onesto assumerebbe una disgraziata. Quindi, se proprio devo dirvi cosa mi aspetto dal mio futuro… penso che sarò una morta di fame, che salta da un lavoro di merda a un altro giusto per campare. E non perché l’abbia deciso, ma perché non ci sono tante alternative.”
Solo allora mi accorsi che nella stanza era caduto un silenzio assoluto e tre paia di occhi increduli erano rivolti verso di me.
Quindi mi strinsi nelle spalle e accennai un sorriso, cercando nella mia mente qualcosa da dire per uscire da quella surreale situazione. “Beh, se mi va bene possono assumermi in qualche hotel di Santa Monica e posso godere anch’io della vista mare…”
“Però” riprese la parola la zia Ruth dopo qualche altro pesante attimo, “immagina di vivere in una situazione diversa. Cosa potresti fare?”
Non capivo proprio questo suo insaziabile interesse per le mie aspirazioni, cominciava a darmi seriamente fastidio.
“Qualsiasi cosa. Potrei fare letteralmente qualsiasi cosa. Mi piace stare in mezzo alla gente, quindi… un lavoro in cui si deve avere a che fare con le persone, non so. Come dicevo prima, non ci ho mai pensato.”
“Io le dico sempre che è meglio che continui a studiare, perché questo può darle qualche chance in più” prese la parola Yelena. Era rimasta palesemente scioccata dal mio discorso: sapeva bene quale fosse il mio pensiero a riguardo, ma certo non si aspettava che lo esponessi davanti ai nostri zii.
La verità era che non sapevo fingere di essere qualcosa di diverso da ciò che ero, a maggior ragione se avevo la possibilità di sbattere in faccia la merda che era la mia vita a due borghesucci che un quartiere malfamato non l’avevano mai attraversato nemmeno per sbaglio.
Continuammo a chiacchierare del più e del meno, cercai di partecipare attivamente al discorso senza risultare troppo ostile nel mentre che lo smalto si asciugava sulle mie unghie. Continuavo a non digerire troppo la presenza di quei due, ma man mano che li conoscevo cominciai a notare anche i loro pregi oltre che i loro difetti: lo zio Lawrence parlava poco e niente, forse perché era un tratto del suo carattere o forse perché lo disgustavamo, e ciò significava che si faceva i fatti suoi e non era di disturbo; la zia Ruth invece, nei suoi abiti estivi ma non troppo appariscenti, spesso dimostrava più sensibilità e capacità di ascolto rispetto a ciò che la sua figura composta e fredda lasciava presagire.
Non era trascorso poi tanto tempo quando la coppia decise di andar via: il sole stava cominciando a tramontare e, come Yelena aveva suggerito loro nei giorni precedenti, era meglio non spostarsi per il quartiere quando faceva buio. Che io e lei lo facessimo ugualmente era un altro discorso, non eravamo due turiste sprovvedute.
Quando mia sorella aprii la porta d’ingresso per accompagnarli all’esterno, si trovò faccia a faccia col volto sfatto di mio padre.
La zia Ruth sobbalzò incredula e sgranò gli occhi, per poi mormorare: “Richard”.
Non appena vidi la faccia del nuovo arrivato, lo stomaco mi si contorse per il disgusto e la rabbia: era palesemente sbronzo, si reggeva in piedi a malapena e aveva quello sguardo stralunato che non avevo mai imparato a sopportare.
“Ah, perfetto, allora ne approfitto e me ne vado anch’io!” sbottai, alzandomi dal divano e sgusciando fuori dall’abitazione come farebbe una ladra, come se improvvisamente quella non fosse casa mia.
Mio padre parve non notarmi nemmeno, nonostante gli passai proprio accanto.
Mi allontanai di qualche metro e mi accesi una sigaretta, inspirando avidamente e tentando di darmi una calmata. Ero arrivata a un livello di insofferenza in cui anche solo vederlo mi faceva un male quasi fisico.
Alle mie spalle lo sentivo biascicare qualcosa in risposta a Yelena e alla zia Ruth, li sentivo interagire e parlare in tono concitato, ma feci il possibile per ignorarli e fingere che non esistessero. Ne approfittai per fare ordine nei miei pensieri: quella sera probabilmente sarei andata all’Alibi, il giorno dopo mi sarei recata sul lungomare con le ragazze – dovevo ricordare di rendere a Becky la crema solare che mi aveva prestato qualche giorno prima! – e quel fine settimana ci sarebbe stato un concerto degli Storm It Down a cui ero indecisa se assistere, visto che Fanny ci aveva parlato di una nuova discoteca che voleva assolutamente farci conoscere…
“Tutto bene?”
Sobbalzai e per poco la sigaretta non mi sfuggì di mano; mi voltai verso lo zio Lawrence, che si era improvvisamente materializzato accanto a me, e gli rivolsi un’occhiataccia.
“Ti ho spaventato?”
“Sì.” Era la prima volta che mi rivolgeva la parola direttamente, non sapevo come gestirlo.
“Sei scappata” osservò. Pareva a sua volta a disagio, pronunciava ogni parola come se non ne fosse sicuro.
Sbuffai fuori il fumo. “È quello che faccio ogni volta che mio padre torna a casa, evito di condividere con lui qualsiasi ambiente.”
Calò il silenzio per qualche secondo, poi lo zio commentò in tono piatto: “Non dev’essere bello”.
Quanto detestavo le frasi di circostanza…
Mi strinsi nelle spalle. “La maggior parte delle volte rincasa in questo stato pietoso, a volte è pure peggio: certo che non è bello.” Presi una boccata di fumo e fissai un gattino randagio che, in fondo alla strada, giocherellava con un fazzoletto che qualcuno aveva gettato per terra.
“Avete mai provato a parlarci?”
Risi amaramente. “Ho smesso di provarci anni fa, ho capito che è inutile. Quindi, per non diventarci pazza, semplicemente lo evito e stiamo tutti più sereni, anche se non è bello e non è facile. Ma sai una cosa?” Mi voltai verso di lui. “Se restassi dentro quella casa, l’epilogo della faccenda potrebbe svolgersi in due modi: o quello là mi porta al suicidio, o lui finisce sotto terra e io in prigione. E, anche se non sembra, io ci tengo sia alla mia vita che alla mia fedina penale.”
Lo zio Lawrence tacque e lanciò uno sguardo alle nostre spalle, dove sua moglie stava ancora parlando col fratello. A dirla tutta lo preferivo nella sua versione taciturna, dal momento che la zia Ruth era già abbastanza ficcanaso per entrambi.
Dopo circa un minuto la donna salutò e prese a camminare lentamente verso di noi con la faccia di chi è appena stato al funerale di un suo parente. Evidentemente, anche se l’aveva perso di vista anni prima, ritrovare suo fratello in quelle condizioni l’aveva scossa.
“Sai Beatrix, sei una ragazza davvero matura” se ne uscì all’improvviso lo zio, quando sua moglie era ancora a qualche metro da noi e non poteva sentirci.
Gli rivolsi un’occhiata stralunata.
Lui si strinse appena nelle spalle. “Sei riuscita a trovare un modo per affrontare la situazione, e sei stata attenta affinché nessuno si facesse male. Molte persone al posto tuo sarebbero impazzite.”
Gli sorrisi beffarda. “E chi ti dice che io sono sana di mente?”
Mi sopravvalutava: non poteva nemmeno immaginare quanta sofferenza ci fosse dietro, quante suppliche a mio padre, quante lacrime, quanti attacchi di panico, quanto odio, quante fughe.
Non poteva nemmeno immaginare cosa significasse osservare quella che sarebbe dovuta essere la mia casa e non sentirmi a casa per niente.
 
 
 
“Ci abbiamo riflettuto molto in questi giorni” esordì lo zio Lawrence, spostando lo sguardo da me a Yelena e viceversa.
Quella era la terza – e, si supponeva, ultima – volta che li vedevamo nell’arco della loro vacanza, che era giunta ormai al nono giorno e stava per concludersi. Il caso aveva voluto che tutte le volte anch’io fossi presente a casa, nonostante non fosse premeditato.
Ora, seduta al tavolo insieme a loro e a mia sorella, attendevo con fare scettico che si decidessero a parlare: non appena erano entrati in casa, avevano annunciato che dovevano farci una proposta e che era il caso di parlarne seriamente e con calma, tutti insieme.
Non che mi fossi esaltata troppo, però ormai ero curiosa.
Si scambiarono uno sguardo, poi la zia Ruth riprese: “Siete delle brave ragazze, entrambe. Siete intelligenti, forti, avete tanta voglia di fare e, nonostante la situazione difficile, non vi siete arrese e avete sempre trovato la forza di reagire; siamo fermamente convinti che sareste in grado di fare tante cose, se solo ne aveste la possibilità. Io e lo zio vi abbiamo osservato molto in questi giorni, abbiamo notato l’ambiente che vi circonda e il modo in cui siete costrette a vivere, e pensiamo che non sia giusto. Non lo meritate, ma siete capitate in questa situazione senza poter fuggire. Vostro padre – mio fratello – avrebbe dovuto esservi di supporto, reagire con voi e lottare per voi nel momento più difficile della vostra vita, invece ha imboccato una strada sbagliata e a rimetterci siete state anche voi… e io, in quanto sua sorella e in quanto vostra zia, mi sento in parte responsabile.”
“Non potevi saperlo, non avresti potuto fare niente in ogni caso” la interruppe Yelena, ma la zia sollevò una mano per fermarla.
“Il punto è che avete bisogno di un aiuto, un aiuto che nessuno vi ha mai dato ma che meritate, perché dovete essere libere di vivere come due ragazze di diciassette e ventitré anni. E noi, che siamo gli unici parenti con cui siete in contatto e abbiamo la possibilità, vogliamo darvelo.”
Improvvisamente il cuore mi era finito nella gola, la pelle mi si era imperlata di sudore ovunque e l’aria si era fatta più calda e rarefatta. Non sapevo assolutamente cosa aspettarmi, ma avevo l’impressione che fosse qualcosa di grosso. Già solo il fatto che qualcuno volesse aiutarci in qualsiasi modo, anche solo regalandoci un paio di vecchie scarpe, era una novità sufficiente a destabilizzarmi.
La zia fece una pausa, prese un sorso d’acqua e proseguì: “Vi stiamo offrendo la possibilità di trasferirvi a Londra con noi”.
Cosa?!” esplosi, incapace di trattenermi.
Zio Lawrence annuì. “Cambiare aria potrebbe farvi bene, potrebbe essere l’occasione di lasciare questa casa e questo quartiere, anche solo temporaneamente. Potremmo aiutarvi dal punto di vista economico finché ne avrete bisogno, potreste stare a casa nostra che è molto grande, se vi va potreste riprendere con gli studi o vi potremmo aiutare a trovare un lavoro… in un luogo migliore e con delle migliori condizioni.”
Non sapevo nemmeno a cosa pensare, come reagire – non sapevo nemmeno se stessi ancora respirando, se fossi ancora viva, se mi trovassi dentro un sogno. Riuscivo soltanto a guardare con occhi sgranati quelle due persone che poco più di una settimana prima erano dei perfetti sconosciuti e ora invece mi stavano aprendo la loro casa.
“Perché? Cioè, perché lo volete fare, se ci conoscete a malapena?” mormorò Yelena, anche lei sotto shock.
Lo zio accennò un sorriso, forse il secondo che gli vedevo fare da quando lo conoscevo. “Possiamo farlo; perché no?”
“Abbiamo capito che siete due persone leali e dotate di buon senso, siamo certi che vi possiamo dare piena fiducia e speriamo che in questo modo vi possiate costruire quel futuro che non avete mai avuto. E poi facciamo pur sempre parte della vostra famiglia.”
Io ormai ascoltavo solo distrattamente; la mia mente era già partita verso Londra, mi immaginavo già sui pullman rossi a due piani, tra le pittoresche strade di Camden, con la bocca spalancata davanti all’immensità del London Eye e lo stadio di Wembley, sulle famose strisce pedonali di Abbey Road. E immaginai tutto questo come se facesse parte della mia vita di tutti i giorni.
Era talmente bello che facevo fatica perfino a pensarlo.
Lanciai un’occhiata colma di emozione a mia sorella, ma non riuscii a leggere la risposta nei suoi occhi. Forse era in dubbio perché era una persona orgogliosa, detestava chiedere aiuto e sentirsi in debito con gli altri; dopotutto però se gli zii avevano deciso di farci una proposta del genere voleva dire che ne erano sicuri e che se le sentivano, che non sarebbe stato un peso per loro.
Mi costrinsi a tornare con i piedi per terra e prestare nuovamente ascolto alla conversazione in atto: Yelena, esattamente come avevo immaginato, aveva preso a borbottare che era qualcosa di troppo grande, che non potevamo accettare e che nel caso saremmo sempre state in debito.
“Ovviamente potete prendere tutto il tempo che volete per pensarci, non possiamo pretendere che prendiate una decisione così importante nel giro di qualche ora. Ma, qualsiasi cosa sceglierete di fare alla fine, sappiate che per noi è un vero piacere e non lo facciamo per avere qualcosa in cambio, ma soltanto perché vogliamo il vostro bene” disse la zia Ruth, l’espressione più serena del mondo dipinta in viso.
Improvvisamente avevo una voglia matta di saltarle al collo, riempirla di baci e ringraziamenti, implorarla di portarmi subito via di lì. Alla sola idea di non vedere mai più quel tavolo sempre incrostato, quelle sedie sempre vuote, quelle pareti sempre fredde, quelle strade piene di scarti e la faccia di mio padre mi veniva da piangere.
“Grazie” riuscii soltanto a mormorare, la voce rotta da un’emozione che mai avevo provato prima e a cui non sapevo dare un nome.
 
 
 
Da una settimana viaggiavo a tre metri da terra, su una nuvola di gioia che solo io potevo vedere. Mi svegliavo pensando a Londra e mi addormentavo pensando a Londra.
Non ne avevo ancora fatto parola con nessuno dei miei amici, avrei annunciato la notizia alle persone che mi stavano più strette solo quando fossi stata certa di partire davvero. La zia Ruth e lo zio Lawrence erano ripartiti per l’Inghilterra ormai, ma non li avevo ancora chiamati per dar loro conferma.
Oltretutto io e Yelena, tra i mille impegni delle nostre giornate, non avevamo ancora avuto occasione di riparlarne seriamente.
“Ma ci pensi? Io e te che ricominciamo tutto a Londra!” esclamai mentre, davanti allo specchio, applicavo l’ombretto scuro sulla palpebra destra. Tramite lo specchio lanciai un’occhiata a mia sorella, che si trovava alle mie spalle ed era appena uscita dalla doccia, poi ripresi a parlare. “Alla fine è quello che abbiamo sempre voluto, no? Quante volte abbiamo detto che saremmo scappate insieme, che ce l’avremmo fatta e che ci saremmo lasciate alle spalle tutta questa merda? Ma mai ci saremmo aspettate che fosse così facile… chi se l’aspettava questa proposta? E poi Londra è praticamente dall’altra parte del mondo, cazzo! Se avessi i soldi, partirei anche adesso!”
“Beh, Bess, non è mica tutto bianco o tutto nero” esalò mia sorella mentre si tamponava i capelli con un asciugamano.
Mi voltai verso di lei, poi afferrai un rossetto dall’astuccio dei trucchi e tornai a rivolgermi allo specchio. “Beh, ovviamente. Ora lo sto dipingendo come qualcosa di fottutamente esaltante – lo è, cazzo! – ma è normale che ci saranno delle difficoltà. Chi se ne fotte, tanto non saranno mai gravi come quelle che abbiamo qui.”
“Bess.”
Il tono perentorio che utilizzò per chiamarmi mi costrinse a voltarmi, leggermente allarmata. “Sì?”
“Io non ho mai detto che avevo intenzione di accettare.”
Mi puntai le mani sui fianchi e aggrottai le sopracciglia. “Ancora con questa storia del debito eterno con gli zii e del fatto che non possiamo accettare qualcosa di così grande? Ci hanno detto di non preoccuparci, no? Poi noi siamo delle persone oneste e non appena ci saremo sistemate restituiremo loro tutto! Non ti sembra un buon compromesso?”
“E se non fosse per quello?” ribatté lei dopo qualche secondo con titubanza, forse timorosa della mia reazione.
Sentii il sangue defluire dal viso. “Cosa?!”
Lei sospirò. “Ecco, adesso con te non si può più parlare, ti stai già incazzando.”
“Ma di cosa dobbiamo parlare? Pensavo fosse palese, insomma… pensavo fosse scontato! È da quando eravamo delle poppanti che parliamo di scappare, di farci una vita altrove, di andare via!” cominciai a inalberarmi.
“Ma nessuno te lo vieta.”
“Ah, a me. E tu allora?”
Lei mi diede le spalle con la scusa di raccattare i vestiti e indossarli, ma sapevo che l’aveva fatto apposta per non incrociare il mio sguardo. “Se tu vuoi partire, chi sono io per impedirtelo? Ma non sono costretta ad accettare a mia volta, se invece preferisco restare qui.”
“Cioè, un attimo… quindi secondo te ci dovremmo dividere?” sbottai, la voce intrisa di isteria.
Non sapevo nemmeno più definire se quello che mi stava montando dentro era rabbia o semplicemente terrore allo stato puro. Tutto mi sarei aspettata dalla mia vita, ma non di affrontare una conversazione come quella, non di sentirmi dire quelle cose proprio da Yelena.
Lei tacque ma, anche se non potevo vederla, mi accorsi che annuiva impercettibilmente.
Avevo voglia di picchiarla, di distruggere il bagno, la casa, il mondo.
“Cosa cazzo stai dicendo? Ma tu sei completamente andata!” gridai con tutto il fiato che avevo nei polmoni.
Lei, con addosso solo mutandine e reggiseno, si voltò finalmente verso di me. “La smetti di urlare? Spiegami cosa c’è di male: non tutti possiamo avere le stesse aspirazioni.”
“Sai com’è, fino a ieri che io sappia la nostra aspirazione era stare unite contro tutto e tutti! Piuttosto, spiegami tu perché ora non vuoi partire! Spiegami perché dall’oggi al domani hai cambiato tutti i nostri progetti e vuoi restare in questo posto di merda, porca puttana! Dimmelo! Dimmi: cosa ti trattiene qui? Cos’hai da perdere?”
Lei non rispose, nei suoi occhi lessi una profonda paura ma in quel momento non mi importava.
“Nostro padre, eh? Quel pezzo di merda? Vuoi continuare a mantenerlo per tutta la vita e perdere tutte le occasioni?”
“Non è per lui.”
“E allora per chi? Chi hai da perdere? Chi ti resta, se io me ne vado?” continuai a sbraitare.
Lei afferrò l’abitino che indossava sempre quando andava a battere e lo infilò in silenzio.
“Non mi hai risposto!” le feci notare.
“C’è qualcuno, okay?”
“Qualcuno chi?”
“Cosa te ne importa?”
“Scusa, ma penso di avere il diritto di sapere per chi stai infrangendo le promesse che mi hai fatto per anni e anni, non credi?”
Lei sospirò e borbottò qualcosa di incomprensibile.
“Cosa?”
“Ho detto: Mark.”
Volevo morire. Avevo davvero sentito un nome maschile uscire dalle labbra di mia sorella? Lei mi stava tradendo in quel modo per un ragazzo?
Impiegai qualche secondo a digerire il colpo. “Chi cazzo sarebbe Mark?”
“Un cliente.”
Un cliente?!
“Ma non è come tutti gli altri, lui…”
“Ho capito, chiudiamo il discorso.” Lanciai il rossetto sulla specchiera con rabbia, le mani mi tremavano e sentivo che se non avessi lasciato subito la stanza avrei potuto fare qualcosa di cui pentirmi.
“Senti un po’, innanzitutto non hai il diritto di gridarmi contro in questo modo e nemmeno di giudicare le scelte che faccio! Io ho tutto il diritto di restare qui, che sia per un uomo, che sia per nostro padre o che sia perché in questo posto del cazzo mi trovo bene e sono contenta di marcire qui! Questo non implica che non ti vorrò bene ugualmente, ma possiamo entrambe prendere le nostre decisioni, o lo puoi fare solo tu? Vuoi partire a Londra e all’improvviso dobbiamo essere tutti pronti a seguirti?”
Il cuore rischiava di esplodermi nel petto. Non aveva capito un cazzo, non aveva assolutamente idea di cosa tutto ciò significava per me.
Feci per lasciare il bagno, ma quando fui sulla soglia mi fermai e mi voltai nuovamente verso mia sorella e le lanciai un’occhiata velenosa. “Sei una stronza, una traditrice e un’egoista. Ti sei dimenticata di tutte le volte che mi hai fatto delle promesse, ti sei dimenticata di quanto mi hai detto che ci saresti stata sempre, che non ci saremmo mai separate, che ci saremmo sempre salvate a vicenda. Ti sei dimenticata di tutti i sogni e i progetti, delle promesse che abbiamo fatto a nostra madre quando eravamo abbracciate a piangere e speravamo che lei ci vedesse dall’alto, ti sei dimenticata di tutte le volte che abbiamo fatto fronte comune davanti a nostro padre, ti sei dimenticata della rabbia e della speranza che abbiamo condiviso. Questo è il tuo modo per dimostrarmi che non mi lascerai mai sola, eh? Questo per te significa stare per sempre insieme, scappare, costruirci un futuro altrove con le nostre forze? Hai dimenticato tutto, hai rinnegato tutto, e l’hai fatto per una testa di cazzo che ti scopa come fossi una bambola gonfiabile e poi insieme alla grana ti dà una carezza per farti stare buona, per un pezzo di merda che dopodomani ti scaricherà perché sei soltanto una puttana come un’altra e per lui non vali niente. Per questo rovini tutta la tua vita e anche la mia, infrangi tutte le promesse, ti fotti il futuro… che cazzo devo dirti, eh? Pensavo di averti dalla mia parte, invece sei come tutti gli altri! Sei una merda, sappilo, sei una delusione, e spero che tu rimanga qui a marcire e vivere la tua vita da troia fallita per il resto dei tuoi giorni!” Sferrai un pugno allo stipite della porta, mentre lacrime di rabbia infuriavano con impeto sul mio viso.
Yelena era ammutolita, mi guardava con occhi sgranati e terrorizzati come fossi un’aliena proveniente da un altro pianeta.
“Adesso io me ne vado, mi sbronzo per bene, e domani quando esco dall’hangover la prima cosa che faccio è chiamare la zia per dirle che mi sto fiondando a Londra, e sai perché? Perché oggi ho capito che qui non mi è rimasto davvero più niente, e soprattutto spero di dover vedere il meno possibile la tua faccia del cazzo!”
Anche Yelena aveva cominciato a piangere in silenzio, ma le sue lacrime non contavano nulla per me in quel momento; girai i tacchi e, senza alcun ripensamento, corsi fuori di casa e sbattei la porta talmente forte che le pareti tremarono. Sperai che crollassero, come erano crollate le mie certezze e com’era crollato il mio intero mondo.
Camminai e piansi come una disperata, rovinandomi il trucco e singhiozzando come una bambina. Come al solito nessuno si interessò a me, da quelle parti si era abituati a vedere scene ben peggiori.
Non capivo perché la mia vita dovesse per forza rivelarsi una catastrofe totale. Ma, nonostante i drammi che mi ritrovavo a vivere ogni giorno, nulla era paragonabile a quella rottura se non la morte di mia madre. Tutti i legami più forti e importanti nella mia vita si erano rotti; avevo sedici anni, ero sola al mondo e avevo vissuto dei lutti troppo pesanti.
Se l’Alibi non fosse esistito, avrei cercato un posto tranquillo per suicidarmi in pace.
Invece, con le guance incrostate di trucco. spinsi la solita porta sudicia che cadeva a pezzi, mi diressi a passo di marcia verso il bancone e, senza nemmeno controllare chi ci fosse dietro e se mi stesse ascoltando, annunciai: “Voglio l’alcolico più forte che c’è a disposizione”.
 
 
 
Nonostante la mia sete di cambiamento e il mio disprezzo verso il luogo in cui vivevo, amavo l’Alibi e tutte le persone che stavano al suo interno.
Quando avevo chiamato la zia Ruth per annunciarle che sarei andata a Londra, il mio primo pensiero era corso ai miei amici e a quanto mi sarebbero mancati nonostante tutto. Era stato grazie a quel luogo e a quelle persone che ero riuscita a sopportare la situazione di merda che avevo in casa, non riuscivo nemmeno a contare le volte in cui mi ero divertita e mi ero lanciata in avventure pazze e sconsiderate, non contavo più le uscite con le ragazze per le strade di Hollywood, le risate sul lungomare, i concerti, le sbronze, le notti insonni e le nuove conoscenze, il sesso, i momenti spensierati trascorsi senza badare al passato e al futuro.
Era quello, in fondo, il luogo in cui ero diventata grande. Avevo all’incirca altri sei mesi per godermelo prima di lasciarlo andare, un lasso di tempo che in quel momento mi sembrava brevissimo.
I miei zii avevano programmato il mio trasferimenti per i primi mesi dell’86, l’anno seguente, così da poter gestire con calma tutte le faccende burocratiche, in modo che loro potessero dare con calma la notizia alle figlie e preparare per me la loro stanza degli ospiti. Il pochissimo tempo in cui stavo a casa lo trascorrevo al telefono con la zia per discutere sul da farsi e su come organizzarsi.
Ma ormai la mia dimora la evitavo come contenesse un focolaio di peste, perché avevo ben due persone da evitare: mio padre e mia sorella.
Quel giorno di metà settembre mi ero trascinata al locale nonostante fossi a malapena nelle condizioni per alzarmi dal letto e camminare. Ormai non c’era scusa che tenesse: per stare lontana da casa ero pronta a sfidare anche il ciclo, l’unico motivo che in genere era in grado di tenermi tra le mura domestiche. Era qualcosa di devastante, mi provocava dolori talmente forti che certe volte mi portavano a rimettere o a svenire, temevo terribilmente quell’appuntamento mensile.
Così, più pallida del solito e con un make up approssimativo, me ne stavo addossata alla parete esterna accanto alla porta d’ingresso, laddove i ragazzi si radunavano durante il pomeriggio per fumare, chiacchierare e sperare in qualche soffio di vento ristoratore. In genere io e le ragazze che frequentavo arrivavamo un po’ più tardi, ma avevo voglia di vivere al massimo quegli ultimi mesi losangelini. Fosse stato per me, all’Alibi ci avrei pure dormito.
Presi una boccata di fumo e mi guardai attorno: nessuno sembrava fare caso a me, nessuno si accorgeva che stavo male. Non succedeva mai, ero davvero brava a camuffare i miei malesseri e i miei stati d’animo negativi, ma quel giorno non mi ci stavo nemmeno impegnando e constatare che tutti se ne fregavano del mio volto cereo e del mio aspetto trasandato non mi faceva piacere. Dopotutto ero una persona che mirava a stare al centro dell’attenzione.
Alcuni ragazzi, tra cui i componenti degli Storm It Down eccetto Oliver, giunsero al locale e mi passarono accanto per entrare. Li salutai e in cambio ricevetti un cenno da Ethan e un sorriso da Ives, Alick e May, ma null’altro. Li vidi scomparire oltre la pesante porta e sbuffai, chiedendomi cosa ci facessi lì. Pareva quasi che se non mi impegnavo ad attirare l’attenzione, nessuno si accorgeva di me.
“Ehi, Bess!”
Mi sorpresi nel notare che Ives si era staccato dal gruppetto e mi aveva raggiunto, posando a sua volta una spalla alla parete scaldata dal sole. Qualche volta in effetti capitava che ci fumassimo una sigaretta insieme, visto che condividevamo quel vizio.
“Ehi” replicai senza troppo entusiasmo, tenendo lo sguardo basso.
“Tutto bene? Hai una faccia stranissima, l’ho notato subito non appena ti ho visto” mi domandò preoccupato.
“Oh, finalmente qualcuno che se ne accorge” borbottai con un filo di voce. Ed era paradossale che a chiedermelo fosse stato un ragazzo che in fondo conoscevo a malapena.
Rivolsi lo sguardo all’ingresso del locale, domandandomi se qualcun altro ci avrebbe raggiunto, ma ciò non avvenne. Mi veniva da vomitare pure per il malumore, oltre che per i dolori lancinanti che mi trafiggevano la pancia.
“Cos’hai?” si allarmò allora, notando la smorfia di sofferenza sul mio viso.
“Non potresti capire.”
“Perché?”
“Perché sei un uomo.”
Scrutai il suo viso che per diversi secondi fu una maschera di confusione, poi parve capire e annuì. “Cazzo, mi dispiace. Non ti avevo mai visto così…”
“Beh, diciamo che in genere me ne sto a casa mia e non rompo il cazzo a nessuno con i miei drammi e i miei dolori.”
“E come mai oggi sei uscita lo stesso?”
Come potevo spiegarglielo?
Venni colta da un capogiro e serrai per un attimo le palpebre. Stavo davvero di merda.
“Bess?” mi richiamò Ives, afferrandomi d’istinto un braccio.
Mi venne da ridere. “Ives, sono poggiata alla parete, non cado. Tranquillo.”
Lui sorrise a sua volta. “Ah già.”
Lasciai trascorrere qualche istante di silenzio, in cui ognuno inspirò una boccata dalla propria sigaretta.
“Sai… tra qualche mese mi trasferisco a Londra” me ne uscii all’improvviso. La notizia in ogni caso si sarebbe diffusa, prima o poi l’avrei data da tutti, tanto valeva cominciare da qualche parte.
“Cosa?” sbottò il ragazzo sorpreso.
Annuii.
“Ma è fighissimo! Cioè… cosa si dice in questi casi, congratulazioni?” si entusiasmò lui, per poi ridacchiare.
Non potei fare a meno di sorridere a mia volta: mi aveva sempre fatto una gran tenerezza.
“Già. Andare via da qui è sempre stato il mio sogno, quindi inutile dire che sono al settimo cielo. Però…”
“Perché deve esserci sempre un però?” commentò lui ironico.
“Perché la vita è una merda e tutte le cose devono essere per forza complicate” risposi ridacchiando.
“Però…?”
Mi guardai attorno e accennai a ciò che ci circondava. “Questo è il posto in cui sono cresciuta, la gente che è cresciuta con me, e anche se odio ammetterlo tutto ciò mi mancherà. In fondo è questo il posto che ho sempre considerato casa… ed ecco, è per questo che sono venuta qui nonostante stessi da schifo: voglio godermi ogni momento che mi rimane qui, con voi.” Ero tentata di distogliere lo sguardo dalle iridi azzurre del mio interlocutore, perché detestavo parlare di questioni così delicate e nel contempo permettere agli altri di leggermi dentro, ma ero curiosa di sapere come avrebbe reagito.
Lui annuì, si scostò una ciocca corvina dal viso e buttò fuori una boccata di fumo. “Sai, c’è una frase che Ethan dice a volte, che ho sempre trovato molto bella e che è perfetta per questa situazione; non so dove l’abbia sentita, non so se è opera sua, ma in ogni caso te la voglio dire. Casa tua, Bess, si trova ovunque andrai. Il concetto, insomma, è che forse non apparteniamo davvero a un luogo, ma sono i luoghi in cui noi siamo che ci appartengono, e quando li lasciamo li portiamo sempre dentro. Quando tu partirai per Londra l’Alibi non scomparirà, noi non scompariremo, e anche se dovesse esplodere tutto – speriamo che non capiti, perché comunque qui ci sono io – l’Alibi non scomparirà mai dentro di te, te lo porterai sempre appresso. Ora non so se quello che ho appena detto ha un senso perché oggi ho già fumato e bevuto abbastanza, ma ciò che volevo dire è… questo posto è casa tua perché l’hai reso tale, perché qui ci sei tu e ci sono le persone con cui vuoi stare, ma qualsiasi posto potrà essere casa tua. E se un giorno vorrai tornare qui, noi ci saremo ancora, a perdere tempo tutto il giorno e ad aspettarti.” Concluse il suo discorso un po’ serio e un po’ sconclusionato con un sorriso raggiante.
“Dovevi fare il filosofo, non il bassista” ribattei con una risatina; era il mio modo di ringraziarlo.
All’improvviso una fitta più forte delle altre mi sorprese e mi piegai appena in avanti, strizzando gli occhi. “Porca troia…”
“Bess, non svenire! In genere sono io quello che collassa, non so cosa si fa!” si allarmò subito Ives.
“Essere una donna è una merda… okay, sto bene.” Mi raddrizzai e cercai di darmi un contegno, anche se la situazione non sembrava migliorare. “Forse è il caso che entro e mi siedo da una parte, prima di collassare per davvero.”
“Ma, senti…”
“Dimmi.”
Ives sorrise. “Possiamo fare il brindisi di addio quando sarà il momento di andare a Londra?”
“Col cazzo, io detesto gli addii e le cerimonie inutili!”
“Dai…”
“Ho detto: col cazzo!”
Mi sarebbero mancati i momenti come quelli.
Ma forse Ives – anzi, Ethan – aveva ragione: come avevo reso quel posto casa mia, avrei potuto trovare una dimora anche a Londra, anche in ogni angolo di mondo.
E forse avrei trovato delle altre persone a cui affidare un piccolo pezzetto del mio cuore.
 
 
 
 
♠ ♠ ♠
 
 
CE L’HO FATTA.
HO SCRITTOOOOOOOO FINALMENTE HO SCRITTOOOOOOO E PIU’ DI DIECIMILA PAROLE, PIANGOOOOOOO!!!!!!
Scusate quest’esordio per niente professionale, ma esco da un blocco dello scrittore che mi ha tolto la gioia di vivere (?) e riuscire a scrivere un capitolo del genere di getto è una soddisfazione immensa! Non so assolutamente come sia venuto il capitolo ma sono talmente al settimo cielo che non fa nulla anche se dovesse fare schifo AHAHAHAH sono felicissima che sia venuto fuori!
Anche perché tengo tantissimo a questa raccolta e la volevo aggiornare *________________*
Dunque, qui abbiamo un bel po’ di colpi di scena, come vedete ^^ forse chi segue la serie alcune cose le aveva già intuite, oppure avrà trovato risposte a domande che si poneva da tempo, per esempio: cosa ha spinto Bess a trasferirsi a Londra?
Alcune delle scene iniziali, che sembrano inserite per “temporeggiare”, in realtà le ho pensate apposta per dare un’idea di come la ragazza vive e di come effettivamente le cose siano rimaste immobili dal capitolo scorso ^^
Sono molto curiosa di sapere che ne pensate del conflitto tra Bess e Yelena, che è stata una delle scene più dure da scrivere per quanto riguarda i contenuti… senza dubbio Bess ha avuto una reazione tremenda, in parte potrebbe avere ragione ma d’altro canto deve capire che lei e Yelena non saranno per sempre insieme in ogni caso… ah, Bess…
La smetto di divagare e lascio a voi i commenti, ma intanto segnalo alcune note/riferimenti.
Il fatto che Oliver dovesse passare l’estate a vendere granite sul lungomare appare anche nella storia “The only way I can love”, forse qualcuno se lo ricorderà… ed è stato proprio durante l’estate dell’85!
Molti riferimenti, come quello del solito chiosco fatiscente sulla spiaggia e la band degli Storm It Down (formata da Oliver, Ethan, Ives e Alick) compaiono in altre storie della serie, ma qui risultano comunque marginali e spero non abbiano compromesso la comprensione della storia!
Hollywood, in particolare alcune boulevard come il Sunset Boulevard, sono famosi (e lo sono stati soprattutto negli anni Ottanta) per i famosi locali che ospitavano le rock band del momento, attorno a cui ruotava tutta la vita notturna losangelina.
Infine la frase che Ives riporta a Bess, “Casa tua si trova ovunque andrai”, è già comparsa in una mia storia e forse qualche attento lettore l’ha riconosciuta. Si tratta di una frase che Arthur, uno dei fratelli maggiori di Ethan, dice a quest’ultimo quando è ancora bambino nella shot “The world is yours, take it all”. Ho trovato plausibile che questa frase gli sia rimasta dentro e che l’abbia ripetuta qualche volta davanti a Ives, il suo migliore amico!
Insomma, spero che questa chilometrica lettura non vi abbia affaticato troppo (XD) e… ci vediamo presto col prossimo e ultimo capitolo, prometto di non far attendere altri quattro mesi XD
Alla prossimaaaaa! ♥
 
 

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Capitolo 3
*** Stripped ***


Stripped
 
 
 
 
Toccai per la prima volta il suolo inglese il giorno di San Valentino del 1986; trovai ad accogliermi una sinistra foschia, un freddo pungente e un cielo plumbeo che sapeva di pioggia. La mia nuova vita non prometteva nullo di troppo spettacolare, insomma.
Circondata da volti sconosciuti – anche se dopo innumerevoli ore di volo cominciavano a risultare familiari – e segnati dalla stanchezza, mi mossi in fretta per recuperare il mio misero bagaglio e dirigermi verso l’uscita. Zio Lawrence sicuramente mi stava già aspettando all’esterno della struttura, come mi aveva preannunciato per telefono qualche giorno prima, e non volevo farlo attendere troppo; già sapevo di essere un’ospite e un’intrusa che avrebbe fatto irruzione nella sua famiglia, non volevo arrecare ulteriore disturbo.
Mentre camminavo tra la folla col mio piccolo trolley pieno fino a scoppiare mi venne da sorridere: chissà cosa pensavano tutti quegli sconosciuti che mi vedevano passare. Chissà che effetto doveva fare vedere una ragazzina minuta e troppo magra che non dimostrava affatto i suoi diciassette anni, totalmente vestita di nero e coi capelli tinti di blu, con lo sguardo basso, una sigaretta tra le dita e l’espressione corrucciata di chi ha voglia di spaccare la faccia a chiunque le rivolga la parola.
Eppure eccomi lì, sempre la stessa, sempre sola. Pronta – più o meno – a ricominciare da capo ancora una volta.
Fuori dall’aeroporto mi guardai attorno in cerca di mio zio; lo trovai accanto alla sua auto, che mi faceva cenno di avvicinarmi. Era da solo.
“Ciao Bess. Com’è andato il viaggio? Sei stanca?” mi domandò con la sua solita distaccata cortesia quando l’ebbi raggiunto, prendendo il mio bagaglio per caricarlo in macchina.
“Ciao zio. Tutto bene, non c’era granché da fare sull’aereo…” Mi sforzai di rivolgergli un sorriso cordiale, sebbene quelle conversazioni di circostanza mi irritassero parecchio. “Grazie mille per il passaggio, comunque.”
“Figurati, non ti avremmo mai lasciato arrivare da sola fino a casa.” Richiuse lo sportello del portabagagli, poi apri la portiera dal lato del passeggero in un gesto di galanteria, per invitarmi a salire. “Andiamo?”
Salii sulla vettura senza fiatare. Non ero particolarmente in vena di parlare quel giorno, ancor meno se il mio interlocutore consisteva nello zio Lawrence: non avevo nulla contro di lui, ma non avevamo nulla da spartire e il suo atteggiamento così composto e freddo mi metteva a disagio.
Ero cresciuta per strada, non sarebbe stato facile ambientarmi in una famiglia britannica di classe medio-alta come quella dei miei zii.
Il viaggio in auto trascorse in silenzio per i primi minuti: lo zio Lawrence, concentrato sulla guida, fissava la strada dritto davanti a sé e io facevo altrettanto, seguendo con gli occhi le goccioline che avevano cominciato a rigare il parabrezza. Nell’abitacolo riecheggiava solo la radio in sottofondo e il ticchettio irregolare della pioggia.
A riscuotermi da quello stato di torpore fu una melodia che giunse alle mie orecchie, accompagnata da una voce che non mi era del tutto nuova ma che non ero capace di identificare; proveniva dalle casse dello stereo. Affinai l’udito e mi misi in ascolto, rapita: si trattava di una canzone che non avevo mai sentito, completamente diversa dalla solita roba allegra o melensa che passavano in radio; aveva un’atmosfera quasi tetra, resa ancora più suggestiva dai suoni elettronici.
 
Come with me into the trees
We'll lay on the grass and let the hours pass
Take my hand, come back to the land
Let's get away just for one day

Quella voce calda, che mi invitava a fuggire via quasi sussurrandomi all’orecchio, mi faceva quasi venir voglia di piangere.
 
Let me see you stripped down to the bone
Let me see you stripped down to the bone
 
Mi accorsi solo allora che una miriade di brividi avevano cominciato a percorrermi la schiena e le braccia, coperte da un giubbotto forse troppo leggero. Ma non avevo freddo – sentivo perfino la mia anima tremare.
 
Metropolis has nothing on this
You're breathing in fumes, I taste when we kiss
Take my hand, come back to the land
Where everything's ours for a few hours
 
Let me see you stripped down to the bone
Let me see you stripped down to the bone
 
Non avevo mai sentito una canzone più bella e coinvolgente di quella. Più la ascoltavo e mi lasciavo rapire da quell’atmosfera, più sentivo la mia anima che si spogliava fino all’osso, proprio come recitava il ritornello.
Mi sentivo capita e rassicurata, sentivo di essere stata colpita e affondata.
 
Let me hear you make decisions
Without your television
Let me hear you speaking just for me
 
Let me see you stripped down to the bone
(Let me hear you speaking just for me)
Let me see you stripped down to the bone
(Let me hear you crying just for me)
Let me see you stripped down to the bone
(Let me hear you speaking just for me)
 
Mentre il brano volgeva al termine, gettai un’occhiata in direzione di mio zio per la prima volta dopo diversi minuti: continuava a guidare rilassato e non sembrava essersi accorto di nulla.
Certamente. Come poteva accorgersi della tempesta che si era scatenata dentro di me? Come poteva intuire che il sorrisetto ebete che mi si era dipinto in faccia dipendeva dalla canzone che avevamo appena sentito? Lui, con tutta probabilità, non l’aveva nemmeno ascoltata.
Continuai a prestare attenzione alla voce dello speaker, nella speranza che annunciasse il titolo del brano.
Abbiamo appena ascoltato il nuovo singolo dei Depeche Mode, pubblicato esattamente quattro giorni fa! Anticiperà un album? Chi può dirlo…
Ecco come mai avevo avuto l’impressione di conoscere quella voce: avevo già sentito qualche canzone dei Depeche Mode, li passavano alle feste o in discoteca a volte. Tuttavia non potei fare a meno di rimanere spiazzata: li avevo sempre confusi tra i mille insignificanti gruppi dell’ultimo periodo, mentre quella nuova canzone era così diversa dal solito. Così profonda, così speciale.
Chissà come si intitolava.
Sarebbe stata la colonna sonora della mia nuova vita, ne divenni improvvisamente consapevole. Avrei fatto qualsiasi cosa per ritrovarla, a costo di comprare tutti gli album della band e ascoltarli uno a uno per cercarla.
“Zio?”
“Sì?”
“Posso cambiare?” domandai, accennando all’autoradio.
Lui annuì. “Metti pure la musica che preferisci.”
La ricerca cominciava in quel momento.
 
 
 
Due ragazzine di tredici anni, quasi identiche, mi guardavano con la stessa espressione corrucciata e scettica, aggrottando le sopracciglia sottili e conferendo ai loro lineamenti delicati un aspetto più affilato.
Avevano entrambe occhi verde smeraldo, una lunga e fluente chioma di capelli castani e lisci, erano slanciate e la loro pelle diafana spiccava in contrasto con gli abiti colorati e glitterati che indossavano.
Se non fossero state vestite con indumenti diversi, le avrei confuse.
“Questa è nostra cugina?” gracchiò la prima, portandosi una mano sotto il mento.
“E verrà a stare da noi?” aggiunse l’altra in tono sommesso, giocherellando nervosamente col braccialetto verde che indossava.
Inarcai un sopracciglio e lanciai una fugace occhiata a zia Ruth.
Già, mi ero quasi scordata di quest’ostacolo: le gemelle. Non ci eravamo mai incontrate prima e non avevo idea di cosa aspettarmi, ma certamente non potevo immaginare di trovarmi davanti due mocciose abbigliate all’ultima moda che mi scrutavano dall’alto in basso. D’accordo, l’ospite ero io, ma loro avevano pur sempre tredici anni.
Cercai comunque di mantenere la calma e non ribattere con uno dei miei soliti commenti cattivi: ci conoscevamo da meno di un minuto e già le cose non stavano andando benissimo, dovevo provare a mantenere un rapporto civile se volevo condividere la casa con loro. Mi sforzai di sorridere, ma le mie labbra si contorsero in una smorfia. “Sono io, sì. Piacere, Bess.”
Loro mi scrutarono come se avessi avuto un terzo occhio sulla fronte.
“Andiamo ragazze, presentatevi” le incitò allora la madre con un ampio sorriso che tradiva un profondo imbarazzo.
“Io sono Joice” bofonchiò quella col braccialetto verde, abbassando subito lo sguardo.
“Quindi tu devi essere Kristen?” mi rivolsi all’altra, sperando di aver azzeccato il nome. Zia Ruth e zio Lawrence le avevano nominate un sacco di volte, non potevo sbagliare.
“Crystal” mi corresse lei in tono piccato.
Ecco, appunto.
“Vieni tesoro, ti mostro la casa e ti accompagno in camera tua: sarai stanca dopo il lungo viaggio” intervenne subito la zia nel disperato tentativo di levarmi dall’imbarazzo.
Mi inquietava il modo di esprimersi che avevano lei e lo zio: parevano appena usciti da un libro inglese di fine Ottocento.
La seguii fuori dal soggiorno, ma subito il borbottio delle due gemelle catturò nuovamente la mia attenzione.
“Hai sentito con che accento parla? Quant’è sguaiata…”
“In America parlano tutti così secondo te?”
“E poi hai visto come si veste? Il nero fa schifo, e poi quella roba sembra vecchia di anni!”
Mi immobilizzai in mezzo al corridoio e strinsi i pugni. D’accordo, ci avevo provato, ma la mia pazienza aveva un limite.
Tornai indietro e mi affacciai di nuovo alla soglia per poterle squadrare da capo a piedi. “Ah, non vi piacciono i miei vestiti? Peccato… ma tanto non avevo intenzione di prestarveli!”
Loro sobbalzarono e ammutolirono per diversi istanti. Joice puntò lo sguardo sul piano lucido del tavolo attorno a cui erano sedute, mentre Crystal prese coraggio e mi guardò dritto in faccia.
Sostenni il suo sguardo con sfrontatezza.
“Senti Beatrix, mettiamo le cose in chiaro: questa è casa nostra, tu sei l’ospite, quindi non ti conviene sfidarci” sputò la ragazzina, gonfiando il petto e assumendo una posa da dura che non le si addiceva per nulla.
Ero tentata di riderle in faccia, ma ero troppo incazzata perfino per quello. “Appunto. È questa l’accoglienza che riservi agli ospiti? Non stai dando una bella immagine di casa tua.”
“Ragazze, che succede? Crystal, Joice!” intervenne zia Ruth, accortasi della discussione in atto.
Scacciai la questione con un gesto noncurante e le rivolsi un debole sorriso. “Tutto finito, tranquilla, ora puoi portarmi a vedere la casa.”
La donna lanciò un’occhiata scettica alle figlie, poi tornò in corridoio con l’intento di farmi strada.
Feci per seguirla, ma prima di lasciare nuovamente il soggiorno mi soffermai un’ultima volta su Crystal e Joice. “Se avete qualcosa contro di me, ditemelo pure in faccia: non ho nessun problema.”
Quando mi allontanai mi sentii immediatamente stupida a essermi accanita contro due ragazzine, ma come al solito avevo agito d’istinto. In ogni caso c’erano delle mancanze di rispetto che non tolleravo, e il fatto che le mie cugine avessero solo tredici anni non poteva giustificarle.
“Ti stavano dando fastidio? Devi scusarle, ci vorrà un po’ perché si abituino, sono sempre state abituate a essere solo loro due” si preoccupò subito la zia Ruth. In realtà non era parsa troppo sconvolta dall’atteggiamento maleducato delle figlie.
Mi strinsi nelle spalle. “È comprensibile.”
La casa della famiglia Middleton era la classica dimora tipo di una famiglia britannica: situata in un tranquillo quartiere residenziale, a pochi minuti di una fermata della metro che permetteva di raggiungere agevolmente il centro di Londra, era circondata da un giardino ricoperto di erba verde brillante fresca di tosatura. Le stanze, spaziose e numerose, erano distribuite tutte su un piano: quelle della zona giorno erano rivolte a sud e inondate dalla luce che filtrava da grandi vetrate, tutto l’opposto delle camere da letto.
Era una casa così bella e ben arredata, con i mobili ben coordinati in ogni stanza e un sacco di soprammobili e quadri eleganti, ma al contempo risultava così fredda e ostile. Sembrava troppo ordinata e tirata a lucido per essere abitata; mi trasmetteva un senso di straniamento e oppressione insopportabili.
Il mio concetto di casa prevedeva tutt’altro.
“Qui c’è la stanza degli ospiti, che abbiamo preparato per te, proprio a fianco a quella delle ragazze” spiegò zia Ruth una volta giunte nel piccolo corridoio su cui si affacciavano le camere da letto e il bagno della zona notte.
Feci il mio ingresso nell’unico angolo di pace che sarebbe stato solo mio e mi sedetti sul bordo del letto, guardandomi attorno con circospezione: era tutto così anonimo.
“Ti piace?” domandò la zia con un sorriso colmo di speranza.
“Sì… mi devo ancora ambientare” concessi. Non ero affatto brava a mentire, accidenti.
“Ti lascio un po’ da sola, così puoi sistemare le tue cose, darti una rinfrescata e riposarti” annunciò lei, per poi sparire nell’andito e richiudere la porta con delicatezza.
Mi sdraiai sul materasso senza nemmeno preoccuparmi di togliere le scarpe e solo allora mi resi conto di quanto mi facesse male la schiena: avevo pur sempre affrontato più di dodici ore stipata su un sedile troppo duro e scomodo.
Chiusi gli occhi, perché ero certa che se mi fossi guardata nuovamente intorno avrei dato di stomaco. Non ero più così certa di aver fatto la scelta giusta: ero fuggita per stare lontana da mio padre, da mia sorella che ormai mi aveva voltato le spalle e dal mio passato troppo pesante, non avevo avuto dubbi sul fatto che andare a Londra e ripartire da zero fosse l’unica soluzione per me, ma ora che mi ritrovavo sola e spaesata in un luogo completamente nuovo cominciavo a essere spaventata. Mi ripetevo sempre – e facevo sempre credere a tutti – che ero abbastanza forte da riuscire a cavarmela in ogni situazione e che nulla poteva davvero sconvolgermi, ma non potevo mentire a me stessa.
La mia Los Angeles mi mancava già. Yelena mi mancava già, anche se odiavo ammetterlo. E detestavo quell’ambiente così freddo e quadrato, quella famiglia inospitale e quella città immersa nel grigiore.
E chissà quanto mi sarebbe costato ricominciare la scuola…
Più mi lasciavo trascinare da quei pensieri, più sentivo il cuore sfondarmi la gabbia toracica e il respiro farsi irregolare. Sapevo esattamente cosa stava per accadere, ma non l’avrei permesso: mi misi a sedere di scatto, spalancai gli occhi e presi un profondo respiro. Non mi sarei fatta prendere da un attacco di panico durante la mia prima giornata a Londra. Quella sarebbe stata la mia nuova vita, mi sarei lasciata alle spalle tutte le mie vecchie fragilità.
Mi misi in piedi a fatica con l’intento di recuperare il mio walkman all’interno del trolley – ascoltare musica mi rilassava sempre – e solo allora mi accorsi di essere osservata.
Mi voltai di scatto verso la porta: era socchiusa e un paio di occhietti verdi mi scrutavano attraverso la stretta fessura. Non appena incrociarono i miei, l’uscio sbatté di scatto e delle risatine si propagarono per il corridoio.
Sentendo la rabbia montare dentro, percorsi in poche falcate lo spazio che mi separava dalla maniglia e la tirai con forza. “Che cazzo avete da guardare?”
Stava andando tutto a puttane, ed ero arrivata solo da un paio d’ore.
 
 
 
Cominciai ad andare a scuola pochi giorni dopo il mio arrivo a Londra. I miei zii avevano scelto per me un liceo piuttosto buono, anche se non si trattava di un istituto privato come quello che frequentavano Crystal e Joice.
Non avrei mai potuto pretenderlo, del resto; a dirla tutta mi sentivo già fortunata a poter terminare gli studi e a stare lontana dal mio vecchio quartiere, in cui perfino la scuola era intrisa di criminalità e disagio.
Fin dal primo giorno decisi di mantenere un profilo basso sia con i professori che con i miei compagni di classe; non avevo nessuna voglia e nessun interesse a socializzare in quel luogo, sapevo che non avrei trovato qualcuno che potesse condividere il mio stile di vita.
Dal momento che a Los Angeles avevo perso un paio d’anni, ì miei compagni erano tutti più piccoli di me e ciò non era troppo rassicurante. Non era soltanto una questione di età anagrafica: semplicemente avevo vissuto molto più di loro, ero già invecchiata e avevo commesso molte stronzate, mentre quei ragazzini stavano cominciando a staccarsi da mamma e papà in quel momento ed erano a malapena al loro primo tiro di sigaretta.
Mi imposi di mantenere la calma e soprattutto di rimettermi a studiare seriamente – attività che non mi era mai pesata e che mi veniva pure piuttosto semplice. Non ero molto sicura di riuscire nei miei obiettivi, ma dopo qualche settimana appresi che i miei voti non erano affatto male e che riuscivo a non cedere alle provocazioni dei miei compagni. Evitavo di rispondere ai professori – cosa che fino a quel momento era stata impensabile – e talvolta mi ritrovavo a essere dalla loro parte quando rimproveravano i miei compagni.
Non ero diventata meno ribelle del solito, ero solo più matura e soprattutto avevo imparato a farmi i cazzi miei. In fondo l’unico mio obiettivo in quel luogo era prendere il diploma.
Per gli altri liceali ero soltanto la tipa bizzarra e taciturna con i capelli blu e la sigaretta sempre tra le dita. Nessuno sembrava particolarmente interessato ad attaccare bottone con me – forse li intimorivo – e, anche in quelle rare occasioni in cui qualche coraggioso si faceva avanti, mi mantenevo sempre distaccata.
L’unica persona con cui trascorrevo il mio tempo durante le ore scolastiche era Tara, una ragazza taciturna ed emarginata come me. Era bellissima, aveva un fisico mozzafiato, un viso armonico e dei lunghi capelli mossi color cioccolato che facevano invidia alla maggior parte delle ragazze, ma era talmente timida che si ritrovava a essere sempre nell’ombra e non essere notata da nessuno. Era palese, si trovava a disagio in mezzo alla gente e non riusciva a rispondere quando qualcuno le rivolgeva la parola; mi raccontò che questi suoi problemi erano sfociati in vere e proprie crisi d’ansia, e che la sua incapacità di parlare in pubblico l’aveva portata a essere rimandata perché non riusciva ad affrontare le interrogazioni, per quanto studiasse e si preparasse.
Nonostante i nostri background fossero completamente diversi, la sentivo affine a me in un certo senso. Non potevamo considerarci amiche, ma ci tenevamo compagnia a vicenda, racchiuse com’eravamo nella nostra solitudine.
 
 
 
“Perché lei può uscire anche di sera e noi no?” Crystal incrociò le braccia al petto e mise su un broncio indispettito, che faceva somigliare ancora di più il suo visetto delicato a quello di una bambina.
“Perché tu e Joice avete tredici anni, non è bene che andiate in giro per Londra quando fa buio” ribatté zia Ruth pazientemente, affettando la torta appena sfornata che aveva preparato quel pomeriggio.
“Ma potrebbe succederle comunque qualcosa, anche se ha diciassette anni! Perché è da sola! Invece noi siamo in due!” contestò Joice, dando di gomito alla gemella per cercare il suo appoggio.
“Grazie mille per l’augurio” ribattei piccata, consultando l’orologio da parete.
“Dai, mamma! Io e Joice vogliamo solo andare a fare shopping! Ti giuriamo che andremo solo in giro per negozi e saremo a casa all’ora che vuoi tu!” tentò ancora Crystal, sbattendo le ciglia con fare implorante.
“Ho detto di no. E questo mese vi ho già portato a fare shopping.”
Forse era il caso di defilarmi: quelle due palle al piede stavano già cominciando a farmi venire mal di testa. Era bastato poco più di un mese di convivenza per portarmi al limite della sopportazione; quello era uno dei motivi per cui cercavo di stare lontano da casa il più possibile.
“Ma adesso sta uscendo la nuova collezione estiva” piagnucolò Joice con tanto di labbro inferiore tremante.
“Papà!” sbottò quindi Crystal, voltandosi di scatto verso lo zio Lawrence che, accomodato sulla poltrona, era intento a leggere il giornale.
Lui non si scompose e alzò solo per un attimo gli occhi dalla pagina. “Avete sentito la mamma? Non se ne parla.”
“Non è giusto! Io esco lo stesso!” ringhiò la ragazzina, pestando un piede a terra.
“Crystal!” la rimproverò sua madre senza troppa convinzione.
“D’accordo, si sta facendo tardi” annunciai, afferrando la mia borsa e dirigendomi verso l’uscita del soggiorno.
“Ciao cara! Divertiti e stai attenta!” mi salutò zia Ruth, seguita subito dopo dallo zio.
“Ma non è giusto… perché lei può e noi no?” sentii ancora Joice.
Mi voltai e guardai dritto negli occhi prima lei e poi Crystal. “Sapete perché io posso e voi no? Perché io qui non ho né mamma né papà che dicono ciò che devo fare, e poi sono quasi maggiorenne.”
Se alle orecchie delle mie cugine suonava come un motivo per cui vantarsi, alle mie suonava come una verità tremendamente triste. Quelle due non si rendevano nemmeno conto di quanto fossero fortunate ad avere due genitori che si preoccupavano e non facevano mancar loro niente.
Non risposero, ma sulle labbra di Crystal potei leggere un ti odio appena sussurrato.
Decisi che non valeva la pena spaccarle la faccia e mi allontanai, pronta a lasciarmi tutto alle spalle e immergermi nel caos di Londra. Ormai scene del genere erano all’ordine del giorno, non ricordavo un solo giorno di pace da quando avevo messo piede in quella casa.
Raggiunsi la fermata della metro e attesi l’arrivo del mio treno.
C’erano degli aspetti della mia nuova vita per cui potevo ritenermi abbastanza fortunata: innanzitutto avevo piena libertà sulla mia vita e potevo gestirmi totalmente da sola, non avevo orari da rispettare o imposizioni di alcun tipo. I miei zii sapevano bene che fino a qualche mese prima me l’ero sempre cavata con le mie sole forze e mettermi dei paletti a quel punto, a quasi diciotto anni, sarebbe stato davvero ridicolo; avevo promesso loro che non avrei causato problemi – non era di certo mia intenzione mancare di rispetto alle persone che avevano deciso di ospitarmi senza ricevere niente in cambio – e loro, reputandomi una ragazza matura e responsabile, avevano riposto in me la più totale fiducia.
Qualche stronzata avrei anche finito per combinarla, perché fuori dai guai non ci sapevo proprio stare, ma non li avrei mai e poi mai coinvolti.
In secondo luogo lo zio Lawrence e la zia Ruth avevano messo a mia disposizione i loro soldi e, oltre a darmi una sorta di paghetta settimanale, erano disponibili a darmi degli extra nel caso ne avessi avuto bisogno. Io in ogni caso non approfittavo mai della loro bontà e cercavo di non spendere troppo: gli unici costi che dovevo affrontare riguardavano le sigarette e le tinte periodiche, oltre a qualche sfizio occasionale riguardante trucchi e vestiti. Comunque mi facevo bastare ciò che mi davano – ero sempre stata abituata a mantenermi con molto meno, quello per me equivaleva al lusso.
Forse non avrei mai fatto davvero l’abitudine a quel tenore di vita.
Emersi dalla metro e per prima cosa mi recai al negozio di dischi a qualche metro di distanza. Sceglievo sempre quella fermata proprio perché, passando da quelle parti, mi fermavo a osservare la vetrina e scoprire le nuove uscite in ambito musicale. Non avevo ancora fatto nessun acquisto, non mi era mai veramente importato: nelle cuffie del mio walkman risuonavano sempre le solite cassette che avevo portato con me da Los Angeles e che mi ricordavano le giornate spensierate trascorse all’Alibi con i miei amici.
Quella sera però, quando giunsi davanti alla solita vetrina gremita di vinili e riviste, un articolo in particolare attirò subito la mia attenzione. Si trattava di un album con la copertina dalle tinte cupe, su cui tuttavia spiccavano le scritte Depeche Mode e Black Celebration sulla parte alta. Era la prima volta che mi capitava di vederlo, sicuramente si trattava di una nuova uscita.
Non avevo affatto dimenticato la canzone che mi aveva rubato il cuore non appena ero giunta a Londra, udita quasi per caso nell’auto di mio zio; avevo continuato a cercarla per tutto il tempo, ma in quel mese non avevo avuto tante occasioni di ascoltare la radio.
Forse poteva essere contenuta in quel nuovo album.
Senza nemmeno rifletterci su, entrai nel negozio e cominciai a cercare la versione in audiocassetta dell’album – l’unico formato che potevo acquistare, dal momento che non avevo un giradischi.
Il proprietario del negozio mi lanciò un’occhiata dalla sua postazione dietro il bancone, ma non disse nulla.
Trovai ciò che mi interessava sullo scaffale delle novità, presi in mano la custodia e la feci ruotare per poter leggere la tracklist. Un brivido mi corse lungo la schiena quando, al numero sette, trovai il titolo Stripped.
Non sapevo il nome della canzone che mi era piaciuta, ma avevo riconosciuto quella parola: il cantante l’aveva ripetuta un sacco di volte durante il ritornello. Doveva essere quella, senza dubbio.
Tra i titoli ne trovai alcuni che mi intrigarono fin da subito: Black Celebration – la title track –, A Question Of Lust, Here Is The House, World Full Of Nothing, Dressed In Black. C’era qualcosa di sinistro, magico e meraviglioso tra quelle tracce, qualcosa che mi rappresentava davvero. Solo a stringere quella cassetta tra le dita, mi pareva di avere in mano un frammento del mio cuore.
Senza rifletterci troppo su, mi accostai al bancone e vi poggiai il mio acquisto. “Prendo questo.”
Non avevo nemmeno controllato il prezzo, ma non importava.
 
Con la borsa occupata dalla mia nuova cassetta e lo stomaco pieno di un raviolo al vapore acquistato da un ambulante cinese, passeggiavo per le pittoresche vie di Camden. Era la prima volta che visitavo quel quartiere di sera e lo trovai ancora più bello e suggestivo del solito: mi ricordava tanto l’atmosfera delle boulevard di Los Angeles, col chiacchiericcio dei ragazzi che si disperdeva nell’aria e la musica che fuoriusciva dalle porte spalancate dei locali. Era il luogo degli eccentrici come me, mi sentivo a casa. E nonostante fossi sola non avevo paura, camminavo a testa alta, quasi come se avessi calcato quelle vie un milione di volte.
Un pub in particolare attirò la mia attenzione: una band, probabilmente punk, si stava esibendo dal vivo al suo interno e alcuni ragazzi erano sparpagliati sul marciapiede di fronte all’ingresso, intenti a fumare e chiacchierare tra loro. A giudicare dal poco che si poteva scorgere, l’ambiente non doveva essere molto grande ma aveva un aspetto accogliente, conferitogli dalle luci calde e rossastre delle lampade a muro.
Mentre mi facevo più vicina, sentii subito gli sguardi dei presenti addosso. Era esattamente ciò che volevo: conoscevo bene sia le strategie per passare inosservata sia quelle per farmi notare, e quello era il momento adatto per sfoggiare le seconde.
Mi fermai accanto a due ragazzi che mi parevano dei tipi a posto – uno aveva capelli quasi del tutto rasati ed enormi occhi scuri, l’altro sfoggiava dei dread castano chiaro e stringeva tra le dita uno spinello – e mi accesi una sigaretta con nonchalance. “Ehi.”
“Ehi” ribatté il tipo dai capelli corti, accennando un sorriso.
“Vuoi un tiro?” offrì gentilmente l’altro, accennando alla stecca d’erba.
Mi aprii in un sorriso. “Gentile! Accetto solo se è roba di qualità” puntualizzai.
Lui annuì. “Garantito.”
Mi passò la canna e io aspirai una boccata. Era da quando avevo lascialo Los Angeles che non fumavo un po’ d’erba; non era mai stato uno dei miei principali vizi e non conoscevo nessuno spacciatore affidabile da quelle parti.
“Americana?” indagò quello coi capelli rasati.
“Beccata. Vengo dalla mitica California” confermai.
“Che figata!” si entusiasmò subito lui.
“Oh sì. Comunque questa roba è buonissima, dovete presentarmi il vostro pusher” aggiunsi, prendendo un altro tiro prima di riconsegnare lo spinello al proprietario.
Lui lo afferrò e sorrise soddisfatto. “Te l’avevo detto! Sarà fatto. Prima però dobbiamo aspettare che scenda dal palco.”
“Ah, è uno della band?”
“Il bassista.”
“Quindi conoscete i tipi che stanno suonando?”
Il ragazzo dai capelli corti fece un ampio cenno di assenso e ridacchiò. “Conosciamo ogni singola band che si esibisce nel sobborgo.”
“Quindi siete abituali della zona. Questa è una buona notizia!”
“Tu invece sei qui di passaggio o hai intenzione di restare?” mi chiese il ragazzo coi dread.
“Resto. Non so per quanto, ma di certo resterò per un po’.” Lanciai un’occhiata all’ingresso del locale. “Ehi, io sono curiosa di sentire la band! Chi viene dentro con me?”
I due ragazzi sorrisero e mi seguirono.
Non appena mi ritrovai avvolta dalla musica e da quegli sconosciuti tutti da scoprire, una scarica di adrenalina mi invase le vene. Mi sentivo a casa, nel mio ambiente, e improvvisamente avevo voglia di essere la Bess di sempre: volevo divertirmi, ridere, stringere amicizia, flirtare, avere gli occhi di tutti addosso, essere la star. Volevo indossare nuovamente quella maschera che negli anni passati avevo faticato tanto per costruire e che ormai era una parte della mia identità.
Ordinai da bere e poi mi gettai sotto il palco, pronta a scatenarmi e provocare chiunque avesse posato lo sguardo su di me.
 
Meno di un’ora dopo mi trovavo schiacciato contro la porta del bagno, ansimante e col corpo in fiamme, con la mano di un perfetto sconosciuto infilata nelle mutandine. Era esattamente ciò che volevo e che avevo cercato.
Eccomi, la vecchia Bess con le sue vecchie abitudini. Eccomi, la solita puttanella che si divertiva a fare baldoria e sesso col primo che capitava.
Beh, non esattamente il primo. Ci voleva anche buon gusto per scegliere la giusta scopata.
Mi lasciai sfuggire un gemito spudorato, poi spinsi via il ragazzo – un moretto ben piazzato niente male – e mi calai i pantaloni, scalciandoli via. Rivolsi un sorriso malizioso al mio amante occasionale, poi gli diedi le spalle e mi piegai leggermente in avanti. “Prendimi. Fammi vedere ciò che sai fare!”
Certe cose non sarebbero mai cambiate, perché in fondo mi andavano bene così.
 
 
 
“Si può sapere cosa stai facendo in camera mia?” ringhiai quando, una volta rientrata da scuola, trovai Crystal che frugava tra i miei vestiti.
Vivere con quelle due marmocchie si rivelava ogni giorno più complicato: ora che mi avevano conosciuto meglio, si sentivano ancora più in diritto di ficcare il naso nella mia vita e tormentarmi.
Lei sobbalzò e si voltò di scatto. “Stavo cercando… non trovo più la mia giacca rossa, in camera mia e di Joice non c’è. Volevo vedere se l’avevi rubata tu!”
“Rubata? E cosa dovrei farmene?” sbottai.
“Ma magari è finita nella tua stanza per sbaglio.” Joice ci raggiunse e si piazzò sulla soglia, ispezionando l’ambiente con lo sguardo.
“Potevate anche chiedermelo come fanno tutte le persone normali, invece che intrufolarvi come delle ladre in camera mia e frugare senza il mio permesso” feci notar loro, mentre riordinavo alcuni trucchi che avevo lasciato sul comodino quella mattina, per via della fretta.
“Ma dovevo immaginarlo: una che si veste sempre da vedova non può avere una giacca rossa in camera. Poi gli altri vestiti si spaventano per tutto quel colore” mi punzecchiò Crystal col suo solito tono impertinente. “Una tipa che ascolta questa musica strana non può mica vestirsi di rosso” aggiunse dopo qualche istante di silenzio.
Tra le due lei era la peggiore: se in Joice si poteva intravedere un minimo di umanità, Crystal era una sorta di mostro. Viziata, egoista, impertinente e irrispettosa.
Lasciai ricadere l’eyeliner che avevo in mano e mi voltai a guardarla: la ragazzina soppesava la mia audiocassetta di Black Celebration, la sventolava in aria e la osservava con disprezzo.
Feci un balzo in avanti con l’intento di strappargliela dalle mani e la incenerii con lo sguardo. “Lasciala subito. Hai capito?”
Poteva prendersi anche tutto il mio armadio, ma quella cassetta doveva lasciarla stare. Era l’oggetto più prezioso che possedevo.
“E se invece non la lascio?” mi sfidò, nascondendola dietro la schiena.
Non esisteva nessuno al mondo in grado di farmi incazzare tanto. In preda a un accesso d’ira, la immobilizzai e le afferrai una ciocca di capelli, strattonandola. Lei strillò e tentò di dimenarsi, ma non mollai la presa.
“Lascia subito quella cassetta o ti stacco i capelli uno a uno” la minacciai in un ringhio.
“Ma solo se tu ci presti i tuoi trucchi” provò a contrattare. Piccola bastarda, non cedeva nemmeno sotto ricatto.
“Lascia. Quella. Cazzo. Di. Cassetta” ripetei, scandendo bene ogni parola e tirandole nuovamente i capelli per ribadire il concetto.
Lei piagnucolò per qualche istante e poi mi restituì la copia di Black Celebration senza fare ulteriore resistenza.
“Tanto quella musica fa pure schifo” bofonchiò una volta liberatasi dalla mia presa.
“Certo, tu sì che ci capisci qualcosa di musica” replicai ironica, sistemando il mio album preferito il più lontano possibile dalle grinfie di Crystal.
“Madonna, lei sì che è veramente brava!” intervenne Joice, puntandosi le mani sui fianchi.
“Certo…” Evitai di far notare loro che Madonna non era nemmeno capace di cantare.
“E poi hai visto il suo stile? È troppo bella!” proseguì la ragazzina, assolutamente convinta della sua posizione.
“Sì…”
“Preso! Scappa, Joice!” strillò all’improvviso Crystal.
Feci appena in tempo a vederla correre via con un mio kajal in mano, al fianco della gemella, e non ebbi nemmeno il tempo di reagire. Le loro grida e risate si persero in corridoio, poi la porta della loro stanza sbatté forte.
Feci uno scatto in avanti con l’intento di inseguirle, poi mi passai una mano sulla fronte. Era dura, tremendamente dura.
Cos’avevo fatto di male per dover combattere contro quelle due mocciose?
 
 
 
C’erano giorni, più di altri, in cui il suolo sembrava cedere sotto i miei piedi e volermi inghiottire.
C’erano giorni in cui le mura della casa sembravano volermi schiacciare, sommandosi al peso della mancanza che provavo nei confronti della mia vecchia vita. Quella vita che mi ero voluta lasciare alle spalle, ma che in fondo mi aveva seguito fino a lì.
C’erano giorni in cui Crystal e Joice facevano il possibile per farmi impazzire, e ci riuscivano talmente bene che non avevo più la pazienza per tener loro testa. C’erano giorni in cui riuscivano a darmi fastidio anche se infilavo le cuffie del walkman e impostavo il volume al massimo.
C’erano giorni in cui il panico mi coglieva alla sprovvista, ma ormai avevo imparato cosa dovevo fare in quei casi per riprendere il controllo di me stessa: mettere in riproduzione Black Celebration, uscire di casa e camminare. Non avevo mai una meta ben precisa, non mi saltava nemmeno in mente di prendere la metro e recarmi in centro. Camminavo per le vie quasi deserte del quartiere, mi lasciavo avvolgere dalla musica e respiravo a fondo, finché le lacrime non mi si asciugavano sulle guance e tornavo a sentirmi tutta intera.
Quel pomeriggio di inizio giugno era così.
Pensavo che non me ne sarebbe importato niente e che il mio cervello avrebbe addirittura rimosso quell’informazione, eppure lo sapevo benissimo: era la prima volta che trascorrevo l’anniversario di morte di mia madre lontano da casa. In un luogo in cui a nessuno importava davvero di me, in cui non potevo sfogarmi con nessuno, in cui non avevo una sola persona con cui distrarmi.
Non appena rimisi piede in casa dopo la scuola un forte senso di colpa mi invase, insieme alla prima dose di panico dritta in vena. Lo conoscevo fin troppo bene e sapevo anche che, se non avessi fatto al più presto qualcosa per calmarmi, quel giorno non ne sarei uscita troppo semplicemente.
L’unica cosa che volevo era farmi trovare nel bel mezzo di una crisi dai miei zii e dalle mie cugine – non ero nemmeno certa che sapessero di quel mio piccolo problema, era qualcosa che avevo sempre gestito da sola –, perciò infilai le cuffie alle orecchie e uscii di nuovo senza preoccuparmi di salutare o avvisare, con le lacrime che già mi ustionavano la pelle del viso e la sensazione di vuoto al centro del petto.
Camminai e piansi mentre ascoltavo le voci di Dave Gahan e Martin Gore accarezzarmi le orecchie, e mi sentii infinitamente stupida e patetica. Non sapevo nemmeno dire per quale motivo mi sentissi così disperata, se per la mia attuale vita o per tutto ciò che avevo perso. La verità era che quel senso di vuoto e solitudine avevo cominciato a provarlo esattamente sei anni prima e nessuno era mai stato in grado di colmarlo davvero. Volevo sentirmi ancora una volta una bambina indifesa e fragile che si rifugiava tra le braccia della madre, invece ero più sola che mai.
Sollevai gli occhi al cielo, chiedendomi se lei mi stesse osservando da lassù, ma una coltre di nubi grigiastre mi impedivano di scorgere l’azzurro. Anche loro si prendevano gioco di me, si divertivano a scatenare quel senso di claustrofobia che mi toglieva il respiro.
Le lacrime smisero di piovere giù per le mie guance quando finalmente Stripped inondò le mie orecchie, infondendomi l’ormai familiare senso di pace e libertà. La mia adorata Stripped, colei che mi aveva fatto conoscere il gruppo musicale che mi aveva salvato la vita e continuava a salvarla ogni giorno, la mia dose di serotonina giornaliera, la mia canzone preferita in assoluto.
 
Come with me into the trees
We'll lay on the grass and let the hours pass
Take my hand, come back to the land
Let's get away just for one day
 
Ascoltai quelle parole, quasi ipnotizzata, ed ebbi una voglia matta di fuggire e lasciarmi davvero tutto alle spalle, di afferrare questa mano immaginaria e lasciarmi trascinare via, lontano dalla società che mi ingabbiava ogni giorno di più. Di provare quella libertà che mi ero sempre illusa di avere, ma che non era mai stata mia.
Giunta circa alla metà del brano, mi guardai attorno per la prima volta da quando ero uscita di casa e mi resi conto che le mie gambe mi avevano condotto automaticamente nel mio luogo preferito, quello in cui mi rifugiavo sempre quando volevo stare da sola. Si trattava semplicemente di un piccolo spiazzo piastrellato e delimitato da un basso muretto. Non vi erano né panchine né aiuole, ma all’estremità opposta rispetto alla strada vi era un parapetto oltre il quale si poteva ammirare il verde rigoglioso di un parco. Non avevo mai capito a quale luogo portasse esattamente quel piccolo strapiombo, forse si trattava di un giardino privato e recintato a cui non si poteva accedere – probabilmente era perfino abbandonato, dal momento che la vegetazione cresceva indisturbata – ma non mi ero mai posta il problema: a me bastava osservarlo dall’alto.
Quando avevo scoperto quello scorcio per un attimo mi ero sentita un po’ come Mary Lennox, la protagonista de Il Giardino Segreto, ma poi mi ero data della cretina e avevo ricordato a me stessa di avere diciassette anni.
Mi recai a passo spedito verso la mia meta mentre, ancora con la musica a palla nelle orecchie, mi accendevo una sigaretta, ma rallentai di botto e mi sfilai le cuffie quando mi accorsi che lo spiazzo non era deserto come al solito.
Un ragazzo dai capelli biondi, che indossava una camicia chiara a maniche corte e un paio di jeans, se ne stava con i gomiti poggiati sul parapetto e fumava una sigaretta in silenzio, guardando dritto davanti a sé. Non fui in grado di distinguere nessun altro dettaglio, dal momento che mi dava le spalle, ma ero grata per il fatto che non si fosse voltato e accorto della mia presenza: dovevo essere in condizioni pessime e sicuramente non ero dell’umore per fare delle nuove conoscenze.
Esaminando l’ambiente con più attenzione notai una moto nera e lucente, che non avevo mai visto da quelle parti, parcheggiata sul ciglio della strada. Ne rimasi subito attratta e mi soffermai a guardarla: ero sempre stata affascinata dalle moto e, sebbene non fossi in grado di guidarne una, ero sempre salita volentieri con i ragazzi che mi offrivano un passaggio. Era tremendamente bello sfrecciare su uno di quei bolidi lungo la costa della mia adorata California, col vento tra i capelli e il mare azzurro che scorreva al mio fianco…
Mi riscossi da quei ricordi talmente belli da far male e mi domandai se fosse il caso di defilarmi, prima che lo sconosciuto si accorgesse della mia presenza. Ma ormai avevo perso troppo tempo: un attimo prima che muovessi il primo passo, lui si voltò e mi adocchiò, per poi mettere su un’espressione sorpresa.
Che tempismo…
Ormai ero in ballo, tanto valeva danzare; non era da me fuggire come una bambina colta con le mani nel sacco.
Fingendo indifferenza, presi una boccata di fumo dalla mia sigaretta e sostenni il suo sguardo. In quel modo potei scorgere anche i dettagli del suo viso: doveva avere una ventina d’anni, aveva il volto dai lineamenti affilati ma non eccessivamente aggressivi da tipico inglese, i capelli mossi non troppo corti gli incorniciavano il viso e si agitavano appena per via della brezza. Ma ciò che mi colpì maggiormente furono i suoi occhi grigio-azzurri segnati da una profonda tristezza.
Mi venne quasi da ridere: possibile che dovessi attirare a me tutte le anime più distrutte e dannate? Dovevo avere una qualche maledizione.
Lui accennò un sorriso, probabilmente fraintendendo la mia espressione.
Ero tentata di lasciarlo perdere e andare via per davvero, ma in fondo quello era il mio luogo preferito e avevo tutto il diritto di starci. Mi accostai alla balaustra e vi posai i gomiti a mia volta, stando ben attenta a tenere le distanze da quel ragazzo. Fissai un punto davanti a me, tra l’erba alta e rigogliosa, ma percepivo benissimo che il biondo mi lanciava occhiate di tanto in tanto. Sicuramente era incuriosito, anche se cercava a sua volta di fingersi distaccato.
Dopo circa un minuto decisi di dargli una soddisfazione. “È tua la moto?”
Lui annuì. “Non proprio in realtà: è di mio fratello maggiore, ma ormai non la usa più e si può dire che l’ho ereditata.”
Aveva un modo di parlare gentile e calmo e una voce piuttosto musicale. Perfettamente in sintonia col suo aspetto, in effetti.
“È molto figa. Stravedo per le Harley nere” ammisi, per poi voltarmi nella sua direzione. “Non l’avevo mai vista da queste parti.”
Mi sorpresi per la nonchalance con cui stavo conducendo quella conversazione, visto che ero appena uscita da un attacco di panico. Sicuramente avevo ancora gli occhi gonfi di pianto e la voce roca, forse un po’ di trucco mi si era sciolto e incrostato sulle guance, ma non avevo modo di nascondere tutto ciò.
“Nemmeno io ti avevo mai visto da queste parti. E il tuo accento non è inglese, di sicuro” osservò.
“Che orecchio!” ironizzai; pure una scimmia se ne sarebbe accorta. “Infatti vengo da Los Angeles. O meglio, sono per metà inglese e per metà americana, ma ho sempre vissuto in California.”
“Wow, Los Angeles” commentò con aria sognante.
Annuii e aspirai l’ennesima boccata di fumo. “Sono arrivata a Londra qualche mese fa.”
Lui mi guardò stranito.
“Che c’è?” incalzai, inarcando un sopracciglio.
“No, è che… sei qui da sola? Sembri un po’…” bofonchiò, leggermente in imbarazzo.
Mi fece quasi tenerezza: sembrava un ragazzo un po’ ingenuo e timido, non sapeva bene come comportarsi.
“Sembro un po’ piccola, intendi? Me lo dicono tutti. Ma in realtà ho diciassette anni, a dicembre di quest’anno ne compio diciotto.”
Lui sgranò gli occhi.
“E comunque sto dai miei zii, che abitano qui vicino” puntualizzai. “Tu? Siamo vicini di casa e lo scopriamo solo ora?”
“Non proprio… ho fatto un po’ di strada perché volevo… stare da solo.” Distolse lo sguardo e finì la sua sigaretta, prima di schiacciare il mozzicone sulla balaustra.
“Anche io volevo stare da sola, pensa che coincidenza… e in genere venire qui è la soluzione migliore…” gli feci notare, più per metterlo alla prova che per cattiveria. Non volevo farlo sentire davvero in colpa, in fondo quello era suolo pubblico.
Anche se un po’ la sua presenza mi aveva infastidito, specialmente all’inizio.
Lui continuò a fissare davanti a sé, senza avere il coraggio di spostare lo sguardo su di me. “Non ci vengo mai, non sapevo che fosse il tuo posto.”
Mio… ancora non l’ho comprato” gli concessi, accennando un sorriso. “Giornata di merda?” gli chiesi poi, sperando di porre rimedio alla mia aggressività che l’aveva palesemente messo in difficoltà.
Non lo facevo apposta a essere stronza, probabilmente lo ero di natura.
“Parecchio” ammise, il tono di voce più basso di un’ottava. Sembrava davvero distrutto.
“È qualcosa a cui si può porre rimedio?” mi informai ancora, improvvisamente curiosa.
“Non saprei, ma a questo punto credo proprio di no.”
“Oh.” Lasciai cadere il silenzio e continuai a fumare. Non volevo comunque essere troppo invadente.
“Anche tu non sembri troppo contenta e in pace col mondo” notò lui dopo diversi secondi.
Mi finsi stupita. “Davvero? Cosa te lo fa pensare?” scherzai.
Lui ridacchiò. “La rigiro a te: è qualcosa a cui si può porre rimedio?”
D’accordo, quel tipo era più sveglio di quanto mi fosse sembrato. Stava cominciando a piacermi.
E mi aveva anche posto una domanda a cui non sapevo rispondere.
Mi strinsi nelle spalle. “Casini in famiglia.”
Il riassunto della mia intera esistenza, in pratica.
“Senti, non ci conosciamo e non voglio sembrare inopportuno, ma…” Distolse nuovamente lo sguardo. “Se ti va di parlarne, io ti ascolto volentieri. A volte aprirsi con un perfetto sconosciuto può essere terapeutico.
“E chi mi assicura che non userai i cazzi miei per ricattarmi?” scherzai.
Lui rise. “Ma se non so nemmeno il tuo nome!”
“Ah già!” Gettai il mozzicone a terra e lo schiacciai con la punta della scarpa. “Per riassumere, si può dire che adattarsi in un luogo totalmente nuovo non è impresa facile e la famiglia dei miei zii non mi sta dando una mano, specialmente le mie cugine. Non auguro nemmeno al mio peggior nemico di vivere con loro.”
Omisi giusto un paio di dettagli, come l’anniversario di morte di mia madre, l’alcolismo di mio padre, la situazione di merda che mi aveva spinto a trasferirmi, gli attacchi di panico e il senso di spaesamento che provavo ancora nei confronti di Londra. Del resto non mi sarei mai aperta così tanto con nessuno.
“Comprensibile.”
“A te invece che è successo?” gli chiesi.
“Beh…” Si passò una mano tra i capelli, a disagio. “Oggi io e la mia ragazza abbiamo rotto dopo quattro anni di relazione.”
Sgranai gli occhi. “Cazzo!”
“Già.”
“Quattro anni!” Non riuscivo nemmeno a immaginare un legame così duraturo, visto che i miei rapporti con l’altro sesso erano durati al massimo il tempo di una scopata.
“Quando è cominciata io avevo sedici anni. Siamo praticamente cresciuti assieme.” La sua voce era colma di una sofferenza che era quasi difficile da ascoltare: doveva tenerci davvero tanto.
“E scommetto che è stata lei a lasciarti.”
“Sì.”
“Che stronza!”
Lui sorrise mestamente. “Non è stata stronza, semplicemente ha capito che stavamo crescendo e prendendo direzioni diverse.”
Sospirai. “D’accordo, non dico mai la cosa giusta. Sto zitta!”
Lui rise. “Comunque ora che entrambi abbiamo svelato qualcosa di compromettente sul nostro conto possiamo anche rivelarci i nomi. A nessuno dei due conviene ricattare l’altro.”
Sorrisi appena e gli tesi la mano – mi resi conto solo allora che mentre parlavamo ci eravamo fatti più vicini. “Bess. Devo pure stringerti la mano come fanno i vecchi?”
Lui scoppiò a ridere e la afferrò. “I vecchi?”
“Andiamo, a Los Angeles nessuno sotto i quarant’anni si presenta con una stretta di mano!”
“Nemmeno con i professori universitari?”
“E che ne so? Sono ancora al liceo! Comunque non mi hai detto il tuo nome.”
“Ah già!” Rise nuovamente. “Io sono Cole.”
Annuii. “Cole. Quindi tu ne sai più di me riguardo all’università, suppongo” indagai, studiandolo con attenzione.
Lui si strinse nelle spalle. “Ci studio.”
“Indirizzo?”
“Filosofia.”
Sollevai gli occhi al cielo. “Oddio.”
Lui piegò la testa di lato e sorrise sornione. “Adoro vedere la reazione della gente quando svelo la mia facoltà. Comunque cos’hai contro la filosofia?”
“Beh… non serve a un cazzo!”
“Oh, sì che serve. A un sacco di cose.”
Sollevai un sopracciglio. “Per esempio?”
Cole ci rifletté su per un attimo, poi schioccò le dita. “Sai cosa sostiene Nietzsche, uno dei più grandi filosofi tedeschi?”
Scossi il capo.
Senza musica la vita sarebbe un errore” enunciò lui, accennando al mio walkman.
Sorrisi beffarda. “A questo ci ero arrivata pure io, e non sono neanche Nietzsche! Però ha ragione” dovetti riconoscere, mentre estraevo la mia cassetta preferita e me la rigiravo tra le mani. La amavo così tanto che anche solo averla a contatto con la pelle mi faceva stare meglio.
“Cos’è?” si incuriosì lui dopo una veloce sbirciata.
Black Celebration dei Depeche Mode. Conosci?”
Lui scosse il capo. “Beh, veramente… non sono molto pratico, non ascolto quasi niente.”
“Ma come? Studi Nietzsche e non segui i suoi consigli? Che razza di filosofo sei?” lo presi in giro, teatralmente indignata.
Lui scoppiò a ridere. “In mia discolpa posso dire che a casa mia non si ascolta quasi mai musica, i miei genitori preferiscono il silenzio.”
“Che tristezza” commentai, pescando un’altra sigaretta dal pacchetto. “Ne vuoi una?” proposi a Cole.
“No, grazie, io non fumo.”
Mi accigliai. “E quello che avevi prima tra le dita cos’era, un bastoncino di liquirizia?”
“Era un caso eccezionale. Ma ora non ho più voglia di fumare.”
Ci scambiammo uno sguardo che significava tanto. Cole mi stava implicitamente ringraziando perché ero riuscita, grazie alle mie continue chiacchiere, a distrarlo e fargli dimenticare anche solo per un istante il motivo per cui si trovava là.
E anche io, dovevo ammetterlo, mi ero del tutto ripresa dall’attacco di panico e anche il senso di angoscia mi aveva abbandonato.
Ma come al solito mi sentii in dovere di aggiungere qualcosa per rovinare il momento quasi carino che si era andato a creare. “Certo che sei strano, comunque.”
Lui sorrise. “Anche tu non scherzi, a dire il vero.”
“Cole?”
“Sì?”
“Ho il trucco sbavato sulle guance, vero?”
Lui sorrise – aveva proprio un bel sorriso, gentile e luminoso. “Sì.”
“Cazzo!”
“Che importa? Siamo solo noi due.”
“Faccio spavento sicuramente” mi lamentai, passandomi il dorso di una mano sulla guancia – come se ormai potesse servire a qualcosa.
“È da più di mezz’ora che parliamo e ancora non sono scappato. Secondo te sono spaventato?”
Feci spallucce. “In effetti se ancora non sei fuggito a gambe levate, o non sei un essere umano o hai una pazienza invidiabile.”
Ci sorridemmo e io sentii che Cole non sarebbe più scappato.
E sentii che nemmeno io sarei più scappata.
Ma soprattutto sentii che forse, dopo anni di ricerca, avevo trovato qualcuno in grado di farmi sentire a casa. Almeno un po’.
 
 
 
Mi richiusi l’uscio alle spalle, sentendo il rombo della moto di Cole che sfrecciava via per la strada.
Io e lui continuavamo a vederci spesso, era l’unico che potessi considerare un amico da quando ero arrivata a Londra. Spesso andavamo in giro sulla sua moto o ci recavamo in centro per confonderci tra la folla e ricercare nuove avventure.
Lui era totalmente diverso da me, potevamo considerarci agli antipodi: Cole era un bravo ragazzo, proveniente da una buona e tranquilla famiglia, con un carattere mite e tanti sogni per il futuro. Studiava all’università, rigava dritto e non si metteva mai nei guai.
Il nostro legame era quasi surreale – l’avevo pensato fin da subito – ma c’erano tante cose che ci accomunavamo: la passione e la curiosità per l’arte, il modo di pensare fuori dagli schemi, il senso dell’umorismo e perfino la riservatezza sulle questioni che ci riguardavano.
Quando stavo con lui mi sentivo più pulita, più matura, più spensierata; una ragazza come tante altre. Era una sensazione che per le strade di Los Angeles non avevo mai provato.
Mi trovavo ancora nell’ingresso, intenta a sfilarmi il giubbotto in pelle che indossavo sempre quando salivo in moto con Cole, quando mi resi conto di essere osservata. Aggrottai le sopracciglia e lanciai un’occhiata a Joice e Crystal, che se ne stavano in piedi all’imboccatura del corridoio con gli occhi colmi di curiosità e aspettative.
“Che avete?” sbottai, già temendo la conversazione che si sarebbe sviluppata.
“Chi era quel tizio?” incalzò subito Crystal con malizia.
“Quale tizio?”
“Il biondo con la moto. Ti abbiamo appena visto con lui qui fuori!”
“Ma voi non vi fate mai i cazzi vostri?” le liquidai irritata, superandole e dirigendomi verso camera mia.
Ma, com’era prevedibile, non avevano intenzione di mollare: mi stettero alle calcagna continuando a ridacchiare e portare fuori congetture.
“È il tuo ragazzo?” domandò Joice.
Mi venne quasi da ridere: Cole, il mio ragazzo?!
“Non vi riguarda.”
“Ma noi lo vogliamo sapere! Dai!” insistette Joice. Lei e la gemella si erano intrufolate fin dentro la mia stanza.
Sbuffai e le ignorai, andando in cerca di qualcosa di più leggero da indossare. Faceva un caldo tremendo quella sera.
“Possiamo sapere almeno come si chiama?” proseguì Crystal, tuffandosi sul mio letto.
“Volete uscire o preferite che vi spedisca fuori a suon di calci in culo?”
“Se non ci vuole dire niente è perché sono davvero fidanzati” insinuò Joice in tono cospiratorio, ridacchiando.
“Non è il mio ragazzo! Contente? Che ve ne importa?”
Joice lanciò un gridolino. “Ma come no? È così bello…”
“Ora che so che non state insieme, posso farmi avanti io” cinguettò Crystal.
Mi voltai lentamente e le lanciai un’occhiata allibita. “Tu?!”
Lei sorrise sorniona e si passò le dita tra i lunghi capelli perfettamente pettinati. “Sei gelosa? Se non te lo prendi tu, è davvero un peccato lasciarlo a qualcun altro! È così bello… e così sexy! Con quella moto poi…”
Scoppiai a ridere: era surreale sentir parlare così una ragazzina di nemmeno quattordici anni che fino al giorno prima pestava i piedi per avere le caramelle da mamma e papà. Mi strinsi nelle spalle. “Se vuoi provaci pure, ma ho molti dubbi che farai breccia nel cuore di Cole.”
Joice e Crystal erano delle bambine in confronto a lui, al massimo avrebbe potuto far loro da baby sitter.
“Oh, si chiama Cole? Ha anche un nome stupendo!” si entusiasmò lei, lanciando un’occhiata complice a Joice.
“Oddio…” bofonchiai tra me, richiudendo l’anta dell’armadio. “Adesso ve ne potete andare? Grazie.”
“Sei gelosa?” si informò Joice.
“Sì, tantissimo” ribattei in tono sarcastico.
“Quando vi dovete vedere la prossima volta?” continuò Crystal.
Ora basta.
Mi avvicinai a loro, afferrai Crystal per la maglietta e la strattonai per farla alzare dal mio letto, poi la spinsi verso l’uscita e feci altrettanto con la gemella, prendendola per un polso. “Sparite o non risponderò più delle mie azioni!”
Ignorai le loro proteste e, una volta sola, chiusi con forza la porta e girai la chiave. Mi stavo già pentendo di essere rincasata e non aver direttamente cenato fuori.
 
 
 
Le acque torbide del Tamigi scorrevano e ribollivano davanti ai nostri occhi; quando faceva caldo avevo l’impressione che fossero ancora più sporche del normale, che si trasformassero quasi in una palude. Non che mi interessasse troppo, ma quando la scrutavo sentivo la forte mancanza del mio amato Oceano Pacifico, in cui tante volte mi ero immersa.
Sbuffai fuori una nuvola di fumo e lanciai una fugace occhiata a Cole, che se ne stava appollaiato sull’erba al mio fianco e aveva a sua volta lo sguardo perso nel fiume. “Un’altra volta mi ero addormentata in spiaggia dopo un falò” ripresi il racconto che avevo lasciato a metà, “e il giorno dopo mi sono risvegliata con la faccia tempestata di punture di zanzara. Ti giuro, sembravo un colabrodo!” Sorrisi al ricordo per metà traumatico e per metà esilarante. Mi piaceva condividere le follie che mi erano capitate – e che avevo combinato – con Cole, era il modo più sincero che avevo per raccontargli del mio passato. Non gli parlavo quasi mai delle parti più brutte e dolorose, ma semplicemente perché speravo di dimenticarle e rivangarle non avrebbe aiutato.
Cole rise. “Un ricamo sulla faccia, praticamente! Ti prego, dimmi che hai una foto ricordo!”
“Non ce l’ho, e se ce l’avessi sicuramente non la sbandiererei ai quattro venti!” Gli diedi di gomito. “Tu ci ridi sopra, ma quegli stronzi dei miei amici hanno davvero provato a unire i puntini per vedere se saltava fuori un disegno…”
“Geniali!”
“Bastardi” lo corressi, per poi sorridere nostalgica. “E quella non è stata nemmeno la volta peggiore! Non hai idea dello sfogo e dell’infiammazione che ho avuto quando ho fatto questo” raccontai, accennando al piercing al sopracciglio destro.
“Quando l’hai fatto?”
“Mmh… due o tre anni fa, più o meno. E proprio quel fine settimana dovevo andare a un concerto in Sunset Strip, ero disperata! Io e Muriel avremo finito almeno due confezioni di fondotinta per coprire quel casino!” Ridacchiai, rivivendo nella mente quel momento disastroso eppure a suo modo magico. “Però alla fine è stato divertente…”
Persi nuovamente lo sguardo nel fiume e repressi un sospiro. Avevo sempre pensato di non appartenere a nessun luogo in particolare, avevo sempre detestato la mia casa e il mio quartiere che mi aveva tolto la voglia di sognare, mi ero sempre lamentata della mia vita e del mio continuo senso di insoddisfazione; quando mi si era presentata l’occasione di partire, l’avevo fatto senza pensarci due volte e senza mai voltarmi indietro.
Ma in fondo, per quanto mi costasse ammetterlo, mi mancavano quelle giornate della mia vecchia e incasinata vita. Mi mancava l’Alibi, mi mancavano i locali di Hollywood e i concerti glam rock, mi mancava il mare. Mi mancavano Muriel, Fanny e tutti i miei amici, mi mancavano i ragazzi con cui andavo a letto.
Forse stavo arrivando a sentire la mancanza addirittura di Yelena e di mio padre.
Anche se faticavo a definire Los Angeles casa, un frammento di me probabilmente era rimasto laggiù.
“Ehi” mormorò Cole, sfiorandomi appena un braccio per attirare la sua attenzione.
Non risposi e non mi mossi.
“Momento di nostalgia?” proseguì lui, la voce gentile e venata di apprensione.
“Detesto ammetterlo” replicai soltanto, prendendomi la testa tra le mani. Non era da me comportarmi così, in genere cercavo di mostrarmi sempre contenta e forte, ma certe volte il vuoto al centro del petto si faceva troppo grande. E a Cole non potevo nascondere niente, non ne sentivo il bisogno.
Lui non aggiunse altro ma, dopo qualche istante di esitazione, si accostò maggiormente a me e mi circondò le spalle con un braccio.
Rimasi spiazzata, quasi spaventata da quel contatto: nessuno mi dedicava mai gesti d’affetto come quello, nessun ragazzo osava sfiorarmi a meno che il suo intento non fosse quello di portarmi a letto – non gliel’avevo mai concesso, del resto.
Eppure non mi sentivo a disagio, sapevo che Cole era mio amico e fidarmi di lui mi veniva spontaneo. Abbandonai il capo sulla sua spalla e mi accoccolai accanto a lui, godendomi quell’insolito attimo di dolcezza e sentendo pizzicare gli occhi. Era una sensazione che mi faceva sentire debole, patetica, ma non fui in grado di sottrarmi a quell’abbraccio.
Restammo in silenzio per diversi minuti, Cole non compì nessun altro gesto e si limitò a tenermi vicina con una naturalezza talmente bella da spezzarmi il cuore. Non sapevo cos’avessi fatto per meritare un amico del genere, ma improvvisamente – forse per la prima volta dopo anni – mi sentii fortunata.
Era vero, non appartenevo a nessun luogo, la mia anima era nomade e non si era mai davvero sentita a casa. Ma un frammento di essa apparteneva a quell’angolo di mondo accanto a Cole; un frammento apparteneva alla mia vecchia casa, un frammento apparteneva all’Alibi, un altro frammento apparteneva alle strade colorate di Camden e chissà in quali altri luoghi avrei lasciato un pezzetto di me.
Quanti altri casini avrei combinato, quante altre volte mi sarei spezzata le ossa e quanti cocci avrei dovuto raccogliere da terra per rimettere insieme quel casino che era la mia vita. Ma in fondo avevo solo diciassette anni e la mia strada la dovevo ancora trovare, la mia casa la dovevo ancora cercare.
Quindi mi sarei rialzata e sarei andata avanti. Con le mie forze e le mie insicurezze, come sempre, ma non mi sarei mai fermata.
 
 
 
 
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E siamo giunti al terzo e ultimo capitolo di questa raccolta interamente dedicata a Bess! Forse qualcuno dirà “finalmente”, visto che tirando le somme sono in tutto 30.000 parole, ma a me dispiace tantissimo. Amo Bess, ho amato scrivere la sua storia e potrei scrivere ancora e ancora; la stesura di questa raccolta è di un’importanza enorme, sia per me in quanto autrice sia per la serie.
Ma non temete: questa ragazza ha ancora tanto da dire e sicuramente tornerà presto, in altre storie e in altre situazioni.
Ed ecco che, con la parentesi londinese, introduco un nuovo personaggio: Cole. Che ve ne pare di lui?
Non mi sento di aggiungere tanto, vi lascio solo a una piccola notina: Black Celebration è il quinto album dei Depeche Mode, pubblicato il 17 marzo del 1986; seppur non tra i più celebri lavori della band, segnò il passaggio della band da un synth pop allegro tipico degli anni Ottanta un sound più cupo e denso di sperimentazioni, quello che ha reso famosi e riconoscibili i Depeche Mode. Questi ultimi sono e sempre saranno il gruppo preferito di Bess – spoiler non spoiler XD – e ho pensato che questo fosse il disco giusto per farglieli scoprire, in una fase della vita così delicata.
Stripped è la settima traccia dell’album, nonché primo singolo estratto (10 febbraio 1986); a mio parere è di una bellezza e una potenza incredibili. Vi lascio qui il link:
Stripped
Grazie a chiunque sia giunto fin qui, spero davvero che leggere questa storia vi abbia emozionato e coinvolto come hs emozionato e coinvolto me scriverla!
Ci si vede presto per un nuovo viaggio e una nuova avventura ♥
 
 

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