La Rosa Nera

di wanderingheath
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** Capitolo 1. - Parte I ***
Capitolo 3: *** Capitolo 1. - Parte II ***
Capitolo 4: *** Capitolo 1. - Parte III ***
Capitolo 5: *** Capitolo 2. - Parte I ***
Capitolo 6: *** Capitolo 2. - Parte II ***



Capitolo 1
*** Prologo ***


Prologo
 

 
Era successo di nuovo.
Si era risvegliato in un bagno di sudore, con le palpebre tremolanti, pesanti, e il battito cardiaco schizzato a mille. Aveva la sensazione che perfino i polsi gli tremassero, scosso com’era da un misto di brividi e convulsioni.
Lo spazio attorno a sé era un acquario di sagome deformi: nel buio si erano raggomitolati cespugli di pantaloni e calzini, il roccioso promontorio dell’armadio che delimitava la parete di fronte, alghe fatte di tende ondulate. I contorni dell’incubo si confondevano ancora con sprazzi di lucidità, aprendo al suo sguardo crepe di luce, strane geometrie di vari colori. Era come se i fotogrammi del suo sogno si stessero sovrapponendo alla realtà e potesse ancora vedere le ruote delle gomme premere sull’asfalto.
Non appena le pulsazioni rallentarono e il suo cervello fu in grado di registrare ciò che accadeva attorno a lui, la prima preoccupazione fu quella di scostare le coperte – le gettò in fondo al letto in maniera brutale, scalciandole con i piedi – e di verificare che lì sotto fosse tutto asciutto.
Per fortuna il materasso sembrava intatto, così come il tessuto del pigiama.
Luca esplose in un sospiro che conteneva strati di scontento, timore e sollievo, senza sapere quale emozione fosse predominante.
Forse provava vergogna. Si vergognava di se stesso, di doversi controllare i pantaloni al mattino, come un incontinente o un bambino di tre anni, e di essersi fatto suggestionare per l’ennesima volta da un gioco dell’orrore. Sapeva già che le esperienze adrenaliniche poco prima di coricarsi fossero sconsigliate per un sonno ristoratore, ma Henry gli aveva scritto che qualche giorno prima era uscito il seguito di Blooded Footprints e il fatto che l’amico lo avesse già provato gli bruciava.
Henry aveva conosciuto il gioco solo grazie a lui, che lo aveva convinto a provare a casa sua, una notte che avevano fatto le ore piccole, ed era ancora merito suo se era riuscito a conseguire un record nella risoluzione della trama, avendolo ricevuto in regalo in occasione del quindicesimo compleanno.
I fans attendevano il seguito da più di sei anni e, proprio quando avevano gettato la spugna, ecco annunciata l’uscita del numero due. Henry lo aveva – di nuovo – battuto sul tempo ed era riuscito ad accaparrarselo subito, assicurando che fosse il miglior videogame sul mercato, con generosi spoiler.
Luca non avrebbe potuto attendere una settimana intera per provarlo. Ci aveva giocato rigorosamente a luci spente – o si optava per un’esperienza immersiva o niente –  con la musica di sottofondo, degna di entrare a pieno titolo nella colonna sonora di un film di Dario Argento, sparata al massimo nelle cuffie.
Inutile dire che Henry aveva ragione: Blooded Footprints II – The Cursed Hospital aveva persino superato l’originale.
Luca non faceva fatica a credere che fosse stata quella la causa dei suoi incubi. Cercò a tentoni il bicchiere d’acqua che teneva sempre sul comodino. Al buio, però, la sua mano trovò la base della lampada; le nocche cozzarono contro il rivestimento metallico, strappandogli un gemito.
Non si era ancora abituato alla nuova stanza, che nuova, poi, non era affatto: ci aveva passato tutta l’infanzia e una piccola sezione della vita adolescenziale. Tuttavia, per qualche inspiegabile motivo, sentiva che non gli apparteneva.
Un filo di nostalgia lo riconduceva direttamente all’altra camera da letto, quella che aveva lasciato a Zurigo. Certo, era meno spaziosa di questa, ma ben tenuta, dallo stile minimale e molto luminosa. Aveva il suo angolo adibito allo studio – per le poche volte che l’aveva utilizzato – la sedia ergonomica acquistata dai suoi, il mobilio bianco e nero che dava all’osservatore l’impressione di una grande scacchiera. Di quella stanza gli mancavano persino le minuscole macchie di unto che aveva disseminato sulla carta da parati dietro allo schermo del pc.
Questa, invece, ampia il doppio, era ingombrata ancora dagli scatoloni ammassati alla poltrona e all’ampia libreria a muro, dove custodiva i suoi videogiochi preferiti.
Luca si raggomitolò su di un lato, sprimacciando il cuscino.
Sapeva che non avrebbe più chiuso occhio, ma l’alternativa era poco allettante: prendere l’ennesima pastiglia che teneva nell’armadietto del bagno e rimettersi sotto le coperte finché l’intorpidimento non si fosse impossessato dei suoi arti, sprofondandolo in un sonno buio e desertico.
Si rimise in piedi e si acciambellò sul tappeto, controller della Play in mano.
Alcuni frammenti dell’incubo erano rimasti impigliati alla retina e si contendevano lo spazio con i flash luminosi rimandati dallo schermo del televisore.
Ricordava di essere in strada, le suole delle scarpe da tennis aderivano bene all’asfalto umidiccio. Pioveva lievemente, il tanto che bastava a imperlargli il viso senza costringerlo ad aprire un ombrello. Faceva jogging, cuffiette nelle orecchie e parole di una canzone straniera a rimbombargli in testa. La cosa strana era che era certo di non aver mai sentito quella canzone prima di allora.
Non avrebbe saputo darle un nome, né canticchiarne la melodia o inquadrarla in un genere preciso.
Ricordava solo la sensazione di essere investito, riempito, dalle note, quasi il suo corpo traboccasse di musica e dovesse rimanere in moto per evitare di soccomberle. Correndo riusciva a controllare quell’energia, a trasformarla in movimento e ad espellerla quando espirava, quando il quadricipite si decontraeva e il suo piede schiacciava l’asfalto.
Mentre continuava a correre, degli ingombranti fasci di luce avevano fagocitato la sua ombra, paralizzandolo. Con il fiato ancora spezzato, il suo sguardo era saettato da una parte all’altra, appena in tempo per riconoscere un gigantesco camion qualche istante prima che lo asfaltasse.
Per fortuna era solo un sogno, si ripeteva.
Gli incubi, però, sarebbero dovuti sparire definitivamente. Di fatto erano spariti: si erano dissolti in corrispondenza dell’ultima prescrizione farmacologica.
Da quando assumeva le sue medicine, aveva dormito sonni abbastanza tranquilli. Non si era più risvegliato nel bel mezzo della notte, fradicio di sudore e tachicardico, ed era così da alcuni anni.
Quella notte costituiva l’eccezione.
Un lampo dallo schermo del cellulare richiamò la sua attenzione.
L’unica persona che poteva scrivergli a quell’ora della notte era Berto, il suo collega di turno al Blue Dragon. Subito sotto quella notifica, un’altra recante il messaggio di Lorenzo.
Diamine, se n’era dimenticato. L’aveva aperto e poi si era scordato di rispondere, come al solito.
Ma cosa avrebbe dovuto rispondergli?
Accettare un normalissimo invito ad uscire o inventare una scusa circostanziale che Lorenzo non avrebbe faticato a smascherare?
Luca sospirò, gettando la testa all’indietro. Sentiva un accenno di emicrania bussare sommessamente nell’anticamera del cervello. Era come il più piccolo anello in una lunga serie di cerchi concentrici.
Non un buon segno. No, decisamente non un buon segno.
Incubi, sudori, risvegli notturni ed emicranie: tutto quello sarebbe dovuto finire con la terapia.
Era rimasto ben sigillato in una bianca saletta dall’aspetto asettico, in Svizzera, e non dimorava più nella sua scatola cranica, del tutto libera ormai, ripulita e funzionante.
Doveva trattarsi di un errore, di un piccolo inceppo nel perfetto meccanismo del suo cervello. Non poteva essere altrimenti.
Ricontrollato l’orario, sbloccò lo schermo e si decise a comporre una risposta.

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Capitolo 2
*** Capitolo 1. - Parte I ***


Capitolo 1. – Parte I.
 
L’occhio del ciclone

 
 
Louis si affrettò su per la scalinata che lo avrebbe condotto al terzo piano.
Dalla cartella aperta traboccavano libri, scartoffie vomitate da qualche quaderno e penne spaiate.
Non aveva tempo per considerare la scia di oggetti che stava lasciando dal momento del suo ingresso nell’atrio scolastico. Era in ritardo di qualche minuto di troppo per preoccuparsi degli effetti personali.
Il ciuffo di capelli dorati gli ricadeva sulla fronte, a indispettirgli un occhio, coprendogli quasi tutto metà volto; lo detestava e, se non fosse stato per le proteste materne, si sarebbe rasato la testa a zero. Direttamente, in un sol colpo. Un raptus stile Britney Spears.
Rifletteva proprio su simili questioni, quando un colpo (???), dritto in pieno petto, lo travolse. Per poco non capitombolò nella tromba delle scale. Destino altrettanto fortunato non ebbe, però, la sua borsa a tracolla.
Le ginocchia si arresero al peso di un corpo estraneo. Il groviglio di braccia e gambe si disarticolò lentamente e a fatica nei due giovani scontratisi.
No. Non andava.
Era un passaggio terribile, a dir poco raccapricciante.
Per quanto adorasse i cliché, capiva da sola che inserirne uno così, in apertura, avrebbe rischiato di compromettere la riuscita dell’intera storia. E non era solo questione di ripetizioni o refusi – l’avrebbe presa meno sul personale – ma proprio di inventiva, di scarna fantasia.
Si sarebbe dovuta inventare qualcos’altro, ma ogni volta che metteva mano a quella scena, riusciva a immaginarsela in un’unica forma, come in una sorta di predestinazione.
Sepolta dalle cancellature di gomma, una bozza riempiva gli ultimi quadratini liberi del foglio già tormentato. Avrebbe sempre perso nella lotta contro il dirompente bisogno di ricoprire qualunque superficie di disegni, per quanto orribili, insignificanti e talvolta anche infantili. Era il solo modo di tenere a bada la propria immaginazione, di sedare il prurito delle sue mani, desiderose e bisognose di creare, creare, creare. Le dita si contorcevano attorno alla matita, arma che impugnavano in mancanza di una tastiera.
L’occhio sinistro del suo Louis la scrutava con rimprovero, come a chiederle di trovarsi un hobby migliore del deturpamento del suo viso.
Nel tentativo di pulirgli una mano troppo rachitica, finì per amputargli l’intero braccio. Andava così, quando cercava di ritoccare qualche scarabocchio: rigettava tutto il pregresso.
Soffiò via i brandelli di finta carne che occupavano la carta.
Un rumore di passi in avvicinamento la fece scattare: quaderno richiuso, fatto scivolare sotto i due libri di testo spalancati.
«Rieccomi.»
Elena si abbandonò a peso morto contro lo schienale della sedia. Aveva ripreso la penna, sebbene con poca convinzione. «Dove eravamo?»
Le indicò con l’indice l’ultimo passaggio marchiato dalla grafite. «Qui, credo. Tulerit
Elena osservò brevemente il verbo, poi tornò a guardarla con le sopracciglia aggrottate. Negli occhi acquamarina il solito sguardo torbido che avrebbe fatto attorcigliare le viscere di chiunque.
Forse era proprio quello il dettaglio che maggiormente la turbava: l’imperscrutabilità delle iridi.
Il viso, l’espressione, si adattavano a perfezione ai segnali inviati con gli sguardi – o piuttosto alla totale assenza di segnali – disarmando e disorientando l’interlocutore.
Era convinta che fosse quello l’enigma attorno ad Elena, la radice del suo fascino magnetico.
Quello e la cura quasi chirurgica della propria persona.
Persino la salopette che indossava in quel momento, nell’ambiente informale del bar, si armonizzava con il colore dei suoi occhi, nonché con le mollette che trattenevano alcuni riccioli.
Una volta, molti anni prima, le aveva rivelato il suo segreto.
Dopo averla trascinata con sé in bagno e spalancata l’anta dell’armadietto personale, l’aveva iniziata allo strabiliante mondo dei prodotti per capelli. Ricordava lo stupore – lo spavento – davanti a file e file di boccette diverse, il cui utilizzo non avrebbe neanche saputo immaginare.
La famigerata pozione che permetteva ad Elena di estrarre da una matassa informe il suo vanto maggiore, lo spettacolo di ricci, consisteva in un flacone di mousse dall’etichetta dorata, su cui spiccava un nome in francese. Le era venuto spontaneamente da sorridere: lei sarebbe stata in grado di tradurlo, ma non di usarlo.
«Quindi?»
Elena stava aspettando una risposta.
«Quindi… sapresti dirmi il paradigma?»
L’altra perse la pazienza. Emise uno sbuffo sonoro e scagliò sul tavolo la penna blu.
«Ancora con ‘sti cazzo di paradigmi?»
«Beh, all’esame te li ha chiesti.»
Elena la incenerì all’istante: «Appunto».
L’idea che ciò che era uscito in sede d’esaminazione non dovesse più essere riesumato sembrava costituire un tacito patto fra alunno e professore. Almeno secondo la logica di Elena.
«È uno degli argomenti su cui sei più debole.»
«E il più inutile. Tanto tra due giorni me li so’ scordati tutti.»
Stavolta il sospiro sfuggì a lei. La refrattarietà di Elena alla materia era fondata su basi talmente comuni da costituire l’opinione dell’ottanta percento degli studenti del loro istituto. Trovare una minoranza di latinisti all’interno di un liceo classico sembrava un paradosso frequente.
«La odio, ‘sta lingua del cazzo.»
Che Elena Costa fosse abitualmente responsabile di turpiloquio, a molti suoi coetanei sarebbe apparso impensabile. La divertiva il modo in cui, invece, non avesse freni inibitori davanti a lei.
Quel trattamento non era lusinghiero, ma le regalava l’illusione di esercitare una minima influenza su una delle beniamine del Liceo Classico G. Ungaretti.
«Proseguiamo con la frase successiva?»
Un mugugno di approvazione fu l’unico segnale d’incoraggiamento.
A lei Cicerone piaceva. Le piaceva il modo in cui le frasi si dispiegavano davanti agli occhi del lettore moderno, lo stile elegante, raffinato, il perfetto bilanciamento tra le strabordanti subordinate, che costringevano a far scorrere lo sguardo avanti e indietro. Semplicemente, le piaceva il sapore delle lingue morte, il riportare alla luce testi sepolti dai secoli trascorsi, il risolvere gli incastri linguistici come se si fosse trattato di un puzzle. Eppure, quando si trovava di fronte ad un’alunna come Elena, non riusciva a trasmettere la sua passione per il latino.
Aveva letto insieme a lei la frase successiva, quando il cellulare di Elena cominciò a squillare. La suoneria era I love it (I don’t care) di Icona Pop, la stessa che utilizzava anche Giulietta.
Elena le fece segno di attendere un momento.
Una cameriera si era accostata al loro tavolo, chiedendo se poteva portar via qualcosa.
Emilia annuì, passandole con premura entrambe le tazze. Quel posto vantava un ottimo tè nero e, a giudicare dai pochi residui presenti nel bicchiere della sua alunna, anche le cioccolate non dovevano essere niente male. Sebbene i dolci lasciassero un po’ a desiderare, il bar le ispirava un senso di familiarità e di casa: che fossero le luci soffuse o il forte odore di spezie, sentiva che ci sarebbe tornata.
«Sì, avoja. Sì, ci vediamo direttamente lì, il trentuno sera. Famo intorno alle sette. Allora, senti, dopo ti mando la posizione esatta, okay?»
Elena agitava la testa con vigore, i suoi ricci in tumulto.
«Guarda, porta chi te pare, tanto la casa è de mi’ zio, ma non ci sta mai nessuno. Okay? Va bene, amò, a dopo.»
Terminò la chiamata con una mitragliata di baci sonori, soddisfatta. Quando incrociò lo sguardo di Emilia, si ricordò d’improvviso di essere in compagnia. Cercò di ridarsi un tono, avvoltolandosi una ciocca di capelli attorno all’indice. «È Ginevra. Non so se te la ricordi, quella della quinta E, mora, tappa...»
L’altra assentì. «Beh, do una specie di festa per Halloween. A casa mia, cioè de mi’ zio in realtà, ma loro non la usano mai. Beh, non è una vera festa, è più una cosa...»
Cercava le parole adatte, ma per Emilia quell’incespicare fu sufficiente: era in imbarazzo. Per qualche motivo Elena Costa provava imbarazzo in sua presenza. Ecco, quello sì che la lusingava.
«Una cosa tra amici, molto tranquilla», terminò.
L’altra annuì di nuovo, nella reciproca consapevolezza che si trattava di un’evidente menzogna.
Un raduno tranquillo tra amici per Elena Costa doveva significare una cinquantina di invitati. Le conosceva fin troppo bene quel genere di feste.
«Tu vuoi...vorresti...»
La interruppe con un cenno della mano. «Oh, no. No, no. Assolutamente no.»
«Mi spiace non avertelo detto prima, ma mi sono scordata.»
«Tranquilla, davvero.» Emilia abbozzò un sorriso circostanziale, che ristabiliva i loro ruoli nell’incontro. «Non sembra il mio genere di... cosa. E poi non festeggio mai ad Halloween.»
Emessa la sua sentenza, la questione fu rapidamente archiviata, assieme alla sessione giornaliera.
Prima che avesse tempo di aggiungere altro, Elena ficcò nello zaino libri e quadernone ad anelli, per poi schizzare in piedi. «Ho palestra. Ci vediamo mercoledì prossimo. Magari stavolta vieni a casa mia, che qua si sta scomodissimi.»
L’altra si limitò ad annuire per l’ennesima volta, impotente davanti ad una simile determinazione.
«Riguarda i paradigmi», avrebbe voluto aggiungere, se solo le fosse stato dato il tempo. La ragazza era già scappata alla cassa e poi fuori, sotto l’acquazzone. La porta girevole ancora volteggiava, anch’essa vittima del ciclone Costa.
Emilia raccolse lentamente i libri, dizionario di latino incluso, dal tavolo, domandandosi come avrebbe fatto a proteggerli dallo scroscio d’acqua che si stava riversando impietoso sui passanti e sul selciato.
Suo padre si era raccomandato di prendere l’ombrello, quella mattina, ma troppe volte aveva dato retta alle sue previsioni atmosferiche, per poter credere che fossero fondate. E si era sbagliata.
Prima di attraversare la porta girevole ed essere rigettata al freddo e all’umidità stradali, pensò persino di rubarne uno dal portaombrelli, ma fu un attimo, solo un impulso insensato, non una vera congettura.
L’impatto si rivelò meno traumatico del previsto. Tirato su il cappuccio e strettasi nella felpa extralarge, iniziò ad avviarsi verso l’entrata della metropolitana più vicina. Ora che aveva infilato anche le adorate cuffiette nelle orecchie e fatto partire la playlist preferita – ferma agli anni adolescenziali, con le solite trenta canzoni ascoltate e riascoltate almeno un centinaio di volte – sentiva di poter sopravvivere senza fatica.
Giulietta la punzecchiava ogni volta per il mix improbabile di canzoni che aveva trovato sul suo telefono: si passava dal Rock classico al Pop o all’Hip Hop contemporanei e commerciali in un’accozzaglia indistinta e senza intermediari. A Emilia poco importava di seguire una scaletta o ordinare la musica per generi diversi; forse quello era l’unico campo in cui la sua metodica – per non dire ossessione – dell’ordine non trovava applicazione. Quello che catturava il suo orecchio finiva dritto nel grande contenitore: facile e indolore.
Adesso era la volta di A Well Respected Man e le sembrava quasi di trotterellare a tempo, piegando appena le ginocchia e sbilanciando il busto in avanti ogni volta che i Kinks riprendevano il ritornello. Dal momento che la aspettava una lunga corsa in treno verso casa, avrebbe potuto dare un’occhiata a qualche suggerimento di Giulietta, entrata in fissa con un cantante indie italiano dal nome a lei sconosciuto.
Al semaforo, mentre attendeva che scattasse il verde, le note dolci di Lego House di Ed Sheeran la colpirono come una freccia in pieno petto. Si affrettò ad estrarre il cellulare dalla tasca della felpa e a colpire ripetutamente lo schermo nel tentativo di passare alla canzone successiva.
Il vento, che nell’arco della giornata aveva acquisito notevole potenza, le spruzzava la pioggia sul viso, sulle ciocche rimaste scoperte, sulle grandi lenti degli occhiali, ma quasi non se ne accorse.
Non appena Photograph scalzò la melodia precedente, Emilia tornò a respirare. La sbalordiva – e infastidiva – il modo in cui una manciata di note, un accento britannico e la voce calda, piena, del cantante fossero in grado di riesumare tutti quei ricordi. La lasciava incredula quanto potere avesse ancora una semplice canzone sul suo animo.
Iniziò ad attraversare insieme a qualche altro passante, ma a non più di metà percorso un clacson strombazzò nella sua direzione. Emilia si pietrificò di nuovo, gli occhi sgranati che non riuscivano a staccarsi dall’immagine dei due fanali puntati su di lei.
Il camion deviò d’improvviso, evitandola per un soffio. Sentì la raffica di vento gelido che la investiva, il cappuccio che cedeva sotto la sua forza e il massiccio corpo del veicolo che le passava di fianco. Impiegò alcuni secondi per capire cosa fosse accaduto, poi si affrettò a raggiungere l’altro marciapiede e a imboccare le scale della metropolitana con il cuore che ancora le schizzava in gola.

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Capitolo 3
*** Capitolo 1. - Parte II ***


Capitolo 1. – Parte II
 
L’occhio del ciclone

 
 
Il suo cuore era un rubinetto aperto.
Dopo la folle corsa per entrare nell’atrio della metro, adesso gocciolava a singhiozzi. L’effetto acustico di quel gocciolio era una serie di percussioni: i suoi timpani, ovattati, venivano scossi dai battiti fragorosi e irregolari. Ne saltò tre o quattro.
Sforzandosi di ignorare le contrazioni, Emilia passò la tessera sul lettore automatico e, varcate le porte, si piazzò sul primo gradino libero delle scale mobili.
Un’anonima canzone jazz – di quelle che invadono ascensori e sale d’attesa – proveniente dagli altoparlanti, faceva da sottofondo al disordine accumulato in testa. I grandi poster pubblicitari le sfilavano accanto senza che se ne accorgesse: immagini del prossimo spettacolo del circo itinerante, file di locandine cinematografiche tutte identiche, di un verde acido, l’ennesimo slogan a caratteri cubitali del nuovo dentifricio sul mercato.
Lei era ripiegata su se stessa, tutta concentrata nella propria mente. Quei fanali luminosi le fendevano ancora lo sguardo, impressi a fuoco sulla retina.
Aveva rischiato di morire.
Qualcuno la sorpassò sulla corsia di sinistra, urtandole la spalla. Il busto roteò appena, senza alcuna intenzione o reazione da parte della diretta interessata.
Sarebbe potuta morire, in un soffio, senza che nessuno se ne accorgesse. I passanti si sarebbero voltati al rumore dell’impatto, scioccati alla vista di un cadavere così giovane, di una vita troppo precocemente tranciata in quel modo brutale, ma poi avrebbero proseguito con le loro, di vite.
Riusciva a immaginare la telefonata a casa – il brutto, vecchio telefono giallastro con filo che riposava sul mobile in noce dell’ingresso – la notizia che forse avrebbe occupato qualche piccola rubrica del telegiornale regionale o sui social i post del cinquantenne indignato di turno. I ragazzi d’oggi che si sbomballano il cervello con la musica e non guardano nemmeno dove mettono i piedi.
In realtà si era trattato di un incidente, di un camion passato con il rosso, ma poco cambiava i fatti.
Aveva rischiato la vita e la prima reazione era stata la totale immobilità, come se inconsciamente avesse già accettato il proprio destino. Quelle considerazioni la turbavano e intimorivano.
Sapeva di non avere i riflessi più pronti del mondo, ma un minimo istinto di sopravvivenza?
A riscuoterla dall’intorpidimento fu la folla di viaggiatori che scendevano le scale mobili due gradini alla volta, saltando come caprioli al termine della corsa. Una simile agitazione poteva voler dire solo una cosa: il prossimo treno era in arrivo.
Emilia affrettò il passo, rimanendo tuttavia intasata nell’ingorgo di gente che premeva, spintonava, si dimenava, aggrappata al corrimano. Qualche metro più avanti, un oggetto minuscolo di forma circolare cadde a terra, rimbalzando di gradino in gradino fino ad atterrare sul pavimento.
L’uomo che l’aveva perso era sulla cinquantina, in parte calvo, con un impermeabile che lo infagottava fino alle ginocchia. Le rammentava un ispettore della polizia di serie B, un detective in pensione dal passato tragico. Ai piedi portava delle scarpe lucidate, ma visibilmente consunte.
Con la mano che aveva lasciato cadere l’anello impugnava un ombrellaccio scuro e dal manico lungo, arcuato, che ricordava un bastone da passeggio.
Sembrava non essersi accorto della perdita.
Emilia scivolò in mezzo alla schiera di studenti, pendolari, famiglie e turisti stranieri, sfruttando la propria figura minuta ma corpulenta. Riuscì a ritagliarsi un piccolo corridoio e a sgusciare fuori, per poi chinarsi a raccogliere l’anellino.
Rimase sorpresa. Era una classica fede nuziale, dorata con incise, nella parte interna, due iniziali avvoltolate: EL. Ciò che la scioccava era che fosse potuta cadere così facilmente. Suo padre, che ne portava una quasi identica, la teneva all’anulare persino mentre lavava i piatti. Ci dormiva, mangiava, ci faceva la doccia ogni mattina e ogni sera; mai gli era capitato di perderla in giro per casa – ed era un vero disastro sul fronte sbadataggine – o di dimenticarla. Stentava a immaginarselo senza fede al dito, era parte integrante della sua mano, né lo credeva veramente in grado di togliersela. L’ultima volta che l’aveva sfilata doveva essere stata una decina di anni prima.
Emilia cercò nella folla la nuca che aveva perso d’occhio. Per fortuna, riuscì ad individuarla subito: c’erano pochi uomini calvi e altrettanto alti in attesa.
Quando anche lei sbucò sulla banchina, la voce registrata stava annunciando che il treno sarebbe arrivato in un minuto. La musica da ascensore era sfumata nella canzone degli ABBA, Dancing Queen, mentre sullo schermo appeso al soffitto si susseguivano oroscopi, previsioni meteo e notizie dell’ultima ora.
Emilia notò che l’uomo calvo si era distaccato dal resto della massa; un passo più avanti rispetto agli altri, faceva dondolare la ventiquattrore che teneva nella mano destra. Di profilo, sembrava un normale impiegato dalla pelle chiarissima e con un naso pronunciato.
Emilia aggrottò la fronte. Qualcosa – non avrebbe saputo dire con esattezza cosa – stonava nell’immagine che le si parava davanti. Forse era il colore spento dell’impermeabile sgualcito, la ventiquattrore gonfia che a malapena restava chiusa, lasciando intravedere l’angolo di un foglio.
Forse era la scia lasciata dall’ombrello, gonfio anch’esso, ma di acqua piovana.
Abbassò lo sguardo a rileggere le lettere incise e saldate l’una all’altra: erano corredate da alcuni svolazzi, dei ghirigori che davano alla fede un aspetto più formale, quasi barocco. EL
Di nuovo la voce metallica della metro. Il treno era in arrivo.
«Allontanarsi dalla linea gialla.»
Emilia ruppe la propria immobilità.
«Mi scusi!» iniziò a gridare. La sua voce venne soffocata dal resto dei presenti. «Ehi! Ehi, ha dimenticato...»
Incassò un’altra spallata, accompagnata da un’imprecazione e ad un: «Ao, guarda dove vai».
Lo ignorò del tutto, stringendo la presa sulla fede. Mentre il suo pollice scorreva sull’interno, ricalcando le iniziali, Emilia si bloccò sul posto.
E accadde di nuovo.
Era nel suo ufficio.
Stava raccattando le ultime cose, incapace di stabilire cosa valesse davvero la pena tenere e cosa lasciare. Non c’era un manuale da seguire, in quelle occasioni. Di oggetti affettivi, certo, ne aveva, come il portachiavi che aveva attaccato alla lampada da tavolo oppure la fotografia del 2003 che li ritraeva tutti insieme – lui, sua moglie, Bianca e Ludovica che non dovevano avere più di cinque anni – e un paio di penne stilo eleganti.
Era sugli oggetti più comuni che si inceppava. La spillatrice, ad esempio, avrebbe dovuto prenderla oppure no? L’aveva comprata lui, i soldi li aveva cacciati lui come per molte altre spese, ma alla fine lì in ufficio la usavano praticamente tutti; anzi, era stata una casualità ritrovarla nel proprio cassetto. Decise di lasciarla, perché tanto a lui non sarebbe servita più.
Tentò di chiudere la serratura a scatto della valigetta per la sesta o settima volta. Qualche collega, qualche faccia amica, gli passò accanto, rivolgendogli un saluto con la mano. Si tenevano a distanza, come se fosse stato un appestato; la scrivania era il loro scudo. Tutti con quel sorriso circostanziale, terribile, agghiacciante, umiliante. Per quanto erano in imbarazzo, si sarebbe detto che fossero loro, e non lui, a dover raccattare tutto e lasciare quel posto per sempre. Invece era lui.
Era toccato proprio a lui.
Taglio del personale, sai c’è la crisi, sai dobbiamo rinnovare e snellire un po’ l’azienda. Quelli come te non ci possono più aiutare e, davvero, vorrei non dover scegliere, ma devo scegliere.
E la scelta era caduta su di lui, l’accetta sul suo collo.

Lui, tra i più anziani, ma apparentemente non tra i più competenti e redditizi in servizio.
Lui a cui capitava ogni tanto di fare tardi per via di un treno in ritardo o della navetta intasata che non prendeva più passeggeri all’ora di punta.
Lui a cui capitavano sempre i turni in corrispondenza delle festività, perché tutti gli altri si erano già accaparrati i migliori periodi per le ferie. Lui, costretto a mangiare in disparte perché il resto dei colleghi andava puntualmente fuori per pranzo o si portava dei cheeseburger pieni di colesterolo e calorie.
Aveva attraversato la soglia d’ingresso della sua azienda – l’azienda in cui aveva lavorato per oltre vent’anni – per l’ultima volta. Forse sarebbe dovuto tornare per questioni burocratiche o perché gli volevano restituire la spillatrice, ma sapeva che quella in realtà era l’ultima volta.
Sul tragitto verso la metro aveva avuto molto tempo per pensare, ma tutto il tempo del mondo non gli sarebbe bastato a formulare un discorso coerente e positivo con cui giustificare un licenziamento alla moglie. Non sospettavano nulla, né lei, né le bambine – che ormai bambine avevano smesso di esserlo da un bel po’- né sua madre, né i suoceri. E quando avesse fatto un primo round, gliene sarebbero toccati altri ancora: gli amici più stretti, i cugini, gli zii, gli amici più superficiali, i genitori delle amiche di Bianca e di Ludovica, i condomini che lo avrebbero visto bazzicare più spesso in casa. Magari persino il macellaio, da cui avrebbe ridotto le spese drasticamente, e qualche vecchio conoscente rincontrato per caso: come stai, che fai, come sta tua moglie, e il lavoro?
Aveva chiuso l’ombrello. Una doccia di pioggia non lo innervosiva più.
Lasciò che l’acqua s’infrangesse sulla nuca, scorresse lungo l’impermeabile, s’infiltrasse nei risvolti di maniche e colletto, gli infradiciasse pantaloni e valigetta.
E dove avrebbe trovato il coraggio – la dignità – di spiegare alle figlie che non potevano comprare un altro paio di scarpe o i biglietti per il concerto di Ultimo a cui tenevano tanto, né un biglietto per una vacanza all’estero, o in Italia, o da nessun’altra parte?
La vergogna gli bruciava come un fuoco sempiterno e gli inondava le guance. Se fosse riuscito a piangere, nessuno se ne sarebbe accorto sotto quell’acquazzone.
Scese le scale mobili senza fretta, picchiettando la punta dell’ombrello contro il rivestimento metallico, poi si sfilò lentamente la fede dal dito e lasciò che cadesse altrove. Qualsiasi posto sarebbe stato meglio della sua mano. Aveva mani che non trattenevano più nulla.
Tornare in sé fu come uscire da un tunnel. Le era parsa un’eternità, ma non le lancette dell’orologio si erano mosse solo di qualche secondo.
Si accorse di avere gli occhi lucidi solo quando abbassò lo sguardo sulla propria mano. L’incredulità lasciava il posto ad una morsa dolorosa priva di nome.
Emilia sentì lo sferragliare del treno che rallentava la propria corsa. Sbucò dalla curva della galleria.
Il muso argenteo si avvicinava. I suoi fanali le ferirono gli occhi e per un attimo ebbe l’impressione di trovarsi di nuovo in mezzo alla strada, in superficie.
Poi, sentì il bisogno disperato di trovarsi in superficie, di poter emergere da quella scatola chiusa, dalle viscere della metropolitana, di tornare subito su a respirare l’aria fresca e carica di smog.
Il battito riprese il galoppo affannoso di prima e un telo di bianco parve posarsi sopra ogni cosa. Non respirava più bene, adesso.
Emilia vide se stessa slanciarsi in avanti, distendere una mano e gridare: «No! Si fermi!»
Invece rimase ferma lì, al suo posto, incapace di spostarsi anche solo di un millimetro. La folla si disponeva irregolarmente sulla banchina, cercando di prevedere quale vagone fosse il più sgombro.
L’uomo calvo superò la linea gialla, due passi lenti ma decisi. La punta della scarpa arrivò sul bordo. Poi scomparve.
Emilia non udì alcun suono. C’era solo il ritornello degli ABBA, a ricordarle di essere dolce e ancora giovane. Il flash luminoso finì per occupare tutto il suo campo visivo.
La fede cadde con un tintinnio a terra e finì sotto il vagone in movimento.
 
 
*   *   *
 
 
«Sì, ma, Lù, non puoi capire.»
Scrollava talmente tanto il capo da far credere di essere in preda a delle convulsioni.
«Ci devi venì, una sera di queste. È una figata pazzesca. Ti fanno dei cocktails, hai presente i cocktails più famosi?»
«Beh, sì. Non è che conosca proprio tutta la gamma di cocktails esistenti, ma i più famosi...»
«Lascia perde. Loro li hanno tutti. Sai che vuol dire tutti? Tu gli puoi chiedere quello che ti pare, quello che ti pare veramente, e loro te lo fanno sul momento, manco c’avessero un supermercato sotto il bancone.»
Iniziava a infastidirlo il modo in cui esaltava quel pub. D’accordo, era un posto di fiducia, in zona universitaria, strapieno di ragazze – aveva assicurato Lorenzo – e dai prezzi accessibili, ma detestava la concorrenza. Ne stava parlando ininterrottamente da più di dieci minuti, un lasso di tempo troppo lungo per fargli credere che si fosse dimenticato del suo nuovo lavoro da barista.
«E non costano un cazzo, ti giuro», continuò imperterrito. «Uno Spritz starà sui tre, quattro euro.»
«Okay, ho capito.»
«E guarda che non fanno schifo, eh.» Si ritrovò un indice ammonitore contro. «Tu magari pensi: chissà che ciofeca ‘sta roba che mi versano. Per tre euro sarà tipo piscio, no? E invece!»
«E invece!»
«No!» terminò trionfante.
Lo aveva raggiunto in città universitaria. Ad uno dei due cancelli principali, Luca si era sentito un intruso. Li aveva attraversati ugualmente e non aveva incontrato difficoltà nel raggiungere la Facoltà di Scienze Politiche. Dal momento che era in anticipo, ne aveva approfittato per vagare nel piazzale, sbirciando con sospetto il profilo della Minerva. Chissà se era vera la leggenda; vera o meno, gli studenti sembravano prenderla sul serio e circumnavigavano la statua, evitando accuratamente di incrociarne lo sguardo, pena la bocciatura.
Mentre si avvicinava di nuovo all’aula in cui Lorenzo faceva lezione, aveva incrociato gruppetti di studenti e studentesse che chiacchieravano distesi sul prato, alcuni decisamente sballati, altri raccolti in una sessione di studio. Lo affascinava quell’ambiente, ma preferiva tenersene a distanza.
Si era accordato con Lorenzo per vedersi alla fine delle lezioni, così da prendere la metro insieme e spostarsi verso il centro. Voleva portarlo ad abbuffarsi di carbonara in una trattoria storica, a Trastevere, di cui Lorenzo conosceva i proprietari, vecchi amici di famiglia.
«Allora,» gli aveva detto appena uscito, «ti piace la nostra università?»
Gli era parso strano che, dopo circa sette anni di quasi totale silenzio, la prima cosa che Lorenzo gli avesse detto fosse stata proprio quella.
«Bella. Molto bella.»
«Bella, ma non balla?» aveva chiesto, aggiustandosi lo zaino in spalla. Infilava solo uno dei due spallacci, lasciando che il borsone rosso gli pendesse da un lato; un’abitudine, questa, che conservava dai primi anni delle scuole medie.
A parte questo dettaglio, lo trovava decisamente cambiato rispetto all’ultima volta che si erano visti di persona. Intanto, si era arreso alla necessità di un paio di occhiali, proprio lui che chiamava tutti i secchioni della scuola quattrocchi; non solo, ma ne aveva scelto anche un paio spesso, di quelli con le lenti squadrate e la montatura scura, che gli rimpiccioliva gli occhi castani e pesava sul naso a patata. Le lentiggini erano decisamente diminuite e anche l’estrema esilità che lo contraddistingueva da bambino era stata stemperata con delle braccia un po’ più muscolose e spalle larghe. Se lo ricordava preadolescente che sgambettava in campo dietro al pallone, con una voce un po’ nasale e stridula, decisamente fastidiosa; t-shirt larghe, dai colori accesi e qualche stampa divertente o frase irriverente sopra – proprio come sui diari che portava in classe.
Adesso girava con delle polo piuttosto aderenti, monocrome. Il piccolo ragazzino di un tempo lo aveva raggiunto in altezza e cercava di darsi un tono. Perfino il taglio di capelli era stato rivoluzionato e dalla spazzola che si faceva spesso d’estate era passato ad una capigliatura più folta e lunga, con un gran ciuffo castano a tagliargli la fronte ampia.
«Bella, ma non fa per me» aveva decretato Luca. «Non è il mio ambiente. Odiavo studiare, non tornerei sui libri nemmeno pagato.»
Erano arrivati sulla banchina della metro, che pian piano iniziava a riempirsi di gente.
«Questo è uno degli orari di punta», spiegò Lorenzo. «Speriamo di trovare qualche posto libero.»
Luca iniziò a sentirsi a disagio. C’era qualcosa, in quell’ambiente che odorava vagamente di muffa, a renderlo irrequieto. Cosa fosse, non avrebbe saputo esprimerlo a parole, ma era la sensazione che stesse per verificarsi uno spiacevole avvenimento.
Si rimproverò da solo per il modo in cui si autosuggestionava: prima con il videogioco, adesso con questo. Doveva davvero imparare a stare calmo e presente nella situazione attuale.
Calò il silenzio, riempito solo da una musichetta jazz in sottofondo e dalle news date dal monitor di fronte a loro. Una perturbazione aveva colpito il Nord Italia, provocando delle alluvioni e ulteriori danni. Il giornalista di turno mostrava agli spettatori il terreno fangoso alle proprie spalle, poi intervistava un agricoltore trentino che si dichiarava preoccupato sul prossimo raccolto, rovinato dalla grandine.
A Luca sembrava strano che due come loro non avessero niente da dirsi, dopo sette anni.
C’era un mondo inesplorato, anzi ben tre mondi da approfondire: il suo, quello di Lorenzo e quello che si ritrovavano a condividere adesso. Quello che spettava a loro ricostruire.
Con sua sorpresa, Lorenzo spezzò quella pausa. La parlantina era rimasta un tratto caratteriale.
«Che schifo di musica mettono. Non sopporto la roba che trasmettono alla radio. Si salva giusto qualche stazione», commentò. «Se riesci a prendere la frequenza, ce ne sono un paio che trasmettono musica rock. Ma rock vero, quello delle origini, capito? Non questa roba moscia.»
Luca replicò con un’alzata di sopracciglia: «Sei diventato un esperto di musica?»
«No, figurati», Lorenzo scacciò l’ipotesi come fosse stato un insetto irritante. «Mi piace ascoltare il rock, ma non sono un elitista del cazzo. Poi, non tutto tutto il rock. Diciamo alcune fette. La musica italiana la mastico poco. Tutti fissati con l’indie, adesso. O con il grunge. Si sentono Kurt Cobain reincarnato.»
Dal momento che l’altro era in attesa di una risposta di qualsiasi tipo, Luca si strinse nelle spalle. Teneva lo sguardo fisso sul cartellone indicante gli orari, sulle cifre luminose che avvertivano l’arrivo della prossima corsa. Ancora qualche minuto. La banchina adesso straripava di gente affrettatasi per saltare sul primo vagone disponibile.
«Non ascolto molto la radio, a dire il vero. Preferisco cercare da me la musica che mi piace.»
«Bravo! Ma come diamine fai quando tipo... Quando vai al lavoro ad esempio, come riesci a stare senza lo sfondo della radio?»
«Ho le mie playlist. Come chiunque.»
Lorenzo si accigliò. Sembrava che per lui la radio costituisse una questione di fondamentale rilevanza. «E i podcast», aggiunse Luca, come a volersi discolpare. «Ascolto qualche podcast motivazionale, quando proprio non mi va di scendere dal letto.»
«Ci può stare», concesse l’altro. «Poi, dipende da che stazioni riesci a prendere. Ehi, ma da te, in Svizzera, arrivava qualche stazione? Non mi hai raccontato niente di Ginevra.»
«Zurigo», lo corresse Luca. «Beh, non è che ci sia molto da dire, in realtà...»
«Ah, giusto! Tu eri nella capitale, vero?»
«No, la capitale è Berna.»
«Che cazzo dici? È Zurigo!»
Luca corrugò la fronte, estraendo dai jeans il cellulare nuovo. «Sono abbastanza sicuro che sia Berna, ma diamo un’occhiata.»
«Ma che fai?» Lorenzo gli bloccò un braccio. «Scherzavo, ovviamente. È Berna, certo. Volevo vedere se eri preparato. Allora anche in Svizzera vi insegnano geografia.»
Luca mollò la presa sul telefono, sebbene appena guardingo. L’idea di poter distrarre per un pezzo l’amico con Wikipedia, lo rassicurava. Doveva, invece, star lì a ricercare qualche storiella da raccontare riguardo il suo soggiorno in Svizzera.
L’unica cosa che gli veniva in mente, al momento, era una stanza di mattonelle bianche, un rumore pesante e gracchiante sullo sfondo, la sensazione di avere le gambe e le braccia immobilizzate e il gigantesco collare che portava al collo.
«C’è un mio amico che vive lì...»
Proprio mentre accennava ad Henry, il vocione automatico annunciò l’arrivo del treno. «Allontanarsi dalla linea gialla.» Lorenzo ne aveva rifatto il verso, storpiando le parole e sputacchiando qua e là. «Voglio dire, perché diamine continuano a dirlo, se poi la gente fa come vuole? Se sta arrivando la metro, col cazzo che mi spingo verso il muro e lascio il posto agli altri.»
Stava di nuovo gesticolando con una vivacità ed energia eccessive rispetto alla situazione.
«Insomma, questa è la metropolitana di Roma, mica siamo a... Che ne so, in Svizzera, appunto!»
A Luca sfuggì un mezzo sorriso, mentre con lo sguardo cercava il familiare profilo del treno.
La sensazione di disagio di poco prima, anziché diminuire era aumentata in modo spropositato.
Finalmente la testa del treno sbucò dalla galleria, ma Lorenzo non aveva terminato la propria orazione: «Questa è la giungla! Tutta Roma è così. Vallo a chiedere a un altro romano: scusi, ma che lei si allontana dalla linea per prendere la metro? Quello ti risponde: cor cazzo! E sai che c’è? C’ha ragione». L’ultima parola venne caricata il triplo del necessario, aumentando il numero di “g” in maniera esponenziale.
Quando era piccolo, Lorenzo non presentava alcuna inflessione dialettale; anzi, a scuola e con i genitori dei suoi amici, era sempre sotto i riflettori per la sua parlata perfettamente pulita. Dal momento che entrambi i genitori parlavano un romano appena accennato, era normale che fosse cresciuto così.
Luca sospettava che negli anni quella carenza di definizione, quell’asetticità del linguaggio, troppo puro e anomalo rispetto a quello dei loro coetanei, doveva aver avuto un peso nella vita di Lorenzo. Era sempre stato il tipo di persona che aveva un terribile bisogno di affetto e di accettazione.
Non si trattava di una carenza, ma di vera e propria carestia.
«Lorè, io credo che a nessuno venga in mente di superare la linea con il treno in corsa.»
«E invece ti sbagli. Tiè, guarda quel coglione lì davanti. Sì, quel pelato. Secondo te che sta a fa? Vuole fregarci il posto, mi ci gioco quello che ti...»
Fu un attimo.
In seguito i presenti si sarebbero spaccati a metà, tra chi sosteneva che fosse arrivato prima l’uomo e chi invece prima il treno. Sembrava il paradosso infantile dell’uomo o della gallina, ma davanti alle tragedie l’umanità pareva regredire a stadi primordiali.
Che fosse l’uno o l’altro, il corpo del signor Vincenzo Donato, cinquantatreenne coniugato e con due ragazze a carico, impiegato per oltre vent’anni in un’azienda che si occupava di telefonia, venne dilaniato dai vagoni della metro.
Luca rimase in uno stato di shock per un minuto intero, prima di riscuotersi e comprendere veramente l’accaduto. Attorno a lui, si era scatenato il delirio. Gente che urlava, gente che imboccava le scale d’uscita, gente che chiedeva ad altra gente di chiamare i soccorsi.
Anche Lorenzo, che aveva sempre la battuta pronta in canna, ora taceva.
Luca lo scosse per una spalla, incoraggiandolo a cercare soccorsi insieme. «S-sì», deglutì a fatica.
In sottofondo ancora si srotolava la canzone degli ABBA, conferendo alla scena un aspetto ancora più surreale. Che fossero le medicine a conferirgli quel sangue freddo, Luca lo sospettava, ma non ci avrebbe giurato. Si erano presentati altri casi in cui, in passato, di fronte allo shock collettivo, lui era stato l’unico a mantenere una straordinaria calma.
Mentre si faceva spazio tra i presenti, sentì qualcuno assicurare di essere un medico. Un altro sosteneva di aver già avvisato un inserviente, che avrebbe mandato al più presto un’ambulanza, i vigili del fuoco e membri della sicurezza. L’aspetto più agghiacciante, lo sottolineò Lorenzo, quasi gli avesse letto nel pensiero: «Pensa alla gente bloccata nei vagoni. Il tipo ormai è morto, ma tutti gli altri? Cosa dovremmo fare adesso?»
«Testimoniare, immagino. È l’unico aiuto che possiamo dare.»
Poco più avanti sulla banchina, in corrispondenza dell’entrata dalle scale mobili, si era formata una sorta di pozza di gente, una specie di cerchio magico raccolto attorno ad una figura distesa a terra.
Luca intravide una felpa grigia, delle gambe robuste e uno zaino abbandonato vicino al corpo.
Doveva trattarsi di una ragazza, in base agli stralci di conversazione che riusciva a carpire.
C’era un paradosso assurdo tra le due situazioni: le urla insopportabili, stridenti, di chi si accalcava nei pressi dei binari e i sussurri cospiratori di chi osservava, impotente, la ragazza svenuta.
«Ehi, Lù.»
«Mh?»
«Ma non è Emilia Scafi quella?»
Luca si sforzò di ricordare. Quel nome non riesumava alcuna immagine.
«Emilia Scafi, la secchiona della prima B. Era tipo amica di Elena, ti ricordi? Ci sei pure finito in punizione una volta.»
La sua mente venne illuminata da un nuovo lampo. Spezzoni di un pomeriggio autunnale, la pioggia e strati di foglie a scivolare sotto le loro scarpe. Ricordava una matassa di capelli castani disordinati, il giorno in cui aveva inforcato un nuovo paio di occhiali, vantandosene. Gli scarabocchi, i fulmini, la festa a casa di Elena. Adesso che gli tornava in mente tutto, si sentiva inondato di informazioni, travolto da uno sciame di sensazioni indistinte e contrapposte al contempo. L’emicrania stavolta non si limitò a bussare, ma squassò la sua parete cerebrale, pretendendo di essere ascoltata.
«Certo. Emilia» sussurrò. «Come ho fatto a dimenticare?»

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Capitolo 4
*** Capitolo 1. - Parte III ***


Capitolo 1. – Parte III
 
L’occhio del ciclone

 
 
Era immerso nella stesura del suo libro, tende tirate e tè a portata di mano.
Lo aveva adagiato proprio vicino alla pila di testi che consultava di continuo e alle mappe che lui stesso aveva tracciato. Quella odierna si era rivelata una sessione intensiva ma promettente; non aveva fatto altro che scrivere, dalle cinque del mattino – o forse si usava dire cinque di notte? – all’una e poi aveva riattaccato, con solo una breve pausa nel mezzo, dalle tre del pomeriggio fino ad ora. Si poteva ritenere più che soddisfatto.
Stava verificando la correttezza di un paio di passaggi, quando un tonfo sordo lo riportò alla realtà, facendolo sobbalzare sulla sedia.
«Lili, sei tu?»
Un secco “sì” giunse dalla cucina.
Giovanni Scafi trascinò la sedia sul pavimento, provocando un lieve stridio. Quando raggiunse l’isola della cucina, trovò sua figlia intenta a frugare nella credenza. Stava sollevata in punta di piedi, nel tentativo di raggiungere gli scaffali più alti.
Una scatola di corn flakes atterrò sul ripiano del bancone.
«Cosa cerchi, tesoro?»
«La mia tisana. Non è possibile che abbiamo finito tutte le scorte.»
Hai finito” la corresse mentalmente lui. Evitò di puntualizzare.
«Hai provato a cercare dietro lo zucchero? Ogni tanto finisce lì.»
Lei, per tutta risposta, sbatté una confezione di biscotti al cioccolato sul bancone.
«Ho cercato ovunque. Questa è l’ultima.»
Giovanni tentò un tono condiscendente. L’avrebbero ricomprata senza problemi, magari le sarebbe toccata un’attesa di qualche giorno, ma niente di irrimediabile: la loro erboristeria di fiducia era sempre stata efficiente nelle ordinazioni.
Emilia, però, non parve trovare requie. Continuava ad estrarre e a riporre pacchi di pasta, caffè, farina, barattoli di sale, marmellate e altri biscotti. Ogni alimento veniva quasi conficcato sulla superficie di marmo e le sue mani tremolavano nel tentativo di afferrare chissà quale oggetto.
«Lili, è successo qualcosa?»
Avendo ricevuto un lungo silenzio in risposta, Giovanni Scafi si appollaiò su uno sgabello e congiunse le mani. «Sai, oggi sono riuscito a progredire molto con il libro.»
Emilia tacque. L’unico cenno di attenzione al discorso fu un’alzata di sopracciglia.
Non cessava di trafficare con un barattolino multicolore.
«Siamo arrivati al terzo capitolo. Devo trovare un titolo accattivante... Senti se ti piacciono questi.»
Estrasse dalla tasca della tuta un foglietto piegato in quattro e iniziò ad enumerare le idee appuntatevi. Emilia aveva messo a scaldare un bricco pieno d’acqua e, appoggiata ad uno spigolo del tavolo, osservava imbambolata le fiamme azzurrognole che si sollevavano dal gas.
Quando suo padre ebbe terminato l’elenco, gli parlò senza distogliere lo sguardo dai fornelli.
«Sono tutti terribili», avrebbe voluto rispondergli. Ingoiò invece il rospo e disse soltanto: «Il quinto mi sembra il più convincente».
«Uno, Nettuno e centomila
L’altra annuì. «È simpatico, anche se non so quanto dei ragazzini delle elementari possano coglierne l’ironia.»
«Sì, ma... L’unico dubbio è: per cosa stanno quei centomila?»
Emilia scrollò le spalle: «Questo lo devi sapere tu. Sei tu l’astronomo, fra noi due».
C’era un’insolita delicatezza nei gesti compiuti da sua figlia mentre versava l’acqua calda in una delle sue tazze di ceramica preferite. Era un rituale che assomigliava ad una cerimonia del tè.
Le braccia della ragazza divenivano più resistenti, le dita smettevano di tremare, mantenendo la presa sulla tazza ben salda. La minuzia con cui posizionava tovaglioli, cucchiaini, filtri e piattini lo affascinava. Sarebbe stato capace anche lui di preparare una bevanda così sciocca – aveva dimenticato quante volte lo aveva fatto – ma mai con quella stessa ossessiva gestualità.
Teneva le ciocche più folte domate dietro alle orecchie e il paio di occhialoni da vista appoggiato sul tavolo: tutto doveva essere perfetto, dal dosaggio alla temperatura al tempo d’infusione.
Appena il rituale fu terminato ed Emilia ebbe preso un sorso della bevanda, suo padre riformulò la domanda di poco prima: «Cos’è successo?»
L’altra abbassò le palpebre. «Ho perso i sensi.»
«Cosa? Quando?» Suo padre era scattato in piedi. «Sei ferita?»
«Sto bene, pa’, tranquillo. Ero in metro, deve essere stato un calo di zuccheri.»
Sorseggiò altra tisana, assaporando il retrogusto di fragole e frutti di bosco. La dolcezza era stemperata dal sapore deciso della menta e accompagnata da un fine odore acre, come di cedro.
Era la sua preferita in assoluto, di produzione artigianale e difficile da reperire sul mercato.
«È stata una giornata molto intensa. Mi sento già indietro con tutte le materie.»
«Forse dovresti sospendere le ripetizioni, se in questo momento non riesci...»
Emilia gli fece cenno di disapprovare. «Non posso abbandonare i miei studenti così, senza preavviso. Troverò un altro modo per incastrare tutto.»
Si avviò verso la propria camera, lasciando una carezza soffice sul maglioncino azzurro di suo padre. «Va tutto bene, davvero. Ho solo bisogno di riposare.»
Qualcuno, in camera sua, aveva dimenticato la finestra aperta. Le tende color panna con i ricami a forma di margheritine svolazzavano al vento, ingrossandosi e sgonfiandosi, fino a coprire alcuni quaderni dimenticati in un angolo. Le pagine del calendario da tavolo frusciavano come impazzite.
Richiuse le ante, così come la porta, per poi adagiarsi a peso morto sul materasso.
Profumavano di pulito, di bucato appena steso. Emilia aveva ad associare quel buon odore al sapone di Marsiglia, da quando lavava da sé i propri indumenti. Sospirò piano, sentendo la tensione defluire dal suo corpo. Un legamento, forse il braccio, scricchiolò debolmente.
Gli eventi di quella mattina e del pomeriggio sembravano parte di un sogno oppure avvenuti anni prima. La corsa in treno verso casa l’aveva vissuta in trance, senza accorgersi veramente di quello che accadeva attorno a lei. Il paesaggio fuori dal finestrino, accartocciato in una chiazza indefinita, in una macchia multicolore, aveva risucchiato anche l’interno del regionale; la stoffa dei sedili, il poggiatesta e gli indumenti dei passeggeri. Le pareva tutto un gran frullato privo di senso.
Il viaggio verso la stazione, l’attesa sui sedili di marmo ai bordi dei binari, l’ingresso sul treno e la sua discesa, nonché i venti minuti di camminata per raggiungere la propria abitazione si erano svolti in un tempo terribilmente veloce e insieme estenuante, dilatato. L’unico pensiero che le martellava in testa riguardava la morte di quell’uomo, quel povero uomo di mezza età che si era trascinato in metro per l’ultima volta. Non riusciva a farlo andare via, nonostante gli sforzi.
Chissà quanto ci sarebbe voluto per cancellare dalla retina l’immagine di quel fagotto d’impermeabile che si volatilizzava nel nulla.
Emilia si tirò a sedere sul letto, recuperò la tazza dal comodino e trangugiò un altro sorso rovente di tisana. Sperava che quello potesse bastare a sciogliere il magone che le opprimeva il petto.
E la figura di merda che aveva fatto...
Com’era successo? Non le capitava di svenire da anni, ormai.
Raccolse un cd dalla custodia trasparente e lo inserì nel vecchio stereo che teneva accanto al letto.
La musica dei Beatles cominciò a diffondersi, lambendo dolcemente le pareti. Era sicura che suo padre la potesse sentire dal salone, ma non sarebbe stata Let It Be a disturbare la sua inventiva.
Anzi, magari avrebbe incoraggiato la vena creativa che tanto cercava di stimolare.
Una canzone. Era cominciato tutto da lì, da una semplice canzone.
L’esperienza che si collocava solo al secondo posto nella sua classifica delle figure di merda era iniziata con una delle canzoni romantiche più famose: Unchained Melody.
 
 

La prima cosa che aveva sentito, una volta ripresi i sensi, era stata la colonna sonora del film Ghost.
Uno dei classici che meno apprezzava in assoluto – giudizio applicabile tanto al film che alla canzone. Era certa di andare controcorrente, ma poco le importava. Quel film aveva provato a vederlo almeno tre volte e puntualmente aveva finito per addormentarsi, arrivata nemmeno a metà.
Giulietta, invece, lo adorava. Era un’amante dei film romantici e, per paradosso, più strappalacrime erano, più lei era contenta. Non era raro che le scrivesse, qualche sera in cui doveva rimanere a casa, chiedendole “il film più da piagnisteo” che conoscesse. Emilia era certa che ci fosse una vena masochistica sotto: pareva che ci godesse a ritrovarsi in lacrimoni, circondata da scatole di fazzolettini e con gli occhi talmente arsi dal pianto da non riuscire più ad aprirli.
Non era esattamente uno spettacolo vedere Giulietta piangere. Chi la conosceva solo in maniera superficiale, l’avrebbe inserita a pieno titolo nella classifica delle principesse Disney.
A Emilia era bastato assistere ad un pianto a fontana, legato a problemi di cuore, per revisionare l’immagine che aveva di lei.
Se si fosse trovata Giulietta al suo posto, svenuta in metro nel bel mezzo della banchina, a rinvenire sulle note di Unchained Melody, vi avrebbe trovato un nonsoché di poetico.
Eppure era toccato proprio a lei e il primo volto che si era ritrovata davanti, quando era riuscita a schiudere le ciglia, era stato quello di cartapesta di una signora che si avvicinava forse ai novanta.
Non ci stava capendo niente: dove fosse, con chi fosse, cosa fosse quella musica d’accompagnamento. Per un attimo credette di trovarsi in un film. Poi capì che era impossibile e si autoconvinse che stava vedendo un film.
«Signorina, dovrebbe restare distesa.»
Emilia realizzò che il suo corpo si stava muovendo da solo, in autopilota. Provava a sollevarsi, puntellando i gomiti sul pavimento. Il tentativo di mettersi almeno seduta non andò a buon fine.
La novantenne cincischiò qualcosa, rivolta agli altri astanti. Fu allora che la ragazza si accorse anche del contorno. Riconobbe gli interni della metropolitana, il vagone fermo alla fermata, il capannello di gente attorno a lei e il viavai di altre persone che si angustiavano per qualcun altro.
Ancora non riusciva a comprendere proprio tutto, ma pensava di aver colto il quadro generale.
Soprattutto aveva ben capito tre cose: era a terra, era svenuta e tutti la osservavano. Doveva alzarsi e andarsene il prima possibile.
«Dovrebbe stare giù», suggerì un altro sconosciuto, stavolta con tono autoritario.
«Sto bene», mugugnò lei in risposta. E, per dimostrarlo, si accovacciò sui talloni, provando a rimettersi in piedi con un saltello.
Giusto il tempo di raggomitolarsi, forzare le ginocchia, e capitombolò di nuovo a terra. La testa le vorticava ferocemente in un turbine incessante. Era come ubriaca.
«Stia giù», le ordinò un uomo, premendole le mani sulle spalle al rinnovato tentativo di sollevarsi.
«I paramedici stanno arrivando.»
I paramedici? Quali paramedici?
«Ma quali paramedici, io sto benissimo», bofonchiò Emilia.
Sentiva la bocca impastata. Ci fu un ulteriore trambusto e due figure si fecero largo a spallate.
«Voi la conoscete?»
 Era stato l’uomo dal piglio autoritario – per non dire violento – a parlare.
«Sì, siamo suoi vecchi compagni di classe.»
Emilia, che aveva richiuso gli occhi, li sbarrò all’istante. Ad una delle figure di merda più colossali avevano dovuto assistere anche dei conoscenti, ovviamente, altrimenti che divertimento c’era?
E mentre dagli altoparlanti continuava a sgorgare la voce del cantante, che diceva alla sua amata di aver bisogno del suo amore, la implorava di aspettarlo perché sarebbe tornato a casa, la sagoma slanciata e lievemente robusta di Luca Bianco fece capolino tra la folla di sconosciuti.
A Emilia quasi venne un infarto.
Era lui.
Non c’erano dubbi che fosse lui. Chi altri sarebbe potuto essere?
Eppure le pareva così assurdo, così incomprensibile, così incongruente con tutto il resto, che la ragione rifiutava di accettare quegli eventi per veri.
Luca Bianco, direttamente dal repertorio degli anni bui delle medie, era appena ricomparso.
Da quanto fosse tornato dalla Svizzera non ne aveva idea, né di come potesse essere finito proprio in quella curiosa coincidenza. Era come veder riapparire un fantasma.
Per poco non svenne di nuovo.
Per quanto le paresse impossibile, era proprio Luca Bianco a venire verso di lei, ad inginocchiarsi accanto alla sua testa e a recuperare lo zaino che era scivolato qualche metro più in là.
Che razza di scherzo del destino era mai quello?
«Emilia, stai bene?»
Ricordava anche il suo nome.
Lei provò a deglutire, la lingua del tutto secca.
«Adesso ti sollevo la testa, d’accordo?»
Senza attendere una risposta, le raccolse il capo e, alzatolo di pochi centimetri da terra, vi fece scorrere sotto lo zaino. Accompagnò delicatamente la testa, fino a sistemarla sul tessuto della cartella. «Va meglio così?»
Emilia sentiva di dover rispondere, essendo la terza domanda di fila a cadere nel vuoto.
«Sì, grazie», riuscì a dire in un soffio.
La mano di Luca era ancora adagiata fra i suoi capelli, le dita sottili e ruvide intrecciate alle spirali dei ricci tutti incatenati fra loro. Aveva uno sguardo dolce, uno sguardo che l’aveva colpita fin dai tempi delle medie. Le iridi nocciola conservavano un nonsoché di liquido, i capelli erano ancora di quel biondo cenere con delle ciocche dorate; gli zigomi, invece, ormai denotavano il passaggio ad un’età più adulta, marcando delle ombre definite attorno agli occhi. Aveva spigoli duri, aguzzi, che sotto il fascio di luci elettriche risultavano ancora più affilati, ma mai aspri o spiacevoli.
Fu in un secondo momento che Emilia si accorse dell’altro ragazzo, fermo sulla banchina a sistemarsi la montatura sul naso: Lorenzo De Cesare. Quel nome risvegliava in lei una serie di nomignoli, prese in giro e diverbi.
«Sono in arrivo i paramedici. Adesso ti misureranno la pressione», le comunicò Luca. «Un calo di zuccheri?»
«Ho come la sensazione che i paramedici avranno ben altro per la testa», osservò Lorenzo, tra l’altro con quella voce lievemente nasale, quasi fastidiosa.
Si comportavano come se nulla fosse, come se fino all’altro giorno avessero condiviso i banchi di scuola, anziché ignorarsi apertamente per la strada alla prima occasione. Quel dettaglio la stordiva più di tutto il resto.
«E non saranno nemmeno gli unici ad arrivare», rincarò il ragazzo.
Luca gli indirizzò un’occhiataccia.
«Sto bene», ripeté lei per l’ennesima volta. Le era quasi venuta a nausea l’espressione. «Davvero, non c’è bisogno di preoccuparsi.»
«Immagino già i giornali quanto pomperanno la cosa: “Collassata in metro a seguito dello shock”. Sarai tipo famosissima.»
Ah, certo. Quasi aveva dimenticato le divertentissime imitazioni che contraddistinguevano il vecchio compagno dall’età di undici anni. Nel tempo erano forse migliorate, ma il tempismo e l’indelicatezza permanevano. 
«Lorè, così non aiuti proprio.»
Il personale del 118 arrivò davvero, insieme ad un drappello della polizia e ad altri soccorritori che si precipitarono a sgomberare le rotaie. La voce metallica dagli altoparlanti, solo per metà udibile, gracchiò un annuncio sulla sospensione della tratta della metro B e sulla navetta sostitutiva a disposizione per raggiungere la stazione.
Le presero pressione e saturazione, le proposero dello zucchero, un caffè, le fecero ingurgitare dell’acqua; chiesero se avesse bisogno di chiamare qualcuno, se volesse essere accompagnata, se si sentisse in grado di rimettersi in piedi.
Emilia disse che sì, grazie, stava molto meglio e avrebbe voluto togliersi di mezzo al più presto.
I due ex compagni rimasero accanto a lei per tutta la durata delle misurazioni, osservando ogni passaggio con interesse da zoo. Lorenzo accompagnò le procedure d’emergenza con delle battute che, anziché stemperare l’atmosfera, gelarono il sangue nelle vene dei presenti.
Per tutto il tempo, l’unico pensiero di Emilia fu una sovrapposizione fra quel momento e un altro, ben lontano negli anni. Si sarebbe fatta cancellare la memoria, se avesse potuto eliminare quel singolo ricordo.
«Sei sicura di voler tornare da sola? Abitavi distante, se non sbaglio.»
Luca la stava interrogando con lo sguardo. Lei era già pronta a imboccare le scale d’uscita e a raggiungere a piedi la stazione ferroviaria, cartella nella mano e occhiali ancora coperti di pioggia.
«Sì, sto un po’ fuori Roma, ma non è un problema. Lo faccio tutti i giorni.»
«Vai alla stazione, quindi.»
«Esatto.»
Avrebbe voluto aggiungere altro, davvero qualsiasi cosa, ma le parole rimanevano incastrate in bocca, proprio sotto la lingua e dietro ai denti. Prima che potessero insistere ancora o trattenerla, Emilia fece un cenno con il mento e si precipitò fuori dalla stazione della metropolitana.
Luca e Lorenzo rimasero a fissarla perplessi.
«Quella non sta tanto bene.»
«E dai, Lorè...»
«Sul serio?»
Lorenzo sgranò gli occhi. Le lenti spesse amplificarono l’espressione d’incredulità, sformandogli il viso fino ad assomigliare ad una macchietta. «Non ti ricordi com’era in classe?»
Luca aggrottò la fronte. Gli eventi della sua pre-adolescenza sembravano più distanti della Svizzera.
«Sempre scazzata, non le si poteva di’ niente.» Ripensandoci, aggiunse: «E pure un po’ infame».
«A me passava sempre i compiti», replicò di getto l’altro. Fu come una botta in testa, un flash luminoso nella completa oscurità del proprio rimosso. D’improvviso lo ricordava e distintamente.
«Sì, ma solo a te. È questo il punto.»
«Che significa? Io me la ricordo gentile.»
Lorenzo si premette un palmo sulla fronte. «Gentile? La Scafi? Ma che cazzo dici
A Luca parve una questione futile. Era passato talmente tanto tempo e poi adesso era diverso: si era sentita male, soccorrerla era un dovere. Altrimenti, quello sì che sarebbe stato da infami.
«No , non ti ricordi com’era.»
Luca inarcò un sopracciglio: «Tu chiaramente sì. E anche molto bene».
«Certo che sì! Ho preso più di una punizione a causa di quella stronza. E poi, mi mette anche un po’ a disagio, se devo essere onesto. Ti ricordi alla festa di Elena?»
«D’accordo, ora basta parlare di Emilia Scafi. Che facciamo? Navetta o andiamo a piedi?»
Alla fine invertirono la direzione e si aggregarono ad una comitiva di un collega di università di Lorenzo. Si prospettava una serata piacevole, ma i quesiti che punzecchiavano Luca, una pulce che lo pizzicava proprio accanto all’orecchio, erano diversi: perché l’incontro con Emilia lo aveva lasciato così sconvolto, al di là delle circostanze? E perché i suoi ricordi erano un “o tutto o niente”? O un’ondata che lo lasciava quasi terrorizzato, sopraffatto, oppure la totale amnesia.
Soprattutto si chiedeva se l’avrebbe più rivista.

 

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Capitolo 5
*** Capitolo 2. - Parte I ***


Capitolo 2. – Parte I
 
I Trattati di Versace

 
 
L’aria era secca e insolitamente calda quella sera.
Con le strade deserte, l’odore insistente di arrosto e mele cotte, il ronzio di qualche televisione accesa, quel venerdì sera sembrava solo l’ennesimo giorno feriale e non il tanto atteso inizio di un week-end da sballo.
Luca si rigirava fra le mani il mazzo di fiori e il vassoio di dolci che sua madre gli aveva affibbiato.
Era ancora convinta che il figlio passasse i fine settimana in compagnia di qualche amichetto che le piaceva, con una composta cena in famiglia con il tovagliolo sulle ginocchia e le posate del servizio buono. Lui glielo lasciava credere, dato che fungeva da sedativo per ulteriori domande.

In effetti, stava andando ad una cena. Aveva solo omesso la parte dei trenta invitati, stipati in un salotto affumicato dalle sigarette – i più audaci avevano portato qualche spinello – e quella dei superalcolici sottratti al minibar del padre dell’ospite.
Luca indugiò ancora qualche istante davanti alla porta d’ingresso. Attraverso l’uscio in noce filtravano i battiti dell’impianto stereo – le solite tre o quattro canzoni straniere che martellavano in discoteca – e da sotto la porta un tappeto di luce.
Mentre lui valutava se disfarsi o meno di fiori e dolci, qualcuno gli strusciò accanto e suonò il campanello. La porta venne aperta e il viso radioso di Elena Costa si materializzò in una nuvola grigiastra di fumo. La sagoma della ragazza, tutta ricci e paillette, si stagliava nella penombra del corridoio, avvolta dall’odore pungente di marijuana. Accolse gli invitati con un abbraccio caloroso, includendo anche Luca.
«Ma che carino, questi sono per me?»
Elena annusò il bouquet; sembrava una principessa uscita per errore da un cartone animato.
«Forza, non state lì impalati. Venite dentro.»

Un’ora più tardi, Luca era rimasto uno dei pochi a non aver toccato neppure una goccia di alcool.
Dal momento che gli invitati si erano moltiplicati, aveva preferito defilarsi in cortile insieme a Lorenzo e ad Alice. Con quest’ultima, in realtà non aveva molta confidenza, ma Lorenzo teneva banco da più di quaranta minuti e non c’era pericolo di essere coinvolti nella conversazione.
Era sufficiente lasciar cadere un monosillabo ogni tanto, per cavarsela.
Osservandola nel corso della festa, Luca aveva notato che Alice, per certi versi, assomigliava ad Elena; entrambe ugualmente inclassificabili sulla scala sociale. Non si trattava di questioni economiche, ma di popolarità scolastica. Sia l’una che l’altra ragazza si trovavano al confine tra ciò che veniva considerato “figo” e ciò che non lo era.

Alice gli stava simpatica, ma aveva il sospetto che piacesse un po’ a tutti in classe: con quel caschetto indomito era una delle poche ragazze a scuola a tenere i capelli così corti e, come diceva sua mamma, il caschetto ti donava solo se avevi un bel viso. Qualche volta aveva sperimentato con delle tinte, ma Luca trovava che il suo colore naturale, quel neutralissimo color castagna, fosse perfetto.
Adesso stava fumando una sigaretta nello stesso modo in cui si mangi un biscotto, mordicchiandone appena i bordi, fingendo di seguire il discorso di Lorenzo sul calciomercato.
Quando il portone d’ingresso venne di nuovo aperto, Luca pensò che si trattasse del fattorino con le pizze, lo stesso che poco prima aveva chiesto informazioni sull’interno in cui abitava la famiglia Costa, ma dovette ricredersi. Scongiurato il pericolo di qualche vicino di casa adirato per i festini abusivi, riconobbe la figura minuta di Emilia Scafi, traballante sugli scalini.
Cercava una ringhiera o un altro supporto a cui aggrapparsi.
«Ah, Elena ha messo Kesha finalmente.»
L’osservazione di Alice fu accompagnata da una delle hit degli ultimi anni, sparata al massimo.
Le note si riversavano in giardino dalle finestre spalancate dell’appartamento al penultimo piano, accompagnate da drappelli di ragazzi che accartocciavano in bocca spezzoni della canzone.
Emilia scese, esitante, gli scalini e si fermò qualche istante come a riflettere. Voltava lo sguardo in tutte le direzioni, in cerca di qualcuno.
«Alza!»
Era un grido uniforme: decine di preadolescenti che urlavano all’unisono e con rabbia di aumentare ancora di più il volume, fino a far tremare gli edifici del quartiere.
TiK ToK non solo sembrava non passare di moda, ma esprimeva le urgenze di quei dodicenni schiacciati tra il bisogno di crescere e il rifiuto di qualunque regola adulta.
Mentre i suoi coetanei ballavano, esultavano e saltavano sul posto con pugni e bicchieri protesi verso la finestra di Elena Costa, nella speranza che quest’ultima si affacciasse, Luca ebbe l’impressione di trovarsi in qualche manifestazione o ad un’arringa un po’ nostalgica dell’Italia passata.
A strapparlo da simili riflessioni fu il braccio con cui Lorenzo lo aveva accalappiato. Messosi in punta di piedi per annullare la loro notevole differenza d’altezza, Lorenzo, nel suo perfetto inglese maccheronico, gli urlò nelle orecchie: «Cds... parties... ow, ow, ow, wooooh!»

«Emilia, che fai?»
Alice guardava interrogativamente la loro compagna di classe.
La diretta interessata pareva risucchiata in un’altra dimensione: l’espressione trasognata, i capelli mossi quasi del tutto sfuggiti alla mollettina che li raccoglieva. Se non si fosse trattato della Scafi, Luca e gli altri avrebbero detto che era appena uscita da una zuffa.
«Cerco... Cercavo il...»
Emilia tentò di mimare qualcosa di incomprensibile con le mani, ma quando realizzò che era tutta fatica sprecata, se ne portò una alle tempie, scuotendo il capo. «Gira tutto», biascicò. «Troppo... Troppo...» Una pausa per deglutire. «In fretta.»
Alice la scortò fino al basso muretto che costeggiava il palazzo e la aiutò ad accomodarsi sul bordo, sorreggendola da dietro. A Luca parve un gesto encomiabile ma strano, data la considerazione che tutti in classe avevano della Scafi.
«Ti senti male?» le stava domandando.
Emilia annuì, allacciando le braccia attorno allo stomaco. La sua voce si spegneva, fievole, sotto il frastuono circostante, eppure non dava segno di resa. Unì le mani a coppa attorno alla bocca, proprio come se stesse riparando una fiammella dal vento, e difese le poche parole che riuscì a pronunciare: «Credo che...»
«Cazzo, non ci credo», gracchiò Lorenzo. «La Scafi ubriaca? È assurdo.»
Alice ridacchiò, imitata da altre due amiche, attirate dalla situazione insolita. Gloria, la più alta del trio, rincarò, facendo notare agli altri che non si poteva essere ridotta in quello stato da sola: qualcuno le aveva sicuramente spacciato dell’alcool per una bevanda innocua o le aveva corretto il drink.
«Hai ragione», confermò Alice. «Ma poi, chi diamine l’ha invitata?»
Fu Lorenzo a rispondere con decisione: «Sicuramente Elena. La Scafi le sta appiccicata come un cagnolino».
«Ah, certo! Allora le avrà fatto un po’ pena.»
Luca, intanto, non aveva distolto lo sguardo dall’oggetto del discorso, che oscillava tra brividi e nausea. Lottava contro la tentazione di abbassare le palpebre e contro la naturale tensione del suo corpo ad afflosciarsi a terra.
Era evidente non solo la sua bassa tolleranza dell’alcool, ma anche la disabitudine a bere alcolici. D’altra parte, cosa ci si poteva aspettare da una ragazza modello, cresciuta da un padre stralunato e da familiari a dir poco apprensivi?

A differenza della quasi totalità di ragazzini che riempiva la festa, Emilia Scafi non aveva probabilmente toccato una goccia d’alcool in vita sua, neppure il solito assaggio di spumante alle feste.
«Stai molto male?»
Emilia alzò gli occhi su di lui con una certa difficoltà, lottando contro le luci dei lampioni che la ferivano e i rigurgiti che le raschiavano l’esofago. Annuì, senza aggiungere altro.
«Vuoi chiamare i tuoi?»
«Luca!»
Lorenzo gli assestò una gomitata, aggrappandosi al suo orecchio: «Ma che stai fuori? A parte che lo sai benissimo che è orfana, quindi sei pure indelicato...»
«Di madre. Orfana di madre, ma un padre ce lo ha.»
«Sì, okay, ma», Lorenzo gli picchiettò un dito contro il petto, «tu lo sai che se qualche adulto scopre del festino, Elena si prende un cazziatone? Anzi, non solo lei, tutti.»
Le tre ragazze continuavano a sghignazzare e, insaziabili avvoltoi, ad infierire sulla malcapitata, chi cercando di indovinare con cosa l’avessero fatta ubriacare, chi annusandone capelli e alito con disgusto, chi invitandola a rimorchiare un perfetto sconosciuto che stava ballando nel mucchio.
E poi c’era Lorenzo, gli occhi da lince che lo minacciavano.
Nel branco c’era un peccato più grave degli altri, forse l’unico che valesse la pena considerare e che era riconosciuto universalmente: il tradimento.

«Tu non sei un traditore, vero?»
Lorenzo non aprì bocca, ma a Luca bastò quel silenzio per comprendere il monito. Non si sarebbe macchiato di tradimento.
«Okay», concesse infine. «Ma non possiamo lasciarla così, Lorè.»
L’amico cambiò immediatamente atteggiamento e con disinvoltura gli assestò una pacca sulla schiena, dicendo: «Tranquillo, ci penso io».
Luca sapeva fin troppo bene cosa significasse quella frase, ascoltata molte volte in passato e che aveva portato ad esiti quasi sempre disastrosi, ma lasciò che facesse a modo suo.
Il ragazzo si accovacciò accanto ad Emilia e, mani conserte, le domandò se volesse stendersi in camera di Elena, per riprendersi dalla botta. Per tornare lucida le sarebbero bastate un paio d’ore – che si dava il caso fosse il tempo prefissato per terminare il festino – dopodiché sarebbe stata libera di tornarsene a casa.
Emilia scosse la testa con risolutezza. Era impressionante come il colorito della sua pelle, di per sé molto chiaro, apparisse slavato, identico ad un lenzuolo stropicciato. C’era del malsano nelle guance esangui e nelle labbra lattee, come se qualcuno le avesse risucchiato tutto il sangue che le scorreva nelle vene e fosse rimasta solo un’imbastitura del suo corpo a sorreggerla.
Era sfiorita.

«Voglio...»
«Vuoi tornare a casa? Ti chiamiamo un taxi.»
Lei dissentì di nuovo, ma Lorenzo sovrastò le sue proteste con una valanga di parole: adesso sarebbe salito da Elena e le avrebbe chiesto di chiamare un taxi per farla riaccompagnare.
Non doveva assolutamente preoccuparsi, il prezzo della corsa lo avrebbero dimezzato, anche se lei abitava fuori Roma e da lì ci sarebbe voluta più di un’ora e mezza per portarla a destinazione. Quella appariva l’unica soluzione sensata.

«Che ne dici?»
Lei rimase a fissarlo in silenzio, apatica.
Gloria ipotizzò che forse “si era impallata”, ma prima che provassero a scuoterla, Emilia fu colta da un conato e, rovesciata in avanti, rigettò buona parte di ciò che aveva assunto in serata sulle scarpe di Lorenzo.
«Oh, che schifo!»
Gli acuti delle ragazze si mischiarono all’immobilità del ragazzo, troppo scosso per reagire in alcun modo. La scena aveva richiamato l’attenzione di qualche altro presente, voltatosi con un bicchiere di coca-cola corretta in una mano e una manciata di patatine al formaggio nell’altra.

Lorenzo sbottò in un’imprecazione, mentre le urla tutt’intorno si trasformavano in risate graffianti, affamate di nuovi scandali e nuove prede da sbranare.
Fu solo quando iniziarono a fioccare insulti che Emilia si forzò ad alzarsi in piedi per uscire dal giardino, oltre il cancello, in una corsa traballante. Nella fuga disperata, si scontrò con dei corpi per lei senza volto, dei birilli impilati sulla via a rendere ancora più difficile la sua uscita di scena. 
«Dove è andata?» domandò Luca.

«Che cazzo ne so! Non me ne frega niente. Ma hai visto come mi ha ridotto le Vans?»
Luca lo ignorò, così come ignorò i commenti feroci e le battutine delle ragazze, focalizzate solo sulla pessima figura della Scafi. Avevano trovato carne fresca per i prossimi due mesi.
«Dove cazzo stai andando, Lù?»
«A cercarla.»
«E mi lasci così?»
Lorenzo spalancò braccia e bocca, incredulo. «Dammi una mano a pulire ‘sto casino, almeno.»
L’altro scosse il capo: «No, scusami. Fatti aiutare da Alice oppure chiedi ad Elena».
Si precipitò sulla strada principale, ma non vedendo nessuno, accelerò ulteriormente il passo.
Erano quasi le sette di sera, ma in quel periodo dell’anno aveva ricominciato a far buio molto presto e i marciapiedi erano rischiarati dalla luce dei lampioni, stridente con gli ultimi bocconi di tramonto all’orizzonte. In quartiere come quello, dove tutti si conoscevano, un evento del genere era clamoroso, eppure nessuno dei passanti che incrociò fu in grado di dargli indicazioni.
Una ragazzina che correva via ubriaca? No, non l’avevano vista.

Luca cercava di tenere d’occhio entrambi i lati della strada. Proprio quando era sul punto di gettare la spugna e tornare indietro, individuò un’informe figura nera, per metà coperta da una siepe. Si era rifugiata nel giardino di un altro comprensorio – il cancelletto, aperto, strideva ad ogni minima ventata – interamente fasciato da siepi basse, ben tenute, che fino alla stagione precedente dovevano essere state rigogliose di fiori. In compenso, due grandi aiuole di marmo torreggiavano ai due lati del cancello, occupate da ciclamini che con le loro testoline fucsia studiavano i visitatori.
Emilia se ne stava carponi sul prato umidiccio, a stento sorretta dagli stecchini che aveva come braccia, la matassa di capelli scuri riversa in avanti. Dagli inequivocabili gorgoglii, Luca dedusse che stava ancora liberando lo stomaco.
Esitò.
Quale sarebbe stata la decisione più giusta?
Forse Lorenzo non aveva tutti i torti a volersene lavare le mani e parcheggiarla in una stanza, in attesa del taxi. Forse aveva solo bisogno di essere lasciata da sola. Soprattutto, come pensava di poterla aiutare, se anche solo l’idea del vomito gli ingarbugliava le budella? Per non parlare dell’odore. Chissà come avevano fatto i suoi genitori a tollerarlo, quando si era beccato quel brutto virus intestinale.

Si ricordò anche di tutte le volte in cui gli era successo di dare di stomaco senza apparente motivo, in seguito ad una delle sue forti emicranie. C’era sempre stato qualcuno a soccorrerlo, mentre Emilia non aveva nessuno, adesso.
Forse essere codardi significava questo: stipare una compagna di classe sul primo tassì, sbarazzandosi del problema, e ignorare una tacita richiesta di aiuto.
Luca osservò la gonnellina a balze che portava la sua compagna, la calzamaglia rosa che ne sbucava fuori, poi di nuovo la chioma che rischiava di imbrattare.
Non indugiò oltre. Con uno scatto era accanto a lei e, chinandosi in avanti, le raccolse i capelli all’indietro, tenendoli lontani dal viso.
Come previsto, Emilia sussultò, ma non riuscì a voltarsi.
Parve rasserenarsi solo riconoscendo la sua voce.

«Sono Luca. Tranquilla, ti voglio aiutare.»
Qualche minuto dopo, che a Luca parve un’eternità, i conati diminuirono e la ragazza riuscì a riprendere fiato. Continuava, però, a tossire di tanto in tanto e quando fu in grado di parlare, lo fece con una venatura roca, consumata. «Mi fanno male i polsi.»

In effetti, le braccia tremavano come trivelle, sobbarcandosi il peso dell’intero corpo.
«Prova a sederti.»
La aiutò a risistemarsi con la delicatezza e l’attenzione che avrebbe riservato ad un neonato.
In quel momento, Emilia gli sembrava spoglia di ogni presunzione, arroganza e intellettualità.
Era fragile e totalmente in sua balìa.
Avrebbe potuto farle credere qualunque cosa, se solo avesse voluto. La ragazza che aveva tutte le risposte del mondo – così si presentava in classe – la secchiona del gruppo, non lo intimoriva come prima. Aveva sempre avuto soggezione di lei, delle sue capacità, del suo aspetto così pulito da brava ragazza, della sua mano, perennemente alzata come un’antenna, in aula. Aveva la lingua biforcuta, dicevano alcuni insegnanti, era una “secchia” sostenevano i compagni, ma a lui in quel momento appariva solo piccola e spaurita.
Il suo mormorio lo riportò alla realtà.

«Ho fatto un disastro.»
«Stai male, non sentirti in colpa. Poteva capitare a chiunque.»
«Sì, ma è dovuto capitare proprio a me.»
L’astio nella sua voce gli fece capire che c’era qualcos’altro sotto. Teneva il mento incollato al petto, lo sguardo basso, evasivo.
«Ehi,» le posò una mano sulla spalla, incerto, «va tutto bene. È stato un momento così, ma è passato ora».

Emilia scosse il capo. «No, non è passato. Questa è esattamente una di quelle cose che non passerà mai. Ne parleranno per anni e anni e anni...»
Sentiva che avrebbe dovuto contraddirla, giusto per alleviare una parte di quel senso di colpa così ingombrante, ma non ci riuscì. Era stato sempre un disastro nel consolare le persone.
Quando sua madre scoppiava in lacrime, non sapeva mai cosa dire o fare, si sentiva goffo e di troppo; così, preferiva rintanarsi nella propria stanza e aspettare che il ciclone si calmasse.
Tutto ciò che riuscì a proferire fu: «Mi dispiace».

Il silenzio si trascinò per alcuni minuti, prima che Emilia si decise a parlare di nuovo.
«Grazie. Non so ancora perché lo hai fatto,» aggiunse, «ma grazie.»
«Figurati.»
La ragazza parve riflettere su un altro aspetto della sua tragedia personale.

«Ho rovinato le scarpe di Lorenzo.»
«Ne voleva comunque un nuovo paio», sdrammatizzò lui. «Se ne farà una ragione.»
Emilia accennò una risatina amara: «Gli ho dato un pretesto, allora».
«Esatto. Altrimenti, le pulirà e basta. Pensa che vuole sempre dei vestiti nuovi, lui, ma alla fine non riesce a disfarsi di quelli vecchi, anche se non gli entrano più.»

«Un ossimoro», commentò lei.
Stavolta Luca preferì tacere. In quei due anni ancora non aveva ben capito il significato degli ossimori. Quando li trovava nelle analisi del testo dei manuali, lasciava l’esercizio in bianco e poi chiedeva ai genitori di finire i compiti per lui. All’inizio lo facevano pure, poi si erano tirati indietro e lui era stato costretto a ripiegare proprio su Emilia, che in genere la mattina, appena arrivata in classe, gli cerchiava gli ossimori in rosso.

Luca ebbe per un attimo un moto di stizza: lo stava provocando? Voleva umiliarlo?
La ragazza, però, guardava per terra, davanti a sé, inespressiva. Sembrava solo spenta.
«Vorrei non aver mai accettato l’invito di Elena.»
Forse sarebbe andata diversamente, rifletteva Luca. Forse avrebbe preservato la sua reputazione da incorruttibile cocca della prof, o forse sarebbe successo in un’altra occasione, diversamente ma con lo stesso risultato.
Negli ultimi tempi si era fissato con l’Effetto Farfalla e gli piaceva rigirare le situazioni nella propria mente, capovolgere gli eventi eliminando solo un elemento dall’equazione.
Ad esempio, chissà cosa sarebbe successo, se Emilia Scafi avesse trovato il cancello chiuso o se avesse combinato quel pasticcio davanti agli occhi increduli di chi potava quelle siepi con tanta dedizione. Chissà cosa sarebbe accaduto, se lui non le fosse corso dietro e soprattutto se non l’avesse trovata.
Le tese una mano, aiutandola a rimettersi in piedi.
«Dai, andiamocene prima che i proprietari ci becchino.»



 
Luca richiuse le ante della finestra.
Quell’episodio gli era tornato in mente, senza apparente ragione. Forse era stato l’inaspettato incontro in metro, ma rivedere Lorenzo prima ed Emilia poi sembrava aver aperto un vaso di Pandora nel suo cranio.
Stava finendo di riordinare la camera. Lo scatolone addossato alla parete era per metà vuoto e gli occhi pizzicavano con tutta quella polvere in giro. Le urla dalla stanza accanto trapassavano il muro. Si ricordò del perché voleva anticipare il turno della serata. Doveva smetterla di perdersi in fantasie nostalgiche sui dodici anni: lui era lì, presente, di nuovo nella vecchia abitazione e aveva delle responsabilità, verso se stesso e verso i suoi familiari. Emilia Scafi restava relegata al passato, mentre Lorenzo era andato avanti con la sua vita e non era più una persona di un tempo.
Lui stesso era cresciuto, fortunatamente, in tutti quegli anni. Allora perché si comportava come un insetto rimasto impigliato in una tela di ricordi?
Uscì di casa e, ignorando il richiamo della madre, si tirò la porta dietro.




Il manuale era un volumetto rosso, dalla copertina lucida, con i titoli in Arial e sottotitoli di un giallo canarino. In primo piano spiccava una foto dell’Acropoli ateniese.
Le prime cinquanta pagine erano ricche di evidenziazioni, ma solo il primo capitolo poteva considerarsi un campo di guerra: sottolineature a matita, ghirigori, asterischi, annotazioni e disegnini vari occupavano tutto lo spazio residuo.
Emilia tornò sulla definizione in grassetto, sottolineata talmente tante volte da aver bucato il foglio. Non le entrava in testa, proprio come le date. Una volta, l’anno precedente, all’esame di civiltà italiche preromane, la professoressa le aveva chiesto perché avesse scelto un corso di laurea come quello, pieno zeppo di date, e che si basava sull’attività mnemonica degli studenti, se non riusciva a mandare a memoria nemmeno gli eventi principali.
Alla fine l’aveva promossa, perché l’esposizione era impeccabile e perché le stava simpatica dagli interventi fatti in aula, ma non aveva tutti i torti. Emilia sapeva che la propria scelta conteneva una molteplicità di contraddizioni, ma per ricordarsi date, le aveva provate tutte.
Suo padre diceva che pretendeva troppo da se stessa, ma era difficile concordare con un uomo di mezza età che sembrava avere davvero “la scienza infusa”, come si soleva dire. Le informazioni gli approdavano comodamente nel cervello, all’apparenza senza la minima difficoltà.
Peccato che quella genialità fosse stata esclusa dall’eredità paterna: a lei erano toccati solo un fisico robusto, ingombrante, e una pessima capacità nei rapporti sociali.
«Sempre a studiare, ma non ti riposi mai, tu?»
L’ombra proiettata da Giulietta Fontana entrò nel suo campo, oscurando la riga, laddove stava tenendo il punto. Era come al solito curata e ordinata, i capelli lunghi fino alle spalle brillavano della nuova tinta lunare e il cappotto, a fantasia Principe di Galles, le conferiva un nonsoché di professionale. Emilia notò che indossava anche il paio preferito di stivali, quelli neri e alti, che le abbracciavano le gambe fino al ginocchio. Ad occhio esterno sarebbe parsa in ghingheri per un evento speciale, ma lei, che aveva fatto l’abitudine a vedere l’amica in tenuta formale, non si stupì.
Sollevò il libro da terra, dove si era acciambellata come un gatto.
«È un mattone di novecento pagine. Chi si ferma è perduto.»
Giulietta lanciò uno sguardo al titolo. Archeologia greca: l’origine di un mito non prometteva niente di buono. «Non ti invidio, ciccia.»
«Posso?» domandò, poi, accomodandosi a sua volta sull’erba.
Emilia le fece spazio, sebbene ce ne fosse in abbondanza sul pratone al centro della città universitaria. Gettando la testa all’indietro, inspirò a pieni polmoni l’aria autunnale: lo scroscio delle foglie sul terreno, il baccano di gruppetti studenteschi vicini a loro, il dolce scorrere delle ruote d’automobile sull’asfalto, che sgranocchiavano ciottoli.
«Questo è l’esame di cui mi parlavi?»
Giulietta aveva estratto dalla borsa, firmata Valentino, un portapranzo ermetico che scimmiottava un bentō e lo stava aprendo con delicatezza, prestando attenzione a non sporcarsi con il poco olio usato come condimento. Come ogni giorno, preferiva portarsi il pranzo da casa, per contare le calorie ed evitare gli sprechi. Emilia attese che rimuovesse il coperchio per una conferma, ma sapeva già cosa aspettarsi: il solito riso insipido, scondito, con verdure al vapore tritate sottili e un frutto.
«Sì,» sospirò Emilia, «è Archeologia e Storia dell’arte in Grecia. È del primo anno, spero di riuscire a liberarmene prima possibile.»
L’altra si limitò ad annuire, estraendo le posate dal cellofan. «Immagino che noia. Io volevo spararmi, quando facevamo storia greca al liceo, e tu devi sorbirtela di nuovo. Ma poi, queste cose vi serviranno davvero? In futuro, intendo.»
Se l’era chiesto un milione di volte, se fosse necessario tutto quello sforzo per sentirsi meglio – con se stessi, con gli altri, con il mondo che si sarebbe ritrovata ad abitare di lì a tre o quattro anni –  ma dato che aveva scelto una triennale in archeologia delle civiltà classiche e medievali, qualcosa ci avrebbe pur fatto con tutte quelle nozioni.
«Immagino di sì.» Si corresse:« Spero di sì».
Giulietta la studiò di sottecchi. «Hai bisogno di una pausa», decretò infine.
Quasi li avesse evocati per errore o per volontà, tre ragazzi – due in giacca di pelle, uno con la felpa rossa – si avvicinarono a passo deciso. In controluce era difficile distinguerne i volti, ma la voce di Lorenzo De Cesare giunse più chiara e squillante di qualunque altro indizio.
«Ehi, Giuls, come vieni, poi, sabato sera? Ti serve uno strappo?»
La diretta interessata li salutò con la mano, chiamandoli per nome ad uno ad uno.
«No, Lorenzo, grazie. Andrò in macchina. A proposito, mi ripeti l’indirizzo preciso di Versa?»
Lorenzo estrasse il cellulare dalla tasca posteriore dei jeans. «Aspetta, te lo mando.»
Di Emilia parve accorgersi solo in un secondo momento, ma dopo una prima occhiata disinteressata, tornò a guardarla con stupore. Sapeva che la sua amica la frequentava da un annetto –  sebbene non se ne spiegasse la ragione – ma incontrarla due volte in un lasso di tempo così ristretto lo destabilizzava. Pensò a cosa fosse più naturale fare e alla fine si decise a rivolgerle un saluto.
«Okay, allora... Ti è arrivato il messaggio?»
Giulietta annuì, mostrandogli lo schermo.
«Perfetto. Ci vediamo sabato, allora. Mi raccomando, porta qualche amica fregna
«Lorenzo, quante volte devo ripetertelo? Non c’è assolutamente un’unghia di possibilità che una delle mie amiche venga da Versa e, comunque, non ti degnerebbero della loro attenzione.»
Lui le puntò l’indice contro, iniziando ad allontanarsi con il resto del trio. «Ne riparliamo.»
Giulietta si mostrò serafica: «Certo, ma la realtà rimarrà invariata».
Quando i ragazzi si furono dileguati, la colse un’illuminazione. Si voltò di scatto verso l’amica e con un’aria complice, chiese: «Tu lo conosci Andrea?»
Emilia aggrottò la fronte. «Andrea... Chi?»
«Andrea Versace, il fratello di Diana. Lei era iscritta al nostro liceo, mentre lui è di un paio d’anni più grande, ma ha cambiato facoltà un centinaio di volte. Adesso sta terminando la triennale in Economia, credo, o Management di qualcosa.»
Man mano che Giulietta ne tratteggiava il profilo, l’altra realizzò di chi stesse parlando.
Lo conosceva, eccome, ma ad inizio anno aveva giurato a se stessa di tenersi alla larga da quel giro. Le aveva bollate come persone tossiche e, per quanto Giulietta faticasse a vedere del male nel prossimo, faticava a credere che le scivolasse tutto addosso.
«Sabato dà una festa a casa sua», proseguì la ragazza. «Stacca la spina e vieni con noi.»
Anticipò qualunque obiezione che Emilia stava per accampare, attingendo al lungo repertorio.
«Ti ci porto io, non devi pensare a niente. Questo e la festa di Halloween a casa di Elena Costa.» Sembrava che stesse partecipando ad una trattativa. «Due weekend di pausa e poi torni alla tanto amata archeologia.»
L’altra provò a replicare, ma Giulietta la zittì, agitando la forchetta in modo plateale.
«Tre giorni in totale. Sei prenotata, punto e basta.»

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Capitolo 6
*** Capitolo 2. - Parte II ***


Capitolo 2. – Parte II
 
I Trattati di Versace



 
L’appartamento dei Versace si trovava nel cuore del quartiere della Vittoria.
Al penultimo piano di una palazzina da poco riverniciata di bianco e posizionata in un punto nevralgico per la movida, circondato da ristoranti, bar e pub.
Trovare parcheggio in quelle zone era stata un’impresa, avevano dovuto fare numerosi giri intorno al palazzo, per poi rassegnarsi a lasciare l’auto più lontana e a farsi venti minuti di camminata.
Fortunatamente, l’aria ottobrina era smorzata da un vento caldo e insolito, che rastrellava le foglie dal marciapiede, creando dei mulinelli che incantavano i passanti.
La prima cosa che aveva colpito Emilia, una volta che Giulietta aveva citofonato, era stata l’incredibile estensione dei balconi: alcuni occupavano tutta una facciata, altri correvano tutt’intorno al perimetro dell’edificio. Di così ampi non ne aveva mai visti. Dalle sue parti le abitazioni monofamiliari avevano qualche balconcino, un affaccio sulla strada o sul giardino, ma null’altro. Quando lo aveva fatto notare a Giulietta, lei non era riuscita a trattenere una risata.
«Ciccia, un balcone di quelle dimensioni, in questa zona, è il minimo.»
C’era anche un attico, ma del tutto differente da quello del palazzo di Elena Costa. Dalla strada si scorgevano file di luminarie attaccate al muro a mo’ di festone, ma, a parte quello, nient’altro.
Rampicanti si aggrappavano ai tralicci in ferro, eretti quasi a toccare la notte, e si curvano in parte sul capo dei proprietari, nascondendo la terrazza al resto del mondo. Quanto le sarebbe piaciuto avere un angolo di paradiso come quello, in casa propria; un’oasi che proiettasse fuori dal tempo e dagli occhi indiscreti dei vicini. Emilia aveva riflettuto su come l’avrebbe sfruttato, magari attrezzandolo con una sdraio e un tavolino, per potervisi piantare in estate a leggere, a scarabocchiare, a godere solo del cinguettio degli uccelli e dell’illusione di trovarsi ai Tropici.
Poi, aveva abbassato lo sguardo sul quarto piano e individuato il balcone dei Versace.
Dal bordo traboccavano fiori e ancora piante rampicanti impreziosite da gelsomini. Poteva sentirne l’odore dolciastro fin lì.
Quello era stato l’oggetto del suo interesse dal momento in cui aveva messo piede in casa Versace, nonché il suo attuale alibi, per rifugiarsi fuori dal caos dell’appartamento.
Il salotto, benché enorme, le era sembrato un luogo ostile e affollato, così come tutti gli altri ambienti, compreso il gabinetto: sulla soglia si erano piazzati due o tre ragazzi che scoppiavano in risate fragorose come fuochi d’artificio, rischiando di rovesciare sul parquet le birre.
La birra, quella dannata birra. Che cos’aveva poi di tanto speciale da dover essere onnipresente?
Gliel’avevano offerta almeno una venticinquina di volte da quando lei e Giulietta avevano fatto il loro ingresso, ma se l’amica veniva lasciata in pace perché notoriamente astemia, di Emilia non sembravano fidarsi e, preoccupati nel vederla senza un drink in mano, le riproponevano una bottiglia di Corona.
Così, adesso se ne stava sul balcone, appoggiata al parapetto in muratura, sentendosi una cretina con in mano un bicchiere di Coca-Cola, che ancora non aveva toccato.
Giulietta aveva provato a trascinarla dentro, dieci minuti prima, ma con scarso successo. La scena si ripeteva identica: lei che si incollava allo stipite, Giulietta che la tirava verso il centro della stanza, il commento non richiesto di qualche sconosciuto sull’abbigliamento della sua amica – definita “provocante, ma non volgare” – e, di conseguenza, sul suo maglioncino senape, che spiccava molto.
La carnagione chiara e bla bla bla, tutte quelle cose su Biancaneve e i Sette Nani, la battuta sui nani e Biancaneve, lo volevano un pezzo di pizza? E una birra?
Poi, Diana o qualche altro conoscente si accaparrava la piena attenzione di Giulietta e lei coglieva la palla al balzo per la propria ritirata. Scivolava dietro il divano, strusciava contro la porta, indietreggiava fino alla camera degli ospiti, sfiorava un oggettino o due per fingersi interessata e poi approdava in salvo sul balcone.
Emilia si rigirò la Coca-Cola tra le mani e si decise a sorbirne un po’, lasciandone a sufficienza nel bicchiere per la sua copertura.
L’intento di staccare la spina le aveva solo causato più angustia, per lo studio e per il suo pessimo rendimento sociale. Prima di uscire di casa, sua nonna l’aveva incoraggiata a conoscere gente, a stringere qualche nuova amicizia – certo, non era una cosa che capitava da un giorno all’altro, aveva specificato, ma da una chiacchiera si passava all’altra e magari si scoprivano più interessi in comune di quanto ci si aspettasse. Sua nonna credeva di vivere negli anni Cinquanta, mentre qui, ora, una cosa del genere non poteva funzionare. Non per una come lei, almeno.
Nell’appartamento i suoi coetanei-farfalle svolazzavano da una parte all’altra senza limitazioni.
Lei, invece, era una mantide.
Appostata sul suo quadratino di universo, le braccia protese come a pregare, ma le mani ben salde attorno al proprio salvagente, osservava lentamente il corso degli eventi. Lo scorrere dei minuti non le era mai parso così vivido e lento. Quando sentiva che quello presente stava per morire e finalmente scavallare nel successivo, dava un’occhiata all’orologio da polso e constatava che si trovava ancora a vivere nel precedente. La logorava.
Un acuto la fece voltare verso l’interno, verso l’angolo del salotto occupato da un tavolino basso in noce, ospitante uno stereo di vecchia generazione; nonostante ciò, funzionava in modo egregio e in particolare le casse dovevano essere nuove di zecca.
A gridare era stata Giulietta, ora piegata in due dalle risate e circondata da un gruppo di amici – tra cui anche l’ospite – che la scuotevano e contraddicevano vistosamente. Con ampi gesti Versace le segnalava che non era d’accordo con la decisione presa. Qualche istante dopo, Emilia ne comprese il motivo.
L’amica aveva collegato il cellulare allo stereo e riprodotto la canzone con cui i The Giornalisti si erano fatti conoscere un paio di anni prima. D’estate era stata bombardata con Completamente e, tra l’insistenza di Giulietta e quella dello stabilimento in cui aveva vissuto le giornate arroventate dal sole, aveva finito per ingoiare il rospo e farsi andare a genio il ritornello. Ne aveva persino memorizzato alcuni versi.
Emilia continuò a guardare la scena, mordicchiando il bordo del bicchiere di plastica.
Un ragazzo aveva catturato Giulietta da dietro e, bloccandole le braccia, la teneva ferma, mentre un altro ragazzo sui ventiquattr’anni cambiava canzone. Lei protestava, ma ridendo, soccombendo all’attacco di solletico di un altro suo amico.
Chissà cosa si provava ad essere tanto apprezzati: era un’immersione nelle braccia della Gloria oppure un pericolante trampolino da cui lanciarsi? Più osservava il modo in cui Giulietta sorrideva, scuoteva i capelli a ritmo di musica, premeva il proprio corpo contro quello del suo finto aguzzino, sottostando alla tortura con un certo piacere, più si convinceva che il contatto sociale le era estraneo. Lei, probabilmente, avrebbe pestato un piede a qualcuno oppure avrebbe assestato una gomitata o un morso di troppo, gelando i presenti. Poteva vedere i loro volti sbiancati, agghiacciati dall’orrore di un gioco divenuto troppo reale.
Fu un cigolio della portafinestra a costringerla a distogliere lo sguardo e a dare le spalle al resto dell’abitazione. Ci mancava solo che le cucissero addosso l’immagine di guardona, oltreché di asociale. Qualcuno l’aveva raggiunta sul balconcino, ma non aveva il coraggio di voltarsi.
Il nuovo arrivato richiuse la porta con delicatezza, poi si avvicinò alla balaustra con passo felpato ma sciolto.
Emilia si forzò a tenere lo sguardo fisso sull’orizzonte, sperando di apparire persa in chissà quale riflessione filosofica, ma sentiva il battito accelerare. Cercò un dettaglio su un albero, sulla facciata del palazzo di fronte, su cui focalizzarsi, nel caso le avessero rivolto la parola; eppure non poté resistere alla tentazione di cogliere, con la coda dell’occhio, qualche elemento della figura in avvicinamento.
Portava dei jeans scuri, a vita bassa, e una camicia di un bianco brillante, per metà sbottonata. Dal polsino emergeva un Rolex argentato, riflettente la luce dei lampioni. Il polso era magro, esile ed Emilia avvertì una fitta di dolore: un’ossatura così sottile, un fisico che aveva desiderato per sé a lungo e mai potuto ottenere.
«Ciao», fu tutto ciò che il ragazzo proferì.
Emilia rimase a lungo in silenzio, consapevole del disagio che avrebbe arrecato, ma indifferente alla questione. Avrebbe preferito chiunque altro, qualunque sconosciuto dal volto ancora abbronzato e dal sorriso americano; invece, si era ritrovata Lorenzo De Cesare.
«Come stai?»
Dal momento che l’altra aggrottò la fronte, a sottolineare l’assurdità di una simile domanda, anzi dell’intera situazione, Lorenzo si affrettò a specificare: «Voglio dire, dopo... Dopo l’incidente in metro, ecco. Ti sei ripresa?»
Si dondolava un po’ sul posto, ma senza nervosismo. Quella specie di molleggio faceva parte dell’irrequietezza che aveva rappresentato un incubo per gli insegnanti delle medie.
La professoressa Calandrone ancora si trascinava dietro le imprecazioni che gli aveva scagliato contro, gli incubi che lo vedevano protagonista, impegnato a saltare dalla superficie di un banco all’altra. Quando le ricapitavano delle laringiti, le tornava in mente la settimana di afasia a cui l’aveva costretta quel demonio di De Cesare.
La perplessità sul viso di Emilia si ampliò ulteriormente. Con una scrollatina di spalle, rispose che sì, stava meglio e si era abbastanza ripresa; che poi fosse una menzogna e che l’immagine del cranio di quell’uomo, maciullato dalle rotaie, la tormentasse nella veglia e nel sonno, non importava.
«Ah, bene. Pensavo che ti avesse lasciata un po’... Scossa, diciamo. Non capita tutti i giorni di assistere ad un suicidio.»
«Sì, grazie per il promemoria.»
Lorenzo tentennò, capo basso, mani affondate nelle tasche dei jeans, con la punta del piede calciava un’invisibile pallina davanti a sé. Poi, accennando con il pollice alla stanza alle loro spalle: «Ti stai divertendo?»
Emilia sentì il coltello rigirato nella piaga.
«Senti, tagliamo corto con le smancerie. Cos’è che vuoi?»
«Perché dici così?»
«Per favore, Lorenzo, in dieci anni tu non mi hai mai chiesto come mi sentissi», replicò lei, calcando sul “mai”. «Stento a credere che, all’improvviso, ti interessi qualcosa di me. Ad una festa, poi, dove hai un bagno di gente adorante con cui passare una bellissima serata.»
La schiettezza era una qualità che Lorenzo apprezzava, se impiegata da lui e non contro di lui, ma di fronte ad un simile atteggiamento rimase spiazzato, soprattutto perché a respingere la sua offerta era proprio l’ultima persona che potesse permetterselo.
Alla fine si tolse la maschera e tornò il solito.
«Okay, basta preliminari. Ho un favore da chiederti. Anzi, no, un patto da proporti.»
Lei gli fece cenno di proseguire, sebbene titubante.
Il ragazzo abbassò la voce, gettando uno sguardo attorno con circospezione. Un suo conoscente comparve nella camera da letto, per raccogliere una felpa, e gli indirizzò un saluto. Lorenzo contraccambiò. Attese che l’altro uscisse dal loro campo visivo, dopodiché si avvicinò alla portafinestra e la accostò ancora di più, lasciando solo uno spiraglio fra le due ante.
Emilia rimase ad osservare quella messinscena come pietrificata. Le era capitato un milione di volte di essere ignorata, sbeffeggiata, criticata, ma la mortificazione maggiore rimaneva la richiesta di segretezza. Elena Costa si comportava in maniera analoga, quasi fosse un’onta essere vista in sua compagnia. La ragione lei la ignorava, ma gli effetti, quelli erano impossibili da ignorare.
Un dolore minuscolo eppure bruciante, uno spillo conficcato all’altezza del fianco, che stentava a spegnersi.
«Cosa c’è? Stai progettando un colpo di Stato?» domandò appena incrociò il suo sguardo.
Lorenzo fece una smorfia. Appoggiò la schiena alla balaustra ed estrasse un pacchetto di sigarette dalla tasca dei pantaloni. «No, nessun colpo di Stato.»
«Ah, meno male, perché la Bastiglia è stata presa tanti anni fa. Temevo rimanessi deluso.»
Dopo una pausa, aggiunse: «1789, per la cronaca».
«Hai finito? Non frega a nessuno.» Lorenzo si sistemò una sigaretta fra le labbra sottili. «E il 1789 se lo ricordano tutti, è la data più scema del mondo. Per la cronaca.»
«Sono impressionata.»
Lui portò una mano avanti, come a volerla calmare, ma evitando qualunque contatto: «Senti, se parti con questo atteggiamento, non andremo da nessuna parte».
Emilia inarcò in modo teatrale le sopracciglia: «E dove dovremmo andare, di preciso?»
Il ragazzo sospirò, recuperando anche l’accendino dalla tasca. «Ti assicuro che sei l’ultima persona a cui avrei chiesto un favore di questo tipo, ma Giulietta mi ha detto che dai ripetizioni a buon prezzo e con l’inglese te la cavi piuttosto bene.»
L’altra si strinse nelle spalle. «Quindi? Io impartisco ripetizioni di latino e greco.»
«Scommetto che un’eccezione la puoi fare.»
«Per chi? Per te?» Emilia scoppiò a ridere con amarezza. Man mano che la risata si attenuava e si rendeva conto della serietà del suo interlocutore, l’aggressività si smorzò e la spavalderia iniziò a vacillare. «Dici davvero? Tu vuoi ripetizioni da me
Dirlo, anche solo pensarlo, suonava ridicolo.
«Ma non facevi Scienze Politiche?»
«Comunicazione. Scienze della Comunicazione, ma non c’entra niente.»
Emilia allacciò le braccia al petto. «Bene, perché io non me ne intendo di comunicazione.»
«Me ne sono accorto.»
Lorenzo appoggiò i gomiti sul parapetto e si sporse dal balconcino, per vedere meglio la strada sotto di loro. Era incredibile, pensò Emilia, come con tutto quello splendore lì in alto, proprio sopra le loro teste, lui dedicasse attenzione all’asfalto. La notte era limpida, fresca e frizzante, ricolma di stelle, per quante se ne potessero avvistare dal cuore della città, ma in fondo a nessuno dei due interessava. Lei l’aveva usata come puntello, lui come fondale per scene più avvincenti.
Un gruppetto di ventenni ondeggiava da un portone all’altro, le risate si perdevano nel vento. Stavano tutti stretti, abbarbicati gli uni agli altri, brucianti di un affetto che le mancava con lo stesso ardore che da bambina la teneva alzata le mattine di Natale, sperando di trovare Babbo Natale incastrato nel camino. Era intenso quanto lo spasmo che aveva provato di fronte al silenzioso rifiuto di poco prima, ma non la spingeva a ripiegarsi in se stessa stavolta, bensì ad espandersi verso il resto del mondo, a chiedere altro.
Lorenzo riprese a parlare, masticando la sigaretta ancora spenta.
«Devo sostenere un’idoneità di inglese. È obbligatoria, non me la scampa nessuno. Mi hanno già rassicurato quelli del terzo anno che è una stronzata, ma quest’anno è cambiato prof e in giro si dice che il nuovo sia uno stronzo.»
Le dita picchiettavano sul parapetto, inseguendo chissà quale melodia. «Tutti i miei colleghi si lamentano di essere scrausi, anche se un po’ d’inglese lo masticano. Li ho sentiti. Io, invece, faccio schifo per davvero e non voglio essere l’unico cojone a non passare.»
«Tutto qui?»
A Emilia era sfuggito involontariamente. L’aveva pensato, certo, ma tornando indietro, non l’avrebbe mai detto. Lorenzo tornò a guardarla con un’espressione seriosa sul volto, che poco si addiceva al suo personaggio. «Devi insegnarmi l’inglese, in meno di un mese.»
L’altra sbuffò, scuotendo il capo: «Impossibile».
«Che significa impossibile? Sei brava, sì o no?»
«Certo che lo sono,» replicò piccata, «ma non posso infonderti il sapere per via telepatica.»
Dal momento che il ragazzo apparve frustrato dalla risposta, forse convinto che il suo rifiuto fosse in realtà un capriccio, Emilia chiarificò: «Un mese intero non basta, figurati con ancora meno tempo a disposizione. Ci vuole impegno, se si vuol raggiungere un obiettivo. Impegno, dedizione e costanza.»
«Almeno», terminò dopo una pausa, «io lavoro così. Prendere o lasciare.»
Il vento serpeggiò fra loro, portando con sé le voci dell’ultimo piano, dove qualcuno aveva acceso le luminarie. Doveva esserci qualche raduno in corso, a giudicare dall’odore di barbecue, ma nessun fumo confermava l’ipotesi.
«Un mese e mezzo», offrì Lorenzo.
«Tre mesi.»
«Tre mesi
Emilia scrollò le spalle. «Il minimo sindacale per raggiungere un livello base. Dipende da te quanto vuoi andare lontano.»
«Significa bruciarsi l’esonero di dicembre.»
«Non lo passeresti comunque. Puoi tentare intorno a gennaio, febbraio.»
Si guardarono per alcuni minuti in silenzio, lui ruminando, lei cercando di trovare il meccanismo, l’ingranaggio, nel cervello di Lorenzo che lo portasse a comportarsi in quel modo irritante.
Doveva esserci qualche dettaglio che più degli altri la infastidiva, o forse era solo un insieme di elementi indistricabili.
«D’accordo», disse infine il ragazzo. «Due mesi e mezzo. Ti do tempo fino ad inizio gennaio, per portarmi ad un livello decente ed evitare una completa figura di merda.»
Emilia si lasciò sfuggire una domanda: «T’importa così tanto dell’opinione altrui?»
Di fronte alla faccia allibita dell’altro, si affrettò a specificare: «Intendo, ti preoccupi così tanto dell’impressione che farai sui tuoi colleghi, da volerti imbarcare in questa impresa?»
«È strano», commentò lui con acidità. «È strano che sia proprio tu a farmelo notare. Proprio tu che vuoi sempre eccellere, risultando pure irritante.»
Emilia avrebbe voluto dirgli che se si fosse preoccupata dell’impressione che faceva sugli altri, avrebbe perso il senno; che non prendeva voti alti per far colpo su chi aveva intorno – anche perché intorno a sé aveva solo il deserto – e che ormai erano abbastanza cresciuti per competere su chi fosse più apprezzato in società.
Alla fine, invece, disse solo: «Credo che dovresti farlo per te. Acquisterebbe più valore».
Lorenzo liquidò il consiglio con un: «Sì, d’accordo. Posso farlo anche per mia mamma, se ti fa sentire meglio, ma il succo del discorso non cambia. Mi aiuterai con delle lezioni o no?»
«Non rifiuto mai un’offerta di lavoro.»
«Bene.» Lui annuì con vigore. «In cambio,» proseguì, «ti devo un favore. Tutto quello che vuoi.»
«Un regolare pagamento sarà sufficiente.»
«Certo. Ma», Lorenzo tornò a sussurrare, «non devi farne parola con nessuno. Proprio nessuno. Chiaro?»
Emilia alzò gli occhi al cielo, in una risatina amara.
«Che bello, ho sempre voluto tenere un segreto.»
La voce del ragazzo si innalzò di un paio di toni, stridula quanto un triangolo a percussione.
«Sì! E adesso ci scambiamo i bracciali dell’amicizia e facciamo un pigiama party.»
Pizzicò la sigaretta tra indice e medio, mentre scuoteva la testa. Emilia non poté fare a meno di osservare che da ragazzino era stato solito criticare i fumatori.  
«Ma che? Questa?» Lorenzo le offrì la Marlboro. «Manco l’ho accesa. Se la vuoi, è tutta tua.»
Non attese neppure il rifiuto, praticamente scontato da parte della Scafi, per gettarla dal balcone.
«Mi serviva un alibi.»
Tornato d’improvviso serio, le tese la mano libera, a suggellare l’accordo.
«Allora? Affare fatto?»
Lei gliela strinse senza pensarci troppo, in un automatismo da marionetta. Voleva levarselo di torno il prima possibile e richiudersi nel suo guscio di serenità.
L’immagine di una pioggia scrosciante, una rete di gocce, confusa con una rete da calcio, la investì.  
Il terreno scivoloso, un colpo alla gamba sinistra. La sbucciatura al ginocchio e poi un’altra sbucciatura, in pieno giorno. Un signore anziano che camminava vicino.
Emilia ritornò in sé con un sussulto.
Sottrasse la mano, quasi scottata, grattandone il dorso e controllandone l’integrità.
«Tutto bene? Ti ho persa per qualche secondo.»
«Sì», scattò, «sì. Perché?»
«Sei come... Scivolata via.»
Si voltò verso la portafinestra, allontanandosi a passo spedito dal ragazzo e dalla sensazione di umidità che le permeava le ossa. Lorenzo le urlò dietro: «Iniziamo dopo Halloween!»
 
 

A Luca lo Smokey Corner piacque dalla prima volta che lo trovò.
Lo trovò come si poteva trovare una monetina per strada, lì incollata al marciapiede, quasi in attesa di essere scoperta dal primo passante dall’aria sveglia. Riluccicava nell’ombra, nell’incastro di due edifici dall’intonaco aranciato, sbiadito, l’unico negozio nei paraggi che vantasse un nome straniero.
Un po’ più in là, sul muretto che chiudeva un lato della via, si srotolava un grappolo di edera, rinsecchito e ingiallito dalla stagione.
Lo Smokey Corner sarebbe potuto passare inosservato – l’anonimo portone nero in acciaio, le finestre verde bottiglia dei piani superiori, avrebbero fatto pensare ad un’abitazione come tante altre – ma quando Luca vi mise piede per la prima volta, scoprì che il locale era molto frequentato, anzi quasi stracolmo. Per lo più ci andavano giovani, non oltre la quarantina, e nel giorno della prova come barman ad affollarlo erano in prevalenza turisti stranieri. Un americano, un ragazzotto alto e con le spalle larghe uscito da qualche telefilm, gli aveva spiegato che era uno dei locali più consigliati da chi visitava Roma.
Luca fu assunto subito, perché il vecchio barman aveva dato forfait una settimana prima, senza preavviso, e si trovavano a corto di personale. Negli interni del pub era tutto un tafferuglio, nella piccola cucina si giostravano in sei – di cui due neoassunti come lui – ma lo spazio dietro il bancone era un’isola di libertà in cui sostavano lui e Rocco, il cameriere con cui aveva fatto affiancamento.
Indipendentemente dall’orario del turno, Rocco accoglieva i clienti con un sorriso intrigante, si divertiva a proporre loro nuove formule di drink o a mettere in difficoltà il cuoco con degli stuzzichini fuori programma;  incoraggiava i colleghi con vigorose pacche sulla schiena, chiamando tutti “bello” o “bella”. Luca, però, sapeva di essere diventato il suo preferito. Gli dava sempre il via libera su iniziative con il suo pollice alzato, lo controllava ma con lo sguardo bonario di un fratello maggiore e lo trattava alla pari, nonostante gli anni d’esperienza.
Quella sera fu l’unico a notare che qualcosa stonava.
«Ehi, bello, che hai stasera?»
Luca trasecolò, ritrovandosi nel cuore del pub surriscaldato dal fumo e dai corpi sudati degli avventori. Si sorreggeva al bancone, il viso un po’ smunto, gli occhi incavati in un paio di occhiaie.
Avrebbe potuto rifilargli qualunque scusa, ma preferì dire la verità.
«Dormo male ultimamente.»
«Ah sì? Com’è?»
Luca scrollò le spalle. «Mah, saranno i miei che fanno casino.»
«Non è che non reggi i turni nostri, eh?»
Si raddrizzò all’istante, stropicciandosi gli occhi nel tentativo di schiarirsi la mente. «No, Rocco, figurati. È stato un attimo. Guarda, sto già meglio.»
L’altro mugugnò un poco convinto “mh”, prima di spingerlo verso i prossimi clienti. «Daje, allora datte ‘na mossa. Questi stanno a fa’ la muffa.»
La musica era talmente alta che i clienti successivi dovettero ripetergli l’ordine ben tre volte, prima che riuscisse a registrarli. Come previsto, la riapertura della pista da ballo, separata attraverso una vetrata dalla sala per la consumazione al tavolo, aveva incrementato gli incassi. Rocco gli aveva anticipato che era in programma una serie di serate di musica dal vivo, magari con qualche ospite più noto, per attirare altri ragazzi della sua età.
Sbaragliare la competizione di tutti gli altri localini sparsi per Trastevere non era impresa facile. Luca dubitava fortemente che una serata latina potesse aiutare.
«Ecco a te. Questo è il Blue Moon, lo facciamo solo qui», spiegò al ragazzo che stava servendo. «Ricetta segreta.»
Per raggiungere le due sale principali ospitanti lo Smokey Corner, era necessario scendere una scalinata in ferro: sedici gradini piuttosto alti, un unico, traballante corrimano a cui appoggiarsi e la luminosità messa a disposizione all’ingresso, spesso insufficiente. Quando toccava a lui scenderle o salirle, temeva sempre di rovinare a terra, ragione per cui rimase a bocca aperta nel constatare che la ragazza davanti a lui torreggiava su un tacco dodici. Lo indossava con la stessa naturalezza con cui si portava una ciocca di capelli dietro l’orecchio o con la spontaneità di chi chieda un bicchiere d’acqua. Si avvicinò al bancone e lo ammaliò con un singolo sorriso. Un sorriso che stonava con lo sguardo, misterioso, insistente, di chi sta risolvendo un enigma o deve eseguire un calcolo complicatissimo.
Eppure, non furono gli occhi glaciali a colpirlo, né la minigonna che la fasciava, esaltando un paio di lunghe gambe modellate come colonne; non furono i lineamenti squadrati, duri, che le davano un’aria poco affabile e neppure la chioma di un nero corvino, che le cingeva le spalle.
Fu la collana, un minuscolo ciondolo con una stella ad otto punte incastrata in un cerchio. Doveva essere oro e rifletteva, in un unico punto luce centrale, i fasci blu delle psichedeliche.
Luca si ricompose e indicò con un cenno del mento la collanina.
«È una rosa del vento?»
La risposta della ragazza venne sopraffatta dalla musica e dalla confusione circostante.
Dovette avvicinarsi di più al bancone e alzare la voce, altrimenti lieve e carezzevole come quella di un canarino, per farsi sentire. Luca riuscì a capire che lo stava correggendo. «Rosa dei venti.»
«Ah, sì, scusami. Rosa dei venti.»
«Sì, sono otto, come le punte. Vedi?»
Con l’indice seguì le varie sporgenze della figura, in senso orario. «Tramontana, Grecale, Levante, Scirocco, Mezzogiorno, Libeccio, Ponente e Maestrale.»
«Ecco,» Luca annuì, «io conosco solo il Maestrale. Come diamine te li ricordi tutti?»
Lei ridacchiò, un tintinnio fragile di cristallo, socchiudendo gli occhi. Era una risatina per metà bloccata in gola, ma lo trafisse come un pezzo di ghiaccio in mezzo al petto. Poi, come intonando una filastrocca, recitò: «Tra Grecia e Lepanto Scivola Mesto, Livido, Potente il Mare».
Luca la guardò interdetto. Cosa diamine aveva appena detto?
Dal momento che gli fece cenno di lasciar stare, lui assunse la solita aria da amichevole ma professionale barman. «Cosa posso servirti?»
«Allora,» la ragazza ricapitolò ad alta voce, «un Blue Lagoon, un Margarita, due Mojito, e un Alexander.»
Luca non poté frenarsi dall’esclamare: «Wow, è tanto alcool per una persona sola».
La battutina idiota sortì l’effetto sperato. Una delle prime lezioni che Rocco gli aveva insegnato riguardava il mettere a proprio agio il pubblico, stabilendo un contatto, un’intesa, di qualunque tipo, purché rendesse il cliente soddisfatto e propenso ad acquistare. Con lo stretto indispensabile, ci si assicurava che l’altro comprasse un prodotto; mettendoci un pizzico di impegno, lo si spingeva ad aprirsi, a fare un altro giro e magari a fermarsi un po’ di più. Si capiva di aver fatto centro, quando ridevano alle battute, si accomodavano e finivano per farsi persino consigliare: allora sì, che ci si era conquistati il cliente.
La ragazza scosse appena il capo, facendo tintinnare gli orecchini a goccia che assecondavano ogni suo movimento, si sistemò la cintura di strass, a sottolineare la vita stretta, e si issò su uno degli sgabelli. Le sottili braccia, distese sul bancone, apparivano pallide, quasi lunari, sotto il fascio della luce a LED.
«Sono per le mie amiche. Io prendo l’Alexander.»
Luca, che intanto aveva iniziato a mescolare il ghiaccio nello shaker, frantumandone una piccolissima parte, le sorrise con un angolo della bocca. «Dolce», disse soltanto.
«Come dici?»
«L’Alexander. È molto dolce come cocktail».
Poi, dopo una breve pausa, aggiunse: «Sai, il mio collega ha una teoria sui cocktails. Dice che rivelano molto del cliente».
«Fammi indovinare,» replicò lei, roteando gli occhi, «dal mio ordine deduci che sono una ragazza dolce, ma con un tocco speziato. Un classico che stupisce e altre scemenze simili.»
Luca aggrottò la fronte.
«Assolutamente no. Suppongo però che, essendo minorenne, non potresti ordinare alcol.»
Lei si sistemò meglio sullo sgabello, accavallando una gamba. Fece scattare l’apertura della pochette che portava a tracolla e ne estrasse un rettangolino plastificato. Lo appoggiò sulla superficie liscia del bancone e lo trascinò fin sotto lo sguardo del barman.
Alla luce della lampada era possibile distinguere una terribile fototessera, che ritraeva la ragazza in uno sguardo allucinato e con il flash ad enfatizzare la carnagione sempre più pallida.
Data di nascita: dieci gennaio 1994.
«Selena?»
Lei annuì, picchiettando l’unghia laccata su nome e cognome. «Esatto, c’è scritto qui.»
Luca lanciò un’occhiata prima alla ragazza che aveva di fronte, poi di nuovo alla fotografia. No, quella storia non lo convinceva affatto.
«Ho come la sensazione che sia una cavolata.»
Selena si strinse nelle spalle, rimettendo a posto la propria carta d’identità.
«Se non sei convinto di ciò che dico, dovrai provare a ricordarti di me.»
Detto ciò, si rimise in piedi e come una colomba sparì in un fruscio di frange e paillettes nella stanza accanto. Prima di lasciarlo lì impalato, aggiunse: «Tavolo 23».


 

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