Dai tuffi al cuore - Extra

di Corydona
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Extra 1 - Jean e Fiamma ***
Capitolo 2: *** Extra 2 - Émilien ***
Capitolo 3: *** Extra 3 - Coco ***



Capitolo 1
*** Extra 1 - Jean e Fiamma ***


Londra 20*5, Europei giovanili.

Do le spalle ai trampolini e alla piscina, con la pelle sintetica posata sulla spalla. Sandro, davanti a me, osserva i tuffi delle altre ragazze con le braccia incrociate. Il fischio del giudice arbitro richiama il silenzio nell'impianto e io punto gli occhi sul pavimento chiaro per non voglio vedere nessuna reazione.

Ho sbagliato il rovesciato e l'uno e mezzo indietro, che avrei potuto fare meglio. Nonostante i miei errori, però, sono rimasta in corsa per l'oro fino all'ultimo tuffo, perché anche le altre non sono state impeccabili. Colette Bonnet si è già tuffata, e l'ho superata di qualche punto, ma ora tocca ad Anastasia Smirnova, poi ad Ashley Morley e aLena Kunert. Può ancora succedere di tutto.

Quando pochi istanti dopo sento il suono impreciso dell'ingresso in acqua della Smirnova, alzo lo sguardo verso Sandro, speranzosa.

Lui abbassa appena la testa verso di me e mi sussurra all'orecchio: «Dietro».

Sorrido a malapena mentre ascolto i voti della russa, che non le permettono neanche di superare Coco Bonnet.

Ora è il turno della gallese Morley, per cui arrivano incoraggiamenti dagli spalti. Anche se Londra sia lontana dalla sua Cardiff, qualcuno dev'essere venuto qui apposta per lei. I genitori o qualche familiare.

Ashley chiude con il ritornato annunciato all'altoparlante. Trattengo il fiato a occhi chiusi, mordendomi l'interno della guancia. Speravo di non sperimentare mai questa tortura: è una sofferenza aspettare l'esito degli altri per sapere il mio risultato finale.

Dagli spalti esultano. O stanno solo facendo il tifo, o si è tuffata bene.

Apro gli occhi e li punto sul tabellone, dove sono già comparsi il punteggio di Ashley e la sua nuova posizione in classifica: prima, due punti davanti a me.

Non aspetto che si tuffi Lena, perché a questo punto non mi importa aver vinto l'argento o il bronzo. Io volevo soltanto la medaglia d'oro. Nonostante gli errori, ho fatto del mio meglio.

E sono incazzata nera perché, a quanto pare, non è bastato.

Sbatto la porta degli spogliatoi e mi trattengo dal dare un pugno al muro solo perché non voglio farmi male alla mano, ma mi conficco le unghie nella carne stringendo il pugno.

Sono arrabbiata, tanto arrabbiata.

Con me stessa, prima che con chiunque altro. Non c'è modo di far venire questo rovesciato come vorrei, nonostante tutti gli sforzi, nonostante tutti gli esercizi e gli allenamenti a cui Sandro mi sottopone. Non c'è un cazzo di modo per aggiustare le mie rotazioni indietro... e odio non sapere come migliorare.

Da quando è finita la scuola ho passato in piscina e palestra quasi tutto il mio tempo. Ero persino riuscita a saltare qualcuno degli ultimi giorni, visto che avevo finito sia i compiti in classe che le interrogazioni. E poi mi sono dedicata soltanto ai tuffi.

Per non svegliare presto i miei genitori, di domenica ho preso i mezzi pubblici e attraversato Roma all'alba per allenarmi. Per migliorare. Perché voglio entrare il prima possibile nella squadra senior e mi secca non aver dimostrato qui tutto il mio potenziale. Perché io so di valere l'oro, almeno nei contesti giovanili – in quelli europei, soprattutto, perché battere le cinesi è impossibile.

Me lo meritavo, per il mazzo che mi sono fatta e che mi sto facendo, me lo meritavo questo cazzo di oro...

Butto fuori uno sbuffo pieno di cose non dette, e mi siedo su una delle panche vuote. Per fortuna qui non c'è nessuno, perché non ho voglia di dare spettacolo.

Poso le mani sul legno, con il sangue che mi pulsa nelle vene. Ora voglio proprio vedere quando, se e come mi calmo. Mi concentro sulla pozza bagnata davanti a me, sulle ciabatte blu e sulle dita dei piedi. Eppure non serve a niente, ho ancora il cuore in gola e un alveare molesto che mi frulla tra i pensieri. Ho perso, ho perso una gara che era alla mia portata. Dio, quanto sono incazzata.

«Che stai facendo qui?»

Sandro richiude la porta dello spogliatoio e si avvicina anche se non gli rispondo. O forse proprio perché rimango zitta.

«Allora?» insiste.

«Secondo te?» sputo fuori, senza schiodare gli occhi dal pavimento umido. Le lacrime spingono per uscire ma non voglio, non voglio che lo facciano. Devo essere più forte dei miei stupidi difetti del cazzo.

«Torna dillà, Caroline Moreau mi ha chiesto dove fossi finita.»

Faccio una smorfia che non so neanche io cosa voglia significare. Tutto mi sembra in secondo piano e mi importa poco che l'allenatrice dei francesi si sia preoccupata per me.

«Hai comunque vinto l'argento» continua, come se ignorasse il mio vero obiettivo. Sa benissimo che per me meno dell'oro oggi era una sconfitta. E io mi sento sconfitta. «Devi metterti in testa che non puoi vincere sempre: a volte puoi arrivare prima, a volte puoi arrivare quarta. Quello che conta è dare il meglio di te, sempre.»

«Ma io ho dato il meglio di me? Mi sono fatta il culo per settimane e adesso... non è servito a niente!»

Sbatto le mani sulla panca, quasi a voler scatenare una sua reazione veemente. Vorrei litigare, ora ho proprio bisogno di tirare fuori quello che penso.

«Fiamma, ti ascolti?» Sandro mi scuote una spalla per rimproverarmi. «Hai appena vinto l'argento europeo! Pensa a quelle altre ragazze, come Becky, che non hanno neanche superato l'eliminatoria! Questo non è per niente un risultato da buttare via!»

Sospiro. Il suo ragionamento ha senso, ma proprio per questo non lo sopporto.

Dovrei godermi il buon risultato, ma non sono per niente soddisfatta. Io volevo vincere e basta: non mi interessa del paragone con le altre, io non sono le altre. E la cosa peggiore è che mi odio al pensare questo anche di Rebecca.

Non vedo l'ora che arrivi l'anno prossimo, voglio superare le selezioni interne per le gare senior, perché sarà soltanto in quel caso che potrò accettare di non vincere. Anzi, pur di gareggiare con i grandi, accetterei di buon grado anche di non superare l'eliminatoria.

«Questo non è il mio risultato.»

«Devi farmi incazzare?»

Nonostante la domanda, il tono di Sandro è calmo. Sa che non ce l'ho con lui, ma con me.

«Ashley ha vinto e ha meritato di vincere. Tu ora torni in piscina e ti congratuli con lei. Altrimenti non ti presentare in piscina quando torniamo a Roma.»

Ma vaffanculo, Sa'.

Scuoto appena la testa e mi alzo dalla panca, lasciando il mio allenatore a chiedersi che cosa accidenti mi passi per il cervello. Se dovessi provare a rispondere, non saprei neanche da che parte iniziare.

Ritorno al bordo piscina e trovo il solito viavai del post-gara. Molti sono intorno alla britannica che ha appena vinto il titolo e io mi avvicino. Ha ragione Sandro: Ashley lo ha meritato, perché è stata più brava di me, prima che di tutte le altre. E io devo solo stare zitta e farle i complimenti.

«Ash!» La chiamo con un gridolino acuto per essere certa che mi senta tra le voci di chi ha vicino, e lei scosta gli altri per venirmi incontro.

Ci abbracciamo, come facciamo da ormai qualche tempo a questa parte al termine di ogni gara internazionale a cui partecipiamo: una delle due finisce quasi sempre sul podio.

«You'll win next time» sussurra lei al mio orecchio.

Sorrido, e con la coda dell'occhio sbircio Sandro riapparire a bordo piscina. Evito di incontrare il suo sguardo, perché ci leggerei la soddisfazione di aver avuto ragione; ma io con il cazzo che do ragione a lui. Ce l'ha, ma non glielo dirò mai.

Ashley mi lascia un bacio sulla guancia, prima di fare cenno alla Bonnet di avvicinarsi e di includerla nel nostro abbraccio. Colette è arrivata terza?

***


Pochi minuti più tardi sono nella sezione degli spalti dedicata a noi atleti, insieme ai miei compagni di squadra, già pronti per guardare il trampolino maschile e fare il tifo per Nicola, anche se mancano ancora diversi minuti.

Sospiro, guardando su Instagram il messaggio che mi è arrivato da Chiara Irsara, la nostra campionessa della piattaforma: "Pulcina, sei stata bravissima!".

Mostro la schermata a Becky, seduta al mio fianco.

Scrolla le spalle e torna a torturarsi le doppie punte che sbucano fuori dalla sua treccia. «Si aspetta di vederti nelle competizioni senior già dal prossimo anno, sicuro.»

«Dal trampolino siamo in tante...» mormoro. «Non sarà facile né per me né per te superare le selezioni interne.»

«Ragazze, calma» dice Tommaso, al di là di Rebecca. «Non dovete avere fretta. Quando sarà il momento giusto, esordiremo.»

Lo fisso, ammaliata dal suo sangue freddo. Al suo posto, non riuscirei a essere distaccata, non sapendo che stiamo parlando di me e Becky! Ci conosciamo da anni e ci alleniamo tutti i giorni insieme!

«Sarà, ma penso che Angela mi metterà davvero tanta pressione.» Rebecca allude con un cenno alla sua allenatrice, di nuovo sul piano vasca al fianco anche se nessuno dei suoi atleti è in gara. «Già prima, durante la finale, continuava a dirmi: "Eh, vedi, tu con questo tuffo hai fatto così, con quest'altro hai fatto colà..."»
«Non era un po' tardi per le correzioni?»

Becky annuisce, ma abbassa lo sguardo con le guance viola.

Non insisto: ho imparato a capire quando va lasciata in pace. E parlare di Angela le instilla più ansia di una gara olimpica...

Si volta verso Tommy e giocherella con la treccia castana; ora che mi dà le spalle, riprendo in mano il telefono e mi rendo conto di non aver ancora risposto alla Irsara. Digito un "grazie mille!" ma con una smorfia poco convinta che, per fortuna, la nostra campionessa non può vedere. Continuo a non essere per niente soddisfatta della mia gara.

«Guarda che se devi passare, puoi chiedere permesso!» Sandro ridacchia dietro di me. Ora che io e Tommy non siamo in gara, è seduto insieme a noi.

Mi volto: un imbarazzatissimo Jean-Marc Chevalier arrossito fino alla punta dei capelli, che già hanno quel colore di loro, sta parlando con il mio allenatore.

«Ehm, sì, scusi, vorrei passare...» dice, con marcatissimo accento francese.

Sorrido, perché stava venendo qui da me. Da quando ha ritrovato il mio cellulare, qualche giorno fa, viene a parlarmi ogni volta in cui ne ha l'occasione, e faccio lo stesso anche io: il feeling con lui è stato immediato.

«Passa, Chevalier, passa» ride Sandro bonario, e il ragazzo si avvicina a me con il viso ancora paonazzo.

«Davvero, mi scusi...»

«Non mi sono mica offeso!»

Jean-Marc mi raggiunge e indica il posto vuoto alla mia destra. «Posso sedermi qui?»

Annuisco. «Ti ho detto almeno dieci volte che Sandro vuole che gli diamo del tu!»

«Non ci riesco. Posso?»

È ancora in piedi. Per me era scontato che potesse sedersi!

Prende posto e punta i suoi occhioni da cucciolo bastonato nei miei. Si gratta il sopracciglio, tradendo un po' di nervosismo. «Ça va?» mi chiede, passando al francese.

In risposta, scrollo le spalle: non lo so neanche io.

«Coco mi ha detto che sembravi incazzata, quando sei sparita.»

A quanto pare la Bonnet si è accorta che a un certo punto non c'ero più. Forse non è stata neanche la sola a notarlo. «Lo ero. Ora... Boh, non lo so.»

«Ci tenevi proprio tanto.» La sua voce è un sussurro appena percettibile.

Mi appoggio allo schienale della sedia, come se mi ci stessi buttando con tutto il mio peso.

Davanti a noi, anche se distanti, i finalisti dal trampolino si stanno riscaldando con qualche tuffo e rimango per alcuni secondi a guardarli.

«Pensi che esageri, nel volere di più?»

Non so perché l'abbia detto ad alta voce. Fino a questo momento, nonostante la sintonia che abbiamo, non mi ero esposta sulle mie aspettative. Ma deve averle capite lo stesso.

«No, Fiamma, secondo me no.» Lo dice con semplicità, ma si gratta il collo come se ci stesse ancora riflettendo. «Va bene voler sempre fare di più, l'importante è non perdere la testa.»

«Ho perso la testa?» E lui che ne sa? Mica era con me e Sandro nello spogliatoio!

«Me lo devi dire tu, io non vivo lì dentro.»

Apro la bocca senza emettere un suono, spiazzata. Lui però è più disteso, ha smesso di grattarsi il viso come se fosse vittima di uno sciame di zanzare e persino le sue guance sono tornate del solito candore latticino.

Mi chino verso di lui per poter sussurrare senza che nessuno mi ascolti. «Mi sono incazzata, ma ho fatto solo incazzare anche Sandro.»

«Questo non ti sarà d'aiuto per la prossima gara» commenta invece Jean-Marc, pacato.

Tra lui e Tommaso non so come facciano ad avere tutta questa calma!

«Lo so.» Ha ragione, e il fatto che ce l'abbia non mi scoccia neanche alla lontana... È strano, penso che da lui potrei accettare qualsiasi critica e qualsiasi incoraggiamento, come se fosse un lato della mia coscienza a parlare. Sembra che mi legga nella mente.

«Non devi saperlo, devi ricordarlo.»

Mi sorride, con un altro velo di timidezza a imporporargli di nuovo le guance. Anche se vuole spronarmi, ha l'aria di uno che si vergogna delle proprie parole. Dev'essergli costato molto e credo che ci sia passato anche lui, altrimenti la sua calma non si spiegherebbe.

«Hai ragione.» Gli sorrido, e quel tiepido imbarazzo abbandona il suo viso. «È che... spesso mi arrabbio facilmente.»

«Ti infiammi facilmente!»

Scoppio a ridere, perché non me l'aspettavo, e anche lui ride con me.

Scambia un paio di parole di saluto con Tommaso: anche se avversari, vanno abbastanza d'accordo, per quanto possano andare d'accordo un introverso e un taciturno. Senza troppe parole, ma con gentilezza.

Jean-Marc si alza in piedi e fa per andarsene. «Comunque, puoi chiamarmi solo Jean.»

«D'accordo, ma devi dare del tu a Sandro!»

«Ci provo!»

Mi saluta e torna nella zona francese, vicino a Colette Bonnet che lo scruta dicendogli qualcosa che da qui non posso sentire. Lui le risponde e lei, non appena si accorge che li sto guardando, mi sorride da lontano.

«Non staranno insieme?» mi chiede Becky.

Scuoto la testa. «No, ha una cotta per la sua vicina di casa.»

Proprio ieri sera ci siamo raccontati le nostre situazioni sentimentali... Lì è una gara a chi sta messo peggio, tra lui che ha paura che le ragazze lo considerino solo perché è un atleta e io che mi sono innamorata di un'emerita testa di polipo. Anche se chiamarlo così è un insulto per i polipi.

«Secondo me no, state tutto il tempo insieme.»

«Che intendi dire?»

«Che siete molto carini» mormora lei, atona.

Inspiro ed espiro, cercando di non arrabbiarmi anche con Rebecca. È stato solo un accenno che, tra l'altro, non ha neanche sentito nessuno. Inoltre, non c'era alcuna
malizia nel suo tono. Uno dei pregi di Becky è di essere una persona discreta.

«Ho detto qualcosa che non va?» bisbiglia, preoccupata.

«No, no.» Mi guardo intorno, per accertarmi che nessuno stia facendo caso a noi. Sono quasi tutti a chiacchierare tra loro o a fissare lo schermo del telefono scorrendo i social. «Non voglio relazioni con altri tuffatori. Sarebbe solo un altro pensiero quando sono in gara.»

«Allora mettilo bene in chiaro» sussurra. «Altrimenti sarete riempiti di battutine stupide.»

Annuisco. Lo farò.

Giocherello un po' con il cellulare, mentre i finalisti si preparano alla gara, con il tedesco Julian Greisser già pronto a iniziare.

Apro il primo social che mi capita sottomano e, neanche volendo, finisco sulla chat con Jean-Marc Chevalier. Anzi, ora posso chiamarlo solo con il primo nome.

"Jean" gli scrivo e subito ricevo un punto interrogativo come risposta.

Mi volto senza preoccuparmi della finale e incrocio il suo sguardo perplesso. Trattengo una risata e digito una serie di cifre da inviargli.

"È il mio numero di telefono." Gli ho detto che per me è un aspetto personale e che non lo do a nessuno. Anche se con lui mi trovo bene, lo conosco da vicino solo da poco... però anche lui non permette a tutti di chiamarlo solo "Jean".

Pochi istanti dopo mi arriva un messaggio da parte sua: "Guarda che tocca a Nicola!".

Sorrido, poi guardo il buon tuffo indietro del mio compagno di squadra e applaudo facendo il tifo.

***


Roma, 20*8, qualche giorno prima dei Giochi olimpici.

Fa un caldo asfissiante, e noi abbiamo avuto solo questo pomeriggio di pausa, prima che inizino le gare... perché da domani tutte le nostre mezze giornate saranno in piscina. E anche le giornate intere. Ci riposeremo solo di notte. Forse.

Sospiro, guardando il panorama di fronte a me e picchiettando le dita sul muretto.

«Nervosa?»

«Un po'.»

Butto fuori altra aria dai polmoni, come se così facendo potessi alleggerirli. Mi sento addosso una grandissima responsabilità: la prima gara dei tuffi sarà proprio la mia. O meglio, quella a cui parteciperò insieme a Becky, visto che si tratta del sincro femminile dal trampolino. Non faccio che pensarci da quando abbiamo preso residenza al villaggio olimpico, ormai da un paio di settimane.

Jean si passa una mano sulla guancia rasata. «Pensavo che uscire un po' ti avrebbe aiutato a distrarti.»

Guardo ancora i tetti del centro storico davanti a me, con il Cuppolone che svetta sulla sinistra, come sorvegliando tutti noi. Mi sistemo gli occhiali da sole sul naso e poi mi volto verso il mio migliore amico.

«Fiamma, andrai bene.» Prova a rincuorarmi con una pacca sulla spalla. «Se ti tuffi come sai fare, andrai sicuramente bene.»

«Spero di non farmi prendere dal panico» sussurro. «Già c'è Becky che è con l'ansia a mille... Sandro può calmarne solo una per volta.»

Sbuffa come se trattenesse una risata, ma non dice nulla.

«Sì, lo so che per calmare me ci sei tu!»

«Ci sei arrivata da sola!»

Salgo sul muricciolo che costeggia la via fino a Trinità dei Monti e mi ci siedo, con lo sguardo rivolto all'Altare della Patria. Sollevo gli occhiali da sole sulla testa, mentre Jean prende posto di fronte a me.

«Quando ero piccola mi sembrava una macchina da scrivere bianca.»

«Che cosa?»

Con un cenno del mento gli indico il Vittoriano. Non so perché ho sentito il bisogno di dirglielo: è la prima cosa che mi è passata per la testa.

Mi sorride, con la pelle arsa dal sole e la fronte umida di sudore. «Avevi una bella fantasia.»

«Tu non sei nervoso?»

Al suo posto lo sarei eccome, perché fa solo la gara individuale. La tensione è da gestire in solitaria, mentre io almeno la condivido con Becky!

«No, Fiamma, no.» Si sistema il bordo della maglietta, sereno. Nulla riesce a scalfirlo. «So quello che posso fare e ho intenzione di tuffarmi al meglio. Dovresti stare calma anche tu, prima di combinare danni. Agitarti non ti fa per niente bene.»

Un gruppetto di turisti ci passa vicino, chiassoso, seguendo la guida che sbandiera un ombrello chiuso come i capifila delle elementari.

Carpisco qualche parola in una lingua dell'est Europa, forse russo. Sospiro, ripensando a quello sguardo davvero poco amichevole della Sokolova stamattina in allenamento. Chissà con chi ce l'aveva...

«Sono qui quasi per sbaglio. Se Giada non avesse avuto quell'incidente in motorino...»

«Non dire stupidaggini» mi interrompe Jean, scuotendo la testa. «Se non avessi avuto il posto assicurato con il sincro, probabilmente avresti dato il tutto per tutto nelle qualificazioni interne.»

«E così una tra Becky e Stefania non avrebbe gareggiato. Ma perché si possono portare solo due tuffatori per nazione?»

«Perché altrimenti i cinesi non lascerebbero neanche una medaglia agli altri!» ride lui, con la battuta pronta.

Scoppio a ridere anche io. Ha dannatamente ragione: la Cina vincerebbe tutto, oro argento e bronzo in ogni specialità!

«Eppure pare che Blake sia parecchio convinto» spettegolo un po'. Essere a bordo piscina insieme a tuffatori con una carriera più consolidata della mia e con i più forti al mondo mi dà una grandissima carica, insieme alle chiacchiere che circolano alla velocità della luce: mi sembra di essere in un gruppo di ragazze e ragazzi come tanti altri e non in mezzo a campioni mondiali. «Ha detto Valentina che le ha detto la Easton che lui si sente di poterli battere.»

«Andy è sempre molto sicuro di sé.» Jean ha avuto modo di confrontarsi con il fenomeno britannico non appena salito tra i senior. «Ma secondo me sono messi meglio Oliver e Daniel nel sincro.»

Annuisco: a Budapest, pochi mesi fa, Durrant e Laxton hanno vinto l'oro con un buon distacco dai russi... Qui rischiano di essere favoriti più dei cinesi!
E io e Becky? A quale posizione possiamo aspirare? Delle otto coppie partecipanti, siamo la più giovane... Agli Europei siamo arrivate quinte, ma qui il discorso è diverso. Rischiamo di finire ultime, le altre sono più esperte di noi!

Sospiro, abbassando gli occhiali sul naso. «Non mi rilassa parlare degli altri.»

«Torniamo al villaggio?»

«Non lo so... Se torno lì non ho niente da fare, a meno di non cazzeggiare in giro. Stasera abbiamo un incontro con il presidente del Coni che deve fare un discorso agli atleti. Non entriamo nemmeno tutti nella sala conferenze di Casa Italia!»

Poi ci aspetta la cena, più presto rispetto a tutti gli altri giorni, e poi... La cerimonia di apertura, a cui non mancherei per niente al mondo.

Lui guarda l'orologio al polso. «Credo che sia ancora presto. C'è qualche posto in cui vuoi andare?»

«No, Jean, no... Qui va benissimo.»

«Ne sei sicura?»

Gli sorrido. Sotto gli occhiali da sole, so perfettamente com'è il suo sguardo premuroso. Mi volto verso i tetti del centro storico, tra parabole e monumenti. Un terrazzo è pieno di piante verdeggianti, penso che sia ormai parte integrante del panorama: sin dalla prima volta in cui ho fatto la passeggiata tra il Pincio e Trinità dei Monti è sempre stato lì. Forse chi ci abita ha il pollice verde, o forse Roma si rifiuta di far morire un dettaglio tanto particolare e gli ha dato l'immortalità eternandolo nella mia memoria e nelle fotografie dei turisti.

«Qui mi sento a casa. Non so spiegartelo, ma quando ci vengo, mi sembra di essere proprio dove dovrei essere.»

Jean si passa una mano il braccio sulla fronte per asciugarsi il sudore. «Forse perché in mezzo a tutti i turisti, puoi scomparire e sentirti te stessa senza avere paura degli altri.»

«Può darsi, non ci ho mai riflettuto. È che essere qualcuno di conosciuto, anche se non sono una vera celebrità, mi fa desiderare di sparire e di nascondermi dove nessuno potrebbe trovarmi. E chi mi cercherebbe qui?»

Jean sta sorridendo. Lui qui mi cercherebbe.

«Non mi nasconderei mai da te.»

«Sì, Fiamma, lo so. Ma anche io a volte ho bisogno di avere del tempo solo per me. Soprattutto dopo Sophie...»

Non riesco a credergli, non del tutto. Quando gli scrivo e nessuno dei due è in allenamento, mi risponde subito. Io a volte stacco con tutto e tutti, persino con lui: spengo anche il telefono quando voglio essere irraggiungibile. Jean invece c'è sempre: mi sembra difficile pensare che esistano dei momenti in cui si isola. O forse io sono la sua eccezione.

«Ti ricordi tre anni fa? Sono cambiate un sacco di cose...» Non voglio che lui mi parli di Sophie, di quello che di come l'ha fatto sentire... Lui che è un ragazzo così adorabile.

Non riesco davvero a capirla, quella stronza.

«Be', ora siamo tutti e due alle Olimpiadi.» Jean mi guarda con un sorriso canzonatorio. «E tu che non mi credevi, quando ti ho detto che ci saremmo stati entrambi!»

Scrollo le spalle. «Non per merito mio.»

«La fortuna aiuta chi merita» ribatte il mio migliore amico, facendomi l'occhiolino. «L'anno prossimo fai le gare individuali e ti qualifichi per la finale sia all'Europeo sia al Mondiale!»

«Certo che le faccio! Se Giada ancora non è rientrata dall'infortunio, chi è che dovrebbe gareggiare? Stefania smette e rimaniamo solo io e Becky! Tu hai una fortuna pazzesca a non avere altri piattaformisti, almeno non devi superare le selezioni interne...»

Mi sistemo una bretellina della canottiera, evitando di guardarlo. Non volevo sminuire i suoi risultati: si è qualificato per Roma centrando la finale mondiale lo scorso anno e lì è arrivato quinto, davanti ai russi e a un cinese! A diciotto anni, poi!

«Tranquilla, Fiamma, non mi hai offeso.»

Sorrido, con gli occhi puntati sui tetti davanti a noi: ha la stramaledettissima capacità di leggermi nel pensiero. Non so se esserne felice o risentita.
«Sarà...»

«Mon Dieu, non...» mormora invece lui, guardando dietro di me.

Mi volto quanto mi basta per vedere la faccia da schiaffi di Émilien Toussaint, compagno di nazionale di Jean, insieme a una ragazza. Sbatto le palpebre, infastidita, perché riconosco l'australiana Janice Munro al suo fianco. Come al solito, il rimorchiatore seriale non perde tempo neanche alla vigilia di una manifestazione importante.

Entrambi ci salutano da lontano, Émilien agitando la mano come se fosse un personaggio di un film comico che ne ha appena combinata una delle sue. Non capisco se ci sta prendendo in giro o se è serio.

«Il suo unico lato positivo è che non ha mai fatto battute su noi due» commento a bassa voce, e Jean scoppia a ridere. In realtà ha anche il pregio di essere un buon amico, come lo è stato proprio per Jean. Almeno questo glielo devo riconoscere.

«Ciao!» esclama il rimorchiatore d'oltralpe appena ci raggiunge. Forse è l'unica parola che conosce in italiano.

«Hi, guys» gli fa eco la Munro, con un sorriso sul viso da elfo.

«Ciao, ragazzi» li saluto, mentre Jean non dice nulla.

Sorride, ricevendo il bacio sulla guancia di Janice, che poi ne stampa uno anche sulla mia. Mi è sembrato di vederlo arrossire, possibile? Si imbarazza per tutto!

Forse sarà solo rosso per il sole...

«Ça va?» mi chiede Émilien in un sussurro, mentre la trampolinista australiana chiacchiera con il mio migliore amico.

«Sono solo un po' agitata» rispondo, in francese.

Il deficiente mi fa l'occhiolino. «È normale. Una volta che sei in gara, fidati che non senti più nulla.»

«Per aver fatto uno schifo agli Europei, sei molto fiducioso.» A Budapest neanche ha centrato la finale!

«Ho un ottimo motivo per far bene» ridacchia lui, spavaldo. Certo, come se la motivazione bastasse...

«Immagino che abbia un nome e un cognome, il motivo...»

Conoscendolo, avrà già puntato qualche altra ragazza, oltre all'australiana che è qui con noi. Il suo modo di fare non mi piace granché, a essere sincera.

Émilien si gratta la barba corta sulla guancia e mi fa un altro occhiolino. «Sì, ma non è Janice. E no, tranquilla, non ci sto provando con te.»

«Anche perché non ci metto niente a mandarti a battere sulla Togliatti!» Scoppio a ridere da sola, e anche lui ride insieme a me. Ormai si è abituato ai miei modi pittoreschi di mandare a quel paese la gente.

Jean chiacchiera con la Munro a suo agio; perché io invece mi sembro una cretina quando i tuffatori più grandi di altre nazionalità mi dicono mezza parola? In Ungheria ho quasi fatto una figuraccia con il russo Komarov... Per fortuna ero insieme a Jean e lui mi ha salvata dal chiamarlo con il soprannome che Sandro gli ha affibbiato!

Mi perdo con lo sguardo a osservare di nuovo i tetti tinti di sole, ma non li vedo: sto ripensando agli occhi verdi di Ivan Komarov, che sono il motivo per cui il mio allenatore l'ha rinominato "Occhi di lince", oppure direttamente "Lince". Lui e Kulik sono davvero forti... Non è possibile, c'è un modo per non pensare alle gare? Neanche concentrarmi su tutt'altro aiuta, perché torno sempre lì con la testa!

«Noi stavamo andando a raggiungere Andy e Alicia, vi unite a noi?» propone Janice, interrompendo il mio flusso mentale.

Scambio uno sguardo con Jean, come cercando da lui un suggerimento su cosa rispondere. Mi annuisce con un sorriso.

«Sì» rispondo.

Gli altri due si incamminano, lasciando me e il mio migliore amico un paio di passi più indietro.

«L'unico modo che hai di affrontare l'ansia per la gara è attraversarla» sussurra Jean, al mio fianco. «Non puoi fare nulla, se non aspettare che sabato arrivi.»

«E nel frattempo mi alleno e basta?» gli chiedo, sperando di ricevere una conferma.

«Sì, senza pensieri.»

«La tua vita sarà...» canticchio, senza riuscire a controllarmi. Ma tanto Jean ha dovuto sopportare ben altro! «Hai ragione, sono qui per godermi l'Olimpiade, non per vincere una medaglia.»

Per quella è impossibile e ora me la posso solo sognare.

«Esatto, Fiamma.»

Gli sorrido mentre ci avviciniamo alla scalinata di Trinità dei Monti, dove da lontano scorgo il biondissimo Andy Blake con Alicia Easton. Magari per un pomeriggio riesco a svagarmi e a non pensare alle Olimpiadi. E, soprattutto, a non pensare che tra due giorni saremo proprio io e Becky a dare il via alla manifestazione sportiva più importante del pianeta.

.
.

*Angolino autrice*
Lo so, ci sono tantissimi nomi, soprattutto per essere un extra iniziale e di introduzione... Ma prometto che molti di coloro che appaiono qui avranno il loro spazio. Volevo mostrare un mondo più ampio in cui sono immersi i protagonisti e ho trovato che questo fosse il modo migliore per farlo.
Il prossimo extra sarà molto meno affollato, ci concentreremo solo su un personaggio e su pochi di coloro che gli ruotano attorno. A presto!
Cory.

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Capitolo 2
*** Extra 2 - Émilien ***


Con il telefono appoggiato tra la guancia, l'orecchio e la spalla, apre il borsone della piscina e toglie il costume zuppo dalla busta di plastica in cui l'aveva chiuso. «E così stasera vi vedete?»

«Sì... ma sono nervosa. Non so nemmeno quale vestito mettermi. Tu che mi consigli?»

«Sul vestito?»

«Sì!»

Si porta due dita sugli occhi, spremendosi le meningi. Che cazzo di domanda... Come era vestita al suo compleanno qualche settimana prima?

Appoggia il costume sullo stendino lasciato aperto dalla sera prima nel salotto. Scosta la tenda che dà verso la strada. A quell'ora la via si sta facendo buia e trafficata e gli pare di vedere, tra le tante figure femminili, quella della voce che gli parla all'orecchio. «Ne avevi uno nero, giusto?»

Che rincoglionito, certo ne aveva uno... E ricordava benissimo come le fasciava i fianchi e le metteva in risalto la linea delle gambe. Era così bella quella sera, e lui l'aveva fissata a bocca spalancata senza nemmeno farle un complimento.

«Per una prima uscita è troppo serio. Émilien, che faccio?»

«Vacci nuda, apprezzerà.» Si dà una manata sulla fronte, perché le parole gli sono uscite di bocca senza pensare. Coco non merita quelle battute idiote da parte sua.

Ma lei scoppia a ridere. «Mi porto un impermeabile e glielo apro davanti!»

Lui rilassa le spalle, guardando incantato i fanali delle macchine che scorrono di ritorno a casa. Almeno non si è offesa per la sua pessima uscita. Accosta la tenda e indietreggia, ma va a sbattere contro il divanetto e ci cade sopra, finendo con la schiena tra i cuscini.

«Cazzo...»

«Che succede?»

«Niente, sono inciampato sul divano.»

«Quella casa è troppo piccola persino per te

Se ci fosse lei, sarebbe più grande di Versailles. Tutto con lei sarebbe diverso, persino quegli spazi angusti in cui intruppa ovunque al minimo movimento.

«Hai deciso il vestito?» Svicola, perché un nodo alla gola gli impedisce di dare voce ai suoi veri pensieri.

«Mi sa che metto quello nero...»

Émilien sorride, poi incontra il suo riflesso sulla televisione spenta e si vede ridicolo, con le gambe all'aria come un cane a dare consigli alla ragazza che ama per il primo appuntamento con un altro. Si è davvero ridotto come un cagnolino per lei? Possibile che Coco non si accorga dei suoi sentimenti?

«Ci sei?»

«Sì, scusa, ci sono. Con quello nero stai bene.» E sei bellissima.

Colette non parla, dall'altra parte della linea. Non poteva chiedere il parere a un'amica? O a Jean, se proprio aveva bisogno di un'opinione maschile...

«Be'... Grazie.»

«Se ti devi preparare, ti lascio andare.»

«Va bene. Ci vediamo lunedì

Sorride di nuovo, inebetito. La prospettiva di vederla in allenamento gli risolleva il morale. Lì sono in pochi, solo i pochi che parteciperanno alle Olimpiadi. Lui, Coco e Jean.

«Se dovesse andare male... Chiamami.» Glielo dice, ma con tono preoccupato. Non ha idea di chi sia quel tizio, lei non gli ha dato nemmeno un nome da odiare e con cui prendersela. O da cercare sui social per decretare che si tratta di un imbecille. Eppure, dalla descrizione di Coco, non sembrava affatto un imbecille.

«Certo.» Non è una parola di circostanza, dal tono Émilien immagina il suo sorriso. Magari si sta aggiustando gli occhiali sulla punta del naso, o forse li ha appena tolti per infilarsi nel vestito...

Lei chiude la chiamata e lui lascia scivolare con un sospiro il cellulare dal suo orecchio ai cuscini di pelle. Un tonfo sordo lo avverte che ha proseguito il viaggio fino al pavimento.

Bah, sta bene lì, tanto non mi serve.

Si guarda attorno: le pareti spoglie, il mobile del televisore in cui conserva vecchi dischi e i giochi per la console comprata a marzo. Tutto gli sembra così inutile, quella casa è vuota se non c'è sua sorella a tormentarlo con le nuove uscite di moda di cui non gli importa un tubo, se non c'è sua madre a chiedergli quando è che vuole mettere su famiglia e perché se non ha una ragazza non ammette di essere gay; se non c'è Jean per giocare con la Play Station, o Coco a guardarli con disapprovazione mentre loro sfrecciano sui circuiti della Formula 1.

Senza le persone che contano davvero, quel bugigattolo non ha senso.

Si alza in piedi e raccoglie il telefono. Lo sblocca e sullo schermo compare una vecchia foto di quando era bambino con sua sorella Laure che giocava con le onde del mare e suo padre che gli insegnava a nuotare tenendolo a galla mentre lui doveva muovere braccia e gambe. L'arrivo di un messaggio fa vibrare il dispositivo.

"Come stai?"

"Laure, sto bene. Che vuoi?"

Digita velocemente, quasi rabbioso. Poi lo sguardo gli cade sul numero del giorno: venti luglio.

Cazzo, no.

"Scusa" si corregge subito. "Tu come stai?"

Si era sforzato tanto nel non pensarci, che alla fine aveva davvero dimenticato la ricorrenza.

"Sto bene anche io, stasera sono a casa con Antoine e guardiamo un film. Tu sei da solo? Veniamo lì da te?"

Émilien si alza in piedi, sbattendo la gamba contro il tavolino basso. Fanculo.

"No, Laure, non serve. Grazie lo stesso" e aggiunge un cuore per sembrare meno freddo. Per un istante esita, ma poi ci ripensa. Se le dicesse di Coco, lei si precipiterebbe lì con il suo miglior faccino compassionevole. Non vuole essere compatito da nessuno, deve risolvere da solo. Deve stare meglio da solo.

Arriva in cucina e apre tutte le credenze, lasciando le ante dei mobili a mezz'aria come ali di gabbiani. Si gratta il mento, fissando nel lavello i piatti sporchi della sera prima che ancora non ha pulito. Possono aspettare.

Prende il telefono dalla tasca e apre la chat con Jean. "Ci sei stasera? Ti passo a prendere e andiamo in centro."

"Purtroppo no, sono a una cena con i miei. Ci possiamo vedere dopo."

Scuote la testa. Non è da lui fare tardi, Jean-Marc gli avrà risposto così perché ricorda la data.

«Non merito un amico così.»

Appoggia la mano libera sul lavello, poi si gira e guarda nel frigo vuoto.

«Stasera mangio fuori, anche da solo.»

 

***

 

Qualcuno lo scuote sulla spalla, il viso è affondato in qualcosa di morbido e amaro che gli entra in bocca... Terra?

Si gira sulla schiena e le luci accese della Tour Eiffel lo accecano.

«Émilien, sei tu!» Lo squillo di una voce femminile che parla in inglese gli trapassa le orecchie. Si schermisce dall'illuminazione troppo forte con una mano, mentre qualcuno – un uomo? – lo aiuta a mettersi seduto.

«Ti abbiamo visto mentre camminavi fin qui... Sei caduto come un sacco di patate, ci siamo spaventati. Stai bene?»

«Ma chi sei?» Lo butta fuori in francese, è troppo intontito per riflettere in un'altra lingua. Si volta verso la voce e gli pare di riconoscere Valentina Filippi, una tuffatrice italiana con cui ha avuto una breve avventura qualche tempo prima. «Ah, ciao.»

Lei sospira, rincuorata. «Ti senti bene?»

«No.»

«Ti accompagniamo a casa?»

Annuisce, e si fa aiutare dal ragazzo di Valentina a rimettersi in piedi. Guarda la Tour Eiffel, forse qualche coppia fidanzata la sta fissando dall'altro lato proprio come lui, a bocca aperta.

E all'improvviso ricorda.

«Coco...» Cade in avanti sulle ginocchia, senza neanche aver mosso un passo.

«Émilien!» Valentina si china su di lui, accarezzandogli la schiena. «Che succede?»

Lui si porta le mani al viso. Sente gli occhi gonfi, non vuole piangere davanti ad altre persone, non vuole mostrarsi debole; ma non sa per quanto ancora riuscirà a mantenere il controllo. «Coco non mi ama.»

Lei si accovaccia al suo fianco, mentre il suo fidanzato – com'è che si chiama? Fabio? – fa lo stesso.

«Quanto hai bevuto?» gli chiede in un inglese dalla pronuncia britannica.

«Troppo.»

«Fabri, non possiamo lasciarlo qui» sussurra Valentina, in italiano.

«No, portiamolo a casa

Sono a mezzo metro da lui, ma li sente distanti. Qualcosa gli vibra nei pantaloni e cade con il sedere sull'erba nel tentativo di estrarre il telefono dalla tasca. O mantiene l'equilibrio o prende il cellulare. Valentina lo raccoglie e glielo porge.

«Cazzo, no... se era Coco?»

«Coco?»

«È con un altro... è con un altro!» Tira su con il naso, nel vano tentativo di trattenere una lacrima. «Sono un coglione, dovevo dirglielo che la amo.»

I due lo aiutano a rimettersi in piedi e Valentina lo porta sottobraccio lontano dagli sguardi curiosi dei turisti.

«Tu la ami?» gli sussurra, strattonandolo perché non barcolli in mezzo alla strada.

«Lei no, lei non mi ama.»

Lei sposta lo sguardo verso il fidanzato, che si allontana. «Fabrizio sta chiamando un taxi.»

Émilien fissa inebetito l'uomo, che riconosce solo per le fotografie che ha visto di lui e Valentina sui social. Nella testa sente un forte ronzio, si dà un colpetto a pugno chiuso sulla tempia per cercare di riportare silenzio nei suoi pensieri, ma non riesce a ragionare neanche così.

«Émilien, come sei arrivato qui?» Fabrizio è tornato e gli ha posato una mano sulla spalla. Sembra che gli importi di lui, il suo tono è preoccupato.

«A piedi... io volevo solo cenare al locale sotto casa, ma c'era uno sconto sulla birra...» Si ricomposero nella sua mente le immagini della cameriera che gli portava un boccale, poi un altro, poi un altro ancora e chissà quanti dopo. «Poi sono uscito da lì... E non so come sono arrivato qui, ma non me ne frega niente.»

«Adesso ti portiamo a casa, stai un po' meglio con l'aria fresca?»

«Fabri, la stava prendendo anche quando è caduto, l'aria fresca...»

Émilien scoppia a ridere, piegandosi in due, e si appoggia a Fabrizio per non finire con la faccia sul marciapiede. Ride, sotto lo sguardo attonito della coppia italiana, ma non riesce a smettere, perché se lo facesse forse scoppierebbe di nuovo a piangere. E non è quello che vuole.

Si ferma di colpo e si sente venire meno. «Era Coco al telefono?» chiede a Valentina. «Hai visto se era lei?»

«Non ho guardato, vediamo insieme?» Gli parla come farebbe una madre a un bambino.

Lui si sente ridicolo, ma annuisce. Sblocca lo schermo e subito un'altra chiamata è in arrivo. Risponde subito, questa volta.

«Jean?»

«Mi sono liberato di quella cena, ti raggiungo?»

«No, non serve.»

«Ti sento strano, stai bene? Prima non mi hai risposto.»

Guarda Valentina, che lo incoraggia a parlare. «Sì, sto bene, avevo tolto la vibrazione» mente, ma l'amico non se la prenderà. «Scusa... è un momentaccio.»

«Sei sicuro di non volermi lì?»

«Sì, Jean, non ti preoccupare. Non sono da solo.»

«Mi fa piacere. Scusami, la prossima volta mando a puttane qualsiasi impegno dei miei e sto con te.»

Émilien tira su con il naso. «Grazie, Jean.»

Valentina gli sorride, come se volesse dirgli anche lei che quel ragazzino è un tesoro e lui non merita di essere circondato di persone che si prendono cura di lui.

«Devo andare, ti scrivo domani.»

«Va bene. Se hai bisogno di qualsiasi cosa, io sono qui. Un abbraccio.»

«Buonanotte.» Chiude la chiamata prima che l'amico possa aggiungere altro. Ogni sua parola gentile è una stilettata nel suo animo fragile. «Dovete smettere di preoccuparvi per me.» Abbassa lo sguardo, ma può percepire Valentina e Fabrizio scambiarsi un'occhiata perplessa. È ancora avvolto dalla sensazione di annebbiamento dovuta all'alcol, ma percepisce la realtà amplificata attorno a lui e ogni parola, ogni gesto, ogni movimento, ogni voce lo trapassa e lo scuote da dentro. Come se Bacco stesse suonando il suo corpo scambiandolo per una batteria improvvisata. Si sente rimbombare da dentro per ogni vibrazione esterna.

E piange, perché si rende conto di quanto sia insensato e disperato il modo in cui ha cercato di annegare il ricordo della morte del padre e il dispiacere per i suoi sentimenti non corrisposti.

«É-émilien, possiamo fare qualcosa per te?» Valentina gli passa un braccio attorno alle spalle.

Scuote la testa, e una lacrima scivola dal suo naso all'asfalto. «No, sono un coglione ed è colpa mia... Dovevo dirglielo.»

«Dirle cosa?»

«Vale, lascialo stare.»

Un taxi bianco si ferma davanti a loro. Fabrizio gli apre lo sportello e lo fa salire, e si ritrova a dare il suo indirizzo di casa, scortato come un criminale dai due fidanzati che si siedono uno alla sua destra e l'altra alla sua sinistra. Si copre il volto con le mani: si sente un criminale, nei confronti di quel sentimento che da sobrio non sa nominare.

«E lei pensava che a Budapest volessi farmi Becky...» Si appoggia alla spalla di Fabrizio, che non dice nulla.

«Stai parlando di Colette?» gli chiede Valentina.

«Sì... sono un imbecille.»

«Ma no, non sei un imbecille.»

«E allora perché stasera è uscita con un altro e non con me?»

«Le hai mai chiesto di uscire?»

«Tu usciresti con uno che si è fatto mezzo mondo?»

Lei gli stringe una mano tra le sue e ne accarezza il dorso proprio come faceva Laure quando erano bambini e lui si sbucciava le ginocchia e non voleva farsi medicare da sua madre per non farle scoprire che era sempre il solito scavezzacollo. «Non è importante quando c'è l'amore di mezzo.»

«Cazzate. Io non uscirei con me stesso. Fa bene a frequentare un altro.»

Si riscuote per una brusca frenata del tassista. Come tutti i sabati d'estate, le vie brulicano di traffico e di vita. Émilien si spalma contro il corpo di Fabrizio per guardare fuori i gruppi di ragazzi, con la sciocca speranza di poter vedere Coco. Ma, a essere onesto con sé stesso, lui non ha la più pallida idea di dove sia andata a cena con quel tipo.

«Sei hai la nausea diccelo.» Valentina lo sistema in modo che sia seduto composto. E perché, se proprio deve vomitare, non lo faccia addosso al suo ragazzo.

«No, non ce l'ho. Mi gira solo la testa.»

Nessuno dice più una parola fino a quando il taxi si ferma davanti al palazzo grigio in cui vive Émilien. Lo trasportano fino al suo piano, ma ormai lui si sente di poter tranquillamente camminare sulle proprie gambe.

Caracolla fino al letto e si lascia cadere lì, troppo stanco per dire a quei due che il divanetto si può aprire e che ci sono delle lenzuola nel suo armadio.

 

***

 

Coco scende dalla macchina della madre, con un sorriso splendido su quella bocca sottile. Émilien si fissa a guardarla, trattenendo l'impulso di prenderle il viso tra le mani e baciarla.

Saluta la signora Bonnet con la mano e poi torna a concentrarsi sulla figlia che, zainetto in spalla, sta camminando verso di lui.

«Allora, com'è andata l'altra sera?» le chiede.

Colette scuote la testa. «Lascia stare, non si è presentato.»

Sorride, come un'idiota. Immagina lei delusa davanti a un ristorante ad aspettare un tipo che non risponde al telefono né ai messaggi. Ma poi si rabbuia. «Ti avevo detto di chiamarmi se fosse andata male.»

Lei abbassa lo sguardo e si morde il labbro. «Non volevo sembrare disperata, già mi aveva piantato lui...»

Émilien le accarezza la schiena. «Ma no, non sei disperata. Può succedere. Io, però, ti avrei risposto.»

Sempre che il cellulare non fosse caduto a terra davanti alla Tour Eiffel...

«Grazie. La prossima volta me ne ricorderò.» Gli dà le spalle e si incammina verso l'ingresso dell'Insep, dove entrambi si allenano.

Sorride, salvo poi prendere consapevolezza delle sue parole. La prossima volta? «Hai intenzione di vederlo di nuovo?»

Coco scoppia a ridere, bellissima. «Oh, no. Ma dovresti vedere la tua faccia!»

Anche lui si abbandona a una risata. Stava scherzando e lui c'è cascato come un imbecille. È proprio perso.

.
.
.

*Angolino autrice*
Eccomi puntuale, come vi avevo promesso. Questo è uno di quegli episodi che volevo approfondire sin dalla primissima volta in cui il genio del male ne parlava con Fiamma. E, a essere onesta, quasi tutto l'extra è stato scritto più di un anno fa, nel settembre 2021.
Spero che vi piaccia, c'è una piccolissima chicca che nei romanzi non è mai stata detta (ma che io ho sempre saputo). Grazie per la lettura!
Cory.

 

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Capitolo 3
*** Extra 3 - Coco ***


Parigi, ottobre 20*8

 

«Quindi cos’ha provato?»

C’è qualcosa di morbido, soffice, nella voce calda dell’uomo che la fa sentire al sicuro. Che le permette di dire un po’ di più di quanto oserebbe persino a sé stessa.

Oltre alla consapevolezza che tutto ciò che dirà rimarrà tra quelle pareti. E che nessuno, nessuno, lo saprà mai.

«Ho avuto paura. Sapevo di valere la finale, ero partita benissimo, ma poi…» Tace, si pizzica il dito e si morde il labbro. Fa male, malissimo. Chiude gli occhi e con la mente ritorna a quel trampolino, a quella semifinale olimpica in cui i primi tuffi erano stati di altissimo livello. E poi…

«Poi?»

Si pizzica la punta del medio con le unghie di pollice e alluce. Non è sicura neanche lei di voler rispondere, né che la risposta sia quello che voglia davvero. Ma ha un bisogno disperato di chiarezza e di risposte e sa che non sarà in pace con sé stessa finché non avrà messo sbrogliato il groviglio di riflessioni che le si affollano nella mente ogni notte prima di dormire e ogni mattino, prima di alzarsi dal letto.

«Ho commesso un errore sul rovesciato. Ma non come Fiamma, povera, lei ha sbattuto la testa sul trampolino… Per fortuna non mi sono fatta male, ma forse sarebbe stato meglio se mi fosse successo.»

«Perché sarebbe stato meglio?»

Inspira, espira. Sente gli occhi gonfi di lacrime e sul punto di lasciarsi andare. Davvero sarebbe stato meglio infortunarsi come l’amica italiana? Una piccola parte di sé le suggerisce di sì, un’altra che è stato meglio non aggiungere un infortunio a un’Olimpiade disastrosa. «Perché ho deluso tutti. Con quel piccolo errore ho compromesso la mia gara e non mi sono più ripresa. Anzi, ho fatto peggio negli ultimi due tuffi e sono finita ultima nella semifinale. E io non valgo un diciottesimo posto, sono anni che sto lavorando duramente, che in allenamento do il massimo e Alexandre era sicuro che all’Olimpiade sarei andata bene. E invece non sono stata all’altezza, ho buttato tutto.»

«Ne è davvero sicura?»

Coco solleva il mento, gli occhi bruni dello psicologo le restituiscono lo sguardo. Affabile è stata la prima parola che le è venuta in mente appena l’ha visto, superando la soglia dello studio. Non era certa di come si sarebbe trovata e tutt’ora non si sente così sicura. Ma intravede in lui quel briciolo di comprensione sufficiente per farla parlare senza scontrarsi con il suo carattere schivo.

«Quest’estate lo ero. Ora non lo so. So che avrei potuto fare di più, perché sono rimasta fuori per soli diciotto punti e dieci centesimi. Diciotto e dieci.»

«È un numero molto preciso.»

«È il numero che ha segnato la differenza tra riuscita e fallimento. Il mio obiettivo era la finale, e non l’ho raggiunto.»

«E come si sente? Lei ha detto di aver lavorato tanto per arrivarci, come si sente al pensiero che è stato inutile, per parafrasare le sue parole? Inoltre, pensa che davvero sia stato inutile? Che non ci sia stato un percorso che l’abbia portata fino a quel punto?»

Un percorso. Il percorso c’è stato, altrimenti non sarebbe arrivata in una semifinale olimpica. Nel percorso ha rafforzato l’amicizia con Jean, si è innamorata di Émilien… senza l’obiettivo della finale, avrebbe trascorso diversamente il tempo con loro due. E con lo stesso Alexandre, che è diventato ancora più di prima un punto di riferimento.

Ma c’è un ma. Ed è un “ma” gigantesco”.

«Sui tuffi no. Sapevo fare quei tuffi anche un anno fa, a Shanghai li ho fatti.»

«E lì come è andata?»

Si morde il labbro: ha capito dove sta finendo il discorso e non vuole arrivarci. «Ventesima. Non ho avuto un vero sviluppo come atleta, se sono passata da ventesima a diciottesima. Due posizioni sono poche.»

«Anche un anno fa ha fatto la semifinale?»

«No.» Diretta, precisa. Lo sapeva.

«Quindi ha fatto una parte di gara in più, si è guadagnata l’opportunità di fare un’esperienza nuova, che le ha permesso di nuovo di confrontarsi con delle avversarie più esperte di lei. Questo non significa niente?»

«Meritavo di più.»

Accavalla le gambe, abbassando lo sguardo. Due lacrime le scorrono sulle guance, non riesce più a trattenerle.

«Cosa le fa credere che in futuro non otterrà questo di più

«Le Olimpiadi ci sono solo ogni quattro anni. Non ho la certezza di potermi qualificare e non ho neanche più la certezza di valere una qualificazione olimpica.»

«Quante ragazze partecipavano?»

«Credo ventotto o ventinove, non ricordo.»

«Le altre dieci o undici, secondo lei, come si sono sentite dopo la gara?»

«Crede che il mio sia solo un capriccio?» gli chiede, con il tono più pacato che possiede. In realtà sta cercando di trattenere altre lacrime. «Non mi manca l’empatia verso le mie avversarie, né ho intenzione di paragonare il loro vissuto al mio.»

«Le volevo offrire un punto di vista differente. Da quanto ho capito da lei in questi minuti, non credo che le manchi nessuna capacità di comprendere le emozioni altrui.» La voce è un tappeto musicale, di quelli che si stendono di sottofondo in locali tranquilli. Le sue parole avrebbero potuto risultare dure, ma il suo tono non lo è affatto: è dolce, come se volesse entrare in confidenza con lei. «Come si saranno sentite le altre ragazze che non hanno più gareggiato?»

Rimane in silenzio. Non ha una risposta, perché si è talmente tanto concentrata su di sé da non pensare al resto. Non era di quello che voleva parlare, e non ne avverte il bisogno. «So come mi sarei sentita io se non avessi superato l’eliminatoria. Perché è esattamente quello che mi è successo al Mondiale. A Shanghai dovevo entrare nelle prime diciotto, poi a Roma ho alzato l’asticella: dovevo entrare nelle dodici.»

«E il suo obiettivo era questo? Entrare nelle dodici?»

«Sì. Ho deciso con il mio allenatore di fissare così gli obiettivi.»

Lui scarabocchia qualcosa sul foglio, poi scocca un’occhiata all’orologio sulla parete e mette da parte il blocco con gli appunti, posandolo sulla poltroncina e schiacciandolo tra la coscia e il velluto bordeaux. Poggia i gomiti sulle ginocchia e posa il mento sulle dita intrecciate, sporgendosi in avanti. La scruta con attenzione, quasi astraendosi dal suo ruolo, come se invece di indagare la sua psiche volesse leggerle l’anima.

«Allora perché è qui?»

«Perché tra il terzo e il quarto tuffo ho avuto un attacco di panico.» Trattiene il respiro, perché la confessione è grossa. Così grossa che anche lei stenta a credere di averla pronunciata ad alta voce. Quando Damien le aveva detto cosa era secondo lui, era stato molto sicuro di sé e della sua diagnosi e lei… lei si era fidata.

Ha rimandato fino a quel momento la rivelazione, perché temeva che parlarne sarebbe stato troppo duro e ha soffocato tra le lacrime il segreto, esprimendo soltanto un disperato bisogno di aiuto perché la vita le sembra aver perso colore.

Quando Jean le aveva suggerito di consultarsi con il padre psicologo e, successivamente, con un altro professionista, si era fidata di lui. Così come di Damien, che non avrebbe mai sparato una diagnosi a caso senza esserne sicuro.

«Ne è certa?»

«Damien Chevalier non mi avrebbe mentito» sentenzia, sostenendo lo sguardo dell’uomo. «Se fosse stato un episodio isolato, avrei avuto dei dubbi. Ma è accaduto di nuovo quando ho ricominciato gli allenamenti e quando Alexandre ci ha detto quando saremmo tornati a lavorare in piscina. Sono qui perché non voglio averne più. I tuffi sono la mia vita e non posso avere paura di fare ciò che amo.»

«Allora siamo d’accordo. Ci vediamo tra una settimana, stesso orario?»

 

***

 

Fuori dalla porta, Jean ascolta musica a un volume tanto alto che riesce a sentirlo anche lei, mentre sfoglia un libro tascabile. Neanche si è accorto che è uscita dallo studio del dottor Pascal Renard, come indica il foglietto attaccato alla porta con dello scotch, forse messo lì in attesa di una targhetta.

Lo scuote sulla spalla, spaventandolo, e lui si toglie le cuffie, con una mano al petto. Ma non le dice di non fargli più prendere un colpo.

«Com’è andata?» le chiede in un bisbiglio, prima che il collega di suo padre si affacci sulla soglia per salutarlo. Gli rivolge un sorriso cortese e pieno di riconoscenza, prima di lasciare la sala d’attesa insieme all’amica.

«Ci torno la prossima settimana» risponde lei appena sono in strada, infilandosi la giacca di pelle. Si porta i capelli da un lato, per non farli volare via nella strada ventosa, e insieme si incamminano in un quartiere che prende vita tra i bambini che escono da scuola, i giovani che si radunano nei bar e donne che vanno a fare spese.

Tutto sembra estraneo, appartenente a una vita che Coco non conosce, a cui è estranea.

Jean non parla, paziente, come se volesse che fosse lei a tirare fuori ciò che ha da dire o, meglio, ciò che si sente di condividere dell’ora appena trascorsa.

Raggiungono la Giulietta di lui, parcheggiata poco distante, e durante il tragitto lei non fa che guardare fuori.

Fuori.

La vita, quelle esplosioni di colore che sono gli zainetti dei ragazzini, i vestiti più sgargianti di qualche suo coetaneo, i vecchi che chiacchierano fuori dai bistrot o gruppi di amici che si vedono per fare aperitivo insieme. Coppie di mezza età che si incamminano con le buste della spesa, ragazzine adolescenti con le borsette che giocano a fare le adulte e che nascondono tante incertezze dietro uno strato di trucco che possa mascherare la paura di non essere abbastanza.

E lei?

Lei si guarda nello specchietto retrovisore e scopre che il mascara che le ha suggerito Alicia davvero è resistente all’acqua. Perché ha pianto, nella prima mezz’ora trascorsa dal dottor Renard, e non ce n’è traccia sul suo viso, se non negli occhi ancora un po’ rossi.

«Grazie, Jean» sussurra.

«Coco, io non ho fatto niente. Sei tu ad aver deciso di venire.»

«Non sminuirti.»

«Non sto sminuendo me, la vera impresa di oggi è la tua. Io ti sto solo sostenendo, ma è quello che devo fare in quanto tuo amico.»

«Non intendevo per oggi, ma per… sai, per tutto. Senza di te, senza il tuo aiuto, non credo che ce l’avrei fatta. Forse sarei scappata davanti al citofono, ancora prima di entrare.»

«Hai sempre avuto l’opportunità di tirarti indietro, se l’avessi voluto.» Parcheggia in una via secondaria e poco trafficata. Non doveva riportarla a casa?

«Che stai facendo?» gli chiede, mentre lui si toglie la cintura e la invita a scendere con un cenno.

«Andiamo a prenderci una cioccolata. Sei stata brava, te la meriti.»

Sorride, tra sé e sé. Jean è un amico raro, come ce ne sono pochi al mondo.

Lo raggiunge sul marciapiede. «Fiamma è fortunata e non lo sa.»

Lui scuote appena la testa, senza sorridere. «Preferisco che non sappia nulla. Con tutto quello che sta passando per via di Sandro, non voglio che si allontani da me perché…» Le cede il passo per farla entrare in una cioccolateria, e la guida attraverso i tavoli, scegliendone uno in disparte. Si toglie la giacca e la posa sulla sedia, prima di prendere posto. «Insomma, non voglio che lo sappia. Non so come la prenderebbe, mi vede solo come amico.»

Lei annuisce. Capisce cosa si prova, sa anche lei che lui non la vedrà mai in quel modo. «Sempre meglio che essere considerata una sorellina più piccola da proteggere. Ti ricordi come guardava Thompson, a Roma?»

Jean non può rispondere, perché uno dei camerieri, un ragazzo sulla trentina con gli occhi da furbetto, si avvicina a loro per prendere l’ordinazione.

«Quando torna a Parigi, dovresti portarla qui.» Coco si guarda intorno. Su una parete ci sono tazze appese a dei chiodini, forse sono lì solo per scena. Un’altra è occupata da un’immensa vetrina con vari tipi di cioccolatini con ripieni a ogni gusto, e dietro al bancone si muovono un paio di camerieri o baristi che fanno avanti e indietro dal retro, in cui accade la magia del cioccolato.

Se non si sentisse tanto stremata, riuscirebbe persino a godersi il profumo di cioccolato che pervade l’aria. Ma lei è stanca, esausta, perché il pianto le affatica gli occhi e la mente. Ha passato troppo tempo a piangere, negli ultimi tempi, e troppo poco tempo a vivere ciò che c’è di bello oltre gli occhiali, sorta di barriera tra sé e il mondo.

Rimane in silenzio che le pare interminabile, ma Jean non la forza a parlare. Non lo farebbe mai. L’amico riceve un messaggio che legge sbuffando.

«Chi è?»

«Émilien. Vuole sapere dove sono per raggiungermi. Gli dico di no?»

Si morde il labbro interno. Vorrebbe vederlo, vorrebbe vederlo sempre, ma non in quelle condizioni, capirebbe che ha pianto, che non si sente bene, che basta la sua presenza in un momento delicato a mandarla in confusione.

«E se lui… Jean, se mi vedesse così?»

La scruta con attenzione, e lei si sente osservata fino all’anima. Non ha colto il riferimento di poco fa? Improbabile, è un ragazzo attento ai dettagli.

Annuisce, senza rispondere direttamente. «Gli dico di no.»

«Non dirgli che sei con me, non voglio che pensi che tra noi…»

«Sa che in testa ho solo Fiamma.»

«E Dana?»

«Non lo so. Mi piace, ma non è la stessa cosa.»

Il cameriere di poco prima porta un vassoio con due tazze ricolme di cioccolato. Quello alla cannella di Coco soffia spire alte davanti al suo viso, appannandole gli occhiali.

«Per Dana è solo passeggero, Fiamma mi piace in modo più profondo. Non so spiegarlo.»

Colette prova ad accennare un sorriso, non ricordava quanto fosse difficile. Ma vuole rincuorarlo e si sforza a incurvare le labbra, sperando che l’amico non veda una smorfia che non trasmetta il suo reale affetto per lui. «Non serve che spieghi, si vede.»

Jean scuote lievemente il capo. «Lei non lo vede.»

«Lo vedrà. Eravate gli unici a non rendersi conto del vostro rapporto…»

«Non voglio parlarne» taglia corto Jean, riprendendo il telefono in mano. Le pene d’amore non sono il miglior argomento per entrambi.

Lei immerge il cucchiaino nella tazza e se lo porta alle labbra per assaggiare la bevanda dolce. La scalda dall’interno e per la seconda volta in quella giornata ha la sensazione di essere coccolata.

«Comunque è andata bene» ammette, in un soffio. «Con il dottore, prima. Ho l’impressione che sia la persona giusta… Non è una spiegazione razionale, è più l’istinto a dirmelo.»

Lui posa il telefono sul tavolo, e abbozza un sorriso. «Mi fa piacere. Voglio che tu stia bene.» Tace per un momento e fissa un punto imprecisato nel vuoto. «Temevo che fossi una di quelle persone che pensano che dallo psicologo ci vanno i matti.»

«Lo ero.» Era stata la disperazione, mista a una consapevolezza diversa di sé rispetto al passato, alla normalità, a farle cambiare idea. «Avevo paura che la terapia mi facesse diventare una persona che non sono, per questo…» Si morde la lingua, un’altra volta. «Ti ricordi quando avevamo avuto quell’incontro sulla salute mentale nello sport?»

«Quattro anni fa?»

«Sì. Be’, non sono stata attenta per la maggior parte del tempo.»

Jean le sorride, incoraggiante. «Invece io sì, ma forse il lavoro di mio padre ha influito. Sono stato in terapia da Renard, ed è stato poco dopo quell’incontro. Mi ha aiutato tantissimo.»

«Questo spiega molte cose.» Prima tra tutte perché Jean capisce qualsiasi situazione meglio degli altri; e non è solo una questione di intelligenza e sensibilità.

«Mi ha detto che il rapporto con Fiamma era positivo per il mio benessere e che dovevo mantenerlo a qualsiasi costo, quando Sophie ha provato a farmi tagliare i ponti con lei.»

«Che cosa ha fatto?» Conosce l’ex dell’amico, l’ha vista fin troppe volte alle gare, alle feste a cui si presentava insieme a lui senza lasciargli nemmeno lo spazio per respirare. Non dovrebbe stupirsi se ha provato a sbarazzarsi dell'ingombrante migliore amica, eppure…

«Già… Doveva essere un campanello d’allarme sia sui miei sentimenti per Fiamma sia sulle intenzioni di Sophie.» Jean si porta la tazza alle labbra e beve un lungo sorso. «Non capivo quanto mi facesse male, nonostante Renard mi avesse lanciato qualche avvisaglia.»

Coco non replica. Preferisce che il discorso si sia spostato di nuovo su lui e Fiamma, ma non sa cosa dire che non suoni stupido. O qualcosa che non significhi: “Émilien aveva ragione, non avresti neanche dovuto mettertici insieme”.

«Ora capisco perché Émilien la odiava» commenta Jean. Si è reso conto da solo di cosa stava pensando l’amica.

«Digli di venire» decide lei, all’improvviso. Ora si sente un po’ meglio e se Émilien fosse lì insieme a loro, rallegrerebbe l’atmosfera insultando Sophie Laroche e tutta la sua genealogia.

Solo il pensiero di ridere, e di ridere di gusto insieme a lui, la scalda ancor più della cioccolata, nonostante persino sorridere sia una fatica. E dovergli celare il suo fragile stato mentale è un peso ingombrante, ma sta lottando con sé stessa per stare bene. Una lotta che non finisce mai, neanche quando torna a casa e vede i visi preoccupati dei genitori. Si sono accorti della luce nei suoi occhi, di quel bagliore che si è spento negli ultimi tempi.

No, deve riprendere in mano tutto, deve riprendersi sé stessa. Forse le notti saranno tormentate ancora lungo, ma almeno il giorno deve darle serenità.

Se questo significa dover affrontare la presenza destabilizzante e allo stesso tempo confortante del ragazzo di cui è innamorata, tanto vale buttarsi a capofitto. D’altronde, è una vita che esegue dei capofitti.

 

***

 

Alexandre la prende da parte, mentre Émilien e Léo non esitano prima di andare ai trampolini da un metro e iniziare il riscaldamento con qualche tuffo semplice.

«Voglio che ti senta sicura» le dice, con l’aria più seria che gli abbia mai visto. Si aggiusta gli occhiali sul naso spingendoli indietro con il dito, e il suo sguardo gelido ha qualcosa che ha mostrato ben poche volte. Alexandre Dumas è conosciuto da tutti per essere un allenatore molto esigente e severo ma stavolta, con lei, qualcosa è cambiato. Si è sciolto più di quanto avesse fatto in passato. «Se non fai attenzione, il rischio di farti male da lì è più alto.»

Annuisce: con tutto il lavoro fatto in palestra, si sente pronta. Nonostante non sia ancora arrivato il momento di tuffarsi dai dieci metri.

Sale su una delle piattaforme inferiori, così come Jean. L’amico arriva a quella dei cinque metri, lei si ferma a una più bassa e si sistema per provare solo gli ingressi. Quelli saranno una componente fondamentale della valutazione dei giudici, molto più che per i tuffi dal trampolino.

Non deve preoccuparsi, è solo un allenamento. Ma guarda l’acqua in basso, davanti a sé e qualcosa la blocca e le stringe un nodo in gola.

«Non sono pronta» sussurra, mantenendo lo sguardo fisso sul fondo azzurro della piscina. «Non ce la faccio.»

Aveva evitato di pensare a cosa avrebbe provato nell’eseguire i nuovi esercizi di allenamento e ora le sembra di dover correre a cento chilometri all’ora contro un muro di mattoni che non svanirà come per magia all’impatto.

«Buttati. Dritta, senza pensare» le suggerisce Jean. Deve aver saltato già ed essere risalito, per essersi accorto della sua incertezza. «Lo facciamo insieme?»

Insieme. È una parola bellissima da ascoltare, soprattutto in un momento di difficoltà. Jean sa, sa sempre, e capisce che cosa non va senza il bisogno di parole.

Ma Coco indietreggia e torna alle scalette. Si porta entrambe le mani al viso, cercando di nascondersi il più possibile a Émilien, che sta parlando con Alexandre e Caroline, l’altra allenatrice. Non vuole che la veda così.

«Ho paura» mormora, appena si accorge che Jean è accanto a lei. Unisce le mani davanti al naso, come se stesse pregando. Dentro di sé sta sperando che sia solo una brutta sensazione, che non sia reale, che sia soltanto un incubo. Le viene da piangere, ma non può farlo lì, nel bel mezzo di un allenamento, non può farlo con il rischio che Émilien, Caroline e Léo la vedano e che provino a compatirla senza neanche sapere cosa succede. Non vuole che la vedano come una persona in difficoltà, qualcuno da accudire e di cui prendersi cura perché da solo non ce la fa. Deve essere forte, deve sforzarsi di esserlo, ma è tutto così immensamente più grande di lei da sovrastarla e abbatterla da dentro.

Inspira ed espira, cerca di controllarsi, di non piegare le ginocchia e finire per terra perché il suo stesso peso sembra troppo da sostenere.

«Di’ ad Alexandre che non ce la fai e vai a cambiarti, non puoi stare così.» La voce di Jean sembra lontana, distante, come se le parlasse attraverso un vetro. Lo guarda, come se non guardasse davvero lui, ma un punto oltre il suo corpo. Si sente così fragile, così debole… Proprio come è, solo che ammetterlo anche a sé stessa è peggio del doversi tuffare. Si siede sulle scalette con la testa che le gira. No, non lo vuole, perché non torna tutto al suo posto? Perché non finisce tutto così come è iniziato? Perché è così complicato buttarsi in acqua, come se fosse un gioco? L’ha fatto centinaia di volte al termine di tanti allenamenti, e ora sembra così assurdo che nessun coefficiente ne renda la reale difficoltà.

«Coco, vai a cambiarti.» Jean le posa una mano sulla spalla. Si è accovacciato davanti al suo viso e la scruta con aria preoccupata. Non vuole che nessuno si preoccupi per lei, non vuole che pensino che sta male, ma a lui non può nascondere niente. È stato l’unico con cui si sia aperta, l’unico a sapere tutto, e ha sempre lo sguardo non solo di chi sa, ma di chi comprende il suo stato mentale, emotivo, fisico.

«Tutto bene?» Émilien li guarda dal gradino più basso delle scalette.

«No, ho…» Esita per un istante, che scusa inventarsi? «Ho un po’ di mal di stomaco e mi sta girando la testa.»

Jean le porge una mano per aiutarla a rialzarsi, così scende fino a trovarsi faccia a faccia con il ragazzo di cui è innamorata. Infila le ciabatte ai piedi e lo supera, ma lui la trattiene per il braccio. Con dolcezza, senza costringerla a voltarsi. Le sue dita sulla pelle la fanno rabbrividire, ma cerca di non pensarci. Forse Émilien neanche se n’è accorto.

«Se non ti senti bene per… Insomma, cose tue, Caroline si porta sempre dietro quello che le serve. Stanno nel borsone giallo dentro l’armadietto in palestra. Una volta l’ho aperto per sbaglio…» Sorride, come se questo potesse rincuorarla.

«Oh, be’… grazie.» Prova a sorridere, impacciata, ma i muscoli del viso non le rispondono.

«Ti accompagnerei a prenderli, ma se Caroline sa che lo so, mi ucciderebbe!» continua a scherzare lui.

Lei annuisce soltanto, prima di dargli le spalle con gli occhi gonfi. Avrebbe voluto ridere, le sarebbe tanto piaciuto, ma non se ne sente capace. Raggiunge Alexandre, in piedi per guardare il tuffo di Jean e sussurra: «Non mi sento bene».

L’allenatore le fa un cenno di assenso. «Se non te la senti di tornare a casa da sola, posso accompagnarti a fine giornata.»

«Ci pensa Jean» gli risponde in un soffio e fila verso gli spogliatoi. Solo lì, una volta rimasta sola, inizia a piangere. Perché si sente impotente, si sente in trappola, ingabbiata tra i suoi desideri, i suoi sogni e ciò che invece non riesce a realizzare. Perché tutto sembra più grande di lei, un buco nero che la inghiotte e che le impedisce di respirare, chiudendola in una morsa sempre più stretta da cui tenta invano di divincolarsi.

Non sa neanche come abbia fatto a togliere il costume e a rivestirsi, i suoi occhi non hanno visto altro che quell’ombra scura che la avvolge e che da ormai troppo non la lascia in pace.

Torna in piscina, con il cellulare in mano e la zip della tuta tirata su fino a coprirle il labbro inferiore. Si asciuga gli occhi poco prima di mostrarsi agli altri, si appoggia su una sedia come se non volesse fare rumore, come se non volesse che gli altri si accorgessero della sua presenza. Persino il suono dei suoi respiri è opprimente. Vorrebbe solo fondersi con l’ambiente e passare inosservata.

Émilien le rivolge un’occhiata interrogativa, come a chiederle se ha trovato gli assorbenti di Caroline. Almeno si è dato una spiegazione da solo, senza che dovesse inventarsene lei una…

Coco gli fa un cenno come a dirgli di sì.

Non posso stare così, voglio che finisca tutto questo.

Smette di giocherellare con il telefono tra le mani e cerca la chat con Pascal Renard.

Una volta a settimana non basta, per ora ho bisogno di più sedute” digita soltanto. Spera che le dica che non è un problema, che non devono rispettare una seduta a settimana, che quella richiesta non sia una follia.

Va bene, ho un’ora libera domani per le quindici. Riesce a esserci o vuole fare un altro giorno?” è la risposta, che arriva dopo solo due minuti.

Coco guarda il doppio e mezzo avanti di Émilien, e si morde il labbro. Sente ancora gli occhi gonfi, non vuole piangere di nuovo, ma si rende conto che non può controllarlo.

Va bene, ci sarò.”


*Angolino autrice*
Avevo sospeso gli aggiornamenti per un po' causa "stesura finale di Dtac3". Ora che il libro è in arrivo e non sono più concentrata con tutte le mie energie su quello, posso di nuovo dedicarmi agli extra. Spero che questo vi piaccia, perché Coco è uno dei miei personaggi preferiti!
Grazie per aver letto fin qui, ci rivediamo tra una settimana!
Cory.

 

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