Better than I know myself

di Roscoe24
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** 1. ***
Capitolo 2: *** 2. ***
Capitolo 3: *** 3. ***
Capitolo 4: *** 4. ***
Capitolo 5: *** 5. ***
Capitolo 6: *** 6. ***
Capitolo 7: *** 7. ***
Capitolo 8: *** 8. ***



Capitolo 1
*** 1. ***


                                                                                                                                                                                                           
I know it gets hard sometimes,
But I could never leave your side
 (…)
I can be obnoxious at times, but try and see my heart
‘Cause I need you now, so don’t let me down
You’re the only thing in this world, I would die without                 
                                                                                                                                                                           

                                                                                                                                          


                                                                                                 

                                                                                                   ◊





Merlin poteva dire di aver vissuto un’eternità di vite.
Nonostante avesse solamente ventott’anni, a volte gli sembrava di averne ottocento, se non mille, o millecinquecento. Il fatto era che stare dietro agli umori di Arthur Pendragon era più difficile che affrontare le fatiche di Ercole o essere l’unico mago in un regno in cui la magia era bandita, pena la morte. E sì, per chiunque se lo stia chiedendo: Merlin è decisamente influenzato dalle leggende che riguardano il mago di cui porta il nome. Senza contare, tra l’altro, che il suo destino, a quanto pareva, l’aveva voluto legare ad un babbeo di nome Arthur esattamente come era successo al Merlin delle leggende. Se nelle leggende, tuttavia, l’Arthur in questione era il re d’Inghilterra, nell’attuale contesto era solamente il Re dei Babbei, Sua Babbeosità in persona che tendeva a chiamare Merlin ogni trenta secondi, ritenendo ogni cosa che gli accada un’emergenza di cui, ovviamente, Merlin doveva occuparsi con la massima efficienza e urgenza.
E Merlin sapeva perfettamente che la sua laurea in giurisprudenza non serviva a fare da assistente – o forse era meglio dire servitore – ad Arthur Pendragon, tuttavia quello era il suo destino: essere l’assistente personale del figlio del fondatore dello studio legale che l’aveva assunto, tale Uther Pendragon.
Uther era un tipo piuttosto dispotico, che aveva cresciuto Arthur in modo che seguisse le sue orme. Arthur era un buon avvocato, un tantino arrogante, se lo si chiede a Merlin. Proveniva da una famiglia di avvocati, era ricco sfondato e aveva ricevuto la migliore educazione fin da bambino, frequentando tutte le scuole private più rinomate dell’Inghilterra.
A volte, Merlin aveva l’impressione che Uther avesse educato suo figlio come se dovesse essere lui il futuro sovrano del loro Paese, ma poi accantonava quel pensiero ridicolo.  
Ad ogni modo, essendo stato cresciuto come se fosse il principe ereditario di un qualche regno fantastico, Arthur era convinto che il suo unico destino fosse quello di comandare – in generale chiunque, in particolare Merlin
Il giovane avvocato sapeva che il suo capo non era cattivo, in fondo aveva anche un cuore buono e grande, era solamente, appunto, un babbeo. A volte la sua ingenuità faceva persino tenerezza.
“Merlin!” Lo chiamò dell’interfono del telefono, situato sulla sua scrivania, l’oggetto dei suoi rimugini. Il ragazzo si alzò dalla suddetta scrivania, situata davanti all’ufficio di Arthur e si diresse alla porta. L’aprì senza bussare.
Arthur Pendragon si trovava seduto alla sua scrivania in mogano. Il suo ufficio era, ovviamente, il più grande – fatta eccezione per quello di Uther, che era ancora più grande. Era tappezzato da qualsiasi attestato potesse mettere in mostra le doti e le capacità del giovane Pendragon: la sua laurea ad Oxford conseguita con un anno di anticipo rispetto al normale corso degli eventi era quella che spiccava maggiormente, ed era, probabilmente, quella di cui Arthur andava più fiero. La sua scrivania era sorprendentemente ordinata e questo, diceva sempre Arthur, non era merito di Merlin, disordinato per natura. Arthur aveva rinunciato a chiedere a Merlin di riordinarla perché sapeva che, immancabilmente, qualcuno dei suoi preziosi, costosissimi, oggetti sarebbe finito inevitabilmente in frantumi, o danneggiato in modo irrimediabile, come quella volta che l’assistente aveva versato il caffè bollente di Arthur sul pc nuovo di pacca del suo capo. Quel povero Mac aveva avuto solamente qualche ora di vita, prima di andare in contro ad una morte fulminante.
“Ti scalerò questo danno dal tuo stipendio, Merlin.”
“Quel computer costa più dell’affitto del mio appartamento, Arthur.”

Ma Arthur non si era fatto impietosire – non che fosse l’intenzione di Merlin, comunque. La sua risposta era stata data più come a titolo informativo, come un dato di fatto inconfutabile.
“Che ti serva di lezione.  In questo modo, magari, la prossima volta farai più attenzione, mh?”
E su una cosa Arthur aveva avuto ragione: la prossima volta si era verificata. La vittima non era più stata un computer che costava quanto un organo, ma era successo per tante cose che Arthur teneva sulla sua scrivania e che, purtroppo, avevano finito con l’essere vittime inconsapevoli della sbadataggine di Merlin.
Merlin aveva tante doti, la precisione non era una di queste. Era maldestro e questo aveva comportato un problema più di quanto ad entrambi piacesse ammettere.
“Merlin. Devi. Bussare.” Scandì Arthur, parlando come se si trovasse davanti a qualcuno particolarmente lento mentalmente. “Sei l’unico che non lo fa, lo sai?”
“Sono anche l’unico che ti sopporta giorno e notte.”
“Merlin!” Esclamò, scioccato dalla sua sfacciataggine. In realtà, Arthur avrebbe dovuto essere scioccato dal fatto che ancora si scioccava per le risposte irriverenti del suo assistente. Lui e Merlin lavoravano insieme da un anno, ormai. Avrebbe dovuto essere abituato ai suoi modi di fare. E alla sua faccetta sarcastica.
“Arthur!”
Soprattutto a quella che metteva su quando gli rispondeva in quel modo impertinente.
“Sei tu che mi hai chiamato, comunque. Che senso avrebbe bussare?”
Arthur resistette all’impulso di mettersi le mani nei capelli, ma alzò esageratamente gli occhi al cielo, di proposito, per mostrare al suo assistente quanto sapeva essere fastidioso, a volte.
“Bussare implica chiedere il permesso, che a sua volta implica la consapevolezza che ci si sta per rivolgere ad un’autorità.”
Merlin dovette fare ricorso a tutte le sue forze per non imitare il suo capo e roteare gli occhi così tanto da farli girare nel retro del cranio. Arthur era così plateale, a volte.
“Volete anche un inchino, Sire?”
“Merlin.” Lo fulminò Arthur, “Non tirare troppo la corda.”
Erano diventati amici, in quell’anno. Ma Arthur rimaneva pur sempre il suo capo. Tuttavia, nonostante ricoprisse una carica elevata – era il più giovane socio senior, colui che avrebbe ereditato lo studio legale una volta che Uther avesse deciso di ritirarsi dalle scene – era estremamente diverso da suo padre: Uther era dispotico, quasi devoto all’idea di separare sé stesso dai suoi dipendenti. Lui era il capo e tutti dovevano essere consapevoli di ciò. Sembrava quasi che avesse fondato tutto il suo lavoro sull’essere temuto, quasi come se la paura portasse automaticamente rispetto e non un celato disprezzo.
Arthur, invece, era diverso. Era un capo, sì, ma si era guadagnato il rispetto dei suoi dipendenti lavorando al loro fianco, rimanendo fino a tardi come chiunque altro, passando le nottate in ufficio – e Merlin con lui – per cercare di risolvere casi che si erano dimostrati particolarmente ostici. Pretendeva, da coloro che lavoravano con lui, ma era anche disposto ad ascoltare i loro bisogni e fare in modo, per quanto fosse in suo potere, di cercare di assecondarli.
“Loro hanno bisogno di me, per lavorare, ma io ho bisogno di loro per far sì che lo studio vada avanti. Hai mai visto uno studio legale senza dipendenti?”
“No,” aveva risposto Merlin. E Arthur gli aveva lanciato un’occhiata, alzando le sopracciglia, come se quell’espressione bastasse a fargli capire il suo punto di vista. E come se bastasse per far capire a Merlin quanto Arthur si sentisse a disagio ogni volta che doveva ripetere quel concetto al vecchio Uther, che non approvava per niente la politica del capo/amico con cui suo figlio si poneva ai dipendenti.
“Scusa,” Disse Merlin, facendosi serio. “Di cosa hai bisogno?”
“Dei documenti del caso pro-bono che stavamo esaminando due giorni fa.”
Merlin aggrottò le sopracciglia, una ruga d’espressione si formò in mezzo ad esse, come spia della sua confusione. “Ma tuo padre ha detto–”
“So cosa ha detto.” Lo interruppe Arthur. “E non l’ho contraddetto in pubblico perché non gli piace. Ma non voglio abbandonare quel caso.”
Merlin riuscì a stento a trattenere un sorriso. Arthur era buono. Ed era particolarmente orgoglioso di lui, quando lasciava che il cavaliere senza macchia che albergava in lui venisse fuori, pronto a difendere chi non poteva farlo da solo. 
“Abbiamo raggiunto il numero massimo di casi pro-bono, per questo trimestre.” Gli ricordò, giusto perché era la prassi che lo imponeva, non perché volesse dissuaderlo.
“Lo so, e non mi importa. Ora, vai a fare ciò che ti ho chiesto.”
“Dire per favore ogni tanto non ti ucciderebbe, sai?”
Arthur gli riservò un’occhiataccia tagliente. “Muoviti, Merlin. E non farti vedere da nessuno degli assistenti di mio padre. Voglio lavorare a questo caso in pace.”
E Merlin sapeva che per lavorare a quel caso in tutta tranquillità dovevano farlo alle spalle di Uther, altrimenti si sarebbe scatenato l’Inferno.
“Sì, capo.”
Arthur annuì e Merlin uscì dal suo ufficio, diretto agli archivi.



*



Sulla strada verso gli archivi – che si trovavano al piano inferiore rispetto agli uffici – Merlin incrociò Gwen.
La ragazza gli sorrise, amichevole. Merlin ricordava con assoluto affetto il comportamento che aveva avuto nei suoi riguardi appena era approdato in quello studio. Gwen era stata l’unica a prendersi la briga di informarlo sulle informazioni basilari che l’avrebbero aiutato a sopravvivere in quel mondo di squali.
Erano diventati amici fin da subito.
“Ehi,” Lo salutò, un sorriso a tenderle le labbra. “Dove corri?”
“Non dovrei dirlo a nessuno.” Merlin socchiuse un occhio, alzò un angolo della bocca in un mezzo sorriso e la guardò come a volerle chiedere scusa in anticipo. Era perfettamente consapevole che Gwen era l’assistente personale di Morgana, la sorella di Arthur, ed era altrettanto conscio del fatto che quelle due non si nascondessero nulla e se per caso Morgana fosse venuta a conoscenza dei piani del fratello alle spalle del padre… una guerra si sarebbe scatenata in casa Pendragon.
Merlin sapeva che Gwen non era cattiva, e sapeva anche che, di norma, non avrebbe mai fatto nulla per danneggiarlo, ma sapeva anche che in quanto assistente di Morgana, aveva dei doveri nei suoi confronti e se le avesse chiesto cosa stavano combinando Merlin ed Arthur, lei avrebbe dovuto rispondere.
E dal momento che tutti in quello studio erano consapevoli delle varie litigate – frivole o pesanti che fossero – in cui si ritrovavano coinvolti i fratelli Pendragon un giorno sì e l’altro pure, pur di farsi dispetti a vicenda – nemmeno fossero ancora due bambini cocciuti e non due adulti – Merlin preferì evitare di dare spiegazioni di qualsiasi genere.
“Capisco. Tu e la tua cieca fedeltà ad Arthur. Non ti ringrazia abbastanza.”
“Non mi sono mai aspettato che lo facesse.” Borbottò Merlin, cercando di camuffare il rossore sulle sue guance. Perché stava arrossendo, poi?
Gwen gli lanciò un’occhiata piena di consapevolezza, che tuttavia Merlin non colse del tutto. Sembrava quasi che l’amica sapesse qualcosa che a lui sfuggiva, nonostante fosse – dalla faccia che aveva messo su Gwen – terribilmente ovvio.
Che la vicinanza prolungata con Arthur, l’avesse influenzato a tal punto da rendere anche i propri neuroni lenti e idioti?
“Devo andare.” Aggiunse sbrigativo Merlin con tutta l’intenzione di togliersi d’impiccio.
“Ma certo. Ci vediamo stasera?”
“Ad un’unica condizione.”
Gwen sorrise divertita. “Quale?”
“Nessun Pendragon dovrà essere nominato.”
Il sorriso di Gwen divenne una risata. “Ci sto.”



*


Merlin raggiunse gli archivi con tutta la discrezione di cui era capace. Avrebbe voluto dire che tutta questa segretezza lo rendeva nervoso, ma la verità era che non lo era per niente – non in quel preciso istante, almeno.
Ed era pienamente consapevole di quanto suonasse irresponsabile, ma ormai era abituato ad obbedire a qualsiasi richiesta di Arthur.
Ed era capitato, qualche volta, che Arthur gli chiedesse di fare anche cose che potevano risultare scomode. Merlin si era semplicemente abituato, si era adattato alla situazione come aveva imparato ad adeguarsi al caratteraccio di Arthur, che odiava sentirsi dire di no. Era testardo come un mulo e il più delle volte Merlin si era trovato a discutere con lui, fino a quando non aveva dovuto cedere e assecondarlo.
Merlin sospirò e si guardò intorno. Nessuno, in quel momento, gli stava prestando attenzione. Come avrebbero potuto, dopotutto? Se qualcuno si trovava negli archivi, spesso era un assistente, o un apprendista, o un giovane avvocato che doveva imparare il mestiere – come lui, anche se poi era stato relegato ad assistere Sua Maestà – e che non aveva tempo da perdere. Laggiù, segregati negli archivi, i vari dipendenti si muovevano come tante api operaie, lige al loro dovere.
Merlin sospirò di nuovo, sentendosi a sua volta una piccola ape, e si diresse verso il fondo di quella stanza, dove sapeva venivano tenuti i vari fascicoli.
Sapeva che tutto questo era una follia. Sapeva che Uther, o prima o dopo, sarebbe venuto a conoscenza del fattaccio, e che probabilmente avrebbe voluto la sua testa su una picca, o l’avrebbe arso vivo sul rogo. Era impossibile che non lo venisse a sapere, dal momento che per prelevare una qualsiasi fascicolo bisognava lasciare il badge di riconoscimento al vecchio Geoffrey, che era particolarmente puntiglioso e devoto alle regole, nonché allo stesso Uther.
Merlin sentiva già l’odore di carne bruciata – la sua – nell’aria. Deglutì, cercando di mandare giù quel boccone amaro.
Le cose che faccio per te, Arthur Pendragon, stupido idiota ingrato.
“Buongiorno, Geoffrey.”
Il vecchio archivista guardò il giovane con la solita sufficienza che riservava a tutti. “Di cosa hai bisogno?”
“Del fascicolo 82-47-5b.” Recitò a memoria Merlin, che conosceva i codici di tutti i fascicoli di Arthur, perché il signorino era ossessionato dalla precisione. E, ovviamente, se li aveva imparati lui, Merlin, di certo, non poteva essere esentato da una tale tortura.
Geoffrey consultò la lista dei fascicoli. Probabilmente era l’unico archivista ad usare ancora mezzi cartacei per la catalogazione di documenti importanti, ma non era questo il momento di pensarci.
“Perché ti serve il fascicolo di un caso che risulta chiuso?”
Beh, merda. E adesso?
“Perché…” Merlin si guardò intorno, quasi come se gli oggetti circostanti avessero potuto suggerirgli una risposta adeguata. E in realtà, lo fecero, quasi come se potessero magicamente parlargli. Osservò il grosso libro che Geoffrey aveva davanti a sé ed ebbe l’illuminazione. “…Perché Arthur vorrebbe provare un approccio più… tecnologico ai metodi di archiviazione e vuole cominciare dai casi chiusi, in modo da non danneggiare il lavoro di nessuno. Non può prendere fascicoli che servono agli altri, giusto?”
Merlin sapeva che era una scusa fiacca ed estremamente campata in aria. E sapeva anche se che non avesse usato il nome del suo capo, Geoffrey l’avrebbe liquidato in mezzo secondo, ma a quanto pare, quella scusa funzionò. Geoffrey si limitò ad alzare impercettibilmente un sopracciglio, prima di fargli cenno di consegnargli il badge. Merlin obbedì e rimase ad osservare l’archivista che trascriveva i suoi dati sul grosso libro, accanto al codice del fascicolo. Quando ebbe finito, sparì nelle retrovie dell’archivio per qualche istante, prima di tornare con il fascicolo richiesto. Lo consegnò a Merlin, il quale lo afferrò e resistette all’impulso di nasconderlo sotto la propria giacca. Sarebbe stato un comportamento decisamente sospetto.
“Grazie, Geoffrey.”
L’anziano fece un cenno con il capo e Merlin capì che quello era il segnale per togliersi di torno. Non che avesse voluto rimanere lì un secondo di più, che sia ben inteso, quindi assecondò l’archivista e si diresse verso l’uscita, con l’intenzione di tornare al piano di sopra.






*




“Approccio tecnologico ai metodi di archiviazione? Sul serio?” Lo scimmiottò Arthur, senza provare nemmeno un po’ a celare il suo disappunto.
“Ero nel panico. Come avrei potuto giustificarmi, altrimenti?”
“Sei un idiota. Non avresti dovuto giustificarti in nessun modo.”
Merlin sgranò gli occhi cerulei nella maniera più eloquente possibile. “Non so se ti sia sfuggito, ma non tutti hanno i tuoi privilegi qua dentro! Non basta entrare in una stanza, ragliare qualche ordine e aspettare che gli altri lo eseguano senza emettere un fiato.”
Arthur alzò le sopracciglia, offeso. “Ragliare? Mi stai dando dell’asino?”
“L’hai detto tu, non io.”
“Merlin!” Esclamò Arthur, calcando esageratamente – come faceva sempre, del resto, quando lo chiamava – sulla E e sulla R, arrotondando specialmente quest’ultima. Non che Merlin ci avesse fatto caso. In realtà sì, ci aveva fatto caso, chi voleva prendere in giro?
Era impossibile non notarlo, d’altronde. E Merlin tendeva a notare tutto ciò che riguardasse Arthur. Sapeva come prendeva il caffè: nero e con un cucchiaino di zucchero; sapeva che il the, invece, gli piaceva senza zucchero e con un po’ di latte. Sapeva che scansava le olive verdi dall’insalata, quando catastroficamente finivano nel suo piatto. Preferiva le uova sbattute a quelle sode, la birra al vino – contrariamente a quanto chiunque si sarebbe aspettato, visto quanto appariva snob – anche se il suo preferito rimaneva il bourbon. Sapeva che Arthur prediligeva libri storici a qualsiasi altro genere di libro e aveva una conoscenza che rasentava l’inquietante riguardo le armi medievali e i loro utilizzi, in particolare spada e mazza chiodata. Sapeva che era testardo e cocciuto, un po’ troppo orgoglioso, ma era anche propenso a capire i propri errori per poi trovare un modo per rimediare. Gli piaceva la quiete della sua casa e la sua serata ideale comprendeva film e qualche genere di cibo spazzatura che si concedeva solo nel fine settimana, perché era ossessionato dal rimanere in forma. Non che ce ne fosse davvero bisogno. Arthur era bellissimo. Ma Merlin scacciò quel pensiero quasi potesse avere il potere di scottarlo.   
Lo conosceva bene e a volte ancora si stupiva di quanto il loro rapporto fosse diventato così saldo in così poco tempo.
“D’accordo, scusa.” Lo assecondò. “Ad ogni modo, abbiamo il fascicolo. Possiamo usarlo, prima che tuo padre scopra che l’ho preso e mi tagli la testa.”
Arthur piantò i propri occhi azzurri in quelli cerulei di Merlin. “Non gli permetterei mai di farti nulla.” E lo disse con così tanta sicurezza che, per un momento, Merlin si sentì protetto da qualsiasi tipo di ripercussione. Tuttavia, sapeva che Uther poteva essere irremovibile e aveva la tendenza a manipolare il figlio, facendo leva sulla sua sete di approvazione paterna, per ottenere da lui ciò che voleva.
Merlin apprezzava davvero molto quelle parole, ma sapeva che rimanevano solo, appunto, belle parole. Tuttavia, si trovò a sorridere. Arthur sapeva essere estremamente premuroso, quando non si comportava come un totale babbeo.
E questo pensiero fece sfarfallare il cuore di Merlin, in un modo che lui decise volutamente di ignorare per tutta una serie di innumerevoli motivi, che si era ripetuto nei vari mesi in cui il dubbio che potesse provare qualcosa per il suo capo che andasse al di là dell’amicizia si era fatto strada in lui. Primo fra tutti: Arthur era etero; secondo: era il suo capo. Non poteva innamorarsi del suo capo. Sarebbe stato poco professionale, decisamente poco etico, e oltraggiosamente scontato. Il peggior cliché nella storia dei cliché.
No, grazie.
Gli bastava la sua amicizia.
Davvero, Merlin? Gli sussurrò una parte pungente di sé che il giovane soppresse con estrema convinzione.
“Comunque,” Cominciò, ignorando tutte le sue sensazioni, “Adesso come ci muoviamo?”
“Non possiamo lavorarci qui. Stasera vieni a casa mia e cominciamo.”
“Stasera?”
“Sì. Abbiamo poco tempo a disposizione, prima che qualcuno venga inevitabilmente a scoprire il nostro segreto.”
“Veramente io avrei un impegno, stasera.”
Arthur appoggiò i gomiti alla propria scrivania, intrecciò le dita delle mani e le usò per appoggiarci il mento. Lanciò a Merlin una lunga occhiata saccente. “Lo so. Sei impegnato. Con me. Ad eseguire il lavoro per cui ti pago.”
Merlin non riuscì a trattenere uno sbuffo frustrato. Aveva promesso a Gwen una serata fuori da settimane e inevitabilmente si era ritrovato a rimandare ogni dannata volta perché Arthur aveva bisogno di lui, per una cosa o per l’altra.
Come faceva a coltivarsi una vita all’infuori di Arthur, se Arthur rimaneva sempre l’unico essere umano con cui aveva contatti?
“Va bene.” Si arrese, lanciando le mani in aria e facendo ricadere poi le braccia lungo i fianchi. “Despota.”
“Ti ho sentito.” Lo ammonì Arthur.
“Lo so, altrimenti oltre che despota saresti anche sordo.”
“Merlin!” lo rimbeccò.
L’assistente serrò le labbra all’interno della bocca. “A che ora, stasera?”
“Quando hai finito il tuo lavoro, vieni qui. Andiamo a casa mia insieme.”
Merlin avrebbe voluto ribattere che sarebbe stato sospetto, ma la verità era che era successo così tante volte da essere diventata un’abitudine. Quindi non ribatté nulla. Si limitò semplicemente ad annuire e a congedarsi da Arthur.
Quando fu fuori dal suo ufficio, mandò un messaggio a Gwen, chiedendole se potevano vedersi per pranzo. Quando lei gli rispose affermativamente, Merlin si sedette nuovamente alla sua scrivania e continuò il suo lavoro.




*





All’ora di pranzo, Merlin si alzò dalla sua scrivania, a cui era stato seduto per più di un’ora, dopo aver portato a termine la sua missione segreta per Arthur.
Sentiva il bisogno di sgranchirsi le gambe e dal momento che da quell’istante fino all’ora successiva Merlin poteva ritenersi un uomo libero – salvo una chiamata improvvisa di Arthur che gridava all’emergenza apocalittica – si diresse fino alla scrivania di Gwen, situata esattamente davanti all’ufficio di Morgana.
L’amica gli sorrise non appena lo vide comparire nel suo campo visivo. “Hai fame?”
Merlin annuì. “Hai finito?”
“Sì.” Gwen si alzò dalla sedia e circumnavigò la sua scrivania per raggiungere l’amico. Insieme si diressero verso l’ascensore che li avrebbe portati al piano terra. Quando Arthur non lo costringeva a saltare la pausa pranzo con i suoi ritmi incessanti da stacanovista maniaco del controllo, Merlin passava quell’ora insieme a Gwen nella tavola calda situata vicino all’edificio dove si trovava lo studio legale.
Era in quel piccolo posto, caldo e accogliente, che era nata la loro amicizia e Merlin ci teneva che continuassero a coltivarla attraverso queste piccole cose, visto che Arthur si prendeva tutto il suo tempo.
E, a proposito di Arthur che si prendeva tutto il suo tempo…
“Gwen, devo dirti una cosa.” Cominciò, quando entrambi furono davanti all’ascensore. Le porte si aprirono e poterono entrare. Gwen premette il pulsante del piano terra e rimase in attesa che l’amico continuasse.
“Devo lavorare, stasera.”
“Ma che sorpresa.” Gli rispose, senza nessuna accusa nella voce, quanto piuttosto una punta di sarcasmo nell’ampio sorriso e quell’espressione che le aveva visto mettere su quella mattina stessa. Se avesse dovuto descriverla, Merlin avrebbe usato aggettivi come malandrina, o maliziosa, ma non vedeva perché la sua amica dovesse riservargli un’espressione simile.
Davvero? Gesù, l’idiozia di Arthur ti ha proprio contagiato! Magari fai solo schifo a nascondere i tuoi sentimenti.
Lui non ha sentimenti! Per nessuno! Men che meno per quella testa di fagiolo di Arthur!
Perché quella specifica mattina, la sua coscienza sembrava così determinata a remargli contro? E perché, dopo mesi di assopito e gradito silenzio, si era risvegliata per ricordargli sentimenti che si era impegnato diligentemente a soffocare, sopprimere, relegare in profondità, uccidere, dal momento che erano assolutamente off-limits?
Sul cuore di Merlin doveva esserci un metaforico cartello che recitava a caratteri cubitali: vietato l’ingresso a qualsiasi sentimento romantico rivolto ad una regal testa di fagiolo, nota all’anagrafe come Arthur Pendragon.
E invece, quella mattina, la sua coscienza si faceva abbondantemente beffa di lui, insieme alle insinuazioni nemmeno troppo velate di Gwen.
Merlin avrebbe volentieri liberato un sospiro amareggiato e un tantino frustrato. Anche la prospettiva di lanciare un urlo stridulo stile Mandragora non gli sembrava male. Ma si trattenne.
“Mi dispiace.” Si limitò a dire, fingendo di non cogliere qualsiasi fosse l’insinuazione che l’amica gli stesse lanciando. Le porte dell’ascensore si aprirono ed entrambi uscirono, diretti verso l’uscita del palazzo.
“Non preoccuparti.” Lo rincuorò Gwen, prendendolo sottobraccio. “Ma davvero, Merlin, Arthur non ti ringrazia abbastanza per la tua devozione.”
“Non è devozione. È il mio capo. Non sono né devoto, né mi aspetto dei ringraziamenti per svolgere un lavoro per cui vengo pagato.” Borbottò Merlin, sulla difensiva. Non voleva che Gwen o altri si facessero strane idee.
Gwen annuì comprensiva e gli appoggiò una guancia sulla spalla, ponendo fine a quell’argomento.
“Muoviamoci ad entrare. Ho fame.”
Merlin sorrise, felice che l’amica avesse deviato l’argomento, e spinse la porta del locale per aprirla. Lasciò entrare Gwen per prima e poi la seguì, prendendo posto al solito tavolo che occupavano sempre.






*




Arthur Pendragon era un idiota.
Ma questo Merlin, ormai, lo sapeva. Era la persona meno paziente del mondo, e quando perdeva la poca pazienza che l’Onnipotente gli aveva donato, diventava particolarmente molesto e fastidioso.
Merlin catalogava quel comportamento nella sfera di comportamenti che rientravano nel più grande schema che l’assistente aveva rinominato: Arthur che fa l’idiota solamente con il senso pratico di semplificare le cose, altrimenti avrebbe dovuto stilare una lista dei vari appellativi e Merlin non aveva così tanto tempo. Come aveva già notato, l’idiota gli prendeva tutto il tempo a disposizione.
“Hai finito?” Gli domandò, un molesto Arthur, appoggiandosi alla sua scrivania – appoggiando una chiappa alla sua scrivania. Non che Merlin l’avesse notato.
Sporco bugiardo. Certo che l’aveva notato. Se doveva essere onesto con sé stesso – e a quanto pare, quella era la giornata del remiamo contro il buonsenso di Merlin – i suoi occhi erano caduti sul sedere di Arthur più volte di quanto gli piacesse ammettere.
E ogni volta si era reso conto di quanto le ore passate in palestra avessero portato i loro buoni frutti.
Dio benedica i personal trainer.
Ma ancora non che ne volesse parlare apertamente.
Ancora, quello era un territorio off-limits.
Di nuovo, per l’ennesima volta in quella estenuante ed infinita giornata, Merlin ponderò l’idea di lasciarsi andare ad un grido in pieno stile Mandragora, o Nazgul.
“No.” Rispose, tenendo gli occhi incollati allo schermo del pc a cui stava scrivendo pur di non guardare Arthur. Aveva imparato a scrivere senza guardare la tastiera, a continuare a lavorare ad importanti relazioni dei casi, mentre Arthur gli parlava di tutt’altra cosa – fossero altri casi, o le sue paturnie del momento – senza mai perdere la concentrazione. Ma in quello specifico momento, con il profumo deciso di Arthur che gli invadeva le narici, il fatto che ci fosse una misera distanza a separarli, e la consapevolezza che il suo cuore aveva passato l’intera giornata a gridare all’ammutinamento rispetto alle regole che il suo cervello aveva imposto riguardo a non provare niente per Arthur in quel senso, la concentrazione di Merlin era andata davvero a farsi un giro in lidi in cui la follia regnava sovrana.
Aveva davvero perso il conto dei sospiri affranti a cui si era lasciato andare quel giorno.
Doveva. Tornare. In. Sé.
“Sei lento, Merlin.”
“Forse mi dai troppo lavoro. Magari potresti assumere un assistente anche per me.”
Arthur gli rivolse un sorrisetto pungente e un tantino arrogante. “Magari potrei licenziarti, invece, e trovare qualcuno di più competente, che non si lamenti e che sia sbrigativo a portare a termine i propri compiti.”
Merlin ignorò quelle minacce che sapeva fossero prive di fondamento. Arthur non avrebbe trovato nessun altro disposto a sopportarlo come lo sopportava lui. E lo sapevano entrambi. “Lance potrebbe essere un ottimo assistente, per me.”
Arthur accantonò per un attimo la sensazione di disagio che gli provocava l’essere così bellamente ignorato e alzò un sopracciglio, stupito e oltraggiato. “Lance? Intendi Lancelot?”
Merlin continuò a digitare qualcosa sulla tastiera e annuì.
“E perché lo chiami Lance?” Pretese di sapere, la testa di fagiolo, con un’inflessione nella voce che avrebbe fatto pensare alla gelosia, se non fosse stato Arthur il soggetto in questione. Sicuramente lo infastidiva che non fosse a conoscenza della cosa. Arthur era un tantino abituato ad essere al centro dell’attenzione. Giusto un tantino.
“Perché è mio amico, ad esempio?” Ribatté Merlin, sarcastico. “Funziona così, quando hai confidenza con qualcuno. Gli dai un soprannome.”
Arthur si adombrò per qualche istante, ma non aggiunse nient’altro. “Vedi di sbrigarti, abbiamo altro lavoro da fare.”
Merlin gli lanciò un’occhiata in tralice. “Schiavista.”
Arthur si chinò sulla sua scrivania, avvicinandosi così tanto al viso di Merlin che l’assistente poteva sentire il suo respiro su di sé. “Un giorno o l’altro la tua linguaccia ti metterà nei guai, Merlin.”
“La mia vita è un intero guaio da quando lavoro per te. Non credo che le cose possano peggiorare.” Ribatté, distogliendo lo sguardo dal viso incredibilmente vicino dell’uomo per cui non provava qualcosa e dai suoi dannatissimi, profondissimi, meravigliosi occhi azzurri.
Si affrettò a terminare il documento che stava scrivendo e a salvare il tutto, prima di chiudere programma e computer. “Ho finito.” Informò, tornando finalmente a guardare il Despota, che continuava a stare seduto in quel modo distraente alla sua scrivania, vicino a lui in un modo che Merlin avrebbe potuto tranquillamente definire pericoloso, completamente ignaro dell’effetto che quella misera distanza aveva sul povero Merlin.
Arthur non conosceva la definizione di spazio personale e ciò lo mandava in crisi. Soprattutto in quella giornata dove i nervi di Merlin erano davvero a fior di pelle. Era sicuro che se Arthur l’avesse anche solo sfiorato accidentalmente, lui sarebbe saltato come un capretto, convinto che quel tocco potesse dargli la scossa.
Doveva. Tornare. In. Sé.
Tutta quell’assurda giornata lo stava prosciugando di tutte le sue energie. Avrebbe solo voluto andare a casa, farsi una lunga doccia, avvolgersi in una coperta come un burrito umano, cenare vergognosamente davanti alla tivù e poi buttarsi senza ritegno a letto.
“Allora andiamo.”
Invece lo aspettava una lunga nottata insonne a studiare un nuovo caso di cui lui e Arthur si sarebbero occupati clandestinamente.
Merlin si alzò dalla sua scrivania, recuperò il giubbotto appeso allo schienale della sua sedia girevole e si avviò con Arthur verso l’ascensore.
“Hai fame?” Gli domandò Arthur, mentre attendevano che le porte si aprissero, ma non aspettò risposta perché un sorriso pieno di consapevolezza si formò sul suo viso. “Che domande, certo che hai fame. Tu hai sempre fame.”
“A quest’ora è ovvio, sarebbe strano il contrario, ti pare?” Ribatté piccato Merlin, un tantino risentito dell’accusa di essere una specie di ingordo aspira-tutto quando era più che noto ad entrambi che era Arthur quello tra i due che tendeva sempre a mangiarsi l’ultimo pezzo di qualsiasi cosa avessero ordinato per cena, se era qualcosa che piaceva ad entrambi.
Arthur lo liquidò con un gesto della mano. “Cosa vuoi mangiare?”
“Non lo so, scegli tu.”
“Andiamo, Merlin, non farti pregare. Sai che non mi piace.” Gli riservò un’amichevole gomitata che andò a conficcarsi con una precisione letale tra le costole di Merlin, che si massaggiò la parte lesa d’istinto. Gli riservò un’occhiataccia a cui Arthur rispose con un sorriso soddisfatto.
Dannata faccia da schiaffi.
Dannata bellissima faccia da schiaffi.
Le porte dell’ascensore si aprirono e Merlin sospirò di sollievo, avendo qualcosa da fare che non fosse notare quanto i lineamenti di Arthur fossero perfetti. Entrò per primo, seguito subito a ruota da Arthur.
“Allora, vuoi rispondermi o no?” Domandò Mr. Non Ho La Minima Pazienza Pendragon.
“Andiamo in quel posto che ti piace tanto, dove hanno anche il menù vegetariano.”
“D’accordo. Tu mangerai cibo per conigli, mentre io mangerò qualcosa che può essere degno di essere chiamato cibo. Non capirò mai perché hai deciso di torturarti tutta la vita privandoti dei piaceri della carne.”
Merlin per un pelo non morì di crepacuore in quel preciso istante.
Con la giornata estenuante e stressante che aveva avuto, gli ci mancava solo sentire la voce profonda di Arthur e guardare le sue labbra peccaminose pronunciare piaceri della carne.
Che aveva fatto di male, lui, in una vita precedente? Aveva per caso ucciso un unicorno? No, perché altrimenti non si spiegava.
Era piuttosto sicuro di non aver mai fatto nulla del genere, ma chissà forse nella sua vita precedente era stato Voldermort e lui non se lo ricordava.
Stava vaneggiando.
Si ricompose, per quanto il suo stato mentale glielo permettesse.
“Detesto l’idea di altri esseri viventi che muoiono per nutrire me. Non hanno meno diritti alla vita.”
“Si chiama catena alimentare, Merlin. È il corso naturale degli eventi: animale più grande mangia animale più piccolo.”
“Sì beh, non sono d’accordo.” Borbottò. “E comunque non devi mangiare quello che mangio io, quindi perché ti lamenti?”
Arthur scosse la testa, un sorriso a tendergli le labbra. Non c’era derisione nel suo volto, quanto piuttosto… tenerezza. Ma Merlin scacciò quell’assurda ipotesi, convincendosi che lo stress della giornata lo stesse danneggiando a tal punto da provocargli le allucinazioni.
“Non mi lamento…”
“Su questo avrei da ridire.”
Arthur lo incenerì con lo sguardo per essere stato interrotto. “…riguardo a quello che mangi. Su altre cose, mi lamento perché ne ho il diritto: sei un disastro.”
Merlin gli riservò una maturissima e sicuramente appropriata linguaccia, per uno della sua età.
Arthur rise.
Era uno di quei momenti dove non erano capo e dipendente, ma erano Arthur e Merlin gli amici.
Amici era quello che sarebbero sempre stati. Perché Arthur era etero e Merlin era la definizione letterale di quello che il web definisce disaster gay. Non c’era futuro, per loro, non in quella direzione. Quindi perché rischiare di frantumarsi il cuore, o peggio, perdere Arthur?
Merlin sospirò e relegò la tristezza in fondo al suo cuore. Non doveva ricascare nella tentazione di lasciare crescere i suoi sentimenti per Arthur. Non dovevano categoricamente svilupparsi in altro che non fosse amicizia.
Immerso com’era nei suoi pensieri non si era nemmeno reso conto che erano arrivati alla macchina di Arthur. Merlin attese di sentire la serratura scattare e aprì la portiera del passeggero, poi osservò Arthur posizionarsi al posto di guida.
“Andiamo?”
Merlin si limitò ad annuire. Con lui sarebbe andato anche in capo al mondo.



*



Arthur viveva in una specie di castello in uno dei quartieri che Merlin preferiva in assoluto di Londra.
Gli piaceva andare in quella casa perché oltre ad essere dotata di ogni comfort possibile ed immaginabile, si trovava in una posizione perfetta che permetteva di raggiungere in poco tempo sia il centro brulicante di abitanti, sia la zona collinare, verde e più tranquilla.
Merlin non voleva nemmeno immaginare quanto ad Arthur fosse costata quella casa. Al solo pensiero sentiva piangere il suo conto corrente per almeno una decina di vite.
“Non stare sulla porta, andiamo. Ti comporti come se non avessi mai visto questa casa!” Lo rimbeccò Arthur, che aveva lasciato il cappotto sull’attaccapanni vicino alla porta e si era già inoltrato nella sua dimora. Merlin sapeva già dove si sarebbe diretto. E infatti, dopo aver lasciato il suo giubbotto vicino a quello di Arthur, trovò il padrone di casa esattamente dove si sarebbe aspettato di trovarlo: nel salotto, intento ad accendere il fuoco nel camino.
L’assistente si sedette sul pavimento a gambe incrociate, accanto ad Arthur che se ne stava piegato sulle ginocchia ad armeggiare con i vari attrezzi per fare in modo che il fuoco attecchisse bene cui ceppi.
Chiunque l’avesse osservato, non l’avrebbe mai detto, ma Arthur era un tipo decisamente manuale. Sapeva fare una moltitudine di cose che non ci si sarebbe mai aspettati, da uno con il suo background, abituato ad avere qualcuno che si occupasse per lui di ogni cosa. E invece, Arthur si era rimboccato le maniche e aveva fatto in modo di rendersi autonomo, indipendente. E questa era un’altra delle cose che piacevano tanto a Merlin. Arthur lasciava che la vita lo sporcasse, immergeva le mani nei problemi e ne usciva sempre pieno di fango, ma vittorioso. Sapeva affrontare le situazioni di petto, mettendosi sempre in prima linea, affrontandole apertamente.
Era coraggioso e disposto ad aiutare chiunque ne avesse bisogno. Anche se per arrivare a capire cosa celasse davvero il suo cuore buono, bisognava passare attraverso una corazza protettiva d’acciaio spesso dieci centimetri costruita a suon di sarcasmo, arroganza e spavalderia.
Era difficile arrivare a conoscere il cuore di Arthur, o il suo animo. Ma una volta che lasciava pieno accesso a sé stesso, si scopriva una persona meravigliosa.
“Merlin?”
Il ragazzo sentì le guance andare a fuoco in seguito ai suoi pensieri da cui venne destato proprio dall’oggetto di quei pensieri.
“Sì?”
“Va bene, così? Senti abbastanza caldo?”
Merlin annuì e si avvicinò un po’ di più al camino, dove il fuoco trasmetteva un piacevole calore.
Arthur si trovò a sorridere. “Sei sempre così freddoloso.” Affermò, come se fosse un dato di fatto. “Scommetto che avresti freddo anche se ti gettassero nella bocca di un vulcano.”
“Potrei buttare te nella bocca di un vulcano, così per vedere se avresti ancora voglia di prendermi in giro.”
Arthur gli diede una spintarella giocosa, appena accennata, e gli rivolse un sorriso che andò a coinvolgere anche i suoi occhi.
Era così bello da fare male, assemblato per rappresentare perfettamente l’ideale principesco delle favole. Arthur era alto, ben fatto, con spalle ampie e braccia forti. Aveva delle mani bellissime, sempre calde. Era biondo e con gli occhi azzurri più belli ed espressivi che Merlin avesse mai incrociato.
Distolse lo sguardo, incapace di sostenere ciò che quella visione andava ad alimentare: la consapevolezza che non avrebbe mai potuto averlo, la certezza che non avrebbe mai potuto concedersi di amarlo ed essere amato.
Sospirò, per l’ennesima volta in quella lunga giornata. “Abbiamo del lavoro da fare.” Disse, improvvisamente desideroso di avere qualcosa diverso dai pensieri su Arthur che gli occupasse la mente.
L’avvocato annuì e si alzò per andare a recuperare il fascicolo che avevano furtivamente sottratto dall’archivio quella mattina. Quando tornò in salotto, Merlin era seduto sul divano. Arthur si sedette al suo fianco e cominciarono a studiare il caso.




*



“Sei stanco.”
Arthur alzò lo sguardo dal fascicolo a Merlin, occhiaie grigiastre cominciavano a circondare i suoi occhi. “No, non lo sono.”
“Lo sei. Devi andare a risposare.”
“Riposerò da morto. Questo caso… nessuno lo risolverà, se non lo faremo noi.”
Merlin emise un sospiro di comprensione. Il caso in questione riguardava una donna incinta, che abitava in uno dei quartieri meno agiati di Londra, ed era vittima di violenza domestica. Il marito continuava a picchiarla nonostante la creatura che la moglie portasse in grembo e la donna si era rivolta segretamente allo studio per ottenere il divorzio. Non poteva permettersi un avvocato, ma aveva comunque tentato, con la speranza di finire nella lista dei casi pro-bono.
Si era rivolta ad altri, prima di loro, e tutti le avevano detto la stessa cosa, rifiutando il caso.
Merlin sapeva che Arthur aveva ragione. Nessun altro, a parte loro, se ne sarebbe occupato. E sapeva anche quanto l’argomento madri lo rendesse sensibile.
Igraine, sua madre, era morta dandolo alla luce e lui provava ancora i sensi di colpa, sebbene i vari psicologi a cui Uther si era rivolto avessero fatto di tutto per fargli capire il contrario.
Non era riuscito a salvare sua madre, avrebbe salvato tutte le altre. O quanto meno, ci avrebbe provato.
Merlin lo capiva, profondamente, ma era anche preoccupato per lui. Non dormire non gli faceva per niente bene. E lo rendeva particolarmente nervoso e distratto.
Per questo afferrò il fascicolo che Arthur teneva fra le mani e lo chiuse. “È notte fonda, Arthur. Devi riposare, se vuoi davvero essere produttivo per questo caso, domani.”
Arthur guardò l’orologio che portava al polso: segnava le 3.45 del mattino. Sapeva che Merlin aveva ragione. Lui aveva sempre ragione, non che comunque l’avrebbe mai ammesso ad alta voce o davanti a lui. L’idiota avrebbe gongolato per eoni, altrimenti.
“D’accordo. Riprendiamo domani.”
Merlin annuì soddisfatto e si alzò dal divano. “Allora, buonanotte.”
Arthur lo guardò perplesso, aggrottando le sopracciglia con confusione, quando lo vide dirigersi verso la porta. “Dove stai andando?”
“A casa?” Ribatté, come se fosse ovvio.
“Non dire idiozie, Merlin. È notte fonda. Non prenderai i mezzi pubblici a quest’ora. Dormirai qui.” Arthur alzò un indice per zittirlo ancora prima che Merlin riuscisse ad elaborare una vera protesta. “E non obiettare. Non contraddirmi, quando sono stanco, per favore. Accontentami.”
“Avevi detto che non eri stanco.” Obiettò Merlin, per non dargliela vinta.
Arthur gli riservò un’occhiataccia. “Vai a dormire, Merlin. La camera degli ospiti è pronta. Nel bagno troverai tutto ciò di cui hai bisogno. E se vuoi qualcosa per dormire, posso prestarti qualcosa di mio.”
No, decisamente non avrebbe dormito con addosso qualcosa che poteva avere impregnato l’odore di Arthur, nonostante i lavaggi. Perché altrimenti non avrebbe dormito.
“Sono a posto, non preoccuparti.”
Arthur annuì. “Buonanotte, Merlin.”
“’Notte, Arthur.”


*


Merlin si svegliò da un sonno tormentato, circa due ore dopo essersi coricato.
Non era riuscito a prendere sonno a dovere, complici tutti i pensieri che gli ronzavano per la testa e quel caso che sembrava davvero impegnativo. Era preoccupato anche lui per quella donna, Annabelle. Aveva un nome così delicato e una forza d’animo invidiabile. Merlin si chiese se quella forza che la donna si portava dentro sarebbe stata sufficiente a contrastare la brutalità furiosa dell’uomo che aveva sposato.
Lo sperò.
Merlin sperava con tutto sé stesso che riuscissero ad aiutarla prima che il peggio potesse arrivare. Non avrebbe sopportato un esito negativo per quella faccenda. Sospirò, consapevole che tra questi pensieri e quelli su Arthur non sarebbe riuscito ad addormentarsi – non che l’avesse fatto seriamente nelle ultime due ore. Scostò le coperte e si rivestì dei propri indumenti di cui si era privato prima di coricarsi – uno di quei completi economici che era stato costretto a comprare una volta che era stato ufficialmente assunto. Si avviò verso il bagno presente in quella stanza e si lavò velocemente viso e denti, scartando uno degli spazzolini nuovi di pacca che Arthur teneva appositamente nel mobiletto accanto al lavandino. Poi si diresse al piano di sotto. Merlin si mosse il più silenziosamente possibile, cercando di non fare nemmeno il minimo rumore che avrebbe potuto accidentalmente svegliare Arthur.
Con passo felpato, quindi, giunse al piano inferiore. Accese le luci, perché nonostante fuori fosse l’alba, le finestre erano ancora chiuse, scuri compresi, e non si vedeva nulla. Con fare un tantino assonnato, Merlin si diresse in cucina: era una stanza enorme, piena di elettrodomestici ultratecnologici che Arthur non sapeva ancora usare, trovandosi a litigare con essi un giorno sì e l’altro pure. Al centro era situata un’imponente isola di legno scuro, accompagnata da alcuni sgabelli. Merlin si sedeva sempre al solito, quando era lì, tant’è che Arthur gli diceva sempre siediti al tuo posto, faccio il caffè.
Era confortante e allo stesso tempo doloroso, per lui, sentirsi così a casa, in quel posto. Merlin era abituato a muoversi in casa di Arthur come se fosse in casa propria. Sapeva quale fosse il posto di ogni oggetto, sapeva dove trovare i pacchi di pasta e gli infusi per il thè, dove fossero le spezie e dove fossero nascoste le bottiglie di liquore che Arthur tirava fuori ogni tanto, quando voleva farsi un bicchiere in compagnia. Ed era una sensazione che gli trasmetteva sempre una certa quiete, ma allo stesso tempo aveva il potere di squarciargli il cuore in due: quella che lo legava ad Arthur era una familiarità che altri non avevano, con lui. Erano amici, ma nessun altro aveva le stesse libertà che aveva Merlin, in quella casa. E se in un altro contesto, tutto ciò poteva essere interpretato come una piccola speranza, Merlin sapeva che non era così.
A lui era permesso muoversi in quel modo perché la loro amicizia era profonda, perché Arthur più di una volta l’aveva definito il suo migliore amico, la persona di cui più si fidava al mondo.
Ed era fantastico e Merlin provava le stesse cose per lui, ma… sapeva che se avesse lasciato libero sfogo ai suoi sentimenti, essi si sarebbero inevitabilmente trasformati. E allora, se l’avessero fatto, l’abito dell’amicizia avrebbe cominciato a stargli stretto e non poteva permettersi una cosa simile.
Sospirò, consapevole che se quello era il modo in cui la sua giornata era cominciata sarebbe stata una lunga giornata, e si mise a preparare il caffè. In attesa che fosse pronto, andò in salotto e recuperò il fascicolo che Arthur aveva lasciato sul tavolo qualche ora prima. Con il plico in mano, si sedette al suo sgabello e aprì la cartellina, cominciando nuovamente a leggere i documenti del caso. Distolse la propria attenzione solo quando sentì la caffettiera brontolare, allora si alzò, spense il fuoco e si versò una generosa tazza di caffè caldo. Niente zucchero, niente latte. Solo caffè. Delizioso, rigenerante, caffè. Merlin tornò al suo posto e abbracciò la tazza con le dita. Annusò l’aroma, prima di portarsela alle labbra e bere il primo sorso. Tutto diventava migliore, dopo il caffè, anche le giornate apparentemente lunghissime.
“Per me niente?”
Merlin quasi sobbalzò, udendo quella voce. Non si sarebbe aspettato di vederlo per almeno un’altra ora, ma dalle occhiaie che circondavano i suoi occhi, probabilmente nemmeno Arthur era riuscito a riposare a dovere.
Merlin lo osservò: i capelli arruffati e lo sguardo assonnato, un sorriso accennato sulle labbra piene. Indossava ancora il pigiama, che per Arthur consisteva più che altro in una maglietta a maniche corte anche in pieno inverno e un paio di pantaloni di vecchie tute. Mentre lo osservava, Merlin ebbe un pensiero: era ingiusto che fosse bellissimo anche così nello stesso modo in cui lo era quando indossava completi di alta sartoria cuciti su misura e pagati un occhio della testa. Non faceva bene al suo povero cuore, trovarlo sempre perfetto, anche quando in realtà non lo era.
Probabilmente, il suo cuore era di parte.
Sì, decisamente lo era.
Probabilmente, nonostante avesse combattuto duramente negli ultimi mesi, i suoi sforzi erano stati vani e aveva inevitabilmente finito per innamorarsi di Arthur.
Con ogni probabilità, il suo cuore l’avrebbe visto bellissimo sempre solo perché riusciva a sua volta a percepire il cuore di Arthur – e Dio, se era bello, il suo cuore.
Merlin accantonò quel pensiero: non voleva focalizzarcisi, adesso. Avrebbe ignorato quella consapevolezza come aveva fatto negli ultimi mesi e si sarebbe comportato come sempre.
“Adesso devo prepararti il caffè anche fuori dall’ufficio?”
Arthur si diresse verso la caffettiera e se ne versò una tazza. Merlin lo guardò mentre ci versava un cucchiaino di zucchero e sorrise.
“Non lo prepari mai te, in ufficio. So che lo fa Gwen per tutti e tu ne approfitti.”
“Mi avvalgo della facoltà di non rispondere.” Merlin nascose un sorriso colpevole all’interno della sua tazza, bevendo un sorso di caffè.  “E converrai con me, comunque, che sono io a portartelo, quindi almeno fuori dall’ufficio vorrei evitare.”
Arthur, afferrata la propria tazza, si sedette sullo sgabello vicino a quello di Merlin. “Sai che rientra nelle mansioni per cui vieni pagato, vero?”
“Adesso non mi stai pagando, quindi posso avvalermi della facoltà di non portarti il caffè.”
Arthur rise e gli scompigliò i capelli corvini con la mano che non stringeva la tazza. “Sei un idiota.” Affermò e Merlin gli diede una leggera spallata, ma non ribatté. Avrebbe voluto dirgli che simile attira suo simile e che quindi, questo principio, per proprietà transitiva, rendeva un idiota anche lui, ma si trattenne. Se non altro perché aveva notato l’espressione di Arthur farsi improvvisamente seria dopo aver notato il fascicolo aperto davanti a Merlin.
“Stai riguardando il caso?”
Merlin annuì. “Dobbiamo trovare un modo, in fretta. Se il marito dovesse scoprire che è venuta da noi…” Si interruppe a metà frase, non volendo pensare all’eventualità in cui l’uomo scoprisse le intenzioni della moglie. “Dobbiamo trovare elementi solidi che portino la causa a suo favore. E trovare un modo per proteggerla una volta che la causa sarà avviata.”
“Lo so. Hai trovato niente?”
“Non ancora.”
Arthur si avvicinò maggiormente a lui. Spazio Personale, questo sconosciuto, parte diecimillesima. Erano così vicini che le loro spalle si toccavano. Arthur era concentrato sul foglio, Merlin sul suo profilo. Pure quello era principesco, dannazione. Sembrava di guardare il profilo di una di quelle statue greche plasmate nel marmo: il naso delineato, la linea perfettamente squadrata della mascella, la curva definita delle sue labbra piene.
Era una congiura contro di lui.
“Merlin?”
“Eh?” Rispose, consapevole di suonare come un completo idiota.
“Ho qualcosa sulla faccia?”
Sì, l’assoluta perfezione.
“No, perché?”
“Perché mi stai fissando.”
Beh, merda. Se n’è accorto. Com’è che a volte diventa perspicace?
“Non stavo fissando te, quanto potrai mai essere egocentrico?”
Arthur aggrottò le sopracciglia, piccato. “Ah, davvero? E allora cosa stavi guardando?” Volle sapere, pungente, per riabilitare il suo orgoglio ferito.
Merlin rimase un attimo in silenzio, preda del panico, per cercare una scusa plausibile. Non gliene venne in mente nessuna. “Perché invece di farmi domande, non ti concentri sul tuo lavoro?”
Arthur aprì la bocca in una O perfetta, un tantino risentito da quell’atteggiamento. “Da quando tu dai ordini?”
“Da quando tu ti deconcentri.”
Arthur gli riservò un sorrisetto. L’irriverenza di Merlin lo rendeva così spontaneo. Non aveva mai avuto paura di lui, non come gli altri. Lo rispettava, ma non lo temeva. E ad Arthur questo piaceva. Era convinto che rendesse vera la loro amicizia.
Merlin era sempre disposto ad aiutarlo, ma era anche disposto a cantargliele se lui si comportava da idiota.
“Se non vuoi che mi deconcentri, smetti di fissarmi.”
“Non stavo fissando te!” Esclamò Merlin, con un tono più acuto del normale.
Arthur scosse la testa e lasciò cadere l’argomento, tornando a leggere il caso. Merlin ringraziò la sua buona stella che aveva fatto sì che Arthur non si intestardisse per avere per forza ragione e cominciò a sua volta a leggere i documenti.





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Ciao a tutti! Come prima cosa, se siete arrivati fin qui vi ringrazio immensamente!
Entro in questo fandom un po’ in punta di piedi e con un ritardo di circa otto anni.
Questa storia era nata come una OS, ma visto che al momento ho superato le quaranta pagine Word ho pensato di dividerla in più capitoli. Non è niente di originale. È un AU che ho cominciato a scrivere solamente con lo scopo di riprendermi dal finale della quinta stagione che mi ha trasformata in un ammasso di lacrime e per scacciare un po’ l’amarezza ho pensato di scrivere qualcosa di assolutamente smielato e pieno di cliché dove tutti sono felici.
Spero comunque che possa essere di vostro gradimento.
I personaggi potrebbero risultare un tantino OOC. Anche se ci provo davvero a scriverli nel modo più IC possibile, se doveste notare qualcosa di troppo OOC fatemelo sapere!
Il titolo e la parte in corsivo all’inizio del capitolo sono presi da una canzone di Adam Lambert – Better than I know myself.
Se vi va, mi farebbe piacere sapere cosa ne pensate!

Ringrazio ancora chiunque abbia deciso di aprire questa storia e arrivare fino alla fine!
A presto! <3


 

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Capitolo 2
*** 2. ***


Erano passati due giorni dal fattaccio.
Non che Merlin li stesse contando. In realtà sì, contava i giorni che passavano come se stesse aspettando la sua imminente condanna a morte, o decapitazione, o arsione sul rogo… insomma, si è capito.
Ma, nonostante un incombente Mietitore che aleggiava sulla sua testa in attesa di… beh, mietere, Merlin continuava a fare il suo lavoro. Quello ufficiale e quello clandestino.
Tutto sembrava filare liscio, per ora, quindi non doveva preoccuparsi.
Non. Doveva. Preoccup– Merda.
Rettifica: doveva preoccuparsi. Doveva preoccuparsi alla grande.
Morgana si stava dirigendo a passo di marcia verso l’ufficio di Arthur. E solamente guardarla camminare in quel modo battagliero era sinonimo di guai.
Lei e Arthur erano fratelli da parte di madre e Merlin era sicuro che la bellezza che caratterizzava entrambi dovesse necessariamente essere merito di Igraine.
Arthur gli aveva parlato della storia della sua famiglia, di come Igraine avesse avuto un primo marito, il padre di Morgana, e di come avesse divorziato da lui quando la bambina aveva poco più di un anno. Arthur non aveva mai parlato dei motivi di quel divorzio, ma gli aveva raccontato di come Uther, dopo essersi innamorato follemente di Igraine, avesse deciso di adottare Morgana, dandole il suo cognome. Poco tempo dopo il terzo compleanno di Morgana, Arthur era venuto alla luce e Igraine, invece, a causa di una malformazione cardiaca che le aveva impedito di reggere un altro parto, se n’era andata.
“Guardo mia sorella e non capisco come faccia a non odiarmi profondamente. Le ho portato via nostra madre.” Gli aveva confessato una sera Arthur, nella penombra del suo salotto, dopo aver bevuto un po’. Non era ubriaco, ma era in quello stato in cui l’alcol toglie i freni inibitori e rende la lingua sciolta, propensa a confessioni che da sobri non si esternerebbero mai.
“Non devi colpevolizzarti.” Si era limitato a rispondergli Merlin, prima di avvicinarsi di più a lui. Erano rimasti in silenzio, fianco a fianco, a guardare il fuoco che scoppiettava e a lasciare che il fantasma di Igraine si allontanasse da quella casa e dai ricordi di Arthur, sebbene, Merlin ne era consapevole, avrebbe per sempre gravato sul suo cuore.
Non era una situazione facile.
In quella famiglia c’erano alti e bassi continuamente e i litigi tra i due fratelli erano estremamente frequenti. Complice anche il comportamento di Uther che, per quanto continuasse a sostenere il contrario, aveva una palese preferenza per Arthur. Lui era il maschio, colui che avrebbe portato avanti il nome di famiglia e la sua attività, per questo a soli trent’anni si trovava ad essere socio senior, mentre Morgana era ancora un socio junior.
Il rapporto tra i Pendragon non era facile. I due fratelli si volevano bene, ma spesso Uther, con i suoi comportamenti, creava degli attriti nel loro rapporto che finivano inevitabilmente con uno scontro.
Per questo Merlin pensava che non fosse assolutamente un buon segno vedere Morgana marciare battagliera verso l’ufficio di Arthur.
Si alzò velocemente dalla sua scrivania, piazzandosi davanti alla porta nel vano tentativo di frapporsi tra Morgana e la sua meta.
La donna, infatti, si arrestò davanti all’assistente e alzò un sopracciglio con fare risoluto. E arrogante. Cos’era, dannazione, una caratteristica di famiglia??
“Buongiorno, Morgana.” Temporeggiò Merlin.
“Buongiorno. Devo parlare con Arthur.” Tagliò corto, cercando di sorpassarlo.
Ma Merlin glielo impedì. “È impegnato.”
“Sono sicura che per me ha tempo.” 
Morgana cercò nuovamente di raggiungere la porta, ma Merlin la precedette di nuovo. Quel gesto non piacque per nulla alla donna che piantò glacialmente gli occhi in quelli di Merlin. Quando lo guardava in quel modo – ed era successo parecchie volte – Merlin sapeva che stava rischiando grosso. E che, di conseguenza, se non voleva che la sua testa finisse su una picca, doveva spostarsi.
Sospirò, sconfitto, e si fece da parte.
Prevedeva già la lavata di capo che Arthur gli avrebbe fatto per averla lasciata passare. E infatti…
MERLIN!” Si sentì chiamare, non appena Morgana ebbe varcato la soglia dell’ufficio di Arthur. Merlin entrò a sua volta, preparandosi alla ramanzina.
“Cosa ti avevo detto? Non devi mai lasciare avvicinare la strega al mio ufficio. MAI!”
Morgana alzò teatralmente gli occhi al cielo. “Sai che sono qui, vero, mocciosetto?”
Arthur boccheggiò, gli occhi sgranati per l’offesa subita. “Non sono un mocciosetto!”
“Lo sei.”
“Al massimo sei tu che sei una vecchiaccia! Una vecchia strega, ecco cosa sei!”
“Ho trentatré anni, Arthur…” Puntualizzò, ruotando gli occhi al cielo.
“Li porti malissimo.”
“Come osi, tu, brutto… troll puzzolente!”
“Rimangiatelo! Sono bellissimo!”
“Mai! A meno che tu non ti penta per primo!”
Arthur emise un sonoro sbuffo frustrato. “Merlin! È tutta colpa tua, dovrei licenziarti!”
“Pff, ma per favore.” Lo derise Morgana. “Non sapresti nemmeno cambiarti le mutande, senza Merlin!”  
Merlin arrossì violentemente per quell’insinuazione. Lui non si era mai avvicinato alle mutande di Arthur! Non che volesse farlo. Cioè, in realtà sì, ma non era questo il punto. Cosa diamine stava blaterando?? E perché quei due l’avevano tirato nel bel mezzo del loro infantile battibecco? Dannati Pendragon!
Arthur le lanciò un’occhiata assassina, ma poi si accasciò esausto sulla sua sedia senza ribattere nulla a quell’infamia. “C’è un motivo per cui rovini la mia mattinata con la tua infausta presenza?”
“Devo parlarti.” E poi, prima che Merlin avesse il tempo per dirigersi di nuovo verso l’uscita – e verso la salvezza, perché un Pendragon poteva anche gestirlo, ma due contemporaneamente… Dio abbi pietà della sua anima – la donna si voltò verso di lui. “In realtà devo parlare ad entrambi. So che lavorate insieme.”
Dio non aveva pietà della sua anima. Mai, a quanto pare.
Merlin iniziava davvero a credere di aver ucciso il famoso unicorno di cui si era nutrito Voldermort. Lo diceva, lui, che uccidere animali non portava mai a nulla di buono!
“Il caso pro-bono che Uther ha rifiutato. So che ci state lavorando. Ho letto il nome di Merlin nel libro di Geoffrey.”
Un silenzio gelido calò in quell’ufficio. Merlin lanciò occhiate ad Arthur ed Arthur a Merlin, come se si stessero telepaticamente parlando. Una conversazione silenziosa che sarebbe servita a trovare una scusa plausibile, o quanto meno a trovare un modo credibile per negare le parole di Morgana.
“Smettetela di guardarvi come se doveste miracolosamente leggere le risposte l’uno negli occhi dell’altro!” Sbottò Morgana, spazientita. “Voglio solo aiutarvi, idioti!”
Arthur assottigliò lo sguardo, diffidente. “Perché?”
“Perché è ingiusto che una donna debba subire un simile destino ed essere lasciata sé stessa.” Il tono della sua voce mutò, insieme al suo sguardo. Si fecero entrambi più docili, più comprensivi. Morgana era sincera. Li avrebbe aiutati sul serio. Arthur lanciò un’occhiata a Merlin, come per chiedergli silenziosamente cosa ne pensasse, e quando Merlin annuì, tornò a concentrarsi sulla sorella.
“D’accordo, va bene. Stasera ci vediamo a casa mia.”
“Perfetto.”
Morgana diede le spalle al fratello e si incamminò verso l’uscita. Merlin si spostò per farla passare. Resistette all’impulso di dirle di non fare parola con nessuno di quello che stavano facendo, ma, quasi come se Arthur fosse in grado di leggergli nel pensiero, la richiamò.
“Ah, Morgana?”
La donna si voltò.
“Non devi parlarne con nessuno, intesi?”
“Intesi.”
Con un ultimo cenno del capo, Morgana uscì dall’ufficio, lasciando solamente il suo profumo come unica testimonianza del suo passaggio.





*






“Arthur, ha chiamato Elen–”
Merlin bloccò la frase a metà, con ancora la mano sulla maniglia della porta e l’espressione di un pesce che è appena stato preso all’amo. Ecco come si sentiva. Preso all’amo. E sapeva che se avesse cominciato ad agitarsi le cose sarebbero solo peggiorate, per lui, quindi decise di darsi una calmata e di non lasciarsi andare a… scenate di gelosia?
Scacciò quel pensiero. Cominciava ad odiare la vocina della sua coscienza, che aveva cominciato a sussurrargli verità scomode da qualche giorno a questa parte.
Lui non era geloso. Di certo non di una odiosa spocchiosetta che tendeva ad allungare un po’ troppo le mani su Arthur nemmeno fosse un polpo, o un serpente che avvolge la propria preda nelle sue spire.
Ma no, lui non era geloso di quella sciacquetta viziata di Vivian.
Tuttavia non riuscì a trattenere una smorfia disgustata, quando la vide allungata sulla scrivania di Arthur, intenta a stringergli le mani. La ragazza si voltò di tre quarti verso di lui, senza staccare le sue manacce ingorde da quelle di Arthur, e lo salutò con un gran sorriso. Era finto come il suo seno rifatto – che spuntava vistoso dalla scollatura – e Merlin dovette mordersi la lingua per non farglielo notare.
Il padre di Vivian, Olaf, e Uther erano molto amici. Entrambi fondatori di due importanti studi legali. Vivian pensava che fosse una buona idea che si unissero, diventando soci. Merlin, invece, pensava che le uniche buone idee di Vivian fossero quelle che coinvolgevano le rare volte in cui decideva di stare in silenzio.
“Merlin! Ciao!” Lo salutò Barbie Fasulla.
“Vivian…” Si limitò a rispondere lui, monocorde, cercando di suonare il più educato possibile, avvicinandosi alla scrivania. Lanciò un’occhiata alle loro mani ancora intrecciate e poi una ad Arthur, che si affrettò a ritirarle, imbarazzato.
“Cosa devi dirmi?”
“Ha chiamato Elena. Vorrebbe sapere se andrai all’inaugurazione della sua mostra, venerdì prossimo.”
“Dille di sì.”
“Ci andrai da solo?” Si intromise Vivian, civettuola. Merlin alzò gli occhi al cielo. Non riuscì a trattenersi: non la sopportava. Cercava in tutti i modi di accalappiarsi Arthur. Sembrava quasi che fosse ossessionata da lui!
Come te?
Silenzio! Lui non era ossessionato proprio da nessuno!
“Ehm,” Arthur lanciò un’occhiata a Merlin, in segno d’aiuto.
“No. Non andrai da solo. Elena ha chiesto anche la presenza di Morgana e tua sorella ha già accettato. Andrete insieme.”
Arthur emise un impercettibile sospiro di sollievo. Merlin sapeva che anche lui non trovava gradevole Vivian, la riteneva maleducata ed arrogante, ma si impegnava a mantenere un rapporto civile con lei solamente per l’amicizia che legava i loro padri.
“Che peccato!” Piagnucolò Vivian.
“Già. Sarà per un’altra volta.” Arthur si alzò dalla scrivania e si abbottonò un bottone della giacca del completo scuro che indossava. Era un gesto automatico, qualcosa che faceva sempre. E qualcosa che Merlin trovava letalmente affascinante ogni volta. Arthur aveva un’eleganza innata, un fascino che emergeva anche da piccoli gesti come quelli.
Dio, stava impazzendo.
Sopprimere certi pensieri stava diventando sempre più difficile, quasi come se improvvisamente fosse stato un lupo mannaro vittima dell’influenza della luna piena.
Non voleva riempirsi di peli e ululare alla luna nello stesso modo in cui non voleva venire a patti con sentimenti sempre più prorompenti.
Non potevano starsene buoni, in silenzio, come avevano sempre fatto?
“Ora, se vuoi scusarmi, Vivian, io e Merlin abbiamo una riunione.”
“Oh, ma sì, certo.” Cinguettò Vivian. “A presto, Arthur!” E uscì, senza nemmeno degnare Merlin di uno sguardo. Non che a lui importasse, sia chiaro.
Quando furono ufficialmente loro due da soli, Merlin si voltò verso Arthur. “Noi non abbiamo una riunione. L’unica segnata per oggi è con tuo padre fra due ore.”
“Lo so. Ma non ce la facevo più. Sai che Vivian non è la migliore delle compagnie.”
“Cosa voleva, a proposito?”
“Illustrarmi i risultati dello studio legale della sua famiglia. Le solite cose. Sai che si è intestardita con la faccenda di diventare soci, ma non voglio nemmeno prendere questa idea in considerazione.” Arthur si sedette di nuovo alla sua scrivania e Merlin si sedette di fronte a lui.
“Ma Arthur,” Civettò, alzando la voce di un’ottava in un’accurata imitazione di Vivian, “Potremmo fare così grandi cose insieme!” intrecciò le dita sotto al mento e sfarfallò esageratamente le ciglia.
Arthur si coprì la bocca con una mano, ma Merlin sapeva che stava ridendo. I suoi occhi si erano illuminati e piccole rughe d’espressione li circondavano.
“Sei un idiota, Merlin.”
Ma dal tono di voce morbido che aveva usato, sembrava tutto fuorché un insulto.





*



La brigata della clandestinità, così l’aveva ufficialmente rinominata Merlin, adesso era a quota quattro e prevedeva Gwen e Morgana come nuovi membri. Evidentemente, per Morgana l’avvertimento non farne parola con nessuno escludeva automaticamente Gwen, ma andava bene lo stesso. Sapevano quanto Gwen fosse una persona fidata.
La casa di Arthur era diventata la base per le loro attività clandestine e Merlin sperava davvero che in quattro sarebbero riusciti a trovare qualcosa di utile.
Sentiva il peso di quel nuovo caso addosso e gli bastava lanciare un’occhiata ad Arthur di tanto in tanto per sapere che per lui era lo stesso.
Le ore passate a leggere informazioni che sembrava non li avrebbero portati da nessun parte – avevano bisogno di elementi solidi e non di prove circostanziali, di cui, apparentemente, erano pieni – lo stavano stancando e Merlin credette che fosse arrivato il momento di fare una piccola pausa.
“Vado a fare il caffè.” Si alzò dal tavolo in salotto e si diresse verso la cucina. Arthur si passò una mano sul viso e annuì. Merlin aveva il potere di leggergli nel pensiero, ne era certo.
“Vengo con te.” Affermò Gwen, seguendo l’amico in cucina.
Arthur seguì Merlin con lo sguardo fino a quando la sua figura sottile e slanciata non sparì all’interno della cucina. Una volta che furono rimasti soli, Arthur si voltò verso la sorella, attirando la sua attenzione.
“Ho sentito della lite tra te e papà, oggi.”
Morgana non alzò gli occhi grigi dal foglio che stava esaminando. “Credo che tutto lo studio abbia sentito le sue grida.” Sfogliò il foglio successivo. Tutto pur di non guardarlo negli occhi. Arthur sapeva che non stava davvero leggendo le informazioni sul foglio, almeno non da quando aveva attirato la sua attenzione. Ma sapeva che si stava impegnando per evitare il suo sguardo. Con Morgana ci voleva pazienza. Una pazienza che lui, il più delle volte, purtroppo non aveva. Si assomigliavano così tanto, testardi e cocciuti, troppo propensi a farsi dominare dall’orgoglio.
Ma Arthur sapeva anche tornare sui suoi passi, indietreggiare e guardare i danni che i suoi comportamenti avevano portato per cercare di porvi rimedio.
Teneva davvero a sua sorella.
“Papà ha le sue idee…” Cominciò Arthur e quelle parole ebbero il potere di far sì che Morgana intrecciasse i suoi occhi con quelli del fratello.
“Certo, delle idee retrograde e offensive! È un’ipocrita, Arthur! Mi chiama figlia, ma continua a vedere solamente te come suo unico erede.” Sbottò, innervosita.
“Se mi avessi lasciato finire, sapresti che credo tu abbia ragione. Voglio fare felice nostro padre, voglio che sia fiero di me, ma non voglio escluderti, Mo. Non è giusto.”
Quel pomeriggio, Uther aveva indetto una riunione dei soci per analizzare l’andamento dello studio legale, i bilanci e i risultati. Morgana era stata esclusa da quella riunione, mentre Arthur vi aveva partecipato. Uther aveva pensato fosse giusto così, dal momento che un giorno, il posto occupato da Uther sarebbe stato occupato da Arthur.
Morgana era piombata nel suo ufficio, furiosa e frustrata, chiedendo spiegazioni. Ne era nata una lite che era echeggiata per tutte le mura dello studio.
“Non chiamarmi così, non hai più tre anni.”
Arthur le riservò un’occhiata complice. “Ti chiamo come più mi piace. Preferisci strega?”
“Dipende, tu preferisci mocciosetto?”
Arthur le rivolse una linguaccia e per un attimo ebbero entrambi l’impressione di essere tornati bambini. Nessun pensiero, nessun genere di preoccupazione. Solo due bambini che si raccontano segreti sussurrati, prima di scegliere a quale gioco giocare.
Ad Arthur mancavano quei momenti di spensieratezza, prima che la vita, inevitabilmente, andasse ad intaccare l’innocenza, portandosi via la spontaneità tipica dell’infanzia.
“Preferisco averti dalla mia parte.”
“La tua parte è quella di Uther, Art. Non puoi capire come mi sento.”
“Allora spiegamelo.” Arthur si allungò per afferrarle la mano. Tra loro si era rotto qualcosa, inevitabilmente, quando avevano smesso di essere due ragazzini ed erano diventati adulti. La preferenza che Uther aveva nei confronti di Arthur era diventata sempre più palese, crescendo giorno dopo giorno. Lo ricopriva di responsabilità, pretendendo il massimo da lui, ma arrivava inevitabilmente anche ad elogiarlo. Voleva forgiarlo per farlo diventare il migliore.
Per Morgana era diverso: l’aveva fatta studiare nelle stesse scuole di Arthur, ma non l’aveva mai trattata come se si aspettasse che, un giorno, aiutasse Arthur a dirigere lo studio.
Perché lui era quello che avrebbe portato avanti il nome di famiglia. Lui avrebbe avuto dei figli Pendragon.
Era un comportamento, questo, che lacerava Morgana dentro. Oltre che a ricordarle, inevitabilmente, che il suo sangue non era Pendragon. Comportandosi in quel modo non faceva altro che ricordarle che, biologicamente, non era figlia sua.
Morgana si sentiva lasciata a sé stessa più volte di quanto le piacesse ammettere e tutto ciò le provocava una rabbia furiosa, che straripava a tal punto dal suo cuore avvelenato dal rancore da rispecchiarsi anche su Arthur, che, invece, era un uomo completamente diverso da suo padre.
Non meritava la sua collera. Ma Morgana la provava così intensamente da non riuscire a trattenerla, nemmeno con lui.
E spesso provava rimorso, nei confronti dell’unico vero familiare che le fosse rimasto.
Morgana sapeva che se Igraine fosse stata ancora viva, le cose sarebbero state diverse. Ma si premurava sempre di evitare di dirlo ad alta voce perché sapeva quanto una frase simile avrebbe ferito Arthur nel profondo, che si sentiva ancora in colpa per la morte della loro madre, quasi come se fosse stato lui il responsabile e non il cuore precario della donna che aveva dato la vita ad entrambi.
“Mi fa sentire sola, messa da parte.” Si limitò a dirgli, riassumendo tutti i suoi pensieri in un’unica frase. Sapeva che non era sufficiente per spiegare tutta la marea di emozioni che le albergava dentro, ma lo ritenne comunque un inizio. Una buona alternativa al silenzio più assoluto, che finiva inevitabilmente per trasformare la sua frustrazione in attacchi d’ira rivolti anche ad Arthur, che non c’entrava niente con i comportamenti del padre. Forse, se avessero nuovamente cominciato ad essere loro due, come quando erano bambini, le cose sarebbero migliorate.
“Ma non sei sola. Hai me.”
“Credo che entrambi tendiamo a dimenticarcelo. Io per un verso, tu per un altro. Il tuo desiderio di approvazione paterna è più grande di qualsiasi cosa.”
Arthur sapeva che c’era della verità nelle parole della sorella. Aveva rinunciato a così tante cose, pur di ricevere l’approvazione di Uther. Cose che l’avrebbero reso felice. Il fatto era che il suo senso di colpa lo divorava a tal punto che credeva che se fosse riuscito ad essere il figlio perfetto che lui si aspettava che fosse, non avrebbe mai avuto modo, un giorno, di potergli rinfacciare la morte di Igraine. Non che l’avesse mai fatto, ma Arthur aveva questo costante terrore che un giorno, per una qualsiasi inaspettata ed improvvisa occasione, sarebbe successo. E lui non voleva che succedesse. Non l’avrebbe sopportato, se fosse successo.
Ma non voleva nemmeno che Morgana soffrisse.
“Facciamo così: da oggi ci impegneremo per ricordarci a vicenda che abbiamo l’un l’altra. E io parlerò con papà.”
Morgana gli sorrise e annuì. Sapeva che le cose non sarebbero cambiate a breve, c’erano troppi anni di incomprensioni che aleggiavano nella loro famiglia, ma lo vedeva pur sempre un inizio. Voleva sperare che avrebbero avuto qualcosa di buono, da questa conversazione.
Arthur non era Uther, dopotutto. Era più buono, più giusto. Ed era cocciuto abbastanza da riuscire a cambiare le cose, se solo si metteva in mente di farlo.
“Ora però basta fare i sentimentali. Non ci si addice.”
Arthur emise una risata nasale. “Già.” Le strinse un’ultima volta la mano, prima di lasciare la presa su di lei. Si guardarono un ultimo istante, complici, e poi tornarono a concentrarsi sul loro lavoro.
Dopo pochi minuti, furono nuovamente raggiunti da Gwen e Merlin muniti di caffè per tutti, ignari di quello che era appena avvenuto tra i due fratelli.





*





“I tempi cominciano a stringere, Merlin.”
Merlin alzò gli occhi dal suo pc, a cui stava scrivendo la marea di relazioni che Arthur gli lasciava scrivere ogni giorno. Lo oberava di lavoro e poi si lamentava se ci metteva un’eternità.
“Lo so.”
Non aveva bisogno di chiedergli a cosa si riferisse. Sapeva che stava parlando del caso clandestino, che lo preoccupava a tal punto da averlo spinto ad alzarsi dalla sua comoda scrivania e a raggiungere quella di Merlin, fuori dal suo ufficio, piuttosto che chiamare l’assistente e farlo andare da lui, come faceva sempre.
Erano passati cinque giorni da quando Merlin aveva sottratto il fascicolo dall’archivio.
“E allora perché non ti sbrighi?”
“Perché i miei compiti non sono diminuiti da quando lavoriamo a tu-sai-cosa, che porta via un mucchio di tempo che viene sottratto a tutte le cose che avevo da fare prima.”
Tutta questa situazione lo stressava.
Arthur alzò un sopracciglio biondo estremamente curato. Vanesio, pensò Merlin, notando quel particolare.
“Credi che i miei di compiti, invece, lo siano?”
“No, ma quando tu non riesci a finire una cosa, la devo finire io. Se io non riesco a finire una cosa, devo fare le ore piccole. E finirla comunque io. Non dormo bene da giorni.”
Arthur notò le occhiaie sotto gli occhi cerulei di Merlin. Era stanco, si notava da come la sua pelle fosse più bianca del solito. Indugiò un tantino su come aderisse perfettamente ai suoi zigomi alti e pronunciati, prima di distogliere in fretta lo sguardo.
“Hai mangiato?”
Merlin, che si aspettava più che altro una rispostaccia sarcastica alle sue lamentele, abbandonò lo schermo del computer per guardare il suo capo in viso. Quella domanda aveva sempre il potere di stupirlo, quasi come se ogni volta riuscisse a vedere sempre un po’ di più di quella premura che era ben celata dentro al cuore di Arthur. E Merlin era consapevole di aprirsi in un sorriso soffice, ogni volta che Arthur si preoccupava per lui in quel modo genuino.
“No, mi sono dimenticato.”
“Probabilmente anche io mi dimenticherei, se il mio cibo consistesse in erbette condite con una dose spropositata di tristezza.”
Arthur, comunque, rimaneva sempre un babbeo, sia chiaro. Anche quando provava ad essere premuroso, la sua idiozia aveva sempre la meglio su tutto.
Merlin gli lanciò un’occhiataccia. “Sai che essere vegetariano non comporta mangiare solo insalata, vero?”
“Ah no? E cosa comporta? Dopo un tot di anni ti regalano anche il manuale dell’animagus così puoi completare la metamorfosi in capra?”
“Non saprei. Con te hanno fatto così? Il premio per mangiare carne tutta la vita è la trasformazione in asino? È un po’ ironico, non trovi?”
“Merlin!” Esclamò, gli occhi azzurri sgranati in quell’espressione tipica che metteva su ogni volta che veniva punzecchiato.
“Te la sei cercata.”
“Sta’ zitto e muoviti. Ti porto a pranzo.”
“Sono le tre del pomeriggio passate, Arthur.” Gli fece notare Merlin, guardando l’ora sul computer. “E devo lavorare.”
Arthur alzò gli occhi al cielo. “Per una volta nella tua vita puoi, gentilmente, non ribattere a qualcosa che dico? Accetta e basta. Alzati e vieni con me. Ti porto a mangiare.”
Merlin mise il pc in standby e si alzò. “Se poi ritardo, è colpa tua. Non puoi venire a lamentarti che i tempi stringono, intesi?”
“A volte ho l’impressione che ti dimentichi che non sei tu quello che comanda, sai?”
Merlin serrò le labbra all’interno della bocca. Era consapevole di prendersi troppe libertà con Arthur. Ma in fondo, quello era stato il loro rapporto fin dai primi inizi. Veniva naturale ad entrambi comportarsi in quel modo.
“Tu invece non lo dimentichi mai, che sei il capo. Ti piace troppo.” Lo punzecchiò, alzando solo un angolo della bocca in un mezzo sorriso.
Arthur scosse la testa, cercando di non farsi contagiare da quell’espressione, inutilmente. Ancora prima che se ne accorgesse, anche uno degli angoli della sua bocca era sollevato.
“Sei un idiota.”
E, di nuovo, non suonava minimamente come un insulto.




*





“Dai, assaggialo, per favore!”
Arthur osservò il crostino dal dubbio colore che gli veniva sventolato sotto il naso e fece una smorfia contrariata. Si erano recati in un posto che, a quanto pare, Merlin frequentava con Gwen, quando faceva la pausa pranzo. Era una specie di tavola calda vicino allo studio che faceva anche cose vegetariane. Da quando aveva visto Arthur storcere il naso davanti alla sua ordinazione, Merlin aveva insistito affinché assaggiasse.
“Smettila di fare l’altezzoso. Non puoi dire che non ti piace, se non lo assaggi!”
Arthur gli fece una boccaccia. Non gli piaceva essere rimproverato come se fosse un infante, per Dio!
“Se lo assaggio, deciderai finalmente di tacere? Mangerai in silenzio?”
“Promesso, croce sul cuore.” Merlin mimò persino una croce sulla parte sinistra del suo petto. Arthur lo osservò compiere quel gesto e, inevitabilmente, si trovò a sorridere. Merlin era un idiota per la maggior parte delle volte, ma riusciva ad avere un potere su di lui che lo spaventava a morte.
Aveva il potere di renderlo felice. E Arthur sapeva che una sensazione del genere era pericolosa. Avrebbe portato verso un sentiero rischioso. Un sentiero che suo padre, in ogni caso, gli avrebbe impedito di prendere.
Quel pensiero gravò sulla sua mente e sul suo cuore. Per questo, decise di scacciarlo.
“D’accordo, allora. Se questo servirà a farti stare zitto, assaggerò il crostino con la melma verde.”
Merlin gli scoccò un’occhiata di rimprovero. “È guacamole, Arthur.” E senza aggiungere altro lo avvicinò alla sua bocca. Arthur avrebbe potuto benissimo prendere il cibo dalle mani di Merlin e mangiarlo per conto proprio, ma ancora prima che riuscisse ad elaborare questo pensiero, il suo istinto aveva già scelto per lui, guidandolo verso quella strada che prevedeva sporgersi verso la mano di Merlin e addentare il crostino direttamente da essa.
Aveva lasciato che Merlin lo imboccasse.
C’era un che di fortemente intimo, in un gesto simile.
Come un infante che viene nutrito dalla madre.  
O come un amante che nutre l’amato in un gesto spontaneo di condivisione. Ciò che è mio, è tuo.
E Arthur sentì il panico al solo pensiero, mentre il suo cuore martellava all’impazzata. Masticò piano il boccone, cercando almeno in qualche modo di calmarsi. Si concentrò sul sapore. Tutto purché evitasse di concentrarsi su determinate sensazioni, su certi pensieri.
Il sapore era buono, doveva ammetterlo.
Gli occhi di Merlin che non lo lasciavano un istante, studiandolo in quel modo attento e profondo, invece, stavano avendo un effetto deleterio su di lui.
E sul suo povero cuore, che non ne voleva sapere di calmarsi.
Distolse lo sguardo. Se avesse guardato ancora un po’ dentro agli occhi cerulei di Merlin, era sicuro che lui sarebbe stato in grado di leggergli dentro.
Lo faceva sempre, dopotutto. A Merlin bastava uno sguardo per capirlo. Ed era questo a spaventarlo e ad attrarlo allo stesso tempo. Con lui aveva un’intesa che non aveva mai avuto con nessun altro essere umano.
“Ti piace, vero? Altrimenti avresti già cominciato a dire quanto non ti piaccia, ma non dici niente per non darmi ragione!”
Ecco, appunto.
Lo conosceva meglio di chiunque altro.
“È passabile.” Gli concesse, fingendo sufficienza.
Merlin gli regalò un sorriso ampio e luminoso, un’espressione che andò ad accendere anche i suoi occhi. Un’espressione che infierì sul cuore agitato di Arthur ancora di più.
“Vedi? Se evitassi di essere sempre prevenuto, magari scopriresti anche cose nuove che ti piacciono.”
“Ho detto che è passabile, non che diventerà il mio nuovo cibo preferito.”
“Acido.” Lo appellò Merlin, finendo il crostino che Arthur aveva addentato. Il suo piatto, adesso, era ufficialmente vuoto.
Arthur sorvolò su quel commento. Sentiva la necessità di tornare al lavoro, di avere la mente occupata e di concentrarsi su qualcosa che non fossero quelle sensazioni che l’avevano investito e che non lo lasciavano.
“Se hai finito, direi di andare.”
“Sì, certo.” Merlin si alzò e recuperò giubbotto e sciarpa dallo schienale della seggiola. Arthur lo osservò per qualche istante mentre si imbacuccava come un pinguino che si prepara ad affrontare il gelido Polo Nord.
Merlin possedeva una quantità spropositata di sciarpe. Le adorava.
E Arthur mentirebbe se dicesse di non avergliene regalate almeno cinque, da quando lo conosceva, solamente per vederlo sorridere ogni volta come se avesse ricevuto la cosa più preziosa del mondo.
Merlin era speciale perché riusciva a trovare felicità anche nelle piccole cose.
“Ti sei coperto per bene? Non vorrei che nei cinque metri che separano questo posto dallo studio tu congelassi.”
“Stai facendo dell’ironia, Arthur?”
“Grato che tu te ne sia accorto. Non sei sempre stupido, allora.”
“A differenza tua, ho momenti di genialità.” Merlin gli si piazzò davanti. Era più alto di lui di qualche centimetro. “Chissà come dev’essere, riuscire a vivere senza avere un cervello nella scatola cranica.” E per calcare il concetto, bussò lievemente sulla sua fronte.
Arthur scacciò malamente la mano di Merlin da sé. “E chissà come riesci a vivere con il sangue freddo come i rettili.”
Merlin si aprì in un sorriso. “Chissà, magari in una vita precedente sono stato un drago e il suo sangue scorre ancora nelle mie vene.”
“In un’altra vita sei stato un idiota, come lo sei in questa, come lo sarai se ne avrai un’altra dopo questa.”
Merlin assottigliò lo sguardo. “Ti credi tanto divertente?”
“Io sono divertente.” Affermò, gonfiando il petto come un pavone vanitoso.
“No, Arthur, non lo sei. Non quanto credi, almeno.” Merlin gli rivolse un sorriso sghembo e un’espressione gongolante che Arthur avrebbe voluto cancellargli dalla faccia con un…
Con cosa?
Un bacio.
Ma sapeva che era sbagliato, che quella era un’idea sciocca, e che quel sentiero portava inevitabilmente ad un campo minato.
Un campo che per anni aveva dovuto evitare per cause di forza maggiore. Un lato di sé che ormai si era rassegnato a dover tenere nascosto tutta la vita.
Ma poi il destino gli aveva messo davanti Merlin, con la sua corporatura sottile e longilinea, gli occhi grandi e le ciglia lunghe, il sorriso radioso e gli zigomi più affilati dell’universo. Nemmeno le sue orecchie a sventola erano riuscite a distoglierlo dalla bellezza del suo viso.
Il destino gli aveva giocato un brutto tiro mancino. Il fato si divertiva a torturalo, a scombinargli i piani che lui aveva impiegato una vita intera per preparare. Piani che non prevedevano l’attrazione verso un uomo.
“Arthur?” Lo chiamò l’oggetto dei suoi pensieri. Immerso com’era nei suoi rimugini non si era nemmeno accorto che Merlin si era diretto verso la cassa.
Si voltò verso di lui e lo raggiunse.
“Perché questa gentile signorina dice che è già tutto pagato?”
“Perché ho pagato, Merlin, mi pare ovvio. Fortuna che ti credevi intelligente.”
Merlin gli lanciò un’occhiata truce. “Sorvolerò sull’offesa. Ma perché hai pagato tu? Non hai nemmeno mangiato!”
“In realtà ho mangiato un pezzo del tuo crostino alla melma, ricordi? Quindi ho mangiato, puoi vederla così se ti fa stare meglio.”
“Non mi fa stare meglio! Non avresti dovuto pagare!”
Portare qualcuno fuori a pranzo, significa offrirgli il pranzo. Funziona così, lo sanno tutti.”
“E da quando, di grazia?”
“Da sempre!” ribatté Arthur, riflettendo lo stesso tono risentito di Merlin. Perché se la prendeva tanto, poi? Era solo un pranzo, non poteva accettare e basta?
“Il suo ragazzo ha fatto un gesto molto galante, signore.” Si intromise la cameriera, convinta che una frase simile avrebbe in qualche modo rasserenato gli animi.
In realtà ebbe solo il potere di far arrossire entrambi come due pomodori fino alla punta delle orecchie.
“Lui non è il mio ragazzo!” Affermarono all’unisono, la voce che uscì un’ottava più alta del necessario – sfiorando quasi l’isteria.  
Ponendo fine a quel battibecco, uscirono dal locale in fretta, lasciandosi dietro le scuse della cameriera per aver frainteso la situazione.




*





Non parlarono dell’accaduto. Quel fraintendimento venne completamente ignorato da entrambi per il resto della giornata. Dopotutto, non dovevano darci peso, giusto?
Era stato solo un errore da nulla. Una bazzecola.
Ma entrambi non poterono fare a meno di pensare perché quella sconosciuta l’avesse pensato. Quali fossero stati i motivi che l’avessero spinta ad arrivare ad una tale conclusione.
E non poterono fare a meno di notare con quanta facilità avesse usato la parola ragazzo, quasi come se fosse ovvio che stessero insieme come una coppia.
Merlin decise di non dare troppo peso alla faccenda perché l’ultima cosa di cui aveva bisogno era un’illusione che l’avrebbe inevitabilmente portato verso la sofferenza.
Arthur decise di ignorare l’accaduto perché non doveva fantasticare su una cosa che non sarebbe mai e poi mai accaduta, un qualcosa che scombinava i suoi piani di vita. Un qualcosa che rischiava di andare a risvegliare ciò che lui, anni indietro, si era impegnato a soffocare. C’erano cose che gli erano proibite. E Merlin era una di queste.
Entrambi sapevano che non aveva senso stare a rimuginare su qualcosa che non avrebbero mai potuto avere, quindi decisero di passare oltre.








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Ciao a tutti! Ecco il secondo capitolo!
Vorrei fare una precisazione: nella serie Morgana è figlia biologica di Uther, in questa storia ho preferito seguire anzi ciò che viene scritto in La morte di Artù di Thomas Malory, nel quale viene scritto che Morgana sia figlia di Igraine. Non ho letto il libro in questione, mi sono limitata semplicemente a riportare quell’informazione.
Questo perché pensavo che una dinamica simile avrebbe potuto “aiutarmi” di più a gestire gli attriti tra Uther e Morgana “modernizzando” gli scontri che tra di loro avvengono nella serie a causa della magia.
Il personaggio di Morgana nelle prime stagioni mi piaceva tantissimo. Adoravo il suo rapporto con Arthur e soprattutto con Gwen. Il suo diventare la cattiva della situazione è stato fondamentale per la storia e la serie – altrimenti non avremmo mai avuto un antagonista, in pratica – ma ammetto che mi mancava vederla a palazzo ad interagire con qualcuno che non concordi con lei sull’uccidere Arthur.
Per quanto riguarda il personaggio di Uther… ho cercato di adattarlo il più possibile ad un contesto moderno anche nei capitoli successivi e spero di non aver fatto un casino con quello originale. Il più delle volte temo di uscire dall’IC e sfociare nell’OOC e fare i miei affari, ma spero vivamente di non essere uscita troppo dal carattere originale, sia con lui che con altri personaggi. In tal caso, mi farebbe piacere saperlo 😊
In questo capitolo c’è un accenno alla possibilità che Arthur pensi di provare qualcosa per Merlin. Nel prossimo capitolo verrà approfondito un pochino di più. E chissà cosa succederà! :D
La storia è già scritta fino al capitolo 5, a breve comincerò a scrivere il 6 che credo anche potrebbe essere l’ultimo.
Probabilmente aggiornerò una volta a settimana! Non l’ho mai fatto di programmare la pubblicazione di una storia, in genere scrivo capitolo per capitolo e quando è finito pubblico – infatti, la maggior parte delle mie storie subisce dei ritardi assurdi perché non riesco mai a trovare il tempo per scrivere – quindi non so se questo sia effettivamente il modo giusto di fare, ma spero di sì.
Ringrazio immensamente chi ha recensito il primo capitolo, le vostre parole sono state di enorme conforto. Ringrazio anche i lettori silenziosi, che sono molti di più di quanti mi sarei mai aspettata, e chiunque abbia messo la storia tra le preferite/seguite/ricordate. Lo apprezzo immensamente! Vi mando un abbraccio fortissimo!
A presto!

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Capitolo 3
*** 3. ***


Arthur aveva una volontà di ferro.
Era stato cresciuto in modo che fosse così. Suo padre gli aveva sempre insegnato a perseverare, a raggiungere gli obiettivi ad ogni costo. Il sacrificio e l’impegno erano ciò che portava verso i risultati.
Non sempre era facile, anzi non lo era mai, ma se ci si mette la volontà, si può arrivare ovunque.
Questo principio valeva per ogni cosa della vita.
O almeno, questo era quello che Arthur aveva sempre creduto.
Avrebbe dovuto sapere che la vita in realtà è piena di cavilli e postille, quelle piccolissime regole scritte in fondo ad ogni contratto, in un carattere talmente minuscolo che nessuno legge e poi viene fregato in un successivo momento perché, appunto, prima di firmare una qualsiasi cosa bisogna leggere le dannate postille e i maledetti cavilli.
Il suo cavillo personale era Merlin Emrys. E dal momento che non ricordava di aver firmato nulla che prevedesse di essere fregato da qualcuno con un bel paio d’occhi blu e i modi irriverenti, poteva dire di essere stato raggirato per bene da un destino beffardo e un tantino infido.
Merlin era entrato nella sua vita per puro caso, un anno prima. Era il periodo delle nuove assunzioni e suo padre riteneva che fosse opportuno per lui, dal momento che era un socio senior, avere un assistente. E Uther aveva scelto Merlin, sotto consiglio di Gaius, suo fidato collega da anni.
Gaius era il medico legale, che lavorava insieme ad Uther da quando Arthur ne aveva memoria. Era il fratello maggiore della madre di Merlin, Hunith, e aveva garantito che Merlin, fresco di laurea, avesse voglia di farsi esperienza.
E quindi era finito a lavorare per Arthur.
Probabilmente, ora che ci faceva caso, colui che gli aveva metaforicamente fatto firmare un contratto pieno di postille a base di fregatura colossale era Gaius.
Forse avrebbe dovuto licenziarlo.
Causa del licenziamento: per colpa sua, Arthur si era scoperto a provare sentimenti per un certo Emrys.
Non era credibile, come motivazione. Né tanto meno sarebbe stata opportuna, o professionale.
E poi Gaius era un valido membro dello studio. Lui stava solo vaneggiando in preda all’ansia che certi pensieri gli provocavano.
Provare qualcosa per Merlin, pff. Era ridicolo.
Merlin era sbadato e imbranato, sembrava avesse costantemente la testa fra le nuvole. Arrivava in ritardo due volte su tre, doveva sempre avere l’ultima parola e aveva la capacità di fargli saltare i nervi con la sua insistenza.
Aveva un’irrazionale paura dei topi, solo perché aveva letto su Internet che possono nutrirsi di carne umana.
Merlin leggeva un sacco di idiozie. Arthur non poteva provare qualcosa per qualcuno che crede a determinate stupidaggini!
Una volta gli aveva persino mandato un messaggio con il link dell’articolo per avvalorare la sua tesi e Arthur ancora ricorda cosa gli aveva risposto.
> Dormi, Merlin, sono le tre del mattino, che diavolo ci fai sveglio?
  Se domani non arrivi puntuale, è la volta buona che ti licenzio!
> E tu che ci fai sveglio, invece? Il tuo enorme ego occupa troppo spazio nel letto e ti senti schiacciare?
> Rettifico: sei licenziato, domani non presentarti nemmeno.
> Scusa.  Posso venire al lavoro, domani? Arriverò puntuale, promesso.
> La puntualità non basta.
> Puntualità e caffè, invece? Bastano?
> D’accordo, sei perdonato per la tua impudenza.

Arthur era sicuro che quel messaggio avesse fatto alzare gli occhi di Merlin al cielo.
> Buonanotte, Arthur.
> ‘Notte, Merlin.

Il fatto che si ricordasse a memoria il loro scambio di messaggi non significava niente. Non è che uno prova qualcosa per qualcun altro solo perché si ricorda esattamente cosa si sono detti mesi fa, giusto?
Arthur aveva voglia di gettarsi dalla finestra. Tutta questa sensazione gli faceva provare un forte senso di disagio, verso sé stesso, verso chi suo padre si aspettava diventasse.
Arthur aveva soppresso questo lato di sé per così tanti anni che non aveva nemmeno imparato a gestirlo, a conoscerlo. Non sapeva nemmeno chi fosse l’Arthur che poteva ammettere con tranquillità di essere bisex, perché quell’Arthur era stato soppresso dalle parole di Uther anni indietro, quando gli aveva espressamente inculcato che avrebbe dovuto trovarsi una moglie che avrebbe garantito la continuazione del nome di famiglia.
Quando ti senti ripetere lo stesso mantra per tutta la tua vita, capisci fin da subito qual è la strada che si aspettino tu percorra. E quella strada di certo non prevedeva l’interessamento per un uomo.
Arthur sospirò, afflitto.
Non capiva perché, dopo anni, si sentiva irrequieto. Aveva rinunciato da tempo alla possibilità di provare qualcosa per un uomo. Aveva imparato, negli anni, a toglierli automaticamente dalle sue possibilità. Perché adesso doveva essere diverso? Perché adesso risultava così difficile lasciar perdere?
Perché Merlin è speciale.
Lo era davvero. Era diverso da chiunque avesse mai incontrato. Merlin, inconsapevolmente, attirava la gentilezza di tutti. Veniva quasi naturale a chiunque comportarsi in maniera più gioviale, quando lui era in una stanza, perché era talmente solare da risultare contagioso.
Era sincero, a volte da far male, ma le sue parole avevano il potere di riuscire a cambiare le persone. Lo stesso Arthur era cambiato, da quando lo conosceva. Era migliorato. Aveva imparato a guardare le cose con gli occhi di Merlin, trovandosi spesso a notare dettagli che, senza la sua prospettiva, non avrebbe mai notato. Merlin era dotato di una sensibilità profonda e di un’intelligenza acuta che lo rendevano unico nel suo genere.
E Arthur… Arthur provava qualcosa per lui. Non sapeva che nome dare ai suoi sentimenti, anche perché lo terrorizzavano a tal punto che avrebbe preferito relegarli in un angolo remoto di sé.
Si sarebbero rassegnati, quei sentimenti, proprio come si era rassegnato lui anni prima.
Niente uomini, nella sua vita, Uther non avrebbe mai approvato.
E allora, altro non gli rimaneva da fare che osservare Merlin e guardare ciò che non avrebbe mai potuto avere. L’occasione sfumata di una felicità così profonda da risultare surreale. La sua occasione di poter amare sinceramente ed essere amato, nel caso fortuito in cui Merlin avesse ricambiato. Ma sapeva che non poteva avere niente di simile, non con lui, almeno.
E una parte di sé gli fece notare che se non poteva averla con Merlin, questa felicità, allora non l’avrebbe voluta con nessun altro.
Nessuno era come lui. E tentare di provare gli stessi sentimenti per qualcun altro sarebbe stato come cercare di intrappolare la luce con le mani: inutile e insoddisfacente.
Una profonda tristezza lo invase. E si impegnò con tutto sé stesso per scacciarla, buttandosi nuovamente sul suo lavoro. Forse, pensare ad altro, l’avrebbe aiutato a stare un po’ meglio.
Forse.






*





Quella sera stessa, Merlin si trovava a casa di Arthur.
Stavano ancora lavorando al loro caso clandestino, esaminando faldoni di fogli da cui sembrava fosse destinato ad uscire solamente il nulla più assoluto. Il caso c’era, ma mancavano le prove sostanziali per costruirlo. Le informazioni raccolte fino a quel momento avevano portato ad una serie di prove circostanziali che l’avvocato della difesa avrebbe massacrato in una manciata di minuti in tribunale.
Serviva qualcosa di solido, qualcosa che avrebbe portato una svolta, qualcosa come…
“Arthur?” Merlin, seduto a gambe incrociate sul tappeto davanti al camino, si alzò per dirigersi da Arthur, che invece stava esaminando i fogli sul caso seduto al tavolo. Si erano divisi in quel modo per riuscire ad esaminare più informazioni possibili. Il tavolo, così come il pavimento intorno a dove era seduto Merlin poco prima, erano ricoperti di carta, quasi come se un bambino particolarmente esuberante avesse lanciato a terra dei coriandoli giganti.
Arthur, seduto, alzò lo sguardo su Merlin, che si trovava in piedi al suo fianco. L’assistente gli piazzò sotto il naso il foglio che aveva trovato, quasi come se fosse una specie di Sacro Graal.
“Leggi qui.” Gli indicò un punto specifico con l’indice. “Una volta una vicina ha chiamato la polizia perché ha sentito delle urla. Quando la polizia è arrivata, il marito di Annabelle ha mandato via gli agenti. È una pista un po’ azzardata, ma la vicina potrebbe anche aver visto qualcosa. In quel caso avremmo una testimone. Se è disposta a parlare, potremmo avere un elemento solido per la costruzione del caso.”
Merlin parlò tutto concitato, cercando di non far trapelare troppo la sua emozione o lasciarsi andare a speranze vane. Come aveva detto, era una pista azzardata. Lo sapeva lui e lo sapeva Arthur. Quello che non sapeva era come avrebbe reagito Arthur a quella nuova scoperta. Di certo non si aspettava di vederlo alzarsi dalla sedia, afferrargli il viso tra le mani e premere le sue labbra contro le proprie.
Merlin si scansò da quel contatto come se Arthur avesse appena provato a bruciarlo vivo. Fece un passo indietro. Sentiva il cuore che gli martellava nel petto e il respiro che si era fatto più veloce.
Si guardarono in silenzio per un lungo attimo, studiandosi.
Merlin sapeva che nulla di tutto questo aveva davvero un senso. Sapeva che razionalmente aveva fatto bene a tirarsi indietro. Allontanarsi era la cosa giusta da fare. Per entrambi. Allora perché Merlin si stava di nuovo avvicinando a lui? Perché i suoi piedi avevano fatto un passo in avanti ancora prima che lui decidesse effettivamente di farlo e, ancora, perché le sue mani erano già sul viso di Arthur e lo stavano tirando a sé?
Perché lo stava baciando?
Perché lo voleva. Lo voleva da così tanto tempo che non si era nemmeno reso conto che rischiava di essere consumato da quel desiderio, da quella curiosità di sapere che sapore avessero le labbra di Arthur. E Dio, se erano deliziose.
Era bastato un semplice contatto per azzerare tutto, silenziare ogni sua voce razionale che gli gridava che questa era una pessima idea, semplicemente perché niente gli sembrava pessimo se le mani di Arthur scivolavano lungo la sua schiena e lo spingevano contro il suo petto.
Merlin aveva la sensazione di essere ebbro. Sentiva il proprio corpo che aderiva perfettamente a quello di Arthur, andandosi ad incastrare ad esso in modo perfetto, come le due famose metà della mela, come due facce della stessa medaglia. Diversi, ma complementari. Ed era certo che il suo cuore sarebbe esploso da un momento all’altro.
Era sicuro che non ne avrebbe mai avuto abbastanza di Arthur e dei suoi baci. Si sentiva ridicolo al solo pensiero, ma non poté fare a meno di sentirsi come il protagonista di una di quelle commedie romantiche esageratamente sdolcinate, dove alla fine, in un modo del tutto surreale e irrealistico, l’amore arriva. E vince, e…
“Questo non è mai successo, giusto? Domani ci saremo dimenticati tutto.”
…E Merlin si sentì uno stupido. Il mondo gli crollò addosso nel momento esatto in cui quelle parole lasciarono le labbra di Arthur, gonfie di baci. Avevano un altro sapore, adesso, quelle labbra. Un sapore amaro, che sapeva di rifiuto. Merlin si era lasciato andare ai suoi sentimenti, aveva lasciato che gli offuscassero la mente senza prima domandarsi perché Arthur avesse reagito in quel modo. Senza ricordarsi che Arthur, per lui, non provava altro che amicizia.
Si allontanò da lui, di nuovo, e questa volta ebbe come la sensazione che Arthur gli avesse pugnalato il cuore. Riusciva quasi a percepirlo sanguinare. Avrebbe voluto darsela a gambe levate, fuggire in preda alla vergogna per essere stato così ingenuo e credulone.
Arthur gli aveva dato un bacetto e lui aveva abbassato tutte le sue difese, rendendosi vulnerabile. In quel momento, Merlin si detestò. E detestò anche realizzare quanto fosse immenso il potere che Arthur aveva su di lui.
Era bastato davvero un misero gesto e lui aveva abbassato ogni sua difesa.
“Ma certo.” Merlin sputò quelle parole con astio. I suoi occhi fissarono quelli di Arthur e lo guardarono in un modo che nessuno dei due pensavano sarebbe mai stato possibile: rancore.
Merlin era stato ferito e Arthur si rese conto di quanto male gli avesse fatto nel momento in cui venne guardato in quel modo.
“Merlin, io… cerca di capire, ti prego.” Si allungò verso di lui, cercando di afferrargli una mano, ma Merlin si ritirò bruscamente, deluso e addolorato.
“E cosa dovrei capire esattamente, mh? Che hai deciso da un giorno all’altro di prenderti gioco di me? Sei solo un arrogante egoista!” gridò e quelle parole cariche di rabbia ebbero il potere di accendere anche quella di Arthur.
“Io sarei l’egoista!” urlò a sua volta, puntandogli un dito contro, ma senza toccarlo. “Non hai idea a cosa io abbia rinunciato! Non tutti hanno la fortuna di avere qualcuno come Hunith! Tua madre accetta chi sei, mio padre no!”
Merlin rimase un attimo stordito da quelle parole. Gli entrarono nel cervello come una freccia che viene conficcata con prepotenza dentro ad un ciocco di legno. Arthur aveva appena fatto outing con lui? Gli aveva appena confessato una vita di negazione verso sé stesso? Una parte di lui avrebbe voluto abbracciarlo, confortarlo, dirgli che sarebbe andato tutto bene.
Ma il dolore del momento ebbe il sopravvento su qualsiasi cosa. E lo lasciò immobile, davanti ad Arthur, capace solo di formulare un’unica domanda: “Quindi questo cos’era?”
“Qualcosa che mio padre non approverebbe.”
“Quindi era il capriccio di un momento? Sono una distrazione da una vita in cui ti senti intrappolato?” Merlin sentì le lacrime che cominciavano a pungergli gli occhi. Le ricacciò indietro. Non voleva che Arthur lo vedesse più vulnerabile di quanto non l’avesse già visto, quella sera.
Arthur rimase in silenzio, così Merlin decise che ne aveva avuto abbastanza. Si voltò e si diresse verso l’uscita di quella casa a passo spedito. Non si voltò nemmeno quando udì la voce di Arthur che lo richiamava.
Era troppo tardi. Aveva già avuto la sua risposta. Adesso l’unica cosa che desiderava era stare solo.





*



Il week-end era passato.
Era mercoledì, Merlin non andava al lavoro da tre giorni e Arthur era agitato.
Diciamo pure che era insopportabile, ingestibile e tutti avevano cominciato ad evitarlo. L’assenza di Merlin lo destabilizzava e ancora di più lo destabilizzava il suo silenzio. A niente erano serviti gli infiniti messaggi dove gli chiedeva se potevano parlare e ovviamente non aveva risposto nemmeno ad una delle sue numerose chiamate.
Aveva deciso di smettere, se non altro per non risultare patetico, ma voleva davvero sentire come stesse e parlare per chiarire quella situazione, o quanto meno avere la possibilità di scusarsi.
Merlin non meritava qualcuno incasinato come lui. Meritava qualcuno che avrebbe potuto amarlo liberamente, alla luce del sole, qualcuno che gli avrebbe potuto dare tutto ciò che c’è di bello in una relazione.
L’unica cosa che Arthur poteva dargli era segretezza e un periodo limitato della sua vita, prima che trovasse una donna con cui convolare a nozze.
Era una situazione di merda. E lui iniziava ad essere stufo marcio di dover seguire una strada che lo rendeva estremamente infelice e lo allontanava, invece, da Merlin, che ormai era diventato, senza dubbio alcuno, il custode della sua felicità.
Arthur era frustrato, abbattuto e aveva voglia di prendere a pugni qualcosa. La sua vita era una trappola che lo stava soffocando e non si era reso conto di quanto si sentisse in gabbia fino a quando non aveva perso l’unica cosa che gli permetteva di respirare veramente.
Merlin, da quando si erano incontrati, era stato la sua dose d’aria pura in una vita che gli era stata cucita addosso. Il suo mestiere gli piaceva, l’idea di guidare lo studio in un futuro, anche, ma non gli piaceva l’aspetto sentimentale della faccenda – un aspetto che suo padre aveva sempre scelto per lui.
E Arthur era stanco di vivere una bugia. Sospirò. Doveva trovare il coraggio per essere finalmente padrone di sé stesso e doveva trovare un modo per chiarire con Merlin.
Afferrò il cellulare, con l’intenzione di mandargli l’ennesimo messaggio, ma una chiamata in arrivo interruppe ogni sua intenzione.
“Si può sapere cos’hai in testa, principessa? Ti è andato di volta il cervello?”
“Ciao, Gwaine.”
“Ciao un corno, Arthur. Dobbiamo parlare. E sai che dobbiamo farlo.”
“Perché suona come una minaccia?”
“Perché lo è. Ci vediamo stasera. Non pensare di darmi buca, perché altrimenti vengo da te e ti trascino fuori da quel castello che chiami casa, intesi?”
Arthur alzò gli occhi al cielo. “Posso almeno sapere perché questa urgenza?”
“Se devi chiederlo, sei più stupido di quanto abbia mai creduto!”
“Sta’ zitto. Ci vediamo stasera.”
“Sarà meglio, principessa.”
Arthur, sorvolando sul soprannome che si portava appresso da anni, ormai, riattaccò. Si era fatto un’idea del perché Gwaine volesse parlargli.
Ed era certo che c’entrasse Merlin.





*




Gwaine era per certo uno dei suoi più vecchi amici. Si erano conosciuti da ragazzini, al liceo. Il padre di Gwaine era il preside della scuola privata che frequentava Arthur e, anche se non era poi così ricco da potersi permettere la retta, essere il preside gli dava certi vantaggi, tra cui la possibilità di far frequentare la scuola al figlio.
Gwaine era diverso da tutti quei ragazzini con la puzza sotto il naso già a quattordici anni. Era sincero e onesto, con un animo un tantino ribelle, e nessun pelo sulla lingua. Il loro primo incontro era stato per un caso fortuito in cui Arthur si era trovato coinvolto in una lite con un suo compagno di classe, non ricorda nemmeno per cosa, e Gwaine era intervenuto mettendosi dalla sua parte.
La loro amicizia era nata in quel preciso momento e con essa erano arrivati tutti i privilegi – e non – di avere un amico come Gwaine, incapace di stare zitto per più di due secondi, ossessionato da ogni tipo di cibaria, amante della birra e delle donne e con la petulante propensione a chiamarlo principessa.
Ma nonostante questo, non l’avrebbe cambiato con nessuno al mondo. Era uno dei suoi amici più sinceri, qualcuno con cui riusciva a parlare a cuore aperto.
Gwaine era l’unico a sapere la verità sul suo orientamento sessuale e non ne aveva mai fatto parola con nessuno perché sapeva che Arthur non voleva si sapesse.
Ed era l’unico, quindi, che avrebbe potuto capire la situazione incasinata che stava vivendo con Merlin. Era certo che fosse per questo che l’avesse convocato in uno dei pub preferiti. Sicuramente sospettava qualcosa.
“Quindi, Merlin.” Cominciò, non appena si sedettero ad uno dei tavoli liberi. Gwaine era fatto così, andava dritto al punto senza passare per inutili convenevoli. Se doveva dirti qualcosa lo diceva senza mezzi termini.
Un cameriere si avvicinò al loro tavolo e Arthur ordinò due birre. Quando il cameriere si allontanò, lui tornò a guardare Gwaine.
“Toglimi una curiosità. Come fai a sapere cosa è successo?”
“Non so cosa sia successo, ma ho sentito Merlin, ieri. Sembrava di parlare con un morto. Quando gli ho chiesto il motivo del suo malumore si è limitato a dirmi che ha avuto problemi al lavoro. Gli unici problemi di Merlin al lavoro possono essere causati da te. Cosa gli hai fatto?”
Arthur, in altre circostanze, avrebbe sorriso. Gwaine era estremamente protettivo con Merlin. Erano diventati amici fin dalla prima volta che si erano incontrati e ad Arthur faceva più piacere di quanto avrebbe mai ammesso che quei due andassero d’accordo.
In questa specifica circostanza, tuttavia, il tono d’accusa nella voce di Gwaine altro non fece che ricordargli quanto male avesse fatto a Merlin con il suo comportamento.
“L’ho baciato.” Disse, perché sentiva davvero il bisogno di parlarne con qualcuno e sapeva che Gwaine l’avrebbe capito. Poteva fidarsi di lui, negli anni gliene aveva dato prova una miriade di volte.
Il cameriere tornò con le loro birre e si allontanò nuovamente. Arthur ne bevve immediatamente un lungo sorso.
“Sto aspettando il resto della storia, principessa.”
Arthur fissò l’interno del suo boccale, quasi come se la schiuma della birra potesse dargli le risposte giuste.
“E all’inizio si è tirato indietro, stavo per chiedergli scusa, convinto di aver fatto una cazzata, ma poi si è sporto verso di me e mi ha baciato. Ed è stato tutto meraviglioso e così intenso e–”
“Risparmiami i dettagli. La parte dove vi provocate un’erezione a vicenda è abbastanza ovvia. Salta alla parte dove combini un casino.” 
Arthur gli riservò un’occhiataccia fulminante, le guance rosse per l’insinuazione di Gwaine. “Sei insopportabile quando ti comporti in questo modo.”
“E tu sei uno stupido a rovinare la prima cosa bella che ti capita dopo anni. Forza, dimmi che gli hai detto.”
Arthur incassò in silenzio. Sapeva che Gwaine aveva ragione. “Io gli ho detto che avremmo fatto finta che non fosse mai successo niente.” Ammise, avvilito. Dirlo ad alta voce per la seconda volta lo faceva sentire ancora più idiota di quanto già non si sentisse.
“Non ti rendi conto di come sei, in sua presenza, vero? Ma io sì. Sei più felice e più rilassato. Diventi persino una persona piacevole, quando lui è nei paraggi.”
Arthur gli mostrò il dito medio, ma non negò. Merlin lo rendeva un uomo migliore. Aveva fatto quasi una magia su di lui e sul suo caratteraccio. Ma Arthur era talmente orgoglioso, accidenti, che mai l’avrebbe ammesso ad alta voce. Era già un progresso il fatto che lo stesse ammettendo a sé stesso.
“Se l’hai baciato, Arthur, un motivo c’è. Chiediti perché l’hai fatto.”
“Perché volevo. Eravamo impantanati in questo caso che sembrava un rompicapo senza uscita e lui era lì, con una possibile soluzione in mano. E allora ho realizzato che in realtà lui è sempre al mio fianco, indipendentemente dalla situazione, bella o brutta che sia. E mi è venuto istintivo baciarlo perché era esattamente dove volevo che fosse: al mio fianco. Lo voglio vicino costantemente, e so di suonare come il più egoista degli stronzi, perché non si merita uno incasinato come me.”
Gwaine fece un respiro profondo, pieno di comprensione. “Ti ricordi il tuo primo anno di università? Mi avevi raccontato che c’era un tuo compagno di corso che ti piaceva, ma hai lasciato perdere perché non ti sentivi pronto ad affrontare Uther. E va bene, nessuno ti incolpa, per questo. Ma voglio chiederti una cosa: lasceresti andare Merlin, pur di non affrontare tuo padre?”
La risposta rotolò giù dalla lingua di Arthur con una facilità disarmante. “No. Non accetterei di perderlo.”
“E allora fai qualcosa di concreto al riguardo. Parla con Merlin, spiegagli come stanno le cose e poi affronta tuo padre. Credo che tu sia pronto, Arthur, e credo che in fondo lo sappia anche tu.”
Arthur sospirò. “Sai, se non ti conoscessi penserei addirittura che tu sia un uomo saggio, ma sfortunatamente ti conosco e so che non è così.”
“Sta’ zitto e finisci la birra. Hai una cosa importante da fare.”
Arthur sapeva che aveva ragione. Finì la birra, pagò per entrambi, e salutò Gwaine. Una volta fuori dal pub, recuperò la sua macchina e si diresse all’indirizzo di casa di Merlin.
Doveva parlargli. Sperò solo che Merlin fosse disposto ad ascoltarlo.





*



Arthur, con ogni probabilità, aveva infranto qualche limite di velocità. Senza contare che se l’avessero fermato il suo tasso alcolico sarebbe risultato compromettente al punto da provocargli una multa per stato di ebbrezza.
Ma poco gli importava.
La cosa più importante era parlare con Merlin, spiegargli tutta la situazione. Sarebbe stato facile, pensava. A lui veniva facile parlargli come mai gli era venuto con nessun altro. Non aveva filtri, con lui, riusciva a parlargli a cuore aperto di qualsiasi cosa. Era l’unico con cui riusciva a parlare di sua madre ed essere sincero al riguardo, esternare quanto la sua assenza lo lacerasse dentro e quanto il senso di colpa lo divorasse.
E Merlin sapeva sempre cosa dire per farlo sentire meglio, per alleggerire quel peso sulle spalle e sul cuore che a volte sembrava gli impedisse addirittura di respirare.
E se esiste una persona al mondo in grado di farti provare un tale senso di pace, sia con il mondo che verso te stesso, allora cosa ci può essere di sbagliato in determinati sentimenti?
Uther avrebbe dovuto capirlo.
Sospirò e scacciò quel pensiero. Una cosa alla volta. Prima avrebbe parlato con Merlin, poi avrebbe affrontato suo padre e le sue rigide idee. Già sentiva le sue urla perforargli i timpani.
Parcheggiò nel primo posto disponibile che trovò per pura fortuna e uscì dall’auto. Raggiunse il portone del palazzo dove si trovava l’appartamento di Merlin e suonò al citofono.
“Chi è?”
Arthur aggrottò la fronte. “Lancelot?”
“Arthur?” Lo stesso stupore si rifletté nella voce del suo interlocutore.
“Cosa ci fai a casa di Merlin?”
“Sono venuto a trovarlo?” Rispose retoricamente l’altro. “Cosa ci fai tu, qui, piuttosto.”
Impertinente. Lancelot gli piaceva, in genere. Non gli piaceva quando stava appiccicato a Merlin.
“Devo parlare con Merlin.”
Un silenzio un po’ troppo prolungato per non risultare sospetto gli fece stringere lo stomaco. Forse Merlin era lì, in ascolto, e aveva bellamente deciso di ignorarlo. O forse lui e Lancelot stavano silenziosamente pianificando di lanciargli una secchiata d’acqua gelida dalla finestra, per mandarlo via come un molesto gatto randagio.
Merlin non avrebbe mai fatto del male ad un animale, quindi scacciò quell’ipotesi. Certo era che lui non era un gatto e l’aveva ferito profondamente, quindi forse la secchiata d’acqua gelida in pieno inverno non era totalmente da escludere.
“Per favore.” Sussurrò al silenzio. Non era certo che qualcuno fosse ancora in ascolto, ma voleva tentare. Aveva combinato un casino e non si sarebbe arreso fin quando non vi avrebbe porto rimedio. Indipendentemente da come sarebbe finita quella situazione, voleva un unico esito: farsi perdonare da Merlin.
Stava per suonare di nuovo il citofono, quando sentì la serratura del portone scattare. L’aprì con più veemenza del necessario e si fiondò sulle scale. L’ascensore di quel palazzo era rotto da mesi, quindi Arthur rinunciò alla possibilità di prenderlo in partenza. Merlin viveva al terzo piano. Arthur si fece tre rampe di scale, salendo gli scalini a due a due per fare prima. Quando arrivò davanti alla porta dell’appartamento che gli interessava, notò che Merlin lo stava aspettando. E sapeva che era arrabbiato con lui, ma vederlo dopo tre giorni gli alleggerì in automatico il cuore, che poi prese a correre un po’ più veloce – e poco c’entrava il fatto che avesse corso per gli scalini come un matto.
Era Merlin a fargli quell’effetto.
“Ciao.” Lo salutò, perché in quel momento il suo cervello si era un attimo azzerato e quella sembrava l’unica cosa fosse in grado elaborare.
Merlin incrociò le braccia al petto. Indossava una felpa blu almeno due taglie in più del necessario e un paio di pantaloni della tuta. “Se fosse stato per me, ti avrei lasciato ibernare fuori. Ma Lancelot mi ha convinto ad ascoltarti. Hai cinque minuti.”
Non un ottimo inizio, ma un po’ se lo meritava. “Posso entrare?”
“No. Parla.”
Arthur fece un passo verso di lui. “Merlin, per favore.”
Merlin lo guardò. Era furioso con lui per come si era comportato, per aver detto quello che aveva detto. Quella frase gli risuonava in testa da giorni e aveva ancora il potere di ferirlo. Ma anche quando era in collera con lui, non riusciva a non assecondarlo, non quando lo guardava in quel modo, quasi lo stesse supplicando di essere ascoltato.
“D’accordo, entra. Ma hai comunque cinque minuti.” Merlin entrò per primo e Arthur lo seguì. Era stato a casa di Merlin tantissime volte, ma quella volta in particolare entrò quasi in punta di piedi, come se, per la prima volta da quando si conoscevano, lui non avesse il diritto di trovarsi lì. Nel tragitto verso la camera di Merlin, incrociò Lancelot e lo salutò con un cenno del capo. Adesso che sapeva che era lui il motivo per cui Merlin aveva deciso di ascoltarlo, gli piaceva un po’ di più.
Quando furono nella camera di Merlin, Arthur si chiuse la porta alle spalle. Quella stanza rispecchiava il proprietario perfettamente. Era discreta ed estremamente accogliente. Trasmetteva una certa quiete e calore, anche se era abbastanza disordinata. C’erano libri e DVD sparsi ovunque, insieme ad una serie di fotografie attaccate con lo scotch e senza cornice al muro. Arthur notò che ce n’era una che raffigurava anche loro, insieme. L’aveva scattata Gwen, un giorno al lavoro. Si era presentata con la sua nuova macchina fotografica, un regalo di suo fratello Elyan, e aveva cominciato a scattare foto a tutti. Non sapeva che Merlin l’avesse tenuta.
“I tuoi cinque minuti stanno per finire.”
Arthur smise di guardarsi intorno e si concentrò su Merlin. Se ne stava in piedi, al centro della stanza, rigido e a disagio. E Arthur si detestò per essere la causa di questa rottura tra di loro. Non erano mai stati a disagio l’uno con l’altro, nemmeno quando erano due estranei.
“Non avrei dovuto dire quello che ho detto, mi dispiace. Non farei mai niente che possa ferirti, Merlin. Non di proposito.”
“Mi hai baciato, Arthur. Perché diavolo l’hai fatto, se poi volevi far finta di niente??”
“Perché provo qualcosa per te.” Ammise, sinceramente. “Non so che nome dargli, ma di certo non è amicizia. Non più, almeno. E mio padre mi ha sempre inculcato questa assurdità di portare avanti il nome di famiglia, di un matrimonio con una donna che avrebbe avuto i miei figli…”
“Suona piuttosto retrogrado.”
“Lo è. Ma te lo sto dicendo per farti capire come sono cresciuto. Mio padre non accetterebbe mai di vedermi con un uomo e mi sono fatto prendere dal panico. Il mio comportamento non è giustificabile, ma volevo solo parlarti per farti capire che non era mia intenzione ferirti o prendermi gioco di te. Io non… io non voglio perderti, ma capirei se non volessi più avere a che fare con me.”
Merlin rimase in silenzio per qualche istante. Fu un istante lunghissimo, che aveva il sapore di una condanna a morte. Arthur sentiva chiaramente il suo cuore impazzire. Merlin avrebbe accettato le sue scuse o l’avrebbe sbattuto fuori di casa? Non avrebbe più voluto vederlo? Cristo, perché se ne stava zitto e non diceva nulla?
“Quindi non sono stato il capriccio di un attimo?” Ruppe finalmente quel silenzio asfissiante e Arthur percepì il suo cuore farsi più leggero.
“No.”
Merlin fece un passo verso di lui.
“E provi qualcosa per me?”
Si avvicinò ancora di più, non staccando mai gli occhi da Arthur, fino a quando non lo raggiunse. Arthur deglutì a vuoto per quella vicinanza.
“Sì.” Rispose, in un sussurro strozzato. Averlo così vicino lo destabilizzava. E ancora di più lo destabilizzava l’intensità del suo sguardo.
“Quindi se adesso ti baciassi, non diresti nulla di simile all’ultima volta?”
Arthur aveva ufficialmente la gola secca.
“No.”
Merlin sorrise. “Questo esprimerti a monosillabi non ti si addice per niente.” Soffiò a due centimetri dalla sua bocca.
Arthur rabbrividì. Era frustrante, dannazione, perché non lo baciava e basta?
“Hai intenzione di baciarmi, oppure no?”
Il sorriso di Merlin si fece, se possibile, ancora più ampio. “Volevo solo costatare che fossi tornato in te. A quanto pare, sei la stessa testa di fagiolo di sempre.”
Arthur alzò gli occhi al cielo. “Sta’ zitto, idiota.” Si sporse verso di lui e piazzò una mano sulla sua nuca per spingerlo verso di sé. Fece scontrare le loro labbra con più decisione della prima volta perché sapeva che Merlin non l’avrebbe respinto ed era consapevole che qualsiasi sensazione negativa avrebbe potuto provare, dettata dalla voce di Uther che gli rimbombava nel cervello e gli diceva che tutto ciò era inaccettabile, sarebbe stata zittita prepotentemente dalla marea di sensazioni positive che avere Merlin vicino gli provocava.
Era consapevole che, con lui al suo fianco, avrebbe avuto la forza di affrontare qualsiasi cosa.
I suoi movimenti divennero sempre più sicuri e decisi a mano a mano che sentiva Merlin reagire ai suoi baci e ai suoi tocchi. Lo strinse a sé con la mano che aveva libera non appena si rese conto che l’altro gli si stava letteralmente spalmando addosso e poteva sentire le sue mani appoggiate alle proprie guance. Merlin aveva delle labbra bellissime, piene e rosee, soffici. Arthur gli afferrò il labbro inferiore con i denti, senza fargli male, e Merlin mugolò in risposta, prima di staccarsi da lui per riprendere fiato.
Appoggiò la fronte a quella di Arthur, un sorriso ampio non voleva lasciare il suo viso, ed era certo che se il suo cuore avesse continuato a battere in quel modo furioso sarebbe uscito dalla sua cassa toracica, ma andava bene così.
“Si può sapere perché sai di birra?”
Arthur gli lasciò un bacio a stampo, prima di rispondere. “Potrei aver parlato con Gwaine, prima di venire qui. E sai com’è Gwaine, gli piace parlare davanti alla birra.”
“Ti sei davvero messo alla guida dopo aver bevuto?”
“Questo dimostra quanto tenessi a farmi perdonare.” Arthur gli accarezzò il viso con delicatezza, quasi faticasse ancora a credere che tutto quello che stava vivendo fosse reale. “Mi dispiace davvero.”
“Lo so, non preoccuparti, è tutto passato. Mi dispiace solo che tu ti sia sentito costretto a negare te stesso per colpa di tuo padre. Non devi parlargli subito, se non vuoi. Fallo quando ti senti veramente pronto, non voglio che pensi ci siano delle pressioni.”
Arthur lo baciò di nuovo, perché ancora una volta Merlin lo capiva nel profondo.
“Grazie. Ma credo di essere pronto. Non voglio vivere tutto questo in segretezza.”
“D’accordo. Possiamo farlo insieme, se ti fa stare meglio.”
Arthur gli sorrise e gli fu davvero grato per quell’offerta. “Ci penserò.”
Merlin annuì e gli lasciò un bacio su una guancia che fece arrossire Arthur lievemente, quasi quel gesto lo cogliesse di sorpresa. Era adorabile, ma Merlin ovviamente era di parte.
“Forse dovremmo tornare di là?” Suggerì Arthur.
“Credo di sì, giusto per rassicurarlo che non ti ho ucciso.”
“Gli hai raccontato quello che è successo?”
“Non nei dettagli. Sapevo che non volevi si sapesse. Gli ho detto solo che avevamo avuto una discussione ed ero furioso con te.”
Arthur non avrebbe dovuto stupirsi, perché aveva capito quanto Merlin fosse leale, ma si stupì comunque, meravigliandosi di quanto potesse essere protettivo nei suoi confronti anche quando lui lo faceva infuriare. Nonostante l’avesse ferito, l’aveva protetto, rimanendo sul vago sia con Lancelot che con Gwaine.
Era un segno di profondo rispetto.
“Puoi dirglielo, se vuoi. Insomma, io a Gwaine l’ho detto. Lancelot è tuo amico e ormai non voglio più tenere nascosto nulla, quindi puoi.”
Merlin accennò ad un inchino. “Grazie infinite per il vostro permesso, Maestà.” Disse, con un sorrisetto sghembo e lo sguardo furbo.
Arthur adorava quell’espressione, ma non l’avrebbe mai ammesso ad alta voce o Merlin si sarebbe montato la testa.
“Sei un idiota.”
Merlin gli riservò una linguaccia e gli fece cenno di spostarsi dalla porta. L’aprì e si diresse verso il salotto, con Arthur che lo seguiva a ruota. Trovarono il salotto vuoto e al centro del piccolo tavolo davanti alla televisione notarono un foglietto. Merlin lo afferrò e lo lesse.
Sono andato da Gwen. Spero chiariate. Fammi sapere come stai,
Lance.

“Perché è andato da Gwen?” Domandò Arthur, curioso – il mento appoggiato alla sua spalla e gli occhi fissi sul foglietto.
“Perché escono insieme, forse?” Gli rispose, retorico e sarcastico.
“Escono insieme?”
“Sì, Arthur. Funziona così quando due persone si piacciono. Una chiede all’altra di uscire. Gwen l’ha chiesto a Lance e lui ha accettato. Si frequentano da due mesi, ormai.”
“Ah.” Arthur sorvolò sul sarcasmo pungente e si concentrò sulla parte che più gli interessava della faccenda: Lancelot che frequenta Gwen. Stava a significare che non provava niente per Merlin in quel senso. “Quindi voi due siete amici?”
Merlin si mosse per guardarlo in viso, costringendo in questo modo anche Arthur ad abbandonare la sua spalla.
“Hai sbattuto la testa, mentre venivi qui? Fai domande più stupide del solito.”
Arthur lo fulminò. “Io non faccio mai domande stupide.”
“Ho una lista infinita di esempi che dimostra il contrario.”
“Taci. Sei tu che non capisci cosa intendo.”
“Allora spiegati meglio, Mr. Intelligenza Suprema.”
Arthur arrossì in previsione di quello che stava per chiedere. Tutta la faccenda della gelosia era nuova per lui e non sapeva davvero come si gestisse. Sapeva quanto potesse suonare arrogante – Merlin gliel’avrebbe fatto sicuramente notare – ma di solito, nelle sue precedenti relazioni, erano gli altri gelosi di lui. Le ragazze che aveva avuto, o gli ex ragazzi delle ragazze che aveva avuto che lo incolpavano di essere la causa per cui la loro relazione era finita. A quello era abituato. Quel lato della gelosia era in grado di gestirlo.
Ma essere lui quello geloso, quello no… lui non era mai stato geloso di nessuno. Con Merlin era diverso.
“Intendevo, sai, se tu… e lui…”
Cristo, si sentiva un idiota. Perché balbettava? Dov’era finita la sua stoica sicurezza?
“Stai cercando di chiedermi se proviamo qualcosa l’uno per l’altro che non sia amicizia?”
Arthur gli fu quasi grato per averlo tolto dall’imbarazzo di porre quella domanda. “Sì!”
“Arthur,” lo chiamò piano, con pazienza. Avevano appena finito di mangiarsi la faccia a vicenda e onestamente gli sembrava piuttosto ovvio chi fosse quello per cui provava qualcosa di non amichevole. “Questo rientra negli esempi della lista delle domande stupide. Fortuna che sei carino, perché a volte la tua arguzia diventa… inesistente.”
“Non essere odioso, Merlin!” Lo rimbeccò, piccato. “Ti stai prendendo gioco di me, forse?”
Merlin sorrise, intenerito. “No, affatto. Comunque, no, non provo niente per Lance e lui di certo non lo prova per me. È etero. E molto, molto, innamorato di Gwen.”
Arthur sembrò rilassarsi dopo quel chiarimento. Merlin fece un passo verso di lui e gli afferrò il viso tra le mani, accarezzandogli gli zigomi.
“Magari una volta usciamo con loro, ok? Così potrai conoscere Lance un po’ meglio.”
“Non credo di piacergli.”
“Gli piaci, ma se tu evitassi di fare l’arrogante babbeo in sua presenza gli piaceresti di più.”
Arthur incassò, perché sapeva che Merlin aveva ragione. “D’accordo.”
“Grazie.” Gli lasciò un bacio a stampo, prima di allontanarsi da lui. Arthur lo osservò mentre recuperava il cellulare dal tavolino e digitava un messaggio. “Gli ho scritto che va tutto bene.”
Dopo qualche secondo, il cellulare di Merlin suonò e Arthur lo vide sorridere. Non fece in tempo a chiedergli perché che l’altro aveva già girato il telefono verso di lui. Lancelot aveva mandato una foto che raffigurava lui e Gwen insieme ad Elyan e un altro ragazzo che non conosceva.
“Chi è quello vicino ad Elyan?”
“Percival, il suo ragazzo. È una delle persone più buone che potrai mai incontrare.”
Arthur osservò Merlin digitare una risposta, il sorriso che non voleva lasciare le sue labbra.
“Vuoi raggiungerli? Possiamo andare da loro, se ti fa piacere.”
Merlin posò di nuovo il cellulare dove si trovava in precedenza e si avvicinò ad Arthur, appoggiandogli le mani al petto. “Sei davvero dolce a dirlo, ma preferirei stare anzi qui, con te.”
“Onestamente, anche io.” Arthur, istintivamente, appoggiò le proprie mani sopra a quelle di Merlin. Erano fredde, ovviamente. Lo erano sempre. “Hai le mani fredde. Sei davvero un rettile, Merlin.”
“E tu un asino, ma non te lo faccio mica pesare.”
Arthur alzò gli occhi al cielo e si diresse verso il divano, dove si sdraiò, trascinando Merlin con sé. Coprì entrambi con una delle tre coperte che Merlin teneva sempre a portata di mano e si aggiustò per farlo stare il più comodamente possibile sopra di sé.
“Sei comodo?”
Merlin gli avrebbe detto che non era mai stato più comodo in vita sua. Quello era diventato il suo posto preferito in assoluto: tra le gambe di Arthur, appoggiato al suo petto e con il viso nascosto nell’incavo del suo collo.
“Sì.”
Arthur lo circondò con entrambe le braccia e il cuore di Merlin accelerò un tantino.
“Senti abbastanza caldo?”
In realtà poteva anche rischiare di prendere fuoco, vista la vicinanza e i loro corpi che aderivano, ma forse non era il caso di entrare così tanto nei dettagli.
“Sì.”
“Sai, nemmeno a te si addice parlare a monosillabi.”
“Sta’ zitto e non usare le mie parole contro di me.”
Arthur rise e Merlin poté sentire la risata riverberare nella sua cassa toracica e raggiungere la propria. Gli lasciò un bacio fugace sui capelli corvini, prima di sussurrare: “Testa di fagiolo.”
Merlin alzò il capo per guardarlo in viso. “Ehi! Quella è una mia espressione! Non puoi usarla contro di me!”
“Posso, se sei la testa di fagiolo per eccellenza.” Un sorrisetto irriverente aprì il viso di Arthur.
“Ah, sì?”
“Sì.”
Merlin a quel punto gli piantò con decisione un dito tra le costole, facendolo sobbalzare. “Ahi! Le tue dita ossute fanno male!”
“Te lo sei meritato.” Riabbassò la testa, tornando con il viso nell’incavo del collo di Arthur. Il respiro di Merlin faceva sì che la pelle dell’altro venisse ricoperta da piccoli brividi, ma era piacevole. Come il silenzio che li avvolse, come il calore reciproco trasmesso dai loro corpi che andava a fondersi in un unico intero, esattamente come erano sempre stati loro.
Due metà della stessa moneta. Complementari a tal punto da essere quasi dipendenti l’uno dall’altro. Non si poteva avere uno senza avere l’altro.
Merlin si accoccolò un po’ di più e istintivamente Arthur lo strinse di più a sé. Ora che poteva farlo, non l’avrebbe più lasciato andare.
In quello stato di totale quiete, si addormentarono.






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Ciao a tutti! Spero abbiate passato un buon Natale ^v^
Ecco il terzo capitolo, con un po’ di ritardo.
C’è un piccolo disguido tra Merlin e Arthur, che è voluto. Nel senso che è servito per far capire ad Arthur che non vuole stare senza Merlin e, contando come mi sono immaginata la sua infanzia/adolescenza in questa storia, con Uther che non è esattamente LGTB+ friendly, pensavo che la sua prima reazione potesse essere comprensibile. Lui va nel panico e si tira indietro, ma poi si rende conto di aver ferito Merlin e cerca di rimediare. Spero non sia troppo surreale, o troppo affrettato.
Gwaine in versione grillo parlante/cupido vi è piaciuto? Spero di sì, io adoro Gwaine <3
C’è un accenno anche a Percy ed Elyan perché i Cavalieri della Tavola Rotonda sono una delle cose meravigliose di questa serie – e, ammettiamolo, ci sono momenti in cui sono più che shippabili.
Spero che questo capitolo vi sia piaciuto, mi farebbe piacere sapere cosa ne pensate, se vi va!
Ringrazio chiunque legga e abbia messo la storia tra le seguite/preferite/ricordate, mi fa un immenso piacere!
Un abbraccio, a presto! <3 

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Capitolo 4
*** 4. ***


Arthur fu svegliato da un fastidioso suono ripetuto. Il suo cervello addormentato impiegò circa un minuto per svegliarsi completamente e ricordargli tutti gli eventi della sera precedente, così come gli fece realizzare che non percepiva nessun peso sopra di sé. Si mise a sedere di scatto, realizzando che il suono ripetuto proveniva dalla cucina e probabilmente era causato da Merlin intento a preparare la colazione. Questo avrebbe spiegato sia la sua assenza, sia i rumori fastidiosi che l’avevano svegliato. Si alzò dal divano ancora mezzo addormentato e si diresse verso la piccola cucina. Rimase appoggiato allo stipite della porta, mentre osservava Merlin che si dava da fare ai fornelli, armeggiando con spatola e padella per cuocere le uova sbattute.
“Il tuo divano è scomodissimo.”
Merlin sussultò lievemente per la sorpresa e si voltò verso di lui. “Buongiorno anche a te, raggio di sole. La prossima volta puoi provare il pavimento, se snobbi tanto il mio divano.”
Arthur si avvicinò a lui, poggiandosi con un fianco al piano cottura. Le braccia incrociate al petto e gli occhi fissi in quelli di Merlin.
“La prossima volta cerchiamo di dormire in un letto. Magari il mio, che è estremamente comodo.”
“Sei tu che mi hai praticamente trascinato sul divano. Prenditi le tue responsabilità.”
Touché.
Arthur rimase ad osservarlo per qualche istante mentre continuava a muovere le uova per fare in modo che si cuocessero bene senza bruciarsi. Poteva abituarsi a tutto questo. A dire la verità si era già abituato a tutto questo. Il loro rapporto non sarebbe cambiato più di tanto, realizzò. Era già capitato che facessero colazione insieme, la mattina, magari perché erano rimasti a casa di Arthur per lavorare fino a tardi. Era abituato a Merlin che preparava il caffè, o la colazione.
Di diverso c’era solo la natura del loro rapporto, che aveva smesso di essere solo amichevole.
E la cosa lo rendeva più felice di quanto si sarebbe mai immaginato. Non essere più solo amici rendeva in qualche modo il loro rapporto più completo, quasi come se fosse giusto che stessero insieme. E forse la cassiera aveva avuto ragione a definirli una coppia.
Arthur si sporse e gli lasciò un bacio sulla guancia, mentre Merlin continuava ad occuparsi della colazione.
“E questo per che cos’era?”
“Perché mi andava di farlo.”
Merlin sorrise, si voltò verso di lui e lo baciò sulle labbra. Un contatto fugace e delicato, che tuttavia non bastò ad Arthur che gli afferrò il mento tra due dita e lo fece voltare di nuovo verso di sé per baciarlo di nuovo, più approfonditamente. Merlin sentiva il cuore che perdeva il controllo di sé ogni volta che si baciavano. Gli sembrava di essere tornato un ragazzino con una cotta enorme e l’incapacità di gestire i propri sentimenti.
C’era un qualcosa di estremamente nuovo, in tutte le sensazioni che provava. Era come se stesse riscoprendo determinate emozioni per la prima volta, sotto una luce nuova, con un’intensità nuova, mai provata prima d’ora.
“Stai facendo bruciare la mia colazione, Merlin.” Gli sussurrò Arthur, quando si separarono.
Merlin si affrettò a spegnere il fuoco, salvando la loro colazione in extremis.
“È la nostra colazione, Arthur. Non cominciare a fare l’egocentrico. E comunque sei tu che mi hai distratto!”
“Non sembrava ti stessi opponendo, comunque.”
“Smettila e vai a sederti.”
Arthur sorrise ed obbedì, andando a sedersi al suo posto al tavolo in formica che stava al centro della cucina. Era già tutto apparecchiato: piatti, tazze di caffè, posate, zuccheriera e pane tostato. Arthur sapeva che la zuccheriera era lì solamente per lui. Il caffè a Merlin piaceva amaro.
Il padrone di casa riempì i due piatti di uova e poi sistemò la padella nel lavandino, prima di andarsi a sedere di fronte ad Arthur.
“Ci sono state delle novità, al lavoro?” Domandò Merlin.
Arthur ingoiò il suo boccone, prima di rispondergli. “Intendi nei tre giorni dove non ti sei fatto vedere e mi hai condannato ad avere a che fare con George?”
“Avevo i miei buoni motivi per non venire, mi pare. E poi di che ti lamenti? George è praticamente l’assistente perfetto!”
“George è incredibilmente noioso. Mi ha parlato per due ore consecutive della giusta impaginazione per la stesura dei contratti.” Roteò gli occhi al cielo con disperazione, prima di fissarli di nuovo in quelli di Merlin. “E poi lui non è te. E io voglio solo te.”
Merlin arrossì fino alla punta delle orecchie. “Intendi come assistente?”
“Sai cosa intendo.”
“Sai, esternare ciò che provi, ogni tanto, mica ti ucciderebbe.”
“Anche non ribattere a qualsiasi cosa io dica non ti ucciderebbe, ma tu lo fai comunque.”
“D’accordo, scusa.” Gli sorrise. “Allora, novità?”
“Ho verificato la tua pista. Ho contattato la vicina e ha detto che è disposta a parlare con noi ed eventualmente anche venire a testimoniare in tribunale.”
“E non sei contento?”
“Lo sono. Ma dobbiamo essere pronti. È un caso importante. Se falliamo, Annabelle rischia grosso.”
“Dobbiamo trovare un posto in cui può stare per tutta la durata del processo.”
“Dai suoi genitori?”
“No, suo marito sa dove vivono i suoceri. Potrebbe andare là, minacciarla o minacciare loro. Potrebbe metterla in pericolo. È un uomo violento, non possiamo rischiare le faccia del male. Potrebbe arrivare a…” Merlin fece una pausa. Era uno scenario talmente orribile che non voleva nemmeno ipotizzare quella fine catastrofica. “La casa dei suoi è esclusa.” Continuò, riprendendosi. “Possiamo cercare di contattare una di quelle associazioni contro la violenza domestica. Potrebbe vivere lì, in anonimo. Non figurerebbe in nessuna lista e lui non potrebbe rintracciarla.”
Arthur ci pensò su e annuì. Era una buona idea. “Chiamo Morgana e la informo che stiamo andando in ufficio, così possiamo cominciare a muoverci in questa direzione.”
Merlin annuì.
Poco dopo, stavano uscendo di casa diretti allo studio legale a bordo dell’auto di Arthur.




*





In macchina, Merlin era concentrato sul suo cellulare: stava controllando possibili associazioni per Annabelle, mentre Arthur guidava. Solo quando si fermò ad un semaforo alzò lo sguardo per capire quanto mancasse allo studio, ma si rese conto che stavano andando da un’altra parte.
“Arthur, perché stiamo andando a casa tua?”
“Perché devo cambiarmi, non posso venire al lavoro così. Tu non hai la minima idea di cosa significhi rispettare un dress-code, Merlin, ma io sì.”
Merlin alzò gli occhi al cielo. Arthur sapeva essere così pretenzioso. Merlin si era abituato ai suoi sfottò riguardanti il suo abbigliamento – non tutti potevano permettersi i completi di alta sartoria, quindi lui si era adeguato alla politica dell’ufficio riguardo il vestiario secondo le sue possibilità economiche – ma non trovava che l’abbigliamento di Arthur stonasse. Certo, maglione di lana e jeans non avrebbero fatto felice Uther, ma magari se era Arthur a portarli avrebbe fatto un’eccezione?
Soprattutto quando il maglione gli stava così bene? E aderiva nei punti giusti, evidenziando l’ampiezza delle spalle…
“Merlin?”
…e la robustezza delle sue braccia.
“Merlin?”
“Cosa?”
“Mi stai fissando. Di nuovo. Se dici un’altra volta che non stai fissando me, ti defenestro.” 
“Non credo lo faresti. Sarebbe aggressione, o tentato omicidio visto che siamo in mezzo alla strada con altre macchine che potrebbero investirmi. E tu non vuoi avermi sulla coscienza.”
“Ne sei sicuro?” Arthur gli lanciò un’occhiata laterale, prima di partire di nuovo non appena il semaforo divenne verde. “E tecnicamente eravamo fermi, quindi niente tentato omicidio.”
“Come ti pare.” Tagliò corto Merlin, tornando con gli occhi fissi sul cellulare. Avrebbe dovuto concentrarsi di nuovo sulla sua ricerca per trovare qualcosa che facesse al caso loro, ma sentiva gli occhi di Arthur su di sé. Cosa estremamente pericolosa, visto che stava guidando. Si voltò verso di lui, notando un enorme sorriso soddisfatto sul suo viso.
“Adesso sei tu che fissi me. E vorrei farti notare quanto sia incredibilmente pericoloso e irresponsabile. Non voglio morire perché sei un idiota, Arthur.”
L’espressione di Arthur mutò in tre secondi, facendosi accigliata. “Primo: non sono idiota…”
“Discutibile.”
Arthur lo fulminò, prima di continuare. “…Secondo: non posso guardarti?”
“Non quando guidi. No. È severamente vietato quando la mia vita è nelle tue mani.”
Arthur portò gli occhi di nuovo sulla strada. “Va bene, allora. Vorrà dire che potrai continuare a farlo tu. A quanto pare, ti piace fissarmi e negare di farlo.” Gongolò, soddisfatto.
“Te l’hanno mai detto che sei un tronfio pallone gonfiato?”
Arthur ridacchiò. “Andiamo, Merlin. Esternare ciò che provi mica ti ucciderebbe.” Citò spudoratamente le parole usate da Merlin a colazione, mettendoci più enfasi del necessario. Arthur sapeva essere una fastidiosa, sarcastica, spina nel fianco, se si impegnava. “Puoi ammettere di trovarmi bellissimo!”
Ecco, appunto.
Merlin non gliel’avrebbe data vinta, anche se lo pensava con ogni fibra di sé stesso. “Guida, Arthur.”
“Ammettilo.” Lo sfidò, Mr. Sono Irritante Di Natura.
“Guida.” Si impuntò Merlin. Il suo ego era già abbastanza enorme senza che lui ammettesse nulla.
Arthur gli riservò un sorrisetto saccente e soddisfatto, ma poi tacque. Merlin ringraziò la sua buona stella, che ogni tanto si svegliava e lo aiutava a salvaguardare la sua sanità mentale. Tornò a concentrarsi sul cellulare, mentre Arthur imboccava la strada che li avrebbe condotti a casa sua.



*


Arrivarono poco dopo. Arthur parcheggiò davanti a casa propria, nel vialetto che conduceva alla porta d’entrata. Uscirono dalla macchina e si diressero verso l’ingresso. Quando Arthur aprì la porta, Merlin lo seguì all’interno. Si mossero automaticamente, come se fosse naturale per entrambi entrare insieme in quella casa dove ognuno aveva il suo spazio e al tempo stesso lo spazio veniva condiviso.
Arthur si diresse al piano di sopra, dove stavano le camere; Merlin, invece, si mise seduto sul divano e continuò la sua ricerca dell’associazione adatta.
Si prospettava un’attesa discreta, davanti a lui. Sapeva quanto Arthur fosse estremamente lento a prepararsi. Era davvero un miracolo che arrivasse puntuale al lavoro o agli appuntamenti in generale. Probabilmente si svegliava all’alba per essere impeccabile. Era estremamente vanitoso. E Merlin pensava che tutto quello sforzo fosse estremamente superfluo perché Arthur era bellissimo sempre.
Continuò la sua ricerca, segnò qualche numero di telefono che poteva fare al caso loro e cominciò a contattare le varie associazioni che garantivano l’anonimato, spiegando la situazione.
Le prime tre dovettero rifiutare, in quanto non disponevano più di posti liberi e Merlin provò un profondo moto d’angoscia misto a rabbia per l’ingiustizia che così tante donne erano costrette a subire perché al mondo esistevano uomini simili, violenti, cattivi. Era così ingiusto. Questa consapevolezza gli ricordava il motivo per cui aveva scelto quella professione. Non era stato facile, per lui. Il suo percorso di studi era costato parecchio. Era stato uno studente-lavoratore per tutta la durata della sua carriera universitaria, alternando libri d’esame a tavoli da servire. Era stato estenuante, ma era riuscito a laurearsi. E adesso si stava impegnando per aiutare al meglio le persone, soprattutto quelle che subivano ingiustizie.
“Andiamo?”
Merlin sobbalzò. Non si era reso conto di quanto fosse passato, o forse Arthur ci aveva messo meno di quanto si aspettava, ma trovarselo davanti fu una piccola sorpresa.
Arthur si era fatto la doccia più veloce del mondo – il che era praticamente un miracolo – e si era cambiato, abbandonando maglione e jeans in favore di uno dei suoi completi. Ne indossava uno blu navy, abbinato ad una camicia bianca, che faceva risaltare i suoi occhi azzurri in un modo che Merlin avrebbe definito letale per sé stesso e per l’intera popolazione. Sul serio, come osava andare in giro in quel modo e pretendere che lui non lo fissasse? Era naturale che l’avrebbe fatto, insomma! Era un essere umano, con delle debolezze e una propensione quasi vergognosa ad un esubero di salivazione davanti ad una visione simile.
“Vedi qualcosa che ti aggrada, per caso?”
Brutto stronzo insolente, l’ha fatta apposta! Si era vestito in quel modo per provocarlo.
“Non saprei, dimmelo tu, dato che ti sei impegnato tanto per essere notato.”
Arthur si avvicinò al divano dove Merlin era ancora seduto. Infilò un ginocchio tra le sue gambe per fargliele aprire e si inserì nel mezzo. Lo guardò dall’alto per un interminabile istante, prima di appoggiargli le mani sul viso, accarezzandogli gli zigomi e scendendo fino ad arrivare alle labbra. Ne tracciò il perimetro con il pollice. Merlin aveva delle labbra bellissime, carnose, rosee e delineate alla perfezione.
“È tremendamente difficile strapparti un complimento.” Sussurrò, la voce che andava a mischiarsi delicatamente al silenzio che li circondava. Merlin trovò estremamente tenero quel comportamento e sorrise, prima di mettersi in piedi. Arthur non si spostò di un millimetro, quindi erano talmente vicini che i loro nasi si potevano sfiorare. Merlin ne approfittò per un veloce bacio all’eschimese, prima di appoggiare le sue labbra contro quelle di Arthur. Si prese tutto il tempo che probabilmente in realtà non avevano. Erano in ritardo, sicuramente. Ma non gli importava granché. Non adesso che l’unica cosa che gli interessava era la bocca di Arthur sulla propria e le loro labbra che si muovevano in sintonia, con delicatezza e lentezza, esplorandosi ancora una volta; le loro lingue intrecciate, intente a scoprire una nuova terra che nonostante fosse inesplorata riusciva così fortemente a sembrare casa.
Arthur era il suo posto nel mondo, l’unico che lo facesse sentire a proprio agio.  In lui aveva trovato quella parte di sé che riusciva a farlo sentire completo. E non era sicuro di riuscire ad esprimere pienamente a parole tutte queste sensazioni, semplicemente perché pensava che non avessero ancora inventato parole in grado di esprimere tali sentimenti, ma…
“Sei bellissimo.” Gli sussurrò sulle labbra, appena si separarono.
…ma quello poteva dirlo. Era semplice esternarlo, soprattutto perché era la verità. E per quanto alcune verità possano essere ardue da ammettere, o esternare, questa faceva parte di quelle verità assolute inconfutabili che devono necessariamente essere dette ad alta voce.
E Merlin l’avrebbe ripetuto ogni volta che Arthur avesse voluto, solamente per vedergli comparire in viso quel sorriso radioso che adesso gli stava regalando. Arthur sembrava genuinamente felice, come un bambino la mattina di Natale. E Merlin si trovò ad esserlo per riflesso. Lo baciò ancora e Arthur sorrise prima di rispondere a quel bacio. Le labbra che si scontravano di nuovo, fameliche e desiderose di incontrarsi un’altra volta ancora, come due amanti che sono stati tenuti separati per troppo tempo e bramano febbrilmente la vicinanza reciproca.
“Credo che dovremmo andare.” Mormorò Merlin, la fronte appoggiata a quella di Arthur. “Siamo già in ritardo. E tu non sei mai in ritardo.”
“Mi stai influenzando negativamente.” Si separò da lui con riluttanza e recuperò tutto ciò che gli serviva per l’ufficio. “Andiamo.”
Merlin annuì e uscirono insieme di casa. Salirono nuovamente in macchina e si diressero verso l’ufficio.







*




Arrivarono in ritardo. Ovviamente. Arthur si trattenne dall’incolpare Merlin perché sapeva che in parte era anche colpa sua, ma nonostante questo si trovò a realizzare quanto il suo umore fosse alle stelle. Poteva decisamente abituarsi a mattinate così. A svegliarsi insieme a lui, ad andare al lavoro insieme e poi tornare a casa insieme.
Nel tragitto verso lo studio avevano concordato di non cambiare atteggiamenti in ufficio per non destare sospetti. E per non far parlare di loro e del fatto che in pratica fossero un cliché vivente: capo e assistente, sai che novità. Ma le lingue lunghe avrebbero sicuramente sparlato e inevitabilmente Uther sarebbe venuto a sapere tutto e nessuno dei due voleva che fossero terzi a mettergli la pulce nell’orecchio. Voleva essere Arthur a parlargli, a dirgli le cose come stavano.
E a Merlin andava bene. Era giusto che Arthur affrontasse suo padre quando si sentiva pronto e nel modo che lui ritenesse opportuno.
Una volta usciti dall’ascensore, si incamminarono verso lo studio. Merlin poi si sistemò alla sua scrivania, mentre Arthur si diresse verso il suo ufficio. Mentirebbe se dicesse che pur di guardarlo un po’ di più non avesse rischiato di sbattere la testa contro la sua porta, ma per fortuna non se n’era accorto nessuno – Merlin compreso, che altrimenti l’avrebbe preso in giro fino alla fine dei suoi giorni.
Ad ogni modo, si era fermato prima che sulla superficie di legno venisse fatto un calco della sua faccia.
Si ricompose ed entrò nel suo ufficio, sussultando quando notò che c’era qualcuno seduto alla sua scrivania.
“Sei in ritardo.” Gli fece notare Morgana.
“E tu sei seduta dove non dovresti.” Arthur si tolse il cappotto e lo appese all’attaccapanni vicino alla porta, prima di avvicinarsi alla scrivania. Con una mano fece cenno a Morgana di alzarsi, ma lei non lo fece. Piuttosto, fece mezzo giro di sedia verso di lui e lo guardò con un sorrisetto compiaciuto.
“Perché sei in ritardo? Tu non sei mai in ritardo.”
Morgana sapeva davvero che nervi toccare per farglieli saltare come delle corde di pianoforte rotte.
“Non sono affari tuoi. Alzati da lì.”
Ma Morgana lo ignorò di nuovo. Arthur non avrebbe dovuto nemmeno stupirsi, eppure si stupiva. E si innervosiva. Detestava essere ignorato.
“Va bene, se non vuoi dirmelo, indovino io. C’entra Merlin?”
Arthur sospirò, facendo ricorso a tutta la sua pazienza. Si passò una mano sul viso per nascondere il rossore che sentiva crescere sulle guance. Morgana doveva essere una specie di indovina, o veggente, o qualche creatura mistica simile perché non si spiegava come aveva fatto, altrimenti, ad indovinare. Ad ogni modo, decise di assecondarla. Prima o dopo, tanto, sarebbe venuta a saperlo.
“Sì.”
“E scommetto che c’entra il fatto che non è venuto al lavoro per tre giorni. Merlin è tante cose, ma di certo non è un uomo inaffidabile. Dimmi, fratellino, c’è qualcosa che vuoi dirmi, a riguardo?”
Tutto quel giocare al gatto e al topo, dove Morgana si stava divertendo moltissimo ad essere il gatto, lo stava stufando.
“Sono in ritardo perché ho passato la notte a casa sua.” Ammise e quando vide l’espressione maliziosa sul viso della sorella arrossì violentemente: “Ci siamo solo baciati!” Esclamò. 
Ammetterlo era liberatorio, ma nonostante questo Arthur sentì l’ansia montargli nel cuore. Temeva ancora il giudizio delle persone che gli stavano intorno. Aveva paura che potessero cambiare nei suoi confronti, o vederlo sotto una luce diversa. Arthur non voleva che questo succedesse. L’unica cosa che voleva era essere libero di essere sé stesso, ma sapeva che comunque questa libertà aveva un prezzo. Il coraggio di essere libero implicava doversi scontrare con quelle persone ancorate ad idee retrograde e bigotte, idee che non coinvolgono altri tipi di relazioni diversi da quello uomo-donna.
Ma quando Morgana sorrise, lui sentì tutte quelle paure scivolare via. Leggendo quel sorriso nel volto della sorella capì che almeno tra di loro le cose non sarebbero cambiate, che Morgana non l’avrebbe visto diversamente.
“E chi è stato a fare il primo passo? Tu o lui?”
Arthur rimase spiazzato da quella domanda. Di certo non se l’aspettava. “Non credo siano affari tuoi.”
“Andiamo, Arthur! Accontentami!”
L’uomo si arrese. Sapeva quanto Morgana potesse essere insistente e sapeva che non avrebbe lasciato cadere la questione fin quando non le avesse risposto.
“Io.”
“Oh, dannazione!”
Arthur la guardò con occhi sgranati. “Pensi di spiegarmela questa reazione?”
Morgana cominciò a gesticolare, facendo tintinnare i braccialetti che aveva al polso come tante campanelle. “Io e Leon abbiamo una scommessa in corso che riguarda proprio te e Merlin. Io pensavo che il primo passo l’avrebbe fatto lui, Leon pensava che l’avresti fatto tu. Gli devo 50 sterline, accidenti a te!”
“Hai fatto una scommessa su di me?? Sei impazzita??” Arthur alzò inevitabilmente la voce, sentendosi profondamente strumentalizzato.
“Sì, ho scommesso su di te, anche se forse sarebbe meglio dire contro di te. E no, non sono impazzita.” Ammise lei, senza scomporsi minimamente davanti alla sua reazione. “Sei consapevole che tu e Merlin fino a ieri eravate gli unici a ignorare di provare qualcosa l’uno per l’altro, vero?”
Arthur si calmò momentaneamente davanti a quell’osservazione. Non ci aveva mai pensato, in effetti. Lui stesso aveva realizzato che ciò che provava per Merlin poteva non essere solo amicizia solo quando aveva rischiato di perderlo. E quando aveva deciso che un modo giusto per esprimere gratitudine fosse baciarlo, ma dettagli.
E quando aveva notato quanto fosse bello. O che ricordasse a memoria i loro scambi di messaggi.
O che trovasse adorabile il fatto che si coprisse come un pinguino perché ha costantemente freddo. O che fosse terribilmente affascinato dal suo modo di pensare e agire. O che pensasse avesse un cuore buono e altruista.
Beh, merda. Era stato davvero un idiota a non rendersi conto prima di provare qualcosa per la persona che aveva sempre definito il suo migliore amico.
E forse l’aveva subito definito così per non dover realizzare prima che provava qualcosa per lui di decisamente non amichevole, troppo spaventato dalle implicazioni che ciò avrebbe portato. Ma adesso era tutto diverso. Adesso Arthur non voleva più nascondersi.
“Gli unici?” Fece eco Arthur.
Morgana annuì, con più soddisfazione del necessario. “Tutti se n’erano accorti, Art. Vi guardate sempre così intensamente e sembra che non percepiate nessun altro, intorno a voi. Se lo chiedi a me è un po’ stucchevole, ma se ti fa stare meglio Gwen pensa che stiate benissimo insieme.”
Arthur arrossì. “È così palese?”
“Cosa, che volete strapparvi i vestiti di dosso? Sì, lo era per tutti meno che per voi due perché siete idioti.”
“Ehi!” Esclamò risentito. “Non siamo idioti!”
“Lo siete.” Tagliò corto la donna, alzandosi dalla sedia e lasciando il tanto agognato posto al fratello. “Ma sono felice per te, davvero.” Il suo sorriso, però, si mutò in un’espressione seria non appena formulò una domanda: “Hai intenzione di dirlo a Uther?”
“Sì. So che non la prenderà bene, ma non mi importa. Non voglio perdere Merlin.”
“Stucchevole, ma comprensibile. Non troverai qualcun altro disposto a sopportarti come fa lui. Sul serio, quel ragazzo è un santo.”
“Sta’ zitta, Morgana.” Ribatté, ferito nell’orgoglio. Merlin non era un santo. Aveva dei difetti anche lui, per Dio!
Morgana lo liquidò con un gesto incurante della mano. “Sta’ zitto tu, sai che ho ragione!”
Arthur alzò gli occhi al cielo, esasperato. “Ad ogni modo, c’è un motivo per cui hai invaso il mio ufficio che esula dal volermi torchiare sulla mia vita privata?”
Morgana prese posto davanti alla scrivania di Arthur e lui la imitò sedendosi dove prima era seduta lei.
“Sì. Volevo informazioni sul caso di Annabelle.”
“Merlin sta cercando un’associazione. Mentre lui si occupa di quello, noi possiamo cercare dei precedenti simili a questo caso e vedere se possono volgersi a nostro favore, in tribunale.”
“Mi sembra un buon piano.”
“Davvero? Concordi con me senza ribattere?”
“Non stupirti tanto. Stai gestendo bene questo caso e non ho niente da ridire a riguardo.”
“Grazie, Mo.”
Lei annuì. “Solo… non farci l’abitudine, ok?”
“Ma certo.” Arthur accennò una risata.
“D’accordo. Vado, così inizio a cercare dei precedenti che possano esserci utili.” Morgana si alzò dalla sedia e si diresse verso l’uscita. Arthur la ringraziò di nuovo e si mise a lavorare.




*





L’Apocalisse dovrebbe avere un suono specifico. Non che Arthur se lo fosse mai davvero chiesto, ma se si fosse fermato a ragionare sull’ultima parte della Bibbia, avrebbe potuto immaginare scenari specifici: fuoco, guerra, vite spezzate e angeli in lotta contro demoni. Il tutto condito da un rumore in sottofondo: esplosioni e grida di terrore e dolore, o colme di rabbia.
Nel suo caso, probabilmente l’Apocalisse aveva il suono e la forma di Uther Pendragon, che nel pomeriggio di quella giornata cominciata così bene, squarciò la sua quiete con ordini e pretese che riguardavano proprio lui.
Arthur riuscì a sentire suo padre raggiungerlo ancora prima che fosse vicino alla sua porta. Sentì l’agitazione dei dipendenti, il brusio concitato delle voci che sussurravano cose incomprensibili e l’avanzata di suo padre tra le scrivanie che procedeva a suon di: ‘come ha osato?’ ‘come si è permesso!’ ‘la sua condotta è inaccettabile!’ e altre frasi simili che avevano come unico scopo quello di alimentare la rabbia di Uther.
Arthur si preparò mentalmente a ricevere suo padre e tutto il suo malumore, come Michele che si prepara a fronteggiare l’Apocalisse. Quello era il primo passo della sua personale guerra: Uther probabilmente aveva scoperto che aveva agito alle sue spalle, accettando il caso di Annabelle, e si preparava alla strigliata del secolo. Avrebbe dovuto aspettarselo. Ormai erano quasi due settimane che lavoravano a quel caso. Avevano avuto più tempo di quanto si sarebbe mai aspettato, in realtà.
Con un profondo sospiro, che servì ad infondergli tutto il coraggio di cui aveva bisogno, si alzò dalla sua scrivania, rimanendo in piedi in attesa che la sua porta si spalancasse e che Uther facesse il suo ingresso nel suo ufficio.
La cosa a cui Arthur non era preparato era percepire la voce iraconda di suo padre fuori dal suo ufficio, mentre inveiva contro qualcuno che non era lui.
“Come ti sei permesso, ragazzino? Pensavi davvero che non l’avrei scoperto? Sei uno stupido!” La voce di Uther suonò ovattata dalla porta chiusa e dalla vicinanza Arthur impiegò due secondi a capire con chi stesse parlando.
O meglio, contro chi stesse inveendo.
E che sia dannato se dovesse permettere a chiunque di rivolgersi a lui in quel modo.
Arthur aprì la porta del suo ufficio. Si trovò davanti a ciò che si aspettava: tutto lo studio era immobile a guardare Uther che inveiva contro Merlin, quasi come se lo stesse pubblicamente mettendo alla gogna. Merlin, dal canto suo, non si era lasciato intimorire, rifiutandosi di evitare lo sguardo di Uther o di abbassare il capo davanti a quelle urla. Le sue guance erano imporporate, ma Arthur aveva la sensazione che più che vergogna, quella fosse una reazione dovuta dalla rabbia.
E un po’ lo capiva. I modi di suo padre erano spesso troppo duri e troppo plateali. Le sue punizioni erano esemplari e spesso esagerate. Aveva licenziato persone valide per i più futili motivi. E adesso stava facendo ingiustamente una scenata a Merlin, quando avrebbe potuto semplicemente convocarlo nel suo ufficio e chiedergli spiegazioni.
Senza contare, poi, che lui non c’entrava niente in tutto questo. Era Arthur quello che gli aveva chiesto di agire.
“Smettila di prendertela con lui, non c’entra niente. Io gli ho chiesto di prendere quei documenti, perché io sto lavorando a quel caso.”
Arthur si avvicinò alla scrivania. Le sue parole provocarono l’improvviso silenzio di Uther, che guardò il figlio con incredulità, quasi gli avesse appena detto la più impensabile delle cose. Si guardò intorno, rendendosi conto che tutti lo stavano guardando. E se era favorevole a punire un dipendente in pubblico per insegnare così anche agli altri come comportarsi, non era altrettanto favorevole al fatto che fosse suo figlio quello che lo contraddiceva. Così lo afferrò per un braccio e lo trascinò verso l’ufficio da cui era appena uscito. Merlin si alzò d’istinto per seguirlo, ma Arthur gli lanciò un’occhiata seria, intimandogli silenziosamente di stare esattamente dov’era. Merlin, riluttante, rimase a guardare Arthur che spariva dentro al suo ufficio e Uther che si chiudeva la porta alle spalle.
Una volta che furono soli, lontano da occhi indiscreti, Uther riprese parola.
“Mi hai disobbedito?” Domandò, il tono aspro e duro.
“Annabelle ha bisogno del nostro aiuto.”
“Quella donna non può pagarlo il nostro aiuto! E abbiamo già troppi casi pro-bono! Come pensi di fare, mh?”
“Lo farò io, gratis.”
“Non essere ridicolo! Hai una reputazione da mantenere! E comportarti in questo modo danneggia la tua e quella dello studio!”
Uther era furioso. Arthur riusciva a vedere una vena pulsargli al lato del collo. Non riusciva a credere che davvero non capisse la necessità di aiutare Annabelle. Non riusciva a credere che tutto potesse ridursi ad una semplice questione economica, come se davanti non avessero una persona in carne ed ossa, ma solamente un numero che genera soldi.
“Come può un atto di gentilezza danneggiare la mia reputazione?”
“Perché non c’è spazio per la gentilezza, in un lavoro come questo. Devi essere razionale, mantenere il sangue freddo. Devi essere ligio alle leggi. Sono quelle che contano.”
“Sono le persone che contano. Le leggi sono state scritte dagli uomini per gli uomini. Per proteggere chi non può farlo. E Annabelle non può farlo. Ha un bambino, in grembo. E se non portiamo avanti questa causa, la sua vita e quella di suo figlio saranno in pericolo.”
Uther si placò un istante e per un secondo Arthur sentì crescere la speranza di avercela fatta, di averlo convinto.
Ma quella speranza svanì nel momento esatto in cui suo padre parlò di nuovo.
“Non possiamo farci niente. Dille di presentarsi il prossimo trimestre, quando potremmo prendere nuovi casi pro-bono.”
“Il prossimo trimestre potrebbe essere tardi, per lei.”
“Non è un mio problema!!” Gridò Uther, spazientito.
Arthur sentì un profondo senso di ingiustizia e rabbia nei confronti di quella risposta tanto egoista. Non riusciva a capacitarsi del comportamento del padre eppure, evidentemente, Uther credeva fino in fondo alle sue parole. E se l’unica cosa che gli importava davvero era la reputazione dello studio, Arthur avrebbe fatto leva su quella.
“Ma è un mio problema. Trovo inaccettabile lasciarla a sé stessa. Se non vuoi aiutarla tu, la aiuterò io. E se non vuoi che lo faccia con lo studio, mi licenzierò e andrò a chiedere aiuto ad altri. A Mithian, magari. Sono certo che lei vorrà aiutarmi. E quando arriveremo al processo e ci sarà la stampa, dovrò dire perché sto lavorando con un altro studio legale che non sia quello della mia famiglia. Vuoi che la tua reputazione non si rovini? Accetta questo caso. Passerai come una specie di paladino della giustizia.”
Lo sguardo di Uther si fece duro e glaciale. Arthur temette ancora una volta che rifiutasse il caso. Temette che il suo atteggiamento, anzi che convincerlo, lo spingesse ad impuntarsi ancora di più sulle sue convinzioni solo per fargli vedere chi è che comandava davvero in quello studio e in quella famiglia.
Arthur aveva sempre cercato la sua approvazione, senza rendersi veramente conto dei difetti che aveva suo padre. Di quanta pressione gli mettesse, di quanto il suo averlo cresciuto in un certo modo avesse condizionato non solo sé stesso, ma anche le persone che lo circondavano, in particolare Morgana.
“Dovrai fare tutto da solo. E non dovrai lavorarci in ufficio, togliendo ore di lavoro preziose a casi per cui veniamo pagati.”
Arthur tirò un immaginario sospiro di sollievo.
“Mi sta bene.”
“E devi vincere, Arthur. Intesi?”
“Sì.”
Uther gli lanciò un’ultima occhiata, quasi volesse assicurarsi che il suo messaggio fosse stato recepito a dovere e poi uscì dall’ufficio.
Ad Arthur sembrava di essere stato prosciugato di ogni sua energia vitale, ma era soddisfatto. Era riuscito a fronteggiare suo padre, a far valere il proprio punto di vista senza obbedire ciecamente a qualsiasi cosa uscisse dalla sua bocca. Ed era riuscito a dare una speranza ad Annabelle, che era la cosa più importante.
Arthur sapeva che quello era il primo passo verso l’affermazione di sé stesso. Ed era piuttosto liberatorio.
Un lieve bussare lo distrasse dai suoi pensieri.
“Avanti.”
Merlin entrò e si chiuse la porta alle spalle.
“Da quando bussi?” Domandò Arthur.
“Da quando nel tuo ufficio ci sono litigate simili. Come stai?”
Arthur accennò un sorriso. “Meglio di quanto ci si possa aspettare. E tu? Mi dispiace ti abbia cazziato per colpa mia.”
“Sapevo l’avrebbe fatto.” Fece spallucce. “Non devi preoccuparti per me.”
“Se non per te, per chi altrimenti?”
Merlin lo guardò, percependo un piacevole calore all’altezza del cuore. Non gli permetterei mai di farti nulla. Quella frase gli riecheggiò in testa. Adesso aveva avuto la prova di quanto quelle parole, contrariamente a quanto aveva inizialmente pensato, non fossero solamente belle parole. Era una verità, un dato di fatto.
“Grazie.”
Arthur annuì e sorrise, guardandolo dritto negli occhi, in quel modo che era capace di far afflosciare la colonna vertebrale del povero Merlin.
“Torno al lavoro.”
“Sì, ma non al caso di Annabelle. Suppongo tu abbia sentito quali sono le nuove condizioni.”
Merlin annuì. “Ho sentito. Stai tranquillo, mi occuperò del resto. E stasera lavoreremo al nostro caso clandestino.”
“Dormi da me?”
“Mi prepari la colazione, domani mattina?”
“Mi stai ricattando?” Domandò, alzando un biondo sopracciglio.
“Non lo chiamerei ricatto, quanto piuttosto trattiva.”
“Una trattativa implica trovare una condizione vantaggiosa per entrambi. Se pensi, quindi, di doverne intavolare una, significa forse che non pensi che dormire con me sia una condizione vantaggiosa? Ci sono persone che ucciderebbero per essere al tuo posto!”
“E persone che ucciderebbero volentieri te per essere uno zuccone arrogante. Come vedi, il mondo è bello perché è vario.”
Arthur gli riservò un’occhiata tagliente. “Al lavoro, Merlin. Adesso!”
“Sì, capo.” Affermò Merlin. Si voltò verso la porta, ma prima di aprirla, con ancora una mano sulla maniglia, si voltò di nuovo verso Arthur. “Di solito, che lato del letto occupi?”
Arthur sorrise. “Il sinistro.”
“Bene, mi prenderò il destro.” Ricambiò il sorriso e poi uscì, tornando al suo lavoro.
Arthur, con il cuore più leggero, fece lo stesso.





*




La sua giornata lavorativa era quasi finita. Arthur sentiva ancora il peso della discussione avvenuta con suo padre ore prima sulle spalle ed era certo che tutta questa faccenda avrebbe gravato non solo su di lui, ma anche sulle persone che avevano deciso di aiutarlo. Quel pomeriggio, un’ora dopo la litigata a cui, nonostante la porta chiusa, aveva assistito tutto lo studio, nel suo ufficio si erano presentati Leon e Lancelot, chiedendo il permesso di poter aiutare. Arthur li aveva massi al corrente delle condizioni imposte da Uther – tra cui, straordinari non pagati – ma entrambi avevano rispettosamente insistito per aiutare, come due perfetti cavalieri mitologici che si immolano per salvare una donzella.
Annabelle aveva più di un cavaliere – Gwen e Morgana comprese – disposto a salvarla dalla torre più alta del castello e a portarla via da quel drago malvagio che le stava rovinando la vita.
Arthur avrebbe voluto che questa fosse solo una favola perché se così fosse stato il finale sarebbe stato scontato: il bene che trionfa sul male. Ma sapeva che non era così. Sapeva che lui e la sua squadra avrebbero dovuto impegnarsi per vincere, perché se avessero perso, Annabelle sarebbe stata in pericolo. Più di quanto non lo fosse già.
Era grato a tutte le persone che gli avevano offerto il loro aiuto. E voleva avere fiducia in loro e in quello che avrebbero potuto ottenere lavorando insieme.
La porta che si aprì lo destò dai suoi pensieri, facendolo sussultare lievemente. Stava già sorridendo, aspettandosi di vedere Merlin comparire sull’uscio per dirgli che era ora di andare, ma il suo sorriso morì nell’esatto momento in cui sulla soglia notò suo padre.
“Possiamo parlare?”
Arthur non era esattamente dell’umore per parlare. Quella giornata era stata estenuante e l’unica cosa che voleva era tornarsene a casa e stare tranquillo, ma sapeva che non poteva fuggire alle sue responsabilità.
“Certo.”
Uther si sedette davanti al figlio. “Ho pensato molto alla nostra discussione. Non avresti dovuto disobbedirmi, Arthur. Se non rispetti tu le mie decisioni, come ti aspetti che lo facciano gli altri? Dobbiamo essere un fronte unito e compatto.”
“Vorresti, quindi, che ti obbedisca ciecamente, anche quando non sono d’accordo con te?”
“Non metterla in questo modo.”
“E invece è proprio questo il punto: vuoi che sia come te, ma io non sono te. Ho idee diverse dalle tue e un giorno…”
“Un giorno…” Lo interruppe bruscamente Uther. “…Questo studio sarà tuo e che io sia dannato se i tuoi atteggiamenti rovineranno il mio operato!”
Arthur serrò la mascella. Uther era ingiusto. L’aveva sempre rispettato, aveva sempre guardato suo padre come se fosse l’uomo più rispettabile del mondo, colui che sapeva dargli tutte le risposte giuste.
Evidentemente non era così. Crescere significa anche imparare a notare gli errori dei genitori, a percepirli a loro volta come esseri umani in grado di commettere sbagli e non come creature mistiche invincibili.
Arthur ci aveva messo un po’ più del previsto a capirlo, ma alla fine l’aveva capito.
“Un giorno, questo studio sarà mio e di Morgana, anche lei ha i miei stessi diritti, o te lo sei dimenticato? Prenderemo decisioni insieme e creeremo un ambiente dove nessuno avrà paura di noi, ma ci rispetteranno come noi rispetteremo chi lavora qui.”
“Non mettere in mezzo tua sorella!” Lo ammonì. “La tua politica del capo-amico è ridicola! Non ti permetterò di farlo!” Gridò Uther, furioso, balzando in piedi.
“Allora diseredami!” Ribatté, alzandosi a sua volta.
Uther si ammutolì, guardandolo con quanta più freddezza i suoi occhi glaciali erano capaci. Arthur avrebbe tremato davanti ad uno sguardo simile, ma si rese conto che aveva scoperto di essere perfettamente in grado di sostenersi da solo, di stare in piedi anche senza l’approvazione di un padre che aveva cercato di plasmarlo a sua immagine, senza soffermarsi sul fatto che Arthur potesse avere le sue idee, il suo carattere e le sue opinioni.
“Mi hai deluso, Arthur. Rifletti sui tuoi comportamenti. Ne riparleremo quando sarai disposto a chiedere scusa.”
“Non chiederò scusa per avere idee diverse dalle tue, papà.”
“Lo farai. Stanne certo. Tornerai a portarmi rispetto, ragazzino.” Gli puntò un dito contro e, senza lasciargli tempo per ribattere, si voltò e uscì, sbattendosi la porta alle spalle.
Arthur emise un profondo respiro, quasi come se quel gesto avesse il potere di liberarlo di tutto il peso che sentiva sul cuore a causa di quella situazione. Era legato a suo padre ed era la prima volta che un attrito tra di loro sembrava insormontabile. Era difficile avere a che fare con Uther, un uomo irremovibile e orgoglioso. Le volte che si erano riappacificati era successo perché Arthur aveva sempre fatto un passo indietro, ma questa volta non era disposto a farlo.
Sperò solo che con il tempo avrebbero potuto trovare un modo per parlare civilmente e cercare di capirsi.
Sospirò, di nuovo, e si diresse verso la porta. Recuperò il cappotto, lo indossò e uscì dall’ufficio, chiudendo a chiave la porta. Ne aveva avuto abbastanza per quella giornata. Ora, l’unica cosa che desiderava davvero era la quiete della sua casa e Merlin, che ovviamente lo stava aspettando appoggiato al bordo della scrivania con le braccia incrociate.
“Quanto hai sentito di quello che ci siamo detti?”
“Abbastanza da essere fiero di te.”
Arthur sorrise d’istinto – Merlin aveva così tanta fiducia, in lui, che aveva il potere di infondere un po’ di quella fiducia in Arthur, quando perdeva sé stesso. Gli si avvicinò, agganciando i propri occhi ai suoi. Alzò una mano per accarezzargli una guancia, un gesto fugace che venne compiuto in assenza di occhi indiscreti che avrebbero potuto spettegolare su di loro. Le mani di Arthur formicolarono, desiderose di altri contatti, e realizzò quanto volesse essere libero di poterlo accarezzare senza avere timore che qualcuno potesse cadere in tentazione di liberare le malelingue.
“Andiamo via, ti va?”
Merlin annuì.
“Andiamo a cena?”
“Sì, ma solo se mi lasci pagare.”
“Non succederà mai.”
“Non fare lo spocchioso arrogante, Arthur. E lasciati offrire la cena.”
Arthur roteò gli occhi al cielo, ma si arrese. “Sei una spina nel fianco, te l’hanno mai detto?”
“Nessuno eguaglia la tua capacità di fare complimenti. Sono commosso.”
“Smettila.”
Merlin si aprì in un sorrisetto soddisfatto e, dopo essersi accertato che non ci fosse nessuno, gli lasciò un bacio a stampo. “Ho fame. Sbrigati.”
“Mi hai appena dato un ordine?”
“Può darsi.”
“Ti fa sentire bene, non è vero?”
“Un po’ sì, lo ammetto.”
“Non farci troppo l’abitudine.” Arthur ridusse la distanza che c’era tra di loro, schiacciando Merlin tra sé e il bordo della sua scrivania. Percorse con gli occhi tutto il viso di Merlin, fissandoli poi sulle sue labbra piene. Si leccò le proprie, come se solo guardare la bocca di Merlin gli ricordasse che sapore avesse e ne sentisse la mancanza. Avrebbe voluto baciarlo, divorargli le labbra voracemente, ma sapeva che avrebbe dovuto farlo velocemente e un bacio frettoloso l’avrebbe lasciato insoddisfatto.
“Andiamo via. Ho voglia di baciarti e non voglio farlo qui.”
Merlin deglutì a vuoto, la gola secca. Improvvisamente aveva caldo. Molto caldo. Annuì perché non si fidava della sua voce, che sapeva non sarebbe uscita correttamente, e perché se Arthur voleva baciarlo lui di certo non era nessuno per contraddirlo.
Arthur fece un passo indietro e insieme si diressero verso l’uscita, decisamente impazienti di lasciare quell’edificio e stare finalmente soli.




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Ciao! Chiedo scusa per il ritardo, ma ho avuto problemi con il pc e non sono riuscita ad aggiornare!
Credo che comincerò ad aggiornare ogni due settimane, non per sadismo o altro, ma semplicemente perché sono molto indietro con la scrittura del sesto capitolo e visto che in pratica, di già scritto, mi rimane solo il quinto non vorrei che passasse troppo tra un capitolo e l’altro.
Venendo al capitolo in questione… mi sono lasciata andare a un po’ di fluff con Merlin e Arthur e non so se sono ancora IC, ma spero di sì.
C’è uno scontro con Uther. Ho pensato che una divergenza di opinioni riguardanti la gestione dei casi e dello studio potesse essere una “traduzione” dello scontro che hanno avuto quando Uther-fantasma ha incontrato Arthur e si è lamentato di come stesse gestendo il regno e la sua vita in generale. Spero sia almeno un po’ fattibile.
Ringrazio chiunque legga, abbia messo la storia tra le preferite/ricordate/seguite e chiunque abbia lasciato una recensione. Mi fa un immenso piacere! <3
Vi saluto, alla prossima! ^v^
 

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Capitolo 5
*** 5. ***


Nella penombra della sua stanza, Arthur osservava il profilo di Merlin.
Erano andati a cena, in un posto che Arthur non conosceva e che aveva scelto Merlin, assicurandogli che gli sarebbe piaciuto. Era stato così, in effetti. Il posto dove avevano mangiato si trovava in un vicolo nascosto nel cuore di Londra, che all’inizio Arthur aveva snobbato alla grande.
“Mi vuoi portare in una bettola angusta?”
“Devi fidarti di me.” Merlin l’aveva preso per mano, facendo intrecciare le loro dita con spontanea naturalezza. Quel gesto aveva fatto sì che il cuore di Arthur balzasse nella sua gola e lì rimanesse. Si era sentito un po’ sciocco ad avere una reazione simile per un gesto tanto semplice. Era normale che le coppie si prendessero per mano – con le sue precedenti ragazze l’aveva fatto una marea di volte – eppure quel piccolo gesto l’aveva scombussolato, quasi fosse la prima volta che qualcuno lo prendeva per mano, quasi fosse un quattordicenne imbranato che scopre per la prima volta l’intimità di quel gesto.
Per un attimo, aveva persino temuto che il suo palmo fosse sudato.
“Sul serio, dove mi stai portando?”
Merlin aveva sorriso, accarezzando con il pollice il palmo – asciutto, per fortuna – della sua mano. “Ogni tanto potresti anche guardarti un po’ intorno, carpire le cose belle che ci circondano, e non avere fretta di arrivare subito alla meta.”
E Arthur l’aveva fatto. Si era guardato intorno e aveva notato le persone che camminavano vicino a loro, a passo più o meno spedito, in coppia o in gruppo; aveva notato le luci accese dentro ai negozietti, le vetrine illuminate, i banchetti in strada che vendevano zucchero filato, riempiendo l’aria con il loro profumo dolciastro.
Sembrava un angolino preso da un film e trasportato lì solo per loro.
“Come hai scoperto questo posto?”
“Mi ci portava mia mamma quando ero piccolo. Laggiù c’è un negozio di giocattoli. E vicino, c’è il posto dove mangeremo.”

Merlin l’aveva condotto alla loro meta, senza mai lasciare la sua mano. Gli aveva fatto vedere il negozio di giocattoli dove Hunith lo portava quando era bambino, raccontandogli aneddoti riguardanti la sua infanzia, in particolare quella volta che sua madre per il suo compleanno gli aveva regalato il suo primo trenino telecomandato.
Arthur aveva sorriso e l’aveva seguito all’interno del locale dove avrebbero cenato, mentre ancora si immaginava Merlin bambino e quanto potesse essere genuinamente felice del suo nuovo giocattolo.
Diversamente da quanto si sarebbe mai aspettato, quel posto gli era piaciuto. E probabilmente dipendeva dal fatto che fosse in compagnia di Merlin, che riusciva a metterlo di buon umore ovunque fossero.
Stare con lui gli alleggeriva il cuore. Si rendeva conto quanto si sentisse sereno e tranquillo, in sua presenza, e quanto i suoi problemi sembrassero meno insormontabili.
E adesso, mentre erano nello stesso letto, uno di fianco all’altro, ebbe conferma di ciò che gli aveva già detto: provava qualcosa per lui, qualcosa che si avvicinava all’amore. Non si sentiva ancora pronto per dirglielo, ma sapeva che prima o poi gliel’avrebbe detto.
Gli avrebbe detto che silenziosamente, con discrezione e spontaneità, Merlin si era appropriato del suo cuore. E quando ne avesse avuto il coraggio, gli avrebbe persino detto che era lui, e sempre lo sarebbe stato, l’unico a poter tenere il suo cuore tra le mani senza che lui avesse timore di poter essere ferito perché sapeva che Merlin mai gli avrebbe fatto del male.
Lo guardò, con quei pensieri che gli vorticavano nella mente, e istintivamente alzò una mano per accarezzare il suo profilo delineato. Gli piaceva tantissimo. Percorse con la punta di un polpastrello la linea dritta del suo naso, scendendo fino alla curva piena delle labbra. Era quasi surreale che fosse lì, nel suo letto. Era quasi surreale che si appartenessero in un modo tanto viscerale, quasi come se le loro anime fossero state legate da un filo immaginario spesso e indistruttibile, o come se fossero state forgiate dallo stesso nucleo e si fossero riconosciute, una volta che loro si erano incontrati, solo per unirsi di nuovo e non lasciarsi andare mai più.
Anime gemelle.
Erano questo.
“C’è un motivo per cui mi fissi in piena notte?” Bofonchiò Merlin, la voce impastata dal sonno e gli occhi ancora chiusi.
Arthur continuò l’ispezione del suo profilo, prolungando la sua delicata carezza fino a che non scese sul mento e sulla curva del collo.
A quel punto, con la pelle che si increspava di brividi, Merlin aprì gli occhi e si sistemò in costa, guardando Arthur.
“Allora?”
“Nessun motivo in particolare. Ti infastidisce essere guardato?”
“Da te, no.”
Arthur sorrise. “Mi piace il tuo viso. Certo, hai delle orecchie enormi che tendono a distrarre da tutto il resto…” Ironizzò, indicando le dirette interessate.
Merlin gli schiaffeggiò la mano, allontanandola da sé. “Idiota.”
Arthur si avvicinò di più, allungando un braccio sotto al piumone e circondando la schiena di Merlin per stringerlo di più a sé. Gli sfiorò il naso con il proprio, prima di lasciargli un bacio a stampo.
“Cosa ti tiene sveglio?”
“Niente…”
“Arthur. Ti conosco. Dimmelo.”
“Stai prendendo questa faccenda di darmi ordini troppo sul serio.”
“Non ti sto dando ordini, vorrei semplicemente che tu parlassi con me. Sei preoccupato?”
Arthur infilò la mano sotto la maglietta di Merlin e disegnò cerchi concentrici sulla sua schiena. “No. Stavo solo pensando…”
“Tu che pensi? Adesso quello preoccupato sono io.”
“Non essere stupido.” Affermò, dandogli un pizzicotto nello stesso punto dove fino ad un secondo prima stava disegnando.
Merlin sussultò, ma si fece comunque più vicino. Tra di loro, adesso, avrebbe fatto fatica a passare persino un capello.
“A cosa pensavi?”
“A te.”
Merlin arrossì violentemente, tanto che nemmeno la penombra riuscì a celare il rossore sul suo viso. “Oh.”
“Lo trovi strano?”
“No, assolutamente.” Merlin appoggiò le proprie labbra sulle sue. “È dolce.” Sussurrò, prima di baciarlo di nuovo, più approfonditamente, mentre il suo corpo andava ad incastrarsi maggiormente a quello di Arthur. Era caldo e saldo. Arthur era in grado di trasmettere sicurezza solo con la sua semplice presenza. Merlin lo baciò ancora, diminuendo sempre di più gli intervalli tra un bacio e l’altro, riducendoli a dei miseri sospiri per riprendere fiato a sufficienza per poterlo baciare ancora. Non c’era altro suono, in quella stanza, se non il rumore delle loro labbra che si scontravano e i loro respiri che si mescolavano. Merlin, per una frazione di secondo, ebbe l’impressione che tutto l’ossigeno gli fosse stato succhiato via dai polmoni, ma nonostante questo fosse diventato superfluo per la sua corretta respirazione. Sembrava che l’unica cosa che lo aiutasse a respirare a dovere fosse Arthur, le sue labbra sulle proprie, il modo in cui rispondeva ai suoi baci e ne desiderava altri, sporgendosi verso di lui, quando si dovevano separare brevemente.
Era esigente, Arthur, persino quando baciava e voleva essere baciato. Ed era un aspetto così tipico della sua personalità, che Merlin non poté fare a meno di sorridere, mentre si spostava e si metteva a cavalcioni su di lui – le ginocchia ai lati dei fianchi di Arthur, che aveva assecondato i suoi movimenti e si era sistemato supino.
Merlin lo guardò dall’alto per qualche istante: i capelli biondi scompigliati, le labbra gonfie di baci e negli occhi quella tenerezza che sapeva fosse riservata a lui e a lui soltanto.
Adesso lo sapeva.
Adesso i dubbi che poteva avere avuto su cosa fosse ciò che li legava non lo sfioravano più. Qualsiasi nome avesse ciò che li univa, era ricambiato. Lo leggeva negli occhi azzurri di Arthur, che riuscivano ad essere luminosi anche nella penombra. Lo avvertiva nel modo in cui le sue mani lo accarezzavano o cercavano sempre un pretesto per toccarlo.
Era bello sentirsi così importanti per qualcuno che era per lui stesso di un’importanza fondamentale, viscerale.
Arthur gli appoggiò le mani sulle cosce. “Mi stai fissando di nuovo.”
“Quanto ti piace notarlo?”
“Tantissimo.”
“Perché nutre il tuo ego enorme.”
“Un po’. Ma forse dovresti smettere di guardarmi in quel modo.”
Merlin alzò un sopracciglio. “E in che modo ti guarderei, scusa?”
Arthur arrossì lievemente. “Come se fossi importante.” Sussurrò.
“Ma tu sei importante.” Gli rispose, chinandosi all’altezza del suo viso. “E sei mio.”
Il cuore di Arthur fece un salto, a quelle parole, come se avesse preso la rincorsa per gettarsi da un burrone, solo per scoprire, a mezz’aria, di avere un paio d’ali in grado di farlo librare in alto.
Era così che si sentiva.
Sospeso in aria, in una dimensione dove non esisteva altro se non lui, Merlin e quelle tre semplici parole, che erano una delle verità più assolute che avrebbe mai potuto udire.
“Per sempre.” Gli disse senza titubanza alcuna, perché era certo di quelle parole. Era certo che gli sarebbe appartenuto in eterno e che non volesse appartenere a nessun altro, se non a lui.
Merlin appoggiò la fronte alla sua, regalandogli un sorriso soffice. Lo baciò, prima sulle labbra e poi spostandosi verso la linea definita della mascella. Scese ancora, fino al collo, dove alternò baci a piccoli morsi sulla pelle sensibile e tenera.
Era una lenta, piacevole tortura per Arthur, che ad ogni bacio, ad ogni morso, si lasciava andare ad un sospiro ansante.
Tutta quella situazione, i baci, Merlin sopra di sé, la sua bocca che si muoveva sulla propria pelle, gli avevano inevitabilmente provocato una reazione che stava diventando sempre più ardua da ignorare.
“Merlin…”
“Me ne sono accorto.” Sussurrò, dedicandosi ad un punto specifico del suo collo, lasciando un succhiotto che Arthur si sarebbe dovuto impegnare a nascondere. Non che a nessuno dei due importasse, in quel momento. 
Contavano solo loro due e quell’attimo specifico in cui si appartenevano come mai avevano fatto prima di adesso.
Merlin spinse il proprio bacino contro quello di Arthur, strusciandosi su di lui, giusto per provocarlo un po’.
“Merlin…” ringhiò in risposta, facendo comparire un sorrisetto soddisfatto sul viso dell’altro.
Sembrava che Arthur si fosse rotto e che non riuscisse a dire altro di diverso dal nome del suo amato. E Merlin, dal canto suo, poteva decisamente farci l’abitudine ad essere chiamato in quel modo lascivo e impaziente.
Scese, sempre di più, abbandonando il collo, e arrivando fino alle clavicole – Arthur aveva avuto la brillante idea di dormire senza maglietta. Ad ogni centimetro di pelle che Merlin copriva con la sua bocca, corrispondeva un gemito da parte di Arthur. Si prese tutto il tempo per percorrergli il torace e continuare fino agli addominali, fino a quando non arrivò all’elastico dei pantaloni e lo abbassò.
Il suo cuore batteva ad una velocità disumana, tanto che poteva avvertirlo rimbombare nelle orecchie. Era impaziente, ma al tempo stesso sentiva il desiderio di prolungare quell’attimo sospeso ancora per un po’, ignaro del motivo. Forse voleva rendersi conto che era tutto reale, che stava accadendo davvero e che stava vivendo ciò che non si era mai permesso di desiderare, ma che in fondo al suo cuore aveva sempre agognato.
“Merlin…”
Gli bastò sentire di nuovo Arthur pronunciare il suo nome, per rendersi conto che niente nella sua vita sarebbe stato più reale di quell’attimo. Niente l’avrebbe fatto sentire più vivo di quello che stava vivendo e provando adesso.
Si abbassò di nuovo e quando la sua bocca si riempì di Arthur, lo sentì lasciarsi andare un gemito lascivo che impregnò l’intera stanza e le orecchie di Merlin, che per un istante pensò fosse uno dei suoi più gratificanti che avrebbe mai udito.
Era felice, come mai si sarebbe aspettato di poter essere.





*





Arthur non aveva mai fatto l’amore con un uomo.
Non prima di Merlin, almeno.
La notte passata era stata… intensa. Merlin era stato dolce, con lui, pieno di accortezze e di gentilezze. Sapeva che era la prima volta, per lui, e si era comportato di conseguenza. Era entrato in lui con delicatezza, premurandosi prima di prepararlo a dovere. Era stato fermo, all’inizio, per dargli il tempo di abituarsi e poi aveva iniziato a muoversi piano, lentamente, fino a quando il dolore iniziale non si era trasformato in piacere e allora era stato lo stesso Arthur a dirgli di muoversi più velocemente. E lui l’aveva assecondato, ascoltandolo e dandogli ciò che gli chiedeva nel modo esatto in cui glielo chiedeva.
Era stata una delle esperienze più appaganti della sua vita.
Si mosse sotto il piumone. C’era un piacevole calore che avvolgeva i loro corpi nudi e intrecciati. Non voleva muoversi da lì. Arthur avrebbe voluto rimanere a letto per almeno un’altra ora, ma sapeva che ciò non era possibile e la cosa lo faceva sentire come un bambino a cui viene sottratto il suo giocattolo preferito.
Voleva stare lì, al caldo, sotto le coperte e con Merlin tra le braccia. Ma sapeva che da lì a poco la sveglia sarebbe suonata – quell’oggetto infernale che più di una volta avrebbe voluto lanciare fuori dalla finestra – e di conseguenza, tanto valeva alzarsi.
Sospirò, sciogliendo l’abbraccio in cui aveva inglobato Merlin, e si mosse il più lentamente possibile per assicurarsi di non svegliarlo. Quando fu fuori dal letto, pescò una maglietta a caso dall’armadio e recuperò i pantaloni, che erano stati malamente lanciati sul pavimento la notte prima.
Arthur sorrise, ripensando a quel momento. E guardò Merlin, ancora addormentato, che era rotolato leggermente verso la sua parte del letto, probabilmente perché aveva avvertito la sua assenza e si era mosso per cercarlo. Si chinò leggermente per lasciargli un bacio sulla fronte e poi uscì dalla camera, dirigendosi al piano di sotto, verso la cucina.
Avrebbe preparato la colazione. Anche se non era bravo quanto Merlin a farlo, avrebbe considerato un traguardo il fatto di non incendiare l’intera casa nel tentativo di cuocere qualcosa di commestibile. E, se Merlin non si fosse svegliato prima, gliel’avrebbe portata a letto.
Funzionava così, vero?
Era un gesto romantico, che celava in sé premura e affetto. Sperava che anche Merlin la vedesse così e non pensasse che fosse una mossetta trita e ritrita da commedia romantica. Voleva avere fiducia che un gesto simile sarebbe stato apprezzato, così si mise subito all’opera.



*



Merlin si svegliò in un letto vuoto. Allungò una mano alla ricerca di Arthur e non lo trovò. Al suo posto c’era solo il suo cuscino sprimacciato e i residui del suo profumo. Si mise a sedere, cercando nella stanza i suoi vestiti. Erano appallottolati sul pavimento, ai piedi del letto. Arthur gli aveva sfilato la maglietta con una velocità disumana, la notte prima – e i pantaloni l’avevano seguita subito dopo.
Era stato tutto perfetto. Merlin non era il tipo da botte e via, se faceva l’amore con qualcuno era perché provava qualcosa per quel qualcuno, ma con Arthur era stato diverso. C’era stata un’intensità tale che aveva rischiato di fargli scoppiare il cuore e la complicità istantanea tra di loro aveva reso tutto magico, quasi surreale.
Sembrava impossibile poter vivere qualcosa che viene descritto solo nei libri, dove tutto è perfetto, ma lo era stato.
Tutto era stato perfetto perché Arthur era perfetto.
E Merlin era irrimediabilmente, totalmente fregato. Sapeva di amarlo. Dio, se lo sapeva. Era la cosa più naturale che avesse mai fatto, innamorarsi di lui.
Adesso che non doveva più tutelarsi, negando i suoi sentimenti, poteva essere sincero con se stesso. E forse, un giorno, avrebbe anche avuto il coraggio di dirlo ad Arthur.
Un rumore inquietantemente sospetto attirò la sua attenzione, distogliendolo dai suoi pensieri. Veniva dal piano di sotto e non ci voleva un genio per capire che fosse stato Arthur a provocarlo. Qualsiasi cosa fosse, non prometteva niente di buono. Quindi Merlin uscì dal letto, recuperò i suoi vestiti dal pavimento e si avvolse nel plaid che si trovava ai piedi del letto perché sapeva che avrebbe avuto freddo.
Quando fu vestito e coperto a dovere, uscì dalla stanza, dirigendosi al piano di sotto.
Seguì i rumori fino a che non arrivò in cucina. Fermo sulla soglia, rimase ad osservare Arthur che si muoveva all’interno di quella stanza come una trottola impazzita, tra fornelli, tostapane e microonde.
Non riuscì a trattenere un sorriso, nel vederlo così impegnato a fare qualcosa che era evidente gli fosse sfuggito di mano.
“Va tutto bene?” Domandò, palesando la sua presenza.
Arthur si voltò verso di lui ed emise un sospiro di sollievo. “Grazie a Dio sei qui.”
“C’è qualche problema?”
“La mia cucina mi odia, si sta palesemente ribellando ai miei ordini!”
“La tua cucina non ti odia, Arthur. Semplicemente, sei negato ai fornelli.”
Arthur mise il broncio. “Volevo solo fare qualcosa di carino per te, Mr. So Tutto Io.”
Merlin gli si avvicinò, spense il fuoco sotto ai fornelli dove stavano cuocendo delle uova sbattute decisamente troppo cotte, e lo avvolse in un abbraccio, inglobandolo nel plaid insieme a lui. “Cosa avevi intenzione di fare, di grazia?”
Arthur gli cinse la vita con entrambe le braccia. “Portarti la colazione a letto.”
“Oh,” Merlin arrossì, “Davvero?”
Arthur annuì. “Ma… la mia cucina si è ribellata.”
“Apprezzo lo stesso il pensiero.” Gli diede un bacio a stampo. “Grazie.”
Arthur gli baciò la fronte. “Hai fame?”
“Il tuo cibo mi avvelenerà?”
“Non essere stupido, Merlin. Solo le uova sono un po’… cotte. E il pane si è un po’ bruciacchiato, ma le brioches sono al caldo dentro al microonde!” Affermò, fiero di sé per aver salvaguardato almeno quelle.
“Sei andato in pasticceria?”
“In realtà me le sono fatte portare. Le ho prese al cioccolato.”
“Sono le mie preferite.”
“Lo so. Credi che sia idiota?”
“Devo necessariamente rispondere?”
“Sta’ zitto!”
Merlin ridacchiò e lo baciò di nuovo. “Grazie. È tutto molto premuroso, da parte tua.”
Arthur arrossì lievemente e non rispose, limitandosi ad afferrargli il viso tra le mani e accarezzargli gli zigomi con entrambi i pollici, prima di dargli un bacio.
Arthur non era decisamente una persona propensa ad esternare i suoi sentimenti, era più un tipo fisico. Dimostrava affetto con i gesti, che trasudavano tutta la premura di cui il suo cuore era capace.
“Ci sediamo?”
Arthur annuì e sciolse l’abbraccio. Guardò Merlin che andava a recuperare il cibo e poi si sedeva al suo solito posto.
Arthur pensò per un istante a quella mattina di qualche giorno prima, quando l’aveva trovato a bere caffè e studiare il caso. Pensò a come l’aveva guardato di sottecchi e lui avesse inspiegabilmente sentito un calore all’altezza del cuore e lo stomaco agitarsi. Solo ora capiva che l’effetto che gli facevano gli occhi di Merlin su di sé doveva dipendere necessariamente dal fatto che si stesse innamorando di lui e che l’idea di poter essere ricambiato gli facesse battere il cuore in una maniera quasi disumana. Sorrise e recuperò a sua volta del cibo, prima di andarsi a sedere vicino a Merlin, che aveva già cominciato a mangiare.
“Pensavo.” Esordì, dopo aver deglutito il suo primo boccone.
“Hai un talento speciale per terrorizzarmi con una sola parola, lo sai?”
“Cretino. Ascoltami. Dovrebbe essere facile, con quelle orecchie, ma in realtà non lo fai mai.”
“Perché tu non hai mai niente di astuto da dire. Di solito te ne esci con qualche idiozia che io e le mie orecchie preferiamo ignorare.”
“Sei la persona più fastidiosa della terra.”
Tout au contraire, quel posto spetta a te.” Merlin gli riservò il sorrisetto più irriverente che Arthur avesse mai visto e poi prese un sorso di caffè.
Arthur alzò gli occhi al cielo, infastidito. “Vuoi sapere cosa volevo dirti, o no?”
“Avanti, ti ascolto.” Merlin si voltò persino verso di lui, la tazza di caffè tra le mani.
“È venerdì…”
“E di questo, ne ero consapevole senza che tu ne facessi un annuncio.”
Arthur lo fulminò. “Non interrompermi.” Poi si addolcì. “Dicevo, è venerdì. E stasera c’è la mostra di Elena. Vorrei che tu mi accompagnassi.”
Di certo, pensò Merlin, quella non era un’idiozia. E un po’ si sentì in colpa per averlo detto, soprattutto perché Arthur stava cercando di invitarlo fuori. Un’uscita pubblica, loro due insieme davanti ad altre persone che conoscevano.
“Sei sicuro di essere pronto?”
“Sì. Quello che io e te abbiamo, è ciò che mi rende felice. E non voglio rovinarlo con la clandestinità. Già dobbiamo tenerlo segreto in ufficio. E a mio padre, per ora, perché sono sicuro che se glielo dicessi adesso penserebbe che lo faccio per fargli un dispetto. E non è assolutamente così.” Chiarì, serio. “Non voglio che sia un segreto anche per i nostri amici. A meno che non sia tu, quello che voglia tenerlo nascosto. In quel caso, capirei…”
“Io non voglio tenerlo nascosto. E mi farebbe un immenso piacere essere il tuo più uno.” Arthur sorrise udendo quelle parole e Merlin si appropriò di quel sorriso con un bacio. “E se ti può tranquillizzare,” Continuò, poi, appoggiando la tazza sul tavolo, “Credo che Uther possa aspettare. Prima facciamo calmare le acque.”
“Sì. Inizierebbe a dire che sono confuso, che lo faccio per ribellarmi e altre stronzate simili. Ho… ho evitato tutta la vita di affrontare l’argomento persino con me stesso pur di non dargli un dispiacere, ma cosa ci ho guadagnato, mh? Ti ho quasi perso.”
Merlin si avvicinò a lui, appoggiando la fronte alla sua. “Ma non mi hai perso. Io sono qui, con te. E faremo questa cosa insieme. L’importante è che tu sia convinto di voler dire come stanno le cose senza sentirti in qualche modo pressato. Non c’è fretta, Arthur.”
Arthur chiuse gli occhi. La comprensione di Merlin, la sua pazienza, lo facevano sentire in qualche modo più coraggioso.
Aveva negato se stesso per così tanto tempo che aveva persino paura che non sarebbe mai stato in grado di ritrovarsi. Aveva il timore che Uther gli fosse irrimediabilmente entrato in testa, inculcandogli le sue idee fino ad un punto di non ritorno dove lui non avrebbe mai ammesso la verità.
Ma c’era un detto che diceva che la verità rende liberi.
E Arthur era stufo della gabbia dorata in cui era stato rinchiuso fin da ragazzino, come se fosse stato infilato dentro ad un imballaggio preconfezionato senza via d’uscita, se non come unica direzione quella indicatagli da Uther.
Ad Arthur non piaceva quella strada, semplicemente perché lo allontanava da Merlin e da se stesso.
“Non mi sento pressato. Voglio farlo. E voglio vivere la mia vita con te nella libertà più assoluta.” Quando riaprì gli occhi, incontrò immediatamente quelli di Merlin. E ci lesse dentro qualcosa che non aveva mai letto in nessun altro.
Amore. Rispetto. Devozione. Fiducia.
Era tutto ciò che si sarebbe impegnato a ricambiare, perché Merlin meritava tutto questo e altro ancora. Era una delle persone migliori che avesse incontrato ed era fortunato ad averlo per sé.
“Ma non voglio in nessun modo che mio padre sminuisca quello che abbiamo, riducendolo ad un semplice capriccio. Non lo è.”
Merlin annuì con convinzione per rassicurarlo. “Lo so.” Gli baciò la fronte. “E ci penseremo, a tempo debito. Un passo alla volta, ok? Iniziamo con il pensare a cosa metterci stasera.”
Arthur gli sorrise, colmo di gratitudine. “Qualcosa di elegante. Pensi di poterci riuscire?”
“La tua mancanza di fiducia nel mio gusto nel vestire mi ferisce, Arthur.”
“Indossi sempre quelle sciarpe inguardabili che ti fanno sembrare una lavandaia, Merlin, come puoi darmi torto?”
“Un terzo delle sciarpe che possiedo me le hai regalate tu, idiota.”
“E sono le uniche accettabili, infatti, perché io ho buon gusto e tu no. Quelle scelte da te sono orribili.”
“Vorrei ricordarti che ti sei comprato un completo a tre pezzi rosso, Arthur. Rosso. Esiste qualcosa di più pacchiano?”
“Sì, la tua sciarpa di tartan scozzese rossa e verde.”
“È natalizia.” Si difese con un certo orgoglio.
“È orrenda.”    
“Mi tiene al caldo.” Ribatté, fulminandolo. “Tu che scusa hai per quel completo?”
“Mi sta benissimo. E attira l’attenzione sulla mia bellezza.”
Merlin si allontanò teatralmente da lui, come se improvvisamente qualcosa lo spingesse lontano. Il plaid rimase abbandonato sullo sgabello ormai vuoto. “Oh, cosa abbiamo qui? Ah, sì, ci sono! È il tuo gigantesco ego!” Merlin si allontanava sempre di più, le mani sporte in avanti come se stesse cercando di combattere contro qualcosa che inevitabilmente era più forte di lui. “Oh no! Mi sta schiacciando, aiuto!”
Arthur alzò gli occhi al cielo. “La tua stupidità mi fa venire voglia di andarci da solo alla mostra, stasera.”
“Puoi farlo. Consapevole, però, che come andrai solo alla mostra, dormirai anche da solo.”
“Mi stai ricattando?”
“A volte sei così perspicace. E vorrei sottolineare a volte, perché per il resto del tempo sei un idiota.”
Gli occhi di Arthur catturarono la sua figura. Si alzò dal suo sgabello, avvicinandosi sempre di più a Merlin, che a sua volta indietreggiava fino a quando la sua schiena non finì contro al muro. Arthur sorrise vittorioso e si piazzò davanti a lui, schiacciandolo con il proprio corpo tra sé e la parete. Inserì un ginocchio tra le gambe di Merlin per spronarlo ad aprirle e si sistemò meglio tra di esse. Percorse con gli occhi ogni centimetro del suo viso, fino a quando non si incollarono sulle sue labbra. Ma non lo baciò. Leccò le proprie, prima di riportare gli occhi in quelli di Merlin – che aveva momentaneamente dimenticato come si respira correttamente.
“La tua lingua lunga ti porterà guai, Merlin. Te l’ho sempre detto.” Arthur gli mise una mano tra i capelli, le dita cominciarono a giocare con le sue ciocche corvine, mentre il suo viso era ad una distanza ridicola da quello di Merlin.  
“Questi non li chiamerei esattamente guai.” Sussurrò, in attesa che Arthur facesse letteralmente qualsiasi cosa. L’impazienza lo stava uccidendo. Avrebbe chiamato questa situazione in un sacco di modi: Arthur che cerca di torturarlo semplicemente standogli vicino in quel modo decisamente equivoco e provocante; Merlin super-cotto che gli lascerebbe fare qualsiasi cosa; Come arrivare in ritardo al lavoro a causa del tuo ragazzo/capo super sexy che decide improvvisamente di schiacciarti al muro con tutto il suo splendido corpo; Come una cucina può diventare il luogo più caldo del mondo, tanto da far sembrare l’Inferno una ghiacciaia…. Insomma, avrebbe dato un’infinità di nomi a quella situazione, ma di certo non l’avrebbe definita un guaio.
“Hai intenzione di fare qualcosa?”
Arthur si morse il labbro inferiore e Merlin dovette trattenersi dall’emettere un gemito impaziente perché aveva ancora un briciolo della sua dignità. Non era necessario che Arthur sapesse esattamente che potere aveva quel gesto su di lui e sui suoi poveri ormoni, giusto?
“In realtà… no.”
Arthur si allontanò da lui, facendo due passi indietro. Merlin rimase a guardarlo, indeciso se essere deluso, scioccato o arrabbiato.
“Non fare quella faccia. Dovevi aspettartelo. La tua lingua lunga ha effettivamente portato un guaio.” Arthur abbassò gli occhi sul basso ventre di Merlin, dove svettava evidente la sua reazione a tutta la situazione precedente.
Merlin arrossì, pienamente consapevole di quello che era appena successo nei suoi pantaloni. “Sei un bastardo!”
“Ah-ah!” Lo rimbeccò, alzando un indice. “Linguaggio, Merlin. Non è carino esprimersi in questo modo.”
Merlin lo guardò malissimo, gli occhi ridotti a due fessure. “Ti odio.”
“Sappiamo entrambi che non è vero.” Arthur gli riservò un sorrisetto saccente. “Ora, io potrei decisamente fare qualcosa per risolvere il tuo problema, ma…”
“Qualsiasi frase cominci con un condizionale e finisca con ma implica un ricatto, Arthur.”
“Sei perspicace.”
“Mi rifiuto di assecondare la tua follia!” Esclamò con veemenza, incrociando risoluto le braccia al petto.
“Nemmeno se la mia suddetta follia implica fare la doccia insieme?”
Merlin alzò un sopracciglio, ponderando quell’offerta. “E dov’è la fregatura, sentiamo?”
“Mi devi promettere che non minaccerai mai più di farmi dormire da solo.”
“Posso verbalmente minacciarti in altro modo, quando mi farai arrabbiare?”
Se mai dovessi farti arrabbiare, sì puoi. Nei limiti del buon costume e della decenza umana.”
Quando, Arthur. Sono certo che lo farai.”
“Antipatico.”
Merlin gli fece una linguaccia. “Mi devi una doccia.”
“Ma certo.” Arthur gli sorrise e si avviò al piano superiore, sicuro che Merlin l’avrebbe seguito.





*






La faccenda di arrivare in ritardo stava rischiando di diventare frequente, secondo Arthur. Probabilmente era la vicinanza di Merlin. Il suo essere un ritardatario quasi cronico lo stava contagiando e portando inevitabilmente verso il lato oscuro.
Un’altra cosa che, evidentemente, rischiava di diventare un’abitudine era trovare Morgana nel suo ufficio, seduta alla sua scrivania.
“Buongiorno, fratellino. Sei in ritardo. Di nuovo.”
Arthur alzò gli occhi al cielo, mentre appendeva il cappotto all’attaccapanni. “E tu sei di nuovo seduta dove non dovresti.”
Morgana sorrise, ma come al solito, non si alzò. “Uther è incazzato.”
“Lo so. Abbiamo litigato.”
Morgana cambiò espressione. Il suo sguardo si fece preoccupato. “Gli hai detto di Merlin?”
“Non ancora. Non è il momento adatto. Abbiamo discusso sul caso Annabelle e sul fatto che gestiremo in modo diverso lo studio, quando lui andrà in pensione.”
Gestiremo?
“Io e te, Morgana, sì. E ha iniziato a inveire, dicendo che non posso rovinare tutto quello che lui ha costruito. Mi sta punendo per avere idee diverse dalle sue.”
“Hai idee migliori delle sue. E non lo dico solo perché le tue idee mi coinvolgono di più nell’attività di famiglia.” Specificò. “Hai un cuore grande, Art. E la cosa migliore che potesse capitarti era essere completamente diverso da Uther.”
Erano anni che Morgana non si riferiva ad Uther chiamandolo papà, o padre. Usava quel termine solamente in pubblico, con i clienti, o con i soci, persone davanti alle quali doveva mantenere le apparenze.
Ma in privato, si limitava semplicemente a chiamarlo per nome, come se fosse un estraneo. E Arthur sapeva che di questo cambiamento l’unico responsabile era proprio Uther, che per anni era stato il primo a fare distinzione tra lui e Morgana, chiamando lui figlio e lei figliastra, quando non doveva creare l’immagine della famiglia perfetta davanti a persone che lui riteneva importanti.
Arthur si era chiesto più di una volta se sua madre avrebbe mai permesso una distinzione simile. Se avesse lasciato crescere quei semi di discordia che erano inevitabilmente stati piantati nella sua famiglia, a causa del carattere di suo padre – un uomo che troppo spesso si lasciava guidare dall’orgoglio e che difficilmente si sentiva nel torto.
E si chiese anche se la morte di Igraine non avesse cambiato suo padre nel profondo. Il dolore tramuta le persone nella versione peggiore di loro stesse. Le annienta e le plasma, trasformandole quasi radicalmente.
Forse, se Igraine fosse ancora viva, Uther sarebbe un uomo migliore.
Forse sarebbero tutti persone migliori, se lei ci fosse ancora. Li avrebbe legati tutti, inevitabilmente, perché tutti e tre avevano una cosa in comune: amavano Igraine. In modi diversi, certo, ma pur sempre amore restava.
E Arthur aveva la sensazione che l’amore, così come può fare il dolore, cambia le persone. In meglio, a differenza del dolore, che invece tende a trasformarle in una versione distrutta di loro stessi.  
“Credi che riuscirai a perdonarlo?”
Morgana rimase sorpresa da quella domanda. Ponderò la risposta. Ci sarebbe riuscita? Sarebbe stata in grado di mettersi alle spalle anni di divergenze, di sofferenza? Uther non si era mai reso conto di quanto il suo comportamento la facesse soffrire. Lui poteva anche essere in grado di fare una distinzione tra lei e Arthur, ma dal suo punto di vista, lui era stato l’unico padre che aveva avuto. L’aveva sempre visto, fin da quando era una bambina. Lui e la mamma erano stato felici, l’avevano sempre trattata con amore, comprandole i giochi, portandola a fare le passeggiate, riempiendola di attenzioni.
E poi, tutto era finito.
Era finito con la morte di Igraine, con la nascita di Arthur. Non se n’era accorta fin da subito, perché i bambini non capiscono mai i comportamenti degli adulti fino in fondo. Se n’era accorta quando lei stessa era diventata adulta, quando aveva smesso di credere che il comportamento di Uther poteva essere una fase.
Non lo era.
Sembrava quasi che l’affetto che provava per lei fosse morto insieme ad Igraine e più di una volta Morgana si era chiesta se allora quel periodo che avevano vissuto tutti e tre insieme non fosse altro che una gigantesca farsa, una bugia.
“Non lo so.” Ed era sincera. Sapeva che dentro di lei albergava tanto rancore, oltre al dolore. E sapeva anche che pochi istanti non bastano per risanare anni di sofferenza.
Arthur la guardò negli occhi. Erano grigi, come quelli di Igraine. Lo sapeva perché aveva consumato le foto che aveva di sua madre, per dare un volto al suo nome, alla sua mancanza.
Erano espressivi, gli occhi di sua sorella, tanto che spesso parlavano ancora prima che lei aprisse effettivamente bocca.
Erano l’albergo delle sue emozioni. E Arthur adesso ci leggeva talmente tante cose dentro, che non sapeva nemmeno se sarebbe riuscito a capire fino in fondo quante emozioni stesse provando sua sorella in questo momento.
“Credi che riuscirai a perdonare me?” Per non averti ascoltata prima? Non ebbe il coraggio di aggiungere, ma sembrò che Morgana lo capisse ugualmente.
“Sei diverso da Uther. Sai tornare sui tuoi passi. In più, nemmeno io mi sono comportata bene con te, quindi direi che siamo pari.”
Arthur si sentì alleggerito, come se un peso gli fosse stato tolto dalle spalle. “Tregua?”
“Tregua.” Sorrise Morgana, alzandosi dalla sedia. “Ma non troppo. Rimani pur sempre un mocciosetto.”
“E tu una strega.”
La sorella gli lanciò un’occhiata divertita, prima di dirigersi verso la porta e di conseguenza verso di lui. “Fammi sapere se ci sono novità sul caso Annabelle.”
“Certo.”
Morgana annuì, soddisfatta. “Ci vediamo stasera da Elena? So che mi hai brutalmente usato come scusa per non andarci con Vivian.”
“Come fai a saperlo?”
“Me l’ha detto Vivian. Ha una cotta enorme per te, anche se non ne capisco il motivo, giuro.”
“Ah-ah, quanto sei simpatica.” Arthur le riservò una linguaccia. “Comunque sì, ci vediamo stasera.”
“Sarà Merlin il tuo vero più uno?”
Arthur annuì.
Morgana sorrise. “L’avevo immaginato. E per favore, non metterti il completo rosso. È pacchiano e imbarazzante!”
“Che avete tutti contro quel completo? Mi sta benissimo!”
Morgana gli diede una pacca compassionevole sulla spalla. “Ti fa sembrare un cono stradale.”
“Come scusa?” Ribatté risentito, Arthur.
“Hai capito benissimo.” Sorrise felina Morgana. “Ora devo andare. A più tardi!” Uscì dall’ufficio di Arthur senza nemmeno dargli la possibilità di ribattere per cercare di difendere la sua autostima demolita.
Sia lei che Merlin non capivano niente!
Quel completo gli stava benissimo!
Erano solamente due stolti.
Arthur si sistemò alla sua scrivania e si mise al lavoro. Avrebbe pensato in un secondo momento a come zittire entrambi.





*




 “Merlin!”
Il diretto interessato sussultò sul posto, alzando gli occhi dal pc a cui stava scrivendo per portarli su Gwen.
L’amica gli stava sorridendo.
Ed era un sorriso che Merlin conosceva bene: Gwen era curiosa. E stava per chiedergli qualcosa.
“Allora?”
Appunto.
“Allora cosa, Gwen?”
Gwen si guardò intorno, guardinga, e poi si sporse verso l’amico. “Andiamo, Merlin. Sai benissimo di cosa parlo. Ho dovuto quasi torchiare Lance per fargli dire qualcosa sull’altra sera, non tenermi sulle spine!”
“Mi stai confessando di aver torturato il tuo ragazzo nonché amico mio?”
Gwen alzò gli occhi al cielo. “Non l’ho torturato. Ho semplicemente insistito verbalmente per farmi dire qualcosa, ma si è semplicemente limitato a dirmi che Arthur è venuto a casa tua.”
Tra le tante cose che Merlin apprezzava di Lancelot, c’era la sua assoluta discrezione.
“Dovevamo chiarire.”
“Andiamo, Merlin! Non farti cavare le parole di bocca!”
Merlin trovava quasi divertente quella situazione, dove Gwen moriva dalla voglia di avere notizie. Il fatto era che la dolce Gwen aveva un debole per qualsiasi tipo di romanticheria. Due mesi prima, una sua cara amica d’infanzia si era fidanzata e quando era venuta a saperlo, Gwen era così felice da essersi commossa.
Gwen era innamorata dell’amore – e di Lancelot, ma questo pareva ovvio.
“Allora fammi la domanda diretta.”
“State insieme?” sussurrò, in modo che solo Merlin potesse sentirla.
“Sì.” Affermò il ragazzo, un sorriso si aprì involontariamente sul suo viso, addolcendogli i lineamenti. Lui e Arthur stavano insieme. Era una consapevolezza che spesso, si trovò a realizzare, doveva ancora metabolizzare in pieno. Ma ogni volta che lo ricordava a se stesso, aveva l’impressione che il suo cuore crescesse di una taglia – sarebbe esploso di gioia, a breve, ne era quasi certo.
Gwen gli riservò un ampio sorriso. “Era ora! Adesso suppongo la farai finita con la faccenda del faccio di tutto per lui solo perché è il mio capo e ammetterai che fai le cose per lui perché vuoi renderlo felice.”
“Così mi fai sembrare una specie di prostituta, Gwen, ne sei consapevole, sì? Sono ancora in grado di separare la mia vita privata dal mio lavoro.”
Gwen arrossì violentemente e nemmeno l’ebano della sua pelle riuscì a nascondere quel rossore. Si rese conto dell’immensa gaffe che aveva fatto e si affrettò a spiegare. “Oddio, no! Certo che sei in grado di… i-io non intendevo quello! Non penso tu sia una prostituta!” Le mani della ragazza non smettevano un attimo di muoversi, impegnate in un gesticolio infinito. Frasi uscivano sconnesse dalle sue labbra, con l’intento di spiegarsi meglio, mentre l’imbarazzo che provava per quella gaffe rendeva il tutto ancora più… imbarazzante.
“Gwen.” La chiamò Merlin, afferrandole le mani per fermarle. “Stavo scherzando. Ho capito cosa intendevi. E hai ragione, voglio farlo felice, ma di certo non perché è il mio capo.”
“Lo so. E scusa, mi è uscita male.”
“Tranquilla. È tutto ok.”
Gwen emise un sospiro rilassato, sentendosi più sollevata. “Devo tornare al lavoro, pranziamo insieme, dopo?”
“Se riesco a finire in tempo, sì.”
Gwen annuì e lo salutò con una mano, Merlin ricambiò e si rimise al lavoro.




*




Merlin stava iniziando a scrivere la relazione di uno dei casi che lo studio aveva preso. Un cliente importante, l’aveva definito Uther, prima di assegnare il lavoro ad Arthur e di conseguenza a Merlin.
I ricchi erano strani. Erano convinti di essere al di sopra della legge, quasi come se i loro soldi riuscissero a comprare una giustizia fatta su misura solamente per loro.
Merlin non avrebbe dovuto stupirsi. Funzionava così dall’alba dei tempi e per quanto fosse ingiusto, prima che le cose fossero davvero cambiate sarebbe passato un secolo.
La cosa che Merlin non aveva subito afferrato era perché quella relazione spettasse a lui, dal momento che questo caso non l’avrebbe nemmeno portato Arthur in tribunale, ma Uther. Poi aveva capito.
Uther stava punendo suo figlio per aver agito alle sue spalle e per non essere ancora tornato da lui strisciando e implorando perdono.
Più Arthur rimaneva delle sue idee e più Uther lo oberava di lavoro, perché se aveva relazioni da scrivere, non aveva tempo da dedicare al caso di Annabelle.
Uther era il Re degli Stronzi e Merlin lo sopportava sempre meno. Non esprimeva il suo astio nei confronti di quell’uomo solo perché era il padre di Arthur e non voleva ferirlo.
Ma Uther rimaneva davvero meschino. E Merlin, per una frazione di secondo, fu tentato di scrivere quella relazione usando la grammatica di un bambino di sette anni, ma poi desistette: un comportamento simile sarebbe stato controproducente sia per lui che per Arthur, dal momento che Uther l’avrebbe costretto a riscriverla e, di conseguenza, avrebbero perso altro tempo.
Guardò l’ora. Era quasi ora di pranzo. Ma ovviamente avrebbe dovuto saltarlo, altrimenti questa relazione gli avrebbe portato via altro tempo prezioso che lui avrebbe potuto anzi dedicare ai casi ufficiali di Arthur e, di conseguenza, avere più tempo a casa per continuare a lavorare al caso Annabelle.
Sospirò, mentre digitava un messaggio per Gwen. La informava che avrebbe saltato il pranzo, scusandosi. Si ripromise di organizzare una serata fuori tutti insieme. Magari in questo modo Arthur avrebbe potuto conoscere meglio Lance. Conoscere Percy, rivedere Elyan.
Magari avrebbero potuto chiedere anche a Gwaine – lui non si tirava mai indietro ad una serata fuori, soprattutto se comprendeva la birra. E se non la comprendeva, lui avrebbe fatto di tutto perché la sua amata venisse coinvolta.
In questo modo, i loro amici avrebbero potuto legare, conoscersi, e Arthur si sarebbe sentito più a suo agio.
Doveva chiederglielo. E magari chiedergli se voleva coinvolgere qualcun altro, tipo Morgana, o Leon.
Una bella combriccola di gente totalmente diversa tra loro, ma che in qualche modo avrebbe potuto funzionare.
Forse Merlin era un sognatore. O forse desiderava che con Arthur funzionasse davvero e che riuscissero entrambi ad amalgamarsi al meglio con le persone che li circondavano, sia come individui che come coppia.
Come coppia.
Merlin sorrise a quel pensiero e poi si concentrò di nuovo sul suo lavoro. Prima finiva, prima poteva dedicarsi a questioni importanti come Annabelle.





*



La fine di quella giornata era sembrata inarrivabile. Il tempo era passato ad una lentezza disumana, quasi come se ci fosse stata una qualche divinità dispettosa che lo rallentasse di proposito, o come se qualche sortilegio fosse stato lanciato da uno stregone particolarmente restio allo scorrere del tempo.
Merlin sapeva che non era possibile. Ma gli piaceva dare spiegazioni insolite a situazioni ordinarie. Spense il pc, dopo aver finito di mandare via email tutti i documenti che doveva mandare per conto di Arthur e dopo aver mandato la sua relazione ad Uther. Scrivere email al Grande Capo lo metteva sempre in difficoltà perché ogni volta doveva imporsi di essere formale e rispettoso nei confronti di qualcuno che avrebbe solo voluto appellare come stronzo.
Ad ogni modo, la cosa importante era che aveva finito.
Merlin si alzò dalla sua scrivania e si diresse verso l’ufficio di Arthur. Aprì la porta senza bussare e lo trovò immerso nella lettura di un plico di fogli. Alzò lo sguardo da essi non appena percepì il rumore della porta che si apriva e sorrise, incrociando lo sguardo di Merlin.
“Dobbiamo andare, o faremo tardi da Elena.”
“Ho quasi finito.”
Merlin si avvicinò e si sedette nella sedia di fronte alla scrivania. “Ti aiuto?”
“Dipende: ti lamenterai del fatto che dopo il tuo lavoro devi finire anche il mio?”
“E dove sarebbe la novità, scusa? È una cosa che faccio sempre!”
“Lamentarti? Sicuro.”
“Finire il lavoro al posto tuo.” Precisò, pungente.
Arthur ridusse gli occhi a due fessure, ma passò comunque i fogli che stava leggendo a Merlin.
“Sono altri casi di mio padre. Vanno catalogati in base al reato.”
“Stai scherzando?”
Arthur emise un sospiro stanco, la pelle del viso tirata. “No. In ordine decrescente di gravità, ha detto.”
“È assurdo! Non può punirti in questo modo!”
“Eppure lo fa. Spera che in questo modo mi arrenda e torni strisciando da lui. Col cazzo che lo farò. Vuole la guerra? Avrà la guerra.”
Per quanto Merlin condividesse il sentimento, sapeva che un comportamento simile avrebbe danneggiato Arthur. L’avrebbe portato a consumarsi. La rabbia e il rancore, dopotutto, portano solo a quello.
Uther non era certo la sua persona preferita e se avesse potuto in qualche modo punirlo o farlo innervosire, l’avrebbe fatto solo per il gusto di vedergli comparire in mezzo alla fronte la vena pulsante che compariva ogni volta che qualcosa non andava secondo i suoi piani.
Al contrario, Arthur era la sua persona preferita in assoluto e non voleva che lui si trovasse a vivere in una situazione che avrebbe solo finito per consumarlo, come una candela, fino a quando il fuoco della sua rabbia non l’avrebbe ridotto ad un ammasso di cera inutilizzabile.
“Arthur, ascolta.” Merlin allungò le mani per afferrare quelle di Arthur, che istintivamente abbandonarono i fogli che reggevano e si intrecciarono a quelle dell’altro. “Capisco il sentimento. Tuo padre può essere… particolare, diciamo così, ma… tutto questo arriverà a consumarti e io non voglio. Una situazione del genere, gestita con la stessa rabbia di tuo padre, finirà per far dominare dall’astio. E non voglio questo per te. Voglio che tu rimanga tu. Senza tutta questa voglia di dichiarare guerra.”
Arthur emise un sospiro affranto. “E cosa dovrei fare, quindi? Starmene in silenzio e assecondare ogni sua punizione come se niente fosse?”
“No, certo che no. Tutto questo è una follia, ma non è detto che tu debba assecondarla. Smetti di eseguire ciò che ti chiede, prendi il comando e gestisci questa situazione come vorresti fare tu. Il tuo modo comprende una dichiarazione di guerra?”
Arthur ci pensò su. Voleva evitare altri scontri in famiglia, altri attriti. E se doveva essere lui a fare il primo passo per raggiungere una sorta di pace, era ben disposto a farlo.
“No. Io vorrei semplicemente che mi ascoltasse, per una dannata volta nella mia vita.”
“Allora parlagli. Anche a costo di dovervi rinchiudere voi due in una stanza. Insisti finché non ti ascolterà.”
Arthur strinse la presa delle loro mani e poi alzò quelle di Merlin all’altezza delle sue labbra. Ne baciò le nocche una ad una.
“Cosa farei senza di te?”
“Spero tu decida di non scoprirlo mai.”





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Ciao a tutti e ben ritrovati! Mi scuso per l’immenso ritardo con cui pubblico questo capitolo, ma è stato un periodo un po’ particolare per me, quindi non sono riuscita a scrivere granché o rileggere le cose che avevo già scritto, come questo capitolo.
Sto bene, comunque, non era niente di grave 😊
Venendo al capitolo, era scritto da un po’, quindi ho dovuto rileggerlo e correggere qualcosa, spero di non essermi dimenticata di niente e che vi possa piacere! È un capitolo immensamente fluff, spero di non essere sfociata nell’OOC, ma mi sono fatta un po’ prendere la mano xD
Arthur e Morgana hanno un’altra conversazione perché mi piace l’idea che si avvicinino piano piano e che imparino ad appoggiarsi, a fidarsi. Non so quanto riuscirò ad approfondire questa loro dinamica perché probabilmente servirebbero più capitoli di quanti ne avevo preventivati appena ho iniziato a scrivere questa storia, ma spero che comunque la faccenda risulti fattibile/credibile!
Per quanto riguarda Uther e Arthur, invece, la loro lite aleggia ancora nell’aria e nel prossimo capitolo succederà qualcosa che li porterà a doversi “affrontare” inevitabilmente.
A proposito del prossimo capitolo, prima del mio stallo avevo già scritto qualcosa, quindi dovrei solamente finirlo. Spero di riuscire a pubblicarlo presto!
Mi scuso ancora per l’attesa!
Ringrazio chiunque legga, abbia messo la storia tra le seguite/preferite/ricordate e chi abbia trovato il tempo per recensirla! Lo apprezzo davvero, davvero tanto!
Vi mando un abbraccio, a presto! <3 

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Capitolo 6
*** 6. ***


Arthur sapeva che tutta la situazione che stava vivendo era senza precedenti, per lui.
Aveva trent’anni, era un uomo cresciuto, eppure aveva l’impressione di star crescendo davvero per la prima volta. Stava scoprendo se stesso. E stava realizzando di poter avere una propria voce, in grado di dire cose valide anche se esse non erano quelle che Uther voleva sentire.
Essere cresciuto sotto l’ala di suo padre aveva fatto sì che non vedesse altro al di fuori delle piume che la formavano. Ma c’era un mondo intero, fuori da quell’ala che apparentemente poteva proteggerlo, ma che in realtà aveva solamente rischiato di danneggiarlo.
Uther aveva sempre avuto un’idea fin troppo chiara di come suo figlio avrebbe dovuto crescere, ma non si era mai domandato se Arthur avesse voluto crescere in quel modo.
Certo, era grato a suo padre per tutte le opportunità che gli aveva dato assicurandosi che frequentasse le migliori scuole che gli avrebbero garantito un’ottima istruzione, ma una parte di lui aveva capito che questo, comunque, non dava a suo padre il diritto di scrivere la sua vita.
Arthur doveva essere autore di se stesso, imparare a scrivere non solo la sua vita, ma anche la sua persona.
Era arrivato ad un punto dove doveva chiedersi che tipo di uomo volesse essere e intraprendere la strada giusta per diventare quell’uomo.
Doveva abbandonare la paura di poter deludere suo padre.
Doveva iniziare a credere che ciò che lui riteneva giusto o degno di nota lo erano comunque, anche se suo padre non approvava.
Uther non era giudice universale delle controversie del mondo. Uther era semplicemente un uomo – e come tale, poteva dire o pensare cose che agli occhi e alle orecchie di altri potevano suonare sbagliate anche se lui stesso le riteneva giuste.
Arthur sapeva che la sua crescita interiore portava alla demistificazione di suo padre e probabilmente andava bene così.
Se avesse iniziato a vederlo come l’uomo che era, sarebbero finalmente stati alla pari. Uomo contro uomo e lui avrebbe trovato la forza e il coraggio di farsi valere, di opporsi.
Tuttavia, sapeva anche che la sua opposizione non avrebbe dovuto portare ad una guerra. Altrimenti, il rancore, proprio come aveva saggiamente detto Merlin, l’avrebbe consumato. E lui non voleva che succedesse. Voleva trovare un modo giusto, equilibrato, per rapportarsi con suo padre e sistemare tutte le lacune che c’erano in famiglia – quelle con Morgana comprese.
Sistemare i Pendragon e tutte le loro discrepanze familiari sarebbe stata un’impresa non da poco, ma Arthur contava di riuscirci.
Sospirò, ricordandosi che lui e Merlin si erano promessi, almeno per quella sera, di accantonare qualsiasi preoccupazione. Si guardò allo specchio, lisciandosi la giacca rossa del completo che era stato infamato per tutta la giornata. Aveva scelto di togliere il panciotto per non risultare troppo formale, ma fu comunque soddisfatto del risultato.
Sapeva che quella scelta era stata fatta solo per vedere la reazione di Merlin. Voleva sapere che faccia avrebbe fatto, davanti al famoso completo rosso. Un sorrisetto comparve sul suo viso a quel pensiero, qualcosa che assomigliava più ad un ghigno insolente. Provocare Merlin era decisamente divertente. Arthur sperava solo di ottenere la reazione che tanto agognava: Merlin che lo guardava a bocca aperta come un pesce lesso e si rimangiava le sue parole, dandogli finalmente ragione e ammettendo che quel completo gli stava effettivamente benissimo.
E no, non gli interessava di suonare arrogante.
Non quando Arthur agognava ad una vittoria e allo sguardo che Merlin gli riservava ogni volta che si incantava a fissarlo, quasi come se stesse studiando qualcosa di particolarmente interessante. Gli piaceva essere guardato in quel modo, come se lui fosse speciale, importante. Merlin lo guardava e lo vedeva, una cosa che ad Arthur non era mai successa, prima di lui. Ed era una sensazione a cui non avrebbe mai rinunciato.
Sorrise.
La vita sembrava più semplice, da quando aveva Merlin al suo fianco. Il peso delle giornate sfiancanti, lo stress, il rapporto zoppicante che aveva con suo padre… tutto assumeva una sfumatura meno tragica, quando si ricordava che Merlin era con lui.
Il trillo del campanello lo distolse dai suoi pensieri, facendolo riemergere dalle profondità della sua mente. Si guardò un’ultima volta e poi scese le scale che dal piano superiore portavano al piano terra.
Stava già pregustando l’espressione di Merlin, riusciva già ad immaginare come l’avrebbe guardato una volta che avrebbe aperto la porta. Quindi l’aprì, sentendosi già vittorioso – una vocina dentro alla testa gli parlò con la voce di Merlin, facendogli notare quanto tutto questo comportamento lo facesse suonare borioso, più che vittorioso.
In ogni caso, tutte le sue intenzioni e aspettative vennero accantonate dalla realtà.
Se si era immaginato di farsi ammirare da Merlin, lasciandolo a bocca aperta come il più imbambolato degli stoccafissi, dovette ricredersi.
La realtà, infatti, aveva appena trasformato lui in un pesce lesso a bocca aperta. Doveva darsi un contegno, probabilmente, ma il fatto era che Merlin era bellissimo.
Non che non lo fosse sempre, sia chiaro, ma messo così in tiro la sua bellezza risaltava di più.
In primis: il maglione di lana intrecciata a collo alto che indossava era di un grigio scuro che evidenziava in modo estremamente piacevole il blu dei suoi occhi. Sembravano più luminosi, più brillanti. Erano ipnotici, più di quanto non lo fossero normalmente.
Indossava un paio di pantaloni neri, abbinati ad un paio di Dr. Martens basse dello stesso colore. Il cappotto, invece, riprendeva il colore del maglione. Ai lati del cappotto, come un serpente che riposava appoggiato sulle sue spalle, pendeva una delle sciarpe che gli aveva regalato Arthur, nera pure quella.
Non era un outfit pretenzioso, anzi rimaneva sempre molto semplice, con colori che non attiravano l’attenzione, eppure Arthur pensava che chiunque non avesse rivolto tutte le sue attenzioni a Merlin fosse un idiota con l’incapacità assoluta di cogliere il bello.
“Ciao.” Lo salutò Merlin, un sorriso ampio ad aprirgli il volto. Illuminò il suo viso in un modo così radioso che Arthur avvertì immediatamente il cuore iniziare a correre.
“Sei bellissimo.” Sussurrò, invece di rispondere al saluto, perché in quel momento era quella la cosa che gli sembrava più giusta da dire.
Il complimento fece arrossire Merlin, in particolare sugli zigomi. “Grazie.” Si sporse verso di lui per lasciargli un bacio a stampo. “Hai ancora dubbi sul mio gusto nel vestire?”
“No. E tu?” Domandò Arthur, indicandosi.
Merlin lo osservò. Il completo rimaneva pacchiano, decisamente vistoso. Su chiunque sarebbe risultato un pugno in un occhio, ma non su Arthur. Su di lui risaltava la sua fisicità in modo perfetto, come ogni altro completo fatto su misura, e gli illuminava il viso. Non evidenziava i suoi occhi come facevano i suoi completi blu, ma accendeva comunque la sua bellezza. La evidenziava tutta, non solo il colore dei suoi occhi.
Merlin fece un passo verso di lui, un sorriso a tendergli le labbra. Afferrò il colletto della camicia bianca di Arthur e lo raddrizzò ordinatamente, prima di poggiargli le mani sul petto. Apprezzava che i primi due bottoni fossero sbottonati, era un dettaglio che lo aiutava, se possibile, a renderlo ancora più attraente.
“Sei qui da quanto? Tre minuti? E mi hai già messo le mani addosso. Devo dedurre che il completo non sia poi così pacchiano e orrendo come credevi?”
Merlin lo guardò con gli occhi socchiusi, lo sguardo sottile. “Oh, ti credi tanto furbo, non è vero?”
Arthur si sporse in avanti, così vicino al suo viso che la condensa dei loro respiri si mescolò. “Un po’ sì.” Lo baciò, facendo scontrare le loro labbra. Quelle di Merlin erano fredde – probabilmente perché era arrivato con la metro e nel tragitto che separava la fermata dalla casa di Arthur si era infreddolito – ma presto si scaldarono. Erano così morbide e soffici, inebrianti e staccarsene fu per Arthur una specie di fatica di Ercole, un’impresa quasi impossibile. Ma lo fece.
“Allora, ti rimangerai ufficialmente tutte le infamie che hai rivolto al mio completo?”
“No, perché effettivamente in quanto oggetto in sé rimane pacchiano. Il fatto che a te stia bene non rende il completo un bel capo, significa semplicemente che sei tu quello a cui sta bene tutto.”
Arthur sorrise, gongolante. “Mi sta bene tutto?”
Merlin si avvicinò di nuovo a lui, allacciandogli le braccia al collo. Gli accarezzò delicatamente i capelli sulla nuca. “Ovviamente. Lo so io e ti conosco abbastanza da sapere che lo sai anche tu.” Fece scontrare i loro nasi in un bacio all’eschimese. “C’è un pizzico di vanità, in te.”
“Ed è un male?”
“No, ti rende ciò che sei. E a me piace ciò che sei.”
Arthur allacciò le braccia alla sua vita. “Pregi e difetti?”
Si sentiva come un cucciolo smarrito desideroso di conferme. Sapeva che poteva non essere un comportamento appropriato, ma il fatto era che si sentiva accettato per la prima volta in vita sua per quello che era davvero, nella totale interezza della sua persona.
La paura di non essere accettato da suo padre e tutto il suo conseguente comportamento volto solamente a cercare la sua approvazione, l’aveva fatto crescere pieno di insicurezze. Temeva sempre di non essere mai abbastanza, di non riuscire mai a soddisfare le aspettative di chiunque avesse di fronte. Gli altri lo guardavano e si aspettavano l’erede dei Pendragon, l’uomo di successo, l’avvocato stoico e sicuro di sé.
Lo sapeva. Lo leggeva ogni giorno nei volti dei suoi interlocutori. Dannazione, lo vedeva persino nel volto di Vivian che lo guardava come se fosse il premio più ambito di una stagione di caccia costantemente aperta.
La caccia allo scapolo d’oro.
E Arthur era la personificazione perfetta di quell’ideale: giovane, bello, ricco, con un’eredità che avrebbe sistemato i suoi eredi per generazioni, colto e intelligente.
Tutti lo idealizzavano. Tutti volevano vedere in lui ciò che nel loro immaginario avevano associato alla sua figura.
Ma nessuno si era mai soffermato a guardarlo come una persona vera e a conoscerlo. Nessuno si era mai chiesto chi lui fosse davvero.
Nessuno, tranne Merlin.
Merlin lo vedeva, lo conosceva, lo accettava.
E Arthur… Arthur lo amava con tutto se stesso, come mai aveva amato in vita sua. In un modo viscerale e inteso, con una forza tale da fargli tremare le viscere e l’anima e il cuore.
“Pregi e difetti.” Confermò Merlin, senza esitazione alcuna. “Sei perfetto come sei, Arthur. Non cambierei niente di te.”
Arthur lo guardò con tutta la devozione di cui era capace, prima di baciarlo di nuovo. Quando si separarono, Arthur appoggiò la fronte alla sua.
Sospirò, inspirando il profumo di Merlin, così familiare, così fresco. Sapeva sempre di zucchero e menta.
Sentiva il cuore che batteva forte, sempre più frenetico, come se fosse pieno di così tanti sentimenti che se non fossero stati esternati avrebbero rischiato di farlo esplodere.
E Arthur, quindi, si trovò ad assecondare il suo cuore, facendo uscire tutto ciò che ci albergava dentro.
“Ti amo.” Sussurrò, guardando Merlin negli occhi.
Il suo cuore batté più forte, come se in quel modo riuscisse a fargli capire che era orgoglioso di lui, soddisfatto.
Arthur vide il blu degli occhi di Merlin accendersi, un sorriso spontaneo aprì il suo bel viso, mentre le guance si coloravano di un intenso rosa.
Merlin lo baciò di nuovo, con talmente tanto slancio che per un pelo rischiò di dargli una testata, dal momento che le loro fronti erano ancora a contatto. Con le braccia ancora allacciate dietro al suo collo, lo tirò a sé, facendo aderire completamente i loro corpi. Arthur rispose a quel gesto, abbracciandolo forte, in modo che aderissero ancora di più. Se avessero potuto fondersi, l’avrebbero fatto. I loro cuori battevano al solito ritmo, impazziti e impazienti, come se avessero finalmente ritrovato un pezzo di cui sentivano la mancanza l’uno nell’altro e avessero ripreso a funzionare nel modo corretto.
Si separarono, dopo una serie di baci che li avevano lasciati con le labbra gonfie e il respiro mozzato. Si guardarono negli occhi per un istante che sembrò durare un’eternità, dando ad entrambi la sensazione di essere finiti in una bolla dimensionale dove esistevano solo loro due e quelle due parole che Arthur aveva pronunciato con tanta sincerità e sicurezza.
Merlin gli afferrò il viso tra le mani. “Ti amo anch’io, così tanto.”
Era liberatorio per lui poter pronunciare quelle parole, lasciarle librare, dare libero sfogo ai suoi sentimenti dopo aver passato mesi interi a rinnegarli, a relegarli in una parte remota di sé convinto che non avrebbero mai visto la luce.
Invece, adesso, era tutto diverso. Quei sentimenti potevano mostrarsi nella loro totale purezza alla luce del sole, o al chiaro di luna, in una serata fredda. A Merlin non importava dove fossero, gli importava solamente di amare ed essere amato.
Arthur sorrise, felice come non lo era mai stato di udire simili parole. Afferrò le mani di Merlin tra le sue, spostandole dal proprio viso per portarsele alle labbra. Gli baciò le nocche e poi lo tirò nuovamente a sé per baciarlo ancora.
Era stato tutto perfetto, anche se non era successo in un luogo particolarmente romantico. Londra era piena zeppa di posti romantici, eppure il momento più importante nella vita di Arthur era successo sull’uscio di casa sua, con la porta aperta e l’aria fredda che gli schiaffeggiava la pelle.
Ma non avrebbe cambiato niente di quell’attimo perfetto.






*




Arthur aveva guardato la strada per tutto il tragitto, cercando di concentrarsi il più possibile sulla guida. Contrariamente a quanto credeva Merlin, era un autista responsabile!
Certo, ad ogni semaforo gli riservava sguardi innamorati mentre lo ascoltava parlare. La cosa bella del loro rapporto era che l’amicizia che li legava non era mutata solo perché adesso erano una coppia. Merlin aveva mantenuto la sua parlantina, solo che adesso mentre Arthur lo ascoltava si lasciava andare a sguardi languidi mentre con disinvoltura faceva intrecciare le loro dita. Merlin aveva risposto a quel gesto con spontanea naturalezza, senza interrompere il suo discorso. Gli stava raccontando l’ultima volta che era stato in lavanderia e di come avesse sbagliato programma di asciugatura.
“I miei vestiti si sono ristretti talmente tanto che sembravano quelli di un bambino!”
“Sei una causa persa!” Arthur rise con lui.
“Oh, ma davvero? E sentiamo, quand’è stata l’ultima volta che hai asciugato tu i tuoi vestiti?”
Il semaforo si fece nuovamente verde, così Arthur fu costretto a sciogliere l’intreccio delle loro mani.
“Vediamo,” Si fece pensoso, arricciando le labbra. “Avrò avuto più o meno sette anni? Otto, forse. In casa c’era June, che come sai si occupava della casa, ma anche di me e Morgana.” Merlin l’aveva conosciuta, June. Aveva più o meno l’età di Hunith. Lavorava per Uther da anni, ormai, e si occupava della sua casa quando lui non c’era. Si occupava anche della casa di Arthur, ora che lui non viveva più con il padre, e più di una volta era capitato che si trovasse a casa quando anche Merlin era lì. Gli piaceva June. Era una brava persona. “Lavorava così tanto. Un giorno, per questo, ho deciso di aiutarla prendendo i vestiti dalla lavatrice e mettendoli nell’asciugatrice. L’ho avviata pigiando pulsanti a caso, convinto che fosse quello il modo giusto in cui funzionasse e ho aspettato. Quando June se n’è accorta è sbiancata! Erano capi delicati, che richiedevano un’asciugatura particolare.”
Merlin aveva un sorriso stampato sulle labbra, immaginandosi il piccolo Arthur che si trova a combinare un guaio, sebbene i suoi gesti fossero dettati da buone intenzioni.
“E com’è finita?”
“Ha interrotto il programma, salvando i vestiti appena in tempo. Quando mi ha chiesto spiegazioni, le ho detto che volevo solo aiutarla. Lei…” Arthur si fermò, i suoi occhi si velarono come se si fossero improvvisamente impregnati di quel ricordo da renderlo quasi reale, vivo, come se in realtà stesse vivendo quel momento di nuovo. “Lei mi ha abbracciato. In modo affettuoso, quasi…”
“…Materno.” Concluse Merlin per lui, poggiando una mano sopra a quella di Arthur, posizionata sopra al cambio.
“Sì.”
“Non devi sentirti in colpa a pensarlo.” Sussurrò Merlin, leggendo i pensieri che gli passavano per la testa nella sua espressione, nel tono quasi colpevole con cui aveva pronunciato quell’unica sillaba. “Non sminuisci Igraine, se ammetti di aver voluto bene a June.” Merlin strinse la sua mano. “Spesso provo la stessa cosa per Gaius. Sai che mio padre è morto quando ero piccolo e Gaius è sempre stato presente. Molte volte in lui vedo più un padre che uno zio, ma questo non significa che non voglia bene al mio padre biologico.”
Arthur annuì, grato. Hunith aveva seguito Merlin nel lutto, l’aveva aiutato ad elaborare la perdita del padre. Gaius aveva fatto lo stesso. Merlin, da quel punto di vista, aveva sempre avuto più di quanto avesse mai avuto Arthur.
Lui era cresciuto nella ricchezza, con tutti gli agi che la condizione economica di suo padre potevano portare, ma non aveva avuto ciò che contava davvero: supporto, qualcuno disposto ad ascoltare il suo dolore. Uther l’aveva sempre mandato da psicologi che l’avevano seguito minuziosamente nel suo percorso, e sebbene fosse stato utile, l’unica persona da cui lui avrebbe voluto essere ascoltato era suo padre, che invece si era chiuso in sé, rendendo Igraine quasi un argomento tabù.
Poteva capirlo. Il dolore colpisce tutti, inevitabilmente, ma avrebbe voluto che non li distanziasse così tanto, creando tra di loro una voragine.
Arthur afferrò la mano di Merlin e se la portò alle labbra. “Grazie.”
“Non devi ringraziarmi.”
“Sì, invece. Riesci sempre a farmi stare meglio. È una delle cose che amo di te.”
Merlin arrossì a quelle parole. Doveva ancora abituarsi al fatto che si erano detti ti amo e adesso potessero liberamente usare quel verbo, tra di loro.
“Sei il mio posto nel mondo, Arthur. La mia persona. Farei qualsiasi cosa per farti stare bene.”
Arthur lo guardò con tutto l’amore di cui era capace. Il suo cuore che scalpitava emozionato davanti a quelle parole tanto vere, sincere. Approfittò dell’ennesimo semaforo rosso per voltarsi e afferrare il viso di Merlin tra le mani. Lo baciò con tutta la devozione di cui era capace. Lo baciò come se volesse fargli capire che era il custode del suo cuore e che lui gli apparteneva in ogni modo umanamente possibile.
Arthur era suo. Completamente, interamente suo. E questo non sarebbe cambiato nemmeno in mille anni.




*




Arthur parcheggiò la macchina nel primo posto che trovò disponibile. La mostra di Elena si sarebbe tenuta in uno di quegli edifici super moderni, con le vetrate al posto delle pareti che erano state oscurate per l’occasione per fare in modo che dalla strada si notasse qualcosa, ma non si vedesse tutto. Un astuto modo – vecchio come il mondo – per attirare la curiosità dei passanti e spingerli a mettersi in fila in attesa di entrare per dare un’occhiata.
Non appena Arthur scese dalla macchina fece il giro della vettura per raggiungere Merlin sul marciapiede. La strada in cui aveva parcheggiato era piuttosto affollata. C’erano persone che convergevano tutte nella direzione che avrebbero dovuto prendere anche loro. Fuori dall’edificio, c’era una fila che occupava gran parte del marciapiede. Persone non in lista che dovevano attendere il loro turno, per entrare. Arthur notò che c’era persino un gruppo di fotografi.
La cosa non lo sorprese troppo. Elena era una famosa artista, proveniva da una ricca famiglia e suo padre era un famoso imprenditore che possedeva alcune delle più importanti attività di Londra. Di certo, la stampa non avrebbe perso l’occasione di poter scrivere un articolo sull’eccentrica figlia di Godwyn. Se doveva dirla tutta, Arthur conosceva Elena abbastanza bene da sapere che non era eccentrica come la stampa si divertiva a dipingerla, semplicemente i giornalisti non sapevano come altro descrivere la figlia di un ricco imprenditore che aveva percorso una strada così diversa da quella del padre.
Un artista verrà sempre visto come qualcuno di bizzarro da chiunque non capisca l’arte stessa, o sia così superficiale da esprimere giudizi nati da luoghi comuni.
Esattamente come tendevano a fare con lui, nessuno si prendeva veramente la briga di conoscere Elena. La giudicavano e basta, come se essere figli di un uomo ricco e influente desse automaticamente il diritto a chiunque – stampa compresa – di poter criticare.
Merlin si rese conto del suo silenzio. “Va tutto bene?”
“Sì, certo.” Gli sorrise.
“Sei preoccupato per la stampa?”
“No, riflettevo su quanto saranno fuorvianti nel descrivere Elena, nei loro articoli. Nessuno di loro la conosce, ma sui giornali di domani la criticheranno.”
“Magari, invece, tra di loro ci sarà qualcuno che parlerà bene di lei e del suo lavoro. Esiste un lato buono in tutto.”
“Sono degli squali, Merlin.”
“Lo dicono anche degli avvocati.” Gli fece notare, con un sorrisetto che mise in mostra le sue fossette sulle guance. “Ma personalmente non mi sento uno spietato squalo senza cuore. Tu ti ci senti?”
“No.”
“Visto? Percezione. Dipende tutto da quella e da quanto vuoi decidere di lasciarti condizionare dai pregiudizi.”
“Ma se saranno loro i primi a fondare tutto sui pregiudizi?”
“Potrebbero farlo, ma altri non lo faranno. Altri eviteranno di descriverla come una ragazza ricca annoiata dalla vita e la descriveranno come la vera artista che è.”
A Merlin piaceva il lato protettivo di Arthur. Lo era con chiunque a lui tenesse. Elena era una di queste persone. La conosceva da molto tempo, fin dai tempi del liceo, e lui l’aveva conosciuta quando, mesi prima, era venuta a trovare Arthur a lavoro con la scusa che altrimenti non riuscivano più a trovare un’ora per vedersi. Gli piaceva Elena. Era frizzante, intelligente, allegra. Aveva uno spirito gentile e intraprendente.
Immersi in quella conversazione, non si erano accorti di essere ormai giunti a destinazione. Non appena i giornalisti si accorsero di loro – o meglio di Arthur – cominciarono a fare foto nella loro direzione, accecandoli con i flash delle loro enormi macchine fotografiche e assillandoli con domande che si sovrapponevano, con il risultato di risultare incomprensibili.
Arthur, nonostante le parole di Merlin, fu infastidito da quella specie di assalto ingiustificato – nemmeno fosse il principe William, dannazione! – e, istintivamente, afferrò la mano di Merlin per condurlo via da quella folla. Si mosse con le dita intrecciate a quelle di Merlin, facendosi strada finché non arrivò davanti al bodyguard dell’entrata. L’uomo, un individuo corpulento fasciato in un completo elegante, gli rivolse un’occhiata composta.
“Chiedo scusa per questo inconveniente, signore. È tutta la sera che assalgono gli ospiti. Non ho potuto fare altro che imporre una distanza minima da fargli mantenere.”
“Nessun problema.” Ribatté Arthur, in tono educato e calmo. Anche se avrebbe voluto gridare a quella massa di individui di smetterla di accecarli con i flash. Solo quando realizzò di avere le dita intrecciate a quelle di Merlin capì il motivo di tanto interesse. Gli era venuto istintivo prenderlo per mano per guidarlo il più lontano possibile da loro. Non voleva che approfittassero in alcun modo di Merlin, o lo usassero per scrivere un articolo. Solo in un secondo momento capì che quel gesto sarebbe stato un pretesto per scrivere di lui e per porre ancora di più l’attenzione su Merlin. Solo dopo realizzò che lui stesso aveva automaticamente posto l’attenzione sul misterioso ragazzo che Arthur Pendragon teneva per mano. Avrebbero indagato, quegli sciacalli, avrebbero scoperto chi era e che lavoravano insieme. Avrebbero lucrato sul loro amore, o peggio avrebbero dipinto Merlin come una specie di arrampicatore sociale. Arthur sapeva di essere arrabbiato. Con loro e con se stesso per non essere stato più attento. Aveva reagito d’istinto e automaticamente aveva incasinato le cose, mettendo Merlin sotti i riflettori. Era stato uno stupido.
Si voltò verso Merlin, come se volesse capire cosa stesse pensando. Incontrò i suoi occhi cerulei, così intensi, così grandi. E capì che lui aveva già capito cosa gli stesse passando per la testa. Merlin, dopo tutto, aveva sempre avuto questo magico potere di comprenderlo anche solamente con uno sguardo.
“Spetta a te, Arthur.” Gli sussurrò. “A me starà bene qualsiasi cosa farai.”
Arthur avrebbe potuto sciogliere l’intreccio delle loro dita, avrebbe potuto far cessare quel contatto e farlo passare come un fugace momento in cui un uomo aveva voluto un contatto con un amico per farsi spazio in una folla troppo invadente.
Ma non lo fece. Arthur, leggendo negli occhi di Merlin nient’altro che affetto, scoprì persino che la rabbia che aveva provato verso se stesso stava già sciamando, sostituita da quel coraggio che Merlin aveva sempre, ogni volta che si mostrava per quello che era veramente.
Arthur gli aveva sempre invidiato quel coraggio. E adesso, anche se in un modo bizzarro e quasi del tutto fuori dal suo controllo, il destino gli aveva offerto un’occasione di poter essere altrettanto coraggioso.
Mostrarsi per quello che era davanti a quel mondo che tanto si divertiva a descriverlo, portando avanti così tante idee sbagliate su di lui che aveva persino perso il conto.
Forse, per una volta, avrebbero detto qualcosa di vero.
Non poteva saperlo. Forse avrebbero speculato come facevano sempre, o forse, proprio come aveva detto Merlin, si sarebbero limitati a descrivere le cose per quelle che erano.
Arthur non lo sapeva. Certe cose non erano in suo potere. Ma la sua vita, quella sì. Era in suo potere gestirla e viverla come più riteneva opportuno viverla.
E lui voleva vivere con coraggio, voleva sentirsi libero da restrizioni che gli erano sempre state imposte e non gli erano mai veramente appartenute. Voleva una vita con Merlin priva di segreti e sotterfugi. Così continuò a tenerlo per mano. E lo guardò.
Quando incrociò il suo sguardo, Merlin gli sorrise come per fargli capire che a lui tutto questo stava bene. E se stava bene a lui, stava bene anche ad Arthur.
“Può darmi il suo nominativo, signore?”
“Arthur Pendragon.”
L’uomo cercò il suo nome sulla lista e non appena lo trovò, si fece da parte per farlo passare. Arthur e Merlin lo ringraziarono e, ancora mano nella mano, entrarono nel palazzo.



*





Merlin era concentrato a guardarsi intorno. Si sentiva quasi come una falena che viene attratta dalla luce: ogni dipinto attirava la sua attenzione e lui, inevitabilmente, si trovava con il naso all’insù e gli occhi incollati ad ogni tela per cercare di carpire più dettagli possibili. Gli piaceva l’arte, anche se a volte non la capiva. Quella di Elena era magica, riusciva a trasmettere emozioni. Merlin aveva provato una sensazione di calore al petto, guardando un quadro che raffigurava un tramonto. I suoi colori erano così caldi e vivaci che gli avevano fatto provare la stessa sensazione di pace che provava ogni volta che guardava un tramonto vero. Così come aveva provato un forte senso di angoscia davanti ad un ritratto di una donna con gli occhi vuoti e le mani nei capelli. Era nuda e circondata da nient’altro che fosse nero, grigio e colori scuri.
Merlin era curioso. Avrebbe voluto chiedere ad Elena il significato di quel quadro, ma non era ancora riuscito a incontrarla.
In tutta la sua esplorazione della mostra, Arthur si era mosso come una trottola tra lui e varie persone che lo conoscevano e attiravano la sua attenzione. Più di una volta Arthur si era scusato con lui, ma Merlin l’aveva rassicurato di non preoccuparsi, di andare a salutare chi di dovere mentre lui andava in esplorazione.
Adesso si trovava davanti ad un quadro che raffigurava delle ombre. Non erano dettagliate, erano semplicemente delle lunghe ombre nere che si estendevano sulla sabbia. Il mare era così dettagliato da sembrare vero. Era un quadro bellissimo. Elena era stata in grado di catturare la luce del sole che rimbalzava sull’acqua, facendola luccicare, e rendendo la sabbia luminosa. L’unica cosa scura erano quelle ombre, che comunque non trasmettevano un senso angosciante.
“È bello, vero?”
Merlin si voltò alle sue spalle, dove trovò una ragazza molto bella. Aveva lunghi capelli castani, che le ricadevano sulle spalle, e occhi dello stesso colore. Indossava un collarino di diamanti. Era un gioiello molto fine, che si abbinava perfettamente al tubino verde smeraldo che indossava. Era decisamente elegante e Merlin, per un istante, si sentì un pochino fuori luogo.
“È molto suggestivo.”
La ragazza sorrise. “Concordo.” Spostò gli occhi da Merlin al quadro. “Non so quante volte ho dovuto ripeterle che fosse bellissimo, prima di convincerla ad esporlo.”
“Conosci Elena?”
“Sì. Da anni, ormai. Siamo amiche dal liceo.” La donna gli sorrise timidamente. “Non volevo disturbarti. È che questo è uno dei miei preferiti.”
“Nessun disturbo.” Assicurò Merlin. “E in effetti, è un quadro molto bello.”
La ragazza sorrise e allungò una mano. “Sono Mithian, comunque.”
“Mithian??” Domandò Merlin e per un attimo la lasciò con la mano sospesa verso di lui senza ricambiare la stretta. Si sentì un idiota e anche un po’ cafone. “Scusa,” si affrettò, ricambiando la stretta. “È che ti conosco, cioè voglio dire, Arthur ti conosce, io sono…”
“Merlin!” Azzardò la donna. “Vero?”
“Sì.”
Mithian si aprì in un enorme sorriso. “Oh, sapessi quante volte mi ha parlato di te!”
Merlin arrossì di fronte a quelle parole. “Anche di te.”
“In pratica è come se ci conoscessimo già!” Sorrise. “Arthur dov’è?”
“In giro, a salutare persone.”
Mithian annuì. “Ti va se lo aspettiamo al bar?”
“C’è un bar?” Merlin non ci aveva fatto caso. Aveva girato per il salone con gli occhi incollati ai quadri e non si era reso conto di altro.
“Sì. Ti va un drink?”
“Volentieri.”






*





Merlin si trovava seduto al piano bar, a bere un Cosmopolitan – il primo della sua vita – che risultò essere più buono di quanto si fosse mai immaginato. La verità era che lui era più tipo da birra, ma Mithian aveva tanto insistito affinché lo assaggiasse.
Se ti piace la vodka, ti piacerà anche questo.
E aveva avuto ragione.
“Come procede il lavoro?” Gli domandò Mithian, portandosi il bicchiere alle labbra.
Merlin la guardò. Si domandò quanto effettivamente sapesse della situazione che stavano vivendo allo studio, se fosse al corrente di quanto Uther ultimamente si impegnasse per risultare più stronzo del solito e se sapesse che Arthur aveva nominato lei e il suo studio, quando aveva minacciato di rivolgersi a lei per il caso di Annabelle, se lui non avesse acconsentito a farlo continuare.
Merlin non sapeva se lei davvero sapesse tutte queste cose e voleva informarsi su come stava procedendo il tutto, o se quella domanda era solamente un modo carino per fare conversazione.
“Abbastanza bene.” Commentò, quindi, rimanendo sul vago.
“Arthur ti fa impazzire?”
Merlin accennò un sorriso. “Non più del solito.” Fece girare il ghiaccio all’interno del bicchiere con un movimento delicato dello stelo. La verità era che l’unico Pendragon che portava problemi era Uther. Lui e la sua stupida mania di voler dimostrare chi fosse il capo. I suoi comportamenti da troglodita stavano facendo soffrire Arthur – e lui odiava sapere quanto stesse male l’uomo che amava. Ancor di più lo turbava il fatto che a farlo stare così male fosse proprio suo padre, che sembrava non vedesse altro al di là di se stesso e delle proprie convinzioni. Come faceva a non rendersi conto di quanto i suoi comportamenti ottusi si ripercuotessero sul figlio?
Merlin sospirò, poi tornò a guardare Mithian. Qualcosa nel suo sguardo caldo gli fece capire che stava per domandargli qualcosa. Quello era lo sguardo di una persona estremamente empatica, qualcuno che presta attenzione alle emozioni altrui e le capisce. Merlin, anche se non la conosceva bene, sapeva per certo che stava per chiedergli se andasse tutto bene. E lui non voleva parlare di Uther. Non in quel momento. Non in una serata dove sembrava che tutto andasse bene. Così sorrise. “E tu? So che hai uno studio tuo.”
Mithian fu sorpresa da quella domanda, ma ebbe la delicatezza di capire che, probabilmente, Merlin non voleva parlare di qualsiasi cosa gli fosse passata per la testa due minuti prima.
“Lo studio, tecnicamente, è ancora di mio padre. Lo erediterò quando deciderà di smettere di esercitare.”
“Tu e Arthur potreste lavorare insieme. Se mai avrai voglia di unire i due studi, penso che tu saresti un’ottima candidata. Sicuramente meglio di Vivian.” Merlin inevitabilmente fece una smorfia di disappunto pronunciando quel nome.
“Uh, Vivian.” Esclamò Mithian, in tono sofferente. “Detesto quella ragazza.” Bevve un sorso del suo drink. “Vuole ancora unire i due studi?”
“Certo. Si presenta ogni settimana, a cadenza regolare, e si piazza nell’ufficio di Arthur. Si attacca a lui come una cozza sullo scoglio e non fa altro che parlare di bilanci e di quanto la loro unione sarebbe vantaggiosa.” La voce di Merlin uscì più pungente di quanto si sarebbe mai aspettato. Il fatto era che il comportamento di Vivian lo infastidiva. Anzi, se doveva essere completamente sincero, accendeva inevitabilmente la sua gelosia.
“Sai, i nostri padri sono tutti amici, quindi ci conosciamo da molto tempo. Lei è sempre stata appiccicosa nei confronti di Arthur.” Mithian si sistemò i lunghi capelli castani sulla spalla destra. “Non l’ho mai sopportata. Ha sempre provato a tagliarlo fuori, sai?”
“In che senso?”
“Io, Arthur ed Elena siamo diventati amici, ma Vivian non riusciva a trovarsi bene con me ed Elena. Il fatto era che noi reputavamo lei una snob viziata e lei non ci riteneva all’altezza della sua personalità. L’unico che le piaceva era Arthur e quindi tendeva sempre a volerlo allontanare da noi. Ma sai com’è Arthur. Non vuole separarsi dalle persone a cui vuole bene.” Mithian portò il bicchiere alle labbra, finendo quello che rimaneva del suo drink. “Credo che abbia continuato a frequentarla per suo padre.”
“Uther sa essere piuttosto manipolatore.”
“Già.”
Merlin fissò il suo bicchiere, ormai vuoto. Il ghiaccio si era sciolto quasi del tutto, tanto che quell’unico cubetto che era rimasto stava galleggiando nell’acqua formata da altri cubetti. Dopo le parole di Mithian, che andarono a mescolarsi con la gelosia che provava da sempre nei confronti di Vivian, si chiese se Arthur fosse mai stato con lei. Si chiese se, in passato, la sua voglia di compiacere suo padre non fosse arrivata a spingerlo a stare con Vivian, una donna, qualcuno che Uther avrebbe sicuramente approvato in quanto appartenente al genere femminile e ad una buona famiglia ricca. Senza contare che era la figlia di un suo caro amico.
Merlin si sentì un peso sul cuore. Perché doveva prendersela tanto? Adesso le cose erano diverse. Arthur amava lui. Non c’era motivo di preoccuparsi se in passato lui e Vivian erano stati insieme.
Eppure… eppure la sola idea che quella vipera viscida ed arrivista avesse in qualche modo avuto a che fare con il suo Arthur gli faceva venire l’orticaria. Forse perché sapeva che Vivian non era attratta da Arthur in quanto Arthur, ma piuttosto da quello che rappresentava. Pensò a come aveva provato a separarlo da Mithian ed Elena, due delle sue più care amiche, solo perché lei non le reputava alla sua altezza. Una persona simile non si meritava di avere a che fare con Arthur e men che meno si meritava accesso al suo cuore, anche se per ragioni che esulavano totalmente dall’amore e dipendevano, piuttosto, dal fatto che Arthur fosse mosso dal desiderio di compiacere suo padre.
“Merlin? Va tutto bene?” Mithian lo tirò fuori dai suoi pensieri.
“Sì, certo. Scusa.”
“Sei sicuro?”
“Sì, io… lascia stare, è un pensiero sciocco.”
“Mi sembri un po’ turbato. Nessun pensiero è sciocco, se ti turba.”
Merlin la guardò negli occhi. Erano di un caldo castano, come due braci ardenti che riescono a scaldare il più freddo degli inverni. Merlin conosceva Mithian da mezz’ora, più o meno, ma riusciva già a vedere il motivo per cui Arthur si trovasse così bene con lei. Mithian era una persona attenta ai dettagli, premurosa. Una persona che trasmette fiducia.
“Arthur e Vivian sono mai stati insieme?”
E sapeva che era sbagliato chiederlo, perché anche se la risposta fosse stata affermativa, era qualcosa che apparteneva al passato, qualcosa che non riguardava lui o i sentimenti che Arthur provava per Merlin.
E sapeva anche che la persona a cui porre quella domanda non era Mithian, ma Arthur.
Ma il fatto era che Merlin era stato colto da un’ondata di gelosia e dalla rabbia verso Uther, un uomo che Merlin vedeva capacissimo di manipolare il figlio pur di forgiarlo secondo quell’ideale perfetto che viveva nella sua mente, senza chiedersi mai se Arthur fosse felice. Felice davvero.
“No! Mai! Perché me lo chie– oh.” Mithian si fermò a metà frase, realizzando tutto in una frazione di secondo. Si allungò quel tanto necessario a prendere la mano di Merlin. Lui non si ritrasse. “Devi stare tranquillo. Vivian potrà passare tutta la vita a tentare di conquistarlo, ma Arthur non proverà mai niente per lei.”
“So che adesso sembro uno sciocco. Il ragazzo geloso e insicuro…”
“Merlin, i sentimenti non sono mai sciocchi. E le insicurezze ci rendono umani. Se ti fa stare meglio, puoi parlare con lui, chiarire questa cosa.” Gli diede una fugace stretta alla mano. “Io sicuramente gli parlerò, chiedendo il motivo per cui mi ha nascosto di essersi fidanzato!”
Merlin rise, grato di quella conversazione. Mithian era davvero fantastica.
Rimasero a chiacchierare ancora un po’, ordinando un altro drink, poi tornarono alla mostra.





*




Poco dopo, Merlin e Mithian erano di nuovo nel cuore della mostra. Camminavano fianco a fianco, guardando quadri e commentandoli, o parlando del più e del meno.
Merlin si sentiva parecchio a suo agio con lei e voleva credere che la cosa fosse reciproca.
Dopo una serie di quadri e di commenti su di essi seguiti da domande che riguardavano soprattutto Elena e il fatto che non erano ancora riusciti a vederla, i due si imbatterono finalmente in Arthur, che era intento in una conversazione con Gwaine.
“Non sapevo sarebbe venuto anche Gwaine.”
“Ti stupisce che abbia un debole per l’arte?”
Mithian lo guardò con la coda dell’occhio. “Gwaine ha un debole per l’open bar e le donne.” Emise un sospiro, prima di tornare a guardare in direzione della coppia. Merlin notò che la sua attenzione era principalmente rivolta a Gwaine e notò persino lo sguardo rattristato che adesso albergava negli occhi di Mithian.
“Va tutto bene? Possiamo non raggiungerli, se preferisci.”
Mithian riportò la propria attenzione su di lui. Gli riservò persino un sorriso. “No, stai tranquillo. È solo…” fece una pausa e divenne pensierosa, ma poi riprese parola. “Oh, al diavolo, te lo dico. Tu mi hai detto qualcosa di tuo, ti dirò qualcosa di mio.”
“Non devi sentirti obbligata.” Chiarì Merlin.
“Lo so. Ma voglio farlo. Vorrei dirlo a qualcuno da così tanto tempo, ma non ho mai avuto il coraggio. Tu ti sei fidato di me, io voglio fidarmi di te.”
“Ti ascolto.”
Merlin era leggermente teso, se doveva essere onesto. Non sapeva cosa aspettarsi e di certo era davvero stupito dalla velocità con cui lui e Mithian avevano preso confidenza, tanto da raccontarsi cose che non avevano detto a nessuno.
Era come se fossero amici da molto tempo e non da poco più di un’ora.
“Io e Gwaine l’abbiamo fatto. Più di una volta, in realtà.” Disse tutto d’un fiato, come una confessione. “È cominciata un anno fa, circa, ed è andata avanti per tre mesi. All’inizio era una specie di gioco, due amici che si divertono e basta. Alla fine, però, io mi sono innamorata come un’idiota, mentre lui ha deciso che forse era meglio finirla.”
“Ha voluto farla finita dopo che gli hai confessato di amarlo?” Domandò Merlin, incredulo.
“No, lui non lo sapeva. Avevo preventivato di dirglielo la sera che, invece, lui ha detto che forse era meglio finirla.” Mithian sospirò. “Non lo incolpo di niente, alla fine sapevo benissimo con chi avessi a che fare. Voglio dire, lo conosco da anni, so che è un libertino. Eppure… ci sono cascata lo stesso, come una sciocca.”
“I sentimenti non sono mai sciocchi.” Merlin fece eco alle parole che lei stessa aveva usato poco prima. Le sorrise, incoraggiante e Mithian ricambiò timidamente quel sorriso. “Non devi incolparti di esserti innamorata di lui.” Continuò Merlin. “Non si sceglie chi amare, si ama e basta. Nonostante i difetti, nonostante le apparenti incompatibilità.”
“Arthur è fortunato. Spero lo sappia.” Mithian gli sorrise e lo prese sottobraccio. “Grazie, Merlin.”
“Grazie a te per esserti fidata.” Le rispose, prima di dirigersi con lei verso Arthur e Gwaine.





Quando li raggiunsero, sia Arthur che Gwaine smisero di parlare per prestare loro attenzione. Erano una coppia decisamente vistosa, pensò Arthur, vedendoli a braccetto. Era impossibile che non attirassero l’attenzione. Merlin per ovvi motivi – ma forse Arthur era di parte, o forse no. Forse aveva ragione a pensare che il suo ragazzo alto dalla combinazione letale occhi blu e capelli corvini fosse una specie di opera d’arte – e Mithian… insomma Mithian faceva girare la testa agli uomini anche in tuta, figuriamoci vestita in un modo così elegante. Sembrava oggettivamente una principessa. Arthur notò persino l’occhiata che le lanciò Gwaine, ma decise di sorvolare.
“Vedo che vi siete conosciuti.”
“Di certo, non grazie a te, Artie!” Mithian lasciò il braccio di Merlin per sporgersi ad abbracciare Arthur. Lui ricambiò subito.
“Non chiamarmi in quel modo, sai che lo odio.”
“E tu sai che io odio essere l’ultima a sapere le cose, ma mi hai comunque esclusa, quindi, per punizione ti chiamerò come voglio.” Mithian sciolse l’abbraccio e indietreggiò quel tanto per guardarlo in viso. “Mi hai tenuto nascosto Merlin. È un tesoro, spero che tu lo sappia.”
Arthur sapeva che il suo ragazzo era un tesoro, ma non era nemmeno il tipo che sbandierava i suoi sentimenti.
“Non te l’ho tenuto nascosto.” Precisò, piuttosto. “Stiamo insieme da poco.” Lo disse con facilità e, si rese conto, senza remore. L’iniziale timore che aveva provato quando si era aperto per la prima volta con Morgana e aveva temuto che lei potesse cambiare nei suoi confronti era sparito quasi del tutto. Dopo aver visto che Morgana nei suoi confronti non era cambiata, dopo aver notato quanto Gwaine si fosse impegnato per farlo correre da Merlin, e dopo aver visto il modo naturale con cui Mithian l’aveva rimproverato di averla esclusa dalla sua vita sentimentale, Arthur aveva la certezza che l’unico che avrebbe avuto problemi con la sua sessualità sarebbe stato suo padre. Uther era l’unico delle persone che lui conosceva che sarebbe cambiato nei suoi confronti. Da una parte era confortante perché significava che i rapporti che aveva con le persone a cui voleva bene sarebbero rimasti invariati. Dall’altra, invece, era angosciante sapere che suo padre non l’avrebbe accettato per quello che era.
“Sì, veramente poco.” Si inserì Gwaine, distogliendo Arthur dai suoi pensieri. “E me ne prendo tutto il merito, ovviamente, perché senza di me questi due passerebbero ancora ogni momento a fissarsi con gli occhi a cuore mentre l’altro non guarda.”
Mithian ridacchiò perché riusciva facilmente ad immaginare la scena. Se prima di quella sera non aveva mai conosciuto Merlin, aveva tuttavia sentito Arthur parlare di lui. E adesso che sapeva tutta la storia, riusciva a spiegarsi un po’ di più l’espressione dolce che gli aveva visto comparire più di una volta, quando aveva nominato Merlin.
“Aw, Gwaine. Hai fatto da cupido? Allora ce l’hai un cuore, sotto tutto quell’ammasso di–”
“Fascino stratosferico e bellezza disarmante?”
Mithian gli lanciò un’occhiata laterale. “Avrei parlato più che altro di assenza di maturità e aridità emotiva.”
“Oh, Mith. Così ferisci il mio povero cuore.” Gwaine tirò fuori il labbro inferiore, mimando esageratamente un broncio. Si portò persino le mani al petto, mentre fissava i suoi occhi scuri in quelli di Mithian. La guardò in un modo intenso, così estremamente familiare, che avvertì il suo cuore accelerare.
“Sono sicura che il tuo cuore stia bene, Gwaine.”
“Non dopo che l’hai ferito in questo modo. Devi farti perdonare.”
Devo?” Gli fece eco, le sopracciglia alzate in un’espressione interrogativa.
“No, ok. Non sei obbligata.” Alzò le mani in segno di resa. “Ma mi farebbe davvero piacere bere qualcosa con la ragazza più bella della serata.”
Arthur e Merlin alzarono istintivamente gli occhi al cielo. Gwaine sapeva essere un tale cliché privo di originalità, a volte, che rimaneva un mistero come facesse ad avere così tanto successo con le donne.
Mithian non riuscì a trattenere una risata. Non era derisoria. Non avrebbe mai riso, se avesse anche lontanamente sospettato che Gwaine fosse serio. Ma sapeva che non era così. Gwaine stava solo facendo spettacolo. “Ti prego, risparmiami le frasette da repertorio, Gwaine. E andiamo a bere.”
Gwaine sorrise, vittorioso, e le porse il braccio. “Milady.”
Mithian scosse la testa, divertita. Nonostante dalla loro non-relazione avesse guadagnato un cuore infranto e dei sentimenti che ancora vivevano nei cocci del suo cuore, non riusciva ad avercela con lui. Erano amici da così tanto tempo che era sicura prima o poi le cose sarebbero tornare alla normalità. Era sicura che prima o poi avrebbe smesso di sentire il cuore scalpitare solo guardandolo negli occhi.
Ed era sicura che, un giorno, si sarebbe resa conto che il suo sorriso non le faceva più il minimo effetto.
Ma per arrivare a quel giorno, si rese conto, avrebbe prima dovuto fare in modo che le cose tornassero alla normalità. E per due amici che si conoscono da una vita, bere insieme è ciò che può definirsi normalità.
Per questo afferrò il braccio che Gwaine le aveva appena porto. “Venite con noi?”
Arthur e Merlin si scambiarono un’occhiata. Non erano stati soli un attimo, in quella serata. Forse potevano cogliere l’occasione per stare un pochino insieme.
“Vi raggiungiamo più tardi.” Disse Arthur e Merlin annuì.
“D’accordo piccioncini, a dopo!” Esclamò Gwaine, salutandoli con la mano che aveva libera e un sorrisetto malizioso che fece sì che i due gli rivolsero un dito medio. Gwaine esplose in una risata e si allontanò, con Mithian al braccio.
“Vuoi fare un giro?” Domandò Arthur, quando rimasero soli.
Merlin gli sorrise. “Molto volentieri.”
Arthur, istintivamente, gli afferrò la mano, facendo intrecciare le loro dita e insieme si avviarono verso le opere d’arte.





Merlin camminava con il naso all’insù e le dita intrecciate a quelle di Arthur. Gli venne in mente la conversazione che aveva avuto con Mithian su Vivian, gli ritornarono alla mente i suoi sentimenti e il fatto che si sentisse in colpa per essere geloso di qualcuno per cui Arthur non aveva dimostrato il minimo interesse.
Non voleva essere paranoico. Avrebbe parlato ad Arthur, parlandogli apertamente di quello che aveva provato, ma voleva farlo con calma, in un luogo dove sarebbero stati soli.
“Devo parlarti.” La voce di Arthur interruppe i suoi pensieri e dal momento che quella frase rispecchiava esattamente ciò che in quel momento passava per la sua testa, Merlin si chiese se Arthur non fosse in grado di leggergli il pensiero.
Ovviamente non era così.
“Dimmi.”
Arthur si fermò e Merlin lo assecondò, visto che erano mano nella mano. Si erano fermati davanti ad un quadro che raffigurava un campo di girasoli.
Arthur emise un sospiro, prima di parlare. “So che avevamo detto di aspettare, prima di parlare a mio padre, ma dopo stasera…”
Merlin capì dove voleva andare a parare. “Le foto. Vuoi parlargli prima che le veda.”
“Esatto. Sia chiaro, non mi sono pentito di niente. Voglio che si sappia di noi due. Certo, vorrei che quegli squali evitassero di farsi un’idea sbagliata su di te perché odio l’idea che possano dipingerti come non sei, ma…”
Merlin gli afferrò il viso tra le mani. “Ma anche se dovessero farlo, a me non importa. A me va bene si sappia, se va bene a te. A me va bene parlare a tuo padre quando va bene a te. Sia chiaro, Arthur, io sono dalla tua parte. Sempre.”
“Lo so. E ti amo per questo.”
Merlin arrossì. Era così bello sentirselo dire. Quelle parole avevano un potere immenso su di lui. E rendevano il suo cuore vivo in un modo del tutto nuovo, quasi lo rinvigorissero, lo rendessero più forte. Merlin si sporse per lasciargli un bacio sulle labbra.
Arthur aveva un modo di dirgli le cose che faceva sembrare tutto più naturale. Gli veniva spontaneo parlare con Merlin se c’era qualcosa – qualsiasi cosa, ne aveva avuto prova più di una volta – che gli passava per la testa. Dalla più stupida alla più seria, Arthur parlava sempre con Merlin.
Forse avrebbe dovuto farlo anche lui.
“Visto che siamo in tema di confidenze, devo dirti qualcosa anche io.”
“Mi ami sopra ogni cosa e sono ciò che di più bello poteva capitarti nella vita? Grazie, lo so già.” Arthur gli rivolse un sorrisetto compiaciuto.
“Sei un idiota.”
Arthur mise il broncio davanti a quell’affermazione. “Mi piace più ciò che ho detto io.”
Merlin, invece, sorrise intenerito per quella reazione. “Mi vuoi ascoltare sì o no?”
“Scusa. Dimmi tutto.”
Merlin fece un profondo respiro e poi parlò. “Ho parlato con Mithian prima e tra un discorso e l’altro è venuta fuori Vivian. Le ho chiesto se voi due siete mai stati insieme, lei mi ha detto di no. Non so perché l’ho chiesto a lei e non a te, forse mi vergognavo all’idea di fare il ragazzo geloso. Non voglio che pensi che sia possessivo, cioè un po’ credo di esserlo, ma non in modo inquietante, insomma–”
“Merlin.” Arthur gli mise una mano sulla bocca per farlo tacere. Merlin riusciva a parlare a raffica senza prendere fiato, quando era nervoso, e continuare a sparare parole all’infinito. Quando lo faceva, Arthur sospettava che celasse un paio di branchie da qualche parte che gli permettessero di riuscirci senza soffocare.
“Non provare a leccarmi la mano, sarebbe disgustoso.” Lo avvertì, prima di continuare. “Tranquillizzati, ok? Non importa che tu l’abbia chiesto a Mithian, davvero. Dobbiamo… imparare a comunicare anche su questi argomenti. E non mi dà fastidio tu sia geloso di Vivian. Non ne hai motivo, sia chiaro, non andrei con lei nemmeno fosse l’ultima persona rimasta sulla terra oltre me, ma mi fa piacere che tu sia geloso. Significa che ci tieni a me.” Tolse la mano dal viso di Merlin.
“Tengo tanto a te. E non voglio che pensi che non mi fido di te. Mi fido.”
“Lo so. La gelosia è irrazionale. Io ero geloso di Lancelot.”
“Mi ricordo.” Merlin sorrise. Quell’affermazione gli aveva ricordato la sera della loro riappacificazione. “Prometto che parlerò di più di queste cose.”
“A patto che trovi un modo più coinciso per arrivare al punto. Non puoi sparare a raffica fiumi di parole, è strano.”
Merlin gli lanciò un’occhiataccia. “Hai la sensibilità di un mestolo, Arthur. Ero nervoso, non merito un po’ di comprensione?”
Arthur scosse la testa, un sorriso ad aprirgli il viso. “Sei così drammatico, a volte.”
“Io sarei quello drammatico?” Alzò le sopracciglia Merlin, incredulo.
Arthur annuì. “E sei anche quello geloso.” Sentenziò, riservandogli un sorrisetto compiaciuto e canzonatorio. Merlin sapeva che Arthur stava sdrammatizzando, sapeva che era tutto un modo giocoso per fargli capire che era tutto a posto tra di loro, ma decise comunque di ribattere.
Si poteva giocare in due a quel gioco.
“E tu sei quello che dormirà da solo, che peccato.”
“Cattivo! Avevi promesso che non avresti più detto una cosa simile!”
“Certo, l’avevo promesso a patto che tu non mi facessi arrabbiare.”
“Non sei arrabbiato veramente, sei solo indispettito e quindi reagisci così. Cosa che, se ci pensi, dà ragione a me quando dico che sei drammatico!”
Merlin fece un profondo respiro e afferrò il viso di Arthur tra le mani. “Nessuno è più drammatico di te, quindi suppongo che serva il Re Assoluto del Dramma per riconoscere il dramma.”
“In quanto Re, ho bisogno di un servitore di corte.”
“Che non sarò io, ma apprezzo il pensiero. Al massimo posso essere il tuo concubino.”
Arthur non riuscì a trattenere una risata e si sporse per lasciargli un bacio a stampo. “Sei un idiota.”
“Senti da che pulpito.”
Arthur lo baciò di nuovo e fece intrecciare le loro dita. Si guardarono per un istante che racchiudeva al suo interno tutto ciò che si erano detti. Erano esseri umani carichi di insicurezze, ma avevano avuto la fortuna di trovarsi e questo bastava per far sì che riuscissero a risolvere qualsiasi cosa.
Finché sarebbero stati insieme, niente gli avrebbe spaventati.




*



“Vi prego, rendetemi fiero e ditemi che siete spariti per andare a profanare uno dei bagni.” Esordì Gwaine, quando li vide tornare dal loro giretto.
Si trovava al bar, insieme a Mithian e – sorpresa delle sorprese – insieme ad Elena e Morgana.
Arthur si avvicinò alla sorella e all’amica, salutandole con un abbraccio.
“Sei un animale, Gwaine!”
“Oh, non fare il puritano! C’è un che di affascinante nel fare sesso in un bagno pubblico!”
“Il brivido di rischiare di contrarre una malattia venerea?” Suggerì Merlin, sarcastico. Arthur gli lanciò un’occhiata complice e un sorriso.
Gwaine, testimone di quella complicità che lo fece sentire sconfitto, agitò una mano nella loro direzione come se volesse scacciare una mosca. “Antipatici. Non capite il fascino dell’avventura!”
“Perché non ci vai tu, all’avventura?” Suggerì Arthur, indicando lo stuolo di persone che li circondava. Era più che certo che Gwaine sarebbe riuscito a conquistare qualcuna, di solito succedeva di continuo. Era come se avesse un talento speciale per far cadere le donne ai suoi piedi.
“Perché nessuna ha colpito il mio interesse.” Liquidò lui l’argomento, con un’alzata di spalle.
“Sapete che è una mostra d’arte, vero? Ci sono dei quadri in esposizione, non le donne. Avete idea di quanto suoni sessista questo discorso?” Fece notare Morgana, un curato sopracciglio alzato, facendo scorrere lo sguardo tra i due.
“Scusa, non volevo offendere nessuna di voi.” Dichiarò Gwaine, guardando le donne presenti al tavolo. “Volevo semplicemente dire che non mi sento in vena di fare nuove conoscenze, stasera.”
“E come mai?” Chiese Elena, curiosa. “Non è da te.”
Gwaine arrossì lievemente in viso, in un modo quasi impercettibile. “Nessun motivo in particolare.” Affermò, portando lo sguardo sul bicchiere che aveva davanti a sé. Era mezzo vuoto e il ghiaccio all’interno del drink stava cominciando a sciogliersi. Non c’era un vero motivo, ma se avesse dovuto trovarne uno, era sicuro dipendesse dal fatto che non sentiva il bisogno di cercare altra compagnia diversa da quella che aveva già. C’erano i suoi amici, con lui, e c’era Mithian.
Era bella come una mattina d’estate soleggiata e profumava di miele. Era strano, notare quelle cose di lei, soprattutto perché erano tornati ad essere solo amici da un po’ – e sapeva che questo dipendeva da lui e dalle scelte che aveva fatto.
Lui non era materiale da storia seria, lo sapeva benissimo – gliel’avevano rinfacciato tutte le ragazze con cui era stato – e quindi perché continuare a far perdere tempo a Mithian?
Aveva fermato tutto prima che potessero davvero rischiare di rovinare la loro amicizia, perché sapeva che prima o poi lui avrebbe fatto una cazzata che avrebbe incrinato per sempre il loro rapporto.
E lui non voleva.
E, soprattutto, non voleva rischiare di far soffrire Mith.
Ma… ma da quando aveva visto Arthur andare da Merlin, mettersi a nudo pur di non perderlo, aveva cominciato a riflettere.
Il suo amico aveva fatto un casino, si era comportato da idiota, ma aveva anche avuto il coraggio di mostrarsi interamente nella sua fragilità pur di riavere Merlin con sé. Aveva preso tutte le sue insicurezze e le aveva messe nelle mani di Merlin con un coraggio invidiabile.
Diamine, Arthur era disposto anche ad affrontare quel despota bigotto di suo padre per Merlin. Voleva stare con lui così tanto da scavalcare tutte le sue paure. Amava Merlin a tal punto.
E Gwaine, che non era mai stato un tipo troppo riflessivo, si era trovato a rimuginare sul fatto, sul perché Arthur facesse quello che stava facendo. Ed era arrivato alla conclusione che la forza che Arthur aveva ritrovato nell’ultimo periodo dipendesse dalla consapevolezza che mai, nella sua vita, avrebbe ritrovato qualcuno che lo facesse sentire come lo faceva sentire Merlin.
Arthur era consapevole di aver trovato la sua anima gemella e aveva combattuto per assicurarsi di averla al suo fianco.
Gwaine sospirò, percependo solo vagamente i discorsi dei suoi amici, intorno a sé. Merlin stava facendo i complimenti ad Elena per la mostra e lei gli stava parlando delle varie fasi dei suoi processi creativi, comprese le crisi di pianto dovute ai dubbi di non essere abbastanza brava, o originale. Sentì Merlin dirle che non doveva dubitare di sé, perché era bravissima. E vide persino un sorriso sincero comparire sul volto dell’amica, prima che procedesse a ringraziare Merlin.
“Allora, alla fine chi è il tuo più uno?” Udì poi Arthur chiedere alla sorella.
“Nessuno,” Rispose lei con una noncurante alzata di spalle. “L’avevo chiesto a Leon, ma non poteva.”
“Esci con Leon?” Lo stupore nella voce di Arthur, fece sì che per un attimo Gwaine prestasse interamente attenzione alla loro conversazione.
“Non esco con Leon. Siamo semplicemente amici. È il fratello che non ho mai avuto.”
Arthur la guardò malissimo, quasi con ferocia, e Gwaine dovette trattenersi dal non ridere.
“Tu ce l’hai un fratello, Morgana!” Sibilò Arthur.
“Allora diciamo che lui è il fratello non fastidioso che non ho mai avuto, contento??”
Arthur le fece una linguaccia, risentito. “Strega.”
“Spina nel fianco!” Ribatté lei.
Gwaine scosse il capo, prima di distogliere da loro l’attenzione e portarla sull’oggetto dei suoi iniziali pensieri. Mithian stava ascoltando Elena, ma come se avesse improvvisamente percepito i suoi occhi su di sé, spostò lo sguardo su di lui.
Lo osservò per qualche istante, gli occhi castani fissi nei suoi e sulla fronte rughe di espressione – come se fosse concentrata ad analizzarlo, a leggergli dentro.
Lo faceva fin da quando erano ragazzini.
Gwaine riteneva che Arthur fosse il suo migliore amico, ma Mithian… Mithian l’aveva sempre capito meglio di chiunque altro. A lei bastava uno sguardo e riusciva a leggerlo come un libro aperto. Non era mai stato in grado di celarle niente perché lei era così intuitiva da capirlo solamente con un’unica occhiata.
Era questo quello che non aveva mai ritrovato in nessun’altra. La complicità. La comprensione. E non l’aveva capito fin quando non aveva visto Arthur uscire di fretta da qual pub per raggiungere la persona che gli faceva provare le stesse cose che Mithian faceva provare a lui.
“Va tutto bene?” Gli chiede Mithian, sottovoce.
“Sì.”
Lei lo osservò come se riuscisse a subodorare la sua bugia, ma non insistette. Appoggiò semplicemente e con un’apparente casualità una mano sul suo avambraccio – un segno silenzioso del suo conforto – e continuò a prestare attenzione alle parole di Merlin ed Elena.
Lui osservò quel piccolo gesto, fatto con premura. Avrebbe voluto coprire la sua mano con la propria, avrebbe voluto parlarle di quello che stava provando. Avrebbe voluto avere una macchina del tempo per tornare indietro, a quegli attimi che avevano vissuto insieme, e capire prima che quello che lo legava a lei non era semplice amicizia, o bramosia.
Avrebbe voluto.
Ma non poteva.
Era troppo tardi.
Così rimase immobile e, silenziando i suoi pensieri, si concentrò sulla conversazione dei suoi amici.





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Ciao a tutti e ben ritrovati!
Con un ritardo imperdonabile sono finalmente riuscita ad aggiornare! Vi chiedo scusa per averci messo così tanto!
Venendo al capitolo, ci sono dei punti che mi rendono un po’ titubante, ma che ho deciso comunque di lasciare – vedi la conversazione tra Merlin e Mithian riguardante Vivian. Spero che si sia capito che Merlin non dubita di Arthur, ma è infastidito dai comportamenti di Vivian. Volevo provare a mostrare le insicurezze che, inevitabilmente, ci colgono quando teniamo a qualcuno – e da qui, la gelosia di Merlin. Spero che non sia un pezzo troppo zoppicante in questo capitolo.
Ponendo l’attenzione su altro, invece, Arthur e Merlin si sono detti le paroline magiche *v*  – e anche se stanno insieme da poco, ho comunque pensato che potesse essere credibile perché alla fine, Merlin sa di essere innamorato di lui da mesi, anche se ha sempre negato quei sentimenti per paura di soffrire, e Arthur ha capito che, in fondo, quello che provava per Merlin era sempre più che amicizia, solo che non l’aveva realizzato. Ad ogni modo, mi farebbe piacere sapere cosa ne pensate, se vi va, ovviamente!
Da ultimo – e non per importanza – Gwaine. La parte finale che lo vede protagonista non era preventivata. All’inizio, avevo pensato solamente di scrivere di Mithian, ma poi mi sembrava giusto scrivere qualcosa dal suo punto di vista, soprattutto in relazione al ruolo che lui stesso ha avuto nell’inizio della storia tra Arthur e Merlin. Diciamo che fare da Cupido l’ha fatto riflettere. Forse è un po’ OOC, ma spero che comunque possa risultare fattibile.
E perché con Mithian? Non lo so. Mi piaceva l’idea, anche se è un po’ bizzarra. So che nella serie interagiscono poco, ma nel contesto di questo racconto si conoscono da quando erano ragazzini, quindi poteva essere fattibile.
Detto ciò, terminerò queste infinite note! Vi saluto e, se vi va, mi farebbe piacere sapere cosa ne pensate del capitolo!
Ringrazio chiunque legga, abbia messo la storia tra le preferite/seguite/ricordate e chiunque trovi il tempo per recensire! Lo apprezzo davvero tanto!
Vi mando un abbraccio, alla prossima! <3 

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Capitolo 7
*** 7. ***


La serata era proseguita bene. Arthur era riuscito a divertirsi, nonostante l’iniziale preoccupazione dei giornalisti.
Giornalisti che, per inciso, non gli avevano dato tregua nemmeno quando era uscito dalla mostra. Attratti come mosche dal miele, non appena avevano visto lui e Merlin uscire insieme, fianco a fianco, si erano precipitati su di loro, accecandoli nuovamente con i flash e ponendo domande che Arthur aveva percepito, ma ignorato.
Chi è lui?
Come si chiama?
È il tuo ragazzo?
Arthur! Sei gay?

E altre domande che, in sostanza, erano tutte uguali. Erano interessati al ruolo di Merlin e alla sessualità di Arthur.
E lui, dal canto suo, era più che mai deciso a non rispondere. Non erano affari loro. Non capiva nemmeno il motivo di tanto interesse. Fosse stato una star famosa avrebbe anche potuto capire la bramosia di carpire informazioni – non li avrebbe giustificati, mai. Non giustificava mai il comportamento di quegli sciacalli nei confronti delle celebrità, quasi si dimenticassero di avere a che fare con persone – ma lui era tutto fuorché una star. Faceva semplicemente parte dell’upper class di Londra – e sebbene riuscisse anche da solo a comprendere la fortuna che aveva avuto nascendo in una famiglia ricca e a non dare mai per scontato ciò che aveva, non riusciva davvero a capire cosa potessero trovarci di tanto interessante nella sua vita da braccarlo come se fosse Tom Hiddleston.
In ogni caso, comunque, dopo aver capito che nessuna delle loro domande avrebbe ricevuto risposta, avevano almeno avuto la decenza di non seguirlo fino alla macchina. Quando sia lui che Merlin si erano trovati nella tranquillità dell’abitacolo, Arthur aveva esalato un sospiro frustrato. Merlin l’aveva guardato con tutta la comprensione del mondo e gli aveva preso una mano tra le sue, accarezzandogli le nocche. Non serviva che si dicessero niente, quelle domande rimbombavano nella testa di entrambi.
Tutta quell’attenzione avrebbe inevitabilmente portato guai. Uther, primo fra tutti. Arthur sapeva che suo padre avrebbe reagito male a tutta questa faccenda. Avrebbe visto il suo rapporto con Merlin come il capriccio di un ragazzino che si ribella all’autorità del padre. E chissà cosa avrebbe detto. Dalla sua bocca sarebbero uscite le ingiurie peggiori, rivolte ad Arthur e a Merlin. Il solo pensiero lo rattristava all’inverosimile. Merlin non meritava di avere a che fare con qualcuno dalla mentalità chiusa come suo padre, qualcuno così fortemente radicato nei suoi ideali retrogradi da arrivare ad essere offensivo e meschino.
Eppure… Eppure Merlin era lì, al suo fianco. Nonostante Uther e la sua omofobia che gravava sulle loro teste come una spada di Damocle. Questo la diceva lunga su quanto i sentimenti di Merlin fossero profondi e Arthur era convinto che ogni parola che avrebbe mai potuto pronunciare e ogni gesto che avrebbe mai potuto compiere non sarebbero mai comunque stati abbastanza in grado di esprimere tutta la gratitudine che provava nei suoi confronti.
“È tardi.” Aveva sussurrato Merlin. “Penseremo a tutto domani. Ora, andiamo a casa.”
E Arthur aveva semplicemente annuito, assaporando con ogni fibra di se stesso la facilità con cui Merlin aveva detto casa riferendosi ad un luogo che lui stesso sentiva familiare, di cui si sentiva parte. Avrebbe potuto specificare casa tua, ma non l’aveva fatto. Aveva semplicemente detto casa, come se sentisse di appartenere lui stesso a quel luogo.
Arthur non poteva che esserne felice.
Ancora gli veniva da sorridere, se ci pensava. Guardò Merlin al suo fianco, addormentato nel suo letto. Aveva un’espressione così rilassata e tranquilla. Le labbra carnose leggermente socchiuse e le lunghe e folte ciglia nere che sfioravano le guance. Era la cosa più bella che mai gli fosse capitata nella vita. Merlin era libertà e amore.
Si sporse per lasciargli un bacio delicato su una guancia, prima di tirarlo a sé. Merlin si mosse nel sonno, percependo il corpo di Arthur vicino al suo e rispondendo automaticamente a quella richiesta di contatto. Si sistemò in modo che la sua schiena aderisse completamente al petto di Arthur.
“Che succede?” domandò con la voce impastata dal sonno, aprendo a fatica gli occhi. Era notte fonda, dopotutto.
“Nulla. Volevo averti vicino. Dormi.” Sussurrò Arthur.
Merlin annuì. Allungando una mano dietro di sé, raggiunse la nuca di Arthur, dove lasciò una carezza rassicurante, giochicchiando distrattamente con i suoi capelli per qualche istante, prima di rimettere il braccio sotto al piumone.
“Andrà tutto bene, Arthur.”
Arthur gli lasciò un bacio su una guancia e uno sul collo, leggero, delicato, senza malizia. Gesti carichi di affetto, gratitudine. Merlin sorrise in automatico, nell’ombra della stanza, e il suo sorriso si allargò inevitabilmente quando avvertì la presa di Arthur su di sé farsi ancora più salda, quasi volesse assicurarsi che tra di loro non sarebbe passato neppure uno spillo. Merlin appoggiò le proprie mani su quelle di Arthur, intrecciate all’altezza del suo ventre, e solo quando percepì il respiro rilassato del suo ragazzo, si riaddormentò a sua volta.





Merlin aveva la certezza che il cervello di Arthur stesse lavorando più del solito. E se le circostanze fossero state diverse, avrebbe persino fatto una battutaccia sul fatto che il cervello di Arthur non lavora mai, riducendo al minimo l’attività cerebrale, tipo le amebe che il cervello nemmeno ce l’hanno.
Ma visto che le circostanze non erano esattamente rosee, battute simili era meglio tenersele per sé, consapevole che nemmeno stuzzicare Arthur come faceva sempre avrebbe stemperato la tensione.
Arthur, anche se non voleva né ammetterlo né darlo a vedere, era teso e agitato. L’ansia gli tirava i bei lineamenti e Merlin era convinto che si meritasse un po’ di tranquillità, qualcosa che lo aiutasse a distrarsi almeno per qualche ora dall’angoscia che l’imminente chiacchierata con Uther gli provocava.
Per questo motivo, Merlin aveva deciso di iniziare quel sabato mattina portandogli la colazione a letto. Entrò nella stanza con un vassoio carico di cibo in equilibrio tra le mani, mentre Arthur, seduto nel letto, con il piumone a coprirlo fino alla vita, lo guardava con un sorriso stampato sul viso.
“Avrei potuto aiutarti, o quanto meno evitare di farti tornare su.”
“Non fare il finto servizievole, Arthur. Non ti si addice.”
Arthur lo guardò malissimo. Certo che sapeva essere servizievole, lui. Quando gli andava, ovvio. E non con tutti. Forse le persone per cui sapeva essere servizievole si contavano sulle dita di una mano. Fece una smorfia. Merlin aveva ragione. Ma non l’avrebbe ammesso. Si limitò a fargli una linguaccia e a picchiettare con la mano sullo spazio vuoto del materasso, invitando Merlin a sedersi vicino a lui.
Merlin scosse la testa affettuosamente e si sedette al suo fianco, infilandosi nuovamente sotto il piumone e appoggiando il vassoio sulle gambe incrociate di Arthur.
“Se dovessi sporcare le lenzuola, puoi sempre provare a lavarle e a rimpicciolirle nell’asciugatrice.”
Arthur gli fece un’altra linguaccia. “Ah-ah, quanto sei simpatico!”
Merlin gli riservò un sorrisetto soddisfatto e gli lasciò un bacio su una guancia. “Mangia.”
“Cosa mi hai preparato?”
“Cose buone.”
Arthur abbassò lo sguardo sul vassoio, dove c’erano waffles, uova, pane tostato e bacon. Il tutto accompagnato da due fumanti tazze di caffè. Arthur ne passò una a Merlin.
“Grazie.”
Merlin si limitò a sorridergli. “Oggi cosa ti va di fare?”
Arthur ci pensò su. Se avesse potuto davvero scegliere, avrebbe proposto a Merlin di andare a pranzo fuori, più tardi, e poi fare un giro a Londra, e magari verso il tardo pomeriggio andare al cinema. Ma sapeva che quel sabato in particolare non sarebbe stato riservato ad una giornata passata ad amoreggiare con il suo ragazzo, quanto piuttosto a dover affrontare suo padre.
“Quello che mi va di fare è irrilevante, Merlin.” Sospirò, affranto. “Oggi devo parlare con mio padre.”
Il tono grave con cui Arthur aveva parlato, faceva suonare tutta quella situazione come una condanna a morte. E se magari non lo era da un punto letterale del termine, poteva esserlo da un punto di vista prettamente teorico.
Merlin sapeva cosa significasse scontrarsi con persone profondamente omofobe. Gli era capitato al college, quando un suo compagno di corso l’aveva riempito degli insulti peggiori dopo che l’aveva visto baciare il ragazzo con cui usciva in quel periodo. Gli era capitato in metropolitana, udendo la conversazione sussurrata tra due donne, particolarmente propense a dargli del deviato e chiaramente malato perché stava tenendo per mano un ragazzo.
Gli era capitato in un bar, quando un tizio oltremodo molesto era arrivato persino a spintonarlo perché voleva allontanarlo dal ragazzo con cui si era dato appuntamento e con il quale si era scambiato dei baci, ritenendo quel gesto innaturale e intimandogli di andare a fare certe porcherie contronatura da un’altra parte.
Merlin voleva avere fiducia nelle persone. Voleva concentrarsi su coloro che facevano parte della sua vita e l’avevano sempre accettato per quello che era. Voleva avere fiducia in quegli estranei che vedono un bacio solamente per quello che è: un gesto d’amore, indipendentemente se a scambiarselo sono un uomo e una donna, o due uomini, o due donne.
Ma sapeva che il mondo non era un posto roseo. Nel mondo c’erano anche persone con una mentalità ristretta e chiusa, persone che non si facevano scrupoli ad usare parole crudeli e pesanti per farlo sentire sbagliato. Persone che trovavano così difficile accettare che possa esistere qualcosa di differente dalla loro visione delle persone e delle cose da arrivare ad essere violenti e meschini.
Ed era così difficile, a volte, ricordarsi che il mondo poteva anche essere un bel posto. Perché per quante parole di conforto si possano ricevere, per quanti abbracci e spalle amiche su cui contare una persona possa avere, le parole hanno un peso – e quelle cattive arrivano a pesare persino un quintale, gravando sul cuore e scolpendosi a fuoco caldo nella mente, rendendo impossibile farle uscire da lì.
Merlin aveva imparato nel tempo a non focalizzarsi troppo sulle offese, sulle esperienze negative che aveva ingiustamente vissuto. Ma nonostante questo, era pienamente consapevole quanto fosse difficile. Quanto facesse male.
E poteva solamente immaginare quanto lo era per Arthur, in quel momento. Era già orribile quando gli insulti arrivavano da estranei, ma quando ti aspetti da un momento all’altro che sia tuo padre a trattarti male… quello è tutto un altro genere di sofferenza e di angoscia.
Merlin sospirò. “Lo faremo insieme.”
Arthur gli afferrò le mani tra le sue, stringendole. Un delicato sorriso fece capolino sul suo volto, quando avvertì le dita fredde di Merlin. Si chiese per un fuggevole momento se sarebbero state dei ghiaccioli anche in estate. Non vedeva l’ora di scoprirlo. Avrebbe stretto quelle mani ogni giorno per il resto della sua vita, con la consapevolezza che l’avrebbero accompagnato in ogni situazione, bella o brutta che fosse.
“Grazie.” Gli disse, prima di sporgersi per lasciargli un bacio a stampo.
Con Merlin vicino, tutto faceva meno paura. Persino Uther.


*


Il resto della mattinata la passarono a letto. Avevano silenziosamente pattuito entrambi che almeno per quella mattina avrebbero avuto un po’ di tempo per loro. Dopo la colazione, infatti, Arthur aveva sistemato il vassoio vuoto sul comodino e poi aveva tirato fuori la sua collezione di DVD – ne aveva così tanti da far invidia ad una videoteca – e aveva detto a Merlin di scegliere quello che voleva.
Merlin aveva sorriso teneramente, perché nell’epoca di Netflix e ogni genere di piattaforma streaming esistente, attingere ad una collezione di DVD per guardare qualcosa alla tv poteva essere visto quasi come un gesto vintage.
Merlin per un attimo si sentì più vecchio di quanto non fosse, rendendosi conto di quanto a lui – e ad Arthur – venisse più naturale un approccio del genere. Lui faceva parte di quella generazione la cui infanzia era strettamente legata alle VHS – e questo sì che lo faceva sentire un matusa, soprattutto perché più di una volta aveva realizzato che i bambini di oggi non avevano la minima idea di cosa fosse una VHS.
Digressioni sul suo sentirsi vecchio quanto Tutankhamon a parte, alla fine Merlin aveva scelto Robin Hood. E la cosa divertente – e che ancora non sapeva di Arthur, a quanto pare – fu scoprire che era uno dei suoi film preferiti, tanto che ne possedeva almeno quattro: quello del 1991, quello del 2010, del 2018 e l’immancabile cartone animato del 1973.
“Anche quello della Disney, sei serio?”
“Che vuoi? Era il mio preferito, da bambino!”
“Per questo adesso ne hai quattro? È la stessa storia, Arthur!”
“Raccontata in modi diversi. Non rompere e scegline uno!”

Merlin aveva ridacchiato perché Arthur era adorabile tutto imbronciato e poi aveva scelto quello del ’91.
Era stata una bella mattinata. Ed era passata decisamente troppo in fretta per entrambi. Merlin avrebbe decisamente passato tutta la giornata in camera di Arthur, nel suo letto, a guardare film sul suo mega televisore. E, soprattutto, a stare appiccicati. Decisamente quella era la parte che gli piaceva di più. Gli abbracci spontanei di Arthur, il modo in cui le sue dita gli accarezzavano l’avambraccio, o il modo in cui cercava le sue mani per far intrecciare le loro dita. E poi, Merlin aveva avvertito le dita di Arthur che gli prendevano il mento per farlo girare verso di lui e lasciargli un bacio. Ma non era stato solo uno. Il primo era servito da miccia per altri, che erano diventati sempre più passionali a mano a mano che le loro labbra venivano in contatto. Ciò che era cominciato con un delicato sfioramento di labbra, era finito in una danza divoratrice dove uno non ne aveva mai abbastanza dell’altro e, come se fosse una conseguenza naturale a tutto quel desiderio, Merlin si era trovato sotto ad Arthur. E improvvisamente l’unica cosa che contava era la bocca del suo ragazzo che esplorava ogni centimetro della sua pelle e le sue mani che lo accarezzavano ovunque.
Quindi, , Merlin poteva decisamente abituarsi a mattinate del genere.
L’unico difetto che avevano, era che duravano decisamente troppo poco.
Ma sapeva che non potevano davvero passare le giornate chiusi in camera. Lo sapevano entrambi. Per questo adesso si trovavano al piano di sotto, in cucina, a sistemare tutti i piatti che avevano sporcato per la colazione.
Merlin lavava i piatti e Arthur lo guardava, perché in fondo era un po’ schiavista, anche se non lo ammetteva.
“Sai,” Cominciò Merlin, mentre metteva un piatto nella credenza, “Potresti almeno venire ad asciugarli.”
Arthur, seduto su uno degli sgabelli e con i gomiti appoggiati al tavolo, fece spallucce. “No, ci sei tu che sei così bravo a farlo.”
“Schiavista.”
“Ti ho sentito.”
“Lo so. Per questo l’ho detto.” Merlin si voltò quel tanto da riuscire a guardarlo da sopra alla sua spalla e gli fece una linguaccia, che Arthur, ovviamente, ricambiò.
Guardò Merlin per qualche istante. O meglio, guardò la sua schiena. Indossava ancora i vestiti che Arthur gli aveva dato per dormire – erano suoi, perché Merlin non si era portato niente. Avrebbe dovuto proporgli di portare qualcuno dei suoi vestiti lì, a casa sua. Magari gli avrebbe liberato un cassetto o due. Anche se in realtà, ad Arthur piaceva vedere Merlin con addosso le sue magliette e i suoi pantaloni.
Sorrise, notando il modo in cui la stoffa della maglietta rossa che indossava gli scivolava sulla schiena longilinea. Non riusciva a riempirla quanto Arthur e gli stava un po’ larga sulle spalle, ma la evidenziava in un bel modo. Provò l’urgenza di toccarlo. Quasi come se fosse stato preso da una frenesia incontrollabile, le sue dita cominciarono a formicolare. Arthur si alzò, assecondando quel desiderio improvviso, e raggiunse Merlin, abbracciandolo da dietro. Gli appoggiò il mento sulla spalla, le mani intrecciate sul suo addome. Il formicolio, tuttavia, anzi che chetarsi, aumentò. Non gli bastava. Voleva di più. Voleva Merlin.
“Ti sei deciso ad aiutarmi, finalmente?”
“No.” La sua voce uscì più roca di quanto si sarebbe aspettato. Sentiva il cuore che batteva all’impazzata, mentre appoggiava le proprie labbra sul collo di Merlin, nello stesso punto in cui si trovava già il segno di un succhiotto che gli aveva lasciato qualche ora prima. Lo sentì emettere un piccolo gemito, mentre gli succhiava la pelle sensibile. E il suo cuore aumentò percettibilmente i battiti a quel suono, quasi ne traesse lo stesso orgoglio che ne traeva Arthur.
Merlin si voltò, girando di trecentosessanta gradi dentro all’abbraccio di Arthur. Le sue dita formicolavano ancora come se non fossero pienamente soddisfatte, così Arthur infilò le mani sotto la maglietta di Merlin, dove a contatto con la pelle nuda di Merlin, smisero finalmente di formicolare, ritenendosi soddisfatte di quella nuova postazione.
“E allora cos’hai deciso di fare?” Domandò Merlin, incatenando i suoi occhi cerulei in quelli dell’altro. Le braccia allacciate al collo di Arthur, mentre le mani giocava distrattamente con i suoi capelli biondi.
Arthur fece scorrere le proprie mani sulla schiena nuda di Merlin. Era stata proprio colpa sua – o merito, sì decisamente merito – se gli ormoni di Arthur si erano risvegliati più velocemente di quelli di un adolescente in piena pubertà.
Si sporse in avanti, riducendo a zero la distanza che gli separava, e lo baciò. Arthur era decisamente ingordo, se si trattava delle labbra di Merlin. Ogni bacio era pieno di una foga quasi prepotente e nonostante questo non riusciva mai a ritenersi sazio. E ogni volta che sentiva Merlin rispondere ai suoi baci, quella bramosia cresceva, anzi che placarsi.
Si separò da lui quel tanto necessario a guardarlo negli occhi. “Voglio fare l’amore con te.”
“Di nuovo?” gli domandò Merlin, malizioso, con un sopracciglio alzato e l’espressione malandrina.
“Di nuovo.” Confermò, gli occhi che caddero sulla bocca di Merlin, mentre si passava la lingua sulle labbra. “Se lo vuoi anche tu.”
Merlin gli lasciò un fugace bacio a stampo. “Lo voglio.” Lo rassicurò, prima di baciarlo di nuovo. Avvertì chiaramente Arthur sorridere tra i baci, prima che ogni loro contatto si facesse sempre più profondo, andando a soddisfare quell’impazienza di ritrovare qualcosa di cui, ormai, non potevano più fare a meno: l’un l’altro.




*



Il paradiso perduto.
Arthur sapeva che l’opera di John Milton non c’entrava assolutamente con la sua vita – era megalomane (a detta di Merlin, ovviamente), ma non fino a questo punto – ma un po’ si sentiva come se avesse perso qualcosa di decisamente idilliaco per essere destinato a sprofondare in un inferno.
E no, lui non credeva che fosse meglio regnare all’inferno che servire in paradiso.
Regnare gli sarebbe piaciuto, ovviamente, ma quando si immaginava in vesti di monarca pensava più all’Inghilterra.
Megalomane sì, ma fino ad un certo punto.
L’Inghilterra gli sembrava un buon compromesso.
Ma ad ogni modo, stava vaneggiando e anche parecchio.
Il fatto era che il suo paradiso personale consisteva nella mattinata che aveva appena passato con Merlin. Il suo inferno, invece, consisteva nel viaggio in macchina che stava per fare diretto a casa di suo padre.
Uther aveva le sue abitudini, il sabato mattina.
Usciva presto, andava nella sua pasticceria preferita, prendeva i suoi dolci preferiti e tornava a casa. Faceva colazione, rigorosamente in solitaria e in assoluto silenzio – se non in rare occasioni dove si concedeva un leggero sottofondo di musica classica – e poi scendeva nella taverna di casa sua, adibita a palestra. Lì correva sul tapis roulant per circa un’ora e poi risaliva per farsi la doccia. Solo dopo essersi lavato e asciugato a dovere, si rintanava nel suo studio per passare ore e ore a leggere.
Tutto questo, tenendo sempre il cellulare spento ed evitando la televisione.
Lo faceva perché riteneva che almeno il sabato mattina dovesse prendersi un momento di tranquillità. Gli altri giorni, il tuo telefono squillava di continuo, non lasciandogli mai pace. Quindi il sabato voleva starsene tranquillo, senza che quell’oggetto suonasse come se fosse posseduto dal demonio stesso.
Arthur sospirò. Non poteva più rimandare. Non voleva più rimandare. Ciò nonostante, si sentiva in ansia.
La sua mente andò a Hunith. Aveva conosciuto quella donna amorevole. Hunith aveva sempre sostenuto Merlin, indipendentemente da tutto. Non era cambiata quando lui le aveva detto della sua omosessualità e l’aveva sempre fatto sentire al sicuro.
Arthur sapeva di non poter contare sulla stessa reazione. Suo padre avrebbe preso il suo coming-out come una specie di affronto, o peggio.
Sospirò di nuovo.
Merlin se ne accorse. “Se non ti senti pronto, possiamo rimandare.” Gli disse, passandogli una mano sulla schiena.
Arthur si guardò allo specchio. Erano in camera sua e lui stava finendo di vestirsi. Merlin indossava i vestiti della sera prima, Arthur invece indossava semplicemente dei jeans chiari e un maglione bianco.
Guardò il suo riflesso e poi osservò quello di Merlin, vicino a sé.
Si vide diverso. Si sentì diverso. In qualche modo più libero.
Guardò se stesso e non vide più il ragazzino che era stato, quello consapevole di due cose: la sua bisessualità e l’importanza di tenerla segregata in una parte profonda di sé, una parte che nessuno avrebbe conosciuto.
Quel ragazzino non avrebbe mai immaginato di guardare il suo riflesso in uno specchio, un giorno, e vedersi accanto ad un maschio.
Quel ragazzino sentiva la voce profonda di Uther inculcargli la sua veduta del mondo, della famiglia, della vita.
Arthur avrebbe voluto abbracciarlo, quel ragazzino – rassicurarlo che un giorno avrebbe trovato il coraggio per non far propria quella voce, quelle vedute così ristrette. Avrebbe voluto dirgli che un giorno avrebbe guardato nello specchio e avrebbe visto un uomo felice di stare accanto ad un altro uomo.
“Sono pronto.” Rispose, ed era vero. Era ancora spaventato, demoralizzato dalla consapevolezza che suo padre sarebbe stato tutto fuorché comprensivo, ma si sentiva pronto ad affrontarlo.
Arthur era cresciuto. E aveva intenzione di non ascoltare più la voce di suo padre, se significava portarlo a percorrere strade che lo rendevano infelice.
Rivolse un’altra occhiata allo specchio. Merlin vicino a lui, il sorriso ampio sul viso. Era tutta la forza di cui aveva bisogno.
Stava per dirglielo. Stava per dirgli che senza di lui non avrebbe mai trovato il coraggio di essere libero, ma tutte le sue buone intenzioni vennero smorzate dal suono insistente del campanello, un suono così assillante da ricordare uno strillo acuto.
Arthur non si era mai reso conto di quanto fosse fastidioso fino a quel momento.
In un primo momento non si domandò chi potesse essere, a quell’ora di sabato. Si limitò semplicemente a scendere al piano di sotto e a dirigersi verso la porta perché chiunque si attaccasse ad un campanello in quel modo ossesso doveva sicuramente avere un’emergenza.
Quando aprì la porta, tuttavia, tutto ebbe un senso: l’insistenza, l’urgenza.
Uther lo stava guardando e nei suoi occhi c’era un’espressione che non prometteva nulla di buono.




Arthur avvertì il respiro mozzarglisi in gola, quasi come se tutta l’aria gli fosse stata succhiata via dai polmoni. Tutto si sarebbe aspettato meno che vedersi capitare suo padre alla porta, con un’espressione furiosa in volto.
O meglio, l’espressione furiosa se l’era immaginata, anche se la realtà, purtroppo, superava di gran lunga la fantasia. Uther lo guardava con un tale disprezzo che Arthur avvertì qualcosa rompersi dentro di sé, come se il suo cuore si fosse fisicamente spezzato in due metà.
“Nega, ti prego nega.” La voce di suo padre era un tuono rabbioso, qualcosa che precede un’esplosione violenta.
Arthur si fece da parte per farlo entrare.
Poco importava il suo cuore ferito, o il fatto che tutta quella situazione stava andando diversamente da come si era immaginato. Il risultato era lo stesso: lui che doveva affrontare suo padre.
Di certo, però, non gli avrebbe permesso di fare una scenata fuori da casa sua. Ma quando suo padre non accennò a muoversi, limitandosi a fissarlo in attesa di una risposta, Arthur lo invitò espressamente ad entrare, anche se avrebbe preferito di gran lunga che la terra si aprisse e lo inghiottisse. O inghiottisse suo padre.
Sapeva di aver detto di essere pronto, ma la verità era che niente poteva prepararlo sul serio a quel momento. Non quando l’espressione di suo padre era la manifestazione fisica e concreta di tutti i suoi timori. Uther lo stava già guardando in modo diverso, lo stava già giudicando, stava già disapprovando.
Quando suo padre varcò la soglia di casa, Arthur chiuse la porta. Fece un profondo respiro e poi si voltò verso Uther.
“Cosa vorresti che negassi, esattamente?”
“Lo sai.” Ringhiò Uther.
Arthur sospirò. “Non lo negherò. E non mi aspetto che tu mi capisca, o mi accetti. Non riesci nemmeno a pronunciare la parola omosessualità, quindi non mi aspetto che tu possa anche lontanamente capire. Ma non chiedermi di negare perché non lo farò. Non più.”
“Quindi è vero? Sei… sei… così?” Uther alzò un foglio che aveva in mano e che Arthur notò solo in quel momento. Gli stava mostrando una foto che ritraeva lui e Merlin la sera prima. Si sarebbe aspettato di vedere loro due fuori dall’edificio che si tenevano per mano in attesa di entrare, ma Uther gli stava mostrando qualcos’altro. Gli stava mostrando una foto di Arthur e Merlin mentre si baciavano. La qualità dell’immagine non era minimamente paragonabile a quella che viene utilizzata per sviluppare le foto fatte da macchine fotografiche professionali. Sembrava più che altro scattata da un cellulare e, soprattutto, l’angolazione faceva chiaramente capire che chiunque l’avesse scattata fosse stato all’interno della mostra.
Arthur aveva la certezza assoluta che nessun paparazzo fosse entrato, quindi si domandò chi potesse aver scattato quella foto. Chi poteva essere tanto meschino da invadere la sua privacy?
“Questo è il tuo modo di chiedermi se sono gay?”
Uther ebbe un sussulto a quella parola e Arthur avvertì la ferita al cuore aprirsi sempre di più.
“Lo sei?”
“No, sono bisessuale.” Chiarì Arthur. Voleva essere completamente sincero, mettere le carte in tavola una volta per tutte e liberarsi dal peso che gli aveva sempre gravato sul cuore.
La verità rende liberi – e mai più di adesso gli sembrò vero. Nonostante tutto, provò quasi un sollievo a pronunciare quelle parole. Nonostante tutto, per un attimo si sentì davvero libero.
Un attimo soltanto, prima che i suoi occhi riuscissero a cogliere l’espressione di suo padre – e allora tutto precipitasse di nuovo nel baratro.
Sapeva che sarebbe stato difficile, Arthur non era certo un ingenuo, ma non si aspettava che sarebbe stato così tanto difficile.
Uther lo stava guardando come se gli avesse appena confessato di aver fatto qualcosa di orribile, i suoi occhi erano piedi d’una ira profonda, di un disagio radicato, di… disprezzo.
Arthur avvertì il suo cuore cedere di fronte a quella consapevolezza. Suo padre lo stava disprezzando. Ebbe la sensazione di affondare, di cadere in un luogo oscuro e freddo, una tenebra che avvolgeva il suo cuore in una profonda tristezza. Ma in fondo… in fondo avvertì anche dell’altro. Avvertì una forte rabbia, che esplose dentro di lui come un’atomica. Era un’ingiustizia! Suo padre lo stava guardando in modo diverso, stava cambiando opinione su di lui come se gli avesse fatto un torto o si fosse comportato come la peggior persona sul pianeta! Ma non era così! Arthur non aveva fatto niente di male! Gli aveva semplicemente detto la verità, una verità che non avrebbe in alcun modo dovuto influire sul loro rapporto!
E invece…
E invece era cambiato tutto. Perché Uther era così bigotto da non riuscire ad accettare qualcosa che non rientrasse nei suoi antiquati ideali.
“Continuerai a guardarmi in quel modo sprezzante o hai intenzione di dirmi qualcosa?”
Un muscolo sulla mascella di Uther ebbe un guizzo. Nei suoi occhi saettò una palese rabbia, prima di guardare di nuovo la foto stampata che teneva in mano. La accartocciò con disprezzo, prima di farla furiosamente a pezzi.
“Negherai tutto, intesi?” La sua voce uscì in un sibilo gelido e fermo. Un ordine che non ammetteva repliche. “Negherai pubblicamente. Dirai che sei stato raggirato da questo ragazzetto che altro non voleva che un po’ d’attenzione. Oppure lo farai passare come il bieco tentativo di un ragazzino disperato di cercare di fare carriera. Darai la colpa a lui. Sarà facile e veloce. Lo licenzieremo e la questione finirà. Intesi?”
Darai la colpa a lui.
Ecco come Uther viveva la sessualità di suo figlio. Come una colpa. Qualcosa per cui fare ammenda, cercare espiazione.
Qualcosa che assomigliava terribilmente ad un peccato.
Arthur avvertì le lacrime salirgli agli occhi, pungenti ed inevitabili.
Gli stava ordinando ancora una volta come vivere la sua vita, gli stava imponendo di negare se stesso. Non gli interessava la verità, o il fatto che finalmente, dopo anni di infelicità, Arthur avesse trovato il coraggio di essere libero e felice con qualcuno che lui amava e dal quale era amato sinceramente per quello che era.
No. Uther pensava alle apparenze, a come salvare la sua reputazione davanti a tutti quegli stronzi che la pensavano come lui.
Provò un profondo moto d’odio verso Uther e una parte di lui se ne vergognò. Si vergognò di provare qualcosa di così fortemente negativo nei confronti di qualcuno a cui aveva sempre voluto bene, nonostante gli evidenti difetti.
Ma adesso… adesso voler bene a qualcuno che non si premurava minimamente di non farlo soffrire gli veniva così difficile, che odiarlo sembrava diecimila volte più facile.
Ma poi pensò a Merlin, alla conversazione che avevano avuto nel suo ufficio quando avevano parlato del fatto che Uther l’avesse oberato di lavoro per punirlo del fatto che si fosse ribellato.
Gli venne in mente che quel discorso poteva essere riassunto semplicemente con l’odio genera soltanto altro odio. E se Arthur si fosse lasciato totalmente andare a quel sentimento, non sarebbe poi stato tanto diverso da suo padre.
E Dio sapeva quanto in quel momento lui volesse essere tutto fuorché simile ad Uther.
Così accantonò la rabbia, l’odio, il rancore. Accantonò tutti i sentimenti che l’avrebbe reso simile a suo padre e, dopo aver preso un profondo respiro, rispose semplicemente: “No.”
“No?” gli fece eco Uther, chiaramente infastidito dalla sfacciataggine del figlio.
“Hai sentito. Non negherò niente. Confermerò, se dovessero chiedermi qualcosa. Dirò quanto lo amo, quanto sia forte ciò che mi lega a lui. Dirò quanto lui ama me, in un modo che esula completamente dal mio status, o dalla sua carriera. E non ti permetterò di dipingere Merlin come un arrampicatore sociale perché non c’è immagine più errata per descriverlo! Quindi, lascialo in pace. Non ti permetto di usarlo per i tuoi scopi, come non ti permetto di parlare male di lui!” Arthur aveva percepito la sua voce farsi sempre più salda, a mano a mano che parlava. Come se difendere se stesso, Merlin, e ciò che li legava fosse diventata la sua personale missione, qualcosa per cui valeva la pena combattere. E lui sapeva che era così, ne aveva piena certezza, per questo aveva parlato con voce ferma e decisa. Voleva rendere chiaro che non si sarebbe tirato indietro, nemmeno davanti a tutte le intimazioni – più o meno minacciose che fossero – del mondo. Voleva chiaramente far capire a suo padre che altro non avrebbe fatto che sprecare fiato, se avesse continuato a chiedergli di fare finta di niente, di cacciare la testa sotto la sabbia.
Arthur non avrebbe rinunciato a Merlin per nulla al mondo.
Uther rimase a guardarlo in silenzio per qualche istante. Nel viso un’espressione granitica, una vena pulsava al centro della sua fronte, gli occhi saettavano di quella rabbia che ormai sembrava alimentasse ogni fibra del suo corpo e che era stata alimentata da ogni parola pronunciata da Arthur. Come se il ragazzo avesse gettato benzina su un fuoco dirompente con ogni parola che aveva lasciato la sua bocca. E forse fu perché era stanco di tenerla sotto controllo e cercare di risolvere la situazione a modo suo, o forse perché non si aspettava che Arthur si rifiutasse di chinare la testa, ma Uther esplose e con lui la sua ira.
Con una falcata raggiunse Arthur, che non ebbe nemmeno il tempo di fare un passo indietro, e alzò una mano su di lui.
Arthur era incredulo. Suo padre non aveva mai alzato un dito su di lui e adesso… adesso si stava preparando a colpirlo. Senza esitazione. Senza rimorso.
“Toccalo e ti denuncio, Uther.”
Uther si bloccò, il braccio sospeso a mezz’aria tra lui e il figlio. Si voltò verso la fonte di quella voce, trovando Merlin alle sue spalle che teneva in mano un cellulare. Era seduto sugli ultimi scalini della scala che conduceva al piano superiore. Quando Uther posò lo sguardo su di lui, Merlin si alzò e si avvicinò.
“Prova solamente a sfiorarlo e ti trascino in tribunale. Ho tutta la vostra conversazione registrata in video. Sta ancora registrando. Quindi toccalo e avrò prove a sufficienza.” Merlin fece una pausa, lasciandogli il tempo di metabolizzare le sue parole. “Allontanati da lui ed esci da questa casa.” Aggiunse poi, perentorio.
“Chi ti credi di essere per darmi ordini?”
“Forse un ragazzino disperato in cerca di attenzioni, o un arrampicatore sociale che ha costretto tuo figlio a uscire con lui. Scegli tu, dopotutto sembra che tu abbia una fervida fantasia. Non mi interessa cosa pensi di me. Onestamente, il problema sei tu. Dovresti criticare meno me e riflettere su che razza di uomo sei. Meschino, se vuoi la mia opinione, e stronzo, se vuoi che sia completamente sincero. Rifletti su ciò che sei e mentre lo fai, esci da questa casa e assicurati di chiudere bene la porta.”
Uther ribolliva di rabbia. La mascella contratta, i denti che cozzavano tra di loro. La cosa che più ferì Arthur fu che suo padre sembrava fosse furioso con Merlin e per nulla turbato dal fatto che stava per tirare un pugno a suo figlio.
Quando Uther posò lo sguardo su Arthur, al ragazzo venne così difficile non lasciarsi andare a quell’odio profondo che aveva già provato e soppresso.
Ci riuscì solamente perché non voleva assomigliargli. In niente, soprattutto dopo il gesto che stava per compiere.
“L’hai sentito. Esci di qui.” Arthur si fece da parte per farlo passare.
Quando Uther raggiunse la porta, prima di aprirla si voltò semplicemente per dire: “Non voglio vedere nessuno dei due in studio, lunedì.”
E senza dare loro la possibilità di replicare, uscì di casa, sbattendosi la porta alle spalle.





*



Arthur rimase a fissare la porta di casa. L’eco del rumore che aveva fatto quando Uther se l’era sbattuta alle spalle ancora gli risuonava nelle orecchie e quasi riusciva ancora a sentire i cardini che venivano scossi.
O forse, più probabilmente, quello scosso era lui.
Niente era andato come si era immaginato.
Niente.
Arthur si era immaginato di cominciare un discorso, di preparare suo padre a sentire la verità. Si era immaginato di prendersi il tempo necessario ad entrambi per far venire fuori la verità. E invece qualcuno aveva semplicemente pensato che fosse giusto far trovare quella foto ad Uther e scatenare così la sua ira.
Forse l’ira di Uther si sarebbe scatenata comunque. Arthur non era così ingenuo da credere che se le cose fossero andate diversamente, la reazione di suo padre sarebbe stata un’altra.
Uther avrebbe reagito nello stesso modo, indipendentemente da come Arthur gli avrebbe detto la verità.
Di certo, non si aspettava una reazione così violenta.
Di certo, non si aspettava che fosse disposto ad arrivare anche a mettergli le mani addosso.
Chi era quell’uomo?
Arthur provò una profonda tristezza all’idea che suo padre, adesso, gli sembrava un estraneo.
“Come stai?” Domandò Merlin, estraniandolo dai suoi pensieri.
Domanda di riserva?
Come stava? A pezzi. Era scosso, triste, arrabbiato. Si sentiva come se fosse stato lanciato in mezzo all’occhio di un ciclone armato solamente un ridicolo bicchiere di plastica per cercare di intrappolarlo.
Sospirò. E invece di rispondere, chiese: “Da quanto sei qui?” I suoi occhi lasciarono finalmente la porta e si concentrarono su Merlin. 
“Da quando hai aperto la porta.”
“Non me ne sono accorto.”
“Ero pronto ad intervenire, ma te la sei cavata benissimo anche senza il mio aiuto. Sono fiero di te.”
“Mi hai aiutato, invece. Non posso credere che stesse per…”
Merlin lo strinse tra le braccia e con una mano cominciò ad accarezzargli la schiena, in movimenti lenti e circolari. “Lo so, lo so. Ma non è successo.”
Arthur rivisse quell’attimo nella sua mente. Non era successo solo perché Merlin l’aveva impedito.
“Solo perché c’eri tu. Se fossi stato da solo?”
Merlin soffocò la rabbia e il disgusto che provava verso Uther. “Ma non eri da solo. C’ero io. Ci sarò sempre per te.”
Arthur strinse Merlin a sé, così forte che per un istante ebbe paura di spezzargli le ossa. Ma Merlin reagì a quell’abbraccio stringendolo con altrettanta forza e allora Arthur avvertì un po’ della sua rabbia sciamare, un po’ della sua angoscia placarsi. Un po’ della sua paura svanire.
Merlin riprese ad accarezzargli la schiena. Gli baciò le guance, la fronte. Gesti lenti e dolci, carichi di una premura dalla quale trasudava tutto l’amore che li legava.
Uther non capiva. Non avrebbe mai capito. Ma Arthur capiva. Arthur sapeva che ciò che aveva trovato in Merlin era raro e prezioso e non avrebbe permesso a nessuno di infangarlo, o corromperlo.
Che Uther passasse pure la sua vita a provare disprezzo, Arthur aveva di meglio da fare.
Arthur aveva Merlin da amare e voleva farlo nel modo più cristallino possibile, senza nessuna ombra che potesse gravare su di loro, o sul loro amore.
“Niente è andato come avevo previsto.” Arthur accarezzò una guancia di Merlin. “Ma sono comunque contento di averlo fatto. Nonostante tutto, mi sento libero, me stesso.”
Merlin sporse il viso verso quella carezza. “Sono felice di sentirtelo dire. Significa che c’è un lato positivo in questa faccenda.”
Arthur annuì e poi si sporse per posare un bacio sulle labbra di Merlin. Fu un contatto delicato, uno sfioramento leggero. Rimasero in silenzio per qualche istante, le fronti appoggiate l’una all’altra, stretti in un abbraccio confortevole e rassicurante.
“Possiamo stare abbracciati per un po’?”
Merlin strinse la presa su Arthur. “Tutto il tempo che vuoi.”





*



Morgana non si definiva una donna troppo abitudinaria. Non le piaceva programmare la sua vita nei minimi dettagli perché aveva l’impressione di infilarsi da sola in una specie di scatola fatta di una routine che presto o tardi le avrebbe dato l’impressione di soffocare. E lei non voleva questo per se stessa, quindi tendeva a non essere troppo abitudinaria.
Nonostante questo, tuttavia, delle abitudini nella sua vita c’erano. Tra queste, recarsi a casa di Uther il sabato nel tardo pomeriggio e cenare con la famiglia. L’unico motivo per cui partecipava a quella cene ridicole, dove fingevano che tutto andasse bene, era Arthur. Perché nonostante le loro divergenze, lei voleva bene a suo fratello. E le faceva più piacere di quanto riuscisse effettivamente ad esternare il fatto che stessero facendo di tutto per riavvicinarsi, per rimediare entrambi agli errori che avevano fatto in passato.
Ma, quando arrivata davanti alla casa di Uther, notò l’assenza dell’auto del fratello – Arthur arrivava sempre prima di lei e parcheggiava sempre nello stesso punto: davanti al garage di Uther – si insospettì. Così, accostò la propria auto e rimanendo all’interno di essa, cominciò a cercare il cellulare nella borsa. Quando lo trovò, fece partire la telefonata.
Arthur rispose dopo quattro squilli.
“Ehi.”
“Perché non sei da Uther? Di solito, quando arrivo, tu sei già qui da un pezzo a dimezzare la sua scorta di preziosissimo bourbon.”
Un sospiro afflitto raggiunse le orecchie della donna, e Morgana capì immediatamente che qualcosa non andava.
“Ha scoperto tutto. Sa della mia storia con Merlin ed è venuto a casa mia, prima.”
Morgana avvertì una forte stretta allo stomaco. Era preoccupata. “Sei a casa?”
“Sì.”
“Arrivo.”
Non lasciò al fratello il tempo di rispondere. Semplicemente attaccò e dopo aver gettato distrattamente il telefono dentro alla borsa, mise in moto l’auto e si diresse a casa di Arthur.




Morgana arrivò davanti alla casa del fratello poco dopo. Parcheggiò nel primo posto che trovò disponibile e si avviò verso la porta. In mano aveva una bottiglia di bourbon scadente comprata in un liquor store che aveva intravisto nel tragitto e un pacchetto di caramelle alla liquirizia, perché sapeva che ad Arthur piacevano.
O almeno, quando era un bambino ci andava matto, cosa che lei non aveva mai capito perché, insomma, con tutte le caramelle deliziose che esistono, proprio la liquirizia?
Scacciò quei pensieri e suonò il campanello.
Arthur le aprì poco dopo. Aveva un’espressione afflitta in viso e Morgana avrebbe tanto voluto abbracciarlo. Ma non lo fece – e non perché non le andasse di farlo, ma semplicemente perché era troppo tempo che non lo facevano e non era sicura di farlo sembrare più come un gesto che avrebbe imbarazzato entrambi, piuttosto che recare conforto.
Si rese conto di quanto suonasse triste, tutto ciò, solo dopo aver formulato quel pensiero.
A due fratelli dovrebbe venire spontaneo abbracciarsi.
“Ehi.” La salutò, facendosi poi da parte per farla entrare. Non appena Morgana varcò la soglia, Arthur chiuse la porta. E non poté fare a meno di pensare, per una frazione di secondo, all’ultima volta che l’aveva fatto. Ad Uther che lo guardava con disprezzo. Ad Uther che sarebbe persino arrivato a picchiarlo.
Scacciò quei pensieri e alzò lo sguardo sulla sorella. Morgana lo stava studiando con i suoi profondi occhi grigi. Morgana era intelligente, intuitiva. Subodorava le bugie più sottili, quelle raccontate meglio. Era uno dei motivi per cui fosse così dannatamente brava nel suo lavoro. I testimoni bugiardi, lei li demoliva in tre minuti.
Per questo, Arthur sapeva che aveva capito il suo stato d’animo. Forse aveva già intuito quanto stesse male.
E si aspettava da un momento all’altro che cominciasse a torchiarlo di domande, ma inaspettatamente…
“Ti ho portato le caramelle.”
…inaspettatamente non lo fece. Continuava a guardarlo come se volesse studiarlo, ma al tempo stesso sembrava gli stesse dando tutto il tempo di cui lui aveva bisogno per essere lui stesso a parlare dell’accaduto, se solo avesse voluto.
Morgana era lì semplicemente per lui, per stargli accanto.
Arthur le rivolse un sorriso, grato. Era bello sapere che, nonostante tutto, Morgana era quella parte della sua famiglia su cui lui avrebbe potuto fare sempre affidamento.
“Quali?”
“Le liquirizie. Non capirò mai perché ti piacciono tanto, hanno un sapore orribile.” Rispose, porgendogli il pacchetto e anche la bottiglia.
Arthur afferrò tutto e le fece cenno di seguirla. Abbandonarono l’entrata, superarono il salotto ed entrarono in cucina.
“Perché le liquirizie, in realtà, hanno un sapore buonissimo.”
Una volta arrivati in cucina, Morgana notò Merlin inserire dentro al forno due teglie per muffin. Quando ebbe chiuso lo sportello, la salutò con un sorriso, che lei ricambiò.
“Le liquirizie sono le caramelle per eccellenza, le più buone!” Si inserì, cercando di rubare il pacchetto dalle mani di Arthur, il quale, agilmente, gli impedì di afferrare il bottino.
“Siete gli unici che conosco a cui piacciono. Siete proprio fatti per stare insieme.” E lo disse come se fosse ovvio, come se il fatto che amassero le liquirizie fosse solamente un’altra cosa che faceva parte della miriade di cose che li rendeva compatibili, sebbene sotto molti punti di vista fossero diversi.
Bastava guardarli, per capire che si amassero, per capire che se non si fossero incontrati in questa vita, sarebbero potuti passare mille anni e loro si sarebbero comunque aspettati, in attesa di trovarsi e poter stare insieme. Perché Arthur era il cuore di Merlin, e Merlin era quello di Arthur.
Arthur alzò lo sguardo sulla sorella e Morgana lesse dolore all’interno dei suoi occhi. “Vallo a dire a Uther.”
Morgana notò che era la prima volta, in tutta la vita, che Arthur si appellava al padre chiamandolo per nome e non, appunto, papà. Era come se volesse mettere le distanze, come se qualcosa si fosse rotto tra di loro e in Arthur a tal punto da volersi allontanare da lui il più possibile.
“È andata tanto male?” Chiese, dal momento che era stato Arthur ad inserire l’argomento.
“Mi disprezza. Detesta me, ha cercato di descrivere Merlin come un approfittatore, un arrampicatore sociale. Mi ha addirittura ordinato di negare tutto ciò che io e lui abbiamo, pubblicamente. E quando mi sono rifiutato, mi ha guardato con talmente tanto odio e…ha provato a darmi un pugno.”
Morgana sgranò gli occhi, scioccata da quel racconto orribile.
Uther era orribile e quella era un’ulteriore conferma di che brutta persona fosse.
Era così arrabbiata, così furiosa con lui. Non solo aveva psicologicamente aggredito Arthur, ma era arrivato quasi a farlo fisicamente. Poteva essere più meschino? Più deplorevole?
“Cosa vuol dire che ha provato?”
Arthur guardò Merlin, che a sua volta guardava Arthur.
“Merlin l’ha minacciato di denunciarlo, se l’avesse fatto. Stava registrando tutto, quindi Uther si è fermato.”
Morgana assimilò quelle parole. Provò ad immaginarsi la conversazione, la piega che poteva aver preso. Provò ad immaginarsi Arthur, che dopo anni di silenzio e repressione verso se stesso, riesce finalmente a trovare il coraggio di essere sincero, di essere libero. E si immaginò la reazione di Uther, una reazione violenta e manipolatrice, fatta di parole taglienti, pronunciate solo con l’intento di gestire, ancora, la vita del figlio, senza domandarsi minimamente se i suoi comportamenti potessero ferirlo. Spoiler: certo che feriscono Arthur. Uther ferisce Arthur da tutta la vita, con i suoi ordini, il suo tono severo e manipolatore, con le sue idee rigide e retrograde che ha provato ad inculcargli da quando era un bambino, costringendolo a tacere sulla sua sessualità, consapevole che non avrebbe approvato.  
“Lo odio.” Sputò a denti stretti. “Dio, Arthur, lo odio così tanto.” La rabbia le fece tremare la voce. Guardò Arthur, di fronte a lei, e poi pensò a se stessa. A quanto, entrambi, fossero stati danneggiati da un uomo pessimo come Uther. Non aveva fatto altro che far del male ad entrambi.
In un modo o nell’altro, entrambi erano stati feriti da un uomo che, invece, avrebbe dovuto amarli. E Morgana era furiosa.
Arthur fece un passo verso di lei. Le afferrò il viso tra le mani. “No, Morgana. Non devi.”
“Ho tutto il diritto di farlo!” quasi gridò. “Guarda cosa ha fatto a me! Guarda cosa ha fatto a te! Ti ha quasi picchiato, Arthur! Come puoi dirmi di non odiarlo?”
Arthur abbassò le mani dal viso della sorella solo per stringere le sue tra le proprie. “Perché sei diversa da lui. Una volta mi hai detto che essere diverso da Uther fosse la cosa migliore che potesse capitarmi. Voglio ricordare la stessa cosa a te. Farsi dominare dall’odio ti renderebbe come lui. E tu non sei come lui. Sei migliore, sotto ogni punto di vista.”
Morgana guardò le loro mani intrecciate, mentre nelle orecchie le risuonavano le parole di suo fratello. Avvertì una strana stretta allo stomaco e poi avvertì un singhiozzo strozzato partirle dalla gola, il preludio di un pianto che chiedeva di uscire da anni, ma che lei aveva sempre trattenuto per non sentirsi debole, per non dare in qualche modo ad Uther il potere di farla soffrire.
Ma si rese conto, mentre Arthur la abbracciava e la lasciava piangere sul suo petto, che era liberatorio, e che Uther non aveva proprio nessun potere su di lei.
Solo lei aveva il potere su se stessa. E aveva il potere di essere migliore di lui, di essere una persona nuova, libera dall’odio.
“Continuo ad essere furiosa con lui, però.”
Arthur ridacchiò, mentre le accarezzava i capelli. “Mettiti in fila, allora. Pure io sono furioso con lui.”
“E io, anche se nessuno l’ha chiesto.”
I due fratelli si voltarono verso Merlin, rimasto in silenzio fino a quel momento.
“Che c’è? Ho tutto il diritto di esserlo, mi pare.”
Morgana accennò una flebile risata, mentre si asciugava le lacrime con i palmi delle mani. “Sì, ce l’hai.”
Un trillo interruppe la conversazione e attirò la loro attenzione. Merlin guardò il forno e costatò che i suoi muffin erano pronti.
“Rimani a cena con noi?” Chiese Arthur alla sorella. “Merlin ha preparato i muffin salati e le lasagne. Ti avverto però, le lasagne non hanno la carne.”
“E con cosa le ha fatte, allora?” domandò Morgana, quasi scioccata.
Merlin alzò gli occhi al cielo. I carnivori e la loro assurda credenza che non possano esistere alternative altrettanto buone alla carne.
“Pesto. Fatto da me. Vi piaceranno, prometto. E alcuni muffin hanno i cubetti di prosciutto, quindi non lamentatevi.”
Arthur si avvicinò e gli lasciò un bacio sulla guancia. “Guarda cosa arrivi a fare, per me.”
Merlin lo guardò negli occhi e gli lasciò un bacio a stampo. “Farei di tutto per te.” Affermò, accarezzandogli amorevolmente il viso.
E Arthur sapeva che con tutto si riferisse a cucinare usando il prosciutto, o ad arrivare a minacciare di denunciare Uther se solo avesse osato fargli del male.
E andava bene così.







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Ciao a tutti! Mi scuso per questi mesi di assenza e per il ritardo con cui ho aggiornato questa storia, ma è stato un periodo un po’ impegnativo per me e il tempo scrivere era davvero poco!
Vi chiedo scusa e se c’è ancora qualcuno che ha la pazienza di leggere questa storia, ha tutta la mia gratitudine!
Avevo preventivato che questo capitolo fosse l’ultimo, ma poi visto che non aggiornavo da tanto tempo ho pensato anzi di fermarmi qui. Anche perché penso che di cose ne siano successe abbastanza – e in proporzione, è lungo come gli altri capitoli, quindi non si crea troppo divario tra questo e i precedenti. In alcuni punti sono un po’ titubante, ho paura di aver gestito male un argomento così delicato e di non essere stata in grado di descriverlo in modo corretto. Mi farebbe piacere sapere cosa ne pensate, se ne avete voglia, ovviamente.
Mi scuso per eventuali errori. Ho riletto il capitolo, ma alcune cose potrebbero essermi sfuggite. Se doveste notare assurdità, ditemelo senza remore che provvederò a correggerle!
Vi saluto e ringrazio chiunque abbia deciso di portare avanti la lettura di questa storia.
Grazie anche a chi legge, ha messo la storia tra le seguite/preferite/ricordate e a chi ha sempre trovato un po’ di tempo per recensire!
Vi mando un grande abbraccio!
Alla prossima! <3 

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Capitolo 8
*** 8. ***


Un suono metallico fu ciò che la mente ottenebrata di Merlin percepì.
Un suono che gli fece pulsare prepotentemente le tempie, mentre ricordi della sera prima lo invasero. Ricordava Morgana che se andava qualche ora dopo cena, con la promessa di farsi sentire presto. Ricordava di aver visto lei e Arthur abbracciarsi e sussurrarsi un ti voglio bene che non si scambiavano da troppo tempo e ricordava che, una volta rimasti soli, lui e Arthur avevano assaggiato la bottiglia di bourbon scadente che aveva portato Morgana, insieme alle liquirizie.
L’alcol gli aveva fatto venire mal di testa, sebbene non potesse dire di essersi sbronzato la sera prima.
E quel mal di testa, adesso, risuonava all’interno della sua scatola cranica ogni volta che quel trillo metallico continuava ad espandersi per tutta la stanza.
Non era la sveglia, pensò. Non ricordava di averla messa. Dopotutto, era domenica. Chi mette la sveglia di domenica?
La sua seconda opzione risultò essere il suo cellulare. Così, con i sensi ancora mezzi assopiti e un Arthur completamente addormentato disteso sopra a metà del suo corpo, Merlin si allungò verso destra per cercare l’aggeggio sul comodino. Lo trovò e rispose senza nemmeno guardare chi fosse. Tutto pur di farlo smettere.
“Pronto?” Sussurrò con voce impastata dal sonno. Non provò nemmeno ad alzarsi dal letto. Arthur gli impediva qualsiasi movimento, visto che era attaccato a lui come un koala, il braccio intorno alla sua vita e le gambe intrecciate con le sue.
Non che Merlin si stesse lamentando, sia chiaro.
“Dormivi, pulcino?” Domandò la voce sorpresa e dispiaciuta di sua madre. “Non volevo svegliarti.”
“Non preoccuparti, mamma.” Sorvolò sul nomignolo. A quanto pare, a Hunith non importava che suo figlio fosse diventato un uomo e continuava a chiamarlo come lo chiamava quando era un bambino magrolino con le ginocchia sbucciate.
“Sei sicuro? Posso chiamare più tardi.”
Merlin sorrise. “Davvero, ma’, non preoccuparti. Cosa volevi dirmi?”
“Volevo ricordarti che oggi pranziamo insieme.”
Merda, Merlin se l’era completamente dimenticato. Con tutto quello che era successo, l’invito di sua madre era migrato nel dimenticatoio.
“Sì, certo. Ma ecco, io…” Non voleva lasciare Arthur da solo. E non aveva ancora detto niente a sua madre riguardo alla loro relazione. Non ne aveva avuto il tempo. E non sapeva come si sentisse Arthur all’idea di incontrare sua madre.
“Puoi chiedere anche ad Arthur, se ti fa piacere.” Lo interruppe sua madre, quasi come se avesse percepito il motivo della sua iniziale titubanza.
Quella frase lo colpì in pieno petto. Sua madre sapeva. Ovvio che sapeva. Aveva sicuramente visto uno dei giornali in cui si tenevano per mano. Merlin provò una sorta di amara tristezza all’idea di non essere stato lui il primo a parlare a sua madre di una delle cose più belle che gli fossero capitate nella vita.
Dannati paparazzi.
Merlin sospirò, pensieroso.
Non che Merlin non volesse che Arthur conoscesse sua madre – in fin dei conti, si erano già conosciuti mesi prima, ma non sapeva se Arthur si sentisse pronto a conoscerla in quanto madre del suo ragazzo. Non voleva rischiare di affrettare le cose.
Merlin abbassò lo sguardo su Arthur e proprio quando l’indecisione sul da farsi lo stava consumando, lo avvertì mentre strofinava il naso contro il suo collo e sussurrava sulla sua pelle: “Dille che andiamo. Mi farebbe piacere rivederla.” Con la voce più roca e assonnata e sexy del mondo – e diamine, Merlin non dovrebbe pensare a certi aggettivi riguardanti il suo ragazzo mentre si trovava al telefono con sua madre.
Ingoiò il groppo alla gola, una scintilla di calore gli fece attorcigliare lo stomaco, lasciandogli una piacevole sensazione di sfarfallamento. Arthur era nel dormiveglia, ma era abbastanza vigile da aver colto la conversazione e aveva accettato l’invito. Probabilmente non pensava che fosse tutto troppo da gestire, o troppo presto. Probabilmente non era agitato al pensiero di rivedere Hunith, ma era semplicemente felice.
Merlin si allargò in un sorriso.
“Veniamo.”
“Oh bene!” Esclamò Hunith, contenta. “Vi aspetto più tardi, allora.”
“Grazie, mamma.”
“Nessun problema.” Merlin riusciva quasi a percepire il sorriso nella voce di sua madre. “Oh, e pulcino?” Lo richiamò e Merlin rimase in attesa. “Ti avevo detto che gli piacevi.”
A quelle parole, consapevole che Arthur stesse ascoltando la conversazione accanto a lui – sebbene tenesse ancora gli occhi chiusi – sentì il viso avvampare e salutò velocemente sua madre per chiudere la conversazione prima che dicesse altro che lo mettesse in imbarazzo.
Quando ebbe riappoggiato il telefono sul comodino, sentì Arthur al suo fianco muoversi. Si era messo in costa, appoggiato su un gomito, con la mano che reggeva la testa, mentre l’altra rimaneva ferma sull’addome di Merlin.
Aveva già un sorriso ferino sul volto e Merlin poteva dire di sapere con assoluta certezza ciò che stava per uscire dalle sue belle labbra.
“Sai, non so cosa sia stato più interessante di questa telefonata. Il fatto che tua madre ti chiami pulcino o il fatto che le parlavi di me. Da quanto hai una cotta?”
Appunto. Merlin conosceva l’uomo accanto a sé meglio delle sue stesse tasche.
“Non le ho mai parlato di te. Almeno, non nei termini che ti stai immaginando.”
“Oh,” arricciò le labbra, “Quindi mi stai dicendo che non ti struggevi per me?”
“Certo che no!”
“E allora che le dicevi?”
“Che sei un arrogante testa di fagiolo, un po’ troppo pieno di sé e schiavista.”
Arthur scoppiò in una risata così forte che riempì tutta la stanza. Ai lati dei suoi occhi si formarono delle rughette di espressione che resero l’azzurro delle due iridi ancora più luminoso, intenso.
“Sei un idiota. Ma sono curioso… se è questo che le dicevi, perché era convinta che mi piacessi?”
Merlin sospirò. “Ti ricordi quella volta che è venuta a trovarmi a casa?”
Arthur annuì. Erano a casa di Merlin per finire di elaborare la strategia per un caso particolarmente importante.
“Ci ha semplicemente guardati lavorare insieme. Non le avevo mai detto che c’erano momenti in cui dovevo costringermi a pensarti solo come un amico, perché sapevo che provare qualcosa per te mi avrebbe solo fatto soffrire, dal momento che pensavo fossi etero. Ma lei mi ha semplicemente preso da parte, dopo che sei andato via, e mi ha smascherato in cinque secondi. E quando ho confermato, quando le ho detto che c’erano giorni dove vederti solo come un amico era difficile, lei mi ha sorriso e mi ha detto che avrei dovuto avere pazienza. Quando le ho chiesto perché mi ha semplicemente risposto che anche io ti piacevo, ma non l’avevi ancora capito.”
Arthur rimase in silenzio, elaborando quelle informazioni. Ricordava perfettamente quel giorno. Ricordava la presenza confortante di Hunith in casa di Merlin, il fatto che avesse preparato loro da mangiare, mentre stavano lavorando. Ricordava le parole gentili che gli aveva rivolto, insieme a caldi sorrisi. Ma non ricordava di aver notato che li stesse osservando. E forse era perché era concentrato sul suo lavoro, ma non faceva fatica a credere che Hunith avesse potuto notare cose che lui stesso non aveva ancora notato.
Le madri hanno dei poteri speciali. E Hunith in particolare sembra una madre particolarmente empatica e attenta a ciò che circonda suo figlio.
O Arthur, a quanto pare.
“Beh, aveva ragione.” Disse solamente, sentendo uno strano calore all’altezza del petto. Gli ci volle qualche secondo per metabolizzare che era la consapevolezza che la madre di Merlin approvava la loro relazione. Non aveva sbraitato come suo padre, non si era presentata furiosa alla sua porta. L’aveva invitato a pranzo, come succede normalmente quando tuo figlio ha un ragazzo e vuoi conoscerlo.
Tutto questo riempì il cuore di Arthur di un profondo affetto e di una rinnovata speranza. Come se Hunith, con il suo semplice e genuino gesto, avesse spazzato via, almeno in parte, le sensazioni negative che Arthur aveva provato a causa del comportamento del padre.
“Pensi che dovremmo portare qualcosa?” domandò distrattamente.
“No, non credo.”
“Ma io vorrei portare qualcosa, sai… per fare buona impressione.”
Merlin sorrise teneramente e si avvicinò di più a lui, lasciandogli un amorevole bacio sulla guancia. “Quanto sei dolce, vuoi impressionare mia madre.”
Arthur si sistemò per riuscire a stargli più vicino, per fare in modo che si incastrassero in un abbraccio. “Guarda che è una cosa normale voler piacere alla madre del proprio ragazzo!” Esclamò, un tantino risentito.
Merlin ridacchiò per il tono usato da Arthur e strofinò il proprio naso contro il suo collo. “Lo so, ma tu le piaci già. Non hai bisogno di impressionarla.”
“Oh,” Esalò Arthur, davanti a quelle parole. Gli faceva davvero piacere sentirle. Anche a lui Hunith piaceva ed era bello sapere che la cosa era reciproca. Stava a significare che non ci sarebbero stati attriti, che Merlin non si sarebbe mai trovato in situazioni spiacevoli che rischiavano di metterlo in mezzo tra il suo ragazzo e sua madre per fargli fare da paciere tra le due parti. “Vorrei comunque portare una torta. Una alla frutta, se le piace. O al cioccolato, così andiamo sul sicuro. A tutti piace il cioccolato!”
Merlin rise di nuovo, e i suoi occhi si illuminarono così tanto che Arthur sentì il cuore accelerare. Merlin era così bello quando rideva in quel modo spontaneo e spensierato.
“Al cioccolato andrà benissimo.”
“Perfetto, allora più tardi passeremo in pasticceria, pulcino.” Calcò appositamente sul nomignolo, con un’espressione furba sul viso.
Merlin assottigliò gli occhi. Doveva aspettarselo che Arthur avrebbe tirato fuori l’argomento. Era preparato, in realtà.
“Non chiamarmi in quel modo.”
“E perché no?”
“Perché mia madre mi chiama così. E se vuoi continuare a fare sesso con me, quella parola non deve uscire mai più dalla tua bocca, o sarebbe davvero strano per me.”
“Mi pare giusto. Eviterò di farlo, per quanto muoia dalla voglia di sfotterti.” Ridacchiò Arthur.
Ma Merlin ignorò quell’ultimo commento, prendendo invece tutto il suo coraggio per rispondere: “Bravo, amore mio.” Forse era troppo presto, o forse no. Dopo tutto, se Arthur non pensava che fosse troppo presto per conoscere Hunith in quanto madre del suo ragazzo, non era nemmeno troppo presto per ascoltare il suo cuore e appellare Arthur in quel modo.
Merlin pose l’accento su quelle due semplici paroline, le pronunciò con una tale intensità da far fermare il cuore di Arthur, che emise un respiro strozzato per la sorpresa, prima di avvertire di nuovo il suo cuore ripartire all’impazzata. Rimase a fissare Merlin a bocca aperta per qualche secondo, i suoi occhi fermi in quelli dell’altro, mentre aspettava che il suo cervello reagisse e gli facesse dire qualcosa a riguardo. Ma a quanto pare, quelle due semplici parole, erano riuscite a mandare in corto circuito non solo il suo cuore, ma tutto il suo intero sistema vitale, cervello e capacità di linguaggio compresi.
Nessuno l’aveva mai chiamato così. O almeno, non aveva mai impregnato di così tanto affetto quelle parole. Era come se le stesse udendo per la prima volta, era come se, essendo pronunciate da Merlin, avessero una sfumatura del tutto nuova, carica di un amore che fino ad adesso Arthur non aveva mai ricevuto, o sperimentato.
Merlin si aprì in un sorriso tutto fossette, mentre si avvicinava al suo viso per baciargli via quell’espressione sorpresa. “Visto?” Sussurrò, prima di baciarlo di nuovo. “Questo è il modo giusto per chiamare chi ami con un nomignolo.”
E mentre Arthur rispondeva ad ogni bacio che Merlin gli dava, non riusciva a pensare ad altro che non fosse la verità di quelle parole e il fatto che quel nomignolo avesse un potere immenso sul suo cuore.



*



Arthur fissava la porta di casa di Hunith.
Aveva guidato mezz’ora, per arrivare lì. Merlin, avendo notato il suo nervosismo, si era offerto di guidare al suo posto, ma Arthur sapeva che se avesse avuto qualcosa da fare in quel lasso di tempo sarebbe stato più facile distrarsi dall’imminente incontro.
E ok che Merlin gli aveva assicurato che lui a Hunith piaceva, ma si erano sempre incontrati quando lui era solo un amico di Merlin.
E se a Hunith non piacesse Arthur-fidanzato? Se lo trovasse irritante? Spocchioso? Inadatto a Merlin?
Le sue mani stavano sudando. Le passò sui jeans. Stava per farlo una seconda volta, giusto per essere sicuro che fossero asciutte, quando Merlin ne afferrò una e fece intrecciare le loro dita.
Improvvisamente si rilassò. E riprese a respirare correttamente – non si era nemmeno reso conto di aver trattenuto il fiato fino a quando non aveva espirato rumorosamente.
“Andrà tutto bene.”
“Come fai ad esserne sicuro? Magari cambia idea e non le piaccio più.”
Merlin gli lasciò un bacio sulla guancia. “Le piaci. Mi rendi felice, quindi le piaci. A lei basta questo. Che io sia felice.”
Arthur arrossì lievemente e annuì. Dopo un istante, Merlin suonò il campanello.
Hunith aprì immediatamente, accogliendoli con un enorme, solare, sorriso. I suoi occhi erano identici a quelli di Merlin, notò Arthur, mentre i suoi capelli scuri erano raccolti in uno chignon disordinato e tenuti fermi il più possibile da una bandana rosa che le copriva leggermente la fronte. Indossava un paio di jeans e un maglione beige e profumava di lavanda.
“Arthur!” Esclamò, prima di abbracciarlo. Il ragazzo dovette chinarsi un po’ per ricambiare la stretta, dal momento che la donna era più bassa di lui. “Mi fa piacere che tu sia qui.”
“Grazie per avermi invitato.”
“Già,” Intervenne Merlin, abbracciando la madre quando, in un secondo momento, si sporse verso di lui. “Ha persino voluto fare il ruffiano e portarti una torta.”
“Merlin!” Esclamò Arthur a denti stretti, guardandolo malissimo.
“Oh, non preoccuparti caro, io penso che il tuo sia stato un pensiero molto dolce. E mi piacciono le torte, quindi grazie.” Affermò, decisa, prendendo la torta che le veniva porta da Merlin – inizialmente, Arthur aveva preferito non tenerla a causa delle sue mani sudate e instabili.
“Avanti, entrate.” La donna si fece da parte per farli entrare e i due ragazzi varcarono la soglia. Non appena fu dentro quella casa, Arthur cominciò a guardarsi intorno. La piccola entrata conduceva direttamente al salone, che faceva anche da sala da pranzo. Al centro c’era un tavolo di legno e davanti ad esso un piccolo divano e due poltroncine. Arthur notò delle foto appese alle pareti e gli ci volle un secondo per realizzare che la maggior parte ritraevano Merlin. Ce n’erano parecchie di quanto era un bambino – adorabile, si trovò a pensare – e alcune che riguardavano il giorno del diploma o della laurea. Una in particolare colpì la sua attenzione. Merlin era in braccio ad un uomo, aveva folti capelli lunghi e scuri, i tratti marcati e gli occhi castani. Sorrideva, mentre guardava un piccolo Merlin che sorrideva a sua volta, mostrando l’assenza di un incisivo superiore.
“Lui è mio padre.” Lo informò Merlin, mettendosi al suo fianco.
Balinor, pensò immediatamente Arthur.
Merlin gli aveva parlato di lui. Gli aveva raccontato che era morto quando lui era piccolo, a causa di una malattia improvvisa. Era stato un periodo doloroso, dove il piccolo Merlin era riuscito a vedere il padre in condizioni sempre peggiori, attaccato a una serie di macchine che lo aiutavano a respirare correttamente, e che gli impedivano di poter giocare con lui. Era quella la cosa che Merlin-bambino ricordava maggiormente. Il fatto che la grossa macchina che faceva respirare papà gli impediva di muoversi. E da un lato, era contento che ci fosse, così almeno papà non faticava più a parlare e respirare, ma dall’altro, non gli piaceva che fosse così grossa e lo costringesse a stare a letto, perché papà non poteva più giocare a pallone con lui, o prenderlo sulle spalle.
Il piccolo Merlin non aveva capito fino in fondo la gravità della situazione.
“Ero così ingenuo. Ero convinto che sarebbe guarito, che tutto sarebbe passato, nonostante sia la mamma che Gaius cercassero di prepararmi il più possibile all’idea che papà era molto malato e le cure non stavano funzionando.”
Erano state le parole di Merlin. Arthur ricordava quella conversazione avvenuta mesi prima in casa sua. Merlin aveva sussurrato quelle parole, quasi come se ricordarle facesse male. E probabilmente era così.
“Eri un bambino, Merlin. È normale che tu non riuscissi a capire a fondo la situazione.”
Merlin aveva semplicemente annuito, ma il suo sguardo si era assentato per un momento. Come se in quell’istante lui non fosse lì. Il suo corpo c’era, ma la sua mente stava vagando verso ricordi lontani, ma ancora troppo vivi, dolorosi.
Arthur ricorda di averlo abbracciato, solo per un breve istante.
E ricorda anche di aver percepito Merlin sospirare, a quel contatto, come se fosse stato alleggerito, almeno per un poco, di quel peso che gli gravava sul cuore.
“È una bellissima foto.” Arthur tornò al presente e passò un braccio intorno alla vita di Merlin per tirarlo più vicino a sé. Si voltò quel tanto per riuscire a lasciargli un bacio sulla tempia, tenero e prolungato.
“È una delle mie preferite. E sospetto che anche mamma la pensi così.” Merlin tenne gli occhi fissi sulla foto, mentre il suo corpo rispondeva ad ogni contatto di Arthur, avvicinandosi a lui e sistemandosi in quell’abbraccio.
Era felice di guardare quella foto, perché era davvero una delle sue preferite, ma gli provocava anche sempre una profonda tristezza perché era un promemoria del fatto che avessero vissuto troppo poco tempo, insieme. Gli ricordava che suo padre se n’era andato via troppo presto e non aveva avuto il tempo di guardare Merlin crescere.
“Ehi,” sussurrò Arthur, stringendolo un po’ più a sé e accarezzandogli la schiena con movimenti circolari e rassicuranti. “Andiamo a vedere se tua madre ha bisogno di aiuto, ti va?”
Merlin annuì. Arthur lo capiva sempre così bene e sapeva sempre cosa dire. Non avrebbe più dovuto stupirsi, eppure si meravigliava del loro legame ogni volta che dava prova di se stesso. Ogni volta che si manifestava in tutta la sua potenza e dimostrava quanto fosse forte, quanto ciò che li legasse fosse indissolubile e profondo.
Erano le loro anime ad essere legate. E le anime non hanno bisogno di parole per capirsi, solo di sguardi.
“Sì,” gli sorrise. “Sì, andiamo.”








“Non ho nessuna intenzione di starmene qui con le mani in mano! Cosa potrebbe pensare? Che sono uno scansafatiche abituato a farsi servire!” Sussurrò Arthur, appena fuori dalla porta della cucina.
“Tu sei abituato a farti servire.” Gli fece notare il suo saccente e fastidioso fidanzato, che invece era sulla porta della suddetta cucina dalla quale Arthur era stato bandito. Indossava un grembiule rosa pieno di merletti che Hunith gli aveva dato quando si era offerto di aiutare. Arthur si aspettava di riceverne uno pure lui, ma Merlin gli aveva detto che era un ospite e non era necessario che facesse niente. Arthur, ovviamente, non era d’accordo. Che figura avrebbe fatto davanti a Hunith? Non voleva farle una brutta impressione.
“Merlin!” Esclamò, oltraggiato da quell’insinuazione.
“Negalo. Andiamo, negalo, se hai il coraggio.”
Arthur lo guardò malissimo. Non poteva negare, ovviamente. Stupido Merlin e stupida la sua fastidiosissima saccenteria. “Ti detesto quando fai così.”
“Grazie, amore. Le tue parole sempre affettuose sono un toccasana per il mio cuore.” Commentò Merlin, grondando sarcasmo, rivolgendogli un sorrisetto pungente.
Amore. Il cuore di Arthur batté un po’ più forte. E si lasciò cullare per qualche istante dalla sensazione di calore che quella parola gli provocava, prima di tornare in sé.
“Smettila di fare l’idiota!” Lo rimbeccò. “Voglio aiutare.”
Merlin lo guardò con le sopracciglia sollevate e allora Arthur si rese conto che il suo tono poteva suonare un tantino autoritario, così si affrettò ad aggiungere: “Per favore.”
“Ma che bravo, usi anche le paroline magiche.”
“Non sono un bambino!” Esclamò, ma si contraddisse immediatamente quando incrociò le braccia al petto e sul suo viso comparve l’espressione più simile ad un broncio infantile che Merlin avesse mai visto.
Non era giusto che Arthur fosse l’uomo più sexy su cui avesse mai posato lo sguardo e allo stesso tempo anche il più tenero esistente. Dio aveva davvero dei preferiti. Arthur ne era la prova.
Merlin sorrise dolcemente. “Ovviamente non lo sei, nemmeno quando ti ci comporti, proprio come adesso.”
“Smettila, non è vero.”
Il sorriso di Merlin si ampliò maggiormente. Era adorabile. Voleva baciarlo così tanto. “Posso baciarti?” Gli chiese, quindi, perché non sapeva quanto Arthur si sentisse a suo agio a farlo con sua madre nelle vicinanze.
L’espressione del ragazzo cambiò all’istante, facendosi più seria. “Dipende. Mi lascerai aiutare?”
“Sei un ricattatore.”
“E tu un despota che mi bandisce dalla cucina. Come vedi, ognuno il suo.”
Merlin alzò gli occhi al cielo. “Sappiamo bene che tra i due sei tu, il despota!” Puntualizzò, prima di continuare: “Puoi apparecchiare. Contento?”
Arthur sorrise, soddisfatto. “Sì.”
“Ora posso baciarti?”
“Sono sorpreso tu non l’abbia ancora fatto, visto quanto sono irresistibile.”
Gli occhi di Merlin si sollevarono di nuovo verso il cielo, ma un sorriso ampio e familiare lo tradì. Scosse affettuosamente la testa, prima di avvicinare il suo viso a quello del fidanzato. “Testa di fagiolo.” Sussurrò, prima di incollare le labbra a quelle di Arthur. Fu un bacio dolce. Le loro labbra si mossero insieme per qualche istante, in qualcosa di così familiare. Merlin non si sarebbe mai stancato di baciare Arthur – e ovviamente Arthur non avrebbe mai smesso di baciare Merlin. O di farsi baciare ogni volta che glielo chiedeva.
“Ora,” Arthur gli lasciò un bacio a stampo quando si separarono, il cuore che ancora gli batteva forte in petto per il bacio ricevuto, “Vuoi dirmi dove trovo tovaglia, tovaglioli e posate?”
Merlin rise apertamente e lo guardò come si guardano le cose belle. “Ma certo, seguimi.”
Ed Arthur obbedì.






Merlin era in cucina, mentre si occupava della parte vegetariana del pranzo. Hunith stava finendo di sistemare i suoi involtini di pollo ripieni, mentre lui si occupava di friggere le zucchine – che avrebbe sicuramente mangiato anche Arthur, dopo essersi lamentato del fatto che è cibo per conigli, solo per il gusto di lamentarsi un po’ e infastidire Merlin.
Lo conosceva così bene e trovava la cosa rassicurante. D’istinto lo guardò. Spostò la sua attenzione dalle zucchine alla porta della cucina aperta, attraverso la quale riusciva a vedere la sala e Arthur che si impegnava tanto per apparecchiare. Sorrise istintivamente.
“Sai,” Cominciò sua madre, attirando la sua attenzione e facendolo sobbalzare leggermente. Merlin, quindi, spostò lo sguardo su di lei, “È bello vedervi così affiatati. Vi ho sentiti prima. Sembrate così complici. Quello che avete è così genuino e raro. Sono contenta che tu lo abbia trovato.”
Merlin arrossì di fronte a quelle parole. “Stavi origliando, ma’?”
“Oh smettila! Non stavo origliando. È una casa piccola e voi non siete stati esattamente discreti.” 
Merlin spostò di nuovo lo sguardo su Arthur, che stava allineando con precisione chirurgica le posate di fianco ai piatti. Sorrise. Di nuovo.
“Mi rende felice. E lo amo così tanto.” Affermò, prima di voltarsi di nuovo verso sua madre. “Pensi sia possibile? Avere già questa certezza dopo così poco tempo? Siamo stati amici per un anno, ma stiamo insieme da pochissimo. Ma so già che è lui la mia persona, l’unico con cui voglio stare per il resto della mia vita.”
Gli occhi di Hunith si fecero lucidi d’emozione. Era così felice per suo figlio, in quel momento. “Ma certo che è possibile. Le anime gemelle si incontrano, si riconoscono, e non si lasciano mai. Non hanno bisogno di tanto tempo per riconoscersi, a volte basta un secondo.”
Merlin le sorrise e si sporse verso di lei per stringerla in un abbraccio. “Avrei voluto essere io a dirtelo.” Le sussurrò all’orecchio.
“Lo so.” Hunith sciolse l’abbraccio per guardarlo negli occhi. “Quando ho visto quelle foto, l’unica cosa a cui ho pensato è che stavate molto bene insieme.”
“Davvero?”
“Davvero.”
“Non hai pensato nemmeno per un secondo: quel disgraziato di mio figlio non mi ha detto niente?”
Hunith ridacchiò. “No, tesoro, certo che no. Sapevo che me l’avresti detto, prima o poi.”
Merlin sospirò. “Sai, quelle foto hanno scatenato parecchie reazioni. In particolare in Uther.”
“Non l’ha presa bene?”
“Si è presentato sabato mattina a casa di Arthur e ha iniziato ad urlargli contro. Ha quasi provato a colpirlo. E ci ha banditi entrambi dallo studio.”
L’espressione sul viso di Hunith si indurì, ma non proferì parola riguardo ad Uther. Chiese piuttosto: “E Arthur come sta?”
“Puoi immaginarlo, credo. È triste, ma so che è anche arrabbiato. Questa situazione lo rende teso.”
“Oh, caro. Di qualsiasi cosa abbiate bisogno, sapete che io sono qua, vero?”
“Lo so, ma’, grazie.” Merlin la riabbracciò, grato di averla nella sua vita, grato di sentirla dalla loro parte e di avvertire l’affetto sincero che prova già verso Arthur.
“Quando vuoi, pulcino.” Hunith gli lasciò un bacio su una guancia, prima di sciogliere l’abbraccio. Non dissero altro, rimettendosi ad occuparsi dei rispettivi piatti. Merlin girò le zucchine appena in tempo per non farle bruciare. E le sistemò su un piatto vuoto, poi cominciò a friggerne altre.
Avvertì il cuore più leggero. Sapeva che sua madre sarebbe stata dalla loro parte, ovviamente, ma averne la conferma lo aiutava di più. Forse avrebbe dovuto parlarne con Arthur. Forse anche lui si sarebbe sentito più leggero.
Lo guardò di nuovo. Aveva finito di apparecchiare e ora girava intorno al tavolo per controllare che tutto fosse perfetto.
Era bello averlo in casa di sua madre. Era bello che collaborassero in quel modo come se fossero una famiglia.
Famiglia.
Arthur era la sua famiglia.
Il cuore di Merlin aumentò di una taglia a quella consapevolezza.






“Allora?”
Arthur alzò lo sguardo dal suo piatto per portarlo sul suo fidanzato. “Allora, cosa?”
Il sorriso che si formò sul viso di Merlin era ferino, da squalo quasi. Arthur conosceva quel sorriso sinistro. Era l’espressione che quell’idiota del suo ragazzo metteva su quando voleva sfidarlo ad ammettere che avesse ragione su qualcosa.
Merlin era uno stupido e lui era ancora più stupido perché si era innamorato di lui.
“Lo sai.” Svirgolò le sopracciglia con vigore, accennando al contenuto del suo piatto.
Hunith aveva preparato le melanzane alla parmigiana. Una cosa decisamente vegetariana. Arthur non viveva in una dannata caverna, per Dio, ed era perfettamente a conoscenza che esistesse un piatto simile. Ma ovviamente non l’aveva mai assaggiato.
Ovviamente l’aveva sempre snobbato perché aveva sempre dato per scontato che essendo vegetariano, non gli sarebbe mai piaciuto.
E ovviamente Merlin aveva dovuto rimproverarlo del fatto che non poteva essere sicuro che non gli sarebbe mai piaciuto, se prima non l’avesse assaggiato. Più di una volta, da quando si conoscevano.
E come se il karma avesse voluto dare retta a Merlin, era capitato che quella domenica Hunith avesse deciso di preparare proprio quel piatto, come portata principale.
Caro, spero vada bene. Merlin mi ha assicurato che ti sarebbe piaciuto! Ma ho fatto anche altro, se non dovesse piacerti!
E come diamine avrebbe potuto dirle che lui aveva sempre snobbato quella pietanza? E soprattutto, qual è il modo carino di dire alla tua dolcissima suocera che suo figlio, in realtà, è uno stronzetto manipolatore?
Merlin ne aveva approfittato. Arthur era pronto a scommettere che, quella domenica mattina, quando erano ancora a casa e lui era sotto la doccia, Merlin avesse richiamato sua madre per parlare appositamente del pranzo. E avesse appositamente omesso la sua avversità per quel piatto.
Aveva giocato bene le sue carte. E ora Arthur si trovava costretto anche a dargli ragione, dannazione, perché le melanzane alla parmigiana erano effettivamente deliziose e lui non si era ancora attaccato alla teglia, ingurgitandole direttamente da essa, perché aveva ancora un briciolo di dignità.
Arthur lo guardò malissimo dall’altro lato del tavolo. Avrebbe voluto togliergli quel sorrisetto arrogante e soddisfatto dalla faccia, magari negando fino alla morte che avesse ragione e affermando piuttosto che le melanzane non gli piacevano per niente, ma la verità era che lui amava quel sorrisetto arrogante e soddisfatto. E che un po’ voleva dargli ragione solo per vedere quel sorrisetto trasformarsi in un sorriso vero, luminoso e contagioso.
Gesù, da quando era diventato così sdolcinato? 
“Sono deliziose, contento?” esalò tutto d’un fiato.
Merlin batté le mani, estremamente soddisfatto, mentre un sorriso tutto fossette faceva capolino sul suo bel viso. “AH! Lo sapevo! Lo sapevo!”
Arthur gli fece una linguaccia. Perché era un adulto, e gli adulti ovviamente reagiscono in modo maturo.
“Puoi smettere almeno di gongolare?”
“Ovviamente no!”
Arthur ridusse gli occhi a due fessure. “Ti odio.”
“Non è vero, mi ami.” Merlin arricciò il naso in un’espressione soddisfatta e sicura.
“Pensa un po’ come sono stupido, allora, ad amare un idiota.”
Merlin ridacchiò. “Oh, amore. Non prendertela.”
“Non me la sto prendendo.”
Amore.
Di nuovo.

E, di nuovo, il cuore di Arthur accelerò.
Merlin si alzò dal suo posto e fece il giro del tavolo per sedersi sul suo grembo. Arthur glielo lasciò fare. Ovviamente.
E ovviamente circondò la sua vita con un braccio, tenendo la mano ferma sul suo fianco – il pollice che tracciava movimenti circolari sopra alla stoffa pesante del maglione oversize di Merlin.
Merlin gli prese dolcemente il viso tra le mani. “Sei così carino quando metti il broncio, sai?”
“Smettila di parlarmi come se fossi un bambino. E io sono sempre carino.” Puntualizzò con convinzione.
Merlin rise e gli lasciò un bacio tenero sulla guancia. “Certo che lo sei. Il più carino di tutti.”
“Solo carino?” Arthur strofinò il proprio naso contro il suo, facendolo sorridere nel modo più dolce possibile.
Merlin era tanto, tanto, tanto innamorato di quest’uomo.
“Sei bellissimo.” Gli sussurrò dolcemente, come se fosse un segreto solo loro. “E ti amo così tanto.” Si sporse quel poco che bastò a far scontrare le loro labbra e gli lasciò un bacio a stampo che Arthur ricambiò immediatamente.
“Ti amo anche io, sai. Anche quando provi a convertirmi al vegetarianesimo.”
Merlin liberò una vera e propria risata, che riverberò attraverso la sua cassa toracica e le cui vibrazioni raggiunsero anche Arthur.
“Primo: quella parola decisamente non esiste. Secondo: non è una specie di religione a cui convertirsi. Terzo: deve essere una scelta personale, non proverei mai a convincerti.”
“Le melanzane di tua madre potrebbero, però. Erano davvero deliziose.”
“Posso fartele ogni volta che vuoi, sai? Mi ha insegnato a farle, qualche anno fa.”
“Vorrei che le facessi. Mi piace vederti gironzolare nella mia cucina. E nella mia casa.”
“E nella tua camera?” Merlin gli sorrise, una punta di malizia colorò il suo viso e Arthur non poté fare a meno di sorridere.
“Stai flirtando?”
“Funziona?”
“Un po’.” Arthur si sporse per baciarlo. Gli piaceva davvero avere Merlin per casa. Gli piaceva che si svegliassero insieme, che gironzolassero per casa come se fosse uno spazio a cui entrambi erano abituati. Gli piaceva persino il fatto che Merlin avesse recuperato alcuni vestiti da casa sua e li avesse sistemati in un borsone che adesso giaceva ai piedi del letto che non avevano smesso di condividere da quando avevano ufficializzato la loro storia.
Gli piaceva semplicemente la complicità che c’era tra di loro e quell’aura domestica che sembrava li circondasse.
Quella consapevolezza fece scattare un pensiero nel retro del suo cranio. L’inizio di un’idea si andò ad insinuare nel suo cervello, prendendo sempre più forma. Ma proprio mentre stava per tramutarsi in parole, Hunith ricomparve in salotto, interrompendo qualsiasi sua intenzione.
“Scusate, ma non ricordavo dove avevo sistemato le forchette da dessert!” Affermò, appoggiando sul tavolo le suddette posate insieme a dei piccoli piatti.
“Mamma, non era necessario. Potevamo usare forchette qualsiasi.”
“Non dire sciocchezze, tesoro!” Lo rimproverò bonariamente la donna, guardandoli poi con un’espressione di pura tenerezza. E Arthur, sotto quello sguardo pieno d’affetto, non poté fare altro che sentirsi grato per quella donna che li vedeva semplicemente per quello che erano: due innamorati.
La mente gli andò ad Uther, alle sue espressioni, alla sua rabbia. Al fatto che gli avesse chiesto di negare se stesso.
Hunith era così diversa, così amorevole.
Hunith vedeva amore dove suo padre vedeva disprezzo.
Uther non avrebbe mai accettato di guardare suo figlio che tiene in braccio un altro uomo senza gridargli contro, o peggio.
Hunith, invece, aveva sorriso. E rivolto loro uno sguardo affettuoso, carico di dolcezza.
“Arthur?” Lo chiamò Hunith, e solo allora lui si rese conto di essersi estraniato momentaneamente, immerso in quei pensieri.
“Uhm, sì, scusa. Mi sono… distratto. Qual era la domanda?”
Hunith lo fissò per qualche istante. I suoi occhi cerulei, profondi come quelli del figlio, lo studiarono per qualche secondo, come se volesse carpire qualcosa. E Arthur, per un momento, fu certo che stesse per dirgli qualcosa. Ma poi gli rivolse un sorriso e gli domandò: “Vuoi la prima fetta di torta, caro?”
“Sì, grazie.”
Hunith annuì e cominciò a tagliare la torta al cioccolato. Quando gli passò il piattino con il dolce, le sorrise e la ringraziò.
Merlin non accennò a spostarsi, dopo che ebbe ricevuto la sua fetta di torta, e Arthur, dal canto suo, non gli chiese di spostarsi. Entrambi stavano bene dov’erano.







“No.”
“Dai, ti prego.”
“Ho detto no.”
“Despota.”
“Testardo.”
“Smettila, Merlin.”
“Vuoi che mia madre mi faccia una filippica infinita sul fatto che mi ha educato meglio di così? È questo che vuoi, Arthur? Pensavo mi amassi!”
Arthur alzò gli occhi al cielo. “Adesso stai facendo il melodrammatico.”
“Questo lo dici perché non sai fino a che punto può diventare puntigliosa mia madre quando deve rimproverarmi.”
“Non ti rimprovererà per così poco.”
“Sei un ospite Arthur. Se ti lasciassi aiutare mi insulterebbe fino alla fine dei miei giorni. E comincerebbe a darmi del maleducato.”
Gli occhi di Arthur si alzarono, accompagnati da uno sbuffo. Stava decisamente per dirgli di nuovo quanto fosse melodrammatico, quando Hunith si intromise tra di loro.
“Merlin, smettila di descrivermi come se fossi un mostro! Che razza di figura mi fai fare?”
“Vuoi negare?” Alzò le sopracciglia, rivolto alla madre. “E si può sapere perché origli?”
“Non stavo origliando. Non mi permetterei mai. È una casa piccola. E la sala e la cucina sono praticamente collegate, quindi vi ho sentito.”
Arthur colse la sua occasione e si rivolse direttamente alla donna. “Mi piacerebbe aiutarti a sistemare, Hunith.”
“Certamente, caro.”
Merlin la guardò con un’espressione così stupita che le sue sopracciglia rischiarono di arrivare all’attaccatura dei capelli. “Scherzi?” Si sentiva un po’ tradito, a dirla tutta. Tu quoque, madre. O qualcosa del genere.
“No, tesoro, affatto. Arthur non è un semplice ospite. È il tuo ragazzo, perciò questa è anche casa sua tanto quanto è tua. Quindi, se si sente a suo agio ad aiutare, può aiutare.”
Arthur arrossì visibilmente sotto quelle parole, mentre un sorriso luminoso e grato gli comparve sul viso. Merlin abbandonò la sua espressione stupita in favore di un sorriso soffice.
“Non posso ribattere a questo.”
Arthur e Hunith si scambiarono uno sguardo complice e un sorriso, poi Arthur si rivolse al suo ragazzo.
“Bene, allora non farlo. Tu siediti, io aiuto tua madre.” Gli lasciò un breve bacio a stampo e guardò Hunith in attesa di istruzioni.
Merlin sentì sua madre ridacchiare, mentre andava a sedersi sul divano. Afferrò il telecomando e accese la tivù. Fece un po’ di zapping distrattamente, concentrato più che altro sulle interazioni tra sua madre e Arthur. Erano così belli da guardare che Merlin rimase a guardarli per un po’, con un sorriso enorme sul viso che gli fece persino dolere le guance.






“Posso parlarti, tesoro?” Chiese Hunith, passando un piatto appena lavato ad Arthur, il quale era addetto all’asciugatura.
Un principio di panico si insinuò attraverso le sue membra, ma lo scacciò non appena rifletté sulle ultime ore appena passate. Hunith l’aveva messo a suo agio, era stata gentile, dolce e premurosa. Se davvero l’avesse trovato inadatto a Merlin, non si sarebbe comportata in quel modo.
Prese comunque un profondo respiro, giusto per assicurarsi di essere ancora in grado di farlo.
“Certo.”
La donna sospirò e mise momentaneamente da parte gli ultimi piatti che rimanevano per concentrarsi solamente su di lui.
“Non voglio essere invadente. E non vorrei tu pensassi che mi sto impicciando, perché credimi non è così.”
Questa premessa incuriosì Arthur, più che mandarlo nel panico. Hunith lo guardò negli occhi, come se volesse essere certa che le sue parole venissero recepite e assimilate.
Arthur annuì con decisione e lei proseguì.
“Merlin mi ha accennato della situazione tra te e tuo padre.” Hunith gli afferrò le mani. Arthur le percepì fredde a causa dell’acqua corrente del lavandino sotto cui erano state fino a qualche istante prima. La pelle era arrossata leggermente sulle nocche. Erano così piccole rispetto alle sue. Ricambiò la stretta e annuì, di nuovo.
“Era con me quando tutto è successo.”
Hunith intensificò la presa sulle sue mani. “Vorrei sapere come stai, Arthur.”
Il suo primo istinto sarebbe stato quello di chiedere perché? Perché avrebbe dovuto interessarsi a lui, visto che si conoscevano da poco, visto che quella era la prima giornata che passavano insieme dopo mesi.
Ma poi quel pensiero lo colpì forte al petto, come un proiettile piantato in pieno cuore.
Era passata una sola giornata e Hunith l’aveva trattato già come uno di famiglia.
Aveva definito quella casa anche sua. E l’aveva lasciato aiutarla perché sapeva che a lui avrebbe fatto piacere.
Hunith era interessata a come stesse perché teneva sinceramente a lui. E questo lo portò istintivamente a stringersela contro. La inglobò in un abbraccio che la donna ricambiò immediatamente con altrettanta intensità.
“Va tutto bene, tesoro.” Sussurrò Hunith, passandogli affettuosamente una mano sulla schiena.
Un gesto estremamente materno. Qualcosa che fece gonfiare il cuore e gli occhi di Arthur, affetto e lacrime che andavano a mescolarsi tra di loro in un turbinio di emozioni contrastanti. La gioia di sentire l’affetto di Hunith e la tristezza dovuta alla consapevolezza che quella che lo stava stringendo era la madre di qualcun altro e non la sua.
Era un periodo difficile.
Un periodo in cui si sentiva veramente felice come non lo era mai stato, eppure c’era qualcosa che gli impediva di godersi a pieno la sua felicità.
Era grato per Merlin, per il supporto di Morgana riguardo la loro relazione, eppure… eppure una parte di lui continuava a non accettare il fatto che suo padre avesse detto quelle cose orribili. Avrebbe dovuto semplicemente lasciar perdere. Pensare che se Uther non voleva avere a che fare con lui allora la cosa avrebbe dovuto essere reciproca. E invece… invece Arthur non riusciva a lasciarsi scivolare addosso la rabbia e la tristezza.
E gli mancava sua madre, terribilmente.
Non poteva fare a meno di pensare, da quando tutto questo era successo, a cosa avrebbe fatto sua madre. A come avrebbe gestito la cosa. Lei sarebbe stata dalla sua parte? Avrebbe parlato con Uther? Si sarebbe arrabbiata con lui?
Merlin le sarebbe piaciuto?
Non lo sapeva.
Non lo sapeva, e mai avrebbe potuto saperlo. Perché Igraine non c’era più. Perché lui sua madre non l’aveva mai conosciuta.
Quel pensiero gli formò un groppo alla gola, come se all’interno della sua trachea si fosse fermato un sasso.
“Ho solo… mi sento… arrabbiato, per lo più. Dovrei ignorarlo, giusto? Dovrei ignorare qualcuno che non si è fatto scrupoli a trattare male me e Merlin. Ma sono furioso, Hunith! Perché lui non può reagire come hai reagito tu? Perché non può essere gentile con Merlin come tu lo sei con me?” Lacrime cominciarono a pungergli gli occhi. “Dio, vorrei che non fosse stato così brutale e vorrei che mia madre fosse qui! Mi manca così tanto in questo periodo! Non posso fare a meno di chiedermi come avrebbe reagito. E poi realizzo che non lo so perché non l’ho mai conosciuta!” Una lacrima sfuggì al suo controllo e rotolò lungo la sua guancia. “E Uther! Lui sta rovinando la cosa più bella che io abbia mai avuto! Non sono mai stato più felice in vita mia e non riesco a pensare ad altro che non sia la rabbia che provo nei suoi confronti!” Si fermò. Si asciugò gli occhi e provò a regolarizzare il respiro. “Se non fosse per Merlin lo odierei, sai? Ma lui è… lui è meraviglioso e mi aiuta sempre a vedere le cose dalle giuste prospettive. Odiare mio padre mi renderebbe simile a lui e io non voglio essere come lui.”
Hunith gli afferrò il viso tra le mani. I suoi occhi cerulei erano lucidi, ma erano pieni di determinazione. “Non sei come lui. Non lo sarai mai. Di questo devi esserne certo.” Hunith abbassò le mani dal suo viso. “E per quanto riguarda l’essere arrabbiato, ne hai tutto il diritto. Ci sono persone che semplicemente non capiscono, Arthur, persone che hanno comportamenti che ci feriscono. E abbiamo tutto il diritto di arrabbiarci. Ma la rabbia non deve consumarci. Datti del tempo per pensare, tutto quello di cui hai bisogno, guardarti dentro e chiediti se sei disposto a provare a parlare di nuovo con lui. Lo devi a te stesso, per cercare di essere il più sereno possibile. Perché meriti di essere tranquillo e felice.”
Arthur sentì di nuovo le lacrime che gli pizzicavano gli occhi e si sporse per abbracciarla di nuovo. “Grazie.”
“L’ho detto anche a Merlin. Ci sarò sempre per voi.”
Arthur la strinse più forte e lasciò che una lacrima gli rotolasse giù dalla guancia, grato e commosso dalle parole della donna.
“Nei periodi difficili…” Cominciò flebilmente Hunith, come se stesse camminando su un terreno fragile, un terreno sul quale non fosse completamente sicura le fosse permesso di avventurarsi. “…Sentiamo sempre la mancanza di chi amiamo e non è più con noi. Non importa quanto tempo sia passato, quella mancanza è lì e viene fuori quando ci sentiamo più deboli, esposti. Non sai quante volte ho sentito la mancanza di Balinor, durante la crescita di Merlin. C’erano giorni in cui mi domandavo se fossi una buona madre, se solo io fossi abbastanza per mio figlio. Ci sentiamo fragili e pensiamo a chi ci dava sicurezza. Io e Balinor eravamo l’uno la roccia dell’altra. Una certezza.” Hunith fece una pausa e si scostò dall’abbraccio per guardare Arthur in viso. “È normale che tu senta la mancanza di tua madre. E non sai quanto mi dispiace, tesoro, che tu debba vivere tutto questo. Ma per quello che vale, io so che ti avrebbe amato, supportato e ascoltato. Sarebbe così fiera di te, Arthur, perché sei un ragazzo meraviglioso e io sono così felice che tu sia nella vita del mio Merlin.”
Arthur pianse. Non poté far altro per impedirlo. Quel groppo che aveva avuto in gola, quelle lacrime che gli avevano pizzicato gli occhi e che lui aveva cercato di trattenere. Tutto si sciolse in un pianto silenzioso e liberatorio.
Tirò fuori la sofferenza di giorni, che andò a mescolarsi con la commozione che le parole di Hunith gli aveva fatto provare. E tutto d’un tratto, con le lacrime che ancora gli rigavano il viso, si sentì più leggero. Sentì il suo cuore sistemarsi un po’, come se stesse ritrovando una serenità che la lite con suo padre gli aveva portato via.
“Grazie, Hunith.” Le disse, con tutta la sincerità di cui era capace. “Grazie.”
La donna gli asciugò le guance, passandogli i pollici sul viso. “Quando vuoi, tesoro.”
Arthur le rivolse un sorriso un po’ umido e la abbracciò di nuovo.





*



Quando tornarono a casa, quella sera, Arthur si sentiva diverso. In qualche modo più leggero. La presenza di Merlin al suo fianco era ciò di cui aveva maggiormente bisogno, di questo ne era consapevole, ma sapere in qualche modo che c’erano anche altre persone – persone come i suoi amici, Morgana e Hunith – a dargli supporto lo facevano sentire meno alla deriva, meno in balia di qualcosa che a tratti poteva sembrargli troppo difficile da gestire.
Arthur sapeva che se anche avesse dovuto cadere per un qualsiasi motivo, non sarebbe finito in un precipizio, ma avrebbe avuto decine di mani pronte ad aiutarlo a risalire sul bordo, piuttosto che precipitare.
E la prima mano che l’avrebbe afferrato, sarebbe stata quella di Merlin.
Merlin.
Merlin al quale stava per fare una domanda, quel pomeriggio. O meglio, adesso sapeva che era una domanda. Quel pomeriggio, ciò che adesso era chiaro fosse un quesito, era principalmente un pensiero che si era formato nel suo cervello e che non sapeva come tramutare in parole.
Non che adesso fosse meglio.
Adesso si era solo evoluto. Da pensiero a domanda. Ma rimaneva comunque ancora solo nella sua testa. Non era uscito. Non ancora, almeno.
Arthur stava aspettando di essere invaso da una buona dose di coraggio perché sì, insomma, poteva essere troppo presto, perché Merlin poteva dire di no. E lui era un po’ insicuro, se si trattava di rifiuti. Anche se era pienamente consapevole che non sarebbe cambiato niente nemmeno nel caso Merlin avesse effettivamente detto no.
“Arthur.” Lo chiamò l’oggetto dei suoi pensieri e lui per poco non sussultò. “Riesco a sentire il tuo cervello ronzare.”
Merda. Non avrebbe dovuto scegliersi qualcuno che lo capisse così bene. Insomma, che diamine, chi era Merlin? Una specie di mago/indovino/sensitivo? Aveva la palla di cristallo?
O magari possedeva uno specchio magico come quello de la Bella e la Bestia e anzi che mostrargli le persone gli mostrava i pensieri.
Ok, questo era un vaneggiamento in piena regola. Doveva riprendersi, dannazione. E magari smettere di guardare i cartoni animati a trent’anni. No, questo mai. Non si è mai abbastanza grandi per i classici Disney.
Ma ancora stava vaneggiando.
“Nessuna battuta sul fatto che il mio cervello non funzioni? Chi sei tu e che ne hai fatto del mio fidanzato?”
Merlin rise e Arthur percepì la risata attraversargli la schiena. Erano seduti nella vasca del bagno di Arthur. Merlin era appoggiato al bordo e aveva allargato le gambe per fare in modo che Arthur si sistemasse tra di esse, la schiena adagiata sul suo petto. Erano circondati dall’acqua calda e da una quantità spropositata di schiuma perché a quanto pare Merlin adorava le bolle di sapone e tutto ciò che serviva a produrle.
Arthur aveva usato quella vasca due volte da quando si era trasferito in quella casa, più o meno. Ma se a Merlin piaceva fare il bagno chi era lui per dirgli di no? Soprattutto quando voleva farlo insieme a lui?
Merlin gli avvolse le braccia intorno alla vita e gli lasciò un bacio sulla spalla. “Dimmi a cosa pensi.”
“Sei sicuro di non essere stato posseduto? O magari sei un alieno travestito da Merlin, perché sono sicuro che il mio Merlin non risparmi le battutacce su–”
Arthur venne interrotto da una mano di Merlin, totalmente insaponata, che gli tappò la bocca. “Stai vaneggiando. Piantala di vaneggiare e parlami, Arthur.”
Arthur vaneggiava perché era nervoso. Non poteva avere un po’ di comprensione, diamine?
E da quando il sapone aveva un sapore così orribile?
E tra l’altro, perché i bagnoschiuma hanno un odore così buono, ma un sapore così orribile?
E ancora, perché vaneggiava di nuovo anzi che concentrarsi sulla domanda vera a cui stava pensando?
Perché era un idiota, ecco perché. Magari gli alieni avevano preso il suo di cervello, insieme a tutto il suo coraggio.
Arthur tolse la mano di Merlin dalla sua bocca e fece intrecciare le loro dita. Guardò il loro intreccio di mani e se le portò alle labbra, baciandole. Poco gli importava del sapone, a questo punto.
“È una cosa a cui ho pensato oggi, mentre eravamo da tua madre.”
“E vuoi dirmi a cosa hai pensato?”
Arthur vorrebbe davvero che Merlin avesse uno specchio magico in grado di leggere i suoi pensieri, così potrebbe fare tutto da solo.
“Certo che voglio dirtelo, ma ho paura che pensi che sia troppo presto. E non voglio spaventarti. E non voglio rischiare di cambiare le cose tra di noi.”
Niente cambierà mai le cose tra di noi, Arthur.”
La certezza nella voce di Merlin gli fece trovare un po’ del coraggio che sembrava essergli mancato fino a quel momento.
“D’accordo. Stavo pensando che, magari, se tu volessi, io potrei liberare un po’ di spazio nell’armadio. E nel bagno. E ovunque tu voglia. Così potresti portare un po’ della tua roba qui e… vivere un po’ con me. So che forse è presto, quindi va bene se non vuoi, ma avresti comunque ancora il tuo appartamento e i tuoi spazi, ma avresti anche un po’ di spazi e un po’ di cose tue qui, così da non dover sempre fare avanti e indietro. Mi piace vederti in questa casa, guardarti muoverti in cucina, o da qualsiasi altra parte. Mi piace l’idea di me e te qui. Quindi, non so, potresti prendere in considerazione questo piccolo passo? Solo se ti senti pronto.”
Arthur aveva parlato più velocemente di quanto fosse abituato. E aveva cercato di non rimanere assordato dal battito frenetico del suo cuore mentre formulava quella richiesta.
Era ansioso. Sentiva come se il suo intero corpo potesse uscire dalla sua pelle da un momento all’altro. I suoi nervi erano tesi e il silenzio di Merlin rendeva tutto più stressante.
“Puoi girarti, per favore?” domandò Merlin, dopo qualche istante. Arthur era sicuro che anche se a lui era sembrato un’eternità, Merlin fosse rimasto in silenzio solo per qualche secondo.
Arthur si mosse nell’acqua, voltandosi. Si sedette al centro della vasca, allontanandosi un tantino da Merlin. Non perché lo volesse, ma perché era necessario affinché stessero uno di fronte all’altro. Quella distanza, comunque, sembrò non essere gradita a Merlin, perché non appena Arthur fu più lontano da lui, si spostò dal bordo per sedersi sopra al suo bacino. Glielo circondò con le gambe, mentre le braccia andavano ad allacciarsi dietro al suo collo.
Il cuore di Arthur perse un battito e il suo respiro divenne irregolare, mentre il suo corpo reagiva a quel contatto portando le proprie braccia intorno alla vita di Merlin.
Merlin aveva quello sguardo, negli occhi, che faceva tremare Arthur da capo a piedi. Lo guardava così intensamente, come se lo adorasse, lo venerasse. E Arthur non avrebbe mai smesso di sciogliersi sotto quello sguardo.
Merlin gli lasciò un bacio sulla fronte, poi uno su entrambe le guance e infine sulle labbra. Morbido, delicato, dolce.
“Mi piacerebbe tantissimo.”
Il cuore di Arthur esplose, come un fuoco d’artificio che squarcia il cielo notturno. “Davvero?”
Merlin annuì, mentre un sorriso innamorato allargava il suo viso. “Davvero.”  
Arthur strinse la presa sui fianchi di Merlin per essere sicuro di averlo completamente addosso. Di sentire tutto il suo corpo contro il proprio. “Baciami.”
E Merlin ubbidì. Gli afferrò il viso tra le mani e fece scontrare le loro labbra. Aprì quelle di Arthur con la sua lingua e cominciò a cercare quella dell’altro. Si mossero insieme, senza fretta e complici. Merlin afferrò il labbro inferiore di Arthur tra i denti, lo morse piano e lo succhiò leggermente, prima di staccarsi per prendere fiato.
Arthur mugugnò in protesta e Merlin lo trovò estremamente tenero. E sexy, ma dettagli.  
“Voglio fare tutto con te.” Sussurrò Merlin, come se fosse un altro dei loro segreti, qualcosa che solo loro dovevano condividere e conoscere. “Voglio vivere con te.” Gli lasciò un bacio sull’angolo destro della bocca. “Voglio sposarti, un giorno.” Gli baciò l’altro angolo. “E voglio avere dei figli con te.” Gli baciò le labbra. “Tu lo vuoi?”
Ad ogni parola, ad ogni bacio, Arthur sentiva il cuore accelerare e ingrandirsi. Il respiro gli si mozzò in gola perché insomma Merlin gli aveva appena detto che voleva sposarlo un giorno e lui era un essere umano ed era debole e certe cose lo emozionavano.
Ed era tutto ciò che aveva sempre desiderato. Indipendentemente dalla visione che gli aveva inculcato Uther del matrimonio, Arthur aveva sempre desiderato sposarsi per amore e avere dei figli. Una famiglia tutta sua con qualcuno di cui era profondamente innamorato.
E sapere che Merlin voleva le stesse cose non poteva far altro che renderlo felice.
“Sei la persona che custodisce la mia felicità, lo sai?” Gli disse, alzando una mano per accarezzargli il viso. Arthur era certo che anche lui, adesso, avesse un’espressione di pura venerazione nello sguardo. “Voglio passare tutta la mia vita con te. E voglio avere tutto con te.”
Merlin gli regalò uno dei suoi sorrisi luminosi, quelli che fanno impallidire il sole. “Ti amo.”
“Anche io.”
Merlin sorrise ancora e tentò di muoversi, provando a scendere dal bacino di Arthur, ma questi lo tenne stretto per la vita, bloccandolo e impedendogli di muoversi. “Dove vai?”
“Volevo prendere lo shampoo.”
“E perché, di grazia?”
“Perché pensavo fosse carino e romantico lavarti i capelli.”
Arthur si chinò giusto il necessario per appoggiargli le labbra sul collo, nel punto sotto la mascella. Cominciò a succhiare la pelle sensibile, mordicchiandola leggermente. Merlin sospirò e inclinò la testa, d’istinto, per lasciargli più margine d’azione.
“Sai cosa sarebbe carino e romantico?” gli domandò Arthur, lasciando un bacio sul segno arrossato che già cominciava a formarsi.
“Cosa?” Domandò Merlin sbattendo le ciglia con finta innocenza e strofinando il proprio bacino contro il suo, con una lentezza esasperante. Arthur emise un gemito e strinse la presa sui fianchi di Merlin.
“Sei un fottuto provocatore.”
Merlin avvicinò il viso al suo, continuando a muoversi in quel modo, aumentando il ritmo in modo graduale.
“Non si dicono le parolacce.” Gli afferrò il labbro inferiore tra i denti e lo tirò leggermente, prima di baciarlo in modo famelico, quasi volesse provare a saziarsi di lui. Impossibile. Merlin sapeva che non sarebbe mai stato sazio dei baci di Arthur.
“Dici cose senza senso.” Affermò Arthur, mentre le sue mani si spostavano dai fianchi di Merlin al suo sedere. Lo afferrò con decisione e Merlin sussultò.
“Adesso chi è che provoca?”
“Vuoi dirmi che ti dispiace? Vorresti che togliessi le mani da lì?”
“No.”
“Bene, allora sta zitto e baciami.”
Merlin lo assecondò e si fiondò sulle sue labbra, dando via ad una serie infinita di baci che vennero tutti ricambiati da Arthur.
 






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Ciao a tutti e ben ritrovati!
Spero che stiate bene e mi scuso infinitamente per il ritardo con cui pubblico. Sto andando parecchio a rilento, me ne rendo conto e di questo mi dispiace infinitamente!
Questo capitolo, in realtà, non era previsto. Cioè, avevo previsto solo l’inizio, ma poi mentre scrivevo ho pensato che potesse essere giusto che Hunith fosse un po’ più presente e che si desse un’occhiata anche alla famiglia di Merlin? Non so, ha senso?
E poi ho anche pensato che fosse giusto per Arthur confrontarsi con una figura genitoriale che non avesse avuto la reazione di Uther.
Non so, sono molto, molto, molto insicura su questo capitolo. Ho l’impressione di essere stata ripetitiva su certi argomenti e non so, ho paura che renda tutto troppo lento?
Comunque, mi farebbe piacere sapere cosa ne pensate, se vi va!
Mi scuso per eventuali errori, ho riletto il capitolo, ma spesso mi possono sfuggire!
Ringrazio chiunque continui a leggere questa storia, nonostante i miei ritardi (scusate ancora), chi l’ha messa tra i seguiti/preferiti/ricordati e chi trova il tempo per lasciare un commento! È tutto sempre più che gradito e vi ringrazio tantissimo!
Vi saluto, un abbraccio! Alla prossima! <3


 

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