L'oro è il colore della morte

di Nazuhi
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** XII: L'Appeso - Il Santo iscariota ***
Capitolo 2: *** 0: Il Matto - Dialogo con la follia ***
Capitolo 3: *** XVII: La Stella - Spes ultima dea ***
Capitolo 4: *** XI: La Giustizia - Dike di sangue ***
Capitolo 5: *** VIII: La Forza - Chiave di volta ***
Capitolo 6: *** VII: Il Carro - Il potere è giustizia ***
Capitolo 7: *** XIII: La Morte - Maestro e allievo ***
Capitolo 8: *** XIX: Il Sole - The dark side of the sun ***
Capitolo 9: *** I: Il Bagatto - Se solo... ***
Capitolo 10: *** IX: L'Eremita - Domanda senza risposta ***
Capitolo 11: *** XVIII: La Luna - Aletheia ***
Capitolo 12: *** VI: Gli Amanti - Come petali di amaryllis ***
Capitolo 13: *** XX: Il Giudizio: Samsara ***



Capitolo 1
*** XII: L'Appeso - Il Santo iscariota ***


XII: L'Appeso – Il Santo iscariota

 

L'acqua ormai gli arrivava al polpaccio. Quanto tempo era passato? Un'ora, due? Forse meno. Decisamente meno. Saliva troppo in fretta, schiantandosi contro le sbarre della prigione e sciabordando sulla roccia umida della caverna. Piccoli mulinelli rabbiosi che gli cingevano le gambe come tentacoli di mostri marini.

Serrò le dita e le ossa delle nocche scricchiolarono. Maledizione, era bloccato. Se solo…

«Non posso uscire» mormorò.

Si morse il labbro, il sapore metallico del sangue gli riempì la bocca. Doveva calmarsi, lasciarsi prendere dal panico non l'avrebbe aiutato a uscire da quella trappola mortale. Dopotutto era stato addestrato a gestire situazioni peggiori, una marea non l'avrebbe di certo fermato. Se solo fosse riuscito a bruciare il suo Cosmo, bastava una piccola parte, una manciata, e quelle sbarre si sarebbero piegate al suo volere.

Ma non ci riusciva.

Tutto il suo addestramento, tutti i pugni ricevuti dal fratello, tutti i rimproveri, le notti insonni per il dolore ai muscoli e alle ossa, il sangue sputato, le lacrime versate perché non era mai abbastanza, perché non era all'altezza. Alla sua altezza. Tutto quanto, tutti gli sforzi fatti, tutti i traguardi raggiunti erano svaniti, divorati da quel mare nero che continuava ad avanzare.

A salire.

«Verrà a salvarmi» mormorò. «Non può lasciarmi qui a morire, sono suo fratello. Non può farlo. Non può…»

Deglutì.

L'acqua ormai gli arrivava al petto, un abbraccio gelido e melmoso che gli strappava il fiato di gola. Quanto ancora avrebbe potuto resistere prima di annegare? Aveva già la sensazione di quell'acqua appiccicosa riempirgli i polmoni, strappandogli la vita un respiro per volta.

Retrocesse di un passo, come se allontanarsi dalle sbarre della prigione avrebbe potuto allungargli la vita di qualche istante, e pregò di nuovo il fratello di raggiungerlo il prima possibile. Continuava a ripetersi che stava arrivando, che non poteva essersi dimenticato di lui. Saga era troppo buono per covare rancore, troppo gentile per abbandonarlo in quella caverna durante la mareggiata. Nonostante le parole che gli aveva rivolto, nonostante la punizione che gli aveva inflitto, lo amava ancora. Erano fratelli, erano cresciuti insieme, non l'avrebbe mai abbandonato.

Vero, fratello?

Ma il tempo passava e di Saga non avvertiva neanche il lontano calore del suo Cosmo. Lì, intorno a lui, c'era solo il gelo delle acque che ormai gli cingevano la gola.

Allora capì: il demone si era svegliato.

Saga non sarebbe mai arrivato, lui non sarebbe mai uscito vivo da lì. Qualsiasi filo li avesse legati da bambini non esisteva più. Lo aveva spezzato lui stesso, con l'odio, l'invidia e la rabbia che da troppo tempo sedimentavano nel suo cuore. Lo aveva ucciso con le sue stesse mani.

Se solo Saga non l'avesse rinchiuso lì dentro.

Se solo lui non gli avesse fatto quella maledetta proposta.

Se solo il destino non lo avesse voluto come il mediocre, invidioso e sciocco gemello minore.

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Capitolo 2
*** 0: Il Matto - Dialogo con la follia ***


0: Il Matto – Dialogo con la follia

 

Si porta una mano alla bocca e l'odore della morte si fa più forte. Abbassa gli occhi e l'unico colore che vede è il cremisi. Non ricorda cos'ha fatto, perché ha le mani sporche di sangue?

Si guarda intorno, ma non riconosce dov'è e la poca luce delle stelle non aiuta. È tutto così familiare che un senso di nausea lo pervade, eppure non riesce a dare un nome a quel luogo. Non riesce a ricordare. La sua mente è una tela bianca in attesa di essere dipinta. In attesa che i suoi ricordi sboccino come macchie di vernice.

Ma non arrivano e il bianco rimane.

Un rantolo attira la sua attenzione.

Strizza gli occhi nelle tenebre, avanza di qualche passo, a tentoni, e inciampa. Il dolore al ginocchio sopprime qualsiasi altro senso e per un lungo attimo rimane carponi su se stesso, i denti digrignati, l'articolazione pulsante.

Di nuovo il rantolo, questa volta più vicino, simile al fischio di un mantice.

Allunga una mano e sfiora qualcosa di viscido e caldo, come un lembo di stoffa zuppo di acqua melmosa. Lo afferra e si rende conto che si tratta di un arto, forse una gamba. Un nodo alla gola gli sopprime il fiato, mentre tasta alla cieca in direzione del viso. Se è una persona, forse ha bisogno di aiuto.

Una lama bianca taglia le nuvole sopra di lui e illumina la tunica scura del Gran Sacerdote, il volto esangue solcato da profonde rughe e i lunghi capelli di neve. Nel mezzo del petto, il blu dell'abito ha assunto tonalità più scure; tutt'intorno una pozza cremisi macchia la pietra bianca.

«Sa…ga…»

Saga afferra la mano dell'uomo e la stringe tra le sue.

«Non parlate, vi prego» mormora, «siete ferito, non dovete sforzarvi. Al Grande Tempio vi salveranno, ma voi dovete resistere. Vi scongiuro.»

Il Gran Sacerdote stringe appena le dita intorno alla sua mano, il suo volto assume un'espressione triste. Mormora qualcosa che Saga non comprende, poi la sua forza si fa sempre più debole finché anche il respiro ansimante non cessa. Gli occhi vitrei fissano il cielo nero della notte senza vedere più nulla.

Saga lascia andare la sua mano e si alza, gli occhi sgranati non riescono a spostarsi dal corpo senza vita del Gran Sacerdote. Perché gli viene da vomitare? Perché ha il desiderio di strapparsi la pelle di dosso?

L'abbiamo ucciso.

Saga sussulta, si volta, ma non c'è nessuno. Eppure ha udito una voce, ne è certo, gli risuonava in testa come se…

Come se fosse parte di sé.

«No no no no no» mormora. «È tutto sbagliato! Io non…» Si porta le mani ancora macchiate alla testa, affonda le unghie nella cute. «Cosa ho fatto? Cosa ho fatto?»

Ci siamo intrufolati qui apposta per coglierlo alle spalle. L'Altura delle Stelle è un luogo vietato anche per noi.

«Bugiardo! Questa non…»

La voce gli muore in gola, nel momento in cui si guarda intorno e realizza che si trova davvero sull'Altura delle Stelle. Che forse quella piccola voce che gli risuona in testa da quando ha rinchiuso Kanon a Capo Sounion ha ragione.

L'hai ucciso. Abbiamo fatto ciò che dovevamo. Noi dovevamo essere il nuovo Gran Sacerdote, era un nostro diritto! Non Aiolos, ma noi!

«No!» urla. La sua voce si perde nelle tenebre. «No, tu sei pazzo! Sei un folle! Non era un nostro diritto!»

Non siamo forse adorati al pari di un dio? Non siamo forse più intelligenti e forti di Aiolos? Non siamo forse i migliori tra i Santi d'oro?

Sprazzi di ricordi sbocciano sulla tela bianca della sua mente: il volto sorpreso di Shion, la sua mano tesa verso di lui in un gesto accogliente. Un'altra mano che stringe la daga sacra celata dietro la schiena, il rumore delle ossa spezzate e della carne dilaniata nel momento in cui affonda. E il sangue che gli cola sul braccio, viscido e caldo, mentre il silenzio è squarciato da una risata folle.

«Oh Atena, perdonami» mormora Saga, gli occhi fissi sulle proprie colpe; lacrime calde stillano dai suoi occhi. «Perdonatemi tutti. Non volevo, io non volevo, lo giuro...»

Bugiardo! Lo abbiamo sempre desiderato, la sua morte, la morte di Atena, il mondo nelle nostre mani. È un nostro diritto, noi siamo Dio, siamo Giustizia! Shion era uno stupido e ha meritato la morte!

Saga scuote il capo, le dita che affondano nel cuoio capelluto e strappano capelli.

«Non è vero, non è vero! Io non ti conosco, tu non sei me, io non sono…» Si morde il labbro. «Fuori dalla mia testa, fuori!»

Una risata violenta risuona nelle orecchie, gli occhi si asciugano da tutte le lacrime che ha versato. Un sorriso ebbro gli distorce il volto, le dita abbandonano la sua testa. Di nuovo quella risata, ma questa volta non è più confinata nella sua mente.

Serra i pugni e si rialza in piedi, raccoglie la daga dal pavimento e la cela di nuovo dietro la schiena.

Non puoi farlo, non puoi macchiarti anche del suo sangue. Fermati, finché sei in tempo! Torna sui tuoi passi.

Invece può, e niente, nemmeno quella stupida e debole voce che gli risuona in testa, potrà fermarlo. Ha ucciso il Gran Sacerdote, adesso è il turno di uccidere Atena.

«Il mondo, ormai, appartiene a me.»

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Capitolo 3
*** XVII: La Stella - Spes ultima dea ***


XVII: La Stella – Spes ultima dea

 

Schiudo le palpebre, lentamente, e tutto intorno a me è oscurità. Devo essere rimasto svenuto a lungo, perché non mi sento più il lato sinistro della faccia. Non mi sento neanche le gambe e le braccia, a dire il vero; il dolore lancinante all'addome offusca qualsiasi altra cosa, compresi i ricordi. Mi chiedo per quale motivo mi trovi disteso sulla nuda roccia, ma non ho una risposta. Non ricordo neanche come abbia fatto a finire qui.

Una manina si posa sul mio naso, il gorgoglio di un neonato rompe il silenzio.

Riapro gli occhi e vedo Atena, le guance rosee illuminate dalla luce candida della luna. Così piccola e delicata, così inerme.

È in pericolo!

Serro le dita della mano e cerco di issarmi in ginocchio. Il dolore al petto mi spezza il fiato, rendendo una tortura anche compiere il più piccolo movimento, ma non posso arrendermi. Devo farlo, per Atena, per il mondo intero. Anche a costo di morire, devo portarla in salvo, lontana dal Grande Tempio.

Lontana da Saga.

Le dita grattano nella roccia, riflesso di tutta la frustrazione e l'impotenza che sento. Se solo gli fossi stato più vicino, se solo il Gran Sacerdote non avesse scelto me. Perché lui, perché Saga? Era così buono, così fiero, così…

Scuoto la testa. Il Saga di un tempo non c'è più, devo convincermene. L'uomo con cui ho combattuto, lo stesso che ha ordinato a un bambino di dieci anni di uccidermi a sangue freddo, è solo un demone che di Saga ha l'aspetto.

Il mio amico è morto.

Mi puntello sui gomiti e mi tiro su. La ferita sputa nuovo sangue; non credo che mi resti molto da vivere, però devo resistere. Almeno finché Atena non sarà salva.

Solo un altro po', andiamo. Puoi farcela, Aiolos.

Il braccio mi cede e crollo di nuovo in ginocchio. Tossisco sangue, le lacrime adesso mi fanno pizzicare gli occhi. Atena mi guarda, mi sfiora il naso con la sua manina. Il suo Cosmo è ancora debole, ma lo avverto; un abbraccio caldo che mi tranquillizza. Mi dà speranza e quelle poche energie di cui ho bisogno.

Puntello di nuovo le mani e mi tirò in ginocchio. Il dolore al petto è sempre più penetrante, il sangue non smette di macchiarmi la pelle, ma non importa. Con uno sforzo che mi costa le poche energie che conservo ancora sono di nuovo in piedi. Barcollo, mi chino sulla neonata e la prendo in braccio. Cerco di non sporcarla di sangue, ma non sono sicuro di esserci riuscito. La vista va e viene e io sono coperto della mia stessa vita. Se avessi ucciso Shura adesso non sarei in fin di vita, ma non potevo farlo.

È solo un bambino, non è colpa sua.

Mi carico la cassa dell'armatura in spalla – non ricordo di averla mai sentita così pesante, neanche il giorno dell'investitura a Santo – e mi incammino verso la costa. Laggiù, dove sorge Atene. Dove spero di poter affidare a qualcuno l'unica speranza dell'umanità. La loro stella più luminosa.

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Capitolo 4
*** XI: La Giustizia - Dike di sangue ***


XI: La Giustizia – Dike di sangue

 

Shura diede le spalle al Gran Sacerdote e uscì dalle sue stanze. Gli elogi che gli aveva appena rivolto erano stilettate, molto più taglienti della sua Excalibur. Non li meritava e non lo facevano stare meglio. Niente avrebbe potuto.

Uscì dall'edificio e la brezza fredda della notte greca gli scompigliò i corti capelli scuri. Fece per sfiorarsi il volto, ma si bloccò: la mano era ancora sporca di sangue, silenzioso monito delle azioni di quella notte. Ne aveva su tutta l'armatura, sulle guance, il collo e fin sotto le unghie delle dita. Sangue di Aiolos, sangue di traditore.

Il sangue del maestro.

Un conato gli risalì in gola. Si appoggiò a una colonna e rimise il poco che aveva nello stomaco. La gola gli bruciava e la sensazione di nausea e sporco erano ancora avvinghiati al suo corpo.

Ancora odore di sangue, ancora un conato. I sensi di colpa lo punzecchiavano come mille spine acuminate, una voce suadente sussurrava al suo orecchio lodi che non meritava.

Lacrime calde che non avrebbe voluto versare colarono sul sangue rappreso che gli marchiava il volto.

«Shura?»

Shura sussultò e si affrettò ad asciugarsi bocca e occhi con il dorso della mano. Sperò che Aphrodite non l'avesse visto e si voltò per affrontarlo. In quel momento avrebbe preferito affrontare la rabbia di Aiolia invece dello sguardo preoccupato del Santo di Pisces. La rabbia la meritava, e una parte di lui la desiderava anche, ma non riusciva a dire la stessa cosa per la pietà. In fondo aveva appena assassinato il maestro.

«Stai bene?» insistette l'altro. «Sei-»

«Ricoperto di sangue» terminò Shura per lui, senza osare alzare lo sguardo. Serrò le labbra. «Sto bene, grazie.»

«Aiolos…»

«Traditore» lo corresse, gelido. «L'ho ucciso. Ho portato a termine gli ordini.»

Fece per dargli le spalle, ma Aphrodite lo bloccò per un polso. Neanche in quel momento ebbe il coraggio di alzare gli occhi e guardare il volto dell'amico, e si sentì un debole.

Piantò i denti nel labbro inferiore, nuovo sangue si mescolò a quello già versato.

«Non dovresti stare alla Dodicesima Casa?» gli chiese, rigido.

«Non se tu stai soffrendo.»

Una risata amara lasciò le sue labbra e sfiorì subito dopo. Lo guardò, abbozzò un sorriso.

«Io sto bene, non vedi?»

Aphrodite sollevò appena le sopracciglia perfette, poi un lampo di tristezza gli attraversò gli occhi.

«Io vedo solo un ragazzino coperto di sangue e in lacrime.»

«Io non…» Deglutì e gli diede le spalle. «Io non sto piangendo. I deboli piangono, io sono forte.»

Silenzio.

«Hai vomitato.»

«È stato l'odore del sangue. Ne sono ricoperto.» Shura strinse i pugni, le lacrime che stillavano già dai suoi occhi. «Ho ucciso un traditore e ho portato giustizia. Come Santo di Atena. Come…»

Tacque.

Ho ucciso il maestro.

Era troppo per lui, non poteva continuare a fingere.

Ho ucciso lo stesso uomo che mi ha insegnato a manipolare il Cosmo.

Non ne era capace.

Si accasciò sui gradini della scalinata, le mani giunte al petto squassato dai singhiozzi che ormai non riusciva più a trattenere. Perché non riusciva a togliersi di dosso quella sensazione di sporco? Perché aver fatto la cosa giusta lo stava schiacciando in quel modo?

Ho ucciso un mio fratello.

«Shura?»

Le mani delicate e tiepide di Aphrodite gli sfiorarono una guancia.

«Ti prego, dimmelo, dimmi che uccidere Aiolos… Che uccidere il maestro…» Affondò le unghie nella pelle esposta del braccio. «Non ho sbagliato, vero, Dite? Per favore, dimmelo… Io ne ho bisogno…»

Aveva bisogno di sentirsi dire che aveva fatto la cosa giusta, che ubbidire agli ordini e ucciderlo non era stato un errore. Che era la volontà di Atena ad aver guidato la sua mano.

Che tutto il sangue che gli impiastricciava l'armatura e le mani, che si stava rapprendendo sotto le sue unghie e gli torturava le narici, era davvero sangue di traditore.

Le braccia esili di Aphrodite gli cinsero il busto, la sua testa gli si adagiò sulla spalla, ma la risposta non arrivò.

 

Oh Excalibur, tu che ti ergi in difesa della giustizia, ti ho portato onore questa notte?

 

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Capitolo 5
*** VIII: La Forza - Chiave di volta ***


VIII: La Forza – Chiave di volta

 

«Dov'è Mu?»

Death Mask gli scoccò un'occhiata di fuoco e tornò a fissarsi i piedi. Il silenzio proseguì imperterrito, come se non fosse mai stato interrotto.

Aldebaran serrò i piccoli pugni.

«Dov'è Mu?»

«Non lo so e non me ne frega un cazzo» sbottò il Santo d'oro del Cancro. «E se lo richiedi ti riempio di botte!»

«Come se potessi farlo» borbottò Milo, con un filo di voce.

Death Mask saltò in piedi.

«Come ti permetti, moccioso?»

«Sei solo un bulletto, tutta bocca e niente cervello!»

«Figlio di-»

«Basta!» esclamò Aphrodite, mettendosi nel mezzo. Afferrò Death Mask per le braccia. «Smettila, per favore.»

«È colpa loro!» urlò il compagno. «Sono solo dei mocciosi del cazzo che non capiscono niente! Shura è…» Incassò la testa nelle spalle. «Shura è…»

Si sfregò gli occhi con il dorso della mano, poi spinse l'amico da una parte e uscì dalla stanza sbattendosi la porta alle spalle.

Il silenzio scese di nuovo e lo fece in punta di piedi.

«Perdonatelo» mormorò Aphrodite. «Non lo intendeva davvero.»

Aldebaran incrociò le braccia al petto. Non gli credeva molto, in fondo Aphrodite prendeva sempre le difese di Death Mask, sempre, qualsiasi marachella combinasse. E anche quando cercava di farlo ragionare, finiva sempre con il pronunciare quelle parole: "non lo intendeva davvero". Come se potessero cancellare tutto quello che aveva fatto.

«Dov'è Mu?» chiese di nuovo. «Tu lo sai?»

«Perché lo cerchi, Alde?»

«Perché è mio amico. E perché è sparito e non è da lui.»

Aphrodite distolse lo sguardo.

«Forse non tornerà più.»

«Perché? Questa è casa sua, no? C'è il Gran Sacerdote qui.»

«Ci sono voci che girano tra i soldati» sussurrò il Santo di Pisces, dopo qualche secondo di silenzio. «Dicono che abbia aiutato il traditore e che sia sparito per non essere giustiziato.»

«Non è possibile, Mu non lo farebbe mai! Non assassinerebbe mai Atena!»

Aphrodite scosse la testa, ma non disse nulla.

Aldebaran sentiva la rabbia ribollirgli in corpo. Non capiva cosa stesse succedendo, niente di tutto quello aveva senso. Mu non aveva motivo di andarsene, di abbandonarlo senza dirgli nulla. Erano amici! Era l'unico che non avesse mai mostrato timore per la sua altezza, che avesse compreso il suo animo gentile.

«Cambia qualcosa sapere dov'è?» Fu Milo a rompere di nuovo il silenzio. «Non è qui, è questo che conta. Non è qui proprio quando sta succedendo un casino.»

Aldebaran si accigliò.

«Stai insinuando qualcosa?»

«No, solo… Solo che non c'è.»

«Mu non ha tradito, io ne sono certo. Vedrete, domani sarà di nuovo qui!»

Nessuno disse niente e Aldebaran uscì dalla stanza.

Non ce la faceva più a rimanere lì, con Aiolia che piagnucolava in un angolo e Camus e Milo con quei musi lunghi che gli si addicevano poco. Shura, poi, era barricato nella sua stanza dalla sera precedente e non parlava con nessuno, neanche con Aphrodite.

Scosse la testa e la rabbia sbollì a poco a poco. Sembravano tutti impazziti, a partire da Death Mask che strepitava e cercava di fare a botte con chiunque, quasi come se menare qualche pugno lo facesse stare meglio. L'assenza di Mu sembrava aver spezzato qualcosa tra loro, o forse era stata la morte di Aiolos e la scomparsa di Saga.

Forse poteva prendere lui il posto dell'amico e diventare il collante di quel gruppo male assortito. La loro colonna portante. Era grosso e forte a sufficienza per poterlo fare.

Si fermò, la manina appoggiata sulla pietra della parete.

La verità era che non voleva quel ruolo. Lui non era come l'amico, lui non riusciva a trovare le parole giuste e la pazienza per placare gli animi e farli andare d'accordo. Era il primo ad avere bisogno di sentirsi dire che non c'era nulla di cui preoccuparsi e che tutto sarebbe andato bene. Di sentire Mu dirgli che niente di tutto quello che stava accadendo era reale.

Ma Mu non c'era e, forse, non ci sarebbe più stato.

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Capitolo 6
*** VII: Il Carro - Il potere è giustizia ***


VII: Il Carro – Il potere è giustizia

 

Spiriti inquieti si aggiravano tra le colonne della Quarta Casa, globi azzurrini di fuochi fatui che gettavano tenui luci sul marmo grigio. Negli ultimi mesi ce n'erano sempre di più e Death Mask iniziava a pensare che fossero attratti dalla sua anima.

Abbassò gli occhi sul calice di vino che stringeva tra le mani, ma non era dell'umore giusto per bere. Una parte di lui desiderava annegare i ricordi nell'alcol e fingere che niente di quanto successo fosse accaduto realmente, ma l'idea di sbronzarsi fino a vomitare anche l'anima gli faceva venire la nausea. Ma cos'altro poteva fare per dimenticare tutte quelle persone morte?

Scagliò il calice contro una colonna e si prese il volto tra le mani. Nelle orecchie continuavano a echeggiare le urla di quella donna e i pianti dei due bambini, lo scricchiolio della trave divorata dalle fiamme e il boato del crollo.

Non sono stato io, non è colpa mia.

Eppure lui era lì, avrebbe potuto fare qualcosa – qualsiasi cosa – per salvarli. Era un Santo d'Oro, no? A cosa serviva il potere se non lo usava per salvare i deboli? A cosa serviva essere forte se non riusciva a proteggere neanche una donna indifesa e i suoi figli di pochi anni?

Eppure, in fondo, era solo colpa sua. Poteva salvarli, ma non l'aveva fatto. Aveva preferito sacrificarli pur di uccidere quel bandito. Aveva preferito sporcarsi le mani di sangue innocente pur di portare a termine il compito che gli aveva affidato il Gran Sacerdote.

Non volevo farlo.

Si guardò la mano e gli parve che fosse ancora macchiata di sangue – del loro sangue. Per un attimo era di nuovo in quel villaggio, in mezzo all'incendio, con i cadaveri di quelle persone riversi ai suoi piedi. I loro organi che sembravano brillare alla luce calda delle fiamme, le ossa che avevano tranciato la carne e ammiccavano alle stelle. L'odore di corpi carbonizzati nelle narici.

Se solo non si fossero trovati lì in quel momento si sarebbero potuti salvare. Se solo fossero fuggiti.

È colpa loro se sono morti, io non c'entro. Non è colpa mia.

Sì, era proprio così: la verità era che non avrebbe potuto salvarli. Il suo compito era uccidere quei criminali, non proteggere degli sciocchi che avevano pensato bene di accoglierli. In fondo era colpa loro se erano morti, che cosa si aspettavano? Che li ripagassero con dei fiori? Erano morti perché erano deboli e stupidi, lui non poteva farci nulla.

La giustizia è anche questo, no? La giustizia è potere e io sono potente.

Serrò la mascella e affondò il volto nelle braccia. Un nodo gli strinse la gola. Quelle grida continuavano a tormentargli le orecchie, eterne nenie di dolore. Affondò le unghie negli avambracci, i denti nel labbro. Sapore di sangue sulla lingua.

Non è colpa mia, non è colpa mia. Non ho fatto nulla di sbagliato. I forti sopravvivono, i deboli soccombono. La giustizia è dei forti. Il potere è giustizia.

«I forti sopravvivono e i deboli soccombono» mormorò, ricacciando indietro le lacrime. «Se divento potente, sarò sempre nel giusto e non sbaglierò. E se sono nel giusto, non soffrirò mai più.»

Non ho ragione?

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Capitolo 7
*** XIII: La Morte - Maestro e allievo ***


XIII: La Morte – Maestro e allievo

 

La brezza fredda del Jamir filtrava attraverso le aperture della torre, agitando appena i pesanti drappi di pelliccia che Mu aveva appeso alle pareti di roccia nel tentativo di tenere fuori il gelo della notte. Una lama lattea attraversò l'aria, scivolando pigra sulla superficie lucida della cassa della cloth e sulle sue dita affilate. Gli occhi vuoti dell'ariete sbalzati su un lato lo fissavano stanchi, proprio come si sentiva lui da ormai più di sette anni.

Esausto e sfinito.

«Cosa fate?» mormorò la voce sonnacchiosa di Kiki.

Mu si voltò e vide il bambino mentre si stropicciava un occhio, un lembo della federa del cuscino stretto tra le dita della manina.

Un sorriso gli affiorò sulle labbra.

«Potrei chiederti la stessa cosa.»

«Faceva freddo.»

Era una bugia e lo sapevano entrambi, ma anche quella volta Mu preferì non insistere. Gli incubi che tormentavano il sonno del bambino sarebbero svaniti, prima o poi. Doveva solo pazientare e dargli quell'affetto che richiedeva, proprio come aveva fatto Shion un tempo di troppi anni fa. Era il prezzo da pagare per chi possedeva le loro stesse abilità psichiche.

«È la vostra armatura?»

Mu tornò a guardare Kiki e annuì.

«Un tempo apparteneva al mio maestro.»

«E dov'è ora?»

Mu serrò le labbra.

«Non è più qui.»

«Perché?»

«Qualcuno gli ha fatto del male e adesso sta dormendo.»

«Ma poi si sveglierà?»

«No, quello…»

Mu tacque chiedendosi se il bambino avrebbe capito; in fondo non aveva neanche tre anni, a quell'età la morte doveva essere l'ultimo dei suoi pensieri. Come avrebbe dovuto essere per lui, ma il destino aveva voluto in maniera diversa. Il suo primo incontro con la morte era avvenuto nel modo peggiore e la sensazione di terrore che aveva provato quella notte continuava a trascinarsela dietro, persino adesso che aveva quasi quindici anni.

La manina di Kiki che gli afferrava un lembo della casacca e lo strattonava lo riportò al presente, in quella piccola stanza nella torre del Jamir.

Abbassò gli occhi sul visino ovale del bambino e si impose di sorridergli, ma non ci riuscì e Kiki lo percepì.

Il suo volto si accartocciò, le lacrime gli si affollarono sulle ciglia e tirò su con il naso.

«Non si sveglia più, vero?» piagnucolò.

Mu scosse la testa, in silenzio, e allungò una mano per accarezzargli i capelli fulvi. Kiki si lasciò andare a un pianto disperato.

«Va tutto bene» gli mormorò il ragazzo. «Non devi essere triste.»

Il bambino gli cinse le ginocchia e gli affondò il volto in grembo. I singhiozzi scuotevano le sue esili spalle e il silenzio della notte.

Mu gli accarezzava i capelli, maledicendosi di non essere riuscito a rinchiudere le sue emozioni nel profondo del suo cuore, in modo che l'allievo non potesse percepirle.

Shion ci sarebbe riuscito, c'era sempre riuscito, persino quella maledetta notte di quasi otto anni fa, quando era stato brutalmente assassinato. Nonostante tutto, era riuscito a non lasciar trasparire nulla del suo dolore a Mu. Il suo addio era stato delicato come le carezze che di tanto in tanto gli donava, e forse era proprio questo che lo aveva fatto soffrire tanto. Adesso che aveva Kiki di cui occuparsi, però, riusciva a comprendere le motivazioni del maestro; aveva cercato di proteggere la sua innocenza dal tocco putrido della morte e, anche se alla fine non c'era riuscito, gliene sarebbe stato grato per il resto della sua vita.

Scostò un ciuffo dalla fronte del bambino e vi posò un piccolo bacio.

«Torna a dormire, sei stanco.»

Kiki annuì, si asciugò gli occhi e lo guardò.

«Ma venite anche voi, vero?»

Mu annuì e accompagnò il bambino a letto. Gli rimboccò le coperte di lana in modo che lo tenessero al caldo e gli diede un ultimo bacio sulla fronte.

Fece per allontanarsi, ma Kiki gli afferrò la mano.

«Voi vi sveglierete, vero?» gli chiese, con un filo di voce.

Mu sorrise e annuì.

«Io mi sveglierò sempre, non temere.»

Il bambino abbozzò un mezzo sorriso e affondò il volto sul cuscino. Pochi minuti dopo, il respiro si era fatto regolare e Mu lasciò andare la sua manina. Chissà se sarebbe mai diventato un insegnante di cui il suo maestro sarebbe potuto andare fiero.

Diede un'ultima occhiata alla cassa della cloth, poi la coprì di nuovo con una pesante stuoia.

 

Forse non sarò alla vostra altezza, ma farò di tutto per rendervi fiero di me.

Come Santo dell'Ariete e come maestro.

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Capitolo 8
*** XIX: Il Sole - The dark side of the sun ***


XIX: Il Sole – The dark side of the sun

 

"La forza e il coraggio non sono tutto. Il cuore è la cosa più importante."

"Cosa intendi? Non capisco."

"Prima o poi capirai, Aiolia."

 

Aiolia spalancò gli occhi. La fronte era madida di sudore, il respiro corto. Richiuse le palpebre e rimase qualche secondo immobile. Da fuori provenivano solo il frinire delle cicale e il freddo della notte.

Si tirò a sedere e il lenzuolo gli si accartocciò in grembo.

Di nuovo quel sogno. Di nuovo quel frammento di un passato che non voleva affrontare. Tutti i suoi discorsi, tutte le sue belle parole, e per cosa? Per tradire il Grande Tempio e cercare di assassinare Atena? Era quella la sua idea di Santo?

Si passò una mano sul volto e prese un profondo respiro. Cercò di calmarsi, di riportare la mente alla freddezza e alla lucidità che non era sicuro di aver mai avuto. Suo fratello gli aveva sempre rimproverato di non riflettere mai abbastanza, ma quando era un bambino non gli aveva mai dato troppa importanza. Perché farlo?

Scivolò fuori dal letto e si rinfrescò il volto con un po' dell'acqua che era rimasta nel catino dalla sera prima. Si guardò allo specchio e per un breve attimo gli parve di rivedere il volto del fratello. Un moto di rabbia e vergogna lo invasero e si affrettò a distogliere gli occhi.

Quattordici anni.

La sua età, l'età che Aiolos aveva la notte in cui tradì.

E gli assomigliava talmente tanto che si chiese come mai nessuno avesse preso a chiamarlo "traditore".

Scrollò le spalle e allontanò quei pensieri. Non gli faceva bene rimuginarci così di prima mattina, poi rimaneva di pessimo umore per il resto della giornata.

Indossò una camicia sopra i pantaloni e uscì di casa.

Vagò per un tempo che non riuscì quantificare, lasciando che fossero le proprie gambe a trasportarlo, finché non raggiunse un grande melo, che si stagliava scuro contro il cielo nero della parte più buia della notte.

«Il melo dove ci allenava» mormorò, mentre sfiorava l'immensa corteccia con il palmo della mano.

All'ombra di quell'albero aveva ricevuto le sue prime lezioni su come controllare il Cosmo, insieme agli altri Santi d'Oro. Ricordava ancora le incisioni che Milo aveva fatto sulla corteccia e le proteste fiacche di Aldebaran su quanto fosse crudele nei confronti dell'albero. Ma soprattutto ricordava suo fratello, il suo caldo sorriso, i suoi abbracci e i baci che, di tanto in tanto, gli schioccava sulla fronte.

E tutte le bugie che gli aveva raccontato.

Un nodo al petto lo soffocò e Aiolia si lasciò cadere tra le radici del melo. Afferrò i fili d'erba tra le mani, come se fossero l'unica ancora che lo teneva saldo in quel mondo, e appoggiò la fronte sul terriccio umido. Un grido silente lasciò la sua gola e fredde lacrime gli bagnarono le guance, mentre il dolore lo sopraffaceva ancora una volta. Di nuovo i ricordi di una vita, simili a stilettate crudeli, affondarono nella sua carne, stillando rabbia e disperazione che gli avvelenavano l'anima, spingendolo a odiare ciò che più di tutto aveva amato.

E anche quella notte, la luna fu l'unica testimone di quel dolore di cui non era ancora riuscito a liberarsi.

 

"Una volta Santo dovrai proteggere Atena con tutte le tue forze."

"Combatteremo insieme, vero, fratellone?"

"Già. Non vedo l'ora di poter essere fiero dell'uomo che sarai diventato."

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Capitolo 9
*** I: Il Bagatto - Se solo... ***


I: Il Bagatto – Se solo…

 

La bufera di neve mi sferza il volto, accecandomi a tratti. I fiocchi di neve si infilano dentro il cappuccio tirato su a coprire i capelli e si appiccicano alla pelle. Un brivido scuote il mio corpo: dovrei essere abituato, ma la preoccupazione per Isaac sta mettendo alla prova i miei nervi.

Se solo non avesse iniziato a nevicare.

Sollevò il naso verso il cielo nero e mi chiedo per quanto ancora continuerà in questo modo. Cercare un disperso in queste condizioni è da folli, dovrei tornare indietro, al tepore e alla sicurezza di casa.

Ma non posso, non prima di averlo trovato. Perché è qui da qualche parte, vivo e vegeto, lo sento.

Mi rimetto in marcia, il braccio sollevato per proteggermi il volto dal vento impietoso, ma la visibilità è nulla. Davanti ai miei occhi c'è solo il bianco danzante della neve. In queste condizioni non riuscirò mai a trovarlo.

Affondo i denti nel labbro e, con un peso sul cuore, ritorno sui miei passi.

Perdonami, Isaac.

 

«L'hai trovato?»

È la prima cosa che mi chiede Hyoga non appena metto piede in casa, ma il fatto che sia rientrato da solo risponde alla sua domanda.

«La tempesta è troppo forte» gli dico, mentre mi tolgo il cappotto. «Riprovo non appena scema un po'.»

Hyoga abbassa gli occhi e ritorna a sedersi vicino al fuoco, le braccia che cingono le gambe raccolte al petto. Il crepitio delle fiamme che divorano i ciocchi di legno sono l'unico rumore che echeggia nell'aria.

«È colpa mia» mormora, ad un certo punto. «Si è tuffato per salvare me e adesso…»

Tace, ma so cosa vorrebbe dire. Non ne ha il coraggio, come non ce l'ho io.

Prendo un respiro e torno a guardare la sua schiena curva.

«È vivo, ne sono sicuro» gli dico.

«E se fosse rimasto intrappolato sotto il ghiaccio?»

«Isaac è forte, sa come uscirne.»

«E se fosse ferito?» Hyoga affonda la testa sulle braccia. «E se avesse perso i sensi? La bufera potrebbe ucciderlo.»

«Hyoga.»

«È colpa mia» mormora. «Ho ucciso il mio compagno. Ho…»

Il silenzio torna riempire lo spazio tra noi.

Vorrei dirgli che la colpa è solo mia per non esserci stato, per non aver vigilato quanto avrei dovuto, ma non ci riesco. Vorrei, ma esternare i miei sentimenti è sempre stato difficile. Se solo Milo fosse qui, riuscirebbe a dirgli che mi dispiace per non essere il maestro che meritavano.

«Mi odi, vero?» La voce tremula di Hyoga rompe di nuovo il silenzio. «Isaac era più bravo di me, l'armatura del Cigno era sua, ma io… Io…» Tace di nuovo, come se stesse cercando di trattenere le lacrime. «Era il tuo allievo prediletto, vero?»

«No» gli rispondo. «Lo eravate entrambi, allo stesso modo.»

«Ma io l'ho ucciso.»

Schiudo le labbra per replicare, per dirgli che no, non potrei mai odiarlo, mai, per nessun motivo, ma le parole mi rimangono incastrate in gola. E per quanto mi sforzi, per quanto mi imponga di aprire bocca e parlare, non ci riesco. Non riesco a fingere che vada tutto bene, quando il mondo intorno a noi sta andando a pezzi. E la colpa è solo mia.

Se solo fossi un uomo migliore.

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Capitolo 10
*** IX: L'Eremita - Domanda senza risposta ***


IX: L'Eremita – Domanda senza risposta

 

«Stai partendo, Shiryu?»

«Sì, maestro.»

Dohko si diede una breve occhiata alle spalle: l'allievo era inginocchiato a pochi passi da lui, la cassa sulla cloth già sulle spalle. Per un attimo gli parve di rivedere se stesso in quel giovane, ma la verità era che Shiryu assomigliava molto più a Shion. Forse era anche per quel motivo se si era affezionato così tanto a lui.

«Sarà una battaglia difficile» disse, mentre sollevava di nuovo lo sguardo all'imponente cascata davanti a sé. Il rumore dell'acqua che scrosciava con violenza in basso era una nenia rassicurante alle sue orecchie.

«Lo so, ma dobbiamo farlo.»

«Lo so.»

Tornò a guardarlo.

«Fai attenzione. I Santi d'Oro non sono guerrieri da sottovalutare e, anche se non sono tutti nostri nemici, sarà difficile convincerli a voltare le spalle al Gran Sacerdote.»

Shiryu chinò la testa.

«Lo farò, non temete.»

«Ho fiducia in te.»

«Vi ringrazio.»

Il ragazzo si sollevò in piedi, gli fece un ultimo inchino e si allontanò, tallonato da Shunrei. Dohko tornò a guardare la cascata; era giusto che avessero un momento da soli, prima della battaglia, e lui non glielo avrebbe di certo negato.

Tredici anni…

A pensarci adesso gli sembrava che fosse avvenuto ieri, ma forse era solo perché aveva vissuto più di due secoli.

Iniziava a essere stufo di quella vita troppo lunga per i suoi gusti e le rinunce che aveva fatto pur di adempiere al suo compito gli pesavano sulle spalle. Eremita presso quella cascata eterna, a osservare il lento scorrere della volta celeste, silente guardiano in attesa di una guerra che sapeva sarebbe arrivata ma che non desiderava affatto. Aveva già perso molti dei suoi compagni, non voleva perderne altri. Ma il pensiero che anche Shion stesse attraversando le stesse difficoltà lo aveva aiutato a resistere. Certe notti era l'unica consolazione che potesse permettersi e vi si crogiolava dentro, con il cuore rivolto all'unica persona che desiderava davvero rivedere e che gli era preclusa.

Poi Shion era morto, ucciso da un uomo di cui si fidava, e niente era più stato lo stesso ai suoi occhi. Il tempo era diventato un tiranno implacabile e neanche la compagnia di Shunrei e di Shiryu era servita a scaldarlo. Nessuno di loro era lui.

Sospirò ed estrasse il bracciale da una tasca dei pantaloni. L'oro brillava ancora come il giorno in cui glielo aveva regalato, come se il tempo non lo avesse neanche sfiorato. L'unica cosa che gli restava di lui, insieme a quella domanda a cui all'epoca non era riuscito a dare una risposta.

Adesso poteva farlo, era pronto, ma lui non avrebbe potuto udirla.

 

"In Tibet, quando un uomo vuole comunicare i propri sentimenti regala un bracciale e attende la risposta dell'altra persona. Capisci cosa intendo, vero, Dohko?"

"Io non ho una risposta, Shion. Non ora, almeno."

"Vorrà dire che aspetterò. Per te, posso aspettare fino alla fine dei tempi."

 

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Capitolo 11
*** XVIII: La Luna - Aletheia ***


XVIII: La Luna – Aletheia

 

Aphrodite chiude gli occhi e appoggia una mano alla colonna. Anche Shura, dopo Death Mask. Un altro Cosmo che svanisce nell'aria fredda della sera, un altro amico che ritorna alle stelle.

Esala un sospiro, che alle sue orecchie sembra più un rantolo di dolore, e riapre le palpebre. La notte lo circonda, un manto blu scuro che si distende sopra il Grande Tempio, offuscando gli ultimi sprazzi di luce e le ultime speranze che ancora possiede nel cuore.

Perché? Perché sta andando in questo modo? Perché dei semplici Santi di Bronzo sono arrivati fin quassù?

Socchiude le dita intorno a uno dei tralci che si arrampicano sulla colonna, le spine gli graffiano la pelle e il suo sangue stilla in perfette gocce cremisi. Si guarda la mano ferita come se non appartenesse a lui e un altro sospiro lascia le sue labbra.

Non è così che deve andare, non è per perdere degli amici che si è affidato a Saga. Non è per questo che ha creduto in lui al punto da perdere se stesso. Dei semplici Santi di Bronzo che mettono in ginocchio i guerrieri più forti, che fanno a pezzi gli ideali in cui ha sempre creduto. Riderebbe, se solo gli fossero rimaste le energie per farlo. Ma la sua gioia e il suo sprezzo per tutto ciò che ha imparato a ritenere inferiore sono svaniti insieme al Cosmo dei suoi migliori amici.

E adesso cosa gli rimane, se non rose profumate che non avrebbe mai più potuto regalare?

«C'è ancora Saga» mormora, sfiorando una corolla rosso sangue. «Saga e la sua giustizia.»

Un sospiro.

C'è Saga, ma non ci sono più i suoi due migliori amici. Di loro non è rimasto altro che polvere di stelle e frammenti di ricordi, petali sfioriti di fiori recisi. Perché continuare a combattere?

Perché lui è giustizia, non l'ho forse seguito per questo? Non è forse per questo che ho tradito Atena? Perché è stato lui a chiedermelo?

Serra le dita intorno al gambo di una rosa recisa, le spine gli graffiano la pelle dei polpastrelli ma non la incidono.

No.

Non l'ha seguito perché è giustizia, ma perché era tutto. Lo è sempre stato, ai suoi occhi come a quelli di Death Mask. Il suo tutto.

Il suo mondo, l'intero universo nel corpo di un uomo. Il primo e unico ad aver visto davvero nel suo cuore, ad aver sfiorato la sua anima e averci lasciato un piccolo seme, ed è per questo che continuerà a combattere. Anche se vorrebbe piangere. Anche se vorrebbe lasciare tutto e sotterrare quel poco che rimane dei suoi unici amici.

Lapidi che non voglio vedere e corpi che non voglio sotterrare.

Si porta una mano al volto, a quell'unica lacrima che ha lasciato solcare la sua guancia, e se l'asciuga con le punte delle dita. Saga ha ancora bisogno di lui, dell'unico in grado di comprenderlo e proteggerlo. Avrebbe portato a termine il suo compito e poi avrebbe sotterrato gli amici e ricoperto le loro tombe di rose, di quei fiori che hanno sempre amato. Saga sarebbe stato fiero di lui e lo avrebbe elogiato, come anni fa aveva elogiato Shura, molto prima che scoprissero che dietro quella maschera non c'era più Shion. Quegli elogi avrebbero reso più sopportabile il dolore.

Un dolore più penetrante di tutte le spine delle rose del suo giardino.

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Capitolo 12
*** VI: Gli Amanti - Come petali di amaryllis ***


VI: Gli Amanti – Come petali di amaryllis

 

Appoggio la schiena alla lastra di marmo, gli occhi rivolti al cielo plumbeo. Il vento che soffia dai monti dietro il Grande Tempio mi porta alle narici odore di pioggia. Dovrei rientrare, prima di bagnarmi e prendermi un malanno, ma non ho molta voglia di lasciarti. E poi qualcuno deve pur finire la bottiglia di vino; a te, in fondo, l'alcol non è mai piaciuto.

Tracanno l'ennesimo sorso e appoggio la nuca sul marmo freddo, che mi strappa un brivido. Il mondo sopra di me sembra ruotare, così chiudo gli occhi e mi lascio cullare dalla brezza.

Quiete e odore di pioggia, proprio come quella volta di quattro anni fa.

Ricordi sospesi come in un sogno.

Il tuo volto serio e impassibile, i capelli rossi come petali di amaryllis, e come quelli risplendevi. Io chiacchieravo e tu osservavi in silenzio lo spumeggiare del mare in lontananza, un libro stretto al petto; la pioggia cadeva fitta fuori dall'Ottava Casa – la mia casa – ma noi eravamo al riparo. Il mondo fuori dalla nostra piccola bolla di quiete non ci interessava. Poi la tua sorpresa per quel bacio rubato, i tuoi occhi chiari che mi fissavano confusi, il mio volto che andava a fuoco. La tua fuga all'Undicesima e il libro abbandonato sul pavimento, le pagine che frusciavano nel silenzio.

Non ti ho mai chiesto perché fossi scappato e tu non mi hai mai chiesto perché l'avessi fatto; la verità era che non ci importava. Ci siamo avvicinati perché le stelle l'hanno voluto, le stesse che alla fine ci hanno separato.

Le prime gocce mi cadono sulla guancia, più fredde del marmo che preme contro la mia schiena, più calde del vuoto che sento nel petto. Non mi ci sono ancora abituato, eppure quanto tempo è passato? Una settimana? Forse di più, ma è difficile tenere conto dei giorni che passano quando è l'alcol a scandire la tua routine. Quando tutto ciò che mi è rimasto è una bottiglia di vino francese e una lapide grigia.

Una mezza risata lascia le mie labbra ed echeggia nella quiete solo per un breve istante. Sono davvero caduto in basso, aggrapparmi con tutto me stesso all'alcol non mi impedirà di sprofondare, ma non riesco a farne a meno. Non adesso, forse mai. Se tu fossi qui sono sicuro che mi faresti una delle tue solite lavate di capo. Ma tu non ci sei, è questo il problema.

Io sono qui, mentre tu non ci sei più. Hai lasciato tutti quanti indietro e te ne sei andato dove nessuno di noi può raggiungerti. Dove io non posso raggiungerti. Di te mi sono rimasti solo questo dolore freddo che non desidero e il calore delle tue mani sul mio petto.

Avevi promesso che saresti tornato, ma non l'hai fatto. Mi hai mentito e io non riesco a perdonarti.

Affondo le unghie nei palmi. Il cielo sopra di me è appena diventato una confusa macchia grigia, una massa d'acqua sospesa tra cielo e terra. La pioggia tarda ad arrivare, ma le mie guance sono già rigate. Lacrime fredde, come il vuoto che ho nel petto.

Come la lapide su cui ho inciso il tuo nome.

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Capitolo 13
*** XX: Il Giudizio: Samsara ***


XX: Il Giudizio – Samsara

 

«Non credevo che ti avrei visto qui.»

Shaka si voltò.

«Potrei dirti la stessa cosa» disse.

Mu lo affiancò e si inginocchiò davanti alla lapide, il frusciare dei pantaloni tra l'erba alta del prato turbò per un attimo la quiete.

«Tu lo sapevi, vero?»

Shaka emise un breve sospiro.

«No, non lo sapevo.»

«I tuoi occhi non hanno visto la sua vera essenza?»

«L'hanno vista.»

Mu si alzò di nuovo.

«Allora era davvero buona.»

Shaka corrugò la fronte, ma rimase in silenzio. Non c'era nulla che avrebbe potuto dirgli, nulla che avrebbe potuto alleggerire il suo animo. Non si era accorto della vera identità del Gran Sacerdote; se l'avesse fatto, forse avrebbe fatto altre scelte.

O forse avrei compiuto le solite.

Mu gli poggiò una mano sulla spalla.

«Torno alla Prima Casa» disse, e di nuovo il frusciare dei suoi abiti sull'erba riempì il silenzio per qualche minuto.

Shaka tornò a guardare la lapide su cui era stato inciso il nome di Saga. Non la vedeva, in realtà, e non percepiva più niente del Santo di Gemini; sotto, il suo corpo stava venendo divorato dai vermi, ma la sua anima non era più lì. Solo un vuoto che sapeva di tristezza.

Solo sofferenza.

Per un attimo gli sembrò di tornare di nuovo bambino, in quelle fredde sale del tempio dove era cresciuto, dove la sofferenza e il dolore marchiavano i volti dei fedeli. Aveva chiuso gli occhi per non vederli, per non soffrire insieme a loro e più di loro, e da allora li aveva sempre tenuti chiusi.

Per non vedere e per non compatirli.

Per non provare dolore.

Alla fine, però, si era illuso anche lui che si fregiava del titolo di "Illuminato". Lui, che aveva chiuso gli occhi al mondo sofferente, limitandosi a compatire il dolore altrui ma senza accoglierlo davvero. Era questa la strada che doveva percorrere? Era questa la vera via?

Se l'era chiesto a lungo, ma era stato Ikki a mostrargli la risposta. Un tempo credeva che il nirvana attendesse solo coloro che si elevavano sopra le proprie spoglie terrene, che chiudevano gli occhi al mondo e vi volgevano le spalle, ma adesso riusciva a vedere davvero per la prima volta dopo tanti anni. Quel ragazzino era riuscito dove la meditazione aveva fallito e di questo gliene sarebbe sempre stato grato.

Si inginocchiò sull'erba e poggiò un vecchio rosario sul marmo gelido, accanto al mazzo di fiori che aveva lasciato Mu. Diede un ultimo sguardo vuoto alla lapide e tornò verso la Prima Casa.

 

Persino la morte non deve essere temuta da coloro che hanno vissuto saggiamente.

Perché la morte non è la fine, è solo una breve fase nel ciclo continuo del Samsara.

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