Ama no Murakumo: Demigod Diaries

di edoardo811
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Demoni ***
Capitolo 2: *** Vera bellezza ***
Capitolo 3: *** Condividere ***
Capitolo 4: *** Parti in movimento (pt1) ***
Capitolo 5: *** Parti in movimento (pt2) ***
Capitolo 6: *** L'oasi violata ***
Capitolo 7: *** Un gelato a Central Park ***
Capitolo 8: *** Cattura la bandiera (pt1) ***
Capitolo 9: *** Cattura la bandiera (pt2) ***
Capitolo 10: *** Cattura la bandiera (pt3) ***
Capitolo 11: *** Partenze ***
Capitolo 12: *** Il figlio di Efesto e la figlia di Ebe ***



Capitolo 1
*** Demoni ***


Salve gente, come promesso, eccoci con la raccolta! Al fondo del capitolo lascerò alcune note per spiegare meglio la situazione, qui inizio solo con il dire che, se non avete letto "La Spada del Paradiso" e avete intenzione di farlo (e se non avete intenzione allora fatelo comunque) vi consiglio caldamente di non leggere questo capitolo e la raccolta in generale perché pieni, strapieni di spoiler, in particolare questo capitolo in quanto ambientato dopo il finale della storia.

Quindi sì, SPOILER WARNING!

Bene, non dico altro, ci vediamo giù. Buona lettura!

 

 

 THOMAS

1

Demoni

 

 

Tommy era teso. Aveva affrontato mostri, Giganti, Orochi, eppure nemmeno di fronte a loro si era sentito così intimorito. 

Quelli avrebbero potuto farlo a brandelli, fargli male, tanto male. Ma erano mostri, sapeva cosa aspettarsi da loro.

Da ciò che lo attendeva invece… non sapeva cosa aspettarsi. Sapeva solo che avrebbe potuto trattarsi di un mostro ben peggiore di tutti quelli che aveva già incontrato. 

La situazione era grave. Molto di più di quanto avrebbe mai potuto immaginare.

Le pareti bianche, il pavimento di piastrelle lucide, l’odore di disinfettante, i vasi con le piante sparpagliati qua e là, le donne in divisa verdi e rosa che camminavano frettolose, alcune spingendo carrozzine, le espressioni lugubri sui volti delle persone sedute nelle sale di attesa, la reception rotonda dove una segretaria lottava disperata contro venti telefoni che squillavano in contemporanea. 

Quel luogo lo inquietava. Non avrebbe dovuto metterci piede. Voleva andarsene e non voltarsi più indietro.

Una mano si posò sulla sua spalla, facendolo trasalire. Lisa apparve accanto a lui, sorridendogli con dolcezza. Era stupenda, come sempre. Con la sua coda di capelli ricci, il viso tondo e lentigginoso e il sorriso gentile.

«Forza Tommy. Puoi farcela» bisbigliò, dandogli un bacio sulla guancia.

Per un secondo, il figlio di Ermes si domandò perché era andato in quel luogo, quando avrebbe potuto tenere per mano la sua bellissima ragazza durante una passeggiata a Central Park o a Times Square. 

Poi, ricordò che era stato proprio per la volontà di lei che erano finiti lì. Sospirò ed annuì, angosciato nonostante il bacio. Abbozzò un sorriso verso la figlia di Bacco, poi si avviarono verso la reception. 

«S-Salve» disse cauto non appena la receptionist sembrò liberarsi. «Stiamo cercando una persona. Sappiamo che è ricoverata qui.»

La donna chiese i loro documenti mentre batteva le dita sulla tastiera del computer, li fece firmare sopra un registro e poi indicò il piano e la stanza senza degnarli di una seconda occhiata. «L’orario delle visite termina tra mezz’ora» annunciò tiepida, prima che il telefono squillasse di nuovo. A quel puntò alzò gli occhi al cielo, sospirando esausta. 

«Ehm… grazie.» 

I due semidei presero il primo ascensore libero per salire al quinto piano. Per tutto il tempo, Thomas non disse una parola, rimanendo rigido come un palo. Osservò i pulsanti dei piani illuminarsi man mano che salivano. 

Ancora una volta, Lisa cercò di confortarlo posandogli una mano sulla spalla. «Andrà tutto bene, Tommy. Sta tranquillo.»

Thomas la osservò assorto. Se non fosse stato per lei, non si sarebbero mai trovati lì. Era stata lei ad aiutarlo spiegare a Chirone la situazione. Il centauro gli aveva permesso di telefonare ai suoi nonni, per sapere dove fosse sua madre. Quando i nonni gli avevano detto cos’era successo, non aveva potuto credere alle sue orecchie. Gli avevano dato l’indirizzo e lo avevano salutato con calore, come se non se ne fosse mai andato dalle loro vite. 

In quel momento, Tommy aveva pensato a quanto fossero stati indispensabili per lui. Erano anziani ormai, ma era bastato solamente sentirli per telefono per capire che non avevano perso un solo colpo. Sarebbe andato a trovare anche loro, era una promessa. Li avrebbe presentati a Lisa e le avrebbe mostrato il luogo dov’era cresciuto.

Dopo aver detto a Chirone cosa intendevano fare, il centauro non aveva avuto il cuore di impedire loro di uscire dal campo solo per un pomeriggio. Sapevano che era pericoloso, ma dopotutto avevano entrambi completato un’impresa e poi sarebbe stato solo per poche ore.

Sarebbe andato tutto bene. Anche perché Thomas stava realmente desiderando che dei mostri li attaccassero, così da avere un valido motivo per poter fuggire da lì. E di solito, quando desiderava una cosa, si avverava l’esatto opposto.

Le porte si aprirono con un DING, spalancandosi su un corridoio grigio e triste. Delle infermiere gli vennero incontro e lui spiegò cos’era venuto a fare. Purtroppo non lo cacciarono via. Anzi, furono molto gentili e cortesi. Gli indicarono una porta sulla destra, affermando che poteva stare fino al termine dell’orario di visita. Sarebbero venute loro a chiamarlo quando era ora di andare. 

Camminarono per il corridoio e l’odore di chiuso di quel luogo si insinuò nelle sue narici facendogli girare la testa. Non riusciva a crederci che le cose fossero finite così. L’ultima volta che l’aveva vista, sua madre viveva da sola, in una casa modesta in periferia. Erano passati anni da allora. Anni in cui tutto quanto era stato stravolto.

Arrivarono di fronte alla porta, socchiusa. Thomas rimase immobile, ad osservarla angosciato.

Disturbo borderline di personalità. Di quello l’avevano diagnosticata, prima di ricoverarla lì, nel reparto psichiatrico. 

Tommy non aveva potuto accettarlo. Non gli importava se quella donna lo aveva ferito, era pur sempre sua madre. Non riusciva ad accettare che… che fosse fuori di testa. 

Era stato un colpo durissimo. Ancora gli si stringeva lo stomaco al solo pensiero. Ma grazie agli dei, Lisa lo aveva aiutato a reggere, rimanendogli accanto per tutto il tempo. Non aveva idea di che cosa avrebbe fatto senza di lei. Forse lui le aveva salvato la vita, affrontando Efialte, ma lei stava migliorando la sua minuto dopo minuto, giorno dopo giorno.

Essere semidei non sempre era semplice. Molte volte non lo era affatto. Spesso, oltre ai mostri che cercavano di ucciderli, erano costretti ad avere a che fare anche con altri mostri: i mostri della vita reale. 

Erano sempre due le vite che venivano sconvolte dal passaggio degli dei: quella dei loro figli e quella del mortale di cui si innamoravano. Alcuni riuscivano a superare la cosa, altri, invece, no. 

Bussò timidamente, finendo con l’aprire ancora di più la porta. Nessuna risposta. A stento, per via del cuore che batteva con forza nel petto, riprovò un’altra volta, sempre senza risultato. Scambiò uno sguardo con Lisa che, ancora una volta, lo incitò a proseguire con un sorriso amorevole.

Rincuorato dallo sguardo apprensivo della sua ragazza, Tommy spinse la porta, che si aprì con un lento cigolio. 

Avanzò in un breve corridoio, superando il bagno sulla destra ed arrivando ad una stanza piccola, spoglia, con solo un armadio e un letto affacciato su un’ampia finestra. Non appena Thomas notò le sbarre, come se si trovasse in una cella di prigione, sentì l’impellente desiderio di fuggire da lì. 

Non poteva accettarlo. Era… sbagliato. 

Quando vide la donna seduta sul bordo del materasso, le spalle rivolte verso di lui e lo sguardo smarrito verso il paesaggio esterno, sentì il suo cuore cessare di battere. Fece alcuni passi e lei si voltò con un gesto meccanico. Thomas si fermò, paralizzandosi.

La donna aveva capelli rossi, dello stesso colore dei suoi, che scendevano disordinatamente sopra il suo volto e le sue spalle, coprendo uno dei due occhi cristallini. Aveva il volto pallido, prosciugato, con le guance scavate e diverse rughe. 

Era molto diversa da come la ricordava. Eppure, era lei. Era sua madre. Lo osservò con occhi vitrei per diversi istanti, schiudendo leggermente le labbra. 

Tommy avrebbe voluto dire qualcosa, ma non trovò le parole esatte da dire. Non sapeva come comportarsi. Dopo tutto quello che era successo, dopo essere stato abbandonato da lei, in che modo avrebbe dovuto rapportarcisi? 

La donna si alzò dal letto, facendo con passo tremante il giro del materasso, ritrovandosi di fronte a lui. Continuò ad osservarlo, scrutandolo con aria quasi intimorita. La sua voce uscì come un sibilo d’aria: «Thomas…»

Il ragazzo spalancò gli occhi per lo stupore. Annuì incerto, serrando le labbra, reggendo il suo sguardo. Era passato un sacco di tempo dall’ultima volta che aveva sentito la sua voce. 

«Thomas…» ripeté lei, avvicinandosi di qualche altro passo. Tese una mano verso di lui, osservandolo come se fosse stato uno spettro. Poi, le lacrime cominciarono a sgorgarle dagli occhi. «T-Thomas…» sussurrò ancora, prima di abbracciarlo con forza. 

Cominciò a piangere, stringendo le braccia dietro la sua schiena, appoggiando il mento sulla sua spalla. Tommy rimase immobile, incredulo. La vista gli si appannò.

Avvolse il corpo della donna, fragile e magro come un fuscello, ed appoggiò anche lui il mento sulla sua spalla, prima di stringere i denti e serrare le palpebre, mentre un fiume di lacrime cominciava a farsi strada dai suoi occhi. Pianse anche lui, versando quelle gocce salate, dolci e amare allo stesso tempo. Lacrime di gioia, per averla rivista, lacrime di tristezza, per tutto quello che era successo. Felicità e angoscia si mischiarono in quel pianto che da molto tempo aspettava di poter uscire.

«Sono… così felice di vederti…» bisbigliò Michelle. Gli accarezzò la schiena, suscitandoli un brivido. Quel tocco morbido, materno, lo colse di sorpresa. Non l’aveva mai ricevuto prima di quel giorno.

Thomas la abbracciò con forza. «Anch’io… anch’io sono felice di vederti.»

Sua madre lo aveva odiato, lo aveva abbandonato, lo aveva ferito nel profondo. Eppure, non poteva essere arrabbiato con lei. Specie dopo tutto quello che aveva passato. La sua vita era stata stravolta, le avevano diagnosticato una malattia orribile e l’avevano ricoverata. 

Dopo averla vista piangere, dopo che l'aveva abbracciato in quel modo, aveva capito che in realtà non era stata quella donna a fargli tutto quel male, ma la sua condizione.

Lei non gli avrebbe mai fatto del male di sua spontanea volontà. Ne era sicuro. 

Quando si separarono, lei gli prese il volto tra le mani, osservandolo negli occhi e distendendo il suo sorriso triste. «Sei… sei cresciuto così tanto…»

Tommy sentì le guance tingersi, mentre reggeva lo sguardo. Glielo disse con voce felice, orgogliosa perfino. 

«Come stai, Thomas? Come… come va al campo?»

«Va… va tutto bene» mormorò lui, faticando a trovare le parole giuste. «Ho… ho conosciuto un sacco di persone. Ho dei fratelli, degli amici e…» Si voltò verso di Lisa, che era rimasta nel corridoio ad osservare la scena con un sorriso intenerito, e le fece cenno di avvicinarsi. Anche Michelle si accorse di lei, perché fece un verso sorpreso. «Thomas…» bisbigliò ancora, con voce meravigliata.

«Salve, io… sono Lisa. Piacere… piacere di conoscerla» mormorò la figlia di Bacco, imbarazzata, rivolgendo un timido cenno di saluto.

Tommy si separò dalla madre per prendere la mano della fidanzata, facendola sussultare. «Lei è… è la mia ragazza» concluse le presentazioni, sapendo che lei non avrebbe mai trovato il coraggio di dirlo. 

Lisa arrossì, mentre Michelle si portava le mani di fronte alla bocca, gli occhi che luccicavano di nuovo.

Un po’ imbarazzato a sua volta, Thomas si massaggiò dietro al collo. «Ho… ho tante cose da raccontarti.»

Michelle annuì con un sorriso commosso, prima di stritolarlo di nuovo in un abbraccio. «Mi… mi dispiace… per quello che ho fatto…» sussurrò con voce incrinata, suscitando un verso di sorpresa in lui. Poi, timidamente, sorrise e l’abbracciò di nuovo, accarezzandole la schiena. «Non… non importa, mamma. È acqua passata.»

«Ti voglio bene, Thomas. Non... non sai quanto te ne voglia.» 

«Ti… ti voglio bene anch’io» sussurrò lui, prima che altre lacrime lo assalissero.

«Grazie per essere tornato.»

Quelle parole scesero come un macigno nel suo stomaco. Gemette, stringendola con più forza. Se non fosse stato per Lisa, non sarebbe mai tornato. Aveva sempre visto sua madre come un demonio, senza mai realizzare che in realtà lei era sempre stata costretta a combatterne uno. Ma non si sarebbe ripetuto. Aveva capito cos’era successo ed erano di nuovo insieme. 

E giurò a sé stesso che questa volta lo sarebbero rimasti. 


 
 
 
 
 
 
  

Salve di nuovo gente, grazie per aver letto!

Spero che questo primo capitolo vi sia piaciuto, diciamo che questa oneshot è il motivo principale per cui è nata la raccolta. Volevo raccontare del ricongiungimento tra Tommy e sua madre, ma per farlo avrei dovuto “sporcare” il finale della Spada del Paradiso, aggiungendo un ulteriore capitolo a mo’ di scena post-crediti e non mi piaceva molto l’idea. Quindi, mi son detto, perché no? Creiamo una raccolta gigante di scene post-crediti e via, siamo tutti più felici. Io sono felice perché scrivo dei miei bimbi e voi siete felici perché potete leggere qualcosa, quindi vincono tutti.

Non ho idea di quanti capitoli ci saranno, né di quanto saranno lunghi, né di quando si svolgeranno. Come ho detto, sarà una raccolta con un po' di tutto dentro e le idee mi verranno man mano.

Questa oneshot si svolge dopo la storia, Thomas e Lisa stanno insieme e sono andati a trovare la madre di Tommy. Siccome è il primo capitolo non mi sono dilungato all’inizio, ma la mia idea è questa: all’inizio di ogni capitolo inserirò una nota per spiegare in quale momento de “La Spada del Paradiso” ci troviamo, che sia durante, dopo o perfino prima,  in modo da levare ogni dubbio. Ditemi se per voi è una buona idea, è la prima volta che faccio questo genere di raccolte).

Il pov si evince dal nome in alto (non metterò le immagini perché sarebbe più difficile riconoscere personaggi "esterni" al trio originale) e ogni storia sarà numerata e avrà un titolo, ma il numero non inficerà sull'ordine in cui vanno lette, nel caso dovessi scrivere un "sequel" di una oneshot, lo metterei in una nota in alto. Conoscendomi, so già che mi autociterò un milione di volte, perché sono fatto così, ma cercherò sempre di fare in modo che ogni storia possa leggersi in maniera a sè stante (non che sia un problema, perché so che voi cari lettori le leggerete TUTTE, vero? Kiss).

Approfitto, infine, per avvertire che la revisione de “La Spada del Paradiso” è quasi ultimata. Ho dato una ripulita, riscritto scene che non mi piacevano e modificato qualche dialogo qua e là, togliendo le battute che mi avevano fatto storcere il naso. In particolare, ho modificato lo scontro tra Hikaru e i semidei, nel capitolo 33. Ricordo che quel capitolo non mi era piaciuto molto (non a caso è stato l’ultimo capitolo che avevo scritto prima della mia lunghissima pausa), ora con le modifiche devo dire di apprezzarlo molto di più. 

Quindi, se siete interessati, potete trovare la Spada del Paradiso bella revisionata. 

Per concludere, spero che le oneshot vi piacciano, spero di rivedere i miei cari recensori e perché no, magari anche volti nuovi. Grazie per aver letto e alla prossima!

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Capitolo 2
*** Vera bellezza ***


Nota: questo capitolo si svolge durante gli avvenimenti del cap. 43 de La Spada del Paradiso "La notte senza fine."



 JANE –

Vera bellezza


 

Jane era da sola. 

Per la prima volta da quando era arrivata al Campo Mezzosangue, era da sola.

E il suo aspetto, o la lingua ammaliatrice, questa volta non avrebbero potuto cambiare nulla.

Gli altri ragazzi si erano stancati di lei. I suoi stessi fratelli pure. L’unico motivo per cui era ancora capocasa era perché nessuno di loro poteva sfidarla. Era sicura che non sarebbe nemmeno servito, perché probabilmente si sarebbe dimessa da sola. 

Il sipario era calato sul suo teatrino. Aveva mentito, imbrogliato, nascondendosi dietro il bel faccino che sua madre le aveva donato, sfruttando la sua discendenza divina per ottenere quello che voleva senza il minimo sforzo, insultando, calpestando chiunque si trovasse di fronte a lei.

Ma alla fine, il suo gioco malato era giunto al termine. 

Degli “sfigati” avevano appena completato un’impresa, affrontando un mostro orribile. Gli stessi “sfigati” che lei aveva deriso, offeso, e su cui aveva cercato di gettare fango assieme a Buck.

Mentre loro rischiavano la vita per salvarli tutti, lei faceva stupide macchinazioni per screditarli, per mettere i loro fratelli gli uni contro gli altri. Soltanto dopo averli visti tornare, dopo aver sentito la loro storia, era riuscita a comprendere quanto male avesse causato con le sue azioni. 

Come aveva potuto, lei, ritenersi migliore di loro? La sua bellezza non poteva competere con la bontà dei loro animi.

Se fosse stata bella dentro almeno la metà di quanto lo era fuori, forse non sarebbe successo tutto quello. Se la sua bellezza fosse stata vera e non soltanto un'immagine che aveva creato attorno a sé forse non avrebbe commesso tutti quegli errori. Forse, quella sera, non sarebbe rimasta da sola.

Il suo riflesso la guardò con occhi tristi, arrossati per via del pianto. 

Se fosse stata una persona migliore… a qualcuno sarebbe importato quello che Buck le aveva fatto.

Sentiva ancora la sua mano stringersi attorno al suo collo, il fiato che le mancava, la paura che la assaliva. Quello sguardo che lui le aveva rivolto… non lo avrebbe più dimenticato. Non aveva idea di cosa fosse successo, ma lui, quello, non era Buck. Non era lo stesso Buck che aveva conosciuto anni prima.

O magari… era stata troppo cieca per accorgersi di chi stesse davvero frequentando.

Voleva dormire, ma aveva paura. Aveva paura che lui potesse spalancare la porta e aggredirla di nuovo. Sapeva che non sarebbe dovuta restare da sola in casa, ma allo stesso tempo non aveva avuto il coraggio di farsi vedere alla festa, una festa che lei aveva creduto non sarebbe mai avvenuta. 

Era stata lei a farlo. Lei si era cacciata in quella situazione, comportandosi in quel modo schifoso, finendo tra l’incudine ed il martello. Alla fine, tutto aveva fatto il suo corso.

Se non altro, avevano accettato le sue scuse. Perché loro, a differenza sua, erano davvero brave persone. 

Qualcuno bussò all’improvviso, facendola trasalire. Si voltò spaventata verso la porta, temendo che potesse trattarsi di Buck. Rimase immobile, sperando che chiunque fosse decidesse di lasciar perdere. Invece, bussò ancora, tuttavia con tocco gentile, molto diverso da quello che si sarebbe aspettata da Buck. Intuì che non si sarebbe arreso tanto facilmente. Prese coraggio e andò ad aprire, lasciando solo uno spiraglio per capire chi fosse.

Era Edward. «Oh… sei tu.»

«Ehm… aspettavi qualcun altro?» 

«No…»

Jane spalancò la porta, sorpresa dalla sua presenza. Perché non era alla festa? Perché era lì?

Cominciò a farle domande, lasciandola atterrita. Perché stava pensando a lei?

«… cosa ne sai tu dell’eleganza…» mormorò mentre si lisciava la treccia, dopo la sua divertente battuta sul fatto che fosse elegante. Era ovvio che non ci vedesse bene. I suoi capelli erano un disastro, quel vestito non enfatizzava affatto il suo corpo e si era truccata alla bell’e meglio, più per forza dell’abitudine che per altro. Del resto, che altro poteva aspettarsi da uno che se ne andava in giro con la stessa felpa da quanto, un mese? Era pure piena di toppe e cuciture. Non aveva idea del perché non l’avesse ancora buttata via.

Tuttavia… poteva apprezzare il suo tentativo di sembrare gentile. Lo vide mentre la analizzava con i suoi occhi scuri e lei cercò di non guardarlo, per timore di arrossire. 

Era più forte di lei. Da quando lui, Thomas e Konnor erano tornati dall’impresa, aveva cominciato a vederli in modo diverso. Specialmente Edward. Era il figlio del dio più bello dell’Olimpo dopotutto, e aveva quelle cicatrici che gli davano un’aria misteriosa, forte e anche un po’ tenebrosa, ma nel senso intrigante del termine. Non l'aveva guardato davvero la prima volta che ci aveva parlato, perché lui aveva subito capito che tipo di persona lei fosse e per questo motivo l'aveva odiato con tutta sé stessa.

Ma dopo che aveva combattuto per salvarli, dopo che era quasi morto per loro, dopo che l’aveva perdonata nonostante ciò che lei aveva detto e fatto a lui e ai suoi amici… le era stato impossibile non accorgersi veramente di lui.

E poi, aveva sentito la sua domanda: «Ehi, va tutto bene?»

Il suo tono… era preoccupato. La stava guardando apprensivo. Nonostante tutto quello che lei aveva fatto. L’aveva perdonata all’arena, ma avrebbe potuto chiuderla lì. Non aveva alcun motivo di andare a cercarla o di preoccuparsi per lei. Ma l’aveva fatto comunque.

A quel pensiero aveva ceduto. Aveva ammesso la verità, sentendo gli occhi riempirsi di nuovo di lacrime. E non appena lui aveva minacciato di andare a cercare Buck, lei era scattata come una molla. 

Non poteva crederci. Tra tutte le persone… proprio lui aveva deciso di aiutarla.

Perché era davvero una brava persona. 

Ma lei non voleva che rimanesse coinvolto. Era stanca di sfruttare gli altri. Edward era padrone delle sue decisioni, ma lei gli impedì comunque di intromettersi. Voleva risolvere da sola la situazione. L’unica cosa di cui aveva disperato bisogno, era il conforto di qualcuno. E quel conforto arrivò proprio da lui, da Edward, che la abbracciò con forza mentre piangeva. 

Provò una sensazione nuova, stretta a lui. Una sensazione di sicurezza che non aveva mai provato prima, nemmeno quando stava con Buck. Il modo in cui lui l’aveva sempre stretta era più rude, più grezzo e possessivo. Edward, invece, la abbracciò con dolcezza, delicatezza, facendola sentire davvero protetta, accettata.

Quando si separarono incrociò il sguardo, colma di gratitudine per averla fatta sentire meglio. Tuttavia, non ci mise molto a notare la tristezza nei suoi occhi. Qualcosa lo turbava. E lei non ci mise molto a capire cosa. Era una figlia di Afrodite, dopotutto. Viveva per quel genere di cose. 

Aveva sin dal primo giorno capito che ad Edward piaceva Stephanie. Come biasimarlo, quella maledetta quattrocchi era l’incarnazione vivente della perfezione. Era bellissima, gentile, intelligente, un sogno per ogni ragazzo e non solo – Jane stessa, che sapeva riconoscere la vera bellezza, era sempre stata un po’ intrigata da lei. 

Dopotutto, quando la volpe non arriva all’uva, dice che è una stupida quattrocchi buona a nulla e si diverte a distruggere i suoi fiori. 

Ancora non aveva idea di come Stephanie avesse deciso di perdonarla. Doveva proprio averla impietosita. Non sapeva se vergognarsene od esserne sollevata. Se non altro, non voleva ucciderla con i suoi devastanti poteri, quindi poteva considerarlo un traguardo. 

E si era anche tolta lo sfizio di baciarla.

Alla fine, il cuore della bellissima figlia di Demetra era stato conquistato da Konnor – inutile dire che lui e Stephanie parevano essere stati creati apposta per stare assieme. Tolta la parentesi in cui lei aveva fatto tanto la difficile con lui, durante la quale Jane avrebbe voluto prenderla a schiaffi almeno un migliaio di volte, non sapeva se per gelosia verso di lei, verso di Konnor o semplicemente perché le dava fastidio il suo fare la preziosa. Per fortuna non l'aveva mai fatto, o l'avrebbe seppellita viva.

Ed Edward, che si era perfino sorbito quel bacio tra Steph e Konnor in diretta, non doveva averla presa affatto bene. 

Sapeva riconoscere lo zampino di sua madre in quel genere di cose. E quella scena, quel bacio, avevano proprio scritto “Afrodite” sopra. Era sicura che si fosse goduta appieno sia il bacio che l’espressione demoralizzata di Edward.

Così, Jane sorrise. Non era giusto che lui fosse triste, non dopo tutto quello che aveva fatto per lei, per il campo, per tutti loro. Siccome era andato a vedere come stesse e l’aveva rincuorata, decise di ricambiare il favore. Aveva promesso di usare i suoi poteri solo a scopo di bene e così fece. 

Per prima cosa gli diede un bacio intriso di magia ereditata da Afrodite per risvegliare un poco, solo un poco, le sue emozioni sopite. Era un bravo ragazzo, certo, ma era anche un vero inetto coi propri sentimenti. Le era bastato vedere il modo ridicolo con cui aveva cercato di difendere Stephanie per capirlo.

E poi, con la lingua ammaliatrice, gli ordinò di fare proprio quello di cui aveva bisogno. «Divertiti.»

Lo vide sussultare, mentre il suo sguardo cambiava all’improvviso. La osservò sorpreso, con un sorriso che prendeva forma sul suo volto, ma Jane si affrettò a chiudere la porta prima che lui – o anche lei – facesse qualcosa di avventato. Per quanto trovasse allettante l’idea di mettere le mani sul meraviglioso eroe figlio del dio del sole che li aveva salvati tutti, sapeva che era sbagliato. Usare la lingua ammaliatrice su di lui per incitarlo a fare una mossa con lei sarebbe stato approfittarsene e lei non voleva più fare quel genere di cose.

Tuttavia, se quella serata non si fosse rivelata proficua per Edward, magari avrebbero potuto riparlarne, senza trucchetti. Da quel momento in poi, voleva che tutto accadesse in maniera spontanea. E se invece tra loro non fosse successo nulla, non aveva importanza, perché ora sapeva di poter contare su di lui. Sapeva di avere un amico. 

Tornò in casa, lisciandosi di nuovo la treccia con un sorriso, ripensando alle sue parole.

«Non sei da sola» aveva detto.

Jane distese il sorriso, poi spense la luce. 

Non era più sola.

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Capitolo 3
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Nota: questo capitolo si svolge subito dopo il capitolo 44 della storia principale, nella stessa giornata.

 

 

– ROSA –

3

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«Va bene angioletti. Per prima cosa, siccome ieri non c’erano allenamenti, voglio approfittare della presenza di tutti quanti per dare un caloroso bentornato alla nostra cara amica Rosa Mendez!»

Rosa sorrise imbarazzata, mentre di fronte a lei tutti quei ragazzi con cui aveva condiviso l'arena per anni applaudivano e la incitavano. Anche il coach Hedge batté una mano sul suo braccio, sorridendole gentile. «Sono felice che tu stia bene.»

Era stato proprio lui ad aiutarla a muovere i primi, timidi passi dentro quell’arena. Forse il più delle volte si comportava come un vecchio satiro pazzo, ma era un brav’uomo. O capra. O quello che era.

«Mi era mancato, coach Hedge» rispose Rosa, distendendo il sorriso. 

Per un istante, lui sembrò in procinto di piangere. Si schiarì la gola e tornò ad essere il solito vecchio rompiscatole che però tutti adoravano. «D’accordo angioletti, ora basta con i convenevoli. Tutti a terra, venti flessioni prima di cominciare!»

Il boato di versi di protesta che si sollevò fece ridacchiare Rosa. Era stata via per solo una settimana, ma le era sembrato molto di più. Era felice di vedere che non fosse cambiato nulla, eccetto il fatto che adesso sembravano tutti più gentili con lei. O forse in realtà lo erano sempre stati, ma lei non aveva mai dato loro una vera occasione. Si era sempre tenuta alla larga da tutti, ricordava bene cosa molti dicessero e pensassero di lei, la figlia di Apollo che voleva combattere con le spade, e aveva sempre creduto che fosse un pensiero unico per tutti. Era felice di essersi sbagliata.

Dopo gli esercizi più semplici, arrivò il momento che tutti quanti sempre attendevano con più trepidazione. Hedge disse ai ragazzi di dividersi in coppie, per affrontarsi tra di loro in una serie di scontri dimostrativi. 

Dimostrativi nel senso che avrebbero dovuto mostrare quello che avevano imparato, cercando, se possibile, di non far fuori l’avversario. Di solito Rosa rimaneva senza compagno, tutti quanti amavano prendere in giro la figlia di Apollo anticonformista, però per qualche arcano motivo avevano paura di affrontarla. Quel giorno, però, ebbe una sorpresa inaspettata.

Sophia Ferreira, l’unica ragazza della capanna Cinque, una stangona con un caschetto di capelli color bronzo e la pelle ambrata si fece avanti per affrontarla. La scrutò con un sorriso freddo, divertito perfino, mentre si piazzavano in mezzo al cerchio di terra. 

Rosa ricambiò il sorriso, felice di potersi allenare davvero con qualcuno che non fosse quel pappamolla di Edward. Gli voleva bene, certo, ma ricordava i suoi piagnistei dopo essersi procurato appena cinque o sei lividi; erano davvero fastidiosi. Sperò che la sua avversaria fosse più resistente.

Quando Hedge diede il via, Sophia si avventò su di lei. Abbatté la spada, che si scontrò con quella di Rosa a pochi centimetri dalla sua fronte. Le braccia le tremolarono; la figlia di Ares era davvero forte. Rosa si ritirò con un balzo e poi scattò in avanti, mirando al fianco destro della sua avversaria. 

Sophia roteò la spada, parando la lama. Rosa saltò di nuovo indietro e tentò un altro assalto, questa volta al fianco sinistro, che la figlia di Ares deviò per un soffio, con una smorfia. Per un istante, i loro sguardi si incrociarono e una venatura di incertezza percorse il volto di Sophia. Rosa distese il sorriso, pronta per attaccare ancora, sentendosi carica ed energica come non mai, ma all’improvviso un’immagine balenò nella sua mente. 

Trasalì, mentre due occhi color cremisi la scrutavano spietati, incastrati sopra un volto pallido e scarno. Sophia riapparve all’improvviso nel suo campo visivo, la spada che si avvicinava pericolosamente alla sua guancia. Si riscosse appena in tempo per parare l’attacco ed indietreggiare di nuovo, per scrollare la testa e riordinare le idee. Osservò Sophia, e ancora una volta il suo aspetto cambiò.

«Arrenditi, piccola dea.»

Il grido di Sophia la fece ridestare. Si fiondò ancora una volta su di lei, gridando a perdifiato. La figlia di Apollo si scansò e mulinò la sciabola, incrociando di nuovo lo xiphos di Sophia e rimanendo premuta contro di esso a mezz’aria.

«Non rendere le cose più difficili.»

«Sta zitto» sussurrò Rosa.

«Ma io non ho…» Sophia cercò di rispondere, ma venne interrotta da un grido furibondo. Rosa la caricò, tempestandola di attacchi. La figlia di Ares spalancò gli occhi e cominciò ad indietreggiare, incalzata da quelle stoccate veloci e letali. «A-Aspetta Rosa! Calmati!»

La figlia di Apollo digrignò i denti, mentre quel volto maledetto continuava a balenare nella sua mente. Abbatté di nuovo la spada su quella dell’avversaria, con così tanta forza da fargliela volare via dalle mani. Sophia inciampò e cadde a terra, insozzandosi sulla sabbia. Si coprì il volto, gridando terrorizzata, mentre Rosa sollevava la sciabola pronta per il colpo di grazia.

«Basta, basta! Per le corna di Pan, fermati!» gridò Hedge, parandosi tra di loro e saltellando come un fagiolo messicano. 

Rosa si placò, la spada ancora alzata. Sbatté le palpebre un paio di volte, mentre cominciava a rendersi conto di quello che aveva appena fatto. Spalancò gli occhi e abbassò la sciabola, facendo diversi passi indietro.

«Tu sei pazza!» urlò Sophia, mentre cercava di rimettersi in piedi.

«M-Mi dispiace, io…» provò a rispondere Rosa, mortificata, ma quella non volle saperne. Afferrò lo xiphos e se ne tornò a passo svelto in mezzo alla folla di ragazzi, che avevano fissato la scena altrettanto sconvolti. Rosa si sentì soffocare sotto il peso di tutti quegli sguardi. 

«Beh… c’è da dire che non hai perso un colpo…» commentò Hedge, scrutandola perplesso mentre si grattava la barbetta. 

Rosa si sentì ancora più in imbarazzo di quanto già non fosse. Non riusciva a credere a quello che fosse appena successo. Per poco non aveva fatto fuori l’unica persona che avesse accettato di essere la sua partner di duello. Dopo quel casino, poteva essere certa che nessuno di loro si sarebbe di nuovo avvicinato a lei. 

«Su, forza angioletti, non è successo niente, ricomponetevi. A volte capitano anche incidenti come questo, l’importante è che nessuno si sia fatto male… o sia morto.» Hedge tentò di risollevare gli animi, ma Rosa ne aveva avuto abbastanza per quel giorno. 

«Avanti con la prossima coppia, e mi raccomando, ricordate che non dovete uccider… Mendez, dove stai andando?»

«Mi… serve una pausa» mormorò lei, mentre si dirigeva verso l’uscita. Sentì il satiro fare un verso sorpreso e non ebbe bisogno di voltarsi per sapere che gli sguardi di tutti erano ancora puntati su di lei.

 

***

 

I suoi fratelli chiacchieravano sereni, mentre lei fissava svogliata il suo piatto di carne e verdure grigliate. Non aveva nessuna voglia di sbranare quel cibo. Continuava a pensare a quello che era successo all’arena. 

Aveva… perso il controllo. Non le era mai successo niente del genere prima di allora, mai. La razionalità era tutto, durante uno scontro. Era stata la prima cosa che aveva cercato di inculcare nella testa vuota di Edward. Eppure, aveva infranto la sua stessa regola. 

Pensare a quello, di conseguenza, la portava anche a pensare a cosa avesse scaturito quell’assurdo teatrino che aveva messo in piedi.

Aveva passato tre anni ad allenarsi ininterrottamente, al campo. Corsa, esercizi, le flessioni di Hedge, aveva studiato tecniche di disarmo, di combattimento con e senza armi, aveva lavorato duro, senza mai darsi un attimo di tregua, al punto da diventare così pericolosa da far fuggire da lei i figli di Ares.

Voleva diventare la spadaccina migliore del campo, voleva essere un’eroina, le cacciatrici le avevano chiesto in ogni modo possibile di unirsi a loro, aveva perfino affrontato Orochi a viso aperto dopo essere stata fuori gioco per una settimana.

Eppure tutto il suo lavoro, tutti i suoi sforzi, la costanza, la determinazione, ogni cosa… non erano bastati.

Naito l’aveva annientata. Nemmeno l’aveva attaccata alle spalle, come qualsiasi mostro avrebbe fatto. Era uscito allo scoperto, aveva reso nota la sua presenza, le aveva detto di arrendersi prima ancora di combattere e lei si era lanciata su di lui. 

Non l’aveva neanche sfiorato. 

Strinse i pugni sotto il tavolo, affondandosi le unghie nei palmi fino a sentire dolore. In pochi minuti, quel tizio aveva vanificato tutti i suoi sforzi e tutto il suo lavoro di anni. L’aveva sconfitta, riuscendo in qualcosa che nessun’altro prima di allora era mai riuscito a fare, e le aveva fatto capire che razza di abisso ci fosse ancora tra lei e quello che voleva diventare.

Che razza di eroina si fa sconfiggere dal primo nemico reale che incontra? Che razza di eroina si fa rapire e si fa salvare come una principessa in pericolo?

Nessuna, ecco la risposta. 

Sospirò profondamente, rilassando i pugni. 

«Tutto ok hermana?»

La voce di Edward la fece voltare verso di lui. Stava rosicchiando delle patatine fritte, visto che il cibo sano per lui pareva quasi un veleno, e la fissava preoccupato. Rosa cercò di non incrociare il suo sguardo. «Sì, sì… sono solo pensierosa.»

«Questa è la stessa frase che dico io quando è successo qualcosa di grave» borbottò lui, riuscendo nonostante tutto a farla sorridere.

«Sarà un vizio di famiglia» replicò.

«Mh. Può darsi.»

Ci fu qualche istante di silenzio imbarazzato, in cui Edward dimostrò ancora una volta la sua inettitudine nelle discussioni. «Vuoi… vuoi parlarne?» le domandò infine, con voce incerta.

Rosa si strinse nelle spalle. Non le andava a genio l’idea di aprirsi a lui visto che lui mai si era sognato di farlo con lei, però, d’altra parte, la sua testa non era dura come quella dell’hermano. «Sta mattina all’arena ho quasi fatto fuori la sorella di Konnor» ammise. 

«Ehm… che cosa?»

«Ci stavamo allenando e… ho perso il controllo.» 

Gli spiegò quello che era successo, dandogli qualche rapida occhiatina per scorgere le sue reazioni, che come prevedibile furono perlopiù di sorpresa. Non parlò del motivo per cui aveva perso il controllo, tuttavia. In parte se ne vergognava, in parte preferiva che il nome di quel verme di Naito non uscisse più dalla bocca di nessuno.

«Non è da te, Rosa» disse Edward, a racconto concluso. 

Quella risposta la fece irrigidire. «Grazie, non c’ero arrivata da sola.»

Lo vide sussultare e fare un’espressione imbarazzata. «Scusa…»

Rosa sospirò, per poi scuotere la testa. «No, scusami tuSono solo tesa.»

«Sì, ti capisco. Dopo tutto quello che è successo…»

Malgrado tutto, Rosa riuscì a sorridere di nuovo. Edward non era in grado di parlare, in compenso però era molto bravo ad ascoltare. Incrociò il suo sguardo, battendogli un pugno sul braccio. «Va… va un po’ meglio, adesso. Grazie hermano.»

Anche Edward le sorrise, prima di farsi pensieroso all’improvviso. «Anch’io… ho alcune cose da dirti.»

«Riguardo quello che è successo ieri sera?» gli domandò, sollevando un sopracciglio. Non si era affatto dimenticata di lui che cadeva in ginocchio all’improvviso mentre si teneva lo stomaco.

«Anche, sì» rispose Edward, facendole spalancare gli occhi. Quindi voleva davvero raccontarle cosa gli fosse preso. Non riusciva a crederci, sembrava un miracolo. Avrebbe dovuto segnare quel giorno sul calendario. 

«Hai da fare dopo pranzo?» le domandò, lanciandole un’occhiatina fugace, circospetta perfino, quasi come se qualunque cosa volesse raccontarle fosse un segreto di stato.

«No, perché?»

«Troviamoci dall’albero di Talia, tra un’ora. Vi racconterò tutto.»

«Vi?»

Edward si grattò gli sfregi sopra la guancia, sembrando quasi imbarazzato. «Non… non ci sarai solo tu. Voglio raccontare tutto anche agli altri.»

Rosa schiuse le labbra. Quello cambiava tutto quanto. «Quindi… oh!» Si coprì la bocca, facendo un verso sorpreso, prima di spalancarla di nuovo in un enorme sorriso. «Ma… non vorrai mica fare coming out??»

«E-EH?!»

«Oh, hermano! Come sei dolce!» Rosa unì le mani di fronte al petto. «Sono sicura che Konnor dirà di sì!»

«… ti odio.»

Rosa rise, battendo la mano sulla sua spalla. «Dai, lo sai che scherzo.»

Invece no, non scherzava. E un giorno, ne era sicura, anche Edward avrebbe aperto gli occhi e avrebbe capito che Konnor era l’uomo per lui.

Edward borbottò qualcosa di incomprensibile e, dopo averle ripetuto di trovarsi all’albero di Talia, si defilò. Rosa lo guardò allontanarsi con un sorrisetto divertito, poi riportò l’attenzione sul suo piatto. Quando avvertì lo stomaco brontolare, distese il sorriso e azzannò la bistecca di manzo. 

 

***

 

Un’ora dopo, trovò in cima alla collina anche Thomas, Lisa, Stephanie e, dulcis in fundo, Konnor. Dovette sforzarsi di non scoppiare a ridere mentre guardava proprio quest’ultimo. Giurò a sé stessa che se Edward davvero avesse fatto coming out allora si sarebbe messa ad imparare il tiro con l’arco. Il suo sguardo cadde sul vello attorno all'albero, che emanava un fioco bagliore, mentre più lontano Peleo stava dormendo, come al solito. Si domandò perché non l'avessero ancora mandato in pensione. Forse c'era penuria di draghi guardiani di velli. La statua di Atena, invece, osservava severa tutti loro come al solito, come per dirgli di spicciarsi ad alzare i tacchi da lì e tornare a fare cose semidivine nel campo.

«Avete idea di cosa voglia dirci?» domandò Lisa, seduta all’ombra del pino, mentre teneva la mano di Tommy. Non appena vide le loro dita intrecciate, Rosa fece un sorriso. L’aveva capito fin dal primo sguardo che c’era qualcosa tra quei due e non si era fatta troppi scrupoli a spingerli verso quella direzione, specie dopo che Edward la aveva parlato dei sentimenti di Thomas per lei. 

Era sicura fosse un bravo ragazzo, ma… non era il suo tipo. E in ogni caso, in quel momento preferiva non pensare a quel genere di cose. 

Mentre si sedeva vicino a loro, Konnor si strinse nelle spalle. «Forse riguarda quello che gli hanno detto Artemide e Susanoo, a San Francisco.»

Rosa aveva perfino dimenticato quella storia. Non aveva dubbi che proprio Konnor la ricordasse, invece. Era ossessionato da Edward, ne era sicura. Era solo questione di tempo. 

Certo, la povera Steph dopo sarebbe rimasta da sola, ma era un prezzo da pagare per il bene superiore. La osservò mentre teneva Konnor a braccetto, lo sguardo fisso verso il campo, in attesa dell’hermano. Stephanie si accorse del suo sguardo e le sorrise.

«Figlia dei fiori» la salutò Rosa, trattenendo a stento un altro sorrisetto divertito. Passò lo sguardo su di lei, ricordandosi ancora una volta perché fosse tanto ambita tra i ragazzi. Si domandò come facesse a tenersi così in forma nonostante non si allenasse mai. 

Le classiche ingiustizie del mondo. 

Pochi minuti dopo, due figure salirono la collina. La testa di Edward fece capolino. Osservò tutti loro sorpreso, infastidito perfino. «Ma… siete già tutti qui!»

«Si vede che anche loro erano impazienti di sentirti parlare» ribatté la persona assieme a lui, una ragazza slanciata, con lunghi capelli color rame, la stessa che Rosa aveva visto limonare allegramente con lui la sera prima.

«Nat?» domandò Thomas con voce stupita. «Tu che ci fai qui?»

Edward e la diretta interessata si scambiarono uno sguardo. «Non gliel’hai detto?» chiese lui.

«Tu non gliel’hai detto!» protestò la ragazza. 

«Ma… ma ci vivi insieme!»

«Che vuol dire? Non è il tuo migliore amico?»

«Ehm… scusate ma… detto cosa?» chiese ancora Tommy, mentre Rosa cercava di nuovo di non ridere di fronte all’assurdità di tutto quello. 

«Beh… vedi, Tommy…»

«No, aspetta.» Natalie interruppe Edward, posandogli una mano sulla spalla, prima di guardare il fratello più giovane. «Lascia che ci arrivi da solo» concluse, facendo ridacchiare l’hermano.

«Ma a cosa?» insistette Thomas. 

Lisa scosse la testa, facendo un sospiro esausto. «Tonto figlio di Ermes…» borbottò in italiano, questa volta riuscendo a strappare una risatina a Rosa.

Non aveva idea del perché, ma stare assieme a loro la faceva sentire davvero bene. Forse per via di quell’affiatamento quasi contagioso che avevano e che chiunque avrebbe notato. 

«Siediti se vuoi, qui andrò avanti per un po’…» disse ancora Edward a Natalie, che annuì, sorridendogli. 

«Stai facendo la cosa giusta» gli disse, dandogli un bacio sulla guancia. Il modo in cui si guardarono fece tremolare il bellissimo sogno di Rosa su Konnor ed Edward, ma non si sarebbe arresa così. Avrebbe continuato a sperarci finché avrebbe avuto un cuore che batteva. 

«Oh… ecco cosa…» bisbigliò Thomas, mentre Natalie si sedeva accanto a lui, con un’alzata di occhi. Perfino Konnor e Stephanie sembrarono sorpresi della scoperta. In effetti, pure Rosa faticava a credere che il suo tonto hermano fosse riuscito a trovare una ragazza. Si augurò per lui che Natalie avesse più pazienza di lei, altrimenti non sarebbero durati molto a lungo.

«Allora…» iniziò Edward, mentre osservava tutti loro con aria imbarazzata. E non solo, sembrava anche teso. Spaventato, perfino, al punto che Rosa decise di smetterla di pensare alle stupidaggini e di rimanere concentrata. «… ho… parecchie cose da dirvi.»

Raccontò la storia di sua madre, di come lei fosse venuta in possesso di quella spada che aveva scatenato quel putiferio e di come l’avesse tramandata a lui. Raccontò che dei mostri l’avevano rapita di fronte ai suoi occhi, causandole un tuffo al cuore. Incrociò proprio il suo sguardo mentre raccontava quella parte ed esitò. Rosa assottigliò le labbra e lo tranquillizzò con un cenno. Edward si fece coraggio e proseguì.

La parte che venne dopo sembrò costargli ancora di più. A stento, prendendo diverse lunghe pause, riuscì a spiegare cos’era successo quando aveva restituito la spada, nel museo di San Francisco. E non appena raccontò di essere morto, sei sussulti di sorpresa si alzarono in un tutt’uno. 

Rosa rimase a bocca aperta, sconvolta, mentre lui si toglieva la maglia del Campo Mezzosangue per mostrare una ragnatela di cicatrici sul suo busto. La peggiore era sicuramente quella sul suo stomaco. Un cratere di pelle sbrindellata e cicatrizzata male. Riuscì a malapena a sentirlo mentre raccontava come se le fosse procurate. 

Edward si rimise la maglietta, coprendole, e distolse lo sguardo da loro. Sembrava stesse per piangere. Rosa non aveva idea di come reagire a tutto quello. Anche lei era stata nello Yomi, ma non così. Non era… morta. Non aveva incontrato nessuna dea psicopatica, non aveva combattuto contro nessun mostro orripilante. E soprattutto… non le avevano detto che sarebbe dovuta morire alla nascita. 

Se Natalie non si fosse alzata per prima, lei avrebbe continuato ad osservare suo fratello come in trance, immobile. La vide avvicinarsi a lui per abbracciarlo con forza, mormorandogli qualcosa all’orecchio. Edward appoggiò la fronte sulla sua spalla, per nascondere un’espressione che Rosa mai gli aveva visto fare. Era terrorizzato.

Il suo gemito si sollevò in aria, folgorandola come una scarica. 

«Ehi…» Natalie gli prese il volto tra le mani, obbligandolo a guardarla ed asciugandogli alcune lacrime. «… va tutto bene. È tutto finito. Sei qui con noi adesso. Sei al sicuro.»

Edward annuì, prendendo le mani di Natalie tra le sue. Si osservarono di nuovo, sorridendosi dolcemente, finché non furono entrambi travolti da Rosa. Due grida di sorpresa si sollevarono, mentre Rosa si cacciava in mezzo a loro quasi di prepotenza, stritolando l’hermano con gli occhi pieni di lacrime. Il pensiero di averlo quasi perso l’aveva sconvolta molto più di quanto avrebbe mai potuto immaginare. 

«Sei… sei stato un incosciente!» esclamò, affondando la fronte contro il suo petto duro. «Non azzardarti mai più a fare le cose di testa tua!»

Lo sentì ridacchiare. Le avvolse le braccia attorno alla schiena, mormorando con voce gentile: «Non succederà più. Te lo prometto.»

«B-Bene! Be…» sussurrò lei, prima che la voce le si incrinasse. «Be…ne…» Si staccò dal fratello, per fissarlo dritto negli occhi. «E non è vero che sei stato un errore! Nessuno è un errore!»

«S-Sì, lo so…» mormorò lui, stupito, ma con un sorriso.

«Ricordatelo sempre! Non sei un errore!» Rosa lo stritolò di nuovo, appoggiando il mento sulla sua spalla. «Non per me…»

Edward le accarezzò i capelli, appoggiando la guancia contro la sua. «Gracias hermana.»

«­P-Prego! Non c’è di che!»

«Mi… mi lasci andare ora?»

«No! Ti abbraccerò finché non capirai quanto sei importante!»

«Ma… l’ho capito…»

«Meglio essere sicuri!»

Qualcun altro appoggiò un braccio sulla sua schiena. «Ha ragione» si intromise Natalie, stringendosi anche lei a loro due. «Testardo come sei, forse non ne sei davvero convinto.»

Rosa annuì come una forsennata. «Ecco, ascolta tu novia, che è chiaramente più sveglia di te!»

Edward fece un verso di protesta, prima di ridacchiare di nuovo. «Va bene, va bene… grazie ragazze.»

Rimasero stretti ancora per diversi istanti, durante i quali Rosa ringraziò mentalmente suo padre e tutti gli dei per avergli riportato Edward sano e salvo. Se l’avesse perso… non poteva nemmeno pensarci. Era uno zuccone, un testone, una causa persa, frignava di continuo, ma gli voleva bene. 

«Eres mi hermano tonto» bisbigliò, prima di separarsi da lui. Squadrò poi Natalie, ancora accanto a loro, dalla testa ai piedi ed incrociò il suo sguardo. «Forse… forse sei meglio di Konnor…»

Il sorriso gentile svanì dal volto di Natalie. «In… in che senso?»

«Lascia perdere» si intromise Edward, frapponendosi tra di loro e scrutandola infastidito. «Non azzardarti a trascinare Nat nelle tue follie, o giuro che torno nello Yomi a piedi.»

Rosa riuscì a ridere di nuovo e gli diede un pugno al petto senza pensarci, mozzandogli il fiato. Spalancò gli occhi, ricordandosi delle cicatrici, e si coprì la bocca mortificata. «Scusa!»

«Tranquilla… sta volta non mi hai centrato in pieno la cicatrice sullo stomaco» gracchiò lui, con un sorrisetto sofferto. Rosa ripensò al cazzotto che gli aveva tirato a San Francisco e sentì le guance in fiamme. In effetti, avrebbe potuto risparmiarselo.

Ripensò anche al giorno in cui lui aveva deciso di allenarsi con lei, il giorno in cui tutto aveva avuto inizio. Sembrava passata una vita. E soprattutto, l’hermano sembrava tutta un’altra persona. Gli aveva detto di voler diventare un’eroina, ma alla fine era stato lui a diventare un eroe. E lei non poteva sentirsi più orgogliosa.

Un po’ invidiosa, anche, visto che se non era più una mammoletta era anche merito suo, ma si sarebbe premurata di non farglielo mai notare, altrimenti gli allenamenti sarebbero potuti diventare molto più brutali all’improvviso, giusto per ricordargli di non montarsi troppo la testa.

Lo sguardo di Rosa scivolò sul suo braccialetto con le perle del campo. Ripensò alla conversazione che aveva avuto con Edward, quando gli aveva detto che sperava che qualcosa di grosso succedesse nel campo. E a conti fatti, era successo davvero. Poteva già immaginare la grossa, scintillante spada che avrebbero ricevuto sulla perla di fine estate, quell’anno. Il pensiero fece nascere un ampio sorriso sul suo volto.

Stephanie si avvicinò ad Edward dopo di loro. «Non posso crederci» sussurrò, con voce incrinata. «Tu hai… hai passato tutto quello e io… ho baciato Konnor di fronte a te… sono stata una vera egoista…»

«Un po’» rispose Edward, strappandole uno squittio sorpreso, prima di ridacchiare e darle una pacca sul braccio. «Poteva andare peggio. Avrei potuto non vedere nemmeno quel bacio.»

La figlia di Demetra abbassò lo sguardo. «Sì, però…»

«E rilassati, una volta ogni tanto» borbottò Edward, abbracciandola. «Non puoi farti una camomilla o cose del genere con i tuoi poteri?»

«Certo. Dimmi Edward, hai qualche altro bello stereotipo in mente?»

«Quindi non puoi farti una camomilla?»

«… non è questo il punto!»

Dopo di lei arrivò Thomas, che si grattò dietro al collo imbarazzato. «Hai sempre detto di non voler essere un eroe, Edward, ma… penso proprio che tu sia il più grande eroe che questo campo abbia visto negli ultimi vent’anni. So che detto da me non significa molto, ma…»

«Invece significa tutto, Tommy.» Edward sollevò il pugno. «E se non fosse stato per te, non sarei mai arrivato fin qui. Sei un eroe tanto quanto me.»

Lo sguardo del figlio di Ermes si colmò di gratitudine, le labbra che gli tremolavano. Scostò il braccio di Edward e lo abbracciò, strappandogli una risatina. «Sei sempre così emotivo, amico.»

«S-Scusa» mugugnò Thomas, che era riuscito a mettersi a piangere nel giro di mezzo secondo. «Sniff… scusa…»

Rosa non riuscì a trattenere un sorriso intenerito. Tommy era un barattolino di miele che camminava.

«Cioè… quindi… hai sconfitto la morte?!» domandò infine Lisa con voce atterrita, dopo aver abbracciato Edward.

«Beh… sì.»

«Ma che ficata!» gridò, per poi ammansirsi. «Cioè… deve… essere stato orribile…»

«Diciamo che è stato un misto delle due cose» concluse Edward. «Da una parte mi sentivo un fico da paura, dall’altra avrei voluto mettermi in ginocchio, piangere e succhiarmi il pollice.»

Lisa rovesciò la testa all’indietro, scoppiando a ridere, per poi battere il pugno con lui. «Sei una vera forza.»

Infine, anche Konnor si avvicinò. Sembrò voler dire qualcosa, forse perfino abbracciarlo, ma poi entrambi si accorsero dello sguardo di Rosa e si limitarono a schiarirsi la voce e a battere il pugno imbarazzati. 

E dopo quel gesto, il suo sogno su di loro tornò a brillare più forte che mai.

Spiacente Natalie, c'hai provato.

«Comunque… non ho finito» disse Edward, prima di fare un’espressione imbarazzata di fronte agli sguardi sorpresi di tutti. 

«Ma quante cose nascondevi?!» domandò Rosa, adirata.

«Un po’…» ammise l’hermano, prima di schiarirsi la voce. «Ho… ho rivisto Naito, ieri sera.»

Rosa scattò come una molla. Ogni traccia di quiete svanì da dentro di lei. «Che cosa?!»

«Quando… mi sono allontanato dalla festa» spiegò Edward, grattandosi la cicatrice come suo solito. «L’ho… l’ho incontrato. Ma non era ostile» aggiunse, frettoloso, prima che potessero interromperlo. 

Uno strano silenzio scese tra di loro. Tutti quanti sembravano confusi o sorpresi. Rosa, invece, era soltanto furiosa.

«Scusate, chi è Naito?» domandò Natalie, che pareva di più la prima tra le opzioni. «Thomas l’aveva menzionato, ma…»

«È il bastardo che mi ha rapita» rispose Rosa con un sibilo, affondandosi le unghie nei palmi. I fatti di quella sera maledetta tornarono a balenare nella sua mente, facendole salire il desiderio di affettare qualcosa. 

Natalie schiuse le labbra, mentre Edward parve angosciarsi. «Rosa…»

«Che cosa voleva?» domandò lei, interrompendolo.

«Voleva… scusarsi per quello che ha fatto. Mi ha detto di dire a tutti voi che era dispiaciuto e che… non lo vedremo più.»

Quelle parole ronzarono nelle orecchie di Rosa per diversi istanti. «E tu l’hai ucciso, vero?»

«C-Che cosa?»

«L’hai ucciso» ripeté Rosa. «Vero?»

Edward rimase in silenzio. Il suo sguardo fu una risposta più che chiara, ma lei si rifiutò di crederci. 

«Vuoi dirmi che l’hai lasciato andare!? Dopo tutto quello che ha fatto!?» Urlò senza nemmeno rendersene conto. La sua voce riecheggiò lungo la collina, probabilmente la sentirono fin dal Campo Mezzosangue, ma a lei non importò. Era livida di rabbia.

«Calmati, Rosa.»

«Io non mi calmo!» sbraitò lei, avvicinandosi a lui e piantandogli l’indice in mezzo al petto. «Sei morto per colpa sua! Come puoi non essere arrabbiato?!»

«È stato Orochi a pugnalarmi, non lui» rispose Edward, con voce sottile.

Rosa scosse la testa, incapace di accettare le sue parole. «Se non fosse stato per lui, non ti saresti mai trovato là! Non m’importa se stava seguendo gli ordini di qualcuno, la responsabilità è stata soltanto sua!»

Edward la afferrò per le spalle, placandola. Il suo sguardo la colse alla sprovvista. Non l’aveva mai visto così serio. «Mi sarei trovato là comunque, invece. Dovevo restituire la spada, l’hai dimenticato? Il fatto che… che tu sia stata coinvolta… non ha niente a che vedere con quello che mi è successo. Avrebbero cercato di uccidermi comunque.»

Le accarezzò la guancia, facendosi apprensivo. «Capisco che tu sia arrabbiata con lui, Rosa. Penso che… lo siamo tutti, nel profondo, per quello che ha fatto. Non mi aspetto che lo perdoniate. Ma… non prendetevela con il messaggero. Io vi porto le sue scuse, voi siete liberi di accettarle oppure no.» 

Allontanò la mano di lei, sospirando. «Io… l’ho perdonato. Ma l’ho fatto solo perché… non importa. Io l’ho perdonato. Ma se tu non vuoi farlo, Rosa, non ti biasimerò. Hai tutto il diritto di non farlo» concluse, distogliendo lo sguardo da lei. Sembrava triste. E Rosa non riuscì affatto a capire il perché. 

Una mano si posò sulla sua spalla, facendola voltare. Incrociò lo sguardo di Konnor, che rimase fermo per qualche istante, in silenzio. All’improvviso, cominciò a sollevarsi la maglietta di fronte a lei, facendole spalancare gli occhi atterrita. La sua mente andò in tilt, poi si accorse della brutta cicatrice proprio in mezzo all’addome, uno sfregio rosa brillante lungo e sottile. 

«Questa me l’ha fatta lui» disse, prima di lasciar andare la maglia, coprendola di nuovo. «Per farti capire che non sei l’unica a cui ha fatto del male.»

Rosa sbatté le palpebre, cercando di allontanare l’immagine di quegli addominali dalla sua testa. «Quindi?»

«Quindi… proprio come te, ho una valida ragione per odiarlo. Quando l’ho affrontato, al museo, avrei potuto ucciderlo, ma non l’ho fatto. Naito ha capito di aver sbagliato. Il fatto che sia venuto a scusarsi ne è la conferma.»

«E quindi?» ripeté Rosa, cominciando ad infastidirsi.

Konnor esitò. «Quindi… forse non è davvero malvagio. Forse può migliorare. Prova a… a considerare l’idea di dargli un’altra possibilità.»

Un sorrisetto incredulo nacque sul volto di Rosa. «Che ne dici di… no?»

«Rosa, ascolta…»

«Non ha rapito te!» urlò lei, all’improvviso, facendolo sussultare. «Non ha rinchiuso te in una prigione di oscurità! Non ti ha portato tra le braccia di un essere viscido che voleva mangiarti! Non ho alcuna intenzione di ascoltare le tue fesserie sul fatto che può migliorare o sul fatto che non è davvero malvagio!» 

Rosa cercò la sua spada, ma l’aveva lasciata nella capanna Sette. Strinse i pugni furibonda, mentre avvertiva le guance inumidirsi. «Se mai dovesse tornare… la pagherà per quello che mi ha fatto. Lo ucciderò io stessa con le mie mani.»

Konnor rimase in silenzio, ad osservarla incerto. Rosa distolse lo sguardo da lui, asciugandosi frettolosa le lacrime. Non aveva alcuna intenzione di piangere per quella storia. Naito l’aveva sconfitta, l’aveva rapita, non gli avrebbe permesso di farla sembrare ancora più fragile di quanto già avesse fatto.

Era una guerriera, una combattente. E da quel momento in poi si sarebbe allenata con il triplo dell’intensità solo per poter, un giorno, trovarlo e restituirgli il favore. Non si sarebbe data pace finché non lo avrebbe ucciso.

Konnor sembrava voler dire ancora qualcosa, ma Stephanie apparve accanto a lui. Gli posò una mano sulla spalla e scosse la testa. Il figlio di Ares piegò le labbra, facendo vagare lo sguardo tra le due ragazze ancora per qualche istante. «Mi dispiace Rosa. Non volevo sminuire quello che ti è successo» disse ancora, sembrando imbarazzato.

«Non mi è successo niente» rispose lei, con voce molto più infastidita di quanto avrebbe voluto. 

«Rosa…» si intromise Stephanie, con sguardo apprensivo. «… non devi aver paura di aprirti con noi.»

La figlia di Apollo la squadrò confusa. Fece per domandarle cosa volesse dire, ma quella la abbracciò, strappandole uno squittio sorpreso. «Mi dispiace per quello che ti è successo. Deve essere stato terribile.»

Le labbra di Rosa tremolarono, mentre la figlia di Demetra la avvolgeva con tocco caldo e morbido. «N-Non mi serve un abbraccio» mugugnò.

Per tutta risposta, Stephanie la strinse ancora più forte. Rosa fece per divincolarsi in maniera non molto garbata, ma anche Lisa arrivò per abbracciarla alle spalle, stritolandola tra lei e Stephanie. Si ritrovò incastrata tra le due ragazze e provò a dimenarsi, ma senza alcun risultato. Non volevano lasciarla andare.

«S-Smettetela» bisbigliò, sentendo altre lacrime solcarle le guance. «N-Non mi serve la vostra pietà!»

«Non è pietà» rispose Lisa, appoggiando la guancia sulla sua spalla. «Vogliamo aiutarti.»

«Sei stata prigioniera di Orochi e non hai nemmeno fiatato una volta» proseguì Stephanie. «Sappiamo che sei forte, Rosa, ma non puoi tenerti tutto dentro così. Rischi di farti del male.»

Rosa singhiozzò contro il proprio volere. «L-Lasciatemi…»

«Te lo scordi» ribatté Lisa, stritolandola attorno ai fianchi con ancora più forza. «Non finché non tiri fuori tutto.»

«Lasciatemi ho detto…» sussurrò ancora la figlia di Apollo, prima di piegare la testa. 

Rivide sé stessa sdraiata sopra un letto, incapace di muoversi, mentre i mostri la circondavano osservandola famelici, le mani che fremevano, desiderosi di toccarla. 

Ripensò a quella sensazione di impotenza, a quelle urla disperate che avrebbe voluto fare, a quelle richieste di aiuto che nessuno aveva mai udito mentre Orochi passava minuti, forse ore, a raccontarle tutto quello che voleva fare a lei, ai suoi amici e agli dei dopo averla uccisa e divorata. La paura che aveva provato. Lo sgomento che l’aveva assalita. Il pensiero che quella fosse la fine per lei. La disperazione che copriva ogni cosa.

E la rabbia dovuta al non poter far nulla per tutto quello. La rabbia dovuta al fatto che fosse finita alla mercé dei mostri, al fatto che avesse dovuto dipendere dagli altri per avere salva la vita.

La rabbia, la paura e la tristezza si riversarono fuori da lei in quelle lacrime che cominciarono a scendere dai suoi occhi, inesorabili. Appoggiò la fronte sulla spalla di Stephanie e cominciò a piangere, non riuscendo più a trattenersi. Aveva provato ad evadere dai fatti, ma non c’era riuscita. Sorridere, suonare e allenarsi fingendo che non fosse successo niente non era bastato. Non sarebbe mai bastato per coprire quello che aveva subito. 

Stritolò la figlia di Demetra, mentre lei continuava ad incoraggiarla e a dirle di non trattenersi. Si voltò, riuscendo a districarsi quel tanto che bastava per permetterle di abbracciare anche Lisa, che la avvolse con delicatezza. «Sta tranquilla, Rosa. Puoi contare su di noi.» 

Rosa singhiozzò, stringendole ancora più forte. Si era abituata a non poter contare mai su nessuno. Poi, aveva conosciuto Edward, che per la prima volta l’aveva fatta sentire meno da sola. E adesso c’erano anche loro due. Il pensiero che, forse, poteva avere delle amiche riuscì ad allentare il groppo che sentiva alla gola.

«G-Grazie…» bisbigliò, separandosi infine da loro. Le sorrisero apprensive e anche lei riuscì a sorridere di nuovo. Si gettò di nuovo su entrambe, abbracciandole una per volta e strappandole alcuni versi sorpresi, seguiti da risatine.

«A proposito, per quegli allenamenti insieme ci sei ancora?» le domandò Lisa, quando si separarono. Rosa schiuse le labbra per lo stupore. Lisa sembrava sincera. Voleva davvero allenarsi con lei. Un gigantesco sorriso prese forma sul suo volto. 

«Certo che ci sono» rispose. «Possiamo anche andare più tardi, se vuoi.»

La figlia di Bacco sollevò le spalle. «Perché no?»

Rosa non riuscì a credere alle proprie orecchie. Stritolò di nuovo Lisa per la felicità, sentendola ridacchiare di nuovo. Avrebbe dovuto fare attenzione a non perdere il controllo anche con lei, ma dubitava che avrebbe fatto la stessa fine di Sophia. Aveva visto Lisa combattere e aveva anche sentito quello che aveva combinato ad Efialte. La romana sapeva il fatto suo, su quello non c’erano dubbi. 

Osservò poi gli altri. Anche Thomas le sorrise comprensivo e Natalie fece lo stesso. Edward le posò una mano sulla spalla, invece Addominali Scolpiti le rivolse un cenno della testa. 

Rosa sbatté le palpebre. Konnor le rivolse un cenno della testa. 

Le venne da ridacchiare di nuovo. Non poteva credere che persone così fantastiche fossero diventate amiche di un tontolone come Edward. Anzi, poteva crederlo in realtà. Anche lui era fantastico, ma non gliel’avrebbe mai detto ad alta voce, o il suo ego smisurato lo avrebbe fatto esplodere come un palloncino.

E il pensiero che ormai la vedessero come una di loro la riempì di gioia.

La voce di Edward frantumò ancora una volta la quiete. «C’è… c’è… dell’altro che devo dirvi.»

Rosa spalancò gli occhi. «Ancora?!»

«Ehm… meglio se vi sedete di nuovo tutti.»

Naito non era tornato solo per scusarsi, a quanto pareva. Secondo lui, la madre di Edward non era morta, ma in Giappone, tenuta prigioniera da chissà chi. Quando rivelò la cosa, Edward rimase straordinariamente calmo, come se ci avesse riflettuto sopra già per chissà quanto tempo, cosa che Rosa poteva immaginare, a dire il vero. Non disse molto altro su di lei, ma era palese cosa stesse pensando. E se, in qualche modo, avesse voluto partire per il Giappone a cercarla, lei lo avrebbe seguito. Ed era sicura di non essere l'unica.

Naito aveva detto poi di aver visto qualcuno parlare con Orochi. Rosa stava per dire di aver visto la stessa cosa, ergo quell’informazione era inutile e perciò Naito avrebbe potuto anche andarsene a marcire nel Tartaro, ma secondo lui non era un semplice uomo: era un dio.

Un dio aveva collaborato con Orochi. 

«Ricordo… ricordo di aver sentito qualcosa del genere» mormorò Thomas all’improvviso, voltandosi verso di Lisa. «Quella kitsune… aveva detto che Orochi era solo un “fantoccio.”»

Lisa posò la mano sul ciondolo che aveva attorno al collo. «Me lo ricordo anch’io.»

«Bene, quindi Naito non ha mentito» mugugnò Edward, massaggiandosi una tempia esausto. «Grandioso…»

«Perché un dio avrebbe dovuto collaborare con Orochi?» domandò allora Konnor. 

«Per aiutarlo a rovesciare Amaterasu dal trono» rispose Edward, con voce grave. Vi furono alcuni sussulti di sorpresa. Rosa lanciò un’occhiatina verso di Natalie, che era seduta accanto a loro e faceva vagare lo sguardo sui presenti con aria smarrita. Era probabile che quella poveretta non stesse capendo neanche un terzo delle loro parole, però stava comunque ascoltando, paziente, per essere di supporto ad Edward. Nonostante tutto, le venne da sorridere. Non era carina come Konnor, ma si meritava un lontano secondo posto.

«Ho… fatto un sogno, ieri notte» proseguì Edward, prima di alzare il braccio di fronte a sé, arrivando all'altezza del petto. Un lampo di luce apparve nel suo palmo. Un’istante dopo, stava reggendo una lunga katana dall’elsa d’oro e la lama bianca e luminosa. Diversi sussulti si sollevarono tra di loro. Rosa schiuse le labbra. Era una spada bellissima. Sembrava fatta apposta per stare nella mano del proprietario ed irradiava un’energia così forte da farle arricciare la pelle.

«Ma… quella è Ama no Murakumo!» esclamò Konnor.

«Q-Quella è la spada?» domandò Rosa, sconvolta e meravigliata. «Ma… come? Credevo l’avessi restituita!»

Edward abbassò la spada, che svanì di nuovo dal suo palmo, prima di fare un tenue sorriso. Raccontò del sogno che aveva fatto, del templio giapponese nascosto tra le colline, in una gigantesca caverna, e del suo incontro con Susanoo e Amaterasu. Quando parlò di lei, la descrisse come la cosa più meravigliosa che avesse mai visto, al punto che sembrava essersene innamorato. Natalie si schiarì la voce, facendogli intuire che doveva darsi un contegno. Imbarazzato, Edward farfugliò delle scuse. Rosa trattenne una risatina. 

Hermano tonto…

«Però avreste dovuto vederla» disse ancora lui. «Era proprio… impossibile non guardarla. Era come se avesse un magnete addosso. Non so come spiegarmi.»

«Tipo… Afrodite?» domandò Thomas. 

«Ancora di più.»

Un tuono scosse il cielo in quel momento, facendo sussultare l’hermano. Afrodite non doveva aver gradito quelle parole. A Rosa scappò un sorrisetto. Adesso anche lei era curiosa di conoscere Amaterasu.

«Comunque…» riprese Edward, dopo aver dato un’occhiata nervosa al cielo. «… è stata Amaterasu a cedermi di nuovo la spada. Vuole che… che io sia il suo araldo.»

Raccontò la sua conversazione con la dea e spiegò che, secondo lui, alcuni dei orientali volevano detronizzare Amaterasu e prendere il suo posto. E ciò che Naito aveva detto non faceva altro che rafforzare la sua teoria. Aveva perfino menzionato il dio della luna, fratello di Amaterasu, come il possibile traditore. 

Rosa si ritrovò a pensare a suo padre e ad Artemide. Certo, tra loro esisteva una sorta di rivalità fraterna, ma non sarebbe mai riuscita ad immaginare sua zia che cercava di uccidere il fratello per prendere il dominio del sole. Non aveva alcun senso. Era anche vero, tuttavia, che non era Apollo il sovrano degli olimpi, ma Zeus. E i fratelli di Zeus in svariate occasioni avevano provato a fargli qualche scherzetto di cattivo gusto sfociato in morte e devastazione. 

A conti fatti, la teoria di Naito sembrava reggersi in piedi. Ma siccome era di Naito, Rosa decise di scartarla a priori. Non le importava come, dove, o quando, non lo avrebbe mai ascoltato, né avrebbe mai accettato le sue scuse e tantomeno lo avrebbe mai visto in maniera diversa rispetto a quella in cui lui si era presentato. 

«Quindi… ci sono altri guai in arrivo?» chiese infine Stephanie, angosciata.

«Ho… paura di sì» ammise Edward, cupo in volto. «Ma forse, prima di trarre conclusioni affrettate, dovremmo discuterne anche con Chirone. Deve sapere che ho di nuovo la spada. E magari potrà dirci qualcosa che ci aiuti a capire meglio la situazione.»

Rosa non ci avrebbe giurato. Di solito prima di far spiccicare qualcosa a Chirone occorrevano anni e anni e anche un sacco di semidei uccisi. E nella maggior parte dei casi, si decideva a parlare soltanto quando bene o male la situazione era già chiara a tutti. E questo per quanto riguardava le situazioni “normali.”

Quella non era affatto una situazione normale. C’erano di mezzo dei e mostri giapponesi, qualcosa che nessuno di loro aveva mai affrontato prima, qualcosa di sconosciuto, pericoloso e potenzialmente distruttivo.

E a quel pensiero, le venne da sorridere. Fece vagare lo sguardo su tutti loro. Stephanie e Konnor, Lisa e Thomas, Natalie ed Edward. Distese il sorriso, pensando a tutto ciò che aveva portato quei sei ragazzi a trovarsi lì, tutti insieme, uniti.

Proprio come aveva detto all’hermano diverse settimane prima, parlandogli delle guerre che c’erano state tantissimi anni prima. Avere un nemico comune aveva portato tutto il Campo Mezzosangue ad unire le forze e aveva spinto i semidei a diventare amici, una famiglia. E anche lei ne faceva parte. E per questo motivo, avrebbe combattuto con tutte le sue forze. E soprattutto si sarebbe allenata fino a stramazzare di fatica ogni sera.

Non vedeva l’ora. 

Ripensò a Naito. Edward aveva detto che non lo avrebbero più rivisto e Rosa si augurò che fosse davvero così. In caso contrario, si sarebbe assicurata che quel verme non rapisse mai più nessuno. In quel momento, però, avevano altro a cui pensare. 

«Che stiamo aspettando allora?» domandò, alzandosi in piedi di scatto. Sollevò una mano a pugno e fece vagare lo sguardo su tutti loro, determinata. Edward era suo fratello, era legata a lui, e anche tutti quei ragazzi erano legati a lui. Non solo, l’avevano anche salvata da Orochi. Per questo motivo, lei avrebbe ricambiato il favore. Anche lei avrebbe combattuto, assieme a loro e soprattutto per loro.

Distese il sorriso, volgendo lo sguardo verso il cielo. Il sole caldo la carezzò con i suoi raggi, rinvigorendola. Nonostante ammirasse sua zia, rimaneva comunque una figlia di Apollo. Un giorno, sperava di incontrare anche lui. E soprattutto, sperava di renderlo fiero di lei.  

Anzi. Era certa che l'avrebbe reso fiero di lei.

«Andiamo da Chirone!»

 

 

 

 

 

 

Buonasera a tutti! Non ho davvero qualcosa di importante da dire, in realtà, ma siccome è passato un po' dall'ultima volta che mi sono rivolto a voi in maniera informale, ho deciso di farmi vivo per un secondo. Intanto vorrei ringraziare di cuore Farkas, Roland e Nanamin per aver recensito questi piccoli orrori. 

Questo capitolo su Rosa era da molto che volevo farlo, penso si noti anche dalla lunghezza, che ricorda un po' quelli della storia principale. Possiamo dire che a tutti gli effetti questo è stato un capitolo extra della storia. Ma soprattutto, volevo fare il punto di vista con lei, spero sia venuto bene e ovviamente spero che vi sia piaciuto!

E quindi... sì, immagino di aver appena distrutto le speranze di alcuni. Non odiatemi, pls.

Grazie per aver letto e ci vediamo ad un prossimo aggiornamento! 

 

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Capitolo 4
*** Parti in movimento (pt1) ***


Nota: Io lo sapevo che sarebbe successo. Questa raccolta ormai si sta trasformando in una mini storia, con i capitoli collegati tra loro. Chiedo venia davvero, anche se non credo sia un vero problema in fin dei conti. Comunque sia, questo capitolo si svolge dopo il finale della storia, un paio di giorni dopo lo scorso capitolo della raccolta, in realtà. Edward ha raccontato tutto del sogno su Amaterasu e ormai tutti nel campo sanno che lui è l'Araldo e che ha di nuovo la spada. Buona lettura!

p.s. Ho diviso questo capitolo in 2 perché stava diventando troppo lungo. Eh, sapete com'è, il lupo perde il pelo ma non il vizio. 



 EDWARD 

4

Parti in movimento (pt1)



Edward non era mai stato al Bunker Nove. L'aveva sentito nominare diverse volte dagli altri semidei, ma non l’aveva mai visto di persona. Aveva creduto che fosse, beh, un bunker, magari con un “9” scritto sopra la porta, o cose del genere.

Si era sbagliato completamente. 

Il Bunker Nove era un magazzino gigantesco, da far sembrare tutte le capanne del campo degli sgabuzzini. Quando ci mise piede dentro per la prima volta, rimase sbalordito da quello che vide.

C’erano gigantesche placche di armatura appese al soffitto con dei ganci, scomparti pieni zeppi di armi, mensole straripanti di attrezzi ed una miriade di altri oggetti non identificabili, fatti da circuiti, cavi strappati e bulloni, a perdita d’occhio. 

Quel posto era davvero immenso, si dispiacque di non esserci mai passato prima. Chissà quanta roba potevano trovarci, appartenente a guerre ed eroi di altri tempi. 

Proseguì verso la sola persona che trovò al suo interno, che non sembrò accorgersi di lui finché non fu abbastanza vicino. Kevin smise di tirare martellate sopra una lastra di bronzo celeste e drizzò lo sguardo verso di lui, togliendosi le cuffie dalle orecchie. Malgrado la distanza, Edward poteva comunque sentire la musica rock-alternativa sparata a tutto volume. 

«Che ci fai qui?» domandò senza troppi giri di parole, con tono parecchio infastidito. 

Edward gli mostrò i moncherini di Veloce come il Vento – che per fortuna Thomas aveva conservato nello zainetto – e gli chiese se poteva ripararglielo. 

Kevin tirò su con il naso. «Non faccio riparazioni nel bunker. Devi portarlo alla Capanna Nove, i miei fratelli se ne occuperanno nella fucina.»

«Sono già stato da loro, e mi hanno detto di venire qui.»

«MA… che cosa?!» 

Il figlio di Apollo sollevò le spalle. «Mi hanno detto che c’è un tempo di attesa di una settimana per riparare il mio arco, e che se volevo accelerare le cose dovevo portarlo direttamente da te.»

Kevin sospirò, afferrandosi la radice del naso senza curarsi di avere le mani inzaccherate di fuliggine. Gesticolò verso un tavolino da lavoro. «Lascialo lì sopra e torna tra un’ora.»

«Ehm… ok.»

«Vuoi che te lo ripristini o vuoi qualche modifica?» domandò ancora Kevin, adesso con una pittura di guerra sopra il naso, inarcando un sopracciglio. 

«In… in che senso?»

I due ragazzi si guardarono per un istante. «Va bene ho capito, faccio io» concluse il figlio di Efesto, liquidando la faccenda con un altro cenno della mano. «Torna tra un’ora» ripeté, rimettendosi le cuffie e riprendendo a martellare senza nemmeno dargli il tempo di rispondere. 

Incerto, Edward obbedì. Quel tizio era strano.

Così, un’ora dopo, ritornò al bunker. Ad attenderlo, trovò Kevin alle prese con quello che avrebbero potuto definire “Veloce come il Vento sotto steroidi.

Non solo l’aveva riparato, gli aveva dato un volto completamente nuovo. Aveva aggiunto due carrucole su entrambi i lati per caricare le frecce più rapidamente e con più forza, giunture metalliche per poterlo ripiegare quando non gli serviva, una sicura, un puntatore laser e perfino un mirino telescopico. Edward rimase atterrito, non solo da tutte quelle migliorie, ma anche dalla rapidità con cui le aveva aggiunte. 

Quel tizio era strano, ma era sveglio, poteva dargliene atto. 

Quando glielo porse, lo trovò davvero leggero nonostante tutti i componenti extra. Tese la corda senza alcuna difficoltà grazie alle carrucole e testò anche il mirino. Non gli serviva davvero, dopotutto aveva una mira infallibile, ma poteva funzionare molto bene come binocolo, o per i bersagli molto lontani. 

«Vuoi anche qualche decalcomania?» propose Kevin, afferrando un pacchetto di sigarette da un cassetto del tavolino da lavoro. Cominciò a fumarsene una, sotto lo sguardo sbigottito di Edward. «Ti ho aggiustato l’arco, in cambio tu dirai di non aver visto niente, giusto?» gli domandò, buttando fuori una nuvoletta di fumo.

Sembrava un buon compromesso. Edward abbozzò un sorrisetto. «Giusto.»

«Bravo ragazzo. Allora, cosa ci vuoi sopra? Fiamme, teschi, cuoricini, il nome della tua ragazza o che so io?»

L’idea di chiamare l’arco Natalie non lo allettò molto. Dubitava che lei avrebbe apprezzato. «Puoi ripristinare la scritta originale?»

«Scusa amico, ma non conosco il cinese.»

«Giapponese.»

«Vabbé, quella roba lì.»

Edward spalancò gli occhi. «Come scusa?»

Kevin sembrò accorgersi di aver detto qualcosa che non avrebbe dovuto, perché fece svanire l’aria arrogante dal volto. Scostò la sigaretta dalle labbra e si schiarì la voce. «Cioè… sì, insomma, non conosco il giapponese. Non saprei come scrivere la frase originale.»

«Hai carta e penna?»

Il figlio di Efesto estrasse l’occorrente dal marsupio che aveva alla vita e glielo porse. Edward scrisse “Kaze no yō ni hayai” in pittogrammi giapponesi. «Ecco qua.»

Kevin afferrò il foglietto, corrucciando la fronte. «Ehm… ok.»

Mentre carteggiava il legno per cancellare la verniciatura originale, Edward fece vagare lo sguardo lungo il Bunker Nove. «Tutta questa roba sarebbero i progetti di Valdez?» 

«Nah. Ti pare che quelli li lasceremmo così, buttati a casaccio su delle mensole? Ecco.»

Kevin si avvicinò ad una nicchia nella parete, poi tirò fuori uno scatolone muggendo per lo sforzo. Lo sbatté con forza sul ripiano, causando un terrificante rumore di metallo, vetro e chissà che altro che lo fece sobbalzare. 

Sopra, c’era una scritta in pennarello: 

 

Addobbi natalizi 

PROGETTI DI VALDEZ

 

 

«Eccoli qua» annunciò, togliendo il coperchio e mostrandogli quel delirio di roba che si trovava lì dentro. «Tutti in perfetto ordine.»

Edward arrischiò un’occhiata dentro quel coso e constatò che i loro concetti di “perfetto ordine” erano molto diversi. Lui non era certo un ragazzo ordinato, ma Kevin lo avrebbe fatto sembrare uno di quei figli di Atena che davano i numeri se i ciuffi d’erba fuori da casa loro non erano tutti quanti perfettamente simmetrici. Cominciò a capire perché Simon non lo vedesse molto di buon occhio. 

Anche se in realtà Simon non vedeva nessuno di buon occhio. 

Il capocasa di Efesto infilò la mano nello scatolone, cominciando a tirare fuori aggeggi assurdi. Una specie di sfera di bronzo rotta, un tavolino con le gambe mancanti, la gigantesca testa di un drago di metallo e poi una specie di specchio di bronzo celeste, che ad Edward ricordò un po’ quello che aveva visto nel santuario di Amaterasu. 

«Tutta questa roba è rotta» borbottò Kevin, con voce smorta. «Sto cercando di ripararla, ma senza i progetti originali è come brancolare nel buio. Ho chiesto aiuto a mio padre, ma non mi ha risposto. Credo che mi stia mettendo alla prova. Vuole che ci arrivi da solo.»

«Questo… Valdez, che fine ha fatto?» domandò Edward a quel punto. 

Kevin drizzò la testa. Si tolse di nuovo il mozzicone di sigaretta tra i denti e si indicò il volto. «Ho l’aria di uno che lo sa, secondo te?»

Edward si morse un labbro, prima di dirgli che aria secondo lui avesse davvero. Sicuramente, quel muso corrucciato e sporco di fuliggine non dava l'idea di un sapientone. 

«Vuoi sapere come ho fatto a diventare il semidio più anziano del campo? Non facendo domande, ecco come. E anche standomene alla larga dai mostri» concluse Kevin, prima di fare un altro tiro di sigaretta, così lungo da consumarne mezza. 

«Ehi, e questo piccoletto come c’è finito qui?» domandò all’improvviso, illuminandosi. Tirò fuori dallo scatolone un fucile arrugginito della seconda guerra mondiale, con il caricatore rotondo e il manico di legno usurati. «Andato anche questo» commentò, rigirandoselo tra le mani e studiandolo con gli occhi che brillavano. Sogghignò e lo posò sul ripiano da lavoro accanto a Veloce come il Vento. «Non preoccuparti, lo zio Kev ti rimetterà in sesto.»

Edward pensò alla sfida di Cattura la bandiera che si sarebbe tenuta alla fine dell’estate e deglutì. Si augurò che quello psicopatico non intendesse usarlo per quell’occasione. Si riscosse quando lo vide prendere un pennellino tinto di pittura nera. «Forza, dimmi come scrivere bene questa stupida frase e vediamo di finirla.»

«Dì ancora che è stupida e ti faccio ingoiare la scatola di progetti di Valdez» gracchiò Edward affiancandolo.

«Su, su, non essere così scontroso. Qui siamo tra amici.»

Il figlio di Apollo storse le labbra contrariato. Lo aiutò con quell’ultimo particolare, guidandolo nella scrittura dei pittogrammi. Per essere un fabbro fuori di testa, la calligrafia di Kevin era ordinata e pulita.

Infine, Veloce come il Vento 2.0 vide ufficialmente la luce. Edward lo prese con un sorriso soddisfatto, prendendo di nuovo la mira e giocherellando con la corda. Quell’affare avrebbe sparato frecce al quadruplo della velocità, ne era sicuro. 

«A proposito, mi spieghi sta cosa del giapponese?» domandò Kevin, mentre si accendeva un’altra sigaretta. Edward si domandò perché si tenesse alla larga dai mostri se tanto si arrecava da solo lo stesso male che quelli avrebbero potuto fargli. «Come mai sai parlarlo?» proseguì Kevin, buttando fuori un’altra nuvoletta di fumo. 

«È per via di Ama no Murakumo. La spada» chiarì, notando il suo sguardo confuso. «Da quando ce l’ho so parlare perfettamente il giapponese. So leggerlo, scriverlo, capirlo, e so anche riconoscere oggetti di manifattura orientale con un solo sguardo. Armi, vestiti, strumenti, tutto.»

«E la spada ce l’hai sempre dietro?»

«Beh… non so esattamente come funzioni. So solo di poterla fare apparire quando mi serve.»

«Posso vederla?»

Edward sollevò le spalle. Immaginò di poterlo fare come segno di gratitudine per avergli aggiustato l’arco. Alzò una mano e si concentrò, facendo apparire Ama no Murakumo nel suo palmo. La lama bianca e ricurva mandò alcuni soffi d’aria lungo il Bunker Nove, facendo sibilare la punta della sigaretta di Kevin – che tra l’altro era già quasi finita. 

«Fantastico» osservò Kevin, avvicinandosi e guardandola ammirato. Tese una mano. «Posso?»

Il figlio di Apollo lo squadrò perplesso. Nessuno gli aveva mai chiesto di poterla provare prima di quel momento. Non era nemmeno sicuro che si potesse fare. Di solito la spada svaniva ogni volta che la lasciava andare. «Meglio che la tenga io» decise. «Non prenderla sul personale, ma non credo che Amaterasu apprezzerebbe se lasciassi provare la spada agli altri.»

«Voglio solo studiarla» si giustificò Kevin. «Giuro sullo Stige che non farò cazzate.»

Quello sì che era uno strano giuramento. La terra tremolò leggermente, segno che alla dea Stige non importavano le formalità: un giuramento era un giuramento, e quello era stato accettato. Edward sospirò. «Va bene, ma sta attento.»

Incerto, posò la katana sulla mano callosa del fabbro, che la strinse sbalordito. Non appena chiuse le dita attorno al manico, tuttavia, Ama no Murakumo svanì all’istante, ritornando nella mano libera di Edward.  

«Ma… che è successo?» domandò il figlio di Efesto, sorpreso e anche un po’ offeso. 

Edward osservò assorto la katana. «Forse… forse solo il proprietario può tenerla.» 

«Ah, quindi non è tipo il martello di Thor» commentò Kevin, grattandosi il mento. 

«Ehm…» Edward sollevò un sopracciglio. 

«Lascia perdere, è roba vintage. Non capiresti.»

«Okay…»

Kevin cominciò a mettere via gli attrezzi che aveva usato per aggiustare l’arco, sbattendoli in una cassetta con poca delicatezza. Sputò via il secondo mozzicone ormai finito. «Allora, siamo a posto così? Ti levi finalmente di torno?»

«Sì e sì» replicò Edward infastidito. 

«A mai più» lo salutò il figlio di Efesto senza nemmeno guardarlo. 

Edward scosse la testa, poi se ne andò dal Bunker Nove con il suo arco nuovo di zecca, pronto a centrare qualche povero bersaglio indifeso.

 

***

 

Trattenne il respiro e lasciò andare: la freccia centrò in pieno centro il bersaglio, strappandogli un sorriso soddisfatto. 

Edward posò Veloce come il Vento 2.0 sul bancone, asciugandosi la fronte imperlata di sudore. Il sole picchiava su di lui con incredibile insistenza, quasi come se perfino lui lo riconoscesse come il rappresentante di ben due divinità solari, ma non gli dava fastidio, tutt’altro. Lo faceva sentire davvero bene. 

Quel calore lo riportò con la mente a quel sorriso, quella luce, quell'uomo che aveva visto prima di uscire da quel buco infernale conosciuto come Yomi. Quella sensazione di… benessere che lo aveva travolto. 

Quei ricordi, quei pensieri nostalgici di qualcosa che sapeva di non aver mai avuto. Lui ancora bambino, con sua madre e suo padre seduti sullo stesso divano, stretti, in un salotto con il camino che crepitava. La televisione accesa, il profumo di waffles appena fatti, le risa di suo padre e le carezze gentili di sua madre.

Abbassò lo sguardo, pizzicandosi un labbro. Per un istante, aveva pensato a come sarebbe stato avere una vita normale. Niente mostri, niente dei, semidei, niente di niente. 

Una vita normale… chissà cosa si prova.

Si domandò come avrebbe reagito se, un giorno, si fosse svegliato scoprendo che tutto quello in realtà era stato solo un sogno. Sarebbe stato sollevato, o triste al pensiero di non aver mai davvero conosciuto Rosa, Tommy, Natalie, Stephanie e tutti gli altri?

«Edward?»

Una voce aggraziata lo chiamò timidamente, scoppiando la sua bolla di pensieri. Si voltò, trovandosi di fronte il viso sorridente di Jane, che lo salutò con un rapido cenno della mano. 

«Ehi Jane» la salutò lui, con un sorriso. «Come stai?»

«Bene… grazie. Tu?»

«Non mi lamento.» Edward incrociò le braccia, incrociando il suo sguardo. «Hai bisogno di parlarmi?»

Jane distolse gli occhi dai suoi, sembrando un po’ imbarazzata. «Da cosa l’hai capito?»

«Dal fatto che vi siete scomodate per venire fin qui, vostra maestà.» Edward fece un inchino, portandosi la mano sul petto, beccandosi una spintarella da Jane. 

«Ha-ha-ha» mugugnò lei. «Non sapevo che Apollo fosse anche il dio dei cabarettisti.»

«Ora lo sai.»

La figlia di Afrodite sollevò gli occhi e sembrò rimpiangere l’essere venuta fin lì. Doveva esserle costato un sacco di tempo prezioso per sistemarsi quei capelli sempre perfetti e probabilmente averle anche consumato le suole delle sue bellissime scarpe all’ultimo grido. 

«Volevo solo dirti che… ho parlato con Buck» ammise lei. 

Non appena quell’animale da soma venne nominato, il sorrisetto svanì dal volto di Edward. «Che è successo?»

«Cos’è quel tono preoccupato?» domandò Jane, tornando ad osservarlo con uno strano sorriso. 

Edward sussultò e questa volta fu lui a dover distogliere lo sguardo, mentre si grattava la cicatrice sulla guancia. «Ahm…»

Jane si portò una mano sul fianco, squadrandolo altezzosa. «Com’è gentile, o mia servitù, a preoccuparsi per sua maestà la regina.»

Ora toccò ad Edward alzare gli occhi. Se non altro, sapere che Jane non aveva perso la sua verve gli fece capire che non era successo niente di grave. La sentì ridacchiare e la guardò di nuovo, mentre si lisciava l’abito su cui doveva aver notato qualche imperfezione che non esisteva. «Non è successo niente, comunque, non preoccuparti. Lui mi ha… mi ha chiesto scusa.»

Edward spalancò gli occhi atterrito, temendo di sapere dove la questione sarebbe andata a parare. Aprì la bocca per dire che era una pessima, pessima idea, ma lei lo frenò alzando l’indice di una mano. «Ma l’ho lasciato lo stesso» concluse, per poi lanciargli un’occhiata di sufficienza. «Mi ha messo le mani addosso, Edward, non esiste scusa che tenga. Se non altro, ha capito di aver sbagliato.»

Il figlio di Apollo grugnì, poco convinto. Non credeva proprio che Buck avesse davvero capito qualcosa, ma poco importava. «E lui come l’ha presa?»

Jane si strinse nelle spalle. «Non… non saprei. Spero bene.»

«Spero?»

La ragazza abbassò di nuovo lo sguardo, senza rispondere. Edward si asciugò di nuovo la fronte con un sospiro stanco. Se non altro Jane non era più incastrata con uno psicopatico. Avrebbe fatto meglio a tenerlo d’occhio, comunque. Non glielo disse ad alta voce, ma aveva il timore che Buck potesse fare qualcos’altro di stupido.  

«Hai… hai fatto la cosa giusta, Jane» disse infine, tornando a sorriderle. 

Jane incrociò di nuovo il suo sguardo, ricambiando il sorriso. «Merito tuo.»

«Che intendi dire?» 

«Diciamo che… mi hai aiutata ad aprire gli occhi su un po’ di cose» rispose lei, vaga, per poi tornare a guardarlo di nuovo con quella punta di malizia che l’aveva sempre contraddistinta. «Come vanno le cose tra te e Natalie?»

Edward sussultò, sorpreso dal cambio di argomento. Sentire Jane pronunciare il nome di Nat gli ricordò che lei detestava ancora profondamente la figlia di Afrodite per come si era comportata con la capanna Undici. Se li avesse visti parlare insieme, con tutta probabilità non l'avrebbe affatto presa bene. «Vanno… vanno bene… perché?»

«Curiosità» vagheggiò di nuovo lei, per poi sorridergli più sincera. «Volevo solo dirti questo. Ti lascio ai tuoi allenamenti.»

«O-Ok… grazie per avermelo detto.»

Jane scosse la testa, per poi osservarlo di nuovo con uno strano sguardo. «No, Edward. Grazie a te. Ah, e magari passa alla capanna Dieci, quando hai tempo. Dobbiamo proprio rifarti il look. Sei impresentabile.»

Si allontanò salutandolo con un cenno della mano senza dire altro. Edward rimase di sasso, ad osservare i suoi capelli platino mentre ondeggiavano dietro di lei come soffici piume. Quando fu abbastanza lontana, si riprese da quella specie di trance. Gli era successa una cosa simile già quando era andato a trovarla la sera della festa. Doveva essere la sua aura di figlia di Afrodite, lo trasformava in una specie di babbuino non senziente. Poteva ringraziare gli dei che Natalie non avesse assistito a quella scena o lo avrebbe ucciso.

«Davvero non stanno più insieme?»

Edward sobbalzò per la sorpresa. Osservò atterrito la testa di suo fratello che sporgeva dal cubicolo accanto al suo. «Ma da quanto tempo è che origli?!»

«Da quando è arrivata Jane» ammise Jonathan, per poi uscire allo scoperto. Si voltò verso la direzione in cui la figlia di Afrodite era svanita. «Quindi è single adesso?»

«Sì, perché?» domandò Edward, in maniera più automatica che altro. Poteva immaginare in realtà perché Jonathan stesse facendo quella domanda. 

«Pensi che potrei avere una chance con lei?» chiese infatti lui. 

«Ma fai sul serio?» sbottò Edward, con voce molto più infastidita di quanto avrebbe pensato di usare.

L’espressione di Jonathan si fece confusa. «Perché?» 

«Come “perché”? Si è appena lasciata con un idiota! Pensi davvero che voglia subito iniziare un’altra relazione? Ma cosa credi, che sia una bambola? Ha sentimenti anche lei, lo sai?»

Jonathan si ammansì come un bimbo, guardandolo quasi angosciato. «I-Io…»

«Lasciala in pace. Chiaro?» lo frenò Edward, puntandogli contro l’indice e facendolo trasalire. «Ci sono cento miliardi di ragazze nel campo, provaci con qualcun’altra.»

«O-Ok, fratello. Calmati adesso.»

Edward abbassò la mano, con una smorfia irritata. Osservando lo sguardo intimorito di Jonathan, capì di aver esagerato un po’. Ma il modo in cui aveva chiesto se Jane fosse single l’aveva davvero alterato, come se non avesse aspettato altro che la prima occasione per farsi avanti senza nemmeno considerare come lei si sentisse in quel momento.

Gli venne da chiedersi quanti altri ragazzi avessero pensato la stessa cosa, come se Jane fosse un banco di alimentari a cui presentarsi con il numerino. Preferì non pensarci.

Si accorse che Jonathan era ancora lì, ora con la testa bassa e l’espressione mortificata. Edward roteò gli occhi. Erano lontani i tempi in cui era proprio quel biondino lampadato a rimproverarlo. «Ascolta… adesso non è il momento. Dà a Jane un po’ di tempo per superare quello che è successo. Quando starà meglio, che ne so, falle una serenata o cose del genere. Sono sicuro che ne andrà pazza.»

«Davvero?» domandò il fratello, illuminandosi.

«Sì, sì…» mugugnò Edward con disappunto, mentre si voltava. «Ora sparisci, o ti uso come bersaglio.»

Jonathan sussultò e si allontanò di corsa, ben conscio del fatto che Edward avrebbe potuto fargli davvero una cosa del genere.

Il capocasa di Apollo afferrò di nuovo l’arco e sospirò profondamente. Certe volte gli sembrava di avere a che fare con dei bambini.

 

***

 

Stava per andarsene, quando avvertì alcuni movimenti alle sue spalle. Prima che potesse voltarsi, due mani lo circondarono di fronte alla pancia e due labbra si posarono sul suo collo, facendolo rabbrividire. Il viso di Nat apparve nella periferia del suo campo visivo. «Come sta il mio uccisore di dei?» gli domandò, con un sorrisetto, prima di baciarlo sulla guancia. 

Edward fece uno sbuffo appagato, mentre lei scendeva lungo la guancia, lasciandogli una scia di baci delicati, sfiorandolo appena con la bocca. «Non… non ho ucciso nessun dio…» riuscì a borbottare. 

«Sterminatore di morte» suggerì allora lei, facendolo ridacchiare. 

«Sto bene Nat. Tu invece? Come vanno le faccende?»

Quel giorno, era toccato alla Capanna di Ermes svolgere i lavoretti del campo che nessuno voleva mai svolgere. Pulizia delle stalle, del magazzino, raccogliere le fragole e cose del genere. Ogni volta che toccava alla Sette, Edward tentava di sbolognare tutto il lavoro ai fratelli, ma poi arrivava Rosa ad obbligarlo a lavorare come gli altri. 

Concederle il posto di capocasa assieme a lui non era stata una buona idea, col senno di poi.

Era simile a Nat, per certi punti di vista. Entrambe sapevano come farsi rispettare. Da lui soprattutto. 

«Abbiamo finito adesso. Anche se…» fece scivolare la mano sotto la sua maglietta, accarezzandogli l’addome. Trasalì quando sentì il suo tocco gelido nonostante il caldo. «… ho detto agli altri che il magazzino non è ancora pronto. Mi serve almeno… ancora un’oretta, per finire.»

Si piazzò di fronte a lui, facendo quel sorrisetto che già le aveva visto fare quando gli aveva suggerito di sgattaiolare via durante le lezioni. O gli allenamenti. O la cena. O…

«Vieni… ad aiutarmi a pulire il magazzino?» gli domandò, avvicinandosi a lui, scrutandolo con quegli occhi scuri carichi di intensità.

«Molto volentieri» rispose Edward, tirandola a sé, facendo aderire i loro corpi. Sentì il sangue scendergli dal cervello per confluire in tutt’altra parte, mentre lei si avventava sulle sue labbra, famelica. Gli carezzò il palato con la lingua, prima di dargli un morso al labbro inferiore che lo fece sussultare.

«Che cosa stiamo aspettando?» sussurrò al suo orecchio quando finì di assalirlo. Come ogni altra volta, una lunghissima scarica di brividi lo percorse in tutto il corpo. Natalie lo afferrò per la mano e cominciò a trascinarlo via dalla postazione senza nemmeno dargli tempo di rispondere.

«A-Aspetta, ho lasciato il mio arco!»

«Nessuno lo toccherà, non preoccuparti. Ora muoviti.»

«... s-sissignora!»

Natalie sorrise soddisfatta. I due ragazzi svanirono nei meandri del campo.

 

***

 

«Grazie per avermi aiutata» mormorò Natalie, mentre uscivano dal magazzino. 

Edward si passò una mano sopra il segno del morso sul suo collo ancora ben visibile. Si augurò che nessuno facesse troppe domande. «Prego» rispose, incrociando lo sguardo della sua ragazza. «Anche se avrei preferito restare ancora un po’…»

«Anch’io.» Natalie si avvicino di nuovo a lui. Aveva i capelli un po’ scompigliati, i vestiti stropicciati e un sorriso soddisfatto sul volto. «La prossima volta mi inventerò qualcosa di più… duraturo.» 

Il suo sorrisetto da figlia di Ermes cambiò all’improvviso, mentre si osservavano. Si fece più apprensiva e gentile mentre azzerava le distanze tra loro, questa volta non per baciarlo, ma per abbracciarlo. Fu un abbraccio sentito, la stretta era salda, ma il tocco era delicato. Edward lo ricambiò sorpreso, mentre lei appoggiava la guancia sulla sua spalla. 

«Sono felice di averti conosciuto» sussurrò.

Un timido sorriso nacque anche sul volto di Edward. Ricambiò l’abbraccio con forza, avvolgendo quel corpo sottile che adorava con tutto sé stesso. «Anch’io.»

Le accarezzò la schiena e i capelli e la sentì ammorbidirsi. Sprofondò su di lui, sospirando compiaciuta. Rimasero stretti a lungo, in quell’abbraccio molto più dolce del solito, molto diverso dalla bramosità con cui si cercavano, ma altrettanto gradevole. Natalie sapeva farsi rispettare, in diversi contesti, ma sapeva essere altrettanto delicata.

Gli aveva parlato, qualche volta, di come fosse la parte “mortale” della sua vita. Aveva capito molte cose su di lei, per questo motivo sapeva che era sincera con lui. Era davvero grata per la sua presenza. E per lui valeva lo stesso. Grazie a lei aveva trovato il coraggio di aprirsi agli altri. E soprattutto, lei lo faceva sentire valorizzato. Era bello sapere che c’era qualcuno, a parte Rosa ed i suoi amici, che teneva a lui in quel modo. 

Quando era con lei, i suoi dubbi, le sue paure e le sue incertezze svanivano. Sentiva un calore nel petto simile a quello che aveva provato quando aveva visto suo padre nello Yomi. Una sensazione di calma, di tranquillità e sicurezza, che l’avvolgevano come una coperta calda.

Natalie si separò da lui appena, per poterlo osservare di nuovo in volto. Allontanò una mano dai suoi fianchi, per accarezzargli le cicatrici sul viso. «Ti… ti senti meglio, Edward? Pensi ancora a… a quello che ti è successo?»

Edward esitò. Sì, ci pensava ancora. Molto di meno, ma sì. Annuì timidamente, imbarazzato perfino. Ci avevano provato in tutti i modi a convincerlo che andava tutto bene, che si sarebbe ripreso e che non sarebbe sprofondato nello Yomi all’improvviso, anche Chirone l’aveva fatto, ma la verità era che non si sarebbe sentito tranquillo finché Izanami non avesse smesso di balenargli davanti. Erano passati solo un paio di giorni da quando aveva raccontato tutto ai suoi amici, ma sembrava passato molto più tempo.

«Mi dispiace Edward. Posso… fare qualcosa per farti sentire meglio?»

Un altro flebile sorriso nacque sul volto del figlio di Apollo. Posò la mano su quella di Nat, stringendola forte. «L’hai già fatto» sussurrò, cercando le sue labbra. 

Le ghermì immediatamente, carezzandole con la lingua, assaporandole con calma, concentrandosi su ogni sensazione che quel bacio gli provocò, ogni brivido di piacere e ogni respiro di Natalie sul suo viso, mentre quel calore cresceva nel suo petto a dismisura. Quando si separarono, lei lo accarezzò di nuovo. «Sono qui per te, Edward. Lo sarò sempre. Per qualsiasi cosa, cercami.»

«Lo stesso vale per te, Nat. Cercami ogni volta che vuoi.»

I due ragazzi si sorrisero di nuovo. Poi, qualcosa cambiò nell’aria. Edward sbatté le palpebre e anche Nat si fece imbarazzata all’improvviso, un’espressione che raramente faceva. Sembrò volergli dire qualcosa. E anche lui, in realtà, avrebbe voluto dire altro. Nessuno dei due ci riuscì. Rimasero in silenzio ancora per qualche istante, finché Natalie non si schiarì la voce. «Devo… devo andare, adesso. I miei fratelli si staranno chiedendo che fine ho fatto.»

Edward riuscì a sorridere di nuovo. «Credo che alcuni lo sappiano già…»

Una risatina uscì dalla gola di Natalie. «Thomas no di sicuro.»

Anche Edward ridacchiò. In effetti, doveva sbrigarsi anche lui. Aveva una sessione di allenamento con Rosa e rischiava di non arrivare in tempo. «Ci… ci vediamo più tardi, Nat» concluse, dandole un altro rapido bacio. 

«A più tardi» rispose lei, con un ultimo sorriso, prima che si separassero. 

Presero strade diverse ed Edward, mentre si allontanava, continuò a ripensare a quella strana sensazione che sentiva nel petto e a quella frase che stava per uscirgli dalla bocca. 

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Capitolo 5
*** Parti in movimento (pt2) ***


 EDWARD 

5

Parti in movimento (pt2)



Mentre Edward si avviava verso l’arena dopo aver recuperato Veloce come il Vento, notò un capannello di persone che si raggruppavano lungo la stradina ai piedi della Casa Grande. Si fermò, incuriosito. Fece vagare lo sguardo tra quella scena e l’arena, indeciso.

Era sicuro che Rosa l’avrebbe ucciso per il ritardo, mentre andava a controllare cosa diamine stesse succedendo laggiù. 

I semidei si fecero da parte non appena lo videro arrivare. Ormai tutti quanti lo riconoscevano come Araldo di Amaterasu e sapevano che aveva di nuovo la spada, perciò lo rispettavano, o forse temevano, o magari un misto di entrambe le cose. Fatto stava che nessuno mise in discussione il suo diritto di vedere meglio. In cima alla fila, trovò Konnor. «Che sta succedendo qui?» gli domandò, affiancandolo.

Il figlio di Ares accennò con il mento di fronte a sé. «Guarda tu stesso.»

Edward obbedì, accorgendosi solo in quel momento di tre donne che stavano discutendo con Chirone, ai piedi della collina dell’albero di Talia. Il centauro era nella sua forma equina, torreggiava su tutte loro, ma sembrava teso. Edward riconobbe subito i kimono e gli happi che quelle tre stavano indossando. Erano giapponesi.

«E quelle chi sono?» domandò, con un bisbiglio. 

«Magari lo sapessi» mugugnò Konnor. «La Foschia non le ha ingannate. Hanno superato i confini senza alcun problema e sono scese fin qui. Chirone era sulla veranda, a giocare a carte con il signor D, quando se n’è accorto.»  

«E dov’è il signor D adesso?»

«Credo a dormire.»

«Che cosa?!» sbottò Edward, forse alzando un po’ troppo la voce, al punto che perfino Chirone e le tre donne si voltarono verso di lui. 

Spalancò gli occhi, mentre la donna in mezzo alle altre due apriva la bocca in un sorriso. «Ecco l’eroe che ha restituito Ama no Murakumo» disse, con voce melliflua. «Abbiamo sentito parlare di te.»

Aveva un forte accento, ma parlava bene l’inglese. Si avvicinò a lui, seguita dalle due compagne, ignorando un verso di protesta di Chirone. Tutti i semidei sussultarono, mentre Edward rimaneva immobile, a ricambiare lo sguardo di quella donna. Era bella, ma era una bellezza austera. Il suo sguardo era freddo, il suo sorriso con una venatura di malizia, gli occhi scuri a mandorla, i capelli tirati all’indietro in una coda lunghissima e sottile che scendeva lungo tutta la schiena. Reggeva un ombrello bianco con ghirigori oro per proteggersi dal sole e appeso ad un orecchio solo aveva un orecchino a pendente con una specie di fiorellino rosa, con tantissimi petali.

Lo stesso fiore era ricamato sul suo kimono, anch’esso bianco e oro, aperto in modo da mostrare i pantaloni neri ed una cintura a cui erano appesi un ventaglio ed una sfilza di pugnali da lancio. Kunai.

«Stavo giusto discutendo con il vostro direttore di te» disse, parandosi di fronte a lui.

Chirone trottò imbarazzato verso di loro. «Ho già detto che non sono io il dirett...»

«Il mio nome è Tamashī» si presentò lei, ignorando il centauro. Indicò poi la donna alla sua destra. «Lei è Meishu.»

Meishu abbassò la bandana rossa che teneva sopra il naso e la bocca, mostrando il viso ovale. Malgrado un brutto taglio cicatrizzato male sulla guancia sinistra, era davvero graziosa, molto più delle sue compagne. Aveva una cascata di capelli ebano lisci, che formavano una frangetta perfettamente dritta sopra agli occhi piccoli e scintillanti. Oltre ai kunai, alla cintura sotto il kimono nero teneva appeso il fodero di un tantō.

Fece un rapido inchino e sorrise fredda ad Edward, che si sentì penetrato dal suo sguardo.

«Invece, lei è Hageshī» concluse Tamashī, indicando l’ultima donna, che fece scrocchiare il collo. Era più bassa delle altre due – e più grossa, anche. Aveva delle mèche verdi e gialle e il viso rotondo pitturato in modo da far credere che stesse piangendo due fiumiciattoli di lacrime verdi. Anziché il kimono indossava un happi giallo sbottonato, mostrando la cintura a cui aveva appeso un falcetto attaccato ad una catena, un’arma che non aveva mai visto prima da nessuna parte, ma che Edward sapeva si chiamasse kusarigama.

«Non sanno parlare l’inglese, purtroppo. Temo che non sentirete nulla da loro» concluse Tamashī. Edward le osservò una per una, a disagio. Tamashī, Anima, Meishu, Responsabile, e Hageshī, Feroce. Non era sicuro sulle prime due, ma all’ultima quel nome sembrava calzare a pennello. Sicuramente erano degli alias.

Tamashī si rivolse di nuovo ad Edward, sempre con quel sorriso gelido sul volto. Sembrava che stesse studiando il metodo per scuoiarlo vivo nel minor tempo possibile. «Siamo il Clan Tsubaki. Stavamo dando la caccia a Yamata no Orochi ed al suo esercito. Purtroppo, lui è stato molto abile a far perdere le sue tracce. Quando abbiamo scoperto che si trovava qui in America, era già troppo tardi. Ma per nostra grande fortuna, ci avete già pensato voi a sconfiggerlo, e di questo vi siamo profondamente grate.»

Tutte e tre le donne si chinarono in un tutt’uno. Nonostante la cordialità, o presunta tale, Edward non abbassò la guardia nemmeno per un istante. Non seppe come prendere la scoperta del fatto che Orochi avesse avuto altri nemici, oltre agli dei. 

«Tuttavia, non tutto il suo esercito è stato spazzato via.» Tamashī conficcò i suoi occhi dritti in quelli di Edward e distese il suo sorrisetto. «Rimangono in vita ancora due componenti. Due mezzosangue, per l’esattezza. E sappiamo per certo che uno di loro è stato qui dopo la morte di Orochi. Si presenta con il nome Naito

Edward spalancò gli occhi. Anche Konnor, rimasto accanto a lui, sembrò irrigidirsi.

«Sembra che entrambi lo conosciate» commentò la donna, quasi con aria compiaciuta. «Non credo serva dirvi quanto sia pericoloso che un simile soggetto rimanga in vita. Se avete qualsiasi informazione per aiutarci a rintracciarlo, vi preghiamo di fornircela.»

I due semidei si scambiarono uno sguardo. Rimasto in disparte, anche Chirone si corrucciò. Per fortuna, Edward non gli aveva parlato della visitina di Naito. «È vero, lui è stato qui, ma è successo settimane fa, quando Orochi era ancora a piede libero. Non è più riapparso da allora.»

«E se fosse riapparso, mi creda, l’avremmo ucciso noi stessi» si intromise Konnor, facendo un passo avanti. «Desideriamo mettere le mani su di lui tanto quanto voi per tutto quello che ci ha fatto.»

Tamashī spostò il suo sguardo inquisitorio su Konnor. Edward si sentì sollevato di non essere più al centro dell’attenzione. Allo stesso tempo, si domandò che cosa il figlio di Ares avesse in mente. Lo vide mentre ostentava un enorme senso di sicurezza di fronte alla donna e si domandò come ci riuscisse. Sarebbe piaciuto anche a lui apparire sempre così impassibile in situazioni come quella.

«Lo sai, vero, che mentire non è affatto gentile?» disse ancora Tamashī, chinandosi su di Konnor. Edward sentì il respiro mozzarsi. 

Konnor, invece, non batté ciglio. «Non sto mentendo. Non l’abbiamo più rivisto.»

Per un istante, il tempo sembrò fermarsi. La donna non se l’era affatto bevuta, ma Konnor era così serio da far credere a chiunque, anche i più scettici, di essere sincero. 

Chirone si avvicinò con uno scalpiccio di zoccoli prima che qualcuno dicesse o facesse qualcosa di inappropriato. «Sentite signore, il nostro campo è rimasto coinvolto già in una battaglia che non lo riguardava. Non vogliamo altri problemi. Se i miei ragazzi stanno dicendo di non aver visto questo Naito, allora significa che non l’hanno visto per davvero. Non siamo bugiardi.»

Tamashī assottigliò le palpebre. Continuò a scrutare Konnor, severa. Edward sentì l’aria farsi molto più tesa. Non aveva idea di chi fossero quelle donne, ma non gli piacevano per niente. Alle sue spalle, percepì la folla di semidei cominciare ad agitarsi e anche il suo istinto gli stava suggerendo di prepararsi a combattere. 

«Scusate, ma… rimangono due mezzosangue?» si intromise, cercando di sviare la loro attenzione. «Chi è l’altro?»

«Non dovete preoccuparvene. Ci stanno già pensando le mie compagne rimaste in Giappone a lei. A noi interessa Naito.»

Edward rimase in silenzio, stupito. 

Lei?!

«Non sappiamo dove si trova. Ma promettiamo di tenere gli occhi aperti, nel caso in cui si rifacesse vivo» disse a quel punto Konnor. «E se dovesse tornare, ci premureremo di avvisarvi. Potreste lasciarci un modo per contattarvi, o…»

«Non sarà necessario» lo interruppe Tamashī, con aria infastidita. Non sembrava affatto felice. «Se dovesse riapparire, noi lo sapremo. E se dovessimo scoprire che ci avete mentito…» Un altro sorrisetto apparve sul suo volto, mentre faceva vagare lo sguardo sui semidei e sul campo. «Che bel posticino. Sarebbe un vero peccato raderlo al suolo, non trovate?»

«Ci state forse minacciando?» rantolò un ragazzo in mezzo alla folla, facendo un passo avanti. Edward l’aveva visto qualche volta, seduto al tavolo di Nemesi, ma non aveva idea di come si chiamasse. Assieme a lui, diversi altri si fecero avanti. Intravide alcuni ragazzi della capanna Sette, oltre che diversi fratelli di Konnor. 

«Chi è dalla parte dei mostri, merita la distruzione» rispose Tamashī, per nulla intimidita. «E in questo caso non si tratta di un mostro comune, ma di un mezzosangue, come voiNon ci sarebbe certo da sorprendersi se steste cercando di coprire la fuga di un vostro simile.»

Hageshī sputò a terra. «Dātihaiburiddo» gracchiò, mostrando una voce molto profonda, da contralto. Edward spostò lo sguardo su di lei, sentendo la rabbia montargli nel corpo. 

«C’è qualche problema?» domandò Tamashī proprio a lui, facendolo trasalire. Doveva aver notato la sua espressione. «La mia compagna stava solo ripetendo quello che ho detto io.»

Edward serrò la mascella. Era una bugia, Hageshī li aveva appena chiamati “sporchi ibridi.” Ma preferì non esporsi più del dovuto. Non voleva far capire loro che conosceva il giapponese o peggio ancora, far capire che possedeva di nuovo Ama no Murakumo. Sentiva che si trattava di un’informazione che in nessun modo avrebbe dovuto dare loro.

Osservò la donna ancora per qualche istante, avvertendo il desiderio sempre più forte di cancellarle quel sorrisetto dalla faccia. Tamashī si ritrasse all’improvviso. Si voltò verso Chirone, con fare accomodante. «Purtroppo, ora dobbiamo togliere il disturbo. Ma grazie infinite per l’ospitalità. Koko kara demashou» ordinò alle sue compagne. Finalmente si levavano dai piedi. 

«Arrevederci» sbiascicò Meishu con un pessimo inglese, emettendo una risatina acuta. Sollevò una mano e fece formicolare le dita coperte da lame affilatissime in segno di saluto. Delle neko-te. Piazzò il suo sguardo proprio su Edward e ammiccò con uno strano sorrisetto. 

«Sì, arrivederci» sbottò ancora il figlio di Nemesi, mentre le tre si allontanavano. 

Quando svanirono dietro la collina, Chirone sembrò invecchiare di diecimila anni all’improvviso. Abbassò la testa e rilassò le spalle, scacciando via la tensione. Edward non si sarebbe mai aspettato di vederlo così.

«Chirone, chi erano quelle donne?» domandò Konnor. Anche gli altri semidei si avvicinarono, in attesa di spiegazioni. 

Chirone scosse il capo, mentre frustava l’aria con la coda, agitato. «Non ne ho idea.»

Si sollevò uno stormo di versi di sorpresa. Chirone che non sapeva qualcosa non era da tutti i giorni. La conoscenza del giapponese venne in aiuto ad Edward. «Tsubaki significa… “camelia”» mormorò, pensieroso. Che quei fiori ricamati sui loro abiti fossero proprio camelie?

«Sì» convenne Chirone. «La camelia è il fiore che viene usato per ricordare le vittime di Yamata no Orochi.»

«Quindi… quelle erano vittime di Orochi?» domandò Edward, confuso. 

«Non credo» borbottò Konnor. «Da come parlavano, sembravano più… delle “giustiziere.”»

«Lo penso anch’io» convenne Chirone. 

Edward corrucciò la fronte. Un gruppo di donne pazze che volevano fare giustizia? Certo, aveva visto e sentito cose ben più strane, ma quella storia era così fuori posto che pareva l’assurdità più grande di tutte. 

«Coraggio, riprendete tutti le vostre attività» li invitò ancora Chirone, accorgendosi di come la folla non accennasse a sparpagliarsi. «Cercate di non pensare più a questa storia.»

Edward pensò che, invece, tutti quanti avrebbero fatto proprio quello, ma non lo disse ad alta voce. Non capitava tutti i giorni che tre donne armate fino ai denti, giapponesi, varcassero i confini del campo. 

«Naito aveva ragione» disse Konnor, mentre si allontanavano da lì. «Orochi era solo l’inizio. Altre parti stanno cominciando a muoversi.»

Il figlio di Apollo non si era nemmeno accorto che Konnor era rimasto accanto a lui. Gli venne da ridacchiare. «E poi il bugiardo sono io» gracchiò, alludendo alla storiella che Konnor aveva raccontato a quelle donne. «Di la verità, ti sei affezionato a Naito.»

«Ne abbiamo già parlato. Tutti meritano una seconda possibilità. Dovresti saperlo meglio di chiunque altro.»

Come al solito, Konnor lo lasciò senza una risposta pronta, eccetto l’unica che voleva sentirsi dire. Ma non gli avrebbe mai dato la soddisfazione di dargli ragione. Rispose con un mugugno incomprensibile.

«Ma… ti hanno morso?» domandò Konnor all’improvviso.

Edward sbatté la mano sopra il collo con così tanta forza da farsi male, mentre sentiva le guance bruciare terribilmente. «Non è niente.»

Il figlio di Ares inarcò un sopracciglio, ma non disse altro a proposito. «Devo andare. Mi vedo con Steph» disse invece, fermandosi e spostando lo sguardo verso un punto imprecisato del campo. 

«Piccioncini» lo punzecchiò Edward. «Comunque anch’io devo andare, ho…» Spalancò gli occhi, interrompendosi. Cominciò a correre senza nemmeno salutare Konnor, che lo chiamò confuso. 

Rosa lo avrebbe ucciso per il ritardo, ne era sicuro. 

 

***

 

Si aspettava già una ramanzina da record, invece trovò una piacevole sorpresa. Rosa si stava già allenando, ma non era da sola: c’era Lisa con lei.

Rimase fermo sull’ingresso dell’arena, ad osservarle stupito mentre si affrontavano in un duello, facendo tintinnare le lame. La sciabola d’argento di Rosa tagliò l’aria, scontrandosi contro i pugnali d’oro di Lisa, che mugugnò per lo sforzo.

Edward si avvicinò cercando di non fare rumore per distrarle, mentre quelle due proseguivano il combattimento, entrambe mostrando la loro incredibile bravura. Non aveva visto combattere Lisa di persona, giusto all’aeroporto, quando avevano affrontato i mostri camuffati, ma già quella volta aveva potuto assistere a sprazzi della sua abilità. Adesso, poteva ammirarla appieno. 

Era veloce, si muoveva quasi come se i pugnali fossero un’estensione del suo corpo. La sua coda di capelli frustava l’aria ad ogni mossa, contromossa, parata o schivata. 

E Rosa, beh, lei era sempre la solita. Rapida e pericolosa. Molto pericolosa. I capelli arancioni erano appiccicati alla fronte per il sudore, un sorrisetto era stampato sul suo volto, come sempre quando si divertiva. E quella volta sembrava si stesse divertendo perfino di più del solito.

Ad Edward fu subito palese chi avrebbe vinto la contesa. Lisa poteva essere brava quanto voleva, ma Rosa era su un altro livello rispetto a tutti loro quando metteva piede in quel cerchio di terra. E quella volta sembrava perfino più in forma del solito. Provò pena per Lisa mentre la vedeva annaspare in cerca di un’apertura, sotto i colpi incessanti di Rosa.

La figlia di Bacco tentò una finta, mirando al fianco destro ma poi cambiando subito direzione, dirigendosi verso quello sinistro, ma Rosa l’aveva prevista già anni luce prima. Sferzò di nuovo l’aria con la sciabola e Lisa gridò di sorpresa, mentre entrambi i pugnali le saltavano dalle mani e veniva spedita all’indietro, atterrando non molto delicatamente sulla schiena. 

Fece un verso soffocato e provò a rialzarsi, ma si trovò la sciabola puntata al collo. Sollevò le mani in segno di resa e osservò Rosa dal basso, prima di sorridere entusiasta. «Porca vacca! Quella devi insegnarmela!» esclamò, mentre afferrava la mano di Rosa per issarsi di nuovo in piedi. 

L’hermana ridacchiò. «Temo che i pugnali non vadano bene per quella mossa. Ma se vuoi posso mostrarti qualche tecnica per…» Si interruppe, accorgendosi di Edward. «Ma guarda chi si è degnato di presentarsi!»

«Scusa il ritardo» disse Edward, avvicinandosi. 

Salutò Lisa con un cenno, che lei ricambiò. «Tua sorella è una forza!» 

Edward si accorse dello sguardo imbarazzato della diretta interessata e gli venne da ridere. «Lo so bene. Spero solo che non ti abbia fatto troppo male.»

Per tutta risposa, Lisa sollevò il labbro, mostrandogli un incisivo scheggiato. «Troppo tardi.»

«T-Ti ho già detto che mi dispiace!» protestò Rosa, diventando rossa all’improvviso. 

Lisa le avvolse un braccio attorno al collo e la trascinò verso il basso, chiudendola in una headlock. «Ma mica sono arrabbiata!»

«Ehi! Lasciami!» Rosa si districò e piantò le dita nel fianco della figlia di Bacco, facendola piegare. 

«AH! Ma allora vuoi la guerra!»

Cominciarono a ridere e ad accapigliarsi di fronte a lui, tirandosi pizzicotti, schiaffetti e piantandosi le dita nello stomaco o nei fianchi. Rosa era più brava con la spada, ma Lisa sembrava avere un vantaggio nel corpo a corpo. Era più grossa e forzuta dell’hermana. 

Edward le osservò confuso, sentendosi perfino di troppo. Tuttavia, vedere Rosa andare così d’accordo con Lisa lo fece sorridere. Era bello vedere che anche altri oltre a lui avessero cominciato ad accorgersi di lei. 

Quando quelle due si diedero una calmata, cominciarono ad allenarsi tutti insieme. Essere in tre anziché due si rivelò una grossa comodità per Edward. Intanto perché poteva confrontarsi con qualcuno che si trovava ad un livello intermedio tra lui e Rosa, e poi perché in quel modo non era più l’unico bersaglio dell’ira dell’hermana. Anche se Rosa ci stava andando decisamente più piano con Lisa che con lui. La figlia di Bacco si beccò giusto due o tre lividi, lui invece almeno una decina.

C’era da dire che Lisa era molto più allenata di lui. Era al campo da più tempo e aveva fatto l’addestramento romano, qualunque cosa significasse, perciò non doveva sorprendersi troppo del divario che c'era anche tra loro due.  

Alla fine, Edward e Lisa si sedettero a terra, stanchi e sudati, e rimasero fermi ad osservare Rosa mentre se la prendeva con qualche manichino che non aveva fatto niente di male per meritarsi tutto quello. Passò almeno un’altra mezz’oretta prima che anche l’hermana decidesse di fermarsi. Ultimamente, si allenava ancora più del solito, e prima mica si allenava poco. Sembrava davvero determinata come non mai a migliorarsi. In cosa, Edward non lo sapeva, visto che era già leghe sopra tutti loro.

«È stato divertente!» esclamò Lisa, mentre beveva un sorso di ambrosia dalla borraccia di Rosa. La passò alla sua proprietaria, che bevve a sua volta prima di consegnarla ad Edward. Stava per pulire il beccuccio per non beccarsi i germi di quelle due, quando la voce di Rosa lo punzecchiò: «Che succede hermano, ti fa schifo bere dove han bevuto gli altri?»

«N-No! Però è antigenico…»

Lisa e Rosa si scambiarono uno sguardo, prima di scoppiare a ridere. Edward sentì le orecchie pizzicare. «Ah, andate al diavolo» sbottò, prima di bere anche lui. «Ecco, contente?»

Ci volle ancora un po’ prima che quelle due smettessero di scimmiottarlo e di prenderlo in giro. All'improvviso, il pensiero di essere in tre non piacque più molto ad Edward. Una Rosa era più che sufficiente per farlo impazzire, due erano troppe.

Lisa sembrò leggergli nel pensiero, perché si alzò usando la maglietta come panno per asciugarsi il sudore della fronte, mostrando la pancia piatta e abbronzata. «Meglio che vada. Ho bisogno di una doccia.»

«E anche del tuo ottuso figlio di Ermes, immagino» aggiunse Rosa, facendola arrossire. Disse qualcosa in italiano e Rosa rispose in spagnolo. Entrambe ridacchiarono ed Edward sollevò un sopracciglio, non molto sicuro di voler sapere davvero cosa si fossero dette.

«Scusa ancora per il dente, Lisa. Vai dai miei fratelli, loro sapranno come sistemartelo. Dì pure che ti ho mandata io.»

«Ok! Grazie.» Lisa sorrise, osservandoli uno per uno. «Quando possiamo allenarci di nuovo?»

Rosa rispose che erano sempre lì – o meglio, lei era sempre lì. Così le due ragazze si diedero appuntamento per il giorno dopo. Si parlarono ancora una volta in italiano e spagnolo, lanciando anche alcune occhiatine ad Edward. Entrambe risero di nuovo e lui cominciò a sentirsi in pericolo. Forse quelle due insieme non erano una buona idea per la sua salute, fisica e mentale. Lisa se ne andò dopo aver pronunciato un “ciao”, lasciandoli soli.

«Come mai con me non sei mai stata gentile come con Lisa?» domandò Edward, infastidito dal trattamento di sfavore che gli veniva sempre riservato.

Sua sorella sollevò le spalle, lanciandogli uno sguardo divertito. «Perché lei è carina, a differenza tua, hermano

«Ah, certo. Mi sembra giusto.»

Rosa ridacchiò, anche se lui non ci trovava nulla di divertente. Bevve un altro sorso di nettare e gli porse di nuovo la borraccia. «Si può sapere perché ci hai messo così tanto per arrivare?» gli domandò, mentre anche lui beveva un altro goccio. Fece un sorrisetto, indicando il morso sul suo collo. «Eri di nuovo con tu novia?»

Edward si coprì il segno come se fosse questione di vita o di morte. «Beh… sì, prima sì.»

«Accidenti hermano, ma non pensi di esagerare un po’? Da quando state insieme non fate altro che…»

«Non ho fatto tardi per quello!» protestò Edward, sentendosi il volto in fiamme. «E comunque, quello che faccio con Nat non sono affari tuoi!»

«Lo siento» rispose Rosa, alzando le mani. «Ma allora dov’eri?»

Edward serrò le labbra infastidito. Non era la prima volta che lo punzecchiava in quel modo. Lasciò perdere con un sospiro e raccontò delle tre donne che avevano incontrato di fronte alla Casa Grande.

«Dannazione! Mi perdo sempre le cose più interessanti!» si lamentò Rosa, prima di fare una smorfia. «Quindi quelle donne vogliono fare fuori Naito… avreste dovuto dir loro di mettersi in fila.»

«Più o meno è quello che ha detto Konnor…»

«Ma… cos’erano quindi, delle specie di… ninja?» proseguì Rosa. «Insomma, hai detto che avevano quegli affari, i kunai. Non è tipo l’arma preferita dei ninja?»

Edward non ci aveva affatto pensato. Ancora una volta, la conoscenza del giapponese giunse in suo aiuto. «Il nome giusto sarebbe kunoichi» disse. «Per indicare i ninja donna.»

«Ah, giusto, mi dimentico sempre che ora anche su sei bilingue» commentò Rosa, con un sorrisetto divertito.

Il ragazzo rispose con un’alzata di spalle, sorridendo a sua volta. Si ritrovò a pensare a quello che aveva scoperto da Tamashī. Orochi non aveva addestrato solo un mezzosangue, quindi. Ce n’erano due, uno era Naito, l’altra, invece, era in Giappone. Questo spiegava perché non l’avevano incontrata. Si domandò che razza di mezzosangue fosse lei. Un han’yō come Naito, ma donna? Esistevano davvero? Figurò nella propria testa un oni ma con il corpo di una ragazza e rabbrividì. Improvvisamente, non era più molto sicuro di voler approfondire la cosa.

«Come sta la tua famiglia? Quella mortale, intendo» domandò a Rosa dopo qualche attimo di silenzio, facendola trasalire. Anche lei era rimasta ferma a pensare a chissà cosa. Si strinse nelle spalle, incupendosi. «Non lo so. Non li sento dall’inizio dell’estate.»

Edward schiuse le labbra. «Ma… non li hai chiamati dopo che… insomma, sei tornata?»

«Volevo farlo. Ma poi ho pensato che probabilmente nemmeno si sono accorti che sono sparita per una settimana. E così è stato. Potrei rischiare di morire mille volte e loro non noterebbero alcuna differenza…»

Sapeva che la sorella non avesse proprio un buon rapporto con la famiglia mortale. Aveva parlato raramente di loro e le poche volte in cui l’aveva fatto non era mai sembrata molto entusiasta, ma Edward non si sarebbe mai aspettato che la cosa arrivasse fino a quel punto. «Mi dispiace hermana…»

«Tu ti dispiaci?» Rosa si sforzò di sorridere. «Sta tranquillo, Edward. Per i nostri genitori mortali… è difficile convivere con noi. Molti di loro preferirebbero soltanto che svanissimo. Mia madre ha cercato di ricominciare dopo che Apollo se n’è andato dalla sua vita, si è risposata, cerca di avere una vita normale, ma non potrà davvero essere normale finché ci sarò io a ronzarle attorno. Prima o poi… dovrò andarmene di casa definitivamente. È la cosa migliore, per me, per lei e anche per la sua nuova famiglia.»

Edward sentì una stretta al petto. «Tua madre chi è?»

«Si chiama María Mendez. Era una cantante, emigrata da Città del Messico. Non era molto famosa, ma chiaramente a qualcuno di importante la sua voce deve essere piaciuta…» Rosa sospirò. «Ora si è ritirata dal mondo della musica. Vive a Nord, con il mio patrigno e i miei fratellastri.»

«Sì, ricordo che me ne avevi parlato» mormorò Edward. Sembrava passata un’eternità da allora. Era successo quando si erano appena conosciuti, quando entrambi erano i due reietti della capanna Sette e Jonathan faceva lo splendido al comando. Com’erano cambiate le cose da allora.

«Tornerai da loro, alla fine dell’estate?»

Rosa si strinse nelle spalle. «Io… sì, credo di sì. Non… non mi piace molto l’idea, ma presto non potrò più stare nel mondo mortale. Questi sono gli ultimi anni che posso trascorrere fuori dal campo.» La vide sollevare la testa e smarrirsi con lo sguardo nei meandri dell’arena. «Pensi mai… pensi mai a quello che faremo… dopo?»

«Dopo?»

«Dopo tutto questo.» Rosa accennò con il braccio allo spiazzale di terra battuta, i manichini e le rastrelliere con le armi. «Dopo… il Campo Mezzosangue. I semidei… non arrivano quasi mai all’età adulta. Alcuni trovano fortuna nel mondo mortale, diventano famosi, ricchi, molti altri invece…» Non finì la frase, ma lasciò ben intuire cosa volesse dire. «Pensi mai… che tutto questo… sia inutile?»

«Sempre» gracchiò Edward, prima che lei lo guardasse stupita. A quel punto, lui si schiarì la voce. «Cioè… sì, penso che… che tutto quello che facciamo sia fine a sé stesso. Combattiamo mostri, moriamo, loro si rigenerano, e così via, all’infinito, finché qualcuno di loro non riuscirà davvero a distruggere gli dei una volta per tutte. Si spera non mentre io sono in vita» aggiunse, con una smorfia. «Comunque… non lo so, hermana, che cosa farò dopoAl momento non so nemmeno se ci arriverò ad un dopo

Edward sollevò una mano. Ama no Murakumo apparve nel suo palmo, emanando un forte bagliore e scatenando una folata d’aria che spostò il terriccio dell’arena. Si rigirò la spada tra le mani, assorto. «Amaterasu… vuole che combatta per lei. Qualcuno proverà a spodestarla dal suo trono e se dovesse succedere, non ho idea di che cosa accadrà al mondo, ma non sarà piacevole. Qualcun altro, invece, ha fatto evadere dei mostri dal Tartaro. E adesso, sono apparse anche queste schizzate del Clan Tsubaki a minacciare di distruggere il campo. Sento gli occhi di tutti gli dei, greci e giapponesi, piazzati su di me. Tutti si aspettano chissà che cosa da me e io… io non ho idea di come comportarmi.»

Fece svanire la spada e sospirò profondamente. «Sono qui da appena un mese, e mi è successo di tutto e di più. Mi sono ritrovato in mezzo ad una crisi diplomatica tra gli dei di due culture diverse, a combattere mostri di entrambe le parti. E l’unica cosa che volevo, era trovare un luogo sicuro» ammise, abbassando la testa. «Prima di pensare a cosa farò dopo… dovrò combattere per far sì che questo dopo si avveri. E… ho paura di non farcela.»

«Hermano.» La mano di Rosa si posò sulla sua spalla, facendolo raddrizzare di scatto. Si voltò verso di lei, accorgendosi del suo sguardo determinato. «Hai detto bene, sei l’ultimo arrivato. Non azzardarti a pensare di dover fare tutto da solo ancora una volta. Claro? Qualunque cosa accadrà, qualunque minaccia arriverà… la affronteremo insieme. Io, Lisa, Stephanie, la tua cara Natalie, tutto il campo combatterà. Smettila di credere di essere l’unico da cui dipenda il destino del mondo, perché non lo sei. Ci siamo anche noi.»

«Hai… hai davvero detto “la tua cara Natalie”?»

«Konnor. Il tuo caro Konnor, volevo dire.»

«Ah, ecco. Ora sì che ti riconosco» borbottò Edward, facendola ridacchiare. La vide farsi più apprensiva. «Tranquillo hermano. Non ti permetteremo di fare altre stupidaggini che potrebbero mettere in pericolo il mondo intero tutto da solo.»

«Questo mi rassicura.»

Rosa ridacchiò di nuovo e allontanò la mano. Malgrado le sue parole di conforto, sembrava comunque ancora turbata da qualcosa. «Ehi, va tutto bene?»

Lei si riscosse. Si massaggiò un braccio, con aria afflitta, e non incrociò il suo sguardo. «A volte… a volte penso a quando abbiamo iniziato ad allenarci» cominciò a dire. «E a quanto eri… a quanto sei, imbranato.»

«Wow, grazie.»

«E penso a quello che ti ho detto, quella sera, sul voler essere un’eroina. Ricordi? È stato… è stato subito prima che… che venissi rapita…» mormorò Rosa. Affondò le dita nel braccio e la voce le si incrinò. «Tutto il tempo passato ad allenarmi… e mi sono fatta sconfiggere dal primo nemico reale che io abbia mai incontrato. Volevo… essere un’eroina, e invece… invece sono diventata “Quella che si è fatta salvare.”»

Edward schiuse le labbra. Non si sarebbe mai aspettato di sentire quelle parole da lei. Ricordava la discussione che aveva avuto. Ricordava ogni singola parola, uscita da una Rosa entusiasta, carica di eccitazione dopo aver appena finito di suonare la sua canzone preferita.

«Voglio anche io essere ricordata dalle generazioni future, come noi oggi ricordiamo i grandi del passato! Ma te lo immagini? Essere ricordati come un semidio pari, o addirittura superiore, ai Nove? Io scalpito al solo pensiero!»

«Rosa…» mormorò, mentre la osservava asciugarsi una lacrima.

«Lisa ha detto che sono forte. Anche tu lo pensi. Ma non è vero. Sono patetica» bisbigliò lei, abbracciandosi le ginocchia e abbassando la testa. «Non ho fatto nulla, a parte farmi rapire. Non c’è niente di “forte” in tutto questo.»

«Hai affrontato Orochi, ricordi?»

«Certo, dopo che era già mezzo morto. Ma per favore» biascicò lei, con voce quasi irritata. «Si è presentata una minaccia reale dopo anni ed anni al campo e io non c’ero per affrontarla assieme a voi. Io ero… ero la damigella in pericolo, “quella da salvare.” Mi hanno celebrata come un’eroina, come se avessi fatto qualcosa di speciale, ma non ho fatto nulla. Mi sono soltanto quasi fatta ammazzare come un’idiota.»

«Ma… senza di te non ce l’avrei mai fatta, e lo sai. Senza i tuoi allenamenti io…»

«Certo che ce l’avresti fatta, Edward. Non hai idea di quanto bruci il tuo spirito da guerriero. Forse tu non riesci a vederlo, o forse semplicemente ti rifiuti di credere che esista, ma credimi, c’è, ed è palpabile. Hai la stoffa del vero Eroe, Edward, ce l’hai sempre avuta. Non saresti sopravvissuto fuori dal campo per tutto quel tempo, altrimenti. È fuori dal campo che… che i semidei vengono messi davvero alla prova. Non c’è alcun allenamento che tenga il confronto. La vera stoffa di un semidio non si evince da quante flessioni o da quanti giri del campo di corsa riesce a fare.»

La voce di Rosa si ridusse ad un sussurro: «Non è colpa di Naito, o di Orochi, se sei finito nello Yomi. È colpa mia. Hai combattuto fino a farti ammazzare solo per salvare me. Se non mi fossi fatta rapire, tu…»

Edward aveva sentito abbastanza. Rosa smise di parlare quando lui la abbracciò con forza, strappandole invece un verso sorpreso. «Smettila, Rosa. Dacci un taglio.»

«Ma…»

«Lo sai cos’altro non fa un’eroina? Piangersi addosso. “Non fare la femminuccia.” Me l’hai detto tu, ricordi? Bene, prendi esempio dal tuo stesso consiglio.» Le accarezzò la schiena rigida come un chiodo e sorrise, usando un tono di voce più morbido. «Il valore di una persona… si evince anche da chi lo circonda. E credimi, senza di te non avrei mai fatto nulla di tutto quello che ho fatto. Forse ho davvero un… fuoco dentro di me, come hai detto tu, ma è stato grazie a te se sono riuscito a tirarlo fuori. Sei molto più importante di quanto tu voglia dartene atto, hermana.»

«Edward…» sussurrò lei, rilassandosi. Appoggiò la fronte sulla sua spalla e le scappò un gemito. «Mi dispiace… per quello che è successo. Ti… ti sarai preoccupato tantissimo…»

«Sei qui, adesso, no? Siamo qui. È questo quello che conta.» La accarezzò tra i capelli e lei si strinse a lui con forza.

«S-Scusami… non volevo fare quella scenata…» gli bisbigliò, tirando su con il naso.

«Non era una scenata. Ti conosco hermana. Mentre Orochi ti teneva in ostaggio… ho pensato a quanto tu avresti odiato tutto quello. Sapevo fin dall’inizio che essere una damigella in pericolo ti avrebbe fatto infuriare più di me quando sbaglio i tuoi esercizi…»

Rosa ridacchiò. «Tonto hermano…»

«Tanto conosco la verità, Rosa. Non vedi l’ora che le cose peggiorino, così potrai combattere in prima fila e riscattarti. Vero?»

Sua sorella si separò da lui, avvampando leggermente. «B-Beh… non voglio mica che muoia qualcuno! Voglio solo… prendere qualche mostro a calci…»

«Esaltata» la punzecchiò Edward, pungolandola al ventre.

Lei si piegò. «Ah! Non è vero! Non sono un’esaltata!»  

«Sei l’esaltata più grande che abbia mai conosciuto.»

«Ah sì? Beh, tu sei un testone impulsivo!»

«Non ho mai negato di esserlo.»

Per una volta, Rosa sembrò senza una risposta pronta. Edward sogghignò. Non si sarebbe mai dimenticato il giorno in cui era riuscito a zittirla. E soprattutto, non avrebbe scordato com’era riuscito a rassicurarla dopo quell’attimo di debolezza. Sentiva che… c’era qualcosa di sbagliato in Rosa afflitta. Come se lei non fosse proprio fatta per apparire senza quel sorriso raggiante sul volto.

«Direi… che ti serve una doccia, hermano» affermò Rosa dopo qualche istante, sciogliendo l’abbraccio con lui. «Hai l’odore di tu novia ancora addosso…»

«M-Ma la smetti?!» si lamentò Edward, imbarazzandosi.

Rosa rise, rovesciando la testa all’indietro. «Ehi… grazie, Edward. Di nuovo» aggiunse quando si calmò, con espressione più gentile.

Edward riuscì a fare un altro sorriso. «Prego. Forza, andiamocene. Tra poco è ora di cena.»

L’hermana rimise la borraccia di nettare dentro uno zainetto nero rimasto sugli spalti e se lo allacciò ad una spalla. «Vámonos.»

Mentre stavano uscendo, Edward realizzò di aver dimenticato di nuovo l’arco. Non era più abituato a portarselo dietro. Disse a Rosa di aspettarlo e tornò dentro, verso gli spalti dove l’aveva posato. Lo afferrò e lo richiuse. In qualche modo, si trasformò in uno zainetto pure quello, che Edward indossò senza farsi troppe domande. La Foschia era una strana belva, doveva ammetterlo.

Qualcosa catturò la sua attenzione, sul pavimento di terra. Sembrava una tessera color argento. Incuriosito, Edward la raccolse. Immaginò che fosse caduta dallo zaino di Rosa. Si rese conto che non era una tessera, ma un biglietto da visita. Ragazze vestite di argento erano raffigurate sullo sfondo mentre puntavano gli archi verso una creatura gigantesca, con la coda di scorpione e il corpo di leone: una manticora.

Diverse scritte recitavano:

 

 

UNA SCELTA SAGGIA PER IL TUO FUTURO!

IMMORTALITÀ

UN FUTURO SENZA MASCHI

UNISCITI ALLE CACCIATRICI DI ARTEMIDE!

 

 

Edward spalancò gli occhi.

Improvvisamente, tutto si fece chiaro nella sua mente. Rosa che eludeva la sua domanda sui ragazzi. Lei che gli chiedeva cosa avrebbe fatto dopo il Campo Mezzosangue. Lei che parlava di come i semidei non arrivassero quasi mai all’età adulta e di come, prima o poi, avrebbe dovuto trovare una sua strada.

«Edward, ci sei?»

Trasalì quando Rosa lo chiamò. «Arrivo!» gridò, infilandosi il bigliettino in tasca e premurandosi di non parlarne in alcun modo con lei.

Mentre la raggiungeva, quel verso della profezia riecheggiò nella sua mente:

Il sangue della vergine sarà il prezzo da pagare.”

Tutto ad un tratto, il sole sembrò molto più freddo.







Eccomi qua gente, con la seconda parte! Non mi dilungherò molto, anche perché non c'è molto da dire. Spero che il capitolo vi sia piaciuto e... dite la verità, chi si aspettava delle kunoichi? Nemmeno io me le aspettavo, ad essere sincero. E torneranno, vedrete. Torneranno...

Questo capitolo ha sicuramente molti riferimenti al capitolo 9 della Spada del Paradiso, "Desideri" dove abbiamo potuto assistere al rapporto tra Edward e Rosa crescere piano piano. Mi sembrava giusto citare l'inizio del loro rapporto e fare un confronto con il punto a cui siamo arrivati ora.

Grazie a Farkas e Nanamin per aver recensito la scorsa parte e una menzione d'onore per Roland che è sempre presente. 

(se qualche altro recensore vuole farsi avanti, io non mordo mica. Più pareri diversi non possono che far piacere al sottoscritto!) 

Alla prossima amici! 

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Capitolo 6
*** L'oasi violata ***


Nota: Questo capitolo si svolge diverso tempo dopo l'ultimo capitolo della raccolta



 KEVIN 

6

L'oasi violata



Kevin finì di liberare uno dei tavoli da lavoro, gettando tutto quanto dentro uno scatolone alla rinfusa. «Una volta, questa, era un’oasi di pace, dove le grandi menti potevano operare in silenzio!» sbottò infastidito, con voce tremante forse per l’iperattività, o forse perché sentiva la mancanza di una sigaretta. Squadrò adirato quel gruppetto di ragazzi che avevano invaso il suo amato Bunker 9 senza alcun preavviso. «Si può sapere perché siete venuti proprio qui?!»

Simon sollevò un sopracciglio. Dall’altra parte del tavolino, Alyssa sogghignò. «Hai detto bene, “una volta” le grandi menti potevano operare qui. Peccato solo che di grandi menti non se ne vedano da… ah, beh, vent’anni credo.»

L’occhio di Kevin tremolò. Sollevò un dito verso il muso di quella ragazzina impertinente. «Dovresti portare rispetto per i veterani!» 

«Veterano di cosa? Solo perché sei più vecchio…»

«ANZIANO!»

«… quello che è, non significa che…»

«Ehm ehm.» Seth si schiarì la voce e Alyssa si zittì, facendo una smorfia. Anche Kevin si morse la lingua prima di dire altro. Non aveva voglia di essere appeso a testa in giù da Seth. Era già successo una volta, non era stato divertente.

«Su, restiamo tutti calmi» proseguì quello scappato di casa, sollevando le braccia per calmare i bollenti spiriti. Alyssa fece ancora una boccaccia a Kevin, che fu costretto a trattenersi dal rovesciare il tavolo per andare ad insegnarle un po’ di buone maniere.

«Simon, che cosa volevi dirci?» domandò Seth.

Mister Cervellone posò un mazzo di carte sopra il tavolino da lavoro.

«Uh! Poker clandestino!» si illuminò Alyssa. «Potevi dirmelo prima, ho un set di carte e chips che…»

«Non è un poker» la zittì Simon. «Ho deciso di riunirvi tutti qui per discutere della partita di Cattura la bandiera.»

«Così presto?» si intromise Tonya, diffidente.

«Già amico, la partita è tra un mese!» aggiunse Xavier, corrucciando la fronte.

Gli sguardi di tutti finirono su di Simon, che come al solito parve infastidito. «Non sarà una partita come le altre. Konnor si è già organizzato. La sua squadra è già pronta e mi ha detto di radunare il meglio del meglio se vogliamo avere una possibilità di batterli.»

Tutti si guardarono tra di loro come se avesse detto qualcosa di sconvolgente. L’unica cosa che Kevin pensava, era a come avessero interrotto i suoi lavori per parlare di quella scemenza. Chissenefragava dello stupido Cattura la bandiera. Aveva dei progetti da finire, lui. 

«E questo è il motivo per cui siete qui. In qualità di capitano della squadra blu, io…»

«Un momento, quindi anche quest’anno sarà casa di Ares contro casa di Atena?» domandò Tonya, dilatando le sue narici da ippopotamo.

«L’anno scorso ha vinto la casa di Ares, e quella di Atena era la campionessa in carica. Quindi sì, anche questa volta toccherà a noi.»

«Non è giusto» mugugnò la ragazzona.

«Vincete anche voi della casa di Nike una partita, e potremo riparlarne.»

Seth posò una mano sulla spalla di Tonya prima che potesse saltare addosso a Simon. Peccato, a Kevin sarebbe piaciuto vederli uccidersi tra loro.

«Nella squadra di Konnor ci saranno la casa di Apollo, Demetra, Ermes e Dioniso» proseguì Simon. «Non credo che accetterà qualcun altro. Vorrà avere accanto solo i suoi compagni dell’impresa. Le case di Ebe, Ipno e Iride hanno già detto che non parteciperanno. Quella di Afrodite è in “forse” per il momento, ma a me non interessa e non credo che interessi nemmeno a Konnor. Credo che alla fine si ritireranno anche loro. Rimangono le vostre case. Siete con me?»

Tutti annuirono, prima di voltarsi di Kevin, che si indispettì. «Cosa? Che volete?»

«Possiamo anche contare su di te?» domandò Simon. «Sulla tua… “mente brillante”?»

Quando lo descrisse in quel modo, Kevin gonfiò il petto. Non c’era nessun sarcasmo in quella frase, ne era certo. «Certo, ci sto. La casa di Efesto è pronta a spaccare qualche…»

Simon riprese a parlare prima che potesse finire: «Nella sua squadra Konnor avrà Edward, Stephanie, Thomas, Lisa e tutti i loro fratelli più abili, come Rosa, Paul, Derek, Jonathan e così via. Se vogliamo davvero vincere, dobbiamo giocare d’anticipo, cominciare a prepararci già adesso e stilare una strategia.»

Kevin aveva davvero bisogno di una sigaretta. Afferrò un pacchetto di gomme da masticare e se ne cacciò cinque in bocca tutte assieme.

«Un momento…» Xavier alzò una mano. «… anche Edward “Samurai Divino” e Stephanie “Poyson Ivy” parteciperanno?!»

Simon non batté ciglio. «Ora capite perché vi ho radunati tutti?»

Vi furono alcuni momenti di silenzio. Ecco, quello sì che era gradevole. Molto meglio di quei marmocchi che mugugnavano parole a caso. Il rumore della gomma di Kevin fu l’unica cosa che si sentì per un po’.

«Conosco Konnor. Non vorrà che loro due usino i loro poteri al massimo delle loro forze, o non avremmo alcuna speranza. Stephanie potrebbe catturare la bandiera con le sue piante senza nemmeno fare un passo. Ed Edward… beh, avete sentito cosa può fare quella spada. Io non vorrei trovarmi nella sua linea di tiro. Konnor cercherà di vincere dando anche a noi una possibilità di batterli.»

«E perciò, noi ne approfitteremo» concluse Tonya, facendo un sorrisetto.

«Loro hanno già combattuto insieme. La loro forza sta nell’unione. Per questo motivo, dovremo fare in modo di dividerli e affrontarli singolarmente. Ho studiato l’avversario ideale per ognuno di loro. Io mi occuperò di Konnor.» Simon indicò la carta che raffigurava il Re di Cuori. Spostò poi il dito sulla Regina di Cuori, messa accanto al re. «Xavier, tu penserai a Stephanie. Lei può manovrare il bosco, ma tu puoi manovrare la Foschia. Forse non puoi batterla, ma puoi sicuramente tenerla impegnata abbastanza a lungo da non renderla offensiva per noialtri.»

«Mh…» Xavier si picchiettò il mento, pensieroso. «Potrebbe funzionare.»

«Scusa, perché Stephanie non è la Regina di Fiori?» domandò Alyssa, fermando il discorso. Per una volta, Kevin si trovò d’accordo con lei. Quello sembrava un dettaglio troppo importante da trascurare.

«Beh… ho pensato che siccome quei due sono una coppia…» Simon arrossì. «N-Non è importante! Sono i re e regina di cuori, fine della storia. Seth e Tonya, voi due sarete il nostro braccio. E perciò dovrete occuparvi del loro braccio.» Indicò la Regina di Picche e quella di Fiori. «Rosa e Lisa. Oltre a Konnor, sono le combattenti migliori che hanno. Scegliete quella che volete affrontare, non è importante.»

La mano di Seth scese come una mannaia sopra la Regina di Picche. «Io gradirei Rosa.» Lo disse con la sua solita voce cavernosa e inquietante, ma questa volta Kevin riuscì a vedere nel suo sguardo uno strano interesse, mentre fissava quella carta. Lo stesso interesse che Kevin avrebbe mostrato per un motore turbo benzina a 4 cilindri.

«Come vuoi tu. Io allora penserò all’italiana fuori di testa» concluse Tonya, sgranchendosi le nocche.

«Konnor manderà Thomas e probabilmente altri suoi fratelli in avanscoperta, per catturare la bandiera» proseguì Simon, indicando il Fante di Fiori. «Kevin, tu rimarrai in difesa della bandiera. Usa… usa pure tutti gli aggeggi che hai inventato.»

«Tutti?»

Simon annuì. «Tutti.»

Le labbra di Kevin si aprirono in un sorriso gigantesco. Oh, sì. Sarebbe stato davvero, davvero uno spasso. Si augurò che nella casa di Apollo ci fossero letti a sufficienza per tutti i feriti che ci avrebbe spedito dentro.

«Un momento» si intromise Alyssa. Cominciò a muovere le labbra, contando a bassa voce tutti loro, prima di sbiancare come un lenzuolo. «Ma… ma se tutti voi avete già un avversario…»

«Ci stavo arrivando.» Simon indicò il Fante di Picche. «Alyssa, tu penserai ad Edward.»

«EH?! E come cavolo dovrei fare?!» La sua voce si trasformò, diventando simile allo squittio di un criceto. «Quello mi uccide!»

«Non userà la spada, non preoccuparti.»

«Ma è sopravvissuto fuori dal campo per cinque anni! Mi farà a brandelli!»

«Sarebbe bello» mugugnò Kevin. Di nuovo, tutti quanti si voltarono verso di lui. «L’ho detto ad alta voce, vero?»

«Alyssa, ascoltami» riprese la parola Simon. «Pensa a poco prima, quando hai discusso con Kevin. In cosa sei molto brava, tu?»

Alyssa si massaggiò il mento e lanciò un rapido sguardo verso di Kevin. «A… far arrabbiare le persone?»

«Esattamente.»

«Molto brava? Quella si merita un Nobel» si lamentò Kevin, lanciando un’occhiataccia ad Alyssa, che questa volta fece un sorriso imbarazzato. «Non lo faccio apposta… davvero.»

«Sì, come no. Mi hai preso per uno stupido?»

«Ehm… sì?»

Seth e Tonya furono costretti a tenere fermo Kevin. «Ti uccido! Ti uccido!»

Un giorno avrebbe costruito un razzo nel Bunker Nove e ce l’avrebbe legata sopra prima di spedirlo su Marte. Anzi, troppo vicino, meglio Urano. E ci avrebbe anche scritto sopra “ACME.”

«Ho visto Edward allenarsi, qualche volta» proseguì Simon, irritato, mentre Kevin si dava una calmata. «E… beh, ha meno pazienza di Tonya quando gioca a Testa o Croce con te. Senza offesa, Tonya.»

«Non preoccuparti, mozzarella. So di avere alcuni problemi di gestione della rabbia. Ho iniziato a vedere uno specialista per questo motivo. È solo che è DAVVERO – IRRITANTE – QUANDO NON – RIESCO – A VINCERE!» urlò lei, sbattendo il pugno sul tavolo ad ogni parola, così forte che Kevin per un istante temette di doverlo cambiare di nuovo. Si schiarì la gola, imbarazzata. «Scusate, sono solo alla prima seduta…»

«Non preoccuparti, vedrai che migliorerai un sacco» la consolò Seth, dandole qualche pacca sulle spalle.

«Ma scusa, se lo faccio arrabbiare, non rischio che mi uccida ancora di più?» domandò Alyssa, scettica. In effetti, non quadrava come ragionamento. Che il cervellone figlio di Atena stesse perdendo i colpi?

«Ma tu puoi controllare la fortuna» disse Simon, con un sorrisetto. «Vedila come… una partita di Testa o Croce. Se vinci, e tutti quanti sappiamo che sarà così, lui sarà inoffensivo. Sarà così preso da te da dimenticarsi tutto il resto. E non potrà farti nulla se diventerà improvvisamente così… sfortunato da non riuscire nemmeno a colpirti.»

«Ma quanto credi che siano forti i miei poteri? Posso manipolare una monetina, ma non posso mica…»

«LO SAPEVO CHE IMBROGLIAVI!» tuonò Tonya, tirando un altro pugno sul tavolo e questa volta sfondandolo. Le carte svolazzarono in aria come farfalle, mentre Kevin lo fissava collassare sul pavimento. «Il mio tavolo preferito…» sussurrò, con voce tremante.

Tonya impallidì. «S-Scusa mozzarella, non l’ho fatto apposta…»

«V-Va bene, ci proverò» concluse Alyssa, anche lei guardando angosciata i resti del tavolo. «Se non dovessi farcela… dite a Jessica che la amo, per favore.»

«Ce la farai, non preoccuparti.» Simon sorrise. «Bene, abbiamo finito qui. Se qualcuno ha qualcosa da dire…»

«Il mio tavolo» biascicò Kevin, cadendo in ginocchio.

«Ehm… sì, ok. Qualcun altro?»

«Il mio tavolo…»

«Direi che forse è meglio togliere il disturbo» suggerì Seth, dando qualche pacca di consolazione a Kevin.

«Era il mio preferito…»

«Buona idea» convenne Simon. «Allora noi… ce ne andiamo, Kev.»

«Ci si vede in giro amico» salutò Xavier, mentre i ragazzi se ne andavano dal bunker, con Tonya che ancora lanciava occhiatine dispiaciute verso di lui.

Kevin rimase fermo a fissare i resti del suo adorato tavolo. La sua oasi, la sua isoletta di pace, dove poteva pensare, progettare e costruire… era stata violata. Come aveva potuto permetterlo? Non si sarebbe mai più ripreso da tutto quello.

«Kevin?» domandò una voce all’improvviso, molto diversa dalle altre. Lui alzò lo sguardo meccanicamente, con un mugugno, prima di schiudere le labbra e riscuotersi dalla trance.

Sarah si avvicinò a lui con passo incerto, scostandosi una ciocca dei lunghi capelli color grano da di fronte al viso ovale. «Ma… da quanto tempo è che sei qui?»

«N-Non lo so… qualche minuto?» bisbigliò lui.

«Direi più ore. Fuori è quasi sera. Ma che è successo?»

Kevin spalancò gli occhi. Certo che il tempo scorreva in maniera strana quando si era iperattivi e sotto shock. «Il… il mio tavolo…» riuscì a dire, indicandolo. «Hanno rotto il mio tavolo…» Tirò su con il naso. «Era… il mio preferito…»

La sua ragazza fece un verso intenerito, prima di chinarsi accanto a lui ed abbracciarlo. «Oh, Kev! Mi dispiace così tanto!»

«Quei mostri… hanno distrutto il mio tavolo» sussurrò ancora lui, ricambiando l’abbraccio. Il profumo dei prodotti e lozioni per la pelle di Sarah invasero il suo naso abituato agli odori dell’olio e del grasso dei motori, riuscendo a farlo riscuotere. Appoggiò il mento sulla sua spalla, accarezzandole la schiena morbida e sentendosi incredibilmente meglio.

Sarah gli baciò la guancia, facendo sussultare. «Sono sicura che puoi aggiustarlo. Sei il migliore in queste cose. Vedrai, quando avrai finito tutto questo non sarà altro che un brutto ricordo.»

«Hai… hai ragione. Sono il migliore.» Incrociò i suoi occhi celesti e vide il suo sorriso meraviglioso. Ma come aveva fatto a trovare quella ragazza? Era la cosa migliore che gli fosse mai capitata. Le accarezzò una guancia, riuscendo a sorriderle. «Tu sei molto meglio di un motore turbo benzina con quattro cilindri…»

Lei fece un altro verso sorpreso. «Lo pensi veramente?»

«Certo. Non c’è niente come te. Sei insostituibile.»

«Aww. Vieni qui» gli disse, prendendogli il volto tra le mani e appoggiando le labbra sulle sue. Avevano un sapore dolce, come di ciliegie. Kevin ricambiò il bacio, stringendola a sé con forza.

«Devi fare qualcosa per queste mani, Kevin» gli disse, quando si separarono. Prese la sua mano e la studiò assorta, accarezzandogli i calli. «Ho un sacco di prodotti per la pelle, nella mia cabina. Potrebbero aiutarti tantissimo.» Gli sorrise di nuovo, dandogli un altro bacio sulla guancia. «Devi prenderti più cura di te, zuccone.»

«Lo… lo farò. Te lo prometto» mormorò lui, mentre si rialzavano in piedi. Non poteva credere che quella bellissima, perfetta figlia di Ebe avesse scelto proprio lui, un meccanico scorbutico e trasandato, ma era determinato a tenersela stretta, a qualsiasi costo.

Sarah indicò con la testa verso l’uscita. «Andiamo, è quasi ora di cena.»

Kevin sorrise, prendendole la mano. «Andiamo.»

Mentre uscivano, il suo sguardo scivolò sullo scatolone dei progetti di Valdez. Rallentò per un istante, facendosi pensieroso. Non aveva dimenticato la sua discussione con Edward, un paio di giorni prima. Non aveva idea di dove fosse finito Leo. Non credeva che qualcuno lo sapesse davvero. Ma non aveva importanza. Quei progetti… li avrebbe riparati.

Al Campo Mezzosangue serviva tutto l’aiuto necessario, nei mesi, forse anni a venire, e lui avrebbe fatto ogni cosa in suo potere per fornirglielo. Avrebbe fatto anche lui come i figli di Efesto che l’avevano preceduto. Avrebbe costruito anche lui qualcosa, qualcosa di così grandioso da entrare nella storia, da rendere suo padre orgoglioso di lui.

Un giorno, non si sarebbe parlato solo delle invenzioni di Leo Valdez, ma anche delle sue.








Salve amici! Non mi dilungherò troppo, questo capitolo è stato scritto piuttosto alla buona, come si dice, è stata più una scrittura per liberare la mente da altri progetti più importanti, e allo stesso tempo per presentare di nuovo i vari capicasa, gettare più luce sopra di loro, e mettere le fondamenta per la partita di Cattura la Bandiera che arriverà in futuro. Spero che l'idea vi sia piaciuta, fatemi sapere cosa ne pensate dei vari capicasa, se siete curiosi di vederli in azione e soprattutto se siete ansiosi di vedere i nostri semidei messi alla prova gli uni contro gli altri! 

Ho scelto il punto di vista di Kevin perché tra questi personaggi era quello più familiare ai lettori, ma spero di mostrare qualche aspetto in più anche di tutti gli altri durante la partita. Bene, ho detto tutto, grazie mille per aver letto, spero che il capitolo vi sia piaciuto, seppur breve, e alla prossima!

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Capitolo 7
*** Un gelato a Central Park ***


Nota: questo capitolo si svolge molto tempo dopo il primo capitolo della raccolta



 LISA –

 7

Un gelato a Central Park



Appoggiò le labbra sopra il cono, titubante. Il gelato alla nocciola animò il suo palato, ma non era come lo ricordava. Anzi, era molto diverso. Era… dolce. Troppo dolce.

Lisa mandò giù, storcendo le labbra in una smorfia infastidita. Maldetti americani. La pizza era unta e bisunta, il caffè era acqua sporca e il gelato era un frappè di zucchero, latte e coloranti.

E scrivevano la data mettendo lo stupido mese al posto dei giorni. E la cosa peggiore era che erano convinti che quello fosse il modo giusto. Erano pure superbi, oltre che ottusi.

«Allora…» disse Thomas all’improvviso, interrompendo la sua striscia di ingiurie quotidiana verso gli americani. «… ti piace il gelato?»

Lo vide dare un morso timido alla sua pallina al gusto fragola e provò un moto di sensi di colpa. Avrebbe potuto accanirsi contro gli americani in qualsiasi altro momento, ma non in quello. Thomas l’aveva portata in quella gelateria, l’unica che faceva anche il gusto alla nocciola, apposta per farle una sorpresa. Il minimo che poteva fare era mostrarsi riconoscente.

«Sì, certo» rispose, abbozzando un sorriso, prima di assaporare di nuovo quella fonte di carie.

Thomas gli sorrise, con le labbra sporche di rosa. «Bene!»

Lisa distolse lo sguardo da lui, sentendo le guance pizzicare. I sorrisi di quell’ottuso figlio di Ermes erano la sua debolezza più grande. Perché dovevano essere così belli?

Una brezza si sollevò a Central Park. Erano nel cuore di luglio, si moriva dal caldo, però il tempo era davvero gradevole. L’ideale per un gelato dopo la loro seconda visita alla madre di Thomas. Lisa ancora non riusciva a credere che Chirone li avesse lasciati andare di nuovo. Ma dopotutto, quei due assieme avevano sconfitto Efialte e una volpe a nove code. E poi, la situazione di Tommy non era semplice. Era plausibile che quel vecchio centauro avesse deciso di essere meno fiscale del solito con loro due.

Si appoggiò contro lo schienale della panchina, osservando i mortali che facevano jogging nel parco, i ragazzi che portavano a spasso il cane e le coppiette che si tenevano per mano. Queste ultime in particolare la fecero voltare verso di Tommy e sentire un po’ in imbarazzo. Anche loro due erano una coppia. A distanza di settimane, ancora non le sembrava vero. Non dopo il modo in cui lei l’aveva trattato.

Voleva sprofondare dalla vergogna ogni volta che ci ripensava. Però lui l’aveva perdonata. L’aveva inseguita quella sera. Era stata la cosa più bella che le fosse mai successa.

«Forse avremmo dovuto rimanere nella gelateria» commentò Thomas all’improvviso, mentre tentava di asciugare il gelato colato sul cono con il tovagliolino di carta. «Fa un caldo degli Inferi oggi…»

Lo guardò mentre litigava con il gelato che si stava squagliando a vista d’occhio e pensò che di quel passo anche lei avrebbe fatto la stessa fine. Era così… carino. 

«Lisa? Tutto ok?»

Lisa sussultò. Distolse lo sguardo imbarazzata, riportandolo sul suo cono e accorgendosi di avere le dita intrise di gelato sciolto. Se non altro, la aiutò a ritornare con i piedi per terra. Si ripulì alla bell’e meglio, affrettandosi a finire il gelato prima che non rimanesse altro che una poltiglia. «Come… come sapevi che qui facevano il gelato alla nocciola?» gli domandò. Lisa non era una frequentatrice di gelaterie americane, da quando era arrivata negli Stati Uniti era stata pochissime volte fuori dai campi, ma era abbastanza sicura che la nocciola non fosse comune in America come lo era in Italia.

«Beh, ho… ho controllato su internet» ammise Tommy, distogliendo lo sguardo.

«Che cosa?» interrogò lei, allarmata.

L’ottuso figlio di Ermes si grattò dietro l’orecchio. «Nella capanna Undici abbiamo dei tablet. La connessione è bloccata, ma… possiamo sbloccarla, se serve. So che è pericoloso usare internet per un semidio, ma ero dentro il campo, non credo di aver corso qualche rischio.»

«Hai… hai infranto le regole… per me?»

«“Infranto” mi sembra eccessivo… ho… come dire, fatto solo una ricerca personale. Sapevo quanto ti piace il gelato alla nocciola e…»

Lisa zittì le sue chiacchiere inutili con un bacio. Lo sentì mugugnare per la sorpresa, prima di ricambiare con un sospiro appagato. Le sue labbra gelate sapevano di fragola. Si separò da lui con un sorriso, lasciandolo intontito per qualche istante, con le labbra ancora protese verso il vuoto. Non aveva importanza come, dove, o quando, in qualche modo lui riusciva sempre a sorprenderla. E soprattutto, a farla felice. «Grazie Tommy.»

«E di cosa?» rispose lui, sorridendole di nuovo. «Non ho fatto niente di che…»

Non solo era carino, era pure modesto. Dei, quanto le piaceva quell’ottuso figlio di Ermes. Gli diede un altro bacio sulla guancia, poi osservò il gelato alla nocciola. Lo assaggiò di nuovo. Tutto ad un tratto, sembrava molto più buono. Ogni cosa era più buona, se c’era di mezzo Thomas.

«Di… di cosa sa?» chiese Tommy all’improvviso.

Lisa sollevò un sopracciglio. «Vuoi assaggiarlo?»

Dalla sua espressone imbarazzata intuì che, sì, voleva assaggiarlo, ma era troppo timido per chiederlo. Lisa ridacchiò, poi fece per porgergli il cono, quando ebbe un’idea. «Beh, sa di…» Affondò le labbra sopra il cono, poi afferrò l’ottuso figlio di Ermes e gli stampò un altro bacio, questa volta al gusto gelato alla nocciola.

«Mh! Mhhh…» fu la risposta di lui.

Quando si separarono, Lisa sentì le labbra un po’ appiccicose, ma non le importò. L’espressione di Thomas era la cosa più adorabile e divertente al tempo stesso che avesse mai visto. «Com’era?»

«B-Buono…»

Lisa ridacchiò di nuovo. «Magari la prossima volta posso farti provare la stracciatella

«La… la che?»

Il sorriso svanì dal volto di Lisa. Alzò gli occhi al cielo ed un lungo sospiro infastidito le scappò dalle labbra. «Dannati americani» gracchiò esausta.






Salve amici! Come sempre, non mi dilungherò molto. Ho alcune cose importanti da dire, innanzi tutto vorrei ringraziare Farkas e Nanamin per le recensioni, vi risponderò presto, promesso. 

Questo capitolo è stato scritto abbastanza alla "buona", come si dice, non è il mio lavoro migliore, ma ci tenevo a fare una scena di questo tipo con Lisa e Thomas, spero che il punto di vista di Lisa vi sia piaciuto, anche se così breve e per una cosa leggera come questa. 

Tolti i preamboli, miei cari, vi porto due notizie, una buona e una cattiva. La cattiva è che questo sarà l'ultimo capitolo della raccolta, per un po' di tempo, temo. Purtroppo non riesco a dedicarmici come vorrei, ultimamente, queste "oneshot" le sto scrivendo più per svago, per distrarmi un po' e soprattutto per rimanere familiare ai vari personaggi, vecchi e nuovi che siano. Quindi, per un po' di tempo, non ci saranno aggiornamenti su questa storia, ma la riprenderò in futuro, anche perché voglio mostrare la partita di Cattura la bandiera e altre sorprese varie che ho in mente.

Ma dunque, ho detto che ci sono due notizie, una buona e una cattiva, quindi ora arriviamo alla buona, che è parzialmente anche il motivo per cui non riesco a continuare la raccolta. Non c'è proprio un modo semplice per dirlo, quindi mi limiterò a dire questo:

NUOVA STORIA. 1° AGOSTO. 

Sì, gente. Il seguito della Spada del Paradiso sta arrivando. 1° Agosto, 1° capitolo, se siete interessati, non mancate! 

No, non vi libererete di me così. Non continuerò la raccolta ma non significa che rimarrò con le mani in mano. Immagino che ora si capisca perché non posso dedicarmi alla raccolta come mi piacerebbe. 

Quindi... sì, primo agosto. Ci vediamo là! Grazie per aver letto e alla prossima!

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Capitolo 8
*** Cattura la bandiera (pt1) ***


Salve gente, dopo tempi immemori sono tornato con il seguito non ufficiale della Spada la raccolta. Farò un paio di premesse e poi vi lascerò al capitolo. Innanzi tutto questo capitolo e anche le prossime parti, non so ancora quante ce ne saranno, spero di chiudere con la prossima ma potrei arrivare anche a 3, faranno uso del POV Generale, cioè non ci sarà un unico protagonista in tutto il capitolo ma il punto di vista sguscerà tra i vari personaggi al termine di ogni paragrafo (con l’eccezione dei primi perché ho voluto dare un piccolo spazio a Konnor). 

Il motivo di questa decisione è che se avessi fatto un capitolo per ogni personaggio mi sarei ritrovato con cinque o sei micro capitoli e non mi sembrava il caso, il pov generale è molto più funzionale per questa parte della storia.

Normalmente utilizzo i nomi degli adattamenti italiani nelle fanfiction, ma per me “caccia alla bandiera” non si può proprio leggere, e siccome in inglese è “Capture the flag” cioè “Cattura la bandiera” ho deciso di usare quello. 

Per finire, è un capitolo scritto abbastanza alla buona, non aspettatevi una grande profondità di trama o cose del genere, volevo solo scrivere la partita di Cattura la bandiera e mostrare un paio di personaggi nuovi. Ci stiamo avvicinando anche qui alle fasi finali, dopo la sfida ci sarà il capitolo conclusivo (per il momento almeno) della raccolta, ma ci arriveremo quando verrà il momento. 

Fino ad allora, grazie per essere qui e buona lettura!

 

 

 8

Cattura la bandiera (pt1)

 


Era una giornata splendida al Campo Mezzosangue. Il sole batteva sulla baia di Long Island, forte e intenso come non mai: il giorno ideale per una partita di Cattura la bandiera.

Una cinquantina di semidei si ritrovava all’ingresso del bosco, divisa in due grossi gruppi.

Konnor marciò tra i suoi compagni di squadra, studiando il loro linguaggio del corpo. La tensione si tagliava con il coltello, c’erano sorrisi carichi di determinazione e l’esatto opposto, espressioni corrucciate e pensierose, ma l’umore generale era alto, l’idea della sfida stuzzicava tutti loro, lui in particolare, e tutte le armi erano sguainate e scintillanti.

Il ragazzo sorrise, facendo vagare lo sguardo sui suoi fratelli che interagivano così serenamente con i figli di Ermes e quelli di Demetra. Era bello vedere che tutto era tornato al proprio posto. Certo, c’erano ancora scaramucce tra loro, di tanto in tanto, ma quelle ci sarebbero state in ogni caso, tra tutte le case. Erano semidei, dopotutto, erano iperattivi e irrequieti. L’importante, però, era che avessero capito che non dovevano farsi la guerra tra di loro: erano tutti sulla stessa barca.

Quella partita di Cattura la bandiera altro non era che un modo per rafforzare i loro spiriti e per abituarli a combattere insieme, per renderli una vera squadra, una famiglia.

Lanciò un’occhiata alla fazione opposta, capitanata dai figli di Atena, e gli venne da distendere il sorrisetto. Aveva detto a Simon che se voleva una chance di vittoria contro di loro avrebbe dovuto dare il meglio ed era intenzionato a rispettare quella promessa.

«Konnor?»

Una mano si posò sul suo braccio. Il figlio di Ares si voltò e incrociò lo sguardo di Stephanie, che gli sorrise. La osservò negli occhi per qualche istante, senza dire nulla. Ogni giorno che passava Steph diventava sempre più bella, come un fiore che continuava a sbocciare. Le sorrise e le prese il volto tra le mani, dandole un morbido bacio sulle labbra. La sentì sospirare di felicità, mentre gli appoggiava i palmi sul petto.

Quando si separarono appoggiò la fronte contro la sua e le accarezzò una guancia. Aveva completato un’impresa, aveva affrontato un nemico mai visto prima di allora, aveva riportato la pace tra la sua cabina e le altre, ma tutto quello non era nulla in confronto a poter stringere quella ragazza tra le sue braccia, poterla baciare, sapere che lei per lui ci sarebbe sempre stata, e viceversa.

Lei resse il suo sguardo, adagiando una delle sue mani vellutate su quella del ragazzo, le stesse mani con cui gli aveva afferrato le guance quando era diventato il nuovo capocasa di Ares, le stesse con cui aveva scatenato un esercito di piante contro quello di Yamata no Orochi. Con quelle mani poteva far sorgere i fiori più belli e delicati su cui l’occhio umano avrebbe mai potuto posarsi, e allo stesso tempo avrebbe potuto spazzare via falangi intere di mostri.

«Gli altri ci stanno aspettando» disse lei, accarezzandolo sopra la barba corta.

Si accorse del suo sguardo e di una leggera incertezza nella voce e capì che era tesa. A Konnor venne da sorridere. Avrebbe potuto sconfiggere da sola il campo intero, nel bosco, ed era tesa. Ma gli piaceva anche per questo, perché non era arrogante e presuntuosa, era forte ma si comportava come se i suoi successi fossero anche, e soprattutto, merito degli altri.

Konnor le strinse con forza entrambe le mani, accarezzandole i polpastrelli. In diverse occasioni durante l’impresa Stephanie si era appoggiata a lui, ma la realtà dei fatti era che se lei non ci fosse stata, lui non sarebbe riuscito a fare metà delle cose che aveva fatto. Non solo lei aveva dei poteri forti, aveva uno spirito forte. Era una guerriera invidiabile, coraggiosa e di buon cuore e lui non avrebbe potuto sentirsi più felice di sapere che era anche la sua ragazza.

Le diede un altro bacio sulla fronte, poi annuì. «Andiamo.»

Alcuni fecero dei sorrisetti quando passarono tra la folla tenendosi per mano, ma ormai anche la loro relazione passava quasi inosservata agli occhi di tutti. All’inizio avevano fatto parecchio scalpore, ed erano nate un sacco di storie su di loro e su come si fossero messi insieme, sui momenti che avevano condiviso durante l’impresa e su come insieme avessero sconfitto mostri pericolosissimi. A Konnor era sempre piaciuto ascoltarle, soprattutto perché non si erano mai avvinate nemmeno lontanamente alla realtà di come erano andate davvero le cose.

Però erano divertenti. La sua preferita era quella con lui che affrontava Naito per impedirgli di mangiare Steph. Dovevano aver fatto un po’ di confusione su chi aveva cercato di mangiare chi.

Raggiunsero un gruppetto di ragazzi rimasto in disparte, che li accolsero con degli ampi sorrisi.

«Ehi ragazzi!» Lisa li salutò con un cenno, mentre si teneva per mano con Thomas.

Rosa gli strizzò l’occhio. «Figlia dei fiori, Konnor.»  

«Piccioncini» concluse Edward con il suo solito sorrisetto.

Konnor li osservò uno a uno con un sorriso soddisfatto. C’erano loro quattro e alcuni dei loro fratelli, come Derek, Paul, Jonathan e Natalie, che era accanto ad Edward. Anche sua sorella Sophia era lì e non sembrava per niente felice: continuava a lanciare occhiate nervose verso di Rosa, come se temesse che si trasformasse in un drago sputa veleno da un momento all’altro.

Non era stata molto felice di essere una compagna di squadra di Rosa, Sophia, però aveva comunque ascoltato Konnor e deciso di partecipare.

A differenza di Buck. Pensare a lui fece affievolire il sorriso di Konnor.

«Allora, capitano, qual è il piano?»

Il figlio di Ares si riscosse, accorgendosi di come tutti lo stessero guardando, in attesa delle sue direttive. Konnor si schiarì la gola, poi spiegò la sua strategia. Gli fece uno strano effetto vederli così attenti e silenziosi, Edward in particolare. Fino a un mese prima non avrebbe mai creduto che si sarebbe trovato nella posizione di potergli dire cosa fare senza che lui battesse ciglio.

Si sarebbero divisi in diversi gruppi: uno avrebbe attaccato frontalmente, altri due invece avrebbero tentato di fiancheggiare il nemico, mentre un ultimo gruppo sarebbe rimasto in difesa della bandiera.

Per finire una squadra di ricognizione avrebbe agito per conto proprio, lontana da tutti gli altri, e avrebbe approfittato dell’attacco su tre fronti per cogliere i loro avversari alle spalle e rubare la bandiera.

Konnor avrebbe guidato l’attacco frontale assieme a Stephanie, Rosa e Lisa avrebbero guidato l’attacco su un fianco, Edward sull’altro, mentre Thomas avrebbe provato a rubare la bandiera assieme a Sophia, Derek, Jonathan e Paul.  

«E chi difende?» domandò Edward, incrociando le braccia.

«Non è ancora qui?» Konnor si guardò attorno, prima di abbozzare un sorrisetto e scuotere la testa. Forse si stava ancora preparando. «Lo vedrete» concluse, prima di accennare con la testa al bosco. «Andiamo?»

 

***

 

Chirone spiegò le regole della sfida, anche se non ci fu davvero bisogno di farlo: tutti quanti ormai le conoscevano a memoria. E tutti erano pronti a vincere. In palio c’era il solito premio, niente lavoretti nel campo per un mese, ma non solo. Ormai vincere quella sfida era diventata una questione di onore per molti di loro, in particolare le case di Ares e Atena, che con la loro eterna rivalità si contendevano il primato da anni.

La squadra di Konnor stava sistemando la propria bandiera in cima al Pugno di Zeus quando arrivò qualcuno trafilato. L’armatura era un po’ troppo grande per lei e teneva l’elmetto sottobraccio, forse perché non voleva rovinarsi l’acconciatura.

Decine e decine di versi di sorpresa si sollevarono quando si accorsero della nuova arrivata. La ragazza arrossì per l’imbarazzo, poi salutò con un cenno timido della mano. «Ehm… c-ciao a tutti…»

«Jane?!» Edward fu il primo a riscuotersi. «Che ci fai qui?»

«Le ho chiesto io se voleva partecipare.» Konnor si avvicinò a lei, sorridendole. «Ti ringrazio per aver accettato.»

«P-Prego…»

«Jane rimarrà nel gruppo a difesa della bandiera» spiegò Konnor, mettendosi accanto alla ragazza. «Con la lingua ammaliatrice ci sarà di molto aiuto.»

«Ma è uno scherzo?» sbottò qualcuno, Konnor non seppe chi.

Jane sussultò e abbassò lo sguardo. Un tempo si sarebbe crogiolata in tutti quegli sguardi e attenzioni. Ora invece sembrava solo voler sparire, specie perché quelle erano attenzioni che nessuno avrebbe voluto ricevere. E soprattutto, che nessuno, nemmeno lei, si meritava.

Konnor le posò una mano sulla spalla, reggendo lo sguardo di tutta quella folla infastidita. Sapeva che la sua idea non avrebbe riscosso molto consenso, ma non gli importava.

«Ascoltate tutti» cominciò a dire, incrociando anche lo sguardo di Steph, che sembrava sorpresa tanto quanto gli altri. Konnor si rivolse alla folla, ma per tutto il tempo non staccò lo sguardo dalla figlia di Demetra. «So che ciascuno di voi ha i suoi buoni motivi per diffidare di Jane. Ma vi posso assicurare che non è più la persona di un tempo. In queste settimane ha lavorato duro per prepararsi a questo momento. Sta cercando di migliorare anche lei, proprio come tutti noi. È una semidea, ha un potere utile ed è disposta a usarlo per aiutarci. Possiamo fidarci di lei, vi do la mia parola.»

I ragazzi si guardarono tra di loro. La presenza di Jane rendeva tutti più dubbiosi, ma Konnor le aveva chiesto di partecipare anche per quello. Se avessero fallito come squadra soltanto perché in presenza di qualcuno come Jane, allora avrebbero potuto arrendersi anche subito. Era l’occasione che lei aveva per redimersi – visto che gareggiava anche come unico membro della casa di Afrodite – e l’occasione per loro di lavorare tutti insieme di fronte a degli avversari altrettanto abili e più coesi.

La prima persona a farsi avanti fu Stephanie. «Io…» Guardò prima Konnor, poi Jane, e si mordicchiò un labbro. «Mi fido.»

Konnor sorrise, allontanando la mano dalla spalla di Jane per stringere la sua ragazza tra le braccia. «Mi fido del fatto che tu ti fidi di lei» precisò Steph, lanciando un’occhiatina a Jane.

Il figlio di Ares ridacchiò. «Beh, è già qualcosa.»

«Anch’io mi fido.» Edward si staccò dalla folla, tenendosi l’arco sulla spalla. Sorrise a Jane e le rivolse un cenno del capo. La figlia di Afrodite si illuminò, ma Edward non aveva ancora finito. Si voltò verso gli altri ragazzi. «Sentite gente, tutti sbagliamo. Qui avete il massimo esperto in errori. Ma volete sapere cos’altro è sbagliato? Trattare Jane nello stesso modo in cui lei ha trattato noi. Se vogliamo essere eroi, se vogliamo davvero sconfiggere i nostri nemici… dobbiamo essere uniti. E per rimanere uniti, non dobbiamo escludere nessuno, nemmeno chi non ci piace. Jane è pentita, vuole farsi perdonare aiutandoci. Io direi, proviamo ad accettare le sue scuse. Proviamo a fidarci.»

Edward affiancò Jane e fece uno strano sorrisetto, circondandola per le spalle. «Se fa la brava, abbiamo una nuova amica. Se non fa la brava, la possiamo scannare tutti insieme. Vinciamo in ogni caso, no?»

Jane sgranò gli occhi e divenne più rossa di un pomodoro, ma non si capì se per la paura, l’imbarazzo o per via del braccio di Edward. Alcuni sorrisi nacquero tra la folla, forse alla prospettiva di scannare felicemente Jane tutti insieme.

Altri ragazzi si fecero avanti. Rosa, Lisa, Thomas e alcuni dei loro fratelli.

«Se voi vi fidate…» cominciò la co-capocasa di Apollo, prima di alzare le spalle. «… io mi fido.»

Lisa non fu tanto diplomatica. Puntò l’indice verso di Jane, strappandole un sussulto. «Fai un solo passo falso e te ne farò pentire amaramente» la minacciò.

«Dai, Lisa…» Thomas cercò di calmarla posandole una mano sulla spalla, prima di sorridere imbarazzato verso di Jane. «Ehm… benvenuta in squadra, credo.»

«G-Grazie…»

Poco per volta, tutti quanti cominciarono ad annuire. Alcuni diedero il benvenuto a Jane, altri rimasero in disparte. Continuò ad aleggiare una strana atmosfera, ma se non altro le ostilità cessarono.

L’ultima persona ad avvicinarsi a Jane fu Natalie. La scrutò attentamente per diversi istanti e Konnor percepì Jane irrigidirsi. La paura nel suo sguardo gli fece capire, ancora una volta, che ormai quella non era più la ragazza di un tempo, quella che si era divertita con Buck a calpestare tutti gli altri. Era spaventata e insicura, e forse lo era sempre stata. Non c’era alcuna malizia in lei, era spinta da buone intenzioni. Voleva migliorare e non c’era niente di male in questo.

Natalie tese la mano a Jane, sempre con quell’espressione severa in volto. La figlia di Afrodite ricambiò timidamente la stretta e Natalie la tirò a sé con uno strattone, ritrovandosi faccia a faccia con lei. Una nube di versi di sorpresa si alzò, alcuni sollevarono anche le armi come riflesso incondizionato.

«Ti tengo d’occhio» sibilò Natalie a un palmo dal suo naso. «Sappilo.»

Jane deglutì intimidita, ma annuì. L’altra non la lasciò andare subito. Rimase a osservarla dura come il marmo finché Edward non provò ad intromettersi. Konnor fu colpito dal suo coraggio, o forse stupidità: Natalie sembrava un mastino pronto a staccare con un morso la mano di chiunque avrebbe provato a sfiorarla.

«N-Nat? Calmati, su…» Edward la cinse ai fianchi, provando ad allontanarla, ma fu solo quando lei decise che era abbastanza che lasciò andare Jane.

Si scansò anche dalla presa di Edward e gli lanciò un’occhiata glaciale. «Sarà meglio che tu sappia quello che fai, Model.»

Per tutta risposta, lui sollevò le mani con un altro sorrisetto. «Oh, Nat. Sai molto bene che io non so mai quello che faccio.»

Natalie fece una strana smorfia, ma fu chiaro che stava provando a trattenere un sorriso. «Testone…»

Il suono di un corno riecheggiò nel bosco, facendo volare spaventati alcuni uccelli e catturando l’attenzione di tutti.

«D’accordo, gente.» Konnor sguainò lo spadone. «Sapete tutti cosa fare. Catturiamo una bandiera!»

 

***

 

Il bosco era molto più silenzioso di quello che si sarebbe aspettato durante una sfida di quel tipo.

La squadra nemica sicuramente si era già messa in marcia, presto si sarebbero incontrati, ma per il momento tutto taceva. Era la quiete prima della tempesta, come se perfino il bosco stesse trattenendo il fiato in attesa di quello che stava per arrivare. Di sicuro le driadi e gli spiriti della foresta non si sarebbero fatti vedere finché quella giornata che si preannunciava molto lunga non sarebbe finita.

Konnor era sicuro che Simon avesse studiato una strategia brillante per vincere, mentre lui aveva usato la tattica più vecchia del mondo. Era certo che gli avrebbero dato filo da torcere, ma dopotutto era proprio questo quello che voleva: essere messo alla prova.

Aveva anche chiesto a Stephanie ed Edward di non usare i loro poteri, altrimenti la sfida si sarebbe chiusa in pochi minuti. No, voleva che Simon e i suoi avessero una chance di vittoria uguale alla loro.

Stephanie non aveva detto una parola per tutto il tempo. Camminava accanto a lui reggendo una lancia tra le mani, con i sensi affinati al massimo, pronta a scattare al minimo segno di pericolo. Konnor l’aveva vista pochissime volte combattere con le armi, al punto che gli faceva uno strano effetto vederla così. Proprio per quel motivo si erano allenati insieme un paio di volte, finendo così con lo scoprire che la lancia era un’arma molto più adatta a lei rispetto a spade o pugnali.

E poi la lancia le dava un’aria molto più… pericolosa. A Konnor piaceva il pericolo.

«Stai bene?» le domandò dopo un altro tratto di strada in silenzio.

Lei annuì, anche se continuava a sembrare tesa.

«Stiamo per combattere con i nostri amici, non con mostri pericolosi» la rassicurò Konnor. «Rilassati. Nessuno ti farà del male.»

Stephanie si mordicchiò un labbro. «Sì… lo so. È solo che… ho… ho paura di deluderti…»

Abbassò subito la testa, con le guance arrossate. La dichiarazione sorprese Konnor, che dopo un attimo di stupore ridacchiò. Le sfiorò il fianco facendola raddrizzare. I loro sguardi si incrociarono e Konnor pensò che avrebbe voluto baciarla, ma sapeva che non era il momento giusto – e poi con l’elmetto sarebbe stato un po’ faticoso. Si limitò a sorriderle. «Comunque andranno le cose, Steph, tu non potrai mai deludermi. È impossibile.»

Finalmente sembrò riuscire a rassicurarla, perché un altro timido sorriso apparve sul suo viso, distendendosi tra le guance rosate. Sembrò voler dire qualcosa, ma si pietrificò all’improvviso. «Sono qui.»

Konnor capì subito che stava parlando dell’altra squadra e sollevò un pugno. Il gruppetto dietro di lui si fermò.

«Quanti nemici?» domandò a Stephanie, visto che poteva percepire le presenze nel bosco. «Steph? Steph, quanti nemici?»

Si voltò verso di lei e si accorse che stava stringendo le palpebre e muovendo le labbra senza però emettere alcun suono, come se si stesse concentrando intensamente su qualcosa. «K-Konnor?» domandò, con voce tremante. «Ma… ma dove sei?»

«Sono qui Steph» bisbigliò lui. «Ti senti bene?»

Stephanie spalancò gli occhi. «Konnor!»

Strinse la lancia con forza e cominciò a correre verso il bosco, chiamando il suo nome a gran voce.

«Steph! Steph!» gridò lui, sconvolto.

Fece per correrle dietro, quando un’altra voce si sollevò: «Finalmente se n’è andata.»

Konnor si irrigidì. Strinse l’elsa dello spadone e osservò Simon mentre spuntava fuori da dietro alcuni alberi, la cotta di maglia, l’elmetto e la spada stretta in pugno. Gli sorrise gelido, gli occhi grigi che scintillavano di lucida malizia. «Adesso, Konnor, scopriremo chi è lo stratega migliore.»

«Che hai fatto a Steph?» Konnor si mise in posizione di combattimento. «E perché sei da solo?»

Simon ridacchiò. «Konnor, Konnor… l’amore ti sta deconcentrando, mi sa. Guardati attorno. Non sono l’unico ad essere solo.»

Il figlio di Ares avvertì la schiena formicolare. Si voltò e si accorse con sorpresa che tutta la sua squadra era scomparsa. Non c’era nessuno dietro di lui. Tra la boscaglia, però, riuscì a scorgere alcune figure che combattevano, mentre il rumore del metallo che cozzava proveniva da ogni dove. Come aveva fatto a non accorgersene prima?

«La casa di Ecate sta manipolando la Foschia» disse il capocasa di Atena, come leggendogli nel pensiero. «La sta usando per alterare i vostri sensi e per confondervi le idee. Sapevamo che la vostra forza sta nell’unione, quindi vi stiamo separando uno a uno. Tu, Stephanie, Edward, e così via. Tranquillo, Konnor. Se ti può far sentir meglio, chiunque si sarebbe fatto fregare al posto tuo. Non hai niente di cui vergognarti.»

Sollevò la spada, puntandogliela contro con un sorriso determinato. Konnor ponderò un attimo sulle informazioni che aveva appena ricevuto, poi sorrise a sua volta. Fu costretto a dare a Cesare quel che è di Cesare. «I miei complimenti, Simon. Hai studiato tutto nei minimi dettagli.»

«Mi conosci. Sono un perfezionista.»

«Sì, ti conosco.» Konnor si sgranchì il collo. «Però forse avresti dovuto mandare qualcun altro ad affrontarmi. Non sei il primo arrogante a cui do una lezione.»

Simon ridacchiò, ma non rispose. Lo invitò a farsi sotto con un cenno della mano e Konnor non si fece attendere.

 

***

 

Thomas avrebbe voluto essere con Lisa. Non gli piaceva l’idea di essere separato da lei. Inoltre credeva che insieme fossero molto più forti, bastava pensare a quello che era successo ad Efialte.

Però comprendeva le intenzioni di Konnor e sapeva anche che Lisa se la sarebbe cavata alla grande, specie perché era con Rosa. Doveva ammetterlo, era molto felice di vederle andare così d’accordo ed era soprattutto felice di vedere che Lisa avesse trovato un’amica, specie dopo tutto l’imbarazzo che lui, da buon ottuso figlio di Ermes, aveva creato tra loro tre.

Non appena i rumori della battaglia cominciarono a rimbombare per il bosco, distolse la sua mente da quei pensieri e si concentrò sul suo obiettivo: catturare quella maledetta bandiera.

Paul marciava per primo, usando i suoi poteri da figlio di Demetra per percepire movimenti nella vegetazione, mentre Jonathan chiudeva la fila, lo sguardo che guizzava in ogni direzione e l’arco pronto a scoccare. Per finire lui, Derek e Sophia stavano nel mezzo a coprire gli altri fianchi.

Era un assortimento di semidei piuttosto… bizzarro, però in effetti come squadra incaricata di rubare la bandiera poteva funzionare. Lui e Derek erano scelte ovvie, Paul invece si muoveva in un territorio a lui amico, il bosco, Jonathan poteva occuparsi dei bersagli a distanza e Sophia era la polizza assicurativa se per caso li avessero scoperti e fossero stati costretti a combattere. Era una ragazza alta, con dei capelli a caschetto bronzei, gli occhi scuri e la carnagione olivastra. E anche con delle braccia che facevano sembrare quelle di Thomas dei grissini.

Non aveva mai parlato con la sorella di Konnor prima di quel giorno, a dire il vero nemmeno quel giorno l’aveva fatto, però ricordava come Sophia non fosse mai stata presente nel gruppetto di Buck durante il “Regno di terrore di Buck e Jane”, quindi non aveva alcun problema con lei. Anzi, era sollevato di sapere che assieme a loro c’era qualcuno che aveva il combattimento nel sangue come lei. Forse era proprio per questo che Konnor l’aveva scelta.

«Allora… Sofi» disse Derek dopo un lungo tratto di strada, rompendo il silenzio tra loro cinque. Affiancò Sophia con uno strano sorrisetto. «Che fai dopo la sfida?»

«Non chiamarmi “Sofi”» rispose lei. «E comunque non sono fatti tuoi.»

Derek si pettinò – male – i capelli. «Pensavo che magari, non so, potessimo berci qualcosa. Oppure potremmo andare a fare una passeggiata nei campi di fragole, o al lago. Sai, dicono che in questo periodo dell’anno sia molto bello. Tu ci sei mai stata?»

Sophia corrucciò la fronte. «Al lago? Certo che ci sono stata, è lì dietro l’angolo.»

«Sta facendo sarcasmo» borbottò Paul senza voltarsi. «Sul fatto che al campo non ci sia niente di interessante da fare. Peccato che non faccia ridere nessuno.»

«Ma sta’ zitto.» Derek si impettì. «Io sono simpaticissimo. Allora, Sofi, che ne dici?»

«Ma ti sembra il momento giusto per parlare di queste cose?» lo rimproverò Jonathan.

«E quando sennò? Ogni volta che provo ad avvicinarmi al suo tavolo ci sono i suoi fratelli che mi guardano male!»

«Credimi, non lo fanno per proteggere me da te» borbottò Sophia, lanciandogli un’occhiata velenosa. «Lo fanno per proteggere te da me.»

«Uh.» Derek non sembrò spaventato dalla minaccia. «Sei aggressiva. Mi piac-AH!»

Si interruppe quando Thomas gli sferrò una gomitata. «Dacci un taglio, Derek. La stai mettendo in imbarazzo. Ti stai mettendo in imbarazzo.»

«Lo sai, fratellino…» Derek si massaggiò il fianco infastidito. «… da quando sei capocasa e hai la ragazza stai alzando un po’ troppo la cresta. Forse dovremmo farti qualche bello scherzetto come ai vecchi tempi.»

«Ma se l’altro giorno mi sono svegliato con il letto pieno di insetti!»

«Pfff. Quello lo chiami scherzo?»

«Non mi serve il tuo aiuto» sbottò Sophia, rivolta a Thomas, e poi agitò le nocche di fronte a Derek. «E tu chiudi la bocca o ti trasformo in un purè.»

Dallo sguardo che fece, Tommy intuì che quel folle di suo fratello la stava trovando una proposta allettante. La voce di Paul li chiamò prima che potesse dire qualcos’altro di stupido: «Fermi.»

Il figlio di Demetra era accovacciato sopra un mucchietto di foglie cadute, arancioni. D’estate. Perfino Tommy capì che c’era qualcosa che puzzava, e infatti Paul ordinò alle foglie di spostarsi per scoprire uno strano aggeggio di ferro, rotondo.

«Ma… ma è una mina antiuomo, quella?!» sussurrò Sophia.

I ragazzi si guardarono tra di loro sconvolti.

«Che razza di psicopatico potrebbe mai…» La frase di Jonathan si interruppe a metà.

«Kevin» conclusero tutti insieme.

Thomas rimase con lo sguardo calamitato su quell'aggeggio diabolico. Il capocasa di Efesto non era noto per i suoi modi di fare fini. Chissà quante altre trappole di quel tipo erano disseminate nel bosco. E chissà quante di perfino peggiori. Tra tutti gli alleati di Simon, Tommy avrebbe mentito se avesse detto che Kevin non era quello che lo intimoriva di più. Quel tizio era un sociopatico, ma intelligente, la combinazione più pericolosa.

«Aggiriamola. E state attenti.»

«Ma davvero, Paul? E io che pensavo di saltarci sopra!» sbottò Derek.

Jonathan deglutì. «Non… non ci avrebbe mica uccisi se l’avessimo attivata… giusto?»

«Preferirei non doverlo scoprire» mormorò Thomas, girando attorno a quell’affare ad almeno tre metri di distanza.

La squadra di ricognizione si addentrò nei meandri del bosco mentre la battaglia infuriava tutt’attorno a loro.

 

***

 

«Ah, magnifico.»

Edward si guardò attorno in quella radura deserta e priva di anima viva. Il gruppo che stava guidando era scomparso nel nulla dietro di lui e si era ritrovato a vagare per chissà quanto tempo nella direzione sbagliata. Non aveva la più pallida idea di dove fosse finito.

Nat mi ammazzerà.

Fece per tornare indietro, ma una vocetta stridula si sollevò all’improvviso: «E-Ehi, tu! Sì, parlo proprio con te!»

Dall’altra parte della radura sbucò fuori una ragazzina minuscola, con capelli lisci e neri e la pelle scurissima. Puntò l’indice verso di lui. «Adesso tu… tu te la vedrai con me!»

Edward batté le palpebre un paio di volte. «Tu sei Alyssa, giusto? Della casa di Tyche.»

«Proprio così! E ti farò a pezzi!» Alyssa si mise in una posizione da combattimento che ricordò quella dei Power Rangers. «F-Fatti sotto!»

Non aveva nemmeno un’arma, constatò il figlio di Apollo. «Cos’è, cerchi di guadagnare tempo?» domandò ridacchiando. «Guarda che…»

Alyssa raccolse una pigna e gliela lanciò. Edward la schivò. «Woah! Ehi, non è carino!»

«Avanti, combatti!» La ragazzina cominciò a lanciargli una pigna dietro l’altra. «O hai paura?»

«Paura? Ma che stai…» Uno dei lanci andò a segno, centrandolo in un occhio. «AH! Ma vaffan…»

Edward strinse le palpebre e si sfilò l’arco dalla tracolla. Non l’avrebbe uccisa, ovvio. L’avrebbe presa a una gamba. Le avrebbe fatto un po’ male, ma se la sarebbe cavata.

«Niente di personale, ma devo tornare dagli altri. Perciò…» Una pigna lo colpì dove non avrebbe dovuto. Il ragazzo emise un gridolino e cadde in ginocchio, coprendosi in mezzo alle gambe. «Gah! Piccola stronzet...»

Un’altra pigna lo centrò sulla fronte.

«Ti è bastata, o ne vuoi ancora?!» Alyssa cominciò a gridare come una pazza e lanciargli tutto quello che le capitava a tiro.

Edward si coprì con le braccia e corse al riparo dietro a dei cespugli.

«Che fai, scappi?! Beh, fai bene! Io sono Alyssa Fortuny, capocasa della magnifica dea Tyche, e ti annienterò!»

Un lungo sospiro scappò dalle labbra di Edward mentre sassi, pigne e ghiande gli piovevano addosso.

Perché aveva accettato di partecipare a quella scemenza?

 

***

 

Stephanie non aveva idea di cosa stesse succedendo. Un attimo prima stava camminando assieme a Konnor, un attimo dopo aveva sentito la sua voce chiamarla da tutt’altra parte. Le era bastato distrarsi un secondo per perderlo di vista e ora tutt’attorno a lei i suoi compagni stavano combattendo.

Aveva un’orribile sensazione. Sperava solo che non fosse troppo tardi.

Raggiunse il fiume che tagliava la foresta a metà, da dove era provenuta la voce di Konnor, e sollevò la lancia pronta a combattere. Si era aspettata scontri dappertutto. Il suo stupore quando si accorse che invece lì non c’era nessuno fu impareggiabile.

«Ma… ma cosa…»

«Steph!»

La ragazza si voltò di scatto. Konnor era di fronte a lei e le stava sorridendo smagliante. «Eccoti!»

«Konnor?» Stephanie si concentrò su quello strano sorriso che le stava rivolgendo e corrucciò la fronte. «Ehm… ti senti bene?»

«Certo, mai stato meglio. Lo sai, sei davvero stupenda oggi.»

«Grazie…»

«Allora.» “Konnor” si passò una mano tra i capelli. «Che ne diresti di dimenticarci di questa stupida sfida e pomiciare duro?»

Stephanie inarcò un sopracciglio. «Ma fai sul serio, Xavier?»

“Konnor” sussultò. Poi cominciò a ridacchiare mentre il suo corpo emanava pennacchi di fumo grigio. Foschia. Venne ricoperto completamente da essa e poi, quando si diradò, al suo posto apparve un altro ragazzo, sempre con i capelli neri ma mossi, tirati all’indietro, con una ciocca cremisi che invece scivolava sopra la fronte. Distese quel ghigno mentre sfilava un paio di occhiali Ray-Ban dai jeans e li indossava. Sembrava la versione latina e low budget di Apollo. «Ehi, raggio di luna. Come butta?»

«Non c’hai nemmeno provato ad assomigliare a Konnor» mugugnò Steph, stringendo la lancia e preparandosi a combattere.

«Certo che non l’ho fatto. Come avresti vissuto poi con la consapevolezza di aver baciato un impostore? Ti ho protetta da te stessa.»

«Come no.» Stephanie fece una smorfia. Xavier non assomigliava affatto al suo ragazzo come carattere, ma quell’illusione era sembrata parecchio reale. Se non le avesse parlato, lo avrebbe scambiato davvero per Konnor. Aveva un controllo della Foschia incredibile. «Mi viene da chiedermi se tu abbia provato lo stesso trucco anche con altre ragazze…»

«Non ho bisogno di abbassarmi a questi livelli per cuccare, raggio di luna.»

“Cuccare”. Oh sì, quelle erano proprio le parole di un latin-lover.

«E adesso, avanti.» Il figlio di Ecate materializzò dal nulla una daga di bronzo celeste. «Fatti sotto.»

Stephanie strinse le labbra, poi scattò verso di lui. Affondò la lancia con un grido e si ritrovò a trapassare il corpo del ragazzo, che esplose in una nuvola di Foschia.

«Mancato.»

La figlia di Demetra si voltò di scatto e vide Xavier alle sue spalle, vicino al fiume. Spalancò le braccia e fiumi di Foschia si riversarono dai suoi palmi, creando una nube che circondò tutta la radura. Steph si coprì il volto, ma la nebbia la ignorò finché non scomparve del tutto. Non appena la visuale fu di nuovo chiara, la ragazza rimase senza fiato.

«Chi sarà quello reale?» domandò Xavier. Uno dei venti che l’avevano appena circondata.

«Era proprio necessario?» Steph fece vagare lo sguardo su tutte quelle copie che gli rivolgevano lo stesso ghigno beffardo. «Uno solo era più che sufficiente per mandarmi al manicomio…»

Tutti e venti risero in un riverbero assordante.

Stephanie strinse la lancia, augurandosi che agli altri fosse andata meglio che a lei.

 

***

 

Lisa si augurò che gli altri non fossero stati sfortunati come lei e Rosa. Stava andando tutto bene, splendidamente perfino – se escludeva il fatto che Konnor l’aveva separata da Tommy, ma aveva cercato di non fargliene una colpa – quando lei e Rosa si erano accorte di essere rimaste separate dagli altri. Come, quando, in che modo, quelle erano tutte domande a cui avrebbe tanto voluto ricevere una risposta.

Si guardarono tra di loro confuse e fecero per tornare indietro, ma un titano di un metro e novanta con una maschera antigas e gli occhi iniettati di sangue apparve dal nulla a sbarrare la strada.

«Ehilà, ragazze» le salutò, con una voce così roca che ricordava quella di un fumatore incallito, mentre sguainava un machete di bronzo celeste.

Lisa sentì la pelle accapponarsi. Quel maniaco da dove diamine era sbucato fuori?!

«Oh-oh, ora sì che ci divertiamo» aggiunse un’altra voce, alle loro spalle. La ragazzona a capo della casa di Nike sbucò fuori da dietro alcuni alberi ostacolando anche quella strada. A differenza dell’altro pazzoide indossava la panoplia completa e stringeva in mano una mazza flangiata, sempre di bronzo celeste. «È ora di un po’ di sana, sana violenza, mozzarelle!»

Le due ragazze si misero quindi schiena contro schiena. Rosa puntò verso di Tonya, Lisa verso il tizio mascherato.

«Ehm… no, un momento.» Il tizio mascherato si scoprì la faccia, mostrando un viso barbuto e trasandato.

«Seth? Ma come diavolo ti sei conciato?!» sbottò Lisa, sollevando i pugnali. «Mi hai fatto prendere un accidente! Credevo fossi qualche pazzoide che aveva aggirato i confini!»

«Voi due dovreste…» Seth fece uno strano gesto della mano, come a simulare un cerchio che girava. «… scambiarvi, se non vi dispiace.»

Lisa sbatté le palpebre. «Che cosa?»

«Sì, infatti, state rovinando tutto!» si intromise anche Tonya. «Avevamo deciso che io mi occupavo dell’italiana pazza e lui della figlia di Apollo!»

Lisa e Rosa si scambiarono un rapido sguardo. La sua amica sembrava stordita tanto quanto lei, ma sollevò le spalle.

«Ehm… va bene» acconsentì Lisa.

Le ragazze si scambiarono di posto e così si ritrovarono di nuovo schiena contro schiena, ma di fronte ad avversari diversi.

«Perfetto» gracchiò Seth soddisfatto e Lisa lo scorse con la coda dell’occhio mentre si rimetteva la maschera. «Scusate davvero, è che c’eravamo messi d’accordo.»

«Figurati, nessun problema.» Rosa rispose con voce così cordiale che Lisa si domandò se lo stesse prendendo in giro oppure no.

«Vi ringrazio molto.»

«Ok, il tempo delle chiacchiere e finito!» Tonya partì all’attacco, puntando gli occhi marroni su di Lisa. «A noi due, mozzarella italiana!»

La figlia di Bacco scartò di lato e rotolò prima che la mazza le spaccasse la capoccia come un’anguria. Si rimise in piedi e sollevò i pugnali di fronte a quel colosso di ragazza, che si avvicinò sorridendo maniacalmente.

«Ti chiedo scusa in anticipo, mozzarella, ma ti farà male.» Tonya sollevò la mazza. «Tanto male!»

 

 

 

 

 

Ho disegnato un po’ di gente, sappiate che faccio schifo a disegnare quindi non garantisco nulla:

Alyssa: https://www.deviantart.com/edoardo811/art/Alyssa-capocasa-di-Tyche-la-Spada-del-Paradiso-888475959

Seth: https://www.deviantart.com/edoardo811/art/Seth-capocasa-di-Nemesi-La-Spada-del-Paradiso-888501518

Natalie: https://www.deviantart.com/edoardo811/art/Natalie-figlia-di-Ermes-La-Spada-del-Paradiso-888475477

Jane: https://www.deviantart.com/edoardo811/art/Jane-capocasa-di-Afrodite-La-Spada-del-Paradiso-888476653

Kevin e Sarah: https://www.deviantart.com/edoardo811/art/Kevin-e-Sarah-La-Spada-del-Paradiso-888476115

Rosa: https://www.deviantart.com/edoardo811/art/Rosa-co-capocasa-di-Apollo-La-Spada-del-Paradiso-888477444

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Capitolo 9
*** Cattura la bandiera (pt2) ***


 9

Cattura la bandiera (pt2)



Le loro spade si scontrarono in un tornado di rintocchi metallici. Uno scontro proteso in una parata interminabile di colpi, contraccolpi, mosse e contromosse.

Simon scattò verso di lui, tentando un affondo; Konnor dimenò lo spadone, respingendo la lama del suo avversario con un clangore metallico. Fece un passo avanti e mirò al fianco del figlio di Atena, che parò l’attacco a sua volta. I loro sguardi si incrociarono al di sotto degli elmetti e due sorrisi nacquero sui loro volti.

Erano entrambi spadaccini provetti, maestri della loro arte, due dei migliori combattenti che il Campo Mezzosangue aveva da offrire. I capicasa di Atena e Ares, i due volti della guerra, legati da un’eterna rivalità. Solo uno di loro poteva essere il migliore ed entrambi lo sapevano: presto avrebbero scoperto chi lo fosse davvero.

«Dovresti arrenderti adesso, Konnor» suggerì Simon, durante un breve attimo di stallo in cui i due ragazzi rimasero a qualche metro di distanza per studiarsi e riprendere fiato. «I tuoi amici sono tutti divisi, alle prese con avversari che non possono battere. Ammetti la sconfitta: non c’è nulla di male ad arrendersi a qualcuno di superiore.»

Konnor distese il sorriso. Simon era preciso, letale, ogni sua mossa era studiata nei minimi particolari ricalcando la scrupolosità che contraddistingueva la sua casa. Questo valeva sia quando combatteva, sia quando stilava una strategia per vincere. Ma dopotutto, era stato Konnor stesso a volerlo. Aveva detto a Simon di prepararsi, di radunare i migliori che poteva radunare, e di essere pronto a tutto. Quel combattimento, quell’intera partita di cattura la bandiera, erano proprio ciò che aveva chiesto.

Atena, a differenza di Ares, non era solo guerra. Era anche strategia, intelligenza, mente. Ma la mente non era tutto. Quando veniva il momento, occorreva dimenticarsi della mente, abbandonare la ragione e lasciarsi guidare unicamente dall’istinto. In uno scontro la minima esitazione poteva essere fatale, e questo Konnor l’aveva imparato sulla propria pelle. Simon seguiva uno schema ben preciso. Aveva studiato tutto nei minimi particolari, aveva uno scopo da raggiungere ed era determinato a farlo nel modo che si era prestabilito: presto anche lui avrebbe scoperto che quello non era sufficiente per vincere.

Non erano bastati la forza disumana di Naito e la violenza di Buck per battere Konnor; nemmeno la mente di Simon sarebbe stata sufficiente.

«Ti sei preparato apposta per questo momento» cominciò a dire Konnor. «Sono colpito, Simon, davvero. Ma se credi che la sola strategia basterà per vincere, allora ti sbagli.»

Scattò verso il figlio di Atena, che spalancò gli occhi e riuscì a parare l’attacco all’ultimo secondo.

«Se pensi che mi arrenderò senza combattere, allora pensi male!» esclamò Konnor. «Non mi sono mai arreso e di certo non lo farò ora!»

Simon piegò le gambe, stringendo i denti, schiacciato dal peso dello spadone. Saltò all’indietro, riuscendo a districarsi dall’attacco, poi caricò a sua volta. «Non perderò contro di te!»

Le lame cozzarono di nuovo tra di loro. La determinazione di Simon fece sorridere di nuovo Konnor. Quando la partita sarebbe finita, loro due sarebbero tornati amici. Un giorno, forse avrebbero dovuto combattere fianco a fianco, assieme. Ma non era quello il giorno.

Ora, entrambi avevano un solo obiettivo: vincere.

Nessuno di loro due aveva idea di cosa il destino stesse riservando per loro quel giorno.

 

***

 

I cloni la attaccavano da ogni direzione. Stephanie dimenava la lancia, colpendoli uno a uno. Ogni volta che la lama di Bronzo Celeste trafiggeva una copia di Xavier, quella esplodeva in una nuvola di nebbia. Si rese conto che la Foschia l’aveva circondata, uno strato spessissimo oltre il quale era impossibile scorgere qualsiasi cosa. Il bosco era un ricordo lontano, se non fosse stato per l’erba che calpestava avrebbe perfino creduto di non essere più al suo interno, e i rumori della battaglia erano svaniti, rimpiazzati unicamente dalle risate sguaiate di Xavier; era come se lui trovasse divertenti i suoi sforzi.

Aveva promesso a Konnor di non usare i poteri e l’avrebbe fatto, anche se in quelle condizioni Xavier era ben oltre la sua portata. Lui non si stava trattenendo, al contrario di Steph, e in ogni caso la ragazza dubitava che avrebbe potuto sconfiggerlo con facilità, viste le sue ottime abilità elusorie. Era l’avversario ideale, poteva colpirla da ogni direzione e scomparire come un miraggio subito dopo. Perfino se lei avesse avuto pieno controllo sulla foresta avrebbe potuto darle filo da torcere.

Tuttavia i suoi continui tentativi di flirt e battutine stavano davvero cominciando a irritarla.

«Forse avrei dovuto partecipare anch’io a quell’impresa» la provocò per l’ennesima volta. «Sono sicuro che avrei potuto fare a pezzi quella kitsune, il mezzo demone e perfino l’uomo serpente tutto da solo!»

«E perché non l’hai fatto, allora? Se non ricordo male, tu eri uno di quelli che rideva di noi!»

«Oh, andiamo raggio di luna, non dirmi che ti sei offesa!» Uno dei cloni la aggredì. Stephanie lo distrusse con la lancia. Qualcosa si mosse alle sue spalle. Riuscì a voltarsi appena in tempo per parare la daga di Xavier, che sogghignò. «Se avessi saputo subito che eri così forte non avrei mai dubitato di te!»

Stephanie strinse i denti. Lo ricacciò indietro e provò un affondo, ma lui si trasformò di nuovo in nebbia.

«Magari il limone me lo sarei beccato io alla fine, non Konnor. Tu che ne pensi?»

«Penso che non mi sorprende il fatto che tu sia single» sbottò lei. Una copia di Xavier la attaccò di nuovo di fronte, ma questa volta lei non si fece fregare: ignorò il clone e si voltò, un attimo prima di trovarsi il vero Xavier di fronte. Nonostante gli occhiali da sole, riuscì comunque a vedere la sua espressione stupita.

Stephanie schivò la daga e roteò la lancia, colpendolo allo sterno con l’asta e mozzandogli il respiro. Xavier si piegò, boccheggiando, e Steph ne approfittò per centrarlo sotto al mento, ribaltandolo. Il figlio di Ecate cadde a terra con un grugnito, i Ray-Ban che gli saltavano via dagli occhi. Steph gli puntò la lancia alla gola, scrutandolo dall’alto. «Questa volta il tuo trucco non ha funzionato, Xavier. Arrenditi.»

«Heh. Me la sono cercata» sogghignò Xavier, sollevando le mani in segno di resa.

Steph osservò quel sorriso e provò una strana sensazione. Normalmente avrebbe fatto finta di niente, in quella situazione però le venne da pensare a Konnor, e a quello che lui avrebbe detto. Lui non si sarebbe solo accontentato di vincere.

«Lo sai, Xavier, saresti perfino un grande combattente se solo tu non prendessi tutto così alla leggera» lo rimproverò, sentendosi perfino delusa. «Come speri di affrontare i nostri nemici con questa mentalità? Loro non si fermeranno come ho fatto io, lo sai?»

Il sorriso svanì finalmente dal volto del suo avversario. «Certo che lo so, Stephanie. Sto solo giocando un po’. Qual è il problema?»

«Il tempo per i giochi è finito, Xavier. Sarà meglio che tu te ne renda conto al più presto.»

L’espressione di Xavier si indurì. Qualunque cosa volesse dirle, però, fu anticipata dal grido terrorizzato che squarciò l’aria all’improvviso.

 

***

 

Thomas perse il conto di quante mine antiuomo, tagliole per orsi elettrificate, trappole per topi cariche di formaggio esplosivo, reti metalliche e fosse piene di salsa al tabasco avevano schivato. Alcune erano ben nascoste, altre un po’ meno. Per fortuna Paul riusciva a percepirle tutte le anomalie nel bosco prima che si incappassero in esse, altrimenti in un paio di occasioni uno di loro avrebbe rischiato di trascorrere un brutto quarto d’ora. Tommy non aveva mai fatto il bagno nel tabasco, ma era abbastanza sicuro di poter continuare a vivere senza.

Nel frattempo, i rumori dello scontro continuavano ad arrivare in lontananza. Di tanto in tanto si sentivano esplosioni, seguiti da nuvole rossastre che si levavano nel cielo e grida disperate. Dovevano essere i loro sventurati compagni che incappavano nelle trappole di Kevin. A giudicare dalla polvere che emanavano, le mine antiuomo non erano mortali, ma stracariche di polvere urticante. Chiunque fossero i poveracci che le avevano attivate, Thomas si sentì in pena per loro.

Paul si fermò di colpo. «Ci siamo.»

I ragazzi si guardarono tra loro, scambiandosi dei cenni muti d’intesa. Perfino Derek si fece serio. Sapevano tutti cosa fare, dovevano essere veloci e precisi.

Si sporsero lentamente da dietro alcuni cespugli, trovando subito una visuale chiara dell’obiettivo.

Un paio di anni prima, Kevin aveva preso spunto dai romani e aveva costruito nel bosco assieme ai suoi fratelli una piccola roccaforte di lamiere antiproiettile, vetro antisfondamento e anche blocchi di cemento dove custodire la bandiera, con tanto di feritoie, cannoni ad acqua che spillavano dal fiume poco distante e una miriade di altre diavolerie che avevano reso impossibile a chiunque riuscire a passare. Il risultato era stato un numero così grande di lamentele da parte della squadra avversaria, e anche dalle driadi, che Chirone si era visto costretto ad aggiungere una nuova regola apposta per Kevin nel Cattura la Bandiera, ossia quella di non costruire basi nel bosco. Inutile dire che il figlio di Efesto non l’avesse presa affatto bene, ma dopo un paio di maledizioni lanciate verso i suoi critici, che aveva accusato di “non saper perdere”, aveva mollato l’osso.

Perciò, questa volta la bandiera giaceva bene in vista, al di sopra di alcuni scogli in riva al fiume. Il drappo azzurro con il simbolo della casa di Atena ricamato sopra sventolava sospinto dal venticello. Seduto sopra uno scoglio poco distante, girato di schiena, c’era Kevin. Thomas aguzzò lo sguardo, in cerca di altri ragazzi a guardia del posto, ma non c’era nessuno. Il folle che aveva disseminato di trappole il bosco era completamente solo.

Tommy corrugò la fronte. Erano così convinti che le trappole sarebbero bastate a tenerli lontani che non avevano messo nessun’altro di guardia, oppure quel pazzo aveva qualche altro asso nella manica? Considerando i loro avversari, era molto più probabile la seconda opzione.

«Va bene» cominciò a dire. «La bandiera è in bella vista, non possiamo avvicinarci senza farci scoprire. Restate vicini e fate attenzione: non sappiamo cos’ha in serbo quel tizio.»

«Parli come un vero leader, Tommy!» si complimentò Derek, dandogli una pacca sulla schiena, che per fortuna venne coperta dai rumori della battaglia.

Thomas lanciò un’occhiataccia al fratello, ma si sforzò di non rispondergli. Uscirono dal nascondiglio e si avvicinarono lentamente agli scogli. Il fragore del fiumiciattolo coprì i loro passi. Kevin non si voltò nemmeno una volta, rimanendosene piegato su sé stesso, a trafficare con chissà cosa. Fecero attenzione a non calpestare altre trappole, ma non ne notarono nessuna. Arrivarono a pochi metri di distanza e Jonathan sollevò l’arco, mirando verso il loro avversario.

«Oh, no, avete superato tutte le trappole e siete arrivati fino a qui!» cantilenò Kevin all’improvviso, gesticolando con una mano. Si voltò verso di loro e fece un tiro di sigaretta, squadrandoli adirato. Puntò il pollice verso la bandiera e sbuffò una nuvola di fumo mentre parlava: «Accidenti, che sfortuna. Beh, la bandiera è lì. Prendetela e levatevi dalle palle.»

Tommy era troppo sbalordito per far caso alle parole di Kevin. «Ma… ma stai fumando!»

Kevin fece un altro tiro, la punta della sigaretta che si tingeva di rosso incandescente. «E allora?»

«Non si può fumare nel campo!»

«Non me ne frega un cazzo.»

Il figlio di Ermes sussultò. «Le parolacce, Kevin!»

«Oh, giusto, dimenticavo che questo posto è un fottuto asilo nido!» sbraitò Kevin, alzandosi in piedi sopra lo scoglio. Puntò la sigaretta verso di lui. «Che succede, piccoletto, le tue povere orecchie vergini sono sensibili alle parolacce? Scommetto che non sono solo le tue orecchie a essere vergini.»

Con un ultimo tiro consumò tutta la sigaretta, poi gettò il mozzicone nel bosco. E con quella aveva infranto la terza regola del campo nel giro di un minuto. Thomas sapeva che Kevin non era mai stato proprio “ligio al dovere” però quel comportamento era anomalo perfino per lui. Inoltre sembrava davvero arrabbiato. Che diamine gli stava succedendo?

«Vi ho detto di prendere la bandiera e levarvi di torno. Che cazzo state aspettando?! Muovetevi!»

«Okay, okay!» esclamò Derek. «Dei, Kevin, finiscila con queste scemenze da macho. Non sei per niente credibile.»

«Chiudi la fogna! Dei, quanto odio la tua faccia! Vorrei prenderti a pugni finché non diventi viola!»

I ragazzi si guardarono tra di loro per l’ennesima volta, sempre più sconvolti. Thomas era certo che se Chirone lo avesse sentito gli avrebbe infilato una saponetta in bocca.

Sophia sollevò le spalle. «L’avete sentito, no? Prendiamo quella bandiera e andiamocene.»

«To’! Finalmente una con un cervello!»

Incerto, Thomas seguì la figlia di Ares verso gli scogli. Sentì i passi dei suoi compagni che li seguivano. Ancora una volta, non notò trappole attorno alla bandiera, tantomeno rinforzi di Kevin in arrivo. Era davvero da solo, con la bandiera priva di protezione. In qualsiasi circostanza sarebbe sembrata una trappola, ma Kev sembrava davvero furibondo e davvero disinteressato alla faccenda. Forse era per questo che alcune trappole erano state piazzate quasi a caso, come se non si fosse impegnato davvero.

«Non devi fare così, Kev» disse Paul all’improvviso. Thomas si voltò, accorgendosi del figlio di Demetra che guardava Kevin dal basso, serio in volto.  

«Uh? Ma che cazzo vuoi, Birch? Chi ti ha detto niente?!»

Paul sollevò le mani. «Capisco che tu sia arrabbiato, ma questo non è il modo giusto di comportarsi. Hai fatto un errore. Anziché sfogarti sugli altri, dovresti cominciare a lavorare su te stesso e migliorarti, in modo da non farne più.»

«Ma di che stai parlando?!»

«Sarah ha parlato con Sunrise. So tutto, Kev.»

Kevin spalancò gli occhi.

«Ehm, ma di che stanno parlando?» domandò Derek a Jonathan, che scosse la testa.

«Non ne ho la più pallida idea.»

«Ehi, Blake!»

Thomas sussultò, accorgendosi di Sophia che si stava arrampicando sugli scogli. Gli scoccò un’occhiataccia. «Lascia perdere quegli idioti e dammi una mano qui!»

«S-Sì, scusa.» Tommy si avvicinò alla ragazza, mentre raggiungeva la cima.

«Kevin si è venduto, ma i suoi compagni non la prenderanno bene» disse la figlia di Ares. «Adesso ti passo la bandiera, non appena la prendi inizia a correre e… AAAAAAAAAH!»

Sophia cominciò a gridare non appena toccò l’asta della bandiera. Il suo corpo fu colpito da convulsioni e i capelli le si rizzarono sulla testa. Thomas inorridì. «Sophia!»

La ragazza si staccò dalla bandiera, che emise alcune scintille. Cadde all’indietro con un gemito di dolore. Thomas si mise sotto di lei per afferrarla, ma non fu una buona idea: settanta chili di muscoli si schiantarono su di lui, trasformandolo in un piattello. Alcuni versi sorpresi si levarono dal gruppetto. Derek corse verso di loro due.

«Stai bene?» domandò, inginocchiandosi accanto a Thomas.

«Ah… sì, sì, sto be…»

«Non sto parlando con te!» Derek scostò Sophia da sopra di Tommy e le prese il volto tra le mani. «Sofi! Sofi, parlami! Dimmi che sono un idiota! Dammi un pugno, maledizione, fa’ qualcosa!»

Tommy si rimise in piedi, massaggiandosi il collo. Si accorse dello sguardo vacuo di Sophia, con alcuni rivoli di bava che scivolavano dalla bocca. Respirava ancora, ma aveva le mani annerite e puzzava di bruciato. Diversi gemiti sconnessi le uscivano dalle labbra, accompagnati da alcuni scossoni del suo corpo.

«Ah, sì, scusate gente…» Kevin saltò giù dallo scoglio, con una sigaretta nuova in bocca. «… mi sono dimenticato di dirvi del sistema di sicurezza della bandiera. La vostra amica dormirà per qualche ora. Forse giorni.»

 «Hai folgorato Sophia!» urlò Derek.

«E allora? Tutto è lecito in amore e in guerra. E questa, amici miei, è una cazzo di guerra.»

Derek digrignò i denti e si mise in piedi. Paul e Jonathan lo affiancarono, parandosi di fronte al figlio di Efesto, che sogghignò. «Vi consiglio di arrendervi e andarvene adesso, finché siete in tempo, o le cose si metteranno molto male per voi.»

«Ma sentitelo! Ti sei giocato tutte le tue carte, Kev, e sei da solo, noi siamo in quattro. Sei tu quello che deve arrendersi!» esclamò Derek, sollevando la sua spada di Bronzo Celeste.

Kevin ridacchiò e gli fece cenno di farsi avanti. Thomas aveva già visto quella scena, la puzza di trappola arrivava da lontano un chilometro. Gridò a Derek di stare fermo, ma quell’incosciente di suo fratello era già partito. «Immobilizzalo Paul!»

«Subito!»

Paul posò le mani a terra, proprio come a volte faceva Steph quando usava i poteri. Delle radici spuntarono dal terreno, immobilizzando le gambe di Kevin. Il figlio di Efesto grugnì per la sorpresa e provò a muoversi, ma senza risultato. In un solo istante, Derek era di fronte a lui con un’espressione così furiosa che Thomas ebbe un brivido: non l’aveva mai visto così incavolato.

«Adesso ti…»

Kevin non lo lasciò finire. Sollevò le mani e due coltri di fiamme incandescenti fuoriuscirono dai suoi palmi.

«Oh, merda!» gridò Derek, gettandosi di lato per non farsi colpire.

La risata di Kevin si sollevò tra il ruggito delle fiamme, mentre i ragazzi fuggivano in ogni direzione. «Pensavate davvero che vi avrei permesso di farmela sotto il naso? Avete la più pallida idea di con chi avete a che fare?!»

Il fuoco scomparve all’improvviso. Thomas drizzò la testa, accorgendosi dei suoi compagni sparpagliati e arruffati, ma tutti intatti. Kevin li osservava da lontano, con quel ghigno folle stampato in faccia. Sollevò di nuovo una mano, ma questa volta la puntò verso l’alto: altre fiamme si sollevarono dal suo palmo, bruciando la punta della sigaretta. Kevin aspirò, accendendosela, poi fece svanire le fiamme. Fece un lungo tiro, con una calma straziante, poi se la sfilò dalle labbra per far cadere la cenere. Il suo ghigno si distese.

«Io sono Kevin fottuto Bolt. E vi farò a pezzi.» Puntò la mano libera verso di loro e un’altra coltre di fiamme attraversò la radura.

Per fortuna le fiamme non puntarono Thomas, perché era troppo sconvolto per riuscire a muoversi. Kevin… controllava il fuoco?!

«Razza di idiota, incendierai la foresta!» urlò Paul.

«Scusa, non ti sento, il rumore del tuo piagnisteo è troppo forte!» Kevin direzionò i palmi verso di lui, costringendolo a scansarsi di lato.

«Tommy! Che stai facendo?!» gridò Derek. «Non startene lì impalato!»

Il ragazzo si riscosse. Bracciò il falcetto e si fiondò su di Kevin mentre era impegnato con i suoi compagni. Kevin si voltò verso di lui. «Cosa pensi di fare, piccoletto?»

Thomas urlò e si gettò a terra un attimo prima di essere investito da un fiotto incandescente. Uno strano odore seguì le fiamme, mentre la sua pelle sussultava per via dell’aria divenuta rovente all’improvviso. Sembrava… benzina. Sollevò la testa e vide Kevin respingere i suoi compagni, ridendo a squarciagola. Nessuno poteva avvicinarsi senza rischiare di essere incenerito. Jonathan tese l’arco, ma Kevin lo incalzò con le fiamme, senza dargli il tempo di scoccare. Nemmeno Paul stava usando i poteri, probabilmente per paura che le piante prendessero fuoco.

«Posso annientarvi tutti da solo!» urlò Kevin. Continuò ad attaccare senza lasciare loro un attimo di respiro. Più i secondi passavano, più la sua risata cresceva di intensità e più il suo sguardo si faceva folle. Assomigliò in maniera terribilmente inquietante a quella kitsune che Tommy aveva incontrato, Hikaru. Avevano anche il fuoco in comune.  

Il figlio di Ermes non riusciva a credere ai suoi occhi. Kevin aveva sempre avuto il potere del fuoco e non ne aveva mai parlato con nessuno? Com’era possibile?!

Perché?!

«Non avreste dovuto mettervi contro di me!» Kevin puntò le mani al cielo e le fiamme eruttarono, accompagnate dalla sua risata sguaiata. All’improvviso sembrava soltanto interessato a mettersi in mostra. «Adesso, imparerete a…»

Le fiamme smisero di uscirgli dalle mani all’improvviso. Vi fu un ultimo sbuffo soffocato, come quello di un rubinetto rimasto a secco, e poi il silenzio. Il figlio di Efesto spalancò gli occhi, mentre tutti gli altri di fronte a lui si raggruppavano. Ancora una volta, Thomas si accorse di quel forte odore che impregnava l’aria. Non era di semplice benzina, sembrava più di miscela per motosega, chimico e dolciastro.

«U-Un secondo…» Kevin diede loro le spalle e cominciò a ispezionarsi la giacca di pelle che aveva indosso. Imprecò sonoramente e si voltò di nuovo. Puntò ancora le mani e parlò, anche se questa volta il suo tono parve molto più incerto: «Bene, avete capito che con me non si scherza, ma siccome sono generoso, ho… ho deciso che vi lascerò andare, sì. Perciò sparite, altrimenti vi carbonizzo!»

Thomas e gli altri si scambiarono un’occhiata. Paul puntò una mano e un groviglio di radici spuntò dal terreno, intrappolando il figlio di Efesto alle braccia e alle gambe.

«Ehi! Lasciami Betulla! Lasciami!»

Derek si avvicinò a lui e gli strappò la giacca di dosso, rivelando al di sotto di essa un aggeggio attaccato al corpo di Kevin. Sembrava un esoscheletro di plastica e ferro, formato da una piccola tanica di benzina collegata a dei tubicini legati con dei lacci alle sue braccia. Era piuttosto rudimentale, ma Thomas rimase comunque interdetto. Kevin non aveva nessun potere. Era stato quel coso a fargli sparare fuoco.

«Hai costruito tu quest’affare?!» chiese, con un filo di voce.

«No, mia nonna» sbottò Kevin. «Certo che l’ho costruito io! E adesso ridatemelo! È solo un prototipo e se me lo rovinate vi uccido con le mie mani!»

«Ragazzi.» Jonathan era chinato vicino a Sophia. «È messa male. Dobbiamo portarla in infermeria.»

Derek osservò la ragazza svenuta, poi si concentrò su Kevin. «Ti hanno mai detto che sei un sociopatico?» rantolò, gettando la giacca a terra.

«Gne gne gne. Non giocare col fuoco se hai paura di bruciarti» ribatté il figlio di Efesto, sogghignando nonostante fosse stato sconfitto.

Se Tommy non si fosse intromesso, probabilmente Derek lo avrebbe steso con un cazzotto. «Jonathan ha ragione, Derek. Prendiamo la bandiera e portiamo Sophia in infermeria, prima che…»

Venne interrotto da diversi starnazzi provenienti nel bosco. Erano le arpie della sicurezza, che strillavano a tutti quanti di tornare indietro e che la partita era annullata.

«Che cosa?! Che significa che la partita è annullata?!» domandò Derek, incredulo. «Proprio quando avevamo la bandiera!»

«Bah. Che perdita di tempo…» commentò Kevin, con gli occhi direzionati verso il bosco.

«Forse qualcuno si è fatto male» ipotizzò Paul.

«Sì, magari con le trappole di questo qua!» sbottò Derek, indicando Kevin con il pollice.

Thomas non disse nulla, anche lui sbalordito da quel risvolto così improvviso. Ebbe un ricordo della sfida di caccia di qualche mese prima, quella in cui Edward aveva usato la Spada del Paradiso per la prima volta, e una terribile sensazione si fece largo dentro di lui.

Si augurò con tutto sé stesso che si trattasse solo di quello, una sensazione.

 

***

 

Lisa e Tonya si stavano affrontando furiosamente, tra grida e imprecazioni. La figlia di Nike possedeva di gran lunga maggiore forza fisica, ma in quanto ad agilità Lisa era un miglio sopra. Nessuno degli attacchi di Tonya era ancora andato a segno, e si stava stancando, Lisa invece era veloce e resistente. Rosa lo sapeva bene, dopotutto si era allenata un sacco di volte assieme a lei. Non era preoccupata per la sua compagna, anzi, era certa che Tonya non avesse alcuna speranza.

Tuttavia non era a loro due che doveva prestare attenzione, ma a Seth. Lo guardò mentre si avvicinava a lei brandendo quel gigantesco machete di Bronzo Celeste. Si domandò se non se lo fosse fatto produrre dai figli di Efesto apposta per avere quella specie di aura da pseudo serial killer. Quel tizio era una gimmick vivente, però poteva premiare la sua originalità e la sua dedizione al personaggio.

«Così vi eravate messi d’accordo apposta per affrontarci?» domandò. Sorrise divertita al pensiero di quei tizi che si riunivano per discutere chi dovesse combattere chi. «A cosa devo l’onore di essere stata scelta proprio da te, il semidio più temuto del campo?»

«Ero curioso di vederti in azione» rispose Seth, la voce camuffata dalla maschera antigas. «Anche tu sei molto temuta. Dicono tutti che sei una spadaccina incredibile, inoltre sei sfuggita dalle grinfie di quell’essere, e sono certo che per farlo ci sia voluta una forza notevole. Voglio proprio vedere che cosa sai fare. Sappi che non mi tratterrò, perciò fa’ del tuo meglio, Rosa Mendez.»

Un brivido gelato percorse la schiena di Rosa al pensiero di quello che aveva passato per mano di Orochi, ma si sforzò di ignorarlo e di mostrarsi coraggiosa. Fletté le gambe, preparandosi a combattere. «Tutti ti temono. Ma non ti ho mai visto allenarti nell’arena. Secondo me sei solo fumo e niente arrosto.»

Nonostante il viso coperto, Rosa poté giurare che le stesse sorridendo. «Hai un solo modo per scoprirlo.»

Seth scattò. Era veloce, molto più di quanto la sua corporatura avrebbe fatto credere. Rosa non provò nemmeno a parare il suo attacco: scartò di lato e il machete scivolò accanto a lei, fendendo l’aria. La ragazza roteò il busto, mirando al fianco di Seth, ma lui si mosse fulmineo e parò la lama con un gesto rapido e preciso, che la stupì. Indietreggiò appena in tempo per evitare un altro attacco di Seth, che continuò a incalzarla, costringendola a indietreggiare. La figlia di Apollo sentì dolore alle braccia nel tentativo di parare i suoi colpi. Non solo quel tizio era veloce, ma colpiva pure come un camion.

Per un istante, l’immagine di Seth svanì, rimpiazzata da quella di Naito.

«Arrenditi piccola dea.»

Rosa strinse i denti. Scacciò via quel pensiero e si concentrò. Seth era bravo, ma non era allo stesso livello di Naito. Non poteva perdere anche contro di lui, era fuori discussione. Se voleva diventare la migliore combattente, doveva batterlo. Superarlo di forza era fuori discussione e come velocità erano pressappoco identici. Doveva trovare una soluzione alternativa, e in fretta.

Si lasciò caricare di nuovo e questa volta rotolò per schivare il suo avversario. Rosa sgusciò alle sue spalle e mirò alla schiena, ma lui si voltò appena in tempo per parare il suo attacco, le lame che si premevano tra di loro. Seth fece forza con il machete e Rosa si piegò sotto al peso delle sue braccia, incapace di reggere il confronto. Piegò l’elsa e districò le due lame, scansandosi di lato. Seth barcollò in avanti, perdendo l’equilibrio, e Rosa realizzò di aver appena trovato il punto debole che stava cercando.  

Scattò verso di lui e mirò alle gambe; Seth non riuscì a reagire in tempo e fu ferito dietro al ginocchio. Grugnì di dolore, il sangue che zampillava dai pantaloni strappati, ma non demorse e si voltò prima che lei potesse infierire ancora.

«Anf… bel colpo» si complimentò, mentre le lame rimanevano premute tra loro ancora una volta. I suoi occhi scuri si accesero di ammirazione nei suoi confronti. «Come immaginavo, sei davvero abile.»

«Grazie» rispose Rosa, col fiato pesante. Ricambiò lo sguardo del figlio di Nemesi e annuì. «E tu non sei solo fumo.»

Seth ridacchiò. Fletté il polso, utilizzando la stessa strategia usata da lei poco prima, ma Rosa non si fece cogliere impreparata. Saltò all’indietro, un attimo prima di essere di nuovo caricata. Le lame si incrociarono decine e decine di volte, nonostante la ferita Seth non sembrava affatto intenzionato a rallentare, tuttavia Rosa aveva capito come affrontarlo: doveva usare la sua forza contro di lui.

Il figlio di Nemesi si fiondò su di lei. Rosa mulinò la sciabola, respingendo il machete con un colpo secco. Seth si sbilanciò, ma riuscì ancora una volta a deviare la spada prima che lei potesse infierire.

«Sai…» cominciò a dirle, mentre il loro combattimento proseguiva. «… sono felice che tu sia tornata sana e salva.»

Per un istante, Rosa fu colta alla sprovvista da quell’affermazione così improvvisa. Non era la prima volta che la sentiva, certo, ma da lui non se la sarebbe mai aspettata. E come ogni volta che le avevano detto quella frase, lei non seppe come reagire. Cosa doveva rispondere quando le dicevano cose di quel tipo?

“Grazie”? “Sono felice che tu sia felice”? “Anch’io sono felice di non essere morta”?

Il machete balenò di nuovo di fronte a lei. Rosa lo schivò inarcando la schiena all’indietro e sollevò la sciabola. Incrociò ancora una volta lo sguardo di Seth e sorrise. Scattò verso di lui, mirando al fianco sinistro.

«Mi fa piacere saperlo!» gridò, deviando all’ultimo secondo la spada e puntando invece al fianco destro. Non appena incontrò di nuovo il machete di Seth, realizzò che la sua finta non aveva funzionato.

«Devo chiederti una cosa» disse ancora lui.

«Dimmi» rispose Rosa, dopo aver evitato l’ennesimo affondo.

«Sei libera dopo la partita?»

«Che… che intendi dire?»

«Non volevo affrontarti solo per vedere cosa sapevi fare» spiegò Seth, dandole un attimo di tregua. «Volevo anche avere l’occasione di conoscerti meglio. Ti andrebbe di vederci dopo la partita?»

«Tipo… un appuntamento?»

Lui sollevò le spalle. «Una specie.»

«Oh.» Rosa si sentì in tremendo imbarazzo. Non le era mai capitato che qualcuno le facesse una proposta simile. «Mi… mi dispiace davvero, ma in questo momento… preferisco non pensare a queste cose. Vorrei pensare solo ad allenarmi.»

«Peccato.» Seth piegò la testa. Non sembrava particolarmente turbato. «Vorrà dire che…»

«Aspetta un attimo, è per questo che hai voluto affrontarla?!» si intromise Tonya, che nel frattempo aveva smesso di combattere con Lisa e si era messa a guardarli sbalordita. La ragazzona rivolse un sorriso sbilenco al suo compare. «Ma che ti aspettavi, che ti dicesse di sì? Ma ti sei visto?!»

Seth sembrò punto sul vivo. Si guardò le mani e il corpo. «Cosa…? Che ho che non va?»

«Te ne vai in giro conciato come un maniaco! Nessuna ragazza sana di mente ti vorrebbe attorno!»

«Ma…»

Seth si voltò verso di Rosa, come a cercare una sua conferma. Lei pensò di poter andare a fuoco. Sollevò le mani in difesa. «Ascolta Seth, sono sicurissima che tu sia un bravo ragazzo, però…»

«La finite di ciarlare?!» sbottò Lisa, rimasta in disparte. Agitò i pugnali, puntandoli verso di Tonya. «Sbaglio o dovevamo combattere io e te?!»

Tonya sogghignò. «Hai tanta fretta di prenderle, mozzarella italiana?»

«Ma sta’ zitta, vacca.»

«Non parlare nella tua stupida lingua!» tuonò Tonya. «Usa un linguaggio che tutti possiamo comprendere!»

«Ho detto che sei una grassonaOra va meglio?»

«Ma come osi?!» La voce di Tonya si alzò di un’ottava, facendola sembrare reduce da un’aspirata di elio. «Ti trasformo in polpette per gli spaghetti, mozzarella!»

«Bene! Fatti sotto!»

Le due urlarono furiose e si lanciarono all’attacco. Tonya sollevò la mazza, mentre Lisa puntava i pugnali. Un istante prima che collidessero, un altro grido si sollevò tra il bosco, facendole fermare all’istante. La voce era acuta, femminile: «AIUTO! AIUTO!!!»

Tonya e Lisa si osservarono allibite. Rosa sentì il sangue gelarle nelle vene quando lo udì. Chiunque stesse gridando, pareva proprio che la stessero uccidendo.

«Ma questa…» disse Seth, prima di spalancare gli occhi. «… è la voce di Alyssa!»

 

***

 

«Fammi capire bene... hanno scelto te per affrontare me

«Sì, e allora?! Pensi che non possa batterti?!»

Edward osservò Alyssa mentre saltellava sul posto, facendo shadow boxing, e sollevò un sopracciglio. «Senti, hai già appurato che tirarmi addosso le pigne non funziona. Perché non mi lasci semplicemente in pace e vedi se i tuoi compagni hanno bisogno di aiuto? Prendiamo strade divise e chi si è visto si è visto.»

«Scusa tanto, coso, ma non posso farlo. Ho detto che ti avrei fatto a pezzi ed è quello che intendo fare!»

«… coso?» Edward sospirò, afferrandosi la radice del naso. «Senti, quanti anni hai, quattordici? Ascolta il mio consiglio e levati dai piedi, altrimenti…»

Un’altra pigna lo centrò in piena faccia. Edward grugnì e indietreggiò stordito, mentre di fronte a lui Alyssa lo squadrava infastidita. «Per prima cosa, ne ho sedici, coso! E secondo, anche se ne avessi dodici ti farei comunque letteralmente a pezzi!»

Il figlio di Apollo ne aveva proprio abbastanza. Afferrò di nuovo l’arco e prese la mira senza perdere altro tempo in chiacchiere inutili. Alyssa strillò come una banshee e smise di tirare pugni al vuoto. Edward sogghignò, ma un istante prima di scoccare qualcosa gli cadde sulla testa, stordendolo. La freccia partì comunque, ma mancò il bersaglio di un chilometro, abbattendosi invece contro un albero. Per fortuna, perché Edward aveva mirato alle gambe di Alyssa, ma se per caso avesse sbagliato e l’avesse trafitta al petto di sicuro avrebbe avuto un bel po’ di spiegazioni da dare.

La mocciosa si rese conto di essere stata mancata e gli rivolse un sorriso spavaldo. «Bella mira, genio!»

Edward digrignò i denti. Si accorse della ghianda caduta ai suoi piedi, probabilmente precipitata da un ramo sopra di lui. Incoccò un’altra freccia e fece un passo avanti per evitare altre sorprese spiacevoli. Alyssa strillò di nuovo. «No, aspetta, scherzavo!»

«Sta’ zitta e fatti colpi…» Edward inciampò su qualcosa, schiantandosi a terra. La freccia partì comunque e andò a schiantarsi con un tonfo sordo, finendo pure quella a fare compagnia alla sorella sopra un albero sfortunato.

Il ragazzo si rialzò sui gomiti e si accorse di essere inciampato sopra una radice che sbucava dal terreno. «Ma è uno scherzo?» sbottò, non credendo alla propria sfortuna.

«Oh, mamma…» mormorò Alyssa, sbalordita. Si guardò le mani. «Sta… sta funzionando?!»

Edward non capì di cosa stesse parlando, non che gliene fregasse comunque qualcosa. Afferrò l’arco per quella che gli sembrò la trecentesima volta e scattò in piedi. Questa volta, prima di scoccare si impigliò con le stringhe delle scarpe e inciampò di nuovo con un grido furibondo.

Mentre si massaggiava la tempia, dolorante, sentì la risata sguaiata di Alyssa. «Funziona! Funziona! Sono invincibile!»

«Ma che diavolo stai dicendo?!» tuonò Edward, stanco di sentire quella vocetta fastidiosa.

Lei gli puntò contro l’indice. «Non puoi sconfiggermi! Mia madre mi sta letteralmente proteggendo! Sono letteralmente baciata dalla fortuna!»

«Smettila di ripetere “letteralmente”!»

«Io non smetterò proprio un bel niente finché non ti sarai letteralmente gettato a terra implorando la mia pietà!»

«MAI.»

«Come ti pare, coso. Guarda, posso batterti pure da bendata!» Alyssa tirò fuori una fascia dalle tasche e se la legò sopra agli occhi, assomigliando in tutto e per tutto a una delle statuine bronzee della madre. Allargò le braccia e il sorriso. «Avanti, coso, prova a colpirmi ora se ci riesci!»

Con immenso piacere.

Edward raccolse l’arco da terra e lo caricò con tutta la forza che aveva, pregustando il momento in cui quel piccolo sgorbio avrebbe supplicato la sua misericordia. La corda dell’arco si spezzò e una delle estremità rimbalzò sulla sua faccia, centrandolo sulla guancia. Ululò di rabbia e di dolore, atterrando sulla schiena sul manto erboso del bosco. Veloce come il vento gli saltò via dalle mani.

Da qualche parte imprecisata attorno a lui, le risate di Alyssa crebbero di intensità. «Sei letteralmente senza speranze, coso! Non l’hai ancora capito? Non puoi battermi! Ho la fortuna dalla mia parte!»

In quel momento, con la voce di quella rompiscatole che si insinuava nelle orecchie, il bruciore alla guancia e la consapevolezza di aver di nuovo rotto il suo arco, Edward desiderò di scomparire. Rimase a terra a osservare il cielo azzurro e sereno con il peso della sconfitta e dell’umiliazione che gravavano su di lui. Fatto a pezzi prima ancora di combattere. Doveva essere il suo record personale di bassezza.

«Allora, ti arrendi?»

La voce di Alyssa lo folgorò come un fulmine. Edward drizzò la testa ricacciando le imprecazioni e non credette ai propri occhi: Alyssa stava oscillando i fianchi e le braccia da destra verso sinistra, in maniera alternata.

«Che stai facendo?!»

«Il ballo della vittoria, no?»

«Smettila! Smettila subito!» gridò Edward, a un passo dallo strapparsi i capelli per la rabbia.

Alyssa si voltò, agitando il sedere di fronte a lui. «Perché non mi fai smettere tu, babbeo!»

«BABBEO?!»

Quello doveva essere un incubo. O forse Edward era ancora morto, ma anziché nello Yomi si trovava nell’Inferno dantesco, in un girone dedicato apposta a lui.

«Oh, sì! Oh-oh! Guarda che mosse!» Alyssa continuò a borbottare e a mugugnare frasi incomprensibili, mentre proseguiva con quello che era senza ombra di dubbio il ballo più stupido di tutti i tempi. «Te l’avevo detto che non avevi speranze!»

«Non… ho speranze… eh…?» rantolò Edward, con gli occhi che bruciavano e un rivolo di bava che scivolava dalla bocca. Si rimise in piedi e tese la mano verso il vuoto: l’aria sfarfallò, poi un fascio di luce illuminò la radura. Un secondo dopo, stava stringendo Ama no Murakumo tra le mani. Avvertì un formicolio alla schiena non appena entrò in contatto con quella spada. Sogghignò oltre i limiti umani conosciuti e si avvicino ad Alyssa, che stava continuando a ballare, girata di schiena e bendata.

«Adesso… ti faccio vedere io…» sussurrò, prima di sollevare la spada.

 

 

 

 

 

 

 

Salve gente. Prima di tutto, voglio chiedervi scusa. Vi chiedo scusa per avervi fatto aspettare così tanto e vi chiedo scusa per questo scempio di capitolo (lol). Penso che uno dei motivi per cui ci ho messo così tanto per aggiornare era proprio perché questo capitolo non mi piaceva per niente. Credo di aver fatto il passo più lungo della gamba, ci sono troppi personaggi, troppe cose che accadono tutte insieme, e temo di non aver dato il giusto spazio a tutto, di aver fatto sentire i vecchi protagonisti “meno importanti” di quello che dovrebbero essere, e soprattutto temo anche di avervi, come dire, “sovraccaricati” coi personaggi. 

Comunque sia, non tutti i mali vengono per nuocere, grazie a questi ultimi due capitoli ho capito che:

1: il pov generale non mi piace per niente

2: in questo capitolo c'erano troppi personaggi

Perciò potete stare tranquilli, il pov generale non tornerà più e i personaggi non dico che verranno abbandonati, ma verranno approfonditi in futuro, a tempo debito, in maniera ben fatta. Spero, tuttavia, che nella sua bruttezza questo capitolo vi abbia intrattenuti. Lol. Comunque sia, ci saranno ancora 2 capitoli, con Edward come protagonista, e poi la raccolta sarà ufficialmente conclusa. Alla fine questa storia è diventata più una… terra sperimentale? Per testare nuovi pov, mostrare qualche personaggio extra e cose del genere. 

Dovevano esserci missing moments e altri retroscena, da pubblicare mentre lavoravo ad altre storie, ma poi con la stesura dell’Elisir di Lunga Vita, e ora del Velo Invisibile, mi sono ritrovato ad aggiornare in maniera costante, quindi non c’era più bisogno di questa storia “tappabuchi”. Tuttavia, è una storia che avrà comunque la sua importanza, per quello che succederà in futuro. Sì perché il Velo Invisibile non sarà la fine della saga, ma penso che questo fosse già chiaro. 

In ogni caso, spiegherò meglio cosa ho in mente in futuro, quando avrò concluso questa storia una volta per tutte. Fino ad allora, grazie mille per aver letto, grazie per la pazienza e grazie a Farkas per aver recensito l’ultimo capitolo. Alla prossima!

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Capitolo 10
*** Cattura la bandiera (pt3) ***


10

Cattura la bandiera (pt3)

 

 

Edward si avvicinò ad Alyssa brandendo Ama no Murakumo, pregustando il momento in cui lei avrebbe implorato di essere risparmiata.

Un secondo prima di abbattere la sua furia su di lei si fermò. Sbatté le palpebre, guardandola mentre continuava a ballare, girata di schiena, ignara di tutto.

Ma che cavolo sto facendo? 

La spada svanì proprio com’era apparsa, in un scintillio di luce. Edward diede un’ultima occhiata ad Alyssa e scosse la testa. Le diede le spalle, raccolse il suo povero arco da terra e si allontanò nel bosco, mentre quella rompiscatole continuava a schiamazzare e a deriderlo.

«Che perdita di tempo» mugugnò, mentre cercava la via del ritorno. Era già un eroe agli occhi di tutti, praticamente, che cosa diamine se ne faceva di vincere quella stupida partita? Il suo spiacevole incontro con Alyssa gli aveva fatto venire voglia di posare le armi e andarsene in mensa a divorarsi una pizza gigante.

E poi magari consolarsi un po’ con Nat.

L’ultima volta che era stato nel bosco, era stato quando aveva vinto la sfida di Caccia – non gli importava cosa dicessero gli altri, per lui uccidere sei scorpioni da solo era una vittoria a tavolino – perciò non aveva la più pallida idea di dove fosse. Visto da fuori il bosco era grande, dall’interno era pure peggio.

Attraversò alcune fronde e sbucò di fronte a una parete rocciosa altissima. Doveva essere la montagna con dentro il Bunker Nove. E se non ricordava male, il Bunker Nove era nei meandri del bosco. Sospirò profondamente, esausto. Aveva camminato per tutto il tempo verso la direzione sbagliata.

Un brivido gelato gli percorse la schiena all’improvviso, come se una mano di ghiaccio l’avesse appena accarezzato. Udì un fruscio e si voltò di scatto, accorgendosi di qualcosa che si muoveva dietro i cespugli. All’inizio pensò che si trattasse di Alyssa che l’aveva inseguito, e anche se non l’avrebbe mai ammesso, quel pensiero lo spaventò non poco, invece con suo enorme stupore un altro volto familiare fece la sua grandiosa apparizione, un altro volto che avrebbe preferito non vedere.

«Buck?» domandò Edward, allibito. «Che diamine ci fai qui?»

Buck non rispose. Rimase a fissarlo cupo in volto, le mani che si contraevano. Aveva un aspetto perfino peggiore di come lo ricordava, con una barba incolta e i capelli rasati male che stavano ricrescendo a ciocche ispide. Gli occhi erano due fosse nere, con borse che parevano uscite da un negozio d’abbigliamento. Nonostante non avesse partecipato alla partita, aveva comunque indosso una cotta di maglia e la sua ascia/martello appesa alla cintura. Edward si accorse della sua espressione, delle vene tese sul suo collo e delle dita che formicolavano.

«… ti prego, Buck. Non dirmi che sei qui per fare a botte» disse, con voce stanca. «Non ho tempo da perdere pure con te.»

«Andava tutto bene prima che arrivassi tu…» rantolò Buck.

Il figlio di Apollo alzò gli occhi al cielo, non credendo alle proprie orecchie. «Non sta succedendo davvero. Per favore, dimmi che non sta succedendo davvero.»

Buck si avvicinò a lui, sgranchendosi il collo. «Per colpa tua ho perso tutto. La mia ragazza, i miei amici, i miei fratelli…»

«Ok, sta succedendo davvero.» Edward sospirò di nuovo. Gli sembrava di non fare altro, ultimamente. Perché tutti dovevano essere così tanto fastidiosi?

«Senti, coso, io non ho fatto proprio niente» sbottò, prima di spalancare le palpebre. L’aveva davvero chiamato “coso”?

«Hai fatto tutto da solo» riprese a dire. «Hai trattato tuo fratello come spazzatura e lui ti ha fatto saltare i denti. Hai messo le mani addosso a Jane e lei ti ha lasciato. Ti sei comportato come un autentico stronzo e tutti hanno iniziato a odiarti per questo. Sono certo che ora ti mancano i tempi in cui governavi incontrastato, ma sappi che nessuno ti ha mai rispettato per davvero. Se vuoi accusare qualcuno per tutto quello che ti è successo, incolpa te stesso.»

Lo scimmione strinse i pugni, parandosi di fronte a lui. Edward ricambiò il suo sguardo, abbozzando un sorrisetto. Avvertì il potere di Ama no Murakumo fremere dentro di lui e fu tentato di sguainare la spada e fargli passare la voglia di fare il duro, ma preferì restarsene buono. Non valeva la pena di abbassarsi al suo livello. «Torna a casa, Buck. Non fare cose di cui potresti pentirti. Tutti ti odiano già abbastanza.»

E detto quello, cominciò a camminare, passandogli accanto. Buck rimase immobile, lo sguardo pesto e i pugni contratti. Per un secondo soltanto, Edward commise l’errore madornale di pensare che quello stupido gli avesse dato retta. Poi si ritrovò la sua mano serrata sul suo braccio e fu costretto a voltarsi a forza.

«Senti, idiota…» disse Edward, tornando a fronteggiarlo. «… non te lo ripeterò ancora. Lasciami stare altrime…»

Un dolore lancinante gli mozzò il respiro. Spalancò gli occhi e la bocca, avvertendo una fitta atroce salire dallo stomaco e diramarsi in tutto il corpo, paralizzandolo. Riuscì ad abbassare appena lo sguardo, accorgendosi del pugno di Buck premuto sul suo addome, nel punto esatto in cui aveva la cicatrice lasciatagli da Izanami.

Boccheggiò, tentando di parlare, ma non gli uscì neanche una sillaba. Provò a muoversi, ma il corpo non rispondeva ai suoi comandi. Si accorse del ghigno di Buck. «Ma allora è vero…» rantolò, prima di sferrargli un altro pugno.

Edward emise un grido soffocato e crollò in ginocchio, premendosi una mano sullo stomaco. La vista gli si ricoprì di macchie nere. In mezzo a loro, si accorse di Buck che lo scrutava dall’alto con quel sorriso sadico che arrivava da orecchio a orecchio. «… lo stomaco è il tuo punto debole…»

Camminò attorno a Edward con una calma straziante. Sicuramente si stava godendo la vista e Edward lo odiò per questo. Odiò il fatto che fosse riuscito a ferirlo in quel modo, odiò apparire così indifeso di fronte a lui, ma non poteva fare nulla, il dolore era troppo forte. Tentò di concentrarsi, di far apparire Ama no Murakumo, ma venne colpito ancora una volta, questa volta con un calcio. Cadde sulla schiena con un altro urlo strozzato, i polmoni in fiamme e il respiro che gli mancava. La vista era appannata, non riusciva a vedere nulla. Tremando, provò a coprirsi la ferita sullo stomaco, ma Buck scostò la mano e sferrò un altro pugno, facendogli inarcare la schiena. Una risata si sollevò, distorta e ovattata, ma la sentì appena a causa del fischio nelle sue orecchie.

«Finalmente abbassi la cresta» gracchiò Buck dall’alto, le spalle che si alzavano e abbassavano per via della risata.

Edward avrebbe voluto alzarsi e squartarlo con Ama no Murakumo. Avrebbe voluto urlare, mandarlo a quel paese, ma non poteva. Era pietrificato, il dolore era così forte da essere insopportabile. Nemmeno quando Campe gli aveva dilaniato la faccia si era sentito così. Gli sembrava di essere di nuovo nello Yomi, quando… quando…

Quando…

L’immagine di Buck sfarfallò. Una donna vestita con un kimono sporco di sangue e il viso cadaverico sogghignò verso di lui.

«Te l’avevo detto, Edward Model. La tua sofferenza è lungi dall’avere fine.»

Edward digrignò i denti. Fece leva sui gomiti, ma venne colpito di nuovo allo stomaco, questa volta così forte che riuscì a gridare anche se col fiato mozzato. Sentiva la maglietta fredda e bagnata, brividi gelati gli pervadevano il corpo, facendolo fremere. Rovesciò la testa all’indietro e gli sembrò di morire. 

Buck rise, colpendolo ancora. Nonostante gli fosse impossibile capire cosa stesse succedendo, la consapevolezza di quello che stava accadendo cominciò a farsi largo dentro di lui, avvinghiandosi alle sue ginocchia. Se avesse continuato a colpirlo in quel modo l’avrebbe ucciso. E quel pazzo non sembrava affatto intenzionato a fermarsi.

In un angolo della sua mente, gli sembrò di ricordare che Buck non poteva sapere della sua ferita allo stomaco. Solo Chirone, Rachel l’oracolo, i suoi amici e Natalie ne erano al corrente, ed era certo che nessuno di loro fosse andato a dirlo proprio a lui. 

E allora come faceva a saperlo?

«L’unico cantastorie buono, è quello che tiene la bocca chiusa» sibilò ancora Buck. Edward lo vide mentre sollevava l’ascia e avvertì il sangue gelarsi nelle vene.

Alcune lacrime cominciarono a scivolargli lungo le guance, forse per il dolore, forse per la paura, mentre la lama affilata dell’ascia brillava sotto la luce del sole.

«Mi hai portato via tutto…» rantolò Buck, rivolgendogli ancora una volta quel ghigno folle. «… adesso io farò lo stesso!»

Ti prego, avrebbe voluto gridare Edward.

Ti prego, non farlo. 

Non poteva. Non aveva né voce, né forze. Non aveva più niente. Era impotente di fronte al suo carnefice.

Ancora una volta, Izanami apparve di fronte a lui, sogghignando crudele, il volto invaso di larve e fiumi di sangue.

«Avanti, Edward Model. Lasciati andare. Vieni verso di me. Segui il suono della mia voce…»

L’oscurità cominciò a ricoprire ogni cosa. La voce della donna era calma, suadente. Ascoltandola, a Edward sembrò di sentire meno dolore. E forse, se fosse andato verso di lei, sarebbe stato ancora meglio. Bastava solo lasciarsi andare, seguire quella voce. Tutto sarebbe andato meglio. Tutto quanto sarebbe…

Un grido straziante si sollevò in aria all’improvviso, facendogli spalancare gli occhi. Vide Buck sobbalzare, l’ascia ancora alzata, e voltarsi verso un punto impreciso alle sue spalle.

«Che stai facendo, psicopatico?! Lascialo stare!»

Quella voce… quella voce era familiare.

Buck ringhiò. Lanciò un’ultima occhiata a Edward, poi rinfoderò l’ascia e corse via. Al suo posto, apparve un viso scuro. «Ehi! Ehi, coso!»

Il figlio di Apollo rimase immobile, boccheggiante, incapace di credere ai suoi occhi. Forse era impazzito a causa del dolore. Cominciò a chiudere le palpebre, pensando che forse con una dormita tutto sarebbe passato. Si sarebbe riposato, si sarebbe svegliato, tutto sarebbe tornato alla normalità.

Vi furono un sibilo e uno SCIAF.

Edward riaprì gli occhi, con la guancia che bruciava.

«Non osare morire proprio adesso, coso! Poi danno la colpa a me! Avanti, parlami! Dì qualcosa, stupido idiota!»

«Maledetta… mocciosa…»

Alyssa fece un verso sollevato. «Bene, sei ancora tra noi.» Drizzò la testa e cominciò a urlare rivolta al bosco: «Aiuto! AIUTO! AIUTO!!!»

A Edward sembrò di avere le orecchie che sanguinavano. «Finiscila… di sbraitare…»

«Zitto, coso! AIUTO!!»

Uno stormo di passi provenne oltre la sua testa. Un grido terrorizzato lo seguì: «Edward!»

Anche questa voce era familiare. Qualcuno spinse via Alyssa per chinarsi sopra di lui. Non appena la vide, Edward riuscì a sorridere.

«Hermana…» sussurrò, incrociando gli occhioni spaventati di Rosa. Quel viso gli fece capire che il peggio era passato. Sua sorella era lì. Lo avrebbe protetto.

Era al sicuro.

«Resisti, Edward!» Rosa si chinò su di lui, prendendogli il volto tra le mani e sollevandogli la testa. «Resta con me, okay! Resta con me!»

«O… Okay…»

Ciò che accadde dopo fu una serie di immagini, voci e momenti indistinti. Volti apparvero di fronte a lui, urla di sorpresa e versi sconnessi si accavallarono tra di loro.

Riconobbe la stanza della Casa Grande in cui si era svegliato molto tempo prima, assieme al viso angosciato di Chirone che medicava le sue ferite, assieme a Jonathan e altri suoi fratelli della casa di Apollo. Non pensava di meritare così tanta attenzione da così tante persone.

Vide anche altre persone. Thomas, Lisa, Stephanie, perfino la piccola rompiscatole di Alyssa. E poi, Natalie.

Quando la vide si sentì mille volte meglio. Il dolore, la paura, tutto quello che era successo passò in secondo piano. Il pensiero di averla quasi persa occupò tutto il resto, facendogli ringraziare di essersela cavata anche quella volta.

«Non mi lasciare, testone…» disse proprio lei, con voce incrinata. Sembrava stesse piangendo, ma non poteva dirlo con certezza. Era tutto confuso, tutto sfocato. Il calore della sua mano, però, era riconoscibile tra mille.

«S… Scherzi? Io non… vado da nessuna parte…»

Nata si chinò su di lui per accarezzargli una guancia, bagnandolo con le sue lacrime. O forse anche lui stava piangendo per il sollievo di essere ancora lì.

«Starà bene» disse qualcuno all’improvviso, forse Chirone, proprio a lei. «Per fortuna abbiamo agito in tempo.»

E mentre Edward osservava Natalie piangere di nuovo, questa volta anche lei per il sollievo, in quella stanza assieme a Chirone, i suoi amici e i suoi fratelli, realizzò che finalmente poteva chiudere gli occhi.

 

***

 

Si risvegliò con la sensazione di essere appena stato infilato in un frullatore. Aveva un saporaccio in bocca, sentiva la testa leggera e pensò di poter vomitare anche l’anima. I suoi ricordi erano confusi. Aveva ancora impresso nella mente il sorriso di Buck mentre lo colpiva allo stomaco, il dolore atroce che l’aveva paralizzato e la voce di quella donna che gli intimava di arrendersi.

Edward serrò la mascella. Buck. Quel bastardo.

Fece per alzarsi, ma venne travolto da una fitta così forte che venne di nuovo ancorato al materasso. Gli scappò un grugnito e qualcuno lo sentì.

«Edward!»

Quando udì quella voce, il ragazzo si voltò di scatto. Vide Natalie al suo capezzale, gli occhi spalancati e l’espressione stupita.

«Stai bene…» mormorò, accarezzandolo di nuovo. Dal modo in cui lo disse, parve che un peso da un milione di chili le fosse stato tolto dalle spalle.

Il tocco della sua mano lo fece rabbrividire. Era calda e morbida, come sempre. Ricambiò lo sguardo della sua ragazza e riuscì appena a intrecciare le dita con le sue. «Certo… che sto bene… ci vuole ben altro per fermarmi.»

Le labbra di Nat tremolarono. Annuì senza rispondergli, con alcune lacrime che scivolavano dagli occhi.

«Dov’è… Chirone?» domandò Edward, parlando a fatica. «Devo dirgli cos’è successo… Buck mi ha attaccato e…»

«Sappiamo già tutto» lo anticipò Natalie. «Alyssa ci ha raccontato quello che ha visto.»

Edward schiuse le labbra. Alyssa, la maledetta mocciosa… era vivo grazie a lei. Lei. Se solo non fosse stato così arrabbiato, si sarebbe sentito in imbarazzo per essersi fatto salvare dalla stessa persona che per poco non l’aveva mandato al manicomio.

«E… dov’è Buck?»

Natalie scosse la testa. «Non lo sappiamo. È scappato nel bosco dopo che Alyssa l’ha visto. Tua sorella, Konnor, Stephanie e diversi altri sono andati a cercarlo, ma non sono ancora tornati.»

«Che cosa?!»

«Non fare quella faccia.» Natalie ridacchiò, anche se la sua espressione angosciata non svanì. «Fossi in te non mi preoccuperei per loro. Tua sorella sembrava pronta a uccidere chiunque l’avesse guardata di traverso. E anche Konnor era furibondo. Buck deve pregare che non lo trovino.»

Edward pensò a Rosa, al modo in cui si era comportata quando l’aveva visto ferito, e si mordicchiò le labbra assorto. Sua sorella sapeva il fatto suo, ne era al corrente, però Buck era comunque armato e voleva ucciderlo. Era pericoloso e finché non avrebbe rivisto tutti quelli che erano andati a cercarlo al sicuro con i suoi stessi occhi avrebbe continuato a sentirsi in pensiero.

Era stato un vero idiota, se erano finiti in quella situazione era solo colpa sua. Avrebbe dovuto usare Ama no Murakumo subito e far passare la voglia a quel verme di fare scemenze. Però se l’avesse fatto forse avrebbe solo ritardato l’inevitabile. Buck voleva ucciderlo, non c’erano né sema, né perché per come. Qualunque fosse il motivo che l’aveva spinto a tanto non aveva importanza, stava per trasformarsi in un assassino e forse, se non l’avesse fatto quel giorno, l’avrebbe fatto comunque.

Da una cosa del genere non si tornava indietro e Buck doveva saperlo meglio di chiunque altro.

La cosa che preoccupava di più Edward era un’altra, però. Lui sapeva del suo punto debole. Com’era possibile? Chi gliel’aveva detto?

«Tieni.» Natalie gli passò un bicchiere di nettare, interrompendo i suoi pensieri. «Chirone mi ha detto di dartene un po’ quando ti saresti svegliato.»

Edward sorrise e prese il bicchiere. Il nettare lo fece sentire meglio, anche se la sensazione di vertigini non lo abbandonò.

«Sei… sei rimasta con me per tutto il tempo?» domandò a Natalie, dopo aver posato il bicchiere.

Lei arrossì. «Certo, testone. Che domande fai?»

Il ragazzo ricambiò il suo sguardo. Cercò la sua mano e lei gliela strinse con forza. «Grazie» mormorò.

«Per cosa? Era il minimo che potessi fare.»

«Per me significa molto» disse Edward, alzando le spalle.

Un tenue sorriso nacque sul viso di Natalie. «Beh… prego, allora.»

Edward lo ricambiò. Avrebbe voluto baciarla, ma si sentiva troppo debole per muoversi. Avvertì il cuore battere all’impazzata mentre la guardava. Quella ragazza era tutto per lui. Era bella, era gentile, era divertente. Era perfetta. Non sapeva cosa avrebbe fatto senza di lei.

La mano di Natalie si strinse con più forza alla sua all’improvviso. La vide abbassare lo sguardo, l’espressione spaventata che riappariva sul suo volto.

«Nat? Che succede?» chiese, allarmato.

Lei si strinse nelle spalle, mordendosi un labbro. «Ho… ho avuto paura» spiegò a fatica.

«Nat…» Edward sorrise di nuovo. «Sto bene. Non vedi? È tutto a posto adesso.»

«Non è tutto a posto, Edward» sussurrò ancora Natalie, scuotendo la testa. Sollevò di nuovo lo sguardo e Edward si accorse dei suoi occhi venati di rosso. Sembrava che stesse per crollare da un momento all’altro.

«Che… che vuoi dire?» domandò Edward.

La ragazza gli accarezzò di nuovo la guancia con la mano libera. «Quando… quando siete tornati da San Francisco, tu eri l’uomo del momento, Edward. Avevi affrontato un esercito, salvato tua sorella e restituito quello che era stato rubato tutto da solo. Non si faceva altro che parlare di te. Eri… eri il nostro nuovo grande eroe. E quando… quando ci siamo messi insieme, ho pensato: “Wow. Lui è l’eroe e io… io sono la sua ragazza. Poteva scegliere chiunque altra, ma alla fine ha scelto me.”»

«Direi che sei stata più tu a scegliere me…» gracchiò Edward.

Natalie abbozzò un sorriso, ma svanì quasi subito. L’angoscia nei suoi occhi invece rimase immutata. «Il punto è che… la guerra era stata evitata, tu avevi completato l’impresa, eri tornato, stavi bene, tutti voi stavate bene. In quella notte, la notte della festa, ho pensato che… che fosse tutto finito. Che sarei diventata la tua ragazza e che non avremmo dovuto più preoccuparci di niente. Poi però… ci hai parlato di quello che ti è successo.»

Un profondo, tremolante sospiro uscì dalla sua gola. «Quando… hai detto di essere morto, quando ho saputo che tu eri stato “scelto” da Amaterasu… ho capito che invece non era finito proprio niente. Sei stato scegli dagli dei. Forse arriveranno altri nemici e tu… tu dovrai affrontarli, perché sei tu l’eroe adesso. E… quello che è successo oggi… mi… mi ha fatto paura.»

Alcune lacrime le scivolarono lungo le guance. «Sei l’eroe ma… ma sei anche il mio ragazzo, Edward. Quando… quando ho visto tua sorella e gli altri portarti indietro io… io…» Le scappò un singhiozzo. «Ho creduto che fossi morto. E… e anche se stai bene adesso, ho… ho paura per il futuro. Per il tuo futuro. Non… non voglio che ti succeda qualcosa, Edward. Non voglio perderti.»

«Nat…» Edward si issò a sedere e arrivò fino al suo viso. Le sue labbra erano umide e si accorse che stava tremando. Quando si separò da lei, vide il suo sguardo genuinamente spaventato e le accarezzò la guancia.   

Non si era mai sentito “utile” a qualcosa, nemmeno indispensabile, nemmeno… niente. Non si era mai sentito niente prima di arrivare in quel posto, il Campo Mezzosangue.

Tutto era cambiato. All’inizio aveva creduto di odiare quel posto ma poi aveva capito che invece lo amava, e voleva proteggerlo. Si era affezionato a quel luogo, ai suoi abitanti, a quel mondo. Fuori da quei confini, Edward si era sempre sentito di troppo, fuori posto, troppo scomodo per le altre persone. Lì dentro, invece, era a casa. E casa comprendeva anche lei, Nat, la ragazza migliore che avrebbe mai potuto trovare.

«Non mi succederà nulla, Nat. Non me ne andrò. E non mi perderai.»

Natalie ricambiò il suo sguardo. «Lo… lo prometti?»

«Sì. Te lo prometto.»

Lei l’accarezzò. La sua espressione cambiò, facendosi più serena. Edward le asciugò le lacrime e la incoraggiò con un sorriso determinato.

Naito gli aveva detto una cosa, l’ultima volta che l’aveva visto. Izanami avrebbe ancora cercato di reclamare la sua anima, proprio come aveva fatto, ma lui doveva resistere, combattere per le persone a cui voleva bene.

E l’avrebbe fatto.

«V-Va bene, Edward» mormorò Natalie, prima di rivolgergli un piccolo sorriso. «Grazie.»

«No, Nat. Grazie a te.» Fece per baciarla ancora, ma una fitta allo stomaco lo fece sussultare. Si accasciò sul materasso grugnendo di dolore. Natalie lo chiamò allarmata, ma lui alzò una mano, riuscendo ad abbozzare un sorriso sofferto. «Forse… forse è meglio che mi rimetta in sesto prima di rifare certe cose…»

«Sì, forse è meglio. Mi servirai tutto intero e al pieno delle energie» convenne lei, accarezzandogli di nuovo la guancia. Edward ridacchiò, lasciando che il suo tocco vellutato lo rinvigorisse.

Il cigolio della porta che si apriva li fece trasalire entrambi. Edward pensò che Chirone fosse tornato a controllarlo, o magari Rosa, o i suoi amici. Insomma, si aspettò tutti, tranne che la persona che invece entrò. Rimase a fissare sbigottito la figura esile di Jane che faceva capolino da dietro la porta. La figlia di Afrodite arrossì non appena si accorse dei due ragazzi così vicini tra loro. «S-Scusate, non volevo disturbarvi. Volevo solo… vedere se ti eri svegliato. Me… me ne vado subito.»

Cominciò a chiudere la porta.

«Jane, aspetta!» Edward tese una mano verso di lei, ricevendo una fitta di dolore in risposta. Fece un verso di dolore un po’ troppo forte, che fece preoccupare di nuovo Natalie, ma lui le disse che era tutto a posto. «Jane…» chiamò di nuovo.

«S-Sì?» Jane spalancò la porta, apparendo sull’uscio. Aveva ancora addosso l’armatura, i capelli sciolti, molto più disordinati di quanto li avesse mai visti su di lei, gli occhi invece erano arrossati come se avesse pianto.

Proprio come quella notte. A Edward era bastato solo un istante per scorgerli e per capire cosa stesse pensando in quel momento.

«Non è stata colpa tua, Jane» disse lui, a fatica a causa del dolore. «Okay? Buck non mi ha attaccato per colpa tua. Non è stata colpa tua.»

Le labbra di Jane tremolarono e un’altra lacrima le scivolò lungo la guancia candida. Annuì mentre se l’asciugava.

«Sono… sono felice che stai bene» sussurrò, con voce tremolante. Inspirò a fondo e si ricompose, strofinandosi le mani sopra il corpetto dell’armatura. Diede un rapido sguardo a Natalie. «Scusa se… se ho disturbato. Vi lascio soli ora.»

Natalie strinse con forza la mano di Edward. «Nessun problema. Grazie per essere passata.»

Jane lanciò un ultimo sguardo verso di Edward, che le rivolse un cenno del capo per rassicurarla. Sembrò voler dire altro, ma alla fine cambiò idea, perché si richiuse la porta alle spalle. Il suono dei suoi passi si smarrì nel corridoio quasi subito.

Il figlio di Apollo osservò la porta ancora per qualche secondo, nel caso in cui lei decidesse di tornare. Quando capì che ormai si era allontanata, si riaccomodò contro la testiera del letto con un altro verso sofferente. Quel bastardo di Buck l’aveva conciato molto peggio di quanto avrebbe mai potuto immaginare.

«Che significa?» domandò Natalie all’improvviso.

«Cosa?»

«Perché Buck avrebbe dovuto attaccarti per colpa di Jane?»

«È… una storia complicata. Ho promesso a Jane che non ne avrei parlato con nessuno.»

«C’entra con quello che è successo la notte della festa?»

Edward rimase a bocca aperta. «E tu come…»

«Avevi detto qualcosa del genere a Buck, quella sera, quando l’hai umiliato di fronte a tutti» disse Natalie, con un sorrisetto compiaciuto. «Avevi detto che… Jane aveva bisogno di aiuto e che tu passavi di lì per caso.»

Il ragazzo si mordicchiò le labbra, meditando su come muoversi. Aveva promesso a Jane che non avrebbe parlato a nessuno di quello che era successo, però forse si era esposto troppo, soprattutto di fronte a Natalie che, nel bene e nel male, rimaneva un’esperta a leggere le persone. Un tratto da figlia di Ermes, o qualcosa del genere. A volte Edward si dimenticava perfino di chi lei fosse figlia.

«Prometti che non lo dirai a nessuno?» le chiese.

«Non serve che me ne parli. Se lei ti ha chiesto di non parlarne con nessuno, non è giusto che tu lo faccia, anche se sono la tua ragazza.»

Edward esitò. «Ehm… mi stai tipo, mettendo alla prova, o cose del genere?»

Natalie rise. «No, testone. Dico sul serio, non sono affari miei. Anzi, scusa se ho chiesto.»

«Sicura? Perché davvero, se prometti di non dirlo a nessuno…»

«Ma sei di coccio? Ho detto che non c’è problema!»

«Sì ma voi donne dite sempre così!»

«Ma questa volta è vero!»

«Dite sempre anche questo!»

«Dei del cielo, Edward Model, sei veramente la persona più ostinata che abbia mai conosciuto!»

«Beh, ti piaccio per questo, no?»

«No. Mi piaci per quel tuo bel fondoschiena e quelle cicatrici sexy.»

«Come sei superficiale! Anche noi dotati di bel fondoschiena abbiamo sentimenti, sai?»

Natalie si chinò su di lui, mordendosi le labbra. «Ma davvero?»

Edward deglutì, accorgendosi del suo sguardo intenso e malizioso. «Ehm… a-aspetta, che significa “Questa volta è vero?” Vuol dire che le altre… mhhh…»

Venne zittito dalle labbra di Nat che si posavano sulle sue. Sentì di nuovo dolore allo stomaco, ma lo ignorò. Poteva sopportare qualche secondo. O anche minuto.

Non passò molto prima che anche altri arrivassero a fare visita.

«EDWARD!» urlò una voce molto familiare quando la porta venne aperta così forte da sbattere contro la parete. Non appena Edward si accorse di quegli occhi verdi posati su di lui, realizzò di essere nei guai.

Rosa marciò verso di lui con lo stesso sguardo che aveva quando stava per malmenarlo durante gli allenamenti. «Possibile che tu debba sempre farti quasi ammazzare?!»

«R-Rosa, ascolta…»

Sua sorella non lo lasciò finire. Si precipitò al suo capezzale e lo afferrò per le guance, stringendogliele fino a fargli male. «Ma dove hai la testa?!»

Cominciò a strapazzarlo e a sgridarlo, ripetendogli quanto fosse un incosciente, alternandosi tra spagnolo e inglese. Ormai certe parole, come tonto e idiota, le conosceva alla perfezione. Cercò lo sguardo di Nat, per farsi aiutare, ma lei alzò le mani e guardò da un’altra parte. Il messaggio era chiaro: “Cavatela da solo.”

«Però… però sono felice che stai bene» concluse Rosa, soffocandolo in un mezzo abbraccio. Edward si accorse che stava tremando e sorrise. Ricambiò la stretta come meglio poteva, dandole qualche pacca sulla schiena.

«Mi conosci, hermana. È difficile liberarsi di me.»

Rosa ridacchiò, anche se sembrava ancora parecchio scossa. Sotto la sua sfuriata di poco prima, Edward sapeva che in realtà si celava soltanto una profonda angoscia per un fratello, anzi, un hermano tonto.

Dopo di Rosa arrivarono anche i suoi amici. In quella stanza ben presto si ritrovarono le stesse persone con cui aveva parlato quella volta, all’ombra dell’albero di Talia: Thomas, Lisa, Konnor, Stephanie, Rosa e Natalie.

Sembravano tutti un po’ scossi, ma sereni di vedere che stava bene.

«Non siamo riusciti a trovarlo» spiegò Konnor, mentre raccontava della caccia all’uomo nel bosco. «Forse ha superato i confini e ha lasciato il campo. Mi dispiace, Edward, è colpa mia. Non avrei mai pensato che Buck potesse…»

«Non è colpa tua, Konnor» lo interruppe Edward, facendo una smorfia. Perché tutti dovevano prendersi la colpa per quello che gli succedeva? Era grande e vaccinato – se i vaccini che aveva fatto da bambino non erano scaduti, almeno – era in grado di prendersi le sue responsabilità quando qualcuno cercava di ucciderlo. «Piuttosto, alla fine chi ha vinto?»

«La partita è stata annullata quando ti abbiamo soccorso» rispose Rosa. «Perciò sappi che per colpa tua, hermano, non ho potuto vincere due sfide consecutive!»

«Scusa, hermana. La prossima volta cercherò di aspettare la fine della gara prima di morire.»

«Bene.»

I ragazzi ridacchiarono. Rimasero con lui ancora per diverso tempo, ognuno raccontando la propria esperienza nel bosco. Konnor e Simon avevano smesso di duellare non appena avevano capito che qualcuno era stato aggredito, lo stesso avevano fatto Stephanie e Xavier. Lisa e Rosa erano le più vicine a lui quando era stato attaccato, perciò loro, assieme a Seth e Tonya, erano quelli che erano arrivati prima.

Per finire, Thomas parlò di Kevin che usava qualche aggeggio diabolico per sparare fiamme dalle mani. Edward non lo disse ad alta voce, per non turbare l’amico che sembrava davvero angosciato da quell’episodio, ma trovò l’invenzione di Kevin davvero forte.

Mentre trascorreva il tempo con loro, Edward pensò ancora una volta a quanto quei ragazzi fossero importanti per lui.

Non sapeva come Buck avesse fatto a scoprire il suo punto debole, né perché avesse cercato di ucciderlo, ma non aveva importanza. Aveva fallito e tutti i suoi nemici avevano appena perso l’occasione più ghiotta che avevano mai avuto per vederlo sotto terra. Da quel momento in poi avrebbe fatto ancora più attenzione.

Strinse la mano di Nat e sorrise a Rosa e tutti i suoi amici. Erano lì per lui, perché gli volevano bene. E lui non avrebbe permesso a nessuno, nessuno, di portargli via la sua nuova casa e la sua nuova famiglia.

 

 

 

 

 

Ehilà, gente!

Per i pochi che si ricordano, in questa raccolta era presente un capitolo su Natalie. Ho deciso di rimuoverlo perché non mi soddisfaceva per niente, e anche perché rendeva Nat OOC. Se per caso vi siete accorti della sua assenza, ora sapete il perché. 

Ebbene, siamo agli sgoccioli della raccolta. Il prossimo capitolo sarà l’ultimo e poi potremo concentrarci unicamente sul Velo Invisibile. Ormai, immagino sia chiaro, tutto quello che sta succedendo qui avrà un’importanza nel futuro post-romani, in quella che, spero, sarà l’ultima storia e la fine della serie delle Insegne Imperiali del Giappone. Ma è presto per parlare di quello, prima devo finire il Velo Invisibile.

Vi ringrazio per aver letto e ringrazio Farkas e Cabin13 per aver recensito. Alla prossima!

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Capitolo 11
*** Partenze ***


 EDWARD 

11

Partenze


 

Trascorse ancora un giorno nella Casa Grande. Chirone gli disse che il peggio era passato, ma che per sicurezza avrebbe preferito tenerlo sotto controllo ancora per ventiquattr’ore. Edward poteva comprendere le sue preoccupazioni, in realtà, dopotutto se l’era vista parecchio brutta. E poi era una specie di VIP ormai, se fosse morto probabilmente gli dei si sarebbero mangiati stufato di centauro per cena.

Come punto esclamativo, Chirone mise anche quel tizio con mille occhi, Argo, di guardia nel corridoio. Nessuno sano di mente avrebbe cercato di fargliela sotto al naso, perché… beh, aveva mille maledetti occhi. Edward l’aveva visto una volta sola e si era sentito scrutato nell’anima da ciascuna di quelle iridi azzurre. Un’esperienza che preferiva non ripetere.

Quella notte dormì come un sasso. Rischiare di morire era davvero estenuante, lui lo sapeva bene, era una cosa che aveva fatto spesso. Non fece sogni, il che fu molto positivo. Non era affatto in vena di incubi, o visioni.

Il mattino dopo Chirone passò ad accertarsi delle sue condizioni una volta per tutte. Non appena appurarono che il pericolo di ritrovarsi eleganti in una cassa – o bruciati in un drappo, stando alle tradizioni greche – fosse passato, lo lasciò andare.

«Aspetta Edward, ti accompagno» stabilì, mentre stava per uscire nel corridoio. Edward lo lasciò fare, anche perché non poteva mica dire di “no” alla grande capoccia a capo di tutto. Certo, in teoria era il Signor D il grande capo, ma non si vedeva quasi mai in giro. Gli mancavano ancora dieci anni di servizio come direttore, ormai andava avanti col pilota automatico, bevendo diet coke, giocando a carte e schiacciando pisolini.

Dubitava altamente che Chirone si sarebbe solo limitato ad accompagnarlo, e infatti, dopo neanche dieci passi fuori dalla Casa Grande, il centauro disse: «Mi dispiace molto per quello che è successo, Edward. In tanti secoli di servizio, non è mai capitato che… uno dei miei ragazzi cercasse di ucciderne un altro. È stato un duro colpo per tutti quanti.»

«Davvero? Ma tu non hai… mille anni, o qualcosa del genere? In tutto questo tempo, non è mai successa una cosa simile?»

Chirone agitò la coda. «Mi sono capitati litigi, scaramucce, a volte anche qualche conflitto più… sanguinolento, ma dopotutto è nella vostra indole. Siete semidei, siete fatti per combattere ed è naturale che non sempre persone così diverse tra loro riescano ad andare d’accordo. Ma quello che ha fatto Buck… ammetto che nessuno dei miei allievi è mai arrivato a tanto.»

Edward osservò il centauro. Aveva uno sguardo triste, stanco. Da quando era arrivato nel campo, quel poveretto era invecchiato di qualche altro migliaio di anni nel giro di pochi mesi. Si era ritrovato invischiato in qualcosa di mai visto prima, un greco con una spada in grado di conferirgli una forza stratosferica, che per di più apparteneva a una dea giapponese, la regina degli dei giapponesi. «Beh… in tanti anni non ti è nemmeno mai capitato di addestrare qualcuno come me. Immagino ci sia una prima volta per tutto.»

Chirone gli sorrise. «Forse hai ragione. Non sarai come i semidei che sono abituato ad addestrare, ma rimani comunque uno di noi, Edward, e hai molti più tratti in comune con gli eroi del passato di quanto tu possa immaginare. Non abbiamo avuto modo di parlare spesso, tu e io, ma sappi che ti sono molto grato per ciò che hai fatto per il campo. Sei un guerriero coraggioso, e di buon cuore. Sarai un grande eroe, ne sono sicuro.»

Il ragazzo non rispose. Eroe o non eroe, stava comunque rischiando la pellaccia per una battaglia che era stato costretto a combattere. Medaglie, nomee, encomi e complimenti gli sembravano soltanto una presa in giro, una specie di premio di consolazione per ricordargli che non era ancora morto ma che la prossima volta avrebbe potuto esserlo.

Aveva detto a Natalie di non preoccuparsi per farla sentire meglio, ma in realtà quello che gli era successo l’aveva turbato molto di più di quanto avesse dato a vedere. Buck non era mai stato suo amico, anzi, però era un semidio. Potevano litigare, avere “scaramucce”, potevano anche odiarsi, ma quando la situazione lo richiedeva avrebbero dovuto mettere tutto da parte e concentrarsi sui loro reali nemici. Invece, quel pazzo aveva cercato di ucciderlo. Con tutto quello che era successo, si era comunque spinto fino a tanto. Per quale diamine di motivo avrebbe potuto fare una cosa del genere? E come sapeva del suo punto debole?

Un mucchio di teorie vorticavano nella sua mente, una peggiore dell’altra.

«Mi dispiace per quello che è successo, Edward» disse Chirone, come se gli avesse letto nella mente. «Ci stiamo muovendo in territori inesplorati, con la faccenda della tua spada e tutto il resto. C’è molto tumulto sull’Olimpo. Gli dei sono inquieti e ciò che ha fatto Buck non è certo passato inosservato. Ma di questo tu non devi preoccuparti. L’importante è che tu stia bene.»

Edward assottigliò le labbra. Sì, Chirone aveva ragione. Aveva già troppo per la testa, non doveva pensare anche a quel subumano di Buck. E comunque, quell’idiota si era già dato la zappa sui piedi da solo. Il campo non lo avrebbe mai più accolto dopo quello che aveva cercato di fare. Eppure, un lato di lui non si sarebbe sentito tranquillo finché non si fosse accertato che quel tizio non potesse più fare danni.

Dopo il suo ritorno dal regno dei quasi morti, di nuovo, venne trattato e visto con riguardo per diverso tempo da tutti gli altri. Edward odiava essere al centro dell’attenzione, specie se era quel tipo di attenzione: tutti lo osservavano come se stesse per morire di nuovo da un momento all’altro.

Per diversi giorni continuò il vociare su di Buck e su quello che era successo nella partita. Alcuni non erano felici che Edward avesse rovinato la seconda gara consecutiva, come se fosse stata sua la brillante idea di farsi quasi ammazzare, ma a parte questo non cambiò nulla. Anche l’assenza di Buck dal campo non cambiò nulla. Solo Konnor e i suoi fratelli parevano un po’ più grigi ed Edward non poteva biasimarli, quello psicopatico violento del loro fratello aveva rovinato la reputazione di tutta la loro casa in ogni modo possibile.

Ben presto, però, le cose cominciarono a tornare alla normalità. Buck e i fatti della partita scivolarono via dalle menti e dalle bocche di tutti, mentre una questione più urgente cominciava a prendere il loro posto, ossia la fine dell’estate. Edward non si era reso conto del fatto che ormai fosse agli sgoccioli finché non si era ritrovato un bigliettino sul comodino che l’avvisava di segnalare al più presto se fosse intenzionato a rimanere nel campo o a lasciarlo, altrimenti l’ultimo giorno le arpie si sarebbero mangiati tutte le sue cose e poi lui stesso. 

Sapeva già da molto tempo cosa avrebbe fatto, perciò disse a Chirone che sarebbe rimasto al campo senza alcun ripensamento. Poteva provare a tornare a scuola, magari infilarsi in qualche collegio o cose del genere dove non doveva pagare vitto e alloggio, ma l’idea di tornare in città, in mezzo ai comuni mortali, lo disgustava, per usare un termine gentile.

Mentre tornava dalla Casa Grande fece una piccola deviazione. In quei giorni, con tutto quello che era successo, aveva scordato di fare una cosa. Doveva parlare con una persona molto fastidiosa.

Quasi tutte le case erano assurdi edifici fatiscenti che in qualche modo dovevano ricordare gli dei a cui erano dedicate. E se ce n’era una che alla perfezione riassumeva questo concetto, era quella di Tyche: vista da fuori pareva un piccolo casinò, con insegne a neon appese alle pareti e luci a led che percorrevano il cornicione del tetto. Non si poteva entrare nelle cabine degli altri, ma Edward non si sarebbe sorpreso se al suo interno avesse trovato tavolini da blackjack, roulette e slot machine.

Sperava di trovare Alyssa nei paraggi e non fu deluso. La vide appoggiata contro la parete della casa in compagnia di un’altra ragazza, la stessa che aveva visto assieme a lei la sera della festa, una biondina con mèche multicolore sparpagliate qua e là in modo da ricreare l’arcobaleno.

«Ehi» annunciò, avvicinandosi. Le due smisero di parlare e si voltarono verso di lui, rivolgendogli sguardi confusi.

«Coso» lo salutò Alyssa. «Che ci fai qui?»

«Volevo solo…» Edward esitò. Non avrebbe mai pensato che sarebbe stato così difficile, specie dopo tutto quello che aveva patito per colpa di quella mocciosa. «… ringraziarti, per… insomma, per avermi salvato la pelle. Se non fossi arrivata tu io…» Non concluse la frase, ma lasciò ben intendere cosa volesse dire.

Alyssa corrugò la fronte. Rimase a osservarlo senza dire nulla, quasi come se non fosse sicura di aver davvero sentito quelle parole. «Uhm… okay. Prego, allora.»

Quella risposta sorprese Edward. «Come “prego”? Non hai altro da dire? Hai sventato un omicidio! Mi hai salvato la vita!»

«Duh, non potevo mica lasciarti morire, genio!» Alyssa scoccò uno sguardo alla sua ragazza, incredula. Sembrava le stesse dicendo: “Lo senti anche tu questo pazzoide?”

«Puoi toglierti dai piedi ora, coso? Sono un attimo impegnata» concluse Alyssa, avvolgendo per le spalle la sua dolce compagnia.

Edward era incredulo. Perfino quando cercava di essere gentile con lei quella lo trattava a pesci in faccia. «Scusa tanto» borbottò, prima di inchinarsi. «Me ne vado, sua maestà. I miei ossequi.»

L’altra ragazza ridacchiò, mentre Alyssa fece un verso di scherno. «Ecco, pussa via.»

«Maledetta mocciosa» borbottò lui, mentre si allontanava.

«Ti ho sentito, coso!»

Sistemata quella piccola faccenda, Edward trascorse il resto della giornata nel totale relax. Si ritrovò sulla sponda del laghetto assieme a Thomas, con Rick che faceva rimbalzare le pietre sull’acqua poco avanti. Proprio come il giorno in cui si erano conosciuti. Sembrava passato così tanto tempo da allora. Erano cambiate così tante cose che non sapeva nemmeno da dove cominciare.

Ricordava ancora quando aveva parlato con un Tommy deluso dal campo, pieno di dubbi, di incertezze, un ragazzino timido e un po’ impacciato. Adesso sembrava tutta un’altra persona. Certo, era pur sempre lui, il piccoletto coi capelli rossi, salvo casi eccezionali non ricambiava lo sguardo di nessuno per più di cinque secondi, ma era la sua indole, era una persona mite, tranquilla. Rimaneva comunque il fatto che fosse diventato capocasa e che fosse rispettato da tutti ormai per quello che aveva fatto.

«Rick ti fa ancora gli scherzi come l’ultima volta?» domandò, rompendo il silenzio che si era creato.

Thomas sorrise, lo sguardo fisso sul fratello minore. «Certo. Come sempre.»

«Anche adesso che sei il capo?»

«Soprattutto ora che sono il capo.»

Edward ridacchiò. «Sono sicuro che non lo fa con cattiveria.»

Anche il suo amico ridacchiò, tuttavia ben presto tornò serio. Edward si accorse che sembrava concentrato su Rick, ma in realtà pareva con la mente da tutt’altra parte.

«Tommy, tutto ok?»

Il figlio di Ermes si strinse nelle spalle. «Sì, certo. Sono solo un po’… nervoso.»

«Per cosa?»

«Quando finirà l’estate… tornerò a vivere con mia madre» ammise Thomas. «Non vivo con lei da… da un sacco di tempo. E lei… insomma, l’hanno dimessa da poco. Non ha più crisi, però… ho un po’ di paura.»

Edward sapeva che Thomas avesse fatto pace con sua madre. Sapere che quella situazione si fosse risolta per lui l’aveva rincuorato, anche se poteva comprendere le turbe del suo amico. «Sono sicuro che andrà tutto bene, Tommy.»

«Lo spero… anche perché… beh…» Il piccoletto arrossì. «Ci sarà… anche Lisa.»

Edward ci mise molto più di quanto avrebbe voluto per capire cosa stesse dicendo. «Aspetta… lei verrà a vivere con te e tua madre??»

Lui divenne ancora più rosso, forse per il tono incredulo di Edward. «É… è solo una prova» si giustificò. «Lisa… vorrebbe tornare a scuola, vivere come… una ragazza normale, almeno per un po’. Da quando è arrivata in America non c’è mai riuscita. E io… senza Lisa non sarei mai riuscito a fare pace con mia madre. Ho… ho bisogno di sapere che lei sarà lì con me. Mi fa sentire più tranquillo.»

Tutte le battute e le allusioni che Edward avrebbe voluto fare riguardo quei due sotto lo stesso tetto sfumarono all’improvviso. Capì che per Thomas quella cosa era davvero importante. Lisa era importante, per lui.

«Andrà tutto bene, Tommy» ripeté Edward. «Non devi pensare a quello che potrebbe andare storto. Pensa al fatto che sarai di nuovo assieme a tua madre. Pensa al fatto che lei ti ha sempre voluto bene e pensa anche che la tua ragazza sarà lì con te per tutto il tempo. Capisco che tu sia teso, dopotutto è un salto nel vuoto per te, ma devi avere fiducia. E poi tu e Lisa avete fatto a pezzi un gigante, insieme, sono sicuro che questa sarà una passeggiata.»

«In realtà quella volta ho avuto molta meno paura rispetto a ora» rispose Thomas, ridacchiando nervosamente. «È solo che… non avrei mai pensato di ritrovarmi in questa situazione. Ho di nuovo mia madre, ho una ragazza, sono… capocasa. È come un sogno che si avvera. E adesso… ho paura di perdere tutto. Non voglio che il sogno diventi un incubo.»

«Non succederà, Tommy. È normale avere paura, ma tu sei la persona più coraggiosa che conosca. Nonostante la paura hai sempre combattuto non per te stesso, ma per le persone a cui tieni. Non ti sei mai fermato di fronte a niente e sono sicuro che non lo farai neanche questa volta, perché so come sei fatto, e so che quando le cose si mettono male, tu sei il primo a darsi da fare per risolverle.»

Thomas spostò lo sguardo su di lui. Sembrava genuinamente senza parole. «Io… grazie, Edward.»

«E di che?» Edward batté il pugno contro la sua spalla. «E ricorda anche che noi ci saremo sempre per te.»

«Voi? Intendi tu e Nat?»

Edward sussultò. Era la prima volta che Tommy menzionava lui e Natalie. Quando vide il sorrisetto divertito di Tommy, realizzò che in fondo in fondo un po’ di Ermes esisteva anche dentro di lui.

«Intendo tutti quanti» rispose Edward, tornando a sorridere. «Steph, Konnor, Rosa… e sì, caro cognato, anche me e Nat.»

I due ragazzi ridacchiarono. A Edward venne inevitabilmente da pensare a sua madre. Era ancora viva, Naito gliel’aveva detto. Era da qualche parte in Giappone. Non aveva mai scordato quelle parole, eppure si sentiva con le mani legate. Non poteva andare a cercarla laggiù, non così dal nulla almeno, non nel bel mezzo di tutta quella storia tra dei. E la cosa lo faceva imbestialire.

I suoi pensieri si interruppero quando udì Rick esultare a pieni polmoni di aver battuto il suo record di rimbalzi sull’acqua. A quel punto gli venne di nuovo da sorridere. Era certo che quella piccola peste gli sarebbe mancata, così come gli sarebbero mancati tutti i suoi amici.

Konnor, Stephanie, Thomas, Lisa, Rosa e purtroppo – purtroppo – Natalie sarebbero partiti. Si erano promessi tutti di tenersi in contatto tramite messaggi Iride, ma Edward sapeva che non sarebbe stato lo stesso. Aveva appena trovato una nuova famiglia e stava già per separarsene. Sapeva che non sarebbe stato per sempre, ma un intero anno senza di loro pareva un’eternità.

Soprattutto per Nat. Gli sarebbe mancato poterla stringere e baciare. Gli aveva detto che, se tutto fosse andato bene, sarebbe tornata nel giro di pochi mesi, ma anche in quel caso a lui sembrava troppo tempo. Trattenne un sospiro affranto e si sforzò di sorridere alla serenità che il laghetto soleggiato trasmetteva. Erano gli ultimi giorni che gli restavano con le persone a lui più care, avrebbe dovuto sfruttarli al meglio.

 

***

 

Era passato di fronte alla Casa Quattro un milione di volte, per questo motivo non si era mai reso conto del meraviglioso roseto che era sbocciato dietro di essa. Quando fece il giro e trovò Stephanie accovacciata sui fiori un altro sorriso nacque sul suo volto. Di nuovo, sembrava passata una vita dall’ultima volta in cui l’aveva trovata inginocchiata in quel giardino. Anche in quel caso, un mucchio di cose erano cambiate. All’epoca i fiori erano morti, calpestati, distrutti, e in un certo senso anche Steph era così, triste, sola, demoralizzata.

Adesso invece lei sembrava genuinamente felice, rilassata, e soprattutto avrebbe potuto far pentire a chiunque di mettersi sulla sua strada, mentre il giardino era rigoglioso, un mosaico stupendo di fiori multicolore. C’erano un mucchio di rose, bianche e rosse, e poi forse delle viole, e dei tulipani, e gigli e… insomma, tutti quegli altri fiori con i petali, i gambi ed eccetera eccetera. Non era Edward l’esperto.

«Steph» la chiamò, visto che non si era ancora accorta di lui.

«Oh, Edward!» Lei si voltò e si rimise in piedi, rimuovendo la terra dal panda raffigurato sul suo grembiule da giardinaggio. «Ciao. Come stai?»

«Bene. Tu?»

«Bene. Stavo finendo di sistemare il giardino. Che te ne pare?»

«È stupendo» disse Edward, meravigliato.

Stephanie sorrise smagliante. «Grazie!»

Edward venne contagiato dalla sua serenità. Era bello vederla così tranquilla, come se qualcos’altro fosse tornato al proprio posto in quel campo. Stephanie senza quel sorriso gentile non era Stephanie.

«Ascolta, Steph… non abbiamo parlato molto da quando siamo tornati da San Francisco. E adesso che stai per lasciare il campo volevo solo assicurarmi che… insomma, non ci fossero rancori tra noi per tutto quello che è successo.»

Stephanie si fece più seria. «Non preoccuparti, Edward. Abbiamo… sbagliato entrambi. Non è stata colpa di nessuno. Non sono arrabbiata con te, davvero.»

Il figlio di Apollo annuì. «Sono felice di saperlo. Sei… stata molto importante, per me. Non voglio perdere la tua amicizia per colpa della mia idiozia.»

La ragazza ridacchiò. «Non sei un idiota, Edward. E anche tu sei importante per me.»

Gli occhi caldi di Stephanie si posarono su di lui, facendolo sentire in soggezione. Fin dal primo momento in cui li aveva visti, aveva perso la testa per loro. Per Steph. Le era piaciuta fin da subito, ma poi… le cose erano cambiate. Lui aveva commesso degli errori, lei aveva scelto Konnor, le cose erano andate come erano andate e forse era meglio così. In ogni caso, sarebbe sempre stata sua amica.

«Sono felice per te e Konnor» disse infine, riuscendo a sorriderle di nuovo.

Steph sorrise a sua volta. Fece un passo avanti e l’abbracciò. «E io per te e Natalie.»

Fu una stretta veloce, ma Edward fu comunque felice che l’avesse fatto. Significava che, nonostante tutto, lei si sentiva a suo agio accanto a lui.

«Per qualsiasi cosa, manda un messaggio Iride. Io risponderò sempre» lo rassicurò poi, quando lo lasciò andare.

«Lo stesso vale per me. Se hai bisogno, chiama. Tanto da qui non scappo» concluse Edward. I due ragazzi si scambiarono un ultimo cenno, poi Edward si congedò.

Steph e Tommy erano i primi amici che si era fatto nel campo, anzi, probabilmente i primi amici che si era fatto in tutta la vita. Gli sarebbero mancati. Si accorse che il cielo era sereno, il sole splendeva ancora, ma stava cominciando a calare. Il che significava che l’ultima persona che stava cercando doveva essere nel solito posto.

Quando entrò nell’arena venne subito accolto dal rumore delle spade che cozzavano e dei grugniti dei ragazzi che si stavano allenando. E naturalmente in mezzo a tutti loro c’era anche Rosa. Quando si accorse di lui lo salutò, ma poi tornò ben presto a concentrarsi sui suoi esercizi, mentre il coach Hedge belava ordini e contrordini.

Rimase seduto sugli spalti, a osservare tutti loro con un sorriso, in particolare Rosa che interagiva anche con gli altri. Ripensò al momento che avevano condiviso assieme nell’arena l’ultima volta, al bigliettino che aveva trovato per terra, e il buonumore svanì da dentro di lui. Non si era dimenticato di quella storia, di Rosa che pensava di unirsi alle cacciatrici, ma soprattutto della profezia che parlava del sangue della vergine. Si irrigidì senza nemmeno accorgersene, mentre di fronte a lui i semidei continuavano ad allenarsi ignari di tutto. Rosa era ignara di tutto.

Edward espirò profondamente, cercando di mantenere la calma. Doveva dirglielo. Rosa doveva sapere. Non poteva entrare nelle cacciatrici, o sarebbe stata in pericolo.

«Bene angioletti, per oggi è tutto» esordì il coach Hedge, ai ragazzi annaspanti e sudati dopo la lunga sessione. Alcuni erano seduti a terra, altri in piedi a braccia conserte, e tutti facevano ombra al piccolo satiro.

«A tutti quelli che partiranno, voglio ricordare che avete solo più tre giorni per allenarvi con il sottoscritto, quindi vi consiglio di sfruttarli per bene, o là fuori vi faranno a brandelli. Sono stato chiaro?»

«Sì, coach» dissero tutti in coro, con lo stesso tono di una classe stanca di sentire gli sproloqui del professore.

Come al solito, il coach Hedge non si accorse di nulla, perché si impettì. «Molto bene. Ora tutti fuori dagli zoccoli, dovete farvi una doccia!»

La folla cominciò a sparpagliarsi. Edward rimase seduto e incrociò lo sguardo di Rosa che si stava avvicinando a lui. «Ehi, hermano» lo salutò, con un ampio sorriso. «Che fai, batti la fiacca? Non ti alleni da una vita, sai?»

Edward sollevò le spalle. «Scusa hermana. In questi giorni ho avuto altro per la testa.»

Rosa si fece seria all’improvviso. Accennò con il mento al suo stomaco. «Stai meglio?»

La preoccupazione di Rosa lo fece sorridere. Saltò giù dagli spalti e annuì, battendo il pugno contro la sua spalla. «Certo che sto meglio. Mi conosci, no? Mi hai dato cazzotti ben peggiori e mi sono sempre rialzato.»

Sua sorella ridacchiò, anche se sembrava un po’ nervosa. Non resse più il suo sguardo ed Edward intuì che c’era qualcosa che non quadrava. «Rosa? Tutto ok?»

«Sì, sì… sono solo un po’… tesa» gli spiegò, sedendosi sugli spalti con un profondo sospiro. «Non so cosa aspettarmi quando tornerò a casa. Ho paura di… di non essere la benvenuta.»

«E allora perché torni?» domandò Edward, sentendosi davvero confuso. Tutte le volte che Rosa aveva menzionato la sua famiglia mortale, diceva sempre cose simili. Eppure, voleva comunque lasciare il campo, i suoi allenamenti, gli amici nuovi che si era fatta e un posto da capocasa per tornare da loro.

«Perché è comunque mia madre» rispose lei, stringendosi nelle spalle. «E questa potrebbe essere l’ultima volta che la vedo.»

Edward si sedette di nuovo, accanto a lei, sorpreso. «Che intendi dire?»

«Te l’ho già detto, Edward. Sto diventando troppo grande per il mondo esterno. I mostri si accorgono di me più facilmente. E poi sarò molto lontana dal campo, perciò non potrò nemmeno contare sul vostro aiuto se dovesse succedere qualcosa.»

«Dov’è che andrai? Hai detto a nord, una volta, ma non mi hai mai detto un posto preciso.»

Rosa fece uno strano sorrisetto. «Bismarck, Dakota del Nord.»

«Mai sentito nominare.»

Lei ridacchiò. «Non ti perdi niente. Quel posto è una noia mortale. L’unica cosa positiva è che almeno rivedrò Sam.»

«Sam?» Edward corrugò la fronte. «Chi è Sam?»

«Il mio fratellastro mortale, Samuel» spiegò Rosa. «Il figlio del mio patrigno. È l’unico con cui vado d’accordo in quel mortorio.»

«Ohh…» fece Edward. Per un attimo aveva creduto che fosse un ragazzo che aveva lasciato laggiù. E forse anche Rosa aveva pensato lo stesso, perché ridacchiò di nuovo.

«Ci sei, hermano

«S-Sì, certo, certo…»

Rosa tirò fuori un asciugamano dallo zainetto e si diede una ripulita dal sudore, mentre il resto dell’arena cominciava a svuotarsi pian piano. Edward tamburellò con le dita sopra il legno degli spalti. Doveva parlare con Rosa di quella faccenda, ma non sapeva nemmeno da dove iniziare.

«Mi serve una doccia.» Rosa saltò giù dagli spalti e si sgranchì il collo. «Ci vediamo a cena, hermano

Edward trasalì. «O-Okay.»

Se Rosa si era accorta del suo tentennamento, non lo diede a vedere. Rimise l’asciugamano nello zainetto e gli sorrise un’ultima volta. «Allora a dopo.»

«A dopo…»

Quando anche lei lasciò l’arena, Edward sospirò profondamente e seppellì il viso tra le mani.

 

***

 

Inutile dire che non parlò con Rosa di quella storia quel giorno, e nemmeno quelli successivi. Il tempo stringeva ed Edward cercava di fare tutto meno che quello.

Forse non si sarebbe davvero unita alle cacciatrici. Forse la profezia non riguardava davvero lei. Forse non correva alcun pericolo, forse non le sarebbe successo niente. Eppure, quel macigno che gli era sceso nello stomaco fin dal giorno in cui aveva visto quel biglietto da visita non voleva saperne di svanire.

E poi, arrivò il gran giorno. I ragazzi andavano e venivano dalle capanne, trasportando valige, bagagli, zaini. Le figlie di Afrodite avevano trolley giganteschi, che avevano gentilmente scaricato ai loro ragazzi – almeno, Edward volle pensare che fossero i loro ragazzi e non dei poveretti che volevano provarci all’ultimo momento.

Rimase all’ombra del pino di Talia, dove si era dato appuntamento con gli altri per gli ultimi saluti, a scrutare il campo con attenzione. Vide moltissimi ragazzi salutarsi, abbracciarsi o baciarsi. Non era l’unico che avrebbe perso le sue conoscenze più strette per il resto dell’anno. Ma di Rosa ancora nessuna traccia.

Un altro sospiro gli scappò dalle labbra, ma fece svanire il muso lungo quando si accorse di Thomas e Lisa, che arrivarono mano nella mano. Salutò entrambi con un abbraccio, poi fece un sorrisetto, scrutando prima l’uno e poi l’altra. «Fate i bravi voi due.»

Entrambi arrossirono, borbottandogli di starsene zitto, e a lui venne da ridere.

Salutò con un abbraccio anche Stephanie, mentre con Konnor si limitò a battere il pugno.

«Non fare casini mentre non ci sono» lo mise in guardia il figlio di Ares. «Non vorrei tornare quest’estate e trovare una landa desolata al posto del campo.»

Edward ridacchiò. «Tranquillo, amico. Questo posto è in ottime mani!»

Konnor fece un mugugno poco convinto, ma non disse altro. Edward osservò i quattro ragazzi scendere tutti assieme la collina, per raggiungere le diverse navette del Campo Mezzosangue parcheggiate, in attesa dei passeggeri. Konnor stava parlando con Thomas, Lisa con Stephanie, e sembravano tutti genuinamente felici. Forse si stavano raccontando i loro piani per l’anno scolastico.

Guardandoli, Edward sentì il petto stringersi in una morsa. Lisa e Thomas sarebbero andati a scuola insieme, avrebbero abitato insieme, Konnor invece sarebbe andato in un altro istituto, perché era più grande, ma tutti e tre sarebbero comunque rimasti a New York. Stephanie andava a Kansas City, invece, però poteva spostarsi a suo piacimento con le piante, perciò avrebbe potuto fare avanti e indietro da New York tutte le volte che voleva. Insomma, loro quattro avrebbero continuato a vedersi regolarmente. Lui invece era tagliato fuori.

Qualcuno gli diede un pizzicotto al fianco, facendolo sobbalzare. Si voltò furibondo, per poi ammansirsi di fronte al sorrisetto di Nat.

«Scusa, Edward. Ti vedevo un po’ smarrito.»

«Nat…» disse lui sorridendo, anche se gli fu difficile farlo, visto che stava per salutare anche lei.

Natalie si strinse a lui e gli accarezzò una guancia, con fare apprensivo. «Mi mancherai, testone.»

«Anche tu… anche tu mi mancherai.»

Lei gli sorrise, poi azzerò le distanze tra loro. Sarebbe stato il loro ultimo bacio, quindi Edward decise di avere un bel ricordo di esso. L’abbracciò con forza, avvolgendo le mani dietro la sua schiena e tirandola a sé, carezzando il suo corpo magro.

«Ti manderò un messaggio Iride tutti i giorni» le disse, quando si separarono.

La ragazza sorrise, scaldandolo con il suo tocco gentile. «Va bene. Io… spero di non dovermi fermare troppo. Giusto il tempo di tornare a casa e sistemare… insomma, quella faccenda. Tornerò qui appena potrò, te lo prometto.»

Edward annuì, trovando la forza di sorriderle di nuovo. Gli aveva detto che sua madre aveva avuto qualche problema con l’uomo con cui si era risposata. Non era scesa molto nei dettagli, ma non sembrava una situazione semplice.

«L’importante è che tu e tua madre stiate bene, Nat. Prenditi tutto il tempo che ti serve» disse, spostandole dietro l’orecchio una ciocca di capelli.

«Spero sia il meno possibile» rispose lei, con una risatina nervosa. I loro sguardi si incrociarono e ancora una volta Edward non riuscì a credere a quanto fosse stato fortunato di averla conosciuta.

Natalie sciolse l’abbraccio con dolcezza. «Beh… ci vediamo, Edward.»

«Ci… ci vediamo.»

Com’era accaduto qualche settimana prima, gli sembrò di volerle dire qualcos’altro. E forse anche lei stava provando lo stesso. Tuttavia, nessuno dei due fece nulla. Natalie lo salutò un’ultima volta con un cenno della mano, poi cominciò a scendere la collina, lasciandolo solo. Edward rimase a lungo a osservare i ragazzi che si accingevano a lasciare il campo, per partire per quelle vite “normali” che avevano accantonato in quei mesi.

Una vita normale. A volte si chiedeva cosa si provasse ad averne una.

Ci mise diversi istanti per accorgersi di non aver ancora visto Rosa da nessuna parte. Spalancò gli occhi, guardandosi attorno agitato, ma di lei nessuna traccia.

Un’orribile sensazione si fece largo dentro di lui all’improvviso. Scese la collina di corsa, ignorando alcuni ragazzi contro cui andò a sbattere, e si precipitò verso la capanna Sette. Trovò al suo interno Jonathan e un paio dei suo fratelli che non sarebbero partiti.

«Ragazzi, avete visto Rosa?» domandò, cercando di non sembrare troppo affannato.

«Uhm… no» rispose Jonathan. «Perché?»

«Non… non importa.» Uscì trafelato e si diresse verso il secondo luogo in cui si aspettava di trovarla.

Non appena udì il rumore della spada che impattava contro i manichini, tirò un sospiro di sollievo. Rosa era lì, nell’arena, sola soletta. Se la stava prendendo con un povero manichino indifeso, trucidandolo con la sua sciabola argentata.

«Rosa!» la chiamò.

Lei si voltò di scatto e lo squadrò stupita. «Sì?»

«Che… che ci fai qui?»

«Allenamenti dell’ultimo secondo. Perché?» Rosa corrugò la fronte. «Che è quella faccia, hermano? È successo qualcosa?»

«N-No, no…» Edward si trattenne dal tirare un sospiro di sollievo. L’ultima volta che Rosa non si era fatta viva per troppo tempo… non era finita bene. «Le… le navette stanno partendo» disse. «Non… non vai?»

«Prenderò la prossima» rispose lei, prima di ridacchiare. «Alcune fanno due giri, hermano.»

«O-Ohh…»

«Eh già. Quante cose nuove che si imparano ogni giorno, vero?»

Di norma le avrebbe risposto con lo stesso sarcasmo, ma non ci riuscì, non con la consapevolezza di doverle ancora parlare, e soprattutto non dopo aver visto tutti i suoi amici e la sua ragazza partire.

«Ehi, hermano.» Rosa si avvicinò a lui, facendosi apprensiva. «Va tutto bene? Gli altri sono già partiti?»

Edward ricambiò il suo sguardo. Aveva subito capito cosa lui stesse provando. O almeno, una parte. Annuì, mesto, senza rispondere. Quando lei lo abbracciò, sussultò per la sorpresa.

«Mi dispiace tantissimo, Edward. Non è… facile, rimanere soli. Purtroppo lo so bene.»

Le labbra di Edward tremolarono. Ricambiò l’abbraccio di Rosa senza dire niente, stringendola forse con molta più forza di quanto avrebbe voluto, ma lei non glielo contestò. Tra tutte le persone che aveva conosciuto, forse lei era la più importante, più dei suoi amici, più di Natalie. Era sua sorella, era famiglia, la sua vera famiglia.

«Mi… mancherai hermana» mormorò.

«Anche tu, hermano.»

Quando si separarono, Edward cercò di farsi forza. Vedere tutti i suoi amici partire era stato un colpo molto più forte di quanto avrebbe potuto immaginare. «Ci… ci vediamo l’anno prossimo, giusto?» domandò, abbozzando un sorriso.

Rosa esitò. Ancora una volta, abbassò gli occhi e non incrociò più il suo sguardo. «Sì, certo.»

Di nuovo quella reazione. Edward capì che stava nascondendo qualcosa. E forse, quel qualcosa era proprio ciò di cui voleva parlarle. «Va tutto bene?»

«Sì, certo. Tu invece? Va un po’ meglio?»

Edward si irrigidì. Stava cercando di sviare l’argomento. Era una cosa che lui faceva spesso, quando era con le spalle al muro. «C’è qualcosa che devi dirmi, hermana

«Ehm… no… perché?»

Il ragazzo cominciò a spazientirsi. Con tutte le storie che lei gli aveva fatto sul dire la verità, ora stava palesemente mentendogli in faccia. Estrasse il biglietto da visita delle cacciatrici e glielo mostrò. «Questo ti dice nulla?»

Rosa spalancò gli occhi e glielo strappò dalle mani. La sua reazione fu proprio quella che Edward si era aspettato, e che aveva temuto di più. «Dove l’hai preso?» gli domandò, con un filo di voce.

«Ti è caduto dallo zaino. Vuoi unirti alle cacciatrici?»

«Perché non me l’hai ridato subito?»

«Rispondi alla mia domanda. Vuoi unirti alle cacciatrici?»

Sua sorella assottigliò le labbra. Raddrizzò la schiena e ricambiò il suo sguardo con la sua stessa determinazione. «Ci stavo pensando, sì.»

«E quando pensavi di dirmelo?»

Rosa rimase in silenzio, cupa in volto. Tutta la dolcezza e la nostalgia di poco prima era svanita, rimpiazzata da una profonda durezza.

«Volevi partire e unirti alle cacciatrici? Senza dirmi niente?» insistette Edward.

«L’avrei fatto, prima o poi» replicò lei, senza più guardarlo.

«Prima o poi? Vuoi dire tramite un Messaggio Iride, mentre eri a Bismarck, a centomila miglia di distanza?»

«Sì.» Le nocche di Rosa scricchiolarono quando strinse i pugni. Sollevò di nuovo la testa, severa come poche volte l’aveva vista. «Sì, era proprio quello che volevo fare.»

Edward ricambiò lo sguardo, senza battere ciglio. «Perché? Credevo che tra noi non ci fossero segreti, perché volevi…»

«Per evitare questa discussione!» esclamò lei, alzando la voce. «Perché sapevo che tu saresti stato contrario e non volevo che cercassi di impedirmelo!»

«Ma perché vorresti partire? Dopo tutto quello che abbiamo passato! Proprio adesso che il campo ti rispetta, proprio quando…»

«Woo, woo, woo» Rosa agitò le mani per fermarlo, prima di emettere una risatina incredula. «Il campo mi “rispetta”? Ma ti senti quando parli?» Fece un passo verso di lui. Sembrava furibonda. «Certo, mi rispettano, dopo che un mostro mi ha quasi mangiata. Bel modo di farsi rispettare! A nessuno è mai importato niente di me prima di tutto questo! E dimmi, in quanti mi davano già per spacciata prima che tu scoprissi che ero ancora viva?»

Edward esitò, ma Rosa non aveva ancora finito: «Quando sono tornata tutti hanno iniziato a trattarmi con i guanti solo perché ero quasi morta! Mi hanno fatto suonare quella sera, mi hanno fatto fare tutto quello che volevo solo perché si sentivano in colpa! Non è rispetto, quello, e tu lo sai meglio di me! A te piacerebbe se tutti ti trattassero in maniera diversa solo perché hanno scoperto quello che ti è successo nello Yomi?»

La cicatrice di Edward formicolò, facendolo rabbrividire. Sentì Rosa tirare su con il naso e la vide mentre si asciugava una lacrima. «Non… non sono mai stata voluta, qui. A nessuno è mai importato niente di me. E tu… tu non mi impedirai di fare quello che reputo giusto per me stessa. Non mi impedirai di unirmi alle uniche persone che tengono a me.»  

Edward assottigliò le labbra. «Anch’io tengo a te.»

Rosa trasalì. Altre lacrime scesero dai suoi occhi brillanti. Asciugò anche quelle, con un singhiozzo, poi scosse la testa. «Mi dispiace, Edward. Ho fatto la mia scelta. L’ho fatta già da molto tempo, da prima ancora di conoscerti. Mi unirò alla caccia e combatterò assieme alle nostre zie. La nostra amicizia non cambierà le cose.»

«E tutti i discorsi sul fatto che non devo pensare a tutto io, allora? Sul fatto che anche tu vuoi aiutarmi?! Non puoi abbandonarmi così!»

«Sono sicura che te la caverai benissimo anche senza di me. Anzi, mi pare che tu mi abbia già rimpiazzata da un pezzo. Sei l’eroe del campo, ormai, tutti ti amano. Non più hai bisogno del mio aiuto. Non ne hai mai avuto.»

Sembrava davvero amareggiata mentre diceva quelle parole. Dal modo in cui glielo disse, poi, sembrava che fosse un sentimento che nutriva da parecchio tempo.

«Rosa…» provò ancora a dire lui.

«Basta, Edward. Ti prego. Non complicare ancora di più le cose.»

«Ma non puoi unirti alle cacciatrici!» insistette lui. «C’è una profezia! Un verso che non si è ancora realizzato!»

«Che… che cosa?»

Edward notò il suo stupore e pensò che forse aveva trovato il modo di farla desistere. Le spiegò tutto quello che aveva scoperto, la profezia, il sangue della vergine, il fatto che lei fosse il sacrificio, tutto quanto. A racconto concluso, Rosa rimase in un silenzio attonito, con le labbra schiuse.

«Non puoi unirti alle cacciatrici» ripeté Edward, sentendosi drenato di ogni energia. «Se lo farai… sarai in pericolo.»

Per un momento, Rosa non disse niente. Sembrava che stesse davvero ponderando sulle sue parole. Poi, però, un’altra risatina nervosa le scappò dalla gola. «E quindi… cosa dovrei fare, Edward? Mh?» Si avvicinò a lui, arrivando a un palmo dal suo naso. «Dovrei… perdere la verginità?»

Edward trasalì, senza rispondere. Anche perché non aveva proprio idea di che cosa dire.

«Ma si può sapere cosa ti dice il cervello?» insistette Rosa. «In quale universo credevi che parlarmi di questa cosa non mi avrebbe comunque fatto unire alle cacciatrici? Io… non riesco nemmeno a credere che tu abbia detto una cosa del genere a tua sorella! Ma cosa speravi di ottenere?! Pensi di controllarmi anche su questo, adesso?!»

«Voglio solo proteggerti!»

«Ah sì? E in che modo? Lasciando andare via la stessa persona che mi ha cacciato in questa situazione? Obbligandomi a non fare quello che voglio?! Non mi serve la tua protezione! Non mi è mai servita!»

Edward non poteva credere alle sue orecchie. Affondò le unghie nei palmi. «Non ti è mai servita? Sei salva grazie a me.»

«Ah, è così che vuoi metterla? Vuoi davvero giocarti questa carta, Edward?»

«Senti…»

«L’unico motivo per cui mi hai salvata, anzi, l’unico motivo per cui sei un eroe è quella stupida spada!» tuonò Rosa. «Senza non saresti niente!»

«Che… che cosa?»

Rosa spalancò gli occhi. Sembrò pentirsi di quelle parole nel momento esatto in cui aveva finito di pronunciarle.

«Tu… tu sei invidiosa» sussurrò Edward, incredulo. «Sei invidiosa che io sia un eroe. E… e ti fa arrabbiare il fatto che all’inizio io avessi bisogno di te e ora non più. È così?»

Rosa si irrigidì. Parve toccata su un nervo scoperto e quella reazione disse a Edward tutto quello che aveva bisogno di sapere.

«Tutto quello che è successo… la nostra amicizia, quello che abbiamo fatto insieme… vuoi buttare tutto alle ortiche per questo? Per una stupidaggine del genere?!» Ora Edward era furibondo. «Ma fai sul serio, Rosa?»

«Smettila» bisbigliò lei. «Io… io volevo cambiare le cose. Volevo che il campo fosse unito, che nessuno ci giudicasse per i nostri genitori, volevo… essere un’eroina. Mi sono rotta la schiena per anni, in attesa del momento giusto, in attesa di un’impresa. E poi… poi sei arrivato tu e hai fatto tutto quello che volevo fare io. Sono… sono diventata “la sorella di quello importante”. La ragazza da salvare. L’ostaggio, il sacrificio. Non sono invidiosa di te, Edward, anzi. Sono felice che tu abbia trovato la tua strada. Ma quello che è successo… mi ha fatto capire che io non servo qui. Non sono mai servita. Il campo ha già un suo eroe.»

«Non riesco a credere alle mie orecchie. Dopo tutto quello che mi hai detto, tutti i discorsi che mi hai fatto, vuoi scappare via così!» Edward non si era mai sentito così deluso. «Che ipocrita…»

Le labbra di Rosa tremolarono. «Sei crudele…»

«E tu una mocciosa che vuole scappare dai problemi!»

Sua sorella schiuse la bocca. Non appena la vide con quell’espressione così ferita, Edward realizzò di aver esagerato. Fece per parlare, per chiedere scusa, ma lei fece un passo indietro e accennò con il mento all’uscita. «Vattene.»

«Rosa, io…»

«VATTENE!» Rosa sollevò la sciabola, con uno sguardo così furibondo che Edward sussultò.

«Va bene» acconsentì, stanco, sconfitto, troppo triste per continuare a litigare, troppo arrabbiato per tentare di ragionare ancora con lei.

Le diede le spalle e si avviò verso l’uscita con il peso del mondo che gravava sulle sue spalle. Era quasi morto, l’avevano ferito, l’avevano sfigurato, l’avevano trattato come un insetto, eppure non si era mai sentito così abbattuto. Poco prima di uscire si fermò e strinse i pugni. «Spero… spero davvero che tu sappia quello che fai, Rosa. Saluta la zia da parte mia.»

Non attese risposta. Uscì dall’arena prima che Rosa potesse ribattere, conscio del fatto che quella discussione sarebbe stato l’ultimo ricordo che entrambi avrebbero avuto l’uno dell’altra.

 

***

 

Quel pomeriggio il campo era così silenzioso che pareva tutto un altro posto. Mentre camminava tra le case semivuote, Edward si sentiva nello scenario di qualche film di zombie. A un certo punto cominciò perfino a temere che uno dei suddetti zombie sbucasse fuori per mangiargli il cervello. Anzi, piuttosto che temerlo, era meglio dire che ci sperava. Un bello zombie che saltava fuori dal nulla e gli mangiava la testa. Sarebbe stato il modo migliore per smettere di pensare a quello che era successo con Rosa.

Non solo i suoi amici e la sua ragazza erano partiti, ma aveva anche litigato con sua sorella. Si era lasciato con lei nel peggior modo possibile, il tutto proprio mentre stava pensando se unirsi alle cacciatrici. Se Rosa aveva ancora dei dubbi su cosa fare, dopo quello che era successo di sicuro non ne aveva più. Stephanie si era sbagliata su di lui: era un vero autentico idiota. Forse, se avesse tentato un altro approccio, Rosa l’avrebbe ascoltato. Ormai era troppo tardi.

Edward si stravaccò sul suo letto, con un sospiro esausto. Gli sarebbe piaciuto mettersi a dormire fino all’estate successiva. Forse avrebbe potuto chiedere ai figli di Ipno se potevano ipnotizzarlo o qualcosa del genere. Il suo sguardo cadde distrattamente su Veloce come il Vento, appoggiato contro la parete accanto al suo letto, la corda ancora spezzata. Rimuginò per qualche istante, poi intuì cosa avrebbe potuto fare per smettere di pensare a tutti i casini che aveva combinato.

Mentre si dirigeva verso il bosco, incrociò con suo enorme stupore il volto familiare di una ragazza seduta all’ombra di un albero.

«Jane?»

«Edward!» disse lei. Si alzò in piedi con un sorriso raggiante. «Come va?»

«Ehm… bene» mentì spudoratamente lui, mentre studiava il suo aspetto. Aveva i capelli color platino raccolti in uno chignon. Le stavano bene, con due ciuffetti più lunghi che scivolavano lungo gli zigomi. Doveva anche aver scelto i vestiti “casual” quel giorno, perché indossava una semplicissima camicia di lino azzurrina e degli shorts color panna che lasciavano scoperte le gambe pallidissime.

«Non… non sei tornata a casa?» domandò, accorgendosi di essere rimasto in silenzio a fissarla come un baccalà.

Jane si strinse nelle spalle, il sorriso gentile che svaniva. «Non ho nessun posto dove tornare. Mio padre… beh, è in prigione.»

L’espressione basita di Edward la fece ridacchiare. «È successo tanto tempo fa. Sta ancora scontando la pena» gli spiegò, prima di sospirare affranta. «Devo aver preso da mia madre la bravura nel scegliere gli uomini…»

«Jane…» cercò di dire Edward.

«Sono felice che tu sia rimasto nel campo.»

Edward rimase in silenzio, stupito, mentre Jane tornava a sorridergli. Non sembrava nemmeno lontanamente la stessa persona che aveva conosciuto il suo primo giorno al nel campo. Gli bastò vederla con quell’espressione così serena per sentirsi subito meglio. Fu come se, per quel breve istante, tutti i suoi problemi e le sue turbe fossero passati in secondo piano.

«A proposito…» disse ancora lei, passandogli accanto. «… non sei ancora passato da me per rivedere il tuo guardaroba. Guarda che non puoi continuare ad andartene in giro conciato in quel modo. Fai male agli occhi.»

«Ma…» provò a protestare Edward, ma Jane era già partita. Il figlio di Apollo rimase immobile, a guardarla mentre si allontanava, e un altro sorriso nacque sul suo volto. Scosse la testa, poi proseguì verso la sua destinazione.

 

***

 

«… come?» domandò Kevin, con voce stanca, mentre esaminava l’arco.

«Cosa?»

«Come hai fatto a romperlo?»

«Io non ho fatto proprio niente. Si è rotto da solo.»

«Impossibile. È uno dei miei lavori migliori. Devi averlo rotto di proposito.»

«Ti dico di no! Si è rotto da solo!»

Un grugnito poco convinto provenne dal figlio di Efesto, che posò l’arco sul tavolo da lavoro e si stravaccò su una sedia ergonomica girevole. «Beh, amico, ora non sono proprio in vena di riparazioni. Magari domani gli darò un’occhiata.»

Edward assottigliò lo sguardo, facendolo vagare lungo tutto il Bunker Nove. L’ultima volta che era stato lì c’era un disordine pazzesco, ma adesso era pure peggio. Non c’era una sola cosa al proprio posto, le mensole, gli scaffali, i tavoli erano strapieni di aggeggi smontati, con cavi scoperti e pile e pile di circuiti e bulloni accanto.

«Ma che cavolo è successo qui?» domandò. «È passato un tornado?»

«Stavo dando una sistemata.»

«Si vede…»

Kevin mise i piedi sul tavolo. «Allora, te ne vai o no?»

Edward si voltò verso di lui, irritato. «Senti, ma qual è il tuo problema? Perché devi comportarti come se detestassi tutti quanti, quando in realtà sappiamo entrambi che non è così?»

Per la prima volta da quando lo conosceva, quel Mister Simpatia sembrò senza una risposta scontrosa da dargli. Rimase in silenzio per qualche istante, a scrutarlo dal basso, come se stesse davvero riflettendo sulla sua domanda. Poi si strinse nelle spalle. «Vuoi la verità? Non ne ho idea. So solo che... per alcuni di noi figli di Efesto è difficile avere a che fare con le persone. Avete tutti i vostri… sentimenti, sogni, ambizioni. Non siete macchine. Siete… complicati. E quando… vi “rompete” non basta un po’ di olio di gomito per aggiustarvi. Per quelli come me… isolarsi è molto più semplice. Non rischiamo di fare danni, almeno. Lo so che ti sembrerà assurdo, ma è la verità.»

Il figlio di Apollo pensò che fosse una delle spiegazioni più strambe che avesse mai sentito, tuttavia Kevin sembrava davvero sincero. Lo capì dal suo tono di voce, dal suo sguardo. Sembrava che stesse parlando per esperienza.

«Ma scusa, non… non avevi una ragazza? Quella della casa di Ebe, come si chiama? Sasha?»

«Sarah» corresse Kevin, prima di sospirare. «E sì, hai detto bene. Avevo.»

«Oh…»

«Già, amico. “Oh” è la parola giusta.»

«Che è successo?» domandò Edward, sedendosi di fronte a lui.

Kevin si mise una sigaretta in bocca. «E a te che ti frega?» borbottò, prima di accorgersi dell’occhiata che Edward gli lanciò. A quel punto si schiarì la voce. «Si è… arrabbiata quando ha scoperto che fumavo. Cioè, è una figlia di Ebe, quindi ci sta che sia contraria al fumo, però… non le è proprio andato giù il fatto che io gliel’abbia tenuto nascosto. Si è arrabbiata perché le ho mentito. Ha creduto che… che fumare per me fosse più importante di lei.»

«Ma… e allora perché non smetti, scusa?»

«Ci sto provando, okay!» esclamò Kevin, togliendo i piedi dal tavolo e sbattendo una mano sul ripiano. «Non è così facile! Mi sembra… mi sembra che io non abbia fatto altro che fumare da quando sono stato creato…» Si appoggiò allo schienale con un sospiro abbattuto. «Maledetti esseri umani… perché non potete avere un interruttore per i problemi? On e Off. Problemi sì, problemi no. Sarebbe tutto molto più semplice.»

«Ma anche più noioso. No?»

Kevin spostò lo sguardo su di Edward. Un mugugno gli scappò tra le labbra, mentre ponderava sulla sua affermazione. «Può darsi» convenne, con un’alzata di spalle. «E tu, invece?» domandò, indicandolo con la sigaretta. «Nemmeno tu hai una bella cera. È perché tutti i tuoi amici ti hanno mollato qui?»

«Come lo sai?» chiese Edward, stupito.

«Tsk. Non sei il primo e non sarai l’ultimo che vedo con quella faccia il giorno delle partenze. Succede tutti gli anni. Ti ci abituerai… se non schiatti prima, certo.»

«Wow, grazie…»

Il figlio di Efesto non sembrò accorgersi del sarcasmo, perché gli sorrise. «Figurati.»

Edward non credeva di averlo mai visto sorridere in quella maniera, quindi decise di non dirgli che lo stava solo prendendo in giro.

«Comunque non è solo per i miei amici» disse ancora, sentendosi sprofondare nella sedia. «Ho… ho litigato anch’io con qualcuno di importante.»

«La tua ragazza?»

«Mia sorella.»

«Brutta storia. Però, se posso dirti una cosa…» Kevin sollevò le spalle. «Le persone sono complicate, ma le famiglie lo sono ancora di più. Anzi, direi che sono proprio stronze. Specie quelle divine.»

Edward ridacchiò. «Sì, me ne sono accorto.»

«Però due persone di cui non importa niente l’una dell’altra non litigherebbero mai, secondo me. Si ignorerebbero e basta. Io ho otto fratelli e a malapena ricordo i loro nomi. Se non ho mai litigato con loro è per questo motivo. Se tu hai litigato con tua sorella, è perché tieni a lei. Ho ragione?»

Il figlio di Apollo cominciò a capire dove l’altro volesse andare a parare. «Sì, è così.»

«E allora non devi preoccuparti troppo. I litigi succedono spesso, specie in una famiglia. Aspetta che le acque si calmino e poi parlale di nuovo. Tutto si risolverà.»

«Sì, forse hai ragione» mormorò Edward, prima di sorridere. «Dai buoni consigli, per essere un incapace con le persone.»

«Beh, per sbagliare tutte le domande di un test occorre sapere tutte le risposte.»

Edward annuì. «Forse non sei così stupido. Anche se…» Si sporse verso di lui e gli sfilò la sigaretta dalle labbra proprio mentre se la stava per accendere. «… è ora che tu la smetta.»

«Ehi!» protestò il figlio di Efesto, per poco non rovesciandosi dalla sedia. Ghermì l’aria con la mano nel tentativo di raggiungerlo. «Ridammela!»

Edward allontanò la sigaretta da lui. «Te lo scordi. Rivuoi la tua Sarah oppure no? Cos’è più importante per te?»

«… vaffanculo» mugugnò Kevin indispettito. Distolse lo sguardo da lui, cosa che fece capire a Edward di aver colpito nel segno.

«Ti basta resistere tre giorni, poi è fatta» lo rassicurò, mentre spezzava la sigaretta a metà.

Il figlio di Efesto guardò la scena con aria quasi addolorata. «Sì, come no. Tre giorni più ventisette.»

«Su, su. Vedrai che ci riuscirai. Anche Sarah è partita?»

«Sì…»

«Allora hai un anno di tempo per dimostrarle che tieni davvero a lei. Mi sembra fattibile.»

«Se lo dici tu…»

Edward ridacchiò e anche Kevin abbozzò un altro sorriso. Per un momento, sembrarono due amici qualsiasi che cercavano di ridere sopra i loro problemi. Forse… forse erano partiti con il piede sbagliato. Erano molto più simili di quanto entrambi potessero immaginare.

Il suo sguardo scivolò lungo i banconi da lavoro del bunker e si posò sopra uno strano aggeggio fatto di tubi e cavi. Si alzò dalla sedia e si avvicinò. «Questo è l’affare con cui hai quasi incenerito Tommy?» domandò sbalordito, mentre osservava quella specie di esoscheletro rudimentale.

Sentì la sedia di Kevin spostarsi mentre lui si alzava. «Sì, perché? Vuoi farmi anche tu la morale sul fatto che il fuoco è pericoloso ed eccetera eccetera?»

Edward appoggiò la mano sull’invenzione di Kevin. «Che forza» mormorò.

«Oh.» La voce del figlio di Efesto sembrò sorpresa. «Ti piace?»

«Scherzi? È una cosa pazzesca! L’hai costruito tutto da solo?»

Kevin lo affiancò, impettito. «Naturalmente! Lo sai con chi stai parlando? Io sono Kevin fottuto Bolt.»

«Hai solo quest’affare? Oppure hai costruito altro?»

«Beh…» Kevin si grattò il mento. «Ci sono le mie mine alla polvere orticaria, le trappole elettriche, la mia giacca anti aggressione…»

«Giacca “anti aggressione”?»

«Può sparare scariche da 300 volt. L’ideale per stendere i mostri. E anche i malintenzionati. Devo migliorarla però, perché durante i test ha folgorato anche i manichini che la indossavano. Vuoi vederla?»

Edward sollevò le spalle. «Perché no?»

Nei minuti successivi, Kevin gli mostrò tutte le diavolerie che aveva progettato. Erano per lo più armi, come lance e spade caricate con elettricità, frecce esplosive, la suddetta “giaccia anti aggressione”, che si trattava di uno smoking malconcio con dei taser della polizia nascosti in delle tasche interne – Edward non volle sapere dove diamine li avesse presi – e per finire alcune armi da fuoco.

«Questo è un M1921 con caricatore di tipo C, da 100 colpi» spiegò Kevin, sollevando il mitra con il caricatore rotondo che già una volta Edward aveva visto. «Meglio conosciuto come Thompson, o “Mitra Tommy”.»

«Mitra Tommy?» domandò Edward. Gli sembrò di averlo già sentito da qualche parte. «Che… nome strano.»

«Questo invece…» Kevin sollevò un fucile di legno e ferro con il caricatore a leva. «… è un Winchester Model 1866, detto “Yellow Boy”. Calibro 50 Express.» Il ragazzo tirò la leva, producendo un rumore meccanico, poi lo sollevò e lo puntò verso un bersaglio immaginario. «Hai mai visto qualche film western?»

«Ehm… no.»

«Recupera allora. Non sai che ti perdi.»

«Può uccidere anche i mostri?» domandò Edward, quando Kevin posò il fucile sul banco da lavoro.

«Ovvio, l’ho riconvertito personalmente. Nell’armeria ci sono alcune armi da fuoco, ma non mi sono mai piaciute. Io sono più per i classici.» Kevin si accorse del suo sguardo e sorrise. «Ti interessa?»

Edward accarezzò il calcio del fucile, annuendo. «Si chiama come me.»

«Yellow Boy?»

«No, Model.»

«Beh amico, se lo vuoi è tutto tuo. Però forse faresti meglio a lasciarlo qui. Chirone e gli altri si innervosiscono quando vedono le mie armi. Dicono che sono “poco sicure”. Bah!»

Il figlio di Apollo allontanò la mano da Yellow Boy. «Che ingrati.»

«È quello che dico anch’io! Non capiscono il mio genio!»

Edward ridacchiò. Si guardò ancora una volta attorno, concentrandosi su tutti gli arnesi costruiti da Kevin, e poi osservò Kevin stesso mentre strofinava un panno sopra il Thompson per pulirlo. In un certo senso gli ricordò Stephanie, solo che al posto delle piante si prendeva cura di dispensatori di morte.

Diverse idee presero forma nella sua mente. «Sai amico… io riconosco il tuo genio, invece.»

Kevin si illuminò. «Davvero?»

«Ah-ah. Queste armi… tutta questa roba…» Edward accennò al bunker intero. «… ci tornerà utile. Ne sono sicuro.»

Il figlio di Efesto assottigliò le palpebre, come se pensasse a una presa in giro, tuttavia Edward era serissimo.

«Beh, amico…»

Kevin si accovacciò sotto a un banco da lavoro, per poi riemergere con tra le mani due lattine. Gliene passò una ed Edward la esaminò, accorgendosi dell’arpa color oro raffigurata sopraRimase senza parole: era una Guinness. Ed era anche ghiacciata, con gocce di condensa ancora sopra.

«E queste da dove saltano fuori?» domandò, rigirandosi quella lattina nera e fredda tra le mani come se fosse stata una reliquia preziosa, cosa peraltro vera, visto il divieto di alcolici nel campo.

«Ma lo sai con chi stai parlando? Io sono Kevin fottuto Bolt. Io posso tutto.»

«Sì, l’hai già detto.» Edward tirò la linguetta, producendo il classico suono dell’aria gasata che si liberava.

Anche Kevin tirò la linguetta, per poi alzare la lattina come se fosse stato un trofeo. «Propongo un brindisi. Alle… famiglie incasinate. E alle ragazze incazzate.»

«Ci sto.» Edward batté la lattina contro quella di Kevin e alcune gocce caddero a terra. «Alle famiglie, e alle ragazze.»

I due ragazzi si scambiarono un cenno d’intesa. Bevvero insieme, senza dire altro.

 

 

 

 

 

 

Salve gente. È passato un bel po’ dall’ultimo aggiornamento e di questo chiedo scusa, però finalmente ci siamo, e sono molto molto felice di comunicare che questo per il momento è tutto per quanto concerne questa storia. 

Il motivo per cui gli aggiornamenti sono stati così scostanti è perché all’inizio questa raccolta è nata come tappabuchi, nel senso che scrivere capitoli come i primi, brevi che però davano qualche excursus sui personaggi, era una cosa molto semplice e veloce, e il mio intento era quello di scriverli e pubblicarli mentre mi dedicavo a progetti più complessi, come L’Elisir di Lunga Vita e il Velo Invisibile. Quello che è successo però è che sono stato molto veloce a scrivere queste due storie e quindi il ruolo della raccolta è sempre valso meno, perché non c’era bisogno di un tappabuchi se i buchi erano già tappati, e alla fine ho finito col trascurare questa storia e a lasciarla un po’ a sé stessa. 

Un’altra cosa che è cambiata è che ho deciso di trasformare la raccolta in una sorta di prequel, abbiamo visto cose importanti, come il tradimento di Buck, e adesso il litigio tra Edward e Rosa, con lei che vuole diventare cacciatrice, e abbiamo scoperto cose che contribuiranno al futuro della serie, come Rosa che va a Bismark, e cose del genere. Insomma, alla fine lo scopo di questa storia si è un po’ trasformato e la mia attenzione verso di essa è un po’ calata, ma ora siamo finalmente giunti al termine e sono felice di essermi tolto questo peso, almeno per ora, poi mai dire mai, però per il momento questa è la fine non ufficiale. 

Spero che il capitolo vi sia piaciuto, spero che vi siate divertiti fino a questo momento, spero che gli altri personaggi siano stati all’altezza delle aspettative o magari anche di più, insomma, spero di avervi intrattenuti. Ringrazio di cuore Farkas e Cabin per aver recensito gli ultimi capitoli e nulla, ci vediamo al prossimo aggiornamento, che spero sia abbastanza rapido perché il prossimo capitolo del Velo è quasi pronto. 

Alla prossima!

 

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Capitolo 12
*** Il figlio di Efesto e la figlia di Ebe ***


Note: questo capitolo è ambientato durante il capitolo 19 di La Spada del Paradiso, "Fiducia". 



Il figlio di Efesto e la figlia di Ebe



Sarah aveva sempre cercato di tenersi il più lontano possibile dal Bunker Nove. Non sapeva di preciso perché. Forse perché riteneva che ogni centimetro di quel luogo fosse una possibile fonte di tetano.

O forse, era per via di chi lo frequentava.

Era ormai sera quando entrò in quel gigantesco capannone. Non c’era mai stata prima, perciò rimase per un istante sconcertata da quanto enorme, e disordinato, fosse. C’erano armi, armature, elettrodomestici smontati, bulloni e cavi ovunque si voltasse, sparpagliati su mensole, banconi da lavoro e perfino per terra. La sua paura del tetano non era così infondata, dopotutto. Per fortuna non era ossessionata dall’ordine come alcuni ragazzi che conosceva, altrimenti lì dentro sarebbe impazzita.

«Kevin?» domandò incerta, mentre avanzava tra quei rottami curandosi di non sfiorarne nemmeno uno. Conosceva i figli di Efesto, era sicura che in tutto quel caos loro ci vedessero ordine, e non voleva fare nulla per cambiarlo. «Ci sei?»

Vi fu un clangore di metallo, seguito da un’imprecazione. Sarah sussultò per la sorpresa. Il suo sguardo fu catturato da un grosso tendone al fondo del bunker. Sembrava il sipario di un teatro, grigio per la polvere e la sporcizia però.

«Kevin? Sei lì dietro?»

Nessuna risposta. Da dietro il sipario calò un silenzio quasi innaturale. Sarah si avvicinò con cautela. «Kevin…?»

Allungò una mano verso la tenda. Un secondo prima che potesse toccarla, quella venne spalancata all’improvviso e la ragazza saltò all’indietro, spaventata dalla figura trasandata appena uscita allo scoperto.

«Sarah?» domandò Kevin. «Che ci fai qui?»

Sarah non rispose subito. Il suo sguardo non riuscì a staccarsi da lui, dal suo viso coperto di grasso per motori e fuliggine e la sua maglietta, un tempo probabilmente bianca, e che adesso sembrava appena uscita da un campo di battaglia. Sembrava che gli fosse esplosa una bomba addosso.

«Ah, sì.» Kevin si accorse del suo sguardo e tirò il colletto, con un sorrisetto da bambino dispettoso. «Avresti potuto dirmi che saresti passata. Mi sarei messo il vestito elegante.»

Non appena sentì il suo sarcasmo, la ragazza si riscosse e fece una smorfia. «Non sei divertente.»

Kevin tirò la tenda in modo che lei non potesse vedere cosa ci fosse dietro. «Sì, beh, tu non mi hai ancora detto perché sei qui.»  

“E questo cosa c’entra?” pensò Sarah, infastidita.

«Buck vuole parlare con tutti i capicasa» rispose. «La cosa, sfortunatamente, include anche te.»

«Ah. E io che pensavo fosse qualcosa d’importante.» Kevin le diede le spalle. «Dì pure agli altri che sono malato, o cose così.»

Fece per tornarsene dietro il tendone, ma Sarah lo fermò. «Ehi, aspetta! Da quanto tempo sei qui dentro?»

Kevin si voltò nuovamente, corrucciato. «Uhm… non lo so. Che giorno è oggi?»

Solo in quel momento, Sarah si accorse anche delle sue occhiaie profonde come un fossato. Sembrava più vecchio di trent’anni. «Quando… quand’è stata l’ultima volta che hai dormito?»

«Ehm… che giorno è oggi?»

«Tu… non ti sei mai fermato? Da quando gli altri sono partiti per l’impresa??» domandò lei, sempre più esterrefatta.

«Sì, beh…» Kevin si avviò verso un angolo del bunker, dove Sarah notò un lavabo attaccato alla parete, vicino ad un ripiano pieno di stracci sporchi e un rotolo di carta da cucina. Gesticolò nervosamente mentre apriva l’acqua. «… il campo non può mica proteggersi da solo. No? Ho detto che avrei progettato delle trappole, ma devono essere a prova di mostro, e innocue per tutti gli altri.» Cominciò a lavarsi il viso, mentre continuava a parlare. «Non è mica così semplice. Metti che una driade ne attiva una mentre scappa da qualche satiro arrapato. Non voglio che qualcuno si faccia male.»

Sarah si morse un labbro, per non lasciarsi scappare una risatina. Per quanto… cruda, l’affermazione che aveva fatto sui satiri e le driadi era piuttosto accurata.

«Ma i tuoi fratelli non ti aiutano?»

Kevin strappò un pezzo di carta. «Abbiamo provato a collaborare per un po’, ma… non credo che capissero davvero quello che volevo fare. Così gli ho detto che avrei preparato un progetto per loro, da costruire. Anche se la cosa ci sta mettendo più del dovuto, per via di quello che ho detto prima. Ma ci sono vicino. Ancora qualche ritocco, e sarà tutto pronto» aggiunse frettoloso, come se volesse rassicurarla.

Sarah lo osservò mentre si puliva il viso. Diede ancora uno sguardo al bunker, a tutto quel caos, quegli oggetti sparpagliati in giro, e per finire quel tendone da cui era uscito. Chissà a cosa diamine stesse lavorando, là dietro.

«Non… credevo che t’importasse così tanto» disse, tornando a guardarlo. «Del campo, dico.»

«Certo che m’importa! È casa nostra. E non lascerò che quei bastardi tornino a rovinarcela.»

«Linguaggio, Kevin.»

«Cosa? Non dirmi che anche tu sei fissata con questa stronzata del…»

Sarah incrociò le braccia e lo zittì con un’occhiataccia. «Linguaggio, Kevin.»

Kevin rimase con la bocca spalancata per una manciata di secondi, prima di alzare le mani. «Va bene, va bene. Scusa. È solo che… ho tanto per la testa. E la mia mente viaggia molto più velocemente delle vostre. A volte non mi rendo conto di quello che dico… n-non che stia insinuando di essere più intelligente di te, eh. Non mi fraintendere. I-Insomma, quello che volevo dire…»

Questa volta, di fronte all’espressione imbarazzata di Kevin, Sarah non riuscì a trattenere una risatina. «Tranquillo, ho capito.»

Anche Kevin sorrise. La ragazza rimase a guardarlo mentre finiva di asciugarsi il viso abbronzato. Forse l’aveva giudicato male. Credeva che fosse scorbutico, e antipatico, e testardo, e cocciuto, e… tante altre cose. Invece teneva al campo. E aveva molto a cuore quello che faceva, a differenza di tanti altri egoisti e ipocriti che invece proclamavano di essere dalla parte del campo e di chi lo abitava. Con quelle poche parole, Kevin le aveva dimostrato di essere superiore a molti di quei soggetti.

E poi, nemmeno lei si era mai particolarmente interessata alle armi, al combattimento, o all’addestramento da semidio in generale. Non che pensasse che fosse una perdita di tempo, ma semplicemente aveva capito che combattere non faceva per lei. Non era forte, non era una guerriera, i mostri a malapena si accorgevano di lei. Ma rispettava i semidei, il campo, e tutto quello che facevano lì. Rispettava i guerrieri che c’erano stati prima di lei – Ercole, il più grande semidio di tutti i tempi, era suo patrigno dopotutto. Tuttavia, il suo ruolo non era quello. Lei voleva aiutare in altri modi, occuparsi dei suoi fratelli, dei suoi compagni, assicurarsi che tutti stessero bene. Aveva aiutato diverse volte i figli di Apollo con i feriti nei giochi, o negli allenamenti.

Se pensava a quella ragazza rapita… le venivano i brividi. Non voleva che la stessa sorte capitasse a uno dei suoi fratelli, né a nessun’altro.

E per Kevin era lo stesso. Nemmeno lui voleva che qualcun altro si facesse del male, o peggio. Solo perché non combatteva non significava che non gli importasse.

«Dai, vieni con me» lo invitò, accennando con la testa all’uscita. «Anche se Buck non avesse nulla di interessante da dire, ti farà bene uscire un po’. Ti meriti un po’ di riposo.»

Kevin si appoggiò al lavabo, con le braccia conserte. «Non pensavo t’importasse così tanto. Di me, dico.»

Sarah sentì le guance pizzicare, mentre il ragazzo faceva un altro sorrisetto beffardo.

«Beh…» Si avvicinò a lui e gli prese una mano. Era piena di calli e con la pelle screpolata, sicuramente per via del lavoro.

Il figlio di Efesto fece un verso sorpreso, mentre lei gli sottraeva delicatamente il pezzo di carta.

«… forse un po’ m’importa» concluse, pulendogli una macchia di grasso rimasta sulla guancia.

I loro sguardi si incrociarono e la ragazza avvertì un sussulto al petto. Anche Kevin sembrò imbarazzarsi, perché abbassò gli occhi e si grattò dietro al collo, con le guance lievemente arrossate. «Beh… sono… felice di saperlo.»

Sarah non riuscì a reprimere un altro sorriso. Non avrebbe mai pensato che si sarebbe trovata lì, a parlare proprio con lui in quel modo.

Butto la carta in un cestino già pieno fino all’orlo e accennò con la testa all’uscita: «Andiamo, su. Altrimenti ti trascino per le orecchie.»

«No, non serve. Ecco.» Kevin si staccò dal lavabo e slacciò il marsupio che teneva legato alla vita. «Ecco, così non mi metterò a giocherellare mentre ascolto le cazz... le sciocchezze di Buck.»

La figlia di Ebe roteò gli occhi, anche se un altro sorriso rischiava di fare capolino sul suo viso. Non voleva incoraggiare troppo quel bambinone nel corpo di un ventenne abbronzato e trasandato.

I due ragazzi uscirono dal bunker, fianco a fianco. Nessuno dei due disse più nulla durante tutto il tragitto nel bosco, ma quel silenzio non pesò a Sarah. Realizzò di trovarsi stranamente a proprio agio assieme a lui. E soprattutto, più il tempo passava e più si rendeva conto che non era per niente come appariva di solito. Era un ragazzo tranquillo, introverso, perfino un po’ timido. Lo capì dalla sua postura, dal suo modo di camminare. Era come se, inconsciamente, cercasse di non dare troppo nell’occhio.

Sì, si era decisamente sbagliata.

Sarah aveva sempre cercato di tenersi lontana dal Bunker Nove, e da chi lo frequentava. Ma dopo quel giorno… le cose cambiarono.

Aveva sempre pensato che il suo ruolo fosse quello di aiutare gli altri. Beh, anche Kevin rientrava negli “altri”. Era stato così occupato dal lavoro che aveva trascurato sé stesso, il suo corpo, il suo benessere. E lei avrebbe fatto in modo che le cose cambiassero. Anche lui meritava di stare bene.

E soprattutto, sarebbe stata molto lieta di introdurre la crema per le mani nella sua vita.





Salve gente. Ebbene sì, questo è un nuovo capitolo della raccolta. Mi sono reso conto che stava passando troppo tempo tra un aggiornamento e l'altro del Velo Invisibile e mi sono ricordato che avevo creato questa raccolta proprio per questo motivo, quindi eccoci qui. So che probabilmente non fregherà niente a nessuno di questi due personaggi, ma nella mia testa sono carini insieme. E poi, per quei pochi a cui interessa, volevo mettere un po' di sale sulla ferita, visto che si sono lasciati nell'ultimo capitolo della raccolta. Sono un mostro, lo so, lo so. Mi dispiace. 

Niente scusate per avervi fatto perdere tempo. Ci vediamo sul Velo, per quelli a cui interessa, tra qualche milione di anni. Peace. 

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