I Cinque Pilastri di Marduk

di MaikoxMilo
(/viewuser.php?uid=124591)

Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.


Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Qui, senza di te ***
Capitolo 2: *** Inseguirsi senza, tavolta, potersi ritrovare ***
Capitolo 3: *** Utopo, il Generatore di Mondi ***
Capitolo 4: *** Ergon, l'impulso vitale ***
Capitolo 5: *** L'altra faccia della Creazione ***
Capitolo 6: *** Fino all'ultimo respiro... con tutte le mie forze! ***
Capitolo 7: *** Amicizia e lealtà ***
Capitolo 8: *** Ricordi intrecciati (prima parte) ***
Capitolo 9: *** Ricordi intrecciati (seconda parte) ***
Capitolo 10: *** Ricordi intrecciati (terza parte) ***



Capitolo 1
*** Qui, senza di te ***


Capitolo 1: Qui, senza di te

 

 

25 ottobre 2011, tarda serata

 

 

La cena era trascorsa in religioso silenzio, neanche la presenza, generalmente solare, di Milo era riuscita a ravvivare gli animi, che permanevano tetri e lugubri, soprattutto da parte di Michela, la quale, ancora frastornata dall’allontanamento di Hyoga, aveva mangiato pochissimo, chiedendo addirittura un po’ di verdura, cosa assolutamente non da lei, Camus lo sapeva bene, perché in quei mesi di convivenza aveva imparato a conoscere le sue allieve e ad affezionarcisi velocemente, come, in precedenza, era successo solo con Isaac dopo i primi, prudenti, mesi di distacco e, successivamente, con la piccola Sonia. Che fosse causato dall’essere morto più di una volta, o da chissà quale altro prodigio, l’Acquario aveva smesso di domandarselo dopo il loro ritorno dal passato. Ormai era successo, non aveva senso alcuno torturarsi sul perché, era accaduto, e ciò lo faceva sentire bene, sebbene lo mettesse in condizioni ancora più fragili.

Ed essere fragile era una delle sue paure maggiori, ma non avrebbe più potuto tornare indietro e, forse, neanche avrebbe voluto.

La cena era trascorsa in silenzio, nessuno aveva voglia di parlare, tanto meno Milo, orfano di Sonia, affatto abituato all’assenza della ragazza con cui ormai condivideva anni di coesistenza. Camus capiva bene il suo stato, si era sentito così, dopo la morte di Isaac… perso… nel vuoto. Ma a differenza sua, per lo Scorpione era una separazione solo temporanea, la ragazza sarebbe tornata, tempo 40 giorni, insieme a Marta, ma Milo aveva un cocente bisogno di averla intorno, lo faceva sentire bene e… ci era rimasto male per la sua scelta, era chiaro, anche se aveva fatto in modo di nasconderlo all’allieva.

Allievi… tzé! Allievi che facevano di testa loro, sempre, convinti di essere grandi, cacciandosi poi nei guai e…

Isaac…

Quasi si dovette sorreggere alla credenza al ricordo dell’amato allievo, il piatto che stava lavando cozzò irrimediabilmente contro il lavandino, crepandosi e rischiando di rompersi.

Perché andava a pensare sempre ad Isaac quel giorno? Era stato a causa del dialogo con Marta? Perché lei glielo ricordava? Oppure perché anche Hyoga se ne era andato, lasciandolo lì, solo? Era poi solo, in effetti? Sì, lo era, una parte di lui se ne era andata con il biondo, l’altra parte, la preponderante, non si dava pace per avergli permesso di lasciare quella Casa senza più voltarsi indietro.

Sarebbero davvero bastate le sue parole per convincerlo a rimanere? Dopo avergli sputato addosso che, sì, aveva sempre preferito Isaac, che lui era stato un mero sostituto e che la colpa di aver rotto il nido era stata solo la sua, della sua esistenza maledetta, sarebbe bastato un suo intervento per ristabilire tutto?!

La verità era anche un’altra… Hyoga era molto di più per lui, era il suo ragazzo, che aveva fatto crescere a prezzo di immani sacrifici, nonché una parte inestimabile del proprio cuore. I pensieri che Nero Priest gli aveva estirpato con la forza, erano altresì veritieri, ma frutto di momenti di disperazione o debolezza, o anche rabbia. Era stato l’influsso nemico a renderli così esacerbati, lui non era stato in grado di opporsi e non se lo perdonava, perché a causa di ciò aveva inferto un duro colpo all’allievo, che infatti, colpito e affondato dalle sue parole, si era allontanato da lui, forse per sempre.

Una fitta improvvisa al petto. Camus fu costretto a posare il piatto nel lavandino, prima di toccarsi il torace con l’altra mano e cercare di calmare il dolore con il suo respiro. Gli capitava di frequente quel tipo di malessere, che partiva come stilettata per poi dilagarsi dappertutto, ripercorrendo le tre cicatrici che segnavano il suo corpo. Era di breve durata, in genere, ma atroce.

Non quella volta. Camus dovette fare forza con i piedi per andarsi lentamente a sedere, ringraziò mentalmente che non ci fosse nessuno nei dintorni a vederlo così, quindi si permise di piegarsi un poco in avanti nell’estremo tentativo di controllarsi. Aveva difficoltà a respirare correttamente, il dolore si accentuava invece di diminuire, persistendo, la testa aveva preso a pulsargli violentemente… doveva calmarsi nel più breve tempo possibile, altrimenti una delle due allieve avrebbe potuto accorgersi delle increspature del suo cosmo e preoccuparsi, non poteva permetterselo. Rabboccò aria, forzandosi alla calma, serrò le palpebre, sofferente.

“Mmm, ero venuto a chiederti come stavi, ma… temo di avere già una risposta!”

Camus trasalì al suono di quella voce, non aspettandosi qualcuno, men che meno lui proprio in un momento simile. Si lasciò sfuggire un “Porc…!” che riuscì tempestivamente a censurare, prima di alzarsi con tutte le sue forze e fissare con astio il nuovo giunto.

“Efesto! Che diavolo ci fai qui?!”

Si raddrizzò, nonostante la testa continuasse a pulsargli con forza sempre maggiore, dovette divaricare le gambe per non cadere, la sua ferma volontà glielo permise, a scapito però della sua stessa respirazione, che si fece ulteriormente affannosa.

Il dio del fuoco, dell’ingegneria e delle fucine, nonché suo padre, era apparso all’ingresso della cucina, come se nulla fosse, cosa che aveva subito mal disposto l’Acquario, per niente lieto di farsi vedere in un momento di debolezza.

Non si incontravano da mesi, per Camus andava più che bene così, era completamente a favore di quell’assenteismo continuo, invece eccolo lì a riapparire improvvisamente, soprattutto... a carpirlo proprio quando si era sentito male, che disonore!

“Mmm…. Mmh! Sono venuto qui per Marta!” affermò l’altro, con riluttanza, puntando quel suo unico occhio blu, che avevano ereditato i figli, dappertutto nella stanza tranne che nella figura del maggiore.

“Arrivi tardi! Se volevi fare il padre modello avresti dovuto intervenire prima – quasi sibilò quell’ultima parola, dandogli le spalle e appoggiandosi al lavandino – E’ già partita, Shion l’ha spedita in punizione sull’isola di Milos e l-lei… voleva solo proteggermi!”

“Lo so”

“E allora, se lo sai, vattene da questa casa, non c’è nulla che ti deve interessare qui!” affermò ancora, mentre, barcollante, si dirigeva di nuovo verso il divano per stendersi un attimo, poiché il male era diventato atroce, insopportabile, suo malgrado non gli permetteva di rimanere in piedi in posizione eretta.

“Sono venuto qui per Marta...” ripeté meccanicamente il dio, con una punta di nervosismo.

A quel punto Camus, ancora in piedi, gli scoccò un’occhiata gelida, riottosa. Non voleva proprio capire: non era benvoluto in quel tempio, che racchiudeva gli affetti più intimi, e lui di certo, nonostante il legame sanguigno, non lo era.

“Ti ho detto che non è qui, è sull’isola di Milos, se vuoi raggiungerla. Basta che te ne vai da questa casa, oppure...”

“Marta mi ha detto di chiederti come stai...”

Quell’ultima frase sorprese Camus, il quale, tuttavia, poco dopo si girò completamente verso di lui, gli occhi glaciali, le labbra tese in una smorfia di disapprovazione.

“Ma bene, prima non capivi i sentimenti umani, ora non riesci neanche più ad avere un cervello funzionante per ragionare! Hai fatto dei passi da gigante, le mie più sincere felicitazioni!”

“Non trattarmi con sgarbo, figliolo...”

“NON TRATTARTI CON…! - Camus si costrinse a calmarsi, perché il petto gli continuava a fare male, prese due respiri profondi prima di proseguire - E tu come ci hai trattati, Efesto, dimmi, come ci hai trattati in tutti questi anni?! Ed ora pretendi da Marta e me… CHE COSA?!”

“So bene di non essere stato un padre per voi, ma… ci sto provando, Camus, davvero...”

“Oh, lo vedo proprio chiaramente!” commentò ancora aspramente, sedendosi sul divanetto e appoggiandosi allo schienale, lottando con il bisogno di chiudere gli occhi e riposarsi. Non avrebbe ceduto davanti a lui.

“Pff, ed io che pensavo che fosse Marta la più ostica, tu non sei da meno, anzi, fin peggio, forse...”

“Il dialogo deve proseguire ancora per molto o puoi andartene, Efesto? Sono… stanco!” bofonchiò Camus, riuscendo finalmente a trovare una posizione comoda per sprofondare nel divano.

“Non ci sono stato per te quando sei stato ferito da quegli artigli che ti procurano ancora un male atroce, non ci sono stato quando sei caduto vittima della peste… in tal senso, Marta ha ragione!”

Camus lo guardò con severità, in attesa che proseguisse per vedere dove volesse andare a parare. La questione non sarebbe cambiata, né in quel momento né mai, anche se il suo tono di leggero pentimento sembrava sincero.

“Ma ho comunque aiutato tua sorella quando si trovava nel presente, le ho affidato la tua vita, Camus, e lei… ce l’ha fatta, sapevo che ce l’avrebbe fatta, ti ha… salvato!

Quelle parole irritarono ancora di più l’Acquario che, scrollandosi a forza di dosso il malessere si alzò in piedi, un bagliore degli occhi.

“Mi ha… salvato, sì, e hai idea di quanto abbia sofferto, per farlo?! - lo incalzò, spietato, come sempre quando si trattava di difendere la sorellina – Il Mago ha torturato lei, LEI, Efesto! Le ha fatto provare il mio stesso dolore quadruplicato sulla sua pelle, ed io non potevo fare niente, NIENTE, per farla sentire meglio! E’ rimasta traumatizzata, sconvolta, ha ancora i segni di quella sofferenza sul suo corpo, la cicatrice sul braccio, quella che si è procurata qui, nel presente, per salvarmi, e tu… tu non hai mai fatto niente, invece, passi per me, ma per lei! PER LEI!!!”

“Per attingere alla vera forza, che tua sorella sta ricercando per proteggerti… bisogna arbitrariamente passare per il supplizio!”

“Come puoi… come diavolo puoi fare simili discorsi?! E’ TUA FIGLIA!”

“E’ mia figlia, d’accordo! Devo avere il rapporto morboso che avete voi due per dimostrare che mi importi qualcosa di lei?!?”

“M-maledetto, non osare!” sibilò tra i denti Camus, condensando istintivamente l’aria intorno a lui in un gesto di stizza.

Efesto sapeva bene che il tallone di entrambi era il legame che li univa, ma non era lì per trattare di quell’argomento. Sospirò, appoggiandosi completamente al bastone, anche lui si sentiva dannatamente stanco, quasi avvilito.

“Non sono qui per parlare di questo, Camus, ma per te, credimi, per la tua salute...”

“Non è necessario, il più lo ha fatto Marta, colei che ha il rapporto morboso con me e… ah, dimenticavo, è grazie a questo presunto legame patologico che sono ancora vivo!”

Sarcasmo. Gli capitava di frequente quando era indispettito da qualcosa, l’alternativa era il gelicidio, nel vero senso della parola.

“Pensi di mentire a te stesso e agli altri ancora per molto, Camus? - chiese tagliente, Efesto, aggrottando le sopracciglia – Il più lo ha fatto Marta, è vero, ma… tu stai tutto fuorché bene, tua sorella ha ragione...”

“Lei… si preoccupa sempre troppo per me!”

Camus stava incominciando a tentennare. Si ritrasse esaustivamente, come accadeva di consueto quando doveva nascondere qualcosa, nella fattispecie la sua salute.

“Tua sorella dice che stai soffrendo molto, anche se cerchi di nasconderlo. Ci sono periodi in cui stai peggio, altri in cui il malessere è latitante, le cicatrici ti fanno male, vero? Ti continui a trattenere la maglia in prossimità del torace, non è sfuggito ai miei occhi...”

“Urgh, come dicevo, lei si preoccupa sempre troppo per me! Sto bene, posso fare quello che facevo prima, non sono… debole!” sibilò ancora, cercando di imprimere la sua fierezza negli occhi del padre.

Fare ciò che faceva prima... gli riusciva, anche se con estrema difficoltà, e solo quello contava, in fondo, la riuscita dei suoi compiti, dei suoi doveri, il proteggere le persone che amava. Null’altro.

“Chi ti monitora mi può assicurare che è davvero così?”

“Nessuno, non occorre!”

“Camus...”

“Non mi monitora nessuno, non ne ho bisogno!” ripeté, ostinato.

“Mi stai dicendo che nessuno ti controlla, malgrado le tue condizioni così precarie?!”

“Questo tuo interessamento perché Marta te l’ha fatto notare sta diventando imbarazzante!” si oppose, fermo, massaggiandosi la fronte, deviando argomento. Si sentiva davvero sfinito. Il dolore si era infine attenuato, ma dopo ogni crisi una stanchezza colossale lo investiva, stordendolo.

Efesto, capendo che non avrebbe ottenuto ulteriori spiegazioni, decise di soprassedere, non prima di aver fatto, zoppicando, il giro del divano per avvicinarsi al figlio. Camus non si mosse, ma i suoi occhi attenti erano su di lui, lo seguivano.

“Allora lascia che ti parli di un’altra questione, visto che sulla tua salute sei inossidabile, del legame che hai con Marta e che prende il nome di CIMP”

“Questo cosa potrebbe mai…?”

“Vi vedete nei sogni dell’altro, giusto? Non solo il presente… anche il passato!”

“N-noi… sì”

Camus sembrava di nuovo titubante, come se rivelargli più del dovuto rovinasse la magia del rapporto che aveva con la sorella, o forse perché presagiva il seguito. Efesto scelse di andare dritto al punto.

“Non mi interessa cosa vedete uno dell’altra e viceversa, ma… devi cercare il modo per spezzare questo potere, Camus, o distruggerà tua sorella!”

“Co-cosa?!”

Ci fu una lunga pausa di sguardi, le pupille del Cavaliere dell’Acquario traballarono, quelle del dio invece si fecero un poco meste.

“Devi farlo… per lei!”

“Perché diavolo dovrei…? Dammi una ragione, Efesto!”

“Le fa del male… lei vive ciò che vivi, o hai vissuto, tu...”

“Lo so, accade lo stesso a me, è per questo motivo che la vedo nei ricordi, è piccola, anzi, piccolissima, ed io… io… non voglio...”

“Non vuoi smettere di vedere i suoi ricordi perché è un po’ come se la vedessi crescere, è così?”

Camus tacque, il viso si era colorato di rosso, si vergognava a confermarlo ad Efesto ma era davvero quella la ragione. Un potere che lo spaventava, ma che, al contempo, lo faceva sentire vicino alla sorellina. Era stato grazie a quello che Marta lo aveva salvato dal giogo del Mago, era grazie a quello che lui aveva conosciuto Stevin, rivisto i nonni che ormai erano deceduti, chissà cos’altro avrebbe potuto fare se avesse imparato a controllarlo, ma proprio in quel momento saltava fuori che avrebbe dovuto rinunciarvi per sempre, annullare quella meravigliosa dote.

“Per-perché?” chiese solo, fremendo.

“Tu pensi che Marta abbia acquisito quel potere quest’estate, donandoti il sangue… non è così, il potere lo aveva già prima, la trasfusione ha solo incrementato questa sua attitudine innata”

“CO-COSA?!”

Efesto non diede peso al tono strozzato del figlio, aveva semplicemente assunto un’espressione grave, pesante.

“Questo potere… la ucciderà, Camus! Se le vuoi bene come dici, devi trovare il modo per spezzare il legame!”

“E come… come faccio? Ma, ancora di più, come fai a saperlo?!”

“...”

“Ehi, non pensare di volatilizzarti come sei apparso, mi devi delle spiegazioni, Efesto, ciò che sostieni è assai grave!”

“Il 20 novembre del 2009...”

Camus trasalì al mormorare di quella data, impressa a marchio nella sua testa. Quel gelo, l’agonia, il respiro sempre più flebile e poi… l’orgoglio per Hyoga, per ciò che era diventato, l’affidare tutto a lui, la promessa di rimanere al suo fianco per continuare a vegliarlo.

“...non sei solo tu ad essere morto! Marta c’è andata molto vicina, sono dovuto intervenire io!”

Si sentì quasi mancare, dovette coniugare tutte le sue forze per non cadere in ginocchio. La sensazione di aver subito un pugno nello stomaco, terribile. Rabboccò aria, avvicinandosi a lui e prendendolo per il bavero della veste senza troppi complimenti. Era furioso.

“Parla! Parla, Efesto, cosa successe a Marta?! Perché non me l’hai mai detto?!?”

“Ipotermia...” lo accontentò placido il dio, mentre Camus si ritrasse ancora una volta. Quasi inciampò contro il bordo del divano. Aria, gli mancava aria, il cuore gli accelerò nel petto.

“Non è possibile...” sussurrò, gli occhi vitrei, la gola improvvisamente secca.

“Lei non lo ricorda, io sì...”

“Ha subito… ha subito gli effetti del colpo di Hyoga come li ho subiti sul mio corpo?!”

“Ti ha sentito morire, Camus, sebbene non si ricordasse nitidamente di te… dopodiché sì, ha subito quello che hai passato tu. Antoinette, vostra madre, si mise in contatto con me, disperata, riuscimmo a salvarla allora, ma… se non spezzerai il legame, ciò si potrà ripetere! Il Mago può arrivare a te tramite lei, e farne ciò che vuole. Dici che l’ha torturata, nel passato, quando tu eri al limite, ebbene non ne dubito, non immagini neanche cos’altro le può fare per mezzo di questa dote che condividete”

“No… NO!”

“Può entrare dentro di lei, ridurla in pezzi, centimetro per centimetro, violarla in mille e più modi che neanche ti immagini, o forse… sì…”

Camus sussultò livido, mentre il dio continuava ad avvicinarsi a lui, incombente, quasi spietato. Si ritrovò ben presto a tremare, un insetto nella tela del ragno, mentre la mente veniva sforzatamente ricondotta a quei momenti, a quei…

Provò una nausea crescente, l’impellente bisogno di dare di stomaco, ma si trattenne.

“Tu lo nascondi agli altri, persino a te stesso, ma… quello che il Mago ha fatto… ripetutamente… a te, può ripeterlo anche con lei, se non è già successo, magari anche lei tenta di celarlo a te, siete fatti della stessa pasta, del resto!”

“BA-BASTA!”

“Se le vuoi bene… trova un modo per spezzare il legame, altrimenti tua sorella...”

“BASTA, EFESTO!”

Il suo cosmo ebbe un impulso, mentre una sferzata di vento colpiva il dio, facendolo cadere a terra, il bastone scivolò diversi metri più in là. Efesto sapeva di aver esagerato, sapeva di essere stato brusco, ma non gli riusciva di mostrarsi preoccupato in altra maniera che così, in un modo che sia Camus che Marta non comprendevano, rendendoli sempre più distanti e diffidenti.

Preoccupato, già… lo era per davvero! Come si era rammollito, in quell’ultimo periodo, quale vergogna per una divinità, ma Hermes era diventato così forte, da quando aveva deciso di provare i sentimenti, così… brillante… impossibile non rimanerne abbagliati, impossibile non chiedersi cosa mancasse a lui, e darsi delle risposte.

Si alzò faticosamente in piedi, rimanendo in silenzio. Il potere di suo figlio stava crescendo di giorno in giorno, lo sapeva bene. La Creazione, dopo millenni, anzi miliardi di anni che si era smarrita nell’immensa vastità del Creato, si era rifugiata infine in lui, nel suo grembo, che la custodiva, unica speranza di opporsi al Mago, unica luce, in un Universo che rischiava di collassare di giorno in giorno.

Camus gli aveva dato di nuovo le spalle, si reggeva a stento in piedi, scosso, il petto palpitante. Si era appoggiato alla parete per celarsi, il suo corpo preda dei brividi. Non l’avrebbe più raggiunto, lo sapeva bene, ma il suo obiettivo era stato saldato: per preservare Marta, per impedirle di diventare vittima del Mago, Camus avrebbe fatto di tutto, anzi di più, per tentare di spezzare quel legame che li univa.

“Figliolo… - tentò comunque un approccio, vedendolo stravolto – So cosa ti ha fatto passare Fei Oz Reed e...”

“NON LO SAI! NON LO PUOI SAPERE!” gli urlò contro Camus, voltandosi verso di lui, il furore negli occhi, come di bestia ferita, ci sarebbe mancato davvero poco per fargli perdere il controllo. Lo avrebbe attaccato? Probabilmente. Del resto, rassomigliava paurosamente ad un animale sanguinante: per difendersi avrebbe potuto mostrare tutte le sue risorse.

 

Purtroppo lo so, figliolo, non è solo un sentore il mio, so cosa quel mostro ti ha fatto, so cosa hai dovuto vivere nel passato, e so che hai resistito con tutte le tue forze, prima di crollare. Il tuo corpo è intatto, al di là di quelle ferite, è il tuo spirito ad essere stato piegato più volte. Sei stato profanato… e l’atto, pur al momento solo spirituale, ha inciso pesantemente sulla tua stessa essenza. Ti farà di peggio, se si impossesserà di te, di molto peggio… dobbiamo impedirglielo con ogni mezzo!

 

Continuò a tacere, aspettando che si calmasse, almeno per il momento.

“Efesto… - lo richiamò poco dopo il figlio, in tono più sicuro ma ugualmente tremante – Tu diglielo a Marta… e non mi interessa se sei mio padre, non rivedrai la luce del nuovo giorno!” lo minacciò, senza mezzi giri di parole, gli occhi saettarono ancora più torvamente.

“Lo scoprirà da sola, se non bloccheremo il suo potere...”

In verità Efesto era più che convinto che lei e Milo, come minimo, avessero intuito cosa comportasse realmente la possessione del Mago, ma quello era il momento meno adatto per farglielo notare. Indugiò ancora.

“E… e come spezzo il legame?”

“Questo ancora non lo so, mi sto muovendo io in prima persona per scoprirlo”

“Le farà… del male?”

“Più o meno come rimuovere un rene senza anestesia...”

Gli occhi di Camus si erano spalancati al limite dell’umano possibile, il suo corpo aveva ripreso a tremare, forse più forte di prima.

“E’ l’unica strada, Camus, vivrà di peggio se...”

“Non voglio farle del male… non voglio fare del male alla mia sorellina! Come puoi chiedermi una cosa simile?!?”

“E’ per un fine superiore, credimi, pensi che mi diverta a dire questo? Ma, se non corriamo ai ripari, il vostro legame… la ucciderà!”

“Mi… mi stai dicendo di farle provare un dolore straziante, peggio di quello che ha già patito fino ad ora, te ne rendi conto, Efesto?”

“Preferisci vederla agonizzante per poi morire?!”

“Urgh, no, dannazione, NO! - rabboccò di nuovo aria, rendendosi conto che il suo sconvolgimento era perfettamente percettibile all’esterno senza alcun filtro - La-lasciami solo ora, ho… ho bisogno di… di silenzio!”

Ci fu una lunga pausa, la situazione parve congelarsi. Il Cavaliere dell’Acquario si era di nuovo voltato dall’altra parte, fissava un punto vuoto con gli occhi quasi incavati, il cuore che pesava come un macigno. Efesto capì che non avrebbe più parlato.

“Come preferisci...” si congedò, sparendo in un istante, veloce come era venuto.

Camus avrebbe potuto rifare il giro del divano e sedersi lì, ma si lasciò semplicemente scivolare a terra, la schiena a contatto con il muro, le ginocchia piegate verso il viso, la fronte nascosta tra esse. E stette lì immobile, per un tempo che parve infinito. Vinto, inerme, come si percepiva già da un po’. Poteva farlo, poteva cedere, tra quelle quattro mura domestiche, perché non c’era nessuno lì in cucina con lui, Marta era via, Milo era tornato alla sua dimora, Michela e Francesca dormivano e Hyoga…

Una fitta al petto gli spezzò il respiro, mentre un singhiozzo strozzato gli percosse il torace, che fremeva sotto il peso degli ultimi eventi. Hyoga era lontano, Efesto, proprio lui, sapeva cosa aveva subito nel passato ad opera del Mago, qualcosa che aveva sforzato di celare a tutto e tutti, qualcosa di terribile, che lo aveva minato in profondità. Cosa restava di lui? Di ciò che era stato Camus dell’Acquario?! Di ciò che era stato Camus, lo Sciamano… avrebbe poi potuto tornare lontanamente simile a quello di prima? Come Cavaliere, Shion non gli aveva risparmiato incarichi difficili, malgrado ben sapesse del suo stato di salute cagionevole, di questo gli era grato, ma… sarebbe riuscito a fare lo stesso come Sciamano? Sarebbe riuscito a convergere tutte le sue energie psico-fisiche per curare nuovamente le persone? Rammentava distintamente che il processo era sempre stato più che dispendioso per il suo fisico pienamente in salute, figurarsi in quel momento che… scosse bruscamente la testa, rifiutando l’idea di essere così debole. Si rannicchiò su sé stesso, massaggiandosi le tempie.

Marta era più che intenzionata a seguire fieramente le sue orme, da quanto lo stimasse, del tutto immeritatamente, pensava; avrebbe quindi dovuto portarla in Siberia e farle conoscere Elisey, l’unico, oltre a lui, che avrebbe potuto insegnarle qualcosa, ma -Camus si ritrovò a sospirare, meditabondo- l’idea non gli piaceva per niente, avrebbe voluto farne a meno, soprattutto evitare di farle conoscere quel vecchio pazzo squinternato dalle idee malsane e dai modi fin troppo spicci e sgarbati.

I pensieri si susseguivano l’un l’altro frenetici, non dandogli requie, Camus decise di scrollarseli a forza di dosso. Aveva bisogno di una doccia fredda, di non pensare, anche se per pochi, brevi, minuti, per cui, alzatosi in piedi, si diresse verso il bagno, togliendosi velocemente gli abiti per fare una doccia. Freddissima. Come gli piaceva tanto. Anche se era fine ottobre, anche se, per le persone comuni, cominciava già a fare freddo. Quella concezione comune era data dal fatto che gli altri non avessero la più pallida idea di cosa fosse per davvero il gelo, non quello siberiano, no, un’inezia a confronto di quello mortale, che privava barbaramente del respiro. Ciò che aveva provato lui, per far crescere Hyoga e che, conseguentemente, da quanto aveva scoperto quello stesso giorno, aveva fatto subire anche a Marta. La sua Marta. Il pensiero lo trafisse, acuminato, si sentì mancare. Scrollò il capo, rigettandolo. Non sarebbe più capitato. Mai più!

Uscì ancora gocciolante, strizzandosi i capelli, prima di fissarsi brevemente allo specchio, in quel riflesso che, ormai da molto, non aveva più nulla di Camus dell’Acquario. Solcò le cicatrici, più scure della sua pelle, una ad una, con due dita, provandone un’intensa sensazione di fastidio, si morse il labbro inferiore, trattenendo un gemito. Arrivò al taglio più in basso, lo tracciò più velocemente, perché gli procurava un dolore maggiore al tatto. Esso era il più lungo dei tre, arrivava poco sotto al capezzolo sinistro, ed era ancora paurosamente ruvido, a differenza degli altri che, dopo tutte le pomate utilizzate su insistenza di Marta e degli altri, cominciavano finalmente ad essere più lisci e meno segmentati.

Per un solo, intenso, istante, passando così sulle lacerazioni, si rammentò delle delicate mani di Seraphina su di lui, delle sue dolci cure e delle sue dita leggere che gli avevano solcato la pelle nel distribuire l’unguento, facendolo sentire al sicuro, protetto, persino nell’inferno di dolore che stava attraversando.

 

Mi manchi da morire… anche se sei sempre al mio fianco sotto un’altra forma. Una parte di me, quando ancora ero Dégel, avrebbe voluto un altro futuro. Avrei voluto far di meglio per noi, per te, perché lo meritavi… e invece sei stata tu a dover salvare la mia anima, rinunciando a tutto. Ti sono immensamente grato, Sefi! Ora io… avrò cura di te, che hai scelto di rinascere come mia sorella. E’ cambiato tutto tra noi, era il prezzo per salvaguardarmi, eppure, malgrado questo, sei, e rimarrai sempre, la persona più importante della mia vita, la mia… lucciola!

 

Il cuore si trovò molto presto ad accelerare in petto a quei ricordi, il respiro si accentuò, costringendolo a serrare le palpebre per non rinvangare memorie che gli facevano male. Il calore provato in quei momenti… era così difficile rinunciarvi! Rigettò tutto disperatamente indietro, ancora, con enorme sforzo, le palpebre avevano preso a pizzicare e un magone si stava già creando dentro al suo petto. Insostenibile.

Si asciugò, si vestì altrettanto velocemente, indossando la canottiera e i pantaloni con cui era solito dormire, apprestandosi poi a fare il consueto ‘giro della buonanotte’, soprannominato così da Michela.

Quella sera sarebbe stato più breve del solito, visto la mancanza della metà degli elementi -altra fitta al petto!- ma lo avrebbe fatto comunque, perché ormai era una sorta di rito sincerarsi delle condizioni dei propri allievi, come faceva i primi anni anche con i soli Hyoga e Isaac, ancora bambini. Sorrise tra sé e sé, mentre saliva le scale. Erano tutti parte del suo cuore, ognuno aveva un posto speciale e insostituibile. Costituivano la sua famiglia, i suoi pilastri, le fondamenta della sua stessa esistenza. Così era, così sarebbe sempre stato!

Si diresse prima in camera di Francesca, dove bussò per precauzione, avendo notato che la luce era ancora accesa. Nessuna risposta, ciò lo spinse ad aprire lentamente la porta. La ragazza dormiva profondamente in posizione prona, il cellulare ancora in mano adagiato sul cuscino, l’espressione serena di chi aveva appena letto qualcosa di davvero bello, probabilmente un messaggio di quella spina nel fianco di Death Mask, a giudicare della beatitudine che la contraddistingueva. Camus non volle indagare ulteriormente, né intromettersi, semplicemente le prese con dolcezza il cellulare dalle mani, posandolo sul comodino, prima di chinarsi su di lei e massaggiarle i capelli lunghi e scuri, ritmicamente. Francesca non era molto più piccola di lui, come amava sottolineare la ragazza più volte, eppure l’istinto di protezione che nutriva nei suoi confronti era lo stesso che provava per le più giovani, malgrado fosse consapevole della poca differenza di età. Avrebbe compiuto 21 anni il 30 novembre, lui sarebbe entrato nel ventitreesimo anno di vita con l’avvento del 2012. Era matura, prudente e giudiziosa, forse non c’era davvero bisogno di angustiarsi così per lei, come un padre verso una figlia, ma l’esperienza, il fatto stesso di essere un Dorato Custode aveva reso Camus così, così protettivo verso le persone che rendevano la sua vita splendente. Essere Cavaliere di Atena obbligava a vivere la propria vita con il piede costantemente sull’acceleratore, ed era per quel motivo che lui si sentiva così stanco e vecchio, nonostante fosse nel fiore degli anni della giovinezza, nonostante i suoi coetanei vivessero ancora un’esistenza ricolma di gioie e spensieratezza.

Camus la parola spensieratezza non immaginava neanche cosa potesse significare. Tolto dalle braccia di sua madre e dalla sorellina a quasi 6 anni, dirottato in un mondo troppo grande per lui, investito della carica di Cavaliere d’Oro ancora da bambino, e poi… l’addestramento per diventare Sciamano, la Siberia, l’asprezza stessa della vita, l’enorme perdita del suo maestro, e ancora… gli allievi, di nuovo altre perdite, la scomparsa di Isaac, la guerra, il conflitto civile, la propria morte, la resurrezione…

Era davvero quello il periodo più felice della sua vita, come aveva detto alla stessa Marta quella mattina, eppure alla felicità insperatamente raggiunta si affiancava un’angoscia sempre più frequente per il futuro, la paura che ciò che aveva di più prezioso gli fosse in qualche modo strappato. Ancora. E ancora. Perché la vita lo aveva avvezzato a privarlo costantemente dei propri affetti.

Tremò a quel pensiero, la mano si fermò sulla schiena di Francesca, ancora profondamente addormentata, del tutto inconsapevole dei pensieri che torturavano il suo maestro e che Camus non avrebbe MAI fatto trasparire fuori da sé, non a loro, alle luci che illuminavano la sua esistenza fino a quel momento maledetta. Sorrise di sbieco, prima di raddrizzarsi e sistemarle meglio le lenzuola del letto, prima di spegnere la lampada e dirigersi fuori dalla porta, non prima di averle regalato un’ultima occhiata ricolma d’affetto.

Si diresse verso la camera di Michela, entrando senza bussare, perché le luci erano spente e dalla cadenza del respiro della ragazza intuiva che avesse preso sonno da poco. Vi entrò facendo il minor rumore possibile e subito fu colpito dalla luce naturale che penetrava da fuori e che rifletteva il viso umido della più piccola delle sue allieve. Camus le notò subito, le lacrime che le imperlavano le guance un poco rotondette, ne capì il significato e, più ancora, l’origine. Si era addormentata piangendo, era evidente, e ora stava lì, rannicchiata su un fianco, con un’espressione irrequieta, lamentandosi debolmente nel sonno. Camus le si sedette a fianco, concedendo alle sue dita di regalarle carezze soffici e delicate, anche qui, come avrebbe fatto un padre, ciò di cui Michela, stante il suo temperamento, aveva più bisogno in una simile situazione. Infatti la ragazza, avvertendo su di sé il suo tocco, dopo aver strizzato le palpebre, le aprì, guardandolo stancamente negli occhi.

“Scusami, non volevo svegliarti, torna pure a dormire, ci sono io qui, ti farò compagnia fin quando non ti riaddormenterai” le sussurro dolcemente Camus, solleticandole le gote, prima di passare ai capelli.

Michela si acquietò un po’ a quelle coccole, rannicchiandosi vicino a lui come a richiedere attenzioni maggiori. Ricacciò a forza le lacrime, ben sapendo che al suo maestro non piacevano affatto.

“Papà… - Camus si era quasi del tutto abituato a come lo chiamava quando erano in confidenza, tuttavia sussultò impercettibilmente – Mi manca tanto, lo sai?”

Capì immediatamente a chi si stesse riferendo.

“Anche a me, Michy...”

A quel punto una scintilla passò negli occhi della ragazza, che ritrovò un poco di vitalità. Le sue labbra si piegarono bruscamente.

“Io proprio non capisco, perché se ne è andato?! Nessuno lo ha cacciato!”

“E’… è difficile da spiegare...”

“Avete litigato?”

Il discorso si stava facendo arduo per Camus, davvero arduo. Strinse la mano libera a pugno, discostando lo sguardo nuovamente dolente.

“Sì… - i suoi occhi navigarono smarriti per tutta la stanza, prima di serrarsi – Gli ho detto cose che… che non avrei mai voluto dirgli!”

“Ma le pensavi?”

“Alcune sì...”

“E lo hanno fatto soffrire?”

“Sì, tremendamente, è per questo che se ne è andato...”

“Ho capito, allora non ritornerà più...” biascicò Michela, afflitta, discostando a sua volta gli occhi, quasi sul punto di piangere di nuovo.

 

No, non ritornerà, hai ragione… ero l’unico che avrebbe potuto fermarlo, e non l’ho fatto, l’ho lasciato andare via, non l’ho fermato… perché?!? Per orgoglio, per vergogna? Per cosa?! Per cosa sto rischiando di perdere di nuovo il mio Hyoga, per cosa, esattamente?! Per l’ombra di Isaac?!? Lui ormai è morto, ma la sua essenza continua a rimanere al mio fianco, a volte quasi mi sembra di sentirlo, ma… è morto, MORTO! Ed io ho permesso a Hyoga di allontanarsi, al mio amato allievo, al mio successore, dopo tutto ciò che gli ho già fatto passare! I suoi traumi sono stati causati da me, ed io… io, invece di dirgli di rimanere qui, nella Casa di cui anche lui è il degno custode, gli ho rivolto quelle parole spietate. Oh, Atena, perché?! Avevi ragione, Milo, me ne sarei pentito, me ne sono pentito già nell’esatto momento in cui lui è uscito dall’undicesimo tempio, e ora non so più che fare per recuperarlo, so solo che lo vorrei qui, con tutto me stesso, e che invece è lontano, troppo!

 

“Papà, tu gli vuoi bene, vero?”

La voce compassionevole di Michela lo riscosse dai suoi pensieri, nello stesso momento la mano della giovane allieva si mosse a cercare la sua tra le coperte, nell’oscurità, gliela strinse, e quel gesto, da solo, riuscì a rasserenare un poco il suo cuore.

“Sì, moltissimo… è come un figlio per me, vorrei… vorrei che lo percepisse, che lo capisse… Ho amato Isaac, l’altro allievo che ho perso, ma lui non è da meno, fa parte del mio cuore, così sarà per sempre!”

“Ma lui lo sa?”

“Credevo lo sapesse… ora non so più niente. Non è mai stato facile esprimermi con lui, ma… pensavo lo sentisse, dentro di sé, a quanto pare sbagliavo ed io non sono riuscito a dimostrarglielo a sufficienza...”

Tornò a coccolare Michela mentre, a fatica, pronunciava parole che gli dolevano nel cuore. Una serie di fraintendimenti, ecco cosa era stata la loro storia in quegli anni, incomprensioni su incomprensioni, difficoltà su difficoltà, che avevano acuito le distanze quando invece avrebbero dovuto vederli uniti sotto uno stesso tetto nel tentare di recuperare il nido che gli era stato strappato. Ad entrambi.

“Hyoga ti vuole molto bene, Camus! Mi parla spesso di te, di ciò che sei stato per lui. Lo hai fatto crescere, ti vede come un padre, pensa che mi ha confessato che un paio di volte, da piccolo, specie quando era assonnato, si rivolgeva a te con il termine ‘papà’!”

“Da-davvero? Voglio dire, te lo ha… riferito?”

Quel termine lo inorgogliva e lo riscaldava, ma anche, facendogli punzecchiare il cuore, lo amareggiava: ricordava a sprazzi i frangenti in cui era accaduto, solo uno era ben nitido nella sua mente, il più terribile, quando l’altro allievo era già scomparso tra i flutti. Rammentava invece perfettamente la prima volta che era stato il suo Isaac a chiamarlo così, l’intensità di quel momento, la sofferenza insostenibile provata, Zima... A quell’ultimo pensiero si bloccò, rabbrividendo, si tastò il torace con una mano, perché il peso della colpa si era incancrenito e gli pesava sullo sterno. Senza neanche accorgersene, senza averne l’intenzione, aveva fatto mancare un sacco di cose a Hyoga; cose che invece aveva riservato ad Isaac. Non era stato affatto un comportamento da maestro, tanto meno da padre. Gli si mozzò il fiato, gli occhi si fecero dolenti.

 

Padre… quale padre snaturato abbandona il proprio figlio disperso in mare?! Quale padre si comporta come me?! Ero così fiero di loro, dei miei ragazzi… ma questo termine, io, non lo merito! Ho permesso ad Isaac di diventare il Kraken, e ad Hyoga di sostenere tutte le mie aspettative, le colpe, i doveri… No, non sono un padre, s-sono solo un...

 

“E’ così anche per me, sai? Mi piace il termine ‘papà’, lo sei… per me… Camus!”

“Michy… non credo di meritare quell’appellativo!” gli sorrise teneramente l’Acquario, comunque emozionato dal tono con cui aveva professato quell’ultima frase. Le punzecchiò il naso, come si faceva con i bambini, come aveva già fatto con Isaac, qualche volta, in un momento intimo tra loro, come aveva fatto con… si fermò. Rendendosi maggiormente che, con Hyoga, tutte quelle manifestazioni di sincero affetto erano state assai rare quando il ragazzo era cosciente, più facile e più agevole quando lui era stato male o, ancora, quando dormiva profondamente ma, per ovvie ragioni, il biondo non lo poteva ricordare. Perché era così difficile, con lui?! Era forse perché, come sosteneva Marta, erano così simili da non riuscire ad acciuffarsi?! Da non riuscire a… capirsi?!

“Ma a te piace, questo termine, Camus! Ti brillarono gli occhi quando vieni chiamato così” insistette Michela, scrutandolo con profondissimi occhi.

“Mi… piace, sì, ma… non lo merito!”

“E’ ciò che sei, è ciò che sento, quindi continuerò ad appellarti con questo termine, Camus!”

“Michela...” gli era uscito un tono a metà strada tra il rassegnato, stante la testardaggine dell’allieva, e l’emozionato. Le lisciò i capelli, sorridendole.

“Papà, se potete… - riprese la giovane poco dopo, gli occhi lucidi - non per me, ma per voi stessi, provate a parlarvi, a chiarirvi… Hyoga ha bisogno di te e anche tu hai bisogno di lui, vero?”

“Sì, ho bisogno di lui, del… del mio ragazzo!”

“Ehehehe, è il mio ragazzo, papà, questo non dimenticarlo!” soffiò lei, cercando di smorzare la tensione, sorridendo a sua volta, mentre, accogliendo una nuova dose di coccole, si crogiolava nel tocco di Camus, che proprio in quel momento aveva preso ad arrufarle dolcemente i capelli.

“Lo so bene, birba! E ti prometto che… - prese una breve pausa, cercando le parole giuste da adoperare. Il suo cuore ne era colmo, ma esprimerle era sempre stata una impresa titanica per lui – che non so ancora come, ma… ma riporterò Hyoga qui, chiariremo, in qualche modo, e stavolta gli dirò davvero cosa è sempre stato lui per me!”

Rabboccò aria, sempre più emozionato, dirigendo il suo sguardo fuori dalla finestra, nel buio inframezzato da una tenue luce che era fuori. Già, avrebbe chiesto scusa a Hyoga, in un modo o nell’altro, perché il suo posto era lì, al Santuario con lui. Avevano sofferto e si erano inseguiti anche fin troppo.

“E questa è una promessa!” si disse ancora, gli occhi nuovamente luminosi.

 

 

* * *

 

 

27 ottobre 2011, mattina

 

 

Stefano si rendeva conto che le gambe non lo avrebbero sostenuto oltre, né per compiere un passo in avanti, né indietro, né tanto meno per rimanere fermo, perché, lo sentiva, ancora pochi secondi e avrebbero ceduto.

Si ritrovò ad ingoiare a vuoto, un fastidioso ronzio nelle orecchie, mentre le voci al di fuori di lui parlavano animatamente tra loro senza interpellarlo, eppure era lui il fulcro di quella discussione, lo sapeva bene. Si sforzò ancora una volta di guardarsi intorno, si sentiva spaesato, intimorito, solo. Non vi era alcuna presenza amica al suo fianco, niente, nessuno, eppure non si dava per vinto, continuando a cercare un qualche segno di Marta che lo potesse tranquillizzare. Tutto inutile, la ragazza non c’era, per la prima volta dopo tanto tempo si accorse che, proprio come da piccoli, si sentiva sperso in mezzo ad una folla di sconosciuti, privo della sua presenza rassicurante. Quasi inconsciamente, i suoi occhi azzurri si posarono sull’unico altro paio di occhi blu che ricordavano così vivamente quelli della ragazza. Marta non c’era, Stefano non sapeva dove fosse, ma suo fratello sì, invece, era davanti a lui, diversi metri più sotto, inginocchiato per terra. Ricambiò quello sguardo spaesato e incerto con uno più brillante e rassicurante. Emanava calma e tranquillità, con quella strana luce negli occhi che lui non aveva mai visto a nessuno. Si sentì un po’ più sollevato, riprese vigoria, riuscendo perlomeno a raddrizzare la schiena, perché -si rese conto- stava rannicchiato su sé stesso come un animale in trappola.

“Dunque… che ne facciamo?” chiese intanto Saga, squadrandolo da capo a piedi con severità, i muscoli rigidi, quasi si aspettasse qualche brutta sorpresa.

“Per il momento resterà qui con noi, Saga, è innocente, come più volte ripetuto da Marta. E’ una vittima, è nostro dovere proteggerlo, quindi andrà ad abitare in una delle Dodici Case...” affermò con decisione Shion, l’unico a non indossare un’armatura d’oro, avvolto da una tunica lunga che Stefano, di tanto in tanto, ammirava di sottecchi per l’eleganza e la preziosità del materiale. Era attratto dalle cose belle, e quella veste lo era di sicuro.

“Dentro le 12 Case?! Ci mettiamo un potenziale nemico nel cuore pulsante del Santuario?!” si oppose ancora Saga, del tutto intenzionato a non cedere su quel particolare che tanto infinitesimale non era. Non si fidava di lui, era evidente, lo si percepiva nei modi bruschi con cui si rivolgeva al ragazzo e dal tono crescente.

“Saga, capisco le tue rimostranze, credimi, ma Stefano non c’entra, era vittima di...”

“Era vittima o è stato spedito qui per fare la vittima?! Non mi convince, Nobile Shion, non abbiamo alcuna prova circa la sua innocenza! E’ stato trovato nel tempo fermo, chi ci assicura che sia davvero un oppresso?!”

“Ha avvertito Marta sulla pericolosità di Nero Priest, per me è una prova più che sufficiente!”

“Non significa niente, Milo! Potrebbe averlo fatto apposta per sorprenderci e poi in un secondo momento attaccarci di soppiatto… ma davvero stiamo basando il nostro giudizio su quanto ci ha riferito Marta?! Io davvero non...”

“Saga, mia sorella lo conosce da anni, più di me e te messi insieme, se Marta dice che è innocente, così è!” intervenne freddamente Camus, scoccandogli uno sguardo gelido in un tono che non ammetteva repliche.

“Camus… non voglio dire che tua sorella non abbia ragione, lei sarà di certo in buona fede, è che… proprio perché lo conosce da più tempo il suo giudizio potrebbe essere ottenebrato!”

“Ragazzi… - intervenne nel dibattito Aldebaran, indicando il ragazzo tremante – Guardatelo, è terrorizzato, vi sembra un nemico dell’umanità? Di Atena? O anche solo un nemico degli animali?! Lo stiamo spaventando a morte solo con la nostra tenuta, ha un cosmo, d’accordo, ma non sa minimamente come usarlo e, cosa ancora più importante, lo vedo paurosamente deperito, rispetto a quando è arrivato qui. La punizione è stata più che sufficiente, non trovate?”

Alcuni dei Cavalieri d’Oro, tra cui Aiolia e Aiolos, si ritrovarono ad annuire, concordando con l’immenso e gentile Toro, ma altri rimasero sulle loro posizioni scettiche, tra cui Shaka e Shura.

“Io invece… sento di dover spezzare una lancia in favore di Saga. E’ vero, non avverto alcun impulso malvagio in lui, ma, complice l’ultima volta, la prudenza non è mai troppa...” si schiarì il custode della Vergine.

“La prudenza non è mai troppa, concordo!” confermò Shura, affilando lo sguardo tagliente verso Stefano, il quale tremò con ancora più forza.

“Ragazzi, ma allora non è cambiato niente da allora! - si intrufolò Milo, punto sul vivo – Saga dice bau e voi lo seguire pedissequamente?! Cosa vi ha insegnato la Battaglia delle Dodici Case?!”

Un colpo al cuore, Saga si ritrovò ad incassare la testa tra le spalle, cercando di ricomporsi. Il Cavaliere dello Scorpione non lo aveva mai perdonato del tutto per ciò che aveva causato, prima fra tutti la dipartita del suo migliore amico. Deglutì.

“Milo, credimi… sto agendo in favore del Santuario, sono solo preoccupato per… per le ripercussioni che questo ragazzo potrà certamente portare”

“Tu lo hai semplicemente già catalogato come malvagio, Saga, senza cercare di capire, né più né meno. La vuoi la verità? - lo fermò Scorpio, alzandosi in piedi e fulminandolo con lo sguardo nei modi più spietati che possedesse – Fosse per me userei i tuoi stessi metodi nei tuoi confronti, saresti il primo a finire in gattabuia e a non poter neanche parlare!”

Gli occhi di Milo lampeggiarono, mentre gli sguardi di tutti navigavano da uno all’altro contendente, in apprensione. La patata bollente era stata appena lanciata. Tutti si aspettavano una reazione da Saga; una reazione forte, ma sorprendentemente fu invece Camus ad intervenire nel dibattito.

“Fare questo a Saga, che ha già ampiamente espiato le sue colpe?! E di Kanon che mi dici?! Lo lasciamo a piede libero, lui?! Ti ricordo che la colpa è sua, ha seminato lui il male in...”

“Ma per favore, Cam, ancora questa storia?! Ma chi ci crede più, poi?! L’onore di Kanon è ristabilito, si è redento, poiché ha fatto di tutto, se non oltre, per Atena!”

“Ti assicuro che Saga ha fatto uguale nella guerra contro Hades, il problema non è lui, non è stato lui il motore primo, ma quello stronzo di Kanon!”

“CAMUS! - esclamò Saga, anche lui punto sul vivo nel sentir parlare male del suo gemello – Ti sono grato di prendere le mie difese, ma ti ricordo che stai parlando di mio fratello minore! Non mi sembra io abbia mai insultato tua sorella, né voglio farlo, penso che tu, in quanto maggiore, come me, possa capire come ci si senta a udire, per bocca di terzi, simile accuse sul proprio consanguineo!”

“MARTA NON HA PERPETRATO UN SOLO CENTESIMO DI QUELLO CHE INVECE KANON HA...”

“Ok, ok, basta così! Mi sembra di essere a capo del Santuario e dei sommi, e gloriosi, Cavalieri d’Oro, non insegnante di un asilo! Vi siete svegliati tutti male, oggi?! Non siamo qui per decidere la colpevolezza di Stefano, è lampante che rimarrà qui al Tempio, al sicuro, sia per essere controllato sia per essere protetto! E ora… - Shion aveva preso parola, imponendo silenzio che, stante il brusio di sottofondo, oltre che per la discussione appena terminata, non era facile da reperire – Ragazzo, fai due passi in avanti, coraggio!” lo incitò poi, con occhi gentili.

Stefano eseguì docile, il capo chino, a fissarsi i piedi, del tutto incapace di sorreggere lo sguardo degli altri, tutti intenti a scrutarlo, come a carpirne i segreti più oscuri. Alcuni dei Cavalieri sembravano poco più grandi di lui, che di anni ne aveva appena compiuti diciasset… no, diciannove, stante il tempo che era trascorso, ma era impossibile non sentirsi schiacciare dalla loro presenza. La loro corporeità, quei muscoli ben delineati sotto le dorate corazze, sembravano davvero eroi tragici di un’altra epoca, giovani uomini che stavano vivendo il fior fiore della loro età combattendo contro un grosso male per preservare la pace e la giustizia sulla Terra.

“Ragazzo... Stefano, giusto? Possiamo chiamarti con questo nome o preferisci altro?” chiese colui che era avvolto dalla tunica ricamata d’oro, mentre il suo sorriso gentile si posava su di lui. Stava prendendo il discorso alla larga per rassicurarlo, era evidente.

“S-Stefano va bene, o il diminutivo, Ste, o ancora… mmh”

“Sì? Coraggio, non avere timore, parla pure apertamente, nessuno ti nuocerà qui”

Stefano guardò prima lui, i suoi occhi profondi e particolari, del colore della pervinca. Poi si soffermò sui giovani uomini in fondo alle scalinate, li fissò uno ad uno, prima di soffermarsi negli occhi di Camus, che compì un breve cenno di assenso nella sua direzione. Il colore delle sue iridi lo faceva sentire tranquillo, per motivi che in larga parte gli sfuggivano, non poteva di certo essere solo perché erano i medesimi della sua amica, ma non si esplicava altre ragioni. Prese un profondo respiro.

“Stevin… Marta mi aveva soprannominato così, dal dialetto locale della Valbrevenna”

“Il luogo che è stato congelato nel tempo?” chiese delucidazioni Aiolia, un poco allarmato. Era un ragazzo alto, statuario, dai capelli corti e castani e i muscoli ben sviluppati. Non era massiccio, ma neanche esile; uno dei pochi Cavalieri ad avere i capelli corti, pensò Stefano, prima di riscuotersi.

“S-sì, la mia… Valbrevenna. Sono… sono cresciuto a Cerviasca”

“Ed è lì che hai conosciuto Marta, vero?” continuò Aiolia, i suoi occhi lampeggiarono.

“Sì, ricordo la data: 24 giugno del 1999, aveva appena 5 anni!”

“In che rapporti sei con lei? - chiese a bruciapelo Saga, in tono forse un po’ troppo brusco, tanto che Stefano si rizzò sull’attenti – Scusami, non volevo porti la domanda in maniera così tagliente...”

“A-amici… m-migliori amici” rispose placido Stefano, grattandosi la testa a disagio.

“Ma l’hai attaccata, non è forse così? Chi ci dice che non lo rifarai, o che non colpirai anche noi?”

“Saga, santo cielo!”

“Perdonate, Nobile Shion, non sono un tipo che va per il sottile, ho bisogno di risposte e di capire se davvero ci possiamo fidare, non riesco ad esimermi!” provò a scusarsi lui, serio come mai in volto, prima di tornare a concentrarsi sul ragazzo.

“E’ vero, l’ho fatto… ero arrabbiato con lei, e confuso, non sapevo fossero passati due anni, pensavo mi avesse abbandonato, ma… ma ora… sto cominciando a raccapezzarmi”

“Perdona i modi un poco sgarbati, giovane ragazzo, ma è necessario chiarire un punto: che ne hai fatto della tua vita in questi due anni?” intervenne Shaka, alzandosi in piedi e scrutandolo. Stefano si accorse che teneva gli occhi chiusi, eppure era come se lo ispezionasse centimetro per centimetro. Rabbrividì.

“Io non… non lo ricordo bene, ero prigioniero di…”

“Di una tizia che si chiama Nero Priest, questo lo sappiamo, abbiamo avuto il piacere di conoscerla. Altro?” chiese invece Milo, desideroso di trovare elementi per difenderlo senza però averli.

“A-altro non lo so, è tutto molto annebbiato qua dentro...” biascicò Stefano, in tono di scusa. Più tentava di ricordare più un vortice nero lo risucchiava, se lo avesse attraversato avrebbe ricordato cose che lo avrebbero distrutto e… non voleva.

“Capisci perché non possiamo fidarci, ragazzo? Non dai risposte esaurienti, sei confuso, potresti essere chiunque...” interloquì anche Shura, andando, come sempre, al sodo.

“Io… vorrei dirvi di più, davvero, ma… non riesco a ricordare, mi dispiace tanto!”

“E quindi che facciamo? Lo incalziamo finché non rammenterà qualcosa di utile?” chiese retoricamente Milo, non sapendo più che pesci pigliare. Troppi pochi elementi per difenderlo, ma sufficienti per condannarlo, invece. Non sarebbe di certo bastata la buona parola di Marta, per salvaguardarlo.

“Io ero soggiogato da Nero Priest, rimembro nitidamente solo la rabbia, la solitudine, la disperazione, ma non riesco ad andare oltre, come se la mia mente mi impedisse di attingere ai veri ricordi. C’era solo lei e, a volte, questi Cinque Pilastri, che...”

“Aspetta, cinque, hai detto? Sono in tutto cinque?” si interessò Shion, individuando istantaneamente l’informazione mancante.

“Sì...”

“Conosci i loro nomi? E’ molto importante, ragazzo!”

“A-allora… - gli occhi di Stefano si chiusero disperatamente, mentre conduceva la sua mente a frugare nelle sue memorie più recondite, nonostante gli facesse tremendamente male, più o meno come un coltello che lo pugnalava più e più volte in varie parti del corpo – N-Nero Priest, l-la divoratrice di pulsioni; E-Ermete, i-il t-tre volte gr-grandissimo, anf...”

La mano di Shion fu sopra la sua spalla, mentre le gambe di Stefano cedettero, facendolo cadere per terra. Era in evidente affanno.

“Va tutto bene, ragazzo, non sforzarti se ti fa così male...” gli disse premurosamente, in tono gentile.

“N-no, devo… farlo, Marta lo farebbe, al posto mio, anf, anf… - provò ad essere deciso, ma ciò che gli uscì era solo un tono strozzato, denso di patimento – O-oltre a loro… Utopo, il generatore di mondi, e… e Clio, colei che proclama la verità storica, uff. L-l’ultimo, a-anche a sforzarmi più di così, n-non riesco, urgh...”

“Va bene, sei stato bravissimo, Stevin, ora riposati, sei stato più che indispensabile!” gli fece forza Shion, ancora al suo fianco.

Intanto i Cavalieri d’oro si scambiarono occhiate preoccupate gli uni verso gli altri.

“Nero, Ermete, Utopo e Clio… ne hai sentito parlare, Shaka?” chiese un parere Mu, rivolto all’amico.

“Quello che so è ciò che viene detto nei miti, o nei libri, ma non so se sia tutto veritiero quello che si professa su di loro, soprattutto non so se personaggio mitologico e reale corrispondano...”

“Però mi pare di capire che parliamo di pezzi grossi, eh? Non c’è mica tanto da ridere!” commentò anche Death Mask, facendo spallucce.

La discussione continuò a fasi alterne, ma molte domande rimanevano sospese nel vuoto, prive di risposta. Tuttavia, almeno, pensò Milo, tutti sembravano finalmente fidarsi del nuovo venuto, che era stato di sicuro molto coraggioso a sforzare così il blocco della sua mente per dare a loro informazioni così vitali. Tutti tranne Saga, ovviamente.

Il Cavaliere di Gemini non sembrava ancora essersi convinto circa l’innocenza di Stefano, lo si presagiva già dagli occhi, prima ancora dall’assottigliamento delle sue labbra.

 

Ma guarda ‘sta testa di minchia! Dopo quello che ha fatto al Santuario, ad Atena, fa ancora lo splendido, inneggiandosi a difensore della giustizia. Insindacabile. Inopinabile. Devi sfogare le tue frustrazioni su questo ragazzo, Saga? O cosa?! Posso capire che non ti fidi delle parole di Marta, posso capire che la posizione di Stefano sia precaria, ma sciallati, che cazzo, ci ha appena dato i nomi di 4 dei 5 cosiddetti Pilastri, ancora non ti basta come prova?!

 

“Grande Sacerdote… forse io conosco un modo per scagionarlo totalmente ai nostri occhi, o… - Saga tacque un attimo, affilando lo sguardo in direzione del ragazzo – o condannarlo!”

No, evidentemente non gli bastava, a Milo venne una voglia incondizionata di prenderlo a calci in culo. Squadrò un attimo Camus da capo a piedi, un poco teso nella postura ma tutto sommato tranquillo, trovandosi a sospirare tra sé e sé. Il suo migliore amico, per certe cose, era implacabile esattamente come il Cavaliere di Gemini. Aveva bollato Kanon come il traviatore di Isaac, ce l’aveva a morte con lui per avergli strappato l’allievo convincendolo a seguire una strada che non era la sua e non si dava pace per averglielo permesso. Qualunque cosa avesse fatto, o non fatto, il fratello minore di Saga, non l’avrebbe mai perdonato, MAI! Tornò a concentrarsi sulla scena davanti a sé: beh, per lui era lo stesso nei confronti di quell’omuncolo che continuava ad indossare le vestigia dei Gemelli nonostante tutte le azioni perpetrate. Camus, durante la battaglia delle 12 Case, era morto perché quel pezzo di merda aveva ucciso Shion, ci fosse stato ancora lui, o Aiolos, come suo successore, nulla di tutto quello sarebbe accaduto. Strinse i pugni con rabbia.

“Che cosa hai in mente, Cavaliere di Gemini?”

La frase di Shion era stata proferita un tono neutro, ma il loro scambio di sguardi celava una tensione crescente, che gli altri custodi percepivano nitidamente. Assassinato e uccisore. Un tempo.

“Se Shaka mi darà il suo appoggio… un’ispezione!”

Si elevarono mormori sommessi e vibranti, tanto da mettere in allarme Stefano, l’unico a non sapere il reale significato di quella parola che suonava inquietante e lapidale al tempo stesso: non sarebbe stato affatto piacevole, ma, si chiese, in base a quella sarebbe riuscito a dimostrare la sua innocenza? Sarebbe riuscito a dimostrarla a Marta? Avrebbero potuto… tornare amici? Il cuore perse un battito.

“Un’ispezione?! Ora ispezioniamo anche i ragazzini a digiuno di allenamento e che non mangiano da giorni? Bei passi avanti che facciamo, e poi ancora ci domandiamo perché i Cavalieri di Bronzo ci abbiano superato… loro l’avrebbero fatto?!? Secondo me no!” commentò sarcasticamente Milo, sbuffando.

“Un’ispezione cosmica per sondare la sua mente… non sarà una passeggiata per il ragazzo, Saga! Ci hai pensato che il suo cervello potrebbe non reggere?!” gli fece notare Aiolos, nervoso, non sapendo bene se assumersi quel rischio che, da una parte, lo avrebbe scarcerato, ma dall’altra gli avrebbe fatto molto male.

“Ma confermerebbe, di fatto, la sua innocenza, se lo è per davvero non dovrebbe avere problemi, no? Dovrebbe lasciarsi… sondare!” continuò Saga, cercando un qualche tipo di appoggio dai compagni.

“Saga… io posso anche essere d’accordo con te – intervenne Shaka, compiendo qualche passo in avanti – Ma, mi chiedo, se non dovesse funzionare, o andare male, e il ragazzo così impazzire, chi accetterà le conseguenze delle proprie azioni? Chi darà le spiegazioni a Marta, guardandola bene negli occhi, senza tentennamenti?”

“Lo farò io, l’idea è la mia e, in fondo, sono già un demone dentro, no? Anche se ho sempre questa faccia da angelo stampata sul viso… - sbuffò Saga, un poco amareggiato, poco prima di guardare nuovamente Shion – Grande Sacerdote, chiedo il permesso per...”

“Non c’è bisogno di essere così formali, sono io il soggetto interessato, no? Sono io che ve lo chiedo: se pensate che con questo metodo io possa venire prosciolto dalle accuse che mi muovete… fate quello che dovete fare!”

Tutti i presenti guardarono Stefano in un misto di sorpresa e meraviglia. Il ragazzo si era alzato difficoltosamente in piedi, guardandoli uno ad uno, con espressione determinata, dall’alto della posizione su cui si trovata. Persino Saga di Gemini tentennò un attimo a quella presa di posizione.

“Sei coraggioso, ragazzo… i tuoi occhi emanano una luminosità del tutto particolare” lo elogiò Aiolia, accennando un sorriso nella sua direzione.

“Lo trovo eccellentemente impeccabile, non trovate?” chiese retoricamente Aphrodite, muto fino a quel momento, anche se non si era perso un solo secondo di quei momenti sfavillanti in cui un giovane uomo, di bella presenza, lottava contro i rigori di un Santuario austero e spietato, riuscendo comunque ad uscirne con la schiena dritta.

“Tu ti fai troppi film mentali, Aphro!” lo punzecchiò Death Mask, dandogli una gomitata tra le costole nell’aver letto per filo e per segno i pensieri del suo compagno.

“Cosa ci vuoi fare, ho un debole per le persone così!” rispose lui, languido, mettendo in bocca la rosa di fatale bellezza e ammiccandogli.

“Dei, il risvolto romantico no, ti prego… che disgusto!” berciò ancora Cancer, fintamente infastidito.

“Perché, non ti farebbe piacere un’uscita a quattro? Io, te, quel ragazzo, e la tua morosa Francesca?” gli fece l’occhiolino lui, in maniera assai poco virile.

“Dei, NO! Anche questo no!”

Intanto Shaka e Saga si erano avvicinati a Stefano, pur mantenendo una certa distanza, forse temendo un voltafaccia o chissà cos’altro.

“Ne sei sicuro, ragazzo? - domandò il primo, perennemente con gli occhi chiusi – Sarà molto faticoso per te e assai doloroso. Sentirai il cervello come se fosse spaccato a metà, il corpo come se fosse tranciato da un’ascia e, una volta che sarò dentro, non potrò fermarmi fino a quando non avrò ultimato l’ispezione...”

“Conosco il dolore e la fatica… mio nonno mi raccolse sulla riva destra del Brevenna una notte di novembre del 1992, dopo un’intensa alluvione. Non vi era alcuna traccia dei miei, ma mio nonno rifiutò l’ipotesi di un abbandono, ero… ero stato avvolto con cura da delle pesanti coperte e recavo un messaggio, scritto in bella e accurata calligrafia, un poco oblunga, come di scrittore antico, che chiedeva al viaggiatore lontano di avere cura di me, di farmi crescere in un luogo salutare, dove il sole non smettesse mai di riscaldarmi giorno per giorno… mio nonno mi accettò come se fossi davvero suo nipote! - cominciò a spiegare lui, ancora un poco tremante, senza comunque un minimo di esitazione – Crebbi tra le fatiche della coltivazione e dell’allevamento, perché Cerviasca era stata abbandonata, l’unico abitante rimasto era mio nonno Mario. Non ho paura di questa ispezione che dite, so di avervi detto la verità e voglio dimostrarlo! AD OGNI COSTO!”

Saga si morse quasi il labbro inferiore nel guardare Shaka, il quale comunque annuì, dicendosi pronto ad agire, visto anche il benestare di Stefano. Il Cavaliere di Gemini non era più tanto sicuro di fargli subire ciò che aveva in mente. Si era dimostrato nobile e valoroso, genuino, senza alcun filtro, ma ormai la proposta era stata lanciata e accolta, non si poteva più tornare indietro.

“SAGA!”

La voce di Camus lo riscosse, spingendolo a voltarsi verso di lui, un nodo in gola nello scorgere gli unici occhi, oltre a quelli di Aiolos, prima vittima delle sue azioni, che erano capaci, da soli, pur senza un’accusa verbale, di rimembrargli le malefatte passate.

“Mi sono fidato di te, durante la battaglia contro Hades, quando siamo resuscitati come Specter, e del tuo giudizio! Anche ora è così, so che, ciò che vuoi fare, è in buona fede, ma mi ritrovo, ancora una volta, a sottolinearti di usare i guanti di velluto, quando entrerai nella sua mente! – prese una breve, quanto esaustiva, pausa, prima di continuare – Ho promesso a Marta che non avrei permesso a nessuno di torcere anche un solo capello a Stefano, fintanto che lei è lontana, se vedrò anche un suo più piccolo cedimento, reputando la vostra ispezione troppo eccessiva, mi sentirò libero di agire per fermarvi, siamo intesi?”

Aveva proferito quelle parole in tono cordiale, senza un briciolo di cattiveria, ma le sue intenzioni erano chiare a tutti.

Saga si limitò ad annuire, prima di tornare a concentrarsi sul da farsi, senza più alcuna esitazione, non si confaceva ad un Cavaliere.

Stefano avrebbe voluto chiedere spiegazioni per quell’ultima frase, dove si trovava Marta? Perché se ne era andata?! Tuttavia la voce pacata di Shaka, che chiedeva la sua attenzione, rigettò indietro i suoi pensieri.

“Guardami negli occhi, ragazzo...” lo esortò, ricevendo così la sua totale attenzione. Le sue palpebre si aprirono, Stefano ne venne quasi investito, come se, quel semplice gesto, avesse causato uno spostamento d’aria tale da destabilizzarlo, tutto cominciò con brevi, ma intensi pizzichi sulla fronte e le tempie, prima avvertì la sensazione si avere un puntaspilli piantato in testa che, con l’avanzare dei secondi, penetrava sempre di più in lui, lacerandone la pelle e la carne. Si trattenne, e trattenne un conato di vomito: quello non era che l’inizio, non poteva in alcun modo crollare già in quel momento, dal principio.

“Ti possiamo solo consigliare di reggerti forte...” lo avvisò anche Saga, unendosi al compagno per sondare così i misteri della sua mente.

Stefano non si oppose, farlo avrebbe incrementato il dolore, lo presagiva, ma mano a mano che quei due accedevano in lui, più era difficile mantenere un barlume di coscienza, che defluiva spietata. Digrignò i denti, sempre più stremato, prima che tutto l’ambiente circostante, proprio tutto, venisse sostituito da tante piccole luci che gli ferivano la vista. Serrò le palpebre e si tappò le orecchie, prima di urlare a squarciagola, un’unica volta, e finire così per terra, preda di violenti spasmi.

Ciò che vide, prima di svenire del tutto, fu il sorriso dolce di un uomo, di un Cavaliere, che non seppe riconoscere, ma che lo accompagnò nelle vertigini dell’incoscienza.

 

 

* * *

 

 

27 ottobre 2011, sera

 

 

“NO, SCUSATE?! Ripetetemi la stessa cosa ma con più calma, perché devo aver capito sicuramente male!”

La voce acuta di Marta, complice anche il vivavoce del cellulare, risuonò tra le pareti della cucina, frastornando le povere orecchie di Francesca e Michela, che si erano sedute sul divano appena finita la cena.

Dopo un pomeriggio di tentennamenti, le avevano infine riferito la prova cui avevano sottoposto a Stefano. La reazione non era tardata a palesarsi con forza crescente.

“Ripetetemelo ancora una volta, per favore, giusto per esserne sicura: Saga ha voluto fare una… una che, a Stefano?!”

“Un’ispezione cosmica, sai che significa, ce lo ha insegnato il Maestro” disse Francesca, nella maniera più calma possibile.

“E..?”

“Ed è svenuto per il contraccolpo, mettiamola così, ma almeno ora tutti i Cavalieri d’Oro sono certi della sua innocenza!” minimizzò Michela, muovendo le gambe per stiracchiarsi.

Silenzio dall’altra parte, la calma prima della tempesta, poi…

“E’ UNO SCHERZO, VERO? I Cavalieri d’Oro non possono aver accettato una cosa così mostruosa!”

“No, Marta, l’hanno fatto invece… non tutti erano concordi, ma era l’unico modo per fidarsi” riprese il dialogo in mano Francesca, cercando di forzar l’amica a tornare alla calma.

“Ma porc…! - imprecò lei, tra i denti, si sentì un tonfo per terra, la voce di Sonia che chiedeva se stesse bene, la sua risposta furtiva, prima di tornare a sibilare al cellulare – Ditegli a Saga, quando tornerò, di non farsi trovare a meno di due chilometri da me, perché se lo vedo lo ammazzo!”

Le due amiche sussultarono, guardandosi negli occhi.

“Sta volutamente esagerando, vero?!” chiese Michela, guardando con una punta di terrore l’amica. Francesca non ne era così sicura.

“Marta… Saga è Cavaliere d’Oro dei più forti, se non IL più forte!” le fece notare quest’ultima, pratica.

“Lo so, allo stato attuale delle forze mi spezzerebbe come un fuscello, ma posso diventare più forte, MOLTO più forte!” sentenziò ancora lei, caparbia e un poco incosciente.

“Non è una buona idea, Marta, farsi nemico un Cavaliere d’Oro...”

“Non mi interessa! Un giorno massacrerò il Mago per quello che ha fatto a mio fratello, posso anche prendere a calci in culo Saga per quello che ha fatto a Stevin!” continuò, come se niente fosse, furente.

Poi si accorse di essere stata troppo schietta, forse, pertanto riprese parola, con più calma, imbarazzatissima, sentendosi esposta.

“Non… non diteglielo, però!”

“Temo sia impossibile, sei in vivavoce e sta lavando i piatti qui vicino” le fece notare Francesca, quasi intenerita.

“E di sicuro le tue parole lo hanno reso felice, starà ridacchiando sotto i baffi, orgoglioso che la sua sorellina sia così protettiva con lui” rincarò la dose Michela, spiattellando come al solito i sentimenti di tutti, facendo così arrossire di netto entrambi i fratelli.

“I-io non sto sorridendo sotto i baffi!” esclamò Camus, voltandosi verso di loro con le guance un poco arrossate, tuttavia gli occhi luminosi confermavano di fatto ciò che aveva espresso la più piccola delle sue allieve.

Le due ragazze si misero a ridacchiare, non Marta, ancora tesa all’idea di ciò che aveva passato il suo amico d’infanzia.

“Stevin… come sta? Dove è ora?”

Altra nota dolente. Francesca prese un profondo respiro, radunando tutta la pazienza di cui disponesse. Capiva lo stato dell’amica, ma davvero, per come si erano messe le cose, non c’era altra soluzione, la situazione di Stefano era troppo compromessa, soltanto una simile prova lo avrebbe scagionato, cosa che infatti era accaduta.

“Non si è ancora del tutto ripreso, ora sta dormendo… alla Casa dei Pesci” disse in un soffio, aspettando che la notizia attecchisse dall’altro lato del telefono.

Silenzio di tomba…

“Mi pigli per il culo?!” sibilò di nuovo Marta, trattenendo appena l’agitazione.

“No, l’ispezione è stata dura per lui, Shion ha chiesto ad Aphrodite di prendersene cura...” si aggiunse Michela, sul filo del rasoio.

Prendersene cura… in che modo?! Marta rabbrividì, preda di pensieri che sapeva solo lei e, in parte, le sue care amiche.

“Per-perché proprio lì?”

“Preferivi fosse sbolognato da Shura? Ti ricordo che è un altro di quelli che non si fidava di lui...” gli fece notare Francesca, criptica.

“N-no ma… magari la Casa dell’Acquario, o… non so...”

“E’ a tappo perché ci siamo noi...” le spiegò anche Michela, comprendendo bene le ragioni di quella preoccupazione, del resto, loro due, fin da bambini, erano sempre stati così affiatati...

“S-sì, ok, ma non c’era un’altra… un’altra alternativa?”

Marta sembrava davvero preoccupata, tanto da far avvicinare Camus che, con garbo, chiese a Francesca di passargliela. Detto fatto.

“Marta...”

“Ca-Camus...” lo chiamò per nome lei, un poco incerta, cercando al contempo di rendere il suo tono di voce meno tremolante.

“Sei molto protettiva, piccola, e questo ti fa onore… ma non devi temere così per il tuo amico! E’ vero, Aphrodite ha seguito consapevolmente Saga durante la Battaglia delle 12 Case, ma è cambiato da allora, non gli torcerebbe un capello, te lo posso assicurare!”

“Fr-fratellino, lui non merita altra sofferenza, da-davvero!”

Camus addolcì ulteriormente la voce nell’udirla così preoccupata, cercando di abbracciarla con il timbro vocale perché fisicamente non poteva.

“Non gli succederà più niente, te lo assicuro! Anche Saga si è convinto della sua innocenza, ora ci siamo noi, con lui, lo proteggeremo, costi quel che costi, tu pensa solo ad impegnarti nel tuo compito, qui ci penso io, intesi?”

“Me lo prometti?” pigolò ancora.

“Te lo assicuro!”

“Come… sta?”

“Ha avuto un po’ di febbre, glielo ho abbassata io, ora dorme tranquillo, non è in pericolo di vita. Ha avuto una brutta esperienza, ma mi sembra un ragazzo forte, la supererà!”

“Grazie… per quello che hai fatto per lui, ti voglio bene, Cam!”

“Anche io, lo sai! Fai bei sogni, piccola guerriera, questi giorni passeranno in fretta e potrai tornare qui, da noi, e rivedere il tuo amico Stefano!”

Marta produsse un mormorio sommesso, ormai si era tranquillizzata del tutto, grazie all’intervento di suo fratello, non aveva più vene omicide nei confronti di Saga, anche se continuava ad essere in pena, lo si percepiva dal tono tremante.

Michela diede una gomitata nel costato di Francesca più intensa del normale, tanto che la giovane dea si lasciò sfuggire un mormorio soffocato, unito ad un’occhiata obliqua che faceva percepire il suo disappunto.

“Li lasciamo amoreggiare, che ne dici?” chiese furbetta la più giovane, sogghignando.

“Michela… sei sempre la solita!”

“Sono così adorabili!” spiegò, sincera.

Tuttavia la chiamata, dopo le solite, premurose, raccomandazioni, volse presto al termine, Camus ripassò loro il telefono, rimanendo in disparte impensierito, le ragazze salutarono anche Sonia e dopo l’augurio della buonanotte, venne schiacciato il tasto di disconnessione.

Rimasero in silenzio per una serie di secondi, il maestro appoggiato alla parete a braccia conserte, perso come sempre nelle sua mente, le fanciulle sul divano. La stanchezza per gli allenamenti cominciava a farsi sentire. Sbadigliò Francesca, seguita da Michela.

“C’era una cosa che volevo chiedervi...” disse ad un tratto Camus, attirando l’attenzione delle due. Aveva una faccia strana, quasi non sua, come se fosse indeciso se esprimere quello che aveva in mente.

“Sì?” lo incoraggiò Francesca, presagendo già l’argomento da trattare.

“Anche voi conoscete Stevin... voglio dire, Stefano da tempo, vero?”

“Sì, i nonni di Marta… voglio dire, i vostri nonni, Maestro… - si corresse Michela, rendendosi conto, con gli occhioni un poco tristi, che i vecchi Dante e Ines erano anche parenti di Camus – avevano preso una casa in campagna a Carsi, il paese davanti a Cerviasca, è grazie a questo che si sono conosciuti quando ancora erano bambini. Noi invece abbiamo fatto la conoscenza di Stevin nel 2002, quindi possiamo dire di saperne un po’, anche se non come lei, per ovvie ragioni!”

Camus, a quella frase, affinò lo sguardo, rimanendo comunque corrucciato con la schiena appoggiata al muro.

“S-sì, ho fatto alcuni sogni sulla questione, il punto che mi premeva approfondire era un altro… - disse, esitando ancora, non del tutto sicuro di voler ficcare il naso in questioni intime riguardanti la sorella, anche se, a ben vedere, già il condividere i ricordi e le emozioni lasciava ben poco spazio alla privacy – So, a grandi linee, sotto quale luce lo vedesse Marta, ma… per quanto concerne Stefano? Ho… avvertito qualcosa di… molto intenso tra loro, non mi chiaro se fosse… corrisposto!”

Michela e Francesca si scambiarono un’occhiata di circostanza, le loro labbra si piegarono un poco simultaneamente e piegarono un poco la testa di lato.

“V-voglio dire… - al solito aveva difficoltà a raccattare le parole, che gli sfuggivano, ancora di più se si trattava di sentimenti – L-lui, Stefano… ne era in qualche modo… innamorato?” chiese in un tuffo, facendosi coraggio.

“C’era un legame molto profondo, tra loro, Marta lo chiamava ‘la mia persona’, lei ha sempre odiato i maschi, non ci andava d’accordo, ma con lui… con lui era diverso!” la prese alla larga Francesca, arrossendo a sua volta, a disagio nel trattare i sentimenti al pari del proprio mentore.

“Quindi… era ricambiato?” tentò ancora Camus, profondamente a disagio.

“E’ impossibile, Maestro...” abbozzò Francesca, distogliendo lo sguardo e facendo un cenno in direzione di Michela, la quale sbuffò, in evidente apprensione.

“Devo essere sempre io???” le disse, arrossendo.

“Sei la più espansiva...” fu la serafica risposta della dea, un poco corrucciata.

Gli occhi di Camus andavano da una parte all’altra, un poco frenetici. Cosa era tutta quella omertà? Perché si era creato quel disagio, tra loro, cosa c’era di così difficile da esplicare?

“Non credo di… capire!” fece presente, un poco innervosito, producendo un buffo ticchettio con le dita.

“Era dell’altra sponda, Maestro, non poteva che esserci un immenso, incommensurabile, rapporto di amicizia!”

“Dell’altra… cosa?! Che modo di esprimersi sarebbe?!”

Camus non capì subito cosa significasse ‘appartenere all’altra sponda’, non aveva mai udito quell’espressione colloquiale in vita sua, ma comprese il vero significato dal rossore sulle gote delle allieve, che ridacchiavano sommessamente tra loro. Sbatté le palpebre, incredulo: quindi Stefano era come Aphrodite?!?

“Mi state dicendo che...”

Camus…

Non riuscì a terminare la frase che un capogiro rischiò di privarlo dell’equilibrio. Si sorresse con una mano alla parete, con l’altra si prese la testa. Avvertì un brivido lungo la colonna vertebrale, poi i sudori freddi, infine le palpitazioni. Le gambe gli cedettero, facendolo cadere in ginocchio.

“Maestro!!!” il grido delle allieve arrivò a stento alle sue orecchie, che avevano preso a ronzare. La vista gli si annebbiò. Completamente.

“N-no, anf… non… di nuovo!”

Camus…

Di nuovo la sua voce, lo stava chiamando con quel sibilo prolungato che sembrava provenire dal suo stesso cervello. Il suo respiro accelerò, si ritrovò a scalpitare, mentre con una mano corse a coprirsi l’addome che, pur celato dalla maglietta che indossava, fremeva in preda alle tensione, totalmente rigido e dolente, come se qualcuno si fosse insinuato dentro.

Di nuovo la sensazione delle sue mani sul suo corpo, quel loro strusciare sulla sua pelle, senza un minimo di cura, le sue unghie che gli graffiavano i fianchi, per poi salire, scoprendogli interamente l’addome e poi il torace, giusto per averli sott’occhio, per avvertire nitidamente i suoi spasmi, i suoi movimenti sempre più accelerati che -Camus lo sapeva bene- a lui eccitavano tantissimo, per questo si sforzava di non cedere, di non crollare, non gliela avrebbe data vinta. Mai.

Sai anche… che è questa tua encomiabile resistenza ad attizzarmi ancora di più!

“N-no… NO!”

Perché non vuoi ancora accettarmi come parte di te? Siamo una cosa sola, queste ferite sul tuo petto lo dimostrano, è da lì che sono… entrato!

“L-le cicatrici sul petto sono il s-simbolo del legame tra me e Marta, i-il segno di averla protetta, n-non...” provò ad opporsi, mentre sentiva la mano di quell’essere solcargli lo sterno per poi premere proprio su quelle. Un senso di ripugnanza lo invase, ma non era in grado di muoversi. Doveva assolutamente reagire!

Errato, sono il simbolo di qualcos’altro, Camus! Io sono sempre con te, anche se tu mi rifiuti, sempre. Ogni giorno che passa mi faccio sempre più strada in te, arriveremo ad un punto in cui...”

“VATTENE, MOSTRO!!! - urlò Camus con tutte le sue forze, stringendo convulsamente la maglietta in prossimità del petto e scacciandolo con il braccio – Ho scelto io le persone che fanno parte del mio cuore, i miei affetti, le mie luci, tu non c’entri nulla, non saremo mai una cosa sola! Devo avertelo già detto: combatterò! Combatterò oltre i miei limiti per distruggerti, non toccherai più nessuno di loro, MAI PIU’, e ora esci dalla mia mente! SUBITO!”

Silenzio… la sua voce arrogante lo aveva finalmente lasciato, permettendogli di tornare a respirare con regolarità. Riaprì gli occhi, ma intorno a lui non vi era altro che buio. Diruto, stremato… rabboccò aria, che gli mancava, costringendosi a riportarsi alla calma.

Poco dopo si accorse, una volta in più, che l’addome e il torace erano veramente scoperti, e che la maglia che indossava era ammucchiata sopra le clavicole, sgualcita, gli scopriva i capezzoli e le stesse ferite, come se quell’essere lo avesse davvero osato toccare e percorrere con le sue turpi mani. Doveva tranquillizzarsi, il cuore aveva accelerato il suo moto, gli faceva male. Tanto. Troppo. Era un dolore insostenibile.

Infine, con una mano, appena fu in grado di muoverla, andò a tastarsi i jeans, accorgendosi che erano slacciati e aperti; un ulteriore conferma di quello che aveva vissuto…

Ingoiò a vuoto, risistemandosi la maglietta in modo da coprirsi interamente il busto e riagganciandosi i jeans. Stava ancora tremando, avvertiva nitidamente il suo corpo fremere. Era logorato, stremato, spossato... richiuse gli occhi, sospirando, posandosi una mano sull’addome per nasconderlo, sentendosi ancora esposto. Aveva vinto anche quella volta, il Mago non avrebbe avuto ciò che bramava, MAI, ma era… era tanto stanco, ancora di più che la volta precedente, avrebbe voluto solo dormire, scacciare quella sensazione di profanazione che lo colpiva sempre quando veniva attaccato in quella maniera.

Pensò disperatamente a Marta, a Milo, alle luci della sua vita, le ragioni che lo spingevano a non arrendersi; le ragioni per cui non poteva crollare. Devolse tutte le sue forze nel pensare ai loro visi, al calore che avvertiva grazie a loro, al loro sostegno.

“MAESTRO!!!” la voce trillante di Michela lo fece riscuotere del tutto. Riaprì gli occhi, feriti dalla luce, strizzando una volta le palpebre, prima di riuscire a spalancarli completamente. Il suo campo visivo venne riempito dai volti preoccupati delle sue giovani allieve.

“Michela… Francesca...” riuscì a chiamarle, in tono sfinito, sorridendo. Si accorse di essere sdraiato per terra, un cuscino dietro alla sua nuca per sorreggergli la testa. Era completamente vestito, la maglietta integra, i jeans ben ancorati ai suoi fianchi. Non c’era alcun segno di ciò che aveva vissuto nella sua mente. Era tornato a casa. Ancora una volta.

La più piccola era spaventatissima, lo abbracciò di slancio, nascondendo poi il suo volto nel tessuto della maglietta, la più grande, fece lo stesso, con gesto più contenuto ma ugualmente sentito, permettendosi anche di accarezzargli i capelli per rassicurarlo.

“Sei impallidito improvvisamente e le gambe ti hanno ceduto, non… non sapevano cosa fare, non...”

“Sssshhh, va tutto bene, è passato! Ho avuto solo un mancamento dato dalla stanchezza, state tranquille!” le rassicurò, posando le mani dietro le loro teste e sospingendole ancora di più contro di sé per sentirle più vicine. Socchiuse gli occhi.

“Ma!!!” tentò di opporsi Michela, spaventata a morte.

“Sono a casa… - ripeté lui, cercando di essere più convincente possibile – Ci siete voi, con me, e Marta, Sonia e Milo... anche se non presenti al momento, per non parlare di Hyo...” si fermò una nuova fitta al cuore nel rammentarsi che l’allievo non era con lui, che se ne era andato, proprio per causa sua.

“Ad ogni modo… - il tono gli uscì quasi soffocato ma cercò di non curarsene – Finché sarò con voi, andrà tutto bene, lo so!” farfugliò ancora, prima di cedere alla stanchezza colossale che lo aveva investito e perdere coscienza, le voci delle sue allieve sempre più fievoli e distanti.

Non mi arrenderò, finché sarete al mio fianco...

 

Oltre i confini del tempo e dello spazio dell’Universo Omicron, quello di cui faceva parte la Terra e numerosissimi altri pianeti che la mente umana non poteva neanche catalogare, il Mago stava rannicchiato su sé stesso, la mano ancora posata sullo specchio, tramite il quale aveva raggiunto ancora una volta Camus, finendo però per essere buttato nuovamente fuori. Aveva il respiro affannoso, ma sorrideva raggiante, la mano libera a stringersi tra le due cosce, a quel rigonfiamento che lo inebriava, mentre la mente lo riportava alla consistenza della sua palle, così morbida e calda, a quel calore che lui ricercava, a quel potere che gli sfuggiva, a Camus stesso, che desiderava follemente. C’era andato così vicino, quella volta, ancora il rammentare della sua espressione rotta, sfinita, del suo respiro accelerato sotto di lui, lo faceva eccitare come nessun altra cosa presente in tutti le dimensioni mai create. Rise di gusto, avvertendo un’agitazione a stento controllabile.

Nobile Fei...”

Ermete… - si raddrizzò nel percepire il suo arrivo, ricacciando indietro la frenesia che lo aveva pervaso e riempito, persino a lui, che si sentiva costantemente vuoto dentro. Recuperò un tono imperioso nel più breve tempo possibile – Devo averti già detto che nessuno può permettersi di chiamarmi così, o ci aggiungi i due nomi dietro e mi appelli per intero Fei Oz Reed, o va bene il termine Demiurgo, ti è chiaro il concetto adesso o devo essere più… convincente?!”

Un’occhiata gelida, di avvertimento, bastò a far crollare a terra Ermete, preda di violenti spasmi.

Chiedo perdono, Sommo Fei Oz Reed!” biascicò l’altro, quasi latrando, mentre boccheggiava.

Ti perdono, sei a capo dei Cinque Pilastri di Marduk, del resto...”

Sì, Sommo...”

Si girò interamente nella sua direzione, scrutandolo a fondo, notando che teneva un polveroso tomo tra le mani e che i capelli lunghi, spettinati, gli nascondevano parte del volto.

Alzati, e dimmi che ne hai fatto di Nero Priest...”

Oh, beh… - Ermete seguì le sue direttive, permettendosi di contraccambiare lo sguardo – L’ho punita con una rivisitazione del Mito di Prometeo...” disse, tutto orgoglioso.

E sarebbe?”

E’ nuda legata alla roccia con un Crocovo che ad ogni ora le va a mangiare le interiora… ovviamente non può morire, ma stare un po’ lì le servirà da monito per non agire di sua spontanea volontà la prossima volta!”

Crocovo, l’uccello artropode… - ripeté il Demiurgo, ghignando sadicamente – Che spreco di energie...”

Volete la liberi già ora?”

No, la prigionia e il dolore le faranno bene, inoltre abbiamo ancora un po’ di tempo prima di agire”

Capisco...”

Fei Oz Reed era tornato a contemplare lo specchio che ancora rifletteva l’immagine di Camus, privo di coscienza, mentre le allieve si occupavano di lui. Carezzò la sua immagine sostando a lungo sul suo addome. Non poteva più raggiungerlo, aveva esaurito momentaneamente le risorse, ma gli piaceva… il gesto di toccarlo, anche da distanza. Era come rivendicarne il suo possesso, anche se il ragazzo lo rifiutava con tutto sé stesso.

Ancora poco. Ancora poco e saremo una cosa sola, non temere…

A proposito dell’attacco, Sommo Fei Oz Reed, gli altri Pilastri sono pronti, ma continua a non trovarsi il quinto, l’elemento cardine...”

Oh, non ti preoccupare, Lei ha già discorso con me, più volte, è schiva, ama agire in solitudine, ma c’è, sta filando esattamente tutto come deve andare”

Procedo con i preparativi, quindi?”

Procedi...”

Ermete si chinò in segno di riverenza, prima di allontanarsi il più in fretta possibile. La presenza del Sommo, anzi, di Fei, lo Sciamano che si era spinto oltre, lo rendeva agitato, vulnerabile, sebbene lo stimasse con tutto sé stesso.

Fei Oz Reed rimase diversi secondi a contemplare il viso pallido di Camus, stremato dal suo precedente attacco, ai minimi termini. Stava cedendo, lentamente ma inesorabilmente, il suo percorso era già stato ampiamente tracciato, senza possibilità di equivoco. L’intervento di Marta, nel passato, era stato solo in grado di ritardare ciò che poi, in un modo o nell’altro, sarebbe accaduto di fatto, nonostante le resistenze di tutti. Era destino, null’altro. Quando due anime dovevano unirsi e congiungersi, non c’era ostacolo, né volontà, che potesse impedirlo.

Destino…

E Destino era che Camus, così come il suo potere eccezionale, che mai nessuno aveva posseduto per milioni e milioni di anni, in nessuna delle dimensioni esistenti, finisse nelle sue mani, dando origine ad un’unica, onnipotente esistenza. Per Ipsias. Per la sua rinascita.

Si bagnò le labbra, continuando a guardarlo, l’eccitazione nuovamente prorompente, la mano gli corse nuovamente all’inguine, che avvertiva bollente. Sorrise. Non c’era rimedio per quel bisogno che si faceva sempre più potente di giorno in giorno.

Userò il tempo che ti ha concesso in più Marta, frapponendosi tra me e te, a mio vantaggio, Camus… - gli disse, pur consapevole che lui non avrebbe potuto ascoltarlo, perché lo aveva buttato fuori, serviva diverso tempo per ricaricarsi – Ti metterò un po’ alla prova, ragazzo, tu, gli altri Cavalieri d’Oro, i tuoi affetti... Vediamo se, in caso di pericolo delle persone che tu ami, ti decidi, una buona volta, ad usare quel potere inesauribile dentro di te che covi dalla tua nascita: il Potere delle Creazione, il… Principio Primo di Tiamat! Muahahahaha!”

 

 

 

 

 

 

Angolo di MaikoxMilo

 

Siete stufi degli dei greci? Li considerati troppo ripetitivi?! Bene, utilizziamo un po’ di sana mitologia Babilonese (che è un riadattamento di quella Sumerica) per gettare nella padella altra carne sul fuoco, giusto perché queste storie sono già poco incasinate, rendiamole ancora più difficoltose! XD

A parte gli scherzi, è da quando ho finito la seconda storia, Sentimenti che attraversano il tempo, rivelando il Potere della Creazione di Camus, che mi è venuta l’idea di abbinare la dea primordiale Tiamat al Cavaliere dell’Acquario, perché? Perché è il mio Cavaliere preferito e sono di parte? Sì, non lo posso negare, ma anche per svariati motivi che vi saranno chiariti strada facendo. :)

Per il resto… “I Cinque Pilastri di Marduk” è il titolo ufficiale di questa mini-long ambientata tra i capitoli 10 e 12 della Melodia della Neve, e quindi parallela.

Chi, come me, è appassionato di mitologia, certamente conoscerà sia Tiamat che Marduk, nonché il poema che li vede combattere, l’Enuma elish, e la correlazione che c’è tra queste due divinità, ma non si immaginerà di certo il loro ruolo nella storia, né gli sviluppi seguenti, che mi auguro di trattare nel miglior modo possibile.

Non si può dire comunque che il primo capitolo parta con leggerezza, visto il focus che ho messo proprio su Camus, su… ciò che vive e ha vissuto ad opera del Mago, argomento non certo leggero, che lui non vuole far trapelare fuori da sé, sebbene Marta e Milo (ed Efesto) sappiano cosa stia passando. Anche questo, questa asprezza e crudezza, in certi casi, è frutto della mia nuova versione di Sentimenti che attraversano il tempo. Nella prima stesura era appena accennato, si capiva appena cosa Camus avesse vissuto, ma con la nuova, e soprattutto qui… beh, direi che c’è poco spazio all’immaginazione: il Mago vuole possedere il Principio Primo di Tiamat, tale peculiarità (ma si vedrà meglio nel capitolo 11 della Melodia della Neve) è custodita nel grembo -il termine non è a caso!- di Camus. E Marduk? Cosa c’entra? Che ruolo ha?!

Non so ancora se mantenere il raiting arancione… glia argomenti diventano sempre più delicati, ma non voglio scendere comunque TROPPO nello specifico, non più di quanto abbia già fatto…

Da questo primo capitolo, esce un’ulteriore informazione interessante, anche se solo accennata: il fatto che il Mago, Fei, prima, fosse uno Sciamano… che ha saputo andare oltre, che significa?

Fei era uno Sciamano…

Camus a sua volta, nella mia versione, è uno Sciamano.

Seraphina era un grandissima Sciamana…

Anche questo non è affatto a caso, immagino lo saprete.

Con queste congetture, prive per lo più di risposta ma motivo di riflessione, vi lascio questo primo capitolo. Non so ancora se pubblicherò prima quello nuovo della Sonia’sside story, o della Melodia della neve, ma ciò che è certo è che ho molto da trattare e che non sarà facilissimo, ma ci proverò comunque! ^_^

Al solito ringrazio tutti coloro che mi seguono e vi ringrazio dal profondo del cuore! :)

A presto, spero!

Ritorna all'indice


Capitolo 2
*** Inseguirsi senza, tavolta, potersi ritrovare ***


Capitolo 2: Inseguirsi senza, talvolta, potersi ritrovare

 

 

1 novembre 2011, mattina

 

 

L’infrangersi delle onde al di fuori delle sue palpebre era come una dolce litania che confortava i suoi pensieri, rassomigliante, per certi versi, alle carezze che gli regalava sua madre. Al suo tocco lontano che lo incoraggiava, sempre e comunque, al suo sorriso dolce che non aveva mai dimenticato, anche se andava affievolendosi.

Non voleva dimenticarla. Per nessuna ragione al mondo. Ma gli anni trascorrevano spietati, -ne erano trascorsi quasi 10 dall’incidente!- il tempo incedeva lento e ineluttabile, malgrado la sua ferma volontà di trattenerla a sé.

Le iridi un poco annacquate di Hyoga del Cigno, quasi come se ci fossero finite delle gocce di sale dentro, tornarono ad aprirsi, soffermandosi ancora una volta sulla schiuma formata dalle onde che si smarriva sulla battigia, in mezzo a soffici granuli di sabbia dorata.

Era da solo, nessun Cavaliere nei paraggi, complice anche il tempo che verteva sul plumbeo. Vi era solo lui. Lui e la sua immensa tristezza. Lui e il suo non voler farsi vedere da nessuno. Lui e la Spiaggia Segreta, che lo confortava come nessun altro. Sospirò, stringendosi al petto le ginocchia e nascondendoci il volto in mezzo, sforzandosi di concentrarsi solo sui suoni bianchi che rimbalzavano nei dintorni e non sul casino colossale che aveva in testa. Inutilmente, lo sapeva, perché i ricordi e i tristi rimpianti non gli concedevano mai requie, sebbene si dicesse cresciuto.

Nessuno lo era più venuto a cercare dopo Milo, che aveva provato a riportarlo di nuovo a casa -ma quale casa, poi?!- persino a Michela aveva detto che si sarebbe fatto sentire lui, di non cercarlo per alcuni giorni, perché aveva bisogno di stare un po’ da solo con i suoi pensieri, senza nessuno, e la ragazza aveva accettato, sebbene si sentissero comunque al telefono, unico conforto che il Cigno si permetteva ancora di avere per non crollare del tutto, schiacciato da colpe che non avevano redenzione alcuna. Come non aveva alcuna redenzione lui.

Singhiozzò senza lacrime, incassando ancora di più la testa tra le ginocchia, il corpo scosso da fremiti. Di nuovo il suono dell’infrangersi delle onde accarezzò le sue orecchie, cercando di rinfrancarlo, e poi ancora, ancora, e ancora, come una litania, una ninnananna, cantata per lui, che si sentiva così dannatamente solo e che, in fondo, meritava di sentirsi tale.

Solo. Sgualcito. Privo di radici. Le aveva mai avute, queste cosiddette radici?! Hyoga un tempo lontano aveva creduto di sì, con sua madre, prima dell’incidente navale, prima di appurare che suo padre era un vecchio bavoso di merda che aveva dato alla luce più di cento figli per… il biondo scrollò la testa, ricacciando indietro il disgusto, l’amarezza, il senso di soffocamento nel rammentare che la metà di quei geni era ancora dentro di lui, nonostante il sangue versato.

Senza radici. Per averne di simili era meglio essere un uccello che volava libero nell’aere, un cigno, che ogni anno compiva non sapeva bene quanti chilometri di viaggio alla ricerca di un posto chiamato casa dove fare un nido. Quel nido, quella casa era la Siberia, la sua…

Wow, Maestro, ma è freddissima!”

Sussultò. La voce infantile di Isaac l’aveva raggiunto, si raddrizzò un poco, gli occhi catturati dal moto ondoso, ma lo sguardo, quello, scorgeva altro, un qualcosa che si era appena materializzato davanti a lui, ma che non poteva più toccare, perché lui stesso aveva distrutto per sempre, inseguendo un’utopia.

La Siberia, le ali dei cigni, il permafrost, le onde del mare che là avevano un suono diverso. Erano queste le sue radici, solo che non se ne era mai reso conto pienamente, prima di perderle per sempre…

 

Isaac si divertiva un mondo a far scricchiolare il ghiaccio, che si rompeva davvero per poco, sotto di sé. Bastava esercitare una piccola pressione e… puff, si incrinava fino a spezzarsi, facendolo ridere da matti. Il permafrost in estate non faceva poi così paura, neanche a loro, giovani apprendisti di un Cavaliere d’Oro altrettanto giovane ma già incommensurabile.

Era giugno 2003 e il piccolo non era più solo, perché quell’inverno si era unito a loro un altro bambino, dei capelli biondi come il grano, anche se Isaac non lo aveva mai visto dal vero questo grano, forse meglio dire quindi del colore dei raggi solari. Trasmetteva infatti lo stesso calore. Sorrise nel pensarci.

Saltellava da una parte all’altra, spassandosela un mondo ad assistere alle diverse spaccature del ghiaccio. Per quanto si sforzasse a compiere gli stessi movimenti, pigiando con la stessa intensità, quello si rompeva in mille e più modi diversi. Era magico. Come il Maestro Camus.

In uno degli ultimi balzi, si era frantumato in tanti piccoli pezzettini, neanche il tempo di assistere a quell’operato, che Isaac si era ritrovato con gli scarponi in ammollo e il bordo dei pantaloni bagnato. Ne derivò un brivido gelido.

Wow, Maestro, ma è freddissima!” aveva esclamato, totalmente meravigliato.

Bravo, Isaac, la tua opera di distruzione è arrivata al confine tra i ghiacci perenni e il mare...”

Mare?!” chiesero all’unisono sia Isaac che Hyoga, guardandosi tra loro per poi osservare il maestro.

Sì, il mar Glaciale Artico. In questo periodo dell’anno il ghiaccio si scioglie piuttosto velocemente, rivelando così, in alcuni punti, la distesa marina. E’ una panacea per gli orsi polari che, provati dal lungo letargo, possono così tornare a cacciare, mettendo da parte riserve di grasso per l’inverno.”

Oh...” riuscì solo a dire Isaac, guardandosi gli stivali zuppi e alzando una gamba per poi uscire dall’acqua, come se avesse calpestato qualcosa di sacro.

Hyoga invece, ancorato sulle spalle del maestro, si aggrappò ancora di più a lui, tirando su con il naso e osservando con mistica riverenza e paura l’immensa distesa non più bianca ma blu. Quasi irriconoscibile. Discostò in fretta lo sguardo, rannicchiandosi ulteriormente lì sopra e chiudendo gli occhi.

Camus raggiunse Isaac con la solita andatura elegante, osservando attentamente i movimenti e le espressioni facciali del giovane allievo, permettendosi quasi di sorridere.

Quindi… non sono io ad essere diventato fortissimo, Maestro, il ghiaccio si romperebbe comunque” commentò lui, corrucciato, gonfiando le gote.

No, soldo di cacio, non penserai davvero che basti un anno di allenamento per arrivare a compiere imprese simili!” sbuffò il mentore, divertito dalla sua ingenuità.

Sì, se siete voi ad insegnare!” esclamò cocciuto il piccolo, guardandolo con trepidante adorazione, affatto convinto sulla questione.

Camus soffocò dentro di sé un mormorio che si sarebbe trasformato in una risata, se non lo avesse tenuto docilmente sotto controllo. Solo il petto gli tremò appena, parafrasi del suo stato. Discostò lo sguardo, puntando verso la distesa marina, sulla linea retta che celava l’orizzonte.

Otterrai quel potere, Isaac, col tempo, ma non devi dimenticarti che non siamo noi ad essere sopra alla natura, ma lei su noi...”

Cosa significa, Maestro?”

Anche una volta che otterrai un potere sovrumano, dovrai imparare a non intaccare l’equilibrio delle singole cose, perché si ripercuoterebbe sul mondo intero. Noi siamo immanenti nella natura, nel Grande Tutto, determinate cose, come uomini, non si possono fare, non importa se Cavalieri o...”

Neanche i Cavalieri lo possono fare?!”

No, l’equilibrio è piuttosto fragile...”

E se lo volessi comunque intaccare per un fine superiore? Per… proteggervi?” chiese a bruciapelo Isaac, gli occhi brillanti, perché sì, per lui, per Camus, sarebbe stato disposto a sfidare qualsiasi legge preesistente.

...Allora dovrai accettarne interamente le conseguenze!”

Mi state dicendo che quindi è possibile, Maestro, un Cavaliere ne avrebbe la forza, ma, se può, non deve usufruirne più del necessario per esercitare la giustizia?”

Qualcosa del genere...”

Perché?”

Camus sorrise leggermente, soffermandosi ancora una volta sul suo visetto da bambino. Isaac era sempre stato precoce e curioso su tutto, anche in quel caso non deludeva. Non l’avrebbe deluso mai.

Si racconta che anche il più piccolo battito d’ali di una farfalla possa provocare un uragano dall’altra parte del mondo...”

Isaac lo fissò sbalordito, non capendo minimamente il reale significato di quell’affermazione, ma presagendone l’immensa portata.

Non capisco, Maestro...” sbuffò di nuovo, innervosito da non riuscire ad acciuffare quel discorso che Camus gli aveva appena fatto. Voleva dimostrarsi degno di quella serietà, ma non ci riusciva e ciò lo metteva a disagio, facendolo arrabbiare.

Capirai, ne sono sicuro! Per il momento, cerca di non distruggere tutto il ghiaccio che trovi sulla tua strada, ci potrebbero essere delle tane di foche, le loro case, non è bello rovinargliele!”

Suppongo di sì, Maestro...” ridacchiò il piccolo, prestando più attenzione a dove andava.

A me il mare… non piace!” si lamentò Hyoga, nascondendosi ancora di più tra le spalle del maestro, tanto da spingere sia Camus che Isaac ad osservarlo.

Il bambino biondo aveva ancora il nasino rosso per la brutta polmonite da cui era guarito completamente da poco, gli occhi lucidi e un po’ di tosse che si ostinava a non passare.

E perché mai? E’ così immenso, grande, forte, fiero… - saltò su Isaac, che invece lo amava follemente, sebbene non lo avesse mai visto prima di recarsi in Siberia, perché con i suoi aveva sempre vissuto in un paesino ben all’interno della Finlandia, che adorava, ma che non era così solenne come la distesa marina - Guardando verso il suo confine, là, su quella riga che si perde, viene da desiderare di partire all’avventura e scoprire tante cose nuove, terre lontane, meraviglie infinite e a stento immaginabili… LO ADORO!”

Isaac era entusiasta, come sempre, lui no. Sbuffò, attaccandosi ancora di più alla maglietta di Camus.

Tu vai, io rimango qui, sulla terra ferma!”

Ad Isaac non piacque quella risposta, rigonfiò le gote.

Fifone! Hai paura dei pirati?”

NO! E’ che non mi interessa, tutto qui!”

FIFONE! Hai paura che la balena ti mangi! Grrrr!” lo prese ancora in giro Isaac, imitando le fauci di un qualche animale.

Il biondo si sdegnò ulteriormente, non voleva passare per il pavido della coppia, gonfiò a sua volta il petto.

Non è vero! Non è che perché non ho i tuoi interessi, ho paura, semplicemente non voglio andare per mare, perché il mare… coff! Coff!” si bloccò, trafitto da vari colpi di tosse, che lo salvarono da rivelare ad Isaac il suo segreto. Chiuse gli occhi dolorante.

Il mare per lui era un nemico, null’altro, gli aveva portato via la sua mama, che lui sarebbe andato a salvare e a riprendere togliendola dalle grinfie di quella distesa scura che sembrava tanto affascinante ma che in verità era subdola e cattiva. Un tempo aveva amato il mare, lo ricordava bene, e guardava sempre con ammirazione il suo confine, cullato dalla voce di sua madre che gli assicurava che oltre c’era suo padre, che li aspettava.

Ma era tutta una menzogna, avevano naufragato e sua madre si era inabissata, lambita dalle braccia fredde del marino, o di chissà cos’altro. Lo odiava con tutto sé stesso per ciò che gli aveva ingiustamente strappato troppo presto, rabbrividì.

Hyoga...”

Fu la voce di Camus a raggiungerlo dove si era rifugiato, mentre si sentì prendere gentilmente da sotto le ascelle e posare per terra. Hyoga si ritrovò ad arrossire, non trovando più il coraggio di guardare quello profondo e limpido del maestro. Ingoiò a vuoto, teso. Camus sapeva tutta la faccenda, ciò lo metteva in soggezione. Si aspettava un rimprovero, o qualcosa di simile. Attese.

Ma Camus, dopo una lunga pausa silenziosa, non smettendo di sorreggerlo, perché era troppo debole per stare in piedi da solo, gli posò una mano sulla testa, soffermandosi lì, gesto che lo stupì non poco.

Ora chiudi gli occhi…anche tu, Isaac!”

Il bambino biondo non se lo fece ripetere più volte, sebbene non capisse il motivo di una tale richiesta, ma Camus era con lui, avvertiva il calore del suo corpo, il leggero abbraccio con cui lo cingeva era riconoscibilissimo, perché era il suo, delicato e forte allo stesso tempo.

Si concentrò. Non vedeva più nulla dietro le sue palpebre, si chiese il motivo di quella strana richiesta.

Non devi vedere ma sentire… cosa riesci a percepire?”

Hyoga era corrucciato. Cosa doveva percepire? Niente! Il freddo pungente o… ma qualcosa arrivò alle sue orecchie, qualcosa di soave. Tentò di affinare l’udito, mettendosi d’impegno.

Io non sento nulla, maestro!” si lasciò sfuggire Isaac, sbuffando come una locomotiva.

E’ perché la tua lingua è troppo lunga, a scapito di altro di ben più importante!”

Ma Maestro!!!”

Concentrati di più!”

Un rimprovero. Che disonore. Isaac si incaponì quindi non poco per arrivare a percepire qualcosa, ma niente, niente e ancora niente. Avrebbe disonorato il maestro così, e non poteva permetterselo.

I-io sento un...”

Cosa, Hyoga?”

Non so descriverlo, Maestro Camus...”

Tu provaci...”

Hyoga ingoio a vuoto, affinando ulteriormente la percezione. Era un suono strano, dolce e privo di inquietudini. Sembrava quasi lo potesse accarezzare, confortandolo più del proprio lettone caldo e sicuro durante una notte in cui la tormenta di neve fuori ululava al buio.

Maestro, perché Hyoga lo sente ed io invece...” si lagnò Isaac, non accettando quell’apparente sconfitta.

Ssssssssh, Isaac!”

E’ come… come acqua sul ghiaccio che...” ritornò la voce del piccolo Hyoga, che si sforzava di farsi spiegare.

Vai avanti, sei sulla strada giusta!”

Erano… erano onde, si ritrovò a pensare il piccolo. Lentamente accarezzavano la banchisa, dando quasi l’impressione che dondolasse. Erano suoni tracciabili, quasi visibili con gli occhi della mente; di breve, ma cadenzato, ritmo, come una musica che lentamente si assemblava da sola. Era… sembrava sotto di loro, era percettibile dai piedi, come se per davvero l’acqua accarezzasse il ghiaccio, infondendo energia. Sembrava non avere nulla di cattivo in sé, ma aveva paura di essere tratto in inganno, ancora una volta, perché era consapevole di quanto potesse essere spietato.

E’ corretto, Hyoga! - gli lesse nella mente il maestro - Non vi è nulla di completamente cattivo, in questo mondo, né di completamente buono”

E allora come possiamo noi capire ciò che è giusto o ciò che è sbagliato?”

La differenza la fai tu, la fanno le tue percezioni, ciò che è scibile e assimilabile dalla tua esperienza e ciò che è inconoscibile, e che, di riflesso, fa paura...”

S-sono quindi le mie esperienze ad aver decretato che il mare sia… cattivo?” chiese titubante Hyoga, riaprendo gli occhioni azzurri.

Lo sono sì, ma non significa che sia giusto...”

Ma il mare ha catturato...” si fermò mordendosi il labbro, non voleva riesumare quell’argomento.

Dimmi… ti è sembrato malvagio il mare, oggi, quando sei riuscito a spingerti ad udire le onde che, lentamente, ma con costanza, accarezzano il ghiaccio su cui poggiano i nostri piedi?”

No, mi sono sentito cullato e… rassicurato, ma...”

Ma non fai che pensare a quello che il mare ti ha preso, vero?”

Sì...”

Il mondo, così come lo vedi, è frutto della tua mente. Si può dire quindi che l’oggettivo non esista, ciò che percepiamo è frutto del vaglio della nostra testa, ne deriva quindi una visione distorta, non assimilabile a quella di nessun altro, nonché… unica!”

Hyoga osservava ammirato Camus, ancora al suo fianco, gli occhi chiusi quasi come se stesse dialogando anche con il mare sotto di loro che, per la prima volta agli occhi del piccolo, dopo l’incidente, non pareva poi così spietato, ma quasi… un conoscente. Si soffermò a fissare il profilo allungato del mentore, chiedendosi tacitamente se lui era arrivato a non provare più paura. Lo ammirò una volta in più.

Hyoga… - gli occhi di Camus si riaprirono nell’avvertire il suo sguardo su di lui. Emanavano un lucore quasi invincibile, a tratti divino, che abbagliava – Quando non saprai dove andare e ti sentirai sperso, rintraccia le onde del mare, inspirane l’odore marino, senza più questo filtro di paura che provi adesso. Ti farà sentire meglio e ritroverai la via!”

Ma io…”

Promettimi che, almeno, ci proverai!”

Hyoga si sentì pervadere da qualcosa di arcano, mai sperimentato prima, che gli gonfiò i polmoni ancora un poco affaticati: l’orgoglio di non deluderlo.

C-ci proverò!” annuì, gli occhi gremiti di una ancora un poco fievole lumella destinata un giorno a diventare abbagliante.

Camus annuì a sua volta, prima di rialzarsi in piedi e prenderlo per mano.

Maestro, quindi voi non avete paura di nulla perché conoscete tutto?” chiese ingenuamente Isaac, sbalordito da quei racconti e, ancora di più, dal modo in cui venivano raccontati.

Conoscere tutto è impossibile, Isaac...”

E allora come fa a non spaventarvi niente?”

Oh, ci sono molte cose che mi spaventano, invece...”

Impossibile!” furono entrambi gli allievi a commentare, scambiandosi un nuovo sguardo d’intesa.

Siamo una zattera in mezzo ad un perenne mare in tempesta, sballottati qua e là in un universo ormai senza padrone. E’ questo il destino dell’umanità, il senso dell’assurdo della vita medesima, ma qualcuno deve riuscire a fare la differenza – cominciò a spiegare, guardando nuovamente verso l’orizzonte lontano, lo sguardo perso, come se vedesse qualcosa ancora precluso ai due pargoli – Ogni goccia d’acqua, ogni cristallo di ghiaccio, ogni granello di una pietra, persino ogni bagliore minerale di una montagna ammantata di notte, formano, da soli, un mondo. Qualcuno, che deve saper leggere i venti, il moto delle maree, il volo degli uccelli per manovrare la bagnarola in cui ci siamo ritrovati, ci deve essere, malgrado la paura. Sapete, alla fine si ritrova sempre il proprio fardello...” riprese poco dopo, serio in volto.

E quel qualcuno sono i Cavalieri di Atena, vero, Maestro?” chiese lesto Isaac, desideroso di riacquistare punti di vantaggio su Hyoga, che riusciva ad udire cose che a lui erano ancora precluse.

Conoscere per combattere la paura, per affrontare la tempesta, non per fuggirvi…

Si ritrovò a pensare Hyoga, pensieroso, come colpito da una fulminazione, guardandosi la manina di destra.

Maestro…?”

Isaac gli strinse il polso nel tentativo di ridestarlo, perché Camus sembrava totalmente altrove in quel momento e al piccolo non piaceva che i discorsi rimanessero in sospeso.

Effettivamente Camus non rispose mai a quella domanda, che si perse nel vuoto, tra il vento, la banchisa e le onde del Mar Glaciale Artico.

 

“A chi vi riferivate, Maestro? Non era un Cavaliere di Atena, vero?” si domandò Hyoga, la mano destra davanti a lui, più grande di allora, ma ancora incapace di sorreggere gli altri.

Aveva più importanza, poi, chiederselo? Ora che tutto era stato spazzato via. Tutto. Da lui. Dalle sue scelte.

Sì, aveva avuto delle radici, il solo rammentarlo lo faceva soffrire, come davvero un albero divelto.

Aveva disintegrato ogni cosa, la sua famiglia, la sua felicità… le aveva spazzate via, quel giorno in cui si era reputato sufficientemente forte per raggiungere sua madre, quel giorno che il mare non gli aveva fatto più paura, e che anzi era da considerarsi un amico con cui perdersi nell’oblio dei sensi.

Aveva fatto finire ogni cosa, ne era rimasta solo la cenere, il non perdono di Camus, il farlo assurgere al ruolo di Cavaliere di Atena, ad ogni costo, come una condanna, non certo più per orgoglio.

Hyoga non avrebbe mai voluto che le cose potessero finire così, dai suoi piani doveva semplicemente diventare parte di quell’immenso mare, come sua madre, una piccola particella del tutto, nient’altro. Ma Isaac lo aveva salvato, si era gettato in acqua per lui, incurante dei rischi, sacrificando la sua stessa vita, concedendogli di prolungare un’esistenza maledetta che lo opprimeva.

Non c’era stato nient’altro dopo la sua decisione. Solo un immenso, ulteriore, peso, solo il sentirsi obbligato a continuare a vivere anche per lui, in suo onore, e diventare il Cavaliere che Isaac avrebbe voluto essere.

Non c’era stato altro. Solo freddo, solitudine e disperazione.

Solo… lo sguardo impassibile di Camus, che celava tutto l’odio di quel mondo, il disgusto, il tacito non voler più avere nulla a che fare con lui, soffocato però dai doveri che il suo essere maestro gli imponeva, perché un Cavaliere del Cigno doveva nascere da quelle lande ghiacciate. Doveva. Ne andava del suo onore, era una sua responsabilità.

Il calore era stato quindi spazzato via, lui lo aveva voluto, era stata una sua nefasta scelta. Per dovere avrebbe continuato a vivere. Non c’erano alternative.

 

Non ti perdonerò mai, Hyoga, MAI! Hai distrutto tutto, TUTTO! Perché lo hai fatto, perché?! Perché proprio tu, perché ho permesso proprio a te di arrivare così al mio cuore, ormai sguarnito, infliggendogli un colpo mortale?! Non ci saremmo dovuti mai incontrare, tu mi hai distrutto, Hyoga, hai disintegrato ogni cosa che avevamo costruito. Io…

 

“… mi odiate, lo so, lo so fin troppo bene, Mae-stro… - gracchiò a fatica Hyoga, mentre alcune lacrime sgorgavano prive di controllo dal suoi occhi – E non riesco più nemmeno a percepire il mare, come mi avete insegnato. Non riesco più…” soffocò un singhiozzo, quasi mordendosi la lingua.

Camus lo odiava, con tutto sé stesso. Lo aveva ben visto quando Nero Priest lo teneva soggiogato, li aveva ben visti quei suoi occhi, nitidi davanti a lui, che avevano avuto il coraggio di esprimere ciò che per anni si era costretto a seppellire dentro di sé. Non c’era possibilità di equivoco. Le parole erano state lanciate, non sarebbero più tornate indietro. Mai più.

“Maledizione! - imprecò tra i singhiozzi, del tutto vano trattenerli, colpendo con un pugno la sabbia sottostante – Perché quindi non mi avete lasciato morire, perché mi avete salvato dall’ipotermia, invece di vedermi agonizzare senza cure?! Mi avete guarito… se non lo aveste fatto sarei morto anche io, ma mia avete salvato. Possibile che il vostro senso del dovere fosse così alto?! Possibile?! Dovevo morire, Maestro Camus… invece avete completato il mio addestramento e, durante la Battaglia delle 12 Case, avete dato la vita per me, per farmi attingere allo Zero Assoluto… NON HA ASSOLUTAMENTE UN SENSO!”

Si rese conto appena di sentirsi ancora arrabbiato, oltre che schiacciato dai sensi di colpa. Quasi urlava, eppure cercava al contempo di trattenersi, mordendosi il labbro e facendosi male. Il petto gli doleva, il respiro era mozzo, la penuria di ossigeno non lo faceva ragionare bene. Avvertiva solo un grande vuoto.

“Davvero non lo sai, giovane cigno? Davvero non ti spieghi come mai il tuo maestro ti abbia salvato più volte la vita?”

Hyoga sussultò, scattando in piedi nell’avvertire una voce cordiale giungere alle sue orecchie, apparentemente sconosciuta. Stava forse impazzendo?! Non c’era nessuno nei dintorni, come era finito a udire anche voci inesistenti?!

“Lui ti ama, Hyoga… è solo che non lo riesce ad esprimere. Di certo, per un periodo della sua vita, è arrivato ad odiarti, suo malgrado, senza volerlo, del resto, la sua intensità delle emozioni è immensa, a stento controllabile. Può essere una montagna eterna di ghiaccio, infrangibile, compatto, solido… ma il ghiaccio è pur sempre formato da piccolissimi cristalli di neve che si disfano se stretti un po’ troppo forti nel palmo di una mano...”

“Chi… chi sei?”

“Una parte di Camus… che si è smarrita, ma, proprio per questo, so per certo quello che ti ho detto – lo raggiunse ancora la voce soave – Hyoga, giovane e fiero erede di Aquarius, sforzati di ricordare...”

“R-ricordami?” ripeté Hyoga, continuando a guardarsi confusamente intorno.

“I piccoli gesti che ti regalava, il prendersi cura di te, quando avevi la febbre alta, il pregare che tu potessi sopravvivere, il sperare. Ti vuole bene, Hyoga, anche se non riesce ad esprimerlo, ma credimi… credimi, ti prego!”

Il ragazzo si sforzava di ricordare, ma non ci riusciva, gli venne da piangere più forte.

“Non rammento… niente… di ciò che mi dici, non...”

“Come supponevo, siete troppo simili, non riuscite a toccarvi...”

“Ma tu chi sei?! Perché sento la tua emanazione, mi sembra quasi di conoscerti, eppure...”

“Ripercorri il cammino insieme a me...”

Il cammino?! Ma se non riusciva neanche…

“Ahi!”

Hyoga saltò quasi sul posto per la sorpresa di essersi sentito beccare la caviglia. Abbassò lo sguardo, ritrovandosi davanti un prodigio, un qualcosa che non si sarebbe mai aspettato. Fremette, del tutto incredulo, nell’ammirare un cigno bianco splendente che, con gesto gentile ma deciso, gli tirava il bordo dei pantaloni.

“Chi… sei?”

La voce gli usciva a fatica, mentre le narici si inebriavano di un profumo frizzante che gli faceva provare un’immensa nostalgia. Era la prima volta che lo percepiva così distintamente eppure... gli era famigliare!

“Un frammento dell’anima di Camus...”

“Un…?! - Hyoga sospirò, massaggiandosi la testa, e chiudendo gli occhi, scrollando il capo, rassegnato – Ora parlo pure con i cigni e i cigni mi dicono di essere il maestro, sto uscendo di testa...”

“Perdona se discorro con te in questa tenuta. Non dovrei intervenire, ma… sotto questa forma, anche se non convenzionalmente, qualcosa posso provare a fare. Per te. Per voi!”

Hyoga udiva appena le parole del candido cigno, di un bianco puro, avvolto da una nebbiolina gelida, che circondava la creatura dandogli connotatati mistici. Era meraviglioso, ma non poteva che trattarsi di un miraggio, di un segno di uno squilibrio mentale o di qualcos’altro.

Per qualche ragione inspiegabile, però, gli rispose comunque.

“Non c’è nulla da fare, tra me e il maestro, non...”

“Non c’è nulla da fare se rimarrete fermi nelle vostre posizioni, è vero, ma il vento sta cambiando, lo odi?”

“I-io non...”

“Devi ricordare, ragazzo… solo questo!”

“Che cosa?”

“Il giorno in cui perdesti Isaac...”

“Non c’è un istante della mia vita che non me lo rammenti, ho gli incubi, su quello! Non ho bisogno di te per farlo riaffiorare nella mia mente. L’odio del maestro, il suo curarmi a forza, per dovere, per… - si trattenne, rendendosi conto che si stava arrabbiando – Dovevo… essere… io… a morire...”

“Non è così! In fondo al tuo cuore sai che ti ama, quel giorno non smarriste solo Isaac, otteneste anche qualcos’altro...”

“Che cosa?”

“Il calore di un conforto… la compenetrazione esatta di due anime che fino ad allora non si erano mai capite, sebbene fossero così simili”

Hyoga guardò il cigno con pietoso scetticismo. Ormai ne era sicuro: stava diventando pazzo per congetturare, tramite la sua mente, simili immagini dell’uccello che rappresentava la sua costellazione e che davanti a lui si perdeva in pensieri filosofeggianti per provare a farlo sentire meglio.

Inaspettatamente udì il suono di una risata cristallina -i cigni ridevano?!- che lo fece sussultare. L’animale continuava a guardarlo con gli occhi scuri, divertendosi a strusciare il becco sui suoi pantaloni, sbattendo ogni tanto le ali.

“Non sei pazzo, su questo puoi esserne certo, sono io ad averti raggiunto, non è la tua mente ad avermi generato”

“La questione non cambia, non capisco quello che dici, non mi ci ritrovo. Quel giorno il legame tra me e il Maestro Camus si spezzò irrimediabilmente per sempre, non abbiamo più costruito niente da allora, terra bruciata, terra...”

“Guarda dentro al tuo cuore, giovane erede di Aquarius, senza più paura alcuna, lì si celano le risposte che cerchi”

“Ma io...”

“Hai paura, lo so, tutti gli esseri viventi ce l’hanno, ma non è forse dovere di un Cavaliere conoscerla per poi combatterla? Per affrontarla, smettendo così di sfuggirle?”

Erano le parole che aveva lasciato intendere Camus quel giorno che aveva portato lui e Isaac ad ammirare il Mar Glaciale Artico che si scioglieva. Ingoiò a vuoto, chiudendo gli occhi e chiedendosi se davvero quella creatura magica fosse un frammento dell’anima, del cuore, del suo maestro…

“Lasciati trasportare dall’onda, io ti guiderò!”

Anche quella una frase famigliare, che Camus pronunciava spesso. Il suo cuore perse un battito, poi un altro ancora. Doveva rivivere i momenti posteriori alla perdita di Isaac, anche se faceva male, dannatamente male. Tuttavia, malgrado lo sforzo, non riaffiorava niente nel buio che lo aveva avvolto, del resto in quel frangente era stato piuttosto male, era davvero difficile cavare qualcosa in quegli istanti terribili in cui aveva avuto tanto, tanto, freddo, e la vita scivolava via, senza avere la forza per opporvisi. Non riusciva ad acciuffare quei momenti, era tutto vacuo e confuso, come le nebbie del delirio che lo avevano avvolto. Come riportarlo quindi in superficie?

“Scu-scusami, io non riesco a...”

Per un instante sentì nuovamente il peso del fallimento addosso… aver attinto all’Ottavo Senso, sconfiggendo Hades insieme agli altri Cavalieri di Bronzo, per poi non riuscire a fare nemmeno una cosa semplice come riportare alla luce un qualcosa che lui stesso aveva vissuto, anche se in bilico tra la vita e la morte. Il Maestro Camus ce l’avrebbe fatta, invece. Il Maestro Camus…

Pa-pà… aiu-to, ho tanto… freddo!”

Sussultò sconvolto nell’udire la sua stessa voce. Ma le sue labbra erano chiuse, le sfiorò appena con la punta delle dita, mentre un leggero calore gli riempiva il petto. Il calore…

Lentamente le forme attorno a lui presero consistenza, rivelando la sua figura emaciata e affannata stesa sul letto, avvolta da pesanti coperte che tuttavia non lo riscaldavano. Sgranò gli occhi, quasi paralizzato. Arguì che stava morendo, c’era vicinissimo e…

“P-per Atena, i-io sto...”

P-papà, d-dove sei?! N-non ti sento… p-più!”

E’ qui, Hyoga, resisti, non mollare! Tuo padre è qui, forza!”

Sobbalzò nel sentire quella voce che non identificò subito e che soprattutto non rammentava in quel frangente, mentre i contorni della camera, rischiarata da una luce soffusa, si facevano sempre più nitidi. Riconobbe infine la figura di colui che, chinato al suo capezzale, cercava di prodigarsi per farlo stare meglio, ma i suoi occhi erano tutti per Camus, in piedi appoggiato alla parete, lo sguardo spento e consumato rivolto al letto, quasi uno spettatore esterno. Lontano, così lontano da lui, dal toccarlo, come se il solo provare ad avvicinarsi gli facesse quasi ribrezzo.

“Mae-stro...” balbettò lo Hyoga del presente, fremendo, non riuscendo a spiccicare più alcuna parola.

Pa-pà… papà, t-ti prego, perdona-mi!” lo invocava intanto l’altro sé stesso, sempre più debole.

Cosa devo fare? - languì infine Camus, in tono strascicato, non accennando comunque alcun movimento nella loro direzione - Cosa devo fare… Elisey?”

Il grande e coraggioso Hyoga, il Cavaliere che era diventato a scapito di immani sofferenze, guardò la figura del vecchio Sciamano fulminare con gli occhi Camus, rimproverandolo tacitamente per la poca reattività che mostrava in quel momento. Poi lo vide chinarsi nuovamente sul sé stesso della visione, recitare alcune formule magiche, che si impressero sulla sua fronte, accarezzandogli poi i ciuffi biondi e sistemandogli successivamente il capo per permettergli di respirare meglio, visto che faceva così tanta fatica a racimolare ossigeno.

L’ipotermia gliela abbiamo già trattata, non possiamo fare altro...”

Secco. Lapidale. Come sempre. Anche se in viso aveva un’espressione triste, rammaricata. Camus si ritrovò a sussultare bruscamente, il cuore -sempre che ce l’avesse ancora avuto il cuore, perché se lo sentiva frantumato!- smise per un solo istante di battere.

Ma i-il ragazzo sta comunque...”

Lo so... – sospirò Elisey, recitando nuovamente quelle formule che vennero impresse sulla sua fronte, svanendo però subito dopo – Sta morendo, perché la sua anima non intende farcela”

Che… cosa… significa?”

La domanda di Camus uscì dalla sua bocca quasi come un latrato. Si ritrovò suo malgrado a tremare, fragile come non mai. Smarrito. A stento si reggeva alla parete, le gambe non lo sorreggevano che appena.

Elisey si raddrizzò, posando la sua mano sopra la fronte del giovane Hyoga, che ansimava con patimento, quasi del tutto abbandonato. Camus lo percepì; percepì che stesse scivolando via, per questo tentò di raggiungerlo a voce, pur mantenendo le distanze.

Sono qui con te, Hyo-ga… andrà tutto bene, starai presto meglio in qualche modo!” provò a rassicurarlo, prendendo varie boccate d’aria per tentare di dare fermezza al suo tono.

Detesto dovertelo ripetere, ma, ancora una volta, dipende da te, Camus...”

Che cosa posso…? D-dicesti poco fa che l’ipotermia...” non riusciva a parlare, stava sempre peggio nell’assistere al suo Hyoga che sprofondava via da lui, perdendosi.

So bene cosa ho detto, è infatti altro ciò che dovresti fare...”

E s-sarebbe?”

Perdonarlo...”

Camus tacque, facendosi livido, gli occhi si fecero nuovamente severi e intransigenti, spazzando via la tristezza. Perdonarlo… dopo che gli aveva appena strappato Isaac e così il cuore?! Perdonarlo…

N-non… p-posso!”

E allora morirà!”

N-no! Non voglio che...”

Perché non vuoi? Sei talmente arrabbiato con lui, per averti strappato Isaac, per averti distrutto il nido che difficoltosamente ti eri...”

Lo sono, sì… eccome se lo sono! Con lui… e con me stesso!”

Il corpo di Hyoga, sussultò, prima di iniziare a vibrare, come scosso dai fremiti. Lo stesso capitò alla versione di Hyoga cresciuta, già Cavaliere, che incassò la testa tra le spalle.

“E allora perché non mi lasciate morire?”

E allora perché non LO lasci morire?”

Camus stette in silenzio, discostando lo sguardo dolente altrove. Fragile, distrutto… persino davanti ad Elisey, colui a cui non avrebbe mai voluto far vedere la propria debolezza.

E’ questo tuo astio che lo sta uccidendo...”

Co-cosa?” le pupille di Camus traballarono notevolmente. Per l’ennesima volta nell’arco di quella settimana si sentì morire, sebbene si reputasse già morto.

Elisey tornò a concentrasi su Hyoga, il quale appariva sempre più agitato e arrendevole, lo stavano davvero perdendo, si morse il labbro inferiore.

Senso di colpa, fallimento, tristezza, impotenza… avverto tutte queste emozioni dentro di lui, lo stanno schiacciando, rendendogli sempre più difficile la respirazione. Se non lo farai aggrappare a nulla, la sua vita scivolerà via e si spegnerà per sempre...”

Il tono di Elisey era grave, mentre osservata attentamente Camus, che passava da uno stato di disperazione crescente ad uno di rabbia in pochi, brevi, secondi.

Mi stai pigliando per il culo, Elisey?! Tutte queste frivolezze… mi stai dicendo che sono loro a ucciderlo?! Non l’ipotermia? Hyoga… sta rimanendo ucciso dalle sue stesse EMOZIONI?!?”

Disgustato da quella fragilità, che era la stessa sua...

Non sei un Evocatore, non mi meraviglia che tu non capisca...”

Camus lo avrebbe mandato al diavolo per quell’affermazione, se non si fosse trovato in una situazione più che disperata. Ingoiò la provocazione, cercando di scacciare le lacrime, la sua più cocente debolezza.

Cosa devo fare, quindi?”

Perdonarlo...”

Qualcosa di più terra terra, Elisey, non mi sembra il momento adatto per parlare dell’Iperuranio!” ironizzò nervosamente, quasi non riconoscendosi.

Non ci siamo capiti, ragazzo, il tuo Hyoga sta morendo, ti sembro in vena di scherzare?!?”

Lo so, maledizione, ti sto chiedendo il modo per salvarlo!” ripeté testardo Camus, tentando disperatamente di mantenere stretto a sé l’autocontrollo che tuttavia gli sfuggiva.

Perdonalo… solo di questo ha bisogno, null’altro!”

Non succederà, è inutile! E’ andato contro i miei insegnamenti, ha segnato il destino di Isaac con la sua decisione, come puoi dirmi di… HYOGA! NO, MALEDIZIONE!!!”

L’allievo si dimenava con sempre maggior foga, preda degli spasmi, delle convulsioni, perché era arrivato al limite, avvertiva tutto quell’odio crescente, la colpa, il dolore, il fallimento… era impossibile resistergli.

Camus era balzato in avanti, approcciandosi al letto nel vedere con terrore l’allievo subire tutto quello. Stava soffrendo terribilmente, teneva strette le coperte sotto di sé, mentre il corpo si muoveva in maniera sempre più incontrollabile, le labbra aperte in un grido che risultava dilaniante anche se muto, perché di forze Hyoga non ne aveva più, ne era quasi prosciugato.

All’odio, alla disperazione e alla rabbia si aggiungeva qualcosa di ben più terribile: l’amore infinito, che sentiva provare per lui, e che rendeva tutto il resto persino più intollerabile. Gli voleva bene… ed era stata quella debolezza, l’essersi permesso di legarsi a loro, che aveva ucciso il suo Isaac e che si stava portando via anche il suo Hyoga… Hyoga, che stava per smarrirsi per sempre.

E’ dunque questa la tua scelta, Camus? Farlo morire… per quello che ha fatto al tuo Isaac?” chiese Elisey, trattenendo il ragazzo a stento sotto di sé. Il battito del suo cuore stava diventando paurosamente irregolare, rischiava di fermarsi, ma non glielo disse. Così privo della volontà di vivere, non sarebbe che durato solo alcuni minuti, prima di accartocciarsi su sé stesso come una foglia riarsa. Morto.

N-no, io non ho mai detto q-questo...”

Sei furioso con lui, Camus, questo, solo questo...”

SONO FURIOSO CON LUI PER FORZA, ELISEY!!! - gli inveì contro, ormai non riconoscendosi più - Ma n-non significa che voglia l-la sua morte…” singhiozzò, dando un pugno contro il muro per la frustrazione.

Sei furioso con lui, ma non vuoi che muoia… non è un controsenso questo?!”

No, non lo è… NON LO E’!!! Non voglio… NON VOGLIO! I-io… - rabboccò aria, sempre più devastato – E’ stata colpa mia, Elisey, i-io ho ucciso Isaac, IO! Non riesco a sopportare la sola idea di perdere anche lui!”

Doveva fare aggrappare l’allievo a qualcosa, altrimenti se ne sarebbe andato per sempre. Il guaio era che nemmeno lui aveva più un sostegno, l’ennesimo gli era stato strappato via con violenza inaudita.

Isaac… mio ometto!

E allora... parlagli, toccalo! Non puoi perdonarlo, non puoi perdonarTI, ma lui ha bisogno di sentire la tua voce, Camus, di percepire il tuo calore! Digli cosa è lui per te, perché non vi siete mai nemmeno sfiorati, né tanto meno capiti, ma siete indispensabili l’uno per l’altro!”

Camus tacque, rimanendo, per un tempo indefinito a fissare il corpo di Hyoga tra le braccia di Elisey, quel suo volto rotto dalla sofferenza, le sue palpebre contratte, la smorfia sulle sue labbra dischiuse, il freddo che lo aveva avvolto, sempre più insostenibile…

La sua mente venne portata lontana per una serie di secondi, a quando, 5 anni prima, lo aveva conosciuto, piccolo e indifeso com’era, impacciato, con il suo corpicino fragile di appena 8 anni. Effettivamente poco dopo, quel bambino biondo dagli occhi azzurri delle sue memorie, si era ammalato di polmonite, trasmettendo a lui l’incubo di perdere un altro allievo come il timido e sfortunato Svetlan, così simile a Hyoga per attitudine.

Ingoiò a vuoto, mentre, alla visione del corpicino scosso dai tremori del piccolo Hyoga di otto anni, si sostituiva la sua versione di tredici, più cresciuta e sviluppata, ma ugualmente… indifesa…

Hyoga...” gli uscì un singulto strozzato nell’approcciarsi finalmente al suo allievo, prendendolo dalle braccia di Elisey per portarselo contro il petto e stringerselo.

Hyoga – ripeté, lo sguardo sempre più annacquato, adagiando il suo volto sulla sua spalla e accarezzandolo per farlo calmare – Perdonami...” gracchiò, chiudendo gli occhi e affondando il viso nei capelli del biondo, che malgrado il colore rassomigliante al grano in estate, non emanavano più calore, così incrostati dal ghiaccio com’erano.

Elisey capì che per far parlare a cuore aperto Camus, e quindi riscuotere Hyoga, doveva rimanere solo nella stanza con l’allievo. Si alzò lentamente in piedi, adducendo come scusa il dover andare a recuperare altre borse dell’acqua calda.

Camus attese che la porta si chiudesse dietro di lui.

Lo sai, Hyoga… - il suo tono era persino più tremante di prima, mentre tentava di dare un freno alle sue lacrime e continuava ad accarezzarlo con premura e dedizione – Quando, pochi mesi dopo il nostro incontro, fuggisti dall'isba perché avevamo litigato, rischiando l'ipotermia, sviluppasti una polmonite potenzialmente fatale. Quella notte ti tenni stretto a me esattamente come sto facendo ora. Sembravi così piccolo e indifeso, avevo paura… avevo paura che non ce la potessi fare, come Svetlan, ma… ma riapristi gli occhi, mentre ti tenevo tra le braccia insieme ad Isaac, mi tirasti un poco i capelli, prima di sorridermi, chiamarmi papà e riaddormentarti su di me...”

“E’ vero, Maestro, lo ricordo anche io e… pensavo di averlo dimenticato, invece l’ho sempre custodito qua dentro” biascicò Hyoga del presente, toccandosi il petto e guardando con dolcezza il suo corpo essere cullato dalle forti braccia di Camus, il quale, senza far trasparire i singhiozzi fuori da sé, lo continuava a tenere contro il suo torace.

Ma tu sei forte, piccolo, ciò che hai dato a me e ad I-Isaac in questi anni, non si può nemmeno spiegare a parole. E’ stato facile volerti bene, anche se non sono mai riuscito a dimostrartelo. Non siamo mai riusciti a capirci completamente, sebbene tu mi sia così simile...”

“Simili… - ripeté Hyoga, corrucciato, sull’orlo delle lacrime, gli occhi a sua volta annebbiati – Siamo così simili, Maestro?”

Moltissimo...”

Hyoga sussultò, era quasi come il Camus della visione, quello che continuava a stringere il suo corpo inanimato troppo vicino all’oblio, avesse risposto alla sua domanda.

Siamo molto simili, Hyoga, quasi mi spaventi, perché rivedo in te la mia stessa fragilità, i miei stessi sbagli che io, in quanto maestro, devo cercare di farti sopperire in ogni maniera, perché ti uccideranno, prima o poi, ed io… io non lo potrei sopportare! - Camus respirava il profumo salmastro dei capelli di Hyoga che sembrava essersi finalmente acquietato – Proprio per questo, perdonami, piccolo, perdonami se, da adesso in poi, dovrò dare ancora più del tutto per tutto per sforzarti a crescere. Mi sei rimasto solo tu, t-tuo fratello è...” si fermò, non riuscendo nemmeno a tollerarne la parola. Singhiozzò.

...E’ morto, l’ho perso, l’ho abbandonato… e la colpa è stata ancora più mia che tua…

Non sono riuscito a salvarlo, mi è… sfuggito… ci ho provato, davvero, con tutto me stesso, ma lui se ne è andato… p-per sempre!”

Hyoga, distogliendo lo sguardo, si sentì nuovamente arrabbiato, malgrado il calore che percepiva in petto. Cominciava a capire il perché di tante cose, cominciava a capire Camus, ma questo, per un ironico scherzo del destino, non lo rasserenava, anzi, lo rendeva solo più cupo e pregno di amarezza.

“Non dovevate comunque scegliere voi la mia strada, la mia… - strinse i pugni con foga, aveva voglia di urlargli contro tutta l’ira che avvertiva, poi di abbracciarlo, di piangere spalla contro spalla, perché Camus si era sovraccaricato troppo, nel darsi la colpa, e quello lo stava distruggendo, ma non faceva che pensare a lui, come nella Battaglia delle 12 Case; e poi ancora… ancora… non lo sapeva, avvertiva fin troppe emozioni dentro di lui, in tumulto – Questo, il volermi farmi crescere, non vi da alcun diritto di tracciare la strada per me, non vi dava neanche alcun diritto di gettare mia madre nel fondo negli abissi! Perché mi avete...”

Ti sentirai tradito, mi odierai… ne sono consapevole! Continueremo a non capirci, ad inseguirci, senza riuscire nemmeno a sfiorarci...”

Hyoga lo fissò incredulo, davanti a lui, la bocca semi-aperta, un fastidioso fischio alle orecchie.

“Smettetela di leggermi nella mente, come fate a percepirmi, anche se siamo su due piani temporali diversi?!? - si ritrovò a sua volta a singhiozzare, frastornato, non capendo più se il maestro rispondesse a lui o parlasse da solo in quella visione ricolma di dolore, nel nido che lui stesso aveva contribuito a strappare – Dunque lo sapevate, sapevate che non vi avrei capito, perché ero troppo infantile per capirvi, che ci saremmo fratturati ulteriormente, ma lo avete fatto comunque! Se non fosse stato per Milo io… vi avrei anche odiato, durante la Battaglia delle Dodici Case, anzi, ti ho odiato, Camus!!! Proprio tu, la mia guida, il mio sostegno, perché hai permesso questo?! Perché hai permesso che ti odiassi… papà?!”

Troppe emozioni, non le riusciva a controllare, lo travolgevano. Tacque, mordendosi il labbro inferiore per non emettere alcun suono, il sibilo nella sua testa era sempre più prorompente.

Tacque anche Camus, che guardava fisso, con occhi spenti, un punto indefinito sulla parete, senza vederlo neppure. L’altro Hyoga, tra le sue braccia sembrava quasi del tutto tranquillo, dormiva, sebbene l’espressione fosse comunque piegata dagli incubi e dalla sofferenza.

Un colpo di vento più forte del normale picchiò contro la finestra, facendo riscuotere Camus, il quale tornò a concentrarsi sull’allievo, le guance rigate dalle lacrime che aveva per troppo tempo trattenuto. Gli accarezzò i capelli biondi con gesto sinuoso, scendendo poi sul suo volto, che gli vezzeggiò con il pollice, appena sotto la palpebra abbassata.

Ho perso… tutto… non perderò anche te, mio amato Hyoga… - farfugliò, posando la fronte contro la sua e strizzando le palpebre come ad impedire al dolore di manifestarsi ulteriormente. Sarebbe rimasto sigillato in quelle quattro mura in eterno, senza trasparire più fuori – Non perderò anche te, p-piccolo, diventerai fortissimo, più di quanto sia io, solo così potrai resistere alle brutture della vita senza esserne travolto… solo così… te lo prometto!”

“Perché non capite che è impossibile?! I-io… io… - Hyoga chiuse, riaprì, e richiuse le palpebre, prostrato – I-io sono esattamente come voi e sono… fiero… di esserlo!”

Finché Camus avesse perdurato a volerlo rendere ciò che non era -e soprattutto ciò che non era neanche lui!- non ci sarebbe stato alcun punto d’incontro, come avrebbe potuto esserci, del resto? Simili fino al punto di non riconoscersi, malgrado l’immenso affetto provato l’uno per l’altro. Suonava davvero come una condanna, una maledizione...

“Maestro… no, anzi, papà… Io ti...”

Ti voglio bene, Hyoga… anche se non te l’ho mai detto!”

Nonostante lo sapesse, gli vennero gli occhi lucidi a quella rivelazione che dolcemente Camus rivelava alla sua controparte troppo debole per poterlo udire. Ai loro stessi del passato.

“Vale anche per me, è proprio per questo che… non posso tornare. Non finché non sarò cresciuto, seguendo però la mia strada, non quella voluta da altri!” disse tra sé e sé, sperando in cuor suo che anche Camus potesse percepire quelle parole sussurrate tra le nebbie del sogno e che profumavano di una nuova determinazione.

Tutto svanì nel breve istante successivo.

Non era più all’isba, non era neanche più sulla spiaggia, ma su un picco ghiacciato, intento a fissare mestamente il sole che si infiammava prima di languire e insanguinare tutto l’ambiente circostante.

“Non sei costretto ad allontanarti per giungere a completa maturazione, per… crescere. Hai già dimostrato di averlo fatto!” gli disse il cigno, nuovamente ai suoi piedi, gli occhi puntati a sua volta verso il tramonto.

“Non posso tornare ancora a casa, anche se lo vorrei tanto, non sono ancora… adeguato!”

“Hai compiuto imprese eroiche, Hyoga, Camus è fiero di te, anche se fatica ad esprimersi”

“L-lo so, ma io...”

Il giovane Cavaliere era dubbioso circa le parole del cigno, non si sentiva giunto a completa maturazione, laddove ciò era stato possibile, era stato solo per merito della sua famiglia, dei suoi affetti, che lo avevano guidato con passione e pazienza infinita, ma la sua strada, quella solo sua, ancora non sapeva dove fosse, né dove si potesse intraprendere. Finché quella gli sarebbe rimasta oscura, finché non avesse contraccambiato il favore, proteggendo le persone amate come loro avevano fatto con lui, non poteva dirsi cresciuto.

“Concepisco i motivi della tua decisione, ma… dovresti comunque parlargli, non trovi?”

Hyoga gli rivolse uno sguardo interrogativo, ancora più perplesso. Era inebriato nel vedere quel tramonto con il cigno, anche se probabilmente doveva trattarsi di un suo trip mentale.

“Ti riferisci al maestro?”

“Camus ha bisogno di te, quanto tu di lui, non dimenticarlo mai...”

“...”

“Me ne dolgo… avrei voluto farvi riavvicinare ma, pare, i tempi non sono ancora maturi, né per lui né per te”

“Perché ti importa così tanto?”

“Perché io sono un frammento della sua anima, no? Lui è il mio futuro, e tu… tu sei il mio testamento spirituale… Hyoga!”

Poche parole, ma che bastarono ad indirizzare il ragazzo su una pista. Ecco chi era realmente il cigno, ma come… come?!

Si volse verso di lui, ma non vi era che rimasta una piuma ai suoi piedi, che raccolse e fissò con sorpresa crescente. I dintorni si imporporavano sempre di più, segno che il sole stava scendendo sotto l’orizzonte.

“Perché… sei venuto a parlare proprio a me?” si chiese, costernato, non ottenendo ovviamente risposta. Chiuse gli occhi annusando la piuma. Profumava di qualcosa di frizzante e fresco, quasi balsamico, era una miscela di odori straordinaria.

“Da quando ho saputo della tue esistenza, dopo la Battaglia delle Dodici Case, ho desiderato conoscerti e incontrarti, ma quando ciò è successo non ci potevamo parlare, perché ne andava della vita di Milo e del Maestro Camus e ora… ora in questo momento difficile mi appari per rinfrancarmi, ma è tardi,sono ormai perduto da un pezzo!” commentò aspramente, le lacrime a fior di palpebre, mentre si lasciava cadere sul suolo freddo.

Non lo raggiunse. Qualcosa di infinitamente caldo lo sollevò invece delicatamente, trattenendolo contro di sé, come nel sogno. Strinse le palpebre che difficoltosamente tentavano di aprirsi.

“Hyoga!”

Il solo suono cristallino proprio della sua voce, lo fece sussultare, dandogli al contempo la spinta necessaria per balzare in piedi e allontanarsi il più in fretta possibile da lui, perché il suo solo tocco lo destabilizzava, ancora di più dopo il ricordo in cui lo aveva accompagnato Dégel. Si ritrovò a zampettare brancolante, le dita che si massaggiavano le tempie, un perenne stato di confusione e debolezza per via di quello che aveva vissuto.

“Maestro Camus...” lo chiamò semplicemente, omettendo altro, lasciando che la domanda trasparisse dal tono interrogativo. Cosa vi ha portato qui?

“I-io...”

Le parole gli morirono in gola persino prima di quanto fosse successo a lui. Di nuovo una situazione di stallo. Di nuovo l’universo da dire senza poterlo fare. Per entrambi. Tacquero.

Hyoga si permise di girare un poco il viso nella sua direzione, giusto per osservarlo con la coda dell’occhio. Camus era ancora inginocchiato a terra, lo sguardo perennemente verso il basso, l’espressione colpevole. Un pugno chiuso sulla coscia, l’altro appoggiato sulla sabbia della spiaggia per sorreggersi.

Non si era mai mosso di lì, in verità, Hyoga del Cigno, era la sua anima ad essere stata portata a zonzo tra i ricordi. E Camus, lì nella Spiaggia Segreta, lo aveva raggiunto e soccorso, probabilmente trovandolo svenuto. Non indossava armatura, come lui, solo i pantaloni, senza scaldamuscoli, e la solita maglietta lilla senza maniche. Non parlava. Non poteva parlare, anche se aveva l’aria di qualcuno che aveva molto da dire.

E perché non lo dite, ordunque, siamo ancora messi così male? Perché non… perché continuano ad inseguirci, Maestro Camus, senza poterci sfiorare, perché non ci riusciamo… papà?

“Non ha importanza perché sono qui, ma...”

Ci fu un’altra pausa, il tempo per permettergli di alzarsi in piedi, lo sguardo sempre altrove. Non riusciva minimamente a guardarlo in faccia, la cosa rafforzò la rabbia di Hyoga, che tentava comunque di controllarsi.

Ma niente, rimarremo comunque qui, nello stesso luogo ma distanti, a stento visibili.

Hyoga sbuffò. Non era così che avrebbe voluto far partire il dialogo tra loro, non era così. Stava andando tutto a rotoli ancora prima di cominciare. Si passò nervosamente le mani tra i capelli. Prese un profondo respiro, con l’intenzione di tentare, un’unica volta, di far partire lui il dialogo, ma Camus lo sorprese.

“...torna, Hyoga!”

Altre due parole striminzite, che però ebbero il potere di fargli perdere uno, due battiti, in modo del tutto simile a come era successo nel sogno all’udire il suo “ti voglio bene”. Si voltò completamente verso di lui, incredulo, costernato, sul punto di crollare.

Era esattamente ciò che desiderava, tornare. Ciò che però non poteva permettersi.

Camus rimaneva sulle sue, continuando a non guardarlo in faccia, i lunghi capelli smossi dal vento che gli accarezzavano il viso pallido e provato da sofferenze inenarrabili per essere solo un giovane uomo ventenne.

Hyoga accennò un passo nella sua direzione. Si fermò. Ne compì un altro. Si rifermò. Sapeva non poteva permetterselo, ma… ma… era tutto così a portata di mano, che…

“...Devi continuare con gli allenamenti”

Altra poche parole, che di nuovo ebbero un effetto esorbitante, opposto però alla frase di prima. Hyoga ridusse gli occhi a due fessure, era nuovamente la rabbia a fare da padrone. Crollò tutto subitaneamente, ancora una volta.

“Non ho MAI smesso di allenarmi, Maestro! Di tutti i difetti che ho… non credo di essere mai stato un nullafacente!”

Le palpebre di Camus ebbero un sussulto nell’avvertire il tono freddo con il quale l’allievo aveva pronunciato quella frase ricolma di rancore, lo percepiva fin troppo bene.

“Non volevo dire che...”

“Anzi, mi alleno meglio da solo, voi avete le altre allieve a cui badare, giusto? Io costituisco una distrazione!”

Camus gli avrebbe voluto rispondere in più di una maniera, dirgli che non era così, che lo voleva perché aveva bisogno di lui, che voleva ricostruire tutto, ma, per l’ennesima, malaugurata, volta, gli venne da portare il discorso altrove.

“Sai, Marta non c’è e...”

“E quindi ci devo essere io?! Ora, oltre ad essere un mero sostituto di Isaac lo devo essere anche di Marta, solo perché assomiglia così tanto al vostro caro, irripetibile...”

“NON E’ COSI’, HYOGA!”

Lo aveva guardato negli occhi, per un breve, quanto fugace, istante, necessario per far fermare il ragazzo da non partire in quarta, ma ormai la situazione era compromessa, irreversibilmente. Si morse le labbra. Era così difficile parlargli...

“Non sei mai stato… il sostituto di nessuno!” aggiunse, sperando si riparare al danno fatto. Tardi.

“Sarebbe andato tutto bene, se la tua esistenza maledetta non si fosse intersecata con la mia… - Hyoga ripeté la frase più dura che gli era stata rivolta sotto l’influenza di Nero Priest – Strano che, nonostante questo, voi vogliate avere a che fare ancora con me, chiedendomi di tornare nel luogo da cui sto scappando...”

Secco. Lapidale. Quasi quanto Elisey. Camus presagì per la prima volta quanto effettivamente Hyoga fosse furioso con lui, non tanto per le parole espresse, e neanche dal tono. Era il suo sguardo privo di compassione a fustigarlo più di ogni altra cosa. Quei due occhi, che erano sempre stati solenni e delicati al tempo stesso, e che ora lo scrutavano come se lo volessero pugnalare più e più volte. Se ne sentì trafitto.

“Hy-Hyoga, io… - non sapeva minimamente cosa dire, il petto gli faceva male. Non voleva perderlo, voleva semplicemente stringerlo a sé, cancellare tutto, ma non poteva. Voleva che percepisse quanto gli volesse bene, quanto fosse un sostegno per lui, ma non ci riusciva, non era minimamente in grado di esprimersi e qualcosa lo bloccava – I-io non… non ero in...”

“Oh, ora mi volete dire che non eravate in voi, Maestro? Mi reputate davvero così ingenuo?! La verità, la sola: eravate fin troppo in voi!”

Gli continuava ad uscire un tono di voce sempre più freddo e implacabile. Era così tremendamente arrabbiato… ai sensi di colpa, sempre presenti, andava sostituendosi un’ira sempre più atroce, un senso di delusione che gli mordeva il cuore. Camus era lì, davanti a lui, fragile come non lo aveva mai visto, disintegrato dagli avvenimenti di quell’anno. Debole. Indifeso. Sguarnito. Esattamente come si era sentito lui in tutti quegli anni. Il saperlo, il vederlo così alla sua mercé, mostrando il fianco, gli dava quasi un senso di ebrezza difficilmente controllabile. Finalmente avrebbe potuto fargli provare sulla sua pelle il suo rammarico, la consistenza delle parole come pietra, che, una volta lanciate, procuravano, sempre, un danno.

“Hai ragione, Hyoga, ero fin troppo in me, ma… ma lasciami spiegare, ti prego...”

“Per quale motivo? - ribatté ancora più freddamente lui – Non sarete mai sincero come in quell’occasione!”

“Perché… sotto la sua influenza, non ti ho detto altre cose che, invece, p-provo...”

“Non ha importanza, Maestro, anche io ero sotto la sua influenza, so bene cosa avete passato, so bene che pensavate ogni singola cosa che avete espresso, proprio per questo ribadisco che va bene così, non dobbiamo parlarne per forza!” gli disse, facendo per allontanarsi, perché il dialogo si stava protraendo troppo a lungo, non lo sopportava più.

Fece per allontanarsi, ma la mano di Camus si mosse per fermarlo. La sentì sulla sua spalla, timido conforto, pallido contatto che Hyoga desiderava con tutto sé stesso, ma che insieme respingeva.

Lo voleva. Ma non poteva. Il solo pensarlo gli bloccò il fiato in gola. Ci fu una breve emanazione cosmica di debole intensità, il suo balzare istintivamente indietro, rifuggendo a quella mano che era tutto per lui. Si allontanò bruscamente, prima di voltarsi nella direzione del mentore e sussultare.

Camus era ginocchioni per terra, il respiro irregolare, mentre con una mano si tastava il torace e con l’altra stringeva con foga la sabbia sotto sé, come a tentare di controllare il dolore che certamente stava portando.

Dal suo cosmo gelido che si spense in quell’esatto momento, Hyoga capì che era stato lui a fargli male. Possibile che…? Si guardò sconvolto le mani tremanti, possibile che fosse talmente arrabbiato con lui da aver perso il controllo su sé stesso? Da… colpire Camus con una emanazione cosmica di scarsa intensità e che però, nelle sue condizioni, gli risultava insostenibile?!

“Maestro! Mi… mi dispiace!”

“N-non ha importanza, Hyoga, v-va tutto bene!”

Camus non si curava di sé stesso, né più di farsi vedere così debilitato, non con il suo pupillo, non dopo quello che aveva attraversato per giungere lì. Si sforzò di rimettersi in piedi, ma le gambe gli tremavano, non riuscendo a sorreggersi, quindi si limitò a guardarlo negli occhi, che erano tristi e malinconici come non mai.

“Torna… Hyoga! V-vorrei… se solo mi potessi concedere una... una sola possibilità ancora, vorrei… vorrei ricominciare tutto… - si sforzò di dirgli, in tono tremante – Non voglio… non voglio perderti, mi… mi man-chi… tanto… mi manchi tu in quanto tale, non come sostituto di qualcuno, non come sostituto di Isaac, né come sostituto di Marta. Mi manca… il mio preziosissimo allievo, il bambino biondo dagli occhi azzurri e profondi, che ho fatto crescere io...”

Il tono gli usciva a fatica, mentre il corpo sussultava, portando Hyoga, impietrito a poca distanza da lui, quasi a piangere. Quasi, perché non poteva più concederselo, non davanti al maestro, dopo tutti i suoi sforzi di renderlo forte e intraprendente, senza farsi più scalfire dalle lacrime. Non poteva piangere.

Lo guardò partecipe, un nodo stretto in gola nell’incrociare i suoi occhi blu un poco lucidi. Così gremiti, ma così distanti… strinse i pugni, affogando un singhiozzo.

La verità era che avrebbe voluto precipitarsi tra le sue braccia, ma se lo impediva. Avrebbe dovuto crescere, prima di tornare. Una volta di più. Una volta ancora.

“Non… posso!”

La voce gli uscì a sua volta a fatica, opprimente nel petto, più ancora che a palesarsi esternamente. Le iridi di Camus ebbero un sussulto ben nitido di dispiacere, prima di distogliersi dalla sua figura e stagliarsi verso il mare, senza guardarlo veramente. Era rimasto ferito dalla sua risposta, non aveva incassato bene il colpo, anche se cercava di non darlo a vedere.

“Per-Perché?” chiese in un sussurro, un fremito gli solcò il corpo, prima di materializzarsi in una ulteriore stretta sulla sabbia.

Camus aveva sempre di meno di Aquarius e sempre più di sé stesso, per non dire di Dègel direttamente, questo Hyoga lo capiva sin troppo bene. Le esperienze vissute, il viaggio nel passato, la sofferenza, il ricongiungersi alla sorella smarrita, lo avevano reso nuovo, diverso, più consapevole della sua fragilità, che aveva provato a celare fino a quel momento e che, proprio in quel momento, sgorgava di fuori, come fonte naturale.

Hyoga sapeva altresì bene che non avrebbe più avuto una seconda occasione di ricongiungersi a lui. Non avrebbe avuto una seconda possibilità. Per quanto Camus avesse messo a tacere l’orgoglio, portandolo a fargli quella richiesta, una volta rifiutato non sarebbe più tornato sui suoi passi. Avrebbe accettato la sua decisione a costo di soffrire tantissimo.

Sembrava davvero così indifeso su quella spiaggia, con gli occhi lucidi, lo sguardo altrove e dolente. Hyoga affogò per la terza volta l’istinto di correre ad abbracciarlo, di tornare a casa, di riacciuffare quel calore che gli era sfuggito dalla morte di Isaac. Resistette disperatamente, imponendosi di non farlo. Ancora una volta, la più dolorosa.

“Perché non mi reputo all’altezza di tornare da voi...”

Del resto… i pulli, i ragazzi quando diventavano adulti… arrivava il tempo di spiccare il volo e lasciare la sicurezza del nido. Quel tempo era arrivato anche per Hyoga.

“No, n-non è così, t-tu sei… il mio successore, sei ben più degno di quel che… - si bloccò Camus, sforzandosi di alzarsi in piedi. Una volta ultimato il processo, tornò a guardarlo negli occhi – V-vieni almeno a prendere un tè caldo, un...”

“No, Maestro… - di nuovo rifiutò, anche se stava diventando sempre più difficile farlo – Temo che, se solo venissi, non me ne vorrei più andare...” ammise, indietreggiando ulteriormente, sebbene il cuore gli dicesse il contrario.

“Michela ha bisogno di te, io… ho bisogno di te, Hyoga!” si lasciò sfuggire, non sapendo però se insistere ulteriormente o lasciar perdere. Anche il suo cuore gli sussurrava di intestardirsi, ma stava risultando patetico. Se lo avesse fermato prima che uscisse dall’undicesima casa, se avesse detto qualcosa in quel frangente, se avesse impedito a Nero Priest di cavargli fuori ciò che per anni aveva difficoltosamente taciuto per non pesare ulteriormente sul di lui, se… se…

… Forse Hyoga sarebbe rimasto al suo fianco nel tempio che gli spettava? Sarebbe rimasto con lui, a ricostruire il nido che era stato strappato ad entrambi?

“Ci sarò quando ne avrete bisogno, ma per il momento è meglio che le nostre strade si dividano qua!”

“Hyoga...”

“Ho bisogno di stare solo, Maestro, perdonatemi...”

Camus sospirò, stringendo il pugno. Gli faceva male il petto, ma non avrebbe più insistito, non con lui. Aveva scelto.

Era cresciuto il suo Hyoga, solo che l’unico a non rendersene conto era proprio lui, la ragione per cui il ragazzo non voleva tornare, e quella voragine incolmabile, quella, che c’era tra loro, faceva dannatamente male, da togliere il fiato.

Rabboccò aria una terza volta, il corpo gli tremava, non per la stanchezza, non per l’impulso cosmico di Hyoga, ma per il malessere di avercelo lì e non poterlo più toccare. Le parole scagliate come pietre non potevano più tornare indietro… quel tempo era perduto, ciò valeva per i ricordi, per le persone, per tutto.

Camus ebbe un ultimo sussulto nel realizzare di aver perso il suo Hyoga per sempre.

“Quella Casa… - si sentì di aggiungere fievolmente, raschiandosi la gola – E’ mia quanto tua. Tu hai indossato Aquarius perché ne eri degno, non dimenticarlo mai, Hyoga e se… se volessi cambiare idea, io…”

...Ti aspetterò!

Era davvero troppo per il ragazzo. Andando contro sé stesso, imponendosi di non cedere, serrò forzatamente le palpebre, prima di girare i tacchi e correre via, lontano da quegli occhi blu che lo guardavano tristemente e da quelle braccia che lo avevano sorretto fino a quel momento con dedizione e perseveranza, rifiutando di lasciarlo andare via, mantenendolo in vita e forzandolo a crescere, nella maniera di Camus.

Ecco, il punto era solo questo.

Nella maniera di Camus andava bene fino ad anni prima, era giunto il tempo di maturare a modo suo, di Hyoga del Cigno e di nessun altro, solo così, forse, sarebbe poi potuto tornare, un giorno.

Forse…

Lo strappo, mentre correva via, come aveva immaginato, fu tremendo. Corse, corse, irrefrenabile, senza una meta precisa. Non sarebbe più tornato indietro sui suoi passi. Aveva scelto.

Si sentiva sciocco, tremendamente infantile. Camus aveva sublimato il suo orgoglio per recarsi da lui, nella pallida speranza di riaverlo con sé, e lui andava via, come quel pavido bambino biondo delle sue memorie che non riusciva neanche a guardare il mare con gli stessi occhi di sempre. Non era cambiato nulla in lui, non riusciva a perdonarselo, non riusciva a reputarsi degno dell’immenso amore che il maestro provava per lui, né di Michela, a cui si era legato sentimentalmente, né di nessuna delle altre allieve. Altre… altre avrebbero preso il suo posto, Camus se ne sarebbe fatto una ragione.

Arrestò il suo moto solo quando ebbe la certezza di essersi sufficientemente allontanato. Rimase ritto in piedi, il petto affannoso, quasi annaspando. Si rese infine conto di aver trattenuto il fiato fino a quel momento. Sentì il bisogno di gettarsi a terra, rannicchiarsi su sé stesso e piangere, come aveva già fatto molte volte in Siberia, vicino alla sua Mama, che riposava diversi metri sott’acqua; come aveva già fatto in terra di Grecia dopo la Battaglia delle Dodici Case, vicino alla tomba del suo maestro, che aveva giaciuto diversi metri sottoterra, rimpiangendo tutti i suoi crimini e maledicendo la sua infausta nascita. Tuttavia non lo fece, non più, quel tempo doveva forzatamente finire, una volta per tutte. Gli angoli degli occhi gli bruciarono intensamente, si trattenne ancora una volta, strofinandosi via il fastidioso liquido prima che potesse cadere.

In quell’esatto momento una brezza leggera, appena frizzante, gli scompigliò affettuosamente i capelli, portandolo ad alzare lo sguardo verso la direzione del vento. Lo vide. E lo riconobbe. I suoi ciuffi di capelli, della vaga forma di un cespuglietto, ondeggiavano appena come fili d’erba tremolanti, i suoi occhi un poco malinconici fissavano con interesse qualcosa di bianco che era tenuto in mano.

Hyoga si stropicciò ancora una volta le palpebre, quando le riaprì, il ragazzo davanti a lui, seduto pensieroso su una roccia, era ancora lì, ma quella sorta di trasmigrazione che gli era parsa immediata era infine cessata, ridandogli le conformazioni originarie.

Il giovane Cigno stette in attesa per qualche secondo, in disparte, prima di farsi coraggio e avvicinarsi a lui. Lo aveva riconosciuto, più ancora aveva riconosciuto la sua espressione smarrita, di chi non sapesse cosa fare né dove andare. La stessa sua. Identica.

Fu forse proprio questo che spinse Hyoga, in genere restio a stipulare nuove conoscenze, ad avvicinarsi così a lui con passo leggero ma deciso e sguardo determinato.

“Ciao! - tentò come primo approccio – Tu sei Stefano, giusto, l’amico di Marta?”

Non ottenne risposta verbale, solo un leggero cenno della testa e il suo sguardo, che si impresse su di lui. Condividevano lo stesso colore degli occhi, ma quello di lui forse era persino più chiaro e aveva una luce totalmente differente, arcana e potente al tempo stesso, ma anche… delicata. Sembrava che il suo arrivo lo mettesse sul chi vive, Hyoga non se ne meravigliò, del resto il trattamento che gli aveva riservato il Santuario non era stato dei migliori, e il tutto senza neanche troppe spiegazioni.

“Tranquillo, non ti farò del male, passavo di qui e ti ho visto qui da solo, con quell’espressione martoriata in volto. Per un secondo mi sei parso un’altra persona, sai?” si grattò la testa nell’esprimersi, riscoprendosi loquace. Che la vicinanza di Michela lo avesse aiutato fino a tal punto? Sorrise nel pensare alla ragazza.

Stefano continuava a non dire niente, rimaneva chiuso in sé stesso, la piuma di cigno -Hyoga la vide con distinzione, era la stessa sua!- continuamente rigirata fra le mani ancora tremolanti in seguito all’ispezione di Saga, così gli aveva detto Francesca. Sospirò tetro, constatando che i modi del Grande Tempio lasciavano comunque sempre a desiderare, che ci fosse l’usurpatore Saga o qualcun altro.

Lentamente, con attenzione, prese posto a poca distanza da lui, continuando ad osservarlo. Sembrava davvero smarrito, forse persino più di lui. In fondo, Hyoga si era costretto alla solitudine, per punirsi, si era costretto ad allontanarsi da Camus, da Milo, dalla sua famiglia, dalle ragazze, da tutti… Stefano invece si era trovato isolato in un mondo che lui non aveva chiesto e che non conosceva, senza più un solo ricordo dei due anni precedenti, senza la sua amica Marta, che riusciva a regalare calore a chiunque, non solo al maestro. Ne ebbe compassione: qualcuno che stava peggio di lui c’era; qualcuno che… forse… avrebbe perfino potuto aiutare!

“Sei intervenuto nella Battaglia della Valbrevenna, vero? Il tuo potere è lo stesso di Camus e Marta… in che rapporti sei con loro? ” chiese ad un tratto Stefano con un filo di voce, perché non ne disponeva di altro, questo Hyoga lo capiva bene. Sembrava ancora convalescente, che si fosse allontanato per ricercare un po’ di quiete?

“Marta è una mia cara amica, C-Camus… non ha importanza!”

“Sei suo allievo?” chiese ancora il ragazzo, curioso.

Hyoga arrossì scrollando la testa come a dire che non aveva voglia di trattare di quell’argomento. Stefano parve capire.

“Scusami, tutti noi abbiamo ricordi che preferiremmo dimenticare, o riscrivere!”

Già, riscrivere, aveva usato la parola giusta, ma il Cigno non poteva. Ciò che aveva perpetrato non sarebbe stato cancellato mai. MAI! Quella era la sua sentenza lapidale, che avrebbe portato come peso fino al giorno della sua morte.

“Non sono qui per me, ma per te, sembri davvero distrutto e… abbandonato… è così che ti senti, vero?”

“...”

Ancora una volta Stefano non rispose verbalmente ma annuì con la testa tornando a maneggiare quella piuma che emanava un profumo insolito, selvaggio. Di… casa!

Hyoga decise così di tranciare ogni discorso inerente alla sua persona e di concentrarsi su di lui. Si alzò in piedi, accennò un passo e poi un altro, prima di porgergli la mano. Gli occhi del ragazzo lo fissarono per pochi, intensi, secondi con un misto di stupore e senso di attesa. Le labbra del biondo so stirarono nel più sincero e aperto sorriso che potesse regalare.

“Io sono Hyoga, Cavaliere del Cigno… che ne diresti di sgranchirti un po’ le gambe e di fare due chiacchiere? E’ una giornata stupenda, per essere novembre!”

Per la terza volta non ci fu risposta, solo uno scambio di sguardi, mentre, accettando la mano, le gambe di Stefano fecero forza per farlo alzare, in modo da essere frontale con lui. Non disse niente ma, rinfrancato, distese un poco le labbra, accettando la sua proposta.

 

 

* * *

 

 

16 novembre 2011, tarda mattinata

 

 

Avrebbero dovuto parlare. Da settimane, in verità, ma non c’era mai stata occasione. Prima la punizione di Shion, poi gli allenamenti, l’onnipresente figura di Camus, del ghiacciolo, che c’era sempre per addestrare le due allieve rimaste al Tempio, e poi ancora i doveri da Cavaliere d’Oro, il suo percorso di espiazione…

Insomma, dovevano parlare, e anche di molte cose, ma non c’era mai stata occasione prima di quel giorno. Che nervoso!

Ora finalmente quel tempo pareva essere arrivato, la sera prima Francesca lo aveva raggiunto alla Quarta Casa, gli aveva messo un bigliettino tra le mani ed era corsa su, sorridendole appena. Su quel bigliettino c’era una data, un orario e un posto, che Death Mask stava proprio raggiungendo con ampie falcate. Qualcosa finalmente si era smosso, i chiarimenti sarebbero arrivati, un po’ più difficile il perdono, ma, forse, avrebbe avuto una possibilità. Forse.

Grazie alla velocità luminare ci mise poco a raggiungere Capo Sounion, i resti del tempio di Poseidone, il luogo in cui Saga aveva rinchiuso il fratello gemello Kanon, reo di… beh, un sacco di cose, della morte di buona fetta dei Dorati, del bipolarismo dello stesso Saga, che aveva così ceduto al male e di una marea di altre cose che ora a Death Mask non interessavano minimamente. Erano passate, non sarebbero più tornare, meglio pensare al futuro, alla sua nuova vita, perché la strada per l’espiazione era ancora lunga e tortuosa.

Raggiunse il promontorio e vi trovo già Francesca, seduta su una roccia a contemplare il mare sotto di sé, torturandosi distrattamente una delle sue lunghe ciocche di capelli corvini che le ricadevano lunghi e lisci per tutta la schiena.

Dei, com’era bella! Il Cavaliere di Cancer ci credeva che fosse una divinità, non aveva mai visto cosa mortale così meravigliosa e splendente come lei, abbagliante in tutta la sua fisicità, da capo a piedi. Si scoprì la gola secca, non seppe se per le emozioni profonde che scaturivano in lui al solo vederla, o se per gli argomenti di cui avrebbero dovuto trattare e che non erano propriamente manna dal cielo. Tossicchiò a disagio, attirando così la sua attenzione.

“Oh, ciao! Stavolta sei puntuale!” lo salutò lei, voltandosi deliziosamente verso di lui, sorridendogli con calore.

“Oh, ehm… a volte capita anche a me!” la buttò lì, mantenendo però le distanze. Non sapeva se avvicinarsi oppure no.

“Non mordo mica, sai?” ridacchiò lei, gaudente, indicandogli la roccia vicina.

“N-no, certo, ma…”

“Stefano sta bene?”

“A me, lo chiedi?”

“E’ sotto la custodia del tuo migliore amico e qualcos’altro – ironizzò Francesca, ammiccando con quel suo modo che lo mandava in subbuglio – Per questo chiedo a te!”

“Sì, ehm, non c’è niente di sessuale tra me e Aphrodite, d-dovresti saperlo!”

“Solo perché tu sei etero, Deathy!”

“S-siamo qui per parlare di cose imbarazzanti di altri, oppure…”

“No, certo, siamo qui per... noi!”

Death Mask si ritrovò a tossicchiare ancora una volta, dandosi colpetti al petto. Gli mancava la saliva per iniziare l’argomento. Si avvicinò cautamente a lei, rimanendo però in piedi.

“Comunque lui sta bene, ora gira libero per il Santuario, anche se spesso sta da solo, o al massimo con il biondino, li vedo spesso insieme”

“Con Hyoga?”

“Sì! Dei, si sono trovati quei due, disadattati a confronto, ci credo che vanno d’accordo!”

“Deathy!!!”

“UN po’ è vero! Per Hyoga è normale, essendo stato cresciuto da Camus, per Stefano non saprei, ma almeno si sono ritrovati!”

“Stefano è stato cresciuto solo dal nonno… è un tipo a posto!”

“Mi fa piacere per lui, m-ma di Camus che mi dici, invece? Siamo sicuri che lui… non interverrà?! Non sbucherà da, bo, una roccia, una vecchia colonna per congelarmi seduta stante?!” esclamò, guardandosi nervosamente intorno, come se davvero si aspettasse chissà quale attacco a sorpresa.

“No, scemo, aha! Camus non è al Santuario oggi, per questo ieri sera sono passata da te per darti quel bigliettino”

“Non è al…? E dove sarebbe, quindi?”

“In missione ad Efeso, con Michela, che ha insistito per seguirlo. Pare che siano comparse vibrazioni sinistre nel luogo dove, in antichità, c’era il Tempio di Artemide, una delle sette meraviglie del mondo, ragion per cui lo hanno mandato a fare un controllo…”

“Ammazza, fino in Turchia?! Che ha in mente Shion ad affidare incarichi così gravosi a lui, nelle condizioni in cui versa? Io davvero non…”

Ma si interruppe notando uno sguardo furbetto della dea, che sembrava saperne lunga e lo fissava con frequente soddisfazione, quasi ridacchiando.

“C-cosa ho detto che non va?”

“Niente, sei solo preoccupato per Camus!” ribatté, quasi ghignando.

“Io non sono preoccupato per quel… - tossicchiò a disagio, ben sapendo di essersi morsicato la coda da solo, o la lingua, in quel caso – E’ che non c’era bisogno di mandarlo là, non con quelle ferite, poteva andarci qualcun altro di noi, a controllare, perché sempre lui, perché ‘sta fissa a spedirlo in giro?!”

“Immagino che il Nobile Shion abbia le sue motivazioni… comunque non ti devi angustiare per lui, Michela lo ha seguito, non è solo e…”

“Io non sono preoccupato, eh!!! - mise lestamente le mani avanti - Anzi, menomale che si è tolto dalle balle almeno per oggi, perché, in tutta onestà, sembra una chioccia con voi, non vi lascia sole un attimo, se uno vuole avere un momento intimo deve pregare un qualche dio induista o di chissà quale altro pantheon, perché lui non si leva dalle scatole. Se non altro, grazie a questa missione, siamo liberi di parlare un po’, v-visto che abbiamo tanto da dirci!” esclamò, quasi tutto di un fiato, andando quasi in escandescenza senza un apparente motivo.

Francesca lo trovò deliziosamente buffo, faceva sempre così quando veniva beccato a preoccuparsi genuinamente agli altri e la sua corazza da duro tutto di un pezzo, da presunto uomo Alfa, che non era affatto, cadeva e si sgretolava in mille frammenti. Era chiaro che fosse sinceramente preoccupato per le condizioni del compagno d’armi, tutti lo erano, perché le condizioni precarie di Camus erano chiare a tutti, anche se nessuno glielo andava a dire per non urtarlo.

Erano tutti così maledettamente orgogliosi i Cavalieri d’Oro, ma Aquarius, per certi versi, superava i limiti, non facendosi minimamente aiutare, malgrado tutto quello che gli era capitato nel XVIII secolo. Testone come pochi, testone come Marta, ecco da chi aveva preso inconsapevolmente la ragazza!

“Per cui… da dove cominciamo?” chiese Francesca ad un certo punto, sentendosi tutta ad un tratto a disagio. Sapeva bene di cosa parlare, ma proprio per quello era così in difficoltà.

Death Mask boccheggiò, improvvisamente afasico, e dire che contava sulla sua parlantina, e invece toccava a lui iniziare. Merda!

“A… a me lo chiedi? Ed io che pensavo che avessi condotto tu il discorso!”

“Io… - boccheggiò anche lei, incerta. Non era facile parlarne, dovendo trattare di argomenti che non aveva mai tirato fuori neppure con le sue care amiche – Ecco, cominciamo da te, dalla tua famiglia di origine, in questo modo mi avvicinerò meglio a te e…”

“Non c’è niente da dire!” buttò fuori aria Death Mask, interrompendola con un pizzico di brutalità. Era chiaro che l’argomento fosse dolente, anzi dolentissimo.

“O-oh… - Francesca sembrava corrucciata – Scusami, non sapevo davvero da dove cominciare...”

Death Mask tentò di darsi una calmata, era un fascio di nervi, non certo il miglior modo per iniziare un dibattito, ancora meno con la sua ragazza. Si grattò la testa, facendo dei respiri profondi.

“Mia madre morì di parto, non ho alcun ricordo, mentre quello stronzo di mio padre mi picchiava. E’ lui che mi ha affibbiato questo soprannome che incute timore. Odiavo mio padre, ma il soprannome me lo sono tenuto, volevo che gli altri avessero paura di me, che tremassero al mio nominativo e al mio cospetto. Volevo che provassero paura, che mi temessero…”

“E’ per colpa sua che… disprezzavi così tanto la vita?”

“La vita per me, prima di morire, non aveva alcun valore, sì, nasciamo per soffrire, non scegliamo noi di nascere in questo mondo crudele, ma siamo costretti a sottostare alla legge del più forte. Non esiste alcuna giustizia, né alcuna equità, il concetto che le si avvicina di più è la morte; ecco, la morte è giusta, colpisce tutti prima o poi, ma il più forte vive di più!” spiegò Death Mask, pratico, sebbene non smaniasse dalla voglia di dare sfoggio del suo vecchio sé stesso. Ma tanto il dado era stato lanciato, non sarebbe cambiato nulla, Camus aveva già cantato sul suo conto, nasconderlo ulteriormente avrebbe allontanato soltanto di più Francesca.

“Quindi ti sei reputato abbastanza forte per decidere delle sorti dei più deboli, ti sei eretto giudice, senza sapere il reale significato della vita stessa…”

Stranamente non c’era tono di accusa nella voce della ragazza, ma il Cavaliere di Cancer ne percepì il peso.

“Mio padre mi picchiava… tornava a casa ubriaco e me le dava di sana pianta, sono cresciuto nella violenza, nella solitudine, avevo solo una balia che tentava di prendersi cura di uno scapestrato come me, ma, un giorno, probabilmente senza neanche rendersene totalmente conto di quanto era fatto, superò il limite e… la uccise; me la uccise davanti agli occhi!”

“Co-cosa?! Tuo padre?!” Francesca era sgomenta a quell’ultima rivelazione, lo guardò senza sapere cosa dire, ma Cancer non fissava lei, stava con gli occhi chiusi, apparentemente imperscrutabile.

“Ed io, quindi, uccisi lui, macchiandomi del primo omicidio, un parricidio, per esattezza, tanto per cominciare in bellezza, tanto per farti capire che razza di feccia fossi già nell’età infantile…”

“Ma… ma la feccia reale è lui! Un padre che picchia il figlio, lo fa crescere nella paura e che arriva ad uccide la balia… E’ UN MOSTRO!”

“Ha importanza che il primo mostro fosse lui? - le fece notare Death Mask, riaprendo gli occhi senza tuttavia riuscire a guardarla – Ho ucciso a 6 anni. Una volta superato quello scalino ero già perso per sempre!”

“Ma… Ma...” Francesca non sapeva realmente cosa dire, la gola improvvisamente secca.

“Da quel momento in poi vagai per Siracusa, la mia città natia, diventai parte di una combriccola di mafiosi che sfruttava i bambini per i loro fini. Trascorsi con loro 5 mesi, prima di essere trovato dal vecchio Shion, che mi portò al Santuario”

“D-Da Shion?”

“Sì, lui si è mosso in prima persona per portarci tutti al Grande Tempio, l’ultimo fu proprio Camus, ma questo lo sai già. Quando arrivai, erano già presenti Aiolos, Aiolia, Saga, Mu, Milo, che era una mezza tacca, essendo il più piccolo fra noi, e, infine Aphrodite e Shura… strinsi un ottimo rapporto con questi ultimi, eravamo più grandi di qualche anno, ci SENTIVAMO più grandi, rispetto ad Aiolia, Mu e Milo, mentre avevamo il massimo rispetto per Aiolos e, soprattutto, Saga, il vero prototipo di forza e magnificenza, l’esempio al quale puntare…”

“Certo… conoscevi il reale colpevole della Notte degli Inganni – qui sì che Death Mask avvertì una punta di biasimo, che lo fece accapponare – Saga era l’incarnazione del tuo ideale di potenza, in effetti sembra forte, ma, se vuoi la mia opinione, è invece un debole, almeno psicologicamente. Hai sbagliato a seguirlo, Deathy, ma, stante il tuo passato, non mi meraviglio della tua scelta!”

Il Cavaliere di Cancer non sapeva cosa dire, impastava quasi con la bocca alla ricerca delle parole perdute. Ci sarebbe arrivato a quel punto, ma al suo ritmo, invece Francesca sembrava voler arrivare subito al dunque, senza esitazione. Si accorse di non essere ancora pronto a trattare di quello, tentò un’ultima, disperata manovra evasiva che gli impedisse di finire a parlare degli anni più bui della sua storia, quelli in cui, sotto ordine di Saga, usurpatore del posto del Gran Sacerdote, aveva compiuto, come sicario, i peggiori crimini in nome di una presunta giustizia che lui chiamava forza. Si ricordò delle parole di Dohko ai Cinque Picchi, quando era andato ad uccidere lui e il suo allievo. Sentì come un pugno nello stomaco.

No, non era pronto. Affatto!

“S-sai, già Shion mi aveva dato una certa nomea, che io all’epoca non capivo...”

“...”

Francesca non diceva niente, fissava un punto a caso, persa in mille congetture, con il duro vessillo del giudizio a pesare su di lui. Da quello, Death Mask lo sapeva, sarebbe dipesa la sua salvezza o la sua condanna in quella nuova vita in cui lui aveva deciso di rimediare ai propri crimini.

“M-mi chiamava Death Mask il manigoldo, diceva che mi si adattasse – era sempre più nervoso, aveva preso a tamburellare i piedi – Io non capivo perché, almeno finché non siete stati nel passato e non mi hai raccontato che la mia precedente vita si chiamasse proprio Manigoldo”

“...”

“I-io non so cosa ci azzecchi con lui, probabilmente niente, ma… ma...”

“Sigh...”

Si immobilizzò, credendo di aver udito un singhiozzo. Scrollò il capo, certo di essersi sbagliato, ma a quello ne seguì un altro, ancora più forte. Affinò lo sguardo, pur mantenendo le distanze, e le vide, sebbene la ragazza fosse ancora girata di spalle. Le solcavano la guancia visibile, senza vergogna, con naturalezza, cosa assolutamente non da lei. Se poteva, non piangeva mai davanti agli altri. Si nascondeva. E allora perché…?

Che fare?! L’istinto era quello di abbracciarla per confortarla, ma aveva paura che si sarebbe ritratta e, un gesto sbagliato, avrebbe precluso tutto. E la sua salvezza passava anche da lei, non voleva perderla, non poteva accettare di perderla. Esitò, a corto di fiato.

“P-perdonami, io...”

Diavolo, non sapeva che cappero dire, perché ora quel pianto, perché…?

“Sciocco! S-sei tu che devi perdonare me!”

“E-eh?!” deglutì a vuoto, mentre gli occhioni di Francesca si manifestavano in tutta la loro limpidezza, arrossati. Alcuni ciuffi neri erano incollati alla guancia a causa del pianto. Ancora ebbe l’istinto di confortarla, di accarezzarle le guance con i pollici.

Francesca esitava, era sul bordo del promontorio, molto vicino alla sporgenza, una mano lungo il fianco e l’altra sopra il petto, che scalpitava, come di qualcosa a stento trattenuto.

“C-cosa vorresti dire? Non hai ragioni per invocare il mio perdono...”

Inaspettatamente un sorriso mesto si manifestò, mentre il sole dietro di lei creava un limpido contrasto tra la sua ombra, che si allungava sul terreno e le zone ancora esposte all’irraggiamento solare.

“Che io… non posso giudicarti in alcun modo, Death Mask!”

“S-sì che devi, fallo… fallo ti prego, vale ciò che ti ho detto al mio Tempio, fallo, Fra, è… è l’unico modo per salvarmi!”

Ma Francesca scrollò il capo, le spalle un poco incurvate sotto il peso di un’apparente colpa che doveva sentire ben tangibile dentro di sé.

“N-non posso, i-io… - prese un profondo respiro, tremò visibilmente – Io ero come te!”

Una doccia fredda nel cuore di agosto. Fu questa la sensazione che provò il Cavaliere nel vedere ammettere una simile cosa. Si accorse di aver aperto la bocca di riflesso, ora stava lì, con un’espressione decisamente poco furba, come ad aspettare il continuo di una storia appassionante.

“Co-come?!”

“Tu eri un sicario… ebbene, lo ero anche io, ma… di mio nonno!”

“D-del sommo Zeus?!?”

Quasi urlò il nome della divinità, tanto da aspettarsi quasi che scendesse dal cielo per essere stato nominato con un tono così alto e poco rispettoso.

“S-sì! Tu di Gemini Saga, i-io di Zeus la Folgore...”

Death Mask si sentì mancare aria, boccheggiò di nuovo, come un pesce palla, sempre più incredulo.

“N-no, non è possibile! - cercava di darsi una spiegazione – Non ti ci vedo ad uccidere così, a sangue freddo, senza una ragione!”

“N-non uccidevo io, infatti, mi limitavo a… torturare. E-ero piuttosto brava!”

“Cre… s-stai scherzando, vero?!”

“Affatto...”

Ecco, per la prima volta in vita sua Death Mask non sapeva proprio come si sentisse. Cos’era quel groviglio di emozioni indefinite, talmente miscelate tra loro da risultare estranee?! Cosa provava in quel momento?! Sollievo? Delusione? Sbigottimento?! Non lo sapeva! Sapeva solo di essere davanti alla persona amata, a colei che pensava luminosa come una stella, ma che, in quel momento, si rivelava tale e quale a lui, della stessa risma,a sua detta. N-no, doveva esserci uno sbaglio, era inconcepibile!

Cosa provava?! Aveva un nome quella sensazione?!

“Pe-perché l-lo… facevi?”

“Solo perché me lo ordinava mio nonno Zeus...”

“N-no! Non può essere, t-tu sei candida e… e diversa, n-non...”

Era sconvolto e neanche poco, si tirò più volte su i ciuffi, allontanandosi di riflesso di un passo.

Davvero, aveva un nome quell’emozione che lo attorniava?! Era nella posizione di giudicare?! No… e allora perché quella scintilla di biasimo?!

“E… e non hai mai avuto ripensamenti?!”

“Fino a Prometeo no… me lo ordinava mio nonno, erano cose ‘di famiglia’, erano giuste, così pensavo...”

“P-Prometeo?! Il tizio che ha fatto scoprire il fuoco agli uomini e che è stato punito per questo?!”

“Già, prima di finire su quel picco roccioso, con l’aquila a mangiargli le budella, è stato torturato… da me!”

Faceva fatica a parlare, era chiaro. Ormai neanche lei sapeva più che fare, se avvicinarsi o scappare. Per fugare ogni dubbio, Death Mask si voltò, dandole le spalle e massaggiandosi le tempie nel tentativo di darsi una spiegazione.

La ragazza, reputando quel gesto come un rifiuto, tentò di ricomporsi e, mantenendo le distanze provò a spiegargli di come le era sopraggiunto il dubbio, mentre torturava Prometeo, di come lo avesse colpito, di come parlava degli umani, esseri che fino a prima lei disprezzava enormemente, essendo, per l’appunto, divinità. E di molte altre cose, le quali però non giungevano più all’orecchio di Death Mask, assolutamente chiuso al proseguo del dialogo. Ne perse il filo conduttore.

L’unica cosa che riusciva a pensare era che l’astro da sempre considerato il più luminoso, almeno da quando l’aveva conosciuta, era invece già stato ampiamente oscurato. Esso non era altri che una stella morta, già esplosa, la luce arrivava ancora, ma era falsa, fallace, già morta. La luce… la sua unica occasione di riscatto. Non poteva crederci!

Provava rabbia, delusione, sgomento, quasi indignazione. No, non era giusto, non era quello l’accordo, non erano quelli i patti!

Finalmente smise di tremare, si raddrizzò, prima di voltarsi nella sua direzione. Francesca era nella stessa posizione, gli occhi ricolmi di lacrime, che lasciava scorrere senza vergogna, lo fissava senza abbassare lo sguardo, in attesa del giudizio. Che cosa buffa, si ritrovò maldestramente a pensare il Cavaliere di Cancer, aspettava lui di essere giudicato e invece la situazione si era ribaltata. Davvero non sarebbe più stato come prima, per entrambi.

Si guardarono a lungo, senza proferire parola. Un momento di raccoglimento ancora, prima di proseguire.

“Quindi… tu...”

Gli era uscito un tono più implacabile del previsto, quasi freddo, per non dire spietato.

“S-sì, io...”

Francesca vibrava con forza, quasi sembrava potesse ribaltarsi da un momento all’altra, si piegò improvvisamente di 45 gradi, Death Mask non realizzò subito. Sbatté un poco le palpebre, confuso. Era tornata dritta per pochi, brevissimi, secondi.

Un secondo… dritta?!

Ebbe appena il tempo di rendersi conto che, in circostanze normali, non era possibile un piegamento simile, che perse l’equilibrio, cadendo a gattoni a terra. Qualcosa si era mosso sotto i suoi piedi, qualcosa gli aveva fatto perdere l’equilibrio, sbilanciandolo; e sbilanciando lei. Ne ebbe la completa certezza solo quando anche le mani toccarono il terreno scosso da un tremore sempre più crescente. U-un terremoto?!

Sgranò gli occhi, osservando con orrore che il terreno si stava crepando, creando delle vere e proprie fenditure sempre più larghe. Presto, il picco sarebbe crollato.

“F-Fra, c-crollerà tutto tra poco, d-dobbiamo...” tentò di avvertire la ragazza, rialzando il capo, prima di perdere un battito davanti ad un simile spettacolo. Qualcosa gelò dentro di lui, tutto si fece quasi ovattato, come se accadesse al rallentatore.

Le fenditure si erano aperte proprio sotto i piedi della ragazza, la quale, privata dell’appoggio, non riuscì a far altro che allungare disperatamente una mano nella sua direzione, senza però poterlo raggiungere.

“D-DEATHY, F-FUGGI VIA DA… AAAAAAAAAHHH!!!”

La vide scomparire nel nulla, l’ultima cosa che riuscì a scorgere fu uno dei suoi lunghi ciuffi inghiottiti dal precipizio.

Il tempo, come prima si era rallentato, improvvisamente riprese a scorrere in un attimo, con il triplo della velocità. Immagini confuse lo bombardarono, mentre la gola si faceva ancora più secca. A tutte le emozioni di prima, di difficile contenimento, se ne sostituì solo una, nera come il catrame, la disperazione, e poi ancora un’altra, più tiepida e delicata: la volontà di salvarla. Il sorriso genuino della ragazza si stampò nella sua mente, scacciando le tenebre, quello, solo quello gli diede la spinta ad agire.

Non voglio perderti, dannazione. Non ti perderò!

Si ritrovò febbrilmente a pensare mentre, incurante del boato della terra, si dava la spinta con le ginocchia, buttandosi a capofitto nel cuore del precipizio, la mano protratta davanti a sé, mentre tutto crollava, e loro, sotto un cielo indifferente, precipitavano nel vuoto nero e blu dell’Egeo che sembrava minaccioso più che mai.

 

 

 

 

Angolo di MaikoxMilo

 

Ed eccoci, dopo una pausa di questa storia di mesi, finalmente al capitolo due, che si riallaccia all’ultimo pubblicato della Melodia della Neve (l’11).

Come potete ben notare, si divide essenzialmente in due parti: il rapporto Camus/Hyoga che, al momento, non trova sbocco se non nell’allontanamento del Cigno, e quello di Death Mask/Francesca, che però viene brutalmente interrotto dal precipitare degli eventi (non solo dal loro precipitare XD)

Da qui, come vi avevo accennato, si diramerà la Battaglia del Santuario che vedrà protagonisti i nostri cari Gold più Francesca, Michela e Hyoga, che avranno qui occasione per essere messe in risalto.

Ora, scrivere delle battaglie non è mai semplice per me, il capitolo dopo è quasi pronto ma per renderlo come vorrei mi occorrerà del tempo. Vi anticipo già che Camus e Michela, da una parte, si alterneranno con la situazione al Santuario, perché l’attacco è su due fronti e, come già appurato da questo capitolo, il Cavaliere dell’Acquario e la sua giovane allieva sono da tutt’altra parte, mentre i Gold dovranno difendere ciò che è a loro caro.

Al solito non ho molto altro da aggiungere questa volta, oltre ai soliti ringraziamenti per chi segue la storia. Io sono molto soddisfatta! ^_^

Ah, sì, ecco, una cosa, nel flashback con i piccoli Hyoga e Isaac, ciò che dice Camus è una frase, ovviamente rimaneggiata e riadattata, del suo omonimo A. Camus ne “il Mito di Sisifo”, libro consigliatissimo, così come ogni opera dell’autore. L’aforisma originale sarebbe questo:

"Lascio Sisifo ai piedi della montagna! Si ritrova sempre il proprio fardello. Ma Sisifo insegna la fedeltà superiore che nega gli dèi e solleva i macigni. Anch'egli giudica che tutto sia bene.

Questo universo, ormai senza padrone, non gli appare sterile né futile.

Ogni granello di quella pietra, ogni bagliore minerale di quella montagna, ammantata di notte, formano, da soli, un mondo.

Anche la lotta verso la cima basta a riempire il cuore di un uomo. Bisogna immaginare Sisifo felice."

 

Grazie come sempre a tutti e alla prossima! :)

 

Ritorna all'indice


Capitolo 3
*** Utopo, il Generatore di Mondi ***


Capitolo 3: Utopo, il Generatore di Mondi

 

 

Il suo cosmo era debole, quasi prosciugato.

Si sentiva fiacco, spaesato, tramortito, ma non ne rammentava affatto la ragione.

Tossì più volte. I polmoni erano come ostruiti da qualcosa, come se gli fosse entrata della polvere o si fosse creato un tappo che gli rendeva difficile la respirazione. Li sentì vibrare con difficoltà, come se qualcosa simile al catarro li raschiasse.

Non sapeva dove fosse, dove si trovasse, ebbe quasi la sensazione, terribile, di galleggiare nel vuoto senza punto di riferimento alcuno. Tentò quindi di muovere un braccio per darsi una scrollata, per tornare a risentirsi, ma l’ordine si perse ancora una volta nel nulla. Si agitò a quella consapevolezza, i pensieri sempre più offuscati gli sfuggivano di mente, sebbene il suo cervello tentasse di riportarsi alla calma in modo da valutare al meglio la situazione.

Strizzò le palpebre, prima di provarle ad aprire, ma subito un violento capogiro, unito ad una intensa sensazione di nausea, lo colse, costringendolo a richiuderle. Il suo petto scalpitò.

Non si sentiva affatto bene, non rammentava cosa stesse facendo, prima di finire lì, neanche percepiva la posizione cui era costretto. Sapeva solo di essere sdraiato da qualche parte, le braccia tese, quasi dolenti, continuavano ostinatamente a rimanere immobili, paralizzate.

N-no, cosa stava succedendo?! Si sentii atterrito alla consapevolezza di non potersi muovere, di essere in balia degli eventi. Ancora… e ancora!

Un’intensa sensazione di caldo sull’addome. nella zona ombelicale annichiliva tutto il resto, soprattutto le sue forze, che si disperdevano ovunque, come il suo cosmo, sempre più sfibrato.

“Oh? Stai riprendendo coscienza?”

Una voce gli rimbombò sinistramente nelle orecchie. Vicina a lui, troppo vicina. Non la riconobbe, lo mise in allarme. Si dimenò di riflesso, nel panico. Di nuovo... non era possibile, di nuovo impotente al cospetto di una essenza soverchiante. No, non poteva accettarlo, maledizione!

“Frequenza cardiaca a 110, in aumento… sei passato da 85 ad oltre i 100 in un nanosecondo, decisamente non male, ragazzo!”

Quella voce gli continuava a parlare, lui non riusciva a distinguerla, ma aveva capito: non era il Mago, lo avrebbe riconosciuto, altrimenti, la consapevolezza lo frastornò. Tentò di parlare, invano, gli occhi non riuscivano ancora ad aprirsi.

“Mmmh… MMMMMMH!”

Niente da fare, anche la lingua era attorcigliata, non si muoveva, gli mancava aria nei polmoni.

“Frequenza cardiaca… leggermente in diminuzione! Pupilla…”

Camus si sentì aprire a forza l’occhio, riuscì appena a distinguere una forma umana, di uomo, prima che una violenta luce lo accecasse per poi staccarsi prepotentemente da lui, senza la benché minima cura. Avvertì un bruciore netto, profondo, proprio dentro l’occhio, tanto da farlo lacrimare di riflesso.

“...Dilatata! Respirazione… - avvertì una mano fredda insinuarsi sotto la maglietta per poi schiacciargli l’addome e lo sterno, si irrigidì conseguentemente, provando disperatamente a muoversi, senza però riuscirci – Molto veloce! Non male, ragazzo, devi esserti agitato per benino, in effetti ci avevano avvisato che avevi problemi psico-somatici tali da mal tollerare di essere maneggiato!”

Dal suono che ne era derivato, aveva scribacchiato qualcosa su un foglio, tipo appunti… ma chi diavolo era quel tipo?! Perché…?

Con un flash improvviso, i ricordi gli piombarono addosso in un battibaleno. Rammentò che, prima di finire lì, tra le grinfie di un altro pazzo, si trovata ad Efeso con Michela, che aveva insistito per seguirlo nella missione affidatagli da Shion. Poi c’era stato un violentissimo terremoto, loro due si trovavano all’interno di un edificio quando tutto era crollato. L’ultimo ricordo sbiadito era di lui che afferrava la ragazza e la stringeva a sé per proteggerla dal crollo. Nient’altro.

Michela...

Il solo rievocare quelle ultime immagini, lo mise in allarme, riprese a divincolarsi a vuoto, agitato nel non percepirla al suo fianco. Dove era? Che ne era stato di lei?! Rabbrividì al solo pensiero che qualcuno le avesse potuto nuocere durante la sua incoscienza.

Provò per l’ennesima volta ad alzare un braccio per rialzarsi, ma si accorse di essere legato per i polsi e per le caviglie, su quello che pareva essere un lettino, o qualcosa di simile. Si costrinse a riaprire bene gli occhi, forzandosi a rimanere vigile, ma i movimenti, quelli, gli erano ancora preclusi.

Michela… maledizione, dove sei?

Una luce gli venne puntata nuovamente contro, accecandolo. Si lamentò debolmente, strizzando le palpebre, non riuscendo però a parlare. Percepiva la mandibola intorpidita, oltre che gli arti, la mente, tutto. Era... impotente!

“Meraviglioso! Ha ragione Fei Oz Reed quando dice che hai una volontà ferrea. Riesci a reagire, nonostante tutti gli inibitori somministrati. Stupefacente!” lo elogiò la voce che ai suoi occhi appariva solo come un’ombra.

La luce era sempre puntata contro di lui, gli impediva di distinguere le forme, l’entità su di lui era appena distinguibile. Impossibile muoversi. Impossibile comunicare. Ma da quelle semplici parole aveva capito trattarsi di uno, l’ennesimo, sgherro di quel bastardo che si professava l’ordinatore universale.

Quasi ringhiò a quel pensiero, non riusciva ad accettare l’idea di trovarsi nuovamente succube davanti al parentando di quell’essere abominevole. La sola idea lo disgustava dal profondo.

Di nuovo ridotto in quelle condizioni. Il suo corpo che cedeva al loro influsso. NO, BASTA, DANNAZIONE! Provò ad espandere il cosmo per richiamare l’armatura, perché non l’aveva indosso, ma il richiamò andò a vuoto. Con errore si accorse che Aquarius non era più rintracciabile e che non percepiva nemmeno, non solo il cosmo di Michela, ma anche il cosmo di tutti gli altri.

Quella consapevolezza lo gettò ancora di più nel panico.

Marta, Milo, Hyoga, Francesca, Sonia, gli altri Cavalieri d’Oro… cosa gli era successo?! Possibile che…?

No! Scosse la testa con violenza, rigettando la sola idea che potessero essere stati sconfitti, doveva esserci un’altra spiegazione. Serrò le palpebre, girando il volto alla disperata ricerca di un piccolo, piccolissimo, battito di vita.

Nulla.

Dove siete? Rispondetemi, vi prego, datemi un segno che io possa scorgere!

“Non puoi richiamarli… non sei più parte del tuo mondo, ma del mio, sei quindi separato della realtà. Devi avere ancora un po’ di pazienza, devo prima finire l’ispezione” continuò la fonte sonora che si aggirava intorno a lui. I suoi passi riecheggiarono per tutte le pareti, dandogli la nuova intuizione che si trovasse in un luogo chiuso.

Camus non capiva minimamente il significato di quelle parole. Era ancora confuso, il cerchio alla testa, per lo sforzo di muoversi, si era accentuato, il resto del corpo continuava a non rispondere.

“Dunque… abbiamo controllato il battito, il cuore, l’accelerazione… cosa manca? - si chiedeva intanto l’essere, prima di riscuotersi – Ah, certo, il punto cardine, è vero!”

Camus non ebbe il tempo di reagire, né di chiedersi cosa stesse succedendo, che si sentì sollevare la maglietta che indossava in modo da scoprirgli interamente l’addome.

“Mmmm… mmmmmmmh!!!” tentò di opporsi, inarcando la schiena, senza tuttavia riuscirci, ricadde lì, ansante, sempre più frastornato. Un sonoro beep gli trafisse l’orecchio, il suo corpo doveva essere collegato a vari marchingegni non dissimili dagli strumenti siti negli ospedali.

Braccia, testa, caviglie… non vi era un angolo del suo corpo che non fosse bloccato da quegli aggeggi infernali, impedendogli così il più piccolo movimento. Si sentì costretto, intorpidito. Il cuore gli accelerò nel petto agitato e non riuscì a tenere oltre gli occhi aperti.

Tuttavia si rese anche conto di riuscire finalmente a muovere almeno il collo, ma le palpebre sembravano pesanti come mattoni, stava sempre peggio. Si percepiva imprigionato dalle mani e dai piedi, scoperto sull’addome, mentre quell’essere collegava la sua pancia a degli elettrodi che gli venivano sistemati proprio intorno all’ombelico. Sussultò più volte, sentendosi nuovamente profanato.

Prima di riprendere coscienza, quel mostro doveva già averlo parzialmente spogliato, togliendogli la felpa, le scarpe e le calze, per poi adagiarlo su quel duro lettino, tastarlo e toccarlo più volte. A quei pensieri, la nausea lo invase. Provò ancora una volta, disperatamente, ad espandere il proprio cosmo, inarcando la schiena, ma prima ancora di riuscirci, venne interamente investito da una scossa elettrica assai intensa, che lo lasciò ancora più stordito e tremante rispetto a prima.

L’orgoglio gli impediva di urlare e scalpitare, ma fu costretto a reclinare la testa di lato, spossato, affannato mentre, come se niente fosse, quell’essere si chinava nuovamente verso di lui, palpandogli il costato con le due mani, schiacciandogli le vecchie ferite, incurante del suo malessere sempre più crescente.

“Non è consigliabile per te utilizzare il cosmo, lo hai ben visto tu stesso,, farlo attiva una scossa elettrica che aumenta d’intensità a seconda dell’impulso che tenti di utilizzare. Starai buono per un po’ e ti farai sondare da me,sei un uomo avveduto, del resto!”

“A-anf… anf, u-urgh…”

Respirava a fatica, stremato. Se solo avesse potuto non gli avrebbe dato nemmeno la gioia di quell’affanno, ma si sentiva in deficit di ossigeno. Aprì un occhio, cercò di stagliarlo nei confronti di quell’ennesimo abominio, ma ancora prima di focalizzarlo lo avvertì alzargli con gesto brusco la maglietta in modo da scoprirgli interamente il busto, obbligandolo così a mostrare il bel torace tornito e l’addome levigato dai duri addestramenti.

“Incredibile le potenzialità del tuo corpo, comunque! Queste ferite, che ti segnano il petto appena sopra al cuore, che avrebbero dovuto ucciderti, e invece...” sentì il suo sguardo su di lui percorrerlo centimetro per centimetro, compiacendosi. Strizzò le palpebre, tentando di opporsi, ma quell’essere perseguiva a parlare da solo, come preda di una violenta ispirazione.

“Le tre lacerazioni erano molto profonde… non hanno raggiunto i tuoi organi vitali, è vero, ma il danno era esteso. Secondo i miei calcoli avresti dovuto soccombere, ma hai reagito, non ti sei arreso, stupefacente per davvero!”

Con una mano lo costrinse malamente a sollevare la schiena, abbandonando poi la maglia, ormai completamente stropicciata, sopra le clavicole. Gli tracciò il corpo in lungo e in largo, muovendolo come più gli aggradava, girandogli il volto, come se fosse stato un pupazzetto e non un essere umano dotato di volontà propria.

Tremò consistentemente, sentendosi vulnerabile, sguarnito, quella consapevolezza lo annichiliva ancora di più, mentre la mente veniva ricondotta alle torture, alle mani del Mago che lo lambivano spietate. Trasalì.

Fu costretto a compiere una lieve torsione del busto in modo che quell’essere gli potesse guardare e toccare anche la schiena dalle scapole in giù. Sentì quelle mani fredde su di lui percorrerlo vigliaccamente, riportò disperatamente alla mente il pensiero di Seraphina, la sua gentilezza, per non soccombere. Fortunatamente non durò molto, presto venne riposizionato supinamente, anche il torace gli venne ricoperto, ma non la pancia. Gli girava la testa a quella consapevolezza: quegli occhi che non riusciva a distinguere erano in quel momento fissi sul suo ombelico, incrementando ancora di più il malessere che per lui era già più che insostenibile.

“La statistica era contro di te, ti davo sicuramente per morto, e invece… Forse è davvero merito di questo potere!” proseguì l’altro, come se nulla fosse, tracciando il bordino dei pantaloni di jeans che ancora indossava, insinuandoci un dito dentro per solleticargli il basso ventre. Camus sobbalzò di nuovo, facendo forza su sé stesso per non manifestare le convulsioni. Provava ribrezzo per quello che gli stavano facendo, verso quel mostro, ma ancora di più verso sé stesso.

Era sceso così in basso? Non era più nemmeno in grado di difendersi da solo? Di difendere le persone che amava e di cui non avvertiva più il cosmo? Camus si sentiva solo, dannatamente solo. Non poteva muoversi, non riusciva a percepire il cosmo di nessuna delle sue allieve, né della piccola Sonia, ma tentò comunque, disperatamente, con foga, di rintracciarle, come un padre che si protendeva verso la figlioletta. Una nuova scossa lo attraversò da capo a piedi, più intensa dell’altra. Gli uscì uno spasmo: non c’era davvero traccia di nessuna di loro, non sapeva a cosa, o a chi, aggrapparsi.

“Sei autolesionista, ragazzo?! Ti ho detto che il voltaggio aumenta ogni volta che usi il cosmo. Lo vedi questo? - gli chiese teoricamente, alzandogli meccanicamente la mano sinistra, nel cui polso era inserito una sorta di tubicino – Questo è direttamente collegato alla tua arteria principale, quando stai per opporti arriva un segnale al macchinario, azionando così la corrente e...”

Ma Camus non poteva perdere tempo ad ascoltare quel pazzo, ne andava della vita delle persone più importanti della sua vita, che quel momento sembravano sparite nel nulla. Si sforzò di concentrarsi di più

Marta… spero che tu stia bene, ovunque tu sia… M-Michela, eri con me, p-prima, d-dove sei? E-e Francesca? Perché non vi avverto più? Non è che, per arrivare a me, hanno fatto del male a voi?

Si chiese, prima di abbandonarsi e reclinare ancora di più la testa da un lato, totalmente impotente. Era stanco, dannatamente stanco, aveva bisogno di rifiatare un attimo, prima di riprendere le ricerche. Non poteva sopportare un’altra, simile, umiliazione, ma il pensiero che le allieve potessero essere in difficoltà era maggioritario in lui, lo riempiva più della paura per sé stesso.

Nel frattempo quell’uomo sconosciuto aveva preso a torturargli proprio l’ombelico, su cui sembrava voler insistere più che da altre parti. Lo allargò con le dita per poi guardarci dentro con una lucina calda, più e più volte, ispezionandolo con cura. Sentì distintamente i due indici scendere e salire nella fossetta, prima che qualcosa gli venisse incollato nell’estremità alta e bassa dello stesso, come se servisse che rimanesse il più aperto possibile. Non ebbe però il tempo di chiedersi la ragione, qualcosa lo punse. Comprese immediatamente che gli stava prelevando qualcosa da lì con una siringa, ma non aveva senso alcuno! Se gli serviva del sangue perché proprio in quella zona? Perché non dal braccio?! O dal… o dal…

Provò dolore e l’istinto di inarcare la schiena ma cercò di fare di tutto per non dimostrarlo. Era così stremato, eppure non aveva neanche combattuto, non si dava pace per dimostrarsi così debole. La siringa venne estratta, se ne sentì prosciugato.

Alcuni passi gli indicarono che quell’entità si era allontanata da lui, tuttavia non occorse comunque molto per far ritornare quell’essere sui suoi passi. Di nuovo fu sul suo addome. Di nuovo gli torturò l’ombelico, utilizzando i due indici come fossero dei mestoli, e di nuovo Camus distinse l’ago che penetrava in lui. Ancora. E ancora. 2… 3… 5 volte, ne contò, prima che si fermasse.

“Mmm, non è ancora sufficiente, dorme ancora, o sei tu che la trattieni? Perché? Perché celi così reconditamente questo potere, Camus? Eppure, tu da solo, potresti essere il padrone di tutti gli universi mondi...”

Non riusciva a rispondergli, non riusciva neanche più a riaprire gli occhi. Non capiva le domande che gli erano rivolte, non capiva perché continuasse a parlargli, se intanto aveva inibito gran parte delle sue funzioni corporee.

Chi diavolo era quel tipo?

Non riusciva minimamente a reagire, ma sussultò quando percepì distintamente un tondino freddo posarsi sul basso ventre, come per auscultare qualcosa. Continuava a non capire, era tutto così assurdo e privo di senso, di logica, che voleva da lui quel pazzo? Se era uno sgherro del Mago, perché non lo conduceva da lui, ponendo così termine a tutte quella manfrine?!

Il tondino freddo ispezionò più e più volte la sua pancia, come alla ricerca di un punto cardine, che, a giudicare da dove si era fermato, aveva trovato proprio nell’ombelico. Era così freddo lo strumento a confronto con la sua pelle sempre più bollente, e quel calore arcano aumentava sempre di più, senza che potesse controllarlo!

“Sì, bravo, così! Ha cominciato a reagire, se ne sente distintamente il battito!” esultò l’entità, trionfante, riprendendo in mano la siringa per poi inserirla nuovamente e aspirare.

Camus non aveva energie per opporsi, il suo corpo era rigido, il cuore nuovamente accelerato. Con le braccia così legate a quella sorta di flebo sulla piega dei gomiti e sui polsi, che continuavano a stordirlo, intorpidendogli i sensi, e quella cannula direttamente legata alla sua arteria, non poteva fare alcunché. La siringa venne nuovamente estratta, stremandolo ancora di più. Ne ebbe la spiacevole sensazione che gli venisse tolto anche qualcos’altro oltre al sangue; qualcosa che avrebbe dovuto rimanere segregato, qualcosa che era intessuto con la sua stessa esistenza, qualcosa… che aveva cominciato a scalciare a ritmo con l’alzarsi e l’abbassarsi sempre più frenetico della sua pancia! La sensazione che ne derivò era soverchiante.

Di nuovo i passi si allontanarono da lui, lasciandolo lì, inerme, mentre un fluido estremamente caldo gli riempiva la fossetta dell’ombelico, tracimando, per poi colare giù e insozzargli la pelle candida del fianco.

Era sempre più confuso… quell’essere aveva parlato di battito, oltre al suo, ma battito di cosa? Non era una donna e non era incinta, non era assolutamente in grado di generale la vita da solo, ma il nemico parlava come se ne fosse stato capace. Non riusciva a comprendere: cosa gli stavano facendo?! Perché?

Riaprì faticosamente gli occhi…

“Percepisco le tue domande nell’aria e a questo punto qualche spiegazione te la devo: sto estraendo il tuo sangue, e così anche quello di Tiamat, direttamente dall’ombelico, perché esso ne è la porta, la forma, la sostanza medesima per accedervi, nonché... la via preferenziale!” gli enunciò, come se leggesse nella sua mente – Tu conosci tale attitudine con un altro termine: ‘Potere della Creazione’. Cominci quindi a capire, ragazzo?” disse ancora, posizionando meglio gli elettrodi sul ventre per poi fissare lo schermo a cui erano collegate. Sul display vi erano segnati valori e linee segmentate illeggibili per lui, ma sembravano manifestare una presunta attività encefalica, o cardiaca, che sembrava avvenire direttamente dentro il suo addome.

No, era troppo mantenere le palpebre aperte, le richiuse, soffermandosi sulle informazioni che era riuscito ad ottenere.

Tiamat... era dunque lei che gli aveva ceduto il Potere della Creazione?! Di chi si trattava?! Una divinità, un mito, o cos’altro? Perché, nonostante avesse udito per la prima volta quel nome, era come se, in fondo al cuore, lo sapesse già?

Testardo, provò nuovamente a muoversi, accorgendosi che riusciva a ribellarsi meglio, ma non era ancora abbastanza, troppo poco, non sufficiente. Avvertì di nuovo la presenza di quell’essere su di lui, si stava chinando per riprendere il procedimento, ma la sua emanazione cosmica lo mise in allarme, facendolo retrocedere. Subì un’altra scossa, la terza, ma non importava. Strinse con foga le mani, resistendo con tutto sé stesso.

“C-chi diavolo… sei, anf?” riuscì a chiedere, con un filo di voce, ma sufficientemente chiaro. Utilizzare tutti i 5 sensi umani era pura utopia, ma privarsene di uno gli consentiva perlomeno di comunicare verbalmente, anche se con estrema fatica.

“Tu… riesci a parlare, nonostante le tue condizioni?!”

“La domanda… te l’ho posta prima io, anf!”

“Sei sorprendente, Camus dell’Acquario, mi dispiace solo di non avere abbastanza tempo per esaminarti da capo a piedi! - rispose con voce quasi sibilante, facendolo raggelare – Mi chiamano Utopo, il Generatore di Mondi!” lo accontentò poi placido, chinandosi senza esitazione verso di lui per l’ennesima volta.

Camus serrò le palpebre nel percepire il suo avvicinamento, non riuscì ad opporsi, mentre due dita di quell’essere gli entrarono nuovamente nell’ombelico, torturandoglielo, allargandoglielo ancora una volta, per poi introdurre nuovamente l’ago con violenza ed estrarre una nuova fiala di fluido. Si sentì mancare, il respiro quasi gli si mozzò in petto, mentre le braccia tese, legate, tentavano di compiere un movimento violento, del tutto involontario. Stava diventando sempre più insostenibile quel processo, se avesse proseguito così, ad oltranza, sarebbe stata la fine per lui.

“U-Utopo, anf… - tentò comunque di razionalizzare il suo pensiero, parlare lo manteneva vigile – F-fai parte della congrega di quel pazzo di F-Fei Oz, è fuori da ogni dubbio, Stevin ci ha fatto il tuo nome, sei quindi uno dei suoi carcerieri, anf?”

“Stevin… ti riferisci a Stefano? Ti è bastata un’unica volta per memorizzare il mio nominativo, ma che bravo. Mente agile e cuore impavido, non c’è che dire… - ironizzò, introducendo senza remore alcuna nuovamente la siringa. A Camus scappò un singulto, mentre la schiena, di riflesso, si arcuava veementemente – Peccato che tu non sia altro che un recipiente colmo e pregno di un qualcosa di meraviglioso che tuttavia non puoi pienamente controllare. 10 prelievi dovrebbero essere sufficienti per rivelare la sua vera forma, sei a 8...”

Pronunciava quella frase con una ovvietà e una calma che inquietava non poco. Era chiaro non lo reputasse altro che un oggetto, da usare come trastullo a piacimento. Ne fu disgustato.

“A-anche se non mi avesse avvisato Stefano, siete facilmente distinguibili… siete degli schifosissimi mostri inumani, avete ereditato le perversioni da vostro protettore, gli stessi, discutibili, gusti, gli stessi… argh!”

Quell’essere lo aveva preso per i capelli, girandogli forzatamente il volto e costringendolo ad aprire gli occhi, che vennero feriti dalla luce artificiale, ancora puntata contro di lui. Sentì una mano insinuarsi sotto la sua schiena, afferrare il tessuto della maglietta per poi sollevarla interamente, quasi rivoltandogliela. Boccheggiò. Quella stessa mano che lo ghermiva spietata, tornò poi sul davanti, gli tracciò velocemente lo sterno per poi scendere con gesto secco fino al basso ventre, lasciando lui lì, tremante e agitato, il respiro sempre più frenetico.

“Non mi paragonare agli altri Pilastri, Acquario! Nero Priest, colei che si è occupata di Stefano in questi due anni, vive di pulsioni, utilizzandole contro i nemici; Fei Oz Reed è interessato a te, al tuo corpo, lo sai meglio di chiunque altro. Non dovresti essere che un mero strumento per attingere al Potere della Creazione, ma il suo interessamento si è erroneamente dilagato: i suoi sordidi impulsi sono rivolti anche a te in quanto essere umano, così come i pensieri e ogni fibra del tuo essere, tuttavia io… - gli disse, oltraggiato, mentre continuava a calcare e ricalcare i bordi del suo ombelico, zigzagando intorno agli elettrodi – Io sono diverso!” arrivò alla conclusione, tirandogli nuovamente giù la maglietta ma lasciando comunque in bella mostra il ventre scalpitante.

Si staccò da lui, a Camus mancava aria nei polmoni e gli ci volle un po’ per recuperare il fiato per tentare di parlare di nuovo. L’ago gli venne inserito una nona volta, nello stesso punto esatto, lasciandolo lì, preda degli spasmi, un bruciore sempre più fitto all’addome, lo stesso liquido caldo che, di nuovo, gli colmava interamente la fossetta per poi colare sulla pancia. Stava perdendo più fluido rispetto alla grandezza del foro d’entrata, Camus non si capacitava della motivazione, non riusciva nemmeno più ad incurvarsi da quanto fosse il dolore.

“E… e in cosa s-saresti diverso? F-fate gli stessi giochetti convinti di potermi piegare, m-ma io… - gli chiese, cercando di mantenere il sangue freddo – Non mi arrenderò mai alle vostre perversioni, sozzure!”

Gli serviva tempo per pensare, doveva darsi una smossa, in qualche modo, rintracciare assolutamente Aquarius, anche se era lontana, anche se, come gli aveva accennato quell’essere, si trovava in una sorta di spazio di singolarità slegato dalla realtà oggettiva. Ripensò disperatamente ai pochi indizi che aveva, alla voce sibilante dell’entità, a quegli occhi, che aveva solo intravisto, che emanavano bagliori infuocati, quasi primigeni. Chi era Utopo? C’era un mito legato a quel nome? Per quanto Camus si sforzasse, non lo rammentava che soltanto nel romanzo di Thomas More intitolato, appunto, ‘Utopia’.

“Io lo faccio per il sacro fuoco della Scienza, solo per quello. Sono uno scienziato, un ricercatore, non ho alcun tipo di coinvolgimento con te, non mi curo di cose così basse e volgari come i sentimenti e le pulsioni!” gli disse, tornando su di lui, girandogli il volto in modo fa averlo frontale.

Per qualche strana ragione sembrava esitare. Per cosa, si chiese Camus, mentre, opponendosi strenuamente, provava a ribellarsi, voltandosi dall’altra parte.

“Il succo non cambia… sei pazzo in ugual maniera!”

“Definiscimi come vuoi, ma io non sono come loro! - ribadì, puntandogli la lucina dritta e sparata nell’altro occhio, che gli bruciava sempre più – La dilatazione è quasi completa, sei all’ultima puntura, vuoi continuare a non usare quel potere? Io posso salvarti, se mi asseconderai!”

“N-non farò nien-te di ciò che tu voglia, n-non sono il vostro oggetto, non piegherai la mia volontà!”

“Morirai allora...”

“Sarebbe comunque meglio che appoggiare i vostri sciocchi voleri!”

L’essere sospirò rumorosamente, fintamente deluso, prima di proseguire nel dialogo.

“Da quanto mi hanno riferito, il Potere della Creazione è insito in te, non può essere estratto da te, previa la tua uccisione, ne sei quindi indissolubilmente legato. Tiamat, il suo Principio Primo, è tenuta qui, nel tuo grembo, e dipende dalla tua stessa volontà… - gli disse, toccando con l’indice la zona in questione – E’ pienamente sviluppata, come un piccolo feto che, tuttavia, in circostanze normali, è silente in te. I prelievi che ti ho fatto prima sono serviti ad estrapolare parte di questo tuo grandioso potere, una minima parte, allo scopo di pungolarti per manifestarlo interamente, ma se non lo farai, ora che l’ho punta più volte, il tuo corpo umano non sarà più in grado di contenerla. Ella ti sventrerà, uccidendoti sul colpo!”

A quelle parole Camus sussultò, per la prima volta pizzicato dalla paura non per gli altri ma per sé stesso. Si immaginò la scena nella sua mente, rabbrividì, ricacciando a forza indietro un conato di vomito.

“Ma, secondo me, un modo per usufruire di questa tua capacità c’è, indipendentemente dalla tua volontà. Fei Oz è convinto di possederti, di piegare la tua mente per utilizzare tale forza, ma sbaglia. E’ lampante che le pulsioni che egli prova nei tuoi confronti gli abbiano annebbiato irreversibilmente il cervello; io dimostrerò quanto sia in errore!” dichiarò, alzando il tono della voce fino a quasi strozzarsi.

Un pazzo. C’era poco da farsi!

Camus avrebbe forse dovuto provare paura, davanti alle parole di quel folle, ma sorrise inaspettatamente tra sé e sé, riaprendo gli occhi e sfidandolo con lo sguardo.

“Sei un dissidente, a quanto pare...”

“...”

Camus, pur con gli occhi ben aperti, il respiro sempre mozzo, continuava a non riuscire a distinguerlo, complice la luce accecante che gli era proiettata contro, e la vista che gli era calata a seguito dell’emorragia, ma almeno era in grado di capire dove fosse ubicato.

“Ciò che stai f-facendo, anf, non è il volere di Fei Oz Reed, lui non vorrebbe arrivare mai a questo, desidera… il mio corpo!”

“E… e quindi?!”

“Ti sei ingabbiato da solo! Vuoi Tiamat solo per te, ma non puoi eliminarmi senza provocare l’ira del Mago di cui tu, in fondo, hai paura; per questo, prima, hai chiesto la mia collaborazione, ma non l’avrai, né adesso, né mai!”

“...no, infatti hai ragione, mi compiaccio della tua intelligenza! – si sentì rispondere, prima di una breve pausa – Ho avuto altre direttive da lui, ma la motivazione non era sufficientemente valida per me e ho scelto di proseguire per la mia strada. Ora non posso comunque più tornare indietro, ho osato toccarti e sfregiarti, per questo, quando lo verrà a sapere, mi darà una lezione. Tanto vale quindi proseguire, per la salvezza Ipsias!”

“...”

Fu il suo turno di rimanere in silenzio, un po’ perché doveva recuperare il fiato dalla frase di prima, un po’ perché percepiva che il dialogo sarebbe continuato.

“Non ho altre vie, Camus...”

“T-tu non… non porterai a termine l’ultimo prelievo! N-non correrai il rischio di provocarmi un danno irreversibile!”

“Staremo a vedere! Ormai il dado è tratto, tenterò il tutto e per tutto per impadronirmi io medesimo della tua straordinaria dote!”

“M-ma se hai appena asserito c-che...”

“Ho detto che il fine è comune, solo quello conta! Utilizzerai il Potere della Creazione per me, lo utilizzerai consapevolmente per salvarti, perché infine avrai paura di morire come tutti i miserabili esseri viventi, la lascerai quindi sgorgare al di fuori di te, dandole libero sfogo. Sarà in quel momento che io… me ne approprierò!”

“N-non lo farò mai, MAI!

“Staremo a vedere...” asserì l’altro, determinato, facendo il giro del giaciglio per afferrargli i polsi ancora legati ed allargargli così le braccia, che raggiunsero così la tensione massima. Camus fu costretto a permetterglielo, del tutto impotente. Non sentiva quasi più le estremità corporee, da quanto fossero indolenzite, non aveva energie per contrattaccare, il suo cosmo era sempre più evanescente. Utopo ripeté lo stesso procedimento con le gambe, prima di tornare a concentrarsi sull’addome, completamente scoperto. Gli sistemò meglio il busto, mentre con un movimento secco, gli alzava la schiena, adagiandoci sotto un appoggio che serviva per tenere la pancia più rialzata rispetto al torace, in una posizione che ricordava lontanamente una partoriente.

“La-lasciami, mostro! Non avrai quel che brami, non… urgh!”

“Sei ostinato, ragazzo, ma tra poco dovrai cedere, ne andrà della tua vita!” rispose l’altro, applicandogli altri due cerotti a destra e a sinistra dell’ombelico che risultava così completamente dilatato.

Camus non rispose, un debole lamentò gli uscì, a disagio per la postura cui era costretto e per il bruciore che aveva avvertito. Il cuore e il respiro erano sempre più accelerati, doveva cercare un modo per opporsi, ma non lo trovava, i pensieri gli sfuggivano, sentiva semplicemente il ventre sempre più bollente, quasi scalpitante, ancora una volta, come di bambino che volesse uscire. La sensazione lo sconvolse fin dal profondo. Recalcitrava, calciava, o, almeno, era ciò che avrebbe voluto fare. Se avesse mollato le redini anche solo per un istante, lo avrebbe certamente prevalso, avverando così i desideri del nemico. Strinse disperatamente le palpebre, mentre, a seguito dello sforzo di trattenersi, vibrava, arcuando più volte la schiena nel tentativo di domarla.

Utopo fu presto nuovamente su di lui, gli schiacciò lo sterno con la mano sinistra mentre con la destra, si preparava a fare l’ultima iniezione.

“Solo una, Camus… morirai se non manifesterai il potere, lo sai, vero?”

“E-ebbene, fallo pure, così il tuo Mago da strapazzo non avrà più un corpo a cui attingere e, dalla rabbia, farà fuori anche te! – ribatté, tutto di un fiato, l’adrenalina che scorreva in lui – Elimineremo così il problema alla radice, Utopo!” sorrise di scherno, con una sicurezza incrollabile, sebbene il bruciore fosse sempre più intenso.

“Mi vuoi forse dire che puoi sopprimere l’istinto di sopravvivenza? L’istinto di autoconservazione primigenio?! Non c’è nulla di più forte in natura!” gli fece notare lui, mentre, con l’ago, cominciò a premergli sulla pelle dentro all’ombelico, senza tuttavia inserirlo del tutto.

“M-mettimi alla prova… s-sei uno scienziato, n-no? Vediamo chi cede per primo? Se io… o tu?!” continuò, sempre più irriverente, stringendo le mani a pugno per tentare di dare sfogo al dolore che provava.

“Che sciocco impudente… e sia, allora!” disse, spietato, iniettando infine la siringa con gesto deciso.

Camus urlò, non riuscì proprio a trattenersi, mentre il corpo, fino a quel momento scosso da fremiti, si contorse in preda ad una violenta crisi. Più il fluido veniva estratto, più il dolore si faceva intollerabile, diffondendosi a tutto il corpo tramite i vasi sanguigni che sembravano implodere, bollire per poi vaporizzarsi. Quell’innaturale calore lo stava uccidendo, impedendogli di respirare. Era così caldo, così insopportabile, così…

Alcune immagini, secche, apparentemente prive di senso, si stamparono nella sua mente. Un’immensa sfera di materiale indistinguibile che galleggiava su un grande, grandissimo, mare salato, un’esplosione termonucleare, una dea per metà dragone, una figura incappucciata, uno squarcio enorme nell’immenso oceano, la formazione del cielo e della terra, un’altra esplosione atomica, la proiezione di tutti i mondi, la loro separazione… Nel bel mezzo di quella sofferenza atroce, Camus si rese conto, forse per la prima volta nitidamente, che tutti gli universi avevano avuto un’origine comune e che erano appartenuti vicendevolmente ad un Grande Tutto che era poi stato smembrato a seguito di una azione violenta.

Un’azione del dio Marduk… il primo Ordinatore del Cosmo, che aveva ucciso e fatto a pezzi Tiamat, la dea madre, che aveva in seguito trovato rifugio in lui, anzi, nel primo Aquarius.

Quell’ultima consapevolezza lo trafisse, mentre avvertiva la vita scivolargli via, irreparabilmente. Sarebbe morto per davvero, di nuovo, sarebbe precipitato nella voragine del vuoto, ancora una volta, lasciando soli tutti i suoi affetti. Non voleva morire, non poteva morire! Non di nuovo! Davvero sarebbe bastato usare il Potere della Creazione per salvarsi?! Se lo avesse fatto sarebbe rimasto lui o sarebbe diventando qualcun altro?! Avrebbe potuto salvarsi, così?! Forse davvero...

Marta…

Il viso della sorellina riaffiorò alle sue memorie, gli stava sorridendo e quel calore, solo quello, lo invase completamente, anestetizzando un minimo il dolore. Non voleva perdere sé stesso, non voleva smarrire il fatto di essere suo fratello maggiore, o un maestro per Hyoga, Isaac, Michela e Francesca. Non poteva permetterselo!

Non vi lascerò più da soli a combattere… ve l’ho promesso! Siete… siete tutto, la mia famiglia, il mio sostegno!

Piccola mia, hai salvato la mia vita quando la credevo ormai perduta, mi hai ridato il calore che mi era stato sottratto... ho giurato che avrei fatto di tutto, se non di più, per rimanere al tuo fianco. Che uomo, che fratello maggiore sarei, se rimangiassi queste mie parole?!

No, c’era un altro modo per rimanere in vita, senza fare il gioco del nemico, c’era un altro modo, un’altra speranza… Utopo aveva ribadito che, una volta ultimata l’aspirazione, lui sarebbe morto, sventrato da un potere incontrollabile che il suo corpo umano non poteva tollerare, ma il FINE era comune…

Il fine era comune con quello del Mago… quel pazzo, pur procedendo di sua iniziativa, non avrebbe potuto permettere la sua dipartita, IN NESSUN CASO. Si sarebbe ritratto prima, DOVEVA ritrarsi prima!

Si strinse più che poté al giaciglio su cui era stato adagiato, le dita si piegarono sul metallo sottostante in una maniera del tutto innaturale. Gli spasmi erano sempre più incontrollabili, gli procuravano stilettate insostenibili, come se fosse ripetutamente trafitto da lame che scendevano sempre più in profondità.

La siringa aveva quasi ultimato di aspirare, la percepiva bene perché l’addome era sempre più contratto, la pelle sembrava quasi sul punto di tagliarsi dall’interno, dalla carne sottostante, anziché dalla superficie. Incanalò aria, serrò la mascella resistendo ad oltranza con tutte le forze che gli restavano, per farlo riportò alla mente le immagini delle persone che amava, le luci della sua vita. Milo, Hyoga, Sonia, Marta, Michela, Francesca, gli altri Cavalieri d’Oro… aveva ancora così tanto di bello, da vivere… con loro!

Il dolore era arrivato infine al culmine, ma proprio quando Camus si preparava a subire il peggio, la pressione e il calore nel suo addome scemarono fino a scomparire, lasciando solo lui con un affanno crescente. L’ago venne estratto in malo modo, trasmettendogli un’ultima fitta, nello stesso momento in cui la figura si allontanava da lui bruscamente, furiosa.

“Hai vinto la tua tenacia, Camus dell’Acquario, le mie felicitazioni, non lo credevo nemmeno possibile: moriresti, pur di non seguire le mie direttive!”

Quelle parole professare con veleno gli sbatterono da una parte all’altra del cervello, mentre la consapevolezza di sé, i sensi, tentavano in ogni modo di tornare in superficie. Aprì forzatamente gli occhi. Non poteva parlare, era troppo impegnato a boccheggiare per recuperare ossigeno, ma per la prima volta le fattezze di quell’essere si stamparono nella sua cornea, rendendolo distinguibile.

Aveva l’aspetto di un uomo sulla sessantina, i capelli bianchi arruffati senza una forma propria e alcune rughe sul volto, la pelle olivastra. Sembrava davvero il prototipo di uno scienziato pazzo, ma senza indossare gli occhiali. Nella mano destra teneva ancora la siringa contenente un fluido dorato cremisi, ben visibile. Non era stata completamente riempita del suo sangue, si era fermata a ¾ della sua capienza. Camus aveva vinto la scommessa.

“I miei complimenti, ragazzo! - ripeté Utopo, ma sembrava paurosamente infastidito – Davvero sei un essere in grado di sopperire all’istinto di sopravvivenza; un essere contro natura! Sono in trappola, devo necessariamente arrivare a quel potere, prima che Lui se ne accorga, procederò quindi seguendo il suo piano originale!” affermò, buttando con stizza la siringa per terra e schiacciandola poi con un piede, senza alcun timore.

Camus non comprendeva il suo sproloquiare, le parole gli arrivano a spizzichi e bocconi, neanche intere. Respirava male, era in evidente affanno, stremato, non riusciva più muovere un singolo muscolo. Con la coda dell’occhio, per quanto la posizione della sua testa glielo concedesse, seguì i movimenti del vecchio, che aveva preso a camminare nervosamente intorno, visibilmente irritato.

“E sia dunque! - si riscosse all’improvviso il vecchio, raddrizzandosi – Procediamo!” ribadì, schioccando le dita e rimanendo in attesa.

Impossibile capire cosa gli frullasse davvero per la testa. Camus sperò in cuor suo che quel gesto fosse andato a vuoto, perché in un primo tempo non accadde niente nel suo campo visivo, c’era solo il nemico, il suo sguardo che emanava bagliori, e poi… e poi il calore del sangue sul suo addome, sempre più prorompente. Poco dopo però si avvertì nell’aria uno sbattere frenetico di ali che smosse il tavolo su cui erano adagiate le fiale. Impossibile distinguere cosa fosse, esso aveva le dimensioni di una grossa aquila, ma al posto delle piume vi erano delle squame e una coda rassomigliante ad uno scorpione…

Che razza di chimera è mai questa?!

Fece in tempo a chiedersi, prima che i suoi occhi vennero catturati da qualcosa di non ben definito che cadde da una altezza considerevole. Ne seguì un lamento sommesso, a stento taciuto… femminile… mentre Utopo gli dava le spalle, piegandosi per raccogliere qualcosa, qualcuno.

Quel gesto, quel rantolo famigliare… bastarono per metterlo in allarme .Si irrigidì, sgranando gli occhi. No, per Atena, anche quello no, tutto su di lui, ma non quello… non lo avrebbe più tollerato!

Utopo si avvicinò quindi alla sua postazione, pur rimanendo a distanza di sicurezza, mostrando quanto tratteneva malamente in mano. Camus si sentì morire dentro.

“Nnnn….n” si dimenò, invano, il corpo non seguiva gli ordini del suo cervello.

“Questa ragazza ha tentato di proteggerti quando siete venuti qua. Non voleva che ti toccassi, ha ostruito il processo, e l’ho punita, come puoi vedere. Mi chiedo se, come dice Fei Oz, tu tenga talmente tanto a questa femmina da utilizzare per davvero il Potere della Creazione se lei si dovesse trovare in pericolo!” gli spiegò, mostrandogli il suo volto insanguinato, sottintendendo che, in caso di rifiuto, le avrebbe fatto di peggio.

“N-no… p… per, urgh, per-ché… l-lei? N-non c’en… è innoc-ente! - riuscì finalmente a biascicare Camus, ormai gettato in una, più cocente, disperazione. Raccolse le forze per provare a chiamarla con quanto fiato gli fosse rimasto in gola – Mich… anf… MICHELAAAA!!!”

La ragazza, visibilmente ferita e precedentemente torturata, si riscosse un poco, aprendo con difficoltà le palpebre socchiuse e tirate per il dolore, per guardarlo.

“Pa-pà...” lo chiamò con un filo di voce, prima di gridare perché Utopo gli aveva stretto il collo con una mano. Camus si sentì morire dentro una seconda volta, mentre l’orrore, il trauma della perdita, si fece largo in lui, gettandolo nel panico.

“Papà?! Non avete che pochi anni di differenza e nessun legame sanguigno e ti appella così?! Patetici entrambi!” li canzonò il nemico, sempre con quella luce da folle negli occhi.

“La-lasciala s-stare, Utopo, lei è innocente, volete me, nessun altro. Liberala!” fremette l’Acquario, cercando disperatamente di rompere le catene che lo tenevano soggiogato, invano. Il corpo non rispondeva, gli effetti degli inibitori erano ancora persistenti. Maledizione! Avvertì nuovamente la scossa elettrica attraversargli il corpo, ma non importava; non importava più!

“Hai ragione, ma è legata a te da una relazione. Secondo il nostro Sommo Demiurgo, è una delle chiavi per farti utilizzare il tuo potere – affermò, pratico, socchiudendo gli occhi – Me ne duole, Camus, avrei preferito che reagissi per istinto di sopravvivenza e autoconservazione, non certo per motivi tanto squallidi!”

“Squa… squal-lidi?!?” ripeté oltraggiato, percependo la rabbia fomentarsi, insieme a qualcosa di più arcano.

“Sì, squallidi, o, se preferisci, contro natura! Quale essere può essere talmente stupido da prendersela così a male per un qualcosa che accade a terzi e non a sé stesso?! Solo tu!”

Camus serrò la mascella e le palpebre, alla disperata ricerca di una scintilla che potesse farlo reagire. Non era più una questione solo sua, c’era molto di più in gioco. Si concentrò nel disperato tentativo di abbracciare il cosmo di Michela, come avrebbe voluto fare con il suo corpo pieno di tagli, ferite e abrasioni. L’avevano torturata per lui, il solo pensiero lo faceva star male.

Per lui… solo perché era al suo fianco e aveva tentato di proteggerlo con tutta sé stessa. Come avevano osato?!

“M-Michela… resisti, resisti ancora un po’, t-ti salverò, mia giovane allieva, n-non oserà più toccarti!” le disse mentalmente, cercando di apparire più sicuro possibile, nonostante il tono sofferente. In verità aveva paura; una paura atroce, per lei, più ancora che per sé stesso.

“Pa-pà… non pensare a me, m-ma a te, è a te che ha fatto… urgh!” la risposta della ragazza arrivò al suo cervello, trasmettendogli una nuova disperazione per quanto fosse stentata la sua voce. Poi la comunicazione venne bruscamente interrotta.

“Mich...”

“Aaaaaaaaah!”

Il suo urlo lo fece accapponare, spalancò gli occhi a vuoto, mentre una rabbia incontrollabile, feroce, gli sconquassava il corpo ancora più che il dolore dato dall’aumento del voltaggio elettrico.

“BA-BASTARDO!”

Le catene che lo legavano cigolarono sinistramente, le sue iridi saettarono in quelli dell’essere, tentando al contempo, con orrore, di non soffermarsi troppo sulle condizioni di Michela, che, con la lama del coltello, era appena stata tagliata poco sotto le due clavicole. La maglia che indossava, già sgualcita, si tinse di un rosso in espansione.

“Siete solo dei bastardi per rifarvi così su una ragazzina solo per arrivare a me… ti ucciderò nel peggiore dei modi, Utopo! NON AVRO’ ALCUNA PIETA’ DI TE!!!”

“Quale reazione esorbitante per aver solo tagliato la tua giovane allieva… più di quanto sperassi di scovare in te! Tieni così tanto a questa femmina?! Al punto da agitarti così tanto?! Ascoltati, il tuo cuore sta battendo all’impazzata, se continuerai a reagire in questo modo la corrente elettrica potrà causare danni invalidanti ai tuoi organi vitali!”

A Camus non importava. Pulsava forte, era vero, come mai prima di quel momento, ma non gli importava minimamente, vedeva solo, davanti a lui, il volto di Michela sempre più sofferente, le braccia di quel mostro che quasi la soffocavano e quel dannatissimo coltello, che in quel momento gli solcava la guancia, facendole uscire il sangue anche lì.

Controllo. Camus dell’Acquario si era sempre raccomandato il controllo nella sua sacra missione di Cavaliere. Il controllo e la temperanza. Ma lì, in quel mondo che non era nemmeno la Terra, in una situazione più che disperata, nulla aveva più davvero senso. Non c’era più Camus, non c’era neanche Camus dell’Acquario, solo il suo desiderio di proteggere l’allieva e di allontanare quelle sporche manacce da lei.

Diede un altro scossone, una delle catene che gli legavano il braccio sinistro si incrinò. Ma non era ancora abbastanza.

Per la prima volta nella sua vita si lasciò condurre totalmente dalla sua rabbia, mentre il calore spropositato nell’addome scemava fino a scomparire, scambiato da un gelo insostenibile; un gelo che lui, in circostanza normali, non avrebbe mai potuto raggiungere. Un gelo che tutto bloccava.

Si incrinarono anche le altre catene, alcuni elettrodi congelarono, rompendo di fatto i macchinari che, prima di esplodere in mille frammenti, sembravano come impazziti.

Ma non era ancora abbastanza.

Utopo non capì subito che tipo di potere stava per manifestarsi, non aveva mai assistito agli effetti dello Zero Assoluto e persino la Creazione non aveva abbastanza dati per essere quantificata, ma capì che per provocare la reazione sperata, la ragazzina era la strada giusta. Sorrise, di scherno, sentendosi superiore. L’Acquario sembrava una variabile impazzita, un dato non quantificabile, un’assurdità. E lui odiava tutto ciò che non poteva essere rispecchiato in schemi matematici predefiniti.

“Bene, Camus… continua così, sei sulla strada giusta. - prese una breve pausa, ghignando sadicamente, mentre, con il coltello, dal basso verso l’alto, apriva uno squarcio nella maglietta della ragazza, la quale sobbalzò, prima di urlare con quanto fiato avesse in gola – Solo… sbrigati, non vorrai mica non avere più nessuno da salvare, nevvero?! Usa la tua dote, altrimenti...”

La lama si fermò solo poco sotto al seno, ma non per volontà del sul conduttore, che avrebbe volentieri continuato fino a spogliarla del tutto, ma perché il suo braccio, ormai rigido, non era più in grado di muoversi. Impallidì improvvisamente.

“Questo potere… non è la Creazione, è...” riuscì a razionalizzare, mentre la ragazza gli sveniva tra le braccia.

Ebbe appena il tempo di alzare lo sguardo verso il giovane uomo, che un nodo gli si strinse in gola, facendolo rabbrividire e tremare, dandogli una spiacevole sensazione di paura.

No, quello non era affatto il Principio Primo di Tiamat, Camus non lo stava utilizzando, i suoi occhi erano irriconoscibili, non avevano nulla della stanchezza di poco prima, né della grandiosità della Creazione, erano semplicemente…. Quelli di un mostro, o peggio, di un padre che, guidato unicamente dai sentimenti di quel momento per la figlia/non-figlia bandiva totalmente la ragione al solo scopo di distruggerlo, di…

...annichilirlo!

“AURORA ANNIHILATE!!!”

Sentì solo urlare, in un tono irriconoscibile, mentre un freddo pungente e acre, di rossi bagliori, frantumava le catene e i fili che tenevano soggiogati la belva, e una gigantesca aurora lo investiva in pieno, colpendo lui e risparmiando la ragazza, che ricadde mollemente in avanti.

Utopo si accorse di essere diventato cieco da un occhio, forse per l’immane energia abbagliante scaturita, mentre, con un dolore lancinante, si rese conto altresì di essere stato trafitto da delle stalagmiti di ghiaccio, che gli mozzarono istantaneamente il respiro.

Camus atterrò elegantemente in piedi, sorreggendo l’allieva svenuta tra le sue braccia. La sua furia non era affatto scemata, si percepiva palpabile nell’aria, ma ora che teneva Michela contro di sé, che le aveva controllato il respiro e il battito con due dita, avvertendolo ben saldo nel suo corpo, si era un poco tranquillizzato. Si permise di osservarla per una manciata di secondi, facendola appoggiare contro la sua spalla e tremando al solo pensiero di aver rischiato di perderla. Le accarezzò il volto con la mano tremante, prima di sussurrarle poche, brevi, parole di conforto.

“Resisti, Birba, sono qui! Non ti toccherà più!”

L’avevano ferita… per lui… l’avevano usata per costringerlo ad usare il suo potere, il solo pensiero gli fece rimontare la rabbia, mentre, fremendo con maggior forza, rialzava lo sguardo carico d’odio.

“Utopo… - sibilò tra i denti, velenoso, congelandogli, con un raggio ghiacciato, la gamba che disperatamente si era mossa per provare a sollevarsi – Non credo di aver mai odiato nessuno come te! Questa è, in assoluto, la prima volta che provo questo desiderio frenetico di uccidere...” gli soffiò minaccioso, i muscoli completamente tesi.

L’odio… lo odiava perché l’aveva usata come mezzo per arrivare a lui, che sentimento inutile, pensò Utopo, cercando di rimanere con i piedi per terra: che Fei Oz Reed avesse sbagliato i calcoli?! Il Potere della Creazione non avrebbe, forse, dovuto inibire lo Zero Assoluto?! E allora perché… perché quel ragazzo, che aveva la peculiarità opposta, lo stava invece padroneggiando?! Come era stato pos…?!

Utopo si ritrovò a sputare sangue, mentre i polmoni gli venivano schiacciati da una pressione devastante: il ghiaccio di Camus, che gli era penetrato dentro, arrivando fino al respiro e così ai vasi sanguigni. Se non avesse reagito, lo avrebbe ucciso nei peggiori dei modi. Cosa era andato storto? Cosa…?

Improvvisamente capì. Trasalì di conseguenza. Aveva svelato l’arcano, l’errore non era stato solo di Fei Oz, ma anche il suo e non c’era tempo per disperarsi, perché quell’uomo che sfuggiva ad ogni logica lo avrebbe presto riassalito, lo percepiva dall’aumentare spropositato del suo cosmo.

“Potete toccare me quante volte volete… ma fate del male a loro, a chiunque di loro, ed io sublimerò senza esitazione alcuna i vostri schifosissimi organi! - gli lampeggiarono sinistramente gli occhi, un secondo prima di gettarsi su di lui senza un minimo di esitazione - Tu sarai il primo a saggiare la mia ira, UTOPOOOOOO!!!”

 

 

* * *

 

 

Gli stringeva febbrilmente la mano con tutte le forze, facendo del suo meglio per stargli dietro nella corsa. Ogni tanto provava a scrutargli il volto per sincerarsi meglio delle sue condizioni, ma Death Mask non si era più girato verso di lei, profondendo tutte le energie nel dirigersi verso un’unica direzione: il Santuario di Atene!

“D-Death...”

“Sto bene, Fra, non devi agitarti per me, pensiamo piuttosto a tornare il prima possibile indietro! Non avverti, forse, anche tu il tumulto che si percepisce per di là?!” le chiese retoricamente, glissando ogni altro, ipotetico, argomento.

“S-sì che lo sento, m-ma tu non stai…”

“Sì, che sto! - esclamò lui a viva forza, prima di imprimere, con una leggera torsione del collo il suo sguardo di fuoco nel suo – Che credi?! Sono il più debole dei Cavalieri d’Oro, è vero, ma anche io faccio parte di quella schiera! E questo è un graffietto!”

“E allora girati e giurami...”

“...”

“Deathy, girati e giurami...”

“Non rompere, dea!!!”

Il tono adoperato la ferì alquanto, ma al solito fu abile a celarlo. Decise di imporsi, perché era vero che, molto probabilmente, il Santuario di Atene era sotto attacco, si percepivano i cosmi nemici incombere minacciosi, ed era altresì vero che non avevano tempo da perdere, ma in quel preciso istante Francesca decise la sua priorità e, quella priorità, era proprio il Cavaliere di Cancer.

Puntellò quindi i piedi con tutte le forze di cui disponesse, obbligando così Death Mask, che non si aspettava di certo una simile dimostrazione forza, a doversi fermare per non sbilanciarsi e cadere in avanti.

“Ho detto: girati e guardami!” insistette, strapazzandolo un poco.

“Accidenti, certo che in questo sei perfettamente una femmina umana, eh, quando esigi una cosa non c’è verso di scamparla se non accontentandoti!” la buttò lì il Cavaliere, voltandosi infine verso di lei, ma guardando altrove a disagio.

Francesca gli osservò dolorosamente l’altro braccio, rosso e raggrumato di sangue, ciondolare a vuoto, del tutto inanimato. Probabilmente era rotto dal gomito in giù, necessitava di cure immediate ma non c’era il tempo per fermarsi.

“Come… stai?” gli chiese, rammaricata, non sapendo da che parte incominciare per scusarsi.

“Bene! E adesso possiamo andare?”

“No… - negò con la testa, abbassando a sua volta gli occhi – Le ho ben viste le macchie di sangue che hai lasciato per strada e… stai continuando a sanguinare, Deathy!”

“B-beh… sono ferito, no?! Questo non mi rende incapace di agire, sono Cavaliere d’Oro!” ribadì per l’ennesima volta, come se dovesse dimostrarlo a qualcuno, a sé stesso.

“Per colpa mia…” pigolò lei, gli occhi lucidi.

“Non dire stronzate adesso, non è il momento!”

No, non lo era, aveva ragione, ma si trattava della più semplice verità.

Lei stava cadendo dalla scogliera che era franata sotto i loro stessi piedi, non aspettandosi certo un qualcosa di lontanamente simile a quello. Stava anche per picchiare di testa contro la superficie dell’acqua, a quella velocità persino lei avrebbe rimediato dei gravi danni, ma qualcosa di caldo l’aveva avvolta, i suoi occhi si erano aperti, increduli, scorgendo la figura del Cavaliere che, con un disperato colpo di reni, aveva ribaltato la loro posizione, in modo da concedere il proprio corpo e non il suo all’impatto con la superficie sottostante, che anche se era acqua, in quelle condizioni, sarebbe stato cemento. Il suo cuore aveva dato un impulso, accelerando i suoi battiti, poi l’urto, la sensazione di bagnato e la conseguente perdita di coscienza.

Quando era riuscita ad aprire faticosamente gli occhi, si era accorta di essere, fradicia, sdraiata sulla sabbia, con Death Mask sopra di lei, spaventato a morte, il viso a pochi centimetri dal suo, il respiro mozzo, una mano premuta sopra il suo petto, che lei gli aveva poi stretto per sentire concretamente contro di sé, come il bisogno di averlo vicino.

Death Mask aveva sacrificato completamente il braccio sinistro per lei, perché probabilmente nella caduta, nel tentativo di rallentarla, l’aveva provato ad utilizzarlo, distruggendoselo. Ma non una smorfia di dolore aveva lasciato trapelare, devolvendo tutto sé stesso per lei e successivamente nella corsa per tornare al Santuario.

Francesca non sapeva come chiedergli scusa. Si morse più volte le labbra rosee, sentendosi colpevole, gli occhi ancora più lucidi, mentre, circondandosi lo sterno con un braccio si guardava smarrita intorno.

In quell’istante ci fu una nuova luce rossastra, il cielo in direzione del Santuario stava prendendo a vorticare sempre più follemente, quasi potesse fendere l’aere. Subito dopo, una nuova scossa di terremoto, forse solo di un poco più debole della precedente, la fece sbilanciare. Death Mask fu di nuovo su di lei, la prese, accompagnandola poi a terra e accovacciandosi sopra, una mano sulla sua testa per ripararla. Attesero lì che la nuova scossa scemasse fino a scomparire. Erano ancora nella campagna al di fuori di Atene, poco mancava al villaggio di Rodorio, che faceva da varco tra il mondo ordinario e quello del Grande Tempio, ma molti alberi, pali della luce, e costruzioni erano pericolanti, davano l’idea che sarebbe bastato solo un altro piccolo fremito per dargli il colpo di grazia. Fortunatamente il tiglio vicino, già con alcuni rami divelti, resistette, lasciando cadere solo le poche foglie, ormai giallognole, che lo ricoprivano.

“Maledizione, ma cosa sta succedendo?! Qui andiamo sempre peggio!” esclamò Death Mask, rialzando il capo nello studiare il cielo minaccioso sopra di loro. Si reggeva con un braccio solo, in ginocchio, mentre Francesca, ancora rannicchiata prona per terra, tremava consistentemente.

Tutto quello non poteva essere normale! D’accordo che la Grecia e la Turchia erano sempre state zone sismiche fin dall’era mitologica, ma l’atmosfera che vi era intorno, quasi sanguigna, non lasciava sperare in nulla di buono.

“N-no… no!” biascicò Francesca, tutta rattrappita, apparendo molto spaventata. Che avesse una particolare fobia per i terremoti?! Brutte esperienze pregresse?! No, impossibile, era una divinità e -gli occhi di Death Mask si fecero un attimo gravi- e vi era stato un tempo in cui torturava i nemici di suo nonno. Di certo, quell’apparente ragazzina dal corpicino fin troppo leggero, aveva lo stomaco per affrontare tutto con la compostezza tipica di una divinità, non c’era assolutamente nulla che la potesse inficiare, ma allora perché tremava?

“Riesci ad alzarti? - le chiese, porgendole il braccio sano e ottenendo come riposta i suoi occhi gremiti di lacrime. Si pentì subito di averla considerata inossidabile, del resto, se era rinata umana, se si era sottoposta a quella vulnerabilità, un motivo c’era di sicuro – E-ehi, tranquilla! E’ passato anche questo, ora ci saranno le scosse di assestamento, ma la terra non dovrebbe più tremare con così tanta forza!” provò a rassicurarla, arrossendo a dismisura.

“D-Deathy… - biascicò lei, asciugandosi a forza il fastidioso liquido, prima di tornare a guardarlo – I-i cosmi del Maestro Camus e di Michela sono...”

Ancora prima di ultimare la frase se ne accorse pure lui. Sgranò gli occhi, provando ad affinare di più la propria aura per raggiungere la loro, ma non si trovavano, pur approcciandosi ad Efeso, dove sapeva si fossero diretti. Erano…

“...Scomparsi!”farfugliò ancora lei, incassando la testa tra le spalle, prima di sforzarsi di rimettersi in piedi e recuperare così il controllo.

Ecco perché aveva ceduto alle lacrime, ecco cosa la spaventata così tanto, che due delle persone a lei più care fossero in pericolo di vita. Che sciocco era stato a pensare altrimenti!

Effettivamente -Death Mask aguzzò tutto sé stesso- non vi era traccia di loro due. Spariti. Risucchiati. Un brivido lo pervase, mentre, tentando di farle coraggio, la traeva a sé.

“E’ evidente che ci stiano attaccando su più fronti… dirigiamoci al Santuario, per il momento, passando da Rodorio, non abbiamo da perdere un solo secondo di più!”

La prese nuovamente per mano, scattando in avanti correndo a tutta birra. Francesca si fece determinata, bandendo tutte le incertezze: aveva ragione, non potevano permettersi di tentennare, non in quella situazione. Si augurò, anzi, lo credette fermamente, che Camus e Michela stessero bene, qualsiasi avversario si fossero trovati davanti.

Finalmente giunsero al villaggio di Rodorio, dove subito la situazione apparve drammatica: molte delle case erano crollate, le persone gridavano, in preda al panico, vi erano feriti per terra. Death Mask non rallentò la corsa, ma strinse ancora di più la mano di Fra, indicandole che lui era lì, con lei, che avrebbero attraversato quell’inferno insieme.

Altre grida, esseri umani per terra, feriti gravemente o… scrollò il capo, costringendosi a chiudere gli occhi: quello spettacolo era insostenibile per lui, lo scuoteva nel profondo. Serrò la mascella, iracondo.

Maledetti… come avete osato?!

“D-Deathy… - tentò Francesca, cercando di rallentare la corsa come a voler attirare la sua attenzione verso qualcosa che purtroppo il Cavaliere del Cancro aveva già percepito sin troppo bene – A-aiutiamo quella signora, s-suo figlio…”

Invece di decelerare, sfrecciò di lato, evitando un calcinaccio che cadeva proprio in quell’istante. Non si voltò. Francesca tentò di opporre resistenza, non capendo perché si comportasse così: quella signora disperata, che provava a liberare il figlio, aveva di certo bisogno di aiuto, allora perché..?

“D-Deathy, dobbiamo…”

“E’ appena morto, Fra!” gracchiò lui, fermandosi di scatto, non riuscendo a guardare la scena. Bastavano le urla, che gli perforavano le orecchie.

“E-eh?”

“La sua anima… ha già lasciato il suo corpo!” spiegò, sbrigativo, riaprendo gli occhi dolenti.

“Ha già..?! - le mani di Francesca corsero d’istinto a coprire la bocca, mentre il respiro si troncava nei polmoni – C-come lo sai p-per… certo?”

“Vedo le anime, le vedo fin da quando ero piccolo… - disse Cancer, torturandosi le labbra – E’… troppo tardi per lui!”

“Vedi le… le persone morte?!”

“Sì, da sempre…”

Francesca lo osservò costernata, la bocca semi-aperta nel tentativo di ribattere qualcosa. In quell’istante un vento sinistro, orripilante, prese a soffiare, rendendo l’atmosfera ancora più tetra. Si tenevano ancora per mano, unico calore in quell’ambiente che trasudava morte. Occhi negli occhi, l’aria si poteva tagliare con un coltello.

In quell’istante due uomini, tutti trafelati, con una radio portatile in mano, gli passarono accanto.

“Hai sentito?! L’epicentro del primo terremoto pare essere in Asia Minore, ad Efeso, ma c’è stata una seconda scossa anche nell’Egeo, qualcuno dice che siamo a rischio tsunami!”

Passarono, mentre il cuore di Francesca gelava : Efeso, dove si erano diretti Camus e Michela!

“Death Mask!”

“Fra...”

Il tono del Cavaliere sembrava insolitamente tranquillo, come ricondotto ad una pallida calma. Lentamente la sospinse verso di sé senza che la ragazza potesse fare alcunché, poso le labbra sulle sue, baciandola teneramente.

Francesca si ritrovò a sgranare gli occhi per la sorpresa. Non capiva, non se lo spiegava. Il motivo. Di tutto. Di quella situazione. Di quell’attacco. Di quelle vittime. Del bacio.

Le braccia erano alzate, a metà strada tra la voglia di ricambiare e il senso di sbigottimento, ma prima di decidersi quale delle due sé stesse perseguire, Death Mask le cinse il busto e, attuando una leggera torsione, quasi la piroettò dietro la sua schiena, avanzando di un passo nella direzione opposta.

“D-Deathy, ma cosa…?!”

“Forse hai ragione a dire che, così conciato, non potrei comunque fare granché – ironizzò lui, trattenendosi il braccio martoriato e voltandosi di profilo verso di lei, sorridendo con calore – Ma tu sì, sei una fortissima dea, nonché la persona più incredibile che conosca!”

Francesca sbatté le palpebre, sbalordita: “Cosa vorresti..?”

“Dirigiti, lesta, al Santuario, aiuta gli altri, fallo… per me!” si raccomandò lui, ritornando a guardare dritto davanti a sé.

“E tu… tu cosa farai, Deathy?”

“Io rimango qui… hanno bisogno di me, qui basto io, il resto lo affido a te!”

Francesca parve capire i suoi sentimenti conflittuali, di chi avrebbe voluto fare di più, ma non poteva, scegliendo infine di devolversi per il bene comune e per i più deboli. Del resto, la possibilità di riscatto, la redenzione, passava da quello.

Non rispose verbalmente ma annuì, facendosi ancora più risoluta.

“Ti affido il Santuario, Fra! Combatti, e agisci, come solo tu sai fare!” si raccomandò ancora lui. Non poteva vederlo in faccia ma ne percepì il sorriso.

“Contaci!” disse solo lei, dandogli a sua volta la schiena. Poi, senza aggiungere nient’altro, entrambi scattarono in direzioni opposte.

Francesca non si chiese se faceva bene a lasciarlo solo oppure no, vulnerabile com’era, non si chiese cosa lo muoveva, perché già lo sapeva, ma sentì comunque di lasciare una parte di cuore lì, con lui, che si sarebbe dato da fare per la popolazione colpita, che avrebbe aiutato la gente comune invece che affrontato il nemico. Quello sarebbe stato suo compito e lo avrebbe adempiuto con tutta sé stessa!

Saettò tra gli ostacoli, saltando gli alberi abbattuti, cercando di pensare che non stava lasciando indietro i civili, bisognosi di assistenza. La sua direzione era chiara: verso il cielo vorticoso color cremisi che sembrava vole inghiottire la terra e che si inspessiva proprio in direzione del Santuario di Atene.

Anche la scomparsa dei cosmi di Camus e Michela la impensierivano, sforzandola ad espandere la sua aura per cercarli, invano, perché parevano davvero persi, smarriti, lontani anni luce da lei. Ma non erano implosi, di quello era più che certa, non si erano consumati fino a sparire, semplicemente erano troppo distanti per essere raggiunti. Avrebbero dovuto cavarsela da sola, ovunque fossero finiti.

Strinse istintivamente le mani a pugno, febbrilmente: “Forza! Sono con voi, anche se non vi posso raggiungere!” disse fra sé e sé accelerando la sua corsa a perdifiato.

Girò un angolo, ne girò un altro, avvertì appena una, due, presenze davanti a sé nel boschetto rado che circondava il Santuario, si mise in allerta, ma non ebbe comunque il tempo per accorgersi che uno dei due era proprio davanti a lei, che ci sbatté contro, rimbalzando indietro.

“Hyo… - il tono di voce famigliare le fece riaprire gli occhi, che si incontrarono con quelli celesti di Stefano, il quale, riconoscendola, le porse la mano per alzarsi. Del resto in quei due anni di buco, era ulteriormente cresciuto, diventando più alto di lei – F-Fra, hai mica visto Hyoga? Sai se Marta… è al sicuro?” le chiese, serio in volto.

“Co…? Aspetta, che ci fai tu qui?” le domandò a sua volta lei, sorpresa, prendendogli la mano e rimettendosi in piedi.

Aveva a stento percepito la sua presenza, come se si trovasse dappertutto e in nessun posto, ma mai si sarebbe aspettato di trovarselo così vicino senza che lei, una dea, se ne potesse rendere conto anzitempo. Che riuscisse in qualche modo a sfalsare il suo microcosmo senza rendersene nitidamente conto?!

“I-io...”

“Eravamo fuori dal Grande Tempio con Hyoga. – rispose al suo posto una voce languida, rivelando una figura tra le fratte – Quando c’è stato il primo terremoto, abbiamo avuto appena il tempo di raccoglierci, che il Cavaliere del Cigno è impallidito, si è messo a tremare, guardando un punto fisso, e poi è corso via!”

“Aphrodite...” lo riconobbe Francesca, accorgendosi che indossava già la sua armatura d’oro.

“Sembrava molto spaventato...” biascicò Stefano, pensieroso, osservando il terreno.

“Aphro! - saltò su ancora la dea, approcciandosi a lui, averlo lì era una garanzia, certo non la migliore, si ritrovò, suo malgrado a pensare, ma era già qualcosa – I cosmi di Michela e Camus...”

“Lo so… suppongo sia questa la ragione per cui è corso via in fretta e furia, no? Mi auguro sia avveduto… è di certo un attacco su più fronti, dobbiamo sbrigarci e… ma dov’è Death Mask?!” volle sapere, guardando nervosamente dietro la ragazza come aspettandosi di vederlo saltare giù da qualche albero.

Francesca strinse i pugni e produsse un mormorio sommesso. Raccolse aria, che le serviva per spiegare: “Lui… è rimasto ferito per proteggermi ed è rimasto a soccorrere gli abitanti del villaggio di Rodorio. Mi… dispiace! Mentre Marta, Stefano, è lontana da qui, a Milos, su un isola, per… la punizione. Sta bene! ”

I muscoli del ragazzo si sciolsero impercettibilmente, mentre viso del Cavaliere dei Pesci non tradì alcuna emozione. Rimase ad osservarla a lungo, attento, prima di rilassarsi, voltarsi e darle la schiena.

“Capisco… se ci pensa già lui non c’è bisogno che accorra anche io!” disse, pratico.

“V-volevi andare a Rodorio, Aphro? Perché?” chiese ancora Francesca, pensierosa, studiandolo la sua postura.

“Questo è… nient’altro che istinto. Lo volevo sì, anche se non sono sicuro che fossi esattamente io a desiderarlo!” rispose, pratico, non mostrando il suo volto ai due, come se volesse nascondere qualcosa.

Che subisca, in un certo qual modo, le influenze di Albafica?! Dovrebbero essere la stessa anima, in effetti, anche se mi è ancora così difficile da credere!

Si ritrovò a pensare la giovane dea, cercando di carpirlo.

“Ma ora che so che c’è già lui sono più tranquillo. A noi dunque il compito di...” continuò, ma non finì la frase. Un’altra scossa, stavolta di assestamento, si diradò da sotto le piante dei piedi a tutt’intorno, facendo vibrare gli alberi, le cui chiome già snervate dal procedere della brutta stagione, lasciarono cadere altre foglie.

Si sbilanciarono tutti e tre, a forza restarono in piedi, sorreggendosi a dei massi lì vicino.

“La situazione sta peggiorando… - constatò Aphrodite, nuovamente teso, prima di scoccare una breve occhiata ad entrambi – Andiamo, forza!”

Francesca lo seguì a ruota, bandendo l’esitazione, prima di voltarsi a sua volta verso Stefano con una punta di severità per dargli un consiglio: “Ste, è meglio se…”

“No, niente da fare, vengo!" ribatté, determinato, una strana luce negli occhi.

“Non sai combattere! Saresti solo...”

“Non sarò utile in combattimento ma li conosco, so con chi abbiamo a che fare!”

Francesca non se la sentì di insistere, annuì e basta, chiedendosi però se stessero facendo la cosa giusta. Stefano aveva passato gli ultimi due anni come loro prigioniero e, anche se non sembrava aver avuto chissà quali mutilazioni fisiche, ne era comunque uscito pesantemente devastato, con i ricordi manomessi e una rabbia dentro che non riusciva a trovare sbocco. Si ritrovò a chiedersi se fosse ancora il ragazzo curioso e un poco pigro che aiutava suo nonno a fare lavoretti in tutta la Valbrevenna seguendolo dappertutto sopra il trattore, o se fosse cambiato nel profondo, ritrovandolo così come nemico piuttosto che amico, ma scrollò via subito quei pensieri nefasti. Marta si era fidata di lui, l’ispezione di Saga non aveva rivelato alcuna anomalia, né principio oscuro, c’era solo lui, quello che aveva subito, che taceva a forza, lui e la sua capacità di farsi amare con poche, semplici parole. Sorrise di sbieco nel guardarlo. Del resto, aveva fatto breccia nel cuore ghiacciato di Hyoga, i giorni prima li aveva visti spesso parlare insieme, e non era cosa da tutti!

Aphrodite sapeva correre veloce anche senza utilizzare la velocità luminare, i due ragazzi fecero del loro meglio per stargli dietro, evitando gli ostacoli e non perdendo mai di vista la sua schiena. Ormai la luce penetrava agevolmente tra le fronde, segno che il bosco si stava diradando. Finalmente ne uscirono, sussultando nel constatare che il cielo vorticoso sopra le loto teste, color cremisi acceso, stava davvero scendendo, lambendo il Santuario come una sorta di ‘Funnel cloud’ destinata a convergere in un tornado. Francesca avvertì appena Stefano trasalire, prima di essere raggiunta da una voce dietro le loro spalle.

“Dovunque pensiate di andare, voi tre, ve lo sconsiglio: davanti a voi può esservi solo la morte!”

La ragazza si mise in allerta, voltandosi minacciosa verso la fonte sonora, ma prima di poter fare qualsiasi altra cosa, il Cavaliere dei Pesci, precedendola, lanciò con impeto una rosa nera, la quale tuttavia venne fermata dalle mani di…

“Ma che gentile, Cavaliere, non mi conosci nemmeno e già mi regali una rosa, del mio colore preferito, inoltre! Potrebbe esserci feeling tra noi!” sorrise l’entità femminile, sorridendo con malizia.

“Spiacente… - rispose Aphrodite, languido, non lesinando però un inchino cordiale – Ho altri gusti, se mi intendi, o leggiadra creatura!”

“Ma che peccato… la tua bellezza è invidiabile!” sorrise con finta mestizia, stringendo poi la rosa tra le dita fino a ridurla in pezzi.

“N-Nero Priest!” si mise sul ci vive Stefano, irrigidendosi visibilmente, mentre Francesca, protettiva, si posizionava immediatamente davanti a lui.

“Nero Priest… - constatò Aphrodite, osservando prima uno e poi l’altra, facendosi ancora più attento – Sei dunque tu ad aver tenuto imprigionato Stefano per questi due anni…”

“In persona! - rispose lei, senza esitazione, prima di addolcire sinceramente il tono, regalando un mezzo sorriso al ragazzo – Sono per lui la figura che più si avvicina a quella materna!”

“NON E’ VERO! - scattò subito Stefano, indignato, apparendo quasi minaccioso, cosa che preoccupò non poco Francesca – Tu non sei niente! Mi hai solo… PLAGIATO! E messo cose in testa che non sono neanche vere!”

“L’ho fatto per il tuo bene, per darti un obiettivo nella vita e, nondimeno, per proteggerti, solo per questo!”

“Non è vero!!! NON E’ VEROOOO!!!” ululò lui, completamente snaturato. Non c’era più traccia della sua solita e pacata gentilezza, sembrava una bestia iraconda e nient’altro.

“Ehi, ragazzo, calmati… - provò a tranquillizzarlo Aphrodite, una mano sulla sua spalla, scambiandogli un’occhiata rassicurante, prima di rivolgersi nuovamente all’entità – Cosa vai a vaneggiare, Nero Priest? Farnetichi di amore materno quando lo hai tenuto vincolato per tutti questi anni?! Questo è il tuo concetto di madre-figlio?! E’ lampante che il giovane non voglia più avere niente a che fare con te!” la accusò, sempre in tono melenso ma deciso.

“Era il luogo più sicuro, quello, per lui, per ciò che è… un abominio!”

“Che diavolo stai… come ti permetti?!?” saltò su anche Francesca, in tono aggressivo.

“Il ragazzo è orfano, non ha i genitori, inoltre ciò per cui ha vissuto nei suoi primi 17 anni di vita non è altro che una menzogna: suo nonno, tanto per cominciare, l’ha ingannato, non era il nonno biologico...”

“Nonno Mario… non aveva legami di sangue con lui?!” ripeté Francesca, incredula, osservando prima l’amico, che stava con il capo abbassato e i pugni chiusi, come se, pur sapendolo, non avesse ancora accettato quella notizia.

“Poi… Marta lo ha abbandonato nell’alluvione della Valbrevenna…” continuò, lapidale.

“NO! MARTA NON HA ABBANDONATO NESSUNO, LO CREDEVAMO MORTO!!! - urlò tutta la sua rabbia Francesca, nella paura che, essendo ancora in stato confusionale, Stefano potesse credere alle sue parole – Se solo avesse saputo che era vivo avrebbe combattuto per recuperarlo, è stata malissimo per lui, tu non immagini neanche quanto!”

“E ancora… - proseguì sempre lei, assottigliando gli occhi – Anche i Cavalieri d’Oro ti abbandoneranno presto, Stevin, a loro importa solo di seguire gli ideali della dea, hai ben visto come ti hanno trattato!”

“Non… chiamarmi… con quel nome, megera!” sibilò Stefano, facendo saettare gli occhi azzurri verso di lei per avvertirla di non oltrepassare quel confine

“D’accordo, ma le mie parole sono sincere, ragazzo… ti presi che avevi 17 anni, ora ne hai 19, non ti ho trattato forse bene in questo periodo?! Sono sempre stata franca con te, e l’unica ad esserlo! - insistette, porgendogli poi la mano con fare ammiccante – Vieni con me, torna… da me! E’ davvero il luogo più sicuro che tu possa immaginare, credimi. Dai retta a tua madre, ascolt…”

“Non sei mia madre!”

“Poco importa, sai chi sia veramente tua madre? Lo hai… più scoperto?”

“...”

“Dal tuo tacere suppongo di no, ordunque vieni, torniamo a casa!”

“Casa… - ripeté Stefano, sospirando, ricordandosi che una volta ormai lontana, quella parola era abbinata a suo nonno, a Cerviasca, dove era cresciuto libero e felice, anche se non originario di lì – Non ho più una casa, mi è stata strappata e… NON TORNERO’! Non voglio tornare ad essere tuo schiavo, non mi drogherai più con il tuo manipolare le pulsioni!”

Ci furono secondi di raccoglimento e di incertezza, nessuno riusciva più a muovere un muscolo, il silenzio regnava sovrano. Poi Aphrodite si mosse, posizionandosi davanti a Francesca e Stefano, pronto alla battaglia.

“Lo hai sentito? - chiese retoricamente, prima di preparare tra le mani una rosa rossa – Se hai compreso il messaggio, vattene, o preparati alla lotta!”

“Ho capito, Cavaliere… - mormorò solo lei, in tono inaspettatamente arrendevole, lasciando cadere inerti le braccia lungo i fianchi – Andate ordunque!”

Francesca strabuzzò gli occhi, convinta di non aver capito bene, anche Stefano sembrò perplesso mentre fissava la figura dalle parvenze femminili con il lungo abito viola a coprirle la pelle candida.

“Non ci… attacchi?! Non vuoi… combattere?!” chiese Francesca, sempre in posizione di difesa.

“Non sarò io a combattere, né ho intenzione di farlo. Senza contare che, al momento, sono ancora debilitata!” rivelò, massaggiandosi più volte il ventre non riuscendo a mascherare una smorfia di dolore.

“Certo, il tuo sangue emana uno strano odore, in effetti, devi essere stata torturata e, nelle tue condizioni, ti sei comunque palesata di fronte a noi. Sai cosa stai rischiando? - osservò Aphrodite, gli occhi gli lampeggiarono con astuzia – Chi ti assicura, ora, che io non ti attaccherò?!”

“Non siete forse Cavalieri della dea Atena?! Mi aspetto garbo da voi, fin troppo… non inferirete su me, non adesso, non voi!” rispose lei, guardandolo con sfida.

Aphrodite continuava a sostenere il suo sguardo, sembrava davvero sul punto di attaccare, perché si era messo la rosa in bocca e, circospetto, aveva preso ad accarezzarla con le lunghe dita: “Beh, hai sopravvalutato la nostra nobiltà d’animo, il vecchio me lo avrebbe fatto!” disse infine, raddrizzandosi e dandole le spalle. Il discorso era concluso.

“Il vecchio te… parlate tutti come se aveste cinquanta e passa anni, ma non siete che poco più che ragazzi…” si fece beffe di lui Nero Priest, sogghignando.

“Ti sei assoggettata ai rischi solo per venire a parlare con Stefano, significa forse che, in qualche modo, ci tieni?”

“...”

“Non vuoi parlare, va bene, il tempo scorre, le nostre strade si dividono qui. E’ stato un piacere!” tranciò di netto il discorso Pisces, indicando agli altri due di procedere. Fecero quindi per andarsene, ancora un poco circospetti, ma Nero Priest volle l’attenzione di Francesca.

“Ehi tu, ragazza-dea!”

“Co-cosa vuoi?! Hai cambiato idea e vuoi combattere?!” si mise sulla difensiva lei, sempre proteggendo Stefano, il quale non smetteva di guardare il Pilastro in un garbuglio di emozioni.

“No, solo dirti che il pericolo maggiore non è ciò che appare, ma colei che cova nell’ombra!”

“C-cosa significa questa tua…?!”

Non riuscì a finire la frase, una nuova scossa di assestamento, più potente dell’altra, la mise in allarme.

“Non c’è tempo, veloce!” esclamò Aphrodite, un poco bruscamente.

“Sì” esclamarono Francesca e Stefano, correndogli dietro e sparendo dalla vista della donna.

Nero Priest sospirò, guardando un’ultima volta quello che considerava un po’ il suo ragazzo. Smise di fluttuare, sedendosi su uno sperone di roccia, dal quale era visibile l’intero Santuario. Si sentiva più rassegnata che mai.

In quel momento un fendente aprì il cielo rosso scarlatto, mentre un’entità ben conosciuta, varcando i confini spazio-temporali, usciva lentamente dalla fessura, implacabile.

“Uhmpf, sempre così… frettoloso… Ermete!” disse tra sé e sé, riducendo gli occhi a due fessure, prima di osservare, ancora tra le dita, i residui della rosa che gli aveva lanciato il Cavaliere di Pishes.

 

 

* * *

 

 

Camus stava correndo disperatamente trattenendo a sé il corpo privo di coscienza di Michela, il fiato corto per lo sforzo, l’addome pulsante e i battiti veloci. Si era buttato a capofitto contro Utopo per dagli il colpo di grazia, bandendo, per un istante, la ragione e la moderazione, ma quella strana chimera uccello/scorpione si era frapposta tra lui e il suo padrone, costringendolo a ripiegare per non danneggiare ulteriormente la ragazza.

Non era libero di agire con lei vulnerabile tra le sue braccia, con quel mostro che, pur immobilizzato dal suo potere congelante, sorrideva con scherno. Quindi, dopo aver ucciso il volatile con una breve emanazione cosmica, si era ritrovato costretto a fuggire nel pallido tentativo di tornare nel proprio mondo e affidare Michela alle cure di qualcuno, prima di combattere, ma quella dimensione sinistra, che Utopo diceva generata dalla sua stessa volontà, assomigliava paurosamente ad una cattedrale gotica dalle tinte fosche. Impossibile fuggirne, impossibile capire dove andare: tutto era uguale a sé stesso.

La ragazza aveva preso ad ansimare, gettando lui nel panico. Non aveva avuto il tempo per valutare correttamente il suo stato di salute, la sapeva non in buone condizioni, pertanto la stringeva a sé con tutto sé stesso per farle forza, ma non l’aveva ancora controllata. Avrebbe dovuto prestarle le prime cure il prima possibile, ma quale la priorità? Il varco per uscire da lì, oppure…

Non ebbe il tempo di rispondersi, semplicemente le ginocchia gli cedettero, facendolo cadere per terra, il fiato corto. Dovette fare forza per tenere le braccia sollevate per non far picchiare l’allieva sul duro pavimento. Serrò le palpebre affannato, sul punto di svenire, prima di fare l’ennesimo sforzo su sé stesso e resistere al torpore che lo voleva cogliere: se lo avesse assecondato, sarebbe stata la fine per entrambi!

“Mich-ela...” la chiamò debolmente, adagiandola delicatamente a terra in posizione comoda.

La ragazza non rispondeva, aveva l’espressione sofferente, perdeva sangue dai numerosi tagli che le avevano inferto. La maglia era stata aperta da quel mostro e le scopriva l’addome irrequieto, segnato da bruciature, abrasioni e ferite: cosa le avevano fatto patire durante la sua incoscienza?! Si morse il labbro inferiore, mentre, lentamente, il palmo della sua mano si posava sulla sua pancia. Al suo contatto, il corpo della ragazza sussultò, mentre lei si agitava, divincolandosi e scuotendo la testa a destra e a sinistra, frenetica.

“N-NO!”

“Michela, sono io, tranquilla! Nessuno ti farà più del male, NESSUNO! Te lo prometto!”

Le accarezzava i capelli con l’altra mano, mentre, sfruttando parte dei suoi poteri da Sciamano Guaritore, accelerava il processo di rimarginazione almeno dei tagli apparentemente più profondi, gesto che quasi lo stramazzò, minando al suo respiro. Fu costretto a fermarsi poco dopo, in preda a violenti spasmi. Da quando aveva rimediato le ferite al torace, operare come Sciamano era diventato ancora più estenuante, tanto da fagli pensare di non essere più in grado di guarire con i poteri che aveva a disposizione. Testardo, riprovò a riprendere il procedimento, ma un sonoro colpo di tosse lo fece piegare su sé stesso. Si nascose la bocca con una mano, pulendosi poi le labbra, perché stava sputando sangue, il corpo sempre più preda dei tremori. Si piegò su sé stesso, rimproverandosi quell’ennesima debolezza.

Le ferite più gravi era riuscito comunque a rimarginarle, ma non aveva forze sufficienti per trattare il resto, non più. Un senso di prostrazione lo colse, mentre, non potendo far altro, tentava di rassicurare l’allieva almeno a voce.

“Va tutto bene, Michela, anf, re-resisti, una volta al Santuario curerò anche il resto. Il peggio è passato, forza!” le disse, baciandole dolcemente la fronte, prima di sollevarla a mezzo busto e stringerla a sé per non farla sentire sola, visto che ne veniva da un’esperienza traumatica. La tenne contro il suo petto, come un padre, sussurrandole parole di conforto mentre, guardandosi intorno, ricercava una possibile via di fuga. Nulla, non c’era traccia di una breccia, niente, ma… Si osservò intorno, prima era necessario capire la natura di quello stesso luogo, se si trattasse di un mondo reale o se fosse figlio della mente di Utopo, che si era detto generatore di mondi… generatore, appunto, non CREATORE.

E Generare era ben diverso che Creare.

Camus giudicò in fretta che quello spazio era davvero frutto solo della mente del nemico, fittizio ordunque. Per sfuggirgli, sarebbe bastato forzare la mente di quell’essere, che aveva un potere assoluto, certo, ma solo lì, non certo al di fuori.

Si alzò quindi faticosamente in piedi dopo aver riadagiato compostamente Michela a terra, carezzato la fronte e averle sussurrato un: “Ti condurrò fuori da qui, birba, te lo prometto, fosse anche l’ultima cosa che faccio!”

Si erse contro il muro di fronte, guardandolo con astio. Cosa avrebbe fatto Isaac al suo posto? Avrebbe colpito il muro fino a sfondarlo? Probabile! Sorrise nel ricordare la determinazione dell’allievo, che gli aveva insegnato così tanto. Le ginocchia gli tremavano, era fiacco, ma cosa importava?! Sarebbero fuggiti, in un modo o nell’altro!

Divaricò le gambe, prima di caricare un primo colpo di aria congelante che andò a cozzare contro una colonna, che conseguentemente tremolò, cosa che non sfuggì ai suoi occhi esperti. Era davvero un mondo onirico o qualcosa di simile, ciò gli diede nuove energie. Proseguì ostinatamente.

2… 3… 5 colpi! La struttura cominciava a vacillare, perseverare era l’unica soluzione. Fece per caricare un altro colpo, ma la gamba di destra gli cedette, costringendolo a far leva con l’altra per non cadere del tutto. Ansimò, raddrizzandosi velocemente: non poteva abbandonarsi alla stanchezza! Prese un profondo respiro, prima di continuare. Precedentemente era riuscito ad utilizzare un potere pressoché assoluto, se fosse riuscito ad attingerlo ancora una volta, un’unica volta, forse avrebbero trovato la via di fuga. Chiuse gli occhi, concentrandosi al massimo possibile. Ogni fibra del suo corpo era tesa, pronta al grande balzo. Prima, nel fronteggiare Utopo, ci era finalmente riuscito, non lo avrebbe nemmeno creduto possibile, ma era arrivato allo Zero Assoluto pieno, il perché gli sfuggiva ma lo aveva fatto una volta, avrebbe quindi potuto ripeterlo. Sentì di nuovo le energie affluire in lui: aveva qualcuno da proteggere, ciò avrebbe fatto da trampolino di lancio per usare nuovamente quella dote, esattamente come Hyoga aveva imparato a fare.

Era il momento! Riaprì gli occhi di scatto, mentre le braccia, fino alla punta delle dita, gli formicolavano. Finalmente qualcosa sgorgò dal suo palmo, qualcosa di infinitamente potente e favillante. Cozzò contro la parete, procurando così una fenditura che emanava una luce abbagliante. Sorrise, prima di cadere ginocchioni per terra, ansante. Il varco era stato creato, ma farlo lo aveva prosciugato interamente. Respirava male, a stento, e la dissonanza nel suo addome era aumentata.

Sorreggendosi con un’unica mano, uso l’altra per massaggiarsi la zona, alzandosi la maglietta per stringersi la pelle in prossimità dell’ombelico, che era tremendamente e insostenibilmente caldo; quel calore, come se non bastasse, si stava diramando all’intero ventre. Un fluido dorato, perfino più bollente, non aveva mai smesso di fuoriuscire da lì, sporcandogli la pancia, la maglietta e i pantaloni. Inspiegabilmente ne stava perdendo molto -boccheggiò nel constatarlo- forse più di quanto potesse concedere quel minuscolo forellino che pure gli doleva da impazzire. Ebbe appena il tempo di strapparsi i cerotti ancora incollati su di lui, che udì una vocina alle sue spalle.

“Pa-pà?”

Era Michela, che stava riprendendo faticosamente coscienza. Un’ondata di sollievo lo avvolse. Si ricoprì, voltandosi con enorme difficoltà, gattonando poi nella sua direzione. Ormai le forze per rimanere in piedi lo avevano quasi del tutto abbandonato.

“M-Michela, anf, s-sono qui, per fortuna hai ripreso i sensi!” le sussurrò, a fatica, arrivandole vicina e accarezzandole delicatamente i capelli.

“P-papà, i-io… io…”

Michela aveva occhioni grandi e spaventati, le lacrime agli occhi, quasi singhiozzava, cercando di raccapezzarsi, tentò di coprirsi la pancia, prima di essere rassicurata dalle sue forti braccia che, coniugando tutto quello che era rimasto in lui, la circondavano e la sollevavano a mezzo busto, abbracciandola.

“Stai tranquilla… ora ci sono io con te!”

“M-mi dispiace, papà, h-ho… ho tentato di proteggerti, m-ma non capivo dove fossimo, e poi è arrivato improvvisamente quell’essere, mi ha detto di consegnarti a lui, io non volevo, l’ho attaccato, ma mi ha fatto del male, nullificando le mie fiamme. Poi ti ha preso da sotto le ascelle, trascinandoti, per poi farti stendere su quella…”

“Ssssh! Michela, va tutto bene, è passato, sono qui. Non dovrai più combattere da sola, ora sono cosciente!” le sussurrò, posandole le labbra sulla fronte per acquietarla.

“S-stai davvero bene? Q-quel mostro ti ha...”

“Sì, sto bene, grazie a te; a te che mi hai spinto a reagire. Sai, ultimamente voi piccolette mi salvate costantemente la vita, devo rimediare in qualche modo, anf, sono io il vostro maestro, non voi!” tentò di ironizzare, accarezzandole la schiena come si faceva con i bebè. Non era facile tenerla sollevata, fortunatamente Michela riuscì ben presto a reggersi da sola, prima di circondare il suo collo con le braccia e affondare il viso nell’incavo della sua spalla.

“Ho avuto tanta paura per te, papà!!!”

“Lo so, ma sei coraggiosissima! Proprio per questo, presta attenzione a ciò che ti sto per dire, anf, d’accordo?”

“Dove... siamo?” insistette lei, guardandosi spaventata intorno, confusa dal buio.

“Non ha importanza dove siamo, ciò che conta è che possiamo fuggire, PUOI fuggire, Michela!”

La ragazza si ritrovò a guardarlo terrorizzata negli occhi. Camus sembrava molto stanco, faticava anche solo a tenere le palpebre aperte; era sudato, lo si vedeva da alcuni ciuffi attaccati alla fronte e, nondimeno, dal pallore che lo aveva avvolto. Quel mostro gli aveva fatto di tutto, lo sapeva, ma non si curava di sé stesso, preoccupandosi di più per lei, come sempre.

Camus prese tempo per tornare a parlare, era molto affaticato, non era più in grado nemmeno di nasconderlo alla giovane allieva, ma, infine, riuscì comunque ad indicare la frattura che era riuscito ad aprire.

“L-la vedi quella fenditura? E’ un passaggio! Percorrilo e tornerai nel nostro mondo. Tutto questo che vedi è nient’altro che un’illusione. Intercetta Hyoga, probabilmente è riuscito ad avvertire la manifestazione del mio cosmo e starà cercando un modo per arrivare fin qui. Può farlo, è forte, più di quanto sia io!”

Michela si ritrovò a fissare lo squarcio, poi il suo dito e infine il suo volto. Perse un battito. Aveva professato quelle istruzioni con fare definitivo.

“E tu cosa farai, Camus?” chiese, vedendolo che si rialzava, trattenendosi la pancia con le mani.

“Non ha importanza! Ciò che conta è che tu riesca a sfuggire. Quelli vogliono me, non mi lasceranno andare, ma… ma tu non c’entri. Persegui per quella via senza più voltarti!” le ordinò, barcollando difficoltosamente in avanti in modo da darle la schiena e apprestarsi ad affrontare il nemico che era in avvicinamento.

“Non ti lascio solo, Maestro Camus!”

“Dovrai farlo invece, sei una guerriera! Ti ho addestrato per questo, perché tu diventassi forte e valorosa, ed esserlo, a volte, comporta delle scelte drastiche!”

“Combattiamo insieme!” insistette lei, alzandosi a sua volta, perché era lampante che Camus non avesse più le forze per opporsi da solo, ma la sua proposta fu accolta con un nuovo diniego.

“No, sei già stata coinvolta fin troppo, io...”

“Non ti lascio solo!!! - ribadì lei, circondando di riflesso il suo busto in un abbraccio, rischiando di farlo sbilanciare – Non si è mai sentito di una figlia che abbandona il proprio padre!”

“Michela… - sospirò Camus, in tono strascicato, sempre più sofferente – uff, perché non seguite mai, MAI, le mie direttive?!”

“Perché ti vogliamo bene, Camus, perché… uh?!” nello stringere la presa su di lui aveva percepito qualcosa di strano, di rovente, che sembrava provenire dal suo stesso addome. A quella sensazione ne era seguita un’altra di appiccicoso.

“...”

Michela compì qualche passo indietro, fissandosi incredula le mani, che risplendevano di una sostanza dorata e viscosa che sembrava tanto una sottospecie di linfa.

“Camus… cosa… cosa è questa? La stai perdendo da...”

“...”

Le mani della ragazza tremarono, mentre passandosi il pollice sul palmo ne percepiva la consistenza collosa. Non era solo sangue. Ed era bollente. Proveniva dallo stesso addome di Camus, possibile che…?

“E’ questo che quel mostro ti ha prelevato?! Che cosa… che cosa diavolo…?!”

Camus era piegato in avanti per il dolore, una mano a trattenersi proprio l’addome. Non si voltò verso di lei, in un estremo tentativo di celarsi.

“Michela, io...”

Ma una emanazione cosmica violenta li mise in allarme, irrigidendo tutti i loro muscoli: il nemico li stava raggiungendo, di nuovo. Un brivido corse lungo le loro schiene., raggelando le vene di entrambi.

“Michela, anf, anf, vai, ti prego…” si ritrovò quasi a supplicare, in un tono assolutamente non da lui, nella disperazione della situazione, alzando il braccio all’altezza della spalla con l’evidente intento di proteggerla con tutto ciò che gli rimaneva. Una luce azzurra scaturì dal suo palmo.

La ragazza non ebbe il tempo di rispondere che, dall’oscurità della cattedrale, uscì la figura di Utopo che incedeva lento nella loro direzione.

“Andare… e dove, di grazia? Pensate forse che ve lo possa permettere?!” disse, alzando a sua volta il braccio ancora integro per poi schioccare le dita. Il varco si richiuse subitaneamente.

“Maledetto…” sibilò Camus, piegando le ginocchia e preparandosi a scattare nella sua direzione, prima di notare, con sgomento, che al posto dell’estremità corporea che gli aveva ridotto in polvere ghiacciata, capeggiava un nuovo arto costituito dalla zampa artigliata di quello strano uccello con la coda da scorpione ucciso poco prima. Aveva… utilizzato i suoi resti per rimettersi in salute?!

“Nessuno può uscire da questo mio mondo senza il mio permesso, a meno che… uhmpf, non c’è bisogno di rivelarlo a due moribondi come voi! – sbuffò, la luce arcana nei suoi occhi - La ragazza morirà qui e tu, Camus, avrai un destino ancora più crudo: nessuno si oppone ai miei esperimenti e al mio volere, nessuno può permettersi di comportarsi come una variabile impazzita. Gli abomini vanno disintegrati, tutto deve essere racchiuso dal cerchio, non può sottrarcisi!”

“Bastardo! Sarai tu a morire, invece che noi!” fece per scattare Michela, furiosa, avanzando di un passo, prima di essere bloccata da Camus.

“No, Michy… è il mio compito questo, sono io a dover proteggere te. Sei tu l’allieva, sei tu… mia figlia!” gli accennò un tiratissimo sorriso, permettendosi di guardarla, prima di avanzare caparbio contro il nemico.

“Ma… Camus!” lo chiamò ancora lei, gli occhi lucidi, scossa dall’emozione, mentre lo vedeva dirigersi verso quell’essere. Le gambe le cedettero nello stesso momento, facendole rendere conto, ancora una volta, di quanto fosse debole.

“Utopo, che ti professi Generatore di Mondi… - parlò con voce chiara e composta, espandendo l’ultima favella del suo cosmo – in verità non generi alcunché, dico bene?”

Utopo parve risentirsi, ebbe un tic al sopracciglio sinistro, mentre il braccio artigliato chiudeva e riapriva le grinfie con gesto nevrotico.

“La tua abilità si limita a ricreare uno spazio di singolarità che è frutto del tuo cervello; un unico mondo, per altro illusorio, dove colui che viene attaccato si ritrova dentro la tua mente… - spiegò compostamente, chiudendo brevemente le palpebre, prima di riaprirle – Beh, lasciami dire che, per essere uno dei 5 Pilastri, la tua dote lascia molto a desiderare… è per questo che ti sei riscoperto un novello Frankenstein? E’ per questo che ti diverti a fare il dottorino, assemblando pezzi di altri esseri viventi su di te?! Guardati, sei davvero ripugnante!”

“Attento, ragazzo, non sei nelle condizioni di alzare la cresta!” fremette lui, riducendo gli occhi a due fessure.

Camus lo sapeva. Si reggeva a stento in piedi ed erano poche le energie rimaste, senza contare che la dissonanza che avvertiva nell’addome, pur libero dal giogo di quel mostro, aumentava invece che diminuire, sempre più difficile da tenere a bada. Più la sopprimeva, più il suo addome si faceva bollente, procurandogli un dolore sempre più insostenibile. Tuttavia non poteva permettersi di dimostrarlo, per orgoglio, e perché aveva qualcuno da proteggere. Si mise faticosamente in posizione di attacco, pregando Atena che le gambe lo sorreggessero ancora per un po’.

“La tua analisi è corretta, io non creo nulla dal principio, neanche Fei Oz può, quella è una dote che hai unicamente tu, per questo ti bramiamo così tanto! - allargò le estremità, mentre un ampio sorriso si faceva strada sulle sue labbra pallide – Ma io, vedi, qua sono un dio, chiunque venga risucchiato da questo mio spazio di singolarità non può che sottomettersi alle mie regole!” ululò, trionfante, spingendo Camus, innervosito da quello sproloquiare, ad attaccarlo con tutto sé stesso.

“Un essere efferato come te, non può che essere un dio solo di un’illusione inventata ad arte da lui stesso… prendi, DIAMOND DUST!”

Lanciò il colpo con tutte le sue forze, ma quel mostro, quasi ghignando, gli annullò l’attacco con la mano rimasta umana. L’aria congelante sublimò all’istante, a Camus sfuggì un singulto di incredulità: nonostante la spossatezza, era vicinissima allo Zero Assoluto e, quel mostro, gliela annichiliva come brezza leggera. Ritentò un altro assalto, concentrandosi ancora di più, ma anche quello subì la stessa sorte; provò una terza volta, ma si accorse che il suo corpo non rispondeva come voleva. Gli mancò fiato nei polmoni, la dissonanza aumentava sempre più, le gambe gli cedettero, ma si rifiutò di cadere in ginocchio. Ansimò, mentre la vista gli si offuscava.

“Camus!!!” l’esclamazione di Michela dietro di sé gli fece coraggio, spingendolo a sfidare il nemico almeno con lo sguardo, affatto sconfitto, ancora indomito. Si trattenne la pancia con le mani nel tentativo di non cedere a quell’immane calore del tutto innaturale.

“Ma-maledetto, c-come… anf, anf! Come puoi tu…?”

“Questo è il mio mondo e, nel mio mondo, comandano le mie regole. Non l’hai capito, forse, tu stesso? - rispose Utopo in tono freddissimo, incombendo su di lui – Ma più ancora, non puoi arrecarmi danno alcuno con un raggio congelante alla temperatura di -273,144°, non è… sufficiente!”

Camus fece per ribattere qualcosa, qualunque cosa pur di non dargliela vinta, ma una nuova fitta al centro dell’addome, come se fosse stato trafitto da parte a parte, lo fece infine cadere in ginocchio piegato in due, le mani sempre a trattenersi il ventre, che si muoveva involontariamente e con forza, indipendentemente dalla sua volontà. Trattene a forza uno spasmo, si costrinse ancora una volta a non urlare.

“Papàààààà!!!” gridò ancora Michela, da qualche parte dietro di lui, accennando un movimento nella sua direzione, esitando tuttavia per pochi secondi, avendo avuto direttive di non agire, prima di decidere di caricare il proprio cosmo in un attacco.

Infine qualcosa venne lanciato, tipo una palla di fuoco, che però non raggiunse neanche Utopo, evaporando a seguito di qualcos’altro di natura del tutto simile, ma… nera! Michela sobbalzò incredula.

“Cosa pensi di fare, figlia di Ares? Le patetiche fiamme di tuo padre, nulla possono contro le mie! I mondi, tutti, sono stati generati dal fuoco primigenio e dal calore, la vita è stata possibile solo partendo dalla distruzione primordiale. Il mio potere ne è l’effige: la Vampa Nera di Kdur, che io padroneggio - le spiegò, per un momento infervorandosi di passione a trattare di quella sua abilità – Questo è l’ultimo avvertimento, stattene buona lì, mentre io mi occupo del tuo giovane maestro!”

Aveva dunque due poteri quell’essere -ragionò Camus, ansante ai suoi piedi, avvertendolo incombere su di sé- egli non generava solo un mondo fittizio, ma anche aveva il pieno controllo del fuoco nero, ben superiore a quello di Ares dell’Olimpo. Eppure un modo per battere doveva esserci, DOVEVA!

“Camus… - tornò su di lui, ne avvertì lo sguardo ferino – Dovresti aver ormai capito che, in quelle condizioni, non puoi opporti! Come avevo ipotizzato giustamente poco fa, non sei più in grado di attingere allo Zero Assoluto, il Principio Primo di Tiamat non te lo consente, sono due doti inconciliabili!”

“Non me lo… consentirebbe, anf?” chiese lui, cercando di rialzare il capo. Doveva assolutamente tentare di perdere tempo per coniugare tutte le energie rimastogli in un’ultima, favillante, Aurora Execution. Doveva farlo, per Michela, e per tutti coloro che amava e che credevano in lui.

“Proprio così! Non si possono conciliare due poteri così opposti: colei che tutto muove, Tiamat, che simboleggia la vita, il divenire imperituro, con un qualcosa che invece viola questo principio, attecchendo le sue risorse sull’immobilità eterna, non si può! - calcò astioso l’ultima parola – Non so perché quella sciocca dea primigenia abbia scelto proprio te per incarnarsi, tu, che dovresti essere il suo antipodo, tu che non sei che un involucro, un misero essere umano… ma non attingerai più allo Zero Assoluto! Prima ci sei riuscito unicamente perché io ho indebolito il tuo Potere della Creazione, ma adesso lei, sollecitata dal mio intervento, sta cercando di uscire. Assecondala!”

“M-mai! Devo avertelo già d-detto, Utopo, non farò… niente… di ciò che tu voglia, non… urgh!” non riuscì a trattenere uno spasmo, si accasciò ancora di più, sorreggendosi disperatamente con l’avambraccio di destra, affondando il volto nell’insenatura del gomito per tentare con ogni mezzo di non urlare, di non dargliela vinta. Con le dita della mano sinistra si strinse la maglietta in prossimità dell’addome, che scalpitava follemente. Provò l’istinto di strapparselo, da quanto fosse insostenibile il dolore che non faceva che aumentare a dismisura.

“Pff, non credere di essere fuori pericolo… non ho ultimato l’ultimo prelievo, è vero, ma Tiamat si è comunque pienamente attivata in te, se la tratterai ancora, potrebbe desiderare uscire con la forza...”

“U-urgh… a-nf, anf, uuuurgh...” Camus strinse il pugno destro con forza, ormai non gli riuscivano altro che degli spasmi involontari, al limite delle convulsioni. Ancora resistette, quasi digrignando i denti.

“Uhmpf, stai soffrendo molto, vedo, ne deduco che persevererai a dibatterti per non manifestarla per me… d’accordo, allora, ti allevierò questa tortura strappandoti quel potere io stesso, non sarà indolore, ma almeno più rapido, detesto vedere i cani soffrire!” lo schernì, prima di calare l’estremità artigliata su di lui.

Camus ne udì il fischio sempre più vicino, cercò disperatamente il modo per bloccarlo, ma ancora prima di azionarsi, il braccio dell’essere fu costretto a fermarsi, perché qualcosa di caldo si era frapposto, pur risultando invano.

“Patetica semidea… - sibilò gelido Utopo, al punto da fargli spalancare gli occhi, gremiti di terrore – Ti avevo detto che quello di prima era l’ultimo avvertimento!”

Ma la ragazza non lo ascoltava, gettandosi coraggiosamente a testa bassa verso di lui con una strana luce negli occhi e i pugni infuocati, senza minimamente considerare i rischi per sé stessa.

 

N-no, Michela, cosa fai? No! Non venire qui, NON VENIRE! Non senti l’aria intorno a noi farsi sempre più rovente al punto da far ribollire il sangue nelle vene?! Non venire, birba!!!

 

Tentò il tutto per tutto per alzarsi e fermarla ma ricadde lungo per terra, ormai allo stremo delle forze.

La ragazza intanto riempiva la distanza tra sé e il nemico aumentando sempre di più la velocità di corsa, tentando un attacco diretto nell’estremo tentativo di salvarlo, tentando a sua volta il tutto e per tutto

“Non lo toccherai più con le tue sudice mani, mostro! Non leverai più un solo dito su mio padre!!!”

Camus trasalì, mentre l’aura nera di quell’essere aberrante invadeva il campo, fermando Michela con la sola forza psichica. La figlia di Ares si ritrovò ben presto bloccata ancora nell’atto di correre, una mano davanti, l’altra dietro, solo il piede di destra poggiava per terra, l’altro era sospeso, immobilizzato, come lei, che non riusciva più a smuovere nemmeno un dito.

“Sei la più insulsa delle allieve dell’Acquario… - disse freddamente, gli occhi iniettati di sangue nella furia di essere stato interrotto – Gli animali deboli, qualsiasi sia la loro origine, scappano, si nascondono… tu invece cosa fai?!”

I muscoli di Michela si irrigidirono ulteriormente, mentre l’aura maligna di Utopo si manifestava come un’ondata di fiamme nere. Tremò dalla paura, la baldanza di prima un lontano ricordo. La consapevolezza angosciante di stare per morire le trafisse il cervello, incancrenendosi nel petto e successivamente a tutto il corpo in un tremore sempre più consistente.

“Tu osi contrapporti a me, nonostante la tua forza irrisoria, ed io queste cose… insensate… - chiuse e riaprì gli occhi in uno scatto d’ira – NON LE SOPPORTO!!!”

Le vampe nere prima apparse dietro di lui, proprio come un onda anomala, piegandosi su sé stesse, si diressero velocemente nella sua direzione, fagocitando le sue, arancioni, come se niente fosse. Non c’era via di fuga, non si poteva muovere, l’avrebbero ghermita e carbonizzata, come foglia riarsa.

“Michelaaaaaaaaa!!!”

Udì a stento l’urlo viscerale del maestro, il paesaggio era annebbiato, perché lei stessa stava piangendo; piangendo dalla paura, già… si reputò una stupida, altroché una guerriera, come l’aveva definita orgogliosamente Camus poco prima. Camus…

Quasi meccanicamente lo guardò un’ultima volta, era ancora a terra, perpetuamente sofferente, ma, ancora di più, sembrava completamente terrorizzato nell’assistere all’imponderabile, forse più di lei. Singhiozzò, rimproverandosi il suo scarso ritegno e la sua forza del tutto insufficiente. Era la sua fine.

“Papà… - lo chiamò ancora, con un filo di voce, ma a giudicare dalla sua espressione l’aveva comunque udita – perdonami per essere così debole...” biascico, prima di chiudere gli occhi e apprestarsi a subire il colpo su sé stessa, pregando che non fosse troppo doloroso.

Quella sola visione dell’allieva che si arrendeva così, offrendosi alle fiamme, diede a Camus le energie necessarie per rialzarsi e scattare disperatamente nella sua direzione, frenetico, senza valutare i rischi per sé stesso. C’era solo lei, la sua birba, che stava per essere colpita da quell’ondata di calore troppo forte per chiunque, persino per lei, che padroneggiava le fiamme di suo padre, Ares.

Ma Michela un padre non lo aveva mai avuto, per questo chiamava lui così, come Isaac, come Hyoga, malgrado la poca differenza di età. A Camus, nella corsa a perdifiato pur di salvarla, gli si strinse il cuore.

 

Hai preso a chiamarmi papà, e questo nome, per me, è sempre stato fonte di orgoglio; di orgoglio, ma anche di paura. Non sono mai riuscito a proteggervi come avrei voluto, né Isaac, che ho abbandonato tra le correnti, né Hyoga, che ho ferito in mille e più modi per forzarlo a crescere, lo sai, te ne ho parlato nel tentativo di farti capire quanto fosse sbagliato appellarmi in quel modo… ma tu hai continuato a chiamarmi ‘papà’ , malgrado questo, ed io… quale padre abbandona i propri figli?!

No, Michela, sei troppo giovane per gettare la spugna, per finire così, sii forte, figlia mia, tu devi vivere ancora per lunghi anni, insieme a Hyoga, non morire qui, in questo inferno!

 

Michela non percepì ovviamente quei pensieri appassionati, si sentì semplicemente spingere via dalle mani del maestro. L’urgenza del momento aveva spazzato via ogni delicatezza, che passava in second’ordine sul desiderio di proteggerla. Ebbe male allo sterno, da tanta forza che ci aveva messo il maestro per salvarlo, prima di essere scagliata lontana da quella fonte immane di calore.

Un fascio di luci, un rumore sordo, che lei avvertì appena, da quanta confusione regnasse tutt’intorno. Si ritrovò quindi proiettata indietro, strisciando con la pianta dei piedi, prima di cadere infine su un fianco, il respiro frenetico, mentre una delle mani correva a stringersi la pancia vessata dai tagli e dalle ferite subite durante la tortura.

Silenzio…

Michela, per un attimo, credette che tutto ciò che era avvenuto fino a poco prima non fosse stato altro che un incubo, perché l’ombra la avvolse completamente. Stava per cedere all’incoscienza, quando il suo istinto da guerriera la mise in allerta, riportandole alla mente di essere ancora su un campo di battaglia. Aprì gli occhi di scatto, saltando a sedere, malgrado le giunture scricchiolanti e i danni subiti.

“Maestro!!! - lo chiamò, cercando di ritrovare, almeno con lo sguardo, la figura per lei più vicina all’idea di padre – Papà!” lo richiamò poi, una volta scorto, come se quel nome fosse più vero e avesse qualche potere taumaturgico.

Lo vide sul terreno. Perse un battito. Tentò di rimettersi in piedi, invano, ricadde. Qualcun altro gli si avvicinò al suo posto.

“N-no, mostro, v-vattene! - tentò di minacciarlo, coniugando le sue forze per puntare i piedi ed intervenire, tutto inutile, il suo corpo non rispondeva ai comandi – STAI LONTANO DA LUI!!!” urlò con tutta la rabbia che possedeva in corpo. Ma la rabbia non bastava. Ci voleva la forza e lei… non ne possedeva, anche se si era sempre reputata più che determinata.

Ma anche la determinazione non era più sufficiente.

“Uhmpf, fino all’ultimo hai evitato di usare il tuo potere, Camus, mi chiedo il perché!” diceva intanto Utopo, in avvicinamento, ricomponendosi e sovrastandolo. Lo squadrò da cima a fondo, pietosamente, quasi disgustato.

“STAI LONTANO DA LUI, O IO, O IO!!!”

Tutto inutile, non la ascoltava, era davvero così insignificante al suo cospetto, come gli era stato detto poc’anzi da quello schifosissimo essere che aveva osato levare le mani su Camus?!

Si sentì montare di rabbia, rimproverando ancora una volta la sua debolezza, mentre quel mostro si chinava verso il corpo martoriato di Camus che giaceva scomposto a terra privo di sensi, il respiro frenetico e la maglia a brandelli a seguito del calore.

“Hai comunque usato una sorta di barriera di ghiaccio, altrimenti i danni non si sarebbero limitati solo a queste semplici bruciature superficiali...” osservò ancora Utopo, compiaciuto.

“Papà!!! Papààààà!!!”

“E STAI ZITTA!” esclamò, infastidito, puntandole contro il palmo della mano aperto dal quale sgorgò una vampata di calore, che la proiettò ulteriormente contro la colonna. Michela tossì, ricadendo a terra, sforzandosi in tutto e per tutto di non cedere, di non perdere coscienza.

La vita di Camus era nelle sue mani, c’erano solo lei e lui lì, non avevano altre speranze. Si fece forza, riuscendo finalmente a rimettersi in piedi mentre, con orrore, scorse Utopo prendere proprio Camus dal collo e sollevarlo senza alcuno sforzo da terra. Inghiottì a vuoto nello scorgere le gambe e le braccia del maestro ciondolare mollemente prive di alcuna volontà, la sua espressione rotta, spezzata, la bocca dischiusa che manifestava il respiro totalmente dispnoico e fin troppo accelerato. Le palpebre gli fremettero a vuoto.

“Non hai più forza, Cavaliere?! L’hai esaurita per salvare questa ragazza?! Che sciocco, odio la gente come te, capace di annichilire sé stesso per gli altri! Ti cancellerei dalla faccia dei pianeti, ma prima devo estirparti la Creazione!” disse, tornando a concentrarsi su di lui, aumentando la stretta sul suo niveo collo per poi reclinargli forzatamente la testa ancora più indietro.

Camus produsse un mormorio strozzato, mentre quell’essere, con calma ferrea, non faceva che aumentare la stretta su di lui, ostruendogli le vie aeree. Boccheggiò alla ricerca di ossigeno, i bei capelli ondeggiarono appena. L’aria non gli arrivava più ai polmoni, gli stava schiacciando la laringe, occludendogli il respiro.

Fu il vederlo così in balia degli eventi, del tutto incapace di respirare, a spingere Michela ad agire con la stessa disperazione di quando lui si era precipitato a proteggerla dall’attacco infuocato di Utopo.

“Maledetto!!! - urlò Michela, caricando nuovamente a spron battuto con i pugni infuocati, che tuttavia non arrivarono al bersaglio, essendo fermati da un semplice gesto della mano artigliata di quel mostro. La ragazza cozzò malamente per terra ma, affatto intenzionata ad arrendersi, provò a infliggere un montante che andò nuovamente a vuoto – Che essere sei, che si diverte a infierire su persone che non possono difendersi?! MI FAI SCHIFO!”

Quelle parole infervorarono nuovamente Utopo che, con sdegno, le prese il braccio, facendole penetrare gli artigli nella carne e facendole sfuggire, nonostante l’intenzione di resistere, uno spasmo di dolore. La trattenne per una serie di secondi, il tempo necessario per fissarla malignamente negli occhi.

“Io seguo semplicemente la legge più vera, quella della giungla, e così, della natura! Voi, piuttosto, siete voi i malati, che vi circondate di concetti sciocchi come la morale, la giustizia e l’amore!”

“E tu invece cosa pensi di essere, bastardo?!”

“Uno dei Giusti! Uno dei… argh, dannata ragazzina!” imprecò, piegandosi un poco su sé stesso, affannato, sebbene continuasse a mantenere la presa sia su di lei che su Camus.

Michela era riuscita infine, prendendolo di sorpresa, a dargli un sonoro calcio allo stinco. Avrebbe voluto colpire altrove, al dire il vero, ma non riusciva ad arrivarci. Sorrise di scherno, prima di farsi temeraria.

“I-il Maestro Camus ha perso contro d-di te solo perché tu gli hai fatto quei prelievi, indebolendolo così tanto! Nel pieno del potenziale ti ridurrebbe ad un fuscello, anzi, ti ha già ridotto tale! E’ lui che fa parte dei Gius...”

Non ebbe il tempo di finire la frase, con un movimento improvviso Utopo mollò la presa su di lei, facendola così cadere a terra e cominciando a calciarla spietata, senza più alcun freno.

“Bla! Bla! Bla! Conosco quello sguardo dei tuoi occhi, l’ho visto in moltissime creature: sei terrorizzata per te e per Camus e allora vaneggi quando dovresti solo tacere e soccombere perché il mondo non ha bisogno di deboli come te!”

Michela non riusciva più a ribattere, barbaramente picchiata, senza più alcuno a difenderla, senza essere in grado di opporsi, trattenne almeno a forza le grida dentro di sé, rannicchiandosi per difendere gli organi vitali.

“Non urli?! Anche a te piace fare l’eroina da quattro soldi?!”

“Non urlerò, no! C-Camus non lo farebbe, ed io… sono una sua orgogliosissima allieva!” rispose, tra uno spasmo e l’altro. I calci ebbero termine, ma la ragazza non ebbe nemmeno il tempo di chiedersi il motivo che venne sollevata per il bavero dalla sua mano bestiale. Avvertì gli occhi su di lei, la sondavano da capo a piedi. Provò l’istinto di celarsi l’addome con il braccio, perché la maglia, ridotta com’era non le copriva a stento che il seno e lei non tollerava di essere guardata così da qualcuno che non avesse scelto.

“I miei complimenti, mostri una sacrosanta, quanto inutile, devozione per il tuo giovane maestro! Fatti accompagnare da essa, nel tragitto verso l’altro mondo!” la minacciò, mentre la sua mano artigliata diventava rovente, trasmettendo così quel calore immane al suo corpo.

Michela ebbe quasi la sensazione di esserne travolta, quell’attacco poteva carbonizzarle tutti gli organi interni. Ebbe paura. Dolore lancinante, che si acuiva sempre di più costringendola a spalancare le orbite per il dolore, prima di essere, nuovamente e misteriosamente, proiettata indietro. Raschiò il terreno prima di cadere, tuttavia il bruciore che percepiva, la sensazione di essere attraversata da parte a parte, vennero anestetizzati ben presto dal ghiaccio, che ora le permeava lo sterno, diffondendosi poi all’intero corpo, quasi cullandola. Rabboccò aria, tornando a respirare con regolarità. Il bruciore cessò del tutto. Si ritrovò a sussultare al contatto del palmo della sua mano con la pelle sottostante, che sembrava quasi brinata. Quell’intervento… non poteva esser altri che…

“Mich-e-la...”

La voce del maestro le risuonò debolmente in testa, facendole rimbalzare il cuore in gola. Si sforzò di affinare i sensi, tentando di alzarsi, ma ricadendo in avanti.

“Papà? - provò a chiamarlo alla stessa maniera, tutta tremante, gli occhi lucidi – Non dovevi farlo! Il tuo cosmo è...”

“Non pensare a me! Sc-scappa d-dal varco che p-prima ti ho mostrato, s-se lo sforzi puoi fuggire, è ancora accessibile, anf, anf…Vai via da qui, senza più voltarti indietro. Costui è troppo forte...”

“E… e tu?”

“Io… me la caverò!”

“N-no, non lo farò, non me ne vado senza di te!”

Non lo avrebbe mai abbandonato, fosse anche cascato quel mondo bizzarro, manufatto di forgia divina che sopprimeva le leggi fisiche. MAI!

“T-ti prego, tengo troppo a voi, n-non dovete… urgh!”

La comunicazione venne interrotta. Michela lo udì trasalire. Ne ebbe un sussulto.

“CAMUS, sei stato tu a proteggerla, vero? Che ottuso! Continui a farmi montare la rabbia con questo tuo sciocco intervenire per difenderla anche da mezzo morto! Pensa a te! Sei tu tra le mie mani!” disse Utopo, aumentando ancora di più la stretta sul suo collo, facendolo tossire disperatamente in cerca d’aria.

“Papà!!!” lo chiamò lei, con le lacrime agli occhi, cercando in ogni modo di sollevarsi, ma né le gambe né le braccia la reggevano, facendola tonfare a terra a corto di fiato.

“Vuoi che mi concentri unicamente su di te, Camus? Così sia, intanto sei tu ad essere il mio obiettivo!” stabilì alla fine Utopo, cercando di riportarsi alla calma, mentre con la mano unghiata e con gesto violento, gli strappava di dosso i residui della maglietta, denudandogli il busto.

“CAMUUUUS, NOOOO!!!”

Ma Utopo aveva ripreso a non considerarla, ghignando a quello spettacolo. Camus non aveva forze per opporsi, il suo corpo ciondolava a vuoto, vinto. Lo ispezionò con gli occhi, soffermandosi su ogni ferita e bruciatura causata da lui stesso, prima di osservare ancora una volta l’ombelico, sul quale si stava formando un vistoso livido violaceo e dal quale fluiva, in seguito ai prelievi, una sostanza viscosa dorata: il sangue di Tiamat miscelato al suo, rosso rubino.

“Non vuoi proprio usarlo questo potere per me, eh? Ti avrei salvato dal tuo triste fato! - sospirò, fintamente affranto, mentre con un artiglio gli tracciava proprio quel versamento che aveva del miracoloso. Se lo portò alla bocca per leccarlo e assaporarlo – Molto bene, allora! Lo estirperò io medesimo!”

“N-no!!! Fermati, maledetto, n-non… - Michela provò nuovamente ad alzarsi, invano, ormai piangeva da quanto fosse spaventata – Camus, ti prego, reagisci! Reagisci, papà!!!”

Utopo non sopportava quei piagnistei, li avrebbe volentieri fatti tacere, ma in un secondo momento. Non bisognava distrarsi, non in quel momento cardine, non ora che quel Potere incommensurabile era così alla sua portata.

“Dimostrerò a Fei Oz che possiamo usufruire del tuo potere senza dover utilizzare per forza il tuo corpo. Stavolta non esiterò, non più! - disse mentre con una grinfia delle quattro, raschiandogli sulla pelle, discese dallo sterno all’ombelico... – Basta aprirti qui, nella linea dell’addome, arrivare al nucleo – e gli insinuò quello che avrebbe dovuto essere un indice proprio dentro la fossetta, con talmente tanta violenza da provocargli uno spasmo - e scavare in questa sede, finché non ci arriverò, impadronendomi così della Creazione e così di Tiamat, Camus!”

“Nooooooooooooo!!!”

“Sarà veloce, vedrai… sei già agonizzante, del resto!”

E l’estremità del mostro si mosse, folle, verso di lui, ma qualcosa si intromise sulla sua strada, un nuovo intervento; una nuova, più intensa, sensazione di gelo.

Utopo sbatté più volte le palpebre, incredulo, sicuro di non aver visto bene. La mano unghiata era nuovamente bloccata, impossibile da muovere, e quella sorta di gelicidio si stava diffondendo anche all’altra, sebbene fosse ancora intenta a ghermire il niveo collo di Camus. Guardando meglio, notò che essa era completamente congelata, come se qualcuno gli avesse sublimato in un colpo solo tutti i vasi sanguigni, atrofizzandogliela di netto. Ciò che era più tremendo, tuttavia, era che quell’effetto continuava ad essere attivo, fagocitandogli anche l’avambraccio, il gomito, proseguendo il suo cammino, come una slavina. Fu costretto quindi ad allontanarsi con un balzo, anche perché, nello stesso momento, una nube bianca, cristallizzata, si stava avvicinando a gran velocità a lui, se non l’avesse scansata subito, sarebbe morto, perché, lo percepì: era allo Zero Assoluto, l’unica attitudine, insieme alla Creazione, che avrebbe potuto danneggiarlo seriamente.

Il corpo di Camus, privo di sostegno, cadde come corpo morto, prima di essere afferrato da due braccia che lo strinsero con foga, quasi abbracciandolo.

Michela, dalla sua posizione, non riusciva quasi a crederci. Aveva riconosciuto quel cosmo candido, solenne, che tanto amava, ma aveva quasi paura di essersi sbagliata. Poi lo vide, fiero, scultoreo, i capelli biondi che si muovevano appena. Rigettò indietro le lacrime e sorrise nella sua direzione, un fascio di luce bianca avvolgeva il nuovo arrivato, nello stesso momento il volto del maestro veniva appoggiato delicatamente su una spalla amica. Lontano dall’ingerenza di quell’essere, lontano dalla sofferenza che aveva patito fino a quel momento e che era ben visibile su tutto il corpo. Gli occhi azzurri del Cigno si soffermarono sul suo viso, sul suo respiro ancora stentato, sui danni che aveva subito, si ritrovò a fremere, serrando impercettibilmente le labbra.

“Come… come hai potuto raggiungerci qui?! Questo è il mio mondo!!!” urlò minaccioso Utopo, affatto dolorante, sebbene avesse quasi perso un braccio, puntando immediatamente contro di lui, il quale però, senza scomporsi, senza neanche quasi guardarlo, gli puntò contro il dito indice, dal quale uscirono gli anelli di ghiaccio, immobilizzando subitaneamente.

Gli voltò le spalle senza aggiungere altro, in quel momento non era nemmeno degno della sua attenzione.

“Hyoga!!!” trillò Michela, mentre il cuore le veniva riempito di una nuova speranza; era giunto per salvarli, come un principe azzurro, si sarebbero risolto tutto, ora c’era anche lui con loro.

Hyoga, il Cavaliere del Cigno, con indosso la sua favillante armatura che risplendeva di argentei bagliori, non rispose subito nemmeno a lei ma, con lo sguardo grave e un poco distante nel tentativo di non mostrare le sue emozioni, le avvicinò ulteriormente, sorreggendo il suo maestro con le sue forti braccia.

“HYOGA! - lo richiamò ancora Michela, prima di concentrarsi sulle condizioni di Camus, che sembrava aver perso completamente coscienza – O-oddio, come sta?!” si agitò lei, vedendo che respirava a fatica.

Ancora Hyoga non parlò, limitandosi ad adagiarlo gentilmente a terra. Gli posizionò le mani lungo i fianchi, il volto piegato leggermente da un lato, come se dormisse. Gli tastò velocemente il collo e torace, controllandogli il battito cardiaco, per poi scendere, passando dallo sterno, sull’addome e vedere così i danni subiti, tuttavia si fermò subito, notando una temperatura molto più alta della norma.

“Maestro… - riuscì infine a chiamarlo, in tono un poco strascicato – Cosa vi hanno fatto?!”

“S-sta continuando a perdere quello strano fluido dall’ombelico, Hyoga, il sangue non si ferma!!! - pigolò Michela, disperata, non sapendo come aiutarlo in quel luogo - E’ stato quell’essere! Q-quel mostro gli ha fatto d-dei prelievi e… e… CAMUS!!! CAMUS, NON LASCIARCI, TI PREGO!!!”

Solo a quel punto Hyoga la trattenne per le spalle, accucciandosi davanti per guardarla dritta negli occhi.

“Devi stare calma, Michela, se ci facciamo prendere dall’agitazione non gli siamo di nessuno aiuto!”

“S-sì, ma...”

“Spostati un attimo, per favore!” le disse con gentilezza e un pizzico di fermezza, tornando a concentrarsi su Camus per toccare con le dita quello strano fluido dorato.

Era impossibile capire che roba fosse, sicuramente sangue, il suo, visto l’odore, ma anche altro di indefinibile, una sostanza mai vista, viscosa. Rabbrividì per la paura. Le funzioni vitali sembravano stabili, i danni non troppo gravi, ma l’espressione contratta del suo volto, i capelli attaccati alla pelle sudata e la temperatura in vertiginoso aumento, soprattutto in quella zona, tradivano un certo malessere. Tirò fuori un fazzoletto dalla tasca dei pantaloni, glielo pressò sopra l’ombelico nel tentativo di tamponare l’uscita del fluido.

“U-urgh...”

Un debole lamento gli giunse alle orecchie ancora prima di avvertire l’irrigidimento del suo corpo sfinito, teso per il dolore.

“Coraggio, resistete, Mae.. - iniziò, prima di scrollare la testa e correggersi - Resisti, papà, ti porteremo fuori da qui, te lo prometto!” lo incoraggiò, lasciandosi finalmente andare in una manifestazione di affetto. Gli accarezzò dolcemente i capelli, alzandogli poi i ciuffi della frangia per poggiarci appena le labbra in un leggero bacio. Poi tornò a premergli l’addome, perché l’emorragia, inspiegabilmente, visto che il forellino aveva dimensioni ridotte, non si arrestava.

Ho sentito il tuo richiamo, sono qui, forza! Non sarai più costretto a combattere da solo, Camus… papà!

Anche Michela piombò di riflesso sul maestro, ancora affannato e con il torace scalpitante per la penuria di ossigeno, ma VIVO! Si permise di piangere, per il sollievo, per la paura provata, per le sue stesse condizioni. Lo abbracciò senza pesargli, affondando il viso nel buffo cespuglietto che aveva in testa, mentre con il pollice della mano sinistra gli carezzava delicatamente la guancia.

“Papà, va tutto bene! Sei qui, sei al sicuro! Ora c’è Hyoga con noi, andrà tutto bene! - singhiozzava lei, tutta tremante – Scusami, SCUSAMI! Sono troppo debole, avei dovuto proteggerti!”

Hyoga la lasciò fare per alcuni secondi, prima di decidere che era tempo di agire. Si trovavano su un campo di battaglia e, anche se aveva immobilizzato il nemico con il Koliso, ogni secondo era più che prezioso, non potevano permettersi di distendersi più del dovuto.

“Michela, ascoltami ora, devo sconfiggere il nemico il prima possibile, a te quindi il compito di fermare l’emorragia...”

“E come… come faccio?!”

“Posizionati su di lui perpendicolarmente e premi il fazzoletto sul suo addome, una mano sopra l’altra, come sono io ora. Non so che roba sia quella che perde, non è solo sangue, ma la priorità è arrestarne l’uscita!” le spiegò, risoluto e un goccio sbrigativo.

“Ma se schiaccio gli farò del male, e lui...”

“Sì, ma non abbiamo alternative, mi capisci? - cercò di riscuoterla, accarezzandole la spalla fino a scendere sul braccio per poi stringerle la mano – Conto su di te!”

Michela, gli occhi lucidi, il viso provato, la maglia praticamente a brandelli che le scopriva la pancia, le numerose ferite sul suo corpo, ridotta ad uno stato pietoso... a quelle parole ricacciò comunque indietro le lacrime e si fece determinata, prendendo immediatamente il suo posto prima di annuire con forza.

“Così, brava! Usciremo da qui tutti e tre, insieme!” le sorrise brevemente Hyoga, dandole un veloce bacio sulle labbra, prima di alzarsi temerario in piedi.

Le ferite di Camus non erano gravi, per un Cavaliere della sua tempra, ma il giovane allievo aveva la spiacevolissima sensazione che fosse messo piuttosto male, e non per quelle numerose bruciature che gli marcavano il busto, o per i segni delle dita di quel mostro sul suo collo arrossato, no, ma per quell’addome che appariva così dolorosamente contratto e dal quale fuoriusciva un fluido dorato e bollente, come se il male peggiore fosse proprio lì dentro.

Ma cosa diavolo…?

Si ritrovò a stringere convulsamente le dita, furioso. Doveva sbrigarsi, e in fretta!

Camus e Michela, la sua famiglia. Disintegrati. Entrambi. Con una violenza inaudita. Senza che lui avesse potuto impedirlo.

Si morse anche il labbro inferiore fino a quasi farselo insanguinare. Toccare loro, le persone più importanti della sua vita… no, c’era un limite a tutto, e quel limite era stato ampiamente valicato!

“E così, da come ti ha chiamato quella femmina umana, tu devi essere Hyoga del Cigno, anf, l’allievo di… urgh!” non riuscì a finire la frase, l’ossigeno gli mancò nei polmoni, mentre, sputando sangue e qualcos’altro di solido, si accasciava a terra, a sua volta in penuria di ossigeno. Capì che gli era stato appena congelato completamente un polmone, l’altro crepitava paurosamente, come se fosse destinato alla stessa sorte.

“Non importa chi tu sia, né come tu abbia fatto vigliaccamente a ridurli così! Alcune cose non si possono semplicemente toccare, e tu ne hai deturpate due in un sol colpo! - disse Hyoga, temerario, voltandosi di scatto e alzando le braccia come ad imitare le ali del cigno. L’aria sembrò cristallizzare in un istante – Preparati a subire la furia dei ghiacci perenni, MOSTRO!” urlò, lanciandosi senza esitazione contro il nemico, sublimando tutto la rabbia che stava provando in un unico, deicida, assalto.

 

 

 

 

 

Angolo di MaikoxMilo

 

Ed eccoci qua con un nuovo capitolo de “I 5 Pilastri di Marduk”, buon week end a tutti ^_^

Sono molto soddisfatta di questo capitolo, anche se la storia, procede un po’ a rilento perché descrivere le scene di combattimento non è mai facilissimo.

Utopo, come specifico più volte anche per bocca dello stesso Camus, è un dissidente, fa parte dei 5 Pilastri ed è quindi agli ordini del Mago ma, come si può ben vedere, brama il potere per sé. Nonostante le incertezze iniziali, perché Utopo ha comunque assai paura di Fei Oz, alla fine decide di andare fino in fondo, ben sapendo che “avendo deturpato il corpo dell’Acquario” non può più tornare indietro. Eh, sì, il nostro Mago, lo vedremo nuovamente più avanti, è molto possessivo. Fortuna che interviene Hyoga (adoroooo!!!) e sarà lui a combattere contro di lui, dopo lo scempio perpetrato nei confronti del suo Maestro e della sua ragazza (Go, Cygnus!!!).

Diverse spiegazioni invece sono più necessarie per la parte in Grecia che, pur più breve, offre molti spunti di riflessione.

Intanto veniamo a sapere che Stevin è “un abominio” e che è orfano; come se non bastasse, suo nonno non era biologico, quindi… da dove è sbucato questo ragazzo?! Quale rapporto lo lega a Nero Priest?! Quali sono le reali intenzioni di quest’ultima?!

Aphrodite e Death Mask, qui, hanno delle vistose rimembranze delle precedenti vite, quelle di Albafica e Manigoldo. Il primo, infatti, ha l’istinto di recarsi a Rodorio, il secondo, si scopre, ha sempre visto gli spiriti fin dalla più tenera età, come Manigoldo.

So che, per alcuni di voi, la cosa è inconcepibile, del resto, due personaggi così meravigliosi come Manigoldo e Albafica come fanno a essersi reincarnati in quei pertusi di Aphro e Deathy?! Però, nella mia storia, hanno la stessa anima, c’è ben poco da dire… riserveranno sorprese! ;)

Prima di lasciarvi, ci tengo a sottolineare anche un’altra cosa: Camus, nel momento in sui subisce l’ultimo prelievo (poverino, immaginate che dolore debba avere a subire le iniezioni proprio in quel punto!) vede “determinate cose”, al momento solo buttate lì, prive quasi di senso, come se fosse una vera e propria visione. Viene anche citato il “Primo Aquarius”…

Ci ritorneremo e... ah, "l'Aurora Annihilate" non è di mia invenzione ma presente, come attacco, in Episode G Assassin, usata proprio da Camus ;)

Al solito grazie mille a tutti coloro che continuano a seguire questa mia storia! Alla prossima! :)

 

 

Ritorna all'indice


Capitolo 4
*** Ergon, l'impulso vitale ***


Capitolo 4: Ergon, l’impulso vitale

 

 

Vi era solo un enorme prato.

Un enorme prato fiorito, che pareva sconfinato. Le dolci colline sullo sfondo, verdi anch’esse, scendevano in declivi che parevano giocare con l’ottica dello spettatore. A seconda dell’angolazione potevano sembrare sinuosi poggi o irte montagne; abbracciavano la valle ma, all’occorrenza, potevano anche soffocarla.

A giudicare dall’odore nell’aria, poi, era maggio, la sua stagione preferita.

Strinse con foga la mano che teneva, accelerando l’andatura per spronarlo a seguirla. Era felice e sorrideva nel luogo che adorava, con la persona amata. Solo quello contava.

Il tiepido sole tardo primaverile accarezzava i loro volti ridenti mentre correvano nel prato smeraldo. Era tutto così perfetto, da sembrare falso, e fallace il solo osare crederlo, ma così dannatamente bello; era così bello... poter finalmente respirare l’aria pulita senza più alcuna tribolazione. Solo… loro due!

Una parte di lei stava sussurrando insistentemente che fosse sbagliato essere lì… ma come poteva esserlo? C’erano solo lei e Dègel, ed erano due ragazzi normali… come poteva essere un inganno?!

Una sensazione di imminente perdita la dilaniava, ma non vi badò.

Vi era ancora il sole alto levato, pur con qualche nuvoletta verso le cime più alte, quando finalmente giunsero alla sporgenza, fermandosi per contemplare il paesaggio appenninico. Sotto di loro un gruppo di mucche pezzate di marrone pascolava serenamente, ruminando l’erba piano piano, senza fretta, assaporando quella piccola breccia di vita in un tempo che spietatamente correva.

Dègel finalmente la raggiunse, ammirando con lei il panorama con un mezzo sorriso e il leggero rossore sulle gote. Il respiro appena appena trafelato, non per lo sforzo, ma bensì per l’emozione.

E’ bellissimo non trovi?” chiese Marta, riprendendolo per mano e sorridendogli radiosa.

E’ così… grazie per avermi portato qui, rondinella!”

Rondinella… Marta sorrise a quel vezzeggiativo che era diventando usuale. Proprio in quel momento un gruppo di rondini montane sfrecciò vivace sopra le loro teste con i loro consueti schiamazzi. La ragazza si perse a guardarle, ammirata. Sfidavano i venti piroettando, sicure delle proprie ali. A volte arrivavano talmente vicine agli ostacoli da temere che potessero sfracellarcisi contro, ma loro, leste, giudiziose, con una subitanea virata riacquistavano quota. Erano semplicemente meravigliose!

Marta… ti sei mai soffermata a pensare a cosa possa significare la parola paesaggio, paysage, alla francese?”

Uh? Ma che domande ti vengono tutto d’un tratto?” chiese la ragazza, ridacchiando.

Semplice curiosità, la mia...” sorrise lui, cingendole poi il fianco in un gesto protettivo, lo sguardo perso verso l’orizzonte.

Un brivido corse lungo la sua schiena a quel contatto. Per un istante fu sul punto di ricambiarlo, con impeto, perché aveva bisogno di qualcosa di ancora più concreto, vittima di una paura ineffabile che la lambiva sempre di più: il Cavaliere dell’Acquario sembrava davvero sul punto di svanire da un momento all’altro, e lei non voleva. Se l’avesse stretto più forte -si chiese ingenuamente- non sarebbe più scappato?!

Tentò di concentrarsi sulla domanda posta, era assolutamente da Dègel rivolgerle simili quesiti dal nulla, una delle mille e più ragioni per amarlo con tutta sé stessa. La risposta sembrava a portata di mano, ma poco dopo si accorse, con sorpresa, che invece non lo era affatto.

Un paesaggio… cosa era un paesaggio?! Esisteva un criterio oggettivo per definirlo?! Le parve, tutto d’un tratto, una parola dai molteplici significati, impossibile dare una risposta univoca.

Uh, ecco…” temporeggiò, imbarazzata. Voleva dimostrarsi degna della sua intelligenza, ma per quanto si sforzasse non le sovveniva niente. Gonfiò le gote, arrabbiata.

Dègel la guardò assumere quell’espressione un poco corrucciata, ridacchiò di gusto, disteso, prima di permettersi di alzarle dolcemente il mento e darle un soffice, quanto caldo, bacio a fior di labbra.

Uhm, così però mi deconcentri!” riuscì a biascicare lei, una volta staccatasi, circondandolo con le braccia prima di passare le mani sotto alla maglietta e solleticargli così la pelle.

Anche tu, madamigella!” la prese in giro lui, ammiccando, prima di fare altrettanto.

Sai che non mi piace questo appellativo...”

Ne sono consapevole, anche se tendo a scordarlo. Vi chiedo umilmente scusa, Mad… Marta!” ribatté, facendole l’occhiolino, prima di avvicinarla ancora di più a sé.

Il brivido si fece più forte nell’avvertire le sue delicate dita passare lungo la linea del fianco, alzandole così la maglietta. Si lasciò cullare dalle sue braccia, mentre, dopo un gioco di sguardi, gli solcò la pelle nuda fino alle scapole, che strinse tra le sue dita, trattenendo a stento un ansito di piacere, prima di tornare a forza alla domanda precedente.

I-io n-non lo so bene, Dègel… mi verrebbe da dire che sia una porzione di territorio visibile all’occhio umano, ma sembra troppo… banale!” ammise, pensierosa.

Non lo è, anzi oggettivamente e scientemente è proprio così ma, come hai avuto la percezione tu stessa, il significato non si limita a questo, è… molto di più!”

E, secondo te, cosa è quindi, Dègel?”

Uno… stato d’animo, una… introspezione che fa l’uomo davanti allo spettacolo della natura, che affascina, stupisce fino a quasi tramortire. Un paesaggio… è tutto ciò che si incastra tra il respiro e la pelle!”

Dégel… - sorrise Marta, approcciandosi ulteriormente a lui per ricambiare il bacio precedente, approfondendolo un poco di più, stringendo quel corpo tanto amato a sé fino a fargli sentire le unghie proprio sulla pelle che andava dicendo – Sei unico! Potrei passare i secoli, insieme a te, e non mi stancherei, né annoierei, mai!” disse, appoggiandosi poi sopra il suo petto per lasciarsi un poco cullare.

Non lo guardava più in faccia, gli occhi rivolti verso l’orizzonte, su quel paesaggio che osservavano dalla loro posizione altolocata e che condividevano, mentre i battiti dei loro cuori, quasi uno contro l’altro, accordavano all’unisono una stessa melodia.

Lo sentì emozionarsi, mentre, teneramente, le accarezzava i capelli sul capo, ritmicamente. Rimasero in silenzio per un po’, l’agitazione intrinseca, che pungolava i loro giovani animi, si fece più forte.

Dégel?” chiese ad un certo punto Marta, tornando a fissarlo, un poco spaventata. Quella sensazione di inquietudine si era fatta più forte. Il giovane uomo aveva gli occhi chiusi, un poco sofferenti, mentre la stringeva a sé con un cipiglio di disperazione. Alla ragazza ricordò tanto qualcun altro, ma chi, nello specifico?! Ebbe quasi l’istinto di scrollarlo per provare a ravvivarlo, ma lui la precedette, portandosela ancora più contro il petto e desiderando la sua attenzione.

Ora guardami, per favore...”

I-io ti guardo sempre, Dègel, m-mi piace e non mi stancherei mai, ma a dire cose così in questo tono mi spaventi, cosa succede?”

Il tempo non è molto...”

I-il tempo? - guardò confusamente il sole, ancora alto nel cielo, anche se si stava oscurando, ne ebbe un fremito e provò un misto di istinti tra allontanarsi immediatamente e abbracciarlo ancora più forte per non farlo più scappare – A-abbiamo ancora tutta la giornata e… e una vita intera per stare insieme!” farfugliò, gli occhi lucidi.

Ma Dègel sembrava partito per la tangenziale, così concentrato a proseguire nel suo discorso.

Ti ho parlato del paesaggio per un motivo, Marta, tu… - rabboccò aria, parlare gli costava fatica – Ne vedrai ancora tanti, mia piccola rondine!” le disse, scostandole un ciuffo dalla fronte.

Certamente… con te!” insistette lei, ormai sempre più spaventata da quella situazione. Il bisogno di svegliarsi si stava facendo inderogabile, anche se avrebbe voluto rimanere lì per sempre. In un tempo fermo.

Certo, io sarò con te! - ammorbidì ulteriormente l’espressione Dègel, posandole un bacio sulla fronte – Anche se non mi potrai vedere! Te l’ho promesso, ricordi?”

N-NO!” le uscì quasi un rantolo, mentre il tono le era salito fino a strozzarsi. Le mancava aria, forze, tutto, eppure non voleva più andarsene da lì. Chiuse gli occhi, non poteva fare altro, appoggiandosi un’ultima volta a quel torace che avrebbe dovuto ospitarla per il resto della vita.

Se solo… fossero stati due ragazzi normali!

In verità… più volte nella mia vita mi sono posto domande sul paesaggio, soffermandomi a contemplarlo, ripensando a te, a me, alle nostre infinitesimali scelte, se paragonate al Tutto, ma solo apparentemente!”

A-anche io, Dég… a-anche io!”

Perché noi, in questo spazio immenso e capriccioso, tra milioni di possibilità, ci siamo comunque trovati, e ritrovati, più volte, così continueremo a fare… - anche Dégel piangeva, Marta se ne accorse, perché alcune lacrime dispettose le erano finite tra i capelli, incastonandosi come un germoglio che attecchisce nella più piccola porzione di terra – vero, rondinella?”

Annuì, non riusciva a fare altro, mentre, istintivamente, alzò il capo, assaporando nuovamente le labbra della persona amata. Cercarono, si cercarono, con tutte le forze che avevano, seguendosi e inseguendosi fino a rimanere senza forze. Tutto intorno a loro stava svanendo.

Marta lo vide ancora sorridere, mentre poggiava la fronte su di lei; un sorriso triste, ma dolce, come quello che le aveva regalato ad Atlantide, poco prima che il buio li avvolgesse. Era bellissimo, continuava a ripeterselo mentalmente, strinse le dita sul suo fianco, sospirando.

Mi… manchi da morire, Dègel!” soffiò, lasciando che le lacrime le solcassero le guance. Per qualche strana ragione le sembrò di averglielo detto poco prima, ma erano diversi, lì, in quell’istante privo di tempo e fretta. Il solo pensarlo le faceva male, da spezzare il fiato.

Anche tu, ma come ti ho detto prima… il mio tempo è fermo, il tuo no!”

Non m’importa!”

Ci fu una nuova, lunga, pausa prima che riuscisse a proseguire.

Il vero viaggio di scoperta non consiste nel cercare nuove terre, ma nell’avere nuovi occhi”

Dégel, m-ma cosa..?”

E’ un aforisma di Marcel Proust”

E perché me lo stai dicendo adesso, in questo momento?”

Perché io vorrei solo questo, rondinella, anche se so che è difficile… - prese una nuova pausa, tremando consistentemente – Conosci persone nuove, viaggia, respira quest’aria, ridi, osserva il mondo, guarda ciò che avrei voluto vedere io, fallo per me…”

I-io non lo voglio fare senza di te!” cercò di opporsi lei, quasi supplichevole, ma Dègel voleva proseguire ottusamente.

Sii i miei occhi, se puoi… devi ricominciare, devi muoverti, il tuo cammino non è affatto concluso, la strada è ancora lunga, VIVI! Voglio che tu viva, Marta, e, quando sarai pronta, innamorati ancora!”

NON VOGLIO!” ribadì ancora lei, sempre più disperata. Voleva che la smettesse, che smettesse di vaneggiare, voleva solo essere rassicurata e abbracciata, ancora e ancora, voleva la conferma che avrebbero passato il resto della vita insieme.

Anche se sapeva che era impossibile… anche se sapeva che doveva svegliarsi al più presto, perché, ora lo rammentava, c’era stato un terremoto e, subito dopo, prima di svenire, la consapevolezza di essere sotto attacco.

Ancora una cosa io ti chiedo, prima di lasciarti andare…”

Qu-qualunque cosa...” balbettò lei, al limite. Voleva semplicemente crollare a terra e piangere tutte le sue lacrime. Perché gli stava dicendo per l’ennesima volta addio, e non ne poteva più.

Quando, tra un’avventura e l’altra, ti soffermerai su un paesaggio, quando il tuo occhio si poserà dove dice il tuo cuore per contemplare l’infinito… per favore, ricordati di sorridere, perché io sarò in quella piccolissima parte del tutto, anche se non mi potrai vedere. Sarò al tuo fianco, da ora all’eternità e… sorriderò con te, insieme a te. Non saremo mai veramente separati finché rammenterai questo!”

D-Dègel...” stava diventando insostenibile quel dialogo, ingoiò un singhiozzo, mentre tutto stava scomparendo, anche lui, un’altra volta. Si sentì posare una mano sopra al petto, si ritrovò a osservare per l’ennesima volta quei due occhi blu che non avrebbe mai, MAI, potuto dimenticare.

Perché io, prima di tutto, sono qui. Finché mi ricorderai, niente e nessuno potrà veramente dividerci!”

Marta annuì, ingoiando saliva, rimanendo a guardarlo senza più abbassare lo sguardo, per imprimersi ogni suo più piccolo lineamento, i contorni del viso, ogni singolo ciuffo che gli ricadeva di qua o di là. Rimase ad osservarlo con tutta sé stessa, finché non seppe se fosse a causa delle lacrime il non riuscire più a focalizzare il suo viso, o il sogno stesso che andava svanendosi, frantumandosi in mille e più frammenti.

 

Vi era stato un incredibile frastuono, poi il tremore sotto i piedi, che rapidamente era dilagato a tutto il corpo, minando la stabilità delle gambe, e poi ancora l’essere finite violentemente a terra. Qualcuno aveva urlato, qualcuno si era posto sopra di loro per proteggerle, poi più nulla, il buio dell’incoscienza.

Marta era ancora intorpidita e confusa, la mente ancora concentrata sul bel sogno, sul viso delicato di Dègel, sulla sua stretta che le infondeva coraggio. Ne era rimasta rassicurata, sarebbe stato così per sempre, lo sapeva, ma doverla lasciare per l’ennesima volta era stato ancor più straziante.

Non riusciva più a ingranare… gli occhi chiusi, serrati, nel pallido tentativo di ritornare a quel sogno. Lentamente, spietatamente, le facoltà stavano cominciando a tornare. Si accorse che qualcuno la teneva parzialmente sollevata per un braccio, cercando di instillarle coraggio.

“Forza, ragazze, riprendetevi! Non è questo il momento per...”

Sia Sonia che Marta riconobbero la voce pacata di Shion, pur velata da una certa urgenza. Le stava sorreggendo entrambe, affannato.

“U-uh, Grande Sacerdote!” biascicò la più piccola, rintontita, aprendo e chiudendo gli occhi varie volte prima di riuscire a mettere a fuoco quanto aveva intorno: sabbia, mare e poco altro.

Era lampante che Shion le avesse teletrasportate via, lontano dalla meridiana del Santuario, che racchiudeva l’archivio, lontano… dal nucleo della battaglia!

In quell’istante, come se tutte le consapevolezze fossero tornate nel medesimo istante, Marta si riscosse e, sbigottita, sfuggendo dalla morsa dell’ex Ariete, scattò in avanti, fermandosi solo una volta giunta in prossimità del mare, a poca distanza dall’infrangersi delle onde sulla battigia. Boccheggiò varie volte, cercando di affinare i sensi per scorgerlo. Tutto inutile. Non vi era più alcuna traccia di… NO!

Sonia scrollò il capo varie volte, massaggiandosi poi la nuca, quasi dovesse buttare fuori dalle orecchie qualcosa di fastidioso che le era entrato. Si concentrò a sua volta, capendo nel giro di pochi secondi cosa avesse sconvolto così tanto l’amica.

“I-i cosmi di Camus e Michela…” non finì la frase, spalancò solo di più le palpebre, terrorizzata.

“E’ successo ciò che temevo e che non avrei mai voluto: uno dei Cinque Pilastri deve averlo condotto in una specie di...”

Distruggilo…

Neanche Shion riuscì a terminare la frase, semplicemente si vide costretto a scansare un fiotto di aria congelante con un leggero salto di lato.

“MARTA!!!” la chiamò allarmata Sonia, non aspettandosi una tale furia. Non sembrava neanche più lei da quanto i suoi occhi blu, solitamente limpidi e splendenti, fossero diventati ombrosi e scuri. Irriconoscibili.

“TU! Dove lo hai mandato?! Dove hai mandato MIO fratello?!”

Inaspettatamente il Grande Sacerdote, come aspettandosi una simile reazione, si raddrizzò calmo senza lasciar trasparire alcuna emozione. La guardò dritta in faccia, diretto, privo di tentennamenti.

“Ad Efeso. Come ti avevo accennato avevo bisogno rimanesse distante da noi!”

“Tu… mandi mio fratello, nelle condizioni in cui è, in missione, permettendo a Michela di seguirlo in questa follia?!” gli sibilò, sinistra, quasi assuefatta.

“Dovevo, Marta… l’ingerenza di Dègel avrebbe potuto causare grossi danni all’anima mutilata di Camus…”

Distruggilo… ha osato toccare chi ti sei prefissata di proteggere, calpestando così la tua decisione…

Sentiva quella voce dentro di lei, o meglio, la risentiva, perché non era certo la prima volta nel corso della sua vita. Avrebbe potuto assecondare quell’impulso, tuttavia si trattenne, massaggiandosi una delle due tempie.

Distruggi… chiunque osi mettersi in mezzo!

“Q-quali danni potrebbe mai procurargli Dègel?”

Shion ridusse gli occhi a due fessure, come per studiare il suo comportamento, poi, giudicandolo abbastanza in grado di intendere e volere, proseguì francamente il discorso.

“Riunirsi all’anima dalla quale è stato strappato, prendere il suo posto, per esempio!”

“Assurdo! Non lo farebbe mai, lo conoscete Grande Sacerdote!” affermò lei, quasi sofferente, abbassando il pugno e fissando la sabbia sottostante.

Sembrava tornata in sé, Shion prese un profondo respiro, prima di avvicinarsi cautamente a lei, esitare ancora un attimo, e posarle infine una mano sulla spalla.

“Tutti gli esseri viventi vogliono un’unica cosa: continuare a vivere. E’ un principio inossidabile, Dègel non fa eccezione...”

“Dégel non farebbe mai del male a Camus! Ha subito la decisione che io stessa gli ho inferto, preferendo mio fratello a lui. E’ innocente, Shion, è… è vittima delle mie scelte e tuttavia mai nuocerebbe a lui!”

“Non scientemente, è vero, ma gli spiriti, con l’avanzare degli anni, se non trovano la pace, perdono il controllo, catturati dalle proprie ‘questioni in sospeso’. Basta una scintilla per fargli desiderare di vivere; quella scintilla per lui sei tu, per questo ho scelto di mandare Camus il più lontano possibile, per fare in modo che Dègel non fosse nemmeno tentato di prendere il suo posto!”

“Non lo farebbe mai! - ribadì la ragazza, sempre con più convinzione, come se fosse una questione di principio – Dègel è già apparso all’undicesima casa, non gli ha fatto niente, mai lo farà, perché avete così poca fiducia in lui?! Eravate compagni!” lo accusò, alzando il tono, utilizzando nuovamente il tu per disperazione, non più per collera. Si approcciò infatti a lui, rannicchiandosi contro il suo petto, bisognosa di un conforto che l’ex Cavaliere d’Oro dell’Ariete faticava a darle. Le circondò comunque le spalle, in un modico abbraccio, lasciando che si sfogasse.

“Ho fiducia in lui, sempre ne ho avuta, Marta! Dègel è stato un grandissimo Cavaliere d’Oro, ma è mio compito preservare la generazione di quest’epoca, non quella passata!”

Marta pianse senza lacrime, probabilmente le aveva prosciugate nel corso di quei mesi che avevano sradicato via la sua esistenza fino a quel momento ordinaria.

“Myrto, no!!!”

L’urlo di Sonia la fece riscuotere, mentre, sbirciando dalle spalle di Shion, vide il movimento compulsivo dell’amica che, riconoscendo la giovane donna a terra, si stava precipitando su di lei, buttandosi ai suoi piedi nel tentativo di scrollarla per ridestarla.

“Cosa le è… accaduto?” chiese, boccheggiando di nuovo.

“Si è ferita per voi, per proteggervi, e ha perso coscienza!” le spiegò risoluto il Grande Sacerdote, non smuovendosi dalla sua posizione, mentre Marta, strascicando i piedi, si allontanava da lui per avvicinarsi al corpo di Myrto.

La giovane donna era chiaramente ferita, aveva perso sangue dalla testa e, a giudicare dalla posizione insolita del braccio, probabilmente si era lussata la spalla. Marta si inginocchiò in silenzio al suo fianco, osservandola in un palpito. Non aveva la stessa confidenza di Sonia, la quale l’aveva abbracciata e si era messa a strofinarsi sul suo volto, chiamandola più volte nella speranza potesse riaprire gli occhi, ma ebbe comunque l’istinto, poi assecondato, di carezzarle il dorso della mano sana.

Shion le aveva già prestato le prime cure. Le aveva tolto la felpa con la quale aveva fatto un bendaggio di fortuna, e fermato così l’uscita di sangue dalla testa e dal naso. E ora stava lì, supina, una smorfia di dolore sul viso, il respiro appena accennato, come se l’avesse ricondotta a forza ad uno stato di profonda incoscienza, la maglietta corta e aderente -Marta aveva capito, in quei giorni di punizione, che a Myrto piaceva un sacco quel modo di vestirsi!- che mostrava il bell’addome completamente piatto e ancora abbronzato.

Strinse i denti, rimanendo in silenzio, riuscì solo a dare qualche pacca sulle spalle dell’amica, la quale, con gli occhi gonfi, annuiva, capendo il suo tentativo di riscuoterla.

“Marta… - Shion riprese il discorso di prima, avvicinandosi alle ragazze – Conosco molto bene il legame tra te e Camus, molto da vicino, lo sai, te l’ho... mostrato!”

“S-sì…”

“Ma come ti ho detto prima di metterti in punizione, devi capire che tutto questo va al di là di voi due, è qualcosa che va oltre e… ci sono delle priorità!”

“Che cosa volete che facciamo? Quali sono le direttive?” chiese Marta, recuperando due tacche di tono e il controllo, fissandolo a sua volta nella maniera più imperturbabile possibile.

“Nulla per stavolta, non è la vostra battaglia!”

“Ma Camus e Michela…!” anche Sonia, inaspettatamente era saltata su, desiderosa di intervenire. Non voleva che a qualcun altro potesse capitare la stessa sorte di Myrto. Non voleva nella maniera più assoluta!

“Se la caveranno da soli, o… - l’ex Ariete alleggerì l’espressione, sorridendo tiepidamente – Con l’aiuto di un certo biondino che non li abbandonerà per nulla al mondo!”

“Hyoga è corso da loro?!” chiese Marta, sorpresa, accorgendosi nitidamente che, effettivamente, anche il cosmo del Cigno risultava evanescente, laddove fino a poco prima ancora pulsava distante ma percettibile.

“Così sembrerebbe… non avete di che temere: è un Cavaliere Leggendario!”

Entrambe si ritrovarono ad annuire, il peso sul cuore un poco meno lapidale rispetto a prima.

“Ma voi cosa farete, Grande Sacerdote?! - si interessò Marta, ormai pienamente in sé, esercitando finalmente la calma che suo fratello cercava di insegnarle da mesi – E… e noi cosa potremmo…?!”

“Io difenderò il Santuario, è mio preciso dovere. Fermerò l’attacco insieme agli altri, non avete di che temere!”

“E… e noi?”

“A voi, Sonia, affido le cure di Myrto. Ho ridotto al minimo i danni, ma bisogna bendarla e metterla al letto, pensate di… riuscirci?”

“CERTO!”

“Perfetto, giovani e intrepide guerriere, così vi voglio! - sorrise, più rilassato – Vi ho già teletrasportato io all’isola di Milos subito dopo il terremoto, pensate di essere in grado, in due, di portarla a casa?”

“Certo!” risposero leste, ancora, dimostrando di aver capito.

“Perfetto. Vi affido Myrto!”

“Ed io, Shion...”

Marta era tornata a parlargli in tono confidente, anche se si era fermata, pensierosa, non sapendo se continuare o no.

“Sì?”

“La protezione… di tutti gli altri! - disse, decisa, guardandolo negli occhi con determinazione – Promettetemelo Nobile Shion, vi prego, non...”

Non le rimaneva altro che il confidare, cosa che gli costava fatica e timore, ma… aveva ragione: non era la loro battaglia, dovevano prendersi cura di Myrto, che non aveva esitato a sacrificare il proprio corpo per proteggerle.

“Non morirà… più… nessuno, vero?” chiese ancora conferma, fremendo un poco, gli occhi lucidi.

Il Grande Sacerdote Shion annuì, poi, chinandosi verso di lei con fare paterno, com’era già abituato a fare, le prese l’indice nel suo, mantenendo così lo stesso tono informale in un giuramento che però sarebbe stato solenne.

“Non morirà più nessuno, e questa è una promessa, Marta e Sonia!”

“Mi fido… della vostra forza, ordunque!”

 

 

* * *

 

 

Il gruppetto di Aphrodite, Francesca e Stefano era infine arrivato alle pendici della montagna su cui era costruito il Santuario di Atene, ne stava pressapoco varcando la soglia, mentre il terreno veniva costantemente scosso fin nei suoi recessi da una energia del tutto innaturale e tremenda.

La giovane dea, nella corsa, buttò un’altra occhiata preoccupata al cielo sopra di loro, intensamente rosso, dal quale, poco prima, nel vortice che si era abbattuto spietato, sconquassando ancora di più i loro animi, era emersa una figura possente che, con una sorta di alabarda in mano, non aveva esitato ad abbattersi sui sottostanti templi delle Dodici Case. Era stato impossibile per lei codificarla, ma ne avvertiva l’immane potenza, persino superiore -aveva realizzato, con un brivido- a quella di suo nonno Zeus. Ingoiò ancora una volta a vuoto. Di certo i Cavalieri d’Oro rimasti nelle proprie Case erano già intenti a ingaggiare battaglia, ne avvertiva i cosmi lucenti. Dovevano sbrigarsi anche loro, il tempo stringeva sempre di più e i loro cuori erano in tumulto, vittime di una spiacevole sensazione che non faceva che acuirsi maggiormente secondo per secondo.

“Aspettate!”

Fu Aphrodite a fermare i movimenti di Francesca e Stefano con un richiamo. I due ragazzi lo videro deviare prepotentemente traiettoria di moto, mentre, allibiti, lo seguirono con lo sguardo, notando che si dirigeva verso due colonne doriche sotto le quali poi si accucciò. Qualcosa doveva aver attirato la sua attenzione, ma… cosa? Lentamente si avvicinarono a lui, tesi, riuscendo finalmente a scorgere ciò che anche il Cavaliere dei Pesci stava fissando. Si ritrovarono a sussultare.

“Chi… chi sono o… erano?” chiese Stefano, circospetto, mantenendo una certa distanza di sicurezza, prima di avvertire qualcosa di strano entrare nelle sue narici. Strabuzzò gli occhi, un poco confuso, ma non disse nient’altro.

Francesca fu molto più prolissa nel porre i suoi dubbi.

“Erano… guardie? Eppure io… io non me le ricordo affatto! Avevamo custodi così vecchi qui al Santuario?! Non dovrebbero ritirarsi, dopo una certa età, o essere comunque adibiti a qualche altro incarico meno gravoso?” tentò, continuando a fissare i due corpi davanti a loro, dalla pelle grigiastra e gli innumerevoli solchi, tipo rughe, del tutto normali, in teoria, sebbene quei segni dell’invecchiamento sembrassero fin troppo… marcati!

Aphrodite non rispose subito, si limitò a studiarli, da distanza, serio in volto, prima di comprendere pienamente che non c’era più nulla da fare per loro e chiudergli quindi le orbite vuote, cerulee. Il mistero si infittiva.

“Ciò che tu sostieni, Francesca, è vero: effettivamente non abbiamo Guardie anziane qui al Tempio, questo perché il ruolo implica prontezza e forza fisica...”

“E… e quindi chi sono, questi? Quali incarichi ricoprivano?”

“...l’abbigliamento, tuttavia, non lascia scanso ad equivoci, – continuò imperterrito Afrodite, rimettendosi in piedi nel continuare a guardarli – erano davvero Guardie!”

“Ma… ma se non le riconosci e hai appena detto che...”

“Molto strano, davvero… oserei dire funesto”

Francesca sbuffò, infastidita. Aphrodite aveva il vezzo di non degnare della benché minima attenzione coloro che per lui, in una particolare situazione specifica, non si dimostravano adeguati alla comprensione, e lei, che invece tentava di capire e di farsi capire non veniva considerata sufficientemente adatta. Davvero irritante!

“Che… che facciamo ordunque?” chiese, cercando di non dare l’idea di essersi risentita, incrociando comunque le braccia al petto.

“Per loro nulla… è troppo tardi! Sono stati stroncati da un infarto, probabilmente si sono spaventati da qualcosa e il loro cuore non ha retto”

“CO-COSA?!”

“Ma non possiamo soffermarci ulteriormente – finalmente gli occhi di Aphrodite si mossero nel guardarla, ammiccando appena – Per il momento lasciamoli qui, dopo la battaglia gli daremo degna sepoltura”

“V-Va bene, ma...”

“In assenza di Deathy, sei sotto la mia protezione, ragazzina, stai dietro di me e affina i tuoi sensi, ce ne sarà bisogno. Il nemico è molto potente!” proseguì poi, sorridendo.

“M-ma veramente io mi...”

...Mi difendo da sola! E non sono una ragazzina, ho più esperienza di te, Pisces!

Avrebbe voluto fargli presente, ma l’intervento successivo di Stefano, che sembrava parecchio sconvolto e sbalestrato, catalizzò l’attenzione altrove.

“Voi non… non avvertire niente nell’aria?” chiese, titubante.

“Cosa intendi, ragazzo?”

“E’ come… come… una fragranza rassomigliante alla lavanda! Non la percepite?”

Sia Francesca che Aphrodite si guardarono l’un l’altra, non percependo nulla di simile, sebbene il Cavaliere dei Pesci fosse avvezzo a trattare i fiori, e quindi quel particolare organo sensoriale fosse in lui molto sviluppato.

Ma… nulla, nell’aria si respirava solo la polvere, il bruciato, non certo quello che andava dicendo Stefano.

“Puoi definirlo meglio? E’ molto importante!” volle indagare Aphrodite studiandolo, ma Stefano sembrava ancora più confuso, brancolava nei dintorni, come a cercare la fonte di quel particolare odore che sembrava percepire solo lui.

“Ora è… sparito!” ammise, mortificato, grattandosi la testa e abbassando lo sguardo. Stava facendo la figura del tonto stralunato, più di quanto fosse in realtà, non si sentiva a suo agio a manifestare le sue percezioni, eppure quella nota odorosa c’era stata di sicuro, come portata dal vento, poi sparita.

Cercando di affinare le sue memorie ancora scompigliate, si rammentò forse che non era la prima volta che aveva percepito quella fragranza nell’aria, la stessa si era manifestata improvvisamente durante l’alluvione della Valbrevenna, poco prima… poco prima che, sì, lui finisse travolto da quell’incredibile frana. Sgranò gli occhi, rivivendo quel trauma, seguito dal buio, dalla sofferenza che aveva patito. Sentì la pelle accapponarsi, istintivamente si strinse le spalle con le mani.

“Coraggio, fa lo stesso! - un amichevole scappellotto lo colpì dietro alla nuca, riportandolo alla calma, era Francesca, che pur più bassa di lui, faceva in ogni modo e maniera di tranquillizzarlo – Probabilmente non è nulla di importante, ci sono vari odori nell’aria, e tu hai sempre avuto un naso sopraffino, dico bene?” lo ravvivò, ricordandosi di come lui, fin da piccolo, avesse questa straordinaria attitudine che gli consentiva di riconoscere odori che invece agli altri sfuggivano.

“Uh, s-sì!”

“Dobbiamo andare avanti – si aggiunse Aprhodite, con un breve cenno del capo – Te la senti sempre di continuare?”

“Sì!”

Si guardarono intensamente per una serie di secondi, qualcosa passò tra loro. Francesca non riuscì a fare a meno di chiedersi come fosse stata, per Stevin, la convivenza con il custode della dodicesima casa. Sembravano quanto meno fidarsi uno dell’altro, ma Aphrodite era così criptico e indecifrabile, più di Saga, per certi aspetti, la giovane dea non poteva che condividere la stessa preoccupazione che aveva albergato in Marta a sapere che il migliore amico dell’infanzia fosse stato affidato proprio a lui.

“Permettimi ancora di rammentarti che il compito di noi Cavalieri d’Oro è quello di salvaguardare ogni forma di vita e ogni bellezza su questa Terra, non solo la protezione di Atena, ma anche… di soggetti come te!”

“L-lo so, Hyoga me lo ha riferito!” annuì lui, un poco a disagio.

“So che quello che ti hanno fatto ti rende sospettoso nei confronti del Santuario, ma, credimi, se avrai bisogno di aiuto noi ci saremo, se non te la dovessi sentire...”

“Me la sento!” tagliò corto lui, assumendo un’espressione determinata.

Aphrodite annuì, facendo un cenno di assenso e gettando un’occhiata anche a Francesca. Era lampante che volesse procedere con i piedi di piombo per non rendere il ragazzo ancora più teso di quanto già non fosse, ma una così raffinata sensibilità nei confronti di colui che, in fondo, non era altro che un estraneo, pur essendo stato posto sotto la sua protezione, meravigliò non poco la ragazza.

Bandendo ogni incertezza, si diressero quindi nuovamente verso il Santuario, senza più voltarsi indietro, lasciando momentaneamente i due cadaveri così come li avevano trovati. Se non lo avessero fatto, se fossero rimasti ancora una serie di secondi lì, avrebbero potuto assistere alla loro completa, e velocizzata, scomposizione degli atomi che li componevano. Rimasero solo due macchiette di materia organica, mentre un’ombra furtiva li osservò allontanarsi, ridacchiando sommessamente tra sé e sé.

“Il tuo ragazzo, Nero Priest, ha una percezione olfattiva invidiabile, non c’è che dire… Vediamo di complicare un po’ le cose!” disse una voce femminile, prima di rendersi nuovamente invisibile e seguire silenziosamente i tre, che, secondo le direttive di Ermete, l’avrebbero condotta dove il raggio di azione dei suoi poteri sarebbe stato più intenso.

Stefano era ancora preda dei suoi pensieri su cosa gli ricordasse quell’odore così intenso che, più di una volta, era subentrato prepotentemente nella sua vita. Provava ritmicamente a dargli una forma, senza tuttavia riuscirci, lo inseguiva mentalmente, ma esso svaniva. Cominciava a provare un forte mal di testa nel tentare di ricondurre a sé quella fragranza, quando improvvisamente udì alcune urla strozzate e uno scricchiolare sinistro. Ebbe appena il tempo di alzare lo sguardo, che vide con orrore un tetto a spiovente franare miseramente, rischiando di finire addosso ad un gruppo di ragazzi che, a giudicare dagli abiti che indossavano e dall’aspetto, dovevano essere poco più giovani di lui e apprendisti combattenti.

Fece per urlare, avvertì il mormorio di Francesca, spaventata dalla stessa scena, ma erano ancora troppo distanti, non sarebbe mai riusciti ad arrivare in tempo. Tremò, nell’immedesimarsi in quei poveri sventurati, rammentandosi del sé stesso di pochi anni prima che, in una situazione del tutto simile, si vedeva franare i detriti addosso. Presagio di morte, paura, disperazione nel sapere che nessuno sarebbe intervenuto. Si immobilizzò per istinto, raggelandosi.

Fortunatamente però, ancora prima dell’azione di Aphrodite, che aveva estratto una rosa, distinse un fascio rosso scarlatto colpire con precisione proprio i ciottoli cadenti, riducendoli immediatamente in polvere. Vide una figura ammantata d’oro balzare in avanti, prendere i tre ragazzi di peso, perché stava crollando anche l’altra al del tetto, e portarli via prima che il peggio potesse accadere.

“Non potete stare qui! - gli urlò, un poco brusco – Siamo sotto attacco, gli apprendisti si devono riunire verso i dormitori delle Sacerdotesse, avete udito gli ordini di Shaka di Virgo, no?!”

“Sommo Milo!!!” lo chiamarono gli altri tre, totalmente in lacrime, terrorizzati, quasi aggrappandosi a lui, rivestito della sua fulgente corazza.

“Qui ci penseremo noi Cavalieri d’Oro, non avete di che temere! - sottolineò sbrigativo, annuendo con la testa, come a volerli tranquillizzare – Voi andate dove vi è stato detto, svelti, state distante dai muri e dagli oggetti pericolanti. Quando sarà cessata l’allerta, Marin e Shaina vi avvertiranno!” diede istruzioni, alzandosi in piedi per dargli le spalle e distruggere completamente l’abitazione in modo che non potesse essere più un pericolo.

I ragazzi annuirono, ancora con le lacrime agli occhi e le gambe tremanti, mentre il più preparato tra loro si metteva alla testa del gruppo e li conduceva via.

Milo, il Cavaliere di Scorpio, li aveva salvati tutti e tre con un abile colpo di mano, non ci fosse stato lui, quei poveri giovani…

Stefano, ancora intento a correre dietro a Francesca e Aphrodite, lo osservò ammirato, mentre lo sentiva imprecare tra sé e sé e osservare, con ansia crescente, il vortice rosso sopra le loro teste. Aveva gli occhi puntati in una direzione precisa, come se sapesse che qualcuno si fosse recato proprio là, nel cuore del ciclone.

Li aveva salvati con una semplicità disarmante… si ripeté ancora, aprendo la bocca sbalordito. Erano davvero uomini straordinari quei poco più che ragazzi ammantati d’oro che non erano molto più vecchi di lui, degli eroi senza tempo, gli stessi che aveva pregato lo venissero a salvare durante la prigionia; gli stessi che avrebbe desiderato lo proteggessero quando tutto il mondo, in quel non tanto lontano 2009, gli era rovinato addosso. Avvertì gli occhi farsi lucidi e si sentì nuovamente, perdutamente, concretamente solo…

“MILOOO!!!” l’esclamazione di sollievo di Francesca, lo riscosse. La sua amica aveva accelerato il ritmo nel vedere davanti a sé il Cavaliere di Scorpio, il quale ebbe giusto il tempo per voltarsi nella sua direzione, che venne avvolto dalle braccia della ragazza, che si era proiettata verso di lui, quasi lanciandosi per abbracciarlo.

“F-Fra!” la riconobbe lui, sorpreso nell’assistere ad una manifestazione così inusuale da parte sua, che non era di certo solita abbandonarsi a questo genere di gesti.

La sentì tremare consistentemente, le sue braccia sopra gli spallacci, praticamente aggrappata al suo busto, mentre la fronte si era appoggiata istintivamente sul medaglione della sua armatura. Era, in effetti, la più minuta delle allieve di Camus, sebbene nascondesse un potere eccezionale, persino superiore ai loro, che erano stati addestrati per scendere in guerra.

Il contatto con lei, il vederla viva e in buona salute, lo rilassò un poco -fino a prima era un fascio di nervi per via dell’attacco meschino e improvviso- si permise di circondarla a sua volta con le braccia, sorreggendola, mentre lei si lasciava andare in un mormorio strozzato appena accennato. Un pianto? Una manifestazione di sollievo? Non sapeva…

“Stai tranquilla, andrà tutto bene, non siamo forse i più forti delle schiere di Atena?! Sistemeremo tutto!” le disse, cercando di celare anche il suo di tremore, che probabilmente era causato dalle stesse ragioni.

“Milo, il Maestro Camus...”

“L-lo so… - si morse il labbro, poggiando appena il mento tra i suoi capelli, prima di manifestare un unico, profondo, sospiro – Non si avverte più il suo cosmo… e neanche quello di Michela, per non parlare di Hyoga che...”

...Che probabilmente si è precipitato per soccorrere entrambi, racchiusi in uno spazio di singolarità che li tiene distanti da noi e non più percettibili. Prudenza, Hyoga… sei allievo di Camus, hai preso tutto, ma proprio tutto, da lui, anche e soprattutto la capacità di far tribolare me. Per lui, per il tuo maestro, e per Michela, caricheresti chiunque a spron battuto ma… stai attento, mi raccomando, questi nemici… possiedono poteri che sfiorano l’invincibilità!

Pensò, rimproverando mentalmente la sua incapacità di percepirli, figurarsi di raggiungerli, cosa che avrebbe voluto fare con tutte le sue forze.

Anche Francesca annuì, mentre sopraggiunsero sia Aphrodite che Stefano, pur rimanendo un poco distante da loro: “Sonia e Marta sono invece al sicuro, lontane da qui, a Milos!” riferì il Cavaliere dei Pesci, pratico.

“Almeno loro...” sussurrò ancora lo Scorpione, fremendo più consistentemente di prima.

E anche Myrto dovrebbe essere in loro compagnia, al sicuro, ma fino a poco fa ho avvertito una spiacevolissima sensazione, che si è unita a quella che già avevo su Camus. Maledizione, cosa sarà successo?! Per favore, ancora una volta vi raccomando la prudenza, ovunque voi siate. Finito qui al Santuario, troveremo un modo per ritrovarvi, ve lo prometto!

“I nemici… si sa qualcosa di loro? Chi ci ha attaccato?” chiese ancora Aphrodite, riportando il discorso sul nocciolo della questione, studiando l’espressione del compagno, il quale, dopo una leggera carezza sulla testa di Francesca, e un sorriso dei suoi, di quelli larghi e profondi, si ricompose, tornando a concentrarsi sul cielo rosso incandescente.

“Non si sono di certo presentati, non devono conoscere le buone maniere! - ironizzò lo Scorpione, affilando lo sguardo azzurrino – Tuttavia, dal modus operandi, almeno uno l’ho riconosciuto!”

“E sarebbe?” lo incalzò Francesca, fattasi seria e nuovamente risoluta dopo la momentanea debolezza che l’aveva colta

“Ermete… quello che ci ha attaccati nella missione a Delphi”

“Ermete il Trismegistro?!” ripeté Francesca, profondamente scossa, mentre anche Stefano impallidiva subitaneamente.

“Colui… che ha spezzato in due l’elmo di Camus con un unico affondo?” volle indagare Aphrodite, cominciando a capire.

“Sì… e ora sappiamo come fa! - annuì Milo, chiudendo momentaneamente gli occhi, per poi riaprirli in un guizzo di vita – Possiede con sé un’alabarda capace di aprire una fenditura in ogni cosa creata, sia essa la solida terra, un’armatura d’oro o… l’aere!”

“Vuoi dire che può spaccare qualsiasi cosa?!” ripeté incredula Francesca.

“Temo di sì e sospetto che la sua tecnica non si limiti a questo, ma non so dirvi altro al momento… - sospirò Milo, cercando di mantenere il sangue freddo – Il terremoto è stato causato da lui, siamo stati attaccati improvvisamente da questo… essere… che ha aperto una fenditura nel cielo, esattamente là, dove parte quel vortice rosso. Non… non abbiamo avuto quasi il tempo di organizzarci, ha semplicemente cominciato a distruggere ogni cosa che gli capitasse a tiro” spiegò, cercando di mascherare la sua frustrazione per non essere riuscito ad osare di più.

Cadde il silenzio per diversi secondi, rotto solo dalle esplosioni che tonavano in lontananza. Stefano, che conosceva Ermete molto da vicino, si rese conto che il Pilastro stava utilizzando l’Hummarumma, l’alabarda che sapeva padroneggiare come se fosse una sua stessa estremità corporea, ed era… molto più insidiosa di quanto potessero immaginare i Cavalieri d’Oro. Fece quindi per avvertirli ma, ancora prima di incominciare, si bloccò, non sapendo come comunicarglielo e, ancora di più, non sapendo come loro avrebbero reagito. Le cose, nel suo cervello sconquassato, gli sopraggiungevano diluite goccia per goccia, impedendogli di attingere alla completa verità. Perché succedeva una cosa simile?! Come avrebbe potuto avvertirli del pericolo senza far ricadere i sospetti di complicità anche su sé stesso?! Era vero, l’ispezione non aveva sortito alcun effetto, ma era semplicemente perché molto del suo vissuto era sigillato, quindi impossibile accedervi e… un secondo, da quando era consapevole di quel fatto?! Si morse istintivamente il labbro inferiore, cercando di trattenere uno spasmo.

“Ci sono stati dei morti?” la voce neutra di Aphrodite nell’esprimere quella domanda, lo sconvolse non poco.

“Sì… tra le aliquote più basse del nostro esercito, soprattutto soldati semplici, guardie e anche qualche Cavaliere di Bronzo… - spiegò Milo, stringendosi le mani a pugno nel tentativo di dar sfogo alla sua frustrazione – Noi avremmo dovuto proteggerli, Aphrodite, non è forse il nostro compito?!”

“Lo è, sì… ma se l’attacco è stato così improvviso non c’era, ahinoi, nulla che potessimo fare di più. – annuì, prima di raddrizzarsi e guardarsi intorno – Dov’è il nemico ora? Dobbiamo reagire!”

“Saga e Shaka, unendo le forze, hanno ingaggiato battaglia con lui, cercando di allontanarlo dal Santuario. Devono esserci riusciti, le scosse sono diminuite e avverto la sua ingerenza sempre più lontana. Sai bene che Virgo da le direttive in assenza del Sommo Shion, e ha affidato a noi altri il compito cercare i sopravvissuti, recuperare i feriti, e condurli in un luogo riparato. Aiolia, Aiolos e Shura si sono recati verso la Statua di Atena, avvertivano qualcosa di strano provenire da là, come una… interferenza! Mu, Aldy ed io ci siamo recati invece verso l’arena di combattimento” li delucidò in fretta, dando loro le spalle per prepararsi a raggiungere i suoi due compagni.

“Ora ci siamo anche noi, possiamo dare una mano!” esclamò Francesca, desiderosa di agire.

Milo annuì con fierezza, concedendole un altro, breve sorriso: le allieve di Camus erano tutte straordinariamente temerarie e coraggiose, impossibile non esserne orgogliosi.

Capisco pienamente il tuo orgoglio per lor, amico mio, e infatti devi esserne fiero!

“Verso l’arena, quindi, compagni!” li esortò, prima di fare da apripista seguito dagli altri. Il tempo stringeva sempre più, non era ammessi tentennamenti.

Quando la raggiunsero, la trovarono pesantemente danneggiata. I palchi sui quali si accalcavano sempre i guerrieri per assistere ai combattimenti, erano ricolmi di fenditure e solchi; le parti un po’ più integre erano comunque crepate, i ciottoli rischiavano di cadere per terra. Qua e là il terreno era disseminato di morti, per lo più soldati semplici ma anche novizi Cavalieri di Bronzo che, con ogni probabilità, avevano ottenuto da poco l’armatura. Francesca si guardò sconsolata intorno, rabbrividendo. Molti di loro li aveva visti all’inaugurazione delle nuove reclute di settembre, occhi pieni di speranza verso un futuro ancora misterioso, che tuttavia si era rivelato fatale per loro.

Carne da macello e nient’altro… deglutì a vuoto, inspirando profondamente mentre, con ogni mezzo in suo possesso, cercava di non soffermarsi troppo sulle loro iridi spalancate al vuoto.

I muscoli di Milo si percepivano tesi e guizzanti sotto l’armatura, non c’era angolo del suo essere che non facesse trasparire l’immensa inquietudine, mista alla rabbia più accesa, che provava, dalla preoccupazione per il suo migliore amico alla ricerca di una soluzione per vendicare tutto quello scempio. Si guardò nervosamente intorno, non trovando forse chi si aspettava di trovare. Poi un richiamo dall’altra parte del campo.

“Ehiiiiiii!!! - era il gentile Aldebaran che, sorreggendo una parvenza umana, affiancato dal pacato Mu, si stava dirigendo verso di loro – Questo ragazzo è ancora vivo!!!”

Francesca capì che si riferiva alla persona sanguinolenta che stava portando in braccio, con indosso soli pochi pezzi dell’armatura a coprirgli il corpo disastrato. Sembrava incredibile a vedersi, ma respirava debolmente, anche se, ad occhio e croce, doveva essere ormai agonizzante. Milo, con uno scatto, annullò le distanze tra sé e loro.

“Non per molto… - analizzò infatti amaramente, fremendo – Aldy, posalo per terra, vedrò di arrestare l’emorragia!” gli illustrò, indicando una zona più riparata dell’arena, dove lo adagiarono per prestargli le prime cure.

Mu rimase con il gruppetto composto da Francesca, Stefano (che aveva gli occhi quasi fuori dalle orbite da quanto ciò che vedeva lo destabilizzava) e Aphrodite. Li osservò brevemente uno ad uno, prima di concedergli un breve sorriso di incoraggiamento. Il suo volto solitamente elegante era sudato, sporco e affaticato; con clamore, videro che il pettorale della sua armatura era stato pesantemente danneggiato, perché una profonda apertura gli andava da spalla a spalla.

“Mu… - si morse il labbro Aphrodite, guardandogliela – Hai rimediato dei danni seri?” lo continuò a studiare, cercando di capire quale fosse l’entità della ferita, che non si riusciva a scorgere.

“Non c’è da preoccuparsi… il colpo non ha raggiunto alcun organo vitale, l’ho fermato prima con il mio Crystal Wall, ma l’armatura...”

“Chi ha potuto farti una cosa simile? - chiese Francesca, prima di realizzare nell’immediato – E’ stato forse... Ermete?!”

“Sì… - annuì l’Ariete, senza mostrare particolare emozione, strofinandosi con la mano sinistra il danno sulla corazza – La sua alabarda è… deve essere un’arma suo generis, costruita con materiali non presenti su questo pianeta. Sembra avere quasi una volontà propria, trancia qualsiasi cosa, persino...”

“...l’aere! Milo ci ha avvertito!”

“E’ proprio così, Francesca… - confermò lui, prima di farsi ulteriormente serio – Dobbiamo cercare quanto meno di scheggiarla e prenderne un frammento, solo così posso capire di cosa è fatta!”

“Ma… come facciamo? - chiese a sua volta Aphrodite, cercando di elaborare un piano – Questo Ermete combatte sospeso nell’aria, giusto? Non è inoltre possibile un corpo a corpo, perché lui userebbe la sua alabarda. Ci troviamo in svantaggio...”

“Shaka e Saga hanno già unito le forze e hanno ingaggiato battaglia con lui. A noi non resta che...”

“Aaaar… AAAAAAAAAAAHHHH!!!”

In quell’istante l’urlo di Stefano, rimasto impietrito fino a quel momento davanti ad un simile spettacolo, li fece sussultare tutti e tre. Era rimasto chiuso e muto fino a quel momento, Francesca, gettandogli un’occhiata ogni tanto, aveva percepito il suo tentativo di dare un senso a tutto quello scempio che vedeva, i morti per terra, la distruzione, ma si era costretta a ‘pensare in grande’, a cercare un piano di più largo respiro piuttosto che pensare a lui e ora, quel ragazzo dagli occhi gentili e il sorriso dolce, che aveva conosciuto grazie a Marta, non trovava altro sfogo che manifestare uno sconvolgimento interno che non riusciva più a celare.

Lo videro scattare verso la colonna più vicina, tenendosi lo stomaco, come se dovesse vomitare, piegare la schiena in avanti, tra due massi, ma trattenersi comunque con tutte le sue forze, il respiro a singhiozzo, spasmodico. Strinse disperatamente le palpebre, prima di sorreggersi ad una delle due rocce.

“Andate da lui per il momento... – consigliò quindi Mu, comprensivo, rivolgendosi a Francesca e Aphrodite – Non è che un ragazzo che viene già da un’esperienza traumatica, non si è nemmeno abituato al regime del Santuario e ora questo. Si spezzerà, se non avrà un aiuto concreto, e Marta è lontana…”

“Ma Mu, noi siamo qui per...”

“Aiutarci, lo so, Francesca! - le sorrise con garbo, scompigliandole un poco i capelli – Ma lui ha più bisogno di noi al momento, ce la caveremo!”

“Va bene, Mu! - annuì il Cavaliere dei Pesci, gettando un’occhiata ad Aldebaran e Milo, intenti a soccorrere il povero, sventurato, Cavaliere di Bronzo – Ti affido loro!”

“Contaci!” sorrise Mu, prima di dirigersi verso gli altri suoi amici.

Per un solo istante, a Francesca, parve di vedere Albafica e Shion, anche se quest’ultimo non possedeva l’anima di Mu e il Cavaliere dei Pesci fosse agli antipodi rispetto alla sua controparte settecentesca. Inavvertitamente sorrise, meravigliandosi ancora una volta delle potenzialità umane, riscoprendosi orgogliosa di essere rinata come tale.

Raggiunsero Stefano, il quale, trattenendo a stento il vomito con ampie boccate d’aria che costringeva a incanalare in gola, si continuava a tenere lo stomaco in tumulto.

“S-Ste… - tentò la giovane dea, accennando un movimento con la mano – E’… è normale che tu reagisca così, non sei…”

“E’… è quindi questo che fate… ciò che combattete… ogni giorno, fino alla fine dei vostri giorni!” disse lui, a fatica, cercando di darsi un tono.

Francesca aprì la bocca per rispondergli, ma Aphrodite la precedette: “E’ così!”

“E come… come fate?”

I suoi occhi azzurri baluginarono verso di loro. Ne stava penetrando la consapevolezza, la giovane dea se ne rese conto, perché quelle iridi che -alla lontana- ricordava di aver già visto in qualcuno recentemente, anche se non riusciva bene a catalogare dove, stavano mano a mano assumendo una luce del tutto nuova, ancora più determinata, anche se comunque spersa.

“Siamo Cavalieri… dobbiamo farlo!” rispose ancora Aphrodite, pronto.

“E chi ve lo impone?”

Francesca si sarebbe aspettata una risposta pronta: ‘Atena’, sarebbe stata del resto quella più plausibile, tuttavia Pisces sembrò esitare un attimo, come a soppesare bene le parole da pronunciare.

“La nostra… essenza più intima!”

Stefano parve capire quella frase ambigua, si riscosse, come se quella semplice dichiarazione avesse, di colpo, messo nel posto giusto tutti i tasselli concentrici che non trovavano la strada.

Che cosa intendeva realmente Aphrodite, comunque?! Francesca si ricordò che, durante la Battaglia delle Dodici Case, non si era comportato propriamente in maniera retta, come invece era stato il fu Albafica, ma qualcosa, dal loro ritorno nel presente, pareva essere cambiata. Possibile che… che i Cavalieri d’Oro avessero, in qualche modo, rammentato uno sprazzo di ciò che erano stati in un’altra epoca?! Non potevano esserci altre spiegazioni, eppure…

“Una voce interna?” chiese ancora Stefano, rigettando a forza l’ultimo desiderio di dare di stomaco.

“Possiamo chiamarla così, ragazzo...” anche Aphrodite si permise di sorridere a sua volta, in maniera gentile e concreta, come raramente lasciava trapelare.

“E’ questo quindi… ciò che chiamate cosmo?”

“Anche… ma è molto più complesso, ragazzo, è come...”

“...una risonanza che dilaga al nostro interno e che, se colta, raffinata, e potenziata può compiere miracoli… - annuì, comprensivo, posandosi una mano sul petto – La percepisco anche io è… è per lei che sono scappato dalla… dalla prigionia!”

A quel punto anche Francesca saltò su, desiderosa di capire cosa frullasse in testa al suo vecchio amico: “Cosa intendi, Stefano? Hai rammentato qualcosa?”

“Io...”

Sembrava esitare, a disagio, osservando l’angolo destro del masso che appariva… come offuscato da una patina viola… possibile?!

“Ste!!!”

Il ragazzo si ritrovò a prendere un sonoro risalto all’esclamazione un poco veemente e spazientita della sua amica. La guardò, tentennando, quasi indietreggiando, nella paura di non farsi capire e di apparire ancora più strano.

“I miei genitori… è per questo che io sono scappato! - si lasciò sfuggire, non sapendo però spiegarsi, ne aveva quasi paura – I-io sento le loro voci, dentro di me, l-le sento da… da poco, in verità, non so neanche io come. Però… so che sono vivi, da qualche parte, prima non lo sapevo, p-prima credevo altro!”

“Che diavolo stai blaterando, adesso?!T- ti rendi conto che… CHE!!!” Francesca lo aveva preso per le spalle, quasi scrollandolo, malgrado la differenza di altezza. Neanche lei sapeva spiegarsi, non sapeva più cosa dire.

Tu non ti rendi conto dell’impiccio in cui sei invischiato! Dici frasi strampalate da quando ti abbiamo recuperato in Valbrevenna, non sappiamo quasi più chi sei, il ricordo corrente che abbiamo di te è quello di due anni fa; di un te che non esiste più! Pensavamo di conoscerti, di sapere chi fossi e… per gli Inferi, tuo nonno, da quanto rivelatoci da Nero Priest non è neanche un tuo consanguineo, chi… da dove sei caduto? Cosa… cosa dirò ora a Marta, quando ritornerà?!

“Io non ho un cosmo mio! - la sicurezza con cui Stefano professò quelle poche parole folgorò sia la dea che il Cavaliere – Ciò che sento dentro di me, che è accumulabile alla vostra idea di cosmo, è la loro, grandiosa, essenza, quella dei miei genitori, come se me l’avessero… infusa… per non spezzare mai del tutto il legame con me!”

Francesca non sapeva neanche più come controbattere, aveva voglia di mettersi le mani tra i capelli e imprecare in dorico antico, ma la risposta del Cavaliere dei Pesci la spiazzò ulteriormente.

“Tu hai un cosmo, ragazzo! Lo abbiamo percepito tutti qui, senza possibilità di equivoco! - ribadì, in tono soffice – Sostieni quindi che, tale forza, ti è stata intrisa grazie all’amore dei tuoi genitori, che tuttavia non hai mai conosciuto?”

“Ecco, io… - Stefano esitò un attimo, pensieroso, prima di rialzare lo sguardo e imprimerlo in quello dei Cavalieri dei Pesci – Io sì, sento che è così! E’ per questo che… che dopo due anni di prigionia sono scappato, volevo… volevo cercarli!”

“E donde… donde pensavi di andare, con quale stratagemma li avresti individuati, secondo il tuo grandioso piano?!”

“Con… l’olfatto, Fra!”

Francesca inarcò platealmente un sopracciglio: era tremendamente serio mentre lo professava, INCONCEPIBILE!

“Con… il naso?!” ripeté perennemente scettica.

“Sì… - di nuovo Stefano sorrise tra sé e sé, sicuro di quanto andava dicendo – Riconosco le fragranze più profonde... attenzione, non il profumo esteriore, quello...”

“...Più essenziale, intessuto nell’anima, traboccante e avvolgente, quello che è proprio e diverso in ognuno di noi!”

“Sì, è proprio così!” si ravvivò Stefano, illuminandosi.

Francesca guardava prima Aphrodite e poi il suo vecchio amico, scrollando poi la testa e sospirando: quei due sembravano capirsi al volo in un linguaggio che comprendevano solo loro, era davvero incredibile!”

“E perché… la Valbrevenna, perché ti abbiamo trovato lì, che facevi?!” lo interrogò ancora Francesca, cercando di dare un senso a quel dialogo surreale.

“Perché credevo… di essermi finalmente allacciato alla fragranza di mia… madre!” Stefano si rabbuiò nel rivelare una simile cosa, vergognandosi un poco.

“Ma non l’hai trovata, a quanto diceva quella Nero Priest...” rifletté Aphrodite, pensieroso.

“No… - scrollò il capo il ragazzo, sospirando appena – l’ho seguita e perseguita, di corsa, trafelato, quando l’ho raggiunta, quando credevo di essere finalmente arrivato all’altro capo del profumo, vi ho trovato solo Marta, e lì, quando l’ho vista, non credevo neanche fossero passati anni, la detestavo, perché pensavo mi avesse abbandonato, ho quindi provato l’istinto di attaccarla”

“Aspetta...” Francesca sobbalzò.

“Lo so, Fra, non avrei dovuto… non le ho dato il tempo di spiegare, ma io… - si toccò il petto con una mano – Sento questo immenso odio, non so se me lo abbia immesso Nero Priest, o chi per lei, so solo che ho avuto l’impulso vitale di...”

“No, aspetta un secondo, non è quello che volevo approfondire… la fragranza di Marta?! Aveva lo stesso odore che credevi appartenere a tua madre?!?”

Ma Stefano non la stava più seguendo, aveva sobbalzato a sua volta, come fulminato da qualcosa, cominciando a guardarsi spaesato intorno, quasi boccheggiando.

“Di nuovo! - disse a denti stretti, irrigidendosi conseguentemente – Non sentite anche voi odore di lavanda?! E’ molto più forte, adesso!”

Francesca, che non aveva intenzione di mollare l’osso, perché doveva assolutamente arrivare alla verità, sbuffò tra sé e sé, prima di attirare la sua attenzione: “Tu e i tuoi odori, mi sa che stai facendo un po’ troppa confusione, non c’è alcuna fragranza di...”

“NO, aspetta, la percepisco anche io, ora!” esclamò il Cavaliere dei Pesci, in allerta.

Di nuovo, la giovane dea cercò di chiedere delucidazioni, ma non ebbe il tempo di palesare i suoi dubbi che anche lei venne investita da un effluvio forte, dolciastro, da svenire per terra e avere le convulsioni. Effettivamente, quello, aveva un retrogusto di lavanda…

Nessuno di loro ebbe il tempo di reagire, le vertigini li investirono prima, rischiando quasi di farli cadere per terra. A tutti si girò lo stomaco, mentre colpi di tosse sempre più forti sferzavano i dintorni. La loro visuale si oscurò per qualche breve secondo, ebbero la sensazione di precipitare nel vuoto, poi...

“Non inalate il gas!!! CRYSTAL WALL!!!” urlò una voce alta e imponente, che tuttavia alle loro orecchie giunse appena.

Fu buio, poi luce, poi di nuovo buio e ancora luce. Rinvennero simultaneamente.

Finalmente gli occhi ripresero a vedere, anche se la vista era offesa da una sottospecie di foschia viola che mandava quasi in tilt il cervello. Il Cavaliere, il ragazzo, e la giovane dea, si resero conto di essere caduti per terra, vittime di qualcosa di ineffabile, cercarono di riprendersi, di aguzzare la vista, che finalmente riuscì a stagliarsi su una figura ansante a poca distanza da loro, una mano protratta in avanti.

“Grande Sacerdote!!!” esclamarono Francesca e Aphrodite, sollevati nel vederselo lì, sul campo di battaglia, a loro fianco.

Shion tuttavia scrollò dolorosamente il capo, mordendosi il labbro inferiore, socchiudendo le palpebre con sconforto: “Non ho… fatto in tempo, maledizione!”

I tre non capirono subito a cosa alludesse, si guardarono brevemente, protetti ognuno da un Muro di Cristallo diverso. Sembravano stare bene, loro, eppure, la frase del Sommo non era stata proferita senza una valida motivazione dietro.

In quell’istante, mentre la nebbiolina si dissipava, alcuni vagiti si levarono nell’aria, seguiti da pianti irrefrenabili; pianti… di bambini!

Confusi, tentarono di dare un senso a ciò che giungeva alle loro orecchie. Da tempo non c’erano lattanti al Santuario, per quanto alcuni cadetti fossero giovani, l’età si aggirava comunque tra i 7 e gli 8 anni, e allora cosa diavolo…

“Fffanculo!”

Un’imprecazione si levò nell’aria, nello stesso momento una figura piegata dalla vecchiaia si distinse in mezzo ad un mondo fatto di lilla e viola. Capelli crespi, color grigio, sfibrati, che ricadevano a stento sulle spalle, una leggera calvizia sopra la testa… anche con quei connotati così stravolti, era impossibile non capire chi avesse imprecato in quella maniera.

“M-Milo?!?” l’esclamazione di Francesca le fuoriuscì con un suono gutturale, che sembrava provenire dai recessi della sua gola. No… non era possibile, eppure…

A quel richiamo, il vecchio si voltò, faticava a stare in piedi da solo, le rughe segnavano profondamente il volto un tempo gioviale e attraente, la pelle raggrinzita aveva delle macchie marroncine, probabilmente causate dagli effetti collaterali del sole. Solo gli occhi, pur molto più stanchi e distanti, conservavano una minima traccia di colui che era stato il glorioso portatore dell’armatura dello Scorpione, che ora stava ai suoi piedi, buttata lì, insieme ad altre due corazze che Francesca riconobbe subito come quelle di Aries e Tauros, ormai incapaci di vestire i rispettivi proprietari.

La nebbia si dissipò del tutto…

“O-oh mio… NO!”

“Q-questo non dovrebbe essere nemmeno possibile!” si lasciò sfuggire Aphrodite, vedendo lo sguardo della giovane dea, del tutto sconvolto, puntato verso il terreno.

Poco dietro i piedi di Milo, infatti, si potevano scorgere due lattanti intenti a frignare, e un altro vecchio, ferito a morte, sdraiato per terra, che sembrava non respirare nemmeno più. Nonostante i segni del tempo, erano perfettamente riconoscibili: Aldy, Mu e… il Cavaliere di Bronzo che avevano tentato invano di soccorrere, ormai morto.

Milo, dall’alto dei suoi probabili 88 e passa anni, quasi ringhiò iroso, anche se di denti quasi non ne aveva più. Lanciò una cuspide di avviso verso una colonna, la mancò clamorosamente ma l’intenzione era chiara: aveva forse capito chi era il fautore di quel colpo basso, sferrato senza minimamente aspettarselo.

“Viefi fuofi, GIUMENTA! - gridò la sua rabbia, sebbene l’unica parola chiara fosse l’ultima – Ofa te la vefrai con me! Paghevai pef quello che hai faffo!”

A chi si stava rivolgendo, tuttavia?! Chi mai..? Francesca ebbe un altro sussulto, ricordandosi delle parole di Nero Priest sul fatto che il vero nemico era colui che covava nell’ombra e che non era percettibile. Ingoiò a vuoto, maledicendo il suo averlo capito troppo tardi.

“VIEFI FUOFI!!!” urlò ancora il vecchio Scorpione, sempre più imbestialito.

“Milo, rimani nella cupola di cristallo, l’effetto delle tossine è ancora attivo!” lo avvisò Shion, preoccupato, prima di dirigere il suo sguardo in una direzione precisa.

“Ma!” tentò di opporsi il Cavaliere, prima di essere sovrastato dalla voce ben più possente del Grande Sacerdote.

“Vieni fuori, Clio, Colei che intesse la Storia! Ormai non hai più interesse a nasconderti, dico male?! MOSTRATI!”

“Clio...” la giovane dea rabbrividì a quel nome, riconoscendolo. Tuttavia era la stessa Clio, una delle sorelle di sua madre, e quindi sua zia?! Una delle Muse figlie di Zeus e Mnemosine?! No era impossibile! Di lei se ne erano perse le tracce da molti, moltissimi, anni, addirittura antecedentemente alla sua prima incarnazione!

“Uhmpf, Grande Sacerdote… sapevi quindi della mia presenza, sebbene io possa risultare invisibile a piacimento e apparire solo come odore? Encomiabile!” rispose una voce laringea, bassa, appena udibile dai presenti.

Poco dopo una figura evanescente uscì da dietro una colonna, in maniera non dissimile -realizzò il vecchio Milo- a come era apparsa Nero Priest, che tuttavia possedeva un suono molto più acuto. Anche di aspetto risultavano inspiegabilmente simili, il vestito fluttuante che indossava era della stessa tipologia, non fosse stato altro che verteva su colori bianchi e pallidi, la sua stessa carnagione lo era. Sorreggeva in mano un vecchio tomo antico, come era usuale rappresentarla graficamente nel mondo greco. La loro somiglianza così accanita, pur con caratteri così diametralmente opposti, frastornò Francesca.

Anche l’espressione di Shion si fece più affilata: “Di tutti i nomi che ci ha fatto Stevin, il tuo era il più facilmente riconducibile. Sei -eri- una delle Muse figlie di Zeus, la prima, se non vado errato, colei che proclama la Storia, colei che rende celebri… per cosa sei stata spinta a spregiare te stessa, unendoti ai folli piani di...”

“Poche ciance, ex Cavaliere d’Oro dell’Ariete, non sono una chiacchierona come Nero Priest! - lo fermò lei, sempre in tono appena udibile, giocherellando con uno dei suoi ciuffi chiari tendenti al bianco – Di quell’effige… mi è rimasto solo il nome, non sono più una stupida Musa ma… molto di più!”

“Sciocca… - sussurrò tra i denti Shion, teso – Tu meglio di chiunque altro dovresti sapere che la propria storia, il proprio passato, non si cancellano come da niente. TU FAI PARTE DEL NOSTRO MONDO, NON DEL LORO! Come può esserti venuto in mente di schierarti al fianco del Mago, che esige la distruzione di questa dimensione e quindi anche di te, dei tuoi affetti, del tuo...”

“Kkkk… basta così, Shion! Non sono qui per dare spiegazioni a te, a voi, ma per una missione che perseguirò fino al suo adempimento!”

Parlavano come se si conoscessero, in qualche modo, come se al Grande Sacerdote importasse di lei, ma come e quando era successo?!

“S-Sommo Shion! - prese la parola Francesca, frastornata da quell’ultimo scambio di dialoghi, guardando prima uno e poi l’altra – F-forse non è lei, chi dite, f-forse ne ha solo il nome, non è...”

“No, invece, è proprio lei, Francesca… è tua zia, non può non esserlo!”

“Ma non è poss… No, non ci posso credere! Mia madre la dava per scomparsa, per morta, da moltissimo tempo, addirittura da prima che mi incarnassi come umana!” tentò di opporsi lei, sempre più confusa dalle sue rivelazioni. Le sorelle di sua madre, infatti, si erano tutte smarrite nel corso del tempo, non si sapeva bene né come né perché, l’unica che ancora resisteva era Urania, per l’appunto, la più cara a Zeus.

Shion socchiuse gli occhi, prendendo un profondo respiro, prima di riaprirli: “E’ come dici infatti: la Clio originale è morta, colei che ha davanti non è che il suo spettro, un simulacro, che qualcuno ha portato in vita stringendo un patto irreversibile!”

“Ma allora...”

“Basta così con le chiacchiere! - li fermò lei, brusca, diffondendo ancora di più nell’aria quel nauseabondo profumo dolciastro che portava le vertigini al solo respirare, sebbene tutti i presenti fossero correttamente riparati dal Muro di Cristallo di Shion – Lo scudo che hai posto a difesa dei tuoi adepti non durerà ancora a lungo, la mia fragranza lo frantumerà e, a quel punto, anche coloro che non ne hanno subito gli effetti periranno, involvendo o evolvendo fino a scomparire del tutto!” li minacciò, alzando il tono, che si udiva comunque rauco e un poco sommesso, come se facesse fatica ad usare le proprie corde vocali.

Francesca, Aphrodite e Shion furono costretti a rannicchiarsi per terra, sfiniti, sebbene la protezione intorno a loro resisteva. Si costrinsero a trattenere il respiro, ma quell’odore penetrava comunque e ovunque, mettendo a dura prova le loro difese interne.

“Giumenta, tu defi solo tacefe… Milo di Scoffio non si affende, paghefai pef il supplicio che hai infefto al Temfio di Afena: Scaflet Nee...” tentò di opporsi lo Scorpione, provando ad utilizzare ancora una volta la sua Cuspide Scarlatta, ma cadde rovinosamente a terra annaspando, tenendosi il petto con una mano: muoversi gli procurava fitte intercostali che non gli permettevano di agire.

“Milo, per Atena, rimani lì dentro e non muoverti! Se invecchi ulteriormente non ci sarà scampo per te, i poteri di costei in questa versione sono troppo potenti per noi; per ognuno di noi!” lo avvisò Shion, cercando di mantenere la calma, sebbene la situazione si stesse facendo sempre più disperata minuto per minuto; secondo per secondo.

Non avevano difese contro la Clio con quei poteri, non potevano opporsi, se non rimanendo in posizione difensiva, ma anche quella era una strada non percorribile per lungo tempo: mantenere così tanti Crystall Wall attivi lo sfiancava e l’odore, lentamente ma inesorabilmente, penetrava comunque dentro di loro, presto anche i loro corpi avrebbero ceduto, finendo per paralizzarsi e regredire o progredire a seconda della propria composizione sanguigna.

“Merda...” digrignò i denti, rendendosi conto che non aveva avvisato gli altri di quel fatto di basilare importanza che aveva scoperto lui stesso nelle sue ricerche, dopo che Stevin aveva fatto il suo nome.

Cosa fare quindi? Presto sarebbero stati quasi del tutto paralizzati e…

“E’ la fine per voi, umani… cedete ora e consegnate a me il vostro prezioso impulso vit...”

-Clio!

Si fermò immediatamente: la voce di Ermete l’aveva raggiunta, gloriosa e possente come sempre, così assolutamente vitale, vigorosa, virile. Le ci volle non poco per controllare le proprie emozioni.

-Può bastare così per oggi, ne hai assorbita abbastanza, il Sommo Fei Oz non vuole che li uccidiamo tutti adesso. Hai prelevato sufficiente Ergon per i nostri prossimi scopi. Ritirati!

- Sì, mio signore!

- Non c’è da scherzare su questo, né da calcare la mano: un surplus energetico immesso senza calcolarlo adeguatamente crea l’effetto opposto, ed Ipsias è in bilico, come sai, un intervento non opportunamente bilanciato rischierebbe di farne esplodere il nucleo…

- Sì, avete ragione, vi chiedo umilmente scusa, stavo calcando troppo la mano…

- Va bene così. Ora dirigiti verso la statua di Atena, dal passaggio interdimensionale che abbiamo già utilizzato per giungere qui. Io finisco di sistemare Gemini e Virgo. Ti raggiungerò presto!

E chiuse la comunicazione, lasciando lei quasi ansante, la bocca semi-aperta, che comunque riuscì a mascherare in fretta. Sogghignò, prima di rivolgersi ai presenti davanti a lei.

“Quale peccato… ho direttive maggiori che mi impongono di chiuderla qui, siete fortunati, umani!” disse, alzando una mano con l’intento di annullare la fragranza che si era diffusa nell’aria, ma prima che lo potesse fare, una voce si elevò fra tutte.

“No, aspetta! - esclamò Stefano, frastornato, prima di reagire, toccando con la mano il Muro di Cristallo che lo circondava e riducendolo incredibilmente in pezzi con una semplicità estrema – Cosa significano queste parole di Ermete? Cosa siete venuti a fare qui?! Avete parlate di Ergon, di impulso vitale, che significa?!” la interrogò, correndo in avanti per poi posizionarsi davanti a lei, fronteggiandola senza paura, come se fosse la cosa più normale del mondo.

Tutti i presenti si raggelarono, un silenzio colossale piombò, rendendo sinistro il vento intorno a loro che, incalzante, sembrava ululare a sua volta il suo scalpore. Tutti gli occhi erano concentrati su di lui.

Stefano aveva infranto il Crystall Wall di Shion; non solo, aveva respirato quell’odore di lavanda, ancora presente, non subendone le conseguenze e, in ultimo, sembrava aver udito qualcosa di inaccessibile agli altri.

Francesca lo fissò sbigottita, sempre più sconvolta: no, c’era qualcosa che non andava in tutto quello, e il non saper quantificare che cosa la sconvolgeva ancora di più. Stefano ormai non era davvero nulla di ciò che era stato, oppure… forse era stato sempre così, ma non se ne erano mai resi conto, persino lei, una divinità?! Come era possibile?!?

“Siete entrati in possesso, con la forza, di energie che non vi appartengono e che non vi potranno mai appartenere?! Quali… quali sono le vostre intenzioni?!” chiese ancora il ragazzo, fremendo visibilmente.

“Uhmpf, hai udito le parole del Sommo Ermete nella mia testa?! Non dovrei meravigliarmi, in effetti… - rispose Clio, riducendo lo sguardo a due fessure – Come non mi dovrei meravigliare del tuo non essere scalfito dai miei poteri, del resto siamo simili!”

“Che cosa… che cosa è questa Ipsias per la quale state prelevando Ergon?!” gli pose un’altra domandava, entrando di fatto in uno stato di frenesia che non gli era proprio.

“Nulla… che valga la pena spiegarti! Il mio compito qui è finito, vi saluto!” disse lei in fretta,, sparendo quasi come era apparsa, ovvero volatilizzandosi nel nulla.

“No, aspetta!” tentò di opporsi Stefano, prima di essere costretto a fermarsi perché gli era stata lanciata una rosa in mezzo ai piedi per bloccarlo.

“No, ragazzo, sei tu che ti devi fermare!”

“Aphrodite!!!” lo chiamò Francesca, nella paura che lo volesse uccidere, dato lo sguardo ferino che aveva impresso su di lui.

“Fammi… andare, devo sapere!” tentò Stefano, teso.

“Così andrai incontro alla morte, da solo, resta al nostro fianco!” ribatté Pisces, prima di osservare Shion, che nel frattempo aveva reso inattive tutte le sue barriere. Si scambiarono occhiate indicative tra loro, poi, senza proferire alcunché, rimasero a lungo ad osservare Stevin, criptici, come se lo volessero sondare ancora una volta.

Il ragazzo abbassò lo sguardo, trovando interessanti i suoi piedi, il fremito continuava a sconquassarne il corpo, così come la voglia di sapere, che si faceva sempre più impellente.

“Clio se ne è andata… - prese parola Aphrodite, pensieroso, gettando uno sguardo a Milo ancora invecchiato, Mu e Aldy, ancora infanti – Ma i suoi effetti permangono...”

“Non se ne andranno. Da quanto ho capito, ha prelevato la loro vigoria, che vuole sfruttare per devolvere a Ipsias, il mondo gemello della Terra - rimuginò il Grande Sacerdote, sospirano – Se non ce la riprendiamo, i nostri amici...” lasciò la frase in sospeso, ma il suo sguardo era grave.

“Io combaffo anche così! - ululò Milo, desideroso di agire, prima di alzare il pugno in alto e piegarsi in due per il dolore – Uuuuuuuh, la sciatica, che male!!!”

“Lo so, Milo… come lo farebbero Mu e Aldebaran, se fossero in grado di intendere e volere, ma, ahimé, non ne siete in grado...” biascicò Shion, gettando al contempo un’occhiata di sconforto al Cavaliere di Bronzo che da poco aveva acquisito l’armatura della Volpetta.

Non era riuscito a proteggerlo, non era riuscito ad avvertirli per tempo, ne a raggiungerli prima che si compisse lo sfacelo e ora, quel corpo mostruosamente invecchiato pieno di piaghe, giaceva lì morto, senza più un anelito di respiro, per causa sua, della sua inettitudine come Grande Sacerdote. Strinse i pugni in un gesto di stizza, prima di ricordarsi di essere ai vertici del comando: le debolezze non erano consentite.

“Cosa facciamo, Shion?”chiese cautamente Aphrodite, aspettando le sue direttive, cercando di sostenerlo con lo sguardo, come si faceva tra commilitoni.

La verità era che l’ex Cavaliere d’Oro dell’Ariete avrebbe tanto voluto permettersi di dire ‘non lo so’, ma non poteva. Erano di certo stati attaccati su più fronti da nemici sovrumani, ben più terribili di qualunque altra tipologia mai affrontata prima; sapeva bene che il loro obiettivo era il Principio Primo serbato nel grembo di Camus, il quale infatti, probabilmente, era stato condotto lontano, in un luogo inaccessibile a loro. A quello si aggiungeva il furioso colpo inferto al Santuario, ai morti che vi erano stati soprattutto all’interno delle aliquote più basse, quelle incapaci di provare a contrastare un potere così tanto terribile che, partendo dalla composizione individuale del sangue, era capace di manomettere l’orologio biologico.

Come se non bastasse, il mistero Stefano si infittiva, Shion ancora non sapeva come considerarlo, se nemico o amico, di certo però era dotato a sua volta di poteri indiretti incontrollabili che, se solo fossero stati manovrati e rivoltati contro di loro, avrebbero potuto mettere a soqquadro l’intera Dimensione.

Un Grande Sacerdote non poteva permettersi debolezze, ma in quell’istante, in un momento di crisi, Shion si ritrovò a mettersi le mani tra i capelli e strizzare le palpebre, il peso del comando tutto su di lui, il sentirsi inadeguato, come invece lo sarebbero sicuramente stati Sage e il Maestro Hakurei

“Io… - ancora la voce di Stefano si elevò, un poco titubante – Non so come sia possibile, ma ho udito le direttive di Ermete che indicavano a Clio di dirigersi verso la statua di Atena perché è da lì la fenditura per...”

“LA FENDITURA! DOVEVO IMMAGINARLO! - si illuminò improvvisamente Shion, come redivivo, ritrovando la forza di opporsi – Per infrangere le barriere fisiche servono luoghi sacri prestabiliti, presenti sia nella dimensione di partenza che in quella di arrivo, è ordunque da lì che sono passati!”

“Vuoi che vada al suo inseguimento? - chiese delucidazioni Aphrodite, pronto, – Solo che mi serve il ragazzo, lui ha già dimostrato di poter individuare dove si trovi questa Clio, ne percepisce la fragranza!”

“In verità è anche altro quello che vorrei tu facessi...” lo guardò Shion, una strana luce negli occhi.

“Sono ai vostri ordini!” si inginocchiò Pisces, recuperando la consueta formalità che doveva mostrare quando gli veniva affidata una missione.

“Aphro, pensi si riuscire a… sfruttare i poteri di quando eri Albafica?”

Francesca, a quella frase, si rizzò, ancora più interessata. Dunque era vero, i Gold avevano recuperato una parvenza di ricordi delle loro precedenti vite, ma quando era successo?! Era stato dopo il loro ritorno dal passato, o durante?

Gli occhi azzurri di Aphrodite si assottigliarono, fissando una increspatura del terreno. Pareva infastidito, tuttavia quando rialzò il capo non vi era più nulla di quel sentore: “Io ci posso provare, ma non ho mai utilizzato il Crimson Thorn… non ho mai avuto un maestro che mi insegnasse a farlo, sebbene anche il mio sangue risulti velenoso...”

Anche il sangue di Aphrodite era dunque velenoso, eppure il Cavaliere dei Pesci del presente non si era mai dimostrato così refrattario al contatto fisico come invece la sua controparte del XVIII secolo.

“Riesco in parte a controllarlo in modo che non danneggi chi mi sta intorno, a meno che io non lo voglia… ma usarlo per offendere… è un altro paio di maniche!” spiegò naturalmente lui stesso, sempre con quella strana sfumatura sul volto mista di irritazione e qualcos’altro, forse… inadeguatezza, a sua volta?!

“Ricorderai senz’altro Niobe… Clio può usare quei poteri in maniera non dissimile, questo ho appurato dalle mie ricerche. In base alla composizione sanguigna del soggetto colpito questo involve o evolve fino ad arrivare ad uno stato di contingenza… ma tu potresti essere diverso, Aphro, questo potere su di te, se utilizzassi la tua particolarità, potrebbe essere meno… incisivo… e a tua volta potresti danneggiarla gravemente. Tuttavia… siamo nel ventaglio di una mia ipotesi, potrebbe essere sbagliata, ed io… non potrò aiutarti questa volta!” gli disse, diretto, chiedendogli retoricamente se si sentisse pronto per un simile rischio.

“Volete quindi che io la insegua con il ragazzo al seguito e che, in qualche modo, interferisca con il suo potere in modo da liberare l’energia vitale che ha già raccolto?”

“Precisamente...”

Rimasero a lungo a guardarsi, occhi viola con celesti, un po’ come quella volta durante la battaglia contro il Giudice degli Inferi per salvare il villaggio di Agasha.

“Posso anche farlo… - asserì Aphrodite, chiudendo gli occhi e rialzandosi in piedi – Tuttavia, Grande Sacerdote, non ho alcuna garanzia che il mio potere riesca a rompere il sigillo che racchiude l’energia vitale sottratta. In tal senso, potrei anche fermare Clio, forse, ma nostri amici rimarrebbero tali”

“Ne sono consapevole, ma...”

“Se ciò di cui avete bisogno è qualcuno che attraverso la manipolazione del sangue possa rompere un sigillo, quello penso di riuscire a farlo io!” intervenne Francesca, seria in volto, attirando l’attenzione di tutti.

“Fra, vuoi forse dirmi che...”

“Se quella è veramente Clio, c’è comunque una percentuale di consanguineità tra me e lei, inoltre mia madre qualche insegnamento sulla manipolazione del sangue me lo ha dato in questi secoli, posso… provarci!”

Shion la guardò con attenzione, valutando anche quella carta. Era un rischio, certo, ma non avevano molte alternative in quella situazione.

“Ne sei davvero sicura? Ciò però ti mette a rischio, non hai difese contro il suo attacco, potrebbe...”

“Sono una divinità, Sommo Shion, solo questo mi da un bel vantaggio, non trovate?!” la buttò sul ridere Francesca, tesa a fior di pelle, tentando di ridare speranza a tutti.

“La tua essenza lo è, non il tuo corpo sotto questa tale forma, sbaglio?”

“E’ corretto...”

“Ciò non da garanzie che il suo effetto sia nullo su di te...”

“Però ho buone difese contro di lei, superiori alle vostre. Fatemi fare un tentativo, vi prego: il sigillo va spezzato e, al momento, insieme ad Aphrodite sono la carta più vincente!” rispose, pronta, guardando prima Milo, che la fissava attentamente anche se probabilmente mezzo orbo e i due infanti ai suoi piedi che continuavano a frignare.

“Faffa… - Francesca capì che lo Scorpione la stava chiamando per nome, anche se privo così di denti, ciò che gli usciva erano solo suoni a lettere dolci – Se Camus sapesse a cosa stai...”

“Ma Camus non è qui, giusto? E’ da un’altra parte, assaltato da un nemico che al momento noi non possiamo raggiungere, dico bene?!” la giovane dea, scambiò un’occhiata con Shion, il quale, sospirando annuì.

“Per lui non posso fare niente, ma stare qui nell’inedia, magari a soccorrere i pochi rimasti vivi dopo l’attacco di quella che dovrebbe essere una mia parente, non è il mio stile, mi distrugge, ed io voglio poter fare qualcosa!”

Cadde il silenzio, rotto solo dai pianti isterici dei due infanti che, bisognosi di qualcosa, e del tutto incapaci di manifestarlo in altra maniera, gridavano disperatamente. Fu Aphrodite a prendere in fine parola.

“Va bene, ordunque, uniremo le forze, solo… stai vicino a me. – le disse, serio, prima di osservare anche Stefano, che si era avvicinato appena – STATE vicino a me, anche se tu, ragazzo, ne sembri davvero immune e… sei un bel mistero, ma non è il momento per soffermarsi sulla tua natura adesso!” gli disse, schietto, calcando sull’ultima parola. Era lampante fosse ancora diffidente nei suoi confronti, come tutti, ma cercava comunque di fidarsi.

“I-io ecco… non lo so perché...”

A Francesca le sarebbe venuto da dire che un po’ troppe cose non sapeva, e che quel fatto non li aiutava di certo in quella situazione drammatica, ma non era tempo per i discorsi, bensì per l’azione. Ricacciò i dubbi indietro, pronta a fare la sua parte.

“Andate dunque… alla statua di Atena. Aphrodite, conosci la scorciatoia, vai!”

“Sì, mio Signore!” annuì lui, scattando poi in direzione della prima casa, seguito da Francesca e Stefano.

Shion li guardò scomparire dietro una colonna, qualcosa gli pungeva dentro, ma cercò di non darlo a vedere. Si avvicinò a passi leggeri a Milo, impegnato ad arrancare verso le versioni piccole di Mu e Aldebaran.

“Pensi di… di riuscire a darmi una mano, nelle tue condizioni?” chiese dolcemente al compagno d’armi, vedendolo piegarsi verso il mini Cavaliere del Toro.

“Femo di non fiuscife a fafe nient’alfo… ohimé!”

Senza volerlo Shion sorrise tra sé e sé nel vedere lo Scorpione in quella tenuta totalmente atipica. Certo, assistere al proprio decadimento fisico non era la cosa più bella da vivere, ancora di più se velocizzata come era stata nel suo caso, ma fortunatamente era andata ancora bene così. Non restava che confidare in coloro che avrebbero potuto risolvere quella situazione.

Si soffermò ad osservare il piccolo Mu, il quale, come in una specie di imprinting, smise di piangere, desiderando le sue attenzioni, muovendo le due braccine nella sua direzione. Il vecchio, nobile Shion si riscoprì intenerito, prima di prenderlo delicatamente in braccio. La manina del bimbo si mosse verso i suoi lunghi ciuffi, tirandoglieli appena.

“Da quanto tempo non ti vedevo così, eh, piccoletto? Ti raccolsi in Jamir, eri solo, abbandonato, ma sapevi bene come farti sentire. Sembra passato… così tanto tempo!”

Ovviamente il piccolo Mu non rispose, ma sorrise, tirando più forte.

“Il vizietto ti è rimasto, eh?!”

“Ohi! Ohi! Ohi! Uuuuuuh la schiena!!!”

Shion si voltò verso Milo che, con enorme fatica, stava tirando su Aldebaran, il quale scalciando, si opponeva strenuamente, con contento di essere maneggiato.

“Ehi, Aldy, sono io e… ahi… Aldy!!!”

“Sicuro di riuscire, Milo?!” chiese ancora Shion, sorridendo a quella scenetta quasi ilare.

“Sì, sì, ci penfo io e… uuuuuu il finocchiooo!!!”

...Ginocchio, voleva dire, la situazione era davvero paradossale, se non si fossero trovati in una emergenza ci sarebbe stato da ridere.

La testa del Nobile Shion si volse verso le dodici case, proiettando tutte le sue speranze verso i tre, gli unici a poter agire in quella situazione.

“Fate presto, vi prego!” si ritrovò a mormorare, mentre un vento selvaggio e duro portava alle sue orecchie gli echi della battaglia che si stava verificando tra Shaka, Saga e quell’Ermete, che appariva ai suoi occhi come, di gran lunga, il più terribile dei Cinque Pilastri.

Era tutto nelle mani di Aphrodite, Francesca e di quell’incognita impazzita di Stefano, che, lo sentiva, sarebbe stato l’ago della bilancia nello scontro tra i due mondi, se solo… se solo fosse stato in grado di ritrovare sé stesso, le sue origini, che risultavano misteriose.

...O forse non così tanto!

Rimuginò Shion, preferendo non soffermarsi ulteriormente su quell’argomento di cui tuttavia aveva già un eniguo sentore.

 

 

* * *

 

 

“DIAMOND DUST!!!” urlò rabbiosamente Hyoga per l’ennesima volta, scagliando il suo colpo contro Utopo, il quale però, beffandosi di lui, deviò nuovamente la traiettoria del colpo di lato, non riportando alcun danno.

Hyoga atterrò elegantemente per terra, incalzandolo con attacchi congelanti sempre più frenetici, costringendolo talvolta ad un corpo a corpo che, se ne rendeva conto, lo metteva in condizioni di svantaggio, ma che era indispensabile per non dargli requie.

Nulla da fare, non funzionava. Utopo aveva smesso perfino di deviarne la traiettoria, subendo gli attacchi che tuttavia non gli procuravano il benché minimo danno.

Perché? -si chiese il giovane Cigno, gettando una breve occhiata dietro di sé a Michela che provava con ogni mezzo ad arrestare l’emorragia di Camus, non riuscendoci- eppure, ne era sicuro, pur non sfoderando ancora l’Aurora Execution, i suoi attacchi erano allo Zero Assoluto, Utopo inoltre aveva già rimediato grosse lesioni, respirava con un polmone solo, eppure sembrava non risentirne minimamente.

“Sei distratto, giovane Cigno?!” si fece beffe di lui quell’essere, attaccandolo per la prima volta con le fiammate nere e costringendolo così, peri ripararsi, ad utilizzare il Freezing Shield, scansandosi comunque di lato per evitare i lapilli incandescenti.

Hyoga si costrinse a concentrarsi sul nemico, dando così le spalle alle due persone più importanti della sua vita. Il nemico aveva ragione, le condizioni del maestro distoglievano la sua attenzione, rendendolo vulnerabile e, conseguentemente, rendendo anche Michela e Camus dei facili bersagli. Prese un profondo respiro, riportandosi alla calma, preparandosi così a ricevere un nuovo affondo che si aspettava ma che non giunse.

“Uhmpf, vi vantate di esercitare il sangue freddo, ma basta davvero poco per angustiare i vostri inesperti cuori. Quell’uomo, colui che ti ha cresciuto, è già caduto vittima dei legami che lui stesso ha generato, e lo stesso si può dire di te, che sei suo discepolo – li irrise, ghignando, indicandolo prima uno e poi l’altro con il braccio artigliato – Davvero patetici!”

“TACI, UTOPO!” - urlò Hyoga, attaccandolo con furore, senza pensarci due volte – Tu non devi osare neanche nominarlo, ancora meno dileggiarlo!” esclamò lapidario, scagliandogli un altro fiotto di aria congelante, che lo colpì, ancora senza danneggiarlo.

“Lo vedi?! Non puoi scalfirmi!”

“Sbagli, verme! Prima l’ho fatto, lo rifarò ancora, basta solo…”

“Ma allora non capisci, biondino, puoi danneggiarmi solo lo Zero Assoluto!”

“Tu hai davanti colui che, addestrato dal Maestro Camus, lo ha imparato a padroneggiare, vigliacco che non sei altro!” ribatté, ostinato, dirigendosi a gran velocità contro di lui con tutte le intenzioni di non dargli requie.

Ma Utopo, sicuro di sé, semplicemente si alzò in volo, sovrastandolo in altezza nel guardarlo con sempre più compiacimento. Tuttavia non lo attaccò, mettendosi invece a fischiare.

“Ma cosa…?!” si chiese Hyoga, mentre un brivido lo percosse da capo a piedi. Istintivamente, aspettandosi qualche vigliaccheria, balzò indietro, posizionandosi a poca distanza da Michela e Camus, alzando un braccio con fare protettivo, pronto ad intervenire.

“Tu sei convinto di padroneggiare lo Zero Assoluto, Cigno… - gli occhi di Utopo lampeggiarono mentre, puntando lo sguardo sul terzetto, lasciava trasparire un sorriso sadico, inquietante – Non è così, o almeno non in maniera stabile!”

“Co-Cosa?!”

Tacque Utopo, le rughe del viso si incresparono ulteriormente. Sembrava stesse aspettando qualcosa, ma… cosa?! Hyoga non sapeva bene se sfoderare le ali della sua armatura, e raggiungerlo, lasciando però scoperti Michela e Camus, o attendere lì nella paura che quel mostro potesse attaccarli di nuovo, come aveva già fatto.

“Cosa intendi Utopo?” chiese, nervoso, decidendo infine di rimanere lì e proteggerli.

“Ancora un secondo di pazienza, ragazzo… avrai le spiegazioni che desideri” disse, leggerissimamente affannato, tossendo un poco nello sputare sangue.

Dunque lo aveva davvero danneggiato, prima! Ma allora perché i suoi colpi successivi si erano dimostrati vani?! Cosa era cambiato?!

“U-urgh, anf…”

“PAPA’!”

Hyoga si irrigidì nell’avvertire prima una mano muoversi nel vuoto e poi il richiamo, tumefatto, di Michela. Voltò la testa verso di loro, accorgendosi che il braccio di Camus aveva provato a muoversi nella sua direzione, come a volerlo richiamare, a toccarlo, ma che le energie per farlo non gli erano bastate, smarrendo così il gesto nel vuoto.

Che mi riesca ad avvertire, nonostante stia sempre peggio?! Respira sempre più irregolarmente, prova a muoversi ma non riesce, ed io… cosa sto facendo?! Sto solo perdendo tempo, quando avrebbe bisogno di cure urgenti, perché l’emorragia non si ferma e sembra si stia trattenendo con tutte le sue forze da… da cosa?!

Maledizione, cosa ti hanno fatto, papà?! Michela ha parlato di prelievi, ma stai perdendo troppo sangue mischiato a quella sostanza dorata per essere solo un forellino o poco più. Cosa volevano prelevare da te?! Perché tanta crudeltà?! Oh, Camus, resisti, ti prego!

Avrebbe voluto precipitarsi nuovamente al suo fianco, abbracciarlo come aveva fatto prima Michela, dirgli che lui era lì, che lo avrebbe protetto e che si sarebbe dimostrato finalmente degno di lui, ma un tale comportamento mal si adattava sul campo di battaglia, e li avrebbe lasciati sguarniti, loro, che non erano nelle condizioni di difendersi. Strinse i pugni con foga, guardando rabbioso Utopo, il quale, sempre con quell’espressione soddisfatta e gli occhi neri, che sembravano emanare lapilli di lava, contemplava dall’alto la loro totale impotenza.

“Si vede comunque che sei esperto di combattimento, ragazzo… hai capito che sto aspettando qualcosa e che, se solo osassi attaccarmi in questo momento in cui sono così vulnerabile, io prenderei come bersaglio le due persone che ti sei prefissato di proteggere!”

“Bastardo…” sibilò tra i denti, la muscolatura rigida. Aveva pienamente ragione, e ciò lo faceva arrabbiare ancora di più, perché detestava essere impotente.

“H-Hyoga… - la voce stentata di Michela, lo mise nuovamente in allerta, portandolo a voltarsi verso di lei e incrociarsi con i suoi occhioni lucidi – Perdonami… è colpa mia, della mia debolezza!”

“Non è colpa tua, Michela, stai dietro di me. Vi prometto che vi proteggerò, qualsiasi cosa accada, tu ferma l’emorragia, sei l’unica che può farlo!” provò a incoraggiarla, alzando le braccia per preparare una nuova tattica. Forse avrebbe potuto erigere, con buon dispendio di energia, ma necessario, un muro di ghiaccio impenetrabile intorno a loro, in modo da proteggerli, mentre lui avrebbe incalzato Utopo con il Vortice dell’Aurora, non dandogli così scampo. Lo Zero Assoluto, del resto, lo avrebbe danneggiato come già successo, ma il fatto di aver visto nullificare i suoi attacchi poco prima, anche loro a -273,15° lo aveva messo in allerta, facendolo disperare.

Qualcosa era cambiato, nei suoi colpi, non c’erano altre spiegazioni, e lo stesso comportamento di Utopo, che ora deviava il colpo, ora lo subiva senza conseguenze, lo confondeva, mettendolo in uno stato di perpetua allerta.

Perché non funzionava più?!

Strinse ancora di più i pugni, preparandosi allo scatto. No, quello non era più tempo per esitare, le condizioni di Camus peggioravano a vista d’occhio, occorreva medicarlo e, più ancora, tenerlo sotto stretta osservazione, perché il rischio di formarsi un’embolia o un coagulo come conseguenze di vari prelievi incontrollati, non era basso e, se fosse successo…

Scrollò via l’immagine che gli si era formata in mente, ricacciandola a forza dentro di sé. No, dovevano intervenire al più presto, avrebbe rischiato il tutto per tutto per salvarlo. Fece quindi per scattare contro il nemico e preparare, in simultanea, una costruzione di ghiaccio che li avrebbe protetti, ma la voce ancora più terrorizzata di Michela lo raggiunse nuovamente.

“HYOGA!!! - si voltò di scatto verso di lei, anche se il movimento, per sua percezione, risultò quasi al rallentatore. Li osservò entrambi, un brivido corse lungo la sua schiena, gettandolo nella più nera disperazione – l’addome di Camus è… è… AHIA!”

Il Cavaliere del Cigno si precipitò al fianco del maestro, dando così le spalle al nemico che tuttavia continuava a non attaccarli, nello stesso momento in cui Michela, percependo bruciore, aveva smesso di pressare sul suo ventre, ricadendo indietro.

Camus era molto agitato, aveva preso a dimenarsi come se cercasse in ogni modo e maniera di controllare qualcosa dentro di lui che si muoveva con sempre maggior forza nel tentativo di uscire. L’allievo si ritrovò a placcarlo, costringendolo a stare fermo nonostante i suoi continui e compulsivi scatti. Lo bloccò per le spalle, mentre, costringendolo a terra, poiché aveva provato ad alzarsi, gli adagiava il volto di lato e utilizzava il gelo per dargli un po’ di refrigerio. Era sempre più bollente, in particolare l’addome, che aveva preso a scottare vertiginosamente.

“Calmati, Maestro Camus, ti prego! Siamo qui, SIAMO QUI, non sei solo!” gli urlò, sperando che riuscisse ad udirlo in qualche modo. Voltava infatti il volto da una parte all’altra, irrefrenabile, ma, forse, sentendolo parlare, si lasciò infine andare di lato, ingoiando a vuoto per poi serrare sofferente la mascella. Hyoga vide distintamente tale movimento scendere lungo la sua laringe per poi sparire nell’ampio petto, seguito da respiri brevi e sempre più irregolari, mentre lo riadagiava compostamente, tentando di calmarlo del tutto. Stava tanto, troppo, male...

Anche Michela si riprese, tornando a premergli il fazzoletto sopra l’ombelico, nonostante il calore intrinseco che emanava e che precedentemente l’aveva scottata.

“Hy-Hyoga, c-cosa sta succedendo?! La sua pancia è sempre più bollente e… e sento come se qualcosa, dentro di lui, desse colpi per voler uscire, m-ma… ma è impossibile! C-cosa gli sta succedendo?!” chiese, implorante, spaventatissima, non sapendo più cosa fare.

Hyoga si morse il labbro inferiore, spaurito come lei anche se tentava di dimostrarlo molto meno. Già, cosa stava succedendo al Maestro Camus?! Non ne aveva la benché minima idea!

In quell’istante udì uno sbattere di ali, nonché un’ombra passare su loro. Michela ebbe un sussulto nel riconoscerlo, mentre il giovane Cigno, osservando prima lei e poi quella strana creatura che si era appena posata sul braccio di Utopo, tentò di capire cosa rappresentasse. Un rapace, una chimera, un..?

“Il vostro amato maestro non resisterà ancora molto a quel potere...” esordì il nemico, dopo una lunga pausa in cui si era permesso di accarezzare affettuosamente la testa di quello strano volatile un poco rassomigliante ad un’aquila ma dalla coda da scorpione.

La mano di Hyoga, quella che ancora era sopra la testa di Camus per fargli percepire la sua presenza, tremò vistosamente: “D-di cosa stai parlando, Utopo?!”

“Oh? Non ne sapete niente? Sto parlando del Principio Primo di Tiamat, il Potere della Creazione che ha scelto di incarnarsi in Camus!”

“Il… Principio Primo?!” ripeté Hyoga, sbalordito, sconvolto da un fremito.

“Tiamat?! Chi sarebbe costei?!” gli fece eco Michela, con rabbia.

“Colei che ha creato i mondi tutti, colei che era prima dell’essere, colei che è madre di ogni cosa!”

“N-non è poss… non può esistere nulla prima dell’Essere!” si alzò Michela, convinta, ben ricordando gli insegnamenti di filosofia greca che aveva appreso a scuola.

“Oho, ne sapete poco poco, eh? Meglio così! Il sapere o non sapere a voi non cambia niente, tanto morirete comunque!”

“Costei… è dentro il Maestro Camus?!” volle invece indagare Hyoga, incredulo, cercando di dare una spiegazione logica a quanto aveva appena udito.

“Nel suo addome, sì… attualmente, visto che l’ho pungolata, dovrebbe essersi manifestata sotto le sembianze di un feto...”

“CO-COSA DIAVOLO STAI BLATERANDO?!?”

“Quello che ho detto, ragazzo! Dovresti ben sapere che, allo stadio iniziale, tutti gli embrioni possiedono pressoché la stessa forma, non importa se essi siano rettili, mammiferi o uccelli… il principio vitale, il suo Impulso Primo, ha forma univoca!”

Hyoga lo sapeva, ma era comunque difficile da credere, anzi impossibile. Osservò ancora Camus, il suo addome che era sempre più contratto e che, ogni tanto, gli procurava movimenti involontari, febbrili, dolorosi, come degli spasmi che, effettivamente, somigliavano sinistramente a quelli antecedenti al parto. Hyoga li aveva visti, qualche anno prima, perché Camus, lo Sciamano, poteva anche aiutare le partorienti e, per iniziarlo, era giunto un tempo in cui anche lui, dopo la perdita di Isaac, aveva preso ad aiutarlo in quel compito così delicato, trovandosi come testimone del miracolo della vita.

“E’… è follia, questa! Camus è un UOMO! - biascicò, sgranando gli occhi e trattenendosi la testa con una mano, sconvolto – Q- questa cosa quindi, come può essere dentro il maestro?! E’… è quindi lei che lo sta...”

“Lei vuole vivere, come ogni altro essere vivente, e quindi uscire, sì… - affinò lo sguardo Utopo, provando gusto nell’esprimere quel concetto – Camus glielo sta cercando di impedire con tutte le forze, ma… le contrazioni aumenteranno, fino a diventare insopportabili per il suo fragile corpo!” illustrò mentre, dopo un’ultima carezza all’uccello, con la mano artigliata, aprì uno squarcio nel petto del volatile, uccidendolo sul colpo.

Hyoga e Michela non potevano crederci, assistettero alla scena, senza parole, mentre sangue rosso rubino scivolava giù sul braccio di quel mostro per poi colare più giù ancora, fino ad incontrarsi con il pavimento.

Era… orribile e disgustoso!”

Utopo sorrise a quella contemplazione, mentre sempre ghignando, dallo squarcio che lui stesso aveva creato, estrasse un polmone, che strinse nella mano.

“Qualcosa di simile accadrà a lui tra non molto, ma dall’interno… - continuò la spiegazione, non lesinando in particolari macabri – Tiamat romperà la parete addominale di Camus, sventrandolo a partire proprio dall’ombelico, che ne è la forma esteriore. Chi siamo noi per impedirglielo?!”

“N-no… NO!!!” urlarono sia Hyoga che Michela, guardando disperatamente il volto di colui che entrambi consideravano un padre. Camus respirava sempre più irregolarmente, la bocca dischiusa in una smorfia, la mascella serrata, il sudore che gli imperlava il viso sempre più pallido e provato.

“E’ stato uno sciocco! Gli ho proposto di assecondare quell’impulso per me, ma lui ha rifiutato e ora… ora ne subirà le conseguenze! Nessuno può opporsi all’evoluzione, un embrione diventa un feto, e un feto deve venire al mondo… è la legge!”

“Utopo… - sibilò Hyoga, sempre più fuori di sé, non riuscendo quasi più a trattenersi, espandendo così il suo cosmo – A te non importa nulla della vita, vuoi solo assistere, trasognato, alla manifestazione di un potere, quello della Creazione, che era scomparso fin dalla Notte dei Tempi… Non ti importa se, nel processo, una persona innocente ci rimetta la vita!”

“Pfff, è proprio così, ragazzo: Tiamat rinascerà in ogni caso, e sarò io, prima di Fei Oz, ad impadronirmene!” rivelò i suoi veri intenti, mentre le sue labbra si contrassero in un ghigno orrendo. Si apprestò ad avvicinare il polmone dell’animale al suo viso, pregustandolo, preparandosi ad ingoiare quell’organo.

“UTOPOOOOOOO!!!” urlò Hyoga, cedendo alla rabbia, mentre cristalli dorati si manifestano per mezzo del suo potere congelante.

Michela che aveva invece ceduto alle lacrime, rimproverandosi la sua debolezza, vide con distinzione delle candide ali formarsi sulla schiena dell’armatura del Cigno, permettendo così al suo fidanzato di librarsi in volo e scattare verso il nemico. Fece per intervenire a sua volta, ma si accorse ben presto che l’aria intorno a loro si era cristallizzata all’istante, creando così una barriera protettiva che abbassava istantaneamente la temperatura nei dintorni, così come quella di Camus che, pur sofferente, buttò fuori aria e si rilassò un poco, traendo giovamento dal ghiaccio del suo allievo.

“HYOGA!” riuscì a chiamarlo, spaventata, vedendolo gettarsi contro il nemico, incurante dei rischi.

Te lo affido, Michela, abbine cura! Non permetterò che il volere di Utopo diventi realtà, lo fermerò con ogni mezzo in mio possesso! Tu rimani lì con il maestro, in quella barriera, al resto ci penso io!

Persino Utopo si meravigliò davanti a quel prodigio, lo fissò sbalordito vedendolo sopraggiungere ad altissima velocità, prima di riprendere le sue facoltà.

“Sciocco! Pensi che ricreare un micro spazio di singolarità dentro il mio mondo, grazie al tuo Zero Assoluto lo possa salvare?! Tiamat è troppo forte, hai solo rallentato il processo, non impedito!”

“Non importa! Dovrebbe comunque bastare per aiutarlo a resistere, anche se per un tempo limitato! Tu non lo toccherai più, Utopo, MAI PIU’, fosse anche l’ultima cosa che faccio!” esclamò il Cigno dalle ali argentate, sfoderando un gancio congelante destro con tutta la forza di cui disponesse. Tuttavia il Pilastro riuscì bene a schivare l’assesto, prima di ridurre in brandelli sanguinolenti la creatura tenuta tra le mani, ad eccezione del polmone, che gli serviva, e spruzzare il sangue sul volto del biondo in modo da accecarlo.

Hyoga si ritrovò quel liquido bollente addosso. Suo malgrado, poiché aveva ancora la bocca aperta, se lo ritrovò anche in gola, ma non ebbe il tempo per sputarlo che subito venne raggiunto sul viso da un’artigliata meschina, che gli lacerò la guancia sinistra. Il contraccolpo lo fece sbandare, cozzò brutalmente contro la colonna, cadendo poi malamente al suolo.

“HYOGAAAAAA!!!” gridò Michela terrorizzata, provando l’istinto di uscire da lì, rendendosi però al contempo conto di non potere perché davvero quello spazio ritagliato da Hyoga, rassomigliante ad una bolla di ghiaccio, pareva una piccola dimensione a sé stante.

Lo vide picchiare violentemente contro il suolo, stordito, ma nonostante l’urto, puntellando i piedi, fece comunque per alzarsi, cercando di togliersi quella sostanza dal viso. Non era più in grado di riaprire gli occhi, che gli bruciavano a partire proprio dalle orbite, tossì, costringendosi ad alzarsi in piedi: anche privo della vista avrebbe combattuto per coloro che amava, ad ogni costo!

“Dimenticavo… devo spiegarti perché i tuoi attacchi non hanno effetto!” lo canzonò Utopo, nuovamente composto, mentre, come se niente lo avesse interrotto, si portò nuovamente il polmone davanti alle labbra che, aprendosi, mostrarono così i denti giallissimi che addentarono con voracità l’organo in questione.

A Michela venne su un conato di vomito nel vedere quella scena disgustosa. Lo scienziato pazzo morsicava, tirando a sé selvaggiamente quel tessuto ancora sanguinolento, neanche fosse stato un licantropo o chissà cos’altro, sporcandosi la bocca di rosso vivo, quasi schizzandosi il liquido come un carnivoro sulla preda. Avvertì una contrazione nello sterno, unita ad una nausea sempre più crescente, ma ingoiando a forza ciò che le era tornato su, rabbrividendo al retrogusto acido, tentò di tornare a concentrarsi sul campo di battaglia.

Utopo non era di sicuro un essere umano, anche se con parvenza antropomorfa, ma cosa rappresentava quindi in realtà?! Anzi, chi, o cosa, erano i Cinque Pilastri in generale?! Divinità? Esseri creati dall’ombra, dall’oscurità?!

Hyoga finalmente era riuscito a togliersi il sangue dagli occhi, tornando a vedere, anche se offuscato, giusto in tempo per assistere ad Utopo che inghiottiva l’ultimo pezzo di polmone.

“Fai davvero… ribrezzo, mostro!” sibilò, cercando di mettersi in posizione d’attacco e scattare un’altra volta, ma quell’essere, ghignando, lo precedette, gettandosi a capofitto su di lui.

Non fu in grado di reagire. Il tempo di vederselo lì, ad un palmo dal viso, di percepire il suo fetido alito frammisto a sangue e roba in decomposizione, che avvertì un dolore netto, invasivo, nella fascia dello stomaco, dove era stato colpito. Questione di attimi, il tempo di vedere, con sgomento, una fiamma nera che si imprimeva nella parte dell’addome non coperta dall’armatura, che venne proiettato indietro ad altissima velocità, sbattendo violentemente contro una colonna retrostante.

“Hyogaaaaaaaa, nooooooooooooooo!!!” urlò a squarciagola Michela, frenetica.

Il Cigno la udì a stento mentre cadeva a terra, il respiro troncato, rotto, si sentì quasi spezzato da metà colonna vertebrale in giù. Si accasciò, tossì violentemente, prima di ritrovarsi ben presto a sputare sangue, il suo che, tributo oltraggioso, andava formando una piccola pozza tra le sue braccia che lo reggevano a stento. Non respirava bene, si avvertiva semplicemente i polmoni pieni di qualcosa di caldo, che lo soffocava. Annaspò in cerca di ossigeno.

“Hai fatto la tua scelta, Cigno: usare tutto te stesso per proteggere loro! Così non posso ferirli, è vero, ma ciò rende vulnerabile te!”

La voce di Utopo lo frastornò, così come i suoi passi in avvicinamento, ostacolo insormontabile. No, doveva reagire, doveva opporsi, non poteva perire così, non con Michela e Camus ancora in pericolo. Serrando i denti nel tentativo di fermare il conato di sangue, alzò ostinatamente il capo, fissando il nemico con sguardo truce. Tentò quindi di rimettersi in piedi, mentre rivoli rosso cremisi gli rigavano comunque il mento per poi scivolare al suolo, ma non ebbe comunque il tempo per ultimare l’azione, che un nuovo pugno infuocato, nero, lo raggiunse sul collo. Fortunatamente riuscì a ricreare una protezione di ghiaccio che, rompendosi, gli parò almeno quella zona. Sentì il suo corpo raschiare violentemente contro il pavimento, la spalla destra, quella a contatto con il terreno, gli si escoriò dal bicipite in su, procurandogli un nuovo, più superficiale, dolore. Rabboccò aria, riprovando ottusamente ad alzarsi, tenendosi il braccio martoriato con l’altro. Non era vinto, aveva una missione da compiere, doveva…

Utopo fu nuovamente su di lui, senza concedergli il benché minimo riposo. Lo prese malamente per il collo, inginocchiandosi al suo fianco. Ancora il suo fetido respiro su di lui, ancora quegli occhi neri privi di vita. Hyoga finalmente capì…

“U-Utopo… t-tu non sei vivo, s-sei un morto; un morto che cammina! S-sopravvivi solo perché utilizzi altri organi di altri esseri, grazie ai quali erediti le loro capacità. T-tu con quale diritto puoi parlare di vita?!” gli chiese, sforzandosi di guardarlo in faccia, nonostante la situazione sempre più disperata.

“Mi compiaccio, ragazzo! Hai ereditato l’intuizione dal tuo giovane maestro, è lampante! - sbuffò lui, stringendo la presa sul suo collo – Sì, hai indovinato: non sono un vivente, tuttavia ho vissuto, in un tempo lontano, ciò muove il mio istinto di sopravvivenza, ciò mi da diritto di vivere!”

“N-no, tu non hai… alcun diritto di vivere s-sulle spalle degli altri! E’ per questo che brami per te il Potere della Creazione, per avere di nuovo un corpo tutto tuo, è per questo che… argh!”

“BASTA CON LE DOMANDE, CIGNO!” lo zittì, sbattendolo malamente al suolo, l’elmo gli volò via, l’ultima, tentata, emanazione del suo cosmo ghiacciato si spense in un istante.

Non aveva più forze –si ritrovò a riflettere- era come prosciugato. Mai si era trovato ad affrontare un nemico simile, mai, in tutti quegli anni di battaglia. Utopo, da quando aveva ingerito il polmone, era diventato il triplo più veloce, non più visibile da occhio umano, né da Cavaliere. Impossibile colpirlo, anche provandoci l’attacco sarebbe stato nullificato in un istante.

“Continui a chiederti perché non riesci più a colpirmi, vero?” gli pose sarcasticamente la domanda per lui Utopo, mentre, con un unico movimento della mano artigliata, lo privava dello spallaccio sinistro.

Lo sentì incombere, del tutto impotente, mentre tutte le sue energie residue erano devolute per non svenire, perché, lo avvertiva, la coscienza andava svanendosi sempre più.

Perché? Perché non riesco ad oppormi? Maestro…

Un altro colpo. Il pettorale fu staccato dal suo corpo e, insieme ad esso, gli fu strappata anche parte della maglietta. Si sentì graffiare lo sterno con quegli artigli, strinse disperatamente le palpebre nel tentativo di opporsi. Ne uscì una ventata di aria congelante, che tuttavia languì nelle fiammate nere, che avvolgevano il nemico come protezione.

“Eh? Perché, Hyoga? Immagino che te lo stai continuando a chiedere, nevvero? - lo canzonò ancora Utopo, infierendo, e ancora infierendo, malignamente su di lui – E’ perché sei un essere finito, Cavaliere!”

Sono un essere… finito?!

“Oh sì, lo sei, per questo non puoi raggiungere lo Zero Assoluto in pianta stabile, ed è il motivo per cui la maggior parte dei tuoi colpi non mi scalfiscono!”

Le palpebre di Hyoga si spalancarono in un urlo viscerale ma silente. Cominciava finalmente a capire, ma era tardi… tardi per tutto! Il suo corpo era sconquassato dai sussulti, Utopo, dopo averlo praticamente spogliato, sembrava provare gioia nel continuare a colpirlo. Ormai non utilizzava neanche più le fiamme nere, lo colpiva semplicemente in più punti, rimarcando, per qualche strana ragione, particolarmente sul fianco sinistro in prossimità della milza, che stava cedendo.

“Dei colpi che tu sferri, o cantore dello Zero Assoluto, solo una manciata raggiunge, talvolta persino superandola, la temperatura corretta, gli altri attacchi hanno un millesimo di grado in meno, è condizione necessaria affinché il tuo misero corpo da umano regga un tale potere senza che si danneggi: abbassare di un infinitesimo quella temperatura che necessita di energia a disposizione infinita, cosa che tu, in quanto uomo, non hai!”

Dei miei colpi… solo un paio arrivano allo Zero Assoluto anche quando sono convinto di utilizzarlo?! E’… è condizione imprescindibile per non finirne schiacciato?! Questo è il motivo per cui gli attacchi di prima sono andati a vuoto?!

“Un infinitesimo di grado, mi capisci, ragazzo?! Dovrebbe essere una baggianata per chiunque, perché basta e avanza per uccidere un milione e più di vite in un colpo solo! - cantilenò lui, sempre con quel ghigno in viso, prendendolo nuovamente per il collo e serrandolo – Ma io non sono chiunque, io sono un non-morto, uno dei Cinque Pilastri, un essere perfino superiore agli dei, per me la differenza c’è eccome e la vedrai a tua spese!”

“U-urgh, anf...” l’aria non gli arrivava più ai polmoni, le energie per opporsi si erano totalmente consumate. Tentò di alzare un braccio per opporsi, per congelargli, almeno, quella zampa da rapace che si ritrovava, ma non riuscì minimamente a muoversi.

“In questo scontro hai usato lo Zero Assoluto completo 6 volte. La prima, in cui mi hai colpito di sorpresa, congelandomi il polmone, l’ultima, la barriera che hai eretto poco fa per quei due, decidendo di anteporre la loro salvezza alla mia disfatta. Le volte in mezzo mi è bastato deviare la traiettoria del tuo attacco, uscendone così illeso, e ora… sei completamente esaurito, vero? - disse trionfante, vedendo che gli occhi del ragazzo stavano diventando sempre più sgrananti in seguito alla penuria di ossigeno – Hai combattuto bene, non lo posso negare, ma il tuo percorso termina qui: ti sei frapposto tra me il Potere della Creazione, ora morirai!” ribadì, aumentando ulteriormente la stretta. Voleva ucciderlo strozzandolo…

“A-arf…”

Non riusciva più nemmeno a ragionare, da quanto fosse disperata la situazione, la mancanza di ossigeno stava contaminando perfino il cervello, impedendogli il ragionamento. Era… la fine?! Sarebbe finita così?! Dopo aver sconfitto Saga malvagio, Poseidone, Hades, le persone che amava, la morte medesima… quella era davvero la conclusione di tutto?! Tutti quegli anni passati, di crescita forzata, per poi trovare capolinea lì?!

N-no, maledizione! Non ora! NO! Non adesso, che ho persone da proteggere e che credono in me, non adesso che ho più di un motivo per combattere!

Michela… che uomo sarei, se non riuscissi a proteggerti?!

Maestro Camus… che penserete di me a vedermi così, dopo tutto quello che avete fatto per me?! Dopo il vostro sacrificio per farmi arrivare allo Zero Assoluto?!

Isaac… ho preso la tua vita, la vita di mio fratello, per giungere qui e non riuscire comunque a salvare le persone a me care?! Mi rifiuto! I-io… sarò degno del tuo sacrificio, sarò degno del Cavaliere che avresti voluto diventare tu e sarò degno… del Maestro Camus, come sei sempre stato tu!

Provò ad espandere il cosmo, nonostante la spossatezza, nonostante il solo fatto di non cedere all’incoscienza gli costasse ben oltre la fatica. Riaprì gli occhi, che si impressero in quelli del nemico.

“Ancora ti opponi, verme?!”

L’unico verme tra di noi sei tu… sono un Cavaliere della Speranza, Utopo, non sono fatto per arrendermi, Camus mi ha insegnato a non gettare mai la spugna, MAI!

“E sia allora! - stabilì Utopo, lasciando la presa sul suo niveo collo per manifestare nuovamente le fiamme nere che si scontrarono con il vortice congelante prodotto dal niveo cosmo del Cigno – Sei un folle, ma ammiro il tuo impulso vitale: meriti di essere incenerito dalla Fiamma Sacra di Kdur!”

“AAAAAAAAAAAAAARRRRRGHHH!!!”

Hyoga avvertì concretamente dentro di sé la dolorosissima sensazione di bruciare. Era come se gli organi, tutti, prendessero fuoco in un lapillo improvviso. Quel tipo di sofferenza, mai, MAI provata prima, lo sconvolse dal profondo, obbligandolo ad urlare con quanta forza avesse. Non era abituato a farlo, non era abituato a cedere, con nessuno. Camus gli aveva anche insegnato come trattenersi, come non manifestare la propria sofferenza. Ma in quell’inferno lì, con la sensazione di avere le ossa rotte e i polmoni, il cuore a fuoco, sopportare non era più possibile.

Reclinò la testa di lato, al limite. Era tornato a respirare… aria rovente, però. Si augurò che presto quel supplizio cessasse. Aveva male. Tanto male. A tutto.

Michela, ancora nella barriera di ghiaccio, già nel vedere Hyoga subire violentemente tutti quei colpi senza riuscire ad opporsi, era caduta in ginocchio coprendosi la faccia con le mani, piangendo quanto era rimasto delle sue lacrime. Per ogni sferzata che percepiva subire il corpo del suo ragazzo, anche lei tremava. Le gambe si erano dimostrate incapaci di reggerla, lei stessa si sentiva un’incapace priva di nerbo e spina dorsale. Aveva una paura folle, mischiata alla frustrazione, al senso di impotenza, a diecimila altre emozioni che avrebbero annichilito chiunque. Ma lei avrebbe dovuto essere una guerriera, come le aveva detto Camus poc’anzi, sorridendole tiepidamente, lei doveva riuscire a combattere in qualsiasi circostanza… eccola invece lì, a piangere, quando sia Francesca, che Marta che Sonia, lo sapeva bene, avrebbero invece trovato il coraggio di agire in qualche modo, a qualunque costo.

La più debole delle allieve dell’Acquario…

Era così che l’aveva ribattezzata Utopo. E aveva ragione!

Debole. Debole. Debole. TROPPO DEBOLE, maledizione!

E, proprio a causa di quello, la sua famiglia stava rischiare di morire. Singhiozzò, tentando di alzarsi, ma le gambe le cedevano, non la sorreggevano, non si azionavano, lasciandola lì inerme.

MALEDIZIONEEEEEEEEEEEEEE, MUOVETEVI!!!

Mentre imprecava con tutta sé stessa, dandosi della bambina immatura del tutto incapace di proteggere gli altri, avvertì un movimento vicino a lei, unito ad un ansito sempre più irrequieto. Spalancò gli occhioni, osservando sbalordita che Camus, nonostante le sue condizioni gravissime, con le palpebre serrate per la sofferenza, provava comunque a darsi la spinta per alzarsi, tendendo tutti i muscoli nel movimento.

“Hy-o-ga...” lo avvertì languire a stento, percependo a sua volta il tormento a cui era sottoposto il suo allievo. Provò quindi a rimettersi seduto, ma a metà spinta, l’addome produsse una contrazione più forte delle precedenti, spezzandogli il respiro e facendolo accasciare su un fianco, le mani a trattenersi il ventre.

Cadde a peso morto, spaventando Michela ancora di più, ma non si diede per vinto, tentando con ogni mezzo di intervenire sebbene le sue condizioni non glielo permettessero. Il suo Hyoga era in pericolo, tanto bastava per non arrendersi. Di nuovo, caparbio, riprovò, ma una fitta più forte delle precedenti spezzò nuovamente le sue intenzioni, facendolo cadere per terra, sempre più affannato. Ormai gli spasmi erano sempre più rapidi, persino più del suo respiro già irregolare, non avrebbe potuto resistere ancora a lungo...

Quanto dolore stava ancora provando? -si chiese Michela sempre più sgomenta- Quanto ancora ne avrebbe provato, prima di…

La brutale immagine di Tiamat che fuoriusciva dal suo addome, squarciandoglielo, le diede l’impulso per precipitarsi su di lui, abbracciarlo di getto, mentre una contrazione perfino più forte delle altre, sconquassava il corpo esausto del maestro Camus.

“Non dargliela vinta, papà, ti prego! Non farla uscire! Siamo qui… SIAMO QUI!” urlò con quanto fiato avesse in gola, girandolo in posizione supina nella pallida speranza che potesse provare meno dolore. Non c’era fibra del suo corpo che non ululasse tutto il tormento che stesse vivendo, dal sudore, che gli rendeva la pelle più lucida, alla pancia, che bruciava come tizzone ardente, per non parlare della postura delle gambe serrate tra loro e scomposte, alle braccia, che talvolta arrancavano sul terreno, tentando di sorreggere tutta la sua struttura, senza riuscirci.

“Hy-o-ga, d-devo...”

Eppure pensava sempre a lui, con una devozione che traspariva dall’esterno. Michela chiuse le labbra, lasciando che le lacrime continuassero a lambirle le guance, poi si nascose nell’incavo del suo collo come era solita fare.

“T-t prego, papà, non sforzarti!”

“D-devo… anf, l-lui, voi...”

“Ti fa male, TI FA MALE!”

“Hy-oga… r-resisti, non sei… s-solo...”

Non demordeva, testardo, agitandosi nell’avvertire l’aura del Cigno così fioca, appena percettibile in quell’inferno di dolore. Lui non si arrendeva… poteva forse farlo lei?!

“Penserò io a lui, te lo prometto, s-sarò forte, diventerò forte, qui e ora, ma tu non muoverti, Camus, ti fa male!” lo supplicò, posandogli dolcemente una mano sull’addome per tentare di rassicurarlo. Bruciava, si scottò, ma non gli importava. Le contrazioni aumentavano se lui provava ad agire, se non avesse agito, forse…

Cosa fare, tuttavia? Erano entrambi in quella bolla di ghiaccio allo Zero Assoluto, come forzarla per uscire e, un secondo, anche se fosse uscita cosa avrebbe ottenuto?! Era così patetica…

In quell’istante, un scintillio argentato catturò il suo sguardo. Si sollevò appena sull’avambraccio di appoggio, mentre il sinistro era ancora sopra l’addome di Camus. Sempre più sbalordita, notò che quella polverina luminosa era in verità ghiaccio che, talvolta, si staccava dalla copula creata da Hyoga per poi posarsi, con naturalezza, sulla pelle del maestro. Ritirò istintivamente la mano, osservando che, proprio sulla pancia, si era già formata una sottile brina di ghiaccio che, pur rimanendo impercettibile al contato a causa di tutto quel calore, neanche si scioglieva. Ora anche quel microscopico corpuscolo andava a posarsi insieme agli altri, e poi un altro, e un altro ancora. Era… magico!

Mano a mano che cadeva, con intensità variabile, anche il respiro accelerato di Camus si placava, calmando anche gli spasmi, anche se non cessavano mai del tutto. Michela lo sentì posare debolmente la guancia su di lei, forse alla ricerca di un rifugio sicuro in mezzo a quella sofferenza. Lei, dopo avergli accarezzato dolcemente i capelli, si permise di prendere uno di quei fiocchetti tra le mani, osservandolo, per poi osservare quelli che formavano una sorta di patina brinata sulla pelle del maestro. Nonostante l’altissima temperatura, non si scioglievano perché -realizzò- mentre il cuore le pulsava più velocemente, erano allo Zero Assoluto, Hyoga li aveva lasciati lì per alleviare le sofferenze di Camus, il quale, grazie a quel raffreddamento, poteva resistere di più.

Si ricordò delle parole di Utopo, del fatto che fossero due poteri agli antipodi… e che erano gli unici due mezzi per ferirlo. Se… se ne avesse imbrigliato uno, forse avrebbe potuto..?

“P-piccolo mio, anf… - sussultò nel sentire la fievole voce di Camus manifestarsi ancora, mentre il Cavaliere si lasciava andare alle nebbie dell’incoscienza. Il ghiaccio cominciava a fargli effetto, aiutandolo a non cedere a Tiamat – Coraggio, sono con te...”

Michela lasciò che l’ultima lacrima le si seccasse all’angolo della bocca, poi, dopo avergli accarezzato un’altra volta i capelli e baciato una guancia per fargli percepire la sua presenza, si eresse barcollante in piedi, guardando il muro di ghiaccio tutt’intorno a loro.

Aveva avuto un’idea. Forse il vaglio per uscire da lì.

Sono con te, piccolo…

“Maestro… Camus!” gli occhi di Hyoga si riaprirono nel percepire il cosmo candido del suo mentore sorreggere il suo, quasi abbracciandolo. Si sentì confortato, non più solo. Era lì con lui, in qualche modo, sebbene stesse troppo male per alzarsi. Non lo avrebbe lasciato, mai, avvertì gli occhi inumidirsi, mentre le forze, lentamente ma consistentemente, tornavano.

Ti posso percepire, papà, sei con me, come sempre nei momenti di difficoltà. I-io… non ti deluderò più, mai più, lo giuro!

Finalmente riusciva a muovere nuovamente le braccia, le alzò con enorme fatica, stringendo la presa sulle estremità di Utopo, che cominciarono a congelarsi, in un nuovo guizzo di potere. Tuttavia, a metà, se ne accorse anche il Cigno, il ghiaccio non riusciva più a progredire, perché veniva sbarrato dalla vampa del nemico.

“Oh? Camus è ancora in grado, in quelle condizioni, di sostenerti con il suo cosmo?! Davvero patetico!”

Il corpo di Hyoga fremette a quella osservazione, la presa sul suo collo si era fatta più debole, permettendogli così di parlare.

“Non o-sare, Utopo! Non osare infangare il legame tra me e il Maestro Camus!”

“Già, ci pensate voi stessi, non è forse così?! Non siete nemmeno in grado di comunicare, ma correte come dei disperati per l’altro, senza tuttavia raggiungerlo!”

“Tu, maledetto! Come fai a…?!”

Utopo sapeva più di quanto riuscisse a far intendere, la consapevolezza che lui conoscesse il vissuto dei loro cuori, ripugnava il Cigno ancora di più che vedere quel pazzo uccidere quello strano uccello e ingurgitarne l’organo.

“Uhmpf, quella sgualdrina di Nero Priest ha poteri che si fondano sulle emozioni e pulsioni umane, lo saprai senz’altro, visto che l’avete affrontata… - lasciò la frase in sospeso, mentre, schiacciandolo ancora più a terra, cercava di averla vinta su di lui – Ciò che non sai è che, chi è in possesso di simili doti, è facilmente sondabile da chiunque, è privo di difese, perché le emozioni indeboliscono la mente, rendendola così terreno fertile per attecchire!”

Hyoga non rispose, era semplicemente schifato alla sola idea che quell’essere potesse aver visto loro, il legame che li univa, le incomprensioni, le sofferenze; ciò lo fece montare di rabbia, portandolo ad espandere ulteriormente il cosmo nel tentativo di vincerlo. Tuttavia il ghiaccio, sebbene fossero in due, non riusciva ad andare più a fondo di così, la situazione rimaneva quindi sostanzialmente in stallo da quel punto di vista, ma lui permaneva ad essere in svantaggio, avendo subito più danni.

“Risparmiati lo sforzo, ragazzo, non potete sconfiggermi. Non potevate farlo prima, non potete neanche adesso: due mezzi cosmi di due agonizzanti, non hanno energia sufficiente per recarmi danno!” li insultò ancora, in tono denigratorio, ghignando.

“Ba… bastard..!”

Hyoga non ebbe il tempo di finire la frase, che la mano di quell’essere si mosse velocemente sopra la sua bocca, tappandogliela, costringendolo poi a piegare innaturalmente la testa all’indietro e mostrare così il niveo collo all’entità che, sempre con quel sorriso meschino sulle labbra, stava alzando l’estremità artigliata sopra di lui. Realizzò, con un brivido lungo la schiena, le sue intenzioni.

N-no, no! Non può finire così, non posso finire così, d-devo...

“Muori, Cigno!”

E il bracciò calò, senza che Hyoga potesse impedirlo, senza che Camus, esausto al suolo, potesse urlare il nome dell’allievo. Ma qualcosa si frappose comunque, Utopo ebbe appena il tempo di realizzare l’avvicinamento di una variabile impazzita -come l’avrebbe definita lui stesso- che si ritrovò proiettato di lato, dopo che un assalto di feroce potenza lo aveva colpito precisamente poco sotto il costato. La sua visuale si perse in mille sfumature indistinguibili, mentre l’urto contro la parete gli fece vibrare tutte le ossa e i muscoli.

Cosa… diavolo… era appena accaduto?! Chi aveva osato…?!

“HYOGA!!!” una voce femminile, rotta dalla paura, gli diede la risposta che stava cercando. Ancora incastrato nella parete, da quanto fosse stato l’impeto, vide con distinzione quel patetico rifiuto di semi-dea dirottarsi verso il corpo di Hyoga, che respirava a scatti. Sarebbe bastato poco per ucciderlo, e invece… una simile interferenza lo fece vibrare di rabbia, mentre, con un sforzo non da poco liberava almeno un braccio.

Un affronto… che non avrebbe dovuto subire!

Michela intanto si era diretta verso Hyoga dopo aver inferto un colpo da distanza, fece per inginocchiarsi al suo fianco, ma nell’avvicinarsi, nel distinguere le sue condizioni, si bloccò, del tutto sconvolta.

“Mich-e-la! - la voce di Hyoga, mentre apriva i bei occhi azzurri usciva a fatica, la terrorizzò – N-no, non dovevi pensare a me, d-dovevi proteggere il… maestro...”

“Vi proteggerò entrambi, Hyoga, vi...” le si inumidirono gli occhi nel vedere per la prima volta, da vicino, il suo ragazzo ridotto così, ad un colabrodo. Anche lui provò ad alzarsi ma ricadde a terra, respirando con sempre maggior patimento.

Utopo lo aveva barbaramente disfatto dell’armatura, i cui pezzi erano sparsi per il pavimento, e poi era passato direttamente al suo corpo, infierendo più volte senza la benché minima pietà. La maglia era a brandelli, infatti, alcuni pezzi poi erano diventati un tutt’uno con la carne, bruciature qua e là, escoriazioni varie e, non in ultimo, quel sangue rubino che gli fuoriusciva dalle labbra logorate. Michela non riuscì ad avvicinarsi oltre, si sentì solo montare da una rabbia scellerata, che mai aveva provato in vita sua. Avvertì ancora, e di nuovo, le sue interiora ribollire, insieme al sangue, quello sì, le era capitato di frequente, ma in nessuna occasione le aveva assecondate, provandone paura. Quella volta no… non aveva più paura di seguire i suoi istinti, non dopo tutto quello che quel mostro aveva fatto provare a Hyoga e Camus.

Per pochi, brevi, necessari, secondi, si fece quieta, assottigliò le labbra, stringendo i pugni. Silenzio… avvertiva nient’altro che silenzio, mentre, lentamente e implacabilmente alzava lo sguardo in direzione di Utopo che aveva preso a chiamarla.

“P-patetica semi-dea… - il tono del nemico giunse a lei sibilante, mentre lo vedeva staccarsi dalla colonna e avanzare verso di lei, furioso, gli occhi iniettati di sangue – Devo averti più volte ripetuto che mi può danneggiare solo… solo...”

Ma fu costretto a bloccarsi, un gelo netto, invasivo, quasi fagocitante, seguito da un dolore estremo, lo fece cadere in ginocchio. Rantolò senza poterlo nascondere. Si tastò, incredulo, la zona lesionata, scoprendone una bruciatura che si allargava a macchia di leopardo nelle zone vicine, persino agli organi sottostanti, difficoltosamente assemblati. Era… era un bruciore profondo, non dissimile da una ustione di terzo grado, ma… ma i tessuti sottostanti, contrariamente alla pelle martoriata, avevano preso invece a congelarsi, deteriorandoli irreversibilmente.

“Cosa… cosa hai f-fatto, maledetta?! C-come hai potuto, t-tu…?!” non riuscì a proseguire, tossì e sputò sangue, piegandosi su sé stesso vittima di un dolore mai provato prima.

Hyoga fissava allibito la scena, cercando al contempo di mettersi quanto meno seduto, ma le forze non era sufficienti. Osservò la sua ragazza, quella strana luce che aveva preso a brillare nel suo volto insolitamente inespressivo per lei, che aveva sempre avuto la forza di un ciclone nel mostrare i propri sentimenti. Ingoiò a vuoto, quasi non riconoscendola.

“Miche-la!” la provò a chiamare, da terra, protraendo un braccio nella sua direzione. Avrebbe voluto raggiungerla e toccarla ma… gli mancò nuovamente il fiato in corpo, annaspò.

“”RISPONDIMI, RAGAZZINA!!! COME HAI POTUTO…?!”

Ma di nuovo non ebbe il tempo di finire la frase, perché fu centrato in pieno volto da un destro della ragazza che, alla velocità del lampo, si era gettata su di lui, con i pugni infuocati e un’aura… celestina?! Non ebbe il tempo per capirlo, perché si ritrovò schiantato a terra a grande velocità, aprendo così una voragine con il suo stesso volto. Alcuni denti, prima perfettamente assortiti, gli saltarono, ma nulla faceva male come quel… quel fuoco che sembrava ghiaccio!

“TACI, LURIDO BASTARDO!” sibilò Michela, atterrando appena sul pavimento per poi ripartire subito all’attacco con l’ovvio intento di non concedergli il benché minimo riposo.

“Michela… - Hyoga si ritrovò per la terza volta a chiamarla. Stavolta, sussurrandolo tra i denti con enorme sforzo, riuscì a rimettersi almeno seduto – Ma cosa… cosa ti sta succedendo?” si chiese, stordito, osservando automaticamente la cupola che aveva ricreato lui. Sotto alla suddetta, Camus giaceva ancora svenuto, un poco meno sofferente rispetto a prima, ma sempre scomposto.

Il giovane Cavaliere di Bronzo sussultò nello scorgere una falla nella sua barriera, piccola, ma sufficiente per uscire. Realizzò cosa avesse provato a fare Michela nello stesso istante in cui Utopo, cercando di sollevarsi, la faccia ricoperta di sangue, comprese a sua volta.

“Tu, maledetta, hai… hai fatto confluire lo Zero Assoluto di Cigno, sul tuo fuoco, per… per...”

Ancora non terminò, un calcio infuocato della ragazza, lo piallò sul pavimento, portando poi il suo corpo a cozzare su una colonna, sulla quale tentò di sorreggersi.

No, non sarebbe durato ancora molto a quel ritmo, avrebbe presto dovuto cambiare gli organi, ma quella megera non lo lasciava stare. La fissò, con una punta di paura; paura che non aveva mai provato in vita sua.

Dalla mano della ragazza fuoriuscì una fiamma color azzurro, l’aura intorno a lei si fece di uno splendente biancore inframezzato da alcune lingue di fuoco rosse.

“Maledizione…” imprecò tra i denti, sputando un incisivo prima di osservare, con frustrazione, le sue condizioni. Si rammentò delle parole di Fei Oz Reed.

 

-Ma stai attento, tuttavia, se userai, come esca, una delle semi-dee…

-Sire, mi dite di stare attento a… una mezza umana?! Noi siamo molto di più persino delle divinità e Voi temete che…

-Io non temo nulla, Utopo, sono solo… previdente!

Lo aveva fulminato con gli occhi neri, come monito.

-Mi consigliate quindi di prestare più attenzione a loro che non alla divinità di nome Francesca?!

-Esattamente, sì… e di non usare Marta, con lei sarò io a vedermela di persona!

-Sire… non posso dire di comprendere le vostre parole, ma farò come raccomandate!

Aveva risposto, infine, in tono fintamente umile, chinandosi in segno di ossequio, continuando però a guardarlo.

-Non puoi capirlo, in effetti, Utopo, non sei mai stato… umano… non sai, non ricordi, le immense potenziali di cui essi possono disporre…

 

Aveva scelto infine Michela, la più debole delle allieve dell’Acquario, colei che le sembrava più idonea per le sue scarse attitudini. Così pensava...

...Sbagliando, ormai era evidente, perché l’aveva erroneamente sottovalutata.

La vide incombere su di lui, incontenibile. Tremò suo malgrado, sentendosi patetico nel provare quell’insano sgomento per una ragazzetta di neanche due decadi di vita.

“Utopo… te lo ha già detto Hyoga prima, ma devi essere duro di comprendonio: ci sono cose che non ti puoi proprio permettere di toccare… - lo minacciò, chiudendo con foga le mani sulle fiamme azzurrine, le quali le circondarono la pelle delle braccia senza apparentemente scottarla – una di queste è la mia… FAMIGLIAAAAAAAAAAAAAAAAA!!!” urlò, prima di caricarlo, come imbizzarrita, con una serie di pugni di intensità crescente.

 

 

 

 

 

Angolo di MaikoxMilo

 

Ergon, l’impulso vitale” da il titolo a questo quarto capitolo dei Cinque Pilastri, e non avrei potuto sceglierlo meglio.

Impulso vitale è quello che spinge il frammento dell’anima di Dègel a continuare a mostrarsi a Marta.

Impulso vitale è ciò che ha spinto Stefano a scappare dalla prigionia per cercare i suoi genitori.

Impulso vitale è il Potere maligno di Clio, la sua capacità di assorbirlo e prelevarlo per scopi che, qui in questo capitolo, vengono solo accennati.

Impulso vitale è lo stesso Principio Primo contenuto nell’addome di Camus, al quale il Cavaliere si sta cercando di opporre strenuamente

Impulso Vitale è, infine, ciò che muove tutti i protagonisti di questo scoppiettante capitolo.

Vi potrei spiegare un sacco di cose qua sotto, ma per stavolta preferisco non dirvi niente e lasciare il tutto alla vostra immagine e intuizione (sarà comunque ben trattato più avanti). Ho comunque disseminato un sacco di indizi qua dentro, ciò vi da la chiave per aprire un mondo fatto di teorie e idee che, se vorrete, potrete formularmi privatamente o tramite recensione, o ancora tenere per voi se preferite.

Io, nel mentre, sperando che abbiate apprezzato anche questo capitolo, vi porgo i più sentiti ringraziamenti per continuare a leggere queste mie storie.

A presto! :)

 

 

 

Ritorna all'indice


Capitolo 5
*** L'altra faccia della Creazione ***


Capitolo 5: L’altra faccia della Creazione

 

 

“...E questo è per il Maestro Camus, verme!” urlò ancora Michela, totalmente fuori di sé, continuando a picchiare selvaggiamente Utopo sotto di sé, il quale apparentemente all’angolo, non riusciva a far altro che subire l’ennesimo pugno sulla cassa toracica e, ancora, ancora, senza essere in grado di opporsi, in testa, sulle spalle, ovunque la furia della semi-dea dilagasse.

Avrebbe già dovuto essere in poltiglia, capitolare, stante la forza che ci stava mettendo, eppure… eppure così non era, non sembrava essere, per lo meno. Il suo corpo non faceva altro che rimbalzare per terra, totalmente in balia del fuoco allo Zero Assoluto che la ragazza era stata in grado di maneggiare, ma il colpo di grazia non arrivava mai. Una volta che Michela si fermava un attimo per rifiatare, il ghigno di Utopo compariva sul suo volto sanguinolento e per metà bruciato, costringendo la giovane a riprendere da dove aveva iniziato, sempre più stremata, perché le sue energie non erano infinite e combattere a quel ritmo la prosciugava sempre di più.

Ciò non era normale!

Ciò non POTEVA essere normale!

Hyoga annaspò, tentando di rialzarsi in piedi. Si girò prono, cercando il sostegno delle sue braccia che tuttavia tremavano come alberi sbatacchiati dal vento. Pregò il suo corpo e il suo cosmo di resistere, perché aveva una brutta sensazione, terribile, che non faceva che acuirsi minuto per minuto. Non poteva dargli fede, però!

Finalmente riuscì a rimettersi quanto meno sulle ginocchia, ingoiando aria, che quasi gli mancava, a forza e cercando allo stesso tempo di calmare i propri battiti cardiaci. L’attacco sfrenato di Utopo lo aveva distrutto, non c’era fibra del suo corpo che non ululasse dolore. Si tastò la pelle dell’addome e del torace, sussultando nel sentirne concretamente le bruciature aperte tra le dita. Resistette, non permettendosi di far trasparire il minimo segno di dolore, così gli aveva insegnato Camus.

Camus!

Scoccò una breve occhiata al mentore, ancora steso poco più in là, quasi del tutto incosciente. Michela lo aveva sistemato supino, ma lui, prima di cedere del tutto, aveva comunque provato a girarsi per correre in loro soccorso. Era infatti leggermente sdraiato su un fianco, la mano destra, ormai immota, a penzoloni sopra il ventre per tentare di nascondere ancora una volta l’ombelico su cui si era formata ormai una patina d ghiaccio allo Zero Assoluto. Essa si stava sviluppando verticalmente, lambendo la zona del basso addome da una parte e salendo dall’altra fino all’altezza dello sterno. Quello… quello lo avrebbe aiutato a resistere a Tiamat, Hyoga lo sapeva, era riuscito nell’impresa che si era predisposto. Sorrise, felice di essere finalmente stato in grado di aiutarlo, ciò gli fece forza, spingendolo ad agire.

Prima una gamba, poi l’altra, con lentezza esasperante. Infine fu in piedi, sebbene la testa gli girasse e la vista fosse paurosamente offuscata, rabbrividì nel distinguere Michela ancora intenta a combattere, con perseveranza, ignara però, nella foga, che non poteva essere normale l’assoluta naturalezza con la quale quel mostro subiva la sua fiamma congelata. Cosa aveva in mente Utopo?!

“Ancora sogghigni, maledetto stronzo, anf?! - lo pressò lei, sempre più fuori di sé, sebbene il fiato cominciasse a mancarle – Ora basta, mi hai stufato, MOSTRO! Pagherai… ogni… singola… cosa!” ululò, inviperita, devolvendo tutta sé stessa in un crepitare di fiamme che aveva del prodigioso.

Il colpo fu sferrato… ma abilmente fermato da qualcos’altro che scoppiettava in un altro palmo ammantato da una fiamma color nero pece; una fiamma di tenebre. Michela fu bloccata nuovamente a metà strada; il peggior sentore di Hyoga divenne certezza appena un attimo dopo.

“Ma cos…?!” biascicò la giovane semi-dea, incredula, mentre vedeva Utopo alzarsi come se non avesse subito alcun colpo, tenendola ferma lì, impossibilitata sia a tornare indietro che ad andare avanti. Il ghigno divenne una festosa risata.

“Ora capisco appieno le parole di Fei Oz sul vostro potenziale pressoché illimitato. Devo ammetterlo: me ne dolgo sinceramente di averti presa sotto gamba!” disse, mentre, a fatica, ma senza grossi sforzi, si metteva in piedi, tenendo sempre la ragazza vicina a sé, troppo vicina.

“Mich...” Hyoga tentò di intervenire ma, fatto un passo, crollò a terra completamente sfiancato, tastandosi il fianco sinistro appena sotto il capezzolo dal quale provenivano fitte sempre più frequenti e dolorose.

Maledizione… la milza deve essersi danneggiata a seguito dei pugni subiti precedentemente -realizzò in un brivido sempre più concreto- Merda, non adesso, non ancora… loro sono ancora in pericolo di vita, non cedere, Hyoga!

Si raccomandò a sé stesso, dicendosi che non poteva cedere, non finché Michela e Camus non sarebbero stati al sicuro, in salvo.

“Dannato! Come puoi?!” esclamò Michela, con una punta di terrore, realizzando che le fiamme nere di quell’essere -che erano state chiamate di Kdur, anche se non conosceva il significato di quella parola- stavano fagocitando le sue, azzurrine ghiacciate, guadagnando mano a mano a terreno. Bruciavano con intensità crescente, rassomigliando ad un’onda calda di 100 vulcani che eruttavano contemporaneamente, no, ben di più, quel calore stava diventando davvero insostenibile, persino per lei che maneggiava la fiamma di suo padre Ares.

“Fiamma nera batte comunque fiamma celeste, anche se devo ammettere che convogliare lo Zero Assoluto del biondino sul tuo colpo è stata una intuizione niente male! – si congratulò Utopo, fintamente cortese – Ma tu rimani una patetica semi-dea, un mezzo essere che non appartiene a nessuno dei due mondi, nonché la più debole delle allieve dell’Acquario! L’elemento principale del tuo colpo è comunque il fuoco e, per quanto tu possa provare ad infarcirlo di altro, non può scalfirmi!”

“Uaaaaaaaaaaaarrrrggghhh!!!”

A Hyoga si accapponò la pelle nel sentire l’urlo viscerale della sua fidanzata, il cuore accelerò le sue pulsazioni per la paura provata, incrementando altresì l’emorragia interna che il ragazzo percepiva diffondersi dentro la sua cavità addominale sempre più bollente, come… come…

Cadde riverso a terra, sputando sangue, trattenendosi la pancia con tutte le sue forze. Era orribile, si sentiva le interiora impregnate di una sostanza calda e liquida che continuava a dilatarsi e spandersi, prosciugandogli le energie. Ormai non vedeva quasi più nulla, a pochi centimetri di distanza da lui era tutto offuscato e, presto, lo sentiva, non avrebbe più neanche distinto le sue mani insanguinate che tendevano verso le due persone più importanti della sua vita senza tuttavia raggiungerle, perché erano troppo, troppo, distanti.

“Michela! Maestro Camus!”

Anche i toni di voce si facevano sempre più bassi, quasi rimbalzavano nella sua mente senza essere acciuffati… si stava arrendendo?! Stava per gettare la spugna?! N-no, neanche fra un milione di anni, neanche contro il nemico più forte mai affrontato!

I sensi lo stavano per abbandonare, era vero, così come era accaduto nella battaglia contro Milo durante la corsa alle Dodici Case, ma, proprio per questo, il Cigno sapeva che poteva combattere anche privo di quelli.

Per… per le persone che amava. Sempre!

“Morirai, ragazza, insieme al biondino che sta già agonizzando! - la fredda voce di Utopo gli giunse comunque tramite il suo Settimo Senso che si stava elevando sempre di più, oltre il limite estremo – Morirete… come se una rovente colata piroclastica si abbattesse su di voi, INCENERITEVI!”

“N-no, a-anf, non te lo… permetterò!”

Hyoga sussultò nel riconoscere la voce tumefatta del suo maestro. Lo vide con gli occhi della mente, Camus, la persona più vicina alla sua idea di padre, provare nuovamente a muoversi, febbrilmente, a scatti annacquati, tanto era il dolore, ma nitidi. Stava provando a reagire per lui e Michela, pur non avendo forze, nella paura di perderli. Si era voltato prono, ma le energie per rimettersi in piedi gli mancavano, mani che arrancavano nella loro direzione, cercando disperatamente di raggiungerli. Fu il cosmo di Hyoga a rispondere, a lambirlo, sussurrandogli di non intervenire, di rimanere lì, di fidarsi di lui, perché… l’avrebbe protetta lui Michela; LI avrebbe protetti entrambi!

Maestro Camus… So quanto tenete a lei, alle vostre nuove allieve, a vostra sorella Marta, so che fareste di tutto per salvarle, come con Isaac, andando oltre i vostri limiti, ma… rimanete lì, vi prego, non siete in condizioni di combattere, muovervi aumenta le contrazioni, ed io… io voglio salvarvi, voglio proteggervi e proteggere loro, come faceva… come faceva il vostro Isaac, perché io… sì, ora posso farlo, Maestro, sono… sono cresciuto!

Gli parve si acquietasse un minimo, ingoiando a vuoto. Era stremato, le palpebre fremettero più volte prima di aprirsi debolmente, prima che i suoi occhi blu si incrociassero con i suoi, cercando di raggiungerlo almeno con lo sguardo, perché fisicamente non poteva.

“Hy… Hy-o-ga...”

“P-posso farlo, Maestro, anf, b-bruciando quel che rimane della mia vita!”

“N-no! Anf, p-perché t-tu ancora non...”

...Non capisci che è con la tua vita che salvi le persone, non con la tua morte, m-mio Hyoga!

Avrebbe voluto tanto dirgli Camus, prima di perdere nuovamente coscienza per il dolore e per lo sforzo di trattenere Tiamat dentro di sé.

Il messaggio non riuscì ad arrivare, ma al Cigno sembrò comunque che quel ‘no’ potesse identificare tutto un mondo. La voce di Camus lo aveva raggiunto ovattata, flebile, tremante, prima di svanire. Chissà cosa gli avrebbe voluto dire, chissà cosa avrebbe voluto fare, probabilmente salvarlo dalla scelta di sacrificarsi, ma non era più tempo per le incertezze, né per i dubbi.

“Se è con la mia vita che posso salvarvi entrambi, allora la brucerò con tutto me stesso!” affermò risoluto Hyoga, facendosi forza e apprestarsi così ad agire.

Con un titanico sforzo, sputando un grumo di sangue che avvertiva nella gola, si rimise in piedi, aprendo gli occhi, che vedevano offuscato, e abbracciando ancora una volta il Cosmo Ultimo.

“Ultimo per davvero, stavolta...” si disse tra sé e sé, consapevole di star gettando la sua vita. Non era in condizioni buoni, un assalto ancora lo avrebbe esaurito, ma perché esitare se intanto il suo destino era già segnato?!

Ancora una volta… per amore!

Scattò in avanti, dispiegando le ali del Cigno, infondendo tutto sé stesso, tutta la sua rabbia, tutta la sua disperazione. Si lasciò lambire interamente dallo Zero Assoluto, proiettandosi contro Utopo, il quale, scoccandogli un’occhiata di biasimo misto al disgusto, sbuffò.

“Un attacco suicida, Cigno… facevi meglio ad agonizzare per terra!”

“TACI, UTOPO!”

L’obiettivo di Hyoga non era direttamente lui, ma la salvezza di Michela, la quale, semi-incosciente, cercava di utilizzare la fiamma azzurra per preservare il suo corpo dalla vampa nera che la avvolgeva e che riusciva comunque a bruciarle la pelle esposta. La vide aprire debolmente gli occhi, stremata, guardandolo, le sue labbra si mossero appena, non producendo però alcun suono. Il nemico la stava soffocando con quel braccio artigliato sul suo collo e la Fiamma di Kdur sull’altro. Il ragazzo si sentì pervadere da una rabbia feroce, spietata, mentre i cristalli di ghiaccio e morte, per l’irruenza, si diffondevano in tutta la cattedrale.

Utopo inaspettatamente non si mosse ancora, lo aspettò, gli occhi ricolmi di disapprovazione e di superbia, come se si fosse già aspettato un attacco simile. Ciò avrebbe dovuto mettere in allerta Hyoga, ma la smania di salvare la persona amata, la paura di perderla, aveva offuscato la sua capacità di giudizio. Colui che si professava il Generatore dei Mondi sorrise di sbieco nel vederselo ormai prossimo, interruppe così la sua fiammata, portando, con una azione rapida, il corpo della semi-dea contro di sé per poi lanciarlo subito in aria, neanche fosse stato un foglietto di carta da buttare. Quel gesto così violento e non previsto, obbligò il Cigno a compiere una brusca, quanto disperata, virata per afferrarla.

La riuscì a prendere con il braccio destro, il fianco sinistro era sguarnito, ma non importava, la sorresse con tutte le forze, facendole appoggiare la testa sulla propria spalla e iniziando ad espandere il suo cosmo per contrastare le bruciature che lei aveva nuovamente subito. Ebbe giusto il tempo di fare quello, prima di percepire nitidamente qualcosa conficcarsi dentro la sua carne, proprio all’altezza della milza ormai già ampiamente spappolata.

A Hyoga parve che il suo respiro e il suo stesso cuore si fermassero simultaneamente. Dolore. Lancinante. Ma non un solo grido. Non un solo cedimento. Strinse istintivamente Michela a sé, abbracciandola. Almeno lei era salva, lui invece… il suo sangue ancora pulsante gocciolò per terra, gorgogliando sinistramente. Si ritrovò a stringere la mascella per trattenere il dolore, rivoli purpurei gli sporcavano le labbra secche, colando poi sul mento. Di nuovo il suono del suo sangue che cadeva per terra, un gloglottio inesorabile che era destinato ad aumentare finché non lo avrebbe privato delle forze e del respiro. Non ci diede comunque peso, rimanendo a fissare furioso gli occhi freddi di Utopo, il quale, contrariamente a quanto avesse sperato il Cigno durante il suo assalto, era rimasto invece a debita distanza di sicurezza e ora lo fissava vittorioso, continuando ad irriderlo con quella sua espressione da folle. Anche il nemico stava perdendo inspiegabilmente sangue dalla zampa artigliata, che era infatti corso a tamponare subito con un capo della lunga veste. Solo a quel punto Hyoga capì come avesse agito, le gambe quasi gli cedettero ma le divaricò per non cadere, trattenendosi con la mano libera la zona lesa che sanguinava copiosamente.

Aveva fallito.

Utopo non era caduto nella trappola, non si era avvicinato a lui, ma era rimasto lontano, limitandosi a tranciarsi un unico dito per poi conficcarlo proprio nella milza di Hyoga, ormai ridotta ad una poltiglia sanguinolenta.

“Pensavi… che fossi così stupido, Cigno?!”

“U-urgh...”

“Pensavi che potessi cadere nella tua trappola?! - ripeté Utopo, soddisfatto – Sì, l’intuizione che hai avuto è corretta: quando usi lo Zero Assoluto anche tu diventi un super-conduttore, potresti varcare ogni confine fisico, infliggere danni mortali a chiunque, sia anch’essa un’anima incorporea, sia anch’essa un essere perfetto come me, ma… hai dimenticato, mio povero giovanotto fin troppo spavaldo, che anche io sono uno scienziato, conosco gli effetti di spingere tutto oltre il limite e… posso evitarli agevolmente!” qualcosa lampeggiò selvaggiamente nei suoi occhi, un passo risuonò nella cattedrale gotica che rappresentava il suo mondo.

Hyoga non disse niente, quasi non aveva la forza per parlare, né per muoversi, solo stringere Michela, che stava difficoltosamente recuperano coscienza, contro di sé. Era davvero la fine per lui, non sapeva più… non sapeva più…

Il buio scese sulla sua percezione, persino il Settimo Senso andava svanendosi, inevitabilmente. Il suo ultimo sforzo si era rivelato vano.

In quell’istante la ragazza si riprese, quasi boccheggiò, accorgendosi di essere stretta al suo fidanzato, appoggiata con il mento alla sua spalla destra. Provò l’istinto di abbracciarlo a sua volta, rendendosi però conto, mentre passava il braccio sul fianco opposto, che Hyoga aveva sussultato e che qualcosa di tremendamente caldo le stava colando sulla pelle. Sobbalzò a quella percezione.

“H-Hyoga, c-cosa… - cercò di reggersi da sola, sebbene ne avesse a stento le forze, abbassò di riflesso gli occhi, inorridendosi appena comprese cosa fosse accaduto – N-no… n-no… NO! Hy-Hyoga, amore mio, n...”

Ma inaspettatamente il Cigno la abbracciò con tutte le energie che aveva ancora in corpo, la cinse, come non si era mai permesso di stringerla, come avrebbe tanto voluto stringerla -si rese conto- magari nel letto, mentre facevano l’amore per la prima volta, promettendosi di esserci per sempre.

Che… strano… pensiero… prima di morire!

Sorrise amaro, mentre, con una leggera pacca, volle l’attenzione di Michela.

“M-michy...”

“Non parlare, Hyoga, ora non parlare! - urlò lei, spaventatissima, scoppiando a piangere mentre istintivamente premeva la sua mano sul fianco del suo ragazzo nel disperato tentativo di arrestare l’emorragia – Camus risolverà tutto, ci penserà lui a te, CI PENSERA’ LUI!!!”

Ma il Cigno scosse debolmente la testa, sempre con quel sorriso amaro e arrendevole che lo rendeva quasi evanescente:

“N-no… devi essere tu ad avere cura di l-lui, tu e le altre… ne ha già passate troppe, per causa mia, p-promettimi che lo proteggerai!”

“No, lo faremo insieme, Hyoga, tu ed io, insieme a Marta e Francesca… ma lo faremo, sei tu che devi promettermelo!”

“N-non ho quasi più forze per… per riuscire a farlo, ma… ma posso farti ancora da scudo, s-se tu ora vai da lui, d-dentro la barriera di ghiaccio. Utopo non potrà più...”

“NO, NON VADO! RIMANGO QUI, HYOGA, CON TE!!!”

Il cigno scosse ancora una volta la testa, sempre più pallido in volto:

“P-per favore, vai… anf, stiamo solo perdendo tempo, ed io...”

“No, ragazza – intervenne Utopo, esasperato da quella scenetta che lo disgustava – Rimani pure lì, abbarbicata a lui, così vi farò fuori entrambi senza il minimo sforzo!”

Michela non ascoltava più nessuno. Riusciva solo a piangere, di nuovo, in lacrime, stringendo ancora di più Hyoga a sé, il quale, a sua volta, tentava di alzare il braccio libero, cercando disperatamente di opporsi con le esigue forze restanti che si andavano a prosciugare.

“Maledetto, anf… l-la proteggerò, fino all’ultimo respiro!”

“Non credo ci vorrà molto, allora, biondino! - lo canzonò in tono irriverente, avanzando inesorabilmente verso di loro. Ormai la vittoria arrideva completamente a lui, erano come due insetti finiti nella tela del ragno – Rendetemi grazia per farvi passare a miglior vita insieme, così vi potrete amare nell’oltretomba! Dite addio ai vostri puerili sogni, siete...”

Ma i suoi occhi, quasi languendo, si spalancarono a vuoto, un ghigno di tutt’altra effige si manifestò sul suo volto; la Vampa Nera di Kdur, con la quale si stava già apprestando a sferrare il colpo finale, svanì in un istante.

Hyoga non capì subito cosa fosse successo. Osservò sbigottito il volto del nemico, ora scosso da fremiti indistinti, i bulbi oculari che si giravano da soli, mentre dalla bocca colava giù una bava appiccicosa. Lo vide ancora indietreggiare, ondeggiando avanti e indietro come se il suo cervello non fosse più capace da solo a coordinarne i movimenti. Le sue mani arrancarono sull’addome, tastando a tentoni, fino a riuscire a toccare finalmente qualcosa.

Gli occhi del Cavaliere del Cigno seguirono attentamente, per quanto gli fosse possibile, i movimenti delle braccia del nemico, finché non distinsero finalmente la ragione di quella reazione così inaspettata, di quel malore che sembrava averlo travolto. Sussultò nitidamente nel riconoscerne la forma e il materiale.

Ciò che si era infatti conficcato con precisione nello stomaco di Utopo, era una freccia; una freccia ghiacciata che dava bagliori dorati e che, nel punto di penetrazione della punta, emanava una sorta di fumo bianco non ben definito che pareva olezzo di…

Di digestione, di putrefazione… -si rese mentalmente conto Hyoga, rabbrividendo istintivamente- ma cosa diavolo…?!

Cadde infine Utopo per terra, bocconi, a faccia in giù, la freccia penetrò ancora di più le sue carni. Le sue corde vocali produssero un solo sibilo striminzito, poi venne scosso dalle convulsioni, dal vomito, che quasi lo soffocava, perché la posizione cui era caduto non gli consentiva di fare altro. Sembrava soffrire le pene dell’inferno…

“Papà!!!”

Fu l’esclamazione di Michela a ridestare Hyoga da quello spettacolo aberrante che non riusciva a non guardare. Si riscosse, mentre la ragazza tra le sue braccia, frenetica, tirando su con il naso, si raddrizzava, sbracciandosi come ad indicare a qualcun altro che erano lì.

Anche il giovane Cigno riuscì infine a voltarsi, percependo dietro la sua schiena un cosmo colossale, che non riusciva del tutto a riconoscere e che tuttavia… sobbalzò nello scorgere il suo maestro, così diverso dal consueto ma… pur sempre lui. Sì, era lui, non poteva essere nessun altro!

“Maestro… Camus!”

Provò a chiamarlo, ma dalle sue corde vocali non uscì che un suono gutturale, rauco, nient’altro, Avrebbe voluto dirgli tante cose, ma… qualcosa lo bloccava. Tornò a fissare Utopo, che continuava a gemere, a vomitare e contrarre involontariamente i muscoli, come se qualcosa lo mangiasse da dentro,ma… che cosa?!

Avvertì appena un bacio tra i capelli. Era Michela, che, nuovamente con il morale alto, sembrava nuovamente speranzosa in un decorso favorevole dell’intera situazione. Gli sorrise, raggiante, nonostante il residuo delle lacrime sulle guance.

“Te lo avevo detto! Resisti, Hyoga, ti prego! Ora ci penserà Camus a te!”

E si allontanò, correndo come meglio poteva, sebbene quello sforzo la sbilanciasse e fosse a sua volta ridotta ai minimi termini. Di nuovo Hyoga si voltò, una punta di paura cruda, netta.

N-no, Michela non andare! Non andare, ti prego! Quello non è…

“Non è… lui, anf!”

Riuscì solo a biascicare, prima di sentirsi cadere a sua volta a bocconi, esausto, a poca distanza dal nemico. Michela, dal canto suo, non percepiva altro che un enorme sollievo che annebbiava tutte le altre percezioni. Camus era intervenuto per loro, Camus era lì, aveva recuperato la coscienza, Camus era…

Era… era bello, bellissimo, in quella posizione con quell’arco fatto di ghiaccio tenuto tra le mani, le braccia tese ad imitare la posizione tipica degli arcieri. Aveva ancora un ginocchio per terra, l’altro piegato per bilanciarsi, ma sembrava pronto ad alzarsi e riprendere a combattere. I muscoli scultorei dell’addome ben contratti, definiti, nonostante il sangue dorato non avesse smesso di fuoriuscire dall’ombelico; l’espressione leggerissimamente tirata dalla stanchezza, ma indomita e determinata come l’allieva l’aveva sempre scorta; gli occhi…

Ecco, forse erano gli occhi il particolare che avrebbero dovuto metterla maggiormente in guardia, perché pur essendo ben aperti, blu, emanavano un strana luce antica, che aveva un non so che di ineffabile, di divino di… oltre… oltre l’umana essenza, ecco!

Ma in quel momento non poteva soffermarsi su una quisquilia simile: Hyoga stava male! Camus era intervenuto per loro! Sarebbe andato tutto bene! Sì, sarebbe andato tutto bene!

L’arco era ancora proteso nella direzione del nemico, e quindi la sua, perché era in mezzo… ma neanche quello importava.

Camus si alzò lentamente in piedi, sempre con quel meraviglioso arco teso, la pelle lucida per il sudore, i capelli che ondeggiavano appena sui pettorali, gli ultimi ciuffi solleticavano la pelle dell’addome, sfiorando l’ombelico, che emanava luce a sua volta.

Era veramente bello il maestro, ed… eccezionale, sì, lo era!

“Maestro!!!” lo chiamò trillante l’allieva, fuori di se dalla gioia, allargando le braccia mano a mano che si avvicinava a lui. Ma Camus non sembrava nemmeno vederla, fisso com’era a scrutare l’agonia di Utopo.

Hyoga, dal basso, lo guardò e, con orrore, notò che un leggero ghigno si era dipinto sulle labbra dalle quali usciva un respiro appena dispnoico. Ghignare… non era da Camus, Hyoga lo sapeva sin troppo bene. Tremò consistentemente a quella manifestazione aliena. Raccolse tutte le sue energie e il fiato per gridare in direzione di Michela. Doveva avvertirla, a qualunque costo, altrimenti…

“M-Mich...”

“Aiu-t-ami...”

La presa di Utopo sulla sua mano lo sconvolse. Il pilastro, parlando a stento nel suo stesso vomito, lo aveva afferrato, ma non era un attacco diretto, era…

...una richiesta di aiuto…

Hyoga non rispose, era frastornato. Lo aveva odiato, era stato un verme, un mostro, un abominio, eppure, nonostante questo, vederlo agonizzare così atrocemente per mano del suo maestro lo aveva scosso nel profondo, perché Camus era sempre stato giusto, non avrebbe mai provato godimento a far soffrire un altro essere vivente, mai, ne era più certo. Lo guardò, provandone un poco di compassione: stava davvero tanto male, che razza di potere…

Un singulto gli scappò nel constatare che quel fumo causato dalla penetrazione della freccia, si stava sviluppando, passando al fianco sinistro che… che…

Oh mio dio…

Non c’era quasi più un fianco sinistro, solo… il vuoto… perché gli atomi instabili della freccia che Camus aveva scoccato, interagendo con quelli di Utopo, stavano fagocitando i suoi, consegnandogli un’agonia lenta e dolorosa. Neanche uno come lui ne sarebbe scampato!

 

Tutto in natura tende all’equilibrio, Hyoga, pensa solo agli isotopi radioattivi e al loro decadimento. Qualunque cosa interagisca con altre essenze verte verso questo principio, ricercando così la propria stabilità, il proprio cardine su cui continuare ad esistere. Ricordati di questa regola, mio giovane allievo, e non provare a violarla mai, perché le conseguenze, il rompere un tale bilanciamento, potrebbero portare ripercussioni nefaste al mondo intero, anzi, forse persino all’universo nella sua totalità!

 

Le parole di Camus gli risuonarono in testa, ancora esitò, non sapendo cosa fare. Osservò una volta in più Utopo che, di nuovo, disperatamente, chiedeva il suo intervento.

“A-iu-t-a-mi, ragazzo… aiut… anf, anf… u-ucci-dimi! Ucc-idimi con il tuo Zero Assoluto, m-meglio quello che...” continuava a scuoterlo, ma non fu in grado di concludere la frase.

Hyoga avvertì la pressione di un attacco nell’aria, capì che l’arco di Camus era proteso per colpire nuovamente l’avversario, spietatamente, e che Michela era sulla sua scia. Gli si raggelò il sangue nelle vene a quella consapevolezza.

“MICHELAAAAA, anf, anf, non… non andare… l-là!!!”

La ragazza ebbe appena il tempo di arrestarsi, di voltarsi verso l’amato, che avvertì distintamente un sibilo passare vicinissimo al suo orecchio destro. Quel sibilo era un’altra freccia ghiacciata che si conficcò con precisione nel braccio di Utopo, quello che toccava Hyoga.

“UUUUUAAAAAAARRRRGGGGGHHHH!!!”

Un latrato terribile si levò nell’aria, mentre il Pilastro, fuori di sé dal dolore, impazzava, continuando a rotolarsi avanti e indietro preda di una sofferenza oramai più che insostenibile, persino per un non-morto come lui.

Michela si lasciò cadere sconvolta a terra, osservando una volta in più Camus, ancora con l’arco proteso. La sua bellezza era immutata, così come la sua eleganza ma… non era lui -realizzò, con una punta di paura- altrimenti non avrebbe attaccato così, rischiando di mettere in pericolo lei. Se solo Hyoga non l’avesse avvertita per tempo...

Si mise le mani davanti alla bocca, sgomenta.

...L’avrebbe uccisa!

Hyoga si fece forza, rialzandosi testardamente in piedi. Guardò Camus come non lo aveva mai guardato, un misto tra la venerazione mai scemata e la disapprovazione per quanto stesse facendo. Lui parve finalmente accorgersi della sua presenza, ricambiò brevemente l’occhiata dell’allievo, non dicendo comunque nulla. Poi, con gesto sinuoso delle braccia, ripose l’arco, lasciando che scomparisse nel nulla, prima di tornare a concentrarsi sulla sua preda. Avanzò. Sia Michela che Hyoga si rizzarono, del tutto impotenti.

“Maestro… Camus!” lo chiamò nuovamente il Cigno con un po’ più di voce, sebbene adoperarla lo prosciugasse ancora di più.

Camus avanzava, un solo obiettivo per la testa. Un passo davanti all’altro per disintegrare Utopo completamente. Era così che funzionava quel potere, quella maledizione, che si era costretto a segregare dentro di sé fino a quel momento e che tuttavia aveva trovato comunque il suo sbocco per salvare e proteggere loro, i suoi allievi.

 

Camus ha manipolato il Potere della Creazione per proteggerci… -realizzò una volta di più Hyoga, fremendo – Lo ha fatto per noi ma, quell’attitudine, è troppo superiore alla sua volontà. E’ infine Tiamat ad avere avuto la meglio, e Tiamat vuole solo disintegrare Utopo, nient’altro, per quello che le ha fatto. Se non faccio qualcosa al più presto, il cuore di Camus… No, non lo permetterò, Maestro, non permetterò che vi smarriate così! So che potete reagire, io lo credo fermamente, non… perdetevi!

 

Penso febbrilmente tra sé e sé, mentre, con un ulteriore, titanico sforzo, sebbene il suo corpo non rispondesse quasi più, si sollevava a fatica da terra, preparandosi ad affrontare l’entità custodita nell’addome del suo adorato mentore.

 

 

* * *

 

 

Avevano ripreso a correre già da un po’, allontanandosi dai templi delle Dodici Case per imboccare invece un sentierino semi-nascosto dalla vegetazione, stretto, erto e difficoltoso. Gli ricordava un po’ i suoi paesaggi liguri, della sua valle, le avventure della sua infanzia sul trattore di Nonno Mario, le esplorazioni con Marta, e ciò gli procurava una stretta di malinconia estremamente tangibile. Quei percorsi abbandonati lui li aveva sempre amati, gli davano un senso di libertà ed avventura, di fanciullezza che era stato costretto a lasciare indietro, che aveva perso per sempre, in un tempo che era stato solo di due anni ma che, dalla sua prospettiva, era stato molto di più. Secoli… quasi millenni.

Faceva del suo meglio per stare dietro al Cavaliere dei Pesci e a Francesca che, a dispetto di come la ricordava, era diventata molto più agile e dal passo lungo, oltre che risoluta e forte sul campo di battaglia. Si meravigliò, chiedendosi per l’ennesima volta, cosa avessero dovuto passare in quel periodo per costringersi a diventare così. Pensò nuovamente a Marta per un breve momento, ma faceva male, forse addirittura più male che il pensare a suo… nonno… che poi si era rivelato non esserlo. Scrollò il capo e strizzò gli occhi, accelerando il ritmo per stare al passo degli altri due. Era già molto stanco e sfiduciato, continuava a non comprendere molte cose circa sé stesso e i nemici che dovevano affrontare che, in piccola misura, conosceva, ma non era quello il momento giusto per perdersi, avrebbe dovuto costringersi ad essere presente e soprattutto utile, anche se vi era una differenza abissale tra loro, come il giorno e la notte.

Il Cavaliere dei Pesci procedeva a grandi balzi in cima al gruppo. Sapevano tutte e tre che avrebbero dovuto recarsi all’ultimo tempio il prima possibile perché Clio si era recata là e, da là, sarebbe poi fuggita, spalleggiata da Ermete, con il carico di energia vitale sottratto. Proprio per quella ragione Aphrodite aveva scelto di imboccare una serie di piste inconoscibili ai più che collegavano comunque le varie Case dello Zodiaco in maniera più immediata, anche se non propriamente agevole. Avrebbero dovuto sbrigarsi, il tempo stringeva, quel percorso sarebbe stato sufficiente per cogliere di sorpresa quella Clio? Fermarla proprio alle porte della statua di Atena e sconfiggerla? Stefano non lo sapeva, Francesca probabilmente ci sperava ardentemente; entrambi potevano solo fidarsi del giudizio di Pisces, unico Dorato ancora in grado di combattere attivamente contro l’entità che sembrava in qualche modo -e misteriosamente!- imparentata proprio con Francesca.

Il ragazzo la guardò di riflesso, studiandola. Lei parve non rendersene conto, trafelata com’era nella corsa, dando così a lui occasione di soffermarsi sulla sua figura. Di costituzione era rimasta pressoché simile ai tempi della Valbrevenna, sempre magra, ben proporzionata, sebbene non altissima. Era invece lui ad aver acquisito un paio di centimetri in più. Tuttavia -e Stefano non aveva dubbi su questo!- tra loro vi era una voragine incolmabile persino di più che con i Cavalieri d’Oro, non solo per i due anni di differenza, non solo perché, fin da piccola, era sempre stata piuttosto matura, no, ma anche per quella particolare luce che emanavano le sue iridi, da sembrare quasi divina… anzi, a ben pensare lei era per davvero una divinità sotto mentite spoglie, Aphrodite, e lo stesso Hyoga, non avevano esitato a rivelarglielo un paio di giorni prima, aggiornandolo sulle ragazze e su come erano giunte lì.

Ne era quindi saltato fuori che Marta e Michela erano semi-dee figlie una di Efesto e l’altra di Ares, insieme all’altra ragazza, Sonia, figlia di Hermes; Francesca invece era addirittura una dea fatta e finita, figlia di Urania la Musa Celeste, nipote di Zeus in persona… Certo, come credere a simili parole? Era rimasto sul chi vive, infatti, scettico, ma i fatti, nel vedere all’opera le care amiche d’infanzia, avevano già limpidamente dimostrato che era tutto vero.

Solo… aveva bisogno di tempo per digerire la faccenda, ecco, perché era tutto così assurdo e irragionevole da confonderlo. Ancora non si capacitava di dove fosse capitato; ancora stentava a credere -ma la somiglianza era lampante!- che la sua migliore amica avesse un fratello maggiore come Cavaliere d’Oro dell’Acquario e riuscisse, quasi con un semplice schiocco di dita, a congelare qualsiasi ostacolo le si ponesse davanti.

Così assorbito dal flusso dei suoi pensieri, si rese conto a stento che Aphrodite, improvvisamente, senza preavviso, si era fermato di scatto, indicando loro di fare silenzio con breve gesto della mano. Automaticamente si immobilizzò.

“C’è… c’è qualcuno poco più avanti, prudenza!” li avvertì sottovoce, estraendo una delle sue solite rose.

Sia Francesca che Stefano si acquattarono nelle fratte, parzialmente nascosti, mentre il Cavaliere dei Pesci, intrepido, si portò il gambo alla bocca, preparandosi a scagliare un colpo micidiale al primo cenno di pericolo. Sulle prime, i due giovani non percepirono niente, nonostante tutti i loro sensi fossero già allertati, poi si udì un fruscio appena accennato poco oltre loro, dietro la curva del monte, si tesero quindi conseguentemente, pronti all’azione, nonostante Pisces fosse davanti a loro in evidente atteggiamento protettivo, il fremito prima del balzo, dell’attacco. Si udirono infine delle voci in avvicinamento… familiari!

“C-ce la fai, Lia, anf?”

“S-sì, Shura, pant, va tutto bene, anf, dobbiamo sbrigarci e ricongiungerci agli altri!”

Si ritrovarono ben presto a rilassarsi sensibilmente, guardandosi reciprocamente, prima di distendere la muscolatura e andare incontro loro. Erano di sicuro Aiolia e Shura, anche se le loro sfumature vocali avevano assunto un qualcosa di un poco più strascicato, meno vigorose e forti, ma sempre le loro. I cosmi, del resto, erano gli stessi, perfettamente riconoscibili. Percorsero la curva secca che seguiva fedelmente il fianco destro della montagna. Ormai erano vicinissimi, pochi centimetri ancora e si sarebbero trovati, là, oltre quella sporgenza rocciosa. Avrebbero unito le forze e…

“Aiolia, Shur…!”

Ma Aphrodite, scorgendoli prima, non ultimò la frase, semplicemente sussultò, mentre gli altri due ricambiavano il suo sguardo incredulo. Li osservò meglio per convincersi che fosse davvero così… Era davvero così! Si diede immediatamente una risposta: l’invecchiamento precoce o l’involuzione propria dei poteri di Clio doveva dipendere dalla composizione sanguigna individuale, ormai era più che certo. Per fermarla quindi avrebbe dovuto ricorrere allo stesso espediente. Strinse i pollici sulle nocche, chiedendosi se fosse davvero pronto ad usare un’attitudine che non apparteneva nemmeno alla sua attuale vita.

Stefano e Francesca, essendo dietro di lui, li distinsero dopo, ma la loro reazione fu pressoché uguale.

“N-no! Il nemico… Clio ha contaminato anche voi!” esclamò Francesca, sconfortata, le gambe tremanti davanti al fatto compiuto.

Gli occhi che ricambiavano i loro sguardi, infatti, erano i loro, riconoscibili dal contorno e dalla sfumatura, ma velati da una nebbia opaca che, in circostanze normali, non avrebbe dovuto esserci, non in quel momento, almeno. Le rughe sul viso, nette come il delta di alcuni fiumi, esemplificava la loro vecchiezza, l’ingiurioso scorrere del tempo che aveva colpito la loro fisicità.

“F-Fracesca! Aphrodite! Vi ho riconosciuto dalla voce!” li chiamò Aiolia, stanco e logoro, raddrizzandosi un poco per cercare di darsi un tono, sorridendo comunque nel constatare che, almeno loro, stessero bene.

“N-non non ci vedi, Lia?” chiese prudentemente Aphrodite, fissandolo in volto.

“N-no, temo di essere diventato cieco...” mugolò lui, con rabbia. Si stava infatti sostenendo pressoché interamente al compagno d’armi. Dalla posizione assunta e da come gli apparivano le gambe, doveva avere le vene varicose.

Splendido davvero! Uno dei più valenti Cavalieri d’Oro ridotto così, come se non bastasse ciò che è già capitato agli altri! Menomale che Deathy non è qui…

Si ritrovò a pensare Francesca, tesa come non mai nel vedere la più alta carica dei difensori della dea Atena decimata in maniera così vergognosa, senza possibilità di difesa. Nel frattempo il dialogo al di fuori di lei proseguiva.

“C-Clio avete detto? E’ lei che ha… causato tutto questo, pant?” volle sapere Shura, imprimendo un poco di più il suo tono d voce mentre gli occhi gli si illuminavano per la furia a stento tenuta a freno.

“E’ così, lei… pare abbia il potere di assorbire l’energia vitale delle creature viventi per… un certo scopo! - spiegò sbrigativo Aphrodite, assottigliando lo sguardo – Lo ha fatto in tutto il Santuario, a quanto pare e… ci sono state delle vittime!”

“Noi siamo stati attaccati senza rendercene conto. – ammise Shura, sebbene gli costasse fatica ammetterlo per il suo onore - Eravamo sulle scale tra il decimo e il nono tempio, facevamo parte del gruppo di soccorso sotto le direttive di Saga che, per proteggerci tutti, ha ingaggiato battaglia con quel pezzo grosso di… di...”sembrò non ricordarsi il nome.

“Ermete?” tentò Francesca, apprensiva.

“Sì, lui… ma non so dove siano andati a combattere, i loro cosmi sono lontani. Saga e Shaka sono tra i più forti difensori della dea, ma l’attacco è stato davvero tremendo, ci ha colto alla sprovvista come un Cavaliere d’Oro NON dovrebbe mai farsi cogliere!”

Sembrava, anzi era evidente, che gli bruciasse parecchio essere ridotto così, l’aver abbassato la guardia a quel modo, lui che era tra gli eletti e il protettore dei più deboli, lui che era un Dorato Custode e ne andava così fiero. Si dava una presunta colpa per qualcosa che non sarebbe comunque riuscito a contrastare, perché al di là della forza cosmica di chiunque. Erano davvero nemici terribili, quelli, per batterli sarebbe occorsa tutta la potenza delle schiere della dea e, forse, anche di più, di tutte le divinità di quel mondo chiamato Terra. Francesca strinse le mani, facendosi sbiancare le nocche. Era una guerra totale, su più fronti, come totalizzanti erano le mire di Fei Oz e dei suoi adepti.

“Abbiamo appena avuto il tempo di renderci conto che uno strano odore di lavanda si stava diffondendo nell’aria. Aiolos ci ha detto qualcosa, voleva avvertirci, ma...” Aiolia serrò dolorosamente gli occhi, quel gesto mise in allarme gli altri tre.

“Dov’è Aiolos?!” domandò Aphrodite, manifestando appena la preoccupazione.

“Guardate voi stessi...”

Aiolia indicò qualcosa dietro di sé, lo videro arrancare nel voltarsi, notando altresì che una sorta di fascia era stretta al suo petto, prima di accorgersi che proprio dietro di lui, ancorato e in posizione beatamente dormiente c’era un neonato dai capelli castani e il pollice in bocca.

“Ma è… Aiolos?!” Francesca si meravigliò nel riconoscerlo mentre, strabuzzando gli occhi, osservava prima il fratello minore, che però appariva molto più vecchio, e poi il maggiore, che sembrava un fagiolino avvolto da una specie di bozzolo. Era tenero e carino, persino la giovane dea, non avvezza a trattare con i nanerottoli sempre sporchi di pupù e moccico, si lasciò andare ad una manifestazione di tenerezza, schiacciandogli un poco le guance, mentre Stefano li osservava da distante, sebbene i suoi occhi fossero caldi.

“Ci siamo sentiti strani, quasi abbiamo ceduto alla perdita dei sensi, ma poi abbiamo bruciato istintivamente il cosmo, disperatamente. Tuttavia era tardi… - buttò fuori aria Shura, sempre infastidito da quel momento di debolezza – Quell’odore nauseabondo è sparito subito dopo, Aiolia ed io ci siamo guardati le mani e… ed erano piene di rughe, di vene sin troppo percettibili e macchie marroncine. Aiolos invece era… era in queste condizioni, dormiva”.

“E’ successo lo stesso a Mu e Aldebaran anche loro sono… regrediti!” illustrò Aphrodite, osservando prima uno e poi l’altro.

“Da-davvero? Anche loro?! Cough, cough!” esclamò Aiolia, prima di trasalire e tossire perché aveva utilizzato troppa voce.

“Sì, mentre Milo… è ridotto come voi!” disse a sua volta Francesca, nervosa.

I due Cavalieri si sorpresero, scambiandosi un’occhiata d’urgenza, sebbene il Cavaliere di Leo non potesse più vedere. Probabilmente avevano perso lo stesso quantitativo di anni, eppure Aiolia, pur essendo più giovane del compagno, ne dimostrava di certo di più, con quella testa pelata, le zampe di gallina ben vistose al bordo degli occhi e le labbra rosato tenue, sottilissime; Shura invece era un Signor Ottantenne, così sembrava agli occhi della ragazza che lo scrutava con un pizzico di curiosità, con quei capelli ancora forti e vigorosi, le rughe presenti anche se non eccessive, ad eccezione di quelle della fronte, più nette, gli occhi accesi e intrepidi.

Pareva proprio avesse vinto la sua personalissima battaglia contro il tempo!

“Shura, Aiolia, noi… dobbiamo andare!” si fece serio Aphrodite, conscio di star perdendo sin troppo tempo.

“Non possiamo lasciarli così...” si contrappose però Stefano, osservandolo come se avesse detto una bestemmia.

“Ragazzo… se non la fermiamo noi, quella Clio, staranno per sempre così...”

“M-ma...”

“Aphrodite ha ragione… la difesa del Santuario, l’annientamento dei suoi oppressori, ha la precedenza nel cuore di un Cavaliere!” esclamò risoluto il Capricorno, comprendendo bene la decisione del compagno.

Stefano stentava a crederci, in quel luogo, per la sua educazione, si comportavano tutti in maniera del tutto incomprensibile, forse operando per un fine che credevano superiore. La situazione, del resto, era molto seria, si sarebbero dovuti anche fermare a soccorrere gli altri, e invece… no, loro dovevano andare a fermare Clio, era stata la decisione del Grande Sacerdote cui tutti dovevano sottostare. Osservò di riflesso il terreno, sentendosi ancora più perso. Per lui, che fino a quel momento era stato ateo, era tutto tremendamente illogico.

“Mi dispiace…” si scusò ancora Aphrodite, come se gli mordesse la coscienza.

“E’ dovere, non occorre che ti dispiaccia!” lo tranquillizzò Shura in tono affabile.

Il Cavaliere dei Pesci annuì, prima di dare un’altra occhiata indicativa a Francesca e Stefano e precederli. Il ragazzo si ritrovò ad esitare ancora, non sapendo se perseguire la sua legge morale di aiutare due poveri anziani e un bebè a raggiungere la salvezza, o seguire chi era più esperto di lui e quindi in grado di muoversi meglio in una situazione di emergenza. Francesca gli diede una pacca sulla spalla per confortarlo, prima di rivolgersi direttamente agli altri due.

“Raggiungete l’arena, lì ci sono il Nobile Shion, Milo, Mu e Aldy, sarete più al sicuro che qui e noi… vi prometto che vi riprenderemo la vostra Ergon!”

“L’Ergon, l’energia vitale? - chiese Shura, sorpreso, come se sapesse già cosa fosse, prima di annuire comprensivo – Sarà fatto, ci recheremo lì e… prudenza, mi raccomando!” sorrise, cosa assai rara, affidandogli la missione, mentre, prendendolo sottobraccio, aiutava Aiolia a muoversi.

“Contiamo su di voi!” affermò il Cavaliere leonino, sebbene gli costasse molto non poterli aiutare maggiormente. Poi ricominciarono a scendere, traballanti, gli scalini

“E’ giusto… lasciarli così?” domandò Stefano, pieno di incertezze, rimettendosi comunque a correre insieme a Francesca.

“Non potremmo comunque fare niente, Stevin, se non fermare quella Clio e riprendere ciò che è loro. Andiamo, forza!” provò ad incentivarlo, desiderando chiudere in fretta quella faccenda.

In verità non andarono molto lontano. Pochi minuti dopo, e dopo una serie di curve che passavano da una parte all’altra del monte, il sentiero veniva bruscamente interrotto da una frana. Con l’aiuto di Aphrodite riuscirono ad inerpicarsi comunque sopra, convinti di essere quasi in procinto della svolta che li avrebbe condotti direttamente alla tredicesima casa, ma una nuova, malaugurata, sorpresa, bloccò i loro propositi: non c’era proprio più un sentiero, davanti ai loro occhi!

E non c’era, perché qualcosa di completamente innaturale, che sfiorava l’assurdo, vi era al suo posto.

“Ma è...” Stefano fece appena in tempo a dire poche sillabe che, sportosi troppo di dirimpetto, rischiò quasi di venire risucchiato da… da…

“Guah!”

“RAGAZZO!!!”

Fu lesto Aphrodite a bloccarlo sotto di sé, i capelli al vento, il mantello che sbatteva furioso sulle rocce, come una bandiera sferzata dalla tramontana. Stefano non ebbe il tempo di capacitarsi di cosa davvero fosse accaduto, che si trovò il Cavaliere dei Pesci sopra, lui sotto, pancia a terra, una strana pressione sul coccige. Si ritrovò ad arrossire di netto, al limite dell’imbarazzo.

“Ma è...”

“Francesca, stai lì!” le ordinò perentorio Pisces, dandole un’occhiata veloce per poi tornare a fissare l’ostacolo davanti a sé.

Anche la giovane dea si era sporta per capire cosa fosse, rischiando di venire risucchiata a sua volta e rimanendo imbambolata a osservare quello strano fenomeno soprannaturale.

Stefano avvertì il corpo sopra di sé irrigidirsi e tremare di rabbia, prima di alzarsi -gli si era infatti quasi seduto sopra!- e tenerlo comunque giù con una mano. Si ritrovò la gola secca, ingoiò a vuoto, a disagio, sforzandosi di rimanere concentrato e di pensare ad un ipotetico risolvimento.

“La via… è interrotta, dannazione!” maledisse Aphrodite, cercando una maniera alternativa per passare.

Ma non potevano andare avanti, non da lì, perché una enorme fenditura a forma di falce non lasciava ulteriori chance di proseguire, risucchiando, con un vento maligno, tutto ciò che osasse avvicinarsi, essere animato o non animato che fosse. Era… era come un buco nero, come se lo spazio, in quella zona, venisse fagocitato e non esistesse più nulla al di là di quel foro. Un’opera di certo di inumana fattura, un potere fuori dal tempo e dallo spazio, in grado di travalicare tutto il concetto di fisico; un nuovo, ennesimo, ostacolo.

“Dalle indiscrezioni di Milo e Mu deve essere stato Ermete a causare ciò, la sua alabarda...” ne dedusse Aphrodite, sempre più nervoso nel rendersi conto che per tornare indietro sarebbe richiesto troppo tempo e che il prezioso Ergon dei loro amici sarebbe rimasto nelle mani di Clio per sempre.

“Ma… come è possibile? Come ha potuto ciò e, soprattutto, come sapeva di questa via?! Non è forse segreta?!” domandò Francesca, cercando di ancorarsi alla ben meglio alla roccia sotto di sé, perché la sua costituzione affatto robusta rischiava di farla sbalzare via come un fuscello.

“E’ segreta, sì, la conosciamo solo noi Dorati Custodi, non mi spiego infatti come sia possibile...” confermò Aphrodite, non riuscendo più a nascondere la propria rabbia.

“Eppure, se è come dici, questo Ermete ha interrotto questo passaggio proprio per impedirci di arrivare prima da Clio… - biascicò Francesca, esterrefatta, prima di sussultare pesantemente – Aphro, questo significa che… che… sapeva?!”

“Non c’è un’altra strada? - chiese Stefano, osservando prima lei e poi l’altro – Una via che ci permetta di arrivare al luogo prima del nemico? E se tornassimo indietro?”

“No, è fuori discussione! – esclamò Aphrodite, gli occhi lampeggianti – Impiegheremmo troppo e quella… quella sgualdrina...” sibilò sinistramente, spaventando quasi i due ragazzi.

Francesca avrebbe voluto fargli notare che definire una come puttana solo perché vagino-munita e nemico insidioso, non era né bello né delicato, che Albafica non lo avrebbe mai, mai, fatto, ma si rese altresì conto che era come gettare benzina sul fuoco, oltre che essere privo di una qualche utilità strategica.

“Un’altra strada comunque ci sarebbe… - si sforzò di calmarsi Pisces, osservando le rupi scoscese intorno a lui – Ma mi dovreste dire se ve la sentite!”

Dalla direzione del suo sguardo capirono a cosa si stesse riferendo. Effettivamente le Dodici Case erano disseminate lungo le pendici di un monte pietroso che, nonostante la presenza di stradine o sentierini poco conosciuti e di non facile accesso, era già di suo erto e impervio. Solo un camoscio, uno stambecco, o un uomo fuori dal comune sarebbe riuscito ad accedervi per la via più difficile.

“Io… per quanto sia abituato fin da piccolo a percorrere in lungo e in largo mulattiere praticamente abbandonate e poco agevoli, non ho esperienza con le scalate, non credo di… farcela!” sospirò Stefano, sentendosi più inutile di prima.

“I-io… - Francesca esitò, un poco corrucciata – Ho le gambe troppo corte per… balzare in simili altezze!” ammise, punta nell’orgoglio.

“Oh, ma io non sto dicendo di seguirmi, anche se ci riusciste mi rallentereste di certo...” disse cristallino Aphrodite, mentre visivamente si studiava la strada meno impervia.

“Grazieeeee...” si lagnarono entrambi, sebbene sapessero che aveva ragione.

“Io vi sto proponendo che, previa vostra fiducia in me, posso trasportarvi io!”

“Cos…?! E come pensi di fare?!” esclamò Stefano, incredulo, mentre Francesca rimaneva sbalordita a fissarlo.

“Sono Cavaliere d’Oro… posso essere capace di grandi balzi anche se la mia armatura non ha ali”

Francesca e Stefano rimasero un poco a guardarsi. Sapevano entrambi che non c’era più tempo da perdere, che Clio, molto probabilmente, era già in prossimità dell’ultima casa dello zodiaco, per non dire dalla statua di Atena, e che se non avessero ripreso l’energia vitale degli altri sarebbero rimasti per sempre così. Annuirono simultaneamente, recuperando quell’antica complicità che li aveva visti uniti nella selvaggia Valbrevenna.

“V-va bene Aphro, s-se...” fece per dire Francesca, prima di essere agguantata senza riuscire a terminare neanche la frase. Stefano seguì la stessa sorte.

“E-ehi!” si lamentò lui, ancora imbarazzato, avvertendo il braccio sinistro del Cavaliere circondargli il busto all’altezza del costato ed essere così sollevato neanche fosse stato un cucciolo di cane.

Eppure erano giovani uomini entrambi, e Aphrodite non sembrava molto più robusto di lui, come diavolo ci riusciva?! Stefano, osservandolo sbalordito, si accorse che una densa aura dorata stava circondando il suo corpo… cosmo?! Era… era incredibile il largo utilizzo che se ne potesse fare!

“Perdonate la grossolanità di questo mio gesto, ma non abbiamo tempo ulteriore da perdere e… tenetevi forte!”

“A… a cos… AAAAAAAAAAAAA!!!” fece in tempo a chiedere Francesca, che invece era stata presa da sotto l’ascella e stretta contro il Cavaliere, prima di appigliarsi con forza a lui, al suo collo, nell’avvertire il vento sferzarle i capelli.

Aphrodite era davvero agile. Sembrava a metà strada tra un delfino e un tonno mentre, senza esitazione alcuna, con piglio deciso, balzava da una parte all’altra della parete rocciosa con grazia e compostezza, quasi come se intono a lui ci fosse stata l’acqua e non il vuoto.

Stefano dalla sua posizione a cagnolino, le braccia e le gambe inerti, vide più volte il duro agglomerato roccioso avvicinarsi sinistramente a lui, mentre l’altezza e il movimento gli davano le vertigini. Chiuse istintivamente gli occhi nella paura di cadere o che la presa su di lui scemasse, ma non permise neanche al più lieve mormorio di uscire dalla sua bocca. Anche lui era tremendamente orgoglioso.

Tra la percezione di trovarsi sui trapezi e le montagne russe, tra un salto, una piroetta e un triplo balzo -al Cavaliere dei Pesci, vanesio, sembrava piacere molto far vedere tutta la sua bravura e l’eleganza di cui era capace!- si ritrovarono ben presto ad atterrare su delle scale di marmo ben conosciute. Vennero posati a terra ancora storditi, cercando di raccapezzarsi su quanta strada avessero fatto, prima di rendersi conto di trovarsi davanti proprio all’ultimo tempio.

“S-se c’era questa eventualità, per-perché abbiamo fatto il sentiero, prima?” chiese Francesca, non capendo l’utilità di correre come dei disperati su una stradina coperta di vegetazione se Pisces era così bravo a saltare come un salmone.

“Perché quello, il sentiero, ci avrebbe fatto sbucare esattamente dietro la statua di Atena. Dovete sapere che, nel suo ultimo pezzo, un tunnel è stato scavato nella roccia e porta direttamente all’altare della dea. Avremmo così fermato Clio esattamente nel punto di confluenza dei due mondi, invece così… - si fermò, affinando il cosmo per capire dove fosse il nemico e sgranando gli occhi nel rendersi conto che era appena davanti a loro, e che procedeva spedito – Svelti, è poco oltre, a dopo le chiacchiere, dobbiamo fermarla!” enfatizzò, prima di scattare in quella direzione.

Sia Francesca che Stefano non se lo fecero ripetere di nuovo, lo seguirono, per quanto il Cavaliere andasse il triplo più veloce e loro gli arrancavano dietro alla ben meglio.

Aphrodite si era reso conto che Clio era molto vicina al suo obiettivo, pochi secondi soltanto e di lei non ci sarebbe stata più alcuna traccia in quella dimensione. Avevano perso tempo e in battaglia quello era un fattore di prim’ordine. Tremò consistentemente, mentre attraversava in fretta e furia il salone del Grande Sacerdote, poi ancora le scale, rendendosi altresì conto che, per quanto si fosse spremuto, sarebbe stato comunque troppo tardi per fermarla… avrebbe attraversato la breccia spazio-temporale, lasciando loro con un pugno di mosche!

“Maledizione, non riuscirò mai a...”

“Fermati, non andrai oltre, non finché ci sarò io!

Avvertì una voce adolescenziale poco distante da lui, non la riconobbe, ma sentì con distinzione un suono frinire nell’aria, seguito da una imprecazione e un tintinnio.

“Dannato moccioso!”

Quella invece era di sicuro Clio. Con il cuore in tumulto, il Cavaliere dei Pesci accelerò i suoi passi, oltrepassando così gli ultimi scalini e riuscendo finalmente a vedere con i propri occhi la scena.

La Musa decaduta infatti era bloccata per terra da una forza psichica e telecinetica che si manifestava con ampi cerchi che le pressavano sul corpo. Tra le mani teneva ancora il libro, ben aperto, dove probabilmente era conservato l’Ergon sottratto. Aveva il furore della rabbia negli occhi, guardava con spregio una figura a poca distanza da lei, non capacitandosi di come avesse potuto cadere in una simile trappola da poppanti.

Lo sguardo di Aphrodite seguì la scia dei cerchi, arrivando così a scorgerne l’esecutore. Sussultò istantaneamente nel riconoscerlo, mentre, per lo sbigottimento, arrestava il suo moto.

Anche Stefano e Francesca arrivarono sul limitare delle scalinate, chiedendosi cosa fosse successo. Quando la giovane dea distinse il proprietario di quelle onde concentriche, quasi le venne un colpo.

“KIKY! Ma… ma sei davvero tu?!”

Il bambino… no, anzi, il ragazzo, perché era cresciuto nell’arco di pochissimo, nel riconoscere la sua voce si voltò verso di lei, verso loro, regalandogli un sorriso carico di speranza, sebbene si stesse operando per continuare a imprigionare Clio e non farla procedere ulteriormente.

“Aphrodite! Francesca! E’ così bello vedervi! STATE BENE!”

“Che… che ti è successo? Sei… sei così diverso da… - balbettò Aphrodite, sinceramente sbalordito, riuscendo poi a trovare una spiegazione – Non è che… che lei...” e indicò il nemico che, fremendo, continuava a tentare di opporsi, non riuscendoci.

“Lei… ero con gli altri apprendisti... – illustrò il non più tanto piccolo Kiky, tornando a concentrarsi sull’avversario, una strana luce rancorosa negli occhi – quando ho cominciato a percepire un intenso, fin troppo, odore di lavanda. Mi sono sentito male, e così gli altri. Il mio corpo era come paralizzato, credo di essere anche svenuto ma… ma ho sentito la voce del Grande Mu dentro di me, anche se sembrava un poco diversa, mi ha detto di reagire e quindi ho fatto fluire il cosmo dentro di me, l’ho portato alla luce, nelle tenebre che mi circondavano e, quando ho aperto gli occhi le mie mani erano più grosse, così come i miei piedi, mi sentivo strano ma… meglio di prima, mentre gli altri...” tacque, mordendosi il labbro inferiore, gli occhi un poco lucidi, scoccando una nuova occhiata furente al suo obiettivo che si dibatteva come un pesce nella rete.

“Erano invecchiati o… ringiovani, vero?” concluse per lui Francesca, una mano premuta sul petto, immaginandosi cosa avesse potuto provare il piccolo in quel frangente.

“Tutti… morti! Le rughe sul loro volto, ad eccezione di Pablo e Dimitri, che sono retrocessi allo stadio embrionale, come se… come se… - Kiky scrollò il capo, era chiaro che ricordare quello che aveva vissuto fosse ancora inconcepibile per lui – So che è stata lei, ho seguito il suo odore, gliela farò pagare!” ringhiò, sicuro di sé.

Era diverso dal Kiky che conoscevano. Più grande di una decina d’anni, più formato, più alto e dai capelli più lunghi che gli ricadevano lisci dietro, un po’ come quelli di Mu, dal quale aveva ereditato le tecniche. Fu subito chiaro a loro cosa fosse successo, e che, a differenza degli altri, forse proprio grazie al fatto di essere stato addestrato da un Cavaliere d’Oro, fosse riuscito a risvegliarsi dal torpore, contrastandolo, sebbene l’influsso di Clio gli avesse comunque strappato a forza parte dell’Ergon.

Si chiesero tuttavia se si fosse reso conto di quanto successo anche al suo corpo. A giudicare dal peplo assemblato intorno alla vita, tenuto fermo dai lacci, corto, che gli ricadeva appena sotto la zona inguinale, doveva aver avuto giusto il tempo per coprire un minimo le nudità, prima di dare selvaggiamente la caccia all’origine di tutto quel male. Degno di un futuro Cavaliere d’Oro, non c’era che dire!

“Sapete chi sia costei? Come ha fatto a…?”

“Sì, lo sappiamo...” gli disse tranquillo Aphrodite, accennando qualche passo nella sua direzione.

“Ad altri ha fatto… questo genere di male?!”

“Sì...”

Kiky sbiancò, prima di fremere sempre più consistentemente: “Il Grande Mu sta..?”

“Ha subito su di sé il processo, non siamo riusciti ad impedirlo...”

“N-no...” se possibile il ragazzo divenne ancora più pallido in volto mentre, dalla rabbia, il suo potere venne quasi meno a giudicare dai movimenti che riusciva a compiere Clio, che consistevano nel trascinarsi sempre più vicino alla statua di Atena, come gli era stato ordinato da Ermete.

“Ma sta bene al momento, anche se ha le sembianze di un neonato – lo provò a tranquillizzare Pisces, facendosi serio – Lo vedi il libro che Clio tiene tra le mani? Se riuscissimo a sottrarlo, i nostri amici tornerebbero come prima, è infatti lì che è conservata la loro energia vitale!”

“C-chi altri oltre al Grande Mu, chi…?!” il ragazzino sembrò ancor più spaventato di prima. Aphrodite prese un profondo respiro, aumentando di un poco l’andatura.

“Ora ascoltami attentamente, Kiky… - finalmente lo raggiunse e, sorprendendo non poco sia Stefano che Francesca, che non lo reputavano capace di un simile gesto, gli poggiò una mano tra i capelli – Sei stato bravo a contrastare il cosmo di questa… questa megera, posso quindi contare su di te?”

Anche Kiky si meravigliò dell’espressione seria che aveva assunto il bel volto perennemente truccato del Cavaliere dei Pesci, e della dolcezza con cui cercava di calmarlo, che non sembrava neanche poter appartenere del tutto a lui.

“S-sì...” rispose pronto, sempre fremendo.

“Bene… allora intanto calmati, perché così stai indebolendo la tua psicocinesi, vedi?” gli indicò Clio, che, non più immobilizzata, si trascinava a stento verso l’obiettivo.

Kiky prese un profondo respiro, riportandosi alla calma, riducendo gli occhi a due fessure, mentre alcune goccioline di sudore gli colavano dalla fronte. Non era facile mantenere quel potere, non era il Grande Mu, sebbene si fosse ritrovato più grande di corpo e di spirito, ma sapeva che per esercitare coercizione, lui avrebbe dovuto rimanere calmo e placido esattamente come faceva lui. Prese un secondo profondo respiro, tornando alla carica. Clio venne istantaneamente schiantata a terra, non riuscendo più a compiere il minimo movimento.

“Va bene così… ciò che ha strappato costei è l’Ergon, l’impulso vitale degli esseri viventi, lo custodisce nel libro che ti ho mostrato poc’anzi. – gli illustrò, pratico, prima di continuare - Per coloro che sono rimasti vivi, noi possiamo ancora fare qualcosa: aiutami a sconfiggerla, liberando così ciò che non le appartiene!” lo motivò, estraendo una rosa nera con garbo, affiancando il più piccolo, come se lo considerasse suo pari.

“Non è… tardi?” chiese conferma Kiky, gli occhi ancora grandi con pochi, arcani, tratti che racchiudevano la fanciullezza appena strappata.

“Basta liberare l’Ergon e tutto tornerà alla propria fonte primaria. Pensi di riuscire a tenerla bloccata? Il procedimento non sarà affatto semplice...” volle sapere ancora Aphrodite, scrutando la determinazione negli occhi dell’allievo di Mu.

“Conta… conta su di me, farò il possibile!” annuì Kiky, rincarando la dose e schiantando ancora una volta la donna sul marmo, prima di voltarla a forza, con il solo potere della sua mente, in direzione opposta.

L’espressione di Clio si trasformò in una smorfia di dolore, mentre, apprensivi, Stefano e Francesca, ancora vicino alle scalinate e non molto distanti tra loro, rimasero ad assistere allo sviluppo degli eventi.

“Che cosa possiamo fare noi, Fra?” chiese Stefano, non sapendo bene come essere d’aiuto

Ma la ragazza non gli rispose, la sua concentrazione era tutta per la scena davanti ai loro occhi. Appariva tesa a causa di qualcosa, ma… che cosa?! La situazione sembrava volgere finalmente a loro favore, il nemico era completamente bloccato a terra, no?

“Bene così, Kiky… - Aphrodite si mise la rosa tra le labbra mentre, implacabile, avanzava – Clio, sfortunata Clio… è dunque questo il capolinea delle tue scelleratezze...”

La perculava pure, sicuro di sé, del resto, la sorte sembrava PER DAVVERO sorridergli, proprio grazie all’intervento insperato di Kiky, di quell’incognita impazzita che era il promettente allievo di Mu.

Eppure… c’era qualcosa nell’aria che non piaceva a Francesca, un incombere latente che tuttavia si faceva sempre più forte. Rabbrividì un poco, i muscoli rigidi.

“F-Fra?” chiese ancora Stefano, percependo a sua volta che qualcosa non andava.

Cosa sta succedendo?! Perché questa sensazione?! Si sta rivelando troppo semplice… lei è pur sempre una delle Muse figlie di Zeus, piena di risorse e arguzie come tutte le nove sorelle. Non può avere un unico potere per quanto così terribile, non può! Ma cos’altro mai potrebbe fare in quelle condizioni?! E’ chiaramente all’angolo...

Intanto i fatti accadevano davanti a loro senza poterne prendere parte...

“Mi riprenderò ciò che hai strappato senza permesso, Clio! - sancì Aphrodite, agguerrito, desiderando risolvere in fretta quella situazione – Prendi questo, DAGGER ROSE!!!”

Francesca ebbe appena il tempo di accorgersi del nuovo colpo che veniva lanciato, del conseguente lampeggiare delle iridi di Clio, che si ritrovò di colpo ad urlare, spaventata: “N-no, aspetta, Aphr...”

Per un solo istante le rose viola, lanciate in massa, sembrarono attraversare il corpo del nemico senza arrecargli il benché minimo danno. L’istante dopo sparirono, come nel nulla, come in un buco nero, come inconsistenti, e quello dopo ancora riapparvero attraverso le pagine del tomo antico che Clio teneva tra le mani e che simboleggiava il suo potere. Vennero così scagliate con il doppio della velocità in una direzione ben precisa, verso un obiettivo già ampiamente prefissato...

“N-no!” sussurrò terrorizzata Francesca, comprendendo finalmente il piano della maligna, prima di voltarsi a sua volta e gettarsi nel bel mezzo dell’attacco.

“Muori, Stevin...” sogghignò Clio, trionfante, scoccando un’ultima occhiata all’odiato figlioccio di Nero Priest.

Stefano non era assolutamente in grado di percepire tale movimento. Non ebbe quindi il tempo di capacitarsi, non distinse nulla, a livello sensoriale, solo… dolore, già, una fitta improvvisa e bruciante alla spalla, qualcosa di bollente lungo il braccio sinistro che scivolava giù. Cadde indietro, ritrovandosi con il sedere a sbattere sul freddo marmo. Il respiro gli si troncò sul nascere, prima di riprendere, più frenetico di prima. Chiuse dolorosamente gli occhi, trattenendosi la spalla con l’altra mano e ritrovandosi a premere su questo fluido scivoloso, su questo qualcosa di caldo che continuava a scivolare giù, rintontendolo. Che cosa stava…?

Si fece forza e riaprì gli occhi, sebbene la testa cominciasse a pulsare selvaggiamente a avesse preso a girare nello stesso momento.

“S-sangue, anf?!” si ritrovò a chiedersi, annaspando, notando con sgomento il palmo della mano lordato dalla sua stessa linfa vitale.

Ebbe un fremito, seguito da una serie di sussulti. Era rimasto ferito in qualche modo e il sangue, quello, colava giù, irrefrenabile, senza il minimo cenno di volersi arrestare. Realizzò che, a quel ritmo, senza interventi, sarebbe morto entro pochi minuti, e tuttavia… e tuttavia solo una rosa nera era conficcata nella sua spalla! Clio doveva avergliele rivoltate contro, ma erano molte di più, lui ne era sicuro… e allora perché solo una, che pure gli aveva causato quell’emorragia, era arrivata a danneggiare il suo corpo?! Perché…

La risposta non tardò a palesarsi. Udì un urlo viscerale in lontananza, ciò lo spinse ad alzare lo sguardo smarrito, ma non arrivò alla fonte sonora, si fermò prima. Qualcos’altro gli si mozzò nel petto, ingoiò a vuoto, prima di provare ad alzarsi, invano, perché non aveva energia per rimettersi in piedi.

“N-no, anf… - gli uscì un suono gutturale per la mancanza di ossigeno – F-Fra!” gracchiò, rendendosi conto di quanto fosse avvenuto.

Perché, se l’attacco di Aphrodite non gli era arrivato nella sua interezza, uccidendolo sul colpo, era solo perché altro si era frapposto nel tragitto e, quell’altro, era…

“Fr-Fra!” ripeté quasi sibilando, cercando di protendere la mano nella sua direzione, non riuscendo comunque a raggiungerla.

“Ahahaha! - rise Clio, beffarda, nonostante fosse ancora bloccata dalla telecinesi di Kiky, rimasto attonito ad osservare la scena – Tu eri il mio secondo obiettivo… nipote!” la irrise, mentre i suoi occhi saettavano verso di lei, rimanendo a contemplare la sua sofferenza quasi con godimento

Di quell’occhiata di sbieco Francesca ne percepì a stento la violenza intrinseca, perché, accasciata così a terra, con il corpo trafitto in più punti, riusciva a stento a respirare, mentre il veleno delle rose di Aphrodite si miscelava al suo sangue e i muscoli si contraevano a forza. Avrebbe voluto dire qualcosa, alzarsi, tornare a combattere, mormorò parole incomprensibili prima di tossire e vomitare sangue, la gola che bruciava, le vene sul punto di esplodere da quanto si stessero surriscaldando.

Quelle tossine… erano troppo potenti persino per lei, che era una divinità, ma arrendersi senza aver opposto un minimo di resistenza era fuori discussione. Intorno a lei voci diffuse la chiamavano angosciosamente, mentre la risata di Clio le riecheggiava spietatamente nelle orecchie. Non si sarebbe arresa, maledizione, le avrebbe strappato la voglia di irriderla in quella maniera!

Lentamente, con un titanico sforzo, dato le sue condizioni in peggioramento, non vista, cominciò a tracciare un primo simbolo sotto di sé con la punta del dito lordato dal suo stesso sangue. Fu un primo abbozzo, ciò che avrebbe portato il nemico a capitolare. Sorrise tra sé e sé, prima di cedere al nero dell’incoscienza che inesorabilmente la bramava per sé.

 

 

* * *

 

 

I passi di Camus echeggiavano nella cattedrale sinistramente, calmi, ma calzanti, senza fretta alcuna, verso la meta designata, come un lento ticchettio di un orologio al muro che tracciava il tempo certo della sua ineluttabilità. Continuamente, fatalmente. Nulla lo avrebbe fermato, nulla si sarebbe posto a sbarrare la sua strada. Non più.

Era passato di fianco a Michela senza degnarla di uno sguardo, nonostante la ragazza, ancora in lacrime, avesse provato ad afferrargli la mano che però era scivolata via. Perseguiva il suo cammino, gli occhi pervasi da quella luce del tutto innaturale, grandiosa, che il Cigno non riusciva tuttavia a riconoscergli. Era Camus davanti a lui, ma non lo era. La consapevolezza di ciò lo gettò nel più nero sconforto, mentre, dando fondo a tutte le sue energie, cercava di mantenersi in piedi, incurante dell’emorragia continua.

Non aveva parole da pronunciare, persino i suoi pensieri erano sempre più vacui, gli sfuggivano, come sangue, come sudore, come…

“Utopo...”

Fu la voce di Camus a palesarsi per prima. Come per il discorso della presenza, erano le sue corde vocali a vibrare per produrre il suono, l’accento che ne usciva era infatti il suo ma… frammisto a qualcos’altro di ineffabile, di assolutamente incomparabile con qualsiasi altra cosa presente in natura.

Era la voce del maestro a schiarire le parole, la distingueva nitidamente… ma essa riecheggiava all’infinito, rimbalzando ovunque. Di più, sembrava quasi che, in qualche modo, qualcun altro parlasse insieme a lui, con la stessa tonalità, intessendosi come se risultassero un’unica entità.

I passi si arrestarono. Il braccio sinistro di Camus si levò lentamente sopra la testa, con movenza solenne; l’altra mano si posò sulla spalla opposta, mentre un vento nuovo, caldo ma che intirizziva, anche quello imparagonabile con qualunque altra cosa mai creata, si levava nell’aria, facendogli ondeggiare i lunghi capelli sulla schiena che, nella lieve ondulazione, gli carezzavano i fianchi nudi, sui quali si stava espandendo la luce misteriosa del suo addome.

Hyoga ebbe la spiacevole sensazione che quella emanazione così apparentemente meravigliosa potesse erodergli l’intero corpo da quanto lucente fosse, al punto da risultargli intollerabile. Sussultò distintamente quando distinse dei fasci di luce dorata comparire sui suoi polsi, ripercorrendo il tragitto delle vene, per poi diradarsi all’intero braccio.

Camus teneva gli occhi chiusi per concentrarsi, ma quando quelle particolari radici luminose gli arrivarono alla spalla sollevata, le sue palpebre si aprirono di scatto, furiose. Nello stesso momento, dal palmo della stessa mano, si sviluppò una sorta di lampo azzurro che aprì una fenditura spazio-temporale a forma di mezzaluna tramite la quale si palesò un oggetto appuntito interamente cosparso di ghiaccio…

...No, non cosparso di ghiaccio -capì Hyoga, leggermente in ritardo, perché le sue condizioni sempre più critiche appannavano anche i suoi pensieri- è fatto di ghiaccio! E’ una… una creazione vera e propria. Il Maestro Camus può… maneggiare… qualsiasi oggetto, qualsiasi essere, qualsiasi ente, basta sia stato concepito dalla sua mente. L-lui lo può manifestare nel mondo fisico, c-con atomi propri formati dalle sue stesse facoltà intellettive. E’ oltre… oltre ogni aspettativa, è un potere che neppure le divinità conosciute possiedono, poiché arriva a violare la Legge per eccellenza del mondo fisico, quella della conservazione della massa, postulata da Lavoisier...

Ebbe appena il tempo di pensare febbrilmente, prima di essere sbalzato via da un vento caldo, che tuttavia faceva accapponare la pelle, persino a lui, che era abituato al gelo.

“Hyogaaaaaaaaaaaaaa!!!”

Avvertì l’urlo angosciato di Michela, sbatté violentemente a terra, mentre, con la coda dell’occhio, distinse la figura del maestro che, pur evitandolo, non aveva neanche fatto nulla per impedirgli di essere colpito dal pauroso spostamento d’aria che aveva causato il suo rapido, rapidissimo -invisibile all’occhio umano, persino superiore alla velocità luminare!- movimento per infierire ancora una volta su Utopo.

Un altro comportamento non da Camus…

“Ora… pagherai… ogni… singolo… dolore… che ci… hai… inferto!” sibilò nel vento, spietato.

Un’altra frase non da Camus…

Hyoga si girò a stento, trattenendo dentro di sé il dolore per le ferite subite, riuscì appena a percepire il movimento della spada ghiacciata che sferzava l’aria prima che calasse sul braccio umano di Utopo, tranciandoglielo di netto all’altezza del gomito.

“UUUUUUAAAAAARRRGGGHH!!!” un altro urlo agonizzante, intollerabile per le orecchie dei due ragazzi che assistevano impotenti alla scena.

Dopo di quello Camus, sempre impugnando con fermezza l’elsa ammantata di cristalli, colpì, ancora, e ancora…

Conficcò la punta della spada nell’intestino -ormai gli strati dell’epidermide erano già ampiamente stati fagocitati dagli atomi impazziti delle frecce scoccate, gli si potevano vedere le viscere!- di quell’essere, estraendola subito dopo per poi affondarla nuovamente più su, sulla spalla sinistra, e ancora… ancora… ripetendo il procedimento varie volte.

Ad ogni affondo inferto, gli occhi di Utopo si giravano sempre più, la bocca digrignata sporca di sangue e bava; il corpo (quel che ne rimaneva) sempre più preda delle contorsioni.

Ad ogni affondo inferto… Camus rideva, compiaciuto, trovando godimento in quel che stava facendo. Era oramai del tutto irriconoscibile.

“Piangi, Utopo?! - lo irrise l’entità che aveva le sembianze del fiero, indomito, Cavaliere di Aquarius, notando che stava supplicando pietà e che le guance incavate erano percorse da due rivoli di lacrime che scendevano giù – Non hai pianto quando hai torturato il ragazzo, sperando di farmi uscire allo scoperto! Ebbene… sono qui! Ma forse per te sarebbe stato meglio che non mi fossi mai manifestata!”

Parlava al femminile… e quella volta era la voce dietro Camus a palesarsi maggiormente, come se quella del legittimo proprietario, pur ancora presente, fosse annacquata, o peggio, si stesse sgretolando, perdendosi sempre più.

“Uuuuuuunrgh… urg… anf, anf… p-pietà… p-p-p”

“Ha scelto Camus di evocarmi, sai, lui era… disperato… per quello che stavi facendo ai suoi allievi. Ha scelto quindi di assecondare il mio impulso che tu stesso hai risvegliato, ha scelto di cedere il passo a me, ed io… ora la pagherai, mostro!”

“N-no, anf!” languì quasi Hyoga nell’udire quelle parole, che pur confermando i suoi sentori sul fatto che fosse stato proprio il maestro a decidere di accettare che qualcun altro prendesse le redini del suo corpo in sua vece -la sua più grande paura- per loro, per proteggerli, rafforzava anche la sua tesi sul fatto che, sul lungo andare, il cuore di Camus, il suo stesso animo, avrebbe rischiato di scomparire per sempre. Rabbrividì a quel pensiero.

Nel frattempo Tiamat si era concessa un breve attimo di pausa. Osservava con occhi carichi di ribrezzo la figura sotto di lui, la gamba sinistra sopra il suo sterno, quel che ne rimaneva, a contemplare il frutto del suo potere. Si osservò brevemente la mano libera, poi ancora sotto di sé, la gamba destra di quel mostro, che si era mosso appena, anche se non sapeva definire se era uno spasmo o altro. Non aveva importanza, sogghignò, mentre, con gesto secco, gli tranciava metà piede.

Altro urlo agonizzante, il sangue schizzò ovunque, unendosi a quello già presente nei dintorni che rendeva la scena ancora più disgustosa e raccapricciante: sembrava di essere in un vero e proprio mattatoio!

“Quanta violenza… per arrivare a me!” disse lei, mozzandogli interamente il piede fino all’altezza delle caviglie.

“UUUUAAAAAARGHHH!!!”

“A lui… ma anche ai suoi allievi… hai ereditato la stessa meschinità dal Mago, che a sua volta l’ha ereditata da Marduk!” un fremito di paura la avvolse nel pronunciare il nome del dio tanto odiato che le aveva lacerato il corpo dopo la battaglia mitologica. La rabbia aumentò di riflesso.

“Ma hai sbagliato le tue previsioni, verme, non bramo più tornare alla vita… non a scapito di quella di Camus!”

Un altro fendente gli tranciò metà polpaccio. Il sangue ancora una volta si sparse dappertutto, la puzza di putrefazione, già presente nell’aria, si unì a quella ferrosa della linfa vitale. Tiamat fermò momentaneamente il suo operato, sorridendo per la prima volta teneramente.

“Mi sono rifugiata qua dentro… - e si accarezzò l’addome, che era quello di Camus, che emanava quella luce sfavillante, divina – per una ragione. Se tu non mi avessi ferita, con i tuoi stupidi prelievi, io non mi sarei neanche mai manifestata, razza di idiota!”

Riprese, più selvaggia di prima, infliggendogli un altro fendente all’altezza del ginocchio. Ormai Utopo non era più neanche in grado di gridare da quanto fosse disastrato.

“Ma tu mi hai fraintesa, Utopo! Pensavi di sapere e invece non sai un bel niente, hai peccato di presunzione e superbia – sibilò, sempre più implacabile - Siete tutti così voi seguaci di Marduk!”

Anche la coscia fu tranciata… di netto!

No… non era più tollerabile tutto quello, quel continuare a farlo agonizzare senza mai arrivare la colpo di grazia!

Hyoga si fece coraggio. Alzarsi non era più possibile, ma avrebbe strisciato fino a lui, a costo di incrementare la sua emorragia, ma lo avrebbe fermato, avrebbe… recuperato Camus!

“Hyo-Hyoga!”

Udì appena Michela chiamarlo disperatamente, vedendolo muoversi. Non si voltò verso di lei, non ne aveva le forze, non le parlò, il fiato gli sarebbe servito per raggiungere il cuore del suo maestro, ma ampliò il suo cosmo per accarezzare quello della fidanzata e portarle così un messaggio.

Non temere per me, rimani dove sei, è pericoloso qui. Ti prometto che… che te lo riporterò indietro, Michy!

Annaspò per lo sforzo, ma non si diede per vinto. Strisciando, si avvicinava sempre più al al suo obiettivo, girato di spalle, occupato a contemplare il risultato del suo arcano potere. Ogni movimento gli costava fatica, sentiva il sangue fluire, bollente, sotto di lui, ancora una volta come nella battaglia contro Milo, e, proprio come allora, si sarebbe fermato solo quando non avrebbe avuto più fiato.

“Mae-stro... Camus, anf!”

‘Camus’ alzò nuovamente la spada con l’evidente intenzione di conficcarla nell’inguine di Utopo. Nel gesto di sollevarla, utilizzò per la prima volta entrambe le mani.

“Non ti lascerò morire finché non avrai patito tutta la loro sofferenza… no! – si corresse poi, con un sorriso meschino, scrollando il capo – No, non solo la loro, la mia, di tutti questi miliardi di anni! Languirai, Utopo, è Tiamat in persona a richiederlo!!!”

“Fer-fermatiiiiiii!!!”

La voce rauca del Cigno uscì prorompente nonostante le gravissime condizioni. La dea della Creazione fu costretta a fermarsi, mentre, voltandosi a mezzo busto, vide l’allievo biondo dell’Acquario sotto i suoi piedi, occhi che emanavano una luce abbagliante, forse persino più della sua. Esitò, notando che le dita insanguinante del ragazzo trattenevano la caviglia sinistra di Camus con forza, come a fargli percepire la sua presenza.

“Perché?” chiese solo, sinceramente sorpresa, abbassando di un poco l’arma.

“Perché lui, anf, non lo vorrebbe, Tiamat, non… non fargli questo!”

“Fargli questo… - ripeté lei, girandosi completamente verso l’allievo – E’ stato Camus a volerlo, ragazzo, altrimenti non sarei riemersa. Il suo potere non bastava per proteggervi, quando se ne è reso conto mi ha chiamato a gran voce, solo lui può farlo, e adesso…”

Lo sguardo di Hyoga si rabbuiò nel constatare che i suoi sentori erano veri. Si costrinse a mettersi ginocchioni per terra, il respiro sempre più aritmico, mentre, con un enorme sforzo di volontà, fissava i suoi occhi in quelli blu di Camus, pur tremendamente diversi da quelli che aveva imparato ad amare e che erano sempre stati per lui fonte di ispirazione.

“Il Maestro non lo vorrebbe… l-la sua più grande paura è quella di non essere in sé, di perdere il controllo, e tu… tu lo stai controllando, Tiamat!”

“No, ragazzo… - la dea primigenia scosse la testa, sospirando, fissando un punto non ben precisato della cattedrale – La sua più grande paura è quella di perdervi, ancora non l’hai capito dopo tutti questi anni? Nel terrore di questo, ha accettato di cedere il suo corpo alle mie intenzioni...”

“Il suo corpo… tu lo stai danneggiando, Tiamat! Siete una cosa sola, come puoi non percepirlo?!?” l’accusò Hyoga con disperazione crescente, cominciando a temere che il suo intervento potesse rivelarsi inutile.

In quell’istante, alcune gocce rubino caddero tra i piedi di Camus e la mano di Hyoga, che teneva stretta ancora la sua caviglia, come se non lo volesse lasciar andare. Tiamat si passò una mano sul volto, tra la bocca e il naso, accorgendosi di star perdendo fiotti di sangue proprio da lì per lo sforzo insito nel potere medesimo. Esitò.

“L-la tua foga, l-la tua rabbia, n-nonché la vendetta... – tentò Hyoga, sempre più affaticato ma altresì desideroso di non mollare, di non… lasciarlo, non più – Ti sta facendo perdere di vista le conseguenze: sei in un corpo di u-un essere umano, per quanto straordinario sia il Maestro Camus, n-non reggerà ancora a lungo quei ritmi, s-sta già dando cenni di cedimento e sofferenza, non lo percepisci? N-non fargli questo, Tiamat! Ho percepito qualcosa di caldo nei suoi confronti da parte tua, come un desiderio innato di protezione, n-non sei una dea malvagia, s-sei… ti senti solo dannatamente fragile, vero? Esattamente come lui, è anche per questo che lo hai… scelto? C-che hai scelto il suo grembo come rifugio?”

“C-come lo sai? Non mi conosci...”

“Ma percepisco la tua sofferenza, la tua… solitudine, perché… anche io l’ho provata!”

Tiamat esitò ancora. Guardò prima la spada che aveva ancora in mano, poi l’allievo dell’Acquario, e ancora il retaggio di Utopo, la sua agonia. Subito una foga inaudita la invase di nuovo, quel verme schifoso stava ancora respirando, e lei… lei voleva solo che tacesse, che morisse, tra ulteriori, atroci, sofferenze. Non poteva più tornare indietro, ormai, dopo miliardi di anni, era stata costretta a manifestarsi, interrompendo un sonno tranquillo che credeva ormai eterno.

Si voltò a mezzo busto verso il nemico, la mano libera levata in procinto di maneggiare un’altra creazione, fremette vistosamente, avvertì nitidamente il suo corpo tremare, quasi al limite.

“Io sono… la vostra unica speranza in questa situazione! Camus resisterà, sarà breve, vedrete, solo...”

“NO, TIAMAT!!!”

Hyoga balzò in piedi, permettendosi di stringere da dietro quel corpo a lui tanto famigliare ma non più riconoscibile, fermò il suo braccio, trattenendo a sé il maestro come meglio gli concedessero le sue forze ormai in esaurimento.

Camus non avrebbe potuto reggere un altro colpo, ormai era così evidente…

“Ragazzo, tu non capisci… - era ancora la voce di Tiamat a sovrastare, sebbene l’accento del maestro si percepisse comunque, anche se fievolmente – Non avete altre vie che me, voi da soli non siete in grado di...”

“NON HA IMPORTANZA!” si aggiunse anche Michela, buttandosi a capofitto su di loro, con una disperazione estremamente tangibile, bloccando il maestro dall’altro lato rispetto a Hyoga.

“M-Michy...”

Hyoga avrebbe voluto rimproverarle la troppa avventatezza, sebbene lui avesse fatto uguale, esponendosi ai rischi per lui, per Camus, ma si accorse, con un sorriso amaro, che lui, alle raccomandazioni del proprio mentore, aveva sempre risposto uguale, così come Isaac, reagendo di testa sua. Erano davvero così simili a lui, forgiati dalla stessa essenza, cresciuti… proprio grazie a lui, ad un uomo troppo giovane per essere padre ma che li aveva tirati su, senza lamentarsi mai.

Una famiglia, la sua. Il pensiero lo confortò.

“Non c’è un’altra via! O intervengo io, oppure voi...”

“NON HA IMPORTANZA! - ribadì Michela, completamente in lacrime, nascondendo il volto tra le scapole del mentore – In qualche modo faremo, come abbiamo sempre fatto, MA RIDACCI CAMUS, TI PREGO!”

Tiamat tentennò di nuovo. La stavano trattando come una nemica quando lei avrebbe solo voluto distruggere Utopo e, dopo di lui, l’odiato Fei Oz Reed, che teneva il potere di Marduk tra le sue mani, eppure...

Se li scrollò di dosso. I due ragazzi erano talmente stremati che caddero nuovamente a terra, mentre lei -lui!- compiva qualche passo in avanti, passando di lato rispetto ad Utopo. Si sentiva stordita, confusa, mentre il sangue continuava a fuoriuscire dalle narici e dalla bocca, portandola alla comprensione che il fisico di Camus era davvero al limite e che lei, per vendetta, non se ne era curata, portandolo ad un passo dalla morte. La creazione a forma di spada sparì tra le dita, com’era sparito l’arco, ma non le due frecce nel corpo martoriato di Utopo che continuavano spietatamente a fagocitare i suoi atomi, in una agonia che sembrava dover durare ancora un po’ nonostante non fosse rimasto più molto di lui.

“N-non avrei dovuto… danneggiarlo… così!” si ripeteva, massaggiandosi la testa, riuscendo a percepire finalmente la sofferenza di Camus.

“Tiamat!”

Si voltò. Era di nuovo l’allievo biondo dell’Acquario che si era issato faticosamente in piedi -con quale forza, si chiese, era ormai ai minimi termini, vittima di una emorragia interna ed esterna che lo stava prosciugando della vita, eppure continuava ad alzarsi, forse nella paura di perdere ciò che più amava- amore… già, non poteva che essere quello a dargli così tanta forza!

“Non so bene perché tu ti sia incarnata in Camus, ma… è il tuo rifugio, vero? Lo capisco, è… è anche il mio! - ammise candidamente, sorridendo appena, gli occhi luminosi, sebbene già offuscati dall’ombra – E’ un uomo straordinario, n-non ne ho mai conosciuti di lontanamente simili a lui, è… magnifico, meraviglioso, forte e… anche delicato, però… può essere neve, o fiore, montagna, fiume che scorre, o goccia di rugiada su una foglia, un poco cristallizzata, destinata però ad evaporare con l’avanzare del giorno. E’… è un sacco di cose, Tiamat, io… anche se fossi bravo con le parole non sarei comunque in grado di definirlo; di definire ciò che lui è interamente per me, un maestro, ma soprattutto un...”

Tiamat ascoltava sorpresa come non mai, le labbra gli tremarono più volte, cercando di pronunciare parole che Camus sentiva forti dentro di sé, ma che non era in grado di esprimere. Il suo cuore batté più velocemente, e seppe che per Camus era lo stesso, che quel ragazzo per lui era tutto, che…

...E’ mio figlio… l’ho cresciuto io, quel bambino biondo dagli occhi grandi e lucenti, un poco corrucciato e sofferente, ma forte e testardo come pochi. E’ il mio… Hyoga!

“...E’ mio padre, Tiamat! Lo è anche se non ci sono legami sanguigni tra noi, lo è anche se non riusciamo a capirci, se non facciamo che ferirci reciprocamente; lo è persino quando ci inseguiamo, senza raggiungerci. E’ mio padre! E tu, che sei una dea-madre, penso tu possa capirlo. Per favore, anf, lasciamelo… ti supplico! Non ho che lui e non voglio… perderlo!”

Michela li fissava entrambi in lacrime, rotta dall’emozione, cercando di mettersi in piedi a sua volta, non sapendo bene cosa fare. Camus sembrava sempre non essere lui, anche se qualcosa, lo percepiva, stava cambiando. L’immensa luce sul suo addome stava prendendo una forma propria, anche se non ancora ben definita; una forma spigolosa…

Aveva l’istinto di correre ad abbracciarlo, di sorreggere il suo fidanzato, che sembrava reggersi a stento in piedi, di aiutarli entrambi, ma capì altresì, con una consapevolezza fulminea, che sarebbe stata un intralcio, che dovevano toccarsi loro, solo loro, e che a lei non restava che confidare in entrambi.

Vide Tiamat chiudere gli occhi. Sembrava soffrire per qualcosa, ma era impossibile comprendere se fosse dolore fisico o altro. Si posò ancora una volta la mano sull’addome, che era quello di Camus, che brillava come non mai; anche Hyoga fu sul punto di gettarsi ad abbracciarlo, di urlargli che loro erano lì, che sarebbero usciti a modo loro, che non occorreva chiedere aiuto a lei, sottoporsi ad un’altra, ulteriore, possessione, anche se a fin di bene, il loro, ma in quell’istante le palpebre del maestro si riaprirono, e quelle iridi, quelle, ora così riconoscibili, gli fecero battere il cuore più forte dalla consapevolezza: era tornato!

“Hyo-ga!”

La voce di Camus era tornata ad essere ferma e composta, di nuovo sua, sebbene si percepisse il riecheggio di quello di Tiamat in sottofondo, come se la dea avesse finalmente trovato la tanto sospirata stabilità con il corpo che la ospitava.

Le gambe di Hyoga cedettero del tutto, il Cavaliere di Bronzo non seppe se per la fatica, la spossatezza o il sollievo; cedettero le sue gambe come cedono le ali di un cigno colpito a morte. Camus non gli permise di cadere, lo afferrò, stringendoselo poi a sé, mentre, accarezzandogli dolcemente il fianco ferito, premeva un punto di pressione, arrestando l’ingente emorragia. Tornò, tornarono, a respirare con più calma, insieme quella volta, lo strinse forte al petto, tremando, mentre l’allievo, cercando di non piangere, gli cingeva le spalle larghe, quasi aggrappandosi a lui, tentando di controllare il respiro frenetico.

“Maestro… Camus, anf!”

“Va tutto bene… ora va tutto bene, Hyoga, sono qui, sono di nuovo in me!” lo rassicurò, affondando il viso tra i suoi capelli del color del grano, tenendo gli occhi chiusi per la paura di perderlo, di perdersi. L’aroma inconfondibile del suo allievo lo avvolse, lo cullò, tranquillizzandone i battiti, che correvano convulsi come dopo un lungo forzo fisico.

Cosa hai rischiato per me, per giungere fino a qui e proteggerci, pensando erroneamente di non essere alla mia altezza e nel desiderio di non deludermi più. Non l’hai mai realmente fatto, Hyoga, neanche questa volta! Riuscirò mai a fartelo capire? Riuscirò mai… a dimostrartelo?! Sei ferito gravemente, piccolo… eppure ancora ti ergi sulle tue gambe, hai combattuto per salvarmi e risvegliarmi, ed io… come ricambierò tutto quello che mi hai dato e continui a darmi?! Oh, Hyoga…

“Maestro… io lo sapevo, anf, sapevo che non vi sareste smarrito, sapevo che avreste trovato il modo per imbrigliare quel potere!”

“Hy… Hyoga, io...”

“Lo sapevo, s-sì, anf...” ripeté ancora, accasciandosi quasi su di lui, allo stremo delle forze, tanto che Camus dovette puntellare le gambe per non cadere. Aveva perso molto sangue ed era molto debole, necessitava di cure urgenti… se ne accorse con un brivido.

“Hyo-Hyoga, resisti, ora sono qui, c-con te, non mollare, coraggio! S-sei...”

C’erano così tante cose da dire, da esprimere, ma… era così difficile parlargli, fargli capire quanto fosse importante per lui, quanto lo amasse, quanto...

“CAMUUUUUUUS!!!”

Anche Michela, rompendo le riserve e i tentennamenti, corse più che poté, a perdifiato, per colmare la distanza tra sé e loro. Li raggiunse, abbracciandoli a sua volta. Hyoga, posizionato com’era, esausto com’era, non riuscì nemmeno a girarsi, ma Camus, sempre sorreggendolo, mosse il braccio destro per cingere anche il corpo di Michela, che nel frattempo li aveva raggiunti.

“Michy...” le sorrise, sebbene il nome gli uscì in tono rauco, quasi stentato, per l’affanno.

“Come stai?” gli chiese apprensiva, cercando di guardarlo in faccia per sincerarsi delle sue condizioni. Gli aveva toccato l'addome, su cui aveva appoggiato la mano e… scottava, in maniera terribile! Sembrava quasi che quel calore arcano, dopo il ricongiungimento con la sua psiche, fosse destinato ad aumentare, anziché diminuire.

“Ora… bene… e lo devo a voi. La vostra voce ha… ha toccato il mio cuore!” rispose, sospingendo entrambi dietro alla nuca per averceli ancora più vicini, dove potesse percepire meglio il loro respiro.

“Ma sei ancora bollente e...”

“Passerà, birba… passerà. Non… cough! Cough!”

Voleva tranquillizzarli, perché li percepiva molto agitati, ma uno sciame di colpi di tosse lo scosse, portandolo a stendere di più il collo per evitare di sporcarli ulteriormente di sangue. Il suo.

“Maestro!!!”

Camus aveva preso a vomitare sangue più intensamente di prima, fu costretto ad allontanarsi bruscamente, cercando di trattenere gli spasmi irregolari del suo torace. Riuscì a calmarsi solo qualche secondo dopo, quando già una pozzetta color rubino si era formata ai suoi piedi; gli allievi che provavano a sorreggerlo da sotto le ascelle, perché faticava non poco a stare in piedi anche se tentava di nasconderlo.

Le gambe gli tremarono nell’atto di raddrizzarsi, il respiro, dopo quell’attimo di controllo, era tornato ad essere ancora più dispnoico di prima. Dovevano essere le conseguenze di aver utilizzato il Potere della Creazione per un tempo così prolungato e più volte.

“Cosa ti succede, Camus? - volle sapere Michela, apprensiva, abbassando di riflesso lo sguardo sull’addome del maestro. Sussultò – L-la tua… pancia!”

Anche Hyoga si ritrovò a sobbalzare nel distinguere un preciso disegno in quella zona. Sul ventre di Camus infatti, si era formato un fascio luminoso che aveva le sembianze di un triangolo, anzi di due, erano due… due triangoli equilateri!

Uno di essi aveva il vertice in direzione dello sterno, l’altro, contrario al primo, lo aveva invece verso il basso, probabilmente verso l’inguine, rimanendo tuttavia nascosto dai pantaloni. La base delle due figure geometriche contrapposte era comune, segnava metà ombelico, come se si fosse trattata di un unione spirituale tra lui e l’entità che viveva dentro di lui. Il reale significato però era nascosto. Si percepiva solo, di quel disegno, un qualcosa di estremamente solenne.

“Maestro… è questo che ti fa così male?!” insistette ancora Michela, indicandogli la zona in questione, ingoiando a vuoto per la paura.

Era stato tutto così ingiusto! Sembrava quasi di poter veramente tirare un sospiro di sollievo, e invece… la ragazza si trattenne a stento, aveva voglia di urlare.

Camus, capendolo, si permise di stringerli ancora a sé, nonostante il dolore. Loro erano lì con lui, si sarebbe risolto tutto in un modo o nell’altro, a qualunque costo.

Al di là di quello, il simbolo effettivamente gli bruciava, ma non era stato quello a causare quella tosse sporca di sangue, bensì le conseguenze della Creazione sul suo corpo da essere umano. Era una sensazione così strana… si sentiva gremito qualcosa di invincibile, di mai provato prima, ma allo stesso tempo era come se non potesse raggiungerlo pienamente, come se le sue facoltà fossero ancora sigillate. Del resto, aveva rigettato quel potere criptico, immenso, che pur percepiva dentro di sé dalla nascita, per anni e anni… come poteva pensare, adesso, di potersene servirsene liberamente?! Tiamat era con lui, faceva eco con la sua voce, come se fossero stati davvero una cosa sola, non sembrava malvagia, non con lui almeno, eppure, le sue azioni precedenti…

“Papà...” Michela si rannicchiò contro di lui, Hyoga esitò ancora un attimo, non sapendo se permettersi lo stesso, ma fu Camus a precederlo, portandolo nuovamente contro di sé, infondendogli quel calore che lui percepiva solo quando erano insieme… a casa!

“V-vi proteggerò, anf, qualsiasi cosa accada!” affermò, solenne, cercando di guardarsi intorno per ritrovare la via già precedentemente tracciata per tornare al Santuario.

Fu in quel momento che lo percepì nitidamente… dietro di lui… incombere. In un istante la saliva si azzerò nella sua bocca, la gola si fece secca, mentre il cuore prese a tamburellare selvaggiamente.

Né Hyoga né Michela percepirono subito il pericolo che si stava per abbattere su di loro. Il fatto di averli lì, con quel mostro nei paraggi, lo terrorizzò ancora di più, perché erano sguarniti al suo fianco e quell’essere abominevole non avrebbe esitato ad attaccare anche loro per arrivare a lui.

No, maledizione, non glielo permetterò, non finché avrò un alito di vita per combattere!

Penso tra sé e sé frenetico, mentre un brivido freddo gli percorse la schiena e la pelle si fece d’oca. Possibile che… avesse aspettato proprio quel momento per palesarsi?! Era tutto… prestabilito?!

“Mae-stro!”

Lo chiamò Hyoga, accorgendosi finalmente della sua reazione fisica e del conseguente pericolo. Troppo tardi per scamparlo, però!

Infatti un’onda nera di liquami, simile a petrolio, miasma, acque purulenti, insomma di tutto ciò che potesse esistere di putrido nel creato, si abbatté improvvisamente su di loro. Ancora, né il Cavaliere del Cigno, né la giovane semi-dea, furono in grado di reagire, ma Camus, lesto, lo fece per loro, afferrandoli entrambi sotto le braccia e saltando verso il piano rialzato di quella stramba cattedrale che racchiudeva lo spazio di singolarità di Utopo.

Il miasma nero pece non ci mise molto a invadere tutti i dintorni sottostanti, lambendo il corpo mezzo decomposto di Utopo senza che lui potesse difendersi. Solo il viso emergeva, il resto del corpo -il poco che ne rimaneva, almeno!- ne fu ricoperto, procurandogli un ulteriore urlo di agonia.

Hyoga, mosso a pietà, seguendo il suo buon cuore, fu quasi sul punto di intervenire, ma quando si affacciò oltre il marmo, un tonfo sordo dietro di lui lo mise in allerta. Voltandosi, vide che Camus, soccorso subito da Michela, era caduto a terra, respirando sempre più a scatti, sputando altro sangue, vibrando come se ogni centimetro del suo corpo fosse in balia del dolore. Lo raggiunse a perdifiato, la mente annebbiata dalla situazione.

“Maestro Camus, non devi affaticarti così adesso, non sei...” provò a dire Michela, in fibrillazione.

“D-dovete andare via d-da qui… - biascicava intanto lui, il mento e le mani sporche di sangue, mentre tentava di alzarsi, cercando disperatamente lo sguardo e il sostegno del suo allievo più maturo – Hyo-ga!”

“Sì, Maestro?”

Una pallida, quanto finta, calma, fu al risposta del Cigno, che cercava di dimostrarsi pronto per ogni richiesta, ma che in verità era sempre più preoccupato per le sue effettive condizioni.

“P-portala via, t-ti prego, l-lontano da qui!”

“No, Camus, io non me ne vado!” tentò di opporsi lei, non calcolata.

“P-per favore, Hyoga, s-sono allo stremo delle forze, urgh… dovete andare via!” insistette lui, cercando ottusamente di alzarsi, ricadendo a terra, sorretto dalle mani dell’allievo.

“C-ce ne andremo, ma con voi!” tentò di dibattersi il biondo, cercando al contempo un modo per aiutarlo.

“T-tu non capisci, Hyoga… s-se mi vuoi aiutare davvero devi, anf...”

“D-devo...?”

“L-lui… è qui! Presto, dovete andare v...”

“Ohoho, non mi vuoi presentare il più veterano dei tuoi discepoli, Camus, l’unico che mi manca? - si palesò una voce sinistra, che aleggiò nei dintorni come frastuono – Potrei offendermi, sai? Pensavo fossimo… intimi!”

Il Cavaliere del Cigno si mise istantaneamente in posizione d’attacco, ma fu immediatamente spazzato via da una tremenda forza telecinetica e lanciato contro una colonna, la quale si tranciò di netto.

“HYOGAAAAAAA!!!”

Urlarono entrambi il suo nome, tumefatto, strozzato, come se provenisse dai recessi più profondi delle loro gole. Al Cigno, quasi spezzato da quel tremendo impeto, un dolore acutissimo all’anca, gli si mozzò il fiato in gola, ma non per sé stesso, bensì per l’espressione irriconoscibile di Camus, il suo venerato maestro, e il suo conseguente grido viscerale in una sfumatura che non gli aveva mai sentito: doveva… doveva essere tremendamente spaventato per le loro sorti!

E capì, Hyoga il Cavaliere Leggendario, prima delle presentazioni ufficiali, di ritrovarsi al cospetto dell’arcinemico numero uno, colui che aveva fatto così tanto male alla persona più importante della sua vita, colui che, a detta di Marta e Milo, aveva tentato di isolarlo da tutti per poi violarlo ed entrare così in possesso del suo corpo. Lui: Fei Oz Reed!

Si sforzò di rimettersi in piedi subito, incurante del dolore, un lampo fulmineo nei suoi occhi, come le bufere di neve che colpivano improvvisamente la steppa siberiana a maggio. Tutta la sua ira, tutta la sua rabbia inespressa, e l’impotenza, baluginarono nelle sue iridi che si incontrarono con quelle nere dell’entità che era comparsa poco sopra di loro e che rimaneva a mezz’aria.

“Mi piace quel tipo di sguardo, Cigno, è lo stesso del tuo maestro!”

“TACI!”

Ma la figura alta e imponente, con i capelli colorati di nero da una parte e di bianco dall’altra, non gli prestava più attenzione, concentrandosi invece su Camus, il quale, pur tramando, teneva Michela dietro di sé, i muscoli tesi oltre l’inverosimile, il bel volto totalmente snaturato, quasi… trasfigurato dal terrore.

Gli occhi del Mago lo ispezionarono da cima a fondo, ancora una volta, da distanza, tuttavia al Cavaliere d’Oro che aveva risvegliato Tiamat, sembrò di essere ancora una volta sotto le sue mani, toccato, e rigirato come era stato negli incubi. Il cuore sembrava impazzito nel petto, ma non indietreggiò nemmeno di un millimetro: doveva proteggere i suoi ragazzi!

Gli occhi del Mago si soffermarono sul suo addome, su quel disegno così luminoso che simboleggiava l’equilibrio ritrovato. Sorrise, inumidendosi le labbra con ingordigia.

“Che essere meraviglioso sei, Camus dell’Acquario! - lo elogiò languidamente, continuando a fissarlo dall’alto al basso, con quella voglia folle che aveva ogni volta che lo vedeva tangibile vicino a lui – Mai un secondo ho dubitato che tu potessi ammansire Tiamat, mai, neanche per un istante, a differenza di quello là sotto, che comunque mi è stato molto utile, anche se le mie direttive non le ha minimamente seguite!”

Indicò con spregio ciò che rimaneva della corporeità di Utopo, ancora vivo, nonostante di lui fosse giusto rimasta la testa e qualche viscera. Poi schioccò le dita della mano destra e il fluido nero si dissolse. Al suo posto una nebbiolina dello stesso colore si diffuse nell’aria, paralizzando di fatto sia Michela che Hyoga che, come vittime di un maleficio, piombarono a terra, privi di coscienza.

“BASTARDO! - urlò Camus, gettandosi vicino a Michela, girandola supinamente per controllarle disperatamente la carotide per vedere se c’era battito – COSA HAI FATTO?!?”

“Al momento nulla di che, acquietati, stanno solo dormendo, PER ORA! - sorrise, con malia – Non voglio interferenze… tra me e te!”

“Lascia loro fuori da questa storia, mostro!”

“Questo dipende da te, ragazzo, e da Tiamat, che hai addomesticato!”

“I-io non ho...”

“Sei confuso, lo so… non sai nulla del Potere della Creazione, tu lo usi senza sapere cosa esso possa comportare, e ti sei trovato, di capocollo, a gestire una dea più potente di te, che può causare cose terribili, come hai visto...” e gli indicò ancora una volta Utopo, per terra, ancora agonizzante.

“I-io non...”

Camus aveva mal di testa, come se qualcosa dentro di lui, una dissonanza, lo investisse in pieno. Chi era realmente Tiamat?! Perché aveva scelto proprio lui?! Poteva realmente fidarsi di lei, dopo quello che, sotto la sua ingerenza, si era ritrovato a compiere, perdendo totalmente il controllo su sé stesso?!

Vide Fei Oz Reed posarsi lentamente sul piano, a poca distanza da lui e avanzare. Si sentiva immobilizzato e, ancora una volta, non era in grado di opporsi, solo di vederlo incalzare nella sua direzione, come un insetto nella tela del ragno. Ormai era già troppo vicino, il suo corpo cedeva al suo influsso venefico. Aveva… paura!

Di altezza, con i suoi oltre due metri, lo sovrastava completamente, e sebbene Camus dell’Acquario non si fosse mai sentito irrisorio nei confronti di qualcuno, con quell’essere accadeva sempre, di continuo. Fece per alzare un braccio e provare a reagire. Forse avrebbe potuto tentare un colpo per loro, per i suoi allievi, ma i suoi muscoli non rispondevano minimamente al disperato richiamo del cervello. Teso come una corda di violino, sguarnito, vulnerabile… senza la presenza di Marta, che riusciva invece a contrapporsi al nemico, che lo aveva salvato nel passato, quando la vita gli stava sfuggendo, riportandolo in superficie, a quel calore che Fei Oz aveva tentato di strappargli.

...Ma era solo lì, sua sorella era lontana, e sia Michela che Hyoga, intossicati dai miasmi, dipendevano interamente da lui.

Tremò con più forza davanti a quella consapevolezza, rendendosi conto che non sarebbe riuscito a proteggerli, di nuovo, come troppo soventemente accadeva.

Michela… Hyoga…

Il braccio di quel mostro, intanto, si protrasse nella sua direzione. Ancora prima di riuscire a darsi una scrollata, avvertì quel suo indice insinuarsi immediatamente nel suo ombelico, al centro di quel simbolo strano che gli era apparso. Lo percepì dentro, in maniera insostenibile, e al contempo percepì Tiamat agitarsi dentro di lui, scalciare forse più di prima, spaventata. Gli mancò immediatamente aria, mentre la cacofonia aumentava nella sua testa.

Le gambe gli cedettero, ma quell’essere lo afferrò malamente, costringendolo a compiere una brusca torsione del tutto innaturale. I polsi gli vennero bloccati dietro la schiena per impedirgli ogni reazione, si ritrovò ad inarcare malamente il busto, in modo da mostrare bellamente l’addome a lui, a quell’essere fetido, che lo ripugnava e schifava con tutto sé stesso e a cui tuttavia non era in grado di opporsi. Strinse disperatamente le palpebre, scuotendo la testa con impeto nell’avvertire nuovamente quelle dita ruvide ispezionargli l’addome, l’indice che premeva dentro la fossetta con movimenti circolari, procurandogli un dolore sempre più insostenibile.

“Così mi piaci… ansima, Camus, tra non molto sarai mio!”

“N-no, m-mai, anf…!"

“ANSIMA, HO DETTO!” pretese il Mago, premendogli ulteriormente il centro dell’addome con il solo scopo di fargli più male possibile.

Gli venne strappato un urlo, di forza, dalla bocca, mentre il ventre si muoveva convulsamente, senza che la volontà ne potesse prendere parte, di nuovo ricordando le doglie di un parto.

Quell’essere avvicinò il proprio volto al suo collo, gli scostò i lunghi ciuffi di capelli, fiatandogli perfino addosso, con voracità, mentre compiva quella sorta di sortilegio per piegare il Potere della Creazione alla sua volontà. A Camus sembrò quasi di morire, davanti a tutto quello, ormai non sentiva più nemmeno la propria voce, le corde vocali sembravano vibrare senza emettere alcun suono, le percezioni si affievolivano. Riaprì a stento le palpebre, che tuttavia non riuscivano a distinguere più alcunché.

Si ripeté ancora una volta che non poteva finire così, aveva qualcuno da proteggere e aveva promesso che non avrebbe più abbandonato Marta, né nessun altro dei suoi affetti, ma era tutto così oltre, così superiore rispetto al suo corpo così spossato…

“Sai bene che la tua encomiabile resistenza mi eccita ancora di più, ma… chiudi gli occhi ora, per aprire quelli della mente...”

“U-urgh, anf… anf… n-no!”

“Noooo? - chiese il Mago con voce languida, conficcandogli l’unghia dell’indice proprio all’interno dell’ombelico dove già Utopo gli aveva fatto i prelievi, mentre la sua lingua vogliosa gli percorreva la vena carotidea che sentiva quasi pulsare selvaggiamente dentro orecchio – Non hai chissà quali altre alternative...”

“A-arf...”

“Così, bravo… vedi che non è poi così male!”

Continuava a toccarlo, su e giù, accarezzandolo senza la benché minima delicatezza e premura, piegandone ancora una volta la volontà, la sua fibra di uomo, il suo stesso onore. Ancora… e ancora!

“U-urgh...”

“Ora osserva attentamente, ragazzo… poco prima di diventare una cosa sola, poco prima che la tua coscienza diventi un tutt’uno con la mia, voglio farti un ultimo regalo… te lo devo!”

Camus lo percepiva ormai a stento, era diventato davvero insostenibile mantenere la coscienza. Reclinò il capo all’indietro, vinto, mentre le tenebre e i miasmi si irradiavano nel ventre per poi apprestarsi a lambirlo interamente. Le avvertì proprio salire, strie nere che raschiavano ogni zona che riuscivano a raggiungere; bruciavano come sale sulle ferite sulla pelle già martoriata, arrivando a contaminare l’aorta e così il cuore, stretto nella morsa di quel veleno che non lasciava scampo e, ancora, che sembrava voler proseguire oltre.

P-perdonatemi, i-io… non ce la faccio… più! Contro costui non...

Fu il suo ultimo pensiero, rivolto ai suoi affetti più intimi, prima che la coscienza, ormai slegata dal corpo, si frantumasse in mille frammenti per essere poi proiettata in ogni direzione, tornando al Principio Primo; il principio di ogni cosa, di ogni… esistenza!

“Osserva, Camus dell’Acquario, osserva… questa è la storia delle origini del creato; è la storia della dea Tiamat e del dio Marduk!” sancì Fei Oz, apprestandosi a percorrere, insieme al corpo che gli spettava, le tappe fondamentali della Creazione di tutti i mondi.

 

 

 

 

 

Angolo di MaikoxMilo

 

Non ci credevo neanche io, visto che è stato un settembre bello intenso e pieno, ma finalmente sono riuscita a pubblicare anche questo nuovo capitolo dei 5 Pilastri. :)

Oggi, purtroppo per voi, ho alcune cose da dirvi, quindi mettetevi pure comodi! XD

Dunque… intanto non è la prima volta che Camus utilizza il Potere della Creazione per offendere, lo aveva già fatto da bambino, perdendone il controllo, già nel capitolo 6 della Melodia della Neve, “Creazione e Distruzione (seconda parte)”, ma è di certo la prima volta che vedete Tiamat all’opera. Su di lei sono molto curiosa: che impressione ne avete avuto? Buona? Cattiva? Ambigua? Al solito sarà chiarito con i giusti tempi, ma se voleste darmi qualche impressione a caldo ne sarei ben lieta.

Capitolo che si divide in tre parti e che pone l’accento, oltre che sulla gnoccolaggine di Camus (mi sono impegnata molto per rendere bene le descrizioni sue!) anche sul suo rapporto con Hyoga (che stra-adoro) e sui suoi effettivi poteri. Il “mio” Camus ha un potere praticamente assoluto che deve essere ancora svelato pienamente, qui vi è la sua manifestazione più cruda, ma al solito, per capire bene le dinamiche, dovrete aspettare un po’. Resta comunque il fatto che, come si è visto in “Sentimenti che attraversano il tempo”, contro il Mago non può opporsi. Perché?

Riassumendo:

1) Le ferite al torace subite nella prima storia, riaperte per salvare la sorellina, e volute dal Mago stesso, hanno immesso nel suo organismo particelle di miasmi e il cosmo stesso di Fei Oz. Va da sé che, perdonate il termine un po’ brutale, ma che rende bene, è come se Camus avesse un tumore che, da solo, non può minimamente combattere, per questo motivo, quando è al cospetto del nemico, non riesce, non può, opporsi, oltre ad essere evidentemente traumatizzato da lui per quello che gli ha già fatto subire.

2) E’ stato precedentemente seviziato da Utopo nel capitolo 3 di questa storia.

3) Come se non bastasse, qui, ha utilizzato il Potere della Creazione, il Principio Primo, in maniera continuativa e prolungata. Un potere assoluto e illimitato in un corpo che tuttavia è limitante, metà umano e metà divino; questo, come si percepisce, lo ha devastato nel profondo, sebbene ora sia in equilibrio con la dea. Del resto… non ha mai utilizzato simili poteri prima d’ora, dovrà affinarsi e capire bene questa storia di Tiamat custodita nel suo grembo.

4) Ricordo, senza fronzoli, che quanto Camus vive, ha vissuto, davanti al Mago, non è dissimile da uno stupro, per quanto (al momento) al livello psicologico e tramite i sogni, poiché il Mago preferisce utilizzare il suo corpo cosmico, non quello fisico (anche in questa circostanza lo sta utilizzando, lo capirete nel prossimo capitolo). Inoltre, come si è visto più volte, il nemico ha una predilezione per toccargli proprio l’addome, l’ombelico, una zona che Camus sente intrinsecamente così fragile. Ora sapete perché: vi è custodita Tiamat, ma non pensate che ella abbia sempre le sembianze di un feto, o si possa vedere in qualche modo, la faccenda è molto più complessa. Di certo, quando è agitata, è percettibile tramite un leggerissimo battito cardiaco.

Dopo questa pappardella (si vede che tengo a Camus? Aha!), dico qualcosa anche sui nostri che sono rimasti al Santuario.

Dunque, qui ho voluto dare risalto a Shura che, tra i Cavalieri invecchiati, è quello che lo fa in maniera migliore, un po’ come il buon vino. Insomma, Shura per me, insieme ad Aldone (non me ne vogliano le fans) è quello più, non brutto, certo, ma “insulso”, diciamo, tra tutti i Dorati Custodi, almeno esteticamente parlando… vogliamo quindi farlo invecchiare meglio degli altri?! Aha, io sì, assolutamente, ed eccolo quindi qui alla riscossa! Go, Shura! :) :)

L’attacco di Aphrodite non è di mia invenzione, ma di Kurumada medesimo in Episode 0, quando, per intenderci, ferisce a morte Aiolos che sta fuggendo con Atena in fasce.

L’apparizione di Kiky, invece, è un omaggio a Saint Seiya Omega, forse una delle poche cose che apprezzo di quest’opera. E’ proprio il caso di dirlo: il suo intervento ha salvato il deretano a tutti, Mu avrà di che essere orgoglioso del suo allievo; così come Camus delle sue, senza alcun dubbio :)

Dovrei aver finito il solito papiro… credo! Nel prossimo dovrei arzigogolare una prima spiegazione del mito di Tiamat, ma, via anticipo già, le fonti sono incerte e frammentate (l’ho scelto proprio per questo) quindi ci metterò molto di mio, spero di risultare convincente.

Al solito, ringrazio tutti coloro che mi leggono, seguono, commentano e via dicendo, spero di non avervi deluso con questo capitolo. Spero inoltre, questo mese, di riuscire a pubblicare di più. Tra non molto dovrebbe infatti riprendere anche la pubblicazione della Melodia della Neve, ferma da un annetto perché prima dovevo andare un po’ avanti con questa storia che, a questo punto, direi che conterà sui 10 capitoli.

A presto, mi auguro! :)

 

 

Ritorna all'indice


Capitolo 6
*** Fino all'ultimo respiro... con tutte le mie forze! ***


Capitolo 6: Fino all’ultimo respiro... con tutte le mie forze!

 

 

 

Io sono colei che è,

che è sempre stata

e sempre sarà,

e nessuno uomo ha mai sollevato il mio velo.

 

 

 

In principio fu Namma, prima di diventare Tiamat… il principio era tutto al femminile, come la vita.

Ma la vita reca in sé il gene della morte. Sempre.

Alla Creazione si accompagna la Distruzione.

Tiamat, dea-madre, dea vergine, dea guaritrice, mostro informe ed entità salvifica; Colei che era prima di ogni altra cosa. E, prima di ogni altra cosa, vi era solo un mare primordiale, una brodaglia concentrata di tutti gli atomi, insieme, raggrumati, di tutto ciò che sarebbe stato. Di tutti i mondi, di tutte le dimensioni. Ed era il Caos...

Un mare salato, eterno, imperituro… su cui ella governava e ne era un tutt’uno. Di forma serpentiforme il suo corpo, di scaglie di drago la sua pelle; i suoi occhi, di viola sfumato, abbracciavano ogni cosa. Non vi era che lei, sconfinata… lei ERA, e sempre sarebbe stata.

Divise da sé stessa, dalla sua massa turbinosa, le acque dolci dalle quali nacque il dio Apsu, suo futuro consorte. Dalla loro unione sorse la prima generazione di divinità: Lakhmu e Lakhamu, serpenti mostruosi. E poi… tutto prese avvio.

Nacquero Ansar e Kisar, fratello e sorella, rispettivamente dio dell’Alto e del Basso, che a loro volta generarono moltissimi figli.

Tra questi, En-ki, dio supremo e benevolo, nacque con la sua controparte femminile Ki, costituendosi in un unico insieme come Montagna Sacra che sorse sul Mare Primordiale che era Tiamat. Egli concepì da sé, dalla propria terra, il dio Marduk, divinità polioftalmica a quattro occhi, lo ‘splendente’, l’annunciatore, il mago, perché di magia ne era profusa la linfa vitale che gli aveva ceduto Enki nel generarlo.

E così… sette generazioni di dei si susseguirono e moltiplicarono dall’avvento del Principio Primo, tuttavia Tiamat non poteva più tollerare tutto quello, non poteva accettare di vedere ridimensionati così i suoi poteri, non poteva concepire che dal silenzio si era generato quel baccano. Infervorò quindi una parte dei suoi figli alla rivolta; i suoi figli per via diretta, che avevano tutti forme mostruose, li infervorò, contro la nuova progenie.

Il potere di Tiamat era portentoso, da lei era derivato tutto, era madre di ogni cosa, e aveva continuato a riprodursi, ad accrescersi ininterrottamente. Nessuna divinità sembrava sufficientemente abile per opporsi, tutti la temevano e veneravano, solo il dio Marduk raccolse la sfida in nome della libertà dei suoi pari. Tiamat non era più madre, bensì matrigna, occorreva ribellarsi per mettere fine alla sua sete di dominio. Gli altri dei lo elessero quindi come loro campione. Giunse il giorno della guerra...

 

Egli fabbricò un arco e lo destinò a sua arma,

Incoccò la freccia e ne fissò la corda,

Alzò la mazza afferrandola con la destra,

L’arco e il turcasso appese al suo fianco,

Il fulmine pose dinnanzi a sé.

Di una fiammata ardente riempì il suo corpo,

Fece una rete per avviluppare Tiamat,

Afferrò i quattro venti affinché nulla di lei potesse sfuggire…

Gridò Tiamat altamente in furia,

Le sue gambe tremarono fino alla fondamenta,

Essa recitò uno scongiuro e gettò il suo incantesimo,

Mentre gli dei della battaglia affilavano le loro armi.

Così cozzarono, Tiamat e il saggio tra gli dei Marduk.

Andarono alla battaglia, s’avvicinarono per la lotta.

Marduk spiegò la sua rete per avvilupparla,

Il Vento Malvagio che lo seguiva le sguinzagliò dinnanzi.

Quando Tiamat spalancò la bocca per distruggerlo,

Egli vi lanciò dentro il Vento Malvagio, così che essa non poté chiudere le labbra.

I venti furiosi riempirono il suo ventre.

Il suo corpo fu gonfiato ed essa spalancò la bocca.

Egli scoccò una freccia che ne lacerò il ventre,

Ne tagliò le interiora, ne spaccò il cuore,

E così, vintala, le tolse la vita.

 

Ne estrasse quindi tutto il suo sangue, lo affidò al Vento del Nord per nasconderlo in un luogo remoto, poi, con le estremità corporee del suo cadavere divise il Cielo dalla Terra e i mondi tutti in realtà parallele ma distanti, intoccabili e divise costantemente in espansione.

Marduk è dunque il più potente di tutti gli dei, il Lucente, il Possente, profuso dell’aura e dei poteri di dieci, cento, mille divinità. Dalla sua vittoria contro Timat venne sancito il Principio Regolativo, fu solo grazie alla sua battaglia che la vita poté permettersi di fiorire in multeplici forme che la dea primigenia invece non tollerava.

Marduk è il vero creatore del cosmo così come lo conosciamo; creatore in senso di ordinatore, perché senza leggi vi è solo il Caos. Non importa se gli atomi erano già stati precostituiti, non a Tiamat, una dea malevola che si rivoltò contro la sua stessa progenie, devi devozione, ma al ‘vitello solare’, il dio, il mago Marduk.

Dimmi, ragazzo… vuoi quindi continuare a difendere un simile potere malvagio?! Una simile dea, che pur rappresentando la creazione non ha mai generato alcunché se non per il suo sfrenato egoismo?!

Marduk è il dio del Tutto, Ordinatore Primo, Creatore e Distruttore, Mago, Sciamano… e ora io, che ne sono il custode, il suo più fedele adepto, bramo quel potere che tu solo possiedi: la Generazione di Nuovi Atomi dal nulla, ciò che viene chiamato Scintilla; la Scintilla che diede la vita e generò il Multiverso.

Lo esigo per il mio mondo, che tu, o meglio, che la tua controparte del Mondo Inverso ha sradicato via nel profondo, gettandolo in una landa desolata e ricolma di disperazione, lo sai bene, te l’ho mostrato quando, seppur per un breve periodo, siamo stati una cosa sola.

Cedimi il tuo corpo, Camus dell’Acquario e, con esso, il potere che ne è profuso dentro e che tu non puoi pienamente sfruttare. Ristabiliamo l’ordine, rimettiamo altresì, una volta per tutte, i peccati di cui tu e la dea che ospiti vi siete macchiati… Concediti a me, ORA!

 

La mente del giovane Hyoga era ricolma di immagini contorte e poco capibili che scorrevano davanti alle sue palpebre abbassate. Miti… di una frazione che non aveva né tempo né spazio definito ma nel quale vi era già il tutto; il Tutto che formava l’universo, le dimensioni, il Tutto della Terra, nonché il Tutto del suo organismo che, dopo varie trasformazioni e peripezie varie, avrebbe poi assemblato lui, permettendogli di vivere e di conoscere altri esseri che facevano comunque parte del grande insieme.

Era stordito, attonito. Ciò che era baluginato davanti a lui, sferzando la sua coscienza, erano scene di una battaglia epocale, in cui una figura lontanamente antropomorfa, dotata di quattro occhi, combatteva all’ultimo sangue con un’altra, di sembianze di drago ma con occhi fin troppo umani e tristi. Dalla conclusione di quello scontro, dallo scisma di quella creatura mistica cui Hyoga empatizzava forse più del dovuto, si ebbe una gigantesca esplosione, nota come Big Bang e, con essa, la genesi dei mondi tutti.

Erano la dea Tiamat e il dio Marduk, rispettivamente la Creatrice della Vita e l’Ordinatore del Multiverso.

Tuttavia… chi aveva davvero voluto quello scontro? Perché qualcosa sembrava non tornare? Tiamat, o Namma, la dea-madre, risultava così malvagia, lo era di certo secondo quella visione, ma allora perché… perché quella sensazione estrema di calore?! Quella beatitudine? Quella assenza di ombra che navigava nei suoi occhi da draghessa fin troppo espressivi? Aveva voluto lei la vita, lei aveva scoccato la Scintilla, perché… toglierla?!

Chi… era in realtà? Quale versione gli aveva fatto vedere il Mago, che si era professato il sacerdote primo di Marduk?!

Non è questo il momento per chiederselo, Hyoga!

Una voce famigliare raggiunse i suoi timpani, riscuotendolo nel profondo. Quel timbro vocale, così identificabile, sebbene così distante… no, non era possibile! Il giovane Cigno si riscosse nel tentare di recuperare sé stesso.

“Is-a-ac?”

Non hai tempo per chiedertelo, amico mio, ci sono urgenze ben più importanti…

“Is-a-ac?! Dove sei, da dove mi stai parlando? T-ti sento così vicino, anche se non riesco nemmeno a sfiorarti...”

Anche questo passa in secondo piano, Hyoga… concentrati, devi concentrarti per riuscire a risvegliarti!

“Risvegliarmi da…?”

Dal sonno cui ti ha fatto cadere quel lurido bastardo… Coraggio, il Maestro Camus ha bisogno di te!

“Il Maestro Camus… - realizzò Hyoga, quasi lasciandosi perforare da quella consapevolezza – G-giusto, è arrivato Fei Oz e… SANTI DI QUEI NUMI, significa...”

Camus non è libero di contrastarlo, lo sai, sta… sta soffrendo molto ora e… e tu sei l’unico a potersi opporre a lui!

“Io… l’unico?!” chiese ancora il Cigno, cominciando a capire, rabbrividendo nel comprenderlo: la stessa vita del mentore dipendeva da lui, da colui che gli aveva perforato il cuore, strappandogli prima Isaac, poi la vita e poi la stessa corazza. Inghiottì a vuoto, sentendone il peso e l’inadeguatezza.

Proteggilo… al posto mio, va bene?

“Isaac… se ci fossi tu, lui… sarebbe molto più al sicuro e...”

Pffff, il solito insicuro delle sue capacità! Pensavo che dopo anni questo difetto lo avessi finalmente scalzato via da te, stante le imprese che hai compiuto…

“Io...”

Camus ha bisogno di te; di te e solo di te, del suo… degno successore!

Sebbene fosse un complimento, Hyoga percepì una leggerissima nota di dispiacere nel pronunciare quella frase. Si sentì la gola secca, mentre cercava parole da dire ma che non gli sopraggiungevano, se non…

“Perdonami… per tutto!”

Hyoga… adesso risvegliati, io e Camus crediamo in te, lo abbiamo sempre fatto, fai… fai parte della nostra famiglia, non come mio sostituto, ma perché sei tu; tu e nessun altro, è chiaro?

“S-sì… - il nodo in petto si era fatto più accentuato mentre provava a muoversi con estrema fatica – S-sarò degno di te allora, l-lo proteggerò come… come avresti fatto tu e...”

No, non come avrei fatto io, lo proteggerai come Hyoga di Cygnus e futuro Hyoga di Aquarius, nessun’altra strada ti compete meglio di questa, la tua, né la mia né quella del maestro.

“Ma Isaac!”

Ora… risvegliati!

E Hyoga si risvegliò, di soprassalto, sforzandosi di rimettersi seduto nonostante la testa che girasse paurosamente, incanalò aria dentro di sé, strabuzzò gli occhi nei dintorni, prima di vedere Michela a poca distanza, stesa lunga per terra, caduta in un sonno profondo che non aveva nulla di naturale.

“Mich… cough! Cough!”

Hyoga fu costretto a coprirsi le labbra con le mani, perché l’aria intorno era irrespirabile, così contaminata com’era dai miasmi, da una puzza oscena, che penetrava anche nei pori della pelle e faceva quasi perdere i sensi. Resistette strenuamente all’incoscienza, ma non fu in grado nell’immediato di alzarsi in piedi, le braccia e le gambe non lo reggevano minimamente.

“Oh? Riesci a resistere alla mia ingerenza che ti imporrebbe di dormire? Mi stupisci!”

Udì una voce rimbombargli nelle orecchie, si costrinse ad alzare il capo in quella direzione e, quel che vide, gli fece accapponare la pelle.

“MAESTRO… CAMUS!!!”

Camus non diede il minimo segno di averlo sentito, la sua espressione sofferente fu la prima cosa che sconvolse nitidamente il Cigno, non abituato a vederlo così debole nelle mani di qualcuno. Perché Camus dell’Acquario, l’essere speciale nel quale Tiamat aveva scelto di incarnarsi, che lo aveva cresciuto e che non aveva mai cercato di far trasparire, almeno davanti a lui, il più piccolo segno di cedimento, era ora invece tenuto malamente dalle mani del Mago, il volto reclinato mollemente sulla spalla del nemico, il volto pallidissimo, la bocca dischiusa dalla quale usciva un respiro frenetico e irregolare; le braccia a penzoloni, ormai prive di volontà propria, e il corpo -QUEL corpo così forte con cui compiva mille magie!- che cedeva sempre più alla contaminazione del Mago, ai suoi miasmi, che stavano penetrando nel suo fisico già terribilmente spossato per mezzo del palmo destro di Fei Oz tenuto aperto sul suo ventre. Le dita, ben distanziate le une dalle altre, quasi gli graffiavano la pelle in prossimità dell’ombelico da quanto stringessero la presa, e un serpeggiare sinistro, oscuro, malvagio sopra ogni dire, stava già oscurando i due triangoli luminosi che si erano precedentemente formati, simbolo della fusione tra Camus e l’entità.

“Ba-bastardo!!!” ululò Hyoga, fuori di sé dalla rabbia, cercando di alzarsi con impeto per gettarsi verso il nemico e strappargli con tutte le sue forze quel corpo che non gli spettava. Ma una fitta lancinante al costato lo fece ricadere a terra, solo il suo sguardo ferino rimase ben saldo, ed era tutto per arcinemico odiato.

“Anche Camus mi ha chiamato così, quando vi ho fatto sprofondare nel sonno, è il caso di dirlo: tale padre tale figlio! - lo canzonò il Mago, sorridendo di sbieco – Mi congratulo per esserne uscito, ragazzo, non è da tutti, ma io, fossi in te, me ne starei comunque cheto per un po’: la tua milza è irreversibilmente danneggiata, un movimento più brusco del consueto e stramazzerai a terra in un lago di sangue!”

“Me ne infischio del tuo sproloquiare e delle parole con le quali, abile oratore, tendi a convertire i tuoi proseliti: SEI UN MOSTRO, ED IO SO COSA HAI FATTO AL MAESTRO CAMUS!”

“Oh, lo sai, giovane Cigno? - domandò ancora lui, languido, inumidendosi le labbra voglioso – E’ motivo…di grande trastullo per me.”

Hyoga non rispose, si alzò semplicemente in piedi, con tutte le forze di cui disponesse, congiungendo le mani prima di alzarle a fatica all’altezza delle spalle per prepararsi a caricare l’Aurora Execution.

“Ma che fai? Ho ancora il tuo maestro tra le mani e tu..?”

“E’ proprio questo il punto, tra poco non ce lo avrai più, perché te lo strapperò dalle mani, CODARDO!” lo minacciò il Cavaliere di Bronzo, fremendo vistosamente.

“Tu non capisci, ragazzo… - sospirò lui, fintamente mortificato, socchiudendo gli occhi e scrollando il capo, prima di tornare a guardarlo con un guizzo – Eppure hai visto chi è davvero Tiamat!”

“NON MI IMPORTA! - ribadì il Cigno, sempre più iroso – Tu ci hai raccontato la TUA versione dei fatti, quella del vincitore Marduk, non della dea, e poi... avesse anche il peggior demone dentro di sé, Camus è Camus, ed io non ti permetterò di infierire vigliaccamente su di lui! Non gli farai più il male che gli hai procurato nel 1741!”

“Il male… è stata Marta a rivelartelo? Pfff, pensavo fosse più discreta, da Seraphina lo era!”

“Questo non ti deve interessare!”

“Eppure… tu sopra ogni altro sei stato testimone della manifestazione nefasta del Potere della Creazione, ne hai viste le conseguenze e… quella ragazza, Michela, che, se non vado errato, ti sta molto a cuore, per poco non ne veniva colpita a causa della perdita di controllo di Camus, che non sa come gestire Tiamat. E se succedesse di nuovo? Se lei… dovesse rimanerne ferita? Hai assistito all’agonia di Utopo, no?! Mi vorresti dire che, neanche in quel caso, accetteresti il procedere degli eventi? Il corpo del tuo maestro, da solo, non è in grado di reggere una simile pressione...”

A quelle parole Hyoga esitò. Abbassò di un poco le braccia, tremando consistentemente nel distinguere il corpo della sua fidanzata, ancora stramazzato a terra.

“Il Potere della Creazione dona a chi lo possiede la capacità di creare atomi dal nulla semplicemente grazie alla forza del proprio intelletto. Potenzialmente non ha quindi limiti… - gli spiegò, con solennità, come se l’argomento trattato fosse dei più sublimi – Tali atomi tuttavia non si comportano normalmente, agiscono più come se fossero delle vere e proprie cellule viventi, capaci di moltiplicarsi all’infinito.”

“E questo cosa…?”

“Sono cellule che, non avendo una stabilità loro, la ricercano nel mondo fisico in cui esse vengono generate e nel quale non dovrebbero neanche esistere, perché nulla in natura si crea né si distrugge, questo è uno dei massimi sistemi, neanche un dio ordinario può scalfirlo! E’ un assoluto!”

“Questo lo so benissimo, non c’è bisogno di… - Hyoga strabuzzò gli occhi, trafitto da una nuova, più nefasta, consapevolezza – N-no, non può essere, mi vuoi forse dire che…?!”

“Ci sei arrivato, eh? - qualcosa lampeggiò negli occhi di Fei Oz, mentre il Cigno rabbrividiva ancora di più, esitando ulteriormente – Il Principio Primo viola LA legge fisica per eccellenza, gli atomi che vengono concepiti da questa attitudine si ritrovano in un mondo già precostituito e formato. Va da sé che essi, ricercando stabilità, perché ogni cosa di questo mondo deve raggiungere l’equilibrio, cozzano con quegli altri già esistenti, finendo così per fagocitarli e moltiplicarsi infinite volte sempre più fuori controllo. E’ un potere illimitato, non ha quindi nulla che lo inibisca e, da solo...”

Hyoga lo vide chiudere di nuovo gli occhi nel prendersi una pausa, le sue labbra si stirarono in un sorriso sinistro, mentre dal palmo della mano tenuta sopra l’ombelico di Camus cominciavano a diffondersi striature nere simili a vene che, lentamente ma inesorabilmente, risalivano verticalmente sul suo addome, procurandogli ulteriore dolore ben visibile sia sul sui viso sempre più provato e sofferente, sia sui suoi muscoli, tesi oltre l’inverosimile, rigidi ben oltre l’umana sopportazione. Il giovane allievo vide con orrore il corpo del suo maestro scalpitare, provare ancora ad opporsi a tutto quell’inferno malgrado gli spasmi sempre più violenti e incontrollati.

“FEI OZ!!!”

“Da solo… - riprese il Mago, come se non fosse mai stato interrotto, perché intanto il biondino non era in grado di muoversi più di così e lui lo sapeva fin troppo bene - …potrebbe essere in grado di far collassare su sé stesso un mondo, o ricrearlo dal principio, dando così a noi una nuova, più concreta, speranza!”

“U-uff… anf, anf...”

La testa di Camus si reclinò all’indietro, vinta, dalle sue labbra non usciva nient’altro che un respiro sempre più veloce ma inconsistente, come se gli sfuggisse via dalle labbra. E, in effetti, era la sua stessa vita a star sfuggendo irrimediabilmente dal corpo -realizzò ancora una volta Hyoga, sempre più disperato- si sentiva preda ad un attacco di panico che, lo sapeva, da indomito Cavaliere dei Ghiacci non avrebbe mai dovuto assecondare.

“Tranquillo, tra poco sarà tutto finito, Camus... – gli disse ancora il Mago, mellifluo, mentre gli girava il volto nella sua direzione per contemplare meglio il suo sudore, la sua sofferenza, e quel respiro, che trapelava frenetico dalle labbra dischiuse. Sogghignò di riflesso – ...saremo finalmente una cosa sola!”

Hyoga assistette tremante all’avvicinarsi del nemico alla bocca del maestro, a quelle dita rugose che lo premevano, costringendolo così ad aprire bocca per… AL DIAVOLO!

Semplicemente non ci vide più dalla rabbia. Ringhiando selvaggiamente come una fiera crudele, si gettò contro quel pazzo senza più pensieri né timori. Voleva solo ammazzarlo, dilaniarlo, strappargli Camus dalle braccia, persino torturarlo, se ne avesse avuto l’occasione, MASSACRARLO, senza la minima pietà, senza la minima incertezza.

Era davvero troppo, osava prendersi gioco di lui, trattarlo come se fosse un mero bambolotto senza volontà… IMPERDONABILE! Per la prima volta in vita sua, Hyoga di Cygnus provò l’intenso desiderio di uccidere.

“Non così in fretta, allievo!” lo canzonò l’altro, mentre, sogghignando, attaccò con una nuvola di miasmi che si diresse a grande velocità contro l’indifesa Michela, obbligando così il Cavaliere di Bronzo a compiere un’altra brusca virata per pararsi davanti alla fidanzata e cristallizzare così il gas velenoso in modo che non la potesse nuocere.

Lo stesso, meschino, trucchetto di Utopo, al quale lui era nuovamente caduto. Si sentì ribollire di rabbia mentre, dando tutto sé stesso, la proteggeva. Lo sforzo però lo fece ricadere in ginocchio, annaspò, rendendosi conto che la ferita al fianco aveva ripreso a sanguinare. La sua mano si mosse debolmente a stringere il braccio di Michela, ancora svenuta, i suoi occhi furibondi invece si stagliarono sulla figura del folle: “S-sei un vigliacco c-come Utopo, anf...”

“Può darsi… - acconsentì il Mago, con una espressione tronfia di gloria – Ma io vinco e voi perdete!” dichiarò, tornando a concentrarsi sul viso stremato del suo amato ostaggio per riprendere ciò che faceva prima.

Hyoga vide distintamente, nuovamente impotente, le dita di quel lurido verme raschiare la pelle del maestro, rivendicando un possesso che non gli apparteneva. Camus si divincolò, ancora una volta, l’ultima, mentre il dito indice di quel mostro gli veniva insinuato dentro l’ombelico già ferito, strappandogli un nuovo, tumefatto, gemito di dolore.

Ancora il giovane allievo, caparbio, si alzò; ancora le gambe, vinte dalla fatica, rischiarono di cedere, ma non demordette. Si diede una scrollata, ottusamente divaricò prima un piede e poi l’altro per evitare di crollare. L’ira lo avvolgeva interamente; l’ira e nient’altro. E sapeva che non doveva cedere a quella, glielo aveva insegnato proprio il suo venerato mentore, ma la misura era colma, trattenersi era ormai impossibile.

Datti una svegliata, Hyoga! -si disse, rimproverandosi- Hai fatto il bamboccione troppo a lungo, sei cresciuto o no in questi anni?! Hai imparato qualcosa o sei ancora il pavido bimbo, un poco corrucciato, che frignava per il passato?! Tuo fratello Isaac ti ha affidato la protezione di Camus… Isaac, lo ha fatto, che tu stesso hai ucciso… MUOVITI! Dimostra di valere qualcosa qui e ora, il maestro ha bisogno di te!

Era pronto per scattare, dando fondo a tutto sé stesso, a ciò che rimaneva di lui, alla sua ultima fiammella, che ardeva come non mai. Era in posizione, pronto all’assalto, ma ancora una volta, l’ennesima, qualcosa fu in grado di pararsi fra lui e il suo obiettivo, sconvolgendolo fin nei recessi dell’anima.

Un urlo.

Non un urlo qualsiasi.

Ma quello del suo amato Maestro Camus.

Qualcosa si incrinò dentro di lui, la sua stessa volontà, davanti a quella manifestazione di estremo dolore. Rabbrividì, gli mancò aria… si sentì scosso nel profondo e, per un solo attimo, le sue braccia, protratte in avanti per l’attacco, ricaddero molli ai suoi fianchi.

Un sorriso maligno, quello del nemico, che sembrava trarre giovamento dal suo smarrimento, si impresse nella sua mente, così come le strie nere di miasma che salivano più rapidamente sul busto del maestro fino a ricoprire anche il torace, le tre cicatrici, espandendosi poi ulteriormente al collo, attraverso il quale, ricalcando la carotide pulsante, varcavano la soglia del viso, stagliandosi, come radici malevole, sulla sua guancia sinistra, fin quasi al solco del naso.

E Camus urlava con tutte le forze concessogli; urlava tutto il suo dolore, ormai del tutto incapace di trattenersi. Si dimenava come un pesce tirato fuori dall’acqua, piegandosi quasi in due da quanto la schiena si fosse arcuata. Soffriva tantissimo, era evidente, perché percepiva distintamente l’ingerenza del nemico penetrare in lui, nelle sue carni. Ed era totalmente privo di difese.

A Hyoga si appannò la vista davanti a quella scena. Una fitta subitanea al petto lo investì, non per il dolore fisico, ma nel vederselo così, per la prima volta, così assolutamente alla mercé di qualcun altro, così debole e impotente. Lui che era sempre stato una montagna, lui che era inarrivabile per grazia, compostezza, forza, coraggio e orgoglio; lui… che gli aveva insegnato a vivere, non solo a lottare…e che si era preso cura di lui da quando più di 8 anni prima si erano incontrati alla locanda di Pavel.

Non aveva mai sentito Camus urlare in quella maniera, MAI. Quell’unica volta che lo aveva visto così sofferente e stremato, ridotto al lumicino, era stato dopo l’incontro con Zima, e comunque si era ripreso pochi giorni dopo e mai aveva gridato, mentre se ne prendevano cura, mai si era lamentato, nonostante il dolore, nelle notti preda del delirio, quando la temperatura corporea saliva troppo e loro due, lui e Isaac, ancora un poco incerti, facevano di tutto per abbassargliela e permettergli così riposare. Si ricordò di quella mano, la sua, che ricercava la loro tra le coperte, di quel corpo che, solo nell’avvertirli concretamente accanto a sé, si rilassava completamente, lasciandosi cullare dalla loro vicinanza.

Ne era passata di acqua sotto i ponti da allora, la famiglia si era frantumata, ricreandosi poi sotto un’altra forma, e anche lì, in quella nuova vita, Camus aveva sofferto e rischiato di morire più volte, continuando però orgogliosamente a non voler manifestare il suo tormento.

E ora… che genere di sofferenza stava provando per reagire così?!

Hyoga si riscoprì terrorizzato, davanti a quello spettacolo, come se tutto il suo mondo precostituito gli franasse addosso. Ingoiò ancora una volta a vuoto, livido, rimproverandosi l’ennesima debolezza. Tentare l’Aurora Execution era fuori discussione: Camus non aveva forze per opporsi, sarebbe stato investito in pieno e il colpo gli sarebbe risultato fatale, ma le altre tecniche erano prive di ogni utilità, non sarebbero stati sufficienti per strapparlo dalle mani di quel mostro. Istintivamente, si raschiò le tempie tra le dita, stringendosi i ciuffi biondi, non riuscendo più a sopportare la visione del proprio maestro che soffriva così, senza meritarlo, né tanto meno il suo essere costantemente poco incisivo in battaglia, nonostante gli anni dell’allenamento e le esperienze belliche.

Ragazzo, usa quella tecnica come diversivo, hai il mio appoggio. Fallo, giovane erede di Aquarius, salva il tuo maestro!

In quell’istante, una voce calda e confortante gli risuonò dolcemente in testa, mentre un ampio cosmo dorato e ghiacciato si univa al suo, sostenendolo interamente.

Era semplicemente incredibile… Camus?! No, non era lui, eppure l’accento, sebbene diverso, sembrava essere così affine al suo. Non era comunque una presenza misteriosa, Hyoga poteva sentirlo distintamente, come se avesse sempre fatto parte di lui, della sua intimità, della sua stessa anima. Non era solo. Si ricordò che non lo era stato mai, in fondo.

Con un guizzo deciso, strinse con foga il pugno destro: cosa fare, la strada da percorrere, era finalmente chiara davanti ai suoi occhi.

“Uh? Cosa vuoi fare, Cigno?! Se interrompi la nostra unione, anche il tuo maestro ne avrà pesanti ripercussioni!”

Ma Hyoga non lo ascoltava più, ringhiando, furibondo, alzò le mani all’altezza delle spalle, mentre cristalli di morte volteggiavano nei dintorni.

“Sostienimi, te ne prego, aiutami… aiutami a compiere il miracolo! - supplicò la presenza amica, alzando e piegando una gamba nella tipica posizione del Cigno – Diamond Dust...”

“Sciocco, e ottuso! Mi attacchi con una tecnica mediocre, rischiando di colpire anche il tuo mentore. Questo colpo INSIGNIFICANTE per me è come…” ma si bloccò, rendendosi conto che non era ciò che sembrava.

“...Ray!” ultimò Hyoga, mentre dal suo pugno sgorgava un raggio ghiacciato che, moltiplicandosi all’infinito, come se fossero riflessi da una miriade di specchi, formavano un fascio di cristalli luminosi che sbalordirono non poco il Mago.

“No, impossibile, questa tecnica dovrebbe appartenere a… - Fei Oz si sentì montare di rabbia, mentre, increspando tutte le rughe del viso, si voltò verso il fautore di quella insolenza – Pensi di recarmi danno con un semplice espediente?! Mi deludi, Cign...”

Non terminò la frase, gli mancò aria per farlo. Qualcosa lo aveva colpito con precisione nello sterno, quasi stramazzandolo sul colpo. Sbatté le palpebre per tentare di mettere a fuoco ciò che aveva davanti, riconoscendo l’espressione selvaggia del biondino a pochi centimetri dal suo volto e il suo gomito, ammantato di cristalli di morte, ben piantato nel suo costato.

“No… il mio intento non era infliggerti danno alcuno con quella tecnica, ma lanciarmi contro di te per privarti di ciò che non ti appartiene!” lo irrise Hyoga, una luce innaturale negli occhi ricolmi di furore.

Si era davvero gettato contro di lui con tutto sé stesso, circondato da un’aura cristallina-dorata, rivestendosi del suo stesso gelo per tentare davvero il tutto e per tutto. Fei Oz realizzò tardi che la presa su Camus gli stava fuggendo, ebbe appena il tempo per rendersene conto, che vide l’allievo dell’Acquario circondare il busto del maestro con l’altro braccio, per sorreggerlo, mentre, piroettando con grazia, lo stringeva a sé con tutte le forze che gli restavano, devolvendo i rimasugli della sua energia verso la gamba destra, con la quale sferrò una possente ginocchiata ghiacciata nel suo addome, obbligandolo a sputare saliva e sangue.

Era riuscito a ferirlo per davvero… no, avrebbe dovuto essere impossibile!

Riuscì solo a razionalizzare, mentre si sentì proiettare all’indietro. Urtò contro la ringhiera e, dopo di questa, il vuoto. Cadde.

Il colpo sferrato da Hyoga ebbe a sua volta ripercussioni su di lui, perché il Cigno aveva dato tutto in quell’assalto, incurante dei rischi. A sua volta si sentì scaraventato in direzione opposta, senza possibilità di difendere sé stesso; senza possibilità di difendere sé stesso ma non Camus, che abbracciò con tutte le forze per proteggerlo dall’urto.

Finirono contro una colonna, che venne tranciata di netto, e ancora oltre. Il ragazzo, per il dolore, perse la presa sul maestro, il suo corpo sfregò lungamente sul pavimento, prima di ritrovarsi quasi esanime, rotto, diversi metri più in là. Bruciore su tutta la pelle esposta, abrasioni… gli occhi gli lacrimarono senza possibilità di trattenersi.

La schiena gli faceva male da impazzire, la milza pulsava fastidiosamente, nuovamente il sapore del sangue gli aveva invaso il palato. Tuttavia non fu il suo respiro dispnoico, spezzato, a tentare di farlo reagire, bensì quello sempre più frenetico di Camus. Quello, solo quello, gli diede l’impulso di riaprire le palpebre, voltarsi, e cercarlo con lo sguardo. Il cuore piccolo piccolo di angoscia.

Lo vide quasi subito. Sussultò.

Provò ad alzarsi, ma non aveva forze sufficienti per rimettersi in piedi, non più. Pertanto strisciò nella sua direzione, gli occhi ancora lucidi.

“Maestro… Camus! - si sforzò di chiamarlo ad alta voce, quasi strozzandosi. Voleva che lo sentisse, che sapesse di non essere solo. – Pa-pà!”

Camus era preda di violente convulsioni, si dibatteva per terra, in posizione scomposta, ansimando nel cercare ossigeno che evidentemente gli mancava. Quelle orrende strie sul suo corpo, che rassomigliavano a vene infiammate e pulsanti, sembravano possedere vita propria... impazzavano per tutto il suo busto, procurandogli ancora più male. Doveva sbrigarsi!

Hyoga percorse i metri che lo dividevano da lui con foga inaudita e disperata, facendo leva su un braccio ed una spalla, quelle messe meglio, e sulle gambe, che riusciva a piegare a stento. Quasi singhiozzò nel vederlo inarcare più volte la schiena, preda di un dolore insostenibile, mentre i muscoli erano a loro volta vittima di contrazioni del tutto involontarie.

Finalmente Hyoga fu vicino a lui, gli strinse prima la mano, che subito venne serrata tra le sue, nel bisogno di sorreggersi ad un appiglio, e poi con l’altra lo cinse in un semi-abbraccio nel tentativo di tranquillizzarlo.

“Calmati, papà, ti fa male muoverti così, TI FA MALE!” urlò Hyoga, le lacrime agli occhi, alzandosi debolmente sui gomito per riuscire a nascondere il viso nell’incavo della spalla destra del maestro, dove, con un lungo sospiro, si lasciò andare, senza tuttavia pesargli. Camus doveva smettere di agitarsi così, doveva riportare il respiro e il battito ad una soglia regolare perché anche a quella distanza l’allievo riusciva a percepirli, ed erano troppo frenetici. Lentamente, con la mano con la quale lo aveva abbracciato, gli cominciò ad accarezzare dolcemente i capelli, cercando di tenerlo fermo, perché continuava a muoversi e a tremare. Il Giovane Cigno piangeva senza curarsi di nasconderlo, non più. Era semplicemente terrorizzato.

Una, due, tre volte…

Partiva dal capo per poi scendere sul volto, seguendo i lunghi ciuffi, arrivando fino al braccio opposto, per poi ricominciare. Sulle prime, il respiro di Camus non mutò, ma, piano piano, avvertendo il suo tocco, si lasciò andare, sebbene continuasse visibilmente a soffrire.

“Hyo-Hyo… anf!”

“Va bene così, papà, sei bravissimo… forza! Respira con più calma ora, non ti toccherà più, non glielo permetterò!” continuò l’allievo, con voce di miele, accompagnando il suo volto di lato, in modo da vedere distintamente i danni subiti. Lo avvertì buttare fuori aria, stringendo poi i denti per tentare di tranquillizzarsi.

Tremava ancora, ma almeno le convulsioni erano cessate. Il Cigno si sforzò di osservarlo con sguardo clinico, ingoiando a vuoto nel continuare a passargli la mano tra i capelli. I miasmi erano arrivati a contaminare la carotide e la giugulare, ma erano in vistoso ritiro, era quindi bastato interrompere il contatto per bloccarli, perché sul volto non erano più presenti. Il busto invece era ancora pieno di strie scure che ben risaltavano sulla carnagione chiara del maestro. Divise in spesse ramificazioni che ricordavano una ragnatela, si infittivano proprio sul ventre e intorno all’ombelico, la zona che vi era stata più a contatto.

Hyoga strinse i pugni con rabbia, mentre, tenendolo stretto come meglio gli concedevano le proprie forze continuava a parlargli nel tentativo di calmarlo e trovare una soluzione per farlo star meglio.

“E’ tutto finito, papà! Perdonami, perdonami se non riesco ancora ad essere sufficientemente intraprendente, se tentenno ancora, nonostante tutte le cose che mi hai insegnato! Se… se solo ci fosse stato Isaac, qui con te, lui sarebbe intervenuto prima; p-prima di farti sentire tutto quel dolore e… - scrollò la testa, ricacciando indietro le lacrime per poi prendergli delicatamente il volto con una mano, girarlo appena, e accarezzargli la guancia con il pollice – O-ora andrà tutto bene. Ti porterò fuori di qui, al sicuro, te lo...” si bloccò nell’avvertire un’ombra stagliarsi implacabile su loro. Ringhiò, fremendo selvaggiamente.

Camus si era finalmente calmato, respirava ancora male, il torace si alzava e si abbassava con pena, ma si era lasciato andare tra le sue braccia. Hyoga accompagnò il suo viso, facendolo appoggiare delicatamente al suo palmo, mentre i suoi occhi -almeno loro, visto che il corpo era ormai distrutto!- guizzarono minacciosi verso il Mago che, tornato alla carica, si era messo a osservarli con freddezza.

“Usi una tecnica propria di Dègel e mi hai ferito… quasi a morte… se solo avessi avuto più forze in corpo! - ammise il nemico, massaggiandosi lo stomaco e lo sterno, incurante del sangue che usciva dalle sue labbra – Come diavolo ci sei riuscito?! Chi sei davvero, Hyoga del Cigno?!”

Il ragazzo non rispose, tremò più consistentemente, rimproverandosi la debolezza e il non essere riuscito ad arrivare fino in fondo.

“Chi è Dégel per te? - insistette, trattenendosi a stento dal cedere alla rabbia – Non dovrebbe essere nessuno, lui stesso dovrebbe giacere morto da oltre 200 anni!”

Ancora Hyoga non rispose verbalmente, il suo solo sguardo valeva una risposta.

Avrei voluto congelarti i polmoni, bastardo, e ridurli in frammenti, lasciandoti poi soffocare senza pietà, oppure ti avrei sublimato volentieri il sangue, regalandoti una morte ancora più atroce, se solo avessi avuto la forza di farlo, se solo fossi stato spietato fin da subito!

Una smorfia di biasimo solcò il volto snaturato di Fei Oz, come se avesse avvertito i suoi pensieri, tuttavia permase in uno stato di pallida calma, continuando a contemplare ciò che lui comunque reputava una disfatta, perché il Cigno aveva esaurito per davvero tutte le energie, sebbene lo guardasse oltraggiato e cercasse di proteggere Camus sotto di lui.

“Beh… non ha importanza come tu abbia fatto a danneggiare un corpo cosmico privo di fisicità, morirai comunque qui, Hyoga di Cygnus ed io mi impadronirò in ogni caso del corpo del tuo amato...”

“FAI ANCORA UN MOVIMENTO VERSO DI NOI E TI AMMAZZO!!!” ululò Hyoga, gridando tutta la sua rabbia e frustrazione.

Per quanto fosse minaccioso, un grido era solo un grido, non poteva davvero pensare che lui si sarebbe fermato per una inezia simile.

E invece…

Fei Oz si ritrovò inspiegabilmente paralizzato, il pugno ancora alzato nell’atto di colpire, ma impossibilitato ad ultimare il gesto, che rimase lì, a mezz’aria. E non si mosse più Fei Oz Reed, l’Ordinatore del Cosmo, il Primo Ministro di Marduk, l’assaltatore di dimensioni. Semplicemente rabbrividì.

“Un solo passo… - rimarcò spietatamente il Cigno, un fascio di luce, terribile, gli passò tra le iridi cristalline - Ed io congelerò istantaneamente tutte le tue piastrine e i globuli rossi, trasformando irreversibilmente il tuo sangue in un plasma qualsiasi che ti condurrà ad una morte atroce nel giro di pochissimo!”

Stava bluffando. Era lampante che stesse alzando la cresta e nient’altro, non ne aveva le forze era evidente, e allora perché… perché quella spiacevolissima sensazione che gli sconquassava il cuore?!

Era forse… atterrito?! Da un simile moccioso, poi, che respirava appena per miracolo divino?! Lui, il Grande Fei Oz Reed?!?

Maledizione, cosa ha che non va questo ragazzo?! Cosa ho che non va io??? E’ ridotto ai minimi termini e riesce comunque a farmi accapponare la pelle. Quel suo sguardo… mi terrorizza! Mi tremano le gambe, ho… paura?!? No, assurdo!

In quell’istante, per assecondare l’avvertimento con le azioni, il braccio di Hyoga che sosteneva il volto di Camus, si alzò, facendo sgorgare dei nuovi cristalli di morte dal suo palmo.

“Allontanati da noi e vattene… non lo ripeterò una seconda volta!”

Mi minaccia pure questo pusillanime… non dovrebbe più avere un goccio di potere, eppure… da dove trae energia?! Perché sembra non avere paura di nulla, né della morte né di me?! Come è riuscito a colpire questo mio corpo cosmico?! Solo Seraphina ci era riuscita, ma lei era una Sciamana Evocatrice, costui invece…

Hyoga non poteva leggere i suoi pensieri, ma vide distintamente la luce della consapevolezza sfregiarlo, le sue palpebre si spalancarono istantaneamente a vuoto, portandolo ad indietreggiare di tre passi. Il giovane Cigno non si soffermò a pensare il motivo, faticava sempre di più a respirare, farlo gli procurava un dolore intercostale sempre più insostenibile, ma avrebbe continuato a combattere fino all’ultimo respiro con tutte le sue forze.

“Ma-maledetto!!!”

Fei Oz era adirato, strinse nervosamente i pugni, chiedendosi tacitamente se non ci fosse un’altra via, ora che era così vicino al suo obiettivo. Una vena della tempia gli pulsò selvaggiamente, mentre, imprecando tra sé e sé, constatava che, ancora una volta, avrebbe dovuto lasciare andare quel magnifico corpo che era stato in grado di ammansire persino Tiamat.

E’ lo Zero Assoluto di questo dannato! -realizzò collerico, cercando comunque di non dimostrarlo al ragazzino- esso mi danneggia, precludendo a me il raggiungimento del mio fine ultimo. Non posso avvicinarmi, mi ucciderebbe, e non posso nemmeno strappargli Camus dalle braccia, perché lui non esiterebbe a farmi fuori e… potrebbe riuscirci… MALEDIZIONE! Non solo Seraphina/Marta, anche costui adesso si para davanti alla mia strada, ostacolando l’unione tra me e il Principio Primo e così la salvezza di Ipsias!

“V-vattene, allontanati di qui, Fei Oz!”

E sia come tu vuoi, Hyoga del Cigno, ti lascerò vivere per il momento, non ho forze per contrastarti, ma la prossima volta sarà diverso, ti ucciderò per primo; prima di Marta, prima di ogni altro! Sei un nemico troppo insidioso, occorre eliminarti velocemente, ma non qui, non adesso.

“Ti faccio i miei complimenti, riconosco il tuo valore, ragazzo, del resto… sei allievo di Camus, non potevo aspettarmi altro!”

Hyoga lo guardò con disprezzo, mentre, udendolo buttare fuori aria, lo vide alzarsi in volo e scendere al piano di sotto. Sbigottito, si strinse ancora di più al corpo di Camus, che in quel momento gli sembrava fragile più che mai, temendo qualche brutta sorpresa, ma quando rivide comparire il nemico davanti a sé, con in mano la testa di Utopo, la sua colonna vertebrale attaccata dietro, rossa come se un lupo ne avesse spolpato la carne, e poco altro, non c’erano più intenti battaglieri negli occhi del Mago.

“Ora ho capito che non potrò fare mio Camus finché ci sarete tu e Marta intorno. Non ho quindi un’unica nemica, bensì due. – affermò, infastidito – Ma è proprio questo il punto: tra poco, almeno tu, non ci sarai più, Hyoga del Cigno, sarò io medesimo ad occuparmi della tua disfatta!” aggiunse, compiaciuto, osservando ancora una volta il biondino, prima di regalare un’ultima occhiata, pregna di malinconia, al corpo privo di coscienza sotto di lui.

Aspetta ancora un po’, Camus… non rinuncerò mai a te, ti avrò, in un modo o nell’altro. Forse non oggi, non domani, ma il tuo destino è già stato decretato, ed è quello di essere i miei passi, la mia volontà, il mio stesso corpo. Ci rivedremo presto!

E sparì, come era apparso, portandosi dietro il retaggio morente di Utopo. Hyoga rimase teso ancora per una manciata di secondi e di minuti, poi, con un lungo sospiro, si lasciò andare sulla spalla del maestro, cercando comunque di non pesargli più del dovuto. Chiuse gli occhi, perché la testa aveva preso a girargli vorticosamente. Dalle sue labbra trapelava un respiro frettoloso, quasi spasmodico, che tentò di mascherare con tutto sé stesso. Camus era sotto di lui, respirava male a sua volta, con l’espressione di chi stava soffrendo ancora in maniera terribile, ma… vivo!

Hyoga avrebbe fatto di tutto, anche oltre, affinché ciò fosse continuato.

Ha capito… quel bastardo ha capito che, con lo Zero Assoluto, posso danneggiarlo in maniera irreversibile. E’ stato un azzardo, ho fatto una scommessa sul fatto che Utopo, vittima delle sue stesse brame, non lo avesse avvertito, che lui non fosse a conoscenza di essere vulnerabile a questa peculiarità. Posso… posso ucciderlo con questo mio potere, una volta per tutte e… salvare Camus!

Pensò, riaprendo debolmente gli occhi per osservare ancora una volta il suo maestro. La vista si stava nuovamente offuscando, ma non la percezione che aveva di lui. Lo accarezzò ancora, dolcemente, cercando di fargli sentire tutto il suo affetto, come mai si era permesso di fare.

Sembrava così… fragile… tra le sue braccia!

Ma Fei Oz ha compreso il mio piano e, ora che lo sa, mi darà la caccia. Non posso quindi tornare al Santuario, metterei in pericolo il maestro, Michela, i Cavalieri d’Oro e le altre.

Non posso… tornare a casa… anche se… se lo vorrei tanto!

Gli occhi di Hyoga si richiusero, mentre un altro sospiro lungo e prolungato lo scosse dal profondo. I pensieri così presero avvio da soli, frenetici, privi di catene.

Devo proteggerlo… il Maestro ha bisogno di noi, non possiamo lasciarlo nuovamente solo ad affrontare tutto questo.

Devo proteggerlo, devo dimostrarmi degno, come avrebbe voluto essere Isaac.

Devo… devo… urgh…

La coscienza veniva risucchiata in un imbuto di nulla; anche la sua mano, che provava ad accarezzare la spalla del maestro per tranquillizzarlo, si fermò sulla testa dell’omero, e lì rimase, molle.

Era così calda la sua pelle, stava ancora sudando e provava ancora un male atroce, perché i miasmi, pur in vistoso ritiro, gli segnavano, come radici, ancora parte del torace e l’addome interamente. Non stava affatto bene e… e… lui non avrebbe potuto fare più di così, era allo stremo!

Si accasciò ulteriormente, il volto gli ricadde un poco più in giù. Tutto andava… estinguendosi!

“Papà… i battiti del tuo cuore… sono così irregolari, ed io non… non posso fare più niente. Perdo-nami...” riuscì a biascicare ancora, prima di perdere coscienza, riuscendo a percepire appena che il mondo intorno a loro, non più sorretto dalla volontà di Utopo, andava disgregandosi nella sua interezza.

 

 

* * *

 

 

La risata acuta di Clio echeggiava ancora nei dintorni, una manifestazione ilare di vittoria e soddisfazione, affatto celata ai presenti. Aphrodite e Kiky erano ancora pietrificati, sconvolti da quanto era appena avvenuto davanti ai loro occhi e che non erano riusciti minimamente a contrastare. Il Cavaliere dei Pesci ebbe appena il tempo di udire il mormorio sommesso dell’allievo di Mu, quel “n-no” pronunciato a fior di pelle, che vide distintamente la dea decaduta alzarsi come se nulla fosse, spolverandosi la lunga veste con naturalezza, sgranchirsi le ossa e riprendere a camminare.

La telecinesi era appena caduta.

“Kiky, no!” esclamò ancora, guardando il più piccolo che aveva gli occhi vitrei, spaventati, in direzione del corpo martoriato di Francesca.

Tra le nuove allieve di Camus, sembrava nutrire una certa predilezione per lei, ed era lampante che fosse rimasto turbato dalle dinamiche dell’attacco riflesso, ma non potevano permettersi di perdere ulteriore tempo: si trovavano ancora sul campo di battaglia.

“Kiky! - lo chiamò nuovamente, cercando di fargli forza – Riattiva i tuoi poteri, presto!”

“I-io… non riesco!” biascicò lui, coprendosi il viso con le mani.

Era troppo emotivo per riuscire ancora a farlo, impossibile per lui esercitare il distacco e, del resto, sebbene nel corpo fosse cresciuto, la testa, le facoltà, i poteri stessi erano comunque quelli di un bambino di 10 anni. Aphrodite si ritrovò a ringhiare, mentre Clio, come se nulla fosse, senza degnarli più di uno sguardo, si allontanava da loro per avvicinarsi alla fenditura che l’avrebbe riportata nel suo mondo carica del prezioso bottino dato dell’Ergon.

“Fermati, te lo ordino!” le intimò quindi, lanciandole una rosa nera ai piedi per esemplificare la direttiva.

Clio non si scompose, si fermò appena, il libro tenuto sotto braccio, regalando un’occhiata languida e sicura al Cavaliere dei Pesci: “Sicuro di poterti permettere di perdere tutto questo tempo?! I tuoi amichetti non stanno messi tanto bene!” gli regalò un altro sorriso meschino, mentre la luce della vittoria lampeggiava nelle sue iridi.

“E’… è mio dovere fermarti, Clio! Il resto… passa in secondo piano!” sancì Aphrodite, apprestandosi alla lotta. Aveva avuto direttive precise e dirette.

“Parole grosse… molto grosse, Pisces! E così lascerai morire loro? La giovane dea e il tuo nuovo… toy boy?!” lo provocò sottilmente, ghignando, credendo di capire la situazione che si era creata tra loro.

Aphrodite non rispose verbalmente, ma estrasse la rosa bianca, mettendosela poi in bocca per manifestare le sue intenzioni bellicose. Tale gesto procurò un’altra risata, persino più ampia e malvagia, da parte della dea decaduta che, rovesciando la testa indietro con spregio e facendo ondeggiare i lunghi capelli, trovava assolutamente divertente l’intera faccenda.

“E così nel cuore di un Cavaliere c’è davvero posto solo per la dea, i propri doveri e gli ideali… - lo irrise Clio, certa più che mai che la vittoria fosse giovata in suo favore – Al punto da lasciar morire i propri compagni!”

“...”

Clio si girò completamente nella sua direzione, non prima di aver dato una veloce occhiata a Stefano, ancora cosciente, sebbene non per molto a giudicare dall’emorragia, e a Francesca stesa prona nel suo stesso sangue che si allargava sul pavimento. Ancora si ritrovò a sorridere, compiacente.

“Pesci, sai bene che, se non interverrai tu, quei due presto moriranno, no? Le tue rose sono intrise del tuo potente veleno che potrebbe essere fatale persino per una dea, figurarsi per un ragazzo che non ha neanche mai combattuto...”

“Uhmpf, sfortunatamente, Clio, non sono così tenero di cuore!”

“Ah no?! - scoccò un’altra occhiata ai due martoriati, prima di imprimere la sua espressione negli occhi celesti di Pisces – E allora perché stai ancora esitando?! Perché non usi… la tecnica che dovresti aver ereditato dalla tua precedente vita, il Legame Scarlatto?!”

Kiky fissò incredulo prima la ex Musa e poi il Cavaliere d’Oro, stupito come non mai dalla rivelazione. D’altro canto Aphrodite stava fermo in posizione offensiva, ma continuava a non attaccare. Qualcosa sembrava rendere i suoi propositi meno certi; un’incertezza che il piccolo non gli aveva mai scorto, essendo lui stato fin da giovanissimo un sicario di Saga malvagio.

“La manipolazione del sangue è l’unico modo per debellarmi – sancì Clio, scoprendo incredibilmente il suo punto debole (che fosse così certa della sua vittoria?!) - Tu ne puoi disporre, Pesci, perché la vita prima alla tua, Albafica, ha avuto come maestro un individuo particolare che voi esseri umani chiamate con il nome di Alchimista. In tal senso, tu potresti essere un pericolo per me...”

Un nuovo barbaglio di certezza passò nel suo sguardo. Aphrodite lo trovò incommensurabilmente irritante ma si trattenne da manifestarlo.

“Ciò che ho fatto della mia precedente vita, Clio, non è affar tuo, anche se voi sembrate conoscere molto di noi!” gli soffiò ostile, cercando di rasentare la sua stessa determinazione che tuttavia vacillava.

“Può darsi… ma ora ti trovi nella spiacevole situazione di essere in svantaggio: le tue rose non mi scalfiscono, anzi, le posso riflettere… a quel ragazzino dietro di te, per esempio!” sibilò lei, tronfia, indicando Kiky, il quale sussultò.

“Ma-maledetta!” si lasciò sfuggire Pisces, furente.

“Allo stesso tempo… - continuò ancora, forzatamente languida proprio allo scopo di provocarlo – La tua unica tecnica offensiva che avrebbe un qualche tipo di efficacia su di me, ti richiederebbe troppo tempo e troppe forze per permettere di volgere a tuo favore lo scontro e annientarmi; tempo e forze che i tuoi piccoli amici non hanno, dico bene?! Ed è questo il motivo della tua esitazione: se ingaggiassimo qui e ora battaglia tra noi, forse riusciresti anche a sconfiggermi, ma loro due morirebbero tra atroci sofferenze!”

“...”

“A-Aphrodite, è la verità questa?! Se non facciamo subito qualcosa, Francesca e Stefano...” saltò su Kiky, sempre più demotivato, sforzandosi di utilizzare nuovamente la telecinesi, non riuscendoci, perché non era mentalmente stabile né distaccato, come invece sarebbe riuscito ad essere il Grande Mu.

“No, Kiky, noi li salveremo prima!” affermò Pisces, alzando ulteriormente le braccia.

“Oh, sì, li salverete… - gli fece eco lei, gaudente – Perché stringeremo un accordo, Cavaliere!”

“Giammai stringerò un...”

“Ora ascoltami bene, perché non hai molte alternative… - lo zittì immediatamente Clio, alzando il tono di voce nel perdere la pazienza, poi si fece nuovamente composta – Tu mi permetterai di oltrepassare il varco dei due mondi portandomi dietro l’Ergon sottratto che rimarrà quindi in mano nostra...”

“Sei folle?! Non posso sottostare ad una simile scelleratezza!”

“…ed io ti consentirò di soccorrere i tuoi amichetti. Se intervieni ora dovresti ancora riuscire a salvarli no? Mi sembra un patto equo: le loro vite per l’Ergon degli altri!”

Aphrodite, come Cavaliere di Atena, non avrebbe neanche dovuto esitare davanti ad una simile assurdità, ma caricare a spron battuto, perché quello era il fulcro della missione, debellare la Musa perduta, il suo nefasto potere, prima di tutto il resto; persino prima delle vite che dipendevano da lui, ma qualcosa bloccava la sua mano, facendolo tentennare.

Si ritrovò a pensare allo schifo della sua esistenza fino a quel momento, all’inutilità del suo essere venuto al mondo, ai peccati che lo corrodevano e che lo avrebbero per sempre corrotto. Pensò pure a Death Mask che, probabilmente, aveva avuto persino una vita peggiore della sua. Rifletté su ciò che erano stati, a quel passato glorioso come valenti Cavalieri che non gli apparteneva però più, e poi ancora... alla morte stessa, alla loro scelta di seguire Saga di Gemini ben sapendo che non era più Shion, alla loro posizione difficile, al cadere nelle tenebre, senza possibilità di redenzione.

Eppure, in quella nuova vita, qualcosa era cambiato. Era qualcosa di piccolo e luminoso ma che aveva invaso la quotidianità austera del Santuario, rendendolo meno freddo, più chiassoso, più... felice. Persino per due stronzi come loro. Death Mask si era addirittura innamorato, e lui… beh, poteva dirsi comunque felice di aver incontrato Stefano, ma non erano che all’inizio e, quella, quella sciocca dea rischiava di strappargli ancora una volta la tanto sospirata quiete.

Per questa, e altre mille ragioni, esitò, abbassando di riflesso le braccia. Clio interpretò tale segno come accondiscendenza. Sorrise ancora una volta di sbieco mentre, voltandosi, fece per riprendere il cammino che la divideva dal varco.

Ma non ultimò il movimento. Qualcosa, se ne accorse troppo tardi, la stava bloccando lì, l’avrebbe potuta bloccare lì per sempre, impedendole di proseguire. Quasi si sbilanciò, il libro rischiò di cadere, ma lo trattenne con tutte le forze.

Aphrodite comprese la difficoltà di movimento della dea decaduta ma non la matrice, non subito, almeno fino a quando uno sfavillio cremisi non catturò la sua attenzione. Anche Clio se ne accorse con un sussulto, osservandosi il dito mignolo della mano destra, quella che non reggeva il pesante tomo. Anche i suoi occhi seguirono la stessa scia che la legava a qualcosa, a qualcuno che, dall’altro capo del filo, le regalava lo stesso sorriso di trionfo che lei aveva riservato a loro fino ad un istante prima.

“Allora, anf, le mie deduzioni erano corrette: sei sensibile alla manipolazione del sangue, anf, per tua stessa ammissione!”

“FRANCESCA!” la chiamò Aphodite, sbalordito, provando quasi l’istinto di correre da lei nel vederla lentamente sollevarsi da terra grondante di sangue.

La giovane dea effettivamente era ancora accucciata sul pavimento, il respiro affannoso, le ferite aperte, ma nel viso quella scintilla di vittoria che in un primo momento sembrava irrimediabilmente persa.

“Come… come hai osato?!” ringhiò Clio, fuori di sé dalla rabbia.

“Invero è stato piuttosto semplice, pseudo-zia! - la scimmiottò, mentre la mano destra, posata sul marmo, si spostava di un poco, rivelando un piccolo cerchio insanguinato disegnato sotto di lei. Sollevò un poco il mignolo, legato a sua volta da un filo rosso sangue – Vi è consanguineità tra noi, no?! Ti ho bloccata qui, Clio, ti ho legata a me… non andrai più da nessuna parte, tanto meno passerai per quel varco, almeno finché ci sarò io qui!” le sorrise ancora, alzandosi faticosamente in piedi.

“Pagherai questo affronto, Francesca, nessuno può permettersi di ritorcermi contro un cerchio alchemico! La manipolazione del sangue è una MIA abilità, non tua, né tanto meno di tua madre Urania! - sibilò lei, prima di concedersi un altro sorriso meschino. In fondo, non era affatto vinta – Hai detto ‘almeno finché ci sarò io qui’, giusto? Tra poco non ci sarai più, spezzerò la progenie favorita di Zeus!”

“Questo è da vedere… Clio!” ribatté risoluta la giovane dea, apprestandosi a combattere. Nello stesso momento, con un movimento del polso libero e alcune scintille cariche di elettricità, estrasse la Folgore.

“Fra!!!” la chiamò ancora Aphrodite, impressionato che si ergesse ancora in piedi nonostante le ferite e il veleno. La ragazza gli scoccò un’occhiata di avvertimento.

“Ci penso io a lei, anf, voi soccorrete Stefano, presto!”

“Non posso permetterti di combattere da sola in quelle condizioni! – si oppose Aphrodite, mordendosi il labbro inferiore – Ti… ti dissanguerai!”

“So quel che faccio, te lo assicuro! - gli occhi le baluginarono di fervore nel tornare a concentrarsi sulla zia – Conosco bene le mie potenzialità e ho buone difese contro il tuo veleno, ma Stefano no! Mettetevi dietro di me, sarò io a combattere!”

La frase venne professata in un tono talmente determinato e sicuro che c’era ben poco da obiettare. Il Cavaliere dei Pesci, non senza remore, fu costretto ad ammettere che lei, di sicuro, era ben più abile di lui ad usare il sangue. Annuì, raccomandandole prudenza, mentre, camminando con il più piccolo appresso, le passava di fianco per andare a soccorrere l’altro ragazzo.

“Kiky...”

Il giovane apprendista dell’Ariete si voltò verso di lei, stupito e meravigliato dal suo tono di voce. Francesca si voltò un poco nella sua direzione, mostrandogli il profilo, gli sorrise calorosamente, prima di proseguire nel discorso.

“Conto su di te, coprimi le spalle come farebbe Mu!” si raccomandò, prima di avanzare per dirigersi verso la zia decaduta, la quale sibilava e vibrava come se ce l’avesse avuta particolarmente in astio.

“Farò del mio meglio! - rispose il più piccolo in apprensione – Tu prudenza, mi raccomando!”

Mi raccomandate tutti la prudenza… ma contro costei non giova! E’ specializzata nella manipolazione del sangue, la usa per attaccare e per difendersi, per sottrarre l’Ergon e per canalizzarlo verso qualcosa che ancora ci sfugge. Io non ho che una infarinatura di questo, a stento riesco a controllare il legame cremisi tra me e lei, ma ho la Folgore che il nonno ci donò… non posso gettare la spugna prima di averci provato!

Pensò, bandendo le incertezze, prima di gettarsi con tutte le forze ancora disponibili in un corpo a corpo che, lo sapeva, nel giro di poco l’avrebbe sfiancata, perché comunque anche se sotto controllo il veleno e la perdita di sangue le stavano togliendo le facoltà.

“Ragazzo!”

La voce di Aphrodite raggiunse a stento Stefano che, ancora faticosamente seduto e con i cinque sensi in lento ma graduale indebolimento, quasi sussultò nell’avvertire una mano amica sulla sua schiena. Non distingueva bene le cose, le voci non gli erano arrivate che per sommi capi, ma aveva capito, più o meno, che si erano trovati in trappola prima dell’intervento di Francesca che era riuscita a ribaltare la situazione. Degli occhioni chiari contornati da dei capelli rossicci penetrano nel suo campo visivo, capì che doveva trattarsi del ragazzino allievo dell’Ariete, provò a darsi una scrollata, ma forze non ne aveva quasi più.

“E’… è ancora cosciente!” esclamò il giovane davanti a lui, mentre protraeva le due mani verso la sua spalla, rallentando l’emorragia per quanto fosse possibile. Guarire le persone non era come aggiustare le armature, era molto più difficile e rischioso, per certi versi, un passo falso e la vita sarebbe stata spezzata, ma non poteva arrendersi prima di averci provato.

Qualcosa lo avvolse, non capì se si trattava di un mantello o di due forti braccia, ma ne fu immediatamente rinfrancato. Ci si appoggiò, fiacco, sospirando lungamente.

“Ragazzo, stringi i denti ora, estrarrò la rosa, fatto questo...”

“I-il… lib...”

“Come dici?”

“Sta provando a parlare!” trillò l’altra voce, quella appartenente al ragazzo dai capelli rossicci.

“...bro...”

“Stefano – Aphrodite lo chiamò per nome, scandendo bene le parole – Ascoltami, non devi sforzarti inutilmente, non devi, mi hai capito?! Devi solo stringere i denti ora, non svenire… non devi svenire!!! Devi cercare di respirare bene, profondamente, con più calma, solo così rallenterai il veleno, mi… mi riesci a capire? Ragazzo!!!”

Stefano annuì. In verità no, non capiva, tutte le sue percezioni esterne si erano fatte scure e difficili da interpretare, ma aveva un messaggio della massima importanza da dare. Solo… che non ci riusciva!

“Mordi questo!” gli fu detto, mentre qualcosa gli veniva messo in bocca, probabilmente un capo del lungo mantello. Fece quanto in suo potere per assecondare una tale richiesta che, prima di quel momento, aveva visto solo nei film, quando i soggetti dovevano operare senza anestesia. Un incubo… che non avrebbe mai voluto sperimentare!

“Oh, Aphrodite! Sta perdendo tanto, troppo sangue, per essere una ferita simile, cosa sta…?!”

“Non lo so, ma bisogna agire il prima possibile! STEFANO!” provò nuovamente a richiamare l’attenzione del ragazzo che sembrava sempre meno in sé.

“Il… li-mbro...”

“Come dici, scusa?”

Solo Kiky riuscì ad udirlo, perché aveva il volto talmente vicino da poterlo quasi sfiorare. Comprese finalmente la parola ‘libro’, si rese conto che Clio teneva effettivamente un pesante tomo sotto il braccio sinistro, e che forse lui si stava riferendo proprio a quello, ma non capiva comunque cosa Stefano volesse esprimere.

“Uhm… mimbro, coff…” tentò per l’ultima volta, rendendosi conto che aveva la bocca ostruita perché Aphrodite, apprestandosi ad estrarre la rosa, gli aveva ordinato di mordere il mantello e di resistere con tutte le sue forze al dolore. Nessun suono chiaro sarebbe quindi trapelato dalla sua bocca, ma qualcosa nella sua testa echeggiò con chiarezza: era la telepatia di Kiky!

-Che cosa stai intendendo con ‘libro’? Che cosa possiamo fare?

Stefano si accorse con sorpresa che, non sapeva bene se per i poteri mentali assai sviluppati del giovane, o se per altro motivo, ma era in grado di comunicare con Kiky forzando la propria mente a formulare un pensiero. Decise di percorrere quell’ultima via.

-Il libro di quella… Clio! Bisogna strapparglielo dalle mani, finché lo terrà lei, neanche i poteri divini di Francesca basteranno!

-Il libro? Il libro che tiene tra le mani?!

-Sì, è lì che è custodito l’impulso vitale che ha rubato, è lì il segreto. Bisogna… spezzare il circolo!

-Bisogna..?!

-Spezzare il circolo! E’ così che mi ha detto lei…

-Lei… chi, Stefano?!

-Lei… la voce!

Si accorse di non riuscire più ad esprimersi nemmeno così, tanta era la stanchezza. Avvertì appena uno strappo dalla sua spalla, come di qualcosa che gli veniva tolto a forza, ne provò un bruciore atroce ma non si dibatté né si lamentò, però gli lacrimarono gli occhi, mentre il dolore, così come si era acutizzato nel giro di un secondo, lentamente scemava fino a scomparire, sostituito da una nebbia crescente di tenebre che lambiva tutti i suoi sensi fino alla completa perdita di coscienza.

L’ultima cosa che percepì di quel mondo e di quella situazione che rasentava l’assurdo, fu quella di una mano piacevolmente calda proprio lì, sulla spalla.

 

A quel luogo ostile se ne sostituì decisamente uno più confortevole, quello dei suoi sogni, del suo inconscio, dove soventemente si rifugiava.

In quell’angolo così intimo, solo suo, lui era seduto sul prato ed era tornato bambino, i fili d’erba gli solleticavano le dita, mentre, con la bocca semi-aperta, contemplava il maestoso albero di tiglio e le sue foglie che danzavano alla brezza leggera. Si trovava sul poggio di Cerviasca, il luogo che aveva sempre condiviso con Marta. In quel momento però non osservava il paesaggio sottostante come era solito fare, ma l’albero stesso, che sembrava cresciuto rispetto a come lo ricordava. Maestoso. Bello. Robusto.

Lentamente si alzò, il vento si era fatto un poco più impetuoso, stormiva la cima frondosa dalla quale cadevano, danzando, i frutti ovoidali del tiglio. Si sporse un poco con le mani a coppa in attesa che uno di essi gli finisse tra i palmi, cosa che succedeva spesso e che gli piaceva molto, perché era come comunicare con la pianta in una maniera tutta speciale, la loro, che le aveva insegnato Marta, così intimamente legata alla natura fin da piccolissima.

Ma quella volta era tutto diverso, i frutti non si fermavano tra le mani, sembravano anzi trapassarlo da parte a parte come se non avesse consistenza. Un brivido lo sconvolse, si guardò intorno, mentre l’infruttescenza andava a posarsi ovunque, tranne che su di lui.

Un bruciore alla spalla lo pugnalò, socchiuse un occhio sofferente, mentre la maglia andava tingendosi sempre più di rosso, il suo sangue! Ne perdeva molto, non si arrestava… sarebbe morto se qualcuno non avesse fatto qualcosa e lui… NON VOLEVA MORIRE, NON DI NUOVO!

Si guardò ancora intorno, spaventato, alla ricerca di aiuto. Il cielo da celeste cangiante si era fatto cupo e minaccioso, il vento imperversava, il tronco dell’albero, come vinto, cigolava sinistramente. Da paesaggio ricolmo di vita stava diventando gremito di morte: dove era Marta?! E suo nonno Mario?!

Urlò la sua paura, ma le sue corde vocali non producevano alcun suono, i suoi muscoli non si smuovevano, lui… era la fine?!

No, non voglio! Non voglio morire!!! Aiut… qualcuno mi aiuti!!!

Strizzò disperatamente le palpebre, sentiva anche freddo nello stomaco, un gelo che si espandeva e si attorcigliava. Si ritrovò a piangere, sebbene lui tendesse a non farlo mai. Tutto… ogni singolo alito di vita… si era fatto oscuro, gelido… morto!

Prese a singhiozzare tra sé e sé, atterrito, finché non percepì qualcosa frapporsi tra lui e le tenebre, una luce… che in principio baluginava appena, ma che stava diventando sempre più forte.

Ne seguì il calore rinnovato, persino più avvolgente e consistente di prima. Qualcuno racchiuse le sue mani tra le proprie, accarezzandogli dolcemente i polpastrelli. Un sostegno. Un aiuto. Un conforto.

E’ tuo diritto vivere come qualsiasi altro essere vivente. Sei venuto alla luce, Stevin, in questo attimo di tempo chiamato vita, ciò, da solo, ti rende speciale!”

E’ il fatto stesso di essere venuto al mondo che mi rende… unico!” ripeté tra sé e sé, cercando di rammentarselo.

Riaprì quindi gli occhi, confortato da quelle parole, ritrovandosi così nello stesso luogo di prima, nuovamente assolato. Solo che, tra sé stesso e il tiglio, la brezza che accarezzava le fronde e i suoi capelli, era apparsa una donna dai lineamenti graziosi con indosso una lunga veste blu a coprirle il corpo esile. Le sue labbra rosee erano delineante in un sorriso, ma il resto del viso gli era precluso, ancora adombrato da una nebbia persistente che, lo sentiva, non si sarebbe dissipata. Rimase a bocca aperta a fissarla. Era bella e giovane nonostante il buffo scintillio argentato che proveniva dai suoi lunghi capelli lisci.

Stefano aveva sempre reputato quel colore sinonimo dell’invecchiare… anche suo nonno aveva capelli simili, ci combatteva ogni giorno, forse solo un poco più grigi, perché cercava sempre di apparire giovane, nonostante l’incombere del tempo, e anche lui, sotto la sua guida, aveva imparato a detestare quelle tinte che sembravano rammentare il crepuscolo della vita di un uomo e così la morte incombente.

Ma quella donna dai capelli così… così particolari, da ricordare, in un termine praticamente intraducibile in italiano, l’alpenglow, il luccichio dei ghiacciai accarezzati dai raggi solari, sembrava tutto fuorché anziana, sebbene emanasse un’aura particolare, quasi primigenia, che lo abbagliava sempre di più, accelerando i battiti del suo cuore. Era… così famigliare, anche se non si erano mai incontrati, o forse… sì?

Gli sorrise ancora una volta, inginocchiandosi davanti a lui con fare naturale, mentre gli lasciava momentaneamente le mani svelando così la presenza di un piccolo frutto di tiglio nei palmi. Finalmente riusciva a trattenerlo! Stefano si emozionò moltissimo nel tornare a percepirlo concretamente sulla sua pelle, lo portò vicino al viso, soffermandosi sull’odore, sulla forma e sul colore… sembrava tutto nuovamente così vivido, talmente concreto da spezzargli il fiato.

E’ tuo diritto vivere… - ripeté la giovane donna, il cui viso era sempre oscurato – E, per farlo, piccolo mio, devi… spezzare il circolo!”

Devo... spezzare il circolo?” ripeté lui, capendo e non capendo insieme.

Sì…”

La giovane donna alzò il braccio sinistro nella sua direzione, Stefano sussultò nello scorgere del sangue provenire anche da lei, ferita nel suo stesso punto. Anche quella giovane donna ne stava perdendo molto, eppure resisteva al dolore, intrepida.

Stai sanguinando!” le disse, allarmato, ma lei, sempre sorridendo, negò con il capo, come a dire che non importava in quel momento.

Ora toccami...” lo esortò, desiderosa di stipulare un contatto.

Stefano, come guidato da una innata fiducia, fece quanto chiesto, posando il suo palmo su quello di lei, sporco a sua volta di sangue. In quel contatto, sebbene così breve e atemporale, una scintilla lo attraversò da capo a piedi, fulminandolo con una forza tale da scuoterlo fin dalle fondamenta. Gli mancò quasi l’aria, boccheggiò, ma non si separò da lei. E comprese; comprese ogni cosa.

Spezza… il circolo, siamo intesi?”

Spezzerò… il circolo!” ripeté lui, mentre la giovane donna allontanava brevemente la sua mano per rimanere a osservarlo, come per fossilizzare ogni più piccolo particolare del suo viso. Ancora sorrise, ma una solitaria lacrima gli scese sulla guancia.

Stefano avrebbe voluto chiederle perché piangeva, come mai non riuscisse a distinguere interamente i contorni del volto, né tanto meno i suoi occhi, ma ancora prima di poterlo fare si sentì avvolgere dalle sue braccia. Si ritrovò quindi appoggiato con il mento sulla sua spalla, la mano destra che gli sosteneva la nuca. Inspirò profondamente nel riconoscere quell’odore, quella fragranza, unica rimembranza infantile che aveva di lei, sebbene così intensa. Unica. E inconfondibile. Perché vi era stato un tempo in cui vi era impregnato completamente in quel profumo.

E capì, una volta in più, la consapevolezza gli rese gli occhi lucidi. Avrebbe voluto ricambiare la stretta ma per qualche ragione non ci riusciva, ed era così… doloroso, da togliere il fiato!

Perdonami... se non ho potuto vederti crescere, se non ho mai avuto nemmeno occasione di abbracciarti quando ti sentivi tanto spaventato e solo. Non avrei mai voluto, Stevin!”

A Stefano pizzicavano gli occhi, mentre l’odore di erba bagnata, di sottobosco umido e di fuoco che crepitava dentro il camino gli diedero la conferma definitiva. Ingoiò a vuoto, cercando di pronunciare la parola che non aveva mai potuto utilizzare.

Ma-Mamma...”

Far trapelare fuori dalle sue labbra quelle lettere era risultato persino più difficile, un groppo si era creato in gola e non voleva andare via, mozzandogli il respiro.

La giovane donna ebbe un singhiozzo, annuì a fatica, mentre le lacrime, ormai libere di scorrere, le solcavano la pelle diafana.

Ma sei sempre nei nostri cuori, miei e di tuo padre… sei con noi, sei parte di noi, lo sarai sempre!”

Ancora Stefano avrebbe voluto chiedere molte altre cose, dove si trovassero, perché era stato separato da loro… ma le parole non gli uscivano, colpa del magone crescente.

Riusciva solo a rimanere lì, immobile, respirare il suo profumo, così frizzante e selvatico, farsi cullare dalla sua voce, così soave, calda, e gentile. Pensò che anche in mancanza di una immagine chiara di lei, non l’avrebbe mai, MAI, potuta dimenticare.

Ad un certo punto un bacio gli venne posato tra i capelli a forma di cespuglietto, una nuova emozione lo percorse, la vista gli si fece ancora più appannata. Desiderò stare lì con lei, ma sapeva che la separazione era ormai imminente. Inghiottì a vuoto, tentando di farsi forza.

Vai con gli altri adesso, Stevin, ricordati le mie parole e… - la sua voce si spense per una serie di secondi, prima di tornare, più tremolante di prima – Ti vogliamo bene, sei il nostro piccolo miracolo!”

Lo strinse più forte, poi… il contatto, così come si era manifestato, si spense definitivamente…

 

Stefano si riscosse a sufficienza per rendersi conto che Aphrodite stava praticando un bendaggio di emergenza sulla sua spalla utilizzando il proprio mantello. La vista era ancora offuscata, ma due occhietti vispi e chiari si trovavano davanti a lui, le mani congiunte nella sua direzione.

“Si sta risvegliando!” esordì Kiky, trepidante, rivolgendosi al Cavaliere.

“Va bene così, Stefano, rimani cosciente, mi raccomando… è di vitale importanza!”

Il sangue si era momentaneamente arrestato anche se non riusciva ancora a respirare bene, si sentiva spossato; muoversi poi era impossibile, ma… ora sapeva cosa avrebbe dovuto fare!

“Ki-ky… è così che ti chiami, giusto?” chiese al giovane, sforzandosi di rimanere vigile, raddrizzandosi perfino, per quanto fosse difficile. Aphrodite lo sostenne come meglio riusciva.

“S-sì, ma non ti sforzare ora, sei...”

“Da quanto ho capito… anf… puoi usare la telecinesi...”

“Anche questo è corretto, ma cosa mai..?”

Stefano parve rilassarsi, buttò fuori aria, alzando lo sguardo in direzione di Francesca e dell’altra divinità che però giungevano ai suoi occhi come ombre inconsistenti e sin troppo lontane.

“Mi serve… un favore, anf!”

Nel frattempo Francesca e Clio, a causa della manipolazione del sangue che le legava, erano serrate in un corpo a corpo a brevissima distanza che, nello specifico, agevolava la Musa. Nessuna delle due poteva allontanarsi più di tanto, nessuna delle due era libera di utilizzare perfettamente il braccio del dito cui erano vicendevolmente collegate, ciò non consentiva loro di produrre raggi ad ampia gittata, solo di usare le proprie estremità corporee.

E questo non giovava certamente a Francesca di costituzione piuttosto esile.

Di più, la Musa era folle d’ira per qualcosa che la ragazza capiva a stento. Non le concedeva la benché minima requie, semplicemente la incalzava senza sosta. Braccia, pugno, gomito, ginocchiate, calci… era veloce e rapida a sferrare gli attacchi, i suoi movimenti si distinguevano appena, o forse chissà era lei assolutamente non in grado di scorgerli a causa del veleno di Aphrodite che era entrato in circolo. Era costantemente costretta a posizioni difensive anziché offensive, la Folgore non la aiutava, se non per obbligare Clio ad indietreggiare quando si apprestava a sferrare un attacco diretto al suo viso. Del resto, lo sapevano bene entrambe, Clio non poteva nemmeno sfiorarlo con le dita il potere di Zeus, l’avrebbe folgorata seduta stante.

“Oltraggioso...” sibilò ad un certo punto, schivando elegantemente la fulminazione che Francesca le aveva lanciato convinta di poterla ferire.

La giovane dea ebbe appena il tempo per raccapezzarsi del pugno supersonico in arrivo, che piegò la schiena in avanti per evitare quell’assalto, trovandosi però in posizione di svantaggio. La Musa colse la palla al balzo, da sopra, si apprestò ad unire le lunghe dita della mano in modo da colpire perpendicolarmente la nuca della sua avversaria, ma Francesca, ancora una volta, fu abile a evitare l’assalto, sfruttando in quell’occasione il legame del Filo Rosso per strattonarla e farle perdere l’equilibrio. Era l’occasione buona per sottrarle il tomo che teneva sotto braccio, ma ancora una volta, con la punta del piede destro, Clio le impresse un calcio nel fianco esposto, allontanandola sufficientemente per rendere vana ogni sua azione.

“Oltraggioso ancora di più il tuo utilizzare una specialità che non ti è propria!” le espresse tutto il suo disprezzo Clio, gli occhi fiammeggianti.

La giovane dea era finita ginocchioni per terra, ansante. Cercò di rimettersi subito dritta ma le forze non erano sufficienti, respirava male, il fianco e le ferite dolevano alquanto. Nonostante questo sollevò lo sguardo ferino, a sua volta lampeggiante e affatto domato.

“Perché ce l’hai così tanto con mia madre?! E’ comunque tua sorella!” la accusò, desiderosa di sapere.

“Perché… non lo sai? Tua madre non te lo ha mai rivelato? - sibilò ancora la Musa, rancorosa – Urania è sempre stata la sua favorita!”

Francesca capì che si stesse riferendo a nonno Zeus, per questo, facendosi forza, per orgoglio, si rimise in piedi, un occhio chiuso, l’altro, ceruleo, puntato contro di lei, accusatorio.

“E questo… ti rode?”

“Non è solo questo ed io non sono più solo Clio… - ammise l’altra, guardando per un attimo altrove, verso il pavimento – Ma quel vecchio malefico ha sempre avuto i suoi figli preferiti da idolatrare, gli altri potevano tranquillamente crepare sotto i suoi occhi senza scalfirlo minimamente. Lo dovresti ben sapere tu, del resto, il padre della tua lontana cugina, Marta, non è stato forse… buttato giù dall’Olimpo perché non gradito a causa del suo aspetto?!”

“...”

Non rispose, ma rimase in attesa del proseguo, perché sapeva che ci sarebbe stato. Spingerla a parlare di un argomento che sembrava premerle alquanto, sebbene Clio avesse rigettato le sue origini, consentiva a lei di recuperare quel poco di forze che le avrebbero permesso di perseguire la battaglia. Osservò cautamente il tomo antico, studiandosi un nuovo modo per sottrarglielo. Avrebbe dovuto farle abbassare la guardia in qualche modo, cosa non facile perché la dea decaduta era attentissima a conservarlo pressò di sé, ma da quel dannato libro dipendevano le sorti di tutti i suoi amici, doveva assolutamente sottrarglielo.

“Fin dalla Notte dei Tempi, a noi Nove Muse è stato donato il benestare per l’uso delle Arti Alchemiche… - continuò Clio, avvicinandosi a lei con passi lenti ma costanti, al punto da farla rizzare istantaneamente nel temere un nuovo assalto – Ognuna di noi, oltre a rudimenti comuni a tutte, aveva una specializzazione diversa; io, come puoi vedere tu stessa, sono brava nel manipolare il sangue.”

Ancora Francesca non rispose, i muscoli tesi, pronta ad attaccare al minimo cenno di pericolo, che tuttavia non arrivò, non subito, almeno.

“Vi era un quadro di sostanziale parità tra noi, nessuna poteva prevalere, ed era giusto così… - sorrise di sbieco lei, guardandola dall’alto in basso, prima che quello stesso sorriso diventasse folle di una ira sempre più malcelata – Ma Zeus ha voluto metterci lo zampino!”

Fu un movimento molto veloce ma fortunatamente ben visto dagli occhi di Francesca, il grande tomo venne aperto con un gesto secco, improvviso, dalle sue pagine fuoriuscirono altre tre rose. La ragazza si ritrovò istintivamente a rotolare di lato per evitare quell’attacco, i gambi si conficcarono quindi malamente sul marmo, aprendone tre piccole fenditure.

Dunque Clio, all’occorrenza, poteva anche conservare le tecniche che vedeva, come se fossero parole vergate a eterna memoria sul libro da poter utilizzare quando la situazione lo richiedeva. Era davvero una nemica terribile, sebbene non dotata di poteri fisici di una certa levatura. Inavvertitamente però sorrise, decidendo di provocarla ulteriormente.

“Povera, povera Clio, la figlia non voluta…”

“TACI, MALEDETT...”

Nei suoi occhi passarono le intenzioni di un nuovo, più violento, attacco; intenzioni immediatamente colte da Francesca, la quale, furba, estrasse ancora una volta la folgore che usò per falciare l’aria e creare così una barriera di elettricità.

Clio squittì tutto il suo disappunto e la sorpresa, balzando lestamente indietro. La sua espressione tradì, per una manciata di secondi, la paura più nera.

“Poverina… non puoi neanche avvicinarti a questo potere, ne sei davvero terrorizzata, eh?!” la irrise ancora, alzandosi nuovamente in piedi mentre i fotoni di elettricità andavano scomparendo.

“STAI ZITTA! - le urlò tutto il suo odio l’altra, quasi sputando per terra – Urania possedeva già l’arte alchemica più pura, quella della trasformazione della materia che ha poi trasmesso a te. Era rispettata, e temuta, da tutte noi, che bisogno c’era di donarle anche la Folgore?!”

“Ah, questo… non chiederlo a me!” affermò Francesca, facendosi seria.

“Il potere che tieni tra le mani, che vi è stato ingiustamente donato da quell’idiota, ha spezzato totalmente l’equilibrio tra noi. Da quello… sono derivati tutti i nostri mali, soprattutto miei… e di Calliope!” si lasciò sfuggire Clio, fremendo vistosamente.

Le sopracciglia di Francesca tremarono un poco al suono di quel nuovo nome che conosceva solo perché sua madre ne aveva parlato. Effettivamente non aveva mai potuto conoscere personalmente nessuna di loro, erano cadute tutte molto prima, forse… forse proprio per quel disequilibrio che stava andando dicendo sua zia. Esitò un attimo, una scintilla scoppiettò tra le mani, un breve, intenso, attimo di tentennamento, che tuttavia non si poteva permettere. Aveva sempre creduto a sua madre e al nonno, sempre, anche quando, soprattutto il secondo, le aveva affidato compiti ingrati e sporchi. Rammentò ancora una volta di Prometeo, del dubbio che aveva sfiorato per la prima volta la sua mente grazie a lui e dal quale era dipesa la sua decisione di rinascere umana e continuare a reincarnarsi fino ad arrivare a quella vita. Un moto di ribellione, senza tuttavia rivoltare le schiere e gli ordini celesti. No, si era sempre fidata di loro, dei loro piani proiettati verso qualcosa di più grande. Una spiegazione doveva pur esserci e non era certo quello il tempo per le incertezze. Le bandì, quindi. Finalmente la nuova folgore -probabilmente l’ultima che sarebbe riuscita ad evocare a causa delle forze che stavano disperdendosi- si manifestò nei suoi palmi più fulgenti che mai, la strinse tra le dita.

“Mi dispiace, Clio… - ed era sincera mentre lo professava – Ma il mio incarico non mi permette di avere esitazione alcuna: sono Cavaliere di Atena ora, come mia madre mi ha chiesto di diventare, combatterò per i miei ideali!”

“Oh, sì… anche tua madre è sempre stata così – sogghignò lei, sbuffando, osservandosi brevemente il mignolo legato dal Filo Rosso Sangue – Ordini prima di tutto, eh, siete il braccio destro del vostro padre/padrone Zeus!”

A quell’accusa un moto di stizza invase Francesca, che tuttavia riuscì a trattenere. Osservò ancora una volta la Folgore, sempre più scoppiettante nel suo palmo. La sua benedizione, ma anche… la maledizione più nera!

“Potrei finirla qua di parlarti, ma una cosa ancora desidero aggiungere...”

Clio rimase inaspettatamente in attesa, come se si aspettasse qualcosa. Non attaccò. Non subito.

“Essere qualcuno… porta sempre degli obblighi e doveri. Essere la favorita, per quanto per te potrebbe suonare strano, non è per forza solo un bene...”

“Dovrebbe importarmi?!” inarcò un sopracciglio Clio, con supponenza. La rabbia sempre ben visibile in lei, in quel tono che sembrava irridere tutto e tutti.

“ASCOLTA, PER UNA VOLTA, LE PAROLE DI TUA NIPOTE, MEGERA! - si indignò Francesca, di fronte a quell’ennesima manifestazione di disprezzo, prima di calmarsi relativamente – Eravamo le favorite, d’accordo, questo ha implicato, per noi, gli incarichi più meschini, ciò che gli umani chiamano ‘sporcarsi le mani’, l’essere l’esecutore dietro la mente di qualcun altro: Zeus!”

“...”

“Voi vi occupavate delle Arti, della vostra Alchimia, noi, oltre a questo, eravamo costrette a torturare, ferire e mutilare tutti coloro che si opponevano al dominio di Zeus sulla Terra! - tentò di spiegarsi, fremendo notevolmente nel rammentare quei momenti terribili per lei – Le mie mani sono sporche del più svariato sangue… so cosa significhi avvertire un coltello che, per tua mano, sprofonda nelle carni di un povero diavolo che è legato e non può opporsi, le urla che ne conseguono, il sangue che cola fino alla tua pelle, i movimenti di un corpo preda della sofferenza. So colpire i punti non vitali, sai, allo scopo di causare il maggior dolore possibile e sono diventata brava in questo, mano a mano che gli incarichi di Nonno Zeus si facevano sempre più cruenti e brutali.”

“...”

Tremava mentre professava tutto quello, ciò che non era mai stata in grado di esprimere alle sue care amiche, che era solo riuscita ad accennare a Death Mask prima di rischiare di cadere nel vuoto, prima di essere salvata da lui, da un uomo, nonostante tutto quello che aveva perpetrato nell’Era Mitologica. Le veniva quasi da piangere a parlarne, ma non davanti a lei, no! Si morse il labbro inferiore, avvertendo nuovamente il sapore del sangue che stava perdendo a causa delle rose di Aphrodite. In fondo, un tributo più che giusto visto tutti i suoi peccati.

“Dimmi, tu lo sai Clio? Sai cosa si prova a vivere con questo peso sulle spalle? Ad essere comunque succube del proprio passato e non potersi espiare in alcun modo? E’ peggio… è peggio di uccidere, questo! E’ peggio… di morire… ED IO HO VOLUTO UCCIDERMI PER BUONA PARTE DELLA MIA ESISTENZA!!!”

“No, non lo capisco… - ammise Clio, una scintilla di tristezza le solcò brevemente le iridi, prima di trasmutarsi nuovamente in rabbia – Vedo però che siete rimaste fedeli a lui, che vi siete ribellate solo in parte, e che continuate a seguire le sue direttive. Dimmi, ordunque, quanto vale realmente il vostro pentimento?!” la accusò, puntandole contro l’indice della mano legata.

“Non mi aspettavo… la tua comprensione! - le soffiò Francesca, nuovamente pronta ad ingaggiare in battaglia – Era giusto per farti arguire che non è tutto oro ciò che luccica! Voi ci avete invidiato per essere le elette di Zeus… ebbene, Clio, noi invece abbiamo sempre invidiato voi!” confessò ancora, piegando le gambe per avventarcisi contro.

Già, Clio… non immagini quanto invidi quelle come te! Vorrei anche io odiarlo Zeus, dopo tutto ciò che ci ha obbligato a fare, sarebbe tutto più semplice. E invece… invece ci sono legata tutt’ora, è mio nonno, gli voglio bene, malgrado ciò che mi ha fatto diventare: una Esecutrice! E vorrei, quanto vorrei, non essergli ancora così… succube… non riesco ad accettarlo!

Ma questo, lei, non avrebbe mai potuto comprenderlo, per cui… perché esitare ulteriormente?! -si disse la giovane dea, bandendo ogni titubanza- tuttavia qualcosa, nello scattare contro di lei, andò storto. Le intenzioni c’erano, l’ordine era già ampiamente partito dal suo cervello, ma il suo corpo non si muoveva minimamente, le gambe parevano blocchi di ghiaccio e così le braccia, alzate ad imbracciare la Folgore senza però poterne usufruire. Francesca si guardò confusa intorno, mentre sul volto di Clio si manifestava un risolino sempre più divertente e vittorioso. Cosa stava succedendo?!

“Di’, pensavi forse che solo tu avessi in mente il piano di perdere tempo, chiacchierando, per canalizzare le forze e potermi così infliggere un danno mortale?! Lo avevo anche io!”

Di nuovo la ragazza non ebbe il tempo di chiedere spiegazioni che vide il filo rosso al quale era legato il suo mignolo dividersi in numerosi filamenti che aggrovigliarono istantaneamente tutto il suo corpo, procurandole nuovi tagli che bruciavano da impazzire, da far lacrimare, e rendere ancora più difficoltosa la respirazione.

“Che… che cosa mi hai fatto, C-Clio, anf?”

“Sono specializzata nella manipolazione del sangue, ricordi? Tu mi hai bloccato qui, sfruttando la nostra consanguineità… io ti ho solo ritorto tale tecnica contro, sfruttandola a mio vantaggio – sorrise di sbieco lei, tronfia, prima di aggiungere - Ora sei tu… il mio dominio!”

“E’… è impossibile! - Francesca cadde indietro a terra, contorcendosi per il dolore. Si sentiva impigliata in una rete infuocata da pesca, la Folgore di Zeus, nella caduta, era finita diversi metri più in là, sparendo poco dopo con uno scoppiettio – Non hai usato alcun, anf… Cerchio Alchemico per riuscirci!”

“Non ne ho bisogno! - dichiarò l’altra, posizionandosi la mano legata sul petto come ad indicarsi – Io SONO il Cerchio!”

La formula è dentro di lei, certo… come ho potuto essere gabbata così?! -si biasimò Francesca, rimproverandosi l’ingenuità, cercando al contempo di liberarsi da quella stretta sempre più opprimente- solo i Manipolatori più capaci sono in grado di controllare il sangue senza bisogno di tracciare il simbolo, ed io… sono stata una sprovveduta a non rendermene conto in tempo!

La situazione volgeva a suo completo sfavore. Così immobilizzata al suolo, con il sangue che defluiva, il respiro che le mancava, si raccomandò forzatamente la calma, così come il suo maestro le aveva insegnato. Facile a dirsi, un po’ meno a farsi, però… soprattutto in circostanze così critiche.

Non posso permettermi di morire… non posso! Non ora! Pensa, Fra, pensa!!!

“Ora sei il mio dominio, potrei tutto su di te...”

Un brivido le corse lungo la schiena, mentre, sgranando gli occhi, la vide rimuginare su qualcosa, la mano legata sotto il mento, l’altro braccio, lungo il fianco, che sorreggeva il pesante tono. Sarebbe bastato toglierglielo, solo quello e… e… ma le forze andavano scemando, la vista le si offuscava.

“Sei in mio potere, il tuo sangue cede al mio controllo! - sottolineò ancora Clio, in tono di spregio – Dimmi, quale metodo preferisci per accomiatarti da questa vita terrena? Vuoi che faccia implodere tutte le tue vene in un unico, brevissimo, schiocco di dita, oppure...”

“Ehi, signorina Megera!”

Un trillo acuto, che Francesca non riconobbe subito, si elevò nell’aria, interrompendo il bel discorsetto di Clio. Subito dopo, dalla posizione cui era costretta, riuscì ad individuare un’ombra arrivare in scivolata e colpire la caviglia sinistra della Musa, la quale, non aspettandoselo, fu costretta a piegarsi in avanti per rimanere in piedi.

“KIKY!” lo chiamò la giovane dea, allarmata, identificando finalmente la sua chioma rossiccia con un fremito.

“Tu… TU! Eri un microbo fino ad un’ora fa, come osi?!”

Gli occhi feroci di Clio lampeggiarono più sinistramente di prima, abbassò il braccio legato dal Filo Rosso, apprestandosi a infliggere la stessa sorte a quel ragazzino troppo cresciuto che si era permesso di interferire in uno scontro tra divinità, ma prima ancora che lo potesse fare, distinse il dito indice del ragazzino puntare contro di lei…

...No, non contro di lei, bensì…

Venne pervasa da un brivido lungo, spietato.

“Chiedo scusa per i miei modi poco diplomatici, se vuoi, il Grande Mu mi sgriderebbe, ma… - sorrise Kiky, certo più che mai del risvolto nuovamente favorevole delle loro sorti – Quello serve a noi!”

Il pesante tomo le sparì da sottobraccio con un sonoro ‘puf’, senza nemmeno poterlo impedire. Impallidì ulteriormente, tremando come non aveva mai fatto in vita sua.

Kiky, dalla sua posizione completamente in svantaggio, perché era esattamente sotto la divinità, sdraiato sul pavimento dopo la scivolata, si torse quel quanto che bastava per volgersi in direzione di Aphrodite e del nuovo ragazzo che, ancora seduto per terra a poca distanza dal Cavaliere dei Pesci, devolveva tutte le sue forze per non svenire.

“Stefanoooooo, è TUOOOOOOOOOOO!!!” gli urlò Kiky con tutto il fiato di cui disponesse. Era giunto il momento di finire quella storia una volta per tutte.

Il richiamo lo riscosse, forzandolo ad aprire bene gli occhi per fare quanto gli era stato detto. Il pesante tomo riapparve proprio davanti a lui con un altro ‘puf’. Lo aprì subito di getto con il braccio ferito, le pagine un poco ingiallite dal tempo, gremite di scritture complicate, rivelarono immediatamente un Cerchio Alchemico scritto e disegnato a caratteri cuneiformi e incomprensibili.

Una cosa, però, era ben chiara nella sua mente, come se fosse nato solo per quello, come se avesse un manuale di istruzioni compilato in testa.

Spezza il circolo, piccolo mio…

“Spezzerò… il circolo!” ripeté tra sé e sé, con il filo di voce che gli rimaneva. Poi, senza perdere altro tempo, con la mano destra ancora insanguinata del suo stesso sangue, tracciò abilmente linee e segmenti sopra il cerchio, il quale, spezzandosi di netto, prese ad illuminarsi, confluendo poi, con un turbinio, a tutto il volume.

La luce si espanse all’ambiente circostante, costringendo tutti i presenti a ripararsi gli occhi. Era pieno giorno, ma lo sfavillio risultava talmente potente, che pareva quasi l’origine di una supernova. Nessuna esplosione tuttavia in quel bianco che guizzava in ogni direzione, salì semplicemente fin quasi al cielo, prima di convergere su sé stesso e sparire in un lampo azzurrino.

Stefano riaprì cautamente gli occhi. Per i primi secondi non distinse alcunché, come quando si osserva per troppo tempo il sole direttamente, ma poi una piccolissima particella di luce gli accarezzò brevemente il dorso della mano per poi elevarsi verso l’alto, verso il cielo nuovamente cobalto, privo del vortice rosso o di qualsiasi altra interferenza su quello splendore. La particella, però, non era la sola, altre, di diverse dimensioni, stavano salendo, come lucciole, alla ricerca delle rispettive compagna. Si trattava di uno spettacolo incantevole, la sua bocca si spalancò in una ‘o’ muta di meraviglia che credeva di aver smarrito per sempre dopo l’alluvione della Valbrevenna.

“L’Ergon sottratto sta… sta convergendo verso i rispettivi proprietari!” capì Aphrodite, assolutamente carpito a sua volta da quello spettacolo di luci che non aveva mai visto in vita sua.

“E’… è finita! - ne dedusse Stefano, sentendosi, sollevato, tornando a concentrarsi sul libro, ancora luminescente – Chi ancora vive… riacquisterà le forze!” sorrise, sentendosi finalmente utile a qualcosa.

Anche Kiky rimase sbalordito davanti a tutto quello, prima di sentirsi strano e rendersi conto che la sua mano stava… rimpicciolendo! Si voltò nuovamente, scorse l’espressione furiosa di Clio che lo gelò subitaneamente. Gli prese un colpo: davvero il peggior momento per tornare bambino!

“Iiiiiiii!!!” produsse un urletto, sgattaiolando via a quattro zampe mentre percepiva su di sé l’abbigliamento sempre più largo.

L’istinto di autoconservazione lo spingeva ad allontanarsi il più in fretta possibile da quella megera, ma Kiky era apprendista Cavaliere, aveva fiancheggiato orgogliosamente i Cavalieri di Bronzo durante tutto il loro percorso di crescita e… anche lui era cresciuto! Ragion per cui, si diresse immediatamente verso Francesca, ancora imprigionata dai filamenti rossi, con l’intento di liberarla da quel giogo.

“No, Kiky, cosa fai?! Scappa!” lo avvertì, mentre le manine del piccolo tiravano disperatamente quei fili che bruciavano al solo contatto.

“Ti libero! Non ti lascio qui!”

Anche la sua voce era tornata infantile, un po’ gli dispiacque.

“Allontanati! - insistette lei, preoccupata per le sue sorti – O la vendetta di Clio si abbatterà… CLIO!!!”

L’ultimo richiamo confuse il piccolo che, non capendo l’origine di quel turbamento, si girò nella direzione opposta, sussultando a sua volta.

La Musa decaduta infatti si era lasciata cadere a terra, sconfortata, sorreggendosi con la mano libera al pavimento e osservandosi il palmo dell’altra, l’indice ancora legato a quello della nipote.

“Capisco, forse le cose dovevano andare esattamente così, Calliope...”

Il tono dismesso con cui pronunciava quelle parole e il nome della sorella più prossima, la sua stessa rassegnazione, impressionarono Francesca, ormai avvezzata a considerarla una nemica fino a due secondi prima. Si riscoprì di provare compassione per lei, senza saperne il motivo, mentre, con un sussulto, si rendeva conto che le mani della dea decaduta cominciavano a raggrinzirsi. Anche Kiky rimase turbato nel vedere un nemico prima più che terribile arrendersi così, nascondendo il volto in modo che fosse adombrato e non interamente visibile ai loro occhi. Cosa stava succedendo?!

Clio ha preso ad invecchiare appena Stefano ha spezzato il sigillo impresso su quel libro. Perché? -rimuginò Francesca, cercando di mantenere la mente attiva nonostante le ombre si allungassero sopra i suoi occhi- Che sia… che la sua stessa vita sia legata a quel tomo?! Che… che sia veramente già morta e riportata alla vita come fantoccio?! E Calliope, la Musa della poesia epica… cosa c’entra?! Perché me l’ha nominata due volte? Che diavolo è successo… dopo la Diaspora degli Olimpi?!

Era affaccendata a congetturare teorie e ipotesi circa quel tempo così lontano, tanto da non rendersi pienamente conto dell’arrivo di una terza forza, del suo cosmo colossale, che pareva spazzare via tutto, come una tormenta. Fu Aphrodite ad accorgersene per loro.

“FRANCESCA! KIKY! GIU’!!!” urlò Pisces, spaventato a morte da qualcosa.

La giovane dea, complice i sensi che venivano sempre meno, non ebbe il tempo per reagire, ma Kiky, lesto, saltandole addosso, la buttò a terra, lui sopra di lei, come a volerla proteggere.

Qualcosa di oscuro passò velocemente sopra le iridi della ragazza, quasi il simbolo di una falce, prima di sparire apparentemente nel nulla. Si ritrovò più volte a sbattere le palpebre, non capacitandosi dell’accaduto.

“I miei complimenti, Pisces… - una voce sardonica irruppe con una calma gelida – Sebbene più scarso della tua precedente vita, hai percepito comunque il mio arrivo...”

“Uhmpf, sapete un po’ troppo circa il nostro passato… siete irritanti!”

Quello scambio, aspro, di battute, le diede le energie sufficienti per risollevarsi, trattenere Kiky contro di sé, che tremava dalla paura al solo percepire il cosmo immane del nuovo nemico, e incrociare così lo sguardo del nuovo arrivato. Finalmente lo vide, laddove Marta e Sonia, le prime ad aver avuto a che fare con lui, erano riuscite solo a distinguerne la voce che avevano poi descritto come sardonica e idiosincratica.

“Ermete, suppongo...” disse, sprezzante, ben consapevole di avere poche forze in corpo, giusto sufficienti per fare dello spirito e fingersi tagliente, almeno nel tono adoperato.

“La figlia di Urania, la Musa Celeste...” fu la serafica risposta dell’altro mentre riponeva l’alabarda in una sorta di fodero magico.

Francesca non aveva idea di cosa ci fosse venuto a fare lì, semplicemente vibrava, non riuscendo neanche a capire se per la voglia di combattere anche contro di lui o per la paura. Lo sapeva impegnato in battaglia contro Saga e Shaka, i loro cosmi si percepivano ancora, anche se distanti, quindi non li aveva sconfitti, anche se non sembrava neanche ferito. Quindi… come mai si era recato in quel luogo in fretta e furia?!

“Sei venuto a fare il Principe Azzurro di Clio, oppure Saga e Shaka, insieme, ti hanno mazzolato talmente tanto da farti scappare con la coda tra le gambe?!” lo irrise, fiera.

“Io non farei così tanto la strafottente, dea, quando, da te alla morte, intercorrono, se va bene, una decina di centimetri...” gli fece notale lui, fulminandola con lo sguardo. I suoi capelli rossicci tremarono appena.

Francesca non capì subito a cosa si riferisse, non prima di percepire concretamente dell’aria, come uno spiffero, sulla sua sinistra. Voltandosi, si agghiacciò. Accanto a lei infatti, a pochi centimetri, era appena apparsa una fessura a forma di mezzaluna, piccola, se paragonata all’altra che aveva bloccato loro il passaggio per giungere lì, ma più insidiosa… se l’avesse colpita! E ci era mancato davvero poco!

Allo stesso tempo si rese conto. In un fremito, che il Filo Rosso era stato spezzato da entrambe le parti, liberandola dal Legame Cremisi.

“Ringrazia l’intervento provvidenziale di Pisces… non saresti più qui, altrimenti! - affermò Ermete, senza giri di parole, prima di voltarsi proprio nella sua direzione – E tu, Cavaliere, complimenti… sei riuscito a manipolare il tuo sangue in maniera sufficiente per deviare il mio colpo e salvare così i tuoi protetti...”

Nel dire quello, il braccio che aveva riposto l’alabarda, tornò avanti a sé, permettendo a Francesca di distinguere una rosa bianca tinta per metà di rosso cremisi e l’altra di bianco che stava tuttavia vertendo sul rosato sempre più scuro. Si raggelò ulteriormente.

“Aphrodite, cosa..?!”

Si morse il labbro inferiore nel vederlo in piedi, le gambe divaricate, mentre goccioline di sangue colavano lungo tutto il suo braccio per poi sgocciolare dalle dita e formare una pozza rubino sul pavimento: Aphrodite non aveva esitato a sacrificare il braccio per convogliare parte della sua linfa vitale su quella rosa e lanciargliela al nemico allo scopo di deviare la traiettoria, ed ora stava lì, il respiro dispnoico, visibilmente sudato e sfatto, perché era lampante che quel gesto gli era costato assai.

“Hai intuito che non potevi annullare il mio attacco, nessuno può farlo, quindi lo hai deviato con la tua rosa – arrivò alla stessa conclusione Ermete, prendendo con l’altra mano il fiore per poi schiacciarlo tra le sue dita – Bravo e perspicace, ma purtroppo per te il tuo sangue venefico non fa né caldo né freddo al mio corpo che io stesso ho reso Supremo!”

Di sicuro la modestia non era propria di nessuno dei Cinque Pilastri -analizzò la faccenda Francesca, sentendosi in colpa per aver permesso al compagno di battaglia di rimanere ferito per salvare lei- ma la domanda perdurava: cosa era venuto a fare lì, se i cosmi di Saga e Shaka non erano affatto debellati?!

Ermete non diede alcuna spiegazione a tal proposito, semplicemente diresse il suo sguardo gelido in quello di Stefano, il quale, sentendosi perforato solo da quello, sussultò visibilmente. Poi la mano del nemico si levò contro di lui.

Aphrodite ebbe un fremito non appena comprese la direzione cui aveva puntato: “STEFANO, ATTENT..!”

In quella situazione, nessuno ebbe la prontezza di riflesso di fare alcunché, il libro che il ragazzo teneva presso di sé, il tomo di Clio, gli sparì da sotto le dita per apparire subito nel palmo del Pilastro, il quale, fortunatamente disinteressandosi delle sue sorti, con uno sbuffo, lo riaprì, cominciando a recitare formule in una lingua mistica, mai conosciuta, ultimando il processo nell’imprimere un nuovo Cerchio Alchemico sulle pagine.

Cliò tossì in quello stesso istante, trattenendosi la pancia con le mani. Sembrava quasi essere tornata alla vita, di aspetto era nuovamente giovane e forte, mentre, incredula, si osservava intorno, prima di rendersi conto di chi fosse al suo fianco.

“Sommo… Ermete!” lo chiamò, assuefatta, gli occhi brillanti come non mai.

“Andiamocene, Clio, per il momento va bene così!” dichiarò solo l’altro, porgendole nuovamente il libro tra le mani, prima di aiutarla ad alzarsi e cingerle il fianco con il braccio.

Lei quasi si arpionò a lui come se fosse la salvezza personificata, socchiuse gli occhi, respirando il suo odore: “Ho fallito la mia missione… mi sono fatta rubare L’Ergon da sotto il naso!”

“Non tutto… la Forza Vitale degli individui periti nel processo è ancora nel libro, per il momento ciò basta per la nostra Ipsias!” decretò ancora, sempre con voce possente.

“M-ma io...”

“Sai anche tu che il Quinto Pilastro, Colui che più prossimo è a Marduk, come dice il Sommo Fei Oz Reed, si sta adoperando in altra maniera per sottrarre l’Ergon di questo pianeta e devolverlo ad Ipsias, non hai di che temere, Clio!”

“S-sommo...” lo chiamò ancora lei, lasciandosi andare tra le sue braccia, cingendogli il busto.

Ermete diresse ancora una volta lo sguardo verso gli astanti, studiandoli uno ad uno, prima di far sparire le distorsioni spaziali a forma di falce con uno schiocco di dita.

“Per il momento vivrete, terrestri, ma non finisce qui. La guerra tra noi e voi… non è che alle fasi iniziali! Ci rivedremo presto!”

E, attraversando il portale che conduceva al Mondo Inverso, lo Specchio delle cose di là, sparì dalla loro vista, annullando anche la distorsione spaziale che si era venuta a creare sulla Terra.

Aphrodite prese tempo per soppesare quanto aveva potuto appurare da quell’esperienza. Con il cuore ancora accelerato, il sangue che defluiva fuori da lui, oltraggiosamente sporcandolo, tentò di concentrarsi su quanto aveva appena visto.

Costui deve essere il più forte tra i Cinque Pilastri, forse sotto solo al Mago… ne ha però nominato un quinto, tra loro, Colui che è più prossimo a Marduk… cosa intendeva?! Devo informare il prima possibile il Nobile Shion circa questi avvenimenti, devo dirgli che i suoi dubbi sono veritieri. Ho inoltre compreso il potere che possiede Ermete: ha il pieno dominio sullo spazio fisico, può annullarlo, perfino, come ha fatto con il libro che era sotto le dita di Stevin. No, non è stata magia, l’ho ben visto, è come se la distanza tra lui e il ragazzo fosse stata di colpo fagocitata. Poteva ucciderlo, addirittura, se avesse voluto, e tuttavia non l’ha fatto…

“FRANCESCA!” il grido disperato di Kiky, ormai tornato bambino, lo strappò dai suoi pensieri.

La giovane dea si era lasciata andare per terra, il viso rivolto verso il cielo che luccicava ancora di quelle lucciole di energia. Era uno spettacolo straordinario, mai visti di simili in tutti i suoi secoli e secoli di vita eterna. O forse era il sollievo a rendere altresì speciale quel momento, facendola sentire viva e… libera”

“Stai sanguinando copiosamente dalle ferite!!!” esclamò ancora il bambino, in panico, cercando l’aiuto esterno.

“Non ha… importanza!” biascicò lei, gli occhi cerulei puntati verso il cielo mai stato così cobalto.

“Come sarebbe a dire che..?”

Non seppe se aveva continuato a parlare, non lo udiva più. Ormai le sue percezioni si riducevano ad avvertire a stento le sue manine, e forse quelle di Aphrodite, non sapeva dirlo con certezza, che la frizionavano nel tentativo di arrestare una emorragia che non sembrava voler retrocedere di un passo, ma lei era solo lì, in mezzo a quel cielo di straordinaria bellezza che rifletteva tutte quelle lucciole danzanti.

“Ditemi… non è bellissimo? La cosa… più sorprendente… che abbiate mai visto?” chiese a sé stessa e agli altri, alzando brevemente il braccio verso quello spettacolo di luci e perdere definitivamente coscienza.

 

 

* * *

 

 

Michela ci mise non poco a riprendere gran parte delle sue facoltà e così la coscienza.

La testa le girava vorticosamente, ma i suoi sensi da guerriera l’avevano messa in allerta, come ad informarla di un pericolo imminente che tuttavia non riusciva a codificare pienamente. Riuscì infine a riaprire gli occhi, si accorse di essere sdraiata supina, le arcate della cattedrale capeggiavano sopra di lei, ma… si stavano irreversibilmente crepando, come… come era possibile?! Non riusciva a capire, non era in grado di definire quanto stesse succedendo, almeno fino a quando un ciottolo di modeste dimensioni non si staccò dalle navate per finirle in dritto in testa, sulla fronte.

Fu il dolore a farla scattare, dandole lo slancio per saltare su a sedere, totalmente allarmata. Si guardò confusamente intorno, mantenendo lo sguardo alto. Tutto, intorno a lei, stava andando in rovina, come se la struttura di quel luogo cedesse su sé stessa, rischiando di portarsi dietro anche lei, loro… UN SECONDO, LORO???

Ricordò istantaneamente ogni cosa fino a dove avesse memoria: le torture, Utopo, i prelievi su Camus, il suo tocco delicato per riscuoterla, l’intervento Hyoga, la conseguente battaglia, Tiamat, il risveglio, la freccia… le si accapponò la pelle dal terrore, mentre, quasi urlando i nomi di due delle persone che amava di più al mondo, balzò in piedi e, nonostante un vorticoso capogiro più intenso degli altri, si rialzò in piedi, coprendosi istintivamente la pancia che percepiva martoriata e scoperta.

“Uh!”

Li vide nel bel mezzo di quello sfacelo, maestro e allievo, pochi metri più in là, mentre tutto intorno a loro crollava miseramente e il pavimento veniva scosso da tremori sempre più consistenti. Non ci pensò due volte, si rese conto con la coda dell’occhio che parte del soffitto stava per franargli addosso, perciò accorse con tutte le forze di cui disponesse, disintegrandolo con un unico colpo ben assestato e precipitandosi poi, di capocollo, ai loro piedi, urlando ancora una volta i loro nomi nella speranza di ridestarli.

“CAMUS!!! HYOGA!!!”

Nessuno dei due rispose, si gettò al loro fianco, terrorizzata, cominciando a scrollarli con forza: “No, vi prego… VI PREGO, RISPONDETE!!!”

Entrambi respiravano appena, Hyoga era appoggiato sulla spalla destra Camus, ancora lo abbracciava, cercando di proteggerlo, privo di coscienza, ma una strana luce dorata intorno a lui sembrava avvolgere il suo corpo e quello del maestro, inspiegabile, perché non sembrava dipendere dallo stesso Cavaliere del Cigno, eppure…

“Papà! - provò a chiamarlo ancora più insistentemente Michela, forse sperando che quel nome da solo avesse maggiori capacità di ridestarlo, perché sembrava soffrire parecchio, più del suo fidanzato. Con la mano sempre più tremante, discostò un poco il braccio di Hyoga, osservando sconvolta l’addome del maestro – Cosa… cosa ti hanno fatto ancora?”

Il ventre di Camus era segnato da numerose striature nere, quasi rami spogli che si stagliavano nel cielo plumbeo di novembre, esse arrivavano poco sotto i due capezzoli, anche se sembravano in lento, progressivo, ritiro. Facevano a dir poco impressione, imprimendosi nella cornea, mentre l’ombelico spurgava ancora quello strano fluido dorato, unica luce in mezzo a tutto quel nero che aveva oscurato e fatto sparire perfino il simbolo della dea Tiamat.

Titubante, ben sapendo quanto fosse fragile per lui quella zona, tentò di accarezzarlo dolcemente, sperando che la riuscisse a percepire e così potersi tranquillizzare, ma ottene l’effetto opposto. Lo vide infatti irrigidirsi, quasi digrignare i denti, scuotendo la testa come a tentare di opporsi a qualcosa, a qualcuno, come se non la riconoscesse più, da quanto stava male.

“Camus, sono io! Non mi… non mi senti?”

“Grrrr...”

In quell’istante un ringhio sommesso raggiunse le sue orecchie, si voltò, incrociando lo sguardo furioso di Hyoga, una strana luce che gli lampeggiava negli occhi, come di lupa che difendeva ciò che aveva di più caro. Si spaventò, quasi saltò indietro, mentre l’aura dorata che avvolgeva il Cigno, inspiegabilmente cedeva il passo ad una più cristallina, la sua. Chi li aveva protetti fino a quel momento, se entrambi erano incoscienti? Il cosmo, per qualche ragione, le rammentava qualcosa… ma cosa, nello specifico?

Anche il ragazzo ci mise un po’ a capire cosa stesse succedendo. Aveva percepito qualcuno, si era azionato per quello, nella paura che altri osassero fare male al maestro, ma non vedeva che offuscato, le forze non bastavano per fare altro, socchiuse gli occhi, prima di sentirsi toccare i capelli in un gesto che conosceva bene.

“Hyo… Hyoga, sono io, amore! Mi senti? Mi… vedi? O-oddio, i tuoi occhi, s-sono...”

Riconobbe la sua inconfondibile voce, si sentì rinfrancato, sorrise di riflesso, rassicurato dal fatto che lei si fosse ripresa e che non fossero più da soli. Riaprì gli occhi, anche se, tramite essi, non riusciva più a distinguerla.

“M-Michy… s-sei tu, che gioia! Ti sei… ripresa!”

“E’… è solo grazia a voi, questo, mi avete protetta e… resisti, resistete, ora sarò io a… salvarvi!” biascicò lei, singhiozzando, cercando comunque di farsi forza.

La mano di Hyoga si mosse difficoltosamente verso di lei, la raggiunse, la strinse, mentre, biascicando con la bocca, cercò di comunicare: “Non… non pensare a me! Camus… Camus è stato molto male!”

“Cosa è successo mentre ero svenuta? Non è possibile che… - un lampo di consapevolezza la investì, facendola rabbrividire – QUEL BASTARDO, DOV...”

“Se ne è andato portandosi dietro Utopo, anf, m-ma prima è riuscito a contaminarlo in parte con i suoi miasmi. L-lo… lo stava quasi per prendere, Michy… ed io sono stato un incapace!”

“N-no, no! Tu lo hai protetto… sei stato eroico, Hyoga, è grazie a te se… sigh! - si asciugò le lacrime nell’immaginare cosa avessero patito ancora una volta, poi si chinò verso il maestro per passargli una mano tra i capelli come sapeva gli piacesse tanto – Ora riposate, troverò un modo per farci uscire tutti e tre!”

“E’ molto debole… i battiti del suo cuore sono irregolari, ed io… io, anf, non posso… aiu-tarti! - prese una pausa, tentando di controllare il suo respiro – M-ma questo mondo, g-generato dalla mente di Utopo, sta implodendo su sé stesso. Presto scomparirà, inghiottendo anche noi, d-dobbiamo...”

...Dovevano uscire, in qualche modo, sì, ma… come? Michela era robusta, era vero, ma non sarebbe mai stata in grado, da sola, di condurli verso la salvezza, senza contare che il varco creato da Camus non era più agibile, avrebbero quindi dovuto cercare una via alternativa.

Cosa posso… Sono Cavaliere della speranza, ma non ho più una goccia di potere per… per salvare le persone che amo, non posso sfoderare nuovamente lo Zero Assoluto, sono prosciugato, eppure… eppure il maestro e Michela dipendono da me, Isaac al mio posto non si sarebbe mai arreso, avrebbe trovato una via di fuga, a qualunque costo, devo anch’io…

“ORA BASTA, CHE DIAVOLO!”

L’esclamazione di Michela lo riscosse, la guardò, per quanto gli concedesse la vista sempre più offuscata. Ne vedeva solo il profilo, l’ombra, ma la sua determinazione faceva tremare l’aria, la osservò alzarsi, più decisa che mai.

“BASTA PIANGERE, E’ FINITO QUEL TEMPO! - rimarcò, fremendo notevolmente nello stringere i pugni – Mi avete protetta, con tutte le vostre risorse, ora… ora è il mio turno di salvarvi!”

“M-Michy...”

Hyoga si sentì tremare, scosso da una spiacevole sensazione, e poi la vide, possente, la fiamma blu, di nuovo, sul palmo della propria fidanzata, ma era una vampa blu differente, la avvolgeva del tutto, lambendo il suo corpo con vistose bruciature di ghiaccio da quanto fosse la potenza profusa. Ed ebbe la consapevolezza, Hyoga, il Cavaliere del Cigno, che mentre tutto andava svanendosi, collassando come una supernova, che la sua fidanzata si sarebbe gettata, con tutta sé stessa, contro la parete della cattedrale, aprendo così una breccia in cambio della propria vita, che bruciava intensamente, come mai prima di quel momento.

Si ritrovò ben presto ad urlare, la sua mano si protrasse verso la sua direzione, ma non la raggiunse, non più, infatti la ragazza, sfoderando tutta sé stessa, piegando la schiena per darsi la spinta, non ebbe la benché minima esitazione, dirottandosi in avanti.

“ICY BLAZE!!!” gridò al vento, ribattezzandosi così il suo nuovo colpo, la fiamma azzurra.

“Noooooooooooooooooooooooooooooooo!!!”

L’eco della sua voce si espanse, acutizzandosi, rimbombando tra ciò che rimaneva delle navate della cattedrale, prima di perdersi in un mare infinito.

Un cosmo implose, dando tutto sé stesso, per poi svanire.

Si udì un fragore nell’aria, un tremore ancora più forte… tutto vibrò.

E poi… silenzio…

Hyoga, ancora con la mano protratta davanti a sé si accasciò ancora di più, singhiozzando, ormai incapace di controllarsi. Non riusciva a respirare, non riusciva ad accettare quell’ennesimo sacrificio sulla sua strada già lordata di sangue, quella vita che si spegneva, di un’altra persona cara, amata, al posto suo, mentre lui era ancora una volta lì, a guardare, come con sua madre. Come con Isaac. Come con Camus. Come… come… SEMPRE, DANNAZIONE!

Pianse, Hyoga il Cavaliere del Cigno, pianse per l’ennesima impotenza che aveva dimostrato, nonostante il tempo, gli allenamenti, i lutti… pianse tutta la sua disperazione, la sua frustrazione, la sua incapacità.

Era una sua maledizione non riuscire a proteggere chi amava. Ogni volta che sembrava avvicinarsi alla riuscita, qualcosa gli si parava davanti… sempre, sempre, per sempre… e ancora sempre!

Desiderò, ancora una volta, togliersi la vita, porre fine alla sua esistenza maledetta, darsi il colpo di grazia. Non poteva tollerare tutto quello, non poteva sopportare di essere ancora lì, vivo, e respirare, era… semplicemente insostenibile!

Così soffocante… così assurdo, così… spietato!

“La vita… come potrebbe essere insostenibile, Hyoga del Cigno? Puoi respirare… senti l’aria dentro i tuoi polmoni, avvertine il calore intrinseco. Sei Cavaliere della Speranza, non puoi esecrare così la tua esistenza, perché essa è… unica e preziosa!”

Una voce gentile lo riscosse, esortandolo. Uno sbattere fine di ali, a cui si aggiunse il delicato suono di un sonaglio, gli giunse dolcemente all’orecchio, così come lo spostamento d’aria, che gli smosse i capelli come ad accarezzarne la chioma. Le forze mancavano ancora, ma quel calore di cui parlava la voce cominciava a riscaldarlo soavemente, cullandolo.

Hyoga riuscì infine a riaprire le palpebre gremite di lacrime, si sollevò un poco dal torace del suo giovane maestro, riuscendo ad intravedere la sagoma di un grosso cigno a poca distanza da lui.

Lo riconobbe, rammentandosi del loro precedente incontro e ancora, indietro con la mente, a quando era più piccolo, un semplice bambino. La consapevolezza lo avvolse, frastornandolo: non lo aveva rammentato nitidamente prima di quel momento, ma lui aveva sempre parlato con i cigni dalla morte di sua madre in avanti… ci aveva sempre parlato e, tra i cigni, ve ne era uno davvero speciale.

“T-tu… ora ricordo!”

La sagoma candida del cigno si faceva sempre più alta, le ali vennero inglobate dalla luce, trasformandosi in un’altra forma, più umana. La sua vera forma.

“Sei sempre… stato con me, anf!”

La figura evanescente camminava verso di lui, i suoi passi cadenzati erano silenziosi, quasi non avessero consistenza. Portava qualcuno tra le braccia, Hyoga ne riconobbe le fattezze, sussultò di gioia.

“M-Michy!!! - la chiamò, mentre veniva adagiata, con garbo, di fianco a loro. Era ferita e sanguinante, perché aveva sbattuto la testa nell’ultimo assalto, tentando di sforzare la parete di quel mondo, ma respirava, era viva! – Pe-perdonami per… per non averti saputo proteggere!” singhiozzò ancora Hyoga, incassando la testa tra le spalle, stringendole il polso vicino, mentre le lacrime riprendevano a fiotti.

“Non piangere… giovane erede di Aquarius! La via… adesso è libera!” lo informò, sorridendo con dolcezza.

Riusciva nuovamente a vedere, anche se a fatica, ed era così bello... avvolto da quella luce dorata, evanescente eppure concreta, accecante eppure soffusa. Hyoga ne distingueva il viso con miglior nitidezza di qualsiasi altra cosa, così come i lineamenti delicati che gli erano propri. L’armatura dorata che indossava con l’effige dell’Acquario, sembrava leggero peso, come la sua stessa corporeità; non era corporeo in effetti, anche questo il giovane lo sapeva, inspiegabilmente.

“Dé-gel!” farfugliò il suo nome, respirando pesantemente, tentando di rimanere cosciente.

“Il varco è aperto… - ripeté l’Antico Acquario, annuendo – Puoi percorrerlo, ne hai la forza, Hyoga!”

“Temo tu… mi stia sopravalutando, Dègel, anf...”

“Sono sempre stato dentro di te per tutto questo tempo come frammento di luce. - gli sorrise lui, chinandosi un poco per accarezzare la fronte e i capelli di Michela, prima di fermarsi ad osservare con un poco di mestizia la propria reincarnazione – Non ti sto sovrastimando, so esattamente di cosa sei capace, lo sa anche Camus e… dovresti saperlo anche tu, Hyoga!”

“N-no io...”

“Guarda dentro di te, percepisci ciò che sei, il tuo potere, e spiega ancora le ali del cigno. Puoi uscire da qui, dal varco che Michela ha aperto, devi solo… avere fiducia!”

“Fi-ducia...”

Dègel guardava ancora il sé stesso del presente, con malinconia mista a tristezza, poi si permise di accarezzare dolcemente anche i suoi capelli, tracciandogli il profilo: “Hai ancora così tanto da vivere, Camus dell’Acquario, con Milo, con i tuoi allievi, con… Marta… - nel pronunciare quel nome il suo tono si incrinò, per un istante un’ombra scura minò al suo straordinario fulgore, ma passò in fretta – Per cui resisti, fallo per te, per le persone che ami, ti ho affidato il futuro!”

“Non sono… stato in grado di proteggerlo, prima, anf... – disse Hyoga, in tono tremante – Come posso farlo adesso?”

“In verità mi sentirei di sostenere che tu, invero, ci sia riuscito splendidamente a proteggerlo. E’ vivo grazie a te, a voi...” sorrise ancora Dégel, guardando entrambi gli allievi.

“M-ma io...”

“Credi in te stesso, puoi farlo o, se non riesci, credi nel ragazzo che Camus ha addestrato e fatto crescere. Se tieni a mente questo, nessuno ostacolo sarà invalicabile per te!”

“Dègel!”

Hyoga voleva parlare, voleva chiedergli tante cose, come poteva essersi trovato lì, come facesse ad apparirgli come cigno e discorrere con lui, ma il tempo non era sufficiente, lo sapeva bene, presto quel mondo sarebbe svanito.

La mano gentile di Dègel si mosse nella sua direzione, posandosi sulla fronte, prima di scendere. L’indice e il medio gli chiusero delicatamente le palpebre, prima di sostare lì, ancora per qualche secondo. Sembravano così concrete, eppure si percepivano come brezza leggera. A Hyoga parve di essere sotto un albero, il venticello che giocava con le fronde degli alberi, facendo cadere alcune foglie sopra di lui, tra i suoi capelli.

“Concentrati ora, per salvare le persone che ami… sei Cavaliere della Speranza, sei sogno sfuggevole, ma è proprio grazie a questo, a quelli come te, che gli uomini possono compiere miracoli e sperare in un futuro migliore!” si raccomandò, mentre posava la mano libera sopra il suo petto, restituendogli un po’ di forze.

In quell’istante gli occhi di Hyoga si riaprirono, ma non c’era più nessuno davanti a lui, se non… i pezzi della sua armatura assemblati a formare un cigno rampante.

Un’illusione, un messaggio tramite la corazza di Bronzo? No, nulla di tutto questo, lui… è qui! -arrivò infine alla conclusione, rimettendosi difficoltosamente in ginocchio per toccarsi poi il torace- Lui è sempre stato qui, con me, la precedente vita del mio maestro, l’uomo onorevole, che è morto per la promessa ad un amico, per i suoi sogni, affidando a noi le speranze per un futuro migliore… è sempre stato qui insieme a me, mi parlava, mi ha parlato, in tutti questi anni, ma... come è possibile?

Non era comunque il tempo di chiederselo. Si alzò finalmente in piedi, richiamando la sua armatura, che corse a ricoprirlo. Il suo corpo era disastrato, le ferite erano gravi, lo sapeva, ma quell’ultimo barlume di forza che Dègel gli aveva impresso, no, non sarebbe andato sprecato per nessuna ragione al mondo.

Guardò sotto di sé i corpi di Camus e Michela. Dègel aveva sistemato la ragazza in modo che fosse molto vicina al suo maestro, intrecciando la mani sul suo braccio, in modo da fargli percepire la sua presenza, il maestro sembrava un poco più sereno, anche se sempre sofferente. Si chinò verso di loro, toccò le guance di entrambi, soffermandosi ancora una volta sul pensiero di quanto fossero importanti per lui e di quanto avrebbe fatto di tutto, se non oltre, per condurli in salvo.

In quell’istante, con un impulso cosmico, le ali del cigno si dispiegarono, ampie, argentate, di riflessi che sembravano specchi di ghiaccio. Osservò un’ultima volta il mondo intorno a sé, che andava scomponendosi, la nuova apertura, tracciata da Michela per ritornare nella realtà. Era proprio dritta davanti a sé, oltre la balaustra, bastava… spiccare il volo al di là della paura.

“Sono… un Cavaliere della Speranza, anf… ed i Cavalieri della Speranza non si arrendono… MAAAAAAAAAAAIIII!!!” urlò con quanto fiato avesse in gola, stringendo a sé Camus e Michela, avviluppandoli con il suo ampio cosmo per proteggerli, per poi spiccare il volo, dirottandosi a tutta velocità verso la fessura per attraversarla.

 

In quello stesso istante, una fitta repentina e violenta trafisse il ventre di Marta. Era profonda, ma piccola, delle dimensioni di un ago, che tuttavia penetrava sempre più giù. La ragazza impallidì, mentre, appoggiandosi alla parete più vicina, si accartocciò su sé stessa, poggiando la fronte sul freddo muro della stanza alla ricerca di refrigerio. Strinse, strizzò, le palpebre, mentre l’altra mano correva a tastare la zona in questione.

“Che succede?” riuscì a udire a stento la voce dell’amica Sonia, troppo intenso era il dolore.

Non poteva rispondere, non nell’immediato, si morse violentemente il labbro inferiore per impedirsi di urlare. Sapeva bene cosa fosse appena successo, ma dirlo era un altro paio di maniche.

Nascose ancora di più il viso nell’incavo del braccio, cercando di nascondere lo spasmo, tumefatto, di dolore. Annaspò, i battiti del cuore accelerano di molto, il petto prese a farle male.

“Marta, che succede?!” domandò ancora Sonia, sempre più allarmata nel vedere che non rispondeva alla sua domanda.

Si alzò quindi dalla sedia su cui era seduta, di fianco al letto di Myrto che dormiva tranquillamente, la raggiunse, fece per prenderla per le spalle in modo da vedere chiaramente le sue condizioni, ma fu l’amica a precederla, girando il viso di ¾ nella sua direzione, un tiratissimo sorriso a solcarle le labbra rosee.

“Hy-o-ga… ce l’ha… fatta, anf!”

“Eeeh?”

Sonia fece per chiederle ulteriori delucidazioni, ma la percezione nuovamente tangibile dei cosmi di Camus, Michela e del Cigno, sebbene tremendamente fievoli e indeboliti, le diede la risposta che cercava. Anche il suo cuore accelerò, ma di felicità.

“Sono… tornati veramente! Ce l’hanno fatta!!!” quasi l’allieva di Milo ululò la sua gioia, spalancando gli occhioni ricolmi di speranza.

“S-sì, per… per fortuna… urgh!” biascicò ancora Marta, commossa, tornando a premere la testa contro il muro per imporsi di non svenire.

“Se tu stai così male, significa forse..?”

“Camus… non sta bene!” annuì lei, un’ombra negli occhi blu, che erano tornati brevemente a fissarla per un fugace attimo, prima di richiudersi, il corpo preda degli spasmi.

“Neanche tu…” osservò lei, apprensiva.

“E’ per via del CIMP, So’…”

“Non puoi… sopportare tutto questo da sola! Lo sai, te l’ho già detto...” le fece notare ancora l’amica, cercando di darle una mano a sorreggersi, perché sembrava davvero non poterne più.

La ragazza si appoggiò completamente a lei, nascondendo il viso sulla sua spalla. Sonia era più bassa di altezza, più piccola di età, anche se più o meno della stessa corporatura; in quell’istante pareva una roccia su cui fare affidamento, una spiaggia su cui il naufrago si ritrovava, salvo dai flutti del mare. Marta buttò fuori aria, sorridendo nello stringerla a sé.

“Marta...”

“O-ora mi riprendo, Sonia, dammi solo il tempo per… per rifiatare e...”

“Sembri Camus, così… testardo come un mulo, incurante del proprio patimento! - la rimproverò bonariamente lei, scrollando esasperata la testa – Quanto pensi di reggere un simile peso? Le tue percezioni si fanno sempre più vivide e intense, no? Ora anche da distanza! Fino a due mesi fa non accadeva!”

Ma l’amica non la ascoltava, non più, si era appesa a lei e tremava come una foglia per lo stato di suo fratello, ma anche per le sue emozioni. La sentì singhiozzare, dando così libero sfogo ad una parte di quel peso che si era costretta a portare.

“S-sono così felice che...”

“...che fai finta di niente circa la problematicità di tutto questo, sì, l’ho capito, conosco la tipologia di testone!”

“...”

“Non glielo dirai a Camus che lo senti così vividamente, vero?”

Anche quella volta non ottenne risposta, in quel caso per la fatica di controllare il dolore, che non diminuiva, rimaneva lì, persistente. Sonia decise di deviare argomento.

“Pensi di… di aver capito cosa gli hanno fatto?” pigolò, continuando a sorreggerla, cercando a sua volta di rimanere concentrata senza farsi assediare dalla paura e dal timore.

“Ho un male atroce al… all’ombelico, p-proprio dentro. Mi brucia… mi brucia dappertutto!”

“Che tipo di dolore?”

“Da… da iniezione… ho tutto l’addome rigido, come se qualcosa mi avesse punto più e più volte”

“Pensi che...”

“Sì… penso di sapere cosa gli hanno fatto, se è vero che Tiamat è dentro di lui, nel suo grembo, se il suo ombelico ne è l’impronta, la forma esteriore. Non c’è… alcun margine di errore: hanno provato ad estirpargliela!”

Bastarono quelle parole per capirsi al volo, si strinsero, serrando entrambe la mascella, rimanendo a confortarsi per un’altra manciata di minuti.

“Però non ha senso… non è ciò che vorrebbe il Mago!”

“Non è detto sia stato lui, quanto… un suo adepto. Può darsi ci siano state divergenze, non so… non so altro!”

Marta prese tempo per staccarsi. Un po’ perché le faceva piacere avere l’amica così vicina, un po’ perché, per i primi minuti, da sola, non si sarebbe sorretta. Una volta calmata un poco quella sensazione di caldo sempre più opprimente alla zona dell’addome, si incamminò a passi incerti verso il letto di Myrto, dove la giovane donna fasciata e incerottata alla ben meglio, stava dormendo profondamente. La guardò, prendendo nuovamente posto su una delle due sedie, permettendosi di passarle una mano sulla fronte sudata mentre con l’altra si tratteneva ancora la pancia.

“Marta...”

“E’ tutto sotto controllo ora, Sonia… Michela e Hyoga sono con lui, non è solo”

“Sì… ma non sappiamo nulla dal Santuario, hai sentito prima il cosmo di Milo e degli altri, no? Sembrava… perdere di vigoria!” disse, sentendosi davvero abbattuta dal non essere stata di alcuno aiuto.

“Sì, ma ora credo… credo che il peggio sia passato anche per loro.”

“Tu credi?”

“Voglio… crederlo! - disse Marta, decisa, seguendo con lo sguardo l’amica che prendeva posto dall’altra parte, preparando nuove spugnature per Myrto.

“Solo… se stai così male non sforzarti più del necessario!” la avvertì lei, con un goccio di severità, prima di prendere il panno dalla bacinella, strizzarlo con forza, e spostare la coperta con cui l’avevano avvolta.

Esitò un attimo, vergognosa, prima di darsi una botta di scema, perché la giovane donna l’aveva sempre accudita quando era piccola ed erano sempre state molto intime, per cui… bando alle esitazioni!

Marta tacque per una serie di secondi, la mano ancora posata sulla fronte umida di Myrto. Guardò con attenzione i movimenti di Sonia che, pur tremendamente impacciata, le sbottonava la camicia con la quale l’avevano rivestita in modo da scoprirle i due abbondanti seni e praticarle così le spugnature sul torace.

“Va bene così, Sonia, pigia un poco di più, le fa bene...” la rassicurò mentre, concentrando l’energia congelante sul suo palmo, abbassava la sua temperatura corporea che era in rialzo.

“Vedo che le mie raccomandazioni sono entrate da un orecchio e uscite dall’altro...” constatò la più piccola, con uno sbuffo, dicendosi poi che era normale, stante di chi fosse sorella.

“E’ l’unica cosa in cui possiamo essere utili… non la sprecherò!” si disse Marta, grintosa, una strana luce negli occhi. Sonia annuì a sua volta, tornando a concentrarsi sul suo compito.

Se solo avessero potuto, le due ragazze si sarebbero precipitate al Santuario per sincerarsi personalmente di quanto fosse successo, ma il Grande Sacerdote Shion era stato perentorio e, in fondo, era giusto accettare le conseguenze delle proprie azioni. Erano ancora in punizione, così sarebbero rimaste fino al 4 dicembre senza infrangere la parola data, perché anche quello voleva dire sforzarsi di crescere.

In più… -pensò Marta con rammarico- questa, la capacità di far star meglio la gente con il mio gelo, mi è stata data da Dégel, lui, se fosse stato ancora vivo, si sarebbe prodigato per chiunque, lo conosco bene... a me quindi non resta che fare ciò che avrebbe fatto lui, confidando negli altri. E’ così, vero, Hyoga? So che sei con lui, so che lo avrai protetto con tutto te stesso, se non oltre, ed io… ti ringrazio dal profondo del mio cuore!

Concentrata così nei suoi pensieri, avvertì appena un becco picchiettare contro il vetro della finestra della camera. Quando se ne accorse, quando si rese conto nitidamente di chi stava compiendo il gesto, una strana luce guizzò frenetica nelle sue iridi, accelerando di riflesso il suo cuore.

Appena fuori, vi era un candido cigno di grosse dimensioni, sembrò quasi compiacersi, annuire tra sé e sé con soddisfazioni, prima di aprire le grandi ali splendenti e volare via.

Una solitaria lacrima solcò istantaneamente il viso della ragazza che, sorridendo tra sé e sé, si sentì più leggera.

“Grazie… per aver vegliato ancora una volta su di loro… Dègel!” bisbigliò, non facendosi sentire dall’amica, prima di devolvere tutta sé stessa nei suoi compiti.

 

L’infrangersi del suono delle onde del mare sulla battigia…

Michela aveva sempre amato quella sensazione, le infondeva pace e tranquillità. Amava follemente il mare, il caldo, la bella stagione, era sempre piena di vita in estate, contrariamente all’inverno. Era lì, sdraiata, a crogiolarsi al sole, non sembrava neanche il triste novembre, bensì giugno. Sorrise tra sé e sé. Le vacanze scolastiche sarebbero presto ricominciate, quell’anno si sarebbe divertita un mondo, con Francesca e Marta, chissà se non sarebbe sorta anche l’occasione di una storia d’amore, del resto... si girava tutti più scoperti, c’era più libertà, più…

-Sempre questi pensieri, Michela?! Ma che barba!!!

La rimproverava sempre Marta, fiera sostenitrice del ‘io sto bene da sola, non necessito di un povero coglione (perché per lei lo erano tutti i maschi) che mi completi!’

-Ma… ci si può anche un po’ divertire, eh, siamo in vacanza!!!

-Uff, ho altri modi per farlo! Leggo, mi godo le avventure con Stevin, la natura…

-Non c’è nulla di male ad essere un po’… frivole… eddai, siamo ancora giovani, possiamo divertirci, no?

-Parla quella che ha… che esperienze hai, Michela?!

La pungolava sempre Francesca, mettendo il dito nella piaga.

-Io ho avuto… Anselmo, Mattia e… Luigi!

- Anselmo era il tuo amico immaginario, Mattia ti ha semplicemente detto che eri in possesso di un bel paio di tette, ti avrebbe scopato volentieri, ma quello, se permetti, non è amore, è... schifo, mentre Luigi… vogliamo parlare di quello stronzo?!

-Sei cattiva e rude, Marta, perché mi odi così tanto?!

-Io non ti… non ti odio, sciocca, è l’inverso, semmai, è proprio perché… perché sei mia amica che divento… divento…

-...Una iena?!

Concluse per lei Francesca, facendo spallucce. Effettivamente non c’era stata estate che non si cadeva in quell’argomento, con Michela tutta trasognata e Marta che, senza volerlo concretamente, rovinava tutti i sogni di gloria dell’amica più piccola.

-Qualcosa di simile…

Si affrettò a ripiegare, arrossendo di netto e tornando al libro che stava leggendo. Michela le diede uno scappellotto amichevole, ancora a metà strada tra l’offeso per il modo in cui si era espressa e la consapevolezza che, comunque, lo faceva per lei, perché era molto protettiva nei suoi confronti.

-Insomma, Marta, a te non piacerebbe?!

-No, mi stanno irrilevanti i maschi, tutti idioti…

-Eppure di pretendenti ne hai avuti, eh, solo che a momenti neanche te ne accorgi, babba!

Le fece notare Francesca, dandole affettuose gomitate nelle costole che la fecero trasalire e imporporare.

-Come dicevo poc’anzi… non mi interessano!

Fu il turno di Michela di sogghignare tra sé e sé, rendendosi conto che l’amica aveva compiuto un passo falso.

-Non fare la finta tonta… e Dègel?! Oooooooooh, per lui invece ci sbavi, eh, eccome, altro che ‘gli uomini non mi interessano’, ihi…

-DEGEL?!?

-Sì, Dègel…

Sorrise ancora, prima di accorgersi di non sapere da dove quel nome fosse spuntato.

Chi era... Dègel? O meglio… chi era stato?

Vi era il suono dell’infrangersi delle onde sulla battigia, e un nome, che le rimbalzava costantemente in testa, che aveva percepito vicino a sé, non sapendo bene né come, né perché…

In quell’istante qualcosa le mosse alcuni ciuffi di capelli che le ricadevano sulla fronte umida, sembrava… una benedizione data da delle labbra, no, non labbra, bensì… un becco?!

“Forza, Michela, ridestati… siete usciti grazie alla via che tu stessa hai aperto, ma questi sono gli albori di una nuova, più globale, battaglia per stabilire le sorti di questa bella terra. Coraggio, apri gli occhi, fiera guerriera addestrata da Camus!”

Effettivamente la prima cosa che intravide Michela, riaprendo le palpebre, fu proprio una protuberanza, a forma di becco, seguita da un biancore crescente, arcano, che aveva le sembianze di un grosso uccello che possedeva l’idioma umano. Si spaventò.

“OH MADONNINA BELLA, UN CIGNO PARLANTEEEEEEEEEEEEEEEEEE!!!” ululò, alzandosi di scatto in piedi, come una molla.

Qualcuno trasalì al suo fianco, i suoi occhi, ora completamente aperti, si ritrovarono al cospetto del mare tanto amato, ma grigio, come il cielo, non più blu. E di quel calore, di quel sole che l’aveva riscaldata, nonché di quei ricordi, non c’era più traccia, e neanche…

“Lo hai… visto anche tu, anf?”

Una voce la riscosse, scuotendola nel profondo. Le si inumidirono gli occhi, si sentì tremare, mentre, voltandosi, vide, a poca distanza da sé, Hyoga, coperto parzialmente dalla sua armatura del cigno, intento a...

Subito si gettò ai loro piedi. Non li abbracciò nella sua consueta morsa ma, partecipe, nella paura di fargli del male, volle sapere delle loro condizioni.

Il fianco sinistro di Hyoga stava ancora sanguinando, ma il suo ragazzo non se ne curava, tutte le sue premure erano rivolte a Camus, sdraiato al suo fianco in posizione supina, come se dormisse, una mano sulla sua fronte. Alcuni ciuffi cobalto, spettinati, spuntavano tra le dita del Cigno.

“Siamo riusciti ad uscire, anf, grazie a te...” le rispose il biondo, sofferente.

“Non mi interessa questo, ma come state voi, Hyoga… come...”

“Camus sta ancora male, anf, lo vedi da te. Sta sviluppato una febbre piuttosto alta e… e sto provando ad abbassargliela. Dovrebbe comunque essere fuori pericolo”

...per ora! Ma quel farabutto tornerà senz’altro e, temo, in tempi brevi.

“E tu… tu come stai, amore mio?”

“Me la caverò!” tagliò corto, smettendo di usare il gelo sul maestro per poi alzarsi barcollante in piedi.

Michela si spaventò, nel vedere l’afflusso di sangue incrementarsi, colare per terra, a poca distanza da Camus. Si alzò a sua volta, lo trattenne, un nodo alla gola, al petto, la paura folle di perderlo ancora persistente.

“E’… tutta scena, anf… non è poi così grave!” provò a tranquillizzarla lui, sempre più pallido e provato.

“N-non puoi muoverti!!! R-rimani qui, presto arriveranno i soccorsi e… è stato lo spirito di Dègel, ad aiutarci, vero?”

“Dègel?!” Hyoga, se possibile, impallidì ancora di più.

“Sì, la precedente vita di Camus, lo sai, no? L’ho… percepito!”

Ma il Cigno negò con la testa, buttando fuori aria: “No, Michela, ero io, solo… io, la mia emanazione ha quella forma!” le mentì, seguendo le direttive del Cavaliere di Aquarius che, per qualche ragione, non voleva che la ragazza venisse a sapere del suo intervento.

“Ma io… l’ho visto!” tentò di opporsi lei, guardandosi intorno nell’aspettarsi di vederselo sbucare da qualche parte.

“Si vedono… innumerevoli cose, anf, quando si è incoscienti! - ribadì Hyoga, accennando qualche passo per allontanarsi, sempre trattenendosi il fianco sanguinolento – I soccorsi arriveranno presto, ho contattato Milo, tu prenditi cura del maestro e...”

“No… NO, HYOGA! Non ti ha insegnato nulla questa esperienza?! Tu devi stare con noi, al sicuro, insieme siamo più forti, dove stai pensando di recarti? Sei ferito gravemente!!!”

“Alla Fondazione Kido, là sapranno come limitare i danni, non hai di che temere… anf!”

Michela a quel punto singhiozzò di nuovo, abbassando lo sguardo, cercando la forza in Camus, ancora incosciente e sofferente al suo fianco. Il nodo si infittì, desiderò essere tranquillizzata, rassicurata dalle sue mani, e che Hyoga rimanesse lì con loro e invece…

“Perché… fai così?! Non capisco!”

Hyoga continuava a darle le spalle, il suo volto non si vedeva, ma si era fermato, esitando.

Per proteggervi… -si disse, sofferente, cercando di ingoiare quell’ennesima separazione che gli faceva male- Perché insieme a me siete in pericolo. Fei Oz attaccherà, lo farà per eliminarmi, ed ed… io non me lo perdonerei mai se causassi anche la vostra morte!

In fondo, bastava scattare ancora una volta, più velocemente possibile, più in là che poteva, lontano, lontano… un balzo e via, senza più voltarsi indietro, perché un uomo guardava sempre dritto davanti a sé, un uomo per salvaguardare i propri affetti non esitava, eppure, nel momento di compierlo, nel momento di staccarsi, un’altra voce, flebile come un sussurro, lo gelò, facendogli lacrimare gli occhi di conseguenza.

“Hyo-Hyoga, anf… r-rimani qui, piccolo… ri-mani, anf, anf...”

Era Camus che parlava a stento, tra un respiro rotto e l’altro, ciò lo spinse a voltarsi, e lo vide, quasi gli mancò il respiro nel petto.

“Ma-e-stro...”

Camus, preda dei deliri, gli stava implorando di rimanere. Probabilmente lo aveva avvertito allontanarsi da sé, laddove prima, nel mezzo del dolore, erano comunque stati così vicini. Scuoteva la testa, agitato, il torace scalpitante, il fiato corto… da stringere il cuore.

“Hy-o-ga… d-dove sei, anf? N-non ti sento più… perché?”

Michela, a quelle parole sussurrate tra i denti, a quella sofferenza tangibile, rispose facendogli avvertire la sua presenza con il tocco. Gli posò una mano sulla fronte, che era fresca grazie all’aria congelante, permettendosi di baciarlo sulla pelle e provare a tranquillizzarlo con paroline dolci.

“Papà, siamo qui… entrambi!”

Camus, che aveva inarcato disperatamente la schiena, si distese a quel tocco, pur continuando a respirare male, in maniera frenetica.

“M-miei all… ugh!”

“Lo puoi ben vedere da te, Hyoga… ha così bisogno di te!” tentò un’ultima volta la ragazza, rotta dai singhiozzi.

Anche io… anche io ho bisogno di lui, Atena solo sa quanto, ma… non posso! Non sono ancora degno di camminare al suo fianco, non sono forte abbastanza! Se non avessi esitato non sarebbe in queste condizioni, non starebbe così male e, quel mostro ha detto… no, deve finire tutto questo, lo farò finire io, in un modo o nell’altro, non oserà più toccarlo!

La verità era che, se solo Hyoga l’Aurora avesse potuto, si sarebbe gettato tra le braccia di Camus, lo avrebbe stretto, gli avrebbe sussurrato che non se ne sarebbe più andato, che avrebbe avuto cura di lui, come avrebbe potuto fare Isaac o come stava facendo egregiamente Marta.

Se solo avesse potuto, sarebbe rimasto con loro, a rimettersi in sesto al Tempio dell’Acquario, magari, come ai tempi dell’addestramento -oh, quanto gli mancavano!- in cui si raccomandavano vicendevolmente di non strafare, lui, Camus e Isaac, e puntualmente, ognuno faceva di testa propria.

Se solo avesse potuto, avrebbe chiesto perdono all’uomo che lo aveva cresciuto, implorandogli di accettarlo nuovamente come suo allievo, che poi, in fondo, era stupida quella questione, il Maestro Camus aveva un cuore grandissimo, mai gli avrebbe chiuso la porta in faccia, nemmeno se avesse subito le peggiori cose… mai… ma Hyoga aveva bisogno di supplicare perdono, di dimostrare di essere meritevole e… non si sentiva tale!

Il giovane non sapeva che, per esprimere tutto quello, sarebbe bastato un abbraccio. Non c’era alcun bisogno di essere riaccettato, perché, agli occhi del maestro, era già ben più che degno.

Perché Camus lo amava perché era suo figlio, perché era Hyoga, nessun altro!

Ma il Cigno non lo sapeva, continuava a sentirsi indegno… per cui, lottando con il bisogno impellente di piangere, si sforzò di guardare in avanti senza più voltarsi indietro verso coloro che amava, verso il calore, che stava abbandonando.

Doveva semplicemente chiuderla lì, la sicurezza di Camus era la prima cosa importante e, tale sicurezza, si sarebbe potuta raggiungere solo con la dipartita di Fei Oz Reed.

Michela gridò, chiamandolo più volte, ma lui non si girò, non più, e presto il suono della voce di lei venne nascosto dal garrire dei gabbiani e dalle onde del mare che si stava facendo sempre più impetuoso, nero, come l’abisso che si stava apprestando ad attraversare.

Più nessun calore lo avrebbe raggiunto, ma… se fosse riuscito a salvare Camus, nessun’altra cosa sarebbe stata così importante.

Ebbe paura, ma non ci badò, mentre, con passi difficoltosi, andava avanti, attraversando la spiaggia di ghiaia e poi ancora oltre.

Presto sarebbero giunti i soccorsi, Hyoga poteva ben avvertire il cosmo nuovamente vigoroso di Milo carico di pena. Gli sembrò lo ammonisse di retrocedere, di rimanere lì con loro, ma ormai la decisione era stata presa.

Si allontanò dalla spiaggia, salì, con non poche difficoltà, su degli scogli, fermandosi un attimo ad ammirare il mare. Il suo cosmo era debole, quasi vacuo, ma i suoi amici lo avevano avvertito, lo sapeva bene e, tra loro, Shun. Sorrise, da quanto tempo non lo vedeva?

Si strinse la mano al costato, osservando poi il suo palmo lordo di sangue. Ne aveva perso parecchio e non erano di certo gli unici danni. Sorrise ancora una volta amaramente, sentendosi cadere indietro. Con l’ultimo brillio di lucidità, fu abbastanza accorto da accompagnare la caduta in modo da non sbattere la testa. Si adagiò lì, laddove gli scogli creavano un intercapedine, un rifugio. Poggiò la testa di lato, cercando di controllare un minimo la sua respirazione per tamponare l’emorragia.

Un po’ di riposo… aveva giusto bisogno di quello prima di compiere il grande balzo, prima di decretare la parola fine. Persino in quella situazione ciò che lo legava a rimanere in vita erano progetti di morte, ma non più la sua, bensì quella di Fei Oz, il Demiurgo.

Non andrà come credi, non avrai ciò che brami, verme! Non ti avvicinerai più a lui, dovesse anche costarmi la vita. Ti darò la caccia, ti troverò, farò finire tutto questo. Lo farò per lui, per dare a Camus un futuro più certo, come…

...Come avrebbe fatto Isaac!

Ma non riuscì ad ultimare il pensiero, il buio lo avvolse, anestetizzando i sensi fino a far svanire ogni sua più piccola percezione.

La parola fine… l’avrebbe messa lui, una volta per tutte!

 

 

 

 

 

 

Angolo di MaikoxMilo

 

Eccomi qua con questa ennesima fatica perché, devo ammetterlo, questo capitolo mi è costato molti sforzi perché non era mai come volevo che fosse ed è stato difficoltoso descrivere le scene e il Mito.

Inizio con il dire che la versione mitologica che vi ho proposto, salvo i versi tratti dall’Enuma Elish, è di mia invenzione, nel senso che ho fatto una sorta di miscuglio tra vari racconti (Marduk non è figlio della “Montagna”, io l’ho reso tale per questioni di trama, ma in verità le origini di questo dio sono oscure). La Mitologia “mesopotamica” possiamo dire, per rendere l’idea, è un gran casino, ogni città aveva il proprio dio preferito, quando diventava potente, propinava la propria versione del racconto alle città suddite, e così il proprio Campione diventava il dio più potente mai esistito.

Marduk ha avuto un destino simile, è il dio maggiore di Babilonia, ma, prima che questa civiltà diventasse importante, ce ne sono stati altri prima di lui, io avrei potuto scegliere Enlil, o Enki, o un sacco di altre divinità; la scelta mi è ricaduta su di lui proprio per la battaglia che, si racconta, ha avuto contro Tiamat.

La stessa figura di Tiamat è avvolta dal mistero, si pensa che prima avesse altri connotati (Tiamat viene descritta essenzialmente come malvagia nell’Enuma Elish!) e che si chiamasse Nammu/a, la dea sumerica della Creazione. Ancora prima, si pensa che avesse un’importanza ancora più profonda, poi scalzata via dal Principio Maschile (dal matriarcato, nella comunità, si è passato al patriarcato, si pensa). Come avete forse potuto notare, il racconto che ne fa il Mago verte dalla parte di Marduk ed è incompleto (Hyoga che ha assistito se ne è accorto), esso racconta le cose come se Marduk fosse l’eroe (come nell’Enuma Elish, appunto!), ma mancano dei pezzi. Innanzitutto perché Tiamat sembra essere impazzita? Perché si è rivoltata contro la propria progenie? E’ veramente cattiva?! Sì, ok, non è uno stinco di santo, basta vedere come ha disintegrato Utopo nel capitolo prima ma, al di là di questo, quali segreti cela?! Quale sarà la sua versione degli eventi?

Dovrei aver finito con questa carrellata di mitologia, passo ad altro, altrimenti rischio di essere prolissa (già lo sono, ma vabbé XD), ma se avete curiosità su questo settore sono sempre disponibile. :)

Oltre al Mito, in questo capitolo, viene data importanza anche ad un’altra specialità: l’Alchimia!

Vi ho già detto che le mie storie sono tutte un insieme delle mie passioni, e questa volta è toccato essere ispirata da Full Metal Alchemist. Chi conosce questo anime avrà di certo notato dei parallelismi con quest’opera, anche se, ad onor del vero, non è la prima volta che lo cito. Ricordate lo Scambio Equivalente di Seraphina? Il suo sacrificare l’amore per Dègel per reincarnarsi e trasformare (trasmutare, meglio XD) il proprio sentimento in altro? Ecco…

Allo stesso tempo, non è la prima volta che parlo di Francesca come di un’Alchimista (l’ho aggiunto nella modifica che sto portando avanti in Sentimenti che attraversano il tempo). L’idea che ogni Musa sia specializzata in una Arte Alchemica mi è venuta un po’ così, a dire il vero, ma mi piace molto. Abbiamo Clio che manipola il sangue, Urania (e quindi Fra) che trasmuta la materia, Calliope… perché è uscito questo nome, pronunciato da Clio? Anche qui misteri su misteri…

Come quello di Stevin, del suo sogno, della voce che lo ha rinfrancato…

Non ho ovviamente trattato del combattimento tra Ermete e Shaka/Saga. Come vi avevo già accennato, non ho particolarmente in simpatia Gemini (per dire un eufemismo) quindi o ne parlo poco, perché mi è difficile tratteggiarlo in modo imparziale, o non lo tratto affatto (come in questo caso), e inoltre mi serviva mantenere l’aura misteriosa su Ermete. Shaka, invece, avrà una particina nei prossimi capitoli come… soccorritore! ;)

Infine, chi legge anche “Le petit Cygne”, forse, da qui, da questo capitolo, comincerà a capire le dinamiche che porteranno Hyoga a ridursi come effettivamente è ridotto in quella storia. Restate sintonizzati per scoprire come e quando.

La pubblicazione di questo capitolo da il via al ritorno della Melodia della Neve (che sarà infatti il prossimo aggiornamento). Questa storia tuttavia non si concluderà qui, altre dinamiche devono essere approfondite e svelate per almeno un’altra manciata di capitoli, quindi seguirà in parallelo la storia principale ancora per un po’, non temete. :)

Anche per oggi dovrei aver concluso il mio panegirico, non temere e, soprattutto, non uccidetemi per la lunghezza di questi capitoli, io ci provo a scrivere meno ma mi è impossibile, ahimé.

Al solito sono sempre disponibile per curiosità e/o commenti. Grazie a tutti e alla prossima! :)

 

Ritorna all'indice


Capitolo 7
*** Amicizia e lealtà ***


Capitolo 7: Amicizia e lealtà

 

 

16 novembre 2011, pomeriggio

 

 

Era riuscito a raggiungere il Santuario soltanto quando il sole aveva già percorso ¾ del suo cammino.

Era riuscito a raggiungere il Santuario, ansimando, inveendo tra sé e sé, perché non era in grado di pregare.

Era riuscito a raggiungere il Santuario, e non vi era che distruzione intorno a lui.

Distruzione e nient’altro.

Il braccio martoriato di Death Mask ciondolò mollemente al suo fianco, privo di vigore, ma anche se ce l’avesse avuta, la leggendaria vigoria, di sicuro gli sarebbe stata estirpata dal petto una volta visto quello spettacolo: templi distrutti, cadaveri irriconoscibili sparsi qua e là, la sensazione, tremenda, di soffocare. Irreversibilmente.

Qualcosa scattò in lui davanti a tutto quello e corse più forte; corse più che poté, guardandosi smarrito intorno, cercando qualcuno, cercando lei, o qualcuno che, per lo meno, gli avesse potuto spiegare che caspiterina fosse successo lì.

Da quando i Cavalieri d’Oro si sottomettevano senza reagire?! No, impossibile!

Il Grande Tempio di Atene sembrava essere appena stato bombardato. Corpi lungo le strade, lungo i sentieri, ovunque l’occhio capitasse. Inconcepibile. Apocalittico. No, doveva essersi una spiegazione, c’era sicuro, DOVEVA.

L’istinto lo guidò fino all’arena di combattimento. Nessuna faccia conosciuta, i pochi apprendisti superstiti ne sorreggevano altri o portavano dei cadaveri di vecchi sulle spalle. Un brivido corse la schiena di Cancer nel rendersi conto che, alla lontana, taluni di loro somigliavano ad alcuni allievi di Cavalieri d’Argento. Si disse che era impossibile, eppure… da dove derivava quell’improvvisa moria di gente attempata?! Da quando il Santuario ospitava così tanti individui in età così avanzata, quando, soventemente, crepavano tutti prima?! Carne da macello erano. Lo erano tutti, proprio per questo, di solito, si lasciava quel maledetto mondo ancora giovani e forti, sbudellati, certo, falcidiati dai nemici, ma ragazzetti o poco più.

Finalmente un vociare famigliare poco distante. Accelerò il passo, il cuore in gola, gli occhi quasi fuori dalle orbite da quanto spalancati fossero. Girò una colonna spezzata, quasi sbattendoci il braccio -Fanculo!- Fitta di dolore, gocce di sangue che continuavano a sgocciolare dalla ferita. Non importava. Doveva sapere. Doveva vedere.

I contorni dei visi finalmente si delinearono avanti a sé. Non riuscì a fermarsi nel distinguere il volto un poco rigido e tirato di Saga di Gemini che, aiutando uno degli apprendisti a portare una barella dalla quale si vedeva ciondolare solo un braccio pieno di rughe, dava al contempo direttive agli altri Cavalieri suoi subordinati a loro volta intenti a spostare le macerie. Non si fermò, no, se possibile andò ancora più dritto, come un proiettile che deve centrare il bersaglio.

“Saga!!!” un singulto strozzato, striminzito. Una lunga pausa di attesa.

“Death Mask...” fu la laconica risposta del compagno, l’espressione seriosa, un’unica linea a sottolineare lo stato emotivo che lo avvolgeva. Eppure… sembrava un dio anche in quella situazione.

Il Cavaliere di Cancer si scoprì improvvisamente a corto di fiato, si piegò quasi su sé stesso, sorreggendosi alle ginocchia, nel tentare di respirare l’ossigeno che improvvisamente sembrava essergli mancato nei polmoni, nelle vene, dappertutto, come se si fosse trattenuto fino a quel momento.

“Sei ferito” osservò Gemini, girandosi completamente verso di lui, mantenendo comunque la distanza che si confaceva alla sua persona. Perché un dio, per quanto terreno, non poteva permettersi di miscelarsi troppo alle emozioni umane.

“Non ha… non ha importanza, anf, anf, errori di gestione e nient’altro… - cercò di recuperare Death Mask, alzando lo sguardo – E comunque anche tu...” gli disse, notando la ferita alla tempia sinistra, le escoriazioni sulle braccia e probabilmente la spalla lussata, stante la posizione innaturale. Eppure non si scomponeva di un millimetro.

“Non ha… importanza! - fu la basilare risposta, accentuando poi il tono della voce nel dare indicazioni all’altro Cavaliere di posare la barella poco più in là. Ci avrebbe pensato poi lui a dare degna sepoltura al compagno caduto – E’ stata una dura battaglia, ma non la prima e di certo non l’ultima. Il male è molto forte ora...” aggiunse, scrutando i dintorni con un pizzico di rammarico.

“Che cosa… che cosa è successo?!”

Un’eventuale risposta fu interrotta dall’allungarsi di un’ombra imponente verso di loro; un’ombra accentuata da due corna.

“Anche Soter della costellazione del Triangolo ci ha lasciati…” sussurrò Aldebaran, l’armatura scintillante del Toro che rifletteva la luce opaca di un giorno turbolento che andava declinandosi. Aveva un’espressione colpevole, dilaniata, il gigante buono, mentre garbatamente posava per terra il cadavere rachitico di un vecchio di almeno novant’anni.

“Co-cosa?!” esclamò Death Mask, quasi sobbalzando, prima di essere attirato dal suono dei pugni che si stringevano di Saga.

“Capisco...” asserì solo il Cavaliere di Gemini, cupo, senza altre apparenti e particolari emozioni se non quella stretta ferrea delle sue dita sui suoi palmi.

Death Mask li guardò attonito entrambi: stavano parlando come se Soter fosse stato quel vecchio dalle pelle olivastra che sembrava visibilmente morto di vecchia… non poteva essere possibile!

“Era… un bravo ragazzo!” mormorò Taurus, passando una delle sue manone tra i capelli del morto nel preoccuparsi di sistemarlo con cura e dargli una dignità che la Nera Signora aveva tentato di strappargli.

“Ma andiamo, ragazzi, vi siete ammattiti?! Soter aveva diciotto anni, se non vado errato, come può essere questo… questo… signore?!”

Gli stava sfuggendo un ‘vecchio’ tempestivamente censurato, perché effettivamente, al di là dell’evidente disparità di età, lo ricordava nettamente. Non c’era... margine di errore!

Gli altri due Cavalieri d’Oro continuavano a tacere sull’accaduto. Aldy era del tutto perso a osservare le spoglie del defunto, Saga invece, gli occhi chiusi e il viso rischiarato dalla luce, sembrava rimuginare su qualcosa, domandandosi probabilmente cosa fosse andato storto nella battaglia appena conclusasi per permettere quella mattanza.

“Ragazzi, cosa… cosa è successo per davvero?!” insistette quindi Cancer, cercando disperatamente l’attenzione dei parigrado.

“E-ecco, io non… non lo so!”

“E-eh? - si ritrovò ad inarcare un sopracciglio nella direzione del gigante buono – Che significa?!”

“Che non ho ricordi miei della battaglia...”

Non aveva ricordi suoi della battaglia. Death Mask era allibito. Saga prese la parola.

“Sono successe tante cose mentre tu eri fuori...”

La questione stava diventando irritante e Cancer, che di pazienza ne aveva meno di zero, si ritrovò ben presto a bollire dall’esasperazione.

“E ALLORA SPIEGATEMELE, CAZZO! Questa tiritera sta diventando snervante, si può sapere che diamine è...”

“Ora ascoltami bene, Death Mask...”

L’occhiata di Saga si era fatta tagliente, autoritaria, per non dire quasi dispotica, da far attorcigliare le budella e provare l’impulso di rimpicciolirsi fino a scomparire. Il Cavaliere della Quarta Casa si ritrovò improvvisamente zittito, di riflesso si mise immediatamente sull’attenti come quando, da più giovane, riceveva una direttiva da lui ben sapendo che avrebbe dovuto seguirla per filo e per segno. Gemini, in fondo, era sempre stato così, deciso e autorevole, fermo di propositi quanto paurosamente volubile; infinitamente benevolo, quanto maligno, capace di darti tutto, con un unico schiocco di dita, e di togliertelo con altrettanta semplicità. La sua forza esprimeva davvero, da sé, tutta la maestosità, l’integrità, la dirittura morale di un Grande Sacerdote di Atena. Impossibile sfuggirgli, se ne rimaneva invischiati, completamente irretiti.

“Ho bisogno della tua completa attenzione, puoi concedermela?”

“S-signorsì!”

“Bene, ascoltami molto attentamente ora...”

Si trattava di una storia pazzesca, quella che usciva dalle labbra di colui che da tutti era riconosciuto universalmente come il Cavaliere d’Oro più forte che il Santuario avesse mai ospitato. Difficile credergli, se solo loro, come Sacri Custodi, non fossero già intessuti, per non dire impregnati, in un universo di cose insensate, assurde, come la vita medesima che ti sbatacchiava di qua e di là la realtà delle cose con un soffio di spregio. Gli venne così narrato brevemente dell’attacco nemico dopo il terremoto, di Clio, la ex Musa, di Ermete il Trismegistro, e dei loro poteri sovrumani; della decelerazione -o accelerazione- che la dea decaduta aveva lanciato su tutti gli abitanti del Grande Tempio, condannando ognuno di loro ad una metamorfosi, regressiva o progressiva, che non gli avrebbe lasciato scampo alcuno. Ciò -sosteneva Gemini- dipendeva in larga parte dalla composizione sanguigna di ognuno, ma fortunatamente non si era rivelato un processo irreversibile, almeno per i fortunati che, per qualche ragione, erano rimasti in vita.

“...Shaka ed io non abbiamo avuto molto a che fare con questa Clio, eravamo già troppo distanti per subirne gli effetti. Quel che ti ho spiegato poc’anzi è una teoria, valida, di Aphrodite, dovremmo affidarci a lui, che ha esperienza con la manipolazione del sangue, per scoprirne di più. – Saga accantonò il primo discorso per concentrarsi sulla parte che gli premeva di più, quella vissuta da lui in prima persona – Ermete invece è… un mostro! Difficile da battere, difficile perfino da scalfire. Usa una sorta di alabarda in grado di falciare lo spazio stesso. Ha dato del filo da torcere a due Cavalieri d’Oro uniti nella lotta, mi chiedo come sia possibile. Temo… temo inoltre che abbia usato solo una minima parte della sua forza, e già così...”

Ma Death Mask non lo stava più ascoltando da un pezzo, si era fermato ben prima, a Francesca, Aphrodite, Kiky e al ragazzo nuovo, Stevin, che, a quanto pareva, erano riusciti a liberare la forza vitale -tale Ergon- che la ex Musa aveva sottratto… sì, ok, ma non gli aveva detto altro inerente a loro, andando invece a parlare della battaglia fianco a fianco con la Vergine… MA CHI CAZZO SE NE FREGAVA, POI?!

Ad un certo punto il Cavaliere di Cancer non ci vide più, assecondando il formicolio alle mani, interropendo il flusso di dialogo di Gemini, che era partito per la tangenziale, lo prese irruentemente per le spalle, incurante delle proprie condizioni fisiche. I suoi occhi lampeggiarono in quelli verdi di Saga e, per la prima volta, si accorse di non avere alcuna remore a farlo, perché tutto il resto, il rispetto, la devozione, perfino il timore che aveva sempre provato in sua presenza, sbiadiva se confrontato a lei.

“Suppongo… non mi stessi seguendo in quest’ultimo punto, giusto?” domandò placido il Cavaliere della Terza Casa, senza scomporsi minimamente.

“Chi cazzo se ne fotte, dico io! Voi state bene, no?!”

“Si può dire dire di sì...”

“E allora, scusa tanto, fanculo Ermete! Dicesti poco fa che Francesca e Aphrodite hanno liberato l’Ergon sottratto, giusto?”

“Corretto...”

“Dove cazzo sono loro?!”

“Death...”

Inaspettatamente il tono confidente, da vero parigrado e non da vetta irraggiungibile quale in realtà era per davvero, lo indispose ancora di più.

“Dove CAZZO sono loro adesso?!”

“Il tuo braccio… sta sanguinando copiosamente.”

“FOTTESEGA UN CIUFFOLO DEL BRACCIO, SAGA! TI HO CHIESTO DOVE STRACAZZO SONO ADESSO!!! - si rese conto che stava perdendo le staffe, che aveva cominciato a scrollarlo con veemenza, del tutto preda della foga del momento. Cercò di ricomporsi – Stanno… bene?”

“Sono al sicuro, sì...”

“SAGA. Ti ho chiesto...”

“Calmati Deathy… - si intromise lestamente Aldy, posando una mano sulla spalla di entrambi e dando delle leggere pacche – Stai sanguinando molto dalla ferita, ha ragion...”

“PORCA DI QUELLA MERDA, MI VOLETE RISPONDERE?!? Mi preme solo...”

“Li abbiamo già soccorsi, non agitarti. Francesca era messa piuttosto male...”

Colpo al cuore.

“Ha perso molto sangue ed è stata avvelenata dalle rose di Aphrodite...”

Altro colpo al cuore, che rimbalzò direttamente in bocca. Merda. Merda. Merda. Quel pesce stralunato dove aveva la testa?! A che diamine pensava mentre combatteva?! Cancer si sentì ribollire dalla rabbia. Francesca ferita?! Come? QUANTO?!?

“Il Potere di Clio è tremendo, come ti dicevo, ella manipola il sangue. C’era un vincolo di parentela tra loro, la dea lo ha usato per, diciamo, colpirla in profondità...”

“Un vincolo..?! Come è possibile?! - chiese di getto, prima di rendersi conto della reale entità delle parole del compagno – Giusto, quella è una delle Muse, il che significa che è sorella di Urania, sua madre, e quindi è...”

“...sua zia, sì!”

“E quella… quella troia, come ha osato farle del...”

“Inoltre ha il potere di riflettere qualsivoglia tipo di attacco, sia fisico che telecinetico… - continuò Saga, recuperando il controllo del discorso che gli premeva di concludere – Secondo quanto ci ha riferito Kiky, ha rimbalzato indietro con estrema semplicità le rose di Aphrodite, colpendo brutalmente sia Francesca che il nuovo ragazzo, Stefano.”

Death Mask non sapeva minimamente come gli riuscisse di stare ancora in piedi, come era possibile respirare ancora, stante l’enorme peso che si era incuneato in lui; e Saga continuava a parlare delle doti dei nemici, diavolo, del loro potenziale terribile, di quanto avrebbero dovuti stare attenti e avveduti loro, le dorate schiere di Atena, contro questi avversari fuori dal comune, su quanto fosse in bilico l’equilibrio terrestre. Parole su parole. Vacue. Inesistenti. Insulse. Non gli importava! Non in quel momento. Non più. Almeno finché non avesse visto con i propri occhi le condizioni della sua ragazza.

“...Aphrodite è stato comunque lesto ad intervenire dopo lo scontro, ha soccorso subito Francesca, l’ha… depurata… possiamo dire.”

Death Mask si sentì un poco più leggero, mentre qualcosa di orrendamente simile ad un abbozzo di pianto gli cominciava a punzecchiare il contorno occhi.

“Ora è alla dodicesima casa con lei, c’è anche Kiky in loro compagnia. La ragazza ha reagito bene alle cure, l’emorragia si è definitivamente arrestata e...”

“Fanculo, Saga, non potevi dirmelo subito?!? - Cancer si sentì sgonfiare come un palloncino privo di elio, la stanchezza lo avvolse – Ti chiedo come sta e tu me lo dici in fondo ai tuoi bei discorsi?! Sei proprio… bah, lasciamo perdere!”

Si buttò a capofitto in avanti, con tutto l’intento di correre dove lo portava il cuore, ma poi, sentendosi in qualche modo in colpa, tornò sui suoi passi, dai compagni di tante battaglie. Chinò leggermente il capo, al limite dell’imbarazzo.

“Gra-grazie per… non so bene neanche per cosa, ma…”

“Death Mask...”

L’interpellato si rizzò, tornando a guardarli nell’aspettarsi un rimprovero. Contrariamente ad Aldebaran che aveva assunto un’espressione serena, come a dire di non preoccuparsi e di andare dalla fidanzata senza più esitare, la linea delle sopracciglia di Saga era tornata severa e inflessibile.

“Vai, ma quando avrai messo da parte il fervore giustificato del momento… noi Cavalieri d’Oro dovremmo riunirci in assemblea. La situazione, non solo per la pace di questa dimensione, ma per tutto il Multiverso, è drammatica. C’è molto più in gioco… - Saga assottigliò lo sguardo, la sua voce si fece più concreta e profonda – dei nostri drammi personali!”

“S-signorsì!” rispose, senza troppa convinzione, avendo ben altri pensieri guidati dall’ardore del momento, come diceva Gemini, che starlo a sentire. Si girò, scattando in direzione del dodicesimo tempio senza più alcun tentennamento.

Fanculo i doveri da Dorato Custode.

E fanculo anche il Multiverso, per quello che gli importava.

L’unica cosa che gli premeva era ricongiungersi a lei, dimenticarsi di essere Cavaliere d’Oro, di aver assunto un nome diverso dal suo originario; un nome che instillasse paura e sbigottimento negli altri, un nome per rigettare la sua umanità, il suo essere un debole, patetico, rifiuto precipitato per caso in quel mondo in cui era la sola legge del più forte a valere. Un nome per dimenticare il concetto stesso di morte, personificandola su di sé tramite soprannome, Death Mask, ‘maschera mortuaria’.

Era sempre suonato così sinistro... i nemici tremavano al solo pronunciarlo, perché quelle due parole davano un senso di onnipotenza, come un dio, come un castigo. Eppure in quel pomeriggio che volgeva a sera, mentre si avvicinava ai gradini della Casa dell’Ariete, un giovane uomo che aveva cercato di ostracizzare il senso stesso della morte, assumendola su di sé, desiderò follemente, ardentemente, tornare indietro. Al passato. A quel nome che credeva di aver seppellito per sempre. Quel nome che sua madre aveva scelto per lui, prima di morire.

Quel nome che mormorava un augurio, oltre che una speranza; la speranza di essere sempre forte e valoroso, come un leone.

Leonardo e non Death Mask. Molto più banale, certo, ma… umano… e c’era bisogno di umanità in quel momento.

Si morse il labbro nel trattenere una risatina nervosa, accorgendosi che a Francesca non aveva detto ancora nulla di quel nome, e ancora… che non avevano che iniziato a parlare dei propri peccati, ed era tremendamente ingiusto. Alzò lo sguardo verso il primo tempio, promettendosi mentalmente di farlo il prima possibile, di chiarire, prima che la vita madre e matrigna gli potesse nuovamente fuggire via dal corpo per estinguersi in un inferno ghiacciato che non avrebbe mai avuto fine.

Già, avrebbero parlato e… quasi inciampò al primo scalino, la vista improvvisamente offuscata. Non se ne curò, riequilibrandosi un attimo per poi riprendere la salita.

Uhmpf, di nuovo le odiate scale.

Di nuovo la dannata sensazione che fossero infinite, le maledette.

Scale, scale, scale… vedeva solo quelle, e il tempo che perdeva nel percorrerle nella loro interezza. Perché diamine il Santuario doveva essere arroccato su un monte?! Non poteva essere lungo una spiaggia assai più agibile?!

Finalmente, dopo un periodo che era sembrato infinito alla sua percezione, il Cavaliere di Cancer giunse nei pressi della dodicesima casa.

Tutt’intorno a lui dimorava la distruzione, lo sfacelo, l’oltraggio ad un luogo sacro che era stato violato impunemente. Il dolore al braccio si era acuito nella corsa, perché, senza curarsene, lo aveva sbattuto qua e là. Lo trattenne con una smorfia. Anche quello non era importante, scompariva, semplicemente. Proseguì, varcando finalmente il tempio dell’amico.

Non perse tempo a chiedere il permesso, né ad ispezionare i dintorni, sapeva già dove trovarli. Si diresse senza esitazione al piano di sopra, spalancò per istinto la prima porta che si trovò davanti.

Lo colpì forte l’odore intenso, balsamico, di erbe medicamentose.

Lo colpì la luce diffusa, come da tavolo di sala operatoria, al punto da costringerlo a ridurre gli occhi a due fessure.

Lo colpì il legger chiacchiericcio che, al suo arrivo, si esalò in un silenzio ammutolito.

Ma nessuna delle tre cose gli diede una mazzata assoluta come il distinguere nel letto in fondo alla stanza la persona che ci giaceva sopra.

La gola gli si seccò ulteriormente, la mandibola si serrò al punto di fargli digrignare i denti in un modo tale che Death Mask non avrebbe mai potuto credere possibile.

Lei su quel letto. I fili che le legavano il braccio. Le bende sporche di sangue. Il respiro affaticato. L’espressione piegata dalla sofferenza. No, dai, non poteva essere lei veramente, non… una dea, non...

Qualcosa gli si arrabattò dentro, tonfò, prima di picchiare tra le pareti del suo cervello e farlo tremare dalle fondamenta. Era lei veramente, non c’era possibilità di equivoco.

No…

Cos’era quel siparietto assurdo?! Chi si stava prendendo gioco di lui, portandolo a credere che la sua ragazza fosse davvero in quelle condizioni pietose?! Chi… aveva osato?!

“Deathy...”

Un richiamo lo raggiunse da qualche parte nella stanza, poteva essere dall’angolo opposto, oppure dal centro, boh, anche quello non importava, anche quello scompariva. Cancer dovette mettersi di buzzo buono per codificarlo pienamente, perché era sfasato, incredulo, costernato e… tremendamente incazzato!

“Deathy, mi dispiace… sono stato io a...”

Aphrodite non si era mai posto il problema di chiedersi se, in natura, ci potesse essere qualcosa di più rapido della velocità luminare; sapeva solo che un Cavaliere d’Oro poteva raggiungere tali vette inaccessibili a chiunque, tanto bastava per reputarsi ‘splendente’, ben al di sopra dei comuni mortali. Tuttavia quel giorno, in quell’esatto momento, si accorse che, al di fuori di ogni dubbio, vi erano individui che potevano agevolmente varcare tali confini, se ne rese conto, più o meno distintamente, proprio nell’attimo in cui, un nanosecondo prima, l’amico/compagno era ancora dalla porta e, un nanosecondo dopo, le sue dita stringevano con rabbia il suo niveo collo. Si ritrovò quindi a sobbalzare, l’aria improvvisamente carente, sebbene non al punto da fargli perdere coscienza. Sgranò gli occhi nel distinguere il viso snaturato di Death Mask a pochi centimetri dal suo. Sembrava tornato… l’assassino inflessibile di un tempo!

“Dove cazzo eri, Pisces?! A ballare la samba o il valzer?!?”

La presa sul suo collo aumentò, tossì un poco, pur sforzandosi di rimanere contenuto nei modi come era solito essere. L’amico era fuori di sé e aveva ragione, necessitava comunque di spiegazioni, ma per dargliele occorreva riportarlo quantomeno ad uno stato di pallida calma. Rabboccò aria con pazienza.

“Sul… campo di battaglia con loro!” riuscì a rispondere, senza nascondere il rammarico.

“BENE. Seconda domanda: allora, se eri con loro… perché cazzo Francesca è in quelle condizioni?! Ti ho forse affidato la sua sicurezza, in mia assenza, per vedermela ridotta così?!”

“No...”

“E ALLORA CHE CAZZO HAI FATTO, PESCI?! ERI DISTRATTO?!? IO MI ERO RACCOMANDATO!!!”

“Lo so...”

“SAI COSA SIGNIFICA, QUESTO??? TI RENDI CONTO CHE TI HO AFFIDATO QUALCOSA DI PIU’ IMPORTANTE DELLA MIA STESSA ESISTENZA??? ”

“Sì, Deathy...”

“E TU… TU!!!”

“Mi dispiace...”

Eppure nonostante lui urlasse, lo strapazzasse, e gli inveisse contro, Pesci se ne stava lì, placido, a non reagire, gli occhi socchiusi e un poco doloranti. Era chiaramente esausto, il braccio sinistro inerte, a penzoloni, grondante di sangue senza essere stato chiaramente medicato né trattato in alcun modo. Rotto. Più o meno e probabilmente come il suo.

Qualcosa morse la coscienza di Death Mask nel vederselo a sua volta ridotto ad un colabrodo, ma la collera, ancora ben vivida in lui, non era stata affatto dissipata. Sarebbe stato tutto più semplice se avesse ricevuto in risposta una reazione forte, magari una scazzottata tra amici, di quelle che si era scambiato spesso con Shura, anche se Aphrodite non era di certo il tipo, oppure… oppure delle spiegazioni, superflue, inutili, certo, ma che avrebbero dato a lui l’occasione di sbottare ancora di più, imprecare, bestemmiare la sua furia ai quattro venti. Invece nulla… la calma piatta in risposta. Nient’altro!

“Deathy, il tuo braccio...” gli fece notare ad un certo punto l’amico, accorgendosi della copiosa uscita di sangue nell’abbassare lo sguardo.

“FANCULO IL BRACCIO! E’ l’UNICA COSA CHE SAI DIRMI?!?”

“Come te lo sei procurato? Sembra… piuttosto malridotto!”

“MA CHI SE NE IMPORTA, ADESSO, DIMMI TU, PIUTTOSTO, PER QUALE RAGIONE...”

“Perché ha salvato me e Francesca. Lui ci ha provato davvero, Death Mask, ma i nemici erano troppo superiori alle nostre forze!” si intromise una voce infantile ben riconoscibile. Delle braccine gli circondarono la vita, stringendosi a lui con un pizzico d’urgenza, e capitò come se tutto il furore venisse risucchiato.

Il ravenello che li aveva interrotti era Kiky che, fasciato e incerottato in più punti, stava devolvendo tutte le sue forze per cercare di calmare il principio di baruffa. Sembrava sinceramente sconvolto da qualcosa, al punto sa spingere Cancer a lasciare la presa sull’amico e abbassare il braccio.

“E tu, sgorbietto, cosa ci fai qui?!”

“Ho provato a combattere... - rispose lui, gli occhi lucidi di paura, come se qualcosa lo avesse traumatizzato e gli avesse fatto smarrire tutta la scherzosità che lo aveva sempre contraddistinto – Come un vero Cavaliere, ma… molti dei miei amici, gli altri apprendisti, sono morti, non… non ho potuto fare...”

“No, Kiky, sei stato brillante, invece! - lo corresse Aphrodite, lesto, con una punta di premura che raramente lasciava trasparire per gli altri – Ma i nemici avevano poteri troppo al di là di noi. E’ stata… una durissima battaglia!”

“Sì, qualcosa mi hanno già raccontato Aldebaran e Saga...” sbuffò Cancer, un poco burbero, non riuscendo ad aggiungere altro.

“...”

Si aspettava, anzi, PRETENDEVA una risposta... tuttavia né Aphrodite né il piccolo Kiky aggiunsero qualcosa, chiusi in uno sconforto sempre più marcato e mai provato prima. Doveva sollevare lui il morale a loro?! Che diavolo!

“Ehi! - attirò la loro attenzione, ricercando lo sguardo del compagno d’armi da una parte e la testa rossiccia del piccoletto dall’altra. Una volta trovata, la frullò senza pietà per tentare di ravvivargli l’umore – Da quanto dite, mi assicurate entrambi che avete combattuto, cosa sono quindi questi musi lunghi?! Guardate che ci metto poco ad incazzarmi il triplo di prima, eh!” tentò di soffiare fuori il suo sarcasmo bruciante, sebbene la rabbia non fosse del tutto assopita quanto a stento attutita. Il che era già qualcosa, visto che solo un minuto prima avrebbe volentieri spaccato qualcosa, qualcuno, soprattutto la faccia del pesce lesso.

Aphrodite si morse il labbro inferiore in una espressione che Death Mask non gli aveva mai visto prima. Sembrava prostrato oltre l’inverosimile, quasi irriconoscibile, non solo perché sporco di sangue e sudato (e lui perfino in battaglia aveva la massima cura di non mostrarsi scarmigliato!) ma anche e soprattutto perché la sicurezza di sé sembrava evaporata in una nuvola di fuliggine.

“Ripetetemi con calma quello che è successo, voglio il vostro punto di vista!” Death Mask si sforzò di recuperare totalmente il controllo dopo lo sfogo precedente, che intanto era come sparare sulla Croce Rossa, ormai lo aveva capito. Nonostante ciò, il cuore gli tamburellò più pressante in petto.

“Ebbene...”

“Sarà un discorso lungo, vero?”

“Sì...”

“Ottimo, si fa per dire… sono tutto orecchi!”

Aphrodite raccontò ogni minimo dettaglio senza mascherare i suoi errori di calcolo, di valutazione, e poi ancora le disattenzioni, a suo dire, imperdonabili. Spiegò cosa fosse successo e perché, nella più completa onestà intellettuale, ma fu Kiky a prendere in mano il discorso da un certo punto in avanti.

“...e comunque come ti ha già accennato lui prima, Aphrodite ha sacrificato il braccio per deviare il colpo di Ermete quanto è sopraggiunto all’improvviso.”

“Quindi è per questo che...” volle investigare Cancer, serio.

“Sì… ma Francesca e Stefano erano già rimasti feriti...”

“Beh… almeno non eri a ballare la samba, o il tango!” tentò di ironizzare Death Mask, grattandosi la testa a disagio nell’essere esploso in quella maniera senza chiedere prima le dovute spiegazioni. Semplicemente la visione di Francesca su quel letto lo aveva stravolto del tutto, destabilizzandolo dalle fondamenta. Non l’aveva mai vista così… così vulnerabile, pallida, apparentemente priva della vita stessa. Era una dea, dopotutto, rinata umana, ok, ma pur sempre… immortale, no?! E invece… poteva rimanere ferita, o… peggio!

No, non riusciva minimamente a posare lo sguardo su quello stesso letto che puzzava di sangue, disinfettante e alcool; sarebbe esploso, altrimenti, una seconda volta, magari contro il muro che avrebbe volentieri voluto buttar giù a suon di cazzotti precisi e programmati. Faceva davvero troppo male vedere la propria fidanzata in quelle condizioni e ciò, parallelamente, lo rendeva del tutto inconsapevole che, invece, due occhi glauchi, sebbene stremati, lo stavano difficoltosamente osservando già da un po’, da quando era piombato in quella stanza, per l’esattezza, sbraitando come un forsennato.

“Tutt’al più il valzer, Deathy… - provò ad ironizzare anche Pisces con un leggero sorriso – Gli altri due stili non mi piacciono...”

“Vabbé, vabbé… almeno non bighellonavi, oh, è già qualcosa. Se davvero i nemici sono così potenti...”

“Non è che quello che oziava eri tu, Deathy?! Dov’eri finito?!” lo punzecchiò Kiky con un sorrisetto furbo, strofinandosi il nasino.

“E-eh?”

“Sei l’unico che non ha combattuto, ti sei dato alla macchia?!” continuò il piccoletto, ghignando.

Stava riprendendo ad essere la solita lisca di pesce non voluta in una bella spaghettata alla napoletana, era rincuorante.

“Tu zitto, bamboccio!”

“Non lo sono più… - fece linguaccia il bambino, producendo anche una pernacchia con la bocca – Te lo ha detto Aphrodite che il potere di Clio mi ha accresciuto, no?! Sapevo fare il Crystal Wall, se mi ci mettevo di buzzo buono!”

“Poi però stramazzavi a terra con una sincope!”

“Non è vero, non è vero!!!”

“Ah, sì?! E allora manifestamelo qui e ora l’attacco speciale che hai ereditato da Mu, lo voglio proprio vedere con questi miei occhi!” lo prese in giro Death Mask, con una smorfia di pregustazione

“Lo posso fare! Ora lo vedi!” provò a concentrarsi Kiky, desideroso di mostrare i suoi passi avanti. Era stato facile, da più grande, manifestare il Muro di Cristallo, poteva riuscici anche in quel momento che era tornato alle dimensioni ridotte, ne era più che sicuro.

“Ebbene ‘sto muro?”

“Uuuuuuuh!!! Uuuuuuuuuh!!!” si stava sforzando intanto il tappo, congiungendo le mani in una sorta di preghiera, senza tuttavia riuscirci.

“Stai cercando di evacuare, microbo?! Guarda che il water è...”

Era spassoso vederlo struggersi così per dimostrare che davvero era cresciuto e si era fatto forte ma, a quanto pareva, era tornato esattamente alla forza di prima, quella di un decenne, per l’appunto. Il Cavaliere di Cancer si ritrovò a sghignazzare, indeciso su quale altro punto colpirlo.

“Deathy, non mi sembra il caso di...” provò a bloccarlo Aphrodite, infastidito dai comportamenti infantili del compagno.

“Solo un secondo, è troppo divertente, aha, aha!” affermò l’amico, del tutto dedito a continuare le sue provocazioni, perché davvero era troppo ridicola l’espressione del moccioso, paonazzo in volto, quasi del colore dei suoi stessi capelli.

“E’ ancora un bambino che ha appena combattuto e visto perdere i suoi compagni...” gli fece notare ancora Pisces, insistente.

“Cos’è questa botta sentimentale, Aphro?! Non mi hai mai detto che stravedi per gli infanti...”

“Beh...”

“Forse, anf, Aphrodite capisce semplicemente le emozioni di Kiky, a differenza tua, Deathy… - lo raggiunse una voce da dietro le sue spalle, tremendamente affaticata, prima di continuare dolcemente il rimprovero – Ti stai comportando da vero screanzato!”

“Santi di quei… - sussultò nel girarsi, del tutto incredulo, incrociando finalmente gli occhi sfiniti della sua ragazza – FRA!!!”

Si ritrovò a correre come un forsennato, nuovamente dimentico del braccio fratturato che penzolava a vuoto. Più o meno in simultanea, Francesca tentò faticosamente di raddrizzarsi per darsi un po’ di contegno, perché non sopportava l’idea di farsi vedere così, era proprio una cosa che non tollerava. Esattamente come il suo maestro Camus.

“Come… come ti sent..?!” Death Mask aveva la domanda già sulla punta della lingua, per inciso gli era anche uscita a metà, ma la sua voce, nel distinguere qualcosa, si tranciò.

Anche le sue gambe si fermarono di colpo, poiché il cervello, attirato dal movimento del lenzuolo che cadeva in grembo alla sua ragazza, non era più in grado di impartire alcun ordine coerente.

“S-stavo meglio p-prima, quando dormivo – rispose comunque la giovane dea, cercando di non dare peso alle braccia che tremavano come fuscelli – Tu garrisci come un gabbiano, Deathy, quando sei agitato...”

“Ah... ehm… ehm…”

“Potrei stare comunque peggio, anf, grazie. Ho solo bisogno… di un po’ di riposo, anf!”

La giovane dea guardava il vuoto, snaturata dal dolore che provava, aspettandosi comunque un tempestivo tocco di Death Mask, o almeno un avvicinamento, ma Cancer si era fermato come un mulo e la fissava allibito -sentiva il suo sguardo su di lei- spingendola così a voltare la testa nella sua direzione.

“Che succede adesso, anf, tanto baccano prima per poi..?”

Ma il Grande, Gloriosissimo, Death Mask si era trovato impreparato. Si voltò semplicemente verso il compagno di numerose battaglie, paonazzo a sua volta.

“Aphrodite...”

“Sì?”

“Ma è nuda...”

La frase estraniante colpì tanto Francesca quanto Kiky che, quasi con la stessa tempistica, si erano ritrovati ad aprire la mandibola, allibiti. Aphrodite si limitò a sospirare, scrollando la testa prima di alzarsi i ciuffi celesti dagli occhi e radunare un’altra buona dose di pazienza per rispondere con flemma.

“Mio carissimo Deathy, ti assicuro che se trovassero un modo per curare un corpo umano da distanza sarei il primo ad attuarlo, giacché non amo il contatto fisico, ma non esistendo ancora nulla di lontanamente simile non avevo alternative! L’ho comunque maneggiata il meno possibile, stai tranquillo...”

“Si, ma… TUTTA?!” trasalì Death Mask, squadrandolo.

“No, dai, solo una parte… il resto lo lasciamo lì, permettendo così alla ferita di infettarsi... ma che domanda è???” si aggiunse anche Kiky, ironizzando, desideroso di prendersi la sua rivincita. Perché, anche se aveva soli 10 anni, le cose le sapeva, gliele aveva spiegate Mu senza lesinare in dettagli, almeno per quanto concerneva la fisiologia basilare maschile e femminile.

“Tu zitto, moccioso, che queste cose non le dovresti neanche sapere… anzi NON LE DOVRESTI NEANCHE GUARDARE!!!”

“A vedere la tua reazione esorbitante ne so più di te, però! - sogghignò lui, stirando la bocca nel sorriso furbetto che meglio gli riusciva – Il Sommo, Grandissimo Deathy, che si pavoneggia di avere avuto chissà quante esperienze sul settore, cade dal pero se… AHI!”

“TU… Z-I-T-T-O!”

Gli aveva tirato l’orecchio vicino, al punto di farlo lacrimare, ma Kiky era abile a sfuggire alla morse, aveva anni di onorato servizio alle spalle. Indietreggiò con una piroetta per poi mettersi con i pugni alzati per dimostrare che era pronto alla lotta.

“Io dovevo aiutare!!! Sarò un futuro Cavaliere, allievo del Sommo Mu, e lui ha conoscenze mediche che sta trasmettendo anche a me!”

“Pfff, non ti affiderei la vita del mio cane, se ce lo avessi, figurati se...”

“Su, su, bravi voi due! - si intromise Aphrodite, stanco di quella cagnara, dopo aver notato che Francesca, esasperata da tanto rumore, aveva alzato gli occhi al soffitto, sbuffando – Deathy, le ferite erano diffuse, non avevo alternative… ora smetti di fare il tonto e fai l’uomo, che ormai una certa età ce l’hai!” sorrise poi, prendendo Kiky con il braccio ancora sano per spostarlo di un poco, in modo da lasciare più spazio di manovra all’amico.

Death Mask dovette ammettere che aveva ragione, da quando era sopraggiunto lì, fuori di sé, non aveva fatto che un casino infernale e Francesca, anche se seduta con le sue sole forze, era visibilmente stravolta dall’esperienza appena passata. Si soffermò a guardarla, non sapendo cos’altro dire, l’avrebbe abbracciata, stretta a sé, ma nessuno dei due amava le moine in presenza di altri e lo sapevano bene entrambi. Avrebbero dovuto trattenersi fino a quando il pesce lesso e il pidocchio dai capelli rossicci non avessero deciso di levare le tende e lasciarli soli.

Oltretutto la giovane dea stava ricercando una posizione comoda per riuscire a stare dritta senza soffrire le pene dell’inferno. Desiderava avvolgersi con la coperta per celarsi, ma non riusciva a tirarsela su senza che il respiro diventasse affannoso. Alla fine, con rammarico, abbandonò quei propositi con un sospiro, lasciandola immota sul grembo a nascondere giusto le gambe; il resto del corpo, se non fosse stato per il pesante bendaggio che le ricopriva il seno e le spalle, lasciando scoperto solo parte del ventre, sarebbe stato in bella mostra. Arrossì leggermente a quel pensiero, anche se non era certo la prima volta che stava praticamente nuda davanti a degli uomini.

“Aspetta, ti aiuto io...” si riuscì a sbloccare Cancer, avvicinandosi ulteriormente a lei per prendere finalmente la tanto sospirata coperta e drappeggiargliela intorno in modo che si sentisse protetta.

Nell’azione, per ovvie ragioni, fu costretto a chinarsi verso di lei, ritrovandosi praticamente perpendicolare al suo corpicino che, anche se da dea, era parecchio minuto. Francesca non oppose resistenza, semplicemente si appoggiò stancamente a lui, lasciandolo fare.

Fanculo… almeno le ha lasciato le mutande, ma poi come diavolo l’ha avvolta? Voleva imbalsamarla direttamente?! Guarda qui quanto sono spesse queste bende… la soffocano, e…

Ad un certo punto il suo campo visivo fu praticamente coperto dalla chioma celeste di Aphrodite che si era inaspettatamente intromesso, sporgendosi come i bambini curiosi. Gli venne da imprecare.

“CHE DIAVOL…?!”

“Deathy, può bastare così...- lo avvertì Pisces con una naturalezza disarmante – Almeno che tu non voglia fare un insaccato...”

“Proprio tu parli, pesce lesso e pure fesso! L’hai fasciata come se la dovessi conservare in frigo!”

“L’emorragia non si sarebbe rallentata, altrimenti… alla prossima medicazione, se il sanguinamento si sarà completamente fermato, allenterò un minimo bende, ma al momento...”

“Finitela di preoccuparvi per me! – si intromise la giovane dea, irritata da tutte quelle attenzioni, riaprendo fiaccamente gli occhi – Sono a posto, ormai...”

“MA NON MI SEMBRA PROPRIO!”

“Deathy… - sospirò ancora lei, massaggiandosi stancamente una tempia – Non urlare, ti scongiuro, sono… troppo stanca!” ammise poi, crucciata.

“Scu-scusa...”

Francesca avrebbe voluto dirgli che non c’era bisogno di chiedere perdono, che lui era lì, stava bene, e che quello, solo quello, le aveva ridato abbastanza energie per provare a muoversi, ma invece di esprimerlo verbalmente si limitò a ricercare la sua mano posata appena sulla spalla, come se avesse paura di romperla, stringendola poi tra le dita alla ricerca di un sostegno.

“Va tutto bene, ragazza, sono qui...” le sussurrò lui, un poco più sereno nel vederla più rilassata, nonostante il dolore.

“Sono comunque in grado di discorrere con voi, Aphrodite, anf!”

“Ne sei sicura?” chiese il Cavaliere dei Pesci, serio in volto.

“S-sì, aspettate solo che… recupero un po’ di fiato!” annuì lei, socchiudendo appena le palpebre.

Stettero un po’ lì, il tempo per farla riprendere abbastanza da riuscire a parlare senza il tremore della propria voce. Riaprì quindi gli occhi glauchi, i quali si stagliarono in quelli celesti di Pisces che seppe per certo, un secondo prima del movimento delle sue labbra, su cosa sarebbe andato a parare l’argomento.

“Stevin come sta?”

Death Mask osservò sbalordito l’espressione del migliore amico farsi un poco più preoccupata, anche Kiky tornò completamente serio, partecipe del discorso.

“Stabile a quanto mi ha riferito Aiolos, ma… c’è qualcosa che non va!”

“E sarebbe?” provò a chiedere Cancer, non ascoltato.

“Lo supponevo, purtroppo… l’emorragia era troppo estesa, se paragonata alla ferita effettiva… - disse la giovane dea, gettando un attimo lo sguardo fuori dalla finestra, al cielo che stava diventando sporco di nuvole – non è neanche la prima volta che avviene, nel senso… quando era piccolo, e girava per tutta la Valbrevenna con Marta, è rimasto contuso più volte. Il suo sangue è sempre stato lento ad arrestarsi...”

“Bisognerà fare tutti gli accertamenti necessari, ma… Aiolos e Shaka hanno già una pista”

“Una pista...” ripeté la ragazza, in tono quasi assente nell’osservare un punto in movimento sul vetro, una cimice, da quel poco che riusciva a scorgere, che muoveva le zampette per salire. Non se lo spiegava, non aveva mai provato disgusto per gli insetti, ma… quell’essere… in un momento simile, senza neanche una ragione, la nauseava più di quanto già non si sentisse tale.

“Dalle prime analisi, ha un gruppo sanguigno molto particolare, e sarebbe...”

“...0 negativo, vero? Il più raro di tutti!” finì la dea per lui, sorprendendolo non poco.

“Come lo sai? Non te ne ho ancora...”

“...Parlato, sì, ma è come se lo avessi percepito, nell’infuriare della battaglia, quando ero legato a quella, a Clio… era come se percepissi il sangue di ognuno di voi, e anche…”

“Ehi, ehi, aspe… date il tempo anche a me di raccapezzarmi che già mi sono perso! - si intromise Death Mask, alzando la mano, nonostante si sentisse un idiota – cosa gli è successo all’inseparabile compagno di NON bevute, visto i tipetti sobri, di Marta?”

“Ma certo che tu sei proprio un cialtrone, eh… dicevi che Saga ti aveva raccontato, e invece...” fece nuovamente linguaccia Kiky, cercando di ravvivare gli animi.

Death Mask lasciò momentaneamente la mano sin troppo calda della sua ragazza per frullare i capelli rossicci di quel bimbetto sin troppo sveglio. Il gesto, sebbene brusco, nascondeva in verità una punta di affetto.

“Vi dissi che Saga mi aveva giusto accennato qualcosa, no?! In ogni caso, preferisco sentire la voce delle persone in campo… allora, Stevin ha partecipato davvero alla battaglia, sebbene non abbia competenze guerresche?”

“Lo ha fatto, sì, si è trovato invischiato. - lo accontentò, placido, l’amico di sempre, prima di fremere impercettibilmente per qualcosa che Death Mask giudicò essere un qualche tipo di colpa – Non avrebbe dovuto, ma Clio ha attaccato a tradimento sia lui che Francesca, come ti avevo spiegato prima...”

“Ma tu… - il tono di Cancer si era fatto un poco più sarcastico, anche se tradiva comunque una certa nota di accusa – hai fatto qualcosa di utile in quelle ore, Pisces?! Praticamente tutti i tuoi compagni di battaglia sono rimasti feriti!”

“Sempre meglio di te, che ti nascondevi!” ripeté Kiky, ammiccando, sforzandosi di mantenersi vivace, perché avvertiva gli animi irrequieti di tutti e voleva rendersi utile.

“Tu taci, pestilenza!” lo frullò ancora più forte il Cavaliere del Cancro, schiacciandogli giocosamente la testa con la sua mano che copriva tutti i capelli ribelli del piccolo.

“...E tuttavia è stato proprio lui ad essere risolutivo!” terminò il discorso Aphrodite, come se nessuno lo avesse interrotto, fissando colpevolmente un punto non definito del pavimento.

“E sarebbe?”

Il compagno gli raccontò degli ultimi fatti accaduti, degli strani poteri che aveva manifestato il ragazzo e delle sue, per certi versi oscure, parole. Francesca intanto, sempre più stanca e sfibrata, si sforzava di rimanere vigile, non concedendosi la benché minima requie. Era agitata, Death Mask poteva percepire le increspature del suo cosmo solitamente placido produrre dei sussulti ben distinti.

“Spezzare il circolo… - ripeté meditabondo Pisces, fissando il soffitto sopra di lui – Suppongo che qualcuno lo abbia raggiunto, in qualche modo, e gli abbia detto così, del resto… il ragazzo possiede un cosmo latitante in lui, piuttosto potente, anche. Difficile capirne i confini, se ce li ha!”

“Allora aveva ragione Saga a temere di lui?”

“Forse… o forse no. Non è comunque avvezzo alla lotta, non è un pericolo per noi, né per nessuno, a differenza di quanto temesse Gemini!”

“E perché non dovrebbe esserlo?”

“Per la composizione del suo sangue ti posso assicurare che non lo sia, non è una minaccia.”

“Anche ematologo adesso, Pisces?!” provò ad irriderlo Death Mask, vedendolo sempre più scuro in volto e non capendo parimenti il motivo.

“No, l’ho semplicemente assaggiato...”

“COS..?!”

Sicuro aveva capito male quella volta, non poteva essere serio per davvero, non poteva intendere…

“Ho assaggiato il suo sangue...” specificò ulteriormente il Cavaliere della dodicesima casa, con naturalezza, come se avesse appena proferito una frase qualsiasi.

Quindi era serio per davvero! Death Mask squadrò prima Kiky, che era allibito come lui, e poi Francesca, la quale però era troppo stremata per avere una reazione esaustiva ad una tale affermazione.

“E-eh?!?”

“Mi è rimasto un po’ del suo sangue sulle mani mentre lo soccorrevo… mi serviva per comprenderne le sue attitudini, il suo carattere, le eventuali malattie, nonché le esperienze di vita…”

“E ti basta… questo… per comprenderlo? Cioè, tu lo lecchi, il sangue, voglio dire, e… puff, tutto ti è chiaro?”

“Sì...”

“Ah, e… ok, mmm, lo prendo per vero, amico… - farfuglio Cancer, imbarazzato, prima di ricomporsi – E cosa hai, ehm, assagg… volevo dire, saggiato, sulla base di questo?!”

“E’ un bravo ragazzo, questo è certo, ma… c’è davvero qualcosa di misterioso in lui, come un sigillo che mi impedisce di attingere alle sue vere origini, alla sua storia più intima. Ne ho percepito solo la scorza, una piccola, piccolissima, parte della sua vita e… non dovrebbe essere così, avrebbe dovuto rivelarmi molto di più!” i suoi occhi azzurri guizzarono sull’amico, sorprendendolo.

“Non pensi, forse, di essere, ehm, un po’ troppo sicuro di te stesso? Addirittura alle sue origini puoi arrivare, non ti sembra di essere troppo… oltre?!”

“NO! In verità è la prima cosa che dovrei scoprire, sondandolo in questa maniera, perché è l’unione di due persone ad averlo generato, ne dovrebbe quindi rimanere perlomeno l’impronta, i contorni, invece non ne sono stato in grado, perché qualcosa ha ostruito il processo, un incantesimo, una sorta di barriera… va ben al di là delle mie doti! – Aphrodite sembrava infastidito da non essersi destreggiato maggiormente, sospirò, tornando al discorso precedente – Comunque, con quel problema al sangue, non può essere una minaccia per noi, tralascia che non lo sia comunque, ma, intendo, anche se volesse...”

“Per il suo problema?”

“Per il suo problema, sì, ha una malattia auto-immune piuttosto rara e sconosciuta, non so neanche se, allo stato attuale della scienza, abbia un nome, figurarsi una cura. Quel che è certo, e ne sono più che sicuro, è che è trasmissibile per via ereditaria a sessi alternati: da madre a figlio, da figlio a figlia...”

“Quindi sua madre, chiunque ella sia, soffre dello stesso problema?!”

“Sì, è certo, devono condividere lo stesso gruppo sanguigno. Suo padre invece non lo so, non sono minimamente riuscito ad attingere a lui.”

A quel punto Death Mask si grattò la testa, evidentemente confuso, così come Kiky, che nonostante la buona volontà si stava perdendo sempre di più in discorsi più grandi di lui e, a tratti, incomprensibili.

“Aphrodite presuppone, dalle prime analisi, che le sue piastrine non siano del tutto sane… - si intromise Francesca, sospirando pesantemente nel tirarsi ancora più su le coperte – Per questo perdeva tanto sangue, per questo il sangue non si arrestava...”

“Ma lo avete fermato ora, no?”

“Sì, ma il ragazzo ha rischiato grosso. Ora sta riposando dopo le cure delle inservienti… - continuò Aphrodite, nuovamente serissimo – Il suo organismo produce poche piastrine, deve trattarsi di una rara forma di trombocitopenia!”

“Che brutta parola! Siate un poco più spiccioli e meno accademici, insomma! - gli fece notare Death Mask, irritato da quel gergo troppo alto locato – Cosa rischia, quindi?”

“Perdite ematiche… trombi...”

“Non credo di comprendere perché, se ha meno piastrine, dovrebbe rischiare quello! Tutt’al più è il problema inverso, o no?! Dovrebbe avere il sangue troppo liquido...”

“Servono ulteriori accertamenti, Deathy, non posso scendere più nel dettaglio di così. La situazione è da chiarire...”

Death Mask lo squadrò, scettico, per una serie di secondi. Eh, certo che il pallino di fare il dottore il compagno e amico ce lo aveva sempre avuto, fin dall’infanzia, al punto da indisporre il buon Shura, che invece gli dava del matto per le sue fissazioni, ma dopo gli ultimi eventi, e soprattutto per Stefano, sembrava che questa sua passione viscerale avesse preso maggiormente il largo.

“Beh… se così fosse, davvero non è avvezzo al combattimento. – comprese finalmente Cancer, sbuffando – Un singolo colpo, un singolo taglio, lo potrebbe condurre alla morte in breve tempo. Non è una minaccia, in tal senso.”

“Accadeva anche da piccolo… - annuì Francesca, sfiduciata, la mente presa a inseguire ricordi ormai passati – Certo, non ha mai subito ferite gravi come questa, solo qualche graffietto o sbucciatura, ma il sangue impiegava comunque molto a formare una prima crosta… anzi, no, che dico, la formava sì una prima crosta, ma poi poco dopo riprendeva inspiegabilmente a sanguinare.”

“Se mi confermi questo, Francesca, mi dai adito a restringere ulteriormente il campo sulla sua patologia. – rimuginò Aphrodite, la mano sana sotto il mento – E’ come se le sue piastrine formassero una prima crosta per tappare l’uscita di sangue, non riuscendo però a mantenerla sul lungo periodo e disfacendosi di conseguenza...”

“Brutta storia, davvero brutta storia...” commentò anche il Cavaliere del Cancro, chiedendosi che cappero di malattia fosse, quella.

“Aphro… - Francesca, con un guizzo improvviso, richiese l’attenzione di Pisces - Stevin è un bravo ragazzo, ve lo ha già detto Marta, ma… ora lo hai potuto constatare con i tuoi stessi occhi e… beh, ehm, anche con qualcos’altro, a quanto dici. Concorderai quindi che Saga ha esagerato nelle sue posizioni!” si preoccupò, ricordandosi del fatto che l’amico d’infanzia non fosse visto di buon occhio da molti componenti del Santuario.

“Questo lo so, non devi angustiarti. Avevo i miei dubbi, in principio, come tutti, ma ora penso che… sì, penso che possa confidare in lui, mi unisco alla causa Camus. Lui si fida del giudizio di sua sorella a prescindere, io posso dire di averlo anche potuto constatare per esperienza personale!”

Lo sguardo di Francesca al suo nome si fece dolente, mentre, fremendo, guardò altrove, costernata, tentando di individuare le balugini del cosmo del maestro che si percepiva a stento.

“Camus… come sta messo?”

“Non devi pensarci ora, preoccupati solo di rimetterti in forze, anche per lui. E’ in buone mani, lo rimetteranno in piedi!” provò a tranquillizzarla Aphrodite, con una punta di comprensione che non mostrava soventemente.

Entrambi sembravano comunque riottosi sull’argomento, il tono si era fatto pesante, brancolante nell’incertezza, il che spinse Cancer ad indagare a sua volta, tastando prudentemente il problema.

“Ehi, da quando sono entrato nella barriera del Santuario lo percepisco appena, che diavolo gli è…?”

“Deathy...”

Francesca avrebbe voluto dare delle spiegazioni, ma si percepì improvvisamente febbricitante, a corto d’aria. Si mise una mano sul petto, tentando di controllare il dolore. Il suo impallidire ulteriormente non sfuggì agli occhi di Death Mask che, indovinando tempestivamente la direzione in cui si sarebbe accartocciata su sé stessa, la sorresse con il braccio sano, il cuore a mille dalla tensione di vederla ancora così fragile.

“POTETE SPIEGARMI, VOI DUE?! O deve farlo lei che sta male???” urlò inviperito, squadrando prima il piccoletto e poi il parigrado come alla ricerca di un incentivo per fargli riprendere il discorso.

“Il problema è… che non lo sappiamo nemmeno noi!” si scusò Kiky, puntellando dispiaciuto i due indici uno contro l’altro.

“Non eravamo presenti...” sussurro invece Aphrodite, a disagio.

“Questo lo so! Il suo cosmo è scomparso poco prima che il Santuario venisse attaccato, Francesca ed io eravamo ancora fuori, quando è successo, per gli affari nostri, lo sapevamo ad Efeso, non è forse così?” chiese l’appoggio della fidanzata, come ad avere la conferma che non fosse stato un tutto un sogno.

“Sì, è così… era ad Efeso in missione con Michela” annuì lei, il volto scuro.

“Poi è accaduto il patatrac, ci siamo separati, io sono rimasto a soccorrere la popolazione colpita dal terremoto e non ci ho più pensato. Quando sono tornato entro i confini del Tempio, la sua aura è riapparsa, come un flash. Sembrava così piena, palpitante, ma lo è stata solo per pochissimo e ora, ora… - lasciò la frase volutamente in sospeso – Ne sapete qualcosa?

“Poco. Solo che è stato rapito e portato in una dimensione alternativa insieme a Michela. Hyoga è riuscito a raggiungerli, li ha ricondotti qui, così ci è stato detto. - narrò Pisces, ancora più nervoso rispetto a prima – Ma cosa gli hanno fatto nel lasso di tempo in cui il suo cosmo era irraggiungibile, come volatilizzato, non lo sappiamo nemmeno noi...”

“Perfetto! Andiamo proprio bene!” commentò Cancer, ben oltre il nervosismo del compagno, quasi nevrastenico. Da tutto. Dalle condizioni della sua fidanzata, che sembrava sconvolta. Dalle parole di Saga che, nell’ultimo periodo, pareva fosse sempre di umore inverso. Dall’identità dei nemici che credevano di poter fare il bello e il cattivo tempo con loro. E pure da quella spina nel fianco di Camus, che gliene andasse bene una, UNA, che diavolo!

Ma del resto… era la chiave dei piani nel nemico, anche quello ormai si sapeva!

In breve, non c’era più un cazzo che filava giusto in quel pazzo universo. A partire dalla loro rinascita, dal loro essere tornati a nuova vita. Più un cazzo! Da pensare (quasi!) che sarebbe stato meglio rimanere morti, almeno non si percepiva nulla, neanche le tribolazioni. Possibile che il prezzo per essere rinati fosse quello? Era forse una maledizione?!

“I-io non posso stare qui, devo andare a vedere come sta!”

“E-eh?”

Percepì a stento la voce, di colpo furente anche se strascicata, della fidanza, ma il suo gesto di togliersi le coperte, alzarsi e andarsene lo recepì fin troppo bene, e infatti piombò su di lei, tentando di tenerla ferma.

“Pazza! Dove diavolo pensi di muoverti?!” esclamò lui, su di lei, stringendola dal polso prima di piegare esaustivamente un ginocchio sul letto allo scopo di impedirle qualsiasi azione pertinente il sollevarsi.

“Da Camus! Non senti quanto sta male?! Non sappiamo cosa gli hanno fatto subire, ma deve essere stato terribile, ed io… ed io...”

“No! No! No! Tu stai qua e RIPOSI!” la incalzò subito lui, di riflesso, sgranando gli occhi.

“Non mi dare ordini, Deathy!” gli occhi glauchi di Francesca saettarono con la potenza di un fulmine verso i suoi, il Cavaliere ne poté percepire l’immensa magnitudo, da far tremare, ma non tentennò.

“Io non ti sto...”

“Fra, Deathy non ti sta dando alcun ordine, sono io che te lo sto dando, per bocca del Grande Sacerdote Shion: non occorre il tuo intervento, ci stanno già pensando loro, riposa!”

“Ma io...”

“Hai perso troppo sangue per renderti utile. Non sei in condizioni per alzarti, te ne rendi conto da te, vero? Sei sempre stata… la più avveduta tra le nuove ragazze giunte qui la scorsa estate!”

“I-io...”

“Non darci adito… di pensare diversamente!”

Il corpo di Francesca iniziò a tremare a seguito delle sue parole. Appariva costernata, combattuta, se seguire quelle direttive o no, pur rendendosi conto che Pisces, nonostante il tono severo adoperato, fosse tangibilmente in pena per lei, come tutti. A far pendere l’ago della bilancia da una parte, ovvero sul non-intervento, fu la pallina Kiky che, intrufolandosi improvvisamente in mezzo a lei e Deathy, la abbracciò con forza.

“Sei affaticata, hai combattuto contro una ex Musa! - affermò il piccolo, agitato – Sai, c’è anche il mio Maestro Mu con lui, e Shaka, oltre che al Sommo Shion, non è solo! Qualsiasi cosa gli hanno fatto, perfino la più brutta, loro riusciranno a curarlo!”

“Kiky… - biascicò Francesca, accarezzandogli maldestramente un ciuffo, prima di acconsentire e lasciarsi andare tra le braccia di Death Mask – Fatemi almeno sapere, quando ve lo diranno, come sta e… cosa gli è successo!” si arrese definitivamente, chiudendo stancamente gli occhi.

“Sarà fatto, promesso!” annuì Aphrodite, osservandole attentamente il volto pallido.

“E abbiate cura anche di voi!” aggiunse, prima di essere accompagnata a coricarsi da un Death Mask sempre più evidentemente in apprensione.

“Anche questo sarà fatto! - promise il Cavaliere dei Pesci, prima di dare un’occhiata esaustiva a Kiky, che comprese di doversi staccare, e poi al parigrado – Mi raccomando, Masky, stai con lei!”

“Sì, pesce lesso, non c’è bisogno del tuo consiglio! Ah, e non chiamarmi così, fa rabbrividire!”

Aphodite si concesse una breve risatina, prima di voltarsi e dirigersi verso la porta, seguito dal bambino. Di nuovo gli occhi di Death Mask furono attirati dal movimento inconsistente del suo braccio che ondeggiava mollemente privo di volontà. Doveva essere di certo rotto in più punti, minimo dalla spalla in giù. Si morse il labbro inferiore, mentre un ricordo spiacevole, non del tutto suo, lo investì brutalmente.

Comparve nella sua mente un bel viso aggraziato non dissimile da quello di Aphrodite, irrigidito tuttavia dal rigor mortis e sporcato di sangue raggrumato, violaceo, come viola era il colore dei numerosi ematomi sul suo corpo. Anche in quel caso, la sola immagine del suo braccio di allora, così innaturalmente piegato da sembrare snodato, pur nel rigore imperituro della morte, gli fece togliere il fiato, portandolo a darsi una scrollata per non rivivere quei terribili momenti.

 

Scemo! Ma Aphrodite è qui, vivo, ha solo un braccio rotto, un cazzo di braccio rotto e nient’altro! Perché ora pensi a questo, perché hai permesso a quel viso così famigliare, pur nella sua diversità, di riaffiorare nei tuoi ricordi?! Quello non è più lui e… colui che lo stava assistendo, nella non accettazione della sua morte, non sono io… non più!

 

“Ah, ehm, pesce impanato e fritto, Aphrodite! - che buffo nome per chiamarlo, ma ottenne l’effetto sperato di farlo voltare verso di sé – Quel tuo braccio così è davvero orribile, curatelo, mi raccomando!”

Una preoccupazione lecita, la sua, che, come sperato, l’amico colse in tutta la sua totalità. Si abbandonò infatti ad una leggera manifestazione di risata a bocca chiusa, come era solito fare.

“Deathy, mi conosci… pensi davvero che potrei trascurare il mio bellissimo braccio e lasciarlo deturpato?! Ci tengo al mio corpo!” gli fece notare, lasciandosi svolazzare adorabilmente i capelli nel passare la mano sana sulla chioma ridente.

“No, certo che no… ma sempre meglio dirtelo in tutta schiettezza!” sogghignò Cancer, recuperando un poco del suo buonumore.

“Anche il tuo, comunque.”

“Il mio..?”

“Braccio. E’ orribile a vedersi, cerca di porvi rimedio il prima possibile!” fu la serafica risposta dell’altro nell’aprire e chiudere la porta dietro di sé.

Death Mask ci mise un po’ a riprendersi da quell’affermazione, quella volta era toccato a lui rimanere come un pesce spiaggiato. Tra l’altro l’amico se l’era pure svignata, non concedendogli il beneficio dell’ultima battuta.

“Cretino! Sai a me che m’importa di questo, non fa nemmeno… AHIA!”

Nell’enfasi della risposta lo aveva mosso ed erano stati dolori. Sbuffò, contrariato. Se ne sarebbe preso cura, certo, ma non prima di tranquillizzare Francesca, ancora parzialmente vigile, anche se coricata sul letto. La coprì meglio per quanto gli concedesse l’uso di una singola mano.

“Aphrodite ha ragione, Deathy, dovresti...”

“Non ho detto che non lo farò! Ma ora devo pensare a te!” disse, arrossendo e guardando altrove per l’imbarazzo come gli capitava di frequente quando doveva esporsi.

“Allora, anf, dobbiamo finire il nostro disc...” tentò ancora la giovane dea, prima di essere bloccata da lui, che la abbracciò senza pesarle.

“Non si fa alcun discorso ora, non finché non starai bene!” decretò, nascondendo il volto tra la spalla e il cuscino e rimanendo lì a tremare come un poppante.

Francesca capì, sorrise tra sé e sé, poi, con un poco di fatica, si permise di accarezzargli i capelli dietro alla nuca.

“EHI! Non sono un cane!” si oppose lui, alzandosi appena per vederla in faccia, ancora più paonazzo.

“E questo no, quest’altro no… che tipetto difficile! Posso fare qualcosa, Deathy, oppure…?” ridacchiò lei, divertita.

“Riposare! - rispose lui, prima di buttare fuori aria e tentare di darsi un contegno – Riposa, leonessa, hai combattuto, hai protetto gli altri… ora… ora ci sono io… a proteggere te!”

Francesca arrossì a sua volta, per non darlo a vedere, giacché non era abituata, si voltò, per quanto le fosse possibile.

“A proteggermi, eh...” si raschiò la gola, visibilmente imbarazzata.

“Qualcosa del genere, sì… riposa!”

“Io ci posso anche provare, Deathy, ma… sono preoccupata, anf, per Camus, per Michela… per quello che certamente gli avranno fatto, ovunque li abbiano condotti...”

Gli occhi le baluginarono dalla paura e dal tormento, una sofferenza non certo solo sua, ma anche per le persone che amava. Il dramma era che, purtroppo, il glorioso Cavaliere di Cancer era stato abituato a combattere, sbrindellare e uccidere, non certo a poter cogliere le lacrime di una giovane donna angosciata dalle sorti di due delle persone a cui teneva di più al mondo. Si morse il labbro, rimproverando la sua inettitudine in quel settore.

“Sai come si dice, no? L’erba grama non muore mai...”

“Deathy...” Francesca sospirò nel riconoscere il tentativo, un poco bislacco, di rincuorarla.

“Oggettivamente non so cosa abbia patito la tua amica, mi dispiace per lei, ma… sono certo che Camus l’abbia protetta ben oltre le sue forze, dando tutto sé stesso, e sai che lui ha la pellaccia, ma di quella veramente dura, eh, come le erbacce che per quanti diserbanti si usino, crescono in continuazione!”

“Camus… una erbaccia?!” Francesca sorrise a quell’accostamento nel confermare, ancora una volta, quanto il suo fidanzato fosse negato con i sentimenti.

“Sì, e sono stato fin gentile!” affermò ancora lui, chiudendo gli occhi e guardando altrove, stizzoso.

“Ma se sei sempre tra i primi a preoccuparti per lui...” gli fece notare, con naturalezza.

“COSA?! Dove lo hai visto questo film, lo danno in anteprima nei cinema?!” il suo alzare ulteriormente il tono, al limite dell’imbarazzo, lo metteva in luce ben più di quanto volesse.

“Lo sai, si vede… o, almeno, io lo vedo, non lo puoi negare!”

“Ggggh… per forza! Ovunque va quello rischia la vita, grazie al cazzo che poi ti vengono le ansie per la sua persona!”

“Non hai negato, vedi?” sorrise ancora Francesca, felice di averlo smascherato.

“Acc..!”

Death Mask era di nuovo un pesce lesso, decise di soprassedere, non fiatando più e limitandosi a stringerle la mano. Le dita di lei ricambiarono timidamente la sua presa, il pollice gli si mosse per carezzarle la pelle del dorso. Era parecchio stanca, dava segni di cedimento, ma non sembrava volersi arrendere, sforzandosi di rimanere con gli occhi ben aperti nell’assaporare quel momento tra loro.

“Dormi, sono qua… non me ne vado!”

“In verità dovresti, sei ferito e devi curarti...” mormorò la giovane dea, guardandolo dritto negli occhi.

“E allora… starò con te, almeno fino quando non dormirai profondamente. Chiederò un cambio a quel saltimbocca di Mu, o al cornuto Shura, in modo da avere il tempo per disinfettarmi la ferita e fasciarmela, dopodiché verrò di nuovo da te… meglio così?” le propose un piano, abbassando istintivamente la voce nel vederla cedere sempre di più alla stanchezza.

“Meglio, sì...” annuì lei, chiudendo le palpebre e aumentando la stretta sulla sua mano, sebbene a fatica.

“Ehi, ho detto che non me ne vado prima che tu dorma, non ti preoccupare, e anche quando me ne andrò sarò velocissimo a curarmi! La ferita non è grave, vedrai che, tempo che tu riaprirai gli occhi, io sarò nuovamente qui, fasciato, certo, ma presente e pronto ad accoglierti!”

“Mmmh...” mormorò ancora lei, annuendo appena, prima di abbandonarsi sul cuscino e crollare dopo pochi secondi, la mano ancora intrecciata alla sua.

Non era facile vederla così, così fiacca e indebolita, provata da una esperienza che doveva essere stata terribile. Effettivamente, a differenza delle altre birbe, in quei mesi non aveva mai subito ferite troppo gravi, ben avvezzata alla lotta e di indole guerriera da secoli e secoli; Death Mask non avrebbe mai nemmeno pensato che sarebbe stato possibile vederla piegata fino a quel punto, fragile, vulnerabile, ed era ciò ad averlo sconvolto fin dal profondo. Pensò ancora una volta alla loro schifosissima esistenza, alla precarietà del tutto, a maggior ragione su di loro. Si sentì esasperato, vecchio, logoro dentro, sebbene fosse ancora giovane, a cavallo tra i 20 e i 30 anni, nel fior fiore delle sue forze, quindi.

La verità era che tutte quelle forze gliele avevano prosciugate le battaglie avute in precedenza, il morire e il rinascere più volte, la condanna delle colpe, i suoi pentimenti…

Ma a cosa giovava starci a rimuginare in continuazione?! Non era mai stato così smidollato, sovraccaricato dai sentimentalismi, dai dubbi… proprio in un momento in cui la persona che amava aveva bisogno di una presenza forte, sicura, che lo ascoltasse e la sostenesse, non di una mammoletta preda dei rimorsi! Quelli c’erano, ci sarebbero sempre stati, conviverci era l’unica soluzione; conviverci senza ulteriori, vani, tartassamenti interiori!

I suoi occhi un poco tristi si posarono verso la finestra e poi ancora sull’angolo sinistro del soffitto. Acuì i sensi nel tentare di percepire il cosmo di Camus, ridotto al lumicino, una fiammella tremolante. Così debole da creare sbigottimento, anche se, a ben guardare, era la sua stessa interiorità ad esserlo, come se fosse stata sul punto di sgretolarsi a causa di una qualche frattura insanabile.

Era ordunque la sua stessa anima a starsi perdendo? A scivolare lentamente giù… in un limbo senza fine? In qualunque posto fosse stato catapultato, qualunque cosa avesse subito sul proprio corpo, era entrato come Camus, e ne era uscito come… già, come? Ne era uscito, certo, ma non più come sé stesso, non solo.

Vi era… qualcosa in più dentro di lui, ma cosa?!

Ovviamente questo a Francesca, ormai placidamente addormentata, non lo aveva spiegato. Non le aveva riferito il travaglio che sentiva provenire dall’anima di Camus; neanche ad Aphrodite lo aveva detto, ma era più che certo, anche se non in grado di percepire l’anima come lui, bensì il sangue, che il Cavaliere d’Oro se ne fosse reso conto da solo che qualcosa era mutato, pur tacendo saggiamente.

L’anima di Camus non apparteneva più solo a Camus, era fin troppo chiaro… forse neppure gli era mai davvero appartenuta del tutto. Così sul punto di sfaldarsi, collassare su sé stessa, da una spaccatura che si era già formata precedentemente la sua nascita. Da lì, da quella falda, avrebbe potuto collassare tutto il fianco della montagna e così l’integrità della sua stessa persona.

 

Che diavolo ti è successo per ridurti così?! Cosa ti hanno fatto, ancora? C’è qualcuno con te, dentro di te, non parlo di Dègel, la tua precedente vita, non solo, c’è… cosa sarebbe questa cosa, perché non me ne sono mai reso conto prima di adesso? Eh, certo che eri strano anche allora, da poppante, ma qui, in questo momento… questo follicolo nuovo, al tuo interno, che emana un’energia mostruosa, più grande di noi Dorati Custodi messi insieme, più grande perfino della stessa dea Atena, di Zeus, degli Olimpi tutti… di cosa si tratta?!

E’ da lì che ti stai sfaldando, oppure..?

 

Death Mask preferì non pensarci. Tacque, nel silenzio della stanza, facendo tacere perfino i pensieri. Non lo avrebbe detto a Francesca, no, né a nessun altro, cosa sembrava celarsi dentro il grembo del Cavaliere dell’Acquario, essersi svegliato, pur non spiegandosi come fosse stato in grado di riuscirci ed essere passato inosservato fino a quel momento.

Non glielo avrebbe detto a nessuno, no, ma temeva, anzi, ne era proprio certo, che, presto, sarebbero stato qualcun altro a riferirglielo, perché era una cosa troppo grossa per essere celata.

Si morse ancora una volta il labbro inferiore, a disagio, prima di abbassare lo sguardo sulla sua ragazza, profondamente addormentata. Le accarezzò la testa più volte, prima di sorridere automaticamente.

Aveva mentito, non si sarebbe allontanato subito da lei, neanche quando Mu o Shura sarebbero giunti per il cambio. Si accucciò quindi al suo fianco, permettendosi di chiudere gli occhi per seguire pedissequamente il suo respiro regolare, crogiolandosi in esso.

Fanculo le guerre, il pazzo sadico, i problemi esistenziali e pure i rimorsi… quello era il momento di vivere, assaporare il nucleo profondo della vita, legarsi a esso, indissolubilmente. Sorrise automaticamente.

Si addormentò così, vinto dalla stanchezza, la testa appoggiata sulla sponda del letto, la mano intrecciata a quella di Francesca.

Si addormentò così, per la prima volta da tanto, tantissimo, tempo, non completamente soggiogato dalle ombre del passato.

 

 

* * *

 

 

Milo era seduto per terra, appoggiato ad una delle colonne del tredicesimo tempio, le braccia conserte e il viso nascosto tra la piega dei gomiti e le ginocchia. Ogni tanto dava un’occhiata alla porta della infermeria dove avevano portato Camus per prestargli le prime cure. Non sapeva nulla delle condizioni del suo migliore amico, se non quello che aveva visto con i propri occhi.

Quando, dopo essere tornato nuovamente giovane, virile e nel pieno delle energie, era giunto nei pressi della spiaggia indicatagli mentalmente da Hyoga, vi aveva trovato solo Michela in lacrime adagiata sul corpo privo di coscienza di Camus. Gli era parso subito, con il cuore in gola, che fosse vistosamente agitato, il respiro arrivava frenetico all’addome, a sua volta scosso da spasmi e contrazioni impressionati. Del Cigno invece non vi era più alcuna traccia, sebbene si fosse raccomandato -direttamente minacciandolo!- di rimanere in zona e non muoversi, perché aveva percepito fosse a sua volta ferito gravemente a causa delle increspature meno fitte del suo cosmo.

Nulla da fare, orecchie da mercante, se ne era andato, giudicando probabilmente concluso il suo compito e altresì certo che presto avrebbero soccorso il suo maestro e la fidanzata. Se ne era andato… lasciando nuovamente quel vuoto, quel posto che invece gli spettava di diritto.

Milo, a quella constatazione, aveva ringhiato, lo aveva mandato mentalmente a fanculo, pensando per un solo istante di andarlo a ripescare, dagli una sberla, imponendogli di stare lì, con loro, la sua famiglia, che aveva così bisogno di lui. Ma i suoi occhi esperti avevano capito subito che sia Camus che Michela erano in gravi condizioni, che qualcuno si era già mosso a prestare soccorso a Hyoga, la cui flebile aura, debolissima, pulsava non molto lontano, attorniata da altri cosmi amici, splendenti. Aveva quindi scelto, non senza un certo rammarico, di lasciarlo cuocere nel proprio brodo, di rendersi utile lì, perché la situazione era critica.

Quasi senza accorgersene, si era precipitato verso mentore e allieva, il cuore sempre più forsennato nel petto mano a mano che, avvicinandosi, le condizioni in cui versava l’amico si facevano sempre più delineate. Aveva urlato i loro nomi, li aveva chiamati, ma nessuno dei due aveva dato l’impressione di poterlo udire. Di conseguenza, si era buttato a capofitto, scrollando Michela, la quale, nel riprendere finalmente coscienza di sé, l’aveva fissato con occhioni gonfi di paura, prima di fiondarsi tra le sue braccia e cominciare a sproloquiare frasi che Milo capiva a spizzichi e bocconi.

L’aveva stretta, cercando di confortarla, nonostante tutta la sua attenzione fosse per l’amico di sempre, per le sue condizioni critiche, per… quello strano liquido dorato che gli usciva continuamente dall’ombelico, sporcandogli buona parte del ventre scalpitante.

Ne era rimasto inevitabilmente sconvolto Milo di Scorpio, Cavaliere dell’Ottava Casa, perché la pancia di Camus si contraeva in maniera del tutto involontaria, preda di quelle che, ai suoi occhi sbigottiti, parevano delle vere e proprie doglie da parto. Facevano dannatamente impressione e…

...E Michela aveva continuato a parlare, diavolo, sostenendo che era stata opera di una tizia, Tiamat, che era lei ad essere dentro Camus, a fargli tutto quel male; che tutto faceva comunque parte del piano del negromante pazzoide, il risvegliarla, per poi possederlo, e ci era quasi riuscito, con le sue strie venefiche, oscure, che gli avevano contaminato i vasi sanguigni e i capillari, diffondendosi ovunque.

Ma -Milo lo aveva osservato allibito, cercando di comprendere a cosa la ragazza si riferisse- non vi era nulla sul corpo del suo amico, se non delle bruciature e quella perdita di fluido dorato ben lontano dall’essere contaminato di nero. Era inquietante, d’accordo, incomprensibile, certo, tuttavia…

Non aveva avuto il tempo di dare voce ai suoi dubbi. La ragazza era scoppiata nuovamente a piangere e giù altre lacrime, altre frasi, peraltro ancora più incomprensibili di prima, altri strilli. Impossibile cavare un discorso di senso compiuto.

Milo, ancora seduto per terra, sconvolto, si rammentò con amarezza che, per un solo attimo, l’aveva pensata fuori di testa. Alle domande del resto -Michela, cosa vi hanno fatto, quindi?- la ragazza non dava risposte concrete, continuando invece a vaneggiare su quanto fosse successo, su quanto fosse stato eroico Hyoga a salvare Camus, su quanto terribili fossero le strie del maestro. Lo Scorpione, da un certo punto in poi, non aveva avuto il coraggio di chiederle nient’altro. La vedeva chiaramente sconvolta, ed era lampante che le avessero provato a fare qualcosa di brutto, oltre che di male, a giudicare da quanto fossero disastrati gli abiti che, a stento, la ricoprivano parzialmente.

Cosa diavolo era successo, insomma?!?

Poi fortunatamente erano arrivati altri rinforzi a soccorrere Camus, alcuni compagni Cavalieri d’Oro e i Guaritori superstiti. Si erano disposti a cerchio intorno a lui, cominciando a tastarlo in più punti, controllando minuziosamente le sue funzioni vitali, infilandogli drenaggi e flebo. Milo non aveva potuto far altro che allontanare Michela urlante per permettere a loro di essere liberi di agire su quel corpo nuovamente devastato. Gli aveva così voltato dolorosamente le spalle, addolorato, sapendo bene di non poter fare nulla, la ragazza sempre più disperata che continuava a chiamare il nome del proprio maestro, opponendosi, cercando di raggiungerlo di nuovo, di toccarlo… ancora...

Gli era costato, qualcosa gli si era strappato nuovamente dentro… ma se Camus dell’Acquario fosse stato sveglio e cosciente, sapeva bene cosa si sarebbe raccomandato di fare, era perfettamente consapevole si sarebbe preso cura prima di lei, crollando poi sfinito solo nel momento in cui la sua pupilla, ormai al sicuro e medicata, si fosse addormentata.

Lo Scorpione non possedeva doti curative, sapeva solo arrestare un’emorragia in maniera drastica quando non c’erano altri espedienti, ma quel fluido dorato sembrava così diverso dalla norma, lo aveva disorientato, consegnandogli la spiacevole sensazione che, se solo avesse provato a premergli un punto di pressione, ne avrebbe peggiorato soltanto l’uscita.

Lasciando così il cuore e il suo amico, aveva portato Michela all’undicesima casa. Dopo una breve ricerca, era riuscito a trovare fortuitamente delle medicine, delle creme e delle bende, persino dei tranquillanti, che non aveva esitato a far assumere alla ragazza, sempre più sconvolta dall’esperienza passata.

Michela aveva parlottato ancora… erano usciti i nomi di prima, quelli di una certa Tiamat, di Hyoga e, uno nuovo, un certo Utopo, poi, vinta dalla spossatezza e da tutti i fatti subiti, era crollata addormentata. Milo era rimasto un po’ a massaggiarle la testa per tranquillizzarla, l’aveva quindi coperta con la trapunta, affidandola poi ad una inserviente nel raccomandarsi di farla riposare; lui sarebbe tornato presto, dopo essersi recato all’ultimo tempio.

Ed era ancora lì Milo di Scorpio, attonito, confuso e con quel dannato peso sul cuore. Provò a contattare Hyoga, ancora una volta, ma il suo flebile cosmo era troppo lontano per essere raggiunto.

“Al diavolo, Hyoga! Proprio in un momento simile!” imprecò, picchiando con enfasi la nuca contro la colonna per tentare di sbollirsi e dare un minimo sfogo a quello che sentiva.

Sciocco, sciocco, sciocco! Non ti rendi conto, tu, di quanto servirebbe a Camus la tua vicinanza, a maggior ragione in un momento come questo!

“Milo...”

Quasi si rizzò nell’udire la voce di Mu che usciva dall’infermeria, saltò in piedi nello scorgere il compagno d’armi e amico carissimo in procinto di avvicinarsi a lui.

“M-Mu! Cosa mi puoi dire di… di…”

Niente aveva preso a tremare, la tenuta aveva retto fino a due secondi prima, ora stava crollando miseramente.

“Abbiamo dovuto parzialmente sedarlo, non riuscivamo a tranquillizzarlo in altra maniera...”

“Ma come sta?” insistette lui, trepidante.

“Non bene...”

“Per le strie?”

“Quali strie?”

“Non avete visto delle… ramificazioni nere sul suo corpo? Michela asseriva che...”

“No, questa mi giunge nuova. Ha delle bruciature, questo sì, ma le strie...”

Sembrava in evidente difficoltà, non riusciva a raccapezzarsi, quindi -ne dedusse lo Scorpione- con i poteri psichici che si ritrovava, di gran lunga superiori ai suoi, non aveva individuato comunque niente, ma era impossibile che Michela, nonostante fosse sotto shock, se le fosse semplicemente immaginate.

“E allora che bisogno c’era di sedarlo?”

“Chiamava insistentemente Hyoga tra un ansito e l’altro, poi ha avuto un brutto crollo, gli abbiamo dovuto fare una nuova flebo con medicinali più potenti… è molto caldo, soprattutto l’addome, le bruciature non sono gravi, ma quel fluido dal suo ombelico ci desta preoccupazione...”

“Ascolta, Mu, ho cercato di capire qualcosa dallo sproloquiare di Michela, lei dice che sta così perché...”

“...Perché uno degli sgherri del Mago gli ha fatto dei prelievi lì, lo sappiamo.”

“Deve trattarsi di Utopo...” rimuginò Milo, preoccupato.

“Utopo?” chiese spiegazioni Mu, attento.

“Da quanto ha balbettato Michela, sì… questo è il nome di colui che li ha attaccati, ma non so altro!”

“Comunque abbiamo individuato la ferita, anche se non è che un forellino. Questo… questo Utopo che tu dici deve aver pungolato proprio quel punto per tentare di risvegliare, e poi estirpare, Tiamat!”

“Aspetta, quindi costei esiste davvero?! Michela l’ha nominata spesso, ma pensavo che… che fosse talmente sconvolta da...”

“...”

“Ehi, Mu, ma dico! Come sapete questo se Camus è...”

“Il Nobile Shion lo sapeva, ti sarà illustrato anche a te...”

L’amico sembrava sinceramente sconvolto per qualcosa, tuttavia non sembrava volerne parlarle. Guardò altrove, a disagio.

“Mu, dimmelo, cosa...”

“Non io. Il mio Maestro Shion mi ha chiesto espressamente di non farne parola, perché è un argomento che desidera trattare lui.”

“Ne sa una più del diavolo, eh...”

“E’ così difficile da credere...”

Cadde il silenzio tra loro, il dialogo sembrava arrivato ad un punto morto, privo di sbocchi.

“Posso… entrare, secondo te?” chiese il Cavaliere di Scorpio, con riluttanza.

“Sì, vai… il Nobile Shion e Shaka sono ancora con lui. Vai, Milo, a Camus piacerà percepire una presenza amica.”

Si ritrovò ad annuire, prima di avviarsi verso l’infermeria; tuttavia qualcosa, un pensiero, lo bloccò. Si voltò quindi verso il parigrado, l’espressione un poco tesa.

“Mu, come ti senti dopo l’esperienza appena trascorsa?”

“Non ricordo… nulla… dopo quel profumo così intenso.”

“Meglio così, davvero...” gli sorrise affabile, traendo un respiro di sollievo.

“E tu invece?”

“Io ricordo troppo… e non è bello!”

“Ci hanno riferito che sei invecchiato, mentre noi ci siamo involuti fino a tornare neonati. Ancora stento a crederci, amico mio, è successo qualcosa di simile anche a Kiky, ma lui...” un lampo di orgoglio passò negli occhi dell’Ariete. Era certamente fiero dell’allievo, quanto ancora incredulo e sconvolto per i fatti antecedenti.

“Me lo ha raccontato Aphrodite, sì, quel piccoletto si è mostrato ben degno della carica che dovrà ricoprire!” lo lodò Milo, genuinamente felice per i traguardi raggiunti.

“Lo penso anche io… - Mu si abbandonò ad un sorriso ricolmo di affetto, che tuttavia nascose ben presto nella solita espressione calma e composta – La strada che dovrà percorrere, però, è ancora parecchio lunga.”

Di nuovo lo Scorpione annuì, pensieroso. C’erano stati molti morti, soprattutto tra i soldati semplici e le schiere più giovani. Il recuperare l’Ergon, grazie a Francesca, Stevin, lo stesso Kiky e Aphrodite, aveva riportato indietro -o meglio, avanti- solo coloro che si erano ritrovati neonati, per gli altri non c’era stato niente da fare. Certo, ci sarebbe stato il tempo per piangere tutte le vittime, ma in quel momento una pacca sulla spalla era quanto di più concreto Milo potesse fare. Così fece, abbozzando un sorriso al caro amico, prima di dirigersi verso l’infermeria.

Fuori il sole, complici le giornate brevi di quella stagione, verteva già verso il tramonto. La flebile luce diffusa, rossa come il sangue, retaggio della nefasta giornata appena trascorsa, non faceva altro che ricordarlo.

Milo entrò nella stanza in punta di piedi ma, appena vide Camus, il suo migliore amico, steso sul letto, qualcosa si troncò dentro di lui. Accelerò il respiro e così i passi, fissando sdegnato sia Shion che Shaka, il primo intento a bloccargli le braccia vicino al cuscino, il secondo del tutto concentrato a pressargli uno dei marchingegni del diavolo sul viso. D’istinto, provò il desiderio interiore di dare una mazzata nei denti ad entrambi, poi però, ricordandosi che era un Cavaliere e non un animale, e che coloro che aveva davanti erano uno un parigrado e l’altro addirittura un superiore, raccolse quanto più ossigeno possibile per farlo affluire al cervello e darsi così una calmata.

“Aaaaah, cosa… cosa diavolo è tutto questo?! Cosa gli state facendo?!”

Ok, forse non proprio una calmata, ma… quasi!

“Non preoccuparti… è stabile adesso.”

“Stabile un cazzo, Shaka! Lo avete spogliato per torturarlo?! - si agitò vistosamente, percorrendo centimetro per centimetro tutto il corpo dell’amico con lo sguardo – Pure il respiratore e… e cosa diavolo è quella roba?!” sbraitò, alludendo agli elettrodi che gli erano stati attaccati intorno all’ombelico, dove svettava una prima medicazione volta allo scopo di tamponare l’uscita del fluido.

“Gli abbiamo somministrato una seconda dose di sedativo così, come se fosse un aerosol. Non ti angustiare Milo, non è terribile come sembra e... parla a bassa voce, se puoi, lo disturberai, altrimenti...” gli sussurrò Shion. con un pizzico di severità, pur capendo le emozioni del Cavaliere.

“Era molto agitato, straparlava, invocando Hyoga e Marta. Il suo cuore batteva all’impazzata, rischiando un ben più grave collasso cardiocircolatorio. Non avevamo alternative, Milo... - andrò dritto al punto Shaka, gli occhi azzurri sinceri e limpidi, anche troppo – E poi lo dovremo rigirare presto come un calzino, meglio che dorma senza opporsi!”

Milo desiderò prenderlo a testate selvagge, non fosse stato altro che per il tono indelicato che aveva adoperato, tuttavia si rese presto conto che era a sua volta ferito a seguito dello scontro contro Ermete, e che non si era affatto medicato, limitandosi a fasciarsi il corpo alla ben meglio per prestare le prime cure a Camus. Ciò lo ammansì, sebbene il cuore fosse gonfio di pena. Trasse un profondo respiro, sforzandosi di ritornare alla calma.

Osservò quindi il suo migliore amico, la mascherina che gli copriva parzialmente il volto, tenuta saldamente dalle mani di Shaka, l’espressione sofferente, tesa, le palpebre forzatamente serrate che fremevano a vista, e poi ancora... le cicatrici sul petto, poco più scure della sua cute, le bruciature arrossate, pur già trattate con gli unguenti e, dulcis in fundo, gli stramaledettissimi elettrodi che si alzavano e si abbassavano a ritmo del suo respiro indotto. Su e giù… come il suo ventre, come il suo torace. Non vi era nulla di naturale in quel movimento controllato, in quelle contrazioni e dilatazioni che erano predisposte dagli stessi marchingegni e che agivano in sua vece.

Shion gli mise una mano sulla spalla, comprensivo: “Credimi, è meglio per lui se rimane incosciente per gran parte del tempo, visto che dovremo… visitarlo… e tenerlo sotto stretta osservazione per giorni!”

“Per-perché?”

Shion sospirò, tornando a concentrarsi su Camus, ma fu la Vergine a prendere la parola.

“Gli hanno fatto dei prelievi incontrollati nell’ombelico, dal quale, come vedi, esce un fluido dorato. Potrebbe rischiare il formarsi di un’embolia, o di un trombo, e inoltre…”

Milo lo guardò male, quasi gli ringhiò, non apprezzava quando il compagno andava troppo dritto al punto senza prima dargli il tempo di metabolizzare la notizia: “Spiegati meglio!”

Shaka non rispose subito, diede un’occhiata nervosa al monitor studiando le linee e i segmenti che comparivano sullo schermo, poi chiese il parere del Grande Sacerdote Shion.

“Sembra appena addormentato. Dopo due dosi di sedativo dovrebbe essere molto più inibito di così!”

“Temo sia il massimo che possiamo ottenere da questa situazione...”

“Procedo comunque, Sommo?”

“Sì, hai il mio benestare!”

Milo non poteva far altro che rimanere ad osservare, impotente, lo svolgersi degli eventi davanti a sé, un nodo stretto alla gola, senza nemmeno sapere cosa dire per provare ad alleggerire la tensione palpabile nell’aria. Guardò attentamente il Cavaliere della Vergine piegarsi verso il viso di Camus, alzargli un poco la nuca, togliergli la mascherina e rimanere lì, a contare la cadenza del respiro. Uno… due… tre volte…

Shaka infine si raddrizzò, di nuovo diede un’occhiata indicativa al Grande Sacerdote, come se si potessero capire solo loro, per poi rovesciare meccanicamente la testa del compagno all’indietro.

“EHI, MA CHE CACCHIO!” alzò subito il tono Milo, confuso da quel gesto che, dal suo punto di vista, era semplice brutalità non richiesta.

“Respira regolarmente adesso...” sentenziò Virgo, prima di avvicinarsi ulteriormente al monitor per studiarlo attentamente.

“Ossigenazione?”

“97… praticamente ottimale!” rispose la Vergine, dopo aver controllato i valori del saturimetro.

Parevano due medici, si comprendevano solo loro, parlavano solo tra loro. Milo, se non fosse stato per l’amico, che -lo sentiva- necessitava di una presenza amica, li avrebbe volentieri mandati entrambi a spigolare.

“Bene, si è calmato a sufficienza. Shaka, mi confermi il sentore di prima?” chiese ad un certo punto Shion, accompagnando lungo i fianchi le braccia di Camus che non reagiva più a niente, vinto dal sonno cui lo avevano costretto a cadere.

“Non c’è alcun dubbio, Grande Sacerdote...”

“Sono ordunque quello che sembra?”

“Sì, sono… battiti!”

“COS…?!” a Milo uscì una nuova esclamazione forzata.

“...piuttosto irrequieti, anche...”

“Non vi è alcuna incertezza quindi… aveva ragione!”

“EHI, ASP… ASPETTATE!”

“Sì, deve essere lei, TIAMAT!”

A quel punto Milo, sentendosi il terzo incomodo in una situazione, quella del suo migliore amico, che invece gli premeva assai, diede in escandescenza, non capendo nulla di quel dialogo surreale che sembrava volerlo defilare volontariamente.

“MA CHE CAZZO STATE DICENDO?! MI VORRESTE DIRE CHE DENTRO CAMUS...”

“...Vi è una dea ancestrale, sì, Tiamat è il suo nome!” tentò di spiegare per la via breve Shaka, guardandolo con urgenza mista a compassione, neanche fosse stata la cosa più naturale del mondo.

“Come sì?! Vi sfugge un particolare: CAMUS E’ UN UOMO! E mi state dicendo che dentro di lui c’è… c’è!!!”

“La dea Tiamat, il Potere Primordiale della Creazione, quello che, dalle vostre informazioni, il Mago brama follemente! - continuò placido Shaka, cominciando a capire che, forse, arguire quella consapevolezza, era tutto meno che semplice. Sospirò, decidendo di ammorbidire il suo tono di voce sin troppo tagliente – Stiamo cercando di capire anche noi, Milo… lo stiamo facendo per Camus!”

“M-ma… ma...”

Sconvolto. Gli mancavano proprio le parole. Boccheggiò come un pesce: “Una cosa dentro di lui; dentro di lui che è un uomo… credo di sentirmi male!”

“Comprendo, è alquanto… insolito!” annuì Shaka, manifestando per la prima volta apertamente lo sbigottimento.

Fu Shion a prendere in mano nuovamente la situazione con piglio deciso: “Trovi quindi necessario fargli un’ecografia all’addome per tentare di scovarla?”

“Sarebbe meglio, Sommo, per vedere se questa… cosa… sia distinguibile. Da quanto avete detto, dovrebbe avere le le sembianze di un feto, giusto? Ma è… difficile da credere! L’ecografia dovrebbe rilevarla!”

“Io non… non ci posso credere!” biascicò sempre più esterrefatto Milo, spalancando gli occhi oltre l’umano possibile per poi appoggiarsi alla parete per non cadere.

Camus con una dea fetale in grembo… Cosa avrebbe raccontato alle sue allieve?! Che era… incinto? O cosa? No, ma Camus era un uomo, cazzo, e un uomo non poteva avere quel dono, e allora… ALLORA CHE DIAVOLO ERA?!

“Molto bene allora, vai, fai venire due Guaritori e prendi l’ecografo, meglio farlo ora, che Camus è sedato, da sveglio non… non sopporterebbe tutto questo!”

Shaka annuì, qualcosa baluginò nei suoi occhi, poi uscì dalla stanza.

Milo rimase in silenzio a fissare l’amico perso nell’incoscienza. Gli occhi gli erano rimasti chiusi, non più serrati, il respiro sempre dispnoico, con quei cosi incollati in lungo e in largo sul suo busto che lo monitoravano e assecondavano i movimenti della sua respirazione. Elettrodi. Sul petto per controllargli il cuore, sull’addome per controllare un ALTRO cuore, come se davvero fosse stato possibile che ci fosse un essere dentro di lui.

“E’ solo momentaneo, Milo, ha comunque perso molto sangue ed è stremato. Le macchine ci aiutano a percepire ogni più piccola variazione delle sue funzioni vitali. Vedi?”

“Ho 22 anni, so… so anche io il funzionamento di questi oggetti del diavolo!”

“Comprendo bene il tuo sentirti perso...”

“Perso, incredulo, costernato…”

“Ed è normale, questo...”

Lo Scorpione annuì, faticando non poco a trovare le parole: “Posso… stringergli almeno la mano?”

“Ma certo! E’ sempre Camus!”

Milo voleva dirgli che sapeva benissimo che Camus era, e sarebbe sempre stato, Camus, ma aveva bisogno di elaborare la notizia, che diavolo!

“Copritegli almeno le zone intime… si sentirebbe male, se sapesse di farsi vedere in simili condizioni. E’ così orgoglioso...” chiese, in un tono a metà strada tra una risata nervosa e la rassegnazione più completa.

Poi si sedette sulla sedia lì vicino, gli prese una mano tra le sue, solleticandogliela un poco, cercando di non farsi sconfortare dalle flebo che gli legavano le braccia già piene di lividi rossastri.

Shion intanto, dopo averlo sistemato meglio sul cuscino, decise di iniziare i preparativi per l’ecografia. Lo raddrizzò, tirandogli poi il lenzuolo in modo da coprirgli almeno l’inguine. Staccò momentaneamente tutti gli elettrodi per il monitoraggio, mentre, con più lentezza, rimuoveva anche la medicazione di fortuna.

Milo si costrinse a guardare; a guardare l’origine di tutti i mali: un minuscolo forellino che faceva ridere e che tuttavia spurgava una grande quantità di un fluido dorato, misterioso, come gli era stato detto. Dentro, nella fossetta, era in formazione un vero e proprio ematoma violaceo in apparente espansione. Sembrava dolere alquanto ma, più di tutti, era proprio il quantitativo di liquido che perdeva a sconvolgerlo nel profondo.

“Che diavoleria è?!”

“Pensiamo che sia il sangue di Tiamat a tingere la sua linfa vitale del colore dell’oro… ella ha trovato rifugio in lui.”

“Voglio sentire le parole da voi, Nobile Shion: c’è veramente questa dea dentro di lui?!”

“Sì…”

“Ma non può essere, Sommo!”

“Comprendo la tua incredulità, Milo, davvero...”

“Come ne siete venuto a conoscenza?” chiese lo Scorpione, sforzandosi di fissare il Grande Sacerdote in viso.

“Diciamo che… è da più tempo di quanto immagini che so della sua esistenza; di questo potere, non di Tiamat nello specifico, e ho fatto delle ricerche, ma senza l’aiuto di un amico comune, che entrambi ben conosciamo, non ne sarei venuto a capo...” calcò l’ultima frase in un fremito.

“Un amico… chi?”

Shion esitò un attimo in più, ingoiò a vuoto, prima di ricambiare lo sguardo: “Dègel, il Cavaliere dell’Acquario!”

Milo si convinse di aver sentito male. Percepì la sua espressione facciale mutare in maniera inequivocabile, ma non seppe definirla. Attese. Perché di certo Shion avrebbe ritrattato, oppure era stato lui ad aver sentito male, o forse ancora l’ex custode della Prima Casa stava scherzando, o anche…

Non ebbe comunque il tempo di chiedere delucidazioni in merito che rientrò nuovamente Shaka con tutti gli arnesi del diavolo al seguito. Lo Scorpione si fece forza sulle gambe per spostarsi, sebbene gli costasse moltissimo lasciare la mano dell’amico e ritrovarsi nuovamente impotente a osservare come uno spettatore qualsiasi.

Shaka e Shion non esitarono un attimo, ringraziati i due curatori, cominciarono a preparare Camus a quella visita. Gli allargarono un poco le braccia, gli spostarono gentilmente i capelli per evitare che si sporcassero, e accesero il monitor. Shaka prese quindi la sonda tra le mani, Shion il tubetto del gel che, subito, grazie ad una leggera pressione, fuoriuscì.

Al contatto della sostanza sulla sulla pelle, probabilmente per il freddo improvviso in un universo di caldo anomalo, il corpo sfinito di Camus sussultò, una sola volta, prima di abbandonarsi ulteriormente. Gli venne pigiata delicatamente una mano sopra lo sterno.

“La pancia è innaturalmente calda, non riesco a quantificare quanto, ma sicuramente supera i 40 gradi...” constatò Shion, iniziando a passare il gel su tutto il ventre di Camus, arrivando a coprire le costole, sebbene in maniera minore.

La mente di Milo, a quelle parole, venne ricondotta alla tecnica Katakaio della sua precedente vita. Ebbe un fremito nella paura che, quell’arcano potere, potesse funzionare nella stessa maniera, arrivando a logorare le interiora.

Shaka, ancora una volta, non disse nulla. La sua apparente noncuranza indispose ulteriormente lo Scorpione, abituato a reagire in ben altri modi, soprattutto quando si trattava del migliore amico. Semplicemente si limitava a muovere la sonda con movimenti circolari su tutta la pancia di Camus, premendo nelle zone di maggior interesse.

Gli occhi viola di Shion passarono nuovamente sul monitor, lo sguardo di Milo lo seguì, ma dovette ammettere, suo malgrado, di non capirci nulla di quelle immagini indefinite che sembravano quasi macchie di… di latte, o… o cos’altro? Come ci si poteva orientare in tutto quello?!

“Vedete qualcosa, Nobile Shion?” chiese ad un certo punto Shaka, alzando lo sguardo azzurrino.

“No, questa è l’appendice… spostati di un poco Shaka, così, premi lì!”

Premere lì… dove?!

Shaka schiacciò l’ecografo sopra l’ombelico, un mormorio di protesta, soffocato, si levò debolmente, prima di spegnersi. Milo non poté fare finta di niente.

“Ehi!”

“Qui nulla… vai un poco più giù, sotto!”

“Così?” chiese Shaka, togliendogli, senza troppi convenevoli, il lenzuolo da sopra l’inguine per potergli controllare meglio il basso ventre.

Camus voltò sofferente la testa di scatto, serrando la mascella, gesto che non sfuggì all’amico di sempre, contrariamente agli altri due, del tutto concentrati a reperire qualcosa da quella perizia.

“Ma… EHI!”

Ancora Milo non fu ascoltato, ma Camus si stava visibilmente agitando, come potevano non accorgersene?! Aveva preso a tremare, cercando di fuggire, il respiro si era fatto ancora più frenetico di prima.

“Non è neanche qui… non c’è niente, NIENTE!” esclamò con rabbia Shion, non spiegandosi la ragione di quella non-presenza della dea, se i battiti invece erano riscontrabili grazie all’ausilio di un semplice stetoscopio.

“Aspettate, provo a premere ancora un...”

Al primo cenno di pressione maggiore, Camus non resistette più. Pur incosciente, sedato e stremato dalla battaglia, tentò di svicolare via, inarcando violentemente la schiena e voltando più volte il viso sudato, quasi digrignando i denti.

“VOI LO STATE TORTURANDO, QUESTA NON E’ NEANCHE UNA VISITA!!!” si agitò Milo nel vederselo così mal partito sotto le mani di Shion e Shaka, ma non ebbe il tempo per fare altro che la Vergine, prendendolo lesto dal polso per mettergli tra le mani l’ecografo, agì di conseguenza.

“Premi qui al posto mio, Milo!” gli disse, senza tanti giri di parole, alzandosi per andare a bloccare per le spalle Camus, il quale aveva preso a muoversi convulsamente.

“Eh? Oh?”

Milo neanche sapeva tenerlo bene uno di quegli affari che scivolavano tra le mani, figurarsi poi pressarlo così sopra il suo migliore amico, ma l’intervento -un poco brutale!- di Shaka, che aveva preso a bloccare Camus sotto di sé, non gli aveva dato tempo di fare altro.

Lo vide incombere su di lui, tenerlo quasi schiacciato sul letto, mentre la schiena di Camus continuava ad arcuarsi al vuoto. Si sentì montare di rabbia per la spietatezza riservata ad un compagno di avventure, nonché ad un amico d’infanzia, ma prima di gridare di tutto alla Vergine, lo udì pregare Budda in modo che lo aiutasse a calmarlo. Un sonoro ‘oooooommmm’ si elevò nella stanza, mentre le sue mani convergevano sopra il cuore dell’Acquario che, pur con il respiro perpetuamente frenetico, aveva finalmente smesso di muoversi.

“S-Shaka...” lo chiamò. E si accorse, Milo di Scorpio, di avere un filo di voce.

“Va bene così, Camus, bravo! Calmati ora, sei al sicuro!”

La voce del Cavaliere della Vergine si era rivolta al compagno d’armi con una punta di dolcezza e premura, gli aveva poi passato una mano tra i capelli e appoggiato il volto di lato nel constatare, con un sospiro di sollievo, la sua respirazione farsi via via sempre più regolare.

“No, qui non c’è davvero niente… - buttò fuori aria Shion, sempre concentrato sullo schermo – Milo, puoi sollevare l’ecografo!”

“Eh? Ah, sì...” si ricompose lo Scorpione, rendendosi conto che, forse per l’ansia, aveva davvero premuto con troppa foga la sonda sul basso ventre di Camus, al punto da lasciargli un segno rosso e circolare sulla pelle. Si sentì di chiedergli scusa, mentre le facce preoccupate di Shaka e Shion navigavano smarrite da una parte all’altra della stanza.

“Quindi… non è visibile in circostanze normali, eppure il battito c’è, si è sentito prima!” ne dedusse Shaka, in tono grave.

“L’unica cosa che mi spiego è che riesca a nascondere la sua forma e, per quanto concerne il battito, probabilmente, se non pungolata, non si percepirebbe neanche quello, ma deve essere ancora agitata. Proprio per questa ragione, è di basilare importanza tenerlo monitorato in questi giorni per constatare ogni più piccola mutazione.”

Shaka annuì, un poco mesto, poi prese un fazzoletto per pulire delicatamente l’addome dell’amico, ancora impiastricciato dal gel. Era riuscito a ricondurre il suo corpo alla calma, ma le palpebre fremevano ancora, impossibile farlo acquietare del tutto.

Shion attese qualche minuto prima di dare nuove direttive al Cavaliere: “Ti chiedo ancora una cosa, vai a prendere una siringa, gli preleveremo altre due fiale di sangue per studiarne la composizione. Forse, almeno lì, riusciremo a distinguere qualcosa!”

“Anche???”

“In questa situazione è necessario, Milo… - affermò subito Shion, dandogli una breve occhiata – Per favore, Shaka!”

Il Cavaliere della Vergine, scuro in volto, annuì di nuovo e, dopo un breve inchino, uscì nuovamente dalla stanza.

Anche gli occhi di Shion erano bui mentre, tirandogli nuovamente le lenzuola per coprirgli la zona inguinale, gli estraeva il braccio sinistro, ruotandolo con il palmo verso l’alto per prepararlo ai prelievi. Fatto questo, prese lo stetoscopio, poggiandoglielo sul ventre senza tuttavia premerlo troppo, e iniziando a compiere il giro dell’ombelico. Lo sondò sopra, sotto, a sinistra, a destra, centro, prima di sospirare nuovamente e buttare la testa indietro, affranto.

“Il battito si percepisce ancora, anche se attutito… ma allora perché non si vede nulla?! Che razza di…?!”

Non ultimò la frase, trattenne l’emozione, memore del ruolo che rivestiva, permettendosi comunque di accarezzare dolcemente quel ragazzo che, nonostante le divergenze e le difficoltà, aveva imparato ad amare come un figlio.

“Va tutto bene, Camus, abbiamo quasi finito… stai tranquillo!” gli sussurrò, sfiorandogli la linea dell’addome con la punta delle dita come se si trattasse di acqua che scorreva delicata sulla pelle.

“Poco fa ti ho fatto il nome di Dégel, Milo, ne sarai sorpreso e ti chiederai come sia possibile...” riprese il discorso poco dopo, riaprendo gli occhi lilla che nel frattempo aveva chiuso.

“Sì, lo avete fatto, ma… pensavo che vi foste sbagliato, o...”

“No, nessuno errore, lui è ancora qui… è rimasto qui, per Marta, mi capisci?”

Milo si ritrovò a sussultare, aprendo a vuoto la bocca nel tentare di metabolizzare la notizia. Nonostante la sua tempra da Dorato Custode, suo malgrado, si ritrovò presto con la gola secca. Sbatté gli occhi. Per tre volte credette di aver trovato qualcosa da dire, per tre volte il nulla ne susseguì: non c’era semplicemente niente da aggiungere!

Anche Shion tacque per diverse secondi. Guardò Camus, gli accarezzò ancora il volto pallido, ritrovandosi per l’ennesima volta a chiedersi quanto ancora quel ragazzo avrebbe sofferto in vita sua. Si ricordò di quando si erano incontrati la prima volta, del suo estremo tentativo, sin troppo coraggioso, di salvare la sorellina dalle mani di Fei Oz che si era dimostrato, già all’epoca, un viscido verme e nient’altro. Sospirò.

“Marta… un mese dopo il nostro ritorno, diceva di aver visto lo spirito di Dégel e di averci parlato. Né io né Camus né le ragazze riuscivano a crederci, ma… allora è davvero così!”

“Sì… - confermò Shion, gli occhi velatamente tristi – in verità, non so da quanto di preciso sia riuscito a manifestarsi nel mondo fisico, quanto abbia impiegato per essere in grado di condizionare l’ambiente intorno a sé… deve essersi attaccato a qualcosa per riuscirci, l’anima di Camus è mutilata, il frammento mancante è quello che consente a Dégel di agire...”

“CO-COME?!”

“Per questo avevo allontanato Camus dal Santuario nel timore che Dégel potesse… nuocergli! - calcò l’ultima parola, lo sguardo ulteriormente rabbuiato – Certo non mi sarei aspettato un attacco di questo livello!”

“Ma Nobile Shion, che Dègel voglia fargli del male è...”

“...Impossibile? Già, Dègel è troppo di buon cuore per attentare alla sua vita, no? Lo pensavo anche io, ma… si sta corrodendo, Milo!”

“Si sta..? COSA?!?”

Lo Scorpione era sempre più incredulo, costernato e allibito davanti a quei timori. Aveva conosciuto personalmente Dègel, si era confrontato e, cosa non meno importante, era stato Cardia in una vita passata, non poteva nemmeno pensare di credere ad una simile accusa, non poteva calpestare così un’amicizia secolare!

“Uno spirito che non trova la pace si deteriora, e Dègel, nonostante il suo buon cuore, non fa eccezione...”

“...”

“Ho ben visto come guarda Marta, ho ben visto che desidererebbe tornare alla vita, con lei, per lei e… io spero di no, Milo, ma… non vorrei che...”

“Pensate che… voglia ricongiungersi all’anima di Camus, che è anche la sua, e prenderne il controllo?!?”

“Può essere, sì...”

“No che non può! Non sarebbe da Dègel!!!”

“Si sta consumando, Milo… c’è qualcosa che lo tiene fermo qui, oltre a Marta, però non ho compreso ancora che cosa. La vita è così difficile da lasciare, ancora di più se si hanno questioni in sospeso...”

“Mi volete convincere… che sia un pericolo per Camus? No, non posso neanche pensarlo!” ribatté restio Milo, serrando la mascella e i pugni.

“Neanche io lo vorrei credere, Milo, davvero...”

“E allora cosa… cosa ci state facendo con lui?! Avete allontanato Camus per paura che Dègel potesse provare l’istinto di aggredirlo, ma ancora non mi avete spiegato di cosa avete disquisito con lui, Sonia e Marta!”

“C’era anche Myrto, lei ne è la chiave, lo vede e ci discorre da anni...”

“CO… ASPE, frenate, franate, frenate! Troppe rivelazioni in una botta unica il mio cuore non le regge!”

“Che strano… sbuffò inaspettatamente Shion , sorridendo – Questa è una frase più da Cardia che da Milo, sicuro di essere te stesso, Scorpio?!”

“Io… - Milo esitò un attimo, guardando a disagio altrove, effettivamente da quando era tornato anche a lui era capitato di provare dei pensieri, per così dire, doppi, come se ci fosse un’altra mente oltre alla sua – Mentirei nel dire che l’esperienza nel passato non mi abbia lasciato i segni!”

Shion si lasciò andare ad una breve manifestazione di rilassamento, prima di concedersi di buttare fuori aria, reclinare la testa all’indietro e socchiudere gli occhi in un mezzo sorriso sincero. Tirò un poco su le coperte a Camus, in modo che lo coprissero fino allo sterno, lasciandolo così momentaneamente a riposare, visto che, quando sarebbe tornato Shaka, lo avrebbero nuovamente dovuto girare come un calzino.

“Come siete riusciti a conferire con Dègel? Che c’entra Myrto in questa storia?” chiese ancora Milo, serissimo in volto.

“Oh, per quanto Dègel riesca a muoversi agilmente nei tempi passati e in quello presente, per stabilizzarlo a sufficienza è stato comunque necessario un tributo di sangue...” iniziò il Grande Sacerdote, mostrando la fasciatura sul polso.

“Come per rigenerare le armature… - constatò Scorpio, facendosi sempre più attento – Suppongo quindi abbia funzionato e lui si sia mostrato.”

“Sì, ci siamo riusciti e… sai la prima cosa che mi ha detto? Che non c’era bisogno del sangue dei vivi per darsi così tanta pena per lui, per un morto.”

“Tipico di Dègel...”

“Tipico di Dègel, sì...” gli occhi di Shion si illuminarono brevemente a quella frase.

“Raccontatemi, dunque...”

Shion prese comunque qualche secondo di tempo prima di narrare, con dovizia di particolari, i fatti accaduti. Del resto, Milo era uno dei Cavalieri d’Oro più intuitivi e perspicaci, meritava di conoscere la verità, non solo perché convergeva sul suo migliore amico, ma anche in virtù di essere stato Cardia.

Non lesinò in dettagli. Spiegò del suo piano di attingere ‘oltre i confini della storia’ proprio grazie all’Antico Acquario che, essendo spirito, aveva molta più facoltà di muoversi rispetto ai vivi. Parlò di Tiamat, della Creazione, del perché, secondo i miti greci, il Principio Primo non venisse mai riportato, facendo iniziare tutto dall’imput ordinativo. Rimarcò che la dea primigenia era intessuta nella sua anima probabilmente già dal primo Aquarius, Ganimede, anche se non ne sapeva molto di più, perché, né lui né Dègel, ne erano venuti ancora a capo. E poi Marduk, le brame di quel demonio di Fei Oz Reed, i suoi sgherri, la distruzione intrinseca che si portavano dietro e, infine, del mondo parallelo ombra della Terra, Ipsias, ancora quasi del tutto misterioso.

Milo calmierò e calibrò le informazioni mano a mano che sopraggiungevano. Non ribatte nulla, ma gli occhi estremamente percettivi erano puntati sul volto sudato di Camus che, nonostante i sedativi, fremeva senza requie. Lentamente allungò una mano nella sua direzione, accarezzandogli i capelli che, a seguito del suo passaggio, gli ricaddero in avanti, sulla fronte. Una sola domanda albergava nella sua testa: come avrebbe reagito a quell’ennesimo trauma?

“E’ tutto quello che so per il momento...” concluse Shion, una lieve scintilla negli occhi.

No, non era tutto quello che sapeva -comprese Milo, con un pizzico di fastidio- c’era ancora qualcosa che non rivelava, più di qualcosa, a dire il vero, ma comprese che lo stesse facendo per il bene di qualcuno, nondimeno per il loro stesso bene. Decise di non indagare oltre.

“State usando Dègel… - si limitò a sibilare lo Scorpione, con un’occhiata tagliente di biasimo – Senza neanche fidarvi di lui, di un vostro compagno...”

“Milo… - Shion si sentì più vecchio di quanto non fosse, gli anni sulle sue spalle pesavano sempre di più – Si è offerto Dègel di aiutare e… non potevo negarglielo. Siamo arrivati alle informazioni di Tiamat grazie a lui!”

“Ah sì? E mi sembra giusto allora utilizzarlo come un oggetto e, al contempo, non fidarsi...” sbuffò, senza curarsi di celare il disappunto.

“E’ dura vederlo così, Milo, consumato dalle sue stesse brame...”

“A me sembra che vi stia aiutando molto, e voi… dubitate di lui!” gli puntò il dito contro, rendendosi conto di non capire se fosse stato lo stesso Cardia, dentro di sé, a parlare.

“E’ così difficile, devi credermi...”

“Per voi è difficile?! E pensate a lui, allora, che si ritrova morto e sol...”

“IO DEVO SALVAGUARDARE VOI, PRIMA DI TUTTO, IL FUTURO, NON CIO’ CHE E’ STATO!!!” perse improvvisamente le staffe il nobile Shion, sconvolgendo non poco Milo che, d’istinto, si ritrasse, quasi desiderando mettersi al riparo dalla sua furia.

Non lo aveva mai visto reagire così, con gli occhi lucidi di pianto e il corpo tremante, mai. Non durò che un istante, ma fu terribile.

“Perdonami...”

“No, perdonatemi voi, parlo perché ho la lingua in bocca!” si scusò lo Scorpione, remissivo, scrollando le spalle per dirigere altrove il suo sguardo.

“Io devo proteggere voi, i figli di quest’epoca, non ciò che siete stati in passato! Sono il presente e il futuro a dover essere preservati, per quanto ciò mi addolori… - sottolineò ancora Shion, serrando brevemente le palpebre, prima di riaprirle in un nuovo guizzo e chinarsi su Camus – Abbi ancora un po’ di pazienza, ragazzo, so che non ti piacerà, ma forse un modo per tranquillizzarti c’è...”

Milo lo vide scostargli ancora una volta le lenzuola per scoprirgli l’addome, prendere brevemente il suo viso per raddrizzarlo e passargli successivamente le mani sotto alla schiena per sollevargli un poco il busto.

“E ora cosa…?!” esclamò Milo, allarmato, saltando in piedi.

“Prendi un attimo quel cuscino là!”

“E a che serve questo supplizio ulteriore?!”

“A verificare una cosa...”

Milo fece quanto chiesto, rimanendo a fissare impotente le manovre davanti a lui. Shion riadagiò il busto di Camus in modo che l’addome fosse un poco sollevato, poi, con la mano sinistra, gli schiacciò un poco lo sterno, obbligandolo così ad arcuare a sufficienza la schiena verso l’alto.

Oggi non è proprio la tua giornata, amico mio… -si ritrovò a pensare lo Scorpione, rassegnato- sembra quasi che ogni scusa sia buona per continuare a tartassarti...

Il Grande Sacerdote intanto, con piglio deciso, aveva preso a massaggiargli l’addome con la mano destra e movimenti circolari antiorari, pressando un poco di più quando la radice del palmo doveva muoversi dal basso ventre in su. La pancia di Camus, a quei passaggi ritmici, si contrasse visibilmente più volte… una, due, tre... prima di rilassarsi quasi completamente insieme al suo respiro che, fino a poco prima, era stato fin troppo accelerato.

“Così, bravo, riportala alla calma, solo tu puoi farlo… - lo incoraggiò l’ex Ariete, con voce gentile, sollevato nel vedere che il procedimento avesse effetto – tu che sei stato in grado di ammansire perfino Tiamat!”

“Nobile Shion, che cosa..?!”

“E’ una manovra che mi insegnò un vecchio amico per… per tranquillizzare il bambino nel grembo materno. – ammise lui, un poco a disagio nell’esprimere quel concetto – Fortunatamente sta funzionando bene anche con la dea!”

Quindi stava trattando Camus come se fosse una partoriente?! No, no, anche quello no, che cavolo!

“No, no, no, questa è la ciliegina sulla torta, Sommo, davvero! - si agitò esasperato Milo, facendo dietro-front con tutta l’intenzione di uscire – Io ho bisogno di aria, ADESSO, necessito di...”

Non arrivò ad aprire la porta, qualcuno la aprì per lui, lasciandolo come un ebete con il braccio protratto a vuoto e due occhi celesti che lo scrutavano interrogativamente.

“Vai già via? Lasci il tuo migliore amico così?”

“Ciao Shaka, ben ritornato! - ironizzò lui, mentre lasciava posto al compagno di addestramento per entrare – Sono un po’ sconvolto, sai? Non so se sua Buddità ha inteso, ma c’è una cosa dentro Camus, che è un uomo, lo ricordo, a scanso di equivoci, ti sembra normale?!”

“La nostra posizione lo è? Ne abbiamo viste così tante, Milo, questa non sarà di certo l’ultima! - ribatté Virgo, con una naturalezza disarmante, prima di concentrarsi su Shion – Grande Sacerdote, ho portato quanto necessario per i prelievi...”

“Grazie, Shaka!”

“EHI, VOI DUE, PRONTOOOOO! - si schiarì la voce Milo, innervosito – SCUSATE SE QUESTA STORIA MI SCONVOLGE, EH!!!”

Ma di nuovo non lo stavano più ascoltando, scoprendo nuovamente Camus per liberarlo dagli impedimenti. Gli tolsero il cuscino da sotto per riadagiarlo sul letto e passare nuovamente lo stetoscopio sull’addome, ormai quasi del tutto cheto, anche se ancora caldo.

“I battiti sono molto attutiti adesso, senti?” gli fece notare Shion, passando lo strumento al Cavaliere di Virgo e indicandogli di posarlo poco sopra l’ombelico, prima sul lato sinistro e poi sul destro. Così fece.

“Avete ragione, mio signore, anche se la pelle è ancora innaturalmente bollente… penso che possiamo comunque procedere!”

Milo aveva il cuore in gola, desiderava scappare ma non vi riusciva, perché gli sembrava di abbandonare l’amico di sempre e non se lo sarebbe mai perdonato. Stava diventando sempre più insostenibile tutto quello spettacolo, Camus che veniva nuovamente privato del lenzuolo per rendere più agevoli le manovre e la visita, senza che potesse difendersi, ribellarsi; senza che potesse prendere parte alle decisioni degli altri due, sebbene fosse il suo corpo quello su cui stavano procedendo. Si sentì mancare per lui, un’altra volta.

Destino volle che qualcosa cominciò a vibrare nei suoi jeans. Si prese un risalto, non rammentandosi nemmeno di avere il cellulare in tasca e ricordandoselo solo nel momento in cui lo estraeva nel leggervi sopra il nome di Marta. Probabilmente la ragazza, non avendo avuto più notizie, riscontrando la non raggiungibilità del telefono del fratello, aveva deciso di tentare con lui. Esitò.

“Sommo Shion, è… è Marta!” disse, come un figlio che si aspettava l’imbeccata dal genitore.

“Supponevo che avrebbe chiamato presto. Lei e Sonia erano così preoccupate per voi...”

“Che faccio, quindi?” lo Scorpione aveva davvero bisogno di un consiglio, guardò prima uno e poi l’altro, e poi ancora Camus, che aveva contratto le palpebre, come se avesse comunque percepito qualcosa. Era da lui...

“Mmh… mmmh, M-Mar...”

La riusciva a percepire, nonostante stesse male. Si agitò, muovendosi a vuoto, alla cieca, protraendo il braccio sinistro come a volerla cercare.

“Calmati, ragazzo, non è il momento, questo, per agitarti così!” lo provò a tranquillizzare Shion, trattenendogli ferma la mano sopra le lenzuola del letto.

“Uff, anf… anf...”

“Marta vorrà parlare con il fratello, il quale però è impossibilitato al momento. Scegli tu cosa sia meglio fare, Milo, la conosci meglio di me… - si sentì di dire Shaka, osservando, con i suoi occhi turchesi, il profilo dello Scorpione, prima di chinarsi nuovamente sul compagno che non ne voleva sapere di acquietarsi – Ma, se possibile, qualunque scelta farai, non qui dentro. Camus si agita per un nonnulla, non gli fa bene!”

Già, la faceva facile, lui, ma… che fare?!

Era comunque vero, Camus sarebbe stato capacissimo di risvegliarsi per lei, perché la sentiva; sentiva che era Marta, la sorellina, a chiamarlo, ma permettergli di ridestarsi in quel momento così critico per lui sarebbe stato nocivo per la sua stessa salute. Milo sospirò sonoramente, prima di decidersi. Non era più tempo per temporeggiare.

“Vado fuori dalla stanza… voi cercate di calmarlo!” decretò, sebbene gli costasse non poca fatica abbandonare l’amico di sempre nelle mani di due persone che, sì, si prodigavano per lui, ma non con la premura e la delicatezza di cui aveva bisogno.

Se solo ci fosse stata ancora Seraphina...

 

 

Milo’s POV

 

 

Seraphina… solo la tua dolcezza avrebbe potuto tranquillizzarlo con pochi, semplici, gesti. Se solo il destino non fosse stato così ingiusto con voi due!

Preda dei miei pensieri, nonostante abbia ormai preso la mia decisione, tentenno ancora un attimo. So che se accettassi la chiamata dovrei riferire a Marta tutto, aggiornarla sulle condizioni di suo fratello, sebbene sappia già di Tiamat, e dirle che ora non può rispondere perché è sotto sedativi. Non so proprio che fare, lei e Sonia saranno sicuramente in ansia per lui, per il Santuario, per le loro amiche ma…

Osservo ancora la scena davanti a me, Shion e Shaka chini sul letto, a prodigarsi per lui, a trattenerlo con dolce fermezza. Gli stringono un laccio proprio sul braccio sinistro per apprestarsi a fargli i due prelievi stabiliti con la flemma degna di due medici… no, non riesco più a tollerare il suo stato, la sua vulnerabilità, il suo essere rigirato come un calzino. Ancora. E ancora. Devo uscire, necessito d’aria!

Finalmente riesco a smuovermi. Mi chiudo la porta dall’infermeria dietro le spalle prima di premere il tasto di accettazione della chiamata, manifestando così un “pronto” che mi riesce però arrochito. Il sospiro che giunge alle mie orecchie dall’altra parte, la vocina di sua sorella, che sembra quasi non credere che qualcuno le abbia finalmente risposto, mi procura una fitta al cuore che non so bene se dipenda solo da me stesso o anche, in parte, da Cardia…

“M-Milo! G-grazie al cielo sono riuscita a contattare almeno te! Ho provato a chiamare più volte Camus ma da la segreteria telefonica, ed io...”

Poverina, sembra quasi in lacrime, spaventata, incredula, oserei dire sofferente, ma con quel cipiglio irriducibile che la rende determinata e forte, con una tempra invidiabile per avere un corpicino apparentemente così fragile.

“Ehi, piccola! Scusaci se non ti abbiamo più risposto, devi essere stata molto in pena lì sull’isola, vero?”

“Sì, a me e Sonia ci sembrava di impazzire… ma ora non ha importanza! Come sta… Camus? Come state tutti?”

Mi pone la domanda con un filo di voce, presagendo la gravità della situazione. Beh... del resto condivide le emozioni del fratello, si possono vedere nel passato e forse anche nel futuro tramite i sogni, ma quell’impiastro continua ottusamente a nasconderle il suo reale stato nella pallida speranza di proteggerla, ed è inossidabile su questo. Vuole farsi vedere forte, nonostante quello che ha passato, nonostante le abbia promesso, dopo i fatti del 1741, di essere cristallino con lei. Tutte fuffe!

“E’ stato un duro colpo, per tutti noi, ce la siamo dovuta vedere contro Clio ed Ermete ed alcuni di noi si sono trovati impossibilitati ad agire, perché...”

Le racconto brevemente dei loro poteri, dell’attacco su più fronti che abbiamo avuto, della prova cui Francesca e Stefano sono stati sottoposti, non lesinando in particolari. Lei ascolta tutto con attenzione, quasi non fiata, ma avverto il suo sgomento crescere, i suoi respiri rotti e un po’ più frenetici della norma, ma non cede e non crolla.

“Francesca e Michela quindi..?”

“Sono rimaste ferite, ora riposano, devono riprendersi dalla brutta esperienza, mentre Stefano… beh, per lui la questione si complica, non per il danno in sé, quanto perché il sangue ci ha impiegato molto ad arrestarsi completamente. Aiolos e Aphrodite si sono presi cura di lui, gli hanno prelevato una fiala di sangue per analizzarlo, stiamo aspettando l’esito!”

“C-capisco… - la sento ingoiare a vuoto, cercando di controllare il suo tono vocale in modo da non risultare troppo tremante – S-se può servirvi, succedeva anche quando eravamo piccoli… se si tagliava, se si faceva male, il sangue sembrava in un primo momento arrestarsi, ma poi riprendeva a scorrere, impiegando diverso tempo a fermarsi.”

“Lo riferirò, stai tranquilla, non è più in gravi condizioni, Aphrodite è stato abile ad agire, non rischia la vita!”

Sento palpabile il suo rilassamento, seguito tuttavia da un nuovo fremito, più forte di prima, so che la domanda sta per arrivare, che ha esitato, fino ad ora, chiedendo prima delucidazioni sugli altri, ma che ora non riesce più a trattenersi.

“E Camus, posso… parlargli?” pigola, in un tono che mi fa stringere il cuore.

“No, piccola… è sotto sedativi, non è in grado di dire alcunché...”

“Ah… - la sua voce si spegne, avverto un fruscio, come se si sfregasse qualcosa, prima di riprendere a parlare – Come sta?”

“Lo stanno visitando per sincerarsi delle sue condizioni. E’ molto provato, Marta, ma… ora è al sicuro, siamo con lui!” tento di dirle, cercando di rimanere sul generico, anche se so che non funzionerà mai, ma mi occorre per capire quanto effettivamente sappia, quanto… abbia provato sulla sua pelle di quello che ha passato suo fratello.

L’esitazione è reciproca, anche lei sembra tentennare un attimo, quasi accartocciandosi, poi prende una boccata d’aria, la butta fuori con forza, quasi soffiando, per riprendere in mano il discorso.

“L’addome… cosa gli hanno fatto nello specifico?”

“Sai… dell’addome?”

“Non posso… non saperlo!” mi illustra, sbrigativa, eclissando la propria voce

“Marta… - il mio tono si fa un poco rude – Lo hai percepito?”

“...”

“Cosa hai provato, tu? Quanto senti… del suo dolore?”

“I-io...”

“Sai dell’addome, sai perfino di Tiamat, vero? Shion mi ha riferito che… è stato lui a raccontarvelo!”

Con lui intendo Dègel, ma non riesco a nominarlo, non con lei, ben sapendo quanto ci sia ancora legata, quando ancora le faccia male il solo rammentarlo. La avverto raschiarsi la gola, tossicchiare, prima di ricomporsi.

“Dunque il Grande Sacerdote te ne ha parlato...”

“Hai rivisto Dé-gel, il suo spirito...”

“Sì, l’ho visto...”

“Come… come stava?”

Come ti sembrava. Vorrei chiederle, in realtà, perché le parole del Sommo Shion mi hanno angustiato e non poco, ma mi accorgo troppo tardi di aver posto una domanda cretina.

“Come un morto che è bloccato in questo mondo… come dovrebbe stare?!”

Ha assunto un tono freddo, sta prendendo le distanze per non soffrire ulteriormente. Come immaginavo, è una piaga non ancora risanata. Decido di deviare argomento senza dirle ciò che mi ha riferito il Grande Sacerdote sui suoi timori che perda il controllo e che decida di… no, non voglio nemmeno pensarci! Dègel non lo farebbe mai!

“Marta… cosa hai provato tu, cosa hai percepito di Camus? QUANTO del dolore di tuo fratello hai percepito?”

Dei, mi sto comportando come fossi suo padre, anzi no, come se fossi io suo fratello maggiore… non mi si può sentire, sembro davvero ridicolo ma… in fondo, è così che la vedo, con gli stessi occhi del mio migliore amico.

“Abbastanza… per comprendere!”

Se è testarda come Camus -e lo è sicuramente!- quel abbastanza significa in realtà ‘molto’. Maledizione, non mi bastava Aquarius, non mi bastava nemmeno Hyoga, ora ci si mette anche lei!

“Accidenti, Marta! - impreco, serrando la mascella – Ogni giorno che passa provi sempre di più il suo stesso dolore sul tuo stesso corpo e non glielo vuoi dire?! Sei come lui, quindi! Pensavo ci fosse un accordo, tra noi, dopo ciò che è successo nel passato, quell’accordo prevedeva...”

“Cosa gli hanno fatto, Milo? Voglio sentirlo dalle tue parole! Il Nobile Shion mi ha riferito che, mentre voi avete subito un grosso attacco al Santuario, Camus e Michela sono stati portati a forza in uno spazio di singolarità, ma non è sceso in ulteriori dettagli!”

Mi appoggio stancamente al muro, ricercando le parole adatte per iniziare il discorso. Fortuna che tra le colonne del tredicesimo tempio si respira aria pulita, perché mi manca l’ossigeno. Di nuovo.

“Che cosa gli hanno… f-fatto? Dimmelo, ti prego! E raccontami anche di Michela!”

Non posso mentirle, amico mio… ha capito, lei sta imparando a sentire tutto di te, anche ciò che vorresti nasconderle per istinto di protezione nei suoi confronti. Sta crescendo, anche se tu la vedi, e la vedrai sempre, piccola, lei merita di conoscere la verità.

“Michela e Camus hanno ingaggiato battaglia contro un certo Utopo. La tua amica è stata torturata, come ti avevo accennato, lui pure, per obbligarlo ad utilizzare il Potere della Creazione, poi è intervenuto Hyoga... dei tre devo ancora capire chi stia peggio!”

Dall’altra parte della cornetta si ode un silenzio pressoché assoluto, persino il suo respiro è ammutolito, come se le fosse difficile anche il solo respirare.

“Milo...”

Alla sua vocetta tirata, inaspettatamente produco un leggero sbuffo, mentre un sorriso amaro mi solca le guance: “Lo so, vorresti sapere nei particolari cosa gli hanno fatto per capire se i tuoi sentori siano veri. Vuoi… che, almeno io, ti reputi grande abbastanza, e forte, per accettare una simile rivelazione che tu, probabilmente, subodori già da un po’...”

“Avevi ragione, prima… - ammette, dopo un lungo sospiro – Ogni giorno che passa, questo, il sentirlo così vividamente, si acuisce in me. E’ come se… tutto passasse da lui a me come lo scorrere naturale di un fiume...”

“E cosa hai provato, quindi?”

“Ora… ora ha molto male alla pancia, è accaldato, si sente profanato e perso. Soprattutto… gli manca Hyoga, come l’aria!”

“Altro di più… fisico?” chiedo, facendomi più attento a carpire ogni più piccola variazione della sua voce.

“I-io ho… ho percepito un dolore lancinante dentro l’ombelico, M-Milo… - è imbarazzata nell’ammetterlo, ma infine decide di dirmelo, fidandosi di me – Come se… se mi avessero punto per farmi dei prelievi d-direttamente dentro, mi capisci?”

“E’ ciò che gli hanno fatto, sì...” confermo, sospirando.

“T-tu però non dirglielo che l’ho provato, v-va bene?”

“Sai che Camus vorrebbe lo stesso, vero? Non desidererebbe che tu venissi a sapere cosa ha patito… ed io sono nel mezzo, Marta, mi capisci? Entrambi siete fatti della stessa pasta, è difficile sapervi prendere...”

“Io avverto il suo dolore, non posso, né voglio, evitarlo. Lo rivivo sulla mia pelle e queste sensazioni diventano sempre più forti di percezione in percezione. So che gli hanno fatto molto male, non ha senso me lo nascondiate!”

“E’ pericoloso… questo tuo sentire!”

“Non m’importa!”

Decido di soprassedere, sospirando tra me e me prima di continuare il dialogo. Anche io ne ho bisogno, non riesco più a sopportare di essere il solo a sapere le cose senza però poter dire, o fare, nulla; di vedermelo rischiare la vita ogni cazzo di volta, incurante di tutto e tutti, di me, come di sua sorella, con quella vena suicida autolesionista che lo contraddistingue. Basta, per una buona volta! Dopo quello che è successo nel passato non lo lasceremo più solo!

“Gli hanno fatto molto male, piccola, hai ragione a crederlo… Camus è stato costretto ad usare, quest’oggi, il Potere della Creazione per difendere Michela. Fortunatamente, essendo stato utilizzato in un mondo fittizio, non ci sono stati sconvolgimenti a livello universale, ma lui ne è uscito distrutto...”

Marta non fiata, in attesa che prosegua. Percepisce perfettamente che c’è il resto, se lo sente colare già dal naso e ne ha paura, io riesco ad avvertire i suoi tremori da qui.

“Prima di questo, però… ha subito le sevizie di quell’Utopo, che pare sia una sorta di scienziato pazzo, lui… - mi blocco, serrando le palpebre, vorrei ci fosse un modo per rendergliela meno spietata, ma non lo trovo, me ne rammarico – E’ come tu dici… gli ha prelevato del sangue da lì, dall’ombelico, per un totale di 10 volte!”

“...come im-maginavo!”

Anche adesso si sta sforzando di essere forte, di non crollare, probabilmente lo farà ultimata la chiamata, lontano da occhi indiscreti. Camus… devi essere così fiero di lei, lo sei di sicuro, lo so bene, ma spesso, vuoi per il tuo estremo desiderio di proteggerla, vuoi perché la vedi pur sempre piccola, tendi a sottovalutarla.

“Milo..?” mi richiama lei, notando il mio silenzio improvviso. Mi riscuoto per riprendere il dialogo.

“Si è formato un versamento in quella zona, ha avuto un’emorragia composta da un fluido dorato e incommensurabilmente caldo, si stanno prodigando per fermargliela. Le bruciature, invece, sono di poco conto, quelle guariranno in fretta, solo che... proprio a causa di questi prelievi incontrollati che ha subito, è necessario monitorarlo per una serie di giorni, sai... per avere la certezza che non sviluppi un’embolia!”

“Un’embolia...”

“Sì, ma il Nobile Shion sostiene che il rischio sia basso. Ha una tempra d’acciaio tuo fratello, come te!” la provo a rassicurare, in tono soffice, con un mezzo sorriso.

“Gli ha fatto i prelievi lì… perché è lì che si nasconde il Principio Primo di Tiamat, dentro il suo grembo!”

Il tono di voce che percepisco, tagliente come non l’ho mai sentito, mi spiazza, facendomi quasi rabbrividire. E’ una vera e propria vena omicida, terribile… e distruttiva!

“Quel verme… non so come intendesse sfruttare la dote di Camus, ma è in quella zona che si annida il Potere della Creazione, ha quindi provato ad estirparlo da lì, invano, visto che non può esserne separato. L’ombelico ne è l’impronta, la forma che racchiude la sostanza. Per questo mio fratello si è sempre sentito vulnerabile in quella zona, per questo tende a coprirsi l’addome. E’ l’istinto ad averlo messo in guardia, senza sapere nitidamente cosa celasse. Un potere femminile in un corpo maschile… d-dobbiamo proteggerlo, Milo ad ogni costo, è un essere più che speciale!”

“Sì, questo è certo, lo sai, è stata la nostra promessa di non lasciarlo più solo, scambiata in quell’agosto del 1741, ma… - esito un attimo, indeciso se proseguire o no – Tu tutto bene?”

“Perché non dovrebbe andare bene?”

Quindi non ha avvertito minimamente il cambio della sua voce? Che me lo sia immaginato?!

“No, nulla, scusa...” bofonchio, un poco teso.

“M-mi… hai tempo e voglia per chiacchierare un po’ con me?” mi chiede, quasi supplichevole, desiderando avere un conforto vocale. Ciò mi regala un moto di tenerezza che scalza immediatamente via la tensione di prima.

“Ma certo! Anche io… anche io ne ho bisogno, sai, piccoletta?”

Così rimaniamo a parlare per un po’ sullo stato di salute degli altri, sui danni al Santuario, sulle sue amiche. So che sta cercando di dimostrarsi forte, anche se è in pena per te, amico mio, anche se vorrebbe essere qui con te, perché ciò che hai subito la atterrisce.

Ad un certo punto del dialogo, odo un singhiozzo non più trattenuto dall’altra parte. E’ breve, ma sufficiente per farmi ben percepire il suo stato emotivo, il suo desiderio di crollare, senza però poterlo fare. Vuole essere un sostegno per te, si è impuntata che non può dimostrarsi fragile, Camus, come te, per te, ricalcando i tuoi stessi errori. Non posso accettarlo!

“Marta...”

“Scu-scusami, Milo, sto bene, sto… mi hai detto che Michela sta riposando, vero? E’ tremendo quello che le hanno fatto passare...”

“Sì, ma tuo fratello è riuscito a proteggerla, anche lei ha avuto una tremenda esperienza che dovrà superare… se solo quell’impiastro di Hyoga tornasse, invece di essere allo sbando… gioverebbe sia a Camus che a lei, ma ha preso dal suo maestro, non c’è niente da fare!”

“Hyoga se ne è andato altrove a curarsi?” mi chiede, sbigottita.

“Sì, quel… lascia perdere, la prima volta che lo vedo lo appendo al muro e lo insulto, non mi importa se non sono il suo maestro, ma...”

“Sei comunque il suo maestro in seconda!” esclama lei, sforzandosi di alleggerire il dialogo.

“In terza… c’è già chi ha avuto quel ruolo!” affermo, ripensando per un attimo ad Isaac.

“P-però a protetto sia Camus che Michela, è grazie a lui se ne sono usciti.”

“S-sì, è stato formidabile, se solo se ne rendesse conto anche lui!”

“Gli sono grata… abbraccia Michela da parte mia, e tira le orecchie a Hyoga se torna al Santuario, digli che i nemici pagheranno tutto quello che hanno perpetrato, TUTTO!”

“Glielo dirò, piccoletta, ma ora… - rabbocco aria, preparandomi – parliamo un po’ di te...”

“Io sto bene, Milo, n-non ho preso parte alla battaglia.”

“Ma hai provato quello che ha sofferto Camus, è come se avessero torturato anche te!”

“N-no, quando era nel mondo di là non potevo neanche percepirlo, è quando è tornato che ho avuto male e...”

“E..? Diamine, Marta, PARLA!”

“E-ed ero qui, impotente… non ho fatto niente… ancora una volta!”

Il modo con cui pronuncia la frase mi trasmette una stilettata al cuore, dandomi ulteriore conferma del suo stato emotivo.

“Questo non è assolutamente vero, piccola, non voglio sentire più una cazzata simile, neanche tuo fratello lo vorrebbe!”

“Mmm...”

“Da quando ti ha ritrovata, è rinato. Gli hai salvato la vita e, non in ultimo, lo hai riscosso dal lutto per Isaac. Pensavamo di averlo perso, allora, di aver perso il suo cuore, ma tu e le altre siete riuscite a riattivarglielo, questo lo sai bene!”

Silenzio dall’altra parte, avverto le sue emozioni palpabili. Non strepita, non singhiozza, ma è lì lì per crollare, si percepisce fin troppo bene e… mi fa tenerezza, diavolo, quasi vorrei abbracciarla per rassicurarla.

“Milo… da quanto tempo sono qui?”

Per qualche secondo mi soffermo a fare i conteggi, confuso dal suo quesito improvviso.

“C-cinque mesi, ma questo cosa mai...”

“I-in questi 5 mesi… ho perso i-il conto di quante volte lui abbia rischiato di morire per salvaguardare me...”

Rimango in silenzio, colpito dalla veridicità delle sue parole. E’ vero, non posso negarlo, ma non posso comunque accettare che si senta in colpa per simili questioni. Ne ho già due che si sentono responsabili per ogni minima cretinata… anche lei no!

“Piccola, ascolta… tuo fratello ha rischiato la vita anche prima di ritrovarti. E’… è lui ad essere così sconsiderato e incurante di sé stesso, non è di certo colpa tua! Farebbe di tutto per te, per noi, lo sai meglio di chiunque altro, Marta...”

“Lo so...”

“E allora non piangere, perché so che hai gli occhi gremiti di lacrime e Camus non lo vorrebbe!”

Un mormorio soffocato mi giunge alle orecchie, sale fino a strozzarsi, per poi essere difficoltosamente celato. La sento fremere, mi viene nuovamente voglia di abbracciarla. Forse, se fossi ancora Cardia, riuscirei a farla sorridere come faceva lui, ma... Cardia è il mio passato, è una personalità che non mi appartiene più!

“Perdonami, Milo… non dovrei lamentarmi con te; con te che sei già sovraccaricato, ma… ma...”

“Parla pure liberamente invece, non fare come tuo fratello, o esploderai, dammi ascolto!”

“E’ che… - esita ancora un attimo – non ce la faccio proprio più...”

“Per… cosa?”

“A vedermelo rischiare la vita in continuazione! Non sta mai bene, Milo, c’è sempre qualcosa che lo fa soffrire, lo attaccano, gli fanno del male, tanto… e lui continua a combattere, continua… continua... continua! Prima o poi esploderà, lo prenderanno loro, lo… sigh!”

Purtroppo capisco l’ultimo verbo in sospeso, perché si annida, come tetra verità, tanto in me quanto in lei: lo violeranno ancora e ancora, essendo lui l’obiettivo primario del nostro nemico… Recupero due toni di voce prima di riprendere il discorso.

“Marta… Marta, ascoltami! Io ti posso capire meglio di chiunque altro, ma… noi siamo con lui, vero? E, insieme a noi, anche Michela, Hyoga, Francesca, Sonia, gli altri Cavalieri d’Oro...”

“S-sì, siamo con lui...”

“Ecco! E allora non disperare: non sarà più lasciato solo, veglieremo su di lui, diventeremo più forti per salvarlo dal suo destino, lo sai, piccola, lo sai… tu puoi salvarlo, puoi proteggerlo, sono fermamente convinto di questo!”

“M-Milo...”

“Credi in me, aggrappati a questa consapevolezza: quell’essere non lo sfiorerà più neanche con un dito, puoi contare su di me. Se scopro qualcosa; anche qualcosa che lui vorrebbe nascondere, te lo racconterò immediatamente, tu… cerca di fare altrettanto, siamo intesi?”

La sento sussurrare stentatamente un “sì”, prima di prendere uno, due, tre, sospironi e ricondurre tutto sotto il suo ferreo controllo.

Non so più cosa dirle, sembra ancora notevolmente scossa, mi mancano le parole per concludere il dialogo, ma fortunatamente è la sua voce a palesarsi nuovamente.

“Milo… sei ancora in linea?”

“Sì...”

“Camus sta dormendo, giusto? Non è quindi cosciente...”

“Sì, è stremato, piccola, ma le sue condizioni sono stabili adesso. Credo gli abbiano prelevato altre due fiale di sangue per analizzarlo… è un po’ anemico, visto anche quello che ha dovuto subire, ma, sai, era imprescindibile per capirne le condizioni fisiche. L’ecografia invece non ha mostrato niente: il suo addome è normalissimo, come quello di un qualsiasi uomo della sua età!”

“Gli avete fatto un’ecografia all’addome?! D-dopo quello che ha già passato?!?”

“Era già sedato quando gliela hanno fatta, non avevano altre alternative...”

“Ma lui la percepisce lo stesso, Milo! Ha una percezione incredibile e… e...”

“Lo so… ce l’ha da quando era piccolo!” sorrido, nel ricordarmelo emaciato con quel ciuffetto a castagna perennemente ribelle.

“Non si poteva… proprio evitare?”

“Temo di no...”

“Capisco… però Tiamat non si vede, giusto? E’ latente?” mi chiede, vacua, ancora tremante.

“No, non si è vista, ma prima, quando gli hanno appoggiato glie elettrodi e poi lo stetoscopio, si udiva distintamente un battito, anche se in attenuazione.”

“Come è possibile?”

“Non so bene neanche io, ma… appena so qualcosa, sarai la prima ad essere informata, promesso, giurir giurello!” esclamo, riappropriandomi giocosamente di un’espressione che usavo nella mia infanzia.

“Ho… ho capito, aspetterò!”

Rimane in silenzio per un altro po’, il respiro accelerato. E’ ovvio tema qualcos’altro, ma tace, forse non desiderando darmi un’altra, l’ennesima, brutta notizia...

“Volevo chiederti se...”

Riprende dopo un po’, esitando vergognosa. Il suo tono si fa ovattato.

“Sì?”

“Volevo chiederti di abbracciarlo al mio posto, ma lo potresti svegliare, per cui… accarezzalo, come se fossi io lì...”

“Marta… - sussurro, intenerito da una simile richiesta, prima di ridacchiare – sarà fatto non temere!”

“Volevo anche chiederti di dargli un bacio da parte mia, sulla fronte… a lui piacciono tanto, come le carezze tra i capelli, ma immagino che tra maschi non sia così facile, e che sia, sì, voglio dire, imbarazzante...”

A quell’ultima affermazione rido di gusto. Per quanto voglia un bene dell’anima a Camus, le volte che l’ho baciato si possono contare sulle dita di un’unica mano, e non sono neanche sicuro che raggiungano le due.

“Effettivamente sarebbe un po’ imbarazzante, sì, noi maschi non siamo espansivi come voi ragazze, non siamo soliti cedere a questi tipo di effusioni tra noi, più facile farlo con voi piccolette!”

“L-la carezza però… q-quella puoi…?”

“Quella sì, contaci! – le dico, prima di prendere un attimo di pausa e rivolgerle la mia domanda fondamentale – Myrto sta meglio? E Sonia?”

“Sonia sta bene, mentre Myrto deve solo riposare… ti ha detto il Nobile Shion che cosa ha fatto? Ci ha protette!”

“Sì, me lo ha detto… - annuisco, un poco rammaricato dal non essere stato in grado di fare altrettanto con lei – E’ sempre stata molto protettiva verso le ragazze come voi, nonché… una femminista stra-convinta!”

“Sai, un po’ credo di essermene accorta: è una donna molto forte e combattiva, impossibile non volerle bene!”

“Oh, lo è, lo è… una vera e propria leonessa! - confermo, sentendomi pervadere da una certa malinconia nel rammentare il nostro vissuto intimo – Stanotte riposate tutte e tre, intesi?”

“G-grazie, ma riposati anche tu, Milo, mi raccomando, e salutami tutti gli altri!”

“Sarà fatto, piccola, buonanotte!”

“Notte a te e… - il suo tono di voce cambia nuovamente, colorandosi di una sfumatura maliziosa – E puoi star tranquillo, ci prenderemo cura noi del tuo eterno amore e… dannazione!”

“COS..?! No, aspetta, non è come pensi, non...” starnazzo, sentendomi immediatamente le guance farsi bollenti e tingersi del colore del papavero.

“Ihi, nessun timore, Milo, Myrto è in mani sicure… bye bye!”

Come ‘bye bye’?! No, aspetta… aspe…

TU-TUUUUUU.

Mi risponde il suono della chiamata chiusa e nient’altro. Sospiro melodrammaticamente, infilandomi il dispositivo nella tasca dei pantaloni. Che furbetta… ha compreso cosa c’è stato tra me e Myrto -o glielo avrà detto Sonia?!- e me lo dice solo all’ultimo, con tanto di risolino divertito e tono scanzonato. Questa non me l’aspettavo proprio da te, birba!

Mi dirigo nuovamente verso la stanza che hanno adibito per Camus, le guance ancora un poco arrossate per il nostro ultimo scambio di battute. Arrivo giusto in tempo per vedere il Nobile Shion uscire, chiudersi la porta dietro e sorridermi con naturalezza. Devono aver finito con la visita, per fortuna…

“Ho fatto andare Shaka a medicarsi...” mi informa, in tono pacato.

“Menomale… sua Buddità ogni tanto si dimentica di possedere un corpo umano e quindi di avere anche delle necessità da soddisfare!” ironizzo, pur sollevato nel sapere che il mio compagno e amico si stia prendendo finalmente cura anche delle sue ferite.

“Hai parlato con Marta?” mi chiede poi, interessato. Non so davvero come faccia ad essere così flemmatico su tutto, davvero.

“Sì, è comprensibilmente sconvolta per suo fratello...”

“E’ naturale! Quello che è successo a Camus, ciò che è, ciò che è contenuto nel suo grembo, ha sorpreso un po’ tutti. Sarà molto disorientato quando si rimetterà in forze, avrà bisogno dell’aiuto di tutti – poi sbuffa, con un sorriso amaro – Ma, visto il tipo, tenderà ad isolarsi. Non bisogna lasciarlo solo, Milo, non ora che abbiamo capito che questo potere ha un nome, che Tiamat è dentro di lui!”

“Nobile Shion… - tento di iniziare un altro discorso che mi preme, cercando di farmi forza – Questa Tiamat, che dite essere una dea primigenia, è buona o cattiva?”

“Non ne sono… sicuro!” dice, incerto, guardando altrove.

“Proprio non la conoscevate prima che Dégel ve ne parlasse?”

“No… i testi sono estremamente frammentarie lacunosi, i pochi che sono stati reperiti grazie al suo aiuto, peraltro antichissimi, la rendono malvagia, ma… c’è qualcosa che non torna!”

“Un punto fermo, quindi...” arrivo alla conclusione, serrando la mascella.

“Un punto fermo, l’ennesimo...” conferma lui, criptico, trovando interessante l’angolo del muro.

Decido quindi di deviare argomento.

“Camus sta riposando? Posso rimanere un po’ con lui? Poi andrò da Michela!”

“Certo, Milo, ora ha solo bisogno di tanta tranquillità, gli farà bene avere una presenza amica al proprio fianco...” mi avvisa con un sorriso dolce, prima di andarsene via per informare gli altri Cavalieri d’Oro di quello che abbiamo scoperto.

...ovvero quasi niente, ma vabbé, ci sono abituato!

Entro quindi nella stanza, avvertendo come prima cosa il ‘beep’ dei macchinari e poi il suo respiro lento e regolare. Il mio cuore da un impulso nel constatare che devono nuovamente averlo collegato ai marchingegni del diavolo. Accendo la luce della lampada posta sul comodino.

Sorrido meccanicamente, avviandomi poi verso la finestra per chiudere le tende e sedermi al suo fianco, sulla sedia di legno dalla parte opposta dell’entrata. Lo osservo in silenzio, la tenue luce rischiara appena la sua pelle diafana -sei sempre stato troppo pallido, amico mio, fai tenerezza!- dandomi la sensazione di avere un qualcosa di tremendamente fragile davanti a me.

Non ha più quell’espressione rotta dalla sofferenza, ma il busto è comunque coperto dagli elettrodi per il monitoraggio, disposti a cerchio intorno al capezzolo di sinistra, sopra quelle ferite ormai cicatrizzate, che per poco non me l’hanno portato via… un’altra volta!

Devono averlo girato dalla testa ai piedi, perché è in una posizione diversa da prima, il volto parzialmente reclinato sul cuscino, le mani lungo i fianchi, appena sopra le lenzuola tirate in grembo; il resto del corpo è privo di difese ai miei occhi, scoperto, se si escludono i fili che lo collegano ai macchinari e -gli sollevo appena le coperte per controllare sotto!- il bendaggio nuovo, più grosso, consistente in una garza di dimensioni perfino maggiori posta proprio al centro dell’addome, dove gli hanno fatto quei prelievi incontrollati. Lo ricopro con cura, stando attento a non toccare nient’altro.

Mi chino tacitamente su di lui, gli prendo la mano vicina e gliela sollevo appena a peso morto, prima di racchiuderla tra le mie dita. Non è né fredda né calda, non saprei come definirla. Il ventre invece, che poco fa gli ho sfiorato, è ancora bollente, come se tutto il calore fosse condotto lì. Suda, la fronte è sudata, la pelle un poco lucida anche a seguito dei medicamenti, i muscoli dell’addome ancora un poco tesi, nonostante il sonno e la stanchezza.

Amico mio, non riesco a non posare lo sguardo proprio lì, dove si dovrebbe annidare Tiamat… è tutto così strano, assurdo, inimmaginabile… sei un uomo, eppure hai questa cosa dentro di te, l’hai sempre covata.

Sapevo fossi speciale dal primo giorno che ti ho visto. Quel bambino corrucciato e malinconico che è stato portato da Shion qui al Santuario, ultimo tra i Dorati Custodi, ha fatto breccia nel mio cuore fin dal principio, ma non avrei mai pensato che tu potessi essere gravido…

… dei se suona male così, che diavolo vai a pensare, Milo?! Camus è Camus, lo sarà per sempre, non importa se questa cosa è dentro di lui, non importa se è costei che brama il nemico, insieme al suo stesso corpo. Camus è Camus, è un uomo, un Cavaliere, un amico e un fratello.

Istintivamente gli accarezzo la spalla, avvicinandomi ulteriormente a lui per sussurrargli parole che voglio lui sappia, anche se è incosciente, perché sembra ancora così teso, con quella piega delle sopracciglia, la bocca dischiusa e la sensazione, vivida, che vorrebbe nascondersi dalla vergogna.

“Sei… sei un essere straordinario, Camus, me ne accorsi la prima volta che ti vidi, e poi ancora e ancora. Ogni giorno che passava me lo confermava sempre di più. Sei giunto qui già in possesso di poteri eccezionali, sapevi già usare il ghiaccio e, quella volta, in estate, in cui mi mostrasti per la prima volta la neve, che non avevo mai visto, riproducendola dalle tue stesse mani, mi chiesi quanto lontano avresti potuto andare...”

Prendo una pausa, passandogli, lieve, le mie dita sul bicipite per tranquillizzarlo, laddove non sono presenti aghi, perché sembra davvero così indifeso, si vergognerebbe da morire a mostrarsi così nudo, persino davanti a me, come quella volta, il primo anno della nostra amicizia, in cui lo costrinsi a fare un bagno in mare perché lui, accaldato con i pantaloni a pinocchietto e la maglietta a righe, a malapena metteva i piedi in acqua, già tanto, perché di spogliarsi e nuotare con noi neanche per l’anticamera del cervello gli passava!

“Eri un nostro coetaneo, ma crescesti con il doppio della velocità nostra… a 7 anni l’investitura, come tutti qui, e subito dopo la partenza con Fyodor, il dover diventare Sciamano, gli anni di lontananza, a scambiarci lettere, a vederci poco o niente… e poi ancora il terribile lutto del tuo maestro, il senso di straniamento, di non farcela, il rimorso per aver causato la sua morte… ma sarà poi stata davvero colpa tua, testone? Non me ne hai mai voluto parlare nel dettaglio, ti faceva troppo male...”

Fisso un punto non ben definito del muro, come carpito dai ricordi, prima di scrollarmi di dosso la sensazione di irrimediabilmente perduto e ricominciare.

“Non mi parlasti di quel che era accaduto, ma quella notte dopo il tuo ritorno, piangesti tra le mie braccia. Non avevi mai pianto davanti a me, sai, Cam? Sembravi un minuscolo fiore, schiacciato da uno stivale… il tuo tacito urlo era a stento percettibile, ma io lo potevo ben avvertire come parte di me, come risonanza – sospiro, fermandomi un poco per stringergli più forte la mano, perché al nome del suo maestro si è visibilmente agitato, il suo cuore sfinito ha dato un impulso irregolare, e non gli fa bene – Siamo cresciuti insieme Cam, ma tu sei sempre stato avanti anni luce a me. Ti hanno affidato i primi allievi a 13 anni, io l’anno dopo persi la verginità… che traguardo, eh? Tu maestro, praticamente un adulto, io a filare dietro a Myrto come i ragazzetti in piena crisi ormonale. Non me ne pento di certo, ovvio, ma… è emblematico del divario che c’era, e c’è ancora, tra noi!”

Ridacchio nel pensare che, se solo potessi, farei ancora l’amore con Myrto, non è proprio cambiato niente, dopo dieci anni, eppure, allo stesso modo, siamo cambiati così tanto.

“Tu sei sempre stato speciale, Cam, unico e prezioso, questo non potrà mai cambiare, MAI, anche se inficcartelo in quella testaccia che ti ritrovi è impresa da guerra di resistenza contro il Turco... ora ti crederai ancora più fragile, con questo potere dentro di te, meno uomo, meno te stesso e pippe varie. Avrai paura di non essere più in grado di proteggere Marta, Hyoga e le tue allieve, io lo so… perché sei fatto così… non sai, no, non capisci, quanto tu sia tutto per me, quanto ti ammiri, quanto… tu sia parte integrante del mio cuore! Dentro di te vi è questo potere eccezionale, creduto perduto dalla notte dei tempi, ma è dentro di te, non so come, non so perché, ma tu solo ce l’hai… tu solo! Non so se Tiamat sia buona o cattiva, ma so che riuscirai a controllarla, ad imbrigliarla e, altresì, so che noi, tutti noi, faremo di tutto per proteggerti dalle mani del Mago, io, la tua Marta, il tuo Hyoga...”

Al mio pronunciare il nome dell’allievo, lo vedo inarcare debolmente la schiena, prima di stringere le palpebre e voltare la testa dall’altra parte, la mascella serrata.

“Camus?” lo provo a chiamare, alzandomi in piedi per prendergli il volto e ruotarglielo dolcemente verso di me in modo da fargli percepire la mia vicinanza.

“Hy-Hyoga… d-dove sei, anf?”

La sua dannata percezione… è stremato ma riesce ad avvertire qualcosa, al di fuori del buio che lo circonda, il nome del suo allievo gli ha sfiorato le orecchie e poi il cuore, e ora si agita nel chiamarlo, avvertendolo così lontano.

“Non è qui, Cam, ma è al sicuro…” gli dico cautamente, consapevole che non sia totalmente in sé, altrimenti non si mostrerebbe così con me, né con nessun altro.

“Il… mio… Hyoga, dov’è, anf? E’… in salvo?”

Non so neanche se mi riesca a udire, tuttavia, ancora con la mano a sorreggergli il volto, altrimenti caderebbe di lato, decido di rispondergli: “Sì, è alla fondazione Kido, in Giappone, da Atena, là lo cureranno!”

Camus alle mie parole sembra irrigidirsi di più, soffrire. L’elettrocardiogramma sembra impazzire (e menomale che il Nobile Shion mi aveva ammonito di tenerlo tranquillo, cazzo!!!), il corpo si contrae più volte, come se volesse alzarsi ed inseguirlo ovunque si trovi.

Con quali forze, amico mio, quali?!

“Camus, calmati… sei ancora molto debole e non assolutamente in grado di raggiungerlo!” lo fermo, vedendo che, così com’è, ovvero più incosciente che conscio, impigliato come una sardina nella rete, ha provato davvero ad alzarsi, non riuscendoci, perché i macchinari lo bloccano al letto. Gli tengo il volto dritto, i pollici sulle guance pallide, mentre le sue labbra si dischiudono a esprimere faticosamente altre parole.

“Perché è andato l-là, anf?”

“Non lo so...”

“Era... ferito gravemente…”

“Questo lo so, invece, ho tentato di tenerlo qua, ma era irremovibile, Cam...”

“Anf… urgh… n-non d-doveva...”

“Calmati adesso… là o qua è al sicuro, questo conta, no? Devi rimetterti in forze anche tu, solo così potrai riabbracciarlo!”

Annaspa, respira a scatti, sembra quasi sul punto di piangere se non fosse Camus dell’Acquario. Fa una tale tenerezza che mi fa venir male.

Hyoga perché lo hai lasciato? Perché te ne sei andato? Ancora non riuscite a capirvi?! Camus ti ha sicuramente percepito vicino a lui nell’infuriare della battaglia, lo hai salvato, e tu te ne sei andato in un momento così delicato per lui. Perché non capisci che ha bisogno di te?! Perché è così difficile farvi arguire che siete indispensabili uno per l’altro?! Che vi amate… come padre e figlio!

“S-so perché lo ha… f-fatto… anf...”

Ora cosa sta dicendo?! Lo capisco appena da quanta fatica faccia a pronunciare anche solo poche, semplici, parole.

“Cam, cosa..?”

“N-non… mi… vuole più, anf...”

Sta vaneggiando alla stragrande… ottimo!

“Questo non è vero, Camus! - esclamo, cercando di utilizzare un tono più fermo possibile – E’ pippologo, come il maestro, per questo se ne è andato, perché è tonto ed è un pulcino sperso, non sa dove andare, non sa cosa...”

“M-m… m-mio figlio… non mi vuole… più, anf!”

Continua a straparlare e non so come calmarlo, deve stare davvero tanto male per ammettere una cosa così, sebbene Hyoga lo sia sempre stato per lui, come Isaac. Li ha sempre visti così, quei due, ma dirlo apertamente è una cosa che Camus dell’Acquario farebbe solo sotto tortura, o in momenti di estrema debolezza, come questi!

“Camus...”

“L’ho p-perso… nnnnngh, il mio… Hyoga, anf!”

Pugno nello stomaco nel vedermelo crollare di nuovo, reclinando la testa sulla mia mano. Lo adagio meglio sul cuscino, gli allineo nuovamente le braccia lungo i fianchi, poi, ricordandomi della promessa fatta a Marta, gli accarezzo i capelli cercando di imitare le movenze che farebbe lei per tranquillizzarlo.

Camus, ancora sotto sedativi, al mio maldestro tocco, apre difficoltosamente gli occhi a due fessure, piccole balugini di blu in un universo di ombre. Non sembra ancora in sé, il suo respiro è frenetico, così come l’alzarsi e l’abbassarsi del suo petto, ma almeno è riuscito a dischiudere le palpebre, anche se non so ancora cosa riesca a vedere.

“M-mi manca così t-tanto...”

“Ma è al sicuro, Cam, come Marta, come Sonia, come le tue allieve...”

“Stanno… bene?”

“Sì, hai allieve molto forti, Camus, devono aver preso dal loro coraggiosissimo maestro – modulo la voce, in modo da rassicurarlo - Ho sentito Marta al telefono poco fa, mi ha chiesto di regalarti una carezza tra i capelli al posto suo, visto che non può raggiungerti al momento.”

“La mia… piccola… l-l’hai sentita a-al telefono?”

“Sì, mi ha detto di accarezzarti la testa, come ti piace tanto, in sua vece e… ah, ti posa anche un bacio sulla fronte, l-lei… - biascico, a disagio, guardando altrove – P-però n-non chiedermi di fare anche questo, Cam, è imbarazzante, s-siamo due maschi, fai però come se lo avessi fatto, ok?!”

“Pff! – ha prodotto un mormorio stentatissimo come se fosse una risata, lo vedo sorridere leggermente, sebbene sia ai minimi termini, prima di chiudere nuovamente gli occhi – Questo… è degno di l-lei, anf, riesce ad essermi così vicino… anche in simili momenti… c-come… come… urgh!”

“Cam?”

“Come quando… nel 1741… q-quel mostro mi ha… mi stava per…”

Non parla mai di quei momenti terribili, di come si sia sentito e di cosa quel verme gli abbia fatto provare. So che si percepiva come un cigno dentro un’ondata nera di petrolio, che ha provato un dolore straziante, ben oltre l’umana sopportazione, e che, di fatto, ha subito un abuso senza pari.

Serro la mascella nel ripensare a questo, cercando comunque di non dargliela a vedere. No, Camus dell’Acquario non si è spiegato oltre dopo i fatti accaduti nel 1741, non ce ne era bisogno, del resto non ci sono parole per descrivere quella violenza, né altro da dire per rinfrancarlo, eppure adesso, in questo momento di estrema fragilità, lo vedo tentare nuovamente di svicolare da qualcosa, inarcare la schiena e voltare la testa dall’altra parte, come se qualcuno lo bloccasse a terra per fargli del male.

“M-Milo, io… e-era dentro di me, q-quell’essere, mi ha… sembrava di avere dei coltelli che mi trapassavano l’addome. L-le sue mani s-su di me, sul mio collo, s-sui fianchi e… e poi… n-non gli… bastava, q-quello...”

“Camus, non c’è bisogno di rimarcare questo adesso, NON DEVI!” provo a tranquillizzarlo, notando che sta rischiando di avere un altro attacco di panico. Gli racchiudo goffamente la mano tra le mie, come se stessi raccogliendo un uccellino.

Lui contraccambia la stretta come può, annaspa, cercando un sostegno che non lo faccia crollare.

“Milo, anf… - il sollievo nell’udire le sue labbra pronunciare il mio nome, dimostrazione che si sta lentamente riprendendo, viene scalzato via dalle sue successive parole - Non sono più… un uomo, anf!”

“Lo sei, invece, lo sarai sempre, amico mio, e nessuno potrà togliertelo!”

“Non sono cose… anf… che dovrebbero accadere ad un uomo, q-queste!”

Io non posso fare altro che carezzargli il dorso con il pollice, percorrendogli poi il braccio con lo sguardo. Devono avergli fatto almeno altri tre prelievi nella piega del gomito, dove gli hanno puntualmente messo il cotone, ora rosso di sangue, ma ho l’impressione che gli verrà un bel livido anche lì, oltre a quello già presente sull’addome e i numerosi altri rossastri.

“Fa ancora… c-così male...”

“Che cosa?”

“L’ombelico, anf, dentro… s-sembra t-tutto come allora, ed io… n-non ce la farò per sempre. E’… troppo difficile!” ammette, riaprendo a fatica gli occhi, che ora mi sembrano lucidi, ma di paura.

Gli discosto istintivamente le lenzuola, notando che il bendaggio, forse per i movimenti convulsi di prima, è nuovamente sporco di sangue.

“Sanguini di nuovo...”

“N-non si è mai fermato, anf...”

“Cam, io… non sono bravo, in questo, sei sempre stato tu quello che si prendeva cura di me – gli sussurro, alludendo anche a Dégel e Cardia, al fatto che lui mi abbia sempre, sempre, salvato – M-ma non posso lasciarti sporco, devo ricambiarti il bendaggio, mi… mi consenti di farlo?”

Dei, quanto mi sento idiota… ma perché proprio io qui, del tutto impedito in queste cose?! Marta e Sonia, certamente più portate di me, sono lontane, le altre ragazze K.O. non ci sono che io a poter agire...

“Mmmh...”

Sembra nuovamente semi-svenuto, ha chiuso gli occhi, vederlo ridotto così fa dannatamente male, soprattutto dopo quello che ha detto poc’anzi. Non ho alternative. Le mie mani tremano un poco mentre, discostandogli la coperta, poso le dita sul cerotto quadrato.

“Scusami davvero… - biascico, prima di strapparglielo con un unico movimento brusco. A lui sfugge un mormorio di dolore, lo vedo sussultare nitidamente, prima di abbandonarsi – Non sono delicato come la tua Marta...”

Passano minuti in cui non reagisce di nuovo, dando così a me il tempo di tamponargli maldestramente l’uscita di sangue e prendere un altro cerotto per incollarglielo meglio che posso sopra l’ombelico.

Andrà bene così?! E’ storto, l’angolo sinistro superiore non si è incollato bene, ci ripasso ma non ottengo nulla, quello rimane sollevato. Maledetti Shaka e Shion, potevate stare ancora un po’ qui, eh?! A me, affidate queste cose, che sono un inchiappettato cronico su questo!

“M-Marta, anf...” d’improvviso si riscuote, come se di colpo avesse rammentato una cosa importante.

Ha riaperto gli occhi, che tuttavia non sembrano ancora vedermi; non sembrano vedere alcunché, a dirla tutta, con quella strana ombra che li attraversa.

“Amico, che succede? Sognavi?” provo a chiedere, accarezzandogli una spalla con una mano. Vorrei che reagisse alla mia esortazione, ma sembra perso in un pensiero che vuole tramutare in discorso probabilmente molto più grande di lui.

“Ti prenderai cura di lei, anf, quando io n-non ci sarò… più?”

“Ora non cominciare a dire STRONZATE che non voglio neanche sentire, che domanda è, questa?! Dormi, piuttosto!”

“E’ impor-tante per me, anf, i-io… non ce la farò per s-sempre!”

“Tu ce la farai, invece! - ribatto, quasi fremendo nel pronunciare tali parole – Ce la farai perché non sei solo, perché non sarai più solo! Ci siamo noi, gli altri Cavalieri, le tue allieve...”

“C-continueranno ad attaccarmi, Mi-lo, finché non otter… anf, finché non avranno ciò che cerca-no...”

“Sì, lo faranno, e noi non gliela daremo vinta! - lo fermo immediatamente, non volendo neanche sentire quell’ipotesi – E tu non azzardarti ad arrendere, chiaro?! Marta ti ha ripescato in mezzo ad un mare nero di petrolio, non provarci neanche a gettare la spugna!”

“L-lo ha fatto s-sì… - sorride a fatica lui, percependo finalmente l’esortazione nel mio tono, poi richiude gli occhi e sospira – Ma a quale prezzo, Milo? Ha… ha subito su di sé i miasmi, la mia stessa sofferenza, ed io… non voglio che le succeda più niente! Non voglio che succeda più niente… a n-nessuno di voi, perché siete… l-la mia famiglia!”

Beh, sono lusingato lo riesca finalmente ad esprimere, ma continua a straparlare alla stragrande e mi è stato raccomandato di tenerlo tranquillo… ottimo, davvero!

“Il massimo che può accadere è che ci porterai alla tribolazione, Camus, tu e la tua vena insalubre di sacrificarti e andarti a farti ammazzare. Questo sì che ci può succedere, quindi vedi di non farlo accadere, perché dipende solo da te!”

“M-Milo...”

Lo vedo provare ad alzarsi, non degnando al solito le mie raccomandazioni, ciò mi manda in fumo il cervello. Non gli do semplicemente il tempo di farlo, lo inchiodo al letto, pur stando attento a non pesargli troppo.

“E adesso dove pensi di andare?!”

“M-Michela e F-Francesca, l-loro...” ma è lampante non sappia dove andarle a cercare, si guarda spaesato intorno, percependo il loro cosmo ma non sapendo come raggiungerle. Sarebbe quasi da dargli una botta in testa… i sedativi con lui non durano che pochissimo e, al momento è rincoglionito, è vero, ma non mi meraviglierei se fra un’ora andasse già a zonzo per le Dodici Case nel cercare le sue adorate allieve.

“Lasciale riposare, povere ragazze, ci hanno già pensato gli altri Cavalieri d’Oro a trattare le ferite subite.”

“L-loro…”

“Giù, E CHE CAVOLO!” mi impongo, in un tono che non ammette repliche.

Non riesce ad opporre una valida resistenza, troppo stremato per farlo, vedo con distinzione una scintilla di dolore passargli negli occhi.

“Miche-la, anf, ha subito un brutto trauma, ugh – prova a spiegarsi, cercando di non mangiarsi le parole – E-e anche Francesca, da quel poche che, anf, percepisco del suo… c-cosmo.”

“Lo sappiamo, ci abbiamo già pensato!”

“Almeno… sono al sicuro?”

“Sì, lo sono, e tu devi stare tranquillo anche per loro, Cam. Sono preoccupate da morire per te e, se non ti rimetti in sesto, rischi di vedertele capitombolare qua con chissà quale rimedio, grondanti di sangue per averti cercato una cura. Hai portato il tuo corpo al limite… ora devi permettergli di riprendersi con le giuste tempistiche, intesi? - mi raccomando, continuando ad accarezzargli i capelli come farebbe Marta - Non strafare, respira con calma… ecco, bravo, così!”

Lo vedo respirare un poco più profondamene di prima, annuendo appena, più docile del solito, nel lasciarsi cullare dal mio tocco fino alle porte del sonno. Le palpebre, ora nuovamente chiuse, non sono più serrate dolorosamente come prima, il suo petto si alza e si abbassa cheto, senza grossi scossoni. Deve essersi addormentato.

Sorrido, rasserenato, accarezzandogli un poco la chioma ribelle per poi rimettermi dritto in piedi.

“Avrò cura io delle tue allieve in questi giorni, tu rimettiti presto e torna più forte di prima, come solo Camus dell’Acquario sa fare!”

“G-grazie, Milou, s-so che lo… farai, anf.”

CAZZO, MA NON STAVA DORMENDO?!

Arrossisco di netto, maledicendolo mentalmente: mi ha fregato, come quella volta in Siberia!

Tra l’altro, non so se mi stordisce di più il modo con cui pronuncia la ‘u’, allungandola come faceva spesso quando era piccolo, o il suo tiratissimo sorriso.

“Sono fortunato… ad averti al mio fianco, anf!” riesce ancora a dire, sereno.

“Dei, se sei nuovamente rintronato! Non ti lasciavi andare a queste effusioni verbali da quella volta, in Siberia, quando Sonia ed io siamo venuti a trovarti dopo l’incidente...”

“Uhmpf, non sono… così rintronato, solo… solo un poco!” mi sorride, mantenendo gli occhi chiusi, il tono via via sempre più impastato.

“Un poco tanto, però!”

“Marta e Hyoga mi hanno insegnato che, anf… s-si può essere forti anche manifestando i propri sentimenti...”

“Certo, chiaro… loro ti hanno cambiato la vita!” sorrido, intenerito.

“A-avevo… semplicemente... bisogno di dirtelo, M-Milo e… grazie… per tutto qu-quello che fai per me.”

“Ho… ho capito, Cam, lo so, non c’è bisogno di...”

“...”

“Cam?”

Gli do una piccola sberletta sul braccio.

Niente.

Dorme.

Più nessuna reazione. E’ crollato per davvero, la testa reclinata sulla mia mano, il respiro un poco più sicuro di prima.

E mi ha gabbato un’altra volta!

“Dannato… mi continui a far tribolare, sembra che tu ci provi gusto! - ringhio, fintamente offeso, sistemandolo meglio prima di addolcire il mio tono – Riposa, Cam, riposa… te lo sei meritato e… troveremo una soluzione per strapparti da quell’abominio, te lo prometto!”

Lo osservo ancora un po’, come quella notte in Siberia, per l’appunto, quando Sonia ed io lo eravamo venuti a trovare dopo che lui aveva rischiato di morire. E’ tutto davvero come allora… capisco Marta che non regga più vedere suo fratello così, ma questo montone mancato, cocciuto peggio di un mulo, ha una predilezione per rischiare la vita, non è certo colpa di sua sorella, né mia, né di Hyoga, non è colpa di nessuno… è lui ad essere fatto così, il suo cuore immenso lo spinge a non badare troppo a sé stesso in favore delle persone che ama, e i risultati si vedono.

Potresti scriverci un curriculum, Camus, su quante volte tu abbia rischiato di farti ammazzare in neanche 23 anni di vita, superi di gran lunga ogni record mondiale!

Sospiro tra me e me, un poco scoraggiato: “Quanto durerà ancora?”

So che devo recarmi al più presto da Michela, lasciata alle cure delle inservienti, so che Camus vorrebbe che dessi la precedenza a lei, che ha vissuto a sua volta l’inferno con questa brutta esperienza e che, proprio come lui, sente la mancanza di Hyoga, così farò, ma penso che mi prenderò ancora questi tre minuti a rimanere al suo fianco, magari lisciandogli i capelli nell’attesa che si tranquillizzi del tutto.

Anche se siamo due uomini, anche se siamo due personalità agli antipodi, anche se ti strozzerei per quante volte mi fai rischiare gli infarti… ti voglio bene, Cam, non smetterò mai di dirtelo e di provare a fartelo capire. Ti voglio bene! Era così a 6 anni, sarà così anche a 60…

...sempre che ci arriveremo, certo! Non è che la nostra esistenza abbia chissà quante garanzie, ma sono rinato come Milo per continuare ad essere il tuo migliore amico, di certo lo sarò anche nella prossima vita, e in quella dopo ancora. Ti seguirò sempre, dovesse anche cascare il mondo o implodere il sole, fino alla fine di tutti i tempi.

E questa è una promessa che continuerò a mantenere, Camus!

Come Milo, ma anche come Cardia per il Dègel che sei stato... e che sei tutt'ora, anche se cerchi di celarlo.

“Non è forse così… Marta?” chiedo al vuoto, con un mezzo sorriso, sperando che la piccoletta sia un poco più tranquilla dopo la nostra chiamata al telefono.

In fondo… entrambi abbiamo attraversato il tempo per un motivo ben preciso, no?!

 

 

* * *

 

 

Isola di Milos, 16 novembre 2011, sera

 

 

Non andava bene, in fondo lo sapeva.

Non andava bene… e non le importava.

Ma negare l’evidenza… no, era impossibile.

Si strinse la mano sull’addome, premendoselo in prossimità dell’ombelico, come a impedire al dolore di uscire, riportandolo forzatamente sotto controllo.

Uno spasmo più intenso degli altri la investì… partiva dal centro e si diramava verso l’alto. Eccola, un’altra crisi dopo pochi, pallidi, secondi di calma. Quella… non sarebbe riuscita a trattenerla, ne fu certa poco prima che la sensazione di acidulo le risalisse in gola.

Si piegò ulteriormente sopra il water prima di sboccare. Serrò disperatamente le palpebre, augurandosi che fosse davvero l’ultima. Ormai ciò che usciva non poteva essere più cibo, quello lo aveva già smaltito ampiamente, quindi… no, meglio non pensarci!

Non volle neanche vedere cosa aveva rigettato, semplicemente, alla cieca, tastò la mano contro il muro, ritrovando il pulsante dello sciacquone per premerlo. Udì il vortice d’acqua che veniva tirato giù, portandosi dietro tutto quello che, fino a quel momento, aveva vomitato; l’acutizzarsi di quel suono le indicò che era sceso nelle fognature. Silenzio. Attese qualche secondo in più, mentre, sempre a tentoni, prendeva la carta igienica e si puliva più volte la bocca, buttando nuovamente tutto giù con un nuovo sciacquone.

Attese nuovamente. Secondi. Minuti. La crisi finalmente sembrava finita dopo ‘soli’ quattro conati di vomito. Si raddrizzò cautamente, studiando ogni più piccola, nuova, reazione del suo corpo. Ancora nulla. Sì, erano veramente finiti. Trasse un sospiro di sollievo mentre riapriva gli occhi.

Avrebbe di certo dovuto mangiare o bere qualcosa per scacciare quel retrogusto disgustoso, senza però dare nell’occhio. Non voleva certo che Sonia si insospettisse più di quanto già non fosse, tanto meno Milo, ma fortunatamente lo Scorpione non l’avrebbe chiamata fino al giorno dopo. Avrebbe quindi avuto tempo di celare quel malessere, come stava imparando a fare sempre di più e sempre meglio.

Marta riuscì finalmente a raddrizzarsi completamente, decidendo volutamente di non guardarsi allo specchio. Ormai era passata, la fase acuta sarebbe definitivamente scemata.

Tremò un poco a quell’ultimo pensiero, ricordandosi che, poco prima di vomitare l’anima a causa della sensazione sin troppo intensa e difficilmente gestibile, aveva giusto fatto in tempo a sollevarsi la maglia per guardarsi l’ombelico, vero e proprio nucleo, punto di partenza, di tutto il dolore che si era diramato a tutto il corpo, sconquassandola.

Non vi era comunque più motivo di indagare. Ormai sapeva. Perché lo aveva provato sulla sua stessa pelle, e tuttavia volle nuovamente una conferma. Si alzò la maglia quel tanto che bastava per scorgerlo. Lo scorse. Ne tastò a fatica i margini e, quando venne il momento di toccarne l’interno, qualcosa, una paura viscerale, unita al dolore, acuto, penetrante, la distolse dai suoi progetti. Fu sul punto di vomitare un’altra volta, solo con un atto di forza si controllò. Lentamente, posò la fronte contro le fredde mattonelle del bagno. Chiuse gli occhi. Respirò profondamente. Le ci volle tutta sé stessa per mantenere il sangue freddo.

Non c’era possibilità d’errore… l’interno della fossetta andava tingendosi di viola scuro, faceva male al solo sfiorarsi. Più ancora, al solo saperlo di averlo lì, in posizione mediana del tronco, le faceva provare l’impulso di strapparselo via, da quanto male facesse, da quanto… la mettesse a disagio!

E lei… pur non avendo mai amato mostrarsi nuda, tutt’altro, non aveva mai avuto di simili problemi, non aveva mai… provato quella sensazione orrenda di profanazione, di essere stata violata, perché ad un pazzo, perché quello era, era balenata in testa l’idea di torturarla con i prelievi allo scopo di far riaffiorare una divinità misteriosa e arcana custodita, contro la propria volontà, all’interno del proprio ventre.

Quelle erano sensazioni provate da Camus, ne era consapevole… e sentiva, allo stesso tempo, che sarebbero potute anche aumentare, perché le loro vibrazioni, da quella notte in cui lei, per salvarlo, era riuscita ad accedere alla sua interiorità, compenetravano sempre più spesso, diventando quasi un’unica cosa, un unico battito…

Inaspettatamente sorrise tra sé e sé, nonostante la stanchezza, la vulnerabilità, il sentirsi completamente esausta. D’istinto, si accarezzò più volte il ventre, sforzandosi di riportarsi alla calma, ma più ancora di tranquillizzare lui, che si sentiva così indifeso.

Perché, in fondo, se le emozioni passavano da lui a lei, con naturalezza, poteva anche accadere il contrario...

“Va tutto bene, Cam… sei al sicuro adesso, sei con Milo, dormi, riposa… più nessuno verrà a farti del male!”

E poi ancora, socchiudendo gli occhi per immaginarsi bene la scena con la mente e trasmetterla così a lui…

“E’ giugno, inizio estate, tu sei sotto un grande albero di tiglio che ti fa ombra, l’arietta fresca gioca con i tuoi capelli, ti accarezza il viso… sei felice! - sussurrò, concentrata, immaginandosi un momento molto delicato del suo passato, con Stevin – Non… avere paura!”

 

 

 

 

Angolo di MaikoxMilo

 

Dopo mesi (4) di attesa, rieccomi giunta qui con un capitolo corale in cui, all’incirca, ho cercato di dare una parte ad ognuno (compreso Saga, sì, che mi sta qua, ma vabbé, ormai lo sapete).

Prima di partire con le spiegazioni, premetto che, molto probabilmente, causa impegni, poco tempo libero, scarsa voglia di pubblicare per una serie di motivi, non riuscirò più ad aggiornare con la stessa frequenza di prima. Per cui, salvo il prossimo capitolo di Le petit Cygne, già ampiamente scritto e solo da revisionare, che dovrebbe uscire ad inizio giugno, i tempi si allungano, per cui… mi dispiace per chi segue, ma davvero non riesco a fare più di così, sperando in tempi migliori.

Dunque… un capitolo corale, dicevo, in cui ho fatto parlare un po’ tutti, anche se i due protagonisti principali sono sicuramente Death Mask e Milo. Insieme a loro qui, per la prima volta, ho vagliato, per la prima volta il POV milesco… perché? Diciamo… che è un nuovo approccio scrittorio, sto valutando di rendere la quarta storia, quando e se mai uscirà, un succedersi di punti di vista differenti, non solo quello di Marta, quindi, il principale, ma anche quello degli altri. Farò così? Non farò così? Chi lo sa! Per il momento mi sono divertita un mondo a rendere il linguaggio e i pensieri del nostro Scorpionide preferito, spero abbiate apprezzato anche voi.

Questo è un capitolo ricco di spiegazioni, non c’è che dire, e di riassestamenti dopo i fatti accaduti precedentemente. Camus ne è uscito distrutto, ma anche i suoi compagni e amici hanno accusato il colpo della scoperta di Tiamat nel suo ventre; Francesca e Michela sono traumatizzate, Milo e Deathy increduli, costernati, e via così…

In tutto questo penso si possa ben percepire che, tanto per Death Mask, quanto per Aphrodite, per lo stesso Milo, e così per gli altri Cavalieri d’Oro, il confine tra i sé stessi di adesso e quelli del passato (perché sì, per me, pace alla caratterizzazione del Kuru, ma i Gold del Lost Canvas sono a tutti gli effetti precedenti vite dei Cavalieri del presente) si è assottigliato al punto che i ricordi stanno compenetrando in questa nuova vita, portando a qualcosa di nuovo. Ovviamente in Milo sarà di certo più marcato che in, per così dire, Aphrodite, stante il suo viaggio nel tempo, ma avremo comunque modo di approfondire, statene certi.

Tutte le anime stanno correttamente attingendo all’esistenza passata, tranne quella di Camus, così come è facilmente intuibile dalla lettura del capitolo, a causa dell’interferenza di quel frammento mancante che tiene legato alla vita/non-vita Dègel… e anche qui le parole di Shion risultano sinistre, terribili… avrà ragione ad avere di simili paure?

I Dorati Custodi non sono gli unici a subire questa compenetrazione… anche a Marta sta accadendo qualcosa di non dissimile, in maniera forse perfino peggiore. In questo caso, non è l’anima di Seraphina a farlo (che comunque si è già risvegliata in lei, sebbene le tenga nascosti ancora alcuni ricordi), ma l’anima dello stesso Camus. Nel capitolo 37 di Sentimenti che attraversano il tempo (quello famoso, sì, che ho corretto 400 volte XD), la ragazza per salvare il fratello ha dovuto accedere in lui per vedersela frontalmente con il Mago, questo suo gesto, dettato dall’amore fraterno, non è stato ovviamente privo di effetti collaterali, come potete vedere. Tuttavia… non è l’unica ragione ad acutizzarle il malessere, a permetterle di sentire il dolore e le emozioni di Camus con il doppio dell’intensità, ma non posso essere più chiara di così, al momento, mi spiace. Avrete le risposte passo passo, non temete. Certo è che, loro padre, Efesto, ben sa di questa situazione, e ne è preoccupato, ne ha parlato al figlio maggiore proprio nel primo capitolo di questa storia e, va da sé, che a Camus, questo, non possa andare bene in alcun modo.

Si scontrerà con la sorella per provare a reprimere un potere che le provoca così tanto dolore e che tuttavia lei non vuole assolutamente perdere? Anche qui, se avete imparato a conoscere un po’ i personaggi già sapete la risposta…

Mi pare non ci sia altro da aggiungere come noti finali. Come sempre ringrazio coloro che seguono le mie storie.

Un caro saluto a tutti e… alla prossima! :)

 

Ritorna all'indice


Capitolo 8
*** Ricordi intrecciati (prima parte) ***


Capitolo 8: Ricordi intrecciati (prima parte)

 

 

 

Mi ricordo montagne verdi e le corse di una bambina

con l’amico mio più sincero, un coniglio dal muso nero.

Poi un giorno mi prese il treno

l’erba, il prato e quello che era mio

scomparivano piano, piano e piangendo parlai con Dio.

 

Quante volte ho cercato il sole

quante volte ho mangiato sale.

La città aveva mille sguardi

io sognavo montagne verdi

 

(Marcella Bella)

 

 

 

La manina della bimba si levò oltre i corti capelli a cespuglietto del colore delle castagne mature appena cadute dall’albero. Le dita le si chiusero un istante dopo. Nulla. Riaprì il palmo. Lo richiuse. Ancora nulla. Che strano, eppure l’aria era così tersa, da poterla quasi toccare!

Avanzava indomita sulla stradina sterrata, un poco insicura sulle gambe non ancora del tutto stabili, come le radici delle piante appena attecchite. Non dava comunque peso a ciò che si trovava per terra, la sua attenzione era tutta per il cielo azzurro, per gli uccellini che volteggiavano armoniosi sulla sua testa e per quel verde delle foglie degli alberi che, grazie alla luce intensa del sole, appariva sgargiante più che mai.

Era bello, ma bello davvero. La vita, quell’enorme impulso vitale che le diceva di continuare a camminare. E camminava, un po’ traballante, sempre con gli occhi persi nell’infinità sopra di sé. Azzurro e blu; blu e verde. Blu e ancora giallo, il calore appena tiepido della primavera.

Amava tanto il blu, tanto davvero. Era un po’ il suo colore e le piaceva. Forse per questo ne andava a cercare di altri, di colori. Cercava di farli suoi, ed era così che aveva assorbito tutte le sfumature verdi delle piante, pari solo a tutte le specie esistenti sul pianeta; il giallo del sole, che poi lo possedevano anche alcune piante in autunno; il marrone della terra, che era tuttavia diverso da quello dei tronchi degli alberi, e ancora… ancora tanti altri.

C’erano tanti colori in quel mondo, non ci si poteva di certo annoiare e, forse, neanche una vita sarebbe bastata ad assorbirsi su di sé, a farli propri. Occorreva pazientare, come per il grano -giallo anch’esso!- nell’attesa di essere raccolto.

Ma se c’era una cosa che Marta non riusciva a sopportare di non aver ancora ottenuto, nonostante tutta la fatica, era senz’altro quel celeste tenue del cielo. Inarrivabile, sebbene l’aria sembrasse talmente trasparente da essere acciuffata, eppure… che rabbia! Pareva talmente vivido, nitido, da poter essere afferrato anche dalle sue manine ancora minuscole, invece sfuggiva; sfuggiva sempre.

Ci provò ancora una volta, senza successo. Sospirò, riportando lungo il corpicino il braccio sconfitto. Non abbassò comunque la testa, sarebbe stato un po’ come gettare la spugna, arrendersi, e non voleva, quello no. Ci sarebbe riuscita prima o poi, ad arrivare anche a quella sfumatura.

Sorrise tra sé e sé, respirando a pieni polmoni l’aria ancora fresca del mattino. D’accordo, forse il celeste cobalto non lo avrebbe ottenuto, non quella volta, ma vi era un’altra cosa che desiderava ottenere, e l’odore nell’aria dei fiori, il cinguettare frenetico degli uccellini, ubriachi della primavera, sembravano volerle indicare una speranzosa riuscita.

Ridacchiò tra sé e sé, da sola, come spesso si era trovata, nonostante gli appena cinque anni di età. Sì, ci sarebbe davvero riuscita quella volta, non sarebbe stata più sola!

Continuava ad osservare distrattamente sopra di sé, non accorgendosi di essere arrivata dalla parte opposta della stradina sterrata rispetto al paese da dove proveniva. Era sul punto di canticchiare perfino tra sé e sé per la felicità, quando, un acciottolio di sassi che rotolavano uno contro l’altro, la fece piombare sulla terra. Anche la sua testa si raddrizzò, portando così i suoi occhi a distinguere una figura appena sopraggiunta proprio davanti a sé.

Fermati, stai varcano il mio territorio!”

Marta sorrise a quell’affermazione, riconobbe nell’espressione del bambino a poca distanza da lei un qualcosa di corrucciato e tremendamente infastidito. Non ci diede peso, fischiò più forte, spostandosi al margine del sentiero per proseguire indisturbata.

Ehi! Non mi senti? E’ il mio territorio, questo!” insistette il bimbo, gonfiando le guance, indignato.

Non era che Marta non lo sentisse, era che semplicemente aveva cose ben più importanti a cui pensare, come per esempio… uh, quella roccia strana, appena dietro la curva che girava verso il monte! Accelerò il passo, l’altro bimbo quasi soffiò irato, sul punto di bloccarla, ma lei lo scansò e… la sua bocca e gli occhioni si aprirono meravigliati davanti allo spettacolo appena apparso!

Non ci siamo capiti, questo è mio...”

Ma tu vivi lì?!” chiese sbalordita lei, osservando il paese arroccato sul monte in tutta la sua magnificenza. Perché da Carsi si vedeva, sì, era rassomigliante ad una fortezza e incuteva già una certa reverenza, ma da vicino… era ancora più spettacolare!

Il bimbo capì a cosa l’estranea si stesse riferendo. Fu combattuto dal desiderio di difendere ciò che era suo, scacciandola, o pavoneggiarsi davanti a lei, tutto fiero e impettito di vivere in un posto che non aveva eguali. Vinse quest’ultima opzione.

Ebbene sì, è la Rocca di Cerviasca!”

UAU!!!”esclamò Marta, carpita, osservando con ammirazione quel posto, dimentica, per un solo istante, del suo obiettivo primario e di avere l’altro bambino lì, molto vicino a lei.

Ci vivo con mio nonno, sai? Solo io e lui, gli altri se ne sono andati ormai da anni! - le comincio a spiegare lui, socchiudendo gli occhi e annuendo tra sé e sé con goduria, neanche stesse presentando un suo prodotto di marca – Per questo gli estranei non sono ben accetti, e tu sei una di loro, devi… EHI, TI STO PARLANDO!!!”

Così preso a decantare le meraviglie di quel posto, quasi non si era reso conto che la bambina aveva ripreso la sua strada, ignorandolo bellamente. Scattò quindi verso di lei, la prese per il polso. Voleva costringerla a voltarsi, o perlomeno bloccarla, ma la piccola reagì male, quasi gemette a quel contatto. La sentì produrre un rumore strano, a metà strada tra un sussurro strozzato e lo squittire di un topo che stramazzava su una di quelle trappole con colla che utilizzava suo nonno Mario. Si pentì quasi subito di averlo fatto, perché l’estranea era una bimbetta, probabilmente più piccola di lei e, sempre suo nonno, gli aveva insegnato che mai si doveva essere sgarbati con le donne di ogni età, perché erano portatrici di vita.

Cosa volesse dire lo sapeva bene solo lui, ma il punto era che quel comando scolpito nella sua mente, in quel momento urtò selvaggiamente con l’orgoglio e la necessità di difendere il proprio luogo natio.

Scu-scusa! - borbottò lui, arrossendo, grattandosi poi la testa nel vedere che l’altra bambina aveva piegato le braccia davanti al petto, tremava, e, sempre guardando altrove, perché evidentemente non riusciva a sorreggere il suo sguardo, si era chiusa alla sua presenza – Non sono in molti che vengono qui, pensavo che fossi… uh, un maschio!”

Uh, ma che villano! - la bimba lo sorprese di nuovo nel rispondergli con forza, recuperando così terreno perso dopo che il contatto con lui si era interrotto – Sono una femmina!!!”

Uh? Ed io… io come facevo a saperlo? Hai i capelli corti e… AHIA, ma allora la forza ce l’hai!”

Gli aveva rifilato un calcio e… quanto doleva lo stinco dove l’aveva colpito! La osservò, oltraggiato, mentre lei tornava alla carica, rossa in viso. E non importava che non lo guardasse negli occhi, che mantenesse lo sguardo ottusamente basso, pareva una cavalla che rifiutava la ferratura.

Tu, bruto..!”

Il secondo calciò fortunatamente lo scansò, saltando di lato, prima di accorgersi che quella non demordeva, sbuffando come una locomotiva. Pochi secondi ancora e l’avrebbe avuta nuovamente addosso.

Ehi, ascolta! - tentò di placcarla, prendendole a forza i polsi per spingerla così a guardarlo negli occhi – Io non posso essere sgarbato con le donne, me lo impedisce il nonno, ma se tu continuerai a...”

Si bloccò.

Lei anche si bloccò.

Il loro sguardo si era incrociato, pur nella casualità del movimento, le loro bocche si erano aperte simultaneamente.

MA CHE BELLI I TUOI OCCHI!!!” trillarono in sincrono, prima di arrossire, girare la testa altrove, uno a destra e l’altra a sinistra, e scoppiare poi a ridere.

E risero a lungo. Imbarazzati, contenti, e un po’ stralunati. Nessuno dei due aveva mai visto quel particolare colore sfumato nell’iride. Era… smagliante, anche se in due modi completamente diversi!

Io sono Mart...”

Io sono Stef...”

Si riguardarono, accorgendosi di essersi nuovamente parlati sopra e, nondimeno, di avere ancora i polsi intrecciati nelle mani dell’altro. Si raddrizzarono, tossicchiando per darsi un tono.

Sono Stefano, puoi chiamarmi Ste – disse il bimbo, prendendo la parola – Tu?” la guardò di sottecchi.

Marta. Puoi chiamarmi… Marta!” disse solo lei, mentre la sua attenzione veniva attirata da un movimento giù nella valle.

Che differenza c’è?” chiese lui, inarcando confusamente un sopracciglio.

La confidenza, il tono… sai, il mio nome non può essere spezzato.”

Bo, sei strana forte, eh!” fece spallucce lui, notando che la bambina aveva preso ad avvicinarsi ad un cespuglio, da dove, con un vorticare intenso, prese il volo un passeriforme.

Hai dei bellissimi occhi, Ste!” si complimentò lei, incrociando le braccia dietro la schiena per seguire, con lo sguardo, il volo a zig-zag dell’uccellino non meglio definito. Di nuovo non era più in grado di sostenere il suo sguardo. Sembrava essere una bimba piuttosto stramba.

Grazie, anche i tuoi. Non avevo mai visto una persona con gli occhi blu, sembri… il mare, anche se non l’ho mai visto da vicino, solo dalla vetta dei monti qui sopra.”

E tu invece… non saprei. Stavo per dirti il cielo ma, in verità, hai un colore ancora più chiaro. - Marta gonfiò le gote, chinò il capo, calciando corrucciata un sassolino lì vicino. Poi la sua espressione si fece per qualche secondo pesta – Sai, anche io un tempo avevo quella sfumatura, mi… apparteneva!” disse, flebilmente.

Prego?” chiese educatamente Stefano, mascherando una certa dose di scetticismo, perché, nonostante i modi a volte un po’ rozzi e selvatici, suo nonno Mario gli aveva sempre insegnato, fin da piccolissimo, la gentilezza nell’esprimersi.

Inaspettatamente il tono riscosse la bambina dai capelli mossi, che si affrettò a dirgli di non curarsi di quel che diceva, perché ogni tanto straparlava ed era assolutamente normale per lei, ma non per gli altri.

Stefano avrebbe potuto dire tutto di quella bambina misteriosa, ma non che fosse normale, di gran lunga no! Rimase scettico a guardarla mentre lei tornava, trotterellando, al suo fianco. Si accorse distrattamente che, in fondo, dal punto di vista fisico, sembravano un po’ simili loro due: lineamenti del viso delicati, sebbene quelli di lei fossero ancora un poco più tondeggianti, taglio degli occhi non così diverso, anche se di due colori differenti, e quei buffi capelli un poco all’insù, quasi da rammentare un cespuglietto, o il riccio spinoso di un castagna. Castano scuro i suoi; castano chiaro, con sfumature velatamente rossicce, quelli di lei.

Sono molto belli i tuoi occhi, Ste! - confermò ancora la piccola, sorridendogli con dolcezza, sebbene il contatto visivo fosse ancora un problema, a giudicare dalla traiettoria a vuoto del suo sguardo – Solo che non so a cosa abbinarlo, non l’ho mai visto.” sospirò, affranta.

Ad un laghetto di montagna!” andò sul sicuro lui, tutto orgoglioso.

Ad un… laghetto di montagna?”

Sì, Nonno Mario me lo dice sempre; dice che è affine al colore interno dei ghiacciai.”

E che colore ha… hanno?” si fece tutta interessata lei, che evidentemente non li aveva mai visti.

Ma non sai proprio niente, tu, eh? Ecco, sono… - Stefano si gonfiò, pronto a decantare, prima di rendersi conto tuttavia che non aveva nulla per poterli descrivere, perché anche lui non li aveva mai visti da vicino - ...non lo so!” ammise infine, sebbene gli bruciasse.

Però deve essere proprio un bel colore, vero?”

B-beh, sì suppongo di sì!”

Quanti anni hai, Ste?”

S-set...”

Io cinque!”

Ma fammi finire di parlare, prima, non sono riuscito neanche a...”

CINQUE, sono più piccola!” ribadì lei, indicandoglieli con le dita della mano sinistra. Non era tuttavia il numero corretto.

Guarda che quello è il quattro, non il cinque!”

Ah… - Marta tornò a guardarsi la mano che aveva il solo pollice chiuso – Così, allora?” e abbassò anche il mignolo.

Macché, quello è il tre!” sospirò lui, massaggiandosi teatralmente i capelli.

Scusami, ahaha, i numeri sono troppo complicati per me!”

Una cosa era sicura, neanche lui amava la scuola, ma fino a quelle cose lì ci arrivava. Realizzò comunque che probabilmente non l’avevano ancora condotta in quel luogo infernale, e che probabilmente doveva avere delle difficoltà concettuali a fare i numeri con le dita, o qualcosa di simile, perché invece era perfettamente consapevole che sette fosse un numero più grande dei suoi cinque.

Strana davvero, comunque… e soprattutto, da dove era sbucata? Era di sicuro la prima volta che la vedeva.

Cosa ci fai qui da sola? Non hai una famiglia?” chiese ad un certo punto lui, osservando che si era nuovamente persa nelle fantasticherie. La vedeva alzare di frequente la testa verso il cielo per poi abbassarla, pattugliare i dintorni con quegli occhi color del mare, forse alla ricerca di qualcosa che tuttavia non trovava.

Vengo da Carsi.”

Da sola?! Carsi è un paese abitato!”

Da casa dei miei nonni, in verità… parlavano tanto ed io mi annoiavo, quindi ho deciso di esplorare.”

Tutta da sola?”

Sì.”

E i tuoi nonni che diranno?”

Tornerò tra un po’ per non farli preoccupare.”

I nonni...” una punta di gelosia lo investì. Lui, di nonno, ne aveva conosciuto solo uno.

Siamo venute su da Genova, mia mamma ed io. Nonno Dante ha comprato una casa lì e ce la voleva mostrare. - spiegò ancora, andando poi a rovistare in un cespuglio sul margine strada - Sei qui? Mmm, no, peccato!”

Stefano non comprendeva a chi si stesse riferendo nella sua continua, quanto infruttuosa, ricerca. Un’ulteriore punta di gelosia lo investì, ma non lo diede a vedere. A quanto pareva, lei aveva anche una mamma. Lui no. E neanche un papà. Cosa le mancava, quindi? Cosa andava cercando?

Scusami, cosa stai..?”

Un fratello, meglio se maggiore! - rispose la bambina, intuendo la domanda, sbuffando nel non riuscire a trovarlo da nessuna parte – Tu hai un fratello maggiore?”

No, sono figlio unico, almeno da quello che so, perché i miei genitori non li ho mai conosciuti.”

Oh… - Marta sembrava esserci rimasta parecchio male – E questo è brutto.”

Sì, lo è.” acconsentì il più grande, inscurendosi in viso, perché erano argomenti che non amava trattare, lo mettevano semplicemente a disagio.

Neanche io ho un papà… - confessò Marta, a sua volta scura in volto, sospirando affranta, prima di riprendersi subito dopo – Però cerco un fratello maggiore!” trillò, speranzosa.

Non puoi averlo.”

COSA?! Perché no?!”

Ci era rimasta veramente più male, lo guardava con occhioni ricolmi di tristezza. Stefano si pentì di essere stato così brusco, suo nonno lo avrebbe di certo ripreso per i modi poco gentili.

Mi hai detto che sei alla sua ricerca, quindi non ce l’hai, al momento, ma se lo cerchi maggiore, a rigor di logica, non puoi averlo. - provò a spiegarsi, cercando di alleggerire il tono – Sei stata portata dalla cicogna prima tu!”

La cicogna… - Marta era sempre più allibita, soppesava quelle parole, osservando il terreno come se si aspettasse la risposta, poi però si illuminò di nuovo – Magari la cicogna lo ha smarrito; ha smarrito il mio fratellino!”

B-beh, se la metti così...”

Stefano non sapeva che pesci pigliare. La piccola era stramba, ma stramba davvero. Alternava momenti di sfrenata euforia alla malinconia più atroce. Era molto curiosa, imprevedibile e… beh, dire che non aveva attirato la sua attenzione equivaleva a mentire!

Per la prima volta in vita sua, un essere umano diverso da suo nonno aveva acceso in lui il più sincero interesse della scoperta.

Per questo lo cerco, magari lo ha smarrito ma c’è! - disse ancora lei, con convinzione – Mi aiuti a cercarlo, Ste?” gli chiese, prima di proseguire verso Cerviasca e far scattare così Stefano, affatto intenzionato a far entrare una estranea, per quanto dalla personalità interessante, nel suo territorio.

ASPETTA, non di lì! Ti aiuto ma non di lì!!!”

Perché?”

Perché… - esitò, prima di farsi venire un’idea geniale – Perché ti ho detto che vivo da solo, no, con mio nonno, il paese è tutto mio!”

Marta continuò ad osservarlo, non capendo. Inclinò appena la testa di lato.

Non può esserci tuo fratello maggiore, se ci siamo solo io e mio nonno, giusto?”

Eh, no, in effetti...” acconsentì lei, pensierosa.

Allora ti aiuto, ma andiamo di là, verso il luogo da dove vieni, da Carsi!” propose, con un largo sorriso.

Tra l’altro, per quel poco che era riuscito a capire dalle sue parole, la bambina era scappata dalla super visione degli adulti, perché la gente di città, lo sapeva, difficilmente lasciava a piede libero i propri pargoli, sempre ossessionata dai pericoli incombenti. Non erano, di certo, tutti come lui e suo nonno, liberi di scorrazzare come le galline dell’aia, genuini e al 100% selvatici!

Con indubbia determinazione da parte sua, memore delle raccomandazioni di suo nonno su come trattare il gentil sesso, la prese per mano, guidandola indietro, dal luogo da cui era venuta, rassicurandola ancora una volta che, sì, l’avrebbe aiutata, ma non per di su, in giù, verso Carsi.

La piccola, dopo un poco di esitazione data dalla spontaneità del gesto a cui non era abituata, sorrise tra sé e sé, lasciandosi condurre dal bambino più grande.

Sì, forse suo fratello maggiore non era caduto verso quel luogo semi-abbandonato che Stefano chiamava Cerviasca, ma di certo, quel giorno di maggio, lei aveva trovato un amico.

 

 

Era tutto come in un sogno, come vedere il mondo dietro i suoi stessi occhi, come... essere lei e vivere il suo vissuto. Eppure, se ne era accorto già da prima, era tutto così vivido, come se le sensazioni, le emozioni, passassero anche per mezzo delle sue vene; le vene di una esistenza a sé stante e, insieme, incommensurabilmente legata alla sua.

Si sentiva esausto, divelto, scardinato… non capiva esattamente dove si trovasse, né cosa fosse successo per ridurlo così. Sapeva solo di essere sdraiato da qualche parte, privo di forze. La sofferenza inaudita, provata fino ad un attimo prima, era perlomeno cessata, lasciandolo comunque perso nelle tenebre dell’incoscienza. Fragile come solo una bolla di sapone poteva essere.

Non riusciva minimamente a muoversi, complice la spossatezza. Avvertiva ancora quel calore arcano, innaturale, lo percepiva propagarsi in tutto l’addome, espandersi sulla pelle, attraverso di essa, perché ovunque si trovasse, ovunque fosse andato alla deriva, il palmo destro della sua mano doveva essere corso istintivamente sopra la sua pancia, come per coprirsela. Il leggero tessuto della maglietta, smosso da una benefica brezza che aveva preso a soffiare nei dintorni, ondeggiava appena sul suo pollice, perché probabilmente se l’era tirata su, o si era sollevata da sola, forse a seguito di qualche suo movimento nel sonno.

Ma stava ancora dormendo? O sognando? Si accorse che il solo chiederselo gli creava agitazione e che non poteva assolutamente tollerarla. Era l’incipit di una crisi di panico... cercò di rilassarsi alla brezza e tornare ad una respirazione normale.

Camus non si sentiva a suo agio a mostrare quella parte del corpo -in verità, nessuna parte, ma quella specificatamente!- eppure amava percepire il venticello sulla propria pelle, soprattutto da quando era tornato alla vita. Lo faceva sentire vivo, completamente, perché, ogni tanto, gli sembrava che una parte di sé stesso fosse rimasta inequivocabilmente nel mondo delle tenebre.

Rabbrividì a quel pensiero. Di nuovo l’ansia lo avvolse. Non riusciva a ricordare nitidamente cosa fosse successo prima, forse non voleva proprio rammentarlo. Riportare la mente a quei momenti, del resto, gli procurava un nuovo dolore, perfino più intenso di quello precedente.

Eppure doveva necessariamente rammentare gli istanti prima della sua perdita di coscienza, la sua battaglia… no, la loro battaglia, perché non era solo, c’erano… chi c’era con lui?

La brezza leggera estiva si fece un poco più intensa, come a volerlo cullare. Respirò più a fondo. Poteva farlo, poteva rilassarsi, poteva… vivere!

Quel venticello leggero che gli solleticava l’addome per poi incunearsi dolcemente sotto la sua maglietta, era arrivato a smuovergli appena i ciuffi ribelli sulla sua fronte. Insieme, nello stesso istante, anche i fili d’erba ondeggiarono sinuosi, carezzandogli un poco la pelle nuda della schiena che era poggiata sul prato. Quale che fosse la ragione, entrambi gli sussurravano che poteva finalmente fermarsi a rifiatare.

Là dov’era. Ovunque lui era. Pace.

Stava bene, si sentiva bene. Rilassò ogni fibra del suo corpo. Prese tempo per percepirsi, prima il respiro che, gonfiando e sgonfiando il diaframma, guidava anche i movimenti del suo addome, che si facevano sempre più profondi e cadenzati; poi, posandosi una mano sul petto, avvertì i battiti del cuore tamburellare sotto le dita.

Era vivo per davvero, ma dove..?

“Questa è Cerviasca di Valbrevenna...”

Una vocetta minuta, infantile, sembrò rispondere al suo quesito esistenziale

“...e siamo sotto al mio tiglio preferito!”

Camus riuscì infine ad aprire gli occhi, pur dovendoli richiudere subito perché feriti dai raggi del sole. Si meravigliò nel constatarlo così possente, come non si ricordava. D’altronde, prima della sua morte, non amava particolarmente quell’astro, né il calore che profondeva. Eppure adesso gli appariva così indispensabile!

Dopo una serie di tentativi andati a vuoto, finalmente riuscì a tenere aperte le palpebre. Si trovava effettivamente sotto un bel tiglio secolare, a giudicare dallo spessore del tronco che, stante la posizione supina, vedeva solo in parte; più nitidi i rami dell’albero, le sue foglie, i suoi frutti dalla forma ovoidale. Doveva essere estate, probabilmente inizio luglio, a giudicare dal clima. L’afa non si era ancora stretta a morsa sulla natura e le piogge dovevano aver continuato il loro compito fino almeno alla settimana precedente, visto il colore verde acceso che creava un piacevole contrasto con il cielo cobalto, pur leggermente intaccato da batuffoli bianchi di nuvole.

“Ti piace?” chiese ancora la voce del bambino, in tono di chi desiderava un riscontro.

“Sì, è bellissimo! - confermò un’altra vocetta, che fece accelerare istantaneamente il suo cuore – Mi sono… innamorata!”

Quel timbro… che era entrato tardi nella sua vita, troppo, lui non avrebbe dovuto riconoscerlo in circostanza normali, ma aveva già sognato di lei, molte volte. Sapeva quindi distinguerla, ed era un suggerimento che arrivava prima dal cuore che non dalla stessa mente.

“Mar-ta!” riuscì faticosamente a mormorare, voltando altrettanto difficoltosamente il capo nella sua direzione, ove la vide, vicina a lui, ma separata, quasi dormiente, come lui, gli occhi chiusi e la boccuccia serena.

Lei non poteva udirlo, neanche poteva percepire fosse lì, lo sapeva bene, ma il solo vederla lo acquietò del tutto. Istintivamente sorrise. Anche la mano, prima sull’addome, si posò di lato, al suo fianco, mantenendo così scoperta la pancia, l’ombelico, che ancora gli faceva male senza ricordarsene il motivo Non aveva importanza, era al sicuro, a casa; la casa che gli era stata strappata in tenera età.

La piccola Marta non era da sola, al suo fianco -Camus lo vedeva bene- vi era un altrettanto piccolo Stevin, di due anni di differenza più di lei. Doveva quindi avere 7 anni mentre la sorellina 5, a giudicare anche dai capelli un poco corti e dall’acconciatura da maschietto tipica del periodo dell’asilo. Doveva trattarsi del 1999, il primo anno in cui i loro nonni avevano preso casa a Carsi, permettendo così al mondo di Marta di connettersi con quello di Stefano.

Ed io cosa facevo nel 1999?

Si chiese Camus tra sé e sé, rendendosi conto che in quell’anno lui era già decenne ed era, con ogni probabilità, in Siberia con… Fyodor…

Ricacciò quindi indietro il pensiero, gli occhi gli si erano fatti lucidi. Scrollò via con tutte le forze la sensazione di perduto che lo aveva investito.

“Potrai venire qui quando vorrai!” sorrise il bambino, perso ad osservare il cielo infinito sopra di loro

“Da-davvero?!” esclamò Marta entusiasta, aprendo i suoi occhi per poi girare il capo verso di lui.

“Certo che sì! - confermò ancora Stefano, tutto soddisfatto – Io sono il principe di questo regno, mio nonno è il re e siamo entrambi d’accordo su questo!” disse ancora, con enfasi, sicuro come non mai..

“Anche se ci conosciamo da soli due mesi?”

“Certo che sì, perché non dovrei?”

“All’inizio non volevi.”

“B-beh, le cose cambiano! - borbottò lui, colto in fallo, fingendosi sostenuto, prima di riaprire un occhio e guardarla con espressione furbetta – E poi mio nonno è d’accordo, anzi, ti vuole conoscere un giorno di questi, ma è sempre indaffarato giù a valle, esegue lavoretti per altri.”

“Che forte!!!”

“Certo che lo è, mio nonno è SUPER!” affermò Stefano con orgoglio, mentre una folata di vento più forte gli smuoveva i ciuffi a a cespuglietto che aveva sopra il capo.

Camus non riuscì a non notare, soffermandosi un poco su di lui, che i capelli del bimbetto avessero una conformazione strana, non dissimile dalla sua alla stessa età. Se ne meravigliò, chiedendosene tacitamente la ragione, prima di tornare a concentrarsi sulla sorellina, la quale aveva preso a canticchiare un motivetto tra sé e sé. La vide allungare una mano, prendere quella di Stefano per stringergliela, mentre, sempre intonando lo stesso motivetto ondeggiava, la testa sull’erba, godendosi il calore del sole.

“Quando fai così sei felice, giusto?” volle sapere Stefano, ricambiando la stretta per poi richiudere gli occhi e rilassarsi. La giornata era ancora lunga, ci sarebbe stato il tempo per tutto. Per il relax e poi più tardi, con l’avvicinarsi del fresco serale, per le esplorazioni.

“Sì, moltissimo! Mi hai invitato, praticamente a far parte del tuo cuore!” trillò lei, non smettendo un secondo di sorridere.

“Oh, beh sì, ecco… non lo faccio s-spesso!” bofonchiò lui, arrossendo nitidamente, prima di scrollarsi e richiudere le palpebre.

“Oh, lo so, lo so! - annuì Marta, prima di prendere una pausa nel discorso, inspirare con il naso ed espirare con la bocca e proseguire – Tra l’altro… ti ho scelto il nome, sai?”

“Il nome? Ma io ho già un nome, lo sai!”

“Il MIO nome, quello che io scelgo di dare a te e di chiamarti da ora in avanti.”

A quel punto aveva ottenuto la sua completa curiosità. La fissò trepidante, in attesa che proseguisse. Si sentiva emozionato.

“L’altro giorno, in paese, a Carsi, una mamma ha chiamato suo figlio per nome, però con il dialetto locale. Io non capivo, mia Nonna Ines mi ha dovuto spiegare.”

“E questo nome sarebbe..?”

“Stevin. Stefano è il nome italiano, ma Stevin quello dialettale valbrevennino!” ridacchiò lei, divertita.

“Stevin...”

“Io scelgo di chiamarti così, ti piace?”

Stefano ci rimuginò un po’ su. Prese tempo ad osservare una nuvola in cielo che passava sonnacchiosa sopra le loro teste. Era un bell’appellativo, non poteva negarlo, composto dalle sillabe -ste, che erano comunque parte del suo nome, e susseguito da quel -vin che era accattivante al solo essere pronunciato. Sorrise, euforico.

“E’ molto bello, sì, MI PIACE!”

“E allora ti battezzo!”

“Non esagerare!”

“Perché, no? L’ho scelto io, il nome è il mio, ehe!”

Stefano si accorse che, in fondo, era proprio così. Sorrise, rilassato. Non sapeva se era per il nome o per qualcos’altro, ma si sentì per la prima volta come veramente parte di qualcosa, finalmente legato alla valle che gli aveva dato i natali e che tuttavia, fino a quel momento, era stata percepita da lui inspiegabilmente come non del tutto sua, a tratti estranea. Ma adesso aveva un nome che lo intesseva intimamente a quel luogo tanto amato ed esplorato. Si riscoprì felice di essere venuto al mondo, proprio lì, anche senza genitori, senza fratelli, con un unico nonno a fargli da guida e… un’amica preziosa da poco trovata!

Poteva finalmente dire di aver raggiunto la pace, nonostante i bulletti di Mareta, il paese rivale del lato opposto della valle, lo avessero preso di mira fin dal primo giorno di scuola, appellandolo come selvaggio e arrivando, a volte, perfino a picchiarlo.

Sospirò nel tentativo di scacciare i loro volti arcigni. Non era più… solo! La sua vita aveva acquisito un senso. Sorrise tra sé e sé.

“Sai, Stevin? - riprese Marta diversi minuti dopo, bisognosa di aggiungere ancora qualcosa - Amo la vita, amo la natura, amo...”

Si era voltata verso il compagno, ritrovandolo però addormentato con le labbra un poco dischiuse e il corpo placidamente rilassato.

“...amo anche stare qui con te, vicino a te, con l’azzurro un poco opaco del cielo che, oggi sì, si confonde con i tuoi occhi. Grazie… per avermi donato anche questo colore. Ora so che esiste e un giorno, forse, vedremo davvero quei laghetti glaciali che tuo nonno dice siano così simili alla sfumatura che ti è propria!”

Rise ancora una volta, speranzosa più che mai per il futuro, prima di soffermarsi ad osservare maggiormente il cielo, i raggi del sole, nonché una Cinciallegra che tornava al nido, venendo subito accolta dal cinguettare frenetico dei suoi piccini affamati.

La vita è così forte e vera, che pare impossibile avere una fine...

Camus vide e percepì tutto questo in lei e tramite lei, come se fosse vissuto dalla sua stessa corporeità. Lentamente si girò sul fianco destro. Lì, in quell’anfratto sicuro, non c’era che lui, le emozioni della sorellina che lo attraversavano, istanti di felicità che, per quanto non direttamente suoi, lo cullavano come una nenia.

“Piccola...” la chiamò con dolcezza, ben sapendo che non avrebbe potuto udirlo in alcun modo.

Non lo aveva udito, infatti, ma la bimba mormorò comunque qualcosa tra sé e sé, prima di chiudere a sua volta gli occhi: “Amo… questo calore che è vita!”

Camus non avrebbe nemmeno potuto toccarla, anche di quello ne era consapevole. Non era mai successo, nei sogni precedenti, che le loro mani riuscissero ad intrecciarsi. In quell’ultimo spiraglio, però, senza che peraltro lui se ne potesse rendere concretamente contro a causa della troppa stanchezza, qualcosa stava cambiando. Si era già ritrovato, sin da subito, inconsuetamente sdraiato insieme a loro, quasi a percepire in prima persona su di sé l’arietta fresca, il caldo del sole, il cinguettare degli uccellini. Ora la sua mano si era mossa per puro istinto, agevolata dall’annebbiamento dei suoi sensi che venivano sempre meno. Camus, nella penombra del dormiveglia, avvertì concretamente forte dentro di sé il desiderio di toccarla, coccolarla, e farle percepire la sua vicinanza, anche se era tanto, tanto, lontano e stremato.

Ne avevano bisogno. Entrambi.

E fu così che, quel giorno, quasi magicamente, la brezza leggera di inizio luglio diventò la sua mano che le carezzava teneramente la fronte, e poi ancora i capelli castani, su e giù, come se un refolo dispettoso si fosse intestardito proprio sulla frangetta.

“Mia piccola e delicata Marta...” le mormorò parole dolci, sorridendo nel guardarla. Poi, vinto dalla stanchezza, chiuse a sua volta gli occhi e si abbandonò.

La sua mano si adagiò poco più sotto, sopra il minuscolo petto della sorellina, e lì rimase, immobile mentre i loro respiri, quasi all’unisono, intonavano uno stesso ritmo perfettamente cadenzato.

Di quella breccia nel sogno, Camus dell’Acquario non percepì più nulla. Semplicemente, con la naturalezza con cui si cade nel sonno dopo una giornata estenuante, si assopì e, di nuovo, tornò a vedere le scene come se fosse dietro gli occhi della sorellina.

 

 

Non era andato granché bene il giorno della presentazione di Marta a Nonno Mario.

Non era andato granché bene essenzialmente perché l’incontro strenuamente immaginato non c’era stato.

Il giorno dell’incontro prestabilito, era successo che su per la stradina sterrata che portava al paese disabitato di Cerviasca, Nonno Mario si era fatto vedere anzitempo, sul suo bel trattore rosso papavero dalle grandi ruote. Li aveva salutati con ampio gesto del braccio, urlando i loro nomi, e Marta… Marta semplicemente si era trovata paura ed e aveva preso la fuga. Letteralmente. Via, di corsa verso il nido sicuro di Carsi.

Stefano non si capacitava di come fosse successo, da quanto veloce fosse accaduto. Aveva preso ad inseguirla, nella paura che capitombolasse per terra, ma la piccola era veloce e agile, nonostante le dimensioni ridotte, la riuscì a raggiungere solo due tornanti più sotto.

FERMATI, si può sapere che è preso?!” volle sapere, riuscendo finalmente ad acciuffarla dal braccio. Lei trasalì, gli occhi blu sgranati nella paura di essere toccata da un estraneo. Tuttavia, quando si accorse che era il suo amico, si calmò un poco.

Lasciami, Stevin, voglio tornare a casa!” lo implorò, quasi supplichevole, tirando da una parte per liberarsi dalla stretta.

Prima mi dici che è successo, sembrava andare tutto bene, perché...”

Perché non mi piacciono i maschi!” rispose, guardando per terra, le guance arrossate e gonfie.

E-eh?!”

Era convinto di aver capito male.

Non mi piacciono i maschi. - confermò lei, imbarazzata – Scusami, ho voluto tanto conoscerlo, ma non ero pronta!” si affretto a spiegarsi, smettendo di tirare senza comunque alzare più lo sguardo verso di lui.

Cosa significa, questo? Anche io… sono un maschio!”

Marta sollevò il capo dalla sorpresa, rendendosi conto maggiormente che, sì, Stevin era un maschio e lo sapeva, ma con lui era tutto inspiegabilmente più facile.

Lo so, ma sei diverso.”

Stefano non sapeva se prendere quella frase come un complimento, o cosa.

Va bene, però sono comunque un maschio!”

Sì.”

Confermava quanto diceva lui, senza tuttavia riuscire ad esprimersi e andare avanti nel dialogo. La faccenda doveva essere indagata.

E allora perché con me sì e lui no?”

Io… non lo so, Stevin, mi sono agitata.”

Occorreva procedere a tentoni per altre vie parallele, quella sembrava una strada priva di sbocchi.

Ma, scusa, la prima volta che ci siamo conosciuti, non mi hai detto che cercavi un fratello maggiore?” chiese lui, sforzandosi di capire il suo punto di vista che era bizzarro e singolare al tempo stesso.

A quella frase gli occhi di Marta cambiarono, tornando luminosi come accadeva sempre quando parlava di qualcosa che le piacesse particolarmente. Un largo sorriso si fece spazio sul suo visetto.

Anche con lui è diverso. Siete le mie eccezioni!”

Stevin, in quei mesi di conoscenza, aveva più o meno capito che Marta doveva aver creato una sorta di amico immaginario con cui interagiva, e che chiamava, per l’appunto, ‘fratello maggiore’. A volte lo cercava, come se non lo riuscisse più a trovare, a volte ne parlava come se ce lo avesse lì presente al suo fianco, altre ancora, invece, sembrava quasi non ricordarsi minimamente della sua esistenza, per quanto congetturata dalla sua stessa mente. Altre, come quella...

Ha i capelli lunghi, sai, di un colore inconsueto. Lo sguardo un po’ burbero come Nonno Dante, ma il cuore gentile e molto caldo. E’ snello e slanciato, alto, forte e delicato al tempo stesso, è... lui è un sacco di cose, Stevin, è il mio fratellone, ed io...”

...altre, come quella, ne parlava in maniera fin troppo concreta, faceva quasi paura.

Va bene, va bene, ho capito… - le disse garbatamente, fermandola dal parlare a raffica perché il punto non era comunque quello – Intendo che, come hai fatto un’eccezione con me, come la fai con questo tuo amico immaginario, potresti dargli una possibilità. Anche mio Nonno Mario è una persona gentile.”

Io… - la piccola sembrava titubante – E se non gli piaccio?”

Non è possibile, questo!” la rassicurò lui, cercando di incoraggiarla.

M-ma...”

Tuttavia l’abbozzo del suo discorso venne troncato proprio dall’arrivo di Nonno Mario. Marta, d’istinto, vedendoselo in avvicinamento, si rifugiò dietro la schiena dell’amico.

Oh, Percival! Correte proprio come delle lepri, voi altri. Beata gioventù!”

Nonno!” lo salutò Stevin, voltandosi con un largo sorriso in modo da guardarlo in tutta la sua interezza.

E così tu sei Maria...” salutò la piccola, che sbucava con la testolina, da dietro le spalle di Stefano.

No, nonno...” sospirò il più grande, scrollando la testa.

Oh, memoria, memoria… che se ne va! Maura, allora!”

No...”

Martina?”

Quasi...”

MARTA! - esclamò, ricordandosi di colpo il nome nel darsi manate sulla fronte – Scusami, scricciola, sono vecchio ormai, perdo colpi!”

Marta non rispose verbalmente, ma ridacchiò tiepidamente, sporgendosi un po’ di più per vedere meglio il signore, che malgrado una certa età già acquisita, aveva ancora una discreta ciurma di capelli in testa, non di certo come la piazzola di suo nonno. Ridacchiò tenuamente a quell’ultimo pensiero.

Psss, puoi uscire… - la chiamò Stefano, guardandola di profilo – Non mangia bambini, come puoi ben vedere!”

E così Marta uscì, sebbene fosse ancora un poco incerta nel trovarsi davanti a quel signore. Non era in grado di mantenere il contatto visivo diretto con le persone che non conosceva bene, solo che bisognava farlo, era decoroso, così le aveva insegnato suo nonno.

Decoro, decoro e decoro… la piccola non sapeva cosa fosse, ma aveva trovato un espediente concreto per sopperire a quella mancanza: fissare le rughe della fronte o in mezzo al naso e dare così l’impressione di sostenere lo sguardo. Era difficile, molto, anche se il trucchetto le riusciva sempre meglio con gli estranei.

Così non guardo Nonno Mario negli occhi, non quella volta. Non distinse il colore delle sue palpebre, ma gli parvero della sfumatura de tronchi degli alberi, forse un poco più scuro. Insomma, una bella gradazione, però con quella di Stevin non ci azzeccava nulla: lui era chiaro nelle iridi e scuro di capelli, Nonno Mario l’inverso. Che mistero!

Fra l’altro… Marta studiò le mani, le braccia e la bocca dell’uomo, cosa che le riusciva infinitamente meglio, e per quanto si sforzasse non vedeva somiglianze.

Osservò ancora l’amico che le sorrideva per incoraggiarla. Si chiese distrattamente da chi avesse preso, se dalla mamma o dal papà, ma poi avvertì un movimento da parte del signore davanti a lei, percepì un’ombra tra i raggi del sole. Si ritrasse istintivamente.

Marta!”

Stevin provò a richiamarla, lei si era rifugiata nuovamente dietro di lui. Sbuffò tiepidamente, capendo che sarebbe stato difficile, nonostante le sue speranze di vederli andare d’accordo subito.

Scusa, nonno… è molto timida! - tentò di far presente, grattandosi la testa – Non si fa toccare!”

Che non si facesse toccare volentieri se ne era accorto fin da subito, anche se con lui, dopo l’iniziale riluttanza, si era lasciata andare, che invece fosse timida non era pienamente convinto, perché Marta era un sacco di cose, stramba sopra di tutte, ma aveva dimostrato ben presto una discreta parlantina. Almeno con lui.

Tuttavia odiava i maschi, glielo aveva rivelato poco prima, e ciò lo aveva stupito, a maggior ragione quando la bambina aveva aggiunto che lui e l’amico immaginario -il fratello!- erano le sue eccezioni.

Cosa voleva dire essere eccezione?

Oh, fa’ niente, ho sbagliato io… - ridacchiò tiepidamente Nonno Mario, con calore – Ehi, Ste, psss… vieni un attimo qui!” fece poi cenno al nipote di avvicinarsi, muovendo le dita della mano.

Stefano compì qualche passo, pur non allontanandosi troppo da lei, la quale, sempre dietro di lui, al riparo, si era messa a fissare con indubbio interesse un coleottero camminare a poca distanza dai suoi piedi.

Pareva assente, del tutto concentrata nel suo mondo.

Da uomo a ometto: cosa posso fare per conquistarla?” chiese consigli il nonno, massaggiandosi il mento con il pollice e l’indice.

E’ difficile, e…” la guardò, era di nuovo catturata dall’ambiente circostante, come la prima volta che si erano conosciuti, come le innumerevoli altre volte dopo.

Farfalle, foglie, prati… questo era il suo mondo, quella era la dimensione in cui si rifugiava quando non si sentiva a suo agio.

E’ sempre così?” chiese ancora il nonno, studiandola da distanza.

Ecco… sì!”

E’ come se avesse degli interessi assorbenti e tutto il resto non contasse.” rimuginò ancora, facendosi serio.

Stefano si preoccupò che Nonno Super non accettasse la prima amica che si era mai fatto e che gli dicesse di riportarla dove l’aveva trovata. Rabbrividì a quel pensiero. Era strana, d’accordo, ma non voleva separarsene. Pensava già a cosa dirgli per convincerlo che bastava conoscerla per farle aprire piano piano il guscio di ghisa in cui si rifugiava spesso, ma...

Che carina che è, una bambolina dagli occhi blu stupendi! - si compiacque Mario, intenerito – Non sembra però essere facile conquistarla!”

Eh, no...” sorrise tra sé e sé Stevin, un leggero sorriso sulle guance, arrossendo un poco.

Non mi aspettavo nulla di meno dal mio ometto, bravo!” annuì soddisfatto il nonno, annuendo la testa compiacente.

Sembrava averla comunque approvata, per Stefano era molto importante il suo parere, quasi indispensabile. Era infatti l’unico parente in vita rimastogli, i suoi genitori -gli era stato raccontato- erano morti in un brutto incidente. Malgrado andasse ormai per gli 80, sembrava invincibile, sempre in movimento, alla ricerca delle mille e una soluzioni possibili per risolvere i problemi del paese e, su più larga scala, quelli dell’intera valle. E, insomma, da solo, gestiva e aveva rimesso in piedi un paese abbandonato arroccato sulla cima di una montagna apparentemente inespugnabile, meritava il rispetto di tutto e tutti!

Aiutami, come posso conquistarla?” chiese Nonno Super al nipote che, da quando aveva conosciuto la scricciola pochi mesi prima, non faceva altro che parlare di lei e lei soltanto.

Ecco… - Stefano ci pensò su, più intensamente di prima, poi finalmente ebbe un’illuminazione – La pasta!”

La… pasta?” chiese Mario, convinto di non aver capito bene.

Sì, la pasta! - confermò Stevin, con un largo sorriso, prima di proseguire – E’ ghiotta di pasta, dovresti vedere quanto mangia! Mi hanno invitato a casa sua e ha spazzolato via tre, dico, TRE, piattoni di primo. E AVEVA ANCORA FAME, DOPO!” il bambino allargò teatralmente le braccia per dare l’idea del quantitativo, strizzando gli occhi.

Ah, incredibile! E dove se le infila tutte quelle porzioni? - domandò il nonno, sinceramente sbalordito, osservandola intenta a tenere in mano lo stesso coleottero di prima per studiarlo meglio – E’ un chiodo!”

Non lo so, ma te l’ho detto che è fantastica, no?!”

E che tipo di pasta predilige?”

Ecco, mmm… - di nuovo ci pensò su. Ricordava il condimento ma non la tipologia, dovette concentrarsi un poco di più per riportarlo alla mente – Le trenette! Le trenette al pesto!” si illuminò di nuovo, guardando tutto soddisfatto suo nonno che, illuminato a sua volta, gli scompigliò i capelli.

E bravo il mio ometto ancora una volta, un eccellente spirito di osservazione!”

Avevano un’arma in più per conquistarla, e poi il pesto di Nonno Super era super a sua volta, lo sapeva bene Stevin, perché a Cerviasca, nel paese un tempo abbandonato che stava rivivendo grazie a loro, tenevano una piccola serra con del basilico a piccole foglie adatto proprio per quel tipo di condimento.

Orbene, lascia fare a me, ometto… coff, coff! - si schiarì la voce, avvicinandosi cautamente alla bimba – Maria!”

Pss… Marta!” lo corresse immediatamente Stefano, perché non gli andava che sbagliasse così platealmente i nomi, non con la sua amica.

Scusa, Marta!”

La piccola udì il richiamo, intravide l’avvicinarsi del signore che aveva appena decretato la tempestiva fuga del coleottero. Si rizzò un po’, agitata, abbassò il braccio, rimanendo chiusa a riccio lì, lo sguardo altrove, ad una acacia cresciuta su una vecchia fascia un poco più in su rispetto alla strada. Non scappò, ma era palese il suo disagio.

Un uccellino mi ha detto che...”

Che uccellino?” la piccola si fece di colpo interessata. Non riusciva a puntare gli occhi su di lui, non ancora, ma perlomeno si era girata nella sua direzione. Doveva avere un qualche tipo di interesse anche per gli animali.

Ecco, un… - a Nonno Mario non veniva in mente specificatamente nessun tipo di uccello, pertanto tirò fuori la prima parola che gli sopraggiunse in testa – Un corbezzolo.”

Stefano si nascose il viso tra le mani, scrollando la testa nel ripetere tra sé e sé un: “no, nonno, no!”

Perché Nonno Mario era super, sì, ma di animali selvatici non ci azzeccava un’acca.

Il corbezzozollo… - Marta storpiava il nome ma sapeva benissimo di cosa si trattasse – non è un uccello!” gli fece infatti notare, pacatamente ma con determinazione.

E che cos’è?”

Arbutus unedo. - spiegò immediatamente lei, lasciandoli sbalorditi entrambi – E’ un albero sempreverde, diffuso nel Mediterraneo occidentale, tipico dei paesaggi a ridosso del mare. Fa dei frutti simili alle bacche, maturano in autunno e sono buonissimi!” sciolinò, schiacciandosi ripetutamente le guanciotte con i due indici, come a rammentare la consistenza e il sapore di quelle delizie.

Ah… ahahahahahaha!!! – Nonno Mario ci fece una grossa risata su, arrossendo sensibilmente davanti a quel piccolo genio che, a detta di Stefano, aveva appena cinque anni e già dava il nome latino alle cose – Hai ragione, che stupido sono stato! Ah, vecchiaia, ah vecchiaia che si porta via la parte migliore di me!”

Marta rimase in attesa, i suoi occhi blu avevano trovato il coraggio di sollevarsi un poco, rimanendo così ad osservare il mento di quello strambo signore che tuttavia non sembrava affatto male, occorreva solo prenderci la mano, ecco.

In verità non importa chi me l’abbia riferito, ma ho saputo che ti piace tanto mangiare, vero?”

Sì.”

Perfetto, che ne diresti di venire a casa nostra, conoscerci un po’ di più, mentre ci gustiamo un bel piatto di trenette al pesto tutti e tre insieme?”

Trenette?!” ripeté la piccola, sbalordita, già con l’acquolina in bocca.

Certo che sì, rigorosamente preparate dal sottoscritto, si intende! - le fece l’occhiolino, soddisfatto – Vedrai, non avrai mai provato nulla di simile!”

Anche mia nonna fa il pesto, e anche mia mamma!” disse pronta lei, saltellando sul posto.

Sì, ma questo è coltivato da noi! - si intromise Stefano, finalmente rasserenato dalla piega che stavano prendendo gli eventi – Non te ne pentirai!”

Davvero, Stevin, posso?”

Certo che sì, fai parte della famiglia, ormai!” disse l’amico e, dopo un breve cenno, si incamminarono tutti e tre insieme verso il paese.

Famiglia...”

Marta rimuginò su quella parola di cui sapeva bene il significato ma che le regalava sempre un’arcana sensazione di benessere al solo sentirla pronunciare. Camminò quatta quatta al loro fianco, in mezzo, finché l’anziano signore si azzardò a prenderle la mano tra le sue. La piccola non si ritrasse, era molto calda, le piaceva.

Puoi chiamarmi Nonno Bis, se vuoi...”

Era strano come nome, ma divertente. Annuì con la testa, mentre il suo sguardo finalmente riuscì a salire fino ai suoi occhi, che ora la fissavano con un misto di tenerezza e premura.

Aveva gli occhi scuri, Nonno Bis, profondi e luminosi, nonostante fossero contornati da rughe piuttosto marcate. Ma la cosa più strana era che Marta, ancora una volta, non vi vedeva alcuna somiglianza con quelli di Stevin, che continuavano invece a risultarle misteriosi. Era il colore dei laghetti di montagna, le era stato detto, o dei ruscelli di alta quota… da chi li aveva ereditati, però, era una domanda priva di risposta.

Guardò avanti a sé i ciottoli della strada sterrata che li separavano dall’entrata del paese. Di colpo si rese conto di avere qualcosa di molto importante da dire.

Ehi, Stevin, Nonno Bis...”

Sì?” risposero pronti loro due, girandosi in sincrono verso di lei, la quale sorrideva tiepidamente tra sé sé.

Il corbezzozollo non è un animale né tanto meno un uccello, ma c’è una farfalla che vive proprio grazie a lui. Si chiama Ninfa del Corbezzozzollo e si contano due generazioni all’anno. Il bruco si nutre delle foglie della pianta madre e… molte specie fanno così, sapete, non solo i lepidotteri! E’… è come se tutto fosse uno; uno fosse tutto. C’è un equilibrio, c’è… - si perse un attimo, prima di ricominciare – Comunque è molto rara, è più presente in Africa che non qui sulle coste liguri e toscane, ma c’è, io l’ho vista l’anno scorso, e… bla, bla, bla...”

Sia Stevin che Nonno Super/Bis ridacchiarono nel sentirla prendere a parlare senza sosta, facendosi sempre più attenti ad ogni singola parola.

Era una bimba un po’ stramba, molto scostante e chiusa, a tratti inafferrabile, ma quando raccontava di tutto ciò che era stato capace di catalizzare la sua attenzione, non c’era modo di fermarla, e ascoltarla era un vero piacere.

Quello era stato l’incipit di tutto, di un meraviglioso percorso che veniva chiamato vita.

 

 

Vita. Un percorso che viene chiamato vita… il tuo percorso, piccola mia, la tua storia, che si è intrecciata con quella di Stevin...

Si ripeté debolmente Camus tra sé e sé, ancora intontito dalle vertigini del sonno.

Ricordava di essersi riaddormentato su un fianco, permettendo così al venticello di continuare a lambirgli il ventre scoperto dalla maglietta. Era piacevole. Il dolore si era di nuovo attenuato, al punto quasi di scomparire. Le mani semi-chiuse erano posizionate come a trattenere qualcosa vicino a sé; qualcosa di molto delicato e importante che riusciva a farlo sentire bene. Si ricordò di aver provato a stringere la sorellina, prima di perdere coscienza.

Era comunque molto stanco. Un vociare in lontananza giungeva alle sue orecchie come una litania soave, unito ai caldi raggi del sole che lo accarezzavano e… una strana sensazione di bagnato sul lato corporeo che rimaneva sotto. Respirò profondamente nel tentare di muoversi. Il suo intento era quello di girarsi, ma le energie erano ancora calanti, il vociare sempre più vicino.

Quelle voci infantili lo confortavano, cercò di aggrapparsi a loro, perché il risvegliarsi, il riprendere cognizione di sé, lo faceva sentire violato, sguarnito, ma c’erano loro, le risate tintinnanti dei bimbi che giocavano e si divertivano.

Respirò più e più volte a fondo, utilizzando nuovamente anche il diaframma. Alla quarta espirazione riuscì ad alzare difficoltosamente un braccio che andò a tastarsi proprio la zona dell’addome. Le sue dita incontrarono subito la sua stessa pelle e quel calore arcano che si irradiava tramite essa. Doveva tentare di estinguerlo in qualche modo, controllarlo, perché il solo percepirlo gli procurava dolore e senso di profanazione. Si massaggiò quindi il ventre intorno all’ombelico con movimenti circolari in senso ascendente, tentando in ogni modo di calmare quel qualcosa che sentiva distintamente dentro di sé, ma era difficile e faticoso. Buttò fuori aria. Tastò oltre, il fianco sotto. La punta delle dita si bagnò istantaneamente di fresco.

Acqua?

Ebbe appena il tempo di chiedersi, prima di essere investito proprio da una spruzzata e da una voce che riconobbe subito.

“Forza, Stevin!!!”

Aprì faticosamente gli occhi, trovandosi davanti ad un paesaggio fluviale e alla sagoma minuta della sorellina che, a poca distanza da lui, ma irraggiungibile, gli dava la schiena.

Marta, sei… sei sempre la solita!

La chiamò debolmente o pensò di chiamarla, perché la sua voce era afona. Sorrise comunque istintivamente, mentre la piccola, non riuscendo a stare ferma un attimo, aspettava l’arrivo dell’amico Stefano per poi ripartire di corsa.

“Ehi, così non è valido!” protestò il bambino a corto di fiato, una volta raggiuntala, mentre l’altra ripartiva a tutta birra senza nemmeno aspettarlo.

“Sei lento!” lo pungolò lei.

“E tu impaziente!”

Ribatté Stefano, seguendola per poi sparire a sua volta dietro un masso. I due bambini erano chiaramente intenti a rincorrersi attraverso il greto del torrente.

Camus, al solo vederli, ne provava un’intensa sensazione di refrigerio. Coniugò interamente le sue forze per riuscire a voltarsi supino, le braccia parallele al busto. Aveva bisogno di una serie di minuti per fare mente locale.

Rispetto alle visioni susseguitosi precedentemente, dovevano essere passati un paio di anni, perché oltre ad avere le codine, il corpo della sorellina si era accresciuto, diventando un poco più slanciato, pur appartenente sempre a quello di una bambina in piena età scolare. Allo stesso modo, anche Stefano si era fatto più sicuro di sé, i capelli sempre alla stessa lunghezza, con quel curioso ciuffo a cespuglietto simile in tutto e per tutto al suo, ma gli occhi azzurri molto più consapevoli.

Dovevano trovarsi nuovamente in estate, agosto per l’esattezza, per il semplice motivo che, guardandosi brevemente intorno, Camus aveva già distinto alcune foglie secche erose dal caldo, condizione affine, per l’appunto, all’ultimo dei mesi estivi, il più atroce. Inoltre, quello specifico anno, era stato probabilmente parecchio siccitoso: le fronde dei pioppi e delle acacie che crescevano a ridosso del corso d’acqua, vertevano, sofferenti, verso il basso, palesando una situazione di patimento.

Dopo tutto quel ragionamento, il Cavaliere dell’Acquario provò finalmente ad alzarsi, sebbene gli arti fossero pesanti. Gli girava la testa e aveva le vertigini, gli occorse ulteriore tempo per riuscire a focalizzare bene dove si trovasse. Si era addormentato sotto il tiglio e risvegliato inspiegabilmente sul greto del torrente Brevenna dopo un ulteriore intermezzo di sogno vissuto attraverso gli occhi di Marta. Un lato del corpo, esattamente come lo aveva percepito nel riprendere coscienza, era rimasto bagnato. Sensazione di intorpidimento che si sforzò di cacciare via, devolvendo le energie rimaste nel rintracciare i due bambini che, colti dalla frenesia del gioco, avevano proseguito, uscendo dal suo campo visivo, direzione monte.

Finalmente riuscì a rimettersi in piedi. Era faticoso, il suo respiro si era fatto accelerato e aritmico, ma non gli importava. Trattenendosi la pancia, che continuava a percepire dolorante, mosse i primi passi sull’ansa del torrente. Nutriva un intenso bisogno di seguire e vedere la sorellina, come gli era stato impedito di fare per tutti quegli anni di lontananza. Lo faceva sentire bene, sebbene Efesto si fosse raccomandato di…

Già, cosa si era raccomandato di fare Efesto?!

Di colpo, Camus si ricordò che suo padre poco prima -o molto prima?- gli aveva rivelato qualcosa sulla pericolosità di quell’attitudine che condivideva con Marta; qualcosa che forse avrebbe dovuto rammentare e che tuttavia gli sfuggiva.

Gli schiamazzi della sua sorellina, intenta a schizzare l’acqua verde smeraldo al compagno di mille avventure, lo distrassero da quel pensiero. Si avvicinò a loro strascicando i piedi tra i sassi e le rocce calcaree del greto. Notò che entrambi avevano indosso solo un costume e che sembravano felici. Sorrise automaticamente nel constatare ancora una volta quanto la sorellina sembrasse una scheggia iperattiva. Saltava con abilità di qua e di là senza curarsi di rischiare di tagliarsi con qualche pietra appuntita, o peggio rifiuti umani. Stefano invece, più grande di lei anche se di soli due anni, era giudizioso e prudente. Prestava attenzione all’ambiente circostante e cercava, per quanto poteva, di dare un occhio in più anche alla più piccola.

Erano sempre stati così quei due, li aveva ben visti nei sogni. Una, guidata dalla sua perenne curiosità per tutto, intraprendente e audace, al punto, talvolta, di sforare nella sconsideratezza; l’altro, decisamente più avveduto, sempre pronto a fermarla dall’inguaiarsi, più incerto e moderato, sebbene considerasse la valle sua totale pertinenza.

Marta -pensò Camus tra sé e sé- era sempre stata così coraggiosa fin da piccola… anche Stevin probabilmente lo sapeva; sapeva che, tra i due, la più risoluta nelle intenzioni, mal disposta a lasciar correre chicchessia, solo apparentemente fragile, era sempre stata lei, fin dal primo momento in cui si erano conosciuti. Tuttavia era proprio lui a vegliare sempre sull’amica, a farla ragionare, a evitarle il più possibile i rischi.

Non era di certo la prima volta che li vedeva destreggiarsi in simili situazioni, anche se, riflettendoci ulteriormente, quel sogno era piuttosto insolito. C’era qualcosa di tremendamente diverso in quella visioni, non erano state come le altre a cui aveva assistito o che sapeva di aver vissuto attraverso gli occhi della sorellina.

Nelle precedenti, nonostante il punto di vista potesse divergere da interno a esterno, erano comunque le emozioni di Marta a filtrare in lui e a dettare le regole, come se Camus fosse stato una mera appendice sua. Ora… ora invece era lui stesso parte dell’ambiente circostante. All’occorrenza… forse avrebbe anche potuto interagirci!

Strabuzzò gli occhi a quella consapevolezza. Ripensò alla sensazione di bagnato che percepiva ancora, come se davvero stesse vivendo quel momento come parte a sé stante.

Cosa mi sta succedendo? Non sono… stabile... nel mondo reale? Mi deve essere accaduto qualcosa, prima, perché sento che dovrei ricordarlo e invece non lo rammento? Davvero, poi, vorrei rammentarlo? Cos’è questa sensazione innaturale di calore? Questo dolore a stento sopportabile che si irradia nel ventre?

Si tastò nuovamente la pancia, premendo le dita in alcuni punti. Era però impossibile schiacciare l’ombelico, farlo incrementava spasmodicamente la sensazione di malessere e disagio. Si ricoprì, trattenne dentro di sé un gemito, l’ennesimo. Non riusciva più a tollerare di tenere coperto l’addome, il tessuto della maglia, per qualche strana ragione, sfregava sulla sua pelle, procurandogli ancora più fastidio e la sensazione, atroce, di bruciare.

Cercò in ogni modo di non pensarci, tornando sulla sorellina che, nel frattempo, attirata da qualcosa, aveva deviato prepotentemente traiettoria per dirigersi nei pressi di una grossa parete calcarea. Lì l’acqua era più profonda ed occorreva proseguire a nuoto, cosa che infatti la piccola fece senza la minima esitazione. Quel cambio improvviso di rotta, sorprese non poco Camus e, nondimeno, lo stesso Stefano che infatti, rallentando a sua volta la corsa, la osservò confuso.

“Che succede ora?” chiese infatti il bambino, interdetto.

Nessuna risposta verbale, pareva non averlo neanche udito. Anche quelle erano cose che capitavano piuttosto spesso, ormai si stava avvezzando a quell’atteggiamento. Semplicemente capitava che, senza alcun preavviso, la piccina venisse carpita totalmente da qualcosa, al punto da non accorgersi più di nient’altro.

Dei veri e propri interessi assorbenti...

Rimuginò Camus, facendosi serio. Era riuscito difficoltosamente a fiancheggiare Stevin, e lì era rimasto con lui a tentare di capire cosa avesse attirato l’attenzione della sorellina. Tentò di acuire i sensi, di spingersi oltre, a guardare ancora una volta il mondo con gli occhi di Marta, ma l’unica cosa che riuscì a distinguere nitidamente, furono alcuni cerchi concentrici nell’acqua, qualcosa che ronzava agonizzante e, in ultimo, le mani della bambina che congiunte, si sollevavano dall’acqua con qualcosa nei suoi palmi.

Allora, solo in quell’istante, capì.

Intanto, con non poca difficoltà la piccola, sbattendo con forza le gambe perché le braccia non erano momentaneamente utilizzabili, si girò verso loro -verso Stevin, perché Camus non lo poteva vedere!- e, una volta in grado di toccare nuovamente con i piedi, emerse, sempre con quella cosetta tra le mani.

“Spostati un attimo, Stevin, mi serve quel masso.”

“Il masso?” ripeté lui, sempre interdetto.

“Il masso, sì. Osserva!” finalmente gli mostrò emozionata cosa serbasse nei palmi.

“Un’ape?” chiese conferma lui, riconoscendo la creaturina che, fradicia, tentava di sbattere le alette che tuttavia erano ancora incollate al corpo.

“Sì. - confermò lei, chinandosi poi per posarla sulla roccia in questione – Ha bisogno del sole per asciugarsi. E’ stremata, piccola!”

Marta aveva salvato un’apetta che stava annegando, l’aveva raccolta e ora la lasciava respirare sulla roccia nella speranza che potesse riprendersi. Stefano si chinò a sua volta, accucciandosi di fianco all’amica.

“Come hai fatto ad accorgertene?” le chiese, sinceramente ammirato.

“Ecco, mi… mi chiamava, credo che si possa definire così.”

“Ti chiamava? - domandò ancora lui, tiepidamente sorpreso. Non era la prima volta che accadeva e, di certo, non l’ultima. Sorrise tra sé e sé – Ma, tipo, bzzzz, bz, bz, e tu hai risposto?” la prese poi un poco in giro, ricevendo per tutta risposta uno scappellotto sulla nuca.

“SCEMO!”

“Bzzzz, bzzzz!”

“DAAAAAAAAI!!!”

“Ahahaha, scusami, non è la prima volta che dici cose strampalate, mi immaginavo semplicemente come fosse avvenuto! - disse, ridacchiando, prima di tornare serio – Comunque menomale che sei passata di lì, altrimenti diventava pasto per i pesci!”

“Già. - acconsentì Marta, facendosi un poco più seria – Le api sono importanti per l’impollinazione, sai? Si stima che quasi il 90% delle piante selvatiche da fiore abbia bisogno di esserini così piccoli per riprodursi. Sono indispensabili per loro ma anche per noi, tutto è... collegato!”

“Tutto è collegato.” ripeté Stefano, trovando che fosse molto veritiero e misterioso al tempo stesso.

Tutto e collegato… -si sentì di aggiungere a sua volta Camus, chiudendo brevemente le palpebre- hai ragione, Marta, ed è per questo che ti invito a riflettere su un altro passaggio: hai salvato una piccola ape, e ciò dimostra il tuo buon cuore, la tua straordinaria sensibilità, è altresì assolutamente vero ciò che hai detto sul loro conto, sono indispensabili. Tuttavia, forse, il sacrificio di quell’ape, probabilmente troppo debole per sciamare, avrebbe permesso ad un altrettanto piccolo pesce affamato di nutrirsi. Intervenendo tu in favore dell’insetto, hai dato una scossa, per quanto minuscola, all’equilibrio del Tutto. Non è, non deve essere, compito degli uomini creare sbilanciamento, ergersi sopra le parti, come invece avviene troppo spesso. Devi ricordarti che noi siamo intessuti nel Creato, né sopra, né sotto, ma… dentro!

Non sapeva perché gli era venuto da fare quella sottospecie di ramanzina, da quale pulpito poi, si disse con un sorriso amaro, rammentandosi per l’ennesima volta che lui per primo sarebbe stato capace di smantellare un mondo per salvare le sole persone che amava, eppure le parole erano liberamente fluite e non sapeva spiegarselo. Forse aveva solo bisogno di comunicare, di farle sentire che, in qualche modo, lui c’era, era lì con lei, anche se non poteva vederlo, che ci sarebbe stato anche dopo, perché faceva parte del suo cuore e così sarebbe stato per sempre.

“Marta? Cosa stai osservando?” la domanda di Stefano si perse nel vuoto.

Camus ebbe appena il tempo di riaprire gli occhi che si trovò ben presto a trasalire: la sorella stava guardando proprio nella sua direzione, gli occhioni spalancati. Rimasero fermi per secondi che parvero infiniti, i respiri di entrambi un poco più accelerati. L’Acquario si disse che non poteva essere possibile, che la sorellina non poteva stare osservando proprio lui e che doveva esserci per forza un’altra spiegazione, cosa che non tardò ad arrivare.

“Guarda lì!” biascicò Marta, sbattendo le palpebre nell’indicare un punto oltre l’immagine invisibile di suo fratello.

Nei pressi del laghetto, infatti, era cominciata una lotta tra i pesci del Brevenna, per lo più cavedani e vaironi, e gli insetti delle più svariate dimensioni che, attirati dal riflesso dell’acqua e dalla prospettiva di bere, varavano appena sulla superficie della stessa con l’evidente rischio di finire nel mezzo di qualche bocca famelica. Una vera e propria lotta alla sopravvivenza.

“Appena in tempo, eh?” fece Stefano, traendo un sospiro di sollievo.

“Già...” bofonchiò Marta, apparentemente un poco corrucciata nel vedere gli schizzi d’acqua farsi sempre più violenti.

Quell’anno c’era stata la siccità, i pesci dovevano essere parecchio affamati. Molti dei più giovani e inesperti li avevano trovati morti sul greto già preda delle mosche. Era stata un’annata piuttosto dura per tutti gli animali.

Le mosche, poi, proprio in quel momento venivano facilmente predate dai pesci affamati; tuttavia i pesci, una volta morti, venivano mangiati dalle stesse mosche o usati come contenitori per la propria progenie.

Quella consapevolezza aveva da sempre inquietato la piccola Marta che, anche in quella circostanza, reagì male, con una fitta di malessere nello sterno in veloce diffusione a tutto il corpo. Se lo massaggiò nauseata, diventando di colpo mogia. Lo stesso accadde a Camus.

Stefano rifletté, osservandola attentamente piegarsi in avanti, che anche quella era tutta una sua particolarità. I cambi di umore in lei erano abbastanza frequenti, come se ad un pensiero felice ne susseguisse un altro terribilmente tetro. Era un crocevia di contraddizioni, una montagna russa di emozioni intense e non tutte facilmente ascrivibili ad una sola causa. Come in quel momento, ad esempio: aveva appena salvato un’ape, si era sentita contenta per poi essere perforata da quell’espressione dolente, a tratti colpevole.

Marta, non devi reagire così…

“Marta! - fu il turno di Stefano di chiamarla, dandole una leggera gomitata tra le costole- Guarda!” e le indicò l’ape che, proprio in quel momento, sufficientemente riscaldata dai raggi del sole, aveva preso a far vibrare le ali per poi prendere finalmente il volo.

Marta aprì brevemente la bocca, un poco sollevata nello spirito, lieta che la creaturina potesse riprendere il suo ciclo. Sorrise tiepidamente, orgogliosa di averla aiutata.

“Quella è l’ape che tu hai contribuito a salvare, prende la sua strada!”

“Sì!” disse lei, gli occhi nuovamente brillanti.

“Ed io ora ti porto a vedere qualcosa di molto bello.”

“Uh, che cosa?” gli occhioni della bambina erano tornati vivaci e pieni nel voltarsi verso l’amico.

“Se-gre-to! - ammiccò Stevin, facendole l’occhiolino – Almeno finché non ci arriveremo, tanto è poco distante!”

“Un piccolo indizio?”

“Tu seguimi, semplicemente!”

E così i due si incamminarono ancora più a monte, ballonzolando tra i sassi e l’acqua fresca.

Camus fece per seguirli immediatamente, ma un ronzio poco distante attirò la sua attenzione. Era di nuovo l’ape che, forse appesantita già da prima, ricadde nel laghetto. Lì si mosse disperatamente due o tre volte, le ali stridettero ancora un poco, prima di essere catturate da un nuovo, quanto improvviso, schizzo. Tutto tacque. Pochi istanti dopo anche l’acqua era tornata tranquilla, il moto ondulatorio delle onde si era dipanato, portandosi così dietro la cancellazione di una vita per il proseguimento di un’altra.

Camus conosceva molto bene quella sensazione, quel silenzio che si creava dopo la scomparsa di un palpito. Non era certo la prima volta che ne assisteva da silente spettatore, il Maestro Fyodor gli aveva insegnato a rispettare l’agonia di un’esistenza che finiva, perché ognuno stava su quella Terra per un tempo limitato, ultimato il quale i giochi erano conclusi e gli atomi tornavano al Grande Cerchio, ma si riscoprì comunque sconvolto davanti a quello spettacolo, a quella superficie ora nuovamente placata che tuttavia aveva creato le condizioni per portarsi via una vita, per quanto insignificante potesse apparire.

Si riscosse, fremendo, solo qualche secondo dopo, sforzandosi di riprendere la direzione che avevano preso i due bambini. Ringraziò mentalmente il fatto che, con ogni probabilità, la sorellina non avrebbe mai saputo quanto inutilmente si fosse dibattuta per tentare di salvare la creaturina.

Stefano stava conducendo Marta molto più a monte rispetto a dove si trovavano prima, in una particolare ansa del torrente che creava dei laghetti ancora più profondi. Certo, non era la prima volta che girovagavano in quella zona, ormai conoscevano bene il fondovalle, ma ad ogni giro trovano sempre qualcosa di nuovo, di non visto, di meraviglioso. Era tutta una scoperta, e le scoperte riempivano di emozione i due bimbi.

In quella particolare ansa, sul lato destro del torrente, vi scorreva un particolare rio immissario color verde smeraldo che nemmeno in estate si asciugava mai del tutto. A poca distanza da quello, un vecchio mulino ormai quasi rudere, resisteva strenuamente allo scorrere del tempo. La parete su quel versante era in parte scoscesa e franabile, ma garantiva comunque degli appigli sicuri ai coraggiosi che desideravano provare ad inerpicarcisi. Non era comunque quello il fulcro della motivazione che aveva spinto Stevin a guidare lì la sua giovane amica. Ci sarebbe stato tempo dopo, da più grandi, per tentare torrentismo e risalire. Per il momento…

“Guarda là, vai dietro quella roccia e sbircia, ma non fare troppo rumore, mi raccomando!” le disse, con un mezzo sorriso, attendendo che la piccola seguisse le sue indicazioni.

Così fece, le gambine agili, i piedi fermi e gli occhietti curiosi. Camus la seguì a corta distanza senza toglierle gli occhi di dosso, quasi come uno spirito protettore. Si appoggiò a sua volta sulla roccia indicata da Stefano, mentre Marta, in religioso silenzio, si acquattava sotto, sporgendosi solo un poco per dirigere il suo sguardo verso il laghetto verde che confondeva le acque del Brevenna con quelle del rio chiamato ‘di Mareta’, come il paese situato a mezza costa sul versante destro della valle. Affinò, affinarono insieme la vista nel tentare di capire cosa volesse mostrare il bambino. Non lo capirono, non subito. Solo quando, da un’isoletta di ghiaia probabilmente creata precedentemente da un’alluvione, individuarono un pigro movimento di un collo sottile, che si era girato nella loro direzione per controllarli, compresero i motivi dietro la scelta di Stefano.

Era un, anzi una…

Germano reale femmina, in cova…

Ne dedusse Camus, riconoscendo il piumaggio marroncino tipico della specie. Abbassò poi lo sguardo verso la sorellina, che non diceva niente, ma era emozionata, trepidante, gli occhietti luminosi. L’aveva di certo riconosciuta, lei, che aveva fatto della natura e degli animali un interesse assorbente tale da memorizzare perfettamente non solo il nome comune, ma anche quello latino; lei che in tutte le visioni avute, scorrazzava liberamente nel verde, soffermandosi sulle cose, sul palpito di ogni singola vita, sul respiro della Terra. Anche in quel momento, così rannicchiata dietro la roccia per non disturbarla, ne percepiva l’inesauribile battito, al punto quasi di commuoversi.

La mano di Camus si mosse ancora una volta senza che lui se ne potesse accorgere. Aveva la sorellina a pochissima distanza, le sue manine sulla roccia, le ginocchia per terra piene di graffi e lividi perché era una peste di prima categoria. Con la stessa naturalezza del soffio del vento che scompigliava i capelli, le posò il palmo sulla testolina, carezzandola lieve. Il respiro della piccola, per qualche istante, mutò. Così il suo.

Stefano, soddisfatto della reazione, la raggiunse quatto quatto poco dopo, sistemandosi vicino a lei in silenzio, del tutto concentrato a rimirare la stessa meraviglia. Camus spostò quindi istintivamente la mano per dargli spazio.

“Hai visto che bella?” le chiese, circondandole di riflesso le spalle con un braccio.

“Sì, è vero! - confermò lei, sorridendo raggiante – E’ una mamma premurosa!”

“Li cova, eh?” disse ancora Stefano, sorridendo.

“Però ora dorme, deve essere molto stanca!” fece eco Marta, parlando sottovoce per non disturbarla più di quanto non avesse fatto la sua precedente interferenza.

L’Anatide effettivamente, dopo il movimento iniziale, teneva il collo piegato nel folto piumaggio marroncino, ogni tanto riapriva appena gli occhi bruni per poi tornare a richiuderli.

“Me la fece vedere il nonno un paio di anni fa. Costruisce e si prende cura del nido sempre qui, ed è sempre lei, l’ho capito dalla leggera macchietta bianca che ha all’angolo dell’occhio destro. Volevo farla vedere anche a te!”

“E’ bellissima, Stevin, questa è... vita!” affermò Marta, commossa, mentre, come sempre, le sue sensazioni dorate e brillanti raggiungevano anche Camus. La vide stringere il braccio libero dell’amico, tremando sempre di più in una vertigine di emozioni.

Lo è davvero, piccola mia, il fulcro della vita E tu, pur così piccina, ne riesci già a sentire distintamente la vibrazione!

“Però il padre non l’ho mai visto.” notò Stefano, osservandosi intorno, come spaesato.

“Il maschio Germano è diverso dalla femmina, ha il piumaggio più brillante, il collo e il capo verde. Un anello bianco ne divide il busto bicolore: marrone scuro il petto, grigio chiaro il resto. Poi però anche la coda cambia, e sulle ali… le ali!”

“Lo so anche io come è fatto il maschio! - ridacchiò Stefano, punzecchiandole un poco la guancia con l’indice destro – Ma non l’ho comunque mai visto nei dintorni!”

Sebbene non sia infrequente che questa specie di anatre stia in gruppi anche piuttosto larghi, i Germani no sono monogami bensì poligami. Solo la femmina si occupa della cura dei nascituri, e anche il concepimento può avvenire in maniera un po’…

Camus scrollò il capo, risparmiandosi di dire il resto. Non potevano sentirlo, era vero, anche se per qualche strana ragione lui percepiva l’ambiente intorno a sé come se ne facesse parte, bastava ricordare la sensazione di bagnato o, in quel momento, la roccia concretamente sotto di sé, ma non gli andava comunque di rivelare come avveniva il concepimento, brutale, di quell’animale.

“Forse il padre non c’è, non si occupa dei figli.” arrivò alla conclusione Stefano, tornando a osservare l’uccello.

“E’ così ma non ha importanza, potremo vegliare noi!” sancì Marta, determinata, sempre con quella luce negli occhi.

“Dici? Come potremmo fare?”

“Come degli zii acquisiti!”

“Degli zii?! Noi?”

“Certo! - Marta era motivata più che mai, ben consapevole delle sue scelte – Informiamo anche Francesca e Michela, così aiuteranno anche loro!”

“Oh… - il sorriso di Stefano si spense un poco – Le tue nuove amiche.”

“Che c’è?” indagò Marta, incrociando l’espressione un poco corrucciata di Stevin.

“Nulla.”

“Non ti piacciono?”

“Ma no, è che...”

“Cosa?”

Stefano gonfiò appena le gote, prima di girarsi dall’altra parte. Era geloso ma non voleva ammetterlo. Aveva paura di essere sbalzato via da loro, da queste due nuove bimbette, una più grande addirittura di lui, l’altra più piccola di Marta, che da circa un anno erano entrate fisse nella vita della bambina.

“Quando ci siamo conosciuti che girovagavi tra Carsi e Cerviasca eravamo solo noi. Tu avevi appena 5 anni e non conoscevi nulla di qui.”

“Sì, lo ricordo.”

“Ecco, è stato molto bello tutto quel periodo, quell’anno in cui eravamo solo noi. Poi hai cominciato anche tu la scuola e… e...”

“E ho stretto amicizia con Michela e poi Francesca, quindi tu hai paura che mi dimentichi di te!” arrivò alla conclusione pratica Marta, sorridendo tra sé e sé.

Stefano imporporò seduta stante, fece ‘no’ con la testa, più intensamente del normale, poi strizzò gli occhi.

“Le tue azioni parlano più delle tue parole!” gli fece notare ancora Marta, ammiccando appena.

Beccato. Stefano si vergognò di quel siparietto, abbassò lo sguardo, fissandosi su un sasso tondo tondo. Non sapeva come controbattere.

“Ma sai, Stevin, in verità sia Francesca che Michela le conosco già da prima, mia mamma è amica delle loro da molti anni, solo che, sì, prima ci vedevamo spora… ehm...”

Si era incartata, non sapeva bene la parola. Ci rifletté su ma non gli venne comunque. L’amico accorse in suo aiuto.

“Intendi che prima vi vedevate in maniera meno frequente e ora...”

“Sì, esatto! - esclamò Marta, contenta che l’avesse inteso, prima di proseguire oltre – Questo per dirti che, nonostante questo, tu rimani il mio amico.”

Stefano arrossì, ingoiò a vuoto, prima di tossicchiare e darsi l’aria da serio.

“Non me lo avevi mai detto, però, che le conoscevi già prima. Quel giorno in cui vagabondavi per la stradina tutta sola e soletta… ecco, io pensavo che lo fossi per davvero, perché sembravi… come me!”

“Beh, sai, all’inizio penso che mi considerassero un po’ strana.”

“Lo sei.”

“Grazie! - Marta gli fece boccaccia, prima di ridacchiare di nuovo – Lo sono, sì, non a tutti fa piacere la mia compagnia, gli crea… disagio!”

“E a loro creavi disagio, prima?”

“Francesca l’hai vista, è molto riservata, studia le cose, le persone… e poi ha già 10 anni, è su un altri piano. Michela, invece, è più piccola di me, penso non riuscisse a capirmi bene. Ora però va meglio, parliamo di più, IO RIESCO A COMUNICARE CON LORO, SAI?! - si trattenne, aveva alzato troppo il tono, al punto che l’anatra, infastidita, aveva alzato il collo, arruffando le piume – Ed è stato merito tuo.” aggiunse, grata.

“Merito… mio?!”

“Tu mi hai mostrato come interagire, senza farmi problemi su cosa pensano gli altri. Perché tu sei tu, sei strano a tua volta. E non te ne vergogni. Ebbene… anche io non me ne voglio più vergognare!” affermò, risoluta, accucciandosi maggiormente.

“Ah, ehm, è un complimento questo, oppure… no, perché sai, è un po’ agrodolce e… AHIO!”

“E’ un complimento sì, tonto!” esclamò lei, dandogli una leggera gomitata sul fianco.

“B-beh, allora grazie e… - Stevin arrossì ancora di più, ammiccando tra sé e sé – Mi fa piacere!”

“Per cui non ti preoccupare, sei il mio amico e lo sono anche loro. Vorrei tanto che anche fra voi potesse nascere un’amicizia!”

“Vedrò… vedrò cosa riesco a fare!”

“E invece per la germana… sarà il nostro piccolo segreto! - propose ancora la piccola, porgendogli il mignolo da intrecciare – Almeno finché non ti sentirai di condividerlo anche con loro!”

Stefano non contraccambiò subito il gesto, rimase ad osservarla per diversi secondi, stupito e un po’ abbagliato. La bocca si era schiusa in una piccola ‘o’.

“Allora, ci stai?”

“Io...”

BZZZ-ZZ

Camus dovette aggrapparsi istintivamente alla roccia per non cedere all’improvvisa sensazione di barcollare. Impallidì di molto, sforzandosi comunque di rimanere vigile.

Qualcosa dalla sua prospettiva era improvvisamente mutato, come se il sole si fosse parzialmente oscurato. C’erano ancora i due bambini davanti a lui, e l’ambiente circostante, anche se un poco rarefatto, ma le percezioni corporee, il suo stesso respiro stavano cominciando a cambiare. Qualcosa gli schiacciava le tempie, diventando di secondo in secondo sempre più opprimente. A fatica, si rimise dritto. Doveva trattarsi senz’altro di un banale giramento di testa. Calma. Chiuse d’istinto le palpebre, ma la sensazione non migliorò minimamente. Andava sempre peggio…

“V-va bene, allora te lo prometto, Marta, sarà il nostro piccolo segreto e… proverò a diventare anche loro amico.”

Camus fece l’errore di riaprire forzatamente gli occhi proprio in quel momento, ne derivò un’intensa sensazione di mancamento. Cercò di riequilibrarsi, ma era troppo tardi, cadde all’indietro. Tonfò in qualcosa di liquido -acqua!- percepì appena gli schizzi intorno a sé, prima di provare l’atroce sensazione di affondare. Tutto intorno a lui si era fatto buio, ad eccezione di una fievole luce lontana un poco rassomigliante al sole, anche se molto più fievole.

Non c’erano più i due bambini, né l’anatra, né il laghetto, né tanto meno il calore dell’estate. Non c’era più niente di tutto questo, solo… lui sott’acqua, l’ossigeno che gli mancava, e quella stanchezza colossale che lo prendeva sempre più spesso.

Stava affondando nelle tenebre ed era come precipitare nel vuoto. Provò ad alzare un braccio che tuttavia non rispose ai suoi comandi. Le energie non erano sufficienti, il suo corpo stava diventando troppo pesante. Si agitò, provò ad urlare, ma il suono della sua voce era afono.

Inerme, ancora una volta. Troppo stanco per reagire. Troppo stanco anche solo per provarci. La luce la vedeva ancora sopra di sé, anche se dannatamente lontana. Un ultimo tentativo ancora, il braccio si alzò di un poco, prima di essere circondato dalle tenebre. Serrò dolorosamente le palpebre.

Il buio gli aveva strappato prima le percezioni dell’ambiente circostante e poi la vista, ma non le sensazioni del proprio corpo che stavano diventando sempre più atroci e intollerabili per la sua psiche già duramente messa alla prova.

Sembrava davvero di essere metri e metri sotto rispetto alle superficie, l’acqua improvvisamente gelida gli lambiva la pelle per poi passargli sotto la maglia e scoprirgli interamente il ventre e parte del torace. Si irrigidì notevolmente a quel pensiero. I giochi d’acqua, la sua corrente, sostavano a lungo su di lui, gli scoprivano la pelle centimetro per centimetro, denudandogli quasi interamente il busto; i giochi d’acqua erano come mani, e le mani lo riportavano atrocemente a lui, a quell’essere ignobile che ormai popolava stabilmente i suoi incubi più terribili.

Camus trasalì nel rammentarlo, la schiena gli si piegò di riflesso. Per un solo istante gli parve di vederlo di nuovo sopra di sé, si stava inumidendo le labbra per poi procedere vilmente su lui come di consueto. Tentò di aprire la bocca per urlargli di andarsene, ma inghiottì solo acqua. Tentò quindi di ribellarsi in altra maniera, ma qualcosa, una forte pressione sulla bocca, gli piegava violentemente la testa indietro. I suoi polmoni ebbero un sussulto, fremettero più volte, mentre lui cercava in ogni modo e maniera di si divincolarsi, con l’unico risultato concreto di percepire ancora di più quanto ne fosse in balia, quanto non riuscisse a contrastarlo, quanto l’acqua -che era anche il Mago- si divertisse a piegarlo totalmente al suo volere.

-Sai che non puoi opporti, Camus…

-Nngh… NO!

-Lo sai bene, presto non mi resisterai più!

-NO!

Era un netto rifiuto, il suo, dato con tutta la volontà che gli era rimasta, ma le braccia non si muovevano più, erano semplicemente lungo i fianchi, semi-aperte e del tutto abbandonate a sé stesse come il resto del corpo.

-Non sei stanco? Non vorresti respirare senza tutto questo dolore?! Io posso darti… la pace!

-Non a queste condizioni. Ho promesso a Marta che ti avrei combattuto con tutto me stesso!

-Uhmpf, al solito trai da quella ragazzina la forza di non arrenderti… ma ormai non ne sei più in grado, Camus, sei esausto, a pezzi, solo.

-N-non sono, anf, solo…

-Ah, no?!

Quell’essere gli reclinò ulteriormente la testa all’indietro. Camus serrò disperatamente gli occhi, mentre il tessuto della maglia gli veniva completamente alzato sulla schiena, dove una presa ferrea lo tratteneva dalle scapole. Era davvero una follia provare a contrastarlo…

-Sei solo, sì. Puoi pensare di avere gli altri al tuo fianco, è vero, ma nessuno può sapere con certezza ciò che patisci di giorno in giorno senza requie alcuna. Neanche la tua Marta!

-Urgh!

-Perché tu tenti di nasconderle sempre tutto e… ciò che rimane qua dentro, tra me e te, è solo e soltanto consapevolezza nostra. Siamo intimi, Camus, che ti piaccia, o meno!

Le mani di quel mostro gli sfilarono lungo tutta la schiena per poi prenderlo dai fianchi e alzargli con prepotenza l’addome in modo che fosse più agevole ghermirlo con le dita rapaci. Camus ebbe un nuovo sussulto di terrore nel ricondurre quella sensazione terribile a qualcosa di recente che tuttavia non rammentava distintamente, prima di ritrovarsi completamente prosciugato di ogni forza e volontà.

Solo il ventre perdurava ad essere bollente. Il ventre… e il potere che esso celava. Forse, se lo avesse utilizzato...

-Sei solo e questa ne è la prova. Stavolta non ci sarà Marta a scacciarmi, né Hyoga, né nessun altro, ragazzo!

Le dita di quel mostro del tutto, simili ad artigli, gli si strinsero selvaggiamente sul bordo dei pantaloni. Camus ne percepì la violenza dell’intenzione prima ancora che Fei Oz la palesasse.

-Sei lontano da loro, dai tuoi amici, e debilitato dal potere che stai avventatamente adoperando. Non hai più alcun… uargh!

CAMUS!!!

Un’altra voce lo stava chiamando per nome. Era in evidente apprensione, calda, confortevole. Non era in grado di riconoscerla,non subito ma contrasse appena le palpebre nel rendersi conto, con sollievo, che era di nuovo da solo, anche se ancora perso in quell’acqua troppo gelida perfino per lui.

Camus, per tutti gli dei, cosa ti sta succedendo?!

Di nuovo la voce, ancora più densa di paura. Stavolta riconobbe trattarsi di un uomo. Il suo timbro famigliare era inconfondibile, ma ancora non riuscì a codificarlo.

CAAAMUUUS!!!

La voce era diventato un baritono di terrore. Stavolta lo riconobbe, meravigliandosi di averci messo così tanto per riuscirci. Contrasse più volte le palpebre nel tentativo di sillabare il suo nome.

Mi-Milo…

Stavolta non ottene risposta, ma sentì forte e chiara la paura, l’ansia del compagno ed amico. Non riusciva ad aprire le palpebre, il corpo perdurava a non reagire. Si intestardì, arrivando a muovere appena il pollice della mano destra. Poteva farcela, non era da solo. Lentamente, articolò quasi tutta la mano, che si aprì e chiuse diverse volte alla ricerca di un sostegno amico.

-CAMUS!

-CAMUS, NON ARRENDERTI!

-FORZA!

Si sforzò di respirare più regolarmente. Era più stanco di prima, stremato. Qualsiasi cosa facesse non sembrava poter avere requie, ma c’era Milo, là fuori, il suo migliore amico, e poi ancora Marta, le allieve, gli amici Cavalieri d’Oro.

Le luci della sua vita lo chiamavano con sempre più insistenza, diventando un unico coro che lo pregava di non arrendersi.

NON ARRENDERTI!

-Milo, spostati, che sta succedendo?

-Lui… non lo so, ha cominciato ad avere le convulsioni, la sua pancia è nuovamente bollente, sanguina copiosamente e…

-SPOSTATI!

-Ma…

-Bisogna intervenire d’urgenza, la frequenza cardiaca è troppo alta, incompatibile con la vita!

Camus non riusciva a codificare niente di ciò che stava avvenendo al di fuori di lui. Oltre alla voce del suo migliore amico se ne erano aggiunte altre, più secche e brusche, anche se ugualmente famigliari. Non le comprendeva a cosa si riferissero, non sapeva spiegare cosa gli stesse accadendo nel mondo reale, ma…

Improvvisamente avvertì un occhio pulsare, prima di avere la sensazione che gli venisse aperto a forza. Una luce lo accecò, riportandogli alla mente una delle ultime sensazioni tangibili prima che il Potere della Creazione annacquasse la sua coscienza e tutto il resto.

Lo stesso occhio aperto. A forza. La stessa luce abbagliante puntata nella pupilla. Utopo e le sue sevizie. Le torture a Michela. L’intervento del suo Hyoga che gli aveva salvato la vita...

In quell’istante tutti gli atti mancati, le sensazioni di smarrimento e malessere provate lungo il sentiero dei ricordi imboccarono un’unica direzione: come stavano i suoi due allievi dopo tutto il male che gli aveva inferto Utopo?!

Trasalì a quella domanda, rammentandosi del loro cosmo così fievole e del coraggio che avevano dimostrato durante la battaglia.

No, non poteva soccombere a quel folle, doveva reagire, doveva farlo… PER TUTTI LORO!

Sputò fuori acqua e diede un colpo di reni, scalciando con foga in giù per poi fare una capriola in acqua ed ergersi dritto.

Camus… coraggio, non puoi arrenderti!

Non posso arrendermi, hai ragione, Milo...

Ripeté lui, soppesando quelle parole, cercando di equilibrarsi nel rimanere dritto in mezzo all’acqua. Aveva sempre gli occhi chiusi e un folle dolore alla pancia, ma la sensazione di non farcela, di soccombere al Mago, stava scomparendo.

...altrimenti come potrei avere il coraggio di farmi chiamare ‘Mago dell’acqua e del ghiaccio’ da voi, che nella mia vita siete… tutto?!

Si chiese, con un sorriso, per quanto tirato. Stava lentamente riprendendo facoltà sul suo corpo. Respirava meglio ora, più profondamente, di nuovo utilizzando il diaframma, oltre che ai polmoni, per compensare. Finalmente riuscì a riaprire nuovamente le palpebre. Si trovava sempre in acqua ed era sempre avvolto dall’oscurità, ma rispetto a prima timide lucine del tutto simili a lucciole gli baluginavano intorno, dandogli nuova vigoria e spinta ad agire.

Marta...

Erano belle, bellissime, e calde, ne sfiorò una e ci vide attraverso il viso della sorellina ancora neonata; ne carezzò un’altra, e c’erano lei, Francesca e Michela che, dopo aver vinto una caccia al tesoro, si abbracciavano festosamente; e poi un’altra ancora, la raccolse nel palmo della mano.

Dal sentiero dei ricordi non poteva ancora fuggire, lo percepì come coscienza in sé. Non poteva ancora svegliarsi nella realtà, c’era… qualcosa di molto importante da fare!

Guardò per un attimo in su, in quel mare profondo di lucciole traballanti. Erano tutte belle e tutte meritavano di essere vissute -in certi casi, lo sentiva, le aveva perfino già viste, ma avrebbe comunque avuto piacere di rivederle- ma, fra tutte, l’unica in cui proveniva qualcosa di oltre, era proprio quella che sorreggeva in mano e che, proprio in quell’attimo, traballava tra le sue dita come un fiocco di neve. Raddrizzò nuovamente la testa, pensieroso. La nuova posizione assunta aveva permesso alla sua maglietta di scendere un poco più giù, lasciandogli comunque scoperto il basso ventre e l’ombelico che, proprio in quel momento, pulsava e scalpitava con maggiore intensità rispetto a prima, come ad indicargli di procedere. Socchiuse gli occhi, avvicinando il palmo alla fronte per poi prendere delle nuove, più profonde, boccate di ossigeno. Ormai aveva compreso come prepararsi al salto, non era poi così difficile. In quell’esatto momento, i lunghi capelli fluenti, prima un poco sollevati per effetto dell’acqua stessa, tornarono morbidamente giù sulla schiena, carezzandogli, lievi, i fianchi nudi.

Sapeva come fare, non avrebbe più esitato. Riaprì le palpebre, lasciando che la piccola luce entrasse placidamente nella sua testa passando dalla fronte. Subito udì le risate della sorellina dentro di lui, come tanti tintinni lieti. Istantaneamente sorrise, sollevato, immergendosi interamente e con serenità nel ricordo che aveva scelto.

Ogni cosa mutò. Non vi era più acqua, bensì aria; la sensazione di essere bagnato aveva ceduto il passo alla consapevolezza di trovarsi altrove, all’ombra fresca di un albero. Era appoggiato con la schiena al tronco di quello che sembrava un vecchio castagno secolare ormai in dirittura di arrivo. I raggi del sole passavano oltre la chioma verde inframezzata da ricci di castagne che, un tempo, erano stati tutto per la gente che viveva in quella valle. Gente umile avvezza alla fatica.

Era fine estate, Camus lo riconobbe dall’afa ancora persistente nonché dalla maturazione del frutto medesimo. Le foglie non erano più così rigogliose e, in generale, l’intero albero non versava in condizioni ottimali. Ampi solchi sul tronco indicavano che, nella sua lunga vita, doveva essere stato colpito più e più volte dai fulmini, l’ultima delle quali, probabilmente, anche piuttosto recentemente. Alcuni noduli legnosi di grosse dimensioni, dei veri e propri cancri della pianta, rendevano la corteccia asimmetrica, dando quasi l’idea che potesse scoppiare da un momento all’altro.

Il castagno stava andando incontro alla sua ultima stagione ma, strenuo, a giudicare dal quantitativo di castagne in preparazione, aveva dato il tutto e per tutto in quell’ultima fruttificazione.

Forse, uno dei suoi figli, partendo proprio da uno di quei piccoli ricci, sarebbe riuscito nell’impresa di germogliare e, nel giro di anni e anni, memore dell’impronta lasciata dal genitore, sarebbe cresciuto e avrebbe prodotto a sua volta altre castagne, offrendo a sua volta refrigerio al passante affaticato.

Camus, nuovamente in piedi e padrone di sé stesso, vide tutto ciò, passato e futuro, morte e vita, impresso nei solchi del vecchio albero. Si permise di guardarlo con solenne rispetto, accarezzandogli più volte la corteccia umida e segnata. Lo sentiva pulsare indomito, ancora, contro il suo palmo, ne percepiva l’intensa respirazione.

“Sei stato bravissimo. - gli disse, poggiandoci sopra la fronte per comunicargli meglio il messaggio, come gli aveva insegnato il maestro Fyodor – I tuoi sforzi non saranno dimenticati, puoi riposare ora!”

Socchiuse gli occhi nel prendere profondi respiri, il vento smosse appena la sua chioma come quella dell’albero. Due foglie, ormai per metà gialle, gli caddero tra i capelli, perché stavano comunicando, era vero, ma non nel linguaggio delle parole, bensì in quello misterioso del silenzio. Se ne sentirono giovati entrambi.

Da quanto non lo faceva -si rese conto Camus in un fremito- da quanto non parlava con gli alberi, e quanto gli era mancato! La vita al Santuario non concedeva distrazioni, era serrata e frenetica, a tratti insostenibile. Il Cavaliere si accorse di quanto ciò gli cominciasse a pesare, di quanto quella via, forse, non corrispondesse neanche e neppure lontanamente a quella che avrebbe voluto realmente intraprendere. Ma ci si era trovato invischiato e, col tempo, aveva imparato ad accettarlo, ad approvarlo perfino, almeno finché gli ultimi avvenimenti, il ritrovare la sorellina, l’essere catapultato in un passato lontano ma comunque suo, e il ritornare alla vita diverse volte, lo avessero minato in profondità. E ora, lì appoggiato a quell’albero a comunicare in un linguaggio inaccessibile ai più, gli aveva fatto provare un’intensa nostalgia per le cose perse e mai pienamente vissute.

Aveva solo bisogno di tranquillità ora, e serenità, passare del tempo con le persone che amava, con i suoi amici, con i suoi allievi, con la sua Marta. Basta battaglie e sofferenze, basta!

“Per di qui, ho trovato una scorciatoia!”

Proprio la voce della sorellina arrivò cristallina alle sue orecchie, portandolo ad aprire lentamente le palpebre, voltarsi, e indirizzare lo sguardo verso la dolina sopra di lui. La bambina stava scendendo con agilità, precedendo gli altri. Sembrava un leprotto, da come saltava o, meglio ancora, una giovanissima cerbiatta selvatica che aveva imparato a reggersi sulle sue lunghe, quanto sottili, zampe senza tentennamenti, buttandosi, un poco sprovveduta, giù dal pendio, fiduciosa delle sue capacità.

Dietro di lei tutti gli altri, ben più lenti, a parte Stefano che volutamente rimaneva nelle vicinanze del restante gruppo per poter essere così di aiuto.

Sei riuscita... a riunirli tutti!

Sorrise Camus, guardandola con quella punta d’orgoglio che le riservava sempre, prima di osservare entrambe le altre sue allieve e dedicare loro la medesima occhiata fiera. Erano davvero il suo orgoglio. Si soffermò maggiormente sulle versioni mignon di Michela e Francesca. La prima, nella fattispecie, sembrava avere non poche difficoltà a muoversi.

Ma Marta, di quelle problematiche, vuoi per la giovane età, vuoi perché di gran lunga troppo entusiasta, non si curava più di tanto. Sapeva destreggiarsi bene nei sentieri, compiva dei salti da una roccia all’altra -in piena discesa, oltretutto, roba che se metteva il piede male, si torceva la caviglia!- senza realizzare appieno che il resto dell’allegra comitiva era rimasto indietro.

Si stava inconsapevolmente avvicinando a lui, del tutto presa a scrutare i dintorni con sguardo felino per valutare l’appoggio più sicuro tra la radice che riaffiorava dal terreno assetato di pioggia e il masso muschiato a poca distanza. Infine scelse per quest’ultimo. Si diede bene la spinta per atterrarci proprio sopra, al punto che Camus, trovandosi nei paraggi, ebbe l’impulso di scostarsi. Si spostò giusto in tempo per lasciare campo libero a Marta, la quale atterrò, sì, sul masso, ma con il piede destro un poco più indietro del sinistro. Quel movimento non del tutto regolare né calcolato, minò direttamente al suo equilibrio, tanto da costringerla ad alzare le braccia per bilanciarsi un minimo in avanti.

Anche in quella circostanza, Camus agì d’istinto con gesto delicato della mano, sorreggendola, per poi sospingerla un poco in avanti e aiutarla nel procedimento.

“Stai attenta, ma petite bichette, i salti delle tue intenzioni sono enormi, ma il tuo corpicino deve ancora svilupparsi e crescere! - le sorrise, in un moto di tenerezza, constatando che stava recuperando più saldamente l’equilibrio – E poi gli altri sono ancora indietro, devi prestare attenzione anche ai componenti della tua vivace comitiva!”

A quelle parole, forse per un abbaglio, gli sembrò che le palpebre di Marta sbattessero più volte, come a riprendersi da un miraggio, poi lentamente la vide voltarsi indietro nell’osservare il punto più in su del versante del bosco per vedere a che punto fossero gli altri.

Francesca, da distanza, le diede un’occhiata indicativa, come a dire di aspettare, perché Michela aveva degli evidenti problemi a scendere. Certo, il suo viso aveva ancora qualche residuo della bambina che era stata, anche se si stava allungando per diventare la ragazza -ragazzina, in quel caso- che anche il Cavaliere dell’Acquario avrebbe poi conosciuto all’età di 20 anni, ma già in quel momento si dimostrava matura nelle decisioni, riflessiva, affidabile, ed estremamente contenuta. Aveva sempre i capelli corvini lunghi e lisci, anche se più corti, il seno in via di formazione, lo sguardo glauco attento e percettivo. Certo, era la più grande del gruppo, prima perfino di Stevin che, pur avendo solo due anni di differenza rispetto a lei, appariva ancora come un bambino.

Perché i maschi maturavano molto dopo -rifletté Camus, sempre concentrato a guardarli- e loro erano in quell’età che anche in un solo anno di differenza sembrava passarci un mondo. Lo aveva ben visto nel veder crescere Hyoga e Isaac.

“Aspetta un po’, noi siamo più lente!” la avvertì Francesca, rincarando il suo sguardo con le parole.

“Lo vedo.” borbottò Marta, con espressione furbetta, saltando giù dal masso e risalendo come a dire che lei invece ci riusciva benissimo a stare in piedi e a essere agile.

Era ovviamente una sfida di occhiate, perché lei, temprata dalle estati in valle, si sentiva sicura di sé e, non da meno, un pizzico superiore alle amiche che invece erano cittadine a pieno titolo.

“Poi inciampi, come poc’anzi, e rischi di fracassarti sul greto del torrente!” gli fece notare la più grande, inarcando un sopracciglio nel raccomandarsi la solita pazienza nell’avere a che fare con dei bambini.

“Ma non è successo e voi siete lumache!” la punzecchiò ancora Marta, facendo linguaccia, ricominciando nuovamente a salire e scendere e correre in lungo e in largo, pur rimanendo sullo stesso piano. Le piaceva dare mostra di sé, in quell’ambito.

“Se hai così tante energie, perché non ci vieni a dare una mano?!”

Marta, da birichina bastian contrario qual’era fin da piccolissima, non diede peso alla richiesta, semplicemente si buttò nella boscaglia più giù, di corsa ad abbracciare un albero di roverelle e poi di nuovo su, a salutare una felce nelle vicinanze.

“Io non so come faccia, davvero… - scrollò la testa Francesca, sbuffando – Usa tutte quelle energie, e ne ha tante, eh, senza rendersi conto poi effettivamente di quanto ne sperperi. E’ capace, stasera, di crollare addormentata dovunque si trovi e va a a finire che la dobbiamo riportarla noi a casa!”

“Se succede, ci penso io, la porterò in spalla - Stevin rassicurò la compagna più grande, buttando un occhio a lei per poi seguire la minore con un cipiglio d’urgenza – Adesso affretto il passo per raggiungerla, così se cade l’acciuffo io ed evito che si distrugga le ginocchia come ogni santissima estate!”

“Meglio, sì, io penso a Michela!” annuì ancora lei, sorridendo appena.

E Camus, in quel breve scambio di sguardi ne percepì la complicità di chi, più grande, deve badare ai più piccoli. Seguì poi le manovre di Stefano con uno strano peso sul petto, misto però a curiosità e senso di protezione per quei ragazzi che, chi in un modo e chi nell’altro, erano entrati nel suo cuore. Marta, del resto, aveva per davvero le ginocchia rassomiglianti ad un ricettacolo di tagli, abrasioni e sbucciature varie, ma non se ne curava minimamente, continuando invece a scrutare ogni più piccolo anfratto dell’ambiente circostante e interagirci.

Sei pestifera, ci vuole una certa dose di pazienza, con te. Sei testarda e orgogliosa, convinta di avere ragione qualunque cosa accada, al punto, a volte, di non renderti conto delle difficoltà degli altri. Ma sei davvero una brava bambina, solo… un po’ scapestrata. Avrei tanto voluto essere qui con voi, a vivere le vostre avventure...

Si ritrovò a pensare Camus, con un mezzo sorriso, mentre assisteva alla scena di Stevin che, forse calpestando un sasso non del tutto stabile, rischiò di cadere, finendo per essere acciuffato alla ben meglio da Marta che, vedendolo in pericolo, si era precipitata a sorreggerlo.

“E poi sei tu quello che sostiene di acciuffare me, eh?!” lo prese in giro lei, ridacchiando di gusto insieme all’amico, prima di scattare improvvisamente per abbracciare il vecchio castagno, lo stesso con cui aveva interagito Camus.

“Imponente, eh?!” fece notare Stevin, osservando l’immenso tronco d’albero in proporzione alle braccine dell’amica.

“Sì, prima ho abbracciato anche una roverella, ma lui ne ha più bisogno.”

“Perché?”

“Perché questo… è giunto alla fine del viaggio.”

Se fosse stato possibile sbiancare, da inconsistente spirito, probabilmente Camus lo avrebbe fatto, trasalendo sensibilmente a quell’affermazione.

Che Marta percepisse inconsciamente il fulcro della vita, nonostante non avesse mai avuto un addestramento da Sciamana, lo sapeva, reminiscenza di Seraphina, si era detto, ma che potesse così abilmente sondare l’Uno e il Tutto senza la minima incertezza, senza probabilmente neanche accorgersi della portata delle sue azioni, era qualcosa di inconcepibile perfino per lui, che aveva impiegato anni per riuscirci pienamente.

“Come sarebbe a dire alla fine del…?” ripeté Stevin, non capendo pienamente, non prima di aver osservato con più attenzione il tronco.

Effettivamente l’albero dava chiari segnali di essere a fine ciclo vitale.

“Alla fine del ciclo. - spiegò per l’appunto Marta, sorridendo malinconicamente nell’appoggiarsi con la fronte alla corteccia per aumentare l’intensità di quel momento – Ed io gli vorrei dire che non sarà da solo, che probabilmente rinascerà, che la sua lunga esistenza ha avuto un senso...”

Piccola…

Gli occhi di Camus erano lucidi, nell’osservarla. Provava il bisogno di stringerla a sé e dirle, ancora una volta, quanto fosse orgoglioso di lei, anche se molto spesso la sua attitudine, i suoi stessi obiettivi, lo terrorizzavano

Sei così avanti senza che neppure ti sia stato impartito un addestramento specifico… ed io cosa devo fare con te, Marta? Sei intrinsecamente portata ad essere una Sciamana Evocatrice, ma è un percorso ricolmo di sofferenza al quale io, che mi sono fermato prima, non posso accompagnarti se non nei tuoi primi passi.

Strinse si riflesso i pugni, osservandola comunicare con l’albero senza margine di errore. Anche Stevin appariva coinvolto, sebbene rimanesse distante, come se il solo guardare lo spettacolo di una vita secolare che si stava inesorabilmente spegnendo, gli procurasse un’emozione forte, a stento contenibile.

Cosa devo fare? -si chiese ancora Camus, sempre più scuro in volto- Dovrei farti conoscere Elisey, dovrei affidarti alle mani di quell’uomo?! Se solo ci fosse stato ancora il Maestro Fyodor qui con me, lui avrebbe di sicuro trovato il modo per farti attingere interamente alla tua dote...

Nel frattempo, più in su, la situazione si stava facendo complicata, obbligando la più grande del gruppo, Francesca, ad ingegnarsi per trovare una soluzione alla problematicità.

Michela, visibilmente la più piccina dei cinque, si era come impietrita davanti ad un passaggio fatto di sassolini sgretolanti che non davano garanzie di sicurezza. In quel frangente, teneva i capelli raccolti in due minuscole codine e si sorreggeva quasi interamente all’amica più grande nella paura di cadere. Ad un certo punto, probabilmente spaventata da un salto troppo lungo, si era messa a piangere.

“Uuuuuuuuuuh, non posso, non riesco!!!”

“Dai, Michela, salta! Ti prendo io!” la provò a spronare Francesca, scendendo prima lei dalla sua posizione per poi allargare le braccia e farla sentire più al sicuro.

“Sigh, sigh, nuuuu, cado!!!” si oppose lei, tirando su col naso.

“Michy...”

“Ho paura! Ho paura!!!”

La più piccola era sempre stata una gran frignona fin dalla più tenera età, prima di crescere e irrobustirsi. Piangeva spesso per ogni più piccola cosa ed era difficile spingerla a fare ciò che lei non si sentiva all’altezza di compiere. Davvero difficile. Ci voleva tutta la pazienza del creato o… una buona motivazione!

In quell’esatto momento Marta, staccatasi dal grande castagno, tornò un poco indietro, arrampicandosi quasi come una scimmietta per avvicinarsi all’amica.

“Dai, Michela, se vieni giù poi ci prendiamo un bel gelato!”

“Ma dove? Che la valle non ha negozi?!”

“Da nonno Mario!” rispose lei, tutta, convinta, ricercando la complicità di Stefano.

“Eh?! Ma il nonno… - provò a ribattere lui, ma il sibilò che le regalò lei, a metà strada tra il ronzio di una zanzara e lo squittire di un topo, gli diedero la spinta giusta su come agire – ehm, sì… Si! E vedrete che GELATO, cioccolato e stracciatella!”

“Da-davvero ci offrirà un gelato?” chiese ancora Michela, con gli occhioni brillanti e la boccuccia a formare una ‘O’ perfetta.

“Certo, sarà il nostro premio per la missione anatroccoli!” sogghignò Marta, motivando finalmente l’amica a scendere giù insieme a loro, con i suoi tempi, certo, ma senza più lacrimoni.

“Cosa le dirai quando torneremo a Cerviasca e non ci sarà il gelato?” gli fece notare Stevin sottovoce, dandole una leggera gomitata tra le costole.

“Oh, non ti preoccupare! - fu la serafica risposta di lei, con un sorriso sgargiante – Ingaggerò mia nonna che oggi è andata ad aiutare Nonno Bis con l’orto. Lei ha sempre un dolce per tutti!”

“Quindi fammi capire… stai puntando tutto su una scommessa che tua Nonna Inés abbia avuto l’idea di prepararci di sua spontanea volontà un dolce?!”

“Non è una scommessa, SONO SICURA che ci avrà pensato!” le fece l’occhiolino lei, tutta contenta, rimettendosi alla testa del gruppo direzione laghetto dove la germana covava.

Finalmente anche Michela e Francesca sarebbero state zie, la piccola era entusiasta al solo pensiero. Il gruppo dei bimbi proseguì quindi il percorso con il doppio delle energie, nulla sembrava poter andare storto quel giorno. Infatti quando giunsero, ignari, sulle rive del Brevenna nei pressi del laghetto verde creato dal rio di Mareta, non si accorsero, non subito, che qualcosa in verità era cambiato. Al contrario, Camus lo percepì, una sensazione di formicolio gli attraversò immediatamente la schiena, mettendolo in allerta: l’aria recava con sé odore di sangue. Fu sul punto di fermarli, ma all’ultimo si ricordò che non era corporeo.

Marta proseguiva dritta, un largo sorriso le alzava gli zigomi rosei rendendola graziosa e ancora più bambina; Stevin appena dietro di lei e Francesca e Michela subito appresso. Proprio Stefano però, ad un certo punto, percependo un odore dolciastro nell’aria -aveva un ottimo olfatto, di molto superiore alla norma!- si fermò di botto, come stordito.

Qualcosa non andava.

L’atmosfera era pesante e intrisa di sangue.

Vi era proprio odore di sangue, in effetti.

In maniera non dissimile da Camus, si mise istintivamente in allerta, i sensi tesi oltre l’inverosimile. Qualcuno dietro di lui sussultò, presagendo qualcosa di simile. Stevin si accorse, quasi avesse inspiegabilmente gli occhi dietro la testa, che era stata Francesca ad aver prodotto quella sottospecie di flebile brusio, trattenendo immediatamente Michela dietro di sé con fare protettivo

Che cosa l’avesse messa a sua volta sulla difensiva era inspiegabile, il bambino la conosceva ancora troppo poco per dirlo con certezza, ma passava in secondo piano al pensiero che Marta, invece, ignara di tutto, quasi trotterellando, proseguiva dritta per la sua strada.

“Ehi, no, aspetta, Marta, fermati!” la provò ad avvisare, mentre l’amica proprio in quel momento stava giusto svoltando il grande masso che celava parzialmente il profondo laghetto.

La bambina non si fermò a quel richiamo, del tutto allegra, ciò spinse Stevin a scattare nella sua direzione per afferrarla da un un braccio e costringerla così a voltarsi.

“FERMAT..!”

Non ultimò la frase, con quel balzo aveva a sua volta girato il masso, trovandosi davanti una scena che aveva del raccapricciante. Deglutì a vuoto, sgranando gli occhi, prima che il visetto confuso di Marta entrasse nel suo campo visivo, occludendogli la visuale. Fortunatamente l’amica non aveva visto ancora nulla, era riuscito ad agire in tempo, ma ora era lì, lo tempestava di domande circa le motivazioni di quell’improvviso stop che aveva avuto proprio da lui.

“Ehi, Stevin, che succede, adesso? Che cosa c’è?”

“Ehm...”

“Non vuoi più presentare i nostri nipoti a Michela e Francesca? Non ti senti ancora pronto?” volle sapere lei, cercando di codificare la sua espressione.

Stefano non riusciva a rispondere, non era in grado di argomentare, il viso un nugolo di orrore. Indietreggiò di qualche passo, portandosi dietro lei. Doveva trovare in fretta una ragione sufficientemente convincente per spingere l’amica a retrocedere senza destare l’interesse dei ragazzetti, a loro due tristemente ben noti, che si erano già appropriati del laghetto prima del loro arrivo.

“E’ proprio stecchita, questa, ragazzi...”

“Guarda che buco che ha… ehi, Paolo, infilaci il bastoncino!”

“Che??? Il bastoncino?!”

“Sì, voglio vedere che effetto fa!”

Confabulavano intanto tra loro, del tutto concentrati sul coacervo di piume e sangue che stavano ispezionando con interesse quasi morboso.

Era tardi… tardi per tutto, ma forse, se avesse convinto l’amica ad andarsene, avrebbe potuto perlomeno evitarle quell’orrendo spettacolo.

“EHI, STEVIN, CHE SUCCEDE?!”

Marta, però, insisteva a parlare ad alta voce, un po’ perché aveva avuto un tono sempre discretamente alto, un po’ perché l’amico sembrava immobilizzato, non reagiva.

“Stevin?”

“Io...”

“Sei impallidito di molto. Stai male?”

“Ho dimenticato una cosa. - tentò di sviare lui, cercando di tornare ad una espressione normale, accettabile, nel fissare i suoi occhi in quelli dell’amica – Possiamo tornare indietr..?”

“OH, MA GUARDA CHI SI VEDE, IL SELVAGGIO E IL PICCOLO DEMONIETTO DAGLI OCCHI BLU CHE GLI STA SEMPRE APPRESSO!”

Piccolo demonietto dagli occhi blu… era il modo in cui molti bambini e ragazzini si rivolgevano a Marta a causa dell’intensità del suo sguardo. Camus lo aveva ben visto nei sogni che condivideva con lei, perché erano parole impresse indelebilmente nella mente della piccola che, proprio in quel momento, riconoscendo malauguratamente il richiamo, si voltò.

Stevin come Camus, come Francesca, avrebbe voluto impedirle quel movimento, condurla lontana, non farle vedere cosa avesse attirato così l’attenzione del gruppo di teppisti.

Ma ormai era tardi anche per quello.

La piccola trasalì nel riconoscere il coacervo di piume insozzate di sangue che era appartenuto alla madre dei germanotti; un foro netto da una parte all’altra del collo indicava che qualcuno doveva averla trafitta con qualcosa di acuminato.

“N-no! No!” sussurrò la bambina, in un singulto strozzato, il faccino una maschera di orrore, le mani istintivamente portata sulla bocca.

Camus strinse i pugni, le palpebre gli si fecero pesanti nel percepire su di sé le emozioni della sorellina. Qualcosa gli pizzicava fastidiosamente l’angolo degli occhi, mentre osservava Stefano abbracciare istintivamente Marta che, scioccata dalla visione, aveva preso a tremare e balbettare frasi indistinte.

Cadde un silenzio atrocemente pesante. Solo la vocetta di Michela, a cui era stata risparmiata la scena grazie al tempestivo intervento di Francesca che le aveva lestamente coperto gli occhi, trovò il coraggio di elevarsi, del tutto inconsapevole della tragedia che era appena avvenuta in quell’angolo di mondo.

“Fra… FRAAAAA, cosa stiamo facendo? Stiamo giocando a nascondino? Chi conta?” chiese ingenuamente la più piccola.

Nessuno le rispose. Nessuno del gruppo di amici si sentiva di rispondere. Si udivano solo le risate di scherno degli altri, i teppisti di Mareta, quelli dell’altro versante della valle, perennemente in guerra contro Stefano e Marta e quindi, conseguentemente, anche con loro due, che pure venivano su in valle solo nei week-end e durante le festività.

“Fra, che succede? - insistette Michela, affatto contenta di non ricevere risposte – Ci sono altri bambini con qui giocare? Dove…?”

“Non ora, Michy.” la fermò la più grande e giudiziosa, sospirando affranta.

Marta, intanto, parzialmente ripresa dallo shock iniziale, aveva preso a dimenarsi tra le braccia di Stefano, il quale, a stento, provava a trattenerla. Ad un certo punto, in un impeto, riuscì a liberarsi per poi dirigersi ad ampie falcate verso il gruppetto dei quattro ragazzini nemici.

Camus non lo vide con nitidezza, ma gli parve, per un fugace attimo, di distinguere un veloce fascio cremisi lampeggiare negli occhi blu della piccola, baluginare, per poi sparire. Si irrigidì per istinto.

Come quella volta…

Rifletté in un fremito di consapevolezza, tremando distintamente per diversi secondi. Di qualsiasi cosa si fosse trattato, a giudicare dalla reazione degli altri ragazzini che si intirizzirono istantaneamente, dovevano averlo scorto anche loro. Non poteva quindi trattarsi di un abbaglio.

“Perché lo avete fatto?!” il tono della bambina era limpido, nonostante la rabbia crescente.

“Noi non...”

“Che cosa avete fatto?!?” chiese ancora lei, sempre più livida, nel vederli indietreggiare come dei fifoni.

In quel momento, il più grande fra loro, probabilmente il capo a giudicare dal modo di atteggiarsi, nel non distinguere più quel fascio atroce negli occhi della mezza tacca chiamata Marta, si fece forza e avanzò di qualche passo per fronteggiarla apertamente

“Noi niente, demonietto, non...”

“MA SE E’ MORTA!!! - ululò ancora la bimba, perdendo le staffe. Si era fatta rossa, e poi violetto, gli occhi fiammeggiavano sinistri, al punto da far sussultare lo stesso Camus, che quasi non la riconosceva. - VOI L’AVETE UCCISA!”

Non vi era più, in lei, quel bagliore cremisi, terribile, di prima, ma avvertiva distintamente qualcosa di enorme divincolarsi all’interno della piccina, e così in lui, mordendo per voler uscire, calciando. Il cuore gli si accelerò in petto, e capì che lo stesso stava accadendo alla sorellina.

Doveva fermarla a tutti i costi. Se non lo avesse fatto, qualcosa di tremendo sarebbe successo da lì a breve.

Devi calmarti, Marta! Devi riportarlo sotto la tua volontà. Non cedere alla furia, NON CEDERE al suo controllo!

Si tratteneva la pancia nel pensarlo, quasi facendosi male lui stesso, graffiandosi la pelle sotto la maglia con intensità crescente. Qualsiasi cosa fosse, era come se la avvertisse concretamente anche dentro di sé. Ed era terribile.

“Non siamo stati noi ad ucciderla, genia! - si aggiunse intanto il capo in seconda, affiancando il primo, prima di scostarsi e mostrare qualcosa a poca distanza – Guarda là, osserva!”

Si girarono tutti, ad eccezione ovviamente di Michela, nella direzione indicata. Un nuovo singulto li scosse, mentre la rabbia di Marta, semplicemente, vinta da qualcosa di forse ancora più atroce, evaporava completamente, dandole nuovamente i connotati propri di una bambina.

A poca distanza dai due gruppi rivali, infatti, sul lato destro del torrente, vi era un grosso uccello dalle piume cenerine che Camus riconobbe subito come un airone. L’animale, senza curarsi del trambusto nei dintorni, era completamente preso a servirsi il pasto, consistente proprio in uno degli anatroccoli figli della povera madre. Di tutti gli altri non c’era più alcuna traccia, probabilmente predati prima, o comunque fuggiti nel tentativo di salvarsi, anche se, senza la mamma, le possibilità di farcela erano pressoché nulle.

Era la dura legge della natura. Sia Stefano che Francesca la conoscevano bene. Per Marta, invece, quella fu la prima volta. La bimba si lasciò cadere a terra, la bocca semi-aperta, mentre dei fiotti di lacrimoni le inondavano le guanciotte, segnandole barbaramente il viso che si era cristallizzato in un’espressione spezzata, indicibile.

Gli aironi potevano mangiare gli anatroccoli perché erano prede facili e deboli. La natura non dava spazio alla debolezza. E valeva per tutti. Esseri senzienti e non. Non era un mondo per i fragili di cuore, né per la gentilezza. Era semplicemente crudele… crudele e magnifico insieme!

Marta piangeva senza tuttavia singhiozzare, e quelli… quei teppistelli, del tutto incuranti del suo stato, avevano preso a ridere sguaiatamente, a prenderla in giro ed insultarla, perfino, mentre lei si nascondeva il volto con le mani, ginocchioni per terra, inconsolabile nella presa d’atto di quel mondo fino a poco prima tanto amato e ora improvvisamente odiato, che distruggeva ciò che lui stesso era stato capace di creare.

Perché, venire al mondo, vivere e respirare… non era affatto così bello come inizialmente aveva pensato. Era una maledizione e una condanna, era come trovarsi su un treno diretto e sparato verso un’unica, inevitabile, meta. I tarli, infine, all’età di 8/9 anni, si erano insinuati dentro di lei.

E Camus, che aveva sempre voluto salvaguardarla dal suo primo battito, si ritrovò invece impotente a dover assistere a tutta quella cattiveria nei confronti della sorellina, alla spietatezza con la quale loro si rivolgevano a lei, senza la benché minima esitazione, senza la minima comprensione di ciò che lei stava attraversando. Strinse con foga i pugni, ancora… e ancora. Si dovette raccomandare il controllo, che in quel momento era labile in lui, nonché la temperanza, mentre quei ragazzetti continuavano a sbeffeggiavano con soddisfazione nel rendersi conto del suo momento di fragilità.

“Ahahahaha! Ma che ti credevi, che l’avessimo uccisa noi?! Vivi proprio nel mondo delle favole!!!”

“Frequenti questa valle da anni e ancora non sai cosa può accadere?! Ti credevi in paradiso?!”

“Ahahahaha, guardalo come lo inzuppa nell’acqua, come i biscotti nel latte!!!”

“NO, NON VOGLIO GUARDARE!”

“Come no, ora frigni? Guarda, guarda… ammorbidisce la papera e poi se lo inghiotte in un sol boccone!”

“No, no, no...” continuava a rifiutarsi Marta, nascondendo ancora di più il viso dietro le mani.

“Ora non vuoi accettare la realtà di questo mondo?! Sei ridicola, demonietto! Questo è: gli aironi possono mangiare gli anatroccoli e, all’occorrenza, uccidere anche la papera madre che, essendo sola, è una vittima facile!”

“A proposito, sapevi che la fecondazione nei germani avviene spesso tramite stupro di gruppo?! Proprio così, già già, le bloccano sott’acqua e… ZAC!”

“No, no, basta, non voglio sentire… NON VOGLIO SENTIRE!!!” ululò ancora la piccola, piegandosi in due nel tapparsi le orecchie.

“Piantatela!” una voce si elevò dietro di lei, prendendo posizione, ma Marta era talmente intenta a singhiozzare che quasi non la udì.

E comunque non fu sufficiente per fermare il gruppo di bulletti, che decise di proseguire nell’opera di demolizione.

“Un po’ come tua madre, Demonietto...”

Che cosa?!

“...Deve averti concepito in seguito ad uno stupro, non è forse così?! Ecco perché è da sola ed ecco perché sei uscita con quegli occhi inquietanti che non appartengono a nessuno, oltre che a te! Mio padre dice che solo un demone può avere quel colore!”

Che bastardi! Questo non lo dovevate dire… questo non lo dovevate proprio dire!

Ringhiò Camus a denti stretti, conficcandosi le unghie nei palmi per tentare un ultimo disperato tentativo di autocontrollo che gli risultava sempre più difficile. Gliela avrebbe data volentieri lui stesso una bella lezione, a quel gruppo di bambocci tronfi che credeva di aver scoperto tutto della vita e che invece non conosceva proprio niente! Un bel soggiorno in Siberia e si sarebbe poi visto come si sarebbero ridimensionati in fretta e furia, abbassando istantaneamente la cresta e la strafottenza. Non avevano preso abbastanza botte in vita loro, ma… a tutto c’era rimedio!

Qualcosa mutò nell’aria, una sorta di vento imperioso cominciò a soffiare nei dintorni. Solo Francesca, rimasta un poco più indietro a trattenere Michela, parve rendersene concretamente conto. Non Stefano, e neppure lo stesso Camus, che era ad un passo da utilizzare i suoi poteri su loro, in barba al fatto che fossero dei semplici ragazzini di paese.

Marta, del resto, non diceva più niente, aveva finito perfino di dibattersi, rimanendo invece per terra, le mani ad abbracciarsi il busto, gli occhi nascosti dalla frangetta. Silente, ma di quel silenzio che era pregno di qualcosa di atroce.

Il capo dei bulli, ancora non contento del trattamento che le avevano riservato, si avvicinò trionfante a lei, prendendola per un braccio per poi strattonarla con violenza. Nessuna reazione. La piccina rimaneva lì, passiva, gli occhi svuotati.

“Cos’è, ora sei mogia dopo aver scoperto l’ovvio?! Hai perso ogni vitalità e la parlantina che ti contraddistingueva?! - la tirò e la strattonò ancora e ancora, rischiando di farle male, compiacendosi della sua totale impotenza – Sei davvero patetica...”

A quel punto Camus non ci vide più. Del tutto dimentico del ruolo che ricopriva, di essere un Cavaliere devoto ad Atena e all’umanità, si riscoprì un semplice fratello maggiore che doveva difendere e proteggere la più piccola e al quale era appena stata insultata la madre. Dei cristalli di ghiaccio danzarono sul suo palmo, pronti per essere lanciati, ma qualcun altro si frappose fortunatamente tra le sue intenzioni e l’attuazione del colpo.

Qualcuno aveva preso l’altro braccio del bulletto, facendoglielo ruotare in modo che mollasse la presa su Marta, e ora lo guardava fisso negli occhi, con quella disapprovazione nello sguardo di un chiarissimo color azzurro che a Camus ricordava tanto qualcosa.

Stevin…

I cristalli di ghiaccio si dileguarono nel palmo di Camus che lentamente tornò al controllo, rendendosi appena conto, con un brivido, di ciò che aveva rischiando di perpetrare nei confronti di un paio di ragazzini che, per quanto spregevoli e indecenti, di fatto, non avevano fatto nulla di così grave da decretarne la morte.

La reazione rischiava di essere sproporzionata alla pena… ed era stato proprio lui a rischiare di ergersi ad artefice primo di quella violenza, lui che aveva sempre raccomandato ai suoi allievi l’equilibrio e la temperanza.

“Vi ho detto di piantarla, o non mi avete sentito?!” Stefano lo incalzò senza remore, ma il suo sguardo disgustato era anche per gli altri poco più in là che si riparavano vigliaccamente dietro quello più forte.

“S-Ste! - il ragazzaccio sembrò preso in contropiede, poi si accorse di essere trattenuto dall’altro e ritrasse violentemente la mano – Lasciami, mi fa schifo il tuo tocco!”

Stefano non si scompose, evidentemente abituato a quel tipo di reazione. Diede un’occhiata a Marta, ancora per terra, del tutto svuotata, prima di tornare su di lui.

“Non ti toccherò più, se lascerai in pace in lei. Non ha fatto nulla per meritare il vostro spregio e, ancora di più… - ridusse gli occhi a due fessure – Per essere cresciuta senza un padre, è infinitamente migliore di voi!”

“CHE COSA?! Ripetilo, maledetto!” ringhiò l’altro, mentre quelli rigorosamente dietro di lui gli davano manforte.

“Ripetilo! Ripetilo! Se hai il coraggio!”

“Hai sentito ciò che ho detto e, dalla tua reazione, ne deduco che l’affermazione sia vera e che tu ne sia consapevole, altrimenti non ti saresti piccato così!” gli fece osservare Stefano, diplomatico.

Quel modo di fare così garbato e contenuto, anche in situazioni così, quell’esporre il suo pensiero in maniera semplice ma, se necessario, un poco irriverente… A Camus, che si era fermato ad osservare Stevin con attenzione e gratitudine, ricordava tanto qualcuno, ma non sapeva bene chi.

Non sapeva bene a chi accostarlo, nonostante fosse così famigliare.

“STAI ZITTO!”

“Perché?! Perché la verità brucia? Perché avete sfruttato un suo momento di vulnerabilità per infierire?! Oppure perché vi da fastidio che lei sia fatta così? Che sia straordinariamente umana ed empatica, anche con una specie diversa rispetto alla sua, da soffrire perché non riesce ad accettare la morte di un’altra creatura?” continuò Stefano, del tutto intenzionato ad impartirgli una lezione, anche se solo verbale. I suoi occhi brillarono.

“Grr… gelosi di lei? Ma non dire fesserie!” ringhiò l’altro, visibilmente in difficoltà, non riuscendo comunque a ribattere in altra maniera.

“Il dolore è comune a tutte le specie. Godere delle sofferenze degli altri e giocare sulla morte… vi rende solo beceri!”

“Ma chi sei?! Il paladino delle cause perse?!”

“Chissà… anche io devo darvi particolarmente fastidio per qualche ragione a me sconosciuta, no? Ma è da quando avete conosciuto Marta che raddrizzate il tiro da me a lei. Deve indisporvi proprio il suo modo di essere, decisamente migliore del vostro, nonostante l’assenza del padre, come avete voluto sottolineare poco fa nel dire, peraltro, una cattiveria gratuita che neanche sapete se possa corrispondere al vero!”

“Grr, dannato! CI VUOI STARE ZITTO?! O IO… O IO… - si avvicinò prepotentemente a lui, alzandogli la mano a poca distanza dal viso – La vedi, questa?!”

Ma Stevin, a dispetto dell’indole pacifica e solo apparentemente accondiscendente, non aveva paura alcuna di affrontarli, anche solo a parole, anche solo sfidandoli con lo sguardo cristallino. Era coraggioso e Marta -pensò distrattamente Camus nel guardarlo con ammirazione- era stata davvero fortunata ad essere sua amica.

Grazie… per averla sempre protetta e vegliato su di lei quando io non potevo.

“Ci sono molti tipi di relazioni, quelle famigliari ne sono solo una parte. - disse ancora Stefano, deciso, desideroso di proteggere ciò che per lui era più importante – E, in ogni caso, queste ultime, da sole, non significano NIENTE, lo dimostrate ogni giorno voi che, cresciuti con una famiglia tradizionale, padre, madre e fratelli, viziati e stra-viziati da loro, non avete comunque avuto un’educazione adeguata per rispettare gli altri, umani e forme di vita che siano. Mi fate proprio...”

Non ebbe comunque il tempo di finire la frase, perché gli venne assestato un pugno nell’addome, talmente potente da farlo cadere a terra. Qualcuno urlò, Camus si rizzò istantaneamente, non aspettandosi una reazione così violenta, Marta ebbe appena un fremito, che divenne tremore recondito sempre più convulso, quando il bulletto estrasse dalla tasca dei pantaloncini un coltellino svizzero.

Non vorrà..? No, maledizione, devo fermarlo!

“Ora ti chiudo la bocca, frocio di merda, perché, come dice mio padre, sei un invertito del cazzo cresciuto solo con tuo nonno decrepito che, per compensare la mancanza di una figura materna, si circonda di amiche femmine per nascondere la sua condizione di devianza!”

No, non stava né esagerando né scherzando, era serio e aveva tutte le intenzioni di usare l’arma contro l’indifeso Stevin ancora piegato per terra preda di violenti colpi di tosse, le mani che si stringevano convulsamente lo sterno.

Camus si morse il labbro inferiore, rimproverandosi di aver relegato le affermazioni del bulletto a semplice ragazzate che, con l’avanzare della crescita, lo avrebbero fatto riflettere e ragionare su quanto stronzo fosse stato in quell’occasione. E invece quello, almeno quello, il capo della teppa, aveva tutte le carte in regola per diventare perfino peggiore da grande, bastava vedere come impugnava l’arma, la vena folle nel suo sguardo, l’impeto con il quale voleva pugnalare Stevin con quel coltellino. Camus non attese più, doveva fermarlo ad ogni costo, doveva intervenire, doveva proteggerli. Preparò nuovamente i cristalli congelanti sul palmo della mano…

Tuttavia, ancora prima di dare direttive al colpo di partire, vide che la mano del bulletto si era già bloccata a mezz’aria, del tutto impossibilitata ad ultimare le sue intenzioni. Affinò quindi lo sguardo in là, rendendosi conto che un più che consistente strato di ghiaccio, parzialmente incrinato da insenature rosso cremisi, gli aveva già avvolto la mano, stringendola nella morsa di un gelo penetrante. Il bulletto cacciò un urlo, capendo, o forse più probabilmente NON capendo cosa gli stesse succedendo. Provò ad indietreggiare ma qualcosa fu, ancora una volta, più veloce di lui, troncandogli di netto il respiro.

Mar-ta?!

Sussurrò tra sé e sé Camus, trasalendo nel vedere l’impeto con cui la sorellina si era fiondata contro il ragazzo con una testata talmente potente da fargli sputare saliva. Il tempo sembrò arrestarsi, caddero e rimbalzarono alcuni metri più in là, lui semi-svenuto sotto, la bava la bocca, lei sopra, con quella forza immane che rendeva il suo cosmo ghiacciato, visibile solo al fratello, contaminato da striature rosse che non potevano -o non avrebbero dovuto!- avere nulla da spartire con la sua aura tendenzialmente limpida e solenne come i ghiacci della Siberia.

Camus ne ebbe istantaneamente una paura atroce. Boccheggiò più volte, prima di scattare verso di lei per fermarla. C’era qualcosa che non andava, il cosmo non era il suo, era impuro, selvaggio e infinitamente potente ma, proprio per questo, irriconoscibile. Mulinava intorno al suo corpicino con l’intensità di un vortice e più trascorrevano i secondi più quel rosso sembrava prenderne possesso.

No, non poteva essere assolutamente lei!

Marta, d’altro canto, non diceva niente, i suoi movimenti erano stati troppo veloci per essere percepiti da occhi umani e comunque l’assalto era stato talmente rapido violento da aver già danneggiato sufficientemente il bulletto, che ora stava lì, una smorfia di terrore sul viso, ad ansimare disperatamente. La piccola si ritrovò a sorridere sinistramente tra sé e sé. Sarebbe bastato quello, in teoria, la lezione era stata impartita. Quell’essere, dopo quell’esperienza recepita tramite il dolore, ci avrebbe pensato non una, ma due volte, prima di far del male a Stevin o ad altri esseri viventi.

Poteva fermarsi, ma non si fermò, del tutto intenta a proseguire nel suo operato.

No, Marta, fermati! FERMATI!!!

Lo prese malamente per il collo, sebbene come dimensioni fosse ben più piccola di lui, strinse la presa, occludendogli le vie respiratorie; levò l’altra mano sopra la testa e una sfera di energia congelante di color azzurrino, sempre imbrattata da venature rosse, prese a vorticare nel suo palmo con moto antiorario.

Martaaaaaaaa!!!

Sì, avrebbe finito di far soffrire gli altri, lo avrebbe fatto finire lei, perché un essere così spregevole che non sapeva rispettare la vita non meritava neanche di esistere. L’avrebbe fatta finire lei, quell’esistenza effimera…

Marta, per Atena, NO!

E il braccio della piccola calò, implacabile, con tutte le intenzioni di disintegrargli i polmoni, di scomporre il suo colpo al livello atomico, non sia mai che qualcosa di buono, di migliore, sarebbe riemerso dalle sue cellule putride. Distruggere era il suo obbiettivo. Distruggere… una volta per tutte!

“Marta!!! Non sei tu, questa, io lo so, LO SO! Fermati, ti prego, FERMATI!”

Tutto si cristallizzò in un istante, il colpo venne trattenuto tra le sue dita nell’udire concretamente dietro di sé quella voce quasi disperata che la richiamava. Marta tremò con più forza a quella sensazione. Era un timbro vocale maschile, nuovo, mai udito, eppure… tremendamente famigliare! Voltò la testa dietro di sé, il cuore le si accelerò nel petto nello scorgerlo. Tutt’intorno sensazioni strane, mai provate, un insieme di colori e cori convergeva in lei, mentre l’ambiente andava diradandosi per poi sfumarsi a seconda dei giochi di luce. Eppure lui, l’immagine del fratello tanto cercato nel mondo… era ora nitido più che mai!

A Camus scappò un singulto nell’accorgersi, in un primo momento, che la sorellina aveva risposto proprio a lui, voltandosi proprio nella sua direzione nel guardarlo come se fosse concreto davanti a lei, non più una presenza invisibile. Tuttavia, in un secondo tempo, fu altro a sconvolgerlo nel profondo, lasciandolo attonito e tremante: il colore dei suoi occhi!

Che ti sta succedendo, piccola? Cosa è quel fascio di luce cremisi che ha sbalzato via il blu delle tue iridi?! Quasi non ti riconosco più, Marta, è difficile distinguerti là in mezzo. Sei tu che mi stai osservando o… qualcun altro?!

Marta lo fissava sorpresa. All’ultimo era riuscita a trattenersi e la sfera di energia congelante si era spenta nella sua mano, ma continuava a osservarlo con espressione ferina, quasi bestiale, con quel rosso scarlatto che metteva paura al solo incrociare gli sguardi. Camus decise di rimanere a distanza, non sapendo bene come la sorellina avrebbe potuto reagire ad un suo eventuale avvicinamento. Inghiottì saliva a vuota. Era spaventato quanto lei, forse più di lei, il cuore gremito di pena nella paura che potesse perderla. Per sempre! Perché colui che si era impossessato di Marta, chiunque egli fosse, avrebbe anche potuto strappargliela con la forza.

“So che sei arrabbiata, è tuo diritto esserlo. – iniziò Camus, imprimendo i suoi occhi nei suoi – Hai reagito così perché hai visto il tuo amico Stevin in pericolo, vero? Sei sempre stata una piccolina coraggiosa e protettiva fin da bambina...” le sorrise, accennando un passo, cercando di farle percepire più calore possibile.

Marta, o chi per lei, ricambiò lo sguardo un poco sorpreso. Aveva mutato la sua espressione, non era più feroce, ma le iridi permanevano a rimanere scarlatte e… facevano paura!

“Però… non a questo costo, piccola mia! - indurì appena la voce, mentre la osservava più intensamente di prima in un misto di preoccupazione e timore – Non diventare un mostro per noi, per salvare le persone che ami, non occorre. N-non occorrere perdere la tua umanità per salvarci! I-io...”

Esitò. Sulla punta della lingua apparì un nome, il solo rammentarlo gli procurò una fitta al cuore. Socchiuse gli occhi, prese un profondo respiro, prima di riaprirli.

“Sei davvero così simile ad Isaac… rivedo lui in te, la sua forte volontà di proteggermi, di proteggere anche suo fratello Hyoga. Per farlo, non avrebbe esitato un attimo a gettarsi nel buio per noi, a sprofondare nelle tenebre per la nostra salvezza, ad accettare il Kraken dentro di sé… lo ha fatto, Marta, e lo abbiamo perso per questo, L’HO perso! - prese una breve pausa, esporsi così con lei, nonostante tutto ciò che avevano attraversato insieme, gli costava ancora dolore e fatica, gli si spezzava il respiro al solo nominarlo – Non seguire la sua via, non… smarrirti per noi. So che puoi riuscire a controllarlo, qualsiasi cosa sia, perché sei una guerriera!”

Camus non seppe, con distinzione, se furono le sue parole a riscuoterla, a ricolorare le sue iridi di quel blu del tutto affine al suo; perché, nello stesso istante, una sagoma balzò tra lui e a sorellina, bloccandole di fatto il braccio per poi circondarle il busto con azione decisa atta a impedirle qualsiasi altro movimento.

Marta urlò, strizzando irrequieta le palpebre; per Camus fu invece come essere sbalzato indietro, mentre i colori e le forme dell’ambiente circostante tornavano nitidi accesi. Percepì un violento strappo all’ombelico, come se gli venisse aperto da un bisturi, ciò lo costrinse a cadere bocconi per terra, ansante, portandolo immediatamente a stringersi convulsamente il ventre che, di nuovo, dava violente fitte intermittenti sempre più forti. Tossì per lo sforzo fisico e la sofferenza, mentre, coniugando tutte le sue forze si costringeva comunque ad alzare il viso nella loro direzione.

“F-Fra!” chiamò a fatica la più grande delle sue allieve che era intervenuta tempestivamente per fermare la più piccola.

La giovane dea si scosse un poco a quel richiamo, come se anche lei avesse potuto udirlo in qualche modo. Si guardò spaesata intorno ma, a giudicare dai suoi occhi smarriti che navigarono nei dintorni senza sostare in nessun punto, non era in grado di distinguerlo visivamente. Ben presto, comunque, fu costretta a tornare a concentrarsi sull’amica che, quasi arpionandole le braccia, cercava in ogni modo di divincolarsi dalla sua morsa.

“Marta, calmati! CALMAT… argh!” provò a placarla, prima di essere colpita da una testata sotto il mento perché non c’era verso di tranquillizzare la bambina.

“Fra, lasciami! Lasciami, PER FAVORE! - Marta era tornata in sé, ma urlava e piangeva insieme, sconvolta – Sigh, la germanotta… la germanotta!!! Buuuuuaaaaa!!!”

“Non finché non ti sarai chetata! Devi calmarti, Marta, devi controllare questa cosa!” esclamò anche lei, cercando di sovrastare la sua voce.

Controllare quella cosa… quindi, da dea, probabilmente aveva percepito che c’era stato qualcosa di diverso dal solito in Marta, incontrollabile, ma -si chiese Camus- almeno lei, era poi stata in grado di catalogarlo, oppure...

“E’ morta! E’ mortaaaaa!!! Bua! Sigh! Sob!!!”

“Lo so, ma non ci possiamo fare più niente, NIENTE, lo capisci?! - gli occhi di Francesca erano appena lucidi nell’esprimerlo – E’ finito il ciclo della sua vita, è tornata al Tutto!”

A quelle parole, anche le palpebre di Marta si aprirono. La piccola era in un fiume di lacrime, continuava a singhiozzare senza dare cenno di calmarsi, ma almeno aveva smesso di scalciare e dimenarsi come un’ossessa e gli occhi… erano tornati i suoi!

Camus ebbe l’istinto di alzarsi, a fatica lo fece, zoppicando in direzione delle sue allieve. Non si sentiva bene, quell’esperienza, quell’interferenza -stentava ancora a crederci che era riuscito a interagire con la sorellina!- lo avevano minato ancor più in profondità. Respirava male, a scatti, la vista gli si era fatta nebulosa, ma le sue mani riuscirono in qualche modo a raggiungere e posarsi sulla testa di entrambe le allieve.

Ha ragione Francesca… è finito il ciclo della sua vita, per lei e per i suoi piccoli. So che ti può sembrare spietato e ingiusto, Marta, però la Natura è proprio questo, è nell’ordine delle cose che possono accadere. A volte il percorso è più lungo, a volte più corto… noi esseri finiti possiamo solo imparare ad accettarlo.

Marta aveva smesso completamente di porre resistenza, stava lì, gli occhioni spaventati, le guance rigate di pianto, le labbra ancora tremanti alla ricerca di parole o risposte che tuttavia non potevano arrivare. Francesca appariva frastornata, a tratti smarrita, alla fine interpretò l’improvvisa immobilità della più piccola come presa di coscienza. Decise quindi di lasciare libera l’amica, mentre, con un sospiro, la riaccompagnava a terra, rimanendo comunque vicino a lei per precauzione.

“E’ stata una brava mamma. Avete detto che non è la prima cova che ha fatto, giusto?” chiese poi alla più piccola.

“S-sì.”

“Le altre di questi anni le avete viste crescere, vero?”

“Sì...”

“Avete fatto un ottimo lavoro anche voi, gli altri piccoli saranno ormai grandi, si saranno riprodotti a loro volta, trasmettendo anche i suoi geni. La germanotta non sarà mai del tutto...”

“MA CHE IMPORTA DEI FIGLI, SE TANTO LEI E’ MORTA E NON PERCEPISCE PIU’ IL CALORE DEL SOLE O IL SUONO DEL VENTO?! LA VITA NON PUO’ RIDURSI SOLO A QUESTO!!!” urlò Marta, irriducibilmente arrabbiata, prendendo a piangere ancora più forte, preda di singhiozzi sempre più spietati.

Francesca tacque. Per la prima volta nella sua vita non sapeva davvero cosa rispondere. La sua natura divina non glielo consentiva.

“ANDREA! Andrea, cosa ti succede?!”

Gli improvvisi schiamazzi del gruppo avversario che, nel frattempo, era corso a soccorrere il leader per portarlo più in là, attirò l’attenzione sia di Francesca che di Camus. Entrambi alzarono lo sguardo nella loro direzione, rabbrividendo nel comprendere il motivo di tanta agitazione: Andrea, il capo dei teppisti, giaceva in mezzo a loro incosciente, pallido come un cencio, il respiro accelerato e l’espressione spezzata dalla sofferenza per un motivo che, agli occhi dei ragazzini, risultava incomprensibile, ma che, dalla parte del custode dell’undicesima casa, prima, e della giovane dea, dopo, era invece lampante.

Trasalì, trasalirono entrambi nello scorgere la mano del bulletto, quella che stava per affondare il coltellino svizzero nel corpo di Stevin, essere cosparsa di una sostanza bianca, cerea, che l’aveva resa un tutt’uno con l’arma medesima, quasi fosse…

Saponificazione? Oppure… oppure… NO, maledizione, che razza di reazione chimica ha avuto luogo?!

Si chiese con orrore Camus, mentre Francesca, cercando di mantenere una flemma che tuttavia le mancava, tentava di raccapezzarsi su quanto fosse successo.

“Cosa è accaduto?! Cosa GLI è accaduto?!” domandò uno del gruppo, terrorizzato.

“N-non lo so io… IO NON HO VISTO NIENTE!” esclamò l’altro, quasi febbricitante.

“Dobbiamo portarlo via, non sta bene!”

“No, no, no… come diavolo è possibile?! Un sortilegio, un..?!”

“La sua mano! Guardategli la mano!” fece notare di nuovo il primo, sempre più sconvolto.

“No, c’è qualcosa che non va qui, NON E’ NORMALE! P-portiamolo via!”

“Via! Via! Via!”

E, preda del panico, si volatilizzarono all’istante per chiedere aiuto, portandosi dietro il ragazzino incosciente con la mano penzoloni cosparsa di quella sostanza untuosa del tutto simile alla cera o al sapone.

Francesca realizzò, con una punta di estremo terrore, che molto probabilmente quell’arto, con tanto che il processo si era fermato alla base del polso senza intaccare l’avambraccio, non sarebbero riusciti a salvarglielo. Sarebbe quindi rimasto con il moncherino a vita e assolutamente non in grado di capire quanto effettivamente fosse successo. Si voltò quindi verso l’amica, un’espressione indicibile sul volto, a metà strada tra lo sconvolgimento interiore e il biasimo più atroce.

“Marta… che cosa hai fatto?!” le chiese in un sussurro, non trovandola tuttavia più vicino a sé. Una nuova ondata di paura la avvolse, si guardò intorno, scorgendola un poco più in là, china sul cadavere della paperotta come se nulla fosse successo.

Forse -pensò ancora, freneticamente- per lei davvero non era successo nulla. Che… che non si fosse resa conto del suo operato? Del resto, perfino lei, una dea, non si spiegava minimamente come ci fosse riuscita, come avesse potuto utilizzare in un battibaleno un potere tale da ridurre una mano umana in quello stato. Rabbrividì istantaneamente.

Che le sue amiche fossero speciali lo sapeva, che, proprio per questo, lei doveva controllarle anche, tuttavia… chi mai si sarebbe aspettata una roba simile?!

“Marta...” la provò ancora a chiamare, accennando un passo nella sua direzione, ma un altro urlo, stavolta dietro di lei, la fece sussultare.

“Nooooooooo, la p-paperotta… è m-mortaaaaaaaa!!!”

Ah, Michela, giusto!

Francesca si sbatté una mano in faccia nel ricordarsi che, per fermare Marta, era stata costretta a lasciare momentaneamente Michela, permettendole così di riaprire gli occhi che, fino a quel momento, lei aveva cercato di farle rimanere chiusi per risparmiarle un simile spettacolo.

“Buuuuuuuuuaaa!!! Sigh! Sigh! No, perché è morta? Perché???” gridò ancora più forte la più piccola, disperatamente, strillando come solo lei sapeva fare.

Francesca si massaggiò le tempie nel tentare di capire bene il modo migliore per agire. Guardò Stefano a poca distanza da lei, ancora bocconi a terra, con una mano sulla pancia e l’espressione stralunata, di chi aveva centro domande per la testa e non ne veniva a capo di mezza.

“Riesci ad aiutarmi con Marta e Michela, Stevin?” chiese la dea, implorante, cercando almeno il suo sostegno.

“I-io credo di sì, ma… cosa è successo a quell’Andrea?” chiese lui, alzandosi faticosamente in piedi continuando a guardarla.

“Non lo so, io…” si ammutolì lei, lugubre, limitandosi ad osservare l’amica, ancora intenta ad accarezzare le piume di quel corpicino martoriato.

“E’ stata… Marta, a farlo?” domandò Stefano, fremendo notevolmente, tanto che Francesca, a quel punto, si costrinse a mentire.

“Certo che no, come… come potrebbe?!” gli fece notare, con un sorriso forzato che tuttavia non lasciava trapelare nulla di buono. Tornò quindi sulla piccina.

Davvero Marta non si era resa conto di niente, l’espressione era tornata quella di una bambina di fronte al suo primo lutto e alla consapevolezza, nera, che nascere in quel mondo, vivere e respirare, gioire e rattristarsi, conduceva inevitabilmente, in un tempo indefinito, anche alla morte.

“Vado a recuperare quel gruppo. - decretò infine, riscoprendosi spaventata dagli ultimi avvenimenti – Quella pezza da piede di un Andrea, per quanto non se lo meriti, rischia veramente la vita, bisogna chiamare i soccorsi.”

“F-Fra...- gracchiò Stefano, impallidendo di netto – Che significa questo? Che cosa è..?”

“Non lo so. - rispose lei, al limite dell’autocontrollo che le si stava incrinando – Scusami, davvero non lo so.”

Stefano parve comprendere il sottaciuto, annuì, cupo: “Ho capito. Ci penso io, qui, tu vai!”

“Grazie, torno il prima possibile!” gli sorrise lei, ancora tesa, prima di seguire gli altri nella direzione che avevano preso.

Stefano andò quindi da Michela, le permise di salire sulla sua schiena lasciando che lei si arpionasse al suo collo, sebbene il contatto fisico non lo entusiasmasse affatto. Sospirò tetro, prima di tornare, con lo sguardo, sull’amica ancora a terra.

“Ora è tutto finito… è tutto finito! Non soffrirai più, vai, sei libera!” ripeteva intanto la piccola Marta, in un tono basso e sommesso, quasi la volesse accompagnare per l’ultimo viaggio.

Lacrimoni le rigavano le guance e ogni tanto un singhiozzo più forte degli altri trapelava qua e là, sconquassandole il petto.

“Marta, è.. è finita, non… non possiamo fare più nulla.” le disse Stefano, un po’ per rinfrancarla, un po’ perché voleva farle percepire la sua vicinanza.

“L-lo so. N-non doveva finire così, sigh!”

“Non è colpa nostra. Le cose brutte accadono...”

“Era una nostra responsabilità!”

“...”

Cadde il silenzio per una serie di secondi, nessuno dei due sembrava riuscire a esprimersi di più, al riguardo, mentre Michela, ancora con le guance rigate dal pianto, stava lentamente cedendo al sonno.

Di nuovo il vento soffiò più forte, una delle piume della germanotta si staccò dal corpicino straziato, prendendo a roteare leggiadro mentre la brezza la portava via. Marta la seguì con lo sguardo, il viso ancora umido, ma gli occhi ricolmi di una nuova, atroce, consapevolezza.

“Se tanto questa è la meta ultima del nostro viaggio… perché siamo venuti al mondo? - si chiese, incassando la testa tra le spalle – Per cosa… siamo nati?” biascicò ancora, prima di piegarsi su sé stessa e scoppiare nuovamente in lacrime.

E Camus… Camus poteva solo guardarla da distanza, mentre qualcosa vibrava e si dibatteva anche dentro di lui, rendendogli difficoltoso il respiro. Avrebbe voluto rassicurarla, avrebbe voluto avvicinarsi a lei e spiegarle, con pazienza, che quello era il ciclo della vita e che bisognava farsi forza e accettarlo ma, nei fatti, aveva i piedi inchiodati a terra, perché altrimenti, lo percepiva fin troppo chiaramente, essi sarebbero potuti scattare verso di lei per… colpirla!

Colpire la sua sorellina.

Una spiacevole sensazione di attanagliamento si accentuò nell’addome rigido e sempre più pulsante. Qualcosa scalciava, irriducibile. Era foga, rabbia, desiderio di distruggere… e convergeva sempre di più proprio verso di lei. Difficile, se non impossibile, tenerlo a freno.

La consapevolezza lo sconvolse: il profondo amore fraterno che nutriva per Marta gli rimarcava il senso di colpa per non esserci stato, il desiderio di proteggerla e il bisogno di stringerla a sé, sussurrandole che non era mai stata realmente sola in quel mondo crudele e meraviglioso al tempo stesso; l’istinto più abissale, invece, gli imponeva di ucciderla e annientarla prima che fosse troppo tardi per tutti. Un solo colpo diretto al suo petto. In quel preciso momento. Prima che lui fosse in grado di risvegliarsi completamente. Fine.

L’equilibrio sarebbe stato raggiunto solo con la morte della ragazzina.

Camus inorridì a quell’ultimo pensiero, recuperando finalmente il pieno impulso a contrastarla. Non avrebbe mai permesso a quella… cosa… di fare del male alla persona per lui più importante! MAI!

“Urgh!” si conficcò le unghie a sangue nel ventre per opporsi a quell’orrore. Il dolore fu tale che, dopo un ultimo sussulto, quel coacervo di umori molesti lentamente si acquietò.

Anche Camus tornò a respirare con più calma, il cuore ancora impazzito nel petto. Prese profonde boccate d’aria, le condusse verso il diaframma e ancora più giù, prima di riaprire gli occhi e guardarsi intorno.

Non vi erano più i bambini davanti a lui, si trovava nuovamente circondato dal buio più completo. L’istinto immondo di prima momentaneamente placato.

Abbassò il capo per poi alzarsi ulteriormente la maglietta e constatare i danni: cinque piccoli taglietti, dai quali uscivano rivoli di sangue, intorno all’ombelico. Solo quelli erano bastati per fermare quell’impulso violento che lo aveva atterrito così tanto. Cinque piccoli taglietti...

Che cosa sarebbe successo, tuttavia, se non fossero bastati?!

Per la prima volta nella sua vita, Camus realizzò, in un ulteriore fremito di paura, che quel Principio Primo dentro di lui, intessuto in lui dalla Notte dei Tempi poteva divergere interamente dal suo volere. Si sentì smarrito.

Pensavo di esserci arrivato io con le mie forze, qui, ma, quanto pare, non è così...

Razionalizzò in un sussurro, prima di farsi livido di rabbia nel ricordarsi di tutto ciò che aveva subito prima di perdere coscienza, nonché del nome della cosa custodita nel suo grembo contro la sua stessa volontà. Strinse i pugni con foga.

Cosa vuoi da mia sorella, TIAMAT?! Perché mi hai condotto qui?! Cosa volevi farle???

Non ci fu alcuna risposta, un nuovo ricordo stava prendendo forma proprio davanti a lui.

 

 

 

 

 

Angolo di MaikoxMilo

 

E finalmente, dopo tempo immemore, sono riuscita ad aggiornare il capitolo che, di per sé, non mi convince ancora al 100%. Non so se sono riuscita a rendere bene il crocevia dei ricordi, ed è la ragione per cui ho impiegato così tanto per la correzione.

Stavolta ho molto da spiegare, per cui mettetevi pure comodi. :)

Allora, intanto vi devo dire che sto procedendo all’ennesima correzione e ampliamento della “Guerra per il Dominio del Mondo” alla quale seguirà quella di “Sentimenti che Attraversano il Tempo” e, più lentamente, anche tutte le altre storie più recenti. Non sono più soddisfatta di come sono rese, so che posso fare di meglio e quindi sto restaurando quanto mi è possibile; a questo ci aggiungiamo che sto cercando di togliermi la “malattia dei puntini di sospensione” perché, come sapete, li inserisco a iosa. Il risultato? Allo stato attuale, visto che sto già correggendo la prima storia, mi piace molto di più della seconda e delle altre, che sono state scritte più recentemente, quindi è un po’ un dramma XD

Venendo invece al capitolo vero e proprio dei 5 Pilastri, necessito di darvi qualche spiegazione più approfondita su quanto sta succedendo, perché non so se sono riuscita a renderlo sufficientemente chiaro.

Tutto il capitolo, dall’inizio alla fine, vuole essere una presa d’atto e di consapevolezza da parte di Camus circa le reali possibilità del suo potere che, come sapete, è la Creazione e gli deriva direttamente da Tiamat.

Ora, il suo corpo è solo metà divino e la dea si è risvegliata solo recentemente (e già fa casini, vabbé) in maniera voluta, sì (il Mago stesso lo desiderava) ma accidentale perché Utopo ha agito di sua iniziativa. Ne consegue che, da questo momento in avanti, le cose cambieranno.

Camus ha il Potere della Creazione, d’accordo, ma come può attingerlo? Come funziona? E’ ciò che cercherò di spiegarvi in questi due capitoli.

Che il Cavaliere dell’Acquario potesse vedere la sorellina nei sogni (e viceversa) non è una novità, ma le dinamiche stesse dei sogni mutano.

Prima di tutto, come forse ricorderete, le visioni possono essere o in terza persona, con Camus (o Marta) presenti fisicamente ad osservare la scena come se fossero spettatori partecipi; o direttamente in prima persona, con Camus (o Marta) che reagiscono come se fossero un’unica essenza. In questo specchio le avete ambedue, come si può notare dai cambi di scrittura presenti soprattutto all’inizio del capitolo. Tuttavia, da questo punto in avanti (spero di averlo reso, ditemelo se così non fosse!) Camus comincia a capire che, dentro queste visioni, può fare ben di più che stare semplicemente ad assistere, può… effettivamente agire!

Ed è così che all’inizio lui stesso è Marta. Poi prende coscienza di sé, si ritrova sotto il Grande Tiglio con i due bambini e riesce perfino a toccare la piccola. Ciò lo strema, lo fa addormentare ed è di nuovo Marta. Poi ancora è di nuovo in sé, può muoversi fattivamente, però farlo richiede un notevole dispendio di energia e crolla ancora, trovandosi nuovamente di fronte al Mago. Qui è Milo (da fuori!) a salvarlo inconsapevolmente, a dargli le energie per lottare. Ancora. Di nuovo. Più di prima. Per le persone che ama. Recupera così il controllo e sembra finalmente padrone del suo potere, e tuttavia la parte finale lascia un nuovo, amaro, dubbio: è stato lui a volerlo, o Tiamat dentro di lui?

Ora, cosa sta accadendo al Camus ancora incosciente sul letto lo saprete meglio nel prossimo capitolo, concentriamoci su un altro fattore non meno importante: Marta.

Che cosa è serbato dentro di lei? Forse qualcuno di voi ha già una sua teoria…

Che cosa sono quegli occhi rossi? Cosa ha fatto, senza accorgersene, al bulletto di nome Andrea?

Ebbene, vi dicevo all’inizio che sono tornata a modificare la prima storia, ovviamente ho aggiunto dei particolari per rendere più completo e sensato il tutto. Nella nuova versione, non è la prima volta che i suoi occhi si colorano di rosso, è già successo, specificatamente proprio nel capitolo 9 della Guerra per il Dominio del Mondo, quando Camus, per proteggerla, rimane ferito gravemente, e anche un po’ prima “dell’incidente”, quando litigano brutalmente (è questa la ragione del “come quella volta...” di Camus, perché, appunto, gli è già parso di scorgere dello scarlatto nelle sue iridi ma si è auto-convinto fosse frutto di un abbaglio).

Allo stesso modo in cui questo capitolo (e il prossimo) sarà la presa d’atto di Camus circa l’utilizzo dei suoi reali poteri, sarà anche, per Marta, specchio del cammino che ha avuto dall’innocenza e spensieratezza dei primi anni di vita alla consapevolezza che l’esistenza è, di per sé, anche sofferenza e condanna: nascere porta inevitabilmente alla morte; la creazione reca sempre in sé il gene della distruzione...

Capite bene che non sono argomenti facili da rendere. Sono domande che ci poniamo, almeno una volta nella vita, tutti noi, proprio per questo, descriverli, non è affatto semplice.

Ovviamente il quadro di Camus sui ricordi della sorellina è molto più ampio di così -vi rammento che lui aveva già visto Stevin nella one shot “Epilogo della fine e dell’inizio”- qui ho semplicemente voluto fare una cernita di ricordi essenzialmente legati ad un criterio temporale (si parte dal più remoto verso quello più recente, così anche nel prossimo capitolo), ovviamente ne metterò altri anche più avanti, nonché in altre storie, perché ci tengo particolarmente a delineare il vissuto di tutti i miei personaggi.

Boof, forse, e dico forse, ho finito, dovrei avervi detto tutto ciò che volevo dirvi e aver posto l’attenzione sui fatti salienti, ma per le domande, le curiosità e i dubbi sono sempre a vostra disposizione completa, anzi, non sia mai che qualcosa mi è sfuggito e, proprio grazie a voi, ne vengo a capo.

Come sempre ringrazio chi segue, chiedendo scusa per la lentezza con cui ultimamente aggiorno, spero che questo periodo infausto migliorerà.

Alla prossima! :)

 

Ritorna all'indice


Capitolo 9
*** Ricordi intrecciati (seconda parte) ***


Capitolo 9: Ricordi intrecciati (seconda parte)

 

 

 

C’era un progetto? Un palpito indicibile,

una scintilla, un istante assoluto.

Non una forma, una coscienza, un nome.

Puro slancio e mistero gaudioso.


Potrò io, viva, mai violarlo il fitto

segreto del formarsi dei miei occhi?

 

(Maria Luisa Spaziani)

 

 

 

 

Settembre 2003

 

 

Marta osservava le orbite svuotate davanti a lei, le labbra assottigliate in un unico segmento che tratteneva il pianto e il biasimo per sé stessa.

Non c’era riuscita.

Non c’era riuscita, nonostante nei giorni precedenti avesse percepito distintamente il bosco pulsare. Vi era stato nell’aria il fermento di una vita in procinto di spezzarsi. Aveva giurato a sé stessa di impedirlo, ora che era diventata capace di discernere, catalogare e capire la provenienza di ogni singolo respiro dal particolare suono che produceva.

Ma non c’era riuscita.

Né lei né Stevin ci erano riusciti, pur con la promessa reciproca di tentare tutto il possibile.

Niente da fare.

Lo avevano localizzato troppo tardi.

Era morto prima del loro arrivo.

Marta sospirò, accucciandosi davanti a lui. Le orbite vuote la fissavano cave, parevano risucchiarla quasi che la volessero inglobare e condurre con loro.

Vi era una leggenda sugli occhi, gliela aveva raccontata sua nonna per indorarle la pillola. Secondo tale favoleggiamento, gli occhi erano i primi a ‘sparire’ dopo la morte perché la luce che essi emanavano serviva al defunto per trovare la strada corretta nell’aldilà. E così, secondo quella storia, il giovane capriolo morto da pochi giorni stava già danzando, come era solito fare anche in vita, nei campi verdi del Paradiso, lontano dal dolore e dalla paura.

Tutte frottole!

Marta sapeva che aveva sofferto prima di passare oltre. Lo aveva sentito. Dentro. Intensamente. E non era comunque riuscita ad impedirlo.

Il giovane ‘folletto dei boschi’, come veniva simpaticamente chiamato dai valligiani, era capitombolato giù da una scarpata nel tentativo di sfuggire da un predatore che non lo aveva avuto. La caduta, però, gli aveva rotto una zampa, la posteriore destra, e lui non era più riuscito ad alzarsi. Nel tempo impiegato per rintracciarlo aveva sperato, implorato, pregato e, infine, era spirato per sfinimento. Marta e Stevin erano riusciti a raggiunsero solo poco dopo.

Non c’era più niente da fare, lo avevano capito entrambi ma, mentre il ragazzino se ne era fatto una ragione, la piccola si era presa l’impegno di recarsi lì ogni giorno ad assisterlo.

E recarsi lì ogni giorno ad assisterlo equivaleva a vederselo decomporre piano piano.

Il processo era cominciato dagli occhi, che già poche ore dopo il decesso erano stati svuotati sapientemente da alcuni insetti -la natura non sprecava mai niente!- poi era toccato ad alcuni ciuffi di pelo, probabilmente qualche uccello li aveva arraffati per costruirsi qualche riparo per l’autunno incombente, poi ancora erano arrivati i predatori che avevano cominciato a nutrirsi della carcassa partendo dai visceri i cui brandelli stavano ancora sparpagliati al suolo. Nel frattempo il corpo, quel che ne rimaneva, aveva cominciato a gonfiarsi.

Quale sarebbe stato il passaggio dopo?

Marta arricciò il naso, l’odore era nauseabondo, lo spettacolo terribile. Poteva stare ore a fissare immobile le orbite vuote dell’animale o a osservare l’addome divelto che sembrava quasi muoversi da solo, a rammentare, molto alla lontana, il respiro che lo aveva riempito.

Marta… non dovresti essere qui, ti fa male tutto questo!

Le disse Camus nell’aria, ben sapendo che, pur controllando a fatica i ricordi cui assistere, la piccola non riusciva più a udirlo, come invece era stato dopo lo scontro contro i bulli. Ci aveva già provato più volte in quei giorni di morte, senza successo. Eppure il bisogno di parlarle era più forte di ogni cosa, intenso come i battiti nuovamente frenetici del suo cuore.

Le accarezzò istintivamente la testolina, dita di piuma che si muovevano tra i ciuffi, in mezzo a quelle codine che la rendevano ancor più graziosa ai suoi occhi.

Sentiva e viveva ciò che era in lei, ed era doloroso.

Perché sei ancora qui? Lo hai già accompagnato oltre, piccola, perché persisti? Perché non vai a giocare con Stevin, o Michela o Francesca? Ti distrugge rimanere qui.

“Quale è il senso?” si chiese ad un certo punto Marta, gli occhi nuovamente gonfi di pianto, sollevando un poco il volto in direzione degli alberi più distanti, ormai completamente ingialliti dal seccume.

Il senso… deve per forza esserci?

“Non… non lo so. - in quei giorni di veglia capitava tuttavia che Marta, ogni tanto, sembrasse rispondere alla sua voce, ma erano stati episodi fortuiti che Camus aveva relegato ben presto alla sua buffa abitudine di parlare da sola – Siamo qui, veniamo in questo mondo caldo e accogliente per morire senza nemmeno sceglierlo.”

“Non ci trovo… il senso!” ripeté ancora lei, gli occhi spenti, il muso lungo.

Camus avrebbe voluto abbracciarla, dirle che non era così, che lei era speciale, perché aveva scelto di rinascere, sacrificando il suo bene più prezioso, ma anche se fosse nata per caso, tra le miliardi di possibilità di NON venire al mondo, ciò non escludeva di certo il meraviglioso dono dell’esistenza. Più importante ancora, sarebbe stata proprio lei, in un futuro prossimo, a raccontarlo a lui, in stato comatoso per le ferite riportate al torace, e a spingerlo a reagire proprio in virtù di quella grande forza che era la vita. Perché anche Camus l’aveva sempre amata, dentro di sé, la vita, solo che era stata la sorellina a ricordarglielo, a rammentargli che sotto la neve più fredda si cela il più bel bocciolo in attesa di nascere.

“Non sarei dovuta nascere.”

No, non puoi dire una cosa simile!

“Non ha senso, non ha alcun… sigh!” singhiozzò, nascondendosi la testa tra le manine.

Marta, ascoltata! Ascolta la vita! Non è tutto così angosciante, non è tutto nero, vi è… è anche dell’altro!

“Se avessi saputo che nascere comportava anche il morire, forse… forse avrei preferito non venire neanche al mond...”

Marta!

“Marta...”

Una voce la riscosse, li riscosse. Entrambi si voltarono in quell’esatto momento.

Ma-mamma…

“Mami...” la chiamò semplicemente Marta, ancora accucciata a terra, asciugandosi velocemente gli occhi prima di nascondere il visino in modo che il genitore non lo vedesse così arrossato. Camus invece era rimasto semplicemente abbagliato, il cuore aveva dato una fitta, mentre gli occhi si erano fatti subito lucidi.

Era bella come la ricordava in gioventù, come quando, da bambino, al dolce richiamo del suo nome, apriva esaustivamente la boccuccia e la fissava emozionato, unica capace di prenderlo -rigorosamente da sotto le ascelle!- sollevarlo e tenerlo in braccio senza farlo dimenare al limite di una crisi convulsiva. Rispetto a quando l’aveva rivista insieme a Marta, a luglio di quello stesso anno, aveva meno rughe, le guance più rosate, e l’espressione un poco più distesa, forse non ancora del tutto oppressa dalle perdite della vita. Ma era sempre lei, delicata nei modi, il volto giovanile, il portamento elegante e, non in ultimo, quei capelli un poco ribelli, del tutto rassomiglianti ad un cespuglietto, che Camus aveva ereditato come carattere distintivo.

“Che succede, gabbianella?”

“Niente.” bofonchiò Marta, tirando su col naso.

“Ma stai piangendo...”

“NO! Si oppose la piccola, balzando in piedi per frullarsi maldestramente gli occhi e far vedere che non era così – Io NON piango!”

La mamma non disse niente, si limitò a osservare attraverso Camus, invisibile ai suoi occhi umani, la carcassa scomposta a terra. Trasse un profondo respiro, prima di avvicinarsi alla piccolina.

“E’ per il daino che piang...”

“E’ un capriolo. - la corresse Marta, prima di dare ancora un’occhiata all’animale e tornare su di lei, gli occhi nuovamente ricolmi di pianto – Era.”

“Oh, pulce...” si avvicinò ancora di più alla figlia, ma non la toccò, Sapeva che non era il momento.

Marta ingoiò a vuoto. Non era contenta di essere stata colta in flagrante mentre piagnucolava, ma ormai era tardi. Si morse le labbra per smettere.

“Mami, come sapevi che..?”

“Stevin, tesoro, è molto preoccupato per te.”

“S-Ste? D-dove?”

In quel momento lo sguardo della bambina fu attirato da un movimento furtivo dietro un tronco d’albero. Focalizzando quel gesto, gli occhi di Marta si incrociarono con quelli estremamente imbarazzati dell’amico. Lo guardò. Si guardarono. E Stefano, vinto dall’occhiata severa dell’amica, ghermito su tutti i fronti, si nascose ancora di più.

“Ho capito. Ti ha portato lui qui.” disse freddamente Marta, sbuffando.

“Sì.”

“Non doveva farlo, era un segreto mio e suo.” soffiò ancora lei, sentendosi un po’ tradita.

“L’ha fatto perché è un ottimo amico. Si è preoccupato per te e ha agito di conseguenza, dovresti essergli grata, Marta!” la rimproverò la madre, senza mezzi termini, in tono garbato, ma sufficientemente secco.

“E cosa ti ha detto?”

“Che in questi giorni vieni sempre qui, che da quest’estate sei irriconoscibile e me l’hanno confermato anche i nonni.” spiegò lei, rispettando la distanza personale che voleva mantenere la figlia.

“...”

E tuttavia sapeva di doverla raggiungere in qualche modo, perché era turbata e molto scossa.

“Tesoro… - la chiamò, fievole, in tono calmo ma presente, voltandosi interamente verso la figlia, pur senza toccarla – Che cosa è successo?”

“Il capriolo… non siamo riusciti a salvarlo.”

“Come potevi riuscirci?”

“L’ho sentito.”

“Lo hai..?”

“Ho sentito la sua voce, il suo richiamo, la sua richiesta di aiuto. Non abbastanza però per salvarlo.”

La mamma si prese un momento per calibrare quanto sostenuto dalla piccola. Si portò la mano destra alla tempia, negli occhi un barbaglio di paura che Camus, che riusciva bene a guardarla in volto, tradusse, con sconforto, nella paura, improvvisamente accesa, di perdere anche la seconda figlia così come era stato per il maggiore.

“D-d’accordo, l-lo sentivi, ma comunque non avresti potuto...” tentò ancora lei, un poco tremante, cercando comunque di farsi forza.

“A che serve sentirlo, se non posso aiutarlo?” chiese di riflesso la piccola, gli occhi lucidi di pianto.

“Oh, tesoro, non sempre la nostra intuizione, il nostro capire gli altri può… può portare ad una risoluzione favorevole.”

“Ma è successo anche quest’estate, e adesso di nuovo. I-io… io...”

“Aspetta, cosa è successo quest’estate?”

Marta tacque per una serie di secondi, serrò le labbra, prima di farsi forza e raccontare della sventurata germana, dei bulli e dei piccoli finiti nel becco dell’airone.

“Dunque per questo che sei così. Il nonno dice che non fai che parlare di morte, sei diventata cupa, scontrosa, a volte apatica e… tu non sei così, piccola, sei il mio fiorellino, ricordi? La mia precoce primavera.”

“Quel fiore… è ormai appassito sotto il ghiaccio.” disse solo Marta, sofferente, stringendosi barbaramente le manine – Mami, prima non capivo, ora… vorrei non aver mai capito!” biascicò ancora, prima di tirare nuovamente su col naso e passarsi velocemente la manina sotto di esso.

“Cosa hai capito, mia gabbianella?”

“L-la morte, l’ho… l’ho vista. - sussurrò lei, facendo poi un cenno in direzione dei poveri resti del capriolo – Non posso più tornare indietro.”

Antoinette non sapeva cosa dire, fissava la piccolina con compatimento, gli occhi lucidi a sua volta nel vederla così disperata. Prese un respiro profondo, sforzandosi di mantenere il controllo.

“Vieni con me, allontaniamoci di un poco.”

“Però...”

“Non puoi fare nulla, ormai, è in pace adesso, non soffre più.”

Marta abbassò lo sguardo, le diede la mano e si lasciò guidare da lei, gli occhioni lucidi e i singhiozzi arpionati al suo petto che vibrava dal dolore. A Camus gli si strinse il cuore.

Mamma, aiutala tu che puoi! -la supplicò lui, pur sapendo di non poter essere udito- Non farle credere questo, non farle pensare che tutto si riduca alla morte! Non è così!

Le due si sedettero vicino ad un albero, prima di riprendere il discorso. Stevin, non volendo intromettersi più di quanto avesse già fatto, dopo aver avuto conferma che l’amica fosse in mani sicure, si permise di allontanarsi un po’ da quella zona di morte che lo prosciugava.

“Bimba mia...”

“Mamma… - la interruppe Marta, gli occhioni grandi di chi ancora voleva appigliarsi alla più fievole delle speranze – Quale è il senso della vita? Per cosa nasciamo, se poi dobbiamo morire?”

Domande vecchie di millenni, da quando l’uomo aveva memoria; ancora difficile, se non impossibile, trovare risposta.

“Marta… - la chiamò Antoinette, prima di avvicinarsi a lei e, dolcemente, portarla contro di sé, sul suo grembo – Tu sai chi ti ha portata qui?” le domandò teneramente, e Camus giurò, per un solo meraviglioso secondo, di vedere sé stesso al posto della piccola, con la loro madre che, non dissimile da come stava facendo con lei, lo portava a posare l’orecchio sulla sua pancia più sporgente del solito, chiedendogli, con quegli occhi luminosi e gli zigomi alzati, se riuscisse già a sentire la sorellina.

“I-io…” Marta sembrava titubante nel rispondere, trattenne un ansito, mentre le circondava a sua volta i fianchi con le braccine e respirava profondamente il suo odore per acquietarsi.

“Sì?”

“Pensavo alla cicogna, ma non ci credo più. Ora ho capito che quando due esseri si uniscono e… si amano tanto… - la bimba, dopo i fatti della germana, non era più tanto sicura che bastasse quello, l’amore, per creare una nuova vita, ma l’alternativa era troppo dolorosa per lei, soprattutto dopo quell’esperienza – La loro forza è tale che nasce qualcosa di nuovo.”

Antoinette ridacchiò tra sé e sé, permettendosi di stringerla più intensamente in grembo per poi darle un bacio dietro la nuca.

“Ci chiediamo sempre, perché è nella nostra natura, dove andiamo, ma mai, o raramente, da dove veniamo.”

Il visetto di Marta si illuminò un poco, effettivamente non ci aveva ancora pensato a quello. Il suo cuoricino si sentì un poco sollevato, a Camus capitò lo stesso, mentre il calore della madre si irraggiava anche in lui, riportandolo finalmente a casa.

“Quindi io… da dove vengo e dove sono diretta?” corresse la domanda la piccola, allungando il collo verso di lei per richiedere carezze che le vennero concesse subito.

“Pensa, eri su una stellina, prima, ti siamo venuti a prendere e...”

“Ti… siamo?!” ripeté stralunata la bimba, cogliendo la sfumatura.

Antoinette ebbe un solo secondo di esitazione, le sue labbra si piegarono in maniera incomprensibile per la piccina, prima di distendersi in un sorriso: “Io e i nonni, sì.”

“Oh.” Marta sembrava corrucciata e un poco delusa, quindi neanche in quella circostanza il papà si era scomodato per lei. Finse di non esserci rimasta male.

“Ti siamo venuti a prendere su questa stellina. Per portarti meglio sulla Terra ti ho messa in pancia, ecco, proprio qui.” le disse, spostandole di un poco la testolina per indicarle il punto esatto.

“Da-davvero?!” esclamò Marta, esterrefatta, cercando conferma.

“Sì, e hai cominciato a crescere, crescere… ti sei fatta grossa, di giorno in giorno, finché… hai voluto vedere la luce del sole con i tuoi occhi e sei uscita.”

“Da dove?!” la bimba sembrava aver riacquistato il buonumore, si era messa a guardarla in lungo e in largo.

“Ehm, questo è un po’ complicato da dire… - si vergognò un poco Antoinette, arrossendo – Però, quel che conta, la sola, è che tu sappia che sei partita da un niente e sei diventata… tutto!”

“E… come ho fatto?”

“Perché sei un miracolo, piccola mia.”

“Un miracolo.” ripeté lei, un poco scettica, inarcando un sopracciglio.

“Sì, il mio miracolo. - confermò la mamma, addolcendo ulteriormente l’espressione – Non importa cosa mi riserverà il futuro, una parte di me rimane in te e, a sua volta, quella parte, si perpetuerà nelle generazioni che verranno.”

“Oh...”

Inaspettatamente, dopo una parziale ripresa, il volto della piccola si inscurì, forse più di prima. Di nuovo quella fitta al petto. Di nuovo la consapevolezza che la vita si limitava a quello, cioè a moltiplicarsi e riprodurre altra vita. Era annichilente.

Il viso rosato della bambina si diresse nuovamente verso il capriolo straziato. Allontanandosi da lì, avevano permesso a due cornacchie, una visibilmente più piccola dell’altra, di atterrare nelle vicinanze. Ogni tanto dirigevano i loro becchi scuri e la loro testa quasi calva verso di loro. All’aumentare della consapevolezza che non sarebbero intervenute, corrispondeva un saltello e un gracchiare, mentre le penne fulgide brillavano alla luce del sole. Marta fu sicura di trattarsi di un adulto e un giovane, perché una delle due era ancora spiumata in alcuni punti. Probabilmente -realizzò con una punta di rassegnazione- come sua madre le aveva insegnato a maneggiare il cucchiaio per nutrirsi, anche quel genitore stava facendo lo stesso con la propria prole. Sospirò.

Una mano sinuosa le si posò sulla testa, carezzandola lieve. Era sempre stata salvifica, ma in quel momento il malessere era troppo atroce, così come le sue domande prive di una risposta che la soddisfacesse.

“Me l’ha detto anche Francesca una cosa simile.” borbottò la bambina, mettendo sul broncio.

“Che cosa, piccola mia?”

“Che la vita della germanotta morta quest’estate aveva avuto un senso, perché in qualche modo sarebbe rivissuta nei figli.”

“E’ vero, perché lo dici con quell’espressione sul viso e una lacrima sulla ciglia?” le chiese la mamma, asciugandole, lieve, lo zigomo.

Marta si passò con stizza le mani su entrambi gli occhi, schiacciandoli con forza quasi se li volesse cavare. Odiava piangere! Odiava dimostrarsi debole!

Testolina, fermati! Così ti fai male!

Ebbe l’impulso di esclamare Camus, allarmato nel vedere quanta forza ci mettesse nel scacciare via il pianto. Fortunatamente ci pensò la madre a trattenerla.

“Oh, non così Marta! Così ti fai male tu!” la abbracciò di riflesso, capendo che stava per avere una crisi forte, di quelle che sarebbero potute sfociate in una eruzione.

Non le era più accaduto da anni, precisamente da quando aveva conosciuto Stevin, ma probabilmente i fatti legati alla morte della germana l’avevano minata in profondità. Strinse con foga la mascella, sentendosi in colpa per non esserci stata e aver permesso che accadesse tutto quello.

La devozione autentica che aveva per il suo lavoro, e che sentiva profondamente nel cuore, faceva comunque sì di dover lasciare molto spesso Marta da sola. Il fatto che la piccolina non glielo facesse pesare in alcun modo, non voleva dire che ciò non provocava in lei sofferenza.

Finalmente la bambina si calmò, quasi arpionandosi a lei.

“Mamma, è davvero tutto qui?”

“Che cosa, scricciola?”

“Il significato della vita è generare altra vita e basta?”

“N-no, non solo, ma vedi...”

Che cosa?

Antoinette non sapeva come rispondere, deglutì a vuoto, tenendo a sé la piccola. La domanda, ancora una volta rimase aperta.

Quale era il significato autentico dell’esistenza?

“E’ produrre altra vita a scapito del singolo?” continuò la bambina, ormai partita per la sua strada. Singhiozzò controvoglia.

Allora niente aveva semplicemente senso!

“Marta...”

“A-abbracciami, ti prego! - la supplicò, disperata, tirando su col naso – Dimmi che non accadrà a me, a noi, che non moriremo, che qualcosa di oltre c’è, che non si riduce tutto al solo moltiplicarsi…”

Questo non te lo può dire, Marta…

“Questo non te lo posso dire, piccola...” languì Antoinette, sinceramente mortificata.

Marta vibrò più forte, fino ad assestarsi. Una pallida calma la invase, mentre gli occhi le si fecero nuovamente vuoti. Buttò un altro occhio sulle due cornacchie appena arrivate, madre e figlio, sul banchetto che forniva loro il capriolo.

Dunque era davvero così…

“Fa’ lo stesso, basta… basta che mi prometti che rimarrai con me, il più a lungo possibile, per tanto, tantissimo tempo!”

“Oh, Marta, io vorrei tanto promettertelo, ma...”

La guardò negli occhi sin troppo liquidi, lucidi come il riverbero della luna in un laghetto.

“Te lo prometto, Marta, staremo insieme ancora per tantissimo tempo, ti vedrò crescere, assisterò ai tuoi successi e ai fallimenti; quando avrai paura di non farcela e quando invece ti sentirai pronta per spaccare il mondo. Lo giuro!”

Marta sorrise, un poco rassicurata, chiuse gli occhietti e si abbandonò al suo petto: “Gra-grazie, Mami, ti voglio tanto bene!” disse, prima di cedere alla stanchezza e respirare con più calma. Il sonno riusciva a regolare maggiormente il suo battito.

Antoinette rimase lì, la trattenne contro di sé, spostandole dolcemente alcuni ciuffi dalla fronte su cui poi posò un leggerissimo bacio nel continuare a cullarla.

Anche Camus aveva gli occhi lucidi di pianto. Era stanco già da prima, ma vedere concretamente la sorellina soffrire così, sentire emozionalmente l’universo di dolore che si portava dietro senza lasciarlo interamente trapelare fuori, perché le sue manifestazioni non erano altro che spifferi che poco mostravano del suo reale dolore e della angoscia che stava provando per il futuro, lo straziava ancora di più. Si mise istintivamente a gattoni vicino a loro, alla ricerca di un tocco che non poteva ricevere. Il respiro un poco dispnoico gli gonfiava a e sgonfiava il petto sempre più irrequieto. Si adagiò su un fianco e chiuse gli occhi, così vicino alla madre e alla sorellina ancora tenuta in braccio.

Si sentì tornare piccolo piccolo. Nuovamente cinquenne. Nuovamente sé stesso. Non più Aquarius ma solo Camus; Camus figlio di Antoinette e fratello maggiore di Marta.

Perdonatemi… avrei dovuto esserci, con voi, per voi, aiutarvi, non farvi provare questa colossale tristezza che vi attanaglia… mi dispiace tanto!

Biascicò tra sé e sé, sempre più provato, rannicchiandosi ulteriormente nell’istinto di diminuire le distanze. Il respiro, a quell’ultimo movimento, gli si mozzò in petto. Stava sopraggiungendo un’altra crisi? Camus avvertiva l’addome scalpitare nuovamente con forza, contraendosi senza che la volontà ne prendesse parte. Tentò di alzare un braccio ma non ne era più in grado, le forze gli mancavano. Ansimò con forza, strizzando le palpebre nell’imporsi di reagire e non soccombere. Tutto inutile! Percepiva la maglia un poco sollevata sul ventre che si contraeva di sua spontanea volontà senza poterlo minimamente controllare. Il vento gli carezzava comunque la pelle… non era più piacevole come all’inizio, però, non dopo che il Mago era apparso per rivendicare per l’ennesima volta il possesso sul suo corpo, non dopo che le sue dita gli avevano ghermito i fianchi. Camus, a quella consapevolezza, spalancò gli occhi dalla paura; nello stesso momento Marta, nel sonno, produsse una sorta di vagito strozzato, pregno di sofferenza. Della sua sofferenza.

No, doveva calmarsi in qualche modo, DOVEVA, per lei, altrimenti...

Alla paura, al vento che gli lambiva la parte più vulnerabile del suo essere, si sostituì un tocco, una carezza delicata tra l’ombelico e l’osso del fianco. Il cuore gli batté più forte. Era… incredibilmente caldo e confortevole!

“Sigh...”

Camus, a seguito di quel singhiozzo, ebbe abbastanza forze per girare almeno la testa in modo da tornare a vedere la madre e la piccola, ora nuovamente serena; contrariamente alla loro mere che lasciava scorrere le lacrime sul viso ancora giovane.

Non devi... pian-gere, mamma, anf!

Le disse a fatica, mentre lei continuava inconsciamente a carezzargli l’addome all’altezza del fianco credendo di star lambendo probabilmente i fili d’erba che, strenui, nonostante il calore dell’estate, resistevano indomiti. Non poteva sapere che lui era davvero lì con loro, non poteva sapere che il figlio maggiore poteva ascoltare le loro voci, sentire le loro emozioni e provarle sulla stessa pelle, e, forse, era meglio così.

Camus sorrise quasi commosso. Non poteva ancora muoversi ma era come essere coccolato quando era piccolo e, per via di qualche incubo, non riusciva a dormire. Si ricordò di come lei fosse l’unica, oltre che a poterlo prendere in braccio a quel modo, anche di stuzzicargli e solleticargli il pancino in modo confidente senza che lui si sentisse male e avesse la sensazione di essere violato. Istintivamente sorrise a quel pensiero.

Vi voglio bene… non potete immaginare quanto!

“Figlio mio...”

Camus sussultò a quelle parole, sbattendo più volte le palpebre. No, doveva essersi sbagliato, la loro mamma doveva aver detto il femminile, anziché il maschile, ma le sue orecchie, per qualche ragione, dovevano aver frainteso, dovevano…

“Non immagini quanto sia difficile farla crescere senza di te. Marta si sta sviluppando sana e forte, ogni tanto traballa, cade, ma si rialza… si è sempre rialzata fino ad adesso. Solo che… avrebbe avuto tanto bisogno di averti al suo fianco!” sospirò ancora, stringendo ulteriormente la piccola a sé per posarle il mento tra i capelli che, al sole del tramonto, risplendevano di bagliori quasi cremisi.

Mi riesci… a percepire?!

Ma non ottenne risposta, le carezze sul suo addome terminarono. La mano portatrice di quel benessere si era mossa a sorreggere meglio la piccola, ormai profondamente addormentata. Antoinette chiuse di riflesso gli occhi, mentre le lacrime si esaurivano sulle sue gote.

“Mi manchi così tanto, tesoro mio...”

Mamma...

Antoinette sgranò improvvisamente gli occhi. Aveva udito qualcosa; qualcuno aveva sussurrato vicino a lei. Si guardò intorno ma non c’era nessuno, oltre a lei e la piccina, doveva quindi essersi trattato di una impressione. Buttò fuori aria nel sentirsi più sola che mai.

“Che sciocca che sono stata! Non può… non può essere qui!”

Sì che lo sono, sono qui! SONO QUI, vicino a te e Marta!

Si sforzava di dare forma alla sua voce, che tuttavia non usciva più. Provò anche ad alzarsi ma gli scappò un gemito, uno strappo alla regione ombelicale gli spezzò il respiro. Chiuse gli occhi, furioso, tastandosi la zona con la mano, costringendo le dita a delineare maggiormente la fossetta ora più bollente che mai, ustionante, quasi.

Era così frustrante riuscire a comunicare solo a sprazzi, vederle ma non essere in grado di farsi sentire, provare su di sé le carezze, senza che quel gesto fosse realmente voluto. Perché loro non sapevano che era DAVVERO lì con loro, e avrebbero dovuto continuare a non saperlo.

Trattenne uno spasmo, mentre si copriva il ventre scalpitante con le mani senza riuscire a porlo sotto il suo completo controllo.

Era tutto così intollerabile!

Siete mancate anche a me… tan-to!

Pensò intensamente, mentre quello che era un abbozzo di lacrime gli lambiva le palpebre per poi trapelare fuori dalle ciglia.

 

 

* * *

 

 

Luglio 2004

 

 

La faccenda della sfortunatissima germana sembrava essere stata dolorosamente accantonata, come piaga cauterizzata che, sì, ogni tanto spurgava ancora un po’, pizzicando dal dolore, ma era nettamente più gestibile.

La piccola, passata attraverso i 9 anni per buttarsi nei primi a due cifre, pareva essere tornata quella di sempre, forse un poco più barcollante e claudicante, ma con quella voglia di vivere ardente che le illuminava gli occhietti sempre più vispi e vivaci.

L’estate in corso sembrava essere nettamente più indulgente rispetto a quella dell’anno passato, il 2003, in cui, pure nella fresca Vabrevenna sempre gremita di rii e ruscelli vari, si era arrivati al razionamento idrico coatto già in luglio, rendendo così ulteriormente difficoltose le esplorazioni di Marta e Stevin. Quell’annata fortunatamente no, il meteo aveva regalato ampi episodi di refrigerio, con precipitazioni moderate ma costanti e clima tiepido. La vita pareva quindi scorrere placida senza intoppi, tra nuovi giochi, avventure e scoperte sensazionali.

Quell’anno, poi, vi era stata una novità importante nell’andirivieni generale tra i paesi di Cerviasca e Carsi, almeno dal punto di vista dei due bambini che vivevano la valle con tutti loro stessi: ad un nutrito gruppo di cinciallegre che avevano predominato le nidificazioni fino a quel momento, era susseguito un aumento quasi esponenziale di codirossi che, un poco più schivi dei lontanissimi cugini, avevano preso a loro volta a costruire il nido non lontano dalla casa dei nonni di Marta, magari anche loro dentro una qualche cassetta della posta ormai in disuso.

Alla piccola piacevano tanto le cinciallegre, così rotondette e dal buffo petto giallo, ma aveva letto su un libro che, dietro il loro aspetto, sapevano essere aggressive e brutali soprattutto per questioni territoriali. Per quel motivo, fino a quel momento, avevano spadroneggiato nei dintorni, accaparrandosi le risorse perché assai più sveglie e adattabili di altri passeriformi. Tuttavia qualcosa doveva essere successo anche loro, forse un ciclo, forse un improvviso decremento di numero… quell’anno erano diminuite di parecchio, permettendo così la piena riproduzione anche di altre specie.

I codirossi erano tra questi. Marta e Stevin non li avevano mai visti prima di allora, ne erano rimasti sinceramente stupiti quando, un giorno di giugno, avevano intravisto uno di questi uccellini svolazzare di palo in palo sulla staccionata che dava sugli orti di Carsi. La prima cosa a saltare ai loro occhi era stato il colore aranciato del loro petto, tanto da farli scambiare, in un primo momento, per dei pettirossi ritardatari, visto che la maggioranza di loro nidificava ben altrove; solo in un secondo tempo si erano accorti che doveva trattarsi di altro.

Si erano quindi messi di buzzo buono a fare ricerche e li avevano trovati quasi subito, scoprendo altresì un’altra particolarità: il dimorfismo sessuale. A quanto pareva, infatti, la femmina era più grigetta e meno rossa, il maschio invece spiccava. Da lì allora avevano preso a dargli ‘la caccia’, ovvero osservarli, non visti, nel loro habitat naturale, contando gli esemplari presenti in loco. Ne erano usciti una decina, comprensivi di coppie già formate che, senza indugio, già da maggio, avevano preso a costruire nidi e sfornare uova per un totale di sei o cinque a nidiata per famiglia. A quella cova, poi, a luglio, se ne era aggiunta un’altra, un poco meno numerosa ma ugualmente nutrita. Solo che… qualcosa era andato storto!

Carsi, rispetto a Cerviasca, era di gran lunga più popolata, perfino in inverno, e infatti era stata la prima località capoluogo dalla formazione del Comune di Valbrevenna. Per quanto avesse sofferto a sua volta l’abbandono della seconda metà del Novecento, non era mai stata lasciata al suo destino infausto. Alcuni vecchi ostinati, profondamente legati alle loro radici, avevano mantenuto il paese, riparando le strade e i sentieri, mantenendo gli orti, dragando i fossi, finché… qualcuno, tra la fine degli anni ‘80 e l’inizio degli anni ‘90 era infine tornato, recuperando un po’ di quel sapere della vecchia generazioni per continuare a far rivivere la cultura del luogo. Purtroppo ciò si era tradotto anche in un aumento del numero degli esemplari di gatti domestici, ma liberi, in circolazione.

E i gatti, per quanto teneri, meravigliosi e affascinanti, spesso e volentieri cacciavano per puro divertimento, predando proprio gli uccellini più deboli.

Se ne era nitidamente resa conto Marta un giorno che, passeggiando insieme con l’amico Stefano nei pressi dei campi coltivati intorno al paese, aveva avvertito un’improvvisa irrequietezza nell’aria. Subito si era messa in allarme, prendendo a correre per poi svoltare a fianco dell’orto del Signor Garbarino, amico dei suoi nonni, e individuare così un gatto rosso del tutto preso a tirare le zampate ad un piccolo codirosso parzialmente implume. Il piccino stava urlando disperato, il becco aperto, gli occhi ancora semi-chiusi, a sbattere forsennatamente le alette per provare a difendersi. Ma era del tutto impossibile.

La bambina amava i gatti allo stesso modo degli uccellini, ma a vedere quella scena, qualcosa si era istantaneamente incrinato in lei, spingendola ad agire. Non era sua intenzione, però, fare male al micetto, pertanto, limitandosi a corrergli quasi addosso, lo aveva così semplicemente spinto a sfuggire via come una lippa.

“E’ uno di quei codirossi, vero?” aveva chiesto Stevin, appena sopraggiunto, per inginocchiarsi poi al suo fianco e guardarla raccoglierlo teneramente tra le mani.

“Sì, deve essere caduto dal nido e il gatto, annoiato, lo ha predato.”

“E’ ferito, che si fa?”

Marta, dopo un breve girovagare intorno nel tentare di capire da dove fosse caduto, non riuscendo a comprendere bene la postazione del nido e sentendolo respirare male tra le sue mani, prese la decisione di portarlo con sé a casa per poterlo curare meglio.

Nonostante le abbastanza scontate lamentele del nonno -figurarsi se gli andava mai bene qualcosa!- l’uccellino venne così ben presto accolto e posto sotto le cure della bambina e della nonna, del tutto intenzionate a crescerlo fintanto che non sarebbe stato in grado di volare da solo.

Bibo fu chiamato e, malgrado lo spavento iniziale, la ferita sotto l’aletta destra, grazie alle loro attenzioni, sembrava in concreta ripresa. Marta era entusiasta di aver finalmente salvato una vita.

Quel giorno, una domenica di metà estate, ad allietare la casetta di Carsi erano giunte anche Francesca e Michela che, pur non passando l’intera estate in valle, sovente venivano lasciate lì nei fine settimana per godere dell’aria buona, della compagnia degli amici e… del buon cibo di Nonna Inés che, in quanto cuoca, non era seconda a nessuno.

La tavolata, apparecchiata in pompa magna, offriva ai commensali le più svariate pietanze, dai salumi, all’insalata russa, agli spiedini di mozzarella e pomodoro e via dicendo. Era un’occasione di festa, un’occasione per stare insieme, ed era sempre una gioia per l’anziana signora avere come ospiti le amichette della nipotina, che considerava a sua volta come parte integrante della famiglia.

Più in là, sulla vecchia poltrona, vi era Nonno Dante intento a leggere il giornale; sotto, per terra sedute sul tappeto, Marta, Stevin, Michela e Francesca che, in un momento di calma dalle esplorazioni, stavano facendo il gioco dell’oca. Neanche starlo a dire, la più grande e riflessiva, complice l’esperienza, stava vincendo, secondo posto Stefano, mentre le altre due, più piccole, si contendevano il terzo e il quarto.

Nonna Inés buttò un occhio intenerito sul gruppetto e sorrise, prima di recarsi in cucina per controllare l’acqua sul fuoco. Anche quel giorno avrebbe vinto Francesca, troppo ampio il suo vantaggio rispetto agli altri, ma probabilmente la pasta sarebbe stata pronta prima del grande esito.

In quel preciso momento, Camus si trovava sull’ala opposta del grande salotto, in un angolo appoggiato al muro, gli occhi lucidi nell’abbracciarli tutti con lo sguardo. Sebbene fosse rimbalzato di ricordi in ricordo, di visione in visione, e li avesse già incontrati, non era affatto abituato a rivedere i suoi nonni… vivi…

Era qualcosa di tremendamente straziante che gli dilaniava il cuore, già pesantemente percosso dalle emozioni che lo avevano guidato fino a lì. Qualcosa gli punzecchiava le palpebre, ne riconobbe la spiacevole sensazione, prima di ricacciarla a forza dentro di sé.

In un altro universo, ci sarebbe stato anche lui in quel gruppetto. Forse avrebbe aiutato Marta e Michela a diventare più abili in quel gioco con qualche trucchetto -erano discretamente sfortunate, andava detto, ma a tutto, con l’esperienza, c’era rimedio!- o forse no, non si sarebbe unito a loro perché già troppo grande, ma sarebbe comunque rimasto nello stesso salotto, a leggere, probabilmente, buttando ogni tanto la stessa occhiata di dolcezza e mostrando lo stesso mezzo sorriso della nonna nell’intenerirsi ad osservarli.

Era solo che… quel futuro… gli era stato strappato!

“Ultimo turno. Ultimo giro di dadi.” decretò ad un certo punto Stefano, concentrato.

“E intanto ormai è tutto deciso.” sbuffò Marta, acida. Non amava perdere.

“Quindi non giochi più?” chiese Francesca, inarcando un sopracciglio.

“No, non gioco.”

“Però, se provi un tiro, forse arrivi terza. Tu e Michela ve la state contendendo!” gli fece notare il migliore amico, dandole una pacca.

“Non m’importa, che vinca pure lei. Terza o quarta non fa differenza, ho comunque perso!”

Era terribile quando ci si metteva, Camus si ritrovò a ridacchiare tra sé e sé, un poco sollevato nell’animo. Era bello quanto doloroso starli a guardare, ma era felice di aver avuto quella possibilità e aver così potuto conoscerli un po’ di più.

“D’aaaaaccordo. - cantilenò Francesca, prendendo in mano i dadi – Allora, se questa è la tua scelta...”

“La pasta è a metà cottura, tra poco è pronto in tavola! Andate a lavarvi tutte le mani, su!” arrivò la voce salvifica della nonna che, tornando dalla cucina, si mostrò nuovamente a loro con il suo largo, quanto gentile, sorriso.

“Inés, sempre sul più bello arrivi. Ancora una volta hai interrotto la vittoria di Francesca.” la rimproverò bonariamente Nonno Dante, alzando lo sguardo dalle pagine in bianco e nero per posarli su quella della consorte.

“Oh, perdonami, cara, se vuoi comunque tirare...”

“Fa lo stesso. - intervenne Stevin, alzandosi in piedi per osservare dall’alto il tavoliere e le pedine colorate a forma di anatra – Intanto è lampante chi abbia vinto per l’ennesima volta. Complimenti, Fra!” le sorrise poi, con garbo.

“Solo fortuna.”

“Eeeeeeh, ma la fortuna sempre e solo a te, mai che giri!” si lamentò Michela, facendo le boccacce all’amica più grande.

Tutti i presenti, eccetto Nonno Dante che non sorrideva quasi mai tutt’al più grugniva qualcosa, si misero a ridere.

“Beh… spero di rifarmi con il pranzo. - fece spallucce Marta, la sconfitta ancora bruciante, prima di girarsi verso il tavolo – Cosa c’è da mangiare, oggi, nonna?”

“Sarai contenta di sapere che ho preparato il tuo piatto preferito: trenette al pesto!”

Gli occhioni di Marta si spalancarono dall’entusiasmo, la boccuccia le si dischiuse in un largo, ampio, sorriso, mentre, da dietro, Michela le balzò quasi in braccio per stringerla.

“Yeeeeeeee, la pasta al pesto è anche il mio piatto preferito!” inneggiò la più piccola, al settimo cielo, iniziando a ciondolare con l’amica, preda di un’euforia sempre più crescente.

Non c’era niente da fare, andare a mangiare dai nonni di Marta era sempre una garanzia! Tutti e quattro i bambini venivano sempre trattati come dei principini, mai una volta che ne rimanessero delusi, MAI!

Il pranzo iniziò quindi sereno e giocoso, pregno di quella leggerezza che si poteva provare solo in tenera età. Se Marta si era classificata ultima nel gioco dell’oca, abbandonato sparso sul pavimento, non si poteva dire lo stesso per la questione cibo, perché, fin da piccolissima, a dispetto della sua costituzione gracile, era sempre stata una ghiottona pastasciuttaia che tuttavia non disdiceva affatto assaggiare altre portate.

Proprio come adesso che hai 17 anni e mangi di tutto. In questo non sei affatto cambiata, piccola mia! Devo ancora capire dove metti tutta quella roba, sei… incredibile!

Pensò Camus, con un sorriso, spostando poi la sua attenzione sugli altri.

Stevin la seguiva a ruota a livello di alimentazione, perché anche lui amava mangiare praticamente ogni cosa che si trovasse nel piatto, quasi come se avesse sperimentato in prima persona la carestia e dovesse recuperare calorie in tutto e per tutto. Al contrario, Michela e Francesca erano molto più contenute, ma per due motivazioni ben diverse: la prima perché tendeva ad abbuffarsi con il primo piatto che le capitava a tiro; la seconda invece, pur assaggiando di buon grado tutto, tendeva ad assumere porzioni più piccole e a non riempirsi mai totalmente.

In ogni caso, tra un piatto e l’altro, il pranzo passò lieto e vivace, almeno fino al dolce, una torta crema chantilly e panna che si lasciava mangiare con gli occhi e che, proprio in quel momento, veniva tagliata dalla nonna per essere equamente suddivisa tra i convitati. Fu proprio in quel momento che a Michela venne fuori la domanda fatidica.

“Marta, come sta Bibo? Ti ricordi che ci hai promesso di farcelo conoscere oggi, vero?”

Prima ancora del termine completo della seconda domanda, Camus si accorse dell’irrigidimento delle spalle della nonna, seguito a ruota dallo sbuffare del nonno che, ultimato l’ennesimo bicchiere di vino rosso, ne caricava subito un altro, svuotando così la bottiglia. Marta, per ovvie ragioni, del tutto concentrata sulla torta e, in un secondo tempo, sull’amica, non si rese conto del cambio di atmosfera.

“Sta bene, l’ho visto stamattina prima di andare a giocare. Mi ha cinguettato il suo buongiorno e gli ho dato subito la pappa. Sta crescendo a vista d’occhio!” spiegò lei, inorgoglita, perché effettivamente le cose stavano procedendo bene nella cura del nidiaceo, ed era davvero contenta.

“Vero che anche noi diventeremo sue amiche?” continuò ancora Michela, sbattendo vivacemente le braccine all’aria come a simulare il volo di un uccello.

“Certo che sì, è su in camera, vero nonna? - la piccola chiese il sostegno visivo della sua grand-mère, ma non trovandolo nell’immediato, anzi vedendo che ella rifuggiva il suo sguardo, inclinò interrogativamente la testa di lato – Nonna?” la chiamò ancora, non capendo perché non l’appoggiasse.

Silenzio. Il brivido della consapevolezza investì Camus come probabilmente Francesca, mentre la vecchia signora, con espressione un po’ obliqua e tremante, raschiandosi la gola, trovò la forza di risponderle.

“Oh, cuore mio, non… non penso di potervi mostrare Bibo, sai?”

“Perché no? - Marta non capiva, forse semplicemente, pur essendo una bambina molto intelligente, rifiutava di capire – E’ su di sopra in cameretta, no? Il mio Bibo!”

“N-no, tesoro, vedi… - la nonna esitò ancora, osservando con occhi spenti il bicchiere pieno d’acqua più vicino – E’ volato via!” disse infine, in un soffio.

“Oh? - il visetto di Marta si illuminò, la bimba, che si era sporta sul tavolo, tornò comodamente a sedersi nel prendere il manico del cucchiaio e tagliarsi un bel pezzo di torta che subito portò alla bocca – Capisco, è già volato, che bravo!” asserì tra sé e sé, tutta felice, ammiccando appena.

“G-già.” sussurrò appena l’anziana signora, tornando giù a sedersi pur mantenendosi rigida.

Ma qualcosa non tornava, o meglio, era troppo prematuro. Nella testolina di Marta, pezzo per pezzo, stava prendendo sempre più forma l’impossibilità di quanto le aveva riferito la nonna e, più la consapevolezza aumentava, più i bocconi si facevano sempre più piccoli, malgrado la torta fosse buonissima e dolcissima. Le stava passando la fame…

Ad un certo punto si fermò, il cucchiaio ancora in mano, la mano un poco tremante. Un tarlo le rodeva la mente, uno solo, ma incommensurabilmente grande. Avrebbe voluto scacciarlo. Abbassò un poco la posata sul piattino, di contro alzò lo sguardo in cerca di spiegazioni.

“Nonna, però… come ha potuto volare, se le penne delle ali non erano ancora del tutto formate?”

“B-beh...”

“Gli uccelli non hanno forse bisogno di ali forti per librarsi in cielo? Bibo le ha ancora piccoline, sono due alette striminzite e non ancora mature, come è riuscito a...”

“...”

“Nonna..?”

“Marta...” si raschiò la gola Francesca, sforzandosi di prendere parola, ma lo sbattere delle mani sul tavolo ad opera del nonno della sua amica la fece brutalmente sussultare.

“BASTA COSI’!”

Di nuovo silenzio. Nonno Dante si era alzato e, con sguardo alticcio, ma ugualmente presente, scolò l’ultimo sorso di vino rosso, ultimando così il litro di bottiglia.

“Dante, non vorrai..?” provò a fermarlo la nonna, temendo le sue azioni, prima di essere messa a tacere dalla voce burbera del marito.

“Silenzio, Inés, la storiella è durata anche abbastanza!”

Non vorrai..? NONNO!

“La stiamo facendo crescere troppo nella bambagia, è grande abbastanza per capire ormai!” stabilì lui, senza mezzi termini, mentre la nipotina, spersa, lo guardava con timore misto ad incredulità.

Passò lo sguardo tra i due, nel silenzio, prima del verdetto definitivo.

Nonno, fermati, non puoi… non puoi dirlo cos…

“Bibo è morto questa mattina, Marta. L’intervento tuo e di Stevin per tentare di salvarlo è stato controproducente, oltre che inutile!”

“E-eh?”

Vuoto. Dentro. E freddo negli occhi della piccina.

A Camus montò immediatamente la rabbia. D’istinto, tirò un pugno contro la porta, la quale sbatté a sua volta contro il muro, facendo sussultare ulteriormente sia la nonna, che Stefano che Michela, rimasti impietriti da quella rivelazione così spietata prima ancora che dal rumore improvviso, e imprevedibile, che sembrava opera di un colpo di vento.

Come puoi… come puoi dirglielo in questa maniera?!

“B-Bibo è morto? - ripeté frastornata Marta, sull’orlo della lacrime, prima di riprendersi parzialmente – No, non è po-possibile, stamattina l’ho visto e stava bene!”

“E’ morto quando tu eri fuori a giocare con Stevin e le tue amiche.”

“N-no, non è vero… s-stai mentendo!” tirò su col naso la piccola, mentre gli occhi le bruciavano spietati e la vista si faceva appannata.

“Questo succede quando vuoi sostituirti a Madre Natura. Quel pullo di codirosso non era avvezzo a sopravvivere, il suo destino era già stato decretato, ma tu ci hai dovuto sbattere con il naso, Marta, prolungando solo le sue sofferenze.”

“N-no… NO! Io l’ho salvato, lo ABBIAMO salvato!!!” si oppose ancora lei, tenace.

“Così non è, non sempre le cose vanno come desideriamo noi.” disse ancora il nonno, implacabile, pur con una scintilla di dispiacere negli occhi. Ma era troppo tardi per salvarsi dall’ira della nipote.

“NO, stai mentendo! BUGIA! Tu lo hai ucciso!!! Bibo stava bene… STAVA BENE!!!” ululò oltraggiata la piccola, balzando in un impeto giù dalla sedia per compiere il giro del tavolo e avventarsi contro di lui per prenderlo a schiaffetti sulle braccia, sulle gambe, ovunque arrivava in tutta la sua foga di bimba sotto peso e di altezza inferiore alla sua età.

Camus si prese male a vedere la sua reazione. Si accorse che anche lui sentiva la rabbia dentro crescere, quell’enorme impulso bollente incanalarsi dall’addome al petto nell’arco di appena un secondo. Rabboccò disperatamente aria nel rendersi conto che, in qualche modo, il suo potere stava influendo negativamente su lei, come già era accaduto con i bulletti del fiume. Ne ebbe una paura viscerale; la paura di perderne il controllo e, conseguentemente, farlo perdere a lei.

No, non devi, piccola, non di nuovo! F-fermati, DEVI fermarti, altrimenti…

SCHIAFF!

Non ci fu bisogno di nient’altro, solo lo schiaffo ben assestato del nonno che fece capitombolare a terra la piccina ormai preda dei singhiozzi.

“DANTE!”

Perfino la nonna alzò notevolmente il tono nel vedere il trattamento riservato alla nipote. Gli altri bambini stavano immobili, chi con gli occhi lucidi, chi con il dispiacere impresso nello sguardo.

“Perchè?! Perché è morto? Sigh, sigh! Non capisco. - riuscì infine a chiedergli Marta, a terra, in piena crisi di pianto, desiderando una risposta – S-stamattina sembrava stare bene!”

“Non ci si può sostituire alla natura: i forti sopravvivono e i deboli periscono. E’ sempre stato così e così sarà per sempre… purtroppo. - stabilì il nonno, insindacabile, con un sospiro – E ora dimmi, ti sei un minimo calmata dopo lo sfogo?”

Calmata?! Le chiedi se si è calmata?!? La stai disintegrando, nonno!

La piccola non lo guardava più negli occhi, cercava di nascondere il suo visetto rigato dalle lacrime ben sapendo che non erano apprezzate da lui. A stento, si sforzò di annuire.

“Se vuoi capire perché è successo, vieni con me.” decretò ancora, facendosi strada verso la cameretta della bambina.

“Dante! - lo fermò però la nonna, lo sguardo supplichevole – Non vorrai far vedere alla bambina il corpicino di Bibo?! E’ troppo per lei!”

“Come ho detto prima, fino ad ora è stata cresciuta fin troppo nella bambagia. - risposte il consorte, apparentemente irreprensibile, scansando il braccio della moglie con gesto burbero – E’ giunto il momento che si svegli e comprenda.”

“Ma io pensavo che avessimo tenuto il corpicino per dargli degna sepoltura, non per farlo vedere a lei!” si oppose ancora la nonna, apprensiva.

“No, Inés. La bambina deve rendersi conto dei danni che ha procurato il suo intervento. Voleva aiutarlo, d’accordo, proprio per questo deve vedere con i propri occhi che cosa ha portato la sua scelta.”

“Ma!”

“Che cosa vuoi fare allora, Marta? Vieni con me a vedere quel che resta di Bibo, oppure..?”

La piccola, ancora in lacrime, tirò su con il naso, prima di rimettersi in piedi e seguire il nonno, pur con passo incerto e malfermo. Stefano provò l’impulso di seguirla e accompagnarla, ma Francesca lo fermò con un gesto del braccio.

“E’ una cosa tra nonno e nipote, anche se lui è stato sin troppo brusco.” gli disse solo, velatamente dispiaciuta.

“Me ne sono preso cura anche io, è una mia responsabilità, oltre che sua!”

“Lo so, ma credo che Nonno Dante voglia impartirle una lezione, la più importante.”

“Sbaglia i metodi, però, è tanto! Non otterrà nulla a trattarla così!” disse ancora il ragazzino, aspro, e Camus si sentì di dargli pienamente ragione, prima di seguire la sorellina con il cuore gonfio di dispiacere.

La cameretta di Marta era ancora piena di luce, nonostante le tendine fossero tirate in modo da schermare i raggi del sole. Nonno Dante la attendeva vicino alla scrivania, dove era appoggiata la gabbietta che, fino a quel momento, aveva fatto da casetta a Bibo.

Marta esitò sullo stipite, tirò su con il naso e tremò, desiderando per un lungo istante tornare indietro senza vedere il cadaverino dell’uccellino. Camus, pur non percepito, si permise di sfiorarle i capelli come a volerla rassicurare.

Coraggio, sono con te, sempre, anche se non mi puoi vedere!

I primi passi vennero mossi all’interno della stanza, traballanti, come il suo respiro ora accelerato ora rallentato. Il nonno la fissava senza proferir parola, attendendo che si avvicinasse abbastanza per togliere il velo da sopra la gabbietta e mostrare così il suo contenuto. Era implacabile nella sua severità ma… comprensibile.

“E’ qui.” disse solo, e spostò la leggera stoffa con rapido gesto del braccio.

La piccola non lo distinse, non subito. Ci mise un po’ ad arguire che quel concentrato di piume sparso sul fondo era in realtà ciò che restava del suo uccellino. Allineò le labbra nel trattenere un mormorio di dolore, il cuore le picchiò violentemente contro la minuta cassa toracica che, per un attimo, sembrò quasi accartocciarsi su sé stessa. Il petto le fece male.

Bibo, ormai quasi interamente piumato, giaceva immobile prono, le alette alzate a croce come se avesse appena provato a spiccare il volo. Aveva gli occhi chiusi, il becco dischiuso, come se stesse dormendo. Ma immobile era e privo di vita.

Marta singhiozzò, un’unica volta, prima di mordersi furiosamente le labbra nel trattenere il pianto feroce che già le sconquassava il corpicino.

“Per-perché?” riuscì solo a chiedere, svuotata, gli occhi gonfi.

“Perché era il suo destino.”

“Non credo al destino!” esclamò subito lei, guardandolo torvo, al punto che il nonno, radunando tutta la sua pazienza, si ritrovò a sospirare.

“D’accordo, ma a conti fatti l’uccellino che hai creduto di poter salvare è morto.”

Marta tornò giù a guardarlo nella speranza che così non fosse. Desiderò intensamente che si riprendesse, che avesse avuto solo un mancamento, o che magari stesse dormendo davvero in una posizione un po’ buffa.

Aveva però imparato che quel mondo disperato in cui si era ritrovata a vivere, non esaudiva i desideri.

“Posso prenderlo?” gli chiese allora, implorante.

“E’ morto, Marta, non cambierà la sua condizione. Anche se lo tieni a te, non percepirà più niente!” “Io voglio toccarlo!” ribadì la piccola, insistente, indurendo la sua espressione.

Nonno Dante si massaggiò la testa. Con quella bambina non c’era verso di incanalare un discorso sensato, soprattutto quando si intestardiva su determinate cose. Niente. Nulla. Le dicevi che così non era ma lei non ascoltava nessuno, andava avanti per la sua strada, chiara solo a lei.

Non era affatto una nipote semplice da gestire! La mancanza di una figura genitoriale maschile, probabilmente, aveva affilato quel suo lato caratteriale un po’ indomabile.

Ciò nonostante, senza dire niente, aprì la porticina della gabbietta, permettendole così di prendere l’uccellino. Subito le mani della piccola si mossero a coglierlo, trepidanti. Camus vedeva tutto da distanza, eppure era anche come se le sensazioni tattili della sorellina, i suoi stessi sentimenti ed emozioni, giungessero anche al suo corpo. Si massaggiò dolorosamente il petto, percependone tristezza e un’intensa voglia di piangere.

Era ancora caldo. Il corpo del codirosso era ancora caldo; le piume, che stava solleticando dolcemente con i due pollici, ancora morbide. Eppure il palpito della vita non c’era più in lui, lo aveva definitivamente lasciato. Marta incassò la testa tra le spalle, mentre, portandosi Bibo vicino al volto, ricominciò silenziosamente a piangere.

Anche gli occhi di Camus si annacquarono nel vedere la scena, mentre due gocce, come rugiada, gli scesero fino agli zigomi, sostando poi lì. Una debolezza che non si sarebbe mai permesso, se non fosse dipeso interamente dalla sorellina. Le sue emozioni giungevano a lui con sempre maggior intensità, soprattutto da quando aveva cominciato a girare nei suoi sogni. Era… difficile sopportarne il peso, a maggior ragione per lui che, le emozioni, le aveva sempre rifuggite fin dalla più tenera età.

Ma la piccola stava piangendo per la sventurata fine di un uccellino che era venuto alla vita senza avere occasione di conoscerla veramente. Era impossibile non rimanerne colpiti, ricercarne il senso senza trovarlo veramente, nonché…

“Hai finito di frignare?”

La voce del nonno irruppe nei suoi pensieri. Era spietata e metallica, o almeno così giunse a lui, lasciandolo intontito a rabboccare aria. Alzò, incredulo, lo sguardo nello stesso momento in cui lo faceva Marta, incontrandovi l’espressione disgustata e dura di chi, arrivato ad una certa età, aveva già visto tutto dalla vita e, proprio per questo, non si aspettava nient’altro di buono.

Camus avanzò di un passo, nuovamente arrabbiato con quella figura austera che avrebbe dovuto aiutare la piccina, non certo dilaniarla ancora di più come stava invece facendo.

Nonno! Dalle un momento, uno SOLO, le è morto l’uccellino, sta male per questo e…

“Piangere non servirà, non ti riporterà indietro Bibo!”

Fulminato. Quella frase aveva appena fulminato Camus in tutta la sua asprezza, lasciandolo basito e paralizzato. Sbatté più volte le palpebre, lo guardò ancora, guardò lui, la piccola che, sempre con l’uccellino tra le mani, lo fissava tremante, come se avesse ricevuto un colpo fortissimo e di spalle.

Li guardò, e al posto della loro corporeità rivide sé stesso nel nonno e Hyoga nella piccina. L’intensità della visione fu tale che quasi si sentì mancare, dovette appoggiarsi alla parete dietro per non cadere.

“E cosa… sniff, cosa me lo riporterà indie-tro?” chiese comunque Marta, tirando su con il naso.

“Nulla. Ormai è andato, dovrai fartene una ragione. - stabilì Dante, chiudendo gli occhi in una espressione di finta sufficienza che in realtà nascondeva ben altro, Camus lo sapeva bene – Ma puoi non fare gli stessi errori per una seconda volta.” aggiunse, riaprendo le iridi castane che si stagliarono su lei.

“E-e come dovrò fare?” insistette la piccina, ormai spersa, ma volenterosa più che mai di non compiere gli stessi sbagli.

“Non sostituirti alla natura, tanto per cominciare!”

“!”

La bambina non capiva, era lampante, occorreva parlare in maniera più concreta.

“Marta, sai perché il tuo Bibo è morto?” le chiese quindi, in tono un poco più addolcito.

“N-no, sniff, sembrava stare bene, mangiava e...”

“Sembrare è la parola corretta. - annuì il nonno, con un cenno del capo – Ciò non significa che effettivamente stesse bene. Vedi, i pulli appena nati hanno bisogno di costanti cure e attenzioni, di determinati cibi, di pasti regolari e frequenti. I genitori, questo, lo sanno bene.”

“M-ma noi glieli a-abbiamo dato, mangiava e...” provò ad opporsi la piccina, continuando a non capire.

“Forse non abbastanza, forse non nella maniera giusta. Vedi il dorso implume del pullo? Vedi che molte piume non si sono nemmeno sviluppate correttamente? Accade esattamente questo in caso di malnutrizione! - gli fece notare lui, schietto, indicandogliene una ad una e lasciando sfuggire un altro singhiozzo a Marta - In ogni caso, probabilmente era già uno dei più deboli della nidiata, non ce l’avrebbe comunque fatta, e ciò è dimostrato dal fatto che è caduto dal nido e sarebbe stato spacciato fin da subito, se non fossi intervenuta tu.”

“Non… dovevo intervenire, quindi?” arrivò alla dolorosa conclusione la bambina, trattenendo un altro singulto per impedirgli di venire fuori.

“No, non avresti dovuto intervenire, la Natura ci aveva già visto lungo, più di noi esseri umani.”

“Dovevo… lasciarlo morire?! Lasciare che lo predassero?!” ripeté Marta, incredula.

“Lo hai ben visto da te: a cosa è servito il tuo intervento? Lo hai salvato? No. Hai solo prolungato la durata della sua vita, sottraendo nutrimento ad altre creature.”

Marta accusò il colpo, abbassò lo sguardo, sentendosi male a quella frase che, proprio per la sua veridicità, penetrava in lei in maniera molto sofferta. Strizzò le palpebre, si morse il labbro inferiore, stringendo a sé il corpicino dell’uccellino.

“I-io volevo solo aiutarlo, n-non volevo che morisse, n-non volevo danneggiare altri, n-non volevo!”

“So per certo che non volevi, come so per certo che non volevi danneggiare nessuno, ma è necessario che tu capisca, Marta, che ad ogni scelta equivale una responsabilità; ad ogni decisione una conseguenza.”

Tacque per una serie di secondi, la piccola lo fissava in silenzio, il petto scosso da fremiti e sobbalzi che ottusamente non lasciava trapelare. Era tutto così ingiusto! Lei si era mossa in prima persona per salvare il pullo, credeva di esserci riuscita, di averlo messo in sicurezza, nutrito e preso cura con l’aiuto dei nonni e di Stevin. Se per ogni causa vi era sempre un effetto, perché il piccolo era comunque morto?!

“E’… ingiusto, sigh, io ho SCELTO di salvarlo, a-avrei dovuto riuscirci, e-e invece...”

“Non sempre le cose in questo mondo vanno come vorremmo. - ripeté burbero il nonno, chiudendo nuovamente gli occhi – Non basta voler desiderare di salvare qualcuno per riuscirci, se si è manchevoli di forza e conoscenza.”

“Di forza… e conoscenza?” ripeté lei, un balugino di consapevolezza negli occhi.

“E, molto spesso, neanche con quelle si riesce a salvare chi vogliamo.” sospirò ancora Dante, scrollando appena il capo in modo arrendevole.

“...”

Marta tornò a guardare il cadaverino di Bibo. Iniziava finalmente a comprendere ma il dolore non scemava. Si acuiva.

Dunque… fintanto che sarebbe rimasta così debole e ignava non sarebbe riuscita a proteggere nessuno, neanche un uccellino?

“La legge del più forte regola questo mondo, è sempre stato così fin dall’alba della creazione e così sarà per sempre.”

La voce di suo nonno parve rispondere ai suoi quesiti inespressi. Strinse a sé Bibo, chiedendogli tacitamente perdono per essere stata un’inetta. Non parlò, non ne aveva le forze, ma si sforzò di seguire il dialogo che suo nonno voleva tracciare per lei, così come la via che avrebbe dovuto percorrere.

“Tu stessa devi diventare forte e coriacea, se vuoi sopravvivere all’esistere. Resistere, rafforzarti, guardare in faccia la vita per quello che è.”

“E cos’è la vita, nonno? - le chiese a bruciapelo lei, la stessa espressione di Hyoga quando voleva difendere qualcosa di suo – Quale è allora il senso del nostro venire al mondo?”

Nonno Dante esitò prima di rispondere. Per i primi istanti parve a sua volta dubbioso, incerto, la sicurezza di sé venne meno.

“Una lotta. - disse infine, rispondendo alla prima domanda e non alla seconda – La vita è un’eterna lotta per accaparrarsi le risorse migliori e far perpetuare i propri geni a scapito di quelli degli altri.”

Gli occhietti di Marta si spensero del tutto, mentre una delle due mani che sorreggeva Bibo le cadde lungo il fianco. Per dei secondi interminabili, ebbe l’istinto di accasciarsi al suolo e piangere. Chiuse semplicemente gli occhi, lasciando riaffiorare lacrime amare senza gemiti.

Camus intanto si indignò, strinse le mani a pugno, furente, mordendosi quasi a sangue le labbra. Era decisamente troppo!

Nonno, si può sapere che intenzioni hai?! Marta è una bambina… UNA BAMBINA!!! E tu le dici queste cose, in questo modo! Come puoi..?!?

Ma la consapevolezza di non poter parlare, di non poter neanche esprimersi sull’argomento, lo investì nuovamente, ancora più selvaggiamente. Il suo corpo sussultò, la sensazione di ricevere un pugno in pieno petto, dritto e preciso, lo fece piegare su sé stesso. Si nascose il viso con una mano. Annaspò, tremando con maggior forza.

Come posso io anche solo indignarmi, andare in escandescenza, quando… quando con Hyoga io… NO! Con Hyoga dovevo farlo, non c’era altra scelta, doveva diventare Cavaliere, doveva crescere. Sì, doveva crescere, non è la stessa cosa che con Marta. Non è… la stessa cosa!

“E allora perché io sono nata in un mondo così?”

Silenzio. Camus rialzò dolorosamente lo sguardo sulla scena avanti a sé, sentendosi un miserabile sconfitto che si raccontava di aver fatto bene, mentendo perfino a sé stesso. Per certi versi, anche Nonno Dante, non aspettandosi una piega simile nel dialogo, condivideva con lui il medesimo stato, nonché la consapevolezza di aver violato qualcosa di incredibilmente puro.

“Marta...”

“E’ perché sono nata debole che sono stata abbandonata da papà? - chiese ancora la piccina, ormai preda di tutti i demoni che si era portata dietro fino a quel momento – Non ce l’avrei fatta, da sola, e quindi lui se ne è andato per non perdere altro tempo con me?”

“No, certo che n...”

“Eppure così avrebbe tutto più senso, spiegherebbe perché la maggior parte degli altri bambini ha una mamma e un papà, mentre io… mentre io...” continuava con le elucubrazioni la bimba, sempre più preda di una lucida consapevolezza che andava raschiando sempre di più la sua stessa anima.

E Camus seppe, con distinzione, che, a quel livello, non sarebbero più bastate le sole parole per calmarla, occorreva raggiungerla con un tocco, ma pretendere una reazione diversa da colui che, per larga parte, aveva tracciato anche il suo carattere così chiuso e restio ad ogni contatto fisico, era pura utopia. Tentò comunque.

Nonno, puoi riscuoterla solo tu, agisci! Non vedi che sta male?! Non vedi che le hai disintegrato ogni singola, labile, certezza che faticosamente era riuscita a costruire? Toccala! Ti prego, toccala… per me!

“Marta...”

Toccala, nonno, non servono le parole ora, NON SERVONO!

“E’ tutto così ingiusto… perché allora mi hanno fatto trovare Bibo, se non potevo salvarlo? Perché sono venuta al mondo, se non posso salvare nessuno delle persone che amo?! C’è un senso?!”

“Il senso non c’è, nasciamo per caso, moriamo altrettanto per...”

“Nnnnnngh, n-non può essere!!! Mi rifiuto… mi rifiuto di crederlo!!!”

Nonno, per favore, BASTA! Non lo regge, non può reggere una cosa così, possibile che tu non lo veda?!

Ma lui, per Hyoga, non lo aveva altrettanto visto, o forse, chissà, aveva fatto finta di non vederlo con la scusa di doverlo rendere più forte. Con il solo risultato che per quel sacro compito auto-imposto, aveva inferto una ferita mortale all’anima candida del suo amato allievo.

Di nuovo Camus accusò quella consapevolezza. Indietreggiò ancora di un passo, incuneandosi su sé stesso nel trattenersi la pancia che faceva di nuovo male.

Anche la pancia di Marta faceva male. La bambina si tratteneva a sua volta il ventre, fremeva, preda dei singhiozzi e di respiri sempre più rapidi.

“Non c’è una vera e propria ragione. Semplicemente siamo nulla e, silenziosamente, nel nulla torneremo.”

“N-no… NO!”

“Per questo devi rinforzarti nel più breve tempo possibile e accettare la realtà delle cose.”

“Non voglio!”

“Devi.”

“N-non voglio, nonno…anf, anf! Mi… rifiuto!”

“Purtroppo non c’è scelta, fiorellino.”

Anf, anf...

Camus faticava sempre di più a sbollire le emozioni sempre più prepotenti e prive di controllo della sorellina. Non c’era verso di ricondurle sotto ragione, esse sembravano incanalarsi nei vasi sanguigni e diffondersi a tutto il corpo, provocando violenti spasmi e dolori in tutto e per tutto affini alle coliche.

E’ insopportabile tutto questo, urgh -pensò freneticamente tra sé e sé, serrando le palpebre alla ricerca disperata di una soluzione- come riesce lei ad accettare e gestire questo grandissimo marasma che sono le nostre emozioni che si sommano?!

“Marta...”

Il nonno finalmente, nel rendersi conto della violenta crisi in atto della nipotina, la prese per mano, tirandola un poco a sé come a volerla ravvivare. Marta lo lasciò momentaneamente fare, gli occhioni gonfi di lacrime puntati verso il pavimento, lo sguardo sbarrato a vuoto. Persa.

“Non devi però pensare a questo con disperazione, anzi, è proprio la casualità dell’esistere che da significato alla vita.”

“...”

“Tra le miliardi di possibilità, sei nata proprio tu e in questo attimo di tempo che corrisponde ad una vita tu respiri, giochi, hai conosciuto Stevin, ti sei incrociata con tantissime altre esistenze che, come te, hanno avuto il privilegio di venire al mondo. Le possibilità erano ridottissime, sai?”

“...Per soffrire e poi morire? - chiese Marta a bruciapelo, respingendo il contatto, gli occhi già non più suoi che saettarono verso il nonno, stordendolo sul colpo – Avrei preferito essere abortita, allora!”

Nella stanza cadde il gelo. Marta non conosceva ancora la parola aborto, né tanto meno il suo significato. Eppure, con occhi taglienti come il rasoio e sfumature quasi scarlatte, aveva sentenziato senza remore alcuna che avrebbe limpidamente preferito non nascere, piuttosto che farlo ed essere così condannata a morte. Per la prima volta nella sua vita, Nonno Dante si sentì mancare aria davanti alla nipotina che lo guardava con sguardo irriconoscibile.

Non sembrava quasi più lei, da quanto fosse snaturata, faceva paura al solo vederla. Pareva di essere schiacciati da un’entità primordiale che non aveva altro desiderio se non distruggere chi gli si parava davanti e gli metteva i bastoni tra le ruote.

Camus ebbe la percezione nefasta, in quel respiro di tempo in cui la manina libera di Marta si stringeva a pugno, che sarebbe potuta arrivare perfino a colpire il parente, tanta era la rabbia. Il suo respiro accelerò di colpo, insieme ai suoi battiti.

No… non di nuovo, maledizione!

“Questa consapevolezza, la straordinarietà dell’essere stata concepita, dovrebbe farmi sentire meglio?! - esclamò quindi la piccola, con una voce non del tutto sua che riecheggiava nel suo timbro vocale – Sono nata per morire senza che io lo abbia chiesto?! Sono venuta alla luce e al calore per poi, un giorno, non percepirli più sulla mia pelle?!”

Il nonno sembrava immobilizzato. Non parlava, non reagiva. Una statua. L’espressione cristallizzata dallo sbigottimento.

Marta -o chi per lei- scrollò la testa, disgustata, mentre, alzando ancora di più il braccio, roteò il pugno per…

Non vorrà colpire il nonno come ha fatto con quell’altro ragazzo?! No, fermati! Non sei tu questa!

“I tuoi sono pensieri vani di un vecchio che ha ormai perso la speranza e deve dare un patetico senso alla sua insulsa vita fino a questo momento. IO RIPUDIO TUTTO QUESTO! Questa speranza, del tutto fallacemente umana, che la vita abbia un senso solo perché ha una fine, io NON LA ACCETTO! - stabilì ancora lei, mentre il timbro maschile che risuonava già nella sua voce si impresse ancora di più – Fate pietà! Questo non è l’ordine che IO ho creato! Non vi ho formati per confidare in un pensiero così commiserante, né per asservire ad altri fedi, eppure, pur essendo la mia progenie, vi siete allontanati a tal punto da me e dai miei insegnamenti!”

Pausa, tutto era immobile. Solo il cuore di Camus e l’interno del suo ventre vorticavano follemente, procurandogli un malessere sempre più difficile da tenere a bada. Doveva agire, ma agire avrebbe significato assecondare il principio medesimo contenuto nel suo grembo.

Fermati! Non ti permetto… di usare mia sorella!

Marta chiuse gli occhi e sbuffò, infastidita come se una zanzara un po’ troppo insistente le ronzasse intorno. Non gli diede comunque attenzione, concentrata sul volto cereo del nonno, ancora immobile con espressione sgomenta. Il palmo libero della bambina si aprì, rivelando cristalli gelidi di morte che subito abbassarono ulteriormente la temperatura nella stanza. La sola scintilla di calore rimasta, in quel momento cristallizzato nel tempo, era data dal corpicino dell’uccellino ancora premurosamente tenuto appoggiato al petto con l’altra mano.

“Soprattutto in questi ultimi secoli, vi siete distanziati ancora di più dalla verità. Vi siete distanziati ancora di più da me... - disse delusa Marta, ormai con voce più maschile che femminile, sempre meno sé stessa – Cosa dovrei fare io con voi, adesso? Siete una delusione! Vi siete rivoltati contro il vostro stesso creatore che vi ha donato il Libero Arbitrio; parlate di caso senza sapere realmente cosa sia e venerate sciocchi dei che sono più sporchi di voi nelle pulsazioni che provano. Che… ribrezzo!”

Ci fu un’altra pausa carica di tensione. Marta riaprì gli occhi ormai quasi interamente scarlatti ad eccezione dell’iride intorno alla pupilla, ancora profondamente blu.

“Forse dovrei semplicemente sterminarvi e ricondurre tutto a prima dell’Enuma Elish… evidentemente, il mio, è stato un errore!”

A quel punto Camus, lottando contro il bisogno impellente di avventarcisi contro, stringendo i denti, decise di tentare il tutto e per tutto a parole.

E tu che farnetichi di libertà, di doveri, di riconoscenza, e poi non rispetti quella degli altri, cosa, CHI, pensi di essere?! Un dio? O un tiranno? O entrambi?!

Si tratteneva la pancia nell’esprimerlo, imprimendosi le unghie nella carne, così come aveva fatto dopo la questione con i bulli. Ansimò tre volte, prima di sforzarsi di tornare ad una voce normale, ferma, sebbene fosse attanagliato dalla paura.

Marta rimase statica, apparentemente indifferente.

E’ facile riempirsi la bocca con parole quali la libertà individuale, se poi calpesti e ripudi quella degli altri! Non so chi tu sia, non so chi ti abbia concesso la presunzione di elevarti sopra gli altri, ma sono piuttosto sicuro che anche tu, come gli altri che tanto disprezzi, credi fermamente di essere superiore a qualsiasi altra fede. Quindi, io ti chiedo, chi pensi di essere?! Un essere umano… o un dio?!

Tacquero entrambi, immobili. Le gambe di Camus tremavano ma, ostinato, teneva alzata la testa per puntare lo sguardo verso quella figura che usurpava impunemente la coscienza di Marta. Era furioso, digrignò i denti nella sua direzione, convinto di non poter essere facilmente intercettato.

In quel lungo istante cristallizzato, un nuovo sbuffo si elevò nella stanza, oltre l’espressione incredula del nonno, oltre la luce fuori che si era oscurata del tutto, oltre il tempo che inspiegabilmente si era bloccato. Anzi, annullato.

“Uhmpf, non ti vedo e non ti sento, è vero, sei ombra ai miei occhi e non so perché, giacché il mio sguardo onniveggente dovrebbe coprire il mondo nella sua interezza. Tuttavia ti percepisco.”

A Camus mancò il respiro e così il battito, mentre la cosa nella sua pancia diete un colpo forte, quasi stesse scalciando e volesse urlare. Non c’era alcun dubbio: quell’essere si stava rivolgendo proprio a lui!

“Sono piuttosto sicuro tu sia un uomo di alta statura, fisico asciutto, ben proporzionato, tono di voce discreto e tranquillo… in apparenza! - sciolinò la ‘bambina’, con un sorriso divertito, mentre richiudeva la mano a pugno, bloccando così i cristalli di morte, per poi girarsi esattamente nella sua direzione – Non è forse così, contenitore di Tiamat?!”

La cosa dentro la pancia di Camus, preda della paura, produsse una contrazione ancora più forte quasi da fargli rivoltare le budella. Il contraccolpo fu tale che lo fece capitombolare bocconi per terra con il respiro mozzo e gli occhi sgranati.

“Sento l’odore della paura e dell’impotenza, anche senza il bisogno di distinguerti. Così è facile localizzarti...”

Marta si voltò interamente verso di lui, compì qualche passo nella sua direzione. Camus udì l’incedere dei suoi passi, tremò più forte, preda del terrore. Aveva asserito che non lo poteva vedere, eppure erano altri elementi ad indirizzarlo nella direzione corretta. Ne provò un’intensa sensazione di pericolo.

“Chi sei tu, anf?” rantolò comunque, indurendo lo sguardo.

“Sono io a chiederlo a te, umano. Per interagire con me su larga scala, non essendo tu fisicamente qui, devi essere in qualche modo collegato a questa bambina che mi ospita.”

“...”

“Sei suo padre? O un fratello? O un discendente? O ancora un affine?”

“...”

“Non mi vuoi rispondere, poco importa. Ti posso lo stesso percepire, anche se non con la vista, so che sei lì per terra, esausto, perché la dea dentro di te vuole accopparmi e tu glielo impedisci. - e indicò la zona esatta dove giaceva lui, con un ghigno ancora più sinistro – Te ne ringrazio. Effettivamente Tiamat brama la mia distruzione sopra ogni cosa, immagino tu ti sia accorto che non sia una tipetta facile da gestire...”

“C-chi diavolo sei, anf? Chi ti ha dato il permesso di essere lì dentro?!”

“Non lo so. Mi ci sono trovato.”

“LASCIALA! - ruggì Camus, facendosi coraggio, sempre più furioso - Quella bimba non è cosa per te, non ti devi permettere d-di… violarla!”

“Capisco, devi essere un parente a lei molto vicino per reagire così nei suoi confronti. - arrivò alla conclusione l’altro, soddisfatto, prima di raddrizzare la testa e guardare un punto, molto vicino al volto di Camus, dall’alto al basso – Non posso eseguire la tua richiesta, spiacente!”

“Ti ci strapperò… a forza!” ringhiò ancora Camus, sforzandosi di guardarlo torvamente negli occhi rossi. Che anche se non lo potesse distinguere, che ne avvertisse tutto l’immane peso, almeno!

“Provaci se riesci, ma non garantisco per l’integrità della pargola in caso di esito favorevole. Non siamo più due esistente slegate ma… un sistema che coesiste!”

“N-no, cosa stai farneticando?!”

“Sta a te accettarlo o meno. - rise soddisfatto, alzando poi il pugno della mano libera sopra di sé con l’intento di attaccarlo – Non ti darò comunque il tempo di rifletterci ulteriormente, recipiente di Tiamat, debellando te interromperò anche il ciclo di incarnazioni di quella sciocca dea… MUORI!”

Camus, così attanagliato dal terrore, non ebbe il tempo di reagire, semplicemente chiuse di scatto gli occhi, irrigidendosi di conseguenza nel prepararsi all’impatto di quell’immenso potere del tutto fuori controllo.

Ma il dolore, così come il colpo, non lo raggiunse. Al suo posto il riecheggio di un singhiozzo.

C’era qualcosa di caldo, in quel malessere, un qualcosa che per quanto effimero e temporaneo, era riuscito a nutrirle il cuore. Quel qualcosa era ancora tenuto in mano, vicino al petto, ancora tiepido nonostante la morte. Il ricordo di quel qualcosa sarebbe anche potuto durare in eterno.

C’erano lei e Stevin che lo raccoglievano, lei che lo mostrava orgogliosa alla nonna, promettendole di prendersene cura con tutta sé stessa; c’era la gioia della prima imbeccata, con tanto di pinza e lombrico, c’era il suo beccuccio che si apriva alla ricerca del cibo, il suo cinguettio che li aveva allietati e che, ancora in quel momento, era ben saldo alla sua mente. C’era il calore di una casa e una famiglia.

E, infine, davanti a lui, c’era la piccola Marta che, finita a terra come lui, stringeva ancora l’uccellino. ora con entrambe le mani, piangendo lacrime amare proprio perché la forza di quei pensieri era talmente immensa da lasciarla senza fiato.

“Non avrei voluto… d-danneggiare nessuno! I-io volevo solo salvarlo!” biascicò, tutta singhiozzante, strofinando appena il nasino sul corpicino dell’esserino.

Camus sorrise amaramente, alcune lacrime bagnarono anche il suo volto. Si sforzò di alzare un braccio nella sua direzione per toccarla.

Lo so. Non è colpa di nessuno, questo. La vita sa essere spietata a volte, ma la forza per continuarla a vivere, nonostante tutto, la devi comunque trovare da te.

“Ho sbagliato… a soccorrerlo? - gli chiese, aprendo gli occhioni ora completamente blu e riconoscibili – E’ morto per causa mia?”

No, Marta, tu lo hai comunque salvato, gli hai dato qualcosa che nessun altro poteva dargli!

Le disse, quasi commosso, accarezzandole teneramente i capelli e il volto con le dita.

“Che… cosa?”

Il calore.

“E a cosa è servito?”

A rendere il mondo un posto migliore, più accogliente.

Marta rimase a bocca aperta, scombussolata ancora dagli ultimi avvenimenti. Lo guardò. Si guardarono. Intensamente.

“E a me cosa è servito, se ora sto così male per non essere riuscito a salvarlo?”

A costruire un ricordo, per quanto agrodolce sia, ad imparare da questa esperienza, come dice il nonno.

“Non capisco...”

Lo capirai crescendo, piccola mia, e sarai proprio tu a insegnarlo a me.

Marta non rispose. Con gli occhi ancora lucidi di pianto, piegò un poco la testa di lato, verso la mano di Camus che la stava vezzeggiando, rimanendo un po’ lì, bisognosa di coccole, come era stato quando, dopo la ferita al petto, lui si era risvegliato dal coma.

So quanto dolore tu stia provando, lo sento distintamente dentro di me, ma so anche che non demorderai, che non sarà quest’ennesima esperienza a non farti più amare questa vita. Lo so, e ti ringrazio di non esserti mai arresa… Marta!

Le disse ancora il fratello, prima che il contatto venne irrimediabilmente spezzato e il tempo tornò a muoversi.

Ne susseguì un rombo in avvicinamento, poi un tremore sempre più forte. Sussultò, sussultarono entrambi, anche il nonno, come rianimato.

Quella che sembrava muoversi sotto i loro piedi era quanto di più rassomigliante ad una scossa tellurica che durò ancora una manciata di secondi, prima di passare.

Silenzio. Il tempo parve nuovamente cristallizzarsi. Perfino il cinguettare fuori dalla casa, appena ripartito, si ammutolì di colpo.

Camus rabboccò energie per sollevarsi da terra; Marta, vicina a lui, ancora intenta a piangere e a stringere l’uccellino a sé, si chiuse in una postura rigida. Il Cavaliere guardò d’istinto il lampadario smettere di dondolare, poi abbassò lo sguardo, incrociandolo involontariamente con quello del nonno che lo fissava sbalordito. La consapevolezza che i loro occhi si stessero sorreggendo reciprocamente, accelerò il cuore di Camus. Furono quasi sul punto di parlare, ma l’entrata a capofitto della nonna spezzò una volta per tutte il fragile equilibrio su cui poggiavano.

“DANTE!!! - lo chiamò la Signora Inés, in apprensione – C’è stato un terremoto! Voi state bene?! I bambini di là si sono spaventati ma ora stanno bene e Marta… MARTA!”

La piccola aveva colto l’occasione per dirottarsi fuori da lì e lasciare così i due nonni, ancora sconvolti per due ragioni distinte, da soli nella stanza.

“Dante, cosa è successo? Sei pallido!”

“Nien… niente!” farfugliò lui, discostando l’attenzione da Camus per poi girarsi verso la finestra e rimanere in silenzio.

“Oh, caro, non avrai detto qualcos’altro a Marta, spero! La piccola è già sconvolta di per sé, non mi sembra il caso di...”

“Ascolta, Inés, qualcuno la deve pur educare, no? Insegnarle cosa significa vivere...” si voltò burbero verso la moglie, nonostante la lieve vena di senso di colpa presente sul suo viso spigoloso.

“Sì, ma non così, non con dei metodi così… barbari! - la consorte, pur nella sua mansuetudine, non celò il suo biasimo – Voglio dire, a volte sembra quasi che ci trovi gusto a farla...”

“Ma non dire baggianate! - si sdegnò Dante, voltandosi brusco dalla parte opposta per non farsi vedere dalla moglie – Non volevo farla soffrire così, ma deve crescere e farlo in fretta, altrimenti il mondo la seppellirà.”

Camus non disse niente, si limitò a mordersi il labbro in una stilettata di consapevolezza. Erano in tutto e per tutto così simili...

“Non devi chiedere così tanto a te stesso… - si sentì di dire la nonna, con voce dolce, posando una mano sulla spalla del marito – né precluderti di mostrare quanto in realtà tu le voglia bene.”

“...”

“Perché io so che le vuoi tanto bene, Dante, so che lo stai facendo per il suo bene, ma così la stai perdendo. Lei non capisce, soffre, e rischia di allontanarsi da te...”

...come Hyoga con me...

“Vedrò… vedrò di fare quello che posso ma non è facile. - acconsentì Nonno Dante, un poco rammaricato – Pensavo di aver esaurito il mio ruolo di padre con Antoinette, non mi aspettavo… anche questo.”

“Lo so, lo so… Stai facendo davvero un ottimo lavoro, caro, solo… ricordati anche la dolcezza, è indispensabile.” gli consigliò ancora la moglie, sospirando nel comprendere il suo dolore.

“Non sono bravo per queste cose...”

“Oh, lo sei, lo sei… è che non te ne rendi conto ma, prima o poi, lo capirai anche tu!”

A Camus pizzicavano gli occhi e le guance, si sentì come se la nonna stesse parlando anche un po’ a lui, ed era tremendamente doloroso, pertanto, pur con il cuore gonfio di sensi di colpa, si voltò indietro per seguire la sorellina, conscio di aver esaurito il suo ruolo lì.

I bambini decisero di seppellire il corpicino piumato dello sfortunato uccellino sotto una grande quercia, l’unica di quel versante del monte colonizzato per lo più dai castagni, posta appena sopra il nucleo abbandonato di Gherfo che vegliava tacitamente su Carsi come un vecchio sul proprio pascolo. Si diceva che, in un tempo lontano, il paese fosse abitato da una ricca famiglia latifondista, i Navone, poi caduti in disgrazia. Di quell’antico borgo non ne rimaneva che una manciata di ruderi, pur tenuti in ordine e, per quanto possibile, curati dagli abitanti di Carsi che si sforzavano di tenere in vita quel ricordo.

Si avviarono in processione, prima Marta, poi Stevin, poi ancora Francesca e dietro Michela, che non aveva smesso di piangere alla visione del codirosso morto. Camus li seguiva a capo chino, perso nei suoi pensieri, ancora sconvolto nel essersi riconosciuto spietato come suo nonno nei confronti del suo Hyoga.

Arrivarono nel luogo prestabilito senza fiatare, individuando subito, sotto il nodo ramificato di un crocevia di radici, un luogo ideale per costruire una piccola buca. Iniziarono a scavare. Poco dopo, ripresa parzialmente dalle lacrime, anche Michela si impegnò ad aiutare gli amici Marta e Stefano a fare una buca a mani nude nella nuda e fredda terra, là dove il corpicino di Bibo sarebbe potuto tornare al Tutto. Francesca -non sfuggì a Camus!- li osservava dubbiosa, un po’ sulle sue, ma poco dopo, vincendo la riluttanza sul senso logico di fare ciò, si mise a cercare a sua volta una roccia particolare che potesse essere utilizzata come lapide.

Terminati gli scavi, Marta riprese il corpicino dell’uccellino, precedentemente posato a terra, tra le mani. Se lo strinse al petto, come a dargli -o darle? Non aveva avuto nemmeno l’occasione di capire se sarebbe stato femmina o maschio!- l’ultimo conforto, prima di singhiozzare una sola volta e tirare su con il naso.

“E’ il momento, la buca è sufficientemente profonda.” disse Stefano, posano una mano sulla spalla dell’amica, la quale, consapevole, annuì.

“S-sì.”

“Starà bene, diventerà parte dell’albero e continuerà a vivere tramite quello!” la provò a rassicurare Stevin, non sapendo bene come comportarsi.

“Sarebbe stato meglio nel cielo, che è il suo elemento, sarebbe stato meglio vivo. Ora non sente più niente.” affermò monocorde Marta, osservando per l’ultima volta le piume arruffate e il beccuccio semi-aperto.

“E’ un bel posto però, non trovate? Sniff, anche io… anche io vorrei riposare qui.” biascicò Michela, asciugandosi gli occhi.

Marta annuì, laconica, prima di posare il corpicino al centro della buca.

“E ora?” chiese Michela, pur temendo la risposta.

“Lo si ricopre. - asserì Stevin, dolente – E’ così che il nonno ed io facciamo quando ci muore una gallina che ci ha sempre dato delle buone uova. Non la mangiamo per rispetto nei suoi confronti, la ridistribuiamo semplicemente nel circolo.”

I bambini osservarono insistentemente il corpicino. Sebbene sapessero cosa fare, esitavano, forse nella speranza, dura a morire, che potesse veramente riprendersi e rialzarsi in piedi, pigolando per il cibo come aveva fatto per tutti quei giorni passati. Infine, con un sospiro prolungato, Marta per prima accennò il movimento di ricoprirlo.

“Aspetta. - la fermò tuttavia Francesca, trattenendole una mano, prima di conficcare una roccia rettangolare, rassomigliante ad una mattonella, nel terreno in modo da incastrarla – Ecco, così è più decoroso, pensavo inoltre che potremmo pure ornare il giaciglio con sassolini, foglie, muschio e simili.” propose, l’espressione ancora un poco distante, ma più presente.

Era una buona idea, i bambini sorrisero mestamente, prima ad accingersi a svolgere l’ingrato compito. Nessuno parlò durante le operazioni, il compito venne svolto con il massimo del rispetto e della solennità. Mezz’ora dopo, il simulacro era pronto, abbellito con ramoscelli, pietruzze, foglie e muschio. Michela, con i lacrimoni agli occhi, si mise a pregare, Francesca la seguì, più per farle compagnia che non per altro; Stefano guardò Marta di profilo, la quale, silente, avvolta come sempre nel suo malessere, rimaneva insistentemente ad osservare la lapide preda di pensieri che solo minimamente lasciava trasparire agli altri.

“Non ha senso alcuno.” rimuginò infine tra sé e sé, aspra, dando voce a quello che doveva essere solo un pensiero. Quando se ne accorse si morse la lingua.

“Marta, che cosa non ha senso?” chiese Francesca, pur intuendo già la risposta.

“La sua esistenza così. - fu infatti la tassativa risposta della bambina, mentre le mani le si stringevano a pugno – Non ha senso alcuno essere nato per poi essere morto prima ancora di sapere cosa fosse la vita. Poteva allora non nascere direttamente? Essere predato prima di essere senziente?! NON HA SENSO!”

“Non deve… avere senso per forza!” sospirò Francesca, sapendo di star varcando un confine pericolosissimo con l’amica.

“Oh, lo so! - fu la subitanea risposta, perfino più aspra e disperata di prima – Ma non lo accetto, non lo posso accettare!”

“Che tu lo accetti o meno non fa differenza per il grande piano delle cose.”

“Non m’importa del gran piano delle cose, se la vita del singolo è priva di significato!”

“Ma è così, non ci puoi fare nulla. - insistette l’amica, alzando un poco il tono – Lo hai ben visto da te in questi anni che hai passato in mezzo alla Natura, a lei...”

“HO DETTO CHE NON LO ACCETTO!!!” Marta quasi urlò preda alla rabbia e, per un momento, uno solo, Camus temette che le potessero tornare nuovamente gli occhi scarlatti come era stato durante lo scontro verbale con il nonno.

Il Cavaliere dell’Acquario si strinse nuovamente la pancia con una mano, ora nuovamente tesa e dolente, avvertendo forte e chiara in sé quella cosa scalpitare dentro di lui.

Devi fartene una ragione, piccola, le parole di Francesca, per quanto dure, corrispondono alla verità.

Le sussurrò, fievole, e la bambina, pur riprendendo tacitamente a piangere, sembrò tranquillizzarsi un poco.

“Per quanto può essere ingiusto e intollerabile per il singolo, e lo capisco, questa è la legge che regola l’universo. E’ sempre stato così e così sarà per sempre.” spiegò pacatamente Francesca, in quella che pareva tanto una condanna; la condanna del venire al mondo.

“Bello schifo!” esalò Marta, con disprezzo, osservando ottusamente verso il basso, nella speranza, sempre più vana, che l’uccellino potesse emergere dal terreno e dimostrarsi vivo.

“Per quanto sia dura da accettare, dovrete imparare a conviverci. In natura deve trionfare l’accrescersi. Quello è il fine ultimo, quello è lo scopo di ogni essere vivente. La vita esige altra vita, richiede il moltiplicarsi. Voi umani non fate differenza, anche per voi è così, anche se, a dispetto di altre creature, effettivamente qualcosa in più avete: la scintilla dell’intelletto e la capacità di scegliere.”

A quelle parole Stefano si accigliò. Guardò stranito l’amica, che tuttavia non osservava lui, ma Marta, ancora in piedi a capo chino con le mani strette a pugno. C’era qualcosa di insolito nel suo, seppur vero, discorso.

“Voi umani? - ripeté interrogativamente, notando che Francesca, alla sua domanda, si era palesemente irrigidita – Che significa? Tu non sei… come noi?”

Stefano non lo sapeva con distinzione, non in quel momento e probabilmente non aveva fatto in tempo a scoprirlo, ma la sua attenzione ai dettagli lo aveva già indirizzato bene.

“Scusate, mi sono fatta prendere la mano e ho usato il voi… - si scusò Francesca, scrollando il capo, prima di sforzarsi di tornare sull’argomento principale – La sostanza però non cambia, purtroppo, il fine ultimo è riprodurre i propri geni per superare le barriere del tempo.”

“No, non può essere.” continuò ostinata Marta, ormai sorda.

“Ascolta, è difficile, lo so, ma gli essere umani si discostano un po’ da questo schema precostituito. Questo non vuole essere una consolazione, certo, ma tu pensa che, proprio solo come uomini, noi ci poniamo domande, vogliamo scoprire il mistero della vita, ci diamo risposte, abbiamo una fede, ecc… non siamo suscettibili solo alla crudeltà della natura, no, siamo forse una delle poche specie che si preoccupa di prendersi cura di quelli meno fortunati di noi, vedi anche l’uccellino che hai tentato di salvare.”

“...”

“La mamma lo aveva abbandonato lì, aveva scelto per lui, e invece tu ci hai provato, Marta, hai provato a salvarlo.”

“Sì, e poi come ha detto nonno è morto comunque, perché la Natura aveva decretato già suo destino, a cosa è servito, quindi?”

“Al… - Francesca si fermò, non sapeva bene cosa dire, quelle domande incalzanti la mettevano in difficoltà – A dargli una seconda chance.”

Ma Marta era sorda a quella consolazione, così chiusa nel suo dolore: “E a cosa è servito? L’ho effettivamente salvato?”

“Erk… no.” fu costretta ad ammettere Francesca con un sospiro.

“Bene. E allora risparmia le parole, non mi fai sentire meglio!” tranciò di netto ogni tentativo di avvicinamento.

“Marta! - Stefano aveva assunto un tono severo, non suo, ma non poteva evitarlo, non quella volta – Francesca ha solo tentato di...”

“So cosa ha tentato, e la ringrazio per questo, ma non serve.” disse ancora lei, dando loro le spalle per poi voltarsi dall’altra parte, iniziare a scendere e fermarsi poco dopo, lo sguardo liquido in direzione del paese di Carsi.

“Marta...” la richiamò Francesca, non sapendo più come raggiungerla.

“Ribadisco quello che ho detto prima: non lo accetto e non lo accetterò mai, non POSSO accettarlo!” stabilì ancora lei, dando un’ultima occhiata agli amici.

“A-anche se dici così, tu, da sola, non...”

“NO! C’è dell’altro, DEVE esserci dell’altro! - esclamò ancora la bambina, prima di voltarsi e incamminarsi, in solitudine, verso casa. La sua voce divenne un sussurro nello scandire le ultime, frenetiche, parole, più per convincere sé stessa che gli altri – Ed io troverò questo altro che da un senso all’esistere, lo giuro!”

 

 

* * *

 

 

Agosto 2004

 

 

Dopo la faccenda dei germani e del codirosso, la piccola si era sforzata di riaprirsi al mondo alla ricerca della sua personalissima risposta al senso della vita. Ben presto, però, il percorso si era rivelato tutto meno che facile, poiché ne era rimasta inevitabilmente scottata e la piaga non guariva mai del tutto, limitandosi soltanto a dolere meno in taluni momenti. Così la piccola continuava ad osservare la realtà con dolente distacco, chiedendosi insistentemente come ci fosse finita lì, in un mondo che sembrava splendido, luminoso, confortevole e che invece si dimostrava selvaggio, spietato e crudele. Era come se la gioia e la spensieratezza tipici dell’età infantile avessero lasciato troppo presto il posto ad un male di vivere sempre più opprimente. E faceva male, quello. Soprattutto perché qualcosa di simile aveva passato anche Camus nella sua infanzia, ma lei no, non avrebbe dovuto. Non avrebbe dovuto avere quell’espressione mogia, quel velo ombroso a coprire i suoi occhietti tendenzialmente luminosi e pieni di vita, perché la sua Marta -l’Acquario lo aveva sempre percepito fin dall’inizio- di vita ne era gremita, al punto da traboccare.

Il Cavaliere si osservò ancora una volta la mano destra, ricordando la prima volta che aveva percepito le dita della piccolina stringersi alla sua, e poi ancora dopo, molto dopo, -anni, per l’esattezza!- quando, dopo le ferite infertogli dal nemico, caduto nelle tenebre dell’incoscienza, oltre al tocco e alla stretta del suo amico Milo, vi era stata solo la sua mano a poterlo sorreggere, spingendolo a reagire proprio in virtù di quella vita che tanto amava.

Sorrise, gli occhi lucidi nel ricordare l’emozione di quei momenti, il calore invincibile di quelle parole. Provò ad accarezzare il fagotto di coperte che era la sua sorellina, tuttavia non lo raggiunse. Sospirò. Di nuovo non aveva il pieno controllo di quell’attitudine che sembrava andare e venire a piacere di qualcun altro. Si massaggiò la pancia, percependola nuovamente inerte, quasi… svuotata!

Marta...

Quella sera la bimba stava male, era piuttosto evidente. L’atroce consapevolezza che il mondo non fosse affatto un paradiso, come aveva pensato all’inizio, ma una piazza caotica dove il più forte uccideva il più debole, si era fatta più forte quel giorno, privandola di ogni energia per lasciarla debole e indifesa a letto per tutta la durata del dì. Impossibile da riscuotere, ci avevano comunque provato i nonni, entrambi, poi la mamma, da poco giunta nella casa in campagna dove sarebbe rimasta per le due settimane di ferie estive. Tutto inutile! Marta non aveva voglia di comunicare, a tratti neanche di respirare, tanto aveva interiorizzato il dolore. Riusciva a stare solo lì, rannicchiata sotto le coperte, a rabbrividire per un freddo che nulla aveva a che fare con la temperatura esterna. Foxy, il suo peluche preferito a forma di volpe, era tenuto tra le braccine, unico conforto palpabile nel buio che l’aveva avvolta.

Forza, devi reagire, piccolina… -le disse ancora Camus, chinandosi su di lei nella pallida speranza di comunicare ancora- Dove è finita la tua voglia di vivere, il tuo elogio alla vita? Tu… sei stata tu a risvegliarmi dalle tenebre più di una volta, è al tuo inno alla vita che mi sono aggrappato per non cedere. So che puoi trovare la tua risposta, Marta, l’hai data perfino a me quando ero in coma!

Tutto inutile, non lo sentiva e neanche lo percepiva. La bimba si girò dall’altra porte, portandosi dietro Foxy per poi rannicchiarsi ancora di più, avviluppandosi tra le coperte, chiusa al mondo che tanto la addolorava.

Non era da Camus arrendersi, non lo era mai stato, men che meno con lei. Per cui, svoltando il letto, cambiò lato, lo stesso della sorellina, per apprestarsi ad agire in qualche modo. Di nuovo provò a toccarla, a riscuoterla, ma non la raggiunse. Era indeciso sul da farsi quando, all’improvviso, la porta della camera si aprì, rivelando la figura di un signore anziano dallo sguardo severo, gli occhiali tondi e spessi, le labbra allineate in una leggerissima espressione di disapprovazione che, in verità, celava molto altro.

Nonno!

Lo chiamò immediatamente Camus, quasi sussultando sul posto. Indietreggiò di un passo esattamente come quando accadeva da piccolo. D’altronde, gli aveva sempre dato una sorta di timore referenziale miscelato all’affetto, perché era sempre stato una persona intrinsecamente buona, era vero, ma intransigente al limite della spietatezza, come aveva dimostrato quella stessa estate. Ciò che diceva lui, del resto, era il Verbo, sempre così convinto di aver ragione su tutto e tutti, sempre pronto a giudicare gli ideali degli altri come puerilità.

Il ragazzo si morse il labbro a quell’ennesimo pensiero, rendendosi maggiormente conto di quanto ci fosse stato affine, al suo carattere, sebbene da piccolo si fosse ripetuto più volte di non diventare come lui. Giammai.

E invece…

Si strinse la mano a pugno, tremando, ripensando nuovamente a Hyoga e a tutto il dolore che, mascherato da lezione, gli aveva impartito. Costrinse la sua mente ad andare oltre. Non era ancora capace di accettare il suo fallimento con lui. Non ancora.

Nonno, Marta sta male! Ascolta quello che ti ha detto la nonna e, almeno tu, fai qualcosa per…

“Bi, bi, bi, bi, bi… BI!”

Anche Marta aveva percepito il suo ingresso e, come spesso accadeva dopo la faccenda del codirosso, aveva preso ad agitarsi, sproloquiando parole brevi e inesistenti allo scopo di non dover comunicare con lui.

Camus osservò la piccola rifugiarsi ancora di più sotto le coperte, ne riconobbe il sopraggiungere di una crisi; guardò quindi il nonno, quasi implorante, vide la sua espressione gremita di sdegno.

Nonno, per favore…

“Biro, biro, biro! Biiiiro, biro, biro!!!”

Non ci fu altro, la porta si richiuse, lasciando la piccola da sola di nuovo sul letto, quando avrebbe avuto solo bisogno di affetto e calore. Nella stanza riecheggiò un singhiozzo e poi un altro ancora.

Vecchio ottuso che non sei altro! Perché continui a non capire?!

Lo sguardo di Camus divenne sussiegoso. Venne colto dalla collera, maledicendo il nonno per la sua incapacità di comunicazione che lui stesso aveva malauguratamente ereditato. Non pensò, non ragionò oltre. Non potendo interagire con la piccola perché quel dannato potere funzionava a spizzichi e bocconi, si diresse immediatamente verso la porta appena chiusa, la colpì con un pugno, aprendola di slancio per poi farla sbattere contro il muro senza curarsi di poter essere sentito. Percorse quindi il corridoio del piano fino a scendere le scale dove aveva capito trovarsi il salotto.

Il nonno aveva messo le ali ai piedi e già non c’era più, caricando a spron battuto certo delle sue convinzioni, ma la sua voce lo accolse comunque subito all’ingresso della sala in questione.

“Anto, dobbiamo parlare...”

Camus entrò nel salotto, i battiti cardiaci più rapidi a causa della rabbia si placarono solo nel distinguere l’espressione sorpresa della madre, seduta su una delle comode poltrone. Dopo l’iniziale sbigottimento, la vide tendersi per poi portare anche i muscoli e le spalle esili ad irrigidirsi. Con ogni probabilità, aveva già presagito dal tono di voce che doveva trattarsi di un argomento piuttosto spinoso.

“Papà… - sussurrò in un fremito, alzandosi istintivamente in piedi – Di cosa?

“Di Marta. - disse l’altro, sbrigativo, rivolgendosi alla figlia con la voce che, nonostante la vecchiaia, possedeva comunque un timbro estremamente virile – Non sta andando bene in questo periodo, involve, invece di crescere!” affermò, senza un minimo di esitazione.

Parole dure, professate con un timbro severo. A Camus bastarono per affinare lo sguardo, cancellare la pallida calma che gli aveva infuso la sola vista della madre e irrigidirsi a sua volta.

Dovresti essere fiero, di lei… -sibilò tra sé e sé, furente- E invece… invece!!!

“Che cosa… intendi?” la voce di Antoinette si era fatta inaspettatamente fredda.

“C’è bisogno che te lo spieghi? Certo, tu non sei sempre qui, mio usignolo, perché sei dedita al lavoro e in carriera. – la chiamò con il nome che le dava da piccola, forse sperando di rabbonirla, forse avendone semplicemente bisogno – Non sai, non immagini, che cosa abbia vissuto, ma...”

“Veramente lo so, perché lei me ne parla. - Antoinette affinò lo sguardo nella sua direzione in maniera non dissimile da come aveva fatto inconsapevolmente il figlio – So della germanotta, so del codirosso e, se vuoi la mia opinione, papà, quello potevi risparmiartelo, potevi risparmiarle di farle vedere il corpicino!”

“Ho… ecceduto in quella circostanza.”

“Certo, come accade di frequente quando bevi troppo vino rosso. Dovresti smetterla!”

“Ho sbagliato i modi, d’accordo, ma il messaggio che le volevo dare lo condivido anche adesso: Marta deve rendersi conto di cosa comporti il peso dell’esistenza! Prima lo farà, meglio sarà, soprattutto per lei, perché diventerà più forte di chiunque, dura abbastanza per resistere alle intemperie della vita.”

“Soprassediamo, va’! - buttò fuori aria Antoinette, aspra, trattenendo a forza la rabbia – Il punto è che, anche se lavoro a tempo pieno e la vita che mi sono scelta mi occupa gran parte del tempo, ho un ottimo rapporto con mia figlia, quindi non ti azzardare a dire che io non so, che non immagino, che non...”

“Mi dispiace, non volevo dire questo. - ritrattò il nonno, con un sospiro, sedendosi lui sulla poltrona e appoggiando stancamente le braccia sui braccioli – Ma se lo sai, a maggior ragione, dovresti essere allarmata quanto me.”

“E perché?”

“Perché?! - ripeté lui, recuperando un po’ di baldanza – Non lo so, Anto, dimmelo tu, visto che dici di saperlo. Fa cose STRANE, come guardare i caprioli decomporsi! Quale bambino sano di mente fa ciò?! Poi, d’accordo, io forse non avrei dovuto farle vedere Bilbo morto, avrei semplicemente dovuto reggere il gioco della Inés e dirle che era volato via da solo, ma voi donne della casa l’avete fatta crescere troppo nella bambagia, e comincia ad essere troppo grande per credere alle storielle!”

“Quindi, per questo ideale, l’hai messa in faccia alla morte, sebbene ci si fosse già trovata, e ora non va bene che abbia reagito così...”

“Io… certo che no, non è per quello. - tentò di riparare lui, nuovamente preso in contropiede – E’ che… uff!”

“Papà, Marta sta attraversando una delicatissima fase della sua crescita. E’ intelligente e si pone un sacco di domande, alcune delle quali non trovano risposta. Prima aveva un concetto di morte molto più indulgente, ora… - sospirò ancora, più profondamente, sentendosi improvvisamente stanca e decidendo all’ultimo di lasciare in sospeso la frase – Semplicemente non lo accetta, non ci vuole credere, perché AMA la vita.”

“Ama la vita e va a vedersi i caprioli decomporsi...” inarcò un sopracciglio il nonno, affatto convinto.

“Voleva capire bene il processo, e poi… voleva accompagnarlo.”

“Per dove?”

“Per… lascia perdere, non capiresti. - scosse la testa, prima di fare comunque un tentativo - Come reagiresti se ti dicessi che lo ha sentito chiedere aiuto? Che insieme a Stevin hanno provato ad aiutarlo, ma che non ci sono riusciti perché sono arrivati tardi?”

“Se non fosse mia nipote, penserei che si fosse ammattita!”

“Ecco, come volevasi dimostrare! Sei sordo e cieco al credo degli altri!”

Dante incassò il colpo ma non si scompose. Non era importante, del resto, affatto pertinente alla ragione del suo dialogo.

“Antoinette, non è comunque normale questa cosa...”

“E cosa dovrei fare, quindi, pà?”

“Portarla da un qualche specialista per...”

“Non mi starai dicendo di portarla a curare, vero?! Marta non ha nulla che non vada!”

Secca, inamovibile e diretta quando si trattava di proteggere i suoi figli. Sempre.

Testarda, scostante e sorda appariva agli occhi di suo padre, che rabboccò aria nella necessità di farla ragionare, dato che, in determinati casi, pareva un mulo cocciuto, più che un usignolo. Non demordette, l’argomento era della massima importanza e urgenza.

“Ascoltami, Anto...”

“Tra poco metto su il caffè, ho anche fatto dei biscotti per la piccina, per invogliarla a venire, visto che è un periodo che sembra nuovamente tanto giù.”

Dalla porta che dava sulla cucina emerse la nonna con un grembiule rosso indosso e la caffettiera tra le mani. A Camus si aprì di nuovo il cuore nel vederla. Guardò, riguardò la sua famiglia unita in quel salotto, sentendosi per l’ennesima volta spezzato, scardinato dalle sue stesse radici. Trattenne un lamento dentro di sé, mentre l’anziana signora, come persa nel vuoto, sostò a lungo su di lui senza tuttavia saperlo veramente. Si riscosse solo qualche secondo dopo nel posare un’occhiata tra i due contendenti, posti uno dirimpetto all’altra, a dimostrazione tangibile dell’alterco che stavano vivendo in prima persona.

“Oh, non starete ancora litigando per..?”

“Inés, torna in cucina e non mettere ancora nulla sul fuoco! Il dialogo è ancora piuttosto lungo.”

“Ma...”

“E’ un discorso tra me e Antoinette, vai!”

Con un sospiro profondo, la nonna, sempre accondiscendente nei confronti del consorte, tornò nel luogo che, si diceva, le spettasse più di ogni altro.

Puoi anche morderti la lingua ed evitare quel tono con lei, Nonno! -ringhiò Camus incapace di trattenersi- Siamo nel XXI secolo, ormai!

“Pà, questa patina di patriarcato puoi anche tenertela, non siamo più… ai tuoi tempi!” gli sibilò a sua volta Antoinette, ricalcando inconsapevolmente le orme del figlio.

Camus si meravigliò nell’udirla, oltre a stimarla sinceramente ancora di più. La guardò con occhi profondi senza tuttavia poter essere visto.

Quell’espressione… era la stessa, identica, che assumeva Marta quando qualcosa non la aggradava o provava l’istinto di proteggere le persone che amava. La conosceva bene. Se ne sentì incommensurabilmente riscaldato.

“Non volevo essere così brusco, ma è necessario chiarire questo punto e ho il bisogno di darti dei consigli… - il nonno prese una pausa nell’andarsi a sedere sulla poltrona prima di proseguire – ...Visto che sono rimasto l’unico uomo della famiglia!”

Antoinette accusò il colpo, piegò innaturalmente le labbra in un fremito di disapprovazione: “Come ti dicevo, del tuo patriarcato, puoi...”

“Non è il discorso del patriarcato, figlia mia, è la pura e semplice verità: io sono rimasto da solo, è mio compito aiutarvi, consigliarvi e proteggervi. Ho delle responsabilità nei vostri confronti, è il mio ruolo!”

“Dimmi, allora, visto che ci tieni così tanto.”

Era fredda come il ghiaccio nel nascondere dentro di sé quella scintilla di sofferenza mai del tutto assopita che si faceva più viva che mai proprio in quei momenti. Si costrinse a farsi forza e a mascherarla, ma era perfettamente percepibile dai suoi occhi quasi lucidi.

A Camus doleva il cuore a vederli così, a vedere che, nonostante gli anni passati, non si fossero mai dimenticati di lui -sarebbe stato forse meglio!- e che ancora la sua separazione procurava loro un dolore difficilmente calcolabile.

“Non l’ho detto fin’ora, perché pensavo che, almeno lei, fosse… normale… - il nonno abbassò lo sguardo nel ricercare le parole giuste da adoperare – Ma, allo stato attuale, con gli ultimi accadimenti, bisognerebbe valutare di fare dei controlli anche alla piccina.”

“Perché?!”

La freddezza di sua madre aveva lasciato il posto ad una nuova punta di ostilità non del tutto trattenuta. I suoi occhi fiammeggiarono, forse cominciando ad intuire dove sarebbe stato condotto il discorso. Dante sospirò, guardò altrove, non del tutto capace di far valere le sue posizioni con la figlia adorata.

“Perché, sai, è una sicurezza in più, non vorrei che… che avesse gli stessi problemi di… di... - si trattenne, visibilmente nervoso, per non dire angosciato. Sapeva di star sfondando una porta aperta e ne aveva timore, sebbene si fosse da sempre considerato un uomo forte e risoluto – di lui.”

“Di Camus, intendi?! - Antoinette pronunciò il nome del figlio con un sibilo prolungato, faceva accapponare la pelle. Il diretto interessato sussultò, mentre il discorso andava a prendere una piega sempre più turbolenta - Santo cielo, papà, cos’è?! Non riesci più neanche a chiamare per nome tuo nipote più grande?!”

Dante sembrò accusare nuovamente il colpo, strinse i braccioli della poltrona, si fece scuro in volto per poi chiudersi in un mutismo pesantissimo. Aveva riposto grande fiducia nel nipote maschio, in lui aveva visto una speranza, un barlume per il futuro, un aiuto concreto per la gestione della famiglia. Ma era nato sotto una sorte infausta e portato via lontano da loro. Per sempre.

“Tu hai permesso a quell’uomo di condurlo via! Io ero contrario!” esclamò di un tratto, guardandola torvo.

Si riferiva a Shion. Era lampante.

“Non avevo alternative.”

“Lo hai allontanato da noi e ora… ora rinfacci a me il fatto di non riuscire neanche a nominarlo?!”

“Non sai bene le dinamiche...”

“Neanche mi importa di saperle: tu hai permesso a Camus di essere condotto lontano da qui, lo hai fatto andare con quel santone che farneticava di cosmo e stupidaggini varie! Tu ti sei fatta convincere da lui!”

“N-non c’era stato bisogno di nulla per convincermi. I... i fatti hanno parlato da soli, e poi... è stata una scelta di Camus.”

Cosa?! E’ stata una MIA scelta?!

No, qualcosa non tornava. Non era stato forse obbligato da Shion a seguirlo perché predestinato?! Ora saltava fuori che lo aveva scelto lui stesso?!

“CERTO! Una scelta di Camus che aveva appena 5 anni, come no!”

“Camus era speciale, lo è sempre stato! Sei tu a non essertene mai reso conto! - lo biasimò, senza mezzi termini, difendendo con le unghie e con i denti il figlioletto più grande - Sei un ottuso, non vedi oltre il tuo naso, ma non mi meraviglia!” alzò ulteriormente il tono Antoinette, rossa in viso, perdendo la pazienza come raramente succedeva.

“SARO’ ANCHE UN OTTUSO, MA IO NON ABBANDONO LA MIA FAMIGLIA, NON SONO QUELLA SCHIENA DRITTA CHE TI SEI SCELTA COME MARITO!!!” sbraitò Dante, furente, alzandosi in piedi di scatto.

Parlava di Efesto in quel momento, e la rabbia trapelò fuori, di getto.

Antoinette si ritrasse d’istinto, gli occhi gonfi di lacrime. Nel soggiorno ricadde un pesante silenzio. Quella volta toccò a lei subire malamente il colpo senza la minima difesa. Si girò di scatto, trattenendo il pianto, portandosi una mano alla bocca per non far trapelare i singhiozzi.

Nonno, perché?! Non c’è bisogno di trattarla così! Perché sei così, perché non la ascolti?! Perché non ascolti nessuno oltre che te stesso?!?

Gli chiese più volte Camus, agitato nel vedere la propria madre reagire così. Si sentì ferito nel profondo, rammaricato, inutile. Stavano litigando a causa sua e non poteva farci nulla.

Già, perché il nonno non ascoltava mai nessuno? La risposta, invero, gli giunse come una doccia fredda di consapevolezza, mentre, sgranando gli occhi perché, per qualche istante, la vista si era annebbiata, arrivava alla dolorosa evidenza: e lui aveva mai ascoltato qualcuno? Aveva ascoltato il suo migliore amico Milo, dopo la morte di Isaac, che gli consigliava di mantenere moderazione con l’allievo rimasto? Aveva anche solo udito i suoi consigli di trovare in Hyoga un sostegno al suo dolore e non un estraneo, un qualcuno da far crescere a forza, anche con l’ausilio della spietatezza?

No…

Lui aveva agito con Hyoga esattamente come il nonno nei confronti di Marta. Per un fine reputato superiore che però aveva causato l’effetto opposto.

Lui era la fotocopia del nonno. Né più né meno. Si sentì mancare il respiro.

Perdonami, piccolo mio… -si disse, rivolto all’allievo amato, massaggiandosi la fronte con le dita- volevo aiutarti a diventare più forte, invece sono riuscito solo a farti soffrire di più!

“Io... ti chiedo scusa, usignolo mio, non volevo rimarcare quel tasto dolente, ho esagerato.” chiese a sua volta perdono Dante, tornando a sedersi sulla poltrona con rassegnazione, le dita di nuovo strette sui poggia-braccia.

Nonno e nipote, senza che il più vecchio potesse saperlo in qualche modo data l’invisibilità dell’altro, impastarono con la bocca allo stesso modo, consapevoli di aver esagerato. Entrambi sapevano di aver sbagliato; entrambi erano perfettamente consci che le parole lanciate non sarebbero più tornare indietro prive di conseguenze, e, quelle stesse parole, avevano appena straziato chi non avrebbero MAI dovuto straziare.

“So che non capirai mai il motivo della mia accondiscendenza verso il Nobile Shion, perché è così che si chiama, pà, te lo avrò detto un milione di volte...”

“Non mi interessa sapere il nome di chi ha distrutto la nostra famiglia.”

“Non importa. L’ho fatto per un motivo specifico, perché là dove si trova ora è di certo più al sicuro che qua.”

“Lo avrei protetto io, lo sai...”

A Camus si strinse il cuore nell’udire le brevi parole del nonno pronunciate con slancio. Dovette trattenere un singhiozzo. La fortezza cui si era riparato per continuare il viaggio nei ricordi della sorellina stava cominciando a sgretolarsi e lui ne veniva sballottato con difese sempre più labili.

“Non sarebbe bastato.” scrollò la testa amaramente Antoinette, soffiando fuori dalle sue labbra sottili tutto il peso di quella scelta.

Ma cosa significava che non sarebbe bastato? Cosa intendeva, nello specifico? Non era stato portato via dalla sua famiglia di origine solo per diventare Cavaliere d’Oro di Aquarius? O… c’era dell’altro?

A Camus passò un brivido lungo la schiena nel rendersi conto che sua madre aveva un’espressione addolorata proprio davanti a lui. Nulla sembrava poterle risollevare il morale, e ancora, una volta in più, faceva male al solo vedersi.

“Non era comunque di questo che volevo trattare. - il nonno parve fare retromarcia, forse intuendo lo stato d’animo della figlia – Camus non c’è più, non è più con noi.”

“No, c’è sempre Pà, sarà sempre con noi, anche se fisicamente lontano...” lo corresse Antoinette, compiendo qualche passo in avanti, passando sempre inconsapevolmente al fianco del figlio per poi appoggiarsi stancamente al muro perimetrale.

“In ogni caso, è di Marta che vorrei parlare. – disse burbero l’altro, affrettandosi a ripiegare sulla nipote più piccola – Non va bene, sembra essersi chiusa al mondo!”

“Pà... - sospirò affranta Antoinette dal non riuscire a farsi capire – ne abbiamo già parlato, non c’è nulla che non vada in lei!”

“Non è così e in fondo lo sai, lo vedi bene anche da te, non puoi negarlo. Ultimamente è anche peggiorata...”

“...”

“Si sta chiudendo al mondo. E’ riottosa, sfuggente, perennemente triste. Tende ad isolarsi e non è normale per una bambina della sua età.”

“Ha sempre avuto di questi problemi con le persone esterne al suo nucleo famigliare, non te ne eri mai accorto?”

“Ma con Michela e Francesca...”

“Le considera parte della sua famiglia, essendo oltretutto che io sono amica di lunga data delle loro rispettive madri.”

“E Stevin, allora?”

Antoinette si ritrovò a sorridere, raddrizzandosi prima di girarsi e osservare gli occhi scuri di suo padre.

“Lui è stato il suo primo vero amico trovato con le sue sole forze, in effetti. Una benedizione! Ancora ringrazio l’estate del 1999 per averle concesso questa possibilità e… voi, per aver scelto di andare a vivere in campagna e concederle così, anche se non potevate saperlo a priori, questa possibilità!” ammorbidì il tono, forse sperando di abbonirlo o comunque deviare argomento.

“Ne sono lieto anche io, di questo, ma… ora si sta nuovamente involvendo, non ti pare?”

“Io… di cosa avrei dovuto accorgermi, Pà?”

“Del suo stato, del suo malessere, della sua insofferenza alla vita… è come se si stesse spegnendo!”

Qualcosa negli occhi di sua madre portò Camus a capire che anche lei aveva ben presente, che se ne era resa conto, ma vi era comunque qualcosa di diverso, una consapevolezza quasi opposta.

“Lo era anche da molto piccola, prima che conoscesse Stevin. Era sola all’asilo, è stata presa in giro ripetutamente e presa di mira dalle compagne. Ha sperimentato la solitudine troppo presto e, qualche volta, ci ricade. La vita è così, si inciampa, ma si va avanti… ed io sono fiera di lei!” esclamò con forza, affatto arrendevole.

“Siamo d’accordo, su questo, ma ciò non toglie che potrebbe essere… - anche stavolta nonno Dante si fermò, non sapendo bene se raddrizzare il tiro o andare avanti fino a sfondare la porta come aveva sempre fatto in tutti quegli anni. Decise per quest’ultima opzione. - ...come il fratello!” ultimò la frase con disappunto malcelato, anche se non del tutto voluto.

Antoinette ridusse immediatamente gli occhi a due fessure, l’aria attorno a lei parve vibrare.

“Non vi era nulla che non andasse in Camus!” lo freddò seduta stante, scattando come belva desiderosa di proteggere la propria prole.

“Non lo sappiamo con certezza. Non possiamo escludere che fosse... autistico!”

Io non sono..! Ma anche se lo fossi, cosa ti importa?!

“Ancora con questa storia?! Abbiamo fatto tutte le visite necessarie per escluderlo PER TUA INIZIATIVA! Lo abbiamo girato e rigirato peggio di un calzino, gli abbiamo fatto venire i traumi di essere continuamente maneggiato, e tu...”

“La scienza ha fatto passi avanti!” le fece notare lui, inarcando un sopracciglio.

“Sì, e tu sei retrogrado anche in questo! Non è più considerata una malattia, solo una diversa forma mentale! Anche se lo fossero… che male ci sarebbe?! Non intendo far subire a Marta lo stesso iter di controlli a cui hai sottoposto Camus, NON PIU’!”

“Vedo che parlarne è inutile...”

“Non è una malattia da cui guarire! Se lo fossero, se dovessero avere dei lievi disturbi dello spettro autistico, perché così si chiama adesso, Pà, sarebbe il caso tu ti informassi, sarebbe solo il loro modo di vedere le cose, di gestirle!”

“Constato, con rammarico, che, accadeva già prima, ma da quando quell’omuncolo che ti sei scelta come marito ti ha dato la seconda figlia, tu hai smesso di ascoltare tuo padre! - sospirò, visibilmente affranto ma non meno ardimentoso nell’esposizione – Da piccola, mia adoravi, e adesso...”

“Nessuno può toccare i MIEI figli! - la schiettezza con la quale uscì l’affermazione scosse nonno Dante quanto Camus, che la osservava sbalordito – NESSUNO! Neanche tu!”

Ricadde il silenzio, più pesante di prima. Antoinette non guardava altri che il padre, Dante non guardava altri che sua figlia. Alla fine fu lui a cedere per primo, abbassando lo sguardo, più o meno nello stesso attimo in cui si udì il cigolare di una porta e una vocetta infantile esordire con un:

“Mami...”

Nonno, madre e fratello sussultarono e inorridirono nella paura che la piccola Marta, adesso in piedi dall’entrata del soggiorno, fosse sbucata come dal nulla per chiedere delucidazioni in proprosito. Poteva aver udito il dialogo, in qualche modo?

Ma la piccina sembrava parecchio assonnata, si sfregava gli occhi, sbadigliando di tanto in tanto, pareva aver confusamente sentito solo il vociare alto dei due senza però afferrare il discorso cardine.

“Ma-Marta! Pensavamo che stessi dormendo, n-noi...” Antoinette esitò, approcciandosi così alla figlia più piccola.

“Ci provavo, sì, ma poi ho avuto un incubo!”

“Su cosa, gabbianella?”

“Su… sulle tenebre, sulla… morte! – le sfuggì un singulto nell’esprimerlo, aprì gli occhi grandi e profondamente blu. Camus dalla sua posizione ne percepì la paura viscerale – Mi afferrerà prima o poi!”

“Ma tu non devi pensare a questo, chi..? Marta, ci sono tante cose belle nella vita, e tu lo sai, perché ora non le vedi più?”

“Perché tanto prima o poi accadrà, no? La morte verrà a prendermi, come verrà a prendere ognuno di noi. Quale è quindi il senso? Essere felice, respirare, tenere tra le dita un piccolo uccellino palpitante, se tanto tutto avrà fine? - chiese, perfettamente razionale, mentre veniva abbracciata di riflesso dalla madre e il nonno, pur da lontano, le dava un’occhiata profondamente triste – Mamma, ho pensato anche una cosa...”

“Che cosa, gabbianella?”

“Il fratello maggiore, forse… - si ritrovarono a sussultare tutti insieme, ancora una volta, nel terrore che li avesse uditi – Non lo voglio più!” borbottò, improvvisamente laconica, alzando le braccia per chiedere di essere presa in braccio.

“Perché ora anche questo? Lo hai sempre voluto...” osservò la madre, prendendola in braccio per guardarle attentamente il visetto nel cercare di capirla.

“Perché non voglio che muoia anche lui. Perché se nasci poi muori, no? Non voglio! - la piccina scrollò con forza il capo, appendendosi al collo della madre mentre i lacrimoni le uscivano dalle palpebre serrate – E poi… non voglio moriate anche voi, NON VOGLIO! C-come l’anatra, come il capriolo che Stevin ed io non siamo riusciti a salvare, c-come il codirosso...”

“Marta...”

“C’è un modo per evitarlo? Per salvarvi? Anche nonno Mario dice che è naturale, che è nell’ordine naturale delle cose e che col tempo lo si impara ad accettare, ma io… NON VOGLIO! Buuuuu, non voglio che vi accada qualcosa di così terribile! Io voglio vivere per sempre con voi, perché la vita è bella, è calda, e non posso sopportare che, di colpo, possa cessare!” disse ancora, scoppiando poi irrimediabilmente a piangere alla ricerca di un conforto.

Antoinette se la coccolò un po’, calmò i suoi singhiozzi, carezzandole i capelli un poco spettinati con gesto gentile della mano. Cercò poi lo sguardo del padre alla ricerca di un sostegno che riuscì a trovare.

“Devi affacciarti alla realtà, Marta, ci sono cose che noi umani non possiamo impedire.” disse alla nipote, sempre un poco burbero, sebbene il suo sguardo fosse caldo.

“L-lo so, nonno, sigh, m-ma...”

“Non si riduce tutto alla morte. Lo imparerai nel percorso della tua vita.”

“M-ma lei sarà ad aspettarci in fondo, no? N-non è come nullificare tutto?” chiese la piccina, gli occhioni lucidi.

“No, è piuttosto il contrario. Il senso del nostro esistere è convalidato proprio perché, prima o poi, ci sarà una fine.”

“N-non capisco, nonno, sigh! - singhiozzò lei, nascondendosi gli occhi con la radice del palmo – Non lo posso capire!”

“Ne capirai il senso, invece, nipote mia, lo capirai… e tutto si farà più chiaro in te. Imparerai ad accettare anche ciò che al momento ti sembra intollerabile.”

“E se non lo volessi accettare?!”

“Soffrirai di più nel non accettarlo. La vita è essenzialmente mutare e divenire. La resistenza al cambiamento è vana. Chi si ferma è perduto, bisogna muoversi fintanto che si ha fiato in corpo.”

“M-ma io non...”

“L’alternativa è essere nulla, non percepire il calore del sole, né il cinguettare degli uccelli, né il sapore degli alimenti, né qualsiasi altra cosa che ti fa amare questa vita. Preferiresti questo, Marta? - gli chiese, sospirando appena, guardando un attimo fuori – E’ vero, in questo caso non avresti neanche mai sofferto, non avresti conosciuto la morte e il freddo, ma… sarebbe davvero meglio per te?”

La bambina parve rifletterci un po’ su. Abbassò lo sguardo lucido, si strinse al petto della madre. Non aveva parole con cui comunicare.

“Non ti chiedo di darmi una risposta ora, so che sei combattuta e che probabilmente la tua non sarebbe una risposta univoca, ma hai tempo per riflettere, bimba mia… - sorrise appena, senza riuscire a mascherare una punta di dolore nel dire quella frase – Una vita intera!”

Silenzio. Camus guardò con spasimo la sorellina nel percepire il suo cuore da colibrì battere veloce, all’impazzata, vittima di un peso atroce che non era ancora in grado di gestire.

Marta, come lui in giovane età, anche se in circostanze diverse, essendo così incredibilmente percettiva, aveva capito quasi subito l’enorme peso dell’esistenza, ma era stata solo la sorte della famigliola di anatroccoli a mostrargliela nella sua crudezza. Osservare la natura, sentirla tangibile dentro di sé voleva anche dire affacciarsi inevitabilmente alla morte, rendersi conto che fosse ineluttabile. Questo le aveva instillato un forte attaccamento alla vita, una sorta di idealizzazione dell’esistenza cui ora si scontrava nel vedere quanto essa stessa potesse essere crudele e truculenta.

La osservò dolente. Avrebbe solo voluto aiutarla, abbracciarla, crescere con lei proprio per farle capire quanto fosse comunque bello vivere, quanto ne valesse la pena… ma Camus dell’Acquario non aveva potuto farlo, perché quel ruolo gli era stato strappato, così come la sua famiglia. Pregò che sua madre riuscisse in ciò che a lui era stato precluso.

Ad un certo punto Antoinette, diventando ancor più seria, le posò un bacio sulla fronte, osservandola poi negli occhi nell’asciugarle, con la punta delle dita, le guance fradice. La bambina tirò su con il naso. Non amava piangere in loro presenza, il nonno glielo vietava perché era da deboli, ma quella volta sembrava abbastanza comprensivo, ciò la portò a ributtare da sola indietro le lacrime per renderli fieri.

“Marta, torna in camera tua, per adesso, va bene? Io e nonno finiamo un discorso serio tra noi, poi sarò da te, intesi? Ti terrò stretta stretta fintanto che non ti riaddormenterai… perché non sei sola, piccina, non lo sarai mai, mi capisci?”

“Sì, mamma...”

“Vai, resisti ancora un po’ al buio. Sarò presto da te!”

Così la piccola, appena posata a terra, zampettò fuori, i passi ancora un poco disconnessi, sparendo così dalla loro vista. Camus non esitò che una manciata di secondi soltanto. Diede un’ultima occhiata intensa alla mamma e al nonno per poi dare loro le spalle e seguire la sorellina.

La mamma l’avrebbe raggiunta più tardi, così aveva detto e ne era assolutamente certo, ma non voleva lasciarla sola.

Era riuscito a seguirla facilmente fino in camera. Stava diventando abile a muoversi fra i sogni, anche se ciò gli provocava un grande dispendio di forze ed energie. La vide abbozzolarsi sotto le coperte e riprendere a piangere, al punto che ne emergeva solo la testolina e parte del braccio per tentare di nascondersi al mondo. Singhiozzava, frenetica, alla ricerca di risposte che non riusciva ancora a trovare e, nel frattempo, parlava tra sé e sé.

“N-non so che cosa preferirei t-tra non essere mai nata oppure… questo! Ma u-n fratello, di certo, non lo voglio più, a-anche se così mi ritrovo qui da sola. - si disse tra sé e sé, disperata – N-non lo voglio più, no, n-non voglio che... s-soffra, uh-uh!”

“Oh, piccola...” sussurrò Camus tra sé e sé, compiendo il giro del letto per poterla vedere frontalmente. Aveva il visetto bagnato di lacrime e le guance rossissime.

“N-non lo voglio più, sigh, sigh!” esclamò ancora, affondando la testa nel cuscino per convincersi.

“E invece ce l’hai, mia giovane cerbiatta. - le sussurrò lieve, chinandosi verso di lei – Ed è per me la cosa più bella, questa, essere tuo fratello maggiore!”

La bimba si rannicchiò ancora di più strizzando le palpebre e facendosi piccina piccina, quasi in atteggiamento di chiusura.

“Se avessi un fratello… soffrirebbe anche lui. Ed io non voglio!”

“Soffrirebbe… è vero, ma petite, ma la vita non è solo questo. Non è solo sofferenza e dolore, ma calore e luce.” si ritrovò ben presto a sussurrarle, desiderando stipulare un contatto.

Si distese accanto a lei nel grande letto, sdraiato su un fianco, per poi abbozzare il gesto di carezzarle i capelli. Esitò un attimo. Non sapeva ancora se ci sarebbe riuscito. Le informazioni, le stesse immagini giungevano a lui ovattate, come poco prima di addormentarsi, ma quando le sue dita, finalmente, le sfiorarono i ciuffi color castagna, il suo cuore diede un impulso più forte, trasmettendogli la sicurezza di riuscire nuovamente a toccarla.

“Fa tanto freddo, qui, in questo mondo. Fa male il cuore al solo pensarlo… la vita è davvero crudele!” si lamentò ad un certo punto lei, tirando su con il naso.

“Può essere fredda e spietata, sì, ma non solo… è anche bella, calda, e accogliente. Oltre alla morte c’è sempre la vita, e quella, vince su di essa, come, dopo un incendio, i fili d’erba riprendono lentamente a germogliare.” le raccontò, continuando a sfiorarle i capelli color castagna con le dita lunghe ed eleganti.

“Ma il capriolo morto, il codirosso, i germanotti...”

“E’ un ciclo. Facciamo tutti parte di un grande cerchio. Deriviamo dal Tutto e poi, dopo la nostra morte, torniamo al Tutto. Su questo ha ragione il nonno: cambiamo forma, ci trasformiamo, perdiamo le nostre fattezze e questo fa paura, sì, ma possiamo rinascere. Tu sei rinata, piccola mia, sotto un’altra forma, per continuare a rimanere al mio fianco!”

“...”

Ripensò brevemente a Hyoga alla sua versione infantile che gli chiedeva se credeva nella reincarnazione. Sorrise amaramente. Un tempo Camus avrebbe detto di no, nella maniera più assoluta, ma ora, in quel momento perso nei ricordi della sorellina, si disse finalmente cresciuto.

E poi… lui e Marta erano prova tangibile dell’esistenza della reincarnazione!

“Sono sicuro che qualsiasi essere vivente sia capace di farlo, pur perdendo i ricordi precedenti. Il capriolo mangia erba per poi tornare ad essere erba lui stesso. Gli atomi sono comunque eterni e l’anima; l’anima di tutte le creature, piccola mia, ha in sé questa innata capacità di rinascere. La morte è solo un passaggio, è inevitabile, ma non è la fine di tutto!”

Marta accennò con la testolina un movimento di assenso, poi si girò sul fianco opposto per appallottolarsi ulteriormente e aderire meglio al suo busto. Camus quasi sussultò nel sentire pienamente il suo corpicino caldo così vicino al suo.

“Fa meno paura questo mondo, se ci sei tu al mio fianco!”

Pareva davvero si stesse rivolgendo direttamente a lui, in qualche modo. Non era la prima volta che accadeva ma quella -realizzò il Cavaliere- era nettamente più forte delle precedenti, soprattutto avveniva senza l’interferenza di una delle due entità. Non era più tempo di incertezza.

Camus si raschiò la gola, permettendosi di cingerla con il braccio per farle percepire la propria vicinanza.

“Vale anche per me, Marta, la forza che mi dai, ogni giorno di più, è immensa! Io...” non riusciva però a proseguire, le emozioni lo soverchiavano, lui che, nella sua prima vita, aveva sempre cercato di bandire la propria sensibilità nella paura di rimanerne irrimediabilmente segnato.

Le passò l’altra mano tra i capelli per accarezzarle i ciuffi dalla fronte, soffiò delicatamente tra essi in vena di tenerezze, e subito lei si ritrovò a ridacchiare tra sé e sé, un poco più serena. Quel gesto, quella sensazione, la spinse a spostare le lenzuola di lato, permettendole di girarsi supinamente, stiracchiarsi, e mostrare così parte del pancino.

“Guarda che così prendi freddo, peste!” le disse il fratello, sollevato nel rivedere comunque di nuovo quella luce negli occhietti della sorellina, la quale sorrideva sorniona tra sé e sé.

“E’ agosto.” le fece notare lei, in una mezza pernacchia.

“Seconda metà, sì, e si sta facendo sera, in campagna, ad 800 metri sul livello del mare!”

“816.”

“Pignola!”

“Come te!”

“Io non sono… uff!” scrollò la testa, sconfitto, lasciando cadere il discorso.

Marta rise ancora, ormai completamente tranquillizzata, e lui con lei. Poi alzò le braccia, scoprendo ancora di più il ventre nel richiedere nuove, ulteriori, coccole. Camus ridacchiò tiepidamente tra sé e sé, prima di procedere.

Le pizzicò un poco il pancino in più punti con l’indice e il medio tramite delle specie di buffetti che non lasciavano segni sulla pelle. Vedendo che il gesto le aggradava, non provocandole alcun tipo disagio -contrariamente a come sarebbe stato per lui!- passò poi ad un vero e proprio massaggino in senso orario. Come Sciamano, pur non essendone propriamente portato, era stato addestrato da Fyodor a privilegiare quel tipo di contatto con i bambini malati di cui si era preso cura in Siberia, ma essendo una cosa totalmente fuori dai suoi schemi, aveva limitato quell’approccio solo ai casi indispensabili, come era stato per la sorellina di Jacob. Chiaramente non si era mai azzardato di provarlo a fare con Hyoga e Isaac, anche se, in quel momento, ne provava un doloroso rimorso. Marta, in quanto sua sorellina minore, era ovviamente l’eccezione.

Tornò a guardarla. La piccina sembrava ormai assopita, la bocca semi-aperta, le braccine piegate a formare un angolo retto e il pancino quasi interamente in mostra. Camus le fece ancora un paio di ghirigori, linee leggere e immaginarie sulla pelle, prima di tirarle giù la maglietta del pigiama come a volerla proteggere da tutto e tutti; solo alla fine, sfinito dalle proprie stesse emozioni, si concesse di stringerla in un forte abbraccio. Strizzò le palpebre, aveva il magone in gola mentre a fatica, perché l’emozione era tanta, sforzò le sue corde vocali a continuare il dialogo. Era difficile, perché era come avere un riccio piantato in gola e la faringe sembrava vibrare del tutto a vuoto. Tossicchiò nel forzare la voce.

“Shion mi ha separato da voi in tenera età, sono stato costretto a lasciarti indietro, non ti ho potuta vedere crescere e ciò fa male. Però ora… ora sono qui, accanto a te, non ti lascerò più!”

“Me lo… prometti?”

Camus sorrise nell’accorgersi che la sorella, oltre a non essersi addormentata, aveva utilizzato lo stesso tono strascicato e denso di timore di quando, vittoriosa, incurante dell’ingerenza del Mago, lo aveva strappato dalle sue mani spietate, dalle tenebre che lo stavano ghermendo e soffocando, dalla stessa violenza con la quale quel mostro lo aveva profanato. Tremò con forza al solo pensiero, dovette mordersi le labbra per impedirsi di gemere, prima di posizionarla meglio e tenerla stretta stretta.

“Ti prometto... che farò di tutto per provarci, per lottare contro la sua ingerenza, come tu mi hai mostrato.” disse, risoluto, prima di pizzicarle un poco il nasino con l’indice e il medio della mano sinistra.

Ancora una volta Marta parve poterlo ascoltare, buttò fuori aria, prima di rannicchiarsi vicino a lui e cedere del tutto al sonno, le lacrime ormai un lontano ricordo. Anche lei tramava un po’, come se il suo corpicino fosse una propaggine di quello del fratello, sebbene più formato e robusto del suo.

“Così, brava… sei bravissima!” la elogiò lui, prendendo a massaggiarle nuovamente i capelli con tutta la delicatezza di cui potesse disporre.

Così forte, eppure delicata come il petalo di un fiore, coraggiosa al punto da sfidare chiunque per proteggerlo, ma capace di piangere a dirotto nel vedere un anatroccolo morire.

“Così, lentamente… dormi!” la esortò ancora, prendendo a ripetere gli stessi movimenti di prima allo scopo di farla addormentare.

La piccola aveva ripreso a respirare tranquilla, ma la bocca era arricciata in una leggera smorfia e le palpebre fremevano ancora, tese. Camus adagiò meglio il suo volto sul cuscino, in modo da poterla carezzare senza ridestarla. Le percorse l’ovale del viso fino a fermarsi sul mento, poi proseguì sulla spalla, le distese il braccio destro per lungo, continuando a solcarle la pelle fino a giungere al palmo semi-aperto dove, sempre con le dita di piuma, si mise a tracciare dei motivi a circolo allo scopo di acquietarla del tutto.

“Non sei mai stata sola… la mamma ti vuole bene, sei la luce dei nonni e hai degli amici veri su cui contare. Non sei mai stata sola… ed ora anche io posso prendermi cura di te!” le disse ancora, emozionato, adagiandosi a sua volta sul cuscino.

I residui delle lacrime brillavano tanto sul volto della piccina quanto il suo. Avrebbe voluto scacciarle e mandare via tutta quella tristezza, avrebbe voluto esserci, giorno per giorno, confortarla quando ne aveva bisogno, o anche litigare come due semplici fratelli, chissà, per una bicicletta nuova o per non aver diviso correttamente a metà una barretta di cioccolato Kinder...

Quanto gli doleva la quotidianità che gli era stata strappata!

“Ti voglio bene...” le disse ancora, prima di chiudere gli occhi a sua volta, perché muoversi in quel viale dei ricordi, vivere le stesse emozioni di lei, era comunque tremendamente spossante.

Dormire con la sorellina al suo fianco era un momento delicato ed emozionante al tempo stesso. Percepire il suo corpicino caldo tra le sue braccia, il suo respiro perfettamente ritmico, lo confortava più di quanto lui riuscisse probabilmente a fare con lei, sebbene fosse il fratello maggiore.

Si stupì ancora una volta di quella sensazione. Non si era mai detto un tipo espansivo, né tanto meno bisognoso di coccole e tenerezze, eppure -si rese conto, pensando anche al suo passato- nei momenti di maggiori difficoltà aveva sempre avuto bisogno del contatto e del tocco delle persone che amava. Era stato sempre quello a salvarlo e a poterlo riscattare dall’oblio. Tremò un poco nel soffermarcisi. Forse, in fondo, semplicemente palesava di non aver bisogno di tutto quello per banale, stupido, amor proprio, o per orgoglio, oppure per dimostrarsi forte davanti agli altri e mostrarsi capace di proteggerli da tutto.

Lui proteggerli… pff -pensò aspramente fra sé e sé- non era stato nemmeno in grado di salvaguardare sé stesso, figurarsi!

Eppure dove non arrivo io ci siete sempre stati voi. Mi avete aiutato senza neanche che lo chiedessi, mi avete fatto sentire amato quando non lo meritavo. Ed io… cosa riesco a fare per voi? Riesco un minimo a contraccambiare tutto ciò che mi donate ogni singolo giorno?

Sospirò, nascondendo il viso nei capelli della sorellina, ormai addormentata, in un ansito. La risposta, invero, non la sapeva, il dubbio lo rodeva fin nei recessi dell’anima. Era davvero abbastanza per loro?

Si addormentò con quell’ultima, tremenda, domanda a dilaniarlo. Tutto si fece buio per quelli che parvero secondi, ma che probabilmente, da fuori, erano minuti di un tempo indefinito.

Fu svegliato dal cigolare della porta, riaprì le palpebre e strabuzzò gli occhi nel distinguere una figura longilinea con i capelli un po’ ribelli come aveva lui. Sussultò nel riconoscere la donna che, lentamente, senza tirare un fiato, si chiudeva la porta dietro di sé.

Ma-mamma!

La chiamò con forza nella mente, conscio di non poter essere udito, non da lei, non più, perché le energie erano di nuovo scese a zero. Si alzò di riflesso dal letto per rimettersi in piedi e allontanarsi di qualche passo, nonostante il capogiro, come a reputarsi un estraneo quando invece, almeno in teoria, non avrebbe dovuto sentirsi tale perché erano la sua famiglia.

La giovane donna si mise una mano sul petto nel distinguere la sagoma della figlia addormentata sul letto, si avvicinò lentamente a lei per scostarle appena i ciuffi dal visetto profumato.

“Oh, piccola gabbianella...”

Gabbianella… Camus inavvertitamente sorrise, pensando che quel nome con cui l’aveva già chiamata più volte le calzasse a pennello. In effetti era una giovane, quanto intrepida, gabbiana, come nel libro “Storia di una Gabbianella e del gatto che le insegnò a volare” che le leggeva soventemente quando erano ancora insieme.

Rimase trepidamente ad osservarli, la sorellina e sua mamma, ciò che di più bello e commovente gli era stato strappato in giovane età. Se ne sentì trafitto e gli punzecchiarono gli occhi, ma non ci diede peso, rigettando per la milionesima volta indietro le lacrime. Era un uomo, ormai, e un Cavaliere, non poteva abbandonarsi al pianto come un infante.

“Se solo potessi dirtelo, tesoro... – parlava intanto la mamma alla figlioletta, accarezzandole a sua volta i capelli affini alla coda di uno scoiattolo rosso – che tu in verità un fratello maggiore ce lo hai per davvero!”

A Camus si strappò qualcosa dentro, inevitabilmente, sentendosi sempre più provato da quella visione delle persone che amava in un altro tempo e in un altro spazio, lontano da lui.

“Sarà un ometto, ormai, avrà 15 anni. Chissà come è diventato, quanto sarà… cresciuto! - continuò la donna, sorridendo malinconicamente – Marta, tu non lo puoi di certo sapere, piccina mia, ma gli somigli così tanto! Mi… manca da morire!”

Di nuovo, come nel ricordo del capriolo, lo ripeté, il tono, se possibile, ancora più tremante. Era un dolore cupo e profondo, lo stesso provato da Camus in tutti quegli anni di lontananza, ma tutt’altra cosa era vederlo tangibile davanti a sé, impresso, come l’immagine di uno specchio.

Non avrei mai voluto lasciarti una simile ferita, mamma! Nonno mi aveva fatto promettere di prendermi cura di voi perché sarei stato l’ometto di casa, e invece… invece mi hanno tolto questa possibilità!

“Non faccio che ripetermi che era giusto così, che è stato chiamato per un destino più grande. Chissà quanto bene avrà fatto, quanto ancora ne farà… - proseguì la donna sempre più a stento, non smettendo di accarezzare la figlia completamente assopita sul letto – ma la verità è che sono arrabbiata! Io avrei voluto crescervi entrambi, vedervi diventare sempre più forti giorno dopo giorno, proteggendovi a vicenda, e invece l’occasione mi è stata strappata, me l’hanno tolto, lo hanno portato via, ed io… io mi dico che non avevo scelta, visto come si erano messe le cose, visto che quell’uomo si era interessato a lui, e che là, al Santuario, è più al sicuro che qui, ma… avrei tanto voluto che tu avessi un complice, piccola mia...”

Di che uomo stai parlando?!

Si ritrovò a chiedersi Camus, il cuore perse un battito. Qualcosa non tornava nella sua affermazione…

La mamma si era fatta ulteriormente più cupa, fissava un punto a caso, all’inseguimento di un passato sempre più lontano. Si morse per istinto il labbro inferiore.

“Quel pazzo che, picchiandolo a sangue, me lo ha ridotto in fin di vita. - biascicò quasi meccanicamente, sempre più nervosa – Che cosa diavolo volesse da lui ancora non lo so, e forse non lo saprò mai, ma brucia… brucia ancora così tanto la mia impotenza!”

Un secondo, quale pazzo si era interessato a lui, riducendolo in fin di vita?! Perché non ne rammentava nulla?! Era forse...

Un brivido sempre più forte corse lungo tutta la schiena di Camus, che cominciò ad avvertire, chiare dentro di sé, le palpitazioni salire. Perché i suoi ricordi non tornavano con la visione? Perché gli sembrava di aver perso qualche pezzo?! Lui non si ricordava di alcun pazzo, quel giorno, c’era stata solo la mano di Shion che lo aveva strappato dalle braccia della madre, l’immagine di una neonata in fasce che gli sorrideva alla quale lui era stato costretto, a forza, ad allontanarsi, malgrado il dolore che ciò gli aveva procurato, ma ancora nessun…

Il sorriso di sbieco di Fei Oz Reed gli trapanò il cervello, procurandogli una scossa, mentre memorie sfumate di lui, cinquenne, del fagotto tenuto amorevolmente tra le sue braccia che era Marta, lo frastornavano ancora di più insieme ad un rumore di… di… ecco, sì, era uno sferragliare!

La testa gli pulsò violentemente, probabilmente la pressione era salita alle stelle in quell’esatto momento. Camus serrò e aprì gli occhi più volte nel tentativo di riprendersi, fu costretto ad appoggiarsi alla parete, il respiro mozzo, i battiti nel cuore nelle tempie da quanto sembrasse andare veloce.

N-no, calmati, ora calmati! -farfugliò, la mano stretta al petto, nel tentativo di calmarlo- N-non dargliela vin-ta, anf!

In quel frammento, in quella sola immagine che si era manifestata nella sua testa, lui aveva visto sé stesso ancora bambino, con la piccolina in braccio, su un treno a lunga percorrenza diretto chissà dove e… davanti a lui… il ghigno del Mago, che aveva un poco alzato lo sguardo dal giornale che stava leggendo per contemplare meglio i suoi obiettivi.

Il resto era paura, violenti calci che gli venivano inferti, fitte di dolore sempre più acute su tutto il corpo, prima dell’oblio completo.

“N-no… no! - si disse tra sé e sé, prendendo a picchiarsi violentemente la nuca sul muro retrostante nel rendersi conto che non riusciva a calmarsi. Avrebbe solo voluto estraniarsi dal suo stesso corpo, non tollerava più di essere lì, dentro, imprigionato di nuovo nelle sue spire – Perché lui, i-in questo ricordo, ora? I-io non… perché Shion mi portò via dalla mia famiglia? Era forse perché Fei Oz...”

...Li aveva già attaccati quando erano ancora infanti per sbarazzarsi di loro?! Era andata veramente così? Gli erano forse stati modificati i ricordi per salvaguardarlo?! Chi era stato?! Lo stesso Grande Sacerdote?!?

N-no… no!

Si sentì naufragare dentro, mentre stringeva le labbra per non produrre alcun suono che non fosse quello continuo e sempre più frenetico dello sbattere contro muro.

C’erano quindi loro due su un treno diretto chissà dove, e c’era Fei Oz, che li irrideva, sicuro che le cose sarebbero andate come nei suoi progetti. Marta… quell’essere abominevole voleva sbarazzarsene, sì, si era trovato lì per lei, aveva tentato di ucciderla, certo! Ma non rammentava altro, né come ci erano finiti, né gli avvenimenti posteriori. Solo un tassello prendeva sempre più forma nella sua mente, il più aberrante: lui e quel mostro si erano conosciuti già ben prima che il suo sicario, unghie sguainate, facesse penetrare il nero cosmo del Mago nelle sue carni tramite le tre lacerazioni al petto.

“Ca-Cammy, sei tu?”

La domanda smarrita di sua madre raggiunse le sue orecchie, portandolo a sbarrare gli occhi, forse più spaventato di prima. Tornò a concentrarsi su di lei, su di loro. La vide guardarsi spaesata intorno, le lacrime a fior di palpebre.

Che fosse riuscito a farsi percepire? Che lei avesse udito il suo sbattere contro il muro?! Forse, se avesse urlato...

“Sto impazzendo… - commentò Antoinette poco dopo, sorridendo nervosamente tra sé e sé, prima di tornare sulla più piccola e carezzarle la testolina – Sto davvero impazzendo, lui non può essere qui!

Anche a Camus venne il magone, mentre, parzialmente ripresosi, riportò finalmente la crisi sotto il suo controllo. Respirò più volte profondamente, in modo da percepire l’aria scendere nei polmoni e gonfiargli il torace. Era vivo, in quel momento, e tutto ciò che aveva subito, qualsiasi cosa fosse, era passato, non avrebbe potuto nuocergli senza il suo consenso. Riaprì gli occhi, trattenne per qualche secondo il fiato, prima di forzare la sua voce a parlare. Voleva… raggiungerla!

“I-invece sono davvero qui, mamma… vicino a te!”

L’espressione della donna si incrinò del tutto. Automaticamente si portò una mano alla bocca mentre calde lacrime le lambivano le gote rosee.

“O-oddio, tesoro, sei davvero tu!”

Il cuore di Camus pulsò ancora più velocemente, le sue labbra soffocarono un gemito. Trattenersi, rimanere composto anche per lei gli costava fatica e dolore. Avrebbe solo voluto abbracciarla, ma farlo sarebbe stato ancora più straziante per il genitore, che non per la piccina.

Perché mamma sapeva… pativa un’assenza che prima era stata presenza; Marta invece ne percepiva solo l’incommensurabile vuoto.

“Ti sento così vicino, delle volte, come se non te ne fossi mai andato...”

“Mamma...”

“Pfff… - inaspettatamente Antoinette sorrise, asciugandosi gli angoli degli occhi con i due mignoli – Sei un uomo adesso, vero? La tua voce è diventata salda e sicura, ma ha mantenuto la delicatezza di una nevicata notturna. Q-quanti anni, piccolo mio?”

“...”

Camus non sapeva se poteva rispondere a quella domanda, trattenne un altro ansito e strinse convulsamente le mani a pugno.

“Avverto spesso la tua presenza tra noi, Cammy, ci conforti, ci accarezzi, come ora, vero, figlio mio?”

“!”

“Fa parte del tuo potere, questo? Riesci... a muoverti ed intervenire nei ricordi di tua sorella, o sono io in errore ed il mio è solo il frutto dell’immaginazione di una madre che non sa accettare la mancanza del figlio?” chiese la giovane donna al vuoto, ricco di presenza, della stanza.

Come lo sai? Come hai fatto ad accorgertene e… uh?

Camus si osservò sbalordito la mano sinistra. Dalla punta delle dita si stavano diramando sul dorso una serie di flussi dorati che, ricalcando il percorso delle vene, si attorcigliavano sul polso per poi lentamente risalire lungo tutto il braccio. La sensazione di calore arrivò dritta al cuore, prima di proseguire più sotto, in direzione dell’addome. D’improvviso, si sentì bruciare, al punto da doversi trattenere il ventre con entrambe le mani come se fosse nuovamente preda delle coliche.

Lei… si stava risvegliando di nuovo? Proprio in un momento simile?!

“Sei sempre stato speciale. – sorrise ancora la madre, gli occhi gonfi, appoggiando a sua volta i palmi sul grembo, laddove, ormai sedici anni prima, da un mucchio di cellule indistinte dentro di lei, si era formato Camus – Non riuscivo bene a comprendere quanto, finché...”

“Ma-mamma, perché ora piangi?”

Era la voce di Marta, la quale, risvegliata dal suono della sua voce, aprendo prima un occhio e poi l’altro, fece per mettersi seduta, venendo tuttavia bloccata lì da un caldo abbraccio del genitore.

La mia… calda tenebra!

Si ritrovò a pensare Camus, ancora in affanno, accorgendosi con orrore che non era stato lui a produrre quel concetto.

Intanto Antoinette, dando un’occhiata dolcissima alla figlia, si coricò al suo fianco per poterla tenere meglio stretta al petto.

“Non è nulla, ma mouette, nulla… solo un attimo di debolezza. Fammi stare un po’ così a coccolarti, va bene?”

Marta, che aveva gli occhi lucidi ma voleva dimostrarsi forte, annuì, cercando di rilassarsi per provare così a riaddormentarsi. Tuttavia, ad un passo dal sonno, venne riscossa da un pensiero che desiderava esporre.

“Mamma, è tornato, lo sai?” disse la piccola, sorridendole teneramente nell’accarezzare il volto del genitore.

“Chi, tesoro?”

“Il mio amico immaginario.”

“Ah, certo, quello. - ridacchio lei, gli occhi brillanti, contraccambiando le carezze della figlia – Era da tanto che non si faceva vedere?”

“Non lo so bene. - ammise la piccola, un poco pensierosa – Ogni volta sembra che passi un secolo, forse anche di più, ma quando lo vedo è come se non mi avesse mai lasciato.”

“E’ proprio strano questo tuo amico...”

“Più strano di Stevin, sì!” confermò la bambina, allargando il suo sorriso.

“Ma dimmi… - si raschiò la voce Antoinette, alzandosi un attimo sul gomito per continuare a coccolare la figlioletta con l’altra mano – Non ti ho mai chiesto questo tuo amico come sia fatto.”

“Beh… - anche qui Marta sembrò in difficoltà nel rammentare le sembianze dell’amico immaginario. Sbuffò tiepidamente, prima di cominciare dalla parte di lui che si rammentava di più - Ha una voce calda e cristallina, mi… mi piace molto il suo timbro vocale mentre mi parla, sai? E’ come una presenza calda e rassicurante...”

“Non ne dubito, ma petite, non ne dubito!” ridacchiò ancora la madre, tornando a coricarsi nel letto pensando che il dialogo fosse finito.

Ma Marta perseverava a osservare un punto fisso sul soffitto, affinava lo sguardo come a concentrarsi, decisa più che mai a dare la descrizione dell’amico alla mamma. Era una questione importante!

“Uh, ecco...”

Dopo qualche minuto la vocetta della bambina riscosse Antoinette che pigramente aprì un occhio nel guardarla.

“Cosa, nanerottola?”

“Il mio amico immaginario, lui è… forte e delicato al tempo stesso. Alto, tonico, aggraziato nei modi, un po’ montagna e un po’ fiore, e a me piacciono tanto entrambe queste cose!”

“Uh, sembra tanto un tipo a posto questo tuo amico!”

“E… e poi ha questi capelli in testa, buffissimi, a cespuglietto come il tuo, ma di questo strambo colore blu, c-come gli occhi, sai? Ha gli occhi come i mie e… uh? Che succede, Mami?”

La piccola non aveva visto il cambio di sguardo del genitore, così presa a parlare del suo amico, ma aveva percepito distintamente il suo caldo abbraccio circondarle il corpicino con impeto e lì rimanere immobile, il viso nascosto nei suoi capelli, tra i singhiozzi e i sussurri.

Marta tacque, scombussolata dalla tipologia di quell’abbraccio. Era premuta contro il suo seno, non riusciva a vederla in faccia, ma avvertiva distintamente alcune lacrime bagnarle la testolina. Si preoccupò.

“Mamma, cosa succede, stai male? Non ti piace il mio amico?” le chiese, innocentemente, talmente tanto che, perfino Antoinette, nell’emotività che l’aveva sopraffatta, ridacchiò trepidamente.

“No, fiorellino, tutt’altro!”

“E allora perché reagisci così?”

Antoinette ci mise un po’ ad estrapolare le parole. Accarezzò la schiena di Marta, elargendo coccole e tenerezze varie, permettendosi di passarle la mano sotto la maglietta del pigiama per poterle infondere ancora più calore. Solo alla fine si discostò appena, baciandole la fronte prima di sistemarla meglio sul letto, vicino a lei.

“Perché il tuo amico è davvero un bravo ragazzo!” le disse solo, commossa, mentre un tiepido sorriso le si distendeva sul volto e una lacrima, l’ultima, veniva catturata dal solco delle sue labbra.

 

 

 

 

 

 

Angolo di MaikoxMilo

 

E dopo mesi di latitanza, 9 in tutto, credo, rieccomi finalmente qui. Non è stato un periodo né facile né particolarmente produttivo, l’idea per questi capitoli così autobiografici e sentiti ce l’ho da molto, metterli nero su un bianco, con tutte le loro difficoltà, non è stato affatto semplice. Sono mesi che mi hanno cambiato nel profondo, i delicati temi qui trattati ne sono la somma e posso dire di essere soddisfatta, anche se nella mia idea originale il salto di Camus nei ricordi della sorellina avrebbe dovuto essere diviso solo in due parti… non in tre, come invece sarà, ma mi sono accorta che avevo tanto da raccontare e che non avrei potuto dividere il tutto solo in due.

Quindi eccomi ^_^ pronta come sempre a spiegarvi le cose e aiutarvi negli intrecci.

Dunque, tanto cominciare una cosa strutturale: contrariamente al precedente, qui i vari salti sono contrassegnati da una data indicativa, per quanto generale. L’ho fatto per dare l’idea al lettore che Camus, questi salti, riesce a controllarli. Effettivamente il controllo di Camus sui salti e sullo spazio è pressoché totale. Sa dove andare, decide cosa vuole vedere, interagisce con l’ambiente, anche se non sempre se ne rende conto. Per essere immateriale, perché di fatto è in “astrale” è gran cosa. Ciò che è ancora difficile per lui è però comunicare a piacimento con le persone che vede. Non sempre ci riesce, anche se sia il nonno che la madre, che ovviamente Marta, sono riusciti a percepirlo, in qualche modo, chi per pochi istanti, chi ciclicamente.

Veniamo ora proprio al nonno. Qualcuno di voi, forse, se ne è già reso conto ma sto ri-ri-ri-riscrivendo la storia a partire dalla prima (che novità, ogni tot anni faccio aggiunte perché quelle di prima non mi soddisfano pienamente, e vabbé XD), in questa nuova versione che sto aggiornando, sto dando più spazio al nonno, anche se solo tramite ricordi di Marta. In questo capitolo, invece, appare per la prima volta nella sua completa caratterizzazione.

E il nonno non è altro che una versione più vecchia, più fredda, più disillusa e più spietata del Camus descritto nell’opera originaria.

Questo salto nei ricordi è occasione per il “mio” Camus (che per necessità e desiderio di farlo maturare come NON gli è stato possibile fare nel manga, si discosta dall’originale) di affacciarsi al sé stesso di un tempo, scoprire le proprie radici, mettersi in discussione e capire, una volta in più, gli errori commessi con Hyoga.

Perché Camus può anche oltraggiarsi con il nonno per il trattamento riservato a Marta nel forzarla a prendere contatto con la realtà e crescere, ma non può opporsi perché lui con l’allievo, a livello di spietatezza, non è stato certo meglio, anzi!

In più, aggiunta mia che personalmente ho adorato, l’ho anche reso tiepidamente mammone… non vi pare? Perché questa scelta che, forse, a qualcuno farà storcere il naso? Beh, a parte che del passato dei Cavalieri d’Oro non sappiamo niente e quindi ci si può sbizzarrire, avevo anche bisogno di qualcosa di più forte che allacciasse ulteriormente Camus a Hyoga; avevo bisogno di qualcosa in più per “giustificare” in parte il suo comportamento nei confronti del Cavaliere del Cigno, perché sì, anche se il mio personaggio preferito dell’intera opera non è scevro da critiche e sento il bisogno di renderlo comunque più coerente, sebbene il personaggio, da sé, sia una antitesi ambulante. Così ho messo la perdita di Isaac, le infiltrazioni del temperamento del nonno nel suo carattere, il rapporto profondissimo con la madre e la sorellina, l’allontanamento precoce dalla famiglia di origine, la sofferenza del distacco, l’innata sensibilità che lui, da un certo punto in avanti, ha cominciato a rigettare con tutto sé stesso…

Tutto questo ha portato Camus a diventare Aquarius e atteggiarsi di conseguenza, con l’ovvio risultato che lui ora è cambiato, si è accorto degli sbagli, ma Hyoga è lontano da lui, distante come mai prima di questo momento…

Tra l’altro, tengo molto al personaggio di Antoinette che purtroppo ho potuto sfruttare davvero poco fino a qui, spero che questo scorcio di lei faccia maggiormente rendere conto di quanto forte sia, come donna, del dolore che anche lei ha attraversato e dell’amore smisurato che priva per entrambi i suoi figli. Non so ancora come, ma conto di ritagliare un posticino di onore anche per lei con il proseguo delle storie. Mi piace davvero tanto descriverli come famigliola, soprattutto mi piace farci relazionare Camus. ^_^

Venendo agli intrecci veri e propri, alcune cose non le approfondisco qui, volendo lasciare libera interpretazione al lettore; una fra tutte però hanno bisogno di una spiegazione in più, ed è l’ultimo pezzo in cui Camus reagisce così male alle parole enigmatiche della madre. Ebbene questo accade perché, come spiegato nei capitoli “Creazione e Distruzione” (titolo non a caso!) della “Melodia della Neve” quelli che, per inciso, trattano degli avvenimenti antecedenti all’arrivo di Cam al Santuario, i ricordi del bambino sono stati manipolati da Shion, il quale ha fatto in modo di creare una struttura nella sua mente che gli rendesse più accettabile l’allontanamento dalla famiglia di origine. In tale struttura quindi, lui viene allontano dal Grande Sacerdote senza opporsi, tagliando fuori tutto lo scontro avuto con Fei Oz che invece li aveva intercettati sul treno per poter uccidere Marta e disfarsi così di loro. Va da sé che così non è stato e, come potete vedere da qui, la struttura, complice il viaggio nei ricordi, sta cominciando a sgretolarsi, non del tutto d’accordo, ma inizia a cedere e, se cede del tutto, Camus potrebbe ricordare anche che è stato lui a ferire gravemente Marta con il suo Potere della Creazione sebbene SEMBRI che la piccola non abbia avuto conseguenze tragiche… sembri…

Altri riferimenti alle altre storia sono sparsi qua e là nel capitolo, ma non così pertinenti come questo qua sopra, che tenevo a specificare. :)

Ah, un’altra cosa ancora! Il concetto di “calda tenebra” che sarà approfondito più avanti, è preso dall’anime di Made in Abyss che consiglio a tutti coloro che hanno lo stomaco abbastanza forte per vederlo (è un Seinen, le tematiche, le scene stesse, non sono delle più facili da digerire, mettiamola così!).

Direi che non ci sia altro. Al solito, ringrazio tutti coloro che stanno continuando a seguire questa storia, spero di non farvi aspettare ancora mesi e mesi prima di una nuova pubblicazione. Al livello di struttura, il capitolo nuovo è quasi pronto, dopodiché conto di riprendere in mano proprio la “Melodia della neve”. Per le altre storie, temo dovrete aspettare un poco di più. A presto! :)

 

 

Ritorna all'indice


Capitolo 10
*** Ricordi intrecciati (terza parte) ***


Capitolo 10: Ricordi intrecciati (terza parte)

 

 

 

Basta una tamerice

a rivelare la vita:

su di un argine grigio,

una tamerice a fiore di un’acqua silenziosa.

Basta di meno:

un ciuffo d’erba fresca fra due zolle,

un fiore fra due pietre cotte dal sole,

un occhio in cielo, di sereno.

 

(Biagio Marin)

 

 

 

Maggio 2006

 

 

Quel giorno, gli alberi parlavano tra loro un linguaggio che non era affatto facile comprendere.

Eppure parlavano, Marta poteva udire bene il loro verseggiare portato dal vento; il loro conversare sotto i propri piedi. Vibrava lieve nel terreno, si diffondeva per l’aere.

Era però indefinibile per le sue giovani e inesperte orecchie, ancora disabituate a codificare i suoni e dare loro un senso. Strinse un poco il palmo delle mani: avrebbe tanto voluto comprenderli.

“Ecco, lo sapevo, ci siamo persi!” esclamò ad un tratto la voce di Francesca, con stizza.

“No. - rispose Stefano, prima di sospirare – Non proprio.”

“Non proprio?!” Francesca lo guardò, inarcando un sopracciglio.

“Abbiamo solo perso momentaneamente la via maestra.” fece spallucce Stefano, sorridendole bonariamente.

“Ah, momentaneamente! - commentò sarcasticamente l’altra, buttando fuori l’aria, chinando un poco il capo, prima di raddrizzarsi – Siamo fuori dal sentiero!” gli fece notare ancora, scettica.

“E’ corretto, ma basta rintracciare la vecchia mulattiera.”

“Che però è saltata...”

“Beh… sì!”

“Ecco, quindi ci siamo persi!” decretò la parola fine Francesca, affatto lieta di averla avuta vinta. Avrebbe di certo preferito il contrario, se ciò avesse comportato il non essersi smarriti nel fitto di un disordinato bosco misto.

“Ma quindi… - si palesò la vocina di Michela, con una punta di terrore - moriremo qui e ci ritroveranno tra centina di anni, mummificati?!”

“Ma no, sciocchina! - negò con la testa Francesca, recuperando un po’ di calma, visto che era la più grande e gli altri dipendevano da lei – In qualche modo faremo. E poi le giornate, a maggio, sono già piuttosto lunghe!”

Stefano si diresse verso un albero lì vicino, cercando di studiare i dintorni e se fosse stato un passaggio già percorso precedentemente, perché effettivamente sembrava di girare intorno. Non accettava che il suo senso dell’orientamento, sempre creduto ottimo, avesse fatto cilecca.

“Ste, tu e Marta ci avete assicurato che conoscevate bene le vie per raggiungere il Monte Antola!” riprovò Francesca, ricercando l’attenzione dell’amico.

“Sì, ma non da Cerviasca, questa è la prima volta che lo cerchiamo di raggiungere dal paese.”

“O-ottimo! E perché farlo da lì, se non sapevate la via?”

“Perché era la prima volta e volevamo farlo con voi.”

“Sì, ma non abbiamo idea di dove siamo, adesso!!! - esclamò ancora la ragazza, quasi esasperata, perdendo la flemma – Per quel che ne sappiamo potremo essere OVUNQUE, anche da tutt’altra parte!”

“No, questo no. - Stefano parve risentirsi, squadrandola male – Siamo comunque sulla strada per l’Antola, questo è certo, bisogna solo ritrovare il sentiero.”

“Il sentiero è saltato, il bosco è stato abbandonato da tempo! Non c’è più un segnavia, né una costruzione, a delimitare la vecchia mulattiera, come pensi..?”

“L’Antola è sempre stata l’arteria principale della Valle Scrivia e così della Valbrevenna che ne fa parte. Dove tu vedi abbandono un tempo c’erano vie del tutto equiparabili, per concezione, alle strade asfaltate che usiamo oggi per muoverci con la macchina, me lo ha raccontato mio nonno.”

“Può essere, ma così è stato decenni fa, ora...”

“Ritroverò la mulattiera, puoi starne certa!” Stefano tranciò di netto il discorso, oltrepassando l’amica per dirigersi poi un pezzo in avanti, come a ricercare un qualche segno che lo aiutasse nell’orientamento.

Francesca sospirò di nuovo, prima di accomodarsi, insieme a Michela, su una radice ben esposta per cercare di ragionare e delineare un qualche tipo di piano.

Intorno a loro non vi erano altro che alberi, alberi e ancora alberi, già completamente rivestiti di foglie novelle. Non c’erano punti aperti per poter scrutare l’orizzonte, la boscaglia era fitta fitta e innanzi a loro vi era solo una salita che sembrava non finire mai. La stanchezza e la preoccupazione stavano iniziando a prendere il sopravvento.

Almeno per quanto riguardava lei e Michela, perché effettivamente Stefano sembrava convinto di poter rintracciare la mulattiera originaria in tempi ragionevoli e Marta… beh, Marta era nuovamente persa tra sé e sé, del tutto pacifica e perfettamente beata. Francesca si chiese come ci riuscissero, quei due, a fidarsi così tanto della montagna e così del bosco. Non avevano paura alcuna, come se fosse casa loro, e un po’, forse, era proprio così.

“Guarda che così prenderai un malanno, eh, è un po’ presto per andare a piedi nudi!” provò ad avvertire l’amica, ancora assorta con gli occhi chiusi come se stesse rintracciando un qualche tipo segnale radio.

“Parlano.” disse solo Marta, voltandosi un poco verso di lei, pur mantenendo le palpebre abbassate.

“Cosa? Chi?”

“Gli alberi. - rispose placida, non nascondendo un sospiro – Li sento ma non li capisco. Ci sto davvero provando, ma...” lasciò la frase a metà, affranta.

Francesca corrugò la fronte, sforzandosi di comprendere il reale senso della sua frase. Non era certo la prima volta che l’amica diceva cose buffe o strane, atipiche, si poteva dire, tuttavia -doveva ammettere- quella sua peculiarità andava sempre più incrementandosi con la crescita invece di retrocedere. E adesso che Marta aveva da pochi mesi compiuto 12 anni, che era una ragazzina, ormai, e che forse avrebbe dovuto cominciare a pensare a ‘cose serie’ come sosteneva Nonno Dante, quella sua insolita attitudine era nel pieno della fioritura, quasi traboccava, con buona pace dell’anziano signore.

“Cose ineffabili… forse io non le capirò mai davvero!” rimuginò tra sé e sé Marta, dispiaciuta, ma affatto intenzionata ad arrendersi.

Gli esseri umani potevano essere molto bizzarri, nonché… cocciuti. Francesca si disse che, probabilmente, anche continuando il ciclo di morte e rinascita, non sarebbe mai arrivata pienamente a capirli.

Camus, appoggiato al loro stesso albero, le braccia incrociate al petto e l’espressione calda, invece sì, perché ben conosceva i meccanismi che stava attraversando la sorellina, soprattutto nell’ultimo periodo.

Ti stai avvicinando allo Sciamanesimo senza neanche saperlo concretamente, fai cose che solo uno Sciamano potrebbe capire. E questa tua dote, piccola mia, in costante mutamento, cresce senza sosta. Ora capisco davvero quello che volevi intendere quando, durante l’incendio causato dal finto Apollo, sostenevi che udivi la richiesta di aiuto degli alberi senza saperla codificare; quando parlavi con la lucertola senza sapermelo spiegare, vergognandotene, perfino. Lo capisco e lo comprendo. E, ancora una volta, mi chiedo quanto io ti possa essere di aiuto, in questo. Quanto… io voglia veramente immetterti in questo mondo, pur avendone tu il pieno delle potenzialità.

“Comunque rimettiti le calze e le scarpe, Marta. - le consigliò ancora Francesca, un po’ da mamma – Ti piace girare a piedi nudi, d’accordo, ma il terreno è dissestato, rischi di farti male!”

A quel punto la ragazzina aprì completamente gli occhi, si fece maggiormente rattristata e delusa, prima di recuperare gli scarponcini lasciati momentaneamente da un lato.

“Pensavo di capire meglio così, perché gli alberi comunicano soprattutto attraverso le radici. - provò a spiegare, mentre, indossate le calze e poi le scarpe, tirava i lacci – E invece è comunque un brusio confuso e nient’altro!”

“Beh...” Francesca non sapeva bene cosa dire per risollevarle il morale, fortunatamente venne aiutata dal ritorno di Stefano che, balzando giù dal pendio dove le aveva lasciate, pareva aver elaborato un piano.

“Sono avanzato di un po’. - illustrò, pratico – Dopo questa tortuosa salita c’è un pezzo che spiana, forse se lo percorriamo riusciremo ad affacciarci da qualche parte per orizzontarci meglio e...”

“Ma hai trovato uno straccio di segnavia, vero?!” indagò Francesca, sospettosa. Lui cambiò subito espressione, arrossendo un poco.

“E-ecco, no, però...”

“Michela è molto stanca, Stevin, e così io. Se sostieni di voler proseguire, mi devi dare più di un motivo per farlo. Salire di qui ci aiuterà? Ne sei sicuro?”

“N-non ne sono… sicuro!”

“Ecco, e allora non è forse meglio cominciare a pensare di tornare indietro, scendere, e gettare la spugna, per questa volta?”

“...”

Stefano indurì la sua espressione, ben più che restio alla sola idea di doversi arrendere.

“Cerca di ragionare un attimo… non è saggio proseguire ad oltranza se non sappiamo dove andare, rischieremmo solo di smarrirci, e la notte, a maggio, a 1500 metri sul livello del mare, è ancora piuttosto fredda. Comprendo bene la delusione, il non volersi dare per vinti, ma...”

FRUUUUSH. FRUUUSH!

Qualcosa si mosse freneticamente tra le fratte a poca distanza tra loro, tutti si irrigidirono di conseguenza, alzando la guardia. Un’ombra scura si era mossa, fugace, tra gli alberi appena sopra la loro posizione. Era l’ombra di un canide.

Michela si arpionò istintivamente al braccio di Francesca; Marta, in un impeto di protezione, scattò verso di loro, azzerando le distanze tra sé e le altre, mentre Stevin, guardandosi freneticamente intorno alla ricerca di un bastone o di un’altra potenziale arma, si mise coraggiosamente davanti al gruppetto.

“O-oddio, era un lupo?! E’ un lupo?!? - esclamò Michela, allarmata, guardandosi nervosamente intorno alla ricerca dell’ombra di prima che riuscì a scovare, ancora più furtiva, sopra di loro in avvicinamento. Si terrorizzò – Ho paura, ho paura!!! Adesso ci mangia!!!”

“Ssssh, Michela, mantieni la calma, non devi fargli percepire il tuo timore!” provò a rassicurarla Francesca, stringendola a sé per poi farle nascondere il visetto nel declivio della spalla.

“Non può essere un lupo, loro scappano appena sentono l’odore umano.” gli fece notare Stefano, scoccando un’occhiata guardinga alle amiche, pur rimanendo fermo nella sua posizione.

Poteva essere di peggio, in effetti, rabbrividì, prima di osservare Marta, la quale, risoluta, finendo di massaggiarsi la pancia che nell’ultimo periodo le doleva spesso, alzò ulteriormente l’attenzione.

“Questo solo se è un giovane in dispersione! - controbatté la più grande, cercando di controllarsi. - Se fosse un branco vero e proprio e lui fosse solo l’avanguardia?! Che speranze nutriamo?!”

“I lupi non attaccano l’uomo, preferiscono evitarlo.” insistette Stevin, sbuffando. Aveva momentaneamente perso di vista l’ombra del canide, ma non doveva scomporsi.

“Sì, ma… ma vale anche per un gruppo di ragazzini indifesi?! Se ne sentono di storie su...”

“La stragrande maggioranza di esse sono false! - esclamò nuovamente Stefano, stavolta platealmente infastidito dai dubbi mal riposti di Francesca – Voi gente di città ve ne bevete di cose, eh, sbranano un capretto e sono i lupi, attaccano l’uomo e sono lupi… NON E’ SEMPRE COSI’!”

A quel punto anche l’amica perse la pazienza, lo guardò male, prima di raddrizzarsi con la testa e soffiargli contro un: “Ah sì? E allora perché sei così teso, se non si tratta di lupi?!”

“Perché possono essere cani inselvatichiti. - rispose con naturalezza Stefano, tornando a concentrarsi davanti a sé, gli occhi azzurri lago di montagna tremendamente percettivi – E quelli sono peggio, molto peggio, non hanno la minima paura dell’uomo!”

Insomma, dalla padella alla brace! Anche Francesca si irrigidì a quella affermazione, trattene il fiato per una serie di secondi alla ricerca delle parole giuste da adoperare, prima di essere interrotta, ancora prima di cominciare, dall’improvviso latrato di… Marta!

“WOOOF! WOOOF!”

“M-Marta! - la richiamò Michela, tutta tremante, ancora tra le braccia di Francesca – Non mi sembra il caso di… EHI, dove vai?! Non andare! Non allontanarti!!!” esclamò poi nel vedere che l’amica si distanziava da loro di qualche passo, sicura di sé.

Camus osservò incredulo la sorellina sorridere sorniona, prima di accucciarsi a terra, tra il fogliame ancora presente dell’inverno passato, e aspettare pazientemente.

“WOOOOF!” ripeté ancora, sempre con quella naturalezza disarmante.

Il suono di zampe nel pacciame divenne più forte per un istante, prima di fermarsi. Passarono pochi altri secondi di silenzio, per poi riprendere con più slancio.

“Si sta avvicinando...” tradusse Francesca, in un fremito, mentre Michela si rannicchiava ancora di più contro di lei.

Infine, da dietro un vecchio tronco di quercia, fece capolino un cane nero e bianco dal pelo folto, un Border Collie dagli occhi di ghiaccio, il quale, nell’individuarli e nel non capire chi fossero, o perché una di loro avesse appena latrato, alzò interrogativo una zampa.

“E’ un cane ed è addomesticato, ha il collare!” trasse un respiro di sollievo Stefano, spingendo anche Michela, di colpo incuriosita, a guardare avanti a sé.

Marta sorrise tra sé e sé nell’osservarlo. La bestiola non era certamente confidente, stava lì, sulle sue, a scrutarli criptica, lo sguardo attento e reattivo come la sua ferrea intelligenza -era infatti una delle razze canine più dotate!- comandava.

“Vieni qui, non ti facciamo niente. - gli disse lei, amichevole – Anzi, ci siamo proprio persi, hai idea di dove siamo? Dovevamo raggiungere il rifugio del Parco dell’Antola, ma...”

A quel punto il cane, un po’ più tranquillizzato, zampettò affabile nella sua direzione, muovendo l’ampia e pelosa coda. Marta non si mosse, attese che la raggiungesse, permettendogli così di essere annusata in lungo e in largo mentre gli amici, dietro di lei, osservavano trepidanti la scena che si mostrava ai loro occhi.

Era lampante che Marta, pur non avendo mai avuto cani suoi, ci fosse portata nella comunicazione -la studiò attentamente Camus con occhi fieri- concedeva all’animale di prendere confidenza con il suo odore, prima di muoversi, nonostante la voglia immane -la percepiva!- di volerlo accarezzare. Era abile e fiduciosa, soprattutto non dava alcun cenno di temerlo, trattandolo da pari a pari. Ecco, forse su quell’ultimo punto ci sarebbe stato da lavorare un po’ su, perché nelle gerarchie del branco (Camus pensava ai suoi Husky lasciati in Siberia) era necessario e doveroso instaurare un rapporto verticale fatto di lealtà, certo, ma pur sempre di subordinazione.

Finalmente, terminate le cosiddette presentazioni, Marta si inginocchiò a terra, concedendo così al cane di darle affettuose musate. Socchiuse gli occhi, sorridendo felice tra sé e sé, prima di convincersi ad accarezzarlo a sua volta sul dorso in un gesto aperto e sincero che ricordava un mezzo abbraccio.

“E… e ora?” chiese Francesca, frastornata da quella reazione, guardando l’amico Stefano che invece se ne stava lì, tutto soddisfatto, come se avesse già divinato il tutto.

“Aspetta solo un altro attimo. La dovresti conoscere la tua amica.” sorrise lui, con una sicurezza di sé che raramente lasciava trapelare.

Francesca tornò a guardare Marta, che aveva affondando il viso nella folta pelliccia della creatura. Era vero, la conosceva sin troppo bene, ma la verità era che alcune cose ancora le sfuggivano. Forse, semplicemente, quelle stesse cose non sfuggivano a lui.

“Ci aiuta lei. “ disse alla fine Marta, alzandosi in piedi dopo averle dato un’ultima carezza sul muso.

“Cosa?! Lei? E’ una lei?! Ci hai parlato, Marta?!”esclamò tutta euforica Michela, saltando su come se avesse avuto una molla sotto i piedi.

“Camilla. E’ la cagnolina dei gestori del rifugio del Parco dell’Antola.” spiegò solo la ragazzina, omettendo l’altro quesito.

Tuttavia Michela voleva sapere ad ogni costo, l’aveva sempre affascinata quell’attitudine misteriosa della sua stravagante amica.

“E tu questo lo sai perché ti ha parlato e l’hai capita?”

“Non proprio. - si scrollò Marta, un poco contrita – O meglio, ci ha provato a parlarmi ma, al solito, non riesco a codificare il suo linguaggio.” ammise, tornando a guardarla. La cagnolina infatti si era seduta compostamente al suo fianco, la lingua a penzoloni e l’espressione tranquilla.

“E allora come hai saputo queste informazioni?” chiese ancora Michela, avvicinandosi di un altro passo.

“Targhetta.” indicò Marta, e quello fu anche il via per Camilla di andare a conoscere gli altri ragazzini intorno a lei.

“Uh, sì, vieni… vieni qua, cucciola!” strepitò Michela, del tutto euforica nel vedere la cagnolina venire a salutare anche loro.

“I gestori, però, almeno fino all’anno scorso, non avevano cani.” osservò Stevin, dando un’occhiata indicativa a Marta.

“Fino all’anno scorso, per l’appunto, forse l’hanno presa recentemente. La targhetta e il numero è il loro.”

“E anche l’odore, sì. - arrivò alla conclusione Stefano, dopo essersi inginocchiato a sua volta e aver odorato il pelo dell’animale – Sento il profumo del camino e delle robe buone che fanno su al rifugio.”

“Visto?!” ammiccò Marta, arrossendo un poco.

“Certo che siete proprio strani voi due, ancora di più quando siete insieme!” inarcò un sopracciglio Francesca, osservandoli percettiva. Non c’era velo d’accusa nelle sue parole, solo una constatazione sincera ed educata.

Ad ogni modo, aver incrociato sulla propria via la cagnolina era stato un vero e proprio colpo di fortuna. Nessuno dei quattro sapeva bene perché si fosse allontanata dal rifugio e perché si fosse recata proprio lì, ma la bestiola, a differenza loro, conosceva perfettamente la strada. Non passò molto che, seguendola, riuscirono ad imbroccare la vecchia mulattiera che li avrebbe condotti al rifugio.

Il sole era ancora luminoso in cielo, ma già la luce cominciava lentamente a virare verso il dorato che avrebbe poi spianato la strada all’arancione, indice di un tramonto non del tutto lontano. Nessuno dei ragazzi aveva un orologio con sé, ma trovandosi in maggio, ovvero quasi alla massima durata delle ore di luce, ciò indicava senza ombra di dubbio che fosse già tarda serata. Francesca si ritrovò a sospirare tra sé e sé, la sensazione di aver appena scansato un proiettile. Fra l’altro, anche se in quel momento stavano finalmente salendo per la strada giusta, non c’era alcuna garanzia di raggiungere il rifugio prima dell’avvento delle tenebre.

Troppo pessimista se paragonata all’ottimismo di Stevin e Marta?! Forse, ma l’esperienza le aveva insegnato la prudenza e l’obiettività prima di tutto.

La salita, oltretutto, si stava facendo veramente pesante. Erano tornati sulla vecchia mulattiera, certo, al bosco misto si era sostituito mano a mano il bosco di faggi, e quello era un buon segno, visto che la sommità del Monte Antola era contraddistinta da quel tipo di vegetazione, ma parallelamente era aumentata anche l’inclinazione del sentiero e ciò appesantiva ulteriormente le loro gambe già stanche e doloranti.

“Pant, pant… quanto manca, indicativamente?” trovò il coraggio di chiedere Michela, quasi piegata in due dalla stanchezza.

“Indicativamente… - Stefano, il primo della fila dopo Camilla, si guardò intorno – Un’ora/un’ora e mezza a seconda della nostra velocità.”

“Ma io sono stanca!” si lagnò Michela, mettendo su il broncio.

“Ormai il più è fatto, dai!” provò a incoraggiarla Stefano, compiendo qualche passo in discesa per darle una mano a salire un pezzo più ripido.

“Non è per fare, al solito, l’uccello del malaugurio, ma, Stevin, hai visto la luce? Il sole è già dietro il monte!”

“Siamo sul versante est, è normale.”

“D’accordo, ma non puoi non esserti accorto che l’ora comincia ad essere tarda!”

A quel punto Stevin prese un profondo respiro. Per quanto gli costasse ammetterlo, l’amica aveva ragione. Avevano sbagliato platealmente le tempistiche e il rischio di arrivare tardi, evitando quindi la vetta e lo spettacolo mozzafiato che recava con sé per dirigersi subito al rifugio, era dietro l’angolo.

“Lo so bene, ma credimi se ti dico che non manca più molto. E poi ora abbiamo Camilla, lei sa bene dove andare.”

“D’accordo, però...”

“Uh, ehm… mi devo fermare un attimo!”

Inaspettatamente, non era stata Michela, la più piccola del gruppo, a proferire quella frase, bensì Marta che, altrettanto inaspettatamente, era la più lenta ad incedere, in fondo alla fila.

“Che succede? Stai male? - chiese Stefano, notandola corrucciata a massaggiarsi il basso ventre – Non è da te, essere così lenta!” la provò poi ad incoraggiare.

“Uh, credo… credo di dover fare pipì.” farfugliò lei, prima di richiamare Camilla con un fischio per farla tornare indietro e dirigersi subito nel riparo più vicino, anche se non era affatto facile, visto che il sottobosco di una faggeta era pressoché spoglio.

“Certo che è proprio insolito, forse sta male? Generalmente sono io ad essere l’ultima.” si chiese Michela, sedendosi su un sasso nelle vicinanze.

“E’ strana da un paio di giorni. Ogni tanto dice di avere delle fitte al fianco, non so dovute a cosa.”

“...”

“Forse ha mangiato un po’ troppo dolci, in questo periodo? Sapete, no, che la Nonna Inés, se può, le da sempre un dolcetto o una caramella di nascosto da Nonno Dante.”

“Non credo sia quella la ragione, sono un po’ preoccupato...” rimuginò Stevin, pensieroso, dando al contempo una carezza a Camilla che si era avvicinata al gruppetto.

“Comunque questi alberi, faggi mi avete detto, sono molto in ritardo sulla tabella di marcia. - cambiò discorso Francesca, prendendo a fissare incuriosita le trame degli alberi che avevano appena gemmato – Praticamente sono spogli, mentre tutti gli altri, più a valle, hanno già delle belle chiome verdi fluorescenti. E’ un discorso di altitudine? O di tipologia di albero?”

“Entrambi. - rispose Stevin, guardandola, prima di indicare la corteccia di uno di loro – Siamo comunque tra i 1400 e 1500 metri, quindi un ambiente pienamente montano, in più il faggio è tra i primi a perdere le foglie e tra gli ultimi a ributtare.”

“Ma davvero?! Che forza! Non lo sapevo!” esclamò Francesca, sinceramente stupita.

“In compenso nel pieno di ottobre da il meglio di sé, colorandosi dei più svariati colori, dal giallo all’arancione. E’ meraviglioso!”

“Quando sei nato tu, Stevin!” commento Michela, alzando le braccia in alto in un gesto di felicità.

“Quando sono nato io, sì...” arrossì il ragazzo, non del tutto abituato a quel genere di attenzioni.

“Mi piacerebbe vederli questi colori. - gli confidò Francesca - Magari questo autunno riusciamo… ah, Marta!”

La ragazzina era nel frattempo emersa dal suo nascondiglio, un’espressione funerea a permearle il viso, le mani che si massaggiavano la pancia.

“Insomma, che succede adesso? Hai visto qualcosa di brutto?” le domandò Stefano, vedendola presa così male.

“No, niente… - rispose solo, prima di avvicinarsi, titubante, a Francesca F-Fra, ti ricordi che mi dicesti che, quando sarei diventata grande, lo avrei sentito sul mio corpo?”

“S-sì, perché?”

“Eh, infatti l’ho sentito, diciamo, il plin plin e beh… si è anche manifestato. Ora.”

Stefano sbiancò. Camus, sebbene non visto, fece altrettanto.

“Cosa?”

Cos… di già?!

“Le mestruazioni?!”

Marta aveva la faccia di una a cui fosse appena stato strappato un segreto segretissimo. A fatica, quasi con rassegnazione, annuì.

“Mi… mi sono pure sporcata.”

“Ma è meravigliosooooooo!!! - Michela le saltò quasi in braccio dalla gioia – Sei diventata signorinaaaaaa!!!”

“Eh, che bello…”

Marta, di crescere, non ne aveva affatto voglia. Quel segno che distintamente stabiliva il passaggio, almeno fisiologico, dall’età infantile a quella adolescenziale, non la aggradava per niente, e poi sembrava di star perdendo delle goccioline calde di pipì, cioè, era orribile.

Stefano arricciò il naso diverse volte. Non se l’aspettava, non a quell’età e non così presto. La rivelazione lo aveva sinceramente preso in contropiede.

“Capito. - Francesca reagì con naturalezza, sorridendole tenue prima di frugare nello zaino e tirare fuori un piccolo assorbente – Per il momento mettiti questo, arrivati al rifugio ci diamo una controllata e una sistemata, ok? Tanto i primi cicli non sono abbondanti e, a volte, saltano proprio.”

“Ok.” fu la sola risposta di Marta che, prendendo in mano quanto le veniva passato, tornava a capo chino nel nascondiglio che aveva utilizzato precedentemente come gabinetto.

“Quindi ora… è una adulta?!” chiese Stefano, tornando a guardare l’amica con urgenza.

“Ma certo che no, Stevin ti sembra adulta?! Il suo corpo deve ancora formarsi. Questo è solo l’inizio ed è chiamato menarca. Le ovaie avranno comunque bisogno di tempo per assestarsi.”

“Non… non lo volevo sapere, questo, non volevo un’informazione così approfondita!” si oppose Stefano, rosso in viso.

“Ovviamente. Voi maschi non le volete mai le informazioni così approfondite. - si lasciò scappare una risatina Francesca, facendo poi spallucce – Ti ci dovrai abituare, Ste, è la crescita.”

“Non mi aspettavo il loro arrivo così presto!”

Ebbene… neanche io, anche se so cosa sono, come funzionano e tutto...

Si ritrovò a pensare Camus, parzialmente ripresosi dalla sorpresa di prima. Era così abituato nel vederla piccola, nei sogni, che aveva proprio rimosso il fatto che lei avesse già 12 anni, lì, è che avesse avuto la prima mestruazione perfettamente in media, proprio come era stato per Sonia.

“E’ perfettamente in regola, Ste. Capisco lo straniamento, visto che sembra ancora una bambina, ma è fuori da ogni dubbio che il suo corpo si stia trasformando.”

“WOOOF!” abbaiò Camilla, come a voler confermare quanto diceva la ragazza, prendendo poi a scodinzolare perché Michela si era messa a coccolarla.

“La prossima sono io! - disse la più piccola, ancora del tutto euforica perché l’amica era diventata grande – Quanto pensi che ci vorrà?”

“Non te lo so dire, Michy, l’età media è 12 anni, ma si possono verificare anche più tardivamente… o prima!”

“E allora spero che mi vengano presto, non voglio rimanere indietro rispetto a voi due!” ridacchiò lei, socchiudendo gli occhi prima di rialzarsi in piedi.

“Non avere fretta che poi rimpiangerai quando non ce le avevi!” la avvisò Francesca, e si misero entrambe a ridere.

Aspettarono quindi che Marta, ancora piuttosto imbarazzata dall’evento, tornasse, per riprendere il cammino. Non mancava più molto, ma le sfumature della luce sulle foglie stavano ormai digradando nell’inequivocabile arancione.

Stevin, da buon unico maschio del gruppo e secondo per età, non lo dava di certo a vedere, non permettendo al nervosismo di prendere la meglio, ma quella volta, doveva proprio ammetterlo ancora una volta, avevano davvero osato troppo, sfidando la montagna nella presunzione di riuscire subito in un percorso fuori mulattiera che mai avevano tentato prima. Strinse un poco il pugno destro, mordendosi il labbro inferiore. La sua voglia di libertà e di avventura lo aveva portato a valutare male le capacità della propria squadra, un errore che avrebbe anche potuto essere fatale.

Finalmente uscirono dalla faggeta, il vento tiepido e i riverberi scarlatti li accolsero, portandoli a prendere un respiro di sollievo. Socchiusero gli occhi nel distinguere la grande croce posta sulla sommità, del tutto priva di bosco perché zona adibita a pascolo per le mucche. Erano tutti stanchi e provati, chi più chi meno, ma vedere finalmente la cima non più così lontana alleggerì i loro cuori più di mille altre sollecitazioni.

“E’ finalmente quella là, pant?” la indicò Michela, trovandola ancora sin troppo distante.

“Sì, ma il rifugio è molto più sotto.” risposte Stefano, voltandosi verso di loro.

“Cosa?! E quale è il senso di aver costruito un rifugio non sulla vetta, scusa?” domandò Francesca, che già si vedeva scomparire la speranza, appena carezzata, di poter finalmente riposare.

“Oh beh… diciamo che ci sono state un paio di vicissitudini. - le riferì Stevin, non sapendo bene da dove cominciare – Se volete, stasera, mentre mangiamo, ve le racconto. Per il momento vi posso dire che, in passato, avevano costruito rifugi ben più vicini ma, tra alcuni distrutti durante la lotta partigiana, ed altri...”

“Cosa?! I Partigiani hanno combattuto qui?!” trillò Michela, euforica, aprendo la bocca a ‘o’.

“Sì, il nonno era di istanza proprio qui!” disse Marta, tutta orgogliosa, strofinandosi il nasino nell’immaginarselo giovane, bello, e vestito di tutto punto.

“...ed altri che sono caduti in malora a causa del tempo; - continuò Stefano, gli occhi riscaldati dal rosso del tramonto – il nuovo rifugio è stato costruito più in giù, in mezzo alla faggeta.”

“Mmm, d’accordo, ma ora noi che si fa? E’ conveniente salire fino in cima alla vetta se il rifugio è più sotto, oppure..?”

“Io voglio vedere il tramonto!”

“Io pure!”

Michela fece eco a Marta, affiancandola. Stevin non rispose verbalmente, ma dal suo solo sguardo Francesca presagì la risposta.

“Va beeeene, non posso proprio oppormi!” si arrese, alzando le mani in segno di pace.

“P-però tutta quella salita… - fece notare Michela, osservando sconsolata il sentiero che, da un certo punto in poi, saliva rapido e ripido fino ad arrivare alla cima – E’ l’ultima, ma io sono veramente taaaanto stanca.”

C’era un unico modo per sbrogliare Michela quando faceva così, ed era…

PAT! PAT!

Marta le diede una pacca sulla spalla, prima di scattare di corsa in avanti, con il sorriso sulle labbra: “Forza e coraggio, l’ultimo che arriva è un uovo marcio!”

...prenderla sul gioco!

Michela soffiò forte, prima di scattare, insieme a Camilla, dietro l’amica, seguita da Stefano e poi Francesca.

“Ehi, aspetta, così non è lealeeeeeee!!!” le urlò dietro, dando tutta sé stessa nella sfida.

Marta rise tra sé e sé al suono della voce della più piccola nel vento, prima di accelerare la sua corsa, malgrado il dolore a fitte al fianco destro.

Era quindi prima -e, del resto, era partita in vantaggio!- quando una coda folta e pelosa, di colore bianco e nero, la superò, portandosi in posizione di testa.

“Non è giusto, Camilla! - le gridò, giocosa – Tu hai quattro zampe, noi solo...”

Era quindi seconda quando la vista si aprì completamente ed i raggi scarlatti del tramonto infuocarono completamente i dintorni. Sbarrò gli occhi, trasecolata.

Ogni singola cosa intorno a lei, a loro, sembrava aver assorbito il calore naturale del sole e, magicamente, lo rifletteva verso le loro iridi, illuminandole di conseguenza e riempiendole di meraviglia. L’aria pareva fatta di cristallo, era tiepida e fresca allo stesso tempo, era… pulita!

E, per la prima volta, si accorse nitidamente di star respirando, di essere… viva!

Marta sorrise di riflesso e, senza quasi rendersene conto, rallentò la sua corsa verso la vetta per rimirare tutto ciò che la circondava.

I fili d’erba che danzavano al vento.

Il muggire di qualche mucca lontana.

Le danze dei balestrucci che volavano sopra la sua testa.

Il profumo, raro, intenso dei fiori di primavera che stavano sbocciando.

Il cielo cobalto, splendente, che, mano a mano, vinceva la sua lotta sul sole ormai declinato verso Ovest.

E, in tutto questo, ancora, più forte, l’aria che le entrava nei polmoni e le riempiva il petto con una intensità che la colmava e la faceva sentire per la prima volta piena.

Piena di quella che era la vita.

Piena della consapevolezza di essere un piccolo fagiolino in mezzo al grande tutto, un attimo, un respiro di tempo, un istante infinitesimale che, però, era tutto il suo mondo.

“Eccola!!! - la chiamò trionfalmente Michela, quando finalmente la ragazzina giunse sulla sommità della vetta, a toccare la croce come gli altri. Francesca e Stefano si voltarono simultaneamente straniti verso di lei – Alla fine, cara Marta, l’uovo marcio sei tu!!!” scherzò poi la più piccola, prendendola allegramente in giro.

“Che succede, anf? - gli chiese Stevin, preoccupato di una sua tale debacle – Stai male? Oppure è il ciclo che..?”

Ma Marta non rispondeva, continuando invece a guardare oltre; oltre la vetta, oltre la Pianura Padana sotto di loro, gli occhi lucidi, un mezzo sorriso sulle labbra, gli zigomi completamente arrossati. Compì ancora qualche passo avanti a loro, prima di fermarsi prima della sporgenza.

“Ma-Marta?” tentò anche Francesca, confusa.

“Non badate a me, pant, piuttosto… guardate là! - disse loro, in tono velatamente commosso – Non sono M-E-R-A-V-I-G-L-I-O-S-E?!” aggiunse, indicandole una ad una.

A quel punto, lo sguardo di tutti i presentì si dirottò verso l’orizzonte, proprio in direzione del crepuscolo ormai al suo apice. Ammutolirono di conseguenza.

Lo sono, piccola mia, e, devo ammetterlo, non le avevo mai viste… da questa prospettiva!

Si sentì di dire solo Camus, lo sguardo commosso a sua volta, il magone in gola da quanto era bello quello spettacolo, forse uno dei più belli a cui avesse mai assistito in vita sua.

E non credevo nemmeno possibile che, da qui, si vedessero così bene.

Aggiunse poi, prima di tacere.

Là, dove il cielo scarlatto toccava la terra, al di là di chilometri e chilometri di pianura, si vedeva gran parte della catena alpina, dalle Alpi Marittime fine alle Pennine, forse un poco oltre. Il bianco dei ghiacciai rifletteva meglio di altro l’intensità di quello scarlatto, prendendolo su di sé per trasmutarla nel rosa.

E di rosa, infatti, si erano colorate quelle cime così distanti da loro.

L’Alpenglow, lo scintillio delle Alpi, stava prendendo forma davanti ai loro giovani occhi.

Il cuore di Marta batteva tumultuoso nel petto a quello spettacolo, vinto da una emozione troppo difficile da reggere. Si voltò istintivamente verso gli amici al suo fianco. Tutti avevano negli occhi meravigliati quel fascio rosso che era l’ultima impronta del sole; tutti, nessuno escluso stavano sorridendo.

Erano semplicemente felici e, in quel preciso momento, era tutto.

Anche Marta allargò il sorriso nell’osservare i loro visi arrossati e distesi. Tuttavia qualcosa -inspiegabile!- le pizzicava le palpebre; la vista, nello scorgere le loro espressioni così serene, si era fatta un poco più annacquata.

La piccola non riuscì bene a capire cosa le stesse succedendo. Si accorse solo di stare tremando e che il tremore proveniva dall’interno del proprio petto, quando Camilla, probabilmente desiderosa di attenzione che giovani avventurieri non le stavano più dando, decise di cominciare a farle le feste, mettendosi su due zampe per poi scodinzolare come una forsennata.

“Che c’è?! Sei contenta anche tu?” le chiese Marta, gli occhi luminosi nel puntellare le gambe per sorreggerla dalle zampe anteriori.

La cagnolina, per tutta risposa, le diede due energiche leccate sulla guancia, cosa che la fece ridere a crepapelle di gioia.

“Ti vuole consolare. - intervenne Michela, lo sguardo furbetto nel guardare l’amica di poco più grande – Del resto, sei arrivata ultima sulla vetta!”

“Eh?!”

Marta non se ne era affatto accorta, la fissò sorpresa, prima di guardare Stevin il quale confermò con un cenno del capo.

“Incredibile ma vero, è così!”

“Oh...”

E tornò a guardare brevemente le Alpi lontane da loro e il cielo che si striava ancora più di rosso, complice qualche altocumulo che andava impreziosendo il cielo del colore dei papaveri, quasi ne fosse fiorito un prato intero nel blu sempre più avvolgente.

“E, sempre incredibile ma vero, stavolta ho vinto io!” trillò Michela, euforica, indicandosi con il pollice per poi compiacersi del risultato raggiunto.

Perché era la prima volta che capitava e, insomma, andava assolutamente festeggiato!

“A essere onesti… - prese parola Francesca, tossicchiando fintamente con aria da maestrina – la prima posizione spetta a Camilla, è lei che è arrivata per prima sulla...”

“Ooooooh, dai, Fra, la gara era tra noi bipedi, giusto?! Fammi vincere, per una volta!”

E scoppiarono tutti in una fragorosa risata che mise in allerta un gruppetto di daini poco sotto l’anticima dell’Antola, prima di dirigersi, rigenerati, verso il tanto agognato rifugio.

Arrivarono finalmente al luogo prestabilito che il sole era ormai completamente calato, ne rimaneva un buio non del tutto denso destinato a infittirsi, unito ad un vento frizzante che faceva accapponare la pelle. Neanche starlo a dire, Marta e Stefano, ben conosciuti all’interno della Valle Scrivia, vennero accolti insieme alle loro amiche con tutti gli onori.

“Ci avete riportato Camilla, grazie! - li salutò grato il rifugista, un giovane uomo con la barba lunga e i capelli un poco incolti – L’abbiamo presa da poco e non si è ancora abituata all’ambiente. Ama seguire le piste degli animali selvatici, andandosi, però, a perdere!” spiegò, con un largo sorriso cordiale.

“Possiamo dire che è stata lei a trovare noi e a condurci qui. - scrollò un poco la testa Stevin con garbo, sorridendo tenue – Non l’avessimo incontrata, chissà cosa ne sarebbe stato di noi!”

“Allora è stato un incontro provvidenziale! – ridacchiò il giovane uomo, prima di posizionarsi di lato per farli entrare - Dai, forza, il camino è caldo e la cena vi attende.”

Cenarono quindi con gusto e un pizzico di ingordigia, chiacchierando del più e del meno anche con i -pochi!- altri escursionisti presenti nella sala che li guardavano incuriositi nel vedere dei ragazzini così giovani interessati al trekking. La polenta con il sugo di salsiccia era squisita, così come i formaggi stagionati e, non in ultimo, la crostata di albicocche fatta in casa. Michela quasi pianse nel mangiarla, felice com’era e ancora eccitata al pensare che aveva vinto la prima, vera, gara stabilita da Marta.

Malgrado l’emozione della giornata affatto sopita e ancora ben presente, non andarono comunque a letto tardi, preparando minuziosamente -sotto le direttive di Stefano che era il più esperto!- le cuccette nella stanza che era stata adibita interamente a loro.

Camus era stravolto a sua volta, proprio come se avesse vissuto in prima persona quell’esperienza (e per certi versi era davvero così!) pertanto, una volta assicurato che i quattro amici si fossero sistemati nei rispettivi letti e che, con ogni probabilità, non si sarebbero più mossi fino al mattino seguente, si sedette a sua volta con la schiena contro il muro vicino alla finestra, rimanendo così a rimirare il chiarore della luce della luna e le fronde dei faggi che ondeggiavano al vento. Socchiuse gli occhi, meditabondo, non prima di aver dato un’ultima occhiata ricca di affetto ai letti a castello dove si erano coricati i ragazzi.

Sospirò tra sé e sé, tornando a pensare a cosa stesse succedendo ‘fuori’ dal suo cervello. Aveva già ampiamente compreso che stava rivivendo i ricordi della sorellina realmente accaduti e che, al di là di quello spazio di singolarità in cui si era ritrovato, c’era il presente e c’erano i suoi amici, Milo fra tutti. Forse avrebbe dovuto svegliarsi, in qualche modo, uscire da quell’area calda e sicura per trovare il coraggio di affacciarsi alla realtà dopo lo scontro contro Utopo.

Il punto era che… non voleva!

Qualcosa lo bloccava lì; qualcosa che solo in minima parte aveva a che vedere con il trauma appena subito -si mise istintivamente una mano sulla pancia nel rammentare l’ago che si insinuava nel suo ombelico- e che tuttavia dipendeva da fattori solo parzialmente logici.

Lui voleva rimanere lì perché voleva continuare a vedere la sua Marta. Era sciocco, egoista senza dubbio ma… per una singola volta, dopo aver sofferto così tanto come Sacro Guerriero di Atena, desiderava seguire soltanto il suo stesso volere senza rimpianti.

Perdonami, Milo, so che sarai preoccupato per me, anche se non capisco cosa mi stia succedendo là fuori, ma… al solito, capirai senz’altro il motivo di questa mia scelta, giusto?

Si domandò, prima di assopirsi lì, con la schiena appoggiata al muro, la luce tenue fuori e i respiri delle sue allieve più Stevin a fargli da ninnananna.

Non passò molto tempo, in verità, che, quasi inconsciamente, forse favorite dal dormiveglia, passarono nella sua mente immagini della giornata appena trascorsa. Vi era il bosco rinascente di faggi sopra la sua testa, i raggi che trapelavano dai rami; e poi ancora, il folto pelo di Camilla, nel quale aveva affondato la testolina e aveva socchiuso gli occhi, respirando l’umido e il selvatico. Oltre a ciò, i fili d’erba arrossati che danzavano all’aria, il rosso acceso del crepuscolo, il profilo lontano delle Alpi, i daini spaventati che, balzando, si allontanavano verso la schiena delle montagne vicine. Più di tutto, sopra questo, vi erano i sorrisi, quelli delle sue amiche e di Stevin, le loro iridi rosate e la felicità sui loro volti, preziosa più dell’acqua.

Prima ancora di potersene accorgere, le lacrime varcarono la porta del sonno per poi trapelare fuori dalle sue palpebre. Camus riaprì gli occhi nell’avvertire un’emozione dolcissima insinuarsi nel petto e lì rimanere, tremolando tiepida insieme al suo battito cardiaco. Si raddrizzò, posandosi una mano sul petto per poi svegliarsi completamente.

A pochi passi da lui, stagliata nella luce tenue della luna, vi era Marta, in piedi e intenta a guardare fuori dalla finestra con le mani intrecciate sul seno appena accennato. Stava sorridendo e piangendo insieme, le guance rigate dalle lacrime per un qualcosa che era difficile, se non impossibile, esprimere a parole.

Piccola, che ti succede, adesso? Non…

Capì tuttavia, prima di ultimare il pensiero, che quei flash che aveva visto prima, quelle immagini, erano frutto della stessa mente di Marta che, nel cuore della notte, spinta da quel qualcosa che sentiva vibrare nel cuore, si era alzata in piedi per affacciarsi alla vetrata.

E così Marta piangeva e sorrideva insieme, così come lui. Erano un tutt’uno.

Si alzò, traballante, in piedi, non sapendo bene che fare perché l’emozione condivisa era talmente intensa da rendere difficoltoso il resto; fortunatamente una figura avvolta dalla coperta si mosse dai letti a castello e, scendendo con attenzione dagli scalini, si avvicinò a lei.

“E-ehi, che ti succede?”

“Stevin...” lo chiamò Marta, voltandosi verso di lui e mostrando con naturalezza le lacrime, cosa che lo mise istantaneamente in allarme.

“Cavolo! Brutte le prime mestruazioni, eh, sembri...”

Dovette evitare con agile maestria un calcio rotante che -doveva ammetterlo- se lo avesse centrato gli avrebbe fatto non poco male.

“Non è così, idiota!” gli soffiò Marta, indignata, sempre con il volto rigato dal pianto ma inviperita dall’illazione gratuita.

“Massì, lo so, lo so! - ridacchiò lui, prima di sedersi davanti alla finestra per fissare a sua volta il chiarore della luna – E’ solo che, sai, mio nonno mi ha detto che quando per voi è quel periodo siete più emotive, in balia degli ormoni, e anche più fragili.”

“Nonno Mario dice un sacco di cose, ma qui ha preso un granchio.” obiettò Marta, prendendo posto al suo fianco.

“Davvero? Però un fondo di verità c’è.”

“Può darsi, ma non è questo il caso.”

“Mmh. - Stefano soppesò le sue parole, prima di permettersi, con la mano destra ancora avvolta dalla coperta, di carezzarle un poco la testa e così i capelli castani – Che succede, quindi?”

“Niente, pensavo.”

“Tu pensi sempre, ma vederti piangere e ridere insieme non è esattamente cosa di tutti i giorni.”

“...”

Non era una sensazione facile da decifrare, persino per lei che di emozioni ne era profusa, avendo anche la dimestichezza di capirle, catalogarle e confrontarsi.

“Stai male per qualche ragione?” insistette Stefano, realmente preoccupato dalla sua reazione.

“No, non è nulla di spiacevole.”

“E allora cosa..?”

“E’ stata… davvero una bellissima giornata, non trovi?”

“!”

Gli occhi le si erano fatti nuovamente lucidi nell’esprimerlo, mentre, rabboccando aria, strizzava le palpebre per sorridere tra sé e sé.

“Voglio dire, è stato tutto perfetto, perfino smarrire temporaneamente la via per incrociarci con Camilla e salire in Antola giusto in tempo per il tramonto. - prese una breve pausa, il sorriso le si allargò – Michela e Francesca… erano così contente!”

“Già. - annuì Stefano, tornando a guardare fuori – C’è stato un terribile momento in cui sarebbe potuta risvoltare male l’intera gita ma, quasi per ironia della sorte, è stato proprio quel frangente a rendere tutto il resto così splendido. Anche io… anche io mi sono divertito molto!”

“Pensavo proprio a questo, mi si sono formate determinate immagini in testa e, nulla, Stevin, mi è venuto da piangere e sorridere al tempo stesso, non riuscivo smettere, né a stare comoda sul letto, quindi mi sono alzata.”

A quel punto Stefano si voltò interamente verso di lei, osservandole con meraviglia il viso nuovamente bagnato dal pianto e il sorriso delineato sulle labbra, dei più belli che le avesse mai visto.

“Quindi… sono lacrime di gioia?” chiese conferma, mentre l’amica, appoggiandosi a lui per poi rannicchiarsi, annuiva tacitamente, continuando a piangere senza potersi fermare.

“Marta...”

“V-vorrei solo che… che quest’attimo, questa giornata, fosse eterna!” riuscì infine a dire, non celando il tremore crescente né la gioia per i bei momenti trascorsi tutti insieme.

Stefano la abbracciò tacitamente, senza aggiungere nient’altro. Non c’era nulla da dire, in effetti, nulla che sarebbe potuto essere espresso da semplici parole. Le diede alcune pacche leggere tra le scapole, prima di sorridere tra sé e sé e tornare a guardare fuori dalla finestra.

La luna era splendida, rischiarava le cime dei faggi ancora parzialmente spoglie, dandogli ombre proprie, prolungate, di una fresca nottata di primavera ormai avviata.

Un attimo che diventava eterno…

“Sì, hai proprio ragione. - confermò infine, sereno, avvolgendola meglio con la coperta in modo che un lembo le facesse da cappuccio – E’ stata la giornata più felice della mia vita fino ad ora e, ne sono convinto, ce ne saranno molte altre!”

Marta boccheggiò vagamente davanti a quell’affermazione, incanalando dentro di sé quella verità come se fosse tutto ciò di cui necessitava.

Ce ne sarebbero state altre…

Sorrise alla luna, permettendosi di chiudere gli occhi, respirare più a fondo, e sentirsi parte integrante, per quanto piccola, dell’immenso.

“Certo, ce ne saranno altre, anche io ne sono sicura, Stevin!” gli disse, finalmente serena – E noi non smetteremo mai di esplorare insieme la Valle, non è forse così?!”

“Sì,te lo prometto!”

“Ebbene… lo prometto anche io, Stevin!” confermò lei, prima di assopirsi appoggiata alla sua spalla.

 

 

Ottobre 2008

 

 

“Mmm, dunque… - rimuginò Marta, squadrando la cartina da cima a fondo nell’individuare una possibile via alternativa. – Se passassimo da qui, dal torrente di Aia Vecchia?”e indicò la zona in questione.

“E’ impossibile, ricordi? - la contradisse Stefano, concentrato come lei nella risoluzione del problema – Ci abbiamo già provato da più piccoli e non si può: il rio, da un certo punto in poi, si innalza di troppo, c’è una spessa parete calcarea per raggiungere il laghetto sopra ed è tremendamente scivolosa. Dai due lati lo scalino è comunque troppo alto, forse si potrebbe riuscire a scendere, ma a salire...” lasciò la frase in sospeso, corrucciato.

“Neanche ora che siamo più grandi e abbiamo le gambe più lunghe?” chiese speranzosa Marta, gli occhi di chi non si voleva proprio arrendere.

“Non credo, no.”

“Uff, ma allora come si fa? Come si raggiunge il paese abbandonato di Tessaie o Tassaie?”

Stefano tornò giù con lo sguardo, su quella cartina dettagliatissima che erano riusciti a reperire e che tuttavia non dava garanzie di riuscita del piano.

In tutti quegli anni di vagabondaggio nella valle avevano scoperto ed esplorato innumerevoli luoghi, alcuni impervi e praticamente inaccessibili ai più, altri larghi e spaziosi, quasi magici a pensarli parte integrante di una valle così stretta come era la Valbrevenna, che non finiva mai di stupire. Ormai i due ragazzi potevano dire di conoscerla a menadito, nonostante alcune zone fossero ancora impossibili da raggiungere.

Era il caso di Tessaie, paese dirimpettaio di Cerviasca, sito in versante destro della valle e posto più o meno alla stessa altezza del paese di Stefano e di suo nonno. Tuttavia, contrariamente a quest’ultimo, recuperato quasi interamente grazie agli sforzi di Mario, aveva avuto una sorte ben più ingrata, diventando un cosiddetto ‘villaggio fantasma’. Infatti non ci abitava più nessuno da diversi decenni e tutte le mulattiere che un tempo erano state vere e proprie arterie della valle, erano completamente saltate, rendendo il luogo inagibile.

Ma i due bambini, ormai divenuti ragazzi, non erano affatto intenzionati a gettare la spugna: anche Tessaie meritava di essere visitata e conosciuta, soprattutto non dimenticata, sebbene la vegetazione, rovi e vitalba fra tutte, la stesse inglobando a vista d’occhio.

Perché tutto ciò che veniva dalla natura tornava ad essa, al termine del ciclo. La morte inseguiva la vita. Sempre.

“Dunque… mio nonno mi aveva detto che, nel secolo scorso, Tessaie era raggiungibile da due mulattiere. Una, questa qui, portava al paese di Pareto, ad oggi uno dei più abitati nel periodo estivo. – Stevin indicò il lato sinistro della cartina con l’indice, prima di spostarsi, seguendo una linea immaginaria, da parte opposta – E l’altra, invece, partiva dall’abitato di Casareggio e… ehi, mi stai ascoltando?!”

“Eh?!”

Marta sussultò, come se il richiamo l’avesse appena fatta cadere giù dal cielo. Con non poca fatica, tornò lì, sul presente, vicino all’amico di sempre che la fissava con preoccupazione.

“Dov’eri? Avevi lo sguardo assente!” le disse, con un pizzico di urgenza.

“Scusami, Stevin, mi si era creata, forte, l’immagine mentale di come appare Tessaie adesso dal tuo paese di Cerviasca.” mugolò lei, un poco rattristata.

“E..?”

“E nulla, le case vuote mi stavano risucchiando. Quelle loro finestre ormai prive di luce, un tempo gremite di vita; la vegetazione che le soggioga, inglobandole dentro di sé per poi, in tempi relativamente brevi, farle scomparire, un po’ come è successo al paesino di Campo Antico, ricordi? Sulle carte e negli archivi è presente, ma quando abbiamo fatto il sopralluogo nella sua corretta ubicazione, vi erano rimaste solo un mucchio di pietre senza più neanche la parvenza delle case che sono state.”

“Sì, è vero, è molto triste...”

“Già.”

Marta sembrava sull’orlo di una nuova crisi, l’amico si sentì in dovere di darle una leggera gomitata tra le costole per risollevarla.

“Però almeno noi sappiamo che sono esistite, no? Sappiamo che ci hanno abitato delle famiglie che, come noi, avevano sogni e speranze. Non tutto è andato perduto, lo scritto è rimasto e, anche se sbiadirà il ricordo, loro avranno comunque lasciato un segno!”

Marta non era così sicura della veridicità delle parole dell’amico. Del resto, ogni cosa, checché ne dicesse Francesca, prima o poi scompariva per davvero, nel giro di tre generazioni massimo, e tutto pareva davvero privo di senso. Lo guardò ancora sconfortata, prima di rendersi conto di non poter continuare a fare la musona ogni volta che sopraggiungeva un pensiero triste. Per lui, ma anche per sé stessa. Era finito il periodo delle lacrime e dei capricci.

“Hai ragione, per questo noi… raggiungeremo Tessaie, in un modo o nell’altro, sebbene i sentierini siano saltati e la vegetazione l’abbia quasi del tutto inglobata! Glielo dobbiamo a chi se ne è preso cura prima dell’abbandono!” disse, grintosa, tramutando la sua faccina un poco spenta nel più bel sorriso che potesse disporre.

“Sono d’accordo! - Stevin si portò le mani al petto, chiudendole a pugno – Allora recuperiamo subito delle cesoie prima di avventurarci nell’impresa. Ci sarà da tagliare e infrascarci per bene, ma noi...”

“Cough! Cough!!!”

Furono interrotti dai violenti colpi di tosse di Nonno Dante. Marta istantaneamente si raggelò, dandogli un’occhiata preoccupata e facendosi subitaneamente tesa. Ultimamente le sue condizioni sembravano scadenti, non era chiaro il motivo, ma era cominciato tutto da quell’estate, dal caldo atroce che, ancora una volta, aveva quasi soffocato la valle. Un tempo le temperature così alte erano assai rare e ridotte a brevi periodi, generalmente tra la fine di luglio e agosto -aveva raccontato loro Nonno Mario- ma il clima globale andava sempre più surriscaldandosi, perfino lì, in quell’angolo di mondo solitamente fresco in estate e gelido in inverno.

“Dante, sei sicuro di farcela? Dovresti riposare!” lo avvertì Nonna Inés, premurosa nella sua mansuetudine, vedendolo armeggiare con la giacca.

“No, ho bisogno di sgranchirmi un po’ le gambe, stare qui nell’inedia mi fa stare solo peggio! - rispose lui, al solito brusco, prima di dare un’occhiata ai due ragazzi sul tavolo del salotto e addolcire impercettibilmente lo sguardo – E poi ho bisogno di stare un po’ con i miei nipoti!”

Nipote… Stevin non lo era di sangue, ma in tutti quegli anni si era formato un legame saldo tra loro e il giovane veniva affettuosamente chiamato a sua volta con quell’appellativo. E così i nonni, da uno, erano passati a tre, e una mamma, quella di Marta, una sorella maggiore e una minore quali Francesca e Michela e… beh, ovviamente la sua preziosissima compagna di avventure, la sua persona con la quale era cresciuto.

Calore ne era derivato… ma il calore -si era ben presto reso conto Stefano- poteva essere un’arma a doppio taglio.

“COUGH! COUGH!”

Altri colpi di tosse, ancora più intensi, tanto da obbligare Nonno Dante a piegarsi quasi in due, sorretto dalla moglie che lo teneva con premura mista ad ansia.

Gli occhi di Marta si fecero più scuri, una smorfia triste prese largo in lei. Istintivamente strinse un pugno con impeto per farsi forza e rigettare indietro quell’orrenda sensazione sottopelle, di qualcosa che sarebbe potuto accadere di lì a breve senza sapere con nitidezza quando.

“Dante... sei veramente sicuro?”

“Sì, Inès, non ti angustiare, ho solo bisogno di un po’ d’aria. - tagliò corto il nonno, allontanandosi immediatamente dalla consorte, come se il solo fatto di essere toccato potesse manifestare pienamente tutto il suo malessere - Volete… venire con me?” chiese poi ai due nipoti, guardando intensamente uno e l’altro.

“Noi...”

“Certo, nonno! - parlò per entrambi Marta, alzandosi in piedi, intrecciando le braccia dietro la schiena per poi regalargli un intenso, quanto difficoltoso, sorriso – Stavamo valutando la nostra prossima meta da raggiungere, ma… ci siamo!”

In effetti c’erano, anche a Stefano avrebbe fatto piacere, ma era difficile, in certe situazioni, capire pienamente Marta, cosa le frullasse per la testa; e il rapporto con il nonno, sebbene migliorato notevolmente negli ultimi anni, era sempre stata una incognita piuttosto seria, visto i loro molteplici alterchi.

“Uh, e dove andrete nella prossima avventura?” volle sapere Dante, gli occhi che brillarono impercettibilmente in una curiosità forzatamente trattenuta.

“Tessaie, il paese abbandonato sul versante opposto di Cerviasca, proprio il suo dirimpettaio!”

“Sembra piuttosto impegnativo...”

“Già, abbiamo tentato più volte di raggiungerlo, fallendo, ma la prossima volta saremo di certo più preparati! - ammiccò lei, allargando il suo sorriso, prima di girarsi verso l’amico di sempre – Io vado a cambiarmi le scarpe, Ste, torno subito!”

Fece per dirigersi verso il primo piano, entusiasta alla sola idea di uscire a camminare per sfogarsi almeno un po’, ma prima ancora di compiere il giro completo intorno a lui per andare verso il corridoio e così le scale, venne fermata dalla mano del nonno che le cinse il polso. Sussultò a quel gesto, irrigidendosi di conseguenza: l’ultima volta che si era permesso di azzerare le distanze tra loro a quel modo non era stato affatto piacevole, ciò le riportò alla mente la triste sorte di Bibo e le sue parole spietate. Ebbe quindi l’istinto di divincolarsi e scappare via: il rapporto era migliorato, non risanato, ma si trattenne con tutte le sue forze, sforzandosi di guardarlo nuovamente in faccia.

“Nonno, che succ..?”

Si interruppe. Il viso che aveva di fronte, reso più spigoloso e affilato dalla vecchiaia, non aveva più molto dell’aspra alterigia che, pur a fin di bene, le aveva sempre dimostrato. Deglutì a vuoto, avvertendo il suo cuore palpitare. Per un solo istante, sentì il bisogno di abbracciarlo, di tornare la bimba spensierata e felice che si intrufolava tra le sue braccia, del tutto sorda ai suoi lamenti sul fatto che quel comportamento fosse puerile e assolutamente da evitare. Si trattenne, anche se a stento. La distanza l’aveva ricercata lui, allontanandola… perché ora sembrava volerla accorciare, per non dire annullare?

E tuttavia gli occhi di suo nonno perduravano ad essere gremiti di qualcosa di oramai inconciliabile. Da parte di entrambi. O forse solo dalla parte di lei?

“Nonno… - ritentò, un poco seccata – Che succede? Lasciami andare a prep...”

“Marta...”

Una sola parola, il suo nome, l’occhiata disorientata della nipote, prima di trarla a sé in un inaspettato, quanto sconvolgente, abbraccio. La ragazza trattenne un ansito, sbatté più volte le palpebre, ancora incredula, mentre il suo corpo minuto si adattava a quello stanco e logoro del nonno che, pur piegato su sé stesso dalle fatiche del tempo, la accoglieva contro di sé.

Tremò, mentre gli occhioni le si fecero istantaneamente lucidi senza che il suo, di corpo, riuscisse a ricambiare quel goffo tentativo di abbraccio. Respirò però a fondo il suo odore, un qualcosa di affine al profumo del legno di quercia che brucia nel caminetto. A stento riuscì a rilassarsi a sufficienza per accorgersi che no, non era un sogno, il nonno la stava davvero stringendo come mai si era permesso di fare in vita sua, che un istante dopo, giudicando concluso il momento di debolezza, fu proprio lui a distaccarsi, sospingendola lievemente verso la porta per poi voltarsi in direzione opposta.

“Vai a cambiarti, forza! Ormai sono vecchio, se facciamo troppo tardi rischiamo di non partire nemmeno, e le giornata ad ottobre sono già piuttosto corte.” disse, un poco ruvido, cercando di non mostrare alla nipote che gli occhi si erano fatti lucidi.

Marta rimase un poco incerta, il corpo già in direzione dell’entrata ma la testa ancora rivolta verso di lui. Ne voleva ancora, era evidente, perché, anche se in apparenza non sembrava, le coccole e il calore non le bastavano mai.

“Vai! - la spronò ancora il nonno, continuando a darle la schiena – O hai cambiato idea?”

“No.” rispose placida lei.

“E allora cosa c’è?”

“C’è che… - prese fiato, chiuse e riaprì gli occhi, preparandosi ad esternare quanto sentiva - Ti voglio bene, nonno!” disse tutto di un fiato, prima di avvampare conseguentemente e fuggire letteralmente via.

“Uff, è sempre la solita nel dire così spontaneamente simili smancerie.” sbuffò sottovoce, scrollando la testa.

“Ne aveva bisogno ancora, lo sai...” si sentì di dire Stefano, abbassando lo sguardo nel capire i sentimenti dell’amica.

Non ottenne risposta, solo un silenzio pesante che odorava di rimorso e che pizzicava le narici e poi la gola.

Marta non ci mise comunque molto a tornare giù, del resto il tempo stringeva per davvero. Nonno e nipotina erano ancora in estremo imbarazzo tra loro quando uscirono dalla casetta seguiti a breve distanza da Stefano che li osservava tacitamente nel desiderio di essere d’aiuto senza sapere bene come fare. Fortunatamente, dopo i primi, maldestri, passi insieme, le parole vennero da sole e la ragazza, ravvivata, incominciò a parlare a più non posso.

Percorsero tutti e tre insieme, adagio adagio, la stradina sterrata che, da Carsi, portava al paese disabitato di Gherfo e, ancora più su, divenendo sentiero, percorreva un immenso castagneto sito a mezza costa che, scavallando Cerviasca, avrebbe poi condotto sulla montagna fiorita per antonomasia: il Monte Antola. L’obiettivo, quella volta, non era raggiungere la cima, bensì arrivare nella località chiamata ‘il Ballo della Gallina’ dove si sarebbe potuto ammirare un tramonto meraviglioso.

Camus -sempre presente passo passo al fianco inconsapevole della sorellina ma più corrucciato del solito- li seguiva a corta distanza, non perdendosi un solo attimo di quei momenti che avevano un non so che di definitivo. Gli interventi precedenti lo avevano stroncato, ma non erano comunque stati quelli a renderlo così… appesantito.

Guardò prima il nonno, che arrancava per stare al passo con i due giovani, poi Stevin, che aveva un velato sorriso a solcargli le guance e, infine la sua Marta, un vero e proprio fiume di parole in piena, in grado da sola di alleggerire il cuore e lo spirito degli altri due, nonché il suo.

Era evidentemente a suo agio, finalmente libera di esprimersi e corroborata dall’abbraccio genuino che le aveva dato il nonno. Era felice, anche se Camus avvertiva comunque in lei, nel suo giovane cuore, una punta di dolore che, sebbene affossata, non era del tutto scomparsa.

Li seguì lungo tutto il sentiero, godendosi il panorama e i colori autunnali che, proprio in quella stagione, prendevano sfumature meravigliose e quasi magiche. Ciò gli diede occasione di rimuginare anche sulla sua vita, se già non lo aveva ampiamente fatto fino a quel momento. Quel viaggio nei ricordi della sorellina era stato anche un percorso per riscoprire sé stesso, per recuperare le sue radici. Non poteva dire che non gli avesse fatto male, no, il petto doleva sempre di più e troppo spesso si percepiva gli occhi lucidi, sul punto di piangere, ma se quel dolore era il giusto compromesso per vedere crescere Marta e avvicinarsi ulteriormente alla sua famiglia perduta, non avrebbe potuto chiedere di meglio. Scrollò un poco il capo, malinconico, tornando a guardare le cime colorate del bosco lontano e vicino, quasi braci ardenti che si innalzavano verso il cielo e che, all’occorrenza, potevamo essere gialle, arancioni, oppure rosse.

L’autunno in quelle zone… era veramente magnifico!

Ad un certo punto lungo il tragitto, quando ormai la camminata della piccola comitiva, stante le condizioni del nonno, aveva virato verso un rallentamento; dalla parte opposta del fitto del bosco emersero due figure. Marta non le vide subito, ma percepì forte e chiaro il trasalimento di Stefano che, impietrito, si bloccò timoroso. La ragazza lo osservò incuriosita, prima di seguire la direzione del suo sguardo e comprendere il motivo di un tale sconvolgimento. Li riconobbe all’istante ma non li salutò, non subito. Fu suo nonno a parlare.

“Ah, buonsalve Signor Egidio e saluti anche a te, Andrea. Cosa vi porta su da noi, a quest’ora?” disse, affabile, togliendosi il berretto in segno di rispetto.

“Ah, Signor Dante, buonasera! Sempre sul pezzo Lei, nonostante la sua età!” ricambiò il saluto l’altro, avvicinandosi.

“Beh, insomma… si fa quel che si può!”

“Ma Lei è in gamba, lo sa, e… oh, salute anche a voi, Marta e Stefano!”

Il nuovo arrivato guardò anche i due ragazzi, allargando il suo sorriso, prima di fermarsi proprio davanti a loro nello stesso momento in cui il suo giovane accompagnatore, borbottando qualcosa di incomprensibile, rimaneva invece nascosto dietro la sua schiena, ben poco allietato di aver incontrato proprio loro e di doverci pure chiacchierare.

Il disagio era evidentissimo, da entrambe le parti.

Dalla parte di Marta e Stefano, che volevano sparire seduta stante.

E dalla parte di Andrea, l’ex bulletto di Mareta, che per buona parte dell’infanzia si era divertito a bullizzarli.

Il punto era che gli adulti non lo sapevano, neanche si immaginavano le lotte che erano avvenute tra le due fazioni, né tanto meno che in molte di quelle si era perfino arrivati alle mani. Non lo sapevano. E non avrebbero mai dovuto saperlo, visto che le rispettive famiglie andavano d’accordo.

Egidio, il tuttofare della valle, nonché padre di Andrea, era conosciuto e ben voluto da tutti perché, volentieri, si prestava ad aiutare i valligiani con lavori e manodopera varia, indispensabili in un piccolo comune in cui si conoscevano tutti.

Per la verità, giravano voci su di lui che, neanche troppo tempo prima, era stato una manciata di anni in prigione per crimini che non era dato sapere con certezza. La gente mormorava, nei paesi ancora di più, ma poi Egidio aveva cominciato a prodigarsi per la valle, a offrire aiuto a tutti, e le voci si erano attenuate o passate direttamente in sordina perché, alla fine, come recitava un detto della valle: ‘le braccia che lavorano sono più preziose delle lingue che parlano’.

“...Cosa ci faccio qui, mi ha chiesto? Beh, è il mio giorno libero e ho deciso di portare mio figlio Andrea a respirare un po’ di aria pulita. Sa, da quando ha avuto l’incidente...”

Il dialogo sembrava doversi protrarre più a lungo di quanto sperato. Stefano rabboccò nervosamente aria, desiderando più intensamente che tutto finisse nel più breve lasso di tempo possibile. Ma non sembrava quello il caso. Continuava a gettare occhiate oblique all’altro ragazzo, preda del suo stesso disagio. Certo, non vi era più, in lui, quella foga inaudita degli anni giovanili, quella rabbia traboccante che spesso e volentieri gli aveva riversato contro -perché erano stati compagni di scuola Elementare e Media- e dalla quale Marta, pur più piccola, gli aveva sempre fatto da scudo. No, non c’era più quel furore, quell’odio. Dal giorno dell’incidente, dal ritorno di suo padre nella sua vita e soprattutto dopo il lungo periodo di degenza in ospedale, Andrea sembrava notevolmente essersi calmato.

Eppure continuavano a non andare d’accordo.

“Ehm...”

Marta sembrava intenzionata a parlare a sua volta. Stefano la provò a guardare supplice, scrollando la testa come a dirle di non farlo, che non era il caso, ma la sua amica non lo stava guardando, presa ad osservare, con una nota di tristezza, l’altro ragazzo.

“Come… va?” gli chiese infine, visibilmente in imbarazzo.

“Bene. Ora bene.” borbottò in risposta, facendosi ancora più cupo, quasi funereo.

“L-la, ehm, protesi nuova… come ti trovi?”

“Meglio della precedente. - disse, alzando proprio il moncherino che contraddistingueva la sua mano destra – Il mio corpo riesce ad adattarsi meglio, e comunque ho imparato ad usare perfettamente la sinistra.” spiegò, il più conciso possibile, mostrando la mano integra.

“Oh, buon per te!” sorrise tenue Marta, prima di abbassare lo sguardo perché comunque il desiderio di scappare era vivo da entrambe le parti.

Il desiderio di scappare, già… -rifletté Stefano, ben poco loquace- che cosa fosse avvenuto realmente quel giorno era ancora un mistero. Non ne aveva neanche più parlato con Marta, argomento tabù, e… forse… meglio così.

Strinse il pugno sinistro, mordendosi le labbra. In verità, un dubbio aveva continuato a rimbalzare nella sua testa per tutti quegli anni, ma non voleva crederci, no, era impossibile… vero? Osservò tacitamente Marta scambiare un paio di chiacchiere cordiali con lui, come se non fosse successo niente. E, del resto, anche dall’altra parte vi era del disagio, sì, ma nulla che potesse far pensare che Andrea sospettasse di lei, che la reputasse, in qualche modo… corresponsabile.

Corresponsabile?!

Impallidì a quel pensiero. No! Come poteva anche solo avere il sospetto su di lei, reputarla artefice di quel… dell’incidente! No, era impossibile… I-M-P-O-S-S-I-B-I-LE!

Rabboccò ulteriormente aria. Assurdo! Certo che era assurdo. Assurdo e nient’altro!

Fortunatamente la parabolica conversazione si esaurì totalmente nell’arco di una manciata di minuti. Si salutarono con un cenno del capo, prima di dirigersi verso le rispettive strade. Stefano sperò ardentemente di non incrociarli nuovamente al ritorno.

Il sole stava già declinando, si erano attardati troppo e la loro andatura era sempre più appesantita. In fondo non importava, davvero, bastava trascorrere quanto più tempo possibile insieme.

Marta, preda dei suoi pensieri, guardò malinconicamente il cielo che andava tingendosi di cremisi. Aveva gli occhi tristi ma un’espressione indecifrabile sul volto. Stevin fu quasi sul punto di chiederle spiegazioni, ma l’amica parlò prima di lui.

“Sai… non ho mai capito cosa sia successo ad Andrea.”

I passi di Stefano si fermarono di botto e, inconsapevolmente, anche quelli di Camus. Entrambi la guardarono sconcertati.

“Mi dispiace comunque per lui, non meritava una cosa simile… - continuò lei, un passo davanti all’altro, non rendendosi conto che l’amico, invece, si era fermato – Sì, è vero, non si è comportato granché bene con noi, men che meno con te, Stevin, ma una tale menomazione non la augurerei a nessuno!”

“T-tu… tu...”

Stefano aprì più volte la bocca a vuoto, profondamente scosso. Marta, da un certo punto in poi, non lo percepì più accanto a sé, si girò quindi interrogativamente verso di lui.

“Che succede? Qualcosa non va?”

Lo guardò a lungo. Sembrava sconvolto da qualcosa, lo vide inumidirsi le labbra alla ricerca delle parole mancanti.

“Tu...”

“Sì?”

Non ricordi… quello che hai fatto, piccola?! Non rammenti proprio che sei stata tu a..?

Fu Camus a parlare al posto del ragazzo, umettandosi le labbra a sua volta, turbato da una simile rivelazione: possibile che sua sorella non ricordasse minimamente cosa fosse accaduto?!

“Niente.” glissò velocemente Stefano, guardando altrove, prima di affiancarla. Il viso un poco rabbuiato.

“Però, almeno, è migliorato molto, rispetto a quando era più piccolo, no?! - riprese trillante Marta, rilassandosi nel pronunciare una simile frase – Sai, penso che non ti darà più fastidio, Ste.”

“Mmm, se lo dici tu...”

“E’ la dimostrazione vivente che, in fondo, sono davvero poche le persone realmente cattive. Molte lo diventano perché… beh perché questa vita, che tanto da, toglie e strappa anche tanto. Può essere… crudele!” ragionò ancora lei, sospirando nel soffermarsi su quel pensiero.

Ancora si fece triste, ma lo scacciò in fretta, recuperando il buonumore.

Si fermarono infine in una radura di castagni secolari proprio sotto un enorme fusto di un albero morto da decenni che tuttavia conservava, impresso nel proprio tronco, il segno del tempo passato. Sembrava immenso, non sarebbero bastate le braccia aperte di cinque persone per abbracciare interamente la sua circonferenza. Si raccontava a Carsi che quel castagno si trovasse lì dal 1349 e che gli abitanti lo avessero piantato per celebrare la fine della pestilenza che, anche se in maniera minore rispetto alle città, aveva flagellato anche quei luoghi. Erano passati secoli, quasi 7, sotto l’albero il bosco si era diramato, la vita si era accresciuta e moltiplicata. Ma il tempo impietoso era trascorso anche per lui e, lentamente ma inesorabilmente, la morte lo aveva raggiunto, lasciando il suo solo tronco mastodontico -e i rami che ancora abbracciavano il cielo!- come retaggio del suo lungo esistere.

Chissà quanti scoiattoli ci avevano trovato una tana…

Chissà quanti uccelli canterini ci avevano costruito il nido…

E chissà quanti bimbi si erano fermati a rifiatare sotto la sua chioma per riposare dalle fatiche della camminata.

Era sopraggiunto già il crepuscolo. Ormai era chiaro che non sarebbero mai arrivati in tempo sul crinale per vedere il tramonto, il nonno di Marta non ce l’avrebbe fatta. Pertanto si fermarono proprio sotto il grande albero per rifocillarsi con un po’ d’acqua. L’atmosfera era dorata, si prospettava un tramonto stupendo che loro avrebbero visto solo tramite l’irradiarsi del sole sulle foglie degli alberi. Sarebbe bastato anche da lì, del resto l’aria era così tersa, l’atmosfera così magica, che non importava davvero arrivare fin sulla cima, bastava stare lì, godersi il momento, riempirsi gli occhi di meraviglia.

In effetti, Marta stette buona solo per un paio di minuti, poi, con sguardo vivace ed energia da vendere, iniziò a correre e saltellare per tutta la radura, preda di una crisi iperattiva che non la prendeva da un po’. Fu un sollievo rivederla così. Certo, in tutti quegli anni di momenti in cui tornava quella di sempre c’erano stati, in mezzo tra una crisi esistenziale e l’altra, ma vederla ancora così… euforica… era assolutamente manna dal cielo.

Sia Stevin che Camus avevano lo stesso sorriso orgoglioso in quel momento, a differenza del nonno che, pur guardando la nipote, gli occhi ancora brillanti, aveva il viso pallido e tirato dalla stanchezza.

Crepuscolo. E tutto era dorato.

Crepuscolo. E la vita era più forte che mai.

Crepuscolo.

“A guardarla così spensierata che… abbraccia gli alberi… - sorrise Stevin, osservando l’amica passare di tronco in tronco per circondarlo con forza in una manifestazione affettuosa – Mi sento più alleggerito anche io.” ammise, sentendosi sollevato nello spirito.

Nonno Dante non rispose, si limitò ad annuire.

“In questi anni ci sono stati momenti in cui non la riconoscevo, momenti difficili, di crisi, ma siamo entrambi qui, siamo cresciuti, e lei...”

“Cough! Cough!”

Stevin si raggelò nel mezzo del discorso, girandosi allarmato verso il nonno di Marta per vederlo disperatamente arrancare, preda di una tosse cattiva e nevrotica che il ragazzo non aveva mai sentito con una tale intensità. Si allarmò.

“No-nonno, tutto bene?” chiese, posandogli una mano sulla spalla nel chiedersi come poterlo aiutare maggiormente. A volte sembrava non riuscire nemmeno a respirare…

“O-oh, f-finalmente, anf, ti sento chiamarmi con l’appellativo che ti ho chiesto, dopo che per anni mi hai dato del Lei.” gli sorrise debolmente.

Stevin si irrigidì un poco, arrossendo: “I-io… scusa è che… non è facile.” si grattò la testa, a disagio.

“Fa’ niente, siamo uomini, ci siamo capiti, uff...”

“Cosa ti succede? Cosa hai? E’ da un mese che...”

“Non ho niente, è una cosa che si chiama vecchiaia. Arrivarci è un lusso, esserlo… un po’ meno!” rispose pratico Nonno Dante, dando un’occhiata alla nipotina che era in quel momento chinata per terra, del tutto presa a frugare tra le foglie per cercare delle castagne.

Stevin non capiva appieno, lo osservava, buttò un occhio su Marta, per poi tornare su di lui.

Camus invece, appoggiato in piedi vicino a loro sulla destra del grande tronco, le braccia conserte e gli occhi lucidi, capiva anche fin troppo. Si morse il labbro inferiore, prima di posare anche la nuca sul legno in una espressione che tradiva un certo dolore. Chiuse e riaprì gli occhi, osservando la chioma nuda di quel castagno secolare a confronto con le altre fronde intorno che, proprio prima di addormentarsi in preparazione della stagione vegetativa, sfoggiavano appieno il loro colore migliore.

Crepuscolo. E tutto era vivido come non mai.

“E’ incredibile come… come sia proprio in un momento simile, al calare della vita, che i contorni delle cose, la loro forma, diventano più nitidi che mai...”

Sia Camus che Stevin si girarono pienamente nella sua direzione, sorpresi, ma nessuno dei due riuscì ad incrociare il suo sguardo, perso a rimirare a sua volta le ramificazioni spoglie del grande albero che, anche da morto, forniva loro sostegno. Il Signor Dante sorrise inavvertitamente, mentre le rughe che gli delineavano gli occhi diventavano, se possibile, ancora più marcate.

“Siamo vicini alla fine, ed io finalmente… posso comprendere.”

Nonno…

“Nonno, cosa..?” fece per chiedergli spiegazioni Stevin, smarrito da un simile monologo, prima di essere interrotto dalla sua mano, un poco meno burbera del solito, che gli venne posata tra i capelli in una lieve carezza.

“Sei ancora molto giovane per udire le turbe di un vecchio, mio caro Stevin... - gli disse, affabile – Eppure io ho un bisogno disperato di parlarti, potrebbe essere una delle ultime volte.”

“Per-perché?!”

Ma il nonno discostò lo sguardo, mantenendo comunque la mano ferma sopra di lui: “Ti va di ascoltarmi?”

A Stefano non restò altro che annuire, sistemandosi meglio per poi drizzarsi sull’attenti. Sembrava l’abbozzo di un discorso piuttosto serio.

Il Signor Dante rimase a lungo in silenzio, continuando ad osservare la nipote nuovamente intenta ad abbracciare gli alberi. Glielo aveva sempre rimproverato quel gesto futile e privo di ogni logica, e lei era sempre andata per la sua strada, così come contraddistingueva il suo carattere. Sorrise tra sé e sé, il cuore gonfio di quella tenerezza che aveva sempre bandito e che, complice la vecchiaia, aveva preso sempre più piede in lui.

Crepuscolo, e tutto sembrava così vero, autentico, che era davvero difficile il solo pensarlo di doverlo lasciare.

“Stevin, so che insieme ve la caverete, in un modo o nell’altro. – tesse nuovamente il discorso anche se gli doleva alquanto – Però ho bisogno che tu mi faccia una promessa.” si girò verso di lui, gli occhi lucidi.

“Di-dimmi, nonno...”

“Sai, me ne sono accorto fin da quando Marta ti ha presentato a noi, ma… hai uno strano ciuffo di capelli sulla sommità del capo, quasi da sembrare un cespuglietto d’erba difficile da domare. – si lasciò andare ad una strana, quanto ineffabile, confessione – E’ in tutto e per tutto simile a quello di mia figlia Antoinette, o...”

La sua voce si trattenne, il suo sguardo divenne grave, quasi opaco, tanto da allarmare ulteriormente Stefano che, spaventato da quell’improvviso torpore, gli afferrò con urgenza il polso nella paura sempre maggiore, atroce, di non trovarselo più lì da un momento all’altro. Sembrava voler andare lontano, troppo, perdersi e… non voleva!

“Nonno!!!” lo chiamò, in un singulto, cercando di riscuoterlo, cosa che fortunatamente avvenne perché l’anziano signore sussultò, dandosi una manata in faccia per riprendersi.

“Che succede? E’ il cuore che non va?” insistette Stefano, febbrile, mentre quasi strattonandolo dal braccio, gli implorava tacitamente di resistere e di non avventurarsi oltre, laddove nessuno era mai tornato.

“E’ la vecchiaia, come ti ho già detto. - disse l’altro, stancamente, prima di darsi un tono – Tu sei davvero un bravo ragazzo, Stevin, sono contento… di averti fatto da nonno!” ammise, con un sorriso tirato.

Stefano arrossì di netto a quel complimento: “E-e io d-di essere stato nipote di due nonni fantastici, ma… ma perché me lo dici ora? Quale è la promessa che dicevi? Cosa sta succedendo? N-non sei mai stato… così.”

“Già, non lo sono mai stato, vero. Sono stato sciocco e ottuso nella mia vita e me ne sto accorgendo solo adesso. Ma, proprio per questo, ti prego di ascoltarmi.”

Ancora Stefano rimase in attesa, inghiottendo a vuoto, le mani gli ricaddero tra le cosce, mentre il nonno acquisito prendeva un nuovo respiro più profondo, prima di dare un’ultima occhiata malinconica agli strambi capelli del ragazzo e dirigere lo sguardo greve nuovamente verso la nipote che, incurante di sporcarsi, ubriaca della giornata di sole in quel mare multi-colore che virava dal giallo al rosso che era l’autunno, si tuffava tra le foglie secche, come un cagnolino giocoso.

Ci fu un’altra pausa, più lunga, e quindi il silenzio. Le parole non erano facili da esprimere e il solo concepirle nella propria mente era doloroso. Camus lo capiva meglio di chiunque altro.

Nonno… pensavi a me, prima, quando hai parlato dei capelli di Stevin e glieli hai accarezzati? -si chiese il nipote di sangue, con rammarico, appoggiato lì vicino a loro senza poter essere visto né tanto meno udito- Hai ragione. Non me lo spiego neanche io, ma assomiglia alla mamma o… o a me… è una sensazione così strana! La prima volta che l’ho visto mi sembrava già famigliare. Ho pensato che lo fosse per i ricordi che avevo visto di Marta, ma ora sento che non sia l’unica ragione, questa, eppure non riesco nemmeno a darmi un’altra spiegazione.

Lo guardò tristemente dalla sua posizione, la sua schiena ricurva pressata dal passare degli anni, i capelli di un bianco quasi trascendente, gli occhi infossati e sempre più pesanti. Era chiaro cosa gli stesse succedendo, dove lo stava conducendo quella cosa chiamata ‘vecchiaia’. E faceva dannatamente male.

Ciò che stai per dire… lo avresti chiesto a me, se io fossi rimasto con voi?

“E’ per Marta che ti voglio parlare, Stevin...”

Stefano lo osservò e così Camus. Ancora una volta i loro sguardi andavano verso la stessa direzione senza poterlo sapere. Era prevedibile l’argomento, ma non il tono pregno di emozione che aveva manifestato per la nipotina. Lui, che le emozioni le aveva sempre cercate di sotterrare.

“Guardala… guarda come gioca con gli alberi e le foglie. - gliela indicò con un cenno del del capo - Ha 14 anni, ormai, eppure sembra ancora una bambina. Non fa quello che fanno le altre, quello che dovrebbe fare una ragazza della sua età, no, lei è semplicemente lei, nonostante i miei rimproveri, i tentativi di farla crescere, di mostrarle la strada giusta da intraprendere. Lei è sempre lei, ingenua e genuina come è sempre stata.”

Camus accusò il monologo, stringendo le dita a pugno nel pensare nuovamente al suo allievo Hyoga.

“Non c’è un modo giusto per crescere. - gli fece notare Stevin, dal basso dei suoi 16 anni di esperienza, ma dall’alto dei suoi ideali di libertà che aveva acquisito vivendo in semi stato brado nella valle - E non è nemmeno un discorso di ciò che corretto o sbagliato. Dovresti essere solo fiero di ciò che sta diventando tua nipote, malgrado tutte le difficoltà!”

Anche Dante accusò il colpo non diversamente da Camus. Strinse un poco le mani, tremò appena, prima di annuire con un mezzo sorriso.

“Lo sono.”

“Davvero? - Stefano era sinceramente sorpreso, guardò lui e poi Marta, rammentando i dialoghi che aveva avuto con la cara amica a proposito del nonno e dei loro fraintendimenti – E lei lo sa? Glielo hai detto?”

“Non lo sa e temo che non sia stato nemmeno in grado di farglielo capire...”

“E allora vai adesso, non è tardi. Abbracciala ancora, dille che sei fiero di lei. Non è la fine!”

“Non posso.”

“Perché?!”

Stefano si stava scaldando, si alzò in piedi, il cuore batteva forte. Si mise frontalmente a lui nel tentativo di catturare il suo sguardo logoro che tuttavia si ritrasse.

“Perché non puoi?!” insistette, come se da quella questione dipendesse l’intera esistenza. Sua e di Marta.

“Perché sono uno stupido vecchio ottuso e cinque minuti adesso non possono cambiare ciò che è stato per anni e anni.”

“E allora ti arrendi così? Senza dirglielo?”

“No, non mi arrendo così, semplicemente ne prendo atto: alcune cose non possono essere cambiate, ragazzo mio. Assecondare questa triste verità, dopo una iniziale resistenza, ti fa soffrire di meno. Lo imparerai vivendo.”

“Mi sembra tutto così… triste!” biascicò Stefano, affranto, abbassando lo sguardo fino alle radici esposte del grande albero.

Nonno Dante si alzò in piedi a fatica. Era ormai più basso di lui, il peso degli anni si faceva sentire, piegandolo come un ramo accartocciato, sebbene mantenesse una certa imponenza; e comunque Stevin, a dispetto del Signor Mario, era cresciuto notevolmente negli ultimi anni. Gli posò una mano nodosa sulla chioma scura, permettendosi di accarezzargliela.

“Lo sarebbe, se io non avessi qualcuno a cui affidare il mio lascito...”

Stefano sbatté gli occhi, il cuore gli rimbalzò per l’emozione, mentre i suoi occhi si posarono su quelli un poco spenti del nonno putativo.

“...te!”

“Ed io cosa potrei mai..?”

“Marta, lei… - e guardò ancora una volta la nipotina lontana – Sbagliando, l’ho reputata da sempre fragile e indifesa, non adatta a questo mondo.”

“!”

“Come unico uomo della famiglia, era mio dovere rafforzarla fino a renderla fiera e indomabile in modo da resistere alle oscillazioni della vita. Nulla avrebbe più dovuto scalfirla, a costo di strapparle il suo cuore troppo labile per sostituirlo con uno di dura pietra.”

“Non è nella sua natura, esserlo, non sarebbe lei, non sarebbe stata la nostra Marta!” sbuffò Stefano, in un fremito estremamente tangibile.

“Lo so, ma la vita questo mi ha insegnato. Questo bisogna essere per non soffrire, per… resistere, resistere e ancora resistere a tutto. Schiaccia tu o sarai schiacciato. La legge della natura è impietosa.”

“N-no! - si oppose ancora Stefano, rifiutando quel pensiero nichilista con tutte le sue forze – Non si può ridurre tutto a questo. Non può essere SOLO questo!”

“Hai ragione. L’ho ben capito anche io, dopo tutti questi anni… - sospirò Dante, chiudendo appena gli occhi, prima di riaprirli – Ma voi siete stati fortunati a nascere in un angolo di mondo dove ora regna la pace. Siete stati fortunati… a non vivere la guerra sulla vostra pelle!”

“La Seconda Guerra Mondiale, vero? Anche Nonno Mario me ne parla… A voi è stata strappata la giovinezza, ed eravate poco più grandi di me, quando avete dovuto scegliere se arrendervi e piegarvi, o alzare il capo, combattere, rischiando di perdere tutto.”

Nonno Dante non acconsentì né annuì, preferendo soprassedere perché quell’argomento non era importante per il proseguo del discorso.

“Eppure anche un vecchio caprone come me, alla veneranda età di quasi 84 anni, ha finalmente capito quanto stesse sbagliando, quanto la vita non si possa minimizzare ad un’aspra lotta per la sopravvivenza per il predominio sugli altri. No, non è tutto qui! Vi è… vi è anche del buono, in questo mondo.”

“Del buono… - ripeté Stevin, guardandosi intorno, prima di sorridere – Ne siamo circondati!”

“Ne siamo circondati, sì. - confermò Nonno Dante, rimarcando le parole del ragazzo – E, per quanto ormai sia tardi, ora anche io ne sono consapevole.”

Guardò in alto, di lato, gli alberi le foglie e il terreno sempre più accesso, perché il sole stava declinando dietro il monte e la luce dava il meglio di sé proprio in quel frangente. E in mezzo a tutto quel subbuglio magico, la sua nipotina danzava nella radura del bosco. Se la fissò nella mente, in modo da non poterla dimenticare mai.

“E’ al crepuscolo… che tutto si fa completamente chiaro.” ripeté ancora una volta, mentre una lacrima solitaria, da tempo considerata seccata si palesava sullo zigomo sporgente.

“Nonno?”

Stefano l’aveva notata, strinse più forte la mano nocchieruta del vecchio, poi, mosso dall’istinto, allungò l’altro braccio per asciugargli con tenerezza quella gocciolina che, da lui, non aveva mai visto.

“Stevin, me lo devi promettere ora, va bene?” volle la sua attenzione Dante, lasciandosi sfiorare da quel gesto che, da solo, emanava calore. Da quel gesto che, da solo, avrebbe reso significativa una vita.

“Che… cosa?”

L’emozione era alle stelle, il momento intenso, delicato e forte allo stesso tempo. Lo guardò, si guardarono. E il cuore di Camus ebbe un fremito nel riconoscersi al posto del nonno davanti al suo Hyoga.

“Per tutta una vita ho perseguito l’autorevolezza, la durezza e la forza. Mi sembravano le uniche valide motivazioni per non soccombere all’esistenza, per… resisterle, con tutto me stesso. - prese una breve pausa, respirando più forte – Per tutta una vita ho perseguito l’ideale di essere io stesso roccia, dura pietra che non si lascia scalfire da niente e da nessuno, imperturbabile e stoico, inflessibile e rigido...”

Stefano lo osservò con maggiore serietà, si sentì quasi sul punto di porgli la fatidica domanda su dove lo avesse condotto quella strada, se lo avesse reso felice, se l’obiettivo era stato infine raggiunto. Ma il nonno fu più veloce di lui a proseguire.

“Ho fallito. - ammise, senza mezzi termini, con un sospiro, dando un’ultima, intensa, occhiata a Marta più in là – Eppure, perfino io nella mia sterile vita, qualcosa sono riuscito a piantare, e i semi, lo vedo bene con questi miei occhi, sapranno reggere meglio di me il peso del mondo.”

“N-Nonno...”

“I fiori sanno essere straordinari, Stevin, immagino che tu lo sappia meglio di me. Muoiono per saper rifiorire l’anno dopo, crescono perseveranti e gentili, profumano l’aria con la loro gradevole presenza. Caparbi, si piegano ma non si arrendono.” esprimeva tutto ciò, in un crescendo emozionale che si mostrava tramite lo scintillio che sfavillò struggente nelle sue iridi straordinariamente piene, nonostante gli affanni.

Stefano si sentì sbalordito da quella luce nei suoi occhi scuri, vivida, intensa, come forse era stato in gioventù. Intanto, l’ambiente intorno a loro, prima così illuminato e tiepido, andava piano piano a digradare verso le ombre, trasmettendo ad entrambi un brivido freddo che si insinuò tra le scapole.

“Lo so, i fiori sono incredibili! - confermò comunque il ragazzo, girando brevemente il volto verso l’amica che, nel frattempo, correndo, stava tornando da loro con le braccia piene di ricci di castagne – Sono loro la vera promessa della rinascita.”

“La vera promessa della rinascita… non immagini quanto tu abbia ragione, Stevin!”

“D-dunque cosa vorresti..?

“Ebbene, ti affido la mia speranza di rinascita, Stevin, il mio fiorellino... - gli disse ancora, posandogli entrambe le mani sulle sue spalle per spingerlo a guardarlo dritto negli occhi, da uomo a uomo, un’ultima volta ancora – Abbi cura di mia nipote Marta!”

 

 

Giugno 2009

 

 

Si trovavano di nuovo sulla collina della cappella, sotto il grande tiglio in cui si erano incontrati innumerevoli volte in tutti quegli anni. Un altro ciclo era trascorso, ed era di nuovo estate. Una estate, però, più vuota rispetto alle precedenti.

Se non fosse stata sufficiente la visione precedente, Camus comunque lo sapeva; sapeva cosa era successo in quei mesi, lo aveva già vissuto, probabilmente in altri sogni sfumati che, al risveglio, lui aveva in un primo momento rimosso ma che, riuniti nel percorso che aveva intrapreso al fianco di Marta, si erano concatenati fino a formare un nesso logico del prima e del dopo che rappresentava la vita trascorsa dalla sorellina prima del loro incontro in terra di Grecia.

Così come era stato per davvero.

Così come se lo avesse vissuto lui in prima persona. Con lei.

Era finalmente riuscito, in mezzo a tutte quelle vicissitudini, a percepirla concretamente dentro di sé.

Piccola mia...

La chiamò, flebile, un poco rattristato, mentre dall’ombra sotto il grande albero, appoggiato al tronco stavolta gremito di vita, osservava i due ragazzi seduti sul prato al sole.

Sembravano parlare come sempre, come se niente fosse accaduto. Era accaduto tutto, invece, un mondo si era spezzato e loro erano cambiati. Irreversibilmente.

Così Marta non manifestava più la tristezza, obbligandosi a dimostrarsi forte, mentre seguiva il filo del discorso entusiasta di Stevin che parlava di quanto erano arrivati vicini, quella primavera, al raggiungimento del paese abbandonato di Tessaie, e che di sicuro quell’autunno l’avrebbero conquistata. D’altronde… glielo dovevano!

E Marta… Marta acconsentiva a quella speranza, nonostante fosse rotta dentro, nonostante il leggero sorriso sul suo volto, che incurvava le labbra, nascondesse una piega assai più scura e profonda.

Camus, quella piega, la percepiva intensamente dentro di sé, non solo perché era una sensazione familiare anche a lui, ma soprattutto perché era il suo cuore, collegato a quello della sorellina, a suggerirglielo.

Ad un certo punto, una leggera ondulazione della chioma del tiglio causata dalla brezza, gli fece cadere tra le mani una delle capsule del fiore dell’albero. Sorrise tenue, girandosela un poco tra le dita nel tastarne la concretezza su di sé.

“Stevin, quindi, secondo te, se passiamo dall’abitato di Casareggio, sito a mezza costa, ci arriviamo a Tessaie, inoltrandoci mano a mano nell’incolto?” chiese ad un certo punto la ragazza, osservando il tanto agognato paese abbandonato sull’altro versante della montagna.

“Ne sono più che certo. Sono circa alla stessa altezza, bisognerà solo… ravanare un po’ nel gerbido.” rispose il ragazzo, utilizzando parole colloquiali che amava adoperare frequentemente.

“Uh… - Marta esitò un solo istante, prima di convincersi e darsi un tono – sì, possiamo farlo, ne sono sicura!” disse, mentre lo sguardo, come accadeva spesso, le si spense per un lungo attimo.

Stai soffrendo ancora molto per la perdita del nonno, vero? Lo riesco a percepire fin troppo bene, fa male il cuore, tanta è l’intensità. -ragionò intanto Camus, guardandola con apprensione- E’ questo ciò che senti tu quando mi leggi dentro? Quando provi le mie stesse emozioni? O è molto di più? Oh, Marta… non riesco a pensare che questo sia un dono per te, non riesco a pensare sia una benedizione, eppure tu, questa dote, la vorresti conservare dentro di te, non è forse così?

All’improvviso, nel mezzo del dialogo ancora in corso, la ragazza, come folgorata, si alzò in piedi di scatto per dirigersi verso il trogolo vicino. Senza che né Camus né Stevin potessero fare qualcosa, prese a curiosarci dentro per poi mulinare le braccia verso qualcosa che nessuno dei due riusciva minimamente a scorgere.

Certo, l’amico era ormai abituato a quei momenti un po’ bizzarri della ragazza, ma poi nel vedere che non dava segni di voler tornare e che anzi perseguiva nella sua opera misteriosa, si alzò a sua volta nel tentativo di richiamarla più volte da distanza.

Tutto inutile.

Fece quindi per raggiungerla, ma lei, cogliendolo di sorpresa, si raddrizzò proprio in quel momento, le mani congiunte a tenere qualcosa.

“Che cosa stai..?”

“Quest’anno i fratini sono precoci per queste altitudini, ma è troppo presto per loro… sono ancora un po’ storditi!”

Ne Camus né Stevin compresero subito, le regalarono una espressione smarrita, mentre lei, come se niente fosse, tutta felice con gli occhi luminosi, si avvicinava al migliore amico e, inconsapevolmente, al fratello maggiore avvicinatosi di conseguenza.

Effettivamente teneva tra le mani qualcosa di nero maculato di bianco tutto tremante, intento a sbattere le alette nel disperato tentativo di asciugarsi.

Amata Phegea…

Lo riconobbe Camus, osservandolo con attenzione nel rammentare che anche in Grecia, agli inizi dell’estate, sfarfallavano frenetici di fiore in fiore, non disdegnando affatto il sapore del sudore umano. Ridacchiò tra sé e sé, mentre nella sua testa si formava l’immagine di un infante Milo, gli occhi luminosissimi di chi ‘era stato scelto’, completamente preda di almeno dieci di loro intenti a ciucciargli la pelle delle braccia e delle gambe.

E’ un lepidottero diffuso in Eurasia, chiamato volgarmente pretino, o fratino, come hai detto tu, piccola mia. Svolazza da fine maggio ad agosto, ed è un tipo di falena, nonostante lo si veda durante il giorno. Per questa ragione ti sei recata all’improvviso fin laggiù: sentivi le vibrazioni delle sue ali e la sua richiesta d’aiuto!

“Uh, le vediamo spesso, anche se negli ultimi anni più raramente… sono farfalle?” chiese incuriosito Stefano, continuando ad osservare l’esserino che vibrava.

“No, una falena, io la chiamo fratino o pretino e… oh, no, si è un po’ scolorita!” esclamò ad un tratto lei, notando di avere le dita macchiate di nero.

“Io ho sentito che le farfalle e le falene si sciolgono a contatto con l’acqua, sai? Avviene perché… - ma si accorse del cambio di espressione dell’amica, che si era fatta tumefatta e tirata. Si pentì di aver parlato troppo – No, scusa, intendevo...”

“Tranquillo, lo so. - scrollo la testa lei, cercando di non far vedere troppo la tristezza che l’aveva colta – Ho ormai imparato che questo mondo è fatto così: distrugge le cose belle.”

“Marta...”

“Lascia stare, è tutto ok, piangere non servirà! - lo rassicurò, prima di alzare un poco il braccio e il dito, su cui era posato il pretino, verso il sole per farlo asciugare meglio – Riuscirà a riprendersi, comunque?”

“I-io, ecco… non lo so!” ammise Stevin, dispiaciuto.

Ce la farà sì, lo hai estratto dall’acqua in tempo.

Si sentì invece di pronunciare Camus, speranzoso.

“Lo spero tanto...”

Ad un tratto, finalmente, l’esserino spiccò il volo sotto gli sguardi stupiti di Stevin e Marta, i quali, euforici, alzarono le braccia in alto per inneggiare di gioia. Saltellarono sul posto, si diedero il cinque, e poi Marta saltellò di nuovo, un po’ più in là, quasi a volerla seguire, prima di fermarsi.

“Vai, questa è la tua stagione… vivila!” gli augurò, prima di posarsi le mani sul petto scalpitante e un poco affannoso.

Anche Stefano sorrise dolcemente a quella scena, avvicinandosi poi a lei con passo delicato per affiancarla: “Passano gli anni, ma tu non cambi mai, vero?”

Marta lo osservò in un misto di stupore e imbarazzo in attesa che continuasse.

“Ricordi il nostro primo incontro?”

“Sì, era… era… - Marta, dall’alto dei suoi 15 anni compiuti a marzo, corse indietro nel tempo che era trascorso, quasi sussultando nel rendersi conto che erano già passati la bellezza di 10 anni – Era il 1999, sì, i nonni avevano preso la casa a Carsi e ci avevano invitato un week-end di maggio per vedere come ci saremmo trovati per quell’estate”

“Sì, era la bizzarra primavera del 1999!” annuì lui, perso nei ricordi.

“Bizzarra?”

“Beh, sì, e anche tu eri parecchio… ehm, bizzarra!”

L’affermazione gli costò un leggero calcetto negli stinchi, nonché il leggero imporporamento delle guance di Marta: “Bruto… selvaggio!”

Stefano si mise a ridere davanti a quell’appellativo: “Selvaggio lo ero, non posso dire no!” acconsentì, sereno.

“Per forza, tuo nonno ti ha fatto vivere un’esistenza selvatica!”

“Sì. - acconsentì di nuovo, fiero – Questo era il mio regno, lo sai, no? Non lo avrei diviso con nessuno!”

“Oh, eccome, se lo so!”

“Ero infatti in perlustrazione del mio reame quando mi imbattei in te...”

“E..?” lo pungolò lei, pur conoscendo fin troppo bene il proseguo.

“Avevi 5 anni, le codine, ed eri nel tuo mondo, la testa a osservare perennemente il cielo, i movimenti degli uccelli che volavano da un ramo all’altro. Ti chiesi cosa facessi lì, specificai che era la mia terra e tu… - prese una breve pausa, buttando fuori aria nell’imitare un’espressione esasperata – Non solo non mi rispondesti, ma continuasti a camminare come se nessuno ti avesse interpellato!”

“Uh… è un qualcosa da me, in effetti.” annuì lei, arrossendo di netto.

“Ci volle un po’ per attirare la tua attenzione. Del resto, non mi guardavi negli occhi, ti deconcentravi facilmente a osservare il merlo che cantava, a guardare i saltelli del codirosso sul ramo, il modo in cui li eseguiva; a fissare sul muretto a secco la fila delle formiche come si creava per poi indovinare la direzione che avrebbe preso. – sorrise nel rammentare quei ricordi a lui tanto cari – Pensavo fossi un po’ autistica...”

“Autistica… me lo diceva sempre il nonno, di non fare l’autistica.” si fece seria lei, discostando in fretta lo sguardo in una smorfia un poco sofferente.

Autistica… -rimuginò tra sé e e sé Camus, indurendo la sua espressione verso il ragazzo, in un impeto di protezione che non riusciva a non manifestare per la sorellina- perché pensate tutti che lei lo sia?! Solo perché non è come voi?! E anche se lo fosse, che problema ci sarebbe?! Non c’è alcun...

“Ma non c’è nulla di male, anzi, mi affascinasti proprio per quello, sai? - rivelò Stevin, interrompendo involontariamente i pensieri di Camus - Non ho mai conosciuto nessuna mente come la tua… quando ti fissi sulle cose, sugli animali, sulla natura, sembri capirne i segreti più intimi; sembri proprio comunicare intimamente con loro. Vedo i tuoi occhi, ed è come se comunicassi in un linguaggio strano… e loro ti rispondono, vero? Li capisci, non è così? Prima, quel pretino… lo hai udito chiederti aiuto, vero?”

“Non proprio.”

“In che senso?”

“Che non è esattamente così.”

“Spiegati.”

“...”

“Tu sai che, per me, questo tuo modo di essere non da alcun tipo di problema, vero? Puoi parlarmene, se te la senti.”

Camus si meravigliò, ancora una volta, della sensibilità mostrata da Stefano nei suoi confronti. Effettivamente, non poteva negarlo, anche a lui era venuto il dubbio che potesse essere autistica. D’altronde Marta, fin da subito, si era preoccupata di tentare di celare le sue stranezze anche davanti ai suoi occhi, di maestro, prima, e di fratello maggiore, poi. Non voleva essere colta a ‘fare la strana’, voleva passare per una ragazza ordinaria, sopprimendo dentro di sé un’attitudine che invece le era propria. E ora Camus capiva meglio la motivazione dietro quella scelta forzata e sofferta.

Grazie a quel lungo e travagliato sogno con cui aveva percorso buona parte della vita della sorellina -le cronache della Valbrevenna, avrebbe potuto ribattezzarle!- l’aveva vista crescere, comportarsi in maniera che gli altri non capivano, mascherarsi, chiudersi, riaprirsi, tentare di abituarsi a ritmi considerati dai più normali; apprendendo su di sé, per imitazione, adattandosi ad un mondo che aveva amato fin da piccolissima, nel profondo, ma che, ad un certo punto, vilmente, l’aveva tradita.

E tutto per essere accettata dall’unica figura maschile che l’aveva fatta crescere: il nonno.

L’espressione di Camus si fece tremendamente dolente nel capire che, alla fine, malgrado tutti gli sforzi, nonno e nipote non si erano affatto chiariti; un effettivo chiarimento era mancato.

Marta non avrebbe mai saputo quanto lui fosse, in realtà, orgoglioso di lei; quanto, alla fine della vita, e solo allora, avesse compreso la straordinarietà del suo fiorellino. Si sarebbe semplicemente sentita eternamente sbagliata.

Hai... hai fatto così tanta fatica per giungere a questo livello, camuffandoti come ti veniva richiesto, sforzandoti di cambiare, ed io… io non ne avevo davvero idea, Marta! Mi hai parlato dei tuoi problemi, di esserti sentita molto sola, di non riuscire a comunicare con gli altri. E solo ora capisco pienamente quello a cui ti riferivi, la fatica che hai fatto per sentirti ‘normale’, per farti vedere ‘normale’ dagli altri ma soprattutto da lui. Non… sbagliata per questo mondo.

E adesso non sai nemmeno quanto lui fosse fiero di te, quanto tu sia stata in grado di fargli cambiare prospettiva e visione della vita. Mi dispiace così tanto, piccola mia, come tuo fratello maggiore e suo nipote più grande io… avrei dovuto fare molto di più per voi!

“Sai, Stevin, penso che, alla fine, lui avesse ragione.”

“Lo credi veramente? Voglio dire, quindi pensi di essere...”

“...Austistica? - terminò la frase per lui, sforzandosi di guardarlo negli occhi – Non lo so, Stevin, non ho una diagnosi certa, ma davvero c’è qualcosa che non va in me!”

Gli occhi di Stevin si adombrarono, mentre, assumendo una leggera sfumatura di severità, obbiettò: “Tuo nonno Dante, uomo forte e fiero, era sin troppo sicuro di determinate cose. Sbagliava. E tu non devi pensare che il suo giudizio corrisponda alla verità, anche perché...”

“Mio nonno aveva le sue ragioni per crederlo, ora lo capisco, Ste. Era l’unico maschio della famiglia, doveva prendersi cura di noi e… sperava… che sua nipote fosse destinata a grandi cose, con la testa ben piantata per terra. Invece ce l’avevo per l’aria. Ci ho discusso… così tante volte!”

“Lo so.” annuì Stefano, laconico, capendo bene che era un ferita ancora troppo aperta.

Marta sospirò, si mise una mano sulle forme un poco arrotondate del seno, prima di chiudere le palpebre dalle quali fuoriuscirono due lacrime capricciose: “Mi manca, non sono nemmeno riuscita a salutarlo come si vede e… se ne è andato… quasi come se avesse dovuto partire per un lungo viaggio.”

“Marta...”

“Si era molto addolcito, in questi ultimi anni. La vita ti da e poi ti toglie… nell’esatto momento in cui nasciamo iniziamo a morire. E’ un percorso su un’unica direttrice.”

“Da le vertigini questa consapevolezza...”

“Non sono sempre stata in grado di capire il nonno, lo sai, ci ho litigato a lungo, ma… sono fiera di averlo conosciuto, che proprio lui sia stato il mio nonnino, e...” si dovette fermare, il tono di voce si era incrinato al punto da rendere impossibile il proseguimento. Si asciugò frettolosamente gli occhi.

“Ed io sono altrettanto fiero di averlo conosciuto.” si sentì di dire Stefano, cercando di essergli più vicino possibile.

Gli occhioni rigati dal pianto di Marta erano ancora puntati verso valle, a seguire il percorso del fiume ben oltre lo sguardo, come a soppesare e rimembrare qualcosa. Le guance erano chiazzate di rosso, i singhiozzi avrebbero voluto uscire, ma si impose di soffocarli dentro di sé.

Anche gli occhi di Camus erano annacquati, i contorni dell’ambiente, gli stessi visi dei due ragazzi, apparivano sfumati; il cuore più pesante e le emozioni difficili da trattenere. Sentirla dentro di sé, come parte integrante della sua stessa anima… non si era mai rivelato così difficile come in quel momento.

“Prima mi hai fatto un’osservazione, Stevin… - riprese a fatica il dialogo lei, sempre con gli occhioni gremiti di lacrime – Mi hai chiesto se sentivo le vibrazioni delle ali del pretino e la sua richiesta di aiuto...”

“S-sì...”

“Ebbene… è come tu dici, l’ho percepito. In questi anni trascorsi qui, la mia capacità di sentire le voci della natura, degli animali, è incrementata. So che sembra… una cosa… da pazzi!”

“No, non lo sembra, non più.”

“Solo che… il percepirli non comporta anche il fatto di saperli codificare.”

“In… che senso, scusa? Anche questo lo dici spesso, ma non posso dire di capirlo.”

“Che io li sento, forte e chiaro, ma… non comprendo quello che mi vogliono dire, tutt’al più posso intuirlo.”

“!”

“Non so spiegare neanche io perché avviene. - i suoi occhi scintillarono nel continuare a fissare un punto determinato – Però, non riesco a pensare ad altro che: se, almeno, me ne fossi resa conto quella volta là, prima che l’airone attaccasse la madre degli anatroccoli… sarebbe potuto cambiare qualcosa?”

“In tutta franchezza? No… o comunque pensala così: anche quell’airone aveva bisogno di mangiare, altrimenti sarebbe morto.”

“Hai ragione come sempre, Stefano… - sorrise Marta, una scintilla di consapevolezza nei suoi occhi – Ed io… ora ho capito che voglio vivere MALGRADO tutte le cose brutte che compongono questo mondo.”

“Marta...”

La ragazza si avvicinò a lui, socchiuse gli occhi, affabile, regalandogli il più bel sorriso di cui potesse disporre. Stefano la fissava sbalordito, e lo stesso Camus, dalla sua posizione, gli occhi brillanti per lei, che era riuscita comunque a crescere.

Marta aveva infine trovato la motivazione per vivere, nonostante la voragine sempre più profonda che si era creata dentro di lei e che, non senza difficoltà, aveva fatto da fondamenta per la costruzione di un nuovo mondo intorno più consapevole di prima.

“Sai, Stevin, io non sono ancora arrivata ad una risposta...”

La frase rimase sul vago ma Stefano comprese immediatamente a cosa stesse alludendo.

“Al senso della vita, oltre al moltiplicarsi?” chiese conferma, mentre l’altra produceva un timido borbottio, poco prima stringere le palpebre e ridacchiare sommessamente.

“Già. Avevo promesso a Fra che l’avrei trovata, ma sono passati anni e sono ancora qui, senza sapere quale sia il vero senso del nostro esistere.”

“E’ difficile, Marta. Taluni impiegano anni per arrivarci; altri ci arrivano in prossimità della morte.”

Stevin guardò distrattamente il cielo, meditabondo. All’amica desiderava dire la verità espressa nell’ultimo dialogo profondo avuto con il Signor Dante, ma la perdita del suo caro aveva fortemente scosso la ragazza, rendendola ben più fragile ed emotiva di quanto già fosse. Passò oltre e da qualche parte dentro di lui qualcosa gli punse la coscienza. Lo scacciò per continuare il dialogo.

“Altri ancora penso non ci arrivino neanche, o forse neanche se lo domandano. E’ più facile vivere così. Molto più facile.” disse ancora Stefano, sospirando appena.

“Io non ho ancora una risposta ma una cosa la so...”

Era la voce di Marta ad essere uscita, più profonda del solito, al punto da spingere l’amico a fissare l’espressione sorpresa su lei.

La ragazza teneva le mani strette una sull’altra appena sopra il petto, ne muoveva nervosamente le dita, come se quella gestualità la potesse aiutare meglio ad esprimere quel concetto.

“So che sembra assurdo e insensato ma… è proprio ora che la morte ha colpito direttamente i miei affetti che mi sento di dire che amo, AMO questa vita. E forse ora lo posso urlare ancora di più a viva voce, perché ho conosciuto ‘l’altra faccia’. Posso dire di capire l’importanza di una carezza burbera in testa, proprio perché so quanto vuoto crea non averla più… - parlava con voce chiara e cristallina, anche se un poco malferma – Ora capisco quanta forza occorra per regalare un sorriso quando dentro di te i pezzi che prima componevano il tuo cuore iniziano a mancare...” sussurrò ancora, mentre una lacrima ribelle le usciva dall’occhio destro.

Stefano non sapeva bene cosa dire, era completamente impreparato a quella deviazione del discorso, giacché l’amica era molto restia a parlare direttamente dei suoi lutti e delle sue sofferenze ma, proprio per questo, la ascoltava con trepidazione.

“Non so se stia esagerando io a pensarla così… melodrammaticamente… ma penso davvero che sia il concetto di morte ad acuire in me questo attaccamento alla vita. E’ davvero come se fossi proiettata su un treno che ha un’unica destinazione che non voglio assolutamente raggiungere, ma non ho alternative e ciò mi fa disperare. – rimuginava mentre esprimeva quanto diceva, lo sguardo ombrato concentrato verso il basso, sui fili d’erba, poi, ancora una volta, quello scintillio di vita che era il suo modo di essere fin da piccolissima, le baluginò negli occhietti – Però, su questo treno che va verso un’unica destinazione e che io sono stata obbligata a prendere, non cambierà nulla se io rimarrò chiusa in un vagone a piangere o… se scenderò a più fermate, stagliando gli occhi verso l’infinito cielo blu, respirando a pieni polmoni… l’aria… perché sto vivendo, STO VIVENDO qui e ora, mi è stata data questa possibilità tra miliardi di altre di non essere mai esistita. E’ un momento, un battito, una inezia… che tuttavia è tutto!”

“Aspetta, non ti sto seguendo. Dove stai dirigendo il discorso?”

“...”

Marta non gli rispose subito, si voltò semplicemente dall’altra parte, alzando le braccia all’altezza delle spalle, lasciando che la brezza leggera lambisse le estremità, giocando con i suoi capelli dai riflessi rossicci per poi lasciarsi solleticare il viso perlato. Non vista, lasciò che le lacrime saline le solcassero ancora una volta le guance, ignara che la presenza tra lei e Stevin le potesse comunque percepire su di sé come parte integrante del proprio essere.

Si diresse ancora una volta verso la sporgenza dove poteva osservare tutto, la valle sotto di sé, il grande bosco scuro, le cime degli appennini e Carsi, il paese che i suoi nonni avevano scelto per trascorrere la vecchiaia; poi, sull’altro versante, alla destra orografica del Brevenna, l’antico borgo di Tessaie, ormai semi-nascosto dall’edera e dalle roverelle che crescevano direttamente dal ventre delle case abbandonate, laddove, un tempo, avevano trascorso la loro esistenza intorno al fuoco persone che ormai non c’erano più, diventando polvere nel vento.

Calore e freddo.

Vita e Morte, cui susseguiva nuovamente la vita, anche se sotto forma diversa, e poi ancora la morte, si alternavano in quel percorso ricco di felicità e tristezza; gioia infinita e abissi di disperazione.

Da soli, la piacevolezza di vivere, il calore percepito che poi sarebbe diventato gelo, bastavano per dare senso ad una esistenza? Ripensò al maggio in cui avevano conquistato tutti insieme l’Antola, ai visi arrossati di Michela, Francesca e Stevin nel vedere il tramonto, alla loro espressione ricolma di felicità e allo scodinzolare festoso di Camilla...

“Sì.” si disse lei tra sé e sé, mentre l’amico, in apprensione, si avvicinava a lei.

“Marta! Ehi, Marta!”

La prese per un braccio, preoccupato, la fece girare verso di sé, meravigliandosi immediatamente che l’amica stesse sorridendo e piangendo insieme. Proprio come in quel maggio.

“Ehi, hai di nuovo il ciclo?! Sai, sono abituato alle tue stranezze, ma quando fai così… non so mai come prenderti.”

“Mi stavo solo dando una risposta, anche se sommaria, al senso della vita.”

“E sarebbe?”

“Questo.”

Gli strinse la mano nella sua e subito ne percepì calore. Ricambiò la stretta, anche se in maniera un po’ impacciata. Capiva e non capiva insieme.

“Uh, ehm...”

“Mi basta questo per saziare la mia domanda se abbia avuto un senso venire al mondo.”

“Quindi ha avuto senso?” tentò Stefano, speranzoso, guardandola intensamente.

“Tantissimo! - ammiccò lei, sempre con quella buffa espressione di risata e pianto – E’ valso la pena vivere anche solo per… per farmi rincorrere da te lungo il torrente Brevenna con l’acqua che mi schizzava dappertutto, la sensazione dei sassolini sotto i piedi, il verde rigoglioso del bosco e… ciò che ne è derivato d-dentro… dentro di me!” si posò una mano sul cuore, sentendolo pieno, nonostante la pesante incrinatura.

Sì, bastava quello. Era tutto lì… il senso dell’esistere.

“Sono venuta al mondo per questo, sai? - riprese poco dopo, riaprendo gli occhi che all’improvviso sembravano straordinariamente maturi, quasi da donna adulta in un corpo ancora da ragazzina – Per ricordare a qualcuno che il calore è vita, che non bisogna avere paura di bruciarcisi e che è ciò che nutre l’animo umano, ciò che ci riempie.”

Camus sussultò a quella frase, riconoscendo, oltre a sua sorella, anche la volontà di Seraphina dietro quelle parole; la volontà di protegge ciò che era stato Dégel e che il mondo, spietatamente, aveva distrutto.

“D-dunque sono i momenti di calore… a dare senso al nostro esistere?” si interrogò ancora Stefano, ripetendo dentro di sé quella più e più volte. Erano quindi i ricordi a dare significato alla vita stessa, ed era vero. Marta, pur non metabolizzandolo concretamente dentro di sé, ci era arrivata. Si ritrovò a sorridere tra sé e sé, ricordandosi di quando lui era un bimbetto e suo nonno lo faceva volare, sorreggendolo con le braccia, come se fosse un aeroplanino.

“Io, quando sento il vento fischiare… - continuò la ragazza, con un leggero sorriso che sapeva di tristezza - gli uccellini cinguettare e il sole sulla pelle, anzi, non solo in quei momenti, anche in moltissimi altri, io avverto qualcosa dentro di me, nel mio cuore. E’ una sensazione colmante, mi fa sorridere da sola e...”

Esitò. Parlare non era facile, la gola le si era come chiusa. Se la raschiò, recuperando un po’ di voce.

“E’ come un abbraccio inaspettato, come un soffio lieto. Lì ci sono i visi della mamma, dei miei nonni, vi è il capriolo, il gocciolio delle gocce d’acqua dopo la lunga pioggia, il suono del vento… - pausa ancora, trattenne un singhiozzo per rabboccare aria – I-io, p-proprio per questo, SOLO per questo, so… so che la mia vita ha avuto un senso. Non importa quanto cammino dovrò ancora fare, quanto dolore proverò… io non scambierei MAI l’eterno nulla con questo piccolo attimo di infinito in cui sono… SIAMO!” disse ancora, con un profondo respiro, dirigendo lo sguardo dietro di sé, in direzione del cielo, laddove la chioma verde smeraldo del tiglio si mescolava all’azzurro infinito sopra le loro teste.

Qualcosa incrinò i suoi propositi di smettere di piangere, gli occhi le si appannarono, sfumando i contorni delle cose. Un singhiozzo, uno solo, le sfuggì dalle labbra. Incassò la testa tra le spalle, per un solo istante sembrò essere sul punto di perdere l’equilibrio in avanti, sopraffatta, ma Stevin, lesto, la prese tra le braccia, tenendola stretta come raramente si permetteva di fare. Spalancò gli occhi a quel gesto, poi, piano, come chi bussa alla porta e, titubante, entra, prese a singhiozzare due, tre, quattro volte, sempre più veloce, lasciandosi finalmente andare ad uno sfogo che fino a quel momento aveva cercato in tutti i modi di trattenere dentro sé.

Non parlarono, posizionati così, uno adagiata all’altra. Marta piangeva e tremava sulla spalla del ragazzo, il viso semi-nascosto in direzione del tiglio. Pareva ancora tanto piccolina in quella posizione, col compagno di mille avventure ormai nettamente più alto di lei, quasi alla stessa altezza di Camus; la postura un poco goffa di chi teneva a sé qualcosa di delicato. Rimasero in silenzio per diversi minuti, restando comunque abbracciati anche dopo, quando Stefano decise di rompere il silenzio e parlare.

“Sai, a proposito di tempo che scorre via… mio nonno mi ha raccontato varie storie sul tiglio, l’albero che per tutti questi anni ci ha offerto da giaciglio e ha ascoltato i nostri discorsi...”

“Mmh!”

Mugugnò Marta, solo apparentemente poco interessata. In realtà il suo sguardo traslucido -Stefano lo aveva ben avvertito- si era immediatamente diretto verso il grande tronco per soffermarsi ad osservarlo meglio.

“E’ simbolo di dolcezza e gentilezza, sacro agli dei, perché in più o meno ogni cultura gli vengono riconosciute doti di giustizia e capacità di predire il futuro. - le disse, carezzandole un poco i folti capelli – Cosa ancora più importante… può trascendere il tempo!”

“Trascende… sigh, il tempo?” chiese conferma Marta, sinceramente sbalordita, ancora un poco singhiozzante.

“Sì, può vivere oltre 1000 anni e questo della cappella… beh, mio nonno dice che è qui da secoli e secoli, nota infatti quanto è grosso il diametro del tronco. Questo… questo albero ci ha visto crescere, è qui che è cominciato tutto, tra noi.”

“Vero, sì. - confermò Marta, alzando ulteriormente lo sguardo, sempre un poco appannato, fino in cima alle fronde – Ma perché me lo dici proprio ora?”

“Perché… - Stefano aumentò la stretta su lei, prima di poggiarsi a sua volta sulla sua spalla – Qui, sotto un simbolo che, per la vita umana, sfiora l’infinito, ti voglio promettere che mi troverai sempre, SEMPRE, qualunque cosa accada da qui in avanti!”

“S-Stevin...”

“Tuo nonno, l’autunno scorso, mi aveva fatto promettere una cosa: di prendermi cura di te, del suo fiorellino.”

Infine glielo aveva detto, pregò che il Signor Dante, ovunque si trovasse, gli avrebbe perdonato quella debolezza.

“Il suo… fiorellino?!”

“Sì, tu, eri il suo fiorellino, sai?”

Marta aveva aperto la bocca, dalla quale però, a causa dello stupore, non era uscito altro che un gemito sommesso.

“Eravamo sotto un castagno quando lo fece, ed io adesso, sotto il tiglio che trascende il tempo, rinnovo a lui la promessa: che avrò cura di te, in un modo o nell’altro, ma non come montagna, quello è stato il suo ruolo, bensì come albero che offre refrigerio alla minuscola piantina che sta tra le sue radici.

Non come montagna… ma come albero.

Ripeté automaticamente Camus, ne ricordarsi di un dialogo simile che aveva avuto con il piccolo Isaac, dal quale, però, contrariamente a quella circostanza, era arrivato a tutt’altra soluzione.

Come albero e non più come montagna… anche perché, chi rende stabile il terreno con le proprie radici, è proprio l’albero!

Ripeté, sbalordito, nel rendersi conto di quanto quel pensiero, solo apparentemente banale, penetrasse velocemente nella sua mente. Infine, la forza per crescere, l’aveva trovata anche lui, grazie a loro.

Ammirò di riflesso il tiglio, il suo tronco, la folta chioma e i rami diramati verso il cielo, finché tutto si fece indistintamente ovattato e il bruciore frenetico che provava costantemente nella regione addominale, divenne di colpo una ventata gelida, sferzante, che lo fece piegare istantaneamente su sé stesso.

Ma cosa..?

Ebbe appena il tempo di chiedersi, prima che tutto si fece scuro.

 

 

* * *

 

 

Non ci fu volontà nel salto successivo. Non ci fu, ma accadde comunque, come essere trasportati dalla corrente impetuosa senza potersi minimamente opporre.

La sensazione che ne derivò, simile ad un ingurgitare di acqua salata, marina, pungente, lo fece tossire con forza. Serrò gli occhi, stringendosi le spalle con le braccia nel percepire improvvisamente dei veri e propri brividi di freddo, nonostante il sempre presente nucleo di calore vorticante in corrispondenza del suo ombelico.

Aiutami, fratellino...

“Marta?!”

Camus si ritrovò a sobbalzare, mentre un’intensa paura si attorcigliava spietata nel suo petto. La respirazione si fece irregolare, frenetica, la interpretò come un nuovo attacco di panico incombente.

Alla luce e all’universo vivo della Valbrevenna, se ne sostituì uno più buio e compatto; alla visione della sorellina che aveva raggiunto una nuova consapevolezza sul poggio di Cerviasca in compagnia del suo migliore amico Stefano, subentrò quella di una donna, seduta sulla sedia, piegata in avanti con la testa incassata nelle spalle, sopraffatta dal peso di una consapevolezza troppo grande da gestire da sola.

“Mamma!” la riconobbe istantaneamente Camus, in un singulto, ma la donna non reagì alla sua voce.

Sembrava improvvisamente invecchiata di dieci anni, le occhiaie le inscurivano il viso, i capelli non più tenuti bene, cadenti in ciocche spettinate. Ogni tanto singhiozzava, Camus poteva udirla distintamente e ciò gli procurava fitte di dolore sempre più difficili da sopportare.

“Mamma, che succede?! - chiese ancora, guardandosi nervosamente intorno alla ricerca di un indizio che potesse fargli comprendere la situazione – Dov’è Marta? Perché stai piangendo?”

Era, in effetti, la prima visione a dargli, già dall’incipit, una sensazione così atroce, davvero come se fosse precipitato lì e si fosse trovato al cospetto di una madre disperata. La paura, nel rendersi conto che quel salto non l’aveva controllato lui, aumentò di netto.

La stanza era avvolta dalla semi-oscurità, dai contorni rischiarati dalla debole luce di alcune candele profumate, capì che si trattava dell’ingresso della loro casa a Genova. Non più Valbrevenna, quindi, ma perché?!

Fuori imperversavano le tenebre, doveva essere sera, o notte. Il senso di attesa lo dilaniava e il suo corpo, soggiogato da quel sentire, tremava sempre di più. Era un freddo che uccideva, frantumava le ossa, mozzava lo stesso respiro; un freddo spietato, superiore a qualsiasi cosa e che aveva già provato su di sé. Una volta. Sgranò gli occhi appena prima di avere un mancamento, un malore, un…

Proprio in quell’esatto momento, la porta si spalancò con impeto, sbattendo così violentemente contro la parete da far tremare tutti i muri della casa.

“Antoinette!!!”

E Camus dell’Acquario, nell’arco di quell’istante, comprese malauguratamente cosa stesse succedendo.

No, no… per Atena, questo NO!

La loro madre al richiamo tumefatto di Efesto, perché era il dio delle fucine ad essere sopraggiunto, saltò a sua volta in piedi, impallidendo di netto, il respiro troncato sul nascere.

“E-Efesto, d-dove..?”

“Non c’è tempo, dobbiamo intervenire, PRESTO!”

Efesto, colui che li aveva generati, teneva tra le braccia una pallidissima Marta.

A Camus bastò un’occhiata veloce per capire che si trovava in avanzato stato di assideramento. Si sentì morire dentro, mentre, con un balzo dettato dall’istinto, corse nella sua direzione, preda dell’impulso di afferrare la sorellina dalle braccia del padre per… per fare cosa?! Curarla, o… o…

Ma la presa non funzionò, passò oltre, come se fosse stato un fantasma.

Non poteva più intervenire?! Aveva… esaurito il potere? Oppure -si ricordò della sensazione avuta durante lo scontro tra Marta e il bulletto- era lei ad abbandonarlo nel non voler assecondare le sue azioni?!

No, MALEDIZIONE! Non proprio adesso!

“S-sì, m-ma dove… dove l’hai…?” insisteva intanto Antoinette, le parole slegate dal cervello, tanto fosse l’agitazione per la vita della sua creatura appesa ad un filo sottilissimo.

“L’ho trovata sul Forte Monte Ratti. E’ in gravi condizioni!”

“C-come?! L-la mia piccola… è andata f-fino a là?!” biascicò in un singulto, perdendo tutto il sangue freddo che la contraddistingueva e che aveva fatto di lei una cardiochirurga d’eccezione.

Balbettò anche qualcos’altro mentre, disperata, seguiva febbrilmente il coniuge; che la figlia si era comportata in maniera strana fin dal mattino, che era inquieta, tesa, e che sul fare del tramonto era corsa via. Che non l’aveva mai vista così, che era impossibile, che…

Che… che…

Anche Camus aveva esaurito la sua proverbiale calma, era in fibrillazione, il cuore in gola, mentre, disperato, tallonava i genitori in camera. Li vide adagiare la piccola sul letto per poi iniziare a privarla, uno ad uno, degli abiti che aveva indosso. Il suo respiro era sempre più fievole, aveva perso coscienza e non rispondeva agli stimoli. Era insostenibile assistere a tutto quello e non poter nemmeno intervenire; capire cosa avesse, PERCHE’ lo avesse, e non poter fare nulla… NULLA!

La voce di suo padre, non quello della visione avanti a sé ma quello che gli era venuto a parlare poche settimane prima, gli risuonò sardonicamente nelle orecchie.

 

Tu pensi che Marta abbia acquisito QUEL potere quest’estate, donandoti il sangue… non è così, il potere lo aveva già prima, la trasfusione ha solo incrementato questa sua attitudine innata.

 

Era il 20 novembre del 2009. La data che aveva visto nascere un nuovo Cavaliere del Cigno, futuro detentore di Aquarius, decretando, altresì, la sua prima morte.

E ora sapeva perché Efesto gli aveva dato quell’avvertimento, perché lo aveva ragguagliato sulla pericolosità di quel legame che sarebbe stato meglio tranciare: Marta stava morendo con lui, per lui, come lui, sul pavimento dell’undicesima casa, con il freddo che penetrava sempre più nelle ossa e il calore della vita che gli sfuggiva dal corpo.

La sua incredibile sensibilità la stava uccidendo, la sua stessa scelta di intrecciarsi a lui, alla sua sofferenza che sarebbe dovuta rimanere muta, a forza sotterrata dentro di sé, la stava portando alla rovina

No! Non puoi farmi questo, piccola, non puoi star morendo per me, non puoi esserti spinta così in là senza nemmeno sapere nitidamente della mia esistenza… MARTA!

“Ha il polso molto debole, la respirazione lenta e superficiale. La sua temperatura corporea è assestata a 28°, ma continuerà a scendere se non facciamo qualcosa!”

“E-Efesto, co-cosa...” Antoinette era livida, tremava, del tutto incapace di intervenire.

“DOPO, ora devo agire! Se non riportiamo la temperatura a valori più consoni, l-lei...”

Era visibilmente sconvolto a sua volta, come mai si era mostrato ai loro occhi, come mai i figli avrebbero immaginato potesse essere. Chiaramente era stata la loro madre a chiamarlo, in cerca di aiuto e lui, malgrado la rudezza che lo aveva sempre contraddistinto e l’apparente menefreghismo, era intervenuto.

Camus era all’angolo della stanza, gli occhi a sua volta sgranati nel vedere le manovre di Efesto che stava denudando la sorellina senza particolare cura o dedizione, vinto dall’urgenza del momento. Ne provò una fitta subitanea, qualcosa gli si spezzò dentro, mentre Marta veniva avvolta alla ben meglio dalle coperte e frizionata a partire dalle estremità corporee.

“Efesto, che cosa posso..?” lo chiamò debolmente Antoinette, ancora totalmente priva del raziocinio necessario per essere d’aiuto.

Il dio delle fucine, dandole un’occhiata sbrigativa, lo capì immediatamente, pertanto, sbuffando impercettibilmente, decise di prendere provvedimenti.

“Antoinette, vai di là a prendere le borse dell’acqua calda.”

“Ma!”

Che cosa?!

Camus perse un battito a quell’affermazione, ritrovandosi ben presto a mordersi il labbro inferiore in completa apprensione: voleva fare da solo?! Che ne sapeva lui di come agire in simili circostanze?!

“Qui ci penso io, il tuo intervento non è necessario!” aggiunse infatti, tornando a concentrarsi sulla figlia.

“Ma io...”

“Mi servono solo alcune borse dell’acqua calda, VAI DI LA’!”

Tu a mia madre non..!

Camus si stava inalberando per il trattamento riservatole, ma il continuo della frase lo spiazzò.

“...per favore! - disse ancora Efesto, riprendendo il massaggio – Qui ci penso io, so come fare. Fidati di me!”

E così la donna, dopo aver fatto un cenno di assenso, uscì dalla stanza a capo chino e l’espressione distrutta nel non essere riuscita a reagire prontamente in quella situazione d’emergenza. Per lei, sia come medico che soprattutto come madre, si trattava di un fallimento. Il più atroce, perché colei che stava rischiando la vita era la sua amata figlioletta.

Efesto…

Camus avrebbe voluto dirgli qualcosa, anche se non sapeva bene che cosa. Non sapeva che fare, era spaventato, gli sembrava assurdo che gli eventi fossero precipitati così, quando il ricordo prima era stato caldo e luminoso, nuovamente ricolmo di speranza, per quanto estrapolata da una condizione di estrema sofferenza. La sensazione di fallimento gravò anche su di lui.

Tuttavia l’azione conseguente della divinità, di colpo, tolse le lenzuola alla piccola per frizionarla da altre parti, con più violenza, quasi la volesse schiacciare, riuscì a sbloccarlo nuovamente, in peggio. Scattò immediatamente, tumultuoso.

Che diavolo stai facendo, ora?! E’ rischioso frizionarla a quel modo, la ucciderai così!!! E poi perché diavolo hai mandato mamma di là a prendere le borse dell’acqua calda, quando… quando... NON PUO’ BASTARE, EFESTO! Devi usare i tuoi poteri, USALI! Dimostra di essere un padre, dimostra...

“So che sei qui, Camus, figlio mio, posso percepire la tua rabbia, la tua prostrazione, il tuo senso di inutilità…”

Cos..?! Percepisci la mia presenza? O solo le mie emozioni?!

“L’ho mandata di là per darti piena libertà di agire. Salva tua sorella, ti prego, solo tu puoi riuscirci!”

Quelle parole, pronunciate da suo padre in tono dismesso, lo sconvolsero nel profondo, impietrendolo dalla punta delle dita dei piedi in su.

Efesto alzò il capo, continuando a massaggiare le estremità corporee della figlia. Aveva gli occhi vacui, davvero lo stava appellando, pregando per un suo intervento affinché la sorellina, preda di una grave ipotermia, fosse salvata.

“Tu… tu lo sapevi già, allora?! - sibilò Camus, indietreggiando di riflesso fino a reggersi contro il muro che avvertiva concreto dietro di sé – Eri conscio che avrei dovuto intervenire io?!”

Forse quel suono, quella domanda strozzata, raggiunse in qualche modo i timpani del dio che, individuando grossomodo dove si trovasse, dopo aver coperto ulteriormente Marta, guardò proprio nella sua direzione.

“Ne ero conscio, sì. Il tuo potere è sconfinato, neanche io ne capisco bene la magnitudine, la portata… ne sei nato già in possesso. Lei è avviluppata dentro di te come un feto, sigillata indissolubilmente nel tuo ombelico.”

Lo… riusciva a vedere?! No, certo che no, non sembrava poterlo distinguere con nitidezza, pareva però puntare contro il muro, in un punto preciso, laddove c’era esattamente il suo sguardo.

“Mi avevi detto che l’avevate salvata voi Marta, tu e la mamma… perché ora io?! Cosa posso fare per lei?”

“...”

“Rispondimi, Efesto! S-solo io posso salvarla?! E’ così?! Se non agisco io, lei..?”

“Morirà.”

“!”

“Devi, però, utilizzare ciò che è custodito nel tuo ventre, per riuscirci.”

“I-io non… non conosco questa dote, non ne ho il controllo! Me… me la sono semplicemente trovata dentro.”

O meglio, è lei… lei si è trovata dentro me, invischiata in me, ne… nel mio ventre e, se non mio avessero torturato, probabilmente non sarebbe neanche mai uscita!

Pensò in un fremito, rabbrividendo nel toccarsi ancora una volta la zona sempre più ardente. L’ombelico tirava, oltre che bruciare sempre più, quasi fosse una caldera pronta ad esplodere. Per giunta, dava la sensazione di potersi strappare da un momento all’altro…

“Ma l’hai sempre percepita.”

“Ho sempre percepito questa cosa dentro di me, sì, ma non… non la domino!”

“Non ha importanza, con quella puoi salvare tua sorella!”

“Ti ho detto che non la domino, Efesto! Non… non posso adoperarla a mio piacimento!”

“Puoi, invece. Se riuscirai a prevaricarla anche solo per un istante, come forse ti sei già trovato a fare, sarà lei stessa a concederti il potere.”

“Cosa te lo fa pensare? Mi ha ostacolato fino a prima!”

“...”

“Uff, immagino che non avrò altre spiegazioni, vero?”

“Salva… salva tua sorella, Camus, ti prego, il tempo non è più molto!”

Il Cavaliere dell’Acquario rabboccò aria, socchiuse gli occhi, mentre i muscoli parvero sciogliersi in una pallida, quanto debole, calma.

“Che cosa posso fare io, che nessun altro può fare?”

“Dopo questo lungo peregrinare prima di giungere qui, hai capito grossomodo il funzionamento del tuo Potere della Creazione, vero? Fallo. Usalo per salvarla, tua sorella sta morendo per te!”

“Come è stato possibile tutto questo?! Marta ed io non eravamo neanche collegati, all’epoca, siamo nel 2009, giusto?”

“Come probabilmente ti dirò più avanti, quella di tua sorella non è un’attitudine che le è apparsa da un giorno all’altro. Ti ha sempre sentito vicino a sé, intrinsecamente connessa a te dal giorno della sua nascita, anzi probabilmente dal suo primo battito.”

“Non… può essere… possibile… questo!”

E invece lo sapeva, dentro di sé, era solo che non voleva accettarlo, perché farlo la esponeva a dei rischi inaccettabili per lui; rischi dai quali lui avrebbe dovuto semplicemente proteggerla.

Provare le sue emozioni, dolore, la sofferenza… come poteva reggere tutto quello, con il corpicino che si ritrovava? Come poteva un fiorellino, per quanto resistente fosse, sopportare i rigori del gelo e della neve?!

Ripensò a Nonno Dante, gli si strinse il cuore nel ricordare il commiato che aveva voluto dare a Stevin, la promessa di prendersi cura della nipote.

“Efesto, i-il nonno e Stevin, qui in questo momento della sua vita, se ne sono… già andati… corretto?”

“Sì, è morto prima vostro nonno, diversi mesi fa; e lo scorso, tragicamente, Stevin…”

“Lo immaginavo...”

“Non so di quanti anni tu sia avanti, Camus, ma tua sorella, ora come ora, non è nelle condizioni per poter reagire positivamente a ciò che le sta succedendo. Ha bisogno di te.”

“Continuo a non comprendere come sia possibile che Marta subisca l’effetto dello Zero Assoluto, se non ci siamo ancora… NO, MARTA!!!”

Guardò con orrore la sorella, che stava sempre peggio, iniziare a vaneggiare, preda delle convulsioni. No, no, era tutto sbagliato, lei non avrebbe dovuto subire gli effetti dello Zero Assoluto di Hyoga perché, allo stato attuale, non c’era alcuna parte di lei che lo collegava a lui… giusto? Per quale recondita ragione, quindi, soffriva i suoi stessi sintomi?!

“Devi pensare intensamente a lei, figliolo, a quante volte l’hai sentita vicino a te, a quante il tuo respiro era il suo, a quante il tuo cuore si sia nutrito della sua vicinanza per non cedere… Devi spronarla a vivere, così come lei ha fatto con te!

Con… me!

“Non c’è un prima o un dopo, o meglio… passato, presente e futuro non hanno alcun valore qui dentro. Esisti tu, esiste questo spazio di intervento che è la tua mente... - Efesto deglutì aria a vuoto, sempre più teso – Esistete te e lei, come un’unica cosa.”

Camus ripensò all’attacco del Mago nel passato, nonostante fosse tremendamente doloroso per lui. Per la prima volta, sopraffatto dalla sofferenza, era stato sul punto di arrendersi, ma... trattenne un gemito, così come si tratteneva la pancia, sempre più ardente. NO, non era stata affatto la prima volta -realizzò, gli occhi lucidi- era già successo prima.

Una lacrima gli sfuggì da un occhio, un balugino argento gli colò sulla guancia, prima di fermarsi un poco sulla piega delle labbra.

Come… come quando, a seguito delle ferite impresse sul suo torace, era finito in Rianimazione. Il freddo, i camici verdi sopra e intorno a lui, la paura, il sentirsi vulnerabile… eppure, in mezzo a tutto quel dolore e al gelo sempre più opprimente, perché la vita gli stava sfuggendo dal corpo, c’era stata anche lei, il suo caldo tepore che lo aveva spinto a non mollare.

Ora lo rammentava bene, l’aveva vista distintamente davanti a sé, ed era stato prima della trasfusione di sangue. Gli si mozzò il fiato in gola davanti a quella consapevolezza.

Marta… per tutto questo tempo… sei stata sempre tu a raggiungermi!

“Si è legata indissolubilmente a te, anche io non so bene come faccia, non lo capisco, anzi in tutta franchezza mi sembra assurdo, ma oggi ti ha sentito morire, Camus, e anch’io so che… che il tuo corpo fisico è morto durante questa Battaglia delle Dodici Case.”

“Che cosa?!”

“Sapevo che avresti scelto di sacrificarti per il al tuo allievo Hyoga in modo da impartirgli l’ultima, più importante, lezione.”

“Beh… grazie per avermi avvertito anzitempo che io sarei morto questo stesso giorno! Il tuo intervento è stato tempestivo e, soprattutto, efficiente, Efesto!”

Si ritrovò a fare dell’ironia con un pizzico di malcelata asprezza. Sapeva che la sua rabbia non era del tutto corretta, sapeva che il suo destino se l’era scelto lui nel momento in cui aveva stabilito di far crescere Hyoga ad ogni costo, calpestando perfino i sentimenti dell’allievo per poi mettere a rischio la sua stessa vita per quel ragazzino che amava come un figlio e che per nessuna ragione al mondo avrebbe perso; per nessuna ragione al mondo avrebbe permesso ad altri di attentare alla sua vita.

Hyoga…

Il suo nome, che dolcemente gli risuonò in testa, provocò in lui una nuova sensazione strana che era impossibile ricondurre a qualcosa di specifico. Ne fu come annebbiato e, per un istante, soverchiato, al punto di dimenticarsi dove si trovava. Si coprì istintivamente l’addome anche con l’altra mano, sentendosi inspiegabilmente nudo in quel punto. Si tastò diverse volte, si schiacciò l’ombelico, ma il dolore e il malessere si acuivano, anziché scemare, provocandogli le vertigini.

“Camus, te lo ripeterò ancora: non importa quanto tu sia avanti rispetto a questo punto, il tuo potere annulla il tempo e lo spazio e lo piega secondo il tuo volere. Da qui, tu ti puoi spingere ovunque.”

Fu la voce di suo padre a riscuoterlo, lo guardò allibito. Il genitore era ancora piegato sulla figlia minore, continuava a massaggiarle i piedi nel tentare di riscaldarla, ma le sue manovre non davano alcun frutto. La piccola continuava ad avere un’espressione sofferente, la carnagione molto pallida, a tratti bluastra, il respiro sempre più flebile.

“Perché me lo stai dicendo solo ora, Efesto?”

“...Nessuno può riuscirci, oltre a te, nessuno può salvare la tua sorellina, oltre a te.”

Guardò Marta, Camus fece altrettanto, ormai privo di parole ma ricolmo di domande alle quali, lo sapeva, suo padre non avrebbe più dato risposta.

“Tu la ami più di ogni altra cosa, vero? Faresti di tutto per lei.”

Sì, avrebbe dato l’anima per lei, se non oltre, ma non riusciva a reagire, non aveva la flemma necessaria per farlo, era come avere i piedi inchiodati a terra, il cuore piccolo piccolo serrato in una morsa che gli toglieva respiro ed energie.

Era l’unico a poterla salvare… ma se non ci fosse riuscito?! S-se non…

“Uscirò di qui, adesso, per te sarà più naturale agire. Io ho fatto il possibile. Lascio tutto nelle tue mani, figliolo!”

E se andò dalla stanza, il capo chino, chiudendosi la porta dietro le spalle.

Il dolore dentro il suo ombelico era sempre più atroce. Ingestibile. Insopportabile. Tentò un passo in direzione del letto, gli venne da sboccare. Si strinse più che poté la pelle dell’addome con entrambe le mani, strizzando disperatamente le palpebre e la mascella. Poteva agire solo lui...

“Anf, anf… uuurgh!”

“Marta! - la chiamò con urgenza, percependo l’anelito della sua vita farsi sempre più labile. Doveva muoversi – Sono qui, piccola, resisti!”

Si sforzò di riaprire gli occhi. Vedeva male, la distingueva a fatica. Il tempo scorreva impietoso e non era più molto.

Un altro passo avanti a sé. A rilento. Lei opponeva resistenza. Recalcitrava.

Se avesse continuato così, a quel ritmo, l’avrebbe raggiunta troppo tardi.

“Andiamo, maledizione! Muoviti!” sbraitò, arrabbiato.

Marta… Marta era riuscita a raggiungerlo nel mare nero di petrolio quando tutto sembrava finito; lo aveva salvato, cocciuta e temeraria, nonostante lui si fosse già arreso. Incuranti del dolore e del tormento, le sue mani si erano mosse a far battere il suo cuore per strapparlo dalla morte stessa.

Camus, a quel pensiero, riuscì finalmente a ribellarsi al misterioso torpore che lo teneva sotto torchio. Si precipitò quindi dal letto dove la sorella stava lottando per la vita.

Solo io posso salvarti...

Tremava lei per il freddo e lui per il gelo che gli procurava la sola idea di perderla. Si accovacciò su di lei, le carezzò la fronte, sussultando e poi emozionandosi nell’avvertire il contatto dei suoi polpastrelli sulla sua pelle. Anche il dolore si placò.

La raccolse delicatamente tra le braccia, prese posto con lei nel letto ad una piazza e mezzo, avvolgendola meglio con la coperta prima di stringersela al petto.

“Stai tranquilla, mia impavida gabbianella… non sei sola!” la chiamò prendendo ad ondeggiare avanti e indietro come se la stesse cullando.

Non era molto diversa da quando l’aveva conosciuta a 17 anni, i capelli giusto un poco più corti e il viso un poco più perlato, maggiormente corrispondente al colore della sua pelle perché era fine novembre e quindi non più presente quella leggera abbronzatura ambrata con cui l’aveva vista la prima volta.

Era leggera, leggerissima, se paragonata a lui, le mani raccolte in grembo, i ciuffi un poco attaccati alla fronte. Gliela baciò, sostando un po’ lì nella paura che la temperatura non riuscisse più a stabilizzarsi. Sembrava così vulnerabile, indifesa, nel combattere coraggiosamente un qualcosa che neanche si capacitava di avere.

Perché non sapeva nitidamente di avere un fratello.

Eppure, lo aveva sempre sentito, subendo su di sé ciò che capitava a lui.

Un cuore da colibrì che normalmente batteva all’impazzata, frenetico, sotto le sue dita che, proprio in quel momento, si erano mosse a contare le pulsazioni.

“Sei così coraggiosa… a volte mi sembra di non riuscire a starti dietro, io che sono un Cavaliere di Atena, che quindi dovrei avere spalle abbastanza larghe per sorreggere il mondo e forza sufficiente per proteggere te, voi, le persone che amo, dalla vita stessa.” le disse, sistemandola meglio sulle ginocchia, il viso di lei adagiato sul suo petto in modo che potesse udire i suoi battiti cardiaci e trarne spinta a reagire.

Una delle sue braccia cadde a penzoloni, Camus la raccolse per poi tenerla tra le sue dita.

Quel semplice gesto gli riportò alla mente un ricordo creduto sopito; un ricordo caldo, di quelli che la crescita rimuoveva ma che potevano riemergere all’improvviso anche a diversi anni di distanza, lasciandogli come retrogusto un dolce sorriso.

“Sai, quando eri una bebè ti tenevo spesso così, appoggiata al mio petto. Mi faceva stare bene, ancora di più, sembrava far star bene anche te. Le mie pulsazioni placavano il tuo pianto e tu dormivi della grossa su me. Il solo… il solo guardarti sollevava il mio spirito, mi sembrava di essere completo, di poter respirare a pieni polmoni!”

Era difficile parlare di felicità in mezzo a tutto l’inferno che c’era stato dopo quei momenti che profumavano ancora di latte. Una sequela di separazioni e perdite che lo avevano sconvolto dagli anni infantili in avanti, segnando la sua giovinezza, per poi culminare con la propria morte.

Eppure, in maniera non dissimile a come ci era arrivata Marta, Camus dell’Acquario si accorse che il vero senso dell’esistenza erano davvero quei ricordi di gioia preziosamente accatastati uno sull’altro. Il baule dei ricordi.

Come correre dietro agli uccelli senza un’apparente ragione e sentirsi liberi…

Come vedere un tramonto dalla cima di un monte…

Come il sorriso e il tocco delle persone care...

“Un giorno di ottobre 1994 io… contrassi una brutta bronchite. Al solito, avevo cercato di mascherarla alla mamma e ai nonni, non volevo che sapessero per non farli preoccupare. – prese una breve pausa, ridendo tra sé e sé – In fondo, non sono molto cambiato da allora, non trovi?”

Ridacchiò tenute, perdendosi nel volto della sorellina tra le sue braccia. Le diede un veloce buffetto sulla guancia, stava riprendendo colorito e sembrava più tranquilla, decise di continuare.

“Alla fine, come era prevedibile, crollai. Mi salì la febbre e mamma dovette farmi l’aerosol perché le mie vie respiratorie non erano messe granché bene. - scrollò la testa, alcune cose non cambiavano proprio mai, era il caso di ribadirlo – I primi giorni non li ricordo. Rammento solo le mani della mamma, il suo sbottonarmi il pigiama con premura per passami una crema dal profumo molto forte sul petto. E poi ancora l’aggeggio che suonava e vibrava sul mio volto, la mia manina che stringeva il suo dito in cerca di protezione… poi, mano a mano, si fa tutto un po’ meno fumoso, anche se i rumori di quel dannano macchinario per le inalazioni continuano tutt’oggi a rimbombarmi in testa, da quante sedute ho dovuto fare per eliminare completamente il catarro!”

Camus, continuando a cullare Marta, si guardò brevemente intorno, rendendosi per la prima volta conto che quella camera, dove probabilmente dormiva la sorellina, era stata la sua, spaziosa al punto giusto per contenere i letti di due fratelli.

Se non ci avessero separato prima…

Basta! Non era più il tempo giusto per i rimpianti, quanto per raccontarsi.

“Un giorno, dicevo, stavo facendo il benedetto aerosol sdraiato sul divano, appoggiato al cuscino. Mamma voleva tenermelo lei sul viso, ma io mi ero opposto perché ce la facevo da solo. Tu eri… eri dall’altro lato, piccola, dondolavi sulla schiena, ridendo tra te e te mentre, con sorpresa, ti osservavi le manine e poi i piedini, come a soppesare già le birbanterie che avresti potuto fare da più grande. Sei sempre stata molto vivace sin dai primi mesi, nonostante tu sia nata pretermine. Avevi una grandissima voglia di venire alla luce, sai? Ma questo te l’ho già detto.”

E poi… e poi cosa successe?

“Il solo guardarti mi faceva ridere perché eri buffissima. Purtroppo non ero nelle condizioni di poterlo fare e il mio tentativo venne ostacolato dalla tosse che mi prese forte, rendendomi difficoltoso il respiro. Ovviamente, per quanto fossi l’ometto di casa, come diceva nonno, ero comunque un soldo di cacio bisognoso a mia volta di attenzioni. Nostra madre accorse subito, mi sistemò meglio, aiutandomi a tenermi la mascherina sul viso. Fu in quel momento che accadde...”

Camus si ritrovò a socchiudere gli occhi. Quelle immagini erano più vivide che mai, riportarle alla luce gli causava sia sofferenza che nostalgia, ma non demordette, non quella volta.

“Mentre mamma mi aiutava, tu divenni, di colpo, tutta seria e corrucciata, come se fossi stata in grado di percepirmi. Con difficoltà, riuscisti, non mi capacito ancora come, a rotolarti di lato, rischiando di finire pure per terra e obbligando così nostra madre, da una parte, ad acciuffarti e raddrizzarti con il braccio sinistro, dall’altra a tenere in equilibrio l’aerosol sul mio volto. Neanche starlo a dire, tu non ti diedi per vinta, del resto non sei mai stata una tipetta da gettare la spugna con leggerezza e, ottusamente, sollevandoti quanto bastava, decidesti di gattonare verso di me.”

Sorrise ancora, la scena rimasta nella sua mente era ancora… buffissima! Nonostante il tempo passato.

“Io non sapevo che fare, volevo togliermi la mascherina e correre da te per impedirti di compiere avventatezze, ma non potevo, ne ero impossibilitato. D’altra canto, nostra madre ti spronava, estasiata, perché era la prima volta che ci gattonavi davanti, sebbene piuttosto malferma. Mi raggiunsi tra mille difficoltà, producendo quel tuo solito vagito che era il mio richiamo e che utilizzavi solo con me, prima di sorridermi, avvolgermi con le tue braccine e chiudere gli occhi appoggiata al mio petto… come ora.”

Come ora, Camus, anche se sono cresciuta?

“Eri così piccina, ti tenevo goffamente, eppure eri tutto il mio mondo. Averti così vicina mi permetteva di respirare meglio, di sentirmi bene, nonostante il catarro mi raschiasse la gola e me la facesse bruciare. Averti vicina era come essere me al 100%, non essere più… rotto! - le sussurrò ancora, carezzandole il viso, seguendo la piega dei capelli, con l’anulare e il mignolo – Tu non ci misi poi molto a finire nel mondo dei sogni, seguendo i battiti del mio cuore. La manina, poggiata sul mio petto, ti scese un poco più in giù, te la presi, come poco fa, te la strinsi, prima di appoggiarmi a mia volta a te e assopirmi, cullato anche dalle coccole di nostra madre. Perché ero al sicuro, lì, in quel nido, era al sicuro… con voi!”

Ero… davvero così piccola per te, Cam?

“Sei ancora così piccina ai miei occhi… eppure il tuo cuore fiero e indomito non ha paura di provare emozioni che ti potrebbero straziare, non ha paura di amare né di credere negli altri… in tal senso sei molto più avanti di me; sei il mio sostegno, Marta, il baricentro delle mie azioni, la tettoia che mi ripara dalle intemperie, il mio… rifugio.”

Trattenne un singhiozzo, gli veniva da piangere. Era mai stato grado di esprimerglielo a parole? Marta lo sapeva? Si disse di sì, ma il fatto di essere così impacciato nei discorsi, trattenuto, in certi casi, gli doleva alquanto. Non si era mai permesso di mostrare tutto sé stesso agli altri, mai, Marta era la sua eccezione, ma, perfino con lei era impossibile essere cristallino al 100%.

“Il mio rifugio… non so se sono in grado realmente di farti capire quanto tu sia indispensabile per me. Tu con me ci riesci sempre. Non hai vergogna alcuna a mostrare le tue emozioni nei miei confronti, a dirmi che sono la persona più importante della tua vita, e me lo dimostri ogni giorno di più, abbracciandomi, coprendomi con il lenzuolo quando la notte è fredda e gli incubi tornano, rapaci, a ghermire la mia mente. E poi sei sempre lì a guardarmi con quegli occhietti estremamente percettivi, molto spesso adoranti, come se fossi tutto il tuo mondo e non avessi il benché minimo timore di indebolirti tu. Perché quando si ama con questa intensità, la tua, piccola mia, poi è tutto ingrandito, diventa tutto più difficile da tollerare e gestire; ti soverchia, ti rintontisce, ti lascia disteso esanime per terra, il respiro frettoloso nella paura di perdere tutto. Io ho sempre avuto il terrore di questo, mi è bastato vedere quanto mi abbia straziato la morte del Maestro Fyodor e di Isaac per provare a non amare più con una forza simile… provare, già! In verità è piuttosto stupido, non trovi? Imporre al proprio cuore di non affezionarsi agli altri è come vietargli di battere; se il cuore non batte muore, se la pianta non è nutrita si disseca… ed io, come ho potuto anche solo credere di riuscirci? Smettere di amare le persone che ci hanno lasciato è veramente possibile?! No, tu me lo dimostri ogni giorno di più…”

Tacque, la gola secca. Si inumidì le labbra, prima di raschiarsi le corde vocali. Parlare non era mai stato il suo forte, lo sapeva. Eppure, proprio per questo, doveva imporsi. Sua sorella e tutti gli altri gli avevano già ampiamente tracciato la via.

“Sono molto sciocco su questo, Marta… ho pensato di essere una guida per gli allievi che mi arrivavano, ma sono stati loro, in realtà, ad insegnarmi molto più di quanto ho preteso che apprendessero. E poi, quando non lo credevo più nemmeno possibile, sei arrivata tu a scalzare via ogni sicurezza in me, sei arrivata tu a mostrarmi quanto forte può essere un semplice fiorellino che io, fino a quel momento, reputavo debole e bisognoso di protezione, come Nonno. – le disse ancora, emozionato, alzandola un poco per posare la propria fronte sulla sua guancia – Sei arrivata tu, e ora so che, se ti dovessi perdere, sarebbe la fine per me, non mi rialzerei più, non ne avrei la forza, e questo, sì, non posso far altro che confermartelo, mi fa molta paura. Parallelamente, però, sono anche un uomo migliore grazie a voi, posso anche io accarezzarvi la testa, sorridervi per rassicurarvi quando siete spaventate, coprirvi con il lenzuolo quando fate le baruffe nel letto e sembrate non avere protezione alcuna contro questo mondo bellissimo e crudele al tempo stesso.”

La posizionò meglio perché gli sembrava che pendesse troppo da un lato, la tenne stretta ancora sulle ginocchia, mentre passandogli la mano appena sotto l’ascella, lasciò che il braccio nuovamente a ciondoloni aderisse al suo in modo da sorreggerglielo con naturalezza. La pelle di Marta era così chiara in quel momento, più della sua, che già rassomigliava ad una falce lunare. Le baciò nuovamente la fronte, dove stette per un tempo imprecisato a premere nell’estremo tentativo di cederle un po’ di energia e calore. Perché per quanto un fiore potesse essere forte, aveva bisogno, talvolta, di una mano umana che lo nutrisse e lo riparasse dal gelo.

“Hai salvato la mia anima in tutti i modi in cui un’anima può essere salvata… questo te l’ho già detto, ma bichette... – sorrise tra sé e sé nel constatare che quel nomignolo, stante la sua attitudine a saltare giù dai dirupi senza paura, le si adattasse particolarmente – Ma, forse, non a sufficienza, non quanto riesca a fare tu. Riuscirò mai a fartelo percepire?” si chiese ancora, mordendosi di riflesso il labbro nel non sapersi dare una risposta. Chiuse gli occhi, stringendola più forte a sé.

Voi mi avete dato tutto… ma io cosa riesco a dare a voi?

Avvertì un movimento a quell’ultimo pensiero che lui aveva rivolto a sé stesso, aprì le palpebre nell’accorgersi che la sorellina, a fatica, aveva iniziato debolmente a muoversi, indice di un risveglio più o meno imminente. Camus quasi sussultò a quella consapevolezza, la riadagiò delicatamente tra le coperte, sorreggendole poi il viso da un lato per accarezzarle meglio lo zigomo con il pollice.

“Brava così, Marta, respira, va tutto bene!”

Faceva fatica a riprendersi, la sua pelle era ancora troppo fredda per conciliarsi con la vita, eppure lentamente aveva preso a muovere prima le dita e poi il volto. Camus stette con lei per tutto il tempo, tenendole la mano, avvolgendola nelle coperte e lasciando che si appoggiasse completamente al suo palmo in cerca di affetto e calore.

“Marta...” la chiamò appena, soffice e delicato, aiutandola anche con il cosmo, che era in fibrillazione. Finalmente la vide riaprire gli occhi.

I loro sguardi si incatenarono. Camus avvertì concretamente il braccio della sorellina sollevarsi per poi cingergli il polso vicino, anche se con tutta la fatica del mondo, ciò lo sconvolse: stava cercando proprio la sua mano. Ruotò quindi il palmo in modo che le fosse più agevole stringerglielo, la avvertì respirare più profondamente, come acquietata, mentre, socchiudendo gli occhi gli regalò un sorriso, per quanto stentatissimo.

Sei tu… sei sempre stata tu a raggiungermi, ovunque mi trovassi, ma ora è diverso. Ora so che posso farlo anche io, nonostante non sia abile come te a muovermi nelle emozioni. Sì, posso farlo anche io, ma petite bichette, e lo farò ogni volta che ne avrai bisogno, te lo giuro!

Quel contatto, quell’incatenarsi di sguardi, non durò che un attimo, la stretta scemò fino a quasi scomparire, mentre la piccola -per lui era sempre piccola, anche se in quella visione era già un’adolescente!- reclinando la testa sul cuscino, cominciò ripetutamente a tossire. Camus si spaventò a morte per quella reazione. Si allontanò di scatto nel rendersi conto che stava, di nuovo, faticando a cavare fuori il più piccolo anelito di respiro. Temette di essere stato troppo invasivo, forse le aveva fatto male senza accorgersene. Ebbe l’istinto di chiamare aiuto, ritrovandosi spaurito in una situazione che non sapeva bene come gestire, ed era stupido perché lo aveva fatto fino a quel momento, guidato dall’istinto.

“MARTA!!!”

La voce della madre, appena sopraggiunta nella stanza, lo rinfrancò. La vide correre in direzione del letto, mentre Efesto, dietro di lei, rimaneva in disparte, forse per non farsi vedere dalla figlia più piccola, che comunque non l’avrebbe potuto scorgere in ogni caso, a giudicare dal suo precario stato fisico.

“Mamma!” la chiamò Camus, sentendosi nuovamente un bambino di cinque anni che esigeva l’aiuto del genitore. Non sapeva bene cosa dire, non sapeva fino a dove potersi spingere.

“Marta! Va tutto bene, tesoro, sono qui! SONO QUI!”

Antoinette accorse in soccorso della figlia, la aiutò a sollevarsi un po’ per permetterle di tossire e respirare meglio. La avvolse con una ulteriore coperta per trasmetterle calore, mentre lei lentamente, si acquietava e, con un lungo sospiro prolungato, veniva riaccompagnata giù a calmarsi, anche se era ancora piuttosto rigida e provata.

Piccola mia… coraggio!

Camus era frastornato, avrebbe voluto fare di più, soprattutto aveva paura che il suo intervento non fosse bastato. Fortunatamente la vide calmarsi, guidata dalle carezze della loro madre, sebbene il respiro fosse ancora paurosamente aritmico. Si sentì di tirare un sospiro di sollievo: la sua cerbiatta ce l’aveva fatta, aveva superato la brutta crisi data dallo Zero Assoluto di Hyoga.

Hyoga…

Ancora il pensiero dell’allievo gli diede una nuova, più atroce, stilettata all’addome, in un primo momento lontana, distante, come se provenisse dall’interno e l’interno fosse un luogo tanto tanto remoto, ma più il tempo scorreva più Camus dell’Acquario realizzava la ragione di quel malessere. Tornò istintivamente a trattenersi la pancia con una mano, conficcandosi le unghie nella carne nel cercare di resistere al contempo a quell’insolita pressione che gli proveniva direttamente da dentro.

“MARTA!”

Sobbalzò nuovamente nel sentire l’esclamazione tumefatta della loro madre. Rabboccò aria, inghiottì il dolore sempre più netto e invasivo per tornare così sulla sorellina. Rabbrividì nel capire che si stava nuovamente agitando senza comprendere la motivazione alla radice di quell’ennesimo peggioramento delle sue condizioni fisiche.

Che ti succede ancora? Forza, sono qua, sono...

“Coraggio, tesoro, non sei sola!” la provò a rassicurare Antoinette, vedendola girare da una parte all’altra il viso come alla ricerca di qualcosa.

“D-d-d-d...”

Sembrava volesse parlare, ma non ce la faceva.

“Non adesso, Gabbianella, non adesso!”

“D-dov’è?” chiese, rauca, strizzando dolorosamente le palpebre.

“Chi, tesoro?”

“L-lui.. il...”

Improvvisamente i suoi occhi si spalancarono a vuoto, la sua espressione si spezzò in qualcosa di tremendamente doloroso. Camus accusò lo sbalzo. Già sofferente prima, fu costretto a piegarsi in due dal dolore mentre il suo corpo veniva colto da spasmi sempre più violenti.

Ma-Marta, anf! S-sono qui, s-sono sempre stato qui!

Tentò comunque di dirle, invano, costringendosi a guardarla. Anche lei stava tremando con forza. E piangeva. Piangeva forte, finendo per sgolarsi.

“Tesoro!!!”

Anche Antoinette era paralizzata dalla sua reazione. La provò ad abbracciare per farla calmare, la tenne stretta a sé, ma la piccola non dava cenni di ripresa. A crisi si aggiungeva crisi.

C-che cosa posso fare?! S-se continua così…

“N-non c’è più, sigh!” farfugliò ad un certo Marta, tra un singhiozzo e l’altro.

“Chi, Marta?! Di chi..?”

“Il ragazzo non c’è più! E-era s-sempre con me, i-in tutti questi anni. O-ora… - Marta inghiottì a vuoto, annaspando, prima di affondare dolorosamente il volto nel petto della madre alla ricerca di un conforto – N-non lo sento più, Mami!

Sia Antoinette che Camus sgranarono gli occhi a quella rivelazione, sentendosi mancare prima il respiro e poi la terra da sotto i piedi. Entrambi, pur relegati a due dimensioni differenti e distanti, avevano capito il reale peso di quelle parole: Marta non percepiva più il fratello perché lui era appena morto sul pavimento dell’undicesima casa, ormai era evidente.

“...Respirerò, l’odore dei granai – cominciò allora a canticchiare Antoinette, per tranquillizzarla, gettando indietro il magone per fare forza alla figlia minore – e pace per chi ci sarà e per i fornai. Pioggia sarò, e pioggia tu sarai...”

Stava intonando la canzone “Diamante” di Zucchero, Camus la riconobbe subito alla prima strofa. Trattenne a forza le lacrime che bruciavano alla porta delle sue palpebre. Era infatti la ninna-nanna che la loro mamma cantava sempre quando erano piccoli; la ninna-nanna di quando Marta era ancora nel suo pancione.

“...I miei occhi si chiariranno e fioriranno i nevai.”

Marta si era ammutolita. La guardò intensamente, singhiozzò ancora una volta, prima di chiudere gli occhi e lasciarsi andare, cedendo alle carezze.

Antoinette continuò ancora un paio di strofe, prima di buttare fuori aria, sistemarla meglio sul letto e lasciarsi andare su lei, vinta a sua volta dal peso degli eventi.

“V-va tutto bene, ora va tutto bene, tesoro mio, non piangere più!” le disse, e solo quando fu certa che si fosse addormentata si abbandonò a sua volta ad un pianto continuo e silente.

Ma-mamma, non piangere neanche tu! Tu e Marta siete forti, più di me, io lo so; lo so bene. N-non dovete lasciarvi abbattere, io… io sarò comunque con voi!

Provò l’istinto di sussurrarle Camus, rotto dall’emozione nel vedere la loro madre letteralmente piegata in due dal dolore, prostrata oltre l’inverosimile. Era stanco, stremato, rimanere cosciente gli procurava uno sforzo non da poco, ma non voleva lasciarle sole, non più.

“Era… era come tu mi hai detto, alla fine. Avevi ragione.”

Il dio delle fucine, intanto, rimasto in disparte fino a quel momento, decise di prendere parola. Qualcosa gli baluginò nell’occhio limpidamente blu che entrambi, sia Marta che Camus, avevano ereditato. Non si era scomposto né tanto meno mosso in direzione della scenetta famigliare che aveva avuto luogo tra mamma e figlia, ma nel rivolgersi direttamente a Camus, facendogli capire come agire, era riuscito a salvare la vita della più piccola.

“Antoinette… ora guardami, per un momento, e ascoltami. - le disse, in tono appena più fievole, accennando un passo nella sua direzione – Vedi, le cose stanno che...”

“Il mio intrepido Camus è morto poco fa, vero? E’ per questo che Marta è stata così male. Lei… lo ha sentito morire, sebbene sia così distante da noi e non se lo ricordi.”

A Camus mancò un battito e il respiro, nell’avere quell’ulteriore conferma. La gola gli si fece secca, mentre la vista si oscurava sempre di più.

“Come lo hai capito, questo?! Non possiedi un cosmo sviluppato, non...”

“Non serve un cosmo per sapere determinate cose, si sentono con il cuore. – rispose Antoinette, rigettando indietro un singhiozzo per poi alzarsi tremolante, non prima di aver dato ancora una tenera carezza alla testolina della figlia – Sono i miei cuccioli, entrambi sono stati parte di me, qui dentro.” sussurrò, massaggiandosi il ventre con movimenti leggeri.

“Sì… - confermò poco dopo il dio, dopo una lunga pausa non verbale – Q-questo, il Camus del presente, se ne è andato.”

“E allora come è riuscito a.. - il tono le si strozzò nell’esprimerlo, incassò la testa tra le spalle e pianse altre lacrime amare, prima di ricomporsi - ...intervenire?”

“Quando è in condizioni esistenziali instabili, può farlo. - disse Efesto, prendendo poi una breve pausa prima di procedere – Il mondo che lui crea, dove può intervenire, non ha né futuro né passato. E’ un eterno presente.”

“Capisco… supponevo qualcosa di simile. E’ davvero un essere speciale, il mio bambino.”

“Non sembri sconvolta da questa rivelazione.”

“Sono sposata con un dio greco, è un po’ strano che tu ti ponga adesso il problema.”

“Suppongo tu abbia ragione.”

Antoinette annuì meccanicamente, facendosi forza nel tentare di asciugarsi le lacrime residue. Marta aveva ancora bisogno di loro, nonostante il pericolo scampato. Era salva perché era intervenuto il fratello, ma per ristabilirsi sarebbe servito tempo… parecchio!

Camus non sapeva cosa dire, avrebbe voluto gridare che lui era ancora lì per poi correre ad abbracciare la madre e la sorellina. Forse, a giudicare dai suoi poteri, avrebbe anche potuto riuscirci.

Provò a muovere un braccio nella loro direzione, ma il dolore era sempre più forte, la mente appannata. Sentiva un caldo terribile, le orecchie pulsavano. Inspirò aria, tentando di resistere ad oltranza. Stava perdendo i sensi, lo sentiva, ma c’erano ancora diverse cose che avrebbe potuto sistemare lì, non poteva permettersi di risvegliarsi proprio in un simile momento, quando la sua famiglia stava così male per causa sua.

“Antoinette… - Efesto fece passare una serie di secondi, prima di tornare a parlare. Guardò la consorte cercando le parole giuste per procedere, ma non era esattamente il suo campo – Cosa sai del potere di Marta? Come sai… che lei lo riesce a percepire così distintamente?”

“Come ti dicevo prima, Efesto, alcune cose si sentono con il cuore. So che non è un concetto di facile introspezione per te, ma è così. Al dire il vero, ci ho messo un po’ a capirlo. Anche io, come te, sono abituata a leggere i dati e i fatti, piuttosto che supposizioni, ma non c’è alcun dubbio che Marta abbia da sempre avuto questa capacità innata di sentire il fratello, sebbene non abbia ricordi stabili di lui.”

“Da… sempre?!”

“Da sempre, sì, da quando era un fagiolino. - si permise di lasciarsi andare ad una breve risata scarica tensione, prima di ricomporsi – E’ incredibile, non lo credevo nemmeno possibile, eppure la mia piccola lo ha dimostrato più e più volte nel corso della crescita.”

“Fai degli esempi, non capisco bene.”

“Certo che non lo capisci, non c’eri tu quando sono nati, né mai. Immagino che un Olimpo abbia dei progetti ben più alti che allevare due figli, ed io l’ho accettato incondizionatamente, Efesto.” gli disse, franca, non nascondendo comunque una vena di rimprovero.

“...”

“Entrambe le gravidanze non sono state facili; Camus, poi, era piuttosto fragile di salute, prima che nascesse Marta, ma è proprio questo fatto ad aver reso sorprendente l’attitudine della più piccola. - raccontò, tranquilla, gli occhi persi in quei momenti passati tanto difficili ma ugualmente preziosi – Lei… come dire, era dentro la mia pancia ma percepiva comunque i malesseri del fratello.”

“Di Camus?!”

“Di Camus, sì. Se lui era agitato lei calciava; se aveva la febbre calciava di nuovo, e così via, era quasi impossibile gestirli entrambi, e difficoltoso. – continuò lei, sedendosi sul bordo letto nel vezzeggiare la figlia dormiente – Ma è grazie a questo che si è rivelato il miracolo: Camus, quando si appoggiava con l’orecchio alla mia pancia, si acquietava, qualunque disagio avesse, e così Marta quando lui le era così vicino. Non ho razionalizzato subito la portata di un tale evento, se non quando è venuta al mondo, nascendo prematura di un mese. Dopo le cure all’ospedale, siamo riusciti a tornare a casa, tutti insieme, e lei… beh, il suo primo sorriso lo ha avuto per il fratello. Poteva percepirlo, sai? Sempre! Si voltava verso di lui, dovunque si trovasse, come se lo sapesse. Ed era così piccina, voglio dire, così microscopica, eppure… eppure ci riusciva. Iniziai quindi a convincermi che fosse legata al fratello, come… come accade per i gemelli omozigoti, sì. Studi scientifici confermano che possono ‘sentire’ l’altro.”

“Ma Marta e Camus non sono gemelli, hanno una differenza di 5 anni l’uno dall’altra!” osservò ruvido Efesto, rifiutando apparentemente quella tesi che pure aveva raccontato in prima persona al figlio maggiore fino ad un attimo prima.

Forse… sebbene ricolmo di scetticismo credeva comunque alla moglie?!

“E’ quello che mi dicevo anche io, e infatti ho navigato nel dubbio per mesi, finché… beh, un determinato fatto mi ha dato la risposta definitiva.” il viso di Antoinette si inscurì fino a traboccare di dispiacere, il suo respiro mutò, mentre, abbracciandosi il ventre, manifestava sofferenza.

“E sarebbe?”

“I fatti precedenti al giorno in cui il Nobile Shion portò via il nostro Camus...”

Camus sussultò nuovamente nell’avvertire quell’ennesima frase che cozzava con i ricordi di quel giorno fino a quel momento. Pensieri e paure ripresero a vorticare nella sua mente, la vista si annebbiò ulteriormente, sebbene a fatica tentasse di rimanere sveglio, trattenendosi la testa con una mano e la pancia con l’altra, in un impeto di ribellione.

No, doveva sapere… doveva scoprire se davvero si era opposto, se davvero quel mostro avesse provato a… ancora una volta il sorriso di sbieco di Fei Oz gli trapassò il cervello, facendogli sbarrare gli occhi e accelerare i battiti cardiaci, che oramai pulsavano nei timpani.

“Efesto, quel mostro me lo ha picchiato… a morte!”

“...”

“Ha usato una tale violenza su lui, io non me ne capacito, non me ne… sigh!”

M-mamma, anf, sono qui… ora sono qui, non pensarci. Sono vicino a voi, VOGLIO essere vicino a voi, t-ti prego, n-non…

“Quando il Nobile Shion è tornato, con Camus e Marta in braccio, io… ho percepito un forte strappo al cuore! Camus era stato appena rianimato, respirava ancora irregolarmente ed era sporco di sangue. La piccola invece era vigile, non piangeva ma aveva gli occhi gonfi di pianto, la boccuccia dischiusa ed il respiro a sua volta frenetico. Stavano male entrambi ma… lo capii poi… Marta per diretta causa del malessere del fratello. C-come… come è accaduto anche questa volta!”

Ma-Mamma!

Gli occhi di Camus gli si chiusero, divaricò a fatica le gambe per rimanere in piedi, ma ormai non c’era più alcuna scena davanti a lui, solo le loro voci… ancora le loro voci.

Non voleva separarsene. Non voleva, tutto qui!

“Camus è rimasto in coma per giorni. Ha… ha rischiato di morire, sembrava quasi che le cure, da sole, non funzionassero. Ero disperata, non sapevo cosa fare...”

Mi dispiace… non avrei mai voluto procurarti un simile dolore, non… ugh!

“E’ in quei momenti così critici che il Nobile Shion ha pensato… ha pensato...”

Che… cosa ha pensato, anf? Mamma?

“...”

Mamma!

“Marta, lei… deve essere stata lei, non ci sono altre spiegazioni.”

Che cosa? Cosa ha fatto Marta, perché non lo ricordo?! Perché quel giorno è tutto così confuso?! Perché più cerco di riportarlo alla memoria… più mi sfugge, anf?

Camus riaprì faticosamente un occhio, le rivide ancora una volta, anche se apparivano sempre più lontane e distante, quasi… sfumate. Tentò il tutto e per tutto. Tentò di concentrarsi sul viso addormentato della piccina, su quello ancora giovanile della madre che continuava a parlare con Efesto, anche se le parole non gli arrivavano più. Protrasse un braccio, che emanava dei veri e propri fasci di energia che risalivano più velocemente tramite le vene verso il cuore, come a volerlo raggiungere. Le pulsazioni cardiache martellavano sempre più forsennatamente all’interno della sua cassa toracica, più o meno al ritmo di quelle strie numerose che ora, raggiunto il torace, scendevano in direzione dell’addome, riempiendolo quasi del tutto come petali di una corolla di fiori destinata a sbocciare.

Il… Potere della Creazione! -realizzò Camus, osservandosi il ventre scalpitante- F-forse g-grazie a questo...

“Basta così, Camus, il tuo corpo è al limite, fermati! ORA fermati! Tua sorella l’hai già salvata… è sufficiente!”

Una voce femminile dietro le sue spalle -non era certo quella di sua madre, ancora seduta a poca distanza da lui- lo fece sussultare con violenza. Non ebbe comunque il tempo di indagare oltre, né tanto meno di voltarsi, perché un dolore atroce, non più sopportabile per il suo corpo giunto al limite, gli perforò nettamente l’ombelico, facendogli perdere l’equilibrio.

“Guah!”

Non finì subito a terra. Opponendosi strenuamente, riuscì a rimanere ginocchioni, ma prima ancora di poter riaprire gli occhi, una nuova stilettata nel punto di prima gli mozzò istantaneamente il respiro, facendolo stramazzare a terra senza più difesa alcuna. A stento percepì l’addome nudo, esposto, privo della protezione della maglia, rivoltata verso lo sterno, e della sua mano caduta poco più giù, immota sul pavimento.

Tutto stava perdendo di consistenza, al punto da non distinguere più nulla intorno a sé. C’era soltanto lui e quel dolore insopportabile. Lui e l’oscurità. Lui e il rimpianto di non aver capito prima come sfruttare quella dote.

Di nuovo il bruciore. Insopportabile.

E il dolore più intenso di prima.

Il ventre diede uno spasmo, lui dovette trattenerlo con l’altra mano con tutte le sue forze, mentre, spalancando gli occhi al cielo per la sofferenza, facendo leva sul braccio sotto, si voltava supino, prendendo grosse boccate d’aria perché respirare era diventato difficile.

Una nuova doglia.

E’ un’altra.

Un’altra ancora.

Partivano tutte dalla parte più profonda dell’ombelico per poi risalire.

L’addome tirava fastidiosamente, come se qualcuno gli avesse infilato un gancetto nella parte mediana del tronco e avesse cominciato a tirare. A nulla valeva trattenerlo con una mano, spingere verso il basso per contrastare quell’insana pressione che un uomo in vita sua non avrebbe mai dovuto provare. A nulla. Le contrazioni aumentarono.

Strinse i denti come meglio poteva, si disse che presto sarebbe finito, che DOVEVA finire, perché non era la prima volta che provava quella sensazione orrenda ed era già riuscito a sopravvivere. Chiuse gli occhi, sforzandosi di riportarsi sotto controllo, mentre le immagini del combattimento avvenuto nel mondo creato da Utopo riaffioravano dolorosamente nella sua mente nella loro completa, spietata, interezza.

Michela, anf! Hyoga!

Avrebbe voluto urlare per il supplizio. Non lo fece, dando tutto sé stesso nel tentare di contrastarlo.

Tutto sarebbe finito.

Anche… quel calore innaturale che lo vessava, senza dargli requie, sotto forma di due simboli a forma di triangolo che -li percepiva di nuovo!- si erano nuovamente impressi sulla sua pancia, le basi convergenti a metà ombelico, i due vertici equidistanti uno in direzione dello sterno e l’altro in direzione dell’inguine.

Sì, sarebbe finito tutto... in un modo o nell’altro!

 

 

* * *

 

 

Milo stringeva la mano abbandonata a sé stessa di Camus con un cipiglio di disperazione, quasi fremendo sul posto, mentre, con ansia crescente, osservava i movimenti sempre più trafelati intorno al letto.

Non sapeva spiegarsi cosa diavolo fosse successo. Semplicemente poco dopo una delle solite visite di controllo, il suo migliore amico aveva cominciato ad avere le convulsioni. La temperatura corporea, e così i battiti cardiaci, erano quindi saliti vertiginosamente, mentre l’ombelico aveva ripreso a spurgare sangue… più intensamente di prima!

Erano subito accorsi gli altri, Mu, Shaka e il Nobile Shion, lo avevano soccorso, ma la situazione non sembrava stabilizzarsi e lui, a giudicare dal suo contrarre ripetutamente le palpebre, visibili a fatica a causa della mascherina che gli stavano premendo sul viso, stava soffrendo molto.

Lo Scorpione si sentiva dannatamente inutile in quella circostanza, superfluo, mentre, con fremito sempre più crescente, si domandava cosa, dannazione, gli stesse succedendo. Di nuovo.

La sera prima Camus aveva dato cenni di ulteriore miglioramento al punto da potergli togliere l’elettrocardiogramma, e allora perché… perché quello?!

Riusciva solo stare lì, a tenergli almeno la mano, mentre tutt’intorno gli amici si prodigavano per lui nel tentativo di farlo star meglio, il camice completamente aperto sull’affannoso petto per tastargli minuziosamente il costato, il torace e soprattutto l’addome, così bollente più che le altre parti. Con un groppo in gola, Milo vide Mu scostargli un ciuffo dalla fronte sudata con gentilezza, prima di riscaldare tra le mani lo stetoscopio e posarglielo sul pettorale di destra, sul sinistro, scendere dai capezzoli per poi passare su entrambi i fianchi. Lo strumento si soffermò per diverso tempo su ogni zona, prima di essere ritirato con un sospiro affranto.

“Il cuore è ancora in fibrillazione.”

“Cos..?!” a Milo venne un colpo.

“Che tipologia, lo riesci a capire, Mu?”chiese subito Shaka, ancora intento a mantenere la mascherina dell’ossigeno sul volto del compagno d’armi per aiutarlo a respirare con più regolarità.

Erano giunti lì che ne era fortemente in deficit...

“Atriale, per il momento. Ma non riesco completamente a calmargliela.”

“L’iniezione di eparina non è bastata?!”

“Non… ancora.”

“Non ci voleva!” si lasciò sfuggire il Cavaliere di Virgo, affatto solito a mostrare apprensione, ma la situazione sembrava sul punto di degenerare.

“Non capisco davvero cosa gli sua successo, stamattina sembrava profondamente addormentato, non ci sono state avvisaglie di un crollo così vertiginoso, eppure...” biascicò Mu, a stento controllato, prima di posare brevemente lo stetoscopio sul letto per poter così prendere una pezza dal comodino e tamponargliela sulla fronte con gentilezza.

Altrove, più in giù, Shion stava cercando di arrestargli la nuova perdita di sangue, premendogli un fazzoletto sull’addome scalpitante, accelerato come lo stesso respiro, e battito, di Camus. Non diceva niente.

Milo si chiese per l’ennesima volta come ci riuscisse a mantenere sempre quella dannata flemma che lo contraddistingueva, sembrava peggio di Shaka, a volte, il che era tutto dire. Del resto, il Grande Sacerdote stava lì, serio in volto, come se avesse quasi tutte le risposte alle sue domande ma non le palesasse. Non a loro.

Intanto il Cavaliere della Vergine, sollevando la mascherina dal viso di Camus per poi chinarsi vicino alla sua bocca, era passato a controllargli, con l’aiuto del palmo della mano posata sul diaframma, il respiro. Parve contare qualcosa, probabilmente la frequenza, prima di sospirare e cercare il sostegno visivo di Mu.

“Il respiro si sta regolarizzando, ma il cuore è ancora sotto sforzo… rischia uno scompenso, così!”

“Sì, Shaka… - annuì Mu solo apparentemente tranquillo – L’ho auscultato prima, i battiti sono a 140 e non c’è verso di placarli, eppure dovrebbe essere in condizioni di riposo.”

“Che gli sta succedendo, quindi? Lo hai capito? Tu sai vedere molto più in là di me, Mu...”

“E’ come se… se stesse usando i suoi poteri ai massimi livelli e questi sovraccaricassero l’organo in questione.”

“Che significa, questo?! - volle sapere Milo, sgranando gli occhi, mentre le sue dita si stringevano ulteriormente su quelle di Camus – E’ qui, incosciente, non può star usando i suoi poteri!”

“Eppure è così, è affaticato! Lo dimostra sia l’accelerazione dei suoi battiti che il suo respiro!” riprese Shaka, serissimo in volto.

“Ma che diavolo sta…?”

“Qui il sanguinamento è rallentato. - li avvisò Shion, alzando il fazzoletto nel vedere che l’ombelico non spurgava quasi più – Procediamo con il nuovo bendaggio!”

Milo istintivamente si alzò, lasciandogli momentaneamente la mano, compì due passi indietro, quasi impietrito, mentre gli altri tre si accordavano su come fare. Li vide lavorare in sinergia, prendendo il corpo di Camus per poi voltarlo su un fianco, il destro, proprio dove stava lo Scorpione che ebbe un sussulto nel vedere la non reattività del suo migliore amico. Quel camice aperto, rivoltato completamente anche sulla schiena, quelle sue braccia abbandonate a sé stesse, quel suo essere alla mercé degli altri, sebbene lo mal tollerasse, per aiutarlo a combattere una cosa sconosciuta perfino per loro…

Milo si dovette appoggiare con una mano al muro, mentre Shaka, sistemandolo meglio sul cuscino, gli fletteva la testa e gli alzava meglio le braccia, piegandole davanti al viso, in modo da poter operare più agevolmente sulla pancia, su cui Shion stava già parzialmente avvolgendo un bendaggio stretto.

“La cosa che mi preoccupa maggiormente è comunque il rialzo inspiegabile della sua temperatura, nonché il suo perenne essere sotto sforzo. – il Grande Sacerdote fece infine trapelare i suoi timori, mentre legava con maestria le bende dietro la schiena di Camus – Sembra quasi non abbia mai pace, quasi fosse vittima di un sogno senza fine, non è normale!”

Mu annuì, mentre, con la mano poggiata sulla nuca dell’amico gli accarezzava i capelli con gesto delicato per provare a calmarlo: “La febbre inoltre non scende neanche con gli antipiretici, tutt’al più rimane stabile… non me lo spiego!”

Effettivamente i medicinali, trasmessi per via endovenosa, non bastavano, era chiaro. Quell’aumento spropositato delle temperatura corporea non doveva avere altre spiegazioni se non un malessere congenito, dato da ragioni interne, forse inconsce. Occorreva quindi un’azione decisa per abbassargliela, forse l’intervento di un manipolatore del ghiaccio. Lo Scorpione si ritrovò a fremere, il cellulare già in mano.

“Sommo, devo chiamare Marta?” chiese, perché Hyoga era K.O e irraggiungibile, lo sapeva, ne rimaneva un’unica possibilità.

Shion non disse niente, sembrò soppesare la situazione. Osservò dolente Camus, il suo boccheggiare, il sudore che gli imperlava il bel volto e l’espressione perennemente sofferente.

“Forse, se sua sorella fosse qui, lei...” insistette lo Scorpione, cauto.

“N-no, urgh, p-per favore, a-arf, lei no...”

Non era stato Shion a parlare, ma lo stesso Camus che, quasi miracolosamente, scrollando la testa sul cuscino prima di affondarci dolorosamente dentro, si stava strenuamente opponendo.

Sì, certo, con quali forze e come? Anzi, come poteva aver percepito anche solo quello spiraglio di mondo esterno, nelle condizioni in cui versava! Gli altri Cavalieri non lo sapevano, lo Scorpione invece sì, ma se c’era un momento per contrastare quell’insana follia era esattamente quello.

“Camus, ma...”

“N-no, anf... p-per favore, i-io de-vo proteggerla, anf, anf.”

“CAMUS! FORSE non ti stai rendendo conto della...”

“D-devo protegge-rla, Milo, a-arf... d-devo proteggerti, piccola.”

Sembrava rispondesse a lui ma, in un certo senso, non lo stava del tutto facendo. Era come se parlasse nel sonno, come se stesse combattendo contro qualcosa. E, quello, se possibile, infervorò ancora di più il Cavaliere di Scorpio.

“Non vuoi che ti veda così, lo capisco, credimi, ma… è abituata a vederti sin peggio! Camus, dammi retta, per una singola volta, hai avuto le convulsioni e hai ancora la febbre molto alta, non...”

“N-no, lasciami, anf… lascia-mi e-essere ancora un uomo per lei, ugh… un uomo e un fratello maggiore, anf!”

“CAMUS, PORCA DI QUELLA..!”

“E’ più che comprensibile che non voglia farsi vedere così dalla sorella, Milo! – intervenne pacatamente Mu, sempre continuando ad accarezzargli i capelli scarmigliati sul cuscino, legando al contempo il suo sguardo agli occhi azzurri dell’amico – Questa consapevolezza, il fatto di aver Tiamat dentro di sé, deve averlo sconvolto più di quanto sia successo a noi. Dovresti sapere come è fatto...”

“So, sì, come è fatto, ma cosa pensate di fare allora, eh? - lo Scorpione non mascherò l’agitazione, al punto da non trattenersi più – Se questa dannata febbre non scende nemmeno con gli antipiretici serve qualcuno che domini il ghiaccio, e non è che abbiamo un intero plotone a disposizione con questa dote! Hyoga sta male ed è lontano, l’unica che può fare qualcosa è Marta, che a Camus piaccia o meno! Se ne farà una ragione, oppure...”

“...Oppure potrebbe non essere necessario!”

Tutti i presenti trasalirono nell’avvertire una nuova voce palesarsi tra loro, talmente concentrati sul da farsi da non essersi resi conto del cigolare della porta che, proprio in quel momento, veniva aperta senza chiedere il permesso.

“Divino Hermes!!!” esclamarono all’unisono, riconoscendolo immediatamente.

Il dio dall’aspetto giovanile fece un cenno di assenso, chiudendola poi dietro di sé e avanzando verso di loro con il bastone in mano. Diede una breve occhiata al ragazzo steso sul letto, soffermandosi al bendaggio che gli avvolgeva l’addome e al respiro ancora terribilmente aritmico. Socchiuse un poco le palpebre, prima di buttare fuori aria e parlare.

“Potrebbe non essere necessario l’intervento di Marta, ho qui qualcosa per voi che potrebbe essergli utile.” disse, prima di tirare fuori un oggetto dalla tasca della giacca -era infatti vestito con abiti civili che lo rendevano quasi un uomo comune, se non fosse stato per la luce divina dei suoi occhi e per la straordinaria singolarità dei lineamenti!- e posarlo tra le mani del Nobile Shion.

“Che… che cosa sarebbe?” chiese Milo, mentre gli altri si disponevano in cerchio e sbirciavano incuriositi, come se si aspettassero che, in qualche modo, l’oggetto non apparisse così banale come pareva.

Apparentemente era una comunissima bustina di tè.

“Un antipiretico naturale, possiamo dire.”

“Composto da..?”

Milo sembrava scettico, inarcò un sopracciglio nello stesso momento in cui Shaka se lo portava al naso.

“E’ una miscela di erbe. Se la fate assumere per via orale a Camus, gli si scioglierà subito in bocca, abbassandogli immediatamente la temperatura corporea e placandogli le doglie.”

“Sì, ma composta da cosa?! - Milo non si fidava affatto delle divinità, insisteva a chiedere delucidazioni, preoccupato alla sola idea di fargli ingerire roba misteriosa – Fate presto a dire ‘miscela di erbe’, Divino Hermes, per quanto ne sappiamo potrebbe pure essere droga!”

“Per voi umani effettivamente potrebbe essere considerata una sostanza stupefacente, come la chiamate voi, ma ti ricordo, Cavaliere di Scorpio, che il tuo amico è per metà dio!” rispose semplicemente la divinità, senza scomporsi.

“Certo e, secondo voi, al mio amico solo perché è per metà dio, faccio assumere roba potenzialmente pericolosa! Lasciatemi dire, Sommo Hermes, che vaneggiate, non...”

“Non sembra tale, però! - lo corresse Shaka, studiando la miscela anche con gli occhi, prima di annusarla ancora – Sembra più un composto di Fagus Sylvatica, Prunella Vulgaris e Aruncus Dioicus, inoltre … c’è anche qualcos’altro che non riesco bene a inquadrare, quasi un odore di cenere, possibile?”

“Faggio, Prunella comune e Barba di Capra, sì… i miei complimenti, Cavaliere di Virgo, hai indovinato tre ingredienti su quattro; l’ultimo, a tua discolpa, non potevi capirlo: non è qualcosa che esista sulla vostra bella Terra!” si congratulò Hermes, sinceramente soddisfatto.

“Hanno tutte proprietà medicinali e antipiretiche. - constatò a sua volta Mu, sorpreso, osservando la divinità – Dove mai..?”

“Non io, Cavaliere, è stato Efesto a cercare meticolosamente gli ingredienti, a ridurli in polvere e a cuocerli, io sono stato soltanto incaricato di recarmi qui.”

Quella frase apparentemente pacifica diede invece occasione a Milo, già in fibrillazione a sua volta per la situazione snervante, di creare un nuovo pretesto per una discussione.

“Ah, il buon caro Efesto si è svegliato?! E dov’è ora lui?!” fremette, nervoso, tanto da spingere Shion a bloccargli il polso con la mano.

“Milo, un po’ di rispetto, se riesci...”

“Un po’ di rispetto un corno, Grande Sacerdote! Dov’è Efesto, mentre suo figlio sta così male?! Passi quello che è successo nel passato, ma qui...”

“Milo, ti ha detto il Divino Hermes che è stato lui a prendere i rimedi, già questo...”

“Ma lui non è qui, ci manda il compagnone, perché, Shaka?!”

“Cavaliere, - Hermes prese parola, guardandolo dritto negli occhi al punto da spingerlo a fermarsi a causa della limpidezza profusa da quel singolo sguardo – Efesto ha non poche difficoltà a relazionarsi con tutti, Divini e Mortali non c’è differenza, nutre grossi problemi di fiducia verso chiunque.”

“Saranno ben cazzi suoi se è dissociato, no?! Con Camus e Marta dovrebbe invece...”

“I suoi figli, ahimé, non fanno eccezione ma credimi… credimi quanto ti dico che ci è sinceramente legato, anche se può non sembrare!”

“E infatti non sembra.”

“Non è stato così anche per Camus? Non ti è stato difficile ottenere la sua fiducia, Milo Cavaliere di Scorpio?”

“...”

“Efesto, a suo modo, sta aiutando il figlio, anche se non in prima persona. Si è mosso lui stesso a cercare tali ingredienti per il decotto, li ha uniti, miscelati, per Camus, ma non si sentiva di venire lui, pertanto ha chiesto il favore a me. – sospirò Hermes, guardando brevemente fuori dalla finestra – E mi ha anche detto di portarvi un messaggio...”

“Che messaggio?!” volle sapere lo Scorpione, più calmo, anche se comunque spazientito.

“Dopo, Cavaliere, ora date la cura a Camus. E’ allo stremo delle forze, sta utilizzando fin troppo il suo grandioso potere.” asserì ancora Hermes, prima di tacere, appoggiandosi al muro in attesa.

“Mi sembra un’ottima priorità, questa, Divino. - sorrise Shion, grato, i suoi muscoli si rilassarono impercettibilmente, mentre diede un’occhiata indicativa al suo allievo e a Shaka – Aiutatemi a voltarlo supino.”

Girarono quindi Camus, posizionandogli nuovamente le braccia lungo i fianchi. Prevedibilmente lui, non avendone le forze, non oppose resistenza. Erano stati in grado di bloccargli l’emorragia, ma i movimenti convulsi dell’addome non si erano affatto calmati, stremandolo, ad ogni fitta, ancora di più.

Milo ne era come ipnotizzato, non riusciva ad accettare tutto quello. Lo guardava, il cuore piccolo piccolo nell’osservare i suoi muscoli ancora così tesi, la sua pelle umida di sudore che, alla luce, risaltava ancora di più tutti i lividi e le ferite impresse sul suo corpo devastato. Ingoiò a vuoto. Un singolo trauma di quella tipologia sarebbe stato troppo per chiunque, si chiese con che volontà Camus riuscisse a sopportarne uno dietro all’altro. Per amore, dedizione, voglia di continuare a vivere… cos’altro?

“Milo!”

Fu Shion a riportarlo alla realtà. Sussultò, mentre il Grande Sacerdote gli passava la bustina contenente il medicinale: “Vuoi darglielo tu? Di te… si fida!”

Lo Scorpione non aveva forze per dire alcunché, si sentiva semplicemente prosciugato. Annuì cupo, mentre, prestando attenzione, apriva la bustina.

“Cosa devo fare per… - diavolo, si sentiva un inetto con le cure – Convincerlo ad aprire la bocca?”

“Non lo devi convincere, lo obblighi! - disse pragmatico Shaka, senza troppi rigiri di parole – Così!”

E bloccando la testa di Camus perché non si potesse opporre, giacché lui aveva già provato a sfuggirgli, gli prese saldamente la mascella inferiore, costringendolo, tramite una leggera pressione, ad aprirla.

“Minchia, Shaka, sembri un macellaio! - si lagnò Milo, sinceramente scioccato dalla scena – Ricordati che è Camus, non chicchessia!”

“La delicatezza non serve in taluni casi, deve prendere la medicina nel più breve tempo possibile, non ci sono alternative!”

“Sì ma c’è modo e modo, che diamine! - quasi gli ringhiò a denti stretti, prima di abbassare lo sguardo e concentrarsi – Coraggio, amico mio, tra non molto starai meglio!” provò ad incoraggiarlo, porgendogli la bustina sulle labbra semi-aperte per poi versargliela in bocca.

Camus non oppose più resistenza, semplicemente cercò di ingerire quanto gli veniva dato, mentre Shaka, recuperando un po’ di umanità e calore che Milo disperava di rivedere nella reincarnazione di Budda, lo aiutava a deglutire.

“Fai così, Milo… - lo avvertì Shaka, solleticando la giugulare di Camus con l’indice – Gli sarà più facile!”

Lo Scorpione fece quanto gli veniva illustrato, cercando di mascherare il proprio fremito corporeo, manifestazione lampante del suo sconvolgimento. Infine lo riaccompagnarono compostamente sul cuscino e attesero. Finalmente, dopo alcuni minuti, parve lasciarsi andare. Lo videro acquietarsi, l’addome e il petto tornarono a gonfiarsi e sgonfiarsi con una parvenza di calma.

“Si è… tranquillizzato?” chiese Milo, speranzoso, sentendo i muscoli sciogliersi come se fossero un budino.

“Pare di sì… aspetta! - disse Mu, tornando a posargli lo stetoscopio sul torace – Sì, anche i battiti si stanno regolarizzando!” confermò, con una punta di sollievo che non riuscì a non mostrare.

“Possiamo ricoprirlo, quindi? - chiese speranzoso lo Scorpione, rivolgendosi con sguardo da cucciolo a Shion che stava rimuginando sul da farsi – Povero diavolo, non ne potrà più di sentirsi così maneggiato!” gli fece poi notare, scoccando una breve occhiata di avvertimento a sua buddità che se ne stava ancora lì, a massaggiare il collo e il petto di Camus per aiutarlo nell’assunzione di quella polvere misteriosa.

“Va bene, ricopritelo per il momento, ma per più tardi trovo che sia saggio ricollegare il suo corpo all’elettrocardiogramma per monitorarlo costantemente. Vorrei scongiurare, nel possibile, l’insorgere di una crisi violenta come quella di prima. - concesse alla fine il Grande Sacerdote, con un lungo sospiro scarica tensione – Shaka, Mu, poi dopo dovremo disquisire sulle prossime iniezioni di eparina...”

“L’epa-che?!” lo interrogò lo Scorpione, smarrito, rabbrividendo.

“L’iniezione di prima, Milo.” rispose Shaka, sbrigativo.

“Que-quella che gli avete fatto nella coscia?!”

“Precisamente.”

“E’… è necessaria? Non...”

“E’ da valutare. - gli scoccò un’altra occhiata Shion, di quelle che valevano più di mille parole – Anche perché luogo preferenziale per l’iniezione è la zona sottocutanea della pancia, ma ora come ora è troppo martoriata per inoculargli lì il medicinale.”

Milo inghiottì a vuoto. Ripensò alla violenza con la quale avevano fatto la prima somministrazione, senza nemmeno un minimo di preavviso, senza curarsi di essere delicati. Si inumidì le labbra, tornando sul volto del migliore amico, apparentemente addormentato.

“Lo ricopriamo, quindi, per il momento?” chiese conferma Shaka, osservando Shion, il quale acconsentì ancora una volta.

Così Mu, dopo aver adagiato meglio da un lato il viso di Camus, gli riabbottonò il camice, ricoprendolo poi con il lenzuolo fino alle spalle ad eccezione del braccio destro, che sarebbe servito per i prelievi dopo. Lasciò quindi lo spazio a Milo, che sapeva addolorato dell’intera faccenda, scambiandogli un sorriso di incoraggiamento.

“Sta meglio ora.” gli disse, gentile.

“G-già, anche perché p-peggio di prima c’è solo la morte.”

“Esagerato. - ridacchiò tenue, pur comprendendolo - Stai con lui, ne ha bisogno!”

Già, aveva bisogno di percepire una persona amica, come se non lo sapesse, poi. Lo guardò con intensità crescente, gli veniva quasi da piangere come un poppante, ma non l’avrebbe di certo fatto, men che meno lì. Tirò su con il naso, prima di chinarsi verso di lui.

“Coraggio, amico mio, è finito anche questo supplizio...” gli sussurrò lo Scorpione, carezzandogli i capelli per poi scendere sull’ovale del viso e proseguire fino alla mano, che tornò a stringergli.

Camus non rispose alla stretta, ma gli parve che si rilassasse ulteriormente, il viso lontano e assopito.

“Sei un impiastro, non la finirai mai di farmi tribolare, vero?! Né a me né a Marta… - aggiunse ancora, gli occhi un poco lucidi, prima di racchiudere la sua mano nel suo palmo – Per il momento riposa, Cam, te lo sei meritato!”

“Divino, potete illustrarci il messaggio?” chiese ad un certo punto Mu, dopo alcuni attimi di silenzio, puntando i suoi occhi profondamente verdi sulla divinità.

“Prima… una informazione da parte vostra: avete conosciuto Ermete?”

“S-sì ma questo come…?”

“Lo supponevo.”

La sua espressione si fece scura e pesante, grave, le sue iridi si allontanarono bruscamente dal gruppo. A Milo quell’accozzaglia di manifestazioni umane non sfuggirono. Lo scrutò con attenzione, riducendo le palpebre a due fessure. Si ricordò dei timori di Sonia, della sua paura che il proprio padre biologico ne fosse, in qualche modo, coinvolto.

“Non siete di certo la stessa entità...” asserì, pratico.

“No, non lo siamo.”

“Ma ne siete comunque implicato!”

“Si può dire di sì, Cavaliere di Scorpio...” ammise il dio, con un sospiro.

“Ebbene… in che modo?”

Hermes sembrava restio a trattare dell’argomento, lo aveva tirato fuori solo perché si era dovuto recare lì per soccorrere il Cavaliere dell’Acquario sotto espressa richiesta di Efesto, ma era evidente che avrebbe voluto trovarsi ben altrove. Sembrava vergognoso, colpevole, un sacco di altre cose -un’accozzaglia, per l’appunto!- che erano difficili da collegare ad una divinità dell’Olimpo. Solo alla fine, dopo aver ispezionato tutto il muro con gli occhi per poi arrivare agli sguardi, un poco discreti e curiosi, dei Cavalieri davanti a sé, decise di prendere parola.

“E’ stato un mio allievo. Il migliore.”

Gli sguardi davanti a sé si fecero univoci, trasmettendogli la concreta impressione che fossero sorpresi, quasi sbalorditi. E seppe, con distinzione, che per la sete di sapere umana, la stessa del suo discepolo prediletto, quella sola risposta non gli sarebbe bastata.

“Ermete non è il suo vero nome, ma un modo di chiamarsi che prese ad assumere quando ci separammo. - spiegò, una tetra scintilla di delusione nelle sue iridi verde bosco – In origine, si chiamava Angus.”

“A-Angus dal gaelico?” provò a chiedere Mu, sinceramente meravigliato.

“Vi parlo di un periodo storico estremamente arcaico, quasi agli albori della storia umana, o meglio, della vostra specie, l’Homo Sapiens, perché effettivamente in quel periodo erano ancora esistenti ominidi di varia origine sul vostro pianeta. – specificò il dio dei viandanti, guardando altrove – Ebbi poi altri allievi, ma mi affezionai talmente a lui al punto di concedergli una lunga vita..”

“Perciò era il vostro favorito...” capì Shion, estremamente percettivo.

“Sì, noi divinità possiamo essere molto selettive, ci fissiamo su oggetti, persone, animali, talvolta cose. Siamo, invero, molto fragili a nostra volta. - prese una pausa, chiudendo gli occhi per poi riaprirli – E’ stato così per tutti, o quasi: io avevo Angus, Atena ha sempre avuto il Cavaliere di Pegasus in ogni sua forma, il Sommo Zeus… aveva Ganimede!”

A Milo non sfuggì né l’intermezzo tra i due nomi né tanto nemmeno l’occhiata obliqua, quasi in tralice, che Hermes regalò a Camus, finalmente placato e perso nei recessi dell’incoscienza, sebbene mostrasse ancora segni di sofferenza sul suo viso.

“Era molto di più che il mio favorito... – confermò ancora Hermes, come se quella semplice frase pesasse su di lui come una condanna - Per questa ragione gli insegnati tutto; tutte le arti magiche, tutte quelle curative, tutte le forze esistenti in questo universo.”

Tacque di nuovo, sembrava aver bisogno di tempo per continuare. I Cavalieri lo seguivano in silenzio, chi non discostando minimamente lo sguardo da lui, chi regalando brevemente una fugace carezza a Camus, chi con gli occhi perennemente chiusi, come Shaka, che era tornato ad essere sua buddità completa.

“Fu un errore. - la frase giunse alle loro orecchie estremamente lapidale – Lui voleva di più, molto di più... non gli bastava questa Terra, né questo universo, perché, a suo dire, era troppo limitante per la sua sete di conoscenza. Cominciò dunque ad esercitare arti proibite...”

“Proibite… come?” volle sapere Milo, ma la divinità non sembrava intenzionata ad approfondire quell’argomento. Lo vide deglutire a vuoto, prima di procedere.

“Non lo fermai subito, ci ero troppo affezionato, ma la sua sete di conoscenza travalicò il limite. Fui costretto a scontrarmi con lui. Lo vinsi, ma non lo uccisi, non ne ero in grado e, da quel momento, si perfezionò da solo, cambiando nome, a volte passando per me, facendosi conoscere dalla gente come Hermes/Ermete, il Trismegisto, ovvero il tre volte grandissimo.”

“Sonia ha ipotizzato qualcosa di simile! - interloquì Milo, attirando l’attenzione del dio – Sosteneva che non potevate essere voi, che non era possibile, perché lui è malvagio e voi, suo padre, no.”

“A Sonia non ho mai raccontato questa storia...”

“Beh… dovreste! - il tono di Milo si acuì, l’espressione facciale si fece spietata, come sempre quando si trattava della sua piccoletta – Lei crede in voi. Sul fatto che non possiate essere la stessa persona ci avrebbe messo anche la mano sul fuoco, e non lo siete, certo, ma avete comunque avuto a che fare con lui, anzi, siete il principale responsabile delle sue nefandezze, dico male?”

“...”

“Milo!” lo avvisò Mu, trattenendolo per il polso vicino come a indicargli di fermarsi. Lo Scorpione, però, non sembrava intenzionato a retrocedere.

“Sonia non sa nulla di voi, ma si fida, gli piacete. Ha… ha sempre avuto bisogno di un padre ed io… io non potevo esserlo. - sorrise amaramente, scrollando il capo – Sono più un fratello maggiore un po’ tonto, per lei...”

“Cavaliere...”

“Ma ciò non cambia che sono stato io a farla crescere, né voi né i suoi reali fratelli, che ne erano impossibilitati! - esclamò con convinzione, cercando di sopperire il senso di prostrazione che lo aveva improvvisamente colto – Se non sarete voi a spiegarle la situazione, con i dovuti tempi, lo farò io, costi quel che costi. Lei ha diritto di sapere chi, cosa, ha fatto suo padre. Ne ha… bisogno!”

“Cavaliere, io...”

Hermes si trovava in inaspettata difficoltà. Da un lato avrebbe voluto continuare il discorso, dall’altro farlo proprio con la figlia più piccola lo metteva in soggezione. Aveva sempre pensato di avere tante parole da esprimere, merito della vicinanza che, per secoli, millenni, lui aveva scelto di mantenere con il genere umano, ma quel giorno, per la prima volta, si rese conto di essere piccolo, insignificante, davanti agli occhi celesti di un ragazzo che, per quanto reincarnato diverse volte, non avrebbe potuto competere, almeno in teoria, contro la sua esperienza celeste.

“...è complicato… - bofonchiò poi, guardandosi i piedi – Non è...”

“Non dovete le spiegazioni a noi, ma a lei, o al massimo ad Aiolia e Aiolos! - sottolineò Milo, con un leggero sorriso, prima di voltarsi – A noi basta sapere che questo Ermete non siate voi, né una vostra emanazione, che siate quindi nostro alleato.”

“Lo sono, ma… - Hermes sospirò, affranto, rendendosi conto che non sarebbe stato più in grado di continuare – D’accordo, vi spiegherò meglio un’altra volta, adesso… adesso siete più preoccupati per quello che è accaduto al vostro amico, giusto?” chiese, recuperando la concentrazione giusta e la parvenza della divinità che era.

Nella stanza ricadde un silenzio colossale. Nessuno sembrava sufficientemente preparato per esprimere i propri dubbi, né per chiedere ulteriori approfondimenti circa la brutta crisi -potenzialmente mortale, se non fossero intervenuti in fretta e furia!- che aveva colto il Cavaliere dell’Acquario.

“Che cosa gli è successo, di preciso? Perché è crollato così? Fino a ieri stava dando cenni di miglioramento!” fu Shion a tagliare in due la stasi, la mano che sorreggeva il volto pallido di Camus con una premura estremamente paterna, il pollice a solcargli ripetutamente lo zigomo nel sussurrargli un tacito ‘non arrenderti!’

“Fa parte del messaggio che vi vuole trasmettere Efesto.”

“E questo si era capito, Divino, ma cosa mai..?” intervenne anche Milo, sempre più nervoso.

“E’ il vero fulcro della Creazione, la vera essenza dei poteri di Camus.”

Silenzio intorno, solo Mu ebbe il coraggio di chiedere il seguito.

“Il vero fulcro?! Non è… il potere di generare atomi dal nulla dandogli la forma materiale del ghiaccio?”

“Quello è solo l’esordio, il potere secondario, più immediato e accessibile… il cardine risiede altrove.”

“E dove?” si aggiunse anche Shaka, aprendo garbatamente gli occhi celesti in una lieve espressione di sorpresa.

“Nei sogni. - lo accontentò placido Hermes, sorreggendo il suo sguardo, prima di farsi ancora più serio – Il crollo che ha avuto è perché sta sognando e… e il suo corpo da umano, già profondamente debilitato, non è in grado di reggere un simile sforzo. Ma ora, grazie alle erbe di suo padre Efesto, dovrebbe lentamente iniziare a migliorare!”

Era lampante, a giudicare dalle reazioni smarrite, che nessuno dei Cavalieri d’Oro presenti avesse completamente centrato la problematica. Hermes si disse che era normale: per quanto uomini straordinari e atti alla fatica, esseri viventi limitati rimanevano e il concetto espresso varcava le porte dell’infinito e dell’indefinito.

“Sapete, il Multiverso è un concetto di cui sappiamo spaventosamente poco… per poterci esprimere!”

In quell’istante, gli occhi di Shion e Mu, maestro e allievo illuminati, si accesero di consapevolezza, seguiti a corto giro da quelli di Shaka. Milo, invece, rimaneva chiuso nel suo mondo, le labbra piegate in una espressione a metà strada tra l’infastidito e il confuso. Di tanto in tanto, carezzava la chioma blu di Camus che, finalmente cheto, sembrava finalmente caduto in un sonno profondo.

Un sogno che tuttavia non è privo di compagnia…

Hermes percepì distintamente la divinità originaria dentro di lui, pur non proferendo niente a riguardo.

“Volete forse dire che..?” interloquì Shion, mostrando l’acutezza tipica di un saggio che aveva vissuto a lungo.

“I sogni possono essere spirargli di accesso ad altre realtà, talvolta giungono a noi sotto forma di suoni, immagini e odori mentre dormiamo, come se fossero dei veri e propri frammenti di vite riflesse. – spiegò pacatamente il dio, osservando un punto fermo fuori dalla finestra – Nessuno è in grado di mantenerli vividi a lungo, al risveglio, né tanto meno manipolarli a piacimento. Nessuno, eccetto… il Detentore della Creazione!”

“Questo significa che..!”

Anche Milo sgranò gli occhi, arrivando altresì a quella verità che il dio dei viandanti stava rivelando soppesando le parole e così il tono.

“Sì, Cavaliere… - gli occhi verdi di Hermes si posarono sul volto sfinito di Aquarius che, quasi a percepirlo, contrasse infastidito le palpebre – Il reale potere di Camus è quello di condizionare la realtà secondo il suo volere tramite i sogni. Praticamente...”

Di nuovo una pausa, più lunga delle precedenti. Quella dichiarazione avrebbe cambiato tutto, sia la concezione con la quale i compagni lo vedevano, sia le sorti dei mondi tutti, decretandone la fine o la salvezza, o anche… un nuovo inizio!

“...in quello spazio recondito e misterioso che sono i suoi sogni preclusi a noi tutti, lui… può essere considerato onnipotente!”

 

 

* * *

 

 

Il dolore stava finalmente scemando, insieme alle contrazioni che, raggiunto il picco massimo, erano finalmente in calo, lasciando il posto alla consueta, quanto forse più difficile da sopportare, sensazione di profanazione che non lo abbandonava mai del tutto da quando gli occhi di Fei Oz si erano posati, voraci, su di lui. Aveva ormai ricordato nei dettagli ogni cosa, le sevizie di Utopo, il male che egli aveva procurato a Michela, il dolore all’addome dopo essere stato pungolato a quel modo, ciò che ne era derivato… calore e spasmi, calore e ancora spasmi, sempre più intollerabili, e poi… quei simboli dorati a forma di triangolo che gli erano apparsi sul ventre, infondendogli un potere nuovo, colmante, che aveva rischiato di fargli perdere totalmente il controllo, smarrire sé stesso, e ferire i suoi amati allievi.

Hyoga… il pensiero tornò prepotentemente al ragazzo. Dove si era recato dopo lo scontro? Era rimasto gravemente ferito, ridotto ai minimi termini, eppure non aveva esitato a proteggerlo, a fargli sentire la sua vicinanza, ad affrontare coraggiosamente il Mago per contrapporsi a lui, al suo volere.

Camus stette un po’ lì, sdraiato, non sapeva bene dove. Socchiuse gli occhi mentre, con la mano sinistra ancora poggiata sulla pancia, avvertiva i simboli incisi nella sua carne sbiadire passo passo, sostituiti da un’enorme stanchezza che gli appesantiva la testa. Voleva solo dormire, prima di ricongiungersi con i suoi cari, con le allieve, con Marta, perché non capiva più dove si trovasse e si sentiva tanto solo e stremato.

I ricordi si erano interrotti, tutto era finito. Perché allora..?

“Sei nella parte più profonda del tuo inconscio, al sicuro. - ancora quella voce femminile dai caratteri gentili che gli pareva di aver già udito prima di stramazzare a terra – I tuoi amici là fuori si stanno operando per farti sentire meglio, e tu… hai raggiunto il tuo obiettivo, Camus, hai salvato Marta. Me ne complimento sinceramente.”

L’Acquario sbatté le palpebre febbricitante, totalmente incredulo. Intorno a lui non vi era altro che luce, non vi era più traccia del letto su cui era coricata la sorellina, né di sua madre che, in lacrime, raccontava delle sue gravidanze, e neanche della voce di suo padre Efesto, tremante come non l’aveva mai sentita prima di quel momento. No, non vi era nulla intorno a lui, solo un tiepido calore che tuttavia gli affaticava la vista… e un umanoide dalle sembianze femminili a poca distanza, in piedi, che lo guardava con riluttanza mista a curiosità.

“E’ molto caldo e confortevole, qui, Camus… - osservò ancora lei, sorridendogli leggermente nel vederlo nuovamente reattivo – Ti chiedevi prima se tua sorella fosse in grado di percepirlo, questo calore che tu vorresti infonderle con tutto te stesso e che pensi di non riuscire a mostrarle, ed io ti posso rassicurare che, sì, le forme e i colori, lo stesso tepore, sono esattamente ciò che sta provando Marta. E’ il mondo che si è creato dentro di lei dopo averti conosciuto. Su questo posso dire… di capirla, sai?”

“Urgh, chi..?” ma non riuscì né a finire la frase né a muoversi, troppo stremato per farlo. Provò l’istinto appannato di tirarsi giù la maglietta per coprirsi almeno il ventre che le stava parzialmente mostrando, ma le braccia non si muovevano, rimanendo una sulla pancia e l’altra lungo il fianco. Immobili.

Non c’era effettivamente più nulla intorno a lui in quel luogo, solo una specie di caldo nido e… quella ragazza misteriosa, non del tutto umana ma dalle sembianze antropomorfe. Lo stava osservando con occhi grandi e luminosi, celesti le sue iridi e… no, non erano solo cerulee, bensì dense di un azzurro che sfumava in oro e le illuminava lo sguardo come il tiepido sole del mattino rischiarava il cielo. Aveva lunghi capelli biondi che le ricadevano sul petto e sulla schiena, solo sulle punte un poco increspati. Tuttavia -Camus la osservò meglio, per quanto gli fosse difficile a causa della posizione cui era immobilizzato- non era quella la caratteristica principale della sua silhouette, bensì… la pelliccia! Sbatté più volte le palpebre, sforzandosi di focalizzarla a figura intera. No, non c’era margine di errore, la giovane umanoide aveva davvero delle zone del suo corpo completamente coperte da un folto manto di un bianco candido: fra tutte, dalle ginocchia fino ai fianchi e dai polsi fino ai gomiti. Altrove, invece, proprio come una qualsiasi giovane donna, vi era in bella mostra la sua pelle candida totalmente priva di protezione.

Non apparteneva quindi interamente a nessuna delle due sfere, né umana né animale.

In quell’attimo, rendendosi conto di essere guardata, un leggero rossore le solcò gli zigomi, obbligandola ad abbassare, vergognosa, lo sguardo.

Lei… gli ricordava comunque qualcosa, qualcuno, ma… chi? Camus si sentì inaspettatamente impacciato. Raccolse tempo per riuscire a parlare. Gli servì tutto, anche se, in quel luogo fittizio, forse nemmeno il concetto di divario temporale aveva un senso. Del resto… gli era stato appena detto di trovarsi nella parte più profonda del suo inconscio, giusto?

“T-tu, sei… - prese tempo per riordinare i pensieri e le parole, prima di continuare – Quei tuoi occhi tristi e gravi, come se dovessero sorreggere il peso del mondo. Mi… ci siamo già incontrati, per caso? Il tuo viso, non so perché, non mi è nuovo...” le domandò, sforzandosi di rammentare dove l’avesse già incontrata

“Ti… ricordi… di me?” chiese la ragazza, arrossendo ulteriormente.

Aveva un tono soave e delicato, composto e gentile, anche quello gli ricordò qualcosa, sebbene i fatti precedenti nell’iter dei ricordi sembrassero contraddire quel suo lato.

Camus ebbe l’istinto di posarsi l’altra mano sulla tempia, tutto quel mondo fittizio gli stava vorticando intorno, trasmettendogli un nodo al petto, quasi un senso di affaticamento. Respirò diverse volte profondamente, cercando di riportarsi per l’ennesima volta alla calma nel percepire l’ansia crescere esponenzialmente dentro di lui. Con il palmo posato sull’addome, si strinse la pelle, come a volerla ancora una volta trattenere al minimo cenno di ostilità.

“Puoi stare tranquillo e tranquillizzarti, adesso… - le disse quindi lei, accennando un passo nella sua direzione – Tua sorella è salva ed io non posso più oppormi. Hai plasmato il mondo che volevi grazie al tuo potere, ma ti chiedo di non abusarne oltre con un corpo così sfinito. Le conseguenze potrebbero essere molto gravi soprattutto per te. Ed io non vogl...” si trattenne, a disagio.

“Chi… chi sei? - volle sapere Camus dell’Acquario, come se da quella domanda dipendesse il significato stesso della sua esistenza – Perché mi sembra di conoscerti già?”

La giovane donna respirò a fondo, stringendosi a sua volta la mano sopra il seno un poco ansioso. Respirava quasi a scatti, sembrava emozionata da qualcosa. Gli occhi grandi e profondi palpitarono trepidanti.

“Ricordi tre anni e mezzo fa la Kolyma?”

“Z-Zima?! S-sei una sua emanazione?”

“No, ci siamo incontrati un poco prima, sulla strada per arrivarci...”

A quella frase i ricordi di quella missione lo investirono a ritroso. L’emorragia, il dolore al fianco trafitto, il muso triste di Zima, la sua maledizione, gli allievi, le direttive di Elisey, Bobik, nonna Nana e…

“Tamara, no… NINA, era questo il tuo vero nome! - la frase venne pronunciata in un guizzo più alto del normale – Eri sulla strada per Neksikan, quel giorno, ci siamo incrociati e tu… ti avevo condotto a Mosca, per ricominciare una nuova vita!”

A quelle parole la giovane donna sorrise tristemente, prima di riprendere a camminare nella sua direzione con passo un po’ meno malfermo. Si fermò a pochissima distanza, sufficiente per non toccarlo ma abbastanza per poterlo osservare in ogni suo particolare. Lui che era lì, steso a terra, immobile, a fissarla con occhi grandi e sgranati, la mano a coprirsi l’ombelico e così il simbolo ancora parzialmente visibile dei due triangoli con la sola base in comune e i vertici contrapposti -il segno della loro unione!- la maglia stropicciata a mostrare la nuda pelle del ventre, dalle ossa dei fianchi fino alla seconda coppia di addominali.

Era… semplicemente… perfetto. Esattamente come se lo era immaginato in tutti quei secoli trascorsi dentro di lui, nell’emozione, un giorno, di vederlo per davvero, non più con l’ausilio della sola immaginazione e degli altri sensi quali l’udito e il tatto.

Quel giorno era infine arrivato.

“Ti ringrazio per aver omesso altro e… per ricordarti di me, di lei, Camus!”

La sfumatura del suo nome giunse alle orecchie del Cavaliere con una nota di calore, come se per lei chiamarlo così fosse importante, essenziale, quasi che si fossero sempre conosciuti.

“I-io non capisco… se sei realmente tu, q-quella ragazza, perché hai questa forma? C-cosa ti è successo? Sei… umana, o animale?”

“Entrambi. - disse lei con voce bassa e delicata, prendendo a girargli intorno – Ti sentirai spaesato, è tuo diritto.”

Appariva così tanto triste, come quel giorno alla Kolyma, costretta a fare qualcosa cui era obbligata, ad essere… ciò che non era. Camminava a piedi nudi, seguendo un tragitto immaginario. Ad ogni passo lei si voltava verso di lui, pregna dell’istinto di stabilire un primo, vero, contatto, anche se solo visivo.

Camus ricambiava lo sguardo come riusciva, data la ritrosia del suo corpo a reagire, senza spicciare parola, il fiato corto. Doveva ammettere che possedeva una bellezza piuttosto inusuale, quasi antica, anche se non era completamente umana. Sebbene non si fosse mai soffermato troppo sull’altro sesso -Seraphina esclusa!- non riusciva a mostrarsi indifferente. Qualcosa in lei lo attirava inspiegabilmente come un magnete...

“Nina in effetti, è il nome che aveva questa sfortunata ragazza...”

Le labbra le si mossero lentamente nell’esprimere quel concetto, gli occhi di nuovo sfuggenti, quasi… appesantiti.

“Co-come?!” Camus non riuscì ad nascondere un’esclamazione di sorpresa.

“Tuttavia non sono lei, non lo ero neanche allora, in verità, quando tu mi hai raccolto e portato al sicuro, a Mosca. Di lei ho solo parte della forma esteriore!”

“C-che cosa vorresti..?”

“In quel momento, però, non avevo ancora i mezzi per riconoscerti...”

Camus trasalì a quelle parole, il suo corpo sussultò, quasi avesse avuto il singhiozzo. Cominciava ad assemblare gli indizi, e... a pensarci bene, non avrebbe potuto essere altri che lei, senza il minimo dubbio!

“N-non è possibile! S-saresti dunque..?!”

“Io sono Tiamat, Camus. - arrivò infine al nocciolo lei, in un nuovo sfolgorio di coraggio, bandendo le incertezze nel legare il proprio sguardo a quello del Cavaliere che riluceva di sbigottimento – Colei che dimora nel tuo grembo dai tempi del primo Aquarius: Ganimede!”

 

 

 

 

 

 

Angolo di MaikoxMilo

 

 

Ciao a tutti, eccomi di ritorno dopo mesi di latitanza. Mi dispiace per l’attesa per chi segue, ma complici gli impegni della vita reale e la demotivazione imperante per continuare a pubblicare, non posso più garantire un proseguimento della storia lineare e regolare, per cui è fattibile che a mesi di nulla seguiranno più pubblicazioni e così via. Oppure no. Non lo so bene neanche io, non è un periodo molto fortunato su EFP...

Ciò che è certo, è che, in ogni caso, continuerò a modificare la prima storia nella sua interezza e, a seguire, le altre perché hanno proprio bisogno di una ristrutturazione vera e propria.

Venendo a questa, di storia, capitolo ovviamente lungo, l’ho spezzato in tre parti per trovarmi comunque a scrivere oltre 50 pagine, tante erano le cose che volevo raccontare. Sono un caso disperato. XD

I riferimenti sono molti, alcuni derivano direttamente dalle nuove modifiche della prima storia, attualmente revisionata fino al capitolo 16 (in corso), per cui non stupitevi se non vi tornano; altri invece si riallacciano alle altre side story. Il più importante è di certo il riferimento all’essere montagna che Camus esprime con Isaac ne “Le petit Cygne” al capitolo 7. Come avete potuto vedere, ed è questa la cosa più essenziale, è che il nostro Camus è cresciuto rispetto ad allora, arrivando a capire, infine, la reale forza dei fiori prima rispetto a quanto faccia suo nonno (di cui, come avete intuito, ha preso gran parte del carattere XD); certo è che, per arrivarci, è dovuto morire anche lui non una, bensì due volte, e rischiare di rimetterci le penne in più di una occasione, ma, come ho già detto, sono molto orgogliosa di dove lo sto portando. :)

Un’altra cosa importante di questo capitolo è che tutti i ricordi a cui assiste Camus sono controllati da lui stesso, tranne l’ultimo, in cui ci si ritrova trascinato. Qualcuno lo ha condotto lì al di là della sua volontà. E’ stata Marta? Forse. Di sicuro, però, è che solo grazie alla sua volontà riesce a salvarla, sfruttando il Potere della Creazione di Tiamat.

Ho già spiegato perché ho voluto dare questo potere a Camus, rendendolo così onnipotente, almeno in teoria, visto le conseguenze che questa dote ha sul suo corpo; il fatto di avergli dato un’attitudine molto vicina alla potenza primigenia della Dea-Madre, quindi della Vita, mi piace un sacco perché ho sempre considerato il personaggio la corretta misticanza di caratteri maschili e femminili.

A proposito, avete riconosciuto la citazione di Hermes? Quel suo dire “Il Multiverso è un concetto di cui sappiamo spaventosamente poco...”è preso direttamente dalle parole di Doctor Strange nel film “Spider-Man No way home” e in altre occasioni. :)

Infine, per ultimo, un appunto su Tiamat: chi ha seguito la Sonia’s side Story si ricorderà forse che gli ultimi capitoli pubblicati si concentrando maggiormente su una missione in Siberia; missione a cui Camus partecipa come Sciamano e non come Cavaliere. Alla spedizione si aggiungono Hyoga e Isaac che, sotto la spinta di Elisey, desiderosi di aiutare il loro giovane maestro, fanno precipitare drasticamente gli eventi. Ebbene, è poco prima di questo frangente che Aquarius, sulla strada per la Kolyma, incontra “Tamara”, una giovane prostituta, che gli rivela poi il suo vero nome, “Nina”. Ebbene, questa essenza è nientepopodimeno che Tiamat stessa, o meglio, la parte “materiale” della dea che tuttavia è -dovrebbe!- essere interamente custodita dentro il ventre di Camus. Come è quindi possibile che l’abbia già incontrata “fuori”, nel mondo reale, diversi anni prima? Perché appare a lui con questa forma ambivalente? Questi e altri quesiti troveranno risposta nel prossimo capitolo, anche se non vi so dire, purtroppo, quando riuscirò a scriverlo e pubblicarlo. Vi chiedo un po’ di pazienza ^_^’

Le prossime pubblicazioni dovrebbero comunque vertere sulla storia dei piccoli Gold -grande ritorno, considerando da quanto è ferma!- che è già parzialmente scritta, e soprattutto -spero entro fine anno!- su La Melodia della Neve, in modo da riallacciare i filamenti che si sono diramati nelle altre storie. Spero potrete apprezzare entrambi.

A presto e grazie ancora a chi mi segue!

Ritorna all'indice


Questa storia è archiviata su: EFP

/viewstory.php?sid=3941200