Il mistero di Southlake Castle

di ValePeach_
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** Capitolo 1 ***
Capitolo 3: *** Capitolo 2 ***
Capitolo 4: *** Capitolo 3 ***
Capitolo 5: *** Capitolo 4 ***
Capitolo 6: *** Capitolo 5 ***
Capitolo 7: *** Capitolo 6 ***
Capitolo 8: *** Capitolo 7 ***
Capitolo 9: *** Capitolo 8 ***
Capitolo 10: *** Capitolo 9 ***
Capitolo 11: *** Capitolo 10 ***
Capitolo 12: *** Capitolo 11 ***
Capitolo 13: *** Capitolo 12 ***
Capitolo 14: *** Capitolo 13 ***
Capitolo 15: *** Capitolo 14 ***



Capitolo 1
*** Prologo ***


PROLOGO

 


 
Inghilterra, Cumbria – 1825
 


 
La primavera era finalmente arrivata.
La si poteva sentire nell’aria piena di profumi, vedere nelle giornate che lentamente si allungavano e nella tenue brezza che arrivava a scaldare le mattine dopo le rigide temperature invernali.
Da che Camille ricordasse, aveva sempre amato la primavera. E non solo perché i suoi occhi si riempivano di colori tenui e tinte pastello, ma perché marzo significava il ritorno alla vita mondana di Londra. Madri e figlie, nubili, debuttanti e persino le vedove facevano il loro rientro in città per prepararsi al meglio alla nuova stagione, che sarebbe ufficialmente iniziata ad aprile con l’apertura dei teatri.
Un mese.
Sicuramente infinito per le zitelle e le fanciulle meno abbienti, per lei invece sarebbero stati giorni intensi passati nei salotti delle signore a prendere il tè, pomeriggi sfrenati di acquisti nelle boutique di Oxford Street e mattine fatte di succulenti pettegolezzi sugli scapoli più ambiti di Londra. E poi le serate a teatro, le feste, i balli… quell’anno aveva addirittura ricevuto l’invito per presenziare ad ogni soirée organizzata da Almack’s! E poco le importava se era stato possibile solo grazie al matrimonio di sua sorella Heather con Jamie Mortain, secondogenito di un visconte e proprietario della prospera tenuta di Hollybrook, nel Devonshire. Finalmente nessuno l’avrebbe più vista come una banale ereditiera priva di titoli, ma un’ereditiera con il figlio di un visconte e appartenente ad una delle casate più antiche e rispettabili d’Inghilterra pronto ad intercedere per lei. Sarebbe stato uno scherzo trovare pretendenti adeguati e arrivare ad avere un matrimonio pari a quello della sorella.
Santo cielo, e lei? Lei costretta a rifiutare il gentile invito delle patronesse e soprattutto della duchessa di Stirling a presenziare al ballo che avrebbe sancito l’inizio della stagione e che l’avrebbe messa in vista di fronte al fior fiore della nobiltà ed alta borghesia.
Le venne da piangere al solo pensiero. E mentre cercava di trattenersi dal fare un’altra scenata, poteva quasi udire sua sorella, quell’amabile cospiratrice, che l’ammoniva sul fatto che ormai era una giovane donna e che fare lacrime di coccodrillo non l’avrebbe di sicuro aiutata.
Non poteva che darle ragione. Non era infatti delle lacrime che aveva bisogno, ma di qualcuno che le dicesse che quello era un incubo e che bastava darsi un pizzicotto per svegliarsi. Camille in quelle settimane di pizzicotti se ne era dati parecchi, si era fatta venire persino due lividi sulle braccia, eppure era sempre sveglia.
Quella, purtroppo, era la realtà.
Dopo il periodo passato in campagna nella tenuta di Jamie e i mesi invernali a Bath, di fatto lei la nuova stagione londinese non l’avrebbe vista nemmeno col binocolo.
Nervosa sospirò, non potendo fare a meno di chiedersi cosa il futuro le avrebbe riservato.
Cosa avrebbe trovato una volta arrivata a Lodgewood?
Parlarne con amiche e conoscenti non era servito. Tutti l’avevano compatita e le avevano ripetuto che il nord non era altro che un posto pieno di campagnoli maleducati, fanciulle nubili decadute in disgrazia, commercianti senza un briciolo di cultura e nobiluomini tirchi e poco avvezzi ai divertimenti… non certo le parole che sperava di sentire per avere un minimo di incoraggiamento.
Jamie Mortain, nonostante le sue continue domande, non aveva sprecato troppe parole per descrivere i luoghi in cui era nato e cresciuto. Le aveva solo detto che, indipendentemente dalle chiacchiere da salotto, il viscontado di Lodgewood era un posto magico, dove la collina e la brughiera si univano per dare vita a scenari paesaggistici mozzafiato. Nulla sfortunatamente menzionava riguardo le persone e quello, tenendo conto delle informazioni ricevute, non la faceva sperare in meglio. Insomma… se Jamie aveva trovato una moglie lontana miglia e miglia dalla Cumbria un motivo ci sarà pur stato.
Inutile dire che anche a lei sarebbe piaciuto innamorarsi come era successo a Jamie ed Heather; sentire il famoso sfarfallio allo stomaco di cui parlavano i libri ed essere baciata esattamente come Lancillotto aveva baciato Ginevra, sei pagine di romanzo se ben ricordava, ma ogni sua speranza di incontrare l’uomo perfetto era volata all’aria nel momento in cui i due novelli sposi avevano deciso di partire per una stravagante e alquanto insolita luna di miele in Italia e le avevano imposto di passare quel tempo in cui loro sarebbero stati impegnati a viaggiare e a divertirsi nel viscontado al nord. Lasciarla sola a Londra sarebbe stato disdicevole e siccome gli unici parenti che avrebbero potuto prendersi adeguatamente cura di lei erano il visconte di Lodgewood Vincent Mortain, padre di Jamie, e zia Olivia Shaw, contessa di Claystone e sorella di Vincent, che da anni non andavano in città e che mai ci sarebbero tornati solo per permetterle di partecipare alla stagione, era stato deciso che Camille sarebbe andata da loro.
Quando le era stata riferita la tragica notizia era rimasta in collera con Heather per due intere settimane. Si era chiesta di continuo perché di punto in bianco non la volessero più, ma scervellarsi non era servito. Il motivo infatti era molto semplice: il matrimonio. Heather e Jamie erano convolati a nozze da più di sette mesi, ma essendo loro orfane sin da bambine e non avendo Camille alcuna intenzione di stare in compagnia del cugino ereditario e tutore, sir Anthony Kensington, e della di lui moglie e figlie, stava sempre in mezzo ai due sposini, impedendo loro di stare soli e di scoprire ogni sfaccettatura della vita matrimoniale. Era normale che volessero i loro spazi e lei nel loro grande viaggio sarebbe stata di troppo. I due avevano tentato di dirglielo usando mille e più scuse, ma la verità non la si poteva cambiare e quindi aveva dovuto accettare il suo destino senza fiatare.
«Camille, posso permettermi di darvi un consiglio?» domandò Jamie dall’altro lato della carrozza.
Siccome Heather era troppo impegnata ad organizzare le tappe del viaggio aveva preferito rimanere in città, così il genero era l’unica compagnia che aveva avuto a disposizione negli ultimi quindici giorni. Quanto alla chaperonne che avrebbe dovuto seguirla, la povera signora Carson si era presa l’influenza a metà strada e non era stato possibile per lei ripartire o per loro fermarsi troppo a lungo. Con lei era rimasto il valletto di Jamie, che l’avrebbe prontamente riportata a casa una volta guarita.
«Dite.»
«Dovreste cercare di sorridere almeno un pochino, non è da voi fare quei musi lunghi» disse gentilmente. «So che non siete contenta di essere qui, ma non sarà una tortura come credete… vi piacerà Lodgewood e sono sicuro che non rimpiangerete né Londra né il Devonshire» concluse, ma quelle parole non la rincuorarono affatto.
In realtà non era triste come poteva sembrare, quanto più arrabbiata e delusa.
Non pensava di recare un sì forte disturbo alla giovane coppia tanto da spingerli a mandarla via. Era stata Heather stessa a volerla con sé: diceva che avevano passato abbastanza tempo insieme a quell’arpia di Margareth Kensington e che mai più l’avrebbe mandata a casa dal cugino Anthony, quindi perché ora non andava più bene? D’accordo, forse qualche volta i suoi comportamenti erano un po’ esagerati e al ballo di Natale di Bath aveva rischiato di far scoppiare uno scandalo quando si era appartata con l’avvenente e giovane Malcolm Bennett desiderosa di ricevere il suo tanto agognato bacio, ma alla fine non dava fastidio a nessuno.
Forse però Jamie aveva ragione: Lodgewood era una tenuta di campagna proprio come Hollybrook ed era abbastanza vicina alla città di Windermere da permetterle di non perdere l’abitudine a partecipare ad incontri e balli serali. Certo non sarebbe stato Almack’s, ma avrebbe dovuto accontentarsi.
«Cercherò di non buttarmi troppo giù» disse, rinvigorita da quei pensieri. «Ora che ne pensate di una partita a lotto reale?»
Jamie si mise a ridere. «Cara Camille, una giovane donna di buona famiglia non dovrebbe giocare d’azzardo.»
«Se è per questo, una giovane donna di buona famiglia e per di più nubile non dovrebbe nemmeno viaggiare con un uomo sposato… specialmente se non accompagnata.»
«Touché» esclamò il cognato. «Povera signora Carson, spero si rimetta presto. Era evidente che non aveva l’età per affrontare un simile viaggio e scomodità.»
«Io mi preoccuperei piuttosto delle sorti del vostro valletto. Lo avete lasciato da solo in balia di una signora Carson febbricitante e in preda all’ira per aver abbandonato la sua pupilla proprio ora che aveva più bisogno di lei… temo che al vostro ritorno dovrete trovarvi un nuovo servitore.»
«Ora siete cattiva» sorrise, pensando che quell’atteggiamento civettuolo e fatto di risposte pronte di Camille erano la prima cosa che aveva notato dopo averla conosciuta.
Se la sua Heather era riservata e non molto incline a mostrare le proprie emozioni, la più piccola non aveva troppi peli sulla lingua e forse era stato per quello che aveva suscitato tanto interesse a Londra e nei salotti. A lui però era bastato un giorno per capire che se anche in Camille prevaleva un carattere avventuroso e vivace, in realtà era ancora molto ingenua… oltre che testarda e viziata. Per la giovane età o per la vita protettiva che le avevano fatto fare non lo sapeva, ma non poteva negare di essere contento di non sentire più i suoi infiniti capricci. Un po’ gli era dispiaciuto dover ricorrere a quella soluzione, ma dopo averla trovata intenta ad amoreggiare apertamente con quel libertino, lui ed Heather non avevano visto altra maniera. Lasciarla a Londra da sola dopo quanto accaduto con Bennett era impensabile e portarla con loro sarebbe stato straziante, così avevano trovato l’espediente della tenuta al nord. Inoltre nessuno l’aveva mai punita abbastanza ed era arrivato per lei il momento di temprare il proprio carattere. Stare lontana da Heather e da qualsiasi altra distrazione le avrebbe fatto sol che bene.
«Ad ogni modo di giocare ora non ce n’è il tempo» continuò, vedendo che la giovane stava già tirando fuori le carte. «Abbiamo appena superato il lago, il che vuol dire che fra poco meno di un’ora saremo arrivati.»
«Allora, giacché non volete perdere ulteriore denaro, raccontatemi di Windermere» disse, sbirciando fuori dal finestrino della carrozza. «Non avete spiccicato parola sull’argomento da quando avete deciso di mandarmici, per cui ditemi: potrò contare sulla compagnia di qualche coetanea o devo aspettarmi solo pompose signore?»
«Non sono più stato nei salotti mondani di Windermere da quando avevo vent’anni, quindi non saprei dire… i nostri vicini però, i Ridder, hanno un figlio la cui moglie dovrebbe avere circa venticinque anni. Elisabeth, mi pare si chiami.»
«E zia Shaw? È veramente così antipatica come in molti a Londra la descrivono?»
«Sicuramente è una donna singolare, ma non è né antipatica né tantomeno cattiva. È sempre stata gentile con me e John, ci vuole molto bene. In più, dopo che i miei cugini si sono sposati è rimasta sola in quell’enorme palazzo… penso abbia solo bisogno di qualcuno con cui parlare, non sarà difficile andare d’accordo.»
«Se lo dite voi…» disse distratta, osservando la distesa di prati verdi che circondavano la tenuta dei Mortain. Ad Heather sarebbe senz’altro piaciuto, visto il suo amore smisurato per l’equitazione.
Quegli spazi sconfinati sembravano essere stati creati apposta per fare lunghe cavalcate. Peccato che lei, dei cavalli, avesse una paura folle. Tutta colpa della brutta caduta che aveva fatto a sei anni, quando il suo pony non si sa come si era imbizzarrito e lei era volata via rischiando di rompersi l’osso del collo. Il polso sinistro e il braccio destro se li era rotti lo stesso ed era stata costretta a letto per un mese a causa del grave trauma riportato. Era stato un inferno e lei aveva giurato che mai e poi mai sarebbe risalita su una di quelle bestie.
«Scommetto che il palazzo di Lodgewood è stato costruito su di un’antica fortezza» disse poi, cercando di togliere dalla mente le immagini di quello spiacevole episodio. «Ricorda tanto un paesaggio medievale.»
Jamie sorrise. «Sono sconcertato dal fatto che mettiate la parola scommettere in molte delle vostre frasi, ma avreste fatto bene: Lodgewood Abbey la chiamano i popolani. Un nome che incute un po’ di timore, non credete?»
«Certo» disse ironicamente. «E magari è infestata da spiriti maligni come ne “I misteri di Udolpho”.»
«Perché no? Ora avrete la possibilità di constatarlo voi stessa» disse Jamie, scostando la tendina e facendole segno di avvicinarsi. «Benvenuta a Lodgewood, signorina Grey.»
In un lampo tutti i pensieri di Camille scomparvero, troppo curiosa di vedere come fosse la sua futura casa. Si avvicinò quindi al finestrino e senza troppe cerimonie lo aprì, mettendo il capo fuori e assaporando l’aria fresca che sapeva di faggi e castagni, oltre che di un vago sentore di fumo proveniente dai camini del palazzo.
Ed eccolo là infatti. Appena superato l’ultimo tratto di bosco in salita, il paesaggio si aprì sull’antica abbazia. La giovane rimase a bocca aperta. Poco prima aveva detto che l’ambiente le ricordava l’epoca medievale che tanto spesso veniva descritta nei libri, ma mai avrebbe pensato di ritrovarcisi dentro.
La struttura era molto simile al castello di Tintagel, tutta costruita in pietra e composta da cinque piani. Aveva poi un’antica forma quadrangolare, compresa di quattro grandi torri e altrettante torrette lungo i camminamenti. Il palazzo seicentesco di North Hams non era nulla in confronto a quello.
«È magnifica» disse entusiasta, osservando affascinata ogni più piccolo dettaglio: dalle sfumature rosse che il sole creava sulle pietre, alle torri che dà così breve distanza sembravano tanto alte da toccare le nuvole, fino ai resti di quello che era stato il fossato.
«Sono contento che vi piaccia.»
«È tutto così romanzesco! E non oso immaginare come sarà dentro…»
«Bè, ora non aspettatevi di trovare arazzi, paglia sul pavimento e cavalieri in armatura. Certo all’esterno è rimasto come secoli fa, ma all’interno è tutt’altra cosa. Mio padre e mio nonno prima di lui si sono dati un gran daffare per renderla un’abitazione moderna e confortevole e sebbene la parte ovest conti ancora del mobilio più vecchio, l’ala est e sud godono di tutte le comodità… abbiamo anche una sala da ballo due volte più grande di quella della contessa di Delaford.»
«Dite sul serio?»
«Assolutamente… può ospitare quasi cento persone, che possono smistarsi nel salone e nella grande sala da pranzo. Ricordo che mia madre organizzava sempre il ballo di fine anno… era un grande avvenimento, atteso da tutta la buona società della zona.»
«Posso crederlo senza problemi» disse, mentre Jamie apriva lo sportello e scendeva dalla carrozza. Poi le tese una mano sorridendo.
Camille fece un respiro profondo e non appena mise piede a terra e alzò lo sguardo verso l’entrata del castello, si sentì come una principessa che veniva accolta nel suo nuovo palazzo. Perché a parte lord Vincent Mortain che aveva già conosciuto in occasione del matrimonio di Heather, insieme a lui c’era tutta la servitù: il maggiordomo, la governante, il valletto, tre camerieri, un numero indefinito di cameriere e sicuramente gli altri uomini presenti dovevano essere i giardinieri, i cocchieri e lo stalliere. Tutti si inchinarono a lei e Camille riuscì a stento a trattenersi dal pavoneggiarsi. Se solo ci fossero state la cugina Margareth e figlie a vederla in quel momento… sarebbe stata la più grossa soddisfazione della sua vita vederle diventare viola dall’invidia. Ma naturalmente quell’attimo di gloria durò appunto un attimo, siccome le attenzioni di tutti si focalizzarono su…
«Jamie! Benvenuto!» disse infatti Vincent, abbracciando il figlio battendogli le mani sulla schiena.
La giovane lasciò loro il giusto tempo per salutarsi.
Fu contenta di trovare l’anziano visconte in forze e salute come lo ricordava. Jamie si era detto molto preoccupato per il fatto che si potesse sentire solo e per gli acciacchi dell’età, ma a Camille non sembrava affatto il vecchio bisognoso di attenzioni che le avevano dato a pensare. Perché a parte la calvizie accentuata, la barba bianca e le rughe attorno agli occhi non c’era niente in Vincent Mortain che facesse pensare ad un uomo bisognoso di cure. La schiena era ancora perfettamente diritta, il corpo tonico nonostante i sessantasette anni e gli occhi azzurri erano luminosi e contenti. Probabilmente quella di farlo passare per moribondo era stata l’ennesima scusa per farla andare via da Londra.
«E benvenuta anche a voi, cara signorina Grey» disse poi con un sorriso. «Sono così contento che siate qui… spero che il viaggio non sia stato troppo estenuante.»
«Solo un pochino milord, ma vostro figlio è stato di ottima compagnia… e vi prego, preferisco Camille» rispose gentilmente.
«Molto bene, Camille… allora voi dovete chiamarmi zio Vincent. In fondo si può dire che siamo quasi parenti, se non proprio zio e nipote. Inoltre abiteremo sotto lo stesso tetto, per cui togliere le formalità servirà ad eliminare l’imbarazzo odierno e futuro.»
Camille lo ringraziò, dopodiché furono invitati ad entrare.
A quel punto, con suo enorme sconcerto, lei divenne come un vero e proprio fantasma. Cercò di stare dietro ai discorsi dei due uomini presenti fin tanto che parlarono di Heather e dell’imminente viaggio, ma quando cominciarono a discutere di riforme agrarie, libri contabili e della tenuta, non le restò altro che il silenzio.
Che maleducati. Escluderla da qualsiasi tipo di conversazione non era per niente decoroso. Avrebbe potuto aspettarselo da Vincent, ma non da Jamie. Quando poi la cameriera le porse la tazza di tè mettendole lo zucchero senza chiederle se magari gradisse invece del latte, Camille capì che tutte le chiacchiere sull’ospitalità e le attenzioni degli uomini del nord erano appena state confermate.
Sconsolata osservò il vassoio di pasticcini sul tavolino e ne prese uno. Dopo poco ne prese un altro e poi un altro ancora, mentre i due continuavano a parlare come se lei non esistesse.
Prese un altro pasticcino.
Maledizione… se d’ora in avanti le sue giornate sarebbero state come quella, la sua dieta ne avrebbe sicuramente risentito.
Sperava con tutta sé stessa di sbagliarsi, ma più i minuti passavano e più capiva che quella anziché una vacanza, come l’aveva chiamata Heather, sarebbe stata una lenta, agognante e dolorosa tortura.






NOTE:
Ciao a tutti! Questa è la prima storia che pubblico e spero tanto che vi piaccia! Si tratta di un romance storico, per questo ho deciso di inserirlo in questa sezione... gli eventi storici fanno solo da sfondo, non verranno trattati. Il rating per il momento ho messo arancione, ma potrebbe cambiare.
Se vi va, fatemi sapere cosa ne pensate.
Grazie a chiunque troverà qualche minuto per leggere.

Vale

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Capitolo 2
*** Capitolo 1 ***


CAPITOLO 1



 
 
Inghilterra, Cumbria – Un anno dopo


 
 
«Oh, ma quale luce irrompe da quella finestra lassù? Essa è l’oriente, e Giulietta il sole. Sorgi, bel sole, e uccidi l’invidiosa luna già malata e livida di rabbia, perché tu, sua ancella…»
«Cielo, quante stupidaggini» intervenne zia Shaw, interrompendo per l’ennesima volta la lettura. L’orologio a pendolo del salotto aveva appena suonato le tre del pomeriggio, il che voleva dire che aveva ancora un’ora prima di poter rientrare a Lodgewood. Di quel passo, avrebbe gettato il libro nel caminetto.
«Si tratta di una dichiarazione d’amore zia Shaw… deve essere romantico.»
«Romantico!» esclamò indignata. «È per queste diavolerie romantiche che la signorina Prescott è fuggita con quella canaglia di ufficiale. Questi libri dovrebbero essere banditi, altro che romantico! Mettono in testa a voi giovinette strane idee e vi portano a compiere azioni scellerate che mandano in disgrazia tutta la famiglia.»
Camille sospirò.
Immaginava che prima o dopo zia Shaw avrebbe tirato fuori quella storia… dopotutto la fuga della sedicenne Rachel Prescott era stata l’evento dell’autunno, l’argomento sul quale le signore avrebbero spettegolato fino all’estate ed oltre.
Ad essere sincera se fosse stata a Londra anche lei avrebbe fatto la sua parte di commenti, ma dopo l’anno tremendo che aveva vissuto, provava un senso di solidarietà e comprensione verso quella ragazza che l’avevano lasciata persino stupita. E poi, dopo aver saputo com’erano andate realmente le cose, sentiva di poterle dare tutto il suo sostegno.
Elisabeth Ridder infatti, che aveva una vicina parentela con la madre di Rachel, durante uno dei tè pomeridiani a casa di zia Shaw le aveva confidato che i due giovani erano sinceramente innamorati l’uno dell’altra, ma che siccome la famiglia Prescott pretendeva un matrimonio di convenienza avevano rifiutato la loro unione. La fuga era stata solo la conseguenza di qualcosa di ovvio. «Non è possibile tenere lontani due giovani che si amano» aveva detto Elisabeth. E poi i Prescott non avrebbero mai potuto pretendere un matrimonio vantaggioso vista la scarsissima dote di Rachel, per cui che male c’era nel darle la possibilità di sposare l’uomo che amava? Certo quello della giovane era stato un gesto folle, ma che racchiudeva in sé un enorme coraggio.
Almeno così la pensava Camille, che a ventun anni suonati anziché vivere un’appassionante storia d’amore come quella della signorina Prescott, era costretta a leggere libri ad un’anziana signora che preferiva la compagnia dei gatti a quella delle persone.
«Parola mia, se Gwyneth avesse compiuto un gesto simile non sarei più riuscita a mostrarmi in pubblico… che vergogna! Povera signora Prescott, come la compatisco.»
«Non pensate che la signorina Prescott abbia avuto abbastanza da questa storia, senza aggiungere le vostre cattiverie e quelle delle vostre amiche?» chiese nervosa. «Duecento sterline l’anno e il marito fuori dall’esercito… un prezzo un po’ alto per l’amore che li lega.»
«Ma quale amore! Se quella canaglia l’avesse amata sul serio, non l’avrebbe costretta alla fuga. E poi suo padre è stato fin troppo clemente a concedere loro quel pezzo di terra» disse zia Shaw, sempre più indignata. «Dovresti morderti la lingua prima di dire certe cose, soprattutto se in pubblico. Per fortuna qui ci sono solo io, quindi farò finta di non aver sentito… ed ora continua la lettura mia cara, ma mettici un po’ più d’animo. Se volevo sentire una predica sarei andata in chiesa.»
Camille si trattenne a stento dallo sbuffare, maledicendo per la milionesima volta il giorno in cui Heather aveva deciso di spedirla in quell’angolo di mondo che era Lodgewood. Perché se di fatto al suo arrivo ne era rimasta affascinata, dopo nemmeno un mese era già arrivata al limite della sopportazione. Ora di mesi ne erano passati dodici e riteneva un miracolo il non essere impazzita.
Quanto le mancava Londra. A quell’ora probabilmente sarebbe già stata sposata, invece la sua vita era diventata un susseguirsi di letture, chiacchiere noiose, balli mediocri e compagnie del tutto inadeguate.
La maggior parte dei gentiluomini presenti erano infatti troppo presi dalla vita di campagna per pensare seriamente agli eventi mondani, rozzi nobiluomini che riuscivano a sposarsi solamente grazie al titolo che possedevano e che mai avrebbero potuto suscitarle un qualche interesse, mentre gentildonne e figlie erano ovviamente assenti per la maggior parte dell’anno, come si conveniva e come era normale che fosse.
Era una disgrazia, oltre che una vera noia, ed anche i pomeriggi di svago con zia Shaw erano sempre meno sopportabili. All’inizio li vedeva come un modo per uscire e fare qualcosa di diverso dallo stare chiusa in quel castello freddo ed enorme, ma il carattere lamentoso ed egocentrico della zia le faceva saltare i nervi. Da un po’ era arrivata al punto di pregare che in ogni nuova lettera che arrivava ci fosse scritto che Heather la rivoleva con sé, ma a quanto pareva si era innamorata della città di Napoli e dopo aver acquistato una villa sul mare, i due sposini si erano accasati là in pianta stabile. Heather nel frattempo era rimasta incinta, quindi sicuramente non sarebbe tornata in Inghilterra fino alla nascita del bambino.
Ah giusto, c’era un’altra cosa: come predetto, la sua dieta ne aveva risentito moltissimo.
«Dunque ti sei incantata? Non sta bene per una signorina perdersi nei propri pensieri, qualcuno potrebbe pensare che sei sciocca.»
La giovane bevve un lungo sorso di tè cercando di calmarsi, dopodiché riprese la lettura come richiesto.
«Sorgi, bel sole, e uccidi l’invidiosa luna già malata e livida di rabbia, perché tu, sua ancella, sei tanto più luminosa di lei. Non servirla, se essa ti invidia; la sua veste virginale…»
«Lady Shaw! Mia signora!» urlò il maggiordomo, precipitandosi nel salotto ed interrompendola di nuovo. Al diavolo! Ma cosa avevano tutti quel giorno? Stavano riuscendo a farle odiare una delle sue tragedie preferite.
«Ridley, per l’amor del cielo. Cosa c’è da urlare tanto, mi pare oltremodo indecoroso!»
«Perdonate milady, ma c’è il signor King alla porta.»
«Il valletto di mio fratello è qui?» domandò zia Shaw preoccupata. In effetti anche Camille drizzò il capo, perché se Vincent si scomodava ad inviare il proprio valletto voleva dire che era successo qualcosa di grave.
«Esatto, proprio lui. È venuto fin qui chiedendo che la signorina Grey torni immediatamente a casa. A quanto pare è arrivato un biglietto che annuncia l’arrivo di lord Mortain per l’indomani mattina e il padrone è su tutte le furie, oltre che terribilmente agitato.»
«Jamie sta venendo qui?» chiese Camille. Nelle ultime lettere Heather non aveva fatto riferimento ad alcuna visita.
«No, non Jamie signorina… sua signoria, il futuro visconte di Lodgewood John Mortain!»
John Mortain…
«Benedetto cielo!» esclamò zia Shaw, scattando in piedi come una molla e spaventando il povero Wilson che tranquillo le sonnecchiava in grembo. «Mio nipote sta tornando! Sta tornando a casa! Dopo anni si è finalmente deciso a lasciare quell’orribile posto» urlò euforica, poi si voltò verso di lei. «Su, su tesoro non stare lì immobile come uno stoccafisso… hai sentito Ridley, no? Devi tornare subito a casa! Mio fratello vorrà che lo aiuti nel preparare il palazzo… mezza giornata è pochissimo e dev’essere tutto perfetto per il ritorno dell’erede dei Mortain!»
Detto quello, in un istante Camille si ritrovò in carrozza e sulla strada per Lodgewood Abbey.
Non aveva mai visto zia Shaw così su di giri, ma il suo entusiasmo non era nulla a confronto di quello che stava accadendo al castello. Le cameriere parevano impazzite, la signora Potter gridava impartendo ordini a destra e a manca, i tre levrieri del visconte abbaiavano e correvano da una parte all’altra delle stanze facendo un gran baccano e il padrone di casa era persino più irrequieto dei cani.
La giovane tuttavia non disse niente. Capiva bene la trepidazione di quel momento, dato che John mancava da casa da ben undici anni.
In quanto membro dell’esercito era andato in guerra contro Napoleone e dopo essere sopravvissuto alla sanguinosa battaglia di Waterloo, aveva deciso di abbandonare la carriera militare e partire per la Jamaica. I Mortain possedevano alcune piantagioni di zucchero e cacao e così John aveva preferito andare là piuttosto che tornare a casa. «A mio padre scrisse una misera lettera in cui diceva che sarebbe partito per curare i nostri affari, ma Dio solo sa cosa gli sia successo veramente» aveva detto Jamie l’unica volta in cui avevano affrontato l’argomento.
Secondo lui la scusa della Jamaica era stata solo un modo per dimenticare gli orrori della guerra e farsi una nuova vita e a Camille non era sfuggito il tono amaro con cui aveva parlato. Perché John lo aveva letteralmente abbandonato, lasciando su di lui tutte le incombenze e il compito di gestire una tenuta e un padre che non si dava pace per l’assenza del suo primogenito ed erede. E su quello aveva ragione: Vincent soffriva, anche se cercava di non darlo a vedere. Lei lo aveva capito perché ogni volta che passavano davanti al ritratto di John appeso nella biblioteca, l’anziano padrone si perdeva a raccontarle delle sue grandi doti di spadaccino, di come a sedici anni era diventato un soldato e di quando a venti era stato nominato cavaliere per le sue capacità dimostrate sul campo di battaglia.
Fu proprio davanti a quel ritratto che si fermò Camille, mentre intorno a lei succedeva il finimondo. Era stato fatto che John aveva diciannove anni, qualche mese prima la sua partenza per il fronte, per quello aveva quell’aria fiera mentre indossava l’uniforme.
Lo osservò a lungo, anche se ormai conosceva i lineamenti di quel giovane viso a memoria.
Al contrario di Jamie, che aveva preso tutto dai tratti raffinati della madre, quelli di John erano più squadrati, proprio come quelli del padre. I capelli erano scuri, quasi neri, gli occhi invece di un grigio intenso. Erano la prima cosa che l’aveva colpita del dipinto. Non le labbra sottili, la mascella marcata o la fronte coperta da alcune ciocche ribelli. No, gli occhi. Erano stupendi, così fieri, luminosi e profondi. Il pittore era riuscito a catturarne ogni sfumatura e da essi si potevano percepire tutte le grandi aspettative che un ragazzo di quell’età aveva dalla vita.
Inevitabilmente si chiese cosa di quel giovane fosse rimasto nell’uomo che era diventato. Sapeva che la guerra poteva cambiare l’animo di una persona in maniera irreversibile e se John era fuggito tanto lontano anziché tornare dai suoi cari, voleva dire che di orrori ne aveva visti troppi.
Però era contenta che avesse finalmente deciso di tornare. Vincent iniziava ad essere anziano e riavere il figlio accanto gli avrebbe ridato parecchie energie. Bastava vederlo ora, tutto preso ad impartire ordini affinché gli appartamenti di John fossero pronti e sistemati per il suo arrivo. E pensare che di solito se ne stava rintanato in biblioteca lamentandosi dell’umidità che gli faceva male alle ossa e a far passare lettere e libri contabili.
«Zio Vincent» lo chiamò.
«Camille, mia cara, finalmente sei arrivata… è un disastro, devi assolutamente andare a controllare che quelle cameriere sistemino la camera da letto con lenzuola di seta. Oh, e non scordarti le candele!»
«Dovete respirare zio, non vi fa bene agitarvi in questo modo.»
«Vallo a dire a mio figlio, che ha fatto il piacere di avvertirci solo il giorno prima! Anni e anni in quella terra selvaggia e si dimentica le buone maniere» borbottò, tornando ad urlare dietro al povero signor Montgomery dandogli istruzioni sulla cena che si sarebbe dovuta tenere l’indomani insieme a zia Shaw. A quanto pareva c’era anche un pranzo in ballo, con gli amici e conoscenti più cari. 
«Signorina Grey?»
«Sì, signora Potter?»
«Perdonate, ma sarebbe meglio se veniste in cucina per decidere i menù di domani e del pranzo di sabato. Sua Signoria è troppo agitato e sta ordinando tutto e niente» disse la governante a bassa voce. Se infatti Vincent avesse sentito quella frase, si sarebbe messo ad urlare ancora di più.
Fu così che, dopo essere andata a controllare che i preparativi delle stanze private procedessero al meglio, si trovò a discutere con la cuoca. Naturalmente dopo tutti quegli anni in cui aveva dovuto preparare soltanto il pranzo e la cena del visconte e da poco tempo per una giovane non troppo esigente, l’idea di dover pensare ad un pranzo e ad una cena con tanto di ospiti l’aveva messa nel caos. Continuava a ripetere che era impossibile pensare a piatti e portate con un solo giorno di anticipo, ma Camille le fece intendere che se non l’avesse fatto, tutti loro avrebbero dovuto fare i conti con un lord Mortain furibondo e quello bastò a convincere cuoca e rispettive aiutanti.
Venne poi il momento anche della loro di cena e Vincent non fece altro che parlare di John. Le raccontò per l’ennesima volta tutte le sue prodezze sul campo di battaglia, dei pochi eventi mondani a cui aveva partecipato a causa della guerra e di come gli aveva spezzato il cuore quando aveva deciso di andare via. Ora però stava tornando e questo per l’anziano signore voleva dire che aveva capito qual era il suo posto e che era pronto a prendere in mano le redini del viscontado.
Quando infine il giorno successivo Camille scese per la colazione, Vincent non stava più nella pelle. Si era messo il suo completo migliore, con tanto di panciotto in seta e orologio da taschino, e appena finito di mangiare, indossando cappotto, cilindro e prendendo il suo bastone, si appostò davanti all’entrata del castello pronto ad accogliere il figlio. Dietro di lui, naturalmente, c’era la servitù al completo.
Vedendo tutti tanto eleganti, Camille decise anche lei di andare a cambiarsi ed indossare uno dei nuovi abiti che qualche mese prima aveva acquistato insieme a Elisabeth. Dato non li aveva ancora indossati tutti, doveva sfruttare qualsiasi occasione le si presentasse… anche se non appena Jane la aiutò ad indossare quello azzurro pastello, con sgomento notò che in vita e sotto il seno le stava stretto.
«Oh no!» esclamò in preda al panico.
A quanto pareva era ingrassata… di nuovo.
Ora che i suoi abiti portati da Londra le andassero stretti già lo sapeva purtroppo, ma che anche quelli fatti confezionare solo a settembre non andassero più bene…
«Oddio» gemette spaventata, mettendosi le mani sul viso e guardandosi allo specchio. Non che si notassero chissà quali cambiamenti, ma lei li vedeva tutti.
Le guance erano molto più piene, troppo piene per gli standard di bellezza del ton. Anche la vita non era più piatta e snella, ma rotondetta e con le cosiddette maniglie dell’amore tanto temute dalle donne della società. Ed il seno, rimasto sempre piccolo, ora era più pieno e sodo. Osservandolo, Camille si domandò se l’abito non risultasse davvero troppo stretto.
Cosa avrebbero pensato di lei a Londra? Le sue amiche che sempre avevano espresso la loro invidia per il suo fisico perfetto.
«Qualcosa non va miss?» domandò Jane, non arrivando a capire nemmeno lontanamente i turbamenti del suo animo.
Lei aveva in mente una o due rispostacce pronte da dire, ma quello non era il momento di farsi prendere dal panico. Avrebbe avuto tempo per struggersi quella sera, quando sarebbe stata sola e avrebbe potuto dare sfogo a tutta la sua tristezza perché era ingrassata, perché non sopportava quel posto e perché sua sorella la odiava. Perché che la odiasse ormai non c’erano dubbi, altrimenti perché continuare a farle vivere quell’inferno?
L’unico conforto era che almeno i capelli erano rimasti quelli di sempre. Ricci, pieni, biondi e luminosi. Si intonavano benissimo all’azzurro del vestito e lasciò che Jane li raccogliesse in uno chignon delicato, dopodiché anche lei scese nel cortile fiancheggiando un sempre più impaziente Vincent.
Purtroppo, attesero tutta la mattina.
I minuti scorrevano lenti e a mano a mano che il tempo passava, la giovane perdeva sempre più speranze di vedere comparire la figura di John. Forse aveva avuto qualche contrattempo o forse, quel biglietto, era stato solo il frutto di un pessimo scherzo.
«Signorina Grey, cosa facciamo?» chiese il signor Montgomery in un bisbiglio. La giovane guardò prima il maggiordomo, poi la governante e gli altri servitori che continuavano a parlottare fra loro. Vincent invece nemmeno per un secondo aveva dato segni di stanchezza. Continuava a stare in perfetta posizione eretta, gli occhi fissi sulla strada.
Con rammarico decise di avvicinarsi.
«Zio?» lo chiamò, ma lui fece finta di niente. «Ormai è ora di pranzo, che ne dite se andiamo a mangiare qualcosa? Sarete stanco e sicuro questo vento non gioverà alla vostra salute.»
«Sto bene mia cara, sono stato in condizioni peggiori. E di certo non morirò se salterò il pranzo per un giorno.»
«No, certo… ma la servitù ha le sue faccende da fare e…»
«Bene» la interruppe lui. «Che se ne vadano pure! Se sono così poco rispettosi del loro visconte da non poter aspettare il ritorno del figlio, ebbene non meritano la mia benevolenza.»
Camille si voltò verso il signor Montgomery, che con un gesto della mano le disse di tentare ancora.
Fosse stato semplice. Quell’uomo aveva atteso il ritorno del figlio per undici anni, senza contare il periodo precedente in cui era stato in guerra, non si sarebbe arreso facilmente.
«Zio, vi prego, non vi fa bene stare qui fuori al freddo. Anche se c’è il sole l’aria è fresca e da qualche giorno avete il raffreddore, volete rischiare un’influenza? Staremo io e il signor Montgomery di guardia e non appena arriverà, vi verremo a chiamare.»
«Ma perché diamine è così in ritardo? Il biglietto diceva per questa mattina… e se gli fosse successo qualcosa?»
«Sono sicura che abbia semplicemente calcolato male i tempi. Si sarà fermato a pranzo in una locanda lungo il tragitto, sarà qui nel pomeriggio.»
«Allora lo aspetterò.»
«Come volete voi zio» disse Camille intenerita. Nonostante volesse letteralmente scappare e la maggior parte delle volte avrebbe voluto che Vincent fosse più malleabile nei confronti delle sue richieste e non un burbero e scontroso uomo del nord, si era affezionata a lui e gli dispiaceva vederlo affranto. Per quello si mise accanto a lui, facendo passare un braccio sotto al suo. «Lo aspetteremo insieme» concluse con un sorriso.
Così attesero in silenzio.
Vennero le due del pomeriggio, poi le tre e di John nessuna traccia.
Alla fine la servitù rientrò per occuparsi delle ordinarie faccende ed anche Vincent si arrese e si fece accompagnare in biblioteca dal signor King, lamentando un forte mal di schiena e mal di testa.
Rimase da sola, ma non le importò.
Avrebbe atteso John anche tutta la notte se fosse stato necessario.

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Capitolo 3
*** Capitolo 2 ***


CAPITOLO 2

 
 
 


Il castello di Lodgewood apparve in lontananza. Una struttura enorme, imponente ed austera che dominava la valle esattamente come avevano fatto i Mortain nel corso dei secoli.
Il sole stava tramontando fra le colline dietro di esso, creando giochi di ombre dalle strane forme che davano all’antica abbazia un’atmosfera mistica, quasi… magica.
Enormi campi lo separavano da quel luogo, che d’ora in avanti avrebbe dovuto reimparare a chiamare casa.
Mai avrebbe pensato di tornare. Aveva giurato a sé stesso che per nessuna ragione avrebbe fatto ritorno, che una volta morto suo padre avrebbe rinunciato al titolo in favore di Jamie, eppure eccolo lì: fermo sulla collina da quella mattina incapace di compiere l’ultimo tratto di strada.
Se solo ci fosse stata un’altra possibilità. Se solo i servizi segreti britannici non gli avessero dato il ben servito dopo avergli così abilmente leccato il culo per anni ora non si troverebbe in quella situazione. Ma cos’altro poteva fare se non tornare a casa?
«Non lasciare che soffrano» erano state le ultime parole del suo amico Henry. «Loro ti aiuteranno a superare tutto questo. Torna a casa e dimentica tutto.»
Quella maledetta promessa.
Già una volta non era riuscito a mantenerla e solo Dio sapeva quanto si fosse sforzato, quanto avesse provato ad andare oltre. Non ce l’aveva fatta. Forse perché era un debole e vigliacco, ma dopo gli orrori del campo di battaglia di Waterloo stare in società per lui era diventato impossibile. Li odiava tutti, dal primo all’ultimo. Quei nobili pomposi che si divertivano e si comportavano come se nulla fosse successo. Come se su quel campo non fossero morti migliaia di giovani. Come se i cannoni non avessero fatto esplodere gli uomini maciullandoli. No affatto. A loro importava solo della caccia, di Londra, di matrimoni, balli e pièces teatrali.
Dopo nemmeno un mese se ne era andato. Era scappato da quel ridicolo mondo che sembrava vivere in una bolla di sapone, mentre fuori c’era appena stato il più grande massacro che la storia avesse mai vissuto.
Così era entrato nei servizi segreti.
Girare il mondo come diplomatico lo aveva aiutato a tenere la mente occupata, a non tornare su quel campo e sentire le urla spaventose dei soldati, ma ora anche loro lo avevano abbandonato. E per cosa? Perché la ferita alla gamba iniziava a dargli seri problemi e una spia non poteva permettersi di andare in giro zoppicando. Con un arto mezzo andato infatti, cosa sarebbe successo se la situazione avesse richiesto azione e prontezza di riflessi? Per quello lo avevano benevolmente congedato, dopo aver ricevuto i ringraziamenti per i servizi svolti da sua maestà, da tutto il corpo militare e una medaglia al valore.
Se non fosse stato per la sua buona educazione, al momento della consegna avrebbe detto al suo superiore un bel posto dove potersi mettere quella dannatissima medaglia.
«Che diavolo, ma perché fa così freddo qui?» si lamentò Daniel, suo amico e partner d’azione… anzi, ex partner d’azione purtroppo ed ora convertito ad ossequioso valletto.
John non aveva potuto dire nulla riguardo quella decisione. Non avrebbe mai voluto che il suo compagno d’avventure diventasse il suo servitore personale, ma Daniel era stato irremovibile. Era sempre stato un soldato di bassa lega e quella di vivere in un palazzo accanto ad un visconte era una prospettiva decisamente migliore rispetto ad una topaia in città. Quanto ad affiancare un nuovo partner, non lo aveva preso nemmeno in considerazione. Diceva che le missioni in India, Jamaica e Russia gli erano bastate.
«Pensavo che dopo i cinque anni passati a San Pietroburgo ti fossi fatto la pelle» disse John.
«Preferivo il caldo soffocante dell’India.»
«Di pure che preferivi le concubine dell’India.»
«Non so… anche le ballerine russe non erano male, così flessuose…»
John abbozzò un sorriso, ma quella breve conversazione non servì ad allentargli la tensione. Perché stando lontano dall’Inghilterra era stato semplice portare avanti le sue menzogne, ma adesso? Cosa avrebbe detto a suo padre?
Almeno Jamie non c’era. Per sua fortuna era in Italia insieme alla moglie e non sarebbe tornato per un altro anno minimo. «Lo sai vero che il più delle volte una grana in meno sono dieci guai in più?» gli diceva sempre Daniel, ma stava tornando a casa da suo padre… cosa gli sarebbe mai potuto succedere di così disastroso?
«Allora andiamo? A furia di stare fermo al povero cocchiere sarà venuto il sedere quadrato e per il servizio giornaliero ho sentito che ci prenderà una corona, praticamente un furto!» cercò di spronarlo Daniel.
John sospirò.
«Torna a casa.»
E va bene.
Era il momento di lasciarsi tutto alle spalle e ricominciare. Forse quella sarebbe stata la volta buona.
Stanco e con il ginocchio che gli dava fitte atroci per essere stato troppo tempo in piedi e nella stessa posizione rientrò in carrozza e quando il cielo aveva ormai iniziato ad imbrunire, arrivarono davanti all’enorme scalinata che segnava l’ingresso del castello.
Rimase in parte sollevato nel rendersi conto di quanto tutto gli fosse parso familiare mentre percorrevano il lungo viale alberato, superavano i giardini con le fontane ed arrivavano davanti alla scalinata, come se quei lunghi anni non fossero mai trascorsi. Eppure, una volta sceso dalla carrozza c’era qualcosa che non si aspettava di vedere: una ragazza, avvolta in due coperte di lana e vestita di tutto punto che lo fissava in modo truce.
Di riflesso si voltò verso Daniel, il quale veloce gli porse il bastone senza mancare di sollevare le sopracciglia divertito.
John invece riportò gli occhi su quella figura e con rammarico dovette correggersi: davanti a lui c’era una bellissima giovane dai capelli biondi e grandi occhi ambrati, avvolta in ben due coperte di lana pesante e un cappotto con pelliccia che lo fissava in modo truce.
Quell’ultimo dettaglio non cambiava di una virgola…
Ritentò di nuovo, ma la ragazza pareva stargli lanciando le peggiori maledizioni.
Ma chi diavolo era?
«Finalmente avete avuto la decenza di arrivare» sbottò infuriata. «Spero abbiate una buona scusa per giustificare il vostro immenso ritardo, lo riterrò un miracolo il non essermi presa un malanno!»
«Prego?» domandò, ignorando la risata soffocata di Daniel.
«È da questa mattina che vi sto aspettando qui fuori al freddo» asserì, mentre si avvolgeva di più nelle coperte.
Di nuovo si chiese chi fosse.
Se suo padre intendeva dargli il benvenuto con grazia, avrebbe potuto scegliere una ragazza più accondiscendente e dagli occhi dolci. Perché non c’era proprio niente di affettuoso in lei.
Fino a quel momento.
Quello dopo un caldo sorriso le si disegnò in volto.
«Finalmente siete arrivato» ripeté e questa volta c’era emozione nella voce. Si era anche avvicinata allungando le mani verso di lui, come a volerlo salutare. Poi però, rendendosi conto che lui non aveva idea di chi fosse, tornò a stringere le coperte. «Perdonatemi milord, è che vi ho riconosciuto subito» disse, ma John non ebbe tempo di replicare perché la giovane corse dentro urlando a squarciagola il nome del signor Montgomery e della signora Potter.
Poco dopo, come c’era da aspettarsi, vide maggiordomo e governante apparire emozionati. Il primo fece una profonda riverenza, mentre la signora Potter, con le lacrime agli occhi, gli si tuffò addosso stringendolo e lasciandolo senza fiato. A dispetto degli anni passati, la forza di quella donna non era diminuita.
John ricambiò impacciato quel gesto pieno di amore, ricacciando quanto più possibile il senso di colpa.
«Finalmente siete qui» disse in lacrime, dandogli due sonori baci sulle guance.
Fu molto felice di vederla così arzilla e piena di energie. Dopo che la loro madre era morta, era stata la signora Potter a crescerli e sia lui che Jamie le volevano immensamente bene.
«Signora Potter, così lo soffocate» blaterò il signor Montgomery.
«Sciocchezze! Non lo vedo da più di undici anni, potrò sì abbracciare il mio signorino» piagnucolò, proprio come avrebbe fatto una madre. «Ma vedo che non siete solo» aggiunse, osservando Daniel.
«No esatto. Lui è Daniel Cooper, il mio valletto.»
«Benvenuto a Lodgewood, signor Cooper. Se volete seguirmi, vi mostrerò dove portare i bagagli di sua signoria e la vostra stanza.»
«Siete molto gentile» disse l’amico, seguendo la governante all’interno.
John invece rimase ancora fuori, dove seguì l’arrivo dei domestici. Purtroppo non riconobbe nessuno dei vecchi camerieri e quello gli fece capire quanto tempo realmente fosse stato lontano. Cercò anche quella ragazza fra tutti loro, ma non c’era.
«Venite milord» disse il signor Montgomery una volta conclusosi il rituale dei saluti. «Vi accompagno in biblioteca da vostro padre.»
Ecco, la frase che non avrebbe voluto sentir pronunciare.
Sentì lo stomaco stringersi e una paura silenziosa farsi strada in lui.
Chissà se sarebbe stato felice di riaverlo lì. Sicuramente la risposta era sì, ma non poteva dire altrettanto riguardo al suo perdono. Dopotutto lui lo aveva abbandonato, senza prendersi la pena di tornare a Lodgewood per dirgli addio, quindi cosa poteva pretendere? Doveva essersi sentito tradito, proprio come Jamie. Le lettere nelle quali gli chiedeva di tornare a casa le aveva stampate nella mente. Parole piene di speranza e disprezzo insieme. Come aveva potuto lasciarli senza dire nulla? Come aveva potuto andarsene tanto lontano? Non se lo meritavano, non loro che ogni giorno avevano pregato affinché tornasse vivo dal fronte.
E lui era tornato vivo, ma era solo una pallida ombra del giovane che ricordavano.
Scacciò quei pensieri.
Non era il momento di rimuginare e seguendo il maggiordomo nel grande atrio affrescato, salì l’enorme scalinata ed arrivò nell’ala est. Se il signor Montgomery aveva notato con quanta fatica aveva fatto gli ultimi gradini non lo diede a vedere.
Maledetta gamba.
Se non fosse stato per quelle schegge di legno che gli si erano conficcate nella carne su quel maledetto campo di battaglia ora sarebbe ancora in Russia a sventare complotti. Certo anche là aveva avuto a che fare con nobili pomposi, dopotutto la corte dello zar non era poi così diversa dal ton di Londra: gli uomini pensavano alla caccia e alle tenute, a sperperare i loro averi nel gioco d’azzardo e nelle prostitute, le nobildonne passavano a setaccio ogni singolo scapolo presente cercando di accasare le figlie combinando matrimoni, ma era diverso. Quella del nobile diplomatico era solo una copertura, mentre lì sarebbe stata normale routine.
Ancora si chiese se quella di tornare a casa fosse stata la scelta più giusta, ma poi vide quella ragazza uscire dalla biblioteca e pensò che forse non era stata poi così terribile come decisione.
«Vi sta aspettando» sussurrò, lasciando l’uscio aperto e sorridendogli di nuovo.
«Grazie» si limitò a rispondere.
«Vi lasciamo soli» intervenne invece il signor Montgomery e dopo aver offerto il braccio alla giovane, se ne andarono insieme apparentemente più felici che mai.
Una volta scomparsi dalla sua visuale, John bussò con cautela e aprendo la porta vide suo padre seduto alla grande scrivania di fronte al caminetto scoppiettante. Aveva una coperta sulle gambe e di fianco a lui c’era un bastone.
«Padre» mormorò, osservando la sua figura e sentendo il cuore mancare i battiti nel vedere quanto fosse invecchiato.
Aveva ancora i capelli scuri quando se ne era andato e la calvizie non era così accentuata. Anche le rughe sul viso erano aumentate e le spalle erano diventate curve. Lo sguardo severo però era sempre lo stesso e non osò fiatare senza prima aver avuto il permesso di avvicinarsi.
Il vecchio Mortain però non disse niente. In silenzio appoggiò la penna nel calamaio, si tolse gli occhiali e dopo aver afferrato il bastone si alzò e camminò verso di lui.
«Figlio mio» disse il visconte, fermandoglisi di fronte. John lo superava di tutta la testa in altezza.
«Padre» rispose lui e fece per inchinarsi. Non voleva che fosse suo padre a dover alzare gli occhi per guardarlo, ma prima che potesse farlo Vincent lasciò cadere a terra il bastone e lo abbracciò stretto.
«Finalmente sei tornato» sussurrò commosso, stringendolo ancora di più.
«Non avrei voluto metterci tanto» disse sinceramente.
«Pensavo che sarei morto senza averti rivisto… mi sei mancato così tanto.»
«Anche voi padre, immensamente. Potrete mai perdonarmi?»
«Non c’è nulla di cui perdonarti» disse, allontanandosi un poco. «Sei qui, sei tornato, e questo mi basta.»
John annuì, ma il peso sul cuore rimase lo stesso.
«Vieni, ci sono tante cose di cui dobbiamo discutere… ancora non posso credere che tu sia qui, accanto a me» disse emozionato, tornando a sedersi.
Anche John lo fece e non gli sfuggì l’occhiata che suo padre diede alla gamba. Ma non disse nulla. Sapeva che era rimasto gravemente ferito in guerra. Quanto alle cose da discutere…
«A dire il vero temo abbiate molte più cose voi da raccontare rispetto a me» fece sbrigativo. «La vita di una piantagione è piuttosto noiosa e monotona e come potrete immaginare la compagnia di persone piuttosto limitata… ma sono contento di essere tornato.»
«Sono felice di sentirlo… finalmente il viscontado ha di nuovo il suo erede e io ho di nuovo mio figlio. E per quanto riguarda i tuoi racconti, non pensare di cavartela con così poche parole… specialmente con Camille. Le ho parlato talmente tanto di te e della Jamaica che non si accontenterà di misere descrizioni.»
Camille. Dunque era quello il nome della giovane.
«Chi è?» domandò, cercando di non far trapelare troppa curiosità e di non pensare alla marea di bugie che avrebbe dovuto inventarsi. «Mi sembra troppo grande per essere la figlia di Gwyneth.»
«No, infatti… è Camille Grey, la sorella di Heather.»
«Non sapevo che la moglie di Jamie avesse una sorella» disse. Nelle poche lettere che si era scambiato con il fratello infatti, non aveva mai fatto menzione ad una sorella… ma forse era troppo impegnato a decantare le immense qualità di Heather per prendersi la briga di parlare della sorella minore.
«Oh sì. Un bocciolo in piena fioritura, così l'ha definita tua zia e per una volta non posso che darle ragione.»
«Come mai è qui? Insomma… non aveva una famiglia con cui stare?»
«No purtroppo… i genitori di Camille ed Heather sono morti in un tragico incidente in carrozza che erano ancora bambine e da quanto mi ha raccontato Jamie la convivenza con il lontano cugino ereditario e famiglia non è mai stata rosea, per questo hanno chiesto a me di farle da tutore nel mentre della loro assenza… Heather non se la sentiva di lasciarla sola in compagnia dei parenti e devo dire che nemmeno Camille ha mai speso buone parole per descriverli, in particolar modo la cugina Margareth e la figlia maggiore Dorothy» disse, bevendo un sorso di tè. «Naturalmente è stata una fortuna che alla nascita delle figlie il compianto signor Grey avesse già vincolato la loro dote e fatto predisporre al notaio l’entità del loro mantenimento, altrimenti sono sicuro che il signor Kensington non avrebbe sborsato un penny per la loro buona educazione e sostentamento.»
«Immagino si tratti di somme cospicue» disse John. Dopotutto per arrivare a sposare il secondogenito di un visconte non si poteva parlare certo di spiccioli.
«Frederick Grey era uno dei possidenti terrieri più ricchi del Devonshire, avrebbe potuto comprarsi un titolo nobiliare con uno schiocco di dita, ma per orgoglio non lo ha mai fatto. E chi sopporterebbe d’altronde le chiacchiere di società nei confronti di un titolo comprato? Comunque, quanto alla dote delle ragazze, fece predisporre quarantamila sterline per la maggiore e venticinquemila per la minore, più mille sterline l’anno a testa per il mantenimento fino al matrimonio.»
Nel sentire quelle somme per poco a John non andò di traverso il tè.
«Converrai che chiunque sarebbe stato ben felice di accaparrarsi la mano di Heather per puro interesse economico, ma fortunatamente la nostra famiglia non ha mai avuto bisogno di sposare delle ereditiere per mantenere ricchezze e titoli e difatti la loro unione è basata solo ed esclusivamente su sincerità ed affetto reciproco.»
«Ne convengo, ma convengo anche che chiunque sarà ben felice di accaparrarsi la mano della giovane Grey ancora nubile.»
«Proprio per questo non potevano lasciarla senza un adeguato protettore. Aggiungici anche il fatto che sia molto gradevole di aspetto, le sarebbero arrivati tutti addosso come avvoltoi ancor prima di mettere piede a Londra.»
«Immagino la scena.»
«A dire il vero è un bene che tu sia arrivato proprio in questo delicato momento» continuò suo padre. «La convivenza iniziava a diventare… ecco… un po’ tesa.»
«Perché lo dite?»
«Oh, lo capirai» esclamò, facendo un rapido gesto con la mano. «Non fraintendermi, mi sono affezionato tanto a lei, la considero come la figlia che non ho mai avuto… e mi verrebbe da aggiungere per fortuna che il cielo mi ha risparmiato dall’avere figlie femmine, specialmente se…» si bloccò di colpo, schiarendosi la voce e sorridendogli. «Bè, insomma… ecco… è una giovane particolarmente… come dire… entusiasta.»
«Entusiasta» ripeté lui.
«Sì, entusiasta. Assolutamente. Cambiamo argomento, ti va?»
«Non è che per caso c’è di mezzo uno scandalo?»
«Certo che no!» esclamò Vincent con veemenza. «Camille è assolutamente una giovane a modo e dalla reputazione impeccabile.»
«Allora perché tutto questo mistero?»
Vincent si agitò sulla sedia sbuffando. «Perché, se proprio lo vuoi sapere, lei è molto tes-»
Purtroppo non riuscì a finire la frase, perché vennero interrotti proprio dalla diretta interessata del discorso.
«Oh, Camille!» quasi urlò suo padre, balzando spaventato sulla sedia.
«Scusate zio, non volevo disturbare.»
Bè se aveva paura di disturbare perché non aveva aspettato che le dessero il permesso di entrare nella biblioteca anziché presentarsi senza nemmeno bussare?
Un momento… lo aveva chiamato zio?
«Niente affatto mia cara» disse suo padre, alzandosi in piedi come una molla. «Vieni, siediti con noi.»
«Oh no grazie, sono qui solo per dire che è arrivata zia Shaw, vi attende in salotto, e che la cena sarà servita fra due ore. Il signor Montgomery si scusa per non essersi presentato lui stesso, ma a quanto pare c’è stato un piccolo problema con il dolce di questa sera. Credo che la cuoca sia un po’ sotto pressione.»
«Non mi stupisce affatto. I nervi della signora Jenkins sono sempre più fragili ogni giorno che passa, dovrebbe andare qualche tempo a Bath e rimettersi in sesto.»
«Temo non basterebbe… ma problemi della cuoca a parte, mi sono permessa di dare disposizioni affinché fosse preparata la stanza da bagno» disse, spostando lo sguardo su di lui. I suoi occhi si mossero veloci lungo tutta la sua figura, soffermandosi poi naturalmente sul bastone e sulla gamba distesa. «Immagino che sua signoria voglia rilassarsi un po’ dopo il lungo viaggio.»
Ma certo. Evidentemente dopo averlo visto zoppicare su per la scala doveva aver pensato che allo storpio servisse un bagno caldo per lenire i dolori.
«Non ho affatto bisogno di rilassarmi» disse. Se c’era una cosa che odiava era la compassione.
«Ma comunque un bagno non potrà che farti bene. Ti toglierà di dosso la polvere del viaggio» intervenne suo padre. «Sei stata molto gentile mia cara e non far caso a John… ha scordato le buone maniere stando troppo tempo nelle piantagioni» concluse e non mancò di mandargli un’occhiataccia.
«Non vi preoccupate zio, sono abituata alla scontrosità dei Mortain» disse e suo padre si agitò borbottando qualcosa di incomprensibile. «Sapete che scherzo» si affrettò ad aggiungere divertita e John la osservò di sottecchi.
Mai nessuno avrebbe osato fare una battuta del genere di fronte a suo padre, lei invece non solo lo aveva fatto con una leggerezza che sembrava celare una conoscenza molto più profonda, ma addirittura lo chiamava “zio” e lui “mia cara”.
Cosa diamine era successo a suo padre?
«Bene, dunque, a dopo.»
«A dopo.»
Camille abbozzò un inchino prima a suo padre e poi a lui, dopodiché uscì lasciando dietro di sé una scia di profumo di arancio e lavanda.
«Per un attimo ho pensato che mi avesse sentito» disse suo padre, visibilmente sollevato.
«Pare che quella fanciulla vi metta parecchio in difficoltà… cosa esattamente non mi state dicendo?»
«Nulla di che, avrai modo di conoscere Camille tu stesso… e sii più gentile le prossime volte per favore, voleva solo essere cordiale.»
Lui annuì poco convinto. E per quanto riguardava il conoscerla meglio, stando alle reazioni appena viste non era proprio sicuro di volerlo fare…

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Capitolo 4
*** Capitolo 3 ***


CAPITOLO 3

 
 
 

Quella sera, prima di presentarsi per la cena, Camille consumò la sua immagine davanti allo specchio.
Naturalmente era perché le avevano insegnato che in vista di una cena con ospiti bisognava essere sempre in ordine ed eleganti, nulla c’entrava il fatto che John Mortain fosse uno degli uomini più affascinanti che avesse mai visto. E a Londra di uomini affascinanti e belli come un sogno ce n’erano parecchi… lui però non era paragonabile a nessuno di essi.
Il ritratto nel salone sul quale molte volte si era soffermata insieme a zio Vincent non gli rendeva affatto giustizia. Per prima cosa il pittore aveva disegnato il suo naso molto più dritto di quanto non fosse, la mascella più squadrata e le labbra sottili. Tutti tratti che lo facevano sembrare la copia esatta del vecchio Mortain, ma in realtà i lineamenti erano meno marcati e più piacevoli alla vista. Anche nei folti capelli neri non c’era traccia di striature bianche, né tantomeno di calvizie, e nonostante i suoi trentaquattro anni le uniche rughe che aveva erano quelle dovute alla fronte corrucciata.
Era rimasta stupita anche nel constatare che era perfettamente vestito secondo gli standard di moda del ton descritti minuziosamente nella rubrica mensile di Madame Latouche, la proprietaria esclusiva della boutique Latouche, il negozio nel quale ogni giovane donna che se lo poteva permettere faceva confezionare i nuovi abiti per la stagione. Era quella donna a dettare ogni anno le nuove regole riguardo la moda ed era tenuta in alta considerazione da tutta la buona società.
Comunque, non che si aspettasse di vedere arrivare un mezzo derelitto, ma visto lo scarso interesse del visconte per Londra e tutto ciò che da essa derivava, trovarsi il figlio vestito di tutto punto in un abito di satin blu e senza traccia di panciotto di lana l’aveva lasciata di stucco.
L’unica pecca che rovinava l’insieme era il bastone che si portava appresso e il suo leggero zoppicare. Zio Vincent le aveva detto che era accaduto durante la battaglia di Waterloo: una palla di cannone era esplosa sopra un carro vicino a lui e le schegge di legno gli si erano conficcate nella gamba e in particolare nel ginocchio. Era stato un miracolo che si fosse salvato e che fossero riusciti a salvargli la gamba, per cui si impose di non farci troppo caso. Sicuramente non amava che glie la si fissasse e inoltre lo riteneva un dettaglio di poco conto quando tutto il resto era pressoché perfetto.
Le era dispiaciuto solo il modo in cui le aveva parlato. Certo era consapevole che da un Mortain non ci fosse da aspettarsi cordialità e gentilezza. Dopo i mesi passati accanto al visconte e alla contessa, se John si fosse presentato tutto sorrisi e buona creanza avrebbe temuto di trovarsi di fronte ad un sosia… eppure iniziava ad essere stanca di tutta quella maleducazione. Che diamine, lei voleva solo essere gentile.
«Ecco fatto signorina, siete pronta» esclamò Jane, cercando inutilmente di rimettere un ricciolo ribelle nell’acconciatura.
Camille si rimirò ancora una volta allo specchio, osservando specialmente le guance piene e in un attimo ripensò di nuovo a John. Ecco un’altra cosa che l’aveva lasciata senza parole: il suo fisico asciutto e muscoloso. Probabilmente era tutto merito della vita nella piantagione ed esercizio, perché erano davvero in pochi quegli uomini che alla sua età potevano vantare un fisico del genere. Solo gli atleti lo avevano, pugili per lo più, mentre solitamente superati i trent’anni gli uomini di città essendosi per la maggior parte già sposati si lasciavano andare agli eccessi.
Anche lei si era lasciata andare eccome agli eccessi… maledetti dolcetti ai frutti di bosco della signora Jenkins.
Da domani si sarebbe messa a dieta, poco ma sicuro.
Non perse altro tempo.
Veloce attraversò il corridoio e scese la scalinata che dalle stanze private portava a quelle comuni, passò per il salottino e dopo aver fatto un respiro profondo, entrò nella sala da pranzo.
Padre, figlio e zia Shaw erano già seduti al tavolo e stavano parlando animatamente. Zio Vincent e zia Shaw si limitarono ad un cenno di saluto, troppo presi a raccontare gli avvenimenti degli ultimi undici anni, John invece la guardò… e come la guardò.
I suoi occhi percorsero tutta la sua figura e Camille pregò che non notasse troppo i suoi fianchi, doverosamente camuffati grazie alla vita alta dei vestiti che continuava a farla da padrona ad ogni nuova stagione. Ma si sentì comunque come una debuttante la sera del suo primo ballo… ci mancava solo che inciampasse e cadesse a terra. Grazie al cielo ciò non avvenne e sana e salva raggiunse il suo posto, proprio di fronte a John. Lui si alzò come era doveroso fare e prima che si sedesse, si inchinò allungando la mano verso di lei.
«Signorina Grey, finalmente possiamo presentarci come si deve» le disse, baciandole la mano. Maledetti guanti…
«Milord… è davvero un piacere fare la vostra conoscenza» rispose con cortesia, mentre entrambi si sedevano e i camerieri provvedevano a riempire i loro piatti con minestra di orzo, verza e broccoli. «Tutti mi hanno così tanto parlato di voi che sono davvero felice che abbiate deciso di tornare a Lodgewood.»
«Ognuno di noi lo è» intervenne zia Shaw. «Finalmente l’erede dei Mortain è tornato e mio fratello potrà riposarsi come si deve.»
«Non ho alcun bisogno di riposarmi, Olivia… sarò anche vecchio, ma sono più in forma di molti dei miei coetanei.»
«Ma se non fai altro che lamentarti dell’umidità e del freddo alle ossa.»
«E tu dei tuoi nervi e mal di testa!»
Camille sorrise nell’osservare quel divertente siparietto, spostando gli occhi su John. Lui però non sembrava divertirsi quanto lei, anzi… teneva la testa bassa e continuava a rigirare il cucchiaio nel piatto.
«Non vi piace, milord?» chiese e John alzò lo sguardo.
Camille si sentì mancare il fiato.
Aveva osservato sempre attentamente quegli occhi, erano la cosa che più l’avevano colpita del ritratto, ma trovarseli di fronte e a così breve distanza… così grigi, così profondi, così… così.
Quasi sicuramente era arrossita.
«Come dite?» chiese invece John.
«La zuppa» rispose imbarazzata. «Non è di vostro gradimento?»
«Oh… no, no assolutamente. Perdonatemi, ero solo distratto» disse sorridendo.
«Immagino sia un bel cambiamento… arrivare qui intendo, dopo aver passato tutti quegli anni in Jamaica.»
«Sì lo è… il clima soprattutto.»
«Mai quanto l’afa e la calura dell’India» intervenne Vincent. «Ci rimasi solo un anno, ma non ci tornerei mai… troppo umido e poi tutta quella pioggia, davvero insopportabile.»
«Non sapevo foste stato in India, zio.»
«La guerra purtroppo… anche io per un certo periodo feci la mia gavetta nell’esercito, ma presto capii che non era il mio mondo. Le agiatezze della vita aristocratica vinsero sui miei doveri nei confronti della patria. Mio padre comunque non poté che esserne felice: essendo l’unico figlio maschio, sarebbe stato alquanto problematico se fossi morto.»
«E la Jamaica invece com’era, milord?» chiese Camille curiosa, ma John si strinse nelle spalle. Forse non amava che gli si facessero tutte quelle domande… ma certo avrebbe dovuto aspettarsele.
«Polverosa, signorina Grey… la vita di una piantagione non è per niente entusiasmante.»
Bè se per quello nemmeno la vita a Lodgewood era entusiasmante, ma quanto meno sperava in qualche dettaglio in più.
Sospirò sconsolata, pensando che nonostante l’aspetto esteriore l’avesse colpita tanto, alla fine John si stava rivelando come tutti i Mortain che aveva conosciuto: schivo, probabilmente pieno di sé, per nulla incline alla conversazione e solitario.
«Ho sentito dire che negli ultimi cinquant’anni molti signori sono venuti in Jamaica in cerca di fortuna… il marito di Gwyneth ha dei cugini che si sono trasferiti là dopo aver perso tutto il danaro in inutili scommesse di cavalli. Pare siano riusciti a rifarsi di tutte le perdite ed ora vivano da veri signori… per quanto si possa vivere da signori in una terra circondati da schiavi e plebaglia simile.»
«E di rivolte ce ne sono più state?» domandò Vincent.
«Giusto cielo, rivolte? E di chi?»
«Degli schiavi neri, zia Shaw… in alcune famiglie sono trattati peggio degli animali. Ma per ora no, a quanto pare i francesi hanno smesso di istigare guerriglia.»
«Non hanno imparato proprio niente dopo la disfatta di quel guerrafondaio di Napoleone» disse Vincent. «E prima ancora la Rivoluzione… sono dei veri incapaci, non sanno gestire né il popolo né i sovrani. Mi domando che fine avremmo fatto se a Waterloo avessimo perso.»
«Sono sicura che Sua Maestà non avrebbe permesso a quel tiranno di invaderci e comunque ha avuto ciò che meritava» osservò zia Shaw.
«Troppo tardi purtroppo» disse John amaramente.
Camille provò compassione per lui, non riuscendo nemmeno ad immaginare che tipo di orrori doveva aver visto. Gli storici e i diplomatici definivano Waterloo come la più grande e sanguinosa battaglia mai esistita, poteva comprendere i suoi turbamenti. Era stato lontano da casa undici anni per colpa di quella guerra.
«Oh, mio caro nipote» esclamò zia Shaw con fare melodrammatico e prendendogli la mano. «Non sai quanto mi dispiace.»
«Tranquilla zia, ormai è passato tanto tempo» disse con un sorriso forzato. «E voi invece, signorina Grey» fece poi, tornando a guardarla. A Camille per poco non andò la zuppa per traverso nel sentirsi interpellata. «Vi trovate bene qui a Lodgewood?»
«Molto, milord» mentì spudoratamente. «Sono contenta che zio Vincent abbia acconsentito a farmi da tutore nel mentre mia sorella e Jamie sono via, gli sono molto grata. Inoltre, molto meglio essere qui che non con mio cugino e famiglia o, peggio, in uno dei posti che avete menzionato poco fa… piantagioni, luoghi desolati, afosi e pieni di strani insetti.»
«Parole saggie mia cara» disse zia Shaw. «Provo pena per tutte le gentildonne che hanno sposato uno di quei possidenti terrieri.»
«Proprio per questo la contessa di Delaford ci mise in guardia la sera del nostro debutto in società: non sposate mai, disse, a meno che non abbiate altre prospettive, né un ufficiale né tantomeno un possidente terriero d’oltreoceano.»
«E perché mai?» chiese John. «Ufficiali e possidenti non sono forse ottimi partiti per qualsiasi giovane che si rispetti?»
«Assolutamente… a meno che nel primo caso non si voglia diventare vedove prima del tempo e nel secondo finire in angoli di mondo come quello in cui siete stato.»
A lei purtroppo era successo ugualmente di finire in un angolo di mondo e non era né sposata né fidanzata. Quando si diceva la sfortuna.
«Non credo che la Jamaica possa realmente definirsi “angolo di mondo”» rispose John. «Ci sono molte famiglie per bene e anche benestanti, inoltre feste e balli non mancano… o forse era questo a preoccuparvi tanto: l’assenza di eventi mondani?»
«No certo, ma siete stato voi stesso poco fa a definirlo per nulla entusiasmante» rispose Camille con stizza. Non amava quando le mettevano in bocca parole non vere. «O forse era solo un modo per evitare l’argomento?» gli chiese e voleva solo essere una domanda a risposta della sua, invece lo vide sgranare gli occhi, come se avesse indovinato. Fu solo un istante e forse né zia Shaw né Vincent lo notarono, ma lei sì.
Dunque era così? Non ne voleva parlare?
«Suvvia mia cara non mi sembra il caso di prendersela in questo modo» intervenne zia Shaw, troncando sul nascere quello che quasi sicuramente sarebbe diventato un battibecco. «John ha fatto un lungo viaggio e sono sicura che non appena si sarà riposato a dovere ci racconterà tutto della Jamaica… non è vero, caro nipote?»
«Come desiderate, zia» disse lui, tornando a mangiare.
Camille invece evitò di rispondere.
Odiava quando la rimproveravano durante gli eventi ufficiali e se anche in quel momento c’erano solo loro, la servitù era presente e non avrebbero fatto altro che spettegolare e andarlo a raccontare in giro. Sembrava non avessero altro da fare, come se tutte le faccende non bastassero. Magari per ripicca il giorno seguente avrebbe potuto far lavare tutti i suoi abiti con la scusa che erano chiusi nei bauli da settimane.
Sì, avrebbe fatto senz’altro così.
E comunque non aveva fatto nulla di male… anzi era stato John a scaldarsi per primo, dunque perché il rimbrotto di zia Shaw se l’era dovuto sorbire lei? Solo perché era un futuro visconte e perché era un uomo non significava che non potesse essere ripreso sul suo comportamento.
Così passò il resto della cena a limitarsi a sorridere e annuire, ormai troppo arrabbiata per poter fare amabili conversazioni, mentre venivano toccati argomenti quali l’amministrazione delle terre, la vita felice dei figli di zia Shaw, la vite felice dei gatti di zia Shaw, il matrimonio di Jamie, definito dal ton come il matrimonio dell’anno, la gravidanza di Heather e gli impegni mondani ai quali John avrebbe dovuto partecipare a Windermere. 
«Padre, sapete bene che non sono tornato per partecipare agli incontri della società» aveva detto e Camille non ne rimase affatto stupita. Avrebbe anche voluto rispondergli per le rime, ma di essere rimproverata di nuovo non ne aveva voglia e di certo non ne valeva lo sforzo. Vincent comunque era convinto che dall’indomani avrebbero iniziato ad arrivare una marea di inviti ed essendo loro una delle famiglie nobili più importanti di Cumbria ed essendo John l’erede appena tornato per prendere in mano le redini del viscontado, non poteva esimersi dal parteciparvi.
Naturalmente si guardò bene dal dire che in realtà non vedeva l’ora che arrivassero quegli inviti. Finalmente non ci sarebbero più state scuse come mal di testa, umidità e rischio di prendere il raffreddore ed era già pronta a dare sfoggio di sé e delle sue migliori doti ai balli di Windermere. Dopotutto aprile era ormai alle porte e anche se in molti si sarebbero trasferiti a Londra, almeno avrebbe avuto qualche momento di svago per distrarsi e a non pensare alla sua misera fine da zitella e all’inverno desolato che aveva appena trascorso. Avrebbe ballato, conversato con le signore e, perché no, civettato con i pochi scapoli presenti.
Dopo la cena si trasferirono tutti quanti nel salotto. Agli uomini venne servito del brandy, mentre a loro una tazza di tè. C’erano anche i favolosi dolcetti ai frutti di bosco della signora Jenkins, ma li evitò prontamente.
«Camille, cara, perché non ci suoni qualcosa?» domandò zia Shaw.
«Non so, zia… quest’oggi zio Vincent lamentava un mal di testa, non credo sia il caso» e poi non aveva molta voglia di suonare. La cena le era quasi andata indigesta.
«Tranquilla Camille, vi lascio volentieri ad intrattenervi. Sono molto stanco e credo mi farà bene qualche ora in più di riposo.»
«Sicuro di star bene, padre?»
«Certo figliolo, non preoccuparti… ho solo bisogno di dormire un po’, ci vedremo domani mattina a colazione. Buonanotte e tutti.»
«Buonanotte» dissero e una volta che il visconte si ritirò, Camille fu costretta a posizionarsi al pianoforte.
In realtà anche lei era molto stanca. Aveva aspettato tutto il giorno fuori al freddo l’arrivo di John, rischiando anche di prendersi un malanno, ma zia Shaw non sembrava avere alcuna intenzione di andare e così iniziò a suonare uno dei suoi pezzi preferiti: il preludio in do maggiore di Bach. E nonostante non volesse farlo, alzò solo per un momento gli occhi su John. Cercò di non rimanerci troppo male quando vide che non la stava guardando e quindi, probabilmente, nemmeno ascoltando. Teneva lo sguardo fisso sul fuoco del caminetto, una mano stringeva il bicchiere di brandy e l’altra era appoggiata alla tempia.
Chissà a cosa stava pensando. Forse quella musica un po’ malinconica gli faceva ricordare brutti momenti?
Purtroppo la sua esecuzione e i suoi pensieri vennero interrotta a metà dal signor Montgomery.
«Perdonate signorina, contessa, milord.»
«Qualcosa non va?» chiese John.
«Nulla di grave è solo che ha iniziato a nevicare da circa un’ora.»
«A nevicare!» esclamò zia Shaw. «Ma se siamo a fine marzo e oggi pomeriggio c’era un sole stupendo!»
«Purtroppo è così…. i prati e le strade hanno iniziato ad imbiancarsi e il cocchiere ha suggerito di rimettersi subito in viaggio verso Claystone. A meno che Sua Signoria non desideri restare, in quel caso farò preparare subito una camera per voi e per il cocchiere.»
«Non stiate a scomodarvi Montgomery, faremo come il signor Hamilton suggerisce. In più domani ho invitato alcune amiche per un tè e non posso rischiare di rimanere bloccata qui.»
«Molto bene.»
«Oh bè, pare che la serata sia ufficialmente finita» disse zia Shaw alzandosi. Anche John lo fece, pronto ad accompagnarla all’uscita. «No nipote caro, non ti scomodare… il signor Montgomery mi accompagnerà alla porta. Camille, voi invece mi aspetto di vedervi venerdì per la nostra solita lettura.»
«Certo zia, come sempre.»
«Potresti venire anche tu, John… mi farà piacere stare un po’ in tua compagnia. Ho già scritto a Gwyneth e a Richard e non dubito che ci saranno anche loro.»
«Rivedrò i miei cugini con piacere, ma non posso promettervi che ci sarò. Sicuramente mio padre vorrà che lo accompagni quanto prima per la tenuta.»
«Capisco… allora non appena arriveranno vi inviterò tutti per una cena. Sarà bello avere la famiglia riunita.»
«Volentieri zia Shaw… fate attenzione.»
«Arrivederci caro. Ah è così bello che tu sia finalmente tornato!» e con quell’ultima esclamazione anche zia Shaw se ne andò.
Rimasero solo lei, John e un cameriere.
«Bene, sarà meglio che mi ritiri anche io» disse Camille, felice di poter andare finalmente a dormire.
«Buonanotte, signorina Grey» rispose lui semplicemente. Non un cenno di saluto, non si alzò nemmeno per accompagnarla alla porta. Rimase seduto sulla poltrona accanto al caminetto, le gambe muscolose distese e le caviglie incrociate.
Camille cercò senza successo di non guardare più del dovuto la sua figura, ma non ci riuscì. E per quello si maledisse da sola.
«Buonanotte» asserì, ritirandosi nella sua camera più arrabbiata che mai.
Diamine… possibile che un uomo tanto maleducato potesse anche essere così bello? Non era affatto giusto.
Ma non si sarebbe lasciata destabilizzare oltre. Non era più una timida debuttante e in quanto tale non avrebbe ceduto al fascino di un futuro visconte dagli occhi di ghiaccio.

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Capitolo 5
*** Capitolo 4 ***


CAPITOLO 4

 
 

 
«Bè, direi che come prima cena non è andata male» disse Daniel, dopo aver ascoltato il breve racconto di John.
Lui invece sospirò pesantemente, premendosi le dita della mano libera dal bicchiere di brandy sulla tempia. Gli era venuto un gran mal di testa e aveva la spaventosa tentazione di scolarsi l’intera bottiglia.
«Ma fammi il piacere» rispose infatti, mentre anche Daniel si versava un bicchiere e si sedeva sulla poltrona di fronte a lui. Al signor Montgomery era quasi venuto un colpo apoplettico quando aveva chiesto di far salire in salotto il signor Cooper e aveva congedato sia lui che il cameriere, ma al diavolo l’etichetta. Aveva bisogno del suo migliore amico. 
«Dico sul serio… hai superato la prova in modo brillante. Non che avessi dubbi, sei sempre stato meticoloso su questo genere di cose» una breve pausa, un sorso di brandy. «Solo non capisco perché tu sia stato così scorbutico nei confronti della signorina Grey. Al piano di sotto Fox, il cameriere, ci ha raccontato che la signorina ti lanciava saette.»
«Ha detto così?»
«Proprio così: saette! Anche se diceva che lo ha fatto più per il rimprovero della contessa che per il vostro breve battibecco. A quanto pare odia essere rimbeccata davanti alla servitù. Com’è che l’ha definita? Ah sì… una viziata capricciosa e saccente. E, strano ma vero, nonostante fosse presente anche la signora Potter non l’ha messo a tacere. A me comunque è sembrata assolutamente gentile e cordiale, dunque mi chiedo cosa ti abbia mai fatto per meritarsi un trattamento simile.»
John non rispose, preferendo svuotare il bicchiere.
Era stato molto prudente nel corso di quegli undici anni. Non si era mai fatto vedere in Inghilterra per paura che qualcuno lo riconoscesse e le lettere indirizzate a lui in Jamaica gli venivano rispedite a Londra al quartier generale dal signor Timothy, l’amministratore che aveva lasciato nelle piantagioni. Una volta ricevute, lui le rispediva in città, dove i segretari le mandavano ai destinatari.
Era stato molto prudente anche prima di tornare. Aveva ripetuto insieme a Daniel per filo e per segno almeno cento volte la storia che avrebbero raccontato. Inventare frottole dopotutto faceva parte del suo lavoro e aveva architettato tutto minuziosamente, credendo di essersi preparato a sufficienza: aveva previsto le domande di suo padre e infatti era riuscito a liquidare la sua curiosità durante il breve incontro del pomeriggio; aveva previsto le esclamazioni melodrammatiche di zia Shaw e il fatto che avrebbe parlato della guerra; per precauzione si era preparato anche ad un eventuale incontro con Jamie.
Non si era però preparato a Camille.
Era solo un modo per evitare l’argomento?
Aveva fatto centro.
Seppur inconsapevolmente in nemmeno un’ora lo aveva smascherato. E lui era rimasto senza parole come un idiota. Per fortuna ci aveva pensato zia Shaw a distogliere l’attenzione, ma era sicuro che avesse notato il suo tentennamento. Le giovani donne erano abituate ad osservare i piccoli dettagli, lo avevano imparato dalle madri, e nonostante per la maggior parte fossero sciocche e petulanti, erano portatrici sane di curiosità. Colpa forse dei romanzi che negli ultimi anni andavano di moda, ma Camille sicuramente non faceva eccezione. Gli avrebbe chiesto ancora della Jamaica, aspettandosi probabilmente descrizioni poetiche e romantiche di paesaggi, della vita di una piantagione e delle persone che ci vivevano.
E lui non sapeva come comportarsi.
Era abituato agli imprevisti, succedevano sempre, eppure Camille era quel tipo di inconveniente che avrebbe messo a dura prova la sua pazienza e capacità di razionalizzare. Non perché avrebbe chiesto della Jamaica. Non perché fosse talmente bella da togliere il fiato e aveva quei grandi occhi ambrati incapaci di nascondere le emozioni, ma perché rappresentava esattamente ciò che più lui odiava: superficialità, vanità e frivolezza. E poteva benissimo dare ragione a Fox: era sicuramente viziata e capricciosa. Dopo il piccolo rimprovero di zia Shaw ad esempio non aveva più parlato. Se ne era rimasta immusonita limitandosi ad annuire e a pronunciare frasi di circostanza.
Era per colpa delle persone come lei che se ne era andato e adesso trovarsene una sotto il proprio tetto, doverci avere a che fare ogni giorno… non era sicuro di riuscirci. Per quello era stato maleducato con lei.
«Non sarei dovuto tornare» disse, versandosi altro brandy. «Mi sono prodigato così tanto per inventarmi la storia della Jamaica che avrei potuto andarci davvero. Dimmi, perché non lo abbiamo fatto?»
«Perché nessuno con un briciolo di cervello vorrebbe vivere in una dannata piantagione!» esclamò Daniel senza esitazione. «E ti mancava la famiglia» aggiunse a bassa voce. «Ti conosco da troppo tempo amico mio, so quanto hai sofferto la lontananza e quanto ti sentivi in colpa… puoi anche non riconoscerlo a te stesso, ma se fossi onesto diresti che non aspettavi altro che un’occasione per tornare.»
«E allora perché vorrei solo scappare?»
«Il perché lo sai benissimo… e non sarà ubriacandoti o prendendotela con una ragazza che risolverai la situazione.»
John fissò il bicchiere ormai vuoto.
Amali e dimentica tutto.
Daniel aveva ragione, come sempre: scappava perché non era mai riuscito ad andare oltre quel campo di battaglia. E di sicuro se continuava a comportarsi così non avrebbe risolto nulla un’altra volta. Non che lo volesse davvero, ma doveva provarci… almeno per il quieto vivere.
Doveva ammettere però che non gli sarebbe dispiaciuto battibeccare con Camille, soprattutto se voleva dire vedere quel delizioso broncio e quel cipiglio arrogante di chi crede di aver sempre ragione e di riuscire ad averla sempre vinta. Già immaginava le sue smorfie… e forse un po’ di leggerezza era proprio quel che gli serviva.
Preferì comunque versarsi un altro bicchiere di liquore, giusto per non perdere le vecchie abitudini.

 
 
***__*__***

 
 
Il mattino seguente si svegliò che erano le dieci passate. Stranamente era riuscito a prendere sonno quasi subito e complici i cinque bicchieri di brandy che si era scolato, aveva dormito come un ghiro per tutta la notte. Incredibile ma vero, non aveva nemmeno mal di testa.
Non credeva di riuscire a dormire… almeno non così a lungo. Da sveglio i pensieri non lo lasciavano in pace un secondo, eppure in quel particolare momento si sentiva quasi bene. E preferiva lasciarlo quel quasi, perché da quella giornata non sapeva proprio cosa aspettarsi.
Così, come era sempre stato abituato a fare prima di qualsiasi mossa, fece rapidamente mente locale.
Se avesse incontrato suo padre, quasi certamente avrebbe insistito affinché si presentasse come si deve alla buona società di Windermere. La sera prima sembrava piuttosto sicuro sul fatto che avrebbero iniziato ad arrivare lettere di inviti, ergo doveva trovarsi nello studio intento a smistare la tanto agognata corrispondenza… ergo era meglio evitare quel posto. Poteva invece ritenersi salvo da zia Shaw, in attesa delle amiche per il tè del pomeriggio. Quanto a Camille… era principalmente lei il motivo di quel quasi.
Sospirando si passò le mani prima sulla faccia e poi fra i capelli, rimanendo a fissare il soffitto di legno del baldacchino.
Cosa doveva fare?
Ignorarla era impossibile. Una come Camille non poteva sperare di passare inosservata. Scusarsi poi era fuori discussione. Sebbene il suo comportamento fosse stato alquanto inaccettabile, non era stato né troppo maleducato né tantomeno irrispettoso, dunque non sussisteva alcuna buona causa per presentare le sue scuse. Ci avrebbe parlato, ma solo se non avesse potuto fare altrimenti. Una banale conversazione sul tempo poteva ritenersi sufficiente.
Prima però ci voleva una buona colazione… soprattutto perché in sala da pranzo non avrebbe incontrato nessuno. Solo lui e un cameriere. La giornata non poteva iniziare meglio. Tirò quindi la corda del campanello e in pochi minuti Daniel entrò, andando per prima cosa ad aprire le tende facendo entrare la luce del sole.
«Iniziavo a pensare che fossi scappato per davvero» esordì, mentre tirava fuori dai cassettoni una camicia e dei pantaloni beige.
«L’idea di fondo c’era, ma poi sono stato troppo impegnato a dormire.»
«L’aria di casa allora ti fa bene… preferisci la giacca verde muschio o quella porpora?»
«Perché me lo chiedi? Una vale l’altra» fece noncurante, ignorando di proposito la prima parte della frase. Per come la vedeva, avrebbe volentieri preferito che l’aria di casa gli facesse venire l’orticaria.
«Sto solo cercando di comportarmi adeguatamente… dopo ieri sera il signor Montgomery mi ha rimproverato dicendomi che ti do troppa confidenza. A nulla sono serviti i tentativi di spiegargli che siamo stati compagni d’arme prima e poi insieme in Jamaica, lui ha ribadito che non ci troviamo più né in guerra né nelle piantagioni e quindi mi devo comportare di conseguenza.»
«Stupidaggini… parlerò con Montgomery oggi stesso.»
«Preferirei non lo facessi. Dopotutto ha ragione e non vorrei inimicarmelo.»
«Se ne sei convinto.»
«Certo che lo sono» affermò. «Dunque milord, preferite indossare la giacca verde o porpora?»
«Verde, non voglio sembrare un damerino imbellettato… e per favore almeno da soli dammi del tu, sei il mio migliore amico e non il mio servitore.»
«In realtà sono il tuo servitore, ma va bene. Spero solo che i muri non abbiano orecchie.»
John scosse la testa divertito. Poi si alzò, si diede una lavata alla toeletta e infine lasciò che Daniel lo vestisse come un bambino.
Quella situazione doveva cambiare. Non gli andava che l’amico e compagno di tante avventure finisse i suoi giorni a servirlo e riverirlo. Un conto era farlo per finzione, un altro per davvero. Sapeva inoltre che i genitori di Daniel erano contadini e non fosse stato per la guerra sarebbe stato quello il suo destino, quindi magari gli era rimasta quella vocazione. Avrebbe valutato con attenzione i vari appezzamenti di terra, ma era sicuro di poter trovare una fattoria da affidargli e se l’amico avesse accettato, sarebbe diventato un modesto gentiluomo di campagna. Se lo meritava, dopo averlo sopportato per tutti quegli anni.
Dal pomeriggio si sarebbe messo subito a lavoro, anche perché non poteva sperare di fuggire troppo a lungo dai compiti che gli spettavano in quanto erede. Suo padre aveva già affermato che gli avrebbe lasciato carta bianca nella speranza di non vederlo partire mai più, dunque le sue future giornate erano già segnate da lunghe letture di libri mastri, incontri con gli amministratori e visite ai fittavoli.
Era a quello che stava pensando, mentre tranquillo entrava nella sala da pranzo. Non appena però oltrepassò la porta rimase inchiodato sul posto.
Ti prego, non può essere vero.
Si era diretto lì per stare da solo, invece seduto al tavolo di fronte al vassoio preparato per lui c’era suo padre che leggeva il giornale sorseggiando una tazza di tè, mentre al centro della stanza, davanti alla grande finestra che dava sul terrazzo, c’era Camille che dipingeva agli acquerelli.
E come era ovvio che accadesse, fu su di lei che i suoi occhi si concentrarono.
Vestita con un semplice abito da giorno rosa pallido a maniche lunghe e un grembiule bianco sporco di pittura, riempiva la stanza come una regina. Era impossibile non guardarla, con quel cipiglio concentrato mentre passava il pennello sulla tela con meticolosa attenzione. Notò in particolare il labbro inferiore stretto fra i denti e come i boccoli più corti sfuggiti alla treccia le incorniciavano il volto.
Poi il suo sguardo si spostò appena più in basso, soffermandosi sulla porzione di pelle fra le scapole che rimaneva scoperta per via della scollatura del vestito. Non era accentuata, ma non indossando alcun pizzo o merletto riusciva a vedere i muscoli che si muovevano a seconda dei movimenti delle braccia. A dire il vero i suoi occhi erano andati a finire anche più in basso, ma preferì non rimanerci troppo… qualcuno avrebbe potuto accorgersene e inoltre non gli stava affatto piacendo la piega che avevano preso i pensieri.
«Oh, figliolo! Buongiorno!» esclamò suo padre felice.
«Buongiorno» rispose, distogliendo a fatica lo sguardo da Camille.
Sicuramente era normale avere quelle fantasie. Insomma che fosse bella era un dato di fatto, era normale rimanerne affascinati… era un uomo dopotutto. Ciò che lo preoccupava erano la quantità di dettagli che gli balzavano davanti. Non era mai stato tanto avido di particolari come in quel momento. La sera prima era stato troppo impegnato a detestarla per accorgersi di quel suo particolare desiderio e così adesso la sua mente girava a ruota libera.
Ad ogni modo il suo saluto non ebbe risposta. Camille nemmeno si voltò a guardarlo, rimanendo concentrata sul dipinto.
Non la biasimò. Per come l’aveva trattata meritava di essere ignorato, così decise di fare il primo passo.
«Buongiorno, signorina Grey» disse cordiale, mentre si sedeva al tavolo e Fox si prodigava per servigli tè insieme ad un piatto con pane tostato, uova strapazzate e prosciutto. «Vi siete svegliata di buon mattino.»
«Naturalmente» rispose lei con sufficienza e come se fosse la cosa più ovvia del mondo. «Questa probabilmente è stata l’ultima nevicata della stagione e non volevo perderla. I giardini poi sono stupendi così imbiancati e dopo la passeggiata ho deciso che dovevo assolutamente ritrarli.»
«Camille è molto brava con gli acquerelli» la lodò suo padre.
«La cosa non mi stupisce affatto.»
«Cosa intendete dire?» chiese, già pronta sul piede di guerra. Era palese a tutti che non avesse ancora digerito il suo comportamento della sera prima e John, nonostante i buoni propositi, accolse volentieri quel guanto immaginario che gli aveva lanciato. Primo perché era sicuro di vincere qualunque dibattito fosse scaturito e secondo perché litigare era molto meglio che stare a fissarla come un allocco.
«Oh nulla» disse, fintamente distratto. «Pensavo solo fosse ovvio che aveste così tanti talenti, non è forse quanto richiesto da ogni signorina della buona società? Sapete suonare il pianoforte in maniera eccellente, oggi scopro che siete brava a dipingere… suppongo che sappiate anche ricamare divinamente e che la vostra voce quanto cantate è simile a quella di un usignolo.»
Vincent finse un colpo di tosse a quelle parole, agitandosi sulla sedia. John non si scompose, prendendo una forchettata di uova.
«Infatti, milord… ho avuto ottimi precettori. Anche se devo dissentire con voi riguardo l’ultima affermazione: la mia voce non è affatto simile a quella di un usignolo. Purtroppo il saper cantare non rientra fra i miei talenti, ma suppongo di poter ovviare a questa mancanza con tutto il resto.»
«Lungi da me dire il contrario.»
«Suvvia John lascia Camille al suo dipinto» intervenne il visconte. «Tieni, assaggia invece questa marmellata: è fatta con le ciliegie del nostro frutteto. Abbiamo anche quella di mele, fragole o prugne se preferisci.»
«Prugne sicuramente, zio Vincent… vostro figlio mi sembra parecchio nervoso questa mattina, forse il viaggio lo ha scombussolato.»
John trattenne a stento un sorriso. «No grazie, detesto le cose dolci… voi piuttosto, il vostro stomaco sta bene?»
«Il mio stomaco?»
«Mi era sembrato che non vi sentiste molto bene ieri sera, forse la cena vi è risultata indigesta?»
A quel punto le guance di Camille divennero rosse, mentre gli occhi si spalancavano appena. Aprì le labbra come a volergli rispondere, ma poi all’ultimo si voltò con un piccolo sbuffo arrabbiato.
«Non sono mai stata meglio» asserì, tornando a dipingere e facendogli capire che la conversazione finiva lì.
Con non troppa sorpresa vide che sulle labbra di Fox c’era la parvenza di un sorriso, mentre la disapprovazione di suo padre era tangibile in ogni angolo della sala. Poteva capirlo. La sera prima gli aveva promesso che avrebbe cercato di essere gentile e cordiale, invece si stava comportando come un idiota.
Era quasi pronto ad essere rimproverato, ma il visconte venne distratto dall’arrivo del signor Montgomery che portava la tanto agognata corrispondenza. Evidentemente a causa del maltempo il postino era arrivato con diverse ore di ritardo. Non solo lui, ma anche i servitori che avrebbero dovuto portare le lettere di bentornato e di inviti dato che sul piatto ne vedeva quattro, al massimo cinque. Poco male. Un giorno in più di pace gli avrebbe fatto sol che bene, prima di venire subissato dalle visite di signore e rispettive figlie tutte casualmente nubili e tutte casualmente in perfetta età da marito. Dio, si sentiva soffocare al solo pensiero. Perché se c’era una cosa che odiava ancora di più della società e di tutti gli impegni mondani che da essa derivavano, erano le madri alla ricerca dello scapolo perfetto. Lo avrebbero braccato neanche fosse stato una lepre in un covo di lupi affamati.
Vincent invece era proprio quello che sperava di vedere: suo figlio, il suo erede, circondato da giovani fanciulle altolocate. Ce ne sarebbe stata almeno una adatta a diventare la futura viscontessa e lui avrebbe passato il resto della vita a viziare i nipoti, perché altrimenti che altro motivo aveva per costringerlo a frequentare Windermere?
«Oh, Camille! È arrivata una lettera da parte di Heather!»
«Finalmente! Ormai non ci speravo più, sono passate quasi tre settimane dall’ultima e temevo fosse andata perduta» esclamò felice e dopo essersi tolta il grembiule sporco di pittura e aver appoggiato tavolozza e pennello sul tavolino di fianco al trespolo, quasi corse a prendere la lettera che suo padre le porgeva.
John cercò di non soffermarsi troppo su quel sorriso, anche perché Camille dal canto suo nemmeno lo degnò di uno sguardo. Se lo meritava.
«Allora, cosa dice? Stanno bene?»
Camille mosse velocemente gli occhi. «Sì, zio. Ha scritto che il bambino cresce bene e che sono entrambi in ottima salute.»
«Manca molto al parto?» chiese John.
«No, non molto. Ah, perdonatemi se lo dico, ma non vedo l’ora che lascino l’Italia… so che per Heather è meglio aspettare, ma in cuor mio spero che tornino e decidano di farlo nascere qui. Ho proprio voglia di sentire le risate di un neonato!»
«Sono sicura che anche nel caso nascesse in Italia, non aspetteranno molto prima di tornare… dopotutto si tratta solo di cinque o sei giorni di nave e ho letto che ce ne sono molte costruite appositamente per i viaggi, il che vuol dire che potranno godere di tutte le comodità necessarie.»
«Lo spero tanto… dice altro che dovrei sapere?»
«Mmh… dice che il clima è già molto mite a Napoli e che fanno spesso lunghe passeggiate sulla spiaggia. Oh! Non ci credo!»
«Cosa?»
«Dice che hanno conosciuto alcuni gentiluomini inglesi e che sono stati tutti invitati alla festa di primavera che si terrà alla reggia di Caserta a cui parteciperà anche il re di Sardegna in persona e tutta la sua corte. Saranno ospiti per due intere settimane». A quelle parole Camille si appoggiò allo schienale della sedia lasciandosi sfuggire un sospiro sognante. «Chissà che bello dev’essere…»
«La vita in una reggia è molto sopravvalutata» intervenne John sovrappensiero, prima di mordersi la lingua.
Doveva stare zitto.
«E voi come fate a saperlo, ci siete forse mai stato?»
Appunto.
Cinque anni, alla corte dello Zar al Palazzo d’Inverno di San Pietroburgo.
«No, ma ho conosciuto diversi nobili che ci hanno vissuto e tutti loro mi hanno confermato che non è poi così entusiasmante come si tende a credere.»
«Io invece penso che sarebbe magnifico. Passeggiate negli immensi giardini, pic-nic, giri in barca, musica, balli e feste. Non sarebbe neanche lontanamente paragonabile alla stagione di Londra.»
«Già, un vero paradiso pieno di promiscuità» disse Vincent.
«E perché mai?»
«Mia cara ma perché in una reggia ci sono cortigiani e libertini fino allo sfinimento! Non è certo il luogo adatto ad una signorina per bene.»
«Bè immagino dipenda tutto dal giudizio e dal raziocinio della signorina in questione.»
«Forse» fece John. «Ma siete così tanto piene di curiosità da cadere ai piedi del primo uomo che vi fa una lusinga.»
«Questo non è affatto vero.»
«Ah no?»
«Io di sicuro non cederei così facilmente.»
«Ed io al contrario credo che se veniste corteggiata da un vero libertino, vi ritrovereste nel bel mezzo di uno scandalo nel giro di un istante. Anche se, in una corte, scandali di quel tipo non vengono presi molto in considerazione.»
«Avete una così bassa opinione di me?»
«Non di voi, ma della vostra capacità di cedere alle lusinghe di un uomo. Siete stata a Londra, giusto?» lei annuì. «Non ditemi che nemmeno un giovanotto vi ha fatto battere il cuore o che magari avreste desiderato ben più di un semplice sfiorarsi di mano.»
«John! Stai parlando ad una signorina, non dimenticarlo» lo rimproverò Vincent.
Giusto.
Alla buona società piaceva far crescere le giovani donne nell’ignoranza più totale, per cui cosa ne poteva sapere Camille di che genere di scandali stesse parlando o del desiderio e di quello che succedeva in una camera da letto?
Si impose di calmarsi, soprattutto perché la stava rimproverando neanche fosse suo padre e lui di paternali non poteva proprio permettersi di farne.
«Scusatemi, ho parlato a sproposito.»
«Non scusatevi. È evidente che abbiamo una visione del mondo e delle cose completamente diversa… può darsi che abbiate ragione, ma credo anche che siate un po’ troppo sicuro delle vostre idee. Ora perdonatemi, ma ho una lettera da scrivere. Chiederò alla signora Potter di portarmi il pranzo in camera, ci vedremo questa sera per la cena. Con permesso.»
John la guardò andare via. Probabilmente con quelle ultime parole sperava di farlo sentire in colpa, ma non era così.
O forse sì?
Che diamine, non era mai stato tanto sincero come in quel momento. Lei non se ne era resa conto, ma quella con ogni certezza era stata la conversazione più onesta che avesse mai avuto in… quanti? Vent’anni di vita? Certo avrebbe potuto usare parole meno forti o un atteggiamento più accondiscendente, ma a quale scopo?
Era sempre difficile accettare la realtà delle cose, lui ne era l’esempio lampante, ma lei era una donna che non aveva mai conosciuto davvero un uomo e a quel mondo di onesti gentiluomini ce n’erano ben pochi dunque perché sentirsi in colpa?
«Dico, ti ha forse ucciso il cane?»
John bevve un sorso di tè giusto per camuffare il sospiro rassegnato. Era ovvio che suo padre non potesse stare zitto, ma glie ne diede atto. Gli aveva chiesto di essere più gentile con Camille e lui non solo non lo aveva ascoltato, ma aveva cercato ogni minima scusa per scontrarsi con lei.
«Mi dispiace» disse semplicemente.
«Ti dispiace!» esclamò furioso. «Io davvero non so cosa ti abbia preso… ho sorvolato sulla cena di ieri sera pensando fossi stanco e quindi di cattivo umore, ma oggi? Che bisogno c’era di trattarla tanto male?»
«Avete perfettamente ragione, padre… è solo che devo ancora abituarmi al cambiamento» mentì.
«Lo capisco» disse invece Vincent, abboccando alla menzogna. «Ma voglio molto bene a quella giovane e non vorrei mai saperla infelice a causa tua. Dopotutto ha solo ventun anni, che esperienze di vita credi che abbia? Non c’è bisogno di contraddire tutto quello che dice. Parlare poi di corteggiamenti e sfioramenti di mani… l’avrai sconvolta e qui non c’è nessuno che possa consolarla.»
«Non penso sia così sconvolta come voi pensate, ma ammetto di aver esagerato. Mi scuserò con lei questa sera stessa.»
«Bene… e spero di non dover più assistere a questi battibecchi. Non scherzo quando dico che è diventata come una figlia per me, per cui considerala anche tu come una sorella: una persona da proteggere e a cui riservare il tuo affetto.»
John cercò di non alzare gli occhi al cielo, pensando che non era mai stato in grado di proteggere nessuno nella sua vita. E per quanto riguardava il considerarla una di famiglia, non c’era niente di più lontano fra loro che considerarsi fratello e sorella.
Amali John, loro ti aiuteranno ad andare avanti. Promettimelo.
Maledetto Henry e maledetta promessa.
Con quale coraggio poteva confessare tutti gli orrori che aveva visto? Che era vivo solo perché Henry si era sacrificato per lui?
In un attimo rivide la palla di cannone schiantarsi sul carro, le schegge di legno che volavano ovunque e gli si conficcavano nella carne. E poi il peso del corpo di Henry sopra di sé. Gli si era gettato addosso, coprendolo evitando che le schegge lo colpissero in petto.
Gli aveva salvato la vita quel giorno e lui non aveva fatto nulla per ricambiare quel sacrificio, solo scappare.
Sospirò.
«Tenterò, promesso. Ora che ne dite di visionare gli ultimi libri contabili? Voglio capire come sono andati gli introiti in mia assenza.»
Il sorriso che gli riservò suo padre non ebbe bisogno di ulteriori parole.






Ciao a tutt*!
Volevo spendere due parole per scusarmi per il ritardo nella pubblicazione del capitolo... purtroppo il lavoro è stato molto stressante in questo periodo e il tempo per scrivere praticamente nullo! Spero di riuscire a riprendere ad aggiornare con più continuità!
Grazie a chi fino ad ora ha speso qualche minuto del suo tempo per leggere e recensire!
A presto,
Vale 

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Capitolo 6
*** Capitolo 5 ***


CAPITOLO 5

 
 


Camille faceva male il braccio per il troppo scrivere. Era arrivata alla quinta pagina e non aveva ancora finito.
Purtroppo le lettere dall’Italia e viceversa impiegavano settimane ad arrivare, di conseguenza sia lei che Heather scrivevano quanto più possibile, facendo resoconti dettagliati del tempo trascorso. Ovviamente erano quelle della sorella le più corpose, siccome le sue giornate erano molto meno entusiasmanti e povere di grandi avvenimenti. Quel particolare giorno però, anche Camille aveva un bel po’ di cose da dire e rileggendo le ultime due pagine si chiese se forse non avesse esagerato. Dopotutto con Heather c’era Jamie e sentir parlare tanto male del fratello avrebbe potuto non fargli piacere.
Ripensandoci però no. Era giusto sapesse quanto maleducato fosse.
Sbuffò nervosa.
Mai in tutta la sua vita era stata trattata in modo così sgarbato. Ed era anche evidente che si divertiva molto a infastidirla e a trattarla come una sempliciotta priva di giudizio, ma quello che le faceva contorcere le viscere era il fatto che la lasciava sempre senza parole. Nei loro brevi dibattiti infatti era riuscito ad averla sempre vinta, mentre lei si ritrovava con le spalle al muro. Niente. Muta come un pesce e incapace di controbattere.
Detestava chi la metteva in quelle situazioni, perché era come se avesse torto… ed era ovvio che non fosse così.
Per esempio, tornando al discorso dei libertini, chi gli assicurava che sarebbe capitolata alla prima lusinga? Se così fosse stato, si sarebbe sposata alla sua prima stagione insieme ad Heather. Invece si trovava miglia e miglia da Londra, sola e prossima a diventare zitella. L’unica volta che aveva ceduto alla corte di un uomo era stato durante il suo fugace incontro con Malcolm Bennett, finito ancor prima di iniziare grazie a sua sorella. Ed era ovvio che lo aveva seguito sulla terrazza esclusivamente per sapere cosa si provasse ad essere baciata. Non era una stupida come John amava credere ed era anche consapevole della reputazione di Malcolm. Il fatto che avesse scelto proprio lui era perché credeva che baciare un libertino fosse molto più emozionante rispetto ad un semplice gentiluomo. Le signore li definivano più esperti e dato voleva che quel momento fosse perfetto in modo da arrossire ripensandoci in futuro, e non sapendo lei da che parte cominciare, meglio affidarsi a chi sapeva davvero cosa stava facendo.
 
E pensare che ero così emozionata all’idea di conoscere John… ora invece vorrei non fosse mai tornato! Ha una così bassa opinione di me, di quello che sono e del mio modo di pensare che da quando è arrivato non fa altro che sminuirmi e farmi sentire una sciocca… è assolutamente tedioso ed irritante! E credimi se ti dico che non ho fatto alcunché per meritarmi un trattamento simile. Sembra avermi giudicata ancor prima di conoscermi.
E vuoi saperne di più? Per un momento ho pensato che fosse addirittura affascinante!
Oh Heather come vorrei che fossi qui… ti prego torna presto, non credo di poter resistere ancora per molto senza il tuo supporto.
 
Finì la lettera con quelle esatte parole, con la speranza che Heather avesse pietà di lei e decidesse sul serio di tornare. Ne dubitava. Dopo quasi un anno in cui aveva bellamente ignorato le sue domande riguardo un ipotetico ritorno non si faceva illusioni, ma chi poteva saperlo… magari era la volta buona. E allora sì che l’avrebbe fatta sentire in colpa! Se si aspettava abbracci e lacrime di commozione si sbagliava di grosso. Non le avrebbe parlato per almeno tre giorni, poi si sarebbe lamentata per altri quattro e forse dopo un’altra settimana sarebbe tornata a rivolgerle la parola per più di un minuto senza risultare antipatica.
Il bussare della porta la fece sobbalzare e tornare in sé. Guardò il piccolo orologio sullo scrittoio e… già le tre del pomeriggio? Chi poteva essere che veniva a disturbarla?
Non dirmi che…
«Signorina, state riposando?» bussò di nuovo Jane.
Ma certo. Figurarsi se quel pomposo di John si scomodava a venire a chiedere scusa. Ingenua lei ad averlo anche solo pensato.
«No, entra pure Jane.»
«Scusate signorina, ma è appena arrivata la duchessa di Southlake.»
«Oh». Era talmente tanto impegnata a scrivere che non si era nemmeno accorta dell’arrivo di una carrozza.
Susan Wortham, duchessa madre di Southlake, era la personalità più importante ed influente, nonché la più ricca, di tutta la Cumbria. A confronto i visconti di Lodgewood non erano nulla, ma Vincent poteva vantare un’ottima amicizia con la nobildonna. Lui e il suo defunto marito erano cresciuti insieme, pertanto era normale si fosse presentata lì quello stesso pomeriggio e per di più senza invito o preavviso. Non che la duchessa avesse bisogno di mandare biglietti che ne annunciassero l’arrivo: era già un onore la sua sola presenza.
Ricordava bene l’autunno scorso, quando era andata a casa di Elisabeth Ridder insieme a zia Shaw per un tè pomeridiano. Si era presentata di punto in bianco per congratularsi della nascita del futuro erede dei Ridder dopo ben tre femmine e aveva creato così tanto scompiglio e nervosismo nella padrona di casa che la settimana seguente era rimasta costretta a letto con l’influenza. Il motivo di tanta ansia era per il fatto che non era stato preparato alcunché di adatto a ricevere una duchessa, solo qualche biscotto di pasta frolla. Grazie al cielo Sua Grazia non era una donna che badava a certe piccolezze, ma in ogni caso la sua presenza generava sempre una certa tensione.
Per quello decise di cambiarsi. Non era consono presentarsi con un abito da giorno vecchio e forse sporco di pittura e siccome sicuramente l’illustre ospite era stata fatta accomodare nel salottino con il pianoforte, per non morire di freddo optò per un abito pesante di velluto verde smeraldo: era caldo e sufficientemente elegante per stare alla presenza di una donna del suo rango. Solo intanto che si incamminava lungo la scalinata si ricordò che anche John quel giorno era vestito di verde, ma ormai di cambiarsi un’altra volta non c’era tempo per cui sperò che nessuno pensasse si fosse vestita del suo stesso colore apposta. Sarebbe stato il colmo.
Riflettendoci bene, forse era meglio non presentarsi.
Non aveva voglia di fronteggiarlo ancora, specialmente alla presenza della duchessa. Però se tornava indietro all’improvviso fingendo un malessere, zio Vincent apprensivo com’era avrebbe chiamato il medico e se qualcuno si fosse sentito davvero male nel mentre che il signor Thompson la visitava non se lo sarebbe mai perdonata. Inoltre non era una scusa credibile. In tutta la sua vita non si era mai ammalata: non un raffreddore o mal di testa o febbre. Dopo la brutta caduta da cavallo si era ripromessa di non voler stare mai più bloccata a letto e così era stato, dunque non poteva dire di non sentirsi bene, avrebbero pensato che fosse in punto di morte.
Sospirò sconsolata.
Ma perché quell’uomo non poteva essere gentile come Jamie? Possibile che le fortune capitassero tutte solo ad Heather? Che fine aveva fatto lei?
Fu con quei pensieri che arrivò nel corridoio antecedente il salottino. Si sentiva la chiara e squillante voce della duchessa che parlava proprio con John e lui risponderle cordiale.
Forza e coraggio. Dov’era finita tutta la sua intraprendenza? Non era da lei lasciarsi intimidire a quel modo e così, facendo un bel respiro, entrò nella stanza evitando prontamente anche solo di cercarlo con gli occhi, preferendo invece soffermarsi sulla giovane seduta al fianco della duchessa.
Accidenti, era bellissima.
Fisico minuto, viso perfettamente ovale, labbra carnose, qualche lentiggine sulle guance rosee, occhi e capelli color dell’ebano. Sembrava uscita da un quadro del Botticelli tanto era perfetta. Indossava anch’ella un vestito di velluto, color panna e a strisce marroni, e se ne stava con lo sguardo basso, quasi impaurita, come se fosse la prima volta che prendeva il tè con dei gentiluomini.
Camille si morse le guance dall’invidia, perché lei un’aria di così sconfinata innocenza era sicura di non averla mai avuta. Heather forse, che era modesta e capace di emozionarsi per ogni più piccolo gesto. Lei no. I piccoli gesti non le appartenevano, come nemmeno fare la timida per convenzione.
Quella ragazza comunque non sembrava fingere: tutto di lei urlava dolcezza e non si sorprese nel vedere che John le stava sorridendo garbato. Un sorriso che a lei non aveva mai rivolto neanche per sbaglio. Era seduto sulla poltrona accanto al loro divanetto, una gamba piegata e quella che zoppicava stesa dritta, e conversava senza il minimo accenno di giudizio o aria tronfia.
Banale.
Banale e scontato.
A quanto pareva gli uomini preferivano davvero le donne tappezzeria, come le chiamava Camille. Se ne era resa conto a Londra, poiché erano le giovani riservate e silenziose le prime a sposarsi, quelle che arrossivano per un banale saluto o che piangevano per un mazzo di fiori. Quelle ragazze che, come pensava lui, sarebbero cadute nelle braccia del primo uomo che avrebbe fatto loro un complimento.
Pff… se avesse dovuto piangere lei per ogni fiore ricevuto, a quell’ora doveva già essere bella che annegata. Quanto all’essere silenziosa… bè, se mai si fosse sposata suo marito avrebbe dovuto munirsi di pazienza, perché che se ne stesse zitta in un angolo a ricamare non sarebbe successo nemmeno se il sole fosse tramontato ad est.
«Signorina Grey, finalmente vi vedo!» esordì la duchessa, annunciando in quel modo il suo arrivo.
«Duchessa… è davvero un piacere» disse con un inchino, poi si diresse alla poltroncina accanto a John. Lui abbozzò un sorriso che sembrava più una smorfia, lei invece lo ignorò. Che continuasse pure a sorridere all’altra signorina presente, di sicuro ne sarebbe rimasta entusiasta.
Purtroppo però quella vicinanza forzata le faceva arrivare alle narici il suo profumo, un misto fra schiuma da barba e sandalo, e maledizione lo trovò davvero buono. Era forte, intenso, inebriante e… insopportabile.
«Camille, cara» disse Vincent. «Permettimi di presentarti la signorina Phoebe Simmons, protetta della nostra affezionata duchessa. È giunta sin qui dal Derbyshire un paio di settimane fa.»
«È un vero piacere, signorina Simmons. Spero che la Cumbria vi piaccia, ricordo che al mio arrivo la trovai incantevole.»
«Molto, signorina Grey. Devo ancora abituarmi al clima rigido però.»
«A questo temo non ci sia rimedio» intervenne la duchessa. «Ma se non altro, molto meglio delle infinite piogge di Londra.»
«Suppongo di sì, ma non essendoci mai stata non posso dirlo con certezza.»
«Non siete mai stata a Londra?» le chiese garbatamente, mentre prendeva una tazza di tè. Se non altro non era un’altra sventurata come lei mandata nel bel mezzo del nulla perché la sorella maggiore voleva viaggiare e fare l’avventuriera.
«No, purtroppo. Sono sempre rimasta nel piccolo cottage di mia zia.»
«Sapete la zia di Phoebe è morta questo inverno e siccome ero molto legata alla sua defunta nonna, ho deciso di prenderla sotto la mia ala protettrice. Un così bel fiore non meritava di rimanere in un villaggio di campagna, non credete?»
«Un gesto davvero nobile» disse Vincent.
Già, davvero nobile. Doveva essere una fanciulla importante se una duchessa era disposta a farle da patrocinatrice. Eppure se era vissuta in un cottage in campagna, non doveva essere molto abbiente… anzi, forse non aveva nemmeno una dote.
«Naturalmente non avendo mai avuto un’adeguata educazione sarà mia premura istruirla al meglio, cosicché la prossima primavera possa fare il suo debutto in società a Londra. Dopotutto avrà diciannove anni, l’età perfetta per trovare un buon marito.»
«Posso assicurarvi che sarà un’esperienza bellissima» disse Camille, ripensando con nostalgia a quelli che erano stati i mesi più felici della sua vita. Chissà se avrebbe mai avuto l’opportunità di tornarci. Anche se forse era meglio di no. Le sue amiche ormai erano tutte sposate e tornare voleva dire confrontarsi con giovinette come Phoebe: belle, dolci e soprattutto fresche. Lei ormai poteva considerarsi una donna utile solo per fare da chaperonne alle inesperte debuttanti.
Santo cielo!
Un’ondata di sconcerto la travolse, pensando che era diventata esattamente come quelle donne che più detestava: una donna da tappezzeria.
Sgranò gli occhi spaventata, guardandosi confusamente intorno. Incontrò solamente gli occhi grigi di John, che vedendola tanto sconvolta non fece altro che sollevare un sopracciglio perplesso.
Ovvio. Cosa ne poteva capire dei suoi turbamenti? Lui non aveva di quei problemi: anche se aveva oltre trent’anni continuava ad essere un uomo affascinante e nei salotti di Londra sarebbe stato circondato da madri e nubili come se fosse un barattolo di miele in un alveare. Lei invece come sarebbe stata a trent’anni? Con i capelli bianchi, grassa e con tre gatti a farle da compagnia.
Cielo, le venne da piangere.
Bevve un lungo sorso di tè, cercando di calmarsi.
«…a Londra, intendo» disse Phoebe.
Vedendo che tutti guardavano verso di lei doveva appena averle chiesto qualcosa.
«Perdonate, avete detto?»
«Se siete mai stata a Londra.»
«Oh, naturalmente… ho debuttato due anni fa, l’unica stagione a cui ho avuto il piacere di partecipare. Mia sorella si è sposata in quell’occasione, con il figlio minore del visconte.»
«Il matrimonio della stagione, così l’hanno definito i giornali» disse la duchessa. «Una giovane davvero a modo, vostra sorella. Peccato non vogliano tornare a casa… sarebbe da bugiardi non dire quanto sia curiosa di vederla prima della nascita del piccolo. Non sarebbe magnifico, se decidesse di darlo alla luce qui a Lodgewood?»
«È quello che speriamo tutti. Zio Vincent ormai non sta più nella pelle.»
«Caro visconte come vi capisco. Diventare nonni è una benedizione ancor più che diventare genitori… una gioia immensa. Spero tanto di vederli presto, ma ad ogni modo non è per parlare della signora Mortain che sono qui» una pausa strategica, un sorso di tè. «Naturalmente era perché volevo dare il bentornato al caro John, ma anche per darvi questo» e tirò fuori dal borsello un biglietto che aveva tutta l’apparenza di essere un invito.
Ti prego, fa che sia un ballo…
«Sono stati i miei figli ad organizzare il tutto, io all’inizio ero alquanto scettica, ma devo concordare sul fatto che settant’anni non si compiono tutti i giorni, per cui ecco: l’invito al ballo per festeggiare il mio compleanno. Sarà fra tre venerdì e mi aspetto che tutti voi partecipiate… anche perché non vi perdonerei mai se mancaste, non dopo essermi scomodata personalmente per portarvi la notizia.»
Il malumore di Camille lasciò ben presto posto alla contentezza.
Aveva proprio bisogno di un evento come quello per distrarsi e soprattutto per andare a Windermere a fare acquisti. Nell’ultimo numero della rivista di moda di Madame Latouche aveva visto infatti che la vita degli abiti quell’anno si era abbassata di due centimetri, pertanto aveva un disperato bisogno di vestiti nuovi. E nel mentre si emozionava all’idea di andare dalla modista, un’idea iniziò a balenarle nella mente.
Osservò John di sottecchi. Come c’era da aspettarsi la sua faccia era il contrario della sua: livida, scura e con le sopracciglia aggrottate. Ma il partecipare ad un ballo non era niente in confronto a quello che stava per succedere.
«Non mancheremo per nulla al mondo» si affrettò a dire Vincent.
«Molto bene. Suvvia Phoebe, credo sia tempo di togliere il disturbo» e così dicendo si alzarono, seguite dai due gentiluomini e da lei.
Era il momento.
«Signorina Simmons, aspettate.»
«Sì, signorina Grey?»
«Ecco… mi stavo domandando, dato domani volevo andare a Windermere per alcuni acquisti, se vi andrebbe di unirvi a me.»
«Oh!» esclamò sorpresa Phoebe. In effetti anche a lei non aveva fatto una grande impressione, ma primo era l’unica persona disponibile per attuare il suo piano e secondo magari conoscendola meglio avrebbe potuto trovare un’amica.
«Mi farebbe davvero piacere la vostra compagnia» aggiunse, giusto per calcare la mano.
«Ecco, non so se…» farfugliò, spostando lo sguardo sulla duchessa.
«Bè non vedo cosa ci sia di male» disse questa. «Purché non andiate sole.»
«Non vi preoccupate, non saremo sole» disse e nel mentre si voltò verso John. Questi la guardò sollevando lo stesso sopracciglio e con lo stesso fare perplesso di prima, mentre quello che lei gli riservò fu un sorriso di pura malvagità. «John ci accompagnerà» concluse, sentendo i cori angelici per quel suo trionfo.
«Cos-»
«Proprio oggi diceva che sarebbe dovuto andare lui stesso a Windermere, non gli dispiacerà affatto farci da accompagnatore» lo interruppe lei. Non gli avrebbe dato la possibilità di dire alcunché.
Di nuovo si voltò a guardarlo. I suoi occhi erano diventati neri dalla rabbia e se solo avesse potuto, si sarebbe messo ad urlare.
«Capisco» fece la duchessa contenta. «Allora credo proprio di non avere nulla in contrario.»
«Benissimo. Passeremo per le due del pomeriggio» e dopo un ultimo inchino, le signore lasciarono la stanza.
La sua vendetta aveva appena avuto inizio.

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Capitolo 7
*** Capitolo 6 ***


CAPITOLO 6




 
Se fino al giorno prima gli avessero detto che non esisteva niente di più terrificante dei sotterranei di Brownston Castle, con ogni probabilità avrebbe comunicato al suo interlocutore che aveva ragione. Dopo il pomeriggio appena passato però, si sentiva in dovere di dire che le stanze delle torture rinvenute in quella fortezza non erano niente in confronto all’accompagnare due signorine a fare acquisti… o meglio, una signorina in particolare visto che Phoebe Simmons era rimasta entusiasta quanto un bambino di fronte al precettore che assegnava i compiti.
Camille no.
Camille era stata alla pari di una grandinata estiva.
Partendo dal presupposto che non si erano più parlati dal pomeriggio precedente – quell’abile cospiratrice aveva pensato bene di fingersi stanca per saltare la cena e non dover in quel modo affrontare tutta la sua ira – anche quella mattina quando si erano visti per la colazione John aveva preferito ritirarsi in un rigoroso silenzio. Primo perché parlandole si sarebbe fatto saltare i nervi, già indubbiamente tesi per le prospettive che quella giornata riservava, e secondo perché Camille gli aveva tirato un mancino talmente perfetto da non poter in alcun modo controbattere.
L’aveva chiaramente sottovalutata.
Non era facile fregarlo. Dopo tutti quegli anni passati a ricercare sospettati governativi, spie e assassini pensava di aver accumulato una certa esperienza, ma lei c’era riuscita lo stesso. Era stata furba come una volpe, mettendolo in una situazione in cui non aveva potuto obiettare… non senza risultare maleducato agli occhi di una personalità come la duchessa. Dopotutto fino a prova contraria era un gentiluomo e come tale non poteva sottrarsi all’onore e al piacere di fare da scorta a due signorine dell’alta società. Così con la rabbia in corpo, l’orgoglio ferito e la coda fra le gambe aveva dovuto accettare il suo destino senza fiatare.
Purtroppo l’inizio di quel pomeriggio non fu dei più rosei. Dopo un pranzo leggero e dopo essersi preso un rimprovero per i dieci minuti di ritardo nei quali Camille era stata costretta ad aspettarlo nell’atrio del castello neanche fosse una cameriera qualunque, per citare le sue parole, erano partiti in tutta fretta per andare a prendere la signorina Simmons. Ovviamente anche in quel frangente non si erano rivolti la parola ed entrambi avevano provato un gran sollievo nell’accogliere Phoebe in carrozza. Seguirono saluti cordiali e frasi di circostanza dettate dalle buone maniere, dopodiché poté tornare felicemente a farsi gli affari suoi. Camille invece iniziò a parlare a ruota libera con Phoebe, in quello che a John parve più un interrogatorio che semplici domande sulla sua vita prima di trasferirsi in Cumbria.
Quando poi arrivarono in città, vennero per prima cosa trascinati dalla modista. Una signora sulla quarantina e vestita con un improbabile e alquanto orrendo abito color pesca li accolse felice come una Pasqua. Evidentemente doveva sapere molto bene che quando era Camille ad entrare nella boutique i suoi introiti aumentavano esponenzialmente, perché per tutto il tempo l’aveva fissata come avrebbe fatto un gatto col topo. In effetti così era stato: usando la scusa che secondo le direttive di moda di Madame Latouche la vita degli abiti femminili si era abbassata di ben due centimetri, aveva acquistato stoffe per confezionare otto nuovi vestiti: cinque da sera e tre da pomeriggio.  Avevano perso più di un’ora a scegliere le maledette stoffe per i maledetti abiti, per poi correre dal calzolaio per abbinarci le scarpe giuste.
John provò pietà per quel pover’uomo costretto a correre da una parte all’altra del piccolo negozio per farle vedere i modelli disponibili.
«Solo questi?» aveva osato chiedere Camille, osservando i dieci tipi diversi che aveva di fronte.
Avrebbe voluto strozzarla. Il calzolaio però, in nome degli affari e di ben duecento sterline, fu molto felice di disegnare tre nuovi modelli seguendo le sue rigide direttive. A detta di Camille sarebbero state un enorme successo, specialmente se avesse voluto proporle anche ad altre signore. In effetti John non osava mettere in dubbio il suo buon gusto, era ovvio che seguendo giornali di moda ed avendo partecipato alla stagione di Londra ne sapeva più lei di tutta Windermere, ma ciò non toglieva il fatto che quella situazione fosse totalmente assurda. Quanto si poteva essere viziati e petulanti per non riuscire ad accontentarsi dei modelli già disponibili? E John pensava che la tortura fosse finita lì, ma si sbagliava di grosso. Dopo una cioccolata calda e neanche il tempo di riprendere fiato, erano tornati dalla modista per scegliere nastri per capelli e borsette da abbinare alle scarpe. Poi era stato il turno del cappellaio, altra pugnalata dove non batteva il sole. Infine, per ultimo ma non meno importante, erano andati dal gioielliere per scegliere due paia di orecchini e una collana che potessero star bene con tutti gli abiti che aveva acquistato.
«Signorina Grey, non potremmo fare una pausa?» l’aveva implorata Phoebe all’ennesimo trascinamento per le strade della città.
A lui invece era venuto il mal di testa. Non ne aveva mai sofferto in trentaquattro anni di vita eppure da quando conosceva Camille – soltanto tre giorni! – era già la seconda volta che gli veniva. E ringraziò il cielo per il fatto che fosse appena iniziata la primavera e che quindi le giornate non erano ancora troppo lunghe, altrimenti non aveva idea di quanto ancora sarebbero stati in giro.
Maledetta Camille e maledetta madame Latouche. Non aveva alcuna pietà per i pover’uomini costretti a spendere migliaia di sterline per far stare mogli e figlie al passo coi dettami della moda. Era inconcepibile. Se mai fosse andato a Londra sarebbe andato lui stesso a scambiare due parole con quella fattucchiera, poco ma sicuro.
E mentre tornavano verso Southlake Castle, John osservò con tenerezza la povera Phoebe Simmons: aveva il viso stravolto dalla stanchezza, alcune ciocche erano sfuggite alla crocchia e aveva gli occhi persi. Se non fosse stato per la breve distanza tra Windermere e la dimora della duchessa si sarebbe persino addormentata.
Anche lui era stravolto. Mal di testa a parte, era la gamba a dargli fitte atroci e mascherarle era sempre più difficile.
Lo stupido lì era stato lui. Avrebbe potuto fermarsi al club e restare a leggere un giornale sorseggiando un brandy tutto il tempo, ma per orgoglio si era imposto di seguire le due giovani ovunque volessero andare. Per fortuna a causa della timidezza Phoebe non era quasi riuscita a guardarlo, mentre Camille era troppo presa dai suoi acquisti per notare la fatica che aveva fatto per stare al suo passo. E fu un bene, perché non voleva che lo vedesse come lo storpio che era. Non avrebbe sopportato il suo sguardo compassionevole. L’unico ad essersi accorto del suo malessere era stato Daniel.
Sì, c’era anche lui. Era stata la punizione giusta: la sera prima si era messo a ridere a crepapelle quando gli aveva raccontato del siparietto con la duchessa, così gli aveva ordinato di accompagnarli. Era stato costretto a portare i numerosi pacchetti per tutta la città ed era pronto a scommettere che anche a lui fosse venuto il mal di testa.
Camille al contrario era fresca come una rosa appena sbocciata. Aveva gli occhi che luccicavano di felicità, le gote arrossate e una parlantina che non aveva dato alcun cenno di cedimento.
«Grazie per questo pomeriggio» disse Phoebe, dopo essere scesa dalla carrozza aiutata da Daniel. «È stato molto piacevole.»
Era chiaro che stesse mentendo, ma Camille non se ne accorse. «È stato un vero piacere anche per me avere la vostra compagnia» disse infatti. «Dobbiamo assolutamente rifarlo!»
Phoebe sgranò gli occhi spaventata a quell’esclamazione, poi con un inchino e un saluto veloce si dileguò in un istante. Forse aveva paura che quel diavolo sottoforma di fanciulla la rapisse per un altro giro in città. Come biasimarla, anche lui aveva lo stesso timore.
Ed ecco che erano di nuovo soli.
«Un pomeriggio perfetto, non credete?» ebbe il coraggio di chiedere non appena ripartirono.
John la guardò pieno di rabbia.
«Suvvia non fissatemi come se voleste uccidermi da un momento all’altro… per prima cosa non è per niente educato osservare una donna con quel cruccio spaventoso e secondo tenere le sopracciglia sempre aggrottate fa venire le rughe e data la vostra età non forzerei la mano. Inoltre» continuò, senza dargli il tempo di ribattere. «Potevate anche dire qualcosa di diverso da “sì” e “no”… per poco non ci avete rovinato il pomeriggio.»
«Io avrei rovinato il pomeriggio?» sbottò. Aveva resistito fin troppo. «Ma vi sentite quando parlate? L’unica ad aver reso questo pomeriggio terrificante siete stata voi!»
«E perché mai? Non ho fatto alcunché di male.»
«Ma se ci avete trascinati per ogni singolo negozio della città. Capisco che volevate farla pagare a me, ma che c’entrava quella povera ragazza?»
«Bè, cosa vi aspettavate di preciso? Siamo andati a Windermere per fare acquisti, non certo per guardarci in faccia!»
«Mi state dicendo che per voi il pomeriggio si è svolto in maniera del tutto naturale, senza alcuna forzatura?»
«Mi pare ovvio!»
John rimase sconcertato. E lui che credeva avesse fatto la maniaca solo per ripicca, invece no: era proprio così.
Un brivido freddo gli percorse la schiena e gli fece venire la pelle d’oca. Era un incubo. Uscita dal peggior girone dell’inferno. Pensò anche al poveretto che avrebbe avuto la sfortuna di sposarla, se mai avesse trovato qualcuno di così folle da farlo, costretto a vivere quella maledizione ad ogni cambio di stagione.
Sospirò rassegnato, premendosi una mano sulla fronte e massaggiandola.
«Che avete da sospirare?» si stizzì lei. «Offendere me e la mia amica non era sufficiente? Dovrei essere io a sospirare, non certo voi.»
«Per favore, smettetela» disse, senza speranza e senza forze. Era del tutto prosciugato. «Non ho offeso né voi né la signorina Simmons… e poi come fate a definirla una vostra amica? La conoscete da sole quattro ore.»
«Non posso certo definirla una conoscente, visto che siamo rimaste d’accordo di incontrarci sabato pomeriggio per un tè. E poi il mio intuito difficilmente sbaglia, per cui vi posso assicurare che io e quella ragazza diventeremo ottime amiche.»
«Ah, come vi invidio» la canzonò. «Riuscire a capire le persone con un solo sguardo non è da tutti… suppongo sia un altro dei vostri numerosi talenti.»
«Prendetemi pure in giro, ma è la verità.»
«Come dite voi, signorina Grey» concluse, sperando in quel modo di non sentire più le sue inutili chiacchiere, ma naturalmente il silenzio non era una cosa contemplata dalla sua compagna di viaggio.
«Ha funzionato anche con voi» disse appunto.
Cielo… che qualcuno le tappasse la bocca per sempre.
«Ma non mi dite.»
«Poi ho capito che non c’era affatto bisogno di comprendervi: siete esattamente come vostro padre, solo dieci volte più scontroso e pieno di pregiudizi» e detto quello si lasciò andare contro lo schienale della carrozza, incrociando le braccia al petto più infuriata che mai. «Davvero non capisco perché mi detestiate tanto… ecco, l’ho detto!»
«Io non vi detesto affatto» disse di getto.
«Ah no? Allora avete un modo singolare di dimostrarlo, dato ci conosciamo da soli tre giorni e pare mi abbiate giudicata da tutta la vita.»
«Non è colpa vostra.»
«Allora di chi?»
Mia.
Ma non poteva dirglielo. Si sarebbe messa a ridere nel sentire le sue motivazioni, esattamente come i suoi superiori quando gli avevano chiesto come mai il primogenito di un visconte volesse abbandonare tutto per andarsene in giro in vari Paesi rischiando la vita.
«Dunque? Sono in attesa» continuò Camille imperterrita.
«Non penso possiate realmente capire o sopportarlo.»
«Voi provateci… le mie spalle sono più forti di quello che sembrano.»
Forse era così. Ma poteva sfogarsi con lei? Cosa poteva mai saperne Camille di quello che aveva vissuto e dei suoi sentimenti quando le sue uniche preoccupazioni erano stare al passo con le riviste di moda e partecipare ai balli?
Per la prima volta da quando era arrivato la guardò davvero negli occhi. C’era il mondo all’interno di quei pozzi color ambra e John se ne pentì immediatamente. Vi lesse rabbia, curiosità e comprensione. C’era anche tanta fiducia. Il problema era che erano anche magnetici, pericolosi. Se non fosse stato attento, avrebbe potuto perdercisi dentro.
Fu lui a distogliere lo sguardo per primo. Poi sospirò di nuovo. Probabilmente se ne sarebbe pentito, ma almeno se si fosse offesa a vita non avrebbe più dovuto avere a che fare con lei. Chissà come mai, quel pensiero non lo lasciò troppo entusiasta.
«La verità è che voi siete esattamente il motivo per cui me ne sono andato» disse secco.
«Io? E come potrei, undici anni fa ero soltanto una bambina e non sapevo nemmeno chi foste!»
«No, avete ragione, mi sono espresso male. Quello che intendevo non era voi singolare, ma le persone come voi in generale.»
«Perdonatemi, ma non capisco.»
«Persone frivole, superficiali… gente egoista che pensa solo a sé stessa e ai divertimenti.»
«Oh.»
«Non fate l’offesa, siete voi ad aver insistito.»
«Sì, certo, è solo che… pensate davvero questo di me? Che sono un’egoista viziata?»
«Volete una risposta sincera?» chiese e lei annuì. «Sì» ammise quindi senza giri di parole. «Dal primo momento in cui vi ho vista ho pensato che foste così e dopo questo pomeriggio ne ho avuto la conferma.»
Lei non rispose.
Si fissò le mani e un leggero rossore cominciò ad apparire sulle guance.
«Vi sbagliate» sussurrò, dopo un tempo che parve infinito. «E comunque, cosa vi avrebbero mai fatto quelle persone di tanto grave? La stragrande maggioranza non la conoscevate nemmeno, per cui che torto vi hanno fatto tanto da costringervi ad andarvene? Lo trovo assurdo e senza senso.»
«Dopo che tornai dalla guerra ero un uomo devastato» disse, incapace di fermare le parole e i pensieri. «Non avete idea di quello che ho visto e vissuto durante quegli anni. A Waterloo poi sono quasi morto, non fosse stato per un angelo custode che mi ha salvato la vita. Così, quando dopo la convalescenza tornai a Londra mi aspettavo…» si bloccò. «Bè, non sapevo nemmeno io cosa aspettarmi, ma certo non una totale indifferenza.»
Ancora silenzio.
«Non un pensiero per le migliaia di giovani morti, non un commento… l’unico scopo di quei nobili pomposi era organizzare battute di caccia, giocare a carte e fare scommesse da White’s. E nemmeno le donne fecero differenza. Madri che avevano addirittura perso i figli se ne stavano sedute nei salotti a conversare come se niente fosse successo, a far maritare le figlie e a sperperare denaro. Capite ora?»
«Forse… un pochino, sì.»
«Non potevo rimanere. Mi sentivo soffocare ogni qual volta entravo in un club o in una sala da ballo. Se avessi potuto, li avrei uccisi per il loro disinteresse. Chiamatemi pure codardo se volete, sono consapevole del fatto che molti altri hanno continuato a vivere cercando di andare avanti come potevano, ma io non ci sono riuscito. Provavo troppo odio, così me ne sono andato… e per il resto sapete anche voi com’è andata a finire.»
«Mi dispiace.»
«Non è colpa vostra, ve l’ho detto. Perdonatemi se vi ho messa a disagio» si sentì comunque in dovere di dire.
«Non lo avete fatto» fece lei sorridendo. Un sorriso amaro, carico di tristezza. «Se non altro ora so perché non potete nemmeno guardarmi senza provare rabbia, però posso dire una cosa?»
«Certamente.»
«Non che con questo voglia difendermi… anzi no, un po’ sì, voglio difendermi… però, esattamente, cosa vi aspettate che faccia?»
«Come?»
«Avete detto che sono superficiale e che penso solo ai balli e a sperperare denaro, ma nel caso vi fosse sfuggito io sono una donna… cos’altro potrei fare se non quello?»
John ammutolì.
«Non ho grandi aspettative come voi uomini» continuò seria. «Da quando sono nata l’unico scopo prefissatomi è stato quello di fare un buon matrimonio. Tutta la mia istruzione ruota attorno a quello: non mi hanno insegnato fisica, matematica o medicina, ma a ricamare, a come mandare avanti una casa e a come rendermi adeguata agli occhi degli uomini. Credete che mi piaccia?»
«Non che vi dispiaccia» si difese lui. Quel discorso lo stava inaspettatamente mettendo con le spalle al muro.
«No, certo… e posso anche darvi ragione quando dite che sono viziata. So bene che lo sono, grazie al cielo ho avuto la fortuna di ricevere un’eredità nonostante sia una donna e amo seguire la moda, così come adoro andare ai balli e a teatro… e vi dirò di più: mi manca terribilmente Londra. Quando mia sorella ha deciso di mandarmi qui ho pianto per una settimana intera. Ho cercato in tutti i modi di farle cambiare idea e anche adesso spero torni presto, in modo da tornare alla mia vita di sempre… ma credete davvero che non abbia altre aspirazioni? Pensate che non abbia desiderato anche io di viaggiare in Europa come ha fatto Heather? Santo cielo, non posso nemmeno andare in città da sola senza il timore di vedere rovinata la mia reputazione! Se per esempio fossimo a Londra e qualcuno scoprisse che abbiamo passato del tempo da soli in carrozza senza uno chaperonne, le conseguenze sarebbero disastrose per me… voi invece verreste semplicemente etichettato come un libertino.»
Aveva ragione.
Che fosse dannato se pensava ci fosse qualcosa che non filava in quella confessione e per la prima volta la guardò sotto una luce diversa. Non più come una giovane spocchiosa, ma semplicemente come una ragazza che voleva godersi appieno la vita… o almeno quel poco che le era permesso dalla società. Lui non lo aveva potuto fare. La sua giovinezza l'aveva passata in guerra e quando era tornato era ormai troppo tardi. Il sangue e le battaglie lo avevano segnato nel profondo, non lasciandogli vie d'uscita.
«Vi chiedo scusa» disse sinceramente. «È evidente che vi abbia malgiudicata, il che vi dà ragione anche sul fatto che sono pieno di pregiudizi» continuò, sentendo un altro pezzo di orgoglio andarsene.
Messo a tacere da una giovane di ventun anni… era decisamente meglio se non fosse mai tornato. 
«Accetto le vostre scuse» disse invece lei felice e soddisfatta. «E penso che d’ora in avanti potremmo anche andare d’accordo. In fondo anche io vi ho malgiudicato, fidandomi del mio istinto.»
«Ma come!» scherzò lui. «Credevo non sbagliasse mai.»
«Ancora una volta siete in errore» ridacchiò compiaciuta. «Poco fa infatti ho detto che il mio intuito difficilmente sbaglia, non che non lo faccia mai.»
«Touché, signorina Grey.»
«Camille.»
«Come?»
«Penso che possiate chiamarmi Camille, no? Se vi va naturalmente. In fondo chiamo vostro padre “zio Vincent” per cui credo non ci sia niente di male nel superare certe formalità, specialmente ora che ci siamo chiariti e… oh no!» esclamò spaventata e in un istante divenne rossa fino alla punta delle orecchie.
«Che succede?»
«Ecco… è molto imbarazzante, non credo di poterlo dire.»
«Voi provateci, ho le spalle molto più forti di quanto sembra» disse, ripetendo le sue esatte parole. Camille però era sempre più rossa.
«La lettera» quasi piagnucolò.
«La lettera?»
«Ricordate che ieri è arrivata una lettera da Heather? Bè… io naturalmente le ho risposto e…» non riuscì a finire.
John per poco non scoppiò a ridere.
«Fatemi indovinare: avete decantato in maniera molto eloquente le mie numerose qualità?»
«Non scherzate… e comunque è tutta colpa vostra» sbottò, di nuovo infuriata. «Se vi foste preso la briga di parlarmi prima, certo non lo avrei fatto!»
«Ora sarebbe colpa mia?»
«È sempre colpa vostra!» esclamò con veemenza. John scosse la testa rassegnato, ma sorrise lo stesso. «Però se siamo fortunati forse il signor Montgomery non è ancora andato a spedirla» continuò imperterrita. «Ieri era brutto tempo e oggi sarà stato indaffarato per via della cena di domani sera… certo a meno che non abbia affidato la mia risposta ad uno dei camerieri. In quel caso, temo sia troppo tardi.»
«Camille, calmatevi» disse. Gli fece uno strano effetto chiamarla per nome, ma gli piacque. «Non credo sia così grave come pensate e poi a me non importa.»
«Ma certo che lo è! Se mia sorella ricevesse la lettera e mi rispondesse, poi dovrei spiegarle che mi sono sbagliata e detesto contraddirmi da sola.»
«Ah… è questo allora il problema: il vostro formidabile intuito che ha preso un granchio» disse, mentre un sobbalzo della carrozza gli fece picchiare il ginocchio contro lo sportello.
John imprecò dal dolore.
«Vi fa molto male?» chiese Camille preoccupata.
«Di solito no… oggi l’ho forzato troppo e queste sono le conseguenze.»
«Temo sia colpa mia… avreste potuto dirlo, ci saremmo fermati.»
«Davvero?»
Lei arrossì di nuovo.
«Datemi le mani» disse, ignorando la domanda la cui risposta era indubbiamente un “no” secco. Poi iniziò a sfilarsi i guanti.
«Che state facendo?»
«Darvi un po’ di sollievo» sorrise, mostrando i palmi. «Coraggio, datemi le mani» ripeté.
Incerto, John fece come gli aveva ordinato, così Camille gli prese i polsi e iniziò a disegnare una serie di piccoli cerchi con il pollice sui palmi. Ogni tanto premeva forte, altre volte era più delicata.
«Cosa state facendo?» domandò di nuovo, sentendosi a disagio. Forse lei non aveva idea di cosa quei gesti significavano, ma un uomo o una donna esperti avrebbero scambiato quei massaggi per qualcosa di intimo ed erotico. Lui per esempio. E non andava affatto bene.
«Quando ero piccola caddi da cavallo» disse lei, ignorando del tutto le sue reazioni. «Avevo sei anni e siccome nella caduta mi ruppi un braccio, un polso e battei la testa talmente forte da rischiare di morire, fui costretta a rimanere a letto per un mese intero.»
«Mi dispiace» mormorò, cercando di distrarsi, ma le sue mani stavano diventando sempre più bollenti.
«Lo so, è stato terribile… comunque, essendo così piccola, non facevo altro che piangere. Avevo dolore dappertutto e odiavo stare immobile in quel letto tutta fasciata, per cui mia madre per farmi stare meglio faceva così: mi prendeva le mani e i polsi e iniziava a massaggiarli. Non che servisse a qualcosa, non appena smetteva il dolore tornava tanto come prima, però se non altro riusciva a distrarmi e a darmi sollievo per un po’. Funziona?»
«Direi di no» disse senza pensare. Era una tortura più che un sollievo, ma sembrava talmente fiduciosa che preferì non fiatare oltre.
«Oh… bè, suppongo non funzioni perché non siete più un bambino» rise, iniziando a disegnare cerchi anche sui polsi.
I sensi di John si tesero tutti insieme.
«Forse» disse, mentre la carrozza si arrestava.
Grazie al cielo erano arrivati.
Svelto allontanò le mani dalle sue come bruciato. Anche lei fece lo stesso, per nulla turbata.
Fu Daniel ad aprire la portiera, aiutandola a scendere. Poi scese anche lui.
«Bene, signor Cooper fate portare tutto nelle mie stanze» disse, sollevando le gonne e incamminandosi verso l’entrata. «E dite a Jane di preparare l’acqua, ho bisogno di un bagno. John?» lo chiamò. Lui divenne rigido come un paletto. Non si aspettava di venire interpellato con il nome proprio. Fu devastante. «Grazie per avermi accompagnata oggi, so bene quanto vi sia costato» concluse sorridendo, poi prese le scale e lui la guardò sparire oltre l’ingresso.
L’imprecazione di Daniel lo fece tornare in sé.
«Mi rimangio tutto quello che ho detto l’altra sera» disse, mentre aiutato dal cocchiere tirava giù i pacchi.
«Perché, che cosa hai detto?» chiese distratto, le mani che ancora bruciavano. Con stizza strinse e riaprì i pugni un paio di volte.
«Che è una signorina a modo, gentile e cordiale… non lo è per niente! Mi tocca dare ragione a quell’arrogante di Fox.»
John trovò la forza per sorridere e mentre anche lui entrava nel castello, gli venne in mente quello che aveva pensato riguardo al poveretto che avrebbe avuto il coraggio di sposarla. Fu solo un istante, ma per un momento quell’uomo assunse un volto: il suo. E fu come un fulmine e ciel sereno.

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Capitolo 8
*** Capitolo 7 ***


CAPITOLO 7

 



 
«Devo ammetterlo, venire qui è stata un’idea magnifica» esclamò Phoebe contenta, mentre teneva in braccio uno degli otto cuccioli di labrador del signor Smith. Era un fittavolo del visconte che abitava a solo mezz’ora a piedi dall’immenso e seicentesco palazzo della duchessa e dato il tè pomeridiano stava diventando alquanto noioso ed essendo quella una bellissima e calda giornata primaverile, aveva proposto quell’uscita improvvisata.
«Sono felice che vi piaccia… questi cuccioli dopotutto sono dei veri tesori, impossibile non rimanerne incantate» disse Camille, mentre il piccolo che aveva in braccio le leccava e mordicchiava le dita della mano. «Vorrei tanto portarne a casa uno.»
«Perché non lo fate?»
«Perché a Lodgewood ci sono già i levrieri di zio Vincent… sono cani terribilmente territoriali che non hanno mai avuto a che fare con altri animali in tutta la loro vita, per cui non ho idea di come possano reagire alla presenza di un altro cane. Non voglio che ad uno di questi piccoli venga fatto del male, non lo sopporterei.»
«Vi capisco… la duchessa invece li detesta, non sopporta quando abbaiano per cui temo che prenderne uno sarebbe oltremodo disdicevole.»
«Siamo entrambe sfortunate» sospirò Camille. «Ma grazie al cielo al signor Smith non dispiace se veniamo qui di tanto in tanto.»
«Ci siete già stata spesso?»
«Solo una volta, per caso. Stavo tornando da uno dei miei soliti pomeriggi con zia Shaw e passando di qua ho visto che c’era la carrozza di zio Vincent, così mi sono fermata. Era presente anche John insieme a lui. Sai gli Smith sono loro fittavoli da anni e anni e così nel mentre loro discutevano di affari, la signora Smith mi ha mostrato i cuccioli… una tenerissima scoperta, non convenite?» cinguettò.
«Assolutamente! E se posso permettermi, mi è parso di capire che voi e lord Mortain andiate finalmente d’accordo… quando siamo stati in città sembravate detestarvi a vicenda.»
Camille si permise di arrossire, ripensando alla conversazione che avevano avuto ormai più di due settimane addietro.
Era stato inaspettato.
Mai avrebbe pensato che il motivo per cui John era stato lontano da casa e dagli affetti per tanti anni fosse a causa dell’indifferenza del ton nei confronti della guerra. Sarebbe stato molto più logico se fosse stato per via di qualche trauma subito, dei brutti ricordi o, perché no, di un cuore spezzato. In fondo non sarebbe stata una novità: l’amata fidanzata che decide di sposare un altro gentiluomo perché lui era lontano e con l’incertezza del ritorno. Un cuore infranto lo si poteva sanare, ma un odio così profondo le pareva impossibile.
Si era vergognata come il peggiore dei ladri quando glie lo aveva detto, soprattutto perché se in quel periodo fosse stata grande abbastanza da frequentare i salotti mondani di Londra, si sarebbe comportata esattamente come gli altri nobili. Certo non lo avrebbe fatto apposta, guerra e battaglie non erano gli argomenti più gettonati durante le feste, ma le parole dure di John le erano servite per farle aprire gli occhi e per farle capire quanto realmente fosse viziata e superficiale.
Non era stato facile ammetterlo.
Ci aveva messo ben tre pomeriggi solitari più altrettante notti in bianco, arrivando alla conclusione che purtroppo a parte sé stessa non si era mai curata troppo degli altri. L’unica eccezione era stata Heather e anche in quel caso avrebbe potuto sforzarsi molto di più.
La verità era che non aveva mai dovuto preoccuparsi di nulla. Dopo la morte dei genitori era stata la sorella ad accudirla e consolarla, a trasmetterle tutto quell’amore genuino e materno che dei lontani cugini ereditari non avrebbero mai potuto fare e a lei andava bene così. Le era sempre stato permesso fare tutto quello che voleva e fintanto che le cose andavano in quel modo non c’erano problemi… era quando qualcuno le si metteva per traverso che iniziava a fare capricci e lagnarsi come la peggiore delle debuttanti.
Era successo con Heather e la sua luna di miele; con Heather e il desiderio di sposare Jamie e sempre con Heather quando l’aveva implorata di portarla ad Hollybrook con sé per non lasciarla sola insieme al cugino Anthony e famiglia. La sorella sempre l’aveva accontentata con un sorriso e senza chiedere nulla in cambio, ma evidentemente alla fine si era stufata. Ecco perché non aveva alcuna intenzione di lasciare l’Italia. Non per via delle bellezze di Napoli o della gravidanza, ma perché tornare voleva dire riaverla con sé… un fardello che era ben felice di lasciare al suocero e al cognato.
«Abbiamo chiarito le nostre posizioni» disse, tornando a concentrarsi sulla sua amica e cercando di mettere da parte quei tristi pensieri. «Vi chiedo scusa, immagino vi siate sentita a disagio.»
«Niente affatto» affermò Phoebe. «Anzi, direi piuttosto che mi avete fatta sorridere… sembravate più una vecchia coppia sposata che semplici conoscenti.»
«Come avete fatto a dedurre una cosa tanto assurda!» quasi urlò Camille, spaventando i poveri cagnolini.
«Non lo so… forse perché i vicini di casa di mia zia si comportavano esattamente come voi e lord Mortain. Lui era sempre scontroso e polemico, mentre lei esuberante e sorridente. Bisticciavano tutti i giorni eppure anche dopo trent’anni di matrimonio non potevano fare a meno di amarsi incondizionatamente.»
«Vi assicuro che le vostre supposizioni sono del tutto errate.»
«Davvero?» fece pensierosa. «Però dovete ammettere che sia un uomo attraente. Nel piccolo villaggio dove sono cresciuta, uomini come lui non sapevamo nemmeno che esistessero» disse, arrossendo in un attimo.
«Phoebe!» la rimproverò Camille. «Non ditemi che vi siete presa una cotta per lord Mortain!»
«Perché, voi no?»
«Assolutamente no!» esclamò convinta, ma Phoebe scoppiò ugualmente a ridere. Lei invece rimase turbata. Forse erano preoccupazioni inutili, ma aveva avuto l’impressione che l’amica avesse preso il suo diniego come un tacito assenso. E se così fosse, sarebbe stato un enorme problema, perché con la duchessa che ficcava il naso negli affari altrui e l’incapacità di mentire di Phoebe c’era il rischio che scoppiasse un pettegolezzo di proporzioni mondiali.
Forse doveva dire qualcos’altro… ma cosa?
La signora Carson le ripeteva sempre che era meglio troncare sul nascere determinate insinuazioni. Se le avesse lasciate andare infatti, potevano diventare reali e non andava affatto bene. Anche se dovette concordare con Phoebe riguardo il commento sulla bellezza di John. Non era una stupida e grazie al cielo i suoi occhi ci vedevano benissimo. Da lì però a pensare di potersene innamorare… no, non sarebbe stato possibile. Erano troppo diversi e non le andava di passare la vita costantemente sotto giudizio perché voleva andare ad un ballo, perché amava seguire la moda e fare folli acquisti o perché desiderava passare gran parte del suo tempo a Londra e nei salotti. Sarebbe stato orribile. E poi c’era da dire che non c’era alcun presupposto che le facesse pensare di poter essersi invaghita di John: nessun sfarfallio allo stomaco, nessuna palpitazione o arrossamento improvvisi… insomma, niente di niente. Non che sapesse realmente cosa voleva dire essere innamorati, ma i romanzi parlavano chiaro. Soprattutto aveva parlato chiaro sua sorella, che durante il corteggiamento di Jamie se ne era stata tutto il tempo a sospirare e a rileggere le lettere che le scriveva.
Camille ad ogni modo era dell’idea che sospiri e arrossamenti non facevano parte del suo carattere. Era convinta che nel momento in cui si fosse innamorata, la sensazione sarebbe stata più simile ad un pugno sulla testa. Si sarebbe sentita mancare totalmente il fiato e sarebbe svenuta per lo shock, altro che sospiri.
«Le signorine gradiscono un tè?» chiese la signora Smith, ponendo fine ai suoi ragionamenti.
«No grazie, signora Smith… temo sia ormai tempo di tornare a palazzo.»
«Concordo» disse Phoebe. «Si è fatto più tardi del previsto e la duchessa potrebbe preoccuparsi.»
«Grazie per averci dato la possibilità di stare con i cuccioli.»
«È stato un vero piacere… e naturalmente siete libere di tornare quando volete.»
«Siete molto gentile» e detto quello, dopo una serie di inchini e saluti, si incamminarono verso Southlake Castle.
Era un vero toccasana poter tornare a passeggiare dopo i lunghi e desolati mesi invernali. Più di tutto però, era bello farlo a braccetto con un’amica.
Era felice di riuscire ad andare d’accordo con Phoebe. All’inizio, e di quello ancora se ne rammaricava, l’aveva usata solo per la sua vendetta contro John, credendola troppo timida ed introversa per riuscire a suscitarle un qualche interesse. Aveva invece poi con piacere scoperto che quel lato del suo carattere si palesava solo in presenza di altre persone, sconosciuti per lo più e per lo più uomini, mentre quando erano sole si lasciava andare a battute e risate… oltre che a strambe supposizioni.
Ed ecco che ripensava di nuovo a John.
Insomma! Possibile che la sua mente non preferisse altro? Le centinaia di fiori che stavano sbocciando ad esempio, o il cinguettio degli uccelli… o, perché no, lo scampanellio dei greggi di pecore in lontananza, anche se a lei personalmente non interessavano né i greggi né le pecore. A quanto pareva no. Adorava sbatterle davanti agli occhi la figura di John: John che sorrideva, John che stava concentrato a leggere i libri mastri, le spalle di John e le braccia in bella mostra per via delle maniche della camicia tirate su fino a gomiti, le gambe di John… santo cielo! Guance arrossate a parte, se il suo cuore non stesse continuando a battere ad un ritmo regolare avrebbe dovuto dar ragione a Phoebe e contraddirsi per l’ennesima volta. E chi l’avrebbe sentito allora John, se gli avesse detto che il suo intuito si era sbagliato di nuovo? Già immaginava la sua aria tronfia e i suoi giudiziosi occhi grigi che la guardavano consapevoli del fatto che si era sbagliata perché del tutto inesperta di esperienze di vita.
Con un brontolio e uno sbuffo scosse la testa, mentre da lontano si iniziava a sentire il classico rumore di zoccoli sul terreno.
Cercando di non farlo notare a Phoebe le strinse più forte il braccio ed ecco che cavallo e cavaliere fecero capolino da dietro la collina. Un gigantesco cavallo nero che galoppava a tutta velocità e il cui cavaliere non sembrava avere la minima intenzione di frenarlo.
«Ma guarda che impudente» disse sovrappensiero, mentre con disappunto vedeva che l’uomo in questione si accorgeva della loro presenza e girava verso la loro direzione. Almeno ebbe la decenza di rallentare la corsa.
«Ma è il signor Sterling!» esclamò Phoebe sorridente, sollevando il braccio in segno di saluto mentre questi si avvicinava sempre di più.
«Lo conoscete?»
«Sì… sir Thomas Sterling, un baronetto, nipote della signora Beckett.»
«Non sapevo che la signora Beckett avesse un nipote… a dire la verità vista la scarsa presenza di persone al suo funerale il mese scorso, credevo fosse completamente sola.»
«È un lontano parente, almeno per quanto detto dalla duchessa. È venuto qui per ereditare.»
«Ma non mi dire» disse Camille con asprezza.
Ecco un altro cosiddetto gentiluomo che veniva a prendersi ciò che non era suo, esattamente come il cugino Anthony. Era da tutti considerato un modesto gentiluomo di campagna eppure, non appena aveva ricevuto notizia dell’eredità di suo padre, si era catapultato a South Hams atteggiandosi da gran signore e avendo addirittura l’ardire di contestare il testamento che lasciava a lei e ad Heather dote e mantenimento annuale. Lo aveva detestato fin da subito. Sia lui che la moglie Margareth e le figlie Dorothy ed Esther. L’unico con cui andava d’accordo era il figlio George, per poi scoprire che si mostrava gentile solo perché Anthony sperava che sposasse o lei od Heather e riavere così almeno una delle due doti.
Approfittatori, ecco cos’erano realmente.
«Non giudicatelo male» disse invece Phoebe. «Da quanto ha detto la piccola tenuta della signora Beckett è in decadimento, è venuto qui solo su suggerimento del suo amministratore: vuole valutare se vale la pena sistemarla oppure venderla. In più è un baronetto che ha una rendita di oltre cinquemila sterline, non se ne farebbe di nulla. Contando poi che la signora Beckett non aveva alcun parente stretto qui, non ha avuto altra scelta.»
«Può darsi… ma voi come fate a sapere tutte queste cose?»
«Due pomeriggi fa la duchessa lo ha invitato per un tè e in quell’occasione ci siamo conosciuti. Certo posso anche sbagliarmi, ma non mi ha dato l’idea di essere in malafede… è stato molto gentile e cordiale ed era molto rammaricato per non aver saputo prima delle condizioni della zia, altrimenti sarebbe venuto ad assisterla durante i suoi ultimi giorni.»
«Se lo dite voi… ma mi riservo il giudizio per quando lo avrò conosciuto meglio.»
«Avrete la possibilità di farlo proprio adesso» disse l’amica arrossendo, mentre il signor Sterling si fermava esattamente di fronte a loro.
Camille si morse la lingua per tacere la sua esclamazione. Perché in quel breve dibattito Phoebe le aveva detto tutto, tranne che quel Thomas Sterling tanto era bello sembrava esattamente il principe azzurro delle favole.
Alto, slanciato e anche atletico a giudicare da come era sceso da cavallo, biondo e con gli occhi azzurri. Aveva un buonissimo profumo di muschio e indossava un completo blu scuro che metteva in risalto le spalle ampie e le gambe muscolose. Zigomi alti, labbra sottili e un sorriso che sarebbe stato in grado di sciogliere il ghiaccio.
Lo stomaco di Camille fece una capriola quando lui si tolse il cilindro per porgere i saluti, liberando i riccioli che gli caddero sbarazzini sulla fronte. Veniva voglia di infilarci dentro le mani.
«Signorina Simmons… è davvero un piacere rivedervi così presto.»
«Lo è anche per me, signor Sterling… spero che la cavalcata sia stata gradevole.»
«Molto, soprattutto grazie a questo clima mite… una vostra amica?» chiese poi, spostando lo sguardo su Camille.
Lei deglutì a vuoto.
«Oh sì, che maleducata… signor Sterling, lasciate che vi presenti la signorina Camille Grey.»
«Signorina Grey» disse lui inchinandosi e sfoderando un sorriso micidiale.
«S-Signor Sterling» rispose lei, cercando di ricomporsi. Si sentiva le guance andare a fuoco. Non si aspettava di vedere un uomo del genere lì nel South Lakeland. Uno come lui doveva essere a Londra circondato da corteggiatrici, che ci faceva lì?
Ah, giusto, la zia Beckett e l’eredità.
Sveglia, Camille! Vuoi che ti creda una tonta?
«Fate una passeggiata?»
«Stiamo rientrando a palazzo proprio ora» disse Phoebe.
«Allora permettetemi di accompagnarvi.»
«Non è necessario che vi scomodiate tanto, siamo quasi arrivate» disse Camille, forse con un po’ troppa enfasi.
«Cosa si direbbe di me se mi rifiutassi di accompagnare due signorine a casa sane e salve? Prego, dopo di voi» disse gentile, prendendo le briglie del cavallo e affiancandole.
Diamine, non era abituata a tanta cortesia… se ad esempio al suo posto ci fosse stato John non solo avrebbe proseguito la sua corsa senza avere l’accortezza di rallentare, ma sicuro le avrebbe anche sporcato il vestito di fango.
«È da molto che siete qui, signorina Grey?»
«Quasi un anno… da quando mia sorella ed il marito hanno deciso di partire per la luna di miele.»
«Una luna di miele piuttosto lunga» disse sorridendo. «Ma se non altro è il segno di quanto amino stare l’uno insieme all’altra.»
«Probabilmente è così, sì. A quanto pare si sono innamorati della città di Napoli e così hanno acquistato una villa sul mare… nel frattempo mia sorella è rimasta incinta e non volendo rischiare sulla salute mettendosi in viaggio, temo che dovrò stare qui ancora per un po’.»
«Capisco… e immagino siate ospite di qualcuno.»
«Sì, del visconte di Lodgewood, lord Vincent Mortain… è il padre del marito di mia sorella.»
«È stato molto gentile ad ospitarvi nel mentre vostra sorella è via. Avrei voluto che anche la mia visita qui fosse dovuta a circostanze ben diverse, ma purtroppo così non è.»
«Sì, Phoebe mi ha detto che siete il nipote della signora Beckett… mi dispiace molto.»
«Non sapevo nemmeno della sua esistenza. È stato il mio amministratore a farmelo presente, dopo essere stato contattato dall’avvocato di mia zia. Vorrei averlo saputo, sarei potuto arrivare prima.»
«Non dovete farvene una colpa, di sicuro la signora Beckett sarebbe stata felice di sapere che la sua piccola tenuta non andrà perduta e in rovina» intervenne Phoebe con convinzione.
«Lo spero… ma non parliamo di questo triste argomento» disse, tornando a sorridere cordiale. I suoi occhi azzurri brillarono alla luce del sole che stava iniziando a tramontare dietro alle colline e i capelli biondi assunsero sfumature ramate.
Quello sarebbe stato il momento migliore per lasciarsi andare ad un sospiro, ma si impose di cercare di non rimanere troppo affascinata. Perché anche se quell’uomo era bello come un sogno e gli era parso sinceramente rammaricato per le sorti della povera zia Beckett, ancora non era del tutto convinta della sua buona fede. Mille sterline l’anno non erano molte, almeno non per chi al contrario di lei doveva mandare avanti una tenuta, ma avrebbero permesso a chiunque di vivere dignitosamente.
«Ditemi sarete al ballo, il prossimo venerdì?» le chiese, mentre si avvicinavano al palazzo.
La mezz’ora più veloce di tutta la sua vita.
«Certamente… a quanto predetto sarà l’evento dell’anno e in più non è possibile mancare ad un ballo indetto dalla duchessa di Southlake. Tutta la buona società di Windermere parteciperà… il che, immagino, comprenda anche voi.»
«Sono stato invitato, sì… ma ho alcuni affari urgenti da sbrigare che mi richiamano a Londra e non sono sicuro di riuscire a parteciparvi.»
«Oh… che peccato» disse, cercando di non lasciare intendere la sua delusione.
«Davvero non riuscite a rimandare?» domandò Phoebe, mentre arrivavano davanti all’enorme cancello che segnava l’ingresso della proprietà.
«Purtroppo temo di no… ma prometto che farò il possibile per tornare in tempo, se non altro per non perdere l’occasione di ballare con voi, signorina Simmons, o temo altrimenti di entrare a far parte della lista nera della vostra patrocinatrice» disse e Phoebe si lasciò sfuggire una risatina nervosa, prima di diventare rossa come un pomodoro. «Naturalmente spero nel caso di poter danzare anche con voi, signorina Grey» continuò, ma Camille non si lasciò confondere.
«Non amo vivere nella speranza che qualcosa accada, signor Sterling, sono più una che bada alle certezze della vita» rispose sorridendo. Il signor Sterling sgranò per un momento gli occhi, chiaro segno che non si aspettava una risposta del genere, ma si riprese subito.
«Come darvi torto, signorina Grey… e se la mettete su questo piano temo di non avere altra scelta: dovrò certamente partecipare al ballo» disse inchinandosi, dopodiché con un piccolo balzò salì in sella al cavallo. «È stato davvero un piacere conoscervi… a presto» e come era apparso, in un attimo scomparve di nuovo nella brughiera.
Camille ebbe la sensazione di tornare a respirare dopo ore di apnea.
«È davvero affascinante, non credete?» disse Phoebe sognante.
«Mmh non lo so… un po’ troppo civettuolo per i miei gusti e soprattutto consapevole della sua bellezza.»
«Consapevole o meno, qualunque ragazza perderebbe il cuore per uno come lui.»
«Phoebe! Ma non eravate infatuata di John?» scherzò Camille.
«Oh suvvia non giudicatemi così!» ma stavano già ridendo. «La duchessa dice che è del tutto normale e che lei alla mia età si innamorava ogni minuto di un uomo diverso. E poi non ditemi che non lo trovate bello.»
«Mia cara Phoebe non lo trovo solo bello, lo trovo dannatamente e insopportabilmente bello!» esclamò tornando a prendere a braccetto l’amica, continuando a parlare fitto fitto del signor Sterling e ridacchiando.
Una volta poi tornata al castello evitò prontamente di dire del suo infatuante ed incredibile incontro del pomeriggio. Non tanto perché voleva tenerlo nascosto, ma semplicemente perché se si fosse lasciata sfuggire un commento di troppo, temeva che John iniziasse a giudicarla riguardo le sue capacità di resistere e capitolare alle lusinghe degli uomini. Avrebbero finito col litigare e dato che avevano trovato un certo equilibrio, non voleva perdere il sonno per colpa sua.
Solo prima di addormentarsi si permise di ripensare agli occhi azzurri e al caldo sorriso del signor Thomas Sterling. Non voleva ammetterlo, ma in realtà ci sperava davvero che riuscisse a partecipare al ballo. Vedere una faccia nuova era sempre piacevole, soprattutto se la faccia era come la sua, e in più ballare con lui voleva dire toccare quelle magnifiche braccia e spalle.
Come una ragazzina nascose il viso sotto alle coperte ridacchiando fra sé e sé, lasciando andare quel sospiro che aveva trattenuto per tutta la giornata.
Quella notte sognò occhi azzurri, ma anche capelli neri. Ghiaccio grigio intenso e un sole splendente. Sognò anche un sorriso, ma al risveglio non seppe dire a chi appartenesse… e quello la lasciò particolarmente turbata.

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Capitolo 9
*** Capitolo 8 ***


CAPITOLO 8

 
 

 
In quelle ultime tre settimane, John aveva dovuto ricredersi su tutte le sue più profonde convinzioni.
La prima che aveva dovuto abbandonare era quella sull’essere tornato. Undici anni a ripetersi che sarebbe stato uno sbaglio, che se ne sarebbe pentito amaramente, invece superati i primi giorni con sua enorme sorpresa tutto aveva iniziato ad andare meglio.
Le visite ai fittavoli erano state costruttive, gli incontri con gli amministratori estenuanti come ben ricordava e la lettura dei libri mastri più piacevole di quanto si aspettasse. Suo padre nel vederlo così motivato e preso nella gestione della tenuta pareva ringiovanito di vent’anni e con lo stupore di tutti, maggiordomo e valletto per primi, aveva ritirato fuori gli strumenti per la caccia. Purtroppo a causa del tempo instabile prima e degli impegni amministrativi dopo erano riusciti ad andarci solo due volte, la prima rientrando vergognosamente a mani vuote e la seconda con un solo fagiano come trofeo.
«Io avrò anche la scusa della vecchiaia e dei troppi anni passati ad oziare, ma tu figliolo sei proprio un disastro» gli aveva detto suo padre scherzando.
«Nelle piantagioni non c’è molto tempo per la caccia» aveva risposto, ma il senso di colpa dovuto a quella menzogna non lo aveva più turbato come all’inizio.
La verità era che era entrato in una sorta di zona di conforto. Certo non era felice di dover continuare a mentire, ma se non altro stava cercando di fare di tutto per tornare ad essere l’uomo che era destinato a diventare.
Non gli dispiaceva.
Era bello non doversi preoccupare più di nulla o di mantenere una falsa identità circondato da tanti possibili nemici e complice il suo buon umore, anche la gamba aveva iniziato a fargli meno male. Non era sicuro fosse merito del suo ritrovato benessere mentale, ma stranamente non aveva risentito delle galoppate durante la caccia e passeggiare per i giardini di Lodgewood era stato rigenerante. Era come essere uscito da un bozzolo.
La seconda certezza che aveva dovuto abbandonare era l’odio per gli incontri mondani.
Alla prima cena ufficiale indetta da suo padre, esattamente tre giorni dopo il pomeriggio a Windermere con Camille e la signorina Simmons, temeva di far scoppiare un putiferio. Ricordava bene la sensazione di oppressione al petto che aveva provato a Londra ogni qual volta aveva messo piede in un salotto e aveva il terrore di non riuscire a reggere, di scappare di nuovo come un vigliacco insieme ai ricordi che lo soffocavano.
Non era successo.
Vuoi perché non era più un ragazzo, vuoi perché in quegli anni sotto copertura aveva dovuto comunque partecipare alla vita di società o vuoi perché l’aria di casa davvero lo stava aiutando a superare quella sua paura, ma si era quasi divertito. Naturalmente non ci fosse stata quella cena e quelle che erano seguite a casa di zia Shaw e di altri intimi conoscenti sarebbe stato meglio, ma era stato bello ritrovare vecchi amici, persone che mai si sarebbe aspettato di rivedere e che lo avevano accolto con calore e senza giudizio. In particolare ritrovò i vecchi compagni di scuola: Gabriel Ridder, ora felicemente sposato e padre di quattro figli, e Charles Wright, sempre il solito scapolo incallito.
Insieme a loro aveva preso a frequentare il club di Windermere, a ritrovarsi a casa di uno o dell’altro per passare qualche ora di svago giocando a carte, bevendo del buon brandy e, gamba permettendo, a tirare di scherma. Era come essere tornato ragazzo, con l’unica differenza che non correva più dietro a qualsiasi gonna che si muoveva.
E a proposito di gonne… la terza ed ultima convinzione che aveva dovuto lasciarsi alle spalle era, ovviamente, Camille.
Dopo il loro chiarimento, in quelle due settimane si erano avvicinati parecchio… o meglio: Camille e i suoi infiniti sproloqui si erano avvicinati, lui aveva cercato di convincersi che sarebbe stato bene anche facendosi gli affari suoi.
Errore gigantesco.
Lo aveva capito il primo giorno in cui lei non era entrata come una furia nel piccolo studio dove si ritirava a leggere i libri contabili, interrompendo la sua pace e la maggior parte delle volte facendogli rovesciare il tè sui fogli per lo spavento… perché naturalmente bussare era troppo complicato, molto meglio spalancare la porta con veemenza e col rischio di farla cedere.
Di solito le cause delle sue visite erano delle più inutili e disparate: i biglietti della sarta che la informavano che i suoi abiti non erano ancora terminati, la duchessa che non permetteva a Phoebe di andare con lei a Windermere a prendere la cioccolata calda, i cani di suo padre che le ringhiavano contro come fossero belve e così via. Argomenti del tutto superflui che testimoniavano quanto fosse annoiata da quella routine, eppure il giorno che non si era presentata non aveva potuto fare a meno di chiedersi se le fosse successo qualcosa. Aveva provato a resistere, ma poi era uscito dallo studiolo e si era messo a cercarla per tutto il castello, per poi scoprire da Daniel che era uscita per accompagnare suo padre dall’oculista. Un’occasione in più per andare in città, stando alle parole dell’amico. Come un idiota era tornato sui suoi passi, dandosi dello stupido e cercando di non dare troppo peso all’accaduto.
Era stato in quel momento che aveva capito quanto suo padre avesse ragione: per quanto insopportabile, insistente, viziata e petulante fosse, non si poteva fare a meno di affezionarsi a lei. E John se ne stava rendendo conto fin troppo bene. Sebbene la maggior parte delle volte finissero per bisticciare e i momenti di tranquillità si potevano contare sulle dita di una mano, Camille stava iniziando a piacergli un po’ troppo.
Non poteva permetterlo. Una come lei meritava di meglio, non certo uno storpio pieno di segreti e fantasmi, ma nonostante quello, che si accorgesse di come lo aveva cambiato in così poco tempo sperava tanto lo notasse.
Amali e dimentica tutto.
Sì, ci stava riuscendo. In neanche un mese Camille era riuscita inconsapevolmente grazie alla sua voglia di godersi la vita a convincerlo che poteva farlo, poteva andare avanti. E forse fu proprio per quello che quel particolare pomeriggio, quando sentì dei passi rapidi e concitati avvicinarsi allo studiolo, anziché struggersi perché la sua pace e il suo lavoro stavano per finire, si mise a sorridere.
Era proprio curioso di sapere cosa di così tragico fosse successo. Di nuovo la sarta in ritardo? Ormai mancavano pochi giorni al ballo della duchessa e non osava immaginare la tempesta che si sarebbe scatenata se non avesse avuto un abito nuovo da indossare. O magari di nuovo il desiderio di avere uno dei cuccioli di labrador del signor Smith?
Non c’era bisogno di scervellarsi, lo avrebbe scoperto nel giro di tre, due…
«John!» esclamò all’improvviso Camille, catapultandosi nello studio col fiatone, facendo sbattere come al solito la porta e tenendo in mano il giornale scandalistico di Londra. La stagione era ormai in pieno svolgimento e ogni settimana c’era un nuovo argomento su cui spettegolare.
«Buon pomeriggio anche a voi» disse tranquillo lui, stirandosi la schiena e versandosi una tazza di tè.
«Non è affatto un buon pomeriggio, anzi: è una catastrofe!»
«Cos’è successo questa volta?» chiese divertito. Non ce la faceva proprio a rimanere serio in quei frangenti e quello non faceva altro che alterare lo stato emotivo della sua interlocutrice.
«È meglio che vi togliate quel sorrisetto insopportabile dalla faccia prima di subito, perché altrimenti vi giuro che questa volta vi rovescio sul serio l’intera brocca di tè bollente in testa!»
Appunto.
«Vi chiedo scusa» asserì, schiarendosi la voce e cercando di non offendere più del dovuto la sensibilità di Camille. «Dunque, cosa vi ha sconvolta tanto?»
Lei lo guardò storto, prima di sedersi sulla sedia di fronte a lui e sbattergli il giornale in faccia.
«Leggete! Leggete e capirete!»
«Se la smetteste di sventolarmelo davanti al naso, forse potrei anche farlo» disse e facendo un sospiro iniziò a leggere i vari titoli. «”Il giovane rampollo dei Portland sposa un’ereditiera americana per salvare la famiglia dal disastro del fallimento”… e quindi?»
«Ma non quello, questo!» e schiaffò il dito sulla carta troppo velocemente perché John potesse vedere con esattezza a cosa si stesse riferendo.
«”Henry Umbridge, ambito scapolo di molte madri, ha finalmente trovato”…»
«Santo cielo, avete bisogno anche voi di un paio di occhiali?» lo interruppe Camille indicando un articoletto in fondo alla pagina, talmente piccolo da passare inosservato.
«”Si annuncia il matrimonio tra la signorina Dorothy Kensington e James Edwards, marchese di Sommerfields. Dopo quattro stagioni ne danno il lieto annuncio il ricco possidente sir Anthony e la signora Kensington”… ah.»
Dorothy Kensington era l’odiata figlia dell’odiato cugino ereditario… ora capì lo sconforto di Camille.
«Mi dispiace» fu tutto quello che riuscì a dire. Lei invece si alzò stizzita dalla sedia, iniziando a camminare avanti e indietro nel piccolo spazio fra la libreria e il divanetto.
«Ancora non posso crederci… quell’arpia di Dorothy che si sposa e non con un gentiluomo qualunque, ma addirittura un marchese! È assurdo!»
«Se vi può far piacere saperlo, ricordo che quando ancora frequentavo Londra il marchese in questione aveva già superato i trent’anni.»
«Lo so bene… ma non è questo il punto.»
«Quale allora?»
«Primo: il fatto che Dorothy abbia trovato qualcuno che la sposi mentre io sono qui a far niente, prossima a diventare zitella e a morire sola come la povera signora Beckett. Secondo: Dorothy diventerà marchesa! Marchesa! Mio cugino avrà finalmente ciò che desiderava: una discendenza nobiliare e di sicuro ora anche il figlio potrà ambire ad un matrimonio di alto ceto sociale. Terzo: la mia vita è un susseguirsi di tragedie» e detto quello si distese drammaticamente sul divanetto.
John cercò di non fissare troppo la sua figura e allo stesso tempo un po’ di tatto per non ferirla. Posò il giornale sul tavolo e riprese in mano la tazza di tè. Ne bevve un lungo sorso, ma non gli veniva in mente nulla da dire. Cosa si diceva in questi casi? Che era fortunata a non aver sposato un vecchio stempiato? O che era fortunata il doppio perché sicuramente la cugina sarebbe rimasta infelice per il resto della sua vita? No, non avrebbe funzionato. Camille vedeva solo le parole “Dorothy” e “matrimonio”, nient’altro.
«Dico io, ma con tutte le signorine ancora nubili che ci sono, proprio Dorothy doveva sposare?»
«Bè, vedetela così: ci vuole una bella dose di coraggio nello sposare un uomo di vent’anni più vecchio e per nulla prestante dal punto di vista fisico, per cui credo che molte signorine abbiano gentilmente declinato l’offerta.»
«State dicendo che è stata obbligata a sposarlo?»
«Potete pensarla così o se vi aggrada di più, pensare a vostra cugina come ad una fanciulla talmente disperata e ossessionata dall’idea di diventare zitella da accettare la proposta del marchese.»
Camille ridacchiò compiaciuta a quella prospettiva, ma poi si voltò verso di lui guardandolo dritto negli occhi.
«Non è che nella vostra frase “disperata e ossessionata all’idea di diventare zitella” c’era qualche riferimento a me, vero?»
«Che ci crediate o meno, questa volta no.»
«Mmh… mi fido poco.»
«Giuro» disse John, alzando le mani in segno di resa. «E comunque, aldilà delle vostre convinzioni, posso assicurarvi che non morirete zitella.»
«Sì, come no… vedete forse qualche corteggiatore che non sia quel vostro amico, il signor Wright?» fece dubbiosa. «A proposito, mi ha di nuovo mandato dei fiori… per quale motivo non lo avete ancora dissuaso?»
«Non voglio spezzargli il cuore.»
«Il vostro amico ha forse un cuore che possa spezzarsi?» chiese e tutti e due si misero a ridere.
«Povero Wright, di certo non è così privo di sentimenti come sembra.»
«Solo un pochino» scherzò, alzandosi dal divano e rimettendosi seduta al tavolo.
«Tè?» le chiese John. Ormai si faceva portare sempre due tazze, non sapendo bene in quale momento della giornata si sarebbe presentata… e per fortuna Daniel gli aveva assicurato che tutta la servitù si era ben guardata dal commentare. C’erano state voci, tutte prontamente messe a tacere dal signor Montgomery. Non che a lui importasse: per quel che gli riguardava camerieri e cameriere potevano sollazzarsi come meglio credevano.
«Più che del tè avrei bisogno di whisky o brandy, ma visto che al contrario di mia cugina non sono sposata e perciò non posso bere alcolici se non mezzo bicchiere di vino durante le cene ufficiali, accetterò il vostro tè.»
«Suvvia Camille cercate di non dare troppo peso alla faccenda» disse gentile, mentre le porgeva la tazza. «Vostra cugina, se mai abbia avuto scelta e non sia stata una decisione presa da altri, si pentirà per il resto della vita di aver accettato di sposare Edwards, mentre voi avete ancora una grande possibilità: quella di innamorarvi.»
«Possibilità che svanisce sempre di più, dato nessuno è disposto ad accompagnarmi a Londra per la stagione» sbuffò, bevendo un sorso. «E l’anno prossimo anche Phoebe mi abbandonerà per tornare certamente maritata… e cosa mi rimarrà? Fare da dama di compagnia a zia Shaw.»
John scosse la testa divertito, seppur in cuor suo rimase un po’ deluso. Perché doveva a tutti i costi andare a Londra per trovare marito?
«Magari anche la stagione di Windermere potrebbe riservarvi delle sorprese» disse infatti. «Siamo solo ad aprile e la fine di giugno è ancora lontana.»
«Forse… voi ad ogni modo lo siete mai stato? Innamorato intendo. In fondo prima della guerra avete frequentato Londra e quando poi siete andato in Jamaica non avete incontrato nessuna?»
«No» rispose secco.
«Mai, neanche una volta?»
«No» ripeté.
Camille sembrava delusa.
«Ma avrete provato interesse almeno per qualcuna!»
«Infatuazione e innamoramento sono due cose ben diverse. È ovvio che mi sia infatuato di qualcuna, ma se parliamo di amore allora devo deludervi: non ho mai provato un sentimento simile.»
«E come avete fatto a capire la differenza? Che cosa vi ha fatto dire che per una determinata persona non provavate amore ma semplicemente affetto?»
«Me lo state chiedendo davvero?»
«Non che abbia qualcun altro a cui poterlo chiedere.»
«Vostra sorella non vi ha mai detto nulla?»
«Figuriamoci se mi diceva qualcosa! Ho passato due mesi a guardarla fare sospiri sognanti mentre leggeva lettere, ad osservare la parsimonia con cui si preparava per andare alle feste dove non vedeva l’ora di ballare con Jamie, ma non mi ha mai confidato niente… nemmeno sulla prima notte di nozze. E credetemi, ho insistito parecchio.»
«Posso immaginarlo.»
«Così per dieci sterline ho corrotto una cameriera» ammise, arrossendo in un attimo.
«Voi… avete corrotto… una…» farfugliò John, prima di scoppiare a ridere.
E lui che si era fatto dei problemi quando aveva parlato di sfioramenti di mano e libertini! Era ovvio che avesse trovato il modo di soddisfare le sue domande, non sarebbe stata Camille altrimenti.
«Sì, ecco, prendetemi pure in giro» disse lei indispettita. «E comunque non avete ancora risposto alla mia domanda» continuò, incrociando le braccia al petto.
«Scusatemi, non era mia intenzione… ma davvero avete corrotto una cameriera?»
«Siete insopportabile! Basta, me ne vado» e così dicendo fece per alzarsi, ma John la fermò.
«Mi dispiace Camille, dico davvero» asserì, tornando improvvisamente serio. «Ma non credo di essere la persona più adatta con cui parlare di certi argomenti» e lo pensava davvero.
«La mia era solo una semplice domanda.»
«Non così semplice.»
«Non può essere tanto complicato.»
«No, è vero, ma posso dirvi che per qualcuno di poco esperto sia molto facile confondere le due cose. All’inizio chiunque pensa di essere innamorato, ma l’amore, quello vero, non saprei nemmeno descriverlo. Non esiste una regola, una sensazione o una spiegazione razionale… credo che se si è innamorati lo si capisce e basta. Magari ci vuole un po’ di tempo, niente è immediato, ma poi lo si fa e allora pensi “Sì, è quella la persona con cui voglio passare la vita”.»
«E se non fossi in grado di capirlo?»
«Sono sicuro che non accadrà. Quando sarà il momento, ve ne renderete conto da sola» disse, sentendo il fazzoletto da collo stringersi un poco. Se lo allentò con un dito, mentre si schiariva la voce. Optò per un sorso di tè, ma gli occhi di Camille continuavano a fissarlo. «Cosa c’è?»
«Niente… mi sono resa conto che al contrario di me siete un pozzo di saggezza. Forse dovrei venire più spesso a chiedervi consiglio.»
«Non sono saggio, ho solo qualche anno più di voi» disse e nello stesso momento vennero interrotti dal signor Montgomery.
«Perdonate milord, signorina.»
«Montgomery… è accaduto qualcosa?»
«No milord, sono qui per dirvi che è arrivato il fattorino della sarta con gli abiti ordinati.»
Camille saltò sulla sedia urlando come se avesse visto un diamante grande come un castello. Il pensiero del matrimonio della cugina ormai definitivamente accantonato. E per fortuna anche quello dell’innamoramento.
«Era ora!» esclamò contenta. «Presto Montgomery, fate mettere tutti i pacchi nel salone, io arriverò fra un attimo!»
«Certo signorina, con permesso.»
«Non è magnifico?» gli chiese eccitata. «Mi ci voleva proprio una buona notizia oggi! E a quanto pare non sarò costretta a mettere uno degli abiti dell’anno scorso.»
«Felicitazioni» scherzò lui e dopo averlo salutato, con la stessa velocità e veemenza con cui era apparsa se ne andò tutta felice.
John invece rimase in rigoroso silenzio a fissare il muro per interi minuti.
Quel discorso sull’amore lo aveva lasciato pieno di pensieri. Perché dall’infatuazione all’innamorarsi il passo era breve e non voleva che accadesse. Aldilà di quello che sentiva, era convinto che Camille non fosse la donna adatta a lui.
Lei viveva nella speranza di incontrare l’uomo perfetto, lui invece era pieno di difetti. Lei non aspettava altro che partecipare a balli, feste e alla stagione di Londra… lui a Londra non ci avrebbe rimesso piede nemmeno per tutto l’oro del mondo. Lui era solitario, lei amava stare in mezzo alle persone. Lei era bellissima, giovane e piena di vita, lui… lui uno storpio pieno di dubbi e fantasmi che lo perseguitavano.
No, non faceva per lui.
Ma allora perché sentiva già lo stomaco accartocciarsi al pensiero dell’uomo che l’avrebbe avuta tutta per sé?




***
Ciao a tutt*!
Piano piano la storia sta entrando più nel suo svolgimento e John, praticamente, è già cotto di Camille! Lei invece è troppo presa dai suoi balli per rendersene conto e, ahimé, c'è il signor Sterling di mezzo! Il povero John non avrà vita facile, poco ma sicuro!
Grazie a chi continua a seguire la storia e, se vi va, fatemi sapere le vostre impressioni.
Alla prossima,
Vale!

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Capitolo 10
*** Capitolo 9 ***


CAPITOLO 9

 



 
Il gran giorno era finalmente arrivato.
Camille aveva atteso quel momento per tre lunghissime settimane, struggendosi fra i pensieri scaturiti per colpa di John e i suoi discorsi riguardo la sua superficialità, l’ansia di non ricevere i vestiti per tempo e il terrore che il clima tornasse freddo e piovoso, ma per fortuna ora poteva tirare un sospiro di sollievo: aveva accettato la sua indole capricciosa con rinnovata maturità promettendosi di fare del suo meglio per migliorare, gli abiti nuovi erano arrivati e il sole e il caldo l’avevano fatta da padroni per tutti gli ultimi quattro giorni. Non c’era proprio niente in quel momento che potesse gettare ombre sul suo umore.
Si sentiva a dir poco euforica. Non partecipava ad un evento del genere da ben due anni e le aspettative erano altissime. Naturalmente non si aspettava di vivere un’esperienza simile ad Almack’s, ma se non altro avrebbe potuto danzare per ore e divertirsi come faceva un tempo… sempre se John o zio Vincent non decidevano di rovinarle la serata. Zio Vincent per colpa di qualche malessere, mentre John per via della sua ritrosità a partecipare alle feste. Non lo avrebbe permesso. Avrebbe messo in chiaro i suoi pensieri fin da subito.
«Oh Jane, non è magnifico? Credevo di non indossare mai più un abito del genere e invece guarda qui, non è stupendo?» disse, rimirandosi davanti allo specchio mentre la cameriera finiva di allacciarle il corpetto.
Dato che quello lo considerava il ballo della svolta, il migliore auspicio possibile nella speranza di vivere una stagione quanto meno dignitosa, aveva deciso di indossare quello che reputava il meglio riuscito dalla signora Delhan: l’abito in azzurro pastello con le rifiniture e i ricami argentati. Doveva ammettere che la sarta aveva fatto davvero un ottimo lavoro con quella mussola, quasi alla pari di madame Latouche: il tessuto le cadeva morbido e delicato sul corpo, sembrava addirittura che i suoi chili di troppo fossero spariti. Per non parlare poi dei ricami argentati, li adorava: seguivano le sue forme in maniera armoniosa, dando movimento sia al corpetto che alla gonna.
«Sì, signorina… è veramente molto bello. Voi lo siete, se posso permettermi… state davvero molto bene.»
«Ti ringrazio» rispose Camille. «Ma cerca di non lodarmi troppo o qualcuno potrebbe pensare che cerchi di gonfiare ancora di più il mio ego» scherzò e anche Jane si mise a ridere, accompagnandola alla toeletta. Lì lasciò che finisse di acconciarle i capelli con i nastri, anch’essi argentati, e dopo aver messo le scarpine e preso i guanti si diresse ansiosa verso l’atrio.
Con sua enorme sorpresa vide che John la stava già aspettando, insieme al valletto e al signor Montgomery pronto con in mano il soprabito. Era messo di spalle rispetto alle scale, dunque non si era accorto del suo arrivo.
Camille si concesse qualche secondo per guardarlo.
Anche lui era molto elegante, vestito con il classico frac nero, stivali perfettamente lucidi e l’immancabile bastone laccato al suo fianco. Trovava avesse sempre un che di austero e misterioso in quella posizione, come anche nell’atteggiamento… era come se volesse intimidire il prossimo per scoraggiare qualsiasi tentativo di approccio. Lo aveva fatto con lei e continuava a farlo con le altre persone.
Le dispiaceva molto per quello. Certo capiva il suo comportamento, dopotutto John aveva sofferto molto, prima a causa della guerra, poi del suo ritorno a casa ed infine per tutti quegli anni lontano dalla famiglia e dagli affetti, eppure non era mai stato più distante dall’essere severo ed imperscrutabile di così. In quei giorni si erano conosciuti meglio, avevano parlato, anche di argomenti che mai avrebbe pensato di poter discutere con un uomo, e aveva scoperto una persona gentile, scherzosa e soprattutto comprensiva… una persona totalmente diversa rispetto a quella che si era presentata all’inizio. Avrebbe voluto che anche lui se ne accorgesse, che la smettesse di rimanere intrappolato in quella assurda convinzione che a causa del suo passato non meritasse pace e serenità, perché se c’era qualcuno che sul serio la meritava era lui. A carattere ad esempio molto più di lei… e anche per quanto riguardava gli obiettivi di vita.
Si sentì arrossire a quel pensiero, ma era la pura verità.
Ad ogni modo non era quello il momento per lasciarsi andare a profonde riflessioni e nel mentre scendeva le scale, provò ad immaginare con chi avrebbe danzato quella sera. Visti i recenti trascorsi era pronta a scommettere che il signor Wright si sarebbe proposto per primo, seguito dal duca poiché in quanto padrone di casa non poteva esimersi dal danzare con ogni signora e signorina presente. Per quanto riguardava invece la speranza di danzare con il signor Sterling… bè, doveva ammettere di non averci pensato molto. Dopo il loro incontro infatti lo aveva fatto solo tre volte: la sera stessa della conoscenza; il giorno seguente, ma solo perché a causa della pioggia non aveva avuto altro da fare; e l’ultima volta dopo il discorso di John sull’amore e l’infatuazione. Era rimasta piuttosto turbata da quel breve dibattito, perché si era resa conto di non esserne affatto infatuata, figurarsi poi innamorata. Anche se forse era perché avevano scambiato poche parole e si erano visti per una manciata di minuti… se avessero passato più tempo insieme, magari la situazione avrebbe potuto cambiare.
«Vedo che questa volta sono stata io a farvi aspettare» disse, mentre finiva di scendere gli ultimi gradini e accantonava almeno per il momento i pensieri sul signor Sterling.
John e gli altri si voltarono di scatto.
«Signorina, non vi avevamo sentita arrivare» disse il signor Montgomery inchinandosi.
Lei sorrise cordiale. «Merito indubbiamente di queste scarpe… dopotutto mettere calzature comode in vista di un ballo è la prima regola per evitare inutili dolori» concluse, spostando lo sguardo su John. Al contrario dei due servitori lui non stava affatto sorridendo, anzi non lo aveva mai visto tanto serio.
Ed ecco che si sentiva a disagio. Ma perché doveva fissarla in quel modo? Non poteva… non doveva farlo. Quegli occhi grigi erano davvero troppo e lei, nonostante le settimane passate, non riusciva ad abituarcisi.
«Tutto bene?» gli chiese, sperando in quel modo di non farci più caso. John si riscosse con una scrollata di spalle, spostando finalmente l’attenzione sul signor Cooper che svelto gli porse cilindro e redingote.
«Dovreste sapere che in questo momento preferirei trovarmi altrove» disse secco. Dunque era per via del suo malumore nell’affrontare il ballo che era così pensieroso? «E comunque ovvio che sono già qui, l’ultima volta mi avete rimproverato dieci minuti buoni per il ritardo… vorrei evitare un’altra ramanzina.»
Camille preferì non soffermarsi sull’antipatia con cui pronunciò quelle parole. Non si sarebbe fatta rovinare la serata dal suo brutto carattere, rischiando anche di rimangiarsi tutti i bei pensieri fatti fino a poco prima.
«Zio Vincent non è ancora pronto?» chiese quindi, lasciando che il signor Montgomery l’aiutasse a mettere il cappotto.
«Mio padre non verrà, un mal di testa improvviso.»
«Spero siano i suoi soliti malanni e non qualcosa di più serio.»
«Credo sia stata più una scappatoia.»
«La duchessa non la prenderà molto bene.»
«Lui almeno ha potuto trovare una scusa» concluse, prima di prendere la via verso l’uscita.
Camille deglutì una bella rispostaccia.
Calma. Doveva restare calma. Per John quella era una dura prova e doveva essere paziente. Poco importava se avrebbe dovuto accompagnarla a braccetto fino alla carrozza e lì aiutarla a salire, preferì di gran lunga l’aiuto del signor Cooper.
«Passate una bella serata» disse questi, ma nessuno dei due rispose. Di quel passo la serata sarebbe diventata un completo disastro.
Consapevole che doveva fare qualcosa per cambiare quella prospettiva, una volta partiti Camille cercò in tutti i modi qualcosa da dire, ma non le veniva in mente nulla. Il suo compagno di viaggio si era ritirato in un rigoroso e quanto mai buio silenzio e non sembrava avere alcuna intenzione di cambiare atteggiamento.
E sì che credeva che ormai avesse iniziato a superare quel suo odio nei confronti della società. Andava al club, si trovava con i vecchi amici per giocare a carte… ma evidentemente non era così. Evidentemente partecipare ad un ballo era molto diverso dallo stare a Windermere o a tirare di scherma.
«Mi dispiace che dobbiate affrontare tutto questo» disse di getto, sentendo il dovere di scusarsi e dimenticando i buoni propositi di godersi una bella e spensierata serata. «Forse se zio Vincent non avesse trovato la scusa del mal di testa, avreste potuto evitare di venire.»
John spostò lo sguardo su di lei. I suoi occhi erano lontani, visibilmente distratti.
«Scusate, avete detto?»
Dunque non la stava nemmeno a sentire?
«Ho detto che mi dispiace che siate dovuto venire… capisco i vostri pensieri e perché siete così di malumore, non dev’essere semplice, per cui non vi obbligherò a rimanere fino a tardi. Dopotutto la duchessa non credo farà molto caso a noi, presa come sarà dai festeggiamenti… potremmo restare, se per voi va bene, fino a mezzanotte.»
Finalmente John sorrise.
«Volete fare come Cenerentola?»
«Bè perché no? Dopotutto lei al ballo ha incontrato il principe azzurro, magari in queste poche ore avrò fortuna e sarà così anche per me» rispose sollevata. Se la conversazione prendeva quella piega leggera, magari anche il suo umore sarebbe migliorato e la tensione andata scemando. Poco importava se in verità avrebbe voluto danzare e divertirsi fino all’alba… riuscire a far dimenticare i brutti pensieri a John anche solo per due ore era sufficiente per renderla fiera di quel piccolo passo altruista che aveva fatto nei suoi confronti.
«Non credo che un ballo sia sufficiente per decidere di sposare una persona, ma dato trovereste sicuramente il modo di contraddirmi e farmi cambiare idea preferisco darvi ragione. E comunque non dovete scusarvi o sentirvi in colpa… il ballo della duchessa è più un obbligo sociale che un piacere e visto che fino a prova contraria faccio parte della società e grazie al cielo non mi considero ancora un vecchio decrepito tanto da trovare scuse per evitare di parteciparvi, lo farò cercando di non essere ai vostri occhi troppo pesante o scontroso o qualsiasi altro aggettivo mi avete etichettato.»
«Questo lo so, però… insomma… non date l’impressione di essere molto felice.»
«Non vi rovinerò la serata, se è questo che temete. Dopo aver fatto i convenevoli saluti mi metterò nell’angolo più remoto possibile del salone sperando che nessuno venga a disturbarmi.»
«E non vorreste partecipare? Al contrario di quello che pensate potreste addirittura divertirvi.»
«La mia gamba non mi permette di ballare.»
«Sciocchezze… vi ho visto andare a cavallo e so che tirate di scherma, attività molto più invalidanti di un semplice ballo, dunque se volevate usare il vostro stato di salute per evitare di danzare sappiate che come scusa non vale granché.»
«Avete ragione… ma è anche vero che solo voi lo sapete e certo non vorrete rendermi questa serata un inferno» disse e Camille sentì quella punta di ironia che la portò a sorridere maliziosa.
«Potrei anche sapete? Se non altro per vendicarmi del fatto che, in quanto mio accompagnatore, prima mi avete del tutto ignorata.»
John rise e lei preferì chiudere lì la conversazione. Il clima si era fatto per fortuna più sereno e non c’era bisogno di aggiungere altro.
Quando poi arrivarono e con suo sommo piacere John l’aiutò a scendere e, come si confaceva, la prese sottobraccio per accompagnarla all’entrata, Camille rimase per infiniti secondi a fissare il via vai di carrozze, gli invitati vestiti di tutto punto che salivano la scalinata e le bellissime decorazioni presenti nell’immenso giardino, sui terrazzi e lungo le ringhiere che portavano all’ingresso del salone.
«Caspita!» esclamò entusiasta. «Phoebe aveva ragione quando mi raccontava di tutti i preparativi. Pare che il duca non abbia badato a spese per festeggiare il compleanno della madre» continuò, costretta ad alzare un po’ la voce per farsi sentire.
«Tipico dei duchi» fu la risposta di John. «Probabilmente conoscono solo un decimo di tutta questa gente, il che renderà questa serata un ammasso confusionario di persone che si sollazzano col vino, fanciulle sudaticce e signore che svengono per il troppo caldo.»
«Santo cielo, che prospettiva terribile» scherzò lei. «Fortuna che ho evitato abiti pesanti nonostante siamo solo ad aprile, altrimenti sarei rientrata anche io nella lista delle fanciulle sudaticce» e scoppiò a ridere.
Ma se John detestava tutta quella confusione, a lei era terribilmente mancata.
All’entrata uno dei camerieri le porse il carnet di ballo che subito mise al polso e quando arrivarono nel salone, sentì il cuore scoppiare di gioia. Era esattamente come lo ricordava: l’orchestra posizionata sul palchetto impegnata a suonare, le coppie che danzavano sulla pista e tutt’attorno gruppi di persone che parlavano animatamente tra loro. Poi c’erano i camerieri che si facevano strada fra le persone offrendo stuzzichini, mentre vicino al palco era posizionato il bancone che serviva vino ai signori e limonata alle signorine. Era un vero tripudio di colori e vestiti all’ultima moda, per non parlare degli immensi lampadari e dei fiori che ornavano tutto il padiglione.
Camille spostò gli occhi sulle persone presenti, adocchiando la duchessa madre circondata da amiche e conoscenti, compresa quella che doveva essere sua sorella, la contessa vedova di Durcastle Vivian Ashdown. Phoebe le aveva confidato che non correva buon sangue fra le due e che il suo arrivo due giorni prima era stato del tutto inaspettato. Inutile dire che sarebbe stata curiosa di sapere cosa fosse successo, ma purtroppo l’amica non era riuscita ad avere alcuna informazione.
Peccato.
Un pettegolezzo simile a Londra avrebbe portato chiunque a fare supposizioni e congetture, ma purtroppo a Windermere l’interesse per quel genere di cose era pressoché nullo. Le persone amavano farsi gli affari propri e solo in casi eclatanti si facevano chiacchiere e commenti, come ad esempio in quello della fuga della sedicenne Rachel Prescott.
«Ecco la vostra amica» disse John, interrompendo il flusso di pensieri.
Veloce spostò lo sguardo verso Phoebe, la quale aveva alzato il braccio in segno di saluto. Fecero quindi per dirigersi nella sua direzione, ma ancora prima di poter iniziare a camminare vennero fermati dal signor Sterling.
«Signorina Grey, finalmente siete arrivata… avevo iniziato a pensare che aveste cambiato idea.»
«Signor Sterling» disse lei abbozzando un inchino. «Voi piuttosto, siete riuscito a concludere tutti i vostri affari a Londra immagino.»
«Naturalmente… non potevo perdermi il ballo e soprattutto l’occasione di parlare di nuovo con voi» disse sorridendo.
Camille aveva quasi dimenticato quanto fosse bello: gli occhi azzurri, i riccioli biondo-ramati, il sorriso magnifico e il fisico prestante. Le sembrava ancora più affascinante di quanto ricordasse, tanto che si sentì arrossire per quello, e messo a confronto con John era come avere di fronte il giorno e la notte. Perché in quanto a fisico erano molto simili, ma se si parlava di fattezze e soprattutto carattere non esistevano due uomini più agli antipodi di così.
John… solo in quel momento si rese conto che, non appena il signor Sterling era apparso e aveva parlato, lui aveva lasciato il suo braccio come scottato.
Curiosa per quel gesto improvviso lo guardò, ma di quell’apparente spensieratezza apparsa poco prima non era rimasto nulla: ora più che la notte ricordava un temporale, ma di quelli distruttivi.
«John» esordì richiamando la sua attenzione, ma aveva come l’impressione che di nuovo non la stesse nemmeno a sentire. «Permettetemi di presentarvi il signor Thomas Sterling, nipote della signora Beckett. Signor Sterling, lord John Mortain, figlio ed erede del visconte di Lodgewood.»
«Milord» disse lui tranquillo.
«Signore» fece invece John, per nulla curante di presentarsi come si doveva. «Scusatemi, credo andrò a prendere da bere» e così dicendo se ne andò via, mentre loro due venivano raggiunti da Phoebe.
«Camille, signor Sterling!» esclamò contenta. «Finalmente due facce conosciute.»
«Signorina Simmons.»
«Buonasera Phoebe» disse distratta, mentre seguiva con gli occhi John che anziché dirigersi al bancone delle bevande stava uscendo sulla terrazza.
Perché ora si comportava in quel modo?
Purtroppo non trovò occasione per andare fuori e chiederglielo di persona, perché dopo l’incontro con Phoebe e il signor Sterling seguì quello con la duchessa, che si dimostrò molto delusa sia da lord Mortain, che aveva preferito rimanere a casa anziché presenziare alla festa di compleanno di una vecchia amica, sia dal figlio, che non si era ancora presentato a lei per i saluti. Poi fu la volta del signor Wright, che non perse occasione per scrivere il proprio nome sul suo carnet per ben due volte, seguito dal signor Ridder e da Margareth.
Dopodiché iniziarono le danze.
Lei e Phoebe cominciarono con una quadriglia insieme al signor Ridder e al signor Sterling, poi fu la volta del signor Wright con cui ballò una contraddanza. Seguì una seconda quadriglia e arrivò il momento di ballare con il signor Sterling un cotillon.
Fu strano ritrovarsi per la prima volta a stringere le sue braccia e dovette ammettere che forse non era del tutto vera la convinzione di non essere infatuata di lui. Si sentiva in imbarazzo quando stavano vicini e di sicuro le sue guance non erano rosse per colpa del caldo. Aveva avvertito anche un piccolo brivido quando lui le aveva messo una mano sulla schiena e l’aveva avvicinata a sé, oltre che un po’ di subbuglio allo stomaco… ma quello era più dovuto al fatto che John pareva essere sparito.
Evidentemente non scherzava quando in carrozza le aveva detto che avrebbe cercato l’angolo più in disparte di tutto il salone per evitare di essere disturbato.
Un po’ si sentiva in colpa a divertirsi in quel modo mentre lui era solo chissà dove e sopraffatto da pensieri negativi, ma il suo carnet si stava riempiendo sempre di più e non era educato rifiutare una danza, soprattutto perché la mezzanotte si stava avvicinando e voleva godersi quanto di meglio quella serata le offriva.
Era da egoisti, ne era consapevole, ma per quelle poche ore avrebbe pensato solo a sé stessa.
Niente John e niente strani comportamenti.
Per quello accettò con un sorriso il braccio che il signor Sterling le offriva, mentre l’accompagnava sulla pista dove avrebbero ballato di nuovo insieme.

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Capitolo 11
*** Capitolo 10 ***


CAPITOLO 10

 
 

 
Gelosia.
John sperava tanto non succedesse, eppure non appena quella sottospecie di damerino del signor Sterling era apparso davanti ai suoi occhi e aveva visto le guance di Camille diventare rosse nel giro di un istante, il sentimento in lui prevalente fu proprio quello… seguito dall’impulso omicida.
Non credeva di essere già arrivato a quel punto. Pensava addirittura di essere preparato al fatto che Camille sarebbe stata circondata da ammiratori, eppure vederla fra le sue braccia nel mentre della danza gli aveva procurato non poco turbamento… gli veniva la pelle d’oca al solo ricordo. E quello, purtroppo, era il segno di quanto gli fosse entrata nella testa e, forse, che il cielo non volesse, anche nel cuore.
Sì, era accaduto.
Aveva provato in tutti i modi a resistere, ma fin dall’inizio aveva potuto fare ben poco.
Aveva ammesso a sé stesso già da diversi giorni che ne era rimasto colpito sin dal loro primo incontro, quando incurante del freddo e del fatto che non sapeva nemmeno chi lui fosse se ne era rimasta tutto il pomeriggio davanti all’atrio ad aspettarlo. E probabilmente, se non fosse stato tanto stupido da comportarsi come il peggiore dei gentiluomini, a quell’ora la situazione fra loro sarebbe ben diversa.
Se lo chiedeva spesso.
Come sarebbe se i loro litigi iniziali e tutt’ora presenti non fossero mai esistiti? Era strano immaginarlo, perché era convinto che se anche fossero partiti con il piede giusto, prima o poi si sarebbero inevitabilmente scontrati. Perché non riusciva a pensare ad un rapporto diverso e migliore da quello che avevano.
Si ritrovò a sorridere da solo come un idiota al pensiero di tutti gli infiniti vaneggiamenti di Camille. A come lei si catapultava nel suo studio cercando quella complicità nei discorsi che non riusciva a trovare, arrabbiandosi inevitabilmente. A come si stizziva al pensiero che le cose non andassero come da lei desiderate e quanto al tempo stesso riuscisse ad essere comprensiva nei suoi confronti. Basti pensare a poche ore prima, quando aveva sentito la necessità di scusarsi perché doveva partecipare ad un ballo a cui avrebbe fatto volentieri a meno, arrivando a proporgli di andare via prima per non farlo soffrire più del dovuto.  
E lui soffriva, sì, ma solo per il modo in cui lei aveva guardato il signor Sterling.
“Lo sai vero che il più delle volte una grana in meno sono dieci guai in più?” si divertiva a ripetergli Daniel. Glie lo aveva detto anche il giorno del suo ritorno, quando John era sollevato perché Jamie era lontano e non avrebbe potuto fargli domande scomode. E sempre lui, stupidamente, aveva pensato che stava semplicemente tornando a casa da suo padre e che quindi non poteva accadere nulla di trascendentale.
Sbagliato.
I suoi dieci guai in più si erano palesati in una ragazza di ventun anni piena di vita, dal carattere gentile, ma purtroppo anche caparbio ed indisponente, egocentrico e vanesio, insopportabile il più delle volte, dalla parlantina infinita e dal capriccio facile, con un amore smisurato e allo stesso tempo inquietante per la moda e le feste e con la paura infondata di rimanere zitella a vita.
Riflettendoci bene, se qualcuno gli descrivesse una donna del genere senza averla mai incontrata, se ne scapperebbe a gambe levate. Camille era quanto di peggio potesse capitare ad un uomo, eppure non poteva fare a meno di legarsi a lei sempre di più.
Sia lui che quel dannato signor Sterling.
Bello ed affascinante, dai modi gentili e dal carattere estroverso e solare rappresentava il sogno proibito di ogni giovane donna in cerca di marito. Se si mettevano a confronto, John aveva già perso in partenza con uno come lui. A parte il fatto che non aveva nessun difetto fisico, di sicuro non era nemmeno pieno di segreti. E Camille gli aveva persino taciuto la sua conoscenza, perché da come si erano presentati era chiaro si fossero già incontrati. Che motivo dunque aveva avuto per non dirglielo, se non quella di tenere per sé l’incontro con un fantomatico spasimante?
Il solo pensiero che potesse sul serio piacergli quell’uomo lo mandava al manicomio.
«Ah, dunque è qui che vi siete nascosto.»
John, troppo immerso nei pensieri, sussultò all’arrivo di Camille.
Era radiosa quella sera. Quando l’aveva vista nell’atrio scendere gli ultimi gradini gli si era quasi mozzato il fiato. Il vestito le stava d’incanto, sembrava esserle stato cucito addosso, e il colore azzurro con i ricami argento le dava ancora più luce di quanta già non sprigionasse da sola. Quello che più l’aveva colpito però erano i suoi occhi: non li aveva mai visti così felici. Sarebbe stato impossibile toglierle il sorriso dalle labbra e John si chiedeva come facevano le guance a non dolerle.   
«Camille» disse, sorridendo a sua volta. «Siete già stanca di ballare? Avrei giurato che il vostro carnet fosse pieno.»
«Non pieno come avrei sperato» rispose civettuola. «Ma comunque avevo bisogno di prendere una boccata d’aria, quasi non si respira nel salone. A quanto pare avevate ragione, almeno riguardo alle fanciulle sudaticce e agli svenimenti delle signore: ben due ce ne sono stati, uno dei quali casualmente avvenuto alla presenza del duca.»
«Fatemi indovinare: scommetto si trattava di una signorina» scherzò. Se non altro rispetto al signor Sterling aveva un vantaggio: parlare con lei con una disinvoltura e un’intimità che lui avrebbe potuto solo sognarsi… certo a meno che non l’avesse sposata, in quel caso poteva dire addio a quelle leggere conversazioni.
«La signorina Berthshow, esattamente» rispose Camille. «Quando il duca si è avvicinato ha iniziato a battere talmente tanto forte le ciglia che per un attimo ho temuto provocasse un tornado, dopodiché, dopo un sospiro e un veloce sventolare del ventaglio, è caduta letteralmente ai suoi piedi» e si mise a ridere, ricordando quella scena comica. «Il povero duca è rimasto immobile per non so quanto tempo, insieme a tutte le persone lì vicine, e alla fine non ha potuto fare altro che prendere la signorina in braccio per farla stendere su uno dei divanetti, accompagnato da alcuni applausi… io e Phoebe abbiamo riso per dieci minuti buoni.»
«Tipico di molte fare gesti simili» disse, spostando il peso da una gamba all’altra e appoggiandosi meglio alla balconata.
«Vi fa male?» chiese preoccupata.
«Un po’… troppo tempo in piedi.»
«Se volete ci sono ancora alcuni divanetti liberi all’interno.»
«Per mettermi alla pari di giovani dallo svenimento facile e anziani? No grazie, preferisco patire le pene dell’inferno.»
Camille rise e si mise accanto a lui. Badò che la pietra non fosse sporca e poi, con un piccolo salto e aiutandosi con le mani, si sedette sulla balaustra accanto a lui. Ora John aveva una visuale perfetta dei suoi occhi e, soprattutto, delle sue labbra.
«Ah, finalmente!» esclamò, stirandosi le gambe, poi tornò a guardarlo. «È davvero un peccato che abbiate deciso di rintanarvi in terrazza, anche se devo ammettere si sta benissimo qui fuori. Non essendoci zio Vincent, pensavo mi avreste fatto compagnia almeno per la prima mezz’ora.»
John evitò di ripensare al motivo che lo aveva spinto ad allontanarsi, cercando di restare il più sereno possibile.
«Non mi avreste nemmeno calcolato, troppo entusiasta di iniziare le vostre danze» disse quindi. «Per cui vedetela in questo modo: voi avete potuto divertirvi senza sorbirvi le mie lamentele.»
«Le vostre lamentele, giusto… ve l’ho già detto che sono tali e quali a quelle di zio Vincent?»
«Almeno due volte… ma d’altronde si dice che la mela non cade mai troppo lontana dall’albero» asserì distratto, fissando qualcosa oltre la sua fronte. «Avete un…» ed indicò un punto non bene definito sopra la sua testa.
«Cosa?» chiese lei spaventata. «Un ragno? Un’ape? Uno scarafaggio? Vi prego non ditemi che è un ragno» piagnucolò, mentre John sollevava il braccio e andava ad afferrare…
«Una coccinella.»
Camille lasciò andare un sospiro di sollievo.
«Mi avete fatto prendere un colpo.»
«Vi facevo molto più coraggiosa di così.»
«Sì, ditelo pure… intanto quando ero piccola a South Hams un giardiniere è morto perché gli era entrata un’ape nell’orecchio. Era diventato tutto gonfio, è stato terribile. Terribile e raccapricciante.»
«Di certo la vostra infanzia è stata ricca di colpi di scena» e fece per lasciar andare la coccinella, ma Camille lo fermò afferrandogli il polso.
«Aspettate!» esclamò, portando la sua mano vicino alle labbra. «Prima devo esprimere un desiderio.»
«E perché mai dovreste?»
«Perché le coccinelle portano fortuna e dato questa era fra i miei capelli, devo esprimere un desiderio.»
«Se lo dite voi.»
Camille chiuse gli occhi per un momento, facendosi scappare anche un sorriso, dopodiché li riaprì e soffiò sul dito in modo che la coccinella prendesse il volo.
John la guardò, approfittando della sua distrazione nell’osservare quel piccolo insetto che si allontanava.
Erano vicinissimi. Sentiva il suo profumo di agrumi e lavanda invadergli i sensi, inebriarlo quasi, mentre i suoi occhi si poggiavano ancora una volta sulle sue labbra. E in quell’istante gli si mostrò chiara anche una seconda verità: aveva voglia di baciarla.
Se non fosse stato un gentiluomo, lo avrebbe fatto. Al diavolo, avrebbe potuto farlo lo stesso. Ci sarebbe voluto un secondo per avvicinarsi e catturarle le bocca con la propria, ma non lo fece. Non aveva il diritto di rubarle in quel modo il suo primo bacio. Per ogni donna era un momento speciale, voleva fosse così anche per Camille.
Si allontanò quindi, chiedendo per distrarsi cosa avesse desiderato. In fondo era proprio curioso di saperlo. Soprattutto, era curioso di sapere cosa aveva scaturito quel sorriso. Sperava solo non avesse a che fare col signor Sterling.
«Non posso certo dirvelo» rispose invece Camille risoluta.
«Non ci crederete davvero!»
«Perché no? E comunque era un mio desiderio, non vostro, perciò non lo saprete mai… anzi no, facciamo così: se dovesse avverarsi sarete il primo a saperlo.»
«Mi sembra un compromesso ragionevole» disse, non molto felice per quella prospettiva. «Ora non dovreste tornare ai vostri balli?»
«Dovrei… è solo che mi dispiace sapervi qui da solo.»
«Ve l’ho già detto, non dovete preoccuparvi… e poi manca ancora un po’ di tempo alla mezzanotte. Non è ancora ora di tornare a casa, Cenerentola.»
Lei arrossì, poi con un balzo saltò giù dalla balaustra.
«Molto bene, allora» e guardò il suo carnet. «Il prossimo ballo è con il signor Sterling, andrò a cercarlo.»
Quel maledetto Sterling.
«Non avete già ballato con lui due volte?»
«Le avete contate?»
«No, affatto.»
«Sì, invece, lo avete fatto… perché?»
John si indispettì. Ecco come rovinare un momento perfetto.
«Non è conveniente concedere più di due balli allo stesso uomo, si creerebbero inevitabilmente dei pettegolezzi» disse, ignorando la sua domanda.
«Figuriamoci» rispose, ormai arrabbiata. «E poi perché tutt’a un tratto vi interessa? Ve ne siete rimasto qui fuori tutta la sera ed ora vorreste farmi la predica? Se proprio ci tenevate tanto ad evitare i pettegolezzi potevate invitarmi voi a ballare! Ma no, avete preferito fare l’eremita, giudicandomi e facendomi sentire una sciocca come sempre.»
John ammutolì.
«Non… voi… avete mal interpretato le mie parole.»
«Davvero? Allora perché qualsiasi cosa io faccia, siete sempre pronto a rimproverarmi e a sminuirmi?»
«Non era mia intenzione, dico sul serio» fece, seriamente dispiaciuto. L’ultima cosa che voleva era farla sentire inferiore o una stupida. «Io mi preoccupavo solo per voi… non vorrei mai…»
Purtroppo quell’ultima frase finì al vento, perché ad interromperli fu un urlo straziante proveniente dal giardino che dava sul retro della villa, seguito dal chiaro rumore di una caduta.
John divenne improvvisamente serio, mentre Camille sgranava gli occhi per la paura.
«Cosa… cosa è stato?» sussurrò.
«Non lo so, ma è meglio se tornate dentro» disse, pronto a dirigersi verso la fonte di quell’urlo spaventoso. Camille però lo fermò afferrandolo per la giacca.
«Non vorrete andare da solo.»
«So quello che faccio.»
«No che non lo sapete» esclamò, ignara della verità. «E se qualcuno vi colpisse alle spalle?»
«E se qualcuno colpisse voi, invece?» chiese, ma lei stava già scendendo i gradini verso il giardino così fu costretto a starle dietro.
Non dovettero camminare molto.
John sapeva perfettamente cosa aspettarsi, aveva anni di esperienza alle spalle… non aveva previsto però il soggetto: perché di fronte a loro, immobile e senza vita e con una ferita alla testa, c’era il cadavere della duchessa madre Susan Wortham.
«Oh mio Dio» esclamò Camille, pallida come un cencio. Le gambe le cedettero all’improvviso e se non ci fosse stato lui dietro pronto a sorreggerla sarebbe anche caduta a terra.
«Vi prego, andate via da qui» disse John, tirandola indietro.
Avrebbe voluto risparmiarle quella scena terribile, ma lei rimaneva inchiodata sul posto. L’istinto di John invece gli urlava a gran voce di osservare e raccogliere quanti più dettagli possibili prima che si avvicinasse troppa gente.
Purtroppo Camille, presa dal panico, si riscosse fin troppo in fretta, correndo dentro al salone chiamando a gran voce il duca e la marchesa e nel giro di pochi minuti iniziarono ad ammassarsi persone. Ci furono urla e svenimenti, paura e caos, sorpresa ed incredulità. Nessuno avrebbe mai potuto immaginare che la festa per i settant’anni della duchessa madre sarebbe finita con il suo assassinio… perché di quello si trattava. L’urlo e la ferita alla testa, incompatibili con una caduta intenzionale dal balcone del secondo piano, escludevano a priori il suicidio.  
«Fate allontanare tutti» disse John al duca, consapevole che ogni traccia stava venendo cancellata a causa dei nobili che circondavano il corpo della duchessa. «Anzi, se potete, mandateli a casa e fate chiamare le autorità.»
Il duca, visibilmente sconvolto, obbedì senza fare domande. Nessuno si fece pregare troppo per andare via e quando finalmente la scena fu sgombra, ad eccezione di un paio di camerieri sul punto di dar di stomaco rimasti a sorvegliare fino all’arrivo della polizia, John poté iniziare il suo lavoro.
Era consapevole di non doverlo fare. Avrebbe potuto rivelare troppo di sé ed esporsi al punto che chiunque, Camille soprattutto, avrebbe capito che in realtà non era mai stato nelle piantagioni e che vedere scene del crimine era stata la normalità degli ultimi undici anni, ma l’istinto era duro da mettere a tacere e suo malgrado dovette ammettere di essere quasi emozionato all’idea di un nuovo mistero da risolvere.
 Così si avvicinò, esaminando la posizione del corpo e il balcone dal quale la duchessa era precipitata. Capì che doveva essere stata spinta con violenza: perché il cadavere, oltre a presentare fratture scomposte dovute alla caduta, era disteso di pancia e con la testa rivolto verso il muro. Se si fosse buttata o fosse caduta solo a causa del colpo alla testa, sarebbe stata di schiena e con la testa rivolta verso il giardino.
E poi c’era da tenere presente quell’urlo disperato, il quale gli fece presumere che la duchessa aveva provato a difendersi e che, nel momento in cui l’assassino l’aveva colpita alla testa, era ancora cosciente. Un’azione di una cattiveria inaudita: prima la colluttazione, poi il colpo ed infine la spinta giù dal balcone.
Alzò gli occhi proprio verso di esso. Era al secondo piano, a circa quindici metri di altezza. Abbastanza alto per provocare lesioni gravi e, nel caso dell’età della duchessa, una morte immediata.
«Tu» esordì, chiamando uno dei camerieri. «Che stanza c’è al di là del balcone?»
«Scusate?» chiese questi perplesso.
Lo capiva. Sicuramente si stava chiedendo cosa ci facesse ancora lì e perché gli stava facendo quelle domande.
«Sono le stanze private della duchessa madre, milord» disse l’altro.
Non ebbe bisogno di sapere altro.
Svelto rientrò nel salone, dove non era rimasto nessuno se non la servitù indaffarata, la marchesa sdraiata su un divanetto circondata da cameriere che reggevano i sali, la sorella della duchessa, anch’essa visibilmente scioccata, assistita dalla sua dama di compagnia, la signorina Phoebe Simmons in lacrime e Camille accanto a lei, pallida, che cercava di consolarla.
Lei lo guardò, ma John era troppo concentrato per prestarci attenzione. Inoltre, voleva esaminare le stanze della duchessa in quegli attimi di confusione, prima che qualche domestico facesse caso a lui e al suo ficcanasare in giro.
Salì le scale a due a due, incurante del dolore alla gamba, fino ad arrivare nell’ala ovest del palazzo e lì aprire le porte finché non trovò la stanza che cercava. Una volta dentro, i segni di una lotta erano evidenti: svariati oggetti erano a terra, tra cui un vassoio con sopra una tazza di tè rotta insieme alla teiera, ma quello che vide è che l’assassino aveva lasciato a terra un candelabro sporco di sangue. Doveva aver usato quello per colpirla, ma se era ancora nella camera e non sul balcone voleva dire che la duchessa, nonostante la botta, aveva continuato a lottare mentre l’aggressore continuava a spingerla sempre di più verso la balconata. E quello gli fece pensare che forse chi l’aveva uccisa non doveva essere molto forte… un uomo basso e minuto oppure, più plausibile, una donna. Ma chi poteva avere architettato tutto quello? E soprattutto: qual era il movente?
Domani. Avrebbe pensato a tutto domani, con la mente lucida e riposata. Tornò quindi sui suoi passi, raggiungendo Camille e la signorina Simmons.
«John, dove eravate finito?» chiese lei con un filo di voce.
«Non preoccupatevi di questo.»
«Vi ho visto uscire dal salone, dove siete stato? Avete forse scoperto qualcosa?»
«Nulla purtroppo» rispose, ignorando la prima domanda. «Posso solo dire che qualcuno, forse fra gli invitati presenti, ha ucciso la povera duchessa.»
«Santo cielo» esclamò Phoebe tremante. «Chi può avere fatto una cosa simile?»
«Non lo so, ma temo che le autorità non potranno fare granché» disse sinceramente. Lui stesso non avrebbe saputo cosa fare. Erano troppe le persone presenti e, a meno che non fosse saltato fuori qualcosa di concreto in aiuto alle indagini, l’omicidio sarebbe rimasto irrisolto.
«È terribile» disse Camille.
«Sì, lo è… venite, credo sia meglio tornare a casa» fece John, porgendole la mano.
«Phoebe, siete sicura di voler rimanere qui? Sono certa che il visconte non avrà nulla in contrario ad ospitarvi per qualche giorno, vero John?»
«No affatto… potrete rimanere a Lodgewood tutto il tempo che vorrete.»
«Vi ringrazio, ma sento che è questo il posto dove devo rimanere… fra poco poi arriverà la polizia e forse vorranno farmi delle domande. Andate pure, vi scriverò un biglietto domani.»
«Non dovremmo restare anche noi? In fondo siamo stati noi a…» iniziò Camille, non riuscendo a terminare la frase.
«State tranquilla, se avranno bisogno ce lo faranno sapere» e detto quello, presero la via del ritorno.
Com’era prevedibile, il viaggio fu silenzioso. Ogni tanto a Camille sfuggiva qualche lacrima e vedeva che le tremavano le mani.
Avrebbe voluto stringergliele, abbracciarla e dirle qualche parola di conforto, ma non ci riuscì. Solo quando arrivarono a casa, nel salottino, la fece sedere su uno dei divani e le porse un bicchiere di whisky.
«Non credo possa aiutarmi» disse incerta.
«Vi distenderà i muscoli e almeno per stanotte vi aiuterà a dormire.»
«Non penso riuscirò a fare nemmeno quello.»
«Mi dispiace che abbiate dovuto assistere a quella scena, ma se mi aveste ascoltato e non vi foste addentrata nel giardino di gran carriera, vi sareste risparmiata di vedere la duchessa in quello stato.»
«Volete rimproverarmi anche adesso?»
John sospirò, scolandosi il bicchiere tutto d’un fiato.
«Vi chiedo scusa.»
«No, scusatemi voi… sono troppo sconvolta per parlare oltre, se non vi dispiace mi ritirerei.»
«Certo, andate pure. Vedrete che domani andrà meglio.»
«Lo spero… buonanotte.»
«Buonanotte Camille.»
Una volta uscita, John si distese sul divano.
Era distrutto e non sapeva se era più per quanto accaduto alla duchessa o per i sentimenti verso Camille che quella serata aveva rivelato.
Probabilmente i secondi, ma preferì non pensarci. Avrebbe avuto tutte le giornate seguenti per farlo e per cercare di trovare una soluzione.





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Ciao a tutt*!
Con questo capitolo si entra nella parte "gialla" della storia... essendo amante del genere non ho saputo resistere! Non ci saranno serial killer comunque, ma una buona dose di investigazione :) Per quanto riguarda il rapporto fra John e Camille, ormai è chiaro quanto lui sia preso da lei e l'accadimento dell'omicidio metterà a dura prova la sua pazienza! :)
Grazie a chi continua a seguire la storia.
Un abbraccio,
Vale

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Capitolo 12
*** Capitolo 11 ***


CAPITOLO 11

 
 
 

 
«Possibile che i giornali non sappiano parlare d’altro?» esclamò Vincent furioso, mentre leggeva l’ennesimo articolo sulla morte della duchessa. «Non hanno alcun rispetto per quella povera famiglia… e che fine hanno fatto le guerre, la politica e l’economia? Tutto sparito?»
John sospirò bevendo il suo tè.
Era passata una settimana dall’accaduto e com’era prevedibile la tragica notizia aveva fatto il giro dell’intera Inghilterra, portando a Windermere giornalisti e pseudo investigatori certi di fare il colpo grosso indagando sull’omicidio di una personalità come Susan Wortham. John era convinto avrebbero dovuto avere a che fare con quella marmaglia ancora per un paio di settimane, tre al massimo, prima che la loro attenzione venisse catturata altrove.
«Come avete ragione, zio» intervenne Camille, quel mattino per fortuna meno cerea del solito. «Phoebe mi scrive ogni giorno, dicendomi che i giornalisti si presentano in continuazione a Southlake nella speranza di strappare un commento al duca o alla marchesa, ignorando il momento difficile che stanno passando. Non escono nemmeno di casa, onde evitare spiacevoli incontri» concluse mesta, mandando giù un boccone di macedonia.
Di sicuro, pensò John, erano stati momenti difficili anche per lei. Vedere un cadavere per la prima volta, specie se nello stato in cui era la povera duchessa con il corpo deformato a causa della caduta, poteva essere traumatico e nonostante Camille si sforzasse di apparire serena e senza pensieri come al solito, in verità aveva passato gli ultimi giorni a girovagare per il castello senza meta e pallida come un fantasma.
Ci voleva tempo, lui lo sapeva bene. Gli incubi le avrebbero fatto compagnia ancora per parecchio e anche se John avrebbe potuto darle un po’ di conforto perché consapevole di quello che stava passando, da codardo non aveva osato parlarle dalla sera del ballo. Un po’ perché non era ancora riuscito ad accettare pienamente i suoi sentimenti e un po’ perché anche Camille aveva fatto di tutto per evitare di stare sola con lui per più di qualche minuto.
“Perché qualsiasi cosa io faccia, voi siete sempre pronto a rimproverarmi e a sminuirmi?”
“Mi giudicate e mi fate sentire una sciocca come sempre.”
“Volete rimproverarmi anche adesso?”
Al diavolo!
Se avesse potuto, si sarebbe preso a pugni da solo. Perché John si struggeva e malediceva al tempo stesso per quell’affetto che provava; si mangiava il fegato dalla gelosia e l’unica cosa che riusciva a tirar fuori era il lato peggiore del suo pessimo carattere. Però anche lei avrebbe potuto capire che le sue parole erano dettate semplicemente dalla preoccupazione e dal fatto che gli faceva male vederla fra le braccia di quel damerino. Si vantava tanto del suo intuito che quasi mai sbagliava e della sua capacità di capire le persone, eppure non si era per nulla accorta di come diventava rigido in sua presenza, di come cercava di nascondere l’attrazione che sentiva e di quanto fosse tranquillo al suo fianco, addirittura da rivelarle verità che, a parte Daniel, nessun altro conosceva. Era davvero una sciocca, allora, e lui lo era ancora di più se pensava di riuscire in qualche modo a fare breccia nel suo cuore.
«Che assurdità!» disse suo padre in risposta al commento di Camille. «Fossi nel duca li avrei già fatti tutti arrestare.»
«Forse credono di cavare qualche ragno dal buco» intervenne lui, cercando di distrarsi da quei pensieri che da giorni gli facevano perdere il sonno e, ne era convinto, anche il raziocinio.
«In che senso?»
«Uno scandalo, mia cara, ecco cosa vanno cercando quegli approfittatori» rispose Vincent al suo posto. «Ma se nemmeno la polizia ha idea di che pesci prendere, figuriamoci dei giornalisti di bassa lega! E a proposito di polizia… ho visto poco fa che Montgomery ti porgeva un loro messaggio, di che si tratta?»
John sperava con tutto sé stesso non lo avesse notato.
«Avete ricevuto un messaggio dal dipartimento?» chiese appunto Camille… ed ecco spiegato il motivo per cui avrebbe preferito che suo padre tacesse: perché ora che aveva tirato in ballo l’argomento, sarebbe stato costretto a mentirle e iniziava a detestarlo.
La causa era presto detta: John era stato sì convocato dalla polizia di Windermere, ma la missiva era firmata da Timothy Yale, uno dei suoi vecchi superiori dei servizi segreti. E non appena aveva letto il nome, gli era stato chiaro tutto quanto: gli avrebbero chiesto di indagare sull’omicidio. Non c’erano altrimenti altri motivi per cui il signor Yale si sarebbe scomodato a fare tutta quella strada solo per incontrarlo, soprattutto non dopo il suo forzato congedo.
John ne era entusiasta e preoccupato allo stesso tempo. Entusiasta perché, dopotutto, non era rimasto per dieci anni nei servizi segreti girando di Paese in Paese solo per il desiderio di fuggire dalla sua vita e dai ricordi. Certo all’inizio il motivo era stato quello, ma gli piaceva la certezza del pericolo, trovarsi in mezzo a tanti possibili nemici pronti ad ucciderlo e l’idea di riuscire a scoprire l’assassino della duchessa gli dava una carica che mai avrebbe pensato di risentire. Preoccupato perché indagare voleva dire esporsi e rischiare di rivelare la verità, oltre che tornare a dire menzogne senza pudore. Era più di tutto quello a frenare il suo entusiasmo… però finché non avesse incontrato il suo superiore, non poteva fare altro.
«Probabilmente vorranno farmi delle domande riguardo il ballo» disse quindi, iniziando con la prima fila di bugie. «In fin dei conti siamo stati noi i primi a trovare la duchessa e a renderci conto di quanto successo, ma non preoccupatevi: non serve che veniate con me.»
«Per quale motivo?» domandò Camille. «C’ero anche io quella sera, voglio venire.»
«Davvero, non è necessario.»
«Insisto.»
Ovviamente.
 «E vorreste sul serio rivivere quel momento?» chiese, sperando che così dicendo potesse cambiare idea ed evitargli di inventarsi più frottole del dovuto. «Siete ancora sconvolta e no, non provate a negarlo» aggiunse, vedendo che era già pronta a ribattere. «Non permetterò che vi facciate del male da sola. Inoltre si tratterà di semplici domande sul ritrovamento e dato eravamo insieme, non aggiungereste nulla in più rispetto a quello che dirò io.»
Il viso di Camille si rabbuiò all’improvviso e John previde tempesta.
«Sappiate che non sono fatta di vetro o di delicata porcellana» disse sprezzante. «Certo mai nella vita mi sarei aspettata di assistere ad un omicidio, ma sono in grado di reggere il colpo e voi, John, dovreste saperlo bene.»
«Non lo metto in dubbio, Camille, ma ciò non toglie che, indipendentemente da quello che dite e pensate, io so osservare e le vedo le vostre occhiaie e il vostro volto: gli incubi non vi lasciano in pace, non è così? E vorreste dargli man forte raccontando del ritrovamento?»
«Ripeto: non sono così delicata come vi piace pensare… e comunque se posso fare qualcosa in nome della duchessa o dell’amicizia che mi lega alla signorina Simmons, sarò ben lieta di testimoniare.»
Cielo, ma perché doveva essere così testarda? Perché semplicemente non poteva dargli ascolto per una volta e fare un passo indietro?
«Ed io ripeto che non avreste grandi notizie da portare. Avete visto e sentito le stesse cose che ho visto e sentito io, dunque a quale scopo venire se non per crucciarvi più del dovuto?» provò a dire cercando di mantenere la calma, ma naturalmente Camille non aveva alcuna intenzione di cedere.
«E perché al contrario dovrei farmi da parte?»
«Ora basta!» quasi urlò, preso dalla rabbia e dall’esasperazione, battendo un pugno sul tavolo e facendo tremare tazzine e bicchieri. «Non sono cose che riguardano una donna, men che meno una giovane come voi, per cui statevene al vostro posto e smettetela per una volta di comportarvi come una bambina capricciosa.»
Ecco, era esploso. Non aveva ancora accettato l’incarico che per mantenere il segreto della sua posizione aveva dovuto offendere l’unica persona che non lo meritava.
Nella sala scese il silenzio.
I due camerieri presenti si bloccarono come congelati, facendo tintinnare le posate sui vassoi da portata, mentre suo padre lo fissava con occhi spalancati, talmente sorpreso da quella sua reazione da non riuscire ad essere neanche in collera. Persino i due levrieri avevano rizzato le orecchie attenti. Camille invece si alzò di scatto dalla sedia, abbandonando cucchiaio e macedonia. John riuscì a guardarla negli occhi solo per pochi istanti, prima che lei scappasse letteralmente via senza dire una parola. Gli bastarono: era stato sufficiente vederci dentro tutta la delusione e la tristezza per farlo stare ancora più male. Quello che tuttavia gli fece accartocciare lo stomaco fu vederli riempirsi di lacrime.
“Perché qualsiasi cosa io faccia, voi siete sempre pronto a rimproverarmi e a sminuirmi?”
“Mi giudicate e mi fate sentire una sciocca come sempre.”
“Volete rimproverarmi anche adesso?”
Le parole ferite di Camille di nuovo gli esplosero nella mente.
Lo aveva rifatto, l’aveva di nuovo rimproverata, sminuendola e facendola sentire una nullità.
Questa volta però aveva esagerato. Questa volta non c’era niente che potesse fare per sperare di avere il suo perdono: dicendole quelle frasi, l’aveva ferita come mai nessuno aveva fatto.
«John…» iniziò suo padre, ma lui lo interruppe brusco.
«Non dite niente» e senza aggiungere altro se ne andò, dando disposizioni per far preparare la carrozza il più velocemente possibile.
Daniel, vedendo il suo umore nero, ebbe l’accortezza di non chiedere nulla. Primo perché sicuramente sapeva già il motivo del suo malumore, spifferato dai due camerieri presenti durante la colazione, e secondo perché quando era preso così male parlargli voleva dire ricevere rispostacce… e per quella giornata di persone ne aveva offese a sufficienza.
Fu quindi con un sorriso tirato e la mente ingombra di pensieri che si presentò di fronte a Timothy Yale. Era da prima della sua partenza per la Russia che non lo vedeva, ma in quanto ad aspetto fisico gli parve tale e quale a sei anni prima: alto e per nulla ingobbito nonostante l’età, con barba e capelli bianchi come la neve e due occhi piccoli e azzurri capaci di carpire ogni più piccolo dettaglio. Era stato per anni a servizio diretto di Sua Maestà e solo da poco era arrivato alla dirigenza del corpo segreto.
«Lord Mortain» esordì, facendogli segno di accomodarsi nella sedia di fronte alla scrivania. «Sono davvero felice di rivedervi.»
«È un onore e un piacere anche per me» disse John, mordendosi la lingua per non rispondere anche a lui, sputandogli addosso il fatto che era inutile facesse tanto il leccaculo, dato solo due mesi prima non aveva mosso un dito per evitare che lo sbattessero fuori.
«Immagino sappiate già perché siete qui.»
«L’assassinio della duchessa madre di Southlake, sì.»
«Esatto» fece Yale, porgendogli un piccolo fascicolo. «Purtroppo, come vedete, non c’è molto da cui partire… dopotutto si trattava di una delle maggiori esponenti della nobiltà inglese, che senso avrebbe avuto raccogliere informazioni?»
«Nessuno, in effetti» rispose, aprendo il fascicolo in cui era riportata soltanto la relazione del medico legale. «Ma di solito è nelle famiglie di più alto lignaggio che si nascondono i peggiori segreti.»
«Proprio per questo la corona ha chiesto a noi di intervenire: la notizia dell’omicidio di una duchessa ha sconvolto Londra a sufficienza e capite bene che se avessimo lasciato fare alla polizia, avrebbe significato mettere alla mercé della stampa qualsiasi informazione ne sarebbe venuta fuori. Quanto al vostro ingaggio, sappiamo bene del congedo, ma ci siete parso la persona più idonea: siete nato e cresciuto qui, le persone vi conoscono e si fidano, non sarà difficile ottenere informazioni… dopotutto, se ben ricordo, eravate piuttosto ferrato in questo genere di accadimenti.»
«Vi ringrazio.»
«È la realtà dei fatti… inoltre so che siete stato proprio voi a trovare il corpo: avete già potuto fare qualche supposizione?»
«Qualcuna, ma niente di concreto… era un ballo con quasi duecento invitati e gli indizi, come potete immaginare, molto pochi: posso solo dire con certezza che la duchessa era ancora viva al momento della caduta e che nella camera c’erano evidenti segni di una lotta. Chiunque sia stato, doveva odiarla molto… da Londra non siete riusciti a scoprire niente di più?»
«Nulla. La duchessa madre è assente dai salotti della società da diversi anni ormai ed anche il duca non partecipa attivamente alla stagione se non quelle poche volte in cui viene in città per affari, per cui capite bene che anche i pettegolezzi sul suo conto si fanno desiderare. Sappiamo solo che è iscritto da White’s, che ha un conto aperto presso la casa da gioco di Rickstreet e che mantiene un’amante da cui soggiorna ogni volta che è a Londra… nulla di strano per un uomo del suo rango.»
«Suppongo di no, sebbene giocare d’azzardo e mantenere amanti siano i modi migliori per farsi dei nemici, ma comunque al momento non lo ritengo fra i più sospettabili: sembrava davvero sconvolto quando abbiamo trovato la duchessa madre ed inoltre la ferita alla testa lascia pensare che si tratti più di una donna o, quantomeno, di un uomo poco prestante.»
«Non dimenticatevi però delle emozioni.»
«Emozioni?»
«Esattamente. Perché ricordatevi che, assassino o meno, si trattava comunque di uccidere la propria madre: potrebbe avere esitato al momento dell’impatto, portandolo a colpirla non forte come avrebbe voluto. Sapete se era presente nel salone da ballo al momento dell’omicidio?»
«No.»
«Dunque, come intendete procedere?»
«Non sarà semplice… interrogare i presenti non porterebbe a niente, contando che la maggior parte degli invitati non la conosceva nemmeno, sarebbe solo uno spreco di tempo. Tenterò, per il momento, di trovare qualche indizio partecipando agli eventi mondani e cercando di capire se qualcuno poteva avercela o meno con la duchessa.»
«Sappiate che il dipartimento è a vostra completa disposizione: il sergente Tibbs conosce i fatti e si metterà ai vostri comandi. Come già detto, vista la portata giornalistica di quanto avvenuto, preferiamo tenere all’oscuro delle indagini il resto dei poliziotti: ai loro occhi voi sarete soltanto un testimone che è venuto a deporre ciò che ha visto.»
«Molto bene.»
«Naturalmente sappiamo che sarà quasi impossibile trovare il responsabile, ma confidiamo nelle vostre capacità. Aggiornerete il sergente ogni due settimane sugli sviluppi… per il resto, questo è il mio indirizzo di Londra: potete far recapitare qui le missive nel caso vi servano informazioni.»
«Senz’altro.»
«Arrivederci, milord, spero abbiate fortuna.»
«Grazie… non vi deluderò» e detto quello, uscì dall’ufficio.
L’incontro era durato meno del previsto. Non era ancora mezzogiorno, ma non aveva voglia di tornare al castello. Suo padre sarebbe stato pronto con l’ascia di guerra, visto anche il modo in cui lo aveva liquidato prima di uscire, e Camille… non voleva nemmeno immaginare il suo stato d’animo. Vederla piangere gli aveva lasciato troppo amaro in bocca, insieme alla consapevolezza che quanto accaduto era stata l’ennesima dimostrazione di come non avrebbe mai potuto renderla felice.
Decise quindi di pranzare al club, dove trovò l’inaspettata compagnia di Wright. Anche lui aveva optato per un pasto fuori casa. Gli disse che ormai quasi sempre pranzava e cenava fuori, soprattutto per evitare di rimanere più di cinque minuti nella stessa stanza con sua madre, la quale non faceva altro che insistere affinché prendesse moglie. Giusto per distrarsi ne approfittò per chiedergli se avesse notato qualcosa di strano la sera del ballo, ma l’amico, dopo un colpo di tosse e un bicchiere di vino, gli confessò di essersi appartato con una signora e che quindi non si era accorto di nulla fino all’arrivo della polizia.  
Giocarono poi a carte, infine, nel primo pomeriggio, tornò a Lodgewood.
«Siamo di nuovo in sella?» gli domandò Daniel, entrando nella sua stanza per aiutarlo a cambiarsi. Ormai era diventato un valletto perfetto, persino il signor Montgomery si era complimentato per quanto fosse efficiente, ma John sentì l’entusiasmo chiaramente anche in lui.
«Sì… Timothy Yale mi ha convocato. Questo è il fascicolo» e glie lo porse.
L’amico lo prese avido, iniziando a leggere.
«Tutto qui?»
«Già… una bel problema, vero?»
«Che mi dici invece dell’altro, di problema?» chiese, mettendo da parte il fascicolo e guardandolo dritto negli occhi.
John si trattenne a stento dall’imprecare. Osservò l’orologio appeso alla parete, contando le ore che mancavano affinché quel maledetto giorno finisse. Ormai era sull’orlo di una crisi.
«Non ho idea di cosa tu stia parlando.»
«Andiamo, non prendermi in giro: ti conosco da dieci anni, so bene cosa c’è che non va.»
«Allora, se lo sai, non avresti bisogno di chiedere» rispose stizzito.
«Voglio sentirlo da te» continuò Daniel imperterrito, ignorando il suo sbuffare nervoso. «Ma prima che tu dica qualsiasi cosa permettimi di aggiungere, da amico sincero, che è inutile che continui a nascondere la testa sotto alla sabbia: devi dirle la verità.»
Eccola, l’ardua sentenza.
John avrebbe voluto urlare, perdere la pazienza e buttare tutto all’aria in uno scatto d’ira degno di quel nome. Invece si arrese. Si lasciò cadere a peso morto sulla poltrona dello spogliatoio, il mal di testa che come sempre quando si trattava di Camille minacciava di scoppiare, lasciando andare un sospiro pieno di rabbia e frustrazione.
Daniel aveva ragione: ormai era inutile nascondere i suoi sentimenti, ma confessarli significava farli diventare spaventosamente reali. Perché un conto era tenerli al sicuro nella sua mente, lasciando che fossero niente più che pensieri scomodi ed ingombranti, ma rivelarli ad alta voce… non c’era modo di tornare indietro. Inoltre, se lo avesse fatto, avrebbe dovuto rivelarle anche un’altra verità, decisamente molto più scomoda.
«A quale delle due ti riferisci?» chiese allora, stanco e spossato come se avesse percorso centinaia di miglia a piedi sotto il sole cocente.
«Entrambe.»
«Entrambe» ripeté con un sorriso amaro. «E credi servirebbe a qualcosa, se non farmi detestare ancora di più?»
«Di sicuro non potrà detestarti più di quanto faccia ormai ora… Jane, la sua cameriera, ha detto che è rimasta tutto il giorno chiusa in camera, non ha voluto nemmeno pranzare.»
«Non credo di poterlo fare.»
«Non puoi o non vuoi?»
Silenzio.
«Sai John, penso sia arrivato il momento tu faccia quel passo che ti ostini a rimandare ormai da più di un mese. Capisco tu non voglia dirlo a tuo padre e in parte sono d’accordo: gli procureresti solo un inutile dolore, dal momento che sei tornato a riprendere il tuo posto nella società e nella famiglia, ma la signorina Grey ha diritto di sapere perché la tratti con tanta asprezza. In fondo è una giovane dolce e gentile e potrebbe stupirti il suo senso di comprensione. Non le hai forse già detto del motivo che ti ha spinto ad andartene?»
«Era una situazione diversa.»
«Non così diversa.»
Forse.
O forse no.
E lui non era sicuro di volerlo sapere. Per la prima volta in vita sua non aveva idea di cosa fare.
«Ci penserò» disse semplicemente.
«Non aspettare troppo però o finirai col perderla sul serio» furono le ultime parole di Daniel prima di congedarsi.
John si alzò con rabbia dalla poltrona, andando alla finestra e maledicendo per l’ennesima volta sé stesso e il suo dannato carattere.
Era dunque quello l’effetto che faceva l’amore? Se così fosse stato, avrebbe dovuto scambiare due solerti parole con poeti e scrittori.
Daniel ad ogni modo non aveva torto. Doveva parlarle, perché non avrebbe sopportato di perdere anche lei. Aveva lasciato da parte troppo in quei lunghi anni per tollerare altri rimpianti o rimorsi. Vedendo però il signor Sterling arrivare di gran carriera a cavallo, si chiese se, forse, non se l’era già lasciata sfuggire dalle mani.

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Capitolo 13
*** Capitolo 12 ***


CAPITOLO 12

 
 

Camille era esausta. Tutti i pensieri che le avevano affollato la mente nelle ultime ore l’avevano lasciata piena di rabbia e a dir poco priva di energie.
Al diavolo!
Mai, mai nella vita avrebbe immaginato di essere trattata con tale disprezzo e pochezza. Sentiva ancora il magone salirle se ripensava alle dure parole di John. E fra le tante domande che si era posta, solo una era stata più ingombrante delle altre ovvero: perché le aveva risposto in quel modo? Non riusciva a pensare ad alcun motivo che spiegasse tutta quella collera. Era infatti convinta che in quelle poche settimane lui avesse iniziato, se non proprio a stimare, quantomeno a gradire la sua compagnia, ma evidentemente si era sbagliata di grosso.
Non poteva incolpare altri che sé stessa per quell’abbaglio. Dopotutto John non aveva mai fatto mistero della bassa opinione che aveva di lei: glie lo aveva pure detto in faccia chiaro e tondo dopo il pomeriggio passato per i negozi di Windermere. Nonostante quello però, dentro di sé, sperava tanto avesse iniziato ad apprezzarla almeno un pochino.
«Ora basta, smetti di commiserarti» si disse, fissando il soffitto del baldacchino più infuriata che mai. «E poi da quando ti importa del giudizio di qualcuno?»
Giusto… anche quello era un ottimo quesito.
Riflettendoci bene, poteva concludere di non essersi mai fatta sopraffare in quel modo da nessuno. Era sempre stata indipendente dalle opinioni degli altri, fatta eccezione per il piccolo dettaglio riguardo il suo futuro in ambito matrimoniale, eppure sin dall’inizio aveva cercato la sua approvazione. Per la prima volta da quando aveva raggiunto un’età tale da permettersi di ragionare con la propria testa era stata autocritica, si era prefissata di migliorare il suo poco altruismo e di limitare la propria testardaggine, ma non era servito. Probabilmente niente di quello che avrebbe potuto fare sarebbe stato abbastanza: John avrebbe continuato a vedere nulla più che una sciocca ragazzina viziata e senza cervello.
Era quel particolare a farle più male. Non che la considerasse egoista, vanesia e con l’unico pensiero della vita mondana, ma che la pensasse una stupida. Che diritto aveva di trattarla come se non avesse anche lei dei pensieri?
Non sono cose che riguardano una donna, men che meno una giovane come voi, per cui statevene al vostro posto.
Quella frase l’aveva devastata e l’aveva fatta sentire delusa e amareggiata allo stesso tempo. Perché credeva davvero che John fosse diverso dagli altri, che avesse finalmente incontrato una persona capace di vedere oltre le apparenze e di apprezzarla per quello che era: non un soprammobile da sfoggiare a piacimento, ma una sua pari e come tale essere trattata.
Non era stato così. Anche per lui, stando alle sue orribili parole, il ruolo della donna doveva limitarsi alla gestione della casa, al mettere al mondo figli maschi che portassero avanti il buon nome della famiglia e ad osservare lo scorrere degli anni da un angolo in disparte senza poter fare alcunché.
Lei non sarebbe mai stata niente di tutto quello. Era un essere pensante, per l’amor del cielo! Era tanto difficile da capire?
Evidentemente sì. Evidentemente allora la prospettiva di rimanere nubile non era poi così pessima. Ancora qualche anno e avrebbe potuto prendersi libertà che un marito le avrebbe di sicuro negato. A quel punto avrebbe viaggiato, grazie alla dote e al mantenimento che le spettava si sarebbe comprata una casa tutta sua, avrebbe viziato i nipoti e, perché no, si sarebbe presa persino un amante. In fin dei conti era una bella donna e se potevano farlo gli uomini, perché non lei quando agli occhi della società sarebbe stata ormai priva di attrattiva?
Però, però… c’era un però: il desiderio di innamorarsi, di avere qualcuno che ricambiasse il suo affetto senza remore e con il quale creare una famiglia non sulla base di un dovere, ma dell’amore. Proprio come era successo ad Heather.
Sbuffò rumorosamente, battendo i pugni sul materasso.
Era stufa marcia di essere invidiosa della sorella. Solo i muri della sua camera a Londra sapevano quanto si era mangiata il fegato durante il corteggiamento di Jamie prima e il matrimonio dopo. E sempre si era chiesta perché non era accaduto anche a lei? Cosa aveva di sbagliato?
Era certa di rispecchiare perfettamente ciò che cercava un uomo: era bella, sapeva ricamare, suonare il pianoforte, dipingere agli acquerelli e conosceva tutti i segreti su come mandare avanti una casa. Sapeva ridere al momento giusto, fare battute ed essere discreta allo stesso tempo, eppure tutto ciò che aveva ottenuto era essere messa da parte e detestata dall’unica persona con cui sentiva di poter avere un rapporto sincero, senza alcun tipo di apparenza. Perché non aveva mai avuto timore di mostrarsi per quella che era davanti a John. Senza dubbio aveva dato il peggio di sé, ne era consapevole, i suoi difetti parevano superare di gran lunga i suoi pregi, ma per la prima volta era stata sé stessa e sperava di non doversene pentire così presto.
Il bussare della porta la fece sobbalzare.
«Sì?»
«Perdonate signorina, sono Jane.»
«Qualsiasi spuntino mi abbiate portato, ho già detto di non volere niente» disse, anche se aveva la pancia che brontolava da almeno due ore. Aveva scoperto che la rabbia faceva venire una terribile fame, ma non le avrebbe dato soddisfazione: si era imposta di rimanere chiusa in camera finché John non fosse venuto a scusarsi per il suo ignobile comportamento.
Allora puoi anche morire, disse un’antipatica vocina dentro di lei.
«Non sono venuta per quello, ma per dirvi che è arrivato in visita il signor Sterling… ha chiesto espressamente di voi.»
Quella poi!
E adesso cosa doveva fare?
«Devo riferire che non vi sentite bene?»
«No!» esclamò, saltando giù dal letto e rischiando di farsi venire un mancamento per la troppa velocità con cui aveva compiuto quell’operazione. «Entra pure, Jane» concluse, mentre si sedeva alla toeletta. Non avrebbe dato a John la soddisfazione di rovinarle anche l’incontro con un possibile corteggiatore… anche se, guardandosi allo specchio, sarebbe stato meglio non presentarsi per davvero.
Santo cielo, aveva un aspetto mostruoso: la treccia che teneva i capelli era mezza disfatta, i riccioli solitamente voluminosi erano talmente ingarbugliati da sembrare un nido di rondine, le labbra erano secche, gli occhi rossi per colpa del pianto e le occhiaie erano diventate ancora più accentuate.
Camille fece una smorfia notevole.
Sul serio voleva farsi vedere in quello stato? Aveva una dignità dopotutto e così conciata sembrava una moribonda.
«Sai Jane, forse ci ho ripensato» disse con sconforto.
«Sciocchezze signorina, lasciate fare a me: vi sistemerò in un batter d’occhio» rispose la cameriera con fermezza.
Lei annuì silenziosa, domandandosi cosa mai potesse fare quando il suo aspetto era tanto disastroso. Non volendo però offendere la determinazione di Jane, in silenzio lasciò che le rifacesse la treccia, che nascondesse le occhiaie con un po’ di trucco e che l’aiutasse a cambiarsi: optò per un abito da pomeriggio a maniche lunghe blu scuro, esattamente come il suo umore, e dopo averle pizzicato le guance un paio di volte la lasciò libera di andare verso il salotto.
Dovette fare tre respiri profondi prima di decidersi ad entrare e una volta lì, trovò il signor Sterling intento a prendere il tè insieme a zio Vincent. Di John nemmeno l’ombra.
Oh no, non avrebbe permesso alla sua mente di pensare ancora a lui! Doveva concentrarsi sul signor Sterling, sui suoi bellissimi occhi azzurri e sul suo splendido sorriso.
Maledizione, non ci riuscì.
«Camille, cara, finalmente!» esclamò zio Vincent nel vederla, mentre il signor Sterling poggiava la tazza di tè che teneva in mano e si alzava in piedi.
«Signorina Grey» disse, facendole un inchino.
«Signore» rispose, accomodandosi sul divano accanto a lui e versandosi a sua volta del tè. C’erano anche i buonissimi dolcetti ai frutti di bosco della signora Jenkins a farle gola, ma siccome le avevano insegnato che, fatta eccezione per i pranzi e le cene, era sconveniente mangiare davanti ad un uomo in prospettiva di una conversazione alla quale avrebbe dovuto partecipare attivamente – guai se avesse sputacchiato addosso al suddetto uomo la briciola di un biscotto! – dovette limitarsi a guardarli con l’acquolina in bocca.
Camille pregò che il suo stomaco non iniziasse a brontolare proprio in quel momento, perché se c’era una cosa peggiore dello sputacchiare briciole era sentire la pancia borbottare.
«Vi chiedo perdono per avervi fatto attendere» disse, cercando di distrarsi dal pensiero della fame. «Se avessi saputo che sareste venuto in visita a Lodgewood, mi sarei fatta trovare pronta.»
«Non dovete affatto scusarvi» rispose il signor Sterling con uno dei suoi sorrisi mozzafiato. «In verità temo di essere io il villano della situazione, dato mi sono presentato nel bel mezzo del pomeriggio e al di fuori dell’orario delle visite… passavo di qui e ho pensato di venire a salutarvi e a presentarmi al visconte, non avendo ancora avuto l’occasione.»
«Oh… ma certo» farfugliò, un po’ in imbarazzo.
Quella stessa frase l’aveva pronunciata Jamie quando era venuto nella loro residenza a Londra per presentarsi al cugino Anthony.
«E io sono davvero felice di fare la vostra conoscenza» disse zio Vincent, stranamente cordiale. «Sapete, come stavo per dirvi poco fa, mia moglie e vostra zia Beckett erano amiche sin dall’infanzia.»
Dunque era per quello che era tanto accondiscendente?
«La conoscevate bene, suppongo.»
«Vostra zia era la madrina di mio figlio Jamie, dire che la conoscevo è dir poco… mi ha rattristato molto la sua morte.»
«Anche a me, ma ancora di più mi rattrista il fatto di aver saputo della sua esistenza troppo tardi… temo mi porterò questo dispiacere per sempre.»
«Purtroppo è il fardello degli eredi lontani e certo non dovete farvene una colpa» disse zio Vincent con un sorriso. «Ditemi, avete intenzione di rimettere in sesto le proprietà? So che non sono messe molto bene, ma quando era ancora in vita la signora Beckett ha sempre rifiutato il mio aiuto: essendo sola e senza figli, diceva che a nessuno sarebbe importato delle sorti dei suoi campi e del suo piccolo cottage. I contadini avrebbero trovato facilmente un nuovo fittavolo, mentre la sua casa non sarebbe mancata a nessuno. Discorsi assurdi, non trovate? Ma fino all’ultimo è stata irremovibile… ad ogni modo ora affido a voi le mie speranze.»
«Allora devo deludervi, milord. Confesso di non avere ancora preso una decisione» ammise il signor Sterling.
«E perché mai?»
«Perché le mie terre e la mia casa si trovano nell’Oxfordshire… sarei sempre lontano da qui e non riuscirei a seguire gli affari a dovere. In più, non amo affidare agli amministratori un controllo totale sui miei possedimenti: preferisco badarci in prima persona e in questo caso non mi verrebbe possibile.»
«Capisco… se comunque posso permettermi, vi consiglierei un consulto con il signor Henry Tilbot: è un mio vecchio amico che conosce alla perfezione queste terre e le loro potenzialità… fa da amministratore a diversi signori locali e potrebbe illustrarvi come recuperare al meglio la terra.»
«Vi ringrazio e penso accetterò volentieri il vostro consiglio, ma temo che annoieremo a morte la signorina qui presente se continuassimo a parlare di tenute ed amministrazione» disse, voltandosi verso di lei. «Devo chiedervi scusa di nuovo, non era mia intenzione farmi prendere da altri discorsi.»
In un’altra circostanza, Camille sarebbe stata furiosa per essere stata deliberatamente ignorata. Il signor Sterling era venuto in visita e aveva chiesto espressamente di lei, dunque come si permetteva di non considerarla neppure? In quel particolare momento, però, non ci fece caso. Era troppo distratta dal pensiero di John per riuscire a conversare amabilmente e aveva sperato che i due continuassero a parlare di economia per il resto del pomeriggio.
«Camille, tutto bene?» domandò zio Vincent.
Sospirò.
«Sì, zio, tutto benissimo» disse, bevendo il tè e non ricordandosi che il signor Sterling le aveva appena porto le sue scuse.
Nel salotto cadde il silenzio. Zio Vincent finse un colpo di tosse e il signor Sterling si schiarì la voce.
Camille si detestò nel profondo.
Quanto voleva poter essere gentile e civettuola come suo solito, ma non ci riusciva. Era troppo scossa e per quello si sentì mille volte in colpa nei confronti del signor Sterling.
«Mentre venivo qui non ho potuto fare a meno di ammirare i giardini» tentò di nuovo lui, sperando di avere la sua attenzione.
«Sì, sono davvero molto belli.»
Di nuovo silenzio. Un altro sorso di tè, un altro finto colpo di tosse.
«Camille, perché non accompagni il signor Sterling a visitarli? Sono appena sbocciate le rose e i tulipani e il capo giardiniere, il signor Hughes, ha detto che anche il frutteto è in fioritura e non è mai stato più incantevole come in questi giorni.»
«Vi andrebbe, signore?» chiese e gli occhi del signor Sterling ebbero uno strano guizzo.
«Mi farebbe estremamente piacere.»
Molto bene. Era ora di riprendersi da quello stato di trance in cui era caduta.
Per l’amor del cielo, se continuava a comportarsi in quel modo il signor Sterling avrebbe pensato che fosse una tonta o, peggio ancora, che stesse avendo un colpo apoplettico! E poi dov’era finita la sua intraprendenza? Poco prima aveva dichiarato a sé stessa che non si sarebbe fatta rovinare la possibilità di un corteggiamento da John, ma era proprio quello che stava succedendo.
Risoluta poggiò la tazza di tè e fece il sorriso più cordiale del suo repertorio.
«Se volete seguirmi» disse alzandosi. «Sono sicura che rimarrete affascinato.»
«Non lo metto in dubbio» concordò lui alzandosi a sua volta. Poi si rivolse a zio Vincent: «Milord, è stato davvero un piacere conoscervi.»
«Anche per me… arrivederci.»
Detto quello, fra un commento sul tempo e uno sui frutteti grazie al quale il visconte aveva intrapreso un piccolo commercio di marmellate, arrivarono ai giardini.
Camille si sentiva un po’ nervosa. Era la prima volta che si trovava sola con un uomo, fatta eccezione per Jamie e più di recente John, ma, accidenti a lei, non sapeva dire se quel suo stato emotivo fosse più per gli estenuanti pensieri che le avevano quasi fatto venire l’emicrania o se per la vicinanza con il signor Sterling.
Decise che era per il secondo motivo.
Ecco, pensò furiosa, se in quel momento ci fosse stato John non avrebbe avuto problemi a sbuffare e a dire ad alta voce le proprie perplessità. Al contrario, era costretta a sfoggiare un finto sorriso e a far credere al signor Sterling che i commenti sulla botanica le interessassero.
Un brivido di paura le percorse tutta la schiena, poiché all’improvviso le fu chiaro che proprio perché si era mostrata per quella che era, John aveva finito per detestarla. E se fosse successa la stessa cosa con il signor Sterling? Come avrebbe reagito in un ipotetico futuro, sapendo che in realtà era cocciuta, viziata, capricciosa, egoista e tutti gli altri aggettivi che John le aveva gentilmente riservato? E se avesse finito per odiarla anche lui? Camille non sarebbe mai riuscita a mentire per così tanto tempo e non voleva ridurre il proprio matrimonio ad una relazione apatica e fatta solo di insipidi rapporti.
Un altro sospiro triste le sfuggì e questa volta non passò inosservato.   
«Perdonate, temo di starvi annoiando» disse il signor Sterling, stringendosi nelle spalle. «Nella mia casa nell’Oxfordshire ho una piccola serra e sono piuttosto appassionato di piante e fiori.»
Fiori? Cosa c’era di tanto interessante nei fiori? Erano fiori!
«Temo che la colpa sia mia» disse comunque. «Oggi ho i pensieri da tutt’altra parte.»
«Sì, non ho potuto fare a meno di notare che sembrate alquanto turbata. Spero non sia successo niente di grave.»
«No» mentì. «È solo che… bè… non riesco a togliermi dalla mente il pensiero della duchessa» concluse. Dopotutto una mezza verità era meglio di una completa bugia.
«Vi capisco» disse il signor Sterling, fermandosi di fronte a lei e guardandola in viso. Anche Camille lo guardò. I suoi occhi azzurri la stavano fissando preoccupati e comprensivi. Erano molto belli, ma niente in confronto ad un paio di occhi grigi che avrebbe volentieri dimenticato. 
«Vi chiedo scusa, non era mia intenzione mancarvi di rispetto» rispose, abbassando lo sguardo. «Siete stato gentile a passare di qui, non me l’aspettavo.»  
«Sono lieto di sentirlo e, a dire il vero, sono venuto per uno scopo ben preciso.»
Camille si irrigidì come un paletto, il respiro che le mancava all’improvviso dai polmoni.
«Sarò sincero con voi, signorina Grey» disse con risolutezza. «Non mi piace girare attorno alle cose e spero non prendiate la mia sfrontatezza per arroganza» fece un respiro, mentre lei rimaneva in silenzio. «La verità è che mi avete colpito molto.»
«Anche voi mi avete colpita.»
«Davvero?»
Lei annuì. In fondo non poteva negare di esserne rimasta affascinata… anche se forse avrebbe fatto bene a risparmiarsi quell’ultimo commento.
«Sono contento» sorrise, prendendole le mani. «E dunque, se è così, immagino abbiate capito quali sono le mie intenzioni.»
«Ecco…»
«Vorrei corteggiarvi, signorina Grey» disse, portando le sue mani più vicine al petto. «E, se accetterete, vorrei proporvi un pic-nic per domani pomeriggio.»
«Oh… i-io non…»
«Temete faccia forse ancora troppo freddo? Un tè allora potrebbe andarvi di più?»
«Non è questo, anzi mi piacciono i pic-nic… è solo che non avrei nessuno che possa farmi da chaperon. Zio Vincent odia stare all’aria aperta e in quanto al figlio…» si bloccò, mentre le veniva la pelle d’oca al pensiero di lei, il signor Sterling e John insieme.
«Il visconte mi ha assicurato che nel caso aveste accettato, vi avrebbe accompagnata la signora Potter… la governante, se ho ben capito.»
«Ha detto così?» domandò stupita.
No, un momento: il signor Sterling aveva parlato a zio Vincent delle sue intenzioni?
«Sembrate sconvolta» rise lui.
«Bè… un po’» ammise.
«Dunque, qual è la vostra risposta?»
Il cuore di Camille prese a battere all’impazzata e sentì le guance accaldarsi. Aveva atteso quel momento tutta la vita, ma ora che era inaspettatamente arrivato aveva solo voglia di scappare via il più veloce possibile.
Non era così che sperava di sentirsi. Avrebbe voluto che lo stomaco le facesse le capriole, che il cuore scoppiasse di gioia… invece stava scoppiando di angoscia. Purtroppo il signor Sterling interpretò quelle sue reazioni come sincera emozione e le strinse più forte le mani, avvicinandosi un poco.
Oh no, la stava per baciare?
«Va bene» disse con enfasi, facendo uno svelto passo indietro. «Accetto!»
Il signor Sterling allora le baciò le nocche delle mani a quelle sue parole, lasciandole poi andare. Il sorriso che nemmeno per un istante aveva dato segni di cedimento.
«Ne sono felice e spero di non farvi pentire di questa scelta» disse, offrendole il braccio. «Venite, vostro zio si starà chiedendo dove siamo finiti.»
Camille accettò volentieri e dopo essere stata riaccompagnata all’entrata del castello, salutò il signor Sterling che al settimo cielo saliva sul suo cavallo e riprendeva la via del ritorno.
Lei al contrario rimase ferma davanti al portone per interi minuti a rimuginare su quanto appena accaduto. Sentiva la testa scoppiare e mai come in quel momento le mancò l’appoggio di Heather. Aveva un estremo bisogno di confidarsi con lei, l’unica al mondo in grado di capirla. Ma lei era lontana, a divertirsi alla corte del re di Sardegna alla reggia di Caserta e non ce l’aveva nemmeno in nota: la mancanza di arrivo di nuove lettere da ormai un mese ne era la prova lampante.
Una lacrima le sfuggì, che rapidamente raccolse con il polsino del vestito, capendo di non essersi mai sentita così tanto sola e abbandonata.

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Capitolo 14
*** Capitolo 13 ***


CAPITOLO 13

 
 
 


«Sai, sono convinto che Camille sarebbe una viscontessa perfetta.»
A John andò per traverso il pezzo di quaglia che stava masticando e iniziò a tossire indemoniato alla ricerca di aria. Ci mancava solo che con tutto quello che aveva affrontato morisse per un maledetto pezzo di carne… o per l’affermazione di suo padre, dipendeva dai punti di vista.
«Come la fai tragica» continuò Vincent imperterrito, come se non avesse appena assistito al quasi soffocamento del figlio. «Lo penso dal momento in cui sei tornato e, se proprio ci tieni a saperlo, ne sono sempre più sicuro ogni giorno che passa.»
«Come…» un colpo spasmodico di tosse. «Diavolo…» altri due colpi spasmodici di tosse. «Avete fatto…» un respiro profondo e finalmente sentì di nuovo l’aria fluire nei polmoni, seguito da un ulteriore colpo di tosse. «A mettervi in testa una cosa tanto ridicola?» concluse, bevendo un intero bicchiere d’acqua. Non era mai stato più vicino alla morte come in quel momento.
«Suvvia John, sarò pur vecchio ma fortunatamente non mi sono ancora rincretinito.»
Al diavolo, ma perché la cena non poteva continuare tesa e silenziosa come fino ad un minuto prima? Non bastavano i suoi pensieri al riguardo, ci si doveva mettere pure suo padre a rincarare la dose?
«È l’idea più assurda che io abbia mai sentito» affermò, continuando a sentire una strana sensazione alla gola.
«Io invece credo di no» insistette. «In fin dei conti ha tutte le qualità che una buona moglie dovrebbe avere ed in più non è forse una bellissima giovane donna? Sii sincero, non dirmi che non ti ha colpito almeno un po’… sebbene il tuo comportamento di oggi sia stato riprovevole, e per questo spero tu le faccia le tue scuse quanto prima o sarò costretto a trascinarti per un orecchio come quando eri bambino, non può averti lasciato indifferente. Montgomery mi riferisce tutto ciò che accade sotto il tetto di questo castello e so che avete passato parecchio tempo insieme.»
 «È vero» ammise John, ripensando alle loro chiacchierate nello studio. «Ma lasciatemi dire che non ci sono solo gli aspetti che avete elencato da considerare… e dovreste saperlo meglio di me, visto che, se ben ricordo, siete stato voi il primo a definirla una giovane piuttosto entusiasta
«Ma è naturale, vista l’età… diventerà più docile col tempo.»
John ne dubitava fortemente. Neanche fra un milione di anni Camille sarebbe diventata più accomodante e, qualora fosse successo, non glie lo avrebbe mai perdonato, perché avrebbe voluto dire che aveva cambiato il proprio carattere solo per compiacere qualcuno.
In un attimo rivide lei sorridente mentre passeggiava nei giardini a braccetto col signor Sterling. Lui che ad un certo punto si fermava, le prendeva le mani e avvicinandosi le portava alle labbra. Per poco non aveva rotto il bicchiere con dentro il brandy nel vedere quella scena melensa.
Sì, l’aveva spiata.
Non si era presentato nel salotto per ovvi motivi, non gli sembrava il caso di litigare con Camille davanti ad un ospite fondamentalmente sconosciuto, ma non aveva resistito all’impulso di osservare le mosse del signor Sterling dalla finestra. Pessima decisione ovviamente, ma d’altronde in quel periodo non ne azzeccava una, per cui una in più una in meno non faceva differenza.
«Dovresti parlarle» disse di nuovo suo padre. «Se non altro per risparmiarle di finire fra le mani di quell’uomo insignificante.»
«Pensavo vi piacesse» rispose lui, ignorando deliberatamente la prima frase. Per quello ci aveva già pensato Daniel a rintronarlo a sufficienza.
«Figuriamoci!» esclamò con veemenza. «Se avessi potuto, l’avrei cacciato non appena Montgomery è venuto a dirmi che mi chiedeva udienza. L’ho accolto perché purtroppo non posso esimermi dal ruolo di tutore, ma se fosse dipeso da me avrei evitato quell’incontro come la peggiore delle malattie» disse, sospirando malinconico. «Sai, speravo tanto non succedesse.»
«Che cosa?»
«Il corteggiamento. Secondo te perché l’anno scorso mi sono rifiutato di partecipare a quanti più eventi possibile? Mi sono comportato da perfetto egoista, lo so bene, ma così facendo avevo sperato di evitare l’inevitabile ancora per un po’… perché la verità è che vorrei che Camille restasse qui per sempre. Per questo avevo pensato che voi… insomma… oh, lasciamo perdere! Sono soltanto i vaneggiamenti di un vecchio diventato troppo sentimentale.»
John sentì il cuore stringersi nel sentire suo padre pronunciare quelle parole e il senso di colpa che in quelle settimane aveva iniziato ad assopirsi, tornò prepotente ad invadergli i sensi.
«Mi dispiace» disse di getto.
«Per cosa? Non è certo colpa tua se Camille ha dei corteggiatori.»
«Non intendevo per quello, ma per tutti questi anni in cui vi siete sentito abbandonato. Avrei voluto che le cose andassero diversamente… avrei potuto sforzarmi di più.»
«Non essere sciocco! Non rimpiango nulla di quanto è stato. Certo a volte non posso negare di essermi sentito solo, ma se tornassi indietro non c’è nulla che cambierei della mia vita… insomma, sto per diventare nonno e il figlio che credevo di non rivedere mai più è tornato. Cos’altro avrei potuto desiderare? Forse qualche anno ancora insieme a tua madre» disse sorridendo. «Caspita, sono diventato oltremodo sensibile… l’avresti mai detto?»
John trovò la forza per sorridere a sua volta, sebbene il groppo alla gola non se ne voleva andare.
«No… siete sempre stato severo ed imperscrutabile, come me d’altronde. Ed ora ci troviamo entrambi succubi di una giovane donna irriverente ed altezzosa» concluse, prima di mordersi la lingua. Suo padre infatti lo stava già guardando con occhi da volpe. «Non dite niente» lo implorò.
«Come preferisci, dopotutto sei un uomo adulto e in grado di capire da solo cosa è meglio per te… ma se non altro ti chiederei di fare comunque attenzione a quel signor Sterling. Non sappiamo davvero niente di lui e se fosse un cacciatore di dote? A Camille si spezzerebbe il cuore.»
«È una buona idea» disse, anche se in realtà aveva già pensato di scrivere al signor Yale per chiedere informazioni circa le reali condizioni economiche del signor Sterling e se fosse o meno coinvolto in un qualche scandalo di dubbio gusto dal momento in cui era arrivato a Lodgewood quel pomeriggio.
Si era detto che lo faceva per il bene di Camille e per evitarle inutili illusioni, ma la verità era che ci sperava proprio saltasse fuori qualcosa su di lui. Se lo sarebbe levato di torno senza dover muovere un solo dito.
Vigliacco gli urlò una voce.
Da quando si arrendeva a quelle flebili speranze? Dov’era finito il suo coraggio e il suo orgoglio? Ma soprattutto: aveva affrontato pericoli ben maggiori di una giovane donna impertinente.
Basta.
Al diavolo le conseguenze, al diavolo tutto. Daniel e suo padre avevano ragione: doveva parlare con Camille subito. Poco importava se poi lei lo avrebbe odiato, doveva dirle la verità.
Attese quindi con una certa agitazione che la cena si concludesse, dopodiché, dopo aver dato la buonanotte a suo padre, si diresse a passo di marcia davanti alle sue stanze. Il visconte le aveva permesso di sistemarsi negli appartamenti padronali, che comprendevano oltre alla camera da letto anche un piccolo salottino, uno spogliatoio e la stanza da bagno.
Al primo bussare della porta non ci fu risposta. Tentò di nuovo, ma ancora niente. Era impossibile che stesse già dormendo, non erano nemmeno le nove… decise di fare un altro tentativo, bussando più forte.
«Entra pure Jane, ho quasi finito» disse a quel punto Camille, anche se la sua voce gli giunse particolarmente lontana.
«Camille, sono io.»
Silenzio.
«Vorrei parlarvi.»
Ancora silenzio.
«Per favore, aprite» aggiunse.
«Non posso.»
Naturale… non si aspettava certo gli rendesse le cose facili.
«Capisco la vostra collera, davvero, ma ho bisogno di parlarvi. Posso entrare?» chiese, mentre aveva già la mano sulla maniglia.
«No!» urlò lei.
«Camille…»
«Sono nella vasca!»
Ah.
Maledizione.
Ci mancava solo quella come immagine. Lei nuda nella vasca da bagno.
Deglutì a vuoto, la sensazione che i calzoni fossero diventati improvvisamente stretti, mentre la sua mano non ne voleva sapere di schiodarsi dalla maniglia. E se avesse aperto lo stesso, cosa sarebbe successo? La risposta era più che ovvia e non ci sarebbe stato posto per eventuali dilemmi.
Si schiarì la gola, fattasi improvvisamente secca. Si impose anche di fare un passo indietro e di lasciare quella dannata maniglia.
«Vi… vi aspetto nel salotto, se vorrete… ehm…» stava davvero per usare la parola venire? «Devo parlarvi» concluse, girando sui tacchi e allontanandosi da quella porta il più in fretta possibile. Non attese nemmeno che lei gli rispondesse, perché se fosse rimasto lì davanti ancora per un altro istante avrebbe perso del tutto il controllo.
Una volta arrivato nel salotto si piazzò davanti al mobile dei liquori, si versò un abbondante bicchiere di brandy e pregò che l’alcool lo aiutasse a calmarsi. Purtroppo per lui il diversivo funzionò per un minuto scarso, perché quando si mise seduto sul divano a fissare le fiamme del camino, il pensiero di Camille nella vasca da bagno tornò prepotente e lui si ritrovò agonizzante.
Aveva perso la testa, non c’erano altre parole per descrivere il suo stato emotivo. E non appena lei si presentò nella stanza, a quel punto avrebbe preferito non lo facesse, l’impulso di prenderla fra le braccia, baciarla, stenderla sul divano e saggiare ogni millimetro della sua pelle gli fece quasi male.
Se soltanto fosse riuscito a distogliere lo sguardo, a non fissarla come un lupo affamato di fronte ad un appetitoso agnello… Dio, era bellissima. Indossava una vestaglia verde scuro, saggiamente ben chiusa sul davanti, sebbene non ci avrebbe messo che un istante a sciogliere il nodo che la teneva legata e rivelare così i suoi tesori nascosti, e delle pantofole dello stesso colore. I capelli erano ancora umidi e legati in una treccia che tratteneva a stento i boccoli più corti, mentre le guance erano rosse come ciliegie. John non seppe dire se per via del bagno appena fatto oppure perché consapevole del suo sguardo, ma probabilmente non aveva idea di quanto fosse desiderabile. Perché nonostante avesse corrotto una cameriera per farsi dire cosa succedeva in un talamo nuziale, non sapeva un bel niente di come funzionava veramente fra un uomo e una donna. Non si sarebbe presentata così, altrimenti… o non si sarebbe avvicinata fino a sederglisi di fianco.
Il profumo del sapone di agrumi e lavanda era intenso. John respirò a pieni polmoni, tentando di reprimere ogni suo più basso istinto. Lo sapeva almeno che quanto succedeva in un letto matrimoniale, poteva accadere anche lì e in quel preciso istante? 
«Dunque, cosa volevate dirmi di tanto urgente?» domandò furiosa.
John si riscosse come da un sogno. La guardò negli occhi e se i suoi erano pieni di desiderio, quelli di Camille invece erano pieni di rabbia. E per fortuna, aggiunse, perché se vi avesse scorto qualsiasi altro sentimento l’avrebbe baciata su due piedi.
«Volevo parlarvi» fece, cercando di riprendere il controllo di sé e della situazione.
«Questo l’avete già detto. Quattro volte» e incrociò le braccia al petto.
«Sì, ecco… volevo chiedervi scusa… per… per tutto.»  
«Apprezzo lo sforzo, ma se pensate che basti vi sbagliate di grosso.»
«No, infatti… per questo avevo bisogno di parlarvi, per dirvi…» si bloccò, mentre il cuore iniziava a battere più forte. Aveva creduto sarebbe stato molto più semplice, ma così non era. Fece un respiro profondo e forse Camille percepì la sua difficoltà, perché riportò le mani in grembo, assumendo una posizione meno sostenuta.
«John?»
Lui non osò alzare gli occhi su di lei, preferendo fissare il fuoco del camino.
«Quello che sto per dirvi… io… non so davvero da dove iniziare» ammise, passandosi una mano fra i capelli. «Si tratta di una verità scomoda che avrei preferito non rivelarvi, ma dopo quanto successo oggi non posso più tenervela nascosta… e se non altro, indipendentemente da quello che penserete di me alla fine, almeno non ci saranno più segreti.»
«Così mi spaventate.»
«Mi dispiace. Non vorrei, dico sul serio, ma non posso permettere che il mio passato rovini… rovini la nostra amicizia» se poi di amicizia era lecito parlare. Camille ad ogni modo rimase in silenzio, così John poté prendere un ulteriore respiro prima di aprir bocca. «Vi ricordate il pomeriggio a Windermere, quando vi raccontai del motivo che mi spinse lontano da casa per tanti anni?»
«Sì, certo che me lo ricordo.»
«Bè, sappiate che c’è dell’altro.»
«Dell’altro?»
«Dopo che andai via da Londra, praticamente distrutto, feci credere a tutti di essere andato in Jamaica… e ci rimasi, questo è vero, ma solo per pochi mesi.»
«Voi… cosa?»
«Stavo vivendo un inferno. I ricordi della guerra e delle sue conseguenze mi lasciavano a malapena dormire la notte… persi un caro amico nella battaglia di Waterloo: Henry Stantford. Non faceva parte della cerchia della buona società, era il figlio di un maniscalco, ma nonostante quello diventammo inseparabili. Combattemmo sotto Wellington per tre lunghi anni, fino a quel maledetto giorno. Sapevamo che quella battaglia sarebbe stata decisiva, ne avevamo il sentore da giorni, ma nessuno si aspettava che durasse tanto e soprattutto che portasse con sé orrori del genere… lo sapete in quanti morirono?» lei fece segno di no con la testa. «Quasi cinquantamila, Camille, riuscite ad immaginarlo? Fu un massacro: bombe di cannone che esplodevano ovunque, urla, spari, nitriti di cavalli impazziti… e poi una di quelle bombe esplose sopra di un carro vicino a noi. Sarei morto, se non fosse stato per Henry… non ha esitato un secondo: si è gettato sopra di me, facendomi da scudo. Le schegge di legno mi colpirono solo la gamba, da qui la mia ferita. Henry invece morì fra le mie braccia, dopo avermi fatto promettere che sarei andato avanti, che avrei dimenticato e che sarei tornato ad amare come prima… come potete immaginare, non ci riuscii: non mantenni la promessa.»
«John…» provò a dire Camille, ma lui non le diede la possibilità di parlare oltre. Se lo avesse fatto, non avrebbe più trovato il coraggio di continuare.
«Così scappai in Jamaica. Stupidamente pensavo che la dura vita delle piantagioni mi avrebbe aiutato a dimenticare, ma i ricordi erano troppo forti e la solitudine non aiutava di certo lo scopo. Fu per un caso fortuito che incontrai un uomo, tale Robert Porter, durante l’unica festa a cui partecipai: si fingeva un ricco mecenate in cerca di nuove prospettive, ma in realtà indagava su quei possidenti che ancora praticavano la schiavitù e che erano immischiati nel traffico di essere umani. Fu lui a propormi di aiutarlo, vide in me un potenziale, e così da quel momento entrai a far parte dei servizi segreti britannici. Girare di Paese in Paese come diplomatico mi sembrò un’opzione migliore che marcire in una piantagione e lasciare che gli anni della mia vita scorressero senza aver fatto niente di buono. In cuor mio avevo pensato che così facendo avrei anche in parte adempiuto alla promessa fatta ad Henry.»
«Mi state dicendo che… che per tutti questi anni in cui zio Vincent e Jamie vi hanno creduto in Jamaica, voi… voi…»
«Ero una spia» disse John al suo posto. Camille sgranò gli occhi incredula. «Tornai in Inghilterra insieme al signor Porter e lì conobbi il mio partner: Daniel Cooper.»
«Il vostro valletto?»
«Il mio migliore amico.»
«Ma, allora, dove siete stato?»
«A Torino per i primi due anni, poi in India per altri tre ed infine in Russia negli ultimi cinque. Poi mi hanno congedato per colpa della gamba… purtroppo la ferita che riportai era grave e in questi anni è sempre peggiorata. Secondo loro non sarei più riuscito ad adempiere al mio compito in maniera sicura, per cui onde evitare di trovarsi un visconte sul groppone, hanno deciso di farmi rientrare in Inghilterra.»
«E siete tornato.»
«Sì. Pensavo sarebbe stato semplice: Jamie era lontano in luna di miele e mio padre sarebbe stato così felice di riavermi a Lodgewood da sorvolato qualsiasi interrogativo sul mio passato… invece ho trovato voi, piena di curiosità ed imperterrita nel farmi domande.»
«Non potete farmene una colpa. Chiunque al posto mio lo avrebbe fatto.»
«Non lo so, può darsi, ma comunque mi avete messo non poco in difficoltà… oggi soprattutto.»
«Perché?»
«Perché non è stata la polizia a convocarmi, bensì un mio vecchio superiore. Vogliono che indaghi sull’omicidio della duchessa. Capite bene che non potevo portarvi con me, avreste scoperto tutto, ma eravate talmente insistente che ho dovuto trovare quella drastica soluzione per farvi smettere.»
«Cioè state dicendo che le parole che mi avete rivolto questa mattina…»
«Non le pensavo davvero. Erano l’unico modo per farvi desistere dal venire con me… mi dispiace, se potessi rimediare lo farei all’istante.»
«Lo avete fatto per allontanarmi?»
«Sì, Camille, e vi chiedo perdono.»
«Quindi non mi odiate?»
«Ma certo che non vi odio, io…» si bloccò, perché all’improvviso a Camille sfuggì un singhiozzo, mentre i suoi occhi iniziavano a riempirsi di lacrime. «Camille!» esclamò John, prendendo una sua mano e stringendola fra le sue. Lei però in un attimo scoppiò a piangere in maniera molto poco signorile. Svelto tirò fuori il fazzoletto dal taschino della giacca e glie lo porse. Lei lo prese e lo fissò stupita, poi in preda ai singhiozzi glie lo rilanciò dritto sul naso.
«Non lo voglio il vostro dannato fazzoletto!» inveì furiosa.
«Vi prego…»
«Siete orribile!»
«Lo so, ma…» non riuscì a proferire parola, perché lei lo interruppe ancora una volta.
«Io avevo pensato… io credevo… io… che voi…» farfugliò, in preda al pianto.
«Camille, vi prego, calmatevi.»
«No! È tutta colpa vostra… mi avete fatto credere di odiarmi! Avete idea di come mi sono sentita?»
«Sono mortificato, davvero… non so che altro fare più che chiedervi scusa» e le riporse il fazzoletto, che questa volta accettò. Fece due respiri profondi e finalmente i singhiozzi diminuirono, fino poi ad arrestarsi del tutto.
Seguirono attimi di silenzio. Camille si torturava le mani nervosa, mentre John avrebbe solamente voluto stringerla a sé. Decise allora di riprenderle la mano e con suo enorme stupore e sconcerto, lei poggiò l’altra sulla sua.
Si guardarono e poi Camille fece qualcosa che non si aspettava, non in quel momento e non dopo tutto quello che le aveva rivelato: gli sorrise. John deglutì a vuoto, mentre con la mano saliva lungo il braccio, le accarezzava la spalla per poi fermarsi sul collo. La vena le pulsava all’impazzata e con una certa soddisfazione la vide arrossire. Le sistemò una ciocca ribelle dietro l’orecchio, poi con il pollice raccolse una lacrima rimasta incastrata nell’angolo dell’occhio.
Si avvicinò. Non molto, ma quel tanto che bastava per sentire il respiro di Camille farsi più rapido.
L’avrebbe fatto, l’avrebbe baciata, non fosse che all’improvviso udì dei passi avvicinarsi al salotto. Veloce si alzò, non badando allo sguardo interrogativo di lei, mettendosi davanti al camino. Un attimo dopo irruppe nella stanza il signor Montgomery e John ringraziò mentalmente i suoi sensi sviluppati, perché se li avesse sorpresi un attimo prima le conseguenze sarebbero state oltremodo drammatiche.
«Milord, signorina… perdonatemi, non pensavo di trovarvi qui» disse lui imbarazzato, non potendo comunque fare a meno di squadrare entrambi da capo a piedi.
«Non preoccupatevi, Montgomery» fece John sbrigativo. «La signorina Grey ed io stavamo semplicemente chiarendo le nostre posizioni.»
«Ma certo, milord… posso farvi portare qualcosa?»
«Non ce n’è bisogno, la signorina stava per andarsene.»
«Molto bene… per qualsiasi cosa, suonate il campanello» concluse, prima di lasciare la stanza.
«Non me ne andrò affatto» proruppe invece Camille, non appena non si udirono più i passi del maggiordomo nel corridoio.
Figuriamoci. Sarebbe stata la fine del mondo se gli avesse dato ascolto.
«Lo immaginavo.»
«Sono a dir poco sconvolta.»
«Mi sorprenderebbe se non lo foste.»
«E sappiate che non vi ho ancora perdonato.»
«Lo accetto.»
«Questa storia poi dell’agente segreto… se lo sapesse zio Vincent, ne soffrirebbe moltissimo.»
«Per questo non c’è bisogno che vi chieda di non dirglielo.»
«Ovvio che non glie lo dirò, per chi mi avete presa?»
«Avete ragione.»
Di nuovo scese il silenzio. John tornò a fissare le fiamme del camino, mentre Camille sospirò triste.
«Mi dispiace per tutto quello che avete passato» disse in un sussurro. «Mi dispiace per il vostro amico e per tutto il dolore che avete provato e che provate tutt’ora… non avrei mai voluto essere invadente. Se avessi saputo cosa vi lasciavate alle spalle, sarei stata più discreta.»
«Lo so e non dovete dispiacervi, ormai è passato tanto tempo… anche se temo che il senso di colpa mi perseguiterà per il resto dei miei giorni. A volte penso che sarebbe stato meglio se fosse successo il contrario: se mi fossi sacrificato io, anziché Henry, avrei risparmiato anni di sofferenze sia a me stesso che alla mia famiglia.»
«Non ditelo neanche per scherzo!» esclamò risoluta. «Certo le vostre scelte possono essere di sicuro messe in discussione, ma che diritto abbiamo noi di giudicarle? Né Jamie né vostro padre hanno idea di cosa avete passato, io men che meno, dunque posso solo supporre che se avete agito in quel modo era perché sentivate di non avere altra scelta… non tutti reagiscono allo stesso modo di fronte al dolore. Io, per esempio, quando i miei genitori morirono non versai una sola lacrima… al contrario, mi chiusi in me stessa e in un rigoroso mutismo. Ricominciai a parlare solo due anni più tardi.»
John rimase profondamente colpito da quelle parole. Aveva scordato che anche Camille aveva avuto la sua buona dose di sofferenza.
«Se non fosse stato per Heather, il suo amore e la sua pazienza, non so come sarei stata a quest’ora… per cui vedete? Nessuno ha diritto di giudicare le scelte altrui: io ho ricominciato a parlare e voi siete tornato, per me solo questo ha importanza.»
«Forse avete ragione, ma non è semplice.»
«Affatto, anzi: è molto difficile… basta fare un passo alla volta, ne sono sicura» e gli sorrise di nuovo, per poi alzarsi e avvicinarsi a lui. Gli mise una mano sul braccio, stringendolo, e la sua mano ancora una volta andò a posarsi sulla sua. «Non serve a niente ancorarsi al passato: la vita in fondo può offrire tante cose belle, bisogna solo avere il coraggio di vederle.»
Non poté fare a meno di concordare con lei. E lui era fortunato, perché quella cosa bella ce l’aveva di fronte. Sperò che potesse diventare così anche per Camille.
«Ora siete voi quella saggia» disse, dopo un attimo di silenzio. 
«Non siatene così sorpreso.»
John rise. «No, non lo sono… e vi ringrazio.»
«Per cosa?»
«Per non essere scappata via.»
«Non lo avrei mai fatto… e poi ora che mi avete detto la verità, almeno mi permetterete di aiutarvi.»
«Non posso, Camille.»
«Per quale motivo? Ora non dovete più temere di dirmi bugie.»
«Perché è pericoloso… stiamo parlando di un omicidio e di un assassino in libertà. Cosa succederebbe se si sentisse alle strette e vi facesse del male?»
«Sarò discreta, lo prometto» lo implorò lei, stringendogli maggiormente il braccio. «Vi prego, vi prego non mettetemi da parte. E poi avete bisogno di me. In fondo chi altri meglio di me è in grado di muoversi nei salotti e di conversare amabilmente, ascoltando quanti più pettegolezzi possibile?»
Aveva ragione. Maledizione, sarebbe stata una complice perfetta. Doveva però tener conto di tutte le variabili.
«Avete scordato la parte in cui vi ho detto che è pericoloso?» chiese appunto.
«Ci sareste voi, mi fido e so che non correrei alcun pericolo.»
«Camille…»
«Per favore.»
John sospirò. «Non mi darete pace, vero?»
«Diventerò il vostro peggiore incubo.»
«E va bene» disse alla fine, esasperato. Era possibile provare una simile attrazione per una donna che lo avrebbe mandato al manicomio? Era sicuro di no. E vedendo Camille già pronta ad esplodere dalla gioia, si sentì comunque in dovere di smorzare quell’entusiasmo sul nascere. «Ad una condizione.»
«Quale?»
«Che mi darete ascolto.»
«Va bene.»
«Dico sul serio, Camille, perché non è uno scherzo. Se vi dico di fare qualcosa, voi la farete… e se mi renderò conto che le cose stanno diventando pericolose, non esiterò a lasciarvi fuori.»
«Siete davvero spietato, ma d’accordo: farò tutto quello che vorrete. Ma anche voi però mi dovete promettere che non mi nascondere nulla» disse, allungando una mano. «Andata?»
John la strinse. «Andata.»
A quel punto Camille, presa dall’euforia, gli si gettò addosso. Gli strinse le braccia intorno al collo, mormorando una serie infinita di “grazie”. John non li sentì. Percepì solamente la morbidezza e il calore del suo corpo contro il suo. Evidentemente se ne rese conto anche lei, perché si allontanò spaventata, rischiando anche di inciampare nell’orlo della vestaglia e di cadere all’indietro.  
«Io…» sussurrò, mentre le sue guance diventavano di nuovo rosse. «È meglio che vada» disse, facendo dietrofront e rischiando di andare a scontrarsi con il signor Montgomery.
John lo guardò preoccupato. Da quanto tempo era lì? Ma soprattutto: aveva deciso di tendergli delle trappole? Oppure era suo padre che gli aveva ordinato di spiarli?
«Perdonatemi di nuovo» fece lui apparentemente ignaro di tutto. «Ma c’è la signorina Simmons che chiede di vedervi.»
«Phoebe?» domandò Camille. «È qui?»
«Sì, signorina… è arrivata poco fa e sembra parecchio sconvolta.»
«Santo cielo, portatemi da lei» esclamò.
«Non ce n’è bisogno» e così dicendo si fece da parte, lasciando entrare una signorina Simmons pallida come un fantasma.
Ora era proprio curioso di sapere cosa fosse successo.




 

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Capitolo 15
*** Capitolo 14 ***


CAPITOLO 14





 
Camille avrebbe tanto voluto potersi concedere del tempo per metabolizzare lo sconvolgimento provocatole dalle rivelazioni di John.
Avrebbe anche voluto riflettere sugli strani sentimenti scaturiti dalla sua vicinanza e dal suo tocco, ma non ne ebbe la possibilità: non appena Phoebe apparve sulla soglia del salotto, le fu subito chiaro che qualcosa di tragico era successo. A parte il fatto che nessuno si sarebbe presentato a quell’ora della sera presso conoscenti, era il suo aspetto a rivelare la drammaticità del momento: era pallida come un fantasma, tutta scarmigliata, aveva il vestito sporco di fango, il che faceva presumere fosse venuta a piedi da Southlake Castle, e tremava come una foglia. Per il freddo o l’inquietudine era difficile stabilirlo, ma alla giovane non sfuggirono le lacrime che le scendevano lungo le guance.
«Phoebe, santo cielo, ma cosa vi è successo?» domandò preoccupata, prendendola per le spalle e accompagnandola al divano. Lei però non rispose, limitandosi ad agitare la testa in segno di diniego e continuando a piangere silenziosamente.
Camille non sapeva che fare. Alzò gli occhi su John in cerca di aiuto, ma sembrava completamente immerso nei suoi pensieri: lo sguardo fisso su Phoebe, la fronte corrucciata, una mano che faceva oscillare distrattamente il bicchiere con dentro il brandy e l’altra appoggiata al mento. Non lo aveva mai visto così concentrato come in quel momento.  
«Montgomery» disse lui alla fine, richiamando l’attenzione del maggiordomo. «Abbiate la cortesia di portare del tè per la signorina… e andate a chiamare mio padre. Qualsiasi cosa sia successa, non deve restarne all’oscuro.»
«Come desiderate, milord» rispose lui con la solita cordialità e impassibilità di sempre, come se non avesse appena accolto in casa una signorina sconvolta.
A quel punto Camille, dopo che il signor Montgomery si fu congedato con un inchino formale, prese la mano gelida di Phoebe fra le sue, chiedendole di nuovo cosa l’avesse spinta a compiere un gesto tanto folle quale mettersi a camminare da sola e in piena notte nel bel mezzo della brughiera e alla mercé di chicchessia, balordi o animali che fossero.
«Oh Camille, non avete idea» singhiozzò Phoebe. «Si tratta del duca, lui… mi ha cacciata.»
«Cosa ha fatto?» domandò sgomenta. «E perché mai?»
«Perché…» iniziò, ma le lacrime non le facevano prendere respiro. «Oggi c’è stata la lettura del testamento della duchessa e…» di nuovo si bloccò, singhiozzando.
«E… cosa?»
«La duchessa… lei…»
«Lei vi ha lasciato in eredità tutta la sua fortuna» furono le parole di zio Vincent.
Tutti e tre i presenti si voltarono verso l’anziano visconte, che silenzioso entrava nel salotto e si sedeva sulla poltrona di fronte a loro. Anche John si avvicinò, porgendo un bicchiere di liquore al padre.
«Come… come fate a saperlo?»
«So tutto di voi, signorina Simmons. Io e il defunto duca eravamo amici sin dai tempi di Eton e non ci siamo mai nascosti nulla. Sebbene la duchessa si sia ben guardata dal rivelarmi la verità, ho capito ogni cosa non appena vi ha presentata come sua pupilla. Sapendo inoltre che oggi ci sarebbe stata lettura del testamento, non ho fatto altro che unire tutte le linee.»
«Dunque sapete chi sono» non si trattava di una domanda.
«Sì.»
«Qualcuno per favore vuole dirmi che succede?» chiese Camille. Capiva lo sconvolgimento del momento, ma non sopportava quell’inutile attesa… serviva solo ad aumentare ancora di più il suo stato di ansia.
«La signorina Simmons» iniziò a dire zio Vincent. «È la nipote della duchessa.»
«Cosa?» disse in un sussurro, voltandosi verso l’amica. «È… è la verità, Phoebe?» chiese poi e lei annuì, mentre nuove lacrime iniziavano a scendere.
Camille non poteva credere alle sue orecchie. Certo si era sempre chiesta come mai una duchessa avesse scelto come sua pupilla proprio Phoebe: una signorina senza titolo e dote, proveniente dalla lontana campagna del Lincolnshire e apparentemente figlia di nessuno. Mai però avrebbe potuto pensare una cosa del genere. Phoebe, la sua timida e dolce amica, nipote illegittima di Susan Wortham.
Santo cielo, quello sì che era uno scandalo!
Non osava nemmeno immaginare cosa sarebbe successo se i giornali ne fossero venuti a conoscenza. Avrebbero inventato le peggio cose su Phoebe ed ora che la duchessa era stata uccisa e lei aveva per le mani il suo intero patrimonio… un pensiero orribile si fece strada nella sua mente, che prontamente cacciò via. Non conosceva Phoebe da molto, ma era pronta a mettere le mani sul fuoco riguardo la sua innocenza. Nulla invece poteva dire a proposito di John, perché a giudicare dalla durezza dei suoi occhi pareva già ritenerla colpevole di un atto così diabolico.
«Giuro che non lo sapevo» disse disperata.
«Non avete mai avuto alcun sospetto?» chiese appunto lui con fin troppa gentilezza. Camille lo guardò storto per quella mancanza di tatto, ma era troppo concentrato su Phoebe per notarla. «Dopotutto, vi sarete pur chiesta almeno una volta come mai vi abbia voluta qui.»
«Certo che l’ho fatto, ma lei ha sempre risposto perché era stata amica della mia defunta zia… come potevo immaginare di essere sua nipote?»
«E non vi ha mai accennato ad una eredità?» domandò di nuovo e la giovane comprese che la stava interrogando. Lì, davanti a zio Vincent, come un’impostora qualunque e sotto quella malcelata cortesia. Le ribollì il sangue nelle vene.
«No, mai… anche se, a dire la verità, mi aveva parlato più volte di una dote» disse Phoebe ignara di tutto. «Continuava a ripetermi che la prossima primavera avrei debuttato a Londra come sua protetta e, in quanto tale, non potevo presentarmi a mani vuote. Si era limitata tuttavia a rivelarmi che si trattava di cinquemila sterline, per questo quando il notaio ha richiesto la mia presenza non mi sono insospettita: credevo dovesse solo formalizzare quella somma.»
«E invece adesso a quanto ammonta il vostro patrimonio?» domandò Camille al posto di John.
Phoebe sospirò affranta.
«Il notaio ha detto che con la dote che il defunto duca non ha mai incassato e gli interessi maturati sopra di essa in quasi cinquant’anni… circa ottantamila sterline.»
Camille si strozzò con la sua stessa saliva nel sentire quella cifra ed era sicura di essere rimasta a bocca aperta come un’allocca. Anche il senso di giustizia nei confronti dell’amica vacillò per un attimo, perché anche se non era una spia e nemmeno un’investigatrice esperta, era abbastanza sveglia da capire che ottantamila sterline erano un ottimo movente per qualsiasi omicidio.
«Il duca sapeva dell’esistenza di quella somma?» chiese John, sempre più scuro in viso.
«Presumo di sì, vista la reazione che ha avuto. Ma non posso certo biasimarlo: è stato uno shock per tutti. La povera marchesa è svenuta all’istante e le c’è voluto un po’ per riprendersi.»
«Non capisco» intervenne Camille. «Non dovrebbe essere il duca ad ereditare? Com’è possibile che lo abbia fatto Phoebe?»
«Il duca eredita titolo e terre, Camille, ma quel denaro non era vincolato alla tenuta: era solo della duchessa. È chiaro che sarebbe dovuto andare al figlio, e probabilmente lui si aspettava così, ma il fatto è che se Susan avesse voluto, avrebbe potuto lasciare la sua intera eredità alla sguattera» furono le parole di zio Vincent.
«E adesso cosa succederà?» chiese preoccupata.
«Niente» disse il visconte. «La signorina Simmons potrà restare qui tutto il tempo che vorrà e sperando che la notizia non sia già arrivata alle orecchie della stampa ad opera di qualche sleale servitore, manterremo il giusto riserbo. Se queste erano le volontà della duchessa, le rispetteremo… e per quanto riguarda il comportamento del duca e della marchesa, andrò a parlare con loro personalmente. Capisco siano rimasti sconvolti, ma ciò non li giustifica affatto. Cacciare di casa una signorina sola e senza nessuno a proteggerla! Davvero una condotta riprovevole.»
«Ben detto» approvò Camille. «Avrebbe potuto succederti qualsiasi cosa.»
«Vi sono grata per le vostre parole, mi rincuorano molto, ma non serve che vi schieriate dalla mia parte: io non ho alcuna intenzione di accettare quel denaro.»
«Perché?» fece zio Vincent. «La duchessa voleva così.»
«È la mia decisione» disse, cercando di trattenere le lacrime. «Io non ho mai voluto niente di tutto questo. Stavo bene nel piccolo villaggio di Brusbury e ho accettato di venire qui solo perché è stata la signora Stubborn ad insistere. Dopo la morte di mia zia è stata lei a prendersi cura di me e rifiutando mi sembrava come di farle un torto. E poi la prospettiva di stare accanto ad una duchessa era intrigante, soprattutto per quanto riguardava l’ambito matrimoniale: avrei potuto conoscere un modesto gentiluomo di campagna e vivere una vita quanto meno agiata, prospettiva decisamente migliore rispetto ad un contadino o artigiano di paese. Ma se solo avessi saputo la verità, me ne sarei rimasta al cottage. Per questo ho deciso di andarmene: rinuncerò all’eredità e tornerò a casa mia. Sarà come se non fossi mai esistita.»
«Ma non puoi andartene. Insomma, noi… noi siamo amiche!»
«Sono desolata, Camille, dico davvero, ma non voglio rimanere qui un giorno di più» e come a voler interrompere definitivamente il discorso, la signora Potter si presentò nel salotto dicendo che la camera della signorina era stata preparata e con essa anche il bagno. Disse che le avrebbe giovato, dopo la lunga camminata e dopo tutta l’agitazione della giornata.
«Siete stata molto gentile, signora Potter» disse zio Vincent. «Venite, mia cara, lasciate che vi accompagni» e così anche loro uscirono dal salotto.
Rimasero solo lei e John. Di nuovo. E in silenzio.
Camille era a dir poco sconvolta. Era sicura ci fosse un limite agli accadimenti che potevano essere assimilati in un giorno e quel particolare giorno ne erano successi troppi: prima il litigio con John, poi il signor Sterling e il corteggiamento, poi ancora John e il suo passato da spia ed infine Phoebe che era la nipote illegittima della duchessa. Erano davvero troppe cose.
Sospirò frustrata, il mal di testa ormai martellante, poi guardò prima John e a seguire il bicchiere di brandy che teneva in mano. Con uno scatto si alzò dal divano e senza dire nulla si avvicinò, glie lo rubò dalle mani e buttò giù il contenuto in un solo sorso.
Purtroppo, non essendo abituata a bere liquore, iniziò a tossire, mentre sentiva la gola e il petto andare a fuoco. Il tutto condito dalla detestabile risatina di John.
«Avete intenzione di ubriacarvi per un mese?» le chiese, riprendendo il bicchiere e guardandosi bene dal riempirlo nuovamente.
«Al diavolo» imprecò Camille a bassa voce. «Ma come fate a berlo?»
«Abitudine.»
«Ha un sapore orribile.»
«E non avete mai assaggiato la vodka russa.»
«La cosa?»
«La vodka.»
«Non so perché, ma in questo momento ne vorrei una bottiglia intera.»
«Se volete farvi contorcere le budella e star male per una settimana, fate pure.»
«Vi prego, smettetela.»
«Di fare cosa?» chiese sulla difensiva. «Non sto facendo niente.»
«Appunto!» esclamò arrabbiata.
John sospirò. «Si può sapere che vi prende all’improvviso? Capisco siate frastornata, ma…»
«Ovvio che lo sono» sbottò, sempre più infuriata. «Pare vi siate messi tutti d’accordo per farmi venire una crisi di nervi! Quello che però mi fa rabbrividire di più è che da quando Phoebe ha detto di aver ereditato il patrimonio della duchessa, voi l’avete già etichettata come colpevole. E non fate quello sguardo sorpreso, perché ho capito che stavate cercando di interrogarla poco fa. A proposito, il fare gentile non vi si addice affatto.»
«Avete finito?»
«Potrei stare qui tutta la notte solo per farvi dispetto, dovreste saperlo ormai» disse, incrociando le braccia al petto. Le venne l’istinto di pestare anche un piede per terra, ma riuscì a trattenersi.
«Molto bene, allora potete ritirarvi» disse invece John sbrigativo spingendola via. Camille cercò di non far caso al calore delle sue mani sulle spalle, impuntandosi con i piedi e rigirandosi verso di lui.
«Parlavo sul serio: Phoebe è innocente.»
«Non ci scommetterei troppo.»
«Ma io sì! La conosco e so che non sarebbe capace di una cosa simile. È buona, gentile e poi l’avete sentita, no? Vuole andarsene, per cui cercate il vostro assassino da un’altra parte.»
«Rimarreste sorpresa nel sapere che spesso sono i meno sospettabili i fautori dei più atroci delitti.»
«Non questa volta» disse risoluta. «Che motivo avrebbe avuto altrimenti di uccidere la duchessa se ora vuole rinunciare all’eredità?»
«Ma non l’ha ancora fatto, giusto? Potrebbe per qualsiasi motivo cambiare idea e in men che non si dica sparire con appresso ottantamila sterline.»
«Davvero non ci riuscite a fidarvi di me.»
«Mi fido di voi, Camille.»
«Allora dovreste indirizzare i vostri sforzi altrove… verso il duca, ad esempio, o la marchesa.»
«Loro sono già sulla lista.»
«Molto bene, allora andremo a parlarci domani stesso. Phoebe sarà di sicuro troppo sconvolta per voler uscire e fermare zio Vincent sarà semplice: basterà che diciate che andremo noi a Southlake.»
«Non se ne parla.»
«Dopodomani allora.»
«No!»
«Non vorrete starvene con le mani in mano dopo che l’hanno brutalmente cacciata di casa neanche fosse una reietta!»
John le mise di nuovo le mani sulle spalle e la girò verso la porta. «Ovvio che non lo farò» disse, spingendola affinché prendesse la via delle scale che portavano alle stanze private.
«Allora quando andremo?»
«Io andrò domani, voi mai.»
«Cosa? No, aspettate» disse, afferrando con le mani gli stipiti della porta. «Non erano questi i patti.»
«Erano esattamente questi» fece John spingendola ancora, ma lei puntò i piedi.
«Affatto! Eravamo d’accordo che avremmo collaborato!»
«Sì, ma vi ho anche fatto promettere che avreste fatto tutto ciò che dicevo. Su, è ora di ritirarvi» e la spinse di nuovo.
Camille fu costretta ad avanzare trascinando i piedi, lasciando che lui la spingesse fino all’inizio delle scale. A quel punto si girò un’ultima volta, aprì la bocca e…
«No.»
«Non sapete nemmeno cosa stavo per chiedervi!»
«So perfettamente cosa stavate per chiedermi… e la risposta è sempre no. E poi domani non avete un certo pic-nic con un certo gentiluomo a cui partecipare?»
«E voi come fate a saperlo?»
«Sono una spia, so sempre tutto.»
«Dunque mi avete spiata?»
John si irrigidì.
«Non vi ho spiata… me lo ha detto Daniel che glie lo ha riferito la signora Potter.»
«Farò finta di crederci» disse sorniona, mentre si scostava e iniziava a salire i gradini. Poi però si voltò e vide John ancora fermo sulla soglia delle scale intento ad osservarla.
Non era la prima volta che la guardava in quel modo. A Londra quegli occhi avrebbero fatto intendere a chiunque che fra loro c’era ben più di una semplice amicizia ed era più che sicura che all’interno della società si fossero creati scandali per molto meno. Lì però non erano a Londra… erano lontani mille miglia dal ton e dai giornali scandalistici e le libertà che un uomo poteva prendersi con una giovane erano molto diverse.
Camille non avrebbe mai avuto il coraggio di fare o ricambiare uno sguardo del genere e detto francamente non aveva nemmeno idea di come interpretarlo. Sembrava promettere cose che lei non avrebbe conosciuto fino alla prima notte di nozze… cose peccaminose, lussuriose; cose che le signore sussurravano a bassa voce e con la bocca coperta dai ventagli. Quelle cose per cui Heather, ad esempio, se ne restava intontita e a sorridere per tutto il giorno con le guance rosse.
Anche lei in quel momento aveva le guance che andavano a fuoco. E il respiro corto. E uno strano formicolio alle gambe. E se non fosse perché quella sera aveva già provato quelle sensazioni un paio di volte, avrebbe creduto di sentirsi male.
Invece era colpa di John. Come sempre.
Era un pensiero che stentava a credere reale e lo trovava quasi assurdo, ma forse si stava sul serio infatuando di lui. Non era un caso infatti se quel mattino aveva sofferto tanto al pensiero di essere detestata e quello sconforto aveva acceso qualcosa dentro di lei. La sua successiva confessione e il modo in cui l’aveva sfiorata invece avevano dato luogo ad una consapevolezza.
Era stato un istante, come un lampo prima del temporale, e sicuramente si sbagliava di grosso vista la sua inesperienza, ma più pensava al modo in cui John la guardava e più non poteva fare a meno di sentirsi desiderata.
Non era come sentirsi belli. Di commenti sulla sua bellezza ne riceveva ogni giorno. Era molto più profondo. Quando John la guardava, Camille sentiva come se al mondo esistesse soltanto lei, perché a nessun altro riservava quell’attenzione particolare che le faceva asciugare la gola e respirare male.
Come ora. E lei si chiese cosa sarebbe successo se anziché salire le scale, fosse riscesa e gli si fosse messa di fronte. E cosa sarebbe successo prima, nel salotto, se il maggiordomo non li avesse interrotti? E dopo che scioccamente lo aveva abbracciato?
Camille sapeva la risposta e un sospiro le sfuggì dalle labbra.
Non poteva essere semplice curiosità. Non più. Se così fosse stato, avrebbe provato le stesse sensazioni con il signor Sterling. Ma di lui ricordava solo la bellezza e quello le fece capire che non era stata una buona idea accettare di incontrarlo per un pic-nic. Come non era stata una buona idea accettare il suo corteggiamento. Ma era stata presa alla sprovvista e soprattutto non aveva ancora saputo la verità su John.
John…
Si riscosse come da un sogno, rendendosi conto di essere rimasta ferma immobile sulle scale come una statua. Esattamente come lui.
«Camille…» sussurrò, facendo uno scalino.
Lei trasalì al pensiero di quello che sarebbe potuto succedere e, da grande vigliacca, fece due passi indietro. John allora si fermò.
«I-io… vado a vedere se Phoebe ha bisogno di qualcosa» disse tutto d’un fiato, girando sui tacchi, o sulle pantofole in quel caso, e avviandosi di gran carriera verso la camera dell’amica. In fondo meritava le sue attenzioni molto più dei suoi strani slanci sentimentali nei confronti di John. A quelli avrebbe pensato più tardi, quando le avrebbero impedito di prendere sonno.
Così, una volta arrivata davanti alla porta, bussò piano e un timido “Avanti” sopraggiunse dall’altro lato.
«Camille, immaginavo fossi tu» disse Phoebe, sedendosi contro la spalliera del letto e sistemando le coperte.
«Non volevo disturbarti.»
«Non mi disturbi affatto.»
«Sono venuta a sincerarmi che ti fosti sistemata e ti fosti un pochino calmata.»
«Sì, grazie… siete stati tutto fin troppo gentili. Non so davvero come farò a sdebitarmi e mi sento in colpa per aver creato tanto trambusto.»
«Non è stata colpa tua» disse Camille, sedendosi sul letto accanto a lei e abbracciandola. Phoebe ricambiò con una stretta ancora più forte, trattenendo a stento le lacrime.
«Oh Camille, come vorrei poter cancellare tutto questo.»
«Lo so, nessuno si aspettava un risvolto del genere… ma davvero vuoi andartene? Capisco la foga del momento, ma hai sentito zio Vincent: puoi rimanere qui tutto il tempo che vorrai.»
«Lo so, ma non voglio. Ero seria quando ho detto che voglio tornare a casa mia: io sono nata e cresciuta in campagna, sono abituata a stare all’aria aperta, a correre, ad aiutare la signora Stubborn e suo marito con gli animali… non sono fatta per stare seduta su di un divano a fare niente tutto il giorno.»
«Posso immaginarlo, ma se restassi non dovresti preoccuparti mai più di nulla.»
«Non m’importa. E poi quale gentiluomo vorrebbe sposarmi sapendo che sono una nipote illegittima? Qualora accettassi l’eredità sarebbero interessati solamente alle migliaia di sterline di cui verrebbero in possesso e se invece le rifiutassi diventerei uno scarto a mia volta.»
«Non devi dire queste cose, non tutti sono meschini e crudeli come il duca.»
«Può darsi, ma non voglio passare il resto della mia vita ad affrontare le chiacchiere e gli sguardi indiscreti degli altri nobili.»
«Con ottantamila sterline appresso non credo ti guarderebbero tanto di malocchio.»
«Non le accetterei in ogni caso. Sono una maledizione, quei soldi… e l’omicidio della duchessa ne è la prova.»
«Credi che il duca c’entri qualcosa?» non poté fare a meno di chiedere.
«Non lo so… non ci ho mai avuto molto a che fare. Sebbene abitassimo sotto lo stesso tetto, ci avrò parlato al massimo cinque volte. Però posso dirti che litigavano spesso. La duchessa diceva che non era meritevole del titolo che portava, soprattutto perché nonostante i suoi quarant’anni continuava a preferire le amanti piuttosto che trovare una moglie e generare un erede… diceva che non era in grado di badare alla tenuta e che continuando in quel modo l’avrebbe mandata in rovina.»
«Davvero diceva così?»
Phoebe annuì. «Era sempre molto affranta per la questione del matrimonio e più insisteva, più il duca si infuriava. In ultimo era riuscita ad avere un accordo: la prossima primavera sarebbe venuto con noi a Londra, con la speranza che finalmente riuscisse a trovare una giovane adeguata.»
Camille rimase un po’ delusa da quelle parole. Credeva di essere riuscita a scoprire qualcosa di interessante, ma il comportamento della duchessa non era diverso da quello delle altre madri. E uccidere la propria genitrice perché insisteva affinché prendesse moglie le sembrava un tantino esagerato.
Così era punto e a capo.
«Ora cerca di riposare» disse alla fine, alzandosi e dirigendosi alla porta. «E se hai bisogno di qualsiasi cosa, non esitare a chiamarmi. La mia porta è proprio l’ultima in fondo al corridoio.»
«Non preoccuparti, lo farò. Grazie Camille, sei un’amica sincera.»
Lei sorrise, lasciando definitivamente la camera di Phoebe per dirigersi nella sua.
Si stese nel letto, ma com’era ovvio non riuscì a prendere sonno. Erano troppi i pensieri che aveva per la testa: Phoebe, il signor Sterling, John… cosa doveva fare con loro? Affrontarli o continuare a fare finta di niente?
Dire che era spaventata dai suoi sentimenti e dalle conseguenze che le sue future azioni avrebbero provocato era dir poco e per quello, non fosse stato perché era sull’orlo di scoppiare a piangere, quasi si mise a ridere di sé stessa.
Trovava assurdo il fatto che da quando aveva debuttato in società la sua unica preoccupazione era stata quella di rimanere sola ed ora che non solo aveva trovato un corteggiatore adeguato, ma addirittura sembrava trovarsi a metà via fra due uomini, voleva solo scappare.
Lo aveva fatto quel pomeriggio quando aveva creduto che il signor Sterling la stesse per baciare, cosa che sicuramente non avrebbe mai fatto, e ora per colpa della sua impulsività era costretta a partecipare ad un pic-nic a cui avrebbe fatto volentieri a meno. Poi lo aveva rifatto poco prima sulle scale, quando John si era avvicinato a lei.
Si vantava tanto di essere socievole e civettuola, ma la realtà dei fatti aveva mostrato che non era altro se non una gran codarda.
Sbuffò rumorosamente, decidendo di alzarsi e di scrivere una lettera ad Heather. Poco importava se non aveva alcuna intenzione di calcolarla, era arrivato per lei il momento di tornare a prendere il posto di sorella maggiore che le spettava.
Innanzitutto le chiese come mai non aveva più risposto. Capiva che si stava divertendo alla Reggia, ma avrebbe potuto quanto meno trovare qualche minuto per scriverle; poi le raccontò di tutti i recenti avvenimenti, fatta eccezione per John e il suo passato da spia, e infine la implorò di tornare. Aveva un disperato bisogno di parlare con lei e ricevere qualche consiglio, perché era più che sicura che se avesse continuato a fare di testa sua, avrebbe combinato solo un pasticcio dietro l’altro.
Ripose con cura la lettera, che avrebbe dato a Montgomery il mattino seguente, e sperando di riuscire a chiudere gli occhi almeno per qualche ora, si rimise sotto alle coperte.

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