Missing Moments - OS Trilogia della Luna (in revisione) di Mary P_Stark (/viewuser.php?uid=86981)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Una seconda occasione (Alec) - Agosto 2010 ***
Capitolo 2: *** Vigilia di Natale (Alec) - Dicembre 2010 ***
Capitolo 3: *** Fare, amare sperare (Lance) - Aprile/Agosto 2011 ***
Capitolo 4: *** Jerome's Secrets - Parte 1 (Giugno 2014) ***
Capitolo 5: *** Jerome's Secrets - Parte 2 (Dicembre 2015) ***
Capitolo 6: *** Jerome's Secrets - Parte 3 (Maggio 2016) ***
Capitolo 7: *** Jerome's Secrets - Parte 4 (Maggio 2016) ***
Capitolo 8: *** Jerome's Secrets - Parte 5 (Maggio 2018) ***
Capitolo 9: *** Jerome's Secrets - Parte 6 (Ottobre 2019) ***
Capitolo 10: *** Quando meno te lo aspetti (Jessie) - Gennaio 2019 ***
Capitolo 11: *** Huginn e Muninn - giugno 2011 (Branson) ***
Capitolo 12: *** Dove tutto ebbe inizio - (3500 a.C. circa) Fenrir - Parte 1 ***
Capitolo 13: *** Dove tutto ebbe inizio (3500 a.C. circa) Fenrir - Parte 2 ***
Capitolo 14: *** Dove tutto ebbe inizio - (3500 a.C. circa) Fenrir - Parte 3 ***
Capitolo 15: *** Dove tutto ebbe inizio - (3500 a.C. circa) Fenrir - Parte 4 ***
Capitolo 16: *** Dove tutto ebbe inizio - (3500 a.C. circa) Fenrir - Parte 5 ***
Capitolo 17: *** Dove tutto ebbe inizio - (3500 a.C. circa) Fenrir - Parte 6 ***
Capitolo 18: *** Dove tutto ebbe inizio - (3500 a.C. circa) Fenrir - Parte 7 ***
Capitolo 19: *** Dove tutto ebbe inizio - (3500 a.C. circa) Fenrir - Parte 8 ***
Capitolo 20: *** Toc Toc. C'è nessuno? - (Brie/Duncan) - Luglio 2016 ***
Capitolo 21: *** Una ne pensa... (William - Hati di Bradford) Giugno 2011 ***
Capitolo 22: *** Una sola via da percorrere, mille decisioni da prendere (Gordon/Erika) Settembre 2015 ***
Capitolo 23: *** Ereditarietà (Gennaio 2015) Penny/Spike ***
Capitolo 24: *** To be, or not to be? (Settembre 2017) Penny ***
Capitolo 25: *** Essere lupa... e donna (Settembre 2021) Penny ***
Capitolo 26: *** Per diritto di nascita (Dicembre 2022) Keely ***
Capitolo 27: *** Dipende dai punti di vista - Colin Laroche (2019) MxM ***
Capitolo 28: *** Dio li fa e poi li accoppia - Parte 1 (Liam Laroche) 2020 ***
Capitolo 29: *** Dio li fa e poi li accoppia - Parte 2 (Liam Laroche) 2020 ***
Capitolo 30: *** Changing - Liam/Cerry e Colin/Chris (Gennaio 2020) MxM ***
Capitolo 31: *** E venne il giorno - Febbraio 2020 (Cerry) ***
Capitolo 32: *** She Wolf, He Bear (Novembre 2017) Beverly e Thor ***
Capitolo 33: *** Reversal - Parte 1 (Estelle/Bright) 2003 ***
Capitolo 34: *** Reversal - Parte 2 (Estelle/Bright) 2003 ***
Capitolo 35: *** Reversal - Parte 3 (Estelle/Bright) 2003 ***
Capitolo 36: *** Reversal - Parte 4 (Estelle/Bright) 2003 ***
Capitolo 37: *** Reversal - Parte 5 (Estelle/Bright) 2004 ***
Capitolo 38: *** Reversal - Parte 6 (Estelle/Bright) 2004 ***
Capitolo 39: *** Reversal - Epilogo (Estelle/Bright) 2004 ***
Capitolo 40: *** Past and Future (Joshua) - Cap. 1 - 2012/2007 ***
Capitolo 41: *** Past and Future (Joshua)- Cap.2 - 2012/2007 ***
Capitolo 42: *** Past and Future (Joshua)- Cap.3 - 2012/2007 ***
Capitolo 43: *** Past and Future (Joshua)- Cap.4 - 2012/2007 ***
Capitolo 44: *** Past and Future (Joshua)- Cap.5 - 2012/2007 ***
Capitolo 45: *** Past and Future (Joshua)- Epilogo - 2012/2007 ***
Capitolo 46: *** Beauty and the Beast -1 -(Keath-Freki di Londra) 2018 [BOLLINO ROSSO] ***
Capitolo 47: *** Beauty and The Beast - 2 - (Keath-Freki di Londra) 2018 [BOLLINO ROSSO] ***
Capitolo 48: *** Beauty and The Beast - 3 - (Keath-Freki di Londra) 2018 [BOLLINO ROSSO] ***
Capitolo 49: *** Beauty and The Beast - 4 - (Keath-Freki di Londra) 2018 [BOLLINO ROSSO] ***
Capitolo 50: *** Beauty and The Beast - Epilogo - (Keath-Freki di Londra) 2018 [BOLLINO ROSSO] ***
Capitolo 51: *** Perdonanza - Magnus (Odino) - Ottobre 2017 - Norvegia ***
Capitolo 52: *** Sangue chiama sangue - (Odino/Fenrir/Avya) - 2017 - Parte 1 ***
Capitolo 53: *** Sangue chiama sangue (Odino/Fenrir/Avya) - 2017 - Parte 2 ***
Capitolo 54: *** Sangue chiama sangue (Odino/Fenrir/Avya) 2017 - Epilogo - ***
Capitolo 55: *** Ama il tuo nemico - Tyler (Branco di Cecily) - 1 - 2022 ***
Capitolo 56: *** Ama il tuo nemico - Tyler (Branco di Cecily) - 2 - 2022 ***
Capitolo 57: *** Ama il tuo nemico -Tyler - (Branco di Cecily) - 3 - 2022 ***
Capitolo 58: *** Ama il tuo nemico - Tyler (Branco di Cecily) - 4 - 2022 ***
Capitolo 59: *** Ama il tuo nemico - Tyler (Branco di Cecily) - Epilogo - 2022 ***
Capitolo 60: *** Tempesta a sorpresa (2013 - Tempest e Hugh -) Cap.1 ***
Capitolo 61: *** Tempesta a sorpresa (2013 - Tempest e Hugh -) Cap.2 ***
Capitolo 62: *** Tempesta a sorpresa (2013 - Hugh e Tempest-) Cap. 3 ***
Capitolo 63: *** Tempesta a sorpresa (2013 - Tempest e Hugh -) Cap.4 ***
Capitolo 64: *** Tempesta a sorpresa (2013 - Hugh e Tempest-) Epilogo ***
Capitolo 1 *** Una seconda occasione (Alec) - Agosto 2010 ***
Una seconda occasione (Alec)
Ad Alec sembrava essere passato un secolo, eppure sapeva bene che non era così.
Erano partiti per affrontare un’orda di uomini-orso, e si erano ritrovati contro ben due dèi.
E altri tre come alleati.
Quante altre persone avrebbero potuto dire di aver affrontato un Fato simile?
Nessuno, credeva.
Eppure, non era questo a renderlo così ansioso.
Era, piuttosto, il pensiero di quello che avrebbe dovuto dire a sua madre, una volta giunto a casa con Penny.
Con la notizia del prossimo arrivo di Erin.
Già, perché Alec Dawson poteva essere tante cose, un licantropo feroce e coraggioso, un guerriero come pochi e un capo ligio alle regole… ma non poteva sopportare di veder soffrire sua madre.
Aveva impiegato anni – ed era servito l’aiuto di quella streghetta di Brianna – per capire quanto, il suo atteggiamento inflessibile e spesso crudele, avesse angustiato la madre.
Alec aveva guidato il suo branco con pugno di ferro, incorruttibile a qualsiasi tentativo di non seguire le regole. Aveva pensato, a torto – ormai lo sapeva –, che questo sarebbe servito a cancellare i comportamenti irresponsabili e incivili del padre.
Non aveva permesso a nessun lupo di comportarsi in maniera meno che corretta, ma lo aveva fatto instillando paura e timore nei suoi licantropi, convinto che loro volessero un leader forte.
Col tempo, il dolore e le violenze provati in gioventù si erano trasformati in una corazza di gelo che aveva finito per allontanare le persone che più amava.
Aveva quasi distrutto il futuro di sua sorella Pat, impuntandosi come uno sciocco perché sposasse Duncan. Per sua fortuna, sua sorella era stata abbastanza testarda da tenergli testa ma, per poter vivere serenamente con il suo Andrew, aveva dovuto abbandonare il branco, sua madre. E lui.
Naturalmente, Irina Petrova Dawson non aveva detto nulla al figlio, riguardo al suo comportamento riprovevole.
A un certo punto, Alec aveva anche desiderato che lei gli tirasse un orecchio per la sua cecità, ma sua madre non l’aveva fatto. Né l’avrebbe mai fatto.
Nel bene e nel male, era sempre stata una creatura delicata e fragile, un licantropo del tutto privo della tempra necessaria a reggere il carattere riottoso del marito e, in seguito, quello gelido del figlio.
Alec non gliene faceva una colpa. Il carattere non si sceglieva.
Irina era diventata Prima Lupa perché nessuna, nel branco, aveva avuto il coraggio di mettersi contro le decisioni di Fenrir. Non aveva dovuto affrontare nessuno scontro e, da quel momento, era stata guardata con rispetto, in primis, e compassione poco dopo.
Il branco, infatti, aveva impiegato poco per comprendere la scelta apparentemente inconsueta del loro Fenrir. Irina era stata elevata al grado di Prima Lupa non tanto per le sue capacità, ma per essere la vittima sacrificale delle ossessioni violente del marito.
In breve tempo, la sua condizione di Prima Lupa era divenuta ben poco invidiabile. I lividi, per quanto veloci a svanire, erano stati lampanti quanto un’insegna al neon, sul corpo di Irina, piegato dal timore e dal dolore.
La cicatrice che ne solcava la schiena, poi, le sarebbe rimasta fino a che non avesse esalato l’ultimo respiro. Così come quelle sul cuore, del resto, dovute alle violenze subite dai suoi due figli per colpa di un padre padrone e del tutto ingovernabile.
Patricia era riuscita a superare il dramma grazie a Andrew, prima, e a Phillip poi.
Ora, Alec cominciava finalmente a rendersene conto – e a comprenderne la portata –; avrebbe avuto la sua seconda occasione grazie a Erin e Penny.
Però, forse, sarebbe stato più carino – e corretto – avvisare la madre del suo ritorno in compagnia di Penny.
Ormai, però, si trovava sulla piccola stradina di Littlemoor nel sobborgo di Queensbury, proprio accanto alla città di Bradford, che conduceva alla sua proprietà.
Il boschetto che circondava il loro cottage lanciava ombre lunghe sulla strada asfaltata, e l’aria che penetrava dai finestrini aperti sapeva di cose familiari, un tempo temute ma ora più che mai apprezzate e amate.
Penny, seduta accanto a lui sul pick-up di sua proprietà, scrutava il panorama con aria eccitata, lieta probabilmente per la presenza di tutte quelle piante. Forse, le ricordavano la casa che aveva lasciato a Belfast.
La ragazzina scelse proprio quel momento per volgere gli occhi di cielo verso Alec e, sorridendo lieta, esalò: “E’ davvero bellissimo, qui!”
“Bene” borbottò lui, accigliandosi e tornando a scrutare la strada che, pian piano, li stava avvicinando a casa.
Assottigliando le palpebre, sorpresa da quel cipiglio scuro, Penny levò una mano a sfiorare la guancia sfregiata dell’uomo, che sobbalzò leggermente in risposta. Si sentiva sempre molto strano, quasi esposto, quando lui la toccava.
“Non stiamo andando sul patibolo, sai?” ironizzò la ragazzina, mettendo allegria nel suo dire.
“Forse” sbuffò Alec, sempre più deciso a gettarsi nel dirupo più vicino. Peccato non ve ne fossero, in zona.
Ma in che razza di guaio si era cacciato?
Non aveva permesso a Beverly, anni addietro, di avvicinarsi così tanto a lui perché sapeva di non poter offrire nulla a nessuna donna. Ora, invece, gli era balenata in testa l’idea di fare da padre a quella ragazzina così solare? E da marito alla madre di quella creatura bellissima?
Le avrebbe rovinate entrambe nel giro di un mese!
Brianna, e le sue maledette storie su un futuro roseo e felice!
Sbuffando, si ripromise di telefonarle per insultarla fino alla fine dei tempi. Non meritava altro, quella sensale da strapazzo! Se poi Duncan si fosse incavolato, tanto meglio! Aveva davvero bisogno di una bella scazzottata.
Il cancello di ferro che delimitava la sua proprietà, in quel momento aperto sul vialetto inghiaiato, gli disse che ormai era tardi per tornare indietro e scappare.
Era fatta. Era a casa, e avrebbe dovuto spiegare a sua madre perché non l’aveva chiamata prima di rientrare dalla missione, avvertendola a quel modo dei prossimi cambiamenti nella vita del figlio.
Penny esalò un sospiro di sorpresa quando scorse il cottage a due piani dove Alec era nato e cresciuto. Costruito in mattoni grigi e rossi, dalle limpide e bianche imposte rivolte verso il sole del meriggio, appariva idilliaco come una dimora delle fiabe, ma Alec sapeva bene quanti incubi notturni e diurni avevano visto quelle apparentemente amene pareti.
Le aiole erano perfette come sempre, dinanzi a casa, così come il prato all’inglese, rasato di fresco e brillante sotto il sole. Se c’era una cosa a cui sua madre aveva sempre tenuto molto, era il giardino. Era stata la sua valvola di sfogo, il suo luogo sicuro, l’angolo in cui ripararsi dopo le sfuriate del marito.
“Non sapevo ti piacessero le piante” mormorò sorpresa Penny, mentre Alec bloccava il pick-up dinanzi a casa.
“Infatti non è opera mia” mugugnò l’uomo, sfilando la chiave dal quadro prima di volgere lo sguardo verso la ragazzina.
Penny lo imitò, fissandolo con i suoi grandi e sinceri occhi azzurri, ora velati di curiosità.
La distruggerò, pensò tra sé, rabbrividendo al solo pensiero.
Sbuffando, Alec si grattò la nuca, indeciso su come affrontare l’argomento.
Penny sbatté le palpebre, confusa dalle sue reticenze a parlare, e disse: “Devi avere un rospo bello grosso, in gola, se non riesci a parlare. Da quando siamo usciti dall’aeroporto, bofonchi e borbotti monosillabi.”
Alec si accigliò a quel commento, ma dovette ammettere che era la verità. La ragazzina non si era lamentata, ma sapeva bene di non essere stato un compagno di viaggio molto simpatico.
“Devo dirti una cosa” ammise a quel punto.
“Okay…”
“La mamma non lo sa, per la cronaca” aggiunse Alec, storcendo la bocca.
“Hai una moglie, e non gliel’hai detto? No, perché allora ti conviene avvertire la poveretta, perché mamma la farà a fettine” ironizzò a quel punto Penny, sorridendo maliziosa.
Alec non poté che ghignare, di fronte a quel commento malizioso, ammettendo tra sé che Erin sarebbe stata davvero capace di sbranare un’eventuale avversaria.
Cosa ci vedesse Erin, in lui, doveva ancora capirlo, ma non voleva perdere quell’esigua possibilità di essere felice. Con tutta probabilità, avrebbe rovinato tutto, ma sapeva già a chi dare la colpa.
Brianna si sarebbe presa tutta la responsabilità, poco ma sicuro.
“Il giardino… e la casa… è … è mia madre a tenerli in ordine” ammise alla fine Alec, sciorinando quella verità come se stesse espellendo veleno dalla bocca.
Penny rimase alcuni attimi in totale silenzio, quasi si fosse aspettata una qualche tremenda verità. Dopo quell’iniziale sconcerto, però, strillò eccitata e, battendo le mani, esclamò: “Avrò una nonna, qui!?”
Nonna. Eh, già. Se Penny fosse diventata sua figlia, Irina sarebbe stata sua nonna.
Dio, e chi si sarebbe mai abituato ad abbinare le parole ‘Penny’ e ‘figlia’, all’interno della stessa frase?
Penny non gli lasciò il tempo di dire altro, perché uscì a precipizio dal pick-up per fiondarsi verso l’entrata di casa, già pronta a salutare la madre di Alec.
Terrorizzato, il licantropo la raggiunse in fretta per bloccarla prima che potesse mettere mano alla maniglia ottonata e, in un borbottio contrito, mormorò: “Aspetta, Penny. Non adesso.”
“Che c’è?” brontolò lei, fissandolo torva.
“Lei non sa nulla” le confessò, roso dal rimorso e dalla propria codardia.
Gli occhi azzurri di Penny si fecero grandi, addirittura enormi… e pieni di biasimo e tristezza. Le spalle le si incurvarono, e ogni gaiezza sul suo viso d’angelo svanì.
Ecco, ho già combinato un disastro, brontolò tra sé, dandosi dell’idiota.
Piegatosi su un ginocchio per poterla guardare agevolmente negli occhi, Alec le poggiò entrambe le mani sulle spalle, asserendo con tono roco e pieno di contrizione: “Non sapevo come dirle di voi. Non volevo turbarla.”
“Perché?”
La voce le uscì in un gracidio colmo di dolore, e Alec si sentì morire. Era così che la proteggeva? Erin avrebbe avuto ragione a scuoiarlo vivo.
Sospirando, l’uomo si sentì costretto ad affrontare una parte del suo passato per nulla idilliaco, per poterle spiegare il perché di simili scrupoli. Non che gli facesse piacere, ma doveva assoluta sincerità a quell’angelo biondo.
“Sai, vero, che mio padre non è stato uno stinco di santo…” iniziò col dire, vedendola annuire mogia. “… e che lui picchiava sia me che Pat.”
Penny assentì ancora, calmandosi un poco. La bambina aveva intuito quanto, l’argomento, pesasse molto sull’animo di Alec, perciò lasciò perdere la sua eccitazione per concentrarsi su di lui.
“Beh, picchiava – e molto – anche mia madre” ammise a un certo punto il licantropo, sospirando pesantemente.
Rabbrividì a quei ricordi così violenti, e Penny se ne accorse subito.
“Fa lo stesso, Alec… davvero” scosse a quel punto il capo la bimba, tornando a carezzargli la cicatrice.
“No, devi sapere almeno qualcosa, altrimenti tutta questa storia ti sembrerà assurda” scosse il capo l’uomo, facendosi forza.
Penny annuì e, senza dirgli nulla, lo abbracciò. Solo lei poteva farlo senza che il suo corpo si irrigidisse per istinto. Persino con Erin non era così, anche se le motivazioni erano un tantino diverse.
Con Erin, il suo primo istinto era quello di fare sesso sfrenato e senza limiti, perciò gli abbracci erano banditi, specialmente in pubblico.
Lei lo sapeva, ed era pure compiaciuta dalla cosa. La strega.
Sorrise a mezzo a quel pensiero e, nel carezzare la chioma bionda di Penny, Alec mormorò: “L’ha spezzata, Penny. Nell’animo. E’… fragile. Non è mai stata molto forte neppure prima del matrimonio ma, con lui, la cosa è giunta alle estreme conseguenze. Parlarle di voi due l’avrebbe scioccata, e non volevo farlo per telefono, quando non potevo essere con lei per sorreggerla.”
La bambina annuì contro la sua spalla, asserendo: “Alec sorregge tutti, vero?”
“E’ il compito di un Fernir. Sorreggere il proprio branco, renderlo sempre più forte perché sappia proteggersi al meglio, qualora io non vi riuscissi.”
“Questo non potrebbe mai succedere” ironizzò Penny, scostandosi da lui per fissarlo con scetticismo.
Come aveva potuto guadagnarsi una simile fiducia? Davvero non lo sapeva.
“Ora sei qui, e io non so come affrontarla” ammise l’uomo, tornando ad alzarsi.
Penny allora lo prese per mano e, sorridendogli comprensiva, mormorò: “Io parlerò e tu la sorreggerai, va bene?”
“Forse è meglio” assentì Alec, aprendo finalmente la porta di casa.
All’interno, però, non si udì alcun rumore e, anche con i suoi sensi sviluppati, Alec non avvertì nulla. Che fosse nel boschetto sul retro di casa?
“Non c’è?” domandò Penny, curiosa.
“Già. Pare sia andata a fare la sua consueta passeggiata” dichiarò a quel punto Alec, tornando fuori dall’abitato assieme alla bambina.
D’istinto, poi, sollevò Penny per poggiarla sulle sue spalle, a cavalcioni e, nel dirigersi verso il retro del cottage, borbottò: “Tieniti stretta, ranocchietta. Faremo una corsetta.”
Lei rise, poggiando le mani sui capelli a spazzola dell’uomo e, guardando dinanzi a sé, asserì: “Qui ci potrei mettere un’altalena. Che ne dici?”
“Tutto quello che vuoi” dichiarò Alec, incamminandosi.
***
Forse, era stata fuori troppo a lungo.
Dopotutto, Alec le aveva detto che sarebbe rientrato quello stesso pomeriggio, pur se non aveva specificato a che ora. Se non l’avesse trovata a casa, si sarebbe certamente preoccupato.
Quel ragazzo non aveva mai potuto rilassarsi un momento, in tutta la sua vita, e lei non era certo stata d’aiuto, in questo. Avrebbe dovuto proteggere sia lui che Patricia, ma non ne era mai stata in grado.
Aveva accettato senza fiatare le angherie di Roland per tutto il tempo, e non era mai stata capace di fermarlo quando, anno dopo anno, se l’era presa anche coi suoi figli.
Hati e Sköll poco avevano potuto, per aiutare lei e i figli, trattandosi del loro Fenrir.
Anche nel branco, nessuno era stato abbastanza forte – o coraggioso – da sfidarlo perché le sue violenze avessero una fine.
Soltanto Alec, appena quattordicenne, si era preso quell’impegno. Quel peso enorme.
Il parricidio poteva essere una croce orribile da portare, anche se il padre aveva meritato ampiamente quella fine, ma Alec l’aveva portata stoicamente, senza mai chiedere aiuto a nessuno.
Questo, lo aveva però portato a chiudersi in se stesso e a mettere fin troppo impegno nella protezione del suo branco. Le regole erano state fatte rispettare con un rigore quasi religioso e, pur di difendere sua sorella, Alec era quasi giunto a fare guerra al clan di Matlock.
Patricia si era allontanata proprio a causa di questo amore portato alle estreme conseguenze, ma Irina non se l’era mai sentita di farne una colpa ad Alec.
Che altro poteva pretendere che facesse, il suo caro figliolo?
Forse, ci sarebbe stato un tempo e un modo per riconciliarsi con Patricia, ora che il pericolo sembrava essere svanito, ma non voleva ossessionare il figlio con quell’argomento così spinoso.
Al telefono, comunque, Alec le era parso tranquillo, sereno come poche altre volte era stato nella sua vita.
Ricevere la visita di Beverly, e sentire dalle sue stesse labbra della buona riuscita della missione e della salute ottima di Alec, aveva rincuorato Irina.
L’alto e possente berserkr che aveva accompagnato la loro veggente le era parso una brava persona, e non aveva potuto non pensare a quanto, la cara Beverly, stesse bene al suo fianco.
Era tempo che quella ragazza pensasse anche al suo futuro, e non solo a quello del suo Fenrir.
Le spiaceva che le cose non avessero funzionato, tra lei e il figlio, ma mai e poi mai si sarebbe intromessa in una cosa simile.
“Mamma!”
La voce di Alec giunse alla sua destra, a circa mezzo miglio di distanza, strappandola a quei pensieri.
Bloccandosi a metà di un passo, Irina annusò l’aria per capire dove si trovasse, e questo la fece sobbalzare per la sorpresa.
Chi c’era con lui?
Indirizzando i propri passi verso la fonte di quel suono, la donna aumentò l’andatura per raggiungerlo il prima possibile, finendo con il ritrovarsi in breve tempo nella radura nei pressi della loro abitazione.
Lì, Irina si fermò per osservare senza parole la figura del figlio che, apparentemente, non si era accorto del suo arrivo.
Sulle sue spalle portava una ragazzina che non poteva superare i dieci anni, la cui chioma dorata brillava sotto il sole di quel pomeriggio d’agosto inoltrato.
Il fatto stesso che suo figlio stesse portandola a cavalcioni era di per sé un evento biblico, ma a sorprenderla fu altro.
Fu scorgere la sua fronte liscia, il suo viso del tutto privo dei pensieri ombrosi che solevano solcarlo, rendendolo perennemente cupo e accigliato. Tutto questo era apparentemente scomparso, dal bel volto del figlio.
“Sono qui, Alec” si permise di dire, attirandone finalmente l’attenzione.
Lui si volse, il viso gli si tinse di un insolito rossore e, avvicinandosi a lei, dichiarò laconico: “Immaginavo saresti andata in cerca di fiori. Lo fai sempre, a quest’ora.”
“Sono assai prevedibile” ammise, inclinando il capo di bianchi e corti capelli per sorridere alla bimba sulle spalle del figlio.
Con un movimento fluido, Alec fece scendere Penny dalle spalle e, dopo aver guardato la madre con espressione contrita, si passò una mano sulla nuca con fare nervoso.
Quel gesto sorprese non poco Irina, confermandole che doveva essere successo qualcosa di veramente grosso. Non vedeva il figlio così indeciso dacché aveva avuto dodici anni.
La bambina, nel frattempo, lanciò occhiate alternate ad Alec e alla minuta signora dinanzi a loro, prima di dire: “Io sono Penny. Ciao.”
Irina, allora, si piegò in avanti, poggiando le mani sulle cosce e, dopo averla squadrata meglio, sgranò gli occhi ed esalò: “Dio onnipotente, bambina… sembri proprio…”
“Già” borbottò Alec, assentendo all’occhiata significativa lanciatagli della madre.
Penny, allora, guardò a sua volta Alec e mormorò: “La bambina che mi somigliava?”
“Sì, ranocchietta” assentì l’uomo, sorprendendo non poco la madre.
Facendosi coraggio, Penny allora allungò una mano e disse: “Beh, io sono… o sarò…”
Si guardò ancora indietro, cercando l’approvazione di Alec, che annuì e dichiarò: “Sei.”
Ringalluzzita dal suo tono lapidario, Penny allora asserì: “Sono la figlia di Alec. Sì, insomma, la nuova figlia. Beh, quando sposerà la mamma. Non so bene come funzionano le cose, e sto facendo un sacco di confusione, mi sa…”
Irina si ritrovò a sbattere le palpebre di fronte a quel fiume apparentemente incessante di informazioni. Senza parole, ma del tutto conquistata da quell’angelo biondo dalla parlantina sciolta, strinse la mano protesa della bambina e, basita, fissò il figlio in cerca di spiegazioni.
Lui si limitò a fare spallucce, borbottando contrito: “Novità.”
“Ancora monosillabi, Alec?” brontolò Penny, fissandolo maliziosa.
L’uomo, allora, le passò una mano sui capelli, scompigliandoglieli, e Irina non poté che sorridere per la gioia, le lacrime già pronte a debordare dagli occhi grigio ghiaccio.
Subito, Alec se ne preoccupò, dopo un’imprecazione smozzicata, disse: “Ecco, lo sapevo… stai per piangere…”
“Smettila di preoccuparti come una chioccia, Aleksej!” sbottò gentilmente la madre, sventolando una mano dinanzi a sé per cancellare i suoi timori.
Lui si accigliò immediatamente, di fronte a quel rimbrotto ma Penny, fissando a bocca aperta l’uomo, esclamò scioccata: “Ti chiami Aleksej?!”
“Alec” brontolò per contro il licantropo, fissandola ombroso.
Lei non vi badò minimamente e, balzellando sul posto, lo prese per mano e trillò: “Ti chiami Aleksej! Ti chiami Aleksej! E’ troppo carino!”
Il mannaro storse la bocca, di fronte a quella parola – carino – mentre la madre, del tutto spiazzata dal comportamento intimo e familiare della bambina nei confronti del figlio, esalava: “E io che pensavo di averle viste tutte.”
“Posso chiamarti Aleksej anch’io? Posso, posso? Posso?” mugugnò allora Penny, abbracciandolo con forza alla vita.
Alec a quel punto cedette e, nel piegarsi su di lei, le baciò i capelli e mormorò: “Tutto quello che vuoi.”
Irina carezzò la guancia sfregiata del figlio con il tocco leggero delle dita e, con voce esitante, domandò: “E’ davvero tua figlia?”
“Lo sarà quando sua madre si deciderà a venire qui da Belfast. E’ impegnata con il passaggio di potere sul clan, ma non ci metterà molto” borbottò Alec, scostandosi appena da quel tocco.
Irina non se ne stupì. Era raro che Alec si facesse toccare da chiunque, ed era dunque doppiamente mirabile che la bambina potesse abbracciarlo senza che lui si irrigidisse, o scantonasse.
“La mamma sbranerà tutte le lupe che cercheranno di impedirglielo, visto che mi ha detto che Alec sarà solo suo” dichiarò con orgoglio la bambina, guardando Irina con incrollabile fiducia.
Alec si esibì in una risatina imbarazzata, e il rossore tornò.
E da quando, suo figlio, arrossiva?, si chiese tra sé Irina, trovando l’intera scena più che surreale. Non vedeva l’ora di conoscere la donna che aveva compiuto un simile miracolo. Doveva essere davvero eccezionale.
Non meno della figlia, comunque, che sembrava avere del tutto in pugno il suo riottoso figliolo.
“Visto che sei, o sarai, la figlia del mio ragazzo, io posso essere la tua nonna?” le propose Irina, allungandole una mano.
Penny accettò con gioia l’invito e, presa nella sua la mano della donna, balzellò al suo fianco mentre rientravano a casa. Come una radio, quindi, la bambina iniziò a raccontarle di sua madre e di come si fossero conosciuti con Alec.
Le spiegò del loro primo incontro-scontro, e di come Brianna lo avesse fatto planare contro una cassettiera, il che portò Irina a ridere di gusto e fissare il figlio con incrollabile amore.
Alec le lasciò fare. Che sparlassero pure di lui, se volevano.
Si fece distanziare a sufficienza e, quando fu certo che non potessero udirlo, prese il cellulare e chiamò Erin.
Al terzo squillo, lei rispose e domandò: “Siete arrivati?”
“Già” assentì, lieto di sentire di nuovo la sua voce. Era già ridotto così male? A quanto pareva sì, e non gli dispiaceva per nulla.
“E Penny, come sta?”
“Sta sparlando di me e di te con mia madre.”
Un attimo di silenzio, ed Erin disse: “Oh. Tua madre. E come l’ha presa?”
Cos’ho mai fatto per meritarla?, pensò tra sé Alec.
Quale altra donna avrebbe preso una simile notizia con così tanto pragmatismo? Magari, un’altra avrebbe voluto sapere dell’ipotetica presenza, nella sua futura casa, di una suocera.
Erin, però, non era così. O, forse, gliel’avrebbe fatta pagare al suo arrivo. Chissà.
L’avrebbe scoperto tra qualche mese, comunque.
“L’adora già. Penso avrai qualche difficoltà a riaverla indietro, quando arriverai.”
Erin si lasciò andare a una risatina, replicando: “Per lei sarà una novità avere una nonna che non la guarda come se fosse il peggior errore mai concepito.”
Alec sbuffò a quelle parole, e dichiarò lapidario: “Cadranno teste, se qualcuno oserà mai guardarla a quel modo, qui da me.”
“Non avevo dubbi” asserì orgogliosa Erin. “Hai già incontrato il resto del branco?”
“Non ancora. Ma c’è tempo. Era più importante mia madre, prima di tutto.”
“Già” disse soltanto la donna, racchiudendo in quell’unica parola tutto il rispetto che provava per lui.
Alec poteva essere scontroso, ruvido e persino volgare, se l’occasione lo richiedeva, ma avrebbe sempre e comunque pensato al bene delle persone che amava.
Ora, però, lo avrebbe fatto con persone che, a sua volta, lo riamavano. E forse, col tempo, un po’ delle ombre sul suo viso sarebbero sparite.
“Assicurati che non la stanchi a forza di chiacchiere” lo pregò a quel punto Erin.
Alec allora rise – una cosa davvero rara, per lui – e dichiarò: “Prima che mia madre si stanchi di chiacchiere, nostra figlia sarà già adulta.”
Erin sorrise nell’ombra del suo ufficio, a quelle parole apparentemente innocue e, nel mandare un bacio ad Alec, chiuse la comunicazione.
Volgendosi poi a scrutare il suo fido Richard, la donna asserì: “Tutto bene. Penny è arrivata a casa.”
Già. A casa.
Note: Molte di voi mi avevano chiesto di creare qualcosa per i 'missing moments', per tutti quegli attimi che, per ragioni di spazio od opportunità, non ho potuto inserire nella Trilogia della Luna, come nello Spin-Off su Cecily e Darcy.
Questo spazio è dedicato a voi, alle vostre curiosità, ai vostri dubbi e, se vorrete, potrete propormi dei progetti, delle idee che, spero, potranno poi vedere la luce qui, per il vostro e il mio piacere.
Per ora, vi ringrazio se vorrete farmi sapere cosa ne pensate.
A presto!
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Capitolo 2 *** Vigilia di Natale (Alec) - Dicembre 2010 ***
Un amico ci accetta per come siamo e ci aiuta ad essere quello che dovremmo.
(Anonimo)
Vigilia di Natale (Alec)
La Vigilia di Natale.
Era un bel giorno per rivedere sua figlia e, al tempo stesso, un giorno terrificante.
Perché, all’aeroporto, non ci sarebbero stati soltanto Alec e Penny, ad attenderla – lui le mancava terribilmente, più ancora di quanto avesse immaginato in un primo momento – ma anche la sua futura suocera.
In quei mesi di lontananza, sia Alec che Penny si erano impegnati a sottolineare con Erin quanto Irina fosse tutto tranne che temibile. La figlia, letteralmente, ne era entusiasta, ma quello non l’aveva stupita.
Dopo il trattamento subito dai suoi ‘veri’ nonni– sia materni che paterni, tolti i genitori di Marcus – non l’aveva sorpresa sentirla così eccitata.
A Penny sarebbe bastata mezza parola carina, per trovarla simpatica, ma questo non le aveva certo detto di più, sulla madre di Alec. Certo, poteva apprezzare il fatto che Penny fosse ben voluta e amata, ma la cosa finiva lì.
Come ogni donna sapeva fin dall’inizio dei tempi, due femmine nella stessa casa difficilmente andavano d’accordo. La territorialità era innata in qualsiasi creatura dotata di gene XX, a maggior ragione se si trattava di due licantrope.
Come avrebbe trovato, quindi, Irina Petrova Dawson? Sarebbe stata la donna tanto decantata dai suoi due amori, o avrebbe trovato un’infida serpe che le si sarebbe annidata in seno?
Conosceva davvero poco la famiglia Dawson e, a parte ciò che aveva saputo da Patricia e le parole smozzicate e piene di incubi di Alec, aveva ben poche frecce al suo arco.
A onor del vero, però, Alec non avrebbe difeso a spada tratta una persona meno che meritevole e, soprattutto, non una che avesse trattato male la piccola Penny.
O no?
Sbuffando per l’ennesima volta, Erin deglutì a fatica quando l’aereo toccò finalmente terra. Era inutile rimuginare oltre. Avrebbe affrontato a testa alta la donna e non si sarebbe fatta mettere i piedi in testa da nessuno.
Non giungeva lì come ospite, ma come futura Prima Lupa.
Scese quindi in buon ordine dal velivolo e, dopo essersi incamminata per raggiungere il nastro scorrevole per recuperare la sua valigia, osservò torva la distesa di bagagli scorrere dinanzi a lei uno accanto agli altri.
Il resto delle sue cose sarebbe arrivato tramite corriere; con lei, aveva portato il minimo indispensabile per poter soggiornare a casa di Alec senza dover acquistare in toto abiti e quant’altro.
Quando, infine, il suo trolley rosso fuoco la raggiunse, Erin lo afferrò senza fatica e si diresse alle file per i controlli di routine.
Non impiegò più di mezz’ora per il disbrigo dei controlli al metal detector e, quando finalmente poté mettere piede nel terminal d’uscita, sorrise spontaneamente nel vedere la figura di Alec.
Imponente e statuario come lo ricordava, portava i capelli leggermente più lunghi rispetto alla zazzera militare con cui lo aveva conosciuto a Belfast pochi mesi addietro.
Accanto a lui, una donna minuta e dai corti capelli bianchi stava sorridendo ad Alec – Irina? – che, nel piegarsi su un lato, mise infine in mostra la figura di Penny.
Seminascosta dalla corporatura massiccia di Alec, Penelope sembrava essere immersa in un pesante piumino azzurro cielo, lungo fino a metà coscia. Il colletto di pelo le nascondeva in parte il viso, ma non i capelli che, a Erin, parvero un tantino diversi da come li ricordava.
Un attimo dopo, ne comprese il motivo.
La lunga chioma era sparita, sostituita da un taglio più sbarazzino e dalla linea scalata, che le faceva risaltare il visetto da fata.
Tra i capelli, portava un cerchietto col fiocco che Erin non le aveva mai visto.
A ben vedere, niente di quello che indossava sembrava provenire dal suo guardaroba originale.
Accigliandosi, Erin cominciò ad avvicinarsi a loro, domandandosi nel frattempo cosa diavolo avesse combinato Alec in quei mesi di lontananza. Non le aveva completamente rifatto il guardaroba, vero? Vero?
Tremò al pensiero di doversi imporre anche su quello. Come avrebbe fatto a far capire a un uomo testardo come Alec, che non si potevano accontentare tutti i capricci di Penny?
Lasciando per il momento perdere quel pensiero, levò un braccio per farsi vedere dal gruppetto in attesa e, infine, Erin esclamò: “Ehi, sono qui!”
Subito, Alec registrò la sua voce e, con possenti falcate, la raggiunse rapido per poi afferrarla possessivo alla vita. Un attimo dopo, la schiacciò contro il torace e fece sua la bocca della donna, imponendosi su di lei senza troppi complimenti.
Erin se ne compiacque. Le era mancata davvero la sua forza, così come i suoi modi di fare spicci e sbrigativi.
Istintivamente, gli avvolse le braccia attorno al collo e approfondì il bacio, infischiandosene del luogo e della tempistica. Che li guardassero pure. Non aveva nulla da nascondere.
Fu la risatina di Penny, però, a farli scostare l’uno dall’altra e, nel lanciare un’occhiata divertita alla figlia, Erin si piegò per abbracciarla, mormorando: “Ciao, amore mio. Come stai?”
“Sto bene, mamma. E mi sembra anche tu” chiosò la bimba, ammiccando all’indirizzo della madre.
Lei rise, arrossendo leggermente e, quando si rimise diritta, si ritrovò a curiosare dei profondi e limpidi occhi chiari, color ghiaccio, che la stavano ammirando con aria ammaliata.
Erano molto simili a quelli di Alec, ma del tutto privi della tempra da guerriero del licantropo che lei amava.
“Dalla reazione di mio figlio, non poteva essere che Erin. E’ un piacere conoscerla, finalmente” esordì Irina, allungando una mano verso la giovane. “Io sono la madre di Aleksej. Irina.”
Oh, già, Aleksej.
Si era sorpresa non poco nello scoprire il vero nome di Alec e, soprattutto, il motivo per cui non lo usasse mai.
Suo padre era stato solito chiamarlo così quando lo picchiava, o durante i suoi abusi più cruenti, perciò il licantropo aveva finito con il detestare anche solo il suono di quel nome.
A quanto pareva, però, sulle labbra di Irina assumeva un significato del tutto diverso, visto che al licantropo pareva non dare fastidio.
“Il piacere è mio, Mrs Dawson. Spero che mia figlia non l’abbia annoiata a morte, con le sue chiacchiere” si premurò di dire Erin, sorridendo poi alla figlia.
Irina, però, lanciò un’occhiata amorevole a Penny e, scuotendo il capo, replicò: “Non potrebbe mai stancarmi. Ha allevato un angioletto, Erin. E, da quel che ho capito, anche il padre di questa creaturina è stato un uomo degno d’onore e rispetto.”
Sorpresa, Erin fissò la figlia con aria piena di sorpresa ma lei scosse il capo, lanciando poi un’occhiata di straforo ad Alec, che stava facendo di tutto per non farsi notare.
Sorridendo spontaneamente di fronte a quella scoperta, la donna si avvicinò a lui per dargli un bacetto sulla guancia sfregiata e, in un sussurro, disse: “Grazie per aver decantato i doni di Marcus.”
“E’ merito suo se Penny è così, non certo tuo” ghignò per contro l’uomo, guadagnandosi un pizzicotto in un fianco.
Anche questo le era mancato; i suoi continui scherzi, le due punzecchiature spontanee.
I suoi rari sorrisi.
Era difficile comprendere come, un carattere così spigoloso e difficile, potesse piacerle, eppure era così. Marcus era stato la quintessenza della gentilezza e dell’amore, eppure non era mai riuscita del tutto a ricambiare una simile affezione.
Con Alec, invece, tutto era stato difficile fin dal principio, eppure si era sentita spinta verso di lui come l’ago magnetico di una bussola punta il Nord.
Lei non era fatta per le svenevolezze e i salamelecchi. Voleva un uomo di polso, che sapesse tenerle testa. Alec era tutto questo, oltre che un’ottima guida e un protettore per Penny, che letteralmente lo adorava.
“Direi che possiamo andare… o pensate di vegetare qui?” buttò lì Alec, avvolgendo le spalle di Penny, che passò un braccio attorno alla sua vita stretta.
“Sempre il solito elegantone, vero?” celiò Erin, cercando il suo trolley.
Nel vedere che era già nelle mani di Alec, sorrise.
No, non sarebbe mai stato un esempio di bon ton e cortesia vittoriana, ma era il maschio giusto per lei. Ruvido fuori, quanto morbido dentro.
***
La vista del cottage immerso nel verde la soddisfece – pur sapendo bene come fosse, grazie alle fotografie inviatele da Penny – e, quando si ritrovò di fronte al camino acceso e con una cioccolata calda tra le mani, sospirò tranquilla.
Alec e Penny erano fuori, nella legnaia, per fare scorta per la sera, mentre Irina sedeva con lei nel salotto, la voce dello speaker del TG a fare da sottofondo a quel pomeriggio sereno e passato in famiglia.
“La ringrazio per come ha accolto mia figlia. Immagino che debba esserle parso tutto molto strano. Vede partire suo figlio per una specie di caccia ai mostri, e torna con una bambina e…” indicandosi, Erin sorrise divertita. “… una donna pronta a invadere il suo territorio.”
Irina sorrise e, nello scuotere il capo, replicò con sincerità: “Mi ha sorpresa, questo è sicuro, ma in positivo. Erano anni che sognavo un futuro sereno per il mio ragazzo, un futuro che la mia viltà gli aveva impedito di avere.”
Irina quindi sospirò, lanciando un’occhiata alle lingue di fiamma che bruciavano nel camino, prima di proseguire.
“Roland non ha mai amato i suoi figli. Di certo, non quelli di primo letto, e neppure quelli di secondo, se è per questo” mormorò la donna. “Il fatto di poter procreare lo rendeva orgoglioso perché lo faceva sentire virile, ma il suo essere padre iniziava e terminava lì.”
Erin rammentava bene la storia della bambina che, il padre di Alec, aveva ucciso per errore. Non la stupiva che Irina sapesse dei trascorsi del marito, e non provasse rancore o altro.
Era più probabile che sentisse più dolore e compassione per quella perdita innocente, che odio verso la donna che l’aveva partorita.
Le donne che avevano generato i figli di Roland Dawson erano state vittime di un licantropo violento e senza scrupoli, ugualmente prigioniere di un uomo senza alcuno scrupolo morale.
“Sa, vero, dei trascorsi di Aleksej con suo padre?” le domandò l’anziana, fissandola dubbiosa.
Erin annuì. “Me ne parlò prima di partire. Di se stesso e di Patricia.”
“So che mia figlia è nel suo branco. Lei e Andrew stanno bene?” si informò allora Irina, tornando a sorridere.
“Sì, e mi hanno detto che verranno a Bradford per festeggiare il Capodanno con noi” la informò, vedendola illuminarsi tutta a quella notizia. “Le ho portato anche delle foto, se vuole vedere suo nipote.”
Subito, Irina si avvicinò a Erin per meglio vedere e, quando l’ebbe a portata di mano, la baciò su una guancia, sorprendendo appieno la giovane licantropa.
Erin la fissò basita, ma Irina si limitò a dire: “Grazie. Per tutto.”
“Non ho fatto molto…”
Un sorriso canzonatorio sorse sul volto dell’anziana, che ribatté: “Mi hai lasciato in custodia tua figlia, e ridato un figlio che pensavo di aver perso per sempre a causa della mia viltà. Ti pare poco, cara?”
Il gergo confidenziale le venne spontaneo e, nel prendere nelle sue una mano di Erin, Irina proseguì dicendo: “Ciò che hai fatto è enorme, e non potrò mai ringraziarti abbastanza, per questo.”
Stringendo quelle mani fragili e sottili, la giovane mormorò in risposta: “Alec ci ha salvate. Perciò, dovremmo essere noi a ringraziare. Diversamente, io avrei continuato a vivere solo per mia figlia, senza pensare a un futuro anche per me. E mia figlia sarebbe cresciuta senza un padre a proteggerla, o anche solo ad amarla.”
“Se non ti spiace, mi sentirò ancora in debito con te per un po’. Ma lo farò con discrezione” le propose allora Irina, ammiccando.
“Come crede…”
“Dammi pure del ‘tu’, cara, e chiamami pure ‘mamma’, se vuoi. Non ti obbligherò, ovviamente, ma mi renderesti felice.”
Gli occhi d Erin si fecero densi di lacrime che, però, non versò e, debolmente, mormorò: “E le … ti starebbe bene, come dote, la figlia che ho avuto da un uomo che non mi ha neppure voluta?”
“Penny non ha colpe per ciò che fece il suo padre naturale, come tu non ne hai per la viltà di questo lupo che non vi ha volute. La bimba è cresciuta sotto l’ala di una donna forte e di un uomo d’onore, che vi ha amate e protette. Ora, Penny diverrà donna con un altro uomo forte e che distruggerà il mondo, piuttosto che vederla infelice. Certo, che la voglio. Come voglio te come figlia, tesoro.”
Erin sbuffò per l’imbarazzo, si fece aria con una mano per darsi una calmata e, ridendo nervosamente, esalò: “Oh, cielo… beh, non so che dire… non me l’aspettavo, ecco.”
“Ero molto in ansia, proprio perché Penny mi aveva detto che, con i tuoi genitori, ci sono delle cose in sospeso” ammise Irina, sorprendendola.
“Non hanno accettato la mia decisione di tenere Penny” assentì Erin, adombrandosi in viso. “Ritennero stupida la mia scelta di aver giaciuto con un licantropo dalle spiccate doti di seduttore e, quando seppero della gravidanza, andarono su tutte le furie.”
“Posso solo dirti che io sono felice tu l’abbia tenuta e, nei limiti del possibile, cercherò di esserti d’aiuto. Non mi intrometterò, né sarò di peso alcuno. Me ne starò per i fatti miei, e…”
Erin sgranò gli occhi, di fronte alla lista di cose che Irina le pose innanzi e, soprattutto, alla sua decisione di non essere presente nella loro vita. Bloccandola perciò sul nascere, esalò: “No, no, no. Irina, la prego… ti prego! Questa è casa tua da un sacco di anni, e ci hai abitato con tuo figlio per lungo tempo. Sono io l’ospite, qui.”
“Non ospite, cara, ma futura moglie di mio figlio.”
“Non desidero che tu resti in disparte. Ci vorrà del tempo, perché io mi ambienti all’interno del branco, e saperti al mio fianco assieme ad Alec, mi rincuorerebbe” ammise Erin, sorridendole speranzosa. “Inoltre, non vorrei mai darti l’impressione di essere venuta qui per allontanarti da tuo figlio.”
“Il mio appoggio non ti mancherà mai, cara, ma preparati a un fuoco incrociato di domande, perché sia Hati che Sköll vogliono sapere come tu abbia fatto capitolare il loro Fenrir” ironizzò l’anziana, facendola sorridere.
Ridendo divertita, Erin esalò: “E hanno tutti e due il carattere di Alec?”
“Peggio, oserei dire. Come direste voi giovani, sono dei veri ‘bad guys’, ma adorano già Penny e hanno minacciato formalmente il branco di punizioni severissime, se fosse stato torto un capello alla bambina” ironizzò a quel punto Irina.
Erin si immaginò due licantropi grandi e grossi, con tanto di zanne esposte, mentre proteggevano la sua figliola da un branco in attesa di notizie.
La cosa la fece sorridere e, quando percepì l’arrivo di Alec, Erin si volse a mezzo per domandare: “E così, i tuoi ragazzacci hanno difeso Penny?”
Sentendosi interpellare, Alec lanciò un’occhiata divertita alla madre, che fece spallucce e, nel poggiare la legna nella cassa accanto al camino assieme a Penny, dichiarò: “William e Spike sono due teste calde, come avrai modo di scoprire, ma mi sono totalmente fedeli e, ora, sono i guardiani di Penny.”
“Devi conoscerli assolutamente, mamma. Sono simpaticissimi! Will mi ha anche portato sulla sua Harley e…”
Tappandosi la bocca un attimo dopo, Penny fissò spiacente un cereo Alec e una sorpresa Erin e, contrita, esalò: “Ops. Questo non dovevo dirlo, mi sa.”
“Vado ad ammazzarlo” ringhiò subito Alec, già pronto a battagliare contro il suo Hati.
La guancia sfregiata stava già pulsando minacciosa.
Penny, però, lo afferrò alla svelta a una mano e, con occhi sgranati e pentiti, mormorò: “Ti prego, ti prego, ti prego, perdonaloooo. E’ stato attentissimissimo. Mi ha fatta sedere davanti a lui, così che non potessi scivolare e non ha fatto più dei… dei…”
Assottigliando le iridi di ghiaccio, Alec ringhiò: “Spero, non più delle trenta miglia orarie, o lo eviro.”
“Alec!” esalò Erin, fissando sgomenta la figlia prima di frizzare con lo sguardo l’amato.
Penny, però, non fece alcun caso al suo linguaggio e, ridacchiando, celiò maliziosa: “Lorainne ci rimarrebbe mooolto male, se tu lo facessi.”
Levando un sopracciglio con evidente interesse, Alec si piegò su un ginocchio per avere gli occhi di Penny a tiro e, curioso, le domandò: “E tu che ne sai, ranocchietta?”
Erin sbuffò – aveva detestato quel nomignolo fin dall’inizio, almeno tanto quanto a Penny era piaciuto – ma Alec non le fece caso.
“Sei un maschio. Certe cose non le vedi” sentenziò la bambina, ghignando furba.
“Noto che ormai il suo contegno e la sua educazione sono andate a farsi benedire…” sospirò Erin, pur sorridendo. “Ormai è come te.”
“Cioè, è più che perfetta” sintetizzò Alec, battendo il cinque con la piccola.
“Non ho speranze, con voi” esalò la giovane madre, scuotendo esasperata il capo, ma gioendo dentro di sé.
Sì, Alec sarebbe stato un padre eccellente, per Penny.
Irina le sorrise complice e, mentre Penny spiegava ad Alec i motivi dei suoi sospetti in merito a una cotta di Lorainne – una delle sentinelle del branco – per il loro affascinante William, il campanello suonò.
“Oh, bene. Quei due squinternati sono arrivati” dichiarò Alec, levandosi in piedi e tirandosi dietro la bambina.
“Chi aspettiamo?” domandò curiosa Erin.
“Brianna e Duncan, la Prima Coppia del clan di Matlock” le spiegò Irina, sorprendendola non poco.
Sorridendo spontaneamente nell’apprendere quella notizia, Erin si levò in piedi per raggiungerli e, non appena intravide la chioma biondo castana dell’amica, le corse incontro per abbracciarla con foga, esclamando: “Ora è una Vigilia perfetta.”
“Lieta che lo sia. Non siamo riusciti ad arrivare prima, scusaci. Volevamo esserci anche noi, all’aeroporto” asserì Brianna, stringendola a sua volta con calore.
Duncan seguì l’esempio di Brie, abbracciando con affetto l’amica e, nello scostarsi da lei, le sorrise dicendo: “Ora che sei qui, mi sento un po’ più tranquillo.”
“Dubitavi di lui?” ironizzò Erin, lanciando un’occhiata da sopra la spalla in direzione di Alec, che ghignò.
Anche Duncan scrutò l’amico e, nel dargli una pacca sulla spalla, chiosò: “So quanto sia facile cadere nello sconforto, se separati dalla persona amata, perciò… mi sento più sereno, sapendoti finalmente al suo fianco.”
“Il solito sdolcinato” borbottò Alec, sollevando un pugno in direzione del licantropo.
Duncan lo imitò e, pugno contro pugno, si salutarono reciprocamente.
Irina li salutò con abbracci più delicati, pur se sentiti e, insieme, si diressero nell’ampio salone, dove Brianna si accomodò sul divano assieme all’anziana lupa e a Penny.
Scrutando poi il resto dei presenti, la wicca sospirò lieta e chiosò: “Vigilia di Natale migliore non poteva esserci.”
“Concordo in pieno, cara” assentì Irina, battendole una mano sul braccio.
Brie le sorrise con calore, annuendo, e Penny, non potendo farne a meno, domandò all’amica: “Farai volare ancora Alec per la stanza? E’ stato buffo, l’altra volta.”
Brianna scoppiò a ridere con la ragazzina e, nello stringerla a sé in un abbraccio, strizzò l’occhio ad Alec e chiosò: “Tu che dici, Alec?”
“Che stavolta passo” scrollò le spalle il licantropo, sospingendo poi Erin e Duncan verso il secondo divano. “Ne ho avuto abbastanza dei tuoi modi da bulla, streghetta.”
“Da che pulpito…” ironizzò Brianna, fissandolo con aria di sfida.
Alec, a quel punto, si levò in piedi a sorpresa e, dopo aver afferrato la ragazza a un braccio, la sollevò di peso dal divano e, ghignante, dichiarò: “Fuori. Io e te. Vediamo chi la vince, stavolta.”
La Prima Lupa di Matlock non poté che scoppiare a ridere e, divertita, lo seguì fuori, già pregustando un’altra vittoria.
Mentre i due contendenti si spostavano nel prato sul retro del cottage, ricoperto da una leggera coltre nevosa, dietro di loro si formò un piccolo capannello di curiosi.
Posizionatisi sotto l’architrave della porta, il gruppetto li studiò con interesse ed Erin, rivolta a Duncan, domandò: “Perché ho idea che questa diatriba sia nata ben prima del nostro incontro a Belfast? Ricordo che ne avevano accennato qualcosa.”
“Se vuoi saperlo, dovrai spillare la verità a uno di quei due. Nessuno me l’ha voluto dire” asserì esasperato Duncan, sorprendendola.
“Che cosa? Non sai nulla neppure tu?” esalò Erin, sgranando gli occhi.
In quel mentre, Brie si mise a braccia conserte di fronte ad Alec che, concentrato e teso allo spasimo, ringhiò: “Stavolta finirai tu con il culo a terra, streghetta.”
“Tutto da vedersi” replicò Brianna con aria tronfia.
Alec, allora, ghignò al pari di uno squalo e, aperta volontariamente la mente alla wicca, le trasmise immagini di sé ed Erin in atteggiamenti più che intimi.
Questo non solo colpì di sorpresa Brie, ma la fece anche arrossire fino alla radice dei capelli, distraendola.
Ciò permise ad Alec di avvicinarsi a lei senza vedersi sbarrata la strada dai suoi poteri e, con un sorriso trionfante, la afferrò alla vita e la sollevò su una spalla, vittorioso.
“Battuta!” gridò poi esultante.
“Non è valido, così!” strillò per contro la ragazza, che a stento sovrastava le risate provenienti dal loro pubblico.
“E chi lo dice?”
“La buona educazione!” sbottò Brianna, picchiandolo sul fondoschiena, a portata di pugni. “E chiudi quella cavolo di mente, Alec! Non ho intenzione di vedere tutto!”
Ridendo, Alec la accontentò e, nel rimetterla a terra, la abbracciò per un attimo, mormorando al suo orecchio: “Grazie di tutto, streghetta. Davvero.”
“Non c’è di che” replicò lei, rispondendo con calore a quel gesto così inconsueto, per Alec.
Un attimo dopo, però, si ritrovò ad affondare con il sedere nella neve fresca e, mugugnando un’imprecazione, la giovane esclamò contrariata: “Alec! Non è valido!”
“Neanche questo?” rise di gusto lui prima di venire afferrato a un braccio, strattonato e gettato a sua volta nella neve fresca.
Incurante del freddo, Alec continuò a ridere e si sdraiò a terra, lasciando che la neve lo bagnasse del tutto.
“Amen” sussurrò a quel punto Brie, imitandolo.
“Due a uno, streghetta.”
“Non la finirai mai di tenere il conto, Alec?” gli domandò lei mentre il resto del gruppo si avvicinava loro.
“Così, avrò sempre una scusa per vederti e tentare di batterti, no?” le strizzò l’occhio lui, sorridendo sghembo.
A Brie vennero gli occhi lucidi per le lacrime, a quelle parole, ma le trattenne.
Non avrebbe mai sentito dire ad Alec ‘ti voglio bene’, ma quella era la dimostrazione d’amicizia più bella che avesse mai ricevuto in vita sua.
Annuendo senza cedere alle emozioni, lei si rialzò a sedere e, quando vide la mano di Duncan pronta ad aiutarla, asserì: “Ci batteremo ancora, non temere. Finché vorrai.”
“Andata, streghetta” assentì Alec, aiutato da Erin a rialzarsi.
“E ora che vi siete bagnati ben bene, possiamo andare a cena?” domandò loro Erin, sorridendo ai due contendenti.
“Eccome! Ho una fame da lupi” dichiarò Alec, mentre il suo corpo si avvolgeva di pura energia per asciugarsi.
Nell’imitarlo, Brianna trattenne Duncan perché non rientrasse assieme agli altri e, quando furono a distanza di sicurezza, asserì: “Quando ci trovammo al Peak District per la riunione tra clan, io e Alec avemmo un diverbio verbale, che sfociò in uno scontro di auree. Ovviamente, grazie al mio potere di wicca, lo respinsi con facilità. Lui, allora, mi accusò di essere troppo potente, e che questo avrebbe innescato gelosie e pericolosi dubbi in tutti i capiclan, qualora io avessi parlato di ciò che era successo tra noi, e di come fossi riuscita a trattenere un Fenrir del suo calibro.”
Duncan annuì, perfettamente immobile al suo fianco, in attesa del resto della storia.
“Io, però, gli dissi che non avrei riferito a nessuno – nemmeno a te – di quanto successo tra di noi, perché non avrebbe avuto alcun senso. Subito, non mi credette e irrise le mie parole ma, quando si rese conto che non avevo parlato, mi fece capire che si era sbagliato, che mi aveva giudicata male, e che il mio silenzio aveva significato molto, per lui.”
“E perché me lo dici ora?” volle sapere a quel punto Duncan.
“E’ il mio regalo di Natale per te” gli spiegò Brie, sorridendogli.
“Davvero strano, come regalo” ironizzò Duncan, levando un sopracciglio con ironia.
“Non voglio che ti rimangano dei dubbi su Alec. E’ un buon amico per entrambi, oltre che un valido alleato per il nostro clan. Non c’è altro in sospeso, tra di noi, ora.”
“Non avevo alcun dubbio. Mi è bastato vederlo in quella grotta, alle Svalbard, quando continuava a lottare come un forsennato per coprirmi le spalle, in modo che io potessi raggiungerti sull’isola” le spiegò Duncan, sorridendole mentre rientravano in casa.
“Davvero?”
Annuendo, il licantropo mormorò: “Ha lottato come un indemoniato e, quando sei svenuta per la stanchezza durante il viaggio di ritorno, ha pensato in prima persona a tenerti al caldo.”
Brianna sbatté gli occhi, sorpresa, e Duncan aggiunse: “Sulle prime, non volli concederglielo, ma poi mi disse – mi pregò – di lasciarglielo fare, perché si sentiva in debito con te. Non volle mai spiegarmi perché, ma ora capisco.”
“Pensi che sia per quel fatto del Peak?”
“Non proprio. Credo piuttosto perché tu gli hai fatto capire che poteva fidarsi veramente di qualcuno che non fosse se stesso, o la sua cricca ristretta. Credo non gli fosse mai capitato prima, in tanti anni, e questo lo ha condizionato molto.”
Sorridendo nel chiudersi la porta di casa alle spalle, Brianna mormorò: “Anche questo è un bel regalo di Natale.”
“Spero che anche l’altro mio regalo potrà piacerti, dopo questo” ironizzò Duncan, baciandola dietro l’orecchio, nel punto in cui la carne era più sensibile.
Lei ansimò, annuendo, e disse: “Non prima di cena, ti prego, o non saprò come fare a trattenermi.”
Ridendo, Duncan assentì e, nel veder sbucare il volto accigliato di Alec dalla porta del salone, esclamò: “Arriviamo, arriviamo!”
“Stare zitti mai, vero, lupastro?” brontolò Alec, sulle cui gote chiare aleggiava un leggero rossore.
Duncan rise e Brie, nel corrergli incontro, gli stampò un bacio sulla bocca e disse: “Buona Vigilia di Natale, Alec!”
“Anche a te, streghetta” replicò lui, dandogli un pizzicotto sul naso. “Anche a te.”
Note: Pensavo fosse carino che il segreto mantenuto da Alec e Brianna riguardo ai fatti del Peak, fosse finalmente chiarito e portato alla luce. E che diventasse qualcosa di speciale come, per l'appunto, un regalo di Natale.
E, visto che siamo nel periodo giusto, auguro a tutti/e un meraviglioso Natale!
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Capitolo 3 *** Fare, amare sperare (Lance) - Aprile/Agosto 2011 ***
I tre grandi elementi essenziali alla felicità in questa vita sono qualcosa da fare,
qualcosa da amare, e qualcosa da sperare.
(Joseph Addison)
Fare, amare, sperare (Lance) – Aprile/Agosto 2011
Lo squillo del telefono risvegliò Brianna di soprassalto e, solo in quel momento, si rese conto di essere sola a letto.
Del suo uomo, neanche l’ombra.
“Ma che cavolo…” brontolò confusa, prima di rammentare.
Ma certo!
Duncan era partito la notte precedente per raggiungere Londra, assieme a Sarah e Branson, per una riunione con i Clan del Sud.
Lì, avrebbe rivisto Joshua e Cecily, così da definire sulla carta la redistribuzione dei berserkir nel Low England.
Da quando Thor si era trasferito nel Clan di Alec, a Bradford, altri uomini-orso si erano uniti a lui, e questo aveva reso necessario intervenire in merito. Se già era difficile nascondere la natura dei licantropi – fisicamente più possenti di un normale umano – con i berserkir la faccenda appariva assai più complessa.
Questo aveva reso necessario un ricollocamento di molti di loro, onde evitare che l’attenzione delle persone, dei normali, non gravitasse troppo su quegli energumeni così possenti e dall’aspetto truce. Se si fossero tutti trovati a Bradford, avrebbero attirato troppi sguardi curiosi, perciò si era resa necessaria una riunione d’urgenza.
Era piuttosto difficile, infatti, non notare una quarantina di uomini biondi, dalle spalle grandi come camion e l’altezza di un colosso.
Due o tre per volta, invece, erano più gestibili, e non solo dal punto di vista visivo.
I berserkir tendevano a essere un tantino attaccabrighe, quando stavano troppo a contatto con gli umani perciò era necessario, per non dire vitale, che non si cacciassero nei guai in gran quantità.
I gruppi esigui e sparuti erano d’obbligo.
Afferrato il cellulare, che stava continuando a urlare sul comodino e che l’aveva strappata al suo sonno, Brianna accettò la chiamata e bofonchiò: “Pronto…”
“Ehi, sorellina! Hai fatto le ore piccole, stanotte?” ironizzò Gordon, svegliandola del tutto con il suo tono di voce squillante.
Passandosi una mano sul viso, i capelli scompigliati e sparsi ovunque sul suo capo, Brianna mugugnò: “Non ricordi che Duncan è partito per Londra? Non pensare subito male. E’ che sono stata alzata fino a tardi per studiare. Sai che, tra qualche giorno, rientrerò a mia volta nella capitale, no?”
“Uh, già. Verissimo” assentì in fretta il giovane.
“Ergo, perché mi chiami alle…” mugugnò la ragazza, volgendo il capo per curiosare la sua sveglia. “… alle sette del mattino della domenica di Pasqua?”
“Forse è il caso che tu venga qui, prima di andare a casa di Jerome ed Erika” dichiarò Gordon, tornando serio.
Accigliandosi immediatamente, Brianna sgusciò fuori dal letto e, afferrati i pantaloni, tenne il cellulare tra guancia e spalla per poi domandare concitata: “Mary B non sta bene? Si sente male?”
“Mary B è okay. E’ il suo uomo che sta perdendo colpi.”
“Eh?” gracchiò a quel punto la giovane wicca, pensando al posato e serafico Lance, e cercando di capire cosa diavolo volessero dire le parole del fratello.
Di comune accordo, una volta venuto a conoscenza della gravidanza dell’amata, Lance e Mary B avevano deciso di comune accordo di sposarsi una volta che fosse nata la loro bambina. Lance, infatti, desiderava con tutto se stesso che fosse presente anche la piccola, e Mary B si era dichiarata più che d’accordo con lui.
Al momento, mancavano ancora quattro mesi al lieto evento, eppure i preparativi erano già iniziati da tempo. Lance si era trasferito nella casa di Mary B e Gordon, ben più ampia rispetto all’appartamento ove Hati aveva vissuto fino a quel momento.
Lì, avevano subito iniziato i lavori di ampliamento per costruire una camera per la nascitura, con l’opzione di una seconda cameretta al fianco. Nessuno dei due aveva voluto escludere nulla.
Da quello che Brianna sapeva, i lavori erano terminati a marzo e, in quel momento, si stava decidendo l’arredamento più adatto per la stanza.
La ragazza, perciò, si chiese cosa avesse voluto dirle Gordon con quelle parole sibilline.
Che lei sapesse, la gravidanza di Mary B procedeva benissimo, perciò non aveva senso che Lance si preoccupasse della sua salute. Ergo, cos’altro c’era?
Dopo essere uscita di casa salutando Jasmine sui gradini dell’ingresso, Brianna si catapultò in garage per recuperare la sua bicicletta e si immise in strada senza perdere tempo.
Non aveva senso prendere l’auto per fare tre miglia e, con la sua forza di licantropo, sarebbe occorso un attimo per raggiungere la casa di Mary B.
A quel punto, lei sperava, forse avrebbe potuto capire cosa aveva spinto Gordon a sollecitare la sua presenza a casa loro.
Con il vento che le schiaffeggiava la faccia, in quella mattina di Pasqua particolarmente calda e assolata, Brianna giunse infine di fronte alla villetta a un piano dei familiari.
Conosceva quella casa già da prima dell’arrivo nel branco della sua famiglia, essendo stata di proprietà di Marjorie – colei che più di tutte l’aveva voluta fuori dal branco, a causa del suo amore per Duncan. Le era parso strano che proprio Mary B e Gordon ne fossero diventati i proprietari ma, ormai da tempo, non pensava più ai suoi trascorsi con Marjorie.
Sapeva che si era rifatta una posizione nel suo nuovo branco, e tanto le bastava.
Raggiunta la proprietà, quindi, depose la bici nel vialetto d’ingresso e, senza bussare, entrò in casa, trovando Gordon appollaiato su uno sgabello, in cucina.
Un toast in mano e un bicchiere di latte nell’altra, il ragazzo esalò: “Più veloce della luce, sorellona!”
“Dov’è Lance?”
Indicando il retro della casa con un cenno del capo, poggiò la sua colazione sulla consolle e seguì Brianna verso il giardino.
Mary B era in ospedale come sempre, ma aveva promesso che per il pranzo di Pasqua si sarebbe presentata regolarmente. Questo aveva evitato eventuali discussioni con Hati, già pronto ad avvolgerla nella bambagia fino al giorno del parto.
Mary B tendeva a essere piuttosto protettiva, quando si trattava di Lance, ma anche lui non scherzava e, a volte, si era arrivati a paradossi davvero assurdi, con quei due.
La stessa Brianna si era sorpresa nel notare in lei un simile istinto protettivo, pur se aveva sempre saputo trattarsi di una donna molto amorevole e materna.
Chissà perché pensava che Lance avesse bisogno di …
Brianna non terminò mai quel pensiero, quando finalmente mise piede nel giardino sul retro della villetta.
Dinanzi a lei, simile a un piccolo laboratorio di falegnameria, se ne stava la più grande collezione di mobili che avesse mai visto.
Trucioli color nocciola, segatura di varia grandezza e pezzi di legno grezzo erano sparsi un po’ ovunque mentre Lance, impegnato a piallare, stava per ultimare la sua ultima opera.
Non fosse stato per la quantità enorme di oggetti presenti sul prato, Brianna avrebbe plaudito la bravura di Hati, ma tutta quella roba le sembrò un tantino eccessiva …specialmente se si considerava che doveva servire per una sola bambina, e non per una squadra di calcio.
“Capito che intendevo?” mormorò Gordon, al suo fianco. “Sulle prime, è stato carino vederlo lavorare sui mobili che avremmo messo nella camera di Keely – hanno poi scelto questo, come nome – ma ora, mi sembra che la cosa cominci a toccare i toni dell’inquietante. Anche Mary B è un po’ preoccupata.”
“Lo credo” esalò Brianna, avvicinandosi finalmente al suo Hati.
“Ehi, Lance…” esordì subito dopo la wicca, distogliendolo al suo lavoro.
Sobbalzando – Lance non si era affatto accorto della sua presenza, altra stranezza – il licantropo le sorrise spontaneamente e si alzò per abbracciarla. Fu così che Brianna si ritrovò stritolata tra le sue braccia taurine, rischiando di fatto di rimetterci qualche costola.
“Wow, amico, questo sì che è un abbraccio” esalò la ragazza, cercando di scostarsi da lui.
Lance allora rise e, nel riprendere la pialla in mano, dichiarò: “Ti si vede così di rado, da quando hai iniziato l’università, che è sempre un piacere riaverti a casa.”
“Lieta di saperlo” mormorò Brianna, poggiando le mani sui fianchi nell’osservare il lavoro svolto da Lance.
Eh, sì, con tutti quei mobili, avrebbero potuto arredare almeno sei nursery.
Un po’ troppe davvero.
“Senti un po’, mio Hati, non ti sembra di aver un tantino esagerato, quanto a lavori di falegnameria?” buttò lì la ragazza, ghignando all’indirizzo di Lance.
Imperturbabile, lui replicò: “Mary B deve avere a disposizione la migliore gamma di mobili possibili, tra cui scegliere. E di qualsiasi genere possa servirle.”
Gordon si passò una mano sul viso, esasperato da quel tono che, a quanto pareva, doveva essere divenuto la norma, in famiglia e Brianna, non potendosi impedire di fissarlo a occhi sgranati, esalò: “Scusa la domanda… ma quanti altri mobili vuoi fare?”
“Tutti quelli che saranno necessari” scrollò le spalle l’uomo, come se quella domanda fosse inutile, oltre che stupida.
“Ohsignoresantocielo” gracchiò la ragazza, facendo sorridere l’amico.
“Anche Gordon parla così, a volte. Come fate a non mangiare le parole e, al tempo stesso, a farle suonare incollate le une alle altre?” ironizzò Lance, del tutto calmo e pacifico nel suo stato di quieta follia.
Sembrava che nulla fosse cambiato, in lui, eppure…
Come trovare normale quell’eccessivo lavorio fisico, e quella sovrapproduzione di mobili che, per quanto belli, erano oggettivamente inutili, vista la quantità?
Lanciato uno sguardo a Gordon, Brianna lo pregò di allontanarsi e, una volta rimasta sola con Lance, la giovane wicca si permise di sondare senza ritegno il suo animo.
Quel che trovò la mise subito in allarme, e così Lance, che levò il capo a scrutarla con espressione dubbiosa.
“Beh, che c’è?” mormorò l’uomo, smettendo per un attimo di piallare.
“Che c’è, Lance?” ripeté a pappagallo la ragazza, afferrandogli una mano per stringerla tra le sue. “Non ti sei accorto delle condizioni della tua aura?”
Hati aggrottò la fronte, ritirando la mano da quelle dell’amica e, riprendendo a lavorare, borbottò: “Non ho niente che non va.”
Sospirando, Brianna allora sollevò una mano con l’intento di sfiorare l’aura dell’amico, ben attenta a non affondare troppo e toccare così il suo corpo tonico e forte.
Immediatamente, Lance si bloccò e, ansimando, si portò una mano al torace, quasi che un pugno lo avesse colpito al plesso solare.
Il suo battito cardiaco suonò irregolare al suo orecchio esperto e, nell’osservare torvo Brianna, ringhiò: “Che diavolo stai combinando, principessa?”
Ritirando la mano, lei replicò quieta: “Ti sto dimostrando che menti persino a te stesso. La tua aura è così frantumata che basta un esile tocco di potere, per mandarla in briciole. Se dovessi affrontare anche solo una discussione un po’ accesa con un licantropo, ti verrebbe un infarto, Lance.”
“Tutte sciocchezze” sbuffò l’uomo, fissandola con gelidi occhi da husky.
Ma perché gli uomini sono tutti così testardi?, pensò tra sé Brianna, allontanandosi di un passo dall’amico.
“Cosa ti preoccupa così tanto da ridurti in questo stato?” gli chiese con gentilezza, sperando di non acuire il suo stato di apparente nervosismo.
Speranza vana.
Lance si alzò di scatto, lanciando a diversi metri di distanza la pialla e, fissando arcigno l’amica, ringhiò: “Non. Ho. Niente. Vuoi ficcartelo in testa, principessa?”
“E da quando in qua ti rivolgi a me con le zanne scoperte, Hati, e mostri una rabbia che, se mal interpretata, potrebbe essere vista come un insulto al mio ruolo di wicca e Prima Lupa?” ribatté gelida Brianna, facendo leva sulla loro doppia natura.
L’uomo impiegò qualche attimo, per rendersi conto di ciò che stava effettivamente succedendo. Quando, infine, pose lo sguardo sulle sue mani – artigliate – fremette di contrizione e fissò l’amica con profondo dolore.
Crollando poi sulla panchetta su cui era stato seduto fino a un attimo prima, il corpo enorme afflosciato su se stesso, Lance esalò: “Mille scuse, principessa… non ho davvero agito per il meglio.”
Brianna, allora, gli carezzò il capo biondo e mormorò: “Puoi aprirti con me, lo sai. Nel bene e nel male, conosco ogni cosa di te, e posso capirti meglio di altri.”
Era stata nella sua mente il primo giorno in cui avevano iniziato gli allenamenti per il controllo dei suoi doni, e quell’assaggio di potere era stato devastante.
Per entrambi.
Non vi era nulla, nel passato e nel presente di Lance, che lei non conoscesse, e aveva idea che nei suoi ricordi fosse annidato il bandolo della matassa.
“Cosa non hai detto, di quella notte, a Mary B?” chiese quindi Brianna, accucciandosi accanto all’amico, il cui sguardo di ghiaccio stava perforando il prato dietro casa.
Lance si irrigidì appena, confermando i dubbi dell’amica che, stretta una mano sul suo ginocchio, sussurrò: “Mio Hati, parlami. Sono qui per te.”
“Prima Lupa…” mormorò l’uomo, levando appena il capo per affondare nelle ambrate profondità dell’amica.
Brianna sorrise appena e, nel poggiare la fronte contro quella di Hati, sussurrò ancora: “Getta fuori le ombre, mio Hati, affinché esse non percorrano il tuo sentiero. Lasciale fuori dalla tana, mio lupo.”
Nella mente della giovane wicca comparvero immagini veloci di una caccia, della predazione di diversi umani… e della loro inesorabile fine. Sarah era a capo delle sentinelle lanciate contro quel gruppo di Cacciatori e, tra loro, Brianna vide Lance.
I suoi occhi erano vuoti, del tutto privi della scintilla vitale che lei sapeva essere normalmente in loro. Erano occhi che avevano visto il peggio, e ora desideravano sangue.
“La caccia ai seguaci di…”
Lance annuì prima che lei pronunciasse quel nome, il nome della donna umana che aveva così barbaramente tradito la sua fiducia.
“Fosti tra gli assassini guidati da Freki?”
“Mi offrii volontario, visto il numero di Cacciatori da predare e l’esiguo tempo a disposizione per catturarli. Temevamo che diffondessero notizie su di noi” assentì l’uomo ammettendo le sue colpe, se di colpe si trattava.
“Rimpiangi quella caccia?” gli domandò a quel punto, accigliandosi.
“No. Ne fui felice” gracchiò, contrito.
E Brianna iniziò a comprendere.
“Oh, Lance… questo non ti rende una cattiva persona. E’ ciò che siamo. Se non aveste trovato quei Cacciatori, il branco sarebbe stato scoperto e molti licantropi sarebbero morti” mormorò Brianna, carezzandogli il viso con gentilezza.
“Io lo so, e lo capisco, ma Mary B… lei è…” balbettò, cercando di mettere a parole – senza riuscirvi – le sue peggiori paure.
“Temi non potrebbe comprenderti fino in fondo, Lance? Solo perché è umana come le persone che hai predato?”
“Lei è buona e gentile, comprende le esigenze del branco… ma non è come noi. Io l’amo, devi credermi, ma…”
Brianna prese il suo viso tra le mani, sollevandoglielo e, permettendogli di entrare nella sua mente, gli mostrò l’attimo in cui Patrick aveva cercato di ucciderla, quando era da poco divenuta licantropa.
Rivisse quei momenti concitati, concentrandosi sul volto determinato di Mary B, sul suo tentativo di allontanare a ogni costo il marito da Brianna.
Fremette, quando la vide cadere a terra, minacciata dallo stesso uomo che avrebbe dovuto proteggerla. Non mollò comunque la presa, e gli fece ascoltare le parole di fiele di Mary B, rivolte al marito e al suocero.
Quando vi fu l’esplosione, Brianna lasciò andare il collegamento e asserì: “Non è una donna che non capirebbe cos’hai provato, Lance. E’ una donna che si è messa contro il proprio marito, la propria razza, per salvare me e Jerome. E l’ha fatto perché sapeva da che parte voleva stare.”
Sul viso di Lance comparve un sorrisino mesto.
“Era davvero terrorizzata all’idea di perderti” chiosò Hati.
“Ma era soprattutto disgustata dalle azioni del marito e del suocero. Ci difese. Esattamente come facesti tu per il branco, predando quei Cacciatori. Credimi, quando ti dico che Mary B capirebbe benissimo la tua scelta di partecipare a quella caccia in particolare” gli confidò Brianna, rialzandosi in piedi.
Lance ne seguì i movimenti con lo sguardo e, contrito, domandò: “Dici che dovrei parlargliene ora, o forse è il caso che aspetti dopo il parto?”
“Ogni momento andrà bene, visto che so benissimo di che tempra è fatta Mary B” sorrise Brianna, guardandosi intorno. “Il problema, ora, è un altro.”
“E cioè?”
“Che diavolo ne faremo di tutti questi mobili?” esalò la giovane wicca, facendo scoppiare a ridere Hati.
***
Sdraiata sul letto assieme a Lance, le caviglie intrecciate e la mano destra distrattamente impegnata a carezzarsi il ventre arrotondato, Mary B mormorò: “Lance Gregory Rothshild, sei davvero uno sciocco. Lo sai, vero?”
L’uomo rise contrito, baciandole la chioma bruma sparsa sul suo torace nudo e, annuendo, asserì: “Sono già stato debitamente richiamato all’ordine dalla mia Prima Lupa, giusto oggi.”
“Brie ha fatto bene a sgridarti. Non avresti dovuto neppure pensare che io non avrei capito” gli fece notare la donna, levando lo sguardo a incrociare quello limpido e finalmente tranquillo del compagno.
“Errore mio, lo ammetto. Ma come scusante posso avere che non mi sono mai trovato in una situazione simile?”
“Scuse accettate, visti soprattutto i tuoi precedenti. Fossi stata al tuo posto, l’avrei divorata, probabilmente, ma non so se sono io a parlare, o gli ormoni” dichiarò Mary B, sorridendo sbarazzina.
La gravidanza stava procedendo senza intoppi e, al quinto mese di gestazione, Mary B era raggiante come un sole appena desto. Il dottore le aveva assicurato che, nonostante avesse già compiuto trentanove anni, non avrebbe avuto alcun tipo di problema.
Tecnologia all’avanguardia, nuove cure e qualità della vita molto alta, avrebbero permesso a Mary di avere una gravidanza sicura come quella di una donna vent’enne.
Poggiata la mano enorme su quella più sottile e piccola della compagna, Lance accarezzò a sua volta il ventre di Mary B e mormorò: “Vorrei potessi sentire la sua energia. E’ già così vitale!”
“Oh, credimi, arriverò a un punto in cui la sentirò più che bene, la sua energia!” ironizzò la donna, sorridendogli.
Osservando le loro mani giunte sulla sua pelle chiara illuminata dai raggi della luna, che penetrava nella stanza dalle finestre socchiuse, la donna mormorò poi seriamente: “Non devi nascondermi nulla della tua natura, Lance. Ho già accettato da tempo che ci sono cose, in voi, diverse da come le potrebbe concepire un normale umano. Non mi spavento facilmente, credimi.”
“Non vorrei mai darti un pensiero, specialmente ora” replicò lui, stringendola maggiormente a sé.
“Sono forte a sufficienza per sopportare un po’ di sangue, Lance, e anche un po’ di mattanza” gli ricordò lei, sollevando con ironia un angolo della bocca. “So che la legge del taglione non è stata introdotta a caso, nei branchi, e che ha un suo senso logico, all’interno della vostra società. Non pensare mai che non capisca.”
“Mi scuserai, però, se non ti racconto ciò che è successo alle Svalbard, vero?”
Mary B assentì senza problemi. “So che è un argomento che neppure Brie vuole affrontare perciò, se lo vorrete, mi racconterete ciò che è successo, altrimenti no. Non mi riterrò offesa, se rimarrà un vostro segreto.”
“Ci arriveremo, ma non ora. E’ davvero… troppo.”
Lance rabbrividì al solo pensiero di tutti quei morti, di quella feroce battaglia in cui il suo lato più primitivo era uscito con prepotenza attraverso i suoi artigli.
Dilaniare, uccidere, smembrare, tutto gli era parso semplice, persino piacevole, in quei momenti, e non era argomento da trattarsi con una donna incinta. A maggior ragione se la donna in questione era la sua amata compagna.
Mary B si volse a mezzo, poggiando il gomito sul materasso e, allungatasi su di lui, depose un bacio sulle sue labbra, mormorando subito dopo: “Quando sarò una licantropa come te, ne riparleremo, va bene?”
“Se vorrai diventare una mannara. Non è necessario che tu lo diventi, credimi. A me vai bene così. Mi sono innamorato della donna. Non importa se è umana o mannara” ci tenne a precisare lui, sorridendole.
Non poteva che provare piacere, nel ripensare alle loro prime telefonate, quando tutto era cominciato quasi per scherzo. In quei momenti di confusa concitazione, Lance non aveva fatto granché caso alla dolce voce della donna con cui parlava al telefono di Brie, o ai suoi modi gentili e protettivi.
Quando, però, era stato obbligatorio utilizzare Skype per una pianificazione più accurata delle cure da prestare a Brianna, tutto era pian piano cambiato. Vederla era stato illuminante, e non solo per la sua ovvia bellezza.
Erano stati i suoi occhi a colpirlo. Occhi colmi di una bellezza profonda, che appartenevano a un’anima luminosa e pura, un’anima non toccata dalle brutture che la circondavano.
L’avvento di Mary e Gordon a Farley aveva segnato la sua capitolazione.
Lance aveva lasciato che il dolore per la morte di Patrick si stemperasse, nel cuore di Mary e, come un amico, le era stato accanto per consolarla. L’aveva aiutata a comprendere, poco per volta, di non essere sola, e che non tutti gli uomini erano bugiardi e traditori come lo era stato suo marito.
Quel che era giunto in seguito era stato una consolazione, per lui. Una liberazione, ma anche una sorpresa.
L’aveva baciata per la prima volta all’uscita dall’ospedale, quando l’aveva vista sotto tono e abbacchiata per un’operazione finita male. Il suo aveva voluto essere solo un gesto carino, ma si era ben presto trasformato in qualcosa di più.
Mary si era lasciata andare contro di lui, permettendo che il suo corpo, la sua essenza di lupo la proteggessero, la sorreggessero in quel momento di sconforto. Non aveva avuto paura, timore, nessun genere di remora ad avvicinarsi.
Né era successo la loro prima notte assieme.
Per quanto avesse desiderato quel momento, per quanto lo avesse bramato, i ricordi di Diane si erano confusi con quegli istanti perfetti, rischiando di rovinarli per sempre. Solo la dolcezza e, assieme, la determinazione di Mary, l’avevano salvato dall’affogare nei suoi stessi incubi.
E ora quel cedimento, quella paura di sbagliare ancora, di non darle tutto ciò di cui aveva bisogno.
Si era davvero comportato come un idiota, con Brianna e, anche solo per questo, avrebbe dovuto fare mea culpa fino alla fine dei suoi giorni.
Ma, per il momento, doveva pensare alla sua Mary.
“Ammetto di avere motivazioni molto egoistiche, sai?” ironizzò la donna, strappando Lance ai suoi pensieri.
“In che senso?”
Mary, allora, si pose a cavalcioni su di lui, meravigliosamente nuda alla luce della luna e, sorridendo maliziosa, mormorò: “Desidero con tutto il cuore fondermi completamente con te e, come umana, non riuscirò mai a farlo.”
“E’ già splendido così, tesoro…” asserì per contro Lance, carezzandola con lo sguardo e il dorso di una mano.
“Ma sei frenato, hai timore di farmi male” replicò lei, sedendosi mogia sulle sue cosce.
Il suo sguardo somigliava molto a quello di una bambina. Una bambina birichina che, però, portava in grembo sua figlia.
Dèi, faticava ancora a crederci!
Lance le sorrise, sollevandosi a sedere per baciarle la punta del naso alla francese e, nell’affondare una mano nella sua chioma ondulata e color cioccolato fondente, mormorò roco: “Non smetterò mai di volerti, Mary, anche se rimarrai umana per tutta la nostra vita assieme.”
“Ma io voglio essere per te tutto ciò che desideri. E so che vuoi più di questo” precisò la donna, testardamente.
Lance allora rise esasperato, le baciò una spalla e, attirandola in un abbraccio, asserì: “Perché ti è venuta in mente una cosa simile?”
Mary, chiaramente in imbarazzo, poggiò la fronte contro la spalla robusta del compagno e ammise: “Brie, una volta, mi disse come scoprì di… di Diane.”
Pur non volendo, l’uomo si irrigidì. Non amava parlare di lei, figurarsi quando era a letto con Mary.
In realtà, non amava parlare di lei. Punto.
Lei lo strinse più forte, pur se sulla pelle di Lance quella stretta fu poco più di una carezza, carezza che comunque apprezzò.
“Mi disse che scorse dentro di te un desiderio forte e inappagato.”
“Di cosa?” mormorò l’uomo pur rammentando le parole che, a suo tempo, l’amica gli aveva rivolto.
“Desideri amare sinceramente, e con tutto te stesso, una donna che ricambi allo stesso modo i tuoi sentimenti” asserì Mary, scostandosi per guardarlo negli occhi da husky con le sue smeraldine profondità.
Era assolutamente seria, in quel momento, e maledettamente determinata a fargli comprendere le sue motivazioni.
“Io sono quella donna, Lance, almeno per quanto riguarda l’amore che provo per te…” dichiarò con decisione, pur apparendo triste. “… ma non posso essere tutto ciò che vuoi, almeno finché non sarò una mannara come te. Diversamente, tu non potrai mai essere veramente te stesso, e io perderei una parte importantissima del nostro rapporto.”
“Ti riferisci all’intreccio di auree?” le domandò lui, carezzandole il contorno del viso.
Poteva vedere chiaramente la propria onda di potere mentre, simile a velluto, scorreva sulla pelle perfetta di lei.
Però, Mary neppure se ne accorgeva.
Si era sempre dichiarato soddisfatto del loro rapporto, lieto che lei lo amasse sinceramente, che non fosse spinta solo dal desiderio di cancellare il ricordo di Patrick. Sentir parlare dalla stessa bocca della sua amata di quel problema non da poco, glielo fece comunque riconoscere come reale.
Mary gli afferrò il viso con entrambe le mani e, pur tremando leggermente, dichiarò con fervore: “Quando saremo certi che Keely è sana e forte, tu mi muterai in un mannaro, e non accetterò un ‘no’ come risposta.”
Lance si limitò ad annuire e, dopo averle deposto un casto bacio sulla guancia, la scostò da sé per stenderla sul letto.
Lentamente, iniziò a solleticarle la pelle con teneri baci, inframmezzati a carezze leggere, operate con la punta delle dita.
Mary si inarcò istintivamente, artigliando le lenzuola e mugolando di piacere.
Lui sorrise per diretta conseguenza e, nell’osservarle il viso oltre la curva dei seni pieni, mormorò roco: “In attesa che tu sia una mannara, mia Mary, ti dimostrerò quanto, anche così, possiamo condividere insieme.”
“Non vedo l’ora” ansò lei, gemendo un attimo dopo, quando la bocca di Lance raggiunse la sua femminilità.
***
Quel fagottino tutto rosa e con una spruzzata di capelli biondi sulla testolina, era veramente sua figlia?
Lance aveva passato le ultime dodici ore a osservare imbambolato la bimba che, tranquilla, stava dormendo nella culla accanto al letto d’ospedale di Mary.
La sua bambina. Il suo miracolo. La sua speranza.
Tutte queste cose, tutte queste meravigliose sensazioni, erano nate grazie a quella donna, alla donna che il destino aveva messo sulla sua strada. Donna che, in quel momento, si risvegliò dal suo sonnellino pomeridiano e, vedendolo seduto lì accanto, sorrise.
“Ehi…”
“Ciao” mormorò Lance, levandosi in piedi per baciarla. “Come ti senti?”
“Indolenzita e molto, molto affamata” dichiarò Mary, lanciando un’occhiata alla loro bambina. “Keely ha dormito bene?”
“Neppure un vagito di traverso” ironizzò Lance, sorridendo con orgoglio.
Un quieto bussare alla porta fece loro volgere il capo e, quando Brianna e Duncan entrarono, la coppia sorrise.
Duncan si avvicinò al suo Hati, la fierezza e l’orgoglio a illuminargli il viso e, nel poggiare una mano sulla sua spalla, dichiarò: “Le mie più sentite congratulazioni, mio lupo. La luna brilla sulla tua bambina con rara forza.”
Brianna si piegò su Mary B per baciarla e, nell’ammirare la bimba e il padre, asserì: “Non potrebbe essere più bella e perfetta. Avete fatto davvero un ottimo lavoro. La mia sorellina è davvero un amore.”
Ciò detto, si chinò per baciare sulla fronte la bimba addormentata e, con una solennità che non sfuggì a nessuno, mormorò: “Cresci sotto una buona luna, figlia mia. Il mio artiglio ti proteggerà sempre, la mia tana ti darà conforto e calore e la mia forza sarà la tua, se mai la vorrai.”
“Ci onori, wicca” mormorò ossequioso Lance, levandosi in piedi per ripiegare rispettosamente il capo in direzione di Brianna.
Lei, però, non vi badò affatto, annullò le distanze che li separavano e, nel baciare anche lui, stavolta sulle guance, dichiarò: “Sarai mio padre, tra un po’, perciò piantala con tutte queste smancerie da lupi. Abbracciami come abbracceresti tua figlia, Lance.”
L’uomo si ritrovò a ridere, connettendo forse per la prima volta la duplicità del suo ruolo. Non sarebbe diventato solo il marito di Mary, ma anche il padre di Brianna e Gordon, dato che la sua amata era, per legge, già la loro madre adottiva.
Stringendo a sé Brie, la sua amica, la sua wicca, la sua Prima Lupa, esalò sconvolto: “Dèi… a questo non avevo davvero pensato, sai?”
“Me n’ero accorta” rise lei, tornando infine accanto a Duncan, che stava sorridendo tutto divertito. “E ti va ancora bene che siamo già piuttosto grandicelli e svezzati!”
Passandosi una mano tra i capelli biondi, leggermente più lunghi rispetto al solito, Lance gracchiò: “Meno male davvero, o non avrei saputo dove prendere!”
“Sarebbero venuti buoni tutti i mobili in più che avevi costruito” ironizzò a quel punto Mary, sorridendo al compagno.
Lui arrossì suo malgrado, rammentando quel momento di sbandamento e, nel ghignare all’indirizzo di Duncan, disse: “Grazie per aver trovato loro una casa, comunque.”
“Era un peccato farli finire al macero, visto quanto erano belli, ti pare?” replicò Fenrir, scrollando le spalle. “Staranno d’incanto nelle case dei licantropi a cui li ho venduti. Il ricavato è stato devoluto interamente alla piccolina lì nella culla.”
Chinandosi per ammirarla da vicino, Duncan sussurrò poi dolcemente: “Il tuo papà e la tua mamma ti amano già tantissimo, tesoro. Non potresti essere più fortunata di così.”
Proprio in quel mentre, la porta si aprì di colpo e, tutto trafelato, Gordon esalò: “Ehi, ma quell’infermiera è davvero un mastino! Ho dovuto correre alla disperata, per sgattaiolare dentro!”
Il gruppo rise di gusto, di fronte alla sua aria spensierata e per nulla dispiaciuta, ma Gordon non fece loro caso.
Si avvicinò alla culla proprio mentre la piccola Keely apriva i suoi occhi al mondo e, sorridendo gaio, le disse: “Anche il tuo fratellone e la tua sorellona ti amano già, piccolina. E ci penserò io a tenere buono il papà, quando sarai così bella da far girare la testa a tutti i licantropi del branco.”
Mary B e Brianna, a quel commento, esplosero in una calda risata di gola mentre Lance, accigliato, fissava torvo un Gordon tutto compiaciuto.
“Non avevi pensato neanche a questo, vero?” ghignò il ragazzo, prima di abbracciarlo goffamente. “Congratulazioni… papà.”
A Lance non rimase altro che abbracciarlo di rimando e, nello scompigliargli i capelli, replicò con falso rimprovero: “Ma proprio a questo dovevi farmi pensare, razza di disgraziato che non sei altro, e dopo un solo giorno dalla sua nascita?”
Gordon si limitò a sghignazzare, ma Lance non trovò altri argomenti con cui rimbrottarlo.
Dopotutto, anche lui poteva dire di non poter essere più fortunato di così.
Lui e Keely non avrebbero potuto capitare in famiglia migliore.
Note: Ed ecco spiegato cosa è successo a Lance e Mary B, di cui molte di voi hanno chiesto notizie.
Nelle prossime OS parlerò di Jerome che, in qualche modo, è stato un po' tagliato fuori dal contesto nella trilogia, così come nello Spin-off su Cecily. E' ormai tempo che trovi il suo spazio, perciò spero che i prossimi racconti su di lui vi appassionino.
Per ora, vi ringrazio di essere tornat* in questo magico mondo con me, e vi auguro di tutto cuore un sereno Natale!
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Capitolo 4 *** Jerome's Secrets - Parte 1 (Giugno 2014) ***
Jerome’s Secrets – Part 1
(Giugno 2014)
Passeggiare nei boschi era corroborante quanto una corsa in auto, o l’amplesso con una bella donna. Non che quest’ultima opzione gli fosse capitata spesso, ultimamente.
Da quando Duncan aveva preso pieno possesso del potere sul clan, le cose erano cambiate anche per Jerome. Quegli anni di inedia, passati a gozzovigliare e farsi bello del suo titolo di Skŏll, erano stati noiosi e ripetitivi – pur se conditi da un sacco di conquiste – e lui detestava annoiarsi.
Prendere su di sé parte del peso del branco, l’aveva aiutato a maturare, non soltanto dal punto di vista sociale, ma anche in ambito sessuale.
Prima dell’avvento di Brianna, aveva guardato con leggerezza alla compagnia femminile e, contrariamente al suo Fenrir, ne aveva goduto a piene mani.
Da quando Brianna aveva messo piede nel branco, facendogli scoprire tutto sulla sua anima, sul suo vero valore di uomo e lupo, tutto era cambiato.
Vedere quanto fossero uniti lei e Duncuan, quanto le loro menti fossero in sincrono e i loro corpi vibrassero in risposta, lo aveva illuminato.
Tutto ciò lo aveva spinto a migliorare se stesso, e questo era coinciso con il limitare i suoi incontri con il gentil sesso. La quantità non lo interessava più, poiché ora stava cercando la qualità.
Quegli incontri erano stati piacevoli, interessanti sotto molti punti di vista, e altruistici da ambo le parti, ma non era mai riuscito a trovare in essi una soddisfazione totale.
Brianna gli aveva chiarito anche quel dubbio. Desiderava di più, per entrambe le parti, e questo voleva dire privarsene per fare chiarezza con se stesso e con ciò che voleva per se stesso.
Aveva tentato di dare un ordine al caos che si celava nella sua mente, quando si trattava di donne, e questo aveva voluto dire fare tabula rasa.
Alle lupe che aveva frequentato – e di cui aveva goduto della loro compagnia – la cosa non era affatto piaciuta, ma si erano adeguate al cambiamento avvenuto.
Per questo, le lunghe passeggiate lontano dal Vigrond erano diventate così importanti per lui.
In quel luogo mistico, le energie residue dei licantropi erano troppo forti perché lui non le notasse, e Jerome desiderava pensare senza alcun tipo di distrazione. Skŏll, inoltre, tendeva a farsi ciarliero, ogni qual volta si avvicinava al loro Luogo di Potere, e lui aveva bisogno di silenzio per riflettere, vista l’importanza della cosa.
Ultimo, ma non ultimo per importanza, avrebbe rischiato di dover dare spiegazioni a Duncan o, peggio, a Brianna. Entrambi si sarebbero preoccupati per lui, e questo non lo voleva.
Con la faccenda dell’università e della piccola Keely – che si era rivelata un autentico diavoletto, anche se un diavoletto adorabile – Brianna aveva già un sacco di cose a cui pensare.
Non aveva bisogno di dover badare anche alle sue pene di uomo redento, e in cerca di un nuovo equilibrio.
Balzando oltre un paio di cespugli, Jerome si slanciò per afferrare il ramo robusto di un noce e, sorridendo, volò da un ramo all’altro come una scimmia. Voleva farcela con le sue sole forze, e senza impensierire nessuno.
Forse, non era destino che trovasse un’anima gemella ma, di sicuro, si sarebbe impegnato per diventare un lupo più profondo… non necessariamente più serioso e cupo, però. Solo più attento.
Non aveva bisogno di essere bello e misterioso come era suo cugino Duncan, pur se il suo metodo pareva aver funzionato, con Brie.
Il solo pensarci lo portò a sorridere divertito e, quando finalmente raggiunse le sponde del laghetto dove, ormai da settimane, soleva fermarsi per un riposino, sorrise al riflesso del sole sulle acque cristalline e mormorò: “Mi farai capire, Madre, se sto percorrendo la strada giusta?”
Uno ‘splash’ improvviso, seguito subito dopo da urla infantili e concitate, lo strapparono al suo monologo con la Madre Terra, per altro rimasto senza risposta.
Subito, i suoi sensi di lupo si misero in allarme e, in un attimo, registrarono l’origine dei suoni da lui percepiti.
Quella che sembrava essere una bambina, stava sbracciandosi in acqua, a pochi passi da un lungo pontile in legno scuro.
Pareva non essere in grado di resistere a lungo ma, cosa più importante, non dava l’idea di essere in grado di raggiungere il pontile per salvarsi.
Immediatamente, Jerome corse lungo la sponda del lago per raggiungerla, rendendosi conto che nessuno, nei dintorni, pareva essersi accorta di lei.
Lanciando un’occhiata veloce in direzione del centro medico che si trovava a poca distanza, Jerome si chiese fuggevolmente se la bambina fosse sgattaiolata, non vista, da lì.
Vista la mancanza di adulti nei paraggi, era più che probabile.
Non si era mai soffermato molto a chiedersi cosa facessero, in quel lineare e basso stabile dalle bianche mura e le ampie finestre a specchio. Si era limitato a girargli al largo perché non lo vedessero, mentre scorrazzava per il bosco, in modi ben diversi da quelli di un semplice umano.
Ora, però, la necessità lo spinse a intervenire. Quella bambina sarebbe certamente affogata, se non l’avesse raggiunta per tempo.
Quando fu nei pressi del pontile, quindi, balzò in acqua e la raggiunse in poche, rapide bracciate mentre, a gran voce, esclamava: “Calma! Calmati! Ti ho raggiunta! Non ti succederà nulla!”
La bambina strepitò per alcuni secondi, prima di calmarsi e, con occhi sgranati quanto terrorizzati, esalò: “Non… non so nuotare…”
“Me n’ero accorto!” ironizzò Jerome, tenendosi a galla senza alcun problema mentre, con un braccio, afferrava la bimba al di sotto delle ascelle per tenerla fuori dall’acqua.
Senza perdere altro tempo, si avvicinò al pontile sbracciandosi con il braccio libero e, tenendosi alla scaletta di metallo che conduceva all’acqua, risalì fino a guadagnare la sua superficie solida e orizzontale.
Lì, la ragazzina sputacchiò acqua e rabbia assieme e Jerome, presala in braccio, le domandò: “Punto dieci dollari sulla tua risposta. Venivi dalla clinica?”
“Hai vinto” mormorò mogia la bambina, reclinando il viso per poggiarlo contro il torace muscoloso di Jerome.
Lui le sorrise, pur se la ragazzina non lo stava affatto guardando e, nell’incamminarsi verso la clinica, le chiese ancora: “In che reparto sei? Così ti ci porto.”
“Non vedenti” mormorò allora la bambina, bloccandolo a metà di un passo per la sorpresa.
Sgranando gli occhi cerulei, Jerome esalò un attimo dopo: “E… e che ci facevi qui fuori, tutta da sola?”
Punta sul vivo, la bambina si trincerò dietro un offeso mutismo, e al giovane licantropo non restò altro che catapultarsi all’interno della struttura, temendo già il peggio.
Aperta una porticina laterale con una spallata leggera – la stessa porta da cui, forse, era sgattaiolata la bambina – Jerome si ritrovò davanti a un intero reparto in subbuglio.
Pazienti che si sbracciavano senza emettere alcun suono si intervallavano a dipendenti che, di suoni, ne emettevano in quantità, e di tutte le lingue possibili e immaginabili.
Jerome percepì anche qualche imprecazione finché, una donna tra le altre, non gridò: “Ecco Maggie!”
Subito, decine di paia d’occhi si puntarono su lui, mentre altri tentavano di mettere ordine in quel caos, girando apparentemente a caso volti e mani per trovare qualcuno a cui chiedere informazioni.
Tossicchiando imbarazzato nel sentirsi al centro dell’attenzione, Jerome alla fine esalò: “S-salve… l’ho ripescata mentre si faceva un giretto al largo, e…”
Subito, la donna che aveva parlato lo raggiunse e, con un sorriso pieno di cortesia, allungò le braccia e disse lesta: “La dia a me, signore. Le peserà, ormai.”
Assentendo meccanicamente, pur non avvertendo alcun peso tra le braccia, Jerome la lasciò fare mentre altre infermiere si assiepavano attorno a Maggie, concitate e seriose al tempo stesso.
Il vociare aumentò con l’aumentare delle persone attorno alla bambina, bagnata come un pulcino appena uscito dal guscio ma sana e salva.
Nessuno badò a Jerome che, vagamente sconcertato, osservò la scena con aria sconvolta.
Fu l’arrivo di un’altra donna, in camice da dottore, stavolta, a mettere fine a quella bailamme senza senso.
Camminava spedita e sicura di sé, con i fluenti e lisci capelli biondi che sventolavano alle sue spalle al pari di un mantello leggero, e il suo volto chiaro era l’emblema stesso della calma.
Calma che riuscì a trasmettere a tutti, Jerome compreso, che la fissò strabiliato, ammirato da tanta compostezza e contegno.
Una vera leader nata.
“Ebbene? Abbiamo trovato la nostra fuggitiva, a quanto pare” esordì la donna, con una dolce voce di contralto.
“Dottoressa Graham… ci scusi, ma proprio non ci siamo accorte che era sgattaiolata fuori dalla sua stanza” mormorò contrita la donna che aveva preso in carico Maggie, guardandola spiacente e piena di rimorsi.
La dottoressa Graham, però, scosse il capo con aria gentile e replicò: “Se esiste al mondo un posto da cui Maggie non può sgattaiolare, allora io non lo conosco. Tranquillizzati pure, Helene.”
Allungata poi una mano sottile e dalle belle unghie laccate di rosa, la donna carezzò i capelli bagnati della bambina – che ora stava piangendo a dirotto – e mormorò: “Cambiatela, prima che si buschi un raffreddore estivo. L’acqua non sarà certo stata calda, vero, tesoro?”
Le infermiere assentirono e, mentre la maggior parte di loro seguì Maggie, una rimase accanto alla dottoressa Graham, mormorandole qualcosa all’orecchio.
Jerome, da parte sua, rimase in religiosa contemplazione dell’intera scena, ammirando la capacità della dottoressa di chetare quella situazione esplosiva. Non solo non se l’era presa con le infermiere, ma aveva stemperato la situazione potenzialmente esplosiva, riportando la calma laddove era il caos.
Una vera leader, tornò a pensare con ancora maggior convincimento.
Leader che, in quel momento, gli sorrise e disse: “Cecelia mi dice che ha aiutato la piccola Maggie a non affogare. Immagino che anche lei abbia bisogno di un ritocco, dopo quel bagno fuori programma.”
“Ehm… temo di sì” assentì lui, accennando un sorrisino nel guardarsi gli abiti intrisi d’acqua.
Ai suoi piedi si era formata una piccola pozzanghera.
La donna, allora, scambiò due parole con l’infermiera, che sussurrò un ‘posso pensarci io’, prima di venir smentita dalla dottoressa.
“Coraggio, mi segua” dichiarò poi la Graham, lasciando una perplessa infermiera nel bel mezzo del corridoio.
Jerome non disse nulla, limitandosi a seguire il suo passo spedito lungo quel percorso dalle consistenze diverse.
Impiegò solo un attimo per capire il perché dell’utilizzo di quei materiali di differente fattura. Trattandosi di un reparto per non vedenti, l’uso di materie prime di origine disparata – a cui ovviamente veniva dato un singolo ruolo specifico – aiutava a comprendere la posizione di una persona al semplice tocco.
Che il contatto avvenisse coi piedi, piuttosto che con l’uso di un bastone, poco contava.
Lanciate occhiate a destra e a manca, Jerome scoprì così che anche per i muri – e le mostrine accanto alle porte – avevano adottato soluzioni simili, aggiungendo specifiche sigle in braille.
Quando la dottoressa si fermò di fronte a una porta in particolare, sfiorò la targhetta appesa a lato prima di aprire il battente.
La luce si accese in automatico al suo passaggio e, quando anche Jerome vi penetrò, il giovane si trovò a scrutare un’infinità di scaffalature metalliche e ricolme di divise mediche di tutti i colori e taglie.
“Reparto approvvigionamento?” esalò Jerome, ghignando.
La dottoressa tastò un paio di ripiani, prima di estrarre una maglia e un paio di pantaloni azzurro cielo.
Voltatasi, li allungò a Jerome e disse: “Servono spesso dei cambi d’abito, in reparti difficili come questo.”
Dopo aver afferrato gli abiti dalla dottoressa, Jerome attese per qualche attimo che quest’ultima se ne andasse – o accennasse ad abbassare lo sguardo – ma, non notando nulla del genere, fece spallucce e cominciò a denudarsi.
Dopotutto, lei era una dottoressa e probabilmente vedeva corpi nudi da anni, non provando più alcun interesse per l’anatomia umana. Quanto a lui, essendo un licantropo, non era molto interessato ai tabù sulla nudità.
Con tono blando, quindi, chiosò: “Immagino succedano spesso incidenti più o meno piccoli, specialmente quando una persona è all’inizio del percorso di apprendimento.”
La Graham assentì, intrecciando le braccia sotto i seni mentre Jerome procedeva a togliersi i pantaloni.
La cosa lo lasciò vagamente confuso.
D’accordo che, essendo una dottoressa, era abituata al corpo umano e quant’altro… ma non aveva neppure una seppur minima reazione nel vederlo nudo?
Dubbioso, Jerome si scrutò dall’alto verso il basso, cozzando contro il torace ampio e muscoloso per poi proseguire lungo il ventre piatto e scolpito.
Le gambe lunghe e toniche avrebbero potuto rivaleggiare con quelle di un atleta, quanto a muscolatura, eppure alla dottoressa non fece alcun effetto.
Accigliandosi, si chiese se quel suo personale tentativo di diventare più profondo gli avesse completamente tolto sex appeal.
Quando ebbe terminato, ripiegò i suoi abiti e la dottoressa, con un sorriso, allungò una mano e mormorò: “Può darli a me. Li metteremo nell’asciugatrice e, nel giro di mezz’ora, saranno pronti.”
Jerome, però, non mosse un muscolo.
Era troppo impegnato a guardare quella mano aggraziata e fragile che, a meno di un metro da lui… stava puntando verso la porta.
“Lei… è cieca, vero?” gracchiò Jerome, riuscendo finalmente a mettere i suoi abiti nella mano protesa della dottoressa.
La Graham rise di gusto, di fronte al suo tono scioccato e, nell’avviarsi per uscire, dichiarò: “Cieca come una talpa, mio buon samaritano!”
***
Sorseggiando una tazza di tè caldo, il corpo completamente asciutto anche grazie a un uso sottile del suo potere, Jerome sorrise alla donna dinanzi a lui e asserì: “Sulle prime, ho pensato di esserle del tutto indifferente.”
Lei scoppiò nuovamente a ridere, una risata contagiosa che portò Jerome a unirsi all’ilarità della dottoressa.
“Oh, cielo! Forse, avrà anche pensato che ero una gran cafona, a starmene lì in piedi dinanzi a lei, senza neppure fare l’atto di voltarmi!” dichiarò per contro la donna, passandosi una mano tra i lisci e lunghi capelli biondi.
Gli occhi, socchiusi e ridenti, erano di un verde pallidissimo, appena accennato, eppure a Jerome parvero comunque bellissimi, pur se di fatto ormai inutili, per lei.
“Ammetto che, per un momento, mi sono sentito piuttosto in imbarazzo” ammise Jerome, ma non per i motivi che, sicuramente, stava pensando la dottoressa.
Nessun licantropo badava alla propria nudità. Lui aveva trovato fastidioso non vedere alcuna reazione emotiva – seppur blanda – in lei. Questo, lo aveva imbarazzato.
Imbarazzo inutile, a conti fatti, visto che la dottoressa non poteva vederlo.
“Sono talmente abituata a muovermi avanti e indietro per il Centro, che non faccio caso all’effetto che potrei fare su chi non mi conosce, Mr Rowley.”
“Jerome, la prego, dottoressa” replicò lui, poggiando la tazza sul vassoio d’argento che era stato portato – assieme a dei pasticcini – da un’infermiera.
Lo studio della dottoressa era luminoso e arioso, con un’ampia finestra rivolta verso il lago e leggere tende bianche a schermare il riflesso del sole.
La scrivania, ricoperta di carte scritte in braille, era bianca e priva di orpelli. Su di essa, un notebook Mac era aperto e attivo e, sul suo desktop, Jerome poté scorgere una luna calante e un bosco oscuro sotto di lei.
Chissà chi aveva inserito proprio quell’immagine, visto che lei non poteva vederla? E cosa voleva dire, in effetti, non vedere nulla di ciò che la circondava? Come gestiva i pazienti, le loro richieste, i loro desideri?
Certo, poteva capirli meglio di chiunque altro, però…
“Non è facile, ma aiuta essere dalla stessa parte del paziente” mormorò a un certo punto la donna, sorprendendolo.
Che avesse parlato ad alta voce?
“Ah… ecco…” tentennò Jerome.
Lei sorrise ancora, un sorriso luminoso e misterioso al tempo stesso, disegnato da labbra sottili e color caramella, e che lasciava intendere un’intelligenza sottile.
“So riconoscere il significato dei silenzi, il più delle volte, e il suo era parecchio assordante, Jerome.”
“Wow” esalò lui, facendo tanto d’occhi nel passarsi una mano tra i capelli mossi e disordinati.
Mai una volta che si asciugassero in una massa ordinata e morbida. Sembrava sempre uno spaventapasseri.
La donna lasciò che il suo viso vagasse con lo sguardo cieco lungo tutta la stanza, prima di portarsi in direzione del punto ove si trovava Jerome.
“E, per rispondere a un’altra sua domanda, sono cieca da quando avevo cinque anni. Una malattia degenerativa della retina” gli spiegò lei, come se nulla fosse.
Jerome si sentì molto piccolo, di fronte a una tale tranquilla serenità, alla sua totale mancanza di rabbia nei confronti di un Fato tanto avverso. Lui era lì, forte quanto dieci uomini – o forse più – inattaccabile da qualsiasi virus o batterio (a parte quello del raffreddore), eppure non si sentiva alla sua altezza.
“Ahhh… ehm… Maggie sta bene? Sì, insomma, la nuotata che ha fatto non le avrà causato danni, vero?” domandò Jerome, grattandosi nervosamente il torace.
Non sapeva davvero come scacciare quel senso di inadeguatezza che sentiva dentro, neanche gli avessero spalmato addosso catrame e piume come nel far west.
“A parte un po’ di rabbia per non essere riuscita a fare quel che voleva, direi che starà benissimo nel giro di mezza giornata” replicò la Graham con pacata ironia.
Jerome sorrise soddisfatto, ma non poté esimersi dal chiederle: “Perché ha detto che non esiste luogo da cui Maggie non sia sgattaiolata?”
La dottoressa si fece seria, a quell’appunto e, nell’allungare gli avambracci sulle cosce, mormorò: “Non è la prima clinica che visita. Né la prima da cui tenta di scappare.”
Immaginando vi fosse dell’altro, ma fosse impossibilitata a dirlo, Jerome scosse il capo e replicò: “Non ho il diritto di chiedere, mi scusi, dottoressa.”
“Cynthia. Se io posso chiamarla Jerome, pretendo che lei mi chiami Cynthia” gli sorrise allora lei, tornando a puntare il suo sguardo cieco verso di lui.
Ma come faceva?, si domandò Jerome, strabiliato.
Si sentì sciocco, ma lo fece.
Ampliò la sua aura fino a sfiorarla, e fu a quel punto che lei cambiò espressione. Si risollevò, la schiena diritta e in allerta e, sbattendo le palpebre con fare nervoso, esalò: “Che ha fatto?”
Jerome deglutì vistosamente, dandosi dell’idiota mille volte prima di gracchiare: “Ahhh, niente. Perché?”
Ma Cynthia non gli diede retta e, con un movimento repentino, si levò dalla poltrona per annullare la distanza che li separava.
Assurdamente, Jerome si rannicchiò su se stesso, quasi volesse fuggire da lei che, imperturbabile, allungò una mano fino a toccare la sua spalla. Ciò fatto, sgranò gli occhi e risalì veloce fino a delineare con le dita il contorno del viso di Jerome, esalando: “Mio Dio…”
Usando anche l’altra mano, sfiorò le sue spalle e nuovamente il volto, prima di aggiungere: “Un colosso, mi pare di capire.”
“Ci lavoro su…” ansò lui, cercando di non muoversi.
Perché si sentiva minacciato da quel tocco? Perché?!
A quel punto, Cynthia sorrise, si accucciò sul bordo del tavolino che le stava alle spalle e dichiarò: “Sei uno di quelli, vero?”
“Come?” gracchiò senza fiato Jerome, impallidendo quasi certamente a quel tono di voce così tranquillo e sicuro.
Cynthia non smise di sorridere e, allungate nuovamente le mani per cercare quelle di lui, riuscì infine a trovarlo e ad afferrare la sua mano destra.
Strettala poi con forza, mormorò: “Non temere. E, soprattutto, non temermi. Ma dimmi… sei diverso? Sì, insomma, diverso diverso?”
“Non capisco che vuoi dire. S-sono un inglese per nascita, di sesta, no, settima generazione. Mia madre è una contabile, e mio padre un ingegnere. Io ho un negozio di musica a Matlock e…”
Non sapendo più che altro dire, Jerome cercò di scostare le sue mani, ma lei lo trattenne con maggiore forza, borbottando: “Non ti ho chiesto di dirmi il tuo albero genealogico e di descrivermi il tuo stipendio… oh, ma forse…”
A quel punto, si scostò contrita lasciando andare la sua mano e, mordendosi il labbro inferiore, sussurrò con fare da cospiratore: “Non me lo puoi dire, vero?”
Sinceramente incredulo e ai limiti dell’esasperazione, così come del panico, lui bofonchiò: “Non so di cosa cavolo parli!”
E al diavolo l’educazione, il ‘lei’ di cortesia e quant’altro! Quella dottoressa gli stava mettendo addosso una strizza del diavolo!
“Forse mi sono sbagliata, eppure…” mormorò pensosa Cynthia, prima di domandargli: “…o magari, non ti fidi perché sono un dottore? Ma io non tagliuzzo la gente. Come potrei? Non ci vedo! Te lo sei scordato?”
Ora la confusione era totale.
Cynthia si stava comportando come una bambina di fronte a un cubo di Rubik da risolvere, e pareva davvero eccitata all’idea di riuscirvi.
Fu questo a fregarlo.
L’eccitazione che permeava dai suoi pori era come un dolce profumo inebriante, un profumo da cui si sentiva attratto come mai prima gli era capitato.
“Esattamente, cos’hai sentito?” domandò a quel punto Jerome, afferrando una sua mano e, di proposito, espandendo la propria aura.
Nuovamente, Cynthia sorrise e i suoi tratti si fecero rilassati, quasi avesse ritrovato un vecchio amico dopo anni e anni di separazione. I suoi occhi si riempirono di lacrime e, non potendo evitarlo, la dottoressa sollevò la mano di Jerome e se la portò al volto, poggiandovi la propria guancia.
Lui ne rimase più che sorpreso, ma non si scostò.
Era più che evidente che, quel gesto in particolare, doveva contare molto per la donna.
“Quando andai all’ospedale, cercarono di curarmi, pur se sapevano bene che nulla mi avrebbe restituito la vista” mormorò, gli occhi chiusi e le lacrime cristallizzate ai suoi lati.
Jerome annuì, preferendo non muoversi per non spaventarla.
“Non ricordo quasi nulla di quel periodo, tranne una cosa molto importante” aggiunse lei, sollevando le palpebre per mostrargli i chiarissimi occhi verdi. “Un dottore. Fu gentile con me, mi consolò e mi fece capire che, anche se avessi perso la vista, non avrei perso la vita che scorreva in me.”
Si lappò le labbra, quasi che condividere quei ricordi fosse difficile.
“Ricordo che mi sfiorò con la sua mano forte e gentile e, all’improvviso, percepii questo…” dichiarò, dando una pacca leggera al dorso della mano di Jerome. “… questo calore, quest’onda di energia morbida e tiepida. Non saprei come altro spiegarne l’effetto.”
“Lo capisco” assentì Jerome, accennando un sorriso.
Lei glielo restituì, mormorando: “Mi disse che sarebbe stato il nostro segreto. Che lui avrebbe continuato a farmi sentire quell’energia che mi faceva stare bene, almeno finché avesse potuto.”
“Stava alleviandoti il dolore?” le domandò Jerome, un po’ sorpreso.
“Forse. So solo che, quando lo faceva, io mi sentivo felice, e pensavo un po’ meno a ciò che sarebbe successo di lì a poco.”
Dèi benedetti! Una sensitiva! Forse, addirittura una völva, e neppure sa di esserlo!, pensò tra sé Jerome, sorpreso da quella scoperta inaspettata.
“Non lo rividi più, purtroppo, e anni dopo, quando lo cercai, mi dissero che era morto. Avrei tanto voluto fargli sapere che, grazie a lui, avevo deciso di fare il medico…” mormorò la donna, scostandosi un poco dalla mano di Jerome.
“Ricordi il suo nome? Forse l’ho conosciuto” le domandò, incatenato a quegli occhi che non avrebbero mai potuto vederlo.
“Dottor Professor Nelson Withlock” gli disse con voce tremula, tornando a poggiare la mano di Jerome sulla gamba di lui.
A quel punto, annullò il contatto, ma Jerome la bloccò, intrecciando le dita alle sue.
Era così strano conoscere qualcuno, al di fuori del branco, che potesse percepirlo a quel modo!
Non voleva che quel contatto finisse, non in quel momento, per lo meno.
“Scoprirò che fine ha fatto…” dichiarò Jerome, con determinazione. “… poi, tornerò da te a riferirtelo.”
“Non sei suo parente, allora?” domandò vagamente abbattuta Cynthia, forse pensando di aver trovato la risposta ai suoi dubbi decennali.
Jerome rise bonario, scuotendo il capo, e replicò: “In un certo qual modo… ma molto alla lontana.”
“In che senso?” volle sapere lei.
“Te lo dirò la prossima volta. Ora, purtroppo, devo scappare, o il mio negozio non lo aprirà nessuno” replicò lui, levandosi in piedi pur mantenendo il contatto con la mano di Cynthia.
La donna si levò a sua volta in piedi e gli poggiò la mano libera sul torace, come a volerlo bloccare.
“Come posso sapere che tornerai? Non ci conosciamo, e tu hai ascoltato una verità di me che nessuno conosce. Forse, mi hai preso persino per pazza, e non vedi l’ora di andartene da qui.”
Jerome, allora, fece la cosa più stupida che gli venne in mente e, nel calare su di lei, la baciò sulle labbra, riversando in Cynthia parte della sua aura.
Lei ansimò sorpresa, si irrigidì per un attimo prima di lasciar scivolare fuori un sospiro e, quando lui si scostò, mormorò roco sulla sua bocca: “Può andare, come promessa di un pronto ritorno?”
“Dovrei picchiarti per avermi prevaricata…” mugugnò lei.
“Ma…?”
“Ma, dopo, dovrei picchiare me stessa per essermi goduta il bacio, e allora… fa niente…” ironizzò lei, scrollando le spalle con un sorriso.
Jerome rise, rise di puro cuore e, incredulo di fronte a quella situazione assurda, esalò: “E dire che volevo essere più profondo e serio!”
“Come?” esalò la donna, confusa.
Passandosi una mano tra i capelli, Jerome borbottò: “Troppi trascorsi con le donne. Volevo darmi una calmata e fare la persona seria… poi ti bacio così, quando ci conosciamo da un paio d’ore, e mando in malora tutto. Sono senza speranza. E adesso tu sai una cosa segreta di me, che gli altri non sanno.”
“Che cosa? Che eri una celebrità tra le donne, o che ora vuoi tentare di fare il monaco?” lo prese in giro Cynthia, facendolo ridere di nuovo.
Da quanto tempo non rideva così spensieratamente?
Da quanto tempo non si godeva in santa pace una chiacchierata che non avesse a che fare col branco, o anche solo con pelo e artigli?
Forse, da una vita intera.
Fin da quando era nato, la sua vita era gravitata attorno ai suoi genitori, alla Triade di Potere, al branco e alla sicurezza del clan. Aveva sempre e solo avuto questo, nella mente.
Mai interessi esterni al branco. Anche le donne con cui era stato erano sempre e solo state lupe.
Ora, come un fulmine a ciel sereno, piombava nella sua vita quella donna così strana e gioviale, lucente come una stella, e lui non vedeva l’ora di tornare da lei.
Nonostante non se ne fosse ancora andato.
Era davvero pazzo. Pazzo da legare.
“Ti porterò notizie vere del dottore e, se mi prometterai di non dirlo a nessuno, ti spiegherò perché hai sentito le cose che hai sentito” le disse con calore, mettendo verità nel suo dire.
Cynthia assentì e, dopo aver levato una mano a sfiorare il viso di Jerome, passò il pollice sul suo labbro inferiore e mormorò: “Aspetterò il tuo ritorno e, nel frattempo, mi convincerò di non essermi comportata come una ragazzaccia, con te.”
Jerome rise ancora e, nell’uscire dal suo studio, non poté che guardarla un’ultima volta e chiedersi dove fosse stata nascosta fino a quel momento.
La salutò con una stretta di mano e, dopo essere uscito dalla clinica, lasciò che il sole gli inondasse il viso.
Cynthia sarebbe stata il suo segreto. Nessun altro avrebbe dovuto saperlo.
Per una volta, sarebbe stato bravo a mantenere i segreti visto che, per la prima volta in assoluto, era così importante per lui mantenerlo.
Note: la miniserie dedicata a Jerome durerà qualche puntata, perciò i prossimi aggiornamenti riguardanti le OS, saranno suoi.
Sembra che, finalmente, Jerome abbia incontrato una donna in grado di scuoterlo veramente, anche se non sarà facile far digerire agli altri il fatto che si vede con un’umana.
Visti i precedenti (vedi Lance), non sarà cosa semplice, né rapida.
Vi ringrazio per essere tornate con me in questo mondo, e spero vorrete farmi sapere se avete qualche OS in particolare che vi piacerebbe leggere.
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Capitolo 5 *** Jerome's Secrets - Parte 2 (Dicembre 2015) ***
Jerome’s Secrets – Part 2
(Dicembre 2015)
Il vento sferzava la città di Manchester, implacabile e indifferente a tutto e a tutti. Il luogo in cui lui e Cynthia si trovavano, poi, non invogliava a stare allegri.
Jerome aveva impiegato così tanto, però, per trovare la verità che Cynthia desiderava conoscere ormai da anni che, nonostante tutto, non si spiacque di essere lì.
Soprattutto, non gli spiacque essere lì perché era con Cynthia.
Jerome aveva idea che, in qualunque posto fosse andato, fosse un capanno nel bosco come una suite all’Hilton, per lui non sarebbe cambiato nulla.
L’importante, era stare con lei.
Non faticava, ora, a comprendere cosa avesse voluto dire, per Duncan, l’idea di perdere Brianna.
La sua prima scomparsa – volontaria – dal branco, lo aveva mandato nel panico più totale, e Jerome era stato spedito a Glasgow per riportarla a casa. Volente o nolente.
Quando, però, Brie era stata rapita dai berserkir, tutto era sembrato andare a rotoli. Duncan aveva gettato al vento ogni prudenza e, riversandosi come un fiume in piena ai confini con il territorio di Alec, aveva chiesto il suo sostegno e aiuto.
Si era arrischiato a promettere ad Alec qualsiasi cosa avesse voluto in cambio, ma Fenrir di Bradford aveva sorpreso tutti, chiedendo solo di poter partecipare al salvataggio.
Come Sköll, lui era dovuto rimanere in seno al branco per detenere il potere ad interim fino al ritorno di Duncan ma, per tutto il tempo, il suo cuore aveva corso con loro, in quelle lande di deserto ghiacciato.
Aveva passato intere notti a fissare il soffitto, inerme e furioso, dividendo poi le ore del giorno tra il suo negozio, il Vigrond e le riunioni giornaliere con le sentinelle scampate al massacro dei berserkir.
Si era infuriato più e più volte, di fronte a quel mondo indifferente, che era andato avanti senza scossoni, senza patimenti mentre la loro wicca, la loro Prima Lupa rischiava di morire.
Aveva pianto per i morti e pregato per i feriti, cercando di essere di maggior conforto possibile per le famiglie e sperando con tutto se stesso che la missione di salvataggio desse buoni frutti.
Neppure la quercia sacra aveva potuto consolarlo, tanta era la sua prostrazione, il suo disagio, la sua ansia. Lui, dopotutto, non era Fenrir e non aveva il dono di Duncan di parlare con Madre tramite la quercia.
Solo quando Duncan aveva telefonato dalle Svalbard, il suo cuore aveva ripreso a battere con una cadenza regolare.
Poi era giunta la Cerca, il tentativo di impedire l’invasione dei berserkir e, nuovamente, Duncan e Brianna si erano dovuti assentare dal branco.
Non gli era piaciuto prendere di nuovo su di sé le redini del clan. Non tanto per gli impegni che esso comportava, ma al pensiero di dover vedere nuovamente ripartire due persone a cui lui teneva moltissimo.
L’angoscia di sapere i suoi cari in pericolo, e l’assoluta certezza di non poterli aiutare, era stato un tarlo infaticabile che lo aveva divorato poco alla volta. Come secondo in comando, lui non avrebbe mai potuto combattere al fianco di Duncan.
Lui andava preservato.
Da un certo punto di vista, Sköll andava protetto ancor più di Fenrir, all’interno del clan, e Jerome non si era mai sentito degno di questo peso, di questo dubbio onore.
Quelle esperienze violente, improvvise e crude, lo avevano comunque aiutato a crescere e maturare, facendogli comprendere quanto, la sua solita vita fatta di mero divertimento, andasse rivista.
Conoscere Cynthia era stato illuminante, per lui.
Aiutarla a scoprire che fine avesse fatto il dottore che l’aveva curata, era stato un buon modo per rivederla. Non riuscire più a fare a meno di farle visita alla clinica, lo aveva invece turbato e reso lieto al tempo stesso.
Se, sulle prime, l’idea di rivedere quella donna così singolare e schietta, lo aveva divertito, quando aveva scoperto qualcosa in più su di lei come persona, le cose erano via via cambiate.
Non si era più trattato di fare visita alla curiosa sensitiva che l’aveva smascherato, o alla donna bellissima e intelligente che lui vedeva in Cynthia.
Ora c’era molto di più.
Si trattava di conoscere sempre più a fondo una persona che avrebbe potuto dividere tutto, con lui, anche la vita intera. Non era un pensiero da poco.
Allungando le mani per sistemare la sciarpa attorno al collo esile di Cynthia, Jerome mormorò: “So che non puoi vedere la lapide, ma ho pensato ti avrebbe fatto comunque piacere visitare il luogo in cui si trova.”
Cynthia annuì, il viso reclinato verso il basso, la chioma bionda coperta da una cuffia in lana color cielo. Avvoltolata nel suo pesante cappotto scuro, sembrava non avere la forza necessaria per sopportare i rigori di quell’inverno particolarmente cruento.
Jerome, però, sapeva bene quanto fosse sbagliato pensarla a quel modo. Poteva capirlo dal battito calmo del suo cuore, dalla temperatura interna del suo corpo perfetto, dal suo respiro regolare.
No, Cynthia stava benissimo.
Forse, era solo un po’ delusa all’idea di non aver potuto dare l’ultimo saluto al dottore che l’aveva protetta dalla paura. Al suo angelo custode, come era solita chiamare il dottor Withlock.
Anche Jerome aveva sperato, fino all’ultimo, che le notizie sulla sua prematura scomparsa fossero state solo un modo per depistare i curiosi.
Non era insolito che alcuni licantropi si ritirassero a vita privata nei boschi, sparendo anche dal contesto civile in cui erano vissuti per anni. Se ne inscenava la morte, così che loro fossero liberi di vivere come meglio credevano, lontano da tutto e da tutti ma, soprattutto, lontano dal giogo delle leggi umane.
Purtroppo, per il dottor Withlock non si era trattato di uno stratagemma, ma della mera, cruda verità.
“Com’è?” mormorò Cynthia, prendendo la parola dopo diversi minuti di assoluto silenzio.
“E’ in marmo bianco, con iscrizioni in oro. Un Old English, se ti interessa il font” le spiegò Jerome, atono. “C’è una piccola foto tonda, sulla sinistra, e lo ritrae con il camice da dottore. Ha i capelli a spazzola, brizzolati, e il viso è sorridente.”
Cynthia sorrise appena, annuendo, e disse: “Sì, ricordo il suo sorriso. Era caldo come il suo tocco.”
“C’è una dedica, in calce alla lapide” aggiunse Jerome, avvolgendole le spalle con un braccio per attirarla a sé. “E’ luna calante, amico mio, ma non disperare. Al rifiorire di un nuovo ciclo, tu sarai nella luce. E’ firmata Gabriel St. James.”
Cynthia volse il viso in direzione della voce di Jerome, domandandogli: “Sai chi è?”
“Sì. Volevo portarti da lui, dopo aver fatto visita al dottor Withlock” assentì Jerome, deponendo un mazzo di fiori dinanzi alla lapide.
“Grazie per aver preso delle gerbere per lui” lo ringraziò Cynthia, stringendosi maggiormente a lui.
Jerome non si stupì che la donna avesse indovinato il genere dei fiori; i suoi sensi non erano sviluppati come quelli di un mannaro, ma erano sicuramente sopra la media.
Baciandole una guancia con affetto, mormorò: “Andiamo. Comincia a fare veramente freddo, ormai, e il cielo minaccia neve.”
Assentendo, Cynthia si incamminò al suo fianco, il braccio avvolto attorno alla vita di Jerome e il capo poggiato contro la sua spalla.
Nonostante il vento, nonostante il sentore della neve che ammorbava l’aria, Jerome non fece fatica ad avvertire l’odore delle lacrime di Cynthia. Ma sapeva che erano lacrime leggere, senza l’amaro fiele del dolore che avrebbero potuto avere.
Cynthia era felice di aver finalmente scoperto la verità, pur se era una verità in cui non era più presente il suo angelo custode.
***
Le mani riscaldate da una tazza di cioccolata calda, Cynthia ne sorseggiò un poco prima di dire: “La ringrazio per averci accolti in casa sua, Mr St.James. Spero che il nostro arrivo non le abbia causato troppi problemi.”
“Affatto, dottoressa Graham. Fa sempre piacere conoscere qualcuno che ha condiviso la vita – anche se per poco – con i nostri amici. Nelson era davvero una brava persona” mormorò l’uomo, scrutando a momenti alterni la donna e Jerome, seduto al suo fianco.
La proprietà di Gabriel St. James era isolata, ben al di fuori del circuito di Manchester City. La villa principale, dove si trovavano in quel momento, era attorniata da un bel parco all’inglese mentre le due dependance attigue si trovavano accanto a un piccolo laghetto, sul limitare dell’alta muratura che delimitava la tenuta.
Ufficialmente, nelle dependance si trovavano i suoi laboratori di arte astratta, dove lavoravano anche un paio di apprendisti. In via ufficiosa, invece, nei seminterrati di tali strutture erano nascosti dei ricoveri per licantropi, una sala operatoria e un laboratorio di analisi.
Da quel che aveva saputo Jerome, St. James poteva contare anche su un’apparecchiatura per i raggi X e una per le ecografie. Quel luogo era, infatti, uno dei pochissimi Santuari per mannari di tutta la Gran Bretagna, ove i licantropi potevano essere ricoverati e curati da personale competente in materia.
“Mi ha sorpreso la sua telefonata, Mr Rowley e, quando mi ha parlato di Nelson, è stato bello sapere che un suo paziente si ricordasse di lui” asserì l’uomo, sorridendo come a un ricordo lontano. “Sono passati sei anni, ormai. Eppure, è come se quel maledetto incidente fosse avvenuto solo ieri.”
“Me ne può parlare?” gli domandò Cynthia, poggiando la sua tazza sulle ginocchia.
Annuendo, l’uomo si lasciò un poco scivolare sulla poltrona, mormorando: “Nelson era impegnato in un intervento d’urgenza sulla Motorway. Era uscito con diverse ambulanze per un bruttissimo incidente poco fuori Manchester. C’era il caos.”
Jerome rammentava bene quell’evento. Erano morte un sacco di persone, ma mai avrebbe pensato che, tra esse, vi fosse stato anche un mannaro.
“I pompieri stavano domando l’incendio nei pressi di una cisterna piena di etilene. Non volevano assolutamente che il fuoco le si avvicinasse ma evidentemente, nello schianto, anche la cisterna aveva subito un danno e…”
Con un sospiro, St. James si bloccò un attimo, prima di riuscire a proseguire.
“La cisterna esplose e pezzi di lamiera volarono ovunque. Uno piuttosto grosso colpì Nelson, trapassandogli il cuore da parte a parte. Morì sul colpo. In quell’incidente morirono ventitré persone, tra cui sei membri dell’ospedale presenti in loco.”
Cynthia si portò una mano al petto, quasi avesse sentito a sua volta un dolore lancinante trapassarle il cuore.
Jerome le sfiorò la nuca, massaggiandogliela e lei, nel sorridergli appena, mormorò: “Sto bene… davvero.”
“Nelson non aveva avuto figli e, non facendo parte di nessun branco, nessuno ha reclamato il suo corpo per la cerimonia al Vigrond” spiegò loro St. James che, pur essendo del tutto umano, conosceva a menadito le usanze mannare.
Niente di strano, d’altra parte visto che lui, come diversi altri umani in altri luoghi sparsi per il mondo, era il Guardiano di un Santuario.
“Io e i miei ragazzi, che ci occupiamo del Santuario – oltre che a lavorare qui come artisti –, abbiamo così pensato di tumularlo nel cimitero di Manchester City.”
“La Madre ne sarebbe lieta” mormorò Jerome, reclinando ossequioso il capo.
Sorridendo appena, St. James aggiunse: “Mi parlava sempre dei vostri riti, della Madre Terra che ci accoglie al momento della morte e così, per onorare lui e le vostre credenze, ho lasciato quella dedica sulla lapide.”
“Era molto bella” dichiarò Cynthia.
“Posso chiederle come ha saputo che Nelson era un licantropo, dottoressa Graham? Sono praticamente sicuro che lui non avesse detto a nessuno, a parte noi, di essere un mannaro.”
Sorridendo appena, Cynthia mosse le mani con grazia e disse: “Ho percepito che qualcosa non andava, che lui non era come gli altri. Quando lo dissi al dottor Withlock, lui mi disse di essere speciale e che, grazie al calore che io percepivo attraverso le sue mani, mi avrebbe aiutato a stare meno male. Non mi disse mai, però, perché fosse diverso dagli altri. Questo, lo scoprii grazie a Jerome.”
“Oh… una sensitiva, dunque” assentì con ammirazione St. James, rivolgendosi poi a Sköll. “Non Veggenti, ma Percepenti, giusto?”
“Esatto” annuì Jerome, stringendo nella sua una delle mani di Cynthia.
“Non mi stupisce, allora, che abbia avvertito l’unicità di Nelson. Era un mannaro molto potente” dichiarò St. James, annuendo più e più volte. “Non volle mai essere legato a nessun branco, per poter permettere a chiunque – anche a lupi in conflitto tra loro – di poter godere delle sue cure. Un buon samaritano, se vogliamo.”
“E il mio angelo custode” sorrise Cynthia, stringendo con forza la mano di Jerome.
“Pare ne abbia trovato un altro, dottoressa Graham” asserì a quel punto l’uomo, ammiccando all’indirizzo di Jerome, che sorrise.
“Sì, ne ho trovato davvero un altro.”
***
Immersi nella vasca da bagno dell’albergo dove avrebbero dormito per quella notte, Jerome stava insaponando i capelli lunghi e fluidi di Cynthia.
Dopo quella giornata così densa di emozioni, Jerome aveva trovato naturale come respirare, concedersi a Cynthia. Aveva tentennato fino a quel momento, temendo di poterle fare male a causa della sua natura, ma tutto era avvenuto nella più totale semplicità.
I gesti erano stati morbidi, privi di paure o dubbi, e Cynthia lo aveva accolto nel suo caldo abbraccio come se fosse da sempre destinata a essere sua.
Si erano amati per ore, alla luce debole delle abat-jour e, col fare di mezzanotte, si erano concessi quell’interludio nell’enorme vasca da bagno con idromassaggio.
Deponendo un bacio sulla spalla liscia e umida di lei, Jerome mormorò contro la sua pelle profumata: “Come stai?”
“E’ la sedicesima volta che me lo chiedi” ironizzò Cynthia, scivolando contro di lui per poggiare il capo contro il suo torace.
Jerome sospirò di puro piacere e, dopo aver azionato l’idromassaggio, l’avvolse tra le braccia. Il quieto borbottio delle bollicine li accompagnò per qualche minuto, mentre un silenzio rilassato scendeva su di loro.
Fuori, tutto era scuro, se non si contavano le illuminazioni cittadine e le pochissime auto per strada.
Il cielo era plumbeo e, prima del fare del giorno, sarebbe nevicato abbondantemente.
Il viaggio di ritorno sarebbe stato lento e costellato di traffico, pensò tra sé Jerome, già disgustato all’idea di rientrare. Non voleva che quell’idillio si spezzasse.
“Perché ti sei irrigidito? E non mi riferisco al ragazzone là sotto…” mormorò Cynthia, facendolo ridere sommessamente.
Se già aveva notato in lei una propensione al riso e a una naturale ironia, Jerome aveva scoperto quanto, l’atto sessuale, la rendesse spregiudicata. Non aveva avuto alcun timore di unirsi a lui, nonostante sapesse della sua forza inusitata e, anzi, l’aveva spinto a dare e prendere quello che voleva.
Jerome si era ovviamente trattenuto ma, potendo Cynthia percepire la sua aura, l’aveva avvolta nel suo potere, facendola fremere di piacere.
Mai aveva immaginato potesse essere così, con la donna che teneva tra le mani il suo cuore. Il sesso gli era sempre piaciuto, non ne aveva mai fatto mistero… ma amare, fare l’amore, era ben diverso.
Era così destabilizzante, così disturbante!
“Non voglio andarmene da qui…” mormorò infine, stringendola maggiormente a sé.
Dopo averle deposto un bacio tra i capelli, aggiunse: “Quando torneremo a Matlock, tu tornerai a essere solo la dottoressa Graham, per me, e io sarò Jerome Rowley di Music in the Bottle, oltre che Sköll del branco a cui appartengo. Non voglio!”
Scostandosi da lui, Cynthia si volse per potergli cingere il volto teso tra le mani e, nel baciarlo sulle labbra piegate in una smorfia, mormorò: “Jer, così deve essere. Finché non deciderai di presentarmi al tuo branco, io sarò questo, per te.”
“Sai perché non voglio farlo” brontolò Jerome, testardo.
“E sono ottime motivazioni, credimi. Se fosse successo a te ciò che, purtroppo, è avvenuto a Lance, io sarei impazzita. Avrei tagliato la testa a qualsiasi donna umana si fosse avvicinata a uno di voi” sorrise comprensiva lei, carezzandogli il viso. “Ma il fatto rimane. Se vuoi mantenere il segreto, a questo mi atterrò anch’io, e andremo avanti così finché vorrai. Ti amo, e voglio passare il mio tempo con te. Ma, se il mio essere umana ti crea dei problemi all’interno del branco, me ne starò in un angolino.”
“Non è giusto” replicò lui, abbracciandola. “Io voglio gridare al mondo quanto ti amo, Cynthia, quanto lo stare con te mi rende completo e felice, ma…”
“… ma pensi sia ancora presto, vero?” terminò per lui, carezzandogli la schiena squassata dai tremiti.
“Non so cosa pensare, Cynthia. Davvero. Ma ci sto lavorando.”
“Non abbiamo fretta, Jer, sul serio. E poi, dopotutto, un po’ di clandestinità e di rischio, mi piacciono. Vivere pericolosamente, per un cieco, è una normalità di tutti i giorni. Tenere segreti e comportarsi come una spia, invece, è qualcosa che di solito non ci capita” sorrise lei, mettendo ironia nel suo dire. “Mi hai cambiato la vita, Jer, e in meglio. Quante altre possibilità avrei avuto di vivere un’avventura simile?”
“Forse, avresti preferito una vita tranquilla con un uomo normale, che avrebbe potuto portarti ai pranzi di Natale o alle cene di famiglia” le fece notare lui, sbuffando scocciato.
“Che noia!” esclamò la donna, balzando in piedi prima di allungargli una mano. “Io non amo la noia, e tu sei tutto fuorché noioso, perciò, non lo diventare proprio ora.”
Osservandola rapito in tutta la sua splendida nudità, Jerome esalò: “Cosa vuoi fare?”
Cynthia sorrise maliziosa e, stando ben attenta a scavalcare il bordo della vasca, celiò: “Concedermi il bis?”
Jerome allora rise, spense l’idromassaggio e, dopo aver avvolto entrambi nei morbidi accappatoi, la riaccompagnò in camera, dove la stese gentilmente sul letto.
Distendendo le braccia sopra la testa, Cynthia mormorò: “Ho già avuto la vita piatta che mi hai prospettato essere ‘la migliore per me’, Jer, e mi ha fatto fuggire a gambe levate.”
Con un grugnito, Jerome le slacciò l’accappatoio e depositò piccoli baci sul suo ventre piatto, mormorando: “Non ricordarmi che hai avuto dei fidanzati, prima di me…”
“Che dovrei dire, io, allora, mio bel lupo rubacuori?” replicò lei, ridacchiando.
Ghignando nel risalire verso i seni, il licantropo asserì: “Non erano te. Nessuna è mai stata te.”
“E nessuno è mai stato te, Jer, perciò cerca di capire bene ciò che ti dico. Non vorrò mai la normalità di una vita qualunque, quando posso avere l’unicità di una vita assieme a te.”
Levando il capo a scrutarla con intensità, Jerome desiderò per l’ennesima volta che, per un istante, quegli occhi potessero scorgere la forza del suo amore per lei.
“E’ una vita difficoltosa…”
“E a me piace, perché ci sei tu a renderla speciale” gli sorrise Cynthia, allungando una mano per carezzargli i capelli. “Mi sta bene tutto ciò che potrai darmi, finché non potremo cambiare le cose. Ma mai, in nessun momento, vorrò cambiare te, o ciò che sei.”
“Cynthia…” sussurrò roco, liberandosi dell’accappatoio.
“Avvolgimi nel tuo potere e fammi tua, Jer. Amami, come io ti amo e ti amerò. Questo, non potrà togliercelo nessuno” replicò lei, attirandolo a sé perché la penetrasse.
Lui lo fece, sospirando di puro piacere al pari di Cynthia, che affondò con forza le unghie nella sua schiena arcuata.
I suoi movimenti furono lenti, quasi infiniti, lasciando che il suo potere aumentasse il godimento di entrambi.
Gli ansiti di Cynthia si confusero con i sibili compiaciuti di Jerome che, sul punto di cedere al piacere più grande, le sussurrò sulle labbra: “Resta con me per sempre, Cynthia. Resta con me.”
“Non devi neanche chiedermelo” replicò lei, lasciando che l’ondata di piacere li travolgesse, lasciandoli lunghi distesi sul letto, compiaciuti e del tutto stremati.
Scivolando via dall’amata per non pesarle addosso, Jerome la attirò a sé, abbracciandola stretta e, nel depositarle un bacio sulla guancia, mormorò: “Quanto durerà il tuo Master a New York?”
“Due anni, mese più, mese meno. Ma prometto di tornare tutte le volte che potrò e tu, naturalmente, sarai sempre il benvenuto” rispose lei, sospirando leggermente.
Sarebbe stato un incubo, separarsi, ma non sarebbe stato per sempre e, nel frattempo, lui avrebbe tastato il terreno per introdurre Cynthia nel branco.
Per quando fosse tornata, avrebbe avuto le risposte che stava cercando.
“Verrò da te ogni qual volta riuscirò a liberarmi dei miei impegni” le promise, stringendola ancor più a sé. “Ma, finché non partirai, ti dedicherò ogni mio minuto libero.”
“E io sarò tua ogni volta che vorrai” mormorò in risposta lei, voltandosi tra le sue braccia. “Ricorda, Jer, siamo uniti qui. Sempre e comunque.”
Ciò detto, poggiò una mano sul suo torace, all’altezza del cuore.
Jerome la baciò con tenerezza, annuendo contro le sue labbra perché capisse quel che aveva voluto dirgli.
Non sarebbero mai stati realmente lontani, in quei due anni di separazione.
Solo i loro corpi lo sarebbero stati. I loro cuori, mai.
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Capitolo 6 *** Jerome's Secrets - Parte 3 (Maggio 2016) ***
Jerome’s Secrets – Part 3
(Maggio 2016)
Jerome non sapeva decidersi. Era peggio Londra, o New York?
Per i suoi sensi sovra sviluppati, era comunque una tortura, ma tutto svaniva di fronte al sorriso di Cynthia e al suo abbraccio caloroso.
Aveva deciso di prendersi una settimana di ferie, piantando in asso tutto e tutti con la scusa di voler staccare un poco. Ovviamente, non aveva detto nulla sulla sua destinazione, si era mantenuto sul vago e, di proposito, si era mostrato scontroso e irritabile.
Forse, così, non avrebbero notato la sua crescente ansia di partire ma, soprattutto, i suoi pensieri rivolti verso un’unica persona. Cynthia.
Solo il tempo avrebbe potuto dirgli se il suo stratagemma aveva funzionato ma, al momento, gli interessava unicamente aver raggiunto New York ed essere tra le braccia del suo amore.
Era dal Natale precedente che non si vedevano e, anche se Skype era utilissimo – soprattutto per lui – gli erano mancati il suo sorriso, la sua ilarità, la sua joie de vivre.
Vedere Cynthia era come rimanere abbagliati dal sorgere del sole, o venire travolti da infinite Morning Glory1, …insomma, era un’autentica forza della natura.
Poco importava che fosse cieca e non potesse scorgere la luce negli occhi di Jerome, o il suo sorriso estasiato. Lei poteva sentirlo dentro.
Quando, finalmente, Jerome ebbe la forza di staccarsi da lei, lanciò uno sguardo verso il basso e, piegatosi su un ginocchio, accarezzò il testone quadrato di Rocky, il suo cane guida, e mormorò: “Ehi, bello! Hai fatto buona guardia alla tua padrona?”
Cynthia rise mentre il bel labrador nero abbaiava un paio di volte al licantropo, come a volerlo rassicurare sulle sue capacità di guardiano. Subito dopo, si strusciò contro le gambe di Jerome e, adorante, lo guardò come in cerca di coccole.
Naturalmente, Jerome lo accontentò. Adorava quel cane, e saperlo accanto a Cynthia lo aveva reso un po’ meno nervoso, all’idea di lei tutta sola nella Grande Mela.
“Ha imparato subito il tragitto dall’appartamento alla Columbia University, e in facoltà tutti lo adorano” gli spiegò la donna, prendendo sottobraccio il compagno per uscire dall’aeroporto.
Rocky si mise subito a fare il suo lavoro, e guidò senza problemi Cynthia in quel caos disordinato di cose e persone.
Jerome lo scrutò curioso per un attimo dopodiché, rivoltosi alla donna, le domandò: “Come mai sa entrare e uscire dall’aeroporto?”
“Ho chiesto a una delle mie compagne di corso di insegnarglielo” si limitò a dire lei, levando il viso a sorridergli. “Volevo essere qui, per quando fossi arrivato.”
“Non ce n’era bisogno… ma grazie per il pensiero” mormorò Jerome, chinandosi a darle un bacio.
Erano anche piccole gentilezze come queste, a fargliela amare. Lui non aveva certo bisogno di essere coccolato, ma gli faceva piacere che qualcuno pensasse a carinerie simili.
Non appena furono all’esterno, la cacofonia non migliorò, cambiò solo di tono e, quando presero un taxi, Jerome fu quasi certo di essere pronto per uno svenimento. Una gamma di odori davvero poco piacevoli saturava l’auto e, per i suoi coni paranasali, era un’autentica tortura sopportare in silenzio quel supplizio.
Anche Rocky parve lagnarsi e, nel dargli una pacca sulla schiena, Jerome non poté esimersi dall’aprire un poco il finestrino. Sapeva benissimo di non poter risolvere il problema – all’esterno, i gas di scarico ammorbavano l’aria – ma, per lo meno, non sarebbe morto asfissiato per mancanza di ossigeno.
Raggiungere il 531 di W114th richiese quasi un’ora, ora che passarono in mezzo al traffico congestionato, alle auto strombazzanti e ai ciclisti folli. Costernato, Jerome si chiese come potessero arrivare a fine giornata, con ritmi simili.
Cynthia, però, non pareva minimamente turbata da tutto quel delirio e, quando il taxista li depositò di fronte al suo palazzo a mattoni rossi, chiosò: “La città che non dorme mai… che dire…”
“Vuoi farmi credere che è così anche di notte?” gracchiò Jerome, accompagnandola lungo gli scalini che conducevano alla porta d’ingresso.
Lei assentì, armeggiando con le chiavi – che avevano dei copri-chiavi di fattezze diverse – e, dopo aver trovato quella giusta, replicò: “Forse, non ci sono i pony express in bici.”
“Oh, dea…” esalò lui, chiudendosi la porta alle spalle non appena furono all’interno.
Lì, il rumore era quasi del tutto assente e, per un orecchio umano, del tutto inesistente. Per lo meno, vetri e muratura reggevano bene il peso di tanto caos esterno.
Dopo aver preso l’ascensore per l’ultimo piano, Cynthia gli domandò: “Per quanto tempo rimarrai?”
“Una settimana” le spiegò, avvolgendole le spalle con un braccio. “Ho fatto capire che ero un po’ stressato, e avevo bisogno di staccare.”
“Stressato? E perché mai?” ironizzò lei, uscendo non appena le porte si aprirono.
Tastando il muro dinanzi a sé, sfiorò il numero del piano a cui erano arrivati, dopodiché lasciò che la mano solleticasse porte e muri, avanzando al pari di Rocky.
Cosa voleva dire affrontare un mondo perennemente avvolto dall’oscurità?
Sì, Cynthia intravedeva ombre e luci, ma non distingueva né forme né colori, perciò tutto era estremamente complesso, per lei.
Jerome non riusciva a capacitarsi di quanto fosse brava e indipendente, nel suo giostrarsi giorno per giorno con un handicap così invalidante. Non era sicuro che sarebbe stato altrettanto in gamba, a parti invertite.
Quando infine raggiunse la porta giusta, Rocky abbaiò una volta e Cynthia, nell’estrarre un’altra chiave, mormorò: “Sente l’odore delle sue crocchette… e del lucido che uso per i mobili.”
“Un buon sistema” assentì Jerome, seguendola all’interno del monolocale.
Come gli aveva accennato per telefono, era piccolo, adatto a contenere giusto una persona con il suo cane ma, con i prezzi correnti, già averlo trovato era un lusso. Il fatto che possedesse un microscopico balconcino, era poi una vera rarità.
Cynthia aveva preferito non dormire al Campus. Si sarebbe sentita a disagio, in mezzo a giovani di diciotto, diciannove anni, mentre lei ne aveva già trenta.
Inoltre, avere un cane per ciechi, comportava tutta una serie di azioni giornaliere che, per un compagno di stanza, forse sarebbero risultate fastidiose.
L’appartamento era stata la sua soluzione migliore. Inoltre, questo le consentiva di poter ospitare Jerome a ogni sua visita.
I genitori di Cynthia, Clive e Mildred, le erano stati vicino durante le sue prime due settimane a New York, dandole una mano a sistemarsi e aiutando Rocky ad abituarsi a quei nuovi ambienti.
Da quel che Jerome sapeva, sarebbero giunti verso la fine di maggio, per venire a trovarla.
I coniugi Graham erano una coppia simpatica e allegra e, fin da quando la figlia aveva perso la vista, si erano prodigati per farla vivere nel miglior modo possibile. Tutto ciò che era stato possibile imparare, loro lo avevano imparato, e così anche Cynthia.
Le scuole avevano smesso di essere un problema già dopo un anno dalla perdita della vista e, quando infine si era iscritta all’università per studiare psichiatria, loro ne erano stati entusiasti e l’avevano sostenuta dall’inizio alla fine.
Lavorare fianco a fianco con persone non vedenti e ipovedenti, aveva aiutato Cynthia a rafforzare il suo carattere già indomito, dandole la possibilità di essere maggiormente indipendente.
Il suo praticantato alla Clinica di Matlock l’aveva resa padrona di se stessa, finalmente libera dalle ultime paure residue sedimentate ancora in lei. La possibilità di dare quel Master in Sociologia alla Columbia, era stata la ciliegina sulla torta.
Jerome non avrebbe potuto essere più orgoglioso di così e, quando la strinse a sé per un abbraccio, le mormorò all’orecchio: “Può un uomo amarti più di quanto ti amo io?”
“Non so… dovrei chiedere in giro” replicò Cynthia, sorridendo divertita.
Lui rise. Gli erano mancati il suo spirito e le sue battute.
Dio! Ne era così dipendente che, a volte, registrava le loro conversazioni solo per poter riascoltare il suono della sua voce.
Era davvero messo bene.
A conti fatti, forse, era più lui a essere vittima di lei, che il contrario, e questo lo fece un poco preoccupare. E se Cynthia, in quegli anni di separazione, avesse trovato un uomo meno complicato di lui, con cui stare?
Certo, lei gli aveva giurato che questo non avrebbe mai potuto succedere, però…
“Jer… la tua aura sfrigola e mi fa il solletico. Che succede?” lo mise in guardia lei, togliendogli con gesti tranquilli la giacca di pelle che indossava.
Con il sottofondo di Rocky che sgranocchiava le sue crocchette, Jerome la fissò a lungo senza parlare, indeciso su cosa dire.
Sì, lei non poteva leggergli nella mente, ma le auree dei licantropi, a volte, parlavano più delle parole. E lei era una Percepente coi fiocchi.
Sbuffando, si accomodò al piccolo tavolino di fronte all’angolo cottura e ammise: “Sono solo paranoie di un maschio innamorato, scusa.”
Cynthia sorrise appena, carezzandogli la massa setosa e scomposta dei capelli neri, mormorando: “Pensi che io non stia in pena tutto il tempo, sapendoti circondato da lupe che non vedono l’ora di averti?”
“What?!” gracchiò Jerome, scrutandola con occhi stralunati.
“Oh, sii serio, Jer!” brontolò lei, accomodandosi a sua volta.
Era forse la prima volta in assoluto che lui la vedeva un poco preoccupata.
“Insomma, della Triade di Potere del tuo branco, l’unico a non essere accoppiato sei tu! Pensi che alle donne del tuo clan non sia passato per la testa, un pensiero simile?”
“Le ho già debitamente avvertite tutte, di non provare a fare le gatte morte con me” sottolineò Jerome, trovando suo malgrado confortante che anche lei, nel suo piccolo, fosse gelosa.
“Gatte morte… ah ah. Per un licantropo, deve essere un bell’insulto” mugugnò lei, poggiando il viso sulla mano protesa.
La nuvola di capelli biondi si mosse per diretta conseguenza, scintillando alla luce del sole, proveniente dalla finestra alle sue spalle.
Dio, sembrava l’incarnazione di un angelo, in quel momento, anche se Cynthia era convinta che lui, invece, lo fosse.
Almeno ai suoi occhi.
Allungando una mano attraverso il tavolo per prendere quella libera dell’amata, Jerome mormorò: “Nessuna potrebbe mai sostituirti, Cynthia, posso giurartelo su quanto ho di più caro e prezioso.”
Lei sospirò, e Jerome cominciò a pensare che vi fosse qualcosa sotto, qualcosa che lei non voleva dirgli.
Accigliandosi leggermente, le domandò: “Cosa è successo, Cyn?”
“Nulla. Davvero.”
Lo disse troppo in fretta, e con un tono fin troppo piatto perché lui le credesse sulla parola.
Levatosi in piedi, la sollevò a sorpresa dalla sedia e, portandola di peso nella stanza accanto, dove si trovava il letto matrimoniale, dichiarò: “Ho mille modi per farti parlare… e parlerai, credimi.”
Lei gli allacciò le braccia al collo, divertita, e replicò: “Oooh, vuoi torturarmi?”
“Direi di sì. Ti farò il solletico” ghignò Jerome, vedendola impallidire.
“No. Non puoi farlo” esalò Cynthia, cominciando a innervosirsi.
“Eccome se lo farò” replicò il giovane, depositandola sulle coltri morbide.
Cynthia non attese neppure un secondo e filò via, nascondendosi oltre il bordo del letto, sul lato opposto a quello di Jerome.
“Non puoi essere così crudele, Jer… non mi ami più?” tentennò la donna, ponendosi in posizione di allerta.
Era pronta a scappare al primo accenno di movimento da parte di Jerome e, anche se era cieca, la cosa non le importava.
Jerome aveva scoperto per puro caso che Cynthia era succube del solletico in modo quasi totalitario. Era stato divertente, a suo tempo, scoprire quel particolare.
Ora, però, era giunto il momento di sfruttare quel gap, visto che lei non aveva intenzione di sputare il rospo.
“Se non mi dirai cosa ti ha turbato, giuro che passeremo tutta la notte qui, e io ti farò il solletico per tutto il tempo.”
“Sai che si può morire, di solletico?” tentò di rabbonirlo lei, cercando di sorridere.
Fallì miseramente.
“Non arriverò a tanto, ma ti farò parlare” decretò lapidario Jerome. “Ricordati che sono figlio di una Freki. So essere piuttosto testardo, quando devo raggiungere un obiettivo.”
“Oh, ma dai… non puoi giocare proprio quella carta!” sbottò Cynthia, ora irritandosi.
Ah, allora qualcosa c’è!, pensò vittorioso Jerome.
Cynthia non se l’era mai presa a quel modo. Aveva sempre capito i suoi scherzi. Quindi, cosa l’aveva turbata tanto?
Balzando a sorpresa sul letto e facendola strillare di paura, Jerome la placcò alla vita e insieme caddero tra le coltri profumate.
Tenendola quindi stretta in quell’abbraccio protettivo, lui le disse in un orecchio: “Desidero solo aiutarti. Lasciami fare qualcosa per te, per una volta.”
Se fino a quel momento Cynthia aveva cercato di liberarsi, a quelle parole si bloccò e, sorpresa, esalò: “In che senso, scusa? Tu fai sempre qualcosa per me.”
“Aiutarti nelle faccende di casa non è esattamente quello che intendevo” brontolò lui. “E’ evidente che qualcosa, o qualcuno, ha turbato le tue sicurezze, e io voglio capire perché.”
“Anche quanto, non potresti farci niente” replicò Cynthia, poggiando il capo contro la sua spalla.
“Quindi, è successo veramente qualcosa.”
Sbuffando, la donna si lasciò finalmente andare al suo abbraccio e mormorò: “E’ successo poco dopo Natale, al mio rientro dall’Inghilterra.”
“Ebbene?” la incitò lui, dandole un bacetto dietro l’orecchio. Sapeva di fragole e lamponi.
Lei sorrise appena, e proseguì.
“Una ragazza, nel mio corso di sociologia, è una licantropa. L’ho capito quando, di proposito, la prima mattina dal mio rientro qui a New York, mi ha investito con la sua aura.”
“E perché mai l’avrebbe fatto?” esalò Jerome, stupefatto.
“Mi ha detto di aver sentito odore di lupo su di me, e la cosa l’ha irritata.”
“E ti ha affrontata così, senza minimamente chiedersi se tu potessi conoscere o meno la verità?” esalò Jerome. Ma che le diceva la testa, a quella lupa?!
Scrollando le spalle, Cynthia mormorò: “Ha minacciato di divorarmi, se non avessi mantenuto il suo segreto. Quando le ho detto che sapevo di voi, però, è esplosa. Mi ha detto che non concepiva che io potessi avere coscientemente un amante mannaro, mentre io ero ancora umana. Era inconcepibile, per lei.”
“Piuttosto razzista, mi pare…” brontolò Jerome, accigliandosi.
Annuendo, lei aggiunse: “Ha sottolineato che, se fossi stata americana, nessun lupo si sarebbe mai permesso di mantenermi nel mio stato di umana, dopo aver scoperto il segreto sulla razza.”
“Beh… questa poi! E’ un’assurdità bella e buona. A volte occorrono anni, perché un umano decida di essere mutato. Altre ancora, non accetta proprio di essere mutato, e si limita a vivere con noi, ma senza cambiare. Punto e basta” sbottò irritato, stringendola in un abbraccio protettivo.
“La parte carina arriva adesso…” mormorò Cynthia, sospirando. “… perché ha insinuato che non mi avevi trasformata, né mai l’avresti fatto, perché ho un handicap, e i lupi non amano le imperfezioni.”
Per Jerome fu troppo.
Balzò dal letto e, furioso come poche altre volte era stato, ringhiò: “Dimmi chi è. Questa ragazza ha bisogno di una lavata di testa come si deve.”
“Ma non serve a nulla, Jer. Se anche tu glielo dicessi, la settimana prossima non saresti qui, e non cambierebbe niente, ti pare?” gli fece notare lei, mettendosi seduta tra le coltri.
“Non se faccio intervenire chi dico io” sbuffò lui, puntando lo sguardo sul notebook di Cynthia.
Poteva fidarsi? Poteva davvero esporsi, ed esporre Cynthia, al giudizio di un membro del branco?
Beh, lo avrebbe scoperto presto.
***
Sbadigliando sonoramente, Brianna accettò la chiamata tramite Skype e, nel vedere la faccia di Jerome, esalò: “Ehi! Non mi sembri star male come pensavo. Perché, dalla telefonata che mi hai fatto prima, sembravi un cadavere…”
“Scusa… rabbia repressa…” brontolò lui, accennando un sorrisino.
“Nessun problema. Mi fa piacere sapere che sei tutto intero. Devo dedurre, però, che la vacanza rigenerativa non sta funzionando molto bene.”
“No, per ora no” ammise Jerome, prima di chiedere: “Principessa, me lo faresti un favore enorme? Ma davvero gigantesco?”
“Tu chiedi, e io vedrò che rispondere” lo incoraggio lei, sorridendo alla webcam.
Jerome tentennò un istante, guardò dietro di sé e, infine, fece un cenno a una persona poco distante, mormorando: “Cyn, vieni qui.”
Facendosi attenta, Brianna fissò senza parole la bellezza bionda che comparve a sorpresa nello schermo. Ella si accomodò sulle ginocchia di Jerome, dimostrando una intimità che Brie non si aspettava di certo e, dubbiosa, mormorò: “Ehm… salve.”
“Lei è Cynthia. E’ cieca, per cui non può vedere la tua faccia sconvolta…” ironizzò Jerome, avvolgendo la vita alla donna con fare possessivo.
“Scusa la mia sorpresa, J, ma è da un po’ che non ti si vede con una donna, per cui…” iniziò col dire, prima di bloccarsi e mugugnare: “…scusa la franchezza, ma la tua amica è…beh, insomma…”
“Sono umana, sì. Ma so di voi” asserì Cynthia, con un dolce sorriso.
Brianna lanciò un’imprecazione così forte che, dalla camera accanto, Amanda esalò: “Ehi! Che succede?!”
“Oh, scusa, Mandy… ho sentito una cosa che mi ha sconvolta. Chiudo la porta, così non ti disturbo” borbottò Brie, affrettandosi a chiudersi dentro la sua stanza.
Rimasta sola con se stessa e con i suoi interlocutori, la giovane dottoranda mugugnò subito dopo: “J, mi potresti dare uno straccetto di informazione in più? Mi sento abbastanza idiota, al momento.”
“Sì, scusa. La sto gestendo malissimo, ma non sapevo davvero che fare, e allora ho pensato che rivolgermi a te sarebbe stata la cosa più sensata, visto che tu sei wicca, e hai una madre che è stata umana, e poi…”
Brianna ascoltò lo sproloquio di Jerome per un minuto buono dopodiché, interrompendolo con un ‘basta’, esalò: “Okay, abbiamo assodato che la tua amica sa un sacco di cose, mentre noi – di lei – assolutamente nulla. Oltre a questo, ho capito che le sei molto affezionato, e lei a te, visto che ti sta sopportando in questa tua crisi da quindicenne con gli ormoni in subbuglio.”
Jerome la mandò al diavolo, ma a Brie non interessò nulla. Lei si concentrò sul sorriso di Cynthia, e sul modo in cui la sua mano stava accarezzando il braccio di Jerome.
No, quello non era un colpo di testa, che avrebbe potuto essere nelle corde di Jerome. Per lo meno, del vecchio Jerome.
Brianna, per quanto assente a causa dell’università e del praticantato in ospedale, aveva notato un cambiamento in lui, negli ultimi anni, ma il tempo e la discrezione le avevano impedito di ficcare il naso. Dopotutto, se Jerome avesse voluto parlare con lei di qualcosa, sapeva come e dove trovarla, no?
Possibile che fosse anche, e soprattutto, merito di quella donna, ciò che aveva visto nel suo Skŏll?
“Tanto per fare le cose come dio comanda, io sono Brianna McKalister, e sono sposata con suo cugino, Duncan. Studio a Londra e sono una dottoranda all’University College Hospital. Immagino che la parte ufficiosa tu la conosca già.”
Lei annuì, replicando: “Io sono la dottoressa Cynthia Graham, e lavoro come psichiatra nella clinica privata St. Francis Medical Centre, che si trova su Snitterton Road, a Matlock.”
“Uhm, sì, ne ho sentito parlare. E’ un centro riabilitativo che si occupa di diverse disabilità, giusto?” assentì Brianna, fattasi pensierosa.
“Esatto. Io e Jerome ci siamo conosciuti lì, per puro caso. Jer ha ripescato una delle nostre pazienti dal laghetto che c’è dietro la clinica.”
Nel dirlo, sorrise a Jerome, che divenne rosso come un peperone.
Brianna ghignò spontaneamente, a quella vista.
Oh, sì! Quella non era una semplice sbandata, era amore vero, se lui si imbarazzava nel sentire l’orgoglio nella voce della sua donna!
“Bene, Cynthia… posso darti del tu?”
“Ovviamente.”
“A cosa devo l’onore di essere la prima a sapere di voi?” volle sapere Brianna, poggiando il mento sui palmi aperti.
“Dovresti dire due parole a una lupa piuttosto irrispettosa, se non ti scoccia troppo” la pregò Jerome.
“Oh. E quale sarebbe il motivo?” esalò sorpresa la giovane, facendo tanto d’occhi.
Dopo averlo saputo, Brianna era a dir poco furente.
“In questo momento, vorrei essere lì per strapparle i peli dalla schiena, uno a uno. E non solo io, credimi” Poi, guardandosi un attimo attorno, esclamò: “Mandy, puoi venire qui un momento?”
Jerome strabuzzò gli occhi, sconcertato, ma Brianna gli fece cenno di azzittirsi.
L’amica e collega di lavoro spuntò dalla porta pochi attimi dopo e, nel vedere Jerome nello schermo del PC, disse: “Ehi, Jerome! Ciao!”
“Mandy… tutto bene?”
“Ottimamente” assentì la ragazza, prima di chiedere lumi all’amica.
“Ti spiego in due parole, ma voglio da te l’assoluto silenzio, anche con Duncan e soci. Ho bisogno che mi copri” le disse Brianna, facendosi seria.
Amanda assentì del tutto seria e, dopo aver lanciato una seconda occhiata alla coppia su Skype, mormorò: “Parola d’onore. Non dirò nulla. Su cosa, a proposito?”
“Il branco non sa nulla, su di loro” dichiarò Brianna, su due piedi. “Ora, hanno bisogno che io li raggiunga, ma non voglio che a casa sappiano niente. Credo che qualcuno, e non faccio nomi, potrebbe sbarellare, se sapessero che la donna di J non è una mannara.”
Mandy lanciò un’altra occhiata al PC prima di esalare: “Oh, ma dai! Mica mordiamo, sai? Semmai, siete voi a mordere.”
Le due amiche risero di quel commento, e anche Jerome e Cynthia sorrisero.
Brianna aveva detto la verità all’amica al raggiungimento della Laurea e, da quel momento, Mandy era divenuta una mascotte, per il branco di Matlock. Ma, in quel caso, era stata una wicca, e la detentrice dell’anima di Fenrir, a prendere la decisione.
Questa, invece, era tutta un’altra storia. E con dei precedenti pessimi.
“Niente di più vero. Ma sai che alcuni lupi potrebbero dare di matto, no?” dichiarò Brianna, sbuffando contrariata.
“Non dire altro. So cosa vuoi dire, e capisco che ci sia una buona dose di riluttanza a parlare con noi umani, però, cavolo… che sfiga!”
“Esatto” assentì Brianna, passandosi una mano sul viso. “Per questo, ho bisogno di andare e venire in totale segretezza. Al lavoro, dirai che ho un bruttissimo caso di… di gastroenterite. E’ sufficiente per stendermi a letto morta e stecchita” dichiarò Brianna, facendo ridere l’amica.
“Poco ma sicuro. E, visto che siamo fuori dal periodo delle influenze, può reggere solo una cosa del genere, a breve termine” assentì l’amica. “Altro?”
“Se dovesse chiamare Duncan, ci penserò io e, se qualcuno contattasse te, dirai che sono fuori. Tutto chiaro?”
“Mi inventerò qualcosa, se necessario.” Poi, tornando a sorridere alla coppia, aggiunse: “Ci vorrà un po’ di tempo, ma sono sicura che, una volta che sapranno che avete l’appoggio di una come Brie, nessuno potrà dire nulla.”
“O mi staccheranno la testa prima che lei possa parlare” ironizzò Jerome, pur ringraziandola per l’aiuto.
“Domani sarò lì. Ora mi procuro i biglietti” dichiarò Brianna, salutandoli prima di chiudere il collegamento.
Quando l’immagine di Brie e Mandy svanì dal PC, Jerome sospirò e Cynthia, volgendosi verso di lui, domandò: “Perché proprio lei? Non è solo perché è la tua Prima Lupa, vero? E nemmeno perché è la wicca del branco.”
“Ni. In parte, è anche per questo. Per questioni simili, si parla con la Prima Lupa. Non si disturba di certo Fenrir. E’ sempre la Prima Lupa a decidere se la faccenda deve essere sottoposta all’attenzione del capoclan, o meno.”
“Ma…” lo incoraggiò lei, stringendo un poco le mani sulle sue spalle.
“Ma lei ha qualcosa che nessun altro ha, e che potrà cucire la bocca alla lupa che ti ha offesa” sospirò Jerome, dandole un bacio sulle labbra. “Dio… riesco a crearti dei problemi anche quando non sono presente.”
“Non preoccuparti di nulla e, soprattutto, non darti colpe che non hai. Quella ragazza avrebbe fatto comunque la bulla, anche se non avesse avuto te come scusa per farla. Non sono l’unica ad aver avuto problemi con lei ma, finché non mette le mani addosso a qualcuno, anche l’ateneo può fare ben poco. E’ brava, nell’evitare di fare cose veramente illegali.”
“Okay, d’accordo. Ma non doveva metterti dei dubbi in testa che non esistono. La faccenda della mutazione è una cosa seria, e devi essere innanzitutto tu, a volerla, non certo io. Io sono nato licantropo, è una vita che bazzico in questo mondo e so che mi piace. Tu, lo percepisci sulla pelle solo da pochi anni.”
“E mi fa sentire viva” sottolineò lei, carezzandogli una guancia.
“Pensaci ancora, e per tutto il tempo che vuoi. Ricorda che è una cosa che ti cambierà la vita per sempre. Dovrai mentire ai colleghi, ai tuoi genitori – se non ritieni che siano pronti a conoscere la verità – al mondo intero. Non è facile.”
Cynthia si chinò a baciarlo sulle labbra e, con profonda fiducia in se stessa, mormorò: “Un passo alla volta, Jer. Ora, finirò il mio Master e, quando tornerò a casa, ne riparleremo. Ma non avrò mai paura del tuo mondo.”
Jerome la abbracciò e, affondando il viso nell’incavo del suo collo, pregò di poter credere alle sue parole.
Desiderava con tutta l’anima che Cynthia non rinunciasse a lui, ma sapeva bene cosa le offriva in cambio.
Sotterfugi, bugie, pericolo. Non esattamente un anello di brillanti.
Ugualmente, pregò la Madre, pregò che quella donna splendida rimanesse nella sua vita.
Ma, soprattutto, pregò di essere abbastanza per lei, di essere – e rimanere – l’uomo perfetto per lei, il suo angelo custode.
Fino alla fine dei suoi giorni.
1 Morning Glory: sono delle nuvole di forma tubolare, che si estendono anche per km, una dietro l'altra, anche centinaia di volte. Si vedono soprattutto in Australia.
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Capitolo 7 *** Jerome's Secrets - Parte 4 (Maggio 2016) ***
Jerome’s Secrets – Part 4
(Maggio 2016)
Era stato un autentico tour de force, organizzare ogni cosa al meglio, ma Brianna sapeva che la posta in gioco era alta, e non aveva nessuna intenzione di sbagliare.
Jerome faceva parte della sua Triade di Potere, era uno dei suoi migliori amici e, forse per la prima volta, le aveva chiesto un favore. Si sarebbe fatta in quattro, per lui, anche a costo di far arrabbiare Duncan.
Il caso specifico richiedeva il suo assoluto silenzio, poiché spettava a Jerome decidere se e quando dire al branco di Cynthia. Come Prima Lupa, avrebbe innanzitutto protetto i suoi lupi, ma aveva fiducia nel suo Sköll, e non gliel’avrebbe fatta mancare proprio ora.
Dopo il fattaccio di Lance e Diane, tutti erano particolarmente sensibili sull’argomento, specialmente Sarah – in quanto Freki – perciò comprendeva bene le ritrosie di Jerome a parlare di Cynthia. Il fatto che si fosse arrischiato a parlargliene era sintomo di quanto tenesse a lei, e di quanto lui avesse fiducia nella sua wicca.
Quando, perciò, Brianna lo vide all’uscita dell’aeroporto, un sorriso incerto sul viso e l’aria di chi non sapeva come comportarsi, per lei fu facile capire come agire.
Corse ad abbracciarlo e lo baciò sulle guance, mormorando commossa: “Grazie per aver pensato a me, J. Grazie di tutto cuore.”
“Sono un opportunista, ecco cosa. Ma sono contento di averti qui, principessa. Ero stanco di dover tacere con tutti” replicò lui, stringendola forte a sé per un istante.
Presolo sottobraccio dopo aver dato e ricevuto calore con quell’abbraccio, i due si diressero verso un taxi e, annuendo, Brie asserì: “Capisco le tue reticenze, ma credi davvero che Duncan si rifiuterebbe di accettarla? Sei suo cugino, andiamo! Lui si fida di te.”
Jerome storse il naso, ma ammise: “Non è di Duncan che non mi fido… è di mia madre che ho paura.”
“Sarah, eh?” mormorò torva Brianna, salendo sul sedile posteriore dell’auto.
Lasciarono perdere l’argomento fino a che non arrivarono all’appartamento di Cynthia e lì, nel salire sull’ascensore, Jerome mormorò: “Non si fida degli umani e, se non fosse stato perché Mary B e Gordon sono tuoi parenti, non avrebbe accettato così facilmente la loro entrata nel branco. Né che Gordon frequentasse Erika quando ancora era umano.”
“Posso capirne le motivazioni. Fu lei a dare la caccia agli affiliati di Diane. Sono cose che non si dimenticano” assentì Brie, dandogli una pacca sulla spalla. “Ma non si fiderebbe del tuo giudizio?”
“Sono suo figlio. Il suo primogenito. E’ protettiva all’inverosimile, quando si tratta di me ed Erika, e poco importa se ormai siamo grandi e vaccinati. Inoltre, se anche Lance ha sbagliato, a suo tempo, chi sono io per ritenermi esente da errori?” sospirò Jerome, uscendo dall’ascensore assieme all’amica.
Il suo volto rispecchiava il timore assoluto di non essere compreso dalla donna che l’aveva messo al mondo.
“Beh, sì, essendo Freki, l’istinto di protezione è bello alto, in lei” ammise la giovane, non potendo smentire l’amico. “Ma sono sicura che Cynthia sia una brava persona.”
“Mamma non avrebbe il tuo stesso ottimismo. Le staccherebbe la testa prima ancora che io possa aprire bocca e dire ‘bah’. Sai com’è fatta. E’ dolce e gentile finché qualcosa non turba la sua quiete domestica. Diversamente, diventa una belva.”
“E’ una mamma.”
“E’ la madre di tutte le mamme protettive dell’universo” si lagnò Jerome, aprendo la porta dell’appartamento con una chiave.
Brianna sorrise di quella battuta e replicò: “Dalle una possibilità.”
“Prima, voglio che tu conosca Cynthia” asserì lui, facendola entrare.
In piedi accanto a un bell’esemplare di labrador nero, Brianna vide una donna alta ed esile, dalla lunga chioma bionda sparsa sulle spalle.
La riconobbe subito come colei che aveva intravisto il giorno prima, su Skype. Dal vero, però, era infinitamente più bella.
Le sorrise spontaneamente ma, prima di potersi dedicare a lei, richiamò a sé il cane guida per tranquillizzarlo. Nel momento stesso in cui aveva messo piede nell’appartamento, la sua postura si era irrigidita ed era giusto che lo chetasse in merito alle sue intenzioni.
Piegatasi su un ginocchio, emise quindi un basso fischio modulato e, subito, il cane trottò da lei. Dolcemente, lo carezzò sul testone ricoperto di morbido pero e, con tono sommesso, disse: “Bellissimo… sono qui in visita, e non voglio fare del male alla tua padrona. Mi permetti di rimanere?”
Rocky abbaiò un paio di volte prima di tornare al fianco di Cynthia e, a quel punto, Brianna si risollevò per procedere con le presentazioni.
Avvicinandosi a Cynthia con la mano protesa, disse: “Scusa se prima ho pensato a lui, ma era piuttosto confuso dalla mia natura e non volevo che si innervosisse, sapendomi vicino a te.”
“Rocky ha fatto qualche storia anche la prima volta che ha visto Jerome” ammise Cynthia, stringendo la mano di Brie.
“Diciamo che io ho qualcosa di diverso… e di più pericoloso, rispetto a lui, e il cane riesce a percepirlo abbastanza bene” replicò Brianna, guardando dubbiosa il suo Sköll.
Lui scosse il capo, perciò alla giovane non restò altro che aggiungere: “J ti ha spiegato da chi discende la nostra razza?”
“Sì, anche se ho faticato a credere a una simile eventualità. Parlare di dèi e creature ancestrali non è come sapere che esiste un’altra razza senziente, a parte quella umana. Al DNA mutato posso credere molto più che a qualche colpo di bacchetta magica, o a divinità scese sulla terra per fecondare donne umane.”
“Anima scientifica. Ne so qualcosa” sospirò divertita Brianna, rammentando bene quanto fosse stato difficile, per lei, accettare se stessa e i lupi. “Ma posso assicurarti che è tutto vero.”
Detto ciò, lasciò che la sua aura si espandesse un poco e Cynthia, esalando un sospiro di sorpresa, strinse maggiormente la mano di Brianna e mormorò: “E’… è completamente differente da quella di Jer! Molto più potente!”
“Coesistono tre entità distinte, in me, per questo la trovi differente” le spiegò Brie, aiutandola ad accomodarsi.
Non erano cose di cui si poteva parlare restando in piedi, per quanto una persona potesse essere forte di stomaco, o larga di idee.
“Tre? In che senso?” esalò la dottoressa, fissando il suo viso nella direzione da cui proveniva la voce di Brianna.
“Sono una wicca, la Saggia del mio branco, e possiedo doni legati alla luna e alla Madre Terra. Ma sono anche una licantropa, oltre che Prima Lupa del clan. Per finire, sono la custode dell’anima di Fenrir, il capostipite della razza.”
Cynthia sussultò a quelle parole e Jerome, stringendo le mani sulle spalle della sua donna, mormorò roco: “E’ tutto vero. Per questo, l’ho voluta qui.”
La donna si fece aria con una mano, il viso percorso dallo sconcerto più totale e Brianna, sorridendole con sincerità pur sapendo di non poter essere vista, disse: “Non sei svenuta, né hai dato di matto. Hai fatto meglio di me, credimi. Io ho avuto una bella crisi di nervi, quando seppi solo in parte ciò che mi attendeva.”
Cynthia scoppiò a ridere per diretta conseguenza e, nel passarsi le mani tra i capelli, esalò: “Oh, non sono ancora del tutto sicura che non sverrò. Cielo! Ma è sul serio tutto vero?”
“Sei una Percepente molto forte, da quello che mi ha spiegato J, prima che partissi. Se te la senti, posso escludere le altre auree per farti percepire solo quella di Fenrir. Noterai subito la differenza.” Poi, lanciata un’occhiata a Jerome, aggiunse: “Non è pericoloso, Skŏll. Rinfodera gli artigli, mio lupo. Non mi permetterei mai di farle del male."
“Jer… non innervosirti. Non penso che la tua amica voglia ferirmi, visto che si è sobbarcata questo viaggio per noi. Ti pare?” lo rabbonì a sua volta Cynthia, dandogli una pacca sulla mano destra.
“Scusate entrambe. E’ che, quando si parla di Fenrir, mi agito sempre un poco” borbottò il licantropo, sbuffando sonoramente.
Non mi permetterei mai di farle del male, figliolo. E’ l’ultimo dei miei pensieri.
Jerome sobbalzò, di fronte a quell’intrusione mentale e, rabbrividendo leggermente, esalò: “Le mie scuse, Padre, ma…”
Ho la mia reputazione a precedermi, lo so e, per quanto voi siate la mia eredità, certe ataviche paure sono dure a morire. Ma, se non ti senti sicuro, puoi chiedere a mio figlio, no? Dovrebbe essere abbastanza obiettivo, poiché mi ha conosciuto nelle vesti di genitore, e non di dio della Distruzione.
Jerome, allora, diede retta a Fenrir e, incuneandosi nella sua anima come alcune volte faceva – Sköll, il primo Sköll, non era molto ciarliero, ma era piacevole ascoltarlo quando aveva voglia di parlare di se stesso – domandò: “Posso stare tranquillo?”
La sua energia è inimmaginabile ma ormai, anche grazie al dominio di Brie, è totalmente sotto controllo. Se anche la Prima Lupa escluderà le sue altre due nature, Cynthia non rischierà nulla. Posso giurartelo, Jerome.
“D’accordo… grazie. E scusa se sono un po’ iperprotettivo.”
Per Cynthia lo sarei anch’io, se fosse mia, ironizzò l’anima di Sköll, facendo sorridere il licantropo.
“Più tranquillo?” domandò allora Brie che, sicuramente, aveva seguito quello scambio di battute.
“Procedi pure” assentì a quel punto Jerome.
Afferrata gentilmente una mano a Cynthia, Brianna chiuse gli occhi e mormorò nella sua mente: “Pronto a dare spettacolo?”
Se vuoi, le parlo. Questo lo posso fare, contrariamente a te.
“Oh… ma dai? Davvero?”
Sarò anche in un involucro umano - molto carino e intelligente, bada bene - ma sono pur sempre un dio.
“Sbruffone” ironizzò Brianna, facendosi però da parte.
Cynthia…
La donna, sobbalzando sulla sedia, esalò: “Oh, cielo! Chi è stato?!”
“Fenrir. Vuole parlare con te” le spiegò Brianna, trattenendo la sua mano per darle conforto.
Non volevo spaventarti, ma rassicurarti, e dirti che hai la mia benedizione, oltre a quella che ti imporrà Brianna come wicca. Vedo come rendi felice mio figlio, e questo è per me fonte di gioia. Tutti gli altri problemi si risolveranno. Ora, pensa solo che nessuno potrà farti alcun male. Noi siamo qui con te, e per te.
“Beh… grazie…” sussurrò Cynthia, scoppiando in una risatina vagamente isterica. “E’ proprio vero che, con te, non ci si annoia mai, Jer!”
“Poco ma sicuro” assentì lui, baciandola sul capo prima di sillabare la parola ‘grazie’, rivolta a Brianna.
Ritirando la mano, la giovane wicca dichiarò: “Molto bene. E ora, procediamo alla barriera mistica. Con questa, nessun lupo si sognerà mai di fare anche solo uno starnuto nelle tue vicinanze.”
Scoppiando a ridere per quell’esempio apparentemente assurdo, Cynthia domandò loro: “Ma perché… i lupi prendono il raffreddore?”
“Eccome, se lo prendono” brontolarono i due licantropi, chiaramente scocciati da quella possibilità.
***
Seduta accanto a Cynthia, le gambe che pencolavano dal muretto di cinta ove si erano fermate, Brianna lanciò un’occhiata tutt’intorno prima di domandare: “Come hai scoperto chi fosse in realtà Jerome? Solo avvertendo la sua aura?”
“Anni addietro, conobbi un dottore licantropo. Naturalmente, all’epoca, non sapevo che lo fosse. Sapevo soltanto che aveva un’energia speciale nelle mani, e lui mi disse che questa energia mi avrebbe aiutato a stare un po’ meno male.”
Assentendo, Brie mormorò: “Sì, in effetti i Percepenti possono assorbire parte delle nostre energie latenti. Così, questo dottore non ti disse mai chi era veramente.”
“Ero troppo piccola per capire, ma mi fece piacere saperlo al mio fianco. Era il mio angelo custode” le spiegò Cynthia, sorridendo a quei dolci ricordi. “Quando avvertii un’aura del tutto simile in Jerome, pensai fosse un parente del dottor Withlock. In seguito, fu Jer a spiegarmi come stavano in realtà le cose.”
“Devi averlo colpito molto, se si è arrischiato a rivelarti la sua vera identità” le fece notare Brianna.
Cynthia rise dolcemente e, annuendo, ammise: “Mi baciò, dopo aver parlato con me, al nostro primo incontro. Fu una cosa strana, e mi sentii anche un po’ sciocca per aver apprezzato così tanto un gesto simile da un perfetto sconosciuto, ma sapevo che era… giusto.”
“E molto da Jerome. E’ assai fisico, …più ancora del normale, per noi licantropi” assentì Brianna. “E’ un uomo impulsivo, quando si tratta di donne o, per lo meno, lo era fino a qualche anno addietro. Con te, invece, è molto attento e paziente. E non dipende dalla cecità. Ci tiene davvero molto, a te. Ti ama sinceramente.”
“E io amo lui, anche se so di frenarlo.”
Scrollando le spalle, Brie replicò pratica: “J non farebbe mai nulla, se non lo volesse. E’ una creatura solare per natura e dall’animo libero e, da quel poco che ho visto, con te brilla. E lui fa brillare te.”
“In che senso?” volle sapere Cynthia, sorpresa da quell’uso delle parole.
“Ogni creatura vivente è dotata di una propria luce interna e, come wicca, io posso vedere queste luci. La tua è sfolgorante, quando sei con lui” le spiegò Brianna, dandole una pacca sulla spalla.
Un attimo dopo, però, si irrigidì e, volgendo il capo, mormorò torva: “Ecco la tua persecutrice.”
“La avverti?” sussurrò la dottoressa, stringendo nervosamente le mani in grembo.
“Sì. E’ così sfacciata da non fare nulla per nascondere la sua aura. Se ci fosse qualche sensitivo come te, nei paraggi, avrebbe un attacco di prurito devastante” brontolò Brianna, levandosi in piedi. “La blocco prima che ti si avvicini. Con l’aura così esposta, potrebbe darti parecchio fastidio.”
“Grazie” mormorò Cynthia.
“Di nulla. Questo e altro, per J” ammiccò Brie, allontanandosi a grandi passi.
Accanto a lei, Rocky uggiolò.
“Non credo che le farà del male, Rocky. Brianna mi sembra abbastanza forte per reggere qualsiasi incontro” mormorò bonaria Cynthia, rivolta al suo cane.
L’unica a correre pericoli, è quella sciagurata.
Sbattendo le palpebre, confusa, la donna mormorò: “Fenrir?”
Ho pensato volessi una telecronaca dell’evento, visto che non puoi godertelo di persona.
Sorridendo divertita, Cynthia replicò mentalmente: “Con tutto il rispetto a lei dovuto, ma… non parla come una divinità.”
Passa anni e anni nella testa di una ragazza come Brianna, e acquisirai anche tu un certo slang.
“Oh, giusto. Ebbene, signor Fenrir, cosa sta succedendo?”
Solo Fenrir, cara, e dammi pure del tu. Comunque, Brianna si è fatta riconoscere, e le sta facendo notare che il suo comportamento è da veri idioti.
“Con queste esatte parole?”
No, ci sta andando giù più pesante, ma non volevo essere scurrile.
“Oh, …molto obbligata” sorrise Cynthia, trovando tutta quella conversazione davvero assurda.
Ancora faticava a credere di stare parlando con un dio, eppure era sveglia e lucida e, a meno che non fosse del tutto impazzita, stava succedendo davvero.
Anche Brianna ebbe qualche difficoltà ad accettare tutto, all’inizio. Le vostre menti sono molto simili, tra l’altro, perciò so che non avrai problemi, col tempo, a prendere per buono il nostro mondo.
“Credi che dovrei farmi trasformare da Jerome, una volta che avrò terminato il mio Master?”
E’ una decisione che spetta solo a te, ma mio figlio ti ama così come sei, perciò non è la mutazione che ti deve preoccupare.
“E cosa, allora?”
Devi capire se questo mondo può essere il tuo, indipendentemente dalla tua mutazione o meno.
“Non devo preoccuparmi di Freki?”
Di Sarah? Può sembrare molto protettiva e feroce, ma ama i suoi figli, perciò capirà ogni cosa, quando ti vedrà. E passerà sopra anche al fatto che sei umana.
“Lo spero…”
***
La brunetta che Brianna aveva incrociato lungo il marciapiede aveva un’aura davvero forte ma anche assai disarticolata, perciò fu semplice farle, per così dire, lo sgambetto.
Brianna le si avvicinò a passo di carica e, senza perdere tempo, le scaricò addosso la sua energia residua senza badare troppo all’etichetta.
Chi si comportava in maniera così esplicita e maleducata, non meritava il guanto di velluto.
La reazione della ragazza fu immediata.
Incespicò nei suoi stessi piedi, la fissò arcigna per un momento e, quando furono vicine, sibilò a denti stretti: “Come diavolo ti permetti di darmi fastidio? Questo territorio è mio!”
Brianna la scostò di malagrazia dal passaggio pedonale, portandola nei pressi di un prato poco distante. Lì, avrebbero avuto modo di confrontarsi senza attirare troppo l’attenzione.
“Nessun capobranco governa questo territorio, ho controllato prima di giungere qui, perciò frena la lingua, garmr1. Sei al cospetto di qualcuno che, invece, ha un titolo e un ruolo ben definiti, all’interno del suo branco di appartenenza. Porta rispetto e china il capo. Da brava.”
Ciò detto, Brianna lasciò che il suo potere di wicca venisse a galla come un’eruzione di lava da un cratere.
Questo fece impallidire la brunetta che, accigliandosi, esalò: “Una strega non può essere anche un lupo! Sei… sei un abominio! Questo è contro natura!”
Brie sbuffò. Quante altre volte, nel corso degli anni, le avrebbero dato dell’abominio?
Non le era bastato dover sopportare Sebastian? No, ci voleva anche quella ragazzetta presuntuosa, adesso.
“Quindi, qui ci chiamate streghe? Come quelle di Salem, forse? Comunque, è storia vecchia, mia cara. Mi hanno già chiamata così e guarda caso, chi l’ha fatto, ora sta marcendo nelle prigioni di Svartalfheimr, controllato dai nani oscuri in persona. Vuoi fare la sua stessa fine, figliola?”
Indietreggiando di un passo, la ragazza lanciò un’occhiata alle spalle di Brianna, alle persone che placide se ne andavano avanti e indietro per l’ateneo.
Fu solo dopo alcuni secondi che scorse Cynthia e, sputando un’imprecazione, le ringhiò contro: “Se sei venuta per lei, ti avverto. Non potrai proteggerla in eterno. Dopo la tua tirata da spaccona, saprò ben io come farla pagare alla tua amichetta umana. Rimpiangerà il giorno in cui ti ha chiamata in mezzo a questa faccenda.”
“Oooh, ma allora non capisci!” sbottò Brianna, sorridendole gelida. “Tu non toccherai neppure un capello a quella donna, perché è sotto la protezione di una wicca e, se non lo sai, il mio potere può seguirla – e proteggerla – anche se io non sono presente. Inoltre, grazie al tuo gesto idiota, non solo io la proteggerò…”
…ma avrai a che fare anche con me!
La voce di Fenrir rimbalzò nella mente della brunetta come un colpo di maglio, facendola barcollare fisicamente.
Mai mi sarei aspettato un comportamento così irriguardoso, da parte dei miei figli. La mancanza di capiclan di antica stirpe, nelle terre americane, ha prodotto generazioni di vagabondi, a quanto pare. Da quel che mi sembra di capire, neppure i tuoi genitori ti hanno insegnato a vivere nel modo corretto in un mondo che condividiamo in pace con gli umani. Forse, dovrei porre rimedio io stesso, a questo problema.
“Chi… chi sei?” balbettò la giovane studentessa nella sua mente ansiosa. “Perché avverto un potere così enorme intorno a me?!”
“Tu cosa credi che sia?” domandò a sua volta Brianna, parlando direttamente alla sua mente, ora terrorizzata. “Non mi piace impormi, o imporre la presenza di Fenrir, ma non mi hai lasciato scelta. Hai dato fastidio a una mia amica, alla compagna del mio Sköll e a una protetta del nostro Progenitore. Un bel risultato, complimenti, per una volta sola.”
“Non merita di conoscere il nostro segreto, e rimanere anche umana! Mio padre sa di Sköll e degli altri titoli che usate oltreoceano, ma dice che qui non contano nulla, che noi possiamo fare come vogliamo! Non ho paura di te e delle tue esibizioni da quattro soldi!” protestò stupidamente la ragazza “Inoltre, se il tuo lupo la voleva nella sua vita, doveva trasformarla, invece di lasciarla vivere nella sua forma impura e imperfetta!”
“Attenta a quel che dici. E perché mai non dovrebbe rimanere umana? Da quando in qua i lupi sono diventati così razzisti, da queste parti?”
“Qui funziona così. Non sottostiamo a stupide e vecchie regole” borbottò la brunetta, mettendo il broncio e fissandola con occhi colmi di sfida, oltre che di paura. “Nessun Fenrir può dirci come e quando dobbiamo fare le cose. Nessuno ci governa. Siamo liberi come dovrebbe essere qualsiasi lupo, e gli umani non fanno parte del pacchetto.”
“Oh, e così fate ciò che vi pare, vero? Complimenti! E quando verrete scoperti, cosa farete? A chi vi affiderete? Nessuno vi proteggerà, perché voi per primi non vi siete protetti!” sbottò Brianna, accigliandosi.
“Siamo più forti di loro…”
“E in minoranza numerica” sottolineò la wicca. “Vi ritroverete su un tavolo operatorio per essere vivisezionati, ecco che fine farete se non cercherete di creare un ordine dal caos.”
La brunetta sbuffò, ma il panico sorse imperioso a sostituire il suo senso di fiducia nei propri mezzi.
Alla fine, era davvero come una bulletta di quartiere. Messa con le spalle al muro, non sapeva più che dire, o fare.
“Sei proprio un garmr. Abbai, abbai ma, al minimo cenno di pericolo, guaisci come un cucciolo spaurito. Scommetto che, se adesso ti dicessi di saltare su una gamba, lo faresti” brontolò Brianna, disgustata.
“Non sei diversa da me…” protestò la ragazza.
“Pensi mi stia divertendo a imporre la mia superiorità? Mi fa schifo! Ma mi ci hai costretta. Hai dato fastidio – pur se indirettamente – a un lupo a te superiore, e questo ha richiesto che la sua Prima Lupa intervenisse. Si chiama gerarchia, cara, e tu dovresti imparare a conoscere i tuoi limiti, prima di pestare i piedi a qualcuno di troppo grande per le tue possibilità.”
***
Impressionata dallo scambio di battute che stava svolgendosi a pochi passi da lei, pur se tutto stava avvenendo nelle menti delle due contendenti, Cynthia esalò: “Non pensavo esistesse un simile potere. E Brianna riesce a imbrigliarlo senza problemi?”
Questo è niente, in confronto a quello che può sviluppare. Ma è meglio che tu non sappia mai cosa può fare, perché allora sarebbero guai seri.
“Beh, non penso possa far scoppiare il mondo, ti pare?” ironizzò Cynthia.
Non avvertendo alcuna risposta da parte di Fenrir, però, esalò turbata: “Non può… vero?”
Non tutte le storie sul mio conto, sono fasulle.
“Oh…” gracchiò Cynthia.
Direi che non devi comunque preocc… oh, toh! Le sta dando il suo numero di telefono.
“Come?” esalò Cynthia, sorpresa.
Brianna lo fa, ogni tanto. Preferisce la parola, alla verga. Ora sta tornando, perciò il resto te lo spiegherà lei.
“Grazie… di tutto.”
Di nulla, fanciullina. Di nulla.
Quando Brie tornò ad accomodarsi accanto a Cynthia, le domandò: “Chiacchiera molto, vero?”
“Ma è stato assai gentile. Come fate a dividervi a questo modo? Non ti confonde sentirlo parlare, mentre tu sei impegnata in tutt’altra attività?”
“Abitudine. E anni di addestramento. Volevo che fosse un po’ più libero di quanto non può esserlo normalmente, confinato com’è nella mia testa, così abbiamo iniziato ad allenarci a suddividere i miei e i suoi pensieri” scrollò le spalle Brianna. “Comunque, la tipa non ti darà più fastidio.”
“Posso chiederti come, se lecito? A un certo punto, ho chiacchierato con Fenrir, e abbiamo più seguito il vostro interludio.”
“Oh, è semplice. Le ho detto che le avrei staccato la testa a morsi, se ti avesse toccata e, grazie alla protezione che ho esteso su di te, le sarà impossibile toccarti. Ma, se provasse a minacciarti, lo saprei subito.”
Cynthia fece tanto d’occhi, sapendo che non scherzava affatto. La sua voce non mostrava alcun cenno di ironia.
“Lo faresti… sul serio?”
“Non so quanto sai delle regole all’interno di un branco, ma minacciare un umano è uno dei crimini più gravi concepiti nel nostro sistema giudiziario. A seconda del crimine commesso, viene inferta una punizione corporale adeguata.”
“E… staccarle la testa, sarebbe stata la sua punizione?” esalò Cynthia.
Annuendo, pur sapendo quanto fosse inutile, in quel caso, Brianna asserì: “Sei la compagna del mio Sköll, e sei umana. Sei doppiamente preziosa, e doppiamente da proteggere.”
“Gli vuoi davvero molto bene…”
“A quel mattacchione di J? Eccome. Ma voglio essere onesta, con te. Non lo faccio solo perché gli voglio bene. Il tuo essere umana ti rende preziosa anche dal punto di vista evolutivo. Non è una cosa che posso lasciar correre, anche se ti fa sembrare solo un oggetto, …cosa che assolutamente non sei.”
Cynthia, però, sorrise e le batté una mano su un braccio.
“Non devi scusarti, Brianna. Sono un medico anch’io, anche se mi occupo della mente, e non del corpo. So cosa comportano le leggi evolutive, e Jerome mi ha spiegato perché è difficile, per una mannara, portare a termine la gravidanza.”
“Non dico che Jerome debba metterti incinta…” sottolineò Brianna. “… ma è una cosa che devo valutare, come Prima Lupa del mio branco. Perciò, ti ho protetto perché lui ti ama, tu ami lui e il tuo essere umana è un dono prezioso. Da non denigrare affatto.”
“Ti ringrazio per la tua sincerità e, soprattutto, per esserti sobbarcata questo viaggio per noi due. Non tutti l’avrebbero fatto. Gerarchia o meno che sia.”
“E’ la prima volta che J mi chiede un favore, perciò l’ho assecondato ben volentieri” sorrise Brie, carezzando una spalla a Cynthia. “Inoltre, ho approfittato di questa opportunità anche per capire come funzionano le cose qui in America.”
“Oh… coi lupi, intendi?”
“Sì. Da quel che mi ha spiegato quella ragazza, ci sono ben pochi branchi attivi, e molti lupi errabondi e senza clan, che addirittura non conoscono nulla del proprio passato. Dopo averla strigliata per bene, ho capito che, in fondo in fondo, era solo spaventata e incapace di capire come comportarsi senza una guida, così le ho dato il mio numero perché si metta in contatto con me, qualora ne avesse bisogno” si limitò a dire Brianna, facendo spallucce.
“Immagino che questo comporti non pochi pericoli” ne convenne Cynthia.
Annuendo, Brie aggiunse: “Se i lupi si cacciassero nei guai, non ci sarebbero wiccan nella zona a salvare loro e il loro segreto, compromettendo la sicurezza di molti. Se, però, qualcuno fosse interessato a diventare un po’ meno selvaggio e un poco più civilizzato per maniere e comportamenti, io potrei dare loro una mano, così eviterebbero di farsi beccare.”
“Parla la wicca, o Fenrir?”
“Tutta quanta me. Mi piace creare unioni, piuttosto che divisioni” sorrise Brie. “E ora, sarà meglio che chiami J, prima che gli venga un infarto.”
***
Sciogliendosi dall’abbraccio caloroso di Jerome, Brianna salutò con un bacio sulle guance anche Cynthia e, nell’afferrare il suo trolley, ricordò loro: “Chiamatemi ancora, se dovesse esserci bisogno di me per qualsiasi cosa.”
“Contaci” annuì Jerome, sorridendole.
“E’ stato un piacere conoscerti, Brianna, e grazie ancora per quello che hai fatto per me. Per noi” aggiunse Cynthia, stringendo con mani tremanti la maniglia del suo cane guida.
Afferrando d’impulso quelle mani, Brie espanse la sua aura calda e carezzevole per chetarla e, dolcemente, le disse: “Sei una sorella, ora. E ci si aiuta, in famiglia. Sappilo sempre. Qualsiasi cosa deciderai per te stessa.”
“Grazie” mormorò Cynthia, annuendo.
Con un saluto, Brie si diresse quindi verso il check-in e Fenrir, nella sua mente, asserì: I miei complimenti. Hai gestito molto bene l’intera situazione.
“Spero solo che anche Sarah la penserà così, quando saprà che io sapevo molto prima di lei” si lagnò Brie, un po’ preoccupata.
Anche Jerome è teso, all’idea di dirlo a sua madre. Ma, dopotutto, Sarah è una brava persona, oltre a essere assai intelligente.
“E’ una mamma. Una mamma mooolto protettiva. Ed è un Freki. Un Freki mooolto bravo. Fai due più due, e cosa risulta?”
Fenrir non rispose per un minuto buono. Alla fine, però, mugugnò: Un potenziale disastro.
“Ecco, vedo che siamo d’accordo, su questo punto” sospirò Brianna, mettendosi in fila.
Sperò con tutto il cuore di sbagliarsi.
Ma da quando la iella non la ascoltava, e non metteva il becco per smentirla?
____________________________
1 garmr: cane a protezione dell’entrata del regno di Hell. E’ assai rabbioso e coperto di sangue, ma un’anima può passare senza danno, se gli offre del pane imbibito del suo sangue.
Insomma, abbaia, abbaia, ma si fa anche alla svelta a rabbonirlo. Per questo, Brianna definisce la ragazza una ‘garmr’.
N.d.A.: Non ci rimane che capire se Jerome avrà il coraggio di dire tutto alla madre, o se manterrà il segreto per evitare ripercussioni. Secondo voi, che farà?
Grazie a tutt* per aver continuato a seguire le vicende dei nostri amici lupi!
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Capitolo 8 *** Jerome's Secrets - Parte 5 (Maggio 2018) ***
Jerome’s Secrets – Part 5
(Maggio 2018)
Sarah stava sistemando il contenuto delle borse della spesa nella dispensa quando, a sorpresa, scorse la figura del primogenito oltre la superficie trasparente di una finestra.
Jerome sedeva distratto sul ceppo tagliato di un abete secolare, morto l’inverno passato, e pareva perso in mille e più pensieri.
Ma non fu tanto la sua espressione stralunata a convincere la donna a uscire, quanto l’aura screziata che avvolgeva il figlio. Era visibile a occhio nudo, per un licantropo, e in quel momento non sembrava affatto sotto controllo.
Jerome era sempre stato, nel bene e nel male, un ragazzo gioviale, allegro, a volte un po’ infantile, ma mai tenebroso o cupo. Duncan e Lance lo erano stati molto più di lui, fin da quando lei aveva memoria.
Certo, con la nascita di Keeley, l’Hati del branco aveva perso gran parte della sua aura ombrosa, così come Duncan che, grazie a Brianna, aveva iniziato a brillare di luce propria.
Ne era felice, per entrambi e, proprio per questo, l’aspetto turbato del figlio la colpì come un maglio. Che mai era successo, da ridurlo in quello stato?
Nathan, il primogenito di Brianna e Duncan, stava bene e, a un anno dalla sua nascita, si poteva dire tutto, di lui, tranne che non fosse un bebè allegro e pieno di iniziativa.
Le cose tra i clan, inoltre, non potevano andare meglio. Da quel che sapevano del nuovo acquisto del clan di Falmouth, William Darcy, l’uomo sembrava essere un Primo Lupo d’eccezione, oltre che un lupo dalle capacità più uniche che rare.
La sua doppia natura di umano (ora mannaro) ed elfo ma, soprattutto, l’amore che lo legava a Cecily, lo rendevano un licantropo d’avvero eccezionale.
Rimuginando sull’argomento berserkir, che si trovavano in Gran Bretagna ormai da tempo, non trovò nulla di sua conoscenza che potesse aver creato dubbi o pensieri al figlio. Tutto si stava svolgendo più che bene, e coloro i quali si trovavano sul loro territorio andavano d’amore e d’accordo con tutti.
Il problema, perciò, non poteva venire da lì.
Loki o Hell non avrebbero potuto reincarnarsi se non tra molti secoli e, mai più, avrebbero potuto prendere possesso di un licantropo o un uomo-orso. Ergo, cosa stava succedendo al suo solitamente gioviale figliolo, ormai gagliardo trentacinquenne?
Lasciando da parte sedano e cicoria, Sarah uscì quindi sul retro di casa, passando dalla porta di servizio che dava direttamente sul cortile.
All’esterno dell’abitazione, le radiazioni incontrollate dell’aura del figlio si fecero ancora più evidenti, e percepibili sulla pelle.
Infastidita, Sarah si passò una mano su un braccio, prima di domandare: “J, che succede?”
L’uomo, dai cortissimi capelli neri come pece – le lunghe e fluenti chiome che aveva portato per un certo periodo, erano ormai sparite da tempo – levò il capo a scrutarla e l’aura si azzerò all’istante.
“Ehi, ma’! Ciao!” esclamò lui, sorridendo bellamente nel farle un cenno col capo.
La donna, per nulla rassicurata da quel saluto, si pose dinanzi a lui in posizione dominante, a gambe ben assestate sul terreno e con le mani sui fianchi. Non amava che le si mentisse, soprattutto se a farlo erano i suoi figli.
I chiari occhi lo sondarono con attenzione, come avrebbe fatto un Freki in cerca di informazioni, e non come una madre in attesa di risposte e, subito, il figlio si accigliò.
“Che stai combinando?” mugugnò Jerome, sul chi vive.
“Pensi di incantarmi, figliolo, facendomi questo bel sorriso e salutandomi come se nulla fosse?”
“Stai parlando con Sköll, oltre che con tuo figlio, ma’, quindi vedi di rinfoderare gli artigli, perché potrei offendermi davvero” sottolineò Jerome, levandosi in piedi per imitarne la postura.
Ovviamente, essendo un membro della Triade, l’uomo la superava di tutta una testa, e il fisico possente di Jerome era il doppio di quello della madre. Non per questo, però, Sarah indietreggiò, o cambiò atteggiamento.
La donna sapeva benissimo come far parlare i suoi figli, quando facevano i ritrosi. A volte, le maniere forti erano l’unica soluzione possibile, quando si aveva a che fare con dei licantropi zucconi e, di maniere forti, un Freki ne conosceva a bizzeffe.
Fronteggiando lo sguardo astioso del figlio senza tema di fallire, Sarah si limitò a sussurrare: “Ho vent’anni più di te, ragazzo, e so come piegare qualsiasi preda mi capiti a tiro, anche se questa ha il mio stesso sangue e io l’amo come e più di me stessa. Perciò, rendi a entrambi le cose più facili. Parla, e dimmi cosa ti turba.”
Jerome, però, non cedette e, quando Jonathan tornò da una commissione a Matlock e capì immediatamente che aria tirasse tra i due, pensò bene di svicolare all’istante.
Quando la moglie era in caccia, era meglio non intervenire.
Da quel che poteva vedere in quel momento, Sarah doveva aver subodorato qualcosa di grosso. Meglio lasciarla fare, quindi.
Alla peggio, avrebbe raccolto i cocci più tardi, e dato a Jerome tutto il suo appoggio maschile incondizionato, e tenuto ben nascosto al figlio il suo affetto di marito nei confronti della moglie.
Non da ultimo, avrebbe espresso in gran segreto la sua soddisfazione per la bravura della moglie nello sgamare i peccatucci dei figli.
In silenzio, perciò, sgattaiolò in casa, dove trovò Erika e Gordon in salotto, le teste nei libri e la concentrazione a farla da padrone. I Master erano una scocciatura per chiunque, anche per due studiosi come loro. Meglio che non partecipassero alla competizione là fuori, pertanto.
Ci sarebbero state fin troppe ferite da curare, ne era sicuro.
Gli bastava dover badare a un solo figlio per volta e, di certo, Erika sarebbe partita a spada tratta per difendere il fratello.
No, meglio evitare.
Salutati i due giovani, perciò, si diresse tranquillo al piano superiore, sperando che i due contendenti in cortile non decidessero di darsele di santa ragione, prima di arrivare al dunque.
Tra licantropi, poteva capitare.
***
Sbuffando infastidito, Jerome lanciò un’occhiata alla porta di servizio ormai chiusa e borbottò: “Papà è un fifone. Non si è neanche avvicinato, quando ti ha vista in posizione da generale nazista.”
Scrollando le spalle, Sarah si sistemò una ciocca dei chiari capelli e replicò: “E’ saggio, e mi conosce. Tutta un’altra cosa.”
A quel punto, il figlio sbuffò sonoramente e, scrollando le braccia con fare infastidito, esalò: “E dai, ma’! Con te non si può neanche tentare di fare un po’ le vittime! Non puoi semplicemente lasciarmi qui nel mio brodo?”
Rivolgendogli un sorriso sinceramente spiacente, Sarah replicò: “Tesoro, cercherò sempre di capire come fare per aiutarti… anche cavandoti la verità con un tronchese.”
“Grazie” gracchiò per diretta conseguenza il figlio, storcendo la bocca in una smorfia disgustata.
“Ebbene… ora che hai fatto la tua parte di scorbutico figliolo sulle sue, posso sapere cosa ti ha portato qui fuori a fare la controfigura del Pensatore di Rodin?” gli domandò Sarah, passeggiandogli intorno con fare apparentemente tranquillo.
Jerome, però, non si fidò neppure per un istante di quel comportamento falsamente rasserenato e, sul chi vive, mugugnò: “Sono un uomo adulto da un pezzo, ma’ e, se te lo fossi scordata, sono indipendente da casuccia vostra da almeno un anno, perciò penso di godere di qualche libertà in più di movimento, rispetto a Erika. Non potremmo soprassedere su questo terzo grado? So risolvermeli da solo, i problemi.”
Illuminandosi in viso, la donna esclamò: “Allora, c’è un problema!”
Imprecando tra sé, Jerome si diede dell’idiota per aver accennato alla cosa e, intrecciate le braccia sul torace possente, ringhiò: “Mamma, smettila! Ho detto che penserò da solo alle mie questioni, perciò, per una volta, fatti da parte.”
Sarah si bloccò immediatamente dinanzi a lui, assottigliò le iridi perlacee e lo fissò con sguardo adamantino, accigliata. Un qualsiasi altro lupo sarebbe indietreggiato terrorizzato, innanzi a un’occhiata raggelante di quel calibro, ma non Jerome.
Non che non tremasse, ben intesi, ma non poteva cedere di fronte a sua madre. Per tutti gli dèi, insomma!
Doveva pur difendere il suo amor proprio, no?
Lo sguardo rimase lì, e così pure la convinzione di Jerome.
Tutt’intorno, l’aria appariva immota, e non un solo rumore osava turbare i due contendenti. Pareva quasi che l’universo stesso stesse attendendo una risoluzione di quello stallo alla messicana.
Il trillo del cellulare di Jerome colse, perciò, entrambi di sorpresa.
Se per Sarah, però, la sorpresa si tramutò in un semplice sollevarsi di sopracciglia, per Jerome volle dire un balzo all’indietro, con tanto di urletto femmineo.
Non molto edificante.
Afferrato alla svelta il cellulare dalla tasca posteriore dei jeans, Jerome cercò di accettare la chiamata, ma Sarah lo precedette. Acchiappò il telefono dalle sue mani tremanti prima che cadesse e, premuto il tasto verde, esordì dicendo: “Pronto, chi è?”
La voce all’altro capo parve sorpresa, ma disse ugualmente: “Ehm, buongiorno. Sono la dottoressa Cynthia Graham. Trovo il signor Jerome Rowley?”
La sorpresa di Sarah crebbe di una tacca e, nello scusarsi con la donna, passò il telefono al figlio, azionando il vivavoce.
Vivavoce che Jerome non osò togliere e, deglutendo a fatica, gracchiò: “D-dottoressa, buongiorno. Ora sarei impegnato. Potrei richiamarla più tardi?”
La risata della donna avvolse il licantropo come una coperta e, sotto lo sguardo sempre più sorpreso di Sarah, la sua aura prese a sfrigolare.
A divenire incandescente.
Tutte tipiche esternazioni di un licantropo… in calore.
“Ho commesso una gaffe, Jerome?” mormorò la donna all’altro capo del telefono.
“Temo di sì. Anche se non è colpa tua, Cyn, ma di mia madre, che ha la stessa delicatezza di uno schiacciasassi, quando si tratta di noi figli” sbuffò Jerome, staccando con platealità il vivavoce proprio di fronte al volto accigliato di Sarah.
Non che servisse, visto l’udito dei licantropi, ma fu una piccola vittoria che Sköll si volle concedere, dopo essere stato beccato a quel modo dalla madre.
Madre che non pensò minimamente di allontanarsi e, anzi, si mise in attento ascolto della telefonata del figlio.
“Non hai ancora parlato con loro, vero? E dire che pensavo che, ormai, fosse cosa fatta. Con i miei genitori, non hai avuto tutti questi problemi” gli fece notare la donna, sempre con quel tono di voce tranquillo e vagamente divertito.
“Visto che mia madre è un Freki, puoi ben capire perché non le ho parlato di te. Stavo tentando un modo di approcciare la cosa, ma non è come parlare con i tuoi genitori” brontolò Jerome, fissando accigliato la madre, che fece tanto d’occhi nel sentirlo parlare a quel modo.
“Oddio, spero che ora non venga qui per predarmi!” rise con allegria la donna, per nulla preoccupata. “Anche se sarebbe interessante capire se sarei in grado di riconoscere in lei qualche differenza da te, visto il tipo di mestiere che fa.”
A quel punto, Sarah si accigliò e, fissato malamente il figlio, ringhiò: “E’ un’umana?!”
“Mamma, basta!” ringhiò a sua volta Jerome, sorprendendo la madre per l’intensità della sua veemenza. “Cynthia è a posto e, se solo tenterai di torcerle un capello, me la pagherai cara!”
“Jer… calmati. Mi sembra che tua madre abbia tutto il diritto di agitarsi, non ti pare?” lo chetò la donna al telefono, con tono sereno e pacifico.
“Non mi va che pensi male di te” brontolò Jerome, pur calmandosi un poco.
Sospirando, Sarah fissò allora figlio con maggiore contegno e domandò: “Non credi che abbia il diritto di sapere, ora?”
“Di’ a tua madre di venire qui in clinica. Sarei felice di conoscerla.”
Jerome non parve per nulla d’accordo ma assentì e, quando chiuse la telefonata, lanciò un’occhiata di rimprovero alla donna che l’aveva messo al mondo, ringhiando: “Per una volta nella vita, potresti smetterla di essere un Freki, quando parli con noi?!”
***
Accoccolata sul grande letto che divideva con il marito, Sarah poggiò il mento sulle ginocchia e, fissando accigliata la figura di Jonathan, borbottò: “Perché sono sempre dovuta essere io, quella cattiva?”
“Perché gli artigli li hai sempre sfoderati tu per prima, tesoro, mentre io dovevo contenerti e, nel peggiore dei casi, curare le ferite” replicò con gentile fermezza l’uomo, sorridendo nel deporre un bacio sul capo della moglie.
Lei gli mostrò i denti in una smorfia minacciosa, ma lui non le diede alcun peso. Terminò di spogliarsi e, dopo essersi immerso nelle coltri profumate, attirò a sé la moglie per abbracciarla.
“Ti sta ben fatta, tesoro. Devi capire che, ormai, i nostri figli sono adulti e, se vogliono tenerci nascosto qualcosa, ne hanno tutto il diritto.”
“Ma io…” tentennò la donna, non sapendo che rispondere.
“Lo so. Tu sei Freki, e scovare i problemi – e chi li causa – è innato in te ma, a volte, ai figli piace risolvere le cose anche da soli. Specialmente ai maschi” la irrise bonariamente lui, baciandole il naso.
“Avresti dovuto vedere la faccia di Jerome. Non mi aveva mai guardata così” sospirò la donna, poggiando la fronte sul torace importante del marito. “L’ho deluso, stavolta.”
“Perché, stavolta, non è la sua classica sbandata per una bella lupa” motteggiò Jonathan, carezzandole la chioma biondo scura. “Evidentemente, di quest’umana è davvero preso e, se le ha detto di noi, è perché si fida ciecamente. Avremmo dovuto capire che c’era qualcosa che non quadrava, quando ha deciso di andare a vivere da solo.”
“Aveva l’età giusta” mugugnò Sarah, pur sapendo che, in parte, il marito aveva ragione. Non era strano che i licantropi rimanessero in famiglia anche in età adulta. Era un buon modo per evitare che il loro segreto sfuggisse di mano anche in modo involontario.
“Verissimo. E, forse, lui è stato così ermetico con noi per non preoccuparci. Dopo quello che successe con Lance, chi non starebbe in ansia?”
“Ma, e se fosse… se fosse…”
Azzittendola con un bacio, il marito replicò subito alle sue paure.
“Non è una Cacciatrice. Non è una seconda Diane. Pensi che Jerome non sappia riconoscere la differenza? Siamo rimasti tutti colpiti da quell’evento, e nessuno di noi commetterebbe più il medesimo errore.”
“Ma al cuor non si comanda” mormorò dolente Sarah, rammentando fin troppo bene quanto, Lance, avesse patito per il tradimento della donna amata.
Era stata lei a dare la caccia a coloro che lo avevano voluto morto, lei che gli aveva consegnato i Cacciatori da dilaniare, lei che per prima aveva fatto sparire Diane.
No, non avrebbe permesso che suo figlio soffrisse le stesse pene.
Ma doveva il beneficio del dubbio a Jerome, anche se il suo istinto di Freki la faceva gridare dal nervosismo e dalla paura di sbagliare.
“Vai da lei senza pregiudizi, cara e, soprattutto… non sbranarla” le disse Jonathan, guadagnandosi per diretta conseguenza un morso sul collo.
***
Il centro riabilitativo dove lavorava Cynthia si trovava appena fuori Matlock, su Snitterton Road, sulle rive di un placido laghetto ricolmo di germani reali e cigni dal candido manto.
La struttura a un piano era di un rassicurante color panna, con vetri ombreggiati e una discreta targa sull’ingresso che ne declamava i compiti.
Centro di recupero disabilità motorie, uditive e visive.
Sempre più sconcertata, Sarah discese dall’auto assieme a Jerome che, muto sin dal giorno precedente, si avviò verso l’entrata con passo sicuro. Come se conoscesse quel posto come le sue tasche.
All’interno, alcune infermiere lo salutarono allegre, denotando una familiarità con lui che non passò inosservata all’occhio attento di Sarah. Quel che la sorprese, però, fu notare come alcuni pazienti, a loro volta, riconobbero e salutarono Jerome.
C’era un sentimento misto di piacere e affetto, nelle loro voci, così come nei loro occhi umani. Non un solo licantropo si trovava in quella struttura, però. Come aveva fatto, Jerome, a finire lì?
Tenendo il passo con il figlio, Sarah si ritrovò infine a fissare la porta a vetri satinati di un ufficio, su cui compariva il nome della dottoressa Cynthia Graham.
Psichiatra. Quella donna era una psichiatra?
Lì, Jerome entrò dopo un paio di colpetti al battente e, gelido, indicò alla madre di seguirlo.
Mi costerà molto, il mio impicciarmi sempre, questa volta, pensò contrita Sarah, cercando di apparire il più docile possibile.
Non che fosse facile, per un Freki, ma stavolta doveva davvero impegnarsi molto per recuperare la fiducia del figlio.
Ad attenderli trovò una donna molto alta ed esile, avvolta in un camice bianco e profumato di lavanda. Sotto di esso, indossava un comodo tailleur color cielo notturno su scarpe classiche, dal tacco basso.
Dimostrava all’incirca trent’anni e, sulle spalle, scivolavano lisci e lunghi capelli biondi.
Il sorriso con cui la accolse disse molto a Sarah, così come la sua mano levata. Ciò che la turbò un poco, invece, fu il notare la totale mancanza di ricerca di un incrocio di sguardi.
Fu in quel momento che comprese.
“Lei deve essere la madre di Jerome. E’ un piacere conoscerla, Mrs Rowley. Io sono Cynthia” esordì la dottoressa, mentre Sarah le stringeva la mano.
“Il piacere è mio, Cynthia” replicò Sarah, lanciando uno sguardo d’accusa al figlio, che però non le rispose in alcun modo, limitandosi ad avvolgere protettivo le spalle alla donna.
Donna che, evidentemente, amava al punto di schierarsi contro sua madre. Forse, contro tutto il branco.
“Oserei dire che non le hai detto proprio nulla, vero, Jer?” ironizzò la dottoressa, sorridendo all’uomo al suo fianco.
Un attimo dopo, lei rise dolcemente e, rivoltasi nuovamente a Sarah, dichiarò: “Sono cieca come una talpa, come avrà ormai immaginato da sola. Vedo un miscuglio molto vago di luci e ombre, ma nient’altro.”
Jerome le baciò protettivo il capo, mormorandole all’orecchio qualcosa che Sarah non comprese e la dottoressa, per diretta conseguenza, esalò: “Ma è vero, che sono cieca, Jer! Perché non dovrei dirlo? Tua madre se ne sarebbe comunque accorta a breve, non ti pare?”
“Non ti definirei mai una talpa, comunque” precisò lui, con tono serio e amorevole. “Sei molto più bella, e decisamente più brava nel muoverti.”
Sarah li osservò per qualche secondo ancora, incredula e spaesata di fronte a quel Jerome che sembrava non riconoscere affatto.
Reclinando colpevole il capo, Freki mormorò: “Di sicuro, la cieca sono io, qui dentro.”
“Forse” ringhiò Jerome, guadagnandosi per diretta conseguenza una gomitata da parte di Cynthia, che si lagnò dal male un attimo dopo.
“Tu e i tuoi benedetti addominali scolpiti” ironizzò la dottoressa, massaggiandosi il gomito dolente sotto gli occhi sorpresi di Sarah.
“E sì che ormai dovresti saperlo, come sono fatto” ghignò il giovane, dandole un buffetto sul naso.
Cynthia gli mostrò la lingua con fare complice, prima di mormorare: “Si segga, Mrs Rowley, e lasci perdere il caratteraccio di Jerome. Tende a essere molto protettivo, quando mi vede qui, anche se non ne ha davvero alcun motivo.”
Fu in quel momento che Sarah percepì qualcosa che non avrebbe dovuto affatto esserci e, assottigliando le iridi perlacee, affrontò il figlio e domandò: “Perché l’aura di Brie la protegge? Lei, dunque, sa? E anche Duncan?”
Jerome si accomodò con fare sgraziato e accavallò le gambe, ordinando alla madre di fare lo stesso.
Quando Sarah l’ebbe accontentato – e Cynthia si fu accomodata alla sua scrivania – lui ammise: “Lo sa da due anni a questa parte. E no, Duncan non ne è a conoscenza. Volevo sondare il terreno per capire come l’avresti presa, e mi scoccia ammetterlo… avevo ragione da vendere a voler tacere.”
“Jer!” sbottò Cynthia, accigliandosi. “Stai pur sempre parlando a tua madre.”
Lui le mostrò i denti per un attimo e la donna, per diretta conseguenza, borbottò: “Oh, no, non metterai il broncio con me, Jerome Rowley. Stai sfidando una Sociologa e una Psichiatra a un battibecco senza senso. Non mi batterai mai nelle battaglie mentali. Sappilo.”
Jerome, allora, sbuffò con un mezzo sorriso, ammettendo: “Sì, lo so, mi freghi sempre, ma ho davvero le scatole girate, ora.”
“E non pensi che tua madre, pur con tutta la sua pazienza, non sia giustamente arrabbiata a sua volta?” gli rinfacciò lei, reclinando il viso nella direzione in cui si trovava Sarah.
Com’era in grado di trovarla con così tanta facilità, si chiese Freki, scrutandola con intenzione.
“Posso sapere da quanto tempo vi conoscete?” intervenne a quel punto Sarah, scrutandoli entrambi.
“Direi quattro anni, ormai” dichiarò con semplicità la dottoressa, sgomentando Sarah.
Quattro. Anni? E, in quattro anni, lei non si era mai accorta di nulla?
Possibile che Jerome le avesse tenuto nascosto un rapporto apparentemente così importante, e per tanto tempo?
Per una volta nella vita, potresti smetterla di essere un Freki, quando parli con noi?!
Sarah rammentò bene l’accusa del figlio, il suo sguardo ferito e, in quel momento, ne comprese i motivi.
Nel bene e nel male, un Freki sarà sempre guardingo nei confronti delle novità. E’ nella sua natura.
Dopo gli eventi legati a Lance, tutto era stato più difficile per lei. Si era sentita ancor più in dovere di prima, di badare a che le cose andassero per il verso giusto.
Dopotutto, Freki non era solo il sicario del branco, ma controllava anche le sentinelle, essendo egli il miglior cacciatore del clan.
Compito suo era tenere d’occhio i confini del territorio e, assieme a Geri, cacciare gli invasori – o i traditori – per ordine di Fenrir. A maggior ragione, aveva sempre tentato di tenere il dolore e il pericolo lontani dai suoi figli.
Ma aveva tenuto lontano anche, e soprattutto, le sue stesse creature?
A quanto pareva, sì.
Lappandosi le labbra con espressione ferita, Sarah domandò ancora: “In che… in che occasione vi siete conosciuti?”
Cynthia lanciò uno sguardo cieco in direzione di Jerome – seduto al fianco della madre – quasi sapesse a menadito dove si trovasse in ogni momento.
E forse era davvero così.
“Jerome è finito nel laghetto qui dietro, nel tentativo di recuperare una delle nostre giovani pazienti” le spiegò la dottoressa, sorridendo con dolcezza.
Tossicchiando imbarazzato, lui aggiunse: “Stavo facendo una corsetta nei boschi dei dintorni, quando ho udito delle grida e sono accorso qui. C’era una gran frenesia, ma ho capito subito dove fosse sorto il problema. Uno dei pazienti era uscito di nascosto e aveva finito col perdersi, avvicinandosi troppo al laghetto.”
“L’ha riportata a galla e riconsegnata nelle mani delle infermiere, dopodiché si è voluto assicurare personalmente che stesse bene. Ha passato ore, qui” ricordò Cynthia, sorridendo con amorevole affetto.
“Non farla più grande di quel che è, Cyn. Non ho mica volato sulla luna e ritorno, sai?” borbottò imbarazzato Jerome, pur sorridendole.
Lei accentuò il suo sorriso e, rivolta a Sarah, dichiarò: “Suo figlio è molto modesto, sa?”
“E anche molto bravo a mantenere i segreti. Non l’avrei mai pensato” mormorò la donna, lanciando uno sguardo al figlio, tutt’ora accigliato.
“Che cosa avrei dovuto fare? Se anche vi avessi detto che Cynthia è una Percepente, sareste stati tutti quanti sul piede di guerra, perché è umana” brontolò Jerome, sulle sue.
“Una …Percepente?” ripeté sorpresa Sarah, comprendendo il perché dei movimenti così sicuri della donna. Avvertiva le loro auree!
“Esatto” borbottò Jerome, sempre ombroso in volto.
“Anche Gordon e Mary Beth giunsero nel branco da umani” sottolineò la madre, tentando di chetarlo.
“Erano circostanze eccezionali, e loro avevano il sostegno di Brianna che, di fatto, conta un tantinello più di me, o della mia parola” sbroccò l’uomo, sbuffando sonoramente.
“Non pensarlo neppure!” ringhiò Sarah, prima di contenere la rabbia con la sola forza di volontà. “La tua parola vale quanto quella di chiunque altro.”
“Oooh, andiamo, ma’! Pensi davvero che non sappia che tutti mi considerate uno scapestrato Casanova, e basta?” la rabberciò lui, senza alcun riguardo.
Cynthia sorrise divertita, e motteggiò: “Un Casanova molto affascinante, oserei dire.”
“Cyn, dai… cerco di essere serio. Non remarmi contro” brontolò lui, arrossendo un poco.
“Anch’io, Jer, e sentirti parlare così ferisce tua madre, temo. Non penso proprio che tu venga giudicato solo e unicamente come un perdigiorno. Io non lo penserei mai, per lo meno” sottolineò Cynthia, tornando seria.
“L’hai detto a Brianna. E lei è Prima Lupa e wicca. Ti avrebbe dato lei il salvacondotto per Cynthia, così da presentarla al branco, a tutti noi. A me” gli rammentò Freki, sentendosi sconfitta per vari motivi.
Quanto aveva ferito il figlio, con la sua rigidità? Davvero la temeva così tanto da non fidarsi di lei, neppure avendo alle spalle il consenso della loro wicca?
Incurante dello sguardo furioso di Jerome, Cynthia si levò dalla poltroncina e, dopo aver oltrepassato la scrivania, allungò una mano in cerca di Sarah.
Quando quest’ultima si lasciò trovare, sorrise e disse: “Il suo è un potere diverso da quello di Jer, più affilato e… freddo. Ma non in senso negativo. Come di qualcuno abituato a soppesare sempre pro e contro. Deve essere una cacciatrice incredibile.”
Jerome sbuffò irriverente ma, prima ancora di Sarah, fu Cynthia a richiamarlo all’ordine.
“Oooh, piantala, Jer! Se la metà delle cose che mi hai raccontato sono vere, vorrei ben vedere che tua madre non fosse così! E non fosse giustamente preoccupata per te!”
“Che c’è? La difendi anche, adesso? Se l’avessi lasciata fare, ti avrebbe sbranata senza avere neanche l’accortezza di chiedermi come sei!” brontolò Jerome, ormai fuori dai gangheri.
Sarah tentò con tutta se stessa di non rispondere alle accuse, ma fallì miseramente.
“Cosa te lo fa pensare, sentiamo? Proprio tu che sei Sköll, dovresti sapere che io agisco solo su ordine di Fenrir. Non avrei mai preso decisioni personali e, soprattutto, dettate da mie paure irrazionali. Inoltre, ti ricordo per la terza volta che Brianna era dalla tua parte!”
“Ammetti, allora, che le tue sono solo paure!” le ritorse contro il figlio, poggiando le mani sui braccioli della poltrona.
“Sei mio figlio!” sibilò Sarah, ai limiti del pianto.
Jerome ammutolì, a quella vista e Sarah, approfittando del suo silenzio, mormorò con maggiore contegno: “Sarò sempre preoccupata per te ed Erika. Finché avrò fiato nei polmoni. Siete carne della mia carne, perciò scusami se questa cosa mi ha scioccata a morte!”
Cynthia squadrò Jerome senza vederlo, come a dire: ‘E bravo, l’hai fatta piangere…’
Grattandosi la nuca con fare nervoso, Jerome, allora, borbottò: “Okay, dai, ma’. Non piangere. L’ho gestita male, va bene? Ma tu parti sempre in quarta, e pensavo che… che, insomma, anche se Brie sapeva tutto, non ti saresti accontentata. Dovevi essere tu, a essere avvertita per prima. Non il branco. Non Duncan. Solo, non sapevo come fare.”
Sospirando, Sarah sollevò la mano libera per chetarlo e, con un mesto sorriso, asserì: “Come dice tuo padre, io sono Freki, sempre e comunque, e il mio istinto parla prima del mio cervello. Ma vorrei scusarmi per non averti lasciato altra scelta che mentirmi.”
Cynthia allungò una mano e strinse nella sua quella di Jerome e, nel volgere lo sguardo verso Sarah, sorrise.
A Sarah parve che brillasse di pura gioia.
“L’appartamento lo ha preso per stare con te?” domandò poi Freki, senza alcun sottofondo accusatorio nella voce.
Cynthia annuì, mormorando: “Diciamo che è diventato necessario.”
A quel punto, Sarah sgranò gli occhi, si volse a guardare il figlio e, finalmente, comprese.
L’aura scombussolata, lo sguardo perso e preoccupato, la testa tra le nuvole.
“Jerome, voi…”
Lui la interruppe e, sospirando, scrollò le spalle nel dire: “Devo parlare anche con Duncan, a questo punto. Non posso più procrastinare.”
“Sì, sarà il caso. Penso che dovresti davvero presentargliela” assentì Sarah, ancora parecchio scombussolata da quell’ultima bomba.
***
Dopo aver poggiato sul tavolo del salotto un vassoio con del tè e dei biscotti al cioccolato, Brianna andò ad accomodarsi accanto al marito, che teneva in braccio Nat.
Jerome li scrutò senza dire nulla, indeciso se dire altro o meno, così fu Duncan a parlare.
Fenrir scrutò il volto pacifico di Cynthia, seduta su una delle poltrone accanto al camino spento, e disse: “Di sicuro, hai imparato davvero bene a mantenere i segreti. E’ un passo avanti enorme, per te. E, a quanto pare, anche tu hai migliorato molto.”
Jerome ghignò e Brianna, nel dare un bacetto a Duncan, asserì: “Era una situazione eccezionale. Diversamente, ti avrei detto tutto.”
Nel passare Nathan a Brianna, Duncan le sorrise e si alzò per servire il tè ai presenti.
Rimase in silenzio per tutta la durata delle operazioni e, quando infine consegnò la tazza a Cynthia, le domandò: “Ma sei sicura di poter davvero sopportare mio cugino?”
Lei rise sommessamente, e annuì.
Scrollando le spalle, allora Duncan tornò a sedersi e, intrecciate le gambe, chiosò: “Per me non ci sono problemi. E, visto che Brie ha steso su di te la sua benedizione, sono doppiamente tranquillo.”
Sentendosi chiamata in causa, la giovane si limitò a dire: “Posso solo dire che Cynthia mi piace. Ha un’aura positiva e luminosa, e i sentimenti che prova per J sono sinceri. Li avvertii chiaramente fin dalla prima volta in cui la vidi.”
Jerome storce un po’ il naso, a quei commenti, e borbottò: “Ragazzi, non per fare il pignolo, ma non stiamo passando un esame.”
“E invece sì, mio caro Sköll, per quanto mi dia noia il solo pensarci” sospirò Duncan, fissandolo spiacente. “Sai benissimo che Cynthia dovrà essere presentata al Vigrond, e il branco dovrà accettare la sua presenza nel clan.”
“Sì, ma…” iniziò col dire, subito bloccato da Cynthia.
“Dovrò passare un esame di qualche tipo?”
“No, Cynthia. Solo la Prima Lupa può essere sfidata a un’Ordalia” le spiegò Duncan, sorridendo un attimo a Brie, che ghignò. “Ma rimane il fatto che tu sei umana e, come è successo per il fratello e la matrigna di Brie, dovrai a tua volta essere presentata al branco perché ti accettino in seno alla comunità.”
“Si impunteranno perché nessuno la conosce” brontolò Jerome, facendosi ombroso.
Brianna, allora, si levò in piedi per raggiungere Cynthia e, dopo averle sfiorato un braccio, le chiese: “Puoi tenere Nathan in braccio per un attimo?”
“Volentieri” assentì con naturalezza la dottoressa, che allargò le braccia per accogliere il bambino.
Questi gorgogliò di gioia e afferrò la camicetta di Cynthia, facendola ridere.
Il bambino giocherellò con le dita della donna, ne succhiò una per un po’, dopodiché si esercitò coi denti, mordicchiando le nocche e le unghie.
Dopo un paio di minuti, Brianna si accomodò nuovamente accanto al marito e dichiarò: “Bene. Nathan la conosce, io la conosco e Duncan la conosce. Direi che sarà difficile che qualcuno possa dire qualcosa, quando la Prima Lupa, Fenrir e il Primo Cucciolo dichiareranno che Cynthia è persona gradita. Oddio, Nat dichiarerà poco, ma si capirà comunque.”
A quest’ultimo commento, tutti sorrisero e Jerome, passandosi una mano sul viso con espressione vagamente più rasserenata, esalò: “Pensi che basterà?”
Duncan, allora, si levò in piedi, raggiunse il cugino, si accoccolò vicino alla sua poltrona e mormorò: “Mio lupo, mio Sköll, pensi davvero che uno solo di noi non sarebbe d’accordo nell’accettare Cynthia nel branco?”
“Io, beh… lei è umana e…” tentennò lui, subito azzittito dal gesto del cugino.
Duncan gli carezzò una guancia con fare tenero, aggiungendo: “Dovrei essere insensibile per non vedere quanto la ami, e quanto lei ama te.”
“O cieco totale” aggiunse con ironia Cynthia, sorridendo in direzione di Duncan, che rise sommessamente.
“O cieco totale, per l’appunto” riprese Fenrir, annuendo. “Lo capiranno anche gli altri e, se un domani Cynthia vorrà, potrà diventare licantropa. Ma sarà solo una sua decisione. Nessuno la obbligherà, esattamente come è avvenuto per Gordon e Mary Beth.”
A quel punto, Jerome assentì con gli occhi lucidi di pianto e, scrutando Brianna, le domandò: “Pensi che, se diventasse licantropa, potrebbe…?”
Non terminò il quesito, ma la giovane comprese subito quale fosse il suo pensiero.
La cecità di Cynthia.
Rivolgendosi alla donna, perciò, Brie le chiese: “E’ un disturbo congenito, o il risultato di una malattia?”
“Una malattia degenerativa” le spiegò allora Cynthia, con tono perfettamente calmo.
Brianna, allora, si rivolse a qualcuno di più alto in grado.
“Fenrir, tu che dici?”
Tutto può essere, mia cara. Forse, potrebbe recuperare parte della vista, forse nulla o, forse, potrebbe recuperarla del tutto. Essendosi trattato di una malattia, le casistiche sono migliaia. Sono passati anni da quando è in questa condizione, perciò non ho davvero risposte degne di tale nome. Curare la tua leggera miopia è stato un po’ diverso.
Brianna rammentava bene come, dopo essere divenuta licantropa, aveva potuto rinunciare alle lenti a contatto. Il suo, però, era stato un difetto di poco conto. Cynthia partiva quasi completamente cieca.
Sospirando, riemerse da quel confronto interno e mormorò: “Fenrir non è sicuro che possa recuperare la vista, ma non è da escludersi.”
Jerome, allora, sospirò, ma Cynthia ci tenne a dire: “Jer, a me va bene anche così. E’ una vita che procedo nel mondo senza vedere. Non mi angustierò se anche non succedesse niente, quando avrò la mia livrea per la prima volta.”
“Vuoi… diventerai come me, allora?” esalò lui, sorridendole nel darle un bacio sulla guancia.
“Sono abituata a usare i sensi che mi sono rimasti. Ho idea che, come lupo, sarà molto più semplice” ironizzò lei, ammiccando.
Jerome rise, assentendo a quel commento, e dichiarò: “Ti insegnerò tutti i segreti del bosco, Cyn… poco ma sicuro!”
Duncan prese una mano della dottoressa e, nel carezzarle il dorso, le promise: “Sei e sarai parte della famiglia, Cynthia, perciò non temere. L’approccio con questo mondo sarà semplice. Non dovrai preoccuparti di nulla.”
“Non sono preoccupata. Sono con i miei angeli custodi” sorrise tranquilla la donna, e Jerome sorrise fiducioso.
Avrebbe tanto voluto ringraziare Nelson Withlock, per averle dato questa fiducia incondizionata nella loro razza, ma era ormai morto da tempo.
Una cosa, però, poteva farla, e in quello si sarebbe impegnato per tutta la vita.
L’avrebbe amata e protetta e, insieme, avrebbero cresciuto la loro creatura.
Sì, era un buon piano e, stavolta, lo avrebbe sbandierato ai quattro venti.
Poteva finalmente lasciarsi alle spalle tutti quei segreti.
Note: la resa dei conti tra Jerome e sua madre è infine arrivata e, come temeva il giovane, la bomba è esplosa con forza sulle loro teste. Sarah non ha potuto fare a meno di lasciare esternare la sua natura di Freki ma, soprattutto, di madre devota, e questo ha irritato in prima battuta Jerome, pur se lo ha lasciato con l'amaro in bocca alla fine, spiacente di aver ferito suo malgrado la madre col proprio silenzio.
Come andrà a finire tra i due? E la cerimonia al Vigrond metterà a tacere tutti?
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Capitolo 9 *** Jerome's Secrets - Parte 6 (Ottobre 2019) ***
Jerome’s Secrets – Parte 6
(Ottobre 2019)
Procedere sulla schiena imponente di Jerome era un lusso che, solo di recente, aveva accettato pienamente come parte integrante della sua vita.
Quando se l’era ritrovato davanti per la prima volta, aveva stentato a credere che, la creatura che stava toccando con le sue mani, fosse reale.
Quell’aura gigantesca, però, l’avrebbe riconosciuta tra mille e, quando lo aveva abbracciato, affondando nella gorgiera morbida, aveva sussurrato il suo nome con amore.
Clive e Mildred Graham procedevano poco dietro di loro, camminando speditamente sul terreno sconnesso del sottobosco.
Era passato più di un anno, da quando Cynthia era stata formalmente accettata in seno al branco, e lo stesso era avvenuto per i suoi genitori.
Presentare alla coppia la reale identità di Jerome non era stato difficile. Avendo parlato loro in passato del particolare dono del dottor Wilson, Cynthia aveva spiegato ai genitori di aver trovato un’altra persona ugualmente dotata.
Da lì alla piena accettazione del segreto della licantropia di Jerome, il passo era stato breve.
L’amore per la figlia, e l’amore che i coniugi avevano letto negli occhi del giovane licantropo per Cynthia, aveva fatto il resto.
L’incredulità e lo stupore erano stati marginali, niente più che un battito di ciglia, per due persone come loro.
Come la figlia, infatti, anche i coniugi Graham erano in grado di vedere al di là della vista pura e semplice. E, se per Cynthia ciò si traduceva nel dono della Percezione, per Clive e Mildred voleva solo dire amare ciò che la figlia amava.
Duncan si era dichiarato disponibile a mutarli personalmente, e Brianna era stata loro accanto durante tutta la fase di Mutamento.
Fungendo da tramite tra la Madre e la Luna, che aveva richiamato a sé i nuovi figli con un gran ringhio e stridore di fauci, Brianna li aveva accolti in seno al branco con un sorriso e un abbraccio.
Pur rassicurata da tutti riguardo alle mutazioni in età più avanzata, maggiormente sopportabili che in età fertile, Cynthia non se l’era sentita di cantare vittoria tanto presto. Solo quando Brianna l’aveva chiamata al telefono, gaudente e serena, si era permessa di lasciarsi andare a un pianto liberatorio.
Jerome, naturalmente, si era subito preoccupato per lei – già al sesto mese di gravidanza – ma Cynthia lo aveva chetato subito, rincuorandolo.
Vedere – col cuore e la percezione delle auree – poi i genitori nelle loro nuove vesti, l’aveva tranquillizzata del tutto.
Non che avesse avuto dei dubbi sulla loro decisione di mutare, ma avvertire la loro soddisfazione tramite le loro nuove auree fiammanti, era stato un sollievo.
Dopotutto, per Mildred e Clive non era stato difficile scegliere. Il mondo del loro futuro genero era quello in cui sarebbe cresciuto il loro nipotino, e a tale mondo loro si sarebbero uniti.
Semplice. Del tutto lineare.
Perché, per i coniugi Graham, contava innanzitutto che lui l’amasse, e che Cynthia amasse Jerome.
Licantropi, magia e quant’altro erano un fattore secondario. Un’avventura inaspettata che, alla loro età, sarebbe stata più che ben accetta.
Ora, dopo sei mesi dal parto, e con Nelson addormentato tra le braccia, Cynthia avrebbe partecipato alla cerimonia di Iniziazione del bambino.
Tutto si era svolto come in un sogno, in quei lunghi mesi passati dalla sua prima presentazione al Vigrond. Il tutto era avvenuto in un giorno di plenilunio, alla presenza degli alfa più potenti del branco e, a loro, lei aveva aperto il proprio cuore e la propria anima.
Brianna aveva parlato in suo favore, e così pure lo aveva fatto Duncan, sancendo per sempre la sua entrata nel branco. Alla stessa maniera, la Prima Coppia aveva parlato a favore dei suoi genitori, che Brianna e Duncan avevano conosciuto alcune settimane prima dell’evento.
Il branco li aveva accettati con gran favore di tutti e, da quel momento, lei era divenuta per ogni membro del clan la compagna di Sköll.
E ora questo.
Quando avvertì Jerome fermarsi e piegare le zampe sotto di lei, seppe di essere infine giunta al Vigrond.
Tenendo saldamente Nelson tra le braccia, Cynthia avvertì la presenza di Brianna al suo fianco – in forma umana – e, con voce insicura, esalò: “Che succederà, ora? So che me l’hai già detto, però…”
“Però è strano per tutti, anche per chi ci è già passato, credimi” la rincuorò la wicca, battendole una mano sul braccio. “Lo depositeremo su un letto di foglie, e i lupi si strusceranno contro di lui, lasciandogli il loro odore. Così, verrà riconosciuto a tutti gli effetti come membro del branco.”
“Anche se rimarrà umano?”
“Soprattutto se rimarrà umano. Rammenta una cosa, Cynthia. Siete preziosi, sempre e comunque” mormorò Brianna, accompagnandola nel mezzo della radura del Vigrond.
Tutt’attorno a loro, la quercia stava emanando potenti onde d’energia e Cynthia, nell’avvertirle, sussurrò: “Com’è poter parlare con Lei?”
“Qualcosa di unico. Le piaci, sai?” le disse Brianna, prendendo dalle mani della donna il piccolo frugoletto dai capelli biondi.
Cynthia sorrise e, in quel mentre, Jerome le si avvicinò in forma umana.
“Brianna lo sta sollevando sopra la testa” le sussurrò all’orecchio, avvolgendole la vita con un braccio.
Lei assentì e Brianna, stentorea, esclamò: “Siamo oggi riuniti per accoglierti in seno al branco, Figlio della Luna! Benvenuto tra noi, Nelson Leon Rowley!”
Jerome sorrise nell’udire il nome di suo figlio in quel luogo sacro e Brie, con le lacrime agli occhi, mormorò nella sua mente: “Grazie per il bel gesto. Ma non avresti dovuto.”
“Leon sacrificò la vita per noi, anche se non ne fu consapevole. Volle aiutare la nostra wicca, la nostra Prima Lupa, e per questo sarà onorato finché avremo memoria. Dargli il suo nome mi è parso il minimo.”
“Ugualmente ti ringrazio, mio lupo” mormorò ancora Brianna, allontanandosi dalla sua mente per riprendere la cerimonia.
Deponendo con delicatezza il bambino su un letto di foglie fresche, la wicca parlò con tono più quieto e, alla luce diafana della luna, asserì: “Io ti accolgo in seno alla mia famiglia, figlio di Cynthia e di Jerome. Sii figlio mio, ora e fino al tuo ultimo respiro, come io sarò madre tua. Il mio artiglio, la mia tana e il mio sangue ti proteggeranno. Benarrivato, Figlio della Luna.”
Ciò detto, depose sulla fronte liscia del bebè un bacio tenero e, in un fruscio di pelle e ossa, mutò.
Duncan fu il primo ad avvicinarsi al bambino e, dopo essersi accucciato accanto al piccolo, strusciò il muso contro di lui.
Nelson rise gaio, e Cynthia tremò tra le braccia di Jerome che, con occhi offuscati dal pianto, osservò la scena senza essere in grado di aprire bocca.
Uno dopo l’altro, Brianna, Lance, Mary B, Gordon, tutti quanti si accostarono al loro bambino per deporre la loro traccia odorosa su di lui.
“Jer, che succede?” gli domandò Cynthia, riscuotendolo dal dolce torpore in cui era caduto.
“Lo stanno carezzando tutti. Alla maniera dei lupi, ovviamente. E’… è bellissimo” mormorò roco, affondando il viso nei capelli lisci della compagna.
Cynthia sorrise e, stringendo le mani di Jerome – deposte sul suo ventre piatto – mormorò: “C’è tua madre?”
“Sì” disse soltanto Jerome, scrutando la figura di Freki in tutta la sua grandezza.
Dal lucido pelo argenteo e nero, Sarah si avvicinò al piccolo e, con una delicatezza infinita, strofinò il naso contro la guancia del bimbo, che scoppiò a ridere per il solletico.
Non contento, Nelson le afferrò la gorgiera con le mani, e lei non si mosse.
“Anche tu lo facesti, con il padre di Anthony. Gli strappasti anche qualche pelo, a ben ricordare” intervenne sua madre, nella mente di Jerome, sorprendendolo.
Dopo la lite furiosa avvenuta nell’ufficio di Cynthia, le cose erano andate via via migliorando, ma Jerome non si era ancora del tutto abituato alla realtà dei fatti.
Per lo meno, non a quella che riguardava sua madre.
Non aveva voluto ammetterlo neppure con Cynthia, ma quella lite lo aveva ferito. Si era sentito malissimo all’idea di averla contro.
Così come si era sentito un mostro al pensiero di averla fatta piangere.
“Ti fa male? Vengo a liberarti?” le domandò a quel punto Jerome.
“Nelson non potrà mai farmi del male. Così come tu non potrai mai farmi del male, J. Ho sbagliato, con te e con Cynthia, e mille scuse non basteranno a rimediare i miei torti, ma dimmi soltanto che un giorno potrai perdonarmi.”
“Solo se tu perdonerai me per averti fatta piangere.”
“Non ricordo di averlo mai fatto” replicò Sarah, con tono divertito.
Jerome sorrise a quelle parole e, quando Nelson finalmente la lasciò andare, seppe che tutto sarebbe andato a posto, anche con sua madre.
Perché sarebbe stato inconcepibile vivere finalmente una vita assieme alla donna che amava, ma perdere l’affetto di sua madre.
***
Dio! Era davvero stravolto!
Che notte d’inferno aveva passato! E dire che ci era già passato con Sean, diversi anni addietro, e con altri lupi dopo di lui. Persino la mutazione di Gordon non era stata esente da autentici momenti di panico, eppure…
Beh, questa volta c’era andata di mezzo la sua adorata, per cui, era stata davvero tutt’altra storia.
Però, avrebbe preferito non svegliarsi con tutte le ossa rotte e un mal di testa da capogiro.
Passandosi una mano tra i capelli ispidi, Jerome non fece in tempo a sbadigliare che un urlo improvviso lo fece rizzare in piedi come una molla.
Portandolo a sbattere la testa contro la scrivania.
Scrivania?!
Come ci era finito sotto la scrivania?!
Massaggiandosi il capo dolorante – come se non ne avesse già avuto a sufficienza degli altri dolori che aveva – Jerome si guardò intorno, frenetico e spaventato.
Chi aveva urlato? E perché?
Fu l’arrivo di Cynthia a farlo svegliare del tutto.
Appariva spiritata, con gli occhi verdi sgranati e bellissimi, i capelli per aria e le mani tremanti a livelli quasi preoccupanti.
Rialzandosi a fatica, Jerome le andò incontro, poggiando le mani sulle sue spalle e, solo in quel momento, lei lo guardò.
Sì, lo guardò.
La bocca iniziò a tremare, formando un sorriso stentato quanto incredulo e, mentre le mani correvano su quel volto tanto amato, Cynthia esalò: “Jerome… oh, Jerome…”
Non osando mettere a voce le sue speranze, lui la abbracciò con forza e Cynthia, restituendo un abbraccio di eguale intensità, sussurrò roca: “Il mio Jerome… sei così bello… hai gli occhi grigi come le ali di una colomba…”
Scoppiando a piangere, il licantropo assentì contro la sua spalla e, con voce resa insicura dall’emozione, assentì al suo dire.
“Sì. S-sono grigi. Sono grigi. Grigi… anche… anche la mamma li ha così…”
Cynthia si scostò da Jerome, fissandolo con i suoi nuovi occhi, verdi come le colline irlandesi, e mormorò: “Anche Nelson li ha così?”
“Sì. Crediamo che ormai li manterrà così” assentì ancora Jerome, baciandola sul naso e la fronte. “Dio, Cyn… tu ci vedi… ci vedi…”
Lei rise, scuotendo la mano come una barchetta in mezzo al mare e Jerome, dubbioso, borbottò: “Perché fai così?”
La donna allora ammise: “Vedo meglio di prima ma, per dire di riuscire a vedere per prendere la patente, ce ne corre. Però, posso scorgere i colori, le sagome sono più nitide. E’ un miglioramento.”
Jerome sospirò, ma Cynthia lo abbracciò con forza, aggiungendo: “Come lupo ci vedo benissimo, Jer. Quella parte della nostra vita sarà un’autentica novità e, quando sarò in forma umana, potrò continuare comunque a lavorare alla clinica. Non è fantastico?”
Si scostò per fare una mezza piroetta e, battendo le mani come una bambina, esclamò: “Jer, io ero cieca fino all’altro giorno. E lavoro in una clinica dove tutti sanno che sono cieca! Così non perderò il mio lavoro e, al tempo stesso, vedrò. Potrò fare entrambe le cose, vivere in entrambi i mondi senza alcun problema.”
Jerome, allora, si ritrovò a sorridere con lei e, nel carezzarle il viso, le domandò: “Non ti scoccia dover continuare a chiedere aiuto, per certe cose?”
“Ci sono abituata da una vita e, con quel po’ di vista in più che ho acquisito in forma umana, potrò evitare dei guai e, al tempo stesso, essere più brava con i miei pazienti” replicò Cynthia, sorridendo lieta. “Della patente farò a meno.”
Nell’afferrare le mani del compagno, la donna lo attirò con sé finché non raggiunse insieme a lui la stanza del figlio e, parlando piano per non svegliarlo, mormorò: “Direi che i rumori forti non lo spaventano. Pensavo di avere schiantato qualche vetro, quando ho urlato.”
Pur trovando divertente la sua ironia – non andata persa nella mutazione –, lui le domandò: “A proposito… perché hai urlato?”
“Ho visto come ho ridotto la stanza da letto e, quando ho capito di aver visto, ho dato di matto per alcuni attimi. Temo dovremo chiedere a Lance di rifare qualche mobile” mugugnò Cynthia, facendo la lingua.
Lui però rise, incurante degli eventuali danni alla stanza da letto, e replicò: “La ricomprerò tutta, la casa, se necessario. Non mi interessa nulla.”
Carezzando la zazzera bionda del figlio, Cynthia mormorò: “Credo che ti somigli.”
“Somiglia anche a te. La bocca è tua al cento percento” ribatté Jerome, stringendola a sé in un abbraccio orgoglioso. “Mi spiace che tu non abbia recuperato tutta la vista, ma è vero. Così, non dovrai rinunciare al tuo lavoro, che ami tanto.”
“C’è sempre la mia controparte mannara e, con quegli occhi, vedo benissimo. Non mi sfuggirai, Jer, credimi” ironizzò lei, mordicchiandogli il mento.
Lui ridacchiò e, nell’attirarla fuori dalla stanza di Nelson, mormorò: “Dove pensi potrei andare, senza di te?”
“Non correrò il rischio di scoprirlo” sottolineò lei, avvolgendogli la vita con le braccia.
Nel chiudersi la porta alle spalle, Jerome annuì e, schiacciandola contro il muro, aggiunse: “Io ho te, tu hai me e, insieme, abbiamo avuto Nelson. Non potevamo cominciare meglio la nostra vita assieme. Non abbandonerò mai questa serenità. Posso giurartelo.”
“Siamo stati bravi, nessun dubbio, su questo” assentì lei, carezzandogli una guancia.
Assottigliando le iridi di perla, Jerome le morse delicatamente il mento e mormorò: “Cosa sta pensando la tua mente perversa? Non voglio curiosare, però sono molto interessato a saperlo.”
Sfregando i denti contro il collo di Jerome, Cynthia replicò: “Che ne dici se te lo faccio vedere su quel che rimane del nostro letto?”
“Con vero piacere” sussurrò lui, prendendola in braccio con un movimento repentino delle braccia.
Cynthia rise, e Jerome con lei.
Al resto, avrebbero pensato più tardi. Ora voleva conoscere Cynthia in quelle nuove vesti, in quella nuova pelle.
Per il mondo, c’era tempo.
Note: E con questo ho terminato la mini serie dedicata a Jerome che, spero, avrà soddisfatto le vostre curiosità su questo personaggio tanto amato.
Da qui in poi mi occuperò degli altri e, tanto perché lo sappiate, ho già pronte delle OS su William (Hati di Bredford), Jessie (sentinella di Matlock) e Branson (Geri di Matlock).
Nelle prossime settimane, posterò man mano le loro storie e, nel frattempo, penserò a come impostarne una su Brianna, Duncan e Nathan.
Per ora, grazie per essere tornate con me nel mondo dei miei lupi, e alla prossima!
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Capitolo 10 *** Quando meno te lo aspetti (Jessie) - Gennaio 2019 ***
Quando meno te l’aspetti (gennaio 2019)
Sai che sei innamorato, quando non riesci a dormire
perché finalmente la realtà è migliore dei tuoi sogni. (Dr. Seuss)
Amanda era stanca morta, non ne poteva davvero più, e non credeva di avere più un solo muscolo funzionante in tutto il suo corpo indolenzito.
L’influenza sembrava essersi risvegliata di colpo, in Gran Bretagna, al pari di un gigante zoppo nel bel mezzo di una cristalleria.
Lei e Brie avevano dovuto lavorare su così tanti vetrini, quel giorno, in laboratorio, da far invidia a una catena di montaggio. E tanti saluti alla loro ricerca, per quel dì.
I loro studi sul genoma dello Stafilococco Aureo Meticillino Resistente erano andati a farsi benedire e, a giudicare dalla mole di lavoro non ancora smaltita, il giorno seguente non sarebbe stato differente.
Sbadigliando sonoramente dopo aver salutato le infermiere alla reception dell’entrata, Amanda si diresse caracollante verso la sua auto, una Toyota Prius nera, e fece bippare il telecomando di apertura delle portiere.
Senza badare alla classe, scaricò la sua borsa sul sedile posteriore con un lancio degno di un ubriaco e, nel passarsi una mano nella confusa chioma di capelli rossicci, borbottò: “Dove cavolo ho messo la mia sacca con il pranzo?”
Non era possibile che l’avesse dimenticata negli spogliatoi. Tutte le volte che si portava il pranzo da casa, lo…
“Porco schifo!” sbottò, battendosi una mano sulla fronte e tornando indietro a passo di carica senza chiudere l’auto.
Passando di corsa di fronte alla reception – e scatenando l’ilarità dei presenti – prese l’ascensore, fece qualche altro saluto veloce, imprecò nel vedere le sue scatole di plastica sul tavolo del salottino e infine le afferrò.
Doveva avere il cervello pressofuso, per non essersi ricordate di rimetterle nella sua sacca refrigerata.
Nel ripercorrere il tragitto al contrario si diede dell’idiota mille volte e, quando finalmente si ritrovò nuovamente nel parcheggio, boccheggiò, nuovamente colta di sorpresa.
Stavolta, però, non per una sua dimenticanza.
Poggiato svogliatamente contro la portiera della sua auto, Amanda scorse una figura maschile piuttosto imponente, con il cappuccio della felpa calato sul viso. I lampioni asfittici, inoltre, non aiutavano per nulla a cogliere i lineamenti nascosti dall’abbigliamento dell’uomo.
Ora, che doveva fare, di preciso?
Poteva tornare dentro e chiamare la sicurezza ma, quasi sicuramente, il tizio l’avrebbe raggiunta prima che lei avesse fatto mezzo passo verso l’ospedale. Se già non si era sentita stanca in precedenza, quell’ultima corsa le aveva fatto diventare le gambe di piombo, perciò non avrebbe mai potuto contare su una scatto bruciante.
Poteva urlare, certo. Ci sapeva fare, con gli strilli, ma Mister Cappuccio avrebbe potuto essere armato, costringendola al silenzio ben prima della fine della sua esibizione da soprano.
Poteva… già, che poteva fare?
La figura maschile all’improvviso rise, sorprendendola non poco e, nel calare finalmente il cappuccio per rendersi riconoscibile, esordì dicendo: “Mandy, non dovresti ricordarti di chiudere l’auto, prima di scappar via a gambe levate?”
“Jessie?” esalò Amanda, prendendo un gran respiro di sollievo.
L’attimo dopo, caricò come un toro la sentinella mannara del branco di Matlock e, piantandogli un pugno su una spalla – che lui ovviamente non sentì – esclamò piccata: “Mi hai fatto venire un infarto, idiota!”
Lui rise nuovamente, passandosi una mano tra la massa di capelli neri e stretta in un codino sopra la nuca.
“Ehi, ehi, calmati! Sono qui su mandato ufficiale, e stavo anche per rendermi visibile ma, quando ho fatto l’atto di avvicinarmi, ti ho vista galoppare via dal parcheggio, e così sono rimasto a guardia dell’auto.”
“E come facevi a sapere che non l’avevo chiusa?” brontolò lei, buttando le scatole sul sedile posteriore, a fianco della sua sacca.
Jessie indicò i fari dell’auto, motteggiando: “Non si sono illuminati.”
Mandy sbuffò per l’ovvietà di quella risposta – tutte le auto con chiusura elettronica vengono sgamate dal brillio delle frecce – e, con un sospiro fiacco, borbottò: “Cosa vuole il branco da me?”
“Ci sono un paio di lupi che vorrebbero parlare di noi ad altrettante persone, ma non sono sicuri che queste ultime possano essere pronte, o adatte, ad accettare la verità. Dovresti andare con loro per … tastare il polso della situazione, per così dire” le spiegò Jessie, scrollando le spalle.
“Fammi capire… dovrei reggere il moccio perché due lupi hanno fifa di aprire bocca?” borbottò Mandy, passandosi le mani sul viso come a schiarirsi le idee.
“Qualcosa del genere” ammise Jessie, ghignando.
“Per Mac Duncan farei un sacco di cose, ma comportarmi da idiota in mezzo a due coppiette, non è tra queste” sottolineò la donna, storcendo il naso. “Perché è lui che te l’ha chiesto, vero? Brie non me ne ha parlato.”
“Colpito e affondato” ammise in fretta Jessie.
“Perciò, Mac ha puntato tutto sulla tua bella faccia per indorarmi la pillola” sottolineò Amanda, fissandolo bieca.
Jessie ebbe la buona creanza di tacere.
Scoppiando a ridere per non dover sprecare tempo ad arrabbiarsi – non ne aveva molta voglia –, la donna esalò: “Ah, come sono prevedibili, i maschi! Anche quelli dotati di pelliccia!”
Jessie sorrise senza aggiungere nulla al suo dire, e si limitò a fare spallucce.
Fin da quando aveva conosciuto Amanda per la prima volta, l’aveva trovata una ragazza spigliata e simpatica, dalla battuta pronta. Non faceva specie che andasse così d’accordo con Brianna, la loro Prima Lupa.
Avevano caratteri molto simili, e le battutacce che erano in grado di far rimbalzare dall’una all’altra quelle due, erano epiche.
Il giorno in cui era stata presentata al Vigrond, Amanda non aveva battuto ciglio di fronte ad alcuni tra gli alfa più potenti del branco. Tra loro, tre lupi si erano trasformati davanti a lei con tanto di spogliarello, ma Mandy si era solo divertita ad ammirare con piacere, commentando per diretta conseguenza le esibizioni del trio.
Quello che ne era venuto fuori, aveva fatto ridere più di un serioso anziano membro del clan. Forse, a memoria di lupo, era stata la Cerimonia di Accoglienza più spassosa di sempre.
Anche Cecily, Fenrir di Falmouth, durante una sua visita a Matlock, si era dichiarata lieta di averla conosciuta e, con Amanda e Brianna, avevano davvero fatto furore, quanto a battute di spirito.
Sì, con loro non ci si poteva davvero annoiare. E non era del tutto vero che Duncan gli avesse chiesto di far intervenire Amanda, affinché giudicasse le potenziali affiliazioni umane al branco.
Era stato lui a proporla, così da avere una scusa valida per incontrarla.
Il fatto di vederla spesso in giro, o al negozio di Jerome – dove lui lavorava – non gli bastava più, ormai. Sentirsi un idiota al pensiero di invitarla fuori, però, non aiutava la causa.
Se qualcosa non avesse funzionato per il verso giusto, sarebbero stati guai. Lui era amico di Brianna e Duncan, ma anche Amanda lo era, e questo avrebbe creato tensioni che non voleva affatto nascessero, all’interno del suo branco.
Sarebbe stato oltremodo imbarazzante, se le cose tra loro avessero preso una piega spiacevole.
A volte, dopotutto, conoscersi troppo bene non era una cosa positiva.
***
Forse, avrebbe dovuto dire a Mandy di non prendere tanto sul serio quella missione e, sempre forse, avrebbe dovuto sottolineare con lei di non vestirsi in modo sexy o provocante.
A ogni buon conto, quando la vide uscire dal suo appartamento in centro, in equilibrio perfetto su un paio di scarpe dal tacco esorbitante, Jessie deglutì a fatica, incapace di riprendere fiato.
Passandosi un dito all’interno del colletto della camicia botton-down che indossava su un paio di jeans schiariti, si chiese preoccupato se sarebbe sopravvissuto fino alla fine della serata.
Il tubino rosso fuoco che indossava non nascondeva nulla alla fantasia e, se c’era una cosa che poteva vantare Amanda, era un corpo davvero eccezionale. Non era infatti la classica modella taglia 38, con forme poco evidenziate, ma una morbida, gradevole donna dalle linee mediterranee.
Era stato un tremendo errore non dirle di vestirsi in modo casual. Avrebbe dovuto ricordarsi che l’amica amava vestirsi a quel modo, ma la sola idea di uscire con lei – anche se in via ufficiosa – lo aveva confuso al punto da fargli perdere di vista un particolare così importante.
Salutando Jessie con un cenno della mano, inconsapevole delle paranoie del licantropo, Mandy salì sulla sua Nissan GT R nera ed esordì dicendo: “Immagino che quest’auto fili che è una bellezza.”
“E’ brava, nel suo genere” assentì lui, sorridendole nell’avviare il motore, che vibrò caldo sotto di loro.
Amanda socchiuse gli occhi e, dopo aver mugolato per il piacere, mormorò: “Oooh, questo sì che è piacevole.”
Calmati, Jessie, le piace l’auto… L’AUTO, pensò tra sé l’uomo, avviandosi per raggiungere il locale dove avrebbero incontrato gli altri.
Sarebbe stata una serata davvero difficile, ora ne aveva la certezza.
***
Come Jessie aveva previsto, Mandy si trovò subito a suo agio con la compagnia di quella sera, pur non conoscendo affatto le due giovani ‘esaminande’, e ben poco i due lupi che avevano chiesto aiuto.
Jessie non ne fu affatto sorpreso. Amanda era la tipica persona che sapeva illuminare una stanza, con la sua sola presenza. Era spigliata, affabile, divertente e solare e, anche se era solo un’umana, poteva sprigionare così tanta energia da inebriare anche un lupo navigato come lui.
Non aveva l’aura di un licantropo, ma la sua verve bastava e avanzava a compensare quel gap.
Jessie la guardò per tutto il tempo, ridendo delle sue battute e alternandosi agli altri due lupi nel ribattere con altrettanta spensieratezza al suo dire.
Le due ragazze non furono da meno e, quando infine l’orologio batté le tre del mattino, Mandy dichiarò di doversi ritirare per dormire; i pazienti, purtroppo, non aspettavano i suoi comodi.
Nel salutare il gruppetto, che si diresse verso le rispettive auto, Mandy si attaccò al braccio di Jessie – essendo un po’ alticcia – e mormorò: “Quelle due sono in gamba, credimi. Penso che potreste dire loro che è in atto un’apocalisse aliena, e vi chiederebbero dove sono i bazooka per contrattaccare. Hanno scelto bene… davvero.”
“Ottimo… sarebbe stato un peccato dire loro che, secondo te, non erano all’altezza. Roy e Percy sembrano davvero presi, e tengono molto alla tua opinione” dichiarò Jessie, sorridendole nell’aprirle la portiera.
“Neanche il mio fosse un giudizio insindacabile” ridacchiò per contro lei, lasciandosi scivolare sul morbido sedile in pelle. “Potrei dormire qui, sai?”
“Vedrò di riaccompagnarti a casa. Starai sicuramente più comoda nel tuo letto” replicò Jessie, avviandosi con calma per tornare in centro a Matlock.
Volgendo il capo a scrutare il suo profilo, Mandy mormorò: “Sai cosa c’è, Jessie? Che le donne sarebbero disposte a tutto, per amore, perciò uno deve solo capire se la persona che ami ti riama appieno. Poi, le stranezze passano in secondo piano.”
“Dici?” replicò lui, stando sul chi vive. “Tu, però, hai accettato tutto senza essere innamorata di nessuno.”
“Veeero!” esclamò lei, ridacchiando. “Ma perché mi fidavo di Brie. La nostra è un’amicizia salda. Anche in questo caso, vale la regola di prima. Amicizia vera, e amore.”
Jessie preferì non proseguire con l’argomento, trovandolo quanto mai subdolo e possibilmente foriero di guai e, quando si fermò di fronte al condominio di Mandy, la aiutò a scendere senza più dire nulla sulla serata appena trascorsa.
“Sei sicura di riuscire ad andare a lavorare? Sembri piuttosto sbattuta” le fece notare Jessie, sorreggendola fino a raggiungere la portone d’ingresso.
Da lì, la condusse all’interno e, dopo aver preso l’ascensore, scese con lei all’ultimo piano, portandola fino alla porta dell’appartamento.
“Noi dottori siamo abituati a ritmi folli. Tre ore di sonno, e sarò pimpante come prima” dichiarò Amanda, infilando la chiave nella toppa al terzo tentativo.
“Grazie per stasera, allora. A parte tutto, ma mi sono anche divertito” le disse infine lui, sfiorandole una spalla con la mano.
“Grazie a te. Mi sono divertita anch’io” replicò lei, levandosi in punta di piedi per stampargli un amichevole bacio sulle labbra.
Jessie lo accettò con lo sconcerto stampato in faccia e, prima ancora di riuscire a dire qualcosa, si ritrovò a fissare la porta chiusa.
Un attimo dopo, le luci di cortesia nel corridoio, si spensero.
Sbattendo le palpebre, lui esalò: “Ma che è successo?”
Nel contempo, all’interno dell’appartamento, appoggiata alla porta e con gli occhi sgranati, Mandy borbottava: “Ma che ho fatto?”
***
“Hai fatto le ore piccole, Mandy? Sei più sbattuta di una frittata…” esordì Brianna, sostituendo un vetrino al suo microscopio.
“Non prendermi in giro, tu! Dopotutto, è colpa del tuo uomo, se io sono ridotta così” brontolò Amanda, rifacendosi la coda di cavallo per la millesima volta.
Dopo quel bacio che, in teoria, aveva voluto essere amichevole, Mandy aveva riaperto la porta, aveva attirato dentro Jessie e, da quel che ricordava, il suo era diventato un fine serata davvero spettacolare.
Avevano fatto sesso d’eccezione e, quando lei si era appisolata per mezz’ora contro la sua spalla, si era addormentata subito. Subito.
Neanche lui l’avesse anestetizzata. E dopo il sesso migliore degli ultimi anni.
Essere lasciata dal suo fidanzato italiano al terzo anno di università, e tramite sms, era stato assai traumatico per lei e, da quel momento, non aveva più avuto relazioni.
Sì, qualche appuntamento qua e là, ma niente di serio.
Di punto in bianco, però, si era gettata tra le braccia di quell’aitante licantropo che, prima di tutto, era suo amico, e aveva fatto un’ottima ginnastica orizzontale con lui.
Peccato che adesso non sapesse come affrontare la cosa.
“Il mio uomo? Spiegati meglio, perché sono parecchio confusa” replicò Brianna sinceramente sorpresa, riportandola al presente.
“Ma come? Mac Duncan non ti ha detto di avermi chiesto di supervisionare l’incontro amoroso di un paio dei suoi lupetti?” borbottò la donna, afferrando un vetrino con entrambe le mani.
Non si fidava molto dei suoi istinti primari, quella mattina, equilibrio in testa.
Brianna sbatté le palpebre, confusa, ed esalò: “Che avrebbe fatto, scusa? Anche quanto, te l’avrei chiesto io. Sono io che mi occupo di queste cose.”
“Oh, ma, Jessie mi ha detto…” iniziò col dire lei, prima di rammentare un paio di cosette. “Sì, in effetti è vero. Me l’avevi detto che, di cose simili, si preoccupa la Prima Lupa. Ma allora…”
“Jessie, hai detto?” ironizzò Brie, ghignando maliziosa al suo indirizzo.
“Pensi che lui…” ansò Mandy, bloccandosi subito dopo e murandosi la bocca.
Forse, dopotutto, quella notte di sesso…
“Ci sono finita a letto insieme, sai?” buttò lì Amanda, sbattendo le palpebre con aria confusa e dubbiosa.
“COSA?!” gracchiò la licantropa, rischiando di far cadere uno dei suoi vetrini. “Con la mia sentinella? Il mio Jessie?”
“Piano con i pronomi possessivi, lupetta” ironizzò Mandy, sorridendo. “Di tuo, hai già Duncan, no?”
“A voler essere precisi, tutti i lupi sono miei, nel senso più ampio del termine, perché io sono la loro madre spirituale, oltre che la loro guida” sottolineò distrattamente Brianna prima di esalare: “Ma… davvero avete fatto sesso? E come diavolo è successo?”
“Nel modo classico. Lui sopra, io sotto. O almeno credo. Forse, abbiamo anche variato un po’, non ho le idee molto chiare in merito… ero un po’ brilla” dichiarò Mandy facendo strabuzzare gli occhi all’amica.
“Hai fatto sesso con uno dei miei lupi… da ubriaca?!” sbottò Brie, passandosi le mani tra i capelli. “Mandy, per l’amor di Dio, siamo un clan, e l’armonia è la prima cosa che conta! Cose del genere potrebbero destabilizzare gli equilibri di…”
Interrompendola con un gesto secco della mano, Amanda replicò: “Pensi che non lo sappia? Jessie è anche amico mio, oltre a essere amico tuo. Mi sento un’idiota, se proprio lo vuoi sapere.”
Sospirando per darsi una calmata, Brianna le domandò: “Ma tu che ne pensi, di Jessie?”
“Che è un bell’uomo, è simpatico e… per la miseria, Brie, fa sesso in maniera eccezionale e, come se non bastasse, mi sono appisolata contro di lui come un cucciolo bisognoso d’affetto. E lui è stato lì tutto il tempo, tenendomi tra le braccia perché riposassi bene!” sbottò Mandy, impallidendo. “Sai che vuol dire?”
Indulgente, Brie mormorò: “Che non è stato solo sesso… per nessuno dei due. Non ti saresti mai sentita così a tuo agio, se avessi fatto solo sesso con Jessie l’amico.”
“Merda!” bofonchiò Amanda, dandosi una manata sulla fronte.
L’amica invece scoppiò a ridere, le diede una pacca sulla spalla con fare confortante e, serafica, asserì: “Auguri, cara.”
“Piantala. Pensi che mi piaccia essermi ficcata in questo ginepraio? Sai che non ho bisogno di uomini, in questo momento. Dopo Antonio, pensavo di aver chiuso, con il club degli XY. E invece, ora mi capita questo!”
Fissandola con aria scettica, Brie replicò: “Tu… che chiudi con gli XY? Non ci crederò nemmeno se ti vedrò a sbaciucchiare una donna.”
Sbuffando, Mandy la mandò a quel paese, ma ammise: “Sì, non riuscirei mai a essere come Paul e James, o come Sandy e Clarisse. Loro se la spassano gioiosamente, e si vede che sono affiatati. Io, semplicemente, non mi ci vedo.”
“Antonio è stato uno stronzo, punto. Non si può mollare una ragazza via sms, quando questa si trova a Londra, e lui a Modena. Che sistema è?” brontolò Brianna, scribacchiando velocemente su una cartella prima di afferrare l’ennesimo vetrino.
“Quasi quasi, accettavo l’offerta di Mac Duncan di fargli dare una lezione da un branco locale, …ma no, sarebbe stato sciocco, ora lo so” sospirò Amanda, scuotendo il capo.
Bloccandosi, Brie le domandò: “Seriamente, adesso, …cosa ne pensi di Jessie?”
“Che mi piace, ma devo capire se come amico, come amante, o come qualcosa di più.”
“Penso non succederà nulla, se ti inerpichi lungo uno di questi sentieri” le fece notare Brie.
“Ma abbiamo troppi legami interconnessi, e siamo entrambi amici tuoi, o di Mac. Che facciamo, se ci scanniamo metaforicamente l’un l’altra?” ironizzò Amanda, ficcando le mani nelle tasche del camice.
Nervosa com’era, avrebbe fatto un disastro coi vetrini. Meglio bloccarsi, per il momento.
Brianna preferì non rispondere.
Era vero. Erano talmente legati, e in mille modi diversi che, un’eventuale loro lite, avrebbe lasciato più di una cicatrice in giro.
***
Nevicava, faceva un freddo cane e lei era stanca morta, desiderosa di mettersi il suo pigiama di flanella e guardare le repliche, delle repliche, delle repliche di Grey’s Anatomy.
Ne era così drogata da sapere le battute di tutti gli attori a memoria, ma non ce la faceva a smettere, era più forte di lei.
Inforcando la via del parcheggio, Amanda si bloccò a metà di un passo quando scorse una sottospecie di pupazzo di neve nei pressi della sua auto.
In realtà, sapeva bene chi era, ma era coperto da così tanta neve da sembrare in tutto e per tutto la riproduzione sexy di Jack Frost.
“Non li fanno più, gli ombrelli?” esordì Amanda, facendo bippare l’allarme dell’auto.
“Quando sono arrivato, non nevicava” replicò Jessie, scrollandosi di dosso i dieci centimetri buoni di neve che aveva addosso. Era zuppo.
“E dire che avete un naso sopraffino, voi pelosi. Non ti eri accorto del cambio del tempo?” ironizzò lei, poggiando le mani sui fianchi per guardarlo piena di ironia.
I neri capelli gocciolavano come grondaie sulle sue ampie spalle, peggiorando una situazione già di per sé drammatica. Avvoltolata nel suo piumino, Amanda si sentiva quasi in colpa a guardare quel giovane uomo in felpa e jeans interamente bagnati che la attendeva da ore sotto quella bellissima nevicata.
Quasi in colpa, però. Non gliel’aveva chiesto lei di ridursi così.
“Stavolta, a chi devo salvare il culo?” ironizzò Amanda, non sapendo che altro dire.
Come approcci un argomento spinoso come il sesso, con un tuo amico… con cui hai fatto sesso?
“A me, credo” sorrise contrito lui, scrollando le spalle.
Mandy fece tanto d’occhi, si insospettì un attimo dopo e, aprendo la portiera dell’auto, bofonchiò: “Sali, prima di buscarti un raffreddore… se già non l’hai preso.”
“Grazie” sussurrò Jessie, circumnavigando l’auto con passo lesto.
Una volta che ebbe messo in moto, Amanda mise il riscaldamento al massimo e, nell’avviarsi fuori dal parcheggio, mormorò: “Ebbene? Hai un’innamorata che devo studiare?”
“Per la verità, no. Direi che, più che altro, le devo delle scuse” ammise lui, lo sguardo fisso fuori dal finestrino e l’aria molto, ma molto insicura.
Mandy lo sbirciò per un secondo, riflesso sul vetro scuro della portiera, prima di dichiarare: “Ho dormito pochissimo, ho lavorato moltissimo e sono stanca morta. Sii chiaro, perché il mio cervello è sì e no al trenta percento di attività effettiva.”
“Esattamente quello che non voglio, perché ciò che devo dirti deve essere chiaro, e con te che vai a tre cilindri, per così dire, non è il momento giusto” ironizzò a quel punto Jessie, sapendo che Amanda avrebbe capito.
Lei infatti rise, rise sguaiata e senza darsi la pena di apparire fine o elegante e Jessie, suo malgrado, si ritrovò a desiderarla ancor più di prima.
Mandy non aveva mai fatto mistero di essere un’amante di auto sportive, di saper sistemare un motore come – e meglio – di tanti uomini, e di apprezzare la velocità. Sapeva che questo poteva intimidire molti rappresentanti del sesso opposto, ma il suo interesse per la cosa era pari a zero.
Poteva essere sia donna al cento percento, che un maschiaccio matricolato, e questo faceva andare Jessie su di giri più ancora dell’abito della sera prima.
O della notte di sesso che avevano condiviso.
Quando Amanda fermò la Prius nel suo posto auto, di fronte al piccolo condominio dove abitava, Jessie ne approfittò per afferrarla gentilmente a un braccio.
Senza darle il tempo di protestare, la volse verso di sé e la baciò, affondando nella sua bocca con bramosia, possesso e tanta, tanta paura.
Quando infine si staccò da lei, gli occhi di Mandy erano spalancati e sì, molto molto svegli, ora.
“Adesso a che livello è il cervello?”
“Ha fatto il pieno di NOS1” gracchiò lei, tirandogli un pugno sulla spalla l’attimo seguente. “Ma che cavolo ti è saltato in testa?! Non potevi darmi un preavviso?!”
Jessie sorrise sbarazzino e Mandy, nel ritirare la mano con un ‘ahia’ a fare da corollario, mormorò: “L’effetto sorpresa serviva a svegliarti. E sai che è inutile che picchi un licantropo… ti farai sempre e solo male.”
“Me lo scordo ogni volta” brontolò lei, facendogli la lingua.
“Ti scoccia se mi asciugo, mentre parliamo?” le domandò Jessie, tirandosi un lembo di felpa umidiccia.
“Non in auto. La ridurrai a una sauna” scosse il capo lei, scendendo per tutta risposta. “Vieni su.”
Jessie annuì, infilandosi le mani in tasca per non essere tentato di provare un altro assalto. Quelle chiome castano rossicce sparse sulle spalle di Mandy invogliavano a infilarci dentro le dita, ma doveva trattenersi.
Dovevano parlare, prima.
Quando infine ebbero raggiunto l’appartamento, e Mandy si fu liberata si scarpe e piumino, lei lo fissò torva e borbottò: “Dai, accendi il calorifero mentre io mi cambio.”
Annuendo, Jessie espanse la propria aura mentre Amanda spariva nella sua camera da letto. Ne tornò qualche minuto dopo indossando un comodo pigiama di flanella azzurro, babbucce ai piedi e una spazzola.
Spazzola che poi porse a Jessie, asserendo: “Almeno si incasinano anche a voi, i capelli, quando si asciugano.”
Jessie assentì, ridendo sommessamente e, passandosi la spazzola sui capelli, seguì Mandy al divano, dichiarando: “Stanotte non sarei dovuto restare. Ma l’ho fatto, e non mi pento di essere venuto a letto con te, …ma non doveva succedere così.”
“Perché? Ti piace il sesso alternativo? La lap dance? Il bondage?” ironizzò Amanda, tuffandosi sul divano e mettendosi a gambe intrecciate su di esso.
Jessie scosse il capo, non sapendo se apprezzare il suo tentativo di fare dell’ironia, o detestarla perché non lo prendeva sul serio.
Preferì comunque la prima opzione, e mormorò: “Niente di ciò che hai detto. Il sesso classico è sottovalutato ma, se lo si fa bene, è eccezionale.”
“Concordo. Infatti, non mi pare di essermi lamentata. Ti ho pure usato da comodo cuscino, quando sono crollata” gli fece notare, allungandogli un cestino ricolmo di patatine.
Lui ne sgranocchiò alcune, studiandone il profilo tranquillo. Forse, dopotutto, non aveva combinato un guaio colossale, e lei lo avrebbe perdonato per quello scivolone imprevisto.
Quando, però, Mandy lo squadrò con espressione combattuta, Jessie tremò.
Ecco che arrivava la batosta…
“Pensavo a una cosa…” iniziò col dire lei, mordicchiando una patatina. “… ma poi l’ho scartata subito, perché non sarebbe da me.”
“E cioè, cosa?” si informò Jessie, teso come una corda di violino.
“Lasciar perdere” scrollò le spalle lei. “Io non lascio perdere. Io studio le prove, le analizzo e cerco di capire cosa mi sta succedendo dinanzi al naso. Ergo, che succede? Perché io l’ho capita in un modo, ma non so se ci ho azzeccato.”
“Prova a dirmi cosa ne pensi” le propose a quel punto lui, accavallando le gambe.
Ormai, era del tutto asciutto.
Mandy lo squadrò curiosa, sollevò un sopracciglio con ironia e mormorò: “Meglio di una stufetta. Questo è culo, Jessie. Culo al quadrato. Sai che fortuna poter contare su un trucco simile?”
“Stai divagando” le fece notare lui, ghignando.
“Vero, vero” sbuffò, gesticolando con le mani prima di fissarlo torva e dire: “Ecco come la penso. Tu volevi venire a letto con me. A me è piaciuto, a te è piaciuto, e ora siamo di fronte a un bivio.”
“Messa così, sembra che io abbia approfittato di te” sottolineò Jessie, storcendo il naso.
Sbuffando sonoramente, Amanda si passò le mani tra i capelli ed esalò gracchiante: “Veeero! Sì, è verissimo! Scusa.”
“Mandy, stai iperventilando, e il tuo cuore è a mille. Calmati, e dimmi cosa pensi” la riscosse gentilmente Jessie, sorridendole tranquillo.
“Maledetti i vostri radar… vi odio, quando fate così. Uno non può neanche avere una crisi di nervi in santa pace” brontolò la giovane, dandogli uno schiaffetto su un ginocchio. “Comunque, la cosa si riduce a me che dormo contro di te.”
“Eh?” gracchiò Jessie, allibito.
“Okay, a questo punto dovrei fornirti il manuale di sopravvivenza all’interno del cervello di Amanda Goffredo, cosa che non ho, al momento. Li ho terminati” ghignò lei, notando con un certo compiacimento la confusione aumentare sul volto di Jessie.
“Ho bisogno dei sottotitoli, Mandy…” si lagnò lui, passandosi una mano sul viso, su cui capeggiava un immaginario punto di domanda.
“Jessie, secondo te, dormirei con la prima persona che incontro per strada? Sarei così tranquilla e rilassata? Io? Dimentichi che io e ansia siamo compagne di giochi dalla prima superiore, e che io e amore abbiamo litigato anni fa, senza più arrivare a patti?”
Lui sgranò leggermente gli occhi, a quelle ultime parole e Amanda, sospirando, gli afferrò una mano, giocherellando con le sue dita.
“E’ palese che c’è stato qualcosa di più, oltre a una notte di buon sesso, in quello che abbiamo combinato assieme. E’ amore? E chi lo sa? E’ semplice attrazione? Dovrei essere morta da almeno cinque anni, per non trovarti attraente e sexy, credimi…” mugugnò lei, facendolo sorridere.
“Ma hai paura di scoprire cosa c’è sotto perché, innanzitutto, siamo amici, vero? E abbiamo un sacco di amicizie in comune. Mi sbaglio?” terminò per lei Jessie, stringendo le loro mani intrecciate.
“Colpita e affondata” assentì Mandy. “Ipotesi al riguardo?”
“Ti chiedo scusa se sono venuto a letto con te, sapendo già che provavo per te qualcosa di più di semplice amicizia. Ho giocato sporco. Ma non mi scuserò per i sentimenti che provo” ci tenne a dire Jessie, stringendo maggiormente nella sua le dita della donna.
“Nemmeno te lo chiedo. Le scuse, ecco. Per entrambe le cose. Sì, insomma, chi è che si dovrebbe scusare, dopo avermi regalato una notte da favola?” sproloquiò Mandy, agitando la mano libera con frenesia.
Jessie le sorrise, depositandole un casto bacio sulla tempia, che la chetò immediatamente.
Fissandolo con occhi per la prima volta smarriti, lei mormorò roca: “Non sopporterei di essere ferita da un mio amico. Questo, davvero, non lo reggerei.”
“E io non sopporterei di ferirti, Mandy, ma mentire sarebbe assurdo, ormai. Ti pare?”
“Dici?”
“Esci con me. Vediamo come va poi gestiremo la cosa da adulti ma, soprattutto, da amici che vogliono rimanere tali. Perché, se salterà fuori che tu non vuoi stare con me, io ci rimarrò male, ma non rinuncerò mai a te come amica. Anche se ti ho vista nuda” ammiccò Jessie, cercando di stemperare un po’ l’ansia che provava.
Amanda sbuffò, assentì una volta sola e, senza dargli alcun preavviso, si mise a cavalcioni su di lui e lo baciò, afferrando il suo viso con entrambe le mani.
Fu un bacio esplorativo, quasi timido, visto da chi proveniva, ma mandò in fiamme Jessie. Le sue mani scivolarono sulla schiena di Mandy, ricoperta da quel pigiama di flanella così buffo e, suo malgrado, rise.
Si staccò da lei, la abbracciò e disse: “Solo tu puoi essere sexy e seducente con questo affare di flanella.”
“E questo dice tutto” sottolineò lei, rimanendo accoccolata sopra di lui, il capo posato sulla sua spalla e il respiro nuovamente regolare.
In pochi minuti si addormentò e Jessie, sistemandola meglio tra le sue braccia, lasciò che si riposasse, che si concedesse qualche ora in tutta tranquillità.
In fondo, era stata lei a dire che solo con una persona di cui si fidava ciecamente, avrebbe potuto addormentarsi a quel modo.
Per ora, poteva bastare.
Quando, una decina di minuti più tardi, Mandy riaprì gli occhi, il dubbio però tornò ad assalirlo.
Forse, non sarebbe bastato quel sonnellino, dopotutto.
Piegando il capo per baciarlo sulle labbra, lei accolse con gioia la sua piena risposta e, tra un bacio e l’altro, Amanda mormorò: “Sono stanca morta… ma tu di qui non te ne andrai, stanotte. Fosse anche solo per una sveltina, ma non te ne andrai.”
Jessie scoppiò a ridere, le diede un bacio con lo schiocco e, sollevandosi in piedi con lei, le disse: “Riposa, mentre io ti scaldo qualcosa per cena. Non possiamo affrontare questa cosa a stomaco vuoto, ti pare?”
“Sai anche cucinare?” esalò lei, gli occhi brillanti come stelle.
“Ebbene sì. Perché?” ammise Jessie, mettendo mano al frigorifero.
Quando lo aprì, restò di sasso, facendo scoppiare a ridere di gusto Mandy che, con un balzo, lo raggiunse e mormorò: “Sono emiliana. Ti pare che non avrei avuto il frigorifero pieno di leccornie di ogni genere?”
“Qui si esagera, però. Ce n’è per un reggimento” gracchiò lui, avvolgendola con un braccio per attirarsela vicino.
“Chissà… forse volevo qualcuno a cena con me” buttò lì Amanda, sorridendogli maliziosa.
“Saranno diverse cene, credimi, vista la quantità di cibo…” ironizzò lui, baciandola sui capelli.
“Meglio” asserì lei, afferrandolo per la felpa per un bacio più serio.
Jessie chiuse il frigorifero. Forse, ci avrebbe pensato dopo alla cena, in fin dei conti.
1 NOS: protossido di azoto. Serve a dare maggior potenza al motore, con rendimenti molto al di sopra degli standard.
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N.d.A.:Visto che in molte mi avevate chiesto lumi su Jessie, ho pensato di reintrodurre anche il personaggio di Amanda, comparso per la prima volta in 'Vendetta al Chiaro di Luna'. Spero di aver soddisfatto la vostra curiosità in merito alla sentinella più amata del branco di Matlock!
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Capitolo 11 *** Huginn e Muninn - giugno 2011 (Branson) ***
Huginn e Muninn (Branson) – Giugno 2011
D’accordo, quei due corvacci, il più delle volte, facevano avanti e indietro come meglio credevano.
D’accordo, lui non li teneva in gabbia come avrebbe fatto chiunque altro, così loro potevano avere libero accesso all’uscita della voliera come meglio credevano.
D’accordo, Huginn e Muninn erano in gamba e due uccellacci con i controfiocchi, però… erano otto giorni che non rientravano!
Se fosse successo loro qualcosa, non se lo sarebbe mai perdonato, poco ma sicuro.
Branson non era legato ai suoi corvi solo da un legame di tipo lavorativo – erano i suoi occhi e le sue orecchie, quando doveva agire come Geri – ma anche dall’affetto.
Fin da quando Madre li aveva legati a lui durante la cerimonia del Riconoscimento, aveva sentito per loro un coinvolgimento emotivo che andava ben oltre il rapporto tra il padrone e i propri animali d’affezione. Quei due corvi imperiali, con i loro caratteri così volitivi, gli entrati nel cuore e nel sangue, ed erano diventati molto più che semplici partner lavorativi.
Erano suoi amici.
Quei due maledetti uccellacci del malaugurio, con il loro insolito ritardo, quindi, lo stavano davvero facendo ammattire, facendogli pensare le peggio cose!
Se l’indomani mattina non fossero tornati, avrebbe chiesto a Duncan il permesso di portare con sé Jessie per una missione esplorativa lungo i confini del clan.
“Chef! Qui c’è bisogno di lei!”
La voce trillante di Samantha Smithson, la sua sous-chef, lo riportò al presente e alla cacofonia della sua cucina. Il suo regno, ciò per cui aveva lottato e che ora lui guidava con maestria e sapienza, oltre che una buona dose di orgoglio.
Lo Stones Restaurant era la sua reggia scintillante, la sua tana sicura… ma, in quel momento, neppure quel luogo sembrava tranquillizzarlo.
I coniugi Stone, padroni del locale e suoi amici di lunga data, erano dei geni della ristorazione, ed era stato un piacere essere assunto per guidare la loro cucina. Insieme, avevano puntato tutto sulla qualità dei prodotti offerti alla clientela, oltre che su un servizio d’eccellenza e, nel corso degli anni, i sacrifici erano stati ripagati.
Le liste d’attesa erano lunghissime e, per prenotare, era necessario davvero un colpo di fortuna.
In quel momento, però, avrebbe voluto gettare tutto al vento e uscire a gambe levate da quel luogo di perfezione caotica. Voleva sapere dov’erano i suoi corvi. Solo questo gli importava.
***
Duncan annuì serio, di fronte al cipiglio ombroso di Branson e, nel lanciare un’occhiata a Brianna, appollaiata su una delle poltrone del salotto, asserì: “Non dovevi neanche venire a chiedermelo, Branson. Certo che puoi prendere Jessie con te, per cercare Huginn e Muninn. Desidero anch’io che quelle due pesti incarnate tornino all’ovile.”
Branson sorrise di fronte al tentativo di Duncan di fare dell’ironia. Era chiaro quanto Duncan fosse angustiato dalla notizia della mancanza dei due corvi, ma non volesse fargli pesare anche le sue preoccupazioni.
“Il tuo regno è giovane, Duncan, e non voglio certo passare per quello che si approfitta della nostra amicizia, scavalcandoti. Sai che, nel branco, ci sono ancora alcuni lupi legati a Connor e Sheoban, e non vedono l’ora che tu o Brianna commettiate un errore” replicò serafico l’uomo, lanciando a entrambi occhiate cariche di rispetto. “Dovevo chiedertelo.”
Brie fu la prima ad annuire a quelle parole.
“Sì, ti capisco. Sebbene sia passato più di un anno dal crollo del Consiglio, certi lupi hanno difficoltà a cambiare registro. Ma non ce ne preoccupiamo, Bran. Siamo più forti di così” dichiarò la wicca con determinazione.
“Ugualmente, preferisco seguire le regole” si limitò a dire Geri, scrollando le ampie spalle.
“Con il lavoro, come sei messo?”
Sorridendo divertito, Branson a quel punto ammise: “Quando ho chiesto un permesso di tre giorni, Mrs Stone mi ha subito chiesto se fossi malato. Mi ha guardato come se fossi sul punto di morire, e lei fosse al mio capezzale, in lacrime e con le mani già strette al rosario.”
Duncan lo squadrò con aria divertita, esalando: “Non dai l’idea di essere ammalato.”
“Infatti. Ma lei era terrorizzata al pensiero che i ritmi lavorativi in cucina fossero esagerati e mi ha ordinato di prendermi una settimana, non tre giorni, così da riposarmi sul serio” scrollò le spalle Branson.
Brianna scoppiò a ridere e, nel dare una pacca sulla spalla all’amico, celiò: “Di sicuro, non vuole perdere il suo meraviglioso Chef stellato.”
“Vorrei vedere…” ghignò Branson, dichiarandosi d’accordo.
Duncan, allora, sorrise e disse: “Da quel che so, Jessie ha già terminato i suoi esami all’università, per quest’anno, e non ha altre lezioni. Potete partire domani stesso, se preferisci.”
“Grazie” assentì Geri.
“Io, nel frattempo, scandaglierò i boschi con il mio potere. Passando voce tra le piante, dovremmo riuscire a coprire una zona piuttosto vasta in breve tempo” aggiunse poi Brianna, sorridendo all’uomo.
“Grazie anche a te, Prima Lupa. Il tuo aiuto sarà senz’altro prezioso” mormorò Branson, commosso.
“Ehi, Bran… teniamo anche noi a quei due ammassi di piume, anche se con me sono più scorbutici di un temporale estivo” rise la ragazza, battendosi una mano sul ginocchio.
Branson non poté che ridere a sua volta.
Ricordava bene la prima volta in cui aveva presentato Brianna ai due corvi; loro avevano cominciato a starnazzare come matti, finché non si era allontanata. La presenza di Fenrir dentro di lei li aveva messi in agitazione, e niente era valso allo scopo di calmarli.
Alla fine, Brie era uscita dalla voliera e, ridendo divertita, si era scusata con lui per il gran fracasso che aveva provocato.
“Li troverete, Bran, stanne certo” lo rincuorò infine Duncan, sinceramente convinto della buona riuscita della loro ricerca.
Anche Branson ci sperava, perché gli sarebbe davvero spiaciuto dover essere costretto a trovarsi altri due corvi imperiali per sostituirli.
Anzi, sarebbe stato impossibile. Quelle due pesti erano insostituibili.
***
I capelli bruni legati dietro la nuca, e alcune ciocche ribelli a sfiorare il viso di affascinante ventitreenne, Jessie ghignò all’indirizzo di Branson e domandò: “E così, stavolta, quei due hanno pensato di allungare la loro solita vacanza in giro per i boschi?”
“Magari fosse così! Di solito, quando intendono prolungare i loro andirivieni, uno dei due torna indietro per avvisarmi, ma stavolta non è successo” brontolò Branson, aggirandosi per il boschetto del Vigrond con aria guardinga.
Massaggiandosi il pizzetto con fare pensoso, il naso impegnato a controllare gli odori di fondo, Jessie replicò: “Mi fa ancora senso, pensare a due corvi che ti parlano in testa, sai?”
Bran lo fissò stralunato, ribattendo con franchezza: “Perché, io cosa dovrei dire, quando voi sembrate inscenare Underworld tutte le volte che vi trasformate?”
La sentinella scoppiò a ridere di gusto, mimando di aggredirlo con le zanne spianate e gli artigli in vista e Geri, scuotendo il capo, si limitò a sorridere.
Certo, il procedimento tramite cui Huginn e Muninn parlavano con lui – e lui solo – era davvero mistico e misterioso, ma non meno della mutazione dei licantropi.
Come ogni Geri, suo era il compito di catturare e addestrare alla fedeltà assoluta una coppia di corvi perché divenissero le sentinelle nel cielo del branco. Quando l’addestramento era compiuto, la coppia di corvi veniva portata al Vigrond, dove la quercia sacra conferiva loro poteri unici e inalterabili.
Da quel momento, i due corvi diventavano Huginn e Muninn, il ‘Pensiero’ e la ‘Memoria’ di Geri, quando egli era impegnato nella predazione.
Il primo, consentiva a Geri di vedere ciò che il corvo aveva visto durante le sue perlustrazioni e, grazie al legame che li univa, Branson poteva trasmettere ordini a Huginn su dove andare, o cosa fare.
Muninn, la ‘Memoria’, era invece una vedetta, la spalla di Huginn, e trasmetteva i dati raccolti una volta di ritorno alla base.
Al secondo corvo era dato anche l’incarico di tenere, per l’appunto, una memoria a tempo indefinito di tutte le missioni di Branson, nel caso vi fosse stato bisogno di un raffronto.
Senza di loro, Branson si sentiva come privato di un arto.
Voleva davvero bene a quei due corvacci dispettosi, e pensare che potesse essere successo loro qualcosa di brutto, lo metteva in agitazione.
Quando, sul finire di quella giornata passata nel bosco, il loro peregrinare risultò infruttuoso, Jessie borbottò preoccupato: “Se non sono nella foresta del Vigrond, dove possono essersi cacciati?”
“E chi lo sa?” sospirò afflitto Branson, passandosi una mano tra i corti capelli tagliati a spazzola.
“Non ti hanno detto nulla, prima di sparire dalla voliera?” si informò Jessie, dandogli una pacca sulla spalla per calmarlo. In quel momento, Branson non si sarebbe accorto di avere davanti neppure Charlize Theron in bikini, tanto era agitato.
“Solo che… che…” tentennò l’uomo, cercando di non iperventilare.
Doveva darsi una cavolo di calmata, se voleva essere utile a Jessie nel ritrovare i corvi del branco, non mettersi a frignare come un bambino piccolo.
Preso un bel respiro, quindi, Bran chiuse per un istante gli occhi e cercò di rammentare gli ultimi fotogrammi di quella mattina di nove giorni prima. Huginn era stato il primo a involarsi, sparendo nel cielo turchino, agli albori dell’alba.
Muninn, invece, si era appollaiato come al solito sul suo braccio, si era strusciato per un attimo contro la sua guancia e…
Facendo tanto d’occhi, Branson esalò: “Ovest. Si sarebbero diretti verso il Galles.”
Strabuzzando gli occhi, Jessie esalò: “E perché mai, scusa?! Là ci sono solo rocce e pecore!”
“Girano voci sulla formazione di un nuovo branco nella zona. Pare che diversi lupi errabondi, che non vogliono sottostare alle attenzioni di nessuno dei Fenrir or ora esistenti, abbiano deciso di costituire un nuovo gruppo” spiegò Branson, continuando a pensare a ciò che Muninn gli aveva detto.
“E… e si può fare?” gracchiò Jessie, decisamente perplesso.
“Che io sappia, non esiste nessuna legge che lo vieti. Sarà un branco guidato da un Consiglio, non da un Fenrir, a meno che non ne nasca uno in seno al clan, prendendo de facto il potere nelle sue mani” espose Geri, muovendo distrattamente una mano.
Jessie, però, storse il naso e replicò: “Non mi piace l’idea. Suona… iconoclasta.”
Branson lo fissò con uno scuro sopracciglio sollevato, un’aria assai divertita stampata in viso e il lupo, storcendo la bocca, aggiunse: “Sì, dai, insomma… senza una Triade di Potere, mi suona stonato. Guarda che cosa è successo a noi, con il Consiglio?!”
“E tu mi sembri mio nonno, a parlare così” ironizzò Branson, guadagnandosi un ringhio in risposta. “Comunque, è parso strano anche a Muninn e Huginn, visto che sulla costa gallese già è presente il branco di Pascal Laroche che, di certo, non si può definire un Fenrir crudele o nevrastenico. E’ per questo che sono andati a curiosare, a loro dire. Visto che era una missione esplorativa e null’altro, non ho detto niente a Duncan ma, a questo punto, ho idea che sia successo qualcosa in Galles. Può essere per questo, che non rientrano.”
Assentendo grave, la sentinella afferrò il cellulare dalla tasca posteriore dei suoi pantaloni mimetici e chiamò Duncan, comunicandogli la loro idea.
Quando mise giù, lanciò un’occhiata a Branson e disse: “Ci autorizza ad andare, e con noi verrà anche Jerome. Dice che, nel frattempo, sentirà Pascal per accertarsi che lui sappia qualcosa di questo neonato branco.”
Levando un sopracciglio con evidente sorpresa, Geri esalò: “Manderà con noi il secondo in comando? E ti ha spiegato perché?”
“Per due motivi; uno, ufficiale, per rendere nota la nostra disponibilità a una eventuale alleanza con il potenziale nuovo clan. L’altro, ufficioso, per curiosare con più occhi e più orecchie. Inoltre, Jerome si sta annoiando a morte, e vuole combinare qualcosa.”
Assentendo con un risolino, Branson allora dichiarò: “Vado a prendere la macchina.”
Ciò detto, corse via mentre Jessie, incamminandosi più lentamente, chiamava Jerome per mettersi d’accordo sulle tempistiche del loro viaggio.
Se i corvi erano veramente andati là e, per qualche motivo, non erano tornati indietro, ci si poteva aspettare di tutto, da quella missione esplorativa.
***
La cittadina di Talgarth – luogo ipotetico dell’insediamento del nuovo clan – era uguale a mille altre, con piccole case dai tetti spioventi e muri di sassi coperti di muschio.
Altre abitazioni, più recenti, erano stuccate con colori accesi e freschi, col chiaro intento di ravvivare in qualche modo l’asprezza del territorio e del clima.
Il Galles non era mai stato un luogo per pavidi o deboli di cuore e, di sicuro, era il luogo giusto per insediarvi un clan nuovo di zecca. Poca concentrazione umana – rispetto al Middle England – e luoghi più a misura d’uomo, così come di licantropo.
Lì, era tutto più tranquillo, meno frenetico rispetto a città come Manchester o Londra.
Un toccasana, per le controparti ferine dei licantropi, oltre che un luogo al di fuori del controllo di qualsiasi altro clan britannico.
Raggiunto che ebbero il loro albergo, l’Old Radnor Barn, Branson si avviò alla reception per il check-in, mentre Jessie e Jerome davano un’occhiata in giro.
Il locale era in stile classico, a un piano, in pietra grigia e dalle imposte lignee. Ben tenuto al pari dell’ampio giardino che lo circondava, era un locale discreto e dall’eleganza sobria e vecchio stile.
Prometteva rilassanti giornate all’aria aperta, poca confusione di mezzi e persone e tanta, tanta collina a perdita d’occhio.
Ritirata la chiave della loro stanza, Branson si premurò di chiedere informazioni circa i percorsi per escursionisti e le bellezze del luogo. Dovevano apparire in tutto e per tutto dei turisti, e domandare indicazioni era un buon sistema per dare quest’idea.
Fatto ciò, e ricevuto in risposta un lungo elenco di luoghi da visitare, Branson raggiunse infine la stanza d’albergo assieme ai suoi due compagni di viaggio, e lì controllò l’esterno dalla finestra rivolta verso il cortile.
Era un buon punto di osservazione e, da quella posizione, potevano tenere d’occhio la strada da cui si accedeva all’albergo.
Dopo aver sistemato le valige accanto all’ampio letto a una piazza e mezzo, Geri propose loro: “Direi di andare a fare un giretto in centro, così voi potrete fare le vostre cose da lupi, mentre io vi guarderò le spalle.”
“Andata” assentì Jerome, passandosi una mano sullo stomaco prima di battervi sopra un paio di volte. “Potremmo anche andare a mangiare, nel frattempo. Comincio a sentirne l’esigenza.”
Scoppiando a ridere, Jessie assentì al suo Skŏll. “Anche il mio stomaco brontola.”
“Metabolismi accelerati…” sospirò divertito Branson, allacciando sul torace le fondine ascellari prima di inserire le sue Beretta semiautomatiche.
Jerome lo fissò dubbioso mentre terminava di indossare il suo giubbotto di pelle ma Geri, per tutta risposta, disse: “Non si può mai sapere, Sköll. E io non amo scherzare, quando devo proteggere qualcuno.”
“Ho notato” assentì il licantropo, avviandosi con i due amici verso la porta e raggiungere così l’uscita dell’albergo.
Da lì, imboccarono lo stradello che conduceva alla via principale della cittadina, High Street e, una volta raggiuntala, iniziarono a percorrerne il marciapiede con passo tranquillo e aria apparentemente pacifica.
Gli occhi di Geri percorsero attenti ogni centimetro visibile sulla strada, mentre i due licantropi dinanzi a lui mantenevano un atteggiamento spensierato e sereno. Non era il caso di attirare più attenzione del necessario, visto che avevano comunque stazze tali da far girare più una testa verso di loro.
Non occorse comunque molto, per raggiungere un localino adatto a riempire gli stomaci dei due licantropi, e permettere a Branson di rizzare le orecchie e ascoltare le chiacchiere di paese.
Una volta all’interno, Jerome ordinò per tutti e trovò un tavolino nei pressi dell’ampia vetrata d’ingresso. Da lì, avrebbero potuto continuare a tenere d’occhio la strada e, al tempo stesso, sarebbero stati in grado di sgattaiolare fuori dal locale in caso di bisogno.
Mentre fish and chips arrivavano in gran quantità, assieme a tre pinte di birra chiara, le dita di Branson volavano sulla tastiera del cellulare, prendendo nota di indirizzi, vie, parchi pubblici e quant’altro.
C’era la remota possibilità che i licantropi del posto non c’entrassero nulla, con la sparizione dei suoi corvi, e che loro non fossero neppure presenti a Talgarth. Il fatto di trovarsi lì era solo pura speculazione.
Non era affatto detto che quello sparuto gruppo di lupi solitari, di cui avevano ricevuto solo sparute notizie di seconda mano, si fosse stanziato proprio lì, ma da qualche parte avevano dovuto iniziare la loro ricerca.
Oppure, ma non voleva pensarci neppure un istante, Huginn e Muninn erano semplicemente morti a causa di qualche cacciatore di frodo, e loro non li avrebbero mai più trovati.
Chiuso infine il collegamento a Google proprio in concomitanza con l’arrivo di un paio di operai edili, che entrarono nel locale per il pranzo, Branson prese la sua birra e la sorseggiò pensieroso.
Il liquido ambrato e fresco scivolò piacevole lungo la gola e, mentre una patatina fritta seguiva la birra, Branson lanciò un’occhiata apparentemente distratta ai due nuovi arrivi, studiandoli con occhio di Geri.
Dando poi di gomito a Jessie, Branson gli fece un cenno in direzione degli operai che, proprio in quel mentre, volsero lo sguardo verso di loro.
Non vi fu bisogno di presentazioni.
Se Branson si era accigliato nel notare la loro possanza fisica, oltre a un’altra decina di particolari, che solo un occhio esperto poteva notare, Jerome e Jessie semplicemente si irrigidirono come due bastoni.
Geri era abituato da anni a riconosce gli infinitesimali particolari che contraddistinguevano i mannari, e si compiacque di non essersi sbagliato. Sperò, comunque, che quei due fossero dei buontemponi, o tenerli a bada sarebbe stato difficile, visto quanto erano grossi.
I due nuovi arrivati si scambiarono un’occhiata significativa, prima di deviare i loro passi verso il tavolo a cui si erano accomodati Geri e compagni.
Jerome fu il primo a parlare e, levata una mano in segno di saluto, si aprì in un sorriso gioviale e disse: “Ehi, ragazzi! Qual buon vento?”
Il più grosso tra i due annusò l’aria con fare discreto prima di afferrare una sedia, volgerla verso il tavolo di Jerome e sedervisi sopra, intrecciando poi le braccia sullo schienale ligneo.
L’altro, rimase in piedi a coprirgli le spalle.
Apparentemente, nessuno nella locanda diede adito di occuparsi di loro.
Le chiacchiere continuarono, la barista li degnò solo di mezza occhiata e la televisione sputò notizie su notizie, senza essere realmente ascoltata da nessuno.
“Ragazzi…” borbottò l’uomo, parlando con tono basso e roco. “… che ci fate qui? E’ ancora un po’ presto per fare i turisti in queste campagne. Vi si gelerà il culo, con il tempo che c’è fuori.”
Il trio guardò oltre la superficie linda della vetrata, scrutando il cielo rigonfio e che minacciava pioggia. In effetti, non c’era di che stare allegri.
Volgendosi in direzione della bionda al bancone del bar, poi, l’uomo esclamò: “Ehi, Bess! Porta altre tre birre a questi ragazzi, e mettile sul mio conto! Dobbiamo trattare bene i turisti che vengono qui, no?!”
La donna in questione lo mandò candidamente al diavolo, scatenando l’ilarità dell’uomo e quella di molti commensali.
Le birre, comunque, arrivarono e, mentre Jerome sorseggiava la sua, domandò mentalmente e con cortesia: “Un’accoglienza degna di nota. Spero davvero che la nostra presenza non arrechi disturbo al vostro gruppo. Siamo solo in cerca di un paio di amici che, a quanto pare, bazzicavano da queste parti, e non sono più tornati a casa.”
“Mi chiedevo, infatti, cosa ci facesse il membro di una Triade in giro per il Galles. I tuoi amici, chi sono? E l’umano, sa tutto?” replicò l’uomo, intrecciando le mani sul tavolo.
“L’umano è il nostro Geri. Io sono Sköll di Matlock, e il ragazzo al mio fianco è una delle nostre sentinelle.”
L’uomo fischiò, forse sorpreso dalla presenza del secondo in comando di un branco o, forse, dalla sua provenienza. Era possibile che la fama di Brianna fosse giunta fino a lì. Chi poteva dirlo?
“Bleidd, forse è il caso che parliamo con Cedrik. Lui ne sa un totale di questa zona, e potrà consigliare ai nostri amici che attrazioni vedere. Io finirei con il mandarli in un vicolo cieco, temo!” ghignò il licantropo seduto accanto a Jerome, scoppiando poi in una grassa risata.
Poi, come ripensandoci, si alzò in piedi e aggiunse: “Meglio ancora. Vi ci portiamo noi, da Cedrik. E’ la miglior guida del posto, oltre a essere il cognato di Bleidd.”
“Ottimo. Tanto noi, qui, avevamo finito” assentì Jerome, levandosi in piedi e allungando una mano verso l’uomo che, fino a quel momento, aveva parlato.
“Jerome Rowley, tanto piacere, e grazie in anticipo per l’aiuto.”
“Io sono Griff Dixon mentre il mio amico, qui, è Bleidd Sorensen. Ci pensiamo noi a farvi visitare la zona. La troverete… interessante.”
“Non vediamo l’ora” dichiarò Jessie, avvicinandosi di un passo a Griff, come per proteggere Jerome da eventuali colpi di testa.
Branson infilò distrattamente una mano sotto il giubbotto di pelle che indossava, mascherando la sua mossa con un evidente grattino al torace.
Bleidd lo fissò comunque con aria torva – forse non apprezzando l’implicita minaccia – ma non disse nulla, limitandosi ad annuire.
Il messaggio era arrivato, quindi.
Se nessuno avesse fatto scemenze, lui non avrebbe estratto le sue armi.
Dopo essersi presentati, il gruppo uscì di buona lena – assieme a due sacchetti di carta pieni di panini per i due operai – e si avviò sulla strada principale. A quell’ora, il traffico era un poco aumentato, ma nulla a confronto con il caos congestionato di Matlock, o di Manchester.
A quel punto, Griff si volse a mezzo e dichiarò: “Come mai il secondo in comando del branco di Matlock si trova qui? Non ci sono lupi stranieri, in zona. Diversamente, lo sapremmo.”
“Non stiamo cercando dei lupi, infatti. Si tratta dei nostri corvi” replicò Jerome, notando subito l’accigliarsi dell’uomo.
“Ci spiavate?” replicò Griff, ombroso.
“Non è nostra abitudine spiare nessuno. I corvi fanno quello che vogliono e, se lo ritengono giusto, danno un’occhiata in giro” intervenne Branson, pacifico, lanciando un’occhiata guardinga all’alto licantropo.
“So bene come ragionano Huginn e Muninn, umano, e non sono dei semplici corvacci neri” gli ringhiò contro Griff, alterandosi leggermente.
Bleidd, allora, diede una pacca sulla spalla all’amico e, a sorpresa, iniziò a gesticolare velocemente con le mani nella sua direzione.
Griff a quel punto sbuffò, ma assentì controvoglia, replicando: “Lo so, lo so… stai buono, Bleidd. Non voglio mangiarli, ma mi sta sulle palle che vengano qui a curiosare. Non stiamo facendo nulla di male!”
Bleidd sbuffò a sua volta, lanciandosi in un’altra serie di gesti e l’amico, levando le mani in segno di resa, esalò: “E va bene! Stai buono! Non staccherò la testa a nessuno. Promesso.”
Vagamente sconcertati, i tre membri del clan di Matlock fissarono dubbiosi Bleidd che, per tutta risposta, aprì la bocca, indicandosi la lingua mancante.
Al che, Griff ringhiò irritato: “Quel macellaio di Sebastian Sheperd. Ce ne andammo dal suo branco quasi due anni fa, quando il nostro Fenrir divenne così squilibrato da mettersi a fare il dittatore con tutti, persino con i neutri. A Bleidd, qui, tagliò la lingua perché aveva difeso la sorellina dalle sue angherie.”
Jerome aggrottò la fronte al pari degli altri, a quelle parole, e sentenziò: “Beh, vi farà piacere sapere che è morto e sepolto… e nel peggiore dei modi.”
“Eccome se mi fa piacere! Chi è stato a far fuori quello stronzo!? Vorrei stringergli la mano!” esclamò ghignante Griff, mentre Bleidd si esibiva in un gestaccio rivolto al cielo.
“Ehm… diciamo che sappiamo con certezza che ha sofferto parecchio ma, al momento, l’autore del misfatto non è reperibile” esalò Jerome, sperando bastasse loro quella semplicistica spiegazione.
Speranza vana, ovviamente.
Nel tempo che servì loro per raggiungere Cedrik, Jerome spiegò alla coppia di licantropi ciò che era avvenuto a Holm of Huip, e come si fosse rischiata la fine del mondo.
Quando, infine, si infilarono nel cortile di una proprietà privata, le facce di Bleidd e Griff erano pervase dallo sconcerto più puro.
E come dar loro torto, dopotutto? Chi poteva immaginare che potessero succedere eventi simili a quelli accaduti a Holm of Huip?
Jessie, impegnato nel suo ruolo di sentinella, bloccò Jerome a un braccio, torvo, osservò l’alta casa a tre piani che si innalzava dinanzi a loro.
“Sei presenze mannare. Con tutto il rispetto, ma non posso far entrare il mio Sköll in un luogo chiuso, e con così tanti licantropi” dichiarò subito dopo, lanciando poi un’occhiata dubbia all’indirizzo dei loro due ospiti.
Bleidd assentì prima ancora che Griff potesse replicare e, intimando all’amico di non fare cazzate, corse in casa senza aspettare altro tempo.
Curioso, Jerome dichiarò: “Sbaglio, o il tuo amico ha paura di qualche tuo colpo di testa?”
“Ho il prurito alle mani. Sempre” ghignò Griff, infilando le dirette interessate nelle tasche del bomber che indossava.
“Capisco” replicò Jerome, ghignando in risposta.
Per ogni evenienza, Branson infilò la mano destra nella sua giacca, in corrispondenza della Beretta che portava nella fondina da spalla.
Quando, però, a uscire fu una donna in evidente stato di gravidanza, e scortata da un attento Bleidd, tutti si calmarono subito.
Branson ritirò la mano per infilarla in tasca e Griff, indicando con un cenno del capo la donna, dichiarò: “La sorellina di Bleidd. Lei è Eirwyn.”
“So ancora parlare, sai, Griff? E ho idea che tu non abbia fatto fare una bella figura al nostro neonato branco, se il Geri dietro di te è così teso.”
Branson le sorrise, levando per un istante entrambe le mani a mostrare la mancanza di armi mentre Jessie, allontanandosi di un passo da Jerome, dichiarava senza bisogno di parole di non essere più in stato di allerta.
Jerome sorrise infine alla donna, biondissima quando chiara di pelle e, nel concederle un cenno ossequioso del capo, disse: “Le mie più sentite felicitazioni per la tua condizione, Eirwyn. La luna splende su di te con immane forza, non c’è che dire.”
“A me sembra di averla ingoiata, la luna” rise la donna per tutta risposta, scatenando l’ilarità dei presenti.
“Sempre la solita irrispettosa, cara” celiò un uomo, affacciandosi sulla porta, poco dietro fratello e sorella.
Eirwyn si volse a mezzo, sorridendogli con affetto, e replicò: “Ma è vero, caro! Sono enorme, ormai!”
“E rechi una speranza degna di nota, in te, perciò non farò nulla per contraddirti, anche se io penso che tu non sia enorme” convenne l’uomo, avvicinandosi a Jerome con la mano tesa verso di lui. “Sono Cedrik Riley, molto piacere. Per ora, sono il capo del Consiglio che guida questo neonato branco. E’ un piacere ricevere visite così importanti, e così presto.”
Levando un sopracciglio con evidente curiosità, Jerome strinse la sua mano protesa e replicò: “Prevedi di perdere lo scettro a breve?”
Cedrik, allora, lanciò uno sguardo al ventre della compagna e, sorridendo gaio, dichiarò: “Tra circa tre mesi anche se, per molti anni, guiderò assieme ai miei consiglieri per spianare la strada a lei.”
Sempre più sorpreso, Jerome esalò: “Sai… sai che sta per nascere Fenrir?”
“La mia Eirwyn non è solo una lupa eccezionale e bellissima… ma è anche una völva. Ha predetto la nascita dell’erede del branco. E del suo Hati.”
Il terzetto di Matlock, allora, fischiò in risposta, del tutto ammirato, e Jessie esclamò: “Gemelli? Ma è fantastico!”
“Già. Anche se pesano quando una chevy” rise Eirwyn, ricevendo in risposta una pacca sulla spalla dal fratello.
Sempre sorridendo, Cedrik aggiunse: “Bleidd mi ha accennato ai vostri corvi. Spero siano gli stessi che abbiamo in cura noi, altrimenti non oso immaginare che fine abbiano fatto.”
Nel sentirlo parlare a quel modo, Branson chiese subito: “In cura? Cos’è successo?”
Perdendo del tutto il sorriso, Eirwyn mormorò spiacente: “Li ho trovati nel bosco del nostro Vigrond. Uno dei due era rimasto intrappolato in una rete da uccellagione, purtroppo, e l’altro era disidratato e infiacchito. Ho idea che si sia sfiancato nel tentativo di liberarlo, a giudicare dai segni che ho trovato sulla rete.”
A Branson sfuggì un’imprecazione e Cedrik, trovandosi pienamente d’accordo, chiosò torvo: “Non ti biasimo per la tua rabbia, perché è giustificata. Purtroppo, non ho abbastanza uomini per perlustrare i boschi e, a volte, capitano ancora cose come queste.”
“Non è certo colpa tua, se ci sono degli idioti che braccano illegalmente” sospirò a quel punto Branson, passandosi una mano leggermente tremante tra i capelli.
“Andiamo dentro. E’ inutile parlare qui fuori. Così, potrete parlare con gli altri membri del Consiglio” dichiarò Eirwyn, prima di aggiungere ammiccante: “E, magari, darci qualche dritta.”
Jerome sorrise più rilassato e, preceduto da Jessie – mentre Branson chiudeva la fila – entrarono nella villetta isolata e circondata dal verde.
Oltrepassato un ampio ingresso in marmo, e su cui si aprivano due rampe di scale ad arco, raggiunsero un ampio salone dal mobilio elegante e dalle tinte chiare. Lì, vennero introdotti e presentati al neocostituito Consiglio del branco di Talgarth.
Per la maggiore, come poté notare Jerome, erano lupi giovani, intorno alla ventina d’anni ma, tra essi, spiccava anche un anziano dal volto sfregiato.
Il padre di Bleidd ed Eirwyn, vennero poi a sapere.
Accigliandosi leggermente, Jerome domandò: “Regalo di Sebastian anche quella cicatrice?”
L’uomo assentì, sbuffando, e replicò: “Non gli è bastato prendersi un pegno da Bleidd per aver difeso la nostra piccolina dalle sue mire… no, ha voluto segnare tutti noi, in famiglia.”
Questo fece impallidire i tre ospiti che, all’unisono, lanciarono occhiate ansiose alla giovane partoriente.
Lei, per tutta risposta, mormorò serafica: “Spero non vi offenderete, se non vi mostro le cicatrici sulla schiena. Sono piuttosto bruttine, e non sono il biglietto da visita migliore, a un primo incontro.”
A Jerome sfuggì un’imprecazione piuttosto colorita e, ancora una volta, fu lieto per la fine ignominiosa di Sebastian. Forse, sarebbe stato più soddisfatto solo se lo avesse ucciso di sua mano ma, già così, poteva andare bene.
“Quindi, provenite in massima parte dal branco dell’Isola di Man?” domandò Jessie, distendendo gli avambracci sulle cosce muscolose dopo essersi accomodato su una poltrona in stile chippendale.
“Solo in parte” spiegò Cedrik, accomodandosi a sua volta sul divano, al fianco della compagna. “Altri, sono lupi errabondi che hanno deciso di trasferirsi qui. Altri ancora, provengono da oltre Manica.”
“Lupi francesi?” esalò sorpreso Branson, guardandosi intorno pieno di curiosità.
“Oui” disse uno dei due ragazzi dalla chioma biondo platino, dando di gomito al gemello al suo fianco. “Veniamo da Landerneau, in Bretagna. Siamo innamorati da anni del Galles, così abbiamo deciso di trasferirci qui, quando nostra sorella è diventata Fenrir del nostro vecchio branco.”
“Vi immaginate doverla servire e riverire ogni giorno, per tutta la vita?” ironizzò il secondo gemello, strizzando l’occhio al fratello che aveva appena parlato.
La battuta fece sorgere un sorriso spontaneo nei presenti.
Era indubbio il loro amore per la sorella, ma la voglia di libertà doveva essere stata superiore agli affetti familiari.
“Quindi, siete giunti qui e avete preferito evitare il branco di Pascal Laroche per aggregarvi a questa nuova realtà” dedusse Jerome.
“Esatto. Senza nulla togliere a Fenrir di Cardiff, che sembra davvero un brav’uomo, ma volevamo un’avventura diversa, per noi. Nel nostro viaggio itinerante, siamo venuti a sapere della presenza di altri lupi come noi e, parlandone con loro, abbiamo deciso di mettere insieme le rispettive abilità, formando così un Consiglio ad interim. Quando Eirwyn ci parlò dei gemelli, facemmo festa per una settimana, credo” ghignò il gemello più alto – Soren – sorridendo affettuosamente alla donna.
“E qui giungiamo noi… o meglio, i miei corvi” si intromise Branson. “Loro avevano sentito della notizia di un neonato branco grazie alle chiacchiere delle gazze, che sono notoriamente ciarliere e ficcanaso, così sono passati per dare un’occhiata, finendo nelle reti da uccellagione.”
Assentendo, Eirwyn fece un cenno a Bleidd, che sparì dalla stanza a grandi passi.
“Ci ha sorpresi scoprire che qualcuno fosse già interessato a noi, visto che siamo un branco insediatosi qui solo da pochi mesi…” spiegò loro la donna, massaggiandosi il ventre. “…ma ci ha anche rallegrati, perché speravamo davvero di poter prendere contatti con qualcuno. Sapevamo bene che non potevamo essere noi a fare il primo passo.”
Annuendo a più riprese, Jerome comprese bene il loro punto di vista. Nessun branco neonato poteva chiedere udienza ai Fenrir già insediati, ma doveva avvenire l’esatto contrario. Il fatto che Pascal non si fosse ancora presentato alla porta, essendo il branco a loro più vicino, poteva essere dipeso da molti fattori, non da ultimo le condizioni di salute del secondogenito di Fenrir.
Non aveva dubbi sul fatto che, sapendo il figlio pretrans in ospedale, Pascal avesse già fin troppi pensieri per i fatti suoi, senza dover pensare anche al neonato branco di Talgarth.
Nel loro caso, l’incontro con Eirwyn e gli altri membri del Consiglio era avvenuto per un caso fortuito, ma andava ugualmente bene per stendere i primi rapporti di amicizia.
In quel mentre, Bleidd tornò nella stanza, scatenando in Branson un sorriso spontaneo e un sospiro di sollievo.
Muninn, nel vederlo, balzò via dalla spalla del licantropo e si involò verso il padrone, scatenando la sorpresa dei presenti.
Huginn, invece, disteso su una cesta imbottita, levò il capo e gracchiò, ma non si involò verso Branson. L’ala visibile era pesantemente fasciata, ma il corvo sembrava stare tutto sommato bene.
Con Muninn appollaiato sul braccio, Branson mormorò alla mente del corvo: “Ehi, ma che diavolo vi è successo?!”
“Una stupida disattenzione, ecco cosa… Huginn stava cacciando un coniglio.”
Strabuzzando gli occhi per la sorpresa, Branson lanciò un’occhiata all’altro suo corvo, che ebbe la decenza di nascondere il musetto nell’imbottitura della cesta, vergognandosi a morte per la sua sbadataggine.
Bleidd posò con delicatezza il tutto sul tavolino del salone e Branson, ironico, chiosò con voce udibile da tutti: “Un coniglio, Huginn?”
“Mi sento già abbastanza idiota così, Geri, …non infierire, ti prego.”
Liberandosi in un ghigno che sapeva sia di ironia che di sollievo, Branson replicò: “Hai pagato con gli interessi la tua disattenzione, quindi penso proprio che non infierirò oltre. Eirwyn e gli altri sono stati gentili con voi?”
“Quella è una santa donna, altroché! Ci ha trovati e condotti subito al riparo, e mi ha medicato nel migliore dei modi.” Poi, come rammentando una cosa all’ultimo momento, aggiunse: “Ah, fa uno stufato di cinghiale che è la fine del mondo.”
A quel punto, Branson scoppiò in una risata liberatoria e, a mo’ di spiegazione, disse loro ciò che Huginn gli aveva appena confessato.
Muninn, scuotendo il capo piumato, gracchiò un insulto al fratello, che però non diede adito di averlo ascoltato. Era risaputo che, tra i due corvi, Muninn fosse il più serioso.
Nel depositare Muninn sul bracciolo della poltrona, Branson si volse a sorridere a Eirwyn e, dopo un attimo, si inginocchiò, mormorando ossequioso: “C’è una vita tra noi due, Prima Lupa. Dimmi come posso sdebitarmi.”
Scoppiando a ridere di fronte a quel gesto così plateale, anche se in accordo con il corretto bon ton da tenersi di fronte a una Prima Lupa, la giovane replicò: “Oh, ma… non merito questo titolo! Cedrik non è Fenrir!”
“Reputo giusto conferirti questo onore, mia signora, perché te lo sei guadagnato per i tuoi meriti e, come unico membro femminile del vostro Consiglio, penso ti spetti” ribatté con gentilezza Branson, lanciando poi un’occhiata curiosa al resto dei lupi presenti.
“Io dico che quest’uomo ha ragione!” esclamò il gemello basso – Marvin – annuendo all’indirizzo di Cedrik.
Anche gli altri membri si dichiararono d’accordo e, quando fu il tempo del padre di Eirwyn di parlare, lui mormorò commosso: “La mia Bryony sarebbe felice di saperlo, se fosse ancora viva. Concordo con gli altri; Eirwyn dovrebbe essere la nostra Prima Lupa, in attesa che mia nipote diventi Fenrir e trovi il suo compagno per la vita.”
Jerome diede una pacca sulla spalla a Branson, annuendo compiaciuto e quest’ultimo, nel risollevarsi, disse: “Resta valida la mia offerta, Eirwyn. Parla, e io esaudirò un tuo desiderio.”
A quel punto, la donna parve dubbiosa e insicura e, nel lanciare occhiate alterne ai suoi compagni di branco, mormorò: “Non saprei davvero che dire… non mi aspettavo una ricompensa per aver curato quel dolce corvo.”
Branson lanciò un’occhiata incuriosita a Huginn che, indispettito, borbottò: “Ehi, andiamo! E’ carina, no? Ovvio che sono stato cortese! Mi stava curando!”
“Ruffiano…” replicò Branson, pur sorridendo.
Il corvo gli gracchiò contro per diretta conseguenza, ed Eirwyn sorrise divertita, prima di esclamare eccitata: “Ecco cosa potresti fare per me! Insegnarmi ad allevare i nostri Huginn e Muninn.”
“Dovrebbe essere un membro umano del branco, a farlo, però. Quando vengono trovati, i corvi non sono ancora abituati ai licantropi, e non resisterebbero a stare a stretto contatto con un mannaro, per quanto gentile esso sia” replicò spiacente Branson.
“Oh, già… è vero…” mormorò Eirwyn, abbattuta.
“Però…” intervenne Cedrik, dando una pacca sulla spalla alla moglie. “… potrebbe insegnare le basi a Bess.”
Rivoltosi poi a Branson, l’uomo si spiegò meglio.
“Bess MacGuff gestisce la locanda dove vi hanno trovato Bleidd e Griff. Sa di noi, anche se è umana, ed è da lei che noi teniamo le nostre riunioni, quando abbiamo bisogno di spazio.”
Annuendo compiaciuto, Branson allora lanciò un’occhiata a Jerome per avere l’autorizzazione e lui, sorridendo, dichiarò: “Beh, come Sköll posso autorizzarti a trovare i nuovi Huginn e Muninn per questo branco. Per lo meno, saranno pronti per quando verrà scoperto il primo Geri di questo clan. Nel frattempo, organizzerò un incontro con la nostra Prima Famiglia, così che il vostro Consiglio abbia un valido alleato e, alla prossima riunione tra Clan, potrete partecipare a pieno titolo. Chiamerà anche Pascal di Cardiff, che sarà sicuramente lieto di darvi manforte. Ultimamente ha dei problemi con il figlio minore, ma sono sicuro che troverà del tempo per conoscervi meglio.”
Cedrik allora allungò grato una mano a Jerome, asserendo: “Ci riempi di onore, Sköll di Matlock, non lo dimenticheremo.”
“Voi avete salvato il nostro Huginn. Non ci sono debiti d’onore, tra di noi” replicò Jerome, dando una pacca sulla mano di Cedrik, che ancora tratteneva nella sua.
“Avete già piantato la quercia sacra, o avete trovato solo il luogo per il Vigrond?” chiese a questo punto Jessie, sorprendendo un po’ tutti.
“Solo il Vigrond, in effetti. E’ il piccolo boschetto alle spalle di questa villa, ed è di proprietà, così abbiamo potuto recintarlo. Non avendo un Fenrir che possa comunicare con la quercia, ci siamo limitati a trovare solo un nostro luogo di potere adatto alle celebrazioni ufficiali” gli spiegò Cedrik, scrollando le spalle.
Sorridendo sornione, Jessie allora disse: “Penso che Brianna potrebbe farlo per voi. Secondo me le piacerebbe. La nostra quercia ha diverse figlie piccole, e una di loro potrebbe essere trapiantata qui. Che ne dici, Jerome?”
Skŏll assentì, ghignando: “Gongolerà, quando glielo dirai. Sai che ama questo genere di celebrazioni.”
“La… la guardiana di Fenrir farebbe questo… per noi?” esalò Eirwyn, ammirata e commossa.
“Quando la conoscerete, saprete perché ne siamo tutti innamorati” sorrise orgoglioso Jerome, afferrando il telefono per chiamare subito il cugino.
Soddisfatto, Branson disse a Muninn: “Più tardi, mi farai un resoconto dettagliato di quanto hai visto prima del simpatico scherzo di tuo fratello. Ora, puoi dirmi perché non sei tornato a chiamarmi? Vi avrei raggiunti.”
“Eirwyn ci ha trovati quasi subito e, quando ho visto che stava curando con amorevole attenzione Huginn, ho pensato che non correvamo rischi, rimanendo qui. Non ho badato al passare dei giorni, però, scusami.”
Bran scosse il capo, liquidando le sue scuse, e replicò: “Naa. Lascia stare. Eri preoccupato per la salute di Huginn. Ci sta. E poi, alla fine, vi abbiamo trovati lo stesso, no?”
“Già. Comunque, ti aiuterò io a trovare due corvi adatti, Branson. E sono sicuro che Bess sarà una brava allieva. Ha provveduto anche lei a curare Huginn, e ha mani gentili.”
“Buono a sapersi, allora.”
Sì, anche se erano alle prime armi, senza un vero capo a guidarli, parevano una squadra affiatata. Avrebbero sicuramente fatto passi avanti, nel corso degli anni e, con già due membri della Triade di Potere in arrivo, trovare Sköll non sarebbe stato difficile.
Era implicito nella natura dei licantropi. Dove nasceva un Fenrir, presto o tardi sarebbe comparso anche il resto della squadra. Anche Freki e Geri avrebbero fatto la loro comparsa, e il branco sarebbe stato finalmente completo e degno di nota.
Lanciando un’occhiata a quei nuovi amici, Branson sorrise.
Il branco dell’Isola di Man era tutt’ora allo sbando, a causa delle gravi colpe di Sebastian. Sarebbe occorso ancora del tempo, prima che a quel clan fosse concessa nuovamente fiducia.
La presenza di Brianna, che era la voce di Fenrir in terra, Thor, che rappresentava i berserkir, e Tempest, che aveva in sé l’amina di Tyr, dava a tutti loro nuove speranze per un futuro più sereno.
Un branco in più, e guidato da persone generose e altruiste, sarebbe stato un’ottima conquista, per i clan britannici.
Dopotutto, i licantropi non si sarebbero estinti. Stavano piuttosto andando incontro a una nuova e più fiorente generazione di mannari, Branson ne era più che sicuro.
Pur se lui era solo umano, era lieto di far parte di uno dei clan più forti della Gran Bretagna.
Accarezzando Muninn sulla schiena, annuì tra sé, soddisfatto di come stessero andando le cose.
“Potrai non essere un mannaro, ma pensi come tale… e la Madre vede sempre queste cose” disse nella sua mente il corvo, orgoglioso.
“Hai fiducia in loro? In queste persone?”
“Sono valide e capaci, e si sono forgiate nelle avversità. Saranno un branco forte, quando la Triade sarà completa.”
“Bene… bene” assentì tra sé Branson, levando lo sguardo per poi sorridere a Eirwyn.
Quella donna portava in sé la speranza, una speranza pagata con il sangue. Sì, sarebbero stati un ottimo branco. E ottimi amici.
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Note: Ho pensato fosse giusto chiarire come, un semplice umano, possa essere anche un valido cacciatore di licatropi, perciò ho inserito i personaggi di Huginn e Muninn per sopperire alle 'mancanze' che può avere una persona normale, se confrontata con un mannaro.
Al tempo stesso, ho inserito nuovi personaggi, un nuovo branco, e spiegato come fosse - una volta di più - il caro, buon, vecchio Sebastian. Jerome ha ragione nel dire che ha ricevuto una fine degna dei suoi peccati. ^_^
Faccio anche riferimento a Brianna, Thor e Tempest per un semplice motivo. Brianna è custode di Fenrir, mentre Tempest di Tyr. Due dèi su territorio britannico non sono pochi. Inoltre, Thor è uno Stregone di sommo potere, oltre che un potente berserk perciò, assieme, possono garantire ai vari branchi più certezze nel futuro di quanto non ve ne fossero prima.
Se avete domande, comunque, sono qui. (Visto che anche Jessie aveva i suoi dubbi, circa un branco senza Fenrir, immagino siano venuti dubbi anche a voi. Il Consiglio sopperisce temporaneamente a questa mancanza, in attesa che si palesi un Fenrir senza branco)
Grazie a chi ha letto e/o commentato! Alla prossima!
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Capitolo 12 *** Dove tutto ebbe inizio - (3500 a.C. circa) Fenrir - Parte 1 ***
Note: ho pensato che tornare indietro nel passato e dare voce ai personaggi che diedero inizio a tutto fosse interessante, perciò ho dato la possibilità a coloro che diedero il via alla stirpe, di presentarvi il loro primo incontro, il modo in cui Fenrir - e la sua belva - vennero ammansiti da una semplice (per modo di dire) mortale. Buona lettura!
Dove tutto ebbe inizio -1- (3500 a.C.)
Il suo passo era leggero quanto elegante e la foresta si inchinava a lui, che era un dio su quel pianeta, profeta di sventure e signore dell’assoluta distruzione.
Nessuno poteva dirgli cosa fare, come comportarsi, a che leggi sottostare. Neppure il grande Odino, che tanto lo temeva e odiava, poteva nulla contro di lui. Perché il Signore del Crepuscolo degli Dèi non poteva essere canzonato, deriso, o irritato.
Nessuno poteva ordinare a Fenrir cosa fare della sua vita, né suo padre Loki, che tanto agognava a veder scorrere fiumi di dolore e morte a causa sua, né gli dèi tutti, che parimenti lo detestavano.
Naturalmente, non avrebbe soddisfatto i desideri del padre, poiché lui si divertiva troppo per distruggere ogni cosa, ma non avrebbe neppure dato alcuna soddisfazione agli dèi, perché essi non la meritavano.
Era divertente vagare per i mondi, incutendo timore e rispetto nelle genti e negli altri dèi, sentire sulla punta della lingua il sapore della loro paura e del loro sospetto.
Più di tutti, gli umani di Midghard gli piacevano perché erano un popolo ancora giovane, che stava crescendo per potere e numero, e sapevano bene a chi inchinarsi e a chi no.
Avevano un che di crudele e perverso, in loro, e ammirava il modo in cui si combattevano, uccidendosi gli uni con gli altri. Nessuno veniva risparmiato, di fronte alla loro sete di dominio o vendetta.
Neppure i fratelli o le sorelle che paradossalmente, a volte, venivano usati come scudi umani, o come merce di scambio.
Pensare a sua sorella Hell lo fece sorridere, e le sue zanne brillarono candide sotto il sole del meriggio.
Lei, sicuramente, non avrebbe esitato a barattarlo per i suoi beceri scopi, se solo avesse avuto un qualche interesse da soddisfare.
Non che lui gliel’avrebbe permesso, s’intende. L’avrebbe divorata, piuttosto.
Quanto a Jor… beh, di lui non aveva mai capito un accidente di nulla, perciò non aveva davvero idea di come si sarebbe comportato in una situazione simile.
Un refolo di vento si incuneò nell’oscura foresta distraendo i suoi pensieri e subito, il suo naso sopraffino, colse un aroma diverso dal solito.
Fattosi attento, levò il muso enorme per meglio saggiare quell’aroma nell’aere umido e ricco di profumi boschivi.
La curiosità giunse a solleticarlo, quando infine riconobbe in quell’aroma un odore che non sentiva da tempo. Quello di una donna umana.
Più volte aveva giaciuto con quelle creature mortali, godendo delle loro carni calde e morbide, mentre prendeva da loro tutto ciò che potevano dargli.
In seguito, aveva cancellato loro la memoria e le aveva rispedite ai loro villaggi, così che non potessero raccontare di aver copulato con un dio. Non voleva che si spargesse la voce che Fenrir poteva anche essere piacevole, sotto certi aspetti.
Lui doveva soltanto essere temuto, non bramato.
Lesto, perciò, mutò forma per non farsi cogliere nell’atto di avvicinarsi alla creatura umana e, raggiunto che ebbe il limitare di una radura, osservò incantato e curioso.
Là, nel bel mezzo di un verde prato ricco di fiori, Fenrir scorse una giovane fanciulla di piccola statura, dalla corporatura minuta e morbida. Non poteva avere più di quindici, sedici anni, a suo avviso.
Indossava abiti ingombranti, di tessuto grezzo e, sicuramente, dovevano essere stati risistemati molte volte, viste le evidenti pezze in svariati punti e il tessuto pressoché sgualcito in ogni sua parte.
Una contadina, forse, o comunque non la figlia di un capoclan della zona, in ogni caso. Nessuna di loro avrebbe indossato abiti così dimessi, o sarebbe uscita senza scorta.
Sogghignando, se ne compiacque.
Non amava le figlie dei nobili. Erano così noiose e petulanti!
Silenzioso, continuò perciò ad ammirarla nel suo lento divagare per la radura.
I lunghi capelli rossi erano legati sommariamente in una crocchia sulla nuca, ma alcune ciocche sfuggivano selvagge al fermaglio di corno.
Fenrir desiderò infilarvi le mani e stringerle tra le dita per saggiarne la morbidezza. Immaginò fossero simili alla seta più fine e, dentro di sé, rabbrividì di aspettativa.
La vide piegarsi diverse volte per raccogliere delle erbe, studiarne con attenzione la tipologia per poi poggiarle in un ampio cesto che portava sul braccio.
Una guaritrice, forse, o un’apprendista di quell’arte.
A sorpresa, sul lato opposto della radura, un timido daino si approssimò proprio in quel momento e la giovane, bloccando i suoi passi, lo osservò quieta.
Fenrir annullò la propria aura per non farlo fuggire, incuriosito dalla reazione che avrebbe avuto la ragazza di fronte a quella creatura.
Come sperava, lo sorprese ancora.
Non solo si accucciò a terra per apparire meno pericolosa, ma iniziò a intonare una calda nenia con la sua voce di contralto.
L’animale fece vibrare le orecchie, forse stupito da quel suono imprevisto e per lui assai strano.
Per Fenrir, invece, fu come ascoltare le ancestrali voci degli elfi chiari di Alfheimr, o le musicanti con cui era solito intrattenersi Odino alla sua corte.
Lui non era mai stato gradito ospite, in quei lidi, e non aveva mai potuto godere di simile bellezza e candore, ma sapeva apprezzarne la bellezza, e quella voce non aveva nulla da invidiare alle artiste con cui si intratteneva Padre Tutto.
Non che volesse davvero crogiolarsi su un divano e piluccare acini d’uva come quel vecchio barbuto, però… però, era piacevole ascoltare una simile melodia, per una volta, senza che alcuno lo disturbasse con qualche commento aspro.
Era difficile essere il detentore di un potere distruttivo come quello che stringeva tra le mani, ma non aveva scelto lui di essere così. La Madre aveva decretato il suo futuro quando era venuto al mondo.
Naturalmente, per suo padre era stato un immenso piacere saperlo così potente e oscuro, mentre sua madre si era scagliata contro Loki, reo di averla ingannata sulla sua reale identità.
Sdegnata, aveva lanciato maledizioni all’indirizzo del dio che l’aveva ingravidata mentendo sulla sua reale identità e, lasciatasi alle spalle i figli, non aveva più voluto vederli.
Avere per madre una titanessa voleva dire non aspettarsi torte di more per il proprio compleanno, o il bacio della buonanotte durante le notti di tempesta. A maggior ragione se ella era stata ingannata su chi avrebbe messo al mondo.
Tornando a concentrarsi sulla giovane umana, tralasciando le sue memorie di cucciolo, sorrise quando vide il daino avvicinarla e prendere dalla sua mano alcuni steli d’erba.
Oh, sì, quella giovane era l’incarnazione stessa del candore virginale e della bontà. Nessun’altra mortale avrebbe potuto fare ciò che ella stava facendo!
Doveva essere sua a qualsiasi costo! Quelle carni sarebbero state deliziose, ne era sicuro!
Fu così che rese nota la sua presenza, facendo invariabilmente fuggire il daino e mettere in allerta la giovane.
Ma a lui non interessava. Non avrebbe potuto fuggire, o rifiutarlo.
Nessuna l’aveva mai fatto.
Questa umana sarebbe stata solo l’ultima di una lunga serie, finché non si fosse stancato di lei, rispedendola al suo villaggio per mettersi in cerca di un’altra preda.
Lei, nel frattempo, lo fissava guardinga, il cesto ancora sottobraccio e la mano libera infilata tra le falde dell’abito consunto. Sicuramente, stretta a uno stiletto o un pugnale. Fenrir dubitava che fosse uscita senza un’arma, pur se inefficace, su di lui.
Le sorrise, levando lentamente le mani per farle capire che era disarmato – almeno all’apparenza – e, con voce carezzevole, esordì dicendo: “Scusami… non volevo spaventare né te, né il daino, ma la tua voce mi ha attirato qui.”
La giovane ancora non parlò, accigliandosi e fissandolo con chiari occhi color verde foglia. In quel momento, avevano la stessa durezza delle giade screziate.
Fenrir ne fu suo malgrado ammaliato. No, non c’era solo dolcezza, in lei, ma anche forza e determinazione.
Un connubio ancor più interessante, a questo punto.
“Mi chiamo Wulff, e tu?” le domandò, restando a qualche passo di distanza da lei.
Dubitava che potesse avvertire la sua aura divina ma, con alcune donne, era capitato, e preferiva non metterla in allarme prima di averla avvinta a sé con il suo fascino.
La ragazza, inspiegabilmente, estrasse l’arma che teneva nascosta tra le falde dell’abito e, puntatala verso di lui, sibilò minacciosa: “Ti sventrerò come un maiale, giovane errabondo, se proverai ad avvicinarti di un altro passo.”
“Non è mia intenzione farti del male. Davvero. Volevo solo conoscere la ragazza che ha saputo ammansire un daino con la sua semplice voce” sorrise Fenrir, mettendo miele nella sua voce.
La giovane, però, non abboccò affatto e, a sorpresa, sferrò un attacco contro Fenrir, ferendolo di striscio a un braccio.
Sibilando per la sorpresa, lui si scostò velocemente per non essere ulteriormente colpito ma la giovane sorrise vittoriosa, come avendo avuto risposta a un suo dubbio personale.
Dalla ferita non uscì una sola stilla di sangue, pur se la lama era affondata a sufficienza per lasciare un segno su quella carne ambrata e perfetta.
Gli occhi neri di Fenrir scintillarono di rabbia a stento repressa – essere smascherato a quel modo, lo fece irritare – e, passandosi una mano nervosa tra i capelli corvini, lui ringhiò: “Che ti è saltato in mente?! Sei pazza, forse?!”
“Affatto, ma le bugie mi irritano” replicò a sorpresa lei, rimettendo a posto il coltello. “E ora che abbiamo stabilito che sei un essere immortale di qualche genere, posso sapere la verità?”
Sbalordito dalla sua assoluta mancanza di paura, Fenrir la fissò in quegli occhi sicuri e decisi, pronto a trovarvi il seme della follia più pura. A sorpresa, non trovò affatto questo, ma una sicurezza che le veniva dal passato, da molte vite passate, a dir la verità.
La sua anima era antica e saccente, e le conferiva una fiducia profonda in se stessa.
Non l’anima di un qualche dio decaduto, che di sicuro sarebbe stato in grado di riconoscerlo come dio della distruzione, ma di una sacerdotessa di qualche culto, forse di un culto così antico che neppure lui conosceva.
Ghignando, Fenrir allora rilassò la propria postura e, poggiata una mano sul fianco, asserì divertito: “Sei antica di spirito, pur essendo di carne giovane e mortale. Ne eri a conoscenza, fanciulla?”
Annuendo, ella replicò serafica: “Me lo disse il nostro druido, quando fui proposta per i riti di Beltane, l’anno passato. Mi fu vietato di essere tra le Vergini Consacrate perché io dovevo rimanere intonsa e pura; ero destinata a qualcosa di più grande.”
Fenrir rise, deliziato da quella sciocchezza. I druidi, a volte, erano così stolti!
Lei, però, non rise affatto e, sbuffando, borbottò: “Non trovo affatto divertente il fatto che tu ti sia burlando di me, essere immortale.”
“E io trovo esilarante che tu possa essere in mia presenza, senza minimamente provare paura o timore per la tua vita” replicò lui, ironico.
“Sono una suddita fedele degli dèi, perciò non ho nulla da temere da loro.”
“Neppure da me?”
Così dicendo, riprese le sue sembianze animali, portandola finalmente a gridare spaventata.
La ragazza crollò a terra, sgomentata da quell’improvvisa malia e, senza parole, osservò l’enorme lupo candido che la sovrastava con cupa fierezza.
Era splendido, e il suo manto niveo brillava dei colori dell’arcobaleno, alla luce del sole. Nessuna bestia avrebbe mai potuto essere al pari suo, né sulle terre emerse, né nei cieli.
Quale forza e quale baldanza, erano trattenute a stento da quella forma incredibile!
“Ebbene? Sei ancora così tranquilla?” la prese in giro Fenrir, parlando con tono strascicato.
Odiava dialogare nella sua forma di lupo, perché le sue zanne e la forma allungata del muso glielo rendevano difficoltoso. Aveva però desiderato con tutto se stesso sgomentarla, e la sua forma animale era temuta da tutti.
Lei, comunque, non sembrava terrorizzata, anzi, tutt’altro.
Dopo l’iniziale sgomento, ora lo stava osservando come mai alcuno aveva fatto con lui. Come se non avesse mai visto creatura più bella, e ne fosse ammaliata, rapita, non terrorizzata.
“Quale… qual è il tuo nome?” mormorò con un filo di voce.
“Sono il distruttore dei mondi, colui che darà inizio alla fine di tutte le cose…” iniziò col dire pomposamente Fenrir, sortendo solo l’effetto di farla sbuffare.
Indispettito, sbottò subito dopo: “Sono Fenrir, sciocca mortale! Devi temermi, non sbuffare infastidita!”
“E perché mai dovrei temerti?” replicò lei, sorprendendolo non poco.
“Perché potrei fare di te ciò che voglio, e tu non potresti impedirmelo!” ringhiò il lupo, puntandole addosso i suoi occhi bicolori.
“Ebbene?” gli rinfacciò per contro lei, intrecciando le braccia sotto i seni.
“Ebbene, cosa?” sbuffò Fenrir. Era mai possibile che non si spaventasse? Che non lo temesse?
“Cosa cambia, rispetto a qualsiasi altro pericolo incombente che potrebbe abbattersi su di me?” lo rimbeccò lei, sedendosi meglio sull’erba per poi incrociare le braccia sulle ginocchia.
Fenrir riprese forma umana e, fissandola dall’alto al basso, ringhiò: “Non capisco cosa vuoi dire.”
“E’ semplice; sono una donna, perciò non ho la forza di battere un uomo, né le capacità tecniche per farlo. Non mi hanno insegnato a difendermi, pur se posso tentare di affettare qualcuno come ho fatto con te, prima.”
Nel dirlo, fece spallucce e proseguì.
“Le malattie, spesso e volentieri, ci strappano ai nostri cari quando meno ce l’aspettiamo. E, come hai giustamente fatto notare tu, sono mortale, perciò un giorno perirò in ogni caso, anche se io non lo vorrò. Perciò perché dovrei ritenere più terrificante la tua minaccia, rispetto alle altre che ti ho citato?”
Fenrir rimase ammutolito da quella dichiarazione inaspettata.
Come poteva darle torto?
La ragazza accennò un sorriso triste, terminando di dire: “Se tu decidessi di prendermi e usarmi, cosa potrei mai fare, io? Perciò, che senso ha farmi divorare dalla paura? Avrei paura se potessi avere il controllo della situazione, e non mi impegnassi a sufficienza per trovare una soluzione. Ma così? Sarebbe un inutile spreco di energie.”
Basito di fronte a tanta saggezza, Fenrir si inginocchiò a terra, fissandola nei suoi occhi color delle foglie e, con un mormorio sommesso, asserì: “Sei una strana mescolanza di innocenza e saggezza ancestrale. E non deriva dalla tua anima antica. Sono pensieri tuoi, del tutto coscienti.”
“Riesci a leggere la mia anima?” si incuriosì la ragazza.
Fenrir ghignò. Lo stava prendendo in giro, forse? Lui, che poteva smuovere stelle e cielo per distruggerli con un solo colpo di fauci?
Ma no, non v’era derisione, nel suo sguardo, solo sincero interesse.
“Sì, posso leggerla. Non è un’anima cosciente come potrebbe essere quella di un dio o di uno spirito guerriero assurto a vita immortale, che quindi potrebbe parlarti e guidarti. Lei è silente, solo un soffio di vita nel tuo corpo di carne. Ma ti ha donato i suoi poteri mistici, oltre a concederti la possibilità di camminare su Midghard” le spiegò Fenrir, allungando una mano a sfiorare uno dei suoi riccioli ribelli.
Lei ristette immobile, ma il dio avvertì il suo respiro farsi più veloce, il battito del cuore più affrettato. No, forse non era paura, la sua, ma non era neppure così calma o indifferente come voleva fargli credere.
Sorrise nonostante tutto e, dopo aver saggiato la sericea consistenza dei suoi capelli, ritirò la mano. Come aveva immaginato, erano seta pura.
“Un dio può incarnarsi in un corpo umano? E che giovamento ne trarrebbe?” domandò lei, sbattendo le palpebre con aria confusa.
Fenrir rise. “Non un dio che può usare il proprio corpo per muoversi, ma uno che ha perso corporeità, che non può più respirare con i propri polmoni.”
“Divengono… spiriti?” sbottò confusa la giovane, fissandolo scettica.
“La Madre li richiama a sé come qualsiasi altra anima abbia perso il proprio involucro di carne e sangue. Solo, l’anima degli dèi è cosciente di sé e può chiedere di tornare. Ogni patto con la Madre è diverso, e ogni dio ha una diversa occasione di sfruttare questa nuova opportunità di camminare nei Nove Regni” dichiarò Fenrir, reclinando su un fianco per poi poggiare un gomito tra l’erba.
Da quella posa rilassata, la osservò rimuginare, un dito a picchiettare pensosa il mento mentre gli occhi, accigliati, sembravano rifulgere di intelligenza.
“Cosa trasforma una creatura potente come un dio in uno spirito? Non potete bloccare il processo?” gli domandò ancora, suo malgrado affascinata dalle sue argomentazioni.
“Mi stai chiedendo il più grande dei segreti, mortale, perciò scantonerò la tua domanda” replicò Fenrir, sdraiandosi sull’erba per poi incrociare le braccia dietro la nuca.
Vagamente indispettita, la ragazza si arrischiò a tirargli la manica della tunica di pelle che indossava e, burbera, asserì: “Non puoi uscirtene con un ‘non ti dirò nulla’ e poi fare finta che non esisto.”
“E perché mai non potrei farlo, fanciulla? Chi sei, tu, per darmi ordini?” la prese in giro lui, chiudendo gli occhi per assaporare meglio il tepore del sole sulla pelle.
Midghardr era sempre stato un pianeta splendido, quasi al pari Elfheimr, e le piacevolezze della Natura che lo circondavano alleviavano per un breve periodo le sue costanti arrabbiature.
“Sono Avya, figlia di Thorn, non quel tuo pomposo fanciulla!” sbottò allora la giovane, alzandosi in piedi con aria bellicosa.
“Lieto di conoscerti, Avya, figlia di Thorn. Comunque, non mi scalderei poi così tanto, sai? Solo perché stiamo colloquiando amabilmente, non vuol dire che tu possa permetterti di irritarmi” le ricordò Fenrir, aprendo un solo occhio per fulminarla con lo sguardo. “Chiedi altro e, forse, risponderò. Ma non pensare mai, mai, di potermi trattare come un qualsiasi umano di tua conoscenza.”
“Forse?” ripeté sdegnata la ragazza, ignorando del tutto il resto del suo discorso.
Fenrir rise ancora. Era così focosa, così piena di vita e di energia! Emanava quella forza inaspettata come un profumo speziato attraverso i pori della pelle, inebriandolo.
Non aveva davvero paura di lui, di indispettirlo, di far affiorare la belva che era sedata nel suo corpo divino. Anzi, forse lo sperava, in fondo in fondo.
“Forse” sottolineò Fenrir, levandosi sui gomiti prima di aggiungere: “Siedi con me, giovane Avya, e parla con me. Sarò io stesso a riaccompagnarti sana e salva al tuo villaggio. Parola di divinità.”
“Le divinità posso offrire promesse senza aver l’obbligo di mantenerle. Avete i mezzi e il potere per smentire voi stessi” brontolò Avya, pur tornando a sedersi.
“Di questa promessa puoi fidarti, mia indisponente e ciarliera fanciulla. Mi incuriosisci, perciò sei al sicuro, con me” replicò il dio, facendo spallucce.
“Come posso incuriosire una divinità? Voi sapete già tutto, no?” scrollò le spalle Avya, ancora scettica.
Ghignando, Fenrir replicò: “Odino non avrebbe sacrificato un suo occhio da donare a Mimir, se noi dèi avessimo tutta la conoscenza nelle nostre mani. Solo Madre sa ogni cosa, e vede ogni cosa.”
Avya ammutolì a quella notizia e Fenrir, allungandosi verso la cesta di lei, afferrò uno dei fiori che aveva raccolto e aggiunse: “Tu cogli questo fiore perché ha effetti sul dolore osseo, ma non sai che può anche servire per far abortire una donna che non desideri il proprio cucciolo. Se dosata con attenzione, può servire anche a questo.”
Lei guardò il fiore, fissò il viso ambrato di Fenrir, i suoi neri capelli rilasciati sulle spalle e, sorridendo appena, mormorò: “Mi insegneresti altro, se ti chiedessi di farlo?”
Sollevandosi a sedere, le braccia intrecciate sulle ginocchia, Fenrir la squadrò curioso, sorrise malizioso e infine le propose: “Concediti a me, e io ti insegnerò tutto quello che conosco su piante e fiori.”
Avya allora si adombrò, gli scaricò in testa il suo cesto di fiori e, piccata, si alzò per andarsene.
Sbigottito da quel gesto davvero irrispettoso, Fenrir balzò in piedi con un ringhio ferale, la afferrò al braccio e, con forza, la schiacciò contro di sé.
I suoi occhi scuri brillarono di rabbia, mutando poi colorazione per tornare alle loro tinte originali; l’azzurro e il verde.
“Non mi si tratta come uno sciocco mortale, ragazza! Te l’ho già detto una volta!” le sibilò sulla faccia, furibondo e ormai fuori controllo.
Avya, però, non tremò. Né diede adito di essere spaventata da lui. Non le stava facendo male. Sì, la tratteneva, avrebbe potuto fare di lei quel che voleva… ma non stava usando la sua forza.
Avya, perciò, fece la cosa più insensata e folle che la sua mente poté partorire e, levatasi in punta di piedi, lo baciò.
Fu solo un bacetto sulla punta del naso, neanche si fosse trovata con i suoi fratelli più piccoli, ma questo gesto inaspettato sgomentò Fenrir, che la lasciò andare immediatamente.
Subito dopo, caracollò all’indietro di un paio di passi, fissandola come se fosse stata pazza e, senza sapere bene come esprimere il proprio stato confusionale, esalò: “Che significa?!”
“Mi sono scusata. Per averti tirato i fiori in testa. Mi scuso così, quando faccio i dispetti ai miei cuginetti più piccoli” si limitò a dire Avya, scrollando le spalle.
Fenrir rabbrividì al pensiero che lei lo vedesse come un bambino e, adombrandosi in viso, borbottò: “Tu sei folle, umana.”
“E tu sei suscettibile come un porcospino. Ebbene?”
“Un… porcospino?!” sbraitò Fenrir, avvampando d’ira.
Avya, però, rise nel vederlo così furioso e, nell’asciugarsi una lacrima d’ilarità, esalò: “Devi ridere un po’ più di te stesso, o finirai con l’esplodere per la troppa boria e, se ho ben capito chi sei, non te lo puoi permettere.”
“Boria? Ragazza, tu sfidi la sorte con un dio della distruzione, te ne rendi conto?!” le ringhiò contro, indeciso se prenderla a schiaffi o ridere a sua volta.
“Sai già di poter fare tutto ciò che vuoi. Che senso ha tentare di mettermi paura, o volermi irretire con le tue fatue promesse per avere il mio corpo? Non sarebbe meglio se tu fossi semplicemente te stesso?”
“Me stesso? Avya, hai visto prima cos’è, per me, essere me stesso” le rinfacciò acido. “Questa forma che vedi è un corpo secondario, che io scelgo per camminare tra voi… ma io sono un lupo!”
“Oh” ammutolì Avya, sinceramente sorpresa. “Pensavo volessi solo impressionarmi. Colpirmi con i tuoi poteri, ecco.”
Fenrir rise aspramente, replicando: “Tu sei pazza, ragazza, lo sai? Solo una pazza oserebbe sfidarmi così tante volte.”
“E perché, di grazia? Hai detto che tu sei destinato al Crepuscolo degli dèi, ma hai altre funzioni, oltre a questa tua caratteristica piuttosto… definitiva, all’interno della cerchia di divinità?”
“No, è ovvio. Nessuno si fiderebbe di me per farmi compiere altro. Io sono temuto da tutti!” esclamò con orgoglio Fenrir.
A quel punto, Avya sospirò e disse: “Mi dispiace.”
“Cosa?!” ringhiò lui, più che mai sorpreso e irritato.
“Un simile potere rende soli, non è vero?” gli fece notare lei, stringendo le mani dinanzi a sé.
“Non sai di quel che parli” le rinfacciò Fenrir, pur sapendo che aveva dannatamente ragione.
Suo padre lo cercava solo per farlo irritare, sua madre lo ignorava, gli dèi lo disprezzavano e l’unico che parlava con lui era Tyr. Di certo, non doveva sforzarsi molto per contare coloro che avevano un rapporto disinteressato con lui.
Avya, a sorpresa, levò la sua manina a sfiorare il viso di Fenrir che, irrigidendosi, sibilò: “Cosa stai facendo?”
“Si chiama carezza, Fenrir, e si fa per essere comprensivi e compassionevoli. La si concede per dare pace. Sembra che tu ne abbia un estremo bisogno, in questo momento.”
“Io non agogno la pace. Sono un dio di guerra!”
“Ma vieni qui per giacere con le donne umane, vero?” gli fece notare a sorpresa la giovane.
Lui ristette zitto, sul chi vive, ma non Avya, che proseguì nel suo dire.
“Trovi pace tra le loro braccia, giusto? Perché, forse, le dee non sono così… disponibili a donare calore e serenità.”
Fenrir si accigliò, fissandola torvo, ma Avya non demorse.
“Cercavi pace, quando ti sei avvicinato? Volevi giacere con me?”
“Cambierebbe qualcosa, se dicessi di sì?” borbottò contrariato il dio.
“Se ti concedessi la mia compagnia, ma non il mio corpo, ti andrebbe bene lo stesso?”
“Come?” esalò lui, non comprendendo appieno le sue parole.
“Se fossi tua amica, ti basterebbe?” si spiegò meglio lei, arrischiandosi ad afferrare entrambe le mani del dio per sollevarle in mezzo a loro.
Fenrir abbassò lo sguardo a scrutarle, così rosea e pallida la pelle di lei, mentre lui era ambrato come un guerriero abituato a stare all’aperto, ad affrontare il mondo a muso duro.
Le sue mani erano così minute ed esili, eppure lo trattenevano senza sforzo. Era come se lo tenessero avvinto, imbrigliato.
Pur se non stava che tenendo sollevate le loro mani. Non stringeva affatto. Le sosteneva.
Come avrebbe fatto un amico in difficoltà. Avrebbe sostenuto l’altro.
Perdendo parte del suo livore, Fenrir sollevò una delle sue mani, ne sfiorò il palmo con lo sguardo, notandone le callosità e i piccoli tagli, e infine mormorò: “Sei donna, sei umana, sei mortale… ma queste mani sono forti come quelle di un guerriero immortale, vero?”
“Non so.”
“Sostengono le mie senza prevaricare. Perciò sì, sono forti.”
“Non volevo prevaricarti, infatti. Potevi rifuggire il mio tocco in qualsiasi momento, con o senza poteri divini” annuì lei con semplicità.
“Anche tu, se vuoi, potrai rifuggire il mio tocco” mormorò lui, chinandosi verso il suo volto. “Allontanati, o ti darò un bacio per scusarmi.”
Lei non lo fece e, quando Fenrir le sfiorò le labbra, seppe di essere perduto.
Quella, sarebbe stata la sua ultima donna. Quella sarebbe stata la sua compagna. Che lei lo volesse o no.
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Capitolo 13 *** Dove tutto ebbe inizio (3500 a.C. circa) Fenrir - Parte 2 ***
Dove tutto ebbe inizio - 2 -
Circa 4 mesi dopo il loro primo incontro
Era decisamente la prima volta che cavalcava. A casa non c’erano né cavalli, né muli, adatti a farlo e, comunque, i suoi fratelli glielo avrebbero impedito per paura che si facesse male.
Di sicuro, comunque, nessuno al mondo aveva mai cavalcato un lupo bianco, alto tre metri e mezzo al garrese e, cosa ancor più sicura, nessuno aveva mai cavalcato un lupo che era anche un dio.
Fenrir, però, si era presentato in forma di lupo, quel giorno, ordinandole di salirgli in groppa.
Avya aveva lasciato perdere l’ordine implicito nelle sue parole – non aveva avuto il desiderio di rimbeccarlo per questo – e, piena di curiosità e gioia assieme, si era arrampicata sulle sue zampe per salire.
Ora, si trovava all’altezza delle chiome degli alberi che, come tante ancelle di fronte al loro re, si inchinavano al suo passaggio per poi riprendere la forma originale.
Niente veniva distrutto, al suo passaggio, neppure gli steli d’erba esili e deboli. Tutto tornava al suo posto, una volta che il suo corpo imponente era passato oltre.
Che dipendesse dalla sua magia?
Incuriosita, Avya si piegò verso l’orecchio del lupo, domandandogli: “Com’è che nulla si spezza e tutto torna al suo posto?”
“Se lasciassi tracce di me, non avrei mai requie dai curiosoni” ironizzò il lupo, lasciando trapelare le zanne da sotto le labbra in una sorta di ghigno lupesco.
Le lunghe zanne baluginarono sotto i raggi deboli della luna e Avya, storcendo il naso, si domandò se Fenrir si stesse riferendo anche alla sua curiosità.
Fin da quando si erano incontrati nella radura nei pressi del suo villaggio, e lei gli aveva offerto la sua amicizia, Avya aveva sempre posto un’infinità di domande al dio.
All’inizio, il suo continuo cianciare – spesso a vanvera – aveva sorpreso e vagamente indispettito il dio della distruzione che, più volte, si era dileguato nel bel mezzo di una discussione.
Svaporando in una nuvoletta di fumo, l’aveva lasciata sola e irritata, per poi riapparire pochi minuti dopo, armato di tappi per le orecchie o pesanti tomi scritti in lingue arcaiche.
Questo aveva rinfocolato il carattere riottoso della ragazza che, spesso e volentieri, lo aveva insultato o, la maggior parte delle volte, ignorato col suo silenzio.
Nel secondo caso, però, ciò non era durato più di due minuti.
Perché, che Avya lo volesse ammettere o meno, le piaceva stare in compagnia di Fenrir, anche se sapeva che lui era una divinità immortale e lei una semplice umana.
Anche se sapeva che sarebbe bastata una parola sbagliata, perché lui la uccidesse o la abbandonasse per sempre a se stessa e ai suoi mille dubbi.
Anche se sapeva che, presto o tardi, lui si sarebbe stancato di lei e se ne sarebbe andato per trovare una donna più compiacente, più servizievole.
Fino a quando fosse durato quello strano rapporto, però, lei ne avrebbe goduto a piene mani. In fondo, non aveva che lui, come lui non aveva che lei, almeno stando alle parole stesse di Fenrir.
Con la sola eccezione di Tyr, figlio di Odino, nessuno si rivolgeva con toni amichevoli, al dio-lupo e lei, d’altronde, non poteva vantare rapporti più idilliaci.
Nessuno, al villaggio, sembrava essere in grado di capire le sue domande, i suoi continui interrogativi sulla vita, le sue estenuanti ricerche su ciò che era sconosciuto.
Persino il druido che l’aveva esentata da Beltane le aveva ingiunto, stizzito, di non insistere oltre nella sua ricerca delle verità più nascoste, di non porre domande che nessuna donna avrebbe dovuto fare.
Lei non era che una piccola ragazzina senza cultura, e non poteva aspirare a comprendere le leggi dell’Universo e degli dèi.
Passare del tempo con Fenrir, invece, le aveva aperto un mondo nuovo, l’aveva fatta avvicinare al genere di sapienza che bramava, alle risposte che cercava.
Certo, v’erano ancora un sacco di cose da imparare, ma non si sarebbe mai data per vinta, ora che sapeva di poter comprendere, di essere in grado di scindere la verità dal falso e dalla menzogna.
Fenrir le aveva anche insegnato a leggere, facendole imparare su un vecchio tomo dalle pagine ingiallite, dove le rune erano intervallate a immagini miniate.
Il soffio del vento le schiaffeggiò il viso, riportandola al presente e, sorpresa da ciò che le si presentò innanzi, esalò incredula: “Ma cosa…?”
La foresta, che già da qualche miglio si era diradata, scomparve del tutto, lasciando il posto a miglia e miglia di terreno erboso e spazzato da raffiche violente.
Più in là, nero come pece e illuminato dalla diafana luna, uno specchio d’acqua immenso, apparentemente senza fine, attirò inesorabilmente lo sguardo pieno di meraviglia di Avya.
Avanzarono in silenzio, mentre il vento si faceva sempre più forte, sempre più intenso intorno a loro. Era umido, profumato di salsedine e di altri aromi che Avya non riconobbe.
In quel momento, non conoscere appieno ciò che stava vedendo e sentendo non le importò. Era troppo presa dalla visione che aveva innanzi per pensare agli aromi sconosciuti che avvertiva, o al nome di ciò che stava osservando.
“Il mare” mormorò a un certo punto Fenrir, fermandosi per farla scendere dalla sua groppa.
Avya ne discese e fece per avviarsi verso il limitare della terra innanzi a lei, ma Fenrir la bloccò subito, ponendole il muso dinanzi per farle scudo.
Un attimo dopo, mutò forma e, tenendole le mani sulle spalle, mormorò: “E’ pericoloso avvicinarsi allo strapiombo. Il terreno è cedevole, e potresti cadere.”
“Sei un dio. Potresti afferrarmi, se succedesse, no?” lo irrise lei, scostandolo per avventurarsi verso le scogliere.
“Testarda ragazzina” brontolò, seguendola a qualche passo di distanza.
Avya passò oltre alcune formazioni rocciose e, ammaliata, raggiunse infine il limitare della scogliera, venendo investita da una violenta raffica di vento.
Dabbasso, scorse le onde possenti infrangersi bianche e rigonfie, forse tentando di infrangere il muro di roccia su cui ella si trovava.
Gli schianti risuonarono come colpi di tamburo, alle sue orecchie, o come lo sciabolate di una sferza, il tutto moltiplicato mille e mille volte.
Niente riusciva a reggere il confronto con quello che conosceva o che, con tutta probabilità, avrebbe mai conosciuto in vita sua.
Si volse perciò eccitata a scrutare la figura oscura e imponente di Fenrir, ma che lei non temeva affatto, ed esclamò: “E’ bellissimo! Grazie per avermici portata!”
“Stai attenta, maledizione! Sei troppo vicina al bordo!” sbottò per contro lui, affrettando il passo per raggiungerla.
Lei lo irrise nuovamente, sporgendo un piede nell’abisso e, divertita, replicò: “Sei davvero fifone, per essere un…”
Non terminò mai la frase.
Il terriccio sotto il suo piede di appoggio franò e, nel giro di un attimo, si ritrovò ad avvertire il vuoto sotto di sé, del tutto impossibilitata a impedirselo.
L’attimo seguente, però, due braccia forti la afferrarono, portandola al sicuro e tenendola premuta contro un torace possente quanto ansimante.
Gli occhi sgranati per la paura e l’orecchio premuto contro il cuore impazzito di Fenrir, Avya esalò sgomenta: “S-scusa…n-non pensavo che…”
“Non pensavi cosa, stupida mortale che non sei altro?!” le gridò contro Fenrir, scostandola da sé e fulminandola con i suoi occhi bicolori.
Gli succedeva sempre, quando perdeva la pazienza. Da neri che erano in forma umana, divenivano azzurri e verdi come nella sua forma animale.
Doveva davvero averlo scioccato a morte.
Le lacrime di Avya sorsero spontanee, un po’ per la paura, un po’ per il pericolo mortale appena scampato ma, soprattutto, perché aveva fatto infuriare Fenrir.
Ora, l’avrebbe lasciata da sola, non sarebbe più tornato da lei, e la sua vita sarebbe tornata a essere vuota e inutile.
Terrorizzata e spiacente, lo osservò camminare avanti e indietro con espressione feroce, le mani che gesticolavano mentre le parole si susseguivano furiose.
Fu una manfrina in piena regola, con tanto di occhiate raggelanti e minacce neanche tanto velate. Questo, però, lo aiutò a recuperare un certo contegno, consentendogli di far tornare neri i suoi occhi.
Quando ciò avvenne, Avya ne approfittò per gettarsi tra le sue braccia, stringerlo con tutta la forza che aveva per poi sussurrare con foga: “Scusami davvero! Non lo farò mai più! Ma tu non lasciarmi!”
Fenrir si irrigidì a quelle parole, che finirono con l’esaurire del tutto la sua paura e il suo furore cieco.
Si era spaventato a morte nel vederla reclinare all’indietro verso il dirupo, e le sue mani si erano mosse ancor prima del suo cervello.
L’aveva stretta a sé, timoroso che il mondo stesso volesse strappargliela, pur sapendo quanto fosse stupido un simile pensiero.
E ora, lei lo pregava di non abbandonarla.
Era forse pazza? Perché mai pensava una cosa simile?
Scostandola da sé, le asciugò le lacrime con movimenti bruschi dei pollici, che portarono Avya a lagnarsi dei suoi modi scortesi.
Con un gesto inaspettato, e che lasciò Avya temporaneamente senza parole, Fenrir si morse un dito a sangue, borbottando: “Poco ma sicuro, non ti lascerò più in balia di te stessa, pazza furiosa che non sei altro. Saprò sempre cosa fai, e dove sei. Bevi, ora!”
Allungò il dito ferito verso la ragazza che, sgomenta, riacquistò la favella e gracchiò: “Cosa dovrei fare, scusa?!”
“Bevi, e sii parte di me!” sbottò lui, accigliandosi.
“Io non bevo cose di cui non conosco gli effetti. Il tuo è sangue misto e di origine divina. Chissà cosa potrebbe accadermi, se lo bevessi?!” lo rimbeccò lei, allontanandosi di un passo.
Sempre più irritato, Fenrir la afferrò a un polso per riavvicinarla e, poggiando il dito sporco di sangue sulle sue labbra, asserì rigido: “Il mio sangue mi dirà dove sei, cosa fai, se hai bisogno di me e, in più, ti darà libero accesso ai poteri della Natura. Potrai parlare con alberi e animali, a tuo piacimento, e la luna sarà lo strumento che userai per parlare con me a distanza. Solo la notte, mai di giorno, ricordalo.”
Ciò detto, le infilò il dito tra le labbra e Avya succhiò.
Le prime gocce sulla sua lingua bruciarono come un liquore troppo forte ma, al secondo tentativo, quel liquore aromatizzato la stregò. Senza rendersene conto, trattenne la mano di Fenrir con la propria e succhiò ancora, facendolo ansimare di piacere per diretta conseguenza.
Fin troppo presto, però, egli ritirò il dito e, stretto il suo viso tra le mani, le sussurrò sulle labbra: “Lasciami bere, così che io sia parte di te.”
Avya non si tirò indietro e Fenrir si impadronì della sua bocca, mordendole leggermente il labbro fino a farlo sanguinare.
Lei lo lasciò fare, e il sapore combinato del sangue di Fenrir e di Avya esplose nella bocca di entrambi, facendoli ansare di desiderio.
Il vento turbinò attorno a loro e Avya iniziò a percepire cose che mai, prima di allora, aveva potuto. Voci si addensarono nella brezza marina, assieme al canto di creature a lei sconosciute.
Percepì diversamente l’erba sotto di lei, le creature che animavano la foresta a poca distanza e, scostandosi da Fenrir, osservò il cielo con occhi nuovi.
Fissò la luna come se non l’avesse mai vista e Fenrir, nella sua mente, mormorò: “Questo è essere wicca…”
Lei tornò a guardarlo, strabiliata e vagamente spaventata.
Fenrir, allora, la fece sedere su un vicino masso e, tenendo le sue mani nelle proprie, aggiunse: “Sei una Saggia, Avya, ora. Una sacerdotessa della Terra e della Luna. Nessuno sarà più potente di te, tra i mortali, e nessuna mano mortale potrà ferirti.”
“Fenrir…” mormorò lei, non sapendo che altro dire.
Lui allora rise sommessamente e replicò: “Ho trovato finalmente il modo di farti stare zitta?”
“Idiota” brontolò Avya. “Hai rovinato un momento bellissimo.”
“Io non sono per i bei momenti, Avya. Sono un dio della distruzione, e qualsiasi cosa tu farai o dirai, qualsiasi desiderio io esaudirò per te, niente cambierà questa realtà. Distruggerò tutto, prima o poi” mormorò lui, reclinando il viso per non incontrare le sue iridi color dell’erba.
Avya, però, non si lasciò abbattere.
Risollevò quel viso con una mano e, scrutandolo in quelle profondità oscure e senza fondo, asserì: “Ciò non avverrà né oggi, né domani e, di sicuro, non per un tuo capriccio.”
“E come lo sai?” la irrise lui, pur desiderando che lei avesse ragione.
“Perché sei tutto tranne che un dio folle e sanguinario come vorresti farmi credere. Se non ti importasse della vita, non risaneresti sempre la foresta dopo il tuo passaggio. Non lo fai per non essere seguito dai curiosi, ma perché hai a cuore il Creato” lo rimbeccò, vedendolo adombrarsi.
“Non sai quel che dici.”
“Allora, perché mi hai salvata? Domani, troverai qualche altra mortale. Ti stancherai di me e passerai a qualcun'altra.”
Rammentando la sua preghiera di non andarsene, di non lasciarla sola, Fenrir sgranò gli occhi ed esalò: “Pensi… che voglia lasciarti?”
“Non ti do nulla di quello che realmente vuoi, Fenrir. Credi che non lo sappia? Stai con me, forse, solo perché ti faccio pena, o perché ti diverto. Neppure io lo so” sospirò lei, prendendo ora per sé il ruolo di colei che voleva commiserarsi.
Fenrir allora sbuffò, lasciandola andare e, rialzatosi che fu, la fissò irritato e ringhiò: “Sei una sciocca ragazzina. Pensi che un dio mio pari starebbe in tua compagnia… per pietà?!”
“Allora, mi usi da giullare.”
Fenrir rise aspramente, replicando: “Voglio strangolarti per la metà del tempo che passiamo assieme, Avya. Sai essere irritante quanto un prurito nelle parti intime, sappilo.”
“E allora vattene, se sono così fastidiosa!” sbottò la giovane, fissandolo arcigna. “Se ti sto così antipatica, perché ti sei scomodato a fare quanto hai fatto prima?!”
Fenrir tornò a inginocchiarsi dinanzi a lei, le afferrò una mano e la pose palmo contro palmo alla sua.
Bianca e piccola una, ambrata e grande l’altra.
Sorridendo con sincerità forse per la prima volta, lui allora le confessò: “Resto per l’altra metà del tempo che passiamo assieme. Tu mi vedi, vedi me. Non il mio nome.”
“Come?” esalò confusa.
“Non hai mai avuto paura di ciò che sono, fin dal primo giorno che ci siamo conosciuti. Mi hai trattato come un essere umano, pur se sapevi che non lo ero. Pur se sapevi che, se mi avessi fatto irritare, avrei potuto divorarti.”
“Speravo sempre non lo facessi.”
Lui sorrise maggiormente. “Eri… sei curiosa, e stai attenta a ciò che ti dico, sei bramosa delle mie parole, e ascolti davvero. Non temi io possa mentirti, o portarti sulla via dell’oscurità.”
“Sei bravo, come insegnante” si limitò a dire Avya.
Fenrir allora rise di sincero piacere e, nel rialzarsi, la attirò a sé terminando di dire: “Resto perché, pregi o difetti, tu mi fai sentire vivo. Mi dai qualcosa che l’immortalità non mi ha mai dato, o il potere che detengo tra le mani mi ha mai fatto percepire. E ti ho fatto dono dei poteri che ora detieni perché li meriti ma, soprattutto, perché voglio essere un tutt’uno con te, almeno dal punto di vista mistico. Toccare la tua mente e il tuo spirito, se non il tuo corpo.”
Avya sospirò di pura sorpresa e, scrutandolo nei suoi occhi foschi, lesse solo verità, non menzogna. La percepiva sulla pelle come un caldo abbraccio. La verità lo avvolgeva come un’onda di luce dorata.
No, non la stava prendendo in giro. Ogni parola conteneva il suo cuore, il suo spirito, la sua anima più vera.
Strinse perciò le mani sul volto per condurlo al suo livello e, delicata come una farfalla, lo baciò.
Fenrir rispose subito, ma non fece altro, così Avya portò le mani alla sua tunica e, con forza, la aprì.
Subito, lui si scostò, fissandola dubbioso e sì, ansioso la ragazza, con una decisione nello sguardo che riscaldò il dio, dichiarò: “Voglio anche il corpo… se me lo concederai.”
Lui annuì una volta sola e, con un ampio gesto delle braccia, trasportò entrambi in un altro luogo, in un luogo di pace e tranquillità.
Sgomenta, Avya si aggrappò a lui, non riconoscendo nulla di ciò che li circondava ma Fenrir, sereno, le avvolse le spalle con un braccio e mormorò: “Alfheimr è il mondo più bello che io conosca, dopo Midghard ma, sul tuo pianeta, ci sono troppi occhi e troppe orecchie indiscrete. Gli dèi amano curiosare ciò che fanno gli umani, e io non volevo che vedessero noi. Qui, gli elfi non ci daranno noia.”
“Elfi?” esalò lei, stringendosi ancor di più a lui.
Fenrir le sorrise per tranquillizzarla e, dopo averle dato un bacio sul capo, mormorò: “Stai tranquilla, Avya. Non ti accadrà nulla di male.”
Ciò detto, entrò con lei in una piccola casa a colonnati nei pressi del lago dove si erano trasmutati e lì, dopo aver congedato alcune ancelle dall’aria delicata, mormorò: “Il mio piccolo angolo di pace. Oberon il Sommo mi concede di soggiornare qui e, in cambio, io tengo le sue foreste libere dai cinghiali, che rovinano le sue passeggiate amorose.”
Avya lo fissò senza parole e Fenrir rise ancora. “Non ti curare di ciò che dico, mia Avya. Dimmi soltanto; questo posto ti piace?”
“Sarebbe andata bene anche la scogliera” replicò lei, pur apprezzando la raffinatezza dei luoghi e la pregiata manifattura degli oggetti.
Tutto era splendido, di elevato valore e, quando sfiorò le lenzuola del letto, sospirò di sorpresa e piacere.
Al suo orecchio, Fenrir mormorò: “Seta di ragno. Potrei regalartene quanta ne vuoi.”
Lei allora si volse, terminò di slacciare la tunica di Fenrir e, ammirando il suo ampio torace, disse solo: “Voglio te.”
“E mi avrai, per tutto il tempo che vuoi. Qui, il tempo scorre diversamente, mia Avya. Potremmo rimanere per una notte e, su Midghard, sarebbero passati giorni.”
“Allora, basterà qualche ora. Non voglio che i miei fratelli si preoccupino” gli sorrise lei.
“Di questo riparleremo più tardi… molto più tardi” sussurrò lui, passando una mano dinanzi al corpo di Avya.
In un baluginare d’oro, gli abiti scomparvero al pari dei propri e la ragazza, ansando imbarazzata, esalò: “Fenrir, insomma!”
Lui rise, la abbracciò stretta e, sotto la spinta del suo stesso corpo, crollarono sul soffice e morbido letto.
Con lenti baci sul viso e sul collo, Fenrir chetò i suoi tremori e, quando anche le mani di Avya iniziarono timide la loro esplorazione, lui ansò: “Dopotutto, il tuo druido aveva ragione. Eri destinata a qualcosa di più grande.”
Lei rise in risposta e Fenrir la penetrò. Ristette immobile finché Avya non si fu abituata al suo corpo, a quell’invasione e, quando la udì mormorare il suo nome, la amò.
Non fece sesso con lei. Comprese subito la differenza sostanziale tra lei e le donne che l’avevano preceduta.
Sì, c’era il piacere, ma era infinitamente più grande, più profondo.
Non era coinvolto solo il suo corpo, ma il suo spirito, la sua mente e, grazie al legame che li univa, Fenrir percepì le emozioni di Avya, come lei le sue.
Fu solo quando raggiunse il punto di non ritorno, che lui cercò di sfuggire dal suo corpo, ma lei glielo impedì.
Lo cinse delicatamente alla nuca con una mano e, guardandolo con occhi lucenti, sussurrò: “Resta dentro di me. Donami tutto, di te.”
“Rimarrai incinta, Avya” la mise in guardia lui, non potendo ormai più resistere.
“Lo so” disse soltanto, cingendo i fianchi di Fenrir con le gambe perché non potesse scappare.
E Fenrir non lo fece. Non fuggì. Diede ad Avya, al suo amore, tutto ciò che ella gli chiese.
Stremato, affondò infine il viso nell’incavo del suo collo e lei, carezzandogli la chioma nera e ribelle, mormorò soddisfatta: “Resta con me per sempre.”
“Sì” disse soltanto Fenrir, pur rabbrividendo dentro di sé.
Quanto avrebbe pagato, per quel singolo momento di gioia pura? Quanto avrebbe voluto, Madre, per quell’infrazione alle regole? Quanto gli sarebbe costato, amare ed essere riamato?
L’amore non mi ha mai angustiata, figlio, ma non controllo ogni cosa, neppure io…
La voce di Madre riverberò nella mente di Fenrir, pesante come un macigno, ma il tocco di Avya lo distrasse.
Sorridendole, la baciò, cercando di scacciare le sue paure.
Lui era un dio, dopotutto. L’avrebbe tenuta al sicuro. Da tutto e da tutti.
E lei sarebbe stata sua, come lui suo, per l’eternità e oltre.
Note: Fenrir si è dimostrato insolitamente paziente, con Avya, pur se i due non hanno perso occasioni per beccarsi come galli. La pura di Avya, infatti, sta diventando solo una: Fenrir rimarrà con lei, o si stancherà, abbandonandola?
Questa paura - infondata - si trasforma in desiderio, quando capisce di volere molto di più da Fenrir e, grazie anche alla Cerimonia del Sangue (ricordate quella che si scambiarono Duncan e Brie, nel primo libro?), percepisce molto meglio anche i desideri e le sensazioni dell'uomo che ha imparato ad amare.
Le paure di Fenrir, nell'unirsi ad Avya, sono reali (come noi sappiamo), e neppure Madre può essergli d'aiuto, in questo.
Ma l'amore che prova per Avya è troppo grande, e ormai non può più trattenerlo. La bestia è stata domata e questo, per entrambi, avrà ripercussioni enormi.
Spero che questo percorrere il passato (già noto ma non ancora esplorato) vi stia piacendo.
Alla prossima!
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Capitolo 14 *** Dove tutto ebbe inizio - (3500 a.C. circa) Fenrir - Parte 3 ***
Dove tutto ebbe inizio - 3 -
Ripiegata sul suo pagliericcio, Avya bruciava per la febbre alta, e il corpo era percorso da brividi di freddo e vampate di calore insopportabili.
Erano giorni che si sentiva così, ma non sapeva dare una spiegazione certa al suo stato di malessere.
Era pieno inverno e quindi, forse, si era presa una brutta infreddatura, eppure non le sembrava che la colpa potesse essere addebitata a questo.
Fu solo in un momento di lucidità, di tregua dagli spasimi e dal dolore, che rammentò un evento in particolare, accaduto poco tempo prima, e che portò a farla tremare di paura e sgomento.
Era mai possibile che…
Il pesante telo di lana che costituiva la porta della sua stanzetta venne scostato e lì, sulla soglia, scorse suo fratello Fryc, assieme al guaritore del loro villaggio.
Imponente e fiero come qualsiasi altro guerriero degno di tale nome, Fryc le sorrise benevolo e sicuro di sé e, una volta di più, Avya si sentì in colpa nei suoi confronti.
Quante volte gli aveva mentito, in quei mesi, solo per vedere Fenrir? Quanto si era spinta oltre, mentendo all’unica famiglia che le era rimasta? Quanto era grande il suo peccato?
“Eccola, Syondr. Sono giorni che è febbricitante. Puoi curarla?” mormorò preoccupato Fryc, avvicinandosi alla sorella con espressione ansiosa per poi poggiarle una mano sulla fronte bollente.
“No, Fryc… non … avvicinarti…” ansò Avya, raggomitolandosi su se stessa.
Se era infettiva, non voleva che nessun altro si ammalasse ma, se per caso era stata fecondata da Fenrir, allora…
Che gli dèi li proteggessero tutti! Nessuno avrebbe dovuto toccarla, perché non aveva davvero idea di quello che avrebbe potuto succedere, se Fenrir avesse percepito un pericolo a lei incombente!
“Sei la nostra unica sorella ancora in vita, perciò spetta a noi prenderci cura di te” le replicò il fratello, accomodandosi su un treppiede di legno. “Sia io che gli altri fratelli siamo preoccupati per te e ci prenderemo cura della tua salute come avrebbe fatto nostra madre.”
Era davvero anacronistico, lì assiso in precario equilibrio, lui così grande e dolcemente goffo, nel suo tentativo di essere cordiale e premuroso. Il sorriso che le lanciò fu speranzoso, pur se i suoi occhi verde acqua espressero parte dell’ansia che Avya sapeva stava trattenendo a forza.
Avya si sentì morire dentro, al pensiero di ferirlo, ma nulla di quanto aveva ormai fatto poteva essere mutato.
Gentilmente, il guaritore la fece distendere sul pagliericcio, tastandola sul collo e scrutandola negli occhi arrossati e stanchi.
Aveva scelto, ogni decisione era stata presa in piena coscienza, eppure le piangeva il cuore al pensiero di quello che avrebbero pensato Fryc e i suoi fratelli, una volta saputa la verità.
L’avrebbero perdonata, o l’avrebbero scacciata in malo modo? Davvero non lo sapeva.
Lui l’aveva sempre amata e protetta, e così pure i loro fratellini, ma la comprensione del mondo degli uomini del villaggio era limitata alla spada che portavano in battaglia.
Essi onoravano gli dèi, ma non si erano mai presi la briga di comprenderli o, meno ancora, di cercarli per conoscerli.
Lei, invece, era sempre stata interessata al misticismo, a tutto ciò che non poteva essere visto né toccato… e aveva finito con il vedere – e toccare – fin troppo.
Accigliandosi leggermente quando vide Avya irrigidirsi e portare le mani al ventre, il guaritore mormorò preoccupato: “Hai dolori all’addome, fanciulla?”
“No, io…” tentennò lei, subito bloccata dalle parole del fratello.
“Non essere timorosa, sorella. Syondr non farà nulla che possa metterti in imbarazzo. E’ qui solo per curarti” la rassicurò lui, accennando un altro dei suoi goffi sorrisi. “Se preferisci, io uscirò per consentirti di essere più libera di parlare con lui.”
Assentendo alle parole di Fryc, il guaritore le sorrise gentile e dichiarò: “Ho due figlie della tua età, cara, e so quanto possiate sentirvi in imbarazzo, di fronte alla vostra intimità, ma non temere, non farò nulla che tu non vorrai.”
“Sono sicura che è un’infreddatura, e che…”
Un crampo improvviso le strappò un ansito strozzato, facendola ripiegare su se stessa e il guaritore, bloccandola alle spalle per non farla cadere, esalò: “Fanciulla, questa non è affatto un’infreddatura.”
Scusandosi quindi con lo sguardo, l’uomo le scostò le vesti mentre Fryc volgeva lesto il capo e, dopo averle pudicamente coperto l’inguine con le coltri del pagliericcio, il guaritore le tenne scoperto solo il ventre.
Ventre che Syondr fissò con occhi aggrottati e pericolosamente vicini alla verità.
Fryc, in ansia non meno della sorella, che stava osservando a occhi sgranati il suo addome leggermente arrotondato, esalò sconcertato: “Cosa le succede, Syondr? Parlami, prima che io impazzisca!”
Lo sguardo del guaritore si fece cauto, quasi contrito e, dopo averle risistemato le vesti, tornò a guardare la giovane e mormorò gentile: “Bambina… qualcuno ti ha per caso… sei stata…”
Il fratello, a quel punto, fissò Avya senza riuscire neppure a parlare e, raggelato, si accasciò sul treppiede, portandosi le mani al viso con fare disperato.
“Fryc, ti prego…”
“Non ti ho protetta… non ti ho protetta abbastanza…” mormorò angosciato l’uomo, scuotendo il capo con aria affranta.
“Fratello, non dire questo” sussurrò Avya, angosciata all’idea che Fryc si prendesse colpe che non aveva.
Lei aveva deciso di accettare il seme di Fenrir, lei aveva scelto di divenire la madre dei suoi figli.
Ora, però, ne pagava le conseguenze con la disperazione del fratello e l’ansia del guaritore.
“Fanciulla cara, sai che posso somministrarti delle erbe per…”
Nel sentirlo accennare anche solo velatamente a un aborto, Avya si rattrappì nel letto, coprendo con le mani in ventre prima di esalare: “No! Non lo farò!”
“Ascoltalo, sorella… non devi crescere per forza il frutto di una violenza…” la pregò Fryc, tornando a guardarla con aria speranzosa e angosciata assieme.
“E’ lodevole che tu non voglia interrompere una vita, bambina, ma nessuno ti biasimerà, se lo farai. Capiranno, …te lo posso giurare” insistette Syondr.
Avya, però, scosse il capo con violenza, si sedette sul letto stringendo le ginocchia al petto per proteggere il ventre e mormorò con tono irrevocabile: “Voi non toccherete mio figlio.”
A quel punto, Fryc si accigliò e, dopo aver lanciando un’occhiata al guaritore – che defilò silenzioso nella stanza adiacente – fissò la sorella e mormorò roco: “Hai fatto la sciocca in giro, Avya, e questo è il risultato? Ti sei data a degli sconosciuti, e non sai nemmeno chi è il padre del tuo bastardo? Era questo che facevi, quando dicevi di uscire per raccogliere erbe e medicamenti? La mia fiducia in te è stata dunque così mal riposta?”
Sgranando gli occhi di fronte a quell’accusa sputata fuori con cieca rabbia, la giovane fissò il fratello con altrettanto livore e protestò.
Si era aspettata rabbia, riprovazione… ma non disgusto. Non quell’aperta accusa di essere una ragazza di facili costumi!
“Pensi davvero questo, di me, fratello? Pensi che io sia una donnaccia?”
“Spiegami del bambino, allora!” sbraitò alfine lui, facendola sobbalzare. “Spiegami perché ti sei unita a un uomo, al di fuori del vincolo del matrimonio, come una volgare sgualdrina!”
“Tu lo fai!” lo rimbeccò Avya, vedendolo fremere d’ira a stento repressa. “Pensi che non lo sappia? Quando uscite con le armi spianate per assaltare qualche villaggio, pensi che non sappia cosa fate dopo, con gli sconfitti?!”
“Taci, donna…” la minacciò lui, livido in viso.
Ma Avya non tacque, ormai pronta a mettere a parole ciò che pensava.
“Non lo farò! Hai dato del bastardo al figlio che porto in grembo, ma io so chi è il padre, e lo amo!” esclamò con fervore, ammettendolo ad alta voce anche con se stessa.
Sì, amava Fenrir. Non si era unita a lui solo per puro desiderio fisico, per sapere cosa si provasse nell’avere un amante.
Voleva tutto di lui, anche il figlio che stava crescendo dentro di lei, e lo avrebbe amato con tutta se stessa, fino all’ultimo suo respiro.
Fryc si fece nero in volto e, sguainando il pugnale che portava alla cintola, lo puntò contro la sorella, sibilando: “Il suo nome, così che io possa squartarlo come merita, se non lo riterrò degno di prenderti in moglie! Perché credimi, Avya, quel bambino non nascerà mai, al di fuori di un matrimonio onesto.”
“Non te lo dirò mai!” sbottò Avya, facendo l’atto di alzarsi da letto. “Non lo accetteresti mai!”
Il fratello la fermò o, per lo meno, tentò di farlo.
Nel momento stesso in cui cercò di mettere le mani addosso alla sorella, col chiaro intento di gettarla sul pagliericcio, fu bloccato da una forza invisibile quanto potente.
Questa, lo sospinse via con ferocia, facendolo barcollare all’indietro di tre passi.
Sgomenta, Avya rammentò le parole di Fenrir, i suoi doni di wicca e, nell’osservare il volto livido del fratello, capì di non avere più un posto, lì al villaggio.
I suoi poteri le avevano appena chiuso in faccia l’unica porta che lei conosceva, e ora era sola. Isolata.
“Sei maledetta…” ringhiò Fryc, guardandola come se non la riconoscesse più.
Una lacrima le rotolò sulla gota mentre, con un sospiro appena accennato, chiamava il suo amore perché conoscesse ciò che era avvenuto.
La notte lo avrebbe condotto da lei e, forse, non vi sarebbe stato spargimento di sangue, a causa del suo comportamento egoista.
Sperò solo che Fenrir fosse abbastanza in sé da non distruggere tutto per il puro istinto di protezione che provava verso di lei.
Quasi a confermare le sue paure, un boato si udì all’esterno dell’abitato, alle quali si unirono grida terrorizzate, lamenti e imprecazioni.
Sgomenta, Avya si diresse verso l’esterno, seguita a ruota da Fryc, che ancora non aveva ritirato il pugnale.
Quando misero piede fuori, Avya comprese.
Fenrir era giunto immediatamente, forse preoccupato dal suo tono ansioso e, feroce come sapeva essere, era piombato nel villaggio nelle sue forme di lupo. Forme che, ovviamente, avevano scatenato il panico tra le genti e l’orrore dei più.
“Fenrir!” gridò Avya, richiamando la sua attenzione.
Subito, il lupo si volse verso di lei e, in uno scintillio dorato, egli prese forme umane, le corse incontro e la strinse forte a sé.
Fryc osservò il tutto con espressione turbata e feroce assieme, mettendo finalmente insieme tutti i pezzi del mistero legato alla sorella.
Mentre tutto il villaggio si assiepava attorno alla coppia, chi con un forcone in mano, chi con spade già spianate, Fryc ringhiò feroce: “Ti sei accoppiata con un demone, sciocca sorella? Ti sei lasciata tentare dal male?!”
“Lui non è un demone!” esclamò Avya, ancora stretta a Fenrir, che stava osservando Fryc con sguardo omicida.
“Ti ha marchiata! Ti ha maledetta, e ora porti il suo sangue impuro dentro di te!” la insultò il fratello, e le grida delle altre persone presenti si unirono alla sua.
“Fryc, ti prego, non dire altro! Non c’è niente di impuro, in me, e neppure in lui! Ti ho mentito, è vero, e per questo incolpa solo me… ma Fenrir è buono! Non è affatto un dio crudele o un demonio!” singhiozzò Avya, terrorizzata all’idea di quello che avrebbe potuto fare Fenrir, di fronte a tali e tanti accuse.
Era pur sempre un dio, un dio orgoglioso che, punto sul vivo, avrebbe potuto reagire in malo modo… anche uccidendo tutti.
Ma Fenrir non parlò a nessuno dei presenti, si limitò a tenerla stretta, protetta dal cerchio delle sue braccia e, sempre fissando Fryc e il suo pugnale, mormorò solo per lei: “E’ successo, vero?”
“Sì” sussurrò, poggiando il capo contro il suo torace.
Fenrir allora la sollevò tra le braccia, già pronto ad andarsene, ma Fryc puntò l’arma contro di lui, sibilando: “Lasciala qui. Non ti permetteremo di dare vita all’abominio che le cresce dentro. Brucerete tutti e due, così che i demoni vengano spazzati via da queste terre!”
Avya ansò spaventata, ma ancora Fenrir non si mosse, né parlò.
Ringalluzzito dalla sua immobilità, Fryc si avvicinò ancora, forse pronto a sfregiarlo col pugnale, ma il dio a quel punto rise.
Sulle prime, rise sommessamente ma, con il passare dei secondi, la sua risata divenne più potente e forte, mettendo in agitazione l’intero villaggio.
Essa divenne aspra come fiele, al pari dello sguardo raggelante con cui fissò Fryc e, quando infine questa si spense, Fenrir dichiarò: “Sfidi un dio, umano, non un demone qualunque, sorto dalle viscere di Midghard come un verme strisciante.”
Ciò detto, la sua pelle baluginò dello stesso chiarore della luna ma, al tempo stesso, sembrò divorare ogni spettro di colore, portando oscurità nel villaggio.
“Sono dio di oscurità e morte, umano, e tu hai offeso l’unica donna che io porto in palmo di mano, perciò non stupirti se vorrò divorarti, un giorno. Ma non oggi, e neppure domani. Non infierirò su chi, fino a poche ore fa, si è preso cura della mia amata. Consideralo un regalo da parte mia.”
“Lei non è più mia sorella” sentenziò rabbioso Fryc, raggelando Avya con quelle semplici parole.
Fenrir allora ghignò, replicando faceto: “Allora, posso divorarti fin da ora.”
Ciò detto, mosse un passo verso di lui, ma Avya lo bloccò, mormorando: “Andiamocene, ti prego.”
“Sia come vuoi” assentì a quel punto Fenrir, lanciando un’ultima occhiata ferale a Fryc.
Come era giunto, così il dio svanì, lasciando dietro di sé solo lo sfrigolio del suo potere e le sue minacce.
Rinfoderando il pugnale, Fryc fissò la sua gente, la loro giusta rabbia, e sentenziò: “Li troveremo e, per volere degli dèi stessi, li distruggeremo. Loro e la loro progenie, finché non ne rimanga più memoria!”
Alle parole di Fryc seguì un coro di feroce soddisfazione.
La faida era stata aperta. Forse, per sempre.
***
Depositata Avya su una roccia al limitare del bosco che li aveva visti conoscersi e amarsi, Fenrir la fissò ansioso, borbottando: “Perché non mi hai chiamata alle prime avvisaglie? Ti avrei portata al sicuro molto tempo prima.”
“Non… non sapevo che…” tentennò la giovane, non sapendo se piangere o urlare di rabbia.
Suo fratello l’aveva ripudiata, il ragazzo che l’aveva cresciuta, protetta, amata fino al giorno prima, ora l’aveva abbandonata a sé stessa. Rifiutata perché non compresa. Come sempre, dopotutto.
Nessuno dei suoi fratellini si era elevato a sua difesa. Al pari di Fryc, del villaggio tutto, nessuno aveva speso una parola di comprensione per lei. Tutti l’avevano tacciata di essere un mostro, e come tale l’avevano trattata.
“Avya…” mormorò Fenrir, attirando la sua attenzione.
“Cosa?”
“Mi dispiace. Non avrei mai dovuto avvicinarmi a te, quel giorno” sussurrò, prendendole le mani per baciargliele.
“Mi avresti lasciata in un luogo in cui non sarei mai stata felice” replicò lei, sorridendogli nonostante tutto. “E con te, io sono felice.”
“Cosa che non avrei mai pensato di poter udire in tutta la mia vita, pur se cammino tra i mondi da millenni” esordì una voce dietro di loro, facendo irrigidire Avya.
Fenrir, però, non badò molto al nuovo venuto e, rialzatosi, sbottò: “Esci allo scoperto e non spaventare la mia compagna, Tyr. Non è proprio nelle condizioni di poterselo permettere.”
Apparendo come un’evanescente manifestazione ultraterrena, un guerriero alto e dai biondi capelli prese forma corporea e sorrise ad Avya, inchinandosi leggermente.
Armato fino ai denti e coperto da una pesante armatura, il possente dio mostrava un volto ruvido e duro, pur se addolcito da un sorriso e da occhi che esprimevano intelligenza e fierezza, ma anche bontà.
“I miei ossequi, gentile fanciulla. Finalmente scopro chi è la donna che ha ammansito il lupo” dichiarò Tyr, ghignando all’indirizzo dell’altro dio.
“Non sfidare la sorte, cucciolo di Odino, o potrei mozzarti quella mano che tanto leziosamente usi per sistemarti quei capelli da donna” lo minacciò scherzosamente Fenrir, facendo ridere il possente dio della guerra.
“Capisci con chi ho a che fare, giovane mortale? Un villano fatto e finito” le strizzò l’occhio Tyr, accomodandosi accanto a lei e sovrastandola con il suo corpo enorme.
“La spaventi” sbuffò ancora Fenrir.
Avya, però, sorrise a entrambi gli dèi, e domandò: “Sei amico di Fenrir?”
“Per compiacere la mia vena masochistica, sì, dolce virgulto. Tyr è il mio nome, di Odino il figlio prediletto” si presentò il dio, con un cenno grazioso del capo.
Fenrir allora rise, e replicò: “Tuo fratello Thor avrebbe qualcosa da ridire…”
“Anche Balder, se è per questo, ma non sono qui a ficcanasare, perciò…” scrollò le spalle Tyr, ghignando con fare burlone.
Tornando serio a quell’accenno, Fenrir replicò sarcastico: “Non sarebbero mai venuti, visto che non mi sopportano.”
“Ammettilo, quando eri un cucciolo hai divorato tanti di quei calzari da far arrabbiare più di un dio, e molti appartenevano ai miei fratelli” lo prese in giro Tyr, sperando così di calmarlo.
Avya allora lo fissò confusa e Fenrir, sbuffando, borbottò: “Nei miei primi anni di vita, soggiornai al palazzo di Odino. Gli dèi non si fidavano di Loki, perciò gli strapparono i figli non appena mia madre ci ebbe svezzati; io, Hel e Jörmungandr. Hel, che non fu mai bambina ma nacque con fattezze di adulta, venne mandata a guidare il regno delle nebbie, Helfheimr, che nessuno voleva governare. Io venni condotto a palazzo perché crescessi sotto il controllo di Odino e, beh, Jör…”
Tyr spezzò un ramo di un cespuglio vicino, mormorò un’imprecazione e infine gettò il rametto con rabbia, borbottando: “E’ confinato nei mari di Midghard, per sempre ingabbiato nella sua prigione acquatica.”
“Oh, dèi…” esalò sgomenta Avya, sconcertata.
“Ho idea che Jör abbia collezionato un carattere persino peggio del tuo, amico, … sai che noia, parlare con pesci e papere tutto il giorno?” cercò di ironizzare Tyr, pur non riuscendo a convincere neppure se stesso.
“Ma… perché questo destino?” domandò Avya, fissando sgomenta il dio biondo.
Fu però Fenrir a rispondere.
“Perché, su di noi, gravava l’infausto dono del Destino. Come io sono il dio della distruzione, Jör stritolerà nelle sue spire sia Midghard che gli altri mondi, riducendo tutto in briciole, e Hel danzerà lieta sui corpi dei morti, godendo del massacro che perpetreremo. Questo dissero di noi le Norne, alla nostra nascita, e a Odino non piacque affatto.”
“Urŏr fu così carina da predire loro questo eccelso Fato, e mio padre non la prese benissimo” borbottò Tyr, scalciando un sassolino con lo stivale.
“E… e vostro padre… vostra madre… non fecero nulla?” esalò Avya, sempre più preoccupata all’idea di conoscere la verità fino in fondo.
Fenrir rise debolmente, lanciando un’occhiata sinistra alla luna.
“Loki fu assai felice di conoscere il nostro destino, ne va tutt’ora molto fiero, e non perde occasione per spingermi a perdere la pazienza.” Poi, guardando l’amico, aggiunse: “E tuo padre ci mette del suo, per aiutarlo.”
“Ehi, mai detto di avere una famiglia perfetta” ironizzò Tyr.
“Hel è felice del suo ruolo di regina delle ombre. E’ nel suo ambiente ideale, se vogliamo…” scrollò poi le spalle Fenrir. “… e, quanto a Jör, chi può dirlo? Nemmeno io l’ho mai capito tanto. Chi capisce un serpente, quando parla?”
I due dèi risero, ma Avya comprese subito che il loro era solo un goffo tentativo di rasserenare un po’ l’ambiente.
I fatti, però, erano evidenti. Fenrir era stato bistrattato fin da quando era nato, e questo aveva contribuito a renderlo il dio reietto e disadattato che era ora.
Non fosse stato per lei e, prima, per Tyr, sarebbe stato completamente, desolatamente solo. E folle di rabbia.
Un ottimo modo per far perdere le staffe – e il senno – a un dio destinato a distruggere tutto.
Padre Tutto non aveva davvero operato con coscienza, se le sue azioni erano nate dal desiderio di salvare ogni cosa. Tutt’altro.
Era forse vero, dunque, che dal destino non ci si poteva salvare? Che, pur con le migliori intenzioni, il Fato seguiva comunque la sua strada?
O erano le Norne a guidare gli eventi, in modo tale che le parole di Urŏr giungessero laddove dovevano arrivare, in un modo o nell’altro?
Avya non lo sapeva, ma il timore per suo figlio, a quel punto, crebbe a dismisura.
Poggiandosi le mani sul ventre, mormorò: “Che ne sarà di lui?”
“Lo proteggerò da tutto e da tutti, Avya. Non temere” la rassicurò subito Fenrir, prima di notare lo sguardo torvo di Tyr. “Non la porterò da tuo padre… scordatelo.”
“Neppure te lo volevo consigliare. Tutt’altro. Temo potrebbe fare del male alla fanciulla e al tuo figliolo. No, volevo proporti un altro luogo, ma non so se ti piacerà.”
Sbuffò, come se gli desse fastidio persino pensarci ma, alla fine, il dio biondo espresse il suo parere.
“Lo Járnviŏr è il luogo più adatto in cui nascondersi. Nessuno vi cercherà lì, visto che non è esattamente il posto più amato dagli dèi, qui su Midghard.”
Un attimo dopo avergli proposto quel luogo, Fenrir si inalberò e, preso il dio della guerra per il bavero della tunica, ringhiò furente: “Non la porterò tra le braccia di mia madre!”
“E’ la più sana del gruppo, ammettilo, Fenrir! Almeno, lei non ha tentato di sobillare la tua rabbia, o di screditarti agli occhi degli altri dèi!” si difese l’amico, pur senza tentare di liberarsi dalla sua stretta.
“Già… mi ha soltanto abbandonato, al pari degli altri suoi figli, quando si è resa conto che non facevamo parte della stirpe dei giganti” sbottò Fenrir, lasciandolo andare.
“Oh, andiamo, Fenrir… quali altre possibilità hai? Nessun luogo, su Midghard, è sicuro per lei. Odino scruta ovunque per vedere le tue mosse, e si scatenerà di certo quando scoprirà che hai messo incinta un’umana. La Foresta di Ferro è l’unico luogo in cui non riesce a scorgere nulla.”
“La porterò su Alfheimr” protestò burbero il dio della distruzione.
“Per farla morire?” lo rimbeccò Tyr. “E’ incinta, amico. Neppure Oberon vorrà su di sé un simile pericolo incombente. Pensi davvero che quell’arrivista di un elfo vi proteggerà da Odino? Vi consegnerà su un piatto d’argento per ottenere favori e pulzelle, ecco cosa… e Titania lo massacrerà di botte, per questo…”
Fenrir non riuscì a trattenere un sorrisino, nonostante tutto e Tyr, aprendosi in una risata liberatoria, esalò: “Quasi quasi, però, ne varrebbe la pena solo per vedere Titania che fa a pezzi Oberon. Quante volte è già successo? Tre, quattro?”
“Quattro” assentì Fenrir, afferrando dolcemente una mano della sua confusa compagna. “Scusami, cara. Parliamo di cose che ti riguardano, ma senza interpellarti. Tu cosa proponi?”
“Se ho ben capito, a tua madre non interesserà affatto che noi ci troviamo a… casa sua o meno, giusto?”
“Esatto. Potrà essere al massimo curiosa di vederti, ma non mi aspetterei abbracci e baci di benvenuto” sospirò Fenrir, scrollando spiacente le spalle.
“Allora, andremo lì. Saremo sempre su Midghard, con tempi di gestazione sotto controllo e non falsati dai ritmi anomali di Alfheimr e, al tempo stesso, saremo al sicuro dall’occhio di Odino.”
Tyr sorrise, battendole una mano sul braccio, esclamando: “Mi piaci, fanciulla. Hai la tempra giusta per sopportare questo lupo da strapazzo.”
“La mano, Tyr… la mia minaccia è ancora valida” ringhiò per contro Fenrir.
“Come ti dicevo, fanciulla… un vero rompiscatole” ghignò Tyr.
“Avya. Mi chiamo Avya” gli sorrise lei, levandosi in piedi. “Andiamo, allora?”
“Avrei voluto evitarti tutto questo” si spiacque Fenrir, abbracciandola.
“Sapevo a cosa andavo incontro, volendo te” replicò lei, poggiando il capo contro il suo torace.
“Io andrò a distrarre chi di dovere, ma voi fate in fretta a entrare nello Járnviŏr.”
Ciò detto, Tyr svanì in un bagliore dorato e Fenrir, dopo aver annuito ad Avya, portò entrambi dinanzi alle porte della foresta di ferro.
Járnviŏr era cinto da mura elevate, brune e senza vezzi di alcun tipo.
Al suo interno, sorgevano alte montagne scure, sormontate da nevai perenni e, ai suoi piedi, un’interminabile foresta cupa e apparentemente senza vita, si estendeva fin dove occhio poteva giungere.
Due troll si fecero avanti minacciosi, non appena li videro ma, quando riconobbero Fenrir, calarono le armi.
“Fenrir. Sei in visita?” domandò uno dei due, parlando con voce cavernosa, appena comprensibile.
Stretta all’amato, Avya non seppe se gridare di paura o darsela a gambe, ma preferì non fare nessuna delle due cose.
Ormai, aveva deciso e, anche se quel luogo la terrorizzava, non poteva farci più nulla.
Nessun altro luogo sarebbe stato sicuro, per loro e, da reietti quali erano, dovevano affidarsi alle poche certezze che avevano.
Quel luogo, pur così spiacevole, forse le avrebbe garantito tempo e possibilità per allevare suo figlio.
Forse, pur se ne dubitava fortemente, avrebbe anche potuto arrivare ad apprezzarlo.
Non quel giorno, però. Era di larghe vedute, ma non così tanto.
“L’umana con te?” domandò ancora il troll.
“E’ la mia sposa, Ryff, perciò comunica ai tuoi sottoposti che, se le verrà torto un solo capello, nessuno di voi rimarrà in vita” ringhiò Fenrir, facendo irrigidire il gendarme.
“Non mangiamo gli umani, Fenrir, e lo sai. La loro carne è troppo dura. Ma avvertirò i miei compagni” dichiarò stizzito il troll, prima di guardare Avya e dire: “Chiedi di me, umana, se vorrai visitare Járnviŏr. Pur se nessuno ti farà del male, non è un luogo da visitare in solitudine.”
“Lo farò. G-grazie” balbettò Avya, accennando un rapido sorriso prima di nascondere il viso contro il petto di Fenrir.
In silenzio, le porte vennero aperte per loro e, quando ebbero varcato il confine, il dio mormorò: “Benvenuta nella foresta di Ferro, mia amata.”
Tutto era nei toni del nero e del grigio, persino le foglie degli alberi che, pur apparendo morti, sembravano forti.
Avya ne tastò uno, e Fenrir disse: “E’ vivo, pur se non sembra. Puoi percepire la vita in esso, vero?”
“Sì, e la cosa mi ha sconcertata. Ma perché è tutto monocromatico?” domandò confusa Avya, guardandosi intorno con espressione sempre più perplessa.
Facendo spallucce, Fenrir borbottò: “Ai giganti non piacciono i colori. Li trovano uno speco di energie.”
“Spreco… di energie?” esalò Avya, sgranando gli occhi.
“Tutto è energia, anche la luce. Non ti spiegherò come vengono assorbiti i colori, perché temo sia un argomento tedioso e complesso. Lo capisco a malapena anch’io, ma tant’è. I colori vengono assorbiti per divorarne l’energia, e così emerge solo il nero, che li ingloba tutti in sé, e molte sfumature di grigio. Viene impedito ai colori di fuggire.”
Deglutendo a fatica, Avya si tastò la sua chioma ramata, ma Fenrir rise delle sue paure.
“Non diventerai in bianco e nero, tesoro. I colori vengono immagazzinati nella Natura circostante. Se hai notato, la pelle dei troll è marrone, non nera.”
“Oh… in effetti, sì” assentì ancora strabiliata lei, continuando a guardarsi intorno con espressione stupefatta.
“E quella di tua madre è blu” dichiarò una voce profonda e roca, poco distante da loro.
Fenrir si bloccò, tenendo stretta a sé Avya e, dal folto della foresta, fece la sua comparsa una gigantessa dall’aspetto truce.
Una cicatrice le solcava il labbro, mentre i capelli, trattenuti in una treccia, si nascondevano in parte sotto un elmo di pelle e metallo bulinato che indossava.
“Angrboŏa…” mormorò Fenrir, con un cenno leggero del capo.
“Fenrir… la bambina umana con te è incinta, vero? Il suo odore è ben distinguibile” dichiarò la gigantessa, fissando dubbiosa Avya.
“Sì, madre. E, come immaginerai, non possiamo rimanere al di là del muro, con Odino a seguire sempre i miei passi su Midghard” le spiegò lui.
Per quanto fosse stato convinto delle parole di Tyr, e delle proprie, Fenrir non era ancora del tutto sicuro che sarebbero stati accolti.
Angrboŏa rise sprezzante, facendo tintinnare le catenelle che pencolavano dalla sua cintura di cuoio.
“Odino non oserà venire qui, e neppure Loki, poiché sa che strapperò le sue sacre palle per macellarle, se solo ci prova…”
Avya sgranò gli occhi, di fronte a quel modo di esprimersi così crudo, ma Fenrir non si sorprese affatto.
Sapeva bene quanto odio vi fosse, tra i due. Loki non era stato esattamente onesto, con lei, presentandosi sotto le mentite spoglie di un gigante, al solo scopo di ingravidarla.
Forse, anche per questo sua madre non era stata molto sensibile, nei loro confronti. Dopotutto, le ricordavano lo scorno subito da Loki.
“Andrete da Iárnividia. E’ anziana, ma non così tanto da non potersi prendere cura di una bambina gravida. Il luogo è tranquillo, lontano dai troll più scalmanati, che potrebbero farle male anche solo per errore” spiegò loro Angrboŏa. “Ma, alla nascita del pargolo, dovrete andarvene. Questo non è un luogo adatto per crescere un neonato, visto il sangue del padre.”
Fenrir assentì torvo, non avendo nulla da eccepire al suo discorso.
Se già avevano su di sé il peso del suo nome, e del suo destino, farli crescere in un luogo così oscuro, avrebbe portato a conseguenze catastrofiche.
“Spero solo che, darvi una scadenza, basti a chetare Urŏr. La sua mente, a volte, partorisce orribili nefandezze” sospirò la gigantessa, volgendosi per fare loro strada.
Presa per mano Avya, Fenrir le sorrise e, pur se sapeva che nulla sarebbe stato semplice, per loro, mormorò: “Ce la faremo.”
“Siamo insieme” assentì lei, incamminandosi al fianco del suo compagno.
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Urŏr: è una delle Norne ed è preposta alla tessitura del destino delle persone.
Járnviŏr: (Foresta di Ferro) luogo di nascita di Fenrir, Hati e Sköll, secondo il mito.
Angrboŏa: gigantessa, madre di Fenrir.
Note: Sempre secondo il mito, Tyr era l’unico, tra gli dèi, ad avere il coraggio di avvicinare Fenrir e, all’occorrenza, dagli da mangiare, quando era un cucciolo, perciò ho scelto lui per essere l’unico amico del dio-lupo.
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Capitolo 15 *** Dove tutto ebbe inizio - (3500 a.C. circa) Fenrir - Parte 4 ***
Dove tutto ebbe inizio (parte 4)
Si era ormai abituata a quelle tinte monocromatiche, al vento che spirava incessante, al fruscio dei rami e delle foglie, al profumo leggero di legna bruciata e di spezie.
L’incensiere che Iárnividia teneva nella sua capanna era costantemente acceso, e profumava quasi sempre di tarassaco.
Ultimamente, però, la titanessa era solita mettere anche salvia, nel composto di fiori usato per produrre la pastella da bruciare nella ciotola di terracotta che teneva sul davanzale.
Avya immaginava che fosse per lei, per chetare in qualche modo i dolori che il parto ormai prossimo le dava.
La gravidanza si era svolta senza tanti problemi fino al sesto mese, quando era parso evidente a entrambi i genitori che qualcosa non andava.
Iárnividia aveva confermato le loro paure, affermando che, all’interno del ventre di Avya, stavano crescendo due bambini, non uno.
Questo, avrebbe complicato di sicuro il parto, e reso molto più difficile salvare sia i bambini che la madre.
Se, come temeva la titanessa, i due bambini non fossero stati del tutto umani, ma avessero avuto connotazioni animali, per Avya non vi sarebbe stato scampo.
Con tutta probabilità, avrebbero tentato di uscire dalla madre a morsi.
L’ansia di Fenrir, se possibile, era aumentata a dismisura, fino al punto in cui la vecchia titanessa lo aveva scacciato dalla sua capanna.
Fenrir se n’era andato furente, mutando in lupo e gettandosi nella foresta come uno spirito in pena.
Avya l’aveva scrutato dalla finestra, rimpiangendo di non aver avuto parole da dedicargli che potessero chetare il suo animo.
Da quel giorno erano passati più di due mesi e, a parte sporadiche visite di qualche minuto ogni giorno, Fenrir era sempre rimasto nella foresta, a girovagare senza meta.
Era sempre stato a portata d’orecchio, ma non aveva più messo piede nella capanna della titanessa.
In questo, la donna era stata chiara e lapidaria: non avrebbe più potuto vedere la compagna, finché la sua furia non fosse scemata.
La negatività di Fenrir non avrebbe potuto che nuocere alla crescita dei bambini, e questo Iárnividia aveva voluto evitarlo a tutti i costi.
Avya non era stata d’accordo, ma non aveva detto nulla, non volendo scontentare la donna che si era così presa cura di lei in quei mesi.
Se l’impatto iniziale l’aveva scioccata – la titanessa non era di certo bella in viso, o aggraziata come la madre di Fenrir – Avya si era però ben presto abituata a lei.
I suoi modi rozzi si erano ben presto ammorbiditi e, ora che il parto era ormai prossimo, Iárnividia era arrivata a considerare Avya parte della sua famiglia.
“Non devi pensare che io voglia punire Fenrir o te, tenendolo lontano da qui” intervenne a un certo punto la titanessa, gettando alcune foglie secche nel pentolone dell’acqua calda. “Sto solo pensando alla sua sanità mentale, così come alla tua.”
Avya sorrise appena, annuendo e, con lo sguardo, tornò alla finestra, da cui si poteva vedere la vallata ricolma di piante, ora piegate da un vento inclemente.
Entro sera, sarebbe piovuto. Le nubi purulente che viaggiavano nel cielo, erano pronte a lanciare a terra strali e pioggia a volontà.
“Non ha bisogno di vederti soffrire, così come tu non hai bisogno di veder soffrire lui” aggiunse la titanessa, tornando da lei con una tisana bollente e profumata. “Il dio della distruzione non dovrebbe essere presente, mentre la donna che ama rischia la vita. Farebbe esplodere il mondo per la paura di perderti. Stare lontano lo aiuterà a concentrarsi, a contenere ciò che gli dèi lo hanno obbligato a trattenere dentro di sé.”
“Pensi che ne sarà in grado?” le domandò Avya, sorseggiando la bevanda. Era dolce, vagamente untuosa sulla lingua, ma non sgradevole.
Annuendo, Iárnividia si fece ombrosa in volto e dichiarò: “Quel ragazzo ne ha passate così tante, che neppure Odino stesso potrebbe distruggerlo. Ma tu puoi… puoi abbatterlo con il solo respiro che emetti dalle labbra, ragazza. Per questo, non deve vederti mentre partorirai i suoi figli.”
“E… e se dovessi morire?” tentennò Avya, sapendo che era una possibilità reale.
Uno dei bambini scalciò, quasi pregandola di non pensarlo neppure, e la giovane si massaggiò il punto in cui il figlio l’aveva redarguita.
Sorridendo appena, si chinò un poco verso il ventre e disse: “Ho capito, non devo pensarci. Ma voi due siete grossi, e io non sono esattamente un gigante, no?”
La titanessa rise sommessamente, diede una carezza piuttosto ruvida sul capo della ragazza e si allontanò per seguire la preparazione dello stufato.
Avya allora la seguì con lo sguardo e, nonostante si trovasse lontana da casa, in un luogo disperso e apparentemente inospitale, fu lieta di essere con lei.
Sua madre era morta quando era troppo piccola perché ne avesse potuto sentire la mancanza, e suo padre e i suoi fratelli maggiori non l’avevano mai realmente considerata.
Sì, le avevano voluto bene, ma non l’avevano mai veramente capita, in quanto donna.
Fryc era stato l’unico che, per tutta la vita, si era prodigato per lei. E, alla fine, Avya lo aveva tradito.
Certo, lei non lo aveva fatto con l’intento di ferirlo, ma la sostanza non cambiava.
Accettare – e volere – l’amore di Fenrir, l’aveva allontanata da Fryc, che l’aveva odiata per questo, scacciata per sempre dalla sua casa e dal suo cuore.
Per Fenrir, però, aveva preso su di sé anche l’odio del fratello, conscia che era la cosa giusta da fare.
Il loro amore era più importante di qualsiasi altra cosa e sperava, con il tempo, di farlo capire anche a Fryc.
Una volta che avesse visto e conosciuto i suoi nipoti, Avya era certa che avrebbe cambiato idea su di loro.
Su tutto.
Sempre che, ovviamente, fosse sopravvissuta.
Un altro calcio le ricordò che anche i suoi pensieri erano tenuti attentamente d’occhio dai due nascituri così, con un sorriso, si limitò ad appisolarsi.
Non era il caso di mettersi a discutere con quei due.
***
Appollaiato sulla cima di una rupe, il muso rivolto verso il cielo plumbeo, Fenrir ululò, straziato da un dolore così cocente da non poter essere trattenuto oltre.
La Foresta di Ferro era lontana, ora, ne era uscito alcune ore prima per non dover costringere Avya a udire i suoi ululati dolenti.
Non voleva turbarla in alcun modo. Iárnividia aveva avuto ragione a scacciarlo, visto che non era in grado di sopportare la vista di Avya in quello stato.
Era unicamente colpa sua, se stava male.
Non avrebbe mai dovuto avvicinarla, amarla, come invece il suo sciocco cuore si era concesso per la prima volta nella sua esistenza.
Lui non era una creatura destinata a essere felice, Urŏr glielo aveva fatto capire più che bene fin da quando era venuto al mondo.
Portatore di morte, fame e distruzione. Ecco cos’era. Lui non dispensava vita e, di sicuro, sarebbe stato la causa della fine della sua amata.
“Hai un’espressione davvero derelitta, amico” osservò una voce, a poca distanza da lui.
Fenrir levò il muso a fissare Tyr che, risalendo l’erta della rupe, appariva forte e possente come al solito, pur se un po’ in ansia.
Non era in armi, quel giorno, e indossava una comoda tunica di lana intrecciata e alti schinieri di pelle che sfioravano le ginocchia.
I capelli, rilasciati sulle ampie spalle, svolazzavano leggeri a causa del vento inclemente.
Quando Tyr lo raggiunse, gli diede una pacca sulla zampa e aggiunse: “Avya come sta?”
“E’ con Iárnividia. Cerco di non stare loro tra i piedi perché… beh…”
“Non riesci a vederla soffrire?” buttò lì il dio biondo, ghignando.
Fenrir annuì, accucciandosi a terra e poggiando il muso sulle zampe anteriori, allungate sul terreno roccioso.
Tyr lo imitò, sedendosi a terra a gambe e braccia conserte.
“Odino ti sta tenendo d’occhio, ultimamente. Si è incuriosito, vedendo che entri e esci così spesso dalla Foresta di Ferro, e ha mandato me a chiedertene i motivi, visto che sa che sono l’unico che sopporti.”
“Ecco, appunto… sopporto. Non tirare troppo la corda, amico” sbuffò il lupo, fissandolo in cagnesco.
“Lascia quello sguardo arcigno per qualcun altro, bestiaccia che non sei altro” borbottò Tyr, dandogli uno spintone alla spalla. “E non parlare di corde, visto che Balder aveva proposto di legarti, così da mettere fine al tuo andirivieni senza senso.”
“E perché gli è venuta in mente questa idea balzana?”
“Semplice. Perché Odino passa tutto il suo tempo a curiosare nelle ciotole della Vista, e Balder non ne può più di vederlo piegato su di esse. Vuole allenarsi con Padre Tutto, ma lui nicchia, così ha deciso che, visto che sei tu la causa della curiosità di Odino, se ti lega, lui è a posto.”
“Puoi dire a tuo fratello di mettersi la sua stupida corda dove non batte il sole. Non mi farò mai legare perché lui possa giocare ai soldatini col paparino” ringhiò Fenrir, levando fiero il muso. “E Odino può farsi gli affari suoi, tanto per cambiare. Non c’è bisogno che segua le mie mosse ogni santo giorno della mia vita.”
“Sai com’è fatto” scrollò le spalle Tyr. “E’ paranoico. E il tuo trottare avanti e indietro non lo aiuta. Che ci inventiamo, quindi?”
“Digli soltanto che sono qui per riallacciare i rapporti con mia madre, visto che mio padre non è esattamente il tipo con cui scambiare due parole in santa pace” brontolò Fenrir, ringhiando.
“E pensi di essere credibile?” lo irrise Tyr, fissandolo scettico.
“Se ti viene in mente qualcosa di meglio, fai pure, dio dei miei stivali” sibilò il lupo, alzandosi sulle possenti zampe con una spinta furiosa.
“Ehi, ehi, calma! Cerco solo di aiutarti, sai?!” si indispettì Tyr, levandosi in piedi a sua volta per fissarlo torvo. “Sono l’unico che hai dalla tua parte, ricordalo.”
“Non te l’ho mai chiesto! Non ho mai chiesto niente a nessuno! Maledizione, è così difficile credere che io voglio solo essere lasciato in pace!?” sbottò a quel punto Fenrir, ringhiandogli in faccia. “Voi dèi di Asghard mi avete tenuto il fiato sul collo fin da quando sono nato! Mi avete sempre odiato!”
“Io non l’ho mai fatto!” replicò furioso Tyr.
“Sei come tutti gli altri… prima o poi ti rivolterai contro di me per via di ciò che sono!”
“Dovrei davvero usare la corda di Balder… ma per imbavagliarti! Dici solo idiozie!” gli rinfacciò il dio biondo, ferito suo malgrado dal suo dire. “Ti perdono solo perché so che sei preoccupato per Avya, ma ricorda… non puoi pensare che io sopporterò in eterno il tuo caratteraccio. Prima o poi, me ne andrò anch’io, se continuerai a sputare addosso alla nostra amicizia.”
“Beh, puoi anche andartene ora, se pensi che…”
Il suono di un corno interruppe l’arringa di Fenrir che, volgendo il muso in direzione della foresta, esalò sconvolto: “Avya… è iniziato.”
“Vai, allora. Corri” sospirò Tyr. “Dirò a Padre Tutto che ti diverti a stuzzicare tua madre. A questo crederà.”
Ciò detto, svanì in una nuvoletta dorata e Fenrir, con un leggero sospiro, iniziò a correre giù dall’erta scoscesa, deciso a rientrare quanto prima nella Foresta di Ferro.
Sorpassò i cancelli in un baleno, con Ryff il troll a scrutarlo ansioso.
Non sarebbe stato l’unico, questo era certo.
Tutti i troll della foresta si erano ormai affezionati ad Avya e, il pensiero che potesse succederle qualcosa, atterriva ognuno di loro.
Fu a quasi un miglio di distanza dalla casa di Iárnividia, che iniziò a udire le urla della sua amata.
La paura mise le ali alla sua corsa, ma questo non bastò.
Il primo vagito lo udì poco prima di riprendere forma umana e, quando finalmente si apprestò ad aprire la porta della capanna, un secondo vagito spezzò l’aria.
Sgomento e preoccupato, avanzò a grandi passi nella casetta di legno e pietra scura e là, sdraiata sul letto ricolmo di coperte, vide Avya.
Appariva pallida e stanca, ma era anche nel pieno del suo vigore e sorrideva.
Sorrideva dannatamente soddisfatta, quasi istericamente mentre la titanessa metteva tra le sue braccia i pargoli urlanti appena nati.
Pargoli, per l’appunto.
Non creature strane, o dotate di zanne in grado di uccidere la madre.
No, erano due bambini bellissimi, uno dai capelli corvini, l’altro bruno rossiccio, ed entrambi avevano gli occhi nerissimi, come il padre.
Quando infine le due donne si accorsero di lui, vi fu un momento di tensione, che però Fenrir stemperò con un sorriso.
Ringraziò la titanessa per il suo aiuto dopodiché, nel sedersi sul bordo del letto, fissò la compagna e i figli e mormorò roco: “Ce l’hai fatta… e senza di me a darti il tormento.”
“Era necessario… ma non ho mai voluto tenerti lontano da me.”
Annuendo nel baciarle la fronte imperlata di sudore, Fenrir asserì: “Come hai detto tu, era necessario. Il mondo sarebbe esploso, se fossi stato presente. Ma ora, non ti lascerò più. Cresceremo insieme le nostre due meraviglie.”
“Mi chiedo come farai, Fenrir…” intervenne una voce profonda e ancestrale, sorprendendoli tutti.
Persino Iárnividia si accigliò, a quel tono, e si pose innanzi al letto per difendere la puerpera e i pargoli.
Fenrir, però, non mosse dito e, limitandosi ad aggrottare la fronte, dichiarò: “Mi domandavo quando ti saresti fatta viva, Urŏr.”
Una risata argentina solleticò l’aria, che parve vibrare innanzi a loro prima di prendere consistenza e mutare nel corpo di una donna.
Avya ansò spaventata, stringendosi al petto i figli mentre la titanessa, fissandola bieca, ringhiò: “Nessun dio di Asghard può mettere piede qui, se non invitato.”
“Ma io non vengo da Asghard, vecchia, e posso andare ovunque io voglia” replicò la norna, fissandola divertita coi suoi occhi bianchi, privi di pupilla. “Io sono colei che definisce il Fato di ogni creatura vivente, perciò ho accesso ovunque… anche qui.”
“Sei davvero così priva di umanità, da non poter attendere neppure un giorno, prima di decretarne il destino, e rovinare così la gioia di questo momento a questa bambina?” replicò la titanessa, rabbiosa.
Urŏr, allora, perse del tutto ogni voglia di scherzare e replicò: “Pensate che non sia io stessa preda del Fato che tengo tra le mani? Neppure io posso fermare il fluire del tempo attraverso i secoli, perciò non posso fermare neppure ciò che ho visto… o preferireste attendere l’arrivo in queste terre di Odino, e la conseguente scoperta di questi due neonati indifesi?”
“Cosa?” ringhiò Fenrir, furioso. “Che intendi dire?”
“Che Tyr sarà la causa prima del tuo destino, Fenrir. Così come di quello dei tuoi figli, e della donna che li ha generati” decretò la norna, lanciando uno sguardo duro in direzione di Avya.
“Spiegati, donna, o giuro che ti ucciderò ora, e con sommo diletto!” sibilò il dio-lupo, levandosi in piedi per avvicinarla.
Urŏr, però, levò una mano a bloccarlo e replicò: “Non mi è consentito dire tutto, o potreste tentare di cambiare il vostro destino, compiendo un sacrilegio tale da far implodere l’Universo intero. Sappi però questo, lupo. I tuoi figli rimarranno con te e correranno con te come uomini e come animali, e la tua compagna crescerà entrambi loro, e amerà te. Ciò, comunque, non muterà il tuo compito ultimo, che compirai assieme a Hati e Sköll, i cuccioli che hai appena avuto. Loro saranno al tuo fianco, quando tutto finirà.”
Avya fissò sgomenta il volto pallido di Fenrir che, praticamente senza forze, crollò a sedere sul letto, senza parole.
“Perché ciò avvenga, però, Odino deve star loro a distanza, poiché ora sono vulnerabili, e lui tenterà di ucciderli, se potrà, cancellando così le mie parole” sentenziò Urŏr. “Quel che Odino si ostina a non capire è che, tentare di farlo, gli si ritorcerà contro.”
“Che dobbiamo fare, dunque?” mormorò Avya, fissando ancora sgomenta quella donna alta e abbigliata di nero, dai lunghi e fluenti capelli bianchi.
“Vagate tra i mondi, ingannate l’occhio di Odino. Fate crescere i vostri figli in luoghi in cui lui non guarderebbe mai. Ma non pensate di sfuggire in eterno a lui. Non succederà, ma non deve avvenire ora” li mise in guardia Urŏr, prima di svanire.
Fenrir si volse verso Avya, scrutò i suoi due figli e, dopo aver preso in braccio quello dai capelli neri, mormorò: “Hati, eh? Sarà questo, dunque, il tuo nome?”
“E lui sarà Sköll” sorrise appena Avya, baciando la testolina bruno rossiccia del bimbo che teneva lei.
Iárnividia sospirò e, nello scrutarli spiacente, asserì: “Questo vuol dire una cosa sola, Fenrir.”
“Lo so, anche se mi ripugna ammetterlo” annuì l’uomo, levandosi in piedi e tenendo Hati contro di sé.
“Cosa volete dire?” si informò Avya, a quel punto, preoccupandosi non poco.
Fenrir la fissò dolente, ma disse: “C’è un posto dove, di solito, Odino non guarda mai. La terra delle nebbie, la dimora di mia sorella Hell. Lei fu confinata lì perché ne fosse la regina, ed ella prospera nel suo regno, glorificandosi e terrorizzando tutti con i suoi pensieri folli ma, alla fine dell’opera, è del tutto innocua, per Odino. Siamo soprattutto io e Jor a preoccuparlo maggiormente, in sostanza. Tenendo confinata Hel sul suo regno, le impedisce di nuocere ai mortali, così può occuparsi solo di noi. O di me, nello specifico, visto che Jor è confinato in mare.”
“E pensi che lei accetterebbe di ospitarci? Da quello che avevo capito, non mi sembravate andare d’amore e d’accordo” protestò Avya, vagamente piccata.
“Se saprà che sono lì per ingannare Odino, ci accoglierà senza problemi. Ne fa un vanto personale, quello di prendere per i fondelli Padre Tutto. L’idea che non dovrà neanche sforzarsi per inventarsi un piano, per farlo, la farà gongolare per anni, credimi” sospirò Fenrir, scuotendo il capo.
“Non mi sembri convinto, però” sottolineò la sua amata, carezzando distrattamente la schiena di Sköll.
“Il vero problema è mio padre…lui le fa visita, ogni tanto, per cui potrebbe vederci. E questo non sarebbe un grande affare, per noi. Comunque, al momento, non mi viene in mente niente di meglio. Il mio unico rimpianto è per te. Ancora una volta, sarai costretta a scappare.”
Avya reclinò il capo a scrutare il figlio, i pensieri vorticanti nella sua mente e il timore di aver commesso un errore immane a premerle sul cuore.
Sì, Fenrir aveva ragione. Fin da quando l’aveva conosciuto, era scappata.
Era scappata dalla realtà, mentendo al fratello fino alle sue tragiche conseguenze.
Era scappata di fronte a se stessa, mantenendo il silenzio sulla verità finché tutto era andato a rotoli.
Era scappata per difenderei suoi figli, e ora si ritrovava senza più una casa o un luogo sicuro in cui crescerli.
Quando, però, tornò a guardare il volto del suo amato e scorse l’amore che provava per lei nei suoi occhi di pece, sorrise e allungò una mano verso di lui.
“Ti amo, come amo i nostri due figli e se, per crescerli, dovrò vivere in un luogo diverso ogni giorno, così sia. Non vi abbandonerò mai.”
Fenrir prese la sua mano, gliela baciò e annuì. Non v’era altro da dire.
***
Bifröst era aperto e Hell se ne stava a braccia conserte dinanzi a loro, lo sguardo beffardo e gli occhi golosi, che stavano fissando i neonati con bramosia.
Fenrir si fece avanti per primo, salutandola con un cenno del capo e la sorella, sogghignando, asserì: “Sono davvero carini. Forse, è la prima volta che su Niflheimr mette piede qualcuno di vivo, a parte me. E papà, ovviamente, ma lui è un caso a sé stante.”
Il dio-lupo scrutò quegli occhi neri come pece, la maschera in ceramica scura che ricopriva la metà devastata del volto della sorella e, con un leggero sospiro, dichiarò: “Siamo d’accordo, o devo pensare che hai cambiato idea?”
Lei allora rise, una risata suo malgrado celestiale e, scuotendo il capo, Hel mormorò maliziosa: “Il mio palazzo qui su Niflheimr potrà essere la vostra casa, finché i pargoli non saranno in grado di difendersi da soli. La sola idea che Odino si infurierà a morte, quando scoprirà di avere altri due nemici, mi è così gradita che potrei persino baciarti!”
Fenrir fece un passo indietro, disgustato, e Hel rise ancora di più. Ora, però, il riso risuonò sgradevole, marcescente.
Avya non disse nulla, si limitò a pensare al bene dei propri figli, ma Hel intervenne per dissipare – almeno in parte – le sue certezze.
“Non temere che io non capisca quanto mi disprezzi, cara. Non fingere mai, con me, perché non serve a nulla. Odiami anche, se preferisci. Anzi, potremmo anche andare d’accordo, se lo facessi.”
“Hel, per favore…” la redarguì il fratello, richiamandola all’ordine.
Avya, però, non si fece mettere i piedi in testa e, levato il capo a fissare la dea, per metà stupenda, e per metà coperta da una maschera inquietante, dichiarò: “Non ti odio, ma ho paura. Ho paura che tradirai Fenrir, come ora tradisci Odino.”
Hel, allora, la fissò con strano rispetto e, annuendo, dichiarò più seriamente: “Ci sono solo due cose che rispetto nella mia vita, umana, e sono queste: primo, me stessa, secondo, l’odio che covo nei confronti di Odino. Sì, mi compiace essere la regina di questi luoghi, e gliel’ho pure fatto presente, ma ciò non toglie che lui mi consideri una reietta, e questo non glielo perdonerò mai!”
“Quindi, non dirai neppure a tuo padre che noi siamo qui, vero?” volle sapere Avya.
“Non lo saprà dalla mia bocca. Se ciò che Urŏr ha detto è vero, e lei non sbaglia mai, di solito, Hati e Sköll devono essere adulti, per poter seguire Fenrir nel Ragnarök. Se Loki sapesse di loro, non esiterebbe a dirlo a Odino per fomentare odio e zizzania, e sarebbe davvero troppo presto. Io voglio il Ragnarök esattamente come mio padre, ma a tempo debito, coi suoi tempi, non con i tempi di Loki, e Fenrir non è ancora pronto a dire la parola fine. No, per una volta non sarò parte dei piani di mio padre per mettere fretta a nostro fratello. Tutto deve essere perfetto e, per esserlo, i tuoi figli devono essere adulti, Avya.”
Pur se il discorso comprendeva morte e distruzione, fu stranamente consolante, per Avya, che assentì.
“Allora, potrai anche considerarmi tua amica, se vorrai. O nemica. Non so quale delle due espressioni sia meglio, per te” dichiarò la giovane, fissando la dea dai due volti.
Quest’ultima scoppiò a ridere di gusto e, mentre Fenrir fissava la sorella con aria arcigna, lei esalò: “La tua compagna mi piace. Spera solo che Loki non la veda mai, o saranno davvero guai. Potrebbe rubartela.”
“Lo ucciderò, se solo ci proverà.”
“Auguri, allora, fratello… e benvenuti nel mio palazzo. Contrariamente all’esterno, dove tutto è brullo e desolato, qui non è così male” dichiarò Hel, chiudendo Bifröst dietro di loro.
Sulla porta d’entrata dell’enorme palazzo, Avya scorse un cane enorme e rabbioso che però, nello scorgere Fenrir, si accucciò guaendo e nascose il muso sotto la zampa.
“Sei davvero un fifone, Garmr… dovrei davvero sostituirti” gli sibilò contro Hel, facendo un cenno con la mano perché le porte del palazzo si aprissero.
Come predetto dalla dea, Avya lasciò alle sue spalle le nebbie perenni dell’esterno per ritrovarsi in un ambiente raffinato, in cui tutto era tracotante, esagerato.
Gli stili erano così svariati e diversi da non avere un senso logico, e i colori erano talmente disparati da creare una cacofonia di toni assurda.
Nonostante tutto, però, il luogo era caldo e accogliente e, di questo, Avya si stupì.
Fu Hel a spiegargliene i motivi.
“Questo palazzo rispecchia quello che ho su Helfheimr, dove giungono i morti privi di onore, bambina. E’ giusto che sappiano cosa si lasciano alle spalle, cosa stanno perdendo, oltrepassando il mio dominio. Qui, non faccio altro che ricordarlo ai miei cari sottoposti. Se non faranno le cose per bene, sarà questa, l’ultima cosa che vedranno.”
Avya preferì non chiedere altro. Aveva il sospetto che Hel godesse nel veder patire le anime dei defunti, perciò era meglio non immischiarsi di cose simili.
Hel, comunque, la osservò divertita e vagamente maliziosa, come se avesse compreso al volo i suoi pensieri.
Fenrir, a quel punto, si interpose tra di loro e, duro, dichiarò: “Non osare pensare di fare del male a lei o ai bambini, o sarai tu la prima vittima del Ragnarök, sorella.”
La dea rise, annuì e lasciò che a loro pensasse la sua servitù, composta da longilinei ed evanescenti giganti di nebbia.
Avviandosi assieme a loro, Avya si strinse un poco al petto Hati, ora addormentato, e mormorò: “Possiamo fidarci di lei?”
“Fin quando lo riterrà opportuno, e fin quando le piacerà, sì. Dopodiché, dovremo fuggire come se avessimo i demoni alle calcagna” le spiegò Fenrir, sorridendo a mezzo.
“E tu sarai in grado di capire quando?”
Lui allora ghignò, tornando per un istante il dio sprezzante come lo aveva conosciuto quel giorno, nella foresta, e Avya sorrise.
No, Fenrir poteva essersi ammorbidito con lei, ma rimaneva ancora un dio capace di intimorire chiunque.
Neppure la sorella l’avrebbe messo nel sacco. Ora più che, visto che doveva difendere i propri figli.
Osservandolo mentre baciava il capo spruzzato di capelli bruno rossastri di Sköll, Avya si convinse che niente al mondo avrebbe potuto separarli.
Non fin quando Fenrir sarebbe rimasto al suo fianco.
Note: I bimbi sono nati, ma i guai sono ben lungi dall'essere terminati e Fenrir, suo malgrado, deve chiedere a Hel di dargli una mano per nascondersi da Odino. So che sembra paradossale, ma Hel non è cattiva a prescindere, fa solo i propri interessi e, nel caso specifico, questo le interessa. Non a caso, dice ad Avya che due sole cose rispetta: se stessa e l'odio verso Odino.
Capite bene quanto sia egoista, perciò non fa necessariamente sempre del male, ma neanche fa del bene per altruismo, solo perché ne può trarre vantaggio in qualche modo.
Ben presto scopriremo anche cosa abbia voluto dire Uror, dicendo che proprio Tyr sarà colui che tradirà Fenrir, smascherando ogni cosa.
E così ci avvicineremo al termine di questa breve serie su Fenrir e Avya che, come già sapete, non avrà un Happy Ending.
Spero comunque abbiate apprezzato fino a qui la loro storia.
A presto, e grazie!
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Capitolo 16 *** Dove tutto ebbe inizio - (3500 a.C. circa) Fenrir - Parte 5 ***
Dove tutto ebbe inizio (Parte 5)
Era sempre parso loro strano correre in mezzo alle nebbie, su quel terreno roccioso che appariva al tempo stesso solido e spugnoso.
Non che il resto della loro giovane vita fosse stata l’emblema della normalità, comunque.
Fin da quando avevano avuto cognizione di loro stessi e di ciò che li circondava – come semidei, avevano imparato davvero presto – Hati e Sköll si erano resi conto che, la loro, era una condizione davvero unica.
Cresciuti nel Regno delle Nebbie, che confinava con il più inquietante Regno dei Morti, i due ragazzi avevano conosciuto solo poche creature viventi, oltre ai loro genitori.
Se si escludevano i hrímþursar, i giganti di nebbia servi della dea Hel, Hati e Sköll avevano fatto la conoscenza solo con la gigantessa Móðguðr.
La guerriera presiedeva il Gjiallarbrú, il Ponte d’Oro che conduceva direttamente a Helheimr, dimora dei morti e regno incontrastato di Hel, l’unica parente che avessero fin lì conosciuto.
Non che Hel fosse stata affettiva, con loro, o anche solo interessata a conoscerli, ben inteso.
Si era limitata a guardarli da lontano, curiosa e attenta e, le poche volte che Loki – loro nonno – si era presentato a palazzo, si era raccomandata che loro non fossero presenti.
I genitori, in compenso, erano stati più che generosi con loro, quanto a dimostrazioni di affetto e presenza nella loro giovane vita.
Se dalla loro madre Avya avevano imparato le arti, la scrittura e l’amore per le letture, dal loro padre Fenrir avevano appreso l’arte guerriera e l’uso dei loro enormi poteri.
Grazie a lui, avevano compreso come mutare da umano a lupo e viceversa, e avevano preso coscienza di quanto potenti fossero le loro menti.
Ma, più di tutto, si erano impegnati nel diventare abilissimi nell’arte della dissimulazione di loro stessi.
Come entrambi i genitori avevano fatto capire ai gemelli, Odino non avrebbe mai accettato la loro presenza nei Nove Regni, perciò era vitale che loro imparassero a mimetizzarsi.
E come poteva, un semidio, mimetizzare se stesso?
Grazie al sangue di Avya.
In quanto umana – pur se beneficiata di grandi poteri, grazie al sangue donatole da Fenrir – il suo sangue scorreva in loro, ed era in grado di aiutarli in quel processo.
Mantenendo azzerata la loro aura divina, avrebbero potuto ingannare anche gli occhi di un dio.
Il processo mediante il quale questa operazione poteva essere messa in atto, però, non era stata facile da mettere in pratica, né da imparare.
Fenrir stesso si era dichiarato impotente, di fronte ai loro molteplici fallimenti poiché, in quanto dio, non avrebbe mai potuto compiere un simile mascheramento.
Il maggior aiuto era dunque giunto da Avya, che aveva spiegato loro ciò che ella vedeva, guardandoli.
A quel modo, poco alla volta, i due gemelli si erano esercitati nell’ascoltare loro stessi, il loro Io interiore, finendo con il padroneggiare l’aura che veniva emanata dai loro corpi.
Questi allenamenti prolungati, così come gli studi, non avevano però loro impedito di curiosare in giro per Niflheimr, l’unica casa che conoscevano.
Per quanto i giganti di brina li ignorassero, quelle terre non erano certo esenti da pericoli – crepacci nascosti, burroni senza fondo, improvvisi blizzard – ma, di fronte alla loro curiosità, tutto si faceva secondario.
Era stato durante una delle loro interminabili escursioni all’esterno del palazzo, che erano venuti a scoprire dell’esistenza del Ponte d’Oro, e della sua misteriosa guardiana.
Móðguðr era imponente, di molto superiore ai due metri e mezzo di altezza, e portava sempre al suo fianco un’enorme bipenne dalle lame nere e lucide.
Ricoperta di una corazza di maglie, oltre che di una pesante cappa di pelle per contrastare il freddo di quei luoghi, appariva feroce quanto il mastino che le stava al fianco.
Garmr era solito stare con lei, quando Hel non si trovava al palazzo di Niflheimr, e abbaiava rabbioso tutte le volte che loro si avvicinavano al ponte.
Non fece differenza neppure quella mattina, quando loro misero piede nei pressi del fiume Gjöll, che li divideva da Helheimr.
Riprese le sembianze umane, i due giovani si avvicinarono alla guerriera con aria spavalda ma lei, impugnata subito la bipenne, intimò loro di fermarsi.
“Non ho voglia di giocare, oggi, gemellini. E Garmr è più indisponente del solito, per cui ne ho a sufficienza di sopportare lui. Filate via” brontolò la gigantessa, fissandoli arcigna attraverso le grate del suo elmo.
“Scommetti che riusciamo a calmare Garmr?” le propose Sköll, dei due gemelli sicuramente il più esuberante.
“Dovrei strapparti quei riccioli dalla testa e farteli mangiare, ecco cosa. Garmr non sarà mai calmo, giovane uomo-lupo. Non è nella sua natura, così come non è nella mia essere un docile agnellino” ringhiò la guerriera, pur sogghignando.
Hati allora rise, si fece malizioso e replicò: “Dillo che ti diverti, quando veniamo a romperti le scatole. Almeno, fai due chiacchiere con qualcuno che non siano quei musi lunghi degli altri giganti.”
La gigantessa piantò a terra il manico della bipenne, poggiandovi poi sopra una mano e, con fare esasperato, esalò: “Non potete rompere le scatole a vostra madre, o a vostro padre? Allenatevi con Fenrir, piuttosto che guastarmi la giornata.”
“Fai la difficile, eh? Ma so che, in fondo in fondo, ti piacciamo” replicò Sköll, avvicinandosi di un passo all’alta guerriera.
Garmr non fu affatto d’accordo e cercò di morderlo, ma il giovane fu lesto a portarsi lontano dalla sua dentatura più che ragguardevole.
Con un balzo all’indietro mutò subito forma, ringhiò all’indirizzo del cane e sibilò: “Non azzardarti a riprovarci, cagnaccio, o giuro che ti stacco le zampe a morsi!”
L’animale guaì, rattrappendosi su se stesso e Sköll, ritenendosi soddisfatto, si sedette sulle zampe posteriori, sogghignando tronfio.
Hati gli diede una pacca su una zampa anteriore, sorridendo complice al gemello e, rivolto alla gigantessa, dichiarò: “Ti serviremmo meglio noi, poco ma sicuro.”
“Sareste così logorroici che finirei con il volermi annegare nel fiume, pur di liberarmi di voi” replicò la donna, lanciando un’occhiata alle acque tumultuose e nebbiose e del Gjöll.
I due ragazzi risero all’unisono, ma Móðguðr non rispose alla loro risata, ponendosi in posizione di allerta.
Nel notarlo, i due giovani si azzittirono immediatamente e, come per la gigantessa, anche i loro sensi si accesero di ansia.
Volgendo il muso in direzione del palazzo, che distava diverse ore dal ponte, Sköll mormorò torvo: “E’ nostro padre. Ci chiama.”
“Allora correte, sciocchi. Non si fa aspettare Fenrir” li incoraggiò la gigantessa, gesticolando nervosa.
Cosa aveva udito, di così preoccupante, da mettere ansia nella sua voce?
I due gemelli non persero altro tempo e, quando anche Hati fu mutato in lupo, corsero verso il palazzo per conoscere i motivi di quel richiamo improvviso.
Era raro che Fenrir li richiamasse all’ordine, ed erano sicuramente più le volte in cui era Avya a redarguirli per la loro insana curiosità, che loro padre.
Sospettavano, addirittura, che Fenrir fosse fiero del loro spirito indomito ma che, per non scontentare la compagna, non dicesse mai loro nulla, se non dichiararsi d’accordo con Avya.
“Mamma…” mormorò Hati, accelerando il passo.
Possibile che fosse la loro mamma, il problema?
Certo, loro che erano semidei non avevano alcun problema a vivere lì, come in qualsiasi altro Regno.
Ma Avya?
Lei era umana, e non si poteva certo dire che quel luogo fosse salubre, o adatto alla vita.
Inoltre, Niflheimr era anomalo anche per un altro motivo. Il tempo, lì, scorreva in modo diverso.
Se, per i gemelli, trovarsi lì non aveva fatto granché differenza, per Avya era stato destabilizzante in più di un senso.
Nei vent’anni passati a Niflheimr, non era invecchiata di un giorno.
Il suo corpo si era come cristallizzato nel tempo e nello spazio, galleggiando nel momento eterno in cui avevano messo piede in quel Regno.
Forse, questa condizione si era protratta troppo a lungo, per lei, o erano incorsi dei problemi che loro non avevano saputo cogliere.
Quando, infine, giunsero alle porte del palazzo, ripresero forma umana – Hel detestava vedere i segni di unghiate sul pavimento – e si diressero verso i loro appartamenti.
Essi si trovavano nella parte alta del maniero, oltre le nubi perenni che avvolgevano il terreno di Niflheimr.
Da lì, era possibile godere della luce della stella che brillava per quel pianeta così strano.
Azzurra e diafana, quella lucentezza perenne – Niflheimr non aveva una rivoluzione attorno al suo asse – era a loro familiare, ma sapevano che non era come il sole di Midghard.
Nel mettere piede nelle stanze dei genitori, trovarono Fenrir impegnato nel preparare alcune sacche da viaggio, mentre Avya era sdraiata a letto.
Avevano notato come, ultimamente, il suo viso fosse apparso emaciato e stanco ma, nella loro esuberanza di giovani ventenni, vi avevano fatto ben poco caso.
Che avessero dato poco peso a una cosa, invece, di importanza vitale?
Accucciatisi subito accanto al letto, i due gemelli sfiorarono ansiosi il corpo della madre che, aperti gli occhi per loro, sorrise e disse: “Oh, ecco le mie due pesti. Siete rientrati presto.”
“Papà ci ha chiamati, e allora…” tentennò Hati, scrutandola ansioso.
Sorpresa, Avya si levò su un gomito per fissare il compagno, impegnato nella preparazione di diversi bagagli, e borbottò: “Ma che stai facendo?”
Fenrir neppure la ascoltò così la compagna, accigliandosi, fece l’atto di scendere da letto per discutere a quattr’occhi con lui.
Non mise mai piede a terra.
Veloce come il vento, il dio la bloccò prima che potesse muoversi e, fissandola ombroso, ringhiò: “Ce ne andiamo. Non resteremo qui un minuto di più.”
“E perché, scusa? I nostri bambini sono ancora troppo giovani per…”
“Ehi, dico! Bambini?!” sbottarono all’unisono i due ragazzi, mentre Fenrir sbottava in un’imprecazione.
“Solo perché tu sei rimasta giovane, non vuol dire che loro siano ancora i neonati che portammo qui vent’anni fa. Sono cresciuti, Avya, e tu no, perciò è ora che torniamo a Midghard, dove c’è il sole giusto, e il tempo giusto. Tesoro, a conti fatti, sei più giovane di loro!”
Il tono lapidario di Fenrir le fece storcere la bocca ma, nel notare l’ansia dipinta sui volti dei figli, mormorò: “Dici che saranno pronti?”
“Devono esserlo, visto che si dovranno prendere cura di te per un po’, mentre io sarò in giro a depistare Odino.”
“Che cosa?!” esalarono i due ragazzi, impallidendo di colpo.
Fenrir si fermò nel suo incessante andirivieni, posò le mani sulle spalle dei figli e, sorridendo loro, disse: “So che posso fidarmi di voi, come so che sarete all’altezza del compito. Vostra madre, ormai, non può più stare qui, per quanto stia tentando di fare la finta tonta da ormai troppo tempo.”
“Grazie, eh, per la finta tonta?” borbottò Avya, mettendosi seduta. Il solo gesto la portò a sospirare per la stanchezza.
Il compagno le sorrise teneramente, prima di tornare a guardare i figli.
“Lei è forte, più forte di qualsiasi altra donna mi è mai capitato di conoscere e, grazie al quel poco sangue che ho potuto farle bere da me, è in grado di sopportare in qualche modo i rigori di Niflheimr. Ma non a tempo indeterminato. La sua struttura endocrina è ancora umana, e questo posto non può più sostentarla come dovrebbe. E’ giunto il tempo di tornare.”
“E… e tu?” mormorò Hati, preoccupato.
“Tornerò da voi solo la notte, e mai per lunghi periodi. Odino, la notte, è troppo impegnato con Frigga, per badare a me, ma non voglio rischiare di commettere l’errore di essere troppo sicuro di me stesso. Meglio diffidare sempre un po’” spiegò loro Fenrir, abbozzando un risolino.
I due gemelli si guardarono vicendevolmente, turbati all’idea di dover prendere in mano di colpo le redini della loro famiglia.
Nello scrutare la loro madre, però, annuirono all’unisono a Fenrir e dissero: “Ci penseremo noi a mamma.”
“E la mia opinione, ovviamente, non conta, vero?” borbottò Avya, accigliandosi.
“Stavolta no, mia cara. Per il tuo bene, sono pronto a tornare lo scorbutico dio che incontrasti nella foresta, tanti anni fa” le sorrise Fenrir, dandole un buffetto sulla guancia.
Lei sorrise nonostante tutto, e replicò: “Non così scorbutico, se ben ricordo.”
“Avevo pessime intenzioni, però” ironizzò lui, notando solo in quel momento i volti vagamente schifati dei loro figli.
Scoppiando a ridere, diede loro una pacca sulla spalla ciascuno e, con ironia, celiò: “Quando vi innamorerete, non troverete più così sciocchi i nostri battibecchi.”
“Ne riparleremo quando succederà” sentenziò con aria strafottente Sköll, facendo sorgere un risolino divertito alla madre.
***
Il limitare del bosco non guastava la visuale delle stupende montagne a cui erano prossimi, e sotto cui avrebbero abitato di lì in avanti.
La brughiera, in quel momento battuta dal vento, portava i profumi intensi dell’erica e del muschio fresco.
Nubi tempestose viaggiavano veloci nel cielo, all’orizzonte, tingendo di colori foschi le cime delle montagne.
Tutto era così nuovo e strano, per Hati e Sköll che, senza parole, ammirarono per ore intere ciò che li circondava.
I colori, i profumi intensi, la densità della terra sotto i loro piedi, il sentore del vento sulla pelle.
Ogni cosa appariva ai loro occhi magnifica e interessante, così come spaventosa e pericolosa.
Fenrir e Avya, scrutandoli dalla porta della piccola abitazione che il dio aveva trovato per l’amata, sorrisero indulgenti, lasciando che fossero i figli stessi a scoprire quel nuovo mondo.
“Credo che, nei prossimi giorni, si allontaneranno ben poco da te” mormorò Fenrir, sorridendo ad Avya.
“Cosa te lo fa pensare?” replicò con ironia lei, stringendosi all’amato.
“Sono un po’ in ansia, e l’idea di lasciarti sola in un luogo che non conoscono li terrorizza” le spiegò, dandole un bacetto sui capelli. “Tu stai meglio, ora?”
“Rivedere la mia terra, è stato sicuramente d’aiuto… spero solo che tu abbia ragione su di loro. Non vorrei che, l’ansia e l’emozione di trovarsi qui, li spingessero a commettere degli errori.”
“Guardali. Le loro auree sono del tutto assenti. Sono solo due ragazzi che sti stanno guardando intorno con aria un po’ inebetita” le sorrise fiducioso, tentando di cancellare le sue paure.
“Tu cosa farai, ora?”
“Mi limiterò a fare quel che ho fatto in questi anni. Balzerò da un mondo a un altro, tanto per dare un po’ fastidio a Odino e, la notte, tornerò da te e dai nostri figli” mormorò, rientrando in casa con lei.
Scrutando la travatura della casetta di sassi e legno, ghignò e disse: “Conoscere i nani è servito a qualcosa, se non altro.”
Avya assentì, scrutando il complesso intrico di fili metallici che si inframmezzavano alle travi di legno.
“Questa rete conterrà la mia aura, quando sono qui, rendendomi invisibile a Odino. Per lo meno, quando sarò in visita, potrò farlo in tutta sicurezza.”
“Come si chiama questo metallo? Non lo avevo mai visto” gli domandò Avya, curiosa.
Compiaciuto che l’antico spirito dell’amata stesse risorgendo, lui le diede un bacetto sulla tempia e disse: “Non è un solo metallo, è un intreccio di essi, e il suo nome è Lœðingr. Significa ‘che lega con astuzia’. Tyr mi ha consigliato di rivolgermi a loro, quando ho notato che iniziavi a non sentirti più tanto bene. Ho spiegato ai nani cosa mi servisse, e loro hanno capito subito cosa prepararmi.”
“E ti puoi fidare di loro?” mormorò turbata Avya, in ansia all’idea che qualcosa potesse trattenere, anche a scopo benefico, la potenza dell’amato.
Fenrir ghignò, assentì e disse: “Ti preoccupi troppo, mia cara. Vedi nemici anche ove non sono.”
“Forse” annuì, pur scrutando con attenzione quella trama fitta in metallo.
Sperò davvero con tutto il cuore che fosse stata realmente creata a fin di bene, e non per scopi più subdoli.
***
Camminando nervosamente avanti e indietro, la lunga chioma corvina scintillante alla luce altalenante delle candele, Loki si fermò il tempo necessario per fissare rabbioso la figlia, e urlò: “Avresti dovuto dirmelo! Avrei usato queste informazioni per i miei scopi!”
Imperturbabile, Hel lanciò un osso a Garmr e replicò pacifica: “E’ proprio per questo che non ti ho detto nulla, e ho schermato la loro presenza qui, ai tuoi occhi. Dovevano poter crescere.”
“Se avessi detto a Odino di loro, lui si sarebbe infuriato, cercando di ucciderli, e questo avrebbe scatenato la furia di Fenrir. Ora, invece, quei ragazzi saranno forti quanto il padre, e non potranno più essere delle vittime ignare e indifese” sbottò Loki, continuando a passeggiare su e giù per l’ampio salone del palazzo di Niflheimr.
Sogghignando perfida, Hel si levò dal suo scranno, raggiunse il padre e, nello sfiorargli un braccio con la mano sana, replicò: “Ma Fenrir, ora, ha dentro di sé un amore sconfinato per i propri figli, oltre che per la donna che li ha generati. La sua rabbia sarà triplicata, se succederà loro qualcosa, o se verranno minacciati in tal senso. Questo non sarebbe avvenuto, anni addietro.”
“In che senso?”
“Fenrir ha potuto sviluppare un legame così profondo e duraturo che, se solo qualcuno tenterà di infliggere loro del male, Fenrir esploderà in tutta la sua furia distruttrice, regalandoci il Ragnarök” gli fece notare lei, trionfante. “Lui non ha mai provato nulla del genere, prima d’ora, perciò è più vulnerabile che mai.”
Anche Loki ghignò, comprendendo il piano della figlia e, annuendo, disse: “Ora che sono tornati su Midghard, Odino li vedrà e…”
“Pazienta, padre, pazienta” lo redarguì la figlia. “Odino non lo vedrà subito, grazie ai nostri amici nani. Ho seguito Fenrir su Svartallfheimr, quando si è fatto costruire Lœðingr per essere invisibile agli occhi di Padre Tutto. Senza volerlo, Tyr mi è stato di grande aiuto, quando ha consigliato a mio fratello di rivolgersi a loro.”
“E tu gliel’hai permesso?” brontolò il padre.
“Certo. E’ vitale che lui possa illudersi di poter vivere con loro, così che il contraccolpo sia più duro, più feroce. L’illusione della felicità è un’arma a doppio taglio e, su mio fratello, avrà conseguenze tragiche. Quando sarà il tempo, la rete lo imprigionerà, e tu potrai rapire con comodo Avya e i loro figli per portarli da Odino, in modo tale che possa giustiziarli.”
“Me lo assicuri?”
“I nani ne sono convinti” assentì Hel.
“Sarà bene che lo siano, o la colpa di un eventuale insuccesso, ricadrà su di loro” decretò Loki, allontanandosi a grandi passi dal palazzo.
Hel lo lasciò andare e, quando fu certa di essere sola, si avviò verso le proprie stanze.
Lì, aprì uno dei suoi bauli e, con un sorriso, estrasse una rete dalla trama sottile e lucente, che tastò con grazia con la mano sana.
L’altra, scarna e imbruttita dal suo continuo processo di degradazione, la reggeva con la solita malagrazia.
Era ingiusto che proprio a lei fosse toccata in sorte una simile disgrazia. Fenrir era stato il più fortunato, tra di loro.
Beneficiato non solo del dono di poter mutare in lupo, ma anche di un corpo tonico… e integro, con cui unirsi a chiunque lui volesse.
Le uniche persone a cui lei aveva potuto unirsi erano i morti che giungevano a lei, nella Camera del Giudizio.
Una ben misera consolazione.
Ma avrebbe avuto la sua vendetta, senza alcun dubbio.
Se la prima maglia metallica avesse fallito, sarebbe intervenuta con Drómi e sarebbe stata lei, non il padre, a ricevere onore e gloria agli occhi di Odino.
Così, forse, non avrebbe ottenuto solo un regno di morti, ma anche qualcos’altro… o qualcun altro, con cui passare il resto della sua esistenza.
Note: Se pensavate che Hel fosse stata generosa con il fratello, temo di dovervi smentire. Fin dall'inizio, faceva tutto parte di un piano a lungo termine, cui neppure il padre Loki era stato messo al corrente.
Il desiderio di rivalsa è grande, in Hel, e questo le permette di andare avanti nonostante la sua miserevole esistenza immortale.
Ora, resterà da capire come si evolverà questa minaccia, e quando Tyr 'tradirà' l'amico.
Nulla verrà lasciato in sospeso. Tutto verrà spiegato.
Per ora vi saluto, e vi ringrazio per essere passate e/o aver commentato.
Buon week-end!
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Capitolo 17 *** Dove tutto ebbe inizio - (3500 a.C. circa) Fenrir - Parte 6 ***
Dove tutto ebbe inizio - Parte 6
Sorseggiando del sidro di mele da una coppa lignea, Avya sospirò leggermente prima di scrutare il viso ombroso del compagno.
Non si stupiva che il suo volto fosse irato e teso, perché lei stessa si sentiva a quel modo.
Ciò che aveva udito nel piccolo villaggio di Storix non lasciava adito a dubbi ma, al tempo stesso, lei sperava di sbagliarsi, di doversi ricredere.
Fryc.
Cacciatori scelti a caccia di prede.
Di prede che non avevano nulla a che fare con i cervi, o altro.
No, ciò che cercavano aveva un altro nome.
Lui aveva definito Fenrir ‘demone’ e la sua genia, nata dal ventre di Avya, ‘stirpe del demonio’.
In quei vent’anni passati lontano da Midghard, lui non aveva mai smesso di cercarli e, pian piano, aveva instillato la paura nelle genti del nord, nella bellissima isola di Albion1.
I villici avevano appreso dai guerrieri di Fryc cosa potesse annidarsi tra loro e di volta in volta, nel corso del tempo, erano stati messi al rogo coloro che la gente aveva reputato strana.
Coloro che avevano posseduto connotazioni uniche, o troppo rare, erano stati visti come figli del demone-lupo, e messi a morte per sentenza dei capi-villaggio, o di Fryc stesso.
Occhi di lupo, avevano cercato tra le genti, o segni evocatori del sangue demoniaco che poteva scorrere in loro.
E, per tutto il tempo, non avevano fatto altro che uccidere persone innocenti, convinti di essere sulla strada giusta per eliminarli per sempre.
Se solo Fryc avesse saputo!
“E così, tuo fratello non ha mai smesso di cercarci… quel folle…” borbottò Fenrir, terminando di bere il suo sidro.
Avya assentì, spiacente, e mormorò in risposta: “Forse, se riuscissi a parlarci, potrei cambiare le cose.”
“E come, mia cara? Sei identica a come lo lasciasti vent’anni addietro. Come potrebbe non crederti un demone, o una strega?” la irrise con dolcezza Fenrir, carezzandole il viso delicato.
Lei annuì di fronte a quella verità inoppugnabile e, nel lanciare un’occhiata ai loro figli, distesi nei loro letti nella stanza accanto, mormorò: “Come può anche solo pensare di ucciderli? Sono i suoi nipoti.”
“Sono abomini, per lui, mia cara. Poco importa che abbiano anche il tuo sangue, nelle vene” sussurrò spiacente Fenrir, levandosi in piedi.
Allungata una mano in direzione della compagna, le domandò: “Esci con me per scrutare l’alba?”
Avya si accoccolò accanto a lui e, assieme, raggiunsero la porta della casupola al limitare del bosco, lasciando che i loro sguardi indugiassero sull’orizzonte.
Ciò che videro, però, li portò a irrigidirsi e, d’istinto, Fenrir nascose dietro di sé la figura di Avya, già pronto a dar battaglia.
Loki si avvicinò spavaldo a loro, avvolto dalla prima luce del mattino e apparendo oscuro e tenebroso, pur se avvolto dal calore del sole.
La sua risatina querula infastidì non poco il figlio che, rabbioso, domandò: “Cosa ci fai, qui? E come sei giunto fino a noi?”
“Figlio mio… non mi presenti alla tua consorte? Dopotutto, sono anni che non stiamo un po’ assieme, e vedo che nel tempo passato lontani, la tua vita è molto cambiata” ciangottò il dio degli inganni, allargando un poco le braccia, come a voler dimostrare che non portava armi con sé.
Peccato che le armi di Loki non fossero forgiate nel metallo, ma piuttosto nella sua mente ingegnosa e perversa.
“Chi ti ha mandato, qui? Hel, forse?” ringhiò Fenrir, sempre sul chi vive.
“Oh, per tutti gli dèi! Lascia fuori tua sorella, per una volta… ha già ricevuto la sua degna punizione, per avermi mentito. No, mio caro. Chi ti ha tradito, è colui che hai sempre considerato tuo amico. Tyr è un inguaribile pettegolo, quando alza un po’ troppo il gomito” ironizzò Loki, facendo spallucce.
Fenrir sobbalzò, quasi colpito fisicamente da quelle parole e, scettico, replicò: “Non ti credo. Diresti qualsiasi cosa, per tagliare fuori dalla mia vita le poche persone che mi apprezzano. Inoltre, Tyr non berrebbe mai una birra assieme a te. Ti detesta.”
“Dimentichi che le uniche persone che ti hanno realmente aiutato, da quel che so, non corrispondono al nome di Tyr,… o sbaglio?” gli fece notare Loki, bloccandosi a pochi metri da loro. “E, se posso permettermi, chi ti ha consigliato di usare una rete dei nani, per proteggere la tua aura dall’occhio di Odino?”
Accigliandosi maggiormente, Fenrir borbottò: “Tu come lo sai?”
Il padre si limitò a sogghignare e, al dio-lupo, non rimase altro che dire: “Tyr. E’ un’idea che è venuta a Tyr.”
“E sai anche cosa sa fare, oltre a contenere la tua aura?” gli domandò a quel punto il dio degli inganni, aprendosi in un ghigno ferale.
Avya strinse un braccio all’amato, mormorando: “Non ascoltarlo, Fenrir. Tyr non avrebbe mai potuto mentirti. E’ tuo amico.”
“Mi spiace deludere le tue aspettative, fanciulla, ma Tyr è figlio di suo padre e, in quanto tale, la sua fedeltà va prima di tutto a Odino, non certo a un dio reietto come mio figlio” le fece notare Loki, affabile e affascinante.
Indietreggiando dentro casa – Hati e Sköll si erano svegliati, nel frattempo – Fenrir borbottò all’amata: “Scappa con i nostri figli. Io saprò come trovarti, lo sai.”
“Ma… ma Fenrir, tu…”
Non appena si trovarono entrambi all’interno della casupola, Loki sorrise vittorioso e, con un gesto negligente, lanciò una semplice runa oltre la linea della porta.
Sgomento, Fenrir la guardò al pari di Avya e, mentre i figli li raggiungevano per chiedere spiegazioni, la rete sopra le loro teste si illuminò.
La lega polimetallica creata dai nani divenne incandescente e, come una rete da pescatore, cadde addosso a loro, … oltrepassandoli.
Non colpì Avya, non colpì i gemelli. Nessuno di loro venne interessato da quella trappola.
Il suo obiettivo era uno, e uno solo. Fenrir.
Si strinse addosso a lui come una seconda pelle, stringendo e stringendo ancora, sotto gli occhi sgomenti dei figli e di Avya, che presero a tirare con forza le maglie.
Loki, imperturbabile, osservò la scena pieno di delizia, già pregustando l’inizio del Caos tanto bramato… ma qualcosa andò storto.
Non solo la rete si spezzò sotto il peso del potere dirompente di Fenrir, ma lui non apparve per nulla piegato dalla fatica, né dal dolore.
Ansando di rabbia a stento trattenuta, gridò ai figli di andarsene assieme alla madre dopodiché, puntato il padre con lo sguardo, ringhiò: “Prima, mi vendicherò su di te, poi penserò a Tyr. Una volta per tutte!”
Hati prese in braccio la madre, mentre Sköll apriva loro la strada, correndo più veloce del vento.
Alle loro spalle, nel frattempo, il padre prese sembianze di lupo e attaccò Loki che, dopo un attimo di smarrimento dovuto al fallimento del piano, scomparve in una nuvola di fumo, esclamando: “Ti fidi delle persone sbagliate, figlio! Sempre!”
Un attimo dopo, Fenrir si ritrovò a fissare la brughiera in completa solitudine, pieno di rabbia e di furore a stento represso.
Lanciò perciò un ululato stizzito e, preso che ebbe a correre, si inoltrò nella foresta per sfogare in qualche modo il suo risentimento.
Tyr lo aveva tradito, lo aveva smascherato proprio con Loki, l’ultimo, dopo Odino, a dover sapere dei suoi figli, di Avya!
Ma perché l’aveva fatto?
Tyr si dimostrerà colui che per primo tradirà la tua fiducia, Fenrir…
Le parole di Urŏr gli risuonarono nella mente, foriere di un futuro che lui non aveva voluto accettare, ma non di meno dimostratosi vero, reale.
La rabbia crebbe, crebbe a dismisura e, quando infine scorse una luce oltre la foresta, vi si gettò.
Lì, scorse la vallata sottostante, un piccolo villaggio in lontananza e, a sorpresa, una battaglia in atto.
Mutando forma, tornò uomo e, lasciando che il vento portasse a lui suoni e voci, inorridì quando scoprì cosa stessero facendo.
Senza attendere oltre, corse giù per l’erta erbosa, ben deciso a mettere fine a quello scempio.
Nessun altro sarebbe morto a causa sua, pur se non era stato lui a causare quel disastro.
***
Bevendo una birra in compagnia di Balder, Tyr sogghignò al suo indirizzo e disse: “Posso giurarti su quanto ho di più caro che non mento, fratello. Potrei batterti da bendato, e con una mano legata dietro la schiena. Mettimi alla prova, e vedrai. Mi sono allenato con un partner d’eccezione, per diventare così bravo, perciò ormai non ho rivali.”
Il fratello lo fissò burbero, replicando: “Ti alleni ancora con Fenrir, per caso?”
Accigliandosi un poco, Tyr borbottò: “E se anche fosse? Lo tengo lontano dai guai, così Odino non deve infuriarsi con lui, no? Non è quello che ha sempre voluto nostro padre, e in cui ha sempre maldestramente fallito?”
Balder gli sorrise irriverente, ribattendo: “Sei così sicuro che, il tuo allenarti sempre con lui, non sia servito, al contrario, a istigare la sua violenza, fratello? Quella bestia è nata per fare del male, e tu solletichi il suo istinto. Sei folle, al solo pensare che sia una creatura recuperabile, o meno che matta da legare.”
“E tu sei un idiota. Non conosci Fenrir come lo conosco io” sbottò Tyr, sbattendo il boccale di birra sul tavolo della taverna dove si trovava, in Asghard.
“Pensi di conoscerlo, ma non sei sempre con lui, vero? Non vedi ogni volta ciò che lui fa” gli ritorse contro Balder, sibillino. “Come puoi dire di sapere esattamente come la pensa? O quali siano i suoi più torbidi desideri?”
“Che intendi dire?” ringhiò il fratello minore, accigliandosi.
Balder terminò con calma il suo boccale, sogghignò all’indirizzo del fratello e, lapidario, dichiarò: “Non si conosce mai abbastanza una persona, mio caro. Io andrei a curiosare ciò che sta facendo adesso, poi potremo anche riparlarne.”
Tyr lo fissò malissimo ma non disse nulla e, in uno scintillio dorato, svanì dalla taverna, dirigendosi verso Midghard attraverso il passaggio di Bifröst.
A quel punto, Balder pagò il conto, uscì con calma e, una volta fuori, riprese le sue vere sembianze, tornando a essere Loki.
Soddisfatto con se stesso per quel tiro mancino, il dio degli inganni si avviò verso Bifröst a sua volta, ben deciso a scambiare due paroline con la figlia.
Non si tentava di farla in barba proprio a lui. Neppure Hel poteva permetterselo.
Per lo meno, aveva pezzato la sua ingenuità in qualche modo.
Mettere zizzania tra Tyr e Fenrir era un ottimo sistema per far perdere la testa al figlio.
***
Il vero Balder, nel frattempo, era impegnato in tutt’altra conversazione, così come in tutt’altro luogo.
Non che gli facesse piacere visitare un regno come Niflheimr, ma il messaggio ricevuto da parte di Hel era stato troppo allettante, perché lui vi rinunciasse.
Fidarsi di quella dea era rischioso ma, pur di farsi bello agli occhi del padre, avrebbe tentato il tutto e per tutto.
La benevolenza con cui Odino trattava Thor era quasi insopportabile, ed era giunto il momento di porre un freno all’egemonia del fratello e del suo martello magico.
Trovava irrispettoso che solo a lui fosse stato dato uno strumento della potenza di Mjiollnir ma, ormai, su questo non avrebbe più potuto porre rimedio.
Ciò che, invece, gli aveva proposto Hel, l’avrebbe portato sicuramente al centro dell’attenzione, rendendolo ben visto agli occhi del padre.
Quando infine mise piede a palazzo, Hel lo accolse con un sorriso e un invito a entrare.
Per l’occasione, la dea aveva indossato la sua consueta maschera, che le copriva la metà del volto distrutta dalla cancrena.
Balder ne studiò la metà sana, trovandola bellissima. Peccato fosse deformata in tutta la metà del suo corpo, perché sarebbe stata una donna degna di poter aver al fianco.
Potente, spietata e bellissima. Un vero scorno, da parte delle Norne, imporle quella maledizione.
Quando raggiunsero la sala del trono, i loro passi a rimbombare nel palazzo vuoto, Balder fissò incuriosito la rete traslucida stesa sullo scranno di Hel e lei, sorridendo, disse: “Vedo che l’hai notata.”
“Cos’è?”
“Ciò che ti renderà eccelso agli occhi di Odino” gli promise con un sorriso, afferrandola per mostrargliela. “Questa è Drómi, una rete creata appositamente dai nani per catturare e tenere imprigionato Fenrir.”
Accigliandosi, Balder replicò: “Per quanto mi stia antipatico tuo fratello, non ho motivo di attaccarlo. Non mi ha fatto nulla… a parte mangiarmi i calzari quand’era un cucciolo, ma mi sembra un’esagerazione prendersela ora, per una cosa di millenni fa.”
Hel lo lasciò dire, squadrandolo con il suo occhio sano, pregustando già il suo pagamento per quella concessione.
Sorridendo appena, ribatté: “Oh, lo so. Quegli eventi furono solo sfortunati, ma non certo passibili di una simile vendetta. No, io parlo di un abominio che si è perpetrato all’oscuro di Padre Tutto, e che non può più essere sopportato.”
“Cosa intendi dire?” si interessò a quel punto Balder, prendendo dalle mani della dea la rete metallica, studiandola con attenzione.
Era leggerissima ma, strattonandola con forza, si accorse anche di quanto fosse robusta. Forse, davvero sufficiente a trattenere quel lupo che era Fenrir.
“Mio fratello ha fatto bere il suo sangue a un’umana, elevandola a un ruolo che non merita, l’ha ingravidata e ha avuto due gemelli dal sangue misto. Capisci bene di quanti crimini si sia macchiato, lui che Odino aveva confinato alla solitudine a vita!” gli spiegò con enfasi.
Balder apparì degnamente scioccato da quelle sue parole, e Hel seppe di avere il dio in pugno.
“Perché non lo catturi di persona, visto che sei a conoscenza di questo segreto?” le domandò allora il dio biondo, insospettendosi un poco.
Quanto sanno essere sciocchi, i figli di Odino, pensò tra sé la dea, fingendosi contrita.
“Perché ammetto di averli nascosti io, per molto tempo. Volevo in qualche modo recuperare un rapporto almeno con mio fratello Fenrir, se non con Jor, ma lui aveva occhi solo per la sua amata, e ha sfruttato la mia gentilezza per i suoi soli fini. Perciò, merita di essere punito degnamente.”
“Mai ferire una donna, eh?” ironizzò Balder, ghignando.
“Esatto” assentì Hel. “Ovviamente, però, tutto ciò ha un prezzo.”
“Non avevo alcun dubbio. Non per niente, sei figlia di tuo padre” sorrise divertito il dio, facendo spallucce. “Cosa mi proponi, dunque?”
Sorridendo maliziosa, Hel aprì il suo lungo abito di velluto scuro, mostrando un corpo tonico e asciutto… e completamente nudo.
Balder si scompose solo in minima parte, essendo abituato da tempo ad assaggiare le carni più tenere del Creato.
Di sicuro, si sorprese però nel vedere il corpo magnificente di Hel integro e sano.
“Come diamine…”
“Dyggvi2 è un re, uno sposo di nobile stirpe finché si vuole… ma è morto. E i morti non danno molto piacere. Per una notte, voglio assaporare le carni di uno dio, di un uomo vivo. Questo sarà il tuo pegno a me.”
Balder la scrutò con malcelato interesse, ne sfiorò le carni con dita lievi, saggiò la consistenza di un seno, facendola fremere e, roco, mormorò: “Che ne è della maledizione?”
“Conosco qualche trucchetto anch’io… la magia non appartiene solo mio padre. Ti prometto che non rimarrai scontento, ma pretendo da te il massimo, in cambio di Drómi.”
Balder, allora, ghignò, lasciò andare a terra la rete metallica e, dopo averla avvolta con un braccio, la attirò a sé.
Con la mano libera le strappò dal viso la maschera, scoprendo un viso interamente perfetto e bellissimo.
Il suo sorriso si allargò e, sulle sue labbra, mormorò: “Non ho mai scontentato una donna in vita mia. Con una dea, farò faville.”
“Non desidero altro” replicò Hel, poggiando una mano sul suo sesso, già pronto per lei.
“Come vedi… o meglio, senti, non perdo tempo” rise roco Balder, prendendola in braccio con un gesto repentino.
Hel rise e, nell’indicargli dove dirigersi, lanciò una sola occhiata alla rete stesa a terra, prima di pensare unicamente al suo amante.
Sapeva che non sarebbe durato per molto, ma quell’incantesimo le avrebbe donato ben più di un godibile amplesso.
***
Le mani macchiate di sangue al pari degli abiti, Fenrir fissò ciò che restava degli uomini che avevano cercato di uccidere delle incolpevoli donne.
Queste ultime, però, furono ben lungi dall’essergli grate e, fissandolo terrorizzate, fuggirono via in preda al panico, lasciandolo solo in mezzo a quella carneficina.
“Umane… nessuna ha il coraggio della mia Avya” brontolò Fenrir, passandosi le mani insanguinate sulla tunica.
Già pronto ad andarsene, si irrigidì non appena percepì una presenza divina nei paraggi e, accigliandosi, osservò una nube dorata comparire dinanzi a lui.
Sapeva benissimo chi sarebbe apparso. Lo riconobbe dall’odore.
Sul punto di discutere aspramente con colui che aveva sempre reputato essere suo amico, Fenrir scrutò il viso ombroso di Tyr prendere corporeità ma, quando ne colse l’ira, si bloccò.
Perché Tyr doveva essere infuriato con lui? Non ne aveva alcun motivo!
“Quindi, Balder aveva ragione. Sei il folle che non ho mai voluto credere tu fossi.”
“Che vai dicendo?! Io, folle? Tu, piuttosto, che hai tradito la mia fiducia, inducendomi a credere che la maglia creata dai nani fosse solo uno strumento per proteggermi.”
Ora fu il turno di Tyr di apparire confuso e, guardandosi intorno sgomento, la carneficina evidente dinanzi a lui, esalò: “Non so davvero di che parli… so solo che vedo quanto io sia stato sciocco a credere che tu fossi sano di mente. Mi sbagliavo di grosso, evidentemente.”
“Non sai di che parlo?! Vile e bugiardo! E non pensare che io mi sia mosso per diletto, contro questi uomini. Loro stavano cercando di…” iniziò con il protestare Fenrir, bloccato però da un gesto dell’amico.
“Non accampare scuse che non reggerebbero dinanzi a nessun tribunale divino. Questi uomini sono morti… morti per colpa tua! Non c’è giustificazione alcuna, per le tue azioni” sibilò Tyr, gli occhi invasi di odio e dolore al tempo stesso.
Fenrir si inalberò immediatamente, a quelle parole livide, e sbottò.
“Credi pure alle parole di tuo fratello, se vuoi. A quanto pare, neppure io avrei dovuto fare affidamento su di te.”
“Odino aveva ragione nel volerti tenere d’occhio” sospirò Tyr, scuotendo il capo. “Vattene, perché io possa dare loro degna sepoltura. Non meriti neppure di stare vicino a questi uomini.”
Sprezzante quanto ferito, Fenrir replicò: “Se non vedi al di là del tuo naso, non è affar mio. Pensa ciò che vuoi, di me. Se basta l’opinione di quell’ubriacone di Balder per farti cambiare idea così alla svelta, allora vuol dire che non mi conosci affatto.”
“No! Non ti conosco affatto!” ringhiò Tyr, indicando con rabbia i morti.
“Se fossi stato presente, avresti capito!” si difese Fenrir. “Ma che parlo a fare… tu che mi hai tradito per primo.”
“Oltre che bugiardo, sei anche un vanesio” lo rabberciò il dio biondo. “Non dirò dei tuoi figli per rispetto verso Avya, ma non cercarmi mai più. La nostra amicizia termina qui.”
“Con somma gioia, non posso che dichiararmi d’accordo” sentenziò Fenrir, svanendo in una nuvola dorata.
Tyr, allora, fissò sgomento quel mare di morti e, serrando gli occhi, trattenne le lacrime che mai avrebbe versato per colui che aveva considerato un amico.
Lo stesso fece Fenrir che, rientrando a casa col cuore spezzato, fu sul punto di sfogarsi con Avya per quanto appena accaduto.
Le parole, però, gli morirono in gola quando, a sorpresa, scorse due fanciulle nel bel mezzo della stanza principale, scarmigliate e coperte di fuliggine.
In un angolo, Hati stava curando una ferita profonda sul braccio del gemello, che pareva essere preda di un forte stato di stress.
La sua entrata in scena bloccò tutti e, quando anche Avya si presentò nella stanza – tornando apparentemente dalla stanza che divideva con il compagno – quest’ultima esalò: “Oh, cielo… Fenrir!”
Lui li squadrò tutti, notò l’aria spaventata delle due ragazze, ma non la ritenne diretta verso se stesso quanto, piuttosto, verso qualcosa che le aveva terrorizzate in precedenza.
“Posso… posso sapere che sta succedendo?” chiese alla fine, non sapendo bene chi guardare, o a chi rivolgersi.
La ragazza bruna scoppiò in lacrime, e quella dai capelli biondi cercò subito di chetarne l’ansia.
Avya, allora, si affrettò a poggiare una mano sulla spalla della ragazza piangente, e mormorò: “Fryc…i suoi uomini stavano per ucciderle sul rogo, quando…”
Hati prese la parola con coraggio, e aggiunse: “Le abbiamo salvate. Non potevamo lasciarle là a bruciare vive, ma…”
Sköll sbuffò e, guardandosi il braccio fasciato, terminò di dire: “… ma abbiamo esagerato. Ci dispiace, papà. Ci hanno visto. Nell’altro modo.”
Fenrir non se la sentì di avercela con loro. Tutta la loro vita era stata strana, costellata di pericoli, concessioni, ricatti.
Non un solo giorno era stato passato nella tranquillità assoluta, se non quando si erano trovati a Niflheimr.
Ma quella era stata solo una parentesi, perché mai avrebbero potuto abitare lì per sempre.
Sospirando, Fenrir si rivolse alle due fanciulle e, con un tono il più possibile pacato, domandò loro: “Anche voi avete visto?”
La bionda annuì, si lappò le labbra screpolate e infine disse: “Hanno lo spirito del lupo, dentro di loro, e quello spirito ci ha protette e salvate.”
Fenrir sorrise appena nel notare con quanto coraggio lo stesse guardando, ignorando di proposito il sangue che lo ricopriva.
“Prosegui pure nel prenderti cura di loro, Avya. Io mi cambierò, nel frattempo. Non hanno bisogno di essere ulteriormente turbate dal mio stato attuale.”
Ciò detto, fece per allontanarsi ma la compagna, afferratolo a un braccio, mormorò: “Cos’è successo?”
“La stessa cosa che è successa a voi, ma io non ho avuto la fortuna di trovare donne e fanciulli altrettanto coraggiosi da accettare per buona la mia presenza” sospirò Fenrir, sconsolato. “Inoltre, Tyr si è presentato al villaggio a giochi ormai conclusi, accusandomi di essere un mostro. Non mi ha lasciato il tempo di parlare e, oltretutto, ha negato ogni addebito riguardo alla rete. Si è dimostrato degno di suo padre.”
Avya lo fissò spiacente e, nel dargli un bacio sulla guancia, asserì: “Io so che no sei un mostro.”
“E’ questo che mi consente di vivere… tu, e i nostri figli” replicò lui, sorridendo un momento ai gemelli prima di sparire nella sua stanza.
***
Scrutando gli occhi ambrati delle due fanciulle, Fenrir domandò loro: “E’ solo per il colore dei vostri occhi, che hanno tentato di darvi fuoco?”
Scuotendo il capo, la bruna – di nome Lyka – asserì: “Io sono un’erborista, mio signore. Ritenevano che, per questo, potessi essere anche una strega.”
Fenrir sorrise divertito ad Avya, prima di dichiarare: “Anche qualcun’altra fu accusata di simili maldicenze, pur se non arrivarono mai al punto di volerla morta. Ma immagino che Fryc abbia instillato sufficiente paura a tutti, per mettere voce agli incubi più inconfessati.”
La bionda – Sylvi – annuì con vigore, sibilando sprezzante: “E’ stato mio padre a consegnarci al capo villaggio e, quest’ultimo, ha chiamato le orde di Fryc perché venissimo giudicate.”
Si lasciò andare a un’espressione stizzita, prima di aggiungere: “Giudicate! Come se legarci a due tronchi e darci fuoco fosse un giudizio!”
Il dio assentì, solidale con le due giovani, e dichiarò: “Potrete rimanere finché vorrete. La nostra casa sarà la vostra … e i miei figli si comporteranno onorevolmente, con voi.”
Ciò detto, lanciò un’occhiata d’intesa con i due interessati, che borbottarono delle proteste sentite, come se loro non si fossero sempre comportati a modo.
Le due ragazze sorrisero divertite e Avya, nell’alzarsi, le accompagnò in quella che, da quel momento in poi, sarebbe stata la loro stanza.
Rimasto solo coi figli, Fenrir tornò serio e disse: “Aspettatevi che Odino venga presto a bussare alla nostra porta, figli miei. Non è più il tempo dei segreti, e io cercherò di ottenere per voi un salvacondotto, indipendentemente dal prezzo che dovrò pagare per averlo.”
“Papà…” mormorò turbato Hati, fissandolo in ansia.
“Figli miei, voi avete riempito un vuoto nel mio cuore, e la Madre sola sa quanto questo mi sia stato di conforto. Voi e Avya mi avete cambiato, avete fatto di me un dio migliore, un uomo migliore, ma Odino non cambierà mai idea su di me. Mi riterrà sempre un portatore di sventura, perciò so già che dovrò pagare un fio, per avervi avuto nella mia vita.”
“Lo pagheremo noi, per te!” sbottò Sköll, già pronto a dar battaglia.
Fenrir scosse il capo corvino, replicando: “Non è compito che spetti a voi. Il vostro, sarà prendervi cura di mamma, e di tutte le persone che Fryc tenterà di colpire. Non si fermerà mai, ormai è assodato, e molti seguiranno il suo esempio. Voi dovrete essere l’estrema risorsa per coloro che finiranno nella sua rete.”
Hati e Sköll annuirono, pur se di malavoglia e il padre, nel sorridere loro, aggiunse: “Nessun padre potrebbe essere più orgoglioso di me.”
I due gemelli si limitarono a esibirsi in un mezzo sorriso imbarazzato e, quando Avya tornò, ripresero a sistemare in casa, preferendo non farle notare il loro disagio.
Fenrir, allora, la prese accanto a sé, la baciò sulla tempia e, dentro di sé, si ripromise di tenerla al sicuro a qualsiasi costo.
Anche a costo di morire, se necessario.
1 Albion: come veniva chiamata un tempo la Gran Bretagna.
2 Dyggvi: re scandinavo (morto) che venne offerto in sposo a Hel, quando giunse alle porte di Niflheimr per entrare nel regno dei morti. Ne divenne il marito.
Note: Uror non ha mai specificato se, il tradimento di Tyr, fosse cosciente o meno, quindi, ecco perché Fenrir lo ritiene un traditore, e Tyr lo pensa un folle, come mai aveva voluto credere. Nel bene e nel male, il loro legame li ha traditi, perché sono rimasti entrambi vittime del loro stesso affetto, usato sapientemente dalla rete di inganni messa in piedi da Loki.
Loki che però, a sua volta, è stato tradito dalla subdola figlia, che ora vuole utilizzare Balder per ottenere i suoi scopi. Sarà solo punire il fratello, o ci sarà dell'altro?
Di sicuro, ormai siamo giunti al dunque, poiché manca poco alla resa dei conti.
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Capitolo 18 *** Dove tutto ebbe inizio - (3500 a.C. circa) Fenrir - Parte 7 ***
Dove tutto ebbe inizio – Parte 7
Sorseggiando una birra, l’aria ombrosa e stanca, Tyr lanciò un’occhiata amara al fratello Balder, quando lo vide comparire nella locanda.
Il profumo dello stufato appena servito, così come l’aroma delle donne che, con grazia e studiato disinteresse, si muovevano per il locale, non contribuirono a migliorargli l’umore.
Era abbattuto, infuriato, disgustato ma, più di tutto, amareggiato per essersi sbagliato così tanto su una persona che, in tutta onestà, aveva creduto migliore di quanto in effetti non si era rivelata.
Eppure, il suo amore sincero per Avya – più che ricambiato, tra l’altro – e l’affetto sincero che gli aveva visto negli occhi alla notizia della prossima paternità, lo aveva rincuorato.
Fenrir gli era parso davvero cambiato, rispetto agli anni in cui aveva vagato per i mondi come un’anima senza uno scopo, odiando tutti e facendosi odiare da tutti.
Sbattendo il corno sul bancone per farsi servire un’altra birra, salutò l’avvento del fratello con un ghigno, e mormorò: “Alla tua, Balder… avevi ragione, e io torto.”
Poggiando la sua sacca a terra, il biondo e dinoccolato dio si accomodò accanto a Tyr e, vagamente dubbioso, replicò: “So di essere geniale, ma illuminami. Su cosa avrei avuto ragione, fratello?”
“Su Fenrir, è ovvio” ribadì Tyr, accigliandosi leggermente. Voleva forse prenderlo in giro?
“Curioso che tu lo nomini” ghignò il dio, lanciando un’occhiata saputa alla sua sacca. “Ma ancora non capisco. Saranno secoli che non dibattiamo circa le sue dubbie virtù.”
“Come… secoli?!” sbottò Tyr, fissandolo ora vagamente irritato. “Se eravamo qui giusto l’altro giorno, e tu mi dicesti quanto meschino e brutale fosse!”
A quel punto fu Balder a mostrarsi confuso e sì, vagamente indispettito. Sistemandosi la tunica per tenere a freno la rabbia, gli rinfacciò: “Chiariamo un punto, fratello… io e te non ci vediamo da giorni, per non dire settimane e, di sicuro, non ci siamo incontrati qui, visto che io ero da tutt’altra parte!”
Tyr sobbalzò di fronte a quelle parole e, soprattutto, di fronte allo sguardo limpido e sincero del fratello. Possibile che…
Percorso da un dubbio orribile, ripensò alla lite con Fenrir, al suo orgoglio ferito e alla strenua difesa delle proprie azioni.
Quello sguardo… era identico a quello di Balder, ora.
Ma perché, quindi, credeva che il fratello non mentisse, mentre aveva dato del bugiardo a Fenrir?
Sospirando nel reclinare colpevole il capo, Tyr si rese conto di avergli fatto un grave torto.
Aveva dato per scontate le parole di Balder – o di colui che si era presentato come lui, a questo punto – perché, in fin dei conti, non si era mai fidato del tutto di Fenrir.
La sua nomea, l’odio millenario covato da Odino, il continuo ostracismo che lo aveva seguito avevano condizionato anche lui, che si era sempre professato suo amico.
Era bastata una mezza parola dubbiosa e un evento violento, e lui gli aveva voltato le spalle, lasciandolo solo e con il livore nello sguardo.
Era stato un ben misero amico, per Fenrir.
“Che c’è? Non mi dirai che avete litigato?” lo prese in giro Balder, sghignazzando.
Tyr, allora, si volse a guardarlo e gli domandò con enfasi: “Giuramelo su quanto hai di più caro, fratello. Prima non mi hai mentito, vero?”
Levando un sopracciglio con espressione assai confusa, Balder assentì, replicando: “Non so perché ti serva questa rassicurazione, ma sì, non mentivo. Sono settimane che non metto piede qui.”
Sibilando un’imprecazione tra i denti, Tyr si portò una mano tra i capelli, inveendo mentalmente contro se stesso e contro la sua idiozia.
Si era fatto irretire come uno sciocco, e aveva finito per lasciare sguarnito il fianco all’amico, che ora si ritrovava solo contro tutti, e nel peggior momento possibile.
Levandosi in fretta in piedi, Tyr lanciò un’occhiata al fratello, alla sua sacca e, infine, gli domandò: “Tu, invece, perché eri interessato a Fenrir? Hai detto che era curioso che io l’avessi tirato in ballo.”
“Segreto professionale, mio caro. Non spiffererò con te i miei segreti, visto che hai la mente bacata come un formaggio stagionato” rise il fratello, scolandosi in un sol sorso la sua birra.
Per nulla tranquillizzato da quelle parole, Tyr lasciò perdere e si allontanò a grandi passi dalla locanda per raggiungere Bifröst.
Molto probabilmente, Fenrir lo avrebbe preso a calci nel didietro, ma era giusto che sapesse che lui non era colpevole del loro disguido.
***
Impegnata a stendere le lenzuola sulla corda tesa tra due pali, Sylvi si volse immediatamente quando avvertì uno sfrigolare sinistro alle sue spalle.
Lyka, al suo fianco, afferrò alla svelta un bastone e, pur tremando come una foglia, fissò ombrosa la nuvola dorata che stava prendendo forma a pochi passi da loro.
“Avya…” esclamò Sylvi, ponendosi protettiva dinanzi a Lyka.
La donna uscì immediatamente, nel sentirsi chiamare e, accigliandosi quando la nube dorata prese forma, borbottò contrariata: “Malvenuto, signore della guerra. Cosa ti porta al nostro cospetto?”
Tyr si inchinò ad Avya non appena prese forma umana – non stupendosi affatto che la donna lo avesse riconosciuto prima ancora di apparire del tutto – e, mortificato, mormorò: “Giungo a chiedere perdono, mia diletta. Sono stato vittima di un orribile scorno, e ho infierito ingiustamente sul tuo compagno. Vorrei perciò redimermi, se mi è possibile.”
Stringendo le braccia sotto i seni, il volto percorso dal dubbio e dalla speranza, la donna replicò più dolcemente: “Fenrir ha sofferto molto per le tue parole. Parla, dunque, e chiarisci perché vi è stato fraintendimento. Ma ti avverto. Uomo o dio, io so come respingerti, perciò non pensare di essere innanzi a una donna inerme e indifesa.”
Tyr nonostante tutto le sorrise e, nel lanciare un’occhiata alle due ragazze che affiancavano Avya, domandò: “Loro sono tue pupille?”
“Sono state salvate dalla follia di mio fratello per mano dei miei figli, esattamente come Fenrir ha salvato le donne nel villaggio ove tu lo trovasti l’altro ieri” gli fece notare Avya, vagamente piccata.
“E ora, i suoi figli si chiedono perché tu sia qui, figlio di Odino” borbottò alle loro spalle Hati, comparendo a sorpresa dietro Tyr.
Il dio si volse a mezzo, studiò l’alta figura del giovane semidio, i suoi occhi di pece, così come le onde corvine che gli scivolavano intorno al viso.
Sì, era davvero figlio di suo padre, ma assomigliava molto anche ad Avya. Nei suoi occhi brillava la stessa luce di giustizia.
Reclinando il capo in un cenno di saluto, Tyr asserì: “Cercavo tuo padre per scusarmi, e dirgli che nulla di quanto lui pensa è corretto. L’ho accusato ingiustamente, così come lui ha fatto con me, ma posso giurare dinanzi a ciò che voi vorrete, che non ho mai inteso fargli del male.”
Hati si accigliò maggiormente, a quelle parole, e replicò: “Perché, dunque, lo hai incolpato, se ora ti dichiari pentito? Cosa ti ha spinto a rivoltarti contro di lui?”
“L’inganno, ragazzo. L’inganno di un dio scaltro, per quel che mi è dato sapere” sospirò amaramente la divinità della guerra. “Non trovo altre spiegazioni per ciò che mi è successo.”
Il giovane semidio, allora, fissò ansioso la madre che, annuendo, dichiarò: “Loki si presentò da noi quella stessa mattina, cercando di irretire Fenrir con la lega polimetallica costruita dai nani su tuo consiglio.”
Tyr ne rimase così scioccato da dare l’ultima conferma necessaria ad Avya per scagionare il dio da ogni accusa.
Il suo potere le faceva comprendere chi mentisse, e chi no, ma era pur vero che, quando si aveva a che fare con gli dèi, tutto era possibile.
Con Loki, per esempio, non era stata in grado di percepire nulla, se non l’oscurità più totale, e quella non era stata di alcun aiuto.
Gli occhi di Tyr, però, così come la sua voce, o la sua espressione sconvolta, le avevano dato le risposte che cercava.
Non mentiva, sulla rete che aveva cercato di incatenare Fenrir.
“Loki… avrei dovuto immaginare che ci fosse il suo zampino…” borbottò contrariato Tyr, prima di irrigidirsi quando percepì una presenza a lui ben nota.
Volgendosi completamente verso Hati, che a sua volta levò il capo verso l’alto, vide comparire una nube dorata che, in uno scintillio, prese le forme di Fenrir.
Prima ancora di poter parlare, di potersi spiegare, Tyr venne aggredito dal dio-lupo, che lo fece crollare a terra sotto le sue zampe enormi.
Prese in mano le redini della situazione, Hati si affrettò a raggiungere la madre e le ragazze, spingendole in fretta in casa poi, con un fischio modulato, richiamò il fratello perché tornasse.
In quel mentre, Tyr scalciò con violenza contro lo stomaco del lupo, urlando: “Non sono qui per combattere, Fenrir, ma per scusarmi! Loki ci ha ingannati entrambi!”
Fenrir gli ringhiò contro, pur trattenendosi dal combattere e il dio biondo, nel rialzarsi da terra – sporco di erba e con la tunica squarciata – esalò: “Ci ha messi l’uno contro l’altro. Mi ha mentito perché mi mettessi contro di te, così come ha mentito a te sulla rete. Io non ho mai detto ai nani di farla in maniera che fosse una gabbia!”
“Perché lo avrebbe fatto?!” gli sputò contro con livore, le zanne ben evidenti sotto il sole.
“Per i motivi di sempre. Lasciarti solo, perché il tuo odio si coltivasse fino a esplodere. Sai cosa vuole da te!” gli rammentò Tyr, sbracciandosi per dare forza al suo dire.
“Avresti dovuto credermi, non urlarmi addosso quegli insulti gratuiti” sbottò il lupo, fissandolo ancora guardingo, ma non più in assetto da battaglia.
Dubbioso, Hati continuava a stare di guardia alla porta di casa, non sapendo bene se intervenire o lasciare che il padre se la sbrigasse da solo.
Nel mentre, Sköll sopraggiunse in forma di lupo e, nel vedere uno sconosciuto e il padre in forma animale, snudò le zanne e ringhiò: “Cosa vuoi dalla nostra famiglia?!”
Fenrir lo redarguì con il semplice sguardo, tranquillizzando solo in parte il figlio che, mettendosi al suo fianco, borbottò: “Chi è, padre?”
“Padre? E così, la bestiaccia ha avuto dei figli?”
I quattro uomini si volsero verso il limitare del bosco e lì, bello come il sole e ghignante come un beffardo messo divino, fece la sua comparsa Balder.
Accigliandosi, Tyr gli domandò: “Che ci fai tu qui?”
“Giungo a ringraziarti per avermi condotto dove io volevo… e con una sorpresina in più da portare a nostro padre, a quanto pare. Sarà lieto della felice novella…” sghignazzò Balder, fissandoli tutti con espressione tronfia.
Fenrir si volse a fissare rabbioso e deluso Tyr, che replicò: “Non l’ho condotto qui di mia volontà, devi…”
“Smetti di parlare, Tyr. Hai già fatto abbastanza danni, per quel che mi interessa.”
Rivolgendosi al fratello, il dio della guerra esclamò: “Tu non dirai nulla di quanto hai visto! E’ chiaro?! Non sta facendo nulla di male!”
“E da quando in qua a un dio della distruzione è permesso avere figli, Tyr? Sei forse impazzito!? Già la sua cara sorellina porta pestilenze e morte, tutte le volte che è di cattivo umore… pensa a cosa potrebbero fare questi due cuccioli del demonio, se si mettessero a dare man forte al padre…” lo irrise rabbioso Balder, fissando Fenrir e i figli con livore.
Sköll ringhiò indispettito al suo indirizzo, ma Fenrir gli si pose innanzi, protettivo.
Balder, allora, lo fissò vagamente sorpreso, e disse: “Oh… quindi puoi anche provare amore per le tue creature? Sorprendente.”
“Balder, smettila. Vattene da qui e lasciali in pace. Nostro padre non ha bisogno di sapere di loro” intervenne ancora Tyr, poggiando una mano sulla spalla del fratello.
Quest’ultimo lo scansò irritato, e replicò: “Lasciami in pace, fratellino. Questo è un tradimento bello e buono,… da parte tua come da parte sua. Perciò, lo condurrò al cospetto di Padre Tutto perché venga giudicato equamente.”
A quel punto, Fenrir scoppiò in un’aspra risata e ringhiò: “Equamente? E da quando mi trattate in modo equo, figlio di Odino? Mi avete sempre odiato, e non avete mai fatto nulla per nasconderlo! E ora tu giungi qui, con quella rete che, immagino, sia per contenere il mio potere, e dici che sarò giudicato equamente? Mi porterai in catene da tuo padre, ed è ben diverso che essere condotto a lui per parlare da pari a pari.”
“Questa serve solo per dimostrare a tutti che giungi in pace, lupo, non certo per denigrare il tuo spirito o il tuo lignaggio divino” replicò Balder, sollevando con ironia l’angolo della bocca.
“Posso farlo comunque, e camminando sulle mie gambe di uomo, così come sulle mie zampe di lupo” ribatté furioso Fenrir.
“Mi scuserai, se non mi fido di te!” esclamò allora il dio, lanciandogli contro Drómi senza attendere oltre.
Fenrir scansò Sköll con una spallata perché non ne rimanesse vittima e, mentre la rete traslucida cadeva su di lui, Tyr abbatté il fratello buttandoglisi contro a muso duro.
Tra i due dèi scattò immediata una colluttazione.
Fenrir, però, non prestò loro alcuna attenzione e, mentre Sköll mordeva le corde di Drómi per spezzarle, e Hati le tirava con tutta la sua forza, lui gridò: “Fatevi da parte, figli miei!”
Ciò detto, incanalò parte della sua aura sulle maglie metalliche che, letteralmente, presero fuoco, incenerendosi.
Con un ultimo pugno al volto, Tyr finalmente atterrò il fratello e, già sul punto di gioire nel vedere l’amico in libertà, si azzittì nello scorgere il lume dell’odio nei suoi occhi.
“Andatevene da qui, se non volete che io vi divori… o peggio. Non meritate che odio, da parte mia, solo e unicamente odio! Che la vostra stirpe sia dannata, visto che voi dannaste noi, a suo tempo!” li minacciò a zanne snudate, enorme e ammantato di un’energia turbinante davvero ineguagliabile.
Balder indietreggiò carponi, terrorizzato da quella visione mentre Tyr, combattuto tra il desiderio di spiegarsi e quello di lasciar sbollire Fenrir, afferrò suo fratello e mormorò: “Ce ne andiamo… ma tu trattieni la collera, amico mio…”
In un baluginio dorato, i due dèi si ritrovarono nei pressi del più vicino passaggio per Bifröst e, dopo aver attraversato le sue onde multicolori, si ritrovarono su Asghard.
A sorpresa, Balder si rivoltò furioso contro il fratello, ricambiando il pugno che aveva ricevuto in volto e, livido, gli ringhiò contro: “Perché l’hai difeso?! Era mio!”
“Non era affatto tuo, visto che anche il tuo tentativo di irretirlo è fallito” gli rinfacciò Tyr, rabbioso al pari suo. “E poi, dove diavolo hai trovato quella roba?”
Borbottando un’imprecazione nel passarsi il dorso della mano in corrispondenza del labbro spaccato, Balder ringhiò: “Quella puttana me la pagherà cara… mi aveva assicurato che avrebbe funzionato!”
Accigliandosi, Tyr lo afferrò a una spalla prima che si allontanasse senza avergli fornito adeguate spiegazioni.
“Parla! Chi te l’ha data!?” sibilò Tyr, sbattendolo contro una parete nelle vicinanze.
Balder imprecò per il dolore, lo insultò a più riprese ma, alla fine, ammise: “Me l’ha data quella puttana di Hel. Ecco chi.”
Sorpreso oltre ogni ragionevole dubbio, Tyr sobbalzò ed esalò: “Ma come… e perché mai avrebbe dovuto dartela? Non è certo una nostra sostenitrice, mi pare.”
A quel punto, Balder ebbe la decenza di arrossire, e Tyr preferì non sapere altro.
Quel che sapeva, era già sufficiente.
Ora che anche Balder era a conoscenza del segreto di Fenrir, non sarebbe stato zitto, e avrebbe raccontato ogni cosa a Odino.
Se solo fosse stato più accorto, e avesse coperto meglio le sue tracce, Balder non sarebbe mai stato in grado di vederlo su Midghard.
Invece, era stato così sciocco da non pensare che al suo orgoglio leso, e alla sua volontà di riparare un torto.
Così facendo, ne aveva creato un ben più grande, e senza volerlo.
Come avrebbe fatto a farsi perdonare da Fenrir, a quel punto?
***
Avanzando a grandi passi nella sala centrale del palazzo di Hel, Loki la trovò seduta sul suo trono, mentre accarezzava placida la pelliccia irsuta di Garmr.
Il cane della dea, nel vederlo sopraggiungere, uggiolò spaventato e, subito, Hel si rizzò elegante sul suo seggio, fissando il padre con espressione guardinga.
Lui, però, si presentò sorridente e soddisfatto, e fu questo a mettere in allarme la figlia.
Levandosi in piedi, si sistemò nervosa una ciocca dei neri capelli e, in un mormorio sommesso, domandò: “Cosa ti porta qui, padre?”
“Quali altri giochetti hai in serbo per me, figliola cara?” le chiese per contro, carezzandole la maschera sotto cui si trovava la parte in decomposizione del suo viso.
La magia, alla fine, era durata poco meno di un giorno. Sufficiente, comunque, per permetterle di ottenere tutto il seme di cui poteva aver bisogno per rimanere incinta.
Avrebbe ottenuto anche lei ciò che desiderava e, anche se Balder non fosse stato mai al suo fianco per crescere il loro figlio, poco le importava.
Non teneva affatto a lui, ma era stato piacevole averlo nel letto per un po’.
Il ghigno di Loki andò a sfiorare i suoi occhi d’ossidiana, mente mormorava mellifluo: “Ti è piaciuto farti sbattere dal quel fatuo damerino di Balder?”
Hel accusò il colpo e, indietreggiando di un passo, esalò sconvolta: “Come… cosa vuoi dire?”
Accarezzando l’aria con una mano con fare disinvolto, Loki le girò attorno al pari di una fiera con la preda e disse: “Dopo il tuo ultimo scherzetto, ho pensato di tenerti d’occhio, ma non pensavo che avresti dato la rete proprio a quel villano di Balder. E per cosa, poi? Per un dono che non potrai sfruttare?”
“Che intendi?” gli rinfacciò lei, adombrandosi.
Tornando serio, il padre dichiarò lapidario: “Non ti servirà a nulla esserti fatta montare da quel dio, figliola. Il tuo corpo potrà essergli apparso integro con la magia… ma non lo è, né mai lo sarà. Non potrai mai avere dei figli… o essere come tuo fratello.”
Hel gli urlò contro, aggredendolo con le mani chiuse ad artiglio per ferirlo, ma Loki si svicolò alla svelta dal suo attacco, ridendole in faccia.
Con un balzo, si allontanò da lei per starle a distanza di sicurezza e, nell’allontanarsi dalla figlia, le disse: “Siete patetici. Tuo fratello Fenrir vorrebbe essere un uomo qualunque, e sta fallendo miseramente nei suoi intenti. Tu vorresti essere una donna integra e piacevole, ma sai già che non potrai mai esserlo. Penso proprio che andrò a trovare Jörmungandr. Almeno, lui non si fa di questi problemi. Si accetta per quello che è.”
E, mentre le urla e gli insulti di Hel lo seguivano fino all’uscita del suo palazzo, Loki sogghignò soddisfatto e, in uno scintillio di tenebra, raggiunse Bifröst.
Ma non per andare dal figlio serpente, su Midghard, bensì per raggiungere Svartalfheimr e i nani.
Ora che aveva visto le due reti essere messe alla prova – per poi fallire – , aveva finalmente capito come fare per bloccare una volta per tutte Fenrir.
E, stavolta, si sarebbe rivolto al fratello.
Odino sarebbe stato ben felice di vederlo, per una volta.
Note: Pur con tutta la buona volontà di Tyr, la situazione è ulteriormente peggiorata e ora, non solo Balder è al corrente della verità su Fenrir, ma porta con sè anche le sue invettive più che oscure, cosa di cui Odino non sarà per niente felice.
Come purtroppo sappiamo già, la cosa non porterà a nulla di buono. Ormai siamo giunti alla fine di questa avventura, e scopriremo cosa è avvenuto a Fenrir, in quei tragici momenti.
A presto, e grazie per avermi seguita fin qui!
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Capitolo 19 *** Dove tutto ebbe inizio - (3500 a.C. circa) Fenrir - Parte 8 ***
Dove tutto ebbe inizio – Parte 8
Carezzando le piume morbide e scure di Muninn, Loki levò il capo non appena udì i passi cadenzati e potenti del fratello, Odino.
Frigga procedeva a pochi passi da lui, elegante come sempre e come sempre bellissima e imperiosa.
Nessuna dea avrebbe potuto essere degna del titolo di Signora degli dèi, se non lei, Loki di questo era più che consapevole.
La salutò perciò con garbo e, allontanandosi dal trono del fratello e dai suoi corvi, che erano appollaiati su un paio di trespoli in oro, dichiarò: “Giungo a te con una lieta novella e con un cruccio, fratello.”
“Né dell’una, né dell’altro voglio preoccuparmi ora, Loki” replicò ombroso Odino Occhiosolo, accomodandosi sul suo trono con fare naturale. “Debbo incontrarmi con mio figlio Balder, e non ho affatto bisogno che tu rimanga qui a origliare i nostri affari.”
Frigga rimase in silenzio di fronte a quell’aperto insulto e, con grazia, si accomodò sul basso scranno a latro del trono, sistemando delicatamente le eleganti vesti dorate.
Loki le lanciò uno sguardo dubbio, ma alla fine preferì parlare. Dopotutto, avere dalla propria parte una donna preoccupata, poteva essere utile.
“Ho il dubbio che la venuta di Balder coincida con la mia, fratello perciò, se me lo consentirai, chiederò a tuo figlio l’argomento di cui deve trattare con te e, se non sarà il medesimo, mi ritirerò in buon ordine. Diversamente, te ne parlerò con lui presente.”
Odino borbottò un assenso e, quando vide comparire l’alto e impetuoso figlio dai lunghi e biondi capelli, dichiarò a gran voce: “Ebbene, eccoti! Perché mi hai voluto convocare così di fretta?”
Balder lanciò un’occhiata tesa in direzione di Loki che però, mellifluo, disse: “Io e mio fratello siamo d’accordo, giovane nipote. Sei qui per Fenrir, vero?”
Assentendo senza però aprire bocca, il dio biondo squadrò supplichevole il padre, ma questi non gli permise di ottenere ciò che voleva, limitandosi a dire: “Parlerai dinanzi a lui, poiché voglio conoscere le opinioni di voi due al riguardo. Cos’ha combinato quel lupo irrispettoso?”
Ancora uno sguardo a Loki, poi Balder parlò.
“Fenrir si è accoppiato con una mortale, Padre, e ha avuto due figli. Da quel che ho potuto constatare su Midghard, esiste una cerchia di guerrieri sempre più nutrita che sparge odio e morte per le genti, con il chiaro intento di stanare la bestia e la sua progenie, oltre che la madre dei figli del dio-lupo. Vogliono ucciderli tutti, credendoli demoni” lo mise al corrente Balder, reclinando ossequioso il capo.
Aggrottando la fronte, Odino borbottò contrariato: “Non gli era permesso unirsi carnalmente per generare una prole! E questi disordini non mi piacciono affatto. Midghard è un luogo ancora giovane e fragile. Non ha bisogno di simili contenziosi.”
“Sono pienamente d’accordo con te, Padre, e quando mi sono recato da Fenrir per farlo ragionare – in barba al tentativo di Tyr di nascondermi questa verità scomoda – lui ha urlato contro di me e contro gli dèi tutti, ingiuriandoci a male parole ed esternando anche pesanti minacce.”
Ancora Loki rimase in silenzio e Balder, imbaldanzito da questa sua silente approvazione, proseguì nel racconto.
“I figli di Fenrir sono pericolosi come lui, combattivi per carattere e labili di autocontrollo. Uno di loro ha tentato di azzannarmi, quando ho tentato di far ragionare Fenrir e…”
“… e forse avresti dovuto aggiungere che, in precedenza, hai tentato di catturare suo padre con una rete costruita dai nani, che però si è rivelata inadatta” intervenne dal fondo del salone un’altra voce, che rimbalzò tra le pareti affrescate del palazzo.
Balder si volse rabbioso in direzione del fratello Tyr e, indicandolo con fare irato, esclamò: “Tu ci hai tenuto nascosto la verità sulla sua prole! Non hai diritto alcuno di parlare!”
“Fenrir non è né folle, né pericoloso come lo dipingi. Stava difendendo casa sua e la sua prole, quindi non ci vedo niente di strano” ribatté il fratello, raggiungendo infine il gruppo ai piedi del trono. “Padre, lasciami spiegare…”
Odino, però, levò una mano per azzittirlo e, furente, dichiarò: “Tu sapevi, e me l’hai taciuto. Mi hai fatto credere che i suoi movimenti erratici in giro per i mondi fossero solo una sua risposta alla noia, quando invece stava solo cercando di sviare la mia attenzione dalla sua famiglia!”
Tyr non poté ribattere a questo, essendo la pura verità.
Balder sogghignò, decidendo di rincarare la dose. “Li ha aiutati a nascondersi, e per questo dovreste punirlo, padre. Vi ha mentito su fatti gravissimi.”
Padre Tutto fulminò con lo sguardo Balder, replicando: “Tieni la tua gelosia fuori da questa discussione, figlio, o potrei decidere di punire te, perché stai cercando di incastrare tuo fratello.”
Rimessolo al suo posto, Odino poi si rivolve a Loki, chiedendogli: “Tu ne sapevi nulla?”
“Ne sono giunto a conoscenza anch’io pochi giorni addietro e, proprio per questo, mi sono recato dai nani per capire come fossero state create le reti che hanno usato per tentare di frenarne la pazzia.”
Tyr si infuriò immediatamente, di fronte a quelle parole cariche di spregio, ma Odino lo azzittì nuovamente con un gesto della mano.
Al fratello, quindi, chiese: “Che intendi dire con… reti? Ne è stata utilizzata più di una?”
“Ebbene sì, fratello. Mia figlia ha cercato di contenerne l’irritabilità, quando ha scoperto che Fenrir era irrimediabilmente impazzito” mormorò contrito Loki, reclinando penitente il capo. “Si è lasciata tradire dalla gravidanza della compagna di Fenrir… come donna, non se l’è sentita di abbandonarla, così li ha accolti presso la sua reggia per tutti questi anni, permettendo ai cuccioli di crescere ma, quando si è resa conto del vero carattere del fratello, ha tentato di fermarlo.”
Odino aggrottò la fronte, accigliato quanto dubbioso, e replicò: “Hel non è mai stata famosa per il suo altruismo, lo sai…”
“Sì, ma di fronte a una gravidanza, ha ceduto anche lei.” Poi, rivoltosi a Balder, sogghignò e aggiunse: “Tu sai bene perché ti ha donato Drómi per catturare Fenrir, vero?”
“Che cosa?!” sbottò Odino, rivolgendosi al figlio. “Ti sei appoggiato a Hel, per ottenere un’arma contro Fenrir?”
“E’ stata lei a cercarmi, chiedendomi di portare giustizia in nome suo! Come ha detto Loki, è stata tradita da suo fratello… avrei dovuto voltarmi, non intervenire? E’ pur sempre una donna, no?” protestò Balder, lanciando un’occhiata significativa alla madre.
Odino preferì non indagare oltre sull’argomento, essendo presente la moglie e, nel rivolgersi nuovamente a Loki, domandò: “Quindi, tuo figlio ha fatto terra bruciata attorno a sé?”
“A quanto pare, non del tutto, visto che tuo figlio Tyr è ancora dell’idea di difenderlo, nonostante sia evidente che Fenrir stia impazzendo.”
Tyr ringhiò irritato, replicando furioso: “Non sta affatto impazzendo! Vuole solo proteggere la sua famiglia e, quanto a Balder e alle sue affermazioni, bisognerebbe sottolineare perché Hel gli abbia dato quella maledetta rete! C’era ben altro, dietro al bisogno di proteggere una donna.”
Balder lo fissò malissimo, ma Odino soprassedette e disse soltanto: “Non mi interessa conoscere il motivo per cui Hel gli abbia donato quella rete. Se tuo fratello dice di essere stato aggredito, a me tanto basta. Questo, unito alle ingiurie contro noi tutti, è sufficiente per spingermi a richiamarlo qui per decidere di lui e della sua famiglia… che mai avrebbe dovuto avere.”
“Padre, vi prego! E’ follia trattarlo come un reietto, quando non ha fatto nulla di male! Lasciate che vi parli apertamente a quattr’occhi, e vedrete da solo quanto sia cambiato” protestò con veemenza Tyr. “Siete saggio a sufficienza per sapere che, ciò che viene riportato da occhi altrui, non sempre corrisponde a verità, poiché l’occhio e la mente di chi guarda, sono condizionati dai pregiudizi.”
Ciò detto, guardò Balder e aggiunse: “Non metto in dubbio la buona fede di mio fratello, ma i suoi pregiudizi. Per questo, ti chiedo di poter condurre qui io stesso Fenrir, perché possa parlare liberamente con te, a cuor leggero.”
Prima ancora che Odino potesse parlare, Loki asserì: “Credo che Tyr abbia ragione, fratello. Io stesso, che sono suo padre, nutro sospetti verso di lui a prescindere, e può darsi che questa volta sbagli. Lasciamo che Tyr lo conduca qui, e ti parli direttamente, senza interposta persona.”
Balder fece per protestare, ma lo zio gli batté una mano sulla spalla, mormorando: “Se avrai ragione tu, lo incateneremo ma, se ha ragione Tyr, sarà stato meglio per tutti aver affrontato il problema senza pregiudizi.”
“E sia… chiama Fenrir e convocalo qui. Non toccherò la sua famiglia, né a lui verrà imposta alcuna catena, qui a palazzo” dichiarò Odino, congedando Tyr.
Quando questi se ne fu andato, Loki sorrise divertito e sottolineò: “Qui a palazzo? Come mai questo accenno così speciale?”
Odino sogghignò all’indirizzo del fratello, replicando: “Non solo tu sai usare il cervello, fratello.”
***
Appollaiato su una scogliera a picco sul mare, la stessa su cui aveva condotto Avya tanti anni addietro, Fenrir si volse a mezzo, quando percepì la presenza di Tyr.
Una nuvoletta dorata si ricompose dinanzi a lui, mostrandogli le sembianze del dio che, chiaramente stanco e con i segni di una lunga deprivazione da sonno, mormorò: “Eccoti, finalmente.”
“Cosa, di quanto ho detto la volta scorsa, non ti era chiaro? Non voglio più vedere nessuno di voi” borbottò Fenrir, tornando a scrutare il mare.
Quella mattina era uscito molto presto, senza svegliare Avya, e aveva corso per lungo tempo tra colline e prati, tentando invano di ritrovare la calma.
Il tradimento di Tyr lo aveva ferito più di quanto avesse immaginato in un primo momento, e il suo goffo tentativo di scusarsi aveva solo peggiorato le cose.
Come poteva, in tutta onestà, tornare a fidarsi di lui, dopo che aveva permesso a Balder di scoprire il loro segreto?
E ora giungeva lì, pieno di contrizione e speranza, desiderando cosa? Che tutto tornasse come prima? Che lui dimenticasse le sue parole di fiele?
Tutto ciò era impossibile, e glielo disse.
Tyr, però, scosse il capo e replicò: “Mio padre, così come molti altri, sono convinti che le tue parole ingiuriose siano più di semplici minacce a vuoto, e vogliono replicare al tuo dire con qualcosa di molto peggio di una semplice pacca sulle mani. Odino, però, è disposto ad ascoltarti di persona, poiché sa che le cose riportate, a volte, posso essere foriere di menzogna. Ti sta dando una possibilità, Fenrir. Usala!”
“E perché mai dovrei fidarmi? Già due volte si è tentato di ingannarmi. Salire fino al palazzo di Odino vorrebbe lasciare Midghard, raggiungere Asghard e stare lontano da Avya e dai miei figli, che potrebbero essere così attaccati in qualsiasi momento” gli rinfacciò Fenrir, levandosi in piedi per meglio affrontarlo.
“Non succederà niente di tutto questo. Me ne faccio personale carico” gli promise Tyr, allungandogli una mano. “Per favore. Fai capire a mio padre quanto ami Avya e i ragazzi. Capirà. Anche lui è padre, e non potrà negare l’evidenza dei fatti.”
Fenrir squadrò quella mano, che tante volte aveva stretto nel corso dei secoli, dopo i loro allenamenti estenuanti quanto gratificanti e, in un ultimo barlume di speranza, la strinse, mormorando: “Te la strapperò, se mi avrai detto una bugia.”
“E io lascerò che tu lo faccia… ma ugualmente proteggerò la tua famiglia” gli promise Tyr.
Fenrir si volse allora verso il bosco, indeciso se tornare o meno da Avya per metterla al corrente di quell’incontro ma, all’ultimo momento, lasciò perdere.
Avrebbe impiegato poco a parlare con Odino, dopodiché sarebbe tornato a casa da lei.
Avviatosi perciò con Tyr, si smaterializzò per raggiungere Bifröst e, da lì, raggiungere Asghard e il palazzo di Odino che, ormai, non rivedeva da millenni.
***
Avya si svegliò di soprassalto nel suo letto e, con la mano, cercò a tentoni la figura di Fenrir, non trovandola.
Preoccupandosi immediatamente, raccolse i suoi abiti per vestirsi e uscire per cercarlo ma, una volta raggiunta la stanza principale della casa, si fermò di botto.
Sul tavolo, si trovavano alcuni fiori di campo immersi in una ciotola di legno e, sotto di essa, un foglietto.
Avya lo prese per leggerlo e, sorridendo appena, mormorò: “Esco per un po’… ho bisogno di correre. Tornerò più tardi. Ti amo.”
La donna si strinse il biglietto al petto, accentuando il suo sorriso, ma il disagio che l’aveva svegliata non mutò, né scemò.
Qualcosa non andava.
***
Camminando a passo spedito lungo i corridoi di palazzo, le guardie ben distanti e nessuno a intralciare il loro passaggio, Fenrir lanciò un’occhiata a Tyr e borbottò: “A quanto pare, tuo padre ha mantenuto la parola.”
“Come ti avevo detto” assentì Tyr, indicandogli di prendere la via dei piani superiori.
Inerpicandosi lungo l’enorme e luminosa scalinata, interamente ricoperta d’oro e gemme preziose, Fenrir continuò comunque a guardarsi intorno, guardingo.
Nessun lupo si sarebbe mai lasciato andare al lassismo e, lo volesse o meno, lui era nato come lupo.
Il suo essere uomo era solo una seconda forma, non il suo Io più vero.
“Da questa parte” mormorò Tyr, avviandosi lungo un corridoio, dove si trovavano un paio di valchirie in armi.
Queste, però, li degnarono solo di una debole occhiata, rimanendo di guardia dinanzi alle rispettive porte, dietro cui si trovavano gli Archivi Reali.
Ancora, Fenrir le scrutò attento, prima di cancellarle dalla sua lista di potenziali pericoli.
Qualcosa non quadrava, ma non sapeva esattamente cosa. Eppure, Tyr sembrava così fiducioso e tranquillo…
Non appena misero piede nella sala del trono, però, gli istinti di Fenrir scattarono subito, non trovando nessuno, e anche Tyr parve piuttosto perplesso.
Quando, poi, videro comparire un valletto in livrea, la tensione crebbe.
Non che costui avrebbe potuto essere in qualche modo minaccioso, ma poteva portare più danno che utile, in una situazione simile.
Con un inchino formale, il giovane osservò la coppia con totale compostezza e disse: “Padre Tutto vi attende nella sala a fianco, che conduce ai suoi giardini privati. Ha pensato che fosse luogo più piacevole in cui colloquiare. Prego, seguitemi.”
“Giardini… privati?” esalò Fenrir, confuso e sorpreso.
Tyr, però, replicò: “Oltre quelle porte, c’è un passaggio di Bifröst che sua solo mio padre, e conduce su un’isola di Midghard che a lui piace molto. Ci sono stato un paio di volte e, effettivamente, merita. Il paesaggio è splendido.”
Accigliandosi leggermente, Fenrir borbottò contrariato: “Perché farci venire ad Asghard, quando poteva direttamente convocarci là?”
“Può averlo deciso sul momento, Fenrir. Non pensare vi sia necessariamente del marcio” cercò di tranquillizzarlo Tyr, dandogli una pacca sulla spalla.
“Temo gli asgardiani anche quando recano doni1” brontolò il dio-lupo, pur seguendolo.
Il paggio aprì per loro la sontuosa porta ad arco oltre la quale si nascondeva il passaggio di Bifröst e, dopo averli lasciati passare, la richiuse, dando la doppia mandata.
In un baluginio multicolore, i due dèi infine apparvero sull’isola Lyngvi, luogo in cui Odino era solito trastullarsi nei momenti di quiete e lì, poggiato contro una roccia adunca, videro Padre Tutto.
Fenrir si fece ancor più guardingo, ma avanzò verso il dio che, nello scorgerli, si allontanò dalla pietra – al cui fianco ne sorgeva una gemella – e dichiarò: “Ebbene, sei giunto, lupo. Pensavo di vederti nella tua forma primigenia, ma mi sbagliavo.”
“Amo camminare su due zampe, ogni tanto” replicò serafico Fenrir, sul chi vive.
“Mi sono giunte voci secondo cui avresti trasgredito le regole, e ti saresti accoppiato con una umana. E’ dunque vero?” gli domandò a bruciapelo il padre degli dèi, giocherellando con un corvino nastro di seta.
“Non mi sono accoppiato. La donna che amo non merita di essere scambiata per una comune femmina, cui voi ritenete debba servire a un solo e unico scopo” ribatté il dio-lupo, aggrottando la fronte.
Odino lo fissò vagamente sorpreso, ma proseguì nel suo dire.
“Ed è per cagion sua che, non solo hai attaccato mio figlio Balder, ma hai anche minacciato di morte noi tutti?”
“Ha cercato di separarmi da lei con l’inganno, ingiuriando poi a male parole i miei figli. Stavo difendendo semplicemente la mia famiglia” protestò Fenrir, accalorandosi.
Odino levò una mano a chetarlo, e replicò: “Famiglia che non avresti dovuto avere. Ma capisco. Il dovere di un padre è quello di difendere la prole.”
Tyr tirò un sospiro di sollievo che, però, si rivelò prematuro.
Padre Tutto, infatti, asserì lapidario: “Non posso però soprassedere alle minacce, poiché un dio della distruzione che ingiuria un’intera casta di dèi, è assai pericoloso. Sei dunque disposto a sottoporti a una prova di fiducia, per dimostrare che simili parole erano menzognere, e solo dettate dal bisogno di proteggere i tuoi cari?”
Fenrir lanciò un’occhiata torva all’amico, che però appariva del tutto sconcertato dalle parole del padre. Tyr, dunque, era all’oscuro di tutto.
Oppure, era diventato un attore di prim’ordine.
“E’ solo per dimostrare la tua buona fede. Una volta che avrai terminato la prova, sarai libero di andare dalla tua famiglia, e io non avrò più alcun motivo di dubitare di te” lo blandì Odino, sorridendo. “La tua donna e i tuoi figli, Fenrir… pensa a loro. Cosa vuoi che sia, cedere per un breve attimo, in cambio della loro salvezza?”
“Cosa vorresti che facessi, dunque?” dichiarò a quel punto Fenrir, cedendo suo malgrado.
“Muta in lupo, e lascia che io ti leghi. Sarai un bravo cagnolino nella mia mano, così come avrebbe dovuto essere fin dall’inizio. Tu dimostrerai di essermi fedele, e io ti dimostrerò la mia lealtà, slegandoti e dandoti la possibilità di correre libero” gli propose Odino, mostrandogli il nastro di seta con cui lo avrebbe legato.
“Padre, per favore…” tentennò Tyr.
“Silenzio. E’ anche colpa tua, se siamo arrivati a questo punto. Se tu mi avessi detto di Fenrir e di questa donna che ha saputo domarlo, forse avremmo potuto evitare questa prova di fiducia e, anzi, sarei stato lieto di conoscerla di persona, per congratularmi con lei” brontolò Odino, azzittendolo.
“Ebbene, fallo, e che si chiuda per sempre questo affare” sbottò Fenrir, avvolgendosi un polso con il nastro di seta, prima di mutare in lupo.
Odino prese l’altra estremità e legò anche l’altra zampa anteriore poi, trascinando con sé il lupo, lo legò alle due pietre adunche da cui si era allontanato poco prima.
Tyr li seguì e, quando Fenrir fu legato strettamente, allungò una mano verso le sue fauci, dichiarando: “A te la scelta, padre. Se non lo lascerai, permetterò a Fenrir di tranciarmi una mano, a pegno del tuo tradimento. Cosa deciderai di fare?”
Odino lo guardò sconcertato, ma assentì e il dio della guerra, senza alcuna remora, infilò il braccio tra le zanne aperte dell’amico, che lo fissò sempre più ombroso.
Fu in quel momento che fecero la loro comparsa Loki e Balder, avanzando lungo la spiaggia con espressioni ugualmente soddisfatte.
Al fianco, Loki portava un’enorme spada.
Vedendoli, Fenrir iniziò a strattonare per liberarsi ma, a sorpresa, la sottile corda setosa non si spezzò.
Questo lo portò a provare ancora e ancora, mentre Tyr iniziava a comprendere la portata del tradimento del padre, oltre alla sua stoltezza, nata dall’amore verso Odino.
Quando Balder e Loki li raggiunsero, entrambi risero soddisfatti e Odino, irridendo con lo sguardo Fenrir, dichiarò: “Davvero pensavi che ti avremmo permesso di tornare dalla tua puttana e dai tuoi figli bastardi? Allora, sei più ingenuo di quanto pensassi. Già ora, gli uomini di Fryc li stanno raggiungendo per ucciderli tutti, così da eliminare una volta per tutta la tua stirpe dalla faccia di Midghard.”
A quell’accenno, Fenrir fissò Tyr, lanciò un ringhio poderoso e strappò con forza la sua mano, gridando poi con ferocia: “Sei un mostro, ben più di quanto lo sia mai stato io! Loro non hanno alcuna colpa! Punisci me e trattieni me per l’eternità, se vuoi, ma non uccidere loro, che hanno avuto la sola colpa di amare me!”
Trattenendosi al petto il braccio monco, Tyr fissò rabbioso il padre e sibilò: “Non meriti di essere chiamato Padre… nessun padre con una coscienza avrebbe permesso questo…”
Odino non lo ascoltò, né ebbe il coraggio di guardarlo e Loki, intervenendo per chiudere la partita, disse al figlio: “Avrei dovuto eliminarti alla nascita, così come mi fu consigliato, ma rimedierò ora, visto che hai ferito il figlio di Odino. Soffrirai come sta soffrendo lui!”
Ciò detto, estrasse la spada e infilzò le fauci con un gran fendente, impedendogli di fatto di parlare.
Sangue nero scorse dalla ferita aperta, macchiando la spiaggia e il suo pelo niveo che, ben presto, iniziò a macchiarsi, prendendo tinte corvine.
Soddisfatto, Odino scoppiò in una risata tronfia, cui si unì anche Balder, mentre Tyr li fissava inorridito quanto disgustato.
Loki, invece, si piegò sul corpo prostrato del figlio e, all’orecchio, gli bisbigliò: “Avya morirà, i tuoi figli moriranno… vuoi davvero lasciare in vita un mondo ove loro non vivono più? Compi la scelta. Lasciati andare all’oscurità che hai dentro…”
“Hai agito così solo per questo?” gli domandò mentalmente Fenrir, stupito e angustiato.
“Per raggiungere i miei scopi, non conosco vie di mezzo e se, per farlo, devo uccidere coloro che ami, ben venga. E ora che l’ho fatto, tu non hai più niente per cui vivere…”
Fenrir crollò del tutto a terra, il corpo infiacchito dalla ferita e l’energia ormai pronta a esplodere in un fulgore di luce senza pari.
Questo, però, non sarebbe avvenuto. Se anche Loki era riuscito nel suo intento di ingannarlo, lui sapeva che Avya era viva.
Il suo stesso sangue glielo diceva, perciò doveva fare in modo che le cose non cambiassero.
Con lo sguardo cercò Tyr e, in un disperato appello alla loro antica amicizia, esalò: “Se ciò che dicesti prima è vero, proteggili. Salvali da tuo padre e dal mio!”
“Lo farò… e, se potrai mai farlo, perdonami. Credevo veramente che, portandoti qui, avremmo risolto ogni cosa.”
“Sei buono, Tyr. Una cosa che, nel mondo degli dèi, è una rarità. Così come la fiducia che riponi nel prossimo. Ti sei fidato di tuo padre, del legame che c’è tra voi, e lui ti ha tradito. Tu mi hai tradito senza saperlo e, per questo, io non posso avercela con te. Sei stato mosso dalle migliori intenzioni… ora, però, vattene, e salva Avya.”
“E tu? E… e il Ragnarök?”
“Se io morirò in piena coscienza, non si desterà. E io avrò vinto su mio padre.”
Ciò detto, si ritirò dalla sua mente e in un ultimo, disperato atto di coraggio, usò la sua stessa forza contro di esso.
Torcendo il muso, conficcò la spada del padre nel suo cuore, così da procurarsi una morte rapida e quasi priva di dolore.
In quel modo, il Ragnarök sarebbe stato scongiurato e la vita di Avya e dei suoi figli, preservata.
“Mia… amata…”
***
Brianna artigliò l’aria, sgranando di colpo gli occhi e urlando con quanto fiato avesse in gola.
Subito, Duncan la afferrò alle spalle, tentando di calmarla, ma quel contatto lo fece affondare nei ricordi condivisi dell’amata e di Fenrir, facendolo tremare da capo a piedi.
Brianna, svegliati!
L’urlo interiore di Fenrir contribuì a strappare Brianna da quel ricordo drammatico e, pur se in lacrime e spaventata a morte, riuscì a esalare: “Okay… okay… ci sono…”
Duncan la strinse forte a sé, baciandole una tempia e il collo per tentare di chetarne i brividi e la giovane, con un sospiro tremulo, esalò: “Questa è la madre di tutti gli incubi… Dio santo…”
Scusami. Ho perso completamente il controllo sul mio subconscio…
“O sono io ad averti sopraffatto. Sai che, in questo periodo, non sono molto in me…” replicò Brianna, sorridendo nell’oscurità a Duncan, prima di passarsi una mano sul ventre arrotondato.
Dici che è stato il bambino?
“Non tanto il bambino in sé, anche se dimostrerebbe soltanto di avere la stessa curiosità della madre, ma l’energia in più che mi da” sottolineò la giovane, tornando a distendersi, ma contro l’ampio torace del marito.
“Tutto bene, lì dentro? Si è spaventata anche Avya” mormorò Duncan, carezzandole gentilmente il ventre.
“Lo immagino… ha visto?” borbottò Brianna, suo malgrado contrariata all’idea che l’anima di Duncan avesse visto la fine del compagno.
Annuendo, Duncan asserì: “Fino all’ultimo fotogramma, temo…”
Non essere angustiata per me, Brianna. Sapevo che la sua fine era stata tremenda e, pur se ne avevo solo sentito parlare per interposta persona da Tyr, non mi ero immaginata niente di meno drammatico, intervenne Avya per chetare i timori della giovane wicca.
“A ogni modo, scusate se vi ho svegliato” brontolò Brianna, chiudendo un momento gli occhi.
Chissà perché la sua mente era finita proprio lì?
Perché hai la tendenza a diventare paranoica, quando si tratta di tuo figlio. Quando sarà nato, cosa farai? Ridurrai in cenere il primo che alzerà un dito verso di lui?, ironizzò Fenrir, pur se non più di tanto.
“Molto spiritoso… devo ricordarti che è anche grazie a te, che ho il terrore di scoprire chi dimorerà dentro di lui?”
Madre ti ha già detto che non potrà rinascere Loki e, in tutta onestà, non penso proprio che Balder deciderà mai di mettere piede qui. Non ha mai amato gli umani, perciò…
“Giusto, giusto… ma hai una marea di nemici, vecchio mio, e il mio cuore fatica a stare tranquillo.”
Duncan intervenne dandole un bacio e, sorridendo nello stringerla maggiormente a sé, le disse: “Avya sa già chi è dentro di te, se vuoi saperlo… e non è nessuno di particolare. Un’anima tranquilla e per nulla divina.”
“E perché lei può già saperlo?!” esalò Brianna, sgranando gli occhi.
Perché io non ho chiesto favori a Madre, durante le mie rinascite, ma ne chiesi uno quando seppi del tuo bambino. E, visto che siamo in buoni rapporti…
Con occhi colmi di lacrime, Brianna baciò Duncan sulla bocca, mormorando commossa: “Da parte mia, Avya… grazie.”
Che succede?, intervenne a quel punto Fenrir, curioso.
“Avya mi ha fatto un regalo… ha pregato Madre di scegliere un’anima semplice, per il mio bambino. E Lei lo ha fatto.”
Fenrir rise sommessamente, a quell’accenno, e sussurrò: E’ sempre stata sensibile… anche se assai testarda.
“Mi ricorda qualcuno…” ironizzò Brianna.
Posso concordare sulla seconda, ma assai meno sulla prima.
“Solo un essere dotato di sensibilità e amore avrebbe potuto sacrificarsi come hai fatto tu per loro – e per noi – perciò, scusami se dissento.”
Sei incinta… puoi fare, e dire, ciò che vuoi.
“Troppo gentile” rise mentalmente Brianna, sospirando nel chiudere gli occhi.
“Riposiamo un po’? Mancano ancora diverse ore, all’alba” le propose Duncan.
“Ti sveglierai con una paresi, se mi terrai così tutta la notte” sottolineò Brianna, pur apprezzando la posizione.
“Non importa” scrollò le ampie spalle Duncan, baciandole il capo. “Terrò te e Nathan al sicuro dagli incubi, ora.”
Sorpresa, Brianna si volse a mezzo per scrutarlo e domandò: “Nathan?”
“Nathan McKalister. Ti va bene?”
“Benissimo” assentì Brianna. “Niente secondi e terzi nomi. Solo Nathan.”
“Andata” mormorò Duncan, intrecciando una mano in quella di Brianna prima di poggiarla sul ventre. “Buonanotte, Nathan… e non curiosare nella testa di mamma. Non è ancora il momento.”
“Veeerissimo” mugugnò la giovane, chiudendo gli occhi prima di lanciarsi in un prolungato sbadiglio.
La prossima volta avrebbe evitato di mangiare piccante per cena, se i risultati erano questi.
Note: Su consiglio di tina91, ho tramutato la storia di Fenrir e Avya in un sogno/visione da parte di Brianna che, alla fine, si risveglia nel momento della morte di Fenrir. Ci saranno altri momenti e altre storie, ove analizzeremo ciò che fece in seguito Tyr, come vissero Avya e i suoi figli e quando Fryc riuscì a ottenere la vendetta su sua sorella. Ma non è questo il giorno (Aragorn dixit)
1 Temo gli asgardiani anche quando recano doni: L'originale è 'timeo danaos et donas ferentes' e significa 'temo i greci anche quando portano doni'. Mi era parso carino usare la citazione e trasformarla ad arte per l'occasione. ;-)
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Capitolo 20 *** Toc Toc. C'è nessuno? - (Brie/Duncan) - Luglio 2016 ***
Toc, toc? C’è nessuno?
Un momento di gioia ci prende sempre di sorpresa. Non siamo noi ad afferrarlo, ma è lui ad afferrare noi.
(Ashley Montagu)
Cosa c’era di meglio, se non starsene spaparanzati al sole, un libro in mano e il profumo dei fiori a solleticare il naso?
Aveva terminato il suo praticantato a Londra, l’ospedale di Matlock aveva accettato di darle un posto in immunologia e sarebbe diventata borsista lì assieme a Mandy.
Duncan aveva deciso di passare tutto il mese di giugno assieme a loro, a Londra, aiutandole con i preparativi per il trasloco definitivo.
Lance e Jerome, nel frattempo, si erano occupati di trovare alla comune amica un appartamento in città, così che non vi fossero problemi a cose ultimate.
Niente era andato storto, i lupi avevano dato una mano con il trasloco di scatoloni e mobili e, per l’inizio di luglio, lei era potuta partire con Duncan per una breve vacanza.
Starsene lì a godersi il sole toscano, mentre Duncan era impegnato in un giro a cavallo per le colline, non aveva prezzo.
Brianna aveva preferito declinare l’invito, quella mattina.
Si era svegliata con lo stomaco sottosopra, così aveva deciso di starsene a lato della piscina dell’agriturismo dove soggiornavano, ma aveva pregato Duncan di uscire lo stesso.
Nel giro di qualche ora, quella costipazione sarebbe passata e, il giorno seguente, sarebbe uscita anche lei per un giro lungo i sentieri della Maremma.
Ammesso e non concesso che i cavalli l’accettassero. Essere un lupo, a volte, dava qualche problema di incomprensione tra razze.
Scostando un momento gli occhi dal libro che stava leggendo – l’ultima fatica di Dan Brown, Inferno – Brianna lanciò un’occhiata alle mura di sassi dell’agriturismo.
Quel luogo immerso nelle verdi colline del grossetano era parso loro un sogno, quando lo avevamo trovato su internet.
Senza attendere, avevano prenotato uno degli appartamenti e, quando era giunto il momento di partire, Brianna e Duncan si erano guardati divertiti.
Era forse la prima volta in assoluto che facevano un viaggio vero e proprio, e da soli.
Tra gli impegni all’università, prima, e durante il tirocinio, dopo, il tempo non era mai sembrato essere dalla loro parte.
Inoltre, gli impegni di Duncan come Fenrir non erano certo diminuiti, col tempo, pur se non si erano più presentate emergenze come in passato.
Jerome dava una mano come poteva – e, negli ultimi anni, era assai maturato – ma alcune cose toccavano solo e unicamente a Duncan.
Giungere in Toscana senza branco al seguito – dopo previa segnalazione al clan locale – era stata un’autentica novità, per la coppia.
E Brianna aveva intenzione di godersela tutta.
Sorridendo al mondo, a se stessa e a quella bellissima giornata, tornò perciò a leggere quando, di colpo, qualcosa le fece rizzare metaforicamente le orecchie.
Un attimo dopo, dovette mollare il libro sulla sdraio e catapultarsi di corsa verso la porta del loro appartamento.
Dopo averla quasi abbattuta per la fretta, si lanciò in bagno e lì, piegatasi in avanti sul water, diede di stomaco.
O, per lo meno, ci provò.
Tutto quello che riuscì a fare, fu farsi venire un gran male alla gola, a causa delle contrazioni addominali, ma poco altro.
Quando il dolore si fu placato, e il panico prese il posto del male, Brianna mormorò dentro di sé: “Fenrir? Ci sei?”
Dove vuoi che sia?
“Non è che per caso, tu, sai dirmi che succede?”
Ti sembro un medico?
“Voglio solo sapere se qualcosa, nella mia biologia assurda, è per caso andato in tilt” borbottò contrariata Brianna, intrecciando le gambe sul pavimento bianco del bagno.
Era seduta lì come una pazza, con i capelli in disordine e la pelle sicuramente pallida, e non sapeva che fare.
Prima di chiamare mentalmente Duncan, però, voleva essere sicura di non essersi spaventata per una cattiva digestione.
Non hai una biologia assurda, Brianna, anche se sei sia wicca che lupa. Sei un caso raro, ma non unico come pensi. Se chiedi alla quercia di Bryan, per esempio, ti dirà che nel 1458 d.C. successe anche nel loro clan.
“E tu sai questo, come?”
Quando sei nel ventre della Madre, hai un sacco di tempo per startene per i fatti tuoi, e alcuni luoghi di Helheimr sono più belli di altri, a dirla tutta. Non è solo un luogo triste e isolato.
“Sì, lo so, mi hai detto che è come avere davanti i Campi Elisi e l’Inferno. C’è una distinzione tra i morti buoni e quelli cattivi. Ma questo cosa c’entra con me?”
Con te, nulla. Con me, molto. Da diverse polle divinatorie, si possono visionare le vite dei viventi sui vari mondi. Così, ho scoperto anche molte cose sui miei figli… e i loro discendenti.
“Oh,… okay. Ci sta. Quindi, non sono unica, ma rara. E anche all’altra tipa del 1458 venivano attacchi di nausea come a me?” brontolò Brie, grattandosi dietro la nuca con fare nervoso.
Indulgente, Fenrir replicò: Non gliel’ho mai chiesto, onestamente ma, se vuoi, sbircerò a fondo dentro di te… con il tuo permesso.
“Sai che puoi farlo… coraggio, dai una sbirciata.”
Fenrir rise nell’allontanarsi da lei per quel consulto interno davvero più unico che raro e, non potendo far altro se non aspettare, Brianna si rialzò in piedi e si sedette meglio.
I minuti passarono silenti, senza che la sua anima divina le dicesse alcunché, e questo non portò certo la Prima Lupa a tranquillizzarsi.
Perché ci metteva tanto? Cosa aveva scoperto che non voleva dirle?
“Maledizione!” sbottò Brianna, agitando nervosamente le mani per farsi aria al volto.
Non voluto e non cercato, però, il suo potere degenerò in una piccola folata di vento, che mandò a terra il dispenser del sapone e il bicchiere con gli spazzolini da denti.
Bloccandosi immediatamente, la giovane fece tanto d’occhi di fronte a quel piccolo disastro e, dubbiosa, se ne chiese i motivi.
Era in una stanza, da sola, fuori c’era il sole ed erano nel periodo del novilunio.
Ergo, per fare un caos simile avrebbe dovuto concentrarsi parecchio, non semplicemente dare di matto perché Fenrir non le parlava.
“Che diavolo mi sta succedendo?” ansò Brianna, afferrandosi i capelli con fare sempre più nervoso.
Brianna…
La giovane si esibì in uno strillo ben poco edificante e, per diretta conseguenza, lo specchio in bagno esplose, mandandola ancor più nel panico.
Brianna, ascoltami!, le urlò Fenrir, cercando di elevarsi al di sopra del suo stato di shock.
“Eh? Oh? Cosa!? Dimmi?!” gracchiò, riuscendo finalmente a sentirlo.
Siediti e respira. Non c’è bisogno che abbatti l’agriturismo per una tua crisi di nervi, va bene?, le mormorò comprensivo, cercando di chetarla.
“Cos’hai visto, di così brutto, che mi parli come parliamo noi ai pazienti quando dobbiamo dire loro che hanno pochi giorni di vita?” esalò Brianna, tornando ad agitarsi.
Questo fatto mi spiazza sempre… Brianna, continua a respirare e chiudi gli occhi. Concentrati solo sulla mia voce e ficcati in testa che non hai niente di grave.
“Ma qualcosa c’è” protestò, pur facendo come Fenrir le aveva detto.
Penso sia qualcosa di bello, visto per quanto tempo tu e Duncan ne avete parlato. Ho dovuto isolarmi più del solito, ultimamente, visti i filmini a luci rosse che mettevate in scena tutte le notti.
Il tono ironico e vagamente ghignante di Fenrir portò Brianna a riaprire gli occhi e, vagamente piccata, replicò: “Cosa dovrei dire di te che, quando prendo il raffreddore, ti lasci andare a tutta una serie di ricordi su te e Avya?”
Non è colpa mia… è la febbre che inibisce i miei centri del controllo.
“Lasciamo perdere… dimmi qual è il guaio, così posso risolverlo prima dell’arrivo di Duncan. Ho un’infiammazione di tipo… intimo?”
Fenrir scoppiò in una risata così allegra e vivace che, per un istante, Brianna desiderò ucciderlo. Come poteva prendersi gioco di lei a quel modo?
L’attimo dopo, però, rifletté su un altro particolare. Non poteva uccidere Fenrir dato che, di fatto, lui era uno spirito dentro di lei.
Uccidere lui – se mai fosse stato possibile uccidere uno spirito – avrebbe voluto dire uccidere lei. Cioè, niente affatto un bell’affare.
Cercando quindi di calmarsi, nonostante il perdurare della risata di Fenrir, Brianna borbottò: “Puoi rimanere serio per almeno un minuto?”
Avya non mi ha mai accusato di essere troppo faceto…
“Lo immagino, visti i tuoi trascorsi di burbero dio-lupo, ma ora un minimo di serietà mi farebbe comodo. Cos’hai visto, posso saperlo?”
Mettiti… no, sei già seduta, quindi non devo dirtelo. Andiamo diritti al punto, allora.
Sbracciandosi con aria esasperata, Brie esalò: “Alla buon’ora!”
Non essere scortese, Brianna… anche se immagino non dipenda interamente da te.
“Che intendi dire?” sbottò la giovane, stringendo le mani a pugno.
Se solo avesse potuto strangolarlo…
Sei incinta.
Brie strabuzzò gli occhi, nell’udire quelle due semplici parole e, aggrappandosi ai bordi del water per non cadere, gracchiò: “Cos’hai… detto?”
Sei sorda? E’ una prerogativa delle donne gravide? Non ne so molto, visto che Avya non era solita lamentarsi di nulla, durante la gravidanza, ma può essere che…
“Stai. Zitto!” gli urlò Brianna, tentando così di arginare quel fiume ininterrotto di parole.
Stava tremando. Di brutto, anche.
Stringendosi le braccia al petto, guardò verso il basso senza vedere nulla di strano, e sentendosi comunque più strana che mai.
Brianna…
“Cosa faccio?” tentennò, sentendo le lacrime ormai prossime.
Madre le aveva promesso che né Loki, né nessun dio loro ostile avrebbe potuto rinascere in uno dei licantropi, così come dei berserkir.
Ma poteva davvero fidarsi? Il Caos ci aveva messo le sue lunghe zampacce, forse?
Avrebbe finito con il crescere una serpe in seno?
Brianna, respira… stai andando in tachicardia.
Quel gergo medico la sorprese così tanto che Brie scoppiò in una grassa, sgangherata risata.
Le lacrime presero a correrle lungo le gote e, sorda ai richiami preoccupati di Fenrir, uscì dal bagno e si gettò sul letto per piangere.
Fu lì che la trovò Duncan, tornato in tutta fretta dal suo giro a cavallo dopo che, per quasi un’ora, era stato subissato dai più nefasti presagi di morte.
Vedere stesa sul letto la sua amata, in lacrime ma apparentemente senza nulla che andasse, lo mandò nel pallone.
Quando, poi, tentò di parlarle, ne ottenne solo dei mugugni, e nient’altro.
“Fenrir? Ci sei?”
Se non si calma, farà esplodere qualcosa. La sua aura è al limite della rottura.
Annuendo, Duncan si sedette sul letto e attirò a sé Brianna, cullandola dolcemente contro il suo petto.
Baciandole ogni tanto i capelli, la tenne così per qualche minuto, finché il pianto non scomparve del tutto.
A quel punto, vedendola apparentemente più calma, mormorò: “Posso sapere cos’è successo?”
“Perché sei già tornato?” gli chiese per contro lei, confusa.
“Mi hai riempito la testa di scene così terrificanti, che mi sono chiesto cosa stesse succedendo” le fece notare con un sorriso. “Neanche sapevo fossi in grado di raggiungermi a così grande distanza.”
“Beh… a quanto pare, ora posso” sospirò Brianna, reclinando il capo per affondarlo nel suo torace.
“In che senso?” si informò Duncan, dubbioso.
“Sono incinta” mormorò, e una singola lacrima scivolò lungo la gota.
Duncan fece per sorriderle gaio, lieto per quella notizia inaspettata ma, nel vederla così nervosa e tesa, comprese.
Senza bisogno di domandarglielo, capì subito cosa l’avesse tanto turbata.
Perciò, la strinse a sé e disse: “Madre ci ha detto che non avremo problemi. Nessun nemico nascerà in seno ai clan. Non temere.”
“E se… e se non succedesse? Se partorissi il male incarnato?” esalò Brianna, facendosi prendere nuovamente dal panico.
Duncan la azzittì con un bacio, le sorrise e replicò: “Non succederà niente di tutto questo. Mi fido di Madre, perciò fallo anche tu. Nostro figlio sarà perfetto, anima e corpo.”
Allargando ancor più il sorriso, le prese il viso tra le mani e aggiunse: “Brie, pensa solo a questo. Avremo un figlio. Non ne sei felice?”
Brie, allora, accennò un sorriso sghembo e borbottò: “Ho dato di matto per nulla, quindi?”
“Eri sorpresa e spaventata. Ci sta, visto chi siamo e cosa sappiamo” si limitò a dire Duncan, facendo spallucce. “Ora va meglio, però?”
“Un poco” assentì lei. “Fenrir?”
Dimmi.
“Scusa se ti ho urlato addosso, prima. Non dovevo farlo. Tu stavi solo cercando di aiutarmi.”
Brianna… quando ho saputo che Avya stava aspettando un figlio – che poi abbiamo scoperto essere due gemelli – ho quasi distrutto il suo villaggio e, se fossi stato più lungimirante, avrei staccato la testa a morsi a suo fratello. Non fui molto più controllato di te adesso, ti pare?
“Vero… ma volevo comunque scusarmi con te.”
Non ci sono problemi. Ora, però, vedi di scegliere letture più tranquille. Pensare a complotti internazionali, a virus patogeni e quant’altro, non va bene.
“Lavoro in un ospedale, Fenrir.”
E’ quando ti lasci andare alla fantasia, che mi spaventi, Brianna. Sul lavoro, hai i piedi per terra.
Sbuffando, Brianna borbottò: “Fenrir mi ha vietato libri thriller e simili.”
“Se non te l’avesse detto lui, l’avrei fatto io. Quando ti perdi in qualche lettura, mi…”
“… spaventi… l’ho già sentita, grazie” terminò per lui Brianna, fissandolo vagamente torva.
Poi, volendo approfondire un attimo la cosa, domandò: “Perché ti spavento, scusa?”
“Fai incubi terrificanti, dopo e, anche se poi tu non li ricordi, al mattino, li ricordo io. Perciò, ora che diventerai più potente a ogni giorno che passa, solo romanzi rosa o comici, così come per i film.”
Brianna sbuffò nuovamente e se ne uscì con un ben poco elegante ‘che palle!’, seguito dalla risata di Duncan e quella mentale di Fenrir.
Avya, a quel punto, intervenne e disse: Ti aiuterò io, Brianna. Non temere. Insieme, almeno una giusta la combineremo.
“Grazie, Avya.”
Non c’è di che, cara. Ora, però, fai una bella cosa. Torna a prendere un po’ di sole e rilassati. E niente letture!
“Come!? Anche tu?!” esalò Brie, sconcertata.
Ci sono anch’io, nella testa di Duncan, e quegli incubi mi terrorizzano davvero, le fece notare la wicca, con tono vagamente ironico.
Esasperata, Brianna si rimise in piedi e, allungata una mano in direzione di Duncan, decretò sardonica: “Siete tutti spietati, con me.”
“Ti amiamo. E’ ben diverso” le ricordò lui, baciandola nell’accompagnarla fuori.
“Avete un modo davvero strano, per dimostrarmelo” gli fece notare la moglie, ghignando.
Duncan preferì non ribattere e, quando infine raggiunsero la piscina, Brianna si risistemò sulla sdraio, mise via il libro – ahi, lei! – e si dedicò a prendere il sole.
Avrebbe guardato il finale su Wikipedia, se la curiosità avesse preso il sopravvento.
Dopotutto, le avevano vietato i libri e i film… non il computer.
Brianna…
“Impiccione.”
Sono nella tua testa, non sono un impiccione.
“Uffa…ma voglio sapere come finisce!”
Fallo leggere a Mary B e poi fattelo raccontare… edulcorato.
“Cosa vuoi mai che succeda? Dan Brown non lascia mica cadaveri squartati avanti e indietro!”
Stiamo nei primi danni, per favore.
“E va bene!” sbottò Brianna, lanciando poi un ghigno furbo a Duncan, che aveva seguito l’intera discussione. “Fai il bagno, coraggio. Almeno, mi distrarrò guardando te.”
“Mi usi da placebo?”
“Ti userò in tutti i modi possibili e immaginabili, signor McKalister, puoi giurarci” replicò Brianna, famelica.
Duncan non si lasciò pregare. Tornò in camera per mettersi il costume da bagno e, quando tornò, si tuffò in piscina sotto lo sguardo eccitato della moglie.
Ora, sarà meglio se sparisco. Sai essere molto volgare, quando vuoi, specialmente quando c’è di mezzo Duncan.
“Sono una donna incinta, ho gli ormoni a palla e desidero darmi alla pazza gioia con mio marito, visto che presto diventeremo genitori. Conosci combinazione più letale?” ironizzò Brie, concentrandosi sui movimenti sinuosi delle spalle di Duncan.
Ah… no. Perciò, ciao. Mi rintano nel mio angolino. Ci vediamo più tardi.
“A dopo” rise Brianna, lasciando che i suoi occhi – e la sua mente – studiassero solo e unicamente Duncan.
Dopotutto, poteva anche fare a meno del libro, se le veniva offerto questo in cambio.
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Note: Saranno altri i missing moment sulla gravidanza di Brie, e non vedremo solo lei nel panico, ma anche Duncan. Per ora, però, godiamoci il momento, in attesa che mi venga in mente altro su loro due.
Alla prossima, e grazie come sempre per la passione con cui continuate a seguire le storie dei miei personaggi.
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Capitolo 21 *** Una ne pensa... (William - Hati di Bradford) Giugno 2011 ***
I giochi dei bambini non sono giochi, e bisogna considerarli come le loro azioni più serie.
(Michel De Montaigne)
Una ne pensa... (William, Hati di Bradford) Giugno 2011
Due cose aveva sempre saputo, fin da quando aveva scoperto di essere l’Hati del branco di Bradford.
Primo, il suo scopo ultimo sarebbe sempre stato quello di proteggere Alec da qualsiasi nemico.
Secondo, niente e nessuno si sarebbe mai più permesso di fare del male al suo migliore amico.
Ricordava ancora molto bene quando, all’età di sedici anni, il suo mentore e maestro, il precedente Hati del branco, gli aveva posto le mani sulle spalle, mormorando: “Ora tocca a te. Fai meglio di quanto non abbia potuto – e saputo – fare io.”
Aveva capito subito - e benissimo - a cosa si fosse riferito.
In quanto terzo in comando, Oliver Fitzhugh non aveva mai potuto mettere in discussione le decisioni di Roland Dawson, suo Fenrir.
Né sulla direzione violenta e spietata del branco, né tanto meno sul comportamento tenuto negli anni nei confronti di Irina e dei figli. Legittimi o meno che fossero.
Era stato un inferno in terra, per i due sottoposti, esattamente come lo era stato per la maggioranza dei lupi di quel branco.
Alcuni, se n’erano andati per non subire ulteriormente le follie di Roland ma lui, in spregio alla vita stessa, li aveva fatti braccare da Freki, utilizzando la Voce del Comando.
Nessuno aveva più osato sfuggire al suo giogo e, quando finalmente Alec gli aveva dato il ben servito, ad alcuno era venuto in mente di piangere Roland e i suoi metodi.
Solo quattordicenne, Alec aveva giurato fedeltà al branco all’ombra della loro quercia, nel Vigrond e, pur con la sua giovane età, aveva chiarito a tutti la sua forza.
Nessuno avrebbe fatto del male a un membro più debole del branco, a meno di non voler subire punizioni severissime.
La legge sarebbe stata seguita alla lettera, e nessuno avrebbe dovuto infrangerla.
Con il senno di poi, forse, quelle decisioni così ferree e oltranziste erano state eccessive e, in più di un’occasione, avevano causato più danno che utile.
Ma come dar torto a un ragazzo vissuto per anni negli abusi?
Come pretendere che non cercasse la giustizia a tutti i costi, quando aveva visto la sua sorellastra morire per mano del padre?
Come accettare che qualcun altro, sotto il suo dominio, soffrisse per dei soprusi come aveva sofferto lui?
No, William aveva capito perfettamente le motivazioni che avevano spinto Alec a comportarsi a quel modo.
Ovviamente, nulla è esente da difetti e, con il passare del tempo, quello stato di polizia continuato e intransigente, aveva portato altri problemi.
Sia Alec, che lui stesso, o Spike, avevano finito con il godere in larga parte di una buona dose di reverenziale timore, da parte dei membri del branco.
E, fosse o meno piacevole da accettare, ci avevano anche fatto dentro, a un certo punto.
Era stato difficile essere adolescenti e avere il potere nelle proprie mani; avevano finito, almeno in parte, per farsi corrompere da esso.
Non si erano mai comportati da bulli, ma mettere giù musi duri e sguardi gelidi, era diventato uno sport, per loro.
Nel branco, si era passati dalla paura nei confronti di Roland, al timore reverenziale nei confronti di Alec.
Quello che era partito con tutte le migliori intenzioni del mondo, era diventato un programma fin troppo duro e rigido da seguire.
Anche per Alec stesso che, nel tentativo strenuo di difendere la sorella, aveva finito con l’allontanarla da sé.
Pretendere di darla in moglie a Duncan McKalister, così da diventare la compagna di un lupo forte e di potere, era stata un’idiozia con cui Alec aveva dovuto fare i conti per anni.
E quello, purtroppo, non era stato l’unico difetto sorto nel personale piano di Alec di rendere più pulito il suo clan.
Aveva espulso dei lupi per motivi, a volte, fin troppo assurdi, e solo perché, a detta sua, non rientravano nel suo personale concetto di ‘giustizia’.
Ma lui e Spike l’avevano lasciato fare, spalleggiandolo e, spesse volte, mostrando i denti per sottolineare le parole del loro Fenrir.
Anche quando aveva sbagliato.
Perché, per un amico, fai questo e altro.
Sospirando, William si passò una mano sporca di grasso sulla fronte, lasciando una distinta riga nera sopra le sopracciglia chiarissime.
Di discendenza norvegese – sua madre proveniva da Tromsø – William era il tipico scandinavo; alto, capelli chiarissimi e occhi glaciali.
Il taglio corto e militare dei capelli ne accentuava la serietà, così come la sua quasi totale mancanza di sorrisi a ingentilire un viso, di per sé, molto attraente.
“Ciao! Che fai?”
Quella voce trillante e curiosa lo sorprese, portando William a volgere lo sguardo dietro di sé.
Si era così perso nei propri pensieri da non avvertire l’arrivo di Penny. Davvero notevole, e manchevole, per un lupo come lui.
Storcendo la bella bocca, William borbottò: “Tuo padre mi scartavetrerà la schiena, ragazzina, se ti becca a gironzolarmi intorno mentre ho le mani ficcate dentro un motore. Potresti farti male, oltre a sporcarti di grasso e olio.”
Del tutto indifferente alle sue parole crude, così come al suo tono burrascoso, Penny aprì la portiera della jeep su cui stava lavorando William e replicò: “Papà è uscito con mamma, e saranno di ritorno solo questa sera, mentre la nonna è fuori con le sue amiche. Così, ho chiesto che mi portassero qui.”
Accigliandosi leggermente, William borbottò: “E Alec te l’ha permesso? Di solito, non vuole neanche che tu cammini da sola sul marciapiede.”
Penny rise di quel commento, sapendo bene quanto il patrigno fosse iperprotettivo, con lei.
Naturalmente, non arrivava a tanto, ma William si divertiva a prenderlo candidamente in giro per quel cambiamento di rotta in stile ‘mamma chioccia’.
Neppure Erin arrivava agli estremismi di Alec, quanto a difesa della sua pargoletta.
Come era ovvio immaginarsi, Alec rispondeva sempre con un grugnito o, alla peggio, con un pugno, ma a William non dava fastidio.
Gli piaceva vedere il suo Fenrir felice, e sapeva bene che era tutto merito delle due donne giunte dall’Irlanda.
“Quindi, Alec ed Erin sono fuori per un’uscita romantica, e Irina ti ha bellamente abbandonata per stare con le amiche…” mormorò William, ghignando. “… e a chi vorresti darla a bere, ranocchietta?”
Penny lo fissò con i suoi angelici occhi azzurri, ma Will non si fece fregare neppure per un istante.
Si passò le mani sullo straccio che teneva nella tasca posteriore dei jeans e, dopo aver chiuso il cofano della jeep, le si piantò innanzi e borbottò: “Cos’hai in mente, piccolo demonio? Non mi fido affatto di quello sguardo.”
“Perché dovrei tramare qualcosa?” replicò la bimba, facendo dondolare le gambe fuori dalla portiera aperta.
“Perché Alec non ti avrebbe mai lasciato qui, e così pure Irina, se tu non lo avessi espressamente chiesto. Perciò, voglio sapere cosa ti sta ribollendo in quella bella testolina. Vuoi fare un giro in moto, forse?”
Pur apprezzando la possibilità di bissare l’esperienza, Penny lasciò perdere per restare fedele al suo piano e, con tono causale, disse: “Per la verità, volevo fare una sorpresa a papà Aleksej e regalargli qualcosa, ma non so bene dove andare.”
“E così, hai pensato di rivolgerti a me? Perché non a Spike?” le domandò per contro William, non ancora del tutto convinto del suo dire.
Penny si limitò a sorridere speranzosa, prima di ammettere: “Spike è più scontroso di te e papà messi assieme,… quando avete la luna storta. So che mi proteggerebbe come lui, o te, ma mi fa un po’ paura, … scusa.”
Scoppiando a ridere, William ammise che la faccia arcigna di Spike non dava l’idea di un lupo propenso al riso, e anche il suo carattere non era migliore della sua espressione.
Se Alec era cresciuto con un carattere spigoloso per necessità, Spike ci era nato, con quel modo di fare da ‘schiaffi in faccia’.
Era uno Sköll ligio ai propri doveri, e aveva ‘spaccato culi’ non meno di lui o Alec, quando la necessità lo aveva imposto, ma Spike raramente sorrideva.
Non era quello che si soleva dire ‘un animale da festa’.
“D’accordo, ranocchietta. A cosa avevi pensato?” si lasciò convincere William, rinunciando del tutto all’idea di finire i lavori sulla jeep.
Dopotutto, era sabato pomeriggio, e l’officina era chiusa.
Alec non si sarebbe di certo incavolato, se avesse lasciato per lunedì mattina quel lavoro di pulitura del carburatore.
Non era un affare urgente, e qui si parlava di Penny, dopotutto.
Quando era giunta nel branco, e Alec aveva presentato al Vigrond sia lei che la notizia che, ben presto, sarebbe giunta una nuova lupa nel clan, tutti erano rimasti sorpresi.
Alcuni anziani alfa si erano addirittura arrischiati a fare gli scongiuri, e Alec non aveva potuto far altro che borbottare delle stentate scuse, prima di incavolarsi come suo solito.
A quel punto, Penny si era fatta portavoce del futuro papà e aveva ringraziato tutti per il loro bel benvenuto, conquistando il branco con il suo solo sorriso.
L’arrivo di Erin non era stato differente. Nessuna lupa aveva preteso l’Ordalia e, anzi, alcune l’avevano abbracciata, ringraziandola per il ‘miracolo avvenuto’.
Erin, a quel punto, aveva fissato con palese ironia il compagno, dichiarandosi soddisfatta di essere riuscita a domare una simile belva.
Da quel momento, Alec aveva guidato con pugno un po’ meno duro, e c’era chi giurava di averlo visto ridere per ben due volte in uno stesso giorno.
Un’autentica novità per tutti.
Naturalmente, vigeva ancora la regola ferrea che le leggi andavano rispettate con esemplare attenzione, ma ora si poteva respirare più agevolmente.
Anche lui, come Hati, poteva dirsi soddisfatto all’idea di non dover sempre e solo apparire come un burbero mannaro dall’arrabbiatura facile.
Non che non gli venisse bene, perché doveva ammettere che la mosca al naso gli veniva con poco, ma era bello poter essere anche qualcos’altro.
Tirandosi perciò dietro Penny, William chiuse il portone dell’officina di proprietà di Alec e si diresse verso il suo pick-up nero a cerchioni cromati.
Il suo GMC Sierra brillava come uno specchio e, quando sbloccò le portiere, Penny vi salì sopra con un sospiro estasiato.
Ghignando a quella vista, William si disse che, entro qualche anno, Erin avrebbe avuto i suoi seri problemi a tenerla fuori dai guai.
O dalle auto grosse e veloci.
Allacciatasi che ebbe la cintura, Penny mormorò eccitata: “Dopo mi porti in giro per i campi?”
Scoppiando a ridere, William assentì e le disse: “Ti farò fare una scampagnata con i controfiocchi, ranocchietta.”
Al suo ‘e vai!’ eccitato, Will mise in moto e si diresse verso il centro di Bradford, ben deciso a condurla nel negozio preferito di Alec.
Se c’era una cosa che entusiasmava quel mannaro dal carattere burbero e irascibile, e che nessuno si aspettava da lui, erano i dischi di Johnny Cash.
Era un estimatore sopraffino di quel cantautore americano, ed esistevano ben poche cose che lui non conoscesse riguardo all’artista.
William era quasi sicuro che, frugando nel magazzino del negozio di dischi dove si riforniva Alec, qualcosa avrebbero trovato.
E se la paghetta di Penny non fosse bastata, avrebbe aggiunto lui il resto.
***
Lo Stereophonic era affollato come al solito.
In sottofondo, le evoluzioni sonore dei Pink Floyd nel brano ‘Is there anyboby outhere?’ si confondevano con il cicaleggio sommesso della gente.
Persone di tutti i generi e tutte le età si affollavano attorno agli scaffali pieni di vinili, cd e oggettistica di pregio.
Nell’angolo dedicato agli strumenti, alcuni ragazzi dall’aspetto sdrucito stavano testando delle Fender con tocco da veri esperti.
E là, al bancone, impegnata nel registrare una vendita in cassa, William vide Lorainne.
Era una lupa da almeno sei anni – mutata in licantropo per amore, e poi tradita da colui per cui si era sacrificata – e gestiva quel negozio da quattro.
Alec aveva pensato personalmente a punire il lupo fedifrago, reo non solo di aver tradito la sua donna, ma di averla spinta alla mutazione per poi ingannarla.
Aveva inviato in caccia il loro vecchio Freki – ucciso poi da Brianna Smithson durante un contenzioso interno – finché non lo aveva scovato dopo la sua fuga precipitosa.
Lorainne aveva lasciato che, a decidere della sua sorte, pensasse Alec, e lui si era premurato di lasciare un segno indelebile sul corpo del traditore.
Per quanto ne sapeva William, a quest’ora Paul si trovava nel Galles come lupo errante, claudicante a vita a causa del tendine d’Achille reciso da Alec con le zanne.
Per un lupo, equivaleva a una condanna a vita a non correre più per i boschi.
Avrebbe potuto essere preda di un licantropo più forte, se questo avesse deciso di abbatterlo.
Alec aveva ritenuto sufficiente questo tipo di punizione, e a Lorainne era andata bene così.
E ora lavorava lì, nel negozio che un tempo era stato dei genitori, e che ora lei aveva riconvertito.
Da semplice rivendita di strumenti, ora quel luogo toccava ogni corda legata al mondo della musica.
Ed era davvero un bel locale, non ci si poteva sbagliare su questo.
William la salutò con un cenno del capo, nell’entrare, ma Penny fu di tutt’altro avviso, e corse verso il bancone tutta sorridente.
Non potendo fare altro – quando Penny era senza i genitori, chi la accompagnava doveva starle incollato come un francobollo – Will la seguì.
Quel giorno, Lorainne profumava di rosa.
William sapeva per certo non trattarsi di un profumo industriale – diversamente, avrebbe avvertito anche i sottoprodotti chimici di cui era composto.
Molte lupe, a causa dei sensi sopraffini, erano solite acquistare prodotti naturali con cui creare essenze prive di misture chimiche, che davano noia all’apparato olfattivo.
Questo, era particolarmente buono all’olfatto.
“Ciao, Lory! Siamo passati per prendere un regalo a papà!” esclamò Penny, poggiando le mani sul bancone di marmo verde.
“Ciao, Penny… oh, per Alec? Non devo neanche chiedertelo, vero?” esordì la donna, dandole un buffetto sul naso.
Penny scosse il capo e Lorainne, sorridendo timida a William, mormorò: “Oggi tocca a te farle da scorta?”
“Mi ha incastrato” scosse le spalle l’uomo, ghignando all’indirizzo della bambina, che sorrise angelica.
“Il reparto di Johnny Cash è da quella parte” indicò loro Lorainne, guardandosi intorno per sincerarsi che nessuno avesse bisogno di lei. “Se avete bisogno di me, sono qui.”
“Non puoi venire con noi ora?” si lagnò Penny, afferrandole una mano con aria affranta.
“Ranocchietta, Lorainne sta lavorando. Lasciala in pace” brontolò William, tirandole scherzoso un ciuffo di capelli.
Penny lo fissò arcigna, replicando: “Sei un guastafeste, zio Will.”
Il licantropo rise sommessamente, a quell’affermazione. Penny era solita chiamare ‘zio’ sia lui che Spike, anche se quest’ultimo storceva il naso tutte le volte.
Spike non sarebbe mai stato capace di rilassarsi, specialmente in compagnia di una bambina, ma nessuno – forse neppure Alec – avrebbe potuto difenderla meglio.
Se Spike ti prendeva sotto la sua ala, non c’erano santi o demoni che reggessero il confronto con lui.
“Un paio di minuti, poi torno al bancone, okay?” propose Lorainne, avvolgendo le spalle di Penny con un braccio.
“Non occorre, Lorainne. E’ già abbastanza viziata così… figurarsi se poi la accontentiamo su tutto” sospirò William, scuotendo il capo.
“Lo dirò a papà, che mi hai dato della bambina viziata” motteggiò Penny, sorridendo sarcastica.
William storse la bocca, e borbottò: “Traditrice. Non si fa la spia.”
Lorainne rise di quello scambio di battute e, quando infine raggiunsero il reparto, disse: “Bene, Penny, curiosa fin che vuoi e poi dimmi se qualche titolo è rimasto fuori dalla collezione di Alec.”
“Agli ordini!” esclamò la bimba, cominciando la sua ricerca dall’angolo più lontano del reparto.
Sollevando un sopracciglio con evidente ironia, William lanciò un’occhiata di straforo a Lorainne e pensò: “Che piccola streghetta!”
A che gioco stava giocando, Penny?
Lorainne rimase al fianco di William per un paio di minuti senza parlare, lo sguardo fisso su Penny e le braccia strette sotto i seni.
Se Will non fosse stato un licantropo, non si sarebbe accorto del nervosismo della donna, ma l’aura di un lupo era una gran brutta bestia…
“Cosa succede, Lorainne?” mormorò a un certo punto William, infilando le mani nelle tasche posteriori dei jeans.
Intorno a loro, le tonalità calde e profonde di Adele incendiavano l’aria.
Non era particolarmente amante del genere, ma sapeva riconoscere una bella voce, quando la sentiva.
E Will non faticava ad ammettere che Adele era una brava cantante, anche se gli faceva venire il latte alle ginocchia, con quelle canzoni sdolcinate e lacrimevoli.
Lorainne all’improvviso sorrise e, lanciando un’occhiata al color del fumo di Londra a William, mormorò: “Forse dovrei cambiare brano…ma nella trucklist c’è anche qualcosa per le tue corde, non temere.”
“Pensavo così forte?” esalò lui, ghignando.
Lei scosse il capo, e si massaggiò con casualità il braccio.
“Oh” mormorò allora William, comprendendo. Anche la sua, di aura, era una bestia che, spesso e volentieri, faceva quello che voleva.
“Credo lo faccia per me” asserì di punto in bianco Lorainne, sorprendendo William.
“Cosa intendi dire?” volle sapere l’uomo.
Indicando Penny con il capo, Lorainne mormorò: “Quella pettegola di Anne le ha raccontato la mia storia, così Penelope si è messa in testa che deve assolutamente trovarmi un lupo in grado di farmi felice, oltre che di proteggermi dai cattivi.”
“Cosa?” gracchiò William, accigliandosi.
Lorainne sorrise divertita, e fece spallucce.
William rimase perplesso per un minuto buono prima di collegare tutti i punti, metterli assieme alla dichiarazione di Lorainne e… arrossire.
Il sorriso della donna aumentò e l’Hati, borbottando un’imprecazione, esalò: “Mi ha portato qui per… per…”
“Penny lo sta facendo da mesi. Porta qui con l’inganno un sacco di lupi, nella speranza che scatti la scintilla. E’ adorabile, se vogliamo, ma può anche essere imbarazzante” gli spiegò Lorainne, tornando a guardare la bambina.
Era così meticolosa nello studiare i vinili, che ci si dimenticava alla svelta del suo scopo secondario.
Sarebbe diventata una manipolatrice di prim’ordine, da adulta, a tutto vantaggio del branco.
Forse, se il Fato lo avesse concesso, persino una Fenrir. Chi poteva saperlo?
Tossicchiando nel massaggiarsi nervoso la nuca, William borbottò: “E io cosa dovrei fare, a questo punto?”
“Nulla, direi. A meno che tu non voglia uscire con me, sabato sera” replicò Lorainne, trovando dannatamente divertente – e molto dolce – il fatto che William fosse tanto impacciato e imbarazzato da quella situazione.
Era grande e grosso, avrebbe potuto sfondare a pugni le pareti, aveva protetto Alec e il branco con ferocia e giustizia… eppure si imbarazzava a causa dei giochi di una bimba.
Sì, era adorabile.
William si irrigidì ancora di più, a quella proposta e, fissando arcigno Penny, ringhiò: “Ora la strangolo, quella ranocchietta perfida e manipolatrice. E al diavolo se poi Alec mi ammazza…”
Lorainne rise per diretta conseguenza e Penny, nell’udire quel suono, si volse con un disco in mano, sorrise elettrizzata e tornò di corsa, esclamando: “Eccolo! E’ questo!”
***
Fermo innanzi al cancello del cottage di Alec, dove si trovava già Irina – di ritorno dal suo incontro con le amiche – William fissò burbero Penny e mormorò: “Non devi impicciarti degli affari di cuore di Lorainne, anche se so che lo fai per il suo bene.”
“Oh… te l’ha detto, eh?” mugugnò lei, mettendo il broncio.
Ecco un’altra cosa che non sapeva come affrontare.
I bronci.
Lo mettevano a disagio, non sapeva cosa dire per farli svanire e, più ancora, gli mettevano addosso una gran voglia di correre via a gambe levate.
“Capisco che tu sia in ansia per lei, ma è una donna grande e vaccinata. Non ha bisogno di aiuto, se vuole trovarsi un uomo. O magari, ha cambiato idea e preferisce stare con un’altra donna. Ci hai mai pensato?” le spiegò William con tutta la gentilezza che gli riuscì di trovare.
Alec gliel’avrebbe pagata cara. Ma perché doveva essere lui a spiegare a Penny certe cose?!
“Oh… dici che, dopo quello che le ha fatto Paul, ora odia i maschi?” gli domandò con ingenuità Penny, fissandolo con gli enormi e candidi occhi azzurri.
Alec, preparati a fare a botte… non meriti altro, dopo questo, pensò tra sé William, imponendosi di stare calmo.
“Non posso saperlo, Penny, ma sono decisioni che Lorainne, o chiunque al suo posto, deve prendere in piena libertà. Imporle la compagnia altrui non è salutare, né molto carino.”
Penny si fece ancora più triste, a quelle parole e William, non avendo altri metodi per risolvere la cosa, aprì le braccia e disse: “Su, vieni qui, ranocchietta.”
Lei lo accontentò immediatamente e si rannicchiò contro di lui, sospirando affranta.
“Non volevo fare male a nessuno” mormorò dispiaciuta la bambina, mentre la mano grande e forte di William le carezzava i capelli.
“E nessuno lo pensa, credimi. Ma sono cose private. Lascia che sia Lorainne, eventualmente, a chiederti aiuto.”
“Pensi lo farebbe?”
“E’ una donna intelligente, come lo sei tu. Non ho alcun dubbio che, se avesse bisogno di te, te lo farebbe sapere.”
“Anche se sono una bambina?”
“Una bambina con molta iniziativa personale e grande inventiva, a quanto pare” sottolineò lui, facendola ridere.
“Ma a te piace Lorainne?”
William scoppiò a ridere e, nello scostarla da sé, l’uomo la fissò serioso, replicando: “Penny… ora basta.”
“Scusa” mormorò lei, facendo una pernacchia prima di scendere dal pick-up e correre verso casa con il regalo per il suo papà stretto tra le braccia.
William attese di vederla entrare nella casa illuminata prima di afferrare il cellulare, digitare un messaggino e infine ripartire.
Ok x sabato sera. Ci vediamo al Sir Titus Salt alle 7
Probabilmente, Penny lo avrebbe preso in giro a vita, dopo la reprimenda di prima, ma non poteva certo rifiutare l’invito di una bella donna, no?
Sarebbe stato da maleducati.
E da idioti, soprattutto.
Note: Un altro sguardo al clan di Alec ed Erin, e alla loro figlioletta Penny che, a quanto pare, è davvero l'idolo di tutti... e ne combina di tutti i colori!
Visto che in molte mi avevate chiesto di esplorare maggiormente i personaggi nuovi inseriti con queste OS, ho pensato di dare spazio a William, stavolta.
Se qualcuna di voi ha da offrirmi suggerimenti o idee, sono tutta orecchie!
A presto, e grazie!
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Capitolo 22 *** Una sola via da percorrere, mille decisioni da prendere (Gordon/Erika) Settembre 2015 ***
Una sola via da percorrere, mille decisioni da prendere
(settembre 2015)
Dobbiamo abituarci all’idea che ai più importanti bivi della nostra vita non c’è segnaletica.
(Ernest Hemingway)
“Sai perché sei in punizione, Gordon?”
“No, papà. Perché?”
Un sorriso, e Nick Spencer scompigliò i capelli neri del figlio undicenne, il cui occhio pesto faceva a pugni con il suo viso d’angelo.
“Capisco che tu abbia voluto difendere la tua amica Susan, ma colpire a tradimento un altro ragazzo, non fa di te un eroe. Ti pone sullo stesso livello di Bastian.”
Gordon mise il broncio, già pronto a difendersi, ma Elizabeth McKenna, sua madre, aggiunse: “Non avresti dovuto aggredirlo alle spalle. E’ scorretto.”
“Ma è più grosso di me!” sbottò Gordon, accendendosi d’ira e vergogna. “Voi dite sempre che non dobbiamo limitarci a porgere l’altra guancia, ma dobbiamo anche difenderla. Susan aveva bisogno di essere difesa!”
“Rispettando le regole, Gordon. E’ questo che significa essere veri uomini. Rispettare l’avversario, giocando la partita in modo corretto.”
“Lui non è mai corretto” bofonchiò Gordon.
“E allora, non sarà mai un uomo nel vero senso della parola. Potrà sembrare un uomo, quando giungerà alla maturità, ma la sua mente non sarà mai quella di un uomo” gli spiegò Nick, dandogli un buffetto sul naso.
“Quindi, dovevo affrontarlo a muso duro?”
Ridendo, i genitori scossero la testa ed Elizabeth, nel dargli un bacio sull’occhio tumefatto, replicò: “Sei intelligente quanto basta per batterlo in astuzia, caro, senza per questo rovinarti il tuo bel faccino. La mente, Gordon. La mente batte il corpo. Sempre.”
“Ma è difficile…” si lagnò il bambino.
“Nessuno ha mai detto che crescere fosse semplice. Altrimenti, come apprezzeresti il risultato finale, se fosse facile ottenerlo?” ironizzò il padre, levandosi dal letto assieme alla moglie. “Ora riposa, Gordon. E ricorda; noi ti spalleggeremo sempre, se saprai esserne meritevole. Anche se non lo sarai, ma ci dispiacerà vederti sbagliare.”
“In pratica, niente più botte a scuola.”
Nick gli strizzò l’occhio, ribattendo: “Solo se fatte in modo corretto.”
Gordon allora ghignò e, mentre Elizabeth sgridava dolcemente il marito per aver praticamente dato il benestare al figlio per fare a pugni, il bambino si distese.
Afferrato il suo fumetto degli X-Men dal comodino, iniziò a leggere le avventure di Magneto e Wolverine e, poco prima di addormentarsi, ripensò alle parole del padre.
Diventare grandi non era facile. Se lo fosse stato, come avrebbe potuto godere dei risultati ottenuti?
***
Erika si accomodò con leggerezza sul ramo basso su cui si era appollaiato Gordon e il giovane, sobbalzando di sorpresa, esalò: “Ehi! Ciao!”
“Dovevi avere la testa da un’altra parte, se non mi hai sentito arrivare” gli sorrise lei, depositandogli un bacio leggero sulle labbra.
Erano ormai cinque anni che stavano assieme e, pur se Erika era più grande di lui di un anno e due mesi, la cosa non toccava minimamente Gordon.
Erika era la ragazza perfetta per lui, e nessuna avrebbe potuto mettersi al suo livello.
Oltre ad amare lo stesso genere musicale, se la intendevano alla grande anche sul piano fisico.
Certo, lei detestava cordialmente la sua mania della moto – apprezzava molto di più correre come lupo – ma non gli aveva mai vietato di andarci.
Così come lui aveva soprasseduto ogni volta, quando Erika era voluta andare ad ascoltare i concerti di Ed Sheeran.
Per piacere! Ma, se proprio doveva scegliere un cantante melenso per contro bilanciare il suo amore per il Metal, doveva proprio cadere su di lui?
Eppure, a Erika era sempre piaciuto; chi era lui per lamentarsi?
Entrambi avevano scelto facoltà umanistiche, pur se Gordon voleva intraprendere studi incentrati sulla letteratura antica, mentre Erika su quella moderna.
I Master erano alle porte; a ottobre avrebbero iniziato la loro specializzazione, che li avrebbe tenuti impegnati per altri tre anni buoni.
Non era lo studio a preoccuparlo: gli era sempre piaciuto studiare.
Il suo dilemma era un altro, per questo non l’aveva sentita arrivare. E per questo, ora, non sapeva che dirle.
Sbattendo le palpebre dalle lunghe ciglia scure, Erika mormorò: “Va tutto bene, Gordon? Sei un po’ strano, ultimamente.”
“Ma no! Che vai a pensare?!” esclamò lui, avvolgendole le spalle con un braccio.
Non del tutto convinta, Erika poggiò il capo contro la sua spalla e, lanciatogli uno sguardo dal basso all’alto, replicò: “Me lo diresti, vero, se ci fosse un problema tra noi due?”
Stringendola un poco più a sé, Gordon mormorò: “Non potrei amare che te, Erika, perciò calma la tua mente iperattiva. Stai facendo un baccano dell’inferno, sai?”
Sorridendo appena, lei annuì, ma disse: “Sento che qualcosa non quadra ma, se non me ne vuoi parlare, va bene. E’ giusto che ognuno di noi abbia qualche segreto per sé. Però, se avessi bisogno del mio aiuto, me ne parlerai, vero?”
“Saresti la prima a cui mi rivolgerei, se avessi un problema” ghignò il giovane, stampandole un bacio sulla fronte. “Come mai mi hai raggiunto qui al Vigrond, a proposito? Avevi bisogno di me?”
“Per la verità, mi manda tua sorella. Voleva sapere perché non rispondevi al cellulare, visto che sapeva benissimo che eri qui.”
Spalancando gli occhi, Gordon afferrò il suo smartphone dalla tasca del giubbotto di jeans che indossava e fissò basito lo schermo.
“Tredici chiamate?” gracchiò, sgomento.
E dire che la suoneria abbinata al numero di Brianna faceva un baccano dell’inferno!
Come aveva potuto non sentire Run Boy Run?
Erika, a quel punto, lo fissò divertita e Gordon, sospirando, scese con un balzo dal ramo e asserì: “Andrò a sentire cosa vuole.”
“Sarà meglio” motteggiò lei, dandogli una pacca sul sedere.
Lui rise, le mandò un bacio con lo schiocco e le domandò: “Ci vediamo stasera, dopocena?”
“Una sgroppata tra i boschi?” propose lei, ammiccante.
“Non chiedo di meglio” annuì lui. “Qui alle otto e mezza. Va bene?”
“Andata. E ora vai, prima che tua sorella ti stacchi la testa a morsi” rise Erika, correndo via, agile e veloce come il lupo splendido quale era.
Tornando serio, Gordon mise via il cellulare e si incamminò mesto verso la casa di Brianna e Duncan.
Se Erika non aveva subodorato i reali motivi del suo disagio, sua sorella poteva averli compresi eccome, invece.
Non c’era verso di tenerle nascosto niente, per quel che riguardava la sua personala sfera emotiva.
Da quando era diventato un licantropo, non era più riuscito a tenerla lontana dalla sua testa.
Che gran scocciatura avere una wicca come sorella!
***
Impegnata nello strigliare Michael, dedito a farle degli scherzi con la sua coda bianco latte, Brianna lanciò un’occhiata sopra il dorso del cavallo, non appena percepì l’aura del fratello.
Quindi, Erika lo aveva trovato.
Data una pacca sul fianco al cavallo, che nitrì fragoroso, la giovane disse: “Coraggio, fenomeno da baraccone… vai a fare un giro nel recinto, prima che io ti rimetta nel box. Domani faremo una cavalcata io e te, d’accordo?”
Michael scrollò il muso come a volersi dichiarare in sintonia con la sua proposta dopodiché, con passo caracollante, uscì dalla stalla.
Brianna non poté non ridere. Quel cavallo era un attore comico nato.
Gli mancava solo la parola.
A volte, le era parso di afferrare qualche suo pensiero errabondo, ma era difficile mettere a parole ciò che pensava un cavallo.
Sapeva, comunque, che le era molto affezionato, e tanto le bastava.
Così come sapeva che Gabriel era innamorato di lei, (per quanto può esserlo un cavallo) e Rafael la rispettava come avrebbe potuto rispettare una madre, o una divinità.
Infilate la mani nelle tasche posteriori dei jeans sdruciti, il venticello di fine estate a incunearsi tra le pareti della stalla, Brianna sorrise e mormorò: “Il figliol prodigo… non hai dunque perso la via per Damasco.”
“Hai mescolato due storie assieme” brontolò Gordon, pur ghignando.
Brianna scrollò le spalle, replicando: “Deformazione professionale… avere un dio in testa ti fa straparlare, a volte.”
Non dare la colpa a me, se confondi le parabole, e digli quello che vuoi dire.
La wicca rise tra sé per quel commento aspro da parte di Fenrir, perciò andò dritto al punto.
“Perché non stai dicendo la verità a Erika?”
Gordon si irrigidì istantaneamente, l’aura già sfrigolante attorno al suo corpo tonico e forte.
Quanto era cambiato, da quando il gene della licantropia era stato risvegliato in lui!
Brianna quasi aveva stentato a riconoscerlo, quando era tornata dall’università, a Pasqua, dopo la sua trasformazione in lupo.
Le sue spalle si erano rafforzate, così come la sua struttura fisica e, sebbene non sarebbe mai diventato imponente come Duncan, o Lance, ora era assai più robusto.
“Gliene hai parlato?” domandò Gordon, dopo alcuni attimi di silenzio.
Brianna scosse il capo, replicando: “Non sono affari miei, ma vorrei sapere perché tanti dubbi. Merita di sapere.”
“Non ho ancora preso una decisione in merito” sottolineò il giovane, poggiandosi nervosamente contro la porta di uno dei box.
Rafael mise fuori il muso, poggiandolo sulla spalla del ragazzo, e lui lo carezzò con un mezzo sorriso stampato in viso.
Indulgente, Brianna mormorò: “Non è quello che ho percepito io.”
“Potresti stare fuori dalla mia testa, per una volta?” brontolò a quel punto Gordon, fissandola arcigno.
I suoi occhi danzarono dal chiaro grigio colomba al più oscuro blu di Prussia, i suoi occhi di lupo.
Imperturbabile, la sorella replicò: “Non dipende da me. Sono pensieri che mi invii tu. Diversamente, non ficcherei mai il naso nei tuoi affari.”
“Come?” esalò sorpreso Gordon, facendo tanto d’occhi. Ora, completamente grigi.
Era bastata quell’ammissione imprevista a farlo tornare in sé.
Sospirando leggermente, Brianna rovesciò un secchio per sedervisi sopra e, poggiati i gomiti sulle ginocchia, ammise: “Lo fai da quando sei diventato lupo ma, solitamente, non avviene spesso. Negli ultimi due mesi, invece, è un fenomeno quasi giornaliero. Perciò ti chiedo… perché non dirglielo?”
Sempre più scioccato, Gordon borbottò: “Che intendi con… con questa cosa? Che sai sempre cosa penso?”
“No, capitano” gli sorrise lei, comprensiva. “Ma so quando stai per prendere una decisione. E’ come se volessi mettermi al corrente di ciò che stai per fare… forse, perché speri nella mia approvazione, o perché io ti fermi se riscontrassi in te dei dubbi.”
Basito, Gordon si lasciò scivolare a terra e, dopo essersi messo le mani tra i capelli, esalò: “Non ne avevo idea… e tu non mi hai mai detto nulla?”
“Ero sempre d’accordo con le tue scelte, e non mi dispiaceva che tu mi mettessi al corrente di quello che volevi combinare” replicò lei, scrollando debolmente le spalle. “Ma stavolta sei agitato, nervoso e, cosa peggiore di tutte, non vuoi dire la verità alla donna che ami. Perché?”
“E me lo chiedi anche?!” sbottò a quel punto Gordon, facendo sfrigolare la sua aura.
Rafael nitrì indispettito, nel suo box, e Gabriel scalciò un paio di volte, irritato da una simile bordata di energia statica.
Gli animali erano assai più sensibili degli uomini comuni, di fronte alle auree dei licantropi.
Brianna, allora, estese il proprio potere per inglobare quello del fratello e, subito, l’aria si fece più leggera.
“Scusami…” borbottò Gordon, reclinando colpevole il capo.
“Sei nervoso. Ti capisco. Inoltre, io ci sono già passata. E’ giusto che ti aiuti a controllare la tua aura, se ne hai bisogno” si limitò a dire Brianna, sorridendogli. “Ti chiedo perché, e a buon diritto, visto che non sei mai stata una persona pavida. Hai sempre preso le tue scelte con coraggio, senza mai guardarti indietro, una volta averle prese.”
“Ma ero da solo!” sottolineò Gordon, snocciolando per la prima volta a voce alta il problema che lo assillava.
Brianna assentì, sospirando lieve a quell’ammissione, e gli domandò: “Credi che non accetterebbe le tue scelte?”
“Erika ha tutto il diritto di scegliere per conto suo, come e dove vivere… io non voglio prevaricarla in nessun modo, ma…”
Non sapendo come proseguire, Gordon si azzittì, ma non Brianna.
“… ma l’offerta di Patricia Dawson MacKenzie ti interessa più di quanto tu voglia ammettere anche con te stesso, e non te la senti di dirglielo, perché questo cambierà radicalmente il vostro futuro. E’ corretto?”
“Colpito e affondato” mugugnò Gordon, tendando di fare dello spirito, pur senza grossi risultati.
“Non credi che dovresti lasciar decidere a lei cosa ne pensa, e non impuntarti nel prendere decisioni per tutti, e senza consultarti con nessuno?” gli fece notare Brianna, intrecciando le mani su un ginocchio.
Fissandola sconcertato, Gordon fece per ribattere, ma si bloccò all’ultimo momento.
Già. Non aveva chiesto la sua opinione.
Era partito dal presupposto che, qualsiasi tipo di decisione avesse preso per il futuro, avrebbe incluso implicitamente l’assenso di Erika.
Lei, invece, aveva innanzitutto il diritto di conoscere ogni aspetto della situazione e, eventualmente, rifiutare di seguirlo.
O proporgli una terza eventualità.
Non doveva più sobbarcarsi quel dilemma in solitudine, ma affrontarlo con l’altra metà del suo cuore, con la sua anima gemella.
Brianna gli sorrise comprensiva, mormorando: “Ricordi quando litigai con Duncan, di ritorno da Glasgow, quando mi ferirono?”
Gordon annuì – quell’anno era stato terrificante, tra il ferimento di Brie, il suo rapimento e la morte di Leon – e asserì mogio: “Preferirei non rammentarlo, ma sì. Ricordo che eri a pezzi, perché ti eri impuntata nel voler risolvere le cose da sola, senza aiuto.”
“Siamo stati cresciuti forti, in grado di prendere decisioni autonome e coscienziose o, per lo meno, si spera…” nel dirlo, rise, e Gordon ghignò, annuendo. “… ma questo non vuol dire non confrontarsi con chi si ama. Ricorda… papà e mamma si sono sempre parlati. Per qualsiasi cosa.”
“Già” assentì suo malgrado il fratello, passandosi una mano tra i capelli.
“Quindi?”
“Le parlerò stasera. Ci vediamo al Vigrond per una corsetta tra i boschi” le spiegò Gordon, accennando un sorrisino.
“Dirò agli altri di non avvicinarsi. La foresta sarà vostra” gli promise, levandosi in piedi per raggiungerlo.
Allungatagli una mano, lo aiutò a fare lo stesso e, nel lanciare uno sguardo a Michael, che ancora stava gironzolando nel recinto, ghignò e disse: “Vai a giocherellare con quel bestione. Hai bisogno di rilassarti, e lui è un asso, in questo.”
Gordon fece per scantonare ma, alla fine, ammise che la sorella aveva ragione. Non solo aveva bisogno di rilassarsi un poco, ma Michael era davvero bravo, nel tirar su di morale la gente.
Quel cavallo avrebbe dovuto fare lo psicoterapeuta.
***
Il cielo stava tingendosi per la notte, lasciando che i viola e i rossi si confondessero con il blu scuro e il nero.
Alcune stelle erano già visibili, e la luna piena brillava a est, poco sopra la linea delle chiome delle piante.
Il vento era immoto e, nell’aria, galleggiavano umidi i profumi del bosco e l’aroma dolce di Erika.
Era uno splendido lupo, di una tonalità variabile tra il rosso cupo e il marrone, con una buffa macchia bianca sulla zampa anteriore sinistra.
I suoi occhi, di un caldo color nocciola, lo sondarono curiosi e, quando entrambi si fermarono in prossimità del Vigrond, Gordon si sedette.
Poggiato a terra con le cosce, la scrutò per qualche attimo, indeciso su come approcciare l’argomento, quando Erika borbottò: “Devo metaforicamente tirare fuori i fazzolettini?”
Gordon tossì una risata, scuotendo il muso grigio scuro, e replicò: “Non credo. Per lo meno, non spero.”
“Ergo, posso eliminare dall’equazione l’idea che tu ti sia stancato di me.”
Lui le abbaiò contro irritato un paio di volte, prima di calmarsi.
“Mi era sembrato di averti già detto che ti amo! Dobbiamo tornarci ogni volta?”
“Perdonami la mia ansia, ma è da quasi un mese che hai l’aura in subbuglio e, specialmente dopo aver fatto l’amore, sembri un porcospino. E non intendo i peli che hai addosso.”
Gordon sbuffò, dandosi dell’idiota per aver pensato che la sua ansia fosse sotto controllo.
Le doveva più di qualche spiegazione. Le doveva delle scuse.
Erika, allora, gli diede un colpetto col muso, in corrispondenza del collo e, conciliante, mormorò: “Puoi dirmi tutto, lo sai.”
“Lo so, e te ne sono grato, ma è una cosa grossa, che influirà sul nostro futuro, e non è facile ammettere di aver messo ciò che sto per dirti sul piatto della bilancia.”
“Spara… sarò io a decidere se hai fatto una scemenza, o meno” lo incoraggiò Erika, usando un tono lieve, pur fremendo dentro.
Cosa mai le aveva nascosto, di così tremendo?
“Ricordi Patricia Dawson MacKenzie?”
“Sì. E’ la sorella di Alec. Perché?” esalò sorpresa Erika, chiedendosi cosa centrasse lei con i dubbi di Gordon.
Da quel che sapeva, abitava ad Armagh, in Irlanda del Nord, assieme al marito, Andrew, e ai due figli, Phillip e Cassandra. Ergo, che aveva a che fare con lui?
“Un paio di mesi fa mi ha chiamato per offrirmi un posto di lavoro, per quando avrò finito l’università e il Master in Lingue Antiche che voglio conseguire.”
Lo buttò fuori di getto, senza pensarci, preferendo non girarci tanto intorno.
Aveva tentennato fin troppo, e non c’erano molti modi per spiegare una cosa simile.
Erika sbatté le palpebre, confusa, prima di domandare: “E… quindi? Dove starebbe il problema?”
Fu il turno di Gordon di apparire confuso e, scuotendo il muso con fare sconvolto, esalò: “Ma mi sembra chiaro! Se accettassi, me ne andrei da qui! Non vivrei più a Matlock!”
La lupa allora mutò forma e, tornata a essere donna, rise dolcemente e mormorò: “Ti sei preoccupato così tanto, per questo?”
A sua volta, Gordon tornò uomo e, presa l’amata per le spalle, gracchiò: “Non pensi che sia una cosa che cambierebbe radicalmente le nostre vite? Credi che potrei prendere questa decisione senza neppure preoccuparmi un po’?!”
Erika strinse una delle mani poggiate sulle sue spalle e, nel portarsela al viso, ne baciò il palmo, mormorando: “Avresti anche potuto dirmi che ti trasferivi in Australia, e mi sarebbe andata bene lo stesso. La musica è ovunque, Gordon, e io posso insegnare ovunque ci sia una scuola. Ma il tuo sapere è così raro e prezioso che, se qualcuno ti vuole, tu devi andare. Non sono in molti – soprattutto licantropi – a sapere ciò che tu sai.”
“Sacrificheresti i tuoi legami… per me?” esalò il giovane, facendo tanto d’occhi.
Lei lo abbracciò con dolcezza, carezzandogli la schiena scossa da brividi.
“Non sto sacrificando nulla, Gordon. Sarei a un paio d’ore di volo dalla nostra famiglia e dai nostri amici, non su un altro pianeta. Inoltre, Skype aiuta un sacco.”
Scostandosi da lui per poterlo guardare negli occhi, poi, aggiunse: “Ma, più di tutto, sarei con te. E mi sembra un buon motivo per seguirti ovunque tu andrai.”
“E non ti spiacerebbe lasciarti tutto alle spalle?”
Erika ci pensò su un attimo, vagliando pro e contro, ma disse: “Sarebbe difficile, i primi tempi, ma non saremmo del tutto soli, lassù. Andremmo in un clan di persone fidate, e di cui conosciamo già alcuni membri.”
“Quindi… mi sono fatto venire gli incubi per niente, in questo mese?” domandò a quel punto Gordon, esibendosi in un mezzo sorriso.
Lei allora rise, scosse il capo e lo baciò.
“No, non per niente. Hai dimostrato di tenerci, a me, di non voler scegliere solo per il tuo bene, ma anche per il mio. La prossima volta, però, parlamene subito e togliti il dente. Star male non serve a nessuno” gli confidò lei, avvolgendogli le braccia attorno al collo.
“Ci vorrà del tempo. A ottobre comincio l’ultima sessione di esami e, per l’anno prossimo, dovrei cominciare il Master, che durerà un paio d’anni come minimo. Possiamo fare tutto con calma” asserì Gordon, stringendola a sé, più tranquillo.
Erika socchiuse gli occhi, strusciandosi contro di lui con fare malizioso e, lasciata scivolare lentamente una mano verso le sue natiche, sussurrò: “Sì… possiamo fare tutto con molta calma…”
Lui rise, a quel doppio senso neanche tanto velato e, sulle sue labbra, mormorò: “Non intendevo questo, ma posso durare anche tutta la notte, se vorrai fare con calma.”
Erika rise, annuendo e, nel mordergli delicatamente il labbro inferiore, disse roca: “Ti chiedo solo una cosa.”
“Cioè?”
“Posso avere una vasca idromassaggio?”
Gordon scoppiò a ridere di gusto, per quella richiesta davvero fuori tema e, nel prenderla in braccio, assentì, dichiarando: “Ti troverò un castello, se vorrai, e potrai andare a lavorare su una carrozza. Tutto ciò che ti verrà in mente.”
Lei ammiccò, replicando serafica: “La vasca idromassaggio basterà… per ora.”
Il lupo che era in Gordon non attese altro tempo. Spinse l’uomo a baciarla con ardore, chinandosi poi a terra per stenderla sul letto d’erba e fiori notturni che si trovava nella radura.
Erika glielo lasciò fare, offrendo e prendendo parimenti.
Non aveva detto quelle parole per confortarlo, ma perché ci credeva veramente.
Gordon era la sua anima gemella, il pezzo mancante della sua anima e, in qualsiasi posto lui fosse andato, lei lo avrebbe seguito.
Era dolce il fatto che lui si fosse preso tanti e tali scrupoli, prima di dirle la verità. Denotava quanto tenesse a lei.
Ma era tempo che Gordon capisse che era più forte di quanto pensasse… e che iniziasse a crederci lei stessa.
Era tempo che tutti i dubbi, le ansie sul loro rapporto si frantumassero, sparissero per sempre dal suo cuore.
Ora, doveva solo pensare al loro futuro assieme.
E a una splendida vasca idromassaggio.
Avrebbero fatto faville, assieme, in quella vasca, ne era più che sicura.
Note: a chi mi chiedeva come se la stessero cavando Erika e Gordon, ecco svelato il mistero. Spero di aver fatto cosa gradita.
Nelle prossime OS toccheremo altri personaggi minori e, se la fantasia me lo concederà, anche la nascita di Nathan.
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Capitolo 23 *** Ereditarietà (Gennaio 2015) Penny/Spike ***
Ereditarietà (Penny)
Gennaio 2015
Alec stava tenendo Penny per mano, e i suoi chiari occhi color acciaio le scrutavano il viso con fare meditabondo, serio.
La sua mente era impenetrabile, stoica, apparentemente calma come un lago placido, pur se Penny aveva idea che fosse solo un mascheramento.
In quei cinque anni passati assieme, non una volta Alec si era dimostrato disattento verso di lei, o meno che preoccupato per il suo benessere.
Era cresciuta in un branco forte, in cui i lupi erano ligi alle regole e avevano fiero e degno rispetto per il loro capo.
I Gerarchi le avevano voluto bene da subito e, pur se Spike avrebbe sempre rifuggito i suoi gesti di affetto, Penny sapeva che, al minimo starnuto, lui avrebbe distrutto il mondo per lei.
E così suo padre, e così William.
Erano uomini coraggiosi, leali e forti. Avevano avuto i loro problemi in gioventù e, per lungo tempo, avevano guidato con pugno più duro del necessario.
Ma ora quei tempi erano passati. Ora, il clan di Bradford conosceva pace duratura, ma senza il marchio del timore sopra la sua testa.
Eppure, se quella sera, col sorgere della luna, qualcosa fosse andato storto, Penny era certa che neppure il Ragnarök avrebbe potuto essere una cosa brutta, se paragonata all’ira che Alec avrebbe scatenato intorno a sé.
Perché quella sera, Penny avrebbe subito la sua prima trasformazione, lo sapevano tutti.
Era infine divenuta donna e, quando ciò era avvenuto, sia Erin che Alec le avevano sorriso compiaciuti, ma assai preoccupati.
Con l’avvento del primo ciclo mestruale, il gene mannaro si era infine destato in lei e, al volgere del primo plenilunio, avrebbe subito il mutamento.
Per quell’evento, così speciale per ogni licantropo, Alec aveva voluto fare le cose per bene e, chiamati a sé i suoi Gerarchi, aveva poi condotto la figlia al Vigrond.
Erin era rimasta a casa assieme a Irina su espresso ordine del marito, ben sapendo quanto sarebbe stato tremendo, per lei, vedere la figlia mutare per la prima volta.
Ciò che non le aveva detto – ma che ogni lupo sapeva benissimo – era che, se qualcosa non fosse andato per il verso giusto, Penny sarebbe morta tra i più atroci tormenti.
Alec non voleva questo, per Erin, specialmente con il piccolo Gareth ancora da svezzare. Erin doveva rimanere con il loro figlio minore.
A Penny, avrebbe pensato lui.
Per maggiore sicurezza, comunque, Brianna era giunta per assicurare all’amico un’arma in più per sventare la malasorte.
Il suo sangue di wicca avrebbe potuto rendersi necessario per richiamare la bestia sopita in Penny, e Brianna si era dichiarata più che disposta a presenziare.
“Papà?” mormorò Penny, stringendo in un rapido abbraccio Alec, prima di scostarsi.
“Dimmi, tesoro” replicò lui, lo sguardo che correva dal viso della figlia all’orizzonte.
La luna si sarebbe levata presto e, quando questo fosse avvenuto, la mutazione avrebbe avuto inizio.
“Ti voglio bene, sai?”
Alec accennò un mezzo sorriso, tendendo appena la cicatrice sulla guancia.
“Non cominciare, ranocchietta. Qui andrà tutto bene. Ci sarà il nostro potere di Gerarchi a darti man forte, e la streghetta qui presente ti farà bere il suo sangue, se necessario… così tu sorgerai.”
Penny lanciò un’occhiata curiosa a Brianna, che le sorrise tranquilla e fiduciosa.
Anche Alec guardò l’amica e, disperato, esalò mentalmente: “Dimmi che si salverà… o, stavolta, penso che neppure su Helheimr mi vorranno.”
“Nessuno richiederà un simile prezzo, Alec. Abbiamo stabilito ormai da tempo che, grazie all’intervento di una wicca, casi di morte per mutamento non sono più possibili. Sono inferiori allo 0,001 percento, e lo sai.”
Da quando Brianna aveva tentato con Sean, il fratello di Marjorie, altre volte questa carta era stata tentata e, anche grazie all’intervento di Kate, i risultati erano stati ottimali.
Certo, per le due wiccan, il lavoro era stato impegnativo e, molte volte, i giovani erano stati condotti a loro, e non il contrario, visti gli impegni di entrambe.
A ogni buon conto, solo in un caso non era stato possibile fare nulla, ma andava pur detto che, in quell’occasione, si era trattato di un ragazzo nato con una malformazione cardiaca.
Un evento già di per sé difficile da trattare.
“Non voglio che mia figlia rientri in quella casistica risicata!” sbottò Alec, pur mantenendosi saldo di fronte a Penny.
“Penny è sana come un pesce, lo sai. Calmati, Alec, e mantieni salda la tua aura. Forse, ne avrò bisogno, e tu dovrai essere al tuo meglio, per lei.”
Ciò detto, Brianna sospirò e disse ad alta voce: “L’ascesa è iniziata. La luna è sorta. Inizia il tuo percorso di rinascita, Penny.”
La ragazza annuì, sfiorandosi nervosamente la treccia bionda prima di stringere i denti e afferrare entrambe le braccia del padre.
Alec fremette, desiderando prendere dentro di sé quel dolore, quella paura, quel timore di non riuscire, ma non poté far nulla oltre a guardarla mentre soffriva.
William e Spike, vicino a loro, osservavano a loro volta, le espressioni torve, i muscoli tesi allo spasimo.
Brianna, allora, si avvicinò per meglio monitorare la ragazza che, in quel mentre, lasciò la presa dalle braccia del padre per crollare in ginocchio, scossa dai brividi.
Avvertiva il peso della luna, la sua energia, quella della Madre che penetrava in lei attraverso le correnti energetiche lunari,… ogni cosa.
Alec fece per avvicinarla, ma Brianna lo fermò, mormorando: “E’ la sua battaglia, e sai bene che, quando il lupo uscirà, vorrà dilaniare. Penny non si perdonerebbe mai, se ti facesse del male, pur se inconsapevolmente.”
“E’ mia figlia!” ringhiò Alec per contro, fissandola iracondo.
L’amica, però, non cedette di un passo e, nello scrutare Spike, disse: “Sköll, afferra il tuo Fenrir a un braccio, mentre Hati penserà a me, donandomi il suo potere.”
Spike assentì – quando una wicca parlava, le gerarchie andavano a farsi benedire – e, afferrato il suo Fenrir, mormorò: “Scusa, capo, ma quando parla lei, bisogna solo annuire e scodinzolare.”
“Me lo ricorderò, streghetta” sibilò vendicativo Alec, pur attenendosi alle sue direttive.
Brianna sorrise a mezzo, lo sguardo tutto per Penny, che ancora stava tremando, e allungò una mano verso William, che la afferrò salda.
Subito, la sua energia di Hati le si riversò dentro, aumentando la sua aura e concedendole i puntelli per essere più salda nei suoi propositi.
Piegatasi poi in ginocchio, allungò l’altra mano verso Penny e le sfiorò le labbra distorte dal dolore, mormorando: “La tua wicca ti chiama, lupa,… ascolta il mio richiamo, Figlia della Luna.”
Avevano scoperto, tempo addietro, che bastava il semplice profumo del suo potere, per richiamare la bestia.
Forse, non sarebbe occorso altro, con Penny.
Come previsto, infatti, gli occhi della ragazza – solitamente azzurri come il cielo estivo – si volsero dorati verso di lei e i denti, digrignanti e feroci, lasciarono fuoriuscire dalla bocca aria rovente.
“Ci siamo…” sussurrò eccitata Brianna, pronta a farsi trascinare via da Hati, se necessario.
Un basso ringhio di gola eruppe dalla bocca di Penny che, levate le mani verso la wicca, si ritrovò a fissare lunghi artigli e un principio di peluria… rossiccia.
L’attimo dopo, un grido squarciò l’aria immota, e il corpo di Penny venne squartato, distorto, mutato.
Pelo folto e rosso-bruno le coprì la pelle, mentre le ossa prendevano la forma definitiva, lasciando scorgere finalmente le sue sembianze mannare.
Se già il colore del pelo era stato prova schiacciante del suo nuovo ruolo in seno al branco, la sua mole finale mise il sigillo su tutta la storia.
Penny sarebbe stata il prossimo Sköll, l’allieva di Spike, la futura seconda in comando in seno al branco.
Quando il lupo fu fieramente ritto dinanzi al quartetto, il suo ululato disperato si levò verso la luna pallida e alta in cielo e, l’attimo seguente, Penny fuggì.
Le possenti zampe artigliarono il terreno, sollevando zolle e fogliame secco e, in un attimo, fu svanita nella notte, lasciando tutti senza parole.
***
Non aveva mai pensato granché al suo padre naturale, allo Sköll che aveva messo incinta la madre, facendole credere di amarla quando in realtà non era vero.
Per anni, Marcus l’aveva amata e cresciuta e, pur se aveva saputo la verità, non gliene era importato molto. Marcus era suo padre.
Quando questi era morto, per lei era stato solo dolore e rimpianto ma, con l’avvento di Alec, quello squarcio nel suo cuore si era richiuso.
Alec le aveva non solo permesso di ricordare Marcus, ma aveva voluto sapere tutto, di lui.
Certo, non avrebbero potuto esistere due persone più diverse di loro, ma entrambi le avevano donato tutto l’amore del mondo.
E ora, il suo padre biologico, le faceva questo.
Lei, che non aveva mai voluto avere niente a che fare con Sam, con quell’uomo egoista che non l’aveva neppure voluta conoscere, le imponeva il suo lascito!
Avrebbe preferito mille volte essere una comune lupa, piuttosto che portare su di sé il peso di quel titolo, quel titolo che lui le aveva passato con il suo sangue.
Perché nulla v’era di più facile, tra i lupi, che ereditare il ruolo di uno dei due genitori.
Uno scricchiolio di foglie e rami secchi la portò a volgere dolente il muso verso il bosco e, a sorpresa, Penny vide comparire Spike in forma di lupo.
Erano davvero simili, per colore e stazza. Due lupi enormi, del colore delle foglie autunnali.
“Ebbene, allieva? Cos’è questa sparata?”
Come sempre, Spike non ci andava per il sottile, con lei, pur se poteva comprendere benissimo la sua ansia.
Era così strano, poter percepire tutto ciò avvertiva attorno a sé con la sola forza della mente!
La potenza del suo corpo di lupo, le energie infinite della terra, la morbidezza della sua aura. Era tutto così nuovo, così bello… così perversamente ingiusto!
“Con tutto il rispetto, Spike, ma non volevo essere uno Sköll.”
“Non ti chiedo neanche il perché. Non posso esserne la causa, visto che sono io uno Sköll eccezionale.”
Lo disse con così tanta sicurezza e supponenza che Penny non poté non ridere, così tossì quella che le parve una risata lupesca e si sedette sul fogliame secco, allungando il lungo corpo di lupo.
Spike, invece, si accomodò sulle zampe posteriori, fissandola con i suoi penetranti occhi verde oliva.
“Si è ciò che si è, bambina, non ciò che gli altri vorrebbero. Il tuo sangue è forte e, se tuo padre ti ha lasciato almeno una cosa buona, ben venga. Non gli devi nulla. E questo tuo essere il nuovo secondo in comando, puoi vederlo come un pagamento per i suoi peccati.”
“Ma mi ricorderà sempre di lui, e non voglio!” protestò Penny, uggiolando infastidita.
“Pensi che Alec, guardandosi tutti i giorni allo specchio, non veda suo padre mentre lo ferisce con il suo artiglio… o mentre abusa di lui, o di Pat? Lo rammenta ogni maledettissimo giorno, ragazzina, eppure ha fatto di necessità virtù e, in qualche modo, ha messo un passo davanti all’altro e si è fatto coraggio” ringhiò Spike, senza alcuna pietà.
Penny accusò il colpo, ben sapendo dei trascorsi del padre di Alec, e di cosa aveva fatto ai due figli.
“Non credere mai di essere speciale, o che la vita sia stata crudele con te. Lo è stata con tutti, crudele. Chi in un modo, chi nell’altro. Brianna ha perso i genitori, il suo amico umano, ha nella testa una bomba a orologeria pronta a esplodere al minimo starnuto, eppure va avanti. E’ la donna più forte e in gamba che io conosca, tolta tua madre, e io non posso credere che tu ci deluderai tutti quanti, piangendoti addosso solo perché non sopporti Sam!”
Penny digerì malamente le parole piene di livore di Spike e, rizzandosi sulle zampe con forza, fissò rabbiosamente il suo mentore, replicando furiosa: “E’ così che cerchi di aiutarmi? Facendomi capire che sono debole?!”
“Tu non sei debole, sciocchina che non sei altro! Hai solo paura! E la paura è foriera di errori sempre più grandi! Noi abbiamo avuto paura, a suo tempo,… paura di sbagliare, di deludere Alec, di non essere abbastanza forti per sostenerlo, e guarda cosa abbiamo rischiato di fare, con questo branco?!” sbottò Spike, il cui tono divenne dolente, contrito e stanco.
Basita, Penny si azzittì subito, chiaramente stupita di venere in Spike un qualche tipo di rimorso, o dolore.
“Pensi che ognuno di noi non sappia che, negli anni, abbiamo abusato del nostro potere, per tenere in scacco i lupi più indisciplinati? Lo sappiamo bene ma, all’epoca, pensammo che fosse il modo giusto perché loro non commettessero errori. Li stavamo compiendo noi per primi, non concedendo loro un minimo di fiducia.”
“Volevate solo il meglio, per loro…” mormorò Penny, desiderosa di chetare la sua contrizione.
“Si può volere il meglio, ma sbagliare ugualmente nel tentativo di ottenerlo. Perciò, non avere paura di sbagliare, perché sbaglierai, bambina. Lo facciamo tutti. Ma la vera forza sta nell’accettare di avere sbagliato, e adoperarsi per migliorare, per non commettere più lo stesso errore.”
Penny assentì col muso, ora più tranquilla, e mormorò: “Devo accettare ciò che mi è stato dato per errore, e tramutare questo dono non voluto in un pregio…”
“Puoi odiare Sam finché scampi, ragazza, non sarò certo io a negartelo, ma non fare sì che il suo essere un idiota ti condizioni. Accetta il suo sangue e fai in modo che venga usato nel modo migliore, e non come ha fatto lui, che ha gettato al vento ogni cosa per non voler ammettere di aver commesso un errore.”
“Papà se l’è presa, perché sono scappata?” domandò a quel punto Penny, contrita.
“Più che altro, era dispiaciuto perché immaginava i motivi che ti avevano spinta a fuggire, così gli ho detto che ti avrei parlato io, e saremmo tornati a casa assieme.”
“La mamma ci rimarrà male? Per via del mio essere come… come Sam.”
Spike le ringhiò contro, facendola uggiolare di sorpresa e, con voce cavernosa, il lupo sibilò: “Tu non sei lui, Penelope Dawson. Tu sei la mia allieva, la figlia del nostro Fenrir e della sua Prima Lupa. Sei una Figlia della Luna del branco di Bradford, e non vedo onore più grande, onestamente. Perciò, non sei lui.”
“Giusto. Sono l’allieva del più scorbutico Sköll di tutta l’isola, perciò non potrò che diventare la migliore. Poco ma sicuro” ironizzò a quel punto Penny, facendo scoppiare Spike in una grassa risata.
“Questo è parlar chiaro, ragazza! E ora, torniamo a casa e festeggiamo la tua investitura. Ho idea che, nei prossimi mesi, scopriremo chi sono gli altri due Gerarchi. Quando uno parte, gli altri si accodano alla svelta.”
“Speriamo siano persone che mi piacciono.”
“Ho idea che saprai farti amare da chiunque ti capiterà nella Triade” dichiarò a quel punto Spike, incamminandosi per tornare indietro.
Penny, allora, gli trotterellò al fianco e, gustandosi finalmente con pienezza il suo nuovo corpo di lupa, mormorò: “Sarà una figata, d’ora in poi…”
“Puoi dirlo forte… ma non dirlo davanti a tua madre. Sai che le fa schifo quando usi parole del genere” ghignò Spike, mostrando le zanne bianchissime.
Penny rise, assentendo e Spike, strizzandole l’occhio, si mise a correre.
Lei lo seguì un attimo dopo e, con il cuore nuovamente leggero, si domandò chi sarebbero stati gli altri due membri della Triade.
Chissà chi sarebbero stati gli allievi di papà e di Will?
Una cosa, però, Penny la sapeva per certo. Ci sarebbe stato da divertirsi con Spike, da quel momento in poi.
E lui, finalmente, non avrebbe più potuto scansare le sue attenzioni.
Tutta soddisfatta, perciò, accelerò l’andatura e Spike con lei. Sarebbero diventati amiconi, anche se il suo mentore ancora non lo sospettava.
Anche perché, se solo avesse sospettato una cosa simile, sarebbe stato Spike, a scappare a gambe levate, non più lei.
Ma avrebbe fatto capire a quello scorbutico lupo che, avere un’amica ragazzina, non era poi così male.
Così come non era male, dopotutto, aver ereditato questo, da Sam.
Note: Come abbiamo appena scoperto, Penny sarà la prossima Skoll del branco di Bradford e, pur se all'inizio la cosa non le è piaciuta per via del suo padre biologico, siamo ormai sicuri che Spike le farà cambiare idea definitivamente.
Rimane da scoprire chi potranno essere gli altri due Gerarchi. Idee su come comporre il trio? Due maschi e una femmina? Tre femmine? Due femmine e un maschio? A voi la votazione!
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Capitolo 24 *** To be, or not to be? (Settembre 2017) Penny ***
To be, or not to be?
(Settembre 2017)
La casa dei McKalister era colma di persone, provenienti da ogni angolo dell’Isola, e tutti per festeggiare il battesimo del piccolo Nathan McKalister.
Brianna e Duncan erano semplicemente raggianti, con il loro piccolo tra le braccia, e i sorrisi alla coppia e al bebè si sprecavano.
Quella visita, ormai organizzata da tempo, aveva reso l’attesa della partenza frenetica e piena di energia, per Penelope.
Quando infine erano giunti a Matlock, Penny era praticamente balzata fuori dall’auto per correre incontro ai vecchi amici, incapace di attendere oltre l’impazienza.
Alec, Erin e il piccolo Gareth erano stati più decorosi, nella loro entrata in scena, mentre Blair e Kyle, futuri Fenrir e Hati di Bradford, si erano accodati a un’entusiasta Penny per non perderla di vista.
E, soprattutto, per vedere il piccolo McKalister.
Dopo aver presenziato alla solenne celebrazione in chiesa, l’infinita schiera di ospiti si era poi spostata a casa della coppia e, ora, tutti si stavano divertendo, bevendo, mangiando e ascoltando musica.
L’atmosfera era rilassata, piacevole, e quell’occasione era propizia per rinsaldare vecchie amicizie e farne di nuove.
Tra queste nuove figure vi erano i vari figli dei clan, ormai abbastanza grandi per poter partecipare a eventi simili, e pronti per creare nuove alleanze.
I due figli di Pascal Laroche, capoclan del branco di Cardiff, avevano diciotto e sedici anni e, entrambi, si erano rivelati essere membri della futura Triade.
Il più anziano, nelle vesti di Hati, il più giovane, nelle vesti di Fenrir.
Il loro Sköll, invece, era risultata essere una ragazza di nome Fianna, coetanea del suo Fenrir, e con uno spiccato senso dell’umorismo.
Liam e Colin, i due fratelli Laroche, invece, erano abbastanza seriosi, pur se stavano agli scherzi della loro Sköll, ed erano fieramente protettivi nei suoi confronti.
Nell’osservarli mentre Penny era impegnata a chiacchierare amabilmente con Fianna, Kyle mormorò a Blair: “Pare che sia lei, la futura Fenrir, e non Liam. La tengono d’occhio come dei falchetti.”
“E’ solo perché le vogliono bene, e si tende a dimenticare che, sotto l’aspetto apparentemente fragile di quella ragazza tutta sorrisi, c’è un lupo. Anche per noi è difficile, pur se sappiamo la verità” motteggiò saggiamente la ragazza, sorseggiando il suo succo di frutta. “Inoltre, tu non stai facendo la stessa cosa?”
“Con te? Ovvio! Sono il tuo Hati!” dichiarò lapidario Kyle, fissandola dall’alto del suo metro e ottantasei. Un vero gigante, pur avendo solo sedici anni appena compiuti.
Blair lo fissò di rimando con aria scettica, gli occhi color delle colombe che sprizzavano ironia malcelata e vaga derisione.
Accigliandosi leggermente, il giovane sbuffò, intrecciando le braccia sul torace, e borbottò: “E’ inutile che fai quella faccia, Blair. Ti ho detto la verità.”
“Non mi servono le doti di Lady Fenrir, per capire che stai mentendo alla grande, amico mio” gli sorrise bonaria lei, dandogli una pacca su un braccio. “So che sei accanto a me per proteggermi ma, soprattutto, stai qui perché non vuoi arruffare le piume in presenza di Penny, altrimenti potrebbe capire cosa provi per lei. Ma ti scoccia vedere come lei fraternizzi con tutti… e piaccia ai due lupi gallesi.”
Kyle la frizzò con lo sguardo, i cerulei occhi fiammeggianti d’ira repressa, ma Blair non ci fece alcun caso, e aggiunse: “Ricorda che io ho l’occhio lungo, per queste cose, e conosco sia te che Penny molto bene. Quindi, la faccenda si riduce a un’unica domanda: glielo dirai, o no?”
“Dirle cosa?” brontolò il giovane, distogliendo a fatica lo sguardo da Penny e gli altri per raggiungere il tavolo dei rinfreschi.
Blair lo seguì, simile a un folletto dispettoso, e ciangottò: “Ma come, ‘cosa’? Mi prendi per idiota, mio Hati?”
“Non lo farei mai, mia Fenrir ma, quando dici scemenze, è inutile darti corda” le replicò lui, afferrando un bicchiere di succo d’arancia, che ingollò in un colpo solo.
Di seguito, prese un pezzo di torta agli amaretti e, fissando bieco la sua amica, aggiunse: “Rigiriamo la frittata. Ho visto come hai guardato Colin. Non mi dire che non ti piace!”
“Mi sono lustrata gli occhi, lupo dei miei stivali e, fino a prova contraria, non è vietato da nessuna legge. Potrò pure leccarmi i baffi, ogni tanto” scrollò le spalle Blair, facendo finta di niente.
“Siamo sicuri che tu ti sia limitata a questo?”
Assottigliando le palpebre per fissarlo accigliata, la giovane Fenrir dichiarò: “Non me la faccio con lupi appartenenti alle Triadi. Sai che casino ci salterebbe fuori?”
“Al cuor non si comanda…” replicò Kyle, indicando col pollice Hugh e Tempest, impegnati in una chiacchierata a due nei pressi del roseto. “… visto che quei due sono innamorati da anni, indipendentemente dalle loro cariche.”
“Sì, e infatti guarda che vitaccia devono vivere. Lei, bloccata in quello sputo di terra dimenticato da Dio, e lui Hati della sua Fenrir, in Cornovaglia, nel punto più opposto dell’isola che potesse esserci!” brontolò Blair, scuotendo il capo.
“Al cuor non si comanda…” ripeté il ragazzo, ghignando con aria furba.
“Parla per te, Romeo. Io non ho problemi di cuore, ma tu sì, bello mio. E anche grossi” gli ritorse contro Blair, aprendosi in un sorriso malizioso.
Kyle fece per dirle qualcosa, ma l’arrivo tempestoso di Penny gli fece morire la replica in gola.
Preso sottobraccio dalla ragazza che tanto gli piaceva, Kyle la fissò stranito per alcuni attimi, prima di dire: “Ehi! Che succede?”
“Presto, venite! Andiamo a vedere i cavalli di Duncan! Pare che ce ne sia uno che da’ spettacolo, quando è in presenza di tanti licantropi!” rise Penny, trascinandolo con sé senza alcuna pietà.
Blair si accodò con passo tranquillo, sghignazzando senza pudore nel vedere i due allontanarsi a braccetto.
Liam le si affiancò, lanciò un’occhiata nella stessa direzione e, con ironia, disse: “Devo dire che la tua Sköll ha l’argento vivo addosso. Un po’ come la mia.”
Blair assentì e, quando anche Colin si avvicinò a lei, la ragazza dichiarò ironica: “Devo mettere in guardia il mio Hati, perché ti faccia abbassare la cresta?”
“Oh, no… non ti preoccupare” ironizzò Colin, passandosi una mano tra la folta chioma bruna. “Ho una tensione al collo tremenda, a causa dell’ansia che mi ha fatto venire il tuo Kyle. Avevo il terrore di avvicinarmi troppo a Penny, anche per errore, e di scatenare la sua gelosia.”
Blair non ce la fece. Rise di gusto e, preso sottobraccio Colin, ammise: “Kyle è buono come il pane, ma guai a toccargli Penny. Lei non se n’è ancora accorta, ma mi pare evidente che lui sia cotto come una pera, e chiunque tenterà di avvicinare la mia Sköll, avrà prima a che fare con lui.”
“Non invidio il malcapitato” sorrise divertito Liam. “Ma perché, semplicemente, non glielo dice? Mi sembra che anche Penny sia interessata a lui o che, comunque, si trovino bene insieme. Per lo meno, da quel che ho visto.”
“Perché Penny è così. Lei dispensa amore e attenzioni a tutti, e lo fa con il più totale altruismo. E’ difficile dire cosa pensi veramente, anche per persone che la conoscono da anni come me” sospirò Blair, non sapendo davvero che pesci prendere.
Le spiaceva vedere Kyle così sulle spine, ma non voleva intromettersi in una faccenda che non la riguardava direttamente.
Inoltre, voleva bene a entrambi, e non era davvero il caso di mettere il becco in faccende simili.
“Forse, se gli dicessi che mi piacciono i ragazzi, si rilasserebbe almeno in mia presenza, che dici?” le propose Colin, strizzandole un occhio.
“Solo se è la verità. Diversamente, penso ti strangolerebbe” replicò Blair, sospirando dentro di sé per quello spreco di materiale di prim’ordine.
“Assolutamente la verità. Vero, Liam?” ghignò Colin al fratello.
“Oh, eccome, Blair. Mio fratello è gay al cento percento. Penso sia il re dei gay. Non ha mai avuto dubbi, e io lo invidio molto per questo, perché le certezze nella vita sono importantissime” chiosò Liam, sorridendo con affetto al fratello maggiore.
“Perché, tu non hai ancora deciso da che parte buttarti?” esalò Blair, ora curiosa come non mai.
I due fratelli esplosero in una risata di gola, e scossero all’unisono il capo.
Quando infine si calmarono, Liam riuscì a dire: “No, ma ho maree di lupe arrapate che non vedono l’ora di impalmarmi, e io invece le rifuggo tutte perché so a cosa mirano, e mi fanno un po’ schifo, onestamente.”
“E’ un problema che hanno avuto in tanti, ma penso sarai in grado di scegliere per il meglio, quando scoprirai chi è la donna giusta per te” motteggiò Blair, sorridendogli con sicurezza.
“E per te? Esiste già un potenziale Primo Lupo, o ti lasci ancora tempo per pensarci?” le domandò curioso Colin.
“Io? Io mi lustro gli occhi, e lo farò ancora per anni e anni, onestamente” sorrise furba Blair, lanciando un’occhiata maliziosa a Colin, che replicò con altrettanta malizia. “Peccato per il qui presente, ma penso mi accontenterò comunque di sbirciare, se non darò fastidio.”
“Gli sguardi ammirati fanno sempre piacere… anche quelli delle donne” ironizzò Colin, sollevandole una mano per darle uno scherzoso bacio sul dorso.
Le risate di Penny, Kyle e Fianna interruppero il loro discorso faceto e, quando finalmente entrarono nella stalla, non poterono che unirsi al coro.
Michael, il lipizzano bianco, era davvero un fenomeno da circo.
In piedi nel suo box, stava giocando con la sua coda, mostrando al suo pubblico improvvisato il deretano enorme e bianco latte.
Penny, ancora ancorata al braccio di Kyle, se la stava ridendo della grossa mentre il ragazzo al suo fianco, più impegnato a guardare lei, si domandò per l’ennesima volta perché non avesse il coraggio di parlarle.
Si conoscevano fin da quando lei era giunta da Belfast, avendo avuto la fortuna di capitare nella stessa classe assieme.
Assieme a Blair, avevano composto la loro Triade di Potere nel breve lasso di pochi mesi l’uno dall’altra.
Se per Blair era stata quasi una conferma senza sorprese – era sempre stata una leader, fin da piccolissima – per Kyle era stata un’autentica sorpresa.
Mai nessuno, nella sua famiglia, aveva fatto parte di una Triade.
Questo, non l’aveva solo reso orgoglioso, ma gli aveva dato anche qualche speranza in più.
Essere allo stesso livello di Penny lo aveva reso più sicuro di sé, più coraggioso… ma così tanto da dichiararle ogni cosa.
Come avrebbe fatto a dirle tutto, rischiando così di rovinare la loro bellissima amicizia?
Ci teneva a lei, in un mondo di modi diversi e tutti più che importanti per lui, ma voleva di più, desiderava che Penny fosse la sua Penny.
Non la Penny di qualcun altro e, soprattutto, non la Penny di Colin Laroche.
Il punto, comunque, era un altro, e si riduceva a un’unica domanda: era o non era in grado di dirglielo?
Al momento, sembrava proprio di no.
***
Impegnata in una corsa sfrenata intorno ai tavoli assieme al fratellino, a Matthew – il figlio di Becca e Fred – e a Maggie, la cucciola di Estelle e Bright, Penny appariva lontana mille miglia da lui.
Poggiato contro lo steccato che delimitava l’area destinata ai cavalli, Kyle si irrigidì appena quando vide Colin avvicinarsi a lui con un paio di piatti ricolmi di patatine e torta salata.
Non aveva parlato molto con lui ma, in compenso, Penny aveva colmato le sue lacune ampiamente. Anche troppo, per i suoi gusti.
Quando infine il giovane ed elegante Laroche si fermò al suo fianco, porgendogli un piatto con aria sorniona, Kyle accettò l’offerta e domandò: “Stai scappando dal caos sotto i tendoni?”
“Tra le altre cose” ammise Colin, afferrando una patatina per poi addentarla. “Ma volevo anche evitare che ti venisse un infarto.”
“Perché, scusa?” borbottò Kyle, adombrandosi immediatamente.
Il giovane Laroche scrollò le spalle, replicando con calma olimpica: “Perché ho visto come sei protettivo nei confronti di Penny, e non volevo monopolizzare il suo tempo. Anche se è bello averla attorno. E’ una ragazza adorabile.”
Imprecando tra sé per il desiderio di spaccargli la faccia, pur non potendo, Kyle azzannò nervoso un pezzo di torta salata e bofonchiò: “Sì, è adorabile. Ma non devi pensare che serva il mio permesso, per stare in sua compagnia. Se ti ho dato questa impressione, mi scuso.”
Colin allora rise sommessamente, lo fissò per un attimo con aria comprensiva e infine disse: “Non devi scusarti di nulla. anzi, sono io che dovrei farlo, se ti ho dato l’impressione sbagliata di essere interessato a lei.”
“Non ci sarebbe nulla di male. Sarebbe un casino a livello logistico, ma non sarebbe comunque vietato” precisò Kyle, pur faticando a mettere in riga le parole.
Avrebbe voluto dire ben altro, a quel pallone gonfiato dalla faccia perfetta!
“Oh, lo so. Peccato che non mi piacciano le ragazze” ironizzò Colin, ammiccando.
Kyle sbiancò in viso, a quel commento buttato lì con assoluta naturalezza e Laroche, scrollando appena le spalle, aggiunse: “Non è un segreto per nessuno, e non voglio avere sulle spalle la vittima di una crisi di nervi, se posso evitarlo.”
“Ancora non capisco perché…”
Colin, a quel punto, tornò del tutto serio e, soppesando tra le mani una patatina, asserì: “Far finta di niente non aiuta te, e non aiuta lei a farsi chiarezza. Diamine, Penny è adorabile e, come dice la tua Fenrir, dispensa amore solo standole accanto. E’ una creatura dolcissima e carica di un’energia così positiva da essere quasi accecante. Ma mentirle è ingiusto.”
Sospirando suo malgrado, Kyle borbottò: “Ci legano troppe cose, e rovinerei tutto, se le dicessi quello che provo per lei.”
“Quindi, le mentirai finché Penny non vedrà qualcuno che non sei tu, perché ti considererà sempre e solo l’amico che l’accompagna nelle sue avventure, ma non vi partecipa mai con il cuore?” gli fece notare Colin, senza pietà alcuna.
“Io sono sempre partecipe!” sbottò Kyle.
“Se lo fossi davvero, glielo avresti detto. Invece ti mantieni sempre un po’ a distanza, e questo potrebbe allontanarla, col passare degli anni. Potrebbe farla sentire indesiderata, alla fine” gli fece notare Colin, tornando a parlare con estrema comprensione.
“Tu che ne sai? Non la conosci come la conosco io.”
Colin, allora, ammiccò mestamente e disse: “Quando ti piace qualcuno che non ricambia, la vita è dura, amico. Molto dura.”
“Oh” esalò Kyle, facendo tanto d’occhi.
“Per questo ti dico, visto che ti piace tanto, non darle l’impressione che le stai vicino solo perché lo vuole lei. Deve capire che anche tu vuoi stare in sua compagnia e non come prima, alle scuderie, quando facevi di tutto per stare a distanza di sicurezza da lei, senza però mollare il suo fianco. Sono input contrastanti.”
Ripiegato il capo in avanti, Kyle si prese la testa tra le mani e, sospirando afflitto, gracchiò: “La vorrò sempre come amica, anche se lei decidesse per qualcun altro che non sia io. Se le dicessi tutto, lei potrebbe rimanerci male, nella malaugurata ipotesi che non provasse le stesse cose per me, e non voglio vederla soffrire a causa mia.”
“Quindi, vivrai per sempre nell’ombra?” mormorò Colin, spiacente.
“Non me la sento di turbarla proprio ora con i miei sentimenti. E lei ha tutto il diritto di guardarsi in giro, anche se a me da fastidio e anche se, nel caso specifico, ho solo fatto la figura dell’idiota, pensando chissà che cosa” cercò di ironizzare Kyle, abbozzando un sorriso.
Colin allora rise, si passò una mano tra i capelli bruni e setosi e, compiaciuto, ammise: “Sì, in effetti, capisco il tuo errore. Le donne farebbero follie per me… peccato che la cosa sia a senso unico.”
A quel punto, i due scoppiarono a ridere e, quando Liam li raggiunse coi beveraggi, domandò: “Tutto okay, tra voi due?”
“Ho chiarito tutto” assentì Colin, afferrando dalla mano del fratello una lattina di Coca-Cola.
“Bene. Non vogliono ci siano dissidi con il Clan di Bradford” dichiarò soddisfatto Liam, sorridendo a Kyle.
“Tutto regolare, Liam. E scusa se ti ho preoccupato con le mie insulse gelosie” replicò Kyle, scrollando le spalle con contrizione.
“Ehi, amico! Sarebbe strano il contrario. Chi non potrebbe non essere geloso di una ragazza simile? Anch’io sono geloso della nostra Fianna, anche se non per motivi sentimentali. E’ così adorabile e sincera che mi viene spontaneo proteggerla, anche se lei poi, mi rivolterebbe sulle ginocchia per sculacciarmi!” rise Liam, passandosi nervosamente una mano sulla nuca, quasi a voler intendere che un evento simile si era già svolto.
Kyle e Colin risero con lui e, quando l’ilarità fu scemata, Colin ammise: “Fianna può esplodere peggio di un vulcano islandese, se le cose non le piacciono… o se noi facciamo troppo i galli cedroni con lei.”
“Non si sa mai come prendere le misure, insomma” sospirò Kyle, lanciando un’occhiata a Penny che, proprio in quel momento, si volse verso di lui per sorridergli.
Finendo con lo sbattere contro il torace di Eric Goudall, Fenrir del clan di Coulchester, che stava tenendo in braccio il figlio Ford, di due anni e mezzo.
“Oddio…” esalarono i tre ragazzi, guardandola a occhi sgranati mentre Penny, ballonzolando all’indietro, veniva afferrata dal braccio libero di Eric.
Penelope, a quel punto, si scusò a profusione mentre Ford scoppiava in una gaia risata ed Eric le dava una pacca sulla testa.
L’attimo seguente, Alec li raggiunse per assicurarsi che tutto andasse bene e, tra i due Fenrir, passarono diverse battute riguardanti l’attenzione di Penny e la sua velocità nella corsa.
Tutto sembrava essersi risolto bene, tranne che per Penny che, in quel momento, mostrava i segni di una contrizione assoluta.
“Vai da lei e consolala. Ho idea che ne abbia bisogno” mormorò Colin, dando una spintarella a Kyle che, dopo un attimo di tentennamento, corse dall’amica.
Rimasto con il fratello, Liam gli domandò: “Glielo dirà, secondo te?”
“No. Non è ancora pronto” scosse il capo Colin, mangiandosi l’ennesima patatina. “Ma, per lo meno, ha ammesso ad alta voce che Penny gli piace. E’ sempre la parte più difficile, ammetterlo con qualcuno che non sia te stesso.”
Liam fissò spiacente il fratello maggiore e, subito, lo sguardo gli corse a Carter Jones, giovane Freki del loro branco.
Di nove anni più grande di Colin, era il suo amore segreto… e non corrisposto.
Carter era etero al cento percento e, anche conoscendo i sentimenti di Colin, non gli aveva però mai fatto mancare il suo affetto e sostegno, pur non potendo corrispondere il suo amore.
Colin gli era grato per le sue attenzioni, anche se non sapeva se fossero più un danno, per lui, che un favore.
D’altra parte, rinunciare alla sua amicizia gli pareva una cosa impossibile da contemplare così… beh, viveva il suo dramma personale con stoicismo, in attesa di farsela passare.
“Tutto bene, Colin?” gli domandò Liam, battendogli una mano sulla spalla.
“Io sono okay. Ma mi preoccupa Kyle. Spero non commetta l’errore di stare in silenzio troppo tempo. I treni vanno presi al momento giusto, o si rischia che non tornino mai più nella tua stazione” borbottò Colin, sospirando.
“Torniamo in mezzo agli altri… diventi malinconico, a stare da solo” ironizzò Liam, trascinandolo con sé.
Colin si lasciò portare via da quell’angolo di pace e, con lo sguardo, cercò Penny e Kyle, trovandoli in un angolo appartato, intenti a parlare.
No, non gliel’avrebbe detto ma, almeno per quel giorno ancora, poteva fare le parti dell’amico sincero.
Quanto avrebbe potuto durare, senza ammettere la verità, non lo sapeva, ma sperava per entrambi che andasse tutto bene.
Note: E così, conosciamo la nuova triade del clan di Bradford, oltre a quella del clan di Cardiff, di cui sentiremo ancora parlare.
Scopriamo così che Penny ha uno spasimante e che, a quanto pare, non sembra ancora sicuro di voler spifferare tutto con lei. Colin avrà ragione a dirgli di non aspettare troppo? Lo scopriremo nella prossima OS dedicata a loro.
Spero che le new entry vi abbiano incuriosito (e, per quanto riguarda i loro presta-volto, arriveranno con la prossima OS, quando saranno un po' più grandicelli).
Grazie per essere passate!
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Capitolo 25 *** Essere lupa... e donna (Settembre 2021) Penny ***
Essere lupa… e donna (Penny)
Settembre 2021
Atterrando Penny con una spallata, Kyle balzò vittorioso su uno sperone di roccia che si gettava direttamente sulle spianate del Peak, e ululò.
Poco dietro di lei, stizzita e pronta a dar battaglia, Penny si rialzò sulle zampe rossicce e fece per avanzare bellicosa verso Kyle, ma Spike la fermò con un ringhio.
Trotterellando come se nulla fosse, Blair fissò la sua seconda in comando, ghignò con le zanne snudate e, mentalmente, disse all’amica: “E dire che, ormai, dovresti conoscere Kyle, no?”
“Che è uno stronzo? Sì, lo so, ma i limiti della sua stronzaggine sembrano non esistere” brontolò Penny, fissando poi contrita il padre, che giunse loro accanto assieme a William.
“Sbaglio, o si era detto niente parolacce?” brontolò Alec, fissando torvo la figlia. “Kyle si è attenuto alle regole… visto che non ce n’erano, a parte non ammazzarvi. Invece, tu ti sei fidata della tua velocità senza badare alla posizione del tuo diretto avversario, e hai lasciato scoperto il fianco.”
Sbuffando, Penny si volse a guardare Spike che, però, assentì e aggiunse: “Tuo padre ha ragione. Inoltre, dovresti ricordati che, quando vi allenate, non siete fidanzatini, ma solo avversari. Lui se lo ricorda, tu no.”
Se un lupo avesse potuto arrossire, Penny sarebbe sicuramente divenuta vermiglia.
Era difficile mantenere segreti di tale portata, quando ti allenavi con menti così potenti.
Inoltre, lei e Kyle non stavano insieme da tanto – solo da tre mesi – e gli ormoni parlavano molto più spesso della sua bocca.
Maledetta lei e gli estrogeni!
Trottando indietro, l’Hati che era Kyle le si avvicinò come a voler chiedere scusa, ma William lo bloccò e disse: “Non devi chiederle perdono, Kyle. Hai vinto regolarmente, sfruttando un suo punto debole per avere la meglio. Lo scopo della gara era, per l’appunto, smussare i propri punti deboli e migliorarsi. Tu l’hai fatto, lei no.”
“D’accordo, ma non si potrebbe evitare di rivangare troppo la cosa?” protestò debolmente Kyle, facendo infuriare Penny per diretta conseguenza.
“Non ho bisogno che tu mi difendi, Kyle!” sbottò l’interessata, fissandolo rabbiosa.
Sul gruppo scese un silenzio imbarazzato, condito solo dallo sfrigolare dell’aura furente di Penny.
A quel punto, Blair si mise e in mezzo e disse: “Pregherei la vecchia Triade di darsi alla macchia per un po’. Devo parlare con i miei sottoposti.”
Alec assentì col muso e, dopo aver lanciato un’occhiata ai suoi due compagni, si avviò verso le ombre scure della notte e i boschetti del Peak District.
Rimasti soli, Blair guardò il suo Hati e la sua Sköll dopodiché, con un sospiro, si accucciò sulle zampe e mormorò: “Penny, è inutile che fai la sostenuta. Non hai ragione. Punto.”
“Oh, grazie, Blair! Sei davvero simpatica! E dire che ti consideravo mia amica!” sibilò Penny, raspando a terra nervosamente con una zampa.
Kyle si limitò a imitare la posa della sua Fenrir e, spiacente, fissò la ragazza – ops, lupa – del suo cuore e sperò in un suo sguardo di rimando.
Nulla da fare.
Penny era davvero furiosa, pur se non comprendeva bene perché.
Lei aveva vinto in velocità decine di volte, e lui si era dovuto scervellare non poco per trovare, nella sua corsa, un punto debole in cui colpirla.
Non poteva fargliene una colpa se aveva trovato il modo di vincere! Il loro allenamento consisteva nel migliorarsi!
Ugualmente, gli spiaceva essere in rotta con lei perché, dopotutto, si stava parlando della ragazza per cui aveva una cotta fin da quando lei si era trasferita da Belfast.
Era stato uno shock, per Kyle, ritrovarsela in classe, quell’autunno del duemiladieci.
Quella candida ragazzina dai capelli biondi e gli occhi di cielo, apparentemente fragile e docile come un agnellino, si era presto dimostrata un osso duro.
E una creatura adorabile.
Molti ragazzi, a scuola, le avevano fatto la corte in modo più o meno sfrontato – per lo meno, i ragazzini normali, non certo i figli di licantropi – ma lei aveva sempre nicchiato.
Per molti anni era stata irraggiungibile e, quando si era scoperto sarebbe stata la prossima Sköll del branco, Kyle si era sentito più inadeguato che mai.
Era stato un sollievo, dopotutto, giungere alla mutazione, pur con tutti i timori del caso.
La wicca di Matlock aveva dovuto richiamarlo con il sangue ma, alla fine, tutto era andato per il meglio e, quando aveva squadrato il suo manto nero, ne aveva gioito.
Dopotutto, non sarebbe stato un semplice mánagarmr, ma un membro della Triade, un Gerarca.
Un lupo degno di quella creatura indomabile che era Penelope Dawson.
Scoprire in Blair Donovan la futura Fenrir non era stata una sorpresa, visto che proveniva da una famiglia dal sangue quasi puro.
Inoltre, fin da piccola, Blair aveva dimostrato le indubbie capacità di un leader. Dove Penny eccelleva per dialettica e tenacia, lei compensava con strategia e calma.
Erano complementari in tutto, e questo sarebbe stato un bene per il branco, in futuro.
E lui avrebbe pensato a tenere al sicuro entrambe, pur amando Penny.
Restava da capire se quest’ultima avrebbe accettato la sconfitta in quella gara – non le piaceva perdere – o se questo avrebbe minato il loro rapporto.
Sperò davvero di no.
Riportandolo con i piedi per terra, Blair dichiarò: “Non voglio drammi nella mia Triade. Se non siete in grado di gestire il vostro rapporto, e il vostro ruolo, allora abbiamo un problema serio. Dovrete lavorarci su.”
Penny fissò entrambi con aria aggrottata e, dopo un istante, fece un cenno ossequioso col muso e se ne andò di corsa, macinando il terreno sotto le zampe.
Kyle la lasciò andare. Non era quello il momento di parlare.
Fissandolo turbata, Blair gli domandò: “Non la segui?”
“E’ una vita che la seguo, Blair. Posso stare senza di lei per qualche ora. Inoltre, non spetta a me farle passare la rabbia, ma a lei stessa.”
“Saggia decisione, mio Hati. Allora, torniamo pure alle auto. Attenderemo lì il ritorno della nostra compagna” dichiarò Blair, dandogli un colpetto con la spalla.
“Dici che ho fatto male a darle quella spallata?”
Blair rise, scuotendo il muso, e replicò: “Era la gara che lo esigeva e, visto che in gara c’eravate voi, è stato giusto così. Penny è molto orgogliosa del suo ruolo, oltre che orgogliosa di suo padre, e non vuole mai sfigurare quando c’è lui. Inoltre, perdere proprio contro di te la fa andare in bestia. Temo pensi che tu non possa stimarla, se si dimostra debole.”
Kyle la fissò con occhi adamantini sgranati per la sorpresa, e Blair assentì, dando peso al suo dire.
“Ti stima così tanto da non voler essere un peso, per te. Dimostrarsi la più brava in tutto serve anche a questo, non solo a rendere fiero il padre, o il suo mentore.”
“La amerei anche con mille difetti” sottolineò per contro Kyle.
“Stai parlando di una donna, Kyle, e di una lupa. Un concentrato di estrogeni e forza bruta allo stato puro. Davvero troppo, perché non ne venga qualche problema” ironizzò Blair, accelerando un poco il passo.
Kyle non seppe che dire e, seguendo la sua Fenrir, accelerò l’andatura mentre la luna illuminava il loro percorso lungo la brughiera.
***
Poteva ricordarlo come se fosse successo il giorno precedente.
Entrambi iscritti all’università di Bradford, pur se lei alla facoltà di Legge, e lui a quella di Informatica, potevano vedersi praticamente tutti i giorni.
Fin da quando si erano conosciuti alle scuole elementari, al suo arrivo a Bradford, Kyle era sempre stato il suo amico fidato, la sua spalla, il suo confidente.
Insieme ne avevano combinate di tutti i colori, anche con la complicità di William e Spike e, quando Penny aveva scoperto che Kyle sarebbe stato il prossimo Hati, ne era stata felice.
Sarebbe stato splendido guidare il branco con lui al fianco, lui che sapeva essere un ragazzo fidato e sincero.
Blair era stata solo la ciliegina sulla torta visto che, fin dall’inizio, Penny l’aveva idolatrata al pari di una dea.
Per lei, ciò che usciva dalle labbra di Blair equivaleva a vangelo.
Scoprirla come sua Fenrir era stata una gioia e, insieme a Kyle, avevano festeggiato non poco la sua investitura.
Insieme era divenuti grandi, oltrepassando un’adolescenza costellata di divertimento, allenamenti, studi e dure prove.
Nulla, però, l’aveva messa alla prova come il bacio che Kyle le aveva strappato una notte di luna piena di tre mesi addietro.
Soli, durante una perlustrazione notturna nei pressi dei confini meridionali del clan, Kyle l’aveva distratta mostrandole la curiosa vicinanza della luna con Venere e, a sorpresa, l’aveva baciata.
Lei ne era rimasta così colpita da rimanere impalata per diversi secondi, incapace di riconnettere la mente per capire cosa stesse succedendo.
Quando, però, le sinapsi del suo cervello avevano ripreso a funzionare, le sue mani si erano artigliate alla maglietta di Kyle e l’avevano attirato a sé per approfondire il bacio.
Questo, aveva chiuso la partita.
Che lei si fosse o meno resa conto di aver trasformato, nel suo cuore addormentato e un po’ tonto, la loro amicizia in amore, poco aveva importato, in quell’istante.
Aveva desiderato che quel bacio continuasse fino alla fine del mondo e, quando infine si erano allontanati, i volti di entrambi avrebbero potuto bruciare l’intera foresta.
Kyle le aveva accarezzato le gote in fiamme, aveva sorriso con tenerezza e, con voce solo a stento controllata, le aveva mormorato il suo amore.
Penny aveva riso nervosamente, si era stretta a lui e, nascondendo il viso nel suo torace, aveva ammesso di ricambiare.
Insieme, erano poi tornati sui loro passi, mano nella mano e, meno di un mese dopo, avevano dovuto ammettere ogni cosa coi rispettivi genitori, oltre che con gli altri Gerarchi.
Blair non se n’era stupita per nulla e se, per Alec, era stato un po’ difficile mandare giù l’idea che un ragazzo ronzasse attorno alla sua Penny, alla fine aveva digerito la cosa.
“Andrai avanti ancora per molto a rivangare il passato, ranocchia?” brontolò alle sue spalle Spike, seduto a poca distanza da lei da almeno un’ora.
Penny lo frizzò con lo sguardo, borbottando di rimando: “Nessuno ti ha chiesto di rimanere, Godzilla. Posso benissimo starmene qui a crogiolarmi nella mia stupidità congenita. Alla fine, mio padre naturale non mi ha passato solo il suo manto, ma anche la sua idiozia.”
“Ah, quella può avertela passata anche Alec, se è per questo. A volte, sa essere più idiota di un asino ragliante” ironizzò Spike, facendola ridere nonostante tutto.
“Il fatto rimane. Me la sono presa con Kyle per una cosa assurda, e ora lui mi odierà.”
“Se ti odia per una scemenza simile, allora non merita il tuo affetto, ranocchia. Ma non penso proprio che il ragazzo ti abbia veramente ascoltata, o vista al tuo peggio. Aveva le orecchie turate dall’amore, e gli occhi a cuoricino, per cui…”
Ciò detto, mimò un conato di vomito e Penny, guardandolo esasperata, dichiarò: “Non è un caso se ti chiamo Godzilla. Hai la stessa sensibilità di quel lucertolone gigante, cioè zero.”
“Scusami se non sono un amante dei film d’amore e delle scene strappalacrime” ghignò Spike, scrollando le sue spalle di lupo. “Comunque, volevo solo dirti, ora che hai il cervello libero da tutto quel miele, che devi chiedere scusa non solo a Kyle, ma a me e gli altri. Non ci si comporta così. Non ti ho insegnato così.”
“Ragionissima,… scusa, Godzilla. Ma gli estrogeni sono un po’ alti, in questi giorni, e il miele mi ha fatto alzare la glicemia, così sono schifosamente languida e melensa” ironizzò Penny, allungandosi per leccargli il muso.
Spike si scostò disgustato, da sempre restio ad accettare gesti d’affetto – pur se, da lei, si lasciava avvicinare un pochino – e, orripilato, esclamò: “Dio, ti prego, Penny! Tieni queste smancerie per il tuo bel Kyluccio! Io non ho bisogno di venirne contaminato! Mi verrebbe subito il diabete!”
Penny scosse il muso con espressione rassegnata e, avviandosi verso le loro auto – parcheggiate a diverse miglia di distanza –, borbottò: “Sei davvero un caso senza speranza, Spike. Non troverai mai una donna che ti voglia, di questo passo.”
“Sto benissimo da solo, ranocchia dei miei stivali. Gracida in un altro stagno, perché questo in particolare non vuole rane di nessun genere, a creare casino e fastidi.”
“Asociale” celiò Penny.
“Dispensatrice di diabete” replicò Spike.
“Esasperante lupastro dei miei stivali” ritorse allora la ragazza, lanciandosi in un trotto leggero.
“Femminuccia in periodo di pre-mestruo.”
“Spike!” rise Penny, correndo infine a tutta velocità, subito seguita a ruota dalla risata reboante del suo mentore.
***
Se c’era una cosa in cui non difettava Kyle, era lo stile.
Era sempre stato un ragazzo elegante, con uno spiccato senso della moda.
Pur se, durante l’adolescenza, questo gli aveva attirato qualche battuta di troppo, dopo essere mutato in lupo tutto ciò si era azzerato di colpo.
Al primo pugno ben piazzato contro il bulletto di turno, le ironie gratuite erano svanite come neve al sole.
Penny ne aveva sempre ammirato lo stile e, segretamente, lo aveva anche invidiato.
Lei non era mai stata così brava, con gli abbinamenti.
Quella sera, quando passò da casa sua, era come di consueto perfetto.
Indossava un dolcevita grigio ghiaccio, i capelli pettinati con il gel erano tirati all’indietro per lasciare scoperto il volto bellissimo e gli occhi di un azzurro quasi irreale.
Penny, in tuta da ginnastica e calzettoni, si sentì una vera sciattona, ma Kyle neppure guardò la sua mise.
I suoi occhi erano solo per lei, per i contorni del suo viso, per le profondità del suo sguardo ceruleo, per la sua bocca rosea piegata in una smorfia.
A Kyle non era mai importato che lei fosse negata, in fatto di moda, o gliene importasse ben poco.
“Posso entrare?” le domandò a un certo punto, visto che il silenzio tra loro si stava protraendo all’infinito.
Riscossasi, Penny assentì e lo lasciò entrare, sentendosi veramente un’idiota.
Perché riusciva a complicare anche le cose più semplici, come invitare una persona a entrare in casa?
Invitatolo a seguirla, si accomodarono in cucina – i familiari erano in sala a guardare un’amichevole di rugby – e lì, afferrata la scatola dei biscotti, domandò a Kyle: “Ne vuoi un po’? Li ho fatti oggi pomeriggio.”
“Se sono i tuoi biscotti con le gocce di cioccolato e, dal profumo, mi sembra di sì, accetto volentieri” le sorrise Kyle, accomodandosi al tavolo rettangolare della cucina rustica di casa Dawson.
Un poco più sicura di sé, Penny sistemò i biscotti su un piattino di ceramica e, dopo aver servito a entrambi del latte, si sedette a sua volta e mormorò: “Scusa.”
A Kyle quasi andò di traverso il biscotto.
Tossicchiando per tornare a respirare, lui la fissò dubbioso e replicò: “Per cosa, Penny?”
“Per la scenata idiota dell’altra sera. Non dovevo farla. Ho mancato di rispetto a voi tutti” mormorò contrita, allungando una mano sul tavolo per afferrare quella di Kyle.
Lui gliela strinse subito, intrecciando le loro dita con aria felice e, scuotendo il capo, ribatté: “Non ho bisogno di scuse, ma solo di sapere se mi vuoi ancora con te. Il solo pensiero di averti ferita non mi ha fatto dormire, ieri notte.”
Penny lo fissò a occhi sgranati e, scuotendo recisamente il capo, esalò: “Ma neanche per sogno! Cioè, insomma, certo che ti voglio ancora con me. Ero più preoccupata del contrario, veramente.”
Kyle, allora, le rise in faccia senza alcuna pietà e, dolcemente, mormorò: “Sei davvero una stupida, Penny Dawson, se pensi che una tua semplice sfuriata da parte tua possa allontanarmi da te.”
Penny storse appena la bocca, borbottando: “Okay, lo ‘stupida’ me lo sono proprio meritato… ma solo stavolta.”
“E tutte le altre volte in cui lo sarai… o che lo sarò io. Non dubito che, prima o poi, sarò io a combinarne una grossa, e non tu. Per allora, ti ricorderò che tu hai peccato per prima. Cosa che, di solito, ti viene molto bene.”
“Cosa, peccare?” sbuffò Penny, accigliandosi.
“Arrivare prima” replicò Kyle, sollevando le loro mani intrecciate per baciarne il dorso.
Lei arrossì appena, mormorando: “Voglio solo essere perfetta per te.”
“Lo sei già… anche con quella tuta e i calzettoni di Hello Kitty” sorrise Kyle, ammiccando.
Penny si sporse per guardarsi le calze con un moto di imbarazzo – Hello Kitty era la sua croce e delizia – e mormorò: “Lo so, non sono molto fashion.”
“Su di te, anche un completo da contadino sarebbe fashion. Perché non sono gli abiti a renderti bellissima, ma sei tu a brillare. A renderti irresistibile” dichiarò con semplicità Kyle.
“Se sono così irresistibile, perché ci hai messo tanto a vuotare il sacco?” replicò Penny, infilandosi in bocca un biscotto.
Il cioccolato si sciolse sulla lingua, scivolandole caldo e invitante lungo la gola e, per un attimo, desiderò baciare Kyle con le labbra ricoperte della stessa linfa piacevole.
L’attimo dopo, si riscosse, incolpando per l’ennesima volta i suoi ormoni. Maledetta lupa e il suo periodo fertile!
Avere lì Kyle, bellissimo e disponibile, la faceva diventare un’assatanata.
Apparentemente ignaro della sua battaglia interna, il ragazzo mormorò imbarazzato: “Se vuoi saperlo, a suo tempo, sono stato debitamente bastonato in merito.”
“Oh… e da chi?” esalò sorpresa lei.
“Da Colin del clan di Cardiff.”
A quel punto, Penny fece tanto d’occhi ed esalò: “E quando mai può averti… oh, aspetta. Al battesimo di Nathan?”
“Esatto. Notò subito il mio affetto speciale per te, e mi disse di non aspettare troppo a parlartene, perché questo avrebbe voluto dire rischiare di perderti” ammise Kyle, sorridendo mesto.
“E così, tu l’hai ascoltato ma non hai seguito il consiglio, e ti sei dovuto sorbire la sottoscritta e i suoi sei mesi folli con Butch O’Bryan” sospirò Penny, scuotendo il capo al ricordo.
I diciassette anni erano stati il suo momento più basso, quanto a capacità di discernimento.
Certo, Butch era bello, forte, affascinante, maledettamente coinvolgente… ma era umano, in primo luogo.
E, secondariamente, era un idiota che amava farsi più ragazze contemporaneamente.
Quando lo aveva scoperto, non solo si era sentita un’idiota patentata, ma aveva avuto anche la brillante idea di sfogarsi proprio con Kyle.
Col senno di poi, doveva dare atto che il ragazzo era stato assai disponibile e comprensivo, con lei.
Oltre che dannatamente paziente.
“E’ stata anche colpa mia. Avrei dovuto farmi avanti, avere più fede nei miei sentimenti” cercò di consolarla lui.
“Io non ero pronta” sottolineò però Penny. “Forse, avrei trovato la cosa assurda, perché ti volevo solo come amico. Ma, da quel momento, da quando tu mi hai consolata a quel modo, pensando solo a me e al mio cuore infranto, qualcosa è cambiato.”
Sorrise, sentendosi una stupida ad ammettere tutto, ma trovandolo più giusto che mai a ogni secondo che passava.
“Ho cominciato a vederti con occhi nuovi, a notare cose che, in precedenza, non avevo visto e, quando mi hai baciata… è uscito tutto. Ogni pezzo del puzzle che stavo costruendo su di te, si è messo magicamente a posto.”
“Quindi, devo ringraziare Butch per essere l’idiota che è?” ironizzò Kyle, facendola ridere.
“Oh, no. Lui ha già avuto anche troppe attenzioni, da parte nostra” sorrise Penny. “Ma Blair ha ragione. Dobbiamo imparare a gestire meglio il nostro rapporto. Io devo essere meno competitiva, e tu lo devi essere di più.”
“Anche se questo comporterà farti perdere qualche volta?”
“Sì. Devo capire che non è la perfezione che cerchi, ma solo me stessa, per quella che sono” sorrise Penny, levandosi in piedi per allungarsi verso di lui e dargli un bacio. “E tu devi capire che non è la perfezione che cerco, ma solo te stesso, per quello che sei.”
Kyle la trattenne, avvolgendole la nuca con una mano per approfondire il bacio, e Penny glielo lasciò fare.
Qualche attimo dopo, però, si scostò con uno strillo, quando Alec aprì di botto la porta della cucina e, gelido in viso, chiosò: “Andiamoci piano, d’accordo, ragazzi?”
Dal salotto, la voce di Erin si elevò come una tempesta, urlando al marito. “Alec! Torna subito QUI!”
Lui sbuffò a quel richiamo e, dopo un ultimo sguardo a Kyle, che sentì le sue carni raggelare di paura, svanì dallo specchio della porta e tornò dalla moglie a passo pesante.
Kyle e Penny si guardarono, i rispettivi cuori che battevano all’impazzata per lo spavento preso ma, alla fine, risero divertiti.
Nel tornare a sedersi, la ragazza mormorò: “Ci vediamo venerdì sera al pub?”
“Preferivo portarti al cinema a vedere l’ultimo film della Marvel.”
“Oh… cinema” ammiccò lei, pensando alla sala buia, alle immagini potenti e…
Basta, mia lupa! Non posso saltargli addosso e mangiarlo!, brontolò con se stessa, cercando di chetare i suoi pensieri.
Kyle, a quel punto, sorrise imbarazzato e, nel mordicchiare un biscotto, mormorò: “Credo che sia un po’ presto, per quel genere di venerdì sera.”
“Già” sussurrò contrita lei, coprendosi il viso con le mani per la vergogna.
Il ragazzo, allora, si levò in piedi, aggirò il tavolo e, chinatosi accanto al suo orecchio, le sussurrò: “Non vedo l’ora, però. E so già che sarà bellissimo, con te.”
Penny avvampò nel sentire il fiato caldo di Kyle accarezzarle la pelle e, prima che lui potesse scostarsi, lo afferrò e lo baciò con maggiore passione rispetto a prima, strappandogli un ansito.
“Pen…”
Dal salone, Alec iniziò a richiamare la figlia, ma Erin gli tappò la bocca, trattenendolo sul divano con il suo peso e, in seguito, con un bacio travolgente che stordì il marito.
Questo permise alla figlia di proseguire nel suo, di approccio e, quando Kyle la sollevò dalla sedia per stringerla a sé, ansò contro la sua bocca: “Ti prego, Penny… non ora… non così…”
Penelope dovette prosciugare ogni stilla delle sue forze, per allontanarsi da Kyle e, ansante e piena di desiderio, ansò: “In questo momento, odio la mia lupa.”
“Io la amerò sempre, invece, anche se ora devo correre via a gambe levate” ironizzò Kyle, avviandosi verso la porta.
Con un ultimo sorriso, il ragazzo si volatilizzò e Penny, crollando esausta sulla sedia, esalò: “Mio Dio… quando arriveremo al dunque, uno dei due morirà di sicuro.”
Sulla porta della cucina, una piuttosto accaldata Erin replicò: “Non morirete… ma sarà bellissimo.”
Penny lanciò un secondo strillo di paura, non aspettandosi l’entrata in scena della madre e, fissandola bieca, esalò: “Ma vi siete messi d’accordo, tu e il papà, per farmi morire di paura?”
“No. E, ora che ci penso… Penny, vai a fare una passeggiata, per favore” ammiccò la madre, tornando subito dopo in salotto.
Cogliendo al volo il messaggio, Penelope si affrettò a uscire di casa prima di sentire troppo, e peggiorare così la sua situazione.
Benedetti ormoni!
Note: Spero che questo trittico su Penny vi sia piaciuto. Per le prossime OS mi occuperò di altri personaggi, anche se non so ancora bene quali. Direi che comunque vi ho dato un'idea di come procedono le cose, nel clan di Bradford. E' ora di occuparsi di un altro branco, adesso.
A presto, e grazie per essere passate!
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Capitolo 26 *** Per diritto di nascita (Dicembre 2022) Keely ***
Per diritto di nascita (Keely) –
Dicembre 2022
Passeggiare per i boschi era sempre bellissimo, specialmente
quando la neve cadeva fitta come quel giorno.
Ma, più di ogni altra cosa, era bello perché era in compagnia
di suo padre.
Keeely aveva amato il padre Lance al primo sguardo e, nel
corso degli anni, questo sentimento non era che cresciuto, facendosi sempre più
forte e profondo.
La mamma Mary Beth, sempre amorevole con entrambi, aveva
riempito l’altra metà del suo cuore e, in tutta onestà, Keeely non era sicura
esistesse al mondo persona più amata di lei.
Forse, solo suo nipote Nathan.
La divertiva il pensiero di avere un nipote, pur essendo lei
poco più di una bimba, eppure era così.
Gli strani casi della vita avevano voluto che sua sorella
Brie fosse adottata da Mary Beth, assieme al fratello Gordon.
Così, quando era nata lei, Brie e Gordon erano diventati per
legge suoi fratelli… e lei, era diventata zia alla nascita del piccolo Nat.
Adorava suo nipote, ogni sua espressione, ogni suo colpo di
testa, persino i suoi pianti.
Lo aveva visto crescere, era stata con lui fin dal primo
momento e poteva dire, in tutta onestà, di considerarlo più un fratellino, che
un nipote.
“Pensieri profondi, Keely…” mormorò al suo fianco il padre,
sorridendole nello spazzolarle una spalla dalla neve.
Lei assentì, mentre gli scarponcini schiacciavano il manto
nevoso, che scricchiolava a ogni loro passo.
“Abbiamo una famiglia strana, ma non la cambierei per niente
al mondo” dichiarò lei, balzellando in avanti per un paio di metri prima di
aprirsi in un sorriso tutto per il padre. “Neanche se mi regalassero un milione
di gelati, tutte le torte dell’universo… e anche gli M&M’s!”
Lance rise – sua figlia era notoriamente golosa – e, nel
tornare al suo fianco, le domandò: “Rientriamo? Ormai è tardi, e la mamma
dovrebbe rientrare dall’ospedale nel giro di poco.”
“Dici si preoccuperebbe, non…” iniziò col dire Keely prima di
bloccarsi, il fiato mozzo e le gambe rese deboli da una scossa improvvisa di
energia.
Il padre si accigliò subito e, torvo, lanciò un’occhiata al
cielo nuvoloso.
Non poteva vederla, ma sentirla, sempre.
La luna si era levata all’orizzonte, e il pallore di Keely
poteva voler dire una cosa sola.
Afferratala, la prese in braccio per ricondurla subito a
casa, ma l’urlo disumano che lacerò l’aria, lo spinse a bloccarsi.
Keely inarcò la schiena al punto tale che, per poco, Lance
non rischiò di farla cadere perciò, controvoglia, si fermò e la poggiò a terra.
Come era prevedibile, bruciava come per una febbre improvvisa…
pur se non lo era affatto.
Era il Mutamento. E lui era nel bel mezzo del bosco del
Vigrond, lontano almeno tre miglia dalla prima casa utile e troppo distante da
un qualsiasi licantropo perché li udisse.
Afferrò subito il cellulare ma, come sempre nel bosco, i
punti scoperti dalla banda, erano troppi… e quello era uno dei tanti.
Maledicendo la tecnologia, Lance si limitò a stringere le
mani tremanti di Keely che, spaventata, ansò: “Cosa… succede?”
“Stai cambiando, Keely. Ne avevamo parlato, ricordi? Ora devi
solo pensare a respirare. Concentrati sul potere della luna che sta entrando in
te. Lo senti?”
Il suo tono di voce appariva calmo ma, dentro di sé, Lance
stava morendo un respiro alla volta.
Fin da quando aveva udito il suo primo vagito, i suoi
pensieri erano stati colmati da lei e dalla donna che l’aveva partorita.
Keely e Mary Beth erano la sua vita e, senza di loro, sarebbe
stato meno di niente, un lupo solitario che ululava sperduto alla luna, senza
alcuna possibilità di vivere serenamente.
Per anni, aveva paventato quel momento e, quando Mary gli
aveva confermato che la loro dolcissima figlia era diventata donna, non aveva
più voluto che uscisse sola.
Ogni momento sarebbe stato buono per il Mutamento e, a quanto
pareva, sarebbe spettato a lui assistervi.
Seduta in mezzo alla neve, le gambe raccolte contro il petto
e i lunghi capelli biondi scompigliati sulle spalle tremanti, Keely ansò: “Papà…
ho tanta paura.”
“Non devi. Io sono qui con te e, anche se non ho i poteri di
tua sorella, ti aiuterò a mutare. Fosse anche l’ultima cosa che faccio” le
mormorò con convincimento lui, avvolgendole le spalle con un braccio.
Keely fece per sorridergli, ma un’altra contrazione violenta
la spinse a urlare, e torcersi in maniera così innaturale da spaventare non
poco Lance.
Avrebbe resistito, o sarebbe morta tra le sue braccia?
Scacciando subito quei pensieri orrendi dalla sua mente,
Lance se la strinse al petto dopo l’ennesimo rantolo doloroso.
Sapeva cosa stava rischiando: il lupo dentro di lei, nell’uscire,
avrebbe potuto ferirlo… anche mortalmente.
I lupi neonati non avevano controllo su loro stessi, quando
uscivano per la prima volta e, se avevano qualcuno nei pressi, era quasi
naturale che li ferissero.
Tenerla così stretta avrebbe anche potuto voler dire venire
azzannati al collo, o squarciati dagli artigli al ventre.
In quel momento, però, l’unica cosa importante era tenere al
sicuro dalla paura la sua piccola Keely, il suo dolce angelo.
Divincolandosi nella stretta del padre, la ragazzina però
esalò: “Allontanati, papà… non voglio farti male…”
“Tenendoti stretta, calmo i centri nervosi” le spiegò lui,
infischiandosene del pericolo.
“Ma rischio di…” ansò Keely, spalancando gli occhi un attimo
dopo.
La schiena le si spezzò, producendo un secco, sordo suono che
scalfì l’apparente calma di Lance.
Il suo cuore, al tempo stesso, raggelò e, quando un secondo
schiocco seguì il primo, Lance sentì il suo petto andare a fuoco.
Erano solo sensazioni, le sue, mentre il dolore della figlia
era più che reale.
Con una spinta violenta, corredata di artigli, Keely riuscì
infine a scansarsi e, nel crollare a terra priva di forze, gracchiò: “Resta. Lì.”
Tastandosi il torace, su cui si erano aperti quattro tagli
ben visibili – nonostante indossasse un piumino e un maglione – Lance obbedì
suo malgrado e fissò senza forze il dolore crescente della figlia.
Annaspando nella neve, Keely chiuse ermeticamente gli occhi e
ripensò alle parole di Brie.
La luna era loro alleata, lei doveva solo lasciarla entrare
dentro di sé, anche se questo poteva sembrarle un controsenso, visto il dolore
che stava patendo.
Non potendo fare altro, quindi, si concentrò sull’onda di
energia che stava bruciandole i centri nervosi e, lasciandosi andare, crollò
sulla neve.
I muscoli si rilassarono, del tutto passivi e, pur ansando,
sentì il dolore diminuire un poco.
Fu a quel punto che avvertì il bacio della luna, il suo
benvenuto tra i suoi figli.
Il fuoco che l’aveva divorata si tramutò in un tepore più
simile a quello della cioccolata calda che, pur bruciandola, era certamente più
piacevole rispetto a prima.
Sorridendo nonostante le dolesse ogni particella del corpo,
mormorò: “Sono pronta. Prendimi. Accoglimi.”
L’attimo seguente, ogni osso le si spezzò, formando una nuova
catena, una nuova forma, assieme a muscoli nuovi, un cuore più forte, occhi più
sensibili.
Gli abiti le si sbriciolarono, gli arti presero nuove
sembianze e, mentre i suoi sensi venivano invasi da sensazioni mai provate,
percepì distintamente l’ansito strozzato del padre.
Sì, papà. L’uomo che le era vicino era papà, e lei non voleva
fargli male.
Rotolando lontana di qualche metro, giusto per essere certa
di non colpirlo con movimenti improvvisi e scoordinati, Keely si poggiò sulle…
sì, sulle zampe e ululò.
La coda spazzò la neve mentre si poggiava con i posteriori
sul terreno, e il suo muso puntava verso le nubi gonfie e immobili.
“Amore mio…” mormorò senza forze Lance, portandola a volgere
il muso verso di lui.
Quel movimento apparentemente facile la portò a sbilanciarsi,
finendo così con il carambolare a terra, a zampe all’aria.
Meravigliose, nitide zampe nere all’aria.
Se il riso spontaneo e liberatorio di suo padre la portò a
tossire a sua volta una risata, la sua mente volò leggera, urlando dentro di sé:
“Sono Hati, sono Hati, SONO HATI!”
Lance fu subito da lei e, nell’aiutarla a mettersi ritta
sulle zampe, la abbracciò con forza, affondando il viso rigato di lacrime nella
gorgiera.
Keely trovò strano percepire suo padre piccolo, visto che lo aveva sempre considerato un gigante.
La sua nuova forma di lupo, però, le consentiva di provare
quello strano paradosso e, pur non avendo un gran equilibrio sulle zampe,
riuscì a sedersi senza tirare in terra entrambi.
Suo padre le carezzò il muso, le grattò gentilmente le
orecchie e, e per tutto il tempo, non fece che dirle quanto era orgoglioso di
lei, quanto fosse felice di saperla Hati.
Lei si limitò a guardarlo incredula, la lingua ciondoloni e i
sensi ipersensibili che captavano ogni cosa stava loro attorno.
Persino la neve che si appoggiava delicatamente sul suo pelo,
aveva un suono, una frizione quasi impercettibile, ma presente.
“Papà?” tentennò Keely, non sapendo se lo
avrebbe sentito.
“Ehi, bambina… come va
lì dentro?” mormorò
in risposta l’uomo, la voce roca ed emozionata.
“Mi sento strana, ma va
bene. Un po’ instabile. E forte. Molto forte” gli spiegò lei, guardandosi un poco e
finendo con il cozzare contro la testa del padre, che rise. “Scusa…”
“Non ti devi scusare di
nulla, piccola. E’ normale essere un po’ spaesati. Entro qualche minuto,
passerà tutto” le
spiegò lui, continuando a carezzarle il muso.
Gli occhi di Keely – ora divenuti di un bel nocciola chiaro –
registrarono solo in quel momento le ferite sul petto del padre e, spiacente,
mormorò: “Sono stata io?”
“Non è niente, tesoro. E,
anche quanto, sarò orgoglioso di portare le cicatrici che ne verranno. Mi ricorderanno
sempre come tu sia stata capace di affrontare con coraggio il Mutamento e, per
un padre, esistono pochi altri ricordi altrettanto forti e potenti. Solo la tua
nascita, forse.”
Se avesse potuto farlo, Keely avrebbe sorriso imbarazzata e,
pur sentendosi un po’ in colpa per la ferita inferta al padre, non poté che
gioire del suo sguardo orgoglioso.
Guardandosi intorno, la lupa notò con rammarico la fine
indecorosa che avevano fatto i suoi abiti e Lance, nel notarlo, rise.
“Già, non sono più utilizzabili, al momento. Temo dovrai
aspettarmi qui mentre vado a prenderti qualcosa. Non riusciremmo mai a
raggiungere casa senza essere visti. A meno che tu non voglia andare a casa di
Duncan e Brie. Lì, possiamo arrivarci” le propose Lance, dandole una pacca
sulla schiena.
“Andiamo da Brie. Per ora,
non voglio cambiare forma. E poi, voglio abituarmi a camminare sulle zampe.”
“Faremo così” assentì Lance, mettendosi al suo fianco per poi
incamminarsi per raggiungere la casa dei parenti.
Fu così che Keely assaporò per la prima volta il suo nuovo
status di lupo.
Godette della sensazione della neve sotto i cuscinetti delle
zampe, degli artigli che affondavano nel manto morbido e freddo, del naso che
registrava ogni minimo odore.
Percepì l’odore inconfondibile delle prede, ma le lasciò
perdere.
In quel momento, non voleva cacciare, voleva godersi i suoi
primi momenti da lupo in compagnia del padre, che non smetteva di sorridere.
Forse, per quando fossero arrivati a casa di Duncan e Brie,
gli sarebbe venuta una paresi.
La sola idea la fece ridere e, pur trovando assurda la risata
dei lupi, si lasciò comunque andare a quello strano tossicchiare goffo e
sgraziato.
Lance, allora, le batté una mano sulla spalla, replicando: “Non
mi verrà una paresi, tranquilla.”
***
Quando infine raggiunsero i confini della proprietà dei McKalister,
Keely balzò oltre la staccionata, mentre Lance faceva lo stesso con agilità.
Subito, dalla porta sul retro, spuntò Brianna che, correndo
verso di loro, si lasciò andare a un abbraccio, esalando: “Dio! Quando ho
sentito la tua presenza nelle vicinanze, sono rimasta sbalordita! Come va,
tesoruccio?”
“Tutto bene, Brie. Non è
stato il massimo, ma neppure così brutta come temevo” replicò Keely.
Dietro di loro, Duncan e Nat li avevano raggiunti con calma
ed entrambi sorridevano in direzione dell’enorme lupo nero.
“E’ la zia?” domandò curioso Nat, lanciando un’occhiata
dubbia al padre.
“Sì, è proprio la zia Keely, Nathan. E’ il suo primo giorno
da lupo” gli rispose Duncan, prendendo in braccio il figlio.
“Wow” esalò ammirato il bimbo, allungando una mano curiosa in
direzione del lupo.
Keely rimase perfettamente immobile e Duncan, sorridendo,
poggiò il figlio sulla groppa della zia, prima di dire: “A quanto pare, è una
notte speciale per molti.”
Curioso, Lance fissò il suo Fenrir e domandò: “Che intendi
dire?”
“Poco meno di un’ora fa, Mary B ci ha chiamati perché non
riusciva a raggiungerti telefonicamente. Voleva che sapessimo almeno noi che
non sarebbe tornata a casa a breve, perché era impegnata con un’urgenza un po’
speciale.”
Subito correndo ad afferrare il cellulare – la cui batteria
era morta nel frattempo – Lance domandò: “Che genere di urgenza?”
Sorridendo orgogliosa, Brie dichiarò: “Abbiamo ufficialmente
il nuovo Sköll del branco oltre, a quanto pare, alla nuova Hati.”
Sobbalzando per la sorpresa, Lance gracchiò: “E chi è, di
grazia? E che c’entra Mary?”
Duncan, allora, gli parlò della visita a sorpresa in ospedale
di certi loro amici e di come, all’improvviso, il loro figlio si fosse sentito
strano.
Subodorando guai di natura mannara, Mary si era affrettata a
lasciare l’ospedale assieme a loro e, ben decisa a stare con i coniugi O’Riley
e il figlio, avevano raggiunto casa di questi ultimi.
Non avevano neppure fatto in tempo a chiudere la porta d’ingresso,
che il giovane dodicenne Simon era crollato a terra, scosso da brividi e
convulsioni.
A quel punto, intervenne Brie, dicendo: “Mary non ha neppure
avuto il tempo di chiamarmi per assistere all’evento, che Simon era mutato
dinanzi a loro, un bel lupo rossiccio ben piantato e con un bel paio di occhi
bicolori a fare da corollario.”
“Wow… Simon O’Riley? Ora,
chi lo sopporterà più? Già si vantava per avere i voti più alti a scuola…
adesso, mi farà venire l’orticaria alle orecchie a forza di dire che lui sarà
il prossimo secondo in comando!” brontolò suo malgrado Keely, facendo scoppiare a ridere gli
adulti.
Nathan, invece, li fissò dubbioso dalla sua posizione
rialzata e, piegandosi per abbracciare come meglio poté la zia, mormorò: “Bella.
Tanto bella.”
Il cellulare di Brie scelse quel momento per suonare e, nell’accettare
la chiamata, la donna disse eccitata: “Ciao, Mary. Grandi notizie! Stanotte è
davvero speciale, visto che Keely è appena diventata la nostra prossima Hati!”
“Che cosa? Keely? La… la mia bambina? Ora?” esalò sconvolta
Mary, mentre i coniugi O’Riley la fissavano colmi di gioia.
“A quanto pare, sì. E’ proprio qui davanti a me, e Lance è
così orgoglioso che sta per farsi venire una paresi alla faccia, tanto sorride”
ammiccò la donna, mentre il patrigno scrollava imperturbabile le spalle.
Mary B scoppiò in una risatina allegra e nervosa al tempo
stesso e, nell’osservare gli amici al suo fianco, esalò: “Sono due. E in una notte
sola. Davvero una cosa da ricordare.”
“Non poteva esserci regalo più bello, in vista del Natale”
assentì lieta Lyanna O’Riley, battendo una mano sulla spalla dell’amica.
Bastian, il marito, sorrise a entrambe le donne e disse: “Vado
a stappare lo champagne. Qui ci vogliono delle bollicine per festeggiare!”
Sia Brie che Mary scoppiarono a ridere e, con la promessa di
raggiungere la casa degli O’Riley per brindare degnamente a quella serata
magica, la wicca chiuse la
comunicazione.
Guardando poi la sua famiglia, indirizzò un sorriso a Keely e
disse: “Vieni con me. Troviamo qualcosa da farti indossare. Non possiamo andare
a una festa col solo pelo di lupo addosso, ti pare?”
“Non ci penso proprio.
Simon mi prenderebbe in giro finché scampo” chiosò Keely, facendo scoppiare a ridere nuovamente la
sorella.
Lasciato Nathan al marito, Brie si diresse dunque dentro
casa, ben decisa a rendere presentabile la sorella.
Con maggiore calma, il trio di uomini rientrò a casa e
Duncan, nel dare una pacca sulla spalla a Lance, gli domandò: “Tu, come stai?”
“Se ti dicessi che, fino a un’ora fa, temevo di morire di
paura?” ironizzò l’Hati, ma neanche più di tanto.
“Non mi diresti nulla di strano” dichiarò Duncan,
scompigliando i capelli del figlio, che rise allegro. “Quando ci arriveremo con
lui, dovranno legarmi a una pianta, temo, per impedirmi di stargli lontano.”
“Come puoi vedere, io non ne sono stato in grado” ammise
Lance, indicandosi il petto, dove si poteva notare la giacca squarciata.
“Già. Ma dubito mi sarei comportato diversamente da te” si
limitò a dire Duncan.
Sarebbero passati ancora anni e anni, prima che Nathan
dovesse confrontarsi con il Mutamento ma, come ogni lupo sapeva, quel giorno sarebbe
arrivato.
Presto o tardi, a sorpresa o meno, ma sarebbe giunto.
Dovevano solo prepararsi mentalmente e tentare di essere
forti, per loro stessi e per i figli, che avrebbero dovuto accompagnare
attraverso quella difficile prova.
Nel baciare la testa del figlio, Duncan sperò soltanto di
poter dimostrare, un giorno, la stessa forza del suo Hati.
Hati che scoppiò a ridere non appena entrarono in caso,
quando sentì la figlia lagnarsi perché aveva le mani rosse per il troppo
camminare nella neve.
Trovandola avvolta in un pesante asciugamano, l’aria accigliata
e irritata, Lance le disse: “Ti abituerai. Come per tutto il resto.”
“Già ma, nel frattempo, Simon non avrà le mani arrossate,
mentre io sì” bofonchiò Keely, trascinando con sé la sorella al piano
superiore.
Nathan, ancora in braccio al padre, chiosò: “Femmine.”
Lance e Duncan riuscirono solo a fatica a non ridere, ma fu
molto, molto difficile.
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Capitolo 27 *** Dipende dai punti di vista - Colin Laroche (2019) MxM ***
N.d.A.: Si tratta di una storia MxM (giusto per avvisarvi...)
Dipende sempre dai punti di vista - (Colin Laroche)
È proprio quando credete di sapere qualcosa che dovete guardarla da un’altra prospettiva. Anche se può sembrarvi sciocco o assurdo, ci dovete provare.
(Robin Williams nel film L’attimo fuggente)
Giugno 2019 - Cardiff
“Merda…” borbottò per la centesima volta Colin Laroche, guardando con aria accigliata il suo libro di biologia.
Suo padre Pascal, impegnato nel preparare un french toast per colazione in una placida domenica di inizio giugno, lo guardò da sopra la spalla e disse: “Non sapevo che all’università vi insegnassero le feci.”
Colin levò i suoi candidi occhi azzurri a scrutarlo e, ghignando, dichiarò: “Oh, papà… non hai neppure idea di quello che ci insegnano, a Londra. E poi, da quando lady Fenrir ha studiato lì, è difficile reggere il suo confronto, quanto a voti. Ci sono degli insegnanti che la ricordano con un affetto quasi preoccupante.”
Pascal scoppiò a ridere, a quel commento e, nel rivoltare il suo toast sulla padella, replicò: “Mi sembra che tu non stia andando così malaccio, visto che hai già terminato tutti gli esami che avevi in programma. Ripartirai solo a novembre, con le altre prove, no?”
“Sì, papà, ma…” iniziò col dire Colin, prima di arricciare il naso e borbottare: “Lo stai bruciando, pa’.”
Pascal tornò subito con lo sguardo al suo toast e, nel toglierlo immediatamente dal fuoco, lo depositò su un piatto e si accomodò al tavolo della cucina.
Lì, preso del succo di mirtilli, inzuppò il tutto e, sotto lo sguardo disgustato di Colin, diede inizio alla sua colazione.
“Se la mamma ci fosse ancora, ti avrebbe preso a morsi sul sedere, piuttosto che vederti mangiare quella schifezza” sottolineò Colin, tornando con il naso nei libri.
“Mamma avrebbe pazientato perché sa che mi piacciono… poi mi avrebbe morso sul sedere quando avessi finito. Sai, giusto per non sporcare la cucina” ironizzò Pascal, dando un gran morso al suo toast.
Colin sorrise a mezzo, a quel commento, e assentì.
Sì, Ellana Pardick Laroche era una donna amorevole, ma anche assai determinata.
Sarebbe stata un’ottima Fenrir, se fosse nata con la livrea bianca ma, anche da Prima Lupa, era stata rispettata e onorata da tutto il clan.
Anche a distanza di quasi dieci anni, si sentiva ancora la sua mancanza, al Vigrond, durante le cerimonie sacre.
Ovviamente, per i suoi figli e il marito, era una mancanza che si avvertiva sempre, in ogni istante.
Ellana, però, era riuscita in qualche modo a rendere quella mancanza meno dolorosa, più accettabile per tutti loro.
Fino all’ultimo istante di vita, aveva riempito le loro esistenze di sorrisi e tanto amore.
Anche portarla al Santuario di Manchester, presso il dottor Nelson Withlock, era servito a poco, ma avevano comunque tentato.
La disfunzione cardiaca – che aveva avuto fin dalla nascita – non era guarita, con la mutazione in lupo mannaro e, nel corso degli anni, il danno era divenuto così grave da costringerla a letto.
Essendo un licantropo, non avrebbe mai potuto essere inserita nella lista per i trapianti, poiché un semplice cuore umano non avrebbe mai accettato la mutazione in lupo.
Il dottor Withlock, per quanto possibile, le aveva prestato le cure migliori e, per tutto quel tempo, Ellana era stata sorridente e positiva nonostante le avversità.
Non aveva permesso ai figli o al marito di disperarsi e, quando si era spenta, lo aveva fatto nel sonno, senza soffrire, lasciando un sorriso a coloro che l’avessero vista nel suo letto.
Pascal aveva pianto in silenzio per settimane, di fronte alla sua tomba ma, dovendo crescere due figli di otto e dieci anni, aveva dovuto infine abbandonare quel dolore per pensare a loro.
Sia i genitori di Ellana, che quelli di Pascal, erano stati di aiuto, e il clan tutto si era stretto intorno alla Prima Famiglia per sopperire a quel vuoto doloroso.
Alla fine, volente o nolente, tutto era ripartito senza di lei e, a distanza di dieci anni, non era più così difficile parlare di Ellana senza scoppiare in lacrime.
Era diventato un ricordo dolce, non soltanto amaro e straziante.
Quando Pascal ebbe terminato il suo french toast scrutò il viso corrucciato di Colin e domandò: “Allora, è così difficile tenere il passo di lady Fenrir?”
“Prova tu a parlare di biologia molecolare con lei, poi mi saprai dire” brontolò Colin, sorridendo mesto.
“Sono un contabile, Colin. So di numeri e parcelle esattoriali, non di batteri e cellule” sottolineò Pascal, levandosi dal tavolo per mettere piatto e posate nella lavastoviglie. “Tuo fratello, piuttosto, è ancora vivo? Sono le otto e non si è ancora visto.”
“Sta dormendo della grossa. Credo che sia stato alzato a scrivere in chat fino alle quattro di mattina. Finché non guarirà il taglio che gli ha inferto Fianna, dovrà far passare che ha un braccio rotto, altrimenti tutti potrebbero trovare strana una cicatrice come la sua. Perciò, niente uscite serali per il rugby notturno.”
Pascal ridacchiò, a quel ricordo.
Durante uno degli allenamenti assegnati alla nuova Triade, Fianna ci aveva dato dentro davvero molto, finendo con il ferire a una zampa il suo Fenrir.
Dire che la ragazza aveva speso tutte le lacrime del mondo, a seguito di quell’incidente, era un eufemismo.
Si era scusata con Liam almeno diecimila volte e, a ogni scusa, era seguito uno scoppio di pianto.
Liam era rimasto più sconvolto dal pianto della cara amica e sua Sköll, che dalla ferita in sé e per sé, a ben vedere.
Alla fine, si era ritrasformato in lupo e aveva obbligato Fianna a fare lo stesso e, in compagnia di Colin, erano rimasti tutta notte nel Vigrond a riposare.
Gli uni vicini agli altri, come cuccioli appena nati.
Questo aveva finalmente chetato la ragazza e, la mattina seguente, si erano inventati la storia del braccio rotto per spiegare le enormi fasciature con cui era stato medicato.
In seguito a quell’incidente, sarebbe rimasta un’imperitura cicatrice come memento di quella lotta ma, per il mondo, sarebbe stato solo il risultato di una frattura esposta.
“Beh, se avete bisogno di me, sapete dove trovarmi. Ci vediamo a cena” disse Pascal, salutandolo nell’uscire di casa per recarsi a pescare.
Colin resistette fino a che non fu partito con la sua Subaru dopodiché, chiuso il libro, sospirò e guardò stranito il suo cellulare e il messaggio di Whatsapp che attendeva una risposta.
Quelle due virgolette azzurre gli stavano facendo venire una rabbia infinita e, al tempo stesso, un desiderio estremo di rispondere a colui che lo aveva contattato.
Ma come fare, visto che si trattava di un umano?
***
Carter Jones, Freki del branco di Cardiff e, tra le altre cose, primo amore di Colin, stava sistemando alcuni scatoloni nel suo garage, quando avvertì la presenza di qualcuno alle sue spalle.
Volgendosi a mezzo, sorrise nel vedere Colin Laroche e, tergendosi la fronte umida, disse: “Ehi! Già a casa? Hai finito gli esami, per ora?”
“Fino a ottobre non si riparla di lezioni o altro e, solo a novembre, dovrò darci dentro con altri esami” assentì Colin, avvicinandosi all’uomo.
Più grande di lui di nove anni, Carter aveva rappresentato, per Colin, un autentico battesimo del fuoco.
A quindici anni, aveva compreso di non essere come gli altri suoi amici, di non apprezzare le curve mozzafiato di Kate Winslet quanto, piuttosto, il sorriso di Jude Law.
Era stato un bel colpo, per lui, pur se ne aveva avuto il dubbio già da un pezzo.
Nessuna delle sue compagne gli era mai piaciuta, e neppure la sensualissima Fianna, la loro Sköll, era riuscita a farlo tremare di desiderio.
Solo Carter vi era riuscito, e questo aveva voluto dire fare i conti con la prima batosta sentimentale della sua vita, visto che Colin era sempre stato cosciente dell’eterosessualità del loro Freki.
Non vi erano mai stati dubbi, in merito.
Carter era stato sempre e solo con donne, nel corso della sua vita e, dopo aver preso il coraggio a due mani, gliene aveva parlato per semplice logica.
In un mondo dove puoi leggerti nella mente, certi segreti non puoi proprio tenerli.
Carter era stato comunque gentilissimo, con lui.
Aveva capito, non l’aveva né scacciato, né deriso e anzi, lo aveva aiutato a non soffrirne troppo, per quanto gli era stato possibile.
Con il passare dei mesi, e anche grazie al fratello e alla dolcissima Fianna, era infine riuscito ad accettare la cosa, e Carter era sempre stato lì per spalleggiarlo.
Suo padre, più semplicemente, gli aveva dato una pacca sulla spalla e gli aveva detto che, per qualsiasi cosa, lui sarebbe stato pronto ad ascoltarlo e appoggiarlo.
“Che succede, Colin? Perché hai quella faccia pensierosa?” domandò subito Carter, poggiandosi contro una scaletta di metallo.
Grattandosi dietro la nuca, un mezzo sorriso a illuminargli il viso affascinante, Colin mormorò: “E’ mai possibile che tu riesca sempre a capire al volo che c’è qualcosa?”
“Amico, che ci posso fare se, per me, sei un libro aperto?” ironizzò Carter, indicandogli di sedersi su uno degli scatoloni. “E poi, i Freki hanno un sesto senso, per i guai.”
“Stai facendo trasloco? Come mai così tanta roba fuori posto?” domandò curioso Colin, sedendosi e cambiando temporaneamente discorso.
“Ospiterò mio figlio Roy, visto che la madre ha pensato bene di farsi mettere in galera” ammiccò Carter, sorprendendolo un po’.
Già, Roy, il figlio semi-segreto di Carter.
Il bambino era nato da una breve, quando accesa, relazione con una lupa del clan di Matlock che, a quanto pareva, aveva fatto il passo più lungo della gamba.
“Duncan come l’ha presa?” domandò Colin.
“Non bene. Quando mi ha chiamato, era tranquillo come se stesse parlando del tempo, il che è tutto dire…” borbottò Carter, storcendo la bocca.
Persino i sassi sapevano che, se Duncan McAlister appariva calmo e pacato durante una crisi, allora voleva dire che era furioso al pari di una tempesta.
“Ti hanno concesso la custodia definitiva, allora?”
Colin sapeva, più o meno, quello che stava succedendo ma, dopo quel colpo di scena, forse tutto sarebbe cambiato.
“Il giudice deciderà a giorni ma, da quel che dice l’avvocato, Roy potrebbe rimanere con me per sempre” dichiarò Carter, allargando un poco il suo sorriso.
Colin fu felice per lui.
Sapeva quanto tenesse a quel bambino di quattro anni, e quanto la separazione da Belinda – pur se non si erano mai sposati – lo avesse provato.
Lui l’aveva amata davvero, anche se cose erano andate a catafascio molto alla svelta, tra di loro.
“Non ho dimenticato la tua faccia ansiosa, sai…” ironizzò dopo un istante Carter, ammiccando al suo indirizzo.
Colin rise e, annuendo, allungò gli avambracci sulle cosce e, scrutando il pavimento di cemento senza realmente vederlo, mormorò: “Credo di essere nei guai.”
“Di che tipo? Devo uccidere qualcuno per te?” domandò Carter con assoluta serietà.
Il suo ruolo di Freki era primario, nella sua vita e, se un Primo Figlio aveva bisogno di aiuto, suo compito era quello di agire.
“No, niente di tutto ciò. Credo di essere nei guai… qui…” asserì lui, poggiandosi una mano sul cuore.
“Oh. Te l’ho detto, Colin. Sei bello da far schifo, ma non mi intendo di maschi” ironizzò Carter, facendolo scoppiare a ridere.
Ormai potevano riderne insieme senza problemi, perché Carter aveva fatto in modo fin da subito che il rapporto di amicizia tra loro non scemasse mai.
“Lo so, tranquillo… anzi, spero non ti ingelosirai, ma penso di aver trovato qualcuno che potrebbe ricambiare il mio interesse.”
“Beh, tutto dipende se regge il confronto con me, altrimenti sì che potrei arrabbiarmi” ghignò Carter, prima di tornare serio. “Dimmi dove sta il problema. Non sei sicuro che bazzichi nel tuo stesso giardino?”
“No, di quello sono sicuro. Il problema è il suo retroterra.”
Sorpreso, Carter impiegò alcuni attimi prima di capire e, accigliandosi leggermente, mormorò: “E’… umano?”
“Già. Al cento percento. Senza parenti legati alla nostra stirpe, o anche soltanto neutri. Niente di niente. Nada” sospirò Colin, passandosi una mano tremante tra la chioma di capelli castano dorati.
“Cristo, ragazzo… ma i guai vai proprio a cercarteli, eh?”
“Amerò le storie senza speranza, che ci vuoi fare?” ironizzò Colin.
“Beh, non metterla giù così. Non è detto che sia senza speranza. Non sarebbe il primo umano che diventa parte di un branco… solo, devi capire bene com’è la situazione. Sondare le acque, diciamo” cercò di chetarlo Carter, levando le mani per frenarne le ansie.
“Dici che dovrei dirlo a mio padre?”
Carter sospirò.
Solitamente, di queste cose si sarebbe occupata la Prima Lupa ma, essendo venuta a mancare Ellana, tutto ciò ricadeva su Fenrir… o sulla Lupa Madre.
Ma come spiegare, a una lupa di quasi novant’anni, delle interazioni tra due ragazzi gay?
Non aveva neppure idea se la vecchia Lynn ne conoscesse l’esistenza!
“Senti, se ti va posso curiosare un po’ in giro io. Senza dare nell’occhio, s’intende…” gli propose Carter, fissandolo con aria curiosa e, al tempo stesso, preoccupata.
“Mi spiace chiederti una cosa del genere, ma non so davvero che pesci pigliare” sospirò Colin, fissandolo contrito.
“Se fai una faccia simile, deve piacerti davvero molto.”
“Che faccia sto facendo?” domandò il giovane Laroche.
“Come di uno a cui manca l’aria” sottolineò Carter, sorridendogli mesto. “Con me, non avevi quella faccia.”
Colin sospirò, si passò le mani sul viso e, guardandosele come se non le riconoscesse, asserì: “Sarà perché, quando penso a Chris, mi sembra davvero che mi manchi l’aria.”
“Nome completo?”
“Christofer Sterling. E’ di Cardiff anche lui ma, strano a dirsi, ci siamo conosciuti solo all’università. Seguiamo gli stessi corsi” gli spiegò Colin, prima di mostrargli il cellulare. “Mi ha invitato per una gita in barca con degli amici.”
“Guaio… così non posso seguirvi” storse il naso Carter. “Però, direi che potresti andarci lo stesso e vedere che aria tira, per così dire.”
“L’ho baciato, Carter. So già che aria tira” ammise Colin, sorprendendo un poco Carter.
“Oookay… quindi, in prima base ci sei già arrivato. Il punto è sapere se è il caso di fermarsi lì, o proseguire.”
Colin scosse il capo, borbottando: “Dio, parli come Liam. Anche lui fa sempre metafore sportive, per cose simili.”
“Tu, invece, somigli sempre di più a lady Fenrir, sai?” ironizzò Carter, facendolo sogghignare.
“Sarebbe un bel traguardo, visto quanto la ammiro.”
Carter, allora, gli diede una pacca sul ginocchio, annuì con vigore e disse: “Vai e divertiti. Al resto penserò io. E cerca di non essere troppo affascinante. Puoi stendere la gente anche così, senza usare zanne e artigli.”
Colin rise di quella battuta e, nel salutare Carter, si avviò verso casa, accettando l’invito di Chris.
Era sempre bello parlare con Carter, anche se non sapeva davvero come sarebbero finite le cose, stavolta.
***
La barca del padre di Chris era una Ferretti di oltre quindici metri, con tanto di camera da letto sottocoperta, bagno con doccia hi-tech e una cucina funzionale quanto attrezzata.
Quel giorno, era guidata dalla sorella di Chris, Joyce, che aveva quattro anni più del fratello e, al pari suo, amava il mare e la buona compagnia.
Sdraiato sulla prua della barca stava il suo fidanzato, mentre un paio di amici comuni stavano bevendo birra e ascoltando musica ad alto volume.
Chris, invece, seduto a poppa in contemplazione del mare, appariva pensieroso, ma non necessariamente triste. Solo… isolato da tutti.
Colin poté scorgere più volte il baluginio di un sorriso sul suo volto – velato da un leggero strato di barba bionda e abbronzato al punto giusto.
Mentre sorseggiava della coca-cola, pur se aveva l’età per bere birra, il suo sguardo corse molte volte in direzione di Chris, ma mai una volta tentò di avvicinarlo.
Era come se qualcosa glielo impedisse, come se il desiderio di Chris di estraniarsi dagli altri bloccasse le sue membra.
La gita era partita sotto i migliori auspici e, anche grazie alla guida spericolata di Joyce, si erano divertiti un sacco.
Le risate avevano spesso accompagnato le curve ai limiti della fisica compiute dal motoscafo e, ogni volta, il gruppo si era complimentato con Joyce per la sua audacia.
Una volta calata l’àncora poco al largo di Manorbier, nei pressi del Pembrocke National Park, Chris però si era ammutolito, rintanandosi a poppa della Mirage.
Da quel momento, non aveva più parlato con nessuno.
“Quando fa così, lo strangolerei con le mie stesse mani” brontolò Joyce, alle spalle di un preoccupato Colin.
Lui si volse sorpreso, scrutando la statuaria bellezza bionda che era la sorella di Chris, e sorrise a mezzo.
“Non ti sembra una scelta un po’ lapidaria?”
“Con Chris? Sarei anche gentile” ironizzò la giovane, dandogli una pacca sulla spalla. “Vai a parlargli, prima che io lo scaraventi in acqua. Vuole che io guidi la barca come un pilota di offshore, e poi fa il musone… un vero scocciatore, il mio fratellino.”
“Forse, vuole stare per i fatti suoi. Non vorrei disturbarlo” sottolineò Colin.
A quel punto, Joyce sorrise dolcemente e replicò: “Prima che tu possa disturbarlo, gli oceani si prosciugheranno. Vai da lui, coraggio.”
Non potendo fare altrimenti, Colin si avviò verso poppa.
Dopo aver poggiato la sua coca-cola ormai vuota su un parapetto interno, si accomodò al fianco di Chris, lasciando ciondolare le gambe fuori bordo al pari dell’altro.
Christofer si volse appena, nel sentirlo e, ammiccando, mormorò: “Joyce ti ha rotto?”
“Vuole sapere se stai bene. E anch’io, in effetti” asserì Colin, poggiando gli avambracci sul parapetto di acciaio satinato.
La brezza di mare portava profumi distanti, l’amaro del sale contenuto nell’acqua, gli odori delle città costiere e il rumore delle navi, ma tutto ciò non disturbava Colin.
Era ormai abituato da tempo a non farsi distrarre dai suoi sensi e, quando Chris era nei paraggi, forse non avrebbe neppure udito il richiamo del suo Fenrir.
Passandosi una mano tra i capelli castano dorati, Chris sorrise un poco e disse: “Non voglio che tu ti preoccupi. Sto bene… è solo che, quando sono in mare aperto, tendo a perdermi un po’ in mille pensieri.”
“Pensavo ti piacesse” sottolineò Colin.
“Oh, sì… molto. E’ per questo che mi faccio pensieroso. Scusa, prima ti invito e poi mi defilo per farmi i fatti miei. Sono davvero un pessimo amico” mormorò Chris, allungando una mano per dargli una pacca sul ginocchio.
Una scarica involontaria di adrenalina si espanse in tutto il corpo di Colin, ma lui la tenne a bada come al solito.
Quando Chris lo toccava – anche con gesti innocui come quello – il suo sistema endocrino andava completamente in palla, e la bestia ringhiava per uscire e accoppiarsi.
Un bel guaio, quando non avevi a che fare con un altro licantropo, e non potevi gettarti sul malcapitato per una buona notte di sesso a base di artigli e morsi.
Non che Colin avesse sperimentato in prima persona, visto che il suo unico amore era stato Carter, e con lui non aveva combinato un bel nulla.
Certo, nel branco erano presenti circa una decina di coppie omosessuali ma erano, per l’appunto, coppie.
E lui non era fatto per gli accoppiamenti da una notte e via. Voleva ben di più, per se stesso ma, a quanto pareva, il suo corpo desiderava quello da Chris.
Come fargli capire che, primo, Chris non era un lupo e, secondo, non sapeva che lui lo era?
A volte era difficile venire a patti con la parte più ferina della sua doppia natura.
Chris parve comunque capire il suo stato d’ansia – pur se non i motivi – perché gli sorrise e, allungando gli avambracci fuori dal parapetto, disse: “Ho come l’impressione che tu stia combattendo un’aspra battaglia, anche se non capisco il perché.”
“Non sarebbe carino sbatterti a terra per divertirmi un po’, ti pare?” ironizzò Colin, facendolo ridere.
Il problema era ben più grande di quello ma, come spiegazione, poteva andare.
“Oh, io non piangerei, credimi ma, in qualche modo, vedo che sei frenato, quando stai con me. Ripensamenti? Pentito di avermi baciato?” domandò Chris, sollevando un sopracciglio con espressione curiosa.
“Tutt’altro” scosse recisamente il capo Colin, prima di notare un tatuaggio curioso nella parte interna del polso del giovane. “Toh, non mi ero accorto che avessi un tatuaggio.”
“Questo?” mormorò Chris, indicandosi il disegno brunito a forma di spirale che spiccava sulla sua pelle lievemente ambrata. “Una cosa di famiglia. Se guardi Joyce, ne ha uno sulla caviglia. Noi Sterling abbiamo tutti un tatuaggio.”
“Se io me lo facessi, mio padre darebbe in escandescenze” ridacchiò Colin, continuando ad ammirare quella spirale, composta da più tratti concentrici e tutti diversi.
“Paura di un’infezione?” domandò curioso Chris.
“No, terrore degli aghi! Sverrebbe per interposta persona” rise Colin, coinvolgendo anche Chris nella sua ilarità.
Nonostante la drammaticità della situazione, Colin ricordava con divertimento il giorno in cui, nella clinica del dottor Whitlock, sua madre era stata sottoposta a diversi esami… e suo padre era svenuto.
Pensare al potente capoclan di Cardiff, abbattuto dalla vista di un ago, lo aveva mandato al tappeto per il gran ridere.
Persino sua madre Ellana era scoppiata in una gran risata, e Liam aveva preso in giro Pascal per giorni.
Era stato un bel momento, nonostante tutto.
“E’ davvero bello. Le sfumature bruno-rossastre sono fatte molto bene e…” cominciò col dire Colin, prima di venire colto da un dubbio.
Istintivamente, allungò una mano per afferrare quella di Chris che, però, si scostò per impedirglielo, fissando poi turbato Colin.
A quel punto, il giovane sorrise a mezzo e, cogliendolo di sorpresa, lo prese per la nuca e lo avvicinò a sé per baciarlo, mandandolo così in confusione.
Nella foga di quel momento di passione, Chris perse di vista la precedente mossa di Colin, e quest’ultimo poté mettere in pratica ciò che voleva fare.
Afferrò il braccio di Chris proprio all’altezza del polso e, non appena la sua pelle toccò quella del giovane, una scarica di dolore si inframmezzò al piacere che stava dilagando in lui.
Chris se ne accorse, però e, scostandosi nonostante la stretta di Colin – altra cosa che sorprese il giovane Laroche –, fissò a occhi sbarrati il ragazzo e ansimò stordito: “Che fai?!”
Colin, però, non gli rispose. Scrutò il suo palmo arrossato, il tatuaggio di Chris e, annusando meglio l’aria, riuscì a cogliere un aroma che, fino a quel momento, non aveva notato.
Lui e Chris si erano sempre incontrati in luoghi ove, gli odori e gli aromi, avevano sempre costituito un impedimento, una sorta di barriera.
Sia Londra che Cardiff, così come il mare stesso, avevano cospirato contro di lui e i suoi sensi.
Ora, però, un lento, trionfante sorriso si allargò sul suo viso, non appena la verità gli venne mostrata con chiarezza.
A quel punto, Chris sgranò ancor più gli occhi e, con voce resa roca dal dubbio, mormorò: “Tu… tu sai…”
Colin si limitò ad annuire e, con maggiore sicurezza, tornò a baciare Chris che, stavolta, non gli impedì di toccare il suo tatuaggio.
Come in precedenza, una scarica di elettricità statica percorse il corpo di Colin, eccitandolo e stordendolo e, quando infine si scostò dal giovane, sussurrò sulle sue labbra: “E’ una rihall, vero?”
“Come conosci questo termine?” gracchiò Chris, prima di guardarsi intorno con espressione turbata.
I loro amici stavano ridendo della grossa, a prua, del tutto presi da un’apparente partita a poker con Brady, il ragazzo di Joyce.
Quest’ultima, invece, era sdraiata a prendere il sole, ignorando bellamente il caos prodotto dai giovani accanto a lei.
Nessuno poteva udirli, in quel momento, ma Chris ebbe comunque timore di esporsi, di parlare, pur se era assurdo il solo pensarlo.
Colin, a quel punto, prese in mano le redini della situazione e, preso il viso del giovane tra le mani, gli sorrise e, occhi negli occhi, mormorò: “So ogni cosa. Conosco altri come te, davvero.”
Era stato interessante, qualche anno addietro, fare visita al clan di Dublino su espresso invito del nuovo Fenrir, e conoscere ben quattro principi di Mag Mell.
Pur se ne aveva ascoltato le storie per bocca stessa di lady Fenrir, era stato strano mettere insieme mito e realtà dei fatti.
Non che la visione di Litha mac Lir e dei suoi fratelli non somigliasse, e di molto, alla personificazione in terra di un mito ancestrale.
Pur non avendo interesse per le donne, aveva trovato Litha assai affascinante, oltre che molto più misteriosa dei fratelli e, quando era saltata fuori la sua duplice discendenza, ne era rimasto sbalordito.
In generale, quel viaggio in Irlanda era stato incredibile per diversi motivi, ma il fatto che Litha fosse una semi-divinità, era il particolare che più lo aveva colpito.
A quel punto, la sorpresa di Chris si fece confusione e Colin, nel lasciarlo andare, aggiunse: “Ho avuto l’onore di conoscere i principi di Mag Mell. Stheta, Krilash e Rohnin, oltre alla loro sorella Litha.”
Chris si passò una mano sul viso, sgomento, lanciò uno sguardo al mare aperto come a cercarvi mille spiegazioni ma, alla fine, riuscì solo a chiedere: “Non dovresti neppure conoscere i loro nomi. E poi, perché chiami la principessa con il nome di Litha?”
Colin allora sorrise, e replicò: “A quanto pare, sono più informato di te. Litha è stata adottata dai sovrani fomoriani, ma è di discendenza mista. E’ per metà una Tuatha de Danann.”
Chris non disse nulla, di fronte a quelle informazioni, si limitò ad alzarsi in piedi e, afferrato Colin a un braccio, lo obbligò a fare altrettanto, prima di trascinarlo sottocoperta con sé.
“Ehi, voi due, non fate cosacce!” gli gridò dietro Stuart, uno dei loro amici.
Chris lo mandò debitamente al diavolo, mentre un coro di risate esplodeva a prua e, dopo essersi chiuso la porta alle spalle, fissò astioso Colin e sbottò.
“Posso sapere che diavolo sta succedendo?! E perché sai tutte queste cose sui fomoriani?!”
Colin si sedette su uno dei divanetti e, dopo aver pregato Chris di fare altrettanto, asserì: “Visto che sei ciò che sei, e che so benissimo che, coloro di voi che abitano sulla terraferma, non fanno più parte di Mag Mell o dei Protettorati, posso dirti ciò che sono io.”
“E dopo mi spiegherai perché conosci tanto di… di ciò che sono io?”
A Colin parve strana, come domanda.
Era più preoccupato di capire come lui potesse essere a conoscenza dei fomoriani, piuttosto che del segreto che stava per dirgli?
“Non ti preoccupa ciò che sto per dirti?” domandò a quel punto Colin.
Chris sbarrò gli occhi, confuso, e asserì: “E di che dovrei preoccuparmi? Potenzialmente, io potrei mutare in un pesce. Che altro ci può essere di così strano? Lo sapevi, vero? Dimmi di sì, ti prego, o mi sentirò un idiota per avertelo spiattellato così, senza prepararti.”
“Delfino, Chris, non pesce” sottolineò sorridendo Colin, e Chris rise nervosamente, annuendo.
“Sì, non ricordarmelo. La prima volta che mia madre me lo disse, quasi le risi in faccia e, nel prendere una scatoletta di tonno, le domandai se fossimo loro parenti. Non ti dico cosa mi fece” ammise Chris, ora più rilassato, sorridendo con espressione meno tesa.
“Siete tutti fomoriani?” domandò a quel punto Colin, notando come, il tremore alle mani di Chris, fosse scemato.
“Non mi sto dimenticando che volevi dirmi qualcosa, sappilo…” sottolineò quest’ultimo, frizzandolo con i suoi occhi grigi. “… ma, visto che questa è la conversazione più bizzarra che io abbia mai fatto in vita mia, mi diverte l’idea di continuarla.”
“Bene… sapevo che ti piacevano le cose strane” disse Colin, facendo spallucce.
“Per risponderti, no, mio padre è umano, e mia madre decise di abbandonare il Protettorato dei Mari del Sud per andare con lui. Si conobbero sulle Antille e, da lì, si trasferirono a Cardiff per seguire la ditta di mio padre” gli spiegò Chris, sospirando leggermente.
“E la tua rihall? Come mai è scura? Non dovrebbe essere chiara?”
“Sai davvero un sacco di cose, su di noi…” mormorò ammirato Chris, poggiando il mento su una mano, sollevata per fungere da piedistallo. “… ma sì, avrebbe dovuto essere chiara. Mamma risvegliò a entrambi noi la rihall, quando compimmo diciotto anni. Voleva che avessimo la possibilità di scegliere.”
“Per questo, ammiri il mare con aria così pensierosa?” domandò a quel punto Colin.
“Ho sempre pensato che, una volta terminati gli studi, avrei preso la pelle di delfino che mia madre mi ha offerto e, dicendo addio a tutti, sarei disceso sul fondo del mare. Credevo fosse quello, il mio futuro. Lo sentivo…”
Nel dirlo, si toccò il torace, all’altezza del cuore.
“Ma poi…?”
“Sei arrivato tu” sorrise appena Chris, scrutando gli occhi blu di Colin.
Vagamente sorpreso, il giovane lo fissò in cerca di spiegazioni, e quest’ultimo non si fece pregare.
“Hai spezzato il mio legame col mare e, quando vengo qui per ritrovarlo, non lo sento più. Certo, posso udire le voci del mio popolo, ma non avverto più il bisogno di conoscerlo, di farne parte…” mormorò Chris, sorridendogli.
“Non so se è un pregio, o un difetto, ciò che hai detto” sottolineò Colin, dubbioso.
“Dipende da ciò che farai d’ora innanzi.”
“Credo sarà il contrario” ammise Colin, accigliandosi. “Credimi.”
“Te l’ho detto. Nulla può essere più strano di me che posso diventare un delfino” ironizzò Chris. “Certo, se tu mi dicessi che sei un malato terminale, potrei anche morirne, ma…”
Essere un licantropo è meglio, o peggio?, si domandò Colin, prima di sospirare.
“Non sono un malato terminale.”
“Grazie al cielo” sospirò sollevato Chris. “Sei diventato improvvisamente etero, allora?”
“Decisamente no!” rise Colin.
“Bene, altro pericolo scampato. Ti piace qualcuno che non sia io?”
“Pensi ti bacerei come ho fatto, se così fosse?” mugugnò Colin, fissandolo male.
“Hai ragione, scusa. Anche se va detto che mi hai tratto in inganno, prima” precisò Chris, sempre con tono allegro e faceto. “Vuoi dirmelo, Colin? Cos’altro ci può essere, di così tremendo, da temere una mia crisi di nervi?”
“Se ti dicessi che non sono esattamente… umano?” tentennò Colin.
Chris sollevò il viso dalla mano, fissò curioso Colin e, infine, borbottò: “A me lo sembri tutto. E so che non sei fomoriano. Quindi…”
“Anche tu sembri umano, ma non lo sei” sbuffò il giovane lupo, accigliandosi.
“Okay, è vero. Resterò assolutamente serio. Davvero” assentì a quel punto Chris. “Dimmi tutto. Ti ascolterò senza dire scemenze.”
“Sono un licantropo” mormorò di getto Colin, attendendo trepidante la sua reazione.
Reazione che, però, non venne.
Chris rimase perfettamente immobile a fissarlo, gli occhi chiari che lo guardavano con espressione meditabonda, come se attendessero qualcosa di veramente sconvolgente.
Come se quello che Colin gli aveva appena detto non lo fosse!
A quel punto, Colin si ripeté, scandendo bene le parole: “Sono. Un. Licantropo.”
“Ho capito. Davvero. Non sapevo che esistessero ma… ehi, chi sono io per recriminare? E quindi?”
“Come, e quindi? Tutto qui?!” sbottò Colin, non aspettandosi di certo una reazione così freddina.
Chris, allora, gli sorrise gentilmente, si allungò sul tavolo che li divideva per dargli un bacio e, nello scostarsi, disse: “Sì, ora la tua aura sfrigola che è un piacere.”
“Che?! Senti la mia aura?!” ansimò Colin, sempre più confuso.
“I fomoriani possono percepire le auree delle creature non umane, se queste sono particolarmente intense. Mi era parso di avvertire qualcosa, in te, quando ci eravamo baciati la prima volta ma, visto il momento molto particolare, ho pensato di essermelo immaginato” sottolineò Chris, scrollando le spalle.
“Quindi, normalmente, non avverti nulla…”
“No, niente di niente. Per questo non ho mai sospettato nulla” scosse il capo Chris. “Ma ribadisco… perché pensavi non avrei accettato la cosa?”
“Non trovi strano che io… beh, che io possa mutare in un lupo?” domandò ancora confuso Colin, trovando del tutto assurda quella discussione.
“Per la verità, no. Io, in linea teorica, posso farlo ma, per ovvie ragioni, non l’ho mai sperimentato, però ho visto mia madre. Non credo sia molto diverso” disse Chris, tornando alla sua posa rilassata, col viso poggiato sulla mano stesa a palmo in su. “Non avevo idea che esistessero altre creature mistiche, se così vogliamo definire le nostre unicità, ma non sono un sapientone, perciò…”
Colin scosse il capo, ormai privo di parole.
Ma cosa diavolo stava succedendo? Stava veramente avendo una discussione del genere con Chris, o se la stava solo sognando?
Chris, allora, allungò la mano libera verso quella di Colin, la strinse e, sorridendo comprensivo, gli disse: “E’ una vita che sento parlare di cose strane, in casa mia. I miei racconti della buonanotte erano conditi di storie sui fomoriani, sulle battaglie contro i figli di Danann e sulla vita di corte dei reali di Mag Mell. Sapere che non siamo così unici come credevo, è solo un sollievo.”
“Perciò, mi sono fatto delle seghe mentali per mesi, per niente?” ironizzò nonostante tutto Colin, ritrovando finalmente il sorriso.
“Temo di sì” ammise Chris, ridacchiando.
Non era possibile! Poteva realmente essere tutto così facile?
Aveva davvero trovato una persona da amare, e che poteva accettarlo senza dover fare i conti con il suo retroterra folle?
Scoppiando a ridere, Colin si passò una mano sul viso, ora finalmente tranquillizzato, e disse: “Ora, ti dirò come ho saputo di voi. Va bene?”
“Grazie. Sono davvero curioso di sapere come è potuto succedere… poi, mi farai vedere com’è essere un lupo, d’accordo? La cosa mi intriga parecchio.”
“Potrei anche darti la luna, ora come ora” sussurrò Colin, allungandosi per baciarlo.
Sapendo che poteva avvertirla, il giovane estese la sua aura per avvolgerlo e Chris, sorridendo contro le sue labbra, mormorò: “Oh, questo sì che è bello! Tieniti la luna. Preferisco questo.”
***
Accomodato su uno dei divani del salotto di casa Sterling, Colin ripeté la storia che aveva esposto a Chris poche ore prima e, quando ebbe terminato, Fiona macMharran sospirò sorpresa e compiaciuta.
“Fui compagna di Lithar durante una delle ultime campagne militari contro i Tuatha, e mi piacque molto il suo spirito. Era volenterosa e coraggiosa in battaglia, e niente affatto superba” spiegò Fiona, sorridendo di quei ricordi. “Sono felice che abbia trovato una persona degna di lei… e tu mi dici che è per metà una figlia di Danann? Strabiliante.”
Colin non era sicuro cosa fosse più strabiliante, se parlare con una guerriera plurimillenaria abbigliata con jeans e camiciola, o essere libero di dire ciò che sapeva, senza restrizioni o tabù.
Chris, seduto al suo fianco, gli sorrise e Joyce, appollaiata sul bracciolo della poltrona del fidanzato, borbottò: “Non è giusto, però… tu hai trovato un lupo, mentre io solo un umano.”
“Ehi, dico!” sbuffò Brady, dando un pizzicotto sulla coscia alla sua fidanzata.
Tutti risero, di fronte a quella burla e Colin, nell’osservare la statuaria bellezza bionda che era la madre di Chris, disse: “Tutto mi sarei aspettato, tranne questo. Temevo di non poter dire niente a Chris, e invece voi avevate più segreti di me.”
“Forse non di più… solo diversi” replicò la donna, sorridendogli. “Pensi sarebbe possibile mettermi in contatto con la principessa? Sarebbe bello scambiare due parole con lei e rivangare i bei ricordi.”
“Eccola che comincia… preparati, Colin. Quando sentirai le parole ‘armata’ e ‘fomoriani’ nella stessa frase, scappa a gambe levate” ironizzò Ronald Sterling, il padre di Chris.
Colin rise nonostante tutto e, scuotendo il capo, asserì: “Mi piacerebbe molto ascoltare qualche aneddoto e, quanto al contattare Litha, non c’è problema. Ogni lupo che si rispetti ha i numeri di telefono di tutti i Santuari del Regno Unito.”
Ciò detto, estrasse il cellulare, chiamò casa Doherty e, quando udì la voce di Rey, disse: “Guardiano, i miei rispetti. Sono Colin Laroche del Clan di Cardiff. Posso parlare con la tua stimata compagna?”
“Ehi, Colin, ciao. Certo che puoi. E’ successo qualcosa?”
“Niente di grave. Penso che Litha potrebbe essere lieta di parlare con una sua vecchia conoscenza. Dille che Fiona macMharran dei Protettorati del Sud vorrebbe parlarle.”
“Che ci fai con una fomoriana al fianco?” domandò curioso Rey.
“Storia lunga. Lo scoprirai a breve” ironizzò Colin, mentre Litha prendeva il telefono dalle mani del compagno.
“Un saluto a te, futuro Hati del clan di Cardiff. E’ dunque vero che uno dei miei anziani commilitoni è appresso a te?”
Colin trovò buffo quel modo di parlare un po’ desueto ma sapeva bene come, regole vecchie di secoli, fossero difficili da eradicare.
Nel sorridere a Fiona, le passò il telefono e, mentre le due donne iniziavano a parlare tra loro, Colin uscì sul balcone assieme a Chris.
Lì, alla luce della luna, Chris gli domandò con una certa ironia: “Ululerai per me?”
“Scordatelo” rise Colin. “Ma domani ti presenterò la mia famiglia, se ti va.”
“Sarà un vero piacere” annuì Chris, prima di mormorare: “Mi piacerebbe anche passare a trovare tua madre, se non è un problema.”
“Affatto. Ci andremo uno di questi giorni, così potrà complimentarsi con me per il mio buon gusto” ironizzò Colin, lanciando un’occhiata verso il cielo.
Chris gli sorrise e, mentre entrambi restavano in silenzio alla luce diafana della luna, Colin sperò davvero che sua madre potesse vederlo, in qualche modo, ed essere felice per lui.
Lui, di sicuro, lo era.
Note: Un po' di ispirazione è giunta e, se non si bloccherà nuovamente, dovrei riuscire a sfornare qualcosa nel nuovo anno. Se non vi ritrovate con l'accenno ai fomoriani e alle rihall, vi rimando alla mia serie The Cross of Changes. Per ora, utilizzo questa nuova OS per augurarvi Buon Natale!
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Capitolo 28 *** Dio li fa e poi li accoppia - Parte 1 (Liam Laroche) 2020 ***
Dio li fa e poi li accoppia – Liam Laroche - Parte 1 -
Gennaio 2020- dintorni di Cardiff
Era. Nei. Guai.
Guai grossi, pelosi e zannuti, a ben vedere, perché suo padre era grosso, peloso e zannuto, quando era un licantropo.
Considerando che, oltretutto, Pascal Laroche era anche l’attuale Fenrir del suo branco, era il più grosso tra i grossi, pelosi e zannuti di sua conoscenza.
Ma che diavolo gli era saltato in mente di esibirsi come Edward Cullen in Twilight?
Ovviamente, lui lo aveva visto solo a scopo più o meno didattico ma, alla fine dell’opera, il fatto rimaneva.
Lui, Liam Laroche, futuro Fenrir di Cardiff, si era messo in mezzo tra un’auto e il corpicino perfetto e terrorizzato di Cerridwyn Lancaster.
Incurante del pericolo corso nel mettersi in mostra, nonostante non vi fosse nessuno presente a parte l’autista – ubriaco e addormentato – e la stessa Cerridwyn, Liam si era buttato.
Se fosse stato Spider-Man, avrebbe potuto dare la colpa ai suoi sensi di ragno, ma lui non aveva una tutina in latex e la maschera con gli occhi a mosca.
No, tutt’altro.
Lui aveva zanne e artigli, oltre a sensi sviluppati e un istinto protettivo piuttosto marcato.
Oltre a una cotta sperticata nei confronti della piccola Cerridwyn.
Per questo, si era trovato al posto giusto, nel momento giusto e per questo, si era buttato al momento giusto, ma nel contesto più sbagliato possibile.
Compagni di classe fin dai tempi delle elementari, lui e Cerridwyn erano cresciuti insieme, pur se in due mondi separati e distanti quanto la luna dalla Terra.
Pur se vicini fisicamente – sia a scuola che come abitanti della stessa zona di Cardiff nord – non lo erano stati nella vita reale, vista la seconda identità di Liam.
A dodici anni il giovane Laroche aveva scoperto, con la sua prima mutazione, di essere l’erede del padre alla guida del clan.
Se non fosse stato per suo fratello Colin, di due anni più grande di lui e già erede del titolo di Hati, probabilmente avrebbe dato di matto.
Sapere che Colin avrebbe guardato le sue spalle per tutta la vita, era stato un sollievo, per lui.
Già la perdita di sua madre era stata un peso enorme da portare. L’idea di non poter avere sempre al fianco il fratello, lo avrebbe distrutto.
Si fidava dei lupi del branco, e aveva tanti amici licantropi a cui avrebbe affidato il suo braccio destro, ma Colin era Colin.
Da quel momento, per lui la vita era drammaticamente cambiata e, quando anche Fianna era stata elevata al ruolo di Sköll, per loro le cose erano divenute molto differenti.
Certo, avevano seguito la scuola come tutti gli umani ma, oltre a ciò, loro avevano dovuto prendere sulle spalle anche un altro genere di impegno.
Ci si doveva preparare fin da giovani, per essere la Triade di Potere, poiché non era dato sapere quando il Fato avrebbe potuto metterci lo zampino.
Questo retaggio proveniva da un passato ancestrale, quando i Cacciatori predavano indisturbati i licantropi, e le Triadi venivano spesso falcidiate perché esposte per difendere i clan.
I giovani dovevano essere in grado di guidare i branchi anche in tenera età, o il sistema piramidale della stirpe mannara sarebbe collassata.
Certo, la guida del branco poteva anche essere sostenuta da un Consiglio, ma esso non avrebbe mai potuto essere potente – o infondere sicurezza – come una Triade.
Perciò, per Liam, Colin e Fianna, era iniziata una doppia vita fatta di segreti, bugie e un addestramento serrato per il corpo e la mente.
In tutto questo, Cerridwyn non aveva avuto spazio, così Liam l’aveva serbata nel cuore come un dolce pensiero a cui aggrapparsi nei momenti bui.
Dolce pensiero che, però, era divenuto molto reale quando, l’estate precedente, lei si era presentata a casa sua per chiedergli come stesse, non appena giunta a conoscenza del suo incidente.
In realtà, Fianna lo aveva ferito con un artiglio ma, come sempre, avevano dovuto mascherare il tutto e raccontare una bugia, simulando un suo braccio rotto.
Trovarsela dinanzi alla porta di casa, bellissima e preoccupata solo per lui, lo aveva sbriciolato.
Tutti i suoi tentativi di relegarla in un angolino del suo cuore, erano venuti meno e, quando lei lo aveva abbracciato, facendogli gli auguri per una pronta guarigione, Liam si era sentito perso.
Per sua fortuna, né Colin né il padre si erano trovati a casa, in quel momento, o avrebbero capito subito cosa gli fosse passato per la testa nel vederla.
Il suo cuore aveva fatto una capriola, la sua aura si era spezzettata come un vetro in frantumi e il suo dolce ricordo, di colpo, era divenuto un sogno a occhi aperti. E chiusi.
Era abbastanza onesto da ammettere che, vederla in calzoncini corti e maglietta aveva pesato un po’, sul suo stato d’animo, ma Cerridwyn gli piaceva per mille altri motivi.
Non solo perché era un piccolo concentrato di bellezza gallese.
Cerry era intelligente in una maniera quasi imbarazzante, eccelleva in tutte le materie, e lui adorava le donne furbe e sveglie.
Aveva un brio e una verve davvero rare, e il suo sorriso poteva illuminare una stanza al solo passaggio.
Chiacchierava senza posa, e le sue risate erano sempre contagiose.
Inoltre, cosa che per lui era assai importante, amava i cani. Li adorava con tutta se stessa.
In fondo, per quanto il termine ‘cane’, per loro, fosse un insulto, cos’erano se non canidi un po’ speciali?
L’abbaiare frenetico del cane di Cerry – Fluffy – lo riportò alla realtà, scaraventandolo nuovamente su quella strada semibuia in cui aveva scorto il pericolo.
E scongiurato un disastro epocale per crearne un altro, forse altrettanto grande.
“Ssst, Fluffy, basta… la tua padrona sta bene” mormorò Liam, chinando finalmente lo sguardo a scrutare negli occhi nocciola di Cerridwyn, stesa sotto di lui.
Aveva corso come un matto, per raggiungerla e, per trascinarla via dal marciapiede, le si era gettato addosso in stile carro armato.
Nel frattempo, aveva dato una gran manata al SUV che stava per centrarla e che, in quel momento, si trovata spalmato contro un pilone della luce.
A giudicare dal battito che avvertita provenire dall’auto, il folle alla guida era vivo e vegeto, addormentato come Aurora nella famosa fiaba e ben lungi dall’essersi accorto di quello che era successo.
Cerridwyn continuò a fissarlo ancora per diversi istanti senza proferire parola e Liam, nel reggersi su un ginocchio, le domandò: “Tutto okay, lì sotto?”
Lei assentì muta, lanciò un’occhiata all’auto che l’aveva quasi ammazzata e, alla fine, riuscì a gracchiare: “Sei un vampiro?”
Liam sbuffò, si passò una mano sul viso e, fissando il cielo pieno di stelle con aria esasperata, pensò tra sé: “Lo sapevo che la storia di Edward Cullen sarebbe saltata fuori!”
***
Chiamata la polizia per avvertire di un incidente nei pressi della Merthyr Road, vicino alla confluenza con Cwm Gwynlais, la coppia di ragazzi e Fluffy attesero pazienti i soccorsi.
Era impensabile allontanarsi, così come abbandonare quel pazzo a se stesso. Allontanarsi da Cerry alla chetichella avrebbe destato troppi sospetti, oltre a rendere indigesto il suo gesto alla ragazza.
Certo, l’idea di parlare di ciò che era avvenuto era ancor più impensabile, anche perché Liam non sapeva come prendere il silenzio di Cerry.
Dopo quella battuta più che scontata – evidentemente, anche Cerry aveva visto quel film, da piccola – la ragazza si era azzittita e aveva continuato a guardare nel vuoto, pensosa.
Lui si era limitato a restare in silenzio, rispettando il bisogno della ragazza di metabolizzare il tutto… e crearsi le sue risposte, più o meno folli che fossero.
Fluffy, nel frattempo, lo leccò per la centesima volta in viso, ma lui vi diede poco peso.
Sapeva che i cani, una volta compresa la loro buona volontà, tendevano a idolatrarli.
Dopotutto, erano la quintessenza stessa dei canidi. Un po’, ci stava.
Da lì a un po’, però, la sua faccia avrebbe avuto bisogno di una buona dose di sapone, se Fluffy non avesse smesso di ringraziarlo per aver salvato la sua padroncina.
Padroncina che, quando giunsero polizia e ambulanza, sembrò ridestarsi a nuova vita.
I poliziotti non attesero neppure un attimo, e chiesero loro la dinamica dell’incidente e le loro condizioni di salute.
A quel punto, Liam raggelò, temendo il peggio.
Cerridwyn, però, lo sorprese.
Disse al poliziotto che lei, il suo cane e Liam stavano passeggiando sul marciapiede, quando l’autista aveva sbandato, rischiando di centrarli.
Spiegò loro come fossero scivolati sulla neve per schivarlo, indicando poi la lunga striscia nevosa schiacciata, dove erano ruzzolati poco meno di venti minuti prima.
Aggiunse anche che Liam l’aveva protetta col suo corpo, rovinandosi a quel modo il giaccone sull’asfalto del marciapiede.
Tutto vero, verissimo, se non si contava l’urto sul passaruota dell’auto che, però, era stato danneggiato anche dall’attrito contro il lampione.
L’ammaccatura prodotta dalla sua mano era mescolata alle altre lamiere contorte e, visto che l’autista era addormentato, quando aveva rischiato di investire Cerridwyn, lei era l’unica vera testimone.
A parte Fluffy, ovviamente, ma lui non poteva certo testimoniare contro di lui.
Ritenendosi soddisfatti, i poliziotti chiesero loro se volessero un passaggio fino a casa, ma Cerry negò di averne bisogno, visto che abitava a meno di mezzo miglio da lì.
Anche Liam scansò con gentilezza l’invito e, quando ambulanza e polizia se ne andarono, Cerry si volse verso di lui e domandò: “Ora mi dici che è successo?”
“Quello che hai detto tu?” ironizzò lui, sogghignando teso.
“Sì, lo so che quella parte è tutta vera” brontolò lei, allungando una mano per bloccare l’ennesimo tentativo di Fluffy di leccare in faccia Liam. “E piantala! Non ti accompagnerò mai più fuori, Fluffy, se non la smetti!”
Liam rise nonostante tutto e, rimettendo a terra il cucciolo di golden retriever, gli diede un buffetto sulle orecchie e si rimise diritto.
Il cucciolo si strusciò contro le gambe di Liam con fare adorante e Cerry, con un mezzo sorriso, mormorò: “Ti adora, a quanto pare… e dire che ha solo pochi mesi, e lui ti ha visto solo stasera.”
“Mi piacciono i cani” asserì Liam, notando solo in quel momento il tremore alle mani di Cerridwyn e i suoi occhi lucidi.
Il suo battito cardiaco stava lentamente salendo di intensità e, allo stesso modo, l’adrenalina nel suo sangue stava scemando.
Stava per cedere.
“Cerry…” sussurrò lui, allungando una mano a sfiorarle il braccio.
Lei sobbalzò, a quel tocco e, inaspettatamente, si gettò tra le braccia di Liam, scoppiando in lacrime.
Ecco, e ora cosa doveva fare?
Non avendo molta dimestichezza con le lacrime – Fianna piangeva spesso, se era arrabbiata, ma di solito lui la consolava da lupo – le batté goffamente le mani sulla schiena.
“Ehi, va tutto bene… siamo okay, no?” mormorò roco lui, inebriato dal suo profumo leggermente speziato e dalla morbidezza dei suoi riccioli ramati, che gli sfioravano il mento.
Lei assentì contro il suo petto, stretta ancora a lui come un koala e tremante come una foglia sbattuta da un vento inclemente.
Calmati, Liam… è solo un crollo nervoso. Ora le passa, si raccomandò tra sé, cercando di tenere a bada il suo, di cuore.
Era dura, però, averla tra le braccia, spaventata e tremante, e non ricorrere al classico e abusatissimo bacio che si vedeva sempre nei film.
Lo avrebbe voluto fino all’ultima stilla di potere che aveva in corpo, ma non l’avrebbe mai fatto.
Primo, perché lui non amava i film strappalacrime, secondo, perché rispettava troppo Cerry per farle uno sgarbo simile.
Rimase perciò perfettamente immobile, sfiorandole solo la schiena con lente carezze nel tentativo di calmarla.
Lentamente, mentre la notte avanzava e l’aria diveniva sempre più fredda, Cerridwyn si calmò e, contro l’ampio petto di Liam, mormorò: “Perché sei così caldo? Fa un freddo assurdo.”
“Giacca della Columbia. Ha un interno termico” si giustificò lui, ammiccando quando lei tornò a riemergere dal suo petto per guardarlo dal basso.
Cerry non se la bevve neppure per un istante e, scostandosi di colpo da lui, gli puntò il dito contro e borbottò: “Sei come Jake, allora!”
Liam assottigliò le palpebre, la fissò esacerbato e sbuffò.
Ma lei non aveva ancora finito, con le citazioni.
Batté le mani come una bambina, la crisi ora completamente passata e, afferrando le sue, saltellò sul posto ed esclamò: “Sei un…”
Liam fu lesto a tapparle la bocca e, ora sofferente, le sussurrò: “Cerry, ti prego…”
Lei sembrò comprendere al volo e, annuendo con fare da cospiratore, abbassò subito la voce e mormorò: “Oh, giusto. Immagino che tu non possa farlo sapere a nessuno. O almeno credo…”
“Far sapere cosa, Cerry?”
“Ora non prendermi per idiota, Liam Laroche” sottolineò lei, tornando seria. “D’accordo, non sono stata molto edificante, nel citarti un film YA, ma mi è venuto spontaneo. Comunque, ho capito benissimo che qualcosa non quadra.”
Sospirando, Liam le disse: “Dai, andiamo. Ti accompagno a casa. Sei in evidente stato confusionale, e non è il caso che tu prenda anche un raffreddore.”
Lei, però, si scansò dalla mano protesa del giovane e, per tutta risposta, afferrò il cellulare che teneva in tasca e chiamò sua madre.
Liam sbiancò, quando le sentì dire che sarebbe andata a casa del suo amico Liam per studiare, e che suo padre l’avrebbe riaccompagnata più tardi.
Se c’era una persona libera come l’aria e spensierata come una giornata estiva, era Suzzanne, la madre di Cerry.
Ex figlia dei fiori, aveva cresciuto la figlia nel rispetto della natura e dell’amore incondizionato verso le altre persone.
Il padre, un tantino più controllato di così, aveva comunque assecondato la moglie, che amava alla follia e per cui avrebbe anche venduto un rene, se necessario.
Liam li trovava un tantino troppo mielosi, ma erano una bella coppia e volevano un gran bene alla figlia.
Chiusa la comunicazione, Cerry guardò poi Liam con aria di sfida e, intrecciando le braccia, sentenziò: “Ora, andiamo a casa a studiare.”
“E… e cosa?”
“Te” decretò lapidaria la ragazza, avanzando poi a passo di marcia lungo il marciapiede.
Fluffy rimase accanto a lui, guardandolo dubbioso e Liam, non potendo fare altro oltre al tramortirla, si accodò a capo chino.
Se suo padre avesse scoperto come si era fatto infinocchiare da una ragazza che pesava tre volte meno di lui, avrebbe riso fino alla fine dei suoi giorni.
Dopo averlo scuoiato, s’intende.
***
Per sua fortuna, Colin era uscito con Chris e la sua famiglia, quel week-end, e si erano recati al nord per andare a fare visita a degli amici.
Suo padre, però, era a casa e, quando i due entrarono in compagnia del piccolo Fluffy, levò il capo dal giornale che stava leggendo e, accigliandosi, balzò dalla poltrona ed esalò: “Liam! Ma che è successo? Cerridwyn… ma perché siete così ammaccati?”
“Piccolo incidente” mormorò Liam, trasmettendogli poi mentalmente, e con tono agitato: “Sa tutto! O, per lo meno, ne sa una parte!”
Pascal si accigliò ancora di più, abbandonò il salottino e si diresse verso la cucina, indirizzando i giovani proprio lì.
Messo un bollitore sul fuoco, invitò Cerry a sedersi vicino alla stufa di maiolica e lei, dopo aver tolto il giubbotto infradiciato di neve e rovinato in più punti, lo ringraziò.
Imitatala, Liam si accomodò su una delle panche imbottite poste sotto le finestre a bovindo e, nello scrutare Cerry, si chiese se si sarebbe spinta a fare domande di fronte a suo padre.
Lei, però, rimase in silenzio, si limitò ad accarezzare Fluffy e, quando Pascal le offrì una tazza di tè bollente, gli sorrise e ancora ringraziò.
“Vuoi dirmi che è successo?” gli domandò suo padre, mentre passava una tazza di tè anche a lui.
“Un’auto stava per investirla. L’autista si è addormentato al volante, tanto era ubriaco” gli raccontò succintamente.
“E immagino tu non ti sia limitato a scansarla…”
“Era troppo lontana. Mi sono dovuto lanciare su di lei, e scansare l’auto. Ma tranquillo, quella si è schiantata contro un palo, e il segno che ho lasciato io si è confuso con le lamiere contorte.”
“Oh, sì, guarda… sono tranquillissimo” ironizzò sarcastico Pascal, mentre chiedeva a Cerry se Fluffy avrebbe gradito del latte. “Abbiamo soltanto un’umana in casa che ti ha visto fare Superman.”
“Non ti ci mettere anche tu con gli esempi filmici, papà. Sono appena passato dall’essere equiparato a un vampiro-lampadina, per poi passare a un lupo tatuato” brontolò Liam, nella sua testa.
Nonostante tutto, Pascal si lasciò sfuggire un sorrisino e Liam, sbuffando, mormorò: “Sei sicura di sentirti bene, Cerry? Non vuoi che chiamiamo un’ambulanza? Dopotutto, abbiamo fatto un bel ruzzolone.”
“Sto benissimo, grazie” sottolineò la ragazza, inclinando il capo nello scrutare Liam con espressione intensa.
Lui si passò le mani sul viso, esasperato e Pascal, nel notare la sua aura febbricitante, sospirò ma infine disse: “Sono contento che mio figlio ti abbia evitato un incidente potenzialmente mortale. Sa essere un bravo figliolo, quando si impegna.”
“Oh, sì, è stato molto coraggioso, e non ha badato ai rischi, pur di salvarmi” assentì la ragazza, sorridendo generosa prima di aggiungere con enfasi: “A nessun rischio.”
Pascal rise nonostante tutto e, nel rivolgersi a un disperato secondogenito, asserì: “Mi avevi detto che Cerry è in gamba, ma forse non sei stato abbastanza generoso coi complimenti.”
“Mi inventerò qualcosa di meglio, per descriverla, la prossima volta” mugugnò Liam, avvampando in viso.
“Cos’hai detto a tuo padre?” domandò a quel punto Cerry, dimenticando temporaneamente la sua curiosità.
“Che sei intelligente e molto perspicace. Forse troppo” brontolò lui, tornando a coprirsi il viso con le mani. Che diavolo doveva fare, a quel punto?
Pascal rise ancora, passò accanto al figlio e, nel dargli una pacca sulla spalla, disse: “Mi trovate di là, se avete bisogno di me.”
Ciò detto, uscì dalla cucina, si chiuse la porta alle spalle e Liam, fissando il battente con espressione sconvolta, esalò mentalmente: “Ma che fai? Abbandoni così il tuo erede?!”
“Cerry è uno scricciolo… non puoi davvero aver paura di lei.”
“Ho paura di quello che potrebbe sapere! O capire!”
“Non mi sembra sia scappata, o sia svenuta di paura. E’ venuta consapevolmente qui per sapere la verità. Dimostra un coraggio che tu non stai replicando. Sii un tantino più uomo di così, Liam.”
Quel dolce rimbrotto lo fece sbuffare e, tornando a guardare Cerry, mugugnò: “Allora… sentiamo le tue teorie. Poi ti saprò dire quanto hai battuto forte la testa.”
Lei rise un poco, e a Liam vennero i brividi caldi. E non per colpa della stufa.
Perché doveva avere una voce così dolce, e una risata così sensuale? Ma, soprattutto, perché doveva essere un’umana?
“Allora… nella vostra famiglia, siete tutti dei colossi. E, se non fosse che mia madre ama alla follia mio padre, potrei dirle di puntare a tuo padre già da domani, visto quanto è fascinoso” ammiccò Cerridwyn, facendo sorridere un poco Liam.
Nella sua testa, si riversò la risata mentale del padre, così da portare il figlio a borbottare: “Non ti montare troppo la testa, tu…”
“Fammi almeno gongolare un po’. Se una ragazza di diciannove anni mi trova fascinoso, posso vantarmi per qualche minuto, no?”
Liam lo lasciò perdere e, invitando Cerry a continuare, ne ascoltò con attenzione le elucubrazioni.
“Diamo per scontato che, questa vostra mole, sia accompagnata da un discreto grado di forza. Forza che, sommata al tuo gesto, mi porta a pensare che sia un tantino superiore alla media” aggiunse la ragazza, indicando la mano del giovane.
Liam la scrutò senza nulla trovarvi, ovviamente. Il livido e i graffi si erano già rimarginati e, a parte un lieve rossore, non v’era nulla a memoria dell’incidente.
“La tua mano non è minimamente ferita, eppure hai preso in pieno il passaruota dell’auto, …l’ho visto molto bene.”
“Tu cosa pensi, dunque?” le domandò Liam, facendo spallucce.
“Innanzitutto, grazie” gli sorrise a sorpresa lei, arrossendo un poco. “Tra l’arrivo della polizia e il mio mutismo selettivo, non ti avevo ancora ringraziato per avermi salvata.”
“Non c’è di che” mormorò lui, detestando l’idea che suo padre stesse ascoltando l’intera conversazione.
“Ciò detto, stavo pensando a molteplici soluzioni logiche, visto che sono il mio campo…” sottolineò lei, ammiccando. “… anche se, con le mie uscite, penso di non averti dato proprio questa impressione.”
“Giusto. Sei o non sei la nostra futura astronauta?” ironizzò un poco Liam.
“Ci si prova ma, prima di arrivare lì, dovrò farne di passaggi intermedi” brontolò lei, scuotendo poi una mano per scacciare quella distrazione. “Allora, lasciando perdere sieri fantasiosi alla Captain America, morsi di ragno e robe simili, non sono arrivata a capo di nulla. Per questo, ho sparato la scemenza su Jake ed Edward. Scusa.”
Mica tanto scemenza, brontolò tra sé il giovane.
“Scusami tu, se faccio un po’ l’avvocato del diavolo, ma tu saresti disposta a ficcare il naso in una cosa che non capisci… per quale motivo?” le domandò lui, fissandola con sincera curiosità.
Perché non era preoccupata?
Sapeva che Cerry non era come il Chris di Colin. Ormai sapeva come sgamare i fomoriani, e Cerridwyn era umana al cento percento.
La ragazza, a quel punto, gli sorrise dolcemente e, nel guardare la porta della cucina, domandò: “Correggimi se sbaglio… tuo padre può sentirci, vero?”
“Sì” assentì lui, senza dare altre spiegazioni.
Cerry, allora, arrossì un poco e Liam, mandando al diavolo tutto e tutti, si alzò, le afferrò la mano e le chiese: “Ti fidi di me?”
“Stasera stiamo esagerando, con le citazioni” ironizzò lei, ma annuì.
Liam allora rise e, nell’uscire dalla cucina con la ragazza, salì le scale per raggiungere il primo piano, mentre il padre gli borbottava nella testa: “Non è giusto, però!”
“Fatti gli affari tuoi. Io e Colin non c’eravamo, quando hai fatto il cascamorto con mamma!”
Ciò detto, aprì la porta della sua camera, vi si infilò e, quando anche Cerry lo ebbe raggiunto, disse con una scrollatina di spalle: “Pareti insonorizzate.”
“Oh” mormorò lei, guardandosi intorno curiosa.
Solo a quel punto, Liam si ricordò che la sua stanza non era esattamente in ordine e, arrossendo come un peperone, cercò di rimediare alla bell’e meglio.
Frettolosamente, lanciò i suoi capi sporchi nella cestina dei panni da lavare, che teneva accanto alla scrivania e, dopo aver lisciato il copriletto, si volse a guardarla.
Lei stava sorridendogli, per nulla preoccupata per il disordine.
Anzi, le sue endorfine sembravano molto alte e gli estrogeni…
Liam scosse il capo, lasciando perdere alla svelta ciò che il corpo di Cerry gli stava trasmettendo e, nell’offrirle la poltroncina della sua scrivania, si lasciò cadere sul letto e borbottò: “Spara pure.”
Sperando con tutto se stesso che, una volta aperta la sua tenera boccuccia, non uscissero bombe tali da ucciderlo davvero.
Ciao a tutte/i e buon anno! Torniamo dai nostri lupetti con questa breve storia su Liam Laroche, futuro Fenrir del branco di Cardiff. Per chi se lo chiedesse, questa storia è divisa in due parti, poi ne verrà un'altra in cui ritroveremo sia Colin che Chris, così da completare il cerchio, per così dire.
Come andrà a finire questo tuffo nella verità, per Liam? Si accettano scommesse!
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Capitolo 29 *** Dio li fa e poi li accoppia - Parte 2 (Liam Laroche) 2020 ***
Dio li fa e poi li accoppia - Seconda parte
Cerry si accomodò con grazia sulla sedia della scrivania, si volse a mezzo per giocherellare con una penna e, sorridendo a mezzo, mormorò: “Non ricordavo ti piacesse Scarlet Johansson.”
Liam guardò il poster che capeggiava su una parete, e il simbolo degli Avengers stampigliato sotto.
Chi era che non apprezzava Scarlet? Solo un uomo morto, forse.
“Mi piacciono le donne di carattere” asserì diplomaticamente Liam.
Il sorriso di Cerridwyn si accentuò.
Intrecciando le mani tra loro, la ragazza lanciò uno sguardo al soffitto e, pensierosa, disse: “Mi hai chiesto perché abbia voluto ficcare il naso. E se sia pronta alle conseguenze delle mie azioni.”
Lui assentì, sempre più nervoso, e la giovane si limitò a dire: “Ma perché sei tu, mi pare ovvio.”
“Eh? Scusa?” gracchiò Liam, facendo tanto d’occhi.
“Anche se, per un certo periodo, ho pensato che te la intendessi con Fianna…” cominciò col dire lei, gesticolando un poco con le mani. “… ho capito quasi subito che, tu e lei, eravate solo buoni amici.”
“Di sicuro! Fianna è come una sorellina… anche se mi sgozzerebbe subito, se sapesse che la reputo più piccola di me, visto che è il contrario. Di tre mesi e due giorni, per essere precisi” ammiccò Liam, ghignando.
“Te lo fa notare?” ironizzò lei.
“Tutte le volte che faccio l’atto di comportarmi da fratello maggiore” annuì Liam, massaggiandosi distrattamente il braccio dove recava la sua cicatrice da artiglio.
“E perché ti comporti così, visto che Fianna ha ben due fratelli maggiori?”
Il sorriso di Liam si fece dolce, a quel punto e, allungati gli avambracci sulle cosce, mormorò: “Perché Fianna è speciale, per me, anche se non nel senso che molti immaginano, per intenderci.”
“Quindi, non devo prenderla per i capelli?” buttò lì Cerry, facendo risollevare di colpo Liam, che la guardò senza parole.
“In che… senso?” bofonchiò lui, ora non sapendo più bene che dire.
“Nell’unico senso possibile, Liam. Te lo avrei chiesto la settimana prossima, per il mio compleanno ma, visto che siamo qui, e siamo in ballo…”
“No, aspetta, aspetta!” ansimò lui, sollevando le mani per bloccarla. “C’è un problema nel mezzo, un problema enorme e, per quanto vorrei molto che tu mi dicessi quello che io spero tu voglia dirmi, dobbiamo chiarire un paio di cose, prima.”
Lei arrossì a quelle parole e, nel giocherellare con un ricciolo dei suoi capelli, domandò: “Dando per scontato che stiamo parlando della stessa cosa… e lo spero… che impedimenti ci sarebbero, scusa? Appartieni a qualche culto strano, per cui non puoi avere una ragazza?”
“Ecco, lo ha detto… e ora come faccio a non saltarle addosso per baciarla?”, si domandò tra sé Liam, agitandosi sul letto.
Cerridwyn aveva detto esattamente ciò che aveva da sempre voluto sentire da lei, ma era difficile mettere assieme il suo desiderio e la sua realtà.
Cerry storse appena il naso e mormorò: “E’ per via… di quel che ho visto? Non è un problema, se sei forte. Anzi, non può che essere un vantaggio.”
“E non ti turba sapere perché io sia così forte?” sbottò lui, accigliandosi.
Fluffy, che li aveva seguiti fino a lì, andò a posizionarsi di fronte a Liam e, sedutosi sulle zampe posteriori, gli abbaiò un paio di volte.
Il giovane lo carezzò istintivamente, borbottando: “No, che non sono arrabbiato con lei, Fluffy. Non dire scemenze.”
Cerridwyn inarcò immediatamente le sopracciglia, esalando: “In che senso… non dire scemenze? Sai quel che dice? Sei come… il dottor Dolittle, ma in versione Maciste?”
Per Liam fu troppo.
Crollò sul letto, piegato da una risata così profonda da portarlo a lacrimare.
Tenendosi la pancia con le mani, Liam strizzò gli occhi, tossì un paio di volte e, infine, esalò: “Oddio… pure questa!”
“Piantala! Sto cercando di capire! Davvero!” sbottò Cerridwyn, accigliandosi.
“Lo so, sul serio… e credimi, mi fa piacere. Ma ho il terrore di dire tutto perché…”
Bloccandosi, tornò del tutto serio e, nel rimettersi seduto, sussurrò: “… perché, se tu non potessi accettare la verità, dovrei farti fare una cosa che aborro più di ogni altra.”
“Liam…”
Lui le sorrise mesto e, allargando le mani a mostrare i palmi, asserì: “Non era proprio una scemenza, quando mi hai accusato di essere come Jake.”
Cerridwyn si irrigidì leggermente, a quelle parole e, per un istante, Liam temette di vederla correre via urlando.
Sarebbe stato un bel colpo al cuore e, con tutta probabilità, avrebbe dovuto chiamare Lady Fenrir o Kate Alexander perché le facessero il lavaggio del cervello.
Di certo, non un’idea esaltante, visto quanto gli piaceva Cerry.
Lei, però, non fuggì, rimase seduta sulla poltroncina girevole, gli occhi fissi su Liam e la bocca leggermente dischiusa.
Liam percepì senza sforzo l’accumularsi dell’adrenalina nel suo sangue, il pulsare frenetico del cuore, così come il disseccamento delle fauci.
A volte, avvertire tutto così chiaramente, era un fardello quasi insopportabile.
Cerry, comunque, si fece forza e, tossicchiando per riprendere fiato, sbatté un paio di volte le palpebre e mormorò: “Che intendi dire?”
Liam si lasciò scivolare a terra, in ginocchio, giusto per apparire un po’ meno imponente – anche stando seduto, era comunque molto grosso – e, con un sospiro, disse: “E’ una cosa genetica, come per i quileute.”
“Hai visto il film?” borbottò Cerry.
“Farebbe molta differenza?”
“Mera curiosità” scrollò le spalle lei.
Liam, allora, assentì e ammise: “Io e Colin volevamo capire com’erano quei licantropi.”
Al suono di quell’ultima parola, Cerridwyn rabbrividì e Liam, immediatamente, si azzittì.
La ragazza, però, scosse le mani dinanzi a sé, prese un altro bel respiro e disse: “No, no, ce la faccio. Davvero. Ma sul serio ci siete andati?!”
Liam rise appena, riconoscendo a Cerry una tempra davvero rara. Tentava di scherzare pur se, dentro di sé, il panico lottava strenuamente contro la curiosità.
Preso in braccio Fluffy, che scodinzolò felice, Liam le raccontò ciò che era e, soprattutto, perché era ciò che era.
Non lasciò indietro nulla e, per tutto il tempo, i suoi occhi corsero da lei al cucciolo di labrador, e viceversa.
Impiegò quasi un’ora per raccontarle l’essenziale e, quando finalmente terminò, aveva la gola secca.
Cerridwyn non si era mai mossa, né aveva fatto domande.
Quando ogni rumore si spense e un quieto silenzio si impadronì della stanza, Liam non seppe più che pensare.
Sapeva che Amanda, l’amica di lady Fenrir, aveva avuto una mezza crisi di panico, nel sapere la verità. La stessa Brianna non l’aveva presa benissimo, all’inizio.
Estelle, la moglie di Bryan di Aberdeen, era stata mutata a causa di uno sciocco incidente, e aveva scoperto la verità gioco forza.
La moglie di Jerome Rowley lo aveva scoperto grazie ai suoi poteri di Percepente… ma quante altre donne poteva dire di conoscere, che avevano avuto simili battesimi del fuoco?
Cerridwyn, comunque, colse l’occasione per stupirlo ancora una volta.
Scivolò a sua volta in terra, sulle ginocchia e, preso Fluffy dalle gambe di Liam, se lo strinse al petto, gli sorrise e mormorò: “Non sai che, se un cane sta bene con una persona ed è sereno, vuol dire che quella persona è buona?”
“O-kay” tentennò cauto Liam.
“Fluffy è stato con te tutto il tempo, ti idolatra… perciò, direi che non è proprio un caos totale, quello che mi hai detto.”
“L’ho spiegato così male?” esalò Liam, un tantino ansioso.
Cerry allora rise, scosse il capo e, allungandosi verso di lui, lo baciò sulle labbra, indugiando qualche attimo prima di ritirarsi e dire. “Oh, sì, hanno proprio il sapore giusto.”
Liam ristette perfettamente immobile, così come perfettamente zitto, sapendo bene che, se non avesse mantenuto il totale controllo su se stesso, sarebbe successo un disastro.
Altro che Estelle e Bryan!
Cerridwyn l’aveva baciato! Non era scappata urlando, non gli aveva dato del mostro e l’aveva ascoltato senza interromperlo, o dargli del bugiardo.
Solo per quello, avrebbe potuto ululare alla luna per mesi, tanta era la gioia che stava provando.
“Tutto bene? Ho esagerato?” domandò lei, preoccupata.
Lui scosse il capo, arrischiandosi a sorridere e Cerry, più tranquilla, mise giù Fluffy e si avvicinò un poco a Liam, sussurrando: “E se io mi sedessi un poco più vicina a te, succederebbe qualcosa?”
Liam nascose tempestivamente le mani dietro la schiena e Cerridwyn, dubbiosa, gli domandò: “Non vuoi toccarmi?”
Dio, com’era difficile avere a che fare con una fragile umana che, tra le altre cose, poteva mandarti in briciole solo parlando!
Visto che la lingua gli faceva ancora difetto, liberò una mano per mostrargliela e, evidenti, gli artigli apparvero in tutta la loro pericolosità.
Cerry li fissò strabiliata ma, memore delle parole di Liam, non li toccò, limitandosi a guardarli per qualche istante prima di chiedergli: “Sei… nervoso? Per me?”
Liam assentì vigorosamente e la ragazza, a sorpresa, arrossì e gli gettò le braccia al collo, esclamando: “Che bello!”
Contraccolpo e sorpresa portarono Liam a sbilanciarsi all’indietro, così che la sua testa andò a cozzare contro la pediera del letto.
Si sentì un toc secco, ma a lui non fregò un accidenti.
Cerry lo stava abbracciando tutta contenta e, a quanto pareva, sembrava provare un genuino piacere tutto femminile, al pensiero di destabilizzarlo a quel modo.
Il quel momento, non seppe se odiarla un pochetto o amarla ancora di più.
Quando lei infine si scostò, tornò a guardare la mano di Liam, sorrise fiera e domandò: “Quindi, quando perdi il controllo, può succedere questo?”
“Può capitare” ammise Liam, ritrovando finalmente la favella.
A quel punto, lo sguardo di Cerry si addolcì e, nel prendere la mano di Liam con attenzione, disse: “Hanno un che di ferale… e non potrebbe essere altrimenti, ma sono anche affascinanti. Sei una belva feroce, ma sei anche docile.”
“Sono innanzitutto un lupo, e solo dopo un uomo. Puoi accettarlo?” le domandò lui, deglutendo a fatica.
“Spiegamelo. Vorrei capire.”
“Io ragiono da lupo, in prima istanza e, come erede del titolo di capoclan, i miei mannari verranno prima di chiunque altro. Solo la mia Prima Lupa e i miei cuccioli, saranno antecedenti agli altri” mormorò lui, occhi negli occhi con Cerry.
Era così strano parlare di un suo ipotetico futuro, con lei ad ascoltarlo!
Cerridwyn saggiò le parole ‘Prima Lupa’ con tono contemplativo, quasi in trance e, facendosi di colpo triste, disse: “Sarà la tua compagna, giusto?”
“Beh… potrebbe anche non esserlo. Sono esistiti casi in cui la Compagna e la Prima Lupa non erano la stessa persona, però…”
Perché stavano parlando proprio di quello, con tutti gli argomenti che potevano toccare in merito alla sua licantropia?
Liam stava cominciando a sudare freddo.
“…però immagino che, in quanto entità animali, abbiate rituali piuttosto… fisici” borbottò Cerry, e i suoi occhi nocciola si fecero fumosi, quasi rabbiosi.
Rabbiosi?
“Alcuni, in effetti” assentì cauto Liam.
“Tuo padre, quindi?”
“La manágarmr più alta in grado si presta per tale funzione, quando necessita, ma è raro” le spiegò sbrigativamente Liam, non volendo scendere nei particolari.
“Fa schifo. Tutto questo fa semplicemente schifo” sbuffò Cerry, accigliandosi.
“Che cosa, esattamente?” tentennò Liam, non sapendo come interpretare questa ammissione.
“Il fatto che io ti debba dividere con qualcuno!” sibilò lei, fissandolo con estrema rabbia, come se fossero chiari i motivi per cui era furiosa.
“Ah” riuscì soltanto a dire lui, prima di accennare un sorrisino comprensivo. “E’ carino quello che dici, ma…”
“Niente ma. Pensi davvero che me ne sia stata senza un ragazzo per tutti questi anni, solo perché ero timida o noiosa? Stavo aspettando te!” sbottò la giovane, sorprendendolo. “Ma tu non ti facevi mai avanti! Ma, quando mi sono stancata e ho finalmente preso le redini in mano, mi esplode questa bomba tra le mani… e scopro che ti devo dividere con una lupa?!”
A Liam quasi si disarticolò la mascella, di fronte a quella confessione spontanea, ma Cerry non aveva ancora finito con il suo monologo irritato e furente.
“Non mi dire che sono tutte belle come Fianna, o potrei dare davvero di matto. Oh, cielo! Ma dovevo innamorarmi proprio di un…un capoclan?! Non potevi essere un semplice mannaro? Almeno non avrei avuto questi problemi!”
Non era arrabbiata per le loro differenze abnormi, per nulla. Era gelosa delle altre lupe!
Liam sorrise di fronte a quella semplice, incredibile verità e, nello sfiorarle il viso, la avvicinò a sé per baciarla, chetandone la rabbia al solo tocco.
Lei si lasciò andare a un sospiro deliziato e si inarcò verso di lui, sfiorandogli il torace con una mano.
Il suo cuore prese a battere all’impazzata, al pari con quello di Cerry .
Con la mano libera, poi, la giovane scivolò lentamente lungo il braccio di Liam e, senza che lui si accorgesse di nulla, si punse il dito con l’artiglio del ragazzo.
Liam impiegò alcuni attimi prima di avvertire l’odore del sangue di Cerridwyn ma, quando si scostò inorridito e spaventato, era ormai tardi.
Mentre lui fissava quel piccolo dito sporco di sangue scarlatto, Cerry lo osservava soddisfatta, quasi compiaciuta.
L’istante successivo, lei guardò risoluta Liam e dichiarò: “Ho aspettato sei anni che ti decidessi a parlarmi come qualcosa di più di un semplice amico, ma non lo hai mai fatto e, anche se ora ne capisco i motivi, posso dirti che non ho più intenzione di lasciare a te il timone della nave. Ora decido io. Per me e per te perché, quant’è vero Iddio, nessun’altra ti avrà.”
Quella confessione un tantino lapidaria lo scosse non poco, anche se fece ululare di gioia il suo lupo.
“Ma non pensi a come cambierà adesso la tua vita?! Non hai la più pallida idea di cosa voglia dire avere segreti per tutti, vivere sempre con un profilo basso, sapere che ci sono nemici ovunque!” protestò Liam, non sapendo se essere arrabbiato o spaventato a morte.
Cerry, allora, lo rabbonì con una sola carezza e gli sorrise, asserendo: “Eppure, nonostante tutto, tu sei un bravissimo ragazzo, Colin è adorabile e, per quanto ne so, tuo padre è un brav’uomo. Non mi sembra che queste immani difficoltà vi abbiano impedito di essere persone degne di nota.”
“Stai semplificando troppo” brontolò Liam.
“E tu la stai facendo più difficile di quel che è. Ora diventerò come te, così potremo essere alla pari, in questo rapporto. Perché adesso sarai il mio ragazzo, è chiaro?”
Liam non poté che scoppiare a ridere, di fronte a tanta schiettezza e sfrontata sicurezza e, succhiando il dito ferito di Cerry perché smettesse di sanguinare, esalò: “Ma sei solo preoccupata di questo?”
“Sono preoccupata che qualche lupa abbia la prelazione su di te!” sospirò lei, prima di borbottare: “Anche se, a ben pensare, non hai mai avuto una ragazza, giusto?”
“Esatto. Non c’era bisogno di correre questo rischio, e solo per essere la mia ragazza. Adesso, dovrai affrontare un’Ordalia, per stare con me e, prima ancora, la Mutazione con la prossima Luna Piena, e chissà cosa potrà succedere, in quel caso.”
“Oh… e farà male?” domandò dubbiosa Cerry, mordendosi il labbro inferiore.
“Perché me lo domandi? Non è il dolore la parte più pericolosa della faccenda, ma la tua possibile morte.”
“Perché non sono molto carina, quando piango. Divento tutta rossa in faccia” precisò Cerridwyn, facendolo ridere nuovamente. “Inoltre, non morirò affatto. Ci tengo troppo a te, per farmi fregare a questo modo.”
“Non so se sei del tutto pazza, o se non hai capito pienamente la situazione” le disse lui, sfiorandole il viso con una carezza.
“Una discreta dose di follia è presente in famiglia, visto che conosci mia madre…” ironizzò Cerridwyn. “… ma la faccenda è un’altra. Potrei anche decidere di farmi suora, se servisse a stare con te. Ti sembrerà un po’ prevaricante, od ossessivo, ma ero stanca di aspettare che fossi tu a fare il primo passo. Perciò, l’ho fatto io.”
“Dovrai combattere per avermi, Cerry” le ricordò lui, bonario.
“Qualcuna ti ama come ti amo io?” lo sfidò lei, facendolo arrossire nonostante tutto. “Sei adorabile quando diventi rosso, lo sai?”
“Piantala. Io cerco di essere serio, e tu mi prendi in giro.”
“Ti sono sempre piaciuta perché, oltre a essere intelligentissima… e a farti copiare in biologia, sono anche molto spiritosa” sottolineò lei, facendogli un grattino sotto il mento.
“Non sono un cane, Cerry!” esalò lui, scostandosi ma senza riuscire a trattenere una risata.
Lei rise con lui e Liam, non potendone più, tornò a baciarla, ma stavolta con maggiore passione, maggiore frenesia.
Lei lo amava! Quella pazza scavezzacollo si era incisa un dito con il suo artiglio, perché lo amava così tanto da non volerlo lasciare a nessun’altra.
Un lento, feroce sorriso si fece strada sul suo viso e, quando si scostò da lei, Cerridwyn lo guardò e mormorò sorniona: “Oh, qualcuno comincia a capire quanto io sia seria.”
“Spero di non venirti a noia, perché ormai è fatta” ammiccò lui, prendendola per mano per uscire dalla stanza.
Meglio che non rimanessero lì un minuto di più, o avrebbero finito per fare un altro guaio.
“Ehi, dove andiamo?” esclamò lei, mentre Fluffy li seguiva trottando.
“Ci sono un paio di cose da fare, adesso che ti sei infilata nella tana del bianconiglio” le ricordò lui, tutto sorridente.
“Sei un lupo, non un coniglio!” sottolineò lei, facendolo ridere.
“Come?” esclamò a sorpresa Pascal facendo sbucare la testa dalla porta del salotto.
Sia Liam che Cerry lanciarono uno strillo per la paura, di fronte a quell’entrata in scena a sorpresa e, per poco, non finirono con l’inciampare sui loro stessi piedi.
Pascal, invece, li guardò dubbioso e domandò: “Che diamine avete combinato, fino a ora?”
“Scusa, papà, ma perché te ne stavi appiccicato alla porta del salotto, invece che seduto in poltrona? Cercavi di origliare?” brontolò Liam, cercando di ritrovare un minimo di contegno.
“Origliare? Non sia mai” precisò Pascal, facendosi serissimo.
Cerridwyn ridacchiò divertita e, nel farsi avanti, allungò una mano e disse: “Tanto piacere di ri-conoscerla, signor Laroche. Ora, come devo chiamarla?”
“Liam… te lo ripeto. Che avete combinato?” borbottò Pascal, cominciando a subodorare la portata del problema.
“Non guardare me, ha fatto tutto da sola” sottolineò Liam, prima di aggiungere. “Per inciso, sto ancora gongolando un po’, perciò non posso sgridarla. Se vuoi, fallo tu.”
“Uomini senza nervo. Ecco chi ho tirato su” si lagnò Pascal, scuotendo il capo. “Il maggiore passa più tempo a mollo di quanto non ne passi nei boschi e, a quanto pare, il mio erede si è fatto mettere i piedi in testa da una fanciulla umana grossa meno della metà di lui. Senza offesa, s’intende.”
“Ma certo. Anche se va detto che, tra dodici giorni, non sarò più tale” ammise la ragazza, sorprendendo anche Pascal.
“Come, prego?”
“E’ per questo che gongolavo. O meglio, non solo per questo” sottolineò Liam.
“Se Lady Fenrir sapesse che abbiamo mutato un’umana dopo… quanto? Un’ora e mezza dalla scoperta della verità, ci manderebbe di filata nella prigione di Niflheimr… e avrebbe ragione” borbottò preoccupato Pascal, scuotendo pensieroso il capo nell’osservare la giovane al fianco del figlio.
“Liam non ha colpe. Ho fatto tutto da sola e ora, volente o nolente, prenderò in mano le redini della situazione” sorrise con candore Cerridwyn.
Sconfitto, Pascal si avviò verso il telefono e borbottò: “Sarà meglio che io chiami lady Fenrir. Non si sa mai. Ma questa me la paghi, Liam. Sul serio.”
Liam preferì non dire nulla, perché non si poteva mai sapere, con suo padre.
Era buono e gentile, almeno finché non gli si pestavano i piedi.
***
Fermo di fronte alla casa di Cerry, Pascal spense l’auto e, nel guardare il profilo della ragazza alla luce soffusa proveniente dal cruscotto, le domandò: “Sei davvero sicura, Cerridwyn? Se anche si è arrivati a questa soluzione inarrestabile, non è detto che tu debba affrontare un’Ordalia. Liam ti ha spiegato cos’è, vero?”
La ragazza gli sorrise con calore e, per un attimo, Pascal rivide Ellana, in lei.
Anche Ellana era stata solita sorridergli così, quando voleva ficcargli in testa un concetto con le buone. Ma fermamente.
“Lei e Liam siete molto simili, e non fa specie che siate due guide per i vostri…oh, dovrei dire noi lupi, anche se ancora non ho sperimentato direttamente” ammiccò lei. “Però, non deve pensare che io abbia fatto questa scelta in maniera affrettata. Le è mai capitato di sapere una cosa fin dall’inizio, e senza alcun dubbio a macchiare tale certezza?”
“Sì. Quando vidi la mia Ellana per la prima volta” assentì Pascal.
“Era una donna molto bella e gentile, ed è un peccato che sia morta prematuramente… ma io e lei ce la saremmo intesa alla grande. Io so che Liam è quello giusto per me. L’ho sempre saputo ma, ingenuamente, ho sempre pensato che avrebbe fatto lui il primo passo. Ora, so perché non lo fece, così l’ho fatto io al posto suo, togliendolo dall’impiccio.”
“E sei disposta a mantenere i segreti che ti verranno imposti, ad accettare dolore e sangue? Perché non ci sarà solo Liam, come premio” le rammentò lui.
Cerry fu molto seria, quando rispose.
“Chi non offre sangue e dolore, per raggiungere i propri sogni, allora non ci crede davvero. Almeno, io la penso così” scrollò le spalle la ragazza, serafica. “Non si preoccupi. Me la caverò.”
“Nel dubbio, ti faremo addestrare da Fianna. Ho idea che Liam non starebbe tranquillo, diversamente” la avvertì Pascal, sorridendo appena.
“Oh, e come mai proprio lei?”
“E’ l’unica che sia mai riuscita a ferire Liam perciò, se ti addestra lei, lui si sentirà meglio. Saprà che hai la migliore, a insegnarti, e lei sceglierà la lupa giusta per il tuo battesimo del fuoco” le spiegò l’uomo, sorridendole generosamente.
“Fico. Non lo sapevo. Me lo farò spiegare da lei, allora” annuì la giovane, mormorando subito dopo: “Devo avere paura? Almeno un pochino?”
“Con lady Fenrir al tuo fianco, non avrai problemi, e tutti noi ti supporteremo, Cerridwyn. Hai compiuto un gesto molto coraggioso, e noi lo onoreremo nel migliore dei modi. Inoltre, ami mio figlio, il che ti rende speciale in un milione di modi diversi, ma tutti importanti” le spiegò lui, chinandosi per darle un bacio sulla guancia. “Riposa bene, figlia mia, e ricorda che ora hai un intero branco, al tuo fianco.”
“Mi piace l’idea” ammiccò lei, scendendo dall’auto. “Buonanotte, e grazie!”
***
Sorseggiando dell’infuso di papaya e arancio, Liam levò il capo non appena sentì tornare il padre e, quando lo vide rientrare, gli domandò: “Allora?”
“Penso che, dopotutto, non siete venuti su tanto male, se avete fatto scelte simili” sentenziò bonario Pascal, servendosi a sua volta della tisana.
“Ne sono lieto… anche se mi ha terrorizzato a morte, quando si è punta. Anche quanto, avrei voluto arrivarci per gradi. O non arrivarci mai. Non vorrei ne soffrisse, un giorno” mormorò Liam, sospirando.
“Non si pentirà. E’ come la mamma. Quando prende una decisione, è quella, ed è per sempre” lo tranquillizzò il padre. “Viene da chiedersi se tu sarai alla sua altezza.”
Con un ghigno, Liam asserì: “Ne sarò degno, poco ma sicuro. Ora vado a chiamare Colin. Immagino che scoppierà a ridere, quando saprà tutto.”
“Ascolterò la vostra telefonata” gli strizzò l’occhio Pascal, godendo nel sentire ridere spensierato il figlio minore.
Quando fu solo, e il figlio ebbe raggiunto il piano superiore, Pascal scrutò il ritratto di Ellana posizionato su una mensola in cucina e, sorridendo, mormorò: “Non siamo stati malaccio, come genitori, dopotutto.”
Note: Naturalmente riaffronteremo la coppia Colin-Chris, e la mutazione di Cerry. Non lascerò dei dubbi in merito, ve lo prometto.
Per ora, spero che questo viaggio nel clan di Cardiff vi sia piaciuto.
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Capitolo 30 *** Changing - Liam/Cerry e Colin/Chris (Gennaio 2020) MxM ***
Changing – Chris e Cerry
Gennaio 2020 – Cardiff
“Di tutte le scemenze che avresti potuto dire, questa è la più grande di tutte” sbottò Colin, fissando arcigno Chris per alcuni istanti, prima di imprecare vistosamente.
“E’ inutile che alzi la voce, strepiti o dai di matto. Tanto ho deciso, e a ciò mi atterrò” sottolineò Chris, sdraiandosi sul letto di Colin per poi incrociare le caviglie tra loro e le mani dietro la nuca.
“Sì, fai pure il rilassato, razza di idiota che non sei altro” gli ringhiò contro Colin, e i suoi occhi si accesero di un tono di verde brillante, lasciando dietro di sé il solito azzurro cielo. Il lupo voleva emergere con prepotenza.
Come sempre quando ciò accadeva, Chris sorrise soddisfatto; adorava vederlo perdere il controllo, pur se sapeva i rischi che correva, nel farlo.
“Se Cerridwyn ha avuto il coraggio di ferirsi il giorno stesso in cui ha saputo la verità, perché io dovrei esitare a chiederti lo stesso, visto che sono sei mesi che stiamo assieme… e che so tutto?”
“Forse, perché non deve essere una gara tra te e lei? Forse, perché non c’è bisogno che tu diventi un lupo? Forse, perché c’è il rischio che tu muoia?!” si incendiò Colin, urlando le ultime parole.
Sì, Chris lo sapeva perfettamente.
Sapeva che non doveva essere una gara tra lui e la piccola Cerry, ma ammetteva di essere un po’ geloso della sua intraprendenza.
Colin era stato così gentile, con lui, permettendogli di scegliere liberamente tra ciò che sentiva nel cuore e ciò che l’animo gli suggeriva.
Certo, lui amava Colin con tutto se stesso, ma il richiamo del mare era sempre stato forte, dentro di sé, e rinunciarvi senza prima esserne del tutto sicuri, sarebbe stato da sciocchi.
Colin l’aveva supportato pienamente, in questa scelta, lasciandolo libero di scegliere e rimanendo sempre accanto a lui per sostenerlo.
Per questo, sapeva di volere avere un rapporto completo con lui, per gli anni a venire.
Come fomoriano, non rischiava di diventare vittima della forza di Colin… non completamente, per lo meno.
Avrebbe saputo come difendersi, in qualche modo, in presenza di un Colin fuori controllo, ma quest’ultimo non voleva correre questo rischio.
Fare l’amore con lui era stato splendido, un’incognita che veniva risolta, un incontro tra due anime che sapevano capirsi nonostante le differenze.
Era stato affascinante provare su di sé la carezza febbricitante dell’aura di licantropo di Colin, così come il suo tocco ribollente su ogni centimetro di pelle.
Lui, però, non sarebbe mai stato in grado di replicare a tanta generosità… a meno di non diventare egli stesso un lupo, ovviamente.
Quanto al morire, sapeva benissimo anche questo. Sapeva che c’era il concreto pericolo di perdere la vita durante la mutazione.
A tal proposito, Colin si era sperticato in racconti sempre più raccapriccianti, in quegli ultimi dieci giorni, al solo scopo di farlo morire di paura.
Non che non si fosse spaventato; lo era eccome.
L’amore per Colin, però, era superiore alla paura e, come Cerry, vedeva - oltre al rischio - un premio così grande da valere qualsiasi impresa.
Sospirando, Colin si lasciò cadere in ginocchio accanto al letto e, piegandosi, baciò Chris con dolcezza, sussurrando sulle sue labbra: “Davvero non capisci quanto la cosa mi terrorizzi?”
“Lo capisco, e anch’io ho paura. Non sono così stupido da non capirlo. Ma ne vale la pena, e credo che anche Cerry affronterà meglio la cosa, se saremo in due” sottolineò Chris, attirandolo a sé per un abbraccio. “Ce la faremo, davvero.”
“Dovete per forza perché, se anche uno solo di voi due dovesse morire, nessuno di noi due sopravvivrebbe. Io morirei di dolore, se la compagna di mio fratello perisse per la mutazione, e Liam subirebbe medesima sorte, se a te capitasse qualcosa.”
“Siete così legati, eh?” mormorò Chris, stringendolo ancor più a sé. Non faceva specie che entrambi i fratelli fossero così in ansia.
“Sì. E non so se mio padre sopravvivrebbe, questa volta. Già con la mamma è stato difficile, ma eravamo in tre a sostenerci. Così… non so cosa potrebbe succedere” asserì mesto Colin.
“Sei carino a mettere sulle mie spalle, e quelle di Cerry, il destino dell’intero branco di Cardiff” cercò di ironizzare Chris, e Colin sorrise contro il suo collo, prima di baciarglielo.
“Scusa. So che è da bastardi farlo.”
“Te lo concedo” ammiccò Chris, rimettendosi a sedere quando una lampadina si illuminò contro il muro.
Avendo le mura insonorizzate, era difficile poter sentire il trillo del campanello così, in ogni stanza da letto, era stato sistemato un segnalatore luminoso per casi del genere.
Balzando in piedi con eleganza, Colin asserì: “A giudicare dall’orario, dovrebbe essere lady Fenrir.”
“Non l’hai sentita arrivare?” domandò curioso Chris.
“Brianna non lascia trasparire l’aura, se non è assolutamente necessario. E’ una sorta di calamita per licantropi, e Duncan non gradisce molto che altri lupi la avvicinino per annusarla” gli spiegò Colin, ammiccando.
“Oh… così interessante?”
“Lo scoprirai presto” asserì Colin, uscendo dalla sua stanza assieme a Chris.
Nel corridoio, si trovavano già Liam e Cerridwyn che, nel vederli comparire, si fermarono un attimo per aspettarli.
La ragazza, poi, sorrise alla coppia e disse: “Scusa ancora, Colin.”
“Non è colpa tua se il mio ragazzo è masochista e autolesionista” sogghignò per contro lui, prendendosi un pugno nel fianco.
Il futuro Hati si volse a mezzo, sorrise di fronte alla smorfia di Chris e aggiunse: “E dire che ormai lo sai che questi scherzi, con me, non funzionano.”
“Se non fosse che ti amo, ti darei un calcio nel sedere” brontolò Chris.
“Ami troppo anche il mio sedere, per malmenarlo” gli fece notare con malizia Colin, facendo scoppiare a ridere Chris, Cerry e Liam.
“Scendiamo, prima di far aspettare troppo lady Fenrir” sottolineò subito dopo Colin, superando quasi di corsa Cerry per scendere le scale e affiancare il fratello.
La ragazza discese più lentamente e, nel guardare Chris dietro di sé, mormorò: “L’abbiamo combinata grossa, eh?”
“Temo di sì” assentì lui, dandole una pacca sulla spalla.
Deviando verso il salotto, dove si udivano delle voci differenti, la coppia di potenziali nuove leve si ritrovò innanzi una donna dai corti capelli biondi, un uomo imponente e dai capelli neri e un bimbetto.
Pascal stava stringendo le mani alla donna con reverenza e quest’ultima, con un sorriso allegro, si volse in direzione dei nuovi arrivati, asserendo: “Oh, ecco i nostri piccoli eroi.”
“Cerridwyn e Christofer” disse Liam, strizzando l’occhio a entrambi.
“Io sono Brianna McAlister, lui è mio marito Duncan, Fenrir di Matlock, e questo birbante è nostro figlio Nathan” si presentò la donna, stringendo loro la mano.
I due giovani la salutarono compiti, non sapendo bene cosa aspettarsi da quella donna gioviale e attraente.
“Se non ho capito male, ti sei ferita a un dito di tua spontanea volontà… cogliendo in fallo il futuro Fenrir, giusto?” si interessò subito Brianna, ammiccando a Cerry.
“Ehm, temo proprio di sì. So che non è stato molto corretto ma, se avessi aspettato lui…” scrollò le spalle la ragazza, lanciando un’occhiata sbarazzina al giovane che amava.
Brianna rise sommessamente, asserendo: “Lo so, cara. Se aspettassimo loro, diventeremmo vecchie.”
Duncan tossicchiò, a quel commento, e Pascal gli diede una pacca sulla spalla, consolatorio.
“Quanto a te, giovane fomoriano, so che non hai ancora ricevuto alcun genere di ferita, ma sostieni di voler comunque mutare in concomitanza con la nostra eroica – e un po’ folle – Cerridwyn” si informò poi Brianna, volgendo lo sguardo per curiosare il viso di Chris.
“Esattamente, lady Fenrir…”
“Brianna, per carità. Questa mania di chiamarmi lady Fenrir, finirà con il farmi montare la testa” ridacchiò lei, scuotendo una mano con ironia.
Chris sorrise di fronte a tanta spontaneità ma, quando si ritrovò addosso lo sguardo teso di Colin, parte della sua baldanza venne meno.
Anche Brianna se ne accorse e, comprensiva, disse: “So quanto la cosa possa procurarti ansia, Colin, poiché anch’io mutai mio fratello in lupo, e ogni attimo fu per me un’agonia. Per questo, ho chiamato anche Kate a darci una mano.”
L’intero gruppo sospirò di sorpresa – con l’eccezione di Duncan e Nathan – e Brianna, sorridendo appena, aggiunse: “Non voglio negare a questi due ragazzi di fare ciò che desiderano, visto che i loro animi sono sinceri, ma neanche voglio metterli inutilmente in pericolo, così ognuna di noi si occuperà di un diverso candidato.”
“Ti abbiamo disturbato anche più del dovuto, Brianna…e così Kate” mormorò Pascal, scuotendo il capo.
“Non dire sciocchezze, Pascal. Se non ci aiutiamo tra di noi, con chi altro dovremmo farlo?” gli sorrise lei, tranquilla. “Ci saremo sempre, per i nostri licantropi.”
“Troverò comunque un modo per sdebitarmi” sottolineò Pascal.
Brianna scosse il capo, gli sfiorò un braccio con la mano e mormorò: “Mi basterà saperli vivi, credimi.”
Nessuno osò proferire parola.
Il richiamo di una wicca era importantissimo, come avevano avuto modo di scoprire negli anni, e Kate e Brianna si erano prestate spesso per questo genere di servizio.
I rischi, comunque, non erano nulli, e una trasmutazione da umano a licantropo aveva incognite che, un licantropo in fase di Mutazione, non aveva.
Nascere licantropi e mutare era un conto. Nascere umani e venire trasformati, era un altro e, in quel campo, non erano ancora così esperti come desideravano.
Quanto ai fomoriani, l’unico caso conosciuto era quello di Konag MacLeogh, divenuto Connor MacLeogh e compagno di una licantropa di Dublino.
Non avevano molto su cui basarsi, ma Brianna desiderava che entrambi i giovani candidati riuscissero in ciò che volevano più di qualsiasi altra cosa.
Sapeva cosa voleva dire soffrire per qualcosa che non si poteva avere – abbandonare il clan per salvare Duncan dalla pazzia, le era quasi costato la sanità mentale.
Non avrebbe permesso che qualcuno patisse il suo stesso dolore, anche se per poco tempo.
***
Kate Alexander giunse a Cardiff qualche ora dopo in compagnia del suo fidanzato, il Geri del suo branco.
L’amore tra di loro era sbocciato lentamente, dopo anni e anni di conoscenza e, quando si erano resi conto di amarsi, la cosa aveva sorpreso tutti, loro per primi.
Anni di convivenza più o meno forzata li aveva portati ad abituarsi così tanto l’uno all’altra, da celare ai loro stessi occhi ciò che stava nel profondo dei loro animi.
La corte sfacciata di un licantropo del branco di Aberdeen, però, aveva risvegliato la gelosia in Kurz Wagner che, senza attendere oltre, si era messo in mezzo per chetare le pretese del lupo.
Bright aveva trovato la cosa dapprima divertente ma, quando aveva compreso la serietà dei sentimenti del proprio Geri, aveva fatto intervenire Estelle per sedare gli animi.
Lei era un asso, nel farlo e, anche in quel caso, era stata eccezionale.
Dopo aver parlato con il licantropo per conoscerne le reali intenzioni, aveva messo sotto torchio Kurz e, infine, aveva stressato così tanto Kate da farle ammettere ciò che provava.
Estelle era dolce come il pan di spagna ma, sulle faccende di cuore, diventava più testarda di un mulo... e più micidiale di un caccia bombardiere.
Quando la coppia si presentò alla porta dei Laroche, Kate sfoggiava un anello di fidanzamento nuovo fiammante e, non appena Brianna lo vide, la sequestrò per conoscere tutti i particolari.
Kurz, a quel punto, salutò il resto del gruppo e, con una scrollata di spalle, dichiarò di fronte agli amici: “Estelle non mi avrebbe lasciato uscire dalla città, se non glielo avessi regalato.”
Sia Duncan che Pascal scossero il capo e, divertiti, asserirono con un tocco di esasperazione: “Sappiamo bene com’è fatta.”
Liam e Colin ridacchiarono di fronte alle loro espressioni e Cerry, curiosando con lo sguardo il nuovo venuto, domandò: “E’ una lupa così tremenda?”
“La mia Prima Lupa? Oh, no. E’ la donna più dolce del pianeta… finché non le tocchi l’amica del cuore. Allora, diventa peggio di Attila” ironizzò Kurz. “Voleva essere assolutamente certa che io fossi serio e onesto, nei confronti di Kate, altrimenti –testuali parole – mi avrebbe ridotto a brandelli poco per volta.”
Chris sgranò gli occhi al pari di Cerridwyn, a quelle parole e la ragazza, timorosa, gracchiò: “E’ stata… chiara.”
“Limpidissima, credimi. Ma non corro rischi, visto che amo davvero Kate” sorrise tranquillo Kurz.
Proprio in quel mentre, le due wiccan riapparvero e Brianna, asciugandosi una lacrima di ilarità, guardò comprensiva Kurz e disse: “Estelle ti ha proprio fatto sudare sette camicie, eh?”
“Forse anche otto, lady Fenrir” assentì l’uomo, ridacchiando.
Kate, allora, si presentò a Chris e Cerry e, a quel punto, prendendo in mano le redini della situazione, domandò: “Come intendete procedere?”
“Preferirei portarli al Vigrond. Lì, le energie sono più forti e potrebbero aiutarvi nel compito” asserì Pascal, lanciando un’occhiata ansiosa ai due giovani. “Inoltre, chiamala pure scaramanzia, mi sento più tranquillo, con la quercia nelle vicinanze.”
“Io preferirei occuparmi di Chris, vista la sua doppia natura” intervenne a quel punto Brianna. “Lo ferirò io stessa, così il potere che circolerà nelle sue vene sarà lo stesso che lo richiamerà a galla. Dovrebbe concederci un margine di manovra più ampio.”
Colin assentì, grato, e Brianna aggiunse: “Preferirei farlo subito, piuttosto che attendere domani, quando la luna impiegherà solo poche ore a sorgere. E’ meglio che il mio potere circoli nel suo corpo per il maggior numero di ore possibili.”
Kate annuì e, nel guardare Cerridwyn, disse: “Io rimarrò con te fino a domani, e risponderò a tutte le tue domande. Brianna farà lo stesso con Christofer così, a questo modo, i vostri spiriti saranno più pronti per ciò che dovrete affrontare. La consapevolezza aiuta, in questi casi.”
“E’ davvero necessaria tutta questa preparazione?” domandò Chris, avendo sperato di passare la notte con Colin.
“Un licantropo cresce in una famiglia che, fin dalla tenera età, spiega al proprio cucciolo ciò che potrà succedere, e perché. Voi siete novizi, in questo mondo, e avete bisogno di tutte le nozioni possibili per affrontare questo momento così importante” gli fece notare Brianna. “Credimi, non vorresti mai trovarti a mutare come è successo a me. Fui ferita in combattimento da un Cacciatore, il mio sangue si mescolò con quello del mio Sköll e, complice la luna piena di quella notte, mutai quasi istantaneamente.”
Chris deglutì a fatica, ansioso, ma Brianna proseguì nel racconto.
“Fu la cosa più dolorosa, destabilizzante e tremenda che mi capitò di vivere. Ero del tutto impreparata, perciò la paura si impadronì di ogni cellula del mio corpo. Forse, nonostante tutto, il mio patrigno mi salvò la vita, gettandomi addosso l’aconito. Se non fossi svenuta, forse sarei morta per il terrore provato.”
“Il tuo patrigno era… un Cacciatore?” esalò Cerry, sgomenta.
Brianna assentì appena e, nel guardare Kate, disse: “Raccontale pure la storia. Credo potrebbe servirle.”
Kate assentì e, presa per mano Cerridwyn, disse a Liam: “Vieni anche tu. E’ giusto che ascolti le domande della tua compagna, questa notte.”
Il futuro Fenrir assentì e, quando anche Brianna fece lo stesso con Colin e Chris, Pascal li osservò turbato salire le scale per raggiungere le camere da letto.
Duncan, allora, gli poggiò una mano sulla spalla, strinse un poco e mormorò: “Andrà tutto bene. Davvero.”
“Lo spero, o il clan sarà distrutto, perché nessuno di noi sopravvivrà, stavolta” sospirò Pascal, lanciando un breve sorriso a Nathan, che dormiva placido contro la spalla del padre. “Sarà il caso di farlo sdraiare?”
Duncan scosse il capo e, sorridendo al figlio addormentato, gli baciò la chioma corvina e mormorò: “Quando dorme così, preferisco non spostarlo. Dice che gli piace il mio profumo, e chi sono io per smentirlo?”
Pascal assentì con un sorriso e, nell’invitare Duncan e Kurz nel salotto, disse: “Sarà una notte lunga… cosa posso offrirvi?”
***
Il Vigrond era ricoperto di neve fresca e un vento gelido sferzava da nord, facendo rattrappire Chris e Cerry nei loro giubbotti imbottiti.
Tutt’attorno al Luogo di Potere del clan di Cardiff, alcuni alfa del branco vigilavano perché nessuno disturbasse la cerimonia di Mutazione.
Colin e Liam, già nelle sembianze di lupo, passeggiavano nervosamente tutt’attorno e Pascal, accanto alla quercia sacra, vigilava silenzioso.
Duncan e Kurz erano rimasti a casa Laroche per tenere compagnia a Nathan, oltre a non voler disturbare le rispettive compagne.
La loro concentrazione doveva essere massima, e la minima disattenzione avrebbe potuto costare la vita ai due giovani.
Inspirando a fondo, Brianna assentì tra sé e Fenrir, dentro di lei, mormorò: L’ora è giunta. La luna sorgerà all’orizzonte nel giro di pochi minuti. Procedete pure con il richiamo del sangue.
“Molto bene. Grazie, Fenrir.”
Di nulla, cara.
Sorridendo appena a Kate, la wicca disse: “Possiamo procedere. Fenrir ci ha dato il via.”
“Ottimo” assentì la donna scozzese, afferrando uno stiletto per pungersi un dito.
Subito, l’Hati del branco le fu accanto per proteggerla e, quand’anche Brianna si fu morsa la mano, Freki le si avvicinò per esserle di appoggio.
Carter aveva voluto prendere su di sé quell’impegno, e Colin gliene era stato grato. Era importante, per lui, che partecipasse in qualche modo a quella cerimonia.
Annuendo perciò al Freki, Brianna avvicinò la mano sanguinante alla bocca di Chris, che la stava guardando con occhi sgranati e un po’ timorosi, ed esclamò: “Vieni a me, Figlio della Luna! Io ti richiamo dalle viscere del luogo in cui sei sopito! Sorgi per me, figlio di Fenrir, stirpe divina, sangue ultraterreno!”
Allo stesso modo, Kate declamò la stessa intonazione e, quando Chris crollò in ginocchio, scosso da spasmi incontrollabili, Carter afferrò Brianna per trarla lontano.
L’attimo seguente, anche Cerridwyn crollò a terra, squarciando l’aria con un grido raggelante.
Colin e Liam uggiolarono spaventati ma non si avvicinarono, memori del fatto che, in quei momenti, nessuno avrebbe potuto aiutarli.
Brianna, comunque, mormorò a Chris: “Lascia che il potere della Madre e della luna entrino in te, Figlio di Fenrir. Abbandona il dolore per accogliere il loro calore.”
Kate la imitò, arrischiandosi a carezzare i riccioli ramati di Cerry prima di essere nuovamente allontanata dall’Hati del branco.
Quando il primo osso si spezzò per dare inizio alla Mutazione, Colin ululò al cielo oscurato dalle nubi.
L’attimo seguente, anche Liam si unì a quel coro addolorato e Pascal, poggiato contro la quercia, strinse la mano sulla spalla del suo Sköll, gracchiando: “Non posso guardare, Riley. Non posso.”
“Resisti ancora un po’, Pascal. Sta andando bene… davvero” mormorò l’uomo, pur non riuscendo a mascherare del tutto la sua ansia.
Cerridwyn rantolò nella neve, artigliando il fondo smosso prima di esplodere – letteralmente – in una confusione di abiti stazzonati, pelo argentato e una lunga coda nera.
Chris, invece, scivolò lentamente a terra, si lasciò andare a un tremulo respiro e, come al rallentatore, il suo corpo si dilatò, strappò gli abiti e un fluente pelo grigio scuro e bianco andò a ricoprirlo.
Colin e Liam crollarono al suolo, stremati dalla paura. Vedere coloro che amavano in quelle condizioni, era stato davvero atroce, per i loro nervi.
Quando anche l’ultimo osso andò a sistemarsi al proprio posto, terminando quella serie infinita di mutazioni fisiche, Cerridwyn si levò dubbiosa e tremante sulle zampe.
Chris scosse il muso come se si stesse risvegliando da un lungo sonno e, uggiolando dubbioso, balzò goffamente sulle zampe per poi ricadere a terra, pancia all’aria.
Questo smorzò il senso di tensione fin lì accumulato e Colin, avvicinandosi a Chris, gli disse: “Fai piano… nei primi minuti, devi imparare nuovamente a camminare. L’equilibrio è diverso.”
Il lupo che era divenuto Chris lo guardò con curiosi occhi bicolore, verde e azzurro e, annuendo col muso, riprovò.
Cerry, invece, infilò la testa sotto le zampe anteriori per guardarsi la coda dopodiché girò in tondo per un po’ prima di trotterellare al fianco di Liam, carezzandogli la gorgiera col muso.
Liam le leccò il musetto, su cui spiccava un rombo nero nel mezzo della fronte e Brianna, con un gran sospiro, guardò Kate e dichiarò: “Direi che è andata bene, no?”
“Te lo saprò dire quando metterò i miei piedi gelati di fronte a una stufa. Per il momento, sto rischiando l’ipotermia.”
Quella battuta sancì la chiusura della cerimonia e, tra calde lacrime di divertimento miste a commozione, il branco si sciolse e i due nuovi lupi vennero accompagnati verso l’esterno del Vigrond.
Quando raggiunsero il limitare della foresta, a entrambi vennero consegnati i cambi d’abito, così che potessero riprendere sembianze umane per salire in auto.
Non era il caso di rientrare a Cardiff in quelle condizioni, anche se tutti sapevano bene quanto fossero esaltanti e piacevoli, quei primi momenti in forma di lupo.
***
Accoccolati accanto alla stufa della cucina mentre gli adulti erano nel salotto, impegnati a chiacchierare, il quartetto di ragazzi appariva lieto e spensierato.
Cerry continuava a carezzare il braccio di Liam mentre Colin, come in trance, giocherellava con le dita di Chris, semi-addormentato contro la sua spalla.
Nel baciarle i capelli, Liam domandò a Cerridwyn: “Hai avuto paura?”
“Per un attimo, sì. E mi spiace se ho lanciato quello strillo. Il dolore è arrivato all’improvviso, e così mi ha colta in fallo.”
Liam scosse il capo, scacciando i suoi dubbi. “Abbiamo urlato tutti, non credere.”
“Comunque, quando ho ricordato le parole di Kate, ho cercato di rilassare il mio corpo il più possibile, così ho visto lei.”
“Lei, chi? Madre, intendi?”
“Penso di sì. Per lo meno, credo fosse un’entità superiore o qualcosa del genere. Era luminosa come una stella, e calda come il fuoco di questa stufa” spiegò Cerridwyn, sbadigliando sonoramente. “Mi ha detto di non aver paura, che ero pronta per accoglierla… e così ho fatto.”
“Sei stata fortunata. Non tutti riescono a concentrarsi così tanto da sentirLa” le disse Colin, sorridendole orgoglioso. “Io, per esempio, ero più impegnato a mordere la terra, che ascoltare ciò che mi dicevano.”
Liam rise, assentendo, e aggiunse: “Io, invece, mi rotolai nell’erba come un cucciolo. Ma va detto che, all’epoca, noi non avemmo l’aiuto di nessuna wicca.”
Cerry annuì, mormorando: “Se Kate non mi avesse preparata, sarei sicuramente impazzita. Il loro intervento è stato vitale.”
“Concordo in pieno” borbottò Chris, risvegliandosi un poco. “Se Brianna non mi avesse spiegato per filo e per segno ogni cosa, avrei dato di matto. E’ stato qualcosa di sconvolgente.”
Sia Liam che Colin assentirono, sapendo bene a cosa si stesse riferendo il giovane.
La Mutazione era qualcosa che non poteva essere spiegata a parole, poiché era un’esperienza di puro dolore, e variava da persona a persona.
Nessuno poteva dire di aver vissuto la stessa esperienza e, l’unico punto in comune, era soltanto l’estrema sofferenza provata.
Siete stati tutti molto bravi, non abbiate timore, disse all’improvviso una voce ancestrale nelle loro menti.
“Fenrir?” domandò ossequioso Liam.
Ciò è esatto, giovane erede. Volevo solo complimentarvi con voi per le scelte fatte. Ci saranno ancora dei momenti complicati da affrontare, ma il più è fatto.
“Come mai potete parlare con noi, mentre Brianna chiacchiera amabilmente nell’altra stanza?” domandò curiosa Cerry.
Fenrir rise, e le disse: Siamo due entità distinte, piccola, e possiamo distaccarci per un po’, quando serve. In questo momento, volevo chiacchierare un po’ con voi, invece che con gli adulti in salotto.
Il quartetto rise sommessamente, a quell’ultimo commento e Chris, divertito, asserì: “Siamo più interessanti, immagino.”
Soprattutto tu. Non mi è semplice incontrare facce veramente nuove, e tu mi incuriosisci molto, giovane fomoriano.
“Sarò lieto di offrirmi alla vostra curiosità, Fenrir.”
Sono vostro padre, ragazzi. Niente forme di cortesia, con me, mormorò calorosamente Fenrir.
Era stato poco presente per i suoi figli, avendo dovuto abbandonarli dopo solo vent’anni dalla loro nascita ma, ora che poteva stare accanto alla sua stirpe, lo avrebbe fatto in ogni modo possibile.
Note: Facciamo così una breve conoscenza con Kurz, il futuro sposo di Kate, che la dolce ma tenace Estelle ha messo sulla graticola perché si confessasse con lei.
Scopriamo anche come i nostri due novizi hanno combattuto per affrontare la Mutazione, così ora ci resta solo da affrontare il branco quando Liam deciderà di nominare Cerry sua Prima Lupa. Che dite, la accetteranno tutti, e subito? Lo scopriremo presto! Promesso!
Per ora grazie per essere passate/i! Alla prossima!
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Capitolo 31 *** E venne il giorno - Febbraio 2020 (Cerry) ***
E venne il giorno – Cerry e Liam
Febbraio 2020 – Nei pressi di Cardiff
La foresta era immersa nel freddo invernale. Silente, tranquilla, ovattata.
I passi dei quattro licantropi che si trovavano nei pressi del loro Vigrond suonavano smorzati, grazie alla neve fresca che ricopriva ogni cosa.
I pochi animali presenti si tenevano ben alla larga dai quattro enormi predatori, pur se loro non si trovavano in quel luogo per cacciare, ma per ben altra attività.
Quando infatti raggiunsero l’ampia radura del loro Luogo di Potere, il gruppetto si fermò e il lupo dal manto bruno rossastro si volse verso gli altri e disse: “Colin, Chris… voi mettetevi sul limitare della radura. Non ci andrò leggera, ma non voglio abbattere alberi inutilmente. Tenete alte le difese.”
“Nessun problema, Fianna. Ho già insegnato a Chris come fare” la tranquillizzò Colin, avviandosi con calma verso il bordo est della radura.
Christofer lo imitò, raggiungendo il limitare ovest, mentre Fianna e Cerridwyn si posizionavano nel mezzo dello spiazzo privo di alberi.
Lì, Fianna osservò la lupa dal manto argentato che aveva innanzi, ne studiò gli occhi gialli come ambre, le zampe robuste e l’ampia schiena.
Sì, era una bella lupa, dalla corporatura forte e ben strutturata.
La bassa statura che aveva in forma umana non si era replicata, in forma mannara, in un lupo piccolo e magrolino.
Questo sarebbe stato un vantaggio, per Cerry, ma Fianna sapeva bene che non sarebbe bastato per farle vincere l’Ordalia.
Le lupe di Cardiff si erano dimostrate delle autentiche gallesi. Donne forti e determinate… e anche un tantino testarde.
Tre di loro si erano proposte per combattere contro Cerridwyn, quando Liam aveva dichiarato, due settimane addietro, di volere la sua fidanzata come Futura Prima Lupa.
Fianna aveva sperato che le licantrope del branco si dimostrassero più lungimiranti – proporre un’Ordalia aveva ripercussioni molto potenti – ma, alla fine, alcune sue amiche l’avevano delusa.
Pur se Liam, negli anni, aveva tentato di relegare il suo amore per Cerry in un angolino del suo cuore, a lei era sempre parso ovvio che, per l’amico, l’unica donna avrebbe potuto essere solo lei.
A Liam non sarebbe importato nulla, se anche fosse rimasta umana, perché l’aveva sempre amata per quello che era.
Il gesto di Cerry, però, aveva chiuso un capitolo della loro vita per aprirne un altro, ben più pericoloso e attualmente senza un finale.
Sarebbe stato difficile, per non dire impossibile, spiegare ai genitori di Cerridwyn una sua eventuale menomazione fisica, o peggio, la sua morte.
Loro non sapevano per espresso desiderio di Cerry, che non voleva metterli in ansia prima che tutto fosse finito. In un modo o nell’altro.
Fianna non sapeva se quella fosse la decisione giusta. Era nata licantropa in una famiglia di licantropi, perciò lei non aveva mai dovuto mentire ai suoi genitori.
Certo, alcune marachelle non erano mai giunte all’orecchio di Maurice e Betty Malone, ma erano tutte cose di ben poco conto, se paragonate al segreto di Cerridwyn.
Raspando a terra sulla neve, Fianna lasciò perdere quei pensieri per concentrarsi sulla sua avversaria e, atona, disse: “Le lupe contro cui combatterai saranno spietate, e non avranno alcuna pietà di te. Vogliono il ruolo di Prima Lupa indipendentemente dall’amore di Liam.”
“Come possono pensare di poter essere delle brave Prime Lupe, senza il suo affetto?” brontolò Cerridwyn, scuotendo il muso con espressione confusa.
Di tutta quella situazione, era la cosa che più le dava fastidio e, in parte, Fianna, la capiva bene.
Come donna, avrebbe aborrito in ogni attimo un rapporto non basato sull’amore e il rispetto reciproco, ma qui si parlava di altro.
Si parlava di potere, di rispetto ottenuto con la forza e, a quanto pareva, a quelle tre lupe importava unicamente questo.
Le faceva semplicemente schifo il pensare che, soltanto il giorno prima della richiesta di Ordalia, quelle tre fossero state sue amiche.
Come potevano comportarsi in quel modo, e sperare che lei le rispettasse ancora?
Non erano più nel Medio Evo, dove eventi simili non solo erano accettati, ma anche ben visti.
La Compagna e la Prima Lupa erano state per secoli due entità separate, poiché molti avevano pensato che Fenrir fosse più libero di agire come capo, con due lupe a ricoprire i ruoli di combattente e madre.
Già da molto tempo, però, le due figure si erano sovrapposte per divenire una cosa sola e in nessun branco britannico, al momento, si contavano ruoli sdoppiati.
Fianna, però, non aveva fatto i conti con la doppiezza delle persone, evidentemente, e neppure Cerry.
Sospirando, Fianna borbottò: “Sono rimasta sorpresa anch’io, Cerridwyn, perché pensavo che Selene, Kathrin e Shemain fossero più intelligenti di così, ma invece mi sbagliavo di grosso.”
“Liam dovrebbe accettare una di loro, se io non vincessi l’Ordalia? Senza battere ciglio?”
“Loro non vinceranno. Punto. Ma, per rispondere alla tua malaugurata ipotesi, sì, dovrebbe accettare la vincitrice come Prima Lupa ma non come Compagna. La Prima Lupa difende il branco con Fenrir, presiede al Vigrond per le cerimonie e si occupa della vita dei suoi lupi. La Compagna ha il solo scopo di occuparsi di Fenrir e della prole.”
“Medio Evo” borbottò Cerry, raspando a terra.
“D’accordissimo. Infatti, nessuno segue più questa pratica, ma sembra che quelle tre se lo siano dimenticato. Ora, però, lasciamo da parte queste inutili discussioni e pensiamo ad allenarti. Mancano due settimane al tuo scontro, e non posso combinare nulla, se tu sei distratta.”
“Antipatica” brontolò Cerridwyn, pur scodinzolando.
Fianna conosceva Cerry dalle elementari, perciò non aveva avuto problemi ad accettare il suo cambiamento così repentino.
La scelta di Liam di fare di lei la sua insegnante, però, l’aveva messa nella scomoda situazione di essere inflessibile e di non dimostrare pietà, pur se Cerridwyn le piaceva.
Sapeva, però, perché Liam aveva scelto proprio lei, per quel compito e, per nulla al mondo, avrebbe deluso il suo Fenrir.
***
Sdraiata sul tappeto della camera di Fianna, i piedi quasi incollati al termosifone e un panino in una mano, Cerridwyn mormorò assonnata: “Stasera ci hai dato davvero dentro. Avevo le zampe quasi congelate.”
A dare maggiore credito alle sue parole, si indicò i piedi arrossati, e dove ancora si potevano scorgere dei tagli da gelo sulla carne.
Entro la mattina seguente, sarebbe sparito tutto, ma Fianna guardò colpevole quelle ferite, sentendosi in colpa.
Ugualmente, non avrebbe cambiato nulla nell’addestramento di Cerry e, nell’ingollare un po’ di succo di pera, asserì: “E’ solo tempra, cara. Tu devi recuperare anni di combattimenti non effettuati e, quando ti presenterò a Lily per il tuo primo duello, dovrai essere pronta. Lei è dalla tua parte, ma non sarà tenera. Dovrai guadagnarti il tuo titolo di manágarmr.”
“Lo so” sospirò Cerry, infilandosi in bocca anche l’ultimo pezzo di panino.
Si sentiva svuotata, stanca come mai lo era stata nei suoi vent’anni di vita e se pensava che, di lì a breve, avrebbe dovuto combattere per la propria vita, tremava di paura.
Solo quando l’immagine di Liam balenava nella sua mente, il tremore cessava e l’adrenalina pervadeva il suo corpo.
Secondo Fianna era un bene, ma anche un problema, perché Liam sarebbe stato presente durante l’Ordalia, e lei avrebbe rischiato di distrarsi.
Se soltanto avesse percepito l’ansia di Liam, Cerridwyn avrebbe potuto perdere la concentrazione, e alla sua avversaria sarebbe stata consegnata la vittoria su un piatto d’argento.
Poggiandosi sui gomiti quando ebbe terminato il panino, Cerry lanciò uno sguardo dubbioso a Fianna, che stava pettinandosi i corti capelli ramati, e disse: “Sono convinta che, se anche Liam non mi avesse voluta subito come sua Prima Lupa, quelle tre avrebbero comunque trovato il modo per accopparmi.”
“Oh, giunti a questo punto, lo credo anch’io” borbottò irritata Fianna, lasciando andare la spazzola per guardare l’amica negli occhi nocciola. “Sono talmente idiote da non capire che stanno rischiando l’esilio.”
“In che senso?” volle sapere Cerry, intrecciando le gambe per poi poggiare i gomiti sulle ginocchia.
Sospirando, Fianna ne imitò la posa sul tappeto e asserì: “Pensi davvero che, una volta terminata l’Ordalia, Liam le vorrà nel suo branco?”
“Ma comanda ancora Pascal” sottolineò Cerry.
“Oh, sì… e credi che lui lascerà correre sul fatto che ben tre sue lupe hanno cospirato per togliere di mezzo la donna amata dal figlio? L’Ordalia ha un senso se la decisione di Fenrir – o del suo erede – dimostra dissennatezza o poco scrupolo, ma qui si parla solo di mero potere. Tu hai tutte le carte in regola per essere un’ottima Prima Lupa, perciò non meritavi l’Ordalia, secondo me.”
“Ma non esiste nessuna legge che vieti di battersi per il potere, mi pare” le fece notare Cerridwyn, pragmatica. “Una lupa che dimostri sete di potere, dimostra anche di avere potere da mettere in gioco. Magari non sarà amatissima ma, di sicuro, saprà difendere bene il branco.”
Basita, Fianna gracchiò: “Che fai? Difendi le tue nemiche?”
Cerry le sorrise dolcemente e, nello scuotere il capo, mormorò: “Affatto. Ma sono anche abbastanza obiettiva per vedere le cose come stanno. Come Prima Lupa, dovrò difendere il branco, e non so se ora sarei in grado di farlo. Loro possono già da ora.”
“Storie” sbuffò Fianna, scuotendo una mano con aria infastidita, pur ammettendo tra sé che Cerridwyn aveva ragione.
“Sii onesta, e non lasciarti prendere dalla nostra amicizia, Fify” le sorrise l’amica, ammiccando.
“Dai, ti prego… Fify poteva andare bene a dodici anni, ma non ora che ne abbiamo diciotto” mugugnò Sköll.
“Diciannove, prego. Io li compio prima di tutti voi, visto che sono nata a gennaio, perciò sono la più grande tra me, te e Liam” ironizzò lei, ghignando soddisfatta.
“Cambia poco, credimi. Inoltre, l’essere una diciannovenne non ti salverà da un pestaggio in piena regola.”
“Ora sì che mi hai tirato su di morale” sbuffò Cerry.
Fianna sbuffò e, di colpo, si allungò verso l’amica per abbracciarla, borbottando contro la sua spalla: “Non voglio che ti facciano del male. E’ tanto difficile da capire?”
“No, per niente” replicò Cerridwyn, replicando all’abbraccio. “Inoltre, ti sto rovinando il sabato sera, quando avresti potuto uscire con qualcuno, invece che occuparti di me.”
Fianna rise a quel commento e asserì: “Credimi… prima che un maschio – o una femmina – entri nella mia vita, dovrà passarne ancora di acqua sotto i ponti.”
Vagamente sorpresa, l’amica esalò: “Ma come? Non ti interessa trovare l’anima gemella?”
“Per niente” scosse il capo Fianna, facendosi seria. “Il mio unico scopo nella vita, al momento, è servire bene il mio Fenrir, ed essere una buona spalla per Hati. So bene di essere in una posizione particolare all’interno della Triade, e ciò mi coinvolge più di quanto avrei pensato all’inizio.”
Cerridwyn la fissò dubbiosa, così l’amica si spiegò meglio.
“Sai, vero che, se c’è un conflitto tra clan, è Fenrir ad andare in battaglia, supportato da Hati?”
“Sì. Sköll deve mantenere l’equilibrio di potere quando il capobranco è in guerra” assentì Cerry.
“Quindi, a conti fatti, difficilmente io mi ritroverò a combattere. Saranno sempre Liam, o Colin, a rischiare la vita per me. Per questo, la mia vita la spenderò per loro, per ripagarli della sicurezza in cui io vivrò finché avrò fiato nei polmoni.”
Il tono lapidario e sentito con cui lo disse, confermò a Cerridwyn la veridicità delle parole dell’amica.
Fianna avrebbe speso la sua vita per gli amici. A ogni costo.
“Non ti sembra di escludere la felicità dalla tua vita, così?”
“Non se pensi che, facendo a questo modo, io sono felice” sottolineò Fianna, sorridendole. “Magari cambierò idea più avanti, nessuno può dirlo, ma non mi metterò a caccia di un compagno perché, al momento, non ne sento davvero l’esigenza.”
Cerry scrollò le spalle, le sorrise divertita e disse: “Beh, i maschietti del circondario perdono un’occasione non da poco. Ma sono convinta che qualcuno saprà conquistarti.”
“Per ora, no” ammiccò Fianna, serafica.
***
Lily stava mettendosi un cerotto sul dorso della mano, quando Cerridwyn scrutò dubbiosa Fianna e domandò: “Mi chiedevo una cosa…”
“Spara.”
“I combattimenti devono essere fatti necessariamente in forma di lupo?”
Fianna e Lily si guardarono vicendevolmente con aria sorpresa e, lì per lì, non seppero come rispondere.
Essendo entrambe nate licantrope, per loro essere lupe era una cosa naturale come respirare ma, effettivamente, non era così per Cerry.
“Dovremmo chiedere a Pascal. Onestamente, non so se vi sia l’obbligo, o se una lupa può combattere anche in forma umana. Pur se non ne capisco il vantaggio” ammise Fianna, rimuginando su quella domanda a sorpresa.
“Ti batti abbastanza bene, per essere una novizia e credo che, con la spinta emotiva data da Liam, non dovresti avere problemi” aggiunse Lily, infilandosi il maglione che, prima del loro combattimento, aveva infilato in un pratico zaino.
Ancora dubbiosa, Cerry disse: “Grazie, Lily… ma ammettiamolo, ti ho ferito solo perché sei scivolata sulla neve.”
“Vale anche la goffaggine dell’avversario, sai?” ironizzò la ragazza, pur comprendendo i suoi dubbi.
Avevano lottato per più di un quarto d’ora, artigliando l’aria e affondando le zampe nella neve alta invece che nella pelliccia dell’avversaria.
Cerridwyn era molto agile nell’evitare gli attacchi frontali e laterali, ma stentava a coniugare difesa e attacco.
Il lato umano era ancora predominante su quello del lupo che ora viveva in lei.
Durante un’Ordalia, questo avrebbe potuto segnare la sua fine.
Raccolti i riccioli in una coda di cavallo, Cerry si infilò la cuffia in testa e, dopo aver afferrato il suo zaino, dichiarò: “Se riuscirò a fare quanto mi sono prefissa, dovrei riuscire a batterle. Diversamente, non so davvero come potrà finire.”
“Chiederemo a Pascal” ripeté Fianna, dandole una pacca sulla spalla. “Ma dopo averglielo chiesto, mi parlerai di questo tuo fantomatico piano. Voglio essere sicura che abbia un senso logico, prima di lasciarti nelle mani del destino.”
Cerridwyn la fissò malissimo e replicò: “Dubiti della mia intelligenza?”
Fianna allora scoppiò a ridere e asserì: “Oh, no, credimi. Ricordo bene che i test di matematica li ho passati grazie alle tue ripetizioni, ma qui non siamo a scuola. Questa è una vita vera, crudele e rude.”
“Lo so. Ma Liam è un premio che vale sudore, sangue e lacrime” dichiarò convinta Cerry, ricevendo il plauso delle altre due ragazze.
Cerridwyn non disse altro, e sperò ardentemente che Pascal le desse il benestare. Diversamente, non avrebbe avuto speranze.
***
Pascal ristette seduto sulla poltrona del salotto per diverso tempo, immerso nel più completo silenzio, mentre Cerry, Fianna e Lily attendevano impazienti il suo responso.
Quando infine parlò, Pascal scrutò ansioso Cerridwyn e ammise: “Nessuna legge lo vieta, ma capirai bene perché neppure una lupa, in tutta la storia, ha utilizzato il suo corpo da umana per combattere.”
“Ne sono consapevole ma, per quello che ho in mente, mi servono mani e piedi, non zampe, o il corpo allungato di un lupo” replicò sicura di sé la ragazza.
“E, naturalmente, non mi dirai perché sei convinta di voler agire così.”
“Ha promesso di dirlo a me, Fenrir, se può esserti di consolazione” soggiunse Fianna, sorridendo a mezzo.
“Mi fido del tuo giudizio, allora, Fianna. In ogni caso, avete il mio benestare, qualora il piano di Cerridwyn si rivelasse valido” sospirò Pascal, scuotendo il capo. “Davvero non capisco perché si sia arrivati a questo.”
“Il potere, evidentemente, fa gola… anche quando viene accompagnato dal disprezzo” sintetizzò rabbiosa Fianna.
“Hanno ricevuto delle minacce?” si informò allora Pascal.
“Non proprio, ma c’è stato un ostracismo generalizzato. Nessuna di noi capisce perché debbano mettersi contro Liam. Il problema non è Cerry. Diverse lupe si sono, anzi, dimostrate orgogliose del fatto che lei abbia voluto mutare subito dopo aver conosciuto la verità. L’hanno trovata una mossa coraggiosa” specificò Fianna, sorridendo all’amica, che arrossì.
“Selene, Kathrin e Shemain, no, però…” intuì Pascal, accigliandosi.
“Se posso essere onesta, Fenrir, ritengono tuo figlio un debole, per essersi lasciato abbindolare così da un’umana, e pensano che il branco abbia bisogno di una Prima Lupa forte, e che possa bilanciare l’eccessiva… gentilezza del futuro capoclan” mugugnò Fianna, arrossendo di rabbia nel dire quelle parole.
Pascal rimase imperturbabile e assentì, replicando soltanto: “Mi domando cosa succederà, quando Cerry vincerà l’Ordalia…”
Cerridwyn lo beneficiò di un sorriso adorabile e tutto fossette, asserendo: “Ora sono costretta a vincere.”
“Temo di sì, mia cara. Il tuo Fenrir te lo impone” ammiccò Pascal, levandosi in piedi per poi darle una pacca sulla spalla. “Stando così le cose, abbiamo tre potenziali lupe con manie di protagonismo che non possono e non devono assurgere al ruolo di Prima Lupa.”
Guardando poi Fianna, aggiunse: “Sei assolutamente certa di quanto mi hai riferito, Fianna?”
“Sì. Alcune neutre sono venute a riferirmelo, e una di loro ha anche fatto un filmato con il cellulare, per confermarmi ciò che avevano udito. Si vantavano di poter vincere a occhi chiusi” riferì Fianna, porgendo il proprio cellulare a Pascal perché visionasse a sua volta il video.
“Alla faccia dell’esuberanza giovanile…” chiosò alla fine Pascal, restituendo lo smartphone alla ragazza.
“Già” chiosò Fianna, scrollando le spalle.
“Questo pone dei problemi anche al di fuori dell’Ordalia. Se alcuni ragazzi e ragazze pensano di poter fare e dire quello che vogliono, sarà il caso che io chiarisca chi è che comanda” sottolineò Pascal, accigliandosi.
“Male non farebbe” annuì Fianna, salutando poi Pascal assieme alle altre per recarsi finalmente a casa.
Non appena furono in strada, Cerridwyn domandò curiosa: “E’ davvero così grave, a parte il discorso dell’Ordalia? Sì, insomma, i giovani sanno essere assai indisponenti, quando vogliono, no?”
“Non in un branco. Nel clan vige una legge piramidale, sostenuta dalla Triade di Potere, e tutti sono tenuti a rispettarla… letteralmente” replicò Fianna. “Chi non vuole attenersi a queste regole, può andarsene dal branco e diventare un lupo nomade, un apolide, ma non può rimanere sul territorio del clan.”
“Oh” ansimò sorpresa Cerridwyn.
“Mettere in dubbio le capacità di Liam come futuro leader, è molto grave. Questo comporterà una dimostrazione del potere di Fenrir e, spero, solo questo” sottolineò la giovane Sköll, accigliandosi.
“Pascal ha guidato il branco per anni con mano ferma ma gentile” aggiunse Lily. “Forse, alcuni si sono lasciati troppo andare e hanno cominciato a pensare di potersi comportare come gli umani, ma sbagliano di grosso.”
“Per umani, intendete dire cose come non rispettare le regole, aggirarle o cose simili?” si informò Cerry.
“Esatto. In un branco devi rispettare le regole, o si rischia di venire scoperti dagli umani” asserì Fianna. “E’ vitale essere rispettosi.”
“Quindi, quelle ragazze cosa rischierebbero?”
“Oltre a una potenziale bastonatura da parte tua? L’espulsione dal branco, come minimo, o una punizione corporale, come massimo. Offendere il futuro Fenrir non è cosa da poco” si accigliò a sua volta Lily, scuotendo il capo. “Sono state veramente delle idiote, a parlare così.”
“A proposito di bastonatura… cos’avevi intenzione di fare, quindi?” domandò a quel punto Fianna. “Dicci un po’.”
Cerridwyn annuì con vigore e, mentre la riaccompagnavano a casa, la ragazza spiegò per filo e per segno ciò che aveva intenzione di fare.
Quando infine raggiunsero l’entrata di casa, sia Fianna che Lily stavano sorridendo grandemente.
La giovane Sköll, ridacchiando malignamente, le disse: “Sai una cosa? Potrebbe davvero funzionare.”
“Deve. O non avrò speranze” sottolineò Cerry.
“Di sicuro, la tua scelta di batterti con un corpo da umana, le spiazzerà, e ti porrà in un indubbio vantaggio” soggiunse Lily, tutta ghignante.
“Speriamo basti. Non saprei che altro inventarmi” scrollò le spalle Cerridwyn, un po’ sconsolata.
Fianna e Lily la abbracciarono per confortarla e, nell’accomiatarsi, le augurarono una buona notte di riposo.
Di lì a poco avrebbe dovuto combattere contro tre lupe esperte e desiderose di diventare Prime Lupe per motivazioni, ai suoi occhi, davvero risibili.
A lei non interessava un accidente il potere, o il prestigio che le sarebbe venuto dall’essere la compagna di Liam.
Lei voleva stare con Liam. Punto.
Se per farlo, avesse dovuto fare a botte, allora l’avrebbe fatto.
Se non altro, le sue lezioni di karate sarebbero servite a qualcosa.
***
Il Vigrond era puro concentrato di potere, quella notte.
I manágarmr presenti erano circa una quarantina – la maggior parte erano stati tenuti lontani per poter permettere alle contendenti di poter lottare con totale libertà.
La Triade di Potere presenziava al gran completo, e così la Novella Triade, ove spiccava un Liam particolarmente scuro in volto.
Quando, poche ore prima, era passato a casa di Cerridwyn per accompagnarla al Vigrond, la ragazza lo aveva trovato pensieroso e molto, molto irritato.
Nel chiedergliene spiegazione, lui aveva nicchiato, limitandosi a darle un bacio di buon augurio e pregandola di fare attenzione.
Cerry aveva preferito non insistere. La sua concentrazione doveva essere massima, e non poteva occuparsi anche degli eventuali dubbi di Liam.
Non appena avevano messo piede nel loro Luogo di Potere, comunque, Cerridwyn aveva potuto notare lo stesso umor nero nei Gerarchi e sì, anche in Fianna e Colin.
Che un simile umore avesse a che fare con il video che Pascal aveva visionato qualche giorno addietro?
Tutto era possibile.
Quando anche l’ultimo dei lupi alfa si fu posizionato per reggere l’enorme aura di potere che, ben presto, le contendenti avrebbero sprigionato, Pascal si portò nel mezzo della radura e, stentoreo, dichiarò: “Come prevedono le regole tra mannari, si dia inizio all’Ordalia per il ruolo di futura Prima Lupa del branco.”
Kathrin, Selene e Shemain fissarono sorridenti e tronfie la loro avversaria, ma Cerry non diede loro peso. Doveva pensare bene alle sue mosse, piuttosto che a loro.
“Mio figlio Liam, in quanto futuro Fenrir del branco, ha scelto come sua Prima Lupa la qui presente Cerridwyn, mentre tre lupe del clan hanno chiesto l’Ordalia per ottenere lo stesso ruolo” proseguì Pascal, imperturbabile al brusio di sottofondo o alle occhiate divertite delle tre licantrope in oggetto.
Dopo alcuni secondi di obbligato silenzio, Pascal domandò: “Vi è qualcuno che si oppone a questa prova?”
Nessuno aprì bocca, così Pascal aggiunse: “In ossequio alle regole, Cerridwyn ha chiesto di poter combattere mantenendo la sua forma umana e, non essendovi nulla in contrario, ho accettato.”
Questa notizia scatenò un mare di commenti a mezza bocca, ma fu Kathrin a mettere a voce il dubbio di molti.
“Non mi sentirò responsabile della sua morte, se intende combattere in quella forma.”
“Che c’è, non vuoi farti vedere nuda dal branco? Hai qualcosa da nascondere?” rincarò la dose Shemain, fissandola dal suo quasi metro e ottanta di altezza.
Cerry si limitò a fissarle con aria di sufficienza e, rivolta a Selene – che non aveva espresso alcun commento – disse: “Non sai che il vino buono sta nelle botti piccole?”
Quella battuta fece sorridere più di un lupo ma, a quel punto, Selene prese la parola per dire: “Se a lei sta bene, io non ho nulla da ridire. Ma che sia chiaro: quando una di noi vincerà, non dovranno esserci recriminazioni di sorta.”
“Nessuna recriminazione, Selene” assentì Pascal. “Inoltre, Cerridwyn ha espresso il desiderio di battersi contro di voi contemporaneamente.”
Se prima i lupi presenti avevano commentato a mezza bocca, stavolta il borbottio fu così forte che Pascal dovette levare una mano per azzittirli.
Kathrin fece spallucce, iniziando a spogliarsi, mentre Shemain asseriva: “Se vuole, può anche legarsi una mano dietro la schiena. Dimostreremo una volta di più che non è adatta per il ruolo per cui vostro figlio l’ha scelta.”
Pascal preferì non replicare al commento acido della ragazza e, nell’avvicinarsi a Cerridwyn, le sussurrò: “Sempre sicura di voler combattere così? Non è un problema, se hai cambiato idea.”
“Muterò solo le mani” si limitò a dire lei, con un mezzo sorriso.
Pascal si fece ancor più perplesso ma non disse null’altro e, con passi misurati, andò a sistemarsi tra il suo Sköll e il suo Hati.
Liam, protetto ai due lati dal fratello e da Fianna, prese istintivamente la mano dell’amica nella propria e mormorò: “Sei sicura che sia pronta?”
“Cerridwyn sa il fatto suo, e la sua idea è semplicemente geniale. Nessuno di noi ci aveva mai pensato prima ma, in effetti, potrebbe davvero funzionare” lo rincuorò lei, sorridendogli.
“Iniziano” sussurrò Colin, gli occhi puntati sul centro della radura.
Le tre lupe iniziarono a camminare intorno a una Cerridwyn perfettamente immobile e apparentemente tranquilla, le teste basse e i denti snudati, pronti a colpire.
Il silenzio, ora, era totale. Persino la foresta sembrava essersi uniformata all’importanza di quel momento.
Gli occhi attenti di Cerry seguivano il movimento ipnotico delle tre lupe che, in cerchi concentrici sempre più stretti, le si stavano avvicinando col chiaro intento di colpirla all’unisono.
Esattamente come aveva previsto.
I bulli colpiscono in gruppo, mai da soli, e lei aveva confidato proprio in questo.
Permettendo agli artigli di allungarsi per quanto necessario, Cerry lasciò che i suoi sensi si espandessero, così che la sua aura avesse la possibilità di sfiorare quella ribollente delle nemiche.
La sua, placida come un lago di montagna, non fece altro che galleggiarvi contro, imperturbata.
Fu così, a diretto contatto con le loro estensioni metapsichiche, che riuscì a percepire con chiarezza il momento in cui l’avrebbero attaccata.
Tre corpi enormi e dotati di zanne le si lanciarono contro, ma lei attese l’attimo esatto in cui il suo corpo minuto, e quello delle tre licantrope, sarebbero venuti in perfetto contatto, per agire.
Quando venne il momento, lei balzò in aria, trovandosi alla loro stessa altezza e, slanciate braccia e gambe, colpì le tre lupe sui rispettivi tartufi, mandandole riverse sulla neve.
Più di un lupo si tastò dolente il naso, quasi quel colpo lo avessero ricevuto loro.
Mentre le licantrope giacevano a terra doloranti, stordite dalla miriade di segnali dolorosi giunti nel cervello a causa di quel colpo imprevisto, Cerridwyn si avvicinò e recise velocemente il tendine d’Achille di ciascuna di loro.
Lesta, poi, balzò a distanza di sicurezza e, ora affannata e tutto sommato soddisfatta, esalò: “Più o meno come avevo previsto.”
Ciò detto, si guardò la mano arrossata dal colpo inferto a Shemain, scrollandola un poco per farsi passare il dolore.
Un coro di generale stupore si levò tra i presenti e, mentre le lupe tentavano inutilmente di rimettersi in piedi, Pascal esclamò: “Pensate ancora di combattere contro di lei?”
Kathrin fu la prima a ritrasformarsi in donna e, guardandosi le caviglie sanguinanti e lesionate, esclamò: “Questo è giocare sporco!”
“E secondo quale regola, scusami?” replicò Pascal, serafico.
Alcuni lupi ridacchiarono derisori e Kathrin, furiosa, reclinò contrita il capo, cercando ancora una volta di rimettersi in piedi.
Niente da fare. Il taglio di Cerry era stato chirurgico e, per recuperare la funzionalità dei tendini, sarebbero occorsi mesi, dolorosi quanto insopportabilmente lunghi.
Il padre di Shemain fece per avvicinarsi alla figlia, così da portarla lontana dal Vigrond, ma Liam lo interruppe con il solo sguardo e, rivolto alle contendenti, domandò gelido: “Non ho sentito la vostra resa. Senza quella, nessuna di loro se ne andrà da qui.”
Tutti guardarono Pascal, ma lui si limitò ad assentire col capo. Liam poteva parlare come Fenrir, in quel momento.
Allungata una mano in direzione di Cerridwyn, che si affrettò a raggiungerlo per affiancarlo.
Liam strinse quella piccola mano nella sua, grande e forte e, lapidario, ringhiò: “Una vostra resa o, per me, potrete anche morire qui per dissanguamento.”
Quelle parole livide andarono a segno e Liam, infervorato come poche altre volte, proseguì dicendo: “Mi avete tacciato di essere succube di questa fragile ragazza ma, a quanto pare, ella si è dimostrata molto più scaltra e intelligente di tutte voi messe assieme. Credo che siano queste, le qualità migliori che una Prima Lupa possa avere. Qualità che anche mia madre aveva, e che io rivedo in Cerridwyn… di certo, non in voi, che avete basato tutto sulla vostra forza fisica.”
Vi furono cori assenso e apprezzamento, e un ‘ben fatto, Cerridwyn’ che portò Liam e Cerry a sorridere per un istante.
Nulla ancora udendo, però, Liam digrignò i denti e, con la Voce del Comando, disse: “Ora, voi vi scuserete, e dichiarerete chiusa l’Ordalia.”
In molti rabbrividirono – sorpresi dal fatto che Liam fosse già in grado di usare quel particolare dono di Fenrir – e la stessa Cerry sentì, sulla sua pelle ipersensibile, il potere di quella voce.
Kathrin, Selene e Shemain, letteralmente, crollarono sotto il peso di quell’imposizione e, come richiesto dal loro futuro Fenrir, dichiararono chiusa l’Ordalia.
A quel punto, Pascal tornò nel mezzo della radura e, poggiata una mano sulla spalla del figlio, asserì: “Poiché abbiamo saputo che, non solo queste giovani, hanno mancato di rispetto alle figure della Nuova Triade, ma anche altri ragazzi, ordino ai loro famigliari di ricordare con i fatti cosa voglia dire far parte di un branco. Non ammetterò altri comportamenti incresciosi, né parole offensive nei confronti di Liam, Colin e Fianna. Come avete potuto appurare, mio figlio possiede già la Voce e, se avesse voluto, avrebbe potuto comminare una punizione ben peggiore a queste tre sciagurate.”
Diversi licantropi reclinarono contriti il capo, ma Pascal proseguì.
“Quanto a Kathrin, Selene e Shemain, le bandisco dal branco, poiché non si sono dimostrate abbastanza intelligenti per capire quando mollare la presa su un potere che mai, nella vita, avrebbe potuto essere loro” dichiarò gelido Fenrir. “La Prima Lupa non è solo potente, ma è saggia è sa consigliare il proprio Fenrir. Cerridwyn si è dimostrata all’altezza, poiché non solo vi ha sconfitte utilizzando la vostra stessa forza, ma non ha neppure chiesto vendetta quando avrebbe potuto.”
“Così è” mormorarono in coro i manágarmr presenti.
“In tutta onestà, non posso desiderare di voler ancora simili lupe nel mio branco. Sarete cacciate, ma concederò alla vostra famiglia il tempo per trovare un luogo alternativo in cui vivere” asserì a quel punto Pascal. “Meditate bene su ciò che avete fatto, e pensate a quanto è costato ai vostri cari. Non avete saputo giudicare Cerridwyn, altrimenti vi sareste rese conto che lei, fin dall’inizio, meritava il ruolo di Prima Lupa.”
Ciò detto, consentì ai famigliari delle ragazze di portarle via dal Vigrond per ricevere le prime cure.
Liam non attese oltre e abbracciò Cerridwyn che, solo in quel momento, scoppiò in un pianto silenzioso e mormorò: “E’ davvero necessario bandire anche le loro famiglie? Non voglio essere la causa di tanto dolore.”
“Papà?” domandò allora Liam, guardando Pascal.
“Non posso più fidarmi di loro, cara. Se le figlie sono cresciute con tali sentimenti di odio e superficialità, significa che l’hanno imparato in casa… dai loro stessi genitori, perciò essi sono pericolosi al pari delle figlie irriflessive e impulsive” le spiegò gentilmente l’uomo. “Dimostri gentilezza, ed è una qualità rara, ma va anche ponderata bene, nel nostro mondo. Semplicemente, certe persone non la meritano.”
Lei assentì e, mentre Pascal tornava dai suoi compagni, alcuni alfa si avvicinarono per complimentarsi con Cerry.
Stringendole la mano, le fecero i complimenti per quella tecnica del tutto innovativa e lei, ritrovando la forza per imporsi un sorriso, asserì: “Dopotutto, se ai cani dà fastidio essere colpiti sul naso, poiché molto sensibile, ho pensato che valesse anche per i licantropi. Essendo una cintura blu di karate, sapevo bene o male come fare.”
Liam scoppiò a ridere, a quell’accenno e, nel sorriderle, disse: “Me n’ero completamente scordato!”
“Eri troppo impegnato a imparare a come essere un bravo leader, per ricordarti anche quello” sottolineò lei, lanciando poi un’occhiata alle sue avversarie mentre venivano scortate via.
Uno dei lupi più anziani, nel vederla così giù di corda, disse: “Non devi preoccuparti, ragazza. Ciò che ha detto Pascal è più che giusto. Noi lupi non possiamo ragionare come gli umani, o la nostra società si sfalderebbe come neve al sole. Tu hai fatto una cosa molto intelligente, sfruttando i tuoi punti di forza, e ritorcendo contro di loro quelli delle ragazze.”
A quell’accenno, un altro lupo si grattò il naso, ammiccando, e aggiunse: “Ho sentito male per loro, in quel momento. Essere colpiti al naso produce una quantità incredibile di stimoli del dolore, e si finisce con l’esserne accecati di per diversi secondi. Ottima tattica.”
“G-grazie” mormorò lei, ora un po’ imbarazzata.
Fianna scelse quel momento per raggiungerli e, presa sottobraccio Cerry, esclamò: “Su, su, maschietti, non statele troppo addosso. E’ stata una serata impegnativa, per lei, sotto il profilo psicologico. Ora ha bisogno di stare un po’ tranquilla.”
I lupi risero divertiti e, nell’allontanarsi, dissero che avrebbero lasciato tutto il tempo di questo, alla loro nuova Prima Lupa, per abituarsi a loro e alle loro attenzioni.
Fu con quell’atmosfera tranquilla che, finalmente, il gruppo poté tornare a Cardiff.
Liam era suo, nessuno avrebbe più potuto portarglielo via e, a quanto pareva, i lupi più forti la apprezzavano.
Cerry poté ritenersi soddisfatta e, quando salì in auto, crollò per la stanchezza e si addormentò.
***
“Dici che dovremmo svegliarla?” sussurrò Fianna, carezzando i riccioli ramati di Cerry, sparpagliati sul cuscino del divano di casa Laroche.
“Si è meritata un po’ di riposo…” mormorò Liam, sorridendo alla figura addormentata della sua futura Prima Lupa.
“Di sicuro. E’ stata geniale, con quella mossa” assentì Colin.
Sospirando, Chris borbottò: “E’ un vero peccato che io non abbia potuto essere presente. Sono sicuro che mi sarei divertito un sacco, a vedere Cerry mentre mette nel sacco quelle lupe.”
A quell’accenno, Liam divenne serio e Pascal, nel notarlo, gli domandò: “Qualche problema, ragazzo?”
“Non so se ho fatto bene a usare la Voce. Ho dato l’impressione di non saper comandare, usandola? Che ho bisogno della coercizione, per ottenere il loro rispetto?” borbottò Liam, passandosi una mano tra i capelli.
“Ricordati che la Voce è l’equivalente animale della stretta al collo. Sottomettere un lupo, a volte, è necessario, e i modi sono solo due; la Voce del Comando, oppure azzannare il lupo al collo. Con le persone, usiamo la Voce, coi lupi, i denti” replicò tranquillo Pascal. “Hai fatto bene, perché le motivazioni per cui si sono spinte a chiedere l’Ordalia erano sbagliate. Tutto il branco lo sa.”
Hati soggiunse con voce quieta: “Se tu avessi scelto una persona indegna, sciocca, che avrebbe potuto tradire noi e il branco, allora sì che avrebbero avuto tutte le ragioni del mondo per chiedere l’Ordalia. La prova serve a questo, a proteggere il branco, non a creare potere personale.”
Fenrir e Sköll assentirono a quelle parole e Colin, nel dare una pacca sulla spalla al fratello, mormorò: “Lei è perfetta. Non avere dubbi. E tu sarai un grande Fenrir. Non avere dubbi neppure su questo.”
“Come potrebbe avere dubbi? E’ mio figlio” celiò Pascal, facendo scoppiare a ridere tutti e svegliando, a quel modo, Cerridwyn.
Sobbalzando, la ragazza guardò dubbiosa Liam e domandò: “Beh? Che succede?”
“Nulla, mia Prima Lupa. Assolutamente nulla” le sussurrò lui, dandole un bacio sulla punta del naso.
“Allora, torno a dormire” dichiarò lei, appoggiando nuovamente il capo sul cuscino.
Note: E con questa OS si chiude la piccola parentesi sul clan di Cardiff. Caso mai mi venisse in mente qualcosa, la posterò ma, per ora, con loro direi che ho chiuso. Ora, ho in programma di scrivere qualcosa su Beverly e Thor, che erano rimasti più o meno in sospeso, inoltre spero di poter riprendere in mano anche la storia di Hugh e Tempest.
Per adesso, i pensieri sono questi... vedremo cosa ne verrà fuori.
Grazie per avermi seguita fino a qui.
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Capitolo 32 *** She Wolf, He Bear (Novembre 2017) Beverly e Thor ***
Ogni bambino che considerate come vostro, diventa il vostro se date voi stessi per quel bambino. (Dale Evans)
Novembre 2017 – Bradford
Beverly non trovava strano essere contattata dal suo Fenrir.
Lei era a capo delle sentinelle del branco, oltre che unica völva dei licantropi di Bradford.
Da quando Thor era rimasto in seno al clan – ed era diventato suo compagno, oltre che suo Maestro – i suoi poteri si erano immensamente sviluppati. Niente di strano, quindi, se il suo capoclan voleva parlarle.
Forse, aveva bisogno di qualche visione, o di controllare qualcosa sul confine.
Non che protendesse molto verso la seconda ipotesi, visto che il clan di Matlock era loro alleato da tempo e, a nord, potevano contare sull’appoggio del clan di Glasgow.
Quando, perciò, raggiunse l’officina meccanica di proprietà di Alec, Bev vi entrò con il dubbio nella mente ma la serenità di chi non si aspetta drammi o problemi.
Salutò William, loro Hati e meccanico nell’officina del loro Fenrir, dopodiché si diresse verso gli uffici dove, solitamente, Alec controllava i conti al venerdì pomeriggio.
Con un sorriso, Bev sorrise e scambiò due chiacchiere con l’efficiente segretaria umana di Alec – al corrente della loro licantropia – e chiese di poter parlare con il capo.
Glory assentì lasciando dondolare i morbidi boccoli scuri e, con un mezzo sorriso, sussurrò: “Se ti pare abbacchiato, non farci caso. Le sue donne sono fuori a fare shopping… senza di lui…”
Beverly sorrise divertita mentre, da dietro la porta chiusa dell’ufficio, la voce cavernosa di Alec faceva giungere il suo risentimento.
“Ti ho sentito, sai, Glory?!”
Sia la segretaria che Bev esplosero in una dolce risata di gola e, dopo aver salutato la donna di colore, la sentinella penetrò nell’antro del Minotauro, pronta ad affrontarlo.
E, a ben vedere, quando Beverly puntò lo sguardo su Alec, le parve davvero di scorgere il temibile mostro mitologico.
Dopo un attimo, però, comprese perché.
Gareth era in ufficio con lui e, per quanto il suo Fenrir amasse e idolatrasse il figlio, comprendeva bene perché le apparisse così stanco.
Nell’ufficio pareva essere passato un tifone. Combinato con un uragano. Ed entrambi a braccetto con una tempesta di meteoriti.
Una quantità imprecisata di giocattoli erano sparsi ovunque, insieme a più fogli di quanti potrebbe contenerne un raccoglitore ad anelli.
Gessetti colorati e pennarelli erano sparsi come mine vaganti su tutto il pavimento e, quando Gareth la vide, si esibì in un sorriso tutto fossette, corredato da guanciotte colorate di blu e verde.
“Zia Bev!” esclamò il bimbo, balzando in piedi e trotterellando verso di lei a braccia spalancate.
Beverly non riuscì a capire come, ma il bimbo non calpestò nessun gessetto. Fu tanto bravo da esibirsi in una corsa sbilenca, ma quanto mai efficace.
Lei lo accolse con naturalezza, prendendolo in braccio per poi baciargli le guance colorate e dire: “Sembri un capo indiano, così.”
“Bello!” trillò il bimbo, tutto felice.
Alec si passò una mano sul viso, esalando: “E ora passerà la prossima ora a ululare come un sioux in battaglia. Come minimo.”
Beverly rise della sua aria esasperata, pur se i suoi occhi dicevano quanto fosse felice di passare del tempo col figlio.
Ma nessuno è indistruttibile, neppure un licantropo, e Gareth sembrava aver fatto un autentico disastro, lì dentro.
“Immagino che la tua capacità di dire di no sia pari a zero, vero?” chiosò Beverly, sedendosi su una sedia con Gareth in grembo.
“Oh, i no sono abbondanti e ripetuti, ma lui si inventa sempre qualcosa di nuovo, dopo i miei no. Pare che la sua mente non conosca freni all’immaginazione” sospirò Alec, scuotendo stancamente il capo. “Volevo preparare dei preventivi per la settimana prossima ma, a questo punto, delegherò a Glory e lascerò perdere. Ho tentato questo esperimento, ma si è dimostrato fallimentare.”
“Portarlo con te sul lavoro?” domandò divertita Bev, mentre Gareth le intrecciava alcune ciocche di capelli.
“Esatto. Volevo passare un po’ più di tempo con lui, ma…”
Gareth si volse verso il padre con un sorrisone pieno d’amore e, per poco, il volto di Alec non andò in briciole.
Così come il suo cuore.
Beverly avvertì senza sforzo l’accrescersi delle endorfine nel sangue del suo Fenrir, così come l’accelerare impetuoso del suo cuore.
Quando Gareth era nato, Alec aveva passato diversi mesi nel dubbio più totale, non sapendo bene come comportarsi con il suo erede maschio.
In fondo, Penny ed Erin lo avevano voluto, bramato, ma quel piccolo?
Lui era nato nella sua famiglia, con Alec come padre. Non lo aveva scelto, gli era stato conferito dal Fato.
Per lungo tempo, si era chiesto se sarebbe stato degno di quel frugoletto, e solo l’aiuto combinato di Erin, Brianna, Penny e della quercia sacra del loro Vigrond, aveva compiuto il miracolo.
Ogni volta che Gareth lo guardava a quel modo, quindi, Alec si sentiva un miracolato, e Beverly trovò quell’amore incondizionato e potente davvero bellissimo.
Era lieta che, finalmente, la vita concedesse una tregua al suo Fenrir, visti i suoi trascorsi infantili e giovanili così turbolenti e terrificanti.
“Papà… posso dormire un po’?” domandò Gareth, indicando il divano presente nell’ufficio.
“Ma certo. Non devi neanche chiederlo” mormorò Alec, levandosi in piedi per raggiungerlo, stando ben attento a non pestare i suoi gessetti.
Presolo dalle braccia di Bev, lo depositò sul morbido divano in pelle, lo coprì con un panno in pile degli Avengers e, dopo un buffetto sul naso, gli augurò buon riposo.
Gareth lo deliziò con un altro dei suoi sorrisi stordenti e, nel giro di pochi minuti, crollò in un sonno profondo.
Bev sorrise nel vedere la scena e, quando Alec tornò alla scrivania, chiosò: “Ha le pile scariche.”
“Decisamente. Mi domandavo quando sarebbe successo” ironizzò Alec, prima di tornare serio. “Ho una cosa da chiederti.”
“Dimmi pure, Fenrir” assentì lei, tornando nelle sue vesti di völva e sentinella.
Alec estrasse da un cassetto una busta oblunga, che le consegnò e, intrecciando le mani sulla scrivania di legno, disse: “Si tratta di una coppia di Halifax, i coniugi Skipton. Emily e Roger. Non so se li hai mai conosciuti.”
Sorpresa, Beverly ci pensò sopra un attimo e, nel rammentare la giovane coppia di licantropi, asserì: “Se non ricordo male, erano presenti alla Cerimonia del Vigrond per l’accettazione di Gareth. Giusto?”
“Esatto” assentì Alec. “Beh, Emily era incinta, all’epoca, e hanno avuto una bambina, che hanno chiamato Raven. Credo, per via dei capelli neri, non so di preciso…”
Quel dilungarsi in particolari secondari sorprese Beverly. Cosa stava cercando di non dirle?
Storcendo il naso, Alec si grattò distrattamente la cicatrice sulla guancia e, nel reclinare appena il capo, borbottò: “Li hanno uccisi. Un Cacciatore si è introdotto in casa loro, nel cuore della notte, e ha gettato loro addosso dell’aconito per farli svenire, dopodiché li ha sgozzati con un pugnale d’argento.”
Beverly si sgomentò, di fronte a quella notizia ma, ripensando alle ultime notizie del telegiornale, non rammentò nulla del genere.
Come intuendo i suoi pensieri – nessuno di loro era solito ficcare il naso nella testa degli altri, perciò si agiva spesso d’istinto – Alec chiosò: “Le autorità hanno preferito tenere la cosa sotto silenzio, perché l’assassino è ancora in circolazione, e non vogliono fargli pubblicità.”
“Perché non è intervenuto Freki?” domandò sdegnata Beverly.
“Oh, Freki è già sul campo, se è per questo ma, stavolta, dobbiamo lasciar fare alle autorità e, eventualmente, dare qualche dritta alla polizia” brontolò Alec. “Purtroppo, i primi a trovare i corpi non sono stati dei lupi, ma i vicini di casa degli Skipton, una coppia di umani che, nel vedere la piccola Raven nel cortile, in pigiama e in piena notte, si sono preoccupati a morte.”
“E loro che ci facevano, fuori, in piena notte?” brontolò Beverly.
Sorridendo appena, Alec asserì: “Tranquilla, sono puliti. Erano di ritorno da una festa e, quando hanno parcheggiato l’auto in cortile, hanno notato Raven. Nel vedere del sangue sul suo pigiamino, hanno dato di matto, chiamando la polizia, così ora abbiamo le mani legate, almeno in parte.”
“Ovviamente, nessuno dei nostri era di turno, quella notte” sbuffò contrariata Beverly. Avere qualche agente mannaro all’interno della polizia non garantiva la copertura totale, purtroppo.
“Quando si dice la fortuna…” assentì torvo Alec. “… comunque, stiamo già indagando su come siano stati scoperti, e Geri ha già inviato Huginn e Muninn a caccia. Quando verrà stanato, faremo una soffiata alla polizia, e tutto si risolverà.”
“Posso dare una mano” si propose Beverly, sfiorandosi la fronte con un dito.
Se si fosse trovata sulla scena del crimine, avrebbe potuto percepire qualcosa con quasi totale certezza.
Alec scosse il capo, replicando: “Da quel che Geri mi ha detto, è solo questione di ore. Da te, vorrei un altro tipo di aiuto.”
Ora, Beverly era davvero sconcertata. Se quel caso era praticamente già risolto, lei a cosa poteva servire?
Arrossendo un poco, Alec borbottò: “Nella busta ci sono le foto di Raven e… beh… volevo sapere se a te e Thor poteva… poteva interessare l’idea di…”
Beverly fissò il suo Fenrir con autentico sconcerto. Da quando in qua, Alec Dawson balbettava?!
Addolcendo subito il suo sguardo, la donna sorrise e, nell’estrarre alcune foto, mormorò: “E’ molto carina.”
“Mi dicono che è anche assai brava” sottolineò subito Alec. “Per lo meno, da quel che ho saputo dai servizi sociali che l’hanno in custodia.”
“Non ha parenti?” esalò sorpresa Beverly.
“No. Erano figli unici entrambi, e i genitori sono morti, o presunti tali. Nessuno che possa curare la piccola.”
Presunti tali. Già, era un modo carino per dire che, quei licantropi in particolare, erano morti per la società umana, ma non per quella mannara.
Persone che si erano allontanate così tanto dalla società umana, da non agognare neppure per un istante di tornarvi.
Quei mannari erano tornati alla Madre e alle sue leggi e, per nulla al mondo, avrebbero ripercorso il sentiero che conduceva al mondo degli esseri umani.
Neppure per una nipote da accudire e crescere.
“Capisco” mormorò spiacente Beverly. “Vorresti che ce ne prendessimo cura noi?”
Alec avvampò in viso, scosse con violenza il capo e, reclinandolo contrito, borbottò: “Il ‘vorrei’ non è neppure da contemplare. Io non voglio niente ma pensavo che, visto il vostro… problema… avreste potuto desiderare di…”
Ancora quel balbettio incoerente, quell’imbarazzo inusuale.
Bev sorrise ancora di più e, nel poggiare le fotografie sulla scrivania, la donna domandò: “Perché non hai lasciato questo compito a Erin? Come Prima Lupa, sarebbe spettato a lei.”
Alec, a quel punto, tornò a levare i suoi occhi grigio ghiaccio e, con uno sguardo che Beverly tornò a riconoscere, disse: “Sono il tuo Fenrir e, visto il nostro passato in comune, preferisco essere io a dirti certe cose. Erin mi ha riferito che tu e Thor non potete avere figli.”
“Incompatibilità genetica. Ne avevamo il sospetto ma, anche grazie a Brianna, ne abbiamo avuto la conferma” assentì Bev, con falsa sicurezza.
Non ci poteva fare nulla e, prima o poi, lo avrebbe anche accettato, ma era ancora difficile dirlo a voce alta.
“Capisco” mormorò Alec, passandosi una mano sulla zazzera di capelli cortissimi. “Senti, Bev, non voglio assolutamente imporre niente a nessuno dei due, perché è la decisione più personale e importante che uno possa prendere, però…”
“Fenrir…” lo richiamò dolcemente lei, facendogli risollevare il viso.
“Alec… te l’ho già detto e ripetuto. Quella roba pomposa dei titoli lasciamola per il Vigrond, per favore” brontolò lui. “Ho già esaurito il mio periodo da smargiasso.”
Beverly accentuò il suo sorriso e ammise: “Sei davvero cambiato se si pensa che, fino a qualche anno addietro, avresti staccato la testa a morsi a chiunque non avesse riconosciuto sempre e comunque il tuo status.”
“Avevo le mie seghe mentali da farmi passare” ammise lui, con la sua solita grazia.
Bev rise appena, a quel commento, e asserì: “Brianna e Duncan sono stati di grande aiuto, in questo, ed Erin ti ha dato il colpo di grazia.”
“Non ricordare a Erin quanto sia stata vitale, o potrebbe approfittarsene troppo” ironizzò Alec.
Tornando seria, Beverly gli domandò: “Torno a chiedertelo, Alec. Perché hai voluto prenderti questo impegno? Poteva farlo Erin.”
“Ti devo troppo, per delegare ad altri…” ammise lui, sorprendendola. “… e, visto che qualcosa l’ho imparato anch’io, su come capire gli altri, volevo essere io a… offrirti una soluzione.”
“Alec…”
“So che non sarebbe lo stesso, ma credo che…” iniziò subito col dire lui, venendo però interrotto da un gesto di Beverly.
“Non mi devi nulla, Fenrir, davvero. E quello che c’è stato tra di noi, doveva finire così. Per te, perché trovassi Erin, e per me, perché trovassi Thor. Io la vedo così, e nessuno mi farà cambiare idea” asserì Bev, convinta.
“Sei sicura?”
Beverly non disse nulla. Si limitò a intrecciare le braccia sotto i seni e accavallare le gambe, in attesa.
“D’accordo, non fare come quella sclerotica di mia moglie che, quando vuole farmi passare da idiota, si mette in posa supponente” brontolò Alec, facendo ridere sommessamente Bev.
A quel punto, Alec tornò a essere se stesso e, con dovizia di particolari le spiegò ogni cosa, senza tralasciare nulla.
***
“… e così, ha pensato che avrebbe potuto interessarci adottarla. Tramite gli agganci che abbiamo, sarebbe relativamente facile averne l’affidamento, e lei vivrebbe in una famiglia che potrà capirla e appoggiarla se, un domani, dovesse dimostrare di avere il gene della licantropia dentro di sé” terminò di spiegare Beverly, accomodata a gambe intrecciate sul suo cuscino da meditazione.
Thor, in una posa assai simile, sorrise appena, si passò una mano tra i capelli biondo-castani e ammise: “Quel lupo mi ha davvero sorpreso, stavolta.”
“Che ne pensi?” domandò lei, slegandosi con agilità dalla posizione del loto per procedere con alcuni esercizi di scioglimento dei muscoli.
Thor, però, non le rispose subito.
Si levò in piedi con altrettanta grazia, si portò al tavolino dove teneva le spezie e gli unguenti per i loro riti di divinazione e, dopo aver acceso un bastoncino di incenso, mormorò: “Non avrei mai immaginato di potermi innamorare di un licantropo. Vi abbiamo sempre ritenuti – a torto – dei nemici. Ciò che successe con Loki fu davvero uno scorno insopportabile per tutti noi, perché ci mise dinanzi ai nostri limiti, così come ai nostri inutili preconcetti.”
Beverly si risollevò per raggiungerlo e, sfiorandogli un braccio, si poggiò delicatamente contro di lui, carezzandogli la schiena nuda, dove i tatuaggi dell’orso spiccavano scarlatti sulla pelle chiara.
Lui poggiò la guancia contro i suoi capelli e, sorridendo, proseguì dicendo: “Partecipare alla lotta, conoscerti, aprirti, e aprirmi come ho fatto, mi ha reso un uomo migliore e, soprattutto, un uomo felice.”
“Anche se non posso darti un figlio?” domandò lei, pur avendo già sentito il suo parere a suo tempo.
“Conta ciò che siamo insieme, Bev. Ma, se potremo offrire un rifugio e un luogo amorevole in cui crescere a quella creatura, io ne sarò ben felice. So già che tu saresti un’ottima madre… quanto a me, spero di essere alla tua altezza” le disse lui, volgendosi a mezzo per poterla guardare negli occhi.
Lei sollevò i propri, grigi e fumosi, per incrociare quelli azzurri come le acquemarine di Thor e, sorridendo, asserì: “Credo che Raven sarà felice di avere un padre come te.”
“Domani presenteremo la richiesta, allora” assentì lui, abbracciandola con calore.
Lei restituì l’abbraccio e, come la prima volta, si sentì protetta e amata.
Era stato strano lasciare che il suo cuore si avvicinasse a quell’uomo, così diverso da lei per mille e più motivi.
Non soltanto per una questione di nazionalità e di cultura, ma soprattutto per via della loro doppia natura animale.
Lei lupo, lui orso. Due realtà apparentemente inconciliabili che, però, avevano trovato un punto comune in cui incontrarsi, toccarsi… amarsi.
Quel sentimento era giunto quasi a sorpresa, in una notte d’inverno, a distanza di due anni da quando Thor si era trasferito a Bradford per farle da mentore.
Il loro addestramento presso il Vigrond l’aveva sfiancata più di quanto avessero entrambi immaginato e, alla fine, Thor aveva dovuto portarla a casa di peso.
Bev si era sentita un’autentica sciocca, in quel momento, ma aveva apprezzato le sue attenzioni e, quando infine si erano ritrovati dinanzi a casa sua, lei lo aveva abbracciato.
Per i lupi, era normale farlo. Un po’ meno per gli orsi, ben più ombrosi e solitari.
A parlare per Thor, però, era stato l’uomo che, non solo aveva apprezzato il gesto, ma vi aveva replicato con un bacio delicato sulle labbra.
A quel punto, la sua lupa si era messa da parte per lasciare spazio alla donna e, da quel momento, lupa e orso avevano stretto un accordo di non belligeranza, per amore dell’uomo e della donna.
Era stato curioso come, per entrambi, le loro parti più deboli fossero divenute, di colpo, le più potenti tra le due entità che li componevano.
Beverly, però, non aveva mai rimpianto di aver fatto tacere la lupa, per una volta, e di aver lasciato le redini in mano alla donna.
Ora, lupa e orso erano amici, quando erano in forma animale, ma quello contava poco.
Quello che contava, per loro, erano l’uomo e la donna.
E loro avrebbero cresciuto Raven come una famiglia. Strana, un po’ sopra le righe, ma sicuramente unita.
Note: ho pensato fosse carino approcciare anche la loro storia, visto che era rimasta in sospeso, e non avevo più fatto sapere molto, su di loro. Spero che questa OS abbia chiarito eventuali dubbi su di loro. A presto!
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Capitolo 33 *** Reversal - Parte 1 (Estelle/Bright) 2003 ***
1.
Aberdeen – Novembre 2003
Non era possibile che, per l’ennesima volta, fosse in ritardo! Eppure, almeno a giudicare dal suo orologio da polso, lo era eccome!
Aumentando il ritmo della corsa per non giungere ancora una volta alla fermata dell’autobus con il cuore in gola, Estelle strinse tra le dita la stringa della borsa che portava a tracolla e sbuffò.
Non aveva le scarpe adatte per quel genere di attività fisica ma, come sempre le accadeva, l’occhio finiva per avere ragione sulla logica e così, al posto di più pratiche scarpe da ginnastica, infilava i suoi stivaletti dal tacco a spillo.
Le piacevano così tanto da aver quasi consumato la suola, ma sapeva che non erano le scarpe adatte per una ritardataria fatta e finita come era lei.
«Ma quando mai imparerò?» si lagnò tra sé Estelle, svoltando lungo il marciapiede per raggiungere Garthdee Road.
Aveva appena lasciato la Robert Gordon University di Aberdeen, dove seguiva il corso di farmaceutica e, come sempre, si era dilungata in una chiacchiera con Percy.
Il suo geniale amico era una sagoma e sapeva sempre farla divertire, ma aveva anche la capacità di peggiorare – se possibile – i suoi già cronici ritardi.
Quando, poi, si rese conto che, alla fermata dell’autobus, era già presente quello studente, i suoi piedi rischiarono di inciampare su loro stessi, presi dall’ansia e dalla frenesia.
Era sempre così, quando vedeva lui.
Alto, compassato, silenzioso, educato e bello da far paura.
Non aveva idea di quale corso frequentasse, sapeva soltanto che era uno studente della sua stessa università. Lo aveva incrociato diverse volte di fronte all’ateneo principale e, ogni volta, il suo sguardo pensieroso si era trovato tra le pagine di un libro.
Sapeva solo quanto fosse schivo con le persone, e parco con le parole, ma era sempre stato educato con tutti coloro che gli avevano rivolto la parola, e volenteroso con gli studenti alle prime armi.
Era così che lo aveva notato, la prima volta, impegnato a spiegare la piantina dell’enorme campus a una coppia di ragazzini del primo anno dall’aria sperduta.
Gli era parso la quintessenza della calma e, dalla sua bocca arcuata in un mezzo sorriso, era uscita una voce profonda, calda e partecipativa.
I ragazzi lo avevano ringraziato mille e mille volte ma lui, con un cenno del capo e un saluto, se n’era andato senza null’altro dire, come se fosse abituato a dispensare aiuto e parole gentili.
Un leader in tutti i sensi.
In quel momento, come suo solito, stava leggendo un libro, non causalmente sistemato contro l’angolo esterno della pensilina, a protezione di una dolce nonnina dalle raffiche insidiose del vento.
Estelle aveva notato più di una volta come, quel ragazzo, si prestasse a simili gesti di cortesia.
Che fosse un anziano bisognoso di un posto sull’autobus, piuttosto che di un gesto di semplice gentilezza, lui era sempre pronto a prestarsi in tal senso.
Estelle aveva trovato quei gesti molto generosi ma, al tempo stesso, anche apparentemente consoni a lui. Per come la vedeva lei, quel giovane era istintivamente portato a prendersi cura degli altri.
A capo chino su un libro trattenuto con la mano destra, dalle dita lunghe e forti, i riccioli castani a oscurargli gli occhi e aria concentrata, sembrava dimentico di tutto e di tutti, ma non della sua protetta.
Col suo corpo enorme doveva fornire davvero un’ottima protezione contro il vento, e nulla sembrava distoglierlo da tale compito.
Estelle rallentò il passo, esalò un sospiro di pura ammirazione e infine si fermò a pochi passi dalla pensilina, lanciando ogni tanto delle occhiate di straforo nella direzione del giovane.
Se solo fosse stata più intraprendente, gli avrebbe parlato – dopotutto, prendevano lo stesso autobus tre volte la settimana da almeno cinque anni – ma il coraggio non era mai stato il suo asso nella manica.
Era una ciarliera nata, parlava anche per dieci, e aveva amici a ogni angolo di strada ma, con gli uomini che le interessavano, era sempre stata una frana. Come se un folletto dispettoso le legasse la lingua proprio in quelle occasioni così speciali.
Una folata dispettosa di vento le scompigliò i lunghi e lisci capelli biondi e, con uno sbuffo, Estelle si affrettò a estrarre l’ombrello pieghevole dalla sua sacca. C’era aria di tempesta.
Neanche due minuti più tardi, come richiamate dal suo pensiero, le nuvole cupe che ricoprivano Aberdeen decisero di rilasciare il loro carico, riversando sulla città un disagevole temporale autunnale.
L’aria divenne gelida nel breve decorrere di alcuni minuti ed Estelle, rattrappendosi su se stessa, pregò disperatamente perché l’autobus giungesse alla svelta. Per una volta che era in anticipo, Madre Natura doveva punirla a quel modo?!
«Ma che ho fatto di male?» brontolò tra sé, guardando spiacente i suoi stivali di pelle. L’acqua li stava rovinando, e dubitava fortemente avrebbe potuto salvarli.
In compenso, il suo misterioso oggetto del desiderio sembrava essere immune da qualsiasi problema, fosse esso umano o climatico. Si era limitato ad aprire l’ombrello con la mano libera e, imperturbabile, stava continuando a leggere il suo romanzo di…
Estelle sgranò leggermente gli occhi, quando intravide il titolo del libro; Moby Dick. Lei lo aveva trovato eccessivamente lungo e tedioso, ma chi era per lagnarsi? Non a tutti piacevano le stesse opere.
Da come lo stava leggendo, comunque, sembrava che la storia lo stesse appassionando davvero molto.
Così impegnata a scrutare di nascosto il giovane lettore, Estelle rischiò seriamente di finire vittima dell’autobus in arrivo. Quest’ultimo, incurante delle pozzanghere già formatesi a terra, vi passò sopra sollevando enormi schizzi d’acqua che fecero sorgere diversi brontolii di protesta.
Con uno strillo ben poco edificante, Estelle si scostò in tutta fretta per non dover dire del tutto addio ai suoi stivali e, irritata, salì subito sul mezzo lanciando un’occhiata venefica a un indifferente autista.
Preferendo non sollevare un vespaio, però, non disse nulla e, raggiunto il primo posto utile, vi si accomodò, gettando ai suoi piedi il piccolo ombrello pieghevole.
La borsa poggiata sulle gambe e il viso rivolto al finestrino rigato di pioggia, Estelle cominciò a pensare distrattamente alla successiva ora di viaggio in autobus. Dopo una serie di fermate in città, il mezzo si sarebbe spinto verso Stonehaven e, infine, avrebbe toccato il piccolo villaggio di Rickarton, dove abitava.
Era una tratta che conosceva ormai a memoria e che, normalmente, concedeva alla vista sprazzi di natura davvero belli ma, con la pioggia, tutto sarebbe apparso triste e funereo. Una versa sfortuna, visto che non aveva libri con sé e il lettore mp3 era morto e sepolto.
Sospirando, cercò ugualmente di pensare ad altro e, subito, la mente le corse al piccolo villaggio in cui abitava.
Le piaceva quel luogo tranquillo, dove abitavano persone che conosceva da una vita e che, anche se distante da qualsiasi luogo di interesse, lei trovava perfetto. La campagna scozzese sapeva essere splendida e regalare scorci naturalistici meravigliosi, e lei amava osservare il suo lento mutare nel corso delle stagioni.
Dalla finestra della sua camera poteva ammirare la brughiera in lontananza, i piccoli boschetti quasi impenetrabili e il lento lavorio degli agricoltori della zona. Dietro casa sua, inoltre, un piccolo sentiero portava direttamente alle colline e più di una volta, lei e i suoi cani, lo avevano imboccato per lunghe e piacevoli passeggiate.
Per quanto amasse fare shopping e visitare musei, non avrebbe mai ceduto la sua vita in quel piccolo angolo di Scozia per qualcosa di diverso.
Sapeva che, presto o tardi se ne sarebbe dovuta andare per lavoro – una volta terminata l’università, avrebbe cercato un'occupazione ad Aberdeen – ma avrebbe goduto di quelle lande finché avesse potuto.
«Questo posto è libero?»
Quella domanda giunse a sorpresa da una voce roca e profonda, con una leggera inflessione del nord. Le ‘esse’ erano molto marcate, e a Estelle tornò subito in mente la voce di Sean Connery.
Peccato che, quando si volse, non trovò ad attenderla l’alto attore scozzese - volto prestato al famosissimo agente segreto di Sua Maestà. No, lì dinanzi a lei, con il libro di Moby Dick in una mano e lo zainetto nell’altra, se ne stava il giovane che Estelle tanto aveva osservato di nascosto in quegli anni.
Avvampando come uno stoppino, Estelle si limitò ad assentire e il giovane, accomodandosi subito, sistemò il suo ombrello a terra e poggiò lo zainetto della North Face sulle gambe lunghe e muscolose.
Doveva stare assai scomodo, pigiato com’era in quel posto pensato per una persona ben più bassa di lui, eppure la sua figura ora rattrappita non ne diminuiva il fascino.
Estelle si spiacque per i suoi ovvi disagi ma, al tempo stesso, ringraziò la sua buona stella per quell’insperato dono del cielo. Forse, dopotutto, Madre Natura non ce l’aveva proprio con lei.
«Di questo passo, si allagherà tutta Aberdeen» commentò con casualità il giovane, lanciandole un mezzo sorriso pieno di cordialità.
Che stava dicendo? Estelle impiegò diversi secondi per riconnettere il cervello, elaborare la sua frase e rispondere qualcosa che non apparisse assolutamente idiota.
«Già… speriamo che non allaghi anche le aule dell’università…» chiosò lei, lanciando un’occhiata rapida all’esterno. «…alcune si trovano nel seminterrato.»
Il giovane levò un sopracciglio con interesse, replicando: «Sei alla RGU anche tu? In qualche corso?»
Grandioso! Non si è neppure accorto di me, brontolò tra sé la giovane, stampandosi in viso un sorriso falsamente allegro.
«Corso di Farmaceutica. Sono al terzo anno» gli spiegò Estelle, mentre l’autobus tremolava leggermente nel ripartire.
L’autista inserì la marcia con un gran raschiare di metallo, ma Estelle non vi fece minimamente caso. Aveva ben altro per la testa, e non certo la bravura del conducente nell’usare la frizione.
Il giovane al suo fianco assentì e disse: «Mi sembrava di non averti vista ai miei corsi, infatti. Io faccio Economia.»
Ciò detto, allungò la mano e aggiunse: «Mi chiamo Bright. Bright Cox. Molto piacere.»
«Estelle Beauchamp, piacere mio.»
«Pronuncia inglese o francese?» domandò a quel punto lui, accentuando il suo sorriso.
«Ah… inglese» esalò lei, maledicendosi mentalmente l’attimo seguente.
Riconnetti il cervello, cretina, se non vuoi dargli l’idea di essere una decerebrata!
Bright annuì debolmente e, mentre il mezzo proseguiva nella sua marcia sotto un autentico diluvio universale, le sue chiacchiere intrattennero Estelle come un piacevole canto di sirene.
Era felicissima che lui si fosse seduto al suo fianco e, ancor più felice, constatare che, non solo Bright aveva una bella faccia ma che, dentro quella splendida testolina, c’era anche un cervello!
Grazie all’imbeccata offerta da Moby Dick, Estelle scoprì che quella lettura in particolare era un pegno da pagare a una sua amica, vincitrice di una scommessa letteraria che, invece, lui aveva perso.
Scoprire che Bright e questa ragazza avevano combattuto a suon di date di prime edizioni di libri, sorprese non poco Estelle. A quanto pareva, lui era caduto sulla prima edizione di Uno Studio in Rosso di Conan Doyle.
«Amo leggere ma, onestamente, non saprei dire la data di una singola edizione dei libri che ho letto» ammise con candore Estelle, ridendo di se stessa.
«Oh, io e Kate siamo fanatici dei numeri, non farci caso… lei, infatti, è al primo anno di Matematica» scrollò le spalle Bright prima di aggrottare un poco la fronte e volgersi verso l’autista con aria incuriosita.
«Qualcosa non va?» domandò Estelle, sorpresa dal suo sguardo attento.
Dopo aver oltrepassato senza grossi problemi il centro di Stonehaven, l’autobus aveva virato verso est, risalendo la collina per raggiungere i paesini che ivi erano costruiti.
La strada appariva come un immenso fiume d’acqua, in cui le foglie cadute dagli alberi parevano tante barchette alla deriva.
Accigliandosi ulteriormente, Bright mormorò: «No, non è nulla. Mi è sembrato di sentire un rumore, ma…»
Scuotendo il capo, il giovane le sorrise con aria tranquilla, aggiungendo: «Non preoccuparti. Me lo sono sicuramente sognato.»
Estelle cercò di credergli ma qualcosa, nei suoi occhi nocciola, la mise in allarme.
Distogliendo per primo lo sguardo, ben conscio di essere in difficoltà di fronte agli occhi attenti di Estelle, così puri e inconsapevoli, Bright sollevò goffamente il suo libro e domandò: «Ti disturba se finisco il capitolo? Mi manca giusto una pagina, e sono in un punto cruciale della storia.»
Estelle annuì senza problemi, replicando con divertimento: «Ti capisco bene. Anch’io amo arrivare alla fine dei capitoli, prima di chiudere la lettura, altrimenti riprendere è un autentico supplizio. Ne approfitto per controllare se ho delle chiamate sul cellulare. A lezione lo tengo silenziato, così evito di disturbare.»
Bright la ringraziò con un sorriso e, sentendosi un emerito idiota per essersela metaforicamente data a gambe da quel confronto ravvicinato, finse di leggere per dar credito alla sua bugia.
In realtà, non era neppure in grado di dare un senso logico alle lettere che stava osservando rabbuiato. Da quando in qua si spaventava al solo incrociare lo sguardo di una donna?
Che razza di uomo era?!
Doveva ancora capire perché si era arrischiato ad avvicinarla quando, per anni, aveva fatto di tutto per evitarla. Vederla così abbattuta, tutta sola su quel sedile e con lo sguardo perso, lo aveva però messo alle strette, e aveva ceduto.
Sapeva di dover essere cauto, oltre che non troppo intraprendente, ma era piacevole comportarsi come una persona normale, per una volta, senza tutto il peso del suo nome sulle spalle.
«Il cielo si è fatto ancor più scuro» commentò a un certo punto Estelle, strappandolo a quei pensieri. «Il mio cellulare, invece, è morto e sepolto. La batteria se n’è andata. Dovrò ricordarmi di mettere sotto carica sia il lettore che il cellulare. A volte, so essere la quintessenza della sbadataggine.»
Bright scrutò oltre il profilo alla francese di Estelle, cercando con tutto se stesso di non incantarsi a guardare le sue labbra morbide. Era stato davvero un imbecille a cedere alla curiosità e avvicinarsi a lei!
Estelle non faceva per lui!
Accigliandosi quando, però, vide le coltri nere all’orizzonte oltre il profilo perfetto della ragazza, scacciò quei pensieri e borbottò: «Peggiorerà ancora.»
Estelle, allora, sbuffò e scrutò dolente i suoi stivali. «Avrei dovuto evitare di metterli. Altra nota di demerito a me. Sbadata, smemorata, ritardataria e fissata.»
Bright fece per sorriderle con comprensione, divertito dall’apparente facilità della ragazza nello schernirsi. Non doveva essere una di quelle tipe fissate con il voler apparire perfette a ogni costo, soprattutto di fronte a un uomo.
Lo scarto improvviso degli pneumatici sull’asfalto bagnato, unito alla pressione esercitata dal mezzo in sbandata, lo misero però subito in allarme, ammutolendolo prima di poter commentare il suo dire.
Senza dare alcuna spiegazione a Estelle, le avvolse le spalle per avvicinarla a sé, un attimo prima che l’autobus sbandasse oltre il ciglio della strada, travolgendo la fragile palizzata di un campo a riposo.
Urla collettive si levarono tra i presenti mentre il mezzo, sbilanciato dal suo stesso peso e dalla forza centrifuga, carambolava lungo il prato in pendenza.
A quel punto, anche Estelle urlò, i suoi occhi sgranati per la paura e immersi in quelli calmi di Bright che, puntellato col braccio libero e con una gamba contro i sedili, protesse la ragazza col suo corpo.
Il mezzo cappottò due volte, mentre borse, ombrelli e quant’altro ruzzolavano all’interno dell’autobus, e le voci rotte dalla paura della gente ammorbavano l’aria.
Bright, però, non diede loro alcun peso, concentrato unicamente sullo sguardo terrorizzato di Estelle. Fu questo a tradirlo… e a fargli commettere l’errore più terribile di tutta la sua vita.
Distratto suo malgrado da quegli occhi che, pur se spaventati, dimostravano anche una salda fiducia in coloro che stavano osservando, Bright non pensò.
Il suo corpo reagì d’istinto, lasciandosi andare al pericolo che lo circondava, e mutò.
Un colpo improvviso alla testa, causato da una valigia sfuggita al controllo della cappelliera, fece il resto.
Bright strinse involontariamente la mano poggiata sul braccio di Estelle, e la sua natura ferina compì l’impensabile.
L’attimo seguente, il bus si bloccò completamente, urtando con la tettoia ormai deformata dagli urti contro un abete e, come un’onda di piena fermata da un muro, le persone crollarono le une sulle altre in un unico groviglio di corpi.
Vi furono ansiti di dolore, pianti, imprecazioni e scongiuri per lo scampato massacro ma Bright, sgomento di fronte al sangue che gli macchiava le dita, non udì nulla di tutto questo.
Il suo unico pensiero, in quel terribile momento, fu quello di aver ferito Estelle.
Con i suoi artigli.
***
Le sirene di polizia e ambulanze rimbombavano come un tam tam tra le colline, mentre i lampeggianti rossi e blu tingevano l’erba con colori smorzati, surreali.
Decine di persone erano affollate sul luogo dell’incidente dove, per grazia di Dio, si era solo sfiorata la tragedia senza mai davvero toccarla.
Il conducente del mezzo, chiaramente sconvolto e senza parole, stava raccontando la sua versione dei fatti alla polizia, mentre i paramedici ne controllavano pressione e ossimetria.
Bright, però, non aveva bisogno di sentire ciò che egli aveva da dire; sapeva già a cosa imputare la colpa di quell’incidente.
Il filo della frizione si era spezzato di colpo, impedendo all’autista di scalare marcia in tempo per affrontare la curva in discesa.
Il panico momentaneo, unito al ritardo di reazione nel pigiare i freni, oltre alla strada reda viscida e scivolosa dal temporale, avevano fatto il resto.
Il mezzo si era ritrovato in piena curva a una velocità eccessiva, era sbandato a causa dell’assito bagnato e ricoperto di fogliame zuppo, e la forza centrifuga aveva completato l’opera.
Tutto ciò, però, non lo toccava minimamente. I suoi pensieri erano tutti incentrati su una sola persona, e su ciò che egli aveva fatto.
Bright era in piedi e avvolto in una coperta termica, al riparo di una tensostruttura montata in tutta fretta per il ricovero dei feriti, a un passo da dove si trovava la ragazza al centro delle sue elucubrazioni mentali.
Accanto a lui, medicata da un paramedico che le stava sistemando la ferita al braccio, Estelle appariva scarmigliata ma in salute.
Nulla poteva farle presagire ciò che, entro una decina di giorni al massimo, sarebbe avvenuto, e tutto a causa della disattenzione e della superficialità di Bright.
Come ho potuto essere così idiota?, pensò tra sé il giovane, sentendosi prossimo a uno scoppio d’ira coi fiocchi.
Peccato non potesse riempirsi di pugni. Gli sarebbe risultato alquanto difficile essere efficace, ma lo avrebbe davvero voluto.
«E’ stata davvero fortunata, signorina. E’ tra le persone che ne sono uscite meglio» dichiarò il paramedico, abbassandole la manica della maglia dopo averle chiuso la fasciatura. Subito dopo, le sistemò la coperta termica sulle spalle e le sorrise.
Estelle, allora, tributò a Bright un sorriso pieno di gratitudine e replicò: «Posso ringraziare solo lui, per questo. Mi ha protetta durante tutto l’incidente.»
«I miei complimenti, allora. Lei ha bisogno di medicazioni?» si informò il paramedico.
«Mi hanno già sistemato, grazie» mentì spudoratamente Bright, scrollando le spalle.
I lividi stavano già rimarginandosi e, ben presto, non avrebbe avuto più alcun ricordo di quell’incidente.
A parte uno.
Il paramedico, allora, li salutò per raggiungere un altro ferito e Bright, nel sedersi accanto a lei su una sedia pieghevole, messa a disposizione dalla protezione civile, mormorò: «Stai veramente bene?»
Estelle assentì con vigore e, guardandosi il braccio - dove era evidente la macchia di sangue - e, al di sotto, la fasciatura, asserì: «Uscire da un simile incidente solo con un taglietto, è quasi un record. E lo devo solo a te.»
A quelle parole, Bright strinse i denti per la rabbia nei confronti di se stesso ma, ben sapendo di non poter parlare con lei di quel taglio – c’erano troppe orecchie, nei paraggi – le domandò: «Sei riuscita a parlare con i tuoi genitori?»
Lei scosse il capo, sospirando afflitta, e mormorò: «Devono essere ancora fuori casa, e non rispondono neanche al cellulare. Ma non ho potuto insistere, visto che ho dovuto usare il telefono di un soccorritore.»
«Non c’è problema. Ti accompagneremo a casa io e Kate» le propose subito lui, battendole delicatamente una mano sul braccio sano.
«Oh, ma sarebbe solo un disturbo, e…» cominciò col dire lei, prima di venire fermata dal giovane.
«Sei di Rickarton, no? Quindi, passeremo di lì per forza, per arrivare a casa mia. Non sarà un problema, davvero» le spiegò Bright, ben deciso a fare in modo che lei accettasse il passaggio.
«Beh, se non è un problema, allora… accetto.»
«Nessun problema, davvero» replicò lui, prima di levare il capo a scrutare la folla di persone presenti.
Il profumo di miele e noci di Kate gli giunse inconfondibile alle narici e, levatosi in piedi, si mostrò oltre la tensostruttura per rendersi visibile all’amica.
La fulva e piccola ragazza, dopo aver scrutato a destra e a manca per alcuni attimi, infine lo scorse e, accorrendo verso di lui, parve assai sollevata di vederlo.
Kate, ultima erede di un’antica stirpe di wiccan appartenenti alla famiglia Alexander, era entrata a far parte del loro branco alcuni anni addietro, quando il dono le si era sviluppato e aveva dimostrando così le sue abilità.
Rossa di capelli e dai profondi occhi azzurri come i turchesi, Kate era una diciottenne profondamente timida e schiva e, ben di rado, concedeva la sua amicizia.
Anni di bullismo scolastico ne avevano minato le sicurezze e, pur se ora le cose andavano meglio, al suo primo anni di università, lo scoglio della timidezza cronica si faceva ancora sentire.
Con Bright e molti membri del branco, però, Kate era riuscita a instaurare un buon rapporto e, pur se ancora faticava ad accettare i contatti fisici, le cose cominciavano ad andare meglio.
Quando infine li raggiunge, i riccioli ramati le finirono sulle spalle in un groviglio ribelle e lei, con gesti nervosi delle piccole mani, li scansò dicendo affannata: «Dio ti ringrazio… stai bene.»
«Tutto regolare, Kate» assentì lui prima di scostarsi per presentarle Estelle. «Lei è Estelle Beauchamp. Una mia nuova amica.»
«Molto piacere, Kate» disse subito Estelle, allungando una mano.
Kate gliela strinse, mormorando: «Piacere mio, Estelle. Spero che anche tu stia bene.»
«Solo un graffio, e tutto per merito del tuo amico, qui, che mi ha protetta» sorrise Estelle, lanciando un’altra occhiata grata a Bright.
Kate ne seguì lo sguardo – già conoscendo la fonte di quel graffio in particolare – e, nel notare come l’amico fosse in ansia, preferì soprassedere per dire: «Sarà meglio che andiamo. La sera cala in fretta, e credo sia preferibile rientrare prima che le persone a casa si preoccupino.»
«Grazie per lo strappo. Non volevo essere d’intralcio, ma…» iniziò col dire Estelle.
Kate scosse il capo, anticipando qualsiasi sua replica e, con un candido sorriso, replicò: «Nessun disturbo. Bright ha fatto bene a dirtelo. Andiamo nella stessa direzione, perciò non avrò alcun problema.»
Bright, allora, sfiorò la schiena di Estelle per sospingerla gentilmente fuori dalla tensostruttura e Kate, nell’osservare di straforo le premure del giovane, gli disse mentalmente: “Questa cosa non piacerà, se dovesse saltare fuori, sappilo…”
“Come se non lo sapessi…” brontolò in risposta Bright.
Aveva un bel po’ di cose da risolvere, e ancor più decisioni da prendere, ma non poteva fare tutto da solo, purtroppo. Il suo ruolo aveva enormi vantaggi, ma non era possibile fare proprio tutto senza dire nulla ai suoi sottoposti.
In quanto Fenrir del branco di Aberdeen, aveva delle responsabilità verso i suoi lupi. E anche con Estelle, in questo momento.
***
Claus Koeler, sua fida spalla e suo Hati fin da quando Bright aveva ricevuto la bianca livrea, borbottò un’imprecazione quando il suo Fenrir ebbe terminato il racconto.
Marla Johnson, sua Sköll e licantropa dagli occhi viola come Liz Taylor, chiosò più pacata: «Davvero mi stupisci, Bright. Non ci avevi detto di aver perso la testa per un’umana.»
Bright fissò la sua seconda in comando con espressione arcigna, ma non poté replicare più di quel tanto alla sua affermazione.
Di fatto, aveva cambiato i suoi corsi proprio per prendere l’autobus più spesso assieme a Estelle e, di fatto, si era seduto al suo fianco per avere la possibilità di conoscerla.
Per anni aveva ascoltato le sue conversazioni, spiato le sue azioni e commesso tutta un’altra serie di atti più o meno illegali – la parola stalking gli balenò pestifera nella mente – e soltanto per scoprire come fosse in realtà.
Come altro avrebbe potuto chiamare quelle scelte se non ‘infatuazione’? O era meglio dire ‘fissazione’, parafrasando le stesse parole di Estelle?
Piegandosi in avanti e prendendo la testa tra le mani, Bright si arruffò i riccioli castani, borbottando: «Grazie per il riassunto calzante, Marla, ma non ho bisogno di sentirmi dire che sono stato un idiota. Lo so già. Anche Kate mi ha messo in guardia sulle ripercussioni di ciò che è successo.»
«E’ sconvolgente il solo pensiero che Kate ti abbia mosso qualcosa di anche solo simile a una critica. E’ così dolce, con te!» ironizzò a quel punto la donna, di un anno più giovane di Bright.
Pur essendo la più giovane del trio, Marla tendeva a essere un filo materna con entrambi loro, ed erano soventi le volte in cui i due uomini si ritrovavano sotto il rasoio delle sue prediche.
Questa volta, però, Marla ci andò cauta e aggiunse con calore: «Non ti sto giudicando, foggy. Sto solo dicendo che, di solito, sei molto più compassato e controllato di così.»
Bright assentì, sempre tenendosi la testa tra le mani, lo sguardo basso e perso nel vuoto. Sapeva bene di essersi comportato diversamente dal solito. Non lo chiamavano foggy – nebbioso – per nulla; aveva sempre avuto la tendenza a essere nebuloso, imperscrutabile. Stavolta, però, era difficile per lui controllarsi e tenere a bada ciò che sentiva.
Marla sorrise comprensiva e gli arruffò i riccioli, mormorando: «Le hai detto niente?»
«Troppe persone. Era un argomento troppo delicato da trattare in presenza altrui e, anche in auto, ho preferito soprassedere. Le ho chiesto se potevamo rivederci e lei ha accettato, così avrò modo di parlarle con calma del casino madornale in cui l’ho cacciata.»
Claus sghignazzò, replicando baldanzoso: «Amico, le hai fatto un favore, caso mai. Se è così bella da far sbarellare uno come te, le faranno comodo zanne e artigli, così terrà a bada i mosconi!»
Marla lo fissò malissimo non appena lo udì parlare e il diretto interessato, interdetto, esalò: «Ma che ho detto di male? E’ una figata essere licantropi!»
«Già, peccato che magari, prima di diventare tali, sarebbe meglio essere avvisati. Cerca di capire, Claus… Bright ha giustamente ragione, nell’essere dispiaciuto a causa di questo guaio. Inoltre, è Fenrir solo da un paio d’anni, e certe cose possono metterlo in cattiva luce. Dopotutto, il vecchio Fenrir è ancora vivo, si è solo ritirato per lasciare spazio a noi giovani ma, se venisse a sapere di questo errore, potrebbe ripensarci.»
Piccato, Claus esclamò: «Non potrebbe togliere lo scettro a Bright! Sarebbe contro le regole!»
«Lo so bene, ma un clan che non si fida del proprio Fenrir conta molto di più di una regola non scritta in cui si dice che, de facto, il capo è Bright, e non più Simon» sottolineò Marla, con tono pacato.
«Mi fai incazzare, quando fai così la saccente» brontolò Claus, buttandosi sul divano con aria infastidita.
Marla accennò un sorriso a quel commento e replicò: «Devo compensare te, che parli – e pensi – come un criceto.»
Bright sorrise nel vederli battibeccare e, sollevandosi stancamente dalla sua poltrona, mormorò: «Andrò a parlarle. Mi ha detto che rimane alzata fino a tardi per guardare le stelle con il telescopio. La troverò ancora sveglia… specialmente dopo ciò che è successo ieri.»
«Fatti onore, capo!» esclamò Claus, levando una mano verso di lui.
Bright batté il cinque con l’amico e Marla, nel dargli un pizzicotto sul fianco, asserì: «Sii sincero. Se ti ha attirato tanto, non può essere una stupida, ti pare?»
Lui annuì e, con passo tranquillo, uscì dal suo piccolo appartamento, costruito nella dependance che il padre aveva eretto per lui anni addietro.
Non appena fu all’esterno, l’odore del fieno raccolto nel capannone gli solleticò le narici, facendolo sorridere.
Suo padre, così come suo nonno, si erano sempre guadagnati da vivere con l’agricoltura. Essendo licantropi, non avevano potuto tenere capi di bestiame – la paura degli animali sarebbe stata troppa, perché potessero essere produttivi – ma si erano sempre occupati dei terreni in modo proficuo.
Segale, mais e grano erano state le loro occupazioni principali, assieme al fieno che veniva venduto agli allevamenti locali.
Il tutto aveva consentito loro di vivere dignitosamente, e aveva anche permesso a Bright di avere i soldi per proseguire gli studi all’università.
Era cresciuto in quella florida azienda agricola nelle vicinanze di Mergie con ben chiari pochi, ma importanti precetti, tra cui l’amore per la famiglia e l’umiltà di essere loro debitore.
Secondo suo padre e suo nonno, tutti nascevano uguali, ed erano le azioni a determinare la grandezza di una persona. Nessuno poteva dirsi superiore, soltanto perché la livrea indicava uno status piuttosto che un altro; la fiducia e il rispetto andavano meritati.
Proprio per questo, doveva scusarsi con Estelle e farle capire a cosa sarebbe andata incontro, da quel momento in poi.
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Con
questa breve storia affronterò l'evento che portò
alla mutazione di Estelle e ciò che avvenne in seguito.
Spero possa piacervi.
Nel breve periodo,
poi, inizierò a postare una nuova storia sui licantropi,
stavolta ambientata in Canada. Il titolo sarà "Claire de
Lune".
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