La lezione è finita

di Dorabella27
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Lista capitoli:
Capitolo 2: *** I ***
Capitolo 3: *** II ***



Capitolo 2
*** I ***


LA LEZIONE È FINITA
 
I. 
Aprile 1767
"Oscar, fermati un attimo!"
"Che c'è, André?". Oscar interrompe la sua corsa, due gradini per volta, su per lo scalone, come sempre davanti ad André, e si gira per sentire che cosa voglia dirle.
"Guarda: il nodo alla fusciacca si sta allentando", le indica lui, gentile. E poi, dopo un attimo di sospensione  e di dubbio (non sia mai che Oscar si offenda: è così orgogliosa e suscettibile, a volte!): "Se si scioglie, rischi di inciampare mentre sali le scale".
"Oh! È vero", dice lei, la testa chinata verso il suo fianco destro, in direzione della lunga sciarpa di seta dorata che tiene sempre annodata in vita. E sta per mettere le mani sulla stoffa per stringere il nodo, quando André la anticipa. "Aspetta, faccio io". Due passi per raggiungerla, e per rendersi conto, una volta che è arrivato sul suo stesso gradino, quanto Oscar sia più piccola e più delicata di lui. Si china su di lei e con mani sicure scioglie la fusciacca e la riannoda, stringendola bene e facendo un bel fiocco. "Il nodo è decisamente più bello se viene fatto da un'altra persona: è più elegante e il tessuto non fa pieghe", spiega lui, pacato, per evitare reazioni nervose di Oscar, o la sua consueta esclamazione di insofferenza: "So benissimo fare da me!", quella che riserva sempre alle cameriere che al mattino attendono in piedi davanti al suo letto, dopo che il Signor Contino ha vuotato il vassoio della colazione, per vestirlo con la camicia, il giustacuore, le calze e le coulottes che si convengono al giovane erede della famiglia Jarjayes.
"Ecco: ora è a posto", dice André, soddisfatto del risultato, che cinge la vita sottile di Oscar evidenziandone tutta la snellezza e la grazia naturale.

"André, grazie! Sei molto caro!", gli sorride Oscar, con le sue meravigliose fossette, e poi corre avanti, di slancio, verso la sala riadattata ad aula di studio, senza fermarsi nemmeno per un secondo davanti alla coppia  dei grandi specchi a figura intera incorniciati dalle volute di legno dorato che, lusso inaudito, illuminano il corridoio del piano nobile. Non ha la minima vanità, riflette André, non si preoccupa minimamente di apparire graziosa, di curare il proprio aspetto, di abbellirsi, di aggiungere vezzi al suo severo abbigliamento; eppure, pensa, è la più bella delle sue sorelle, con quegli occhi color fiordaliso, quel naso piccolo e perfetto, e con quei capelli biondi e soffici, di quel colore dorato e caldo su cui sembra che il sole batta senza sosta, con il suo sorriso gentile che le illumina il visto, le gambe lunghe e snelle, il portamento composto e insieme vivace.  
Non ha la minima vanità, si ripete André, fra sé e sé; e fa bene, si corregge, amaro, perché un soldato non può essere vanitoso, non può preoccuparsi di come i lunghi riccioli gli ricadano sulle spalle, o se il punto di azzurro della sua divisa delle Guardie Reali si intoni con il colore dei suoi occhi.
Ricompone il viso a una espressione neutra, ed entra, un attimo dopo Oscar, nella sala da studio, sedendosi al banco accanto a quello in cui lei è già compostamente seduta, i piedi incrociati che ancora non toccano terra e dondolano, impazienti.
 
2.
Per la prima parte della mattinata, dopo un breve allenamento all'alba con la spada sotto gli occhi vigili e attenti del Generale, sono stati liberi, e, freschi come sono dalle lezioni su Tasso del loro precettore di italiano, Monsieur Tommasi, hanno dato sfogo alla loro vivacità riproponendo, davanti alla grande fontana davanti a Palazzo Jarjayes, il duello di Tancredi e Argante.
 
"Non capisco perché tocchi sempre a me la parte del pagano!", (e vorrebbe aggiungere: "e dello sconfitto"): così aveva sbottato André.
 
"Perché, se ti ricordi che cosa dice Tasso", spiega Oscar, con una nota sottilmente spazientita nella voce, "è di corpo Tancredi agile e sciolto, / e di man velocissimo e di piede; / sovrasta lui con l'alto capo, e molto / di grossezza di membra Argante eccede"[1]: Tancredi è più piccolo e più veloce, no?. E poi - in guardia, André  - ricorda che gli antenati del casato Jarjayes hanno combattuto alle crociate[2].
 
E davvero lo scontro dei due, osservato, con segreta soddisfazione, dal Generale, attraverso la grande vetrata del suo studio che dà sull'ingresso monumentale della magione di famiglia, è un piccolo spettacolo di perizia bellica, con le due figurette agili che incrociano le spade, si slanciano alternativamente l'una contro l'altro, resistono all'attacco dell'avversario, si allontanano, e poi si riavvicinano in una specie di danza all'arma bianca, che ricorda una battaglia navale, tra un vascello più massiccio e maestoso, e uno più piccolo e veloce. E certo non può sentire, ma, mentre duellano, Oscar e André, forti dei loro esercizi per esercitare la memoria, da sempre i più amati fra quelli assegnati da Monsieur Bellevue, il precettore cui sono affidate la maggior parte delle materie, come francese e matematica, stanno recitandosi, a versi alterni, proprio il duello narrato da Tasso.
 
"Così pugna naval, quando non spira", inizia Oscar, mettendosi in posizione di guardia.
"Per lo piano del mare Africo o Noto", continua André, muovendo verso di lei.
"fra due legni ineguali egual si mira," recita di rimando Oscar, facendo un passo verso André;
"ch'un  d'altezza preval, l'altro di moto;", completa André, avvicinandosi e incrociando la spada su quella di lei;
        "l'un con volte e rivolte assale e gira", riprende Oscar, liberando la sua spada, scartando al lato e girando attorno ad André; che resta fermo e in posizione di guardia, completando la frase:"da prora a poppa, e si sta l'altro immoto; ". Poi, Oscar rinnova l'attacco, accompagnandosi con un altro verso: "e quando il più leggier se gli avicina", e André para il colpo finendo a incombere, più alto e più robusto di lei, e concludendo con "d'alta parte minaccia alta ruina"[3].
 
        Sono andati avanti per molti minuti, sempre più sudati, ansanti, i volti arrossati, gli occhi luccicanti per la tensione della sfida, e, alla fine dello scontro, debitamente concluso con la vittoria di Tancredi, cadono a terra, esausti, e, come i duellanti di Tasso, "' 'l vincitor dal vinto / non ben saria nel rimirar distinto"[4].
 
Poi, dopo essersi ripresi, sono rientrati, si sono rinfrescati in cucina, sotto gli occhi di nanny, che aveva preparato, in un angolo, un catino con una pezzuola, e due asciugamani di lino, e che poi li ha obbligati a mangiare una fetta di pane con burro e zucchero ("Soprattutto Madamigella Oscar, che è sempre magra come un chiodo!", aveva brontolato come sempre, sollecita e premurosa), prima di restituirli ai loro doveri, nella sala da studio al piano nobile.
E adesso, siedono composti nei due banchi affiancati, in attesa di sapere quale sia il compito assegnato loro per quel giorno.
 
3 .
"Buongiorno a voi, signor Contino de Jarjayes, e buongiorno a te, André", dice il loro docente per quella giornata, l'abbé Armand, l'elemosiniere di casa, loro maestro di catechismo e di latino, mentre, voltando loro le spalle, scrive alla lavagna la consegna della giornata, con la mano secca e adunca, costellata da vene azzurrine in rilievo. La mattinata sarà consacrata alla composizione latina, un argomento su cui l'abbé Armand è inflessibile, e che a volte fa preferire ad André lo studio delle scienze, o della matematica; nonostante sia sempre stato un allievo studioso e diligente, e non abbia mai meritato punizioni corporali, infatti, André è terrorizzato dalla canna, la ferula, come la chiama l'abbé alla latina, con cui l'anziano sacerdote tiene perennemente lui e Oscar sotto minaccia.
In verità, Oscar ha meritato parecchie volte una serie di colpi sulle sue mani bianche e delicate: mai per errori o distrazioni, perché la materia le piace molto ed è un'allieva molto brillante e insieme diligente, ma perché, ogni tanto, si prende delle libertà inaudite: l'ultima volta, per esempio, l'abate ha scoperto che "il Signor Contino de Jarjayes" aveva prelevato dalla biblioteca del palazzo il volume non emendato degli epigrammi di Marziale, e l'aveva prima sonoramente rimproverato per avere voluto indulgere, con superbia intellettuale e imperdonabile mancanza di modestia, a letture sconce, indegne di un giovine dabbene, di un futuro alto ufficiale deputato a vigilare sulla sicurezza del Re Cristianissimo; poi, aveva chiesto, impassibile, di mostrargli le mani, i palmi rivolti verso l'alto, e Oscar aveva obbedito, altrettanto impassibile, e ostentando indifferenza anche mentre l'abbé vi assestava quindici colpi di canna, "uno per ognuno dei libri della raccolta di Marziale, che avete osato asportare clandestinamente dalla biblioteca del Generale".
Mentre Oscar fissava l'abbé Armand, con occhi gelidamente immoti, in cui era possibile leggere nemmeno odio, ferma e immobile, solo sussultando a ogni colpo, André si stringeva nelle spalle ogni volta che vedeva la canna calare sulle mani di lei, e ad un certo punto, dopo i primi tre o quattro colpi, aveva anche chiuso gli occhi, perché non riusciva a sostenere la crudeltà di quanto vedeva: la sua Oscar picchiata, e che, per orgoglio, - lui lo sapeva bene -, non solo non batteva ciglio, ma nemmeno sarebbe andata, dopo la lezione, a piangere da Nanny per farsi consolare.
Quando accadevano episodi come questo, André sapeva che la notte, nel silenzio che avvolgeva il palazzo, Oscar avrebbe passato ore con le mani immerse nel catino della sua toeletta, cercando di dare un poco di ristoro alle piaghe che sempre si formavano sui palmi con l'acqua della brocca; e, qualche volta, aveva provato a cercare in cucina un po'di burro, o un po' di grasso di prosciutto, da passare sulle piaghe sanguinolente, per ammorbidire la pelle che si era spaccata. Ma siccome Nanny di norma chiudeva a chiave la dispensa, tenendosi poi la chiave appesa all’anello fissato alla cintura del grembiale, e Oscar non voleva chiederle aiuto, André la vedeva, nottetempo, scivolare verso la grande porta di legno della cucina, e, poco dopo, richiuderla, uscendo con aria mesta dal grande locale. Allora, l'ultima volta, si era fatto coraggio e aveva chiesto alla nonna, prima che serrasse la dispensa con la chiave che portava sempre con sé, un pezzetto di burro, spiegandole anche per chi fosse.
Ma, quando le aveva portato il piattino con il suo prezioso contenuto, la sera, bussando con discrezione alla porta della camera di lei, Oscar l'aveva cacciato via.

"Oscar, come stai? Ho una cosa per te", aveva sussurrato, lieve, restando sulla soglia della sua stanza.
"Che cosa ci fai, tu, qui? Vattene via!  Non ho bisogno di niente, io!", aveva sibilato lei, nella penombra. E lui aveva obbedito, andandosene, ma non prima di aver notato che Oscar si era fasciata i palmi delle mani con due fazzoletti di lino, e di avere lasciato, sulla mensola davanti all'ingresso, il pezzetto di burro. Che aveva ritrovato tale e quale, solo, appena un po' sciolto, nonostante il freddo della notte, la mattina dopo.
André scosse la testa: tutti ricordi e sensazioni che doveva non soffocare o cancellare – sarebbe stato del resto, impossibile - ma imparare a tenere a bada, quello sì, se voleva riuscire a resistere. Si voltò a guardare, si sfuggita Oscar, per poi rivolgere nuovamente lo sguardo alla lavagna dove l'abbé stava terminando di scrivere.
Resistere: sì; ma fino a quando?, si chiese, soffocando un sospiro.
"Oggi, miei cari", chiosò l'abbé, commentando quel che aveva già scritto sull’ardesia scura, con un sorriso mellifluo che prendeva, sotto il suo naso aquilino, le parvenze di un ghigno, "dovrete scegliere un brano di non meno di venti versi dall'Eneide di Virgilio, di cui avete due copie a disposizione, una su ciascun banco, e riassumerlo in prosa in buon latino, senza solecismi né idiotismi, in non meno di dodici righe. Sceglierete, ovviamente, due brani diversi, e mi presenterete un elaborato senza macchie né sbaffi di inchiostro. A voi il cimento: avete due ore di tempo!". E, detto questo, uscì, a passi marziali, per andare a celebrare la Messa delle dieci e trenta nella cappella del Palazzo.
"Tu che brano hai scelto?", chiese Oscar ad André, dopo qualche attimo di silenzio, che aveva trascorso sfogliando il volume aperto davanti a lei, gemello di quello posto sul banco di lui, un bel Virgilio in quarto, rilegato in marocchino rosso.
"Dimmi prima che brano hai scelto tu", ribatté André, da sopra il gomito con cui proteggeva il foglio davanti a sé.
"Ovviamente, la morte di Turno, nell'ultimo libro", rispose imperturbabile Oscar.
"Ah, sì, certo: dal verso 930 alla fine del poema, giusto?", si sincerò André ("E come potevo dubitarne?, si chiese fra sé e sé, mentre una strisciante amarezza si faceva strada nel suo animo).
"Proprio quelli. E tu?", domandò ancora, curiosa, quasi con accanimento, Oscar.
"Credo un brano dal quarto libro, dal verso 160 in poi"[5].
"Uhm, non so se l'abbé Armand approverà la tua scelta, sai?", osservò, dubbiosa, Oscar, in tono interrogativo.

"Tu dici? In realtà, avevo pensato a un altro passo", rispose André.
"Quale?", chiese lei, curiosa.
"Pensavo al brano del senex Corycius, ma l'abbé ha detto chiaramente di scegliere un passo dell'Eneide, e quello è nelle Georgiche", spiegò lui.
"E per fortuna!", esclamò Oscar, impaziente. "Ma è un brano noiosissimo! Che ti importa di quel vecchio in disarmo?!", aggiunse, stranita e quasi scandalizzata. Con tutte le belle scene di battaglia e di duelli che si potevano a scegliere, soffermarsi proprio su.... quello!
"Però, il senex è l'unico che coltivi le rose"[6], sussurrò André, prima di chinare nuovamente la testa sul suo compito, imitato, subito dopo, da Oscar.
I minuti scorrevano lenti, e nel silenzio si sentivano soltanto le penne d'oca grattare leggere sulla carta, e la pendola che batteva i quarti d'ora. Ogni tanto, uno dei due alzava la testa dal suo componimento, quasi a cercare negli affreschi a soggetto mitologico che decoravano il soffitto di quel salone, riadattato a sala per lo studio del Contino e del suo giovane compagno, l'ispirazione per procedere nel difficile compito.
A un tratto, però, il silenzio venne rotto da una voce squillante e argentina. "Ma tu nascondi qualcosa!".
Oscar aveva posato la penna d'oca sul suo foglio, e guardava con curiosità impertinente sul ripiano del banco di André.
"Ma no, ma che dici?", rispose quello, ritraendosi però, istintivamente, dalla parte opposta e coprendo il suo foglio, e quello che era nascosto sotto, con il braccio destro, quello rivolto verso Oscar.
"E hai anche il coraggio di negare?! Ma se ti stai spostando per nasconderti meglio!", lo rimbeccò lei. "Dai, fammi vedere!", esclamò, questa volta con tono complice, cercando di cattivarsi la benevolenza del compagno.
"Non sto nascondendo niente! Pensa al tuo compito! Al tuo ...Turno"...
"E dai, André! Prima che rientri l'abbé, fammi dare una sbirciatina!".
"Ti ho detto che non ho niente sotto il mio foglio!", ripeté lui, ostinatamente tranquillo. Ma Oscar si era già alzata e, nonostante le proteste di André, che si divincolava come un'anguilla, cercando di proteggere il suo piccolo segreto, era riuscita a sollevare il quaderno, facendo lasciare all’amico una grossa chiazza d'inchiostro sulla pagina.
"Guarda che cosa ho fatto per colpa tua!", esclamò André.
Ma Oscar non ascoltava: "Un libro! Hai un libro nascosto sotto il tuo quaderno! Fammi vedere!"
"No, Oscar: è meglio di no!"

"E perché? È un libro sconcio, osceno?". I grandi occhi sgranati, Oscar esclamò subito dopo, immaginando, dal rossore di André, che la risposta fosse affermativa: "Fallo vedere anche a me!"
“No! Non è un libro osceno! E comunque non te lo do, non te lo lascio vedere! È mio!”, esclamò André, ostinato, levandosi in piedi e correndo in fondo alla stanza, stringendo al petto con entrambe le braccia il suo piccolo tesoro segreto.
Ma Oscar gli corse appresso, chiudendolo in un angolo.
"Non è tuo! Ogni libro che si trova qui a Palazzo appartiene al Conte de Jarjayes!"
"Appunto! Il conte di Jarjayes è tuo padre, non sei tu!"
"Ma io sono l'erede!", s'impuntò lei, le gote rosse di rabbia.
"Non è tuo, perché l'ho comprato io!".
Oscar rimase bloccata, come una statua di sale: André che compra un libro? Da solo?
"E come avresti fatto? E quando saresti andato a comprarlo?", gli chiese con aria di sfida, in tono quasi canzonatorio, per sbugiardarlo.
"Non sono andato io! L'ultima volta che Jacques è andato a Parigi, gli ho chiesto di cercarmelo e di comprarlo per me!”.
"Ahahah! E con che soldi?"
"Con i soldi che mi ha dato la nonna!"
"Ahahahah! Hai visto? L'hai ammesso!"
"Che cosa avrei ammesso?"
"Che i soldi con cui tua nonna ti ha pagato il libro vengono dalla paga che le dà mio padre!"
"Appunto! Sono soldi suoi!"
"No!"

"Certo che sì! Quando lavori e vieni pagato per il tuo lavoro, i soldi che ricavi sono solo tuoi".
"In ogni caso, voglio vedere questo libro. Dammelo!"
"NO"
"DAMMELO!"
"NO-O!"
"TI HO DETTO DI DARMELO! SUBITO!"
E mentre si si svolgeva questo concitato dialogo, Oscar cercava di strappare il libriccino dalle mani di André, tentando di sfilarglielo dai palmi mentre lui lo nascondeva dietro la schiena, provando a saltare senza successo verso il quel volumetto che André teneva sollevato sopra la sua testa, o provando ad artigliargli le braccia; sino a che, rendendosi conto che in quel modo non avrebbe mai avuto la meglio, pensò di passare alle maniere forti: finse di allontanarsi, sfiduciata, e di avere mollato il colpo, girando le spalle ad André e poi, voltatasi nuovamente verso di lui, con uno scatto felino si gettò a terra, cingendogli le ginocchia in una morsa: André, preso alla sprovvista, cadde in avanti, e, per non rovinarle addosso, istintivamente aprì le braccia, per appoggiare le mani a terra, lasciando il libro, che cadde pochi passi lontano.
"Mio!", disse Oscar, trionfante, recuperandolo.
"Oscar, io..:"... André ora era ammutolito, mortificato, senza più forze per opporsi. E se ora la notizia fosse arrivata sino alle orecchie del Generale ... beh, che lo cacciassero pure! Non avrebbe negato! Mai!
"Jean-Jacques Rousseau, "Il contratto sociale. Seguito dal "Saggio sulle origini della disuguaglianza fra gli uomini....:[7]", sillabava Oscar. E dopo un attimo: "Ma questo è un libro proibito, André!".
"Sì..."
Oscar aveva sentito più volte, a tavola, i discorsi in cui l’abbé riversava nelle orecchie del Generale tutto il disprezzo per quell’autore “pagano, senza Dio, immorale”, quel Rousseau che la bocca dell’Inferno attendeva da troppo, troppo tempo, e che troppi danni aveva già recato al gregge del Signore, instillando nelle anime deboli idee perniciose che le avrebbero condotte a meritare i castighi eterni.
"Ed è un libro sconcio? Dimmelo: è proibito perché è osceno? Immorale?". Oscar insisteva: sembrava incuriosita e divertita. "Ma potevi dirmelo!”, aggiunse. “L'avremmo letto insieme, divertendoci un sacco: ti ricordi che grasse risate ci siamo fatti con il Decameron? Anche se il fiorentino del 1300 era tutt'altro che facile, e non sempre capivamo subito che cosa ci fosse da ridere ..."
"Mi dispiace molto deluderti, Oscar: questo libro non è né sconcio né osceno; e sì, per qualcuno è immorale, perchè è immorale che i poveri aprano gli occhi sulla loro condizione", disse André, coprendo la distanza di pochi passi che li separava, e riprendendosi il libro con un gesto fermo e deciso, cui Oscar non seppe opporre resistenza.
Piuttosto, vedere il suo amico e compagno di giochi e di studio farsi improvvisamente così serio e severo la fece ammutolire. "André, io....", cercò di dire. "E se vuoi denunciarmi, fare la spia, ovvero dirlo all'abbé, o al Generale, fa' pure: ti capisco". E con la più perfetta quiete, si sedette, dignitoso e tranquillo, al suo banco, rimettendo il libriccino sotto al quaderno, e strappando via la pagina macchiata, prima di rimettersi al lavoro, senza alzare più gli occhi su di lei.
Oscar era impietrita, le braccia lungo i fianchi, i pugni chiusi, un'espressione mortificata nel volto. "André ... io ....", ripeté, ma le parole che avrebbe voluto dire non le uscirono di bocca.
Orgoglio?
Comprensione, oscura e larvata, che in quel libro ci fosse qualcosa di troppo importante per renderlo oggetto di una lite bambinesca?
" Io non dirò nulla, né all'abbé né a mio padre. Mai", sussurrò. E, senza più proferire una sola parola, si sedette anch'ella al suo banco, impugnando la penna d’oca per tornare al suo lavoro, e lanciando ogni tanto, di sottecchi, qualche sguardo preoccupato ad André, quasi sollevata del fatto che guardasse fisso sul suo quaderno e sul suo Virgilio, e non si rendesse conto che gli occhi azzurri di lei, chi sa perché, si erano riempiti di grosse lacrime a stento trattenute.
 
 
[1] Cfr. T. Tasso, Gerusalemme Liberata, XIX, 1, 1-4.
[2] Il particolare ritornerà, scherzosamente evocato, da Françoise, la nipote di Oscar, in Viaggio nel passato, durante la gita a Chartres con André e Fersen, e ancora più scherzosamente le darà risposta André.
[3] Cfr. T. Tasso, Gerusalemme Liberata, XIX, 13.
[4] Cfr. T. Tasso, Gerusalemme Liberata, XIX, 28, 7-8.
[5] Nel quarto libro del poema Virgilio narra l'amore fra Enea e Didone, l'abbandono della regina da parte dell'eroe e il suicidio di lei. I versi scelti da André riguardano proprio l'unione fra i due innamorati, che si consuma quando, nel corso di una tempesta che li ha sorpresi durante una uscita a caccia, essi trovano riparo in una spelunca, in una grotta, e che Didone equipara a legittime nozze. Non proprio il boschetto con le lucciole in una calda nottata estiva, ma mi piaceva immaginare André alle prese con questo passo poetico. Non ho controllato se ancora nel Settecento circolassero edizioni censurate di Virgilio per uso scolastico (nei collegi suppongo di sì), ma immagino che il Generale non si curasse di queste piccolezze, e avesse predisposto, per il figlio ed erede e per il suo futuro attendente, educati in casa, due copie di Virgilio senza tagli o censure.
[6] Nel quarto libro delle Georgiche Virgilio racconta (vv. 125-147) la vita semplice di questo anonimo vecchio di Corico, che coltiva con dedizione il suo piccolo podere, e non manca mai di nulla, ed anzi, "era il primo a cogliere la rosa in primavera"(v.134): inutile dire quanto mi piace immaginare André suggestionato da questa immagine; a mia volta, mi piace pensare André intento a curare e coltivare delle rose, magari bianche, come accenno in Viaggio nel passato.
[7] Il contratto sociale venne pubblicato per la prima volta nel 1762; Il Saggio sull'origine della diseguaglianza fra gli uomini, nato come la risposta a un bando di concorso emesso dall'Accademia di Digione nel 1745, apparve a stampa nel 1755. Immagino qui che André si sia procurato una edizione che accorpasse le due opere, iniziando a leggere, com'è naturale, per un bambino, se pure precoce, dalla seconda, più semplice e accessibile.

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Capitolo 3
*** II ***


II .
Ottobre 1788
1.
La fiamma dell'ultima candela nel candelabro si era spenta da molto tempo, ma Oscar non era riuscita a dormire. Allungata sulla poltrona accanto al letto dove André ancora non aveva ripreso conoscenza, cercava di cogliere, nel buio, la sagoma del suo corpo, ingiuriato, pestato, ferito dai rivoltosi che li avevano aggrediti in Saint-Antoine, e che erano stati a un passo dall'ucciderlo, impiccandolo a una forca improvvisata.

"Se le forze non me lo avessero impedito, sarei andata io a salvare il mio André", si era ripetuta tante volte quella notte.

        E invece, a salvarlo era stato Fersen: dopo che i ribelli li avevano aggrediti - che follia avventurarsi per Parigi su di una carrozza con uno stemma nobiliare della famiglia Jarjayes in bella vista! -  si ripeté, amara - erano stati separati; lei, dopo essere stata malmenata, percossa, gettata a terra da quella folla inferocita e come impazzita, era riuscita a rialzarsi, salvandosi dal rischio di essere calpestata, e, dopo aver lanciato uno sguardo terrorizzato al corpo inerte del loro cocchiere, contratto sul selciato in una posa innaturale, col volto sfigurato, aveva stretto, ancora confusa e terrorizzata, la mano amica che le veniva tesa, e, sorretta da una figura possente e rassicurante, aveva trovato riparo in un vicolo coperto, di quelli che si raggiungevano scendendo qualche gradino, al di sotto del livello stradale, e che bordeggiavano la Senna. Solo in quel momento aveva realizzato che André non era con lei. E poi, una volta realizzato che era stato Fersen ad averla ritrovata e soccorsa mentre giaceva in mezzo alla strada, ad averla tratta in salvo, sorretta, aiutata a scendere quei gradini umidi e sporchi, lei, folle di un'urgenza che non sapeva nemmeno da dove potesse venire, aveva cercato di divincolarsi dalla stretta di lui, che la voleva tenere al sicuro, gridando: "Il mio André è in pericolo!"; stupendosi subito dopo, lei, insieme con Fersen, di quella ammissione imprevista, di quella confessione del cuore gridata nell'immediatezza irriflessiva di un momento di rischio, così grave come non l'aveva mai corso prima.


E poi, era stato Fersen ad andare a ritrovare André, assicurandosi che Oscar restasse al sicuro, salvandolo dalla dalla marmaglia che voleva impiccarlo, attirando dietro di sé la ferocia di quella bestia impazzita che era diventato il popolo parigino, dichiarando il suo titolo e suscitando lo sdegno di quei rivoltosi, che lo avevano riconosciuto come l'uomo che la voce della feccia indicava quale amante della Regina - come se fosse una colpa degna di disprezzo coltivare un amore impossibile -, e che lo avevano seguito in frotta, lanciandosi in corsa, armati di bastoni e forconi, dietro al suo cavallo.


        E una volta che il reggimento dei Dragoni al comando di Fersen aveva disperso quei rivoltosi, il Conte era tornato sui suoi passi, e aveva soccorso André, che, ancora in ginocchio, cercava di liberare le mani, legate dietro la schiena; quindi, affidato André al suo sottoposto, Fersen era venuto da lei, tendendole la mano.

"André è salvo: venite con me, Oscar". E lei, che era scivolata a terra, la schiena contro quel muro che sapeva di muffa e di urina, si era rialzata, con fatica, ed era salita sull'anonimo fiacre che Fersen aveva fatto in modo di procurare loro, e su cui c'era già André, il suo André.

Fersen non aveva consentito che tornassero a Palazzo Jarjayes: "Non posso permetterlo, Oscar: il tragitto da qui alla vostra dimora è troppo lungo per un uomo provato e ferito come André, che potrebbe avere delle costole incrinate. Non consentirò che i sobbalzi del fiacre gli arrechino più dolore e lo facciano rischiare per un solo passo più del necessario e più quanto non abbia già sofferto e rischiato. Vi ospiterò io, nella mia casa alle porte della città, almeno fino a quando il mio medico personale non vi avrà visitati e non vi avrà prestato le prime cure: anche voi avete bisogno di assistenza, Oscar".
"Grazie, Hans", aveva annuito debolmente lei, chiamandolo, per la prima volta in tanti anni, per nome, mentre lui la aiutava a salire, dolorante e ammaccata com'era, i gradini del fiacre.
        Poi, Fersen aveva percorso il tragitto, invero non particolarmente lungo, che li separava dalla sua casa parigina, cavalcando affiancato al fiacre, e lanciando, ogni tanto, con discrezione, attraverso il finestrino con le tendine rimaste incurantemente aperte, certo dal precedente viaggio di quella carrozzella sgangherata, uno sguardo intenerito a Oscar, che, sullo stesso sedile di André, se lo teneva abbracciato stretto, le nocche persino bianche per lo sforzo di cingergli le spalle con tutte le sue forze, come se non lo volesse più lasciare. A un certo punto Oscar aveva anche cercato di distendergli le gambe troppo lunghe sul sedile, e, mentre lui gemeva per le ferite - il medico personale di Fersen avrebbe confermato che aveva tre costole incrinate-, lei, piangendo senza singhiozzi, senza una parola, si teneva la sua testa in grembo, e gli accarezzava piano le guance, i capelli, gli occhi, con tenerezza e delicatezza più che materne.

Nonostante la circostanza drammatica e il rischio enorme che avevano corso, Fersen aveva gioito per lei, stupito di quella consapevolezza che aveva visto emergere repentina -  lasciando Oscar stessa meravigliata per quanto le era uscito di bocca - , ma al contempo felice, che almeno lei avesse trovato una grande gioia, anche se questo accadeva nello sfacelo del mondo che avevano conosciuto e che li aveva cresciuti.
 
2 .
 Un tocco leggero sulla spalla la riscosse dai suoi pensieri; si volse e vide, torreggiante, la figura di Fersen, in abito da casa, la camicia candida che spiccava nella penombra, mentre reggeva un doppiere, le cui fiammelle illuminavano l'espressione gentile del volto dagli occhi pervinca.

Quante volte lei e Fersen si erano toccati? rifletté subitamente lei. Mai, quasi mai. Prima di sfiorarle la spalla in quel momento, e di prenderle la mano quella sera, poche ore prima, nel vicolo, per aiutarla a rialzarsi, e poi per guidare i suoi passi malcerti mentre saliva sul fiacre, era successo solo una volta, una sera, poco prima che Hans si imbarcasse per l'America: dopo una giornata trascorsa insieme a lui e ad André, come spesso accadeva a Fersen, quando la notte era stata troppo solitaria e troppo tormentata da sogni angosciosi, o troppo felice per le ore rubate insieme alla Regina, e la realtà delle ore baciate dal sole si rivelava, per contrasto, insopportabilmente arida, erano andati a bere a Parigi, su richiesta di Fersen stesso, che voleva a tutti i costi visitare una certa taverna di cui André gli aveva parlato in chi sa quale occasione.

        André, sempre premuroso, anche con chi avrebbe avuto tutte le ragioni di detestare, aveva prestato all'amico una delle sue marsine di ruvido fustagno, perché, lo sapeva bene, come non lo ignorava nemmeno Fersen, il conte venuto dalla Svezia stava diventando famoso, anzi, sconciamente famigerato tra il popolo. E lei, Oscar - lo ricordava con rammarico e quasi con vergogna - si era incantata a osservare quell'indumento dal taglio e dal colore noto, teso dalle spalle possenti di Fersen, un poco più alto e più robusto di André, sperando che il conte non cogliesse quegli sguardi in tralice che lei gli lanciava, levando gli occhi furtiva, compostamente seduta, con le gambe accavallate e le mani in grembo, nemmeno fosse una delle sue sorelle, educate in convento a mantenere sempre una postura degna di una nobildonna.

"Ma André, lui, li vedeva; lui li coglieva quegli sguardi", pensò, inghiottendo una lacrima salata, che le aveva rigato la guancia ed era finita sull'angolo delle labbra. E si sentiva colpevole.

        Poi, ricordò, in quella taverna, sudicia, ma dall'atmosfera chiassosamente allegra, dove si serviva dell'ottimo sidro, fra le mani di Fersen era capitato, dimenticato da chi sa chi proprio al tavolo dove avevano preso posto, un libriccino dalla copertina sudicia. "Gli scandalosi amori della Regina Scellerata[1] e del conte di Fersen", si intitolava. Quella stampa volgare circolava con grande successo, a Parigi e in tutta la Francia: persino Jeanne Valois aveva scritto in proposito, cercando in tutti i modi di imbrattare il sentimento che univa la sua Regina a Fersen. E mentre quest'ultimo sfogliava le pagine, in silenzio, gli occhi gli si erano riempiti di lacrime. Oscar allora gli aveva sfiorato la mano, e lo sguardo pervinca di Fersen aveva incrociato quello color fiordaliso di Oscar, che sedeva alla sua destra, e che gli faceva cenno di chiudere quel libro e di non affliggersi.

Lei, quel tocco, se l'era sognato la notte; e nonostante si sentisse colpevole, nonostante sapesse sin troppo bene che in quel momento un buon amico avrebbe dovuto solo consolare Fersen dal suo dolore, senza secondi fini meschini, senza pensare a sé, quante volte aveva fantasticato che in quel momento Fersen le stringesse la mano, a sua volta, e poi che si avvicinasse a lei, che la abbracciasse, e infine la baciasse; e questo, senza pensare ad André, lì presente, sotto i cui occhi si sarebbe dovuta svolgere  quella scena.

Che follia! Come non aveva potuto capire?

Quante volte si era sognata di Fersen, la notte?

 Quante volte aveva pensato a lui, stesa nel suo letto, immobile sotto le lenzuola di lino rigide e immacolate, senza pensare ad André, nell'altra stanza, a pochi passi da lei?

Come aveva potuto attendere la rivelazione improvvisa e violenta di quella sera di fine inverno, mesi prima, per rendersi conto dei sentimenti di André?

E come aveva potuto essere tanto cieca da dover attendere quella sera d'autunno, per comprendere i propri?

Che cosa era accaduto in tutti quegli anni?

Che cosa era successo alla spontaneità, alla immediatezza di sentimenti con cui erano cresciuti?

Poi, certamente, c’era stata la sera del ballo, di quel ballo....ma preferiva dimenticare quelle ore, preferiva pensare a quella notte penosa come a un momento in cui non era stata lei, ma un’altra lei stessa, una Oscar come mascherata, a venire stretta fra le braccia di Fersen, che le parlava del Colonnello Jarjayes come del suo “migliore amico”; come, del resto, preferiva dimenticare la penosa, dolorosa, ultima visita di Fersen a Palazzo Jarjayes, mesi prima, e il suo polso stretto nella mano di lui, l’umiliazione, la staffilata al centro del petto cui aveva cercato di sottrarsi fuggendo via, sotto gli occhi di André. Perché lui c’era. Anche lì, anche in quel momento.

Lui, André, c’era sempre stato.

Singhiozzò.

"Oscar, venite a letto, vi prego: fa freddo, e anche voi siete ferita". Il tono di Fersen, caldo e premuroso, non bastò a convincerla.
"Non ... non vorrei che André si svegliass .... "

"Resterò io a vegliarlo, per voi, Oscar. Andate a stendervi, ora".

"Non vorrei che si svegliasse senza che io fossi presente...", le uscì di bocca in un empito di sincerità.

"Non si sveglierà, Oscar", rispose, pacato, Fersen; "Il mio medico, il dottor Ferrière, gli ha somministrato una cospicua dose di laudano, per lenire i dolori delle fratture. Quando domani si desterà, il sole sarà ormai alto, e voi sarete sveglia, accanto a lui. Venite".
Oscar si era alzata, e l'aveva seguito, non senza portare con sé un libriccino che aveva tenuto a lungo in grembo, senza essere riuscita a leggerne una sola pagina, nemmeno quando le candele illuminavano la stanza, nelle ore precedenti, decidendosi infine solo dopo aver fatto appello a tutto il suo coraggio, e che ora aveva messo nella tasca della vestaglia maschile prestatale da Fersen, insieme a una delle sue camicie da notte, dopo che era stata visitata e medicata dal dottore personale del conte.


3.
 
Quando il fiacre era giunto alla dimora di Fersen, infatti, il conte era smontato da cavallo, e aveva aiutato Oscar a scendere da quella scomoda, piccola carrozza, mentre il suo fedele e affezionato precettore, Monsieur Gustavsson, insieme con due valletti accorsi in fretta e furia, sorreggevano André, semi-incosciente.

Poi, Fersen, che nel suo peregrinare per i vari Paesi europei aveva, fra l'altro, studiato medicina in Italia, aveva fatto distendere André sul suo letto, e lo aveva visitato, riscontrando almeno tre costole incrinate, diagnosi confermata dal Dottor Ferrière, il suo medico personale, fatto chiamare con urgenza, e accorso poco dopo. Oltre alle costole incrinate, il medico aveva rilevato un braccio rotto, molte contusioni, escoriazioni varie.

Oscar, da parte sua, non aveva potuto essere persuasa a farsi visitare sino a quando non fosse stata informata della condizione di André; ma, una volta rincuorata sul suo stato, si era  ritirata con il medico nella stanza che Fersen le aveva destinato: oltre a un taglio, vasto ma non profondo, alla testa, poco sopra la tempia sinistra, e a un altro brutto taglio al palmo della mano destra, causato dallo sfregamento con i ciottoli appuntiti della strada, quando era stata calpestata da uno dei rivoltosi, che le aveva schiacciato la mano con lo zoccolo, aveva solo un vasto ematoma sul seno, dove aveva ricevuto dei calci feroci da uno dei ribelli, e, ovviamente, lividi dovunque.

Fersen l'aveva fatta assistere da due delle cameriere di casa, che l'avevano spogliata, aiutata a ripulirsi dal fango e dalla polvere di quella nottata, le avevano fatto delle spugnature calde, l'avevano rivestita con una camicia da notte e una vestaglia del conte, le avevano spazzolato i capelli, fasciato la testa e la mano, spalmato un cataplasma sul seno offeso; dopo di che, Oscar era riapparsa nel salottino che faceva da anticamera alla stanza assegnatale, dove Fersen la attendeva in poltrona. Come la vide, il Conte si alzò, e adeguandosi alla muta richiesta dei suoi occhi, la riportò, con un candeliere in mano e seguito dalla governante, nei suoi appartamenti privati, davanti al letto dove giaceva André, anch'egli spogliato dell'uniforme, con addosso soltanto una veste da notte leggera, coperto da un lenzuolo e da una leggera coperta, il viso in parte oscurato dai ciuffi d'ebano dei capelli, in parte da un grosso livido sullo zigomo destro e da un taglio sul labbro inferiore, gonfio e tumefatto. Oscar avrebbe voluto stringerlo a sé, ma lo stato penoso in cui versava le fece temere di recargli dolore, e così si sedette, o meglio, ricadde, stremata, nella  morbida poltrona imbottita e rivestita di seta verde a lato del letto.

"Oscar, vi lascio qui: se avrete bisogno di qualcosa, una cameriera sarà per tutta la notte nell'anticamera, pronta a soddisfare ogni vostra esigenza".

"Grazie, Hans", rispose lei, in un soffio, senza però staccare gli occhi da André.

Come la porta della camera si richiuse alle sue spalle, iniziò a piangere, e, presa la giubba da soldato di André, rimasta appoggiata su uno sgabello imbottito accanto alla poltrona, strinse quel tessuto come avrebbe voluto stringere André, intridendolo delle sue lacrime e annusando l'odore del suo sudore, del suo sangue, forse anche della sua paura.

Poi, si rese conto che nella tasca interna  dell'uniforme c'era qualcosa di duro e solido, di forma rettangolare: sciolse il laccio che chiudeva la tasca, e ne tolse un piccolo libro, dai margini consunti, segnato dal tempo e dalle tante letture: Il contratto sociale. Seguito dal "Saggio sulle origini della disuguaglianza fra gli uomini"...

Immediatamente, il pensiero corse alla mattina di una primavera lontana, a una lite fra una ragazzina, odiosa e petulante, e il suo compagno di giochi e di studi, sempre così generoso, misurato e gentile.

Sfogliò le pagine, fittamente sottolineate e annotate ai margini: all'inizio di ciascuna delle due opere, André, con la sua grafia chiara e precisa, aveva annotato una data, con tutta probabilità quella del giorno in cui aveva cominciato la lettura: Il contratto sociale, più lungo e forse più complesso, recava scritto sul frontespizio: 4 maggio 1769: il giorno del suo duello con Girodelle, pensò Oscar. Invece, il "Saggio sulle origini della disuguaglianza fra gli uomini" era stato iniziato il 18 marzo 1767, pochi giorni prima di una lite in sala studio che lei ricordava ancora benissimo.
 
Oscar deglutì, e iniziò a leggere.
 
        Mesi addietro, nel salotto del Duca d'Orléans, uno dei giovani intellettuali che le avevano fatto corona attorno, prima che, scesa nelle cantine, venisse tramortita e rapita, si era rivelato stupito e costernato del fatto che si fosse dichiarata lettrice di Virgilio e di Catone, dimostrando di ignorare il pensiero dei "nuovi sofi" che diffondevano il verbo della Libertà e dell'Eguaglianza; e, di conseguenza, quel ragazzo entusiasta, nelle cui parole sembrava vibrare lo spirito dei tempi nuovi, le aveva consigliato di leggere Montesquieu, Voltaire, e, soprattutto, Rousseau.

“La vostra conoscenza della lingua latina è stupefacente, Colonnello de Jarjayes; nondimeno, penso che voi dobbiate assolutamente leggere Rousseau, Il discorso sull’origine della diseguaglianza fra gli uonini, aveva detto, pieno di entusiasmo.

Anche lui.

Buffo, no?

“Scoprirete così che il mondo non è fatto soltanto per gli aristocratici!”, aveva chiosato quel giovane pieno di ottimismo verso il futuro.  E, poi, in un sussulto, con gli occhi sfavillanti, aveva aggiunto:

 “Ci chiamano sovversivi! Ma io direi piuttosto: “liberali”.

 Noi siamo i fiori selvatici nati ai margini dei giardini ben curati della nobiltà!

 La musica, la letteratura e l’educazione, invece, sino ad ora sono stati dei fiori non sbocciati.

 Ma noi li faremo fiorire, e crescere rigogliosi e forti;

 noi faremo seguire ai fiori i frutti;

noi riusciremo a portare questa Nazione dalle tenebre dell’ignoranza a una nuova alba, fatta di giustizia e di equaglianza!”[2].

Lei aveva letto Rousseau, certo, La novella Eloisa, e ne aveva ricavato un languoroso malessere, una malinconia sulle cui radici non aveva voluto indagare; i suoi deboli tentativi di analizzare il perché di tanto doloroso sconcerto, mentre gli occhi le scorrevano sulle pagine, si erano infatti infranti contro gli argini accuratamente levati, contro i muri costruiti silenziosamente dal Generale, dai suoi precettori, financo da Nanny, nella sua affettuosa semplicità; oltre che da lei stessa, beninteso: muri resistenti, più del vallo di Adriano, o delle difese poste a protezione degli accampamenti da Cesare, di cui infinite volte aveva tradotto, poco più che bambina, interi capitoli all'impronta, sotto gli occhi compiaciuti del padre e dell'abbé Armand.

Adesso, ogni difesa, ogni argine, ogni muro erano crollati di schianto.

Sfogliò le pagine, cercando, alla debole luce, i passaggi sottolineati da lui.

Posò gli occhi, velati di lacrime, sulla Prefazione: "Guardando la società umana con uno sguardo freddo e spassionato, dapprima essa sembra non mostrarci altro che la violenza degli uomini potenti e l'oppressione dei deboli. Lo spirito si ribella alla durezza degli uni e si è inclini a deplorare l'accecamento degli altri; e siccome nulla fra gli uomini è meno stabile di queste relazioni esteriori prodotte più spesso dal caso che dall'intelligenza, e che si chiamano degolezza o potenza, ricchezza i povertà, le istituzioni umane sembrano, a prima vista, fondate su monticelli di sabbie mobili"[3].

Il caso aveva fatto nascere lei nella condizione di contessa, in una famiglia ricca e vicinissima alla Corona; il caso aveva fatto nascere André, dotato di un ingegno e di una intelligenza non meno acuti e vivi dei suoi, e tale da poter essere confuso, se non fosse stato per l'abbigliamento, con un nobile, nella casa di un falegname, che era morto giovane, lasciandolo orfano e senza mezzi; il caso, e la singolare decisione di suo padre, li avevano fatti incontrare e crescere insieme.

André, che non veniva da una schiatta di sopraffattori, aveva patito il sopruso, e la violenza, per lei, solo per lei; e aveva sperimentato la violenza degli uomini, con bruciante frequenza, negli ultimi mesi, senza averne colpa; se mai, la colpa era tutta sua, di lei, Oscar, se davvero era una colpa nascere figlia di un ufficiale inebriato dalla nobiltà del suo casato, e desideroso di rendergli prestigio con ogni suo atto, a costo di sacrificare a tale causa se stesso e i suoi familiari...

Adesso Oscar leggeva passi alla rinfusa, la testa e il cuore in fiamme, l'animo in subbuglio:

"Mandeville si è ben accorto che con tutta la loro morale gli uomini non sarebbero mai stato altro che dei mostri se la natura non avesse dato loro la pietà in appoggio alla ragione": quei mostri feroci, privi di umanità, che li avevano aggrediti, lasciando sul selciato un morto innocente, colpevole solo di guadagnarsi il pane guidando la carrozza di una contessa, conoscevano forse il sentimento tutto umano della pietà, o non erano forse regrediti al livello delle bestie?

Conoscevano forse la pietà connaturata all'essere umano quei “figli del popolo”, quei soldati che in caserma avevano, pochi mesi prima, pestato selvaggiamente André, tendendogli un agguato vigliacco, in cinque contro uno, soltanto perché avevano scoperto che per vent'anni era stato al suo servizio, al servizio di una nobile, come attendente?

Quei giovani idealisti, che diffondevano le nuove idee dei philosophes, sapevano che oltre alla ragione avrebbero dovuto aver cura di inculcare nel popolo la pietà?

"Il primo uomo che, avendo cintato un terreno, pensò di dire "questo è mio”, e trovò delle persone abbastanza stupide da credergli, questo fu il vero fondatore della società civile. Quanti delitti, quante guerre, quanti assassinii, quante miserie ed errori avrebbe risparmiato al genere umano chi, strappando i pioli o colmando il fossato, avesse gridato ai suoi simili: "Guardatevi dal dare ascolto a questo impostore! Se dimenticate che i frutti sono di tutti e la terra non è di nessuno, siete perduti!".

André era stato per tutta la vita al servizio di una famiglia nobile, una famiglia che godeva di privilegi secolari, tanto inveterati da sembrare naturali, una famiglia in possesso di enormi ricchezze, che lui non avrebbe mai potuto guadagnare nemmeno in dieci vite di lavoro indefesso: eppure, André non aveva mai coltivato il livore, e non aveva mai pensato che lei, o i suoi familiari, fossero dei nemici cui contrapporsi; non le aveva mai negato il suo aiuto, il suo sostegno, mettendo a rischio la sua persona, gentile, generosa, ma priva di mezzi, per lei, che aveva tutto, e che spesso, lo comprendeva, aveva dato per scontato il suo aiuto e la sua presenza.

E quando lei aveva sospettato che, nelle sue lunghe assenze notturne, André vestisse i panni del Cavaliere Nero, per rapinare le case dei nobili, forte della conoscenza di quelle dimore che poteva avere solo il fidato servitore di un aristocratico, del Colonnello Jarjayes, un servitore aduso a entrare, con il suo padrone, nelle magioni più fastose di Parigi, lui, senza adirarsi, l'aveva portata a una delle riunioni che frequentava, in quella Chiesa sconsacrata, dove Oscar aveva riconosciuto, con sommo stupore, malamente mimetizzati sotto cappucci e mantelli, insieme a esponenti del popolo, anche alcuni nobiluomini che, fino alla sera prima, aveva visto caracollare con grazia a Corte, imparruccati e incipriati, sulle note di un minuetto.

E poi, dopo che l’aveva condotta a quelle riunioni, mettendola, in fondo, a parte di un segreto che poteva costargli caro, dopo che l’aveva resa partecipe di quello che gli stava più a cuore, le aveva detto, quasi accorato, nella calda luce di un limpido tramonto invernale: “Mi spiace dirtelo, ma credo che fra poco i nobili passeranno dei momenti non molto belli”.


E lei, lei come lo aveva mortificato? “In questo caso, non dovrai preoccuparti, André: tu non sei nobile”.

Glielo aveva detto senza dare segni di emozione nella voce, dandogli volutamente la schiena, mentre sorbiva il suo caffè dalla chicchera di finissima porcellana di Sèvres.

André non era un nobile: non aveva nulla da temere, lui, no?

Eppure, per lei, per aiutarla nella sua caccia al Cavaliere Nero, e per venire a salvare lei, il Colonnello Jarjayes, nobile, ricca, bene introdotta a Corte, erede di una fortuna fra le più cospicue di Francia, André aveva perso l'occhio sinistro.

André non era un nobile: non doveva temere i figli del popolo come lui, no?

Eppure, per la sola colpa di essere stato per vent'anni alle sue dipendenze, era stato selvaggiamente pestato dai commilitoni; e, quando lei si era chinata su di lui, sotto lo sguardo di Alain, non gli aveva sentito uscire dalle labbra parole che la maledicessero, che la insultassero; solo un flebile, "Oscar, non sposarti", sussurrato fra le lacrime, che aveva chiarito, ad Alain quale tipo di sentimento legasse il suo nuovo, malinconico e silenzioso amico al biondo comandante arrivato da poco ad aizzare gli odi nella compagnia B dei Soldati della Guardia; a lei, che quell'amore disperato, e per troppi anni compresso, che André le aveva dichiarato con violenza quella notte di fine inverno, non era ancora cancellato dal suo cuore gentile e generoso.

Eppure, mai una volta André aveva recriminato, o l'aveva accusata, mai una volta l'aveva giudicata col metro severo che ormai andava di moda adottare a prescindere, sempre e comunque, nei confronti dei "dannati aristocratici".

André non era un nobile: non doveva avere paura, ad aggirarsi per Parigi in piena notte, no?

        Eppure, solo per il fatto di sedere con lei in una carrozza recante uno stemma nobiliare, aveva rischiato di morire, nel più brutale dei modi. E, tuttavia, anche in quei frangenti, mentre la folla impazzita li allontanava l'uno dall'altra, mentre lei, Oscar, gridava che André non era un nobile, che sfogassero su di lei la rabbia bestiale che li muoveva, l'aveva sentito distintamente gridare di prendere lui, e di lasciare libera lei, nonostante fosse una aristocratica, una esponente di quella odiosa categoria di sopraffattori a dispetto dei quali anche André, certo, sognava di creare un mondo nuovo.

André per lei aveva perso un occhio; le aveva consacrato la vita; l'aveva protetta, accudita, salvata, in innumerevoli occasioni; era stato percosso e picchiato per lei; l'aveva amata in silenzio per anni e anni, senza mai poter nutrire speranza alcuna, e, anzi, osservandola struggersi per Fersen sotto i suoi occhi, soffocando quello strazio nel suo cuore; e tutto questo, senza mai farle una colpa di essere nata nella casa e nella famiglia dove il destino l'aveva collocata; infine, quella notte aveva rischiato di morire per lei: troppo, troppo, troppo per un solo uomo.

Oscar sospirò, affranta, e il fiato le bruciava nei polmoni.

Era sempre stata una allieva brillante, che assommava a una indubbia intelligenza, sempre lodata da tutti i suoi maestri, le doti dell'ubbidienza e della diligenza. Aveva sempre fatto, al meglio, con prontezza e precisione, tutto quello che le avevano chiesto e ordinato di fare, aveva compiuto ogni dovere di cui fosse stata caricata, senza chiedersi perché, ma solo sforzandosi di rendere orgoglioso di lei suo padre, il Generale, di farsi onore, e di onorare la sua casata.

Aveva sempre saputo che esistono sentimenti, atti, comportamenti, leciti, e commendevoli, e altri illeciti e biasimevoli, e pertanto vietati; e lei, come ogni buon soldato, era stata brava e ligia, riscuotendo sempre encomi, per la precisione e perfezione con cui aveva portato a termine i compiti e gli incarichi assegnatile, quali che fossero.

Quanto al giusto e all’ingiusto, o meglio, al lecito e all’illecito, era stata da sempre educata con severità e rigore a discernerli, o, meglio, a obbedire, attenendosi senza contestazioni alla distinzione inculcatale da chi, più anziano o superiore a lei per autorità, le indicava la divisione, netta come un colpo di spada, fra quel che si doveva e quel che non si doveva fare; e così, c'era sempre stato chi le aveva insegnato che c'erano letture lecite, e anzi consigliate, e letture proibite. E se poteva anche, per una volta, sgattaiolare nella biblioteca di notte, arraffare uno di quei libri vietati, perché osceni e divertenti - ma quanto più sovversive sono certe idee, rispetto ai buffi contorcimenti amorosi che strappavano un sorriso! - e leggere poi quelle pagine con il cuore in gola, consapevole di avere commesso una marachella, ridendo, magari, insieme con André, per le buffe oscenità del contenuto, non doveva nemmeno pensare di poter contestare quanto stabilito per la vita: c'era il bianco e c'era il nero, ed era assolutamente necessario tenerli ben distinti.

Il grigio, quella vasta scala di grigi che era diventata la sua vita, non era contemplato, allora.
Adesso, però, pensava Oscar, la lezione era davvero finita.
Quella era la lezione di André.
 
 
Ed ecco qui, la fine della storia. Ritorna il libro di Rousseau, che compariva in “Rosa di Compleanno”, e che qui ha ben altro peso e ruolo; ritorna il ricordo di una serata passata in taverna, a bere, di sguardi furtivi a Fersen che indossa una camicia e una marsina di André, come racconto in “Praticamente, due imbecilli” -e su cui per la prima volta Oscar punta lo sguardo interessata; ritorna il ricordo, o meglio, la consapevolezza – vissuta adesso con senso di colpa e rammarico, quasi con vergogna - dello sguardo di André, che segue sempre, con dolore, gli occhi di Oscar; troviamo una Oscar che ricorda, ormai, senza più nostalgia né desiderio, il tocco di Fersen (per inciso: stavo dimenticando – e me lo è stato fatto notare, il ballo! Ma per me, lì, Oscar, non è lei, non è quella che conosco e amo, non la ri-conosco); non ricorda, Oscar, il bacio leggero ricevuto da Fersen, con cui chiudo “Praticamente, due imbecilli”, perché in quel momento eè incosciente, non in sé. Ritorna, soprattutto, il tema della sofferenza di André, sofferenza incolpevole, che non è solo morale, ma anche molto fisica, e nonostante la quale, come ha sempre fatto con Fersen, non ha dimenticato il senso di umanità e di pietas, verso i suoi simili, quali che siano, di ogni ceto e provenienza sociae. Perchè, pure chi simpatizza per la rivoluzione non dovrebbe dimenticare che anche i nobili sono uomini, con pregi e difetti; perché la bontà e il rispetto si incontrano fra gli aristocratici come fra i soldati della guardia; perché, se i libri aiutano a capire il mondo, non è certo sui libri, come faccio dire ad Alain, che si impara a vivere. E Oscar stessa si rende conto che, in quel mondo pronto a esplodere come una polveriera, quello che manca (l’umanità, la capacità di apprezzare e di vedere l’altro nella sua interezza, la comprensione, la capacità di discernimento) non si impara dal precettore. E che forse, il mondo non è solo bianco o nero, ma grigio.
Questa non è la più divertente, non è la più accattivante, non è la più drammatica e nemmeno la più leggera delle mie ff, lo so bene e  ve l’ho detto. Alcune immagini, lo avrete visto, si ripetono da “Viaggio nel passato”, e volutamente: non saprei immaginare diversamente il ritorno dopo i fatti di Saint-Antoine
A chi, nonostante tutto, ha seguito il racconto sino alla fine,leggendo magari tutto il trittico di ff, a chi mi ha dato opinioni e suggerimenti, a chi mi ha regalato il suo tempo, grazie di cuore.
 
[1] Per il titolo di questo immaginario libro mi sono ispirata a La Reine Scélerate (Paris 1989), un saggio di Ch. Thomas, che analizza i pamphlet che circolavano contro Maria Antonietta.
[2] Rielaboro qui liberamente i dialoghi nel salotto del Duca d’Orléans, nell’ep. 27 dell’anime, secondo la versione inglese; del suggerimento ringrazio di cuore Octave.
[3] Cito dalla traduzione di G. Preti in J.-J. Rousseau, Origine della disuguaglianza, Feltrinelli 1992, rist. 2020.

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