Il terzo atto

di Ishouldgoaway
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Il terzo atto ***
Capitolo 2: *** Un nuovo confronto ***
Capitolo 3: *** Muta compagna ***



Capitolo 1
*** Il terzo atto ***


L’unica possibilità accordatagli per assistere ai funerali corrispondeva tristemente alla sola modalità grazie alla quale, negli ultimi giorni, gli era stato possibile tornare a percorrere i lunghi corridoi del palazzo reale per affacciarsi a uno dei numerosi terrazzini e riuscire a scrutare nuovamente il cielo, il fiume che a poca distanza continuava nel suo tacito e ripetitivo scorrere, sempre uguale eppure così mutevole.

La sola via di fuga offertagli nel vano tentativo di non sprofondare nell’abisso della pazzia. Quelle illusioni proiettate dalla mente nel segreto della sua cella, al riparo dai curiosi e spesso irriverenti occhi dei suoi compagni di prigionia, costantemente ansiosi. Desiderosi di poter ammirare il tanto chiacchierato dio degli inganni all’opera. Aspettative quanto più disattese alla vista del giovane uomo assorto tra le pagine di uno dei numerosi libri giunti sorprendentemente sino al luogo considerato spiritualmente più distante da ogni forma di nutrimento per la mente.

Ogni giorno il principe di Jotun si dilettava nella lettura, volutamente ignorando ogni interferenza esterna, intervallato solamente, con regolarità, da quelle visite che, proibite, in segreto, venivano consumate tra le pareti intangibili che lo costringevano in quel buco soffocante.

Giochi di sguardi, consigli commossi, il dispiacere di una madre che vede il figlio consumarsi nell’intimo del proprio animo, assoggettarsi al proprio dolore, alla rabbia di un affetto mai pienamente corrisposto, velato da un’ombra di risentimento celata da chi aveva saputo che quel bambino crudelmente dimenticato tra gli sterili ghiacci di un mondo in rovina, mai sarebbe divenuto figlio di Asgard.

Un profondo lutto aveva permeato l’intero regno, incastrandolo tra le trame di uno stallo pesante, soffocante anche per coloro cui era concesso respirare aria nuova, pulita, riempire i polmoni di ossigeno vero e non di scarti, spiragli ribelli provenienti dagli ambienti superiori.

Un innocente respiro, nato nell’istante precedente attraverso le sue narici, gli era morto nella trachea al solo udire la tragica notizia portatagli dalla voce sconosciuta di una guardia anonima. Era sicuramente affidata a qualche compito in superficie. Mai visto. Da anima alcuna. Lì sotto i soli commenti rivolti alla figura erano stati animati da uno spirito di curiosità, nessuno degli insulti appartenenti al decalogo generalmente riservato ai corpi rivestiti dalle armature dorate si era librato dalle labbra di uno solo dei prigionieri, accompagnando così le grida e i lamenti che permeavano quel luogo costruito tra le ombre.

Subito aveva trovato rifugio tra le figurazioni della mente, nella bramosa ricerca di un riparo che si contrapponesse alla trasparenza dorata della sua prigionia.

Quale crudele condanna concedere agli irrecuperabili pareti invisibili, penosa illusione di una libertà ormai perduta, spietato scherzo per beffarsi di quella punizione alla quale nessuno avrebbe potuto sottrarsi. Nessuno. Nemmeno il dio degli inganni.

Rimase nell’ombra della propria magia persino quando lo stesso Thor venne a fargli visita, mosso da tutt’altro che desiderio di confortare il fratello, di condividere il dolore della perdita. Sceso tra gli ultimi del popolo perché richiamato dalla voce del giovane manipolatore.

Sicuramente non si sarebbe mai rifiutato a un simile gesto, eppure fu in grado di ammettere che quella repentinità nasceva dalla debolezza che l’improvvisa dipartita della madre aveva scatenato nel suo animo. Si riconobbe, per la prima volta, debole. Scavato in profondità da una tragedia che non aspettava di vivere in quelle vesti, e che mai avrebbe sperato così prossima.

Si mantenne dietro il sipario, al riparo dagli occhi del futuro re di Asgard anche quando lasciò la propria immagine incorporea pregarlo, supplicarlo con voce inverosimilmente ferma di lasciarlo assistere, anche soltanto dal fondo del corteo, alle celebrazioni funebri.

L’aveva fatto, lui, orgoglioso, invocando la sua benevolenza e quella di PadreTutto, aggrappandosi a quell’affetto rimasto intatto nell’animo del primo e a quel forte sentimento che lo univa alla madre ormai esanime. Odino non avrebbe potuto ignorare un simile legame, non lo aveva fatto nemmeno in occasione della sua condanna. Aveva prestato ascolto all’amata consorte e risparmiato la vita di colui al quale il Fato aveva inizialmente riservato la morte infantile.

Thor era poi svanito, ricolmo di promesse: avrebbe incoraggiato in ogni modo una concessione in favore del fratello proveniente dalle labbra del sovrano che raramente si discostava dal suo trono.

Lo stesso, dorato, che mai avrebbe accolto le membra fiere del dio degli inganni.

 

L’attesa di un responso l’aveva trascorsa rinchiuso due volte, nella propria cella e tra le grinze del proprio tormento. Una fortezza inespugnabile quanto impenetrabile che non sarebbe crollata se non per qualche breve istante, nelle ore successive.

Era riuscito a camuffare le urla tanto vigorose da graffiargli la gola, a mascherare la desolazione che aveva creato distruggendo quegli stessi arredi che Frigga gli aveva fatto pervenire al fine di rendergli meno opprimente una nuova realtà già sufficientemente avvilente.

Si era asserragliato nella solitudine che lo accompagnava, in uno stato molto simile all’alienazione, in cui l’ultimo frammento di controllo sopravvissuto era appena sufficiente a fare procedere l’illusione.

Seduto sul proprio letto, il solito libro aperto, lo sguardo fisso verso un orizzonte lontano. Nemmeno un suono fuoriusciva dalle labbra, le palpebre sbattevano a mala pena. Una costruzione perfetta, una perfetta elaborazione del lutto, traboccante di tutta la compostezza che il principe era stato educato a mantenere.

Apparenza. Vuota e fredda apparenza. Fredda come i ghiacci su cui era stato ritrovato, come la sua provenienza. 

Lo attese a lungo, voltandosi ansioso ad ogni rumore improvviso, sperando di scorgere il fruscio di quel mantello rosso seguire i movimenti del corpo.

Lo attese a lungo e quasi perse le speranze.

Lo attese giungendo alla conclusione che non sarebbe tornato. Le motivazioni, irrilevanti; che l’intenzione fosse mutata o il sovrano degli dei gliel’avesse impedito, per lui non ci sarebbe stata differenza alcuna.

Poi, improvvisamente, eccolo, vicino, forse troppo, alla parete invedibile ma ugualmente inviolabile per colui che costringeva al proprio interno.

“Sei tornato,” fece parlare la propria immagine. Voce calma, contemplativa, velata da una coltre amara. Il viso ancora rivolto in avanti, mostrando al fratello il solo profilo.

Capì subito il più giovane fra i due. Nemmeno una parola fu necessaria perché quel pensiero giungesse fin dentro la cella. Nessuna manipolazione mentale al fine di leggere le riflessioni private del legittimo erede al trono - rinchiuso là dentro non gli sarebbe comunque risultato possibile.

“Padre ha rifiutato, non è vero?” articolò accompagnandosi a un movimento del capo. Ora gli occhi potevano scrutarsi.

Lo appellava ancora con il nominativo di padre. Pensava realmente a lui come a una figura genitoriale o era un vuoto titolo per riferirsi a tutti gli dei figli suoi?

L’anziana divinità non aveva mai dato prova di comprensione verso le azioni del giovane dai capelli corvini. Portato ai piedi del trono, in catene, egli aveva udito chiaramente le dure frasi a lui dedicate. 

La vita che ancora impregnava ognuna delle sue parti era dovuta soltanto alle intercessioni di quella madre da cui era stato irrimediabilmente separato, quando Odino stesso aveva espresso il proprio risentimento attingendone fino all’ultima goccia per pronunciare una frase che più di qualsiasi altra gli aveva confermato l’identità di reliquia relegata ad Asgard fino al momento in cui si sarebbe finalmente rivelata utile - sarebbe dovuto morire infante, questo il primo diritto accordatogli dal Fato.

Ecco che era stato sufficiente quel preciso istante per decretare la definitiva rottura con quel genitore empio che gli era spettato in eredità. Gli occhi chiari non avevano smesso di scrutarlo, tradendo tuttavia una patina di delusa afflizione a fronte di simili inattese sentenze.

Thor sembrò riflettere, soppesare attentamente la scelta cui si sarebbe affidato. Gli avrebbe dato risposta, oppure avrebbe delegato al silenzio il compito richiestogli?

“Non è vero?” udì ripetere prima che gli fosse concessa la possibilità di prendere una decisione. Tonalità assente, voce dura eppure appena percettibile.

“Odino si è espresso riguardo l’irrevocabilità della tua pena, Loki,”

Tornò a mostrare il proprio profilo. Le braccia appoggiate alle ginocchia a convergere in un intreccio di dita, gli occhi a rivolgersi ad esso. Il libro di poco prima riposto al proprio fianco.

“Non sto chiedendo la libertà,” sentenziò privo di vigore alcuno. A seguito di una breve pausa puntualizzò “Per quanto questa prigionia si riveli quanto più ingiusta di momento in momento,” e scosse lievemente la testa.

Solamente poche ciocche nere assunsero, appena percettibile, una movenza, spostandosi dalle spalle e arrivando a sfiorare il collo pallido.

“Nulla di quello che era in mio potere è rimasto intentato," Immobile, la sua figura fiera e imponente stabile sul quel gradino che l’aveva portato allo stesso piano su cui il dio dell’inganno aveva i piedi poggiati.

Aveva volutamente scelto di ignorare l’ultimo commento del fratello, che del tutto esulava dalla tematica affrontata in un simile momento.

“Eppure non è servito a nulla, non sei stato ascoltato,” 

“Padre ha ritenuto inopportuno fornire la facoltà di fuggire a un prigioniero pericoloso come vieni considerato,”

“C’è altro. Continua,” lo incitò percependo l’incertezza del dio del tuono nel proseguire. Quell’animo tetro era già stato ferito con sufficiente brutalità, tanto che tormentare maggiormente la lesione non avrebbe apportato sostanziali differenze.

“Egli non reputa inoltre adeguato accordarti tale benignità a fronte dei crimini di cui ti sei macchiato," Thor portò a termine la frase con profondo rammarico e Loki sembrò leggergli dentro non appena iniziò a parlare.

“Benignità?” chiese incredulo. L’acredine a dipingergli l’inflessione vocale.

La testa si mosse una seconda volta, ripetendo il movimento appena pronunciato compiuto negli istanti precedenti. Le iridi arrivarono a scavare il pavimento, conficcandovisi nelle trame chiare.

“Benignità?” ripetè, questa volta alzando maggiormente il tono. 

Le gambe si stesero verticalmente, accogliendo interamente il peso del dio vestito di verde il quale iniziò una lenta camminata verso il fondo della stanza che aveva ormai misurato incalcolabili volte - quindici passi di lunghezza per ventuno di larghezza, il risultato di sempre. La nuca a nascondere le fattezze del volto. Le mani nuovamente intrecciate, questa volta dietro la schiena.

“La chiama benignità quando l’unica ad essere implicata è la legittimità,” si perse in una breve risata amara che lo portò a inclinare il capo, per poi riprendere con un’intensità ancora maggiore rispetto a quella di cui precedentemente si era servito, esplodendo in un urlo “Io ne ho il diritto!” che lo portò a voltarsi per sfondare le iridi azzurre di Thor. Una lacrima a tremargli sul bordo dello sguardo. I lineamenti tesi. Le palpebre che non accennavano a un solo movimento.

Il maggiore lo osservò persistendo nella propria immobilità. Gli occhi soli si ridussero a fini fessure.

“Loki,” la voce profonda “basta illusioni,”

Silenzio. Non assoluto, certo. Le urla dei numerosi prigionieri si inseguivano, una dopo l’altra, tra i corridoi, ancora e ancora. Eppure pareva ciò che di più simile alla quiete esistesse per quello dei due che ormai era stato costretto ad abituarvicisi.

Entrambi continuarono a persistere in quella statica lotta costruita attraverso gli scambi visivi.

Loki dunque si rizzò, in quanto precedentemente protesosi verso il fratello, benché da lui distante almeno dieci passi.

Un battito di palpebre prima di riempire la stanza con le proprie parole.

“Entra dunque, affinché possa tu stesso accertarti delle mie condizioni,” si accompagnò da un lento quanto ampio cenno delle braccia.

“Sai anche tu che non mi è possibile farlo,”

“Anche se così non fosse,” cominciò rapido in risposta. “Non lo faresti,”

“Svelati Loki,” pronunciò il dio del tuono a seguito di uno stringato silenzio.

“In modo che la prevalenza dei sotterranei possa contemplare gli effetti che questa perdita ha provocato all’erede al trono di Jotunheim? Non crederai veramente che io lo faccia. Saresti soltanto un illuso,”

“Mostrati," Ribadì ferreo. E il più giovane cedette, immediatamente nonostante le parole appena uscite dalle labbra pallide; ubbidì, chinando il capo e allargando nuovamente le braccia in un largo gesto ancora più teatrale.

Ora mi vedi fratello?1 chiese con voce affranta. “Ti compiaci dello spettacolo che trovi allestito dinnanzi al tuo sguardo?”

Tutto si era dissolto, rivelando la propria natura incorporea, intangibile, confessandosi alla vista di Thor, tutt’altro che incredula. Avrebbe dovuto aspettarselo fin dal principio, si disse in una riflessione che sapeva di una indecifrabile mescolanza di sapori.

Delusione, dispiacere, il tentativo di provare un’empatia fasulla nei confronti di colui che sempre aveva considerato compagno, sangue del suo sangue. Fasulla sì, perché, benché egli riconoscesse come inaccessibili, indecifrabili le sensazioni provate dal fratello, aveva imboccato ugualmente il sentiero del tentativo.

E così tutto si mescolò in un turbinio di confusione, un lutto vivo circondato da un nuvolo di ricordi e afflizione scaturiti da una scena tanto drammatica da rendere possibile all’unico figlio di Odino intravedere uno spiraglio, quello che su Midgard avrebbe preso il nome di ‘punta dell’iceberg’ - cosa fosse non gli era dato saperlo. In quel cordoglio era finalmente riuscito a scorgere la verità celata nel più intimo recesso dell’animo dell’ingannatore.

 

Lo scrutò attentamente. L’arredamento devastato, dilaniato dalla potenza scaturita dall’uomo. Grosse schegge di legno pregiato a campeggiare sul pavimento, il cui bianco rimaneva ormai un ricordo lontano, accompagnate da frammenti di vetro sporcati di rosso.

“Sei ferito. Hai bisogno di medicazioni?”

Loki iniziò ad ispezionare le proprie carni. Le mani sfiorarono le vesti lacera tingendole di quel colore vivo presente in abbondante ma non eccessiva quantità per tutta la stanza. Osservò i palmi lesi, confuso.

Reclinò poi la testa all’indietro, i capelli scomposti premuti anch’essi, come la schiena, alla parete ultima della cella, un tempo candida e pulita.

Le mani abbandonate con pesantezza sul ventre, una seconda volta.

Espirò con profonda rassegnazione, per poi esprimere la propria priorità.

“L’hai vista…” si fermò, non riuscendo evidentemente a proseguire. “Ha provato dolore?” 

Innanzi all’ulteriore incertezza del dio del tuono il menzognero si sentì costretto a mostrare insistenza. Non gli avrebbe permesso di lasciare simile domanda in sospeso.

“Dimmelo,” esalò fiaccamente, spostando le iridi nella sua direzione.

Un sospiro come prima risposta.

“Non più di brevi momenti, si è concluso tutto in pochi istanti,"

Uno sguardo contemplativo perso nel vuoto di quel disfacimento circoscritto. Occhi verdi spenti, pesantemente arrossati, gonfi da estenuanti ore di lutto.

“Pertanto non c’è possibilità che mi venga concesso di…” lasciò la frase in sospeso.

“Per quanto provi un grande rammarico non posso disattendere agli ordini di Padre," Abbassò lo sguardo per la prima volta, incapace di sostenere quello tormentosamente penetrante del fratello, tornato nuovamente sul suo volto.

Sorrise amaro inarcando le sopracciglia. “Ma certo,” sussurrò in un’appena percettibile fiato.

Dopodiché iniziò dei movimenti lenti, talmente indolenziti da risultare un’opprimente tortura, un martirio, uno strazio cui assistere mantenendo religioso e contemplativo silenzio.

Le piante dei piedi toccarono terra. Non appena vennero caricate del peso del corpo un ginocchio sembrò voler cedere, seguito subitamente dal secondo.

Loki mosse qualche breve passo accorgendosi rapidamente del dolore che tali movimenti gli arrecavano.

Osservò verso il basso, si voltò poi indietro e fu allora che potè notare le impronte striscianti che, alle sue spalle, ripercorrevano lo spostamento da lui effettuato.

Il fratello osservò la scena quasi confuso. La sua mente venne riportata ai momenti precedenti e la teoria elaborata nutrita da ulteriori elementi.

Possibile che Loki, attraversato dal dolore, non avesse nemmeno preso coscienza delle proprie ferite? Era stato necessario un commento di Thor, accompagnato poi dai movimenti del dio a fargli acquisire consapevolezza?

Un dolore morale talmente intenso da divenire fisico, annichilendo totalmente quello procurato dalle carni esposte, adombrandolo, sino ad un totale asservimento.

Il più grande dei figli di Odino scelse tuttavia di mantenere private tali osservazioni cosciente che non avrebbe mai ricevuto risposta sincera, priva di ognuna delle costruzioni metaforiche di cui si era attorniato il più giovane.

“È una commedia sufficientemente degna perché tu vi assista? I tuoi occhi persistono nell’osservarla, deduco quindi che ne ricavino diletto," Loki parlò a seguito di pochi brevi istanti in cui lui stesso si era soffermato sull’attenzione statuaria rivoltagli dal fratello. Un ghigno, di un’argutezza intaccata dalla prostrazione, abbozzato sul volto sfiancato. Sfumature debolmente accennate in un quadro di perniciosa provocazione.

Per l’appunto. Soltanto orgoglio, pesanti drappi a celarne l’animo, parole arcigne arricchite di scherno selezionate appositamente per farlo allontanare.

Ma se i termini soli avrebbero potuto trarre in inganno qualsiasi ascoltatore, le immagini che perseveravano dinnanzi al suo sguardo raccontavano una trama del tutto differente. L’opposto di come era stata descritta, una tragedia. 

Un dramma interiore perfettamente inscenato al quale un terzo atto, ancora celato tra le increspature della mente, si sarebbe presto aggiunto, al riparo di una nuova illusione. Se non vi si era ancora rintanato era stato soltanto per far sì che quell’immagine rimanesse impressa nella mente del dio del tuono e vi attecchisse. 

Mai più il degno di Asgard sarebbe sceso fin lì, l’aveva compreso. Se non per propria volontà, sarebbe stato per quella di Odino. Che se lo ricordasse così e la colpa crescesse in lui. Che iniziasse a farsi strada una domanda caricandolo di responsabilità per simile indegna situazione. Rinchiuso com’era in una squallida cella. Finalmente le differenze concretizzate. Il maggiore destinato a un regno, prestigio, potere, riconoscenza; il minore alla solitudine eterna. Thor avrebbe dovuto fronteggiarsi con tale corrosiva realtà, lui che sempre si era rifiutato di vederla, che, come tutti, era stato cieco di fronte alle ingiustizie perpetrate da Odino. Il favorito, il promettente, l’animo nobile degno di guidare il popolo con giustizia e rettitudine. E proprio in quel frangente si sarebbe ricordato di Loki, del frangente in cui gli si era avvicinato per l’ultima volta. Un’immagine ricolma di desolazione, squallore, rovina.

Forse si sarebbe affacciato alla sua cella, di nascosto, nell’ombra, in modo da non essere scorto. E a quel punto l’avrebbe scrutato come si fa con gli animali in gabbia, chiedendosi se era la verità ad essergli offerta oppure essa si celasse tra gli anfratti di un inganno.

Ma forse ciò non sarebbe mai capitato. Forse il Fato aveva in serbo altro per il promettente principe. La vergogna per essere scomparso, per aver scelto di dimenticare compiendo il proprio destino lontano da lui, ricacciando quel ricordo, che dell’uomo era rimasto, nelle più buie segrete della sua mente. Avrebbe potuto fingere di essere sempre stato solo, di aver perso definitivamente l’unica figura fraterna che gli fosse mai stata riservata accanto, eppure di tanto in tanto l’immagine del suo volto gli sarebbe sovvenuta tra i pensieri. 

La pelle pallida, i lineamenti naturalmente scavati, i capelli corvini. Ogni cosa di lui sarebbe tornata gradualmente a tormentarlo. 

Nonostante tutte le delusioni, alcune delle quali ancora cocenti nell’animo del guerriero, l’affetto che aveva riservato a Loki continuava a rigenerarsi, a guarire, a rimarginarsi dopo ogni tradimento. E proprio di questo stavano parlando gli occhi del dio degno di impugnare il Mjolnir. Di questa affezione fraterna che sempre avrebbe covato in un angoletto dello spirito.

Improvviso uno scatto, un movimento che portò il mantello rosso a un riflesso rapido.

“Ci parlerò ancora,” esordì allontanandosi. I passi diretti verso la scalinata umida.

“Non lo farai," Thor si arrestò, voltandosi poi verso il fratello.

“Dove credi che stia andando?” chiese retorico.

“Stolto non è questo che voglio dire," Il silenzio seguitò alle parole del figlio di Laufey.

Non gli avrebbe permesso di rivolgersi nuovamente a Odino. Nulla sarebbe derivato da una nuova discussione. La decisone era ormai stata presa. 

“Continui ad illuderti, perfettamente consapevole dell’indifferenza che seguiterai a ricevere in risposta. Non ho intenzione di umiliarmi ai suoi occhi," Una sentenza dura, decisiva. 

Per quanto lo strazio gli gonfiasse il cuore, non si sarebbe abbassato a una nuova supplica.

“Sarà sufficiente l’avviso di una guardia,” concluse. Pur isolato, si sarebbe ritirato in momenti carichi di lutto, immaginando la madre prendere posto tra quegli antenati che non avevano mai condiviso, nel Valhalla.

 

E così si era ritrovato ad attendere che il buio avvolgesse il cielo. Alienato dalle costanti eco cariche di urla e imprecazioni provenienti dalle celle attigue. Tornato a nascondersi in una delle solite proiezioni.

La percezione del tempo era mutata dopo essere stato confinato laggiù. Esso pareva essersi grandemente dilatato, ancor più da quando la sola in grado di scandirlo con le sue visite attese era stata strappata alla vita.

Era giunto a desiderare quei momenti come ossigeno. Tanto che le vuote settimane lì rinchiuso sarebbero trascorse tutte nel medesimo modo, leggendo, per l’eternità, se lei non si fosse mostrata.

Il susseguirsi di giorno e notte era ormai divenuto indifferente, come capirlo senza nulla ad indicarlo? Infinite ore cadenzate solamente da tali agognate visite.

Ma oramai tutto era stato dissolto. Anche l’illusione di riuscire a respirare aria pura, pulita, attraverso i propri magheggi.

Inaspettatamente si sentì mancare il fiato. Iniziò ad annaspare. Era come se i polmoni si rifiutassero di  rispondere agli impulsi cerebrali, come se si fossero pietrificati, mentre i battiti cardiaci avevano triplicato il ritmo. Un dolore intangibile al petto. Gli occhi, spalancati, iniziarono a roteare freneticamente alla ricerca di un appiglio al quale aggrapparsi. Li avvertiva violati dal pizzicore delle lacrime che spingevano per uscire.

Totalmente impreparato a tale improvviso malessere, cercò protezione nella copertina di un libro. Rilegato in pelle con intarsi verdi e oro perché fosse evidente a chi appartenesse la proprietà dell’oggetto.

Era ancora un bambino quando la madre glielo aveva consegnato e lei stessa, una volta rinchiuso, si era preoccupata affinché gli venisse recapitato in cella.

Ben presto si riscoprì a sorridere verso quel dolce ricordo di fanciullo.

La mente confusa e annebbiata tornò poco a poco a riacquistare lucidità. Di qualsiasi cosa si fosse trattato, benché breve, era una stata una sensazione di intenso malessere. Un’angoscia profonda, un’inquietudine celata nell’animo. Un’ombra. Un turbamento. 

Mai gli era accaduto. E mai avrebbe desiderato vivere nuovamente un’analoga sofferenza.

Gli occhi erano ormai stati vinti, lo sguardo si appannò di colpo per poi liberarsi con qualche battito di palpebre. Eppure non fu sufficiente e la vista tornò offuscata. Le lacrime caddero lungo le guance in un contrasto di temperature: liquido caldo contro pelle raggelata.

Alcune tornarono a bagnare i tessuti pregiati della casacca che nascondeva le linee del torace.

Aveva ceduto nuovamente al pianto, facilmente si era arreso all’impeto di quel tumulto che stentava ad allontanarsi, a diradarsi nelle sue interiora, a liberarlo da quelle opprimenti catene.

Era rimasto solo. Intrappolato nel proprio corpo, nella propria mente, nello stesso risentimento che l’aveva portato a trincerarsi tra le pieghe di un’illusione, a proiettare quelle sensazioni intangibili sugli arredamenti, ultima concessione offertagli dal Padre di tutti gli dei, gli stessi che l’avevano inconsciamente portato a ferirsi.

 

“Il primogenito di Odino vi informa dell’inizio della funzione,” una guardia si rivolse all’immagine generata dalla fantasia del dio. Un’immagine seduta in un ulteriore isolamento, quello da sé stesso. Immobile. L’apparenza che stesse meditando. Su cosa poi, su tutto e nulla. La mente vuota e ingombra di pensieri al tempo stesso.

Una voce austera a mischiarsi con il silenzio di quelle lacrime che, di nascosto dal resto del mondo, continuavano inesorabili a scorrere. Un suono improvviso a rompere il silenzio che era riuscito a creare attorno a sé. Un silenzio nato dal frastuono delle stesse urla che traboccavano dagli ingressi delle segrete e nelle quali si era più volte rifugiato nel tentativo di evadere, seppur fantasticamente, da una prigionia ormai opprimente per raggiungere quelle storie lontane, quelle chimere irrealizzabili, puri vaneggiamenti straripanti di vendetta e minaccianti promesse, irrealizzabili.

In quell’istante dubitò della richiesta rivolta a Thor in occasione della sua visita. Era riuscito a valutare appieno la portata di tale preferenza? Aveva realmente anteposto la consapevolezza di non poter partecipare al dubbio? 

Un momento sarebbe stato dedicato ai pianti per la sovrana scomparsa, in tutto il regno, tutti avrebbero partecipato, lui non poteva essere da meno.

L’unica figura materna che avesse mai conosciuto necessitava uno spazio esclusivo tra i ricordi, gli stessi che l’avrebbero presto intrappolato se vi si fosse rifugiato troppo a lungo. 

E così l’immaginò, la cerimonia, comprendendo anche il dettaglio più trascurabile. La barca, le frecce infuocate, le neonate stelle, velate d’azzurro, che sarebbero salite al cielo.

Niente folla però. Nessuno, tranne lui, il vero lui. Ma ordinato, pulito, composto, ad osservare la scena dalla stessa posizione in cui immaginava essere Odino, insieme al fratello, in un momento intimo, in solitaria, accompagnando le spoglie della madre nel loro ultimo viaggio.

Un’illusione nell’illusione. Ne era mai stato in grado?

Rimase immobile anche negli istanti successivi. Incapace di sgretolare in un bagliore verdastro ciò che aveva creato.

Un urlo. Potente. A squarciare il velo di bugia rivelando lo stato di profondo degrado a circondare la sua figura. Nulla di sconosciuto a chi aveva avuto l’audacia di curiosare in occasione della venuta dell’erede.

Un urlo. Prolungato. Infinito. A tagliargli il respiro. A grattargli la gola.

Non si era preoccupato di mantenere le apparenze, con quale vantaggio dopotutto, se chiunque aveva già scorto quell’indecente infamia? Se il suo onore, i teatrini, erano stati sminuzzati, smembrati nel profondo.

Energia a fuoriuscire dalle sue membra frantumando maggiormente ogni cosa si trovasse già a terra.

Una voce a consumarsi mentre i piedi già feriti si muovevano verso il letto, unico elemento rimasto intatto, incuranti delle schegge vitree potatrici di altrettante - nuove - future cicatrici.

Nocche bianche a stringersi sul legno intarsiato al termine delle lenzuola.

I tremori lo dominarono raggiungendo le iridi chiare al fine, impegnate in un frenetico spostamento da lato a lato. Il petto spasmodicamente ritmato dai polmoni che, caparbi, si rifiutavano di inglobare più di quel poco ossigeno che riusciva ad entrarvi.

Armature in movimento. Ne avvertì, distanti, i ticchettii. Metalli dorati a riverberare le luci tremolati delle fiaccole fissate alle sterili pareti rocciose.

Volti allarmati dall’inatteso scatto di disperazione del principe. Non si voltò. Li mantenne alle proprie spalle. I lineamenti certamente tesi a modellarne i volti.

‘Fatemi vedere mia madre!’ le parole che avrebbe voluto pronunciare, se flebili o con fragore rimase incerto.

“Fatemela vedere,” si azzardò poi con voce vacua, sebbene ferma. Quel miraggio di dignità che aveva inseguito si era infranto nel momento stesso in cui Thor gli aveva chiesto di mostrarsi, perché dunque nascondere il proprio desiderio?

Un’attesa che si protrasse fin troppo a lungo.

“Le vostre orecchie non hanno forse sentito ciò che il vostro principe vi comanda?” stizzito, con astio ad impastargli il timbro vocale già sfumato dal dolore.

“Sapete anche voi che il vostro desiderio non può essere adempiuto,” si azzardò la guardia dalla voce più giovane; sicuramente appena affidata all’incarico nelle segrete, nessuno gli si sarebbe mai rivolto in tal modo.

“Perché?” iniziò a voce bassa.

“Perché Odino ve l’ha ordinato?!” proseguì poi in un urlo carico di rancore. Nell’aprire le proprie labbra si voltò in uno scatto violento e trascinò con la torsione del proprio corpo gran parte di quell’arredamento ormai distrutto. Le armature tintinnarono, mentre i passi si muovevano indietro e la distanza con la parte trasparente della cella aumentava. 

I cocci, quei frammenti ormai più simili alla polvere, erano stati violentemente scagliati su di essa, generando così un bagliore dorato.

Che si trattasse di un’ordine del Padre degli dei era ormai evidente a tutti coloro che avevano ascoltato; nessuno spese dunque parola alcuna per sottolineare tale ovvietà.

“La funzione si è già conclusa. Le torce sono state liberate e hanno raggiunto la volta,” e così le spoglie di vostra madre, avrebbero desiderato aggiungere i meno empatici se il rispetto nutrito per l’amata sovrana non avesse costituito impedimento.

Loki li scrutò. Uno ad uno. I loro occhi si scontrarono con durezza. Di due in due.

Aveva avvertito ugualmente, lontane, tali inespresse parole. La barriera invisibile che separava le due parti impediva ai suoi magheggi qualsiasi applicazione, eppure carpire i pensieri gli risultava semplice. Le voci, certo, gli giungevano come ovattate, eppure arrivavano mute ai più alle sue orecchie.

Come poter dimostrare tale scarsa considerazione? 

Forse non era loro chiara l’intensità, la forza delle capacità del re di un regno distrutto.

“Perché non me ne è giunta notizia?” chiese cupo, stanco di ascoltare le ignominie provenienti dalle labbra serrate delle guardie.

“Il Padre degli dei non ha trasmesso ordine alcuno, similmente ha compiuto il suo erede,"

Parole scelte con cura. Il suo erede. Era rinchiuso, non gli sarebbe più stato possibile agire contro di loro, dunque perché non lasciarsi andare a qualche attimo di divertimento?

Ragionamento crudele, che pure l’ingannatore riconobbe come proprio. Ecco dunque che nessuno di coloro da cui parole taglienti si esprimevano nei suoi confronti era così diverso da lui.

La medesima natura, esplicita in uno e recondita negli altri, celata con ipocrisia al fine di mantenere una parvenza dignitosa.

Eppure simile frase indugiava a lasciare i contorti pensieri di Loki.

Erede. Il suo erede. Nè lui né tantomeno Odino avevano dimostrato interesse. Il primo si era semplicemente limitato ad esaudire una richiesta, senza mostrare iniziativa, senza mostrare empatia. Soltanto un’azione fredda, motivata da un’ultimo spiraglio di affetto.

PadreTutto l’aveva già fatto da tempo, ma in quel momento la consapevolezza che anche il fratello si fosse dimenticato di lui lo invase con la medesima potenza di un tuono scaturito dal suo Mjolnir.

Il tutto davanti allo sguardo tinto di mal celato compiacimento delle guardie.

E così, da quel momento, chiunque l’avrebbe scordato, rimanendo nei reconditi ricordi di un passato infausto, privato della sola persona che sempre l’aveva amato, che mai l’aveva allontanato da sé, Frigga, sua madre.

Una lacrima gli tremò sul bordo dell’occhio.

Poi un momento. Un intenso bagliore verdastro a riflettersi sulle armature dorate. Passi mossi a ritroso, occhi vagamente intimoriti e un urlo a sovrastare gli altri.

La potenza si era dipanata da Loki senza che gli fosse possibile controllarsi. Attorno a lui la devastazione, detriti e macerie di ciò che un tempo era il mobilio a lui riservato come ultimo atto di una tragedia ormai conclusa, a ricordare le origini nobili o ad addolcire una prigionia crudele.

Era ormai notte inoltrata. Quello sarebbe stato probabilmente l’ultimo momento di consapevolezza del mondo esterno. Se ne rese conto lui, conferendo forse l’adatta importanza a tale momento.

Il gruppo armato si allontanò a seguito di svariati momenti di valutazione. Alle loro viste tutto era tornato al proprio posto, come ricomposto dalla polvere. Il suo gioco fatto di apparenze era stato compreso.

Il dio degli inganni seduto, intento nella lettura di un libro già terminato da tempo, ma evidentemente tornato ad essere di suo interesse.

Nessuno glieli avrebbe più inviati.

L’eternità trascorsa a leggere e rileggere le medesime parole, di lettera in lettera, virgola dopo virgola.

Fu in quegli istanti che il fautore di tali inganni ebbe la sensazione di essere irrimediabilmente stato privato del senno.

Proseguì con le straziate urla, udibili alle proprie orecchie soltanto, fino a graffiare la gola, fino ad accasciarsi a terra. Sulle ginocchia, proteso in avanti. Le unghie e conficcarsi nei palmi e le lacrime a scivolare a terra dopo qualche fugace istante di contatto con l’epidermide.

Imprecazioni, maledizioni, tutte, singolarmente, rivolte a un unico epicentro. Odino.

Il torto maggiore rivoltogli dal padre: l’averlo egoisticamente prelevato da quel giaciglio congelato al termine della guerra con Jotunheim.

Nella sua mente numerose domande a vorticare, ma una soltanto a raggiungere lucide riflessioni. Vi era stato almeno un briciolo di amore in quel gesto? O tutto era derivato soltanto dalla prospettiva di una futura alleanza attraverso di lui?

Lasciarlo in quel luogo inospitale ai più e permetterli perire in pace, questo sarebbe stato amore. Senza costrizioni legate a una vita ingiusta, senza menzogne, senza favoritismi malcelati. Lontano da fittizie dimostrazioni di affetto culminate in poche semplici frasi a separarli per sempre.

Se la vita gli era stata risparmiata, il merito era soltanto di quella che una volta era stata sua madre. L’unica mai avuta.

Il suo diritto di nascita sarebbe stato morire2, ancora in fasce. Quale acredine aveva spinto il sovrano a tali sentenze? Chiaramente aveva permesso a Loki di intendere che, se l’adorazione per la moglie non l’avesse convinto del contrario, egli non avrebbe avuto remore nello strappare la stessa vita che aveva salvato - le motivazioni, in simile frangente, indifferenti.

Da quel primo incontro, Odino aveva potuto disporre di quell’esistenza secondo il proprio desiderio; manipolando una mente fragile e inquieta, creando quel dio scontroso, bramoso di gloria soltanto al fine di essere finalmente considerato degno di una condizione paritaria al fratello.

Le riflessioni - cicliche - tormentate, ancorate al rancore, i palmi ancora scalfiti dalle unghie. Un male talmente flebile da essere ignorato.

 

Improvvisamente un lampo. Non Thor, bensì i pensieri che, legati a lui strettamente, continuavano ad accompagnarlo.

Forse proprio tale dolore corporeo l’avrebbe aiutato ad espiare quello spirituale, ad estraniarsi da esso, talmente denso da raggiungere il petto, la testa dolente per le troppe inquietudini, gli occhi ormai laceri da quelle lacrime che sembravano non accontentarsi mai.

Eppure era talmente trascurabile l’effetto che egli stesso si stava procurando! Necessitava di sensazioni più intense, più forti, che potessero portare la sua concentrazione altrove e, al contempo, costringerlo a rivivere ancora e ancora la notizia ricevuta. 

Un desiderio concepito nell’ombra di una mente annebbiata.

Bramosia di sangue. Dell’unico a cui potesse liberamente aspirare. Il proprio.

Un’eco lontana, rimasta inascoltata, come ultima testimone di una razionalità ormai perduta, a sottolineare l’inettitudine caratterizzante un simile comportamento. Un bagliore di esperienza adombrato da una sofferenza troppo profonda per essere ignorata, semplicemente accantonata nella speranza di riuscire a superarla. Un crepaccio ormai troppo marcato per nutrire la speranza di oltrepassarlo senza i mezzi del passato.

Strumenti apparentemente saldi su cui fare affidamento, ma che presto si sarebbero rivelati di cera, sciogliendosi al contatto con le mani, invischiando vilmente le dita.

Un respiro. L’aria viziata entrò nei polmoni attraverso le narici e gli occhi iniziarono a vagare sulla pavimentazione ormai ben poco candida. 

La consapevolezza di dover espiare una colpa. La sua vita era stata risparmiata e non quella di lei. Percepiva la propria colpevolezza, tangibile come l’abbattimento dell’animo che lo tormentava.

Qualche secondo di apnea una volta afferrato un frammento trasparente ancora comodamente utilizzabile.

Non esalò nemmeno nel posizionarsi. Vesti sistemate comodamente. Occhi chiusi in attesa di una sensazione conosciuta. Un appagamento dal sapore amaro che si sarebbe consumato con il termine di ogni gesto.

Scheggia stretta con forza, ancora immobile, vergine nel proprio operato.

Poi finalmente un movimento. Sembrò per un solo momento che l’ossigeno puro fosse tornato ad invadergli i polmoni mentre lentamente espirava reclinando indietro il capo. I capelli scomposti a contatto con la parete.

Un sorriso appena accennato, morto prima di venire alla luce su labbra umide di lacrime.

Sopracciglia aggrottate. Iridi riaperte alla desolante realtà di una prigionia eterna.

In breve tempo, passo dopo passo, tornò ad essere rappresentata una vecchia coreografia di movimenti. Un spettacolo portato in scena in un completo color cremisi, talmente fluido, morbido sul corpo, da giungere agli occhi come liquido. 

Un ballo di intensità sempre crescente, di profondità lacerante, di lacrimante sentimento.

Una scia inizialmente vacillante, poi sempre più sicura. Segni ogni volta più decisi, nonostante il tremore che, formatosi nel petto, si era esteso a tutte le membra come male incurabile.

Perché l’aveva salvato? Perché l’aveva fatto, immerso com’era nel sangue degli Jotun fino alle ginocchia?3 Le lacrime a solcargli le guance e mischiarsi con il liquido rosso che gocciolava sul pavimento.

Le dita anch’esse ferite dai bordi taglienti del frammento di vaso.

Avrebbe dovuto lasciarlo morire. Permettergli di abbandonare tutto quando ancora non aveva nulla, nemmeno un passato, quando ancora non conosceva sofferenza, innocente… o forse colpevole unicamente di essere nato.

“Uccidimi!” le lettere si susseguirono in autonomia prendendo forma nella sua gola.

“Non avresti dovuto darle ascolto!” proseguì.

“Perché l’hai fatto? Ha risparmiato la mia vita dando la sua!”

Un urlo ancora, intermezzato da altrettanti silenzi. Singhiozzi generati tra le corde vocali a privarlo della respirazione.

Una mescolanza di pensieri e riflessioni sempre più confuse. Un impasto tanto denso da diventare trappola e groviglio, catene avvolte con violenza a impedire ogni accenno di movimento alle carni sfinite.

Gettò con rabbia il frammento di vetro alla propria destra, accanto alla coscia distesa. La frustrazione di un sollievo momentaneo, la cui durata si contraeva sempre più nel tempo.

Il petto si gonfiava aggressivamente. I polmoni a richiedere una quantità sempre maggiore di aria, inglobandone sempre meno.

Strinse le palpebre nel vano tentativo di riacquistare un briciolo almeno di controllo. Quello non era lui. Loki. Il dio dell’inganno. Era sempre stato controllato, calcolatore. Ogni sua azione, ogni sua parola, ogni sua sagace battuta, abilmente programmata.

Si concentrò, senza permettere alle lacrime di uscire, avvertendone l’accumularsi tra le ciglia umide.

Le labbra tremarono. Le mani aperte, con i palmi rivolti al terreno e una tensione estesa fino alle spalle, mosse in un brivido incessante, diverso dalle scosse conseguenza dell’atmosfera umida e muffita del sotterraneo.

Controllo. Mente vuota, completamente. Inconsistenza dei pensieri, oscurati da un totale annebbiamento.

Attenzione sul respiro, sul movimento oscillante del petto. E per un istante, un breve, fugace istante, gli parve di trovarsi tra le braccia accoglienti dell’unico essere vivente che mai aveva dubitato di lui, che mai l’aveva abbandonato o trascurato, che mai l’aveva paragonato o mortificato.

Il calore della madre a contrastare quella natura gelida che gli era toccata in sorte.

Un timido sorriso a piegargli le labbra sottili per poi spegnersi appena accennato.

Un ultimo respiro a gonfiargli i polmoni per poi lasciarli vuoti, così come lui stesso sentiva di essere senza quella donna al proprio fianco.

Quando il buio si schiuse, la vista annebbiata venne rivolta alla propria sinistra; un bruciore confuso ad invadergli il braccio, un bruciore che portava con sé amari ricordi, un passato aspro. 

Solo, come allora, nascosto da occhi giudicanti, da espressioni disgustate per simile disprezzo mostrato verso il suo stesso corpo. Nessuno avrebbe risposto alla sua richiesta. Per anni si era convinto che persino Frigga l’avrebbe rimproverato, privandolo di quella magia che a lungo gli aveva permesso di celare ogni singolo segno, ogni cicatrice.

In realtà nemmeno lui era certo di voler ricevere aiuto, assorbito com’era dal proprio orgoglio, convinto che trovata una migliore tecnica di espiazione sarebbe stato semplice abbandonare le vecchie abitudini.

Eppure quella sensazione sulle braccia aveva indugiato per molto prima di affievolirsi e mai completamente si era allontanata.

Era come un richiamo alterato dalla paura. Un desiderio frenato dalla consapevolezza che vi sarebbe seguito un rimorso e mischiato al timore di ripetere quel gesto per la prima volta dopo tanto sforzo, vanificando così giorni e giorni di lotta contro sé stesso.

Poche ore, tramutatesi in settimane e poi in anni, con pazienza, senza cedere nuovamente al richiamo del sangue, al richiamo della cerni lacerate in più punti. 

Una bramosia frenata solamente dopo essersi estesa alle cosce, al ventre. Zone semplici da occultarne una volta vestito, al fine di avere una maggiore sicurezza, anche agli occhi di Madre, la quale ben riconosceva la presenza di sempre meno inesperti magheggi.

I polpastrelli si appoggiarono sulle ferite appena aperte, raccogliendone il liquido scuro che, unitosi in gocce pesanti, raggiungeva il pavimento favorito dalla gravità asgardiana.

Lo ammirò, prima avvicinando le falangi ai propri occhi, poi osservando quella fuga liberatoria consumatasi tra due tele di diverso pallore.

Braccio come metafora di supporto adatto a riproduzioni penose e tubetto di colore. Era fuggito una vita dal desiderio di ripetere quel semplice e meccanico gesto. Memoria muscolare, avrebbe osato dire, la stessa che rimasta latente per anni, non esita a mostrarsi all’occasione opportuna.

Rimase in contemplazione di quel lento e delicato sgorgare, per poi afferrare nuovamente lo stesso frammento di vaso, ormai esperto strumento tra mani sapienti. E così si riscoprì maestro nel disegnare il proprio corpo di rosso.

Un appetito carnale che lo portò a privarsi della stoffa in eccesso per raggiungere nascondigli sicuri e riaprire vecchi ricordi sottili ormai rimarginati in una maglia fitta di fili biancastri.

Un fremito ad ogni passaggio. Un’espiazione corrosiva ma non per questo meno desiderata.

L’unico modo da lui conosciuto per esternare e liberarsi delle proprie colpe, dei propri malumori.

Ben presto venne catturato dalle pieghe dei propri deliri tra le quali si era nascosto, un carico consistente di cui privarsi, anche soltanto per pochi, esigui istanti, pronto tuttavia a tornare con rinnovato vigore e rimarchevole cupezza.

Si concesse una pausa, animato dalla granitica certezza che se avesse proseguito in tale febbrile operato sarebbe tornato a rimarcare le lesioni precedentemente disegnate, rendendole allora veri e propri squarci, degni delle rune curative delle guaritrici.

Avrebbe in ogni caso ripiegato su numerose altre modalità di auto-inflitta tortura. Interi volumi di conoscenze relative a specifico ambito sarebbe stato in grado di comporre.

Continuare a camminare sui piedi già abrasi da minuscoli frammenti di vetro e schegge lignee sparse in terra, poteva dunque rappresentare una delle opzioni prospettate a lui dinnanzi. 

Non esitò ad agire.

Le gambe si mossero pregne di quel tremore che mai del tutto l’aveva lasciato.

Il vetro maestro ancora saldamente conficcato nel palmo.

Occhi rivolti verso il basso. Vergogna verso la propria pietosa essenza. Alienazione dalla frenesia esterna, composta di urla e imprecazioni.

Ancorato tenacemente al ricordo di tempi passati. Un dolore spirituale che non esitava ad andarsene, ma che, anzi, al contrario, si faceva sempre più imponete proporzionalmente alla crescita di una bruciante consapevolezza: la delusione che avrebbe scorto negli occhi di lei se solo avesse potuto assistere a quella scena pietosa. 

Forse dal Valhalla era proprio quello che stava facendo. Osservarlo nauseata, di certo profondamente - pur continuando ad amarlo come sangue del suo sangue- turbata alla vista della trasposizione tangibile di una sofferenza mentale a tal punto divenuta abissale nell’animo.

Per lei era sempre stato suo figlio. Mai questo era stato messo in dubbio. L’aveva accolto e trattato come tale. La sola a vedere in lui la purezza e l’innocenza di un’anima sola, abbandonata, fragile. Un abbandono che il suo corpo avrebbe ricordato per sempre, mentre una sagoma, forse la sua stessa madre, lo abbandonava tra le asperità dei ghiacci. Una sensazione indelebile che Frigga mai avrebbe desiderato accadesse nuovamente.

Loki non poteva ricordarlo. Pochi giorni soltanto alle spalle, a fronte di molte migliaia ancora. Eppure i suoi occhi l’avevano vista allontanarsi in movimenti sfocati, la pelle aveva accolto l’ultimo tocco, probabilmente una carezza affranta, prima di non essere più in grado di formulare una speranza, speranza di ricevere, ancora una volta, calore.

Il dio mosse pochi traballanti passi, claudicando regolarmente, per poi arrestare la propria avanzata a soli un paio di metri dalla parete i cui bordi dorati continuavano ad apparire immutati.

Si accasciò così sulle ginocchia, in un tonfo sordo. Le cosce a contatto con il torace. Il viso rivolto a terra. Prostrato al proprio cordoglio.

Il desiderio di un istante di pace. Il desiderio di sentirsi vuoto, estraneo a sé stesso, alla propria vita, ovattato da tutto ciò che in pochi momenti era sfuggito dalla stretta delle mani.

Era stato lui a guidare quella creatura da sua madre, convinto vi avrebbe trovato Thor al suo posto. 

Non era il proprio sangue a sgorgargli dalle braccia, a sporcargli le vesti, ma quello della madre. Ecco, aveva già saputo tutto. Con ogni certezza era venuta a conoscenza del tradimento del figlio, lo avrebbe odiato…

No, non lei, sempre così amorevole. Con gli occhi umidi dopo averle detto che non era sua madre. Le ultime parole che si erano scambiati.

Un richiamo della precedente sensazione. Lacrime brucianti e respiro a mancare. Per un momento sperò di trovare la giusta punizione alle sue colpe in quella prigione di panico.

Panico, ecco il nome.

Un’attacco di panico, in accordo con le parole dei midgardiani. Il secondo in poco tempo, forse. Ma quanto era realmente trascorso?

I meccanismi di estraniazione si erano attivati con celerità, favoriti dall’assenza di riferimento alcuno al colore dei cieli che sovrastavano il popolo.

Palmi rivolti a terra con forza, falangi premute sul pavimento sino ad assumere un colore biancastro. Si fece leva sulle braccia, nel tentativo di guadagnare spazio per allargare i polmoni. Eppure questi sembravano pietrificati, privi della capacità di dilatazione che sempre avevano posseduto. Un rantolo disperato a uscire dalla gola. Tremiti del corpo nella sua interezza.

Un improvviso e lancinante dolore al petto.

La mano destra portata all’altezza del muscolo cardiaco. Era consapevole che si trattasse solamente di quello, un muscolo. Eppure più volte aveva nutrito l’utopia di riuscire a privarsene. Forse un fondo di verità esiste se l’idea che esso rappresenti la sede prima dei nostri sentimenti e tormenti ha raggiunto ogni mondo presente nell’Universo. L’aveva pensato, ogni volta, per un breve istante prima di compiacersi del proprio acume, troppo spiccato per abbassarsi a una teoria nata su Midgard e diffusasi come un morbo.

Certo, sarebbe stato comodo imputare al cuore simili colpe; sarebbe stato più semplice individuare la causa di ogni malessere morale, obbligandosi con determinato esercizio ad estraniarsi da esso, a relegarlo a funzione di pompa, concentrandosi soltanto su ragionamenti logici derivanti dalla mente.

Tuttavia sarebbe stato troppo semplice.

No, il cuore sarebbe rimasto un muscolo e la mente un groviglio incomprensibile, impenetrabile, responsabile dell’essenza di ogni singolo individuo, e talmente complesso da far desistere chiunque desiderasse privarsi di emozioni inutili quanto soffocanti.

Le lacrime a sferzare violentemente il pavimento. Precedenti segni di distruzione a conficcarsi nelle ginocchia.

Concentrazione. Sarebbe stata necessaria concentrazione per riprendere il controllo. Pensieri lucidi in mente annebbiata, era forse possibile?

Si guardò attorno in un movimento frenetico del capo. Lì, dove la mano aveva lasciato una sbavata impronta rossa, l’oggetto da lui venerato a riposare come su di un giaciglio, coperto da un lenzuolo del medesimo colore.

Dal cuore tornò ad afferrare un vetro oramai tutt’altro che trasparente, unica razionale - ai suoi occhi annegati - possibile cura a quel malessere esitante nel lasciarlo solo, così morbosamente attaccato all’animo ferito.

Lo strinse e rizzò la schiena, porgendo il braccio sinistro in sacrificio. Un segno tremante ma deciso, profondo, a separare le carni in un fiotto di liquido scuro tra due sponde lacere e più distanti che mai.

Nel farlo chiuse gli occhi. Appagamento, soddisfazione, paura di comprendere la portata di quel gesto più drammatico, come se per gli altri si fosse trattato di un’esercitazione, un modo per prendere coraggio e agire davvero.

Mai avrebbe desiderato togliersi la vita. Eppure, quel dolore spiccante rispetto ai bruciori invasivi provenienti da ogni membro, gli era giunto come aria cristallina, pace a lungo desiderata, avvicinandolo alla prospettiva di rivedere presto la madre.

No. Non sarebbe potuto accadere. A lui, Loki, dio degli inganni, legittimo re di Jotunheim non sarebbe spettato il riposo dei valorosi guerrieri, delle vite pure, degne.

Non gli sarebbe dunque stato possibile, in nessun caso, il riabbracciarla, lo scorgere nuovamente quei lineamenti delicati alla vista, i capelli chiari, il viso in antitesi dolce e severo.

Rialzò le palpebre a fatica, abbassando il volto in direzione di un intreccio intricato come mai di fili rossi e bianchi - questi ultimi ricordi rimasti nascosti a qualsiasi vivente - di cui uno più spesso e scuro.

Il liquido rosso ne usciva copiosamente, senza dare alcun segno di volersi arrestare; Loki ne contemplò i movimenti sinuosi, rapito come dalla lava ribollente che accarezza le pendici di un vulcano in eruzione.

Il respiro era tornato regolare, il muscolo cardiaco al proprio ritmo abituale.

Esausto rivolse un ultimo sguardo a ciò che lo circondava, distruzione. Dopodiché, portata la mano orai libera sulla ferita più grave nel tentativo di imprimerci pressione, si accasciò di lato, poggiando sul fianco, anch’esso compromesso.

I singhiozzi riempirono lo spazio dalla percezione sempre più angusta, le pareti soffocanti.

L’illusione costruita tenuta faticosamente come facciata illusoria. Vacillante, ma presente. Incredibile il controllo che quella parte della mente riusciva a mantenere anche sotto grande stress, quando i pensieri lucidi venivano offuscati e i sensi iniziavano a spegnersi. 

Simile inganno era sul punto di crollare.

Il dolore di una perdita che aveva svelato ulteriori incrinature, talmente profonde da raggiungere il nucleo, la carne viva, provocando, proprio in quel momento, lo sgretolarsi delle barricate e il crollo di qualsiasi muratura; esplodendo privo di controllo ed investendo il dio stesso con un’onda d’urto tanto intensa quanto la quasi totale certezza, di qualsiasi mente razionale, che la sua sopravvivenza era stata messa in serio pericolo, trovandosi ancora, nuovamente, ampiamente incerta tra le mani del Fato.

Le palpebre tornarono così a rivendicare riposo e gli occhi si chiusero in un’ultima lacrima, mentre i singhiozzi, dapprima veementi al punto di scuotere interamente tessuti, muscolo e ossatura, erano andati pian piano scemando, fin poi a spegnersi stanchi.

“Guardie!” Un urlo, una voce femminile. Allarmata, incrinata, spaventata.

L’udì lontana. Accompagnata da lettere, alle sue orecchie, impastate senza logica alcuna, parole vuote.

Perché un urlo così fragoroso se talmente lontano? Avvertì il proprio nome, accanto a numerose richieste. Sarebbe riuscita, quella voce a spiccare tra gli schiamazzi volgari?

Forse non sarebbe morto, non questa volta.

Un ultimo soffio fuoriuscito dalle narici. Più alcuna percezione. E, lasciandolo esposto come animale in una teca, l’inganno si consumò infine in un bagliore verde. Il terzo atto.











Angolino di Ishouldgoaway...


Per la prima volta in vita mia mi cimento nella scrittura all'interno di questo ambito. Ho sempre avuto un po' di riguardo, con il timore di creare un pasticcio.
Spero di aver condiviso una domanda che mi sono sempre fatta, ovvero cosa fosse accaduto nell'unca cella arredata delle prigioni di Asgard.
Grazie a chi ha letto tutto fino alla fine, perchè mi rendo conto che il tutto è abbastanza lungo e a chi ha dedicato del tempo anche per queste poche righe. E ovviamente, se qualcuno si sentisse ispirato/a a scrivermi le proprie opinioni riguardo questo mio piccolo lavoro, non esiterò a leggere... vale anche per i più timidi!


Credo sia d'obbligo precisare che non appoggio né incito nulla di quello che c'è scritto nel testo e spero davvero che chi sta passando un momento difficile possa stare meglio al più presto, ricordando che cercare un appoggio con cui condividere i propri sentimenti può aiutare ad alleggerire il proprio carico <3 <3 

Buona vita a tutti and stay strong!





1. Evidente citazione a TDW.

2. Ovviamente, altra citazione alle scene iniziali di TDW.

3. E qui siamo alla scena iconica del primo Thor con il confronto tra Loki e Odino.

 

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Capitolo 2
*** Un nuovo confronto ***


L’oblio ancora si dispiegava dinnanzi alle iridi chiare, rimaste nascoste, mentre i sensi avevano con lentezza iniziato a destarsi. Il percezione di intorpidimento, tuttavia, continuava caparbia a imporsi sull’interezza della sua figura. I pensieri, di contro, si rivelarono ancora offuscati e rallentati e spenti, incapaci di fuggire, imbrigliati com’erano nella quasi totale incoscienza.

Rumori delicati a solleticare l’udito; un calpestio leggero quasi echeggiante a sussurrare un sospetto confuso. Quella non poteva in alcun modo essere la cella che lo aveva ospitato negli ultimi periodi, ma per l’Ingannatore i tempi in cui questo segreto sarebbe stato rivelato non erano ancora maturi da permettergli di sapere - complici le facoltà della mente che tardavano a risvegliarlo.

Un sospiro giunse fino a lui, accompagnato da un rumore più marcato di passi che si susseguivano con cadenza regolare mentre, scanditi, si allontanavano per poi avvicinarsi nuovamente.




 

Se avesse trovato le parole adatte a descrivere lo scempio rivelato alla vista, lo sforzo costatogli si sarebbe rivelato immenso, forse comparabile con la vittoriosa battaglia combattuta in gioventù a Svartalfaheimr[1], quando gran parte delle imprese di guerriero che l’avevano reso famoso in tutti i Nove Regni ancora dovevano trovare posto tra i gloriosi ricordi del passato. E, nonostante le atrocità cui era stato costretto ad assistere guidando gli Æsir in eroiche imprese - alcune delle quali impresse nei mosaici che decoravano le volte del palazzo - non poteva negare di essere inorridito nell’avvicinarsi a quella cella annientata dalla furia distruttrice del dio dell’inganno.

I segni della disperazione erano marcati sulle pareti un tempo chiare, mentre impronte trascinate testimoniavano gli spostamenti confusi che l’avevano fatto accostare alla barriera luminescente e terminavano in una larga pozza color cremisi.

Il fermento che aveva infiammato i sotterranei negli istanti precedenti era andato consumandosi, lasciando ora che sguardi biechi - a tratti curiosi, ma sicuramente privi di qualsiasi pietà - si conficcassero nella figura sbiadita del tonante. Perché si era arrischiato in quel tugurio maleodorante? L’aria si faceva pesante e l’ossigeno nuovo e sfuggevole doveva essere sufficiente a irrorare i polmoni di chiunque vi fosse rinchiuso. Invidiati i primi, coloro - Loki compreso - che avevano ricevuto il privilegio di ottenere una delle celle in apertura alla lunga scia di vivai, di teche espositive; graziati, rispetto agli ultimi cui toccavano flebili e ancor più scarsi avanzi.

In scandalosa contemplazione, Thor si arrischiò fino a raggiungere tomi verso i quali riconobbe di non aver mai prestato particolare attenzione, nemmeno da bambino, preferendo piuttosto uscire, allenarsi, fare sfoggio della propria eccezionale forza; e vi scorse, nell’ordine in cui erano stati riposti, la bramosia di conoscenza del fratello, la stessa che gli aveva impedito di spargerne le pagine sul pavimento in un tappeto disordinato[2]. Un principio di sorriso gli raggiunse le labbra, forse rapito da un ricordo di gioventù, e si spense una volta spostato lo sguardo sulla cornice che, oscurando violentemente la piccola parentesi, reclamava prepotente l’attenzione su di sé.

I piedi si mossero, facendogli così compiere un giro quasi completo che gli avrebbe permesso di valutare tutti i danni, poi scosse leggermente il capo e una mano raggiunse il viso fermandosi sotto il naso e coprendo la bocca, ora tesa in una linea sottile, mentre l’altra si appoggiava alla piega generata dal gomito. L’espressione contrita e assorta in mute considerazioni.

Si trovava nelle mani dei guaritori in quell’istante. Portatovi d’urgenza, era stato accolto da visi tirati e sgomenti nel prendere coscienza di un gesto che era evidente non gli appartenesse.

Il Dio degli Inganni, quel fratello con cui aveva combattuto e che gli dava le spalle durante la battaglia in gesto di fiducia, ma contro cui si era anche ritrovato a lottare furiosamente nel tentativo di farlo ragionare, di sopire un orgoglio offeso, di ricucire un torto lungo una vita intera, la sua. Aveva dimostrato di voler rinunciare a ogni cosa, quando sempre le sue azioni erano state spinte dal desiderio contrario, dalla bramosia.

Come può una mente concepire un così drastico e repentino cambiamento? La risposta sfuggiva ai suoi ragionamenti, nonostante la fama dell’Ingannatore derivasse, anche, dall’abilità dimostrata in battaglia nel mutare tattiche e piani e decisioni relativamente ai venti, favorevoli o meno, che sospingevano gli Æsir. Macchinazioni argute e incredibile forza a collaborare garantendo l’ennesima, ma non scontata, vittoria al popolo guidato da Odino.

Lo ricordava aggirarsi tra le tende dell’accampamento con passo sicuro, svelto, e sguardo fiero. Il mantello nuovamente indossato a coprirgli le spalle, avvolgere la schiena, la cui cura e buona fattura andavano a contrastare con i concreti lasciti di un combattimento particolarmente impegnativo, ancora impressi sulla pelle, sulle linee tirate del volto, sull’espressione severa.

Immagine certamente in contrasto con quella che l’occhio della mente[3] ancora gli rendeva possibile visualizzare fervida e vivida a tal punto da risultare a tratti tangibile e spaventosamente reale. Un solco inguaribile paragonato a un marchio usato per rivendicare la proprietà del bestiame.

Era sempre stato il più esile, tanto che quella forza di cui faceva sfoggio a molti era parsa come impropria, illegittima, inaspettata, generando lampi di stupore nei molteplici sguardi che avevano avuto l’onore di assistere anche a uno solo dei numerosi scontri nemici. Imbattuto in rapidità e astuzia, temuto a causa della caratteristica fierezza, prima di allora, mai si era lasciato andare[4], abbandonato al desiderio - forse impostogli con un no - dell’oblio in cui si sarebbe lasciato precipitare.

Più volte era giunto a temere per la vita del fratello, ma in nessuna di quelle occasioni passate aveva dovuto fronteggiare così concretamente il terribile orrore che soltanto il pensiero di perderlo aveva scatenato in lui.

Indugiò a lungo, condividendo la fastidiosa mancanza di aria pulita con i reietti di Asgard. Se ne sarebbe potuto andare. Scappare dall’asfissia di una cella troppo esigua per trascorrerci ciò che in gran parte ancora rimaneva di un’esistenza millenaria. Nessuno lo avrebbe impedito. Chiunque lo avrebbe invidiato; compresi un paio di occhi color del miele che, come altre decine, non avevano smesso di concentrarsi su quel mantello rosso che si adattava perfettamente alle spalle, sul viso contrito in una smorfia che chiunque avrebbe colto come afflizione per due tragedie eccessivamente ravvicinate. E se si fosse invece trattato di colpevolezza? Per averlo lascito solo. Per non essersi sincerato più spesso delle condizioni mentali - emotive - del fratello. Per avergli permesso di rimanere isolato nei propri pensieri, consapevole della mente sottile quanto labile che sempre lo aveva caratterizzato quando erano dolore e delusione ad animarlo, a sopraffarlo. Quando la stessa lucidità di cui poteva fare legittimamente vanto, veniva offuscata da sentimenti esplosivi, a lungo latenti.

Avrebbe interrogato chiunque potesse aver taciuto una scena tanto pietosa e disperata, avrebbe chiesto, importunato, fatto domande. Perché, chiunque fosse stato, aveva tramato, complice con la pazzia, con l’egoismo di chi sceglie di privare il mondo di sé stesso. Aveva osservato con imperturbabile consapevolezza gesti il cui esito si era dipanato con fredda chiarezza linea dopo linea.

Poi un lampo. Una nuova, spaventosa certezza. Quella di un’illusione abilmente tessuta al fine di ritardare una vista atroce, fuggendo il rischio che i pochi ancora liberi da oscure implicazioni con il Dio degli Inganni, potessero sollecitare le guardie a un intervento rapido e organizzato. Probabilmente anche i soli la cui coscienza era priva dai fantasmi di vite spezzate con distacco e indifferenza, i deboli condannati per disperazione piuttosto che barbara ferocia.

Avrebbe indagato. Lo avrebbe fatto. Per capire. Per comprendere. Non in quel momento però. La mente era ancora offuscata dalla tetra sorpresa, confusamente animata dallo slancio che l’aveva spinto a una corsa convulsa per raggiungere quel fratello che gli era stato imposto di ignorare, che aveva scelto di evitare. Fu in grado di riconoscere i contorni di un’indagine tutt’altro che obbiettiva - forse mai lo sarebbe stata, ancora di più se privata della freddezza necessaria al condurla.

Si mosse senza preavviso alcuno e, in pochi passi, la figura di sovrano scomparve, lasciando dietro di sé solamente un’ombra, unico elemento a cui potersi aggrappare.

 




Quanto a lungo aveva indugiato mescolando il rosso acceso del mantello al cremisi del pavimento? Non sarebbe mai stato in grado di stabilirlo ritornato com’era nell’anticamera dalla quale precedentemente era stato allontanato.

Un uomo, che riconobbe avergli prestato più volte soccorso in battaglia, gli venne incontro con urgenza a significare una lunga e tormentata attesa.

Un veloce e ossequioso inchino prima di incontrare gli occhi chiari di un combattente fiero che, tuttavia, soltanto in quel momento, pareva aver conosciuto davvero la paura.

“Vostra Altezza,”

L’Ase seguì in silenzio i movimenti dell’uomo dai tratti stanchi e l’aspetto invecchiato.

“Cosa succede?” chiese allarmato dall’espressione rivoltagli.

“C’è qualche problema?” aggiunse poi, con crescente preoccupazione a tingergli il tono. La riposta tardò fastidiosamente ad arrivare permettendo così all’agitazione di crescere, di allargare la via già battuta verso il cuore.

“Eir[5], per gli dei, parla!” poca la differenza tra l’ordine e la supplica. Inquieta fame da saziare. 

Lo aveva visto solamente un breve istante. Attorniato da guardie e guaritori come a formare una barriera. Battiti improvvisamente irregolari e violenti contro la cassa toracica. 

Non era riuscito ad osservargli il volto. A notare i lineamenti espressivi di un viso inanimato. Ma soltanto a carpire gli orli macchiati delle vesti stracciate, martoriate come il corpo pallido.

La battaglia aveva sempre portato a conseguenze infelici per il fisico, ma mai Loki, principe degli Æsir dal sangue di Jotun, si era lasciato sopraffare a tal punto dalle armi nemiche. Mai le offese arrecate così fragorose da isolarlo in una lotta tanto personale quanto inconscia.

“Sua Altezza non ha ancora ripreso conoscenza,” esordì finalmente con voce tremante. “Ma le cure fornitegli hanno portato frutto; una volta terminate le ultime medicazioni vi sarà possibile vederlo,” concluse abbassando il capo e offrendo così la chioma rossa e folta, ancora priva dai segni testimoni del trascorrere dei secoli.

 “Ti ringrazio, Eir,” concesse Thor accompagnandosi a un gesto grato.

Il più vecchio sorrise vedendo la mano del dio appoggiarsi alla sua spalla esile, allontanandosi soltanto dopo aver porto un sorriso appena accennato.




 

Il tonfo di una pesante porta sbattuta per sbaglio affiancato a una flebile quanto offesa imprecazione non causarono rilesso alcuno nel corpo disteso con ordine a abbandono sul fondo della grande stanza. Le vesti lacere sostituite da un vestiario degno di un principe.

Un rumore di passi che si susseguirono non privi di una crescente esitazione. Pesanti stivali di cuoio a sfidare il rimbombo violento di un ambiente prettamente disadorno di mobilio che non fosse necessario, eppure ugualmente sfarzoso, in linea con il resto del palazzo reale.

Thor indugiò a lungo a svariati passi di distanza dal letto ampio destinato alle primissime fasi della convalescenza.

Lo scrutò attentamente, mentre il petto del fratello si alzava appena e in silenzio, per poi riabbassarsi di nuovo. I lineamenti tesi e appuntiti e taglienti, agitati da invisibili ombre. Le palpebre pesantemente richiuse.

Scosse il capo e si lasciò andare a un sospiro pesante nel tentativo di privasi di una pesantezza opprimente a gravargli sulle spalle.

 




L’oblio ancora si dispiegava dinnanzi alle iridi chiare, rimaste nascoste, mentre i sensi avevano con lentezza iniziato a destarsi. Eppure il corpo non poteva rispondere privato com’era dei comandi di una mente attiva e capace. Il medesimo caos che l’aveva portato ad accasciarsi a terra, ad abbandonarsi in un giaciglio liquido per trovare pace. Improvvisamente l’aveva avvertito pesante macigno sulla propria esistenza. Incapace di controllare, di controllarsi, di dominarsi. Lui che sempre era stato abile manipolatore, com’era potuto cadere - scivolare e cadere - perdersi così? Com’era possibile che una morte come tante mescolasse le variabili della sua esistenza tanto lunga da poter essere definita eterna? Una sola morte. Una sola perdita a fronte di molte.

Il silenzio sporadicamente interrotto dal fremito di movimenti secchi, a tratti impazienti, evidentemente manchevoli dell’adeguata considerazione per le condizioni di incoscienza tra le pieghe delle quali ancora si attardava.
Meglio recuperare un’appropriata lucidità prima di scoprire le carte e lasciarsi importunare da tediose domande e inopportuni chiarimenti. Come se le volontà irrazionali del dio non fossero già state espresse a sufficienza dalle gesta impietose.

Le dita tremarono di un tremito timido e lieve e discreto. Nulla che gli occhi di chi stava attendendo il suo risveglio potessero percepire, talmente grezzi e grossolani. Lo pensò, Loki, fu una delle prime riflessioni di una mente che ha trovato il momento propizio per destarsi. Lo pensò e non poté evitare di ricordare che sempre così era stato. Thor si era sempre rivelato poco attento alle minuzie, persino in battaglia; più propenso all’azione e alla tempestività piuttosto che all’attesa strategica e accorta. Vigile guerriero, le strategie erano sempre state riservate al mago, affiancato in momento di approvazione da Odino in persona. E questo era sempre[6] stato sufficiente. Ognuno si sarebbe sentito indispensabile a modo suo, garantendo la vittoria degli Æsir e favorendo la prosperità di Asgard e del dominio di Odino.

Ma il tempo era trascorso, le dinamiche cambiate; nulla era più come allora, in un susseguirsi fluido e indipendente di eventi che l’avevano portato a svegliarsi ancora una volta.

Ricordava la vista appannarsi in un ultimo atto di resa, i brividi a oltrepassare i confini del corpo, raggiungendo l’interezza delle membra -  un freddo dell’anima più che del fisico.

La pace l’aveva raggiunto nel momento stesso in cui la prospettiva della morte gli si era materializzata dinnanzi.

Tuttavia, i piani sarebbero mutati ancora. L’aveva compreso subitamente dopo l’attimo di confusione che l’aveva colto quando ancora non era sveglio, ma nemmeno addormentato.

Aveva bramato un premio troppo disperatamente sublime per cui le Norne avevano evidentemente filato un’attesa più lunga, ma fortunatamente non infinita, si era detto in uno spiraglio di speranza volta a rincuorarlo brevemente.

Avrebbe comunque avuto occasione per competere con quelle creature che si divertivano a dispiegare la propria fantasia sullo scorrere delle vite altrui. Mai avrebbe smesso di sfidarle. Perché lui era Loki di Jotunheim e non poteva accettare che il suo destino dipendesse da altri se non da sé stesso.

“La vuoi smettere di muoverti? Ne ho abbastanza dei tuoi stivali,” era da tempo, infatti, che il tonante aveva iniziato a intraprendere con costanza il medesimo percorso, nell’attesa di un sempre più vicino risveglio. Si allontanava, per avvicinarsi nuovamente e allontanarsi ancora, in un’idea priva di fine.

Le iridi non erano ancora state scoperte.

La voce arrochita da lunghi silenzi ma sempre decisa; questa volta munita di una sfumatura più lieve di malcelato malessere. Unica concessione da parte dell’Ingannatore.

D’un tratto il silenzio - sicuramente gli stava dando le spalle, ipotizzò - seguito da un calpestio rapido e urgente.

“Finalmente ti sei svegliato, brutto idiota,”

Tono duro? Apprensivo? Quell’appellativo non significava nulla. Cosa voleva esprimere Thor? Rabbia? Fece per dischiudere le labbra in risposta, prima di rendersi conto che le parole non sarebbero uscite. Cosa dire a colui il cui volto era ancora rimasto celato nella luce? Non gli era possibile decifrare l’atteggiamento del dio del tuono senza osservare l’espressione dipinta sul suo viso.

Un pulsare scomposto a sfidare le tempie e furono le palpebre stesse a levarsi, rivelando agli occhi una realtà sempre meno nebulosa, sempre più nitida.

Dove si trovava? Non riconosceva nel soffitto elaborato quello della propria cella. Esso assomigliava piuttosto a quello intarsiato presente nella stanza dei guaritori. I cassettoni lignei ad animare la copertura, impreziositi da finissime foglie di acanto, tanto amato anche dagli abitati della lontana Midgard. Decorazioni dorate a spandere la propria luminosità sino agli angoli, per poi andare a scemare poco a poco che lo sguardo si abbassava sulle pareti.

Troppe similitudini con un ambiente che, nei secoli, era arrivato a conoscere bene - guerra dopo guerra, ognuna combattuta al fianco di Thor, ognuna portatrice di ecchimosi, tagli, fratture più o meno importanti.

Non si mosse. Non parlò nemmeno. La testa gli doleva. Percepiva ogni movimento come bloccato benché qualsiasi tentativo fosse rimasto ancora intentato.

“Parla,” si limitò ad incitarlo con tono fermo, autorevole, degno di un sovrano.

Perseverò nello scrutare attentamente la volta riccamente adornata, riconoscendone momenti vissuti da quegli antenati che non gli appartenevano ma le cui imprese aveva a lungo avuto modo di studiare, rinchiuso a leggere con gli occhi di ragazzo tra scaffalature di volumi talmente estese da apparirgli senza fine.

Un raccolta invidiabile, a cui aveva attinto con insaziabile sete di conoscenza, con un desiderio di sapienza impossibile da soddisfare.

Mosse impercettibilmente il capo, accompagnando così un movimento delle palpebre verso il basso. Il desiderio di ricacciare nell’oblio quei ricordi inutilmente fissati in momenti estranei a tutta quell’irritante preoccupazione fraterna.

Alzo il capo con soltanto un movimento del collo e lo sguardo sfiorò il biondo dei capelli dell’altro.

“Avvicinati almeno, per quanto il soffitto sia interessante sai che odio parlare con chi non posso vedere,” osservò con acidità il figlio di Laufey. Thor non si mosse di un solo passo.

“Per di più si tratta di buona educazione; ah no, dimenticavo, a te non è mai fregato un cazzo,” continuò, provocando un solo soffio in risposta. Nemmeno dopo essersi avvicinato così tanto alla morte Loki avrebbe perso i modi sprezzanti nei confronti del fratello. E, come se non fosse sufficiente, le tempie martellanti non avevano ancora cessato di infastidirlo.

Fece per muovere le braccia, dolorante. Il desiderio di massaggiare la testa con le dita, nel tentativo di alleviare, almeno in parte, il continuo dolore a insistere sul cranio.

Fallì. Si ritrovò, con orrore, ad avvalorare con i fatti quelle che erano nate come mere sensazioni; immobile, incatenato, impossibilitato a qualsiasi attività. 

Serrò le palpebre con stizza.

“Ho provato a farle togliere,” ammise.

“Sei un caprone. Non hai ancora capito che ogni tentativo sarà inutile?” Amarezza, arrendevolezza. La voce ridotta quasi a un sussurro. Aveva appena aperto gli occhi ma era ugualmente esausto.

Si era sempre professato libero quando in realtà mai lo era stato. Che si trattasse di sottostare all’autorità di Odino, o a quella di un alieno viola dai discutibili piani; che riguardasse la prigionia fisica simboleggiata dalle catene o della libertà di crepare in santa pace. Una riflessione acre, una consapevolezza nuova da cui avrebbe potuto riuscire a trarre vantaggio una volta maturati i tempi.

“Inutile come te qui ora,” sottolineò acido conferendo il giusto peso ad ogni parola.

Questa volta l’unica risposta giunse dal silenzio che si abbassò nella stanza, rendendo opprimente l’atmosfera. Assenza di rumori ma non di parole, le cui sorde insinuazioni continuavano a mostrarsi da ogni angolo senza però essere interpretate a dovere dalla voce.

“Avanti dillo,” con un sospiro irritato attirò su di sé un’espressione che qualcuno avrebbe potuto definire confusa, ma in realtà celava soltanto lo stupore per la tanta sagacia che era spettata al fratello; anche senza vederlo, anche non potendolo osservare, l’aveva capito.

“Per amore degli dei fallo. Lo so che le parole ti stanno bruciando in gola e, francamente, la tua insolita mancanza di spavalderia mi sta seccando,” tono apatico, freddo, come se la tematica non lo potesse in alcun modo scalfire.

“Se sai già quello che voglio dire perché non risparmi questo teatrino e non inizi tu stesso a parlare?”

“Perché, a dirla tutta, vederti in difficoltà mi diverte,” una sincerità tagliente e meschina che non sarebbe di certo stata mitigata al più presto. “Il possente Thor…” si lasciò dunque andare a un ghigno sbieco. Contemplativo. Malizioso.

“Perché l’hai fatto?” Le parole uscirono in un soffio, come se, dopo un breve istante di silenzio, non ci avesse pensato, gettandosi in una conversazione che probabilmente non avrebbe trovato alcun riscontro. Il cui finale era già stato deciso, ancor prima che la questione venisse apertamente affrontata.

Perché te lo meriti Loki. È la tua espiazione. Non penserai di poter fuggire alle conseguenze delle tue azioni, vero? Non impari mai… Il ragionamento fuoriuscì silenzioso dalla mente del mago, ma potè avvertirne il suono ugualmente. Una fugace smorfia si formò sulla fronte per poi sparire con la medesima celerità con cui era comparsa. 

Questa volta non puoi scappare, in realtà non l’hai mai fatto, non si può fuggire da sé stessi; è una verità vecchia almeno come le fondamenta di Asgard, come la nascita del primo tra i Nove Regni che Odino controlla.

Un cane, un vile e inutile cane che si morde la coda ripetendo lo stesso, mediocre errore risultando disgustoso persino alla morte stessa.

Le iridi si spostarono rapide. La sua stessa voce aveva pronunciato quelle parole. Le labbra erano rimaste serrate, ma quella voce ignorata da Thor era invece giunta alla sue orecchie.

Che si trattasse del seiðr? Aveva appreso, in una delle letture di ragazzo, che questo avesse la capacità di fluire libero a seguito di un ipotetico e momentaneo indebolimento di colui che abilmente ne possedeva il controllo. Differenti apparizioni ad indicarlo, tra le quali, sicuramente, le manifestazioni di una mente brillante dai retroscena oscuri[7].

“E tu vorresti una risposta perché…?” Dissimulò la propria confusione consapevole che avrebbe dovuto indagare, o quando meno trovare un modo per farlo. I libri di cui aveva bisogno erano proibiti e soltanto con l’inganno e l’astuzia era riuscito ad entrarne in possesso per la prima (e l’ultima) volta. Di certo la sua condizione di detenuto non avrebbe aiutato. “Permettimi un’osservazione banale. Cambierebbe forse qualcosa? Il tempo di riavvolgerebbe? Avresti la possibilità di rimediare e accorrere prima che tutta questa pagliacciata abbia luogo?” nessun rimorso in quelle parole, bensì astio, e una punta di rancore ad accompagnare lo sdegno rivolto al fratello.

Aveva colto nel segno. Loki, l’abile arciere, aveva fatto centro concentrandosi soltanto sull’estrema banalità della domanda ricevuta.

“Permettimi di capire,” continuò il tonante con rinnovata freddezza nel tono. 

“No!” Esclamò ancor prima di vedere se il dio del tuono avrebbe continuato. Urlò accompagnando l’inflessione della voce con un movimento deciso allo scopo di mettersi a sedere. Non gli sarebbe stato possibile, immobilizzato com’era, per duplice ragione: medica e cautelativa.

Si stese nuovamente non senza numerosi ed energici scatti con i quali la sofferenza fisica non fece che aumentare.

Thor osservò la scena in silenzio prima di decidersi ad aprire bocca. “Loki smettila,” era abituato a tali repentini cambiamenti di atteggiamento.

“Tu non vuoi capire, ti rifiuti di farlo, troppo immerso nelle cazzate che Odino ti racconta per ingannarti. Di chi credi sia la colpa per quello che è successo?[8]

Si avvicinò a passo deciso, fino giungere a lato del letto. 

“Allora rispondi, perché ti sei fatto questo?” Le iridi chiare si incontrarono, si scontrarono e l’onda d’urto colpì entrambi. “Cos’altro può spingere l’orgoglioso Dio degli Inganni a un gesto tanto estremo? 

“Tu, Loki, capisci? Tu che per primo ammetti di volere tutto, e improvvisamente sei pronto a rinunciare a ogni cosa”

Gli sguardi non smisero di sfidarsi, rimanendo a lungo legati in una sorta di sfida. Mentre uno era impegnato nel tentativo di nascondersi e dissimulare, l’altro era impegnato nella lettura di quegli occhi verdi ammantati dall’ira. Doveva capire.

“Le prospettive cambiano. Tutto è un concetto relativo,” chiosò inacidito limitandosi a poche parole. Doveva riprendersi, affidarsi nuovamente al solito contegno austero e freddo che in più occasioni si era rivelato utile per non scoprire tutte le carte, per non mostrarsi troppo, mantenendo quella sottile nebulosa utile a confondere e irretire e manipolare con le giuste macchinazioni per imporre la sua di verità, fabbricata a dovere all’apposito fine di giungere ai propri scopi.

Il tonante indugiò ancora qualche breve istante prima di ritrarsi volgendogli le spalle.

“A breve sarai nuovamente portato in cella. Ti lascio riposare,”

“Avrei potuto farlo se nessuno mi avesse disturbato mentre ero rinchiuso laggiù,” frase dura, molto, troppo. Gelida. Parole che lasciarono Thor avvilito, inorridito da tale oscuro commento. Deluso.

Anzi, chi aveva avuto la brillante idea di disturbarlo? Se lo chiese Loki, mentre, nel silenzio ininterrotto, lo sguardo pesava ancora sulla schiena della fratello. Prima o poi l’avrebbe fatta pagare a chiunque aveva auto l’ardire di mettersi in mezzo.

“Basta” concluse il degno di Asgard e, incamminandosi verso la massiccia porta, proseguì “sarai sorvegliato a vista, e non appena Eir lo confermerà, verrai trasferito,” dopodiché, pochi passi ancora e scomparve lasciando un nugolo di armature dorate a dispiegarsi fino quasi a circondarlo, mentre lui emetteva un sospirò carico di soddisfazione in un ghigno di scherno, chiudendo gli occhi.

Ma quello che vide non gli piacque affatto.




 

“Fammi parlare con le guardie che l’hanno soccorso,” intimò cupo a un servitore. I passi erano rapidi e lunghi ed egli faticava a seguirne il ritmo in una frenesia che aveva il sapore di corsa.

Avrebbe forse dovuto parlare con Odino, ma a quale scopo? I rapporti tra i due si erano irrimediabilmente tesi, non avrebbe sicuramente portato a nulla di utile. D’altra parte PadreTutto era già stato chiaro in merito. Il trattamento di favore Loki lo aveva già ricevuto con le comodità riservategli in cella, non avrebbe di certo ottenuto altro. Anzi, qualsiasi cosa potesse essere usata come arma contro gli altri o sé stesso sarebbe stata sistematicamente eliminata.

Una scenata del genere non si sarebbe più dovuta ripetere. 

“Una scenata?” Aveva chiesto Thor con voce che ancora tradiva il profondo turbamento che l’aveva scosso. Non poteva essere finto. Non aveva di certo studiato un inganno così crudele.

Stiamo parlando di Loki, Thor, ricorda che i suoi precedenti non fanno che comprovare la mia tesi[9]. Le parole di Odino erano state una dura sentenza, provocando un profondo risentimento nel legittimo erede a cui sarebbe spettato l’Hliðskjálf[10], dall’alto del quale veniva osservato dall’occhio impietoso del sovrano.

No, non avrebbe potuto cercare conforto nella figura paterna. Il colloquio si sarebbe irrimediabilmente rivelato inconcludente. Si ritirò dunque nella tranquillità delle proprie stanze, nell’attesa del colloquio appena richiesto al servitore che gli si era affiancato al suo richiamo.

Voleva capire. Doveva farlo; per trovare pace, per riuscire a comprendere i sentimenti del fratello, per trovare il modo di aiutarlo.

Non poteva trattarsi di facezie, di capricci, di meri inganni. Non giunti a quel punto. Non quando l’indizio cardine lo avevano tutti dinnanzi. Entrambi avevano sempre provato un affetto speciale nei confronti della madre, eppure, lo stesso Thor si accorse di quanto tale legame aveva sempre significato nell’esistenza di Loki che senza eccezione alcuna - più o meno apertamente - vi si era rifugiato, alla ricerca di quella stessa approvazione che il padre stentava a concedergli.




 

Quando riaprì gli occhi ebbe la sensazione di essersi assopito. Si sentiva stordito, come a seguito di un lungo riposo. Non aveva nemmeno avuto la possibilità di rendersene conto. Inizialmente il vuoto lasciato dalle palpebre abbassate era stato riempito da immagini spiacevoli alle quali era seguito l’oblio più profondo. La totale assenza di pensieri. Il fisico aveva ceduto, troppo provato dalla tensione e dall’affaticamento dovuti alle opere corrosive compiute dal dio stesso, nonostante avesse ripreso i sensi soltanto pochi minuti prima.

Non si svegliò di soprassalto, ma agitato, per nulla tranquillo. Le iridi erano bene in vista, la tensione a trasparire dal verde limpido.

I soldati erano rimasti fermi, immobili. L’oro delle armature a riverberare in tutta la stanza, sommandosi a quello di miglior fattura del soffitto intarsiato.

Silenzio. Si ritrovò a chiedersi quando sarebbe stato spostato. Quando la luce del giorno sarebbe tornata ad essere soltanto un ricordo sempre più sbiadito con il trascorrere dei secoli, nella peggiore delle opzioni. Ma era certo che, con la giusta attesa, le condizioni sarebbero volte in suo favore.

Non poteva scappare da sé stesso, bene, sarebbe scappato da Asgard, terra inospitale per chiunque non vi appartenesse per legame di sangue. Legame negatogli una volta appresa non solo la verità sulle vergognose origini, ma anche sulle egoistiche intenzioni di Odino che, per primo, aveva anteposto le proprie brame di potere e controllo al bene di un bambino la cui sola certezza era la metà regale delle sue origini. Se le esili forme avevano sancito la sua condanna a morte, il sovrano degli Æsir non si sarebbe dovuto permettere di sconvolgere un destino già tessuto dalla Norne.

Quello era stato l’esatto momento in cui, emerso l’oscuro segreto, l’immagine di principe astuto era stata sostituita da quella di un corpo azzurro tenuto abilmente ed inconsapevolmente celato.

Gli occhi dei soldati attecchivano alla sua figura indebolita. Si sentiva esposto, comprensibilmente a disagio. Controllato a vista. Questo doveva sicuramente essere stato l’ordine imposto dal Padre di tutti gli dei. E ovviamente quei semplici tirapiedi non avevano esitato nel attenersi a direttive tanto assurde. Come avrebbe mai potuto liberarsi, immobilizzato com’era su un letto di malattia?

Smise di osservare il soffitto e compì l’unico movimento concessogli, voltò il capo da un lato.

L’attesa si sarebbe presto rivelata più lunga dello sperato.




 

Movimenti concitati. Tintinnii prepotenti ad avvicinarsi all’enorme porta intarsiata degli appartamenti del dio. Un pesante fragore a interrompere congetture e pensieri, ad avvicinarsi per aprire a una mezza manciata di uomini che aspettavano in rigida attesa.

Li ricevette nello studio riccamente arredato, adiacente alle proprie stanze da letto. Non era mai stato un grande frequentatore di quegli spazi. Il massiccio legno del tavolo si presentava poveramente adorno di lettere ricevute da lontano e spoglio di qualsiasi altro elemento.

Le guardie si disposero ordinatamente, seguendo i movimenti di un erede che, al proprio tempo, si sarebbe rivelato un sovrano molto amato.

“Cosa è successo là sotto?” Una richiesta chiara espressa con severità e tinta di preoccupazione. L’attesa di una risposta certa, immediata, dovuta. Parole da pronunciare irrimediabilmente per placare una sete profonda.

“Vostra Altezza,” iniziò esitante il primo. “Nei sotterranei vi è sempre un gran trambusto,” era evidente che stesse cerando le parole più adatte per proseguire.

“Dopo la vostra visita c’è stato un episodio, uno solo, in cui vostro fratello si è risentito, con toni molto accesi, dopodiché non abbiamo più visto nulla,”

E così gli raccontò di come Loki avesse insistito per vedere la madre, di come si fosse offeso al mancato avviso riguardo il termine della cerimonia funebre, devastando persino gli interni della propria cella; di come si erano allontanati dopo essersi assicurati che si fosse calmato ricomponendo gli arredi con un trucco.

Secondo quelle parole esitanti era tutto tornato al proprio posto, normale. Nulla che destasse preoccupazione o sospetto.

Erano guardie esperte, se ci fosse stato motivo per indagare riguardo un atteggiamento poco limpido se ne sarebbero sicuramente accorti. Allora com’era potuta verificarsi una simile messinscena? Non era un semplice prigioniero, colui che era rimasto coinvolto, ma Loki, Loki di Asgard, suo fratello e sorvegliato speciale delle prigioni. Nessuna negligenza sarebbe stata tollerata, l’aveva detto Odino, assicurando il giusto peso ad ogni parola dall’alto dell’Hliðskjálf dorato dal quale raramente l’aveva visto separato.

“Siamo accorsi subito quando abbiamo sentito gridare,” aveva aggiunto il più giovane catturando l’attenzione del dio che lo osservò con occhi interrogativi in una tacita domanda.

“Una ragazza, è stata una ragazza a chiamare aiuto,”

“Una ragazza? Quale colpa pende sulla sua testa per essere rinchiusa tra i più pericolosi criminali di Asgard?” 

E tutti capirono che compreso, tra le ombre della domanda, c’era anche quell’abile arciere che una voce femminile aveva salvato.

Nessuno rispose. Nessuno sembrava sapere.

Thor si affrettò dunque a congedare i cinque uomini. Molte incognite a formarsi tra i suoi pensieri a bruciargli sulla lingua. Doveva ricevere quelle risposte tanto agognate.

I passi si mossero rapidi e, in pochi minuti, la scalinata percorsa, il vivaio aperto, a mostrarsi in tutta la sua lugubre interezza, davanti agli occhi.





 

Sembravano trascorsi infiniti momenti da quando era stato lasciato solo con quel manipolo di idioti. La luce proveniente dall’esterno iniziava pian piano ad affievolirsi e lui era ancora lì, sullo stesso letto, con la stessa posizione e l’opprimente consapevolezza di non avere la possibilità di cogliere quello spiraglio di libertà che era andato creandosi.

Il silenzio e solo la voce dei propri pensieri a riempirlo. Da che ricordasse era sempre stato un gran pensatore, ma in quegli istanti infiniti, per la prima volta, questa caratteristica sembrò pesante macigno sulle spalle. La testa gli doleva ancora e avrebbe preferito il vuoto piuttosto che l’attività di mille elucubrazioni geniali e affilate. La sue mente era impegnata in costanti macchinazioni tanto da fargli desiderare finalmente un attimo di pace assoluta.

Chiuse gli occhi e si mantenne immobile. Per un attimo soltanto trattenne il respiro. Poi lo lasciò andare. Esausto. Possibile che non gli fosse concesso nemmeno il diritto al sonno?

Con fatica si impegnò nel mantenere il controllo, non era il momento di cedere, non una seconda volta. Si chiese se faceva tutto parte di una strategia che continuava a sfuggirgli da quando i sensi l’avevano nuovamente accolto nel loro stretto abbraccio o davvero si fosse lasciato andare in quel modo così vergognoso, di fronte agli occhi di tutti.

Il filo logico gli sfuggiva e tale mancanza di controllo assoluto lo agitava fastidiosamente. Se solo si fosse potuto muovere, anche soltanto per raggiungere le tempie con i polpastrelli gelidi, se si fosse potuto nascondere nei complotti dei suoi magheggi per risparmiarsi alla vista di quegli uomini indegni che mai avevano rivolto lo sguardo altrove da quando era stato permesso loro l’ingresso. Ma nulla di tutto questo era successo né sarebbe mai stato permesso.

La paura era tanta, saturava l’aria e Loki ne era consapevole. La sentiva, la percepiva. L’atmosfera era tesa, la possibilità di una fuga elevata. Il Dio degli Inganni era temuto, gli effetti del combattimento su Midgard ancora evidenti, le sue brame per reclamare un potere a cui aveva diritto dalla nascita mai sopite. 

Si lasciò andare a un silenzioso sospiro arricciando poi le labbra. Questo il prezzo del fallimento, un carcere interminabile privo di qualsiasi tipo di stimolo. Un baratro per le facoltà mentali che avrebbe dovuto allenare da solo nel tentativo di fuggire a un secondo atto di follia, qualunque esso fosse.

Non si sarebbe lasciato andare, non lo avrebbe premesso. Estraniato, come i reclusi da più tempo - la maggior parte sul fondo dell’enorme stanza sotterranea - dalla realtà; rinchiuso in un limbo di squilibrio e insensatezza che non avrebbe portato a nulla di simile all’agognato finale, onorevole e degno, che si era prefissato di raggiungere quando sarebbe stato il momento (no, lui era libero, non avrebbe mai accettato l’idea che fossero le Norne a controllare il dispiegarsi della sua esistenza). Esattamente l’opposto del gesto estremo che aveva compiuto.

Nuovamente la stessa domanda. Si era lasciato andare a un pericoloso atto di sconsideratezza o faceva tutto parte di un piano le cui trame gli stavano momentaneamente sfuggendo? 

Il medesimo quesito a tormentargli la mente stanca, a segnargli i lineamenti affilati, a percorrere le membra costrette su un letto impostogli con la forza.

Una risposta fuggevole che non si sarebbe offerta molto presto, il cui fantasma avrebbe impegnato i ragionamenti del mago per lungo, lunghissimo tempo.

L’ultima lama di luce filtrò tra le palpebre appesantite e non ci volle molto prima che scomparisse in un poetico saluto - più sicuramente un malinconico addio. Da quell’istante, l’oscurità.

Nessuno avrebbe potuto più percepire i cambiamenti del volto, i lineamenti mutevoli e piegati in una smorfia nascosta. Indecifrabile.

Si rivolse verso il polso immobilizzato stringendo un pugno che non poteva vedere ma solo sentire, mentre le unghie si conficcavano nella carne tenera del palmo.

Non emise rumore, non quando, finalmente, gli era stato concesso di agire nascosto tra le sfumature del buio. E, per quanto si fosse scoperto sinceramente grato per i raggi che era riuscito a scorgere dall’ampia vetrata della stanza che dava a ovest, riconobbe molto più funzionali quei momenti di oscurità assoluta o quasi. 

Le prime candele erano state sapientemente accese da un’ancella che non aveva scorto, ma della quale aveva udito i passi leggeri e il delicato fruscio delle vesti sottili. Era stata esitante nel lasciarsi il corridoio alle spalle. Aveva avuto paura. Paura del Dio degli Inganni. L’aveva capito dal respiro trattenuto il più possibile nell’angoscia di condividere l’aria con il più temuto criminale di Asgard, dai movimenti rapidi per svolgere il suo lavoro con celerità e liberarsi dall’impiccio di un incarico indesiderato e scomodo.

Una sola guardia si era voltata per osservarla entrare, distraendosi un breve momento che, se avesse avuto la possibilità, sarebbe bastato a Loki per agire, acuto e rapido e scaltro.

Ora le neonate fiammelle tremolavano, proiettando incombenti ombre armate e incupite sulle pareti rese ambrate dal fuoco. Una danza che sapeva essere sinuosa e sgraziata, rapida e lenta, immobile e dinamica.

E le iridi furbe si persero in quei passi improvvisati e mai ripetuti, isolandosi dal rumore che il rimbombo della propria voce gli creava nella testa.




 

Odino avrebbe certamente chiesto spiegazioni. E lui sarebbe stato in grado di rispondergli. Di provare la legittimità di tale predisposizione. Perché Loki non aveva finto, anche se si affaccendava affinché trasparisse il contrario. Non si trattava di una semplice messa in scena al fine di impietosire gli ultimi familiari rimasti, seppur non imparentati da legami di sangue. Quella morte aveva scosso a tal punto il dio dagli occhi verdi che la sua mente ne era rimasta sopraffatta e, annebbiata, l’aveva spinto ad agire seguendo vie che mai gli erano appartenute - nonostante la mutevolezza dei suoi piani - e che, in un unico e unigenito spasmo, l’aveva portato a contraddirsi. A condannarsi. Nella vita ancora lunga che lo attendeva non sarebbe ricapitato una seconda volta. 




 

Un nuovo e fastidioso rumore lo scosse da invisibili danzatori.

Nessuna parola. Solamente un cenno del capo che fece smuovere le guardie tutte. Tuttavia, i passi pesanti Loki li aveva riconosciuti quando ancora solcavano il pavimento del corridoio amplificati dall’alto soffitto.

“Non mi saluti nemmeno, fratello?”

Uno sguardo torvo in risposta che il dio non esitò ad accogliere.

“Cos’hai? Prima volevi tanto parlare,” pronunciò distrattamente quella frase, come se non l’avesse appositamente studiata per metterlo a disagio.

“Odino ti ha forse sgridato?” Continuò dopo che le guardie l’avevano portato in posizione eretta. Poggiare a terra i piedi indolenziti fu come medicina, dopo essere stato costretto per ore in una posizione tutt’altro che naturale.

Vide finalmente Thor che assottigliava gli occhi, renderli due fessure pronte a studiare ogni particolare del fratello, a interpretarlo.

Il figlio di Jotunheim, dal canto suo, aveva già da tempo imparato a riconoscere ogni mutamento nel comportamento del tonante che ora gli stava dinnanzi. I passi più pesanti e marcati, rapidi. I tratti severi nell’espressione del volto. I pugni stretti. Il corpo teso nella sua interezza. Atteggiamento tipico adottato a seguito di una discussione con il condottiero degli Æsir.

Non distolse lo sguardo, gli occhi continuarono a scontrarsi. A sfidarsi. A cercarsi nella speranza che l’altro cedesse, che uno dei due si arrendesse, consapevoli però che la resa non era mai stata incisa tra le pieghe della loro natura. Semplicemente, non aveva mai fatto parte di loro[11].

Sguardi familiari. Che non si spezzarono nemmeno quando il movimento venne imposto a ritmo dei passi delle guardie.

“Nel giro di pochi giorni dovresti stare meglio,” concluse Thor in un drastico cambio di argomento, alludendo così alle ferite che ancora dovevano affrontare una completa guarigione.

“Non fingere. Recitare la parte del fratello premuroso non ti si addice,” pronunciò tagliente quanto l’espressione del volto prima di essere scortato nell’ampio corridoio, anch’esso riccamente decorato.

Fastidiosi tinnuli provenienti dalle armature dorate scanditi ad ogni piede che si anteponeva a quello precedentemente mosso.

Non incontrarono nessuno. Probabilmente Odino aveva dato l’ordine di tenere sgombro il percorso. Oppure le voci erano circolate in fretta e tutti i servitori erano corsi a nascondersi pur di non incontrare i crudeli occhi del dio dietro ai quali si credeva fossero nascosti malvagi e oscuri inganni recitati in silenzio. Molte erano le leggende che vorticavano avvolgendone la figura come satelliti. E proprio questi strati di incertezza permettevano all’Ingannatore di muoversi, di agire, di essere mutevole ed imprevedibile. Non gli era mai interessato smentire le voci né le congetture spaventate, spaventose.





 

Perso nelle proprie riflessioni non seppe dire se il percorso era stato rapido o eterno ai suoi sensi. 

Quell’aria così viziata non gli era mancata per nulla. Entro pochi, brevi, istanti, ebbe l’irritante sensazione di non poter più riempire i polmoni di ossigeno liberamente. Quell’azione così naturale e inconscia diveniva pensiero costante per chiunque scendesse quella scalinata resa scura dall’umidità e dal materiale scadente.

L’andatura rallentò bruscamente. Percepì gli occhi di tutti puntati verso un unico fulcro, lui. Espressioni rabbiose, di rancore, alcune compiaciute di rivederlo lì, altre, inspiegabilmente, divertite. Ma, ben presto, sarebbe stato tutto molto più chiaro, soltanto che lui ancora non poteva esserne certo.

Decise comunque di non rivolgere lo sguardo altrove, in cerca di indizi, preferendo piuttosto mantenerlo fisso dinnanzi a sé, con fare fiero di sovrano, consapevole del sangue reale che gli scorreva nelle vene, sebbene intriso di vergogna e indegnità per un regno che era crollato sotto l’operato di Odino. Entrambe inette le figure paterne che gli erano spettate, seppur per differenti motivazioni.

Le guardie lo fecero voltare sul lato. Ora le spalle davano su una schiera di celle stracolme, mentre gli occhi si chiusero in due fessure dalle quali un’espressione acuta e curiosa, infastidita, si diramò fino a raggiungere l’interno di quella cella costituita da lati lunghi pochi passi. Numero che mai diminuiva, né aumentava.

E a quell’attimo di esitazione la risposta fu un brusco spintone che gli fece raggiungere un’ambiente diverso da quello che gli sembrava di ricordare.







Angolino di Ishouldgoaway...
Eccomi! Finalmente sono tornata e confesso che ho atteso a lungo questo momento. Per il primi giorni dopo la pubblicazione di quello che è divenuto il primo capitolo ho pensato a questa storia come autoconclusiva. Poche migliaia di parole in cui esaurirsi. E invece, con grande stupore, sono stati proprio quegli avvenimenti a urlarmi di dare una conlcusione degna a ciò che avevo iniziato.
Dunque eccomi qui. Non prevedo molti capitoli, ma comunque non è ancora finita. Portarvi questa nuova pare mi rende particolarmente felice, per cui, cari lettori e care lettrici, se vorrete farmi sapere il vostro parere a riguardo io ci sono, che vi leggo e vi sono grata.
Grazie a chi dedicherà del tempo anche in silenzio, senza farsi vedere, perchè per me è sempre molto importante.
Ve se ama!






[1] Inventata da me. Ho inoltre trovato che Svartalfaheimr e Niðavellir possono essere identificati come la stessa cosa in quanto la questione alle spalle è poco chiara - nell’Edda di Snorri la terra dei Nani viene chiamata Svartalfaheimr, mentre nella Völuspá si parla di Niðavellir. Dunque mi prendo la licenza poetica di separarli e trattarli come due mondi separati.

[2] Su THW si vede il contrario, anzi, il pavimento è proprio ricoperto da pagine stracciate. Mi prendo una licenza poetica per fare qualche modifica riguardo alla trama che l’MCU ha riservato all’Ingannatore.

[3] Ebbene, per chi non l’avesse riconosciuto, questo è un richiamo alla meravigliosa poesia I Wandered Lonely As A Cloud - conosciuta anche come Daffodils - che ci è stata gentilmente lasciata da W. Wordsworth. Nell’ultima strofa si parla proprio di questo inward eye, di un occhio interno, quello della mente, che ci permette di rivivere ciò che è già divenuto passato nell’immaginazione.

[4] Eh no, qui le cose sono andate in modo un po’ diverso. Loki non ha mai lasciato la presa, lascio all’immaginazione capire com’è andata tenendo in conto che gli eventi l’hanno comunque portato a New York e da lì in cella.

[5] In origine Eir sarebbe una dea, la Dea della vita capace di resuscitare i morti. A lei è anche attribuita l’arte delle erbe medicinali. Sembra che insegnasse alle donne gli incantesimi di vita, soltanto a loro, e che rigenerasse la salute di tutte coloro che la cercavano.

[6] In queste frasi “sempre” viene più volte ribadito. Si tratta di un espediente voluto.

[7] Tra i poteri del seiðr vi erano quelli di prevedere il futuro oltre che dispensare morte, sventura e malattia. Una magia molto potente basata sul concetto di comunicazione con gli spiriti e i morti. Quello che ho scritto io è una macchinazione della mia mente che non riscontra fondamenti se non nella trama stessa.

[8] L’ho detto nel primo capitolo che il dolore si tramuta anche in senso di colpa e questo porta a tutto ciò. Ma ricordiamo che Loki è un dio mutevole. Bisogna essere in grado di discernere i comportamenti e le parole. Non gioca mai a carte totalmente scoperte.

[9] Appositamente si tratta di discorso indiretto libero.

[10] Trono su cui siede Odino e dal quale gli possibile osservare tutti i mondi.

[11] Ripetizioni volute.



Questo giro ci sono davverto tante note e vi prego di perdonarmi se qualcosa non dovesse funzionare, ma sto ancora capendo bene come fare. Prima o poi ci riuscirò.



 

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Capitolo 3
*** Muta compagna ***


Si voltò in uno scatto, ma il manipolo di guardie che, teso, l’aveva scortato, era già sparito.

“Odino ha forse deciso di concedermi un nuovo passatempo?” Esordì tagliente, maligno.

La ragazza si voltò tutt’altro che sorpresa. L’umorismo affilato del dio era ormai divenuto famoso in tutto il regno e un atteggiamento offeso o addirittura plateale, non avrebbe di certo cambiato le cose, incoraggiando se non altro Loki a proseguire con quell’acuto sarcasmo che era divenuto elemento di riconoscimento.

D’altro canto, però, ciò che lei immaginava era che gli fosse quanto meno stata riferita la nuova condizione di prigioniero e quello che, irrimediabilmente, avrebbe comportato.

Non ricevendo risposta alcuna, il mago iniziò con stizza a guardarsi attorno, solo pochi dettagli erano mutati. Fece ricorso alla propria abilità di ingannatore per celare il dispetto che sentiva diffondersi nel torace. Come aveva potuto Odino privarlo di quella solitudine così opprimente ma così preziosa?

I libri non erano stati portati via, il letto era ancora al suo posto. Una nuova poltrona, molto simile alla precedente, posizionata in un angolo. Il resto era sparito, l’ambiente ripulito e gli oggetti non sostituti. Avevano il timore che potesse farlo nuovamente.

La ragazza indugiava sulla figura virile del dio dell’inganno mentre questi era immerso nelle proprie riflessioni. Il controllo di lei, quella presenza troppo delicata per trovarsi in un ambiente tanto rude, non gli avrebbe impedito di fare nulla. Di fatto, era irrilevante, pensò orgoglioso. Un paio di semplici occhi sarebbe stato abilmente depistato da apparenze e proiezioni, da mutevoli forme e realtà. Nessun pericolo dunque. Nessuna minaccia e nemmeno nessun fastidioso impiccio.

Si sarebbe limitato a ignorarla, magari a divertirsi un po’, a stuzzicarla, nulla di più.

Tutto sommato, riflettendo con ancora più attenzione, sarebbe stata un simpatico diversivo in un covo di inetti mascalzoni che erano sì riusciti a farsi catturare, ma non avevano mai sforzato le facoltà mentali concentrandole nell’elaborazione di un piano adatto ad eludere una prigionia sfiancante, opprimente.

Quale delizioso privilegio poter disporre di una figura tanto delicata come quella che aveva scorto tra i vestiti di una ragazza che ancora non aveva proferito una sola parola.

Lo osservava torva, incuriosita. Lo faceva di nascosto fingendosi impegnata in una delle letture che le erano state silenziosamente concesse quando aveva messo piede in quella nuova stanza, uguale a tutte le altre, eppure evidentemente più lussuosa e accogliente. Chiaro privilegio dovuto a una condizione originaria di elevato prestigio sociale.

Ne studiava i lineamenti affilati, la mascella maschile, la barba che aveva iniziato a irruvidirgli le guance, il mento. Il collo bianco e slanciato. Le labbra sottili e malevole, raggiunte una volta soltanto dalla lingua veloce e astuta

Il fisico asciutto era intuibile al di sotto delle vesti nuove, pulite, regali che non sarebbero state cambiate né tolte per lungo tempo ancora. Si trovava steso sul materasso, indeciso sul da farsi, su cosa dirle, sul se. Se rivolgerle - nuovamente - persino la parola, ad esempio.

“Non sono certo di cosa cerchi di ottenere continuando a fissarmi con tanta curiosità, ma ti pregherei di smetterla,” chiosò compiaciuto quanto seccato. E subito la mise in difficoltà. Lei abbassò gli occhi, posandoli nuovamente sulle parole che, innumerevoli, le parvero immediatamente sconnesse, tutte indipendenti, sole.

Immaginò l’aria che, fresca e invernale, le sferzava il volto delicato sino ad offenderlo con inclemente e immutabile durevolezza. Rivide uno dei fiordi di Asgard, a lei il più caro, e le sue acque agitate raggiungerlo con inesorabile furia. Potè udire i fischi di folate incanalate tra le alte pareti rocciose farsi più cupi a precedere una stagione oramai giunta senza che fosse prima stata annunciata.

Rivisse dunque l’ultimo inverno che le era stato concesso in dono, intimorita dalle beffe di una memoria che perde colori e tinte e sfumature, i cui contorni si dipanano in un oblio definitivo più della morte stessa, che era già stata vinta da un dio caparbio e volitivo, arrogante e ambizioso.

E in quei momenti, fu l’ingannatore a dedicare a lei i suoi occhi verdi, vibranti, brillanti.

Non gli si era ancora rivolta. Che avesse paura? Il suo sguardo sembrava curioso, forse malinconico, tutt’altro che limpido. Fu tentato di chiarire da sé ogni dubbio. Il seiðr glielo avrebbe permesso con una facilità quasi vergognosa. Di fatto, in quel contesto, non vi era alcuna barriera a separarli, a schermare il suo enorme potere, ad affievolirlo. Era riuscito a distruggere una cella intera senza che la parete dai riflessi dorati ne fosse in alcun modo scalfita, aveva addirittura percepito i reali pensieri delle guardie che, prive di ogni empatia, gli avevano comunicato la fine della celebrazione funeraria della madre; si era nascosto a tutti, soffocando i gemiti disperati che gli avevano grattato la gola in una sorta di bolla di intimo dolore. Nulla avrebbe dunque potuto impedirgli di portare a compimento quella semplice intenzione.

Fece perciò per pronunciare qualche runa sommessa, quando una domanda incerta lo fece momentaneamente desistere.

“Come state?” il capo ancora rivolto verso il basso, immerso in quel libro del quale si era appropriata.

“Cosa?” si ritrasse, aumentando ancor di più la distanza già abissale che sussisteva tra loro.

“Non fingete di non aver capito,” 

“Non sto fingendo, ho capito benissimo,” e l’occhiata che le rivolse riuscì a gelarla anche senza che lei la vedesse. “Valutavo soltanto cosa ti ha spinta a pensare che ti avrei risposto,” replicò con tono aspro e asciutto.

Era sicuro che quella ragazzetta silenziosa ne fosse infastidita e di questo si compiacque. Lo notò nell’impercettibile ruga che le si formò al centro della fronte, nella mascella serrata. Gli occhi trasformati in sottili fessure a fingere ancora di capire quel linguaggio complesso e regale, ufficiale, parlato solamente dall’aristocrazia asgardiana nelle occasioni di rappresentanza.

Troppo complicato per lei, considerò con sfacciata sufficienza in una riflessione personale abilmente celata dall’espressione distesa del volto.

Era curiosa. Lo percepiva dall’indugio degli sguardi posati su un volto che ancora a lungo i segni della vecchiaia avrebbero risparmiato. 

Era sveglia. Aveva sempre saputo che le domande non avrebbero ricevuto in risposta altro se non scherno e crudele ironia, eppure aveva tentato ugualmente - in una non troppo improbabile ipotesi lui avrebbe agito similmente per tastare il terreno e acquisire più informazioni di quante già non avesse carpito. Aveva compreso che si sarebbe dovuta accontentare di pochi e fuggevoli indizi, senza poter fare affidamento sulle parole.

Era delicata. Sebbene facesse del suo meglio per nasconderlo. Lo capiva dalla posa eccessivamente rigida e composta, dall’impropria austerità di un’espressione dipinta su un viso dai lineamenti dolci. Dal leggero timore che le aveva fatto tremare le dita nello sfogliare una pagina sottile - qualcuno l’avrebbe definita addirittura trasparente - prima di rivolgersi a lui con quell’unica, flebile domanda.

Era decisa. I lasciti di un’indole forte erano ancora evidenti, ma la prigionia l’aveva forse piegata. E il persistere della sua pena da un tempo indefinito poco rilevante, dato il risultato. Non aveva osato mai incrociare gli sguardi da quando la condivisone di uno spazio ignobilmente ridotto, per lui, un principe dal sangue reale, era stata imposta. Da Odino probabilmente. Anche se l’acume che l’aveva sempre contraddistinto gli suggeriva di non escludere del tutto la presenza di Thor in tale schema ancora incompleto ai suoi occhi.

 

 

“Ti avevo detto di non intervenire,” dichiarò il condottiero Ase con un’intensità degna del suo ruolo. “I guaritori hanno adempiuto al loro dovere, ed era stato disposto che Loki facesse subito ritorno alla sua cella,”

“È così,” gli consentì il figlio, ma le parole di Odino gli impedirono momentaneamente di continuare. 

Era consapevole che sarebbe accaduto. Aveva deliberatamente scelto di non consultare l’unica vera figura dalla quale potevano provenire quel genere di ordini. Eppure non si trattava di un capriccio infantile, questo doveva capirlo. E l’avrebbe saputo.

“Invece hai tergiversato, fornendogli innumerevoli possibilità,” Thor non era sicuro che fosse paura,  come la scelta lessicale avrebbe potuto suggerirgli; anzi, con tutta certezza non lo era. Si trattava piuttosto di rabbia, rancore verso un comportamento riprovevole rimasto incompreso.

“Ho preso le adeguate misure di sicurezza,” 

“Non potremo saperlo fino a che non metterà in atto ciò che ha pianificato,” precisò con aria meditabonda e il suo sguardo si spostò più avanti e più lontano, alle spalle di Thor, verso il grande portone intarsiato ai limiti della sala.

L’imprevedibilità del dio l’aveva sempre preoccupato. La logica delle sue idee, fuggevole sino alla loro completa applicazione, era sempre stata motivo di sospetto. Forse anche in tempi tranquilli di pace e fanciullezza.

Dovevano essere pronti, tutti. E senza avere il minimo suggerimento riguardo gli aspetti sui quali concentrare maggiori forze, energie, attenzioni.

PadreTutto era teso e di certo non avrebbe celato a Thor questo suo tormento.

“Ho parlato con la ragazza,” esordì il tonante interrompendo il flusso di pensieri che, libero, aveva iniziato a scorrere nella mente del sovrano. Egli tornò a guardarlo dall’alto della sua posizione.

“Colei che potrebbe tradire nuovamente il suo Mondo se irretita a dovere da Loki, sai anche tu che accadrà,” si pronunciò duro Odino.

“Non sarà così. Sarà un valido aiuto sì, ma per noi, non per Loki,”

L’unico occhio del figlio di Borr si assottigliò con il muto ordine di ricevere le dovute spiegazioni. 

Thor lo osservò ancora una volta, ne studiò nuovamente i tratti tesi del volto: sembrava stanco, osservò nel privato dei propri pensieri. E come biasimarlo? Dopo tutto ciò che era accaduto nei giorni precedenti. 

Odino, nel silenzio, stava ancora aspettando che la voce di colui che deteneva il potere del tuono riempisse nuovamente la stanza, echeggiando, rimbombando tra le innumerevoli colonne erette a sostegno della struttura. Thor si era fatto uomo e guerriero valoroso e sicuramente si sarebbe rivelato un sovrano saggio quando l’ora sarebbe giunta. Aveva sempre preferito la battaglia alle strategie, alla politica, eppure si era più volte dimostrato abile se messo alla prova.

 

 

Era lì per un motivo. Quella ragazza dalla parvenza innocua e insignificante. Perché mai compiere un simile gesto se non per giungere a uno scopo ben preciso. Lo doveva controllare. Ma perché lei. Perché il compito era stato affidato proprio a lei. Cosa aveva di particolare? Avrebbe facilmente potuto ingannarla, o almeno questo volevano fargli credere. 

Avrebbe dovuto attendere la prima perquisizione per capire. Lui avrebbe assistito con rancore al vile spettacolo inscenato da guardie conosciute mentre queste si sarebbero aggirate per la cella agitate e scaltre, attente. Lei si sarebbe allora accostata a un angolo osservando scrupolosa ogni loro movimento. E solo a quel punto avrebbe incrociato, uno ad uno, gli occhi di quegli invasori votati a Odino. Dopodiché gli stessi l’avrebbero scortata all’esterno, lasciandolo piacevolmente solo per un lasso di tempo tutt’altro che irrilevante. E lei sarebbe infine ricomparsa tentando di celare l’evidente stato di turbamento che le dipingeva il volto.

Eppure il momento propizio non era ancora giunto mentre le sue riflessioni si materializzavano in semplici congetture. 

Le celle erano sovraffollate, certo, il tasso di ribellione alle leggi asgardiane aveva subìto una preoccupante impennata, ma ciò non avrebbe mai dovuto ragionevolmente coinvolgere Loki. Anche solamente la preoccupazione che potesse trovare un nuovo alleato - o meglio, un mero strumento - nel nuovo compagno di cella che avrebbe fastidiosamente rovinato quell’esistenza tutto sommato solitaria da sempre. Non si trattava di privilegi, non solamente di quelli. Poco saggia era già stata la scelta di non isolarlo completamente in un’area deserta delle prigioni, magari progettata appositamente per riuscire a contenerlo. Ma arrivare addirittura a rischiare una coalizione tra menti sottili - lei non era insignificante come si impegnava a fargli credere e di certo qualcosa l’aveva portata a condividere la pena con i più pericolosi criminali del Regno - solamente per far fronte a un problema risolvibile con un semplice ampliamento o qualche esecuzione non era da Odino, non era da Thor.

Volevano controllarlo attraverso lei. Il come però, tendeva ancora a sfuggirgli. Eppure, dal momento stesso in cui l’aveva vista, era stato certo che non ci sarebbero riusciti.

“Inetti,” sussurrò, quasi compiaciuto, in un sorriso bieco e grave.

“Come dite?”

E si voltò verso la ragazza il cui nome ancora gli era sconosciuto, incontrando così, per la prima volta, i suoi occhi limpidi. Vi si soffermò rapidamente, ponderando attentamente la reazione che avrebbe lasciato trapelare.

Non era ancora giunto il momento di scoprire le carte. Gli elementi erano ancora insufficienti e, benché l’improvvisazione fosse una delle sue abilità più sviluppate, preferì optare per l’attesa, per la pazienza. 

In ogni caso, perché le avrebbe dovuto rispondere? Tornò a rivolgere la propria attenzione al soffitto spoglio con fare annoiato. Nulla a che vedere con quello a lungo osservato nella stanza dei guaritori, riccamente decorato e intarsiato con oro finissimo dalla fattura pregiata. Uno spettacolo che riusciva a incantare chiunque alzasse gli occhi verso l’alto, nell’ammirare lo spettacolare palazzo.

Un leggero sospiro lasciò i suoi polmoni, riassaporando il ricordo di una vista che a lungo ancora - o forse mai più - non avrebbe avuto la possibilità di ammirare o la facoltà di ignorare.

Era sempre stato un gran pensatore, Loki di Asgard. Le riflessioni, gli studi costantemente intrapresi come nutrimento per la mente, atti ad ampliare una conoscenza sempre più vasta. Eppure ora, con suo grande rammarico, si ritrovava ad elaborare elucubrazioni malinconiche. 

Scosse lievemente, ma rapidamente, il capo e anche le palpebre si mossero per poi rialzarsi in fretta.

Si stava concentrando sui motivi sbagliati.

Nel frattempo, lo sguardo di lei ancora insisteva sul suo profilo, ma l’ingannatore scelse di non darvi troppo peso. Che lo fissasse pure, dando mostra di tutta la sua incompetenza nello svolgere il compito che le era stato assegnato, chissà in cambio di cosa poi. Certamente un informatore scelto avrebbe mostrato maggior riguardo, maggiore cautela.

Ma cosa poteva pretendere da una ragazzetta all’apparenza poco più che adolescente?

I pensieri si contraddicevano fastidiosamente all’interno della sua mente, era inesperta o talmente abile da saper dissimulare la cosa alla perfezione? Le uniche certezze, fino a quel momento, erano il piano di Odino e il sospetto covato nei confronti della giovane.

Chissà cosa pensava lei, invece. Quali erano i suoi preconcetti sul mago, da cosa era stata messa in guardia; e come aggirare tali avvertimenti… Lo avrebbe certamente appreso con il lento scorrere del tempo. E, ancora una volta, tornò a ricordarsi di avere pazienza; giunto il momento, l’avrebbe senz’altro riconosciuto, se non creato lui stesso, e poi sarebbe stato costretto ad agire in fretta. Dunque quel noioso riposo, dopotutto, non sarebbe guastato.

Cercò di chiudere gli occhi, ignorando quelli di lei che, di tanto in tanto, tornavano a posarsi su di lui con curiosità, o forse sospetto. Gli era improvvisamente esplosa una grande emicrania e nel pensiero che la sua convalescenza non si fosse ancora conclusa vi trovò la ragione. 

Certo, era stato nuovamente spedito in cella - con meno premura di quanto si sarebbe mai aspettato - ma solo per paura e senso di urgenza, non perché si fosse ripreso completamente. Le bende, infatti, continuavano, strette, ad avvolgere i polsi, così come il resto di un corpo vittima di un’ira disperata e autodistruttrice; e la tentazione di osservare quanto fosse rimasto del suo operato stava combattendo per rivendicare un ascolto che il dio, nella sua razionalità, stentava a concedere.

“Ti vedo pallido, Loki figlio di Odino, sicuro che il vecchio abbia permesso di sistemare il macello che hai combinato?” un tono divertito quanto provocatorio catturò la sua attenzione.

Ovviamente qualcuno che avrebbe deciso di sfruttare il doppio campo di forza luminoso che li separava ci sarebbe stato. Stava solo aspettando che giungesse il momento più prospero. Il brivido di una sfida vigliaccamente intavolata, nella consapevolezza di non correre alcun rischio concreto, non nell’immediato futuro, almeno. Povero stolto. Pensò.

Probabilmente si era appena svegliato dal proprio annoiato riposo, dato che aveva aspettato tanto a lungo prima di sancire, con le sue stesse mani, la propria distruzione - anche se sembrava non esserne ancora consapevole. 

“O forse è tutta apparenza e creperai tra poco. Non vorrei sbagliarmi, ma ricordo non fossi conciato molto bene - si avvicinò ancora di più al limitare della cella, poi continuò - e nemmeno ora… ” lo osservò di sottecchi prima di terminare con la gustosa invettiva. Un ghigno bieco sulle labbra.

“Abbiamo tutti apprezzato il teatrino, sai. Qua giù non succede poi molto,”

Se prima aveva sollevato solamente il capo, ora Loki si era messo a sedere, pronto per alzarsi e raggiungere la posizione che più fosse vicina allo sconsiderato interlocutore.

Gli occhi di lei a fare da spola tra le due figure, senza alcun movimento del collo ad accompagnarli, e con una pagina trattenuta a mezz’aria, tra le dita.

Il dio emise un sibilo compiaciuto e i suoi denti si mostrarono in un rapido sorriso divertito.

“Devi considerare davvero poco la tua vita se insisti nell’aprire bocca, Ivar,” contemplò con tono pacato ma tagliente. Acido a tratti.

Gli occhi verdi ridotti a due velenose fessure.

Piegò poi la testa di lato. 

“Curioso che sia proprio tu a dirlo,” E Loki le avvertì quelle parole e ne fu intimamente colpito. Nulla di inaspettato, certo. L’acredine che ispirava le chiacchiere dell’uomo era conosciuta ed evidente. Eppure, per quanto possiamo essere ragionevolmente preparati, l’irrazionalità rimarrà - sempre - un’incognita tutt’altro che trascurabile; capace di instillare dubbi, di scavare, di raschiare la più primitiva reazione anche in chi già si conosce da tempo. Anche nel dio dell’inganno.

Ovviamente tutto abilmente celato dalla pronta maestria del mago nell’arte della dissimulazione.

“Ti piace testare il punto di rottura del filo, non è vero? Quanto ancora reggerà prima di spezzarsi; giocare con la pazienza di chi stai sfidando al riparo di una cella sicura, come espressione della tua codardia,”

Non trascorse nemmeno un’istante prima che una torva risposta venisse sputata dalle labbra del disertore.

“Davvero, non vorrei ripetermi, ma perché insisti ad affibbiarmi caratteristiche di cui tu sei il Signore? Codardia, istinti suicidi…”

La tensione era palpabile ed evidente, ma Loki si prese ugualmente il tempo per dedicarsi a un’osservazione, fuggendo dal desiderio di rispondere in modo stolto soltanto per zittire un omuncolo che mai sarebbe stato al suo pari. Vi sarebbero stati molti modi, ma, come sempre, optò per il più subdolo.

“Tu hai paura,” iniziò dopo un ulteriore sguardo. “Tenti di nasconderlo. Ma la percepisco. Dalla tua faccia, dai tuoi pensieri,” e calcò volontariamente quella parola. Pensieri.

Ivar, figlio di un malcapitato che era riuscito a farsi strada all’interno delle truppe di Odino, prima di essere vinto sul campo di battaglia precedendo il diffondersi di una malattia sicuramente contratta in uno dei tanti festeggiamenti che avevano seguito una vittoria. Era uomo abile e fidato, suo padre. Rapido e svelto, debole solo al costante richiamo della carne, aveva ricevuto la fortuna di vedersi risparmiata l’ignobile vista di un figlio disertore, dalla mente tanto debole quanto forti erano i suoi fendenti con la spada.

Lo vide esitare, abbassare impercettibilmente lo sguardo per poi rialzarlo come se nulla fosse accaduto, come se Loki non fosse stato in grado di percepire quel suo gesto appena accennato.

“Smettila di nasconderti dietro questi trucchetti, sei un pagliaccio che si serve di minacce vuote, un inconcludente incapace di attuare anche il più semplice dei piani, che si serve delle credenze popolari per incutere paura e assoggettare. La verità è che tutto quello che professi di poter fare è falso e indubbiamente inutile, dal momento che marcirai qua dentro fino a quando il Ragnarok sarà compiuto. E ricordati che non sarai tra i pochi che si salveranno,” eccola la reazione che voleva.

“Speri che queste parole mascherino il terrore che hai provato alla prospettiva che io arrivassi davvero fino ai tuoi pensieri, non è forse vero Ivar?” Il breve silenzio che intercorse prima della frase successiva fu elemento essenziale per giungere al punto. “Convinciti pure di quello che vuoi, credi alle mie parole o non farlo, non ho motivo di insistere. Sappi solo che talvolta quelle storie che circolano di bocca in bocca sono solo inventate, mentre altre, tutt’altro che false, vi si mimetizzano nel mezzo,”

Il caos. Ecco dove voleva portarlo. L’incessante dubbio che lo avrebbe inseguito in ogni angolo di quella cella. Forse Loki non aveva mentito e quella velata minaccia non era semplice suggestione. D’altro canto, anche se così fosse stato, era poco probabile che riuscisse ad appropriarsi di quelle riflessioni anche attraverso molti metri e una doppia parete di energia.

Il dio lo osservò compiaciuto prima di tornare verso il letto e appoggiare la schiena alla testata intarsiata. Non aveva mentito, sfruttando piuttosto le dicerie che, da sempre, sul suo conto erano state diffuse. E quel seme di incertezza che aveva consapevolmente seminato sarebbe germogliato condizionando la vita di quel povero inetto fin quando il respiro non gli fosse sfuggito dai polmoni. Spettacolo apprezzato da osservare nei momenti di maggiore noia. Un piccolo gioco per far passare il tempo. Sarebbe stato sufficiente rivolgergli uno sguardo e Ivar, carpitolo, avrebbe risvegliato in sé quel dubbio sempre latente.

Eppure anche quel maledetto era riuscito a toccare dei nervi scoperti. Si era dimostrato un abile avversario sul piano dialettico, doveva riconoscerlo - seppur mai al suo livello, ovviamente. La variabile della dissimulazione, tuttavia, rimaneva sempre ben presente nella formula, impedendo così al mago di rendere evidente qualsiasi implicazione emotiva. Strategia ormai rodata lungo le ardue vie di un’esistenza privata dei propri diritti di nascita.

Serrò la mascella, nervoso. Stava dando troppo peso alle vuote parole di un essere patetico. Semplici illazioni - si disse - private di qualsiasi conseguenza. Si trattava di un potere che il disertore non meritava e che non sarebbe comunque riuscito a gestire.

Stupido buono a nulla. Pensò. 

 

 

Gli occhi della ragazza erano finalmente tornati sulle pagine del volume - di cui si era silenziosamente appropriata - dopo aver osservato quello scambio così tagliente e aggressivo che si era appena consumato senza però spegnersi del tutto.

Era rimasta in religioso silenzio. Nemmeno un suono aveva trovato respiro dal dischiudersi delle labbra, ma ogni immagine le si era impressa nella memoria. Cosa stava studiando di lui? Assorta in una lettura eccessivamente lenta. 

I suoi ragionamenti erano impegnati in un vagare febbrile di ipotesi e possibilità, lo sentiva sulla sua stessa pelle. Nulla aveva a che fare, quella sensazione, con la scia delicata lasciata dal contatto dei polpastrelli sulle maniche leggere.

Avanti. Indietro. E poi di nuovo. Avanti. Indie… Un fastidio improvviso lo fece scattare e il capo subito si mosse.

“Perdonate, mio Signore,” alzò le ciglia lei con fare imbarazzato.

Un semplice accesso di tosse, tanto inaspettato quanto sgradevolmente irritante. Chiara colpa dell’aria umida e ormai marcia che aleggiava nei sotterranei, sicuramente troppo a raschiare la stretta gola di esile ragazza, troppo poco per poter costituire un qualche tipo di problema per qualcuno.

E le sue scuse sarebbero senz’altro passate inosservate, insieme alla loro irrilevanza, se non si fosse arrischiata a posare le iridi vitree sui gesti a un tratto interrotti del dio.

Se ne accorse, in modo inevitabile, e abilmente rapide furono le mosse che ne distolsero l’attenzione. 

Non erano le sue intenzioni, le valutazioni di una mente sottile, a dover essere chiarite.

D’un tratto assottigliò lo sguardo. “Cosa stai leggendo?” le chiese severo, allarmato, mettendosi nuovamente a sedere sopra le lenzuola di poco sgualcite. Prese dunque a fissarla insistente, desideroso di coglierla in errore e al contempo inorridito dagli intrecci verdi e oro della copertina che aveva scorto con troppa lentezza essere tra le sue mani.

Lei abbassò lo sguardo su quelle stesse dita che non avevano mai smesso di sfiorare le numerose pagine, leggere e impalpabili, rilegate assieme. Ma non ebbe tempo nemmeno di accennare a una risposta che il dio le si rivolse subito, imperante. “Posalo immediatamente.” E il gelo di quell’ordine le raggiunse le ossa, impregnandole prima le membra, filtrando facilmente l’epidermide - delicata come i fogli inchiostrati ai quali si era affidata - seppur si sforzasse affinché fosse evidente il contrario.

“Fallo,” aggiunse furioso. Eppure la voce non si era alzata.

Lei ubbidì, eseguendo le istruzioni con lentezza e timore, come quando ci si ritrova di fronte a una bestia pericolosa e tutte le proprie risorse vengono impegnate per portarsi in salvo e non farla innervosire. Ma intanto quella rimane lì, immobile, gli occhi sgranati a scrutare ogni movimento, ogni espressione per capire quando la guardia viene abbassata e sferrare il proprio attacco con maggior efficacia.

Momenti di tensione catalizzati in uno scontro ossimorico di sguardi. 

Eppure non perse quella sua malcelata sfrontatezza, la ragazza. Sfrontatezza che la spinse sino ad avvicinarsi all’uomo dallo sguardo duro e furbo che continuava a seguirne le movenze, dai lineamenti tesi, proteso verso uno spazio incolmabile che inizialmente li separava.

Si arrischiò al punto da posargli il libro accanto, quasi a sfiorargli la mano con il cuoio spesso.

Loki la osservò, esprimendo poi, chiaramente, ciò che i suoi occhi già avevano iniziato a dire.

“Che stai facendo?” E, dopo una pausa opprimente, continuò “perché lo hai portato qui? Rimettilo al suo posto,”

“Non era mia intenzione offendervi,” affermò pacata, stranamente calma. Non sembrava affatto spaventata dal dio degli intrighi e delle malefatte. Eppure era l’ingannatore in persona, e non vi era nessuna barriera a separarli - rivolse un rapido sguardo a Ivar, stravaccato sul fondo della sua spoglia cella, appoggiato al muro; nulla a che vedere con il lusso ora ammantato di modestia della sua prigione.

“Certo che no,” pronunciò, questa volta con fare annoiato.

“E dimmi,” fece una pausa come ad aspettare passivamente che fosse lei ad intervenire.

“Sigyn,”

“Sigyn,” ripetè lui, gustando il suono di ogni lettera prodotta dalla sinergia tra lingua e labbra. Quel nome sembrava mescolarsi perfettamente con la figura esile di lei, dai lineamenti morbidi e modesti.

“Cosa ti può aver portato a pensare di avere il permesso di frugare tra le mie cose?” La osservò con intensità. “Il fatto che tu sia qui non ti legittima a fare quello che vuoi,” proseguì tagliente. E lei attese prima di dargli la risposta che lui stava aspettando. Sembrò pensare a cosa dire, riflettere, come se volesse trovare le parole più adatte.

Certo, era stato Thor a offrirle il passatempo della lettura, con un semplice cenno del capo alla vista di quanto l’avevano catturata tutti quei volumi, ma da Loki non aveva mai ottenuto nulla. Nessun permesso. Si sentì improvvisamente in difetto, in errore. Certo era che non aveva agito con malizia.

In ogni caso lui aveva avuto modo di notare fin da subito in cosa si era impegnata, quindi perché aggredirla in quel modo soltanto allora? Come aveva potuto non accorgersi di una copertina così particolare fin dal primo momento? Questo Sigyn non riusciva proprio a spiegarselo, sembrava essersi ripreso molto in fretta e in modo ottimale, ma forse era solo un palliativo.

“Non l’ho mai pensato, mio Signore,” era incerta. Non riusciva a decidere cosa mettere a fuoco con le iridi color miele, se le punte sfuggenti dei propri piedi, oppure l’uomo che la stava interrogando; questo la portò irrimediabilmente a un vagare convulso tra i due soggetti. Spaziando poi regolarmente sull’ambiente che li circondava.

La testa leggermente inclinata le faceva ricadere ciocche di capelli castani davanti al viso.

“O sei incredibilmente stupida, oppure mi stai mentendo,” e non distolse lo sguardo nemmeno per un momento da lei. Sembrava sinceramente rammaricata, o almeno la posizione che aveva assunto lo faceva chiaramente intendere. Che fosse voluto? Si chiese Loki che mai aveva smesso di analizzarne i comportamenti.

Si trovava ancora in piedi. Postura perfetta, spalle estremamente dritte. Le mani si incontravano all’altezza del ventre in una danza che lentamente le portava a unirsi per poi perdersi nuovamente e ritrovarsi ancora una volta. Se le stava tormentando da sola, eppure con delicatezza e un’insolita eleganza nei movimenti. Ma perché la considerava così insolita? Cosa sapeva di lei? Nulla che andasse oltre delle semplici elucubrazioni mentali, le stesse che spesso, in passato, gli avevano permesso di carpire elementi chiave nelle figure con la quali era solito confrontarsi. Congetture che si rivelavano fondate in un modo estremamente veritiero e puntuale.

“Non sono solita mentire,” pronunciò spostando improvvisamente il proprio volto sul dio, in un’espressione piccata, dura.

Potè chiaramente osservare un ghigno dipingerglisi sulle labbra, le quali ben presto vennero arricciate in una smorfia affilata ed espressiva. Un movimento delle sopracciglia ad incorniciare l’intero volto. Gli occhi verdi avevano brillato, furbi. L’insinuazione alle abitudini che avevano reso conosciuto il figlio di Laufey era uscita chiara, consapevole, accompagnata da un’occhiata severa che mai avrebbe lasciato spazio ai dubbi.

“Pungente,” commentò mettendosi più comodo e appoggiando così una mano sul materasso, alle proprie spalle. Il braccio teso a sostenere il peso del corpo. “Quindi sei una stupida, lo ammetti,”

“Semplicemente non ci ho pensato,”

“Appunto, ho ragione io, sei una stupida,” lo ripetè ancora una volta. Al solo scopo di ferirla. “Altrimenti ti saresti tenuta lontana dalle mie cose,” sembrava quasi divertito, del tutto conscio di quanto un simile atteggiamento di scherno si mescolasse alla perfezione con dei modi volutamente - e velatamente - minacciosi, al solo fine di creare caos e confusione nell’interlocutore. Adesso, quella ragazza, Sigyn.

“Chiunque abbia la capacita di usare un po’ del proprio intelletto, un po’ di criterio almeno, avrebbe capito senza nemmeno uno sforzo entro quali limiti mantenersi,”

Qualcosa mutò nello sguardo di lei, ma Loki non seppe mai dire cosa.

“Lo hai ammesso tu stessa, in fondo, no? È questo il vero significato delle tue parole,” mosse ancora il capo come se facendolo riuscisse a scorgere nuove sfumature nella reazione di lei che invece era rimasta immobile, senza alcuna evidente intenzione di volergli concedere risposta.

“Mi chiedo però se tu l’abbia capito,” concluse il dio dopo soltanto una mezza manciata di secondi, tutti uguali.

Si trattava forse di una perifrasi per sottolineare nuovamente quanto la trovasse sciocca e ridicola? Come se non avesse potuto cogliere nemmeno le più palesi intenzioni di simili accuse che le erano state rivolte.

In realtà non era certa di cosa pensare. Probabilmente voleva soltanto provocarla, così come poco prima aveva fatto con l’altro prigioniero. Lo aveva lentamente condotto all’incertezza, per poi svuotarlo di qualsiasi sicurezza l’avesse mosso in principio a intraprendere il primo passo di quella conversazione così rivelatoria.

Eppure, se anche così fosse stato, se anche lui avesse voluto stordirla con i suoi giochetti infidi e complessi, lei stessa si era più volte dimostrata una discreta falsaria, capace di servirsi con abile maestria dell’ambiguità che era stata data in dono alle donne, o che comunque gli uomini di Asgard vedevano come tratto caratteristico femminile. Perché non sfruttarlo dunque?

Lui continuava a fissarla con insistenza; a scrutarla, a studiarla da capo a piedi. Stava osservando tutto di Sigyn, mentre lei manteneva gli occhi fissi sul volto del mago, così concentrato e attento.

Chissà a quali conclusioni era giunto; quali domande si stava ponendo e se queste sarebbero rimaste o meno senza risposta; se era riuscito a carpire gli argomenti che le affollavano la mente. Sicuramente la sua esperienza di guerriero stava affiorando insieme a quell’attenzione quasi maniacale per i dettagli che spesso si era rivelata utile sul campo di combattimento. Una curiosità che spesso l’aveva messo addirittura in pericolo e che ben si adattava alla fame di sapere che fin da bambino era stata simbolo di distinzione dal fratello invece più interessato al combattimento.

Agli occhi di lei era assolutamente evidente, una natura impossibile da celare. Era Loki stesso a dirglielo, con i suoi atteggiamenti, mentre i racconti che avevano contribuito a dipingerne l’immagine fuggevole e intimidatoria non facevano che alimentare la convinzione di quella ragazza che ancora il dio non era riuscito a decifrare, ma soltanto a scalfire nell’apparenza.

Eppure, immersa com’era nelle sue riflessioni, si accorse in ritardo che l’Ingannatore aveva smesso di guardarla. Così si voltò un poco, quel poco che bastava a seguire la traiettoria che avevano assunto i suoi occhi verdi e astuti.

 

 

“Spero di non aver interrotto nulla,” affermò ironico Thor che, nel frattempo, si era avvicinato alla cella.

“Sono stupito, lo riconosco,” ribatté l’altro aggiustando la posizione. “Ammetto che non pensavo ti saresti scomodato a scendere di nuovo quaggiù,” e lo squadrò con gli occhi stretti e una smorfia sulle labbra. Il degno di Asgard si era appena affacciato alla cella, non era lì da molto, con tutta certezza.

“La sfiducia è sempre stata un tuo difetto Loki,”

“Sarebbe un controsenso altrimenti, non trovi? Se il dio dell’inganno fosse conosciuto per la sua fede invece che per il sospetto,” poi aggiunse “non è nella mia natura, lo sai, tu che affermi di conoscermi,”

Sigyn interruppe per un momento il contatto tra i due, passandovi nel mezzo per defilarsi in una posizione ritirata.

Fu Thor a dedicarle lo sguardo più lungo.

“No,” iniziò poi tristemente, tornando sul fratello, “credo di non saperlo più,” sembrava dispiaciuto, indubbiamente severo. E il mago si chiese se Odino fosse stato messo al corrente di quella visita tanto inaspettata. Lo faceva sempre, anche quando l’immagine della madre si materializzava, inconsistente, dinnanzi ai suoi occhi per fargli visita. Si domandava se lo sapesse, ed era più volte giunto alla conclusione che sì, era così, nel suo animo ottuso soltanto nei riguardi di quel figlio che non aveva esitato un solo momento a incarcerare. Eppure, sperava ancora di sbagliarsi, preferendo non indagare oltre, così da evitare un senso di tradimento che altrimenti si sarebbe esteso anche all’adorata moglie.

E forse a quel punto, solo a quel punto, si sarebbe davvero pentito di averlo preso con sé, dopo aver visto com’era riuscito a legare così strettamente a sé anche Frigga, il piccolo Jotun raccolto tra i picchi ghiacciati; sempre se quel vero rimorso non si era presentato.

“Ma smettila,” si limitò a rispondere il minore dopo aver sbuffato seccamente. Erano lamentele vuote, inutili che non gli avrebbero provocato alcun senso di colpa o rimpianto.

“Quindi? Come stai?” sembrava voler nascondere quel velo di preoccupazione che, invece, gli offuscava lo sguardo.

“Sei davvero venuto a disturbarmi solo per una domanda della quale conosci già la risposta?” Lo osservò cinico. “Fottiti,” e, afferrato un libro, finse di leggerne la prima frase.

Thor, tuttavia, non distolse lo sguardo dal fratello, incupito da un’accoglienza che sarebbe stato da sciocchi aspettarsi migliore.

E, prestando attenzione, lo vide quel rancore, celato al di sotto di innumerevoli strati, nascosto nelle zone d’ombra. Odiava e biasimava; anche se stesso. Infastidito da un tipo di attenzioni che non desiderava e perseguitato dal fantasma di un ricordo del quale non riusciva a liberarsi.

Fu a quel punto che Loki tornò a sollevare gli occhi con fastidio, evidentemente annoiato dalla presenza che ancora indugiava nell’andarsene via.

“Non sarò di certo io a scacciarti né a trattenere il futuro erede di Odino, se ti aspetti qualche cosa da me. Sono certo avrai abbastanza tirapiedi che facciano il lavoro al posto tuo. Fai quello che vuoi,”

Thor accennò una smorfia ricolma di amarezza e delusione. Quando mai aveva provato qualcosa di diverso, si ritrovò presto a pensare, offeso dall’indifferenza di colui che sempre aveva chiamato fratello.

Lo aveva allontanato da se, dal proprio cuore, e il tonante non riusciva a capire come Loki ci fosse al fine riuscito. Si trattenne ancora qualche secondo, dopodiché si allontanò a capo chino.

Gli occhi verdi del mago lo seguirono di soppiatto, e un fugace ghigno gli si dipinse sulle labbra. Il suo intento era compiuto, non l’avrebbe più rivisto per un po’.




Angolino di Ishouldgoaway:
Incredibile ma vero sono viva e sono tornata con un nuovo capitolo. Qui troviamo un Loki che è nuovamente costretto in una gabbia e... un nuovo personaggio che sicuramente in molti già conoscono, Sigyn. Come potevo non inserire la moglie ufficiale del dio dell'inganno, la stessa di cui ci parla l'Edda poetica.
Che dire, sono felicissima di essere finalmente riuscita ad aggiornare e spero con tutto il mio cuoricino di aver portato qualcosa di apprezzato.
Ringrazio ovviamente chi segue, ricorda o mette tra i preferiti la storia, chiaramente anche chiunque avesse voglia di farmi sapere (anche con pochissime parole) cosa pensa di questo nuovo capitolo.
Con tanto love,
Ishouldgoaway

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