Plus

di JohnHWatsonxx
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** The A Team ***
Capitolo 2: *** Drunk ***
Capitolo 3: *** U.N.I. ***
Capitolo 4: *** Grade 8 ***
Capitolo 5: *** Wake Me Up ***
Capitolo 6: *** Small Bump ***
Capitolo 7: *** This ***
Capitolo 8: *** The City ***
Capitolo 9: *** Lego House ***
Capitolo 10: *** You Need Me, I Don't Need You ***
Capitolo 11: *** Kiss Me ***
Capitolo 12: *** Give Me Love ***



Capitolo 1
*** The A Team ***


Note importanti! Le parti del testo in corsivo sono da considerare anche come dei pensieri di John, oltre che proprio i versi della canzone da cui ho preso spunto
 
N.d.A.: Mi mancava pubblicare sul fandom di Sherlock. Questa volta sono tornata con una raccolta di one-shot di cui ognuna prenderà spunto dall’album Plus di Ed Sheeran. La prima è The A Team, e se non l’avete ascoltata fatelo subito perché ne vale la pena. Buona lettura!
 

 
Aveva imparato, quando era più piccolo, a non allacciare legami sentimentali. Non ricordava il perché, ma sapeva che qualcosa –qualcuno- lo aveva disintegrato. Per questo far entrare John Watson nella sua vita era stato complicato.
 
Non si trattava di fiducia, il medico glie l’aveva già mostrata innumerevoli volte nel primo caso che avevano seguito insieme, erano altri sentimenti, altre emozioni che era sempre riuscito con successo ad evitare. L’affetto –si era detto- brucia più del fuoco. Eppure…
 
Eppure erano lacrime quelle che sentiva sul viso, scendere come neve, pesanti come rocce, mentre diceva addio all’unica persona che davvero gli era stata accanto. Erano sentimenti quelli che stavano esplodendo nel cuore mentre sentiva al telefono la voce spezzata di John. Non avrebbe voluto fargli questo, ma non c’era altra soluzione. Almeno aveva trovato il motivo per uscire vivo da quella missione che gli aveva affidato Mycroft.
 
Dicevano di lui che era un genio bloccato nei suoi ragionamenti, fermo così da quando aveva diciotto anni*, ma ultimamente neanche lui stesso credeva più a quelle voci che lo avevano segnato per tutti quegli anni. Qualcosa, dentro di lui, era cambiato: aveva capito che non aveva mai evitato i sentimenti, non era colpa sua se tutti lo adoravano, ma non piaceva a nessuno**.
 
I sentimenti c’erano, li aveva solo ignorati. Era stato John Watson farli riemergere come diamanti in un mare di carbone. Ed ecco a cosa lo avevano portato: era su un tetto, le lacrime agli occhi, un telefono tra le mani mentre lasciava un biglietto al suo assistente, al suo migliore amico, al suo primo, ed unico, compagno di vita. Ovviamente sapeva che non sarebbe morto, ma sapeva anche che stava distruggendo un cuore. Non un cuore qualsiasi, organo vitale di ogni essere umano, ma quello di John Watson.
 
Purtroppo non sarebbe potuto tornare indietro, purtroppo avrebbe dovuto lasciare il regno dei vivi. Ed in quel momento, tra il tetto e il materasso, Sherlock si rese conto di amare John, ed atterrò con la testa più pesante. Passarono minuti frettolosi, l’organo Lazarus si era messo in moto in maniera impeccabile, tutto era pronto come una recita di Natale di un gruppo di bambini fastidiosi. Sherlock si sdraiò a terra, mise la palla da squash sotto il braccio e attese.
 
Furono minuti che sembrarono ore.
 
I suoi sensi erano compromessi dai rumori che lo circondavano eppure, tra tutto quel macello, riuscì a riconoscere i passi del suo John avvicinarsi al suo corpo, la sua voce sussurrare “E’ il mio amico”, e infine la sua mano sul suo polso privo di battito.
 
In quei pochi secondi Sherlock registrò quel contatto nel suo palazzo mentale. Sentì le dita, morbide e allo stesso tempo ruvide, del dottore avvolgersi intorno al polso intento a scorgere qualche segno di vita che non c’era più; sentì quelle stesse dita scivolare via mentre continuavano a cercare il braccio morente del detective. Sherlock vi lesse così tanto –la disperazione, l’affetto, l’incredulità, la rabbia- che quasi avrebbe mandato a monte il piano, ma non lo fece. Aveva una missione, e doveva portarla a termine per salvare John.
 
***
It's too cold outside
For angels to fly
Angels to fly

***
 
Era stato difficile lasciare Londra, all’inizio. Un po’ più facile era stato scovare la prima cellula, e ancora più facile era stato uccidere il braccio destro di Moriarty, Sebastian Moran. Scovare le organizzazioni criminali appartenenti al Napoleone del crimine non era tanto complicato quanto scovarle tutte: nel giro di due anni avrebbe distrutto 45 associazioni a delinquere che operavano sotto il naso di governi rispettosi.
 
Nulla sarebbe stato faticoso quanto evitare di prendere il telefono usa e getta che il fratello gli procurava ogni mese e scrivere un messaggio a John. Aveva perso il conto di quante volte ci aveva provato: sbloccava il cellulare, componeva il numero che ormai conosceva a memoria e scriveva un numero ogni volta che scovava una cellula: il conto alla rovescia stava ormai giungendo al termine.
 
Ricordava ancora quando gli scrisse il numero uno: si trovava in Serbia, e si stava per intrufolare tra le fila dell’ultima organizzazione. Mai come quel giorno era stato tentato di inviare davvero quel messaggio, mancava un millimetro, quello che separava il pollice dai tasti del piccolo telefono, e John avrebbe ricevuto un messaggio, la vera prova che lui era ancora vivo.
“-1 SH”
Ma non lo inviò.
 
***
An angel will die
Covered in white
Closed eye
And hoping for a better life
This time, we'll fade out tonight
Straight down the line

***
 
 
Con un serbo quasi perfetto Mycroft gli diede la migliore delle notizie: era il momento di tornare a casa.
 
Gli tolsero la barba, gli tagliarono i capelli e gli procurarono un completo nuovo: allo specchio finalmente si riconosceva col suo nome. Sherlock Holmes era tornato.
 
Dall’altra parte della città un grigio John Watson camminava tra le lapidi in cerca di un nome specifico. Solo in mezzo ai morti cercava ancora un senso a quel folle gesto che due anni prima lo aveva radicalmente cambiato. Si fermò, le lettere color oro spiccavano tra il nero e sembravano più luminose del solito. Era inverno, e il freddo gli stava gelando le ossa.
 
Sarebbe andato a cena in un bel ristorante quella sera, cercando di non pensare a niente se non al vino in tavola e anche a quella graziosa ragazza che gli aveva chiesto di uscire e che lui non voleva deludere. Sarebbe andato male, ma tentar non nuoce.
 
***
Ripped gloves, raincoat
Tried to swim and stay afloat
Dry house, wet clothes
Loose change, bank notes
Weary-eyed, dry throat
Call girl, no phone

***
 
 
In taxi Sherlock non pensava ad altro: per la prima volta da che ne aveva memoria riusciva a mantenere il suo palazzo mentale occupato con un unico argomento. Non vedeva John Watson da due anni, un mese, venti giorni e una manciata d’ore, e voleva disperatamente spegnere quel cronometro che lo stava assillando da tutto quel tempo.
 
Gli passarono per la testa i ricordi di quell’ultimo contatto, quel momento a cui si aggrappò per tutto quel tempo e già assaporava altri contatti involontari, altre sensazioni, altri ossimori da apporre a quella figura in contrasto con sé stessa. John Watson gli era mancato come l’aria.
 
Sceso dall’auto nera Sherlock alzò il colletto.
Prese un respiro profondo, il cuore gli batteva forte nel petto.
Entrò nel ristorante, dove tutto ciò che riusciva a vedere era la figura minuta di John al tavolo da solo.
E finalmente, dopo tutto quel tempo, si sentì a casa.
 
***
And they scream
The worst things in life come free to us
Cos we're just under the upperhand
And go mad for a couple of grams
And he don't want to go outside tonight
And in a pipe he flies to the Motherland
Or sells love to another man

It’s too cold outside
For angels to fly
***
 
 
N.d.A: Ecco la prima storia a tema Plus di Ed Sheeran! Questa sarà una raccolta di one-shot abbastanza tranquille, non affronterò temi pesanti né scriverò storie lunghissime (questo perché a malapena ho il tempo di respirare)
Lascerò al fato decidere quando mi farò sentire di nuovo su questo fandom con la seconda one shot, per il momento mi piacerebbe sapere cosa ne pensate, magari lasciandomi una piccola recensione, grazie mille!
-A
 
*Riferimento ad una frase del testo “And they say, she’s in the class A team, stuck in her daydream, been this way since eighteen” ovviamente modificata per ragioni stilistiche. Anche nei versi in corsivo il soggetto è messo al maschile e non al femminile per ovvie ragioni.
**Riferimento a BoJack Horseman

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Capitolo 2
*** Drunk ***


Note: Sherlock può sembrare OOC, ma solo perché, essendo ancora al college, l’ho pensato meno rigido sui sentimenti rispetto all’età adulta
 
 
Drunk.
 
 
Il giovane John Watson, aspirante medico, odiava ubriacarsi. Non odiava l’alcol, anzi, se avesse potuto avrebbe sostituito l’acqua con la birra ventiquattro ore al giorno (facendo un’eccezione per il tè). Odiava il mal di testa della mattina dopo, quel lieve senso di appiccicume che era causato dal dormire con i vestiti che puzzano di sudore, e soprattutto odiava rimettere tutto quanto in casa d’altri, cosa che stava succedendo in quella calda mattina estiva.
 
Della sera precedente non ricordava niente, solo stralci di urla, movimenti scoordinati sulla pista del pub e un ottimo orgasmo, forse uno dei migliori che avesse mai provato nei suoi ventidue anni di vita (per questo si trovava nudo in un bagno sconosciuto). Cristo, non per niente lo chiamavano Tre Continenti, era riuscito ad ammaliare tutta la popolazione femminile (e anche qualche ragazzo) nel giro del suo primo semestre in università. Greg e Mike quasi lo invidiavano, era un single scapestrato che faceva strage di cuori alle feste e sapeva come divertirsi, mentre loro due avevano già trovato la loro altra metà.
 
Il ragazzo sollevò la testa dal water, giusto il tempo di prendere fiato e continuare ad espellere tutto l’alcol che aveva in corpo. Di certo non si era soffermato ad ammirare le foto che si trovavano nella stanza in cui si era svegliato, tantomeno non aveva volto lo sguardo verso la persona che gli aveva fatto compagnia in quell’orgasmo e per tutta la notte. Quando riuscì ad alzarsi in piedi si avvicinò al lavandino e si diede una ripulita: odiava la sua faccia da dopo sbronza, diventava di dieci anni più vecchio. O almeno così gli diceva sempre Sherlock.
 
Sherlock.
 
Ecco dove si trovava, ecco l’identità della persona con cui aveva passato la notte: aveva fatto sesso col suo migliore amico. Si accovacciò di nuovo sul water e ricominciò a vomitare.
 
**
 
Sherlock odiava i pub, la gente e la musica alta, eppure ogni volta John lo convinceva ad andare con lui a quelle stupide feste universitarie piene di imbecilli. Quella sera stavano festeggiando l’inizio dell’ultimo anno di università e –davvero- il moro non riusciva a capirne l’utilità. Aveva sempre affermato che l’alcol, per quanto divertente, non solo rallentava i suoi ragionamenti, ma lo spingeva a compiere azioni stupide.
 
Col senno di poi adorava vedere John privo di vergogna e orgoglio ballare al ritmo di quelle canzoni orrende. Era bellissimo, tutto sudato, con la camicia semiaperta che lasciava intravedere il petto liscio del ragazzo. E, solo in quella circostanza, decise di bere qualche bicchierino di troppo, per liberare la sua mente da quell’uomo che stava occupando ogni stanza del suo palazzo. Ingoiò due shots di vodka liscia e si immischiò nella folla col tentativo di raggiungere il suo migliore amico.
 
Di solito lui non era così: amava il silenzio al casino, la solitudine alla gente e la musica classica a quel –qualsiasi cosa fosse. Eppure c’era John Watson: lui, che lo trascinava a mangiare, che gli faceva compagnia anche quando non parlava per ore, che lo accompagnava a lezione con il rischio che facesse tardi alla sua, che apprezzava le sue deduzioni, la sua melodia, i suoi esperimenti nel laboratorio dell’università. Quell’uomo, si era detto Sherlock, era unico, era diverso da tutti gli altri e sapeva –ne era assolutamente certo- che non avrebbe dovuto lasciarlo andare per niente al mondo.
 
Era un attaccamento morboso, ne era consapevole, come era consapevole che nessuno al mondo sarebbe riuscito a sopportarlo, nessun uomo, tantomeno nessuna donna.
 
John era in mezzo alla pista, che attirava le attenzioni del gentil sesso come un fiore fa con le api, ma sembrava non accorgersene: aveva gli occhi chiusi e le braccia all’aria, concentrato solo ad agitarsi e a divertirsi. Aprì gli occhi solo quando Sherlock gli si affiancò poggiandogli una mano sulla spalla: John gli sorrise radioso, facendo creare delle piccole rughe di espressione attorno agli occhi che il moro trovava a dir poco adorabili.
 
“Sei ubriaco” gli urlò nell’orecchio.
 
“E tu sei bellissimo” gli rispose facendo l’occhiolino.
 
**
 
Da quel momento in poi John aveva solo dei flashback confusi di loro due che barcollavano in mezzo alle vie di Cambridge, Sherlock che gli prendeva la mano, che lo portava a casa, Sherlock che si sdraiava sul letto, e che lo baciava con timida passione.
 
E poi… poi furono baci, furono sorrisi, furono strette di mano che somigliavano a promesse sussurrate e furono loro due in una stanza illuminati solo dalla luna, e il profumo dei fiordalisi a inondargli i sensi. *
 
John si stava sentendo male: aveva rovinato tutto, aveva perso il suo migliore amico per sempre, aveva distrutto un rapporto che era bellissimo senza l’intromissione dell’amore. Era stata colpa sua, solo sua e della sua passione per l’alcol. Avrebbe dovuto solo vergognarsi.
 
Velocemente raccattò i vestiti sparsi per la stanza e, con velocità fulminea, dopo cinque minuti stava già lasciando l’abitazione: si girò un’ultima volta verso il letto dove avevano consumato quella notte di passione, dove Sherlock stava ancora dormendo beatamente ignaro della sua nudità. Aveva la schiena scoperta e le coperte arrotolate tra le lunghe gambe. John pensò che fosse bellissimo, con quella luce mattutina che si rifletteva sulla sagoma, stagliando sul muro una lunga ombra messa lì a giudicare l’atto codardo del biondo. Se ne stava andando come un viscido serpente, ma non aveva altra scelta: se avesse guardato Sherlock negli occhi quella mattina era sicuro che avrebbe solo provato sensi di colpa per avergli tolto quello che nessuno aveva mai avuto in un modo così deplorevole.
 
Si vergognava di sé stesso il giovane John Watson, mentre con passo svelto si allontanava dall’abitazione degli Holmes.
 
Passò il pomeriggio sulle rive del fiume, nascosto sotto a un ponte con la paura che chiunque potesse leggere sul suo volto ciò che aveva fatto. Non sapeva ancora come agire dopo ciò che aveva fatto e di certo non era evitando Sherlock che avrebbe risolto la situazione.
 
Ovviamente non c’entrava niente col fatto di aver fatto sesso con un uomo: in tre continenti ci sono entrambi i sessi e nessuno dei due dispiaceva al biondo. Il problema era che tra tutte le persone con cui avrebbe potuto passare la notte proprio Sherlock doveva capitare: il suo migliore amico, il genio con la smania del violino, incapace a provare sentimenti –o quantomeno a esprimerli- e incline a nessun tipo di attaccamento sentimentale per qualcosa di umano che non fosse già morto.
 
Era l’unica persona –l’unica in tutto il campus- con cui avrebbe voluto fare una cena romantica, magari in quel ristorantino all’angolo che faceva dell’ottima pasta, con una candela a illuminargli il volto bellissimo. Aveva fantasticato molte volte su piccoli gesti come un semplice sfiorarsi di dita, o baci dolci e leggeri, o fare l’amore per la prima volta insieme sotto un cielo ricoperto di stelle. John era un tipo romantico, almeno. Non con tutti, solo con chi e per chi valesse davvero la pena. E Sherlock Holmes era uno di questi.
 
**
 
Si era innamorato di Sherlock subito, lo aveva percepito dai brividi sulla pelle quando si strinsero la mano.
Era il primo anno a Cambridge e a John servivano assolutamente alcuni materiali per una ricerca di anatomia e sapeva di poterli trovare solo nel laboratorio di chimica. Lì c’era un ragazzo alto molto più di lui che era chinato sul microscopio e stava mettendo a fuoco un vetrino con sopra una macchia rossa –che fosse sangue?- e la analizzava come se fosse stata la cosa più importante del mondo.
 
“Puoi entrare, non mordo” aveva detto ad un certo punto quel ragazzo, senza distogliere lo sguardo da ciò che stava facendo. John a quel punto era entrato lentamente, con timore, e aveva preso i materiali che gli servivano.
 
“Non sono quelli giusti” aveva poi parlato di nuovo lo sconosciuto, facendo bloccare John all’istante.
 
“C-cosa?” aveva risposto timidamente.
 
“A uno studente di medicina non penso serva dello zolfo per studiare… qualsiasi cosa di anatomia tu stia facendo”
 
“Cos- come?! Come fai a saperlo?” aveva esclamato incredulo il povero John, messo alle strette.
 
“Hai sbagliato barattolo, è quello accanto” aveva risposto seccamente ignorando la sua domanda.
 
John, ancora con gli occhi spalancati, era tornato a prendere il barattolo giusto, posando quello che conteneva lo zolfo.
 
“Mi chiamo John, John Watson” aveva detto ad un certo punto, facendo voltare per la prima volta il ragazzo in sua direzione. Quello era il ragazzo più bello che avesse mai visto, non aveva nessun dubbio al riguardo. Di tutte le parti del viso per cui John avesse un complimento da fare, il biondo si era soffermato sugli occhi: grigi all’apparenza, sembravano nascondere qualche sfumatura verde e blu al loro interno. Erano bellissimi.
 
“Si ecco, se volessi spiegarmi come hai fatto a capire… quello che hai capito” continuò grattandosi il retro della nuca con fare impacciato.
 
“Sherlock Holmes” aveva risposto l’uomo, allungando la mano che John si affrettò a stringere: in quel momento, ne era certo, si era già innamorato.
 
**
 
Il sole lasciò spazio alle stelle, nonostante a ovest rimaneva ostinata da mezz’ora una sfumatura più rosea, residuo della luce del giorno. John stava tornando a casa in quel momento, aveva voluto aspettare il crepuscolo per decidersi a tornare nel mondo dei vivi, dopo essersi schiarito le idee per tutto il giorno riguardo quello che era successo tra lui e il suo migliore amico la sera prima. Si era ripromesso di cercarlo il giorno dopo e implorarlo di perdonare ciò che aveva fatto.
 
Purtroppo per lui Sherlock non era dello stesso avviso, dato che lo stava aspettando sotto al portico, seduto sull’ultimo dei tre scalini.
 
Non era cambiato molto in quegli anni, solo il taglio di capelli, che aveva reso più elegante e meno sbarazzino, ma sempre abbastanza lunghi da permettergli di avere un ammasso di boccoli in testa. Il resto del volto era rimasto uguale, forse aveva maturato l’espressione del viso, molto più austera di quella di tre anni prima, ma non i tratti fondamentali, come il cipiglio costante e le labbra sempre strette tra di loro, come se si stesse trattenendo costantemente dal dire qualcosa di probabilmente molto inappropriato.
 
Eppure Sherlock in quel momento sembrava tutt’altro che riflessivo: aveva gli occhi stanchi e la postura molle, chiusa in sé stessa mentre con lo sguardo seguiva i movimenti di John. Sembrava stesse aspettando una brutta notizia.
 
“Ciao, John” sussurrò cauto, abbassando lo sguardo sulle sue scarpe.
 
 John sospirò pesantemente, sedendosi poi accanto a lui. Si guardarono per qualche secondo, prima che il più basso interrompesse il silenzio.
 
“Sherlock io…”
 
“Te ne sei andato, stamattina. Mi sono svegliato dopo… quello e tu non c’eri più”
 
“Lo so, lasciami spiegare…”
 
“Non ti sei fatto sentire per tutto il giorno e sono stato costretto ad aspettarti qua per tre ore al sole prima che ti facessi vivo” il tono di voce del moro stava cominciando a diventare sempre più intenso, al contrario di quello di John, che andava affievolendosi sempre di più.
 
“Hai idea di come mi sia sentito? Come quei materiali che uso in laboratorio, buoni solo per un paio di ore e poi buttati nel cestito!”
 
“Sher…”
 
“Abbiamo fatto sesso ieri sera. Ti ho dato qualcosa che non pensavo avrei mai dato a qualcuno, e tu lo sapevi. Sapevi che mi avresti ferito. Perché l’hai fatto?”
 
“Mi vergognavo. Ho avuto paura, sono stato codardo” rispose John prima che l’altro l’interrompesse. Forse aveva alzato un po’ la voce perché ora Sherlock lo stava guardando senza proferire parola.
 
“Abbiamo fatto sesso, è questo il problema. Non avremmo dovuto farlo! Non avrei dovuto fare quello che ti ho fatto, non avrei dovuto…” John si passò le mani sul viso, visibilmente frustrato.
 
“Ti sei pentito perché non ti piaccio. Ecco perché sei scappato”
 
“Dio, Sherlock, no. Non avrei voluto fare sesso con te, avrei voluto fare l’amore con te” rispose più dolcemente.
 
“Non importa il modo in cui lo chiami, John, è sempre lo stesso tipo di attività fisica. È come dire basket e pallacanestro” disse Sherlock serio, provocando l’ilarità del più basso.
 
“Hai ragione, ma tu sei più importante di una semplice notte di sesso che ricordo a malapena, tu sei… di più”
 
Sherlock si voltò di scatto vero John, guardandolo incredulo. Quante volte aveva immaginato il biondo dire quello che in quel momento stava insinuando? Quante volte aveva dovuto reprimere quelle emozioni attraverso le parole di suo fratello maggiore? Quante volte aveva dovuto sopportare le conquiste di John invadere la loro vita come se avessero tutto il diritto di stravolgerla?
 
John sospirò. “A volte vorrei essere sempre ubriaco”
Sherlock non rispose.
 
“Vorrei ricordare di più di un orgasmo, Sherl. Vorrei ricordarmi di averti tolto la camicia con lussuria e avertela lanciata da qualche parte in giro della stanza, vorrei ricordare le nostre pelli a contatto e il modo in cui i tuoi occhi cambiavano colore mentre ti stringevo a me. Questo è fare l’amore, Sherlock, ed è quello che mi sono perso”
 
“Non è la fine del mondo, John, possiamo rimediare” suggerì Sherlock. “Se tu sei d’accordo, possiamo… si possiamo dimenticare e ricominciare da zero”.
“Un appuntamento?” chiese John, con un pizzico di speranza nella voce.
“Si, e poi magari potremmo fare una passeggiata in riva al fiume” continuò.
“Ti prenderei la mano –disse John, incrociando le loro mani insieme- e ti bacerei sotto mille stelle”.
 
“Potresti- potresti farlo anche adesso” sussurrò il più alto.
 
E, Dio, John non se lo fece ripetere due volte.
 
 
 
*citazione di "La canzone di Marinella" di De André
NdA: seconda one-shot della raccolta e mia prima Johnlock in cui John e Sherlock sono all’università. Molto probabilmente ci sarà un’altra storia a tema uni (o che comunque ha a che fare con quell’ambiente) dato che una delle prossime canzoni dell’album si intitola U.N.I.
Spero intanto che questo primo tentativo vi piaccia!
-A
 
 
 

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Capitolo 3
*** U.N.I. ***


Note: Nello scorso capitolo avevo avvertito che ci sarebbe stata un’altra storia Uni!lock, pensando che per questa canzone avrei scritto proprio di John e Sherlock all’università, poi la storia ha preso un’altra piega. Ci sarà comunque riferimento all’università, ma ci troviamo principalmente nel periodo della prima stagione in cui John non ha mai incontrato Sherlock dopo il ritorno dalla guerra. So che ci ho messo tanto ad aggiornare, ma la scuola mi ha sommerso letteralmente

 

U.N.I.

 
So am I close to you anymore if it's over
And there's no chance that we'll work it out
That's why you and I ended over U-N-I
And I said that's fine but you're the only one that knows I lied
 
 
 
Conobbi Mary Morstan il 23 maggio. Stavo lavorando nel mio ambulatorio, gestito dalla mia cara amica Sarah, quando questʼultima mi disse di aver assunto una nuova segretaria. Scorbutico e asociale comʼero, non avrei mai voluto licenziare Jane per conoscere e abituarmi ai ritmi di unʼaltra donna, piuttosto sarei rimasto a lamentarmi dei difetti della vecchia segretaria fino a che non avessero licenziato anche me.
 
Mary mi sorprese subito: era attenta, spigliata e pungente senza essere maleducata. I suoi capelli corti e biondi rendevano il suo viso più giovane e solare, ed io ne fui attratto subito. Ci innamorammo velocemente, come le coppie di adolescenti in cerca di compagnia, e nel giro di sei mesi andammo a vivere insieme, con la prospettiva di sposarci il più in fretta possibile. Dʼaltro canto cominciavo a vedere piccole rughe comparire intorno ai mei occhi e qualche capello bianco farsi spazio nella mia chioma bionda.
 
Diedi a Mary la completa libertà sul matrimonio, mentre io mi limitavo a parlare con il prete della nostra chiesa e a prenotare il ristorante che lei aveva scelto. Avevo addirittura lasciato per un giorno intero il mio telefono a lei in modo tale da invitare tutti i miei conoscenti e amici. Se lei voleva un matrimonio in grande l’avrei accontentata, in fondo vederla così felice mi faceva innamorare di lei sempre di più.
 
Non ero mai stato propenso all’organizzazione, si, ero ordinato (il mio passato militare aveva contribuito a segnare le mie abitudini), ma di organizzare feste non ero proprio capace, dimenticavo le cose ed era una fonte immensa di stress (Mary era di certo più brava di me). Arrivato al matrimonio, quindi, lʼunica cosa che sapevo erano le mie promesse, oltre a come indossare lʼabito.
 
Mary si era fissata con il festeggiare il matrimonio il giorno in cui ci eravamo conosciuti, quindi i colori di maggio erano i protagonisti dei nostri addobbi. Il giallo e il lilla dominavano ovunque nella chiesa al momento in cui io entrai salutando alcuni invitati. Allʼaltare, a fianco del mio amico più fidato, Mike, ebbi lʼoccasione di guardare tutta la gente seduta sulle panchine e rendermi conto di quanto sarebbe andato a costare il ricevimento.
Ero nervoso, Mary stava per arrivare e tutti gli spettatori fremevano nellʼattesa della sposa quando, in quel mare di sguardi, ne riconobbi uno che andava controcorrente, che guardava me. Quegli stessi occhi che mi accompagnarono per quattro anni della mia vita in tutte le mie vittorie e tutte le mie sconfitte, che erano il motivo dei miei sorrisi e, a volte, la causa delle mie lacrime. In quel momento tutto si bloccò, mentre nella mia mente riaffioravano ricordi di un tempo lontano in cui la guerra non era mai stata nei miei pensieri, ed echi di un amore affondato senza colpe.
 
Sherlock Holmes mi stava guardando, e niente aveva più senso. *
 
***
 
Gli occhi di Sherlock cambiavano colore a seconda delle emozioni: erano quasi sempre grigi, come se lui stesso avesse scelto il colore dell’indifferenza per guardare il mondo o per ascoltare le lezioni; erano verde acqua mentre lavorava agli esperimenti, con una precisione che riservava solo alla chimica; erano blu quasi scuri di notte, mentre si intrufolava nella stanza di John attraverso la finestra; e in fine erano azzurri, limpidi come un fiume alla sorgente, quando guardava lui, e solo lui.
 
Era stato il colore preferito di John dalle superiori, quando lo vedeva appena usciti dalle loro rispettive scuole e i suoi occhi cambiavano non appena lo vedeva arrivare attraverso i cancelli, e all’università, quando gli sussurrava parole d’amore direttamente sulla pelle, sfiorandogli il viso come solo lui sapeva fare.
 
Si erano amati come amici a distanza tra due scuole divise da una strada; poi in segreto, quando il padre di John non accettava comportamenti anormali all’interno delle mura di casa; infine a Cambridge, nelle loro due stanze singole, gemendo in silenzio per non destare sospetti, nudi e con solo un lenzuolo a coprire il loro amore. Si erano amati per quattro anni bellissimi, e sembrava sarebbe durato per sempre.
Come la Terra avrebbe girato intorno al Sole, come il ciclo delle stagioni si sarebbe ripresentato allo stesso modo, così loro due avrebbero continuato ad amarsi in eterno, senza ostacoli.
 
Ma l’università era una bolla di felicità destinata a scoppiare.
 
***
 
“John… pss John!” rinvenni dai miei pensieri grazie ad una gomitata di Mike, che mi guardava preoccupato. “Non dirmi che ci stai ripensando, John” mi chiese sorridendo sornione. Scossi la testa. “No, Mike, mi è solo tornato alla mente un vecchio ricordo”
 
Lui voltò lo sguardo verso la platea, accorgendosi e poi di nuovo verso di me. “Johnny –mi disse- è finita, devi lasciarlo andare”
Sospirai, mentre l’organo iniziava ad accennare la marcia nunziale.
“Pensavo di averlo fatto”
 
Non ero mai stato un tipo religioso. Credevo in Dio, avevo affidato a lui quelle che pensavo fossero le mie ultime parole, ma odiavo andare in chiesa, lo trovavo inutile e non riuscivo a capire il senso di alcune parti della funzione. Ricordo che da piccolo mi addormentavo sempre e ogni volta mio padre, a casa, mi urlava contro perché non portavo rispetto a Dio, tantomeno a lui.
 
Di certo quel giorno non potevo addormentarmi mentre il parroco sproloquiava sul senso del matrimonio e altre stronzate simili, ma decisi di deviare i miei pensieri altrove, estraniandomi dalla cerimonia il più possibile: fosse stato per me, il matrimonio in comune mi sarebbe bastato. Ma Mary quel giorno era felice, ed io avevo lavorato tanto per vedere quel tipo di sorriso su di lei, uno di quei sorrisi che sembrano dire “Sono la persona più felice e innamorata di sempre”.
 
Non riuscii a non paragonare quel sorriso a quello di Sherlock ogni volta, ogni secondo che ci trovavamo insieme. Non riuscii a non pensare alla sua risata e al modo tutto nostro che avevamo per amarci, che sembrava esser fatto su misura per noi e per come eravamo.
 
E non riuscii a non pensare a come sarebbe potuta essere la mia vita se l’università non ci avesse diviso.
 
***
 
John era stato molto stressato durante gli ultimi mesi di università, tra esami e scelte per il futuro. Davvero, Sherlock cercava di aiutarlo più che poteva, ma ogni volta i suoi tentativi risultavano inutili o addirittura controproducenti.
 
Ma John non era preoccupato solo per quello: mancavano due mesi alla fine dell’università, dopodiché sarebbe partito per l’accademia militare, mentre Sherlock sarebbe rimasto a Cambridge per altri due anni. Cosa ne sarebbe stato di loro?
 
Loro che, nonostante tutti gli ostacoli posti dall’ambiente universitario, erano riusciti a sopravvivere a tutto, riuscendo con successo a nascondere la loro reazione per quattro anni (eccetto per Mike, che li aveva beccati nella stanza di John) e che avevano bisogno l’uno dell’altra come il fuoco ha bisogno dell’ossigeno per sopravvivere.
 
“Sherlock” sussurrò un giorno John, spezzando il silenzio che assordava quella stanza. Erano stesi sul letto, il moro con la testa poggiata sulle gambe dell’altro, mentre il biondo con una mano gli accarezzava i capelli e con l’altra sfogliava il libro di chirurgia. “Tra un mese mi laureerò mentre tu rimarrai qui per la specialistica” assodò, posando il libro sul comodino e concentrandosi interamente sulla figura di Sherlock.
 
“Che succederà?”
 
Quella domanda rimase nell’aria per qualche secondo, spezzando contemporaneamente il fiato a entrambi i ragazzi. Sherlock si voltò verso John, i suoi occhi azzurri come il ghiaccio più puro, cercando disperatamente di trovare nell’altro una risposta concreta e possibile, che non implicasse la loro separazione. Non trovandola, sospirò.
 
“Ci lasceremo. Tu partirai per l’accademia e ti spediranno probabilmente in Afghanistan o in Iraq e non ci vedremo per almeno sei anni”
 
John, distrutto da quelle parole, distolse lo sguardo da quello dell’altro. “Non voglio –si fermò, per racimolare l’aria che gli mancava- non voglio imparare a stare senza di te, era una delle cose a cui non avrei mai voluto abituarmici”
 
“John va bene così. Non credo nel destino, ma se ci dovessimo incontrare tra sei anni circa allora comincerò a farlo. In caso contrario, troverai là fuori una versione migliore di me, magari una che non lascia barattoli di occhi umani come regalo di San Valentino” entrambi risero.
 
Il bacio che ne seguì aveva un altro sapore, quello amaro di un addio e dolce di una promessa.
 
***
 
 Quale razza di sposo pensa a qualcos’altro nel bel mezzo della cerimonia del suo matrimonio? Ora lì, di fianco alla mia futura moglie e di fronte allo sguardo di Gesù, mi chiedevo questo. Quale mostro rimpiange la fine di una storia di sette anni prima mentre sta per celebrare l’inizio di una nuova?
 
Nei miei pensieri la figura di un giovane Sherlock con gli occhi lucidi si contrapponeva all’immagine reale di una Mary commossa di fronte a me, mentre pronunciava le sue promesse di fronte a Sherlock (e altre trecento persone).
 
Mi voltai, per un secondo, giusto il tempo di scorgerlo nei pressi della porta, in procinto di andarsene. Come spinto da qualcosa, lui si voltò verso di me, e per un istante, un maledetto istante, tutte le emozioni tornarono a galla, fluttuando nella mia mente come aeroplanini di carta impazziti. Era davvero Mary la persona che avrei voluto a fianco per il resto della mia vita? Erano davvero le sue mani ad essere destinate a stare tra le mie fino a che morte non ci separi?
 
“Lo voglio” disse Mary in quel momento, emozionata come non mai.
 
Senza neanche accorgermene, i miei piedi si mossero in direzione del portone. Scesi le scale, sotto lo sgomento di tutti, e cominciai a camminare, prima lentamente, poi sempre più veloce, fino a che non precipitai fuori dall’edificio sbattendo il portone.
 
Sherlock era lì, di spalle, mentre si allontanava, ma era lì.
 
“Avevi sbagliato!” urlai, raggiungendolo. Lui si voltò lentamente, come se avesse avuto paura di girarsi e non trovarmi lì veramente.
 
Quando scorsi finalmente i suoi occhi, scoprii che per me non avevano cambiato colore: non erano grigi indifferenti, non erano verdi della scienza, né blu scuro della notte, ma azzurri, cristallini, come li ho sempre amati.
 
“Avevi detto che ci saremmo rivisti dopo sei anni. Ne sono passati sette”
 
Non sapevo cosa stesse provando lui in quel momento, non provai neanche a dedurlo, tutto ciò che riuscivo a sentire era il battito del mio cuore, veloce come un allegro fugato.
 
“Il tuo cuore batte fortissimo quando sei con me, John, sembra il tempo di un allegro fugato”
 
“John” sussurrò piano. La sua voce era diventata più bassa, ma sempre la sua, sempre pungente e dolce allo stesso tempo. “Che ci fai qui fuori? Dovresti tornare dalla tua sposa”
 
“Avevo il bisogno di sapere una cosa. Avevo bisogno di sapere se avremmo potuto essere noi due, oggi sull’altare, se non fosse successo ciò che è successo. Ho bisogno di sapere se il vedermi ti ha suscitato le stesse cose che sto provando adesso di fronte a te. Ho bisogno di sapere se adesso, in questo istante, posso scegliere di avere una vita con te o una vita con Mary. Dimmelo”
 
Gli ho posto una decisione, gli ho messo il cuore in mano e ho chiesto a lui di decidere per me. All’università odiava tutto questo. Davanti a me era tornato quello di sette anni fa.
 
“Non puoi chiedermelo, John, non posso sapere cosa riserverà il futuro per noi” cercai di avvicinarmi, ma lui fece un passo indietro.
 
“Mi ami, Sherlock? So che chiedo troppo, ma senti di amarmi, in questo momento?”
 
Sherlock sussultò a quella domanda, come se lo avessi scottato. Se mi avesse risposto di sì cosa avrei fatto io? Avrei lasciato Mary, oppure avrei dimenticato per sempre Sherlock?
 
“John, sei stato il primo, sei stato il solo. Abbiamo passato l’età in cui potevamo comportarci da bambini. Il tuo destino è tornare in quella chiesa, sposare quella donna e dimenticarmi. È la scelta migliore per noi due” rispose indietreggiando.
 
“Lo pensi davvero? Pensi sia la scelta migliore per noi due?”
 
“No –rispose, il suo corpo sempre più lontano dal mio- ma è la scelta migliore per te, e quando si ama una persona si mette il suo bene prima del proprio. Addio, John” non mi diede neanche il tempo di rispondere che già era salito su un taxi, diretto il più lontano da me.
 
Ero rimasto solo, fuori dalla chiesa. Da una parte Mary, la donna che amavo, dall’altra quell’amore proibito che aveva segnato quattro anni della mia vita. Mike mi raggiunse, sedendosi accanto a me sugli scalini della chiesa.
 
“Aspettano una tua mossa lì dentro, c’è un silenzio tombale. Cos’hai deciso?”
 
Quando mi alzai mi resi conto di non essere mai stato così sicuro di una mia decisione in tutta la mia vita.
 
***
 
Il piccolo William Watson nacque il 18 maggio, in una bellissima giornata di sole. Appena o vidi mi innamorai subito, trovando in lui un amore smisurato e un senso di protezione che mai avevo provato in tutta la mia vita. Aveva due piccoli ciuffi biondi in testa, quasi invisibili, e gli occhi chiarissimi, tra il grigio e l’azzurro.
 
Mary lo stava abbracciando come se volesse proteggerlo da tutti i mali del mondo: anche con le occhiaie, il viso stanco e i capelli in disordine, era bellissima come nel giorno del nostro matrimonio.
 
Mai mi sentii più felice come in quell’attimo, quando lo sguardo di mio figlio si intrecciò col mio. Tutto era finalmente al posto giusto.
 
 
 
Dall’altra parte della città Sherlock Holmes suonava il violino affacciandosi dalla finestra di un appartamento di Baker Street. I suoi occhi, azzurri come il cielo in estate, guardavano un punto imprecisato oltre l’orizzonte, verso il ricordo di qualcosa che non era mai stato veramente suo.
 
Una lacrima solitaria scivolò sulla sua guancia.
 
 
 
*Riferimento a BoJack Horseman (lo so, non ne posso fare a meno)
N.d.A.: okay, questa storia doveva essere una uni!lock al 100%, ma ho appena studiato la psicologia dietro al personaggio di Isabel in Portrait of a Woman e mi sembrava perfetto caratterizzare John così: infatti, alla fine del libro Isabel si trova ad un bivio, cioè continuare a vivere infelice ma rispettando le promesse che aveva mantenuto, oppure mandare tutto a p*****e e seguire un’amore. Ho posto a John lo stesso bivio: in entrambi i casi sia Isabel che John stesso decidono di rimanere legati ad una vita che non li rende felici del tutto. L’unica differenze è che, nel caso di John, lui riesce comunque a trovare la felicità dove pensava non ci sarebbe stata, rendendosi conto di aver fatto una “Scelta giusta” (ma solo per lui). Spero vi sia piaciuta e mi piacerebbe avere un vostro parere!
-A

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Capitolo 4
*** Grade 8 ***


Grade 8


Londra aveva cambiato faccia, pensò Sherlock Holmes. Da quel rocambolesco incontro con la sorella niente sembrava come prima nella sua città: strade, metro, mezzi di trasporto, taxi, tutto sembrava... fermo, immobile, tranquillo. Assurdo a pensarlo in una città in cui omicidi e misteri avvenivano ogni giorno, ma Sherlock era più che convinto che tutti i criminali fossero andati in pensione, il caso più interessante che aveva avuto in cinque mesi riguardava la scomparsa di un gattino. Ma forse era meglio così, perché il gioco era bello finché durava poco, e il loro gioco era durato fin troppo.
 
Non aveva mai pensato che la tranquillità potesse fare bene a lui e alla sua mente, ma inaspettatamente dovette ricredersi, specialmente da quando, nella sua quotidianità, era entrata una piccola bambina dai capelli ricci e biondi che amava quasi come se fosse lui stesso il padre. Rosie Watson era un'altra cosa su cui aveva avuto torto, perché aveva pensato che sarebbe stato difficile accudirla insieme a John e invece si ritrovò a pensare che fosse la cosa più naturale del mondo, come se le sue lunghe mani fossero state progettate per tenere quel corpicino nel suo grembo e le sue gambe fossero da sempre abituate a camminare chilometri in una stanza solo per farla addormentare. Non lo avrebbe mai ammesso, ma non rimpiangeva l'azione e i crimini e gli omicidi, se rinunciare ad essi significava avere quella famiglia che tanto amava.
 
Quindi Londra era cambiata, ma forse lui un po' di più. Ed è per questo che un omicidio non lo aveva sorpreso quanto il suo rifiutare quel caso che, doveva ammettere, era davvero intrigante.
 
"Sherlock, ti prego -cercava di convincerlo Lestrade- ho bisogno di risolvere questo caso e non ce la faccio senza di te"
"Mi dispiace, ma John è al lavoro e non posso lasciare Rosie da sola"
 
Lestrade sbuffò, passandosi una mano tra i suoi capelli color argento. Purtroppo Sherlock aveva ragione: la signora Hudson mancava da qualche giorno perché era andata al funerale di una sua amica a Cardiff e John era in ambulatorio, non poteva permettere che il consulente lasciasse da sola la bambina.
 
"Okay Sherlock, facciamo così: appena John torna a casa vieni con me"
Sherlock annuì senza degnarlo di uno sguardo, neanche quando l'ispettore lasciò l'appartamento: i suoi occhi erano puntati su quelli di Rosie che si erano appena aperti. Con grande gioia si rese conto che erano uguali a quelli di John.
 
***
 
Ben presto Sherlock capì che gli occhi non erano l'unica cosa in comune che padre e figlia avevano, no. Li univa l'ordine, l'ironia e il loro divertirsi a punzecchiarlo di continuo. E quando Rosie compì sette anni Sherlock comprese che anche lei sarebbe diventata medico prima o poi. Ciò non toglieva il fatto che la bambina somigliasse parecchio anche a Mary nella sua furbizia e nella sua determinazione, ma anche nel suo modo di prendersi gioco di quelli che dovrebbero essere i due adulti della casa. Di certo era una bambina intelligente, molto al di sopra della media nazionale, e sembrava aver preso il meglio di tutte le persone che la circondavano, compreso Sherlock stesso.
 
Alla festa dei suoi sette anni, allestita nel salotto di Baker Street, tra tutti i suoi amici di scuola Rosie aveva deciso di osservare lui mentre osservava John: c'era qualcosa che ancora non era in grado di capire e che teneva suo padre e il suo migliore amico vicini ma distanti, come le mani di quel famoso quadro che la maestra le aveva fatto vedere al pc, ma decise di tenerselo per sé, perché magari era una cosa passeggera. Alla stessa festa John si era messo in disparte, sullo stipite della porta della cucina, pensando a quanto sarebbe stato bello avere Mary ancora lì con loro: si ritrovava spesso a pensarlo, specialmente quando Rosie faceva qualcosa di nuovo, come camminare per la prima volta, o il primo giorno di scuola o, come quel giorno, la prima festa di compleanno. Era come un riflesso involontario, che lo costringeva ad immaginare il corpo della sua defunta moglie ancora lì presente, come un’aura troppo potente da scacciare in soli sette anni. Ciò nonostante John stava finalmente bene, aveva trovato l’equilibrio per cui nella sua vita niente andava storto, e il centro di tutto era Sherlock, il quale lo osservava dall’altra parte della stanza cercando di dedurre ogni suo minimo pensiero.
 
John si era innamorato di Sherlock molto lentamente, tassello per tassello, fino a quando non riuscì a ricostruire il puzzle di emozioni che lo attanagliava. Era del tutto convinto che quel processo fosse iniziato poco prima la finta morte del detective, per poi espandersi di giorno in giorno dopo la morte di Mary, quando lo vedeva cullare sua figlia ed essere così premuroso con lei. Era arrivato a un punto della sua vita in cui ribadire costantemente la sua eterosessualità lo aveva portato alla consapevolezza di non esserlo del tutto. Complice forse la completa riabilitazione di sua sorella, o la morte del padre ormai novantenne che lo aveva inquadrato in una vita fatta di bugie e sostentamenti emotivi, ma finalmente si sentiva più libero, più in contatto con sé stesso, finalmente capace di scendere a patti con la realtà invece di ignorarla come aveva sempre dovuto fare. E amare Sherlock gli risultava talmente naturale da fargli quasi paura.
 
Dal canto suo Sherlock era totalmente impermeabile a quel tipo di emozioni nei confronti di John, ancora troppo acerbo per comprendere l’amore come qualcosa di più di semplici reazioni chimiche. E tutta questa confusione si riversava inesorabilmente sul loro rapporto, che non era più lo stesso da ormai un paio di anni, e sulla piccola Rosie, che era abbastanza intelligente da capire quando le cose non andavano bene.
 
***
 
Ma, alla fine, le cose finiscono sempre per andare bene, soprattutto quando di mezzo ci sono John Watson e Sherlock Holmes, il sole e la luna, che continuano a rincorrersi fino all’eclissi che li unisce per sempre.
 
Accadde tre anni dopo, il giorno dell’anniversario della morte di Mary. Rosie e John decisero di andare al cimitero e Sherlock li assecondò semplicemente perché, nonostante fossero passati dieci anni, si sentiva ancora in debito con lei anche quando John gli aveva detto che non doveva. Quel valore, quell’importanza che quella donna gli aveva attribuito lui ancora sentiva di non meritarsela, di non essere all’altezza del ruolo di cui l’aveva rivestito. E quindi, anche se odiava i cimiteri, si sforzava ogni anno di presentarsi davanti a quella tomba bianca con le incisioni argentate*, anche solo per salutare, anche solo per fare da bastone emotivo al suo migliore amico e a sua figlia.
 
John teneva in una mano i fiori e nell’altra accompagnava la figlia che camminava saltellando leggermente, facendo svolazzare il suo vestitino a fiori; dietro di loro Sherlock li seguiva silenzioso, cauto nei suoi passi e nei suoi movimenti. Appena arrivati John si chinò per cambiare i fiori e Rosie cominciò a raccontare la sua giornata alla madre, come faceva ogni anno e che era diventata una tradizione. Il consulente si dispiacque per aver privato una figlia della sua madre e un marito della sua moglie, come ogni anno, come ogni volta che nei suoi pensieri affiorava la figura di Mary, e della pallottola che giaceva al centro del suo petto. Talmente che era assorto nei suoi pensieri che non si accorse di John, che aveva preso a guardarlo mentre gli si avvicinava, lasciando la figlia seduta a gambe incrociate davanti alla lapide.
 
“Non farlo” esordì il medico, mettendosi di fianco a lui.
“Fare cosa?”
“Non continuare a pensare che sia colpa tua. È stata una sua decisione, si è messa lei al posto tuo. Non l’hai costretta”
 
Sherlock sbuffò. Non era la prima volta che John gli faceva quel discorso e probabilmente non sarebbe stata neanche l’ultima, dato che il senso di colpa si era radicato in lui a tal punto da riempire quasi tutte le stanze del suo palazzo mentale.
 
“No Sherlock, non voglio sentire scuse. Devi smetterla, sono passati dieci anni”
“Ma io ho giurato, e ho fallito” sibilò Sherlock, trattenendosi dall’alzare la voce, soprattutto davanti a Rosie.
“E io ti ho colpito, e ti ho fatto male, e ti ho rifiutato innumerevoli volte. Come la vogliamo mettere? Non puoi farti mangiare dal senso di colpa” Il medico si girò verso di lui, guardandolo negli occhi, per poi posare una mano sulla sua.
 
Sherlock chinò la testa per guardare le loro mani intrecciate. Non era la prima volta: c’era stato quell’episodio quando erano ammanettati insieme per scappare dalla polizia; la prima volta che Rosie chiamò John “papà”; la prima volta che Sherlock li accompagnò al cimitero; tante piccole volte in cui le loro mani si cercavano e si univano per fornire conforto e per alleviare il dolore, era il loro modo per dirsi “io ci sono” e per dimostrarsi, ogni volta, che nessuno dei due sarebbe scappato, o si sarebbe finto morto, o qualsiasi altra cosa che li potesse tenere lontani.
 
Un piccolo brivido colpì il corpo di Sherlock, mentre ripensava a tutti quegli episodi sovrapposti, ai contesti che avevano portato a quel contatto, alle emozioni che lo travolgevano ogni volta. E poi comparve quell’immagine: la pietà di John che, con in braccio una Mary moriente, le teneva una mano sul viso e una sullo stomaco, e poi lo sguardo di John, lo stesso dell’episodio all’obitorio, che lo perseguitava che a volte non lo lasciava dormire la notte. Quello sguardo che fortunatamente non ebbe più modo di vedere; quella rabbia fatta colore, di un blu scuro come il fondo dell’oceano, dove tutto si perde.
 
Sherlock alzò di poco il viso per incontrare gli occhi limpidi del presente John, che gli teneva stretta la mano ed era in silenzio in attesa di una reazione da parte dell’altro. Poi si voltò a guardare Rosie che sorrideva mentre parlava con un pezzo di marmo che mai avrebbe potuto rispondere. E infine vide, nel suo palazzo, la figura di Mary che gli sorrideva esattamente come stava facendo John.
 
Ed è in quell’istante, mentre gli occhi di Mary e quelli di John presero a guardare contemporaneamente lo stesso soggetto, per la prima volta dopo dieci anni, che Sherlock lo sentì: un dolore acuto che partì dal cervello, attraversò le sue vene e le sue arterie e si posizionò al centro del suo petto, leggermente a sinistra. Percepì in distanza la voce di John che lo chiamava ma non riusciva ad aprire la bocca per rispondergli. Il suono di un archetto che strideva sulla quarta corda di un violino gli riempiva le orecchie. Non si accorse di star svenendo fino a quando non percepì l’erba toccargli la schiena. Improvvisamente tutto divenne buio.
 
***
 
Quando si risvegliò era davanti alla porta di un palazzo che riconobbe come l’entrata della sua stessa mente. Intorno all’edificio un enorme prato verde impediva al detective di capire quanta distanza ci fosse tra quel palazzo e il resto delle case. Si disse che non era importante e decise di suonare il campanello.
 
Gli aprì Rosie, o meglio, la versione mentale di Rosie quando aveva sette anni. Indossava una salopette di jeans e una maglia rosa ma non aveva le scarpe e i suoi piedi nudi si perdevano nel pelo di quello zerbino.
 
“Sherlock! Vieni, entra, aspettavo solo te” esclamò la piccola, facendogli spazio. Era la prima volta che Sherlock interagiva così nella sua mente, ma decise di assecondare quella strana visione.
“Scoprirai tutto tra poco, perché prima dobbiamo fare un piccolo tour” disse Rosie, accompagnandolo su per le scale, fino all’ultimo piano. Sherlock si guardava intorno, riconoscendo ogni piccolo dettaglio di quel palazzo che si era costruito nel corso degli anni. Si chiese il motivo per il quale avesse bisogno di fare un tour con una “guida” nell’edificio che lui stesso aveva ideato, ma non fermò in alcun modo la bambina.
 
“Ovviamente, Sherlock, sai come funziona il tuo palazzo. Ci sono cinque piani: quello più in alto è la tua coscienza, ogni volta che hai bisogno di qualcosa viene portato qui; il quarto piano riguarda principalmente tutto ciò che è legato al tuo lavoro, ogni conoscenza chimica e anatomica che può esserti utile in qualsiasi momento; il terzo piano è dedicato alla musica e alla letteratura classica; il secondo riguarda la tua famiglia e i tuoi amici; e infine abbiamo il seminterrato”
 
Sherlock ascoltò in silenzio, mentre Rosie percorreva a ritroso ogni parte del suo palazzo mentale.
 
“Ci sei stato solo tre volte, nel seminterrato, perché lì nascondi quelle parti di te che non ha mai portato a galla. Sono quelle emozioni che emergono in momenti di pericolo, o quando stai per morire, o quando qualcuno ti costringe a farlo”
 
Sherlock ripensò allo sparo di Mary, ma soprattutto a sua sorella, al modo in cui gli aveva rivelato la verità su Victor Trevor. Sherlock era consapevole che certe informazioni, certe… emozioni le aveva riposte in un luogo dove non sarebbe mai dovuto andare, e aveva creato il seminterrato a posta per quello, per scindere la sua mente da tutte quelle reazioni chimiche che provocavano sentimenti più profondi dell’affetto.
 
Guarda caso era proprio lì che la proiezione di Rosie si stava dirigendo, ignorando il fatto che, se il seminterrato esisteva, era perché il detective non voleva soffrire come aveva fatto in passato. La sua guida sembrò capire e allo stesso tempo ignorare i sentimenti che lo spingevano ad allontanarsi dal piano più basso.
 
“Perché mi sto facendo questo?” chiese Sherlock ad alta voce.
“Perché hai scoperto qualcosa che non riesci a capire e la cui risposta si trova lì. Ti sei escluso a priori da tutta una sfera di sentimenti cercando di seguire il consiglio di tuo fratello, ma alla fine non ci sei riuscito, perché qualcuno ti ha fatto aprire quella porta” Rosie si fermò, posando le mani su un pomello d’oro che doveva aprire quella porta che Sherlock aveva sempre evitato per la sua incolumità.
 
Quando Sherlock superò l’uscio capì che l’atmosfera era totalmente cambiata: si trovava in un posto che non aveva mai voluto esplorare, che aveva sempre temuto più di qualsiasi altra cosa. Seguì in silenzio Rosie, che saltellava esattamente come quella vera. Ai lati di quel corridoio vi erano porte che somigliavano a quelle del laboratorio di Baskerville: su ognuna di esse c’era una targa d’oro appesa. Lesse vari nomi, varie missioni (come quelle nell’Europa dell’Est), e ogni parola gli ricordava cose della sua vita di cui non voleva più parlare. Scorse, tra le varie cose, anche la targa di James Moriarty, la cui stanza aveva avuto il dispiacere di visitare dopo lo sparo di Mary.
 
Camminarono silenziosamente per un paio di minuti, fino a che il corridoio si interruppe, portandoli davanti a una porta diversa dalle altre. Rosie si girò verso di lui. “Siamo arrivati, da qui devi continuare da solo”
“Tu sei una parte della mia mente, potresti venire con me” propose il consulente.
“No, Sherlock, qui sotto non funziona come vuoi tu” rispose dolcemente, per poi scomparire come parti di un soffione che vengono trasportati dal vento.
 
Sherlock si girò verso la porta: prima di entrare cercò di trovare qualcosa che gli suggerisse cosa avrebbe potuto trovare dall’altra parte, ma pareva che lì sotto le sue doti non funzionassero come nella vita reale. Assurdo come, nei meandri più oscuri della sua mente, la sua testa non funzionasse come avrebbe dovuto. Sconsolato, Sherlock decise di entrare.
Lo accolse il buio più profondo, capace di annullare ogni senso e ogni percezione della realtà. Sherlock stava cominciando a capire dove la piccola Rosie lo avesse portato. Non aveva mai avuto bisogno di entrare in quella stanza, tranne una volta, mentre era in Giordania per una delle tante missioni per conto di Mycroft. Aveva usato quel posto per rifugiarsi dalle crudeltà a cui aveva dovuto assistere, ma poi se ne era dimenticato, preso com’era dallo smantellare la rete di Moriarty. Camminò nella stanza buia per un paio di minuti prima di riuscire a vedere qualcosa: illuminato da una fonte sconosciuta, giaceva su uno sgabello malconcio un ragazzo adolescente con in mano un pezzo di carta –no, una foto- e un bastone.
 
Sherlock riconobbe sé stesso all’età di quattordici anni, magro come un chiodo e riverso su sé stesso per evitare altre battute, altri scherzi verso di lui. Il consulente ricordava ogni frammento di quel momento, quando aveva preso in mano la siringa per la prima volta e si era iniettato la soluzione al 7%. Ecco cosa stava facendo quel ragazzino sullo sgabello, ma c’erano delle cose che non tornavano: non c’era nessuna siringa nelle sue mani, e Sherlock non ricordava di aver mai preso un bastone da passeggio in mano prima di- oh.
 
John.
“Tu sei il mio catalizzatore di luce. Tu mi rendi migliore”
 
Il suo cuore (o almeno la rappresentazione mentale di esso). Ecco quello che stava guardando. Era sempre stato sicuro che quella stanza fosse vuota, perché aveva fatto in modo che fosse così, e invece non lo era mai stata. No, quello Sherlock di quattordici anni che in quel momento lo stava guardando aveva un parere diverso su come andavano le cose: lui sapeva, sapeva davvero. Sherlock Holmes aveva un cuore, ed era distrutto, martoriato da tutto ciò che aveva dovuto subire negli ultimi venticinque anni.
 
“Ciao, finalmente ti sei ricordato di me” esordì il più piccolo. Holmes contro Holmes.
“Mi ci è voluto un po’, me ne rendo conto” rispose il più grande, chinandosi davanti a lui. “Hai il bastone di John in mano”
“Esatto, e cosa possiamo dedurne? Cosa puoi dedurre?”
“Non lo so”
“Si che lo sai, non lo vuoi accettare, che è diverso” rispose stizzito il quattordicenne.
Sherlock si passò le mani tra i capelli, cercando di trovare le parole giuste. “Ho paura di perderlo, ho paura di perderli” sussurrò infine.
 
Il sé stesso quattordicenne alzò il viso per la prima volta, specchiandosi nello sguardo del più grande. “Strana –disse lui- la lingua inglese. A volte facciamo degli accostamenti bizzarri. Quando ci innamoriamo diciamo di essere caduti. ‘Falling in love’. Perché fa male, e fa paura. Ma noi lo abbiamo già fatto, ti ricordi? Ci siamo buttati e l’abbiamo fatto per lui. ‘We fell for him’. Non sarà tanto differente questa volta”
 
Sherlock non seppe rispondere e non riuscì neanche a muoversi, o a deglutire. Perché era vero.
 
Perché era vero.
 
E Sherlock, al cimitero, gli aveva preso il polso.
 
Il quattordicenne si alzò in piedi e lasciò che la foto che aveva in mano scivolasse nel grembo del più grande. Sherlock guardò quella foto, l’immagine mentale della prima volta che incontrò John Watson, e quando prese in mano il bastone lasciato incustodito dal più giovane, sentì la sua testa girare e il suo corpo venire strappato via da quella visione. Cercò di urlare, ma non ci riuscì. Tutto quanto tornò ad essere buio.
 
***
 
Quando aprì gli occhi si trovava nella sua camera da letto, ancora totalmente vestito, ma senza scarpe, evidentemente John doveva aver pensato che non fosse la cosa più comoda del mondo. Aveva dormito due ore, anche se a lui erano sembrati solo quindici minuti. Faticò molto per alzarsi, ma alla fine ci riuscì, seppur barcollando leggermente. Percorse tutto il corridoio e si fermò in cucina per prepararsi un tè, trovando John, seduto sulla sedia vicino alla scrivania, che aveva appena posato lo sguardo su di lui.
 
“Come stai?” chiese, con il suo tono da medico.
“Ora bene” rispose Sherlock, maneggiando col bollitore elettrico che John gli aveva regalato al suo scorso compleanno. Passarono qualche minuto in silenzio, ascoltando il rumore dell’acqua che bolliva e del cucchiaio che girava nella tazza. John si andò a sedere sulla sua poltrona, aspettando che Sherlock gli portasse la sua tazza, come faceva sempre (era una delle cose che più adorava di lui, quando gli portava il tè senza dire niente). Quando anche Sherlock raggiunse la sua poltrona, il medico cominciò a scrutare ogni minimo segno di qualsiasi possibile assunzione di alcol o droghe, anche se sapeva che Sherlock non ne faceva più uso da anni.
 
“Non ho preso droghe”
“Lo so, Sherlock, ho controllato le braccia mentre dormivi” rispose divertito mentre prendeva un sorso dalla sua tazza.
“Non so davvero cosa sia successo, al cimitero. Penso che tu sia svenuto o abbia avuto un calo di zuccheri. Sei caduto all’improvviso e la cosa più logica a cui ho pensato è stata quella di portarti a casa”
 
Il consulente annuì mentre finiva di bere, per poi posare la tazza sul tavolino vicino a lui facendola sbattere un po’ troppo violentemente, tanto che John fu attraversato da un breve sussulto.
“Io so cosa è successo” sussurrò Sherlock, evitando di guardare il suo coinquilino in qualsiasi modo. John cercò di comprendere cosa stesse facendo l’amico, senza successo. Cercava il suo sguardo ma non lo trovava, e questa cosa lo faceva impazzire. C’era evidentemente qualcosa che non andava, era ovvio anche a lui, ma non sapeva come intavolare il discorso, come muoversi con uno Sherlock così schivo.
 
“È il mio cuore, John. Se fosse stata la testa il problema avrei saputo risolverlo. La mia testa è un soldato, lo sai anche tu, ma il mio cuore… -Sherlock sbuffò- il mio cuore… è uno straniero”
Il medico non sapeva cosa dire e nel dubbio rimase zitto. Aveva la sensazione che quel discorso non fosse solo un deliro del suo amico, ma qualcosa di molto più profondo, molto più vero.
 
“E vorrei tenere tutto dentro, vorrei davvero, perché ho paura e odio non avere il controllo di me stesso. Ma non ci riesco, devo dirti queste cose”
 
‘Cristo, Sherlock, stai cadendo di nuovo’
 
“E se fossi io a voler sentire queste cose?” chiese cautamente John, torturandosi le mani. A quella richiesta Sherlock si alzò in piedi di scatto, spostandosi verso la finestra. Era così difficile, così difficile…
 
Aveva già detto quelle parole una volta, ma il contesto era totalmente diverso, Molly era in pericolo e doveva salvarla. In quel frangente nessuno era in pericolo, nessuno stava per morire. Ed era ancora più difficile, perché quelle parole, quelle due parole, erano vere. Eccome se lo erano, lo sono sempre state e non se ne era mai accorto.
 
“John –disse quindi, perché il nome dell’altro era l’unica cosa sulla quale poteva aggrapparsi- immagina il mio cuore come un violino. Uno Stradivari, come quello di mia sorella. Immaginalo” si girò, per incontrare lo sguardo confuso del medico. “Fallo John, ti aiuto io. Immagina un violino” John si alzò e chiuse gli occhi, concentrandosi sulle parole del coinquilino.
 
“Sai com’è fatto un violino: abbiamo il riccio, la parte finale, quella che si trova alla fine della tastiera; i piroli, il manico, la tavola, le due ‘effe’, il ponticello, la cordiera, l’archetto. Ci sei, John?” l’altro annuì. Sherlock, nel frattempo, si avvicinava a lui ad ogni parola pronunciata. “Solo che manca qualcosa, giusto?”
 
“Le corde” suggerì John, ancora con gli occhi chiusi.
“Le corde. Senza di esse il violino non suona, diventa un inutile pezzo di legno” finì Sherlock, arrivando davanti al medico. Quello che disse dopo sembrò molto di più di una caduta, molto di più di lasciarsi travolgere dalle emozioni, molto di più delle reazioni chimiche che l’amore attiva. Nella sua mente le stava elencando tutte: dopamina, ossitocina, vasopressina e serotonina, perdita di contatto con l’amigdala. Ma c’era altro, qualcosa che le reazioni chimiche non potevano descrivere. C’era John, davanti a lui, con gli occhi chiusi.
 
“John, io sono quel violino. Io sono quelle corde, e tu mi stai suonando come farebbe un musicista esperto”
 
John spalancò gli occhi, per ritrovarsi il viso di Sherlock a meno di un metro dal suo. Si studiarono per diversi minuti, l’uno nello sguardo dell’altro, senza che nessuno dei due sapesse cosa fare. Ovviamente il medico aveva capito tutto, e sentirsi dire quelle cose, quelle cose che aspettava di sentirsi dire da almeno cinque anni, gli fecero scoppiare il petto talmente forte che credette di star per morire. Fu Sherlock a interrompere il contatto visivo, e anche il silenzio.
 
“Ma ho paura che tu te ne vada perché non sono abbastanza, perché tu non mi vuoi come io voglio te. E se è così prendi tutto e vai via ora” sussurrò, per poi voltarsi di nuovo verso la finestra.
 
“Sherlock, io non lo farei mai” rispose John, assumendo la postura del soldato, quella di quando si impuntava sulle questioni importanti e non accettava un no come risposta. “Non ce la farei ad andarmene perché altrimenti morirei”
 
Fu il turno di Sherlock quello di girarsi e spalancare gli occhi. Ed eccola lì, la dichiarazione che entrambi aspettavano da fin troppo tempo, servita tra metafore e fraintendimenti.
 
“John”
“Sherlock” dissero contemporaneamente, senza smettere di guardarsi negli occhi. Blu contro grigio, blu contro verde. Sherlock si chiese che colore sarebbe potuto uscire fuori, ma di colori non ci capiva poi così tanto. Sapeva solo che i suoi occhi erano fatti per stare in quelli di John e viceversa, che le loro mani erano un incastro perfetto di curve e spigoli, che le loro vite erano un puzzle completo, senza nessun pezzo mancante.
 
“Hai capito? Vorrei solo essere sicuro, perché non potrei sopportare vederti andare via dopo questo, John. Hai capito? Non lo potrei sopportare”
 
John gli si avvicinò lentamente, e per la prima volta la sua mano sfiorò la guancia del suo coinquilino, e poi si ritrovarono naso contro naso, respiro contro respiro, petto contro petto. Mancava un centimetro, uno solo, che divideva le loro labbra. Sherlock aprì involontariamente la bocca, aspettando inerme i movimenti di John.
 
“Voglio che tu capisca quello che sto per dire, Sherlock. –quelle parole finirono direttamente sulle labbra dell’altro- e voglio che mi guardi negli occhi, e voglio che tu sia così vicino a me mentre te lo dico, perché ti devono entrare dentro e non dovrai mai dubitare di ciò che provo io adesso, perché mi spezzeresti il cuore e so per certo che non lo faresti mai di proposito”
 
John si prese una pausa, nella quale la sua mano sinistra passò dalla guancia di Sherlock a dietro la sua nuca, prendendo a fare movimenti circolari tra i capelli, come si farebbe con un gatto per fargli fare le fusa.
 
“Sherlock, io mi sono innamorato di te” e a quelle parole il consulente si sentì tornare in vita, come dopo una forte scossa elettrica. Sentiva John che continuava a parlare, ma non gli importava più. John lo amava, John lo amava.
 
John lo amava
 
Approfittando del braccio piegato del dottore, si spinse verso di lui, bruciando quel centimetro che li divideva, rompendo definitivamente quella barriera che li teneva distanti anni luce. Non sentiva altro che John, dentro e attorno a lui. La mano che prima gli accarezzava la nuca ora lo spingeva ancora di più contro di lui, mentre l’altra accarezzava il suo collo con gentilezza, come se stesse controllando la giugulare per capire se fosse ancora vivo. D’altro canto le mani di Sherlock percorrevano la schiena di John immagazzinando quante più informazioni possibili.
 
Sherlock sapeva come baciare, lo aveva fatto altre volte, ma quello con John era tutt’altra cosa: lo baciava per il gusto di baciarlo, di ghermire le sue labbra e non lasciarle più andare, di abbracciarlo e stringerlo a sé e di amarlo profondamente come mai aveva fatto nella sua vita. E quel primo bacio aveva iniziato una nuova dipendenza, una nuova droga da esplorare in ogni singola parte. John era più esperto, più sicuro, e trascinava l’altro in una danza di labbra e lingua che mai aveva provato con nessuna donna, inclusa Mary. Non c’entrava niente il fatto che fosse il suo primo bacio con un uomo, ma che fosse con Sherlock, perché lui rendeva tutto diverso, tutto migliore. Non riusciva a spiegarsi come, ma con lui anche una semplice stretta di mano era tutto fuorché banale, e lui lo amava da impazzire. Fu terribile per entrambi allontanarsi per riprendere fiato e sistemarsi un po’ i vestiti e i capelli. Sherlock si specchiò ritrovandosi con le labbra e le guance rosse, i capelli terribilmente scompigliati e un sorriso da ebete sulla faccia. ‘Sentimentale’, ma bellissimo, come la visione di John col maglioncino storto e la camicia fuori dai pantaloni che si era affiancato a lui per sistemarsi.
 
Sherlock cominciò a ridere, prima piano, come un sussurro, per poi scoppiare fino a farsi venire le lacrime agli occhi e i crampi alla pancia. John lo seguì a ruota: sembravano ubriachi come quella volta di dieci anni prima, a quello stupido addio al celibato. Risero e si baciarono ancora, e poi parlarono, sussurrandosi dichiarazioni d’amore che morivano tra le loro labbra. Si chiesero cosa avrebbero pensato i loro conoscenti, Rosie, Mycroft, ma poi ritennero il discorso superfluo, dato che ormai tutti assumevano che fossero una coppia.
 
And I see it in your movements tonight
If we should ever do this right
I'm never gonna let you down
I'll never let you down
 
***
 
Rosie Watson camminava veloce nei corridoi della sua scuola. Doveva sbrigarsi o avrebbe fatto tardi a quello che lei riteneva una delle cose più importanti della sua vita. Sistemò meglio lo zaino sulla spalla e corse più veloce che poteva per raggiungere suo padre all’uscita. Impiegò relativamente poco ma aveva il fiatone, i capelli scompigliati così come i vestiti.
 
“Veloce Rosie o perderemo il turno” le ricordò suo padre, spingendola in macchina e chiudendole la portiera, per poi entrare dall’altra parte della macchina, al lato del guidatore e partire a tutta velocità per le strade di Londra.
 
“Scusa papà, la professoressa di matematica mi stava facendo vedere alcune cose sul compito di ieri”
Il padre aggiustò lo specchietto per guardarla attraverso di esso. “Tutto bene? Non è che ti ha preso di mira? Devo andare a parlarci?”
“Papà! Ho diciassette anni, non dieci, me la cavo. E comunque no, mi ha chiesto di pensare a una carriera nella matematica, ma io ho rifiutato” specificò lei, sorridendo al padre. John sbuffò mentre metteva la freccia e girava a destra.
 
“Nessuno ti sta obbligando a fare medicina, Rosie. Anche se Sherlock aveva capito cosa avresti voluto fare da grande quando avevi sette anni potresti comunque non dargli la soddisfazione e scegliere fisica o chimica” scherzò mentre fermava la macchina. Scesero di fretta, mentre John si sistemava la cravatta e Rosie stirava come meglio poteva la maglietta rosa che portava addosso.
“Per quanto mi possa piacere dargli fastidio, non posso rinunciare a fare ciò che mi piace di più solo per fargli un dispetto” rispose allegra.
 
Davanti all’edificio Sherlock li aspettava stizzito: odiava quando facevano tardi, soprattutto a causa di quell’insulsa professoressa di matematica che aveva preso Rosie come un genio indiscusso.
 
“Scusaci, Sherlock” sussurrò John, raggiungendolo poi per dargli un veloce bacio sulle labbra. Esattamente come sette anni prima entrambi continuavano a sentire le farfalle nello stomaco.
“Siete pronti?” chiese il detective, la cui risposta affermativa arrivò subito dopo.
 
Entrarono insieme nell’edificio, passando di piano in piano e di corridoio in corridoio fino a trovare l’ufficio della Signora Baker. Aspettarono il loro turno e quando toccò a loro entrarono tenendosi tutti e tre per mano, la cosa si rivelò alquanto difficile e imbarazzante, soprattutto nell’attraversare la morta, ma eventualmente riuscirono ad entrare e a sedersi senza fare troppe figuracce.
 
“Bene, signor Watson, signor Holmes, che piacere rivedervi!” esordì la signora dall’altra parte della scrivania.
“Buongiorno a lei signora Baker” rispose John, per poi prendere un momento di pausa. Quel giorno era più che importante per loro, e il dottore aveva i nervi a fior di pelle per quello che avrebbe detto la signora da lì a pochi minuti. Con una mano teneva stretta quella della figlia, con l’altra giocava con la sottile fede d’argento che lo accompagnava da ormai quattro anni. Ed erano quattro anche gli anni che avevano perso nel portare a termine questa inutile ma necessaria pratica burocratica.
 
“Sinceramente mi chiedo cosa ci facciate qui” disse l’assistente sociale “da quanti anni vivete assieme, venti? Siete sposati da quattro anni e Rosie è sempre stata con voi. Non capisco perché vi abbiano fatto aspettare così tanto tempo per farvi firmare questo pezzo di carta. Devo dire che questo è stato il caso più facile della mia carriera, quindi possiamo procedere”
 
Sherlock si sporse a guardare John, che ricambiò sollevato dalle parole della donna di fronte a loro.
 
“Quindi –si intromise Rosie- posso legalmente essere figlia di mio padre adesso?”
 
Quando la donna annuì convinta i tre si unirono in un abbraccio liberatorio. Finalmente.
 
Sherlock si staccò solo per firmare il modulo di adozione e per salutare la signora Baker, che li accompagnò alla porta sorridendo dolcemente, perché quei tre si meritavano la felicità e la stabilità che non avevano mai avuto in tutti quegli anni.
Usciti dall’edificio John lanciò un urlo liberatorio, per poi scompigliare i capelli di sua figlia dolcemente.
 
“Ce l’abbiamo fatta” disse a Sherlock.
“Si –rispose lui- anche se tu sei consapevole che per me lei è sempre stata mia figlia, anche senza quel foglio, giusto?”
 
John sorrise e gli avvolse la vita con il suo braccio sinistro. “Ovvio, amore mio, ma adesso è ufficiale, adesso sei suo padre a tutti gli effetti, esattamente come lo sono io. E se dovesse succedermi qualcosa ci sarai sempre tu con lei e viceversa. Ci proteggiamo le spalle a vicenda, ricordi?” Sherlock annuì per poi stampargli un bacio in fronte.
 
“Voglio andare a raccontarlo alla mamma” chiese poi la non più così piccola Rosie, che ricevette l’approvazione dei suoi due padri sull’andare al cimitero.
 
La tomba di Mary era sempre la stessa, bianca con le scritte argentate. Rosie si accomodò a gambe incrociate davanti alla lapide, cominciando a raccontare alla madre tutto ciò che era accaduto in quei giorni, esattamente come faceva da piccola.
 
Poco più indietro Sherlock e John la osservavano mentre si tenevano per mano.
 
“Mia figlia” sussurrò il più alto, assaporando il suono di quelle due parole sulla sua bocca, come il più dolce dei frutti.
“Nostra figlia” aggiunse il dottore, stringendo l’altro tra le sue braccia.
 
Londra non era cambiata più di tanto, si ritrovò a pensare Sherlock. No, era lui che aveva trovato la persona in grado di leggergli il cuore come nessuno aveva mai fatto prima d’ora. Ringraziò il suo cuore per averlo costretto a scendere a patti con l’amore proprio davanti a quella tomba; ringraziò Mary per averlo perdonato nonostante tutto; ringraziò John per avergli donato tutto quello di cui aveva bisogno e anche tutto quello di cui non sapeva di dover avere. Ringraziò ogni singolo momento che l’universo gli aveva regalato per stare con John, perché non si era mai sentito così, e non avrebbe rinunciato a quella sensazione per nulla al mondo.
 
You're strumming on my heart strings
Like you were a grade eight
But I never felt this way
I'll pick your feet up off of the ground
And never ever let you down, now
 
*ho immaginato la tomba di Mary come l’esatto opposto di quella di Sherlock, la prima bianca e argentata, la seconda nera e dorata.
NdA. Non so davvero da quanto manco su questa piattaforma, ma tra la quarantena l’università e tutta una serie di altre cose per mesi non sono riuscita a buttare giù niente. Questa è letteralmente la prima cosa che ho tirato fuori dopo lo scorso capitolo, spero vi piaccia!
-A

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Capitolo 5
*** Wake Me Up ***


Wake Me Up
 
"I should ink my skin with your name
 
 
Prologo
 
Dal dizionario inglese, voce:
Anima Gemella [a-ni-ma-ge-mel-la] sost. femm. : due persone di qualsiasi genere, razza, etnia e orientamento sessuale legati da un rapporto sentimentale designato dal nome dell’uno sul polso dell’altro e viceversa. Il suddetto nome compare attraverso la Rivelazione. Il Legame avviene quando i due soggetti si stringono la mano o il polso.
Es: oggi Lauren ha incontrato la sua A.G.
Contr. Nameless, colui che non possiede il nome.
 
***
 
Violet Holmes era una donna che amava con tutta sé stessa i figli, anche quando essi si rivelavano diversi dall'etichetta che la società aveva imposto a una famiglia di un certo spessore come era la loro. Quando il figlio maggiore, Mycroft, dopo aver compiuto dieci anni, non aveva sviluppato il nome della sua anima gemella sul polso capì che sarebbe stato un Nameless, uno di quegli individui destinati a rimanere da solo per sempre. Naturalmente la madre lo aveva aiutato a nascondere la sua condizione, comprandogli un bracciale d'oro con sopra incisa una cintura di edera, e lo sostenne in ogni occasione, in ogni sua decisione importante, e fece la stessa cosa con il suo secondogenito, che aveva un’indole ancora più stravagante del fratello maggiore.
 
 Sherlock è stato fin da subito un uragano di energia: aveva imparato a camminare a dieci mesi, cominciò a parlare a undici. A due anni parlava come un bambino di dieci anni e aveva il portamento di un principe. Dall’altro lato era ingestibile, un iperattivo con la voglia costante di imparare cose nuove e di esplorare ogni angolo della loro villa. Violet, coerentemente con la sua indole calma e pacata, non fermò mai la curiosità del figlio, cercando anzi di alimentarlo ogni giorno e spronarlo a fare cose nuove ogni volta che poteva, ma era una cosa stancante da fare, e inoltre la preoccupava il fatto che l'eccentricità del figlio potesse comportare che anche lui non avrebbe avuto un nome (d'altro canto la scienza delle anime gemelle non aveva ancora stabilito in che modo una persona potesse o meno ricevere il nome, e il fattore genetico era sempre stato fondamentale per queste ricerche).
 
 Ma Sherlock decise presto di togliere ogni dubbio alla madre. Una notte la signora e il signor Holmes furono svegliati dalle urla del loro figlio minore. Preoccupati che potesse stare avendo un malore, corsero nella sua stanza, per trovarlo seduto sul letto mentre si stringeva il polso sinistro con la mano destra. Singhiozzava incessantemente e non smetteva di piangere, era come se il braccio gli stesse andando a fuoco e le fiamme si stessero espandendo attraverso le sue vene. Quando i suoi genitori riuscirono a muovere via la mano del figlio, quello che videro fu a dir poco rassicurante: a soli cinque anni, molto più precoce della media mondiale (che era dieci anni), Sherlock aveva sviluppato il nome della sua anima gemella: il dolore era più che normale, perché quando avviene la Rivelazione è come se le lettere si marchiassero col fuoco, e il bambino era stato fortunato, perché queste erano solo quattro, e formavano un nome fin troppo comune. John.
 
*
 
John odiava il suo medico, aveva la faccia tirata come quella di un pesce palla, le orecchie a sventola e come se non bastasse aveva anche l'alito che sapeva di pesce. Sua madre lo costringeva ad andare a quegli stupidi appuntamenti perché aveva da poco compiuto undici anni e ancora non gli era comparso il nome: non poteva semplicemente accettare di aver fatto un figlio Nameless? Oltretutto non era tutto questo problema, quelli senza nome ormai conducevano una vita uguale a quelli che lo possedevano: tutti sapevano che Margareth Thatcher non aveva mai avuto un'anima gemella, eppure questo non l'ha fermata dal diventare Primo Ministro.
 
Come aveva dedotto, l’appuntamento era stato inutile, non c'era nessuna traccia di lettere sul suo polso e probabilmente non ci sarebbe mai stata. Lui e la madre tornarono a casa senza aver parlato nel tragitto, perché la signora Watson era visibilmente triste e sapeva che se avesse provato a parlare la sua voce l'avrebbe tradita, facendo sentire in colpa il figlio per qualcosa che lui neppure poteva controllare. La notte stessa John si svegliò di soprassalto a seguito di un terribile incubo che aveva a che fare con un drago o un pipistrello, e si accorse che gli faceva male il braccio, come se gli stessero infilando un ago sottopelle per recidergli tutte le vene del polso. Si stupì nel vedersi formare una serie di lettere scritte in bella grafia che creavano la parola Sherlock.
 
“Che diavolo è uno ‘Sherlock'?” si ritrovò ad esclamare, forse un po’ troppo ad alta voce, tanto da svegliare la sorellina che dormiva nella stessa stanza con lui e sua madre, che accorse a controllare che tutto fosse sotto controllo. Si ritrovò ad assistere agli ultimi attimi della Rivelazione di suo figlio, quel momento in cui il dolore comincia a scemare e le lettere da rosso fuoco diventano nere. La donna si stupì nel ritrovarsi a piangere di fronte quello che stava aspettando da più di due anni. Si ritrovò in quel momento a sentire il peso del suo bracciale, che non nascondeva nessun nome esattamente come quello del marito e, mentre abbracciava il figlio, alzò lo sguardo al cielo e silenziosamente ringraziò Dio, che aveva permesso al suo John di trovare il vero amore.
 
***
 
1993
 
Fare lezione a casa non era così male, per lui: i bambini lo trattavano male dalla prima elementare perché lui aveva già il nome e non era normale, quindi lui rispondeva per le rime e ciò non faceva che peggiorare la situazione. Dopo l’ennesimo richiamo della preside, quindi, i signori Holmes si videro costretti a ritirarlo dalla scuola e ad assumere un insegnante privato. La soluzione durò per un paio di anni, ma quando Sherlock compì dieci anni decise che da quel momento in poi avrebbe imparato tutto da solo e fece di tutto per far esasperare il suo maestro: gli bruciò libri, gli schiarì i capelli e gli graffiò la macchina, ma niente impediva al signor Marlowe di presentarsi il giorno dopo per le consuete cinque ore di lezione. Ci provò per settimane, architettando piani sempre più assurdi e meschini, arrivando a pensare di doverlo uccidere per liberarsi di lui, ma quando la madre lo mise davanti alla scelta di tornare a scuola o restare con l'insegnante, Sherlock si trovò costretto a rinunciare al suo piano malvagio.
 
 Avrebbe finito le scuole medie a casa e poi sarebbe tornato a scuola, con la speranza che, avendo tutti quanti il nome (o almeno la maggior parte), nessuno l’avrebbe più preso in giro. La sera stessa, a letto, si ritrovò a pensare alla sua anima gemella, a cosa lui stesse facendo. Si tolse per la prima volta il bracciale, sentendo il bisogno impellente di passare il pollice su quelle lettere, per ricordarsi che era solo ma che qualcuno, da qualche parte nel mondo, lo stava aspettando. Rindossò il bracciale d'argento su cui la madre aveva fatto incidere un ramo di ciliegio, e si addormentò, cullato dal pensiero della sua anima gemella, proiettato in un futuro in cui sarebbe stato felice per davvero.
 
*
 
John Watson invece odiava la sua anima gemella: non proprio lui, ma il fatto che non fosse una donna, una ragazzina, come per esempio Lucy. Aveva sperato che, ignorando quel nome sotto al bracciale, prima o poi si sarebbe trasformato nel suo nome. Lucy era una bambina molto carina, con gli occhi verdi e i capelli castani, quasi biondi, ed era nella sua classe di geografia. Aveva avuto una cotta per lei dalla prima media, ma non aveva mai trovato il coraggio per dichiararsi. E inoltre c'era quel nome, quel nome da uomo che due anni prima, quando era comparso, aveva dovuto cercarlo nel libro dei nomi della madre per capire se appartenesse a un uomo o a una donna. Non aveva mai desiderato odiare una persona come sperava di dover odiare la sua anima gemella, perché Lucy non avrebbe mai potuto essere davvero la sua ragazza, avrebbe potuto provarlo ma non sarebbe mai stato lo stesso.
 
 Lo avevano dimostrati suoi genitori che per sfuggire alla vita solitaria di Nameless si erano sposati consapevoli di non amarsi abbastanza da non riuscire a rimanere insieme per sempre. Il loro amore era durato il tempo di un battito di ciglia, per poi scomparire quando ancora pensavano che il loro primo figlio sarebbe stato esattamente come loro. Quando poi comparve il nome sul polso di John era ormai troppo tardi: suo padre li aveva lasciati a Londra per viaggiare in giro per il mondo, costringendo la madre a prendersi cura di due figli, due bambini, completamente da sola. Questo il piccolo Watson non lo avrebbe mai perdonato al padre, mai, perché loro sapevano a cosa stavano andando incontro quando si sposarono e lui, scappando come un vigliacco, aveva dimostrato di non essere capace a fare né il padre né l’uomo, e John voleva essere il più diverso possibile da lui.
 
Quindi si limitava a guardare Lucy da lontano, consapevole che ciò che provava sarebbe stato niente in confronto a ciò che avrebbe provato con Sherlock. Passò tutta la giornata a pensare a quel ragazzo e alla sua cotta, chiedendosi quanto avrebbe dovuto ancora aspettare prima di trovarlo, come si sarebbero incontrati e quando. Fu il suo pensiero fisso per tutta la durata delle lezioni e anche per tutto il tragitto verso casa. Quando aprì la porta della sua abitazione e vide la sorella accasciata a terra priva di sensi, però, la sua mente si svuotò all’improvviso.
 
 Il suo corpo entrò in una specie di modalità automatica: chiamò prima di tutto il pronto soccorso, poi svegliò Harry, la tenne cosciente, controllò eventuali emorragie o ferite alla testa, la stese nella posizione di sicurezza e attese i paramedici che impiegarono poco meno di otto minuti ad arrivare. John rimase tutto il tempo in un angolo della stanza, pensando a come il suo corpo reagì prima di lui, e gli piacque la sensazione adrenalinica che l’aiutare sua sorella aveva portato con sé. I paramedici scoprirono che la causa del malessere di Harriet era dovuta alla Rivelazione, che era stata anomala per le conseguenze fisiche della ragazza ma che aveva lasciato sul suo polso il nome Jane. Quella sera John andò a dormire con una strana sensazione in corpo. Si tolse il bracciale, come faceva ogni sera, e osservò il modo in cui le lettere sembravano tatuate sul suo polso. Forse avrebbe dovuto lasciarsi andare all’istinto, farsi guidare solo da ciò che sentiva lui e non da un nome bizzarro che apparteneva a uno sconosciuto. Decise che da quel momento non avrebbe permesso a Sherlock di veicolare le sue scelte.
 
Il giorno dopo prese il coraggio a due mani e chiese a Lucy di uscire.
 
***
 
1998
 
Lucy fu la prima. Era stato bello, per quel poco che era durato, condividere le proprie giornate con un’altra persona che non fosse la sua famiglia, qualcuno che poteva capirlo più a fondo di quanto avessero mai fatto i suoi amici, qualcuno a cui dire tutti i suoi pensieri. Ovviamente non era durata con lei, era impossibile, i loro nomi li tenevano a distanza come un muro tra due stanze. Era stato bello, perciò Lucy era stata la prima, ma di certo non l’ultima. Tanto che, arrivato al suo ultimo anno di liceo, tutti a scuola lo conoscevano come John sciupafemmine e ogni volta che sentiva quell’appellativo non faceva che pensare a cosa fosse successo se tutti avessero saputo che la sua anima gemella in realtà era un uomo. Rise solo pensando alla scena: i suoi amici ci sarebbero rimasti di sasso ma poi probabilmente ci avrebbero scherzato su, come quando Andy aveva fatto coming out due anni prima. Ed era proprio lui che in quel momento si stava sedendo accanto a lui al tavolo in mensa.
 
 
“Johnny, come va?” gli chiese mentre sbatteva il vassoio sul piano. Andy era oggettivamente un bel ragazzo: molte volte John aveva fantasticato di baciarlo, di accarezzargli i capelli neri e di stringerlo esclusivamente per capire come sarebbe stato provare per un uomo quello che aveva sempre sentito per le donne, perché quando avrebbe incontrato la sua anima gemella voleva essere sicuro che l’universo avesse scelto bene e che non si fosse sbagliato.

“Tutto okay, sto pensando all’università” rispose dopo un breve attimo di silenzio. Ed in parte quell’affermazione era vera: mancava un mese alla fine del liceo e non aveva la possibilità di pagarsi gli studi. Gli erano state offerte delle borse di studio per il rugby, ma lui non avrebbe mai continuato quello sport che si era fatto piacere per dare delle belle soddisfazioni alla madre. Voleva studiare medicina, ci aveva pensato per anni e anni e ogni volta i suoi pensieri andavano alla notte della Rivelazione di Harry, e a quelle volte che la madre era stata male e lui l’aveva curata, a quelle sensazioni che lo travolgevano quando le sue mani erano impegnate a fare del bene agli altri, a quando Andy aveva fatto a botte con un ragazzo più grande di loro e gli era rimasto accanto a tenergli il ghiaccio sull’occhio. Era consapevole che medicina doveva essere la sua strada, ma mancavano i soldi e avrebbe dovuto spaccarsi la schiena di lavoro per anni prima di poter anche solo pensare di mandare la richiesta al Bart’s.
 

“A proposito di questo –disse Andy posandogli una mano sulla sua gamba- ho parlato con mio padre. Sai che lui ha studiato al San Bartholomiew’s hospital, e mi ha detto che hanno un programma per la laurea in medicina finanziato dall’esercito. Potresti pensarci. Certo, l’esercito non è il massimo delle opzioni ma penso che potresti farcela”
La mano di Andy non si spostò dalla sua coscia, anzi, strinse ancora di più la presa.
“Pensi?” sussurrò John, come se avesse perso la voce, troppo preso da quel contatto.
“Penso che tu sia in grado di fare tutto” rispose l’altro.
Si trovarono inspiegabilmente vicini, dimentichi del fatto che erano a mensa e che alcune persone avevano preso a guardarli curiosi. Non era la prima volta che accadeva, ma la maggior parte delle volte capitava quando erano da soli, o al massimo quando erano con i loro amici (i quali erano più che abituati al loro continuo flirtare), quindi non era una novità per loro trovarsi così vicini.
“John…” soffiò l’altro ragazzo direttamente sulle sue labbra “Forse dovremmo, non so, parlarne”. Si allontanò solo per mantenere il pudore e per cercare di riprendere aria.
John sospirò, passandosi una mano tra i capelli. “Probabilmente si, dovremmo parlarne. Non a mensa però, mentre tutti ci guardano” concluse ridendo, leggermente imbarazzato, mentre si guardava attorno e notava le persone che si giravano velocemente, colti in fragrante mentre non si facevano gli affari loro.
 

E ne parlarono il pomeriggio stesso, a casa di John, sul suo letto, nudi, con solo il bracciale a coprire i loro nomi. John stava accarezzando i capelli dell’altro, trovandoli morbidi come aveva sempre immaginato. Andy si era addormentato tra le sue braccia, come se fosse la cosa più normale del mondo, come se lo avessero fatto almeno un milione di volte, ma non era così, e le sue ansie e preoccupazioni stavano cominciando a prendere il sopravvento. Lui e Andy erano sempre stati ottimi amici fin dal primo giorno di liceo, avevano condiviso alcune cose che non avevano mai detto neanche alle loro stesse famiglie; John era stato il primo a sapere dell’orientamento sessuale di Andy e quest’ultimo era stato il primo a conoscere la storia turbolenta della famiglia del giovane Watson. Con quello che avevano appena fatto cosa sarebbe successo? Cosa aveva spinto Andy ad andare a casa sua, appena finite le lezioni, e a baciarlo vicino al suo appendiabiti? L’oggetto dei suoi pensieri si mosse sopra di lui, portando il braccio sinistro accanto alla testa del biondo, e fu lì che capì: “John” era un nome comunissimo, aveva conosciuto parecchi omonimi nel corso della sua vita, tanto che ogni volta che ne incontrava uno nuovo si dispiaceva per il suo Sherlock.
 

“Andy” disse, facendolo rotolare accanto a lui per svegliarlo. Il ragazzo si destò e subito prese a guardare John. “C’è il mio nome sotto al bracciale, giusto?” a quella domanda il moro sentì il suo respiro bloccarsi in gola e la sua capacità di parlare venire meno. L’unica cosa che riuscì a fare fu togliersi il bracciale, per mostrare all’altro le quattro lettere nere che macchiavano la sua pelle bianca. Non riuscì a guardare John negli occhi quando questi gli prese il viso tra le mani, né riuscì a rispondere a quello che John gli stava domandando.
“Sapevi che non ero io, l’hai sempre saputo. Perché sei venuto a letto con me?” John si mise seduto sul letto, girandosi per guardare meglio l’altro. Vedendo che Andy non si decideva a parlare, decise anche lui di togliersi il bracciale, mostrando ciò che nemmeno sua sorella era mai riuscita a vedere da così vicino. Il nome della sua anima gemella, che in quel momento sembrava sbagliato: esattamente come anni prima, aveva sperato che quelle lettere si tramutassero nel nome di qualcun altro, ma erano sempre le stesse otto lettere che formavano sempre quella strana parola e che mai avrebbero mutato la sua forma. John sospirò di nuovo.
 

“Io mi sono innamorato di te –sussurrò quindi Andy, sempre evitando gli occhi dell’altro- e ho cercato di smettere di farlo, perché sapevo che non eri tu. A prescindere dal sesso di quello strambo nome che ti ritrovi sul polso io sapevo già che non eri tu. Ma non ce l’ho fatta, e quando ho notato che anche tu ricambiavi le mie attenzioni si è accesa una scintilla di speranza. Ho pensato ‘Magari si vergogna’, ma più andavo avanti più capivo che la vergogna non è una cosa tua e soprattutto per questa cosa sarebbe stato un sentimento inutile. Se avessi avuto il mio nome sul polso non ti saresti lasciato fermare da una cosa così frivola. Ma la speranza ha bruciato il mio cervello, ed io ho finito per innamorarmi di te”. John trattenne il fiato. E lui era innamorato di Andy? Come faceva ad esserlo se non era la sua anima gemella? Di certo non era indifferente ai suoi sguardi, alle sue battute e in generale al suo essere, ma poteva definirlo amore? Probabilmente no.
 

“Mi dispiace” si ritrovò a dire mentre prendeva la mano di Andy “anche io provo qualcosa per te, ma non potrò mai definirlo amore”
Andy annuì sconsolato. Si alzò, cominciando a vestirsi il più in fretta possibile, perché voleva lasciare quella casa nel minor tempo possibile. John non fece niente per fermarlo, ma seguì con lo sguardo ogni singolo movimento, senza lasciarsi sfuggire quelle due lacrime che stavano bagnando il volto dell’amico. Prima di andarsene il moro si girò verso di lui.
“Penso davvero che tu possa fare tutto, se solo lo desideri” disse. Poi lasciò la stanza, abbandonando John sul suo letto, solo con i suoi pensieri.
 
*
 
“Stai riconsiderando di tornare a studiare a casa” affermò Mycroft a suo fratello, che nel frattempo teneva una busta di piselli congelati sul suo naso e lo guardava da un solo occhio, dato che l’altro era chiuso da un bruttissimo livido violaceo. 
“Assolutamente no” rispose Sherlock stizzito. Erano due anni che andava avanti quella storia: almeno una volta a settimana tornava a casa gonfio di botte semplicemente perché lui diceva la verità e quella verità non stava bene a quegli idioti dei suoi compagni di scuola. La realtà dei fatti era che a Sherlock piaceva stuzzicare gli altri ragazzi, perché erano prevedibili, idioti e soprattutto pieni di segreti che lui adorava scovare. Tutti erano come pagine di un libro aperto che lui amava leggere. Era così con tutti, non poteva farci niente, era come se i suoi occhi fossero stati predisposti ad analizzare ogni cosa che gli stava attorno, e invece di ignorare gli input, li sfruttava come modo per divertirsi e combattere la noia. Le conseguenze erano perlopiù fisiche ma a Sherlock importava poco: per lui solo gli idioti si sporcavano le mani.
 

“Allora dovresti pensarci”
“E perché? Io non faccio nulla di male, sono loro che mi picchiano”
“E tu li provochi, Sherlock”
“Se la verità li provoca non è un problema mio”
“Si che lo è!” esclamò il maggiore furioso. “Non solo ti fai male tu, ma così facendo fai male a tutti quelli intorno a te. Quindi ti ripeto: dovresti riconsiderare l’idea di tornare a studiare a casa”
“No” rispose di nuovo Sherlock. Ogni volta era sempre la stessa storia: due testardi che cercavano di far valere la propria idea su quella dell’altro. Mycroft lo faceva per proteggerlo, Sherlock adorava semplicemente contrariarlo. Era in quelle occasioni che i loro sette anni di differenza si percepivano: il maggiore si era appena laureato e aveva ottenuto uno stage al parlamento inglese, aveva praticamente la strada spianata e il mondo ai suoi piedi; Sherlock aveva quasi finito il suo secondo anno al liceo e non aveva idea di cosa fare della sua vita, sapeva solo di amare tutto ciò che il resto delle persone preferiva evitare, come la morte e i piccoli dettagli, le api e la chimica.
 

Sherlock si tolse la busta di fredda dalla faccia, solo per guardare meglio il fratello che stava in piedi vicino alla porta della sua camera, poggiato a quello stupido ombrello da cui non si staccava mai.
“Di a mamma che non sono più un bambino che dà ascolto a tutto quello che dici. Hai fatto un viaggio inutile” disse, compiaciuto della sua stessa deduzione.
“È a lei e a nostro padre che stai facendo del male. Io cerco solo di proteggerti”
“Ma io non ho bisogno di protezione, Mycroft!” urlò a quel punto il più giovane, alzandosi in piedi di scatto. “Tutto quello che faccio ha un motivo. Tutte le azioni del mondo hanno conseguenze: le mie portano alle botte, ma io ne sono consapevole. Fa male per un paio di giorni, ma poi torna tutto alla normalità, la mia normalità. Sto bene” concluse scandendo le ultime due parole, come si farebbe con un bambino a cui bisogna insegnare la corretta pronuncia. Scavalcò il fratello maggiore, passandogli accanto per uscire dalla sua camera da letto. Aveva bisogno di una sigaretta.
 

Scese di corsa in cucina e uscì dalla porta del retro. In giardino, sotto la vecchia quercia, aveva sotterrato una scatolina di legno, abbastanza grande da contenere un accendino e un pacchetto di Marlboro. Si nascose dietro il tronco, come faceva ogni volta, e accese la sigaretta, ispirando profondamente per consumarla il più velocemente possibile.
 

Il fumo era diventato da circa un anno il suo modo di rilassarsi: quando aveva bisogno di stare solo andava in giardino, in quel punto esatto, e liberava la sua mente, il suo palazzo, dai pensieri superflui. Era come se tutte le cose inutili si spargessero nell’aria insieme alle nuvolette di fumo che uscivano dalla sua bocca. E con loro tutti i sentimenti che lo rendevano debole sparivano: la rabbia, in primis, verso i suoi compagni di scuola che per proteggersi non usavano il cervello ma i pugni; la tristezza nel vedere che tutti avevano degli amici tranne lui, che a pranzo rimaneva solo come un cane abbandonato; l’amore, alla fine, verso quel John che aveva scritto sul braccio e che aveva deciso di non voler incontrare mai più.
 
Perché è sempre dell’amore che si tratta: sotto forma di amicizia, relazione o fratellanza, era l’amore il motore del mondo, della vita, ma anche della morte, la più grande contraddizione che distingueva gli animali dagli esseri umani, ma anche i pesci rossi dalle persone intelligenti. No, nel suo palazzo mentale non ci sarebbe mai dovuta essere una stanza per quel sentimento, quel difetto chimico che altro non faceva che far perdere il senno. L’amore è per i folli, gli stolti e gli ingenui, e Sherlock non era assolutamente nessuno dei tre. Finì la sigaretta e buttò il mozzicone nella scatola, insieme al pacchetto e all’accendino. L’occhio e il naso pulsavano doloranti, ma lui li ignorò, preferendo invece tornare in camera sua, dove sapeva che non avrebbe trovato più il fratello (aveva sentito il rumore della sua macchina in moto e poi scemare piano piano).
 
Si stese sul letto, con la testa leggera, e in quel momento pensò che probabilmente il fumo non gli sarebbe più bastato prima o poi, che avrebbe cercato altri modi per sentirsi sempre meglio, sempre più a contatto con la sua mente. I suoi pensieri si proiettarono verso due sostanze di cui aveva sperimentato gli effetti su un topo che aveva trovato in cantina. Aveva ancora le bustine da qualche parte, ma le dosi non erano sufficienti. Pensò di poterle mischiare, ma non aveva ancora studiato gli effetti del mescolare cocaina ed eroina insieme. Si alzò in piedi e raggiunse la scrivania: aveva trovato cosa avrebbe fatto tutto il pomeriggio. Tanto quel topo era ancora vivo.
 
***
 
2001
 
Per passare dai topi agli esseri umani (e con esseri umani intendeva sé stesso) gli ci vollero un paio di anni, ma dal suo ultimo anno di liceo aveva preso a drogarsi a cadenza settimanale, se non addirittura giornaliera –nei momenti peggiori. Non era mai un dosaggio troppo pericoloso, al massimo un paio di ml per permettere al suo cervello di essere attivo al 100%, e che lo faceva sentire più vivo che mai, ma non aveva mai rischiato l’overdose e, soprattutto, non si era mai lasciato scoprire, neanche dagli occhi attenti del fratello. Solo una persona riuscì a scoprire il suo segreto, il suo compagno di stanza Victor, quando aveva notato i segni di iniezione sul suo braccio. Sherlock, ormai ventunenne e più che esperto delle emozioni umane, rimase sorpreso quando si accorse che l’altro non si era arrabbiato, né aveva fatto qualche scenata: semplicemente gli chiese di dividere una dose, di drogarsi insieme. Quella era stata la prima volta che il giovane Holmes non si era sentito solo, e da allora anche la compagnia di Victor Trevor era diventata una droga.
 

Sherlock guardava l’altro dormire nel letto di fronte al suo mentre lui, a petto nudo, se ne stava davanti alla finestra aperta a fumare una sigaretta. L’aria di metà aprile era fredda ma portava con sé il profumo dei fiori di Cambridge e il giovane adorava quando il sapore del fumo si legava a quello delle rose, come se fossero nati per stare insieme. Un po’ come lui e Victor, (cercò di correggere quel nome in ‘John’, ma senza successo) che erano stati prima compagni di stanza, poi amici e infine l’uno la droga dell’altro. Non si trattava d’amore, né di sesso, ma di resistenza: l’uno era l’àncora dell’altro e viceversa, si aiutavano a rimanere a contatto con la realtà anche quando quest’ultima diventava peggiore di un incubo. Attraverso la vera droga si tenevano per mano, viaggiando in un’altalena al confine tra dimensioni parallele, mondi in cui loro due erano anime gemelle oppure estranei, o parenti, o due foglie mosse dal vento e che d’autunno erano destinate a cadere.
 

Eppure Sherlock lo sentiva, quel desiderio costante di vedere sotto quel bracciale il nome dell’altro, di poterlo stringere tra le sue braccia e amarlo, cercando di creare con lui quel legame unico che tutte le persone del mondo cercavano e bramavano. Ma era anche consapevole che nessuno sarebbe mai stato capace di amare uno come lui: una macchina, un mostro, un pazzo, un sociopatico… tutti aggettivi che gli erano stati buttati addosso in anni di torture scolastiche e che lui aveva legato a sé con pesanti catene d’oro. Si girò verso il compagno di stanza: dormiva a pancia in giù, con una gamba piegata e una stesa, mentre con le braccia sembrava volesse stringere a sé il cuscino. I suoi capelli rossi gli coprivano metà del volto, perché a lui piaceva tenerli lunghi abbastanza da raggiungergli le spalle; le sue labbra erano leggermente dischiuse perché di notte lui respirava con la bocca, soprattutto in primavera, quando l’allergia gli chiudeva il naso e gli faceva diventare le guance rosse; il suo petto era coperto dalla maglia del pigiama, grigia, abbinata al pantalone. Sherlock non aveva mai capito il senso di comprare degli indumenti che avessero il preciso scopo di essere indossati solo la notte, quando nessuno poteva vederli, lui preferiva dormire in boxer, ma Victor gli aveva spiegato che per lui era più comodo, e gli credette.
 

Probabilmente non era amore, Sherlock non era stato in grado di provare quel sentimento neanche verso la sua famiglia. Era più voglia di essere come Victor: bello, affascinante, intelligente e capace di relazionarsi con lo stesso mondo che lui non capiva mai fino in fondo. Victor era tutto ciò che lui non era, e in qualche modo strano si completavano, come pezzi di puzzle presi da due scatole diverse, un evento incredibile quanto raro.
 

Sherlock sospirò, spegnendo il mozzicone sul davanzale della finestra e dirigendosi verso il suo letto. A volte dormire diventava impossibile, soprattutto quando i suoi mille mila pensieri si accavallavano l’uno sull’altro come voci di decine di migliaia di persone che gli urlavano contro.
Si stese sul letto e guardo l’orologio sul comodino: erano le quattro e venti. In quel momento il suo inquilino si svegliò.
“Sherlock?” lo chiamò, con la voce ancora impastata dal sonno.
“Si?” rispose il giovane Holmes, mentre continuava a fissare Victor che si sistemava sul letto.
 

Immaginò di vederlo alzarsi e andare verso di lui, porgergli la mano per costringerlo ad alzarsi, per poi chiedergli di ballare lì, in mezzo alla stanza e senza musica. In quello scenario avrebbero danzato fino all’alba, e poi Victor l’avrebbe stretto tra le sue braccia, l’avrebbe baciato appassionatamente, come aveva visto in quel film anni Quaranta che la madre una volta gli aveva costretto a vedere contro la sua volontà. Si sarebbero spogliati delicatamente, magari un po’ impacciati, e Sherlock gli avrebbe detto “è la prima volta”, e l’altro lo avrebbe rassicurato con un bacio. E avrebbero fatto l’amore mentre le prime luci dell’alba bagnavano i loro corpi di arancione. Si sarebbero addormentati cullati dai rumori di sottofondo e avrebbero saltato la lunghissima lezione di chimica organica, e si sarebbero amati. E i nomi sui polsi sarebbero cambiati: un bel giorno d’estate Sherlock avrebbe tolto il bracciale per grattarsi e non avrebbe più trovato scritto ‘John’, ma il bel nome di Victor scritto con l’inchiostro dorato perché lui era luce pura, e sarebbe stato bellissimo. Ma non accadde nulla.
 

“Hai lasciato la finestra aperta” sussurrò Victor, tornando poi a dormire.
Non ci sarebbe stato mai niente di tutto quello che aveva immaginato, sarebbe rimasto un sogno d’amore*, come quelli che fanno gli idioti ingenui e ignoranti. E quella notte Sherlock si permise di essere uno di loro e, dopo aver chiuso la finestra ed essere tornato a letto, riuscì ad addormentarsi: la sua mente si era svuotata da ogni urlo e a fargli compagnia rimase la sensazione della sua mano tra quelle di Victor.
 
*
 
Si svegliò con la terribile sensazione di essere in ritardo e, quando si voltò verso la sveglia, si accorse di aver ragione. Scattò in piedi, lasciandosi scivolare addosso il lenzuolo leggero che gli aveva fornito la segreteria all’inizio di quell’anno, e corse in bagno a farsi una doccia. Non era di certo colpa sua se aveva dormito poco: il giorno prima il suo compagno di stanza, nonché migliore amico Ethan, lo aveva costretto a fare uno di quei circuiti che usano i militari per allenarsi, ed erano stati tre ore a perfezionare ogni parte dell’esercizio e a migliorare il tempo di esecuzione. Entrambi studiavano al Bart’s grazie a quella convenzione con l’esercito britannico che aiutava gli alunni in difficoltà a frequentare l’università. Entrambi studiavano medicina, ma Ethan era di un anno più piccolo di lui, quindi avevano due orari differenti: infatti, mentre John si muoveva frettolosamente da una parte all’altra della stanza per raccattare i primi vestiti che trovava in giro, Ethan dormiva tranquillo nel suo letto, sbavando sul cuscino. In quel momento lo stava invidiando, perché lui aveva alle spalle poco meno di quattro ore di sonno e doveva sorbirsi almeno due ore di anatomia col professore più decrepito dell’università, mentre il compagno poteva permettersi almeno altre due ore di sonno.
 
Decise di quindi di fargliela pagare, buttandogli dell’acqua ghiacciata addosso. L’altro si svegliò bruscamente, guardandosi attorno confuso per un paio di secondi, prima di mettere a fuoco il viso vittorioso di John mentre gli mostrava il cestino che aveva usato come secchio.
“Tu… bastardo!” urlò il più piccolo, alzandosi in piedi per rincorrere l’altro in mezzo alla stanza. Cercarono di acciuffarsi per diversi minuti, fino a che John non notò che si era fatto davvero troppo tardi. A quel punto braccò Ethan, facendolo ruzzolare sul pavimento.
“Questo è per non avermi fatto dormire ieri notte!” esclamò, tirando poi fuori la lingua. Il ragazzo a terra fece finta di essersi fatto male al braccio, mugugnando versi di dolore fin troppo eccessivi per una botta.
“Ah, con me non attacca, provaci con qualche ragazza del primo anno” disse, per poi uscire fuori dalla sua stanza: aveva un minuto per raggiungere l’altra parte dell’edificio e se avesse fatto tardi probabilmente il professore lo avrebbe ucciso con solo lo sguardo.
 

John amava studiare al Bart’s, era stato da sempre il suo sogno, fin da quando era piccolo, e stare in quei corridoi era come camminare nella sua stessa immaginazione, correre tra le nuvole (forse quella era una scena un po’ troppo romanzata, ma chiariva la sua idea di bellezza). Quando per la prima volta era entrato al college aveva avuto la bellissima sensazione di aver trovato il suo posto nel mondo, un po’ come girare l’angolo e capire di star percorrendo la strada giusta. La medicina era la strada giusta di John, il fare del bene agli altri per stare bene con sé stesso, e non avrebbe rinunciato a quella strada anche se questa gli aveva messo davanti il terribile ostacolo di una vita in guerra. Ma in fondo la guerra si vive ovunque: magari anche a Londra, in quegli stessi attimi, due gang che si uccidevano a vicenda o un uomo che ammazzava la moglie per gelosia. Anche il pronto soccorso poteva essere visto come un campo di guerra, in cui vita e morte cercavano di prevalere l’una sull’altra mietendo vittime e mandando medici coraggiosi come soldati del bene. Magari a John sarebbe piaciuto, in un modo distorto, il terreno arido di qualche paese dell’Est in cui l’avrebbero mandato non appena si fosse diplomato. Cercava di non pensarci molto, in fondo mancavano ancora un paio di anni, ma a volte gli capitava di pensare a cosa avrebbe fatto, se fosse sopravvissuto abbastanza da incontrare la sua Anima Gemella o se il destino avesse scelto per loro la solitudine e la morte. Ammetteva che quella era la sua unica paura: non il dolore, non il buio –come quando era piccolo- ma l’eterno riposo da cui non c’era scampo, l’oblio nel quale tutti dovevano cadere. Forse voleva fare il medico per essere ricordato, in modo da permettere alla memoria di tenere in vita la sua immagine più di quanto il suo corpo potesse fare. Non parlava di fama, o di qualcosa di superficiale come l’essere superstar, ma piuttosto di quella memoria dei suoi pazienti, che magari avrebbero parlato di come il Dottor Watson gli aveva salvato la vita, quel tipo di memoria silenziosa che percorreva le strade del mondo senza disturbare nessuno.
 
Immaginava la vita perfetta: una casa nella periferia di Londra, un cane a cui avrebbe dato un nome strano, un figlio, un lavoro all’ambulatorio o al pronto soccorso. Era da smielati fare discorsi del genere, glielo diceva sempre il suo compagno di stanza, ma lui non poteva farci niente: probabilmente, in un’altra vita, avrebbe fatto lo scrittore di romanzi rosa.
In questa vita, invece, correva velocemente per i corridoi del suo college il più velocemente possibile, cercando di non sputare uno dei due polmoni e, soprattutto, di non cadere per le scale facendo una figura di merda davanti a mezzo campus. Arrivò giusto un minuto prima della fine del quarto d’ora accademico*, ma scoprì che il suo professore aveva già iniziato la lezione. Cercò di non fare troppo rumore mentre entrava, e si andò a sedere nella zona più estrema dell’aula, di modo da non passare davanti alla cattedra e disturbare la spiegazione. Cercò anche di regolarizzare il respiro senza fare troppo rumore e mettendosi una mano davanti alla bocca. Funzionò, per sua fortuna, e John si appuntò mentalmente che in qualche modo doveva farla pagare ad Ethan con più di una semplice secchiata d’acqua: forse avrebbe dovuto fargli uno sgambetto nel bel mezzo della mensa, sarebbe stato epico.
 
***
 
2007
 
La libertà aveva un costo, sempre. Per Sherlock era la riabilitazione che il fratello lo aveva costretto a fare: tre incontri a settimana con il gruppo dei tossicodipendenti anonimi e tre incontri con una psicoterapeuta. In tutto sei incontri di pura agonia, uno al giorno, dal lunedì al sabato. E la domenica doveva passarla a casa con i suoi genitori che così potevano controllare di persona la salute psicofisica del figlio. Come già detto, per Sherlock era pura agonia. Non aveva bisogno di nessuna terapia, aveva ventiquattro anni e veniva trattato da tutti come un bambino incapace di prendersi cura di sé stesso. Aveva fatto di tutto per far stare zitti i genitori: si era laureato in tempo a ventidue anni col massimo dei voti, senza mai prendere un provvedimento o fare una rissa; aveva cercato lavoro (segretamente aiutato da Mycroft), trovando un impiego in un ospedale al centro di Londra, dove aveva anche instaurato dei rapporti con diverse persone; era riuscito a trovarsi un appartamento dove viveva relativamente bene. Eppure tutti gli sforzi erano stati vani quando avevano scoperto della droga, il suo segreto preferito, la sua valvola di sfogo, l’unica cosa che davvero avrebbe voluto fare. Si chiese il perché di tutta quella preoccupazione nei suoi confronti: perché tutti pensavano che non avesse niente sotto controllo? Perché nessuno si fidava di lui quando diceva di stare bene?
 

Forse, rispose il suo subconscio per lui, era perché l’avevano trovato quasi morto per strada. Forse perché quella volta si era lasciato andare ai sentimentalismi, perché aveva preferito morire, piuttosto che vedere il suo migliore amico andarsene via, voltargli le spalle e non tornare mai più indietro. Aveva preferito morire, piuttosto che rimanere da solo per sempre.
 

Avrebbe preferito morire, piuttosto che passare il resto della sua vita in cerca di quel John che non aveva ancora trovato. Perché Victor aveva trovato la sua Anima Gemella, aveva avuto il legame con una bellissima donna tutte curve e con i capelli castani, a cui piacevano i gatti e la musica di Grease, che suonava il pianoforte invece del violino e che lavorava come insegnante. E Sherlock aveva visto il momento in cui il suo spazio nella vita dell’uomo che amava si era ridotto fino a diventare zero, fino a vederlo andarsene per sempre. E le parole di Victor non facevano che rimbalzare da una parete all’altra del suo palazzo mentale, fermando tutte le deduzioni, i ragionamenti più razionali, e liberando quel drago di emozioni che non era mai riuscito a controllare e che, ingenuamente, aveva pensato di poter gestire con una dose più alta di cocaina.
 

“Mi dispiace Sherlock…
America, ho trovato un posto nel laboratorio di chimica dell’NYU
Forse è il momento di andare avanti…
Ora che c’è Charlotte sono davvero contento…
Addio
Addio
Addio”
 

Quell’ultima parola non faceva che ripetersi incessantemente nella testa di Sherlock e solo la droga era riuscita a bloccare tutto il casino che aveva dentro. Era la prima volta che la usava per dolore: le prime volte era stato per noia, poi per piacere, poi per compagnia, insieme a Victor nella loro stanza del college, e quell’ultima volta per bloccare ciò che non riusciva a fermare. Si era svegliato in una stanza d’ospedale color bianco asettico e anonimo. Accanto a lui, poggiato sullo schienale della sedia, c’era un ombrello, il cui proprietario era in piedi vicino alla finestra, con le mani dietro alla schiena.
“Da quanto?” chiese semplicemente.
“Sette anni? –disse, faticando a parlare- Dall’ultimo anno del liceo”
“Diciotto anni… Dio, Sherlock, sei stato bravo a non farti beccare. Non hai mai… -Mycroft sospirò sconsolato- cos’è cambiato questa volta?” decise infine di cambiare domanda. Sapeva che ci doveva essere un motivo per cui il fratello doveva aver esagerato quella volta, perché se non aveva mai fatto un passo falso in sette anni era assurdo anche solo pensare che Sherlock si fosse sbagliato.
“Ero… -fece un attimo di pausa- Ho… -non riusciva a dire la verità, non riusciva a dare la colpa ai sentimenti- Ero annoiato” dichiarò alla fine. Sherlock sapeva che il fratello non ci avrebbe creduto, ma sapeva anche che Mycroft non era il tipo di persona che si impicciava troppo e che avrebbe dato per vero qualcosa che sapeva non esserlo solo per non discutere. E così fu.
 

Da qual giorno Sherlock venne tenuto a stretta sorveglianza da tutti i membri della sua famiglia e un altro paio di persone: l’ispettore Gregory Lestrade, che lo aveva trovato in mezzo alla strada, e Molly Hooper, con cui lavorava al laboratorio del Bart’s. E poi c’erano quegli incontri, quei terribili incontri, e le domeniche a casa dei suoi genitori (di certo la parte peggiore). Sarebbe durato solo un anno, gli aveva promesso Mycroft: un anno di sofferenze per il resto della sua vita libero da ogni dovere. Però c’erano stati dei risvolti positivi, perché uscì fuori che quel Lestrade lavorava nella squadra omicidi e aveva bisogno di una mano per risolvere alcuni omicidi. Iniziò così la loro collaborazione, dapprima con i casi più insignificanti, come rapine finite male, in seguito quelli da prima pagina, come femminicidi, serial killer e tentati omicidi di persone di spessore. Quello era stato l’unico aspetto positivo di quell’anno: aveva finalmente trovato un modo per tenere a bada non solo la sua mente iperattiva, ma anche le sue emozioni e i suoi pensieri più irrazionali. Risolvere omicidi era diventata la sua nuova droga preferita.
 
*
 
Se John avesse dovuto descrivere la guerra in una parola probabilmente avrebbe detto “calda”, perché tutti sapevano che era ingiusta e brutale e che non guardava in faccia a nessuno, ma nessuno sapeva che era calda come il sole in pieno luglio che ti sbatte sugli occhi e non riesce a farti sentire niente; nessuno sapeva che potevi perdere più liquidi di quanti ne ingerissi; nessuno poteva mai sapere che il sangue sulle mani è caldo e non si riesce a togliere facilmente. Quindi si, la guerra era terribilmente calda, opprimente, asfissiante. Non che si fosse immaginato altro dall’andare in Afghanistan, anzi era esattamente come la dipingevano i suoi peggiori incubi.
 

Quel giorno aveva visto arrivare alla base un terzo dei soldati gravemente feriti, un terzo con qualche graffio e l’ultimo terzo non aveva avuto modo di vederlo. Era stato difficile, essendo uno dei due medici militari, riuscire a curare tutti: Anthony gli era morto tra le braccia, Marcus se ne era andato durante la notte, dopo due ore di intervento, quando si pensava fosse fuori pericolo, e Paul aveva urlato fino a che il suo corpo non aveva più retto, e si era lasciato andare tra le lacrime e i deliri. Era stato probabilmente il giorno peggiore da quando era stato mandato in quel campo. Nelle tende nessuno fiatava e l’unico rumore che si sentiva era quello dei due dottori che riponevano i corpi dei deceduti in delle sacche nere, ma dopo di quello il nulla. In lontananza si sentivano ancora degli spari sporadici che scemarono piano piano fino a fermarsi del tutto. Nessuno riusciva a parlare, nessuno riusciva a pensare. John tra tutti cercava di trattenere le lacrime: nonostante sapesse di aver fatto del suo meglio, il senso di colpa lo mangiava da dentro ogni volta che non riusciva a salvare qualcuno.
 

Arrivò la notte senza che nessuno se ne accorgesse. I respiri di ogni soldato si facevano sempre più pesanti, come se il mondo gli fosse caduto sulle spalle da un momento all’altro, e forse era così. O forse era il fantasma della morte, che li chiamava a sé per nome, perché prima o poi se ne sarebbero andati tutti. Poi si sentì una voce: dapprima un sussurro, divenne poi un canto, e infine un coro.


“Of all the money that e'er I had
I have spent it in good company
Oh and all the harm I've ever done
Alas, it was to none but me

 
And all I've done for want of wit
To memory now I can't recall
So fill to me the parting glass
Good night and joy be to you all”*




John rimase in silenzio, mentre veniva cullato dalla melodia che i suoi commilitoni avevano messo su per onorare i loro amici scomparsi. Ognuno di loro aveva una storia diversa, famiglie differenti, problemi e percorsi differenti, ma tutte quelle strade li aveva portati in quella tenda, a cantare dopo la giornata peggiore che avessero mai avuto. Gli vennero i brividi a pensare a come la guerra aveva cambiato tutti loro: ognuno si era perso, perché gli era stato rubato il loro essere, ed erano diventati soggetti differenti. I più fortunati sarebbero tornati a casa ma non sarebbero mai riusciti ad essere di nuovo ciò che erano prima della guerra, John compreso.
 

Dopo cena videro rientrare alla base il generale Sholto accompagnato da un paio di soldati: avevano qualche ferita superficiale ma tutto sommato stavano bene. Loro erano stati dall’altra parte della città e non avevano idea di quello che invece era successo dalle loro parti. Uno dei due soldati, David, si sedette accanto a John e prese a mangiare la sua razione in maniera frenetica, come se non toccasse cibo da più di due giorni.
 

“Johnny –esclamò con un pezzo di pollo ancora in bocca- dov’è finito quel deficiente di Paul?” chiese, per poi finire di masticare. Al Dottor Watson bastò guardarlo e scuotere la testa per far intendere quello che a parole sarebbe stato troppo doloroso da dire. John conosceva quei due sin dai primi anni di addestramento: era presente quando si conobbero e quando cominciarono a diventare amici e infine fratelli. Quei due avevano fatto tutto insieme, erano l’uno la spalla dell’altro, erano impossibili da separare e il dottore aveva sempre sospettato che tra loro in realtà ci fosse qualcosa in più, che fossero addirittura Anime Gemelle. Dare quella notizia a David era stata la parte peggiore di quella giornata: aveva visto nei suoi occhi il momento in cui tutto era crollato, dove tutto si era fatto bianco e nero, dove la vita aveva perso il suo significato. Il ragazzo sorrise in modo strano, mentre scuoteva la testa come fosse in preda ad un attacco epilettico.
 

“Se è uno dei tuoi scherzi John non te lo perdono facilmente”
John lo guardò, provando subito un moto di pietà verso di lui. “Mi dispiace” sussurrò. L’altro ragazzo scattò in piedi, lasciando cadere la forchetta sul tavolo.
“N…no, lui non può essere morto, è un cazzo di scherzo…” prese a muoversi per tutta la tenda, come se stesse cercando il suo compagno, pensandolo nascosto tra gli altri soldati.
“David –cercò di dire il dottore, raggiungendolo- non lo troverai. Lui è… è morto”
“NON È VERO!” urlò David, ricevendo l’attenzione di tutti gli altri. “Mi aveva promesso… –riprese abbassando gradualmente il tono della sua voce- saremmo dovuti tornare a casa insieme”
Il ragazzo si guardò intorno e, notando che tutti gli altri lo stavano guardando, scappò via. John non ci pensò due volte e lo seguì. Uscì dalla tenda e trovò il ragazzo seduto per terra, con le mani davanti al viso per nascondere le sue lacrime. Il dottore si sedette accanto a lui e aspettò.
 

“Era il mio migliore amico –sussurrò lui dopo qualche minuto- mio fratello, la persona più importante della mia vita, la mia anima gemella. Nessuno dei due ha un nome sul polso, e prima di lui pensavo che la vita mi avesse condannato alla solitudine. Ma dopo è arrivato lui e… mi sono sentito completo. Ed è stato lui a farmi capire che non è un nome a determinare la mia felicità, ma io. E Dio, John, sono stato così felice con lui. Come… come potrò mai sentirmi di nuovo così?” concluse il ragazzo, girandosi verso John. Aveva gli occhi rossi e la bocca gonfia, le guance bagnate dalle lacrime e il dolore che trasudava da ogni muscolo. Il dottore non gli rispose, ma lo abbracciò stretto, permettendogli di bagnargli la spalla con le sue lacrime. Sin da quando era piccolo ogni sua singola decisione era stata dettata da quel nome sotto al bracciale, che non gli aveva permesso di amare le persone che aveva frequentato: prima Lucy, poi Andy, e tutte le altre decine di conquiste che aveva fatto nel corso della sua gioventù. Anche quando credeva di non pensarci alla fine si rendeva conto che ogni sua mossa era dovuta a Sherlock e forse l’unica decisione che non c’entrava con lui era la sua passione per la medicina che lo aveva portato in guerra. Non poteva sapere come si sentiva David, perché, mentre lui sapeva già a chi era predestinato, l’altro se l’era scelto tra miliardi di persone, andando contro a tutti quelli che pensavano che il vero amore fosse esclusivamente quello delle Anime Gemelle. David gli aveva mostrato come non è un nome a fare la differenza ma la persona che si ama, a prescindere da quello.
 

“Andrai avanti –gli sussurrò tra i capelli- senza di lui, e lo farai per lui. E potresti trovare qualcun altro che ti amerà come ha fatto lui, e potresti vivere comunque una bella vita. È questo il bello: puoi scegliere tu come mandare avanti la tua stessa vita, e potresti decidere di restare attaccato al ricordo di lui, facendoti mangiare dal dolore, oppure andare avanti e portare il suo ricordo con te, ovunque tu vada”.
Restarono abbracciati per un tempo indefinito, mentre le stelle su di loro macchiavano il cielo nero del deserto. In un altro momento John avrebbe potuto descrivere ogni costellazione, cercare la stella polare, ma in quell’attimo decise di fissare la luna chiedendosi se, prima o poi, sarebbe riuscito a trovare anche lui quell’amore, lo stesso che aveva legato David e Paul. Un amore così forte da non riuscire a farne a meno. Per riuscirci, sarebbe dovuto sopravvivere alla calda guerra in cui era stato coinvolto.
 
***
 
2009
 
Era stato difficile stare lontano dalle droghe, più di quanto cercasse di far trapelare. Non aveva capito quanto ne fosse dipendente fino a quando non aveva dovuto smettere di usarle. Per fortuna ne era uscito, ma soprattutto aveva dimenticato Victor, lo aveva rilegato in una stanza di manicomio del suo palazzo mentale e da lì non lo aveva fatto uscire mai più. Con lui aveva deciso di rinunciare alla sua Anima Gemella: il dolore che aveva provato per Victor era stato così profondo che era durato per mesi interi, e mai avrebbe voluto riprovarlo, non per un sentimento così superficiale come l’amore. Si era ritrovato ogni giorno, nel corso di quei due anni, a desiderare di essere un Nameless perché quelle quattro lettere erano la più grande debolezza che lui potesse mai avere e la maledizione che tutti scambiavano per miracolo.
John era la prova che Sherlock era un essere umano. 
 

Erano passati due anni dall’ultima volta che aveva toccato le droghe e non gli mancavano: al loro posto preferiva cerotti alla nicotina e casi di omicidio, entrambi forniti dal detective Lestrade, l’unico della squadra omicidi che riuscisse a sopportarlo. Era anche riuscito ad inventarsi un lavoro, quello di consulente investigativo, di cui andava molto fiero. Insomma la sua vita stava raggiungendo un equilibrio stabile che riusciva ad apprezzare e non lo annoiava (per quanto si potesse parlare di stabilità con una persona che si elettrizzava nel vedere i cadaveri delle persone). In quei giorni risolse anche un intricato caso di omicidio che incastrava definitivamente un certo Harry Hudson in dei traffici illeciti di droga nel corso degli anni 80 in Florida.
 
 Era stato chiamato direttamente dalla moglie di questi, che lo aveva supplicato di aiutarla a distruggere il marito. La vecchia coppia viveva al civico 221 di Baker Street ma in due diverse parti dell’appartamento: quella B, occupata dal signor Hudson che aveva ormai cambiato ubicazione per sempre, si era liberata, e la signora Hudson era stata felice di offrire uno sconto sull’affitto a colui che l’aveva aiutata a liberarsi del marito. Sherlock non poté accettare, perché gli era stato categoricamente vietato dal fratello di andare a vivere da solo. Infatti era costretto a stare in una stanza dell’enorme villa di Mycroft, poiché quest’ultimo non si fidava a lasciare Sherlock in balia di sé stesso e delle droghe. Il consulente aveva cercato in ogni modo di dire al fratello che ormai aveva quasi trent’anni e non era più un ragazzino, ma non riuscì a smuoverlo minimamente.
 

“Trovati un coinquilino” aveva suggerito il più grande.
“Come se esistesse qualcuno abbastanza pazzo da potermi sopportare” ribatté.
 
*
 
Il dolore partì dalla spalla, per poi espandersi in tutto il corpo alla velocità della luce. John cercò di urlare, senza successo. In lontananza sentiva le voci dei suoi compagni chiamarlo, ma erano ovattate e diventavano sempre più sfocate. Cercava di concentrarsi su altro, come la sensazione della sabbia sui vestiti o il caldo che provava, ma il dolore di quello sparo superava tutto il resto. Sentì le sue forze abbandonarlo lentamente e i suoi occhi diventare sempre più pesanti. Pensò a Sherlock, quella persona che poteva trovarsi ovunque nel mondo e si disse che non poteva morire senza averlo mai conosciuto. Capì di star svenendo quando neanche più il rumore dei bombardamenti riusciva a captare. Prima di perdere i sensi chiuse gli occhi e pensò a cinque semplici parole.
 

“Per favore, Dio, fammi vivere”
 
 
***
 
2010
 
John si svegliò o, per meglio dire, aprì gli occhi: il rumore della guerra non lo aveva mai abbandonato da quando era tornato a Londra, e il posto in cui abitava di certo non lo aiutava a riprendersi. Quell’appartamento minuscolo fornitogli dall’esercito bastava per contenere un letto, una scrivania, un bagno e una minuscola cucina, niente armadi o mobili grandi, perché tutti i suoi averi erano contenuti in un borsone. La sua vita si era ormai ridotta all’osso, rovinata per sempre dal fantasma della guerra. Si alzò con grande fatica, perché la sua gamba non collaborava, e si mise il bracciale: non lo teneva mai quando era solo in casa, certo che nessuno sarebbe mai andato a trovarlo in quella topaia. Così era anche in grado di avere sotto gli occhi, in ogni momento della sua giornata, il nome della sua Anima Gemella: lui non credeva al destino, ma sapeva che se non era morto in Afghanistan era grazie a Sherlock, era perché doveva incontrarlo, doveva amarlo. Ma, si chiese, come avrebbe potuto essere amato in quelle condizioni? Che tremava come una foglia ad ogni singolo rumore, che il fruscio dei fogli sul tavolo gli ricordava le tempeste di sabbia, che era diventato così miserabile da non riuscire più a camminare sulle sue stesse gambe. Pensò che il dolore gli avesse prosciugato ogni briciolo di vitalità e che l’unico modo per cercare di sopravvivere fosse uscire da quel buco che non riusciva a riconoscere come casa e fare una passeggiata.
 

A Londra era solo: molti degli amici che aveva avuto si erano trasferiti, oppure erano morti in guerra (l’immagine del corpo di David, ritrovato qualche giorno dopo la fine di una missione, era stato un suo incubo ricorrente), mentre la sorella l’aveva vista qualche settimana prima, quando questa gli aveva regalato il suo vecchio telefono. Harriet non aveva un bell’aspetto, l’alcol l’aveva distrutta tanto quanto la guerra per John. Anche lei era rimasta sola, dopo la morte della sua Anima Gemella, e aveva trovato nel bere l’unica soluzione a tutti i suoi problemi: aveva provato la riabilitazione, ma senza successo. Quindi John non rimase con lei, perché già non riusciva a badare a sé stesso, figuriamoci fare da balia a una sorella distrutta dal dolore e con problemi di alcolismo. La madre, invece, dopo essere stata in una casa di riposo finanziata prima da Harry e poi da lui stesso, era morta una mattina d’autunno, accanto a un figlio che ormai non riconosceva più.
 

Quindi John era solo, e l’unico motivo che lo teneva in vita in quel momento era nascosto sotto un bracciale d’argento che gli aveva regalato la madre.
Dopo essersi lavato e vestito decise di uscire per fare una passeggiata. Nonostante fosse gennaio quel girono il clima aveva regalato a Londra un bellissimo sole che contrastava il vento gelido tipico dell’inverno londinese. John si disse di amare il freddo, che non aveva sentito per tutti quegli anni di guerra e che, mentre passeggiava per il parco, gli entrava nelle ossa e gli faceva venire i brividi.
 

Gli era mancata la città, i rumori più banali e insignificanti come quello dei clacson, del motore delle macchine, delle urla dei bambini, degli allarmi, dei passi della gente sul marciapiede: la normalità che la guerra gli aveva sottratto che stava cercando disperatamente di riprendersi.
 

Ad un tratto sentì qualcuno chiamare il suo nome, ma non ci fece minimamente caso, forse si trattava di un altro John, ma poi quella persona disse anche il suo cognome, e quanti John Watson potevano trovarsi al Regent’s Park alle otto di mattina? Si voltò e, con immensa sorpresa, si trovò davanti il suo vecchio compagno di stanza.
“Ethan” esclamò contento, per poi allungargli la mano. L’altro lo guardò stranito, per poi avvicinarsi a lui e abbracciarlo. Da quanto tempo non abbracciava un corpo caldo? Da quanto tempo non sentiva il battito di un cuore accanto a lui? L’ultima volta che aveva stretto qualcuno a sé era stato col corpo di David, in mezzo alla sabbia, mentre i suoi occhi si chiudevano e la sua vita si spegneva. Ed era stato sempre con David l’ultimo abbraccio tra amici, subito dopo la morte di Paul.
Ethan si staccò sorridente. “Che mi racconti?”
 

“Mi hanno sparato” rispose. “Tu che ci fai qui a Londra?”
“Insegno. Mi hanno scoperto un problema cardiaco e non mi hanno mai mandato in guerra, ora sto al Bart’s. Ti ricordi il vecchio di anatomia? È morto un paio di anni fa e hanno chiamato me!” esclamò allargando le braccia.
Si presero un caffè d’asporto e si sedettero su una panchina a parlare di ciò che avevano fatto dopo l’università. Ethan si era sposato con una bella donna, la sua Anima Gemella, e avevano avuto un bellissimo bimbo.
“Tu invece? Non l’hai trovato?” Ethan probabilmente era l’unico, a parte Andy, che sapesse il nome che si celava sotto al gioiello argentato. Se lo erano detti quando erano mezzi brilli durante il loro ultimo anno di università, e a quanto pare lui non se lo era scordato. John scosse la testa, sconsolato. In quel momento vide la faccia del suo amico cambiare visibilmente espressione: se prima era crucciato, quasi dubbioso, ora stava sorridendo all'ex soldato come se avesse trovato la soluzione a tutti i suoi problemi.
“Spero che non sia lui –si disse tra sé e sé, per poi girarsi verso John- ma io conosco uno Sherlock”
 
*


Era incredibilmente vicino a risolvere quell’omicidio, quando due figure entrarono nel laboratorio: la prima la catalogò come irrilevante, la seconda, invece, si rivelò molto interessante. Senza staccare gli occhi dal frammento di pittura che stava analizzando, ascoltò quello che i due si stavano dicendo.
“Molto diverso dai miei tempi” esordì l’uomo col bastone. Prima informazione archiviata. Lo stesso uomo rimase fermo a guardarlo, dimenticandosi di appoggiarsi al bastone. Psicosomatico. Nel frattempo aveva trovato nella pittura ciò che stava cercando.
 

“Ethan mi presti il telefono?” chiese all’uomo irrilevante.
“C’è il telefono fisso”
“Preferisco i messaggi e io ho dimenticato il mio all’obitorio”
“Tenga –esordì quindi l’uomo col bastone- prenda il mio” gli allungò un telefono. Interessante, si disse Sherlock. Velocemente digitò il numero di Lestrade, che dopo tutti quegli anni sapeva a memoria, e scrisse un messaggio.
 
Se il fratello ha una scala verde arrestate il fratello. SH
 
Guardò quell’uomo strano e si chiese il motivo per cui fosse lì. Era ovviamente un amico di Ethan che però aveva incontrato quel giorno dopo tanti anni. Il taglio e la postura urlavano “guerra” da tutti i pori. Il telefono gli diceva che doveva aver un fratello alcolizzato. Perché quell’uomo era lì? Forse perché aveva incontrato Ethan il giorno prima e gli aveva detto di stare cercando un coinquilino. Coinquilino, si. Ecco la risposta.
 

“Afghanistan o Iraq?” decise infine di chiedere. Notò in quell’uomo la stessa espressione che trovava in tutti gli altri quando faceva una deduzione: confusione, voglia di capire, ma c’era qualcos’altro in lui che non riusciva a captare.
“Afghanistan, ma come…?”
“Suono il violino, quando non parlo –lo interruppe- e a volte non parlo per giorni. Due possibili coinquilini dovrebbero conoscere i rispettivi difetti”
“Coinqu –gli hai parlato di me?” chiese John all’amico.
“Non una parola” rispose l’altro divertito.
Sherlock ne frattempo si alzò e prese il suo cappotto. Passò vicino all’uomo col bastone per andare verso la porta.
“Allora chi ha parlato di coinquilini?” chiese lui
“Tu. Ieri ho detto a Ethan di star cercando un coinquilino e il giorno dopo lui si presenta con una vecchia conoscenza chiaramente tornato a casa dopo la guerra e in difficoltà economiche che ha bisogno di cambiare abitazione perché si sente stretto nell’alloggio militare. È disponibile un appartamento in centro” rispose stizzito, tentando poi di andarsene di nuovo.
“È tutto qui? –lo bloccò di nuovo lo sconosciuto- siamo due estranei, non so… -guardò Ethan per un attimo- non so neanche il tuo nome”
“Io invece so che sei un ex medico militare, tornato non meno di un anno fa dall’Afghanistan. So che hai un fratello con cui non sei molto legato, forse perché la sua Anima Gemella è morta o forse, molto più probabile, perché ha problemi di alcolismo. So che zoppichi ma la tua psicologa crede che sia psicosomatico, ed ha ragione. Penso sia abbastanza per condividere un appartamento, non crede?” gli chiese. Finalmente raggiunse la porta e l’aprì, prima di bloccarsi di nuovo.
 

“Il mio nome è Sherlock Holmes e l’indirizzo è il 221b di Baker Street. Ci vediamo lì domani alle sei” e detto questo, uscì dal laboratorio, soddisfatto di ciò che aveva dedotto. Erano solo le dieci di mattina ma quella giornata si era rivelata più interessante di quanto lo fossero state le settimane precedenti: aveva risolto un omicidio e, soprattutto, aveva conosciuto quell’uomo. Improvvisamente si bloccò, nel suo tragitto verso l’obitorio: non sapeva il suo nome. Aveva snocciolato la sua vita in pillole di deduzione ma si era dimenticato di chiedergli il nome. Che idiota.
 

All’obitorio incontrò Molly, la donna che poteva considerare più vicina alla definizione di “amica” di qualsiasi altro essere umano al mondo. Probabilmente lei provava qualcosa di più, ma Sherlock aveva archiviato l’informazione come irrilevante. Però era utile, soprattutto quando dimenticava le cose e lei le conservava, come in quel caso era stato il telefono.
 

“Ciao Sherlock –gli disse- nuovo caso?”
Il consulente la guardò: aveva tolto il rossetto che aveva prima, ma non si scomodo a chiederle come mai, aveva cose ben più importanti a cui pensare.
“Non lo definirei caso, ma è altrettanto interessante” rispose, per poi andarsene. Tirò su il colletto del suo cappotto per ripararsi dal vento e raggiunse in fretta la villa di suo fratello. Mycroft era comodamente seduto sulla sua fedele poltrona, mentre leggeva un libro, e quando vide il più piccolo arrivare gli bastò uno sguardo per capire tutto.
“Mi fa piacere che tu abbia trovato un coinquilino”
“Finalmente me ne posso andare” ribatté Sherlock.
 
 
Il giorno dopo Sherlock era più che elettrizzato: tanto era convinto che l’uomo col bastone sarebbe rimasto da aver già portato tutta la sua roba lì, accatastandola meglio che poteva e nel minor tempo possibile. La signora Hudson era più che contenta di avere Sherlock lì con lei, perché avrebbe potuto finalmente stare in compagnia. Inoltre aveva sentito proprio dal ragazzo che avrebbe avuto un coinquilino, e la donna non poteva che esserne contenta.
Alle sei in punto John si trovò davanti all’appartamento, mentre l’altro scese dal taxi, reduce da una bella chiacchierata con Lestrade su dei suicidi in serie (o almeno, quelle erano state le parole dell’ispettore).
 

“Mi sono dimenticato di chiederle il nome, ieri” esordì Sherlock mentre si sistemava i guanti. L’altro uomo lo guardò e si accorse che in effetti aveva ragione, non gli aveva detto il suo nome, e quindi non poteva sapere se erano Anime Gemelle, non poteva sapere niente di tutto quello che John si era immaginato il giorno prima.
“Ah, certo, che sbadato. Sono John Watson”
Sherlock, intento a togliersi il guanto, si bloccò. John. Che potesse essere lui? Scacciò subito il pensiero dalla testa, e decise di rimettersi il guanto e stringergli la mano attraverso di esso. Preferiva il dubbio, piuttosto che il dolore, l’ignoranza era la miglior medicina.
Come previsto dal consulente, John si trasferì lì, e insieme risolsero il caso dello “studio in rosa”, come aveva deciso di intitolarlo il medico. In quei giorni Sherlock mise in chiaro la sua posizione: era sposato con il suo lavoro, non apprezzava il contatto fisico e le relazioni erano l’ultimo dei suoi pensieri. Aveva pensato che, così facendo, non sarebbe rimasto mai più scottato. Si era messo in una posizione di difesa che lo avrebbe protetto da ciò che lo terrorizzava di più, e oltretutto avrebbe trovato in John un amico, come aveva già capito da come aveva ucciso un uomo senza batter ciglio.
 

Dall’altro lato John soffriva. Sherlock non era un nome comune, e quindi non sarebbe potuto essere nessun altro se non il suo coinquilino, la stessa persona che invece si rifiutava di provarci, la stessa che gli negava il contatto fisico che lui tanto agognava.
Sherlock era un muro davanti alle emozioni, freddo come il ghiaccio, ma allo stesso tempo John vedeva che in parte ne aveva paura. Che avesse dedotto il nome sul suo polso? improbabile, ma non impossibile. La situazione, comunque, era piuttosto vantaggiosa per tutti: Sherlock rimaneva lontano dalle droghe, lavorava e veniva costantemente controllato da John, il quale invece si sentiva rinato, come se gli fosse stata concessa una seconda vita (o una seconda guerra, pensava a volte). I due riuscirono a trovare un equilibrio stabile e a convivere nonostante i difetti di entrambi. Sherlock era ignaro di qualsiasi convenzione sociale, non dormiva o mangiava regolarmente, suonava ad orari improponibili e molto spesso fumava dentro casa; John era scorbutico, con evidenti problemi di gestione della rabbia, come gli aveva fatto notare l’amico dopo che aveva litigato con una cassiera automatica, e il fantasma della guerra lo rendeva insonne. Nonostante questi problemi, andavano d’accordo, erano amici, e per un po’ di tempo entrambi divennero ciechi di fronte all’elefante nella stanza.
 
 
Tanto che John cercò di ignorare, per mesi e mesi, quello che aveva cominciato a provare per il coinquilino uscendo con altre persone, ragazze, donne, che incontrava. Ognuna di loro era uno svago, ognuna di loro era un’opportunità per non pensare. La prima fu Sarah, e fu anche colei che, per la prima volta, risvegliò qualcosa nei meandri della mente geniale di Sherlock. Non poteva dire di non sapere cosa fosse un appuntamento, aveva finto per impedire a John di rimanere solo con lei, e aveva cercato per troppo tempo di ignorare quello che nel profondo sapeva già. E ogni volta si ricordava di quell’unica volta in cui aveva ascoltato i sentimenti ed era rimasto schiacciato dal suo stesso dolore. John era uno tra le milioni di persone che avevano il suo stesso nome, e le probabilità che fosse anche lo stesso John che aveva il suo nome sul polso erano talmente poche che neanche provò a sperarci, neanche si fece illusioni.
 
Quindi Sarah aveva instillato il dubbio, la cosa più pericolosa del mondo, nella mente più logica d’Inghilterra. Ed era grazie a lei che partì quella specie di tradizione per cui ogni donna che John gli presentava avrebbe finito per lasciarlo. Prima la mafia cinese, poi quel gioco con Moriarty, ancora dopo il mastino di Baskerville, e in generale tutte le stranezze che Sherlock metteva in piedi per farle scappare: bulbi oculari sul tavolo, un composto chimico che aveva sciolto il divano, lui che tornava ricoperto di sangue, che veniva attaccato da uno sciacallo con una sciabola mentre il coinquilino era fuori a fare la spesa e tutte quelle volte che aveva fumato con le finestre chiuse, e John tornava a casa e veniva immerso in un’opprimente cappa di fumo e gli ripeteva ogni volta quanto odiasse quella puzza. Tutto, o quasi, al solo fine di tenere il suo amico lontano da tutte: preferiva vederlo solo, senza neanche provarci, che vederlo andare via mano nella mano con qualcun altro.
 
***
 
2012
 
Irene Adler era una donna enigmatica, esperta, nuda (anche letteralmente) di tutti quei segreti che la gente tentava invano di nascondere. Non portava alcun bracciale perché non c’era alcun nome da nascondere e i suoi occhi erano specchi di ogni insicurezza. Ciò che lei guardava si scioglieva o si distruggeva. Non era una semplice donna, era tutto quello che Sherlock non era e forse anche di più, ma soprattutto non era succube dei suoi stessi sentimenti, ma li ostentava con sicurezza. La sua sessualità non la rendeva schiava, anzi era uno strumento di tortura che usava con gli altri per sottometterli al suo volere. Era una dominatrice in tutte le accezioni del termine, potente e capace di inginocchiare il governo al proprio volere. E di far ingelosire un medico militare.
 

“Si è finta morta!” gli urlò John, in quell’edificio abbandonato dove era stato portato. “Suona melodie tristi, a mala pena mangia. Si rende conto di come l’ha ridotto?”
“Oh, John, non essere ingenuo. Io non ho fatto niente” rispose la Donna, avvicinandosi a lui. Restarono in silenzio per alcuni minuti. In lontananza si sentiva il traffico della strada principale, ma oltre quello niente.
“Te e Sherlock siete una bellissima coppia” esordì poi lei, lasciando John a bocca aperta.
“Non siamo una coppia”
“Ma tu vorresti che lo foste, oppure mi sbaglio, dottor Watson?” John rimase per la seconda volta senza parole. A quel punto Irene si avvicinò sempre di più, fino a che il medico poté sentire il suo respiro direttamente sul suo viso. La donna prese il braccio sinistro di John, e sganciò il bracciale, mostrando quelle lettere che ormai perseguitavano ogni suo sogno.
 

“Sherlock non lo sa –sussurrò John- non l’ha capito, e vorrei che le cose rimanessero così”
“Perché?” chiese subito dopo la donna.
“Perché lui non mi ama come io amo lui, e non posso perderlo”
Prima che Irene riuscisse a rispondere, un verso di piacere spezzò la loro conversazione. John riconobbe immediatamente la suoneria del telefono di Sherlock e sbiancò: aveva sentito tutto, ogni singola cosa. Ma prima che potesse parlargli, lui era già scappato via.
 
 
Non ebbero il tempo di parlarne poi: tra la risoluzione del caso di Irene e l’arrivo di Moriarty, ogni momento non sembrava mai quello buono, e quando John provava solo ad accennare l’argomento, Sherlock scappava. La situazione si era fatta insostenibile, vivevano nello stesso appartamento ma sembravano distanti anni luce. Per John sembrò di tornare a quando viveva ancora nell’alloggio militare, con il costante fremito di voler prendere la pistola e spararsi. In quei due anni accanto a Sherlock sembrava essersi allontanato da quella vita di stenti, ma nel frattempo si era anche innamorato di lui, di ogni suo pregio e ogni suo difetto. E aveva capito che loro due erano Anime Gemelle anche se sotto al polso di Sherlock non c’era il suo nome. E John era convinto che Sherlock non avesse scritto quelle quattro lettere sul braccio: nessuna persona riuscirebbe a trovare la sua anima gemella per poi rifiutarla, invitarla a vivere sotto il suo stesso tetto e poi tenerla lontana. Anche se il consulente era una persona fuori dal comune, John era ancora convinto che fosse umano.
 

Era il tre novembre quando riuscirono a trovare un momento di tranquillità, se l’essere ricercati dalla polizia potesse essere definito qualcosa di tranquillo. Sherlock era per terra e sembrava giocare con una pallina da squash, mentre John era in piedi e lo fissava preoccupato. La tensione era talmente alta che John pensò di poterla toccare, ma allo stesso tempo aveva paura di fare qualcosa di sbagliato: non aveva mai visto la preoccupazione negli occhi dell’amico così come la vedeva in quel momento. Sherlock era provato, sfinito da quel gioco in cui lo aveva coinvolto Jim, e probabilmente si trovava con le spalle al muro, senza via d’uscita. John si accomodò accanto a lui, stando bene attento a non toccarlo.
“C’è qualcosa che posso fare, Sherlock?”
L’altro scosse la testa. “Non c’è più niente che si possa fare. Sono stato uno stupido, l’ho sottovalutato”
“Si, ma non c’è niente che tu non possa fare –rispose- giusto?”
Quella domanda rimase sospesa per qualche secondo, poi Sherlock si voltò verso di lui.
“John, non sono un eroe. Non ho super poteri né emozioni. So solo che questa è come una partita di scacchi che so di star perdendo, non c’è nessuna soluzione. Jim Moriarty mi ha bruciato” concluse.
 

Si guardarono per quello che sembrava un tempo infinito. In quel laboratorio, lo stesso in cui si erano conosciuti, tutto si era bloccato, almeno fino a quando John non provò ad avvicinarsi all’altro, il quale invece si allontanò ancora di più. La mano di John rimase ferma alzata, come se stesse aspettando di poter andare avanti.
“John, non farlo” sussurrò piano Sherlock.
“Sherlock…” rispose l’altro sempre a voce bassa “Sono mesi che cerco di parlarti, di raggiungerti, e tu ogni volta ti tiri indietro. Io sto male, perché anche se fai così quello che io provo per te non può cambiare”
“Dovrebbe, John. Anzi, dovresti dimenticarmi” ribatté il consulente, alzandosi in piedi.
 

John, in quel momento, ebbe la strana sensazione che quello fosse un addio, un modo da parte di Sherlock di tenerlo al sicuro da qualcosa, ma quella notte accantonò il pensiero. Quando però, il giorno dopo, vide il suo migliore amico cadere dal tetto dello stesso ospedale in cui si erano conosciuti, capì di aver avuto ragione. Capì che quell’addio era un modo di Sherlock di proteggerlo dal dolore che quel gesto avrebbe causato. Capì che l’ultima immagine che avrebbe avuto dell’amore della sua vita era la sua morte. Si avvicinò al suo corpo, quasi vomitando alla visione del sangue intorno a lui, e non si trattenne dal prendergli il polso tra le mani per misurare il suo battito cardiaco. In quel momento, mentre medici e infermieri tentavano di allontanarlo, John lo sentì: era come se un fulmine lo avesse appena colpito e gli avesse permesso di riprendere a respirare.
 

John aveva sentito molte testimonianze riguardo al Legame: persone che erano svenute, altre che avevano pianto, altre ancora che invece non avevano voluto interrompere il contatto. Ma tutte quelle storie bellissime non lo avevano preparato a ciò che aveva sentito lui, un misto di gioia, paura e profonda tristezza. Si, perché aveva appena scoperto di aver avuto la sua Anima Gemella accanto per due anni nello stesso momento in cui lui moriva davanti ai suoi occhi. La mano non smise di formicolare neanche quando si staccò, neanche quando due persone lo allontanarono, neanche quando, tornato a casa, si era addormentato tra le lacrime, con la consapevolezza che la sua vita, quel giorno, era cambiata per sempre.
 
 
Sherlock, nello stesso momento, si ritrovò a ringraziare il fatto che John non riuscisse a leggere le cose più banali, perché quando si erano toccati, lui aveva tremato come una foglia.
 
***
 
2013
 
Non era il funerale la parte peggiore di un lutto, né i giorni successivi, ma l’abituarsi a girarsi e a non trovarlo più accanto a lui, a camminare senza nessuno vicino che rallenta il passo per non lasciarti indietro, a riprendere a vivere, dopo che si era morti. Se le prime settimane erano state tragiche, il primo anno gli era sembrata un’agonia senza fine, un circolo continuo di dolore e sofferenza dal quale non riusciva –e forse non voleva- uscire.
 

Aveva dovuto cambiare casa e lavoro, per non trovarsi davanti i ricordi che, come un fiume, lo inondavano di momenti in cui era stato felice. E non si era mai più tolto il bracciale, neanche sotto la doccia, per paura di vedere l’unica cosa che li teneva uniti scomparire per sempre. In realtà non sapeva con certezza se il nome sarebbe scomparso: gli studi si trovavano discordanti, poiché capitava che una buona percentuale della popolazione, quasi la metà in effetti, aveva dichiarato che alla morte della propria metà non aveva dovuto più indossare il bracciale poiché il nome era scomparso. Era successo anche alla sorella, Harry, quando sua moglie era morta, mentre John preferiva non sapere. Un po’ come il gatto di Schrödinger: fino a che non lo avesse tolto poteva considerarlo ancora lì, ed era l’unica cosa di cui non aveva mai parlato con nessuno, sentendosi troppo geloso per condividerlo con qualcuno.
 

“Quelle cose, di cui mi hai parlato, vuoi dirle adesso?” gli chiese Ella, la sua psicologa. Lui scosse la testa, senza riuscire a spiccicare parola per paura che la sua voce l’avrebbe tradito. Era passato un anno, trecentosessantacinque giorni, uno peggiore dell’altro, ma tutti uguali allo stesso tempo. E la cosa peggiore era che John non riusciva ad andare avanti, aveva pensato di chiedere aiuto alla sorella, fino a che non si era ricordato che neanche lei ci era riuscita e si era rifugiata nei fumi dell’alcol, e poi era ritornato dalla sua psicologa, dopo quasi due anni di assenza, nella speranza che potesse accompagnarlo fuori da quel loop infinito. Ma era passato un anno intero, e quel giorno era esattamente come l’anno prima, come rivivere ogni minuto il momento in cui Sherlock si era buttato da quel tetto e sentire nella testa le sue ultime parole.
“È passato un anno, John” riprese Ella “Andare avanti è l’unica cosa che puoi fare”
“Non voglio” rispose lui sussurrando, faticando a dire quelle due parole che gli bruciavano in gola. “Non… lui era…” lasciò la frase in sospeso, consapevole che la psicologa avesse compreso quello che stava cercando di dirle. E infatti lei abbassò lo sguardo sul bracciale argentato dell’altro, concentrandosi su di esso per alcuni secondi, per poi tornare a guardare il suo paziente.
“Capisco, è comprensibile” disse Ella.
Rimasero in silenzio per il resto della seduta, mentre John piangeva silenziosamente.
 
*
 
Beirut era calda, affollata e confusionaria in un modo talmente fastidioso che Sherlock neanche provava a paragonarla alla sua Londra. Fosse stato per lui non ci sarebbe mai andato, ma la sua missione richiedeva quella tappa obbligatoria perché lì, nascosta nello skyline della città, si nascondeva una delle ultime basi della rete terroristica capeggiata da Moriarty, nonché la più grande e difficile da penetrare. Il fratello gli aveva concesso di soggiornare in un vero hotel, con un bagno fornito di acqua pulita e un ristorante che serviva vero cibo. Erano mesi che non alloggiava in condizioni decenti: tra uno spostamento e l’altro era stato costretto a rintanarsi in baracche sprovviste di tutti i servizi base, e si era dovuto arrangiare a mangiare quello che lui stesso cacciava: funghi, lepri, erbe che trovava nei boschi.
 
Ma Beirut era in mezzo al deserto e mai avrebbe potuto sopravvivere procacciandosi cibo in Libano. Sherlock lo considerava il primo vero favore fornitogli dal fratello, che lo seguiva ovunque ma mai si era intromesso come in quel modo: vestiti puliti, hotel cinque stelle, medicine per le sue ferite, documenti falsi e addirittura un cellulare usa e getta attraverso il quale si erano scambiati alcune informazioni. Lo stava guardando in quel momento, rigirandoselo tra le mani dubbioso su cosa fare. Il primo pensiero era stato quello di mandare un messaggio a John: era passato un anno da quando le loro strade si erano divise ma, se si concentrava bene, riusciva ancora a percepire il residuo di quell’unico contatto che avevano avuto, quel Legame che si era creato nel momento meno opportuno. Era stato disattento, in quei diciotto mesi di convivenza: talmente era stato impegnato ad evitare di provare alcun sentimento, che non si era accorto di John, che nel frattempo si era innamorato di lui. John che, a causa della sua testardaggine, aveva provato ad allontanarsi da lui in tutti i modi possibili, non riuscendoci. Lo stesso John che aveva detto ad Irene di amarlo e lui che invece era scappato. Lo aveva confuso con Victor, che lo aveva abbandonato, e aveva provato in tutti i modi a non soffrire più da non accorgersi che aveva fatto soffrire John, e infine lo aveva anche abbandonato.
 

Buttò il cellulare sul letto a due piazze, sbuffando sonoramente. Avrebbe voluto mandare quel messaggio, dirgli di aspettarli, che era ancora vivo, ma non poteva. Non poteva e odiava non avere nessuna scelta. E per colpa sua la sua Anima Gemella era convinto che lui era morto.
In quel momento il cellulare squillò, e Sherlock fu costretto a mettere da parte i suoi problemi personali.
“Fratello –esordì Mycroft- abbiamo trovato l’edificio. Ora tocca a te, e vedi di non farti uccidere”
Sherlock cercò di sorridere, riuscendo invece a fare una terribile smorfia di fastidio.
“Ci proverò” rispose stizzito.
 
***
 
2014
 
Correva più veloce che poteva, con il vento che gli spostava i capelli lunghi dalla faccia. La ferita al petto gli faceva male e tutte le altre cicatrici gli tiravano la pelle: ringraziò sé stesso per avere un’ottima resistenza, perché, con quello che aveva mangiato nelle ultime settimane, una persona normale non sarebbe riuscita a dare un simile sforzo. Le sue scarpe rotte lo rallentavano, così come gli alberi e le piante che lo circondavano: la Serbia era stata insidiosa come quella foresta e lui non era stato abbastanza attento. Sentì dei rumori di elicotteri che si avvicinavano e si rese conto velocemente che era circondato. La scelta più ragionevole fu quella di fermarsi e alzare le mani. Un raggio di luce lo colpì, mostrando il suo petto nudo martoriato dai continui scontri che aveva avuto per due anni. Sherlock aveva perso la forma slanciata di due anni prima, ora sostituita da un corpo talmente magro che a ogni suo respiro si vedevano le costole. Si inginocchiò mentre tre uomini armati gli si avvicinavano per accerchiarlo e catturarlo, ma sicuramente senza l’intento di ucciderlo: era una risorsa troppo importante, un modo per ottenere informazioni sul governo inglese che la cellula terroristica serba mai si sarebbe lasciata scappare. Sopraffatto dalla situazione Sherlock si abbandonò tra le braccia dei suoi aguzzini, perdendo i sensi.
 

Quando si svegliò era legato per braccia e gambe con delle spesse catene di ferro che gli ferivano i polsi e le caviglie, e aveva il viso bagnato, dopo che il suo torturatore gli aveva lanciato una secchiata d’acqua per svegliarlo. Quest’ultimo non perse un momento e colpì il prigioniero sullo zigomo (Sherlock quasi rise nel pensare che il suo John non lo avrebbe mai fatto). Quel pungo risvegliò i suoi sensi, e subito si accorse della presenza di un altro uomo nella stanza. Gli ci vollero un paio di minuti per capire chi fosse, ma non appena ci arrivò sorrise lievemente, aveva sempre voluto vedere suo fratello sporcarsi le mani.
“Tua… moglie –riuscì a sussurrare in serbo, catturando tutta l’attenzione del suo aguzzino- ti sta tradendo, in questo momento”
“In questo momento?” urlò l’uomo, tirando su il viso del prigioniero per i capelli. I due si guardarono per un lungo attimo, prima che Sherlock riuscisse ad annuire senza tradirsi. Era così facile riuscire ad ingannare gli uomini, soprattutto quando si capivano i loro punti deboli: infatti il serbo si allontanò da lui e successivamente abbandonò la stanza, lasciandolo solo con la figura in penombra.
 

“Sei stato disattento” esordì quest’ultimo, sempre in serbo. Poi cambiò la lingua in quella sua madre.
“Sei richiesto in Inghilterra, Sherlock. È il momento di tornare a casa”
Il consulente investigativo alzò gli occhi verso Mycroft e sorrise. Il gioco era ricominciato.
 
*
 
John sapeva perfettamente che il tempo non poteva cambiare in funzione di ciò che provava, ma il suo lato romantico aveva avuto la meglio quel giorno quando, arrivato al cimitero, aveva cominciato a piovere col sole, e lui non aveva un ombrello. E si era trovato lì, bagnato fradicio, davanti alla lapide nera del suo migliore amico mentre un sole pallido ne illuminava il prato intorno. Era stato giorni a pensare alla strana piega che aveva preso la sua vita negli ultimi due anni: abitava in un edificio che non riusciva a chiamare casa, non riusciva a dormire a meno che non fosse l'alcol a stenderlo, e non usciva di casa se non per lavorare. Insomma, era diventato la copia di sua sorella. Se lo doveva aspettare, era scritto nel DNA degli Watson essere dei falliti, lo avevano preso dal padre. Quel giorno era stata la sua prima eccezione alla monotonia dall’ultima volta che era andato da Ella, e i suoi piedi lo avevano portato lì, nell'unico posto in cui avrebbe potuto incontrare colui che gli aveva cambiato la vita con un tocco, un attimo prima di morire. Guardava la bara nera, lucidata di recente e ornata di fiori freschi (probabilmente la signora Hudson era passata di lì la mattina stessa), al di sotto della quale giaceva Sherlock Holmes, l'uomo che lo aveva salvato. L'unico al mondo. Mentre ammirava quel pezzo di pietra, quasi in trance, la pioggia gli scivolava sui vestiti, mentre le lacrime gli bagnavano il viso: era grato al tempo di Londra, che gli aveva permesso di nascondere il suo dolore alla luce del sole.
 

“Ho pensato -esordì, tirando su col naso- se venire qui fosse una buona idea, ma poi ho buttato il mio cervello nella pattumiera. Tu ti prenderesti gioco di me adesso" rise amaramente, cercando di asciugarsi il viso come meglio poteva. “Ci ho provato per due anni, a dimenticarti, a lasciare andare tutto quel dolore e quella sofferenza, ma non ci sono riuscito. Perché ogni volta, Sherlock… ogni volta mi ricordo che noi due eravamo destinati a stare insieme. Perché io l'ho sentito, e tu l'hai sentito. È la cosa di cui sono più sicuro a questo mondo. Non me lo sono inventato: lo so, tu sei la mia Anima Gemella. Dio, Sherlock, perché non me lo hai detto? In diciotto mesi non hai voluto toccarmi, non hai voluto darmi… darci una possibilità. Avrei potuto renderti felice, avrei potuto… evitare tutto questo stra maledetto dolore che provo nel mio cuore! -urlò, per poi tirarsi i capelli- ma non l'hai fatto. Hai preferito lasciarmi indietro e, Dio, dovrei essere furioso con te. Ma invece ti amo, cazzo” si prese una pausa, respirando profondamente, cercando di levarsi il fiatone. Ispirava, espirava. “Ti amo, Sherlock, e questo non potrà mai finire. Mi è impossibile, mi dispiace. Ci ho provato, ho fallito” si avvicinò alla lapide, poggiando la mano sinistra sulla pietra fredda. Poi, dalla tasca, prese una scatolina, contenente un bracciale d’oro con le rifiniture in argento e un’incisione al suo interno. John lo lasciò cadere tra i fiori freschi.
 

“Te lo lascio qua, nell’unico posto in cui sarai per sempre. È identico al mio, tranne che per il nome. Tu hai ‘Sherlock’, io ho ‘John’. Ho pensato: se l’unico modo in cui i nostri nomi potranno toccarsi è tra la pelle e il metallo, preferisco questo piuttosto che il nulla” John si allontanò di scatto, come bruciato dalla pietra. Si girò e percorse un paio di metri, prima di bloccarsi e tornare sui suoi passi.
 

“Un’ultima cosa –disse, abbassando lo sguardo sul terreno umido- non pensare mai di non essere un uomo, perché tu sei ciò che più si avvicina alla definizione di essere umano. Anche adesso che tu… Rimani la persona che mi ha salvato la vita. E ti devo ringraziare per questo. Grazie, ti amo” concluse. Raddrizzò la schiena e chiuse le gambe in un gesto che vagamente assomigliava al saluto militare, e infine scappò, correndo il più lontano possibile da lì, lasciandosi indietro quella dichiarazione senza testimoni. Aveva smesso di piovere, e il sole era tornato a vegliare su Londra quando lui rientrò a casa. Si diresse verso il mobiletto degli alcolici e si versò mezzo bicchiere di scotch.
 

‘L’ultimo bicchiere’ pensò, prima di scolarselo. Per più di un anno si era ripetuto quella frase, nella vana speranza di riuscire a controllare i suoi impulsi senza succedere. Quella volta, però, ebbe come la sensazione di aver ragione, di aver appena bevuto l’ultimo bicchiere. Forse quella volta, dopo essersi liberato di tutti quei sentimenti che gli si erano attaccati al petto come macigni, sarebbe stato in grado anche di liberarsi dal mostro dell’alcol. Forse gli serviva toccare il baratro della pateticità per tornare in superficie. Prese un pezzo di carta e una penna e scrisse la data di quel giorno, per poi lasciarlo lì sul tavolino, come promemoria, anzi: era una promessa, verso sé stesso, che avrebbe dovuto cercare di mantenere. Era il primo passo per stare meglio.
 
*
 
Sherlock si sistemò la giacca sulle spalle: la sensazione del cotone della camicia sulla pelle era bellissima e gli era mancata in quei due anni di vagabondaggio in giro per il mondo. Si guardò allo specchio e notò come i suoi stessi panni gli stessero troppo larghi, e di come il viso, ora sbarbato e libero dai ciuffi di capelli lunghi che gli cadevano davanti, si era fatto più spigoloso e freddo. Si passò le mani sul mento, poi sui suoi stessi occhi e infine tra i capelli, per liberarli da quel fastidioso gel che il barbiere di Mycroft aveva insistito per mettergli. In quel momento il fratello entrò in stanza, porgendogli una cartella marroncina sottile.
 

“Queste sono le informazioni riguardanti il tuo nuovo caso –gli disse- si tratta di una rete terroristica che dovrebbe colpire a giorni in una parte della città”
“Che mi sai dire di John?” chiese, ignorando completamente sia il fascicolo che le parole del fratello.
“Che ti importa di lui? È andato avanti con la sua vita, dovresti smettere di pensarci”
“Non posso” ribatté subito il più piccolo, girandosi di spalle, recuperando il suo amato cappotto.
“Perché, non che sia importante in questo-“
“Lo è, Mycroft. È fondamentale” lo interruppe Sherlock, indossando anche la sciarpa. Il maggiore lo guardò attentamente, seguendo ogni piccola reazione del fratello.
“Oh… -sussurrò poi, accennando una smorfia- ora capisco”
Si studiarono per diversi minuti, fino a che Mycroft abbassò lo sguardo.
“Stamattina è andato al cimitero. Ha lasciato qualcosa”
“Cosa?”
“Non lo so”
“Stai mentendo” rispose Sherlock nervosamente, ponendo fine a quel rapido scambio di battute. Il maggiore si ritrovò a sospirare per la seconda volta prima di porgere all’altro una scatolina.
 
Un bracciale, pensò Sherlock, ma non era anonimo o semplice: era d’oro –come il suo- ma con dei dettagli in argento –il colore del bracciale del dottore- e al suo interno c’era incisa una data, quella del loro primo incontro, e un nome, il suo nome, Sherlock. Lo stesso Sherlock che senza volerlo, alla vista di quel piccolo oggetto, era scoppiato a piangere, senza sapere se di felicità o di tristezza. Velocemente tolse il suo vecchio gioiello, lasciandolo incustodito sulla scrivania del fratello, in favore di quel regalo che gli aveva fatto il suo John.
 

Dio, aveva perso così tanto tempo rifugiandosi nei numeri delle probabilità che vedevano impossibile anche solo pensare che John potesse essere la persona giusta. Avevano perso quattro anni, ed era esclusivamente colpa sua. Sospirò, accarezzando il suo regalo come se fosse una reliquia rara e sacra.
 

“Sherlock…” lo destò suo fratello.
“Devo andare”
“No, Sherlock, devi venire a vedere questo” gli rispose, porgendogli il telefono.
Sullo schermo spiccava il viso del dottor Watson, e sotto un indovinello. Gli ci vollero nove secondi per capire cosa stesse succedendo. John era in pericolo.
 
*
 
Non riusciva a capire cosa fosse successo: un attimo prima stava camminando per andare al lavoro e quello dopo si era ritrovato un ago infilato in gola, e due uomini che lo prendevano di peso e lo caricavano su un’auto, poi il nulla. Si era risvegliato in un posto buio e stretto, con mani e piedi legati. Al di fuori del dolore che sentiva per tutto il corpo e il torpore che stava svanendo piano piano, riusciva a percepire le voci di centinaia di persone, ma oltre quello il nulla assoluto. Non sapeva cosa avesse fatto per ritrovarsi legato senza la possibilità di muoversi, e il primo pensiero andò al suo lavoro: qualcuno doveva avvertire l’ambulatorio che lui non sarebbe andato, o i pazienti si sarebbero presto trovati senza dottore.
 
Poi questo argomento passò in secondo luogo quando, riuscendo finalmente ad aprire gli occhi, si accorse di essere circondato da legna intrisa nell’alcol. Lo stavano per mandare a fuoco. John cominciò ad agitarsi, cercando di liberarsi dalle corde: se non avesse fatto in tempo sarebbe morto lì sotto. Ma a quanto pareva di tempo non ne aveva più, perché aveva visto, attraverso la fessura del legno, un uomo avvicinarsi con una lanterna.
 

“Allontanatevi!” urlò lo stesso, per poi buttare la torcia sulla legna. Il calore si espanse rapidamente, e John cominciò a sentire il fumo entrargli dalle narici. Cercò di agitarsi ancora di più ma si accorse presto che questo non migliorava la situazione, perché la legna infuocata cominciava a cadergli addosso. Solo quando sentì il bruciore sulla sua caviglia cominciò ad urlare.
 

John smise di agitarsi, cercando piuttosto di trascinarsi via dal falò, ma le forze cominciavano ad abbandonarlo: la mancanza di ossigeno e la droga che aveva ancora in circolo non gli permettevano di andare avanti. Chiuse gli occhi, pensando al fatto che non avesse mai pensato di morire così, senza un motivo apparente, tra le fiamme di un gigantesco falò. Sentì qualcuno chiamarlo da lontano, e aveva la stessa voce del suo Sherlock, della sua Anima Gemella. Sorrise, e si lasciò andare: se quello era il loro unico modo di stare insieme, avrebbe accettato la sua fine senza fare domande.
 
 
Ma incredibilmente non era morto. Era stato salvato, ed ora sentiva il suo corpo avvolto da una leggera coperta e la sua schiena poggiarsi su di un materasso che di certo non poteva essere il suo. Provò ad aprire gli occhi, ma una forte luce glie lo impedì costringendolo a strizzare le palpebre per togliersi il fastidio. Cercò quindi di muoversi, provando subito dolore alla gamba destra e ad entrambi i polsi, gemendo di conseguenza. Brevi flash della serata precedente gli passavano per la mente, aiutandolo a ricostruire quello che era stato il tentato omicidio più strano che avesse subito (e dire che era stato minacciato da un cane inesistente). Probabilmente i suoi rumori attirarono l’attenzione di qualcuno, che gli si avvicinò.
 

“Dottor Watson –esordì quello che era un uomo- non si sforzi troppo, è ancora debole”
John cercò in tutti i modi di riconoscere la voce, ma era troppo stanco anche solo per pensare. Si limitò ad annuire, per poi rilassarsi tra le lenzuola. Senza accorgersene si addormentò di nuovo.
 

Quando si risvegliò si accorse subito che era sera dalla poca luce che filtrava dalla finestra. Le luci erano più soffuse e così riuscì ad aprire gli occhi: si trovava all’ospedale, in una delle stanze più grandi che avesse mai visto, ed era circondato da muri e mobili bianchi. Alla sua destra, notò, era poggiato un ombrello nero e dal manico in mogano sulla sedia riservata ai visitatori: John lo riconobbe come quello di Mycroft, perché nessuno dei suoi amici se ne andava in giro con un ombrello così elegante. Proprio mentre cominciava a chiedersi dove se ne fosse andato, riuscì a sentire la sua voce provenire dal corridoio.
“Non puoi entrare adesso, è stanco, e se ti vedesse non sappiamo come potrebbe reagire”
“Ma io devo farlo, Mycroft, devo vederlo, devo toccarlo” gli rispose una seconda voce. John spalancò gli occhi: non poteva essere lui, era morto, lo stava confondendo con qualcun altro.
“Sherlock ti prego, pensa a lui” disse però Mycroft, eliminando ogni dubbio del medico.
 

Sherlock Holmes era vivo e non solo: lo aveva salvato dall’incendio ed ora si trovava dall’altra parte di un muro. Era vivo, e lo aveva lasciato solo per due anni a piangersi addosso, a soffrire, ad odiarsi per non aver fatto abbastanza per salvarlo. E invece lui era vivo… che bastardo.
 

John si alzò velocemente: se Mycroft non lo avesse fatto entrare allora sarebbe uscito lui. L’idea sembrava ottima, fino a quando non poggiò i piedi a terra e non sentì il dolore espandersi per tutta la gamba: le bruciature erano più gravi di quel che avesse immaginato, e inoltre aveva il polso sinistro slogato, probabilmente ferito mentre cercava di strisciare fuori dal falò. Il dottore non demorse e si alzò in piedi, coprendo un urlo con un grugnito. A piccoli passi raggiunse la porta e la spalancò. I due fratelli si voltarono subito verso di lui: Sherlock raddrizzò la schiena e si sistemò il cappotto, senza mai smettere di guardare John –il suo John- negli occhi.
 
 Passarono un paio di secondi a studiarsi, a reimpararsi a memoria esattamente come due anni prima, e Mycroft d’un tratto si sentì di troppo, tanto che pensò di lasciarli soli. Ma poi il soldato, preso da uno scatto d’ira, corse verso Sherlock, e gli tirò un pugno in faccia con la mano sana, facendo cadere il consulente a terra.
 

“TU- bastardo! –urlò- mi hai lasciato solo, per due anni! Due fottutissimi anni, Sherlock. Hai idea di-“ una fitta di dolore alla gamba lo costrinse ad accasciarsi a terra, e fu lì che il maggiore dei fratelli accorse, reggendo il dottore per le ascelle mentre questi perdeva i sensi per la seconda volta quel giorno.
 
 
Sherlock si tirò su, cercando di fermare il sangue che gli usi va dal naso con la mano. Aveva pensato che John sarebbe stato contento di vederlo, che avrebbe pianto, che lo avrebbe abbracciato (pensava che lo avrebbe baciato), ma non fu così. Non aveva calcolato tutto il dolore che gli aveva causato, accumulato in due anni di assenza. Non aveva calcolato che forse John era andato avanti con la sua vita, perché era talmente egocentrico da non valutare nemmeno l'opzione. Eppure John lo aveva visto, lo aveva guardato, studiato, sapendo perfettamente ciò che li legava, e aveva deciso di menarlo. Gli aveva tirato un pugno così forte che gli era uscito il sangue dal naso, eppure Sherlock non poteva essere arrabbiato con lui. Perché John aveva ragione, e lui avrebbe dovuto subire tutte le sue decisioni. Mycroft uscì dalla stanza, chiudendosi la porta alle spalle.
 

“È svenuto -esordì- te lo avevo detto che non era pronto, Sherlock" il maggiore si sistemò il panciotto mentre lo raggiungeva dall’altra parte del corridoio.
“Mi è mancato” rispose lui, sorridendo appena.
 
 
Quando John si svegliò la terza volta era mattina, e aveva recuperato abbastanza forse da intuire subito che Sherlock –che non era morto, continuava a dirsi- era accanto a lui, addormentato su una sedia che doveva essere scomodissima. Lo osservò: il sole gli illuminava parte dei capelli e del viso, troppo magro da come lo ricordava, e i vestiti che portava addosso erano fin troppo larghi, eppure erano i suoi. John pensò che forse anche lui aveva avuto un paio di brutti anni lontano dall’Inghilterra, e si compiacque del dolore che l’altro aveva provato. Poteva sembrare crudele, ma non era così. Sulla sua bocca erano ancora presenti alcune tracce del sangue che gli era uscito dal naso quando l’aveva colpito, e il dottore cercò di sentirsi in colpa ma non ci riuscì: se avesse avuto le forze avrebbe fatto di peggio. Ma più di quello non poteva fare, perché Sherlock era vivo, ed era al suo fianco, come avrebbe dovuto fare sin dal primo giorno. John abbassò lo sguardo e si accorse che il consulente stava indossando il bracciale uguale al suo e fu quello che gli scatenò il pianto: cominciò silenzioso, per poi sfociare in un lamento continuo, interrotto da qualche singhiozzo. Non riusciva a muovere niente senza provare dolore, quindi non si sforzò di chiamare Sherlock, anche perché non ce ne fu bisogno: al primo gemito aveva aperto gli occhi, puntandoli subito in direzione del suo migliore amico.
 

“John” sussurrò il moro, senza muoversi. Non voleva ammetterlo, ma aveva paura di muoversi per paura di una reazione inaspettata del dottore, il quale, sentendosi chiamare, pianse ancora più forte senza però nascondersi e continuando a guardare quella che era la sua Anima Gemella, che finalmente aveva preso il posto che gli spettava: accanto a lui, per sempre.
“Avvicinati” riuscì quindi a dire tra le lacrime. Sherlock non se lo fece ripetere due volte, e trascinò la sedia ancora più vicino al letto, alzando la mano sinistra in direzione di quella del dottore. Rimase fermo, aspettando il permesso dell’altro, e John si sorprese nel vederlo così insicuro. Alzò quindi la sua mano e la fece scontrare con quella dell’altro, intrecciandole finalmente.
 

Entrambi erano consapevoli che il Legame era già avvenuto e che non si sarebbe potuto ripetere, ma quella sensazione –la stessa che avevano provato due anni prima- riaffiorò di colpo, togliendo ad entrambi il respiro. Restarono fermi in quella posizione per un tempo indeterminato, mentre John passava il pollice sul dorso della mano di Sherlock. Si godettero quella sensazione nuova, quel contatto che mai avevano avuto e che adesso erano liberi di avere quando volevano.
 

“Avevo paura –interruppe il silenzio Sherlock- che non fossi tu, la persona destinata a me. Le probabilità che fossi tu erano talmente poche che non ho voluto nemmeno tentare. Ho scelto per entrambi, e per colpa mia abbiamo sprecato quattro anni”
John non rispose, aumentando invece la stretta della sua mano. Tornò il silenzio, gli sguardi, quel tocco di mani che era così carico di promesse da avere il peso dell’intero universo su di esso. Poi John sciolse il contatto, sbrigandosi a togliere il bracciale d’oro con i dettagli in argento –uguale a quello dell’uomo che amava. Sherlock lo imitò, e quando furono nudi da tutti i segreti che avevano, si presero di nuovo per mano.
 

“Per me sei sempre stato tu. Anche quando non sapevo, anche prima di toccarti, a prescindere da questo nome. Sei sempre stato tu” sussurrò John, trattenendosi dal riprendere a piangere.
“Siamo stati entrambi poco attenti, vero?” chiese sarcasticamente Sherlock, senza aspettarsi una risposta dall’altro.
Il sole spostò i suoi raggi sulle loro mani intrecciate, sotto alle quali spiccavano i due nomi, mai stati così vicini. Le lettere, nere come l’inchiostro, sembravano muoversi le une verso le altre, anche se non era così. John si morse il labbro, per non piangere di gioia. In un’altra vita, pensò, se non avesse avuto il nome di Sherlock sul suo polso se lo sarebbe tatuato, perché John Watson non poteva essere completo senza Sherlock Holmes.
 

Il tempo sembrava essersi fermato, dentro quella stanza d’ospedale, tanto era l’amore che la riempiva. Se qualcuno si fosse affacciato dalla porta, come aveva fatto Mycroft Holmes, avrebbe visto due uomini, due Anime Gemelle ritrovate, guardarsi come se il resto del mondo non fosse mai esistito.
 

E poi il mondo riprese a girare, quando Sherlock posò lentamente l’altra mano sulla nuca di John, avvicinandolo quanto bastava per permettere alle loro labbra di incontrarsi timidamente a metà strada. Il dottore si avvicinò di più, inclinando il capo per approfondire il contatto. Sherlock era inesperto ma voglioso di imparare e John era più che contento di fargli da maestro. Si baciarono in tutti i modi possibili: piccoli contatti, poi divenuti più profondi, lunghi, per poi tornare lievi carezze e strofinii, e infine sfociare in un lungo dialogo di labbra e lingue, concluso con uno schicco indecente che riempì l’aria per diversi secondi. Non riuscirono ad allontanarsi troppo, tanto che Sherlock rubò parte del cuscino di John per poggiarsi e il dottore si girò di fianco per riuscire a guardarlo meglio. E si addormentarono così, mano nella mano, nome contro nome, come nella più bella delle favole.
 
 
***
 
Epilogo
 
 
Baker Street non era così piena di vita da parecchio tempo quando Sherlock e John, valigie alla mano e leggermente abbronzati, ripresero posto sulle loro poltrone. Sulle loro mani sinistre spiccavano il bracciale, quello che John aveva fatto ad entrambi tre anni prima, e un anello d’oro, molto più recente. A vederli da fuori sembravano essere appena tornati da una vacanza, e in effetti era così: John aveva convinto la polizia neozelandese (con l’aiuto di Mycroft e dell’ambasciata britannica) ad accettarli come aiutanti nei loro casi d’omicidio, e avevano passato la loro luna di miele in Nuova Zelanda, tra giornate al mare e inseguimenti a perdifiato. Insomma, la vacanza perfetta per una coppia composta da un ex medico militare amante del pericolo e da un consulente investigativo sociopatico iperattivo. Avevano passato due settimane stupende, ma tornare a Londra, e in particolar modo al 221b di Baker Street, non aveva eguali.
John andò in cucina a preparare il tè, mentre Sherlock riprese in mano il suo violino, cominciando a pizzicare le corde mentre era sovrappensiero.
 

“John?” chiamò il moro.
“Si, Sherlock?”
“Che ne pensi dei bambini?” chiese. Il dottore tornò in salotto con le due tazze, porgendone una a suo marito e tenendo l’altra per sé mentre si accomodava sulla sua poltrona, poggiando la schiena sul cuscino della Union Flag.
“Sono belli” rispose tra un sorso e l’altro, senza comprendere cosa volesse dire il compagno.
“Per noi” aggiunse Sherlock, proprio mentre l’altro si portava la tazza sulla bocca, con la conseguenza che John si bruciò la lingua.
“Okay, Sherlock. Con te è tutto okay” rispose John, nascondendo il sorriso con una sorseggiata.
Anche Sherlock sorrise nascondendosi con il violino.
 

Ne avrebbero parlato seriamente, poi. Sarebbero andati insieme a fare richiesta, avrebbero sistemato l’appartamento, coprendo ogni spigolo con del gommapiuma. Avrebbero ricevuto l’approvazione e si sarebbero ritrovati genitori di una bellissima bambina, che avrebbero amato esattamente come si amavano loro due. Avrebbero conciliato la loro vita spericolata con le esigenze dalla piccola e si sarebbero ritrovati ad avere una vita difficile ma perfetta. Si sarebbero amati sempre di più e avrebbero insegnato alla loro figlia cosa significava amare ed essere amati. Le avrebbero raccontato i loro errori e le loro gioie, il tempo che avevano dovuto aspettare e le cose che avevano sbagliato. Le avrebbero detto che l’attesa sarebbe stata straziante e che ogni percorso è differente. Se avesse avuto il nome, le avrebbero insegnato a non vederlo come un ostacolo, e se non ce lo avesse avuto le avrebbero detto di non copiare la triste vita dello zio Mycroft. Ci sarebbero state giornate facili, leggere, spensierate, e giornate difficili, in cui il mondo sembrava cadere addosso ad entrambi.
 

Ma se era scritto nel destino che loro due si sarebbero incontrati, non era scritto da nessuna parte come avrebbero vissuto da quel momento in poi: il futuro era un foglio bianco pronto per essere dipinto, e loro i pennelli e i colori necessari per scriverlo. Ma non c’era fretta, potevano ancora godersi un tè sulle loro poltrone, guardandosi negli occhi come se non ci fosse stato nient’altro al mondo, baciandosi come se l’ossigeno provenisse dalle labbra dell’altro.
 

Avevano tutto il tempo del mondo per vivere un sogno dal quale non si sarebbero mai dovuti svegliare.   
 
 
 
 
 
*questa parte dell’illusione di Sherlock l’ho scritta con l’aiuto di Listz e della sua Liebestraum, che significa “sogno d’amore”, e il suo arrangiamento per pianoforte di Isolden’s Liebestod tratto dal Tristano e Isotta di Wagner.
*non so se in Inghilterra esiste il quarto d’ora accademico, mi sono presa una piccola licenza poetica
*The Parting Glass, un canto popolare irlandese-scozzese di cui Ed Sheeran fa una versione stupenda
 
Con 17955 parole e 25 pagine di Word questa è ufficialmente la fanfiction più lunga che abbia mai scritto, e anche la più difficile da realizzare. Non pensavo neanche che sarebbe uscita così lunga, ma più andavo avanti più aggiungevo dettagli e alla fine ecco qua. Per chi è arrivato fin qui vi ringrazio per aver letto e spero tanto che vi piaccia e che mi lasciate una recensione, grazie mille!
-A

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Capitolo 6
*** Small Bump ***


TW: aborto

Note: Small Bump è la canzone che mi ha messo più in difficoltà, perché non si pone a più interpretazioni, quindi la storia non poteva che prendere una direzione. Consiglio l’ascolto della canzone prima di leggere la storia, anche se non è necessario (in realtà voglio solo che più persone ascoltino questo capolavoro).

Small Bump


Nei sogni di quando era un giovane adulto, John Watson si vedeva medico, soldato, marito e padre, è sempre stato convinto di ciò che faceva e tutta la sua vita è girata intorno a quei quattro pilastri: l’università, l’esercito, Mary e il suo piccolo pancino che a malapena si intravedeva dalla maglietta.

Niente lo emozionava come il vedere sua moglie accarezzarsi il ventre mentre sorseggiava il suo tè nella loro piccola abitazione di periferia. Perché John Watson, nonostante tutto, era una persona semplice, che si accontentava facilmente: escludendo la sua dipendenza dall’adrenalina era un essere normale, di quelli che la mattina leggono tutto il giornale, che vanno al lavoro in bicicletta per tenersi in forma e tornano a casa dalla loro moglie stanchi ma col sorriso sulle labbra perché soddisfatti dalla loro quotidianità. E il piccolo (o la piccola) non poteva che essere il coronamento del suo sogno, delle sue aspettative di vita.

Se, girando per Londra, lo avessi visto, non avresti mai potuto dire che quell’uomo fosse triste perché per la tristezza, nella sua vita, non c’era spazio. Era felice come non lo era mai stato in quei tre anni.

Il ritorno di Sherlock aveva portato tanti cambiamenti tante emozioni contrastanti che non riusciva a comprendere, ma da quando era felice non c’era niente da capire, niente da fare se non sorridere con tutti, sorridere con Sherlock, anche quando non si faceva vedere per mesi e scompariva per un caso. John Watson poteva provare tante emozioni durante il giorno, ma quando tornava a casa e vedeva Mary al suo quarto mese di gravidanza accarezzarsi il ventre e sorridere persa nelle sue fantasie non c’era posto per niente eccetto l’amore.

Ma, John Watson doveva saperlo, la felicità è una casa di carte che cade facilmente, e ti lascia senza un tetto, senza certezze, senza amore non appena il vento arriva*.

Quella notte non riusciva a dormire, le coperte gli si arrotolavano intorno alle gambe mentre cercava di trovare la posizione più comoda per riposare. Accanto a lui Mary, stesa di un fianco, riposava beatamente, e John si incantò per un attimo nel vedere il suo petto alzarsi e abbassarsi regolarmente. Fu forse vedere sua moglie così calma che riuscì anch’egli a rilassarsi e a chiudere gli occhi. Durò molto poco, perché a quel punto fu lei a svegliarsi di colpo e a sedersi sul letto visibilmente agitata.

“John?” sussurrò, e il marito percepì chiaramente la disperazione nella sua voce.

“Portami in ospedale”

*

Alle due di notte il pronto soccorso era vuoto e silenzioso, e solo John occupava una di quelle sedie rosse di plastica tanto scomode. Non gli avevano detto niente, non lo avevano fatto entrare, non sapeva cosa stesse succedendo e più tempo passava più l’ansia cresceva. Non aveva avvertito nessuno, ma sapeva con certezza che Sherlock sarebbe arrivato, perché aveva visto la telecamera della strada seguire la loro macchina fino a che non avevano voltato l’angolo. Con la storia di Magnussen, Mycroft aveva deciso di aumentare il livello di sicurezza per evitare che finisse di nuovo affumicato come l’ultima volta e per la prima volta era grato di dover essere controllato dai servizi inglesi: non era riuscito a chiamarlo ma in quel momento più di altri aveva bisogno di averlo accanto, di poter vedere qualcuno di familiare in quella sala così asettica.

Come se fosse stato richiamato dai pensieri del dottore, Sherlock Holmes apparì da dietro le porte automatiche. Aveva il suo fidato cappotto che gli copriva il corpo e che nascondeva una tuta usurata e piena di macchie strane su cui John non voleva approfondire. Ai piedi aveva delle scarpe da ginnastica grigie -le stesse con cui lo aveva trovato giusto la settimana prima in quel covo di drogati-. Tutto della sua figura voleva urlare sciattezza, ma era il viso ciò che colpì il medico di più: aveva gli occhi assonnati e piccoli, le labbra gonfie e i segni del cuscino stampati sulla guancia destra; i suoi capelli, solitamente tenuti in ordine con del gel, in quel momento assomigliavano a un nido, senza un senso, sparati in aria come se avesse deciso di giocare con l’elettricità.

Sherlock stava dormendo, e la cosa sorprese parecchio John, che lo aveva visto dormire otto ore di seguito solo quando Irene Adler lo aveva drogato. Girò di poco lo sguardo, per trovare quello del medico, e si guardarono. È una delle cose che John preferisce del suo migliore amico: silenzio, puro e semplice, complesso e dannato, che nasconde tutto ciò che le parole non sanno dimostrare. Perché Sherlock è sempre stato così, dal primo giorno che si sono conosciuti e John rimane convinto che tutti i suoi difetti passano in secondo piano quando sono insieme perché si completano e si annullano contemporaneamente, è una sensazione che mai aveva conosciuto, prima di Sherlock, e che aveva ritrovato solo in Mary e in quella vita che stava costruendo da pochi mesi.

“John" sussurrò il più alto, sedendosi accanto a lui.

E fu l'unica parola che riuscì a dire, perché in quel momento li raggiunse il medico del pronto soccorso, tutto trasandato, con la mascherina chirurgica che gli copriva la bocca ma non il naso. I due amici scattarono in piedi come due molle in tensione, aspettando di ricevere qualsiasi notizia. Tutto dell’aspetto del dottore gridava brutte notizie: gli occhi tristi, le spalle incurante, le mani che si muovevano nervose nelle tasche di quel camice bianco che gli stava troppo largo. John aveva già capito ancora prima che il dottore riuscisse a formulare la frase.

“Sua moglie ha subito un aborto spontaneo. Lei sta bene, ma ora ha bisogno di riposare, non c’è niente che voi possiate fare qui. Mi dispiace”

Sherlock sospirò accanto a lui, ma non si mosse mentre guardava il suo amico scivolare lentamente sulla sedia, improvvisamente pesante di tutte le peggiori cattiverie del mondo.
John lo sapeva. C’erano poche probabilità, ma in qualità di medico conosceva le percentuali ed era consapevole che non tutte le gravidanze arrivano a termine. Lo sapeva, lo aveva studiato, ma non ci aveva voluto pensare, in quei quattro mesi di felicità, perché non voleva distruggersi quella bolla di positività che si era costruito e alla fine ci aveva pensato la vita a farlo per lui.

Si vietò di piangere, ma per il tremore alle mani non poteva farci niente. Lo notò nel momento in cui se le portò al viso per nascondere il dolore al mondo intero, prima di avere il coraggio di alzare lo sguardo verso Sherlock, ancora in piedi, vicino a lui.

Ringraziò Dio, il dottor Watson, nell’avere Sherlock Holmes come migliore amico: chiunque con un briciolo di stupidità in quel momento avrebbe pronunciato qualche frase fatta sul come era dispiaciuto da quella terribile perdita; lui no. Lui era rimasto in silenzio, senza il minimo rumore si era seduto accanto a lui e aveva avvicinato il suo mignolo destro alla mano di John, muovendo il dito sul dorso per pochi secondi prima di allontanarsi. Era il suo modo strano e perfetto di dire tutte le cose giuste del mondo. “Mi dispiace” e ancora dopo “sono qui”, e poi ancora “non ti lascio solo”.

E John decise di credergli, nonostante tutti i loro trascorsi, nonostante il dolore e la paura.

John Watson gli diede tutta la sua fiducia.

Quando Mary, la mattina dopo, si svegliò, percepì di essersi svuotata di tutto: la sua bambina, in primis, le sue emozioni, poi. Non aveva ancora metabolizzato, tanto che le sue mani vagavano confusamente sul suo ventre, accarezzando l’idea di un futuro ormai sfumato, lontano. Non voleva vedere nessuno, mai più: né le sue amiche, né Janette, né, tantomeno, suo marito, di cui percepiva i passi nervosi al di fuori della stanza. Si accorse che zoppicava leggermente, come quando era appena tornato dalla guerra, come se la morte della loro figlia, lui la vedesse come una caduta in campo, un altro commilitone da aggiungere alla lista, un altro +1.

Questo pensiero la fece infuriare, ma dovette trattenersi quando sentì entrare un’infermiera. La donna le diede il buongiorno, e si avvicinò per cambiarle la flebo.

“Mi scusi” disse allora Mary “qui fuori ci dovrebbe essere un uomo basso, biondo e nervoso”
“Si, non sta fermo da quando è arrivato, un’ora e mezza fa” le rispose la ragazza, accennando un sorriso debole, di cortesia.

“Lo mandi via” chiese allora la signora Watson, quasi supplicandola. “lo porti via e faccia in modo che non torni mai più”.

***

Nei sogni dei quando era un giovane adulto John Watson si immaginava felice. Lo era stato, per quattro splendidi mesi. E poi il mondo gli era crollato addosso.

Non vedeva sua moglie da due mesi, dal quel giorno in cui un’infermiera alta e slanciata lo aveva costretto ad andarsene, intimandogli di non tornare mai più. Ma lui è un uomo testardo, incapace di comprendere quando accecato dal dolore, e ogni giorno, per una settimana, si era presentato in ospedale, solo per essere cacciato ancora, e ancora, e ancora. Il sesto giorno la vide, Mary, sua moglie, seduta sul letto che gli dava le spalle, troppo impegnata a guardare fuori per accorgersi che qualcuno la stava osservando dal vetro della porta. John quel giorno aveva portato dei fiori, come se una pianta colorata potesse servire a qualcosa, a sistemare una situazione ormai compromessa. E pensò di entrare, posare quelle rose da qualche parte e poi scappare, ma il suo piano venne bloccato da due fattori. Il primo, la sua coscienza: se sua moglie non voleva vederlo forse era perché la sua visita avrebbe potuto farle più male di quanto già ne stesse sopportando, cosa che John poteva condividere e accettare senza comprenderlo appieno. Il secondo, la stessa infermiera alta e slanciata era comparsa dietro di lui, costringendolo ad allontanarsi nuovamente.

Quindi erano due mesi che non vedeva Mary. Due mesi affogati in bicchieri di whiskey alle due di notte sulla sua poltrona di Baker Street; due mesi di monotonia, fatta di ambulatorio e sguardi pieni di pietà da parte di tutti (tranne Sherlock, mai di Sherlock); due mesi di lettere e documenti da firmare per il divorzio che la sua –ormai- ex moglie aveva chiesto. Scartoffie, incontri con l’avvocato, bambini urlanti, spari sul muro, alcol, sbornia e poi punto e a capo. Ogni giorno, per sessanta giorni.

Avevano scelto la via breve: niente alimenti, nessuna cosa che potesse legarli ancora. Tagliare tutti i ponti, giusto? Per poter avere una vita nuova.
Quale vita, quale felicità, in uno scenario in cui il medico militare vedeva solo fallimenti?
Aveva sbagliato, di nuovo. Era colpa sua.

In un sorso di whiskey affogarono altri giorni, altri mesi. Altri bambini malati, altre vecchie ipocondriache, altre mamme opprimenti, altri uomini insolenti e killer incompetenti. Gli scivolava in gola come alcol di seconda mano, perché aveva fallito in ogni ruolo che aveva assunto: non abbastanza forte, non abbastanza bravo, non abbastanza intelligente, o apprensivo, o amorevole. Talmente spregevole che sua moglie non aveva voluto più vederlo.

Ma ogni tragedia aveva un’eccezione. La sua si chiamava Sherlock Holmes. Perché quando si addormentava sulla poltrona si risvegliava nel suo letto al piano superiore; quando voleva ubriacarsi trovava le bottiglie vuote nel lavandino; quando voleva un tè trovava il latte fresco nel frigorifero e il bollitore attaccato alla presa e la bustina della sua marca preferita nella sua tazza preferita. Perché Sherlock non lo guardava come facevano tutti gli altri, no. Lui lo guardava come se non ci fosse niente che non andava in John, lo guardava come si guardano gli amici, i migliori amici, i colleghi, i coinquilini, e non come si osservava un gatto agonizzante sul lato della strada.

***

La poltrona rossa gli teneva compagnia nei periodi più bui. Quella notte rientrava appieno nella categoria. C’erano mattinate in cui si svegliava, e la sua giornata era talmente piena che il suo cervello non riusciva a vagare nei pensieri negativi, quindi ci pensava la notte. Gli si susseguivano nella mente tutte le cose che durante il giorno aveva accantonato, e l’unico modo per fermare l’onda era bere, bere fino a stare male, bere fino a che neanche Dio avesse avuto più un senso. Ma in salotto c’era Sherlock, e John non aveva mai bevuto davanti a lui in quei mesi, aveva fatto di tutto per non dare altri motivi all’unica persona che gli era rimasta di andare via.

“Pensavo stessi dormendo” esordì il più alto, seduto sulla sua poltrona nera mentre passava la cera sull’archetto. Le sue mani erano delicate e precise nei movimenti, un trattamento che riservava solo al suo violino. John si chiese come sarebbe stato sentire quel tocco sulla sua pelle, ma troncò il pensiero sul nascere, andandosi a sedere al solito posto.

“Sai che non sto dormendo in questi mesi, Sherlock. Mi stavi aspettando” rispose John, carezzando il tessuto logoro della sua poltrona con le sue mani callose, trovando il movimento stranamente rilassante.

Il suo amico sospirò, posando archetto e cera nella custodia accanto a lui. “Hai affinato le tue tecniche di deduzione”

“Ho imparato per osmosi” ridacchiò leggermente il medico.

Calò il silenzio. Quella era probabilmente la prima volta in mesi che parlavano senza che ci fosse di mezzo un caso, o un cliente. Era piacevole, constatò John.

“Non c’è niente da bere dentro casa”
“Non avevo intenzione di bere davanti a te comunque”

Altro silenzio. Sherlock si stava torturando le dita, sicuramente trattenendosi dal dire qualcosa, come faceva ogni volta che John lo costringeva ad essere gentile.

“Puoi dirmi tutto quello che vuoi, Sherlock” dichiarò allora il dottore, accavallando le gambe. Sherlock seguì quel movimento con lo sguardo, improvvisamente ipnotizzato dalla figura del dottore: magro, troppo magro, col viso bianco, emaciato, e la stanchezza gli si leggeva sul viso, anche il più stupido tra gli stupidi se ne sarebbe accorto.

“Stai male” disse solo il detective, abbandonando tutta la sua genialità in un angolo della sua mente.
“Si, è vero” rispose John.

“Ma non vuoi stare meglio”
“Anche questo è vero”

“Perché?”

John sentì i polmoni svuotarsi tutto d’un tratto, come se il mondo non avesse più l’aria e il vuoto avesse preso il sopravvento. Perché? Era una semplice domanda di cui non aveva mai pensato di inventarsi una risposta. Lo aveva fatto con “Come stai?”, a cui rispondeva sempre “bene”. Ma Sherlock sapeva perfettamente dove colpire. Aveva semplicemente aspettato.

“Me lo merito, tutto questo dolore” la voce tremò leggermente, le lacrime spingevano sotto gli occhi per poter uscire, ma John Watson non aveva pianto quella notte in ospedale e non aveva intenzione di farlo sei mesi dopo “so che è irrazionale, ma sento che tutto questo sia dipeso da me. Forse ho messo troppo sale nell’insalata, oppure non dovevo comprare quel tè che non le piaceva. O forse ero semplicemente io”

“John-“ eccola, la pietà, per la prima volta nella voce del suo migliore amico.

“No, non farlo –lo interruppe, agitandosi- non avere pietà di me ti prego. Sei l’unico a trattarmi normalmente da quando… non farlo”

John si passò le mani sul viso, mentre una singola lacrima rigava il suo volto. Non era stato abbastanza forte, anche nel trattenersi di fronte a una singola goccia d’acqua salata. Non era capace a fare niente. Fallito.

“Non hai fallito, John. Non ti rendi conto di quello che sei. Sei un uomo straordinario: riesci a sopportare me ventiquattro ore su ventiquattro. Sei stato un ottimo marito, saresti stato un ottimo padre. Non addossarti la colpa di ciò che non puoi controllare”

“Non ci riesco!” urlò improvvisamente John, scattando in piedi. “Non riesco a non pensare e ogni singolo errore che ho fatto, Sherlock, non riesco a controllare la mia mente. Non sono così intelligente, non sono abbastanza per niente, tantomeno per essere un padre, un marito… -sospirò, distrutto- tuo amico. Non lo vedi? Perché non lo vedi?”

“Perché non sei così” rispose Sherlock, assorbendo le urla del suo migliore amico.

Quattro parole. E la corazza di John crollò. Le lacrime cominciarono a scendere copiose, nonostante gli occhi fossero spalancati, intenti ad intrecciarsi a quelli di Sherlock.

“Non sei così” ripeté il detective, alzandosi in piedi.

Fece il primo passo verso di lui, lentamente, e quando vide che John non indietreggiò, accorciò la distanza, e in un secondo gli avvolse le braccia intorno al suo corpo.

Di tutti gli abbracci che si erano dati, quello era forse il più intenso, il più vero. John si sentì scivolare di dosso tutta la tensione, la tristezza, il peso del mondo, dalle sue spalle verso terra, mentre Sherlock lo sosteneva con il suo corpo. Le lacrime gli annebbiavano la vista e la mente era occupata da tutte le sensazioni stupende che quel contatto gli aveva procurato. Era dal giorno del suo matrimonio che non sentiva quel tipo di felicità, quella che ti blocca in piedi davanti all’altare e ti impedisce di muoverti.

Sherlock lo stava ancora abbracciando, quando spostò il viso in modo tale che la sua bocca sfiorasse l’orecchio del dottore.

“Non sei solo –gli sussurrò- non lo sei mai stato”



*il vento è un riferimento a Eurus
N.d.A.: questa canzone mi ha dato del filo da torcere. Non sono familiare con gli aborti, per mia fortuna, quindi ho preferito non descrivere il dolore di Mary, ma piuttosto quello di John, che si avvicina al dolore per un lutto, mischiato a un po' di sindrome del sopravvissuto. Diciamo che sono uscita dalla mia comfort zone. Spero vi piaccia!
-A

 

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Capitolo 7
*** This ***


This.

L’effetto farfalla, ricordava John, era la locuzione della teoria del caos secondo cui da piccoli eventi si generano conseguenze disastrose. Come se una farfalla sbattesse le ali in Costa Rica e una tempesta di sabbia di abbattesse nel Nord Africa.

Non l’aveva mai capita, quella teoria, perché non riusciva ad immaginare come una cosa talmente insignificante potesse causare così tanto oltre la sua portata. E per anni, ogni volta che si imbatteva in documentari e forum che ne parlavano non riusciva ad andare oltre, e a vedere che, a volte, è possibile.

Ci pensava anche in quel momento, mentre leggeva il suo giornale quotidiano, sulla sua poltrona, mentre Rosie si divertiva a lanciare i suoi cubi di legno tra le gambe di uno Sherlock assorto nel tweettare qualcosa riguardo la cenere o il tabacco.

Era tranquillità, quella che si percepiva nel salotto del 221b di Baker Street? Si, e John adorava ciò che erano diventati, gli sforzi per arrivare fin lì e la pace, loro premio sempiterno. Ma allo stesso tempo pensava a cosa potesse rovinare la loro vita: fino a quel momento c’erano state solo grandi difficoltà, grandi draghi da ammazzare e grandi morti da subire. Niente di insignificante che potesse ostacolarli. Tutto andava alla grande, e John accantonò l’effetto farfalla nella sua mente.

*

Ci pensò qualche giorno dopo, alla teoria, quando Sherlock fece incastrare un’unghia del suo esperimento nella porta del microonde e furono costretti a buttarlo. Ma anche lì, piccola cosa per piccola conseguenza. Non era esploso l’appartamento, nessuno dei tre si era fatto male.

Sherlock si limitò ad alzare le spalle e a sorridergli, decidendo di spostare il suo laboratorio al 221c, con l’approvazione della signora Hudson, che non vedeva l’ora di vedere quella cucina pulita e fuori da ogni pericolo per la piccola Rosie.

L’effetto farfalla si stava rivelando una cosa inutile.

*

Quando ci ripensò, per la terza volta in quella settimana, dovette ricredersi. In effetti qualcosa, qualsiasi cosa, poteva trasformarsi in un elefante nella stanza, talmente enorme da non far passare l’aria, o le emozioni, o qualsiasi sensazione.

Erano appena tornati a casa dopo aver risolto un omicidio, uno di quelli passionali che Sherlock prende in carico quando è annoiato. Si erano fatti una bella corsa per bloccare l’omicida, un uomo di quarant’anni lievemente sovrappeso che aveva ucciso la moglie che lo tradiva. Non era stato difficile fino a quando lui non aveva tirato fuori una pistola e, sempre correndo, la puntò verso di loro e sparò alla cieca.

In quel momento Sherlock si buttò a terra, inciampando su un pezzo di ferro che non aveva visto e –Dio- John aveva pensato davvero di averlo perso. Quell’attimo, tra lo sparo e il detective che tornava ad alzarsi, al dottore parve un’eternità. I pensieri gli si affollarono uno dopo l’altro nella testa, primo tra tutti “no, non di nuovo, non adesso” e poi ancora si chiese come avrebbe fatto, a guardare la sua bambina e vederla piangere perché il suo zio preferito non sarebbe più tornato a casa.

Ma poi Sherlock, per fortuna, si era alzato, sgrullandosi i pantaloni, ignorante sui pensieri che avevano attraversato la mente del suo collega, e avevano ripreso a rincorrere l’uomo, trovandolo poco dopo appoggiato a una parte, troppo stanco per continuare a correre.

Salirono le scale in silenzio, prima Sherlock, poi John, che si era visto costretto a riprendere in mano le redini della sua mente prima di avere il coraggio di seguire il suo amico di sopra. La signora Hudson si stava occupando di Rosie e le sentiva ridere dall’atrio, quindi le lasciò continuare, preferendo salire al suo appartamento e sedersi sulla sua poltrona.
Quando entrò, poco dopo Sherlock, trovò quest’ultimo in piedi, che lo fissava col suo sguardo indagatore.

“C’è qualcosa che ti turba?” provò a chiedere, anche se John sapeva che era un’affermazione. Non gli si poteva nascondere niente a quel genio, e questo poteva essere visto come una condanna, o una benedizione. I segreti rovinavano i rapporti, era convinto John.

Annuì. “Quando quell’uomo ha sparato, tu sei inciampato e sei caduto. E io ho pensato –cavolo, è morto davvero- perché non avevo visto niente, e tu eri a terra dopo che quello ci aveva puntato l’arma contro. Ed io- sono andato in panico. E quando ti sei alzato è stato come rivederti, in quel ristorante”

Sherlock continuò a guardarlo, confuso. “Ma il proiettile era almeno a tre metri da me, John” asserì.

“Lo so, è stato irrazionale, io non avevo visto niente” si lamentò il più basso, muovendo freneticamente le mani, strofinandole sulla sua camicia ormai stropicciata.

Era stato un pensiero che lo aveva annegato nei ricordi peggiori, quelli in cui tutte le volte Sherlock ha rischiato la vita (o è morto) davanti a lui o per lui. L’episodio della piscina, il maledetto tetto del Bart’s, l’ufficio di Magnussen, l’ospedale di Culverton Smith: posti vuoti, all’apparenza normali, ma con una storia dietro, dei trascorsi da fargli rizzare i peli sulle braccia. John era provato ed ogni volta –ogni maledettissima volta- che Sherlock rischiava anche solo di farsi un graffio, lui aveva paura: di perderlo, di non poter avere una seconda possibilità, di vedere andare via anche lui.

E fu la paura a fargli muovere un impercettibile passo avanti quando Sherlock si prese gioco della sua ansia.

“Suvvia John, non essere ridicolo”

E lo aveva fatto, aveva strusciato il mocassino sul pavimento, pronto ad avvicinarsi al suo migliore amico. E fare cosa, picchiarlo, ancora? Sono cose che farebbero gli amici?
No, John voleva solo… far capire, pensava, quanto il solo pensiero di vederlo morto fosse troppo caldo, troppo recente. Non aveva intenzione, non lo aveva più fatto, mai più da quando erano usciti da quell’obitorio. E non c’erano stati problemi tra oro, in quegli otto mesi: si toccavano, si stringevano la mano, si abbracciavano, addirittura. Non ci dovevano essere problemi.

Eppure.

Eccolo lì, il battito d’ali d’una farfalla. Perché quando John si era mosso in avanti Sherlock, semplicemente, era scattato all’indietro, chiudendo per un attimo gli occhi. E John aveva spalancato i suoi, perché un conto era avere paura della morte, un conto era avere paura di lui.

Il dottore si tirò indietro lentamente, mentre Sherlock, gli occhi ora aperti, ma chini verso il pavimento, tornava a rilassare le spalle, avvertendo la mancanza di un pericolo.

“Tu –provò a parlare John, ritrovandosi all’improvviso con la gola secca- hai paura –provò a deglutire, senza riuscirci- hai paura… di me?” esalò alla fine, completamente svuotato.

Sherlock non sapeva come rispondere: non aveva paura di John, era la persona di cui si fidava di più al mondo, ma non poteva neppure negare che quel movimento brusco di John gli fosse stato indifferente. Forse era solo una scottatura, ma non poteva avere paura di lui, no, non era scritto nel suo DNA.

“È stato un riflesso, mi dispiace” decise infine di dire, trovando il coraggio di guardarlo in faccia.

Aveva gli occhi rossi, le labbra strette e le sopracciglia curve, a creargli strane ombre sul viso che il detective non aveva mai visto.

“No, Sherlock, non sei tu quello che deve scusarsi. Sono stato un terribile amico, forse lo sono ancora” ribatté il medico. Ma c’era altro. La mente di John non riuscì a fermare quel treno di pensieri.
“Non- non lo sono, Sherlock. Non sono la persona che Mary pensava che io fossi, e non lo diventerò mai. Io ti ho fatto cose terribili, ti ho trattato come non viene trattato neanche il peggiore dei criminali e sei il mio fottutissimo migliore amico, cazzo. E se un giorno trattassi Rosie come ho fatto con te? Mia figlia-“

“No John, no” lo interruppe il detective, avvicinandosi. “Non pensarlo. Sei cambiato, sei diverso, sei sempre stato il migliore tra i due. Mi hai salvato, quel giorno, non ti ricordi come sono andate le cose? Culverton mi stava uccidendo, e tu sei entrato e mi hai salvato la vita, come hai sempre fatto”

Sherlock lo abbracciò, perché ora non aveva più paura di farlo, perché da quel giorno, il contatto con John era la cosa più bella che potesse avere, un qualcosa di talmente prezioso e bello e unico nel suo genere da togliere il respiro a Sherlock come un qualunque essere umano lo farebbe davanti ad un’opera d’arte.

“Tu hai paura di me” asserì di nuovo il dottore, soffiando sulla camicia del consulente, senza ricambiare l’abbraccio.

“Se, come dici tu, ho paura di te, perché ti sto abbracciando?” chiese il più alto, accarezzando i capelli dell’altro.
Vedere John così fragile come non lo era mai stato prima della morte di Mary gli faceva male ma allo stesso tempo bene. Era la parte del suo migliore amico che più preferiva, esattamente come John adorava lo Sherlock che giocava con Rosie.
“Se ho paura di te perché vivo con te? Perché accudisco tua figlia con te? Pranziamo insieme, lavoriamo insieme. È stato un riflesso, niente di cui preoccuparsi” continuò stringendoselo di più al petto.

E poi, la tempesta.

Nella mente di John si susseguirono tutti i momenti a partire da quel passo falso, le parole, i gesti, le premure l’uno dell’altro, che in cinque minuti lo portarono ad una realizzazione dalle dimensioni colossali. Il suo cuore, che batteva forte, veloce, all’unisono con quello di Sherlock, e le sue braccia attorno a lui, gli fecero pensare che quello era il suo posto. E, forse, l’unico modo per convincersi che Sherlock non aveva paura di lui, sarebbe stato avvicinarsi all’inverosimile.

Perché un passo falso e una farfalla, all’improvviso, fecero realizzare a John che era innamorato di Sherlock, perdutamente, irrimediabilmente.

Quindi alzò gli occhi per incrociare quelli dell’altro. Ed erano così belli, così trasparenti, e piccoli, e neri nonostante normalmente fossero grigi. E John pensò che fosse la cosa più naturale del mondo, utilizzare gli stessi mocassini che avevano fatto del male a Sherlock, per alzarsi sulle punte, come mai aveva fatto con nessuna, e stampare un breve bacio sulle sue labbra, e il detective non si era allontanato, non aveva avuto nessun riflesso, nessuna traccia di paura.

Questo.*

John si leccò le labbra per saggiare il sapore delizioso di Sherlock su di sé. “E’ vero, forse non hai paura” sussurrò, chiudendo gli occhi ancora rossi, che cercavano di non piangere.
Sherlock si incantò nel guardare da così vicino il viso di John, e nello scoprire nuove imperfezioni e nuove rughe e nuove pieghe e nuove perfezioni.

Non riuscì a trattenere un sorriso quando parlò. “Mi butterei da tutti i palazzi di Londra solo per cadere tra le tue braccia*” e poi non si trattenne e lo coinvolse in un nuovo bacio, più lungo, più intenso, più bello.

Questo, pensò John, è l’inizio di qualcosa di meraviglioso*.


*Queste frasi sono tratte dalla canzone, quella di Sherlock è leggermente modificata.
"This is the start of something beautiful"
"And I'll throw it all away
And watch you fall into my arms again"



NdA. Questa è una storia piccina, esattamente come la canzone, una delle più belle dell'album secondo me, perchè è semplice e mozzafiato allo stesso tempo. Spero di avervi trasmesso la stessa cosa
-A

 

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Capitolo 8
*** The City ***


Note: questa storia è ambientata in un’ipotetica terza stagione dove John ha capito di essere bisessuale e Sherlock ha capito che deve chiedere scusa. Ovviamente Mary non esiste

 

The City

Ti senti improvvisamente meglio, quando atterri all’aeroporto di Heathrow, nonostante solo cinque ore prima ti trovavi incatenato in un’umida stanza in Serbia ad accusare calci e pugni da dei terroristi. La barba ti dà fastidio, così come i capelli lunghi fino alle spalle e quella tuta fatta di uno scarsissimo cotone. Tuo fratello ti ha detto che era il massimo che avrebbe potuto fare, almeno fino a che non fossero tornati in Inghilterra.

Mycroft è in piedi pochi passi indietro rispetto a te, sta parlando con la sua assistente al telefono mentre con la mano sinistra sorregge un piccolo zaino –tutto quello che hai avuto negli scorsi due anni-.

Prendi un respiro profondo: ti era mancata la tua città, vero? Sentirla pulsare viva sotto i tuoi piedi, instancabile e inarrivabile. Già assapori con la mente quello di cui i tuoi occhi si riempiranno nel tragitto verso casa di Mycroft: persone, storie, palazzi, segreti, ombre e luci, rumori e suoni, e taxi neri sempre presenti su ogni strada. Dio, se ti era mancata.

Londra e te siete come un albero e il suo ramo più bello, legate profondamente l’uno all’altra, incapaci di vivere per troppo tempo lontani; è la tua amante più fedele e la tua traditrice più stronza; è una madre che ti fa compagnia quando non riesci a dormire e una puttana che si dà a tutti.

È il palcoscenico di tutti i tuoi ricordi più importanti, belli e brutti che siano, non fai distinzione.

Ti scorre sotto i piedi mentre raggiungi casa di Mycroft e vede per prima il tuo volto pulito, e i capelli tagliati, e i tuoi vestiti nuovi di zecca (compreso il tuo amato cappotto lungo, che ti scivola addosso come una seconda pelle).

E infine si inchina alla tua figura lunga di notte, mentre la osservi dall’alto di un palazzo –esattamente come due anni prima, ti ricordi-.

La tua Londra ti nasconde, tra queste strade, la figura solitaria di John Watson, ignaro del tuo ritorno –ignaro del fatto che tu, morto, non lo sei mai stato.

Ti chiedi se mai John pensi a te, nonostante siano passati più di due anni, ti chiedi se ti abbia aspettato, nonostante sapesse che nessuno torna dalla morte. Ti chiedi se ci sia ancora spazio, nella sua vita, o se ci sia qualcuno al suo fianco che abbia riempito il tuo vuoto.

Lo immagini tornare in quel monolocale che Mycroft ti ha detto che ha affittato, solo, al buio, distrutto, e ti dai la colpa, perché è effettivamente colpa tua. L’hai capito dopo averlo visto al cimitero, che avresti potuto trovare un’altra soluzione, coinvolgerlo per non distruggerlo, ma eri troppo occupato a cercare di salvarlo per non capire che in questo modo non l’hai salvato affatto.

Ti stendi su quel tetto, il cielo è bello stasera. Non capisci niente, di stelle e di universi, ma ti affascina ricordarti che sei un essere minuscolo davanti a tutta quella vastità sconosciuta. Immagini di toccare una stella, così piccola e bella agli occhi di un semplice essere umano. Siamo solo atomi in uno spazio troppo grande, ti ricordi. Una bellissima gabbia d’oro che non ti stringe perché non ne vedi i confini, e ti sta bene, sei contento con te stesso per aver scelto di fare la vita che fai, ignorando le grandi domande su cui non ti sei mai soffermato.

Ti dici che è perché la tua mente ha altro a cui pensare, ed è così perché, voltandoti di lato, i tuoi occhi ti fanno vedere un John Watson steso accanto a te, che ti indica tutte le stelle e i pianeti e le costellazioni che gli piacciono tanto. Alzerebbe la mano verso il cielo e tu ti perderesti ad osservare come la luna gli bagna gli occhi di un colore chiaro e scuro che non riesci a definire.

E quando mai sei riuscito a definire John Watson, che si trova là dove la tua mente perde sempre.

Passi la notte a riempirti gli occhi delle luci della tua città preferita la mondo, cullandoti nell’idea che questo sarà finalmente il tuo ultimo giorno da morto. Sai perfettamente che ciò che hai vissuto non è l’inferno, ma, ripensando a tutte le cicatrici che ti hanno regalato, forse la realtà non si discosta molto dalla fantasia.

Non riesci a dormire, e questo non ti allarma, quindi ti limiti ad osservare la tua Londra, e ti accorgi che siete le uniche due cose sveglie nel raggio dei tuoi occhi.

L’alba porta con sé corridori e ciclisti instancabili, lavoratori assonnati con un terribile caffè allungato che non capisci come facciano a bere tra le mani. Ti sposti dal tuo nascondiglio e ti senti pronto a camminare tra i londinesi come uno di loro, lasciando che qualcuno ti vada addosso solo per ricordarti che sei tornato ad essere normale, che sei fatto di carne ed ossa e anima. Che sei Sherlock Holmes, consulente investigativo, sociopatico iperattivo, amico, figlio, fratello, coinquilino. Ti godi gli occhi puntati su di te, di quelli che seguivano il blog di John e ti riconoscono o pensano di aver avuto una svista.

Anche la mattina presto la tua Londra è bellissima: il sole riscalda le tue mani e il tuo viso, le uniche parti del corpo scoperte, e bagna tutti i palazzi, insinuandosi nelle vie e nei vicoli ciechi, in uno dei quali hai preso John per mano –perché era una necessità.

Le tue gambe macinano metri su metri, fino a che non ti trovi davanti al tuo vecchio appartamento. Il battente è rimasto storto –proprio come piace a te-, e il numero civico spicca sulla porta scura. Ti riempi gli occhi di quelle placche dorate, si posano su ogni curva e su ogni angolo. Pronunci quel numero ad alta voce
-2-2-1-b- e ti piace come suona tra le tue labbra.

Non te la senti di usare le chiavi, che hai fatto entrare a forza nella tasca destra del tuo cappotto: manchi da quell’appartamento da troppo tempo, e devi riabituarti, e dare modo alle altre persone di riabituarsi. Ma poi, riflettendoci, non sai quale reazione possa avere la signora Hudson, e qualsiasi essa sia, ti decidi ad affrontarla dentro casa, e non in mezzo alla strada. Quindi ti fai passare quel mucchio di metallo tra le dita, accarezzandole per un secondo con i polpastrelli callosi, prima di inserire la chiave nella toppa. Ti era mancato questo gesto di quotidianità, quello che di solito faceva John al posto tuo.

Dentro è tutti esattamente come ricordavi: il buio, l’attaccapanni, la polvere e nel tuo palazzo passano in rassegna diapositive di ricordi di te e John che entravate o uscivate, sempre perfettamente coordinati. Si apre la porta e vedi voi due rientrare con un sacchetto di plastica in mano –quando a John non andava di cucinare. Si apre un’altra porta e vedi John arrabbiato con te perché hai deciso come al solito di fare di testa tua, come sempre. Hai paura a ricordare la prima volta che siete tornati da un inseguimento, quando John aveva dimenticato il bastone da Angelo e vi siete poggiati alla porta ridendo come due bambini.

Ci pensano i rumori della signora Hudson a salvarti dall’affogare nei ricordi. Urla, non appena ti vede. Prega qualche santo o forse Dio in tutta la sua onnipotenza, ma poi lo abbraccia piangendo, e Sherlock non può fare altro che buttarsi contro di lei, ben contento di tornare a sentire quel calore che tanto gli era mancato.

La Hudson ti costringe a prendere un tè e a raccontarle ogni minimo dettaglio, e tu non puoi proprio rifiutarti. Ti viene in mente quella volta in cui degli americani l’avevano aggredita e non puoi fare a meno di sentirti un po’ in colpa. Ti stai rendendo conto, piano piano, che quello che pensavi sarebbe stato un piano perfetto, ha lasciato dietro di sé una scia di sangue invisibile.

E non hai ancora visto John. Londra ruggisce al di fuori di quella porta.

Arriverà il momento in cui dovrai fare i conti con i tuoi errori, te ne accorgi mentre la signora Hudson ti avverte che quel giorno sarebbe passato John. Non credi alle coincidenze, quindi capisci che proprio lì, dove c’è stato tutto, dovrai fare anche quello: guardare John Watson negli occhi e chiedere scusa.

Ti è sempre stato difficile, aspettare, non è così? Preferisci fare tutto e subito, fin da piccolo. A scuola consegnavi mezz’ora prima e facevi gli errori più stupidi solo per dimostrare di essere migliore. All’università davi gli esami il prima possibile. Non ti sei mai goduto un momento di attesa, e c’è una prima volta a tutto, quando ti ritrovi a girovagare per il tuo vecchio appartamento aspettando John.

Ti stupisci nel vedere tutto esattamente come due anni prima, niente è stato toccato, neanche la polvere. L’aria è viziata e satura di odori vecchi, il tuo violino riposa placido nella custodia che due anni fa hai posato sotto alla scrivania dove John scriveva il suo blog, in uno spazio ora vuoto tra i tuoi spartiti e i tuoi oggetti. Vedi chiaramente il rettangolo lasciato vuoto dal computer del tuo vecchio coinquilino, riconosci il legno usurato dai gommini di plastica, le parti scheggiate di quando John sbatteva i pugni per la frustrazione.

Sposti lo sguardo verso lo smile, che ti guarda con aria di sfida. Come può un disegno sfidarti, darti tanto fastidio da farti venire il prurito alle mani per la voglia che hai di ficcare una pallottola in uno dei suoi assenti? –perché è un disegno.

Ridi guardando il tuo laboratorio di chimica sul tavolo della cucina, sorridi quando accarezzi la parte superiore del tuo teschio e i buchi lasciati dal pugnale sul davanzale del camino. È una stanza piena di ricordi, e nell’attesa ti ci immergi lentamente, trovandoli caldi, accoglienti e familiari.

Per poco non ti sfugge il rumore di chiavi che proviene dal piano di sotto. Senti già la signora Hudson che entra in azione, come da concordato. –Prepara John, fagli capire che sono io- le hai detto una ventina di minuti prima.

Li senti chiacchierare senza capire quello che si stanno dicendo, e senti il tuo cuore cominciare a scaldarsi quando riconosci il suono tipico di John quando si sorprende: è irrazionale, ma hai captato il suo cervello capire, riconoscere che non sei morto.

Ti sale un leggero panico, non era mai successo. Quante prime volte, oggi, nel tuo primo giorno di risurrezione a Londra.

Sembri un idiota, Sherlock Holmes, in mezzo al tuo vecchio salotto, fermo come uno stoccafisso, aspettando che il tuo (ex?) migliore amico salga le scale e venga a vedere con i suoi occhi piccoli e chiari che non sei morto.

Odi dover dare ragione a qualcuno che non sia tu stesso, ma Mycroft non aveva torto, quando diceva che non era un vantaggio: guardati, come sei idiota.

Un passo alla volta, John procede lento come una tartaruga.

Meno diciassette

Meno sedici

Meno quindici, John posa la gamba sinistra più pesantemente rispetto a quella destra.

Meno quattordici, John mette il piede lì dove lo scalino scricchiola: non lo fa mai, si sarà dimenticato di quel dettaglio? Forse quel rumore gli riporterà indietro a tutte quelle volte in cui ha fatto lo stesso, nei primi momenti in cui viveva lì e non sapeva ancora come muoversi.

Forse John ha pensato lo stesso, perché i restanti tredici gradini li percorre velocemente, come se lo stessero inseguendo. E non fai neanche in tempo a muoverti per cercare un’altra posizione –invece che quella da stoccafisso- che John spalanca la porta, talmente forte che sbatte sul muro e con un rimbalzo torna leggermente indietro.

Ed eccolo lì. Due anni.

Quanti giorni sono, quanti minuti, quante ore, quanti secondi, quanti attimi? In un altro momento lo avresti calcolato in meno di tre secondi, ora sei bloccato.

Guardi John con tutto te stesso, partendo dai piedi: noti che ha lo stesso paio di scarpe di due anni prima, le aveva comprate perché tu avevi squagliato la suola del suo vecchio paio per incastrare un uomo per l’omicidio di suo figlio. John ti aveva costretto a dargli i soldi e tu gli avevi allungato incurante una banconota da cento sterline come se valessero un penny. Noti troppo tardi che sono bucate ai lati ma lui non le ha buttate, perché lui non lo farebbe.

Non indossa i soliti jeans, ma dei pantaloni di tessuto scuri, che gli scendono forse un po’ troppo larghi sui fianchi.

Il maglione, invece, lo conosci benissimo: hai creato un archivio apposito per quel maglione beige, quello che ha messo quando ti ha salvato da quel tassista, quello che gli scende perfettamente sul torace e gli fascia le braccia come una seconda pelle. Adori quel maglione, l’hai sempre fatto.

Solo dopo aver memorizzato ogni singolo aspetto del suo corpo ti permetti di guardare il suo viso. E, Sherlock, quanto ti è mancato? Avresti voglia di chiudere gli occhi e guardarlo attraverso le tue mani, sfiorargli le rughe e la pelle ruvida, toccare il suo naso e sfiorare le sue labbra (magari con le tue?).

E lui ti guarda, ma non riesci a capire i suoi occhi. Sono un misto di rabbia e sollievo, felicità e sorpresa. Non sa cosa fare, il tuo John, perché si muove nervosamente e le sue mani non stanno ferme un attimo, aprendosi e chiudendosi a pugno, e noti in quel frangente che ha le chiavi ancora in mano, quelle di casa e quelle del posto in cui vive.

Non fate altro che studiarvi a vicenda, come due scene del crimine, per minuti interi, perché nessuno ha il coraggio di parlare. Quando è mai capitato che voi due vi siete ritrovati in silenzio per così tanto tempo?

È questa, la paura? Ciò che ti si è aggrappato intorno al cuore mentre lo guardi? Così ci si sente ad essere deboli?

Non ti fidi della tua stessa voce, quindi preferisci restare zitto e aspettarlo. Hai sbagliato, te ne rendi conto, ma non riesci a pensare a delle scuse; anzi, non vuoi chiedere scusa, gli hai salvato la vita. Gli hai salvato la vita? Osservalo, Sherlock, non limitarti a guardarlo. È più magro, è triste, sfacciatamente triste anche mentre lo guardi. Richiedilo, gli hai salvato la vita? O è morto con te?

Non hai tempo di pensare a una risposta, perché finalmente senti la sua voce.

“Tu- tu eri… morto” sussurra il povero John. Così si sono sentiti gli apostoli quando è resuscitato Gesù? Non lo sai, non ci credi nemmeno a queste cose, è la voce di tua madre che impertinente rimbomba nella tua testa.

“Non proprio, no” rispondi, torturandoti le mani. Siete a Baker Street, nell’esatto punto dove avevate vissuto le vostre avventure fino a due anni prima, soli contro il resto del mondo. Ma ora è cambiato tutto, ti dici. Ora siete soli, ma con il mondo intero a dividervi.

John ispira dal naso mentre cerca di controllare quella che sai per certo essere rabbia, delusione e tristezza, un mix che conosci bene perché movente di molti degli omicidi che hai risolto insieme a lui. Sei preoccupato per la tua stessa vita? No, ti rispondi subito, è di John che si parla.

“Perché?” chiede e tu non sai cosa rispondere.

“Io…” è l’unica cosa che ti viene in mente. Vorresti dirgli perché dovevi salvarlo, perché non sei più in grado di vivere senza di lui, ma hai troppa paura che lui se ne possa andare per sempre. “Dovevo salvarvi” opti per il plurale ma John non è stupido.

“Quello che mi hai fatto è stato tutt’altro che salvifico, Sherlock. Potevi parlarmi, avvertirmi, mandarmi un messaggio. Sarebbe bastato quello” parla veloce e con un tono di voce basso, talmente tanto che hai faticato a capire quello che ha detto.

L’aria è tesa, cosa ti aspettavi? Sai com’è John, lo conosci (lo ami), ci hai vissuto insieme (lo ami), hai passato due anni ad osservarlo e altri due a proteggerlo (lo ami). Non potevi aspettarti di vederlo tornare da te comprensivo e con le braccia aperte, quello è il compito delle bambole. John è carne ossa e sentimenti, talmente tanti che non riesci a comprenderli tutti.

“Perché mi hai lasciato indietro, Sherlock? Perché mi hai dovuto distruggere in questo modo? Ma soprattutto, cosa ti aspetti da me adesso? Perché io non so se posso fare finta di niente, non dopo due anni, non dopo…” e si blocca, il tuo John.

“Mi dispiace” sussurri allora, perché ti è sempre stato difficile chiedere scusa ma non puoi fare a meno di farlo per John, il tuo John, la persona che avresti dovuto salvare ma che invece ha contribuito ad uccidere. Ecco il più grande errore di calcolo di Sherlock Holmes: i sentimenti.

John ti guarda, con gli occhi lucidi, con le lacrime che hanno voglia di scendere adagiarsi sulle sue guance ruvide (così come le tue mani, che tremano dalla voglia di toccarlo). Ma il tuo migliore amico non piange, perché non l’ha mai fatto davanti a qualcuno e pensi che mai potrebbe farlo. Perché insieme a John dottore, blogger, scrittore, amico, c’è il John soldato e il John uomo che sono maledettamente testardi e anche la sua parte che tu preferisci di più. Non piange e non si muove, è fermo, e aspetta che tu faccia o dica qualcosa.

“Non mi pento di quello che ho fatto, ma mi dispiace” continui allora, osservando come le sue labbra si aprono in un sorriso amaro.

“Ovvio che non ti penti, tu non fai errori, Sherlock Holmes non sbaglia!” dice parlando con voce ferma.

“A quanto pare l’ho fatto con te” ribatti ingoiando l’orgoglio, e John ride. Non lo capisci, forse non lo capirai mai.

“E ALLORA PERCHÉ, SHERLOCK?” scoppia all’improvviso, come una bomba senza timer. Le lacrime, che prima non ne volevano sapere di scendere, ora inondano copiose il viso di John e sembrano non volere smettere mai più. Il soldato fa due passi avanti ma non si azzarda a toccarlo, ci prova ma non ci riesce.

Lo hai distrutto, Sherlock, non lo vedi? Sei uno stupido pezzo di merda.*

“Io voglio sapere perché mi devi sempre lasciare indietro”

“Devo proteggerti”

“MA IO NON HO BISOGNO DI ESSERE PROTETTO! –urla di nuovo e non pensi di riuscire a reggere quella visione per una terza volta- io ho bisogno di esserti vicino, e di affrontare le cose con te e di…” si blocca una seconda volta e senti un campanello d’allarme suonare nella tua testa. Cosa ti nasconde, il tuo John?

“John…” sussurri, al limite della paura.

Siete incredibilmente vicini, te ne accorgi solo ora.  

Adesso capisci di avere una paura fottuta che, se ti dovesse toccare, tu potresti diventare burro sotto le sue mani, malleabile tra le sue braccia.

“Sherlock” questa volta il suo tono è dolce, come quello di una madre “quando sei morto, i miei pensieri più profondi è come se fossero esplosi. Tu non c’eri più e io avevo la libertà di scendere a patti con le mie emozioni. Ero libero di pensare quello che volevo perché non avrebbe avuto conseguenze, perché tu eri… morto.” Sospira.

“Tante volte mi sono addormentato immaginando che il paradiso avesse l’orario delle visite*, per venirti a trovare e dirti tutto quello che avevo scoperto, ma sapevo che non sarebbe stato possibile. Ora, invece, posso, ma non voglio” conclude, allontanandosi leggermente.

Hai capito perfettamente quello che vuole dire. Ti ama, Sherlock, esattamente come tu ami lui. E guarda cosa hai combinato. Tu lo hai ridotto e ti sei ridotto così. Sei sicuro di meritare il suo amore? Sei sicuro che non lo farai soffrire mai più?  

Non lo tocchi, non ti avvicini, non ti muovi e non parli. Sei diventato una statua davanti ai sentimenti. Vorresti rintanarti su un tetto della tua amata città, stare sveglio solo con lei come la notte appena passata perché vuoi fuggire da quello che devi fare, ma non puoi guardarlo e fingere di non aver capito; non puoi guardarlo e nasconderti dietro la tua mente fredda che ‘non conosce i sentimenti’. Perché tu sei tutto tranne che codardo. Diglielo, Sherlock Holmes. Senza giri di parole.

“Odi et amo. Quare id faciam, fortasse requiris. Nescio, sed fieri sentio et excrucior*” perfetto, ti dici. Ti eri ripromesso di non fare giri di parole ma non hai specificato la lingua. John ti guarda e non capisce: è normale, non lo conosce il latino. Avevi quasi sperato di risolvere tutto con una semplice frase fatta, vero? Minimo sforzo per il massimo del risultato.

Cosa c’è che ti ferma? Lui ti ama, Sherlock. John è davanti a te e non ti odia per quello che gli hai fatto, non ti ha menato, non se ne è andato. È qui, davanti a te e ti ha dato tutto quello che poteva darti. Cosa vuoi di più?

“Odio e amo” parli finalmente la tua lingua “e ho provato per talmente tanto tempo a impedirmi di farlo che alla fine, semplicemente, è successo”

“Non so cosa siano i sentimenti, perché non si possono esprimere a parole sensazioni così forti” continui, mentre ti avvicini a lui. Non pensi al fatto che diventerai burro, ma a quanto potrà essere dolce stare tra le sue braccia. “Non ho mai provato quello che sto provando adesso, John. Ma so che è lo stesso che provi tu” butti fuori, alla fine.

Anche lui ti viene incontro e a metà strada vi rendete conto di essere uguali. Siete due uomini innamorati, consapevoli di star davanti all’unica persona che possiate mai amare nella vostra vita.

Sciogliersi tra le braccia di John è appena diventata la tua cosa preferita: le sue braccia sono calde su di te e ti piace la sensazione di quest’abbraccio.

Oh ma quando ti bacia, quando lo baci, i tuoi muri cadono in mille pezzi. Dentro di te c’è il caos che regna sovrano, attorno a te, solo John. Lui, che balla un lento con le tue labbra, gli dedica una deliziosa melodia di suoni e gemiti e rumori, ti usa come una tela bianca pronta per diventare arte. Siete insieme colori e pennelli, violino e archetto, penna e foglio. Non esistete l’uno senza l’altro, non esistete al di fuori di quel bacio. E tu ti aggrappi disperato al collo e ai capelli del tuo John, perché hai paura di cadere, e lui ti sorregge e ti ama, e ti spoglia di tutti i tuoi errori. E tu lo spogli di tutte le sue insicurezze. Fate l’amore con un solo bacio e non vuoi che finisca perché respirare è noioso e baciare John Watson è appena diventata la tua nuova adrenalina.

Guardarsi negli occhi dopo non fa male, te ne rendi conto mentre gli sorridi e non ti stacchi del tutto da lui: hai ancora bisogno di sentirlo sotto i tuoi calli e tra le tue braccia e lui lo sa, mentre si fa piccolo sul tuo petto.

“Non andartene mai più” ti implora “Mai più” due volte.

Ed è John Watson, nella tua casa preferita, che si trova nella tua città preferita, che te lo chiede. E tu, Sherlock Holmes, non puoi dire di no.

 

Note: 

*citazione a Bojack Horseman
*citazione alla nuova canzone di Ed Sheeran, Visiting Hours
*questa frase è stata usata in tutti i modi, per me è solo un espediente per rendere canon la mia idea he Sherlock sappia il latino

Un'eternità, ecco quanto ci è voluto. Sapevo, quando avevo iniziato questa raccolta, che questa canzone mi avrebbe fatto dannare (perchè non mi fa impazzire). Spero comunque che la storia piaccia, e se vi va lasciate qualche recensione
-A

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Capitolo 9
*** Lego House ***


Lego House
 
I'm gonna pick up the pieces, and build a lego house if things go wrong we can knock it down
 
 
 
Tutto iniziò con un lungo viaggio in macchina. Le campagne del Sussex sembravano appartenere ad un’altra epoca rispetto al frenetico rumoreggiare della capitale inglese. John, 11 anni di pantaloncini corti e magliette a righe, teneva la guancia incollata al vetro mentre cercava di immagazzinare ogni dettaglio di quella città meravigliosa: gli sembrava di essere nello spazio, circondato da luci e suoni a lui sconosciuti. Se non fosse stato buio probabilmente sarebbe riuscito a vederci qualcosa in più, ma purtroppo non sapeva come vedere al buio.

Quando il motore della Ford rossa di suo padre smise di tremare e si spense, il piccolo capì di essere arrivato nella sua nuova casa. Accanto a lui la sorella di dieci anni più grande sbuffava sonoramente, ma non era una novità, dato che non aveva fatto altro da quando aveva saputo del trasferimento del padre. Harry spense il suo walkman, lo ripose nel suo zaino nero che portava sempre con sé e scese ad aiutare il padre con i bagagli: anche John voleva unirsi, ma le valigie erano troppo grandi e lui troppo poco forte, quindi si limitò a raccogliere i suoi giochi e la sua tracolla di pelle marrone che apparteneva al nonno e scese dalla macchina. Davanti a lui si prostrava una villetta a schiera di due piani, con il tetto a punta, come li disegnava quando aveva cinque anni. Non stava più nella pelle dal conoscere i suoi vicini e, soprattutto, i suoi compagni di scuola. David Watson lo aveva iscritto in una prestigiosa scuola privata, dove bisognava indossare una divisa blu con i dettagli rossi e con i pantaloni lunghi, che il piccolo aveva sempre odiato.

Dopo aver sistemato i bagagli e aver fatto un giro della casa, John era pronto per andare a dormire, dato che il giorno seguente sarebbe dovuto andare a scuola. Passò davanti alla foto di sua madre, la prima cosa che suo padre aveva sistemato, e poi si rifugiò in camera sua, che finalmente non doveva più condividere con sua sorella. Si sistemò sotto le sue coperte e prese a fissare il suo completo ancora nuovo e stirato appeso all’anta dal suo armadio. Stava andando tutto bene, si disse rincuorandosi. Da quando erano rimasti in tre le cose erano diventate insopportabili nella vecchia casa, e il nuovo lavoro del padre avrebbe di sicuro cambiato le cose.

John si girò un paio di volte nel letto, prima di decidersi a dormire, ma, proprio mentre stava per prendere sonno, un gatto cominciò a miagolare fastidiosamente vicino alla sua finestra. No, non era un gatto, si corresse John, ma un violino suonato malissimo. E il rumore fastidioso non proveniva dalla finestra, ma dall’altra parte del muro. Suo padre gli aveva detto che l’unico difetto di quella casa era quello di essere attaccata a quelle degli altri, ma non immaginava che avrebbe potuto sentire cosa facevano le altre famiglie dall’altra parte del muro. Così John, arrabbiato, tirò un pugno sul calcestruzzo, per far capire all’altra persona che era troppo tardi per suonare. In risposta sentì un tonfo, e subito dopo il rumore del violino scordato riprese come se nulla fosse. John decise che era troppo tardi per mettersi a fare una guerra di pugni sul muro con il vicino e si limitò a coprirsi l’orecchio con uno dei suoi pupazzi, quello a forma di coniglio che gli aveva regalato la mamma.

Il primo giorno di scuola non fu memorabile, ma neanche da buttare: essendo arrivato a metà anno tutti volevano parlare con lui, conoscerlo. Era la novità di cui tutti avrebbero parlato per almeno le prime due settimane e John si sentiva contento di questo. Ma questo suo entusiasmo venne subito smorzato dalla quantità di compiti che aveva da fare per rimettersi in paro con gli altri. Uscì da scuola sconsolato al solo pensiero di dover chiudersi in camera a studiare e fece il tragitto verso casa guardandosi la punta nera e lucida delle sue scarpe scolastiche, senza accorgersi di qualcuno che, poco dietro di lui, stava facendo la stessa strada.

L’altro ragazzo era alto, davvero alto, con i capelli scompigliati e gli occhi color ghiaccio. La sua giornata a scuola era stata come tutte le altre: aveva litigato con i professori e con i compagni, aveva preso qualche voto alto e qualche nota di demerito. Non vedeva l’ora di tornare a casa e suonare il suo violino, magari per infastidire i nuovi vicini. Era la cosa che preferiva di più: quella casa era sul mercato da così tanto tempo che ormai tutti potevano permettersela, e la ragione per la quale nessuno la voleva era proprio lui. Sherlock Holmes, dieci anni e tre quarti di pura arroganza, adorava far impazzire le persone, specie se quelle persone volevano appropriarsi degli stessi spazi dove lui scappava quando voleva stare da solo. Il 17 e il 15 avevano un balconcino in comune, diviso da un cancelletto di metallo alto due metri ma facilissimo da scavalcare per lui. Non appena superato l’ostacolo era come se il piccoletto avesse una casa tutta per sé. Casa che, purtroppo, ora era abitata da sconosciuti indesiderati. Rientrò in casa senza badare a chi era entrato lì accanto, talmente che odiava i vicini che non aveva bisogno di vederli per dare fastidio, e salì in camera sua per iniziare una sessione di studio lunga e fastidiosa.

I rumori del vicino si rivelarono particolarmente rilassanti però, per l’inquilino dall’altra parte del muro, che preferiva di gran lunga sentire un violino scordato piuttosto che sua sorella e suo padre litigare. Aveva sbagliato, John, a pensare che l’aria di Londra avrebbe potuto cambiare le cose: sua sorella continuava a tornare tardi ubriaca marcia e suo padre non migliorava la situazione urlandole contro. Il piccolo John era stanco e aveva trovato nell’irritante suono dall’altra parte del muro una soluzione ai suoi problemi.

Il primo giorno di convivenza tra i due passò velocemente e senza troppi drammi: Sherlock rimase sinceramente deluso dell’insuccesso del suo piano mentre John riuscì a finire tutti i compiti del giorno dopo studiando con le orecchie appiccicate alla parete color cannella. Rimase sorpreso di sé stesso quando, alle sei e mezza, aveva chiuso il libro di matematica accorgendosi che non aveva più nulla da fare. Il tizio dall’altra parte della parete aveva smesso di suonare da un po’, quindi decise di disturbarlo. Bussò contro il muro tre volte e attese una risposta che non tardò ad arrivare. Altri tre colpi, a sua imitazione. John sorrise.
“Non so se mi senti, ma grazie per il concerto di oggi!” urlò con la bocca attaccata alla parete. Non ricevendo risposta decise di continuare: “se però imparassi a suonare quel violino in modo da non farlo sembrare un gatto morente te ne sarei davvero grato!”. Ancora nessuna risposta. Cosa aveva detto di male? O forse il signore dall’altra parte del muro non aveva gradito?

Non riuscì a pensare a qualcos’altro, perché qualcuno bussò alla sua portafinestra, facendolo sobbalzare: era un ragazzino alto, incredibilmente alto, con i capelli neri neri e gli occhi chiari chiari. Che fosse lui l’inquilino dall’altra parte del muro?

John decide di aprirgli e quello subito si precipitò dentro svelto. “Perché non ti dà fastidio quando suono?” chiese immediatamente, senza neanche presentarsi.
“Sei dentro casa mia, uno sconosciuto e non mi hai neanche detto il tuo nome, sei scortese” ribatté John.

“Mi chiamo Sherlock. Ora, vuoi rispondere alla mia domanda?” insisté il bambino –Sherlock.

“Ciao, Sherlock, io sono John” rispose invece il biondo, con l’intento unico di far spazientire l’altro. Aveva come l’impressione che non avesse una buona pazienza.

“Rispondi” sibilò il più alto, confermando i dubbi di John.

“E va bene! –sbuffò- Non è che non mi dai fastidio, anzi sei pessimo e ieri sera ti ho odiato, ma ho preferito ascoltare te piuttosto che mio padre e mia sorella che litigano, mi ha permesso di finire i compiti” rispose, indicando il letto vicino alla parete ancora coperto da quaderni e libri.

“E tu perché vuoi darmi fastidio?” aggiunse poi John, incrociando le braccia.

“Oh non è nulla di personale, ma questa stanza mi serve.”

“Ma non è casa tua, è casa mia!”

“Che perspicacia! È facile da raggiungere scavalcando il cancelletto e quando non ci abita nessuno ci vengo io per stare da solo” dichiarò il piccolo “e io ho bisogno di stare da solo”.

Quelle furono le ultime parole pronunciate prima di un silenzio strano e indecifrabile. In sottofondo le urla dei parenti di John continuavano a disturbare la quiete pubblica ma i due non ci facevano molto caso.

“Penso di avere un’idea: e se tu venissi qui i pomeriggi per stare solo e in cambio mi aiutassi a fare i compiti?” propose John.

Sherlock lo squadrò per qualche attimo, ma poi annuì. Si strinsero la mano, come fanno gli adulti, e decisero di vedersi il giorno dopo alle tre e mezza nella stanza di John.

Scoprirono il giorno dopo di frequentare la stessa scuola e di avere gli stessi orari: tornarono a casa insieme e si incontrarono in camera di John all’orario stabilito. Sorprendentemente si ritrovarono ad andare d’accordo, cosa del tutto nuova per Sherlock: passarono tutto il resto del giorno insieme a raccontarsi anche le cose più stupide mentre studiavano e John scoprì che Sherlock sapeva suonare davvero bene il violino e che aveva volutamente suonato male per infastidirlo.

Erano diversi in tutto: a partire dall’aspetto fisico, fino ad arrivare allo studio e alle famiglie. John scoprì che Sherlock aveva un fratello maggiore che non vedeva mai perché lavorava per il governo, una madre e un padre del tutto normali e un cane vecchio con il pelo rosso; Sherlock scoprì che John aveva una sorella di dieci anni più grande che si ubriacava e un padre che aveva lavorato per una radio locale nel Sussex e che si erano trasferiti perché lo aveva chiamato una qualche radio londinese importante, e scoprì anche che John da grande voleva fare il supereroe ma, non avendo nessun potere magico, avrebbe ripiegato sulla professione di medico.

Da quel pomeriggio non ci fu un giorno in cui i due non si vedevano: se uno non poteva lo raggiungeva l’altro; andavano e tornavano da scuola insieme e pranzavano insieme. Sherlock non aveva una buona reputazione tra i suoi compagni, ma questo a John non interessava.

A gennaio, il giorno dell’undicesimo compleanno di Sherlock, John gli aveva regalato un pupazzetto a forma di cane per commemorare la scomparsa di Barbarossa giusto qualche giorno prima. A pasqua la famiglia Watson (meno che Harry) passò la giornata dalla famiglia Holmes (meno che Mycroft). Fu una bella giornata, soprattutto per i coniugi Violet e Siger che ebbero modo di vedere come la presenza di John facesse bene al loro figlio più piccolo. Maggio lo passarono a studiare insieme: Sherlock era di una classe inferiore rispetto a John, ma nonostante questo era lui che spiegava le cose all’altro.

L’estate arrivò con la demolizione del cancelletto tra i balconi dei due bambini, che così non avevano più il pericolo di farsi male per passare da una camera all’altra. Per il compleanno di John, Sherlock gli organizzò una festa a sorpresa, invitando tutti i suoi amici, e gli regalò un vero stetoscopio, di quelli utilizzati dai veri dottori.

L’inizio della scuola arrivò inesorabile e inevitabile, e i due si ritrovarono incastrati di nuovo nella stessa routine.

Passò velocemente quell’anno, e altrettanto velocemente quello successivo.

Poi tutto si bloccò.

“Vado in America” esordì il primo giugno Sherlock, entrando in camera del suo migliore amico.

Avevano entrambi quattordici anni, anche se John ne avrebbe compiuti quindici due mesi dopo. Sherlock doveva iniziare il liceo e avevano pianificato tutto, dalla scuola, allo zaino, alle materie che avrebbero potuto seguire insieme.

“Come- cosa- perché?” esclamò John.

“A quanto pare mio fratello ha ‘parlato’ di me a qualche persona e adesso quella persona vuole che io vada a frequentare un qualche college importante lì”
John rimase pietrificato. “College? Ma se non hai ancora iniziato il liceo. Di cosa cazzo stai parlando?” urlò talmente tanto che avrebbero sentito entrambe le case.

“Abbassa la voce! John, è un’opportunità che mi hanno fatto capire di non poter rifiutare. Si parla di Harvard, si parla del miglior programma di chimica nel mondo, si tratta di seguire lezioni che mi interessano davvero” rispose l’altro a bassa voce.

Il biondo sospirò, nascondendosi il viso tra le mani. “Questo rovina tutto” disse “Quando partirai?”

“A fine estate. Questo vuol dire che sarò qui per il tuo compleanno e potremo organizzare una festa stupenda. Magari puoi invitare quella biondina che viene a matematica con te” rispose Sherlock, sedendosi sul letto accanto a John.

“No, voglio stare solo con te. Voglio passare una giornata perfetta con te” ribatté il più basso, allungando il collo per posare il capo sulla spalla di Sherlock. Restarono così a lungo, senza muoversi, nel completo imbarazzo. Sherlock era completamente rosso in viso, mentre John aveva il respiro irregolare e le mani sudate: non che il contatto fisico li disturbasse, anzi, ma erano un paio di mesi che Sherlock si comportava in maniera strana con lui, quasi evitandolo, ed era da tantissimo che non erano così vicini.

“Sono gay” disse poi Sherlock, chiudendo gli occhi quando John si staccò da lui per guardarlo.

“Sherlock, hey, va tutto bene” rispose John prendendogli il viso tra le mani. Il più alto aprì gli occhi cautamente, trovando l’altro che gli sorrideva.

“Non mi interessa chi ami, sei comunque il mio migliore amico” disse il più basso “inoltre lo sospettavo da un po’” aggiunse ridendo.

“C-come?” strillò Sherlock.

“Ho visto come ti mangiavi con gli occhi Trevor quando sono venuto a prenderti il mese scorso!”

“Non è vero!”

“Si invece! Hai una cotta per Victor Trevor!” rise John, cominciando a prenderlo a cuscinate.

Passarono i due mesi più belli delle loro vite: non sprecarono un solo attimo ora che avevano un conto alla rovescia puntato sulle loro teste. Per il compleanno di John andarono al parco dove da piccoli andavano per nascondersi dai propri genitori, poi andarono a prendere un gelato nella loro gelateria preferita, passeggiando per Londra. Sherlock si divertiva ad indovinare le vite dei passanti e John lo ascoltava rapito: aveva visto nascere quell’abilità e lo aveva spronato a continuare. Passarono davanti a Buckingham Palace dove John imitò la postura dei soldati e l’altro gli fece una foto con una macchinetta usa e getta. Quando arrivò sera andarono a cena in un ristorante cinese, il loro preferito, e mangiarono fino a scoppiare.

Tornarono a casa poi, separandosi all’entrata delle rispettive abitazioni per rincontrarsi qualche minuto dopo sul loro balcone, entrambi in pigiama. Sherlock aveva portato con sé un pacchetto coperto da una carta blu oceano. Si sedettero vicini, negli stessi posti in cui si erano seduti per tutti quegli anni.

“Buon compleanno John” disse l’altro, porgendogli il pacchetto. John aprì la carta cercando di non romperla, e nella scatola vi trovò un cellulare, di quello con i tasti.

“Io… wow Sherlock, deve essere costato tantissimo” esclamò il biondo.

“Dentro c’è una scheda telefonica abilitata alle chiamate all’estero: possiamo sentirci anche se distanti, che dici?”

John lo guardò per un attimo, analizzando il suo volto bagnato dalla luce della luna, e poi lo abbracciò forte.

“Mi mancherai tantissimo, Sherl” sussurrò tra i suoi capelli, cercando di trattenere le lacrime. Sherlock non rispose ma a John non servivano le sue parole, perché il suo tenerlo stretto a sé valeva più di tutto il dizionario di inglese.

Si staccarono dopo poco, rimanendo comunque uno di fronte all’altro. Il più alto assunse un’espressione strana, cominciando a muovere gli occhi freneticamente tra il biondo e la luna. John aprì la bocca per chiedere cosa ci fosse che non andava, ma si sentì all’improvviso tirato dalla maglietta, e in un secondo le sue labbra erano incollate a quelle del suo migliore amico.

Sherlock Holmes lo aveva baciato. Sherlock Holmes lo stava baciando! Non appena il pensiero gli si formulò nella testa John riuscì a trovare le forze per allontanarsi.

“Ma che diavol- cos’era?!” esclamò confuso. Sherlock però sembrava più confuso di lui.

“Oddio, scusa, non... buonanotte, John” sussurrò poi, alzandosi in tutta fretta e ritirandosi nella sua stanza come fa una lumaca nel suo guscio. John restò lì tutta la notte, ad osservare le stelle fino a che la stanchezza prese il sopravvento e si addormentò lì, sul balcone, il sapore del suo migliore amico ancora sulle labbra.

Quando si svegliò aveva una coperta addosso e il suo regalo era sparito, sostituito dal pupazzo a forma di cane che John aveva fatto a Sherlock anni prima e un biglietto.

“Mi dispiace, è meglio non sentirci più.
Buona vita,
SH”

Sherlock partì due giorni dopo, durante i quali John aveva provato in tutti i modi a parlare con lui, senza riuscirci: aveva cambiato stanza e chiuso a chiave la portafinestra della sua casa. Aveva anche provato ad urlare, ma ottenne come risposta altro silenzio. Chiese ai genitori di farlo entrare ma questi glie lo negarono: era come se Sherlock fosse scomparso dalla faccia della terra.

John iniziò il suo secondo anno con uno spirito decisamente diverso da quello che si era immaginato, mentre Sherlock cominciava ad ambientarsi in un contesto più grande di lui cercando di lasciarsi indietro Londra (e John) per sempre. Non tornò per le vacanze di Natale, né per quelle di Pasqua e neanche per l’estate. 

John alla fine si era messo con la biondina che seguiva matematica con lui, l’aveva baciata molte volte e in mille modi diversi, senza riuscire a togliersi la sensazione che il bacio di Sherlock gli aveva dato. Forse per quello l’aveva lasciata dopo pochi mesi e senza troppi giri di parole. La pubertà gli rese i lineamenti più duri e lo sguardo più affascinante, lasciandolo comunque basso. Nonostante ciò le ragazze gli correvano dietro per i suoi modi gentili e i suoi sorrisi dolci, perché apriva le porte e scostava le sedie come un vero gentiluomo. Ed era bello, bello come il sole. Molto spesso, guardandosi allo specchio, John si chiedeva come fosse diventato Sherlock, se si era fatto uomo, se aveva continuato a crescere, se aveva baciato qualcun altro, ma poi smetteva di pensarci, perché gli faceva troppo male.

Presto arrivò la fine del liceo e l’inizio dell’università: aveva scelto medicina e suo padre non poteva esserne più fiero. Le lezioni erano difficili ma si stava impegnando duramente per passare tutti gli esami col massimo dei voti. Lo studio gli aveva tolto molto tempo ma riuscì comunque a farsi degli amici e ad avere qualche ragazza: la più importante si chiamava Lisa, ed erano stati insieme per sei mesi prima che lei lo tradisse con un idiota di giurisprudenza di cui non ricordava neanche il volto.

Era notte fonda, e lui stava per addormentarsi su un tomo di anatomia quando il suo telefono squillò.

Suo padre era morto, colto da un infarto.

Il giorno dopo tornò a casa, dalla sorella ubriaca nel suo letto e i genitori di Sherlock sul divano ad aspettarlo.

“John” singhiozzò Violet abbracciandolo stretto. David Watson se ne era andato una calda sera d’estate, durante una litigata con la figlia Harriet.

“Tua sorella ci ha chiamato subito” spiegò Siger “abbiamo chiamato l’ambulanza ma non c’è stato nulla da fare. Ci dispiace molto”

John accolse i loro abbracci e le loro spiegazioni in modo apatico, senza riuscire ad esternare quello che provava davvero. Il rapporto con suo padre era complicato ma meraviglioso: era lui che lo aveva sostenuto in tutti i modi possibili, ed era sempre lui che gli pagava gli studi. Come avrebbero fatto lui e la sorella?

Entrò nella stanza di Harry, trovandola stesa, ancora vestita, sul letto.

“Alzati” le ordinò, ricevendo un mugolio in risposta. “Alzati, stronza!” gridò più forte che poteva, strattonandola per le braccia molli. “Nostro padre è morto! –piagnucolò- è morto e devi smetterla di bere, mi hai stufato!” urlò costringendola ad alzarsi.

“È morto!” continuò a ripetere all’infinito mentre la sorella, ora sveglia, lo faceva stendere accanto a lei e lo abbracciò. E anche lì, John non pianse. Non lo fece neanche nei giorni a seguire, mentre organizzava il funerale, accettando che i signori Holmes pagassero per tutto, aiutandolo a scegliere il marmo più bello, la sua foto più allegra e il trasporto fino al Sussex, accanto alla tomba di sua madre.

Alla vigilia dei suoi vent’anni John Watson era diventato orfano.

Il funerale si tenne in una chiesetta a sud di Hove, la stessa dove aveva detto addio a sua madre. La cerimonia fu piacevole –per quanto questo aggettivo si possa affibbiare ad un funerale- e dopo la funzione religiosa la bara fu trasportata all’Hove Cemetery, dove venne seppellito accanto a Janice Watson e al nonno Jonathan.

John ed Harry si tennero per mano durante tutta la funzione, salutando parenti e conoscenti che erano lì solo per poter essere compiaciuti dalle altre persone. Tutti parlavano del loro padre come qualcuno che frequentavano da sempre, quando in realtà David aveva tagliato i ponti con tutti da almeno sei anni.

“John, io vado in macchina, se vuoi restare un altro po’ ci vediamo tra poco” disse la sorella, a cui lui annuì senza proferire parola.

Rimase solo e, finalmente, una lacrima solitaria bagnò il suo viso.

“Quanto sono false queste cerimonie” esordì una voce alle sue spalle che non riuscì a riconoscere. “Ma sono anche l’unico modo per permettere alle persone di marciare sulle disgrazie altrui, non credi, John?”

Quest’ultimo alzò il viso e si girò di scatto: Sherlock si trovava davanti a lui, dopo quattro lunghi anni, alto, altissimo, con gli stessi capelli neri e ribelli, gli stessi occhi chiari chiari e una voce scura, molto diversa da quella bambinesca con cui si erano lasciati. Ma non era quello a stupirlo di più: stava tenendo per mano un ragazzo, uno che John non aveva mai visto, con i capelli tirati all’indietro e gli occhi neri come la notte più tetra. C’era un non so che in quell’estraneo che inquietava John: forse il modo in cui si era arpionato al braccio di Sherlock, o il suo sorrisetto compiaciuto, o il suo completo gessato fin troppo elegante per il funerale di un uomo di provincia che neanche aveva mai sentito nominare.

“Oh, certo, Jim, lui è John Watson, il mio vecchio vicino di casa”

Vicino di casa: era solo quello ormai? Non più “migliore amico” o “primo bacio”? Solo un vicino di casa, un conoscente? Quello faceva male, era come assistere alla morte definitiva di ciò che John aveva definito una volta “la cosa migliore della sua vita”.

“John, lui è Jim Moriarty, il mio ragazzo” concluse le presentazioni Sherlock.

L’aria era tesa a dir poco, nessuno dei tre era intenzionato a parlare o a muoversi, o fare qualsiasi cosa. Rimasero in silenzio per parecchio tempo, quasi infinito.

“Allora, cosa ci fai qui? Non penso sia qui per mio padre, né tantomeno per me” buttò fuori John.

“No, infatti, mi hanno costretto i miei genitori, partiamo stanotte” rispose seccato Sherlock.

“Puoi anche andare, a quanto pare non hai niente da dirmi”

“Perché dovrei dirti qualcosa?” chiese Sherlock, al che John rise, profondamente amareggiato.

“Non pensavo che quattro anni della tua vita potessero essere insignificanti. È questo l’effetto che fa l’America, Jim Moriary? Ti fa dimenticare chi eri? Hai seriamente scordato il modo in cui non mi hai detto addio? Sono davvero così poco? Non rispondere, non lo voglio sapere, vattene e basta” rispose tutto d’un fiato John, irrigidendosi.

Sherlock aprì la bocca, ma non ne uscì alcun suono. Guardò l’altro un’ultima volta e poi si voltò senza più girarsi, trascinando con sé il ragazzo, che era visibilmente confuso.

Per tutto il viaggio di ritorno in America Jim provò ad estorcere informazioni su quello che era accaduto al cimitero, senza ottenere però nessuna informazione dal ragazzo. Tanto Sherlock era sotto shock che non proferì parola fino a che non tornarono nella casa che dividevano da un paio di mesi, a Boston, e anche lì il moro non parlò, preferendo iniettarsi la soluzione al 7% che lo aspettava da due giorni.

“Pensavo volessi smettere” disse Jim prendendo la siringa dalle mani del suo ragazzo.

“Fammi il piacere, mi sono tenuto lucido per far contento i miei” rispose Sherlock che, sdraiato sulla moquette color panna, cominciava a sentire gli effetti della droga.

“È lo stesso motivo per cui mi hai trascinato lì?” chiese Jim, posizionandosi accanto a lui.

“Ovvio. Saresti perfetto, come vero ragazzo”

“Davvero? E allora cosa ti ferma?”

“Il fatto che sei un pazzo, che non mi ami, che non ti amo, che ci distruggiamo a vicenda. Peccato per il sesso, quello è decisamente fantastico” dichiarò Sherlock, chiudendo gli occhi.

“Già…” sussurrò l’altro.

Aveva incontrato Jim Moriarty un anno prima, all’università: frequentava matematica, ragazzo prodigio esattamente come lui ed estremamente affascinante, avevano sviluppato un’affinità mentale (e di conseguenza fisica) talmente potente che le loro collaborazioni avevano fatto il giro dell’America. Avevano lo stesso modo di ragionare e lo stesso modo di concepire il mondo: troppo simili, però, per potersi amare davvero. E più di amarsi, si facevano male: è stato Sherlock a far entrare Jim nella spirale della droga, e quest’ultimo in cambio gli aveva donato una visione malata del mondo, facendogli scoprire i lati peggiori, e una visione ancora più distorta degli uomini e dell’affetto, dell’amore. Si consumavano a vicenda la notte, tra le lenzuola e le siringhe vuote, per poi ricostruirsi di giorno, tra i corridoi di Harvard. Quando si erano laureati avevano deciso di non smettere, troppo drogati di quella relazione malata che avevano costruito insieme. Ed erano un paio di mesi che tra le quattro mura di uno squallido appartamento in periferia di Boston si distruggevano e si ricostruivano, superando ogni volta i loro limiti, sfidando la morte a testa alta.

Sherlock non era felice, era drogato di felicità effimera ma, da sobrio, si rendeva conto di quanto la sua vita, a soli 19 anni, fosse stata buttata al vento, e quindi si faceva ancora, e ancora, in una morsa sempre più stretta e soffocante. Rimase sdraiato lì per un tempo che sembrava infinito e troppo breve allo stesso tempo, soffocato anche dal pensiero di John, dall’altra parte del mondo.

L’unica persona che avrebbe mai potuto amare, l’unica che, a quanto pareva, lo odiasse profondamente.

La stessa persona che in quel momento si trovava all’altra parte del mondo, in un ufficio pomposo, a implorare il rettore della sua università di fargli continuare gli studi.

“Mi dispiace per la morte di suo padre, Signor Watson, ma non posso farla studiare gratuitamente: l’ambiente universitario è rigido e qualsiasi cenno a favoritismi potrebbe costarmi l’intera carriera” gli stava dicendo il professor Thompson.

“La prego, non so come fare: i risparmi sono stati spesi per la riabilitazione di mia sorella e per pagare le ultime rate del mutuo. Siamo al verde e io ho bisogno di continuare a studiare” implorò John.

“Mi dispiace –ripeté il rettore- ma qui non c’è niente che io possa fare”

Il ragazzo annuì, sospirando. Non aveva più forze per lottare, quegli ultimi giorni lo avevano prosciugato di ogni energia e l’unica cosa che poteva fare in quel momento sarebbe stata uscire per l’ultima volta da quell’edificio e andare a trovarsi un lavoro. Non voleva fare il melodrammatico, ma la sua vita era definitivamente conclusa. Non sarebbe mai riuscito a conciliare lavoro, studio e il mantenimento di Harry, avrebbe dovuto rinunciare al suo sogno.

“Tuttavia” lo fermò il rettore, mentre lui era già sulla porta “una soluzione c’è. È drastica e di solito la sconsiglio, ma in questo caso la vedo come la tua unica opportunità” disse, facendo scivolare un foglio bianco dove, in alto, troneggiava il simbolo dell’esercito britannico.

***

Erano passati tre anni dal quel giorno, ma John lo ricordava perfettamente. Come poteva scordarsi della decisione che gli aveva per sempre cambiato la vita? Semplicemente non lo faceva. Aveva firmato quel foglio senza pensarci due volte e non si era voltato quando sua sorella, appena sobria, gli implorava di non andare. Erano passati tre anni intensi, in cui era riuscito a prendersi quella laurea nella metà del tempo previsto e appena uscito lo avevano mandato a calci sul campo di battaglia, a soli ventidue anni.

Erano passati tre anni dalla morte del padre, da quell’ultimo, decisivo, incontro con Sherlock Holmes, quando gli spararono alla spalla. E anche lì, come in tutte le cose che gli succedevano, pensò a lui, ai suoi occhi così vuoti, ai suoi lineamenti duri e adulti, al suo essere completamente diverso dal bambino che aveva conosciuto dodici anni prima. È solo il tempo a cambiare così tanto le persone, oppure è ciò che gli accade tutti i giorni, in ogni singolo attimo?

I suoi compagni lo accerchiarono, chiamando disperatamente il secondo medico. Aveva voglia di dirgli di lasciarlo lì, lasciarlo morire perché nessuno a casa lo aspettava: non sua sorella, in procinto di sposarsi, nessun amico, che aveva smesso di sentire da anni, non Sherlock Holmes, l’unico che non potesse appartenere ad una categoria, l’unico che, con un solo bacio rubato gli aveva fatto sentire più cose che con qualsiasi altra persona. Anche l’unico che lo aveva abbandonato quando era iniziata la sua nuova vita. No, di certo Sherlock Holmes non lo avrebbe aspettato.

Si lasciò trasportare dai suoi compagni sulla stessa barella dove lui li aveva curati per mesi, dopodiché non sentì più nulla.

Quando si risvegliò capì subito di essere in Inghilterra: chiamala intuizione, chiamala il rumore incessante delle macchine al di fuori del vetro della finestra o l’ambiente asettico e disinfettato dell’ospedale, ma era nella sua Londra, la città dalle mille luci che a distanza di anni continuava ad affascinarlo. Non provava alcun dolore, ma sapeva di aver rischiato la morte, più volte. Di quei giorni di incoscienza aveva sensazioni disposte alla rinfusa: il rumore dell’elicottero che partiva, l’odore di benzina, voci di medici sconosciuti che lo spostavano da una stanza all’altra come se fosse una bambola di pezza. E poi il risveglio, tranquillo, solitario, in quella stanza vuota. Era passato un dottore che gli aveva riferito le sue condizioni: sparo, spalla, mesi di riabilitazione, congedo, solitudine, solitudine. John sospirò e non fece altro, in quelle settimane. Sospirava quando cercava di muovere la spalla, sospirava mentre cercava di camminare ma non ci riusciva, sospirava anche mentre mangiava e beveva. Cosa ne avrebbe fatto della sua vita?

Lo dimisero presto, dopo appena una settimana, con una stampella e un misero borsone con dentro solo la sua divisa. Sospirò anche in quel momento, mentre alzava la mano per fermare il taxi che lo avrebbe portato a casa.

Il viaggio non durò a lungo, e non fu particolarmente interessante, tanto che John se ne dimenticò appena sceso dall’auto, appena i suoi occhi incrociarono quelli di Violet Holmes. La donna sembrava essere invecchiata di più in quei tre anni che in tutto il tempo precedente: i capelli, come fili di argento, le incorniciavano il volto irrequieto e stanco e pieno di piccole rughe d’espressione che la facevano sembrare ancora più anziana; la schiena era leggermente curva, mentre trasportava due sacchetti della spesa dentro casa a passo lento. Sembrava così cambiata, così diversa, ma gli occhi erano sempre gli stessi, quelli di una madre che ha appena visto tornare a casa il proprio figlio. Quello sguardo che era così diverso dall’ultimo che si erano scambiati, quando lui, in procinto di partire, l’aveva abbracciata stretta, quella donna che era come una seconda madre.

E ora si guardavano e sembrava essere passata un’eternità prima che lei si mosse ad abbracciarlo e prima che lui ricambiasse la stretta. John era tornato a casa.

“Oh, John caro, sono stata così in pensiero per te!” disse diretta al suo orecchio, prima di allontanarsi. Il suo sorriso lo contagiò profondamente.
“Per fortuna che ora sei a casa, come stai?”

“Intero, signora Holmes, anche se ho rischiato di perdere il braccio sinistro”

“O mio Dio, John! Allora devi riposare, forza vieni dentro!” propose Violet, ma lui rifiutò: tutto quello che voleva fare era togliersi il brutto odore d’ospedale e dormire nel suo comodo letto per ore. Si congedarono con la promessa che lui sarebbe andati a trovarli il mattino dopo, e poi entrò nella sua vecchia casa. Sembrava una capsula del tempo ferma a tre anni prima: non c’era traccia del passaggio di Harry o di qualsiasi altra persona. Se si fosse concentrato sarebbe riuscito a ricordare la voce di suo padre che li chiamava per cena o le urla che dedicava solo ed esclusivamente a sua sorella. Era contento che lei non ci fosse, perché voleva dire che stava bene, che stava vivendo la sua vita e che era felice, invece di essere rimasta in quel luogo pieno di brutti ricordi. Ma ora quella casa era sua, e ora era lui a dover conviverci, come con un ingombrante inquilino che lascia sporco al suo passaggio.

Quando rientrò nella sua stanza i ricordi dell’ultima giornata buona passata con Sherlock gli invasero la mente: a distanza di anni ancora non capiva cosa fosse successo. Era stato un bacio bellissimo, dato con l’innocenza di un adolescente, perché è dovuto scappare così? Perché non ti ha dato la possibilità di parlarti? E perché, nell’unica volta in cui si erano visti dopo, aveva portato un ragazzo, per di più al funerale di suo padre? Era solito conoscerlo così bene, ma dalla sera del suo compleanno non aveva capito più niente, e alla fine Sherlock era diventato un enigma.

Buttò la sua roba sul letto e poi andò ad aprire la portafinestra, affacciandosi sul balcone per prendere un po’ d’aria.

“Siamo nostalgici, a quant-“
“AH!” urlò spaventato John. Non si aspettava che ci fosse qualcuno lì e quella voce lo colse di sorpresa. “Ma che diavolo? Sherlock?” esclamò tra lo shock e la paura.

Il moro sedeva per terra, esattamente come quasi dieci anni prima, e si stava portando una sigaretta quasi finita alle labbra. Tirò un’ultima volta prima di lasciarla cadere accanto a lui, e poi si alzò in piedi.

“Sono sorpreso quanto te, John, non mi aspettavo che ci saremmo visti” disse, appoggiandosi sulla ringhiera accanto a lui.

Sherlock si era fatto un uomo bellissimo, constatò John: i lineamenti da bambino, che aveva intravisto poco tre anni prima, ora erano del tutto scomparsi, lasciando spazio a delle line più dure, a un pomo d’Adamo più pronunciato e a uno sguardo più severo. Il corpo, al contrario, sembrava fragile, e in procinto di spezzarsi: John pensava che non si potesse essere più magri di quanto lo fosse l’ex amico di fronte a lui, si vedeva, attraverso la camicia bianca, il segno delle dodici coste e lo stomaco incavato.

“Che ci fai qui?” chiese.

“Potrei farti la stessa domanda” rispose il moro che, vedendo l’interesse dell’altro verso il suo addome, incrociò le braccia, anch’esse magrissime.

“Non serve che ti dica niente, Sherlock, a te basta guardarmi. Posso provare ogni tipo di supposizione su di te ma so che se non te lo chiedo non saprò mai perché sei qui e non in America a vivere la tua bella vita” ribatté John acido.

“Bella vita, eh? Mi chiedo proprio che immagine tu abbia di me in testa”

“L’immagine di un ragazzino che mi ha abbandonato quasi dieci anni fa, prima, e di un deficiente che porta sconosciuti al funerale di mio padre, poi” rinfacciò John, guardandolo fisso negli occhi. Lo aveva volutamente ferito, si disse, ma non gli importava quanto fargli capire tutto il dolore che lui aveva provato in tutti quegli anni.

Sherlock non rispose subito, pesò le sue parole con attenzione, prima di parlare. Se quello che aveva fatto non lo aveva mai fatto sentire in imbarazzo (au contraire, quasi ne andava fiero), davanti a John si vergognava e provava un certo tipo di terrore.

“Non era bella vita, John” iniziò “Non lo era affatto. Il mondo universitario è troppo per un bambino di tredici anni e non sono riuscito a gestire la pressione. Diciamo che mi sono tirato avanti attraverso le cose sbagliate”

“Quel Jim?” chiese John, innocente.
“La droga” rispose invece Sherlock. Non volle vedere l’espressione sul suo viso, preferendo invece chiudere gli occhi e continuare a parlare. “Ero riuscito a tenere il controllo, all’inizio, ma dopo aver trascinato anche Jim nei miei casini ci siamo rovinati a vicenda. E quando anche lui mi ha lasciato… ho perso il filo conduttore della mia vita. Mi hanno trovato in overdose nel laboratorio di chimica di Harvard, mi hanno soccorso e poi mi hanno gentilmente invitato a non farmi più vedere. Ho passato un anno in riabilitazione e ieri sono tornato qui” concluse.

Un pesante silenzio crollò su di loro. John non sapeva cosa dire, non sapeva cosa pensare, non sapeva come agire: aveva poggiato le mani alla ringhiera, stringendola forte, per poi spostarsi e torturarsi gli avanbracci. Poi era rientrato in casa per un breve secondo, prima di uscire di nuovo e riappoggiarsi alla ringhiera, il tutto nell’arco di trenta secondi.

“Cazzo, Sherlock” disse “perché-“ si fermò. “Avrei dovuto saperlo, avrei dovuto esserci” sospirò, passandosi una mano tra i capelli cortissimi. La ferita alle spalle bruciava come se gli avessero appiccato un incendio addosso.

“Come potevi? Tu eri qui ed io ero dall’altra parte del mondo”

“Potevo eccome, invece! Avrei potuto fare di tutto, anche venirti a trovare in estate. Sarebbe stato possibile, ma tu non l’hai voluto! Non l’hai voluto nove anni fa, quando ti sei ripreso il cellulare che mi avevi appena regalato e non l’hai voluto tre anni fa” sbottò John, girandosi finalmente verso di lui e puntandogli il dito contro. Stava sbagliando, ne era certo, ma era da quasi dieci anni che si stava tenendo tutto dentro.

“Come potevo, John, come, dopo aver rovinato tutto quello che avevamo costruito?” chiese Sherlock tenendo testa all’altro.

“Cosa? Tu non avevi rovinato niente, sei scomparso e non mi hai lasciato neanche parlare”

“Non avevamo niente da dirci, John, perché sapevo quello che mi avresti detto: ‘mi dispiace ma non provo niente per te’ e io avrei avuto il cuore spezzato. Ho pensato che la lontananza mi avrebbe fatto bene, e lo ha fatto, per un po’”

Si sentì una risata leggera.

“Per essere stato un bambino prodigio sei alquanto stupido” rise John. “Se mi avessi lasciato parlare, se non avessi tagliato tutti i ponti avremmo potuto risolvere tutto questo insieme”

“E come, ignorando il fatto che io ti avessi baciato?”

“No, razza di idiota” lo offese una seconda volta “magari sarei riuscito a dirti che non eri il solo, a provare quelle cose”

Sherlock alzò di scatto la testa, allontanandosi leggermente. “Non capisco” sussurrò poi.

“Allora sarò più esplicito: quella notte, quando mi hai baciato, ho sentito qualcosa che non avevo mai provato. All’inizio l’avevo associato al fatto che tu fossi il mio migliore amico, ma poi, quando ho cominciato a stare con altre persone, a baciare altre persone, ho capito che la nostra amicizia non c’entrava niente. Io ero innamorato di te, Sherlock” confessò senza neanche pensarci “e quando me ne sono accorto ho provato in tutti i modi a raggiungerti, ma per me tu eri scomparso dalla terra” chiarì il biondo, avvicinandosi all’altro.

“Ti ho aspettato ogni singolo anno: a giugno mi attaccavo alla finestra che si affaccia alla strada nella speranza di vederti tornare per l’estate e ogni anno rimanevo deluso. Ho l’armadio pieno di scatoline contenenti stupidi portachiavi che ogni anno ti compravo per natale, nel caso tu avessi deciso di passare le vacanze qui” John sentì un singhiozzo, senza distinguere se fosse stato lui o il ragazzo che gli stava di fronte. “E Barbarossa, ancora sul mio comodino che-“
“L’ho visto” lo interruppe Sherlock, sorridendo.

John rispose al suo sorriso. “E se tu adesso, in questo istante, mi dicessi che anche tu lo vuoi, io sono pronto. Sono pronto ad amarti di nuovo, e a conoscerti dall’inizio. Perché io, davanti a te, sono ancora quel ragazzino che ti ha aspettato per cinque anni e che non vedeva l’ora di stare con te, sono ancora quel bambino a cui hai dato fastidio il primo giorno che era qui con il tuo violino suonato male” tirò su col naso, rendendosi conto di star piangendo.
“Io, davanti a te, sono solo un ragazzo, che chiede ad un altro ragazzo di amarlo*” concluse, distogliendo lo sguardo verso il cielo, notando in quel momento i colori del tramonto attraverso le lacrime.

Non aveva nient’altro da aggiungere, ora stava a Sherlock, che lo guardava in maniera indecifrabile, a metà tra la sorpresa, la paura e un profondo rammarico.
“John, io…” si schiarì la gola improvvisamente secca “non sono più quel bambino, e ho paura che tu ti sia fatto un’idea sbagliata di come sono adesso. Io… ho desiderato per anni che tu mi dicessi queste esatte parole, ma ora che le ho sentite non posso fare a meno di pensare che in me non c’è rimasto più niente di quel ragazzino di dieci anni fa. Mi dispiace, John” rispose, a malincuore, prima di voltarsi.

“Aspetta” lo fermò John “Non sparire” lo pregò.

“Non posso uscire da qui, quindi non lo farò” rispose, prima di entrare nella sua stanza.

John, esattamente come nove anni prima, rimase solo, su quel balcone, con l’unica compagnia del suo cuore spezzato.

Era stato meglio di come aveva immaginato, alla fine: non faceva così male vedersi ogni giorno, esattamente come anni prima, dava, al contrario, un rassicurante aria di familiarità. Lo sentiva suonare dall’altra parte della parete mentre lui, al computer, cercava lavoro in ambulatori ed ospedali. Era tutto dolorosamente semplice, constatò un giorno, dopo aver chiacchierato sul balcone: per quanto volesse negarlo, Sherlock era ancora quel bambino, con capricci e difetti di un undicenne troppo intelligente per la sua età. Se ne era uscito con la stramba idea di voler risolvere omicidi. Non che non pensasse che ce la potesse fare, ma inventarsi un lavoro per farlo? Quello del “consulente investigativo”? Gli risultò improbabile, oltre che esilarante. Sherlock aveva messo il broncio e lo aveva spintonato e… Dio, quanto gli era risultato difficile non baciarlo proprio lì, su quel balconcino.

“Allora…” iniziò un giorno Sherlock “cosa sei, bisessuale?” chiese a bruciapelo, rischiando di far strozzare l’altro e di farlo morire nella sua stanza d’infanzia.
Non appena si riprese, rispose: “in realtà non ne ho idea. Non ci ho mai pensato davvero. Mi innamoro di ciò che mi attrae al livello mentale. L’ultima ragazza con cui sono stato, tre anni fa, era davvero intelligente. Furba, perspicace, mi prendeva come nessuna aveva mai fatto”

“E cosa è successo?” chiese timidamente il più alto. Parlare della sua vita amorosa lo metteva a disagio, specie se l’interlocutore era Sherlock.

“Trovò più interessante qualcun altro” tagliò corto. Sherlock non rispose e non tornò mai più sull’argomento.

Quando John trovò lavoro dall’altra parte di Londra, pochi mesi dopo, e si trasferì in un appartamento vicino alla clinica, Sherlock continuò a tornare nella sua camera come quando era piccolo. Non voleva ammetterlo, ma l’assenza di John era ingombrante e ingestibile, e una delle poche cose che lo calmavano, quando si sentiva in astinenza, era sgattaiolare nella sua stanza la notte e dormire nel suo letto. E in quelle sere si chiedeva sempre se avesse fatto bene a rifiutarlo: aveva passato dieci anni convinto di essere odiato da lui quando in realtà era tutto il contrario. E quando aveva scoperto di essersi sbagliato per tutto quel tempo il suo cervello non ci aveva creduto, che uno come John Watson sarebbe stato capace di amare uno come lui, e piuttosto che provare a vedere come sarebbe potuto essere aveva preferito il dubbio, la cosa che lui più odiava.

Comunque continuavano a sentirsi, anche se molto meno, dato che il lavoro di John gli toglieva parecchio tempo. Non uscivano quasi mai ma i messaggi erano continui e ininterrotti: al dottore piaceva prendersi gioco dei suoi pazienti con Sherlock e quest’ultimo lo aggiornava sul suo progetto della consulenza investigativa. Aveva addirittura avviato un blog, chiamato “la scienza della deduzione”. Non grazie al suo sito riuscì a farsi notare da un detective, Lestrade, a cui lasciò il suo numero nel caso avesse difficoltà con qualche caso. John rimase sinceramente sorpreso quando Sherlock lo informò, qualche sera dopo.

Sarebbe bello se tu venissi a vedere il mio appartamento (16:30)

Non posso, ho un caso. SH (16:31)
Ti piacerebbe lavorare con me. SH (16:31)


Sono mesi che cerco di farti venire, anche prima dei casi (16:32)
Inoltre, ho già il lavoro alla clinica (16:33)
Ma vorrei sapere i dettagli (16:56)


Va bene. Stasera, da Angelo. Prenota tu. SH (18:02)
Non badare ai graffi quando mi vedrai. SH (18:02)


 
Sherlock si sentiva euforico: aveva appena risolto il suo primo caso importante, che fece finire Lestrade sui giornali. Un triplice omicidio in pieno centro a Londra, a Piccadilly: l’assassino aveva sparato dall’altro, colpendo in pieno tutta la famiglia Quill, marito, moglie e figlio di sei anni. Ci aveva lavorato per due giorni interi e alla fine aveva scoperto che l’assassino era il padre di lei, possessivo nei suoi confronti. Per arrestarlo ci erano voluti due scontri fisici e una caduta da un’abitazione di un piano. Lui ne era uscito con un lungo graffio sul volto, per fortuna superficiale, e un paio di punti sul braccio, dove l’uomo aveva affondando il coltello.

L’euforia di Sherlock, però, ebbe vita breve quando, arrivato all’ingresso del ristorante, vide John accompagnato da una donna. Una donna bellissima, con i capelli biondi corti e un adorabile vestito lilla che le scendeva dritto sul corpo. Parlavano vicini vicini e John le teneva un braccio intorno alla vita, con fare possessivo. Il giovane Holmes li guardava da lontano e si sentiva estremamente a disagio, come se stesse guardando qualcosa che non doveva. Per la prima volta sentì un moto di gelosia partirgli direttamente dai piedi fino al cervello, in forma di scarica elettrica forte quanto un colpo di fulmine e la realizzazione di non aver mai smesso di amarlo. La stessa consapevolezza che lo aveva travolto quella sera di dieci anni prima, quando, preso dall’angoscia di non poterlo vedere ogni giorno, lo aveva baciato su quello che era il loro posto, il loro rifugio sicuro. E Sherlock, davanti all’immagine di John che baciava qualcuno che non fosse lui, si sentì incredibilmente stupido. Gli venne voglia di scappare, di correre il più lontano possibile, ma la voce del biondo lo fermò.

“Sherlock!” urlò “eccoti, pensavo che mi avresti dato buca”

Il detective costruì il suo più bel sorriso e gli si avvicinò.

“Non potrei mai darti buca, anche se di sicuro non saresti rimasto solo” poi si rivolse alla donna “non credo ci abbiano presentato: sono Sherlock” le porse la mano.

“Ma come siamo gentili, John dovresti prendere esempio a lui! Sono Mary” rispose la donna, ricambiando la stretta.

John si intromise, interrompendo il contatto tra i due. “Vogliamo entrare?” chiese, per poi fare strada a Mary dentro il ristorante, seguito poco più dietro da Sherlock.

L’inizio della cena si rivelò sorprendentemente divertente: Mary non solo era simpatica, ma anche intelligente e furba e Sherlock non riusciva a non odiarla. Sembrava perfetta per John e questo era quello che faceva più male. Se fosse stata meno brava, meno perfetta, meno tutto, sarebbe stato più facile, ma la verità era che John non aveva bisogno di lui, non in una relazione romantica almeno: la gelosia, per tutta la sera, lo aveva logorato, ma sapeva che il suo migliore amico era felice così, e sapeva anche che l’amore non è abbastanza.

E lui amava John, lo amava profondamente da dieci anni, ma sapeva che non era la persona adatta a lui.

“Allora, come vi siete conosciuti?” chiese Sherlock

“Alla clinica” rispose John “lei è la nuova assistente che ti avevo accennato qualche tempo fa. Abbiamo chiacchierato un po’, poi siamo usciti e, due mesi dopo eccoci qui!” ridacchiò, e subito dopo tracannò un intero bicchiere di vino bianco.

“Dovevi vederlo all’inizio, Sherlock: era tutto un ‘non posso’ e un ‘non sono ancora pronto’. Poi gli vai a chiedere delle sue relazioni e vai a scoprire che l’ultima è stata tre anni fa!” ride Mary, non consapevole delle sue parole e di quello che comportavano. Sherlock alzò gli occhi di scatto, puntandoli dritto in quelli di John.

Se avessero potuto parlarsi nella mente, il moro avrebbe chiesto conferma: “Sono io?” Avrebbe chiesto. E se John avesse potuto ascoltare la domanda, avrebbe risposto “Si, sei sempre stato tu”. Ma non potevano parlarsi, non potevano capirsi con un solo sguardo, non potevano sapere che, se potesse succedere, si sarebbero potuti amare anche lì, in quell’istante. Continuarono a guardarsi anche mentre Mary continuava a parlare di come lo aveva convinto ad uscire con lei, anche mentre lei gli toccava il braccio cercando di attirare la sua attenzione.

Continuarono a guardarsi fino a che Sherlock non ci riuscì più.

“Devo andare” esordì, alzandosi all’improvviso. La coppia lo guardò confusa. “Ehm… devo andare a fare una ricerca per un caso che mi ha appena dato Lestrade”

“Ma non abbiamo preso neanche un antipasto!” protestò la bionda. Sherlock quindi allungò una banconota da cento sterline sul tavolo. “La cena la offro io, buonasera” disse, e poi scappò prima che uno dei due potesse ribattere.

Sherlock non era mai stato codardo, no. Ma preferiva scappare piuttosto che farsi male, aveva preferito non far vedere il suo dolore, tenerselo per sé. Perché se John era felice lui non poteva fargli male, non poteva rovinare quello che lui stesso aveva causato. Ripensava a ciò che si erano detti sul balcone, mesi prima, e capì che se avesse detto si, se si fosse lasciato amare, se ci avesse provato, ora non starebbe così male. Perché non esiste un tasto reset per gli errori? Perché quando qualcosa si rompe non si può aggiustare?

Sentiva il suo cuore rompersi come una casa di lego* e la cosa che faceva più male era la consapevolezza che non poteva fare niente. Quindi corse, e corse, fino a che non tornò a casa.

Faceva male, eccome se lo faceva: era del tutto irrazionale, lo sapeva, ma si sentiva squarciato da dentro, come se avesse avuto una bomba al posto dello stomaco. Si stese sul suo letto e rimase lì, del tutto vestito, con le lacrime secche posate sulle sue guance. Restò lì per un tempo infinito, cercando di farsi passare quel dolore insostenibile.

Non sapeva che ore fossero quando John bussò alla sua finestra ed entrò senza aspettare una risposta.

“Sherlock” esordì, e il suo tono trasudava pietà in tutte le lettere del suo nome. Il diretto interessato non rispose e non si mosse.
“Sherlock” ripeté allora l’altro che, senza chiedere il permesso, accese l’abajour e si sedette accanto a lui sul letto.

“È stata bella la cena?” chiese il moro, alzandosi e sedendosi accanto a lui.

“Quale cena, Sherlock? Non c’è stata nessuna cena, ti ho seguito” rispose John, al che Sherlock aggrottò le sopracciglia.

“Ma non sei venuto subito” osservò.

“No, dovevo schiarirmi le idee, e ho allungato verso casa mia per prendere questo” e tirò fuori dalla tasca del suo giubbotto un cane di pezza, vecchio e senza una zampa.

“Barbarossa” sussurrò Sherlock. “L’hai portato con te”

“Certo che l’ho fatto, è una parte di te” rispose John, come se la cosa fosse scontata. In quei mesi di assenza in cui Sherlock era entrato nella stanza di John aveva notato tutto, tranne l’assenza del pupazzo dal comodino: aveva dedotto che si era portato poche cose, ma importanti, quello che serviva, perché il resto lo avrebbe comprato nuovo o sarebbe passato a prenderlo successivamente, aveva visto ogni passo che John aveva fatto prima di lasciare l’appartamento. Tutto, meno che quello. Perché c’è sempre qualcosa che manca all’appello.

“Io non capisco, John, hai lasciato Mary per farmi vedere Barbarossa? Perché non sei rimasta con lei?” chiese, voltandosi verso di lui. Il biondo lo stava già guardando da tempo, e i suoi occhi brillavano come le stelle dietro di lui. Tutto era esattamente come dieci anni prima: la sera, l’atmosfera, la vicinanza, la magia dell’aspettativa. Non sapeva bene cosa desiderare da quella conversazione, Sherlock, ma era sicuro di voler sapere i pensieri del suo amico, che lo guardava e lo confondeva con i suoi occhi luminosi, e il viso rilassato e sereno e Barbarossa tra le mani tenuto come un prezioso tesoro.

“Tu non c’eri” rispose “e non aveva senso rimanere lì, non aveva senso rimanere in un posto quando la cosa che più ti importa al mondo non c’è”

“Ma…Mary-“

“Lei lo sa, lo sapeva e mi aveva accettato così com’ero, con i miei sentimenti e con metà del mio cuore da offrire. Hai capito, Sherlock?”
Lui non rispose. Non sapeva che pensare. Era quello che voleva, giusto? Era quello per cui attendeva da dieci anni. E allora perché si sentiva così sbagliato nello stare accanto a lui? Perché sentiva di non meritarsi quell’amore che tanto aveva anelato?
“Sherlock?” ripeté John.

Sherlock lo guardò e, per la prima volta nella sua vita, spense il cervello senza l’aiuto delle droghe. Spense il cervello e annullò la già breve distanza tra di loro, coinvolgendolo in un breve bacio.

Breve non fu affatto, perché John ebbe la prontezza di rispondere: aspettava quel momento da troppo tempo e non voleva accontentarsi di un tocco superficiale. Per impedirgli di scappare gli avvolse le braccia intorno al collo, affondando le dita tra i suoi ricci, scompigliandoli più di quanto già non lo fossero. Sherlock sembrò apprezzare, perché gli avvolse la vita, avvicinandolo di più a sé, e gemette tra le sue labbra. Nonostante nessuno dei due fosse inesperto, quel bacio sapeva di ingenuo, sapeva di eccitazione per la scoperta, sapeva di novità assoluta. Era come se stessero riprendendo da quella notte di dieci anni prima, e se avessero riaperto gli occhi si sarebbero rivisti giovani e impauriti come quella prima volta.

John continuò ad accarezzare i capelli dell’altro anche mentre la mano destra gli scivolava sulla sua guancia, accarezzando il punto dove poco prima si erano fermate le lacrime. Il biondo avvertì la pelle secca e, con il pollice, rimosse i residui di tristezza dal suo viso: ora c’era solo John, davanti, attorno, dentro lui in un modo che Sherlock non riusciva a capire, perché non stavano facendo sesso, non stavano nemmeno pensando a quello, eppure John gli stava abitando dentro, con un solo bacio, con due labbra, una lingua e due mani che sembravano volerlo nascondere dal resto del mondo.

Uno schiocco osceno e bellissimo fu l’unico rumore a spezzare il silenzio, e quel bacio. Anche la mano sinistra di John andò ad avvolgere il volto di Sherlock, come per cullarlo, fargli capire che poteva aprire gli occhi, perché John sarebbe stato lì. E John c’era, più bello che mai, con le labbra rosse e gonfie di quel bacio tanto atteso. C’era, e aveva gli occhi appena socchiusi, il giusto per sbirciare la faccia del suo amante come fosse la cosa più segreta del mondo. C’era, e lo stringeva a sé, per fargli capire che era solo suo, che per dieci anni avrebbero potuto essere quello, quello e basta.

Il “Ti amo” scivolò fuori dalle labbra di John come l’acqua dalla sorgente, chiaro e limpido e fresco e sorprendente. E spaventoso come non mai, si disse Sherlock. Non rispose ma lo baciò di nuovo, e lo strinse a sé, incastrandosi perfettamente con lui, anche quando si sdraiarono sul letto e si addormentarono cullati dalla presenza dell’altro.

Quando John si svegliò era solo e fuori le nuvole avevano nascosto la luce del sole, rendendo buia la stanza di Sherlock. Non aveva idea di che ore fossero e nemmeno dove fosse finito Sherlock, sapeva solo che doveva andare al lavoro nel pomeriggio e che probabilmente era già in ritardo. Si alzò quindi di scatto, lasciando il pupazzo sul letto di Sherlock e prendendo il suo cappotto. Aveva deciso di rimandare il discorso con Sherlock e magari di parlare prima con Mary, con la quale aveva gli stessi turni.

La sera prima, dopo che Sherlock era scappato, neanche loro avevano cenato.

“John” aveva iniziato Mary “So che non stavi parlando della tua ex, quando ci siamo conosciuti”
Lui non era sorpreso, ma aveva comunque sospirato, abbassando il capo, sconfitto.
“In realtà penso che è da quando me ne hai parlato, che lo so. Si percepisce che c’è qualcosa tra voi due” aveva continuato, raccogliendo la mano di John tra le sue. John che intanto era rimasto in silenzio, non sapendo cosa dire.
“Tu lo ami” aveva detto, sorridendo sconsolata “e anche lui ti ama. Devi andare da lui” ed era stato in quel momento che John aveva alzato la testa di scatto, guardandola con occhi lucidi.

“Mi dispiace così tanto” aveva sussurrato “non volevo farti del male. Tu mi piaci sul serio”

Mary aveva riso. “Lo so. Io ti piaccio, e anche questo si vede. Ma ami lui, e mi va bene. Sei stato i due mesi più belli della mia vita, John Watson, ora vai” e John aveva corso, e corso, e corso.

Anche quella mattina stava correndo, perché doveva attaccare a lavoro entro un’ora e il tragitto verso la clinica era molto lungo. Arrivò per il rotto della cuffia, sudato e con i vestiti del giorno prima. Quando Mary lo vide, così trasandato, le venne da ridere.

“Suppongo sia andata bene” esclamò divertita. John raggiunse il suo armadietto e indossò il camice.

“Ci siamo baciati” confessò sorridendo, e Mary tirò un urletto acuto. “Solo che…” e smise di sorridere.
“Solo che?” lo incalzò lei.

“Gli ho detto di amarlo, e lui non mi ha risposto. Abbiamo dormito insieme, ma quando mi sono svegliato lui non c’era” disse sconsolato, passandosi le mani sul viso.

Mary gli si avvicinò: fino al giorno prima lo avrebbe baciato, perché era il suo ragazzo, perché gli voleva bene anche se non lo amava, ma John era affranto per un’altra persona, per qualcuno che non era lei, e la cosa più assurda è che neanche gli dava fastidio.
“Forse l’hai spaventato, come il tizio di quella serie che abbiamo iniziato a vedere insieme*. Parlaci oggi, spiegati, vedi di convincerlo. Penso che anche lui stia aspettando come te” John annuì.

Quando staccò da lavoro era buio e pioveva forte. Aveva dimenticato l’ombrello a casa, vicino alla clinica, ma aveva l’impellente bisogno di risolvere le cose con Sherlock, quindi ignorò la pioggia e si incamminò verso casa di suo padre. Il tempo al lavoro gli aveva concesso di pensare profondamente a quello che si erano detti e, soprattutto, a quello che lui aveva confessato: qualche mese prima gli aveva detto che lui era pronto ad amarlo e durante il tempo passato insieme aveva capito che lo stava già facendo, ma Sherlock? Come si sentiva lui? Mary gli aveva detto che anche lui ricambiava, ma era davvero così? In fondo era pur sempre il bambino strano che disturbava i vicini, l’uomo fin troppo intelligente che aveva perso tutto a causa della droga, la persona che deduce la tua vita con uno sguardo. Era stato davvero tanto necessario, dirgli di amarlo, se tanto lo avrebbe capito con un tocco? Dall’altra parte era stato lui a baciarlo, lui a volerlo, anche se John lo aveva poi trattenuto. Ma questo voleva dire che lo amava? Sherlock era scappato tante volte, davanti a John: dopo quel primo bacio adolescenziale, dopo essersi visti, al funerale di suo padre, dopo quel giorno sul balcone, quando John gli aveva messo in mano il cuore, e ora quella notte, dopo un altro bacio dato a distanza di dieci anni. Cosa avrebbe detto Sherlock? Cosa sarebbe successo?

Talmente immerso nei suoi pensieri e nelle sue paranoie, John non si accorse di essere arrivato all’ingresso della via, completamente zuppo. Davanti casa sua, Sherlock era appena uscito di casa, l’ombrello in mano e l’aria di uno che voleva andare il più lontano possibile. John lo vide allontanarsi ed ebbe come l’impressione che, se non lo avesse fermato, non lo avrebbe più visto.

Urlò il suo nome quindi, cominciando ad avvicinarsi. Il moro, giratosi prima verso di lui e poi dalla parte opposta, accelerò il passo.

“Sherlock, aspetta” insistette John, ma questi non voleva ascoltarlo, anzi prese quasi a correre. Il biondo sapeva che non avrebbe potuto raggiungerlo, ma era altrettanto sicuro che Sherlock non volesse davvero scappare da lui, quindi corse, e corse, fino a trovarsi a pochi metri di distanza da lui.

Sotto la pioggia la disperazione e i rumori si attutiscono, le lacrime si nascondono, ma John si sentiva più nudo che mai, lì in mezzo alla strada.

“Fermati, cazzo!” gridò disperandosi, portandosi le mani al petto come se volesse fermare il suo cuore dallo scappare. “Codardo” sussurrò poi, allo stremo. Funzionò, perché Sherlock smise di camminare, e si voltò verso di lui.

La pioggia copre parecchie cose: distrugge le prove, le porta via, le lava e le rende inutili. Ma per qualche assurdo paradosso dell’universo, John poteva vedere lo splendore delle lacrime di Sherlock scendere dalle sue guance. L’ombrello venne dimenticato a terra e quasi subito i capelli del moro gli andarono a coprire il viso.

“Non chiamarmi così” sussurrò Sherlock, puntandogli il dito contro.
“E come dovrei chiamarti?” John allargò le braccia, sentendo il tessuto pesante di pioggia spingerle verso il basso. “Stai scappando da me, di nuovo, non è vero?”

“Non è scappare” corresse l’altro
“E come lo vuoi chiamare? Io non trovo altro termine, e la cosa che non capisco davvero è il perché. Perché scappi da me, Sherlock?”
“Io-“ non riusciva a trovare le parole.

“Se non mi ami” intervenne allora John, con la voce rotta dalla disperazione “come io amo te, non scappare, perché preferisco sopportare di non amarti piuttosto che vederti andare via”

Sherlock non disse niente, e il biondo continuò.

“Tu non capisci, che prima di essere l’uomo che amo da dieci anni, tu sei il mio migliore amico, la mia persona, il bambino che mi ha aiutato in matematica nonostante le cose che facevo io erano più difficili delle tue. Resti quel ragazzino che suonava il violino solo per farmi addormentare e che smetteva non appena ci riuscivo; sei la persona che mi portava in giro in cerca di avventura, e che mi costringeva a giocare ai pirati per non annoiarti, anche quando io ero impegnato” un singhiozzo sommesso raggiunse le orecchie di John. “Sei lo stesso Sherlock -si avvicinò lentamente- che è stato il mio primo bacio, la mia prima cotta, il mio unico amore e l’unico ragazzo che io potrò mai amare. Se non provi lo stesso per me, ma mi vuoi comunque bene, non andartene” lo supplicò, arrivando a un soffio da lui.

“Ma è questo il problema, John” rispose l’altro in un sussurro. “Io ti amo”
E per un attimo il grigio attorno a loro si dissipò
“Ma io non posso stare con te” e il nero li inghiottì.

John deglutì a vuoto, allontanandosi da lui e rivolgendogli uno sguardo confuso.
“Tu pensi di amarmi, ma non è così. Io non posso essere amato” affermò serio il moro.
L’altro allora, dopo un attimo di silenzio, scoppiò a ridere, ma era una risata vuota, priva di divertimento.

“Sei un idiota” lo freddò. Poi, in un attimo, gli era addosso, aggrappandosi a lui con tutto sé stesso*. Le mani si poggiarono dietro la sua schiena, al cappotto ruvido che gli faceva venire prurito alle mani, ma non si staccò. Petto contro petto, respiro contro respiro, Sherlock non si mosse, ma neanche si allontanò.

“Cosa stai provando, Sherlock?” chiese John, direttamente sulle sue labbra.

“Io… provo caldo, ed è strano, perché sta diluviando e noi siamo senza ombrello. Non è razionale, ma so che sei tu che mi fai sentire così. E il mio cuore, batte alla velocità di 124 battiti al minuto, quaranta battiti in più rispetto al normale. E il tuo profumo mischiato alla pioggia mia fa sentire sotto effetto di droga, sono stordito. E i tuoi occhi non li ho mai visti così: ho registrato ogni tuo colore, ogni tua espressione ma questa è nuova. E io so cos’è, ma non lo posso accettare, non ha senso”

“Ma non deve avere senso” rispose pronto John.

“Tutto ha un senso. In chimica ogni cosa è al suo posto”

“Ma io non sono chimica, io sono John, e sono qui, e ti dico che ti amo. E tu sei qui, e mi dici che mi ami. Lo sai fare 2+2? Perché questo basta, Sherlock, basta per noi”

Sherlock sembrò valutare la sentenza matematica, cercare di risolverlo come la più importante delle equazioni, poi annuì leggermente, e sussurrò “Okay”

“Ha senso, ora?” chiese John

“No, ma penso di poterci lavorare su” rispose Sherlock.

La pioggia cadeva su di loro come lacrime di madre natura. Perché piange? Perché assiste alla creazione del caos e alla creazione dell’amore. Ma è davvero madre natura, o è semplicemente Violet Holmes che, da lontano, guarda suo figlio aprire il cuore all’unica persona che lo abbia mai meritato?

“Cara” la chiamò Siger “dovresti tornare dentro” ma Violet lo tirò fuori accanto a lei, sotto la tettoia di casa loro.

“Guardali, Sig, non sono bellissimi?” singhiozzò emozionata nel vedere suo figlio baciare John Watson sotto la pioggia.

“Non stavano già insieme?” rispose invece il marito, confuso. La donna si girò verso di lui e lo spintonò leggermente, per poi scoppiare in una leggera risata.
In effetti si, forse erano stati insieme da sempre senza dirselo. Forse i loro cuori si erano riconosciuti tanto tempo prima ma, bloccati dalla Fortuna* e dalla mente, non avevano potuto stare insieme.

Forse, ma sta di fatto che lì, in mezzo a quella strada, sotto la pioggia, dopo dieci anni, hanno raccolto i loro pezzi e ci hanno costruito una casa*
 
And out of all these things I’ve done, I will love you better now
 
 
Note:
*citazione a Notting Hill, la scena nella libreria
*citazione alla canzone Lego House
*Riferimento a Ted Mosby di How I Met Your Mother
*la scena della pioggia è ripresa in parte da una scena della terza stagione di Skam Italia e in parte dal finale del film “Il lato positivo”
*La fortuna qui è intesa nel senso medievale del termine, come qualcosa che può far bene ma può far male, e in genere si contrappone tra l’amante e l’amata
*traduzione del primo verso della canzone

La prima e l’ultima frase, quelle in corsivo, sono la prima e l’ultima frase della canzone.


 
N.d.A. Bene, sono riuscita finire anche questa storia, e questa volta senza far riferimento a Bojack Horseman. L’ispirazione, oltre che dalla canzone che se non conoscete siete dei folli (soprattutto il video, in cui c’è Rupert Grint che fa lo stalker di Ed Sheeran), l’ho avuta anche dal mio confort show Alexa&Katie (dove loro sono vicine di casa e migliori amiche) e dal film “Love, Rosie”, tradotto brutalmente in italiano con #ScrivimiAncora, e che è la classica storia persona giusta momento sbagliato. Spero che vi piaccia e, se vi va, lasciatemi una recensione!
-A

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Capitolo 10
*** You Need Me, I Don't Need You ***


Note: allora, la storia non c’entra niente con la canzone, perché il testo è troppo specifico e personale che non ci si riesce a scrivere niente che non sia la biografia di Ed Sheeran in pratica. Quindi ne approfitto per scrivere la mia primissima Retirement!lock e ficcherò da qualche parte il titolo della canzone, giusto per far finta di non uscire fuori tema.
-A

 
You Need Me, I don't Need You
 

 La mattina faceva  sempre un certo effetto su John Watson, medico militare da poco andato in pensione, specialmente da quando poteva vedere il sole sorgere da dietro le montagne invece che tra una nube di smog e un grattacielo moderno. Si poteva tranquillamente affermare che dopo 60 anni di vita a cercare adrenalina, finalmente John era riuscito a raggiungere la serenità.

Ispirò profondamente, godendosi l’aria frizzantina di fine novembre, appollaiato sulla sua sedia in vimini e con una fumante tazza di tè a scaldargli le mani, quando un boato lo fece sobbalzare, facendogli rovesciare la bevanda su tutta la coperta e bruciandosi le dita, che fortunatamente erano diventate insensibili a causa del freddo. John era riuscito a raggiungere la serenità ma, come ogni cosa successa in vita sua, che non glie ne è mai capitata una normale, e anche la sua serenità era spesso costellata di eventi traumatici, molto spesso causati da un unico soggetto, tal Sherlock Holmes, ex sociopatico iperattivo che amava definirsi ancora consulente investigativo.

Erano un paio di settimane che Sherlock stava lavorando a un esperimento: stava cercando di solidificare il miele da lui prodotto quell’estate, ma ogni tentativo era parso vano, visto che, anche dopo un’intera settimana in congelatore, il prodotto non si era congelato, ma aveva invece assunto la consistenza dello slime che compravano a Rosie quando era piccola. Quella mattina, in particolar modo, lo scienziato improvvisato aveva deciso di usare il mercurio, per qualcosa di cui John non voleva sapere nulla. Ma quel boato che gli ha bruciato le dita -e la tranquillità- non potevano di certo significare nulla di positivo, specie se dentro le mura di quella casa nel Sussex si trovava Sherlock Holmes con in mano miele e mercurio.

John ha provato anche a mantenere la calma, e a pensare che Sherlock avrebbe risolto la situazione da solo, da bravo uomo di cinquantasette anni, ma una seconda esplosione portò via tutti i pensieri zen del dottore, che automaticamente si alzò ed entrò in casa come una furia.

“Sherlock!” tuonò, spalancando violentemente la porta della cucina, che di conseguenza sbatté sul muro e rimbalzò indietro verso il dottore. John era arrabbiato, comprese Sherlock, nel vedere che sul tavolo si stava spandendo una strana melma grigia che aveva proprio le sembianze di un cervello alieno.

“Ti posso assicurare che il tavolo ne uscirà illeso, John” rispose tranquillo lo scienziato, alzandosi per prendere un rotolo di scottex per rimediare al danno. Strappò un paio di pezzi di carta e li passò sulla superficie del legno, constatando il suo avere ragione, e tranquillizzando immediatamente il dottore, che si poggiò sullo stipite della porta.

“Cosa erano quelle esplosioni, allora?” chiese, riprendendo il respiro nel vedere che niente e nessuno era saltato in aria.

“Il coperchio del pentolino a pressione -la prima volta- e quando è caduto dal soffitto -la seconda” rispose Sherlock che, da quando si erano trasferiti lontano da Londra, aveva imparato come pulire casa per non annoiarsi, prendendo esempio da John, e aveva già quasi finito di lucidare il tavolo. John, nel frattempo, alzò lo sguardo verso il soffitto, per trovare una concavità accanto al lampadario che prima non c’era.

“Hai fatto saltare in aria il coperchio della pentola a pressione talmente tanto che ha quasi bucato il soffitto. Bene. Fantastico. Mi chiedo ancora perché vivo con te” borbottò il medico, poggiando pollice e indice sul ponte del naso, indice del suo stress.

Sherlock captò quel movimento. Conosceva talmente bene quell’uomo che aveva imparato a categorizzare i suoi movimenti del nervosismo: al primo stadio, c’era il gesto appena compiuto, John si toccava sempre il naso quando Sherlock faceva qualcosa che non avrebbe dovuto ma che era facilmente risolvibile; al secondo stadio c’erano le urla, John urlava sempre quando era incazzato o quando Sherlock rischiava la vita o quando rompeva cose che poi toccava a lui comprare; e poi c’era l’ultimo stadio, che erano anni che Sherlock non vedeva (ed era contento così), quando John assumeva uno sguardo diverso dagli altri (Sherlock aveva classificato anche quelli) che presagiva cose peggiori di un solo sguardo. I suoi occhi perdevano il tipico colore azzurro e si scurivano, fino a diventare quasi neri, fino a quasi scomparire tra le palpebre. Sherlock ebbe un brivido e preferì non ricordare altri particolari degli eventi che avevano portato John ad avere quello sguardo, e tornò alla realtà, in cui il John del presente stava aiutandolo a finire di pulire la cucina.

“Vivi con me perché hai bisogno di me” rispose Sherlock.

“Era una domanda retorica, Sherlock, non dovevi rispondere davvero” John fece una pausa, mentre buttava la carta nel cestino. “E poi -cosa vuol dire che ho bisogno di te? Io non ho assolutamente bisogno di te, al massimo sei tu che hai bisogno di me” schernì l’altro.

John pensò a quanto potesse essere buffa quella scena: due vecchi, con le rughe come canyon a segnargli i volti, che si prendono in giro a vicenda come adolescenti, mentre pulivano mercurio e miele dalla cucina di un piccolo cottage nel Sussex. Solo loro due potevano finire così, solo loro due potevano essere così unici e peculiari, perché in sessant’anni di vita non aveva mai conosciuto un’amicizia come la loro. Un’amicizia che era qualcosa di più, in tutti i sensi come lo è l’amore: fratelli, oltre che amici, innamorati, da qualche tempo a questa parte, e soprattutto una famiglia, come lo è stato e come sempre lo sarà. Erano, a tutti gli effetti, la cosa più strana che il mondo potesse offrire, questo ibrido perfetto tenuto insieme saldamente, che coniugava l’affetto amichevole all’amore passionale che solo due vecchi possono provare. Erano, essenzialmente, Sherlock-e-John, inseparabili di nome e di fatto.

“Non ho problemi ad affermarlo, io. Ho sempre bisogno di te” lo prese in contropiede Sherlock, che smise di passare lo straccio sul tavolo per prendere la mano di John.

Ancora troppo presto per esserne totalmente abituato, John ci mise un paio di secondi prima di ricambiare la stretta. In fondo era da poco più di un mese che Sherlock l’aveva baciato, in salotto. Era poco più di un mese che avevano fatto l’amore, e che avevano riso come matti mentre cercavano di coordinarsi mentre i loro copri non ne volevano sapere nulla di collaborare. Era passato poco più di un mese che John aveva messo definitivamente da parte la sua stupida idea che se nasci quadrato muori quadrato: se incontri Sherlock Holmes nel tuo cammino non sarai mai più la stessa figura. Era passato quindi poco tempo, e John tremava ancora nel toccare l’altro, quasi come non ci credesse, quasi come non fosse del tutto vero.

“Non so come si fa” sussurrò piano il detective, accarezzando con il pollice il dorso della mano dell’altro, tenendo il viso basso, ad osservare in trance quel suo gesto.
“Non ho neanche un anello” continuò Sherlock, al che John comprese dove stesse arrivando e, sentendosi mancare l’aria, si appoggiò alla prima cosa che aveva accanto, una delle sedie del tavolo.

“Sherl…” non riuscì a finire il suo nome “Non serve che tu lo faccia”

“Ma io voglio, John. Io voglio sposarti. Voglio un matrimonio da vecchi sessantenni, voglio fare vestire Rosie di viola e voglio vederti indossare uno smoking col papillon mentre cammino verso di te. Sono diventato sentimentale, John, ma non ho paura di questa cosa. Io ti amo -da quando ci siamo conosciuti- anche quando non lo sapevo io ti stavo amando. E per me non è solo un mese. Per me è tutta la vita” Sherlock alzò lo sguardo, gli occhi chiari e trasparenti che penetrarono in quelli blu oceano di John, che tratteneva il fiato anche se cercava di respirare.

“Quindi, vuoi sposarmi?” chiese Sherlock alla fine, stringendo ancora di più la mano di John, che in quel momento non sapeva cosa fare*.

Sherlock è stato il suo coinquilino, prima. Hanno litigato per l’affitto ogni mese, per la spesa, per le bollette, per le esplosioni involontarie e per le litigate stupide. Sono diventati colleghi, in simbiosi sulle scene del crimine come da nessun’altra parte. Poi sono stati amici e, per un lungo periodo di due anni, completi estranei. Poi il loro rapporto si è complicato: non erano più coinquilini, non erano più colleghi, avevano conservato una briciola di amicizia. E infine, dopo tutto, sono diventati una famiglia, grazie all’aiuto di Rosie. Hanno vissuto come la più normale delle famiglie anche quando di normale non c’era niente. E alla fine, nel Sussex, dopo aver passato tutte le tappe, sono diventati amanti, ed è stata una cosa talmente graduale, ma talmente normale che non cambiò quasi nulla tra di loro.

Era iniziato tutto alcuni mesi prima. Sherlock e John stavano leggendo sulle loro poltrone, che non erano più disposte una di fronte all’altra, ma una accanto all’altra, per permettere a entrambi di godere del calore del camino. Stavano leggendo, una cosa normale, come ogni giorno. Ma quella determinata sera, non seppero come, né perché, o come mai proprio in quel momento, la mano di John sfiorò quella di Sherlock, e nessuno dei due si mosse, nessuno disse una parola: i loro mignoli si toccavano e restavano immobili, come se avessero trovato il loro posto. Il giorno dopo, alla stessa ora, sulle stesse poltrone, John posò la sua mano su quella di Sherlock; la volta dopo ancora, Sherlock gli strinse la mano. Dopo una settimana, il detective chiuse il suo libro con nervosismo, si girò verso di John e gli strappò il libro dalla mano. Poi, come fosse del tutto normale, un saluto a fine giornata, Sherlock gli stampò un velocissimo bacio sulle labbra, delicato e urgente allo stesso tempo, impacciato e determinato come solo lui poteva essere.

La sera dopo John lo baciò come si deve. Da quel momento era passato poco più di un mese, e ora Sherlock gli stava chiedendo di sposarlo. Poteva sembrare affrettato, se loro due non fossero stati Sherlock e John, ma avevano passato trent’anni delle loro vite insieme, passando per tutte le tappe che le coppie passano, solo con un ordine diverso. Sembrava naturale, vedere le loro mani strette, e il viso di Sherlock di fronte al suo, circondato da una chioma grigia e nera, il suo volto segnato da rughe e cicatrici di una vita mai noiosa, e gli occhi di sempre, di quel colore indefinito che John aveva provato a decifrare senza mai riuscirci davvero. Gli stessi occhi che imploravano per un sì.

John posò l’altra mano su quella di Sherlock, stringendola un po’ di più. Si ricordò la prima volta che la toccò, trent’anni prima, in quel laboratorio dove li introdusse Mike Stamford: fu uno sfiorarsi involontario mentre si passavano il cellulare. Il giorno dopo, quando andarono a vedere l’appartamento insieme e si strinsero le mani attraverso i guanti. E quella volta, mentre scappavano dalla polizia, ancora ammanettati insieme. O nella prigione di Euros, per darsi forza a vicenda. E altre mille volte, sempre diverse, sempre uniche e indimenticabili.

Quindi, quando pronunciò finalmente quel “sì” senza fiato, risultò la cosa più naturale del mondo, come una stretta di mano, un bacio a fior di labbra, la vecchiaia in un cottage del Sussex e tutta la loro vita insieme.




 *Se avete recentemente visto "Strappare lungo i bordi", immaginate che John dica nella sua testa "La domanda mi devasta", a me ha fatto molto ridere.

NdA. Definizione di “fuori dalla comfort zone”? questa storia. Cancellata e riscritta da capo almeno tre volte. Sempre diversa, sempre strana, mai soddisfacente. Neanche adesso mi convince, ma gli altri lavori erano peggio. Magari lasciatemi qualche recensione, così posso capire se ha un senso oppure no.
-A

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Capitolo 11
*** Kiss Me ***


Kiss me


Certe notti, quando la mente lo abbandonava, ascoltava il suo cuore battere e non pensava a niente. Dall’alto della sua stanza vedeva la luna, che lo sbirciava attraverso le tende trasparenti, e si chiedeva se mai si stancasse di fare sempre lo stesso giro e non cambiare mai. Ci aveva provato, lui, a girare sempre allo stesso modo, ogni giorno, ogni ora, ogni minuto, ma aveva perso l’equilibrio ed era caduto, e non sapeva se fosse riuscito ad alzarsi.

Aveva tentato di essere un uomo comune ma, semplicemente, non lo era, e forse non lo sarebbe mai stato. Pensò a sua figlia, che dormiva in un lettino accanto al suo, in una stanza troppo piccola per due persone, e si sentì in colpa per non essere il padre che tutti vorrebbero, ma di essere questa persona, con pregi e troppi difetti, con rimorsi e sensi di colpa che la notte, quando non riusciva a dormire, gli mangiavano lo stomaco e il cervello e lo rendevano quel pezzo di carne senza pensieri che fissava la luna e cercava di non piangere per non svegliare la figlia. Era tutto così ingiusto: perché le persone a lui legate si erano ritrovate con qualcuno come lui? Perché non poteva semplicemente sparire senza far soffrire nessuno? Il mondo sarebbe stato meglio senza di lui.

Si girò dall’altra parte, dando le spalle alla luna. Rosie dormiva tranquillamente. I capelli biondi risplendevano alla luce della notte, incorniciandole il viso come fosse una figura angelica. Rabbrividì, nel vedere i suoi tratti su quel dolce viso. Aveva contagiato anche lei, con la sua crudeltà, aveva distrutto anche la sua vita, oltre che quella di sua madre. Si rannicchiò ancora di più sotto le sue coperte, senza distogliere lo sguardo da sua figlia. Come aveva potuto essere un padre così terribile, e un amico violento, un marito traditore, e un fratello disinteressato? E perché nessuno lo aveva incolpato? Era macchiato dei suoi peccati ma sembrava essere l’unico a vederli.

Cercando di non far rumore, si alzò. La sua testa era pesante e sentiva il bisogno di bere una buona tazza di tè, il prima possibile. La sua psicologa gli aveva consigliato di fare le sue attività preferite quando provava emozioni o cose negative, e alle tre di notte l’unica cosa che poteva fare era il tè. Scese piano le scale, saltando quel maledetto gradino che la ditta aveva montato male, dopo l’esplosione, e arrivò in salotto, senza sorprendersi nel vedere Sherlock sul divano, nella sua posizione da palazzo mentale. Lo ignorò, ed entrò in cucina.

Fare il tè era una di quelle cose che aveva sempre associato alla tranquillità, alla normalità, a tutto ciò che non era riuscito a raggiungere nella sua vita. Prese la teiera, perché odiava il bollitore elettrico anche se sapeva che quello non avrebbe fatto rumore, e accese il fuoco; si mise in punta di piedi per prendere il suo infuso preferito e due tazze, poi si poggiò al bancone e attese il fischio tipico. Versò il latte nella sua tazza e dello zucchero nell’altra, poi versò anche l’acqua bollente e vi immerse le due bustine. Cinque minuti dopo era in salotto, sulla sua poltrona, a respirare il vapore del suo tè caldo, mentre fuori stava cominciando a piovere. Sherlock aprì gli occhi in quel momento e lo raggiunse sull’altra poltrona, prendendo il suo tè dal tavolino.

“A cosa stavi pensando?” chiese John.

“Il caso del barbiere. Cercavo di catalogare i diversi tipi di tagli che un rasoio può causare sul collo attraverso quelli che abbiamo visto nella scorsa settimana”

“Mh… quanti ne hai trovati?”

“ventisei”

La conversazione morì lì. Come c’erano notti in cui John non riusciva a pensare, c’erano notti in cui Sherlock non riusciva a smettere di farlo, ed era costretto a rimettere in ordine le stanze suo palazzo fino a notte fonda. E capitava, come in quel momento, che le due cose coincidessero. Accadeva sempre più spesso, da quando Rosie aveva iniziato le elementari. Finirono il loro tè in silenzio, ascoltando il rumore della pioggia farsi sempre più insistente.

“E se io me ne andassi?” chiese John ad un certo punto, mentre rimetteva le due tazze sul tavolino. La domanda gli scivolò fuori come se non fosse un problema, quando invece era il fulcro di tutto quello che odiava di sé. “Se io lasciassi te e Rosie qui, e sparissi dalle vostre vite?”

“Ti troverei” ribatté sicuro Sherlock “Ti trovo sempre”

“Si, ma se non volessi essere trovato?”

“Te ne vuoi andare?” il botta e risposta si fece stretto e intenso fino a quella domanda posta da Sherlock, che bloccò il fiume di parole di John.

“Non lo so” esalò piano, tanto che la sua voce venne quasi coperta dal temporale che si stava scatenando fuori dalla finestra.

“Non fare una cosa se non sei sicuro di volerla fare” disse allora Sherlock.

“Non è questo il punto. Io me ne voglio andare, ma ho paura che voi sentiate la mia mancanza, ed è questo che non voglio. Voglio scomparire e voglio che voi vi dimentichiate di me” confessò John, a cui venne un’improvvisa voglia di bere qualcosa di forte.

“Questo è perché pensi di sapere cosa sia meglio per noi, ma non lo sai” Sherlock incrociò le braccia e inclinò la testa, come quando deduceva i piccoli dettagli da un cadavere.

John abbassò lo sguardo sulle sue mani che, nervosamente, si stavano attorcigliando intorno alla maglia del pigiama, lasciandogli scoperto un lembo di pelle che non sfuggì allo sguardo attento di Sherlock.

“Tu non sai cosa è meglio per me come io non so cosa è meglio per te. Sono io che ho scelto di farvi tornare qua, e sei tu che hai scelto di accettarlo. Non ci troviamo qui perché minacciati o costretti, ma perché entrambi lo vogliamo. È questo che ti spaventa?” chiese il moro, mettendosi nella sua tipica posizione, con le mani in preghiera sotto al mento e incrociando le gambe.

“Mi spaventa che lei diventi come me” John non ebbe bisogno di specificare a chi si stesse riferendo.

“Non dire sciocchezze, John. Rosie non sarà mai come te”

“Ma si ritrova me come padre” sospirò “vorrei che non fosse così” aggiunse dopo.

Sherlock lo guardò curioso, chiedendosi da dove provenissero tutte le paranoie del suo amico, che dopo cinque anni non aveva ancora lasciato andare quello che era successo. Certo, anche lui a volte pensava ai suoi due anni di assenza e pensava di essere stato uno stronzo, come era certo che John non lo avrebbe mai perdonato del tutto per la sua finta morte. Ma così come non lo faceva John, neanche Sherlock lo faceva, quelle notti in cui le botte di John sembravano marchiarsi a fuoco sulla sua pelle. Erano cicatrici che a volte venivano riaperte dai ricordi, e sembrava che non volessero smettere di aprirsi, per ricordare a entrambi il male che si sono fatti.

“Non puoi cambiare il passato. Nessuno può” disse quindi Sherlock. “Quello che puoi fare è non rimuginarci su e migliorare il tuo presente e il tuo futuro. Pensaci, John, cosa succederebbe se te ne andassi? I ricordi non si cancellano sparendo dalla faccia della terra. Io ne so qualcosa”

John sospirò. Sapeva che il suo amico aveva ragione, ma in quel momento sembrava difficile credergli. Senza rispondergli si alzò, e fece per andarsene, ma Sherlock lo bloccò per un braccio.
“Promettimi che non te ne andrai” chiese, e il suo tono di voce era completamente cambiato. Quando John si voltò, anche il viso di Sherlock era cambiato.

“Sto andando a dormire” rispose innocentemente.

Il volto di Sherlock si deformò ancor di più: la sua bocca era piegata all’ingiù e i suoi occhi sembravano brillare in mezzo a tutto quel buio. John riusciva a vedere solo lui, in quel momento. Lui, e i lampi fuori dalla finestra.

“John. Per favore” implorò. La stretta intorno al braccio di John si fece più forte, e lui capì.

“Non me ne vado” rispose, senza smettere di guardarlo negli occhi.

In quel momento accaddero due cose: la prima, un fulmine squarciò il cielo, e il tuono che ne seguì fece tremare tutto l’appartamento e, secondo, tutto questo rumore fece scattare una molla nel cervello di John che, senza pensare, come stava facendo da tutta la sera, si avvicinò a Sherlock e premette le labbra sulle sue.

Sherlock lasciò la presa sul braccio di John, rimanendo impassibile per un attimo, abbastanza da far dubitare John di quello che stava facendo. Ma poi il dottore sentì una mano sfiorargli delicatamente la schiena e arrivare sul collo, dove si fermò per spingerlo più vicino a lui. L’impeto di quel gesto portò John ad aprire leggermente la bocca e leccare le labbra dell’altro per separarle. Sherlock sembrò sperduto, perché esitò di nuovo, ma le mani di John intervennero a incorniciargli il volto per guidarlo, e quando anche Sherlock si lasciò andare fu, per entrambi, come respirare dopo un lungo periodo di apnea.

Il medico fece un altro passo avanti, appiattendosi contro la figura longilinea dell’altro che, per essere più comodo, tirò i capelli corti di John per fargli alzare un po’ di più il viso. Sherlock era rannicchiato sulla figura per permettersi di baciarlo al meglio, vista la differenza d’altezza, mentre John spostò le mani dietro la schiena, per appoggiarsi ed evitare di cadere.

Non si riusciva a capire dove iniziasse l’uno e finisse l’altro, perché il buio della notte copriva le due figure. C’era silenzio, nel salotto: persino la pioggia aveva smesso di cadere, rispettosa di quel momento, e anzi, sembrava che le gocce d’acqua si fossero fermate a mezz’aria, come nelle foto. Solo Sherlock e John si muovevano, baciandosi per quelli che sembrarono secoli, fino a che non mancò il respiro, e anche a quel punto presero l’uno il respiro dell’altro e così via, come il più naturale dei cicli.

Una mano di John tornò sulla guancia di Sherlock, per allontanarlo leggermente con l’urgenza di guardarlo negli occhi.

“Non me ne vado” ripeté “non se mi baci così”

Sherlock era un uomo di scienza, ma giurò di aver sentito il suo cuore perdere un battito. Sorrise.

“Allora vieni qui” disse, e lo spinse di nuovo sulle sue labbra, quel posto dove tutto andava bene.





NdA. Ho un esame tra sei giorni e ho passato tutto il giorno a scrivere. Forse è la mia storia preferita della raccolta, anche perchè questa è la mia canzone preferita di Ed Sheeran. Il prossimo sarà l'ultimo capitolo. Dopo non so quanto tempo finalmente riesco a vedere la fine di questa storia, e forse mi mancherà. Fatemi sapere se vi è piaciuta, magari con una recensione:)
-A
 

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Capitolo 12
*** Give Me Love ***


Note: Ho visto “The Power of the dog” recentemente, quindi la divisione in atti è un’idea presa dal film. Ho deciso di farmi una scaletta prima di scrivere, perché se no sarebbe stato un macello, e forse mi ci trovo addirittura meglio di quando scrivo di getto (perché non ci ho mai pensato prima?)


 
Give me love


 

Atto I –La scintilla


La terra è arida, sotto i suoi piedi. L’estate gli porta via tutte le energie, e l’umidità lo copre come una cappa che non lo lascia respirare. Eppure ha piovuto, il giorno prima, e la terra, sotto i suoi piedi, rimane comunque arida. Tra tutte queste pietre lisce e ben curate, accompagnate da fiori freschi, una tra tutte spicca per il suo colore e la sua trascuratezza: è una lapide nera, su cui dei fili di edera si stanno arrampicando, tanto da nascondere il nome di chi dovrebbe essere lì sotto. John rimane incantato nel guardare il modo in cui la natura riesce ad adattarsi perfettamente a ogni cosa, ad ogni cambiamento. Vorrebbe riuscirci pure lui, ma la verità è che non ne è mai stato capace: quante volte avrebbe voluto lasciare l’accademia, ma per paura di deludere suo padre l’aveva portata avanti? Quante volte si era innamorato di persone, chiunque gli facesse provare le minime cose, ma aveva avuto paura di esporsi? No, John non è qualcuno capace di gestire l’inaspettato, non è qualcuno che prende gli imprevisti con filosofia.

John scappa, ecco cosa fa, ecco cosa ha fatto venti minuti fa.

Preferisce rintanarsi in un periodo in cui il suo migliore amico era morto, piuttosto che affrontarlo e chiarire quello che è appena successo. Si può essere più codardi di così? John se lo chiede, mentre si siede per terra, alzando un gran polverone. Ha caldo, il sudore gli fa appiccicare la camicia alla pelle, e quelle che sono lacrime si confondono con le gocce di sudore che gli imperlano il viso: hanno lo stesso sapore, sulla sua pelle. Il sole gli picchia sulla testa, bruciandogli la parte del collo lasciata scoperta dal colletto e provocandogli un gran mal di testa, ma a lui va bene così, è la sua punizione per non essere stato un uomo.

 Vorrebbe essere capace di non chiudere gli occhi, perché a ogni battito di ciglia rivede le immagini di quello che ha fatto.

Rivede sé stesso urlargli contro, incazzato nero, e poi si vede andargli addosso e spingerlo sulla parete delle scale. Apre gli occhi e la lapide nera lo fissa giudicandolo, sbatte le palpebre e vede gli occhi di Sherlock così vicini ai suoi, e ricorda il momento in cui ha perso il controllo e si è avventato sulle sue labbra nello stesso modo in cui lo aveva spinto sul muro. Sherlock sembra, in quei flash, una bambola di carne che subisce per non reagire, e la sola idea di averlo costretto a fare qualcosa che non voleva lo fa stare male, quando riapre gli occhi e si rivede riflesso tra le lettere dorate che compongono il suo nome sulla roccia nera. Si vede piangere come un patetico assassino che è pronto a costituirsi, con i sensi di colpa visibili sulle sue spalle, che gli incurvano la figura sul terreno. Si sente un pover’uomo, piccolo e insignificante, in ginocchio di fronte al peccato. E prega, disperato, su una tomba vuota, di essere espiato da ogni colpa. Singhiozza, sapendo che non sarà possibile.

Strizza gli occhi, sperando di cacciare via quelle immagini, ma tutto quello che vede è l’espressione di Sherlock, ancora schiacciato sul muro, e poi la sua ombra proiettata sulle scale, che lo segue mentre esce di casa correndo.

Quello che non vede è Sherlock, dietro di lui, che cerca di afferrargli il maglione ma non ci riesce, e vede John scivolargli dalle mani come acqua alla fonte. Sherlock, che non sa gestire queste cose perché nessuno glie lo ha mai insegnato, e che non ricorda come è iniziato il loro litigio ma ricorda fin troppo bene gli occhi di John nel momento in cui ha deciso di baciarlo, ricorda il modo in cui le sue pupille si sono dilatate e anche il modo in cui le iridi sembravano onde in tempesta, e le sue mani sul colletto della sua camicia, il movimento che ha fatto per avvicinarsi alla sua bocca. E, suo malgrado, ricorda anche il terrore del dopo, quando, senza dire una parola, è scappato, lasciandolo con una mano a mezz’aria e stralci di sentimenti abbandonati lì, appesi appena fuori il suo cuore.

E ora è a terra, in mezzo al salotto, senza ricordarsi come e quando ci è arrivato, circondato da bozze di componimenti e palle di carta accartocciate in momenti di disperazione. Non è abituato ad aspettare, ma dovrà fare un’eccezione, perché non riesce a farsi venire in mente un solo posto dove John potrebbe essere. Ha il violino in mano, e pizzica nervosamente la quarta corda mentre con la mano destra cerca di vomitare pensieri tradotti in musica. Ma non sa cosa pensare, e di conseguenza non sa cosa scrivere. Sa di essersi ridotto male quando si specchia nel legno lucido del suo amato violino, e si vede spezzato a metà da qualcosa che non conosce ancora bene. Si sente la vittima di un assassino che lo ha lasciato sull’orlo della morte, senza ucciderlo fino alla fine. Si passa nervosamente una mano tra i capelli e non vuole piangere. Il sole comincia a tramontare e il buio lo copre totalmente: non si vede più e non si riconosce più.

Da quando ha imparato a lasciarsi andare a una forza sconosciuta come l’amore?

Il manto stellato si stende lentamente anche sulla testa di John, che ora cammina verso il bar. Sa che bere non è la soluzione migliore, ma si è convinto di non poter gestire la situazione e di non volerlo fare. Quindi, dopo dieci minuti, è seduto su uno sgabello di legno a lasciarsi scivolare in gola il primo di innumerevoli shots di tequila, con il solo scopo di non ricordare. Ma l’alcol neanche lo aiuta, visto che anche ad occhi aperti l’unica cosa che vede sono i suoi occhi, e la sua paura, il suo terrore, il suo corpo costretto al muro, le sue labbra.

Come si fa a dimenticare cose che non si vogliono dimenticare?

John si sente dilaniato dai sensi di colpa e dal desiderio: di baciarlo di nuovo, di dirgli che lo ha amato e che, da quando è tornato, non riesce a immaginarsi senza di lui. Di dirgli che è per lui che ha lasciato Mary e non perché non stava bene con lei. E nel frattempo mischia il desiderio al bere, e si sente ubriaco d’eccitazione e rimpianto e tequila, nel più letale dei mix che John abbia mai provato.

La tequila fa il suo lavoro a metà, e John riesce a tornare a casa, non Baker Street, ma quel monolocale che aveva preso per tenere lontano Mary dal ricordo ingombrante di Sherlock. Le tenebre troneggiano sull’appartamento come veli di tulle che galleggiano in aria, e John vi si muove con maestria fino a raggiungere il divano. Si siede composto, gambe aperte nella più mascolina delle posizioni. Fruga nelle sue tasche per trovare il telefono e buttarlo sul tavolino di fronte a lui. Dopo questa sera si ritrova strappato in mille lembi di sentimenti, violentato da pensieri che non riesce ad evitare, svuotato di tutte le scuse che aveva messo su per lasciarsi alle spalle il fatto che, poco prima che calasse il sole, ha baciato il suo migliore amico nella penombra delle scale di quello che era solito essere l’appartamento che dividevano, prima della caduta, prima di tutto questo.

John non è ubriaco, ma l’alcol lo convince di essere un uomo pronto a tutto, gli dice che può chiamarlo e dirgli tutto, dirgli come si sente, chiedergli scusa. Strofina i palmi sudati sul jeans senza distogliere lo sguardo dal cellulare, sul cui schermo è appena scoccata la mezzanotte.

John non è ubriaco, ma pensa che forse, stasera, potrebbe anche chiamarlo.



 
Atto II –L’attesa


Sherlock indossa il buio come una coperta di pile, e nel mentre il pavimento si riempie di pezzi di sentimenti che non riesce a tradurre e di lacrime amare versate senza volerlo. È distrutto perché non sa cosa fare: non è un segreto il fatto che lui non sappia leggere le emozioni addosso a lui, quindi le copre, le nasconde e si vergogna di esse. Ha paura, e si chiude a riccio su sé stesso, in questa corazza di sfacciataggine e buio che lo ricoprono fino a quasi soffocarlo.

Ma adesso che John gli ha strappato tutto, e l’ha spogliato di tutte le sue protezioni, Sherlock si guarda allo specchio e si vede per quello che è sempre stato: un uomo. E da essere umano quale ha capito di essere, ha anche la possibilità di amare, quella che John ha consumato fino all’ultima tacca, fino a lasciarlo a secco di pensieri e pieno di lacrime da versare in note che non riesce a riordinare.

La disperazione lo dilania, e nel frattempo la quarta corda, pizzicata ogni secondo da quel pomeriggio, si è allentata, e si sta per rompere. Il violino soffre tra le sue mani, così come il suo padrone. Uno strumento musicale è l’estensione degli arti di un musicista, non può vivere senza l’altro, altrimenti sarebbe solo un pezzo svuotato di ogni cosa. Ma è esattamente così che Sherlock si sente: lui e il suo violino non sono diventati altro che oggetti, nelle mani tozze e callose di John Watson. E attendono che lui li suoni come un cane che aspetta di uscire fuori.

È John che ha il coltello dalla parte del manico, lui è solo l’ennesima delle vittime di un assassino.

Sussulta nel pensare a lui come a una di quelle persone a cui dà la caccia. Sherlock non ha nessuna prova di dove trovare John Watson, perché la sua mente è annebbiata da lui. Non è stato solo un bacio, una pressione di due paia di labbra di due persone. No. Qui si tratta di Sherlock che, nell’attesa, si è ritrovato innamorato da una vita. Lui, che diceva di non conoscerlo nemmeno, un sentimento come l’amore. John l’ha svegliato dal suo sonno e lo ha strappato via dal palazzo di finzione che aveva costruito per tutta la vita. Deve a lui quello che sente e deve a lui lo stesso dolore che lo fa cadere a terra, abbracciato al suo violino, mentre intorno a lui gli scarti delle sue parole d’amore giacciono tra polvere e rifiuti, lì dove meritano di stare.

Un unico rumore rompe il silenzio: è la corda che, dopo essere stata torturata, si abbandona al suo destino, e si rompe. Quel singolo suono secco permette a Sherlock di abbandonarsi a un pianto brutto: la sua faccia diventa rossa, i suoi occhi sono strizzati sotto le palpebre, il muco gli esce dal naso. Si accascia addosso al suo violino mutilato dal suo dolore ed urla. Singhiozza e grida come se gli stessero strappando una parte di lui senza anestesia. Si sente peggio di quando va in riabilitazione, e lì capisce che John è appena diventata la peggiore delle sue droghe, e la sua assenza è una cosa che non può permettersi di provare.

Piange volendolo, e pensa di non aver mai pianto così. È questo il potere che John Watson ha su di lui.

Lui, che si trova dall’altra parte di Londra, nascosto dal rimpianto e dalla paura, e che guarda il cellulare che ora segna la mezzanotte e mezza.

Mezz’ora è passata da che ha formulato il pensiero di chiamarlo. Mezz’ora che fa avanti e indietro, strappandosi quasi i capelli dalle tempie per capire se sia una buona idea. Pensa di sì, e poi si ricorda il terrore; pensa di no, ma si ricorda poi che non può vivere così per sempre, lontano da Sherlock Holmes, lontano dalla persona che lo ha salvato e condannato e salvato e così all’infinito.
Assurdo come un bacio possa distruggere una persona, pensano entrambi quasi contemporaneamente. Assurdo come si possa dare tutto questo potere di far male a una persona e farlo volontariamente.

E intanto John cammina avanti e indietro, come un pazzo innamorato che vuole solo essere amato. Come un uomo che, se avesse abbastanza coraggio da andare da lui e urlargli “Amami” direttamente sulle labbra, lo farebbe seduta stante. Ma John questa sera non si sente affatto coraggioso, quanto più un verme che striscia via per non farsi vedere.

Cammina per l’ennesima volta davanti al cellulare, e nota che sono passati altri cinque minuti. Lo innervosisce, questo passare del tempo. Non gli dà il tempo di pensare, di decidere cosa fare. Dovrebbe stare fermo, tutto il mondo, in attesa di una sua azione. E invece il mondo là fuori continua a muoversi, e corre via senza di lui, mentre lui cerca di capire se chiamarlo o meno da trentacinque minuti. Pensa che non è giusto, pensa di aver bisogno di più tempo, ma si accorge di non averne più.

John non è ubriaco, e non è brillo da un po’, e la sua testa è tornata ad essere piena di cose che non vorrebbe rivivere. È consapevole che è lui a dover fare qualcosa ma ha paura della reazione di Sherlock. Quello non è stato solo un bacio: ha avuto la conferma di essere innamorato di lui, mentre lo baciava, e la certezza, dopo, che lui non lo avrebbe mai fatto. Ma quanto poteva andare avanti quella situazione? Era dal tramonto che si stava distruggendo nel cercare una soluzione. Cosa stava facendo Sherlock, invece, non lo sapeva, però era sicuro di una cosa: di certo non stava dormendo.

A mezzanotte e quaranta John non è ubriaco, né brillo, e pensa che stasera, cascasse il mondo, deve chiamarlo.

Non ha mai sentito il suo cuore battere così velocemente. Mai, né in guerra, né di fronte a Mary, quella sera in cui aveva avuto intenzione di sposarla. John ha preso il telefono in mano, e sullo schermo ora lampeggia il nome di Sherlock. Lo vuole chiamare, lo sa, deve solo racimolare quel poco di coraggio che ancora non lo ha abbandonato. Finalmente si siede, dopo aver macinato chilometri nel camminare avanti e indietro. È buio, ancor più di prima, quando chiama Sherlock e si porta il cellulare all’orecchio. Deve solo aspettare.

Tum.

Il primo squillo del suo telefono lo fa sobbalzare. È ancora a terra, con il suo violino martoriato tra le braccia, e il suo cellulare è sul tavolo della cucina, vicino al microscopio. Lo riconosce in mezzo alle cianfrusaglie dalla luce che emana. Il suo cervello è spento e non riesce a capire chi lo stia chiamando all’una meno un quarto di una notte d’estate. Spera sia John, ma cerca di non darsi false speranze. Deve solo alzarsi, per scoprire chi è.

Tum.

John si agita sul divano, quando parte il secondo squillo. E se avesse deciso proprio quella sera per andare a dormire presto? Se, peggio, avesse deciso di ignorare la chiamata? Non sa cosa fare, in questi casi, il povero John. Nelle questioni d’amore lui si innamorava solo di chi era innamorato di lui, per non farsi male, per mantenere il suo cuore intatto. Avrebbe dovuto fare la stessa cosa adesso, ma il suo stupido inconscio non ha retto a quegli occhi, non ha retto a Sherlock Holmes, che anche quando non c’è ha il controllo totale su di lui. Anche in quei due anni, tutto ciò che ha fatto, lo ha fatto solo ed esclusivamente per lui. Il mondo di John gira attorno a quello di Sherlock.

Tum.

E il mondo di Sherlock ruota attorno a quello di John, quando vede il suo nome sul telefono. Ecco, l’attesa è finita.



 
Atto III –Il confronto


Quando risponde, non sente niente dall’altra parte, e ha paura che non ci sia davvero nessuno. Però John c’è, e ascolta il respiro di Sherlock come se questo lo stesse riportando in vita.
“Sherlock”, riesce a dire, nascondendo con la mano la bocca e il telefono, nascondendo quel nome dal resto del mondo. Sherlock è il suo segreto, Sherlock è il suo mondo, e non vuole condividerlo con nessuno.

“John” risponde lui allo stesso modo. E ora che ci sono entrambi dentro, nessuno sa più cosa dire.

Il silenzio è un macigno difficile da spostare. Entrambi ascoltano ma nessuno parla, e nessuno dei due sa che l’altro sta piangendo, nessuno dei due sa che l’altro è innamorato, ed entrambi vivono nell’attesa che l’altro lo liberi della propria cecità.

“Mi dispiace” è John a fare il primo, incerto, passo, e gli sembra di aver camminato sul vuoto e di star cadendo all’infinito dopo che quelle due parole sono uscite dalla sua bocca. Gli dispiace davvero, di averlo baciato, di star provando sentimenti che sa non essere ricambiati. Ma allo stesso tempo sorride se ripensa a quel momento, il più bello della sua esistenza.

“Mi dispiace” lo dice anche Sherlock, che non sa per cosa John si stia scusando: per averlo baciato, certo, è di quello che si parla, ma è perché John non prova davvero queste cose, John è nel suo appartamento dall’altra parte di Londra e domani potrà andare avanti con la sua vita. Sherlock no, sarà costretto a rivivere per sempre l’unico momento felice della sua vita nella sua mente, perché John è scappato, ed è scappato perché, logicamente, non lo ama.

“È…Sono io, ad averti messo in questa situazione. Non dovevo”

“Capisco, John”

“No, no. Non capisci. Come potrò andare avanti, adesso?”

“Possiamo chiuderla qui, se vuoi. Lo capisco, te lo giuro, lo capisco”

“Chiudere cosa?”

“Tutto” pronuncia Sherlock, e questa singola parola li devasta. Chiudere tutto vuol dire buttare anni di ricordi in un cestino, abbandonare non solo ciò che c’è stato, ma anche quello che potrebbe essere. Vuol dire cadere da un palazzo e impattare contro il marciapiede. Tutto è una parola troppo drastica. Tutto non è quello che vuole John.

“No” sussurra allora, e lo fa almeno altre sei o sette volte, come una preghiera per espiare i propri peccati, un mantra per epurarsi.
“Non posso perderti” dice “Ma non posso vivere così”

Sherlock non capisce “Così come?”

Come può, John, dire a parole tutto quello che sente? Come può buttare l’àncora senza poterla ripescare? Se lo dice, adesso, una volta per tutte, sarà tutto diverso.

“Così, con la certezza che non vuoi quello che voglio io” dice allora, senza chiamarlo per quello che è.

“Tu… tu cosa vuoi?” chiede allora Sherlock. Potrebbe aver sbagliato, lui, a decifrare John? O è John ad essere il più grande enigma per lui?

“Io voglio tutto” risponde John. Poi segue un breve silenzio. “Voglio tutto –prese un respiro profondo per coprire il rumore delle sue lacrime- di te. Voglio te”

Sherlock si sentì svuotato di tutta l’aria, come se avessero messo l’appartamento sottovuoto. John lo vuole, John vuole tutto, vuole le stesse cose che vuole lui. Allora perché è scappato? Perché l’ha lasciato solo a combattere con l’angoscia? Perché non ne hanno parlato lì, sulle scale, ma lo stanno facendo adesso per telefono?

Sherlock non risponde, e non lo fa per secondi interi, che non fanno altro che confermare i dubbi di John.

“Ma tu non vuoi me” esala allora, al limite dei singhiozzi. “Quindi come posso fare, a vivere volendoti e sapendo che non posso? Come?” un singhiozzo disperato lo interrompe “Come?” ripete, all’infinito, fino a rimanere senza fiato, ma continuando a muovere le labbra.

Sherlock percepisce la disperazione attraverso il telefono, e piange anche lui, silenziosamente. La domanda di qualche momento fa gli si affaccia alla mente: come si può dare tanto potere di distruggere volontariamente? È questa la parte più terrificante dell’amare, che non si è mai da soli.

E John è dall’altra parte della linea, e pensa che lui non lo voglia, e piange. Quanto è disperato essere così innamorati? Quanto è pericoloso l’amore?

“John” dice, cercando di non far tremare la propria voce. “John” ripete con più fermezza.
“Torna, ti prego. Lo voglio anche io, quello che vuoi tu. Lo voglio anche io. Torna a casa, lo voglio anche io”

L’ultima cosa che Sherlock sente è il sospiro sorpreso di John, prima che questo decide di chiudere la chiamata senza aggiungere niente.

John è euforico e si dà un pizzicotto forte per ricordarsi che non è un sogno. Dimentica tutto il resto, il telefono, le chiavi di casa e quelle di quel terribile monolocale, ed esce. Corre, mentre la luna lo segue e le poche persone che incrocia si scansano al suo passaggio e lo guardano curiosi.

Corre, John Watson, mentre il tempo lo insegue. Non può perdere altri minuti preziosi, quindi corre, lo fa per tutta Londra perché non vuole neanche aspettare la metro. Corre, perché a casa lo aspetta Sherlock Holmes, che vuole le stesse cose che vuole lui.



 
Atto IV –La fiamma


Baker Street è vuota e silenziosa appena svolta l’angolo. C’è solo un barbone dall’altra parte della strada, che lo guarda, ma a John non importa. Corre e si ferma solo non appena è arrivato di fronte al 221b, quella che è stata sempre casa.

È fermo. L’indice della mano destra è teso verso il campanello ma ancora non lo preme: non appena accadrà, cambierà tutto. John sembra immobile come tutto intorno a lui, un ultimo dubbio ad attanagliargli la mente. Come sarà, stare con Sherlock Holmes? È la prima volta che ama apertamente un uomo; c’era stato Sholto, che aveva ammirato tra le fila del suo plotone d’attacco, qualche ragazzo che lo aveva eccitato all’università, ma mai aveva amato un uomo come ama ora Sherlock Holmes. Ed è straordinario e terrificante allo stesso tempo; ti uccide e di resuscita a ogni battito cardiaco.

È pronto, ma così lo è Sherlock, che gli apre la porta giusto mentre sta per suonare il campanello.

Sono passate ore ma sembrano anni che non si vedono. Sherlock ha pianto, John anche. Si studiano e cercano di capire cosa sia successo. Si sono baciati e si sono chiusi in loro stessi, poi si sono venuti incontro.

Sherlock apre la bocca per parlare, ma John non vuole che parli e lo bacia lì, sullo stipite della porta, a pochi passi da dove l’ha baciato quel pomeriggio. Lo bacia e si stringe a lui nonostante sia sudato e abbia caldo, e lui risponde tirandolo quasi in braccio per averlo più vicino. La loro differenza d’altezza non è considerevole, ma Sherlock è in casa e John è un gradino sotto di lui, fuori nella loro Londra. Sono due mondi che si uniscono, due stelle che si incontrano e cominciano a ruotare l’una intorno all’altra.

È energia pura, quella che sprigionano. È un fuoco che li incendia.

“Ti amo” confessa John, baciandolo ancora senza dargli la possibilità di rispondere. Sherlock a quel punto lo tira dentro e chiude la porta alle loro spalle. Ora è John ad essere schiacciato contro il muro, e non gli dispiace affatto che sia Sherlock a prendere il controllo: vuole abbandonarsi a lui, aggrapparsi alla sua vestaglia come un parassita, viverlo e adorarlo per sempre, perché sente che il suo posto è con lui. Solo, ed esclusivamente con lui.

Sherlock si stacca e non parla, ma lo prende per mano e lo guida di sopra come se John fosse un nuovo inquilino: lo è, perché non c’è il suo coinquilino e amico lì, ma l’uomo di cui è innamorato; un uomo che non ha paura a fermarlo, lì dove lo ha baciato il pomeriggio, e a ripetere l’esperienza. L’ultimo gradino della seconda rampa di scale è appena diventato il suo posto preferito.
Si sorridono quando passano per la cucina e ignorano il casino, il cellulare abbandonato sul tavolo che proietta ancora il fantasma della sua ultima chiamata. Ignorano tutto, anche il mondo al di fuori dello spazio tra di loro, e arrivano in camera di Sherlock, dove John è stato talmente poche volte che deve guardarsi intorno per capire dove andare. Continua a farsi guidare, fino al letto, fino a che non prende lui il comando e gli si mette sulle gambe, da cui riesce a baciarlo dall’alto.

È un altro luogo, un altro habitat, che Sherlock conosce solo dai video che ha visto su internet. Chiude gli occhi e si lascia trasportare da quello che John gli fa provare. John, che gli sbottona la camicia lentamente, tanto da ucciderlo d’attesa. Gli soffia sull’addome e lo fa rabbrividire, quando si avvicina a ogni punto del petto per baciarlo, per scendere sempre più giù.

Fa caldo eppure entrambi rabbrividiscono quando i loro occhi si trovano nel buio della camera di Sherlock.

Sente di potergli rispondere, adesso che John ha ottenuto il primato di essere stato l’unico a cui Sherlock si è permesso di farsi vedere così debole e trasandato, quasi nudo sul suo letto. Sente di riuscire a comprendere il più misterioso e stupendo dei sentimenti.

“Ti amo” sussurra quindi all’orecchio di John, mentre questo è impegnato a baciargli il collo.

Ecco, perché le persone sono così masochiste da cedere sé stessi agli altri: può fare malissimo, può distruggerti per sempre, ma se non lo fa, se anche l’altra persona prova quello che provi tu, è come volare. È chiudere gli occhi e abbandonarsi, lasciarsi amare, che ti riempie il cuore tanto da poter vivere solo dei ricordi di questo amore. È non averne mai abbastanza, chiedere sempre di più con la certezza che ti verrà dato. È tutto, e niente. È il più intrigante dei casi, il più intelligente dei serial killer.

È fare l’amore con John Watson nel letto che nessuno ha mai usato in quel modo con lui. È scoprire sensazioni al limite della comprensione umana. È l’unico caso che non lo stancherà mai. È, semplicemente, John Watson che lo ama, e lo guarda in quel modo come solo lui sa fare, e rendersi conto che è lo stesso sguardo che aveva quando si sono incontrati.

John è dolce, è attento e gentile. John lo guarda negli occhi e a ogni sguardo si innamora; John lo bacia, e a ogni bacio sprofonda. Non si è mai sentito così, non ha mai incontrato qualcuno capace di entrargli dentro come fa Sherlock con un solo bacio. È travolgente, una marea inaspettata di emozioni che lo affogano e non gli permettono di respirare. Scopre con lui di non aver mai conosciuto davvero l’amore, di aver sempre vissuto un sentimento monco, che manca del pezzo più importante.

Fare l’amore con Sherlock Holmes è totalmente di verso da quello che ha sperimentato in passato, perché è con lui che lo sta facendo. Come è possibile che una cosa del genere possa essere totalmente diversa da un momento all’altro? John non riesce a formulare un pensiero, non riesce a mettere insieme due parole; può solo stare in silenzio, accarezzare i suoi capelli, baciargli ogni parte del volto mentre sono una cosa sola.

È negli spazi tra di loro che si consuma e viene ricostruito l’amore, che si racchiude l’intero universo. È il loro guardarsi negli occhi che crea il tutto: ne sono circondati, ne sono pieni, è un incendio che li brucia.

Non servono le parole quando, la mattina dopo, si svegliano e le loro mani si intrecciano perché hanno trovato il loro posto. Non servono parole per convincerli a rimanere a letto tutta la mattina.
Non servono parole a John, che dopo essere stato a lavoro tornerà a casa con le poche cose che aveva al monolocale, pronto a metterle accanto a quelle di Sherlock.

Da oggi in poi servirà una stanza sola.  



































 
 
 
 
The Parting Glass*
 

La luce dell’alba sveglia John, che si ritrova ancorato alla schiena di Sherlock. Prima di aprire gli occhi ha pensato fosse stato tutto un sogno, ciò che è accaduto questa notte, ma non appena vede il volto rilassato di Sherlock di fronte a lui capisce che non lo è.

È tutto reale, anche le parole, soprattutto le parole. Quei “ti amo”, pronunciati nel pieno della passione che non smettono di vorticargli nella testa. Si amano, si amano davvero.

Anche Sherlock è sveglio, e apre gli occhi poco dopo di lui. Non appena lo vede pensa che non vuole più dormire se al suo risveglio non c’è John Watson che lo guarda come solo lui fa. È naturale per loro, adesso, prendersi per mano. Non fanno che guardarsi e sorridersi, come due idioti innamorati.

“Perché sei scappato?” chiede Sherlock all’improvviso, avvicinandosi un po’ di più.

John soppesa bene le parole, le sceglie con cura, prima di rispondere.
“Dopo che ti ho baciato, ho avuto l’impressione di averti spaventato” poi aggiunge “e ho avuto paura di perderti per sempre”

Sherlock gli sorride, e si avvicina per baciarlo. “Non penso di potermi allontanare da te per un periodo più lungo di due anni” dice poi, guadagnandosi una spallata da parte di John.

“Adesso… come devo presentarti?” chiede ancora Sherlock.

“Ragazzo, fidanzato, amante. Di certo non amico” risponde l’altro sereno. Cala un silenzio rilassante, spezzato solo dal fruscio delle loro mani che si muovono tra le lenzuola e i loro sospiri d’amore.

“Immagino la felicità della signora Hudson quando lo verrà a sapere” riflette John, ridacchiando.
Sherlock lo guarda, e si innamora un po’ di più. Gli si spalma addosso e, a un centimetro dal suo volto risponde:

“Oh, dopo stanotte penso lo sappia già”


 
 
 
*The Parting Glass è una ghost track dell’album, che è inserita nella traccia di Give Me Love. Mi sembrava carino rispettare la struttura dell’album anche da questo punto di vista.

NdA: Ci siamo! Sono finalmente riuscita finire questa storia. Sono contenta ma triste allo stesso tempo: la volontà di scrivere su Ed Sheeran è stata l’unica cosa che mi ha fatto continuare a scrivere ultimamente, ma sono felice di potere mettere un punto a questo esperimento, che spero sia piaciuto anche a voi!
Grazie mille a tutti coloro che hanno letto la storia e a chi ha recensito e, spero, in futuro, recensirà!
-A

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