Chikau

di Shoshin
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** I ***
Capitolo 2: *** II ***
Capitolo 3: *** III ***
Capitolo 4: *** IV ***
Capitolo 5: *** V ***



Capitolo 1
*** I ***


Chikau
誓う


I.


Gli era sempre piaciuta l'altalena in giardino e ultimamente la apprezzava ancora di più. Gli piaceva chiudere gli occhi e rilassarsi oscillando avanti e indietro, sentire il vento sulla faccia, i capelli scompigliati e non più sudati, le braccia che finalmente si rilassavano intorno alle corde, le gambe penzoloni. Quel peso che sentiva nella pancia diventava un po' più leggero mentre ciondolava piano.
Da un po' di tempo riusciva a toccare il terreno con i piedi. Era strano. Non doveva più chiedere aiuto a nessuno per salirci e quella conquista era coincisa però con una concentrazione maggiore a quel dondolio, per non inciampare e fermarsi.
Non doveva nemmeno più spingere via Sari. Lei sapeva, adesso, che al ritorno dagli allenamenti l'altalena era per lui. Quell'idea dei loro genitori di montarne solo una per far comprendere ai figli i turni e la condivisione si era tradotta in anni di litigi e urla, però in effetti ora avevano capito. Conoscevano i momenti preferiti l'uno dell'altra e li rispettavano. Ci avevano impegnato solo una decina di anni.
Aveva ancora gli occhi chiusi quando sentì qualcosa di appuntito colpirlo al centro della fronte. Staccò le mani dalle corde per portarle sulla faccia, perse l'equilibrio e dovette appoggiare entrambi i piedi per terra. Prima ancora di vedere i capelli rossi di sua sorella sentì la sua risata a un metro da lui, poi si guardò le mani che avevano afferrato l'arma che lei aveva usato per colpirlo. Fra le dita stringeva un aeroplanino di carta dalla punta letale, sicuramente gli aveva scavato un solco nella fronte.
«Ma sei scema?!» le disse, portando l'aeroplanino sotto al suo naso «Mi hai fatto il buco!»
«È solo carta!» strappò l'aeroplanino dalle mani del fratello, provando a risistemare le ali stropicciate.
«Una volta mi sono tagliato con la carta! Mi hai fatto il sangue?» Oji si sporse con la fronte verso di lei, sollevando i capelli.
«Non hai niente, nanerottolo.» lo allontanò con un colpo sulla fronte «Hai la testa così dura che lo hai rovinato.»
Sari si sedette per terra vicino a lui, tentando di riappiattire la punta dell’aeroplano, in silenzio. La vide stendersi alla fine, quando ebbe finito, lasciando lì accanto quella costruzione.
«Cosa vuoi da me, comunque?»
Oji allungò un piede verso di lei, a pungolarle ora un braccio, un fianco, la pancia. La sua espressione di stizza non fu sufficiente a farlo smettere. Si fermò solo quando fu lei stessa a bloccarlo, senza neanche troppo sforzo, rimettendosi seduta.
«Volevo vederti!» alzò le spalle, lasciando andare il suo polpaccio dalla stretta che stava usando «Ultimamente ti fermi sempre qui dopo essere tornato dalla palestra.»
Perché mi calmo. E la pancia fa meno male, dopo.
Oji voleva spiegarlo a Sari. Voleva capire se ci fossero parole giuste per dire a una come lei - e a suo padre anche - che andare in palestra lo rendeva nervoso. Che tutta quella calma e pazienza decantate sulla pratica del karate lui non l'aveva ancora trovate. Riusciva solo ad agitarsi e a spazientirsi ogni volta che veniva colpito e la botta faceva male per giorni, ricordandogli ogni volta, tutto il tempo, quanto fosse stupido continuare con quello sport che gli piaceva sempre meno. E tutti quei pensieri che diventavano un mal di pancia insistente ogni volta che tornava a casa dopo gli allenamenti.
«La mattina siamo a scuola, poi ci sono i club. In palestra ormai abbiamo giornate diverse...» Sari lasciò cadere la frase, e Oji pensò che fosse proprio in quelle parole il motivo per il quale era andata da lui «Praticamente ti vedo poco. Un po' mi manchi.»
«Hai cercato di uccidermi!»
«Era solo carta!» prese l'aeroplanino di nuovo in mano per sventolarlo davanti a lui. «Se volessi metterti ko non userei un aeroplanino, non credi?»
«Sari...»
Sospirò Oji, guardando gli occhi miele di sua sorella che lo fissavano, capaci di intimidirlo e rassicurarlo anche. Come papà.
«Non voglio più fare karate» le disse, senza pensarci troppo. Come se dirlo a lei in quel momento fosse una sorta di esercizio prima di dirlo a suo padre. Forse le parole giuste non esistevano, erano una stupidaggine. Se era sicuro di qualcosa non serviva fare preamboli inutili per renderla meno difficile agli altri. Doveva pensare prima a renderla facile a sé stesso, per attenuare quel mal di pancia fastidioso, e poi avrebbe potuto pensare alla reazione delle persone.
Sari continuò a guardarlo, rilassò un po’ le spalle. Aveva l’espressione un po’ più intristita rispetto a prima, ma non aveva dato di matto come invece temeva Oji.
«Lo avevo capito» disse soltanto «Lo ha capito anche papà.»
Sentì la paura cominciare a sbriciolarsi dentro di lui lentamente, lasciare spazio a un vuoto nella pancia dove prima sentiva solo un masso pesante del quale non riusciva a disfarsi.
«E perché non me ne avete parlato?» le chiese «Te lo ha detto papà di venire?»
Quell’idea si fece strada fra i suoi pensieri. Sari e la mamma, aveva notato, avevano quella strana mania di chiamare rinforzi quando bisognava dire o scoprire qualcosa. Suo padre non lo aveva mai fatto, ma poteva essere stato contagiato anche lui, da quanto ne sapeva.
«No! Sono venuta di testa mia! Fammi posto.»
Si alzò da terra e lo raggiunse sull’altalena. La seduta era troppo piccola per entrambi ma nessuno dei due se ne lamentò.
«Tu hai già preso la prima cintura nera. Io sono fermo a quella arancione da un sacco di tempo… dovrei avere la blu, adesso.»
«Perché a me piace, Oji.»
«A me no. Devo faticare, e sudare, e poi le prendo sempre.»
«Le prendi sempre perché non ti impegni!»
«Non mi impegno perché non mi piace!»
«Ho capito!»
La risata di entrambi riecheggiò nel giardino di casa, la tendina alla finestra della cucina si scostò e la faccia di Sana apparve oltre il vetro, prima sconcertata dal trovarli insieme sull’altalena e poi appagata dalle risa che aveva sentito.
Sari la salutò con la mano, prima che la tendina tornasse al suo posto.
«Se anche papà lo ha capito, perché mi ha fatto continuare?»
Se cominciare a parlare con sua sorella di quel cruccio serviva a sgretolare la preoccupazione che aveva sentito per tanto tempo, allora tanto valeva continuare.
«Lo sai come è fatto papà. Preferisce sia tu a parlargliene.»
E se davvero già se lo aspettava e gli occhi di sua sorella e suo padre erano uguali, Oji si trovò a sperare di non trovarci più delusione di quanta non ne avesse vista nello sguardo di Sari.
«Tu dovrai essere brava anche per me» le disse, guardando per terra. Pensò che se l'avesse guardata in quel momento avrebbe avuto la sensazione di trovarsi già davanti a suo padre e invece doveva proprio dirle quelle parole, strapparle quella promessa per riuscire a parlare con Akito con quel peso già più leggero.
«È questo che vuoi, nanerottolo?»
Oji annuì.
«Allora sarò brava per due!»
Continuarono a dondolare piano, lui che pensava al momento in cui lo avrebbe detto a suo padre, e Sari probabilmente sintonizzata su quegli stessi pensieri.
«Cosa farai adesso, dopo la scuola?» gli chiese e lo vide alzare le spalle.
«Qualcosa che mi piaccia, penso. Non lo so.» Spostò lo sguardo sull'aeroplanino di carta che Sari aveva ancora in mano. «Lo hai fatto tu, quello?»
Ora che lo guardava bene e da vicino, era asimmetrico e sbilenco. Per non parlare della punta acuminata e mortale.
«No, lo ha fatto Tatsui. Voleva buttarlo. L'ho preso io perché a me piaceva.» Sari cominciò a ridere e Oji non capì il motivo finché lei non riuscì a parlare di nuovo per giustificare quelle piccole risa «Non vola, guarda!»
Sistemò un'ultima volta la punta e lo lanciò con un colpo deciso nell'aria davanti a loro. Quello sembrò prendere quota velocissimo, prima di bloccarsi all'improvviso come se avesse trovato un muro invisibile nella sua traiettoria e poi precipitare in picchiata.
Cominciò a ridere anche lui, capendo le risate di Sari. Scese dall'altalena per recuperare l'aereo e lanciarlo di nuovo solo per vederlo sfracellarsi al suolo un'altra volta. Poi toccò ancora a Sari, che rise ancor prima di lanciarlo, guardando Oji che si copriva la fronte con le mani.
Turni e condivisione. Ci avevano impiegato solo una decina di anni.




Eccoci qui!
Questa è la prima pubblicazione di boh. Non sappiamo quante storie comporranno questa raccolta. Ma possiamo provare a spiegare perché nasce.
Abbiamo scritto innumerevoli momenti della storia di questi personaggi. Nei nostri profili singoli, e anche in questo. Ogni nostra pubblicazione, per noi, è un headcanon di Kodocha e del futuro di questi protagonisti. Quello che si potrà leggere in queste shot saranno piccoli episodi dell’infanzia di Sari e Oji, i figli di Sana e Akito (precisiamo che Oji è un personaggio inventato da noi, perché Akito doveva essere definitivamente redento dai fatti di Deep Clear comportandosi decentemente davanti a una seconda gravidanza di Sana).
Questi momenti possono essere letti in modo scollegato da tutto il resto, ma chi ha sempre letto quanto abbiamo pubblicato, noterà - adesso o più avanti - dei piccoli riferimenti ad altre storie e altre situazioni!
Volevamo far conoscere meglio soprattutto Oji. Noi, di lui, sappiamo già moltissimo, ma volevamo capire un po’ che tipo di bambino fosse stato. Perché in TOL il riflettore è acceso su Sari quindi ci era rimasto qualche interrogativo su di lui, che abbiamo voluto condividere.
In questa prima shot, Oji pensa di lasciare il karate. Non si sente portato per questo sport, non lo ama come invece lo ama suo padre o sua sorella. Nella linea temporale che abbiamo idealmente tracciato per questi personaggi, Oji dovrebbe avere circa 9/10 anni, Sari 13/14.
C’è un filo sottilissimo che legherà queste storie, ed è la parola che dà il titolo alla raccolta.
Chikau è una parola giapponese che tradotta in italiano significa “promessa, giuramento”. E in ogni pubblicazione ci sarà un richiamo, grande o piccolo, a questo impegno.
Speriamo che abbiate trovato piacevole la lettura e l’idea di questa raccolta!
Un saluto a tutti!
Shoshin




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Capitolo 2
*** II ***


II.


Guardava l’altalena che Akito aveva installato nel loro cortile oscillare con il vento, la tazza di caffè fumante davanti a lei, le dita che si scaldavano a contatto con la ceramica calda. Aveva soffiato sulla bevanda osservando il fumo disperdersi davanti a lei, il sole che cominciava a salire nel cielo, colorandolo di rosa con sfumature azzurre. Bevve il caffè, continuando a guardare davanti a sé.
Sospirò appoggiando la tazza vuota dentro il lavandino.
Salì le scale piano, cercando di non fare rumore. C’era uno scalino che scricchiolava, doveva stare attenta a non colpirlo per non fare rumore. Avrebbe voluto rimettersi nel letto, coprirsi, chiudere gli occhi e svegliarsi alle undici, o forse alle dodici. Non sei più una ragazzina, si disse, sentendo lo scalino produrre un leggero rumore. «Shhh.» sussurrò, guardandolo, come se quel pezzo di legno avesse potuto rispondergli.
Cinque, quattro, tre, due, uno…
«Mamma?» una manina era appoggiata alla porta, una mano chiusa a pugno sopra un occhio per grattarlo. Piedi nudi che calpestavano il pavimento.
«È presto. Dormi, Oji.» sussurrò, per non svegliare anche Sari, ma lei aveva il sonno più pesante, molto più pesante. Come quello di Sana, prima della nascita dei bambini. Avrebbe potuto continuare a dormire anche se fuori fossero scoppiati i fuochi d’artificio. Non era più così da qualche anno e, ultimamente, aveva preso l’abitudine di alzarsi con Akito, prima che andasse a correre. Andava in cucina, beveva il caffè seduta a tavola o, come quella mattina, guardando il cielo tingersi di colori pastello. Le cose nella vita cambiavano in continuazione. Se glielo avessero detto anni prima, avrebbe riso, pensando fosse una battuta. Io che mi sveglio all’alba? Mai!, invece quello era diventato il momento solo per lei. Non c’erano vocine di bambini che la chiamavano incessantemente, non c’erano i suoi figli che cercavano la sua attenzione, che le chiedevano di guardare un balletto, o un disegno, o di giocare insieme. L’alba, in quel periodo, era diventato il momento soltanto per lei.
«Ho sentito rumore.» le rispose Oji, togliendo la mano dagli occhi e staccandosi dalla porta per andarle incontro con le braccia aperte.
Sana sorrise, accucciandosi per prenderlo in braccio. Non si sarebbe più addormentato.
Non dormiva mai. Non stava fermo mai. Cantava. Parlava. Chiedeva. La chiamava, sempre.
Avevano dovuto mettere un cancello sulle scale per far sì che non cadesse giù. Oji si svegliava la notte e girovagava per casa. Saliva sul loro letto, oppure cercava la sorella che cominciava a urlare anche lei, spaventata che fosse qualcosa di strano. E poi litigava con lui nel buio.
Si svegliavano spesso, nel cuore della notte, quando Oji gridava rivolto a Sari «Letto mio!» e lei rispondeva dicendo che era in camera sua, che non doveva spaventarla così.
Tutto era suo. Il letto di Sari, i giochi di Sari, i capelli di mamma, le mani di papà, gli oggetti sopra il tavolo troppo lontani da lui. Si sporgeva dal seggiolone, rischiando di cadere e rompersi di nuovo la testa per prendere il lettore mp3 del padre che utilizzava durante le corse, o una mela, o qualsiasi cosa ci fosse.
«Andiamo a fare colazione.» disse Sana, aprendo il cancelletto bianco e scendendo le scale con lui in braccio. «Se ti metto nel seggiolone stai un attimo fermo mentre scaldo il latte?» Gli accarezzò i capelli castani, vedendolo annuire.
«Se non litigano.»
«Chi litiga?»
«Prima litigavano. Urlavano, e mi sono svegliato.» Alzò le spalle, battendo i piedini gli uni con gli altri, prima che la mamma lo mettesse seduto. «Io!» Sana mise il latte sul fuoco, poi lo versò dentro il biberon. «No! Io!»
«Che stai facendo, Oji?»
«Litigano di nuovo.» Sana si voltò, guardando i piedi del figlio battere gli uni sugli altri. «Io, io! No, io! Litigano sempre, mamma.»
«Mh.» Lo prese di nuovo tra le braccia, sorridendo. «Quindi i tuoi piedini sono come te e Sari.»
Oji annuì. «Tutto io.» disse, prima di stringere il biberon con la bocca, cominciando a succhiare.
Sana guardò di nuovo fuori dalla finestra. Era finito il suo momento, non avrebbe più potuto far nulla senza la voce di Oji chiamarla. Il silenzio era durato il tempo della colazione.
«Mamma, anche io ho fame!» Sari fece un piccolo saltello per evitare gli ultimi due gradini della scale. «Oggi che facciamo, mamma? Disegnamo? Coloriamo? Andiamo fuori? Mamma? Voglio il latte con i cereali. Me lo compri un nuovo unicorno, eh, mamma?»
«Zitta, Sari!» Esclamò Oji, portandosi una mano sulla fronte, di nuovo dentro il seggiolone. Sana si chiedeva dove avesse visto fare quel gesto. Forse dal padre, o dalla nonna.
«Zitto tu!»
«No! Tu!»
«Tu! Io sono più grande e posso parlare, tu no!»
«Zitta! Zitta! Zitta!»
«Mamma! Oji mi dà fastidio e non vuole che parlo!»
«Mamma, litigano di nuovo!» I piedi di Oji avevano ricominciato a battere tra di loro. «Non vogliono sentire Sari parlare, mamma!»
«Zitti tutti e due!» Esclamò, quasi urlando, senza riuscire a frenarsi. Accidenti. «Sari, fai colazione. Poi ti prometto che decidiamo cosa fare oggi… Oji, stai fermo… I piedini si vogliono bene, non vogliono prendersi a botte tra di loro.» Li prese tra le mani, Sana, accarezzandoli, prima di baciare il dorso di tutti e due. «Visto?» sorrise, ascoltando finalmente il silenzio.
Quando è l’ora della nanna? Pensò, sentendo la porta aprirsi e sentire urlare da tutti e due: «Papà!»
Forse, ora, avrebbe potuto riposare un po’.




Buonsalveh! \0/
Eccoci con il secondo racconto di questa raccolta. Torniamo un po’ indietro nel tempo, Oji ha circa 2 anni, Sari circa 6.
Vediamo come Sana vive ora nell’avere due figli e di come le cose siano cambiate con un uragano di nome Oji… A differenza di quando era più giovane e dormiva come un ghiro in qualsiasi momento della giornata, adesso non può più farlo. Ma si sa che i bambini cambiano la vita di chiunque :3
Come abbiamo detto altre volte, quando scriviamo traiamo ispirazione non soltanto dalla nostra fantasia, ma ciò che ci accade intorno, prendiamo pezzetti di vissuto proprio e degli altri, qualsiasi cosa ci possa ispirare per scrivere e questo racconto è un po’ biografico. Racconti di una Gabry mamma che ispirano un po’ Debbina che ci scrive sopra :,D
Speriamo che questo racconto senza pretese vi sia piaciuto e via abbia strappato un sorriso ♥
Lov iuh
Shoshin




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Capitolo 3
*** III ***


III.


Quando la nonna aveva detto che avrebbero fatto insieme un disegno bello grande, nessuno di loro due aveva immaginato che avrebbero dipinto una parte di muro in giardino.
Da quello che avevano capito, lei aveva circuito Akito parlando di crescita e stimoli positivi per i bambini. Avevano anche sentito la mamma accusarla di giocare sporco utilizzando il benessere dei nipotini ma subito dopo darle man forte. Tutto si era concluso con grembiuli monouso per loro due e la nonna, pitture e pennelli addossati in quell'angolo di giardino che lei diceva sempre essere troppo insignificante.
«È ombreggiato. Ci metto gli attrezzi, e a volte studio in quell'angolo» disse Akito, uscendo in giardino con loro.
«Insignificante e noioso.» aggiunse la nonna, mentre apriva i vari barattoli di vernice e metteva in mano a loro due pennelli di diverse dimensioni.
«Quindi è noioso anche il tuo studio» sentirono ribattere.
Sari e Oji muovevano la testa dall'uno all'altra, ancora incerti su quanto avrebbero fatto quella mattina.
Misako puntò il pennello che aveva in mano contro Akito. Oji pensò che glielo avrebbe spezzato in testa come tante altre volte ma lei esitò, forse rendendosi conto che per una volta non aveva in mano il suo amato ventaglio.
«Nel mio studio, creo storie. Spesso con i tuoi figli tra i piedi, non è mai noioso.»
«In quell'angolo di giardino io studio
«Studiare è sopravvalutato.»
«Lo dici perché Sana è tua figlia.»
Sari decise di attirare l'attenzione della nonna tirando il suo grembiule proprio nel momento in cui lei stava cominciando a raccogliere pennelli da lanciare contro Akito, e lei sembrò ridestarsi.
«Cosa disegnamo?» le chiese. Oji invece sbuffò. Lei era impaziente di cominciare, come ogni volta, ma aveva interrotto quel battibecco che lui invece stava seguendo con attenzione. Si divertiva tanto quando la nonna attaccava briga con papà. Era l'unica che riusciva a prevalere, in un modo tutto suo, su Akito Hayama.
Oji incenerì sua sorella con gli occhi e per un attimo gli sembrò, finalmente, di vederla piccola come lui. Riusciva sempre ad avere la meglio lui quando usava solo gli occhi. Poteva fare a meno del karate. Sarebbe stato bello vincere sui compagni in palestra allo stesso modo, ma suo padre non faceva altro se non ripetergli che doveva dosare la rabbia. Se ne ricordò anche in quel momento, con Sari che gli sussurrava un mortificato «Che c'è? Vorrei cominciare...» e la nonna che dava le spalle a suo padre puntando finalmente il pennello contro il muro.
«Disegnamo! La famiglia!» disse.
E se a Sari sfuggì un verso meravigliato e allegro, Oji non sapeva da dove cominciare e fu grato alla nonna quando, notando la sua difficoltà, cominciò a dividere i compiti.
«Sari disegna mamma e papà. Io disegno i miei bambini. Oji tu disegni i nonni, ti va?»
Lui annuì. «Anche Maro.»
«Va bene, anche Maro.»
«Faccio un arcobaleno, posso?» chiese Sari.
«Quello che vuoi. Ecco, diamo il vero Maro a papà per non farlo cadere nella vernice».
Risero tantissimo quando la nonna appoggiò il suo copricapo sulla testa di Akito che, seduto alle loro spalle, non era ancora riuscito ad aprire il suo libro.
Dipingere non era mai stato così divertente. Farlo in casa era un po' noioso se confrontato con quel momento. Dovevano stare attenti a non sporcare troppo, far rientrare il disegno all'interno di un foglio, e finivano per darsi sempre gomitate sul tavolo per contendersi lo spazio e stare più comodi. Farlo su un muro in giardino era tutta un'altra cosa.
«Papà è brutto» disse Oji, guardando i loro genitori disegnati da sua sorella. Aveva disegnato la mamma sorridente con gli occhi socchiusi. Anche Akito sorrideva da quel muro, ma gli occhi erano aperti, sproporzionati e storti. Sari finse indifferenza e continuò a disegnare.
«Non è vero, papà è bellissimo.»
Anche la nonna si girò a guardare il lato di Sari e trattenne una risata. Poi si avvicinò all'orecchio di Oji.
«Dopo li coloriamo di nero e facciamo finta che abbia gli occhiali da sole come Rei.» gli sussurrò, sorridendo. «Tu hai finito?»
«Quasi, forse non lo so disegnare Maro» rispose lui.
Vide la nonna allontanarsi di un passo e mettersi dietro di lui per guardare meglio il suo disegno.
Disegnare non era il suo passatempo preferito ma gli dicevano sempre che non se la cavava male. I grandi erano così, dicevano sempre se qualcosa andava bene o male, per questo lui aveva subito detto a Sari che papà era brutto.
Si girò a guardarla e, come pensava, il suo parere non tardò ad arrivare. «Sei stato molto bravo, tesoro! I baffi del nonno sono proprio uguali!»
Continuarono a dipingere ancora un po'. Sari salì su una sedia per disegnare il suo arcobaleno sopra tutti loro e insieme lo colorarono.
Quando, alla fine, si portarono davanti al muro per guardare il disegno da lontano, la nonna cominciò un applauso tutto per loro. Erano riusciti a disegnare tutti e unire le loro mani. Si tenevano stretti in un disegno sbilenco su un muro in giardino.
«Avrei voluto disegnare mamma e papà che si baciavano, ma non sono molto brava!» ammise alla fine Sari, strappandosi il grembiule.
«Allora dovevo disegnare anche io i nonni che si baciano» disse lui, imitandola.
«Ma che dici Oji, le persone sposate si baciano.»
«Perciò i nonni sono sposati?»
«I nonni non si baciano!»
«Invece si! Li ho visti! Nonna, è vero?» Oji si girò verso sua nonna che stava riprendendo il copricapo dalla testa di Akito.
«È vero cosa?» chiese, sistemando l'acconciatura.
«Che tu e nonno Fuyuki vi siete baciati.» spiegò lui, intestardito. Vide la nonna fermarsi con le mani a mezz'aria e guardare prima lui e poi Sari «Io vi ho visti.» aggiunse, prima che lei potesse negare.
Non che Oji si aspettasse una bugia da lei, aveva solo notato suo papà irrigidirsi un po' e di solito faceva così quando trovava difficile spiegargli qualcosa.
«Si, ci siamo baciati, qualche volta.» rispose invece lei, guardandolo dritto negli occhi.
«Ecco. Hai sentito?» disse, rivolto a Sari «Io ho visto bene, sono iperettope, me lo ha detto il dottore.»
«Cosa sei tu?» domandò sua nonna, guardando per un attimo anche Akito in cerca di spiegazioni.
«Il dottore ha detto che vedo di più.»
«Ipermetrope» lo corresse suo padre.
Oji annuì con convinzione, facendo ridere la nonna.
«Ma quindi...» iniziò Sari «non bisogna essere sposati per baciarsi?»
Guardava nonna Misako come se stesse per darle la rivelazione più importante del mondo. Come se stesse per dirle che il karate non esisteva e gli unicorni invece sì e uno la stava aspettando in camera sua.
«Certo che no Sari. Chi ti ha detto questa sciocchezza?»
«Sakue dice che non bacerà mai nessuno finché non si sposa. E anche papà!» guardò Akito, contrariata «Dice sempre che ha sposato la mamma per baciarla quando vuole.»
«Sei un impostore, Akito» gli sussurrò Misako, provando a non farsi sentire.
«Non ho mai detto di non averlo fatto prima.» lui sollevò le spalle, arrendevole.
«Chissà che non prenda troppo in simpatia il primo che la abbraccia.»
«Nessuno prima dei 25 anni. Sari andiamo a pulirci, tra poco arriva la mamma.» liquidò con un gesto della mano i rimproveri che la nonna avrebbe potuto continuare a dedicargli e strappò il grembiule monouso a Sari, prima di portarla in casa.
«Allora se bacio qualcuno non devo sposarmi per forza, no?» le chiese Oji, rimasto solo con lei.
«Vuoi già baciare qualcuno, tesoro?» la nonna si chinò alla sua altezza e cominciò a slegare il grembiule anche a lui.
«No. Ma se qualcuno bacia me e non mi piace allora non fa niente se non devo sposarmi.»
«Esatto. Ma sarebbe meglio sempre baciare qualcuno che ci piace.»
«A te allora piace nonno Fuyuki?»
«Abbastanza da baciarlo, a volte» si sollevò, cominciò a raccogliere i pennelli sporchi sparpagliati per terra per metterli tutti in una ciotola «Vuoi raggiungere papà? Devi lavarti anche tu.»
«E perché non lo sposi?»
La nonna diceva sempre la verità. Quello era un pensiero costante per Oji quando parlava con lei. Non si irrigidiva come papà, non rimandava come la mamma. E questo gli faceva sempre venire voglia di riempirla di domande. Era la prima volta che la vedeva esitare. Sari gli aveva detto una volta che la nonna sceglieva le parole giuste, e forse era quello che stava facendo in quel momento, ma le parole giuste della nonna comunque non erano fatte per nascondere verità.
Si sedette e allungò una mano verso di lui per farlo avvicinare a sé.
«Oji, quando sarai più grande ti capiterà di volere qualcosa più di tutto il resto e capirai che un bacio resta solo un bacio.»
«E nemmeno il nonno ti sposa?» continuò a chiedere.
«No, perché il nonno sa che io non voglio essere sposata. Occorre sapere cosa vogliamo noi e non prendere in giro gli altri.»
Misako lo vide annuire. Oji aveva uno sguardo che né Sana né Sari avevano mai avuto alla sua età. Aveva la stessa spontaneità ma allo stesso tempo era molto più acuto e determinato. Era sempre stato così. Le sembrava di guardare Akito, spesso, molto più di quanto non le accadesse parlando con Sari. Con una stretta al cuore capì quanto possa essere risultato difficile, in una famiglia spezzata come era stata quella di Fuyuki, avere a che fare con un bambino così sveglio e accorto. Riversare rabbia e frustrazione su domande innocenti, rendere tutto faticoso, destreggiarsi fra la propria tristezza e il desiderio di conoscere di un bambino.
Misako gli circondò il viso e lo avvicinò a sé, gli baciò la fronte. Un groppo in gola si presentò inaspettato e spille inattese a pungerle gli occhi. Akito non era figlio tuo, si disse.
«Trova qualcosa che ti piace e prenditela Oji, me lo prometti?»
Oji annuì di nuovo. «Piangi?»
Avrebbe voluto che ci fosse un modo, per spiegargli quei pensieri. Il vuoto che aveva sentito prima di trovare Sana abbandonata su una panchina e di come adesso quel vuoto fosse tutto occupato, ogni parte di sé stessa che percepiva era piena.
Scosse la testa «Pensavo a quanto è brutto tuo papà in quel disegno.» disse, indicando il muro «Prendi il pennello col colore nero, gli facciamo gli occhiali da sole prima di rientrare.»
«Va bene!» Oji rise, andando di nuovo verso i barattoli di vernice.
Forse, quando sarebbe stato più grande, ci sarebbe stato il tempo.




Ciao! \o/
Questa è una storiella piccina che vuole mostrare un po’ di nonna Misako e Oji.
O almeno, è stata scritta con questa intenzione iniziale ma si può leggere anche come uno sguardo al futuro della fic Sorsi, di gabryweasley.
Nelle nostre testoline Misako e Fuyuki hanno un rapporto sentimentale ed esclusivo ma anche piuttosto libero, e quel piccoletto furbastro si è accorto di qualche tenerezza fra i suoi due nonni.
E’ un altro saltello nella linea temporale, qui Oji ha 7 anni, Sari 11. Ci sono anche piccoli riferimenti a Thinking Out Loud. ♥
Speriamo che la lettura sia stata piacevole!
Lov iuh,
Shoshin ♥




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Capitolo 4
*** IV ***


IV.


Erano spariti tutti.
Quando li incontrava per i corridoi della scuola, spesso non rispondevano nemmeno al suo saluto. Avevano preso strade diverse, anzi, la scuola media aveva deciso di dividerli e loro non avevano fatto nulla per mantenere in piedi quei rapporti creati alle elementari. Oji aveva pensato a sua sorella, a come la sua amica e anche quell’altra di cui non ricordava il nome erano rimaste al suo fianco anche se in classi differenti.
Lui, invece, non aveva creato rapporti così stretti con nessuno. Amici, ma fino ad un certo punto.
Oji si sedette al suo banco, allungò le gambe sotto il tavolo, appoggiò la schiena alla seduta e si guardò intorno. Era tutto così noioso. Erano due mesi che non faceva altro se non salutare i suoi compagni, parlare del più o del meno, seguire le lezioni ed annoiarsi. Sperava ci fosse un club sui videogiochi. C’era quello sul karate, tiro con l’arco, jujitsu, pallavolo, calcio, canto, giornalismo, ma non quello sui videogiochi. Avrebbe voluto migliorare la propria tecnica, Oji, passare al livello successivo.
Aveva scoperto che era bravo, dopo aver lasciato il karate con il padre. Aveva scoperto che si divertiva a passare pomeriggi interi a giocarci, invece di star seduto sui talloni perché a karate faceva schifo. Si era appassionato. Aveva trovato quel qualcosa che lo faceva stare bene.
«Hayama! Hayama!» vide sventolare una mano davanti a lui.
«Che c’è?» rispose, senza muoversi dalla sua posizione, scocciato. Non sarebbe mai riuscito a stringere amicizia con qualcuno - come invece voleva Sari - se avesse continuato a tenere quell’atteggiamento. «Tutto molto bello, Oji. Ma è tristissimo vederti sempre davanti a quel monitor da solo. Promettimi che stringerai amicizia con qualcuno!» gli aveva detto, prendendo in mano il secondo controller. «Non puoi avere solo me come tua amica.»
Oji aveva alzato le spalle. «Non ho solo te come mia amica.»
«Certo! E chi ti rimane?»
«Ci siamo sparpagliati, la scuola è iniziata da poco… questo è il periodo di assestamento.» aveva risposto, selezionando due giocatori. E Sari se l’era fatto andare bene. Ma lo sapeva Oji che, con il tempo, sarebbe tornata sull’argomento. Come una mamma rompicoglioni, forse, avrebbe persino voluto conoscere il fantomatico amico che si era fatto, se mai se lo fosse fatto.

«Posso sedermi?» domandò, spostando la sedia dal banco vuoto davanti per portarlo al fianco del suo banco. Appoggiò il libro di matematica sul legno e lo aprì. «Io sono una mezza sega in matematica, Hayama. Tu per caso sai come si risolve questo problema? Non voglio che la professoressa mi dia un brutto voto perché non ho fatto i compiti.» Cerchiò un esercizio sul suo libro ed Oji pensò perché credesse che lui fosse migliore in matematica. Non se la cavava male, certo, ma perché proprio lui? E perché quel tizio parlava a macchinetta?
«Perché non lo chiedi ai tuoi amici?» rispose con un’altra domanda, indicando il gruppetto vicino alla finestra, più per curiosità che altro.
«Perché anche loro sono mezze seghe come me. Se devo chiedere aiuto vado da chi sa fare, no?! Quindi… tu riesci ad aiutarmi, Hayama?» I suoi occhi erano speranzosi e Oji si ritrovò ad annuire in automatico. Abbassò lo sguardo verso il libro di testo e lesse l’equazione, prendendo in mano una matita ed un quaderno.
«Non è difficile.» disse, ricopiando l’equazione di primo grado. Oji scriveva i passaggi, cercando di spiegare quanto più possibile il procedimento, anche se alla fine l’unica cosa che faceva davvero era parlare ad alta voce di numeri spostati di qua o di là. Alzò gli occhi dal quaderno, notando soltanto delle sopracciglia corrugate. «Hai capito qualcosa?»
Un sorriso nacque sulle labbra del compagno di classe, negò con la testa. «Arabo. Ho capito che non ci ho capito niente.» rise, alla fine, continuando a scuotere la testa. «Però ti prendo il foglio, così ho il compito fatto. Grazie, Hayama.»
«Non c’è di che.» rispose vedendolo alzarsi. Gli aveva dato le spalle quando si fermò e tornò su quei pochi passi che aveva fatto.
«Comunque io sono Naoki Shimizu… nel caso te lo fossi dimenticato.» Più che dimenticato, Oji non aveva mai preso la briga di imprimerlo nella mente. Shimizu mosse al vento il foglio pieno di numeri, stropicciandolo un po’. «Senti ma… sei tu che fai schifo a spiegare o hai qualcuno che ti spiega a casa? No, perché è impossibile capire quello che dice la professoressa, parla talmente veloce che non si riesce starle dietro.» Tornò a sedersi, ignorando i suoi amici chiamarlo. Appoggiò un gomito sul banco ed il mento sul palmo della sua mano.
«Mia sorella se la cava bene in matematica. Anche mio padre.»
«Oh! Quindi hai una sorella? Più grande o più piccola? Io sono figlio unico.»
Oji inarcò un sopracciglio, «Più grande di quattro anni.» rispose comunque, sedendosi un po’ più composto. C’era una domanda che frullava nella mente di Oji. Shimizu parlava, domandava, e lui non riusciva ad aprire bocca. Era stato lui a cominciare con le domande, aveva il diritto di farne una lui. Promettimi che stringerai amicizia con qualcuno. Poteva essere lui quel qualcuno? Shimizu era abbastanza interessante per poter essere considerato - in futuro - come un amico? In fin dei conti, da quando aveva cominciato le medie, era stata l’unica persona che aveva tentato di conoscerlo un po’, allontanandosi da quel suo gruppo esclusivo di amici delle elementari.
Era così. Oji vedeva ai lati della classe questi compagni, in gruppi di tre o quattro persone, o anche soltanto due, chiacchieravano dei propri interessi, di cosa fare, di cose accadute anni prima, e lui rimaneva al suo banco, da solo, senza nessuno di quelle persone che lo avevano accompagnato per sei anni. Senza Yoshi o Kyo, finiti in classe insieme, qualche sezione più giù e non c’era più posto per Oji.
«Mi piacciono le ragazze più grandi! È bella?» Oji sbatté le palpebre più volte. Vuole provarci con Sari? pensò mentre lo vedeva sventolare ancora il foglio con l’equazione. «Che domanda… essendo tua sorella non puoi giudicarla, la vedrai sicuramente oscena.» continuò, senza dargli il tempo di rispondere. In effetti avrebbe risposto proprio come aveva appena detto Shimizu. Sari faceva schifo, provava affetto per quei ragazzi che avevano il coraggio di star vicino ad una matta come lei. «Be’, a buon rendere! Io se vuoi sono bravo in… niente. Non sono bravo in nulla. Però me la cavo con i videogames!»
Oji sgranò gli occhi. Possibile che fosse arrivato davanti al suo banco un ragazzo appassionato di videogiochi come lui? Cazzo! O legge nel pensiero?
Aprì la bocca per dire qualcosa ma subito vide Shimizu ridere.
«Che faccia, Hayama! Mi piacerebbe leggere nel pensiero, ma non credo di esserne ancora in grado. Chissà, magari in futuro...» rispose Shimizu. «Anche a te piacciono?»
Non capì, Oji, se avesse davvero parlato o soltanto pensato.
«Sì, ho finito giusto ieri la storia di GTA V, credo che ora mi butterò nell’online.» rispose. Forse accadeva tutto per permettergli di mantenere la promessa che aveva chiesto la sorella, anche se lui non aveva davvero intenzione di mantenerla. Sembrava interessante, Shimizu. Forse…
«Il mio nick è Shimizu777. Aggiungimi agli amici, oggi pomeriggio facciamo una partita online, allora.» Alzò la mano in segno di saluto, andando verso il suo banco, mentre la professoressa di matematica apriva la porta dell’aula.
Sì, forse poteva davvero trovare qualcuno di interessante lungo il suo cammino.




Buongiorno! \o/
Altra piccola shot per questa strana raccolta! ♥
Anche stavolta Oji è il protagonista principale, però dietro quel suo mostrarsi così distaccato nei confronti di tutto e tutti in realtà pensa a far contenta sua sorella, provando a farsi degli amici ora che è arrivato in prima media. Shimizu ci piace troppo! Sembra in grado di poter sopportare bene un tipo come Oji!
Speriamo che queste piccolissime pubblicazioni siano gradite!
Lov iuh,
Shoshin ♥




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Capitolo 5
*** V ***


V.


«Prometto di amarti e onorarti per il resto della mia vita».

Aveva stretto la mano della moglie, attendendo che il dottore uscisse dal suo studio con il referto. Aveva detto loro di attenderlo lì, mentre scriveva.
Sarebbe cambiato tutto, dopo aver avuto quel foglio tra le mani, oppure non sarebbe cambiato nulla. Lui sperava nella seconda ipotesi, anche se il dottore aveva già anticipato che qualcosa c’era.


«Prometto di stare al tuo fianco in salute e in malattia».

Non sarebbe venuto meno alle sue promesse. Accarezzava il dorso della mano della moglie con il pollice, silenzio tra loro. Non avevano niente da dire se non pregare che tutto sarebbe andato per il verso giusto.
Esito dell’esame: positivo.
Tumore al seno.
«Dovremo fare una biopsia.» Aveva detto il dottore, prima di congedarsi con un inchino.
Chisato aveva abbassato lo sguardo senza lasciare la sua mano.
«Bene. Abbiamo da fare, dobbiamo impegnarci con tutti noi stessi affinché tu stia meglio». Chisato aveva annuito e lui aveva pensato che non erano quelle le parole che aveva pensato di dire, che erano uscite taglienti come lame, fredde, come se non provasse nulla. Avrebbe voluto dire che l’avrebbero superata, sarebbero riusciti a sconfiggerlo, che sarebbe stata bene, alla fine, come stava bene dopo ogni trasferimento al quale lui la obbligava a sottostare.
Sospirò, senza aggiungere null’altro.
«Dovremmo dirlo a Kintaro».
Toshio aveva deglutito e mosso i primi passi verso l’uscita dell’ospedale.


«Prometto di starti a fianco per tutto il tempo, Chisato».

Kintaro era nato in una fredda notte di novembre, in un giorno di pioggia incessante, nella città di Kyoto.
Si sentiva il rumore della pioggia battere contro il vetro della finestra della sala parto. La mano di Toshio stretta in quella di Chisato. Spingi, le dicevano. E lei stringeva con maggior forza le sue dita, facendogli male, ma faceva finta di niente. Era lì, per lei. Per loro.
Toshio aveva fatto tutto come andava fatto. Aveva trovato una moglie sana e forte, con il consenso dei suoi genitori, aveva trovato lavoro subito dopo l’università e ora assisteva alla nascita di suo figlio.
«Kintaro Ichiro, Chisato. Così sarà sempre un ragazzo forte e sano». Aveva scelto il nome, qualche mese prima, e la moglie gli aveva sorriso, gli aveva annuito, l’aveva baciato accarezzandosi il ventre dove la vita aveva cominciato a crescere.


«Prometto di crescerti al meglio delle mie possibilità, spero di fare un buon lavoro».

L’aveva stretto tra le braccia, aveva la testa fasciata da un cappellino azzurro, una coperta dello stesso colore. La testa appoggiata al proprio braccio, le mani sotto la sua schiena. Lo portò vicino al viso, gli depose un bacio sulla fronte, un altro sulla guancia. Mio figlio. Sorrise, cullandolo.

Quando tornava a casa dal lavoro, non mancava mai del suo abbraccio.
«Giochiamo!» Diceva il figlio. E per quanto fosse stanco, si sedeva a terra insieme a lui e giocavano fino a che la cena non fosse stata pronta.
Soldatini, macchinine brum brum, dinosauri.
Spesso gli portava qualcosa.
Qualcosa che potesse lenire tutte quelle ore lontano da lui, quei viaggi di settimane che facevano sì che la sua famiglia stesse senza di lui.

Il primo trasferimento era stato organizzato poco prima dei tre anni di Kintaro. Il successivo a cinque anni. Quello dopo a sei.
«Devi per forza essere una trottola, Toshio?» gli aveva domandato la moglie, chiudendo l’ennesimo scatolone, negando con la testa. «Non possono inviarti a una sede e fartici rimanere?»
Chisato odiava tutti quei trasferimenti, tutti quei viaggi che non mancavano mai alla sede centrale di Tokyo. E più gli anni passavano e meno stava a casa.
«Non davanti al bambino, Chisato. È lavoro. Vuoi vivere? Devo guadagnare mentre tu stai a casa con il bambino». Sospirò, portandosi le dita agli occhi.
Chisato si morse un labbro, senza rispondere.
«Papà, io non voglio andare via». La voce di Kintaro raggiunse le sue orecchie. «Vedi?» Si voltò verso la moglie. «Sente te lamentarsi e ti emula. Cosa vuoi che ne capisca un bambino di sei anni. Dovresti tenere a freno la tua lingua».
Diede le spalle al figlio e raggiunse la sua camera, chiudendo la porta con un tonfo.


«Prometto che farò di tutto pur di non diventare come te. Tu sei tutto quello che io non voglio essere».

Aveva sentito qualcosa all’altezza del petto ascoltando le parole uscite dalla bocca del figlio.
Lui ci aveva provato, Kintaro era diventato un ragazzo in gamba, aveva fatto quello che lui pensava potesse essere un buon lavoro. Era educato, sorridente, espansivo. Aveva però un po’ troppo la lingua lunga, diceva ciò che pensava, farlo in un posto di lavoro importante, come era il suo caso, non era visto di buon occhio.
«Io mando avanti la famiglia!» Aveva esclamato, battendo una mano sul tavolo. «Tu l’unica cosa che fai è andare a buttare delle monetine dentro dei videogiochi inutili che non ti porteranno da nessuna parte con i tuoi amici senza testa!»
«L’unica cosa che fai tu è lavorare e poi scaricare la tua frustrazione qui a casa! Fatti un’esame di coscienza e vediamo chi sono le persone senza testa
«Non ti permetto di parlarmi così, sono tuo padre e provvedo a te e alla tua crescita!»
«Anche Hayama, il padre di Sari, provvede alla famiglia, ma non scarica le sue frustrazioni sulla moglie e sui figli! Impara un po’ come si sta al mondo!»
Toshio aveva stretto i pugni. «Chi, la famiglia dell’attricetta? Senza fare nulla sicuramente hanno un sacco di soldi. Quello non è lavoro!»
Gli occhi di Kintaro erano diventati due fessure. «Hai ragione. Al mondo lavori solo tu». L’aveva guardato, sguardo arrabbiato, di sfida. «Io resto».
Aveva visto la sua schiena quando aveva preso la porta di casa per uscire fuori e scappare per le vie di Tokyo.
«Lo sto perdendo». Aveva sussurrato, abbassando lo sguardo verso il tavolino.
«Lo hai già perso, Toshio». Chisato non aveva aperto bocca durante tutto il litigio, lo stava guardando fisso, senza alcun tipo di emozione.
«È colpa di Tokyo, della sua ragazzetta. Fortuna che andiamo via». Aveva buttato fuori.
Chisato si era avvicinata e aveva appoggiato una mano sulla sua spalla. «No, Toshio. La colpa è soltanto tua».


«Prometto…»
...soltanto parole al vento.





Buonsalveh! \0/
Dopo aver pubblicato la shot sulla famiglia di Kintaro in EHC (qui il link), abbiamo sentito il bisogno di continuare a seguire Toshio, almeno un pochino.
Abbiamo la sensazione che sia cambiato nel tempo, anche se è stato sempre un po’ rigido. Come si può notare dai flashback, Toshio era felicissimo per la nascita di Kintaro e si era ripromesso che l’avrebbe cresciuto al meglio delle sue possibilità. È andato un po’ tutto alla deriva con gli immancabili trasferimenti. Lui ha messo al primo posto il lavoro, e anche giocare con il figlio, come faceva ogni volta che tornava a casa, ha cominciato a diminuire nel tempo e piano piano si sono allontanati tutti e due l’uno dall’altro.
L’ultimo flash, quello che chiude la storia, è ambientato (ma penso che i più accorti lo abbiano capito subito) prima del trasferimento da Tokyo, prima che Kintaro vada a casa di Oji e gli dica quella mezza frase, per raggiungere poi Sari in palestra.
Bene! Speriamo vi sia piaciuta ♥ Abbiamo anche uno scorcio di Kintaro da bimbolino appena nato ** Era già l’ammmoreh ♥
Lov iuh
Shoshin




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