Io ricordo una Vigilia di Natale

di GiunglaNord
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo 1 ***
Capitolo 2: *** Capitolo 2 ***
Capitolo 3: *** Capitolo 3 ***
Capitolo 4: *** Capitolo 4 ***
Capitolo 5: *** Capitolo 5 ***
Capitolo 6: *** Capitolo 6 ***
Capitolo 7: *** Capitolo 7 ***
Capitolo 8: *** Capitolo 8 ***



Capitolo 1
*** Capitolo 1 ***


Capitolo 1.
 
Remembrance, like a candle, burns brightest at Christmastime.
I ricordi, come le candele, bruciano di più nel periodo natalizio.
(Charles Dickens)
 
La neve scendeva copiosa, rilucendo contro la notte. Danzava lieve per poi posarsi a terra, dove aliti di vento gelido la risospingevano in aria per qualche secondo prima di farla tornare nuovamente al suolo. Sembravano giocare, il vento e la neve, o perlomeno così aveva sempre pensato Hermione da piccola, quando con i suoi genitori andava a sciare sul continente.
Partivano subito dopo Natale per poi tornare in tempo per la ripresa della scuola: così per dieci anni. Poi, improvvisamente, tutto era cambiato e quei momenti così intimi, così familiari, erano quasi svaniti.
Quando Hermione Granger aveva varcato la soglia del mondo magico sapeva di aver trovato un grande tesoro; quello che allora non aveva compreso era che, nel bene e nel male, avrebbe dovuto dire addio ad una parte di sé.
Non l’aveva mai rimpianta troppo in fin dei conti, anche perché non ne aveva avuto il tempo impegnata com’era a tentare di tenere in vita Harry Potter, ma adesso quella mancanza si faceva sentire e con una certa dose di dolore, ad essere sincera.
Probabilmente gran parte di quel male era dovuto al fatto di non essere riuscita ancora a rintracciare i suoi genitori, persi da qualche parte in Australia, senza alcun ricordo di lei.
Ed ecco che allora osservare la neve inscenare il suo grazioso spettacolo le provocava un malessere sordo, incastrato malamente da qualche parte sotto lo sterno.
Era la vigilia di Natale del 1998, il primo Natale dopo la fine della Seconda Guerra Magica.
 
Hermione sospirò pesantemente, stringendosi le ginocchia con le braccia e continuando ad osservare quei minuti cristalli di ghiaccio seduta sul largo davanzale della finestra nella sua stanza da Caposcuola.
Sentiva tutto il peso di quella vigilia schiacciarle il petto e non poté impedirsi di lasciar scivolare una piccola lacrima sulla guancia.
Aveva rifiutato con gentile fermezza l’invito di Molly ad andare alla Tana, così come si era sperticata per giorni a far valere le sue ragioni con Ron, Ginny e Harry.
Alla fine, di fronte alla sua pacata ostinazione, avevano desistito non senza un certo carico di tristezza.
Aveva scritto a Molly una lunga lettera nella quale cercava di motivare la sua scelta, ma dubitava di esserci riuscita, perché, in fondo, non ne comprendeva bene le ragioni neanche lei.
Probabilmente era solo paura, una vigliacca paura. Non voleva vedere quel posto vuoto a tavola, lo sguardo perso di George, gli occhi rossi di Molly e le sue mani che tremavano davanti alla dolorosa abitudine di apparecchiare anche per Fred. Non avrebbe potuto sopportare di guardare Arthur prenderla per le spalle e mormorarle deboli parole di conforto. Il dolente stupore dei fratelli Weasley che ancora non erano riusciti a lasciare davvero andare un pezzo del loro cuore nella nostalgia del tempo e lo sguardo colpevole di Harry.
Aveva avuto davanti agli occhi quella scena per lunghi mesi e non si sentiva più in grado di farvi fronte, dispensando amorevole vicinanza a chiunque ne avesse bisogno.  Si sentiva  svuotata come una zucca ad Halloween e in procinto di accartocciarsi su se stessa, stremata.
Meglio rimanere a Hogwarts da sola, con quei pochi che avevano deciso di fare ritorno, con coloro che, come lei, non avevano più una famiglia da chiamare casa.
Era evidente che i pochi studenti che avevano scelto di rimanere a scuola erano ragazzi che avevano perso molto, troppo, durante la guerra. Giovani i cui genitori erano periti nelle rappresaglie dei Mangiamorte, giovani i cui genitori avrebbero passato quella malinconica vigilia in prigione. La maggior parte di quest’ultimi appartenenti alla casa di Serpeverde.
Sospirò nuovamente.
Non pensava che il loro dolore avrebbe fraternizzato con il suo.
Quell’angoscia la poteva vedere ogni giorno sui volti corrucciati, nelle pieghe della bocche che una volta erano state arroganti e che ora invece sembravano non sapere più neanche piegarsi in un sorriso.
Il loro smarrimento arrivava a lei attraverso occhi bassi e passi svelti.
Anche alcuni Cornovero e Tassorosso ostentavano quella triste medaglia.
Che lei si fosse unita a quella schiera di vinti aveva dell’incredibile.
 
Un turbinio di fiocchi davanti alla finestra le fece sbattere forte le palpebre e fu come cadere in un pensatoio ricolmo di ricordi, i suoi.
 
Una piccola Hermione correva accaldata, le guance rosse e gli occhi ardenti verso… i suoi amici. Quella vigilia le aveva regalato un bene prezioso, che non aveva mai realmente posseduto. Troppo intelligente, troppo integerrima, troppo strana per avere delle amicizie nel mondo babbano. Troppo insicura per poter lasciare andare quel muro di saccenteria contro il quale gli altri bambini si scontravano bruscamente.
E anche lì, nel suo vero mondo, aveva rischiato di rimanere sola, intrappolata nelle sue origini non conformi, nelle sue capacità così vivaci, nel suo orgoglio.
C’erano voluti un Troll di Montagna e un mostruoso cane a tre teste per sbriciolare il suo guscio e farsi vedere agli altri per quello che era realmente: una bambina coraggiosa e immensamente generosa. E i suoi regali erano stati raccolti da due bambini strani, diversi. Come lei.
Era felice. Felice di sentirsi finalmente parte di qualcosa, di appartenere a qualcuno, di essere necessaria a qualcuno.
La vigilia di Natale del 1991 le aveva insegnato il potere salvifico dell’amicizia.
Era tornata a casa dei suoi genitori con il cuore traboccante di gioia e novità. Una nuova vita da spiegare a mamma e papà.
 
Hermione si mosse a disagio, un po’ arrabbiata con quella bambina che era tornata a casa contenta, ma  che fremeva per ritornare indietro. Se avesse saputo che quello sarebbe stato l’ultimo Natale passato con la sua famiglia, forse avrebbe fatto di tutto per non perdersi neanche un minuto di quella effimera fortuna.
Mordendosi le labbra per non piangere, seguì con il dito un ghirigoro di ghiaccio formatosi sulla finestra. Splendeva come un piccolo diadema. Un innocente gioiello che la condusse in un altro ricordo.
 
Una ragazza si guardava allo specchio incredula: una Hermione splendente la salutava dallo specchio, con un sorriso speciale a ornarle il volto. Stava diventando una donna e non se n’era mai accorta prima di allora. I contorni del suo viso avevano perso la morbidezza tipica della fanciullezza per lasciarle contorni più decisi e uno sguardo più consapevole. Il corpo, rivestito di seta rosa, mostrava i segni del passare del tempo, con quelle curve appena accennate e quel seno ancora acerbo.
Anche il suo cuore suonava una musica diversa, più accelerata e caotica del solito.
La vigilia di Natale del 1994 le aveva regalato un sogno romantico che, qualche ora prima, era sfumato in un sogno appena più ardente a causa di un bacio rubato sulle rive ghiacciate del Lago Nero. Quella vigilia di Natale le aveva elargito il suo primo batticuore e la lusinga del corteggiamento. Un sogno reso meno luminoso da quel retrogusto amaro per non essere stata considerata degna di nota da un certo amico che la sapeva rendere infinitamente felice, ma anche infinitamente furibonda.
La giovane Hermione di allora non poteva sapere che quel Natale avrebbe segnato l’inizio di un periodo buio e tempestoso, dove quel canto accelerato e caotico sarebbe spesso passato in secondo piano: in quel momento niente poteva offuscare l’emozione di vedersi e sentirsi bella.  A quindici anni, anche se sei la strega più brillante della tua età, a volte sentirsi all’altezza è tutto ciò che conta. 
Volteggiare, ammirata da tutti, insieme a Victor l’aveva colmata di una leggerezza che non aveva mai provato, che non si era mai concessa. Si sentiva inebriata, come se invece di succo di zucca stesse bevendo costoso vino elfico.
 
Ma quella sensazione durò poco: la morte di Cedric decretò la fine dell’innocenza.
Il male esisteva e li stava cercando freneticamente.
Hermione ora lo sapeva: quando il male ti tocca, ti lascia una ferita sempre aperta. Ti lascia una cicatrice che prude e si spacca e un cuore un poco più nero e malandato.
 
 

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Capitolo 2
*** Capitolo 2 ***


Capitolo 2
 
Natale
 
Non ho voglia
di tuffarmi
in un gomitolo
di strade

Ho tanta
stanchezza
sulle spalle

Lasciatemi così
come una
cosa
posata
in un
angolo
e dimenticata
Qui
non si sente
altro
che il caldo buono
Sto
con le quattro
capriole
di fumo
del focolare.
 
-G. Ungaretti-
 
 
 
Hermione si mosse a disagio, un fastidioso spiffero d’aria a tormentarle la carne delicata del collo. Avrebbe dovuto annodarsi una sciarpa, ma non si sentiva ancora pronta ad abbandonare la sua postazione davanti alla finestra: in fondo ci stava comoda, una cosa posata in un angolo e dimenticata da tutti.
Alzò verso l’alto i lembi della camicia e quel gesto la riportò ad un’altra vigilia, una vigilia in cui, improvvisamente, una profonda e incontrollabile angoscia si era mescolata alla gioia di non aver sperato invano.
 
Ricordava come fosse ieri l’estenuante attesa di ricevere notizie dal San Mungo, lo sguardo allucinato di Harry, la tormentata atmosfera che si respirava a Grimmauld Place: tormento che sembrava nutrirsi dello spirito ammaccato del suo proprietario, Sirius Black, e degli altri occupanti occasionali, spettri di un tempo passato che cercavano di lottare contro la tragedia imminente.
 
Sirius Black odiava il freddo. Odiava gli spifferi d’aria che quella casa ostile gli rovesciava addosso a tradimento: gli ricordavano le dita inconsistenti dei Dissenatori che giorno e notte l’avevano ghermito per dodici, interminabili, anni. Aveva sempre il collo avvolto in tarlate sciarpe di seta, vestigia di un prestigioso passato ormai morto e sepolto.
Sirius Black il cuore sporcato di male lo aveva davvero: non si può rimanere così tanti anni a contatto con la paura senza esserne irrimediabilmente macchiati. Un’ombra polverosa gli era rimasta appiccata addosso e a Hermione quell’ombra faceva spavento. Lo vedeva muoversi, camminare, parlare, ma non sembrava esattamente di questo mondo: le ricordava un Peter Pan demoniaco che percorreva il sottile velo che separava il mondo dei vivi da quello dei morti. Non poteva sapere allora quanto la sua intuizione si sarebbe rivelata rovinosamente giusta.
Era un ragazzo intrappolato nel corpo di uomo, ancorato ad una realtà che l’aveva tenuto in vita, ma che ormai non esisteva più.
E il modo in cui influenzava il suo più caro amico la preoccupava oltre misura.
Harry non era in sé, vagava preda di voci e visioni, tormentato da milioni di sensi di colpa, dalle urla strazianti del padre di Cedric, dalle parole del fantasma del ragazzo che lo implorava di riportare indietro il suo corpo: persino il suo primo amore era infangato da quella follia. Sirius eccitava la fantasia del giovane Potter in un modo che lei reputava malsano, ma non aveva mai trovato il coraggio di affrontare quel discorso con lui. Lui che, per la prima volta, aveva provato la calda sensazione di avere una famiglia.

Il 1995 si avviava a concludersi nel sangue e nel terrore. Arthur Weasley era stato ferito in maniera brutale: la morte alitava davvero sul loro collo di ragazzi.
Ma la Vigilia di Natale aveva mantenuto la sua promessa di serenità e avevano potuto brindare furiosamente alla vita. Avevano tenuto levati in alto i bicchieri ringraziando Harry Potter, tuttavia Hermione sapeva quanto il suo più caro amico avrebbe voluto squarciarsi quella maledetta cicatrice ed estirpare la mala pianta che aveva messo radici nella sua anima e nella sua mente.
Mentre tutti esultavano, Hermione si era lasciata sopraffare da quel collettivo respiro di sollievo. Un respiro destinato a spezzarsi presto.
Nubi dense si addensavano sopra le loro teste, turbinando e vorticando, portandosi via la loro giovinezza. Mentre poggiava le labbra al bicchiere, Hermione aveva capito che niente sarebbe stato più come prima: a Harry era stata strappata la purezza, a Ron la certezza dell’indissolubilità dei suoi legami famigliari e lei si era trovata ad annaspare in quel mare di sentimenti contrastanti.
La Vigilia di Natale del 1995 le aveva confermato ciò che la morte di Cedric aveva predetto:  la perdita di tutte le illusioni infantili. Il passato incominciava ad avere un peso specifico, un fardello depositato tra le scapole, ogni anno più greve.
Un giorno di quasi estate avevano dovuto fare i conti con la Nera Signora e guardare in faccia il volto del male assoluto. Peter Pan era stato scacciato dall’ Isola che non c’è e Capitan Uncino ne aveva preso possesso. I bambini sperduti vagavano nell’oscurità.
 
Adesso Hermione, a distanza di tempo, poteva comprendere le cause di quell’inquietudine appiccicosa: era la paura di non farcela, di diventare un’ adulta spezzata nel corpo e nello spirito. Era il terrore di lottare fino all’ultimo respiro e ritrovarsi a stringere in mano un pugno di mosche. Di non avere altro che i rimpianti a tenerle compagnia, come Sirius Black.
 
E alla vigilia di Natale del 1996, l’odiosa sensazione di perdere tutto e scivolare nel niente le era stata fatta trovare sotto l’albero.
 
Un gigantesco equivoco le aveva strappato Ron dalle mani: era tornata a casa dai suoi, ma non si era gustata niente di quell’atmosfera che non assaporava da moltissimi anni.
L’ultima immagine che i suoi occhi trattenevano era quella di Ron risucchiato dalle labbra sconce di Lavanda Brown.
E si sentiva così sciocca a preoccuparsi di quel sentimento futile, mentre la guerra spingeva alle porte di Hogwarts, ma non riusciva a farne a meno.
Poteva ancora percepire nella bacchetta la veemenza dell’incantesimo con il quale aveva attaccato Ron. L’amarezza di essere stata tradita, pur sapendo che nessun giuramento era mai stato pronunciato, le imbrattava ancora gli occhi e la bocca.
In quella sera magica le sue compagne erano state la Gelosia e la Rabbia.
Aveva sedici anni e il cuore ridotto a brandelli.
 
Hermione sorrise alla se stessa di allora: era stata fortunata nel sentire quei morsi allo stomaco. Alla fine, quella Vigilia di Natale le aveva regalato l’illusione di una adolescenza normale. Probabilmente, se avesse potuto vedere ciò che l’aspettava nel nuovo anno, si sarebbe risparmiata qualche lacrima e avrebbe approfittato di ogni minuto disponibile per dire addio ai suoi affetti più sinceri.
 
 
Il freddo non l’abbandonava mai, acuito dai morsi della fame e rintuzzato dalle preoccupazioni soffocanti che quella cerca senza fine apparecchiava tutti i giorni davanti a lei.
L’inverno sembrava essere iniziato anzitempo quell’anno, forse a causa delle notti passate a montare la guardia nell’oscurità più assoluta, con l’ unica compagnia di quel piccolo cuore malvagio che batteva in maniera asincrona sul suo seno, chiuso in un medaglione conquistato tra atroci tormenti.
Aveva diciassette anni e portava addosso un pezzo dell’anima di Voldemort.
Il suo corpo, che sarebbe dovuto essere rigoglioso, appariva scarno ed eroso dalle privazioni; la sua anima, anziché protesa verso il futuro, stava accartocciata in un angolo, perché il presente ostruiva qualsiasi orizzonte.
Fu in quelle notti che le conseguenze della scelta fatta a undici anni le si palesarono in tutta la loro grandezza: non aveva più casa, non aveva più radici, nessuno conservava memoria della sua parte babbana, la stessa parte che nel mondo magico stavano estirpando con grande determinazione. Sapeva dov’era, ma non da dove proveniva. Sola. Sola come Sirius Black e il suo male di vivere.
Harry pareva aver smarrito la strada che aveva sempre seguito ciecamente, una via che portava il nome di Albus Silente,  e Ron,  il Suo Ron, cammina come un condannato sulla strada verso patibolo, gravato da dubbi e da insidiosi tormenti che lo rendevano instabile e pungente. La guerra aveva già ottenuto il suo tributo di vite umane e ancora ne avrebbe reclamate.
Una notte il mondo precipitò rovinosamente, lasciando al suo posto solo un enorme, dilaniante, buco nero. Ron non c’era più  e tutto andò in mille pezzi.
Il freddo divenne perenne, fuori e dentro.
 
Fu con queste premesse che lei e Harry decisero di tentare la sorte.
Arrivarono a Godric’s Hollow in una gelida serata fulgida di stelle, tenendosi per mano per non smarrirsi, per non perdersi almeno loro. I cuori traboccanti di aspettative e impastati di paura ed emozioni a fior di pelle. In quel momento una era tutto per l’altro e viceversa: tutto ciò che rimaneva in un mondo cosparso di rovina.
Fu in quel momento che Hermione si accorse con grande stupore che nel mondo babbano il tempo non si era arrestato, ma aveva continuato a fluire normalmente, senza inciampi.
Anche in quell’anno funesto la Vigilia di Natale era arrivata lo stesso e veniva celebrata nelle Chiese, veniva festeggiata nel caldo rumoroso di un pub, viveva nello scintillio artificiale di luci e festoni. Nonostante loro, nonostante Voldemort, la notte più magica dell’anno era giunta ugualmente.
Accompagnati dalla dolcezza che sapeva di buono delle Carole di Natale, Hermione e Harry si erano aggirati timorosi nel piccolo cimitero di campagna. La neve brillava alla luce degli astri e per un attimo quell’atmosfera rarefatta li aveva protetti come in una bolla di vetro. Infine Hermione aveva trovato il regalo che la Vigilia di Natale del 1997 aveva deposto ai piedi della tomba di Lily e James: la compassione. Lì, inginocchiata insieme a Harry, ne aveva compreso per la prima volta il vero significato: percepire addosso a sé la sofferenza altrui e provare l’impetuoso desiderio di alleviarla. In quei tempi disgraziati era il regalo più bello che mai avrebbe potuto desiderare, perché significava essere ancora in grado di discernere cosa fosse giusto e cosa sbagliato, di dare valore alle persone e ai loro sentimenti. Significava non essere stati soggiogati da quel piccolo pezzetto di anima nera che ballonzolava sui loro petti in una danza macabra e funerea.
 
E anche dopo che quella bolla, quieta e malinconica, venne squarciata nel modo più brutale possibile, quel sentimento continuò a rimanere saldo in lei. La disperazione non l’avrebbe mai più presa alla gola: da quel momento i suoi passi sarebbero stati dotati di nuovo vigore.
 
O almeno così aveva creduto.
 
 
 
 
 

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Capitolo 3
*** Capitolo 3 ***


Capitolo 3
 
Neve, insegnami tu come cadere,
Nelle notti che bruciano
A nascondere ogni mio passo sbagliato.
E come sparire senza rumore,
Scivolare nel corso degli anni
E non pesare sul cuore degli altri, ma
 
Ma non è semplice non sentire il silenzio che c'è
Qui non è facile guardare il cielo stanotte
 
Come neve - Giorgia e Marco Mengoni
 
 
La neve continuava a mettere in scena  la sua danza al di là del vetro: aveva un andamento ipnotico e suadente, capace di ovattare non solo la natura circostante, ma anche il suo cuore malato.
Perché Hermione ormai l’aveva capito: qualcosa si era irrimediabilmente rotto là dentro, gli ingranaggi si erano arrugginiti e scricchiolavano stridendo.
Aveva creduto che la sconfitta di Voldemort avrebbe sistemato tutto: una volta ricacciato definitivamente nell’ombra dalla quale era arrivato, tutto avrebbe riacquistato un senso.  Non era stato così.
 
I giorni successivi alla battaglia erano stati dedicati alla conta dei morti e il fatto che la maggior parte di essi portassero le sembianze di persone conosciute, di amici intimi con i quali aveva condiviso gran parte della propria vita, aveva reso quel pietoso compito un inferno.
Hermione si aggirava, insieme ai sopravvissuti, tra le macerie della scuola con il terrore di vedere sbucare all’improvviso un braccio, un piede, un ciuffo di capelli: una realtà molto probabile purtroppo.
Aveva ricacciato indietro le lacrime e il disgusto e aveva fatto il suo dovere senza risparmiarsi. Aveva ricomposto corpi, chiuso occhi spalancati, avvertito con tutto il tatto possibile le famiglie dei defunti, sopportato pianti, urla e disperazione.
 Si era imposta di mantenersi salda per Ron e Ginny: la perdita di Fred era una bestemmia talmente grande da lasciare senza fiato. Avrebbe voluto fare di più per George, ma il suo sconcerto e il suo dolore erano al di là della sua comprensione. Da figlia unica non poteva comprendere fino in fondo le dinamiche che legano un fratello ad una sorella e men che meno quel rapporto speciale e nascosto, quella magia, che unisce due esseri umani che hanno condiviso lo stesso ventre, lo stesso seno e perfino la stessa faccia. 
Tentare di spiegarlo con il fatto che il giovane uomo avesse perso una parte di sé era riduttivo: la verità era che, nel momento in cui Fred aveva chiuso gli occhi, George aveva perso se stesso negli occhi dell’altro. Non si era più trovato, come se non fosse mai esistito. 
 
Hermione aveva spalancato le esili braccia per dare rifugio a Ginny, per calmare i singhiozzi di Ron, per tentare di mantenere ancorata alla terra Molly. L’aveva fatto più e più volte fino a dimenticare sé stessa.
Allo stesso tempo aveva scrutato nell’animo di Harry alla ricerca di una speranza, ma vi aveva trovato solo colpa bruciante.
Non importava che avesse sconfitto Voldemort sacrificando volontariamente la sua stessa vita per tutti loro: non era abbastanza. 
Non era bastato ad evitare che il piccolo Teddy rimanesse orfano a pochi mesi dalla nascita o che molti si fossero sacrificati per lui, per dargli il tempo di portare a termine il suo compito. Quei morti, quegli orfani, gravavano tutti sulla sua coscienza. 
Hermione aveva passato le notti successive a strappare minuti al sonno per rovesciare in Harry tutto la razionalità che era riuscita a trovare, ma inutilmente.
 
Si era gettata nella ricostruzione di tutte quelle vite scordandosi di riparare la propria.
E adesso le sembrava tardi: adesso che il tempo aveva iniziato a colmare i vuoti lasciati, lei, quel vuoto, lo portava dentro, come un figlio non voluto.
Era tornata a Hogwarts serbando la timida speranza che quelle vecchie mura e tutto il sapere in esse racchiuso sarebbero stati in grado di darle la pace che stentava a ritrovare.
Fu con sgomento che dovette ammettere di aver compiuto il più grosso errore della sua vita: sebbene le tracce della battaglia fossero state prontamente rimosse, ogni angolo e ogni pietra la riportavano indietro nell’orrore.
Ogni giorno la sua mente labile non poteva fare a meno di ripetere una triste litania: la torre dalla quale è caduto Silente, la nicchia dove è stato nascosto il corpo di Fred, la pietra dove Tonks e Lupin sono caduti, la rimessa dove Piton ha pianto le sue ultime lacrime. Tutti i giorni.
La mente aveva iniziato a tirarle brutti scherzi e farle vedere cose che non esistevano, paralizzandola e annullando qualsiasi cosa intorno a lei. Se lo ricordava ancora quando il panico le aveva tagliato la gola nel corridoio del quinto piano: era certa di aver visto il cadavere di un ragazzino, sicura che quel sangue che fuoriusciva dalle sue labbra fosse reale.  Se Ginny non fosse comparsa all’improvviso probabilmente avrebbe semplicemente smesso di respirare.
Se non fosse stato per la blanda pozione che la cara infermiera Poppy Chips le aveva pietosamente fatto avere non sarebbe mai più stata in grado di dormire.
E ciò nonostante era rimasta, perché sentiva che quel luogo non aveva ancora finito con lei, perché sapeva che, da qualche parte, sarebbe arrivata la risposta ai suoi patimenti.
 
La ragazza appoggiò la fronte al vetro nella speranza di poter lenire quella morsa che stringeva le tempie, ma alla fine si risolse a mettersi in piedi e ad andare a recuperare una pozione contro il mal di testa.
L’orologio a pendolo della Sala Comune le ricordò che era quasi ora di scendere per la cena della Vigilia. Pensò brevemente a tutte le scuse che avrebbe potuto inventare per risparmiarsi quel supplizio, ma non riuscì a partorire nulla di convincente. La Preside non l’avrebbe mai dispensata da quella incombenza, non le avrebbe permesso di rimanere a crogiolarsi nell’ apatia. Da quando aveva fatto ritorno a Hogwarts lo sguardo preoccupato di quella donna intrepida non la lasciava mai e se questo da una parte la inteneriva, dall’altra le provocava una terribile irritazione. Non aveva bisogno della preoccupazione altrui, perché la sua era più che sufficiente.
 
Sbuffò sonoramente guardandosi di sfuggita allo specchio: i capelli ricadevano opachi e scomposti, gli occhi apparivano affaticati e spenti. Il corpo non era ancora riuscito a riprendersi dalle fatiche che aveva dovuto sopportare: le ossa delle anche sporgevano tendendo la pelle sottile, così come le scapole e le clavicole. Hermione non era mai stata robusta, ma ora si sentiva fragile e incerta. Stanca.
Si buttò sotto la doccia e una volta uscita si costrinse a presentarsi al meglio delle sue esigue possibilità.
Uno chignon voluminoso mise in evidenza la delicatezza del collo, un tocco di lucida labbra sparse del colore sul viso pallido, mentre un sobrio vestito rosso cupo riparava il suo corpo da sguardi troppo indiscreti.
 
Alle sette meno cinque abbandonò la sua tana per andare incontro a quella ennesima Vigilia di Natale che non aveva sapore, colore ne odore.
 
La Sala Grande era… era… disadorna. Disadorna sebbene il professor Vitious l’avesse decorata come di consueto con maestosi abeti scintillanti , carichi di deliziosa magia.
Hermione ricordava ancora lo stupore e l’emozione che aveva provato nel trovarseli di fronte il primo anno: le sembrava di non aver mai festeggiato il Natale prima di allora.
Ma adesso, spogliata di tutti i suoi ragazzi, la magia sembrava non riuscire a scalfire la tristezza che aleggiava come un nugolo di Gorgosprizzi sulle teste dei pochi presenti. Una trentina circa, tra studenti e professori.
Diede una rapida occhiata tutto intorno e vide per la maggior parte ragazzi Serpeverde del settimo e sesto anno, sei o sette Corvonero, cinque Tassi ed infine lei, unica Grifondoro presente a condividere pena e mestizia.
Tra i Serpeverde riconobbe  Nott,  Millicent Bulstrode e ovviamente Draco Malfoy, intento a fissare il calice dorato posto di fronte a lui. Di altri conosceva i volti, ma non i nomi, alcuni erano più giovani di lei di alcuni anni. Qualcuno aveva la faccia tirata e appena rabbiosa, altri invece sembravano sul punto di scoppiare in lacrime da un momento all’altro. Hermione  poteva intuire chiaramente chi fossero i vinti e chi le vittime.
 
La Preside la salutò con calore, così come gli altri professori, mentre gli studenti si accontentarono di un dignitoso silenzio o un piccolo cenno del capo. Era chiaro che nessuno dei presenti voleva essere lì in quel momento, così come Hermione poteva percepire su quelle labbra la medesima domanda inespressa: che diavolo ci faceva Hermione Granger in mezzo a quel gruppo di reietti? Anche i professori sembravano arrovellarsi sulla stessa domanda. Minerva aveva tentato dal dissuaderla a rimanere, aveva cercato di indurla ad accettare l’invito dei Weasley, ma anche in quel caso la giovane non aveva voluto sentire ragioni. Ed eccola lì.
 La McGranitt la guardò prendere posto e poi si alzò per fare un breve discorso. Hermione non seppe dire esattamente cosa la fece desistere dal farlo: l’anziana donna rimase qualche secondo con il bicchiere in mano, osservando quelle facce  inespressive e tragiche allo stesso tempo, dopodiché borbottò qualcosa di incomprensibile e si risedette pesantemente sul suo scranno.
“Ragazzi miei…comprendo che questo sia l’ultimo luogo sulla faccia della terra dove vorreste essere, ma dobbiamo fare di necessità virtù. Spero che questa magica notte possa portarvi ciò che più desiderate al mondo. A voi!” disse commossa.
Tutti la guardarono stupiti per quello slancio di disincantata sincerità e levarono in alto i bicchieri più per scaramanzia che per convinzione.
Hermione sentiva gli occhi pungerle: espresse il desiderio di poter ridare al più presto la memoria ai suoi genitori.
 
Se non fosse stata così immersa nei suoi pensieri, probabilmente si sarebbe accorta di aver destato, suo malgrado, la curiosità del giovane Malfoy.
La osservava di sottecchi, brevemente.
Che diavolo ci faceva lì Hermione Granger?
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 

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Capitolo 4
*** Capitolo 4 ***


Cap. 4
 
Alla vigilia di Natale

Oggi siamo seduti, alla vigilia
di Natale, noi, gente misera,
in una gelida stanzetta,
il vento corre fuori, il vento entra.
Vieni, buon Signore Gesù, da noi, volgi lo sguardo:
perché tu ci sei davvero necessario.
 
-Bertolt Brecht-
 
 
Alla fine dello stringato discorso della Preside, la tavola si riempì magicamente di ogni sorta di leccornia. Questo evento, che in altri tempi avrebbe suscitato gridolini estatici, passò invece quasi sotto silenzio.
 
Le labbra della Mcgranitt si fecero ancora più sottili: aveva banalmente sperato che quei piatti succulenti sarebbero riusciti a spezzare almeno per qualche istante la tensione e la malinconia di quella triste Vigilia.
L’anziana donna non poté fare a meno di sospirare e il pensiero corse alle innumerevoli cene che Hogwarts aveva offerto ai suoi studenti sotto le feste: la bizzarra gioia di Silente nel vedere quelle faccine stupite e incredule, le risate e il chiacchiericcio eccitato dei suoi studenti, gli scherzi e i piccoli doni che comparivano e scomparivano nelle tasche delle divise. La cena della Vigilia era sempre stato un momento felice.
 
Mentre portava alla bocca un canapè rosso fuoco, le sue sopracciglia si aggrottarono al pensiero della Vigilia dell’anno prima. Molti studenti erano rientrati a casa per sfuggire alle angherie dei Mangiamorte, ma molti erano stati costretti a rimanere.
Pensò con un misto di irritazione e nostalgia a Piton, seduto al posto che ora lei occupava: nessun discorso edificante era uscito dalla sua bocca, nessun incoraggiamento, nessuna speranza.
Adesso che aveva appreso nel modo più brutale la verità sul conto del defunto collega non poteva fare a meno di ripensare ai suoi occhi pensierosi e feroci insieme mentre, dall’alto del suo scranno, aveva fatto scorrere lo sguardo sugli studenti: chissà cosa avrebbe fatto se fosse stato libero da quel fardello indicibile che Silente non aveva esitato a posargli sulle spalle e di cui lui si era fatto carico senza battere ciglio, nel tentativo di allievare la colpa di un tempo che fu. La sua vita doveva essere stato un susseguirsi di gironi infernali.
Una vita passata a proteggere il figlio che l’unico amore della sua vita aveva avuto con la sua nemesi, una vita a trovare strategie per rendersi il più sgradevole possibile ai suoi occhi, perché le sue reali intenzioni non venissero mai a galla. Chissà cosa aveva significato specchiarsi in quegli occhi verdi nell’ultimo minuto di quella vita scorticata. Minerva rabbrividì e sperò con tutta sé stessa che alla fine avesse trovato la sua assoluzione: se la meritava.
 
Non era stata una bella Viglia di Natale quella dell’anno prima, ma non avrebbe potuto essere diversamente e lei era consapevole che avrebbe dovuto tenere duro, stringere i denti e andare avanti sulla strada prefissata, per proteggere quelle giovani vite dalla furia del male e della guerra. Era pronta e non aveva avuto tentennamenti o dubbi.
Ma ora… ora si sentiva sfibrata e senza armi, senza magia per strappare quelle anime a brandelli che le stavano davanti. Figli di Mangiamorte con il futuro spezzato dalle scelte sconsiderate di chi avrebbe dovuto proteggerli, già intrisi di quella malvagità che avevano assunto con il latte materno; figli delle vittime dei Mangiamorte che non avevano più una famiglia, un posto sicuro dove tornare, che covavano rancore e frustrazione. Cosa avrebbe potuto fare per loro? Niente. L’unica risposta che le veniva in mente era niente. E questo le faceva ribollire il sangue di rabbia, perché con le mani in mano ad accettare la disfatta lei non era capace di stare. Aveva passato i lunghi mesi precedenti a confrontarsi con il ritratto di Silente, ma la figura dell’uomo non era stato in grado di dissipare quelle nubi che le stringevano il petto in una morsa.
E poi c’era lei: la Granger.  Pallida e silenziosa le sfilava davanti come uno spettro giorno dopo giorno, inchiodandola con la sua depressione alla sua inadeguatezza; non c’era niente che lei o i suoi amici potessero fare o dire per farla reagire. La ragazza si limitava a galleggiare.
Quando Molly le aveva scritto preoccupata e furente per dirle della decisione di Hermione di non passare il Natale con loro, lei aveva compreso che la situazione ormai era sfuggita al controllo di tutti. E ancora non sapeva come intervenire. Inadeguata. Mai avrebbe pensato di arrivare alla sua veneranda età e sentirsi insicura come ragazzetta. Lo odiava.
 
Si riscosse da questi rumorosi pensieri solo perché si accorse che Pomona la stava chiamando insistentemente. Sospirò di nuovo e si apprestò a concederle la sua svogliata attenzione.
 
Hermione aveva cercato di non dare peso alle occhiate pensierose che la Preside le aveva rivolto fino ad allora: la testa china sul piatto a giocherellare con della gelatina verde acido.
Avrebbe voluto con tutta sé stessa sollevare l’anziana donna dalla sua preoccupazione, ma era consapevole di non essere credibile. Si odiava.
Sollevò leggermente lo sguardo e guardò brevemente i suoi compagni: solo allora parve prendere consapevolezza del fatto che nessuno stava parlando, nessuno sorrideva. Le venne da vomitare.
Attirata da un movimento, voltò leggermente lo sguardo e fu sinceramente sorpresa di cogliere lo sguardo grigio di Malfoy posato su di sé. Fu solo un attimo, ma sufficiente per lasciarle una sgradevole sensazione addosso.
Scrollò le spalle e ritornò a dedicarsi alla gelatina.
Non aveva più avuto modo di avere uno scambio con lui dal giorno del processo ai Malfoy quando lei, Harry e Ron avevano testimoniato relativamente ai fatti che li avevano visti protagonisti: la menzogna di Draco alla zia Bellatrix e le parole che Harry aveva ascoltato sulla Torre di Astronomia insieme all’enorme voltafaccia di Narcissa nella Foresta Proibita.
Questo aveva permesso ai due di risparmiarsi il carcere, ma non aveva salvato Lucius da un periodo di detenzione. Se ne avesse avuto l’occasione quell’uomo meschino non avrebbe esitato a ucciderli con le proprie mani, ma Malfoy senior sapeva come voltare le situazioni a sua favore e in cambio di una collaborazione fattiva con gli Auror si era scampato molti anni.
Si chiese come mai Malfoy non fosse a casa a farsi coccolare da mammina, invece che mischiare il suo sangue con tutti quei relitti. Un piccolo ghigno le apparve sul volto al ricordo delle parole di Ron che sconcertato, in mezzo alla battaglia, si era ritrovato a salvare le chiappe del furetto per ben due volte.
Non ricordava che Malfoy li avessi mai ringraziati.
Chissà perché era lì.
Sicuramente aveva notato che gran parte della sua fottuta arroganza era evaporata come neve al sole e che nei rari casi in cui si incrociavano nel castello ciascuno si limitava ad ignorare cordialmente la presenza dell’altro: ormai si erano detti tutto quello che pensavano reciprocamente nel corso di sei lunghi anni e non c’era niente da aggiungere.
Era stato detto che il ragazzo era stato costretto a marchiarsi per evitare ritorsioni contro i suoi genitori, aveva sentito parole come pentimento, lavaggio del cervello, ma Hermione Granger vi aveva creduto fino ad un certo punto. Certo non era un Mangiamorte incallito, ma un viziato razzista senza palle sicuramente sì.
Non aveva certo perso tempo a darsi pena anche per lui.
 
Draco Malfoy si ricoprì di improperi mentali per essere stato colto in fallo dalla Granger.
Sentiva il nervosismo invadere le vene: perché la Preside non metteva fine a quel supplizio? Maledetta Megera!
La presenza della Mezzosangue lo agitava più del necessario: era certo che avrebbe passato quella merdosa viglia con quelli della sua disgraziata specie, non con la Salvatrice del mondo magico, come era stata chiamata per mesi sui giornali.
Anche se… anche se non aveva l’aria di una che era salita trionfante sul carro dei vincitori.
Ma questo l’aveva capito da tempo: dal primo giorno che se l’era trovata a scuola. Quella cosa magra e smunta che camminava per i corridoi, non era certo la Granger superba e sfacciata che aveva conosciuto. All’inizio la sua aria afflitta l’aveva divertito, ma poi aveva provato un fastidio crescente di fronte a quelle occhiaie e a quella apatia. Più volte era stato sul punto di rivolgerle un insulto solo per il gusto di vederla reagire; non l’aveva fatto solo perché probabilmente la McGranitt l’avrebbe spedito dritto a far compagnia a suo padre in una schifosa cella. E l’ultima cosa che voleva era passare del tempo con Lucius: aveva bisogno di disintossicarsi dal padre. E da sua madre, anche. Ecco, perché si era rifiutato di raggiungerla per Natale, ovunque si trovasse ora.
 
Con il Manor sotto sequestro, erano stati costretti a trasferirsi di volta in volta nelle varie proprietà sparse in giro: Narcissa non sembrava mai soddisfatta e continuava a spostarsi come una trottola.
Malfoy comprendeva il suo disagio: la casa, con tutte le sfumature che questo termine si portava appresso, e l’unità della famiglia erano state la sua unica preoccupazione, l’unica cosa per cui avesse lottato con le unghie e con i denti. Durante gli ultimi due anni si era reso conto che sua madre era una donna eccezionalmente forte e intelligente: se non si erano completamente rovinati era stato solo grazie a lei. Aveva passato la sua vita a elemosinare l’approvazione di Lucius Malfoy, senza accorgersi che l’unica di cui avrebbe dovuto temere il giudizio era sua madre. Lucius era colui che si pavoneggiava in giro, Narcissa colei che cercava di far andare avanti la baracca.
Tuttavia adesso la signora Malfoy sembrava persa senza i suoi punti di riferimento, completamente smarrita. Draco aveva cercato di sostenerla come meglio aveva potuto, ma ad un certo punto aveva compreso che lui non poteva fare nulla per curare le sue ferite e così l’aveva lasciata in pace, accettando il fatto che peregrinasse da una casa all’altra.
Era tornato a scuola non perché gli interessasse completare la sua istruzione, ma perché di fatto non aveva altro posto dove andare a nascondersi, per sottrarsi alla curiosità morbosa, al biasimo e al disprezzo che si erano rovesciati sulla sua famiglia come fumante cacca di drago.
Perlomeno lì sarebbe stato quieto per molti mesi: le occhiate malevole dei compagni, l’ostracismo di cui era stato fatto oggetto, persino i non tanto velati insulti e i pugni palesi che a volte sgusciavano fuori all'improvviso dalle ombre del castello erano preferibili all’incubo senza futuro che lo aspettava fuori. Non nutriva alcuna speranza: nessuno lo avrebbe mai preso a lavorare da qualche parte, nessuno si sarebbe mai fidato di lui e del marchio che gli imbrattava il braccio sinistro. Ringraziò Salazar di essere sufficiente ricco da poter continuare a condurre una esistenza oziosa e agiata, lontano da tutto. Il suo unico obiettivo attualmente era quello di essere dimenticato.
Inoltre, dopo due anni con la casa occupata dal Signor Oscuro, dai Mangiamorte e da tutte quelle bestiacce che si portavano appresso, gli sembrava di stare in paradiso.
Nessun folle maniaco a torturarlo psicologicamente e fisicamente, nessuna pazza zia a saltellargli intorno famelica, come fosse un prelibato bocconcino da donare al suo amato Lord Oscuro, niente grida strazianti, niente prigionieri insanguinati o cadaveri da dare in pasto a quell’orrido serpente. Niente di niente. Che gli importava di qualche insulto mormorato a mezza voce nei corridoi, un labbro spaccato, quando per due lunghissimi anni aveva avuto l’inferno comodamente seduto nel suo salotto?
Perfino quella merdosa cena di Natale gli sembrava un bacchetto di nozze, pieno di gente felice a confronto con la cena dell’anno prima.
Un brivido gelato gli percorse la spina dorsale, mentre i ricordi lo assalivano.
 
Lord Voldemort aveva preteso una cena sontuosa, in puro stile purosangue. Aveva costretto Narcissa ad addobbare il salotto con sfarzosi abeti, luci e incantesimi e le aveva dato precisi ordini sulle pietanze da servire: vedere sua madre trattata alla stregua di un elfo domestico gli aveva fatto provare una rabbia sconfinata, quanto inutile.
Bellatrix sembrava essersi trasformata nella vera padrona di casa: ronzava intorno lanciando ordini e discutendo su tutto. Proprio lei che aveva passato gran parte della sua vita in una cenciosa cella ad Azkaban.
I Mangiamorte che bazzicavano in casa non perdevano occasione per umiliare suo padre e di riflesso anche lui. Draco si sentiva soffocare in quella atmosfera artefatta e carica di pura malvagità. Avrebbe desiderato che il padre si ribellasse in qualche modo, che si spendesse per difendersi e per difendere Narcissa, ma l’uomo tremava e strisciava servile tra quella gente vile, che un tempo gli si rivolgeva in maniera quasi sottomessa.
Quella Vigilia gli aveva lasciato in dono il disvelamento della sudicia ipocrisia di cui il suo ceto sociale era impregnato.
Si erano accomodati a tavola  e Voldemort aveva preteso che Narcissa li servisse tutti. Sua madre non aveva battuto ciglio, ma con tutta la dignità di cui era capace era rimasta impassibile, la schiena dritta. Draco non l’aveva mai amata tanto.
E poi… poi all’improvviso il viso rilassato di Voldemort si era distorto in una morsa terrificante, che aveva lasciato tutti senza fiato.
Era balzato in piedi rovesciando tutta la tavola ed era… sparito.
Nell’aria solo una parola era rimasta sospesa: Harry Potter.
 
Il giovane si riscosse da quei brutti ricordi con la gola riarsa e un fastidioso prurito al braccio sinistro.
Bevve tutto d’un fiato un bicchiere d’acqua per calmare i nervi, immaginando che fosse Whisky Incendiario e pensò, una volta di più, di aver fatto la scelta giusta a ritornare a scuola.
 
L’unica gigantesca pustola che infettava il suo piano perfetto era lei: Hermione Granger e la sua sottile disperazione.
 
 

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Capitolo 5
*** Capitolo 5 ***


Capitolo 5
 
La rabbia
 
(…)
 
Ah, gridare è poco, ed è poco tacere:
niente può esprimere una esistenza intera!
Rinuncio a ogni atto… So soltanto
che in questa rosa resto a respirare,
in un solo misero istante,
l’odore della mia vita: l’odore di mia madre…
Perché non reagisco, perché non tremo
di gioia, o godo di qualche pura angoscia?
Perché non so riconoscere
questo antico nodo della mia esistenza?
Lo so: perché in me è ormai chiuso il demone
della rabbia. Un piccolo, sordo, fosco;
sentimento che m’intossica
esaurimento, dicono, febbrile impazienza
dei nervi: ma non ne è libera più la coscienza.
 
Il dolore che da me a poco a poco mi aliena, 
se io mi arrabbio appena,
si stacca da me, vortica per conto suo,
mi pulsa disordinato alle tempie,
mi riempie il cuore di pus,
non sono più padrone del mio tempo…
Niente avrebbe potuto, una volta, vincermi.
Ero chiuso nella mia vita come nel ventre
materno, in quest’ ardente
odore di umile rosa bagnata.
 
(…)
 
Tratto da “La Rabbia” di Pier Paolo Pasolini
 
 
Hermione aveva messo da parte la gelatina verde appena mangiucchiata e stava contemplando una minuscola porzione di tacchino ripieno con accanto una solitaria patata arrosto: la tristezza complessiva del piatto era dolorosamente evidente. Probabilmente se al posto suo ci fosse stato seduto Ron, questo non avrebbe perso tempo ad assaggiare, anzi a sbranare, qualsiasi piatto visibile sulla tavola imbandita. Sua sorella probabilmente gli avrebbe detto che la sua vista lo disgustava, mentre Harry si sarebbe sforzato di non ridere di fronte all’ennesimo battibecco. Chissà, forse in quel momento alla Tana si stava svolgendo la stessa scena a cui tante volte anche lei aveva assistito. Anche se nutriva dei dubbi in proposito: molto più probabilmente Ron si stava lanciando in lunghe e arzigogolate teorie sul suo rifiuto a passare la Vigilia con loro. A Hermione pareva quasi di vederlo: la faccia rossa, lo sguardo cupo. Caro Ron. Sapeva benissimo di avergli spezzato il cuore, di essere stata un po’ dura nella sua ultima lettera, ma non si sentiva di fare altrimenti. Lui le aveva più volte chiesto se quel bacio che si erano scambiati in mezzo al clangore della battaglia non avesse significato niente e Hermione gli aveva risposto che voleva essere sicura che lui la amasse anche lontano da una morte imminente o da un lutto devastante. Perché in quei momenti era facile scambiare per amore la paura e lei questa domanda se la stava facendo da molte settimane. Non gli attribuiva nessuna colpa, ma Ron non voleva comprendere il suo punto di vista: continuava a ripeterle che era lei l’unica donna della sua vita, tuttavia Hermione non poteva pensare di legarlo a sé ora che non sapeva nulla e che tutto sembrava non aver alcun contorno certo.
Nell’ultima missiva che aveva ricevuto da lui aveva trovato nella busta una piccola rosa tardiva essiccata. Sapeva che proveniva dalla Tana: tante volte aveva tuffato il naso in quei roseti, sentendosi a casa e forse Ron aveva pensato di suscitarle ricordi felici. Ma adesso quell’odore la nauseava: le ricordava l’olezzo carico che aveva circondato le bare dei morti durante le esequie solenni che si era tenute a Hogwarts qualche mese prima. L’aveva chiusa con rabbia tra la mano e l’aveva gettata via, tra le lacrime.
 
Giocherellò svogliatamente con la patata e alla fine si risolse a metterne in bocca un pezzetto.
Dall’altro capo del tavolo Malfoy seguì brevemente il movimento della forchetta e sospirò impercettibilmente quando vide quell’infimo pezzetto sparire tra le labbra della Granger.
Non seppe dire se si trattasse di fastidio o sollievo.
Nott gli stava raccontando qualcosa con una certa insistenza, ma lui non stava ascoltando neanche una parola, limitandosi ad annuire di tanto in tanto. Il compagno dovette accorgersene, perché scosse la testa alzando gli occhi al cielo, senza aggiungere altro.
Draco spostò lo sguardo di nuovo sul suo piatto.
In fondo, lo sapeva cosa c’era che non andava.
 
Se c’era una cosa che Draco Malfoy sapeva fare meglio di tanti altri era quella di aggrapparsi alla vita con tutto se stesso. Probabilmente era una cosa innata, visto che lo stesso talento ce l’aveva anche suo padre. In tutti quei lunghi mesi passati con Voldemort l’unica cosa che l’aveva fatto andare avanti era stata la ferrea volontà di non farsi ammazzare.
Aveva imparato ad evitare i colpi più duri, le parole sbagliate, aveva appreso l’arte di rendersi invisibile agli occhi degli altri, anche a strisciare in alcune occasioni, con l’unico scopo di rimanere vivo.
E la sua strategia alla fine, in qualche bislacco modo, aveva funzionato.
Anche le sue scelte attuali erano animate dallo stesso scopo.
Draco amava la vita. Certo, l’ esistenza prima di Voldemort era decisamente migliore di quella attuale: ricchissimo, lusingato dai suoi compagni di casa, viziato e coccolato oltre ogni misura da sua madre, educato con la giusta severità da suo padre. Una vita tutto sommato facile.
Voldemort aveva sconvolto tutto e alla fine di quella tragica esperienza Draco aveva imparato ad apprezzare anche le cose più semplici che prima disprezzava.
Per questi motivi la vista di Hermione Granger lo irritava oltre misura: che diritto aveva, lei, di andarsene in giro con quella faccia? Aveva vinto, no? Anzi, aveva trionfato! Le sue gesta avevano ampiamente dimostrato come tutti i privilegi legati al sangue fossero delle sonore cazzate: solo le capacità personali contavano, solo il merito e l’impegno erano essenziali.
Avrebbe dovuto andarsene in giro come una regina, non come un’afflitta.
Perché se Hermione Granger non riusciva a trovare pace e assoluzione per se stessa, dopo tutto quello che di buono aveva costruito, come avrebbero potuto farlo loro, come avrebbe potuto lui farlo? Avrebbe preferito che lo insultasse, che gli ricordasse quanto fosse odioso, meschino e vile: allora avrebbe capito che il mondo stava cominciando a girare dalla parte giusta. Ma così, no. Così non andava bene.
Non andava bene che lui si preoccupasse di seguirla per i corridoi con la paura di vederla di nuovo soffocare nel panico in preda alle allucinazioni. In quella prima occasione, contro ogni buon senso possibile, era andato di corsa ad avvertire la Weasley e quasi questa lo aveva affatturato: solo dopo si era reso conto di quanto fosse stonata quella situazione.
Era a lui che doveva mozzarsi il fiato di notte, erano le sue notti che dovevano popolarsi di incubi, cadaveri e altre lordure.
Passare i giorni a scrutare in ansia quel viso e quel corpo sempre più sgualciti, a scambiarsi occhiate cariche di non detto con la Weasley, era assolutamente fuori luogo, ingiusto e sbagliato.
Tutto in quella storia non tornava: in un modo o nell’altro Hermione Granger si trovava sempre dalla parte dannatamente sbagliata. E questo lo faceva uscire di senno, perché non c’era mai modo che lei si comportasse in maniera prevedibile e sicura. Doveva sempre sfuggire ad ogni buon senso.
Prima, una nata babbana con più magia di tre maghi purosangue messi insieme, adesso un’eroina senza più passione. Ma che senso aveva aver combattuto, con le unghie e con i denti, per dimostrare al mondo che ogni ideologia con la quale era stato cresciuto era clamorosamente falsa se poi il risultato era quello scempio?
 Questo era ciò che si chiedeva Draco.
 
Malfoy si concesse di nuovo uno sguardo fugace e, di nuovo, la Granger lo colse in fallo.
Hermione fece una smorfia seccata e a quel punto disse, a voce abbastanza alta: “Hai bisogno di qualcosa, Malfoy?”
Nel silenzio, la sua voce risuonò come uno schiocco e l’attenzione di tutti fu su di lei.
Draco, senza accorgersene, rispose: “Il tuo continuo sbocconcellare mi irrita, Granger.”
Lo sguardo della McGranitt si soffermò brevemente su di lui e al ragazzo parve di scorgervi un cenno di incoraggiamento. Sicuramente si era sbagliato, ma un secondo dopo la Preside disse: “Il signor Malfoy ha ragione, signorina Granger.”
Hermione la guardò sbalordita e anche il volto di Draco si contrasse in una smorfia confusa: a memoria d’uomo non era mai accaduto che la McGranitt gli avesse dato ragione.
Gli altri commensali assistevano alla scena sinceramente incuriositi.
La ragazza arrossì e disse incerta: “Bè... io… io ho mal di testa.”
“Probabilmente se mangiassi di più, signorina Granger, ti sentiresti meglio e meno affaticata!” rincarò la dose la McGranitt.
“E forse avresti un aspetto migliore, Granger, perché, detto tra noi, mi sembri messa male!” Aggiunse Draco tagliente. Il giovane si aspettava di vederla puntargli il dito addosso, tremante di rabbia, ma Hermione si strinse nelle spalle e non disse nulla.
Malfoy si scambiò un’occhiata con la Preside, ma quella fece un impercettibile cenno di diniego con il capo.
Draco si lasciò cadere sbuffando sullo schienale della sedia, ma non sembrava voler lasciar perdere e, infatti, facendosi di nuovo innanzi aggiunse: “Senza contare che i tuoi amati elfi domestici potrebbero rimanerci male…”
Sapeva di averle tirato un colpo basso, ma tanto valeva tentare il tutto per tutto.
A quelle parole, Hermione girò la testa di scatto e con occhi lucidi di rabbia ringhiò: “Non osare far finta che te ne importi qualcosa degli elfi domestici visto… visto che…”
“Visto che, cosa? Visto la fine che ha fatto l’ultimo che è entrato in casa mia?” Rispose Malfoy stringendo le nocche.
“Basta!” Tuonò la McGranitt “Malfoy pensa al tuo di piatto e tu, Granger, finisci quella fetta di tacchino. Per Merlino!”
Entrambi i giovani si chiusero in un ostinato silenzio, ma Draco sbirciò con la coda dell’occhio la Granger mangiare il tacchino e servirsi una porzione di patate.
Anche senza vederla, sapeva che la vecchia Preside stava sorridendo sotto i baffi.
I presenti si chiesero a cosa diavolo avessero appena assistito.
 
La cena si svolse senza altri contrattempi e ben presto il tavolo ritornò lindo e splendente  per magia.
Solitamente gli studenti si sarebbero trattenuti fino a tarda ora in sala grande, godendo della reciproca compagnia, ridendo e schiamazzando, ma era chiaro che quella sera nulla di tutto ciò sarebbe accaduto. La McGranitt, piuttosto sarcastica, li ringraziò tutti per la bella compagnia e alzandosi disse: “Signorina Granger, visto che il Castello è deserto e che tu sei l’unica dei caposcuola presente, sei dispensata dal tuo giro di ronda questa sera. Lo farò io al posto tuo, anche se sono piuttosto stanca.”
Hermione si alzò e disse: “Non è un problema per me! Vada pure a riposarsi! Io posso farlo tranquillamente!” Si sentiva terribilmente in colpa per tutte le preoccupazioni che le stava dando e non voleva che si sobbarcasse anche quella incombenza. In più, avere qualcosa da fare prima di andare nella sala comune deserta, probabilmente l’avrebbe aiutata a prendere sonno più facilmente. O almeno sperava.
“Oh, bè, visto che ne sei così convinta allora va bene, ma non andrai sola. Sono sicura che il signor Malfoy sarà lieto di accompagnarti, considerata la solerzia mostrata questa sera. Giusto, signor Malfoy?” fece la Preside con un sorriso soave.
“Cosa!?” Escalamarono all’unisono i due malcapitati.
“Mi avete compreso perfettamente. A domani.” E così dicendo, girò loro le spalle e se ne andò.
Draco e Hermione non seppero cosa ribattere, ma a Malfoy non sfuggirono le parole che l’infermiera Chips rivolse frettolosamente alla McGranitt: “Minerva! Sei forse uscita di senno?”
 
Gli altri studenti si allontanarono velocemente, lanciando loro sguardi stralunati, mentre Nott, passando vicino a Draco, gli abbatté una manata sulla spalla, sogghignando: “Meglio a te che a me!”
 
Ben presto rimasero soli. Draco si sentì rabbrividire nel sollevare lo sguardo e incontrare due pozze nere che lo fissavano di rimando.
Sembravano vuote, ma lui sapeva che dentro c’era un incendio che non aspettava nient’altro che di divampare, alimentato da una rabbia folle e irrazionale, contro di lui. Lui che sicuramente non ne era la causa, ma un ghiotto pretesto.
Si armò di tutto il coraggio che gli riuscì di racimolare e sospirando teatralmente, disse: “Da dove cominciamo, Caposcuola Granger?”
 
 
 
 
 
 
 

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Capitolo 6
*** Capitolo 6 ***


Capitolo 6
 
 
La Promessa Dell'Alba
 
La geografia del buio
È una stanza dipinta di nero
Un mare d'ansia dove annega il pensiero
Io ti parlavo ma in realtà̀ non c'ero
La geografia del buio
I consigli poi ti servono a zero
Fino a che il falso si sovrappone al vero
Fino a che il piombo copre tutto il cielo
Ed è facile caderci dentro
Più̀ di quello che pensi
Basta un movimento
Sbagliato
Per toglierti il fiato
È come camminare nel labirinto bendato
Senza trovare l'uscita
Cercare di dare una spiegazione a tutto in questa vita
Che alla fine per intero non può̀ essere capita.
 
(…)
 
Tratto da “La geografia del buio”- Michele Bravi-
 Album “La geografia del buio”- 2021
 
 
 
 
“Da dove cominciamo, caposcuola Granger?” Disse Malfoy, il volto atteggiato in una smorfia sardonica.
 
Hermione continuava a fissarlo incredula, sbalordita. Non riusciva a riordinare gli eventi che l’avevano condotta a quella incresciosa situazione.
Contò mentalmente le volte che aveva avuto uno scambio di opinioni con Malfoy: cinque o sei in tutto e mai particolarmente piacevoli o memorabili. E adesso se lo trovava davanti con la sua faccia da schiaffi e la prospettiva di passare almeno un’ora e mezza insieme.
Respirò rumorosamente, in preda ad una collera difficilmente controllabile: come aveva potuto la McGranitt farle quello scherzo? Come? E soprattutto, perché?
 
“Granger, possiamo muoverci? Vorrei tornare nel mio dormitorio il prima possibile.” L’appellò nuovamente Malfoy, le braccia incrociate in segno di noia e impazienza.
Hermione si sforzò di non  proferire verbo, perché se avesse parlato non sarebbe riuscita a controllare la sua lingua e non aveva davvero le forze per sobbarcarsi anche una discussione all’ultimo sangue con Malfoy.
Si costrinse a distogliere lo sguardo da quella maledetta faccia e indirizzandosi verso l’uscita, rispose in un soffio: “Torna nel tuo covo di vipere, Malfoy. Dirò alla McGranitt che sei stato perfetto come accompagnatore e darò cinque punti alla tua casa.”
Draco fissò per qualche secondo quella fragile schiena allontanarsi e quando la vide quasi oltrepassare la grande porta urlò: “Te lo scordi Granger! Non correrò il rischio di vedermi appioppare un richiamo formale, capisci anche tu che non me lo posso permettere.”
Hermione fermò la sua fuga, perché di questo si trattava, e si girò di nuovo.
Malfoy le era già alle spalle.
“Ti prometto che non accadrà niente di simile. Lasciami in pace.” C’era una nota disperata nel suo tono di voce che arrivò a Malfoy sotto forma di fastidio.
“Vengo con te. Chiuso il discorso. Dimmi cosa dobbiamo fare e facciamola finita!” Rispose il ragazzo duro.
“Non capisco perché dovrei passare la vigilia di Natale in tua compagnia, Malfoy!” Fece l’altra resa furiosa da quella continua e assurda insistenza.
“Non mi sembra che tu abbia qualcuno al tuo fianco con cui condividere queste ore, Granger, anzi mi sembri piuttosto sola al momento. Com’è che non sei insieme ai tuoi amichetti? Ti hanno fatta fuori?” Disse l’altro con un ghigno e con la mano destra chiusa, prudentemente, sulla bacchetta nascosta nella tasca dei pantaloni.
Il viso di Hermione si fece ancora più pallido, anche se Malfoy non l’avrebbe mai creduto possibile.
“Malfoy, vorrei dirti che sei disgustoso, ma non ne vale la pena. Se proprio ci tieni a fare il cagnolino a passeggio, cosa che ti riesce bene come sappiamo entrambi, accomodati pure.” Disse l’altra gelida e con tono cattivo. Un tono che Draco non le aveva mai sentito e che gli chiuse la bocca dello stomaco.
La guardò un istante e poi, abbassando la voce ad un sussurro roco, disse: “Molto bene, vedo che negli anni qualcosa ti ho insegnato: colpire dove fa più male e umiliare l’avversario. Fammi strada.”
Hermione rimase sinceramente colpita da quella verità e aprì la bocca a vuoto un paio di volte per poi girarsi e mettersi in moto.
Camminarono a passo spedito verso il primo piano, in perfetto ostile silenzio. Il castello era immerso nella penombra delle fiaccole, ma qua e là festosi addobbi natalizi spargevano una morbida luce per i corridoi.
Erano talmente poche le persone presenti che entrambi erano consapevoli dell’inutilità di quella ronda. Ma ciò nonostante continuavano a marciare come se ne andasse della loro stessa vita. E forse era davvero così: Hermione metteva un passo dopo l’altro per fuggire ai propri demoni, mentre Draco le stava alle calcagna per costringerla, senza sapere bene perché, ad affrontarli. Il suo cervello macinava piani e li disfaceva alla velocità della luce: certo non si era aspettato una piacevole chiacchierata tra amici, ma neanche un bagno di sangue. Hermione da parte sua aveva deciso di ignorare la sua presenza.
Perlustrarono velocemente il primo livello e imboccarono le scale per andare al secondo, ma queste, senza alcun preavviso presero a cambiare. Con piccoli gemiti i due ragazzi si attaccarono saldamente al corrimano e quando infine si fermarono si guardarono brevemente, spaesati.
Malfoy ne approfittò per rompere il silenzio: “Dove diavolo siamo?”
Hermione colta alla sprovvista, rispose soprappensiero: “Non ne ho idea! Era da tempo che non mi capitava di vedere le scale muoversi.”
“Non ci rimane altro da fare che andare a controllare, allora.” Disse Malfoy superandola con decisione.
Hermione parve rendersi solo allora consapevole della sua presenza: “ Ehi! Aspettami!”
Malfoy rallentò impercettibilmente il passo e Hermione gli si mise al fianco.
Avanzarono per il percorso deciso dalle scale e salirono per un bel pezzo fino a giungere in un ampio pianerottolo buio. Accesero contemporaneamente le bacchette per fare luce e di fronte a loro trovarono una nuova scala che si inerpicava nell’oscurità circondata da pareti stondate.
“Deve essere una delle torri… un’entrata secondaria forse?” fece Hermione in un sussurro.
Alle loro spalle le scale si mossero ancora: erano in trappola! Non c’era più modo di tornare indietro.
Entrambi sobbalzarono e Malfoy bofonchiò: “Ma che accidenti succede! Tornate qui!”
Hermione sollevò gli occhi al cielo:” Non risolverai nulla chiamandole, Malfoy! Torneranno quando ne avranno voglia. Proviamo ad andare avanti, magari ci sarà modo di scendere, anche se non vedo come.”
Malfoy la guardò male, arrossendo nel buio: “Certo, saputella dei miei stivali. Prego! Dopo di lei!”
“Sempre un cuor di leone, Malfoy!” Ringhiò l’altra spazientita. Lo superò con una spallata e prese a salire.
Non c’erano finestre da cui guardare fuori per orientarsi e, nel silenzio e nel buio, l’ascesa sembrava infinita.
Giunsero infine in quella che sembrava un’ aula: il primo a rendersi conto di dove fossero fu Draco che non seppe trattenere una sorta di gemito.
Hermione si girò in allerta verso di lui, la bacchetta già alzata: “Che c’è!?” Disse rapida.
“Da qui si va alla Torre di Astronomia” rispose Malfoy a bassa voce e il viso esangue che riverberava nel buio.
Hermione sulle prime non comprese il motivo del suo smarrimento, ma qualche istante dopo l’evidenza di quelle parole la colpì come uno schiaffo.
Draco imprecò ad alta voce: non c’era modo di tornare indietro. Erano bloccati nell’unico luogo al mondo in grado di precipitare Draco Malfoy nel terrore. Il luogo dove era iniziata la sua discesa verso l’inferno. La testa cominciò a ronzare furiosamente e tutto prese a vorticare in scie indistinte di colore.
 
Hermione lo vide accartocciarsi su se stesso, in ginocchio sul pavimento: le mani a coprirsi le orecchie, quasi che delle urla disumane gli stessero dilaniando il cervello, gli occhi serrati.
La ragazza rimase sbalordita e pietrificata a quella misera vista: si sentiva  incapace di dire o fare qualsiasi cosa.
Sembrava che Malfoy stesse rivivendo nella sua testa i fatti sanguinosi della notte in cui Silente era stato ucciso; la notte in cui  aveva deciso di far entrare i Mangiamorte, e la morte in persona, a Hogwarts.
Un pensiero le attraversò la mente e le fece stringere le nocche fino a sbiancarle: se lo merita, solo Godric Grifondoro sa quanto se lo merita di stare male e soffrire.
La ferocia di quel pensiero, così poco da lei, la fece sobbalzare e vergognare di sé stessa.
Scosse la testa come per liberarsene, cercando in fondo al suo animo quella compassione che aveva provato insieme a Harry sulla tomba dei suoi genitori.
Sciolse le mani da quella stretta furibonda e timidamente, incerta e malferma, cominciò ad avvicinarsi.
“Malfoy?” Disse impercettibilmente.
“Malfoy?” Ripeté a voce più alta. Il ragazzo però non diede cenno di averla sentita.
Hermione inspirò profondamente e con grande coraggio e sforzo, si inginocchiò a qualche passo di distanza dal giovane.
Stettero così per un tempo che non seppe quantificare, al buio, nel silenzio scalfito di tanto in tanto dai gemiti del ragazzo.
Hermione captava delle parole e, tra le altre, una piccola frase la colpì: mi dispiace!
Doveva avere davanti l’immagine di Silente: Harry le aveva raccontato che l’uomo aveva cercato di farlo desistere dai suoi propositi, di convincerlo ad affidarsi all’Ordine, ma che Malfoy, piangendo, aveva svelato che il Signore Oscuro aveva promesso la morte di tutta la sua famiglia in cambio di un fallimento.
Il nodo di odio in fondo allo stomaco di Hermione si allentò.
Con voce più chiara e tranquilla lo chiamò di nuovo: “Draco!”, sorprendendosi lei stessa di aver osato pronunciare il suo nome.
Quel nome scoppiò come deflagrazione e riuscì in qualche modo a superare l’orrore che Malfoy si era avvolto attorno come un sudario.
Lo vide riaprire brevemente gli occhi da cui scapparono fuori pesanti lacrime: non la guardava, ma almeno era un primo passo.
Deglutendo vistosamente, Hermione ripeté l’esperimento: “Draco, per favore, respira con me… guardami e respira con me. Ti sentirai meglio.”
Il giovane scosse la testa rabbiosamente, le mani sempre alle orecchie: “Non capisci… loro dicono cose e lui, lui non si difende…” mormorò tra i singhiozzi.
“No Draco, non c’è nessuno. Sono allucinazioni… sono solo un parto della tua mente. Guardami, per favore. Guarda me!” rispose Hermione con una certa urgenza.
Lei sapeva cosa stava provando, perché anche lei era stata vittima di quegli incubi ad occhi aperti che la precipitavano nell’immobilità e nella paura. Che le mozzavano il respiro, le facevano tremare le vene, inducendola a supplicare degli dei a caso di mettere fine a quello sgomento. In qualunque modo.
“Ti prego, ti prego. Ascoltami!” Instette la ragazza, facendosi più vicina, ma senza osare toccarlo per timore di scatenare qualche reazione nervosa.
 
Draco dovette compiere uno sforzo sovraumano e dopo qualche minuto di terribile lotta interiore i suoi occhi, foschi e persi, incontrarono finalmente quelli spaventati della ragazza.
“Draco guardami e concentrati solo sulla mia voce. Prendi un respiro profondo e poi lascia andare. Facciamolo insieme.”
Hermione prese un sorso d’aria e poi buttò fuori dalla bocca tutta la paura e la rabbia che ancora circolava nelle sue vene. Lo rifece due o tre volte e alla quarta vide finalmente Malfoy prendere fiato e buttare fuori.
Continuarono per un pezzo fino a quando, finalmente, le mani del ragazzo ricaddero a terra inerti e Malfoy non si lasciò cadere con la schiena sul muro. Sembrava sfinito e Hermione sapeva che lo era davvero: come se un qualche demone avesse depredato ogni sua scintilla vitale.
Anche Hermione si appoggiò con la schiena contro il muro, gli occhi chiusi e le lacrime che finalmente scorrevano a lavare la tensione accumulata.
Li riaprì dopo qualche tempo e si girò a dare un’occhiata al compagno: pareva essersi addormentato.
“Malfoy? ” Si azzardò a dire, annullando di corsa qualsiasi vicinanza venutasi a creare precedentemente.
“Sto bene… più o meno.” Lo sentì mormorare.
Hermione tacque, annuendo nell’ombra.
“Lo so che anche tu soffri di allucinazioni, Granger…” buttò lì all’improvviso il ragazzo.
Hermione sobbalzò di fronte a quella semplice verità che nella bocca di Malfoy le risuonava come un’accusa.
“Non dire sciocchezze!” Ribatté lei sulla difensiva.
“Ti ho vista: paralizzata in mezzo al corridoio del quinto piano. Incapace di muoverti, con gli occhi sgranati e le parole che uscivano strappate dalla tua bocca. Sono corso ad avvisare la Weasley: è così che ti ha trovata.” Disse lui con tranquillità, nessun tono bellicoso o di scherno ad insudiciargli le labbra.
Hermione si mise una mano sulla bocca, gli occhi sgranati.
“Già… fa effetto, no? Anche io mi sono sorpreso di me stesso, Granger. La Weasley, quando mi sono avvicinato a lei, mi ha puntato la bacchetta alla gola senza neanche darmi il tempo di parlare…” continuò Draco con una sorta di gorgoglio nella voce, una risatina repressa.
Hermione si strinse le braccia attorno al corpo e mormorò: “Non ne sapevo niente: Ginny non…”
“Ovvio… cosa poteva dirti? Quel bastardo di Malfoy ti ha aiutata? Senti anche tu quanto suona ridicolo!” La interruppe il ragazzo.
Hermione fece di nuovo silenzio, pensierosa.
“Sì, anche io soffro di allucinazioni. Molto meno, però. Madama Chips mi ha insegnato questa tecnica di rilassamento” disse infine Hermione, come se condividere quella frase le fosse costata un’intensa fatica.
“Buono a sapersi… io non l’ho detto a nessuno. In qualche modo ho imparato a gestire il terrore, ma trovarmi qui, bè insomma, non ero preparato.” Tagliò corto, chiudendo gli occhi.
Hermione continuò a fissare un punto imprecisato davanti a lei, in dubbio se dover aprire la bocca o meno. Si sentiva come se stesse camminando sulle uova.
“Non glielo avrei mai detto se non mi avesse beccata in flagrante: è stato così umiliante.” Disse infine.
“Capisco. Io non l’ho mai detto a nessuno, perché ogni minima cosa potrebbe essere usata contro me. Non voglio dare un vantaggio ai miei avversari!”
Hermione girò leggermente la testa, guardinga: “I tuoi avversari?” Chiese in tono più sospettoso del necessario.
Malfoy sospirò nel buio: “Sì, Granger. La guerra non sarà mai finita per me.”
Hermione si alzò in piedi rapidamente, come se Malfoy avesse pronunciato un incantesimo oscuro.
Il ragazzo la guardò sorpreso,  un po’ ottuso.
“Quindi, nonostante quello a cui ho appena assistito, persisti nei tuoi assurdi valori, Malfoy?” La voce della ragazza si era fatta tagliente e gelida.
Hermione sentì Draco ridere amaramente nel buio e quando lo vide alzarsi a sua volta mise mano alla bacchetta, senza rendersene conto.
Il ragazzo rimase a guardarla nella penombra, le mani lungo i fianchi.
“Granger, io non so cosa sia accaduto dentro quella tua testa tutta capelli, ma credimi se ti dico che devi fare qualcosa e in fretta. Non mi sembri più tanto sveglia come una volta ti vantavi di essere. E abbassa quel legnetto, perché sei solo ridicola. Quasi più di me, il che è tutto dire.” Sbuffò il ragazzo senza muoversi.
“Non rigirare la frittata: hai detto che per te la guerra non è finita, no?”
“Per Salazar! Il mondo magico perbene, o presunto tale, vorrebbe vedere la mia famiglia e me morti; i simpatizzanti dell’Oscuro Signore, e ti assicuro che ce ne sono ancora molti tra i maghi che tu reputi onesti e probi, ci vorrebbero vedere pure loro morti e, per finire, anche i Mangiamorte scampati ad Azkaban aspettano solo un nostro passo falso per mandarci al creatore! Questo intendevo, Granger! E se non fossi diventata la pallida imitazione di te stessa, l’avresti capito! Ti immagini cosa accadrebbe se si sapesse che rimango paralizzato dal terrore in mezzo ad un cazzo di corridoio? O che le mie notti sono una lunga agonia senza fine o, ancora, che mia madre è senza pace e senza riposo, perché, privata del suo diavolo di marito, non sa cosa farsene della vita che tanto si è impegnata a difendere?!” Gridò Draco tutto d’un fiato, ormai a pochissimi passi da Hermione.
La ragazza indietreggiò ulteriormente, fino a toccare una parete con la schiena.
Davanti a lei Draco, ansante, la fissava con rabbia e... delusione.
Sì, era delusione quella che leggeva nei suoi occhi, come se si fosse aspettato che, tra tutti, solo lei avrebbe potuto capirlo.
Si schiarì la voce per cercare di mettere insieme una risposta, ma il giovane le volse le spalle e prese a salire le scale.
 
 
 
 

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Capitolo 7
*** Capitolo 7 ***


Capitolo 7
 
 
Esistono procedimenti magici che aboliscono
le distanze di tempo e di spazio: le emozioni.
 
Simone de Beauvoir


Hermione lo vide scomparire per le scale.
Le sue parole si erano conficcate come dardi nella pelle. Pungevano e bruciavano.
Ma quello che più le scorticava l’anima era quello sguardo deluso, che ancora le colava addosso come olio bollente.
Aveva ragione: una volta avrebbe compreso il non detto, solo alcuni mesi fa sarebbe stata in grado di andare oltre le parole pronunciate. Ora non più. Ma davvero Malfoy poteva fargliene una colpa così grave?
La ragazza si strinse le braccia attorno al busto, infreddolita.
Improvvisamente ebbe paura, paura per Draco. Se solo mettere piede nella torre l’aveva prostrato in quel modo, cosa poteva accadere alla vista del luogo del delitto?
Prese a correre e a salire le scale a due a due, in preda ad una forte ansia.
Arrivò al piano superiore, scapigliata e con un sordo dolore al fianco: la stanza era quasi al buio.
 Illuminò la punta della bacchetta e si guardò frenetica intorno. Era una stanza semi vuota, una sorta di magazzino di vecchie sfere di cristallo incrinate, mazzi di tarocchi sgualciti e sbeccati servizi da tè.
Alte finestre lasciavano entrare il chiarore perlaceo del cielo notturno: una lastra compatta dalla quale continuava a cadere la neve, implacabile. Come se il cielo pietoso volesse coprire quel misero luogo, attutire i feroci pensieri dei suoi abitanti. Nascondere le loro anime come il seme nel solco dell’aratro, nella speranza di custodirle dal gelo di quel rigido inverno, reale e metaforico.
La luce della bacchetta incontrò un’ombra addossata ad una finestra lontana.
Hermione sentì il cuore cambiare impercettibilmente il proprio battito, appena meno frenetico.
 
Si avvicinò lentamente, titubante: era così maledettamente complicato approcciarsi ad una persona che di fatto esisteva solo nelle sovrastrutture della propria mente, disegnato dalle regole dei propri schemi mentali e dei propri metri, implacabili, di giudizio.
“Non c’era bisogno che ti precipitassi qui. Non mi ammazzerò sotto i tuoi occhi, se è quello che temi.” Sussurrò Draco, stancamente.
“Io… io… scusami per prima.” Rispose Hermione a bassa voce, fissandosi i piedi.
Il ragazzo, immobile davanti alla finestra, con un mano appoggiata al vetro e l’altra lungo il fianco, scosse impercettibilmente la testa, come a dire che non aveva importanza.
“No!” fece Hermione, un po’ troppo veementemente “Non dovevo aggredirti così, senza motivo.  Probabilmente è…”
“La forza dell’abitudine. Le abitudini sono dure a morire, Granger.”
“Già” disse Hermione, mettendosi accanto a lui e guardando fuori.

“Bello vero? Probabilmente è l’ultima volta che guarderemo questo paesaggio. Non c’ho mai fatto caso prima: che me ne importava della struggente bellezza di una notte d’inverno? Niente, Granger e sai perché? Perché avevo tutto e non me ne importava nulla di queste cazzate. E invece, ora che nelle mie mani stringo un pugno di mosche, passo il tempo a notare sciocchi particolari e a stupirmi di tutto.”
Hermione non distolse lo sguardo dal manto bianco: era tutto così strano, così fuori luogo.
“Ma forse non è neanche questa la motivazione. La verità è perché sono vivo, Granger! Così dannatamente vivo da percepire la realtà attorno a me come se la guardassi per la prima volta, o come se fosse l’ultima.” riprese Draco cercando il suo sguardo.
Hermione ora lo fissava, incredula.
“E credo che sia ciò che dovresti fare anche tu... Hermione.” concluse il ragazzo abbassando la voce, le guance un po’ più rosse.
“Tu mi hai chiamata per nome?!” esclamò l’altra sotto shock.
Draco si lasciò andare ad una risata cristallina.
“Sì, credo di averlo fatto davvero. Anche a te, prima, è sfuggito il mio nome.”
Hermione lo fissò ancora per qualche secondo prima di scoppiare  a ridere anche lei.
“Sono felice di vederti sorridere: non ti ho vista farlo molto ultimamente.” riprese Draco facendosi più serio, deciso a non mollare.
“Io non l’ho fatto spesso, è vero. Ma tu cosa ne sai?” rispose lei tornando confusa.
“Ti ho osservato di tanto in tanto. Non stavo scherzando quando ho detto che dovresti sentirti euforica solo per il fatto di essere viva, di non dare per scontata questa sfacciata fortuna.” Rispose Draco volgendo di nuovo lo sguardo alla finestra.
“Ma io sono grata!” ribatté Hermione piccata.
“Mi sembri tutto fuorché grata.”
“Come posso essere euforica sapendo che tanti altri sono morti, che intere famiglie sono state distrutte, che la guerra ha lasciato orfani e macerie! Dovrei andare in giro a sbandierare la mia sfacciata fortuna portandola in trionfo, Malfoy?” rispose Hermione alterata.
“Dovresti renderle giustizia e non girovagare come un fantasma, nascondendoti, deperendo a vista d'occhio, isolandoti da tutti i tuoi affetti, tu che hai la fortuna di averne ancora!” urlò in risposta Draco.
“Ma come ti permetti di venire ad insegnare, a me, come ci si comporta? Che ne sai di quello che ho passato o di quello che hanno passato i miei amici, Malfoy? Niente! E per tua informazione i miei genitori vagano da qualche parte in Australia, dimentichi di avere una figlia: mia madre non sa neanche di avermi partorita!” gridò Hermione di rimando.
Draco allargò gli occhi: “ In che senso? Qualcuno ha fatto loro del male per arrivare a te?”
“No, sono stata io." sospirò Hermione “Proprio per evitare che qualcuno li torturasse o peggio, ho modificato loro la memoria, cancellando ogni traccia di me e convincendoli del fatto che la cosa che più volevano al mondo fosse quella di andare in Australia. Ero convinta che, se fossi sopravvissuta, sarei stata in grado di trovarli in breve tempo e di far tornare tutto come prima. Ma non ci sono ancora riuscita e io… io…” ma le parole si trasformarono in lacrime.  La ragazza piangeva, le esili spalle scosse dai singhiozzi e i capelli sparsi sul volto reclinato verso il mento.
Malfoy si sentì in colpa per averla attaccata così, anche se in buona fede.
Fu il suo turno di avvicinarsi, delicatamente, con la paura di incrinare ulteriormente un vaso già crepato.
“Mi spiace, sono stato maleducato, non mi sono spiegato bene.” Mormorò.
L’istinto gli suggeriva che una mano appoggiata sulla spalla, o su un braccio, forse le sarebbe stata di conforto, ma la razionalità lo prendeva a male parole. Rimase così, con una mano sollevata in un vago gesto di conforto.
Hermione però non riusciva a smettere: proprio lì, proprio davanti all’ultima persona che avrebbe voluto per compagno in un momento del genere, tutti gli argini che aveva eretto a difesa del suo rimpianto più profondo crollarono in maniera rovinosa.
“Io… ho paura che non li troverò mai più o di non essere capace di togliere l’incantesimo o che loro non vogliano più avere nulla a che fare con me, con una figlia così diversa da loro…” buttò fuori tra i singhiozzi, offrendo alle orecchie dell’altro delle scomode e terribili verità.
Draco si sentì sempre più mortificato e avanzò di un passo, senza tuttavia osare sfiorarla. Era paura di una sua reazione scomposta oppure una sorta di pudore? Non conosceva nulla di lei. L’aveva sempre solo valutata con la lente dei suoi preconcetti e della sue fallaci convinzioni.
“Hermione, sono certo che…” iniziò a dire allora l’altro tentennante.
“Hai ragione sai? Non riusciamo mai a godere davvero di quello che abbiamo o di ciò che ci circonda: è tutto così scontato quando ce l’hai ogni giorno sotto gli occhi. Ma poi, quando l’hai perso, forse per sempre, ti accorgi di tutto il tempo sprecato, delle occasioni che hai sciupato per dire all’altro quanto l’amavi, quanto era importante per te!” lo interruppe bruscamente Hermione, parlando in maniera concitata come se avesse paura che quel pensiero potesse sparire da un momento all’altro.
Sputare fuori ciò che aveva dentro la fece ondeggiare dalla paura. L’istinto ebbe la meglio sulla ragione di Draco e questo, senza rendersene conto, si tuffò in avanti per prenderla tra le braccia.
Hermione, annientata dalla forza del suo dolore, non fece caso alla cosa, anzi si abbandonò a quell’abbraccio, troppo stanca per far prevalere il buonsenso, troppo affranta per rinunciare ad un po’ di calore umano. Anche se proveniva da un ex mangiamorte razzista.
Draco accarezzava lievemente con una mano la sua piccola schiena, mentre l’altra cingeva con delicata fermezza la vita della giovane. Poteva sentire la consistenza appuntita delle vertebre e la fragilità di quel corpo provato: era struggente percepire con il tatto come i tormenti di quella tenace ragazza la stessero erodendo.
A poco a poco i singhiozzi di Hermione si placarono, ma entrambi erano restii ad allontanarsi l’uno dall’altra, perché quella disperata e un po’ patetica vicinanza era confortante e rassicurante per entrambi. Erano rimasti rinchiusi nelle loro fortezze così a lungo da dimenticare cosa volesse dire condividere qualcosa con qualcuno.
Il movimento costante della mano di Malfoy era un metronomo che riusciva ad aiutare il cuore di Hermione ad andare a tempo con il respiro. Il bisogno di consolazione di Hermione invece sembrava sfamare il senso di colpa di Draco, pareva blandirlo.
 
Un gufo passò bubolando rasente alla loro finestra e quel verso li fece trasalire e separare velocemente. I cuori ripresero a battere furibondi, bruscamente strappati a quel conforto necessario, mentre entrambi i visi si tinsero di vergogna.
 
La torre dell’orologio batté le ventitré.
 
 
 
 
 
 
 

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Capitolo 8
*** Capitolo 8 ***


Capitolo 8
 
 
Un aiuto verrà sempre dato a Hogwarts, a chi lo richiederà.
Mi sono sempre vantato della mia capacità di formulare una frase.
Le parole sono, nella mia non modesta opinione, la nostra massima,
inesauribile fonte di magia, in grado sia di infliggere dolore che di alleviarlo.
Ma vorrei in questo caso modificare la mia precedente frase in questa:
un aiuto verrà sempre dato a Hogwarts… a chi se lo merita.
 
Albus Silente
 
 
 
 
Cadde un silenzio denso di imbarazzo, di verità appena svelate, ma anche intriso di intimità.
I due ragazzi cercarono di non guardarsi, ma la tentazione di spiare nell’altro lo stesso, anomalo, turbamento era troppo forte da ignorare.
Malfoy sentiva ancora sulla pelle il tenue calore ristoratore, mentre Hermione cercava di razionalizzare quanto accaduto, la testa che frullava, ma rimaneva sostanzialmente muta.
Fu Draco il primo a cedere.
“Sento di dover salire, andare in cima alla Torre! Devo capire, vedere con i miei occhi, ma… ma…” balbettò agitato.
“ Ti accompagno io, se vuoi.” Mormorò Hermione voltando il viso verso una finestra.
“Davvero lo faresti?! Non sei costretta!” si affrettò a dire il ragazzo, come per darle la possibilità di tirarsi indietro.
“Io lo voglio fare.” Rispose Hermione guardandolo finalmente in viso e arrossendo appena nella penombra.
“Grazie.” Disse Draco con sincera gratitudine.
Hermione gli andò accanto e gli prese la mano, come si fa con un bambino pauroso per incoraggiarlo e non farlo sentire solo.
Rimasero qualche secondo ad osservare quell’intreccio di dita, come se queste non appartenessero veramente a loro.
Poi Hermione si incamminò verso l’ultima rampa di scale.
Salirono lentamente, in silenzio. Hermione poteva percepire l’agitazione di Malfoy crescere ad ogni gradino: la sua mano, prima calda, ora era gelida. La ragazza conosceva i dettagli di quella notte infausta attraverso i ricordi concitati di Harry. La descrizione di quei momenti drammatici rimbombava nella sua testa e ad un tratto si chiese se fosse stata una decisione saggia. Se lei sarebbe stata in grado di aiutare Draco a gestire i fantasmi del passato.
Dopo quelli che parvero anni, anziché pochi minuti, giunsero in cima. Una piccola porta di legno li separava dall’inferno personale di Draco Malfoy.
“Sei sicuro, Draco?” Chiese Hermione preoccupata.
Malfoy fissava la porta terrorizzato e sembrava essersi fatto di pietra.
“Possiamo tornare indietro. Sei stato coraggioso ad arrivare fino a qui.”
A quelle parole Draco parve riscuotersi.
“Granger ormai dovresti sapere che la parola coraggio associata al mio nome suona come una bestemmia…” mormorò.
E poi, senza darle il tempo di parlare, puntò la bacchetta contro la porta e l’aprì con la magia.
Una folata di neve li investì, intirizzendoli.
Draco, senza lasciare la presa sulla mano di Hermione, percorse con urgenza i pochi passi che li separavano dall’apertura.
Nessuno aveva osato salire fin lassù con quella tempesta di neve in corso e un soffice manto intonso morse le loro gambe fino alle ginocchia.
Faceva molto freddo e un vento gelido sferzava le loro divise scolastiche.
Hermione prese a battere i denti, ma Draco sembrava non accorgersi di nulla, preso com’era a rivivere ogni folle istante di quella dannata notte.
“Draco…” disse Hermione, tramante.
Per tutta risposta Malfoy lasciò la sua mano e le mise un braccio attorno alle spalle, tirandosela vicina, quasi aggrappandosi fisicamente alla sua presenza per non soccombere.
Hermione fu quasi spaventata da quel gesto repentino, ma, come accaduto prima, la voce di Draco fu più rapida della sua.
“Ero qui, in questo esatto punto. Tenevo la bacchetta alzata contro Silente. Sembrava così fragile, Hermione, così sofferente. Dovevo ucciderlo, capisci? Lui me l’aveva ordinato. Altrimenti avrebbe sterminato tutta la mia famiglia. Ma io…”
“Silente lo sapeva, lo sapeva che non avresti mai potuto farlo!” Gridò Hermione per superare il fischio del vento.
“Lui incominciò a parlare: anche in punto di morte sembrava non voler rinunciare a salvarmi. Perché poi? Che gliene importava di me, Granger? Disprezzava la
mia famiglia e probabilmente anche me. Perché cercare di aiutarmi?” Proseguì Draco.
“Perché non voleva che la tua anima si strappasse! Perché sapeva che eri anche tu una vittima di quel mostro!”
“Avevo così paura, Hermione. Ho passato tutto l’anno ad avere paura, a disperarmi, ma da imbecille che sono non ho mai pensato che Silente avrebbe potuto aiutarmi. E Severus aveva provato a farmelo capire, ma io mi ero ubriacato con le parole dell’Oscuro Signore. Inganno dolce come miele, ma letale come fiele.”
“Ma alla fine hai abbassato la bacchetta! Alla fine hai scelto!”
“Non ho scelto un cazzo, Granger! Piton l’ha fatto per me, si è caricato sulle spalle il mio fardello e lo ha ucciso al posto mio!”
“Ma è stato Silente a…” ma Hermione si interruppe. Quanto ne sapeva davvero Draco di come fossero andate le cose? Di come Silente si fosse lasciato disarmare da Draco volontariamente per far cambiare lealtà alla Bacchetta della Morte, di come avesse convinto Piton ad ucciderlo quando fosse arrivato il momento. Draco pensava di aver avuto una parte in tutto quello, mentre in realtà era stato una pedina come tante altre in una partita a scacchi contro il tempo.
L’unico suo vero crimine era stato quello di aver fatto entrare a scuola mangiamorte e lupi mannari. Di aver messo in pericolo studenti innocenti.
Improvvisamente a Hermione la situazione divenne chiara e il suo cervello ricominciò a pensare con lucidità, come non le accadeva da tempo.
“ Draco” disse infine, staccandosi di qualche centimetro dalla sua spalla per guardarlo in volto.
Qualcosa nel tono della compagna lo colpì tanto da indurlo a darle tutta la sua attenzione.
Non erano mai stati più vicini di così.
“Ascoltami! Non puoi prenderti la colpa di una cosa che niente aveva a che fare con te. Sei stato solo un’occasione, capisci?”
Malfoy scosse la testa confuso.
“Silente sapeva che gli rimaneva poco da vivere e aveva chiesto a Piton di ucciderlo personalmente. Non ti starò a spiegare i motivi, perché neanche io li conosco bene…” una bugia a fin di bene “ Non avevi alcuna probabilità di ucciderlo. Anche ferito e morente, gli sarebbe bastato un niente per distruggerti. Ti ha lasciato tentare per tutelarti da Voldemort e dalla sua ira, ma non avevi alcuna possibilità di ammazzarlo. Si è fatto uccidere.” Disse la ragazza tutto d’un fiato.
Draco ora la guardava inorridito. Avrebbe voluto urlarle che erano tutte bugie, ma l’unica cosa che gli riusciva di fare era quella di stringere la sua fragile spalla nella sua mano.
Hermione continuò, prendendo fiato, perché sapeva che adesso veniva la parte più difficile: “La tua vera responsabilità, Draco, è stata quella di aver fatto entrare a scuola quell’immondizia. Avresti potuto provocare una strage e tutte quelle morti sarebbero state sulla tua coscienza. La tua fortuna è stata di avere Piton dalla tua parte. Quell’uomo… quell’uomo ha sacrificato tutta la sua vita per cercare di espiare un unico tragico, enorme, errore. Credo che ti abbia protetto con le unghie e con i denti per risparmiarti la sua stessa esistenza.”
Hermione aveva soffiato fuori le ultime frasi tra le lacrime, le stesse che vedeva tremolare tra le ciglia di Draco.
Fu Hermione questa volta ad abbracciarlo, sottraendosi alla sua morsa, per stringerlo a sé.
I singhiozzi del ragazzo si persero tra i suoi capelli, punteggiati di neve e imperlati di ghiaccio. Non lo sentiva più il freddo, sebbene avesse ormai le labbra bluastre e le mani rosse e spaccate. Non lo sentiva, perché le pareva di ardere al fuoco di tutte quelle meschine verità che venivano a galla come macchie di unto sul pelo dell’acqua.
Le sembrava di non essere mai stata sincera prima di allora: lei e Draco si erano tolti la pelle a vicenda, uno strato alla volta. Per cercare di scorticarsi e grattare quelle croste che impedivano loro di andare oltre. Oltre i loro errori, oltre le paure e il panico, le ferite, gli insulti, i giudizi. Oltre la disperazione.
E in fondo capiva che una pulizia così profonda di se stessa l’avrebbe potuta eseguire solo con una persona come Draco. Non era suo amico, l’aveva disprezzata fino a farne una malattia, ma proprio grazie a questo non aveva alcun motivo di temere di farla andare a pezzi, di spingerla al limite. E lo stesso valeva per lui. Non avevano niente da perdere, perché tra loro non c’era nulla che valesse la pena difendere.
Erano armati e disarmati allo stesso tempo, una di fronte all’altro.
Draco si sciolse dall’abbraccio e con voce vibrante disse: “Non posso tornare indietro, Granger…”
“Ma puoi andare avanti e impegnarti per essere ogni giorno la versione migliore di quello che eri.”
Draco si perse un attimo nei suoi occhi liquidi e scuri e poi annuì.
Hermione capì che stava facendo una promessa a lei, a Silente, a Piton, ma soprattutto a se stesso.
“Torniamo dentro o moriremo congelati…e poi come lo spiegherà la Preside al mondo?” Disse Hermione con un sorriso bagnato di lacrime, prendendolo di nuovo per mano e portandolo via dal suo passato.
 
Scesero le scale velocemente e arrivarono di nuovo nell’aula. Qui Hermione corse ad accendere il camino e vi sistemò davanti, scossa da violenti tremiti. Draco trasfigurò delle vecchie tende in calde coperte e ne mise alcune attorno a Hermione e altre su di sé.
Sentirono in lontananza le campane di Hogsmeade salutare a festa l’arrivo della Mezzanotte Santa.
“ Buon Natale, Hermione.” Mormorò il ragazzo.
“Buon Natale, Draco.” Rispose lei, accoccolandosi sul suo petto.
 
Rimasero così a lungo, contemplando il gioco sempre affascinante delle fiamme.
Beandosi di quel calore e della reciproca vicinanza.
La mezzanotte era passata da un pezzo quando Draco disse: “ Domani dovresti partire, andare dai tuoi amici. Se sei riuscita a stare con me per una notte intera, sarai benissimo in grado di stare anche con loro e… farti aiutare. Aiutare davvero.”
Hermione non disse nulla, perché sapeva che aveva ragione.
“E tu? Non voglio saperti qui…” rispose invece apprensiva.
“Credo che chiederò alla Preside il permesso di raggiungere mia madre: adesso ho capito cosa devo fare.” Disse lui, continuando a guardare le fiamme.
“Che cosa?” Chiese Hermione curiosa.
“Dire la verità. Per quanto male possa fare devo dirle tutto. Tutto il male, tutto il bene. Come mi sono sentito, quanto mi senta a pezzi ora, quanto sono… cambiato o vorrei cambiare.”
“E credi che lei potrà sopportarlo?”
“Sì e le farà bene, come ha fatto bene a me, Granger. Grazie.” Disse, voltandosi a guardarla, serio.
Hermione arrossì confusa.
“Anche io ti devo molto. Mi hai costretta ad ammettere che mi stavo crogiolando nel mio dolore. È facile abituarsi al dolore, il difficile è impegnarsi a stare bene.”
Draco le depose un istintivo bacio tra i capelli, sollevato da quelle parole.
“Siamo diventati amici, Malfoy?”
“No, Granger. Poco più che conoscenti.”
Hermione rise di gusto.
“Sì. Poco più che conoscenti.”
Il viso di Draco si allargò in un sorriso, mentre, rilassato, se la riprendeva di nuovo sul petto.
 
La vigilia di Natale del 1998 aveva portato un regalo inaspettato a Hermione e a Draco: la speranza.
 
Intanto, nel suo ufficio, Minerva interrogava preoccupata il ritratto di Albus Silente.
“Allora Albus? Li hai trovati?! Si sono ammazzati a causa della mia stupidità?!”
Silente si grattò il naso ridendo, mentre Piton, nella sua cornice, lo guardava con divertito disappunto.
“Tutto bene Minerva! È andato tutto alla grande! Il tuo piano ha funzionato alla perfezione! Devo dire che è stata una Vigilia di Natale straordinaria!”
La vecchia signora si lasciò cadere a peso morto sulla poltrona, esausta.
Appellò del vino elfico e se ne versò una generosa dose.
“Buon Natale, miei cari!” Disse, levando il calice verso i suoi predecessori appesi alle pareti.
“Buon Natale Minerva!” Risposero in coro tutti i ritratti dei Presidi che, come lei, avevano navigato a vista tra i cuori delle centinaia di studenti vissuti tra quelle mura.
 
 
--FINE—
 
 
 
Note finali.
 
Buon Natale a tutti! Che la Vigilia di Natale possa compiere la sua piccola magia anche per voi. Che tutte le ferite, i piccoli disappunti, i grandi e inconsolabili dolori, le magagne e le avversità che ciascuno di noi porta, bene o male, sulle proprie spalle possano diventare un pochino più lievi. Vi auguro di trovare degli amici sinceri e fidati, di lasciare cadere vecchi schemi mentali che non vi assomigliano più e di trovare nuovi obiettivi e slanci. Lo auguro a voi e lo auguro a me. Lasciamoci sorprendere dall’inaspettato.
Buon Natale con tutto il cuore.
 
GiunglaNord.

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