Figlia, come osi sfidare tuo padre?

di Superkattiveh
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** OO || Il respiro dei bambini ***
Capitolo 2: *** OI || Figlia, come osi sfidare tuo padre? ***



Capitolo 1
*** OO || Il respiro dei bambini ***


VITTIMA DELLA MIA VITTORIA

Parte II - Figlia, come osi sfidare tuo padre?



Capitolo I - Il respiro dei bambini




Un chiacchiericcio animato risuonava per la Sala di Controllo.
Gli Strateghi parlavano in continuazione fra loro per scambiarsi informazioni, suggerimenti, ipotesi e opinioni sui Giochi che stavano orchestrando. Raramente il silenzio calava in Sala, di solito negli istanti che precedevano il Bagno di Sangue o altri eventi eccezionali, come per esempio l’ultimo combattimento – il più atteso. Gli Strateghi erano umani, dopotutto, e anche loro si lasciavano prendere dall’eccitazione crescente, soprattutto quando il tempo era agli sgoccioli e le cose da tenere sotto controllo diventavano sempre di meno. Quando il campo si riduceva agli ultimi due, perfino i più vigili si lasciavano coinvolgere dallo spettacolo.
Non lei, però.

La Stratega dalla treccia austera evitava la conversazione finché poteva e taceva anche nei momenti più salienti: non per coinvolgimento, quanto per quieta analisi. Era il suo lavoro occuparsi delle statistiche e dei resoconti tecnici una volta terminati i Giochi, non doveva perdersi neanche un secondo della competizione. Ciononostante, quando il timer segnò l’inizio del suo quarto d’ora di pausa, Felix scattò in piedi e uscì sull’ampia balconata che circondava la Sala di Comando, osservando come il cielo, lentamente, virava verso l’arancione del tramonto.
Erano state delle prime sette ore veramente emozionanti, questo andava ammesso. I Tributi di quell’anno sembravano particolarmente carichi, sanguinari, ottimo materiale con cui lavorare. I cuccioli che avevano creato in laboratorio crescevano a ritmi spaventosi e Seneca aveva fatto pressioni affinché allungassero il brodo per permettere agli ibridi di essere usati nei Giochi.
Felix non aveva idea di come avrebbero dovuto fare.
Con undici Tributi già spazzati via, il gruppo dei Favoriti praticamente intero e gli altri sprovveduti nascosti qui e là sarebbe stato difficile allungare il brodo e mantenere i Giochi accattivanti.

Sospirò e la mano cercò il pacchetto di sigarette nella tasca. Ne prese una e l’accese, impaziente di sentire il fumo graffiarle la gola e riempirle i polmoni. Nel momento in cui avvertì il sapore acre della nicotina in bocca espirò, rilassando dei muscoli che non sapeva di aver contratto.
«Cara Felix!» una voce richiamò la sua attenzione. Strabo Duchamp. La ragazza dovette sforzarsi per non alzare gli occhi al cielo. Rispondergli le richiese uno sforzo ancora maggiore.
«Strabo»
Come se non si fossero visti cinque minuti prima in Sala di Comando, come se non avessero passato quella settimana insieme fra briefing e riunioni, come se lui non la seguisse con lo sguardo ovunque andasse e indugiasse troppo là dove la divisa aderiva ai suoi seni ormai perfetti.
Una volta, forse, Felix avrebbe provato un piacere quasi crudele nel conoscere il suo desiderio e negarglielo. Una gioia meschina per quel dono che non aveva voluto e che era stata costretta ad accettare. Ma il caro prezzo con cui aveva comprato il privilegio di essere ammirata solo da lontano non cessava di disgustarla. L’ennesimo tiro l’aiutò a focalizzare la mente altrove.
«…veramente degli ottimi Tributi» concluse Strabo.
Felix lo osservò con freddezza. Sulla trentina, pelle diafana che faceva a pugni con i capelli rossi, occhi modificati chirurgicamente per apparire violetti. Falso. Viscido. Proprio come lei.
«Hai ragione» niente compiaceva di più Strabo che sentirsi dire di avere ragione. «Ottimi Tributi veramente.»

Si rese conto con tristezza che la sua sigaretta era finita e lasciò la cicca in uno dei grandi posacenere messi a disposizione, lo sguardo che cadde su un edifico un po’ più giù. Il Centro d’Addestramento si trovava solo ad un chilometro di distanza da lì: riusciva a vederlo perfettamente dall’alto della terrazza, benché il terzo piano le fosse precluso. Con una morsa allo stomaco, si ritrovò a domandarsi cosa stessero facendo Beetee e Wiress in quel momento. La ragazzina era morta. Il Distretto 3 giocava solo con un quindicenne che l’ultima volta che Felix aveva controllato, si nascondeva in una caverna vicino al fiume.
Chissà cosa sta facendo Isaac.
Sicuramente guardava i Giochi in Piazza, oppure a casa sua, in compagnia del padre. Dopo quello che era successo, Isaac trovava intollerabile seguire gli Hunger Games con la madre. La sera, però, sarebbe andato a casa sua a fare compagnia a Ned, e avrebbero parlato al telefono. Mancavano ancora quattro ore alla sua pausa. Quattro e mezza dalla telefonata. Isaac sarebbe rimasto a dormire e avrebbero parlato anche il giorno dopo appena svegli.
«La mia pausa è finita» disse Felix infischiandosene di qualsiasi cosa Strabo stesse dicendo e riponendo il pacchetto di sigarette nella tasca. Ne aveva appena fumata una e già contava i minuti che la separavano dalla successiva.

Anche il fatto che avesse ceduto alle sigarette la disgustava. Perché la prima gliel’avevano offerta loro e lei non era riuscita dire di no. Perché alla primissima riunione con gli Strateghi non avevano fatto altro che bivaccare e quella era stata la cosa più leggera che le fosse stata offerta. Perché credeva che se non avesse avuto qualcosa a cui aggrapparsi in quella pena che le era stata inferta, avrebbe cominciato a perdere pezzi di sé per strada. La verità che non importava a nessuno, però, era un’altra.
Felix non aveva voluto dire di no.
Felix aveva voluto concedersi quella debolezza nonostante ne avesse già troppe.
Felix non riusciva a non odiarsi per questo.

Quando camminava per i corridoi vetrati degli edifici dedicati agli Strateghi, Felix guardava dritta davanti a sé, perché trovava intollerabile anche solo intravedere il proprio riflesso. Quella divisa bianca che tanto le calzava a pennello aveva il potere di travolgerla e ribaltare ogni cosa che credeva di sapere su di sé e sul mondo. Meglio non guardare. Meglio camminare a testa alta e con le spalle rigide. Meglio affrontare le minacce altrui ed evitare i giudizi che lei stessa si infliggeva.

Così rientrò nella Sala di Comando, leggermente in anticipo ma del tutto indifferente al tempo rubato alla sua pausa, e sedette alla postazione, gli occhi fissi sulla mappa al centro della Sala. L’Arena era piuttosto semplice, ma in linea con l’estetica di Seneca. L’anno precedente aveva optato per una città abbandonata, ma nel suo primissimo anno come Capo Stratega la sua scelta era ricaduta su una foresta innevata alle pendici di una montagna. Anche la sua barba non mentiva: quelle onde perfettamente disegnate tradivano l’ammirazione dell’uomo per i paesaggi naturali. Se Felix avesse dovuto azzardare un’ipotesi, avrebbe detto che anche l’Arena per i Giochi successivi sarebbe stata di stampo naturalistico. Qualcosa di speciale, per via dell’Edizione della Memoria, ma la ragazza decise di fermare il treno dei propri pensieri lì. Aveva già abbastanza da fare in quel momento senza pensare alla prossima edizione.

«Le statistiche aggiornate?» domandò una collega.
«Eccole» Felix cercò l’username della donna sul proprio tablet e premette invio.
«Perfetto» lei le sorrise, ma Felix non si prese neanche la briga di fingere di ricambiare. «Le prossime fra quattro ore, poi toccherà a Stubbs.»
Felix osservò i tributi sparpagliati sulla mappa, indugiando sul ragazzo del Distretto 3. Era ancora rintanato nella caverna che aveva trovato e a giudicare dalla distanza che lo separava dai Favoriti avrebbe fatto meglio a rimanerci.

Chi si stava allontanando era la ragazza del Distretto 12. Ogni volta che Felix andava a controllarla il suo numerino si allontanava – pochi centimetri sulla mappa, diverse centinaia di metri nella realtà. Con dei semplici tocchi sul tablet poteva selezionare un’area a sua scelta sulla mappa e adattarla alla scala che preferiva, perfino 1:1. Non ne aveva bisogno al momento, certo. Avrebbe tenuto sotto controllo la ragazza del 12 come il ragazzo del Distretto 11, che esplorava il campo di grano all’estremità opposta dell’Arena. La sua piccola compagna di Distretto volteggiava nel folto della foresta, e sembrava essere una delle poche ad aver idea di ciò che stava facendo.

Chi non si stava comportando come pronosticato era il Ragazzo Innamorato. Bravo, davvero, un ottimo attore. La sua performance era stata convincente. Se solo avesse avuto una compagna altrettanto all’altezza, forse avrebbe potuto ingannarla. Ma la ragazza che si era offerta volontaria per la sorella si era dimenticata di lui nel momento in cui aveva messo piede nell’Arena, mentre lui seguiva i Favoriti coperto dal loro stesso baccano. Felix non poteva negare che fosse merito loro se quell’anno la percentuale di scommesse fosse alle stelle, ma fosse stata negli abitanti della Capitale avrebbe puntato su chiunque altro. Andava detto che però loro erano stupidi e lei no.
Quando il timer finalmente scattò, Felix aveva aggiornato le statistiche per le scommesse e le aveva inviate a chi di dovere. L’ultimo dei controlli a campione non le rivelò niente che già non sapesse e uscì dalla Sala di Controllo senza degnare nessuno, nemmeno Seneca – che la ignorava altrettanto disinteressato – di un saluto.

Il suo appartamento era nel campus degli Strateghi. Nonostante fosse piuttosto tardi l’aria era calda e avvolgente, pesante come una pesca matura. Nel momento in cui mise piede all’interno del lussuosissimo salone, Felix corse al telefono e digitò le cifre che del numero di casa sua.
Rispose al primo squillo.
«Ciao, splendore.»
Il sorriso nella voce di Isaac era palpabile.
«Eri attaccato al telefono?» Felix suo malgrado avvertì le labbra incurvarsi di un millimetro verso l’alto.
«No, passavo solo di qui. Come va?»
«Al solito» non andava mai bene. «Voi invece?»
«Un po’ peggio del solito» ammise il ragazzo e Felix avvertì il cuore accelerare i battiti.
«Mio padre sta bene? E’ successo qualcosa?»
«No, no, tranquilla» Isaac ridacchiò nervoso. «E’ che… non ha preso proprio bene la morte di Peyton-»
«Chi?»
Una pausa, durante la quale Felix avvertì Isaac sospirare. Quando parlò, il tono era di chi spiegava una cosa ovvia a qualcuno di molto stupido.
«La ragazzina del Distretto 3? Sai, il nostro tributo?»
Felix aggrottò le sopracciglia. Continuava a sfuggirle il motivo per cui suo padre dovesse aver preso male la sua morte.
«La quindicenne. Quella morta al Bagno di Sangue.»
«E’ solo un tributo» disse la Stratega. «Ce ne è un altro ancora in gara.»
«Comunque, non importa» Felix poteva quasi avvertire Isaac che scrollava le spalle come per lasciarsi indietro quella parte della conversazione. «Ora sta molto meglio. Ancora un po’ giù, ma stanotte resto qui, quindi ci penso io.»
«Grazie» mormorò Felix. Detestava lasciare suo padre da solo, specialmente durante i Giochi. Ma da quando aveva accettato quel lavoro, non poteva farne a meno. Sapere che Isaac gli faceva compagnia non solo la rassicurava, la rendeva grata. Non aveva ancora capito perché. Era solo riuscita a identificare quel sentimento, ma dargli voce richiedeva uno sforzo impossibile da parte sua.
«Tu come stai?» gli chiese Felix appoggiando la testa al muro.
«Mi manchi» rispose la voce all’altro capo del filo, ogni traccia di leggerezza svanita nel nulla. «Spero che i Giochi finiscano subito per poterti rivedere al più presto.»
Anche tu mi manchi, pensò Felix. La voce nella sua testa suonava come un rantolio soppresso. «Le statistiche sono ancora incerte a riguardo» disse invece.
«Sì, sì, lo so» quasi riusciva a vederlo alzare gli occhi. «Ci sentiamo domani?»
«Certo» e anche dopodomani sera, e il giorno dopo ancora. «Mi passi papà?»
«Eccolo – Ned? E’ Felix» Isaac le mandò un bacio attraverso la cornetta. «A domani, allora»
«A domani.»
«Pronto? Felix?»
«Ciao, papà» la ragazza avvertì le labbra distendersi in un sorriso che sembrava sull’orlo delle lacrime. «Come stai?»
«Mi manchi» ripeté suo padre.
«Anche tu» rispose Felix, perché a lui poteva dirlo. «Ma devo svolgere il mio lavoro al meglio, lo sai.»
«Come ti ho insegnato io»
«Esatto» convenne la ragazza. Quando gli parlava così, le sembrava di essere un genitore che confortava il figlio. Era sbagliato, sleale nei confronti di suo padre, e anche se quello era il meglio che sapeva fare, non era abbastanza, non era neanche lontanamente abbastanza.
Si addormentò nell’immensità del suo letto, abbracciata ad un cuscino, desiderando che avesse l’odore di un ragazzo distante centinaia di chilometri da lei e la sua stessa risata.




Quando il cannone risuonò sancendo la definitiva sconfitta del Distretto 8, Anice riuscì a non piangere. Cecelia trafficava con l’accendino che sembrava non volersi accendere, così la sua pupilla glielo prese delicatamente dalle mani e lo accese senza troppi problemi.
«Grazie» borbottò la donna inspirando profondamente. «Che stupida, che stupida»
Anice avrebbe voluto rispondere di non dire così, ma non ce la faceva. In cuor suo era d’accordo con Cecelia. Glielo avevano detto, no? Glielo avevano detto o no che non doveva assolutamente e in nessun caso accendere un fuoco in piena notte? Certo che glielo avevano detto! E se lo aveva capito Anice, bloccata in una gabbia congelata, perché non poteva capirlo anche lei?
«Stupida proprio» commentò la voce sarcastica di Johanna.
Anice si voltò verso di lei, priva di ogni tipo di risentimento. Era completamente d’accordo con l’altra Vincitrice, stravaccata sul divano e con le braccia distese sullo schienale, un banchetto ricchissimo davanti a lei.
«Adesso ti siedi bella comoda accanto a me e ci godiamo lo spettacolo» le disse Johanna. «O hai intenzione di tornare a casa? Dimmi di no, altrimenti resto sola in questa gabbia di matti.»
«Povera Johanna» Anice le sorrise. «Guarda che Finnick è ancora qua.»
«Sai quanto me ne frega» Johanna si osservò le unghie con fare annoiato. «Pure lui ha già perso un Tributo e non se lo aspettava»
«E questo è un male perché…?»
«Ma allora vi fanno proprio scemi al Distretto 8» la Vincitrice alzò gli occhi al cielo e le fece cenno di sedersi. «Perché, mia cara piccola Anice, lui è come te. Ora darà il mille per mille per far vincere quella che gli è rimasta e non ci degnerà di uno sguardo.»
«Ci?» quella parola aveva un bel suono, soprattutto perché la distraeva dalla tristezza che cresceva dentro.
«Certo» Johanna si strinse fra le spalle. «Noi ce ne staremo qui a farci i cazzi nostri mentre loro sgobbano invano perché tanto vincerà quel bestione del Distretto 2 e lo sai.»

Anice non riusciva a darle torto. Il ragazzo del Distretto 2 la riempiva di ansia nonostante non dovesse affrontarlo né parlarci in alcun modo. Poteva anche essere biondo e avere gli occhi azzurri, ma la differenza fisica non bastava a non ricordarle Ruben, colui che era stato il suo più grande ostacolo. La brutalità e la noncuranza esibita dal tributo di quell’anno erano identiche a quelle dei suoi Giochi, e se le cose fossero andate diversamente, Ruben sarebbe stato lì al posto suo, magari proprio a fare da Mentore.
Certo, non proprio lì. Qualcosa le diceva che Johanna non avrebbe invitato Ruben a sedere accanto a lei, e il pensiero la rincuorò.
«Alla fine il ragazzo innamorato non è così dolce come appare, eh?»
Anice alzò gli occhi al cielo: «Ma perché devi rigirare il dito nella piaga?»
«Perché» rispose la ragazza con un sorriso maligno «è la parte più divertente di tutto il gioco. Vedere come cambiano le persone in quel posto di merda»
Anice si guardò attorno, circospetta, ma nessuno prestava loro attenzione in quel chiasso che era la Sala dei Mentori. Erano liberi di circolare e andare dove volevano all’interno del campus adibito per i Giochi: alcuni di loro cinguettavano con potenziali sponsor, gli accompagnatori che correvano di qui e di là per accaparrarsi quanti più contratti possibile, ma la maggior parte – come lei e Cecelia poco prima, o Beetee e Wiress – osservavano corrucciati il maxischermo, senza nemmeno sforzarsi di cercare qualcuno a cui chiedere. Perché scomodarsi?
Il loro maschio era morto al Bagno di Sangue e la femmina si era ammazzata con le sue stesse mani. La stupidità era pericolosa, e infatti quella sera avrebbe rivisto il viso della ragazza un’ultima volta, prima che anche lei diventasse un vago ricordo nella sua testa, nascosto dietro una cortina di nebbia creata per non soffrire troppo.

«Tutti uccidiamo, lì dentro» mormorò lei. «E anche se fosse un pacifista, non è mica innamorato del mio tributo.»
«Sì, come no» commentò Johanna. «Innamorato. Di quella lì?»
«Così dicono» Anice si strinse fra le spalle e prese una caramella dal tavolo. «Lei però è pessima»
«E lui è carino» Johanna si fiondò su un drink dorato e frizzante. «Potrebbe avere chiunque e prende quella ragazzetta rachitica là? Che sa fare poi? Sa solo salire sugli alberi e a malapena fare le giravolte.»
Anice ridacchiò e scosse la testa. «Sei proprio impossibile. Non ti sta bene mai niente»
«Tu mi stai bene» rispose Johanna tracannando il drink. «Sei la meno peggio qui dentro.»
«E Blight?»
«Non è che se veniamo dallo stesso Distretto allora dobbiamo per forza essere amici»
Forse aveva ragione. Per lei e Cecelia non era così, però. Da quel poco che aveva potuto parlare con loro, si era anche resa conto che i mentori del Distretto 3 condividevano un legame piuttosto profondo che andava oltre la semplice amicizia. Perfino Haymitch e Chaff erano amici. Il problema di Johanna… era semplicemente Johanna. Anice, purtroppo, capiva perfettamente perché.
«E noi?» le chiese piegando la testa sulla spalla. «Siamo amiche?»
«Beh, se me lo chiedi sei proprio scema» Johanna la scansò con un po’ troppa forza – non si rendeva conto che Anice non era una taglialegna come lei – ma Anice riuscì ad intravedere un sorriso sulle sue labbra.
«Comunque non andrà molto lontano» Johanna scelse un drink dal tavolo e glielo offrì, poi ne prese un altro per sé. «Fidati, io queste cose me le sento dentro»
«Certo, certo» commentò Anice sorseggiando attraverso la cannuccia. Strizzò gli occhi per il bruciore dell’alcool sotto le risa della coetanea. «E cosa te lo fa pensare, o grande divinatrice?»
«Perché quella non solo è una pessima attrice, ma le manca pure l’acqua» Johanna indicò la sedicenne che si nascondeva fra le fronde, allontanandosi il più possibile dai Favoriti e dal suo cosiddetto innamorato.

Chissà come la faceva sentire vederlo in testa ad una battuta di caccia in cui il premio era proprio lei. O forse si erano messi d’accordo prima? Anice non ne aveva idea, soprattutto perché concordava con Johanna: era veramente una pessima attrice.
«Non ci avevo fatto caso» mormorò Anice girando l’ombrellino del suo drink con fare assente. «All’acqua, dico»
«Beh, se entrambi i tuoi Tributi muoiono al Bagno di Sangue ti devi pur concentrare su qualcun altro»
«E perché proprio lei, se ti sta così antipatica?»
«Che palle, Anice» Johanna alzò gli occhi al cielo. «Perché questo interrogatorio? Hai deciso di vendermi ai Pacificatori, per caso?»
«Ma ti pare» mormorò la ragazza, lo sguardo basso e perso. Non era una cosa carina da dire. Affatto. Johanna sapeva cosa le era successo. Perché le diceva quelle cose? Faceva sempre così. Un momento prima si stava bene, a ridere per non piangere, e poi era proprio la sua cosiddetta amica a spingerla sull’orlo delle lacrime.
«Ti consiglio di trovare un altro preferito, cara Anice.» Se Johanna aveva capito che quella era stata un’uscita a dir poco infelice, non lo diede a vedere. Bevve il suo drink tutto d’un fiato e si sporse con i gomiti sulle ginocchia, gli occhi fissi sul maxischermo. «Tu concentrati sul ragazzo innamorato, dai. Così facciamo coppia»
«Che bello, Johanna» replicò Anice con un filo di voce. «Voglio proprio fare coppia con te»
Forse, in un’altra occasione, sarebbe sembrata sincera.



I due giorni senza morti si sentivano tutti.
La ragazza del 12 c’era andata vicinissima, ad un pelo dal disidratarsi a morte. Felix, che osservava tutto dalla Sala di Controllo, aveva sperato di no per un semplice motivo: perdere lei in quel modo così banale e anticlimatico avrebbe fatto calare a picco l’indice di interesse di quella edizione, e allora non sarebbero bastati tutti gli ibridi del mondo per recuperare una frazione dell’interesse generato da lei e dal suo fantomatico fidanzato.
Perciò, quando Seneca annunciò che avrebbero riscaldato gli animi, Felix non fu affatto sorpresa. Una sorta di Deus ex Machina al contrario, che invece di offrire la salvezza ai Tributi li spingeva nelle fauci del serpente.
Concentrati.

Non stavano per ipnotizzare la ragazza per condurla in una fredda cupola rosata, stavano per bruciarla viva. Era diverso.
Diverso da quello che avevano fatto a lei proprio in quella stanza, forse proprio in quella postazione, quando i due giorni di noia avevano costretto i suoi colleghi a correre ai ripari. Nessuno là dentro, nemmeno lei, immaginava che un giorno, quello che era stato un tributo dalle probabilità di vittoria così basse, si sarebbe seduto lì con loro, quasi come una pari.
Seneca teneva il tempo con la mano: «Fuoco fra tre, due uno…»
La corteccia degli alberi si incendiò all’istante. Felix stessa azionò le ventole nascoste nel finto cielo dell’Arena. Valutò se aumentare progressivamente la potenza o spingere al massimo, ma considerando che la ragazza dormiva placida sull’albero e che le telecamere, al momento, mandavano in onda il chiassoso gruppo di Favoriti, optò per un’azione immediata. Il forte vento caldo spirò potente e l’incendio crebbe a dismisura.
«Bravi così, ragazzi» Seneca osservava il maxischermo attento, i brillanti occhi azzurri fissi sull’obiettivo. Il fuoco cresceva in potenza ed estensione, tanto che Felix non necessitava del termometro che segnalava il progressivo aumento della temperatura. I bordi delle videocamere si fecero appena appena sfuocati e gli schiocchi del legno che si spezzava, contorceva e infine bruciava allertarono la ragazza, che, finalmente, si svegliò.
Aveva solo due opzioni davanti a sé: correre nella direzione opposta, oppure bruciare e rendere onore al proprio soprannome. Felix non dubitava che fosse quello il motivo che aveva spinto Seneca a scegliere il fuoco, invece che l’orda di serpenti che potevano svegliare premendo un tasto sulla consolle. Seneca veniva apprezzato proprio per queste sottigliezze e per l’ambiente sereno che offriva ai colleghi durante i Giochi.
«Vai con una palla di fuoco» ordinò il Capostratega e la ragazza fece appena in tempo ad evitarla che un’altra seguì a raffica la prima, facendola rotolare a terra.
Poteva correre in direzione opposta dell’incendio oppure bruciare; in nessun caso avrebbe trovato la salvezza.
«A meno di un chilometro c’è il gruppo di Uno-Due-Quattro» annunciò Felix con voce monocorde. Non esistevano Favoriti nella Sala di Controllo. «Se cambiamo la direzione del vento la spingiamo lì.»
«Perfetto» Seneca le diede l’ok e Felix spense delle ventole per attivarne altre. L’incendio crebbe immediatamente là dove l’aveva voluto, e questo cambio repentino unito ad un improvviso albero caduto impedì al Tributo di schivare l’ennesima palla di fuoco, che la colpì alla gamba.
L’urlo – sia di dolore che di sorpresa – venne accolto con indifferenza nella Sala. Seneca ordinò che le palle di fuoco cessassero e che il fuoco venisse tenuto sotto controllo, abbastanza da spingerla esattamente dove volevano.

Felix fece esattamente come richiesto. Mantenne il vento costante e ne aumentò il calore, per alimentare quello dell’incendio, e la ragazza del Distretto 12 continuò a correre – ad inciampare – fra le fronde, finché non cadde nel fiume con un sospiro di sollievo.
I Favoriti sbucarono proprio in quell’istante, come lei aveva previsto. Ruotò il controller e le ventole si spensero, e all’unisono dieci Strateghi alzarono le leve che azionavano l’impianto di raffreddamento istantaneo. Il fuoco si estinse quasi immediatamente, lasciando la vegetazione nera e morta. Niente avrebbe disturbato lo spettacolo che avevano architettato.
«Eccola là! E’ là!» urlò il ragazzo del Distretto 1 e tutto il gruppo si precipitò all’inseguimento, con il ragazzo innamorato in ultima fila. Decisamente una brutta giornata per gli innamorati sfortunati del Distretto 12.

Felix aprì una panoramica dell’Arena sul suo schermo, attenta a non perdersi eventuali azioni interessanti da parti di altri Tributi. Ormai avevano architettato quell’uccisione e l’azione era in mano ai Tributi: arrivava un momento in cui perfino gli Strateghi dovevano lasciar perdere le fila dei pupazzi e far in modo che le marionette agissero da sole. Nel frattempo, era compito di Felix assicurarsi che gli altri partecipanti non rubassero la scena a ciò che avevano pianificato e promesso al pubblico, ed intervenire se necessario. Erano tutti in solitaria e abbastanza distanti dal gruppo Uno-Due-Quattro e compagnia, nessuno dei quali intento in azioni interessanti. Felix ritornò al maxischermo in tempo per sentire la battuta di scherno della ragazza del 12, ora appollaiata su un albero, e la risposta del suo compagno.
«Aspettiamola qui. Dovrà scendere prima o poi, o morirà di fame. E la uccidiamo.»
La frase venne accolta da occhi sgranati e sguardi confusi dalla maggior parte dei suoi colleghi, quelli coinvolti dall’aspetto umano del gioco. Felix invece strinse gli occhi, pensierosa.

Il ragazzo del Distretto 12 era letteralmente incappato nel gruppo dei Favoriti due ore dopo l’inizio dei Giochi. Aveva barattato la sua vita in cambio di guidarli verso la sua fidanzata, che offendeva l’orgoglio del ragazzo del Distretto 2 per aver preso un voto più alto di lui. Ma Katniss – così si chiamava la ragazza sospesa sui rami – aveva fatto qualcosa che tutte le spade del mondo non potevano ottenere: li aveva sfidati. E quella era stata l’unica cosa di lei che pareva sincera.
Felix non poteva negare di aver sentito qualcosa di vaghissimo agitarsi in lei, e forse, se il suo obiettivo fosse stato quello di ucciderla, anche lei al posto del Capo Stratega le avrebbe assegnato un voto così alto. Ma qualcosa che le diceva che Seneca non l’aveva fatto per metterle un bersaglio in testa, quanto per capitalizzare sulle emozioni che quei due del Distretto 12 avevano creato. L’intervista era stata la ciliegina sulla torta. Ma una volta iniziati i Giochi veri e propri si erano persi di vista e la commediola, almeno ai suoi occhi, era crollata ancor prima di cominciare. Gli indici di gradimento però dicevano tutto il contrario.
E quindi erano giunti a quell’impasse.
Avrebbero gettato la loro maschera di innamorati sventurati che non convinceva chi aveva un minimo di cervello o avrebbero continuato ad ingannare gli stolti?
Lo avrebbero scoperto nelle ore successive, quando le marionette avrebbero danzato da sole e i burattinai stessi si sarebbero tramutati in spettatori.



Cecelia entrò in camera sua come una furia: «Anice, accendi la tv! Presto, presto, presto!»
Anice cadde dal letto nell’allungarsi per prendere il telecomando e cambiò immediatamente canale, sintonizzandosi dai sondaggi di Claudius alla diretta dei Giochi.
Il ragazzo che doveva tenere d’occhio – Peeta, così si chiamava – dormiva ai piedi dell’albero in cui era intrappolata la sua cosiddetta amata. Fin qui, nulla di nuovo. L’ultima volta che si era collegata, qualche ora prima, le cose erano più o meno le stesse. Aveva osservato i Favoriti preparare l’accampamento sotto l’albero, la ragazza ricevere un paracadute con una medicina, e poi era tornata nei suoi appartamenti con Cecelia. Stava quasi per prendere sonno.
Ma Katniss – inevitabilmente aveva imparato il suo nome – non sonnecchiava in cima all’albero. Stava… segando un ramo?
«Glielo ha detto la ragazzina, quella del Distretto 11» le disse Cecelia, indicandole qualcosa sullo schermo. «Guarda che c’è là»
E Anice lo vide. Un nido enorme, con delle vespe che svolazzavano dentro e fuori quasi inconsapevoli del rischio che correvano.
«Per chi non lo sapesse, il veleno degli Aghi Inseguitori causa lancinanti dolori, allucinazioni, e, in casi estremi, la morte» la informò con tono grave la voce di Caesar dallo schermo.
«Cazzo» esclamò la ragazza. «Questa sì che è roba da matti!»
«Sssh» la interruppe Cecelia, come se la voce di Anice potesse far desistere la ragazza da suo intento. Intanto, la ragazzina del Distretto 11 sembrava volatilizzata, e Katniss sempre più sofferente per via delle punture che inevitabilmente riceveva.

Ci fu un istante di silenzio prima che il ramo si spezzasse e il nido crollasse al suolo. La lama seghettata del coltello, non incontrando resistenza, tacque e il ramo restò sospeso nell’aria per un secondo solo, forse nemmeno quello. Poi, come se possedesse una gravità propria, il nido trascinò giù con sé il ramo e la colonia di vespe, che cadde al suolo e si ruppe come uova sul pavimento.
Il lieve ronzio che aveva animato il nido si trasformò in un brulicante rumore assetato di sangue mentre gli Aghi Inseguitori si riversavano sulle povere vittime che scappavano urlando. Anice si ritrovò a provare suo malgrado pietà per loro e a sperare che ce la facessero – soprattutto quello che doveva controllare lei, Peeta.
«Che bomba» fu il commento di Cecelia, che osservava la scena senza tradire alcuna emozione. «Meno male che i miei figli ancora non li vedono i Giochi.»
Già, meno male, perché quella vista poteva far venire gli incubi veramente.
Il gruppo si era diviso, la ragazza del Distretto 1 era rimasta indietro e un nugolo di vespe copriva il suo corpo. Chiedeva aiuto, ma nessuno sarebbe accorso per lei. E infatti, si accasciò al suolo, sola, ma il cannone che suonò non fu per lei.
La ragazza del Distretto 4, che aveva raggiunto il lago assieme al resto del gruppo, galleggiava in mezzo al lago, dove presto un hovercraft sarebbe venuto per recuperarla.
Le immagini scorrevano velocissime, avanti e indietro fra l’albero e il lago, fra tributi che cercavano sollievo dalle punture nell’acqua e Katniss che barcollava nel tentativo di rubare l’arco alla ragazza del Distretto 1, ormai irriconoscibile. Il cannone annunciò anche la sua morte e Katniss trasalì. Non sembrava in grado di strappare l’arco dalle mani bitorzolute del cadavere, e Anice giudicò quella scelta curiosa.
«Non capisco perché si sta accanendo sull’arco» disse. «Io scapperei se fossi in lei, il bestione del Distretto 2 la sta raggiungendo.»
«Forse vuole giocarsela fino all’ultimo» ipotizzò Cecelia. «Un’arma in più è sempre meglio di niente e dopotutto non mi sembra in grado di intendere e di volere. Forse morirà per il veleno.»
«O per lui» mormorò Anice, seguendo il Favorito del 2 con lo sguardo. Si stava avvicinando al campo, una maschera assassina in volto, incurante delle vespe superstiti che svolazzavano sperdute, caricandole con la spada. Solo un pazzo poteva aspettarsi di colpirle con la lama. Anice avvertì il proprio stomaco stringersi in una morsa.
Il ragazzo innamorato, però, giunse per primo da lei.
«Katniss, che cosa fai? Scappa!»
Katniss sbattè le palpebre, confusa.
«CORRI!»
Peeta la spinse via proprio nell’attimo in cui il maschio Distretto 2 fece la sua comparsa nella radura, il bel viso reso grottesco dalle punture pulsanti. Anche Katniss dovette vederlo perché corse via sbattendo contro un albero.
Peeta cercò di parlare: «Cato, non…»
Ma Cato non gli lasciò finire la frase che mulinò la spada contro di lui. Un colpo letale, se fosse stato in salute, ma il veleno degli Aghi Inseguitori doveva aver fatto effetto perché invece colpì Peeta solo di striscio sulla gamba. Peeta cadde ululando per il dolore ed ebbe la forza di dargli un calcio con la gamba sana prima di strisciare via da lì. Il calcio del ragazzo non sembrava molto potente, ma bastò per far perdere l’equilibrio ad un Cato già estremamente provato, che perse la presa sulla spada e si accasciò contro un tronco, urlando improperi contro i due innamorati del Distretto 12.

«E così hanno deciso di continuare la sceneggiata» disse Anice stringendo le ginocchia al petto. Ma era davvero una sceneggiata? Per un istante, la preoccupazione nella voce del ragazzo le era sembrata così vera…
«Lui è proprio bravo» commentò Cecelia annuendo. «Lei era troppo fatta per fingere e forse è meglio così. Ha quasi ucciso pure lui con questa geniale trovata»
«Lei è pessima» confermò Anice, che osservava Katniss vagare per la foresta piangendo rinchiusa nel mondo del veleno degli Aghi Inseguitori. «E’ merito di Peeta se la commedia regge. Sembrava tutto vero…»
Il dubbio si insinuò nella voce di Anice, suo malgrado. Dovevano fingere per forza, era chiaro. Quell’idea era inusuale e potenzialmente fallimentare – uno dei due doveva morire, nel più roseo degli scenari – ma a suo modo geniale, innovativa. Fingere di amarsi e di essere finiti in un gioco più grande di loro.
Ma in una situazione di vita o di morte come quella, di vita o di morte per Aghi Inseguitori, come poteva un attore provato dal veleno e dalle ferite continuare a fingere? Come poteva rischiare di morire per qualcuno che fingeva di amare?
Peeta doveva sapere che portava sulle spalle il peso di tutta la messinscena e che quella era il suo unico modo per vincere, per questo fingeva così bene. Quanto era grande la forza di volontà che albergava in quel ragazzo?
Anice scosse la testa. «Johanna se la starà ridendo»
«Perché?»
«Perché la ragazza di Finnick è morta» ora anche lui si sarebbe aggiunto al loro club. «In più si è scelta i due del Distretto 12 da tenere d’occhio per passare il tempo. Oggi sì che hanno dato spettacolo»
«Vai sul canale di Claudius, vediamo là»
Katniss cadde finalmente a terra, alla mercè di tutti, e le due Mentori del Distretto 8 cambiarono canale.



Il settimo giorno dei Giochi, Felix Facilis osservò corrucciata la coppia Undici-Dodici allearsi e tenersi al sicuro dal gruppo dei Favoriti, ormai dimezzato. Non aveva potuto fare a meno di provare una punta di cauta ammirazione per il ragazzo del Distretto 3 che si era unito a loro. Non per il gesto in sé, quanto per la brillante idea che aveva tirato fuori solo due giorni prima, proprio mentre il bestione del Distretto 2 stava per calare la spada sul suo fragile collo.
«Aspetta! Posso farle esplodere! Le mine! Posso riattivarle!»
A quel punto, non si era destata solo la curiosità del gruppo Uno-Due, ma anche quella degli Strateghi. Compresa l’ultima arrivata.
«Ma lo può fare?» aveva domandato qualcuno in sala.
Certo, aveva pensato Felix, lo sguardo concentrato sullo schermo, dove il quindicenne si affrettava a disseppellire la prima mina per dimostrare ai suoi futuri assassini che diceva la verità. Ed era stato bravo, davvero. Perfino i Favoriti erano rimasti a bocca aperta e avevano convenuto di lasciarlo in vita – per il momento. Non solo, avevano perfino seguito le sue direttive per un piano veramente brillante.
«Potremmo creare una trappola» disse con voce tremula il tributo di cui Felix ignorava il nome. «Potremmo… prendere le provviste e racchiuderle nel cerchio delle mine riattivate e attirare qui gli altri…»
«Gli ordini qui li diamo noi, Tre» aveva risposto la femmina del Due, occhieggiando il suo compagno di distretto. C’era un certo cameratismo fra di loro che non era passato inosservato agli occhi vigili degli Strateghi, una certa sintonia che li rendeva appaganti da guardare anche quando uccidevano le loro vittime. Brutali, certo, non erano eleganti nell’uccidere, nessuno dei due, ma i sondaggi dimostravano che i loro spettacoli erano altamente graditi.
Solo che erano così sporadici.

Dovevano uccidere qualcuno, e alla svelta. Non potevano cavarsela troppo a lungo con la scusa degli aghi inseguitori, e dallo sguardo che il maschio del Distretto 2 rivolse alla compagna, Felix capì che se ne rendevano conto anche loro.
Per la prima volta in quell’Edizione, il silenzio calò nella Sala di Controllo. Tutti erano in attesa della risposta che avrebbe dato una svolta decisiva ai Giochi. E’ questo il bello dei Giochi, diceva sempre Seneca nei suoi discorsi motivazionali, che sono i Tributi a scegliere il loro destino. Noi, semplicemente, li accompagniamo lungo la strada.
Felix, che era stata un tributo, non la pensava proprio così. Nemmeno in quel momento, mentre attendeva con pazienza che il maschio del Due prendesse una decisione. Il tributo del Tre poteva riattivare le mine impiegandoci ore e ore di duro e disciplinato lavoro. Ma se a Seneca fosse parso più interessante uno scenario diverso, a Felix sarebbe bastato un secondo per attivarle da remoto e far saltare in aria il malcapitato.
«Fa’ quel che hai promesso» sentenziò infine il tributo del Due. «Ma bada di fare il tuo lavoro per bene mentre io e Clove andiamo in ricognizione. Marvel ti aiuterà»
Marvel non protestò, il ragazzo del Tre annuì e il silenzio calato nella Sala di Controllo si infranse mentre gli Strateghi tornavano al lavoro, animati dalla prospettiva di uno spettacolo esplosivo.
Inutile dire quanto Caesar e Claudius ricamarono sopra quella storia, per non parlare delle aspettative che Seneca, intervistato ad intervalli di tempo regolari, nutriva con i suoi commenti entusiasti e i sorrisi ammiccanti. Sul proprio tablet, Felix vedeva gli ascolti schizzare alle stelle e le scommesse farsi sempre più audaci.
Meno gente di prima, però, investiva sugli amanti sventurati del Distretto 12. Felix non ne era sorpresa. Il ragazzo era da qualche parte a dissanguarsi lentamente, vicino alla riva del fiume. La ragazza preferiva allearsi con la bambina del Distretto 11 piuttosto che andarlo a cercare.
Felix era contenta di avere ragione, come sempre. Ma la infastidiva quell’alleanza tanto improbabile.
Entrambi i tributi del Distretto 11 erano in vita ed entrambi avevano dimostrato di possedere delle abilità invidiabili: non solo conoscenza dei vegetali di cui si nutrivano e resistenza ad un ambiente ostile, ma anche inventiva e creatività. Felix non dimenticava che era stata proprio la bambina del Distretto 11 a suggerire alla ragazza del 12 di segare il ramo ospite del nido di aghi inseguitori.

Loro due erano state le vere artefici degli spettacoli di quei Giochi. In quanto Stratega – e lei era solo una Stratega, solo questo era, non avrebbe potuto essere nient’altro in tutta la sua vita – avrebbe dovuto essere felice che una squadra del genere avesse unito di nuovo le forze.
Ma era sbagliato. Era sbagliato che la sedicenne desse speranza alla dodicenne, che si raggomitolassero insieme nel loro sacco a pelo ad osservare il cielo privo di caduti, era sbagliato che indugiassero in quel contatto umano che nell’Arena non era concesso. Felix lo avvertiva come un infrangere le regole, come se fosse un attacco personale, diretto proprio contro di lei, che piegava la testa come tutti.
«Sono molto tenere, non è vero?» le disse Isaac al telefono quella sera.
«E’ un’alleanza insolita» rispose Felix, che si sentiva ribollire le viscere nel ventre. «Non durerà. Lei la ucciderà non appena ne avrà l’occasione.»
Non ne era veramente convinta, ma una parte di sé quasi ci sperava.
«Non credo» rispose Isaac, e Felix riuscì ad immaginare perfettamente il modo in cui si arrotolava il filo del telefono attorno alle dita. «Katniss si è offerta volontaria per la sorella che ha la stessa età di Rue. Solo… anche io mi domando quanto durerà»
«Questi Giochi sono molto impegnativi…» Felix sospirò nella cornetta. «Ho un turno molto presto domani mattina, devo chiudere.»
«Secondo te chi vincerà?» le domandò a bruciapelo il ragazzo.
«Non il Distretto 3» rispose la Stratega, conscia che nel momento in cui il loro tributo avrebbe terminato di sistemare le mine e la trappola, la sua utilità avrebbe fatto il suo corso.
«E’ un peccato, però. Sono sicuro che fosse il primo della sua classe. Peccato che non gli abbia portato niente di buono.»
Solo qualche giorno in più, pensò la ragazza. Era stanca, così stanca. Ed era certa che il giorno dopo sarebbe toccato a lei proiettare i volti dei caduti in cielo. Il Distretto 3 sarebbe finito fuori dai Giochi molto presto.
«Quando Beetee e Wiress torneranno li saluterai per me?» domandò lei.
«Certo» Felix chiuse gli occhi beandosi della dolcezza del suo tono. Non vedeva l’ora di tornare a casa.
Il giorno dopo, le cose sì che si fecero eccitanti. Felix quasi ebbe difficoltà a gestire l’impennata di scommesse registrate sul tuo tablet. Ma fece il suo dovere. Impedì ai vari baccelli di attivarsi se toccati, mantenne sotto controllo i tributi non coinvolti nel piano di Dodici e Undici, provò perfino un moto di ammirazione per Cinque, che aveva così abilmente evitato le mine.
Non batté ciglio quando Cato spezzò il collo al ragazzo del Tre.


«Sembra, quindi che ne siano rimasti otto, Caesar!»
«E che otto!» esclamò il presentatore tutto contento. «Abbiamo il gruppo dei Favoriti dimezzato e il resto dei tributi sembra perfettamente in grado di dargli del filo da torcere, perfino i giocatori più inaspettati!»
Ovviamente si riferiva a Rue, e probabilmente alla stessa Katniss. Ma anche la ragazza del Distretto 5 – Finch, le pareva – non era da sottovalutare. Le sue risa sulle macerie fumanti delle provviste le faceva domandare se però non stesse iniziando a perdere la testa, lì dentro.
Succederebbe anche a me, pensò Anice corrucciata, a quest’ora, i miei Giochi erano finiti e già stavo impazzendo.
La Vincitrice guardava lo schermo dove Caesar e Claudius discutevano animatamente del piano di Katniss, ma i suoi occhi erano ciechi. Vedeva solo un cielo bloccato in una perenne alba rosata, la neve intrisa di sangue, gli occhi violetti della volpe che la fissavano nella desolazione.
«Ci sei?» Johanna le sventolò una mano davanti agli occhi.
«Mh?» Anice sbattè le palpebre una, due volte, infine annuì. «Sì, scusa, mi ero un attimo persa nei pensieri…»
«L’ho visto» rispose l’altra Vincitrice, nervosa nonostante ostentasse la solita boria.
Visto che i tributi di tutti le presenti erano morti, ma nessuna aveva deciso di tornare a casa, le ex-Mentori si erano ritirate in un salotto privato, per poter assistere ai Giochi in pace. Lontane dagli occhi dei papabili Sponsor, non dovevano fingere alcunchè, se non l’ovvio.
Lo schermo mostrava Katniss che si muoveva guardinga nella vegetazione. Si intravedeva ancora il fumo dell’esplosione e la sedicenne, da cacciatrice, avanzava con la freccia già incoccata.
«E’ così palese che cacci di frodo» Johanna sbuffò. «E ovviamente nessuno la punirà per questo.»
Anice non si prese nemmeno la briga di rispondere. Avvertiva quella morsa alla bocca dello stomaco che ti prende solo quando sai che qualcosa sta per accadere, ma senza sapere esattamente cosa. Qualcosa di brutto, ecco la sola certezza. Non aveva dubbi sul fatto che in quel momento Katniss provasse lo stesso.
Per un istante, il cuore di Anice si sollevò nell’udire il motivetto a quattro note della bambina; Katniss si preparò a rispondere… e le grida di Rue infransero le loro speranze.

Katniss corse a perdifiato nel bosco, la telecamera puntata su di lei. Imporre il suo punto di vista si sarebbe tradotto in un boom di ascolti, di questo Anice non dubitava, come non dubitava nemmeno che alla resa dei conti finale dei suoi Giochi fosse stata lei il punto di vista principale.
E perché no? Ruben sapeva dove doveva andare e anche se aveva scordato contro chi avrebbe combattuto era certo di vincere. Anice, d’altro canto, sapeva solo che sarebbe morta per mano di un Favorito. La suspanse si crea empatizzando col più debole, dopotutto.
Anice si chiese perché stesse riflettendo così tanto suoi Giochi, quando faceva di tutto per dimenticarli da tre anni. C’era qualcosa dentro di lei che si muoveva, qualcosa che le faceva guardare quei giochi come se a partecipare fosse una persona a lei cara, e non ventiquattro sconosciuti che solo tre anni prima avevano significato terrore e incertezza per lei.
La stessa Cecelia fissava lo schermo con gli occhi sgranati.

Rue era intrappolata in una rete e chiamava aiuto, cercava Katniss, urlava e si dibatteva per sfuggire alla trappola. Per un istante sembrò che le cose si sarebbero sistemate: Katniss tagliò la corda con il suo coltello, l’abbracciò, le disse che ora che c’era lei era al sicuro. Ma qualcuno si mosse, proprio all’angolo più estremo dell’inquadratura.
Anice e tutta Panem videro con gli occhi di Katniss la lancia che penetrava nello stomaco di Rue, la macchia rossa che si allargava sulla sua maglietta, il corpicino che si afflosciava come un fiore reciso. La freccia di Katniss che trapassava il collo di Marvel, il singulto del ragazzo, il cannone che ne seguì.
Non v’era traccia di emozioni sul volto della Ragazza di Fuoco, impassibile mentre osservava il corpo esanime di Marvel. In quel momento Anice si rese conto che quella era l’ultima cosa che le sue prede vedevano prima di spirare.
Il colpo del cannone parve far ritornare in sé stessa la ragazza, che gettò arco e provviste a terra. Katniss stringeva la mano di Rue come se fosse lei in punto di morte, e non viceversa.

«Hai fatto saltare il loro cibo?» domandò la bimba con voce tremula.
«Fino all’ultima briciola»
«Tu devi vincere» sembrava che ogni parola le rubasse un po’ di vita. Stava morendo. Era così piccola…
Non parlare, pensò Anice suo malgrado, non parlare, risparmia le forze, andrà tutto bene.
Ma chi stava consolando? Rue o Delaine?
«Non andare via» supplicò Rue.
Katniss poggiò il suo capo sulle ginocchia e le sistemò i capelli dietro le orecchie, in un gesto così familiare, visto così tante volte e ormai precluso, che la vista di Anice si appannò.
«Certo che no. Sto qui con te…»
«Canta»

Le lacrime scivolarono sulle guance di Anice mentre vedeva Katniss guardarsi attorno alla ricerca di chissà cosa, gli occhi grigi che si soffermarono irrequieti sul corpo del ragazzo che aveva appena ucciso, lo sguardo che implorava aiuto.
Le ricordò qualcuno, una Vincitrice di qualche anno prima di lei, ma non avrebbe saputo dire chi. Era troppo occupata a cercare di esaudire l’ultimo desiderio di Rue. Nella sua mente echeggiavano le parole della ballata che aveva cantato sotto la doccia di ritorno al Distretto 8, quando il domani le sembrava veramente più gentile, e che le nubi dell’oggi non potessero durare per sempre. Quando credeva che vincere le avesse veramente garantito la vita senza paura che le era stata promessa.
Ma Katniss non conosceva quella canzone, e ne intonò un’altra, con una voce talmente dolce e sola e vulnerabile che Anice custodì nel suo cuore fino all’ultimo giorno.

«Là in fondo al prato, all’ombra del pino
C’è un letto d’erba, un soffice cuscino
Il capo tua posa e chiudi gli occhi stanchi
Quando li riaprirai, il sole avrai davanti.
Qui sei al sicuro, qui sei al calduccio,
qui le margherite ti proteggon da ogni cruccio,
qui sogna dolci sogni che il domani farà avverare
qui è il luogo in cui ti voglio amare»

Una parte di Anice riuscì perfino a stupirsi della bellezza della voce di Katniss. Non stava fingendo il suo dolore. Quelle lacrime, quei singhiozzi, erano veri. Quella era un’altra sorella che moriva.
Quante, ancora? Quante bambine prima che l’appetito di Capitol City si sarebbe saziato? Quanto c’era voluto perché Anice si rendesse conto che le cose non dovessero andare per forza così? Un’altra bambina, un’altra sorella. Un’altra innocente che risvegliasse la coscienza della colpevole.

«Là in fondo al prato, nel folto celato
C’è un manto di foglie di luna illuminato.
Scorda le angustie, le pene abbandona.
Quando verrà mattina, spariranno a una a una.
Qui sei al sicuro, qui sei al calduccio,
qui le margherite ti proteggon da ogni cruccio.
Qui sogna dolci sogni che il domani farà avverare
Qui è il luogo in cui ti voglio amare.»

Il silenzio cadde. Il cannone suonò. Johanna diede un calcio al tavolino e fece per andarsene, poi, come ripensandoci, optò per appoggiarsi sullo schienale del divano. Le telecamere interruppero il collegamento proprio mentre Katniss si chinava per baciare sulla fronte la piccola Rue.
Caesar e Claudius erano commossi quasi quanto Anice, che avvertiva le mani tremare e il cuore fremere nel petto.
Ancora quella cosa che si agitava nel suo petto.
Ancora quelle lacrime che non riusciva a controllare.
Ancora quel dolore che non aveva diritto di provare.
Lei aveva ucciso la ragazza che aveva confortato, nei suoi Giochi. Lei anche aveva stretto amicizia e l’aveva ammirata, aveva perfino fatto il tifo per lei. E poi aveva aperto un sorriso di sangue sulla sua gola e le aveva rubato i vestiti per stare al caldo.
Katniss invece…
Sono due cose diverse, si disse tentando di trattenere i singhiozzi, ma era veramente così? Lo erano sul serio, oppure aveva ragione?
Dyneema le aveva detto che le sue azioni nell’Arena non definivano chi era. E allora cosa? E allora cosa?
Glielo aveva chiesto e non aveva ricevuto risposta, ma più guardava quell’Edizione, più si convinceva che Dyneema avesse torto e che nemmeno Anice stessa avesse ragione.

Lei e Cecelia si guardarono negli occhi e scambiarono la stessa occhiata con Johanna. Non c’era bisogno di parole, lo sapevano tutte: erano le azioni in quella specifica Edizione, in quella specifica Arena, che avrebbero – avevano – definito le persone che erano.
Quell’ultima immagine, quell’ultimo fotogramma prima che il girato venisse brutalmente tagliato per passare ad altro, confermò alle tre Vincitrici che quello che era accaduto lì dentro avrebbe cambiato tutto. Gli Strateghi erano costretti a mostrare il recupero del corpo e non poterono evitarlo.
Katniss aveva ricoperto di fiori il corpo di Rue.









NdA:
Ciao a tutt
ə e auguri! Dopo poco più di un anno di attesa, siamo tornate con la seconda parte di Vittima della Mia Vittoria, e finalmente si entra in territorio noto: d'ora in poi, seguiremo gli eventi della saga dal punto di vista delle nostre amate Felix e Anice! Questa seconda sarà più breve della prima, ma non meno ricca di emozioni. Come potete vedere, la salute mentale scarseggia in questi lidi.
Il titolo della parte due è un verso tradotto della canzone Abraham's Daughter degli Arcade Fire, tratta dalla colonna sonora del primo film di Hunger Games. Il banner invece è una creazione di Marta, che ha scelto come fiore l'elleboro il cui significato è il cambiamento.
Speriamo di farvi un regalo gradito <3 attendiamo con ansia il vostro parere.
A prestissimissimo e auguri di buone feste a tuttə!

Superkattiveh


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Capitolo 2
*** OI || Figlia, come osi sfidare tuo padre? ***


VITTIMA DELLA MIA VITTORIA

Parte II - Figlia, come osi sfidare tuo padre?



Capitolo II - Figlia, come osi sfidare tuo padre?



Il suo ultimo compito prima della fine del turno fu inviare il dono a Katniss.
Se permettere una cosa del genere o no fu molto dibattuto, ma alla fine era stato deciso che i soldi non dovevano andare sprecati. Felix aveva visto Chaff e Sedeer discutere animatamente con Seneca attraverso le porte a vetro, e aveva capito che anche Seneca si era reso conto che le cose stavano cominciando a farsi più grandi di loro. Perfino Haymitch si trovava lì, e non le era mai sembrato così sobrio.
«I miei ringraziamenti alla gente del Distretto 11» la voce di Katniss giunse limpida alle orecchie di tutti gli Strateghi in Sala.
Felix non sapeva se dalla regia avessero tagliato quella parte o avessero deciso di mandarla in onda, ma lei l’aveva vista e tanto le era bastato. Aveva visto tutto.
Non appena mise piedi fuori dalla Sala di Comando la mano corse al pacchetto di sigarette che aveva in tasca. Ne finì una ancora prima di uscire dal campus degli Strateghi, e tempo di cambiarsi e lavarsi via il sudiciume che sentiva addosso, ne accese un’altra, con più rabbia del solito.

Le era concesso un perimetro oltre il quale non poteva allontanarsi, ma la Capitale, nella sua immensa generosità, si era assicurata che la zona fosse la più lussuosa e ricca della città. Anche senza Pacificatori a scortarla, Felix era perfettamente consapevole di essere sorvegliata.
Mentre aspettava pazientemente che scattasse il verde, tentava di ignorare i maxischermi che trasmettevano trailer e spot dei Giochi. Non ne poteva più. Ovunque si girasse, vedeva Katniss che faceva esplodere le riserve di cibo, Cato che ammazzava qualche tributo, Tresh che si dileguava nel campo di grano e mai, neanche una volta, il volto di Rue faceva la sua comparsa sugli infiniti schermi cittadini. Di questo, di questo non ne poteva più.
Di come stessero cercando di insabbiare la cosa, di come puntassero tutto sulla brutalità dei Giochi, di come tentassero di cancellare quel momento vero che c’era stato e che era durato fino all’ultima nota di Katniss.
Di come, ancora una volta, lei stessa non riuscisse a lasciare il passato nel passato, e di come quello che era accaduto le avesse fatto sentire il corpo di Jack fra le braccia, il tremore scomposto delle sue membra, quell’ultimo, fatidico spasmo e poi niente, solo il suo cadavere che si abbandonava a lei…
Qualcosa scattò. Il verde. Felix alzò lo sguardo. La sigaretta, fra le sue dita, era rimasta sospesa, bruciando poco a poco, un sottile rivoletto di fumo che danzava nell’aria. Si ritrovò a seguirlo, stupita della sua presenza, quando i suoi occhi si soffermarono su una semisfera nera fuori la vetrina di un negozio.
Una telecamera. Fissa su di lei.
Felix tornò immediatamente in sé e avvertì tutte le membra irrigidirsi. Fece l’ultimo tiro e per la prima volta in vita sua avvertì l’impulso di gettare la sigaretta per strada. Esitò per un istante sulle strisce pedonali, poi il semaforo divenne giallo e Felix si affrettò a raggiungere il marciapiede opposto.
A volte la spaventata la facilità con cui si adattava alla vita frenetica della città. Quella vera, la città con tram, metro, auto e cemento liscio, non sfregiato dai bombardamenti di ottant’anni prima e mai riparato. Le macchine giravano al Distretto 3, ma non così tante. Di tram ce ne era uno solo, non mille. Capitol sembrava una versione più bella e ordinata del Distretto 3 e spesso si ritrovava a contare le analogie con casa, che di volta in volta si facevano sempre più numerose. Anche quello, però, sembrava un insulto.

Il posto verso cui era diretta era il luogo più silenzioso che era riuscita a trovare. Non vi erano negozi attorno, solo un curatissimo boschetto, ma non c’erano maxischermi e riusciva addirittura a specchiarsi nelle acque di un laghetto artificiale - come tutto in quella città.
Sedette sulla panchina, il mozzicone ancora in mano. Non v’era posto, a Capitol City, che fosse completamente avvolto nel silenzio, nemmeno nelle ore più profonde della notte. Non era mai completamente buio. La città che non dorme mai, così la chiamava Caesar, e nemmeno Felix riusciva a dormire quando stava lì. Seduta sulla panchina, riusciva a captare i flebili messaggi pubblicitari degli schermi in strada, i jingles che pubblicizzavano i Giochi, perfino alcune delle frasi più famose pescate in settantaquattro edizioni. Non aveva bisogno di tutto questo per immergersi nell’atmosfera dei Giochi.
Aveva imparato così tanto del gergo capitolino che ormai l’aveva assimilato nel suo parlare quotidiano. Ogni parola, ogni sigaretta, ogni volta che aspettava il verde per attraversare la strada la portavano più lontana dal Distretto 3 e l’avvicinavano a coloro che le avevano rubato il corpo, la mente e, se ne aveva mai posseduta una, anche l’anima.
Felix aveva paura di riflettersi nelle placide acque del parchetto cittadino perché sapeva che il corpo che avrebbe visto non le sarebbe appartenuto. Avrebbe visto qualcuno che disprezzava o qualcuno che non conosceva. Ma Felix Facilis… Felix Facilis erano anni che non riusciva a trovarla nello specchio.
Fino a quel giorno.
Erano davvero passate poche ore? Non riusciva a capacitarsene.

Solo la luce calante della sera confermava le sue coordinate temporali e non c’era dubbio. Al massimo un paio d’ore prima, Felix aveva avvertito qualcosa muoversi in lei. Qualcosa che si spezzava, qualcosa che rompeva qualcos’altro, qualcosa di informe e senza nome ma che c’era, c’era, lo aveva sentito, lo sentiva prima e lo sentiva anche in quel momento e non era pazza, no, pazza no!
Pazza di paura, forse…
Quello che era successo non era normale. Non andava bene, non era lei quella strana se reagiva così, col desiderio di gettare una cicca per strada e il fuggire quanto più le fosse concesso, era normale che si sentisse così… soprattutto perché Katniss aveva fatto per Rue quello che lei aveva fatto per Jack e ancora le tremavano le mani per quello, ma era così tanto che non ci pensava – che non lo sentiva – che all’improvviso ogni ricordo era troppo vivido e ogni pensiero sembrava in grado di ucciderla, perché non aveva mosso un dito per impedire che il destino di quella bambina si compisse ed era stata complice anche di quell’omicidio.
Ormai non vedeva più le mani sporche di cremisi, ma non si ingannava: non voleva dire che le avesse pulite. Ma quell’ennesimo tributo… quell’ennesima bambina, per opera sua…

Katniss, coprendola di fiori le aveva reso onore, le aveva dimostrato affetto, ma più di ogni altra cosa aveva attaccato loro, noi, che differenza fa, e li aveva smascherati… Felix aveva visto sé stessa in lei, sé stessa nell’istante prima di spezzarsi e dare vita a quella che poi sarebbe diventata. Sé stessa com’era e come avrebbe potuto essere. Piegata, non spezzata. Portatrice di morte, ma anche di conforto. Qualcosa di più di una semplice pedina e qualcuno di migliore del maestro di scacchi.
Katniss rischiava la vita per questo.
Felix non si sarebbe stupita se tornando in Sala di Controllo le statistiche l’avessero aggiornata sulla misteriosa e spettacolare morte della Ragazza in Fiamme. In cuor suo, era convinta che quello sarebbe stato il corso delle cose. Non poteva andare diversamente. Non esisteva un futuro alternativo, se Seneca era assennato. Lei stessa – Felix se ne rese conto senza stupirsi e al contempo disprezzandosi – se fosse stata Capo Stratega, avrebbe ordinato la sua esecuzione. Un comportamento del genere semplicemente non poteva essere ammesso nei Giochi, tantomeno i suoi. E non erano il suo talento, i Giochi, proprio come aveva detto il Presidente Snow quella mattina d’inverno a casa sua?
Non li avrebbe messi a repentaglio così, non per una cacciatrice di frodo del Distretto 12. Sì, Felix ne era convinta. Il giorno dopo, all’inizio del suo turno, avrebbe trovato la notifica che l’avvisava della morte della ragazza, o l’orario per cui era programmata. Per cui non c’era bisogno di gettare la sigaretta per terra.
Ormai spenta da un pezzo, Felix la picchiettò delicatamente sul legno della panchina. Attese qualche istante, cercando di distinguere le ghiandaie imitatrici nell’acufene che l’opprimeva. Dopodiché si alzò, lisciò l’immacolata piega dei pantaloni, e gettò la cicca all’interno di un cestino.

Riuscì ad impedirsi di fumarne un’altra nel tragitto verso il suo appartamento. Non era per l’astinenza che le tremavano le mani e lo sapeva. Era scioccata, o forse semplicemente impaziente.
Dopotutto aveva scelto un modo lento per morire.
Fumare la uccideva poco a poco, e ogni volta che finiva una sigaretta Felix immaginava che i suoi polmoni fossero un po’ più scuri di prima, e quando sarebbero stati completamente neri come il suo cuore, sarebbe morta.
Non riusciva a tollerare l’idea di star usando un’arma che erano stati loro a darle, ma a quel punto che differenza faceva? Loro gliel’avevano data, ma finché lei non la metteva in bocca e l’accendeva era perfettamente innocua. Non c’era nemmeno più un lei e un loro… ed era per questo che ora perfino il suo Distretto la odiava.
Non riusciva a dargli torto. Forse anche per quello tentava quel futile suicidio giornaliero, quel suo avvicinarsi all’irraggiungibile fine della retta. Ma tutti erano consapevoli della sua incapacità di farla finita. Fosse stato altrimenti, lei e Jack avrebbero marcito nella stessa tomba. Mettere lei stessa quel punto che avrebbe chiuso il segmento della sua vita era l’unica cosa che non riusciva a fare.
Si sentiva tradita, questa era la verità. Lei doveva morire e invece contro ogni aspettativa aveva vinto. Era sopravvissuta e ogni giorno doveva scontrarsi con la dura realtà: la vita va avanti, la gente dimentica, e cosa peggiore di tutte, niente le assicurava che non avrebbe vissuto altri cento anni.
Cento anni passati a fare la Stratega, cento anni di sconfitte del Distretto 3, cento anni di sigarette che non l’avrebbero uccisa. Cento anni trascorsi vivendo in un passato che sarebbe stato il suo eterno presente, perché non importava che gli anni passassero, che la vita andasse avanti e che le persone dimenticassero. Felix comunque non sarebbe morta perché incapace di uccidersi e non avrebbe vissuto perché incapace di andare avanti.

Jack sarebbe stato da solo sottoterra a farsi mangiare dai vermi.
Il pensiero del suo corpo abbandonato in una bara la perseguitava, e a volte, quando si svegliava nel mezzo della notte e sentiva il respiro rassicurante di Isaac che dormiva accanto a lei, si chiedeva se lui, quando l’abbracciava, immaginava di stringere lo scheletro del fratello.
Tutto questo perché una sedicenne del Distretto 12 aveva mostrato gentilezza e compassione ad una dodicenne del Distretto 11.
Felix la odiava per questo. La odiava perché fingeva col ragazzo del pane ma tutti le credevano, la odiava perché era in parte colpa sua se quei Giochi erano così sfiancanti da organizzare, la odiava perché era stata sincera con Rue proprio come lei lo era stata con Jack e, sopra ogni altra cosa, la odiava perché non riusciva a smettere di provare qualcosa che c’era sempre stato ma che solo ora si manifestava. Qualcosa che stava venendo alla luce grazie al sacrificio di una bambina innocente e alle lacrime di una persona che, come lei, non era riuscita ad impedire a qualcuno che amava di morire.
Avrebbe pianto, se ne fosse stata in grado.
Invece compose il numero di casa sua e i due squilli di attesa le parvero due anni.

«Ce ne hai messo per chiamare» Isaac sembrava più triste che arrabbiato.
«Avevo bisogno di prendere aria» Felix chiuse gli occhi, esausta. «E’ stato orribile.»
«Lo so…» la tristezza nella voce di Isaac era insopportabile per lei. «E’ stato come… come…»
«Lo so com’è stato» lo interruppe Felix, più brusca di quanto avrebbe voluto. Sospirò. «Scu-»
Il suo cercapersone vibrò. L’anteprima del messaggio mostrava una convocazione straordinaria per tutto il corpo Stratega e richiedeva presenza immediata.
«Isaac, devo andare»
«Ma Feli-»
«Ti richiamo io» attaccò senza attendere risposta. Non si spogliava mai degli abiti di Stratega. Non poteva. Ma ogni volta era sempre più difficile dire dove finiva lei e dove cominciava l’altra.

Trovò la Sala di Comando stipata di persone. Tutti avevano risposto all’appello di Seneca, che faceva su e giù sulla passerella sopraelevata da cui dirigeva i Giochi. Si respirava agitazione nell’aria. Impazienza. Qualcosa che le faceva rizzare la pelle. Che cosa hanno in mente?
Lo stava per scoprire. Era al sicuro, dall’altro lato della barricata, era lei a muovere i fili e lo faceva da una posizione assolutamente privilegiata, non doveva avere paura. Non c’era bisogno.
E allora perché si sentiva come un Tributo? Perché le pareva di essere di nuovo seppellita sotto terra, ad osservare la luce soffusa dei minerali in attesa dell’ennesimo colpo di scena che avrebbe assottigliato le loro possibilità di vittoria?
Qualcuno le toccò il braccio: «Felix?»
Felix si ritrasse, disgustata. Era solo Strabo. Lui parve ferito dalla sua reazione, ma la ragazza non se ne curò, riportando la sua attenzione su Seneca, che appariva più eccitato che mai.
«Grazie di essere giunti qui con così poco preavviso»
Dev’essere qualcosa di grosso. Aveva dato un’occhiata ai monitor, la situazione pareva sotto controllo. Dicci cos’è e facciamola finita.
«Siamo alla vigilia dell’Edizione della Memoria, ma grazie al vostro lavoro e all’impegno dei tributi, credo che l’anno prossimo dovremmo impegnarci al massimo per riuscire anche solo ad eguagliare le emozioni che stiamo regalando oggi»
Seneca accolse l’educato applauso con un sorriso e andò avanti. «Ma le emozioni non sono ancora finite! Abbiamo sei tributi ancora in gara, uno più brillante dell’altro… e per questo, abbiamo l’opportunità di creare il più grande colpo di scena della storia…»
Tutti fissavano Seneca con occhi sgranati, impazienti, in religioso silenzio. Il Capo Stratega godette di quell’attenzione per qualche secondo, fissandoli di rimando con quei brillanti occhi azzurri e stuzzicandoli con quel sorriso enigmatico. Suo malgrado, Felix si sentiva trepidante tanto quanto i suoi colleghi, anche se confidava di nasconderlo meglio di loro.
«Colleghe e colleghi, è con grande onore che vi comunico che dopo essermi confrontato a lungo col Presidente Snow… abbiamo il permesso di apportare una modifica al regolamento. Quest’anno, per la prima volta nella storia di Panem… ci saranno due Vincitori, purché provengano dallo stesso Distretto!»

Calò il silenzio, il tempo che la notizia penetrasse. Felix comprese prima degli altri, ma non parlò. Si limitò a rimanere ferma al suo posto, immobile, a combattere quell’impulso di reagire, di sbattere le porte di vetro e andarsene. Infine, chiuse gli occhi quando le urla dei suoi colleghi che avevano finalmente compreso le riempirono le orecchie.
«Non ci credo!»
«Non è possibile… ma si può fare?»
«Che colpo di scena grandioso!»
E tutto per quei due che fingevano – e anche male – di amarsi perdutamente.
Felix non era una brava persona, ma l’amore sapeva cos’era.
L’amore era quel pugnale in mezzo al petto che ancora le faceva sognare Jack la notte, gli scacchi di sua madre, il respiro che le mancava ogni volta che intravedeva Maya per strada. L’amore era lavorare in bottega con suo padre, era Beetee che le accarezzava la guancia, era Isaac che le donava un cielo trapunto di stelle.
Perché quell’amore valeva meno di quello degli amanti sfortunati?
Perché… perché… lei sì e io no?
Anche lei e Jack erano riusciti ad arrivare agli sgoccioli in due, non era forse abbastanza? Si era spogliata per lui, tutta Panem aveva spiato la sua nudità e non era valso a niente. Mentre a quella là bastava fare due piroette e coccolare una bambina per ottenere la grazia.
Felix attese di essere congedata per fumare una, due, tre sigarette, finché accartocciò nella sua mano il pacchetto vuoto e lo gettò in un cestino immacolato e prese la chiamata giornaliera da casa in una saletta privata del campus.
Avevano dato l’annuncio durante la sua pausa e mancava ancora un po’ al suo prossimo turno.

«Tu lo sapevi?» le chiese concitato Isaac.
«No» rispose monocorde Felix. «Nemmeno lo immaginavo. Ma si potrebbe dire che io manchi di immaginazione, quindi non so se conti.»
«Già» il ragazzo ridacchiò nervoso, ma non bastò affinché anche lei sorridesse. Isaac stava parlando, si mangiava le parole, febbrile, ma Felix non lo stava ascoltando. Non capiva le parole, non capiva cosa le stava dicendo. Percepiva solo quell’eccitazione che per qualche motivo la offendeva.
«Perché sei contento?» sbottò all’improvviso.
«Come?»
«Perché sei contento?» ripeté la ragazza abbassando la voce. Anche se le sue telefonate erano intercettate non voleva farsi sentire dai suoi colleghi di passaggio. Non voleva che mettessero in giro strane voci su di lei, mentre era stranamente sicura che il Presidente Snow non si sarebbe turbato nel sentire quella domanda. O leggerla, se riceveva le trascrizioni.
«Perché sono con- Felix! Ma ti rendi conto? E’ la prima volta nella storia dei Giochi che succede una cosa del genere, è… è…»
Rivoluzionario!
La parola rimase sospesa fra di loro, ma era passato il tempo in cui avevano bisogno di parlare per capirsi.

«E’ tutta strategia, Isaac» rispose lei. «Questa edizione è strana, è impegnativa, è coinvolgente. Vogliono trarne il maggiore profitto possibile.»
«Vuoi dire che è per finta?» le domandò lui.
«No, no» si affrettò a negare lei. Non doveva assolutamente passare che lei mettesse in dubbio le parole degli Strateghi e, per estensione, del Presidente Snow. Solo lui avrebbe potuto approvare una modifica simile. Seneca avrebbe dovuto ottenere il suo permesso esplicito per farlo e a quanto pare ci era riuscito.
«Non è per finta. Dico solo che…» che non ne faremo mai vincere due, che ce ne può essere uno solo e io lo so bene, solo uno, non due e ce li faranno ammazzare facendoli passare per un incidente, deve essere così, altrimenti tutto sarebbe vano, non capisci… «Dico solo che non dovresti essere contento.»
«Felix»
Eccolo là. Il tono scontento. Il suo nome che precedeva qualcosa che non avrebbe voluto sentire. Solitamente, il tono che le faceva realizzare di essere in torto.
«Sono due situazioni completamente diverse. E lo sai. Sei troppo intelligente per non capirlo.»
Arrestò il tamburellare della sua mano sul tavolo. Il silenzio che calò le parve incredibilmente pesante e pensò che fosse ora di terminare la conversazione. Non voleva litigare, ma era così arrabbiata…
«E non pensare di attaccarmi il telefono in faccia perché non te lo perdono, Felix Facilis. Va bene per prima perché è successa questa cosa, ma ora non ti azzardare proprio.»
Felix non poté impedire ad uno sbuffo di abbandonarle le labbra e annuì anche se lui non poteva vederla. Ma perché non poteva pensarla come lei per una volta? Perché sembrava essere l’unica a trovare quella trovata ingiusta? Che cosa aveva fatto Katniss più di lei? Felix non aveva fatto abbastanza? Se si fosse impegnata di più, se avesse fatto qualcos’altro, qualunque cosa… che cosa le era mancato per meritare quella stessa opportunità?
Voglio andare a casa…
Riuscì a cavarsi di bocca una mezza risposta: «Ci sono due squadre in gara»
«Lo so da solo» rispose il ragazzo, ma stavolta Felix percepì il sorrisetto nella sua voce e sospirò.
«Volevo dire… che visto che ora lavoreranno insieme, i Giochi potrebbero finire presto.»
«Speriamo bene. Spero anche che Katniss riesca a trovarlo subito, perché lui sta proprio male. Qua sono tutti riuniti in strada per seguire ogni aggiornamento»
Felix aggrottò le sopracciglia, confusa. I loro tributi erano morti entrambi e anche se le novità di quell’edizione erano sorprendenti, non si aspettava una partecipazione sentita, per lo meno non nel Distretto 3. L’ultima volta che il suo Distretto si era riunito in piazza e per le strade per seguire in massa i Giochi era stato cinque anni prima, e solo quando le loro possibilità di Vittoria si erano fatte concrete. Forse la gente del Distretto 3 non era certa quanto lei che avrebbero trovato un escamotage per far fuori le squadre. Possibile che fossero tanto ingenui da fidarsi?
«Vedremo» disse infine lei, tirando fuori l’orologio da taschino che da cinque anni portava sempre con sé. Si avvicinava l’inizio del suo turno. Anche se non poteva parlare liberamente con Isaac non voleva attaccare il telefono. Avrebbe voluto stare in silenzio sapendo che lui era dall’altra parte della cornetta e fingere di posare la testa sulla sua spalla. Non aveva nemmeno voglia di parlare con suo padre.
«Senti… dì a mio padre che avevo troppo da fare e ci siamo sentiti per un attimo, digli che lo chiamo domani.»
«Agli ordini, comandante. Tanto è in bottega con alcuni amici. Ci sentiamo domani… non mancare.» La sua voce risultò più supplichevole che minacciosa.
«Non mancherò. A domani.»
Agli ordini, comandante.
In un’altra occasione avrebbe riso.

Non rise ma si riscoprì ammirata quando Peeta emerse dal suo nascondiglio perfettamente mimetizzato – lei aveva sempre saputo che fosse là, ma l’inquadratura catturava perfettamente l’invisibilità del ragazzo. Avremmo dovuto dargli un voto più alto, pensò Felix, del tutto indifferente all’abbraccio e alla risatina di Katniss.
«Permesso di inviare i doni?» domandò con l’indice sospeso sul bottone.
«Negato» la informò Seneca. «Il Mentore blocca l’invio del dono. Manda quello del Distretto 2 e attendi per il Distretto 12»
Era una richiesta strana, ma non era compito di Felix mettere in discussione gli ordini del Capo Stratega. Considerando che lavorava a stretto contatto con i Mentori, quella doveva essere stata una richiesta esplicita di Haymitch.
Felix tentava di ignorare la stretta al petto mentre osservava come Katniss si prendeva cura di Peeta. Ci misero l’intero pomeriggio per fare pochissimi metri e trovare una grotta di fortuna in cui ripararsi, ma, per qualche strana ragione, il momento peggiore per Felix non fu quando Katniss spogliò Peeta o quando, finalmente, si baciarono. Quell’effusione aveva provato non pochi sospiri nella sala e gli utenti collegati salivano di secondo in secondo, ma non fu quello che la ferì.
«Ora puoi mandare il dono» le ordinò Seneca, e così Felix fece. E così facendo, premiò loro per la stessa cosa per cui lei era stata punita. Brodo caldo per Peeta, niente per Jack. Sostegno per Katniss, seni nuovi per Felix. Figli e figliastri.
Pari opportunità per tutti, e intanto il sangue le ribolliva nelle vene e le sigarette non le annerivano abbastanza in fretta il cuore, i Giochi sono l’opportunità più equa per ogni Tributo, e nel frattempo Katniss riceveva lo sciroppo che le serviva per andare al festino, e a lei non arrivava niente per curare o anestetizzare Jack, noi Strateghi trattiamo tutti i Tributi allo stesso modo, ricordatevelo, ma il bottino del suo festino non era stato così ricco e Jack vi aveva perso la vita, mentre Katniss era stata graziata.
E per il suo stramaledettissimo atto di bontà.
«Solo stavolta, Dodici. Per Rue.»
Felix, come Katniss, come Tresh, capiva perfettamente la necessità di non essere in debito con nessuno. Era per quello che Katniss era andata a cercare Peeta. Ed era per sopravvivere che rischiava la vita per lui.
Non erano gli unici innamorati sventurati, a quanto pareva.
Il ragazzo del Distretto 2 stava singhiozzando disperato sul corpo della sua compagna, ma fu proprio Felix che diede il via libera per il suo cannone una volta morta. Le statistiche erano da capogiro: Katniss era riuscita a curare Peeta – la cifra di quella medicina aveva sei zeri – Cato stava andando a caccia di Tresh, prefigurando uno scontro epocale, mentre Finch si nascondeva indisturbata, invisibile agli occhi degli altri giocatori e degli sponsor.
Finito il suo turno Felix, piena di bile e vergogna, incapace di non pensare, crollò a letto fissando il soffitto, una generosa quantità di sigarette accanto a lei, e non rispose al telefono quando squillò.



Forse per la prima volta in quell’Edizione, Anice provò paura.
Non la paura che aveva preceduto il Bagno di Sangue e i successivi omicidi dei suoi Tributi- quella era prevista, quella se l’aspettava, quella era stata confortante, in qualche modo.
La paura che provava in quel momento era qualcosa di più viscerale, perché ciò che i suoi occhi vedevano era spaventosamente simile a qualcosa che aveva già vissuto.
Una ragazza che si prendeva cura del suo alleato.
Che otteneva la sua fiducia, che lo abbracciava nel freddo della notte, che rischiava la vita per lui.
Lo avrebbe anche ucciso nel sonno godendo da sola della refurtiva?

Anice non voleva che Katniss fosse come lei. Non fino in fondo. La Vincitrice credeva passati i giorni in cui si identificava in un tributo che puntualmente moriva di una morte terribile. Credeva che il vero interesse per i Giochi sarebbe scaturito in lei solo una volta che il suo tributo avesse avuto concrete possibilità vittoria, non in un’Edizione in cui erano entrambi morti il primo giorno.
Invece non riusciva – non voleva – mettere a tacere quella curiosità, quella smodata voglia di vederla andare avanti, quel palese desiderio di vederla trionfare. Perché non poteva negarlo, era quello che voleva. La ragazza che aveva scelto quasi per noia giocando con Johanna era quella su cui avrebbe investito, se le fosse stato permesso farlo. Era proprio quella che avrebbe supportato se avesse guardato i Giochi da semplice spettatrice e non da Mentore.
La sua limitata ma incisiva esperienza di Mentore le aveva donato quello che per Dyneema era stato un talento naturale: la capacità di individuare un potenziale vero Vincitore. Non qualcuno che avrebbe voluto che vincesse, o qualcuno che sulla carta poteva farcela. Un potenziale vero Vincitore era qualcuno che fosse disposto a spogliarsi di ogni umanità per tornare a casa.
Anice ne vedeva due e l’altro non era il Ragazzo Innamorato.
Una considerevole dose di fortuna aiutava i due del Distretto 12, l’unica squadra rimasta, e questa era l’unico pensiero a cui si aggrappava Anice, con una disperazione che non credeva avrebbe mai riprovato in tutto il resto della sua vita. E perché mai avrebbe dovuto? Tutte quelle che amava erano morte. Non le era rimasto niente per cui disperarsi.
Ma mentre osservava Katniss e Peeta parlare, ridere e scherzare al riparo dal temporale in quella caverna di fortuna, Anice avvertiva più che mai qualcosa che si apriva nel suo cuore. La sua mano strinse la collana di Nym che ancora portava al collo, rendendosi conto che quella non era l’unica cosa che le avesse lasciato.
Forse voleva che Katniss tornasse a casa con Peeta perché se ce l’avessero fatta loro, sarebbe stato come se anche Azlon avesse vinto i Settantaduesimi Hunger Games, e lei non sarebbe stata qualcuno di cui non ci si poteva fidare, una sporca traditrice, l’uccellino ammaestrato che si nutriva dalla mano del padrone.
Anice ancora voleva l’assoluzione che non meritava, e se ci fosse stato un modo per togliersi dalla coscienza anche solo una delle morti che aveva provocato… anche se un modo fittizio, anche se irraggiungibile… anche a costo dell’umanità di qualcun altro… Anice lo voleva.
Dopo così tanto tempo, dopo quella fatidica notte in cui aveva deciso di voler vincere, finalmente Anice voleva qualcosa. Voleva che la Ragazza di Fuoco e il Ragazzo del Pane vincessero perché se provava disperazione all’idea della loro morte, significava che le stavano donando qualcosa che da tempo credeva perduta: la speranza.
Perché Katniss era disposta a strapparsi di dosso l’umanità che le rimaneva per vincere, e Peeta aveva ucciso e lo avrebbe fatto di nuovo per difendere lei, perché anche se non si amavano, non sul serio, avevano qualcuno su cui contare, qualcuno che gli permetteva di sopravvivere. E Anice non dimenticava gli anni bui che paradossalmente tanto rimpiangeva, quando sopravviveva solo perché aveva Dyneema e Delaine che la sostenevano.
Perfino in quel momento Anice sopravviveva perché Cecelia l’aveva accolta come una figlia e perché anni addietro le aveva dato il permesso di uccidere per vivere.
E se due sedicenni del Distretto 12 vincevano grazie alla compassione mostratasi l’un l’altro…

Anice non riusciva nemmeno ad esprimere i sentimenti che provava, non riusciva nemmeno ad immaginare una continuazione dei suoi pensieri, perché era un’Edizione così strana, così particolare, così pericolosa… che anche Johanna e Finnick ne avevano la giusta paura. Non lo dicevano, ma Anice lo sentiva.
Altrimenti non le avrebbero rivolto quelle occhiate significative che nessuno poteva additare come sospette, altrimenti Johanna non avrebbe costretto Blight a seguire i Giochi lì con loro in quel momento, altrimenti non si spiegava un’unione così variegata di Mentori nella stessa stanza.
La cosa più che incredibile era che erano stati proprio gli Strateghi a permettere una cosa del genere! Non potevano rimangiarsi la parola!
Anice non riusciva a crederci, quasi ridacchiava al sol pensarci, e quando permetteva al mero pensiero di trasformarsi in qualcosa di più concreto – in una possibilità, no, meglio, un’opportunità – le risatine diventavano reali e Cecelia la guardava ammonendola, ma Johanna rideva insieme a lei, e questo le faceva capire di non essere pazza.
Chaff e Seeder non si alzarono dal loro posto quando Cato infilzò la lama dritta nel cuore di Tresh.
«Questo è per Clove» ansimò il diciottenne del Distretto 2, stringendo la nuca del suo avversario proprio come Anice aveva fatto a suo tempo con la morte che le aveva consegnato la Vittoria.
La scosse sentirsi simile al Favorito del Distretto 2 che forse Favorito non era più, non dal pubblico della Capitale, per lo meno.
Anice aveva visto come Hyamitch e la sua accompagnatrice – Netty? Effie? – fossero circondati da sponsor che facevano la fila per sostenere i suoi Tributi, e per una volta erano di più di quelli che attorniavano Brutus ed Enobaria.
Uno sponsor, qualche giorno prima, quando Katniss aveva raccontato della capra che aveva regalato alla sorella – facendo sorridere Anice e sbellicare Cecelia – aveva donato loro un vero e proprio banchetto. Si era perfino premurato di metterci il piatto preferito della ragazza, e dei panini morbidi che Peeta aveva divorato con gusto.
Anche quella gentilezza la metteva a disagio… perché era sincera. La partecipazione e il trasporto della Capitale non era cosa nuova, come non lo era il cercare di conciliare l’affetto degli spettatori che imparavano le piccole cose dei tributi – il loro colore preferito, la pietanza che più li aveva colpiti – con quegli stessi spettatori che si divertivano a vedere il cadavere deturpato di una ragazzina.

«A che pensi?» Johanna si fece più vicina. Il modo in cui la scrutava non era diverso da come la guardava sempre, o almeno così sarebbe sembrato ad una prima occhiata. Ma Anice la conosceva bene, Johanna. Quegli occhi penetranti avevano qualcosa di diverso in quel momento.
«Non te lo posso dire» la voce le uscì come un sussurro, le labbra appena arricciate. Le parve che gli occhi di Johanna indugiassero lì, solo per un istante, ma la sensazione svanì così com’era arrivata.
«Bravo uccellino ammaestrato» commentò la Vincitrice del Distretto 7, piegando la testa sulla spalla. «Io penso proprio che quella che ci darà più filo da torcere sarà la ragazzina del Distretto 5, è troppo furba. Parola mia, quella rimarrà per ultima.»
«Anche lei sbaglia» la contraddisse Anice. «Quando hanno costruito quella piramide è scivolata»
«Bazzecole» Johanna girò una mano nell’aria provocandole una risatina. «E’ la più furba là dentro»
Anice alzò un sopracciglio: «Quindi non tifi più per la coppia del Distretto 12?»
«Non ho detto questo» Johanna sogghignò. «Né ho mai detto di tifare per loro»
«Mh» Anice soffocò un ghigno. «Sarà… ma una gentildonna lascia ad una signora i suoi piccoli vezzi»
Suo malgrado, quando Finch ingoiò quelle bacche e cadde esanime al suolo, Anice si ritrovò ad occhieggiare Johanna.
«Non dire niente»
«Ma io non stavo per dire nulla» rispose candidamente Anice. Una volta si sarebbe schifata di sé stessa, lì a discutere del prossimo tributo – del prossimo ragazzino – che sarebbe morto, e invece eccola là, a cinguettare con Johanna nella sala dei Mentori e a piazzare scommesse. Una volta non si sarebbe nemmeno creduta capace di una cosa del genere… ma forse, proprio perché temeva che quel momento sarebbe arrivato, il momento in cui Katniss sarebbe diventata lei e avrebbe ucciso Peeta, tentava di diventare qualcuno che non era, qualcuno come una vera Vincitrice.

Avevano preso le bacche… nessuno le toglieva dalla testa che Katniss le avrebbe ficcate a forza nella bocca di Peeta, se necessario. Lo aveva già fatto con lo sciroppo per dormire datole da Haymitch, e aveva anche un arco a sua disposizione… però potevano vincere in due, non capiva perché avesse così tanta ansia. Così tanta paura. Una paura diversa, una di come ne aveva provate solo quando aveva ancora qualcuno da perdere.
Anice aveva imparato a conoscere lo sguardo che Katniss aveva proprio in quel momento mentre andava a caccia. Lo vedeva in Dyneema quando affrontava i bulli all’orfanotrofio, ne aveva scorta una scintilla in Soliell quando aveva percorso a ritroso il percorso fino alla Cornucopia e ben più di una sola scintilla negli occhi di Johanna mentre si protendeva verso il televisore, i capelli rizzati dietro la nuca.
Un’improvvisa risata catturò l’attenzione di Anice, che distolse lo sguardo dal collo di Johanna e puntò gli occhi sullo schermo. Caesar e Claudius se la stavano ridendo in uno studio rosa pastello, mentre mostravano le immagini dei torrenti, degli stagni e perfino dei più piccoli rigagnoli d’acqua che si prosciugavano, lasciando un solo e unico posto intatto. Il palco per il gran finale: la radura della Cornucopia, il lago.
La siccità non era nient’altro che un eco delle sue volpi bianche, più candide della neve, più silenziose della brina che si formava sulle sue sopracciglia. Anice avvertì il corpo che tremava, e solo lontanamente percepiva le voci di Johanna e Finnick che discutevano.
Cecelia taceva, lo sguardo fisso sul televisore. Così come Haymitch, Brutus ed Enobaria.
«Non è proprio il posto del re del mare, adesso» Johanna alzò un sopracciglio e Finnick ridacchiò. Simulava una posa rilassata, ma i muscoli delle spalle erano tesi, e il sorriso palesemente finto.
«Lo sai benissimo che io senz’acqua e luce del sole muoio»
Tutti rimasero lì in attesa, chi bevendo e chi mangiando, ma Cecelia si alzò poco dopo e Anice la seguì. Aveva le vertigini.
«Perché te ne vai?»
«Fino a domani non succederà nulla» le rispose la Mentore chiamando l’ascensore. «Stanno dando a tutti il tempo di piazzare le ultime scommesse e di sistemarsi per il gran finale. Al massimo, se dovesse succedere qualcosa, me lo guarderò in camera. Vieni?»
Anice deglutì. Non se la sentiva di stare in camera da sola. Cecelia non avrebbe protestato se lei si fosse infiltrata nella sua, ma non voleva essere di peso. In sala con gli atri si sarebbe potuta appisolare accanto a Johanna, o a Finnick – o non dormire affatto – senza intralciare nessuno.
«Ci vediamo domani, allora»
«Buonanotte» le rispose la sua Mentore e sparì in ascensore.

Ovviamente andò come aveva previsto Cecelia – cioè non accadde nulla – e stranamente come aveva previsto Anice: quando gli ibridi sfrecciarono fuori dal bosco, ringhiando e sbavando, rincorrendo il povero Cato e inseguendo Katniss e Peeta, lei se la diede a gambe, incurante della gamba mutilata del suo innamorato.
Solo una volta arrivati ai piedi della Cornucopia si diedero una mano, e il silenzio calò.
Il gran finale.
Katniss, Peeta e Cato giacevano sul dorso della Cornucopia tossendo e sputando sangue, il ringhio delle bestie che li accerchiavano era l’unico suono che si librava nell’aria. Anice stringeva le gambe al corpo nel tentativo di frenare i tremiti, mentre Cato strappava via Peeta dalla ragazza.
Il sangue schizzò dalla gamba del ragazzo sul volto di Katniss che trasalì all’unisono con Anice, memore del sangue del suo ultimo alleato sul suo viso. Era caldo e denso e lei non aveva avuto la forza di urlare.
«Vai, Cato!» sibilò Brutus, stringendo i pugni.
«Guardate gli Ibridi!» esclamò Claudius accompagnato dai versetti di gioia di Caesar. «Guardateli! Sembrano… sì, sì, ma è per forza così, sono… sono i Tributi caduti in questa fantasmagorica edizione!»
Suo malgrado Anice si costrinse a spostare lo sguardo su quei lupi, quei lupi che aveva cercato di ignorare, quei lupi tanto diversi eppure così simili a quelli che le avevano lasciato un’invisibile cicatrice sul braccio. Riusciva ancora a percepire le loro zanne affondate nella carne, il cuore che batteva come un tamburo, il loro peso che le toglieva il fiato…
«Ancora un grandissimo applauso agli Strateghi che in così poco tempo sono riusciti a creare delle meraviglie simili! Oh, se solo possedessi l’intelligenza di uno Stratega!»
L’intelligenza? Anice era allibita. La crudeltà, vorrai dire. Seneca Crane non ha neanche avuto l’originalità di creare ibridi diversi dalla sua prima edizione. Riusciva ad intravedere Finch, dal pelo fulvo, e la piccola Rue…
«Uccidimi e lui viene giù con me» Cato sogghignò.
Poteva ancora farcela, realizzò Anice sedendosi composta, poteva ancora vincere. Poteva ammazzare Peeta e usarlo contro Katniss, per poi spedirla giù a farsi sbranare. Lui sembrava proprio essere di quell’avviso, perché l’eco della sua risata si rifletteva negli occhi di Katniss, che però non guardavano lui.
Guardavano Peeta. E la X che disegnò col proprio sangue sulla mano del Favorito. Katniss scoccò la freccia e resse Peeta, ma Cato cadde giù.
Enobaria strinse le labbra e scosse la testa.
Anice non volle guardare.

Attese il cannone, il momento in cui avrebbero squillato le trombe e sarebbero stati dichiarati due Vincitori per la prima volta nella storia degli Hunger Games, ma tutto ciò non avvenne. Udiva solo il sibilo affilato della lama, gli uggiolii dei lupi che venivano ammazzati – come faceva, come faceva, erano troppi e lui aveva un’armatura ma era meglio che morisse, sbrigati a morire – e gli occasionali lamenti di Cato che forse un’ora forse mille anni dopo, divennero un vero e proprio pianto di dolore.
Anice si era ficcata le unghie nella carne. Nessuno parlava. Perché nessuno parlava? Perché le facevano ascoltare quei disperati singhiozzi di un ragazzo morente, un ragazzo che in un’altra vita e in un’altra Arena aveva ucciso lei stessa?
Era diventato insopportabile. Anice si alzò di scatto, gli occhi che caddero immediatamente sullo schermo e un singulto la inchiodò lì in piedi al suo posto, tremante e immobile. L’inquadratura era fissa su Katniss, e Katniss puntava la freccia proprio verso di Anice. Come fanno a inquadrarla così…? Poi scoccò la freccia, che trapassò il cuore di Anice e mise fine alla vita di Cato. Il cannone tuonò e nessuna tromba squillò.

«Sbrigatevi!» inveì Johanna, anche lei in piedi.
«Hanno vinto» esclamò allo stesso momento Finnick, e solo allora anche Anice comprese.
«Hanno vinto!» sentì un enorme sorriso distenderle le labbra e abbracciò d’impeto Johanna, che avvolse un braccio attorno a lei ma non staccò gli occhi dallo schermo. «Perché ancora non li proclamano vincitori?»
«…modifica precedente è stata revocata.» Anice non si era nemmeno resa conto che Claudius stesse parlando. «Un esame più accurato del regolamento ha rivelato che può esserci un solo vincitore. Possa la fortuna essere sempre a vostro favore.»
Johanna, forse per la prima volta nella sua vita, era a bocca aperta. Anice si vedeva riflessa nelle sue iridi, ed era lo specchio della sua amica. Scambiò un’occhiata con Cecelia, con Finnick, e vide anche Beetee con la testa poggiata sulla mano, come se fosse stato aggravato da un peso. Brutus ed Enobaria sembravano gli unici divertiti dalla situazione e per qualche assurdo motivo Anice provò l’impulso di picchiarli. Non capivano che gli avevano mentito, che erano die bugiardi, che non lo potevano fare? Che era scorretto, no, peggio, era crudele e non si doveva, non si poteva…

Poi si rese conto in quel momento che la stupida era stata lei. A crederci, a dare per scontato che ciò che le dicevano fosse la verità. Dopo i Giochi, dopo Dyneema, dopo Delaine, Anice ancora non aveva imparato. A non fidarsi. A non aspettarsi la ricompensa promessa. Ebbene, il Distretto 12 avrebbe vinto, questo era certo. Ma Anice, Anice e quella parte di sé che non le era stata ancora strappata via, loro avrebbero perso.
Un solo Vincitore, un solo Vincitore, un solo Vincitore.
La regola base. L’unica regola, in realtà. E loro l’avrebbero veramente cambiata per una spalatrice di carbone e un fornaio?
Le gambe cedettero e Anice crollò di peso sul divano. Katniss sarebbe diventata lei, che avesse abbassato l’arco non contava niente, gli stava offrendo le bacche, le bacche della notte, quelle che uccidevano e lasciavano il colore del sangue sulle mani dell’assassina, no, della… della suicida?
«Fidati di me.»
Fece rotolare un pugno di bacche nella mano di Peeta, del suo innamorato, del suo complice, il suo compagno, e capì.
Capì Peeta, capì Johanna, capì Cecelia che trattenne rumorosamente il fiato. Capì Haymitch, che imprecò senza filtri e capì Finnick, che lo imitò.
Capì Anice, che se avesse potuto, avrebbe alzato al cielo le braccia dei due e li avrebbe incoronati lei stessa.
Anice si fidò.



Fatelo, pensava Felix, le nocche sbiancate per la forza con cui si aggrappavano alle sue ginocchia, fatelo, mangiatele, morite, ammazzatevi e uccideteci tutti. Fatelo.
Non sapeva quanto impassibile fosse la propria espressione. Non le importava. Non respirava. Voleva uccidersi proprio come voleva che lo facessero anche loro. E se proprio non fosse riuscita a morire asfissiata per mano sua, avrebbe vissuto abbastanza per vedere Seneca e qualsiasi altro Stratega che le lanciava sguardi languidi morire lentamente proprio davanti a lei, un istante prima di essere uccisa sua volta. Avrebbe vinto in ogni caso.

Nessun Vincitore è meglio di un Vincitore. Perché non ci ho pensato io?
Perché era consumata dalla vendetta ed era stata accecata. Perché non era mai stata in grado di togliersi la vita. Perché in tutta la vita aveva percorso le strade imposte e Katniss invece tracciava un sentiero nuovo. Proprio lì, proprio davanti a lei. Avevano aperto la bocca…
«Fermi!» urlò tutto trafelato Seneca, un microfono in mano. «Fermi!»
Felix voltò la testa verso il suo Capo Stratega, e con gioia lesse il panico nei suoi occhi. Lui non sarebbe sopravvissuto. Loro due – lei stessa – invece sì. Forse la vita poteva essere una vendetta. Contro di loro e senza di loro.
«Signore e signori, sono lieto di annunciare che Katniss Everdeen e Peeta Mellark sono i Vincitori dei Settantaquattresimi Hunger Games!»
La Sala di Comando esplose di gioia, la gioia degli illusi e degli stolti. Non capivano che non era l’amore che aveva trionfato e che quello era stato il canto del cigno del loro amato Seneca, Seneca Crane, che era stato così stupido da fare la storia.
Pensò a Jack. Felix non voleva giustizia. Voleva che Seneca lo sapesse.

Intercettò il suo sguardo fra i coriandoli colorati che planavano dolcemente dall’alto, la musica assordante e il giubilo generale. I terrorizzati occhi azzurri – così sbiaditi in confronto a quelli di Isaac – incontrarono quelli grigi e senza pietà di Felix.
La ragazza mantenne il contatto visivo e poi, implacabile, accennò un sorriso.
Gli uomini morti non parlano.









NdA:
ed eccoci. Questo è l'ultimo capitolo. Un parte breve ma intensissima. Vi assicuro che passare da un pov all'altro con due personaggi così diversi fra loro, che non solo vivono le proprie emozioni in un modo praticamente opposto ma che hanno reazioni e pensieri tanto distanti l'una dall'altra non è facile, ma è anche divertente e stimolante. E comunque, alla fine, qualcosa che le accomuna entrambe ce l'hanno.
Il banner è sempre opera di Marta <3
Ci vediamo fra un po' - sicuramente dopo la sessione - con la terza parte di Vittima della mia Vittoria, quando le nostre eroine vivranno sulla loro pelle la nascita della rivoluzione.
Lasciateci un parere, mi raccomando, e buon inizio anno a tutti!
- Superkattiveh <3








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