Non toccare niente

di Nariko_koi
(/viewuser.php?uid=679884)

Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.


Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Introduzione e Prologo ***
Capitolo 2: *** Capitolo I - Nilufar ***
Capitolo 3: *** Capitolo II - La montagna blu ***
Capitolo 4: *** Capitolo III - Il salto ***
Capitolo 5: *** Capitolo IV - I demoni innocenti ***
Capitolo 6: *** Capitolo V - La veduta di Qinhuai ***
Capitolo 7: *** Capitolo VI - Un nome ***
Capitolo 8: *** Capitolo VII - Il distacco ***
Capitolo 9: *** Capitolo VIII - Piccolo corpo ***
Capitolo 10: *** Capitolo IX - Dove scorrono i fiumi ***
Capitolo 11: *** Capitolo X - Crateri sanguinanti ***
Capitolo 12: *** Capitolo XI - Quel che rimane ***
Capitolo 13: *** Capitolo XII - Sacrifici umani ***
Capitolo 14: *** Capitolo XIII - L'unica traccia ***
Capitolo 15: *** Epilogo ***



Capitolo 1
*** Introduzione e Prologo ***


Introduzione
 
Ovvero, un pippone iniziale necessario
 
La storia che state per leggere tratta fatti storici e accenna a pratiche culturali e posizioni politiche controverse. Nonostante ciò, l'autrice non mira a condannare o a mettere in cattiva luce la cultura orientale, né a esprimere un giudizio su base politica, bensì a rendere, per quanto possibile, la complessità del periodo storico all'interno del quale sono ambientate le vicende.
 
Occorre precisare che questo lavoro non è stato portato avanti da una persona di origini o cultura asiatica, ma da una ragazza italiana, che, nonostante coltivi un profondo interesse per la Cina e più in generale per l'Oriente, non ha mai vissuto la cultura cinese e giapponese dall'interno. Pertanto, la storia non parla e non vuole parlare dell'essere cinesi o giapponesi, ma di rapporti umani.
 
Inoltre, si avvisano i lettori che le fonti storiche sulle vicende trattate non sono facilmente reperibili, pertanto la storia potrebbe presentare delle incongruenze rispetto ai fatti reali. È il caso di sottolineare che le righe che seguono restano sempre e comunque fiction, ed è quindi inevitabile che determinati elementi vengano adattati per essere conformi al genere.
 
Prima di iniziare la lettura è bene tenere presente che la Cina del XX secolo è stata teatro di importanti mutamenti politici e culturali, impossibili da spiegare interamente all'interno del testo.
In fondo a ogni capitolo saranno presenti delle note per chiarire eventuali dubbi.
 
Questa fan-fiction non è stata scritta a scopo di lucro, i personaggi principali non mi appartengono.
 
T.W.: Nel testo sono presenti scene di violenza che potrebbero urtare la sensibilità del lettore; nonostante l'intento dell'autrice sia quello di rappresentare gli eventi col massimo rispetto, sia nei confronti delle tematiche trattate, sia nei confronti del pubblico, si consiglia ai lettori di ponderare attentamente se proseguire o meno la lettura.
 
Sulla lingua: per le trascrizioni di nomi di persona, toponimi e termini di lingua cinese e giapponese vengono utilizzati, all’interno dell’opera, rispettivamente il sistema pinyin e il sistema Hepburn. 
 
 


 
Versa dell'altro vino e rimani
non aver fretta d'andare via
Di tre parti si compone primavera:
due parti sono di tristezza
la terza parte di vento e di pioggia

I fiori sbocciano, i fiori muoiono:
nessuno arriva molto lontano -
allora smettila di lamentarti
 ma canta ad alta voce:
Chissà dove ci incontreremo ancora
l'anno venturo al tempo delle peonie.

-Ye Qingchen, XI secolo
 
 
 

 
Prologo
 
 
 
Provincia dello Hubei, 1939
 
 
È incredibile quante cose riusciamo a dimenticare.
Quasi sempre si tratta di piccoli dettagli, un odore particolare, la forma di un vecchio giocattolo, le parole di una canzone. Frammenti che precipitano nel vuoto, che muoiono in silenzio. Poi accade qualcosa, il caso si muove contro di noi, e la vita ti presenta il conto dei peccati che avevi dimenticato.
Yao ha un sapore terroso in bocca, un orecchio gli fischia mentre osserva il bersaglio attraverso il mirino del fucile. Il metallo dell'elmetto gli schiaccia la fronte, forse perde sangue dal naso. Appostato dietro a un cumulo di macerie che un tempo è stato una casa, non può sapere che l'usuraio sta per bussare alla sua porta. E l'usuraio in questione si annuncia subdolamente con un fischio dell'aria alle sue spalle, impossibile da percepire trai colpi delle mitragliatrici.
Quando la lama gelida cade sulla sua schiena Yao soffoca un grido. Il fucile cade a terra, e lui si ritrova con la guancia sul selciato. L'uniforme gronda di sangue, gli si incolla alla pelle. Yao digrigna i denti fino a sentirli stridere mentre si puntella sui gomiti: se proprio deve morire in quel modo ignobile allora vuole guardare in faccia il suo carnefice. È solo quando incontra il suo sguardo che Yao si rende conto che è arrivato il momento del contrappasso, e che non era preparato a pagare un prezzo tanto alto.
C'è un soldato giapponese ritto di fronte a lui, stringe in pugno una katana insanguinata. Le vene sul dorso delle mani gli pulsano per la tensione, sul volto ha un'espressione impenetrabile. Yao lo ha riconosciuto anche così, con la faccia ricoperta di lerciume, anche dentro a quell'uniforme da demone, lo ha riconosciuto eppure non sa chi è.
Si guardano in silenzio per un istante che sembra durare anni, nell'arco del quale Yao si chiede se anche l'altro stia osservando a ritroso le diapositive della loro vita, se anche lui si stia ponendo le sue stesse domande. Dove siamo stati? Cosa ci è capitato? Cosa ci siamo fatti?
Il loro muto dialogo viene interrotto dal calcio di un fucile che picchia contro la nuca dell'uomo. Due soldati cinesi sono apparsi dal nulla, o forse sono sempre stati lì. Uno dei due lavora per bloccare l'emorragia sulla schiena di Yao, l'altro punta l'arma contro il giapponese, pronto a far fuoco.
«Non ucciderlo!»
Il soldato ha quasi premuto il grilletto, se Yao avesse urlato con un millisecondo di ritardo il giapponese sarebbe già andato.
«Ma signore-
«Imbavagliatelo e legatelo finché è incosciente.»
I soldati tentennano un attimo prima di obbedire. Yao ha la gola secca, cerca di mettersi in piedi ma la suola dello stivale slitta all'indietro sulla ghiaia. Alla fine viene caricato su una barella. Mentre osserva il cielo livido, aspetta a cantare vittoria. Tagliarsi unghie e capelli¹ sarebbe troppo facile, la camminata verso il Golgota è appena iniziata.
 
 
***
 
 
Provincia del Jiangsu, 1928
 
La prima volta che lo vide fu al tavolo della colazione.
Fu d'estate, quando suo padre, professore all'università di Nanchino, aprì le porte della residenza estiva a uno studente modello arrivato direttamente dal Giappone. Inizialmente Yao non era riuscito a comprendere l'euforia che aveva invaso tutti gli abitanti della casa. Nei giorni precedenti all'arrivo dell'ospite i corridoi avevano assistito a un via vai di domestici indaffaratissimi a eseguire gli ordini della signora Wang, anche lei in preda a un costante e nervoso movimento. Non che Yao vi avesse assistito di persona. Era rimasto a Nanchino per degli esami all'università e avrebbe raggiunto la sua famiglia contemporaneamente all'arrivo dell'estraneo. A raccontargli i turbamenti dei domestici e di mūqin² era stato suo fratello Honghui³, che, seppur riuscisse a camuffarlo bene, era stato preso dalla stessa tensione di tutti gli altri.
La prima volta che lo vide fu al tavolo della colazione.
Il suo ingresso a casa, la sera prima, era avvenuto con un importante ritardo, e l'ospite a quell'ora si era già ritirato. Comunque, tra un viaggio in treno interminabile e il pensiero di una lunga tesi da consegnare a breve e di cui non aveva scritto un solo carattere, il suo cervello aveva rimosso la storia del giapponese dall'elenco delle cose da ricordare. Pertanto, quando il mattino dopo se lo ritrovò seduto in religioso silenzio in sala da pranzo, mentre lui canticchiava tra sé una canzoncina idiota convinto di essere solo, salvo poi essere interrotto da un «Buongiorno, Yao-san» proveniente dal presunto posto vuoto accanto al suo, la sua prima reazione fu un balzo sul posto che quasi lo fece cadere dalla sedia.
Il ragazzo accanto a lui lo guardava tenendo le labbra serrate tra loro. Anche con quell'espressione serissima era palese che si stesse trattenendo un risolino. E per carità, anche a lui veniva da ridere se pensava che in soli trenta secondi era riuscito a presentarsi come un mentecatto. Neanche il tempo di formulare questo pensiero che gli scappò uno sbuffo dal naso. Serrò le labbra anche lui, il mento arricciato, ma alla fine non riuscì a impedirsi di scoppiare a ridere con una mano sugli occhi. Poteva essere il modo migliore per salvare la faccia. L'altro ragazzo si era trattenuto a malapena. Alla fine Yao si portò un ciuffo di capelli dietro all'orecchio con un sospiro e si girò a guardarlo.
«E così il nostro ospite ha un volto» disse.
L'altro chinò il capo. «Piacere di conoscerla, Yao-san
«Oh, ti prego, chiamami Yao – rispose mentre si sistemava sulla sedia – E tu devi essere Kiku. Finalmente ci conosciamo.»
Kiku forzò un sorriso. Yao lo osservò senza preoccuparsi di non darlo a vedere. Poteva avere al massimo diciassette anni; aveva un viso proporzionato dai lineamenti fini, bianco e morbido come una palla di riso, le labbra piene, l'espressione seria; portava i capelli più lunghi sulla fronte, in un taglio ordinato; indossava uno yukata indaco e teneva le mani sul grembo. Tutto in lui emanava un senso di incorruttibile disciplina. Yao si chiese da quanto tempo fosse seduto lì, solo a quel tavolo. Che si fosse alzato con largo anticipo per evitare di arrivare in ritardo? Più tardi ebbe modo di constatare che parlava un mandarino quasi perfetto, l'ombra dell'accento giapponese poteva palesarsi solo a un orecchio ben allenato.
Malgrado le sue origini, Yao era sempre stato abituato a faticare. Il che poteva sembrare strano, riferito al primogenito di una famiglia alto borghese, eppure a distanza di anni Yao ricordava ancora le lacrime di sfinimento sui libri a notte fonda già da bambino, così come ricordava i pomeriggi passati a farsi massacrare all'accademia di wushu⁴, solo per soddisfare l'ambizione di sentirsi dire: “sei stato bravo, xiao'er. Dunque, Yao conosceva la fatica, eppure quando provò a intavolare una conversazione di circostanza, quel tanto che bastava per riempire il silenzio in attesa che il resto della famiglia si riunisse a tavola, in quel momento fu davvero difficile provare a ricordare uno sforzo simile. Perché quel ragazzino sembrava del tutto incapace di rispondere con una frase di più di due sillabe, qualunque fosse il contenuto della domanda. Com'è andato il viaggio? Molto bene. La casa ti piace? È stupenda. Hai fame? Un po'. E basta, Palla Di Riso sembrava non voler fare un minimo sforzo per alleviargli il carico. Sul momento Yao non seppe dire se quel comportamento fosse dovuto a una mancanza di contenuti o al totale disinteresse nel creare un'intesa con lui. Alla fine il cielo doveva aver ascoltato le sue preghiere, perché dopo un po' vennero raggiunti dal resto dei Wang. 
Dicevamo, Yao non capiva lo stato di frenesia che infestava la casa da circa un mese fino ad allora, e continuava a non capire. Lo disse anche ad Honghui senza troppi giri di parole durante una partita a wéiqí⁶, quello stesso pomeriggio. Giocavano sul porticato che si affacciava sul fiume, il cielo era sereno.
«Allora- Honghui piazzò una pietra sulla scacchiera -come ti sembra il nostro ospite?»
Yao si prese un momento per osservare il goban, tenendosi il mento tra pollice e indice, poi fece la sua mossa. «Insignificante.» rispose lapidario.
Dalla sedia sulla quale leggeva, Mei⁷ si alzò con un fruscio di stoffa. «Sei solo invidioso perché per una volta non hai tutti gli occhi addosso.» e detto ciò si allontanò facendo ondeggiare le trecce.
Yao osservò la seta rosa sulla sua schiena attraverso il fumo della sigaretta. «Palla di Riso ha già fatto colpo.»
«Se dici così dai ragione a mèi-mei.»
Yao sbuffò in una nuvola di fumo. «È troppo sveglia per la sua età.»
«Comunque, ammetterai che è carino.»
«Ha un bel faccino, sì. Questo non spiega perché siate tutti così presi da lui.»
Honghui si sistemò gli occhiali sul ponte del naso con due dita, poi piazzò un'altra pietra sul goban. «È solo l'ebbrezza della novità, tutto qui. E poi fùqinvuole solo un altro erede da ammaestrare.»
Yao scrollò la cenere della sigaretta sul posacenere di porcellana, sorrise al fratello. «Tranquillo, dì-di¹⁰, il suo preferito resti sempre tu.»
E come poteva essere altrimenti? Malgrado la sua giovane età, Honghui era un asso dei calcoli e aveva un fiuto invidiabile per le buone occasioni. Mai una scelta mal ponderata, mai una parola fuori posto, l'immagine migliore che la famiglia Wang poteva sperare di dare al mondo. In due parole: l'erede perfetto.
Honghui dondolò la testa da una parte all'altra. «Vero, ma mǔqin preferisce te.»
«Questo non è vero.»
«Invece sì.»
«No, ti dico.»
«Sì, ti dico.»
«Honghui.»
«Yao.»
Si guardarono serissimi per un lungo momento, poi si misero a ridere.
«Calcoliamo il punteggio?»
«Non serve, hai vinto tu.»
Honghui era l'unico che riusciva a batterlo a wéiqí.
 
 
***
 
 
Quando il secchio di acqua gelida gli viene svuotato addosso, Kiku si sveglia con un sussulto, i braccioli della poltrona sotto di lui scricchiolano. Il bavaglio che gli copre la bocca è sporco di sangue, lo costringe a sottomettersi a quel sapore violento di ferro. Gli hanno fatto saltare un molare e la lingua continua a toccare la gengiva scoperta, non riesce ad aprire del tutto l'occhio destro.
Non ha parlato, è stato bravo. Non ha parlato.
C'è un ufficiale cinese davanti a lui, seduto sui calcagni. A giudicare dalla divisa dev'essere un colonnello. Lo guarda mentre si sistema una sigaretta tra le labbra. «Bene bene, xiao Rìbĕn¹¹. Siamo alla resa dei conti.» Kiku sostiene il suo sguardo, non muove un muscolo neanche quando l'ingresso della tenda si apre. Con la coda dell'occhio vede che un soldato sta facendo il saluto.
«Riposo, tenente.» ordina con le labbra strette per trattenere la sigaretta.
«Voleva vedermi, signore?»
Un brivido lo scuote. Riconoscerebbe quel timbro anche in un coro, e malgrado si sforzi di mantenere un'espressione neutra l'ufficiale davanti a lui deve aver notato qualcosa, perché un angolo della bocca gli si piega verso l'alto. Alla fine si alza e si accende una sigaretta, dandogli le spalle e rivolgendosi al nuovo arrivato. «Come va la schiena?»
Kiku riesce a spostare lo sguardo quel tanto che basta per accorgersi che il tenente si regge su una stampella, ma non osa voltarsi verso di lui.
«Non è ancora del tutto guarita, signore.»
«Pare che dovremo rimandarla a casa, tenente. – e qui dà un lieve calcio col fianco dello stivale a un piede della sedia a cui è legato Kiku – il gǔizi¹¹, qui, ha fatto centro. Mi costringe a congedare il mio miglior ufficiale, razza di bastardo.»
«La ringrazio, signore.»
Kiku pianta le unghie nel legno dei braccioli. Una parte di lui gli grida di voltarsi a guardarlo, di sfidarlo, e quella parte di lui ha la voce d suo padre e degli ufficiali che lo hanno addestrato con un unico mantra: chi conosce la vergogna è debole¹².
«Comunque, temo che dovremmo approfittare ancora di lei, tenente.»
«Signore?»
«Oh, è un compito abbastanza semplice, glielo assicuro. Le basterà portare il prigioniero lontano dalle linee e fare rapporto sulla vostra posizione di volta in volta. Le illustreremo il percorso più sicuro, partirete domattina. È tutto chiaro tenente?»
«Sì, signore.»
Le unghie di Kiku graffiano i braccioli, ma lui non se ne accorge. Nella sua testa c'è un coro di voci che gli urla di piantare gli occhi addosso a quell'uomo, di difendere il proprio onore. Ma la sola idea di affrontare il suo sguardo gli gela ogni muscolo del corpo, gli immobilizza il respiro.
«Allora può andare. Si rimetta in forze per domani.»
Il tenente si mette sull'attenti e saluta il superiore. Quando alla fine Kiku solleva il volto verso di lui, fa appena in tempo a incontrare la sua nuca rasata, prima che un altro ufficiale richiuda la tenda alle sue spalle.
Il colonnello schiaccia con uno sbuffo di fumo il mozzicone nel posacenere, quando si volta apre la bocca per rivolgersi al soldato all'ingresso, ma s'interrompe di colpo, subito dopo aver guardato nella sua direzione. «Āiyā¹³, Zhao, da' un'occhiata a questo.»
«Ho visto, signore.»
Kiku si accorge solo adesso del sangue sui braccioli.
«È un disturbato, signore, come tutti i giapponesi.»
 
Quando due soldati lo scortano sul furgone, Kiku è ancora legato e imbavagliato. Solo protetto dal buio dell'abitacolo trova il coraggio di azzardarsi a osservare il tenente che barcolla verso di loro, aggrappato alla stampella. Anche con quel passo sbilenco conserva la sua fierezza da imperatore, il sole bianco sul cappello luccica al sole. Sembra strano vederlo coi capelli corti, gli fanno sembrare il viso ancora più lungo del solito, e forse mettono un po' troppo in risalto le orecchie. Ora che ha la faccia pulita dalla terra e dal sangue Kiku può vedere l'alone dorato dell'abbronzatura sul naso e sotto agli occhi.
Il soldato -forse caporale- seduto accanto a lui lo squadra dall'alto verso il basso, poi si rivolge al commilitone senza staccargli gli occhi di dosso. «Mi chiedo perché Wang abbia deciso di risparmiarlo.»
L'altro non sembra granché interessato, e risponde senza distogliere lo sguardo documenti che sta controllando: «Dicono abbia informazioni sensibili. È il figlio di Honda Takeshi, hai presente?»
«Il generale di brigata?»
«Nh
Il caporale pare pensarci un attimo, assottiglia lo sguardo. «O forse Wang vuole restituirgliele con gli interessi.»
«Non mi sembra il tipo.»
Il caporale gli mette una mano dietro al collo, lo strattona verso di sé. Kiku avverte il suo respiro sull'orecchio. «Di' un po', huàidàn¹⁴, lo sai chi è quello?»
«Non può risponderti, idiota.»
«Wang Yao è il tenente più giovane di tutta la divisione. C'è un motivo se lo chiamano Miao Dao¹⁵ Wang. Fossi in te mi sparerei un colpo alla prima occasione.»
«Non è educato parlare degli assenti, caporale.»
I soldati schizzano sull'attenti come frustati, Yao sbuffa una risatina. Gli basta allungare il braccio perché quei due si precipitino ad aiutarlo, e così sale sul rimorchio con una certa fatica. Poco dopo il furgone parte, sollevando una nuvola di povere dietro di sé. Sotto al telo verde militare, l'abitacolo trasuda un odore di umanità spezzata, di stalla. È l'olezzo degli animali da macello che si mischiano gli uni agli altri per confortarsi prima della sentenza, che si manifesta tra le chiacchiere di quei soldati che si scambiano le fotografie. Non ci vuole un genio per notare l'ammirazione sui volti dei sottoposti. Kiku si prende un momento per osservare quella scena rilassata, il caporale che allunga a Yao il ritratto di una bambina di quattro anni, lui che sorride mentre accarezza col pollice gli angoli della fotografia, l'altro sottufficiale che sbuffa una battuta.
«Com'è carina, non sembra neanche tua figlia.»
«Vaffanculo.»
Il furgone si ferma per farli scendere solo un paio d'ore dopo. I soldati si premurano che Yao riesca a camminare con lo zaino sulle spalle, lo salutano come si fa con un fratello. Pochi minuti dopo il furgone è già ripartito, sono soli in mezzo a una strada fangosa di campagna, attorno a loro esiste solo una piatta distesa di terra e ciuffi di sorgo selvatico. Yao si gratta il mento con due dita, poi tira fuori un pugnale dal fodero.
«Vediamo di farla finita» borbotta, e prima che Kiku possa dire o fare qualcosa Yao ha già tagliato la corda che gli lega i polsi e il bavaglio.
«Ma che fai?»
«A te cosa sembra?»
 Kiku rimane a osservarlo per qualche secondo mentre si sistema lo zaino sulle spalle. Si guarda intorno. «Non hai paura che scappi?»
Yao si lascia scappare un sorriso storto, solleva le braccia, stampella compresa, a indicare la desolazione attorno a loro. «Per andare dove? Con quell'uniforme, poi.»
Kiku contrae la mascella. Sono praticamente in mezzo al nulla, persi tra le risaie e a chissà quanti chilometri dal centro abitato più vicino, e se per qualche assurdo motivo dovesse mettersi a correre Yao gli sparerebbe puntando alle gambe. Si prende un attimo per osservarlo con un'occhiata veloce: ha addosso un fucile, un miao dao, granate...
«Se pensi di rubarmi una granata per farti saltare in aria allora devi sperare di morire sul colpo, perché giuro che se sopravvivi ti spremo come un mandarino.»
Ovviamente non può sapere quanto c'è di vero in questo, ma in ogni caso Kiku preferisce non metterlo alla prova. Tenta un'ultima strada:
«Non hai paura che mi morda la lingua?»
«L'avresti già fatto. Ora muoviamoci.»
Yao regola la cinghia del miao dao e si rimette in marcia senza guardarlo. A Kiku serve ancora qualche secondo prima di mettersi a camminare verso di lui. Dopo un centinaio di metri, però, pianta di nuovo le suole a terra.
«Tutto questo non ha senso.»
«Ci muoviamo?»
«Prima fammi capire una cosa.»
Yao fa un sospiro e tira fuori le sigarette dalla tasca. Senza guardarlo ne tira fuori una, se la mette tra le labbra e dopo averla accesa borbotta un “ti ascolto”, accompagnato a un gesto della mano. Kiku sposta il peso da un piede all'altro, braccia conserte. «Quanti prigionieri di guerra terminano un interrogatorio con solo un occhio pesto e un dente spaccato? E senza dire una parola, per altro.»
Yao alza gli occhi al cielo come a volerci pensare, poi soffia fuori il fumo, «uno» e lo indica con la sigaretta.
«Avrebbero potuto rompermi un osso.»
«Tra le altre cose, sì.»
«Perché non l'hanno fatto?»
Yao dondola il collo a destra e a sinistra con uno scricchiolio. «Per lo stesso motivo per cui hanno messo un invalido a scortare un prigioniero giapponese in mezzo al nulla, e che per altro sembrano avere conti in sospeso.»
Kiku resta ad osservarlo in silenzio per un lungo secondo, quando si decide a parlare ha l'impressione di star leggendo ad alta voce qualcosa di scritto a lettere cubitali di fronte a loro. «Vogliono farti fuori.»
Yao si gratta sotto al cappello. «Diciamo che potrebbero farci girare a vuoto finché uno dei due non tira le cuoia. In ogni caso hanno solo da guadagnare.»
«Uno dei due? Che succede se io –
«Succede che nel peggiore dei casi mi mettono di fronte al plotone d'esecuzione.»
«Il colonnello diceva che sei il suo uomo migliore. Perché eliminarti?»
«Molto probabilmente era sincero, ma sospettano che abbia contatti coi comunisti, perciò... – lascia in sospeso la frase, il tempo di inspirare un'altra volta il fumo della sigaretta – meglio un uomo in meno che un tǔgòng¹⁶ tra le fila.»
Dopo aver scrutato con attenzione la punta dei propri anfibi, Kiku si schiarisce la gola, solleva il mento. «Ed è vero?»
Prima di rispondere Yao lo fissa per qualche secondo con la sigaretta davanti alle labbra serrate. Poi dà un ultimo tiro e infine lancia il mozzicone a terra, schiacciandolo con il tacco dello scarpone. «Chiariamo una cosa- comincia, avanzando verso di lui con la mano sul fianco -io non sono un tuo cazzo di commilitone, né un compagno di merende con cui stai andando a fare una gita per scambiare confidenze e raccogliere margherite. Sono un tenente dell'Esercito Nazionale e tu sei l'ostaggio a cui sono stato assegnato. E sappi anche che se servirà sarò pronto a trascinarti di peso da qui fino a Chongqin¹⁷. Sono stato chiaro?»
Yao ha soffiato le ultime tre parole a pochi centimetri dalla sua faccia, il suo alito sa di tabacco. Kiku ha addosso un'espressione piatta che tira fuori in momenti del genere. «Cristallino» risponde.
«Bene – si sistema il cappello sulla fronte – in marcia.»
 
 
***
 
 
La prima volta che lo vide fu attraverso la finestra della stanza degli ospiti.
Era stato invitato da un professore di Nanchino a soggiornare per l'estate in una residenza estiva nel Jiangsu, a pochi chilometri dalla capitale. Quando aveva deciso di partecipare a quella specie di concorso non immaginava che proprio lui, su tutti quei partecipanti, avrebbe fatto colpo più di tutti sul suo futuro ospite. In quella circostanza suo padre si era complimento, ma Kiku sapeva che non era entusiasta all'idea di mandarlo in Cina per quasi tre mesi. Suo padre, come altri che frequentava, i cinesi non li amava, e aveva costretto Kiku a infilarsi nella valigia tutta una serie di articoli per l’igiene personale nel timore che il figlio rimanesse lontano dal sapone per mesi.
«Non pensi che abbiano già del sapone?»
«Coi cinesi non si può mai sapere. Renderai un grande servizio all'impero, musuko¹⁸.»
E invece i Wang di sapone ne avevano in abbondanza, e avevano anche l’acqua corrente che nella casa di Kyoto mancava.
Comunque, Kiku non si sarebbe mai immaginato che un professore, seppure di un certo prestigio, potesse permettersi una dimora storica di tale bellezza. Si trattava di una serie di edifici dai muri bianchissimi e dai tetti scuri, arrampicati gli uni sugli altri e addossati alla riva rocciosa del fiume.  Le dimensioni della casa non erano tanto diverse rispetto a una qualsiasi abitazione borghese della zona, tuttavia entrando per la prima volta Kiku aveva avvertito qualcosa che nella silenziosa machiya¹⁹ di Kyoto non aveva mai assaporato. All'inizio non aveva compreso la natura di quella sensazione, solo in prossimità della partenza seppe dargli un nome. Comunque, appena arrivato aveva appreso dell'esistenza di un figlio primogenito non ancora presente in casa.
La prima volta che lo vide fu attraverso la finestra della stanza degli ospiti.
Si era ritirato quasi subito dopo aver salutato i residenti con l'opportuna cortesia, e si era gettato sull'ampio letto a baldacchino, così diverso dal futon a cui era abituato, senza neanche togliere le coperte e i vestiti. Verso sera era stato svegliato dal borbottio del motore di un'automobile. Si era alzato dal letto con la forma del cuscino sulla guancia e aveva accostato la tempia al muro vicino alla finestra, quel tanto che bastava per vederlo scendere dalla macchina e salutare il conducente con un gesto cordiale. Non era come se lo era immaginato. Magro, slanciato, vestiva all'occidentale e portava i capelli lunghi, in netto contrasto con la moda di quegli anni. Posò a terra le valige solo per salutare la domestica afghana che era venuta ad accoglierlo, posandole le mani sottili sulle spalle curve, carezzandole le braccia. Se Kiku non avesse saputo che lei era una sua dipendente, avrebbe pensato che fossero parenti. Poi lei fece per raccogliere le valige, ma Yao fu più svelto a chinarsi e a sollevarle. Dovette insistere un po' ma alla fine fu lui a portarle dentro casa. Aveva una postura ritta e dei modi composti da aristocratico, ma senza artificialità o arroganza, e sapeva mostrarsi cordiale senza diventare ossequioso. Sembrava così sicuro.
Il mattino dopo se lo era trovato seduto a fianco per puro caso. Si era alzato in anticipo per non farsi aspettare al tavolo della colazione, e poi la sera prima era andato a dormire talmente presto che all'alba era già sveglio. Doveva essere andata così anche per Yao.
«Tu devi essere Kiku. Finalmente ci conosciamo» lo disse con estrema naturalezza, sollevando le sopracciglia scure sugli occhi da gatto. Durante quell'incontro Kiku notò che arrotava l'ultima sillaba di ogni frase, producendo una sorta di “èr”, in un curioso accento pechinese²⁰.
Nel trovarselo così vicino, con quel volto rilassato e il sorriso asimmetrico e quello stesso atteggiamento di completa sicurezza della sera prima, Kiku non era riuscito a pensare a nulla se non a evitare qualsiasi brutta figura. Così alla fine non era riuscito a sfruttare gli spunti offerti da Yao per costruire una conversazione decente, e quando lo vide sistemarsi sulla sedia e volgere lo sguardo altrove, arricciando il naso, capì di aver sprecato una grande occasione.
 
Non ci aveva messo molto per capire che la presenza di Yao era ovunque in quella casa, anche quando il suo corpo non era lì. Era nella segreta ammirazione di Honghui, e negli elogi non tanto velati della signora Wang. Era nel luccichio negli occhi dei domestici quando lo sentivano bussare alla porta della cucina. Era anche nei commenti piccati di Mei, che anche quando cercava di distogliere l'attenzione da lui alla fine finiva comunque per tirarlo in ballo in un modo o nell'altro. Perfino Li, che sembrava tra tutti il più indifferente rispetto al fratello, sembrava del tutto ignaro di quanto la sua vita fosse piena di lui, lui che emergeva dai libri che Li citava a memoria e dalla sua tendenza naturale di rivolgergli lo sguardo quando una discussione si faceva interessante.
Era una figura immensamente ambigua. Chi non lo conosceva poteva pensare che fosse un controrivoluzionario, visto come portava i capelli – lunghi, ma non rasati sul davanti come un Manciù²¹ –, ma bastava parlarci pochi minuti per capire che si trattava di un progressista fatto e finito. Aveva letto il Daodejing a soli dodici anni e conosceva a memoria tutto il Lunyu²², e non si sa come riusciva a citarli insieme a Marx. Passava tutto il giorno chiuso nella sua stanza a compilare la sua tesi infinita, usciva solo per fumare sul portico e sfidare Honghui a go.
 
Alla mattina, Kiku si svegliava quando ancora la casa era avvolta nel silenzio. Una delle finestre della sua stanza si affacciava sul cortile interno, e da lì poteva vedere l'edificio principale, dove i Wang custodivano l'altare degli antenati²³. A quell'ora l'unico rumore udibile era lo scorrere lento dello Yangze, la nebbia violacea avvolgeva le gole e sfumava i contorni delle cose, così che i riflessi verdognoli e bluastri del fiume si confondessero coi primi raggi dorati del giorno. Attraverso quella coltre umida, il buio dell'edificio principale veniva a un tratto rischiarato dal bagliore rosso dell'incenso appena acceso, che gettava morbide ombre sul profilo sottile di Yao. Kiku lo osservava chinarsi in silenzio accanto alla grande finestra esagonale, morbide ciocche scure cadevano dalla sua schiena oltre le sue spalle come una pioggia d'inchiostro. Poi sollevava il viso pulito e si sistemava i capelli dietro alle orecchie in assoluta compostezza, difficile pensare che non sapesse di essere osservato, e spariva nella penombra, lasciando posto al riflesso di Kiku sul vetro.
 
 
***
 
Hanno trovato una casa vuota. Il sole era sparito dietro alle montagne da un po' e il villaggio era ancora lontano. Poi un unico blocco di pietra bianca, sormontato da un tetto ricurvo, ha fatto la sua comparsa sull'acqua torbida della risaia abbandonata. Si sono guardati in silenzio per meno di un secondo e sono entrati senza dirsi una parola. La porta era socchiusa, così quando Yao ha bussato si è aperta con un cigolio. Al centro della stanza c'è un tavolo quadrato con due sedie, due letti agli angoli della parete di fronte a loro; sulla destra, una credenza e un telaio affiancano un focolare sporco d fuliggine; sulla sinistra un tavolo più piccolo macchiato di cera rossa dev'essere stato un altare per i defunti. A parte questo, la stanza è completamente vuota. Yao guarda bene sotto ai letti, controlla che non ci sia una cantina o altri possibili nascondigli per un soldato giapponese che potrebbe aver avuto la loro stessa idea. Niente. Non c'è sangue sulle pareti o sui pavimenti, le uniche persone a essere state lì prima di loro devono essere scappate appena ne hanno avuto l'opportunità.
Dopo aver acceso la lampada a gas, Yao tira fuori le razioni alimentari dallo zaino e le distribuisce sul tavolo senza troppe cerimonie, poi si mette a sedere. Dopo un po' si accorge che Kiku non l'ha imitato, è fermo in mezzo alla stanza a guardare un angolo. Yao alza un sopracciglio.
«Non ti siedi?»
«Non ho fame.»
Cazzate. Yao ha sentito il suo stomaco lamentarsi per tutta la durata del tragitto, quel ragazzino sta cercando di lasciarsi morire di fame.
«Hai cinque secondi per sederti e iniziare a mangiare, dopo di che giuro che ti imbocco io a forza.»
Se c'è una cosa che detesta è assistere alle umiliazioni altrui, e più di questo detesta farne parte. Perciò spera che Kiku non lo metta alla prova, e rilassa i muscoli delle spalle quando dopo il suo «uno...» l'altro decide di mettersi a sedere.
Consumano in silenzio le rispettive porzioni di riso scotto con verdure, c'è una scatoletta di tè nelle razioni, ma Yao non ha voglia di perdere tempo a scaldare l'acqua. Uno, è sicuro che se anche trovasse una teiera lì dentro, quasi sicuramente sarebbe coperta di polvere e bisognerebbe camminare fino al pozzo più vicino per poterla sciacquare; due, si sente già un intruso seduto a quel tavolo spoglio dove altre persone hanno condiviso pasti, brindato e digiunato sedute al suo posto, non se la sente di accendere il focolare. Berranno l'acqua delle borracce²⁴.
Kiku lo sta fissando.
«Che c'è?»
«Nulla, riflettevo.»
«Mh.»
«Perché ti chiamano Miao Dao
Yao manda giù un boccone, gli pianta gli occhi addosso. «Perché ho decapitato quaranta ufficiali giapponesi col miao dao a Changsha. Non hanno fatto in tempo a fare seppuku.²⁵»
Kiku ricambia lo sguardo, forse è colpa della stanchezza ma questa volta non riesce ad alzare il solito muro tra loro. Dal modo in cui abbassa di nuovo gli occhi è chiaro che lo scambio di battute l'ha scosso.
Tenendo il capo curvo e sollevando gli occhi può spiare il ragazzo di fronte a lui. Ha sempre la stessa corporatura minuta, la stessa espressione (quasi) impenetrabile. Gli hanno tagliato i capelli cortissimi anche sul davanti. Yao scuote la testa. I capelli non glieli hanno rasati a forza, non lo hanno costretto a indossare l'uniforme, ha scelto lui di farlo. Ha scelto lui di andare in un paese straniero armato fino ai denti a fare strage di civili. Ha scelto lui di aprirgli la schiena come per sventrare un pesce. Come ha fatto a riconoscerlo sul campo di battaglia? Adesso non può vedere che un automa di fronte a sé, uno di loro, uno fra tanti. Il ragazzo con lo yukata indaco che ha conosciuto nel Jiangsu non esiste più, il tempo e la distanza l'anno cambiato. O forse è sempre stato così, e lui non se n'era mai accorto. Forse è questa la sua penitenza: guardare un pezzo di se stesso e fingere di riconoscerlo.
Kiku solleva il capo su di lui, si è accorto di essere osservato. Yao sostiene la sua occhiata interrogativa senza battere ciglio. «Va' a dormire, domani si riparte all'alba.»
Liberano in fretta il tavolo e poi Kiku si siede su un letto per levarsi gli anfibi. Intanto Yao si spoglia della parte superiore dell'uniforme e prepara il disinfettante e le bende per pulire la cicatrice. Ma dopo i primi tentativi fallimentari di raggiungere la ferita da sé diventa palese che gli è impossibile medicarsi la schiena da solo, e senza neanche l'ausilio di uno specchio. Si lascia sfuggire un'imprecazione quando le bacchette che reggono un batuffolo di cotone gli scappano dalle mani. Un bel respiro. Evidentemente la sua espiazione non è ancora finita.
«Ehi, sei sveglio?»
Un fruscio di coperte dietro di lui.
«Più o meno.»
Yao si passa una mano sul viso. Non può rischiare che la ferita si infetti, e poi ormai lo ha chiamato.
«Non riesco a medicarmi da solo. Mi serve aiuto.»
Umiliante. Kiku però si alza senza fare commenti, e sempre in religioso silenzio si siede dietro di lui e si disinfetta le mani. Almeno non deve guardarlo in faccia. Il contatto col cotone imbevuto brucia come un fuoco, ma Yao non emette un suono. Sa che l'uomo dietro di lui sta trattenendo il respiro, che sta evitando il contatto diretto tra le sue mani e la pelle della sua schiena. Sa che prova ancora vergogna.
«Ho finito» sussurra. Yao si strofina la punta del naso, prima di alzarsi dalla sedia su cui stava a cavalcioni, poi inizia a frugare nello zaino. Quando si volta, Kiku distoglie lo sguardo. Yao posa un cambio d'abito sul tavolo.
«Tieni.»
«Come?»
«Domani arriveremo a un villaggio che è stato liberato dai giapponesi solo ieri. Senti, detesto assistere alle umiliazioni e credimi, se arrivati lì avrai ancora addosso quell'uniforme, allora ne vedremo un paio.»
Kiku rimane in silenzio per un po'. La lampada a gas gli getta ombre gravi sul viso, e mentre Yao si allunga per riprendersi la canottiera lo sente parlare.
«No.» Sembra davvero sicuro.
«No?»
«Questa uniforme è il simbolo della mia lealtà all'imperatore. Se questo significa subire la rabbia dei civili allora sopporterò con onore.»
Yao lo guarda aggrottando la fronte, ci mette un po' a processare il senso di ciò che ha appena sentito. «Onore?»
Kiku prende un respiro, addolcisce lo sguardo come se dovesse spiegare un concetto di fisica quantistica a un bambino di quattro anni. «Lo so che non condividi. Il governo ci dipinge come invasori e barbari, ma la verità è che stiamo dalla stessa parte. Vogliamo ridare all’Asia la dignità che gli europei ci hanno tolto, capisci? Lottiamo anche per voi. Il resto è propaganda-
«Ma di che cazzo stai parlando?»
Kiku ha cercato di non darlo a vedere, ma ha sussultato. Yao avanza verso di lui.
«Le vite di chi, avete migliorato? Degli orfani di guerra?»
«Dei sacrifici sono necessari –
«Sacrifici? Quello che è successo a Nanchino²⁶ vuoi chiamarlo sacrificio?»
«Yao –
«Vuoi chiamarli sacrifici tutti i ragazzini che vi siete divertiti a infilzare con le baionette in mezzo alla strada?» Nel giro di una frazione di secondo Yao gli afferra le guance con la mano destra e il colletto dell'uniforme con la sinistra, sollevandolo a qualche centimetro dal pavimento e costringendolo spalle al muro.
«Yao!»
«Mai, in tutta la mia vita, ho visto corpi trattati con la stessa crudeltà che avete riservato a quella povera gente.»
«Mi fai male!»
«Non avete avuto rispetto neanche per i cadaveri! Erano persone, razza di bastardo, e non hanno avuto pace neanche da morte! Come puoi anche solo pensare di potermi parlare di onore, vestito come uno di loro?»
«Lasciami!»
«E tu sei uno di loro! Tu e la tua gente, siete dei demoni!»
Ha perso la presa, Kiku è crollato in ginocchio. La mano destra gli slitta sul muro in cerca di un appiglio e si abbatte sul pavimento. Tutto il suo corpo trema, e i suoi respiri pesanti talvolta terminano in gemiti.
Yao arretra di un passo. Sposta lo sguardo dalla figura rannicchiata addosso al muro sui palmi delle proprie mani. Trema anche lui. Sente il cuore martellargli nel petto come a voler esplodere, la gola gli brucia. Non si era accorto di urlare tanto forte da graffiarsi le corde vocali. Si porta una mano al collo, lancia una breve occhiata a Kiku prima di voltargli le spalle. Raccoglie la canottiera da terra e si passa una mano sul petto.
«Ripartiamo all'alba. Va' a dormire.»
Kiku tira altri due respiri tremanti, dopo di che deglutisce rumorosamente e si schiarisce la gola. Si solleva con una certa fatica; Yao vorrebbe aiutarlo, ma non trova il coraggio di guardarlo, di toccarlo.
Cosa si sono fatti?
Avrebbe dovuto lasciare le cose come stavano, avrebbe dovuto ringraziarlo per avergli ripulito la ferita, mettersi a dormire, e non toccare niente.
 
 
 
 
 
_____
Note (sì lo so che è un papiro, abbiate pazienza):
 
  1. Cito Treccani: «In Cina quando una grave sciagura opprimeva il paese, il sovrano faceva per scritto dichiarazione dei suoi peccati, si ritirava fuori della città, e si tagliava unghie e capelli.»;
  2. mūqin: “madre”, termine un po' più alto rispetto al colloquiale mā-ma;
  3. Honghui: il nome che ho scelto per Macao;
  4. wushu: nome che indica le arti marziali cinesi in generale;
  5. xiǎo 'er: “figlio”, “figliolo”;
  6. wéiqí: più conosciuto come go, è un gioco da tavola per due simile agli scacchi, il cui scopo è il controllo di una zona del goban (scacchiera) maggiore di quella controllata dall'avversario;
  7. Mei: Taiwan;
  8. mèi-mei: “sorellina”, “sorella minore”, da non confondere con “Mei”, che anche se si pronuncia in maniera simile è un nome proprio e si scrive con un carattere diverso;
  9. fùqin: “padre”, anche in questo caso si tratta di un registro alto;
  10. dì-di: “fratellino”, “fratello minore”;
  11. xiǎo Rìběn / guǐzi / Rìběn guǐzi: letteralmente, “piccolo giapponese”, “demone”, “demone giapponese”, sono tutti appellativi dispregiativi usati contro i giapponesi durante la Seconda Guerra Sino-Giapponese;
  12. Estratto dal Senjinkun (codice militare giapponese dell'epoca): «Chi conosce la vergogna è debole. Pensa sempre a [preservare] l'onore della tua comunità e sii un vanto per te e la tua famiglia. Raddoppia i tuoi sforzi e rispondi alle loro aspettative. Non vivere mai per provare la vergogna di essere prigioniero. Morendo eviterai di lasciare una macchia sul tuo onore.»
  13. Āiyā: questa è un po' scontata, si tratta di un'esclamazione che esprime stupore o meraviglia;
  14. huàidàn: letteralmente “uovo marcio”, “uovo andato a male”, da tradurre come “bastardo”;
  15. Il/la miao dao è un'arma bianca simile a una katana, parte dell'equipaggiamento di alcuni degli ufficiali cinesi durante il secondo conflitto;
  16. tǔgòng: termine dispregiativo che indica i comunisti;
  17. Chongqin è una città del Sichuan che dopo la caduta di Nanchino (allora capitale) per mano dei giapponesi venne istituita capitale dai nazionalisti;
  18. musuko: “figlio”, “figliolo”;
  19. machiya: case tradizionali di città che insieme alla noka (abitazione di campagna) costituiscono i due tipi di architettura vernacolare giapponese;
  20. Giuro che quando ho scoperto questa cosa ho avuto una sorta di illuminazione; in pratica i pechinesi hanno la tendenza ad arrotare le ultime sillabe delle frasi, e questo spiega perché nell'anime Yao ha questo tic verbale (ricordiamo che in giapponese la “u” di aru dovrebbe essere muta);
  21. I Manciù (o Manchu, mancesi o Jurchen) erano un'etnia di stirpe mongola che a metà del XVII secolo sconfisse i Ming e occupò la Cina, instituendo la dinastia Qing; durante il periodo di regno dei mancesi per gli uomini era obbligatorio portare i capelli rasati a zero sul davanti e lunghi, intrecciati, sulla nuca, chi tagliava i capelli o li lasciava crescere anche sulla parte anteriore del capo veniva condannato a morte; dopo il crollo dei Qing nel 1912 e l'instaurazione della Repubblica, chi portava i capelli lunghi veniva visto come “controrivoluzionario”; dunque, lo so che i capelli lunghi di Yao in 'sto periodo storica sono proprio un dito in un occhio, però non mi piaceva l'idea di eliminare questo elemento nel design del personaggio, e in più credo possa servire a descrivere la sua natura un ambigua, a cavallo tra rivoluzione e tradizione;
  22. Andiamo con ordine: il Dàodéjīng (scritto anche Tao Te Ching), ovvero “Libro della Via e della Virtù”, è un testo taoista composto tra il IV e il III secolo a.C.; il Lunyu, tradotto come “Dialoghi”, è una raccolta di citazioni, pensieri e conversazioni di Confucio, curata dai suoi allievi dopo la sua scomparsa (e che nell'era di internet hanno finito per essere condivise in massa dai boomers su Facebook su sfondi con foto di tramonti e con un font orrendo tipo papyrus); in entrambi i casi si tratta di testi cardine per lo studio del pensiero cinese, e la cui eco è presente anche nella società cinese contemporanea, e più in generale su tutto l'Estremo Oriente;
  23. Parte fondamentale del pensiero confuciano è la devozione alla famiglia e agli antenati, motivo per cui ancora oggi nelle case degli orientali (in particolare in Cina, ma non solo), è possibile trovare altarini con foto e ritratti di parenti defunti con salti generazionali importanti, di solito arricchiti con candele e offerte;
  24. In Cina bere acqua a temperatura ambiente o fredda durante i pasti non si usa, ecco perché nei ristoranti cinesi tradizionali si trova sempre una teiera sul tavolo, a meno che non si ordini una zuppa, che viene servita e consumata come una bevanda;
  25. Questa molti di voi la sapranno già, altri avranno intuito leggendo l'estratto del Senjinkun; comunque, il seppuku o harakiri è il suicidio rituale giapponese, eseguito dai samurai (poi anche dai prigionieri di guerra giapponesi) in seguito a una sconfitta o a un forte disonore, che prevedeva l’esecuzione di una ferita profonda all’addome con un pugnale (tantō); per preservare ulteriormente l’onore del samurai, interveniva la figura del kaishakunin, un fidato compagno che aveva il compito di decapitare il suicida in modo che il dolore provocato dal taglio non sfigurasse il volto di quest’ultimo;
  26. Il massacro di Nanchino, conosciuto anche come stupro di Nanchino, è stato un insieme di crimini di guerra commessi dall'esercito giapponese tra il 1937 e il 1938; in sole sei settimane, i soldati giapponesi uccisero 300.000 persone, e attuarono le violenze più atroci contro civili e prigionieri di guerra; scusate se non inserisco altre informazioni, ma temo di non essere in grado di rendere giustizia alla gravità dei fatti accaduti in poche righe; se l'argomento vi interessa Wikipedia ha una pagina molto dettaglia, ma ne sconsiglio la lettura a persone sensibili.
 
 

Ritorna all'indice


Capitolo 2
*** Capitolo I - Nilufar ***


Capitolo I
 
Nilufar
 
 
Se gli chiedessero un nome, oltre a quello di Kiku, che gli porta alla mente l'estate del '28, Yao farebbe quello di Nilufar.
Nilufar era la governante afghana di mezz'età, per la verità d’un paio d'anni più giovane di Wang Lanhua, che però, a differenza sua, in quarantasei anni di vita avrà rischiarato una scottatura solare sì e no due volte e sollevato la metà dei chili che Nilufar trasportava ogni giorno. Non è chiaro se la signora Wang dimostrasse molti meno anni di quelli che realmente aveva o se fosse Nilufar a dimostrarne molti di più, fatto sta che viste l'una di fianco all'altra uno non avrebbe mai immaginato che potessero essere coetanee.
Comunque.
Nilufar era musulmana sunnita, e quando un giorno di parecchi anni prima, a soli sedici anni, era entrata in casa Wang con la mano di Li Feng (giardiniere, autista e tuttofare dei Wang) su una spalla e il ventre pronunciato, a Nanchino la gente aveva iniziato a mormorare mille versioni diverse della storia di quella ragazzina silenziosa e rachitica. Qualcuno diceva che fosse scappata dalla famiglia osservante per poter sposare il signor Li, che allora aveva diciotto anni e per un periodo aveva vissuto nello Xinjiang¹, altri dicevano che lui l’avesse messa incinta ben prima di sposarla; Qualcun altro raccontava che i suoi fossero morti di febbre e addirittura c’era chi diceva che Nilufar fosse in realtà parente della famiglia reale afghana e che fosse fuggita da un attentato che aveva sterminato la sua famiglia, o che fosse la figlia bastarda del re in persona, e che gli eredi legittimi avessero cercato di eliminarla. Ognuno di questi racconti, comunque, si concludeva con una fuga. Yao non aveva mai trovato il coraggio (o la sfacciataggine) di chiedere conferme ai Li, e così il fotogramma sbiadito, ritagliato fuori dall’interezza della pellicola, di Nilufar, la composta, sempre coperta e da sempre anziana Nilufar, che saltava giù da una finestra a piedi nudi e correva nella notte come una bambina con il velo che le svolazzava sul capo, aveva assunto un ché di romantico nella sua testolina di bambino.
Yao non saprebbe dire con sicurezza se i due si fossero sposati prima o dopo che il signor Li iniziasse a lavorare in casa Wang o viceversa, fatto sta che ancora oggi non ricorda un solo giorno in cui Nilufar non fosse presente in casa. I signori Li erano una sorta di istituzione, di colonna portante. O forse sarebbe stato più corretto paragonarli ai mortai e ai rulli che sbriciolano e appiattiscono la sabbia delle fondamenta, senza i quali i sontuosi capitelli e i cavalli alati sulle tegole non potrebbero esistere. Sempre presenti, anche quando l'occhio non li percepiva, pronti a scattare all'ora del bisogno e scomparire dietro a un muro una volta divenuti superflui, i Li osservavano un comandamento inalienabile: le cose dei Wang restano in casa Wang.
Il giorno in cui Yao visse una sorta di rivelazione in merito all'ospite fu anche lo stesso in cui pranzò coi Li per la prima volta dopo un po' di tempo. La sua giornata aveva avuto inizio, come sempre, al sorgere del sole. Sarà stato il commento spietato di Lanhua sul suo paio d'occhiaie da panda, sarà stato il mal di schiena proprio di uno che ha passato due settimane curvo su una tesi, sarà stato un particolare allineamento degli astri o più semplicemente il fatto che tutta quella disciplina lo stava deteriorando, in ogni caso, quella mattina, Yao aveva deciso che era ora di prendersi una giornata libera. Così aveva lasciato un biglietto svogliato sotto al centrotavola della sala da pranzo, afferrato il manubrio della bicicletta e pedalato fino al villaggio.
Si trattava di un piccolo agglomerato di casette bianche piazzate su un canale, a cui si arrivava passando in mezzo a sentieri ritagliati tra canne di bambù e pruni. Un posto tranquillo, che poteva sembrare soporifero in confronto alle strade vivaci di Nanchino, tuttavia Yao provava una strana soddisfazione a passeggiare sui ponti deserti e ascoltare il frinire dei raggi della bicicletta, il gorgogliare sommesso del canale, un colpo di tosse a distanza. C’era qualcosa di appagante nel vedere per primi il mondo al mattino, come nel condividere una sorta di segreto. Adesso Yao direbbe che si trattava del piacere del vivere in uno spazio sospeso. 
Al villaggio prese solo un pacchetto di liquirizia.
Quando il sole iniziò a farsi prepotente sul canale, Yao montò di nuovo sulla bicicletta e raggiunse la fine del bosco di bambù, dal quale si vedevano emergere i tetti della casa. Si arrestò all’ombra di un albero, piantando i talloni sulla ghiaia. La vista delle finestre in mezzo agli alberi, per qualche motivo, gli mosse una strana sensazione di immobilità, di spazio predisposto. Si ritrovò a pensare che mentre lui si nascondeva tra i ponticelli e i muri del villaggio, il resto delle persone in casa aveva iniziato a vivere la propria giornata in comunione, e che lui stava per inserirsi come un intruso dentro a qualcosa che era stato costruito in sua assenza nel lungo arco della mattinata. Solo, con la faccia seminascosta dall’ombra delle foglie, come una tigre in agguato, non riusciva a pensare di invadere quello spazio, di offendere l’assetto corrente con la propria presenza. Era come svegliarsi e trovare ogni cosa in perfetto ordine, e sapere che un tuo movimento potrebbe annientare questa disposizione. Pochissime volte aveva vissuto la mancanza di un vuoto in cui inserirsi.
Ecco quando ha visto Nilufar.
Oltre il ponte bianco che lo separava dall’ingresso della casa, Nilufar stava trascinando a fatica un sacco di riso grande almeno quanto lei. Così Yao ha schiacciato le suole delle scarpe sui pedali e la bicicletta è decollata sui fili d’erba, poi è stata abbandonata contro lo steccato e lui ha raggiunto Nilufar a piedi.
«Serve aiuto mǔmā²?»
Attendere la risposta sarebbe stato superfluo, e così Yao le tolse il sacco di riso da sotto le braccia prima ancora che lei potesse riconoscere chi aveva di fronte. Nilufar aveva alzato il capo di scatto e l'aveva guardato con quella faccia minuta, tutta naso e occhi, i capelli grigi sfuggiti alla stoffa beige dell’hijab e la pelle tra il naso e il labbro superiore lucida di sudore. Veniva da domandarsi come riuscisse a resistere così imbacuccata alle temperature asfissianti del Jiangsu. Quando si è accorta che si trattava di Yao aveva sorriso e rilassato le spalle.
«Un ragazzo di buona famiglia come te non dovrebbe portare sacchi di riso sulle spalle, xiǎo³ Yao.»
«Neanche una signora anziana come te dovrebbe ̶  ahia
Nilufar gli aveva tirato un pugnetto non troppo convinto sul braccio con le nocche tutte ossa. «Attento a chi chiami “anziana”, xiǎohuǒzi⁴.»
 
La cucina aveva un odore di verdure bollite e di mántou cotto al vapore che si attaccava addosso ai vestiti e impregnava i capelli, ed era la prima cosa che si percepiva una volta attraversata la porta scorrevole. A quello seguiva il borbottio delle pentole e lo sfrigolare dell'olio. Quando Yao vi si intrufolava sbirciando da dietro i sacchi di riso o le casse di frutta, bastava che uno qualsiasi dei Li riconoscesse la sua voce per precipitarsi a liberargli le braccia. Questa volta fu il turno di Nunu, terzogenita diciassettenne con la stessa statura minuta e faccia tonda della madre.
«Lasci, xiānsheng, faccio io» disse, agitando un po' la testa come a sottolineare il nuovo taglio a caschetto. Appena se ne accorse, Nilufar sollevò un sopracciglio.
«Che diavolo hai fatto ai capelli?»
«Me li ha tagliati Wang Li – rispose con un sorriso euforico – dice che le signore bene li portano così a Nanchino.»
«Ma come ti viene in mente di farti tagliare cinque anni di capelli in quel modo? Sembri un uomo!»
Yao si intromise: «Io li trovo molto graziosi – sorrise a Nunu – davvero eleganti.»
Lei in risposta abbassò lo sguardo sulle mani giunte in grembo e chinò il capo cinguettando un “grazie” acuto come un fischietto. Nilufar le disse di tornare al lavoro e lei sparì dietro la porta della ghiacciaia.
«Non incoraggiare le sue stramberie, xiǎo Yao. – borbottò mentre immergeva le mani nell’acqua saponata – Lo sai che pende dalle tue labbra.»
«I capelli ricrescono.» A parlare questa volta fu il signor Li, entrato in cucina con una sigaretta tra le labbra e il vassoio con l'anatra arrosto tra le mani. Sorrise a Yao «Buongiorno, xiǎohuǒzi».
«Buongiorno.»
«Quante volte devo ripeterti di non fumare in cucina?»
Yao s'intromise di nuovo, prima che il battibecco degenerasse: «Nǎi-naiè in casa?».
Nilufar lanciò un ultimo sguardo obliquo in direzione del marito, poi si sistemò l’hijab sulla fronte e accompagnò Yao dentro a una stanzina piena di vecchi mobili e suppellettili che puzzava di medicine, separata dalla cucina solo attraverso una tenda gialla. La signora Li sedeva su una sedia a dondolo in un angolo a scrutare un punto della stanza premendo tra loro le labbra invisibili. Sembrava concentratissima a risolvere una specie di rompicapo, così non si accorse subito che Yao si era seduto sui calcagni accanto alla sedia.
«Come stai, nǎi-nai?» lei parve non sentirlo, in effetti era un po' sorda. Yao cercò lo sguardo di Nilufar, e lei gli fece un gesto con la mano come per esortarlo a provare di nuovo. «Ti va una stecca di liquirizia? L'ho comprata poco fa, è buona.»
La signora Li voltò il capo con una lentezza esasperante, e staccò gli occhi dal punto in cui li aveva incollati solo quando fu totalmente rivolta verso Yao. Sempre con quel ritmo, sollevò le sopracciglia ispide increspando ancor di più la pelle sulla fronte tutta macchie, e stirò le labbra in un sorriso sdentato.
«Meng. Sei tornato.»
Yao deglutì e forzò un sorriso. Nilufar posò una carezza sulle spalle della signora Li e disse che era meglio lasciarla riposare. Le mise davanti una di quelle vecchie monete forate al centro⁸ che per qualche motivo riuscivano a distrarla per ore, e mentre se la rigirava tra le mani Nilufar e Yao uscirono. Meng era il fratello maggiore di Feng. Aveva partecipato alla rivoluzione contro l'impero Qing ed era stato freddato durante una rivolta nel 1912. Nilufar sosteneva che Yao gli somigliasse.
Nel frattempo, oltre la tenda gialla, la governante anoressica di Arthur Kirkland aveva assediato la stanza con altri cinque camerieri. Arthur era il rampollo di una famiglia britannica che da più di cinque generazioni gestiva un'azienda di tè con base ad Hong Kong, e per un breve periodo aveva condiviso le aule universitarie con Yao. Il nonno di Arthur, a suo tempo, aveva fatto un importante favore ai Wang di cui Yao non conosceva i dettagli, ma da quel poco che i suoi genitori si erano permessi di raccontargli sembrava che Kirkland senior avesse coperto un possibile scandalo. Ecco spiegato come mai sir Arthur lasciava ogni estate le verdi colline dello Yorkshire per accamparsi dai Wang (e lavorarsi Wang Long in previsione di un possibile affare), portandosi dietro una scorta di domestici che, esattamente come lui, non parlavano una sola parola di mandarino e non sembravano interessati a imparare. Ed ecco spiegato anche il motivo per cui Mrs Grendel continuava a ripetere “where's your master?” a voce altissima e strascicando ogni vocale a Nunu, che dall'altro capo del tavolo continuava a sistemare i jiǎozisul piatto di porcellana, sollevando di tanto in tanto lo sguardo su di lei come per controllare che fosse ancora lì, in aperta indifferenza.
«Your master, maaas-tah, where-
«C'è qualche problema, ma'am
Lei si voltò con uno scatto talmente brusco che Yao sentì le sue articolazioni scricchiolare, poi si rilassò di colpo.
«Oh, eccovi qua, sir» sospirò, dando le spalle a Nunu e senza rivolgere uno sguardo a Nilufar.
«Mi cercavate?»
«I signori si domandavano dove fosse finito, è quasi ora di pranzo.»
«Oh, devo essermene dimenticato. Che imbarazzo.»
Nilufar continuò a fissarla braccia conserte, e voltò il mento verso Yao «Che sta dicendo?».
«Mi cercavano per pranzo, mǔmā.»
«Se avesse provato a dirlo in mandarino magari si poteva evitare di disturbare nǎi-nai con tutto questo baccano, povera donna.»
Mrs Grendel seguì il loro scambio spostando lo sguardo da Yao a Nilufar e viceversa, poi tossì avvicinando un pugno chiuso alla bocca.
«Sir?»
«Potreste dire loro che pranzerò qui?»
Lei sgranò gli occhi e inclinò il capo, come frastornata. «Pranzare... qui, signore?»
«Sono sicuro che sir Arthur starà benissimo anche in mia assenza.»
«Pranzare... uh – si portò due dita alla fronte – come volete voi, sir.» E detto ciò fece cenno a tutti gli altri di iniziare il servizio, girò i tacchi e si avviò su per le scale.
«Che donna orribile» sentenziò il signor Li mentre accatastava il pentolame da lavare.
Nilufar gli lanciò un'altra occhiata obliqua, poi tornò a rivolgersi a Yao. «Ma che le hai detto?»
«Solo che pranzo qui, devo averla stordita.»
Nunu saltò sul posto. «Pranzi qui?»
«Voglio dire, se non è un problema.» Yao si rese conto solo allora, e con un certo imbarazzo, di essersi autoinvitato.
«Nessun problema, xiǎohuǒzi – Li Feng gli posò una mano callosa sulla spalla coraggio, aiutami a chiudere i húntun¹⁰, sei magro come un manico di scopa.»
«Un momento, voi due – Nilufar li additò con un indice nodoso – non è educato lasciare in asso gli ospiti. I tuoi genitori saranno molto contrariati, xiǎo –
A interrompere la ramanzina di Nilufar fu un “gē-ge¹¹!” urlato dai piedi delle scale e seguito da uno scalpitare di suole sul pavimento. La vocina apparteneva a Xiaoyu, il più giovane dei Li. «Che ci fai qui, gē-ge
«Gē-ge resta a pranzo.»
«Nunu!»
Giocandosi la carta Xiaoyu, Nunu era riuscita e innescare un'infinita supplica che aveva costretto Nilufar a cedere. Così Yao si arrotolò le maniche della camicia sulle braccia, si lavò le mani e si posizionò accanto al signor Li per chiudere gli húntun.
 
Le ricette di Nilufar non seguivano quasi mai la tradizione. Quella era riservata ai piatti inviati di sopra, destinati a palati esigenti. Ciò che a questi palati non arrivava, verdure avanzate e frattaglie di anatra, veniva trasformato in brodo e ripieno per i ravioli, oppure cotto insieme a quello che Yao e i bambini chiamavano Riso Anti-Spreco Alla Nilufar. Dentro a quelle quattro mura Yao aveva imparato a tagliare le carote, a eviscerare il pesce, a chiudere i ravioli, a trasformare gli scarti in piatti e i piatti in mezzi di cura. Al piano di sotto il cibo diventava una dimostrazione d’affetto che ai ricchi sfuggiva.
A tavola due posti erano rimasti vacanti. Erano quelli dei gemelli, Gaosu e Nuli, entrambi a Shanghai per lavoro. Il primo si era arruolato nell’esercito, la seconda lavorava come badante di un anziano signore presso una famiglia di alta estrazione per potersi pagare gli studi.
Durante il pranzo la tavola diventava teatro di chiacchiere e risate sgraziate, e ogni commensale a turno diventava oggetto di battute che avevano l’effetto di far soffocare Xiaoyu con il tè. Alla fine del pasto quest’ultimo si arrampicò su una sedia per recitare, a grande richiesta del signor Li, una poesia di epoca Tang che apparteneva a un libretto che Yao gli aveva regalato per il compleanno. Xiaoyu aveva sbagliato qualche tono e in alcuni punti aveva balbettato, ma il resto dei commensali aveva comunque applaudito. Quando la sua esibizione terminò, Nunu corse a recuperare un vecchio volume da dentro una cassapanca e lo riconsegnò a Yao. Si trattava de Il viaggio in Occidente¹², un romanzo che Yao aveva letto a tredici anni nell’arco di una settimana circa, e che Nunu stava riconsegnando al proprietario dopo un intero anno, insieme a un dizionario. Considerando che Nunu doveva aver fermato la lettura ogni cinque parole circa per cercare pronuncia e il significato dei caratteri sul dizionario, e che l’intero romanzo contava più o meno trecentottanta pagine, a Yao quell’intero anno sembrava un tempo da record.
Yao si era complimentato con entrambi. Aveva detto che se si fossero impegnati abbastanza, sarebbero riusciti a finire gli studi e magari anche a frequentare l’università a Shanghai come Nuli. A quell’affermazione la tazza di Nilufar ha emesso un tintinnio. Lei sorrise, ma Yao sapeva che qualcosa la turbava.
«Quando sarete entrambi intellettuali colti e felici, ragazzi miei, non scordatevi della vostra vecchia e stupida māma.»
«Tu non sei stupida, māma.»
«Mi stai dando della vecchia, Xiao Yu?»
Il ragazzino si lanciò in una serie di goffe scuse che ebbero il merito di interrompere la tensione. Più tardi, però, mentre Yao e Nilufar lavavano i piatti in giardino, lei approfittò del fatto che fossero soli.
«Vorrei che smettessi di parlare ai ragazzi di università e cose così.»
Yao sollevò il capo dalla pentola di rame che stava strofinando «Come?».
«Lo so che non condividi.»
«No, infatti.»
«Che succederà quando sapranno di non poter studiare? Glielo dirai tu, o dovrò farlo io?»
«Scusa, mǔmā, non capisco di che parli. Nuli studia a Shanghai.»
«Sì, e per poterselo permettere pulisce il culo a un vecchio. – l’acqua nella tinozza ondeggiò, e sotto la superfice i piatti tintinnarono. Nilufar si passò una mano bagnata sulla fronte, portando i capelli grigi sotto l’hijab – Non sono pronta a vederli sconfitti, xiǎo Yao, non è giusto. Gli stai raccontando delle bellissime favole, ma prima o poi si accorgeranno che a quelli come noi non serve recitare poesie. E quando accadrà non sono sicura che riuscirò a restare a galla.»
Yao l’aveva osservata in silenzio da dietro i ciuffi scuri che gli ondeggiavano davanti al viso, vide le profonde rughe sulla fronte e attorno agli occhi. In quel momento aveva compreso che anche se avesse pranzato ogni giorno in casa dei Li, anche se avesse portato loro tonnellate di libri, anche se avesse lavato tutte le loro stoviglie e lucidato ogni angolo della casa, dopo il pranzo sarebbe andato a lavarsi via il puzzo delle verdure e della frittura e si sarebbe fasciato di seta come tutti coloro che abitavano di sopra, mentre Nilufar e i suoi si portavano addosso quell’odore di miseria ovunque mettessero piede. Era troppo facile cucinare al loro fianco e vendere sogni, per poi chiudersi alle spalle la porta della cucina e continuare la propria vita da re.
 
 
***
 
 
«Dove sei stato?»
Yao voltò pagina senza staccare gli occhi dal libro che stava leggendo. Era seduto a gambe accavallate sul divanetto che aderiva alla ringhiera di legno del porticato, e che lo separava dall’acqua verdognola del fiume. Suo padre, seduto sulla poltrona di fronte a lui, aveva aperto gli occhi e si era costretto a resistere al sonno del primo pomeriggio.
«A pranzo dai Li. Credevo te l’avessero riferito.»
«Intendevo prima, e guardami quando ti parlo.»
Yao sollevò lo sguardo sulla figura squadrata di Wang Long.
«Ero in paese, ho lasciato un biglietto.»
«Sei sparito tutta la mattina. Tua madre era in pensiero.»
«Mi dispiace.»
«È tutto quello che hai da dire?»
Yao ci pensò un attimo. In effetti sì, quello era tutto. Che altro avrebbe potuto aggiungere? Mi dispiace che Lanhua sia una paranoica e che tu sia un maniaco del buon costume? Mi dispiace avervi offeso perché ho preferito pranzare con gente normale? Mi dispiace averti fatto fare una brutta figura col leccapiedi europeo che ti sta attaccato come una sanguisuga e che dal canto suo non si degna neanche di imparare le basi delle nostre consuetudini? Non ebbe il tempo né il fegato di dare voce a quel monologo, perché Long si era passato una mano sul viso e aveva lasciato che le palpebre gli calassero sugli occhi.
«Ne discutiamo un’altra volta» disse, e dopo poco si riaddormentò da seduto, come un vecchio, con la bocca semiaperta e il respiro pesante. Yao si perse un attimo ad osservarlo, e si domandò come avrebbero reagito tutti gli studenti del padre, i docenti dell’università di Nanchino e i ricchi borghesi con cui faceva affari e si intratteneva in divertimenti raffinati, a vedere l’onorevole e ammirato professor Wang Long dormire in quella maniera indecorosa. Fu sollevato nel notare che almeno non aveva iniziato a parlare nel sonno. Mentre ragionava su questo notò con la coda dell’occhio che qualcuno si avvicinava.
«Kiku-san.» lo salutò, forse un po’ troppo gelido.
«Buongiorno, Yao-san. Non ti ho visto oggi a tavola.»
Yao chiuse il libro e lo posò sul tavolino di fianco a lui, accanto al servizio da tè. Ormai era evidente che non sarebbe riuscito a finire la lettura. «Non c’ero» rispose secco, mentre si tastava le tasche per trovare le sigarette. Si accorse di essere stato brusco al limite della cortesia, così si affrettò a correggere il tiro: «avevo bisogno di una pausa, ecco tutto. Ma credo di essermi comportato da imbecille.»
«A tutti capita di lasciarsi sopraffare, ogni tanto. Non prendertela troppo con te stesso, Yao-san
Yao si voltò a guardarlo per la prima volta, e fu anche la prima volta nell’arco della giornata che qualcuno gli si rivolgesse con quel tono lenitivo. Si accorse che Kiku era vestito all’occidentale, e che reggeva tra le mani un volume che Yao aveva visto più volte sfogliare da Li, un’edizione de Il grande Gatsby in lingua originale. Per pura formalità, prima di prendere la propria sigaretta dal pacchetto lo porse all’altro, e di certo non si sarebbe aspettato che lui accettasse. Yao non poté trattenersi dal sollevare un sopracciglio.
«Tu fumi?»
«Qualche volta.»
Così Yao raschiò rapidamente il fiammifero sulla scatola, poi lo avvicinò al viso di Kiku con le mani a coppa. Osservò la luce della fiammella dipingergli il volto di arancio con pennellate delicate e la sua espressione di porcellana mentre inspirava il fumo. In quel momento Kiku sollevò gli occhi su di lui, fu solo un attimo, ma accadde ciò che Yao aveva previsto e proprio come lo aveva immaginato. Ovvero, il volto di Kiku si deformò nell’arco di una frazione di secondo e lui cominciò a tossire in maniera irrefrenabile, come se stesse espellendo l’anima a colpi di tosse.
Per quanto Yao si sforzasse di trattenersi, fu impossibile impedirsi di lasciare esplodere una risata, una di quelle soddisfacenti che giungono dall’addome, passano dal petto e fuoriescono da ogni parte del viso. E non era che trovasse divertente il fatto che Kiku si fosse smascherato da solo nel tentativo di impressionarlo, non era mai stato un sadico, ma vedere interrotto quel momento di silenzio e poesia da una scarica di colpi di tosse sguaiati e dall’espressione inumana dell’altro gli aveva fatto dimenticare tutto il malumore accumulato in giornata. Incredibile che Long stesse ancora dormendo.
Nel frattempo Kiku si era coperto il viso con una mano, dandogli le spalle mentre ancora tossiva. Yao si rese conto di quanto doveva sentirsi umiliato, e così gli versò una tazza di tè e gliela porse.
«Ecco, prendi.» disse. Lui mormorò un grazie soffocato e bevve a piccoli sorsi, senza guardarlo. Allora Yao aggiunse: «Devi scusarmi, è solo che mi hai ricordato quando ho fumato anch’io per la prima volta. Credo di aver distrutto un servizio da tè. Era su un tavolo e io mi ci sono appoggiato, sai, per la tosse e tutto. Ora che ci penso credo di aver rotto anche quello.»
Kiku si lasciò scappare un risolino, e Yao seppe di aver rimediato con successo. Lo invitò a sedersi con un gesto della mano e lui prese posto sul divanetto.
«Non credevo ti piacesse Fitzgerald.»
«Oh, è la prima volta che leggo qualcosa di suo. Me l’ha prestato tuo fratello.»
Yao si accese la sigaretta e sventolò il fiammifero. «È il suo romanzo preferito, – disse a labbra serrate – tutto quello che sogna è lì dentro. A volte ho paura che possa dimenticare la sua identità.»
Non che Yao fosse contrario a prescindere allo stile di vita occidentale, anzi. In quegli anni sosteneva per primo che le istituzioni e la mentalità dei cinesi necessitassero di avvicinarsi ai modelli europei, eppure l’idea di trattare il loro passato e le loro tradizioni come una zavorra, come si ostinavano a guardarle certi suoi colleghi universitari, lo ripugnava. Ma la verità, e questo l’avrebbe ammesso a se stesso solo molto tempo dopo, era che l’idea che Li andasse in giro attaccato al bastardo britannico e che pendesse dalle sue labbra invece che da quelle del suo fratello più anziano gli faceva prudere le mani peggio di un paio di guanti di ortiche.
Kiku mostrò un sorriso pacato e chinò il capo, per poi risollevarlo in un gesto timido. «È strano sentirti parlare così, Yao-san. Credevo sostenessi che la Cina deve rinnovarsi guardando a ovest.»
Yao espirò una nuvola di fumo. «Lo penso davvero, – disse – ma dimenticare noi stessi è un altro discorso. Un uomo molto più saggio di me una volta disse: studia il passato se vuoi divinizzare il futuro.»
Kiku annuì con lo stesso sorriso. «Confucio.»
Restò a guardarlo un momento mentre capelli di fumo passavano tra loro. Non si aspettava quella risposta. «Esatto» mormorò, continuando a guardarlo. In realtà tutta quella situazione era alquanto inaspettata. Lo stesso ragazzo che fino a una settimana prima l’aveva trattato con assoluta sufficienza ora sembrava investire anima e corpo nel tentativo di avere una conversazione con lui.
«E dunque tu non leggi romanzi occidentali?»
«Romanzi? – Yao liberò un’altra nuvola di fumo – oddio, per la verità ho letto più saggi che romanzi. Sai, Marx, Engel. Di Marx ho proprio letto tutto. Come romanzi apprezzo molto i lavori di Joyce e Woolf, ma ecco, non sono proprio un appassionato del genere.»
Kiku fece un cenno col mento al libro che Yao aveva posato sul tavolino. Il sogno della camera rossa, di Cao Xueqin¹³. «E quello?»
«Questo? Beh, questo fa eccezione, in realtà sto rileggendo i passaggi che mi hanno colpito di più.»
«Dicono sia una meraviglia.»
«Lo è eccome. Se dovessi scegliere tra l’Honglou meng e tutta la bibliografia di Marx… beh, metterei al rogo Marx e tutto il resto del mio sapere.»
Kiku aveva posato la guancia su un palmo. Aveva qualcosa nel suo sguardo, una strana iridescenza sul fondo dell’iride, mentre lo ascoltava parlare in silenzio. Qualche secondo dopo che Yao finì di parlare, come a volersi assicurare che avesse detto tutto, Kiku mormorò: «sei un uomo davvero ambiguo, Yao.» E forse era rivolto più a se stesso che a lui, come a volersi confermare qualcosa che pensava già da molto tempo.
Yao si versò una tazza di tè. «Allora chissà cosa penserai dei miei genitori – sorrise – credo che mia madre sia la donna più ambigua che tu abbia mai conosciuto. Ho ragione?»
Lui sembrò colto alla sprovvista. «Oh. Ehm, ambigua non saprei, diciamo che è molto diversa dalla classica donna giapponese, non so se mi spiego.»
«Anche dalla classica donna cinese. Credo sia l’unica attrice di teatro a non piangere ai funerali, eccetera. Per questo dicevo che è ambigua. Ma non solo, – si affrettò ad aggiungere – tante cose. A cominciare dal fatto che rivendica il diritto di vivere come le pare, ma non vuole che la si chiami femminista o cose così, capisci che intendo?»
«Capisco.» disse, e rimase qualche secondo a osservare Wang Long russare sommessamente sulla poltrona di vimini. Poi aggiunse: «Pensi che lei e tuo padre si amino ancora?» A quel punto Yao deve aver fatto una faccia stranita molto vistosa, perché Kiku si affrettò a parlare ancora. «È una domanda stupida, mi dispiace. Non farci caso, davvero non so perché l’ho detto.»
«Ma figurati, non… non hai detto nulla di oltraggioso, e comunque ti rispondo lo stesso.» Yao non si era accorto di star carezzando il bordo della tazzina col pollice. «Amarsi dici? Diciamo che non sono sicuro che a una certa età si possa parlare di amore. Voglio dire, sì, magari un tempo si saranno anche amati, o comunque credo che ci fosse dell’affetto tra loro. Non prendermi per un romantico, so che molte coppie ora come ora si mettono assieme per interessi economici o cose così, però i miei hanno un vissuto particolare, sai. Entrambi hanno studiato all’estero, e poi venivano da famiglie molto aperte di mente, insomma. Però non saprei dirti se tra loro ci sia mai stato un gran trasporto, ecco, sicuramente c’è stato del rispetto, come adesso. Ma credo che a un certo punto resti solo quello.»
«Hai un’idea un po’ cinica dell’amore.»
«Credimi, di me puoi dire tutto tranne che sia cinico.» Temendo di essersi esposto troppo, Yao trovò presto il modo di spostare l’attenzione sull’interlocutore. «Che mi dici dei tuoi? Pensi si amino ancora.»
«In realtà non saprei davvero. Mia madre è morta quando avevo nove anni, perciò non ricordo molto di lei.»
«Oh.» Yao stava per dire “mi dispiace”, ma Kiku doveva essere ben deciso a non innescare il processo di commiserazione a cui, prima di allora, doveva aver assistito innumerevoli volte, perché riprese a parlare in fretta.
«E mio padre, ecco. Lui è un tipo un po’ freddo, faccio sempre molta fatica a capirlo. Non fraintendermi, non è che sia un orso o altro, solo che non è facile interpretarlo.»
«Davvero non hai ricordi di tua madre?»
«So che suonava il koto¹⁴. E ovviamente che amava molto i fiori, quando era in vita a Kyoto avevamo un giardino molto bello. Lo abbiamo tutt’ora, ma non è la stessa cosa.»
«Per questo ti ha chiamato Kiku?»
Lui sembrò rimanere stordito per un momento. «Come?»
«Vuol dire crisantemo, giusto? Il mio giapponese è un po’ arrugginito.»
Dopo qualche secondo Kiku annuì. «È corretto – disse, e poi un velo di tristezza gli si posò sugli occhi mentre ancora annuiva – erano i suoi preferiti. Ecco. Questa è un’altra cosa che ricordo di lei.»
Yao rimase in silenzio, nascose il viso dalla vista dell’altro. Era sicuro che se fosse rimasto a guardarlo lui lo avrebbe colto mentre vacillava, fosse anche per un momento. Che strano ragazzino. Così giovane eppure del tutto privo di quella spensieratezza tipica dell’innocenza. E nonostante a Yao apparisse evidente che fosse un tipo ingenuo, non riusciva ad associare alla sua persona la leggerezza adolescenziale. Doveva essere pieno di contraddizioni anche lui.
Yao gli versò un po’ di tè nella tazza, che durante quella pausa era stata quasi svuotata. «Devi andarne fiero – mormorò, come se gli stesse rivelando un segreto – È un fiore nobile.»
Kiku sollevò lo sguardo su di lui, un filo di vento passò tra loro. Mentre guardava il proprio riflesso dentro alle sue iridi scure, Yao ebbe la sensazione di aver già vissuto quell’esatto momento milioni di volte.
A un tratto, accadde qualcosa di imprevisto. Dalla poltrona di Wang Long si sollevò un’improvvisa ronfata, e subito dopo una frase detta a una velocità fotonica, e nonostante ciò quasi comprensibile (con il silenzio del pomeriggio e l’acustica quasi teatrale del porticato era impossibile non sentire), qualcosa come “andiamamangiare… – un respiro dal naso – i nani”. Capirono che Long stava parlando nel sonno. Sul momento Yao non aveva detto nulla, era rimasto a osservare interdetto suo padre che si stirava e si rimetteva comodo. Poi, voltandosi, aveva visto la faccia di Kiku deformata dal colossale sforzo d trattenersi dal ridere. Allora, per qualche motivo che gli era ignoto, Yao decise di mungere quella mucca fino all’ultima goccia.
«I nani, bà-ba
«Mh.»
«E dove?»
«Al tempio di Confucio
«Di Nanchino?»
«Di Pechino
Kiku ormai aveva ceduto, e con una mano sugli occhi aveva lasciato che una risata sibilata facesse da sottofondo a quella conversazione delirante.
«È un po’ lontano, bà-ba
«Basta Yao, ti prego.»
«Come ci arriviamo da qui a Pechino?»
Un rantolo, «Con le ginocchia.»
«Con le –
E a quel punto Yao gettò la testa in avanti, mentre la sua risata scrosciante faceva eco a quella asmatica di Kiku. Un momento prima gli stava decantando le virtù del crisantemo in quell’atmosfera da dramma hollywoodiano, un momento dopo discuteva di nani serviti per cena al tempio di Confucio da raggiungere sulle ginocchia. In quel momento si accorse se Kiku aveva gli incisivi inferiori storti, e che quando rideva gli si formavano due fossette sulle guance. E capì, mentre osservava gli spasmi del suo addome, che aveva sbagliato a giudicarlo come un ragazzino presuntuoso e insignificante. In realtà era solo un timido, uno che cercava spasmodicamente un contatto quasi impossibile da trovare.
«Perché mi guardi così?»
Yao sbatté le palpebre un paio di volte, Kiku ancora sorrideva. In quel momento capì una terza cosa, si rese conto di aver cercato di piacergli per tutta la durata della conversazione. E Kiku doveva essersi accorto che Yao non avrebbe risposto, perché si alzò in piedi, si inchinò, e disse che aveva qualcosa da fare. Così si allontanò, le ombre delle colonne interrompevano di tanto in tanto la luce sulla sua nuca scura e sulle spalle, e Yao non si sarebbe mai aspettato ti vederlo voltare il capo e il torso e camminare di lato per qualche secondo, solo per guardare verso di lui mentre se ne andava.
 
 
 
 
 
____
Note:
 
  1. Lo Xinjiang è una regione nel nord ovest della Cina dove convivono numerose minoranze etniche, è collegata all’Afghanistan tramite un piccolo corridoio di terra, ed è inoltre la regione da cui passava la famosa via della seta;
  2. Mǔmā: zietta, viene usato anche per riferirsi affettuosamente a una donna di una certa età;
  3. Xiǎo: “piccolo”, prima di un nome proprio assume un’accezione vezzeggiativa;
  4. Xiǎohuǒzi: “ragazzo”;
  5. Mántou: pane cinese al vapore;
  6. Xiānsheng: “signore”, appellativo di cortesia;
  7. Nǎi-nai: “nonna paterna”, “nonnina”, anche in questo caso non si tratta della vera nonna di Yao, ma di un modo affettuoso per rivolgersi a una persona anziana;
  8. Curiosità: il testo fa riferimento a un tipo di moneta che è stata per la prima volta introdotta durante la dinastia Qin (221-207 a.C) e che è rimasta in uso fino all’istaurazione della Repubblica Popolare (1949); il foro centrale era di forma squadrata e contribuiva a una doppia funzione: da un lato permetteva di legare le monete tra loro con una corda, da un altro voleva rappresentare la Terra, che secondo il pensiero cinese tradizionale è quadrata, mentre la volta cinese è sferica (ed è quindi rappresentata dalla restante parte della moneta);
  9. Jiǎozi: ravioli cinesi;
  10. Húntun: chiamati anche wonton, ravioli in brodo;
  11. Gē-ge: “fratello maggiore”, “fratellone”, vale il discorso sopra;
  12. Il viaggio in Occidente, pubblicato in Italia anche come Lo Scimmiotto, è un romanzo di epoca Ming attribuito tradizionalmente a Wú Chėng’ēn, che vede protagonista lo scimmiotto di pietra Sun Wukong (per i giapponesi Son Goku), e che negli anni è stato di ispirazione per serie tv, fumetti, anime e manga, il più famoso dei quali è senz’altro Dragon Ball (Scimmiotto/Sun Wukong, come Goku, viaggia su una nuvola, possiede un bastone magico e indossa un diadema che lo costringe ad ubbidire al monaco Xuanzang, nell’anime trasposto nel personaggio di Bulma);
  13. Il sogno della camera rossa è un romanzo di epoca Qing e fa parte dei quattro grandi romanzi tradizionali, insieme a Il viaggio in Occidente, il Romanzo dei Tre Regni e Sul bordo dell’acqua, anche conosciuto come I briganti; si tratta di un’opera talmente carica di significati da aver dato vita a una branca di studi incentrata unicamente su questo romanzo, e che rappresenta un’enciclopedia della quotidianità e degli usi della società cinese dell’epoca;
  14. Il koto è uno strumento a corde giapponese appartenente alla famiglia delle cetre e derivato del guzheng cinese.

Ritorna all'indice


Capitolo 3
*** Capitolo II - La montagna blu ***


Capitolo II
La montagna blu
 
 
«Alzati.»
Yao gli toglie di dosso la coperta, lo espone al freddo del mattino primaverile. Kiku ha la testa indolenzita e la prima cosa che avverte quando si sveglia è il vuoto del dente mancante sulla gengiva. Si alza a sedere senza emettere un suono. Dal riflesso torbido sul vetro della finestra di fronte a lui può vedere Yao tirarsi le bretelle sopra la canottiera.
«Muoviamoci.» dice mentre infila la testa nello scollo del maglione bianco. Così Kiku ha pochi minuti per sciacquarsi il viso con l’acqua della borraccia e prendere due bocconi di mántou. All’inizio ha sperato di potere resistere al graffiare della fame contro il suo stomaco, ma Yao deve aver capito che stava di nuovo tentando la strada dell’autodistruzione.
«Abbiamo un’ora di cammino, se svieni per la fame ti trascino fino a Qingshan per un piede.»
«Non lo faresti.»
Yao ha posato sul tavolo la borraccia di metallo con un tintinnio. «Non puoi immaginare cosa farei.»
E così Kiku ha mangiato. Che altro poteva fare? Lasciarsi trascinare sulla polvere come Ettore il massacratore sarebbe di gran lunga più umiliante. E non ha nessun interesse a provocare uno che ha tranciato la testa a quaranta soldati giapponesi nel giro di qualche minuto. Mentre ha formulato questo pensiero ha strappato un pezzo di mántou con più forza del previsto. Davvero ha pensato questo di Yao, il giovane uomo che recitava poesie e conosceva il significato dei fiori? Il pane gli diventa colla tra le fauci. Cosa gli è capitato? Quando si è separato dalla sua natura benevola da re? È degenerato in un barbaro immorale, come tutti quelli da cui i suoi superiori e suo padre lo hanno messo in guardia, oppure è sempre stato empio, e Kiku non se n’è mai accorto? E tuttavia, mentre attraversano in silenzio la campagna, Kiku deve impegnarsi per sopprimere l’eco delle parole della scorsa notte, che gli strisciano sottopelle e gli stringono il cranio con artigli da lupo.
Demoni.
Cos’hanno fatto per meritarsi tutto questo veleno?
Ma tutto quel rimescolare di valutazioni si arresta in modo brusco di fronte alle porte di ciò che un tempo dov’essere stato un villaggio, e che ora appare come un cumulo di mattoni e ferraglia sparso sul suolo. I pochi muri ancora in piedi sono crivellati di fori da proiettile, qualcuno conserva ancora la corona nera lasciata dallo scoppio delle granate, qualcun altro ha stampato addosso il sangue rappreso di chi è stato lì prima di loro. In quei minuti di vuoto girovagare tra le stradine deserte, Kiku è convinto di aver visto pochi luoghi così silenziosi nella sua vita. L’unico rumore percepibile è quello del vento che passa attraverso le rovine delle case, e le crepe lo deformano in un lamento spettrale.
Qingshang.
Gli è stato detto che questa parola può significare “montagna blu” o “collina verde”, ma allo stesso tempo può indicare le gioie della vita, la giovinezza, la vivacità dei luoghi fisici e spirituali. Sembra assurdo pensare che un tempo quelle rovine dovevano ospitare tutto ciò.
«Pensi che ci sia ancora qualcuno?»
Yao lo ignora. Al suo posto risponde l’improvvisa apparizione di un uomo di mezza età da una stradina che taglia parallelamente quella su cui si trovano loro. L’uomo è imbacuccato in un chángpáo1 di lana, ha lo sguardo basso mentre spinge una carriola ricolma di fagotti bianchi. A Kiku basta uno sguardo per riconoscere la forma di corpi ben coperti dai sudari, gli stessi che ha visto trasportare per l’ospedale militare innumerevoli volte.
Yao alza un braccio nella sua direzione. «Mi scusi,» lo chiama. Lui solleva il viso occhialuto verso di loro, un riflesso del sole sulle lenti gli copre lo sguardo mentre Yao si appresta a chiedergli indicazioni. Ma prima che lo sconosciuto possa rispondere, d’improvviso sembra rendersi conto della presenza di Kiku dietro all’interlocutore. Allora il volto gli si apre in un’espressione tesa, e con una forza che pare sproporzionata per quel corpo mingherlino spinge la carriola precipitandosi a tutta velocità lontano da loro.
Kiku solleva un sopracciglio. «Ma che gli è preso?»
«Ha visto la divisa, ecco che cazzo gli è preso.» Yao ondeggia sulla stampella continuando a dargli le spalle. Si fruga nella tasca alla ricerca delle sigarette, e anche dopo essersi acceso la sua dose quotidiana di veleno continua a non guardarlo e a borbottare imprecazioni. Kiku si passa un pollice sotto al naso, braccia conserte. Vorrebbe chiedere: ora cosa facciamo? Ma è sicuro che se si lasciasse sfuggire un fiato in un momento del genere Yao lo inchioderebbe a un muro col miao dao. Mentre concorda con se stesso che la cosa migliore da fare è cercare anche lui le sigarette nella giacca, nota un bagliore verdognolo, appena percettibile, macchiare la ghiaia in un punto trai suoi piedi. Così poggia un ginocchio a terra e con una mano guantata raccoglie quello che ha tutto l’aspetto di un orecchino di giada verde. Lo sporco incrostato sulle finiture rivela in qualche punto l’oro sottostante, il pendente, grande come una falange, è circolare e cavo all’interno come quelle vecchie monete dentro alle quali si passava una corda per tenerle insieme. Per qualche motivo decide che vale la pena conservarlo nella tasca della divisa, come un cimelio. Quando risolleva lo sguardo, pronto ad alzarsi, il gioiello quasi gli cade dalle mani di fronte alla vista di due paia di occhi.
Sbarrati e vicinissimi tra loro, appartengono a due bambine rintanate sotto alle macerie di un edificio, strette l’una all’altra. Restano a osservarsi in silenzio per almeno cinque secondi, la più grande tra loro ha una mano premuta sulla propria bocca e l’altra su quella della compagna. Kiku interrompe quel momento di stallo quando si accorge che lei, la più anziana, ha lo stinco destro rigato di sangue incrostato.
«Yao!»
Le bambine sussultano all’unisono e sembrano volersi rintanare ancora di più sotto ai rottami. Nonostante barcolli ancora sulla stampella, Yao gli si getta accanto in pochi secondi. Quando le vede sembra vacillare anche lui per un brevissimo attimo.
«Presto, aiutami a tirarle fuori.»
Una per volta le ragazzine vengono prese da sotto le ascelle e messe a sedere su un masso squadrato. La più anziana delle due sembrerebbe avere dodici o tredici anni, ha lo sguardo spento e tutta l’aria di avere la febbre. L’età della piccola, invece, si aggira attorno ai cinque. Emettono entrambe un olezzo vomitevole di fogna, come se si fossero tuffate dentro al canale. A giudicare dall’aspetto umidiccio degli orli dei vestiti dev’essere successo davvero. Yao posa lo zaino a terra e ci fruga dentro alla ricerca del kit medico.
«Parlate mandarino?» chiede. La più anziana annuisce, non ha staccato gli occhi da Kiku un secondo, né ha lasciato la mano della più piccola. Non ha mai visto degli occhi così.
«Io sono il tenente Wang Yao, e lui è il caporal maggiore Honda. Perché non mi dite come vi chiamate?»
Ma la più grande non sembra sentirlo, sta ancora guardando Kiku. È piena di paura, ma non solo. Per la prima volta in vita sua si sente come spogliato e fustigato di fronte a un giudice, sente che la ragazzina di fronte a lui gli legherebbe una corda attorno al collo e darebbe un calcio alla sedia che lo sostiene, se ne avesse il potere. E dunque, quella ragazzina è piena di paura, sì, ma al tempo stesso ha più coraggio ad affrontare in quel modo un soldato nemico di quanto lui ne abbia mai posseduto in tutta la sua vita. Kiku non ha tempo di meditare su quanto sia ingiusto essere odiati per qualcosa che non si ha commesso, perché Yao ripete la domanda.
«Come ti chiami, tesoro?»
«Yu Mo. Lei è mia sorella Yu Meihua.» Ha una vocina minuscola e rauca da uccellino mutilato.
«Avete entrambe nomi splendidi. – Yao stira il viso in un largo sorriso – È una fortuna, davvero. Nessuno si sentirebbe di torcere un solo capello chi ha nomi così belli. Ma qui qualcuno ha la febbre! Come vi viene in mente di tuffarvi nel canale a marzo?» Intanto ha tirato fuori dal kit garze, cotone e disinfettante. Kiku ha conservato un pezzo di mántou dentro a un fazzoletto di stoffa. Lo tira fuori da dentro la divisa, si toglie il guanto per porgere il pane alle ragazze. Meihua allunga la manina paffuta verso di lui, ma in un attimo Mo la cattura nella sua, piccola e sottile, e la abbassa sul proprio fianco. Yao ha osservato la scena mentre bagna il cotone col disinfettante.
«Da quanto tempo eravate lì sotto?»
«Tre giorni.»
«Tre giorni. E immagino che non abbiate avuto molto da mangiare, ho ragione?»
Ha ragione, sì. Con quella fronte bollente e la gamba martoriata, Mo potrebbe svenie da un momento all’altro, ed è un miracolo il solo fatto che sua sorella non sia ferita o febbricitante anche lei. Kiku spezza il panino con tre dita, prende quel pezzetto minuscolo e se lo porta alla bocca senza staccare gli occhi da Mo. Solo alla fine, quando ingoia il boccone, Mo si convince a prendere la pagnotta tra le mani e dividerla tra lei e sua sorella. Mentre Yao le disinfetta la ferita non emette alcun suono.
«Avete qualcuno che si occupa di voi?»
«Mamma.» Meihua ha parlato per la prima volta, ha una voce sottile come quella della sorella, ma ancora più acuta.
«Oh. E dove potrebbe essere mamma adesso?»
Mentre Yao le avvolge la gamba con le garze, Mo manda giù l’ultimo boccone e si passa una mano sul muso. «Vivevamo con lei e mia sorella Lan vicino al canale.»
«Vicino al canale.»
«Sì.»
«E poi cos’è successo?»
Mo si volta a guardare Yao per la prima volta. «Sono arrivati i giapponesi.»
C’è un lungo momento di silenzio nel corso del quale Kiku può giurare che stia passando qualcosa tra loro, un muto dialogo in mezzo ai loro sguardi, mentre Yao è inginocchiato in quel modo di fronte a lei, con le mani intrecciate sul suo ginocchio purpureo. Sembra quasi che lui le stia chiedendo perdono. Guardando quel loro scambio silenzioso dall’esterno Kiku avverte un brivido percorrergli la colonna vertebrale e sollevargli tutti i peli delle braccia.
«Ci siamo tuffate nel canale appena li abbiamo sentiti entrare.»
A quel punto Kiku può giurare di aver sentito Yao sospirare. È stato un soffio impercettibile, insieme all’abbassarsi delle sue spalle, ma reale. Solo allora capisce che qualcosa di orrendo sta per venirgli addosso come un treno, e che non è pronto a sopportare l’impatto. Ma Yao si batte le mani sulle cosce e stira la faccia in un sorriso artefatto fino all’ultima ruga. «Bene! Allora dichiariamo aperta la missione: cerchiamo mamma e Lan. Meihua, tu sarai il nostro generale.» esclama, e con queste parole si toglie il cappello e lo cala in testa alla bambina.
«Ma signore – Meihua si sistema meglio il copricapo sopra la fronte – non dovrebbe essere Mo il generale? Lei conosce la strada.»
«Giusta osservazione. Allora Mo sarà il generale, e tu, Meihua, il colonnello. Bene, – fa per imbracciare la stampella e passare un braccio sotto al sedere di Mo per sollevarla – allora per prima cosa… ah
Kiku sussulta. Ma a cosa stava pensando? Non sarebbe mai riuscito a portarla, è già un miracolo che riesca a trascinarsi dietro l’equipaggiamento.
«D’accordo. D’accordo, va bene, va tutto bene. – mentre parla Yao cerca di sopprimere una smorfia di dolore; deglutisce e accosta trionfalmente la mano tesa alla fronte – Generale Mo, signora, ho paura che per stavolta sarà il caporale a portarla.»
«Il caporale?»
«Signorsì.»
Allora Kiku decide di assecondarli esibendosi in un saluto militare rigido e caricaturale, poi si mette in equilibrio sui calcagni e si allunga verso di lei. Mo però scatta all’indietro come una seppia. «Non mi toccare!» soffia. Kiku ha un sussulto. È stato talmente rapido che non ha avuto modo di elaborarlo, come una frustata in faccia. Si dà dell’idiota: come può aver combattuto tra cannonate e colpi di mortaio e reagire così per l’insolenza di una ragazzina? Eppure, anche dopo questo tentativo di darsi un contegno, la sferzata continua a bruciare.
«Mo.» Con quel tono è evidente che Yao stia avendo serie difficoltà a continuare a giocare.
«È giapponese!»
«Esatto, e io sono storpio.»
«Non mi faccio portare da lui, non esiste. Gli dica di non toccarmi.»
«Mo.» Yao le prende il viso tra le mani e lei si volta a guardarlo. Lui ha la stessa posa da penitente di un minuto fa. «Adesso ascoltami. Vi devo portare da qualcuno che possa aiutarvi, e non posso farlo da solo. Hai bisogno di cure mediche, tu e tua sorella non mangiate da giorni, e io ho una ferita sulla schiena che non mi permette di muovermi come vorrei. So che sei arrabbiata, e che sei spaventata e che non stai bene, ma se vogliamo andarcene da qui allora devi fidarti di me.»
Così dopo averlo guardato negli occhi per un po’, Mo abbassa lo sguardo. Allora Kiku si volta da seduto, e indietreggiando sui calcagni accosta la propria schiena al ventre della ragazzina. Quando le braccia di Mo gli passano attorno al petto, lui la afferra per l’incavo delle ginocchia e si mette in piedi con un colpo di reni, prima che Yao si tolga la cappa per posarla sulle spalle di entrambi. Mentre camminano sa che quell’orrore che si preannunciava poco prima non l’ha ancora toccato.
 
 
***
 
 
Il cappello di Yao sulla testa di Meihua dondola da tutte le parti. Ogni tanto la tesa le cade sugli occhi e lei deve risistemarselo in modo che le salti sulla nuca a ogni passo. All’inizio Kiku era quasi convinto che fosse muta, ma adesso si chiede come abbia fatto a pensare una cosa del genere, perché da quando hanno iniziato a camminare la bambina non ha smesso di parlare un secondo. Racconta di tutto, di tutto. Che Lan ha diciassette anni ed è una sbadata cronica, che con mamma litigano perché mette il sale nel tè, le scarpe nella credenza e perde i calzini quando li lava, e quindi è costretta a indossarli spaiati. E poi non distingue bene i colori, come il verde e il marrone, e una volta si è presentata a una festa con un qípáo verde brillante e calze, cappello e guanti rossi, e quando mamma l’ha vista arrivare ha dovuto riportarla a casa correndo. E che con Mo litigano sempre.
«Non è vero.»
«Dici sempre che è inaffidabile e buona a nulla.»
«Sta’ zitta.»
«È la verità.»
«Qualche volta mi arrabbio perché è sempre distratta. Non significa che lo penso davvero.»
C’è un momento di silenzio brevissimo, poi Meihua riprende a pigolare, stringendo più forte la mano di Yao. «Però sai… Lan è buona come lo zucchero. Ed è anche generosa. Una volta le ho detto che mi piacevano i suoi guanti, e sai che ha fatto? Il giorno dopo me ne ha preso un paio uguale della mia misura.»
«Ma i suoi erano marroni, a te li ha presi viola.»
«Perché non distingue i colori. Ma mi ricordo che aveva messo da parte dei soldi per comprarsi un cappotto, capito? E invece con quelli mi ha preso i guanti.»
Mentre si avvicinano a un ponte, in lontananza torna il cigolio della carriola. Meihua si solleva la tesa del cappello dagli occhi per cercare quelli di Kiku. «Ehi, – lo chiama – ehi, pss. Ma tu sai contare?»
«Come?»
«Lan dice che i giapponesi non sanno contare.»
Kiku le sorride, spostando le braccia sotto alle ginocchia di Mo, così da avere le mani libere. «Certo che so contare. Guarda, – inizia a contare con le dita – uno, due, tre… novantaquattro, ventisei, diciassette…»
Meihua apre la bocca a forma di “O” e resta in apnea per un secondo, poi dà uno scossone alla mano di Yao. «Hai visto, allora è vero che non sanno contare! Che ti dicevo, Mo, che ti dicevo?»
«Siamo arrivati.»
Si arrestano all’unisono di fronte a un insieme di edifici bruni a schiera che si affacciano sul canale simili a palafitte, collegati da ponticelli e scale di legno. Mo indica la porta di casa col dito ossuto, gli infissi sono tutti sbarrati. Yao fa cenno a Kiku di metterla a sedere sulla panchina di ghisa vicino a loro. Lui lo asseconda, poi Yao si sgranchisce la schiena.
«Bene, adesso inizia la seconda parte della missione: battere il caporale al gioco del silenzio mentre il tenente cerca mamma e Lan.»
Kiku gli rivolge un’occhiata storta «Come?»
«Voglio venire anch’io!»
«Meihua – la bambina si volta a guardare la sorella con un broncio pronunciato, Mo però non si lascia incantare – facciamo come dice.»
Yao lo ha ignorato, e di nuovo ammicca alle bambine. «Benissimo. Allora io adesso vado lì dentro, e quando ritorno voglio sapere chi ha vinto.»
Ma Kiku tenta di avvicinarsi all’orecchio largo di lui per mormorare: «Senti, parliamone un secondo.»
«Attente al caporale, è difficilissimo batterlo.» E così Yao gira i tacchi e si dirige su per le scale di legno.
«Wang!» Niente. Kiku distorce la mascella alla vista della sua schiena ondeggiante che si allontana. Ancora non gli è chiaro se Yao sia un pazzo o uno che si è stancato di vivere, perché solo una delle due alternative può giustificare il fatto di star cercando delle persone dentro a un ammasso di case buie, dove potrebbero nascondersi soldati ancora incolumi, da solo e barcollando su una stampella. Stringe i pugni, la pelle dei guanti produce uno stridio. Quando si volta verso le ragazze Yao è già sparito sul retro degli edifici.
«Voi cominciate la gara, io torno subito.»
«Il tenente ha detto di non muoverci.»
«Il tenente non si accorgerà di nulla, promesso.» dice ammiccando, e girandosi di tanto in tanto a guardarle percorre la stessa strada di Yao. Passando accanto alle finestre fa attenzione a chinarsi a gattoni. Quando gli è accanto, sul lato dei porticati rivolto al fiume, lui sta caricando il fucile.
«Wang –
«Che diavolo ci fai qui sopra?» sibilla.
«Potrebbero esserci dei soldati!» Kiku risponde bisbigliando anche lui.
«Non mi dire! Per questo dovevi guardare le ragazze.»
«Se pensi di affrontarli da solo allora devi essere completamente–
«Chiudi la bocca! – Yao si piazza un indice di fronte alle labbra contratte – Se ci tieni ad aiutarmi allora non dire una parola. Mi sono spiegato?» Kiku lo guarda con le palpebre a mezz’asta e dopo aver preso un respiro dal naso annuisce. «Bene. Sappi che se succede qualcosa alle ragazze la colpa sarà tua.»
Si mettono entrambi spalle al muro, sopra di loro ondeggiano lanterne rosse. Yao infila la canna del fucile nella fessura della porta scorrevole. Dopo un lungo momento di attesa deve aver appurato che non c’è pericolo, perché con la mano fa segno a Kiku di seguirlo all’interno. La prima cosa che avverte, dopo aver varcato la soglia ed essere entrato nel buio denso, è un odore pestilenziale, rivoltante, al punto che Kiku si preme una mano sul muso appena l’olezzo inizia a pizzicargli le narici.
«Cos’è quest– ah!» Il legno sotto di lui cede, e si ritrova con una gamba incastrata nel pavimento. Deglutisce. «Merda.»
«Sei tutto intero?»
«Sembra di sì – dice mentre libera la gamba dal buco che guarda il fiume – Riesco a muovermi.»
«Bene.»
Ma quando Yao tira giù le tende, inondando la stanza di luce fredda, Kiku fa un balzo all’indietro, il cuore gli martella le orecchie. A una visione del genere non avrebbe potuto prepararlo niente, nessun avvertimento, nessun addestramento. Di fronte a lui compare un viso opalino di ragazza, ha gli occhi sbarrati e le labbra violacee. Kiku vorrebbe distogliere lo sguardo, ma per qualche motivo si trova incatenato a quella visione orrida, i capelli incollati alla fronte, il collo contornato di sangue rappreso, la congestione delle mani chiuse a pungo. Il corpo nudo. Non ha mai visto un corpo trattato con tale crudeltà.
«Lan.»
Voltandosi si accorge che sulla parete alla sua sinistra sono appesi dei poster di donne nude, una foto di Hirohito2 e un drappo che raffigura un sole rosso splendente su sfondo bianco3. A ridosso del muro, una tinozza d’acqua, per terra è stato abbandonato un fundoshi4. Una sensazione di sporco lo avvolge, si sente storcere lo stomaco e stringere le tempie. Ha riconosciuto ognuno di quegli oggetti, li ha visti nelle tende dei suoi compagni e nella sua, persino in casa, e ha un fundoshi addosso in questo momento, identico a quello sul pavimento.
Cerca Yao con gli occhi. Lo trova di fronte alla finestra, in piedi con il capo chino e le spalle curve. Oltre la sua figura opaca in controluce, una sedia si frappone tra lui e la finestra. E su quella sedia un’altra donna, nuda anche lei, riposa col mento sul petto azzurrognolo, i polsi legati ai braccioli di legno. Anche lei vestita di sangue.
Kiku deglutisce a fatica. «Quanto…»
«Due giorni.»
La voce di Yao è roca, bassa come un tenore. Kiku lo vede scuotere la testa in un gesto debole, per poi lanciare in aria la tenda e lasciarla cadere morbida come un mantello su quel povero corpo. Poi, con pazienza, Yao le slaccia i polsi dalla sedia. Vedendolo fare quei gesti calcolati, Kiku si chiede quante altre volte li abbia ripetuti con lo stesso rispettoso distacco, la stessa muta rassegnazione. Yao si gratta la nuca, sembra esitare.
«Senti, sei in grado… riesci a spostarle sui letti?»
No, non è assolutamente in grado di fare una cosa del genere. Ha trasportato decine di compagni sulle spalle, ha strisciato in mezzo ai loro corpi putrefatti e infestati di larve durante la battaglia, ha visto il sangue, ha visto molto altro, ma l’idea di toccare quelle persone così ridotte gli dà la nausea.
«Certo.»
Così solleva quel fagotto con estrema delicatezza, come se potesse ferirla ancora con un movimento brusco, trasportandola come una sposa occidentale. La posa su uno dei letti a baldacchino addossato alla parete, l’uno di fianco all’altro. Poi si avvicina a Lan – oddio, Lan – e le prende le caviglie con la stessa cura. Ma appena guarda in basso vede qualcosa che gli fa perdere la presa e i talloni di lei si abbattono sul pavimento.
«Oh mio Dio! – esclama, voltandole le spalle e portandosi le mani agli occhi – oddio.» In quel momento di assenza si sarebbe anche scusato con lei per averla lasciata cadere, se solo non avesse avuto in testa tutt’altro.
«Va tutto bene – Yao gli è accanto in un secondo – ehi, shhh. Guardami. Ci penso io, tu voltati, non guardare.»
E così Kiku resta immobile a osservare la parete di fronte a lui, mentre alle sue spalle avverte un suono orrendo. Ancora una volta, sembra che Yao abbia fatto questa cosa migliaia di volte, come una prassi, che ormai esegua ciò che va fatto in modo meccanico. Portano sul letto anche lei, avvolta da un lenzuolo che hanno trovato in un cassetto. Insieme a quello ci sono delle candele rosse e una scatola di fiammiferi, bastoncini d’incenso, una fotografia sbiadita. Un paio di guanti viola.
La foto ritrae i volti pacati di cinque persone, e vedendo quelli Mo e Meihua in basso hanno la conferma di aver trovato chi cercavano. Insieme a loro, chiuso nel riquadro bianco, un uomo sulla trentina avvolto nella divisa dell’esercito Nazionale deve essere (o essere stato) il padre delle ragazze. Così Yao dispone la foto e le candele sulla cassettiera che separa i due lettini, sistema l’incenso sul piattino di metallo e, dopo aver acceso questo e le candele, entrambi si inchinano tre volte di fronte alla foto. Yao ha conservato i guanti.
Appena si richiudono alle spalle la porta d’ingresso e vengono avvolti dalla luce grigia, Kiku avverte la netta sensazione di vuoto allo stomaco di quando guardi in basso mentre ti arrampichi su un precipizio. Così corre verso il bordo del pontile e cade in ginocchio. Prima ancora di elaborare cosa sta accadendo ha già svuotato lo stomaco sul canale, ad è talmente preso dal disgusto per il sapore di bile da non accorgersi che Yao gli tiene la fronte con una mano. Tossisce, il viso umido di sudore, e quando si volta e poggia la schiena sul palo della balconata, mettendosi a sedere, Yao gli allunga borraccia e fazzoletto.
«Sciacquati la bocca.» dice senza guardarlo. Kiku invece lo guarda, dal basso, come il suddito penitente di un brillante sovrano, e si chiede quante altre volte Yao abbia sopportato viste del genere, quanti corpi innocenti abbia seppellito e onorato e quanti e quali altri orrori ancora possa testimoniare. E quel gesto, si chiede, questa premura da fratello nei confronti di uno che indossa la stessa divisa di chi si è macchiato di tutto questo, da dove sorge?
Kiku prende borraccia e fazzoletto, si sciacqua la bocca e sputa nel canale, poi si tampona le labbra con la stoffa. Quando ha finito nota che Yao si è acceso una sigaretta.
«Che facciamo con…?» Kiku non finirà la frase.
Yao inspira la nicotina in un tiro profondo. «Me ne occuperò domani. Non possiamo seppellirle di fronte alle bambine, ma t’immagini.» Per un lungo momento non si avverte rumore oltre quello dell’acqua che scorre sotto di loro, Yao è ancora di spalle quando parla di nuovo. «Io torno da loro. Senti – si gratta il sopracciglio con l’unghia del pollice – è meglio se non ti fai vedere così dalle ragazze.»
Così al rumore dell’acqua di sommano i passi scomposti di Yao che si allontana, accompagnato dal ritmico abbassarsi della stampella sul legno. Kiku si passa una mano sul viso, cerca le sigarette nel taschino della giacca, e quando si accorge che il pacchetto è sparito impreca a denti stretti, e d’istinto tira una testata al palo dietro di lui. C’è un piccolo tremore di assi e un po’ di polvere piove dal soffitto e gli sporca i capelli e le ginocchia, così si gratta il naso col palmo della mano. Dal retro delle palafitte, la voce di Yao taglia il silenzio.
«Generale Mo, signora, non le ho trovate. Bisogna continuare a cercare.»
 
 
___
Note (non siate troppo sollevati, nei prossimi capitoli potrebbero tornare i miei papiri a fine capitolo):
  1. Il chángpáo, o chángshān, è il tradizionale abito manciù maschile, usato in Cina durante la dinastia Qing e nei decenni successivi alla caduta della stessa;
  2. Conosciuto anche col nome di Shōwa, Hirohito fu il 124° imperatore del Giappone e comandante dell’esercito imperiale dal 1941 al 1945;
  3. Introdotta nel periodo Edo, la bandiera del Sole Nascente è la bandiera militare giapponese, considerata simbolo di buon auspicio; divenne bandiera nazionale durante il periodo Meiji;
  4. Il fundoshi è una sorta di perizoma maschile tradizionale giapponese, si tratta di un unico pezzo di stoffa lunga due metri;
Prima di salutarci ci tengo a fare una precisazione: sicuramente la reazione di Kiku all’episodio degli ultimi paragrafi può sembrare fuori contesto, e qualcuno potrebbe vederci un buco di trama. Ecco, volevo assicurarvi che tutto troverà una spiegazione nei capitoli successivi, verso la fine della storia. In attesa di ricevere un parere vi mando un buffetto affettuoso, al prossimo lunedì <3
 
 
(Si spera.)

Ritorna all'indice


Capitolo 4
*** Capitolo III - Il salto ***


Note d'apertura: vi ho fatto aspettare una vita, scusate. Non cercherò di giustificarmi, ma se posso spezzare una lancia a mia difesa allora chi trai lettori frequenta l'università ha un'idea del perché di tanto in tanto sparisco. Non temete, comuque, questo delirio prima o poi avrà una fine, devo solo trovare il tempo e la motivazione per metterla su pixel. Chiuso questo monologo, vi lascio al capitolo.
 



Capitolo III
Il salto
 
Un guizzo di adrenalina è stato per anni tutto ciò che Kiku si è permesso di ricordare dell’estate passata nel Jiangsu. La vetta, il salto, il vuoto. E quel picco di vita è stato ciò che si è ripromesso di conquistare negli anni a venire. Ora, attorno al ricordo di quella caduta effimera, si delinea tutto un contorno che fino ad adesso Kiku si è sempre impegnato a non disturbare.
Fu un giorno in cui il caldo torrido si era annunciato già al mattino, accompagnato dalle urla dei galli. Solo una settimana prima Kiku aveva vissuto un contatto anomalo col maggiore dei Wang. Durante quei brevi momenti aveva compreso che forse quest’ultimo poteva essere di una natura meno divina rispetto a come lo immaginava. Umano. Almeno questo era quel che testimoniavano i resti di quella conversazione. E non riusciva a togliersi dalla testa l’idea che anche Yao, come lui, avesse cercato un contatto.
E quel contatto si era manifestato nei giorni seguenti attraverso le mura dell’ufficio di Yao, tra l’odore della carta di tutti i volumi ben custoditi nella libreria di noce e quello dell’inchiostro sui rotoli di carta appesi alle pareti e recanti i testi di poesie di epoca Song. Sullo sfondo di quelle fini pennellate, opera di Yao, Kiku era venuto a conoscenza di una serie di piccoli dettagli sul suo ospite. Primo, che l’accento di Pechino aveva origine dal fatto che Wang Lanhua era pechinese, e che per un periodo Yao aveva vissuto nella capitale del nord1. Secondo, nutriva una segreta passione per i classici greci, dai poemi epici al teatro di Sofocle e Aristofane, eredità passatagli da un professore italiano ad Oxford.
«Così alla fine Achille fora i tendini al cadavere di Ettore e se lo trascina attorno alle mura di Troia.»
«È orribile.»
«Sì, ma ha senso se pensi che Ettore gli ha ucciso Patroclo. Non dico che sia giusto, ma è coerente se ci metti quello che hanno condiviso. Achille e Patroclo, intendo.»
«E cosa hanno condiviso?»
Yao non aveva risposto.
«Comunque io non mi immolerei mai per morire in un modo del genere. Voglio dire, Ettore lascia vedova sua moglie con un bambino, e la sua famiglia perde un figlio e un fratello e un principe, e tutto per la patria.»
«E io che ti credevo un patriota.»
«Quanto siamo pungenti! E sentiamo, Kiku-san, tu te la sentiresti di buttarti in pasto al nemico pur sapendo che il tuo cadavere verrà sbranato dai cani e lasciato a seccare al sole?»
«Non lo so. Non so cosa sarei disposto a fare per l’Impero.»
E terzo: Yao aveva un vero talento per metterlo in difficoltà.
Comunque. Tutto partì dal tavolo della colazione, che quella mattina aveva assistito al chiacchiericcio dei commensali prima del solito. Il signor Arthur sfogliava una copia del London Times che gli era stata spedita per posta, ormai vecchia di un paio di giorni.
«Ma legge il giornale a tavola?» Dalla sedia accanto alla sua, Mei aveva borbottato in mandarino.
Li rispose senza staccare gli occhi dal piatto. «È un’usanza dei britannici.»
Un colpo di tosse. Honghui si sistemò gli occhiali sul naso. «Meglio se la smettiamo.»
«Di fare cosa?»
«Non è educato parlare in una lingua che non tutti i commensali capiscono.» Questa volta a parlare era stato il signor Wang, e fu subito seguito dallo stridio dei piedi della sedia di Yao sul pavimento, mentre lui si sistemava meglio sul posto.
«Quindi non è educato parlare la nostra lingua madre?»
Il signor Wang sollevò il mento nella sua direzione, mentre la signora Wang alzava gli occhi al cielo. «Yao.»
«È una domanda lecita.»
«Ti prego, non ricominciare.»
«Sto solo chiedendo. Anche perché, se proprio volete la mia opinione –
«No, ma tu ce la dirai comunque.»
«Se volete la mia opinione… a mancare di educazione qui è chi non si sforza di imparare la lingua e i costumi delle persone lo ospitano ogni santa estate e si premurano di assicurargli una buona vacanza.»
«Non mi importa di chi manca o meno di educazione, fintanto che non si tratti di voi – il signor Wang sollevò il tono della voce – non voglio sentirvi parlare ancora in mandarino di fronte a ospiti occidentali, mi sono spiegato?»
«E tu perché lo fai?» Gli occhi di tutti i commensali si spostarono in sincrono sul posto di Li, talmente coordinati da rendere udibile il suono delle pupille che ruotavano. Lui sbiancò, e sembrò farsi più piccolo sulla sedia. «Era una battuta stupida. Scusate.»
Il signor Arthur voltò pagina con un mezzo sbadiglio, sembrava del tutto indifferente al dibattito in lingua straniera che si era svolto oltre i fogli del suo giornale. «Ci sono attrazioni di qualche tipo nei dintorni?»
«C’è un posto carino sullo Yangzi – Li rispose pronto come per un esame – una spiaggetta sul fiume. Non è lontano, in bicicletta basta mezz’ora.»
«Sembra l’ideale per rilassarsi.»
«Lo è – confermò Mei – un posto magico, davvero.»
Il signor Arthur sbuffò, e muovendo la testa a destra e sinistra produsse uno scricchiolio di muscoli. «Mi ci vorrebbe proprio.»
Yao alzò gli occhi al cielo. Rimase in silenzio, e perciò tradì le aspettative di Kiku di sentirgli borbottare una battuta acida. Doveva essersi trattenuto per non innescare tensioni col signor Wang, a cui ancora tremava l’occhio dopo la risposta sgradita di Li.
«Perfetto, allora – Lanhua stirò le labbra vermiglie in un sorriso – potreste organizzare una gita. Magari oggi stesso.»
Wang Long si tamponò i baffi col tovagliolo. «Yao vi accompagnerà» disse, ed era chiaro che quella doveva essere la punizione per il monologo contro il signor Arthur di prima.
Dal posto accanto al suo, Kiku udì Yao soffocare un colpo di tosse. «Io veramente –
«Vieni anche tu, Kiku-san?» Mei si era stretta nelle spalle.
Kiku schiuse le labbra, esitante, mentre accanto a lui Yao prendeva sorsi profondi di tè. Quando posò la tazza sospirò, a voce bassa per non farsi sentire dal signor Wang: «Ti prego non lasciarmi solo con lui.»
«Ehm…» seguì un lungo istante di silenzio, durante il quale Kiku si ritrovò addosso gli occhi di tutti i commensali, e comprese come doveva essersi sentito Li poco prima. «Insomma… sembra una vera occasione.»
 
 
***
 
Lungo il tragitto Honghui spiegò che il signor Wang aveva scoperto la spiaggia sul fiume per puro caso, anni prima, durante un’escursione. All’epoca Yao aveva solo sei anni, e da quel momento in avanti l’atollo era diventato la tappa fondamentale dell’estate. A giudicare dai racconti dei Wang, sembrava che nessuno al di fuori di loro conoscesse l’accesso per quel piccolo angolo di mondo, o che nessuno si fosse mai disturbato a imboccarlo. L’accesso in questione era un antico sentiero che il tempo aveva sepolto di frasche, ulteriormente nascosto dall’illusione ottica creata dalle canne di bambù attorno ad esso, che a un occhio distratto potevano apparire come un muro, invece che un recinto. Per arrivarci bisognava farsi strada in mezzo ai fusti torreggianti di un campo di sorgo rosso.
Mentre spingevano le biciclette in mezzo a massi arrotondati, Kiku vide che Yao stava rallentando per giungere di fianco a lui, le ombre longilinee delle canne di sorgo si intervallavano sulla sua schiena.
«Stanco?»
«Sto bene, Yao-san. Grazie per averlo chiesto.» In realtà, dopo aver pedalato per mezz’ora, i polpacci avevano preso a pulsare da un po’, e all’epoca Kiku non era abituato a muoversi come durante l’addestramento. Comunque, l’idea di mostrare la resistenza di un matusa di fronte al gruppo – di fronte a Yao – non lo entusiasmava. Formulando questo pensiero fu impossibile negare a se stesso che sperava di piacergli.
«Grazie di essere venuto. Spero che tu non te ne stia pentendo.»
«Affatto – un po’ se ne pentiva – ma davvero hai tutta questa paura di restare da solo con lui?»
«Non la metterei così. Diciamo piuttosto che ho paura di spingerlo da un ponte durante il tragitto.»
Kiku rise. «E cosa cambia se ci sono anch’io?»
«Potresti tirare fuori una perla di saggezza delle tue. Una cosa tipo “non lasciarti sopraffare da sentimenti ignobili Yao-san”.» disse, imitando la parlata controllata di Kiku, e calcando un accento giapponese che entrambi sapevano non essere così marcato nella realtà.
«Quindi vuoi che ti reciti un analetto? Pensavo li sapessi a memoria.»
«Allora potresti aiutarmi a spingerlo di sotto.»
Kiku gli dette una lieve spallata, entrambi sghignazzarono. Poco dopo, dalla testa del gruppo, Honghui fece sapere che erano arrivati a destinazione.
Si trattava di una lingua d’acqua azzurrina che si allungava dentro a una radura, fiancheggiata da una distesa di sassolini bianchi, in alcuni punti sporcati dall’emergere di ciuffi d’erba e dalle foglie brune di bambù lì depositate. Mentre Kiku sistemava su una stuoia l’album e il materiale da disegno, chiuso in una borsa di cuoio, uno scrosciare d’acqua dietro di lui lo fece sobbalzare. Voltandosi si accorse che, su una rampa di terra che si affacciava sul lato profondo del fiume, Li aveva preso la rincorsa, lasciandosi dietro strati di vestiti, e si era tuffato in acqua. E si accorse anche che tutti gli altri presenti si apprestavano a seguirlo. Il secondo tuffo venne eseguito da Mei, che sotto alla camicia e alla gonna a balze aveva rivelato di indossare un costume rosso che la copriva fino a metà coscia.
Kiku cercò lo sguardo di Yao. Lo trovò che si stava svestendo anche lui, e vide che gettava camicia e pantaloni in un angolo su una stuoia stesa con poca cura. Quando si voltò batté le mani come un pittore che guarda gli strumenti da lavoro pronto a dare vita all’opera. Poi, vedendolo ancora tutto coperto, inclinò la testa di lato.
«Che fai ancora vestito?»
«Non abbiamo parlato di questo.» Dal modo in cui le guance gli bruciavano Kiku immaginò di essere arrossito come una verginella.
Yao si lasciò scappare un risolino. «E che credevi di fare su un fiume? Su, togliteli.»
«Non ho un costume!» bisbigliò.
Yao si indicò con le mani aperte. «Ma hai visto che porto la biancheria? Avrai qualcosa lì sotto.»
«Yao!»
«Qual è il problema?»
Gli occhi di Kiku viaggiarono dal mento appuntito di lui al profilo azzurrognolo della montagna in lontananza, fino alle alghe verde brillante su un masso a ridosso dell’acqua, stando ben attenti a non posarsi sulle spalle lucide di Yao. «Non mi sembra appropriato» disse infine.
Yao gli diede una spintarella fiacca che lo costrinse a fissare lo sguardo sul candore dei sassi ai suoi piedi. «Sei troppo giovane per preoccuparti di cosa è appropriato. Andiamo.» E così lo superò per incamminarsi verso lo scoglio.
Kiku prese un respiro ad occhi chiusi, e strinse le labbra prima di voltarsi e tentare l’ultima strada possibile.
«Yao…»
«Sì?»
«Non so nuotare.»
Yao non rispose subito, e in quegli attimi che intercorrevano tra quella confessione e la sua reazione Kiku avvertì la voglia distinta e palpabile di darsi una legnata in testa. Si era ormai imbarcato verso una giornata all’insegna dell’umiliazione personale, ecco a cosa pensava mentre Yao si scioglieva i capelli sulle spalle e camminava verso di lui. Di questi movimenti si accorse solo guardandolo con la coda dell’occhio, perché il suo sguardo era rimasto relegato sulle cuciture della sua borsa di cuoio abbandonata all’ombra del canneto. Capì che Yao gli si era fatto vicino quando la sua figura lo coprì in parte dal sole, poi sentì che col fianco del piede dava un colpetto al suo. Ancora una volta sembrava del tutto padrone dei propri gesti e della situazione.
«Ti tengo io.»
E a questo punto Kiku non sa dire cosa sia successo con esattezza. Non ricorda che si siano detti qualcosa dopo, o in che modo si è svestito, sa solo che a un certo punto Yao gli ha teso la mano, liscia come il latte, e che subito dopo lui era coperto solo dal fundoshi bianco, e ricorda l’aria che gli si spostava attorno mentre correva dietro a Yao con la mano nella sua, ricorda i sui talloni rotondi bagnati dal sole che calpestavano l’erba sulla rampa di terra e poi il vuoto, i capelli alti sulla testa e lo stomaco al posto del cuore e il cuore al posto del cervello. E mentre annaspava sotto la superfice, e la luce filtrata dall’alto arrivava sui loro volti perlacei in raggi verdognoli, Kiku si rendeva conto che mai aveva percepito una connessione alla vita più forte e profonda di quella che lo aveva colpito in quei brevissimi istanti di vuoto.
A questo pensava, mentre sott’acqua i capelli di Yao disegnavano ghirigori di seppia attorno al suo busto, e subito dopo, quando emergendo dalla superfice vide che quegli stessi capelli gli coprivano gli occhi. Per toglierseli dalla faccia e dalla bocca Yao dovette passarci sotto una mano, e così Kiku si accorse che da quando avevano toccato l’acqua lui l’aveva sorretto con entrambe da sotto gli avambracci, perché in quel momento avvertiva la mancanza del braccio di Yao sotto al suo.
«Non mi lasciare.» sussultò, e muoveva i piedi sott’acqua in un modo ossessivo che faceva sembrare che saltasse sul posto.
«Non ti lascio.»
Yao rimise il braccio dov’era prima, scalciando per portarlo verso la riva. Kiku lottava per tenere la faccia sopra le onde, l’idea dei metri che lo separavano dal letto del fiume lo immobilizzava. Yao però non demordeva neanche di fronte a quella rigidità da bambino, gli spiegò come muovere le gambe e le braccia per mantenersi a galla, con pazienza, e quando furono entrambi in grado di toccare i sassi coi piedi, Kiku si accorse che Yao l’aveva sorretto in minima parte.
 
***
 
Le stuoie non erano spesse abbastanza da livellare la sensazione dei sassi che premevano contro la schiena, e l’umidità dei costumi e della biancheria le macchiava in alcuni punti. Honghui e Li si erano portati un mazzo di carte da gioco e avevano coinvolto il signor Arthur. Yao fumava, completamente esposto al sole, e quando Mei uscì dall’acqua gli lanciò addosso il suo asciugamano.
«Sei troppo abbronzato – commentò – ti si riempirà la faccia di macchie.»
Yao glielo tirò indietro e si scansò i capelli umidi dalla fronte. «Invecchieremo tutti, prima o poi.»
«Tu però ti impegni!» rilanciò Li da dietro una spalla.
Yao scosse la testa e inalò un tiro di sigaretta. Vedendo che aveva cambiato posizione Kiku spostò la mano sul foglio d’album che teneva in grembo, e tracciò con un gesto deciso la curva della colonna vertebrale di lui, poi posizionò l’asse delle spalle e dei fianchi e li riempì con pochi segni curvi e rapidi, altre due linee morbide per l’addome e una per il cranio, e con la matita, grassa, distesa su un fianco, ricreò le ombre sulla figura e i ghirigori di capelli appiccicati alla schiena.
«Cosa disegni?» sussultò talmente forte che temette di ingoiare la lingua. Yao gli si era avvicinato furtivo come un gatto, ma non aveva allungato il collo oltre il bordo dell’album come si sarebbe immaginato. Kiku esitò: si trovava combattuto tra la mortale paura di rivelargli che lo stava osservando e il desiderio irrefrenabile di mostrargli che era bravo in qualcosa. Si grattò il collo con la punta della matita, e si trovò a pensare che forse se glielo avesse mostrato Yao non si sarebbe accorto che l’insieme di tratti sporchi e scuri rappresentava lui. Così girò l’album.
«Quello sono io?»
Ovvio che se ne sarebbe accorto, Kiku lo sapeva, quello che non sapeva era perché aveva deciso di ignorare la consapevolezza di aver partorito una speranza vana pur di sentirsi dire un complimento. Non rispose alla domanda, non ne ebbe il tempo.
«Accidenti. Sei bravo, sai? Che vorresti fare dopo?»
«Dopo?»
«Dopo le superiori. Pensi di prendere una scuola d’arte?»
Kiku si strinse le ginocchia al petto. «In realtà credo che sceglierò ingegneria. A mio padre farebbe piacere.»
«E a te?»
Kiku aprì la bocca a vuoto. Non si era mai posto quella domanda prima di allora, e se anche l’aveva fatto comunque non si era mai impegnato per darsi una risposta sincera. Ogni scelta della sua vita era sempre stata guidata da un principio di dovere, dalla necessità di allinearsi al percorso più consono. Forse Yao aveva ragione, forse alla loro età si è troppo giovani per preoccuparsi di cosa è appropriato. Ma allora cosa significa davvero “appropriato”? Come si fa a distinguere ciò che realmente si è dalla forma in cui si viene plasmati?
Mentre camminava sulla spiaggia di pietruzze bianche fianco a fianco con Yao, dove il fiume bagnava loro i piedi a intervalli, Kiku si rendeva conto di quanto l’idea di sconvolgere lo spazio predisposto gli suscitasse paura. Si rese conto di quanto coraggio richiedeva essere se stessi, come il coraggio che c’era voluto per prendere la mano venosa di Yao nella sua e saltare giù dallo scoglio. Si chiedeva se sarebbe mai stato in grado di trovare quello stesso coraggio ancora in futuro, se sarebbe stato in grado di adeguarsi agli sforzi che la vita richiedeva. E si rese conto che alcune cose che fino a un mese prima avrebbe ritenuto lontane anni luce da lui avevano iniziato da qualche tempo a prendere un assetto più naturale, più giusto. Così come naturale e giusta era quella camminata sotto al sole basso e aranciato con quel ragazzo così lontano da lui e al tempo stesso così vicino, fianco a fianco come fratelli.

Ritorna all'indice


Capitolo 5
*** Capitolo IV - I demoni innocenti ***


Capitolo IV
I demoni innocenti
 
Mo dice che sua madre è cattolica, che prima che arrivassero i giapponesi era sua abitudine andare in chiesa ogni domenica, e che la chiesa in questione si trova su un isolotto in mezzo al canale, vicino al centro del villaggio.
«Perciò siete tutti cattolici, qui?»
«Quasi tutti. I nostri vicini erano buddhisti.»
Yao sa che l’uso del passato nasconde un significato che non vuole indagare. Kiku continua a portare Mo sulle spalle senza emettere un lamento, ma è chiaro che sta iniziando a vacillare. Non parla da quando hanno lasciato le palazzine sul fiume. Yao non riesce a spiegarsi la sua reazione. È accaduto allo stesso modo per lui, nel ’37. Ai tempi si trovava in un campo profughi a sud. C’era una ragazza, arrivata insieme al fratellino. Lei avrà avuto sì e no sedici anni, aveva sentito dei soldati dire che era arrivata camminando come un automa a piedi nudi col bambino in braccio, immersa fino a metà polpaccio nella risaia e con una macchia di sangue tra le gambe. Al campo profughi Yao le si era seduto accanto con una tazza di tè, lei guardava dritta davanti a sé ed era chiusa in una sorta di mutismo. Poi, spinta da qualcosa di cui Yao ignora tuttora la natura, ha iniziato a raccontare. Yao è dovuto uscire dalla tenda, ha avuto la stessa reazione di Kiku. È come guardarsi dall’esterno.
Guarda il profilo di Kiku con la coda dell’occhio. Si chiede come sia possibile che un uomo, un soldato, che ha combattuto tra le fila di un esercito vomiti per una scena alla quale dovrebbe essersi più che abituato. Yao si chiede se non stia recitando una parte, se non sia tutto un teatrino architettato per impietosirlo. Magari è parte di un accordo col colonnello. Forse è troppo abituato a vedere complotti. L’idea che possa aver simulato tutto sta in piedi solo a metà, eppure si tratta della soluzione che lo rassicura di più. Perché, se così non fosse, allora dovrebbe abituarsi all’idea che Honda non sia un mostro spietato come quelli a cui ha fatto saltare la testa uno per uno. Perché se dovesse sbagliarsi, e se quella che ha visto fosse davvero una pantomima da prestigiatore, allora non potrebbe reggere l’umiliazione di essersi fidato una seconda volta della persona sbagliata.
Presto si ritrovano di fronte al portone di legno scuro e robusto della chiesa, un edificio in stile neogotico con la facciata crivellata da fori di proiettile e il rosone centrale con più vuoti che vetri. Mo spiega che all’interno vive una scolaresca femminile, che le ragazze hanno su per giù la sua età e che si sono trasferite dal Jiangsu insieme al nuovo parroco. Yao dà una piccola spinta al portone, e imboccando l’ingresso si ritrovano subito dentro a un’unica navata, costeggiata da colonne robuste e vetrate variopinte. Sulla destra è presente una scalinata che dovrebbe condurre ai dormitori delle studentesse. Ogni cosa lì dentro è impregnata dell’odore di incenso. Sono ancora spalle al muro quando notano che dal confessionale due figure hanno fatto la loro comparsa. Una, alta e massiccia, appartiene a un occidentale biondo, dai tratti severi e affilati, che, a giudicare dall’abito talare, non può essere che il prete; l’altra, più sottile e minuta, è quella di un giovane anch’egli europeo che non avrà più di vent’anni, capelli castani e abiti civili.
Yao non ha modo di esaminare ancora il mingherlino, perché quando i due si accorgono del gruppetto che li fissa dall’uscio indietreggiano di un passo. Allora il più alto, quello con l’abito da prete, si sporge a sussurrare qualcosa all’orecchio del ragazzino, e lui corre alla loro destra e sparisce sulla rampa di scale.
Yao carezza la testolina di Meihua, ha tolto il cappello e la riga dei capelli è spolverata di crosticine. «Andiamo» dice.
Il biondo si stira le pieghe dell’abito con le mani, da come gli fascia le spalle è evidente che non è della sua misura. Sembra un siluro infilato in un calzino. Yao fa uno sbuffo, arricciando il naso. Ora non è proprio il momento di ridere in faccia a un prete per un pensiero così demente, soprattutto a uno con l’aria di chi può stenderlo con un dito. Ma la voglia di ridere gli passa immediatamente di fronte allo sguardo di ferro di quell’uomo. Lui si schiarisce la voce con la mano chiusa a pugno di fronte alla bocca. «Ni… ni qu.- balbetta, cercando di darsi un tono -ni pu… ehm…»
D’accordo, quindi si tratta di un tentativo maldestro di dir loro di andarsene. Yao gli viene in soccorso. «Parla inglese, padre?»
Lui sembra sorpreso. «Un po’» dice. Dal modo in cui serra la mandibola è chiaro che muore dall’imbarazzo. Comunque, dura poco. «Che cosa volete?»
Avrebbe giurato che i preti fossero portati all’accoglienza e al garbo. «Tenente Wang Yao. Il caporale Honda è un mio ostaggio.»
Kiku si inchina accanto a lui, nonostante il peso di Mo sulla schiena. Il prete sbatte le palpebre un paio di volte, poi parla di nuovo. «Ludwig.»
«Ludwig e...?»
«Ludwig e basta.»
Tedesco, quindi. Ha letto che i tedeschi sono soprattutto protestanti, ma devono aver trovato un’eccezione. Yao fa un cenno con la testa per indicare le bambine «Cerchiamo qualcuno che possa occuparsi di loro. Sono sole.»
Ludwig (e basta) inspira, poi sposta gli occhi da Yao e per squadrare Kiku dall’alto in basso. Quella breve ispezione deve aver dato effetti deludenti, perché Ludwig apre le braccia e indica Mo con il mento. «Dalla a me, forza.»
Kiku non fa in tempo a voltarsi che il prete si è già caricato in braccio la ragazzina, e questo lo fa barcollare, la cappa gli cade da sopra le spalle e si abbatte al suolo con un tintinnio di bottoni. Yao stringe la mascella, ma decide di soprassedere. «Se permette, padre, vorrei scambiare due parole con lei.»
Intanto Kiku si è chinato a raccogliere il mantello. Il prete sistema meglio il peso di Mo sulle braccia, sposta lo sguardo da Yao a Kiku. «Lui deve uscire.»
«Lui resta.»
«Senta, tenente–
«Il caporale è un mio ostaggio, non ho il permesso di perderlo di vista. Lui resta.»
Dire che lo sta facendo solo per tenerlo d’occhio è una bugia da manuale, ma non c’è alcun motivo per dichiarare di star agendo per principio. Per principio, sì, perché il ragazzino ha il diritto di stare lì dentro, disarmato, tanto quanto lui, e quando quel prete salirà sulla scranna da giudice ed esaminerà la storia della vita di Kiku, allora, e soltanto allora, potrà decidere come condannarlo.
Il prete lo guarda fisso per un lungo momento. Mette una gran soggezione con quelle sopracciglia gialline e contratte e il mento squadrato e severo, ma se adesso Yao abbassasse lo sguardo non se lo perdonerebbe mai. Alla fine, il prete scrolla le spalle. «Mi segua.» E si avvia su per le scale.
Yao volta il mento verso Kiku senza guardarlo. «Aspetta qui» dice, e stringendo la manina di Meihua si allontana da lui. Mentre sale i gradini a passo storto è sicuro che Kiku lo stia guardando.
 
Le scale conducono a un portico che si affaccia sulla navata, e su questo stretto corridoio si aprono tre porte che devono condurre alle camerate delle studentesse. Il prete si piazza dietro al primo ingresso e bussa sul legno. Dopo una breve attesa le due ante si socchiudono quel tanto che basta per mostrare il naso e l’occhio sinistro del ragazzino del confessionale. In un primo momento questo apre una delle ante, lo sguardo fisso su quello del prete e il braccio destro nascosta dietro la porta. Solo quando Ludwig gli posa una mano sulla spalla sinistra sembra rilassarsi, e lasciare quindi il nascondiglio dietro al quale stringeva un fucile da caccia.
La stanza ospita effettivamente un dormitorio con letti a castello, sei coppie. Il prete dice qualcosa in tedesco che Yao non comprende, e da sotto ogni letto sbucano fuori due ragazze, che si trascinano sui gomiti prima di mettersi in piedi. Portano tutte una divisa blu e capelli corti a caschetto, viste da lontano potrebbero sembrare un esercito di cloni. Il prete annuisce, sembra compiaciuto. «Good job» biascica, poi posa Mo su uno dei letti. Dopo aver scambiato qualche parola in tedesco col mingherlino fa cenno a Yao di seguirlo fuori.
Prima di obbedire Yao si inginocchia ai pedi del letto su cui è seduta Mo, sorride alle bambine. «Come state?» chiede.
Mo muove le labbra biancastre a vuoto. «Uh… bene, credo.»
«Stanche?»
Le bambine annuiscono. «Quando torniamo a casa?»
«Presto. Però prima dovrete restare qui per un po’. Possiamo provarci, che ne dite?»
«Io voglio tornare a casa.» Meihua arriccia il mento. «Mi manca mamma.»
«Lo so – si schiarisce la gola – lo so, ma adesso non–
«Sono stanca.» Meihua sembra non volerlo ascoltare, l’impresa di calmarla si rivela più complicata di rimettere in riga un qualsiasi soldato in esaurimento nervoso. «Voglio tornare a casa.»
«Non potete tornare a casa.» Yao si morde la guancia. Entrambe le bambine si sono voltate a guardarlo con la bocca socchiusa, in questo momento vorrebbe colpirsi alla fronte con la stampella. «Non adesso, ma ci tornerete. Dovete solo darmi un po’ di tempo, qui sarete al sicuro. Va bene? Solo un po’ di tempo.» Le bambine non rispondono, Yao accarezza loro la testa prima di uscire. Quando è lontano dai loro sguardi si passa una mano sulla fronte e sul collo, china la testa con un sospiro. È un disastro in divisa, ecco cosa pensa mentre raggiunge il prete e si affaccia alla balconata. Da lì può vedere i raggi di sole penetrati dalle vetrate disperdersi in una nuvola d’incenso. D’istinto porta la mano alla tasca dove tiene le sigarette, poi il suo lato ancora razionale gli ricorda di trovarsi in una chiesa.
«Le dispiace se fumo?»
«Sì.»
Ci ha provato.
«Ce l’ha con me, padre?»
«Che faccia tosta. Come si permette a entrare armato nella mia chiesa e trascinarsi dietro quel criminale?»
«È solo un ragazzino.»
«Abbastanza grande da andare in guerra. Non sono ammessi soldati nella casa del Signore, tenente, meno che mai giapponesi. Hanno infranto le leggi dell’uomo e di Dio, e quel ragazzino, come lo chiama lei, ha aderito alle loro idee perverse. Altrimenti non sarebbe qui, non raccontiamoci idiozie.»
Yao sbuffa dal naso, la mascella contratta. «Dunque ha sentito di Nanchino.»
«È da lì che veniamo.» Con la coda dell’occhio Yao nota che il prete stende le dita e le richiude a pugno un paio di volte, sembra un gesto da nevrosi. Forse è un effetto della luce, ma sembra che gli occhi gli siano diventati lucidi. «Ho perso due studentesse a Nanchino, nel ’37. Gli uomini che le hanno uccise indossavano quell’uniforme.»
Yao si passa l’unghia del pollice sotto al naso. Ha fatto meno fatica a tenergli testa in fondo alle scale. Con uomini con quella presenza ti impegni tanto a restare di pietra in attesa di reazioni aggressive da rimanere impreparato di fronte alla fragilità. Yao non ha mai saputo come comportarsi in quelle situazioni, riesce a rendere imbarazzante qualsiasi pacca sul braccio, qualsiasi contatto fisico. Ha sempre mostrato distacco anche di fronte alle disgrazie dei compagni, ha preferito distruggersi le nocche sui muri alla vicinanza corporea.
«Con tutto il dovuto rispetto, padre, non credo che sia il caso del mio ostaggio.»
«Con tutto il dovuto rispetto, tenente, lei non può saperlo.»
Yao distoglie lo sguardo, si umetta le labbra. A questo punto sta diventando difficile contraddirlo. Dal bordo della balconata scorge la figura minuta di Kiku in ginocchio sul pregadio mentre si passa una mano sulla nuca scura. Sembra così piccolo, in mezzo a quella distesa di legno, così piccolo da poterlo schiacciare sotto alla suola di una scarpa. La sua speranza è che non sappia mai che sta indossando i panni del suo avvocato.
«Mi lasci dire, padre, e dovrebbe saperlo anche lei… che alcuni uomini ritengono di conoscere e perseguire il bene in ogni circostanza. Ma per come la vedo io, a prescindere dalla razza, a turno siamo tutti dei demoni per qualcuno e dei santi per qualcun altro. In fondo, la vita non è che una processione a piedi nudi lungo la quale ognuno di noi cerca l’espiazione. Siamo tutti alla ricerca della redenzione.»
Mentre parlava con tono monocorde ha continuato a fissare la schiena scomposta di Kiku. È più facile guardarlo da lì, lo fa sentire meno esposto.
«È salito fin qui solo per dirmi questo?»
«No. Abbiamo trovato la madre e la sorella delle bambine in una casa sul fiume, a sud. Le abbiamo coperte con delle lenzuola ma non abbiamo avuto modo di seppellirle. Sono lì da due giorni.»
Il prete resta in silenzio per una manciata di secondi. «Capisco» dice infine.
«Per favore, non dica nulla di tutto questo alle ragazze. Non sanno niente.»
«Me ne occupo io.»
A dire il vero all’inizio aveva pensato di chiedergli anche di lasciargli trascorrere la notte in chiesa, ma visto come si è sviluppato il discorso una richiesta del genere equivale a farsi accompagnare all’uscio a calci.
«E padre…»
«Was?»
«Conosce un posto dove pernottare in zona?»
Il prete lo guarda fisso per un po’, socchiude le labbra e poi le serra di nuovo.
«C’è una locanda a sud-est. Mi pare che si chiami… c’entrava col giallo.»
Yao si abbassa la tesa del cappello in segno di ringraziamento, poi imbocca le scale. Arrivato in fondo alla rampa si accorge che Kiku è ancora gettato sul pregadio, questa volta con le mani giunte davanti alla fronte. Yao si chiede se sia il caso di interromperlo. Sarebbe più facile restare in silenzio a ridosso della colonna e osservare la curva delle sue spalle. Nella sua vita ha visto tante persone pregare nei modi più svariati, ha visto soldati abbracciarsi da soli e mormorare a denti stretti cose incomprensibili, ha visto Nilufar inginocchiarsi con la fronte sul pavimento, lui stesso si è chinato milioni di volte di fronte ai ritratti dei suoi avi, ma la figura di Kiku in controluce è qualcosa di nuovo, sente che sarà indelebile.
Appena gli è accanto esita un po’ a toccarlo. Quando si convince a posargli la mano sulla spalla, Kiku ha un piccolo sussulto.
«Dobbiamo andare.»
Kiku resta a guardarlo per qualche secondo con quegli occhioni scuri da gufo, Yao si chiede che cosa veda. Poi si alza poggiandosi al legno della panca e facendola scricchiolare. Mentre percorrono la navata Yao vuole togliersi un dubbio: «Non sapevo fossi cattolico.»
«No, infatti»
 
***
 
Quando escono dalla chiesa il cielo ha già iniziato a farsi scuro. L’ammasso grigio che nel pomeriggio ha coperto il sole si è via via perforato fino a svanire quasi del tutto, e la sera si è tinta di blu e rosso. C’è un furgone azzurro nel cortile, ammaccato in qualche punto e arrugginito. A giudicare dalle valigie di attrezzi lì accanto sembra che il prete stia cercando di rimetterlo a nuovo, forse progetta di spostarsi a ovest. Kiku è stanco. Ha insistito per caricarsi lo zaino di Yao sulle spalle, finge che non gli pesi ma lui sa benissimo che è arrivato al limite. È giovane e sprovveduto, ma tenace. Almeno in questo non è cambiato.  
Yao si morde la nocca del pollice. Ma a cosa sta pensando? Anni come quelli che ha visto dovrebbero averlo temprato contro la volubilità della sua giovinezza, e quell’atteggiamento da paladino non fa che recare un torto a tutti gli uomini che ha visto sparire sotto ai colpi di mortaio. Se li ricorda ancora, quei ragazzi. Ogni notte ripete i loro nomi nella sua testa prima di dormire. Dimenticarli sarebbe un’alternativa facile, ma vile. Anche questo fa parte del contrappasso.
Si ridesta in tempo dal suo rimuginare per assistere al momento in cui Kiku perde l’equilibrio sotto al peso dello zaino. Yao lo afferra per un braccio prima che possa toccare terra, lo zaino però cade.
«Va bene, basta così. Lo porto io.»
«Non è necessario.»
«Non ti sto chiedendo il permesso.»
Kiku fa un sospiro e distoglie lo sguardo, si lecca le labbra. Si sposta lo stesso per aiutare Yao a infilare le braccia nelle cinghie. Appena imboccano una stradina si trovano di fronte un palazzo a tre piani che reca l’insegna “Zài Huáng Liàng”, “Al Miglio Giallo”¹, e il sottotitolo “Signore e Signora Meng”. Non ci vuole un genio per capire che si trattava della locanda di cui parlava il prete. Kiku si arresta prima che possano attraversare la strada.
«Senti, mi dai una sigaretta?» aggiunge: «Per favore.»
Yao tira fuori il pacchetto, lo scuote quel tanto che basta per far emergere un mucchietto di sigarette dall’apertura e lo allunga verso di lui. Dopo che Kiku prende la sua Yao si porta il pacchetto alla bocca per tirarne fuori un’altra con le labbra, e preso anche l’accendino si avvicina all’altro con la mano libera a coppa. Kiku inspira con le palpebre a fessura, quando si allontana sbuffa una nuvola di fumo. Yao si accende la sigaretta, deve provarci più volte perché il combustibile dell’accendino sta per esaurirsi.
«Ti ho portato sulla cattiva strada, eh?»
«Non so di che parli.»
«Non sai di che parlo? Non mi sembravi abituato a fumare quando ci siamo conosciuti.»
A Kiku il fumo va di traverso, prende a tossire come un motore guasto, e Yao sa di aver toccato un nervo ancora scoperto. «Ho un déjà-vu
«Vaffanculo.» sputacchia, piegato sullo stomaco.
Yao si accorge di star ridendo solo dopo qualche secondo. Prende un altro tiro scuotendo la testa, Kiku intanto sembra essersi ripreso, perché si rimette dritto. «Sai, – si schiarisce la voce rauca – non credo che quel tipo fosse un prete.»
Yao si gratta il labbro con l’unghia del pollice. «Già, nemmeno io.» Non gli chiede perché lo pensa, e nemmeno prova a motivare quella sentenza, restano in silenzio a guardare la ghiaia con le sigarette tra le dita e le mani lungo i fianchi. Dopo un po’ Yao lancia la sigaretta per terra e la schiaccia col tacco dello stivale, indica la locanda con un gesto del capo. «Sarà meglio muoverci.»
«Wang.» Yao alza lo sguardo verso di lui, Kiku dondola il braccio lungo il fianco in un gesto nervoso. «So che non dovrei chiedertelo.» Yao alza un sopracciglio. «Posso restare ancora un po’ fuori? Solo per finire la sigaretta, poi ti raggiungo.»
Yao lo squadra dall’alto verso il basso, indossa un’espressione marmorea. «Sta’ dove posso vederti.»
Così gli volta le spalle e attraversa la strada. Prima di abbassare la maniglia della locanda lascia un ultimo sguardo nella sua direzione, per trovarlo nella stessa posa rigida in cui l’ha lasciato. Se ne sta già pentendo.
«Permesso?»
La prima cosa che lo accoglie appena varcata la soglia è il tintinnio del campanello sopra l’ingresso. Subito si ritrova in un salotto con divani rossi illuminato dalla vetrata alla sua sinistra. In fondo alla sala un bancone di mogano si presenta sullo sfondo di una credenza e di uno scaffale con le chiavi delle camere. Tutta la stanza profuma di gelsomino, forse a causa del mazzo di fiori nel vaso bianco e blu che poggia sul tavolo da caffè al centro della stanza. Tutto l’ambiente sembra curato, ma in certi punti spoglio. È come se l’oste avesse dovuto in qualche modo recuperare la mancanza di alcuni oggetti mettendo delle toppe dove possibile.
Voltandosi verso la vetrata può vedere Kiku fumare dall’altro lato della strada. È di spalle, appoggiato con l’avambraccio a un palo della luce, il pugno chiuso. Si porta la sigaretta al viso, poi china il capo in una posizione che dà l’impressione che abbia le spalle vacanti, senza la testa in mezzo. Yao lo vede dondolare il piede sulla ghiaia.
«Buonasera, lǎozǒng²
Yao sussulta appena. Da dietro una tendina di perle di legno è apparsa una ragazza sulla trentina avvolta in un qípáo azzurro. Tiene i capelli avvolti in uno chignon ma ai lati della fronte le penzolano due ciuffi fuggitivi. Ha un sorriso gentile e le mani, curate ma forti, giunte sul grembo. Yao conclude che deve trattarsi della signora Meng.
Yao le sorride di rimando. «Buona sera, tài-tai². Tenente Wang.» Le porge la mano dopo essersi tolto il guanto, lei ha una stretta decisa.
«Cosa posso fare per lei, tenete?»
«So che è un po’ tardi, ma servirebbe una camera per due.»
«La signora è qui con lei?»
«Oh no – Yao soffoca l’imbarazzo con una risatina – è un viaggio di lavoro.»
«Oh! In questo caso…» Si volta verso lo scaffale delle chiavi e le passa in rassegna indicandole col dito. Qualcosa dev’essere andato storto, perché a un certo punto si gratta la testa e sbuffa.
«Qualcosa non va, tài-tai
La signora Meng si volta di scatto. «Oh, nulla che non si possa risolvere. Facciamo così: mentre io cerco una soluzione lei può gustarsi una tazza di tè. Lo gradisce al gelsomino?»
«Molto volentieri, grazie.»
La signora Meng si volta ancora verso la credenza e tira fuori una piccola chiave dal taschino, poi la gira nella toppa. Mentre si allunga verso il servizio di porcellana sullo scaffale in alto la campanella all’ingresso suona di nuovo.
«Buonasera, tài-tai.» dice il nuovo arrivato, e a Yao non serve voltarsi per riconoscere la voce di Kiku. Intanto la signora Meng è riuscita a tirare giù il vassoio col servizio con un certo sforzo.
«Tài-tai, le presento il mio –
Le tazzine e la zuccheriera si infrangono sul pavimento con un rumore sordo.
 
 
 
____
Note:
  1. Il nome della locanda fa riferimento all’opera teatrale di Ma Zhiyuan, Il sogno del miglio giallo (titolo originale Huáng Liáng Mèng), i cui eventi principali si svolgono all’interno di una locanda;
  2. Lǎozǒng è un appellativo formale usato soprattutto per rivolgersi agli ufficiali;
  3. Tài-tai: signora, formale.
 
 

Ritorna all'indice


Capitolo 6
*** Capitolo V - La veduta di Qinhuai ***


Capitolo V
La veduta di Qinhuai
 
Durante l’estate del ’29 i Wang organizzarono una serata a Nanchino. Si trattava di una festa per celebrare i venticinque anni di carriera di Wang Lanhua come regista e attrice di teatro, e pertanto tutti i residenti della casa in campagna avrebbero dovuto traslocare nella capitale per il fine settimana. L’evento comprendeva la visione di un’opera di Ma Zhiyuan1, seguita da un rinfresco in casa Wang, tutto organizzato da Wang Long e dalla compagnia teatrale con cui lavorava Wang Lanhua come una sorpresa per quest’ultima. Questa sorpresa, secondo quanto sosteneva Yao, era una mera illusione.
«Perché dici così?»
Kiku, appoggiato braccia conserte alla ringhiera sul fiume, si era voltato a guardarlo. Lo scatto della testa fece ondeggiare il cappello di paglia che doveva, secondo Mei, proteggerlo dal sole, e che nell’intento lo faceva sembrare un pescatore. Yao, disteso su basso muretto con un cuscino sotto la schiena e separato dal vuoto solo dal legno della ringhiera, teneva il suo cappello calato sul viso. Il gracchiare delle cicale faceva da sfondo alla loro conversazione.
«Perché è una specie di maniaca del controllo. Se ha anche solo intuito che stiamo organizzando qualcosa sta’ pur certo che lo scoprirà e farà in modo di mettersi al comando all’insaputa di tutti.»  
«Dev’essere stressante.»
«Non ne parliamo. Penso che non ci sia niente di più stressante di una sorpresa per lei.»
«Quindi lo sa già?»
«Oh, ne sono certo. Non sarebbe così tranquilla, altrimenti. No, sarebbe un ammasso di tic nervosi col rossetto, te lo dico io.»
Kiku tossicchiò una risata dopo quell’affermazione, e Yao sogghignò di riflesso.
Giorni dopo erano già sul treno per Nanchino. Fu la prima volta che Kiku viaggiava in un vagone di prima classe, tutto arredato con poltrone bergère e tavoli da gioco. Lui e Yao dividevano lo scompartimento con Honghui e il signor Arthur, che sembrava apprezzare più di tutti i presenti esperienze di questo tipo. Da molto prima che salissero sulla carrozza si era lanciato in un lungo monologo sul ruolo degli inglesi nell’invenzione della locomotiva, e non si era fatto troppi problemi a elogiare l’importanza che la colonizzazione britannica aveva assunto per la diffusione del mezzo in Oriente. Quel comizio si rivelò talmente insistente che dopo qualche minuto Kiku non si sorprese della nuova uscita sarcastica di Yao.
«Quando ci racconti di come avete saccheggiato tutte le vostre colonie e sfruttato la nostra gente?»
Kiku intercettò con lo sguardo la gomitata discreta di Honghui contro il braccio di Yao. Il signor Arthur sbuffò. «Con te si finisce per prendere sempre gli stessi discorsi.»
«E con te si finisce per non affrontarli mai con serietà.»
«Stai ammorbando la mattinata.»
Yao sbuffò, un ciuffo di capelli gli si mosse davanti al viso spinto dal suo respiro. Dal posto dove era seduto, accanto al finestrino, un raggio di luce giallina gli tagliava una striscia verticale di viso ed evidenziava di bianco la peluria sottile della guancia, un occhio appariva di un marrone brillante. Da come si voltò di profilo verso il vetro, sforzandosi di dimostrare indifferenza, fu chiaro per Kiku che lo scambio l’aveva infastidito. Non si sorprese, quindi, quando nel bel mezzo del tentativo di Honghui di alleggerire l’atmosfera con un commento sulla trafficata vita della capitale, Yao si alzò dalla poltrona e annunciò di voler controllare se ai Li servisse qualcosa.
Non appena Yao si richiuse la porta dello scompartimento alle spalle, il signor Arthur stirò le braccia sul bastone da passeggio. «Che razza di carattere.» borbottò.
Honghui si lisciò le pieghe del chángpáo. «È solo un po’ nervoso per stasera, non dateci troppo peso.»
Il signor Arthur fece un cenno stizzito col capo. «Non mi sembra una cosa sporadica – e poi, rivolgendosi a Kiku: – tratta così tutti gli ospiti o solo gli occidentali?»
Kiku schiuse le labbra a vuoto, la sua mente cominciò a vagliare tutte le possibilità che aveva di chiudere la discussione in modo rapido e indolore.
«Lascia stare, non rispondere. Tanto ai miei occhi resta quello che è.»
Kiku deglutì e distolse lo sguardo, piantandosi il palmo della mano chiusa a pugno sui pantaloni. Quando capì che il signor Arthur stava di nuovo per pronunciarsi contro l’assente si impose di non partecipare a quello scambio, così disse che doveva usare i servizi e abbandonò lo scompartimento. Eliminò in partenza l’idea di girare a vuoto per il vagone. Non perché non fosse abbastanza interessato alle meraviglie della prima classe, ma perché, per quanto si sforzasse di fingere disinvoltura, sapeva di essere poco naturale quando camminava senza un obbiettivo. Così si incamminò dietro ai passi di Yao.
La carrozza della terza classe aveva sedili stretti e ravvicinati tra loro, e mancava dei tavolini da gioco e dei radiogrammofoni della prima classe. Dentro al vagone si respirava un’aria acre, di chiuso, ed era innegabile che molti dei passeggeri non possedessero abitudini igieniche delle migliori. Alcuni potevano essere in viaggio da prima che sorgesse il sole, forse addirittura da giorni, e le temperature non aiutavano a mantenere un’aria balsamica.
Trovò Yao in piedi a metà carrozza, ancorato alla maniglia che pendeva sopra al sedile del signor Li. Quando lo vide sembrò sorpreso, gli chiese se andasse tutto bene. Kiku disse che il viaggio stava diventando noioso. Il signor Li insistette perché Kiku si accomodasse al suo posto, dando il via a una serie di convenevoli interminabili da parte di entrambi, alla fine dei quali Kiku rimase in piedi.
Kiku era stato abituato sin da piccolo alle buone maniere e al garbo, ma i modi reverenziali dei signori Li raggiungevano vette a cui poche volte aveva assistito. Sembravano ossessionati dall’idea di dare conforto al prossimo. Il signor Li aveva una faccia rotonda da mela e una striscia di capelli che gli percorreva le tempie lasciando scoperta la parte superiore del cranio. La moglie teneva il capo nascosto sotto un velo e il figlio le stava seduto in braccio, in questo modo avevano permesso a un signore anziano di sedersi di fronte a loro accanto alla figlia. Il vecchio aveva le palpebre molli al punto da socchiudergli gli occhi e si portava appresso una gabbia con due cardellini. In quel quadro rustico Yao sembrava un elemento a parte, distinto rispetto agli altri nonostante sembrasse deciso a mescolarsi. Del resto, non era l’unica volta in cui aveva percepito la persona di Yao assumere un colore diverso rispetto a chi lo circondava.
 
 
***
 
Arrivarono a Nanchino dopo circa un’ora e mezza di viaggio, il sole non era ancora alto. Una volta scesi dal treno, proseguirono in tram fino alla casa dei Wang, un edificio in tutto e per tutto simile a quello in cui avevano soggiornato fino ad allora, con l’unica differenza che la casa di campagna aveva un arredamento antiquato tipico delle case di villeggiatura, mentre la residenza di Nanchino sembrava rincorrere le nuove tendenze. Aveva l’illuminazione elettrica, due telefoni e un bagno ricoperto di piastrelle a specchio su ogni superfice, e ciò nonostante non mancavano i rotoli di calligrafia e le porcellane bianche e blu.
Mentre sistemava le valigie nella stanza Kiku sentì bussare alla porta. Yao entrò con due bottoni della camicia aperti e le maniche arrotolate sui gomiti, aveva i capelli ben stretti in una piccola crocchia.
«Hai da fare?» chiese, e inclinò la testa in un modo che sottolineava i muscoli del collo e le clavicole lucide. Kiku scosse la testa. «Allora ti va un gelato? C’è un chiosco qui all’angolo. Se vuoi posso farti fare un giro.»
Kiku si alzò in piedi. «Fa un po’ caldo per camminare, non credi?»
«È che… posso portare il parasole, e poi al fiume fa più fresco rispetto a qui. – distolse lo sguardo, dondolando sui talloni – se non ti va, non...»
«No! Cioè… sì mi va, ma… ecco. Sono un po’ deboluccio.»
Yao rise «Se svieni ti porto in braccio.»
Kiku gli tirò una ciabatta, ma da come storceva le labbra per non ridere Yao doveva aver capito che non l’aveva presa sul serio.
 
A Nanchino le strade erano piene di gente di tutti i tipi, donne vestite all’occidentale camminavano in mezzo a uomini con cappelli di bambù, si mescolavano a europei e mediorientali e trai tram e le auto alla moda ogni tanto comparivano risciò trainati da biciclette. Il chiosco dei gelati sostava di fronte alla vetrina di un negozio arabo di gioielli. Kiku si era portato dietro la macchina fotografica e si era concesso di puntarla al volto di Yao quando lui meno se l’aspettava, concentrato sul gelato. Quando Yao aveva udito lo scatto dell’obbiettivo si era quasi strozzato, e quando vide Kiku ridacchiare da dietro la scatoletta nera si fiondò in avanti come per afferrarlo. Kiku capì che cercava di agguantare la Rolleiflex2 per ricambiare il favore e saltò all’indietro.
«Ehi, non ci provare.»
«Sei un grandissimo bastardo, – Yao posò la mano libera sulla macchina, mentre reggeva il gelato con l’altra e l’ombrello con l’incavo del gomito – dammela, così ti faccio vedere che belle foto verranno.»
Kiku non seppe spiegare da dove gli venne quell’impulso, ma a un certo punto per scappare da quella situazione gli morse il braccio. Non fu un vero morso, lo toccò soltanto senza stringere i denti, ma quello fu sufficiente per fare scattare Yao all’indietro e versare il gelato sul marciapiede.
«Ti odio.»
«Te ne compro un altro.»
«Che razza d’idiota spreca così uno scatto?»
 
Si fecero accompagnare in risciò verso il tempio di Confucio, un complesso di edifici con una torre rossiccia il cui riflesso colorava le acque del Qinhuai3. Per arrivarci bisognava farsi strada tra bancarelle colme di pesci d’acqua dolce e altre che mostravano al pubblico statuette, piatti per l’incenso dall’impugnatura a forma di animale e cháchǒng4 di terracotta. Yao spiegò che da qualche tempo veniva usato solo dalle truppe del Guomingdang5 come una caserma e da allora era stato restaurato poco o niente, questo spiegava la vernice scrostata sui parapetti. Ciò nonostante, i passi della gente risuonavano ancora sul rimbombo del biānzhōng6.
Kiku fu catturato da un cháchǒng di terracotta bianca a forma di carpa, che prometteva di tingersi di verde se bagnato col tè. La commerciante, una donna con gli occhioni piangenti e i capelli raccolti in una treccia striminzita, doveva essere un tipo particolarmente attento agli accenti stranieri, perché appena sentì parlare Kiku saltò sul posto come se avesse fiutato un affare.
«Quale le piace, xiāsheng, il rospo, o il Buddha Maitreya7
Kiku si tirò indietro col petto. «Stavo solo guardando, tài-tai
«Non sia timido, vediamo se posso venirle incontro. Allora, il rospo?»
Kiku si grattò la nuca. «Guardavo la carpa.»
La donna parve illuminarsi. «Ah! Lei ha occhio, xiāsheng – si sistemò la statuetta sui palmi aperti per mostrargliela – questo pezzo è fatto di rara argilla Yixin verde, osservi i particolari delle squame. La grandezza è perfetta per portarselo dietro ovunque si sposti, lo bagni col tè ogni giorno e le porterà coraggio e perseveranza.»
«Che prezzo può farmi, tài-tai
«Vista la qualità siamo sui cinquanta kuài8
Kiku esitò. Avrebbe detto alla signora di lasciare stare, ma Yao prese la parola.
«Cinquanta è davvero troppo, tài-tai, facciamo venti.»
«Un capolavoro del genere non vale proprio venti kuai, posso scendere a quaranta.»
«Sono ancora troppi, tài-tai. Venticinque?»
«Per un’argilla così rara il mio è un prezzo più che vantaggioso.»
Kiku si accostò alla spalla di Yao. «Non importa, non è necessario.»
Yao non lo ascoltò. «Trenta e non se ne parla più.»
«Andata.»
 
«Te li ridò.»
«Non serve.»
Kiku gli diede una piccola spinta con la mano aperta. Dopo la visita al tempio erano saltati su un autobus che conduceva verso sud, e si fermava ai piedi della porta Jubao9. Quando scesero dal mezzo la massa scura delle mura era talmente vicina da oscurare il sole, già alto, come un’eclissi. Yao dovette impegnarsi per convincerlo a salire sulle terrazze, Kiku si decise ad ascoltarlo solo dopo essersi fatto trascinare fino al piccolo ingresso che dava sulle scale, da cui proveniva una brezza fredda. All’interno delle mura il gelo della pietra rendeva più facile scalare i gradini ripidi. Le finestre erano poche e strette, e Kiku poteva toccare entrambe le pareti senza distendere le braccia, e nonostante ciò quel senso di claustrofobia non lo turbava. Una volta fuori Yao gettò la testa all’indietro per inalare l’aria fresca, Kiku gli scattò una foto di nascosto. A quell’altezza il vento sembrava soffiare più vivace. Da lì era possibile vedere fino al monte Zhongshan10 e persino il corso dello Yangzi circondato da tetti scuri.
Chiesero a un turista di scattar loro una foto, a Kiku ci volle un po’ prima di riuscire a spiegargli come usare la macchina fotografica, perché l’uomo sembrava un po’ arrugginito con l’inglese e Kiku non era da meno. Alla fine riuscirono a intendersi, e lui e Yao si spostarono dove la luce favoriva il ritratto migliore possibile. Si sistemarono con le vite poggiate al parapetto delle mura, l’uno di fianco all’altro. Yao gli posò una mano sul braccio e lo strinse a sé, il suo palmo era liscio come il pane. Allora Kiku gli avvolse un braccio attorno alla vita, e mentre fissava l’obbiettivo ebbe la sensazione che il pollice di Yao gli disegnasse piccoli semicerchi sulla pelle.
Il turista aveva scattato più di una foto, Yao disse che ne voleva una quando sarebbero state sviluppate. Quando furono di nuovo in fondo elle mura Yao si sporse a toccare i mattoni scuri col palmo aperto. «Sono qui da più di cinquecento anni. Guarda – indicò un angolo in basso con il naso – ci sono ancora incisi i nomi degli operai.»
Kiku passò tre dita su quei caratteri corrosi dal tempo. «È straordinario.» disse.
«Cinquecento anni. Queste mura ci proteggono da allora e così faranno sempre.»
 
A Nanchino ovunque ci si spostasse si trovava una bancarella con anatre appese a testa in giù. Nel ristorante dove si fermarono servivano solo anatra, anatra sotto sale, anatra arrosto, ravioli all’anatra e persino testa d’anatra. Da qualche parte videro anche dei dolcetti a forma d’anatra simili a paperelle di gomma. Yao se ne fece incartare un paio prima di uscire dal ristorante, spezzandole tra le dita si poteva vedere la pasta di fagioli tra la mollica spumosa.
Dopo il pranzo presero uno shānbǎn11 per risalire il fiume verso nord e concludere il giro. Il ragazzo in piedi davanti a loro remava stando scalzo sulle assi della barca, la pelle scura sulle braccia tesa come un tamburo. Le acque del fiume risplendevano dei riflessi bianchi delle pareti delle case, e sugli argini si sovrapponevano recinti e scalinate. Passarono sotto a un ponte e Kiku vide il volto di Yao illuminarsi dal basso con reticoli di luce ondeggiante. Il sole aveva iniziato la sua discesa e mentre il cielo prendeva un colore giallino qualcuno iniziava ad accendere le lanterne rosse sotto ai tetti. A un certo punto del percorso sulle scalinate e dai parapetti un gruppo di donne si affacciava verso l’acqua. Avevano le labbra truccate di un rosso profondo e i qípáo attillati sui fianchi e sotto ai seni. Una di loro, seduta su un gradino, a un tratto sembrò incollare gli occhi addosso a Kiku. Aveva i capelli acconciati in onde strette sulla fronte e indossava un abito viola.
«Sono le donne del fiume Qinhuai – Yao si era accostato al suo orecchio e vi aveva lasciato un respiro caldo – la leggenda che le riguarda è antica quanto Nanchino.»
La barca si avvicinò alla riva su cui era seduta la ragazza. Continuò a fissare Kiku con quell’accenno di sorriso fino a quando lei non fu fuori dal suo campo visivo.
 
Appena il cerchio aranciato del sole fu sotto all’orizzonte il cielo prese un colore bruno nel giro di pochi minuti. Scesi dallo shānbān, si ritrovarono a correre stretti sotto all’ombrello per evitare la pioggia. Mentre percorrevano i marciapiedi cercando il riparo dei portici, i commercianti ritiravano le loro bancarelle traboccanti di merci. Yao disse che era la stagione dei monsoni. Arrivarono sotto al cancello con le camicie fradice e i capelli attaccati alla fronte. Quando Yao richiuse l’ombrello Kiku si accorse di quanto gli si era fatto vicino durante la corsa, abbastanza da poter contare minuscole lentiggini da sole sul suo setto nasale piatto. E si accorse anche che Yao lo guardava con le labbra dischiuse attorno agli incisivi bianchi. Mentre si fissavano in silenzio, ghermiti dalla pioggia ostinata attorno al loro riparo, Kiku ebbe la sensazione che entrambi aspettassero che accadesse qualcosa. C’era qualcosa in lui, in quel ghirigoro di capelli sulla guancia, a dargli un’aria che Kiku non aveva mai notato prima. Era un velo di tristezza, sembrava che qualcosa lo trattenesse al di fuori del resto del mondo. Forse stava confondendo le sue debolezze con quelle di Yao. In effetti, alle volte gli riusciva difficile discernere il confine tra lui e l’altro ragazzo. Si chiese se anche Yao, come lui, percepisse la stessa lontananza dagli altri, se anche per lui quel momento di esclusione dalla folla rappresentasse l’eccezione.
«Yao!»
Entrambi sussultarono quando la voce della signora Li giunse da loro attraverso la pesante tenda d’acqua. Trottò nella loro direzione stringendo un ombrello tra le mani, appena Yao si voltò verso di lei Kiku abbassò lo sguardo.
«Ma che vi salta in mente, xiǎohuǒzi? Perché non siete in casa?»
Yao si portò una mano ai capelli. «Io non entro, mǔma, mi aspettano a teatro.»
Nilufar lo afferrò per un braccio e se lo trascinò verso il cancello. «Tu adesso vai a cambiarti, poi va’ pure dove ti pare.»
Così entrambi imboccarono l’ingresso e si allontanarono verso le rispettive stanze. Circa mezz’ora più tardi, dopo che Kiku fu uscito dalla vasca da bagno per esaminare il completo elegante sul letto, lanciando uno sguardo attraverso la finestra poté vedere la figura longilinea di Yao allontanarsi con le mani nelle tasche e sparire dentro a un taxi nero.
 
 
***
 
Il teatro ospitava al suo interno una sala da tè. Arrivati all’ingresso Kiku dovette ancorarsi con lo sguardo alle spalle fasciate di seta dei Wang per non perdersi tra la folla. C’erano ospiti di ogni forma e colore, donne avvolte in scintillanti abiti a vita bassa e gonne plissettate e altre che sfoggiavano qípáo dai colori sgargianti. In poco tempo la sala fu pregna delle esalazioni di profumo delle signore e dell’acqua di colonia degli uomini e con la stessa rapidità si formò un capannello di gente stretto attorno alla signora Wang per farle gli auguri. In mezzo a quella folla ondeggiante di Yao non v’era traccia.
Vennero invitati a sedersi, Kiku prese posto accanto a Mei e il signor Arthur si sedette alla sua sinistra. Poco dopo le luci si abbassarono e una voce dietro le quinte presentò l’opera12 agli spettatori. Kiku non aveva mai assistito al dramma a teatro, ma aveva studiato il testo per un esame di letteratura cinese. La storia seguiva le vicende reali della concubina Wang Zhaojun nell’harem di un imperatore Han. Quando questi decide di prendere moglie incarica il pittore di corte di ritrarre tutte le concubine dell’harem una per una, per poter scegliere la più affascinante come sua compagna. Wang Zhaojun, però, si rifiuta di pagare il pittore, ed egli per ripicca consegna all’imperatore un ritratto fasullo con fattezze orrende. Così l’imperatore la scarta, ma qualche tempo dopo egli incontra la ragazza dal vivo e ne rimane folgorato. Succede però che il pittore, giunto al cospetto del capo Unno, mostra a questi il ritratto originale di Wang Zhaojun che si era portato dietro, e così anche lui finisce per innamorarsi di lei.
Il palco s’illuminò di nuovo e l’orchestra accompagnò l’apparizione di un’attrice fasciata da un pesante cappotto rosso e dalle stoffe svolazzanti di un hànfú13 acquamarina. Lei si guardò attorno con gli occhi circondati di trucco rosso e le sopracciglia scure a forma di “V”, poi prese a cantare. Quando lo sguardo da volpe di Wang Zhaojun per caso si fermò su di lui Kiku ebbe un tremito. Di scatto si voltò verso Mei.
«Dov’è Yao?»
Lei lo guardò e si coprì le labbra con una mano guantata di bianco per contenere una risatina. «Ma sul palco14!» esclamò sottovoce.
Kiku si voltò di scatto verso la figura eterea della concubina. Neppure le note alte della canzone avevano tradito una voce mascolina. Si chiese come facesse Yao a passare dai gesti virili con cui si accendeva le sigarette alle movenze delle mani che ora esibiva sul palco. Gli sembrò che sotto tutto quel trucco lui gli stesse rivolgendo un sorriso impercettibile, le labbra macchiate di rosso solo al centro.
Durante l’esibizione Kiku si accorse che il signor Arthur aveva mantenuto un’espressione frastornata da quando Yao aveva iniziato a cantare. Lanciando un ultimo sguardo agli attori sul palco, Kiku si sporse alla sua sinistra per sussurrare: «Come le sembra lo spettacolo, Arthur-san
Il signor Arthur sollevò un sopracciglio nella sua direzione e si mosse sulla poltrona come a cercare una posizione migliore. «Ecco… è particolare.» rispose.
Kiku si rese conto che probabilmente non stava afferrando una sola parola di tutto il dramma, dato che non parlava mandarino, e che con quell’illuminazione non era possibile leggere l’opuscolo in inglese per gli occidentali.
Dopo che a Wang Zhaojun fu comandato di spostarsi a nord e sposare il capo unno per mantenere la pace, dal pubblico si sollevò un borbottio di sorpresa. Nella scena finale la concubina cantò il proprio dolore agli spettatori, prima di gettarsi nelle acque gelide dell’Heilongjiang15. Un boato di applausi risuonò in platea, e dopo che gli attori si furono chinati a raccogliere gli omaggi del gruppo il direttore della compagnia si fece portare un microfono.
«Grazie – parlava in inglese – al gentile pubblico per la vostra presenza stasera, ma soprattutto grazie alla nostra stella polare Wang Lanhua.» Il pubblico si lanciò in un altro boato e un occhio di bue puntò la signora Wang tra la folla. Il direttore continuò: «Sei un punto di riferimento per tutti noi e una speranza per il mondo del teatro. E con i nostri migliori auguri vogliamo chiudere questa serata con un omaggio alla nostra Nanchino, che sempre ti accoglierà.»
Venne portato un pípa16 sul palco e gli attori si unirono attorno alla suonatrice che teneva in mano lo strumento da seduta. Lei iniziò a pizzicare le corde e tutta la compagnia si mosse come un solo corpo.
«Conosco una storia
e voglio trasporla in una canzone.
Io spero che ognuno di voi
possa ascoltarmi con pazienza.
Permettetemi
di cantarvi della leggenda del fiume Qin Huai,
lentamente e con ardore,
per ognuno di voi.
Da tempi remoti,
il fiume scorre con grazia.
È la bellezza del Sud,
l’eleganza di Nanchino.
Cammina nel celebre palazzo Zhan,
ammira la spettacolare architettura.
Osserva la colonia di gru,
e l’acqua che vi si increspa attorno.
Che splendido paradiso!»17
 
 
***
 
«È permesso?»
«Avanti.»
Kiku spinse di lato la porta scorrevole del camerino. All’interno Yao stava seduto a una toeletta, ancora avvolto nell’hànfú iridescente, i capelli raccolti sotto una retina che lo faceva sembrare un bonzo18. Gli sorrise, portandosi l’asciugamano dalla faccia al grembo.
Kiku avanzò dentro alla stanza. «Hai un camerino tutto tuo?» chiese.
Yao sbuffò una risata. «Ma no. È che gli altri sono già andati via.»
Kiku increspò le labbra in un sorriso. Trovò strano che Yao perdesse tutto quel tempo solo per ripulirsi. Guardandosi attorno vide che la stanza era occupata da specchi e aste alle quali erano appese abiti voluminosi e sgargianti. Yao cercava di togliersi i residui del trucco da concubina intingendo l’asciugamano nell’acqua calda.
«I miei sono già alla festa?» biascicò, le labbra contratte mentre strofinava via il rossetto.
Kiku annuì. «Ho detto che ti avrei aspettato io.»
Yao sospirò, si tolse la collana e la posò su un piattino con un tintinnio. «A essere sinceri non ci avrei sperato. Grazie.»
Kiku gli si fece vicino fino a comparire nello specchio. «Ti sei abbronzato.» disse, rivolto allo specchio. Senza tutto quel cerone sulla faccia i tratti di Yao riacquistavano virilità. «Ho la sensazione che il signor Arthur non abbia gradito lo spettacolo.»
Yao si strappò la retina dalla testa, i capelli gli ricaddero sulla schiena come una frusta. «Non farci caso, – disse – è questione di cultura.»
«Che intendi?»
«Non voglio dire che sia una cosa di tutti gli occidentali. Però, se c’è una cosa che ho imparato da quando conosco Arthur, è che alla maggior parte di loro non interessa la nostra arte. Loro apprezzano la nostra cultura finché si tratta di una conoscenza superficiale, vengono qui e si portano a casa porcellane e tè ma non imparano la nostra lingua, né ascoltano i nostri pareri. A loro piace tornare in patria e raccontare l’incontro coi barbari delle colonie, indossare i nostri abiti e tirarsi gli occhi, così – si mise i palmi delle mani agli angoli delle palpebre e stirò la pelle verso l’alto – e fingere di essere imperatori e concubine storditi dall’oppio. Quindi non dare peso ad Arthur. Per lui tutto questo è solo un’esperienza esotica, niente di più.»
Yao cercava di mostrarsi distaccato, ma Kiku poteva vedere che i pugni gli tremavano sulla superfice del tavolo mentre parlava. Non aveva parlato in prima persona, eppure Kiku si era accorto che quel monologo tradiva un’esperienza personale, che qualcosa di tutto ciò lo turbava. Il pensiero che quelle parole nascondessero un significato più profondo di quanto promettevano gli strinse lo stomaco. Ogni qual volta imparava qualcosa di nuovo su di lui, Kiku scopriva altre cento domande a cui non sapeva dare risposta.
 
 
___
Note (non odiatemi, vi prego):
  1. Ma Zhiyuan è stato un poeta e drammaturgo vissuto in epoca Yuan (1279 - 1368).
  2. Si chiamava Rolleiflex la linea di macchine fotografiche reflex biottiche distribuite dalla ditta tedesca Franke & Heidecke a partire dal gennaio 1929.
  3. Il fiume Qinhuai è l’affluente dello Yangzi che attraversa Nanchino.
  4. Conosciuti in occidente come tea-pets, i cháchǒng sono piccole sculture di terracotta dalla forma di animali o figure cardine della cultura asiatica, che durante il rituale del tè vengono cosparse di tè, appunto, con l’augurio di portare fortuna al proprietario. Inoltre, a seconda della varietà d’argilla, man mano che la statuina assorbirà il tè, l’argilla cambierà colore (l’argilla viola, che dopo la cottura diventa color mattone, tornerà al suo vecchio colore, così come l’argilla rossa, che tende al vermiglio, e l’argilla verde, che prima di essere bagnata è bianco latte).
  5. Meglio conosciuto come Kuomingtang (ma si tratta della trascrizione Wide Giles e qui usiamo il pinyin) si tratta del partito Nazionalista cinese di cui abbiamo già accennato nel prologo.
  6. Il biānzhōng è un antico strumento musicale cinese costituito da una schiera di campane di bronzo, note in Corea come pyeonjong e in Giappone come henshō.
  7. Maitreya, nell’orizzonte buddhista, rappresenta il prossimo Buddha, successore di Siddhartha Gautama, la cui rinascita è attesa dai buddhisti (se vogliamo fare un paragone con una cultura a noi più vicina, è un po’ come l’attesa del Messia nella religione ebraica); inoltre, Maitreya è l’unico bodhisattva (colui che, nonostante abbia completato il proprio ciclo di esistenze terrene, rinuncia al Nirvana per aiutare il prossimo a raggiungere lo stesso) la cui venerazione è ammessa da tutte le scuole.
  8. Letteralmente vuol dire “pezzo”, è un modo colloquiale per indicare lo yuan, l’unità monetaria cinese.
  9. Oggi conosciuta come Porta Zhonghua, si tratta della più imponente tra le porte della città di Nanchino, e costituiscono uno dei sistemi di mura civiche più grandi mai costruite in Cina, ordinate dall’imperatore Zhu Yuanzhang durante la dinastia Ming (1368-1644). Il 13 dicembre 1937 i giapponesi oltrepassarono le mura, incontrando pochissima resistenza.
  10. Il nome significa Montagna della Campagna, ma è chiamato anche Montagna Purpurea, sorge ad est di Nanchino e le sue vette appaiono spesso avvolte da nubi dorate e viola al tramonto, da cui il suggestivo nome.
  11. Lo shānbǎn è un’imbarcazione di legno di lungheza non superiore ai quattro metri e mezzo, hanno una chiglia bassa e spesso sono in parte coperte da una volta a botte di legno o altri materiali.
  12. L’Autunno nel palazzo degli Han, in originale Hàn Gōng Qiū, è un’opera ambientata durante il periodo Han, per la precisione nel 33 a. C. La differenza principale tra la tragedia e le vicende reali ha a che fare con la fine di Wang Zhaojun, che nella realtà accettò di sposare il capo unno (in epoca Han si inizia a celebrare dei matrimoni tra donne vicine alla corte e popolazioni ai confini dell’impero nell’intento di stipulare patti di non aggressione).
  13. L’hànfú è un abito tradizionale cinese utilizzato da donne e uomini (con le dovute differenze), utilizzato fino all’epoca Qing (quando vennero introdotti il chángpáo e il qípáo, abiti tradizionali mancesi) e da non confondere col kimono, che invece è una sorta di evoluzione dell’hànfú nel contesto giapponese.
  14. Nel teatro cinese i ruoli femminili principali sono detti dàn. Durante la dinastia Qing, quando alle donne viene proibito di lavorare come attrici, il ruolo di dàn veniva ricoperto da attori specializzati, detti nándàn (nán significa “maschio”). Sul finire dell’epoca Qing le donne hanno iniziato via via ad inserirsi nel mondo del teatro, ma la figura del nándàn non si è mai davvero estinta del tutto, e ancora oggi esistono attori teatrali uomini specializzati nell’interpretazione di personaggi femminili.
  15. Conosciuto anche come Amur, si tratta del fiume che separa la Cina dall’attuale Russia.
  16. Il pípa è uno strumento a corde tradizionale, simile a un liuto.
  17. In realtà non si tratta di una canzone popolare cinese, ma della colonna sonora di un film che amo, I Fiori della Guerra, diretto da Zhang Yimou nel 2022, con protagonista Christian Bale (è anche l’unico film di Zhang Yimou che mi è piaciuto, per favore posate i coltelli). Potete trovare la canzone su Youtube col titolo Legend of Qinhuai, il film è molto crudo ma vale la pena di essere visto almeno una volta.
  18. Monaco buddhista.

Ritorna all'indice


Capitolo 7
*** Capitolo VI - Un nome ***


Capitolo VI
Un nome
 
Kiku aspetta seduto accanto alla finestra della locanda, poco prima Yao lo ha mandato fuori. Lo ha spinto verso la porta premendo con delicatezza la mano aperta sulla sua schiena, subito dopo che la signora Meng ha iniziato ad urlare. Nonostante ci sia un muro tra loro, può sentire tutto ciò che sta accadendo all’interno, e se si volta quel tanto che basta verso la finestra può vedere la scena di Yao che le stringe le spalle oltre il suo riflesso sul vetro.
«Le sto chiedendo un po’ di compassione, Meng tài-tai. Camminiamo da due giorni, non sappiamo dove andare.»
«Come può chiedermi di fare entrare quel… quel guǐzi in casa mia?»
«Lo so che ha paura, tài-tai, ma il ragazzo non le farà del male.»
«Farmi del male? Lei crede che sia solo questo il problema? – la signora Meng si ferma per singhiozzare, tira un pugno al bancone – Con che dignità posso accogliere gente con quella uniforme? Lei sa cos’hanno fatto quei bastardi a mio marito?»
Kiku si copre gli occhi con una mano. La signora Meng tira su col naso. Da un piccolo spazio tra le dita Kiku vede Yao chinare la testa in un gesto di sconfitta. Si rimette dritto sulla stampella e la saluta rimettendosi il cappello. «Mi dispiace davvero» mormora. Nel momento in cui si volta verso l’ingresso Kiku nota qualcosa a cui fino ad allora non ha fatto caso, si sposta la mano dalla faccia. Sul vestito della signora Meng, altrimenti molto semplice, c’è una piccola spilla di giada verde. Anche a quella distanza può vedere il pendente circolare e cavo dondolare spinto dai singhiozzi di lei. Mentre la signora Meng si passa una mano sulla faccia Kiku si fruga nella tasca della giacca, tira fuori l’orecchino di giada che ha trovato quella mattina sulla ghiaia. Se lo rigira tra le mani prima di venire raggiunto dai passi di Yao.
«Coraggio, mettiamoci in cammino.» dice alle sue spalle, ma Kiku non lo sente. La signora Meng dà le spalle alla finestra e singhiozza con una mano sul ventre. È a quel punto che Kiku si volta, supera Yao con uno scatto e si lancia verso l’ingresso della locanda. Yao non fa in tempo ad esclamare «ma che diavolo fai!» perché Kiku ha già fatto tintinnare le campanelle sopra la porta.
«Meng tài-tai
La signora Meng si volta con un sussulto e appena lo vede avanzare verso di lei lancia un grido. Kiku si ferma di fronte al bancone, lei ha le spalle incollate alla credenza e le mani sullo scaffale dietro di lei. Lo guarda con il viso nascosto da ciuffi di capelli svolazzanti, ha gli occhi pieni di una paura che Kiku ha visto solo in quelli dei suoi compagni, quando i colpi di mortaio incendiavano la notte. Yao entra con una mano sulla schiena, vacilla sulla stampella. «Esci immediatamente.» soffia trai denti.
Kiku non si volta, allunga il braccio sul bancone e vi posa l’orecchino. «Credo che questo le appartenga, tài-tai. Ci scusi.» Stende le braccia lungo i fianchi e s’inchina. Quando solleva il capo la signora Meng ha la bocca socchiusa a mostrare gli incisivi inferiori. Kiku le volta le spalle, Yao ha la sua stessa espressione quando lo supera verso l’ingresso.
«Aspettate.»
Entrambi si voltano a un passo dalla maniglia, lei ha la testa china sull’oggetto nelle sue mani. Prende un respiro profondo si passa una mano sugli occhi. «La matrimoniale è l’unica libera in buono stato. Non chiedetemi di più.» Yao si gira a guardarlo come se attendesse una risposta, ha gli occhi sgranati in un’espressione attonita. Kiku annuisce con vigore. La signora Meng porge a Yao la chiave della camera senza guardarli. Entrambi mormorano un grazie all’unisono, poi si avviano su per le scale.
La stanza è pulita. L’arredamento è semplice, forse addirittura scarno, c’è un letto a due piazze a ridosso del muro a sinistra, una scrivania in mezzo alle due finestre e un armadio di fronte al letto. Un lampadario di carta con motivi floreali sul soffitto e due abatjour sui comodini ai lati del letto costituiscono le uniche fonti di luce artificiale. Accanto al mobile una porta conduce a un piccolo bagno. Non c’è traccia di polvere nella stanza, e lo si nota perché le chiazze gialline e geometriche di sole filtrate dagli intarsi delle finestre non toccano alcun granello di pulviscolo per la loro strada. La superfice della scrivania è occupata da un blocco di fogli puliti, un pennello, una boccetta di inchiostro, una lampada da tavolo e un orologio Towcester. C’è una radio su uno dei comodini e le pareti sono spoglie, non ospitano quadri.
Yao getta lo zaino a terra e con un po’ di fatica tira fuori due spazzolini da denti, dentifricio e l’occorrente per sistemarsi la rasatura. Kiku deve fare un po’ di pressione, ma alla fine Yao rivela che il secondo spazzolino l’ha sottratto senza dare nell’occhio.
«Quindi mi hai preso uno spazzolino senza permesso?»
«La seconda alternativa era estrarti i denti marci senza anestesia.»
Per un po’ lo strofinio delle setole sui denti è l’unico rumore udibile nella stanza, Kiku approfitta dell’acqua corrente per lavarsi la faccia e Yao si stende la schiuma da barba sulle guance con un pennello largo. Kiku ha puntato la vasca da bagno appena ha superato l’ingresso, così mentre Yao si passa la lama sotto al mento lui apre i rubinetti e attende in silenzio, seduto con le braccia sul bordo della vasca.
Yao picchietta la lama sul lavandino, la schiuma da barba si scioglie sulla ceramica. «Non perdere troppo tempo, vorrei lavarmi anch’io prima di dormire.»
Kiku non ha il tempo di rispondere, distratto dall’improvviso borbottio del rubinetto, che sputa un ultimo getto d’acqua prima di terminare il suo lavoro. Kiku sopprime un’imprecazione e prova ad armeggiare con le manopole, ma il rubinetto tace. Si pianta una mano sulla fronte per non assecondare l’istinto di tirare una testata al bordo della vasca. «Oh, non ci credo!»
Yao si volta a guardarlo con metà del viso ancora ricoperta di schiuma, poi torna a guardare nello specchio con indifferenza. «È già un miracolo che ci sia l’acqua corrente – e poi aggiunge, forse dopo aver notato che Kiku ha la testa tra le mani, – usa tu la vasca stasera, io mi lavo domani.»
Kiku solleva la testa, le dita giunte sul muso come se pregasse. Non ricorda l’ultima volta che si è sentito davvero pulito, e quel bagno lo desidera come se fosse un biglietto di sola andata per Kyoto. Tuttavia, c’è un fatto che non può non considerare: Yao è stato gentile. Ovviamente non gliela spiegherà in questo modo. Prima di parlare prende un respiro. «Senti, dobbiamo dividere il letto.»
«Sì, c’ero arrivato.»
«Senza offesa, ma non hai un buon profumo.»
«Senti chi parla.»
A Kiku esce un grugnito. «Entra nella vasca e non parliamone più.»
 
L’acqua è appena tiepida e li copre fino al torace, Kiku batte i denti mentre si insapona. Guardare Yao seduto di fronte a lui risulta ancora imbarazzante, ma anche tenendo la testa bassa può percepire, di tanto in tanto, i suoi occhi cadere su di lui. Prima di svestirsi hanno acceso la radio in camera, attraverso la porta aperta del bagno possono sentire un foxtrot disturbato da qualche interferenza metallica. Kiku si strofina con cura le unghie orlate di nero, dentro di sé spera che insieme alla sporcizia scivolino via anche i resti di questa giornata.
Yao si sciacqua la testa versandosi addosso l’acqua con una brocca, ogni volta che Kiku si gira a guardarlo resta sorpreso dall’assenza dei capelli sulle spalle. Forse preferiva ricordarlo così. Quando si alza Kiku distoglie lo sguardo, e aspetta che Yao sia di spalle per sbirciarlo mentre si sistema l’asciugamano sulla vita. Sotto alla luce dorata delle applique la cicatrice sul dorso scolpito ha un aspetto diverso rispetto al giorno prima, sembra più affilata, più cruda. Forse Kiku gli ha inferto del male in altri modi prima di allora, forse quella linea di pelle sottile e pulsante rappresenta solo l’ultimo tradimento. Forse il primo errore che ha fatto nei suoi confronti è stato fingere che camminare fianco a fianco era possibile, e raccontare a se stesso che assecondare quel senso di fascino che lo attirava verso Yao non avrebbe portato a nulla di male.
«Ti va di farmi la barba?»
Una risatina. «Quale barba? Sei una palla da biliardo.»
Alla fine Yao si lascia convincere a spalmargli la schiuma sulla faccia, usa una lama pulita. Kiku resta nella vasca, ha le braccia disseminate di brividi ma le gambe sono troppo pesanti per sollevarlo. Yao tiene il viso ambrato a pochi centimetri da lui, in mezzo alle sopracciglia gli si formano piccole rughe mentre scruta il percorso del rasoio. È così testardo nel suo silenzio, eppure così gentile mentre gli carezza le guance con la lama. Kiku non si spiega come abbia potuto accettare quella richiesta idiota. Uno, Kiku non ha la barba; due, alla sua età dovrebbe già sapersi radere da solo. In realtà, non sa neanche spiegarsi come lui stesso abbia potuto chiederglielo. Forse sta solo cercando qualche secondo in più sotto al suo sguardo.
A lavoro terminato Kiku si trascina fuori dalla vasca. Quando la sua faccia torna pulita Yao commenta dicendo che aveva una peluria ridicola da adolescente. «Dai, non potevo certo farti andare in giro così. Sembravi uno a cui sono appena scese.»
Kiku sbuffa dal naso. «Quando hai imparato a parlare così? Non eri uno scaricatore di porto quando...» La frase gli muore tra i denti, il sorriso di Yao si spegne, Kiku serra le labbra. Entrambi stanno cercando una via di fuga da quella conversazione, e la via di fuga in questione si presenta sotto forma delle nocche della signora Meng che picchiettano contro la porta. Yao esce dal suo campo visivo, lo lascia a fissare gli spazi bianchi tra le piastrelle verde menta della parete di fronte a lui. Mentre schiude la porta quel tanto che basta per vedere la signora Meng dall’altra parte, la pelle di Kiku riprende a incresparsi sotto ai brividi di freddo. Sul tappeto del bagno nota due aloni umidi in corrispondenza dei suoi piedi nudi. Yao sta parlando, la voce gli arriva ovattata. Con la coda dell’occhio capta i suoi movimenti mentre saltella dentro ai pantaloni.
«Hai capito?»
Kiku sussulta sul posto, si gira a guardarlo. Yao sostiene il suo sguardo per un momento con la fronte increspata, poi si volta per afferrare il maglione e infilarci dentro la testa. «La signora Meng ha fatto un po’ di riso, lo porto su. Tu non ti muovere.» Di nuovo abbandona la visuale di Kiku, che torna a fissare le piastrelle e sa di essere solo appena la porta si apre e si chiude e i passi di Yao si allontanano dietro alle pareti. Kiku trascina i piedi fuori dal bagno per sedersi sul letto, si passa un asciugamano sui piedi. Spegne la radio, il foxtrot è mutato in un ronzio metallico. Vorrebbe spegnere i suoi pensieri allo stesso modo, col solo sforzo di girare una manopola, vorrebbe che il viso spento di Lan non gli comparisse sotto le palpebre ogni volta che chiude gli occhi. Quella stessa mattina ha etichettato Yao come ingiusto. Ingiusto, perché gli ha vomitato addosso una rabbia che non pensava di meritare. Ora ripensa ai poster nella casa sul fiume, gli uomini che li hanno appesi a quelle pareti hanno giurato fedeltà alla sua stessa bandiera. Kiku ci aveva creduto, aveva sognato che quella folle corsa alle armi sarebbe stata il lascia passare per il suo posto nel mondo, che tornare in patria come un eroe di guerra gli avrebbe aperto la strada per il cuore di suo padre, aveva sperato che morire per il proprio paese sarebbe stata la colla per risanare lo strappo con il mondo. E ha creduto che calare la sua lama su Yao sarebbe stato l’unico modo per separarsi dall’angoscia in cui lui l’ha costretto.
Ci ha creduto davvero in tutte quelle promesse, ha creduto che sarebbe stato un mattone per la costruzione di un grande impero, che la sua misera persona sarebbe stata glorificata dal sacrificio e che ne avrebbe beneficiato ogni angolo dell’Asia. Possibile che si sia fatto ingabbiare in una cassaforte di menzogne? Non lo sa, non sa a cosa pensare, sa solo che il sangue nella casa sul fiume era reale, che lo sguardo ripugnato negli occhi di Mo era reale, che lo squarcio sulla schiena di Yao è reale, e che quindi tutto il resto non può che essere falso. Non importa che Lan non l’abbia uccisa lui. Non importa, perché i responsabili indossavano la sua stessa uniforme. Le sue mani sono sporche di sangue.
Nel primo cassetto della scrivania è riposto un coltello per le lettere. Kiku si inginocchia sul pavimento, stringe bene l’asciugamano alla vita. Non scrive niente, non perché non sappia cosa dire ma perché non vuole che rimangano altre tracce di lui nel mondo. Guardando dritto davanti a sé si sistema il coltello tra le mani, sul fianco sinistro. Si dice che questo è l’unico modo per raddrizzare i suoi torti: una morte onorevole per una vita disonorevole. Chiude gli occhi, prende un respiro.
La porta si apre.
«La signora Meng ha trovato un po’ di spezie, forse è un po’ piccante ma –
Quando Yao si volta verso di lui il vassoio quasi gli cade dalle mani. Per un tempo impossibile da quantificare restano a guardarsi entrambi con gli occhi sgranati. «Che stai facendo?»
Kiku stringe più forte il manico del coltello. «Esci.»
Yao serra la mandibola, posa il vassoio ai suoi piedi e lo supera con una lentezza calcolata, solleva le braccia. «Posa il coltello.»
«Ho detto esci.» La voce di Kiku è grave, ma trema. Si accorge solo dopo qualche secondo che sta lottando per imprimersi il volto di Yao nella mente, le sue sopracciglia corte e scure, il taglietto sul labbro inferiore, i suoi occhi profondi. «È così che deve andare.»
«Perché?» Yao sputa quella parola con un sussulto, continua ad avanzare. «Cosa cambierebbe?»
Kiku sente la faccia arricciarsi in una smorfia. In quell’istante si rende conto che Yao sta solo cercando di salvarsi dal plotone d’esecuzione, perché se fosse suo amico uscirebbe da quella stanza e si richiuderebbe la porta alle spalle, anzi no, se fosse suo amico sguainerebbe il miao dao e si piazzerebbe dietro di lui. «Vattene Yao.»
«Rispondimi – sibilla trai denti – cosa cambierebbe? Pensi che se tu ti ammazzi allora Lan e sua madre resusciteranno per miracolo?»
«Esci da questa stanza!»
Nell’impeto Kiku ha esercitato una certa pressione col coltello e l’asciugamano si è macchiato di sangue, Yao è trasalito. La ferita è sottile, ma brucia. Gli occhi di Kiku cominciano a pizzicare. Che cosa vuoi da me, vorrebbe dirgli, perché non mi lasci in pace? Non vedi cosa mi stai facendo?
«Perché sei così buono con me?»
Yao non risponde. Lo guarda come se si stesse scusando, ha lo stesso sguardo di quando si sono rivisti sul campo di battaglia, sembra che dica mi arrendo, avete vinto voi.
«Kiku. Ti prego, non lo fare.»
Kiku schiude le labbra, la testa gli si appanna. Erano mesi che non sentiva quel nome. Per tutto questo tempo è stato il caporale, il soldato Honda, il figlio del colonnello, il giapponese, il demone, ma mai solo Kiku. E ora quel nome detto da quel debole uomo, il suo nome, pronunciato da quella voce tiepida e roca, il suo nome che nasce dal petto di Yao e che gli soffia trai denti, quel nome gli dà una forma, lo restituisce al suo corpo, dà un senso a quel suo inutile errare.
La gola gli brucia. La figura di Yao si deforma dietro alle lacrime, il coltello si abbatte sul pavimento con un clangore metallico. Un attimo dopo Yao è tutto attorno a lui, in ginocchio, spinge il coltello lontano dai loro corpi, lo fa slittare sulle assi prima di posare le mani sulle spalle di Kiku. Lui lo afferra per il maglione, seppellisce la faccia nella lana, il suo collo profuma di dopobarba e sapone. Non ricorda l’ultima volta che ha pianto in vita sua.

Ritorna all'indice


Capitolo 8
*** Capitolo VII - Il distacco ***


Capitolo VII
Il distacco
 
Kiku era agitato. Yao l’aveva capito dal modo in cui si toccava le dita col pollice, una dopo l’altra, partiva dal mignolo fino ad arrivare all’indice e poi tornava indietro. Aveva osservato in silenzio quel gesto ostinato mentre dal teatro si dirigevano in macchina fino a casa, e dai finestrini la luce intermittente dei lampioni proiettava quadrati gialli sulle sue mani.
«Nervoso?»
Kiku non rispose subito, smise di giocare con le dita come se si fosse accorto dell’origine di quella domanda. Si voltò verso il finestrino. «Non sono mai stato a una festa.»
Si erano tolti le giacche e le tenevano sui rispettivi grembi, divisi tra l’insofferenza per il caldo e il terrore di stropicciare il tessuto. Così il colletto lasciava intravedere una porzione del collo di Kiku e la camicia gli modellava le spalle solide. In quel momento Yao ebbe l’impulso improvviso di toccarlo, di infilargli una mano sotto a quell’involucro bianco e piantargli le unghie nella schiena. D’istinto si pizzicò la mano, si sciolse i capelli per legarseli meglio in una serie di movimenti frenetici, la bocca gli si inaridì. Per un attimo lo assalì la paura che Kiku potesse avergli letto la mente, era un’idea che lo afferrava ogni volta che si trovava preda di pensieri insoliti.
Si sistemò un ciuffo dietro alle orecchie. «Cerca di prenderla con leggerezza.»
Si sentì un ipocrita dopo aver detto una frase del genere, proprio lui che da qualche anno aveva perso l’interesse per quelle adunate tra membri dell’alta società, un mondo che da tempo iniziava a presentarglisi come un teatrino di spettri il cui unico interesse consisteva nel segnare un confine sempre più netto tra se stessi e gli altri, e che per quel fine perseveravano nella ricerca di motivazioni per gonfiare il proprio ego. O forse la verità era da quando aveva compiuto vent’anni tutti i traguardi per cui fino a pochi anni prima veniva piazzato su un piedistallo avevano perso di valore, così come il titolo di enfant prodige che gli aveva assegnato proprio quella cerchia di pavoni che tanto disprezzava.
Quando scesero dall’auto Yao non lo guardò, e così fin quando non varcarono la soglia del salone e si immersero nella luce dei lampadari elettrici. Anche dopo che il gruppo degli attori che lo aveva accompagnato sul palco si strinse loro attorno non gli rivolse uno sguardo, invece sorrise al volto incipriato di Yi Lin.
«Ecco la nostra Wang Zhaojun.» trillò lei, prima di stampagli un timbro di rossetto sulla guancia. Yao si passò il dorso della mano sull’alone vermiglio.
«Sei invidiosa perché ti ho soffiato la parte.»
«Direi piuttosto che ti ho concesso un attimo di notorietà. Non ci presenti il tuo amico?»
Yao lo indicò con la mano aperta. «Lui è Kiku, è nostro ospite per l’estate. Kiku, la compagnia teatrale con cui lavoro.» Con la coda dell’occhio vide Kiku piegarsi in un inchino. Yi Lin si sporse subito in avanti per prenderlo sottobraccio.
«Siediti con noi, Kiku-san, raccontaci un po’ di te.»
Yao sputò un “vi raggiungo”, ignorò l’occhiata che Kiku gli rivolse, come a voler cercare un appiglio in mezzo alla marea. Il pensiero di starlo punendo per una colpa che non aveva gli stringeva il petto, e pur di soffocare quella morsa lasciò che sua madre lo trascinasse su un divano accanto alle finestre. Lì con lui sedevano Wang Long e un manipolo di visi che Yao ricordava di aver visto a feste del genere e nell’ufficio del padre, ma che in realtà gli apparivano come un unico volto. Anche Honghui era con loro, seduto sulla poltrona accanto a Yao, e a differenza sua non era stata Lanhua a gettarlo su quei cuscini, c’era andato di sua spontanea volontà per ascoltare conversazioni su investimenti e affari.
Yao non seppe dire quanto tempo passò in silenzio con le mani sul bracciolo del divano a osservare il neo sulla guancia del signor Yuan – o era il signor Zhang? – fatto sta che la ragazza al pianoforte aveva già cambiato più di quattro canzoni e lui doveva aver detto sì e no tre parole da quando aveva preso posto con loro. Dopo la sesta canzone al pianoforte la ragazza aveva lasciato il posto sul piccolo palco a un gruppo jazz e Lanhua si era volatilizzata. Un cameriere allungò loro un vassoio che reggeva una schiera di bicchieri flûte, Yao ne prese uno e fece un cenno con la testa per ringraziare l’uomo che glielo porgeva.
«Come mai la signorina Wang non festeggia con noi?»
A parlare era stato il signor Liu, Yao ricordava il suo nome perché anni prima avevano avuto modo di discutere di politica. Allora la conversazione era stata troncata sul nascere dall’intervento repentino di Lanhua, ma nonostante avessero avuto poco tempo a disposizione a Yao era stato chiaro sin da subito che si trattava di un conservatore di prima categoria, così scoprire che faceva parte di quella fetta di uomini che ancora pagavano per comprare giovani donne da chiudere in una camera da letto non lo aveva sorpreso1.
«È troppo giovane per feste di questo tipo.» rispose lapidario. Non gli servì voltarsi a guardare Long per sapere che non aveva gradito questo intervento. Si portò il bicchiere alle labbra e vide con la coda dell’occhio che Honghui teneva lo sguardo lontano da loro.
«È un vero peccato. Hai più considerato la mia offerta, Wang?»
Non gli ci volle molto per capire che non parlavano di lavoro. Yao si fece scappare un ghigno: pensò che quel vecchio doveva aver fatto confusione con le pillole se pensava che Long avrebbe contribuito ad ampliare la sua collezione di bamboline.
«Parliamone con calma domani.»
Per un momento Yao rischiò di perdere la presa sul bicchiere. Si voltò con uno scatto a cercare gli occhi di suo padre, non si premurò di non darlo a vedere e non fece caso ai colpi di tosse dei presenti. Long non lo guardava, fumava in silenzio osservando la massa di seta colorata e profumo che danzava di fronte ai loro occhi.
Yao si alzò e si stirò le pieghe dei pantaloni con le mani aperte. «Con permesso.» farfugliò, e si diresse verso il bancone dietro al quale un barista bianco scecherava alcolici. Si sedette su uno sgabello e solo dopo aver ordinato si accorse che l’unica testa bionda trai presenti gli sedeva accanto.
«Brutta serata?» Arthur biascicava, era evidente che quello che reggeva in mano non fosse il primo bicchiere. Yao lo ignorò. «Prima che arrivassi tuo fratello mi ha spennato a poker2. Sto parlando con te, you wanker.»
«Che cosa vuoi?»
«Perché quel muso da cavallo?»
«Non sono affari tuoi.»
Arthur si mise a osservare il fondo del bicchiere con un ghigno. «Il tuo amichetto ti ha dato il due di picche?»
A quel punto Yao si girò a guardarlo. «Ma di che parli?»
Arthur gli lanciò un’occhiata, poi liberò un risolino grave. «Non fingere di non capire. Lo guardi come se volessi spolparlo.» Yao non disse una parola, ma capì che doveva essere arrossito dal calore che lo afferrò alle guance. «Ah! Allora vedi che hai capito?»
«Che cosa vuoi, Arthur?» ripeté.
«Di’ un po’, il ragazzino lo sa come passavamo il tempo a Oxford? Come credi che reagirà quando scoprirà che mi mettevi le mani nelle mutande?»
«Mi fai schifo.»
«Io? Da quel che ricordo almeno con te sono stato onesto, tu invece cerchi un altro bel giocattolino da corrompere.»
Yao strinse il bicchiere al punto di sentire il vetro scricchiolare. Aveva seppellito tutte quelle vecchie questioni talmente in profondità da non aspettarsi che Arthur le riesumasse e che gli svuotasse addosso la bara in cui le avevano rinchiuse. In quei momenti capiva perché aveva deciso di rinunciare ad Oxford, perché la presenza di Arthur, Arthur che sembrava provare un malsano piacere nel rinfacciargli i propri errori e fallimenti, con le sue continue scortesie, lo soffocava, gli faceva mancare il respiro. «Sei una persona orribile, Arthur.»
Arthur prese un altro sorso di scotch e si guardò alle spalle. «Qualsiasi cosa tu gli abbia fatto direi che non l’ha presa bene.» Yao seguì il suo sguardo: dall’altra parte della stanza Kiku rideva scomposto accanto a Yi Lin. Da come sedeva e gesticolava era intuibile che avesse preso qualche bicchiere di troppo.
«Cazzo.» sibilò a denti stretti. Posò il bicchiere sul banco e si lanciò verso di lui a grandi falcate. Kiku era seduto di profilo e rivolgeva il viso a una ragazza alla sua destra, parlava con un tono di voce troppo alto per lui. Quando gli fu vicino Yao gli posò la mano sulla spalla e Kiku si voltò di scatto. Aveva gli occhi acquosi e le guance rosate come la peluria delle pesche, e la nube d’alcool rendeva ancora più evidente il velo di tristezza che gli nuotava sul fondo dell’iride. Forse Arthur aveva ragione, forse stava solo per corromperlo senza possibilità di rimedio. «Dobbiamo andare.»
Kiku non disse nulla, Yao non riuscì a decifrare il suo sguardo. Forse aveva capito di essere stato punito senza motivo. Accanto a lui Yi Lin posò il bicchiere sul tavolino. «Meglio che lo ascolti, non hai una bella cera.»
Kiku distolse lo sguardo da lui, bofonchiò un saluto e si alzò, forse con troppo impeto, perché per poco non cadde sul tavolino. Yao lasciò che gli si appoggiasse al braccio. Camminava scomposto, quasi rischiò di andare addosso a un cameriere. Dal modo in cui si mise la mano sotto al naso Yao capì che moriva d’imbarazzo. Quando furono nella stanza degli ospiti Yao lo aiutò a sedersi sul letto, Kiku aveva tenuto gli occhi bassi per tutto il tragitto. Yao gli tolse le scarpe, Kiku disse che ce la faceva da solo. Poi Yao cercò il jinbei3 nella valigia, lo estrasse e glielo posò sul letto.
«Ti aiuto a svestirti?»
«Ce la faccio.»
Yao mise una teiera a bollire sul caminetto, e dopo aver versato il tè nel filtro disse che sarebbe tornato presto e uscì. Il porticato interno disegnava un quadrato che ospitava la luna, dall’edificio principale giungevano ovattati il vociare degli ospiti e le note del pezzo jazz. Yao infilò la porta della cucina, se la richiuse alle spalle e prese a frugare dentro agli stipetti. Nilufar usava le boccette vuote di salsa di soia per conservare un medicinale, serviva soprattutto per curare la sbornia. Yao lo trovò dietro a una busta di miglio, svitò il tappo per accertarsi che fosse la bottiglia giusta e la smorfia che fece nel riconoscerne l’olezzo gli confermò che aveva trovato quello che cercava.
«Xiǎohuǒzi
Per poco la boccetta non gli cadde dalle mani, nel girarsi batté la testa contro allo sportello. Nilufar aveva l’hijab sistemato alla bell’e meglio sul capo canuto. «Va tutto bene?»
Yao si massaggiò la nuca. «Scusa, mǔmā, non volevo svegliarti – sollevò la boccetta – è per Kiku, ha alzato un po’ il gomito.»
Nilufar si lasciò scappare una risatina, si scostò i capelli dalla fronte. «Davvero non me l’aspettavo. Sembra un tipo così composto.»
«Già – Yao sorrise in risposta – credo che la festa l’abbia provato.»
Rimasero in silenzio per un po’, durante quel tempo fu chiaro a tutti e due che Yao sentiva il bisogno di dire qualcos’altro, e che Nilufar attendesse di aver qualcosa a cui rispondere. C’è un ragazzo nella stanza degli ospiti. Ecco cosa voleva dire. C’è un ragazzo nella stanza degli ospiti, mǔmā, un ragazzo come me, con le mani venose come le mie, la gola larga come la mia, le spalle ampie come le mie, c’è un ragazzo nella stanza degli ospiti e io muoio dalla voglia di baciarlo.
«Hai mai pensato di tornare in Afghanistan?»
Nilufar lo guardò con un sopracciglio alzato. «Come mai questa domanda? – non aspettò che Yao rispondesse – Ci ho pensato, sì.»
Yao spostò il peso da un piede all’altro. «E perché non… sì insomma… è per il lavoro oppure…?»
«Anche se potessi tornarci non lo farei.» A questo punto Yao inclinò di poco la testa. «Vedi, xiǎohuǒzi… nella vita a volte ti capiterà di sentirti fuori posto. Succede, non è una cosa che puoi controllare. E se c’è una cosa che ho imparato è che certe cose puoi sforzarti di farle funzionare quanto ti pare, ma alla fine i pezzi dei puzzle hanno sempre un loro posto, non puoi forzarli a entrare dove non devono stare. Rischi di deformarli, di piegare il cartone, capisci che intendo?»
Yao annuì. Nilufar si sciolse in un sospiro. «Lo so che stai soffrendo, xiǎo-Yao. Non ne conosco il motivo, ma so che non stai bene dove stai. So che in questi casi la cosa più facile da fare è aspettare che passi da sé, ma io non amo questo genere di consigli. Non ti dirò di non toccare niente. Ho passato una buona parte della mia vita ad aspettare che il mondo attorno a me si aprisse per farmi spazio, ma non è così che funziona.»
Yao rimase ad osservarla in silenzio, notò che al buio diventava strabica, anche se non era troppo evidente. Fino ad allora aveva sempre pensato che la sua condizione di recluso, di isola, fosse troppo rara per essere condivisa da altri nelle sue estreme vicinanze. Aveva sempre visto Nilufar come un ingranaggio ben oliato di una macchina che lavorava in armonia, e aveva talmente dato per scontato questo assetto da non aspettarsi che quell’ingranaggio un tempo facesse parte di una macchina che non poteva accoglierlo. Forse questa nuova consapevolezza avrebbe dovuto rassicurarlo, eppure in quel momento un nuovo timore si faceva strada in lui: era l’idea di non saper scegliere la giusta occasione per trovare il suo posto nel puzzle, di non saper riconoscere il momento giusto e la scelta esatta. O peggio, l’idea di non avere il coraggio necessario per saltare dalla finestra nella notte, come aveva visto fare a Nilufar milioni di volte nella sua testa.
«E come fai a capire quando sei nel posto giusto?»
Nilufar gli sorride.
«Lo capirai.»
 
Durante il tragitto per la stanza degli ospiti Yao si fermò di fronte alla porta di Mei. Da dietro il legno scuro passava la melodia ovattata di un brano di musica classica, ascoltando con attenzione poteva sentire il fruscio della puntina sul disco. Socchiuse la porta, attraverso lo spiraglio vide Mei in camicia da notte e a piedi nudi mentre si sollevava sulle punte e piroettava su se stessa.
Una volta avevano visto uno spettacolo di danza classica a Nanchino, era qualcosa di Tchaikovsky di cui Yao non ricordava il titolo. Invece ricordava gli occhi brillanti di Mei seduta accanto a lui, il modo in cui osservava i passi misurati delle ballerine russe in calzamaglia coi loro muscoli asciutti e tesissimi, lo svolazzare di tulle e rasi, i gesti delle loro mani lunghe. All’epoca Mei aveva sette anni e aveva pregato Lanhua di farle fare un corso di danza classica. Yao non avrebbe saputo spiegare la rapidità con cui era passata dal girare su se stessa con piccoli passetti da pulcino ad allungarsi in spaccate vertiginose. La sera tornava a casa sudata e con lo chignon spelacchiato, Nilufar le portava una tinozza d’acqua e le lavava i talloni che con gli anni avevano preso a sanguinare. Certe serate passava ore a tenersi premuta una busta di ghiaccio sulle caviglie, e poi, un paio giorni dopo, sembrava dimenticare il dolore alle articolazioni e le imprecazioni trai denti. Si rivestiva e si sistemava i capelli per la lezione.
Yao cercò di imprimersi nella mente l’immagine di lei che svolazzava scalza per la stanza, giovane e libera, le ginocchia ruotate verso l’esterno mentre salutava il pubblico dietro alle palpebre dei suoi occhi. Quando si voltò verso la porta saltò sul posto, trattenne a stento un’imprecazione.
«Ma che diavolo fai!»
Yao sbuffò una risata dal naso. «Passavo di qui e ti ho sentita saltellare.»
«Non stavo… non importa, va’ via.»
Yao raddrizzò la schiena e guadagnò qualche centimetro in altezza. «Modera i toni. Tchaikovsky?»
«Come?»
«La canzone, era Tchaikovsky?»
Mei incrociò le braccia sotto al seno piatto, scosse la testa con le labbra serrate. «Stravinsky.»
«L’uccello di fuoco
«Petruška. Lascia stare, sei una frana.»
Yao alzò gli occhi al cielo. «I balletti russi suonano tutti uguali.»
«Non sai di cosa parli. Petruška è tutta un’altra cosa, è pieno di dissonanze, frasi melodiche brevi e senza sviluppo, ha un ritmo serrato e poi attinge a canzoni popolari e valzer, insomma non c’entra proprio nulla con quello che hai detto tu.»
«Come fai a sapere tutte queste cose?»
A quel punto Mei esitò, le labbra dischiuse le diedero un’aria sorpresa ma durò solo un’istante, perché abbassò il capo e stirò la faccia in un sorriso. «Un paese ha bisogno di donne pensanti per progredire – disse, col mento sollevato e le mani sui fianchi – Lo hai detto tu.»
Yao stette in silenzio per un po’. Dall’altra parte del cortile arrivava una canzone tradizionale della zona di Nanchino. «Tanto per cambiare, ho ragione.»
Mei fece una smorfia di scherno, si sistemò i capelli dietro la spalla e si voltò. «Sei sempre il solito. Ora vai, torna pure ad agitare i fianchi e…» Le sfuggì un urletto di sorpresa quando Yao le arrivò alle spalle per circondarla con le braccia. «Ma perché sei così?» aveva squittito lui trai denti prima di sollevarla da terra in quella specie di abbraccio, mentre lei gli urlava nelle orecchie di metterla giù. Così Yao la assecondò, ma non riuscì subito a lasciarla. Perché Mei aveva sedici anni e sedici anni non sono abbastanza per partecipare a una festa tra adulti, non sono abbastanza per mettersi il rossetto e allora, si chiedeva, allora come possono essere abbastanza per rinunciare alla propria vita?
«Gē-ge
In quell’istante qualcosa tra loro era cambiato, Mei aveva tirato fuori un tono da adulta, da donna. La puntina si era incantata sul disco e ronzava come a chiedere di essere risistemata.
«Non crescere mai, mèi-mei
«Gē-ge, va tutto bene?»
Yao si staccò da lei e le mostrò un sorriso. Poi le mise una mano dietro alla nuca e la attirò a sé per baciarle la fronte. Le diede la buonanotte e uscì.
 
Incontrò Wang Long in corridoio. Quando lo vide chiudersi alle spalle la porta del bagno Yao si chiese se quella serie di incontri non fosse stata in qualche modo orchestrata da qualcuno di più grande di lui, o se il caso fosse solo un gran bastardo. In ogni caso fu contento che la stanza di Mei fosse lontana. Non poteva dire lo stesso della camera degli ospiti.
Wang Long si sistemò il colletto della camicia mentre lo fissava. Indicò la boccetta che Yao teneva in mano: «Quella a che ti serve?»
«Kiku non sta bene.»
«Per questo hai lasciato la festa di tua madre?»
Yao non rispose, invece si appigliò all’unica arma che gli era stata lasciata fin da bambino. Ha imparato molto presto a chiudersi in silenzi duri come armature, perché già allora sapeva che non poteva essere punito per qualcosa che non avrebbe detto. In quei giorni, quando Lanhua decantava un nuovo monologo sulla commiserazione e le mancanze del maggiore dei suoi figli, o quando Wang Long spariva per giornate intere dietro alle mura del suo ufficio, a Yao non restava altro da fare se non guardare. E quando guardava allora si assicurava di farlo bene, senza emettere un fiato, senza fare una smorfia. Guardava e basta. Lanhua impazziva, iniziava a camminare avanti e indietro per la stanza e qualche volta aveva anche tirato qualcosa di fragile contro a un muro. Una volta che cominciava, Yao non riusciva a fermarsi, la voce non tornava.
«Non fare aspettare gli ospiti.» disse a suo padre mentre lo superava.
«Yao.»
Yao si voltò con un unico movimento, come un ballerino.
«Ti prego, cerca di capire.»
«Mā-ma lo sa?»
«Non è necessario. Non c’è ancora nulla di deciso.»
Yao lasciò uscire una risatina dal naso. «Oh, allora è tutto a posto, immagino.»
In un’altra situazione Long avrebbe già alzato la voce da un pezzo, Yao immaginò che dovesse essersi ripetuto di stare calmo sin da quando l’aveva visto apparire nel corridoio. «Vedi di non esagerare.»
«Esagerare? Mei è una bambina! Dicevi che l’avresti mandata all’università e ora…»
«Ora basta! – Long si piazzò di fronte a lui con l’indice sulle labbra – basta, non voglio più discutere con te di questa storia. Stiamo vivendo tempi assurdi, Yao. Domani potremmo svegliarci e scoprire di aver perso tutto quello che abbiamo costruito perché l’ultimo arrivato improvvisamente è diventato imperatore o che so io4. Io passo tutta la mia giornata, ogni santo giorno, a cercare di prevedere qualsiasi possibilità di fallimento per tenere in piedi questa famiglia, e intanto tu mi dai lezioni su come fare il padre mentre te ne vai in giro conciato come un sovversivo!»
«Se sono tanto una delusione per te allora perché non vendi anche me a qualche vecchio bavoso per quattro –
Yao non finì di parlare, lo schiaffo gli fece voltare il capo di lato. Long si era avvicinato, da quella distanza poteva sentire l’odore della pipa e del vino. «Non permetterti mai più di parlarmi in questo modo, hai capito? Sei un ragazzino senza vergogna.»5
Così si sistemò il panciotto con un gesto secco e lo superò. Quando il rumore dei suoi passi sparì dal corridoio Yao carezzò le porte della camera degli ospiti e vi scivolò all’interno. Trovò Kiku con le ginocchia al petto e lo sguardo piantato sul muro, il jinbei aperto sul petto. Il caminetto era spento e la finestra spalancata. Yao posò boccetta e cucchiaio sul tavolino accanto al letto, poi si sedette di fronte a lui sul materasso.
«Che cosa hai sentito?»
Kiku non lo guardò, sembrò rimpicciolirsi contro al cuscino. «Mi dispiace, Yao.»
Yao si morse il labbro e distolse lo sguardo, con una mano si carezzò il collo. «Hai chiuso male il jinbei. Aspetta, ti do una mano.»
Così Yao gli sistemò lo scollo del vestito sul petto bianco, quando sollevò di nuovo il viso vide che Kiku lo osservava con gli occhi acquosi. «Ma quanto hai bevuto?»
Kiku abbassò di nuovo il capo. «Non ne ho idea, non reggo bene l’alcool – aveva la lingua impastata – sono un’idiota.»
Yao gli sorrise, mentre si allungava per recuperare la boccetta e il cucchiaio. «Prima o poi capita a tutti.»
«Ti ho rovinato la festa. Scusa.»
Yao rise. «Non scusarti, mi hai dato un pretesto per abbandonare quello strazio.»
Allora Kiku sorrise di rimando, ma fece una smorfia quando Yao gli piazzò il cucchiaio sotto al naso. «Ma che diavolo è?»
«Non fare il bambino.»
Kiku gli prese il cucchiaio dalle mani e ingoiò la medicina con due dita sul naso, poi strizzò gli occhi e tirò fuori la lingua. Yao soffiò una risata debole, poi chiuse la boccetta e la posò su un tavolino insieme al cucchiaio, infine gli passò una tazza di tè che ancora conservava il calore del bollitore. Mentre si passava le mani sui pantaloni, Yao parlò di nuovo. «Dovrei scusarmi io.»
«Per cosa?»
«Non saprei, credo di essere stato scontroso con te – mentre parlava capì di stare per dire qualcosa che Kiku non avrebbe dovuto sapere, e che ormai era tardi per rimangiarsi le scuse – È che a volte io… non voglio giustificarmi, ma qualche volta mi sembra che tutto sia così distante. Non so se capisci cosa intendo, forse non dovrei neanche fare questi discorsi con te a quest’ora. Lascia stare, è una cosa stupida.» Le cose che stava vomitando addosso a Kiku Yao le pensava davvero, ma non era quello il motivo per cui lo aveva allontanato tutta la sera, non era questo che doveva confessargli. Ho paura, Kiku. Questo, avrebbe dovuto dirgli.
Kiku si passò una mano sul muso. «È come avere un muro di vetro tutto attorno.»
Yao rimase ad osservarlo per qualche secondo. «Sì. Sì, è così. È come tenere la testa sott’acqua.»
«Mentre tutti gli altri stanno in superficie e tu sei l’unico a non capire di cosa parlano. Sì, credo di capire.»
Yao si ritrovò ad ascoltarlo con lo smarrimento di un bambino in mezzo a una foresta di bambù, senza una bussola, senza un segnale. «E ti capita spesso?»
Kiku si guardò le mani. «Tutto il tempo. Tranne quando sono con te.»
A Yao sembrò che la stanza girasse su sé stessa, forse per questo si sporse a stringere il polso di Kiku, per cercare un appiglio, per non venire sbalzato da una parete all’altra. Forse fu come premere un grilletto, perché a quel punto Kiku scattò in avanti senza alcun preavviso e lo baciò. A Yao scappò un grugnito sgraziato, strinse più forte quel polso sottile mentre le mani di Kiku gli si spostavano dalla faccia alla nuca, gli tiravano il nastro via dai capelli. Yao si abbandonò al suo calore, all’odore dell’acqua di colonia e al tatto delle sue spalle sotto alle proprie mani, al battito cardiaco nelle orecchie. Kiku si muoveva come se lo conoscesse da una vita, come se sapesse cosa cercava. Ebbe l’impressione che quel momento fosse già avvenuto milioni di volte, che le labbra di Kiku prima di essere le sue fossero state di guerrieri e imperatori, di monaci e di letterati. Fu come baciare se stesso.
Ma poi Yao avvertì il retrogusto alcolico della bocca di Kiku e la stanza smise improvvisamente di girare, e lui ebbe l’impressione di schiantarsi contro a un muro. Qualcosa di orribile lo investì, e quel qualcosa poteva essere la consapevolezza di stare offendendo qualcuno, forse Kiku stesso, di starlo per corrompere, di macchiarlo. D’un tratto si sentì sporco, la paura che lo aveva avvolto in macchina era tornata ad attaccarlo.
«Kiku – Kiku non lo ascoltava, allora Yao gli prese il volto nelle sue mani – Kiku, non posso»
Lo guardò con quei suoi occhi appannati, il petto gli si alzava e abbassava in intervalli scanditi, la fronte aggrottata. Deglutì. Aprì la bocca per dire qualcosa, ma uscì solo una specie di suono indistinto.
«Non posso. Scusami, non posso.» E così Yao si alzò dal letto e uscì.
 
 
 
___
Note:
  1. Si riferisce alla pratica del concubinato, che in Cina perdurò fino al ’48 (quando venne instaurata la dittatura comunista). In sostanza, un uomo poteva sposare più di una donna cedendo una somma di denaro alla famiglia. Questa condizione di sottomissione è stata raccontata dall’autore contemporaneo Su Tong, nel romanzo Mogli e concubine, da cui è stato tratto il film del 1991 Lanterne rosse, diretto da Zhang Yimou. Nel periodo storico in cui è ambientata questa fanfiction, tuttavia, il concubinato inizia ad assumere una valenza controversa, che divide le famiglie tradizionaliste dalle personalità più moderne e avanguardiste.
  2. È un piccolo dettaglio: nel manga viene menzionata la fortuna di Macao nel gioco d’azzardo.
  3. Indumento estivo giapponese, tradizionalmente di colore blu o verde, composto da una giacca e un paio di pantaloni abbinati. Si usa in diverse occasioni, anche per dormire.
  4. In questo periodo la Cina, che da poco più di un decennio è diventata una repubblica, vive una situazione politica molto tesa e complessa. In questo panorama il territorio cinese appariva frammentato in zone meno ampie che subivano l’influenza dei signori della guerra locali, a ciò si aggiungeva una guerra civile tra nazionalisti e comunisti che ebbe esito solo nel ’48. Nel ’29, anno in cui è ambientata questa linea temporale, si è verificata una condizione di stallo molto fragile e breve, interrotta due anni dopo dai vari casus belli messi in atto dal Giappone.
  5. Mi sembra d’obbligo fare alcune precisazioni per spiegare il comportamento di Wang Long in queste righe. Bisogna tenere presente che la società e la famiglia cinese sono da sempre regolate da una forma mentis di stampo confuciano. Il confucianesimo, infatti, teorizza la divisione della società e della famiglia in una gerarchia molto rigida, in cima alla quale svetta la figura del padre, seguito dalla madre e dai figli in ordine decrescente di età. Dunque, per quanto la famiglia di Yao mostri un atteggiamento teso al rinnovamento, sarebbe assurdo se le loro interazioni non fossero influenzate, anche in minima parte, dal periodo storico e dalla morale confuciana.

Ritorna all'indice


Capitolo 9
*** Capitolo VIII - Piccolo corpo ***


Nota introduttiva: aggiorno con un lieve anticipo perché questo capitolo è particolarmente breve, non perché non sapessi cosa scrivere, ma perché la storia segue una struttura "tematica", quindi i capitoli non seguono un numero di pagine standard ma variano a seconda del contenuto. Spero di essermi spiegata, in ogni caso il capitolo seguente arriverà un po' prima rispetto al solito per compensare questo divario di pagine.
 



Capitolo VIII
Piccolo corpo
 
Il taglio sul fianco è profondo.
Non abbastanza da intaccare un organo, ma quanto basta per richiedere dei punti. Mentre Yao lo ricuce Kiku non emette un fiato, fissa il soffitto nella sua immobilità da statua di cera. La signora Meng è corsa su per le scale quando ha sentito il tonfo delle ginocchia di Kiku sul pavimento. Ora è seduta con una tinozza d’acqua trai piedi, ogni tanto strizza un asciugamano per passarlo a Yao. Quando l’ultimo punto è ben stretto sulla ferita, Yao taglia il filo in un unico gesto, poi accompagna la signora Meng sulla soglia della stanza. L’acqua della tinozza si è tinta di rosso, Yao lascia la porta socchiusa alle loro spalle, così può assicurarsi che Kiku non venga preso da altre strane idee. Preferisce chiamare così quello che è appena successo. La signora Meng sposta il peso del recipiente sul fianco, non lo guarda.
«Meng tài-tai, io…»
Lei lo ferma con un gesto. «Se dovesse ricapitare qualcosa del genere sappia che mi riprenderò le chiavi della stanza.»
Yao serra le labbra e annuisce. Prima che lei possa sparire in fondo alle scale Yao parla di nuovo. «Meng tài-tai – lei si ferma su un gradino – grazie.» E dopo un secondo di immobilità riprende la sua discesa.
Prima di rientrare Yao deve prendere un respiro. Si stira le pieghe del maglione, poi scosta la porta. Kiku è girato su un fianco, fissa un punto vicino a una finestra. Yao si addossa alla stampella per abbassarsi a prendere il kit medico, lo sistema nello zaino e poi entra in bagno a lavarsi le mani. Mentre si passa l’asciugamano tra le dita, d’istinto solleva gli occhi sullo specchio di fronte a lui. Ha uno sguardo da vecchio. L’immagine dello specchio lo riporta indietro all’ultima volta che ha visto Wang Long, nel giardino della casa di campagna, ricorda che le mani di entrambi odoravano di incenso. Perdonami xiǎo-Yao, perdona tuo padre. A volte crediamo di agire secondo i nostri principi, e intanto non ci accorgiamo di rapporti che demoliamo. Così aveva parlato Long. Credeva che tra loro non si sarebbe mai verificato alcun contatto, ma adesso Yao capisce di star diventando suo padre.
Ricorda che in quell’occasione il signor Li era venuto a fare visita ai Wang. Si era seduto sui gradini del padiglione, accanto a Wang Long. Yao si era avvicinato per salutare Li Feng, ma mentre camminava verso le loro schiene curve li ha sentiti parlare, non si erano accorti di lui. Senta Long, sia buono coi ragazzi. Alla loro età non sono abituati al dolore. Long aveva voltato il capo, poi si era guardato la punta delle scarpe. Non questi ragazzi, aveva detto.
Il riso nelle scodelle è freddo. Seduto di fronte al letto, Yao poggia il vassoio sui braccioli di legno della poltrona. Allunga l’altra ciotola a Kiku, lui rimane impassibile. «Devi mangiare qualcosa.» gli dice.
Kiku stacca lo sguardo dalla parete e spia la scodella, poi torna a guardare lo stesso punto lontano. «Non ho fame.»
Yao mantiene la scodella nella stessa posizione per un po’ ma Kiku non reagisce. Allora la riposa sulla scrivania, impugna le bacchette. Il riso lo sazia già dopo il primo boccone, alla fine anche la seconda scodella va a fare compagnia alla prima sul mobile. Mentre ancora mastica si porta le mani giunte sotto al naso, prende un respiro profondo.
«Senti, adesso devo chiederti una cosa e voglio che tu sia sincero.»
Kiku non risponde, Yao si chiede se l’abbia sentito. «Kiku – finalmente gli rivolge lo sguardo – da quanto tempo sei in servizio?»
Kiku pare pensarci, l’espressione rimane statica. «Due mesi.»
Yao si passa una mano sul muso. «Sei mai stato nei territori occupati?»
Kiku deglutisce. «Sono sempre stato al fronte.»
«Due mesi.» Yao combatte in quell’inferno da due anni. In questo arco di tempo ha visto i profughi di guerra, ha ascoltato le loro storie, ha camminato sulle macerie degli aventi. Yao è morto un po’ per volta in due anni infiniti, Kiku invece ha imparato a imbracciare un fucile l’altro ieri, e gli unici cinesi che ha visto erano soldati, soldati che gli sono stati raccontati come barbari incivili e sovversivi, incoscienti, infantili. Non ha visto il sangue nei canali, non ha visto le culle vuote, non ha sentito le urla, forse non ha mai sentito parlare di Nanchino. I due mesi al fronte sono bastati solo per individuare un nemico in mezzo alla mutua distruzione, per convincersi di star lottando dalla parte del rinnovamento, del progresso, e nel frattempo l’hanno tenuto lontano dalla totalità dei fatti. Yao era morto da tempo, ma Kiku è morto oggi.
È nudo sul letto, rannicchiato su se stesso come un bruco. Da dove si trova Yao può scorgere il suo inguine scuro. «Senti, ma perché non ti vesti?»
Kiku si umetta le labbra. «Tanto non fa differenza.»
Gli occhi di Yao si posano sulle sue ginocchia bianche e rotonde, lucide come perle. Nella sua vita ha imparato diverse cose, una di queste è che ad alcuni uomini piace farsi frustare psicologicamente, crogiolarsi nell’umiliazione. Ora la scena di lui, completamente vestito, seduto di fronte a quel corpo esposto, sembra l’inizio di un pestaggio morale. Si chiede se Kiku sia uno di questi uomini, uno che si eccita con l’odore del proprio sangue.
Yao sente il bisogno di uscire dalla stanza, di chiudersi la porta alle spalle. Passa del tempo che non riesce a quantificare, Kiku chiude gli occhi. Yao tira la cordicella dell’abatjour, toglie le scarpe per appiattire ogni rumore. C’è un sacco di tela dentro allo zaino che serviva a portare i viveri, Yao lo svuota sul tavolo, poi inizia a raccogliere una manciata di oggetti dalla stanza: il tagliacarte, le cinture dei pantaloni, le bacchette, la cravatta dell’uniforme da tenente, le bretelle, le lame del rasoio e le stringhe degli stivali. Manca l’acqua, quindi il rischio che Kiku si alzi di notte per gettare la radio nella vasca piena non si pone. Dopo aver chiuso il sacco di tela si occupa di togliere le munizioni dalle armi da fuoco e alzare la sicura. Scendere le scale con quel carico in spalla appoggiandosi alla stampella non risulta facile, ma alla fine Yao arriva al piano terra. La signora Meng è seduta al tavolo della cucina, quando lo vede lo osserva per un po’, poi lo scorta fino alla cantina. Sistemano il carico sul pavimento senza dire una parola, Yao le augura la buonanotte e ritorna in cima alle scale.
La prima cosa che vede entrando in camera è il solco della schiena esposta di Kiku. Yao gli solleva le coperte sulle spalle con un gesto distratto, poi procede a spogliarsi. La notte è silenziosa, ma la quiete viene di tanto in tanto interrotta dal ronzio degli aerei che passano sopra le loro teste. Mentre fissa il soffitto Yao ripensa a Kiku seduto tra le panche della chiesa a mani giunte, alle sue nocche bianche attorno al coltello. Sa di avere un ruolo in tutto questo. Se si fosse fermato in tempo, se non lo avesse gettato nel mondo così giovane, forse Kiku non sarebbe finito in quella spirale di vergogna, forse non avrebbe sentito il bisogno di lavare via il disonore col sangue. Yao sa che lui non ammetterà di essersi arruolato per questo, ma non riesce a schiodarsi dalla testa il dubbio che tutto parta da lui.
Kiku ha uno spasmo nel sonno. A Yao viene voglia di stringerlo, di tenerlo assieme come un mucchietto d’ossa. Vorrebbe mischiarsi a lui come un collante. Si volta su un fianco, in modo da guardarlo in faccia. Sta per aggiungere un altro punto all’elenco di cose di cui si pentirà, ma Kiku sta dormendo e il buio può proteggerli, e concedere loro un momento di tenerezza. Così Yao afferra le sue mani nodose e le stringe nelle sue, lunghe e scorticate.
«Non arrenderti, non andartene in silenzio. Combatti. Fa’ rumore.»
Il solco sulla fronte di Kiku sembra distendersi. Yao si porta uno dei suoi pugni alla bocca, lascia un bacio ruvido sulle dita serrate. Solo a luci spente possono salvare la loro umanità.

Ritorna all'indice


Capitolo 10
*** Capitolo IX - Dove scorrono i fiumi ***


Nota d'apertura: aggiornamento in netto anticipo perché: primo, lo scorso capitolo era molto breve; secondo, ho quasi finito di scrivere la storia e muoio dalla voglia di pubblicare tutto il materiale già pronto. Detto questo, buona lettura, ci rivediamo in fondo alla pagina.
 
Capitolo IX
Dove scorrono i fiumi
 
Il mattino dopo non si parlarono. Fecero le valigie, ognuno in camera propria, si vestirono e salirono sul treno per le campagne. Non dissero nulla il giorno dopo, né quello dopo ancora. In sala da pranzo le conversazioni erano diventate insulse. Non che prima di allora s’intavolassero dibattiti degni di nota, ma in quel periodo in particolare Yao notò che il resto dei commensali a tavola tendeva a spiarlo con la coda dell’occhio ogni volta che qualcuno tirava fuori un argomento nelle sue corde. Ma lui continuava a punzecchiare il cibo nella ciotola, e allora Lanhua si tossiva sul pugno chiuso per richiamare la sua attenzione. A quel punto Yao sollevava lo sguardo per vedere sua madre sporgersi verso di lui.
«Tu che ne pensi, háizi
Yao mandava giù il boccone e tornava a guardare la ciotola. «Non saprei.»
Un paio di volte si incontrarono nel portico e sui gradini dell’ingresso. Nei rari casi in cui accadeva evitavano di guardarsi in faccia e si scambiavano un saluto distaccato. Poi si schiarivano la voce e farfugliavano qualcosa come “devo andare”, “con permesso” e proseguivano ognuno per la propria strada. Quando Yao lo superava e ascoltava i suoi passi, una piccola parte di lui gli suggeriva di voltarsi, di controllare se Kiku si fosse girato a guardarlo. Alla fine vinceva la parte che preferiva non ricevere conferme.
«Tocca a te.»
Yao sollevò lo sguardo su Honghui, poi lo riportò sulla scacchiera. Si pizzicò il naso. «Scusa, ero distratto.»
«Lo vedo. Allora, che fai?»
Yao aggrottò le sopracciglia. Per la prima volta tra le pietre non riusciva a vedere nessun disegno, nessun senso. «Uh… tu dove l’hai messa adesso?»
Honghui indicò una pietra bianca. Nei suoi gesti stizziti Yao leggeva un’agitazione alla quale non sapeva associare un’origine certa, e ciò nonostante si sentiva abbastanza sicuro del fatto che aveva a che fare con la festa di Lanhua. Si grattò la fronte, fu tentato di piazzare la pedina in un punto a caso e lasciare vincere suo fratello.
«Yao, che c’è?»
«Come?»
«È da quando siamo tornati che ti comporti in modo assurdo, sembri uno che abusa di oppiacei.»
Yao alzò gli occhi al cielo. «Ma smettila.»
«Smettila tu. A tavola non sento la tua voce da giorni, quando giochiamo sembra che non te ne importi niente e tratti Kiku come un estraneo.»
«Questi non sono affari tuoi.»
«Mei mi ha detto – Honghui si schiarì la gola, si allungò in avanti e abbassò la voce – Mei mi ha detto che l’altra sera l’hai spaventata. Che diavolo le hai detto?»
Yao irrigidì la mascella, si voltò a prendere una sigaretta dal pacchetto. Honghui lo osservò mentre schiacciava la rotella dell’accendino, attendeva una risposta.
«Yao!»
«Tu lo sapevi. – Honghui sobbalzò, Yao si scostò un ciuffo dagli occhi con un gesto stizzito – Sapevi di Mei e non hai detto nulla. Scommetto che non hai neanche provato ad opporti.»
Honhui serrò la mascella e inspirò. «Non c’è ancora niente di deciso, vedi di calmarti.»
Yao arricciò il naso. «Parli come Long.»
«Se ti degnassi di prestare attenzione alle questioni economiche sapresti che stiamo rischiando una crisi.»
«Certo, e dato che non sei in grado di opporti a nostro padre allora ti va bene fare di Mei un’accattona.»
Honghui sussultò una seconda volta, sbatté le palpebre e tirò indietro i gomiti. «Mei è anche mia sorella. Pensi che sia stato facile da accettare?»
«Penso che pur di restare il figlio preferito accetteresti qualsiasi cosa.»
Honghui lo guardò in silenzio per un lungo momento, come se stesse cercando significati meno crudeli per quella sentenza, poi liberò una risata amara, scosse la testa e tornò a guardarlo negli occhi. «Lo sai quante volte ti ho difeso davanti a bà-ba? Ogni volta che spari a zero su qualcuno che non conosci, o che pesti i piedi a terra, o che ti atteggi da agitatore delle masse del cazzo, lo sai chi ti copre le spalle? – Yao non disse nulla, lo guardò sistemarsi gli occhiali sul naso con un gesto stizzito – Soltanto perché non mi strappo i capelli e metto il broncio come fai tu non significa che sia senza carattere, o che non pensi con la mia testa.»
«Non è quello che ho detto.»
«Non era necessario.»
Honghui allungò la mano sulla scacchiera e raccolse le pietre nel sacchetto con un unico gesto, strinse la cordicella e andò via.
 
***
 
Quattro giorni dopo il ritorno in campagna qualcosa cambiò. I Wang si erano riuniti attorno al tavolo della colazione, e Li, Mei e Arthur si misero d’accordo sul momento per una gita al fiume. Mentre ne parlavano a Yao non sfuggì che Lanhua si era schiarita la voce. Subito dopo Li gli chiese se volesse unirsi a loro. Yao rimestò il riso con le bacchette e rifiutò. «Ho delle commissioni da fare in paese. Ma, ehm, grazie.»
Non avrebbe acconsentito comunque. Una volta Yao aveva letto la storia di un pescatore che si era addormentato sulla sua imbarcazione, e che quando si era svegliato aveva scoperto che attorno a lui c’erano solo chilometri d’acqua, e che ovunque guardasse l’unica cosa che poteva vedere era la linea bianca dell’orizzonte. In quei casi non possono salvarti neanche le stelle, perché la costa più vicina potrebbe essere ovunque, e scegliere una direzione in cui remare può voler dire avvicinarsi alla terra ferma oppure addentrarsi nel punto più remoto dell’oceano. Ora Yao capiva cosa dovesse aver provato quel vecchio aprendo gli occhi, perché dal momento in cui era rientrato nella sua stanza, dopo aver avuto addosso le mani di Kiku e respirato il suo odore, era stato come trovarsi un baratro infinito sotto ai piedi.
Per un po’ nessuno parlò, si udivano solo le bacchette che picchiettavano contro la porcellana e il gracchiare di una gazza in lontananza. Poi Kiku si allungò per prendere un pezzo di dòufu e parlò.
«Ti va se ti accompagno?»
Yao smise di masticare per un momento, si voltò per studiarlo. Kiku gli rivolse un breve sguardo, posò le bacchette e si versò il tè. Sembrava disinvolto, ma qualche goccia finì sul tavolo e tradì il tremore delle sue mani. Yao si accorse che il resto dei commensali attendeva una risposta.
«Certo, va bene.»
Si spostarono fino al villaggio in bicicletta, Yao doveva ritirare una prima stesura della tesi corretta da un professore che abitava nelle vicinanze. Disse a Kiku che ci sarebbe voluto un po’, che poteva anche allontanarsi a guardare i negozi e Yao lo avrebbe raggiunto. Tuttavia, mentre discuteva con Luo lǎoshī1 delle modifiche da apportare, riuscì a scorgere la sua nuca scura e lucida oltre gli intarsi della finestra. Quando uscì lo trovò seduto su una panchina di pietra bianca dall’aspetto scomodo. «Ho finito – disse – non era necessario che mi aspettassi.»
Kiku gli sorrise, poi chinò il capo. «Cos’altro dovevi fare?»
Yao si guardò le scarpe, poi sollevò il mento e strizzò gli occhi per il sole. «In realtà dovevo fare solo questo.»
Kiku aggrottò la fronte in un’espressione perplessa. «Avresti fatto in tempo ad andare al fiume.»
«Lo so, ma mi serviva una scusa per non andare.»
Kiku si grattò il collo, si alzò in piedi e si mise le mani in tasca. «Allora… che ne dici se prendiamo un tè o…»
«In realtà – Yao si morse il labbro – conosco un posto.»
Il posto in questione era la base di una magnolia su una collinetta, a metà strada tra la residenza estiva e il villaggio. Dall’ombra rosata dell’albero emergeva una panchina di pietra, sulla corteccia erano ancora leggibili i caratteri dei nomi di Yao e dei suoi fratelli. All’epoca Mei e Li non erano ancora in grado di scrivere, così Yao dovette intagliare i loro nomi al loro posto. Lanhua non aveva gradito. E se qualcuno scrivesse la sua firma su di te con un coltello, xiǎo-Yao, ti piacerebbe? Yao ricorda che quella sera faceva un caldo torrido, e che lui e Honghui avevano spostato i mobili della sua stanza per fare spazio al centro, poi avevano immerso due asciugamani nell’acqua fredda e li avevano strofinati sul pavimento di pietra. Avevano trascorso ore sdraiati sul pavimento gelido con addosso solo le mutande, le braccia incrociate dietro la testa. Gē-ge, ho letto che il mondo è nato da un gigante2, che quando è morto il suo respiro è diventato vento e nuvole, il suo occhio destro il Sole e il sinistro la Luna, che le sue braccia e le sue gambe ora sono i quattro angoli del mondo e il suo sangue e il suo sudore il Fiume Giallo e il Fiume Azzurro. Gē-ge, tu ed io cosa eravamo? Le mani, dì-di. È con le mani che si esprime l’amore.
«Io ti faccio schifo?»
Yao si voltò, seduto accanto a lui sulla panca di pietra, Kiku teneva il volto lontano da lui e gli rivolgeva la nuca, le unghie corte pizzicavano la pelle del collo. «Cosa? Ma come ti viene in mente?»
Kiku si portò la mano sul grembo, torturandosi i mignoli. «Ho paura di averti offeso – la voce gli tremava – quindi, se vuoi che ti stia lontano…»
«Ora basta. Kiku, – Yao si allungò per prendergli una mano e lui si voltò di scatto, aveva gli occhi scuri e lucidi come due pozzi neri – non hai fatto niente che non volessi anch’io.»
Lui sgranò gli occhi, attraverso i ciuffi scuri Yao poteva vedere le sue sopracciglia tozze disegnare due virgole. Aveva lo stesso sguardo di quando l’aveva preso per le spalle, di quando gli aveva detto: mi dispiace, non posso. Kiku abbassò lo sguardo, il mento gli si arricciò mentre muoveva le labbra alla ricerca della voce. «Ma… hai detto…»
«Eri ubriaco perso, che razza di bastardo dovrei essere per fare qualcosa con te in quello stato?» Era vero, ma Yao sapeva che non si era trattato solo di quello. Quasi sicuramente se Kiku fosse stato lucido, lui sarebbe scappato comunque. Yao gli strinse più forte la mano minuta. «E poi… avevo paura che te ne saresti pentito. È così?»
Kiku boccheggiò a vuoto. «Non lo so, io…»
Yao attese in silenzio che Kiku dicesse quello che non voleva sentire. Si chiese se metterlo spalle al muro in quel modo non fosse una specie di violenza. Aveva visto scene del genere mille volte al cinematografo di Nanchino, attori americani in un mondo in bianco e nero che alla fine della pellicola rivelavano ciò che il pubblico sapeva già dall’inizio del film. A quel punto lei iniziava a balbettare le sue insicurezze, e mentre ancora parlava lui la prendeva per le spalle e la zittiva con un bacio melodrammatico, accompagnato dalla colonna sonora e dagli applausi del pubblico. Ma il mondo di Yao non era in bianco e nero.
Ma poi Yao ha sentito dei passi avvicinarsi e si è ripreso la mano che Kiku stringeva ancora. In fondo alla collina, Nilufar barcollava sotto al peso di un sacco di riso, probabilmente non si era nemmeno accorta di loro. Yao si schiarì la voce, vide che Kiku si passava il dorso della mano sulle guance. «Scusami.» disse. Kiku forzò un piccolo sorriso, come a dirgli: va’ pure. Allora Yao si alzò e iniziò a scendere la collina. «Aspetta lì, mǔmā, ci penso io.» disse ad alta voce, e Nilufar si fermò.
Prima che Yao potesse capire cosa stava per succedere, Nilufar alzò il volto verso di lui, il suo sorriso sottile si arricciò tutto da un lato, le sue braccia si irrigidirono come rami, e mille chicchi di riso si riversarono trai ciuffi d’erba, attorno al suo corpo scomposto.
 
 
***
 
 
Da struccata la faccia di Lanhua appariva stanca. Yao non ricorda l’ultima volta che l’aveva vista senza gioielli. Indicò un vaso di crisantemi, alle spalle del fioraio, aveva i capelli raccolti in una crocchia semplice e tirata.
«Anche un mazzo di quelli, per favore.»
Mentre il fioraio fasciava gli steli e tagliava le foglie in eccesso, Yao si rivolse a sua madre sottovoce. «Non staremo esagerando? Lei era musulmana.»
Lanhua gli lanciò uno sguardo rapido e allungò una mano per sistemargli il colletto bianco del chángpáo. «Salutala pure come voleva lei, ma io piango a modo mio.»
Lungo il tragitto verso l’auto incontrarono un’amica di Lanhua che soggiornava nei dintorni. Era una signora con la faccia squadrata di qualche anno più grande di lei, che si trascinava dietro una figlia dell’età di Yao. Da qualche tempo, Lanhua e la signora Song sembravano determinate a innescare un’intesa trai rispettivi figli. Qualche volta Yao aveva provato ad assecondarle, a fare un favore a sua madre, ma tutte le volte che si era trovato solo in una stanza con Song Mi aveva avuto l’impressione di stare parlando con la madre di lei.
La signora Song si allungò in avanti per stringere Lanhua, ma lei sembrava più preoccupata a non schiacciare i fiori trai loro corpi. Yao attendeva in silenzio con una mano sul tetto dell’auto, chinò di poco il capo in direzione delle due donne come saluto.
«Oh mia cara, mi dispiace infinitamente.»
Lanhua si schiarì la voce. «Grazie, jiě-jie3
«Adesso trovare una nuova domestica sarà un martirio. Non preoccuparti, ho delle conoscenze che possono risultare utili in casi come questi, vedrai che ne uscirete.»
Yao fu tentato di gettare i fiori in macchina, accendere il motore e seppellirle sotto a una nube di fumo, ma sua madre parlò per lui.
«Provo vergogna per te.» disse.
L’espressione sul volto della signora Song mutò in una frazione di secondo, Lanhua le voltò le spalle e salì in macchina.
Kiku li aspettava sui gradini del cancello. Quando li vide scendere dall’auto si alzò e si stirò le pieghe del kimono bianco. In piedi sul selciato, nascosto tra una nube di petali bianchi, Yao ebbe l’impressione di aver già vissuto quell’esatto momento, di aver già visto Kiku attenderlo con quello sguardo.
Portarono i fiori in casa, poi recuperarono la canfora, le assi di legno e le lenzuola dal porta bagagli e si diressero sul retro, Yao, Lanhua e Kiku dietro di loro. Il signor Li era uscito a prendere i gemelli alla stazione e Arthur e Honghui avevano portato Xiaoyu lontano da lì, così in casa era presente solo Nunu. Appena entrati in cucina, Lanhua si sbracciò e le posò le mani sulle spalle. «Xiǎo-Nunu, adesso serve che mi aiuti.» le disse, cercando il suo sguardo. Nunu annuì, ma non la guardò, ed entrambe sparirono in un’altra stanza, oltre una tendina di bambù. Yao e Kiku sistemarono i fogli e i profumi sul tavolo, il russare della signora Li in un’altra stanza faceva da sottofondo. A un certo punto Yao rischiò di perdere la presa sulla boccetta di canfora, perché dalla stanza dentro alla quale Nunu e Lanhua lavavano il corpo si udì il tonfo di un secchio di metallo, seguito da un pianto a singhiozzi. D’istinto Yao e Kiku si lanciarono verso la tendina che li separava dalle donne, solo per vedere le spalle di Lanhua mentre stringeva Nunu, le mani di lei strette sulla schiena della più anziana. Da dietro il paravento accanto a loro emergeva uno spicchio della fronte di Nilufar, dietro di lui Kiku si era allungato per stringergli il polso. Poco dopo scoprirono che mentre la svestivano le era uscita della schiuma dalla bocca e Nunu aveva rovesciato il secchio dell’acqua.
Chiamarono un imam4 da Nanchino per consacrare un pezzetto di terra del giardino, accanto a un muro di peonie. Nuli aveva lo stesso mento appuntito e occhi rotondi della madre, lei e il resto delle donne avevano preferito partecipare con il capo coperto. Nell’arco dei mesi passati in caserma Gaosu era diventato un ragazzone tutto spalle e mento. Guardandoli Yao si chiese se avesse il loro stesso diritto di piangere Nilufar, si sentiva un intruso a pensare che quei due avessero visto lati di lei che Yao non avrebbe mai conosciuto, e che nonostante ciò reclamava il diritto di assistere a quel rito con loro. C’era anche Arthur, alle spalle dell’imam, indossava un paio di pantaloni bianchi che Yao gli aveva prestato. L’imam leggeva i versetti in piedi di fronte ai lenzuoli e la corda che tenevano insieme Nilufar.
«Nel nome di Allah e con Allah, e nel nome dell’inviato di Allah, su di lui la pace e le benedizioni di Allah. Tu fai seguire il giorno alla notte e la notte al giorno, e Tu richiami i vivi dai morti e i morti dai vivi, e Tu dai sostegno a chi Tu vuoi senza misura. Allah è grande.» Dal posto accanto al suo, dove sedeva Li, Yao poté udire che tirava su col naso. Dopo un breve momento di silenzio, l’imam si rivolse ai presenti, stringendo i grani del rosario tra le dita brune: «Piangete pure, fratelli, ma ricordate: adesso lei vive sotto al trono di Allah, nel più alto dei cieli, in un giardino dai fiori perenni, dove scorrono i fiumi. Sia benedetto colui nelle cui mani è il Regno, Egli è sovra a tutte le cose potente! Il quale creò la vita e la morte per provarvi. Fratelli, il corano dice il vero: ogni dolore a cui Dio ci obbliga nasconde una ragione.»
Vennero poste delle assi di legno sulla salma e gli astanti si sistemarono in fila per gettare ciascuno un pugno di terra sul legno.
«Concedi il Tuo sostegno, Allah.»
Concedi il Tuo sostegno a me.
 
 
 
_____
Note:
  1. Lǎoshī significa “maestro”, ma si può usare anche per rivolgersi ai professori (fun fact: Luo lǎoshī è anche il modo in cui io e i miei colleghi chiamiamo la nostra insegnante madrelingua).
  2. Si riferisce al mito di Pangu, uno dei miti cinesi sull’origine del mondo, che ha come protagonista un gigante nato da un uovo cosmico, al cui interno i principi dello yin (letteralmente “il lato in ombra della collina”, un principio femminile, passivo, freddo e legato all’acqua) e dello yang (“il lato luminoso della collina”, maschile, attivo, caldo e legato al fuoco), perfettamente bilanciati, diedero vita al gigante. Questo mito sembra evidenziare un contatto tra la civiltà cinese e i popoli indoeuropei, data la somiglianza con il mito norreno di Ymir e il mito indiano di Purusha. Piccolo appunto (perché sono stanca di sentire questa cosa ovunque mi giri ed è il caso di precisare): lo yin e lo yang non rappresentano bene e male, male nel bene, bene nel male, blabla, minchiate. Non si tratta di principi morali, ma di due polarità energetiche, che cedono il posto l’una all’altra dopo aver raggiunto il culmine.
  3. jiě-jie: “sorella maggiore”, ovviamente non si tratta della sorella biologica di Lanhua, ma di una persona poco più anziana verso cui esistono sentimenti di affetto e di rispetto (fino ad ora).
  4. L’imam è una figura dell’orizzonte musulmano, che assume il ruolo di una guida (letteralmente la radice lessicale di imam indica lo “stare avanti”) morale o spirituale. L’imam può essere colui che celebra i riti religiosi, ma proprio per questa sua valenza di bussola morale può anche assumere il ruolo di autorità politica.

Ritorna all'indice


Capitolo 11
*** Capitolo X - Crateri sanguinanti ***


Nota d'apertura: anche questo capitolo arriva con un certo anticipo, banalmente perché ho già scritto il resto della storia fino all'epilogo, pertanto sento il bisogno di togliermi il pensiero della pubblicazione. Detto ciò vi auguro una buona lettura, noi ci rivediamo alla fine del capitolo per le note.
 

Capitolo X
Crateri sanguinanti
 
Al mattino Kiku ha la gola secca. Quando apre gli occhi non si alza subito, resta per qualche secondo ad osservare il muro, il cuscino accanto al suo profuma di dopobarba. Ha sognato una casa in collina. Non ricorda molto di ciò che ha visto, sa solo che nel sogno aspettava che qualcosa o qualcuno giungesse da lui.
Si mette a sedere sul materasso, la schiena e il collo scricchiolano. Mentre si passa una mano sui capelli folti e pungenti, nota che Yao gli ha lasciato un cambio di vestiti accuratamente piegati sulla sedia della scrivania. Così si scosta le coperte dal grembo e dondola verso il bagno, a metà strada si allunga per prendere un paio di mutande. Il lavandino sputacchia un getto di acqua torbida, che dopo qualche secondo ritorna limpida. Le setole dello spazzolino gli fanno arricciare le spalle quando toccano il punto della gengiva che una settimana prima ospitava ancora un molare. Dopo aver sputato il dentifricio si passa un pollice sul muso, e solo allora si accorge del ragazzo che lo fissa al di là dello specchio. Vede la scia violacea sotto l’occhio destro, la fronte scoperta, le labbra asciutte, il viso scavato. Vorrebbe chiedere a quell’immagine: tu che cosa sei?
Forse a ventisette anni si è troppo vecchi per certe domande.
I pantaloni sono troppo lunghi, lo obbligano a svoltare l’orlo, così come le maniche della camicia. Non c’è la cintura e mancano anche le bretelle, quindi il rischio di restare in mutande può essere scongiurato solo infilando le dita trai passanti della cintura e tirando verso l’alto. Alle scarpe sono state sfilate le stringhe e la suola gli salta sul tallone a ogni passo. Solleva il gilet verde oliva per rigirarselo tra le mani, e senza rifletterci troppo decide di assecondare l’impulso che lo porta ad affondare il naso nella lana, ad inspirare l’odore di incenso e carta imprigionato in mezzo alle trame. In quel momento sa di starsi arrendendo, di non volersi più nascondere alla vergogna. In quei giorni di erranza tra le macerie ha capito una cosa che suo padre non ha mai osato dirgli, e che forse si è sempre nascosta dietro alle parole di sua madre: deludere se stessi è inevitabile. Tuttavia, si ritrova a riflettere, uno può sempre scegliere quali pezzi staccare da sé e quali mantenere.
Da fuori arriva la voce di Yao. Kiku accosta il viso alla finestra sul cortile, quel tanto che basta per vedere la sua figura slanciata mentre china il capo per salutare la signora Meng. Poi Yao si volta e poggiandosi sulla stampella si cala su una panchina di pietra che dà le spalle alla finestra. Da quella angolazione Kiku riesce a vedere che ha tirato fuori una busta dalla giacca, lo osserva mentre strappa il bordo con un coltellino. Tira fuori il contenuto con un gesto secco e si puntella con i gomiti sulle cosce. C’è un momento di stallo durante il quale Yao resta immobile a leggere, poi qualcosa in lui sembra deformarsi, le braccia si muovono con spasmi nervosi mentre straccia il foglio. Kiku lo osserva mentre si passa una mano sul muso in un gesto aggressivo, si pianta un pugno sulla fronte. Le spalle gli tremano.
Kiku si passa una mano dietro al collo. Qualche volta chi riceve una cattiva notizia vuole restare solo, o almeno questo è quello che ha avuto modo di osservare nel breve arco della sua vita. Guardare la schiena di Yao vibrare come un tamburo, tuttavia, gli conferma che lui deve essere stato da solo per molto, troppo tempo. Così prima di uscire afferra un cappello di lana che ha trovato abbandonato in fondo all’armadio, poi abbandona la stanza e scende le scale, l’ingresso è vuoto. La porta sul retro è aperta, da lì Kiku può vedere il blocco del dorso di Yao sulla panchina. È lì, sulla parte di sé che non può vedere, che Yao condensa tutta la sua vita, è lì che Kiku può leggere le cronache degli anni che li hanno separati.
«Posso sedermi?»
Yao scosta la mano dagli occhi per guardarlo.
«Ma che ti sei messo in testa?» Si riferisce al cappello.
Si sposta per fargli spazio sulla lastra di pietra. Kiku siede con le mani giunte. «Avevo freddo.»
Yao smette di guardarlo per prendere il pacchetto di sigarette, mentre se ne porta una alle labbra torna a guardare di fronte a sé. «Ricresceranno.»
Kiku contrae la mascella, il modo in cui Yao smaschera ogni sua intenzione lo fa sentire impotente, gli conferma che la sua impenetrabilità, il suo unico strumento di difesa, di fronte a lui è crivellato di brecce. Gli offre una sigaretta, Kiku lascia che gli si avvicini per accenderla. «Sei uscito presto.»
«Dovevo vedere il prete. Siamo stati alla casa sul fiume.»
Yao prende un tiro, poi si fruga in tasca. Gli allunga i frammenti della lettera. Non dice niente, ma Kiku sa che ha capito che si è seduto con lui per questo. «Che cos’è?»
«Un telegramma, l’ho ritirato prima che partissimo.»
Kiku gli lancia un ultimo sguardo, poi inizia a ricomporre i quattro brandelli che Yao gli ha passato. Non presta attenzione alla data in alto, sorvola le formule di apertura e i dettagli come il numero del battaglione e il grado del soggetto, il foglio sembra sparire e lasciare intatte solo tre parole.
Wang Li. Disperso.
«Sai, non è detto che sia… potrebbe solo essersi perso, magari è prigioniero–
Yao sbuffa con un ghigno aspro. «Allora mi conviene sperare che sia finito su una mina – sbircia in direzione di Kiku – Scusa. Senti, lascia stare. Non so perché te l’ho mostrato.»
Invece lo sai, vorrebbe dirgli Kiku. Ha tirato fuori il telegramma per lo stesso motivo per cui i bambini fanno vedere le ginocchia scorticate ai fratelli, perché i cerotti non fanno effetto se te li metti da solo. Comunque, Kiku preferisce non insistere su questo.
«Era sposato?»
Yao si gratta il naso. «Doveva sposarsi a maggio. Ti ricordi Nunu?»
Kiku aggrotta la fronte. «Li Nunu? Stai scherzando?»
Yao sorride. «No, affatto. Hanno smosso un polverone.»
Kiku sorride di rimando, scuote la testa. Poi torna serio e prende un altro tiro dalla sigaretta. «E tuo padre come l’ha presa?»
Yao guarda la ghiaia. «Non ne era entusiasta, ma si è arreso quasi subito. Penso che non volesse sgretolare quei pochi rapporti ancora in piedi.»
Kiku lo guarda in silenzio, ha paura di porre la prossima domanda, ma sa anche che se non approfitterà di questo momento per avvicinarsi a Yao allora non potrà riprovarci. «E Mei?»
Yao serra la mandibola, abbassa lo sguardo. «Si è sposata appena ne ha avuto l’età. Ha scelto lei di farlo.»
«Era quello che voleva?»
«Ovviamente no. Ma non avrebbe mai fatto niente contro il volere della famiglia. Ha avuto due bambini, ora vive coi miei a Chongqing perché due anni fa il vecchio ha avuto un infarto e ci è rimasto secco.»
«Suo marito? – Yao annuisce – Mio dio, mi dispiace.»
«A me no, quel vecchio depravato meritava anche di peggio.»
Questa dichiarazione non lo sorprende, ma Kiku si chiede se Yao non stia indirizzando parte di questo odio anche a se stesso. China il capo. «E tu?»
«Io cosa?»
«Ti sei sposato?»
Yao solleva un sopracciglio nella sua direzione, come se fosse una domanda tanto assurda. «Ci sono andato vicino un paio di volte. E comunque non sono un tipo da matrimonio.»
«Beh, è strano. Ho sempre pensato che volessi dei figli, non so perché.»
Yao scrolla la sigaretta con l’indice, sospiri di cenere danzano nell’aria. «Non sarei un buon padre.»
Kiku sa che è una scusa. Dal primo momento in cui gli ha rivolto lo sguardo, da dietro la finestra della stanza degli ospiti immersa nella sera, ha percepito due cose di Yao di cui ha avuto conferma giorno per giorno. La prima è che Yao è nato per insegnare, nel senso più spartano del termine. Yao è naturalmente portato per trasmettere se stesso agli altri, per offrire un sostegno, una guida. La seconda è che Yao sa amare.
«Tutto qui?»
Yao sbuffa un fiotto grigio, si gratta la fronte, poi alza una mano come a dire: d’accordo, ecco come stanno le cose. «Senti, alcuni sono convinti che far nascere un bambino sia il migliore dei doni, e che passare il cognome a un altro essere vivente elevi i loro spiriti, eccetera eccetera. Beh, per me sono stronzate. Dopo quello che ho visto sono convinto che dare alla luce un bambino in un mondo come questo sia pura crudeltà, e nient’altro. – scuote la testa – Insomma. Non sono stato in grado neanche di proteggere mia sorella, figurati un figlio tutto mio.»
«Non avresti potuto fare niente.»
«Invece sì, Kiku. Avrei potuto, ma non ho fatto nulla. La compagnia sulla quale mio padre ha investito è fallita, rischiavamo di finire a chiedere l’elemosina. Ci servivano quei soldi.»
Kiku abbassa lo sguardo sulle proprie dita, ha le cuticole gonfie e scorticate. Non può giudicarlo. Non lui, che nei momenti della sua vita in cui avrebbe potuto portare rispetto al suo cuore ha preferito restare fermo in un angolo e non toccare niente. La domanda di Yao lo fa sussultare.
«E tu sei sposato?»
«No – si affretta a rispondere, avverte un lieve tepore alle guance – No, voglio dire… mio padre voleva presentarmi una ragazza qualora fossi tornato dal fronte, ma a parte questo…»
La frase muore nel silenzio. Yao ascolta con la sigaretta tra le labbra e gli occhi sulla ghiaia, annuisce. «E sei stato con altri uomini? Dopo che… beh, hai capito.»
Kiku si schiarisce la voce, gli esce un soffio spezzato. «No.»
«Sei un pessimo bugiardo.»
Kiku chiude gli occhi e respira, accetta di essere stato sbugiardato da Yao per l’ennesima volta. «È successo solo una volta. Non c’è stato niente.»
«Guarda che non ti devi giustificare.»
«Certo, lo so.»
Era successo a San Francisco, con un collega universitario, e davvero non c’era stato niente, solo il desiderio di sentirsi di nuovo sottomessi, di replicare il senso di vertigine di tanti anni prima. Solo adesso Kiku è in grado di ammettere a se stesso che quella volta ha cercato di cucire la faccia di Yao su un altro uomo. Ma Alfred non era Yao, e per quanto potesse apprezzare la sua compagnia non lo sarebbe mai stato. Alfred era un ragazzone semplice, a cui piacevano le cose semplici, che conversava di cose semplici e con la testa piena di poche cose semplici. Alfred non gli avrebbe mai aperto il suo cuore, non si sarebbe mischiato a lui, non avrebbe mai cercato un riflesso che potesse completarlo, perché Alfred era già completo.
Keeku, pronunciava il suo nome arrotondando le vocali, e che cosa significa?
Vuol dire “crisantemo”, Alfred-san.
Che razza di nome è “crisantemo”? È il fiore dei morti!
Il significato dei fiori è diverso in Giappone, Alfred-san.
E scommetto che vi vestite di bianco ai funerali, come no.
«Toglimi una curiosità – Yao ha gettato la sigaretta, allunga un piede per schiacciare il mozzicone sotto al tacco – com’è che sei al fronte solo da due mesi?»
Kiku si morde il labro. «Perché fino a gennaio sono stato a San Francisco. Frequentavo l’università lì e sono tornato per il compleanno di mio padre.»
«Fammi indovinare. Ingegneria?»
«Storia dell’arte.»
Yao si volta di scatto, Kiku sorride. «Mio padre non mi avrebbe mai pagato una scuola per artisti, così siamo scesi a patti. Forse per questo ho fatto quel che ho fatto.» Yao aggrotta la fronte in attesa che continui, Kiku distoglie lo sguardo da lui. «Ho un soffio al cuore, in teoria non ero adatto all’arruolamento. Quando sono tornato ho chiesto a mio padre di occuparsene. Sono stato un folle.»
Ovviamente la laurea in storia dell’arte non era la sola cosa a farlo sentire in difetto di fronte a suo padre. L’idea che lui sapesse, che vedesse in lui un figlio storto, deforme in qualche modo, lo perseguitava. Magari se fosse tornato da soldato le cose tra loro sarebbero cambiate, magari tornare a casa in una bara sarebbe stato meglio che sopportare ancora quello sguardo.
«Sei un cretino.»
«Lo so.»
«Dico davvero, sei…»
«Lo so.»
Yao sbuffa, scuote la testa come se stesse pensando: ma perché continuo a incontrare questo deficiente? A Kiku viene da sorridere. D’un tratto ripensa a qualcosa che voleva chiedergli.
«Che mi dici di Honghui?»
Yao sembra adombrarsi. «Che vuoi sapere?»
Kiku alza le spalle. «Non lo so, ha avuto figli?»
«Uh… - Yao guarda lo spazio trai suoi piedi, si schiarisce la voce – aveva due bambine.»
Kiku schiude le labbra. Lo guarda in silenzio per un po’, muove la bocca a vuoto prima di riuscire a dire: «Quando è successo?»
Yao sospira, la fronte poggiata al palmo della mano. «Due anni fa. Era di stanza a Nanchino.»
Kiku guarda le sue spalle curve, l’espressione stanca del volto, le rughe sulla fronte, si rende conto di come è cambiata la sua percezione di Yao nell’arco di un paio di giorni. Credeva di vedere un uomo, una volta un principe solitario, aspro, indurito dal mondo, snaturato nella forma di un bruto, mentre ora di fronte a lui c’è un ammasso di cicatrici, di crateri sanguinanti. Adesso, dietro tutto quel livore, Kiku riesce a scovare un trentenne che sembra avere mille anni, ognuno dei quali costellato di rapporti falliti, di strappi della carne.
Kiku ha abbastanza coraggio per allungare una mano sulla sua, ma Yao lo scansa. Quel gesto secco gli brucia la gola, lo umilia. Da un lato Kiku sa di meritare il suo rancore, sa che non potrà essere perdonato dall’oggi al domani. Dall’altro la rabbia lo scuote dalla pancia fino alle dita. Vorrebbe alzarsi e urlargli addosso: domani potrei morire, razza d’idiota, potremmo morire entrambi proprio in questo momento, potremmo non appartenerci mai più, quindi per l’amor di Dio, perdonami e basta.
«Senti, devo chiederti una cosa.»
Kiku teme la prossima domanda, ma annuisce comunque. «Ti ascolto.»
Yao contrae la mascella, stringe tra loro le mani intrecciate. «Almeno per un momento, c’è stato qualcosa di vero da parte tua?»
«Ogni cosa – Kiku risponde senza staccargli gli occhi di dosso – era tutto vero per me.»
Yao non risponde, si passa una mano sul muso.
«Lo so che non vuoi credermi.»
«Non è questo.»
«Invece sì, Yao. Ma non te ne faccio una colpa.»
Passano una manciata di minuti nell’arco dei quali Kiku sceglie di godersi il silenzio tra loro, la sigaretta gli si spegne tra le dita. Poi Yao si alza in piedi battendosi i palmi sulle ginocchia, borbotta: «Bene. È ora che vada.»
Kiku solleva il capo. «Dove?»
«Al prete serve aiuto per riparare il furgoncino. Non so se ci hai fatto caso, ne teneva uno nel cortile.»
«D’accordo, ma hai detto “che vada”. Io che faccio?»
«Quello che vuoi.»
«Che significa “quello che vuoi”?»
«Che non sei più mio ostaggio. Ti lascio andare.»
Mentre guarda dal basso l’ombra delle foglie sul volto ambrato di Yao, Kiku la certezza si avergli riservato il peggiore dei giudizi, quando la notte scorsa si è ritrovato a pensare che stesse solo cercando di salvarsi la pelle. Ora, dopo aver ricostruito il mosaico del tempo senza di lui, Kiku si rende conto di quanto sia stato meschino a pensarlo, perché la verità è che a Yao non importa proprio nulla di vivere o morire. Oramai la sua vita è quella dei gechi che strisciano fuori dalle setole della scopa, che si trascinano sulla polvere con la coda mozzata, che vanno avanti senza alcun gancio, senza niente che li leghi alla vita, vanno avanti e basta.
Kiku non aspetta di vedere la sua schiena allontanarsi, si alza in piedi. Sa che sta per umiliarsi, ma non gli importa. È disposto anche a lustrargli gli stivali, pur di ricevere un momento in più sotto al suo sguardo. «Vengo con te. Voglio sapere come stanno le ragazze.»
Yao annuisce e fa per girare i tacchi, ma Kiku lo ferma: «Aspetta, non vorrai farmi uscire così.» dice, infilando un pollice nel passante della cintura e tirando verso l’esterno.
Yao annuisce «Ti prendo la cintura.»
«E le stringhe. Per favore.»
 
Circa un quarto d’ora più tardi Kiku si sta allacciando le scarpe nel salottino della pensione, e quando avverte un mormorio indistinto provenire da una stanza adiacente si alza in piedi per capire se possa essere qualcosa di cui preoccuparsi. Lascia scivolare un’anta quanto basta per accorgersi che nella piccola stanza l’unica presente è la signora Meng, in piedi di fronte a un altarino con due candele. Kiku si sente un ladro a osservarla in quel momento riservato, mentre china il capo di fronte a una foto, ciuffi scomposti le danzano sugli occhi. Poi il legno del pavimento scricchiola sotto al peso di Kiku, e così la signora Meng ha un sussulto che per poco non le fa cadere l’incenso dalle mani. Kiku sussulta a sua volta, e dopo un breve attimo di smarrimento le mostra un inchino immenso.
«Buongiorno, Men tài-tai. Non volevo interromperla, mi scusi.»
La signora Meng resta in silenzio per un po’, poi fa un cenno col capo come a volerlo assecondare. Kiku getta uno sguardo in direzione dell’altare, entro una cornice di legno un uomo sulla trentina sorride in primo piano, il cappello da sergente ben calato sulla fronte.
«È suo marito?» Subito dopo aver fatto quella domanda Kiku si accorge di stare entrando a piedi nudi in un campo minato, senza un bastone e per di più correndo alla cieca.
La signora Meng annuisce. «È morto a Nanchino.»
Per un lungo momento nessuno dei due dice niente, poi Kiku si azzarda a chiedere: «avevate figli?»
La signora Meng scuote la testa, un sorriso triste le compare sulle labbra. «Io sono sterile – una pausa, nell’arco della quale Kiku sa di aver innescato una conversazione che non può sostenere – Sa, lui… molti uomini non ti guardano neanche più se scoprono che non puoi avere figli. Lui era diverso.»
Kiku la ascolta in silenzio, lancia un ultimo sguardo al quadro perfettamente ordinato dell’altare, le candele, le statuine, l’incenso fumante, la foto al centro. «Suo marito è morto per proteggere la persona che amava. È morto col suo volto negli occhi. Io penso che sia il modo più nobile di lasciare questo pianeta, e anche il più dolce.»
La signora Meng resta immobile per qualche secondo, poi il suo sguardo si sposta, le mani le si muovono sui pantaloni in cerca di qualcosa da fare, qualcosa da afferrare. Kiku le viene in soccorso salutandola.
 
Per strada nota che Yao deambula con meno fatica rispetto a due giorni prima. Si fermano presso un piccolo bazar, uno di quei negozi che vendono di tutto, con la vetrina bucherellata. Tra un foro di proiettile e l’altro si estende un reticolo bianco di vetro scheggiato. Di fronte all’ingresso un ometto anziano, canuto, spazza via la polvere dal marciapiede, come se questo bastasse a rendere il negozio più accogliente. Quando li vede arrivare apre loro la porta con una mano macchiata. Al bancone una signora della stessa età del vecchio strizza gli occhi dietro alle lenti di due occhiali che le allargano la parte superiore del viso fino a farla sembrare un lemure, una di quelle scimmiette con le orbite che occupano quasi tutta la faccia. La signora sorride in risposta ai loro saluti, e quando Yao le chiede degli attrezzi da meccanico lei mostra un orecchio dal lobo flaccido, per far intendere che l’udito ormai lascia a desiderare. Così Yao ripete più forte e aggiunge alla richiesta un pacchetto di sigarette, poi, quando la signora si allontana si rivolge a Kiku da sopra la spalla. «Ti serve qualcosa?»
Kiku accenna a un sorriso, boccheggia a vuoto. «Non ho niente con cui pagare.»
«Prendi quello che ti serve. In qualche modo pareggeremo i conti.»
Kiku pondera la prossima mossa con attenzione, poi, appena la signora ritorna e sparge gli attrezzi sul bancone, si sporge per dirle: «Mi scusi, nǎi-nai, ho una richiesta un po’ insolita – la vecchia inclina il capo per mostrare l’orecchio e Kiku si sforza di alzare il volume – avrebbe della colla forte e del colorante oro? Oh, e anche due pennelli piccoli.»
La signora si gratta il mento rugoso, poi solleva un indice come a chiedere a Kiku di pazientare e si allontana una seconda volta. Yao solleva un sopracciglio. «Che ci devi fare?»
«Te lo mostro più tardi.»
Intanto il signore che li ha accolti all’ingresso è entrato per prendere posto dietro al bancone, la signora ritorna con tutto ciò che Kiku ha chiesto. Mentre Yao allunga le banconote al vecchio, lei finisce di imbustare la spesa, e prima che possano salutarli asserisce, in direzione di Kiku: «Hai un accento davvero strano, xiǎohuozi. Sei di queste parti?»
A quella domanda il corpo di Kiku viene avvolto dal gelo. Prima ancora che possa dire qualsiasi cosa Yao interviene in suo soccorso.
«È mio cugino, è di Xi’an. È venuto a prendermi dopo che mi hanno congedato.»
La nonnina guarda prima Yao, poi lui, poi di nuovo Yao, poi di nuovo lui. «Oh, capisco. E tu non sei stato arruolato?»
«Ho un soffio al cuore.»
La signora solleva le sopracciglia e annuisce, un minuto dopo hanno già il negozio alle spalle.
 
Quando scorgono il profilo squadrato della chiesa non sono neanche le otto del mattino. Aggirano il perimetro dell’edificio e si dirigono in cortile, e lì, in mezzo alla ghiaia, il busto del prete emerge da un fosso nel terreno. Quando li sente arrivare si porta una mano a tetto sugli occhi e stropiccia il naso, accanto a lui compare la testa ramata dell’altro europeo che ha visto il giorno prima. Dietro di loro, ai bordi del fosso che stanno scavando, due fagotti bianchi sono tenuti insieme da una corda. Yao posa la cassetta degli attrezzi a terra, fa per prendere il terzo badile, abbandonato contro un muro della chiesa, ma Kiku lo precede. Poco dopo i fagotti vengono calati dentro al fosso, e il prete, vestito solo con una maglia bianca e pantaloni da lavoro, recita dei versi con i grani bruni del rosario attorcigliati alle dita.
«Il Signore è il mio pastore, non manco di nulla. Su pascoli erbosi mi fa riposare, ad acque tranquille mi conduce. Mi rinfranca, mi guida per il giusto cammino, per amore del Suo nome. Se dovessi camminare per una valle oscura non temerei alcun male, perché Tu sei con me. Il Tuo bastone e il Tuo vincastro mi danno sicurezza. – Mentre il prete ancora parla l’altro ragazzo fa un cenno a Kiku con la testa, ed entrambi affondano le pale nella montagna di terra alle loro spalle per gettarla sui fagotti. Anche il prete afferra un badile, e non smette di parlare neanche per lo sforzo delle braccia. – Davanti a me Tu prepari una mensa, sotto gli occhi dei miei nemici. Cospargi di olio il mio capo, il mio calice trabocca. – in poco tempo il fosso si riempie, il prete batte il dorso della pala sulla terra umida – Felicità e grazia mi saranno compagne tutti i giorni della mia vita, e abiterò nella casa del Signore, per lunghissimi anni.»
Ludwig e il ragazzino pronunciano in coro un “amen”. Mentre copriva quei poveri resti, Kiku ha avvertito una fitta lì dove la sera prima il tagliacarte gli ha solcato la pelle. Osserva il cumulo di terra con il mento sul dorso delle mani, le mani sul manico della pala. Ripensa a quello che ha detto Yao la sera prima. Se anche fosse andato fino in fondo, se avesse deciso di sventrarsi come un pesce, quei due corpi non si sarebbero ridestati, Lan e sua madre non si sarebbero alzate per rivestirsi e carezzare la testa alle bambine. Quella penitenza non avrebbe portato nessun frutto, sarebbe rimasto un atto autopunitivo senza alcun rimedio concreto. Stringe più forte il manico della pala. Oggi ha deciso di seppellire con loro il resto della sua vergogna, il bagaglio che gli pesava sulle spalle da anni. Si dice che d’ora in avanti sarà fedele solo a se stesso.
Si fermano a bere un bicchiere d’acqua e dopo la breve sosta in cucina, Kiku scopre che il ragazzo si chiama Feliciano e che Ludwig, anni prima, l’aveva assunto come cuoco. In inglese non è proprio sciolto, e ogni tanto Kiku deve ripetersi più volte prima che lui capisca il senso di quello che gli dice. Ha poco più di vent’anni e un’aria ingenua che lo fa sembrare ancora più giovane. Più avanti, mentre stringe un bullone da sotto il furgone, Feliciano racconta che due anni prima un razzo vagante ha colpito un negozio a pochi metri da lui, e che perciò è sordo da un orecchio.
Mentre provano a far partire il veicolo una voce da pulcino li raggiunge alle spalle, Kiku non ha il tempo di voltarsi che un paio di braccia corte e sottili gli circondano le ginocchia. Quando abbassa gli occhi su Meihua lo stomaco gli diventa di piombo. La bambina alza le braccia e saltella sul posto, come a chiedergli di essere presa in braccio. Così Kiku la accontenta, quasi stesse assecondando un istinto naturale che lo porta a stringere un piccolo corpo in quel modo.
Kiku si volta verso la porticina sul cortile, nota che altre paia d’occhi li stanno fissando da dietro gli stipiti. Di queste paia fanno parte anche gli occhi di Mo, che si regge su una stampella della sua misura. Ha lo sguardo da adulta, lo sguardo di chi assiste inerte al dispiegarsi degli eventi. Kiku le sorride, ma non si sorprende del fatto che Mo non ricambi.
«Hai visto, Mo? È tornato Caporale.»
«Non Caporale. Kiku.» la corregge lui, e spera che non suoi come un rimprovero. Ma Meihua gli mostra i dentini bianchi e Kiku sente il petto scaldarsi.
Il sole è già alto sopra le loro teste, così Ludwig ordina una pausa. Feliciano sparisce dietro la porta della cucina per preparare una minestra di verdure. Lui e Yao si puliscono le mani unte con un canovaccio, in poco tempo la scolaresca che li fissava da dietro gli stipiti si raduna attorno ai nuovi venuti a formare un capannello. Poco dopo siedono scomodi attorno al tavolo della cucina, i commensali sono troppi rispetto allo spazio a disposizione ed anche allargare i gomiti per impugnare i cucchiai risulta tedioso. Quando la tavola è al completo Ludwig affetta il pane e lo distribuisce ai presenti, Kiku e Yao s’interrompono con le posate a mezz’aria quando il resto dei commensali si prendono per mano per iniziare a recitare una preghiera. Si guardano disorientati per qualche istante, poi decidono di partecipare al rituale in silenzio.
Al termine del pranzo Kiku torna ad armeggiare col motore del furgone. Mentre osserva la pancia del veicolo Meihua si accovaccia accanto alle sue gambe, di tanto in tanto sbircia sotto il pianale per verificare che Kiku la segua durante i suoi monologhi. Racconta che sogna di vedere Wuhan e tutte le altre capitali, che una volta ha visto una foto dei suoi genitori sotto alla Pagoda della Gru Gialla1, e che muore dalla voglia di assaggiare la yuèbǐng2, che mamma pianificava di prepararne una da un sacco di tempo ma non ha mai trovato le dosi giuste degli ingredienti. Poi gli chiede se è mai stato a Wuhan.
«Uh, no. Sono stato a Nanchino però.»
«Che fortuna! Conosco un’amica di mamma che una volta c’è stata. Dice che è il paradiso.»
Kiku sgomita fuori dal pianale per incontrare i suoi occhi tutti iride. «Ha ragione – dice – è il posto più bello sulla terra. Dopo Kyoto, ovviamente.»
«Cos’è Kyoto?»
«È la città in cui sono nato, si trova in Giappone.»
Meihua sgrana gli occhioni. «Mi ci porti?»
Kiku apre la bocca, ma deve prendersi un attimo per pensare prima di dire qualsiasi cosa. Si schiarisce la gola. «Se e quando potrò.»
Meihua sembra attraversata da un guizzo di gioia, gli salta addosso in un abbraccio che per poco non gli fa perdere l’equilibrio. Il calore di quella stretta lo afferra alla gola, gli pizzica gli occhi. Vorrebbe staccarsi, vorrebbe dire a Meihua che lui non potrà mai essere ciò di cui lei ha bisogno, che non può giurarle devozione eterna, che fallirà. Invece la stringe, e si chiede se il rituale a cui ha partecipato oggi con Yao non sia in qualche modo paragonabile a una famiglia, un insieme di anime strette attorno allo stesso tavolo che si passano il pane di mano in mano, che alzano i bicchieri per le stesse occasioni e che pregano di fronte allo stesso altare, che seppelliscono gli stessi morti. Kiku si schiarisce la gola e chiede a Meihua di prendergli un bicchiere d’acqua, la saluta con un buffetto sulla testa. Appena la bambina infila la porta della cucina, dall’altra parte del furgone giunge la voce di Yao.
Siede sul muretto basso di un’aiuola, da dove lo spia Kiku può vedere che si cala sulla pietra con una certa fatica. Accanto a lui Mo tiene distesa la gamba fasciata. Oltre l’alone azzurro del rimorchio, Kiku scorge la mano di Yao mentre le passa una foto.
«Abbiamo trovato questa in casa vostra, sono andato a prenderla stamattina. – una pausa, la bambina non parla – Mo, tua madre e tua sorella sono state uccise da un proiettile vagante. Sono morte sul colpo. Non hanno sofferto.»
La ragazzina rimane in silenzio ad osservare la foto, ha la faccia impassibile mentre le lacrime le solcano il viso. Yao le passa un braccio attorno alle spalle, la attira a sé. Kiku torna a guardare la facciata della chiesa, poggia la nuca sul ferro del rimorchio. Nel silenzio del primo pomeriggio si fanno strada le voci delle bambine che giocano a campana nel cortile, e quelle di Ludwig e Feliciano che lavano i piatti e asciugano i piani della cucina. In quel quadro rilassato, Yao mente come un adulto, come mentono i padri.
 
 
 
_____
Note:
  1. Si tratta di un edificio religioso di Wuhan, quella odierna è una ricostruzione del 1985 su modello dei dipinti della Dinastia Qing, ma la costruzione fu eretta per la prima volta nel 223, durante il Periodo dei Tre Regni (Sān Guǒ). Questa prima torre, negli anni, dovette misurarsi contro disastri, guerre e incendi, pertanto subì diverse ricostruzioni nel corso dei secoli, ed oggi al suo interno è possibile ammirare modellini di legno che raccontano il suo percorso.
  2. La torta lunare è un dolce cinese che viene solitamente consumato durante la Festa di Metà Autunno, una ricorrenza dedicata al culto della luna. Si tratta di tortine rotonde o rettangolari, composte da una sfoglia di pasta sottile che avvolge un ripieno di fagioli rossi o di pasta di semi di loto, e può talvolta contenere anche tuorli salati di uova d’anatra. Tradizionalmente, le torte lunari hanno una stampa in caratteri cinesi che simboleggiano la longevità e l’armonia, alle volte decorati con una cornice che rappresenta la luna o la dea lunare Chang’e, ma anche, fiori, tralci di vite o un coniglio (simbolo cinese della luna).

Ritorna all'indice


Capitolo 12
*** Capitolo XI - Quel che rimane ***


Capitolo XI
Quel che rimane
 
Una volta è scappato di casa. Tornava da scuola, aveva visto il profilo della machiya di legno bruno di fronte a se. Era rimasto a osservare in silenzio il tetto ricurvo e il basso cancello che fasciava la casa, poi le sue gambe l’avevano condotto verso un albero poco distante dal vicinato. Aveva lanciato lo zaino di cuoio più in alto che poteva e si era arrampicato sul ramo più alto e resistente che aveva trovato. Ricorda di essere rimasto lassù un intero pomeriggio, ad ascoltare i rumori sommessi di quel quartiere tranquillo, finché due vicini non lo avevano trovato. Solo allora si era accorto di essere stato via quasi mezza giornata, e che ci sarebbero state delle conseguenze. I vicini l’avevano scortato a casa, e lì, oltre il cancelletto del giardino, suo padre li aveva ringraziati senza rivolgere a Kiku un solo sguardo, lo aveva fatto entrare e si era richiuso l’uscio alle spalle. Nella sera del giardino Kiku aveva provato a parlare, a dire: mi dispiace, otou-san, ma suo padre gli aveva tirato uno schiaffo. Da quel che ricorda è stata la prima e ultima volta in cui Takeshi ha osato tanto.
Ti abbiamo cercato tutto il pomeriggio, tua madre era preoccupata.
Mi dispiace, otou-san.
Sai che non sta bene, come puoi farle una cosa del genere? Non hai nessun rispetto per chi ti ha messo al mondo? Smetti di piangere.
Mi dispiace, otou-san.
Basta piangere, ho detto. Torna dentro.
Quello che Takeshi non sapeva è che Kiku aveva cercato di scappare dal silenzio. Da quando sua madre si era ammalata, la casa aveva assunto una dimensione di immobilità, come se gli spazi dentro alle porte di carta si fossero lentamente svuotati dalla vita. Quel giorno Kiku aveva sentito il bisogno di fuggire, di non assistere a quel lento decadimento almeno per un pomeriggio. Ripensando a quell’episodio, Kiku ebbe finalmente chiaro cos’era quell’essenza che aveva colto appena entrato nella dimora dei Wang, che tanto mancava nella casa di suo padre. Era un soffio di vita, una forza che spingeva i residenti ad agire, a provare emozioni. Ma dal momento in cui Kiku aveva visto il corpo di Nilufar piombare sull’erba e Yao scattare verso di lei come una lepre, quel soffio sembrava essersi estinto.
Da quasi due settimane Yao si era chiuso nel suo ufficio. Passava il tempo a macchiarsi le dita d’inchiostro curvo sulla tesi, più di una volta ha saltato dei pasti. A tavola si mangiava in silenzio, di tanto in tanto i Wang si sforzavano di innescare una conversazione che però si smorzava quasi subito. In quei giorni di stallo a Kiku tornava in mente la scarica elettrica che lo aveva invaso al fiume, e si chiedeva se l’avesse provata davvero, tanto quella sensazione gli risultava distante, lontana.
In quei giorni gli capitò di assistere a una conversazione tra Yao e suo padre. Si stava recando in sala da pranzo e all’interno Wang Long e Yao erano già seduti. Quando si accorse che Long stava parlando Kiku preferì aspettare che finisse accostato alla porta, temendo di interrompere qualcosa di irripetibile.
«Tu hai studiato il Zhuang-zi1, xiǎo-Yao.»
Kiku non udì risposta, immaginò che Yao si fosse limitato ad annuire.
«E ti ricordi cosa disse Hui-zi a Zhuang-zi? È l’episodio della morte della moglie.»
Dopo qualche secondo di silenzio Yao parlò, la voce arrochita dal mutismo delle ultime ore. «Che non piangiate la morte di colei che fu vostra compagna di vita e allevò i vostri figli è già abbastanza grave, ma che cantiate battendo sulla scodella è davvero troppo.»
«Esatto. E ti ricordi cosa disse Zhuang-zi? – nella cucina tornò il silenzio, forse Yao si era stancato di quella conversazione. – Háizi. Per favore, rispondi.»
 «Zhuang-zi disse: niente affatto. Al momento della sua morte fui, naturalmente, turbato per un istante, ma poi, riflettendo sul significato di “inizio”, scoprii che in origine lei non possedeva vita. Non solo non possedeva vita, ma nemmeno forma. Non solo non possedeva forma, ma nemmeno soffio. Qualcosa di sfuggente e inafferrabile si trasforma in soffio, il soffio in forma, la forma in vita, ed ecco ora che la vita si trasforma in morte. Tutto ciò è simile al succedersi delle quattro stagioni dell’anno. In questo momento, mia moglie è tranquillamente sdraiata nella Grande Sala della Casa dei Canti. Perciò, se io mi lamentassi, i miei singhiozzi stonerebbero: vorrebbe dire che non porto il Tempo del Destino. Per questa ragione me ne astengo».
Da come recitava era evidente che Yao avesse imparato quelle righe a memoria, al punto da non tradire nemmeno una pausa.
«Senti, xiǎohuǒzi… non credere che non sappia come ti senti. Ma nelle parole del maestro c’è un fondo di verità: la morte fa parte del Dao2, è il corso naturale degli eventi. E per quanto sia giusto onorare i defunti, io temo che tu stia trascurando i vivi, adesso.»
 
Una mattina si accorse che quella stessa settimana sarebbe tornato a Kyoto. Ancora pochi giorni e si sarebbe separato dai Wang, da Yao, forse per sempre. Camminando avanti e indietro per la stanza si domandava se l’estate successiva suo padre l’avrebbe lasciato tornare lì, o se Yao si sarebbe proposto di venire a Kyoto per lui, se la loro corrispondenza sarebbe stata costante. Si coprì la faccia con le mani, alzando i ciuffi scuri dalla fronte, davanti all’evidenza del fatto che ormai Yao occupava ogni angolo della sua mente. Quel giorno, quando il sole non era ancora sorto e il cielo conservava ancora i riflessi verdognoli dell’aurora, Kiku uscì dalla stanza degli ospiti e bussò alla porta di Yao. Lo trovò steso scomposto sul letto, con lo sguardo lontano e i capelli sparsi sul cuscino, sul collo e sul petto. Sembrava si fosse svegliato già da tempo. Kiku si chiuse alle spalle la porta, disse: «Avevo voglia di andare al fiume. Dato che sei sveglio…»
«Ti accompagno, sì.»
Così si vestirono e gettarono due teli dento ai cestelli delle biciclette. Percorsero la strada in silenzio, attorno a loro la natura si ridestava. Arrivati alla spiaggetta addossarono le biciclette a un albero, stesero le stuoie sui sassi e si spogliarono. L’acqua era gelida, osservando bene attraverso i riflessi si potevano intravedere le virgole rosse dei pesci guizzare sui sassolini. Kiku aveva ancora qualche difficoltà a nuotare in autonomia, e per tenere il mento sopra la superficie doveva scalciare come un cavallo. Yao invece muoveva gambe e braccia quel poco che bastava per mantenersi a galla, ma gli stava vicino come per tenersi pronto ad afferrarlo in caso di necessità.
Quando tornarono a riva Kiku si permise di lasciare indugiare lo sguardo sulla peluria lucida d’acqua sugli avambracci solidi di Yao e sulla muscolatura asciutta delle spalle, decorate da ghirigori di capelli scuri. Gli si sedette accanto e restarono ad osservare il cielo che si scaldava, le ombre delle montagne iniziavano a prendere colore. A un certo punto Yao interrompe il silenzio con un semplice “grazie”.
«Per cosa?»
«Per quello che stai facendo adesso. Mi dispiace non essere stato presente ultimamente.»
«Non dirlo nemmeno.»
«Sai, una volta da bambino ho rischiato di annegare. – Yao si guardò intorno, i capelli in parte asciutti e gli svolazzavano sulla fronte. – Proprio qui. Avrò avuto cinque anni credo, i miei erano a Nanchino e i Li ci hanno portati al fiume. Volevo fare uno scherzo a Nilufar e mi sono allontanato. – Yao ridacchiò con lo sguardo lontano – Ma ho rischiato di farmi male. Mi ricordo che Li Feng si è buttato in acqua con tutti i vestiti. Poi la sera Nilufar mi ha messo a letto e mi ha detto: mi hai fatto venire i capelli bianchi, xiǎo-Yao. E allora le ho chiesto se li potevo vedere. Assolutamente no!» concluse ridendo, ma la risata si spense quasi subito e Yao sembra tornare in una dimensione di tristezza.
Dal primo momento in cui li aveva visti insieme, Kiku aveva capito che Nilufar non era una dipendente qualunque. Diverse volte in vita sua aveva visto, prima di allora, come certe famiglie seppellivano i domestici stroncati dalla fatica, con la stessa indifferenza con cui si seppellisce una capra, come i ricchi si premurassero di versare un paio di lacrime prima di buttarsi a capofitto nella ricerca di nuove braccia operose. Quella volta era diverso. Nilufar non aveva trasmesso a Yao la sua faccia, le sue mani, la sua altezza o la sua espressione, non l’aveva portato in grembo e non aveva urlato fino a lacerarsi i polmoni per metterlo al mondo, ma Nilufar era sua madre, e Yao l’aveva persa. E Kiku odiava che Yao avesse in comune con lui anche questo.
Yao gettò una risatina nervosa tra loro, si morse il labro. «Io non ho mai – chiuse gli occhi, s’interruppe per deglutire e schiarirsi la voce – non le ho mai detto quanto fosse importante per me, forse non lo sapevo neanche. Ero talmente tanto preso dalle mie idiozie che non mi sono neanche preso un momento per dirle quello che volevo dire, e adesso io… - la bocca gli rimase aperta a vuoto per un po’ mentre gesticolava con una mano, gli occhi gli si inumidirono – adesso mi sembra che mi sia avanzato tanto di quell’amore e… non so che farmene, non so come incanalarlo.»
Kiku lo osservò mentre stringeva le labbra, ripensò a una cosa che sua madre gli disse una delle ultime volte che la vide. In quei giorni Kiku bussava alla porta della sua stanza per sgusciare all’interno senza attendere risposta, si sedeva accanto al futon in religioso silenzio e la osservava dormire col respiro pesante e fili chilometrici di capelli sparpagliati ovunque sul cuscino e sulla sua fronte lucida. Una di quelle volte sua madre aprì gli occhi su di lui, si spostò per fargli spazio sul futon e gli fece cenno di sdraiarsi accanto a lei. Kiku obbedì e per un po’ rimase a respirare il suo odore mentre lei gli accarezzava i capelli.
Una volta Kiku ha letto che le femmine dei polpi vivono con l’unico scopo di mettere al mondo dei figli, che dopo aver deposto le uova la madre smette mangiare per sorvegliare il nido, diventa debole e grigia e alla fine muore. Col senno di poi, Kiku si chiese se sua madre non avesse vissuto un destino simile, magari per questo gli disse ciò che venne dopo. Kiku-chan, aveva sospirato con gli occhi fissi sul soffitto, nella vita ti capiterà di dover fare delle scelte, e queste scelte richiederanno coraggio. Ora ascolta bene, Kiku-chan, non fare i miei stessi errori. Non lasciarti attraversare dalla vita, fa in modo che ti colpisca in pieno. Hai capito?
Kiku aveva annuito senza comprendere appieno il significato di quelle parole. Ma in quel momento seppe che avrebbe potuto non rivedere Yao per molto tempo, che gli eventi li avrebbero allontanati anni luce l’uno dall’altro se non avesse provato ad opporsi, perciò trovò il coraggio di parlare.
«Dallo a me.»
Yao increspò la fronte, si scacciò le lacrime via dal viso con gesti bruschi. «Come?»
«L’amore che ti resta, lo voglio io. Non m’importa se è quel che rimane, lo voglio lo stesso. Dallo a me.»
Kiku sentì il cuore trottare mentre fissava gli occhi da gatto di Yao. In quel momento entrambi dovettero aver trovato il coraggio che anelavano da settimane, perché Yao si sporse verso di lui, lambì la pelle della sua mascella col pollice, e mentre ancora Kiku osservava le lentiggini dorate sul suo naso chiuse gli occhi e lo baciò. Kiku rimase immobile per qualche secondo, come congelato sul posto, si accorse di stare rivivendo la stessa sensazione di vuoto e adrenalina di quando si era tuffato nel fiume con la mano di Yao nella sua. Poi chiuse gli occhi e assaporò l’odore di carta e inchiostro delle mani di Yao, il retrogusto di tè della sua bocca. Gli mise una mano in mezzo ai capelli umidi, gli carezzò il collo mentre tentava di ancorarsi a lui, di non sprecare quei secondi che gli erano stati concessi. In quel momento Kiku avrebbe rinunciato alla sua vita, avrebbe abbandonato i compagni di scuola, i voti alti, il futon nella sua stanza e la benedizione di suo padre, se fosse stato abbastanza per pagarsi un altro minuto con Yao. E Kiku sapeva anche che Yao aveva atteso quel momento tanto quanto lui.
Kiku tracciò con la punta delle dita il profilo della clavicola di Yao, indugiò sulla sua spalla e percorse la linea che disegnava i muscoli delle braccia fino al polso, infine allargò il palmo sul dorso venoso della sua mano, che gli cingeva lo spazio tra il collo e la mandibola. In lontananza si udì una sorta di frinire, come di ruote di bicicletta, e Yao si staccò da lui. «Non qui.» disse con le palpebre ancora socchiuse. Kiku annuì e si morse il labbro. Rimasero ad osservare le curve delle montagne, accostati l’uno al braccio dell’altro e uniti solo attraverso quella sottile striscia di pelle.
«Torno a casa questo fine settimana.»
«Lo so. Avrei dovuto parlarti prima.»
Quando il sole si fece alto risistemarono le stuoie nei cestelli delle biciclette e si rivestirono. Mentre camminavano in mezzo alle canne di sorgo, spalla contro spalla, Kiku gettava di tanto in tanto un’occhiata nella sua direzione, spiava le ombre lunghe sul suo viso dorato, i muscoli longilinei del collo. A un certo punto Yao si voltò a guardarlo, un’iride scura si tinse di giallo a contatto col sole caldo. Kiku arricciò le labbra in un piccolo sorriso e abbassò il capo, Yao lo stava ancora guardando. Montarono sulle biciclette per un tratto di strada e si arrestarono all’unisono di fronte alle mura della casa dei Wang. Yao sussurrò, quasi temesse che i fusti di bambù potessero sentirli: «Aspettami nella tua stanza stasera. Arrivo a mezzanotte.»
«Non fare tardi.»
Così varcarono l’ingresso del giardino e sistemarono le biciclette contro a un muro, poi entrarono dentro casa per cambiarsi per il pranzo. Prima di dividersi, sulla soglia della stanza degli ospiti, Yao si permise di carezzargli l’angolo della mano con il mignolo. Un attimo dopo aveva già imboccato l’ingresso della sua stanza.
Furono i primi a sedersi a tavola. Mentre Honghui e il signor Arthur si apprestavano a spostare le sedie per accomodarsi, Kiku capì che Yao si era sfilato una scarpa, perché avvertì il piede nudo di lui carezzargli una caviglia. In quei brevi secondi che precedettero l’arrivo dei restanti commensali, Kiku ebbe serie difficoltà a mantenere una faccia impassibile. A testimoniare il suo fallimento fu un intervento di Mei.
«Tutto bene, Kiku-san? – Kiku si voltò con un sopracciglio arcuato, lei aggiunse: – sei rosso come un’aragosta.»
«Soffro il caldo. – rispose lui con un sorriso – grazie per averlo chiesto.»
Non si voltò a guardare Yao, ma fu sicuro del fatto che stava trattenendo una risata scrosciante.
 
 
***
 
Durante il resto della giornata Kiku aveva contato ogni minuto che lo separava dalla mezzanotte. Aveva trascorso quel tempo sforzandosi di fare qualsiasi cosa potesse tenergli la mente impegnata, aveva costretto Honghui a una partita infinita a go, aveva cacciato il naso dentro a un libro sottratto dallo studio di Yao e si era anche sottoposto a un monologo del signor Arthur sulle innovazioni tecnologiche che i britannici hanno regalato al mondo. Durante tutte queste attività non aveva smesso di pizzicarsi la cartilagine tra pollice e indice per mettere a tacere la morsa che gli stringeva lo stomaco. Fino alla mezzanotte si trovò diviso tra il desiderio sfrenato e il terrore di essere da solo con Yao.
A cena lui non era presente, era stato invitato da un piccolo gruppo di amici a passare una serata insieme. Durante il pasto Kiku spiava i volti di Wang Long e di Lanhua, si chiedeva se uno di loro sapesse, se avessero intuito cosa fosse successo quel giorno sotto al tavolo. D’improvviso lo attraversò un nuovo dubbio. Si chiese da quanto tempo Yao avesse capito di essere omosessuale, se il letto di Kiku sarebbe stato un banco di prova o il suo ultimo approdo. Si accorse che il signor Arthur lo stava guardando, Kiku si chiese cosa sapesse. Dopotutto si conoscevano da anni. Magari Arthur era stato al suo posto, magari a Yao piaceva avere una folla nel letto. Il pensiero di essere l’ultimo arrivato di una collezione di trofei lo scosse come un fulmine.
Tornato nella sua stanza si fece un bagno e si concesse il pregio di tenere la testa sott’acqua per qualche secondo. Magari non sarebbe stato il primo né l’ultimo ad accogliere Yao nella propria stanza, magari avrebbe odiato ogni momento di ciò che stava per accadere, ma non gli importava. Se quella sera non fosse andato fino in fondo, avrebbe passato gli anni avvenire a tormentarsi su ciò che sarebbe potuto accadere, a litigare con se stesso. E se proprio doveva scoprire come ci si ama tra uomini allora doveva farlo con Yao. Si chiese se il mattino dopo si sarebbe svegliato diverso, più maturo, più adulto. O forse non sarebbe cambiato nulla, avrebbe continuato ad essere lo stesso Kiku di sempre.
Quando udì il motore di un’auto avvicinarsi alla casa, la voce di Yao salutare il conducente e il rumore della portiera, una parte di lui sperò che Yao sarebbe andato a dormire dimenticandosi di lui che lo aspettava, un’altra pregava perché si fiondasse correndo nella sua stanza e lo afferrasse per il jinbei. Si sentiva ridicolo a camminare avanti e indietro, a chiedersi se l’abatjour stesse meglio accesa o spenta, a domandarsi se fosse meglio attenderlo da vestito o con addosso solo le coperte del letto.
Si udì un lieve bussare, Kiku disse: avanti, e Yao sgusciò all’interno. Se l’era immaginato spavaldo e sicuro, invece era evidente che non sapesse se tenere le mani in tasca o sui franchi o se incrociare le braccia.
«Hai aspettato molto?»
Ti prego, non farmelo dire.
«Sei in orario.»
Ovviamente non era quello che voleva sapere. Kiku gli si fece vicino e gli prese una mano, lo trascinò a sedere sul letto. Yao si tolse le scarpe, gli carezzò una caviglia col piede lungo come aveva fatto quel giorno sotto al tavolo. Kiku rise e si voltò a guardarlo. Quando furono l’uno di fronte all’altro la sua risata si spense. Yao poggiò la fronte sulla sua, gli chiese se fosse sicuro, sussurrava.
«Certo che sì.» disse Kiku, e invece avrebbe voluto dirgli che non era sicuro di niente, che l’idea di avere un unico colpo in canna lo invogliava a puntarsi l’arma alla tempia. Allora Yao si sporse in avanti per baciarlo e tirargli la cordicella del jinbei. Un momento dopo Kiku era nudo prima di lui, e così esposto, con le mani squadrate di Yao ovunque sul suo corpo, gli sembrò di stargli dicendo: eccomi, sono qui per te. Yao armeggiò a vuoto con la cintura dei pantaloni, le mani gli tremavano e così Kiku dovette aiutarlo a svestirsi. Poco dopo Yao si calciò i pantaloni via dalle caviglie e fu sopra di lui, la peluria delle sue gambe gli solleticava la pelle, le sue labbra roventi gli si posavano addosso come un marchio per il bestiame.
Poi Yao seppellì il volto nell’incavo del suo collo e Kiku si morse una nocca per non urlare. Yao domandò: «Ti faccio male?», ma Kiku non rispose. Invece cercò di imprimersi nella mente la sensazione della pelle di Yao stesa sulla sua come una coperta, dei muscoli delle sue spalle sotto le unghie. Lottò per tatuarsi addosso il suo odore, e più di tutto il senso di vuoto che lo aveva assalito appena Yao si era fatto strada in lui, che lo schiacciava, che gli spezzava la schiena.  In quel momento Kiku ebbe l’impressione di non aver mai vissuto, di essere rimasto ai margini della vita per tutto quel tempo fino ad allora. Si chiese dove fosse stato Yao in quegli anni di erranza, si chiese se dopo quella notte sarebbe mai riuscito a toccare una vetta simile, a emozionarsi di nuovo, o se tutto ciò che sarebbe venuto dopo sarebbero state sensazioni vuote e superficiali, artefatte, pallide imitazioni di ciò che stava avvenendo in quel momento. Ma poi Kiku chiuse gli occhi e gettò la testa all’indietro, Yao gli chiuse la bocca con una mano per paura che qualcuno potesse sentirli. Allora mise da parte tutto quel macchinare, e trasse conforto dalla perfezione di quell’incastro di pelle e anime.
 
 
 
____
Note:
  1. Zhuangzi (in cui zi significa “maestro”, esattamente come in Kong Fuzi, italianizzato Confucio, Mengzi, Mencio, Laozi ecc.) fu un filosofo cinese, vissuto, sembrerebbe, durante il Periodo dei Regni Combattenti (453 a.C – 221 a.C.) autore dell’omonimo trattato. Nonostante la storiografia cinese tradizionale lo racconti come allievo di Laozi (figura, per altro, più fittizia che realistica), le tecnologie moderne hanno permesso di datare il Zhuangzi in epoca antecedente rispetto al Dàodéjīng, dunque i rapporti maestro-allievo sembrerebbero sovvertiti (in realtà bisognerebbe spiegare che probabilmente il Dàodéjīng fu opera di una comunità di intellettuali daoisti piuttosto che di un singolo individuo). Per spiegare il suo pensiero, l’autore utilizza delle storie brevi, simili a parabole, come l’episodio della morte della moglie, in cui viene fuori il concetto di non agire.
  2. Il Dao (scritto anche Tao in codice Wade Jiles) è uno dei principali concetti del pensiero cinese, e tradotto letteralmente significa “la Via”. È un termine particolarmente difficile da spiegare, una sorta di energia inesauribile, fonte della vita. Il carattere ha al suo interno il radicale di “piede”, che esprime un’idea di movimento, come un flusso, che per certi versi rende questo concetto assimilabile all’essere parmenideo. Nel Libro dei mutamenti (Yijing), si legge: una volta yin, una volta yang, ecco il Dao. In generale, le scuole di pensiero cinesi si sono da sempre poste come obbiettivo ultimo il raggiungimento del Dao, o forse sarebbe più corretto parlare di allineamento con la Via, che mentre per i confuciani avviene dopo anni di studio e dura pratica, per i daoisti va perseguito disimparando la complessità delle strutture sociali e regredendo a uno stato di simbiosi con mondo, il così detto non-agire.

Ritorna all'indice


Capitolo 13
*** Capitolo XII - Sacrifici umani ***


Capitolo XII
Sacrifici umani
 
Quando tornano alla locanda la signora Meng è assente. C’è un biglietto sul bancone, all’ingresso, recita: sono uscita per commissioni torno presto. Manca una virgola. Kiku ha svuotato su un tavolo della sala da pranzo il contenuto del sacchetto del bazar, poi è sparito in cucina. Yao lo segue quasi per inerzia, non si aspetta di vederlo frugare tra i rifiuti. Resta un momento con la bocca dischiusa, durante il quale è sicuro che Kiku stia manifestando gli effetti di una commozione celebrale o che le verdure della minestra abbiano innescato in lui una qualche reazione indesiderata. Si prepara a dire qualcosa, ma Kiku tira fuori dal cestino i resti di un servizio da tè di porcellana, lo stesso che è caduto dalle mani della signora Meng la sera prima. Kiku trasporta i frammenti sul tavolo, premurandosi che non ne manchi neanche uno all’appello. Yao si toglie il cappello e gli si siede accanto.
«In due facciamo prima.» dice.
Così impastano la colla in un piattino con una spatola di legno, ci versarono sopra il colorante oro. Yao osserva con attenzione i gesti delle mani di Kiku, le unghie corte e lucide.
«Dove hai imparato a fare questa cosa?»
«Me l’ha insegnato mia madre.»
Yao osserva il naso sottile, le sopracciglia piumose, la forma soffice delle labbra e la mascella squadrata. Ha il viso più adulto, più scavato, ma conserva ancora una minima morbidezza sulle guance bianche. Palla Di Riso. Yao sbuffa una risata pensando a quel soprannome. Kiku si volta a guardarlo, deve averlo sentito ridere. Yao si chiede se somigli a sua madre.
«Perché ridi?»
«Niente, lascia stare. – fa un gesto con la mano – Questa cosa ha un nome?»
«Kintsugi. È una tecnica molto antica – pressa assieme due pezzi di una tazza mentre parla – l’idea di base è che i nostri errori e le nostre imperfezioni costituiscano un punto di forza. Mia madre la pensava così, ecco perché me l’ha insegnato.»
«E tuo padre?»
Kiku arriccia le labbra in un sorriso grave. «Lui preferisce prevenire che curare. Secondo lui se ripari i cocci allora non sei stato sveglio abbastanza da mettere la ceramica al sicuro.»
Yao continua ad osservarlo per qualche secondo, poi abbassa lo sguardo. Mentre sparge la colla su un frammento si domanda se Kiku somigli anche a suo padre, si chiede se quando si sono conosciuti abbia cercato un genitore in lui. Molte persone lo fanno, pensa. Ha avuto modo di conoscere gente che proiettava le figure genitoriali addosso ad altri individui, gente che si lega solo con chi è in grado di allargare le ferite provocate dai genitori. Forse Kiku è uno di questi.
«Non credere che questo basti a sistemare le cose con Meng tài-tai. Non fraintendermi, è una brava persona, ma non credo che riuscirai a convincerla che esistano giapponesi buoni.»
«Non lo faccio per questo. – Kiku sistemò la prima tazzina a testa in giù sul vassoio di metallo – non m’interessa redimermi ai suoi occhi, probabilmente non ci riuscirò mai. Ma vorrei che non dimenticasse la sua umanità.»
Presto alle tazzine si sommano una zuccheriera e una teiera col volto di Laozi modellato sul coperchio. Quando la colla è asciutta Kiku sistema ogni elemento sul vassoio, avendo cura di scegliere le angolazioni migliori. Yao gli dice di aspettarlo, sale in cima alle scale e imbocca la porta della stanza. Frugando nei bagagli riesuma un sacchetto di stoffa colorata. Tornato al piano terra trova Kiku ancora fermo ad osservare il servizio, di tanto in tanto ruota una tazzina su se stessa per assicurarsi che la composizione risulti armonica. Yao allarga la cordicella del sacchetto e tira fuori una carpa di argilla verde con la coda sbeccata. La posa sul vassoio, Kiku si volta a guardarlo con la fronte aggrottata.
«Ma dove l’hai trovato?»
«Tra le tue cose. Quando ti hanno perquisito ho chiesto di accedere ai tuoi effetti personali.»
Kiku si morde il labbro e distoglie lo sguardo. È evidente che voglia chiedergli se ha trovato dell’altro, ma Yao preferisce non incalzarlo. Kiku sorride. «Magari le porterà un po’ di coraggio. – dice, poi si volta verso Yao. – Mi aiuti a fare una cosa?»
Yao annuisce, poco dopo recuperano l’uniforme di Kiku dal cassetto in cui è stata seppellita. Kiku si premura di controllare le tasche alla ricerca di qualsiasi cosa possa essergli rimasto addosso in quei giorni di erranza, ma non trova nulla. Si spostano in cortile e Yao recupera un vecchio cilindro di metallo che dev’essere stato una cisterna per l’acqua. Intanto Kiku raccoglie fogliame e rami secchi dalle aiuole abbandonate, in poco tempo il bidone è pieno a metà. Yao lo osserva mentre piega l’uniforme e la sistema con cura dentro al bidone, poi Yao gli porge la scatola di fiammiferi che ha trovato in un cassetto della cucina. Kiku ne tira fuori uno e lo strofina sulla carta vetrata, poi, quando la fiammella esplode, lo getta dento al bidone e fa un passo indietro. C’è del fumo scuro, Yao teme che la signor Meng vedendolo possa allarmarsi. Restano a osservare il rogo per un tempo che Yao non riesce a quantificare, poi senza voltarsi dice a Kiku: «Va’ a lavarti, se resta dell’acqua io mi lavo dopo cena.»
«Sicuro? E se poi non ne rimane?»
«Tu va’.»
In realtà Yao preferisce non lasciarlo da solo con una fiamma libera. Durante la giornata gli è parso che Kiku abbia messo da parte gli struggimenti della sera prima, ma è consapevole che ogni secondo che passa lontano dal suo sguardo rappresenta un rischio.
 
Kiku deve indossare di nuovo gli abiti di quella mattina, perché Yao non ha altri vestiti da dargli. Quando il fumo cessa di fuoriuscire dal bidone Yao decide di accendere la radio nel piccolo salotto, e smette di armeggiare con la rotella solo quando riconosce un pezzo trasmesso da un’emittente di Chongqing. Il presentatore annuncia una cantante cinese che sta per porgere un omaggio a Vera Lynn1, nel salotto si diffondono le prime note di We’ll meet again2. Yao canticchia aggrappandosi alla stampella, si ferma quando vede Kiku immobile in un angolo.
«Ma dai, non conosci questa canzone?»
Lui sorride. «Di questi tempi non trasmettiamo molta musica dall’estero.»
«L’avrai sentita almeno una volta! Dai, vieni qui.»
Prima che Kiku possa allontanarsi Yao gli afferra una mano. Ammette a se stesso di non avere idea di cosa sta facendo e che sta per rendersi ridicolo, ma sa anche che mentre rimugina sui suoi pensieri due soldati armati potrebbero abbattere la porta a calci da un momento all’altro e sparargli addosso finché non sarà più riconoscibile, quindi tanto vale farsi trovare mentre balla. Mette da parte la stampella, Kiku ha la rigidità di un muro, cerca di divincolarsi.
«Sei matto? Io non so ballare!»
«Ascolta la musica.»
Kiku scuote la testa, ma non riesce a trattenere un sorriso. Agli angoli della bocca gli compaiono due fossette. Yao sposta il peso da un piede a un altro a ritmo, canta: «So will you, please, say hello to the folks that I know?»
Kiku gli pesta i piedi, gli chiede scusa e a un certo punto scoppia in una risata imbarazzata. Sembra che dica: guarda che mi fai fare. Sono completamente scoordinati, Kiku deve tenere gli occhi puntati sui loro piedi per capire dove stanno andando.
«Perché devo fare io la donna?»
«Perché sei più basso.»
«Che razza di motivo è?»
«Sta’ zitto e ascolta la canzone.»
Keep smiling through,
Just like you always do…
«…‘till the blue skies drive the dark clouds far away. Non guardare per terra, guarda me.»
Così Kiku alza gli occhi con le labbra ancora arricciate nell’ombra di un sorriso. Guardando il proprio riflesso in quegli occhi Yao viene investito da un’onda di tristezza. Si chiede per quale motivo abbia deciso di trascinarlo in questa stupida farsa, perché gli abbia preso la mano. In quel momento sa che tra di loro sta passando qualcosa, come quella volta sotto la pioggia a Nanchino. Vorrebbe dirgli di restare così ancora un po’, dirgli: non andartene di nuovo. Se te ne vai mi uccidi.
But I know we’ll meet again
Some sunny day.
La radio manda l’ultima nota e la porta d’ingresso si apre, si staccano in un unico gesto brusco. La signora Meng è entrata nella stanza a capo chino e non li ha visti ballare. Yao si precipita ad aiutarla con le buste della spesa, sente l’urgenza di riempire il vuoto lasciato dalle mani di Kiku sulle sue. La signora Meng si soffia un ciuffo di capelli via dalla fronte, quando si accorge del servizio in bella mostra sul tavolino del salotto resta immobile a fissarlo. Yao sparisce in cucina, lasciandola sola con Kiku. Nonostante sia curioso di sapere cosa si stanno dicendo, sente il bisogno di rifugiarsi lontano da quella stanza. Frugando nelle buste della spesa tira fuori un sacco di riso, un mazzo di porri, dòufu e verdure di stagione. In un altro sacco è presente un ulteriore involucro di carta che protegge un’anguilla.
«Che sta facendo, lǎozǒng? Lasci fare a me.» La signora Meng entra in cucina sbracciandosi, ma Yao la ferma.
«Si sieda pure tài-tai. Avevo voglia di cucinare.»
 
Poco dopo la cucina è invasa dall’odore delle verdure bollite e del riso appena lavato, a Yao basta chiudere gli occhi per ritrovarsi catapultato nella cucina di Nilufar. Attraverso l’ombra delle palpebre può vedere Li Feng attraversare la stanza con in mano le anatre da mettere sul braciere, Nunu che sistema le casse di verdure, la signora Li che rosicchia il suo rametto di liquirizia in un angolo. Viene riportato alla realtà dalla tendina della cucina che si sposta e dalla voce di Kiku alle sue spalle.
«Non ho mai visto questa ricetta.»
Dopo un attimo di sorpresa Yao sorride e torna a guardare la lastra di legno con cui sta spremendo il dòufu. «Ovvio che no. Questo è il fantastico Riso Anti-Spreco Alla Nilufar. È una ricetta per pochi eletti.»
Dietro di lui Kiku sbuffa una risatina, poi si sbraccia e gli si posiziona accanto. Gli chiede cosa fare e Yao lo mette a pulire l’anguilla. Da come la tocca è ovvio che non ha mai pulito un pesce in vita sua.
«Guarda che non può mangiarti, è morta.»
«Spiritoso.»
«Dai, lascia stare.»
«Assolutamente no. Guidami tu.»
Yao gli spiega cosa tagliare e come, con una certa fatica Kiku rimuove le viscere e le lische, toglie la testa e la coda, e prima che possa buttare gli scarti Yao lo ferma come se stesse per ammazzare qualcuno. «Questi servono per il brodo.» spiega. Kiku torna a occuparsi dell’anguilla, Yao si chiede se lasciargli in mano un coltello sia stata una buona idea. «Vuoi che continui io?» gli chiede.
Dal breve sguardo che Kiku gli lancia è chiaro che ha capito a cosa si riferisce. «Non devi preoccuparti per me.»
Yao si acciglia, di azzarda a dire: «Oggi sembri più sereno. Mi sbaglio?»
Kiku mantiene lo sguardo sui cubetti bianchi che sta ricavando, sono tutti disuguali e storti, ma l’estetica non è importante. «Ho ripensato a quello che mi hai detto ieri. – spiega, a ritmo misurato – avevi ragione, Yao. Uccidermi non le avrebbe riportate in vita. Quindi se voglio rimediare a questa catastrofe, nel mio piccolo, devo trovare un modo migliore per farlo.»
Yao lo guarda, poi torna a fissare i cubetti di dòufu sotto alle proprie mani. Ne afferra una manciata per sistemarli in una ciotola piena a metà di farina di riso. Quella dichiarazione lo rassicura, ma ha coscienza del fatto che l’equilibrio di Kiku è ancora fragile. Deve sperare che trovi uno scopo, un motivo per resistere.
«Quante persone hai ucciso?» gli chiede Kiku, dal nulla, come se gli stesse domandando l’ora.
Dopo una pausa Yao risponde: «Troppe.»
Kiku getta una manciata di anguilla in un’altra ciotola di farina di riso, sposta il tagliere nel lavandino. I suoi movimenti sembrano sicuri e controllati, ma Yao avverte una nota incrinata nella sua voce. «Come ci convivi?»
Il dòufu finisce in padella con uno sfrigolio, subito dopo Yao aggiunge il pesce. «Aspettando il momento per raddrizzare i torti. Prima o poi arriva sempre.»
Kiku si lava le mani, e mentre ancora si sfrega l’asciugamano sulle dita dice: «Sai, credo anche… sto iniziando a pensare che forse era giusto che tu entrassi in quel momento. Che non sia stato un caso, capisci?»
Yao annuisce, rimesta il dòufu sul fuoco. Kiku si gratta dietro l’orecchio, sbircia nella sua direzione. «A proposito… grazie. Per avermi fermato.»
Yao lo guarda per un lungo momento, si rende conto che quella potrebbe essere la loro ultima occasione per mettere le cose in chiaro. «Ti ho già deluso una volta. Se avessi sbagliato anche ieri non mi sarei mai perdonato.»
«Questo non è–
 «Non provare a giustificarmi. Se siamo arrivati a questo punto è anche colpa mia.»
Kiku non dice nulla, abbassa lo sguardo sconfitto e sistema l’asciugamano sul manico cilindrico del formo. La cucina si riempie del rumore di pentole sfrigolanti.
A tavola la signora Meng riempie le scodelle di vino di sorgo. «A cosa brindiamo?» chiede Kiku, da quell’angolazione Yao può vedere il suo riflesso nell’acqua vermiglia.
«Alle nuove opportunità.»
 
***

Dopo cena Yao scopre con piacere che l’acqua calda non manca, così si spoglia e s’immerge nella vasca fino al mento, lasciando aperta la porta del bagno. Quando torna nella stanza Kiku si sta togliendo il gilet.
«Ti pulisco la ferita?»
Si volta a guardarlo, Kiku si sta allentando lo scollo della camicia.
«Certo, va bene.»
Yao si siede sul letto, espone la schiena alla luce dell’abatjour. Kiku prepara il kit medico e si posiziona dietro di lui, stando attento a non fare ombra. Le garze gli si sono attaccate alle crosticine del taglio, così quando Kiku gliele toglie di dosso tirano un po’. Per farlo appoggia il palmo morbido sulla sua schiena, Yao sente il suo respiro muovergli i capelli corti sulla nuca. Domani si sveglierà e non saprà cosa fare della sua vita. Non l’ha mai saputo, in realtà, ma stavolta sente che la decisione è imminente, e che non può permettersi di sprecare tempo.
«Avresti potuto uccidermi.»
Kiku resta col batuffolo di cotone a mezz’aria, Yao sente che ha smesso di respirare. «Sì.»
«Perché non l’hai fatto? Eri alle spalle di un soldato nemico, potevi piantarmi una pallottola nel cranio.»
«Non ne ho avuto il coraggio.» taglia corto, e piazza il cotone umido sulla sua spalla. Yao stringe i denti in una smorfia, vorrebbe dirgli: il coraggio di aprirmi la schiena l’hai trovato. Ma decide di non insistere, sarebbe come pestare un uomo già morto. Dopo diversi secondi di silenzio, Kiku parla di nuovo. «Ti fa male?»
Yao chiude gli occhi. «Solo la notte.»
Sente le dita di Kiku spostarsi sul taglio, pressare il cotone sulla pelle accartocciata.
«Volevo mettere un taglio tra te e me. Dovevo dimostrare a me stesso che ero un uomo diverso, che non siamo uguali.»
Yao ascolta in silenzio, finalmente ha la conferma di ciò che sospettava da quando l’ha visto. Forse avrebbe preferito sbagliarsi. «E ci sei riuscito?»
Yao non sente più il cotone sulla schiena, forse Kiku ha avuto bisogno di un momento per pensare. «Tu invece? Avresti potuto lasciarmi morire.»
«Sì.»
«Perché li hai fermati?» C’è un’ombra nella sua voce che gli testimonia che non ha solo provato a cambiare discorso, Kiku sta cercando delle risposte.
«Non lo so. Forse non ero pronto a lasciarti andare.»
Cala un silenzio durante il quale Yao rimpiange di non poter guardare Kiku negli occhi. Vorrebbe aprirgli il cranio e leggere cosa sta accadendo al suo interno, e più di tutto vorrebbe che Kiku si muovesse, che non rimanesse inerte in quel modo con le mani sulle sue scapole. Vorrebbe vestirsi e scappare via da quella stanza come un ladro. Invece si volta a guardarlo e chiede: «Tu ne hai di cicatrici?»
È una domanda stupida, del resto l’ha già visto nudo nella vasca da bagno, perciò Kiku deve aver capito che si tratta di un tentativo maldestro di chiedergli di spogliarsi. Tuttavia, lui lo guarda schiudendo le labbra, e annuisce di poco, abbassando e alzando il mento quel minimo che basta per registrare un movimento. Non è necessario che Yao chieda altro, lui si sta già aprendo il primo bottone sul petto, e poi il secondo, il terzo, fino alla metà dell’ombelico non coperto dai pantaloni. Ha numerosi taglietti rosati sui pettorali, un’escoriazione ancora fresca sul costato, una brutta ustione sull’addome, che sembra essere stata provocata da un ferro incandescente. Yao sfiora con le dita le striature sul petto, le percorre verso il basso fino al reticolo di pelle accartocciata, mentre avverte Kiku tremare.
«Credevo ti avessero solo spaccato un dente.»
«A essere sinceri credo di averlo rimosso. Dicono possa capitare.»
Poi Kiku si alza come se si fosse ricordato di qualcosa, armeggia con la cintura e apre il bottone dei pantaloni. Tirando di poco la stoffa scopre un taglietto bianco sull’inguine che a Yao sembra familiare, schiere di puntini bianchi ai lati del taglio dimostrano che un tempo c’erano dei punti di sutura. Ci posa sopra quattro dita, chiede: «E questa?»
«Appendicite a dodici anni.»
Yao ride, poi torna a osservare i fianchi stretti di Kiku, sotto l’ombra della sua mano aperta emergono i primi peli scuri. Sa che Kiku sta solo aspettando un segnale da parte sua, ma qualcosa lo tiene incatenato. E quel qualcosa può essere la paura che Kiku scappi di nuovo, il terrore di dover affrontare quell’umiliazione una seconda volta. E più di tutto, la paura di comprometterlo ancora.
«Vuoi continuare a guardare, oppure…?»
Yao ride di nuovo, non si aspettava questo sarcasmo da lui. Scuote la testa, torna serio. «Sai è che… le persone a cui ho dato il mio amore… beh, non hanno fatto una bella fine, ecco tutto.»
«Non m’importa. – Yao incontra i suoi occhi, non l’ha mai visto tanto deciso – Non m’importa, io lo voglio lo stesso.»
Yao ha il battito cardiaco nelle orecchie quando lo afferra per un fianco e lo attira a sé. I pantaloni di Kiku finiscono per terra insieme alla biancheria, un attimo dopo le labbra di Yao sono ancorate al suo collo diafano, fluttuano sulla mascella, sul naso, lambiscono il labbro superiore. Kiku è seduto a cavalcioni su di lui, gli poggia le mani sul petto per allontanarlo quel tanto che basta per guardarlo in faccia.
«So di averti ferito.»
«Non parliamone adesso.»
«Lasciami finire. Se non te lo dico ora non ci riuscirò mai. – Yao lo ascolta in silenzio, con entrambe le mani sul suo collo lungo. Kiku ha gli occhi di un penitente in ginocchio. – Per anni ho provato un’immensa vergogna al pensiero di quel che abbiamo condiviso. Adesso vedo che è… Yao, quella è stata l’unica volta in cui sono stato vivo. Mi dispiace averlo capito solo adesso.»
«Ora basta, – Yao gli sussurra sulle labbra – basta, non voglio che ti scusi. Voglio che mi ami.»
Kiku annuisce e socchiude gli occhi, ma quando Yao gli infila una mano sotto al cappello di lana sussulta. «No, ti prego.»
«Ti voglio come sei.»
Così Kiku si lascia sfilare il cappello, Yao passa una mano sui suoi capelli erbosi, si allunga per spegnere l’abatjour. Poco dopo sono nudi entrambi, Kiku si aggrappa alla sua schiena, sfrega un piede contro la sua caviglia. Mentre Yao gli morde la pelle della mascella sa che su quel letto sta avvenendo un sacrificio, che stanno consumando le rispettive carni, che si stanno donando l’uno all’altro come agnelli su un altare, stanno firmando un patto di sangue, si marchieranno a fuoco l’un l’altro, come bestie da macello, per la seconda volta, i loro corpi si uniranno e saranno il ponte dove le loro anime si incontreranno.
Mentre Yao affonda in lui stringe la sua mano forte e venosa, lo chiama: «Kiku.»
«Dillo di nuovo. Di’ il mio nome.»
«Kiku. Kiku, Kiku, Kiku. Tu mi rendi umano.»
Poi Kiku gli morde una spalla per non farsi sentire, stringe più forte la sua mano. Poco dopo Yao è steso sopra di lui con una mano sui suoi capelli e la faccia tra il suo collo rovente e il cuscino, gli carezza un fianco liscio con la mano libera. Si sistema meglio sul materasso per baciarlo, Kiku lo guarda con quegli occhi rotondi e infiniti, sorride.
«Che cosa vedi?» Gli chiede Yao.
Il sorriso di Kiku si allarga a mostrare gli incisivi inferiori storti e le fossette sulle guance, gli occhi gli si inumidiscono, tre le sopracciglia compare una rughetta.
«Me.»
 
Yao ha ripescato le foto dalla tasca della divisa, anche quelle erano tra gli effetti personali di Kiku. Erano due ma lui ne ha vista solo una. Nella tasca opposta c’erano le foto di Yao. Nel riquadro bianco che sta osservando sono rinchiusi i volti di tre persone: un uomo in piedi, in divisa, pluridecorato, capelli rasati, occhi all’ingiù; una donna seduta al centro della composizione, avvolta in un kimono, truccata quanto basta per dare un minimo di profondità al viso, un kanzashi3 di tartaruga in mezzo all’acconciatura voluminosa; accanto a lei un bambino non più grande di cinque anni, uniforme scolastica, taglio a scodella.
«Eri così serio.»
Kiku sorride, seduto con la schiena contro il petto di Yao. Prende un tiro di sigaretta. «Devo averlo preso da mio padre.» Yao si allunga verso il comodino per scrollare la sigaretta sul posacenere, osserva l’ombra del sorriso sulle labbra della donna. Kiku si gratta il mento, parla di nuovo. «Una volta mi hai chiesto se loro due si amassero.»
«Sì, mi ricordo. Eri troppo piccolo per capirlo.»
«Forse, ma non è l’unica cosa. – un altro tiro, quando riprende a parlare fa un gesto con la mano come a puntualizzare ciò che dice – Da quando conosco mio padre non l’ho mai visto esprimere affetto. Mai. Non voglio dire che sia una persona cattiva, non lo penso affatto. Anzi, sono certo che a suo modo gli sia importato, di me, di mia madre… ma è come se non lo toccasse nulla. A volte ho paura che me l’abbia trasmesso.»
«Questo non è vero.» Yao si sporge in avanti per guardarlo in faccia, gli prende il mento nella mano in cui stringe la sigaretta, avendo cura di non stringere troppo. «Non è affatto vero.»
Kiku forza un sorriso, poi torna a guardare le foto. Quello che stringe in mano è un mezzo busto di lui e dei suoi fratelli. Lui e Honghui indossano l’uniforme, Li è in abiti civili. Yao aveva ricevuto da poco la divisa, perciò non aveva ancora tagliato i capelli. Mei ha un’acconciatura da adulta, due fermagli con pendenti a forma di farfalle le incorniciano il volto, sulle labbra ha un sorriso forzato. Yao ricorda quando l’ha vista in camera sua, così agghindata, i ricami del lungo abito rosso scintillavano al sole. Yao ha bussato, lei non si è voltata. Così Yao si è seduto con lei, ha poggiato il mento sulla sua testa. Lei non lo ha respinto, ma Yao sapeva che stava accettando quel gesto d’affetto come un sopruso. Avrebbe voluto inginocchiarsi di fronte a lei, prenderle le mani e dirle: andiamo via, tu ed io. Togliti le scarpe e corriamo via da qui, saliamo su un treno, che vadano tutti al diavolo, non ci andare, lì in mezzo. Non ci andare. Invece Yao l’aveva avvolta in quella specie di abbraccio scomodo, le aveva detto: verranno giorni migliori, mèi-mei. Non esattamente quello che vorresti sentirti dire il giorno del tuo matrimonio.
Quasi all’unisono spostano le fotografie appena viste dietro a quelle ancora da vedere, si rendono conto di avere in mano due copie dello stesso ritratto. In entrambi i riquadri Yao si appoggia al muro della porta Jubao con una ciocca di capelli in faccia, Kiku è in piedi accanto a lui, stretto nel suo mezzo abbraccio.
A Kiku cade un po’ di cenere sulle coperte, gli sfugge un’imprecazione sottovoce. Yao trova il coraggio di dirgli: «Hai detto che volevi tagliarmi fuori dalla tua vita.»
«È vero.»
«Allora perché…»
«Te l’ho detto prima, Yao – Kiku prende un tiro profondo dalla sigaretta, l’estremità si illumina di rosso – Ho toccato una vetta, con te. Volevo qualcosa che mi ricordasse cosa sono in grado di provare. Volevo fissare un traguardo.»
Yao fissa i loro volti ravvicinati, il sorriso spontaneo sul viso di Kiku. È felice di vedere che somiglia a sua madre.
«Ora tocca a te.» dice Kiku, nella voce Yao avverte il contorno di un sorriso.
«Mi rammenta la mia umanità.» dice soltanto Yao.
Kiku si appoggia a lui, si volta per guardarlo negli occhi. Sembra così felice, così appagato di stare dove si trova. Yao lo capisce, ma sa anche che non potrà durare per sempre. Kiku sta evitando una domanda che entrambi sanno di doversi porre: verso cosa stiamo camminando?
Yao forza un sorriso, prende un ultimo tira dalla sigaretta e la schiaccia sul posacenere. Mentre ancora soffia il fumo mette via le foto con una mano e lascia una carezza sul braccio di Kiku con l’altra. «Coraggio – dice, mentre si allunga per spegnere la luce – è ora di dormire.» Kiku gli sorride, ma Yao ha notato che si è rabbuiato anche lui.
 
Yao non riesce a contare quanto tempo passa a fissare il soffitto. Di tanto in tanto, lì dove la luna macchia di blu quella distesa di intonaco, le ali degli aerei tagliano la notte. Forse avrebbero dovuto vestirsi. In questo modo se ci fosse un attacco aereo non dovrebbero preoccuparsi di spiegare alla signora Meng perché erano nudi nello stesso letto. La verità è che pensare a queste cose non è che una strategia per distrarsi dall’elefante nella stanza. Si volta, sulla sua spalla Kiku dorme indisturbato, Yao osserva le ciglia folte sulle guance e il lento abbassarsi e sollevarsi del torace. Se restassero dove si trovano li troverebbero in meno di una settimana, Kiku subirebbe le peggiori torture e poi verrebbero piazzati entrambi bendati di fronte al plotone d’esecuzione. Se Yao chiedesse aiuto ai comunisti sarebbe quasi impossibile presentare Kiku come cinese, lui verrebbe giustiziato come un criminale e Yao linciato come un traditore. Qualunque strada sembra senza uscita. Mentre lo osserva dormire Yao è sicuro di una cosa: Kiku deve vivere. Altrimenti questi ultimi giorni non avranno alcun senso.
Così si puntella su un gomito per alzarsi a sedere, il corpo accanto al suo ha uno spasmo.
«Yao–
«Va tutto bene – Yao gli carezza la fronte – va tutto bene, Kiku, devo solo usare il bagno. Torna a dormire.»
Kiku lo osserva a fatica da sotto le palpebre pesanti, chiude gli occhi. Yao si scansa le coperte dal grembo, si dirige alla scrivania.
Mǔma, come capisci quando sei nel posto giusto?
Lo capirai.
 
 
 
_____
Note:
  1. Vera Lynn, pseudonimo di Vera Margaret Welch, è stata una cantante britannica, attiva durante la Seconda guerra mondiale.
  2. Questa canzone, uscita nel ’39, è una delle più famose e rappresentative di questo periodo, ed è stata inserita in diverse opere cinematografiche e televisive contemporanee (ad esempio ne Il dottor Stranamore, di Stanley Kubrick), ma è stata anche citata in opere musicali, è il caso di Vera, canzone facente parte dell’album The Wall dei Pink Floyd (Does ananybody remember Vera Lynn?/ Remember how she said that we will meet again some sunny day?).
  3. Il kanzashi è un ornamento giapponese per acconciature femminili, introdotto nel periodo Edo, quando venne abbandonata la pettinatura taregami (che prevedeva che i capelli fossero lasciati crescere a dismisura e tenuti sciolti) e vennero adottate diverse pettinature dette nihongami, che prevedevano di tenere i capelli raccolti.

Ritorna all'indice


Capitolo 14
*** Capitolo XIII - L'unica traccia ***


Nota d’apertura: vi anticipo che si tratta del capitolo più breve di tutta la storia, per questo motivo ho deciso di pubblicarlo insieme all’epilogo. Questo, e anche perché credo sia sensato leggerli uno dietro l’altro per una questione strutturale. Detto ciò, buona lettura!
 
 
Capitolo XIII
L’unica traccia
 
Al mattino la casa dormiva ancora. La prima cosa che vide appena aprì gli occhi fu la nuca folta di Kiku sul cuscino. Si sporse in avanti per baciargli il collo, per inspirare l’odore della sua pelle che la notte prima era ovunque. Kiku non disse nulla. Aveva gli occhi aperti in un’espressione distante, fissava la finestra di fronte a loro. Yao si chiese cosa stesse accadendo dentro di lui, che sembrava tanto indifferente. Gli sussurrò all’orecchio che andava a lavarsi, Kiku si limitò a guardarlo con un piccolo sorriso forzato e annuire. Yao non si alzò subito. Si permise di stringerlo a sé e posargli un bacio sulla spalla rotonda, poi si allontanò.
Mentre riempiva la vasca sentiva il bisogno di lavarsi via l’odore che la scorsa notte lo aveva eccitato. Era l’odore di due uomini sperduti che si cercano l’uno nell’altro, che si nascondono nello spazio trai loro corpi. Ora quell’odore, insieme allo sguardo distante di Kiku, lo ripugnava, lo riportava a una dimensione di freddo, di squallore.
Rientrato in camera da letto vide Kiku seduto rigido, tutto vestito, con le mani sulle ginocchia. In quella posa legnosa sembrava schiavo delle sue origini, che lo tenevano stretto come dentro a un involucro, lo isolavano da se stesso.
«Che c’è?»
«Niente, non c’è niente.»
Ma Yao sapeva che mentiva. Gli bastava guardare come teneva bassi gli occhi, come cercava di scomparire. Era chiaro che si pentiva di ciò che avevano fatto, che stesse sprofondando nella vergogna, nella ripugnanza di se stesso. Mentre si rivestiva Yao aveva l’impulso di abbracciarlo, di riportarlo da lui, ma quell’impulso frustrato si tramutò in malessere. E che cosa si aspettava? Kiku non sarebbe mai rimasto lì per lui, non avrebbe mai rinunciato alla sua vita, non avrebbe mai inflitto una coltellata simile a suo padre. Dio, non sarebbe neanche riuscito a guardarlo in faccia, suo padre, così come non riusciva a guardare in faccia Yao. Si sarebbero rifugiati in identità finte, costruite apposta per illudersi di essere normali, e semmai si fossero incontrati avrebbero consumato cinque minuti di trasgressione lontano dal resto della folla. Forse anche quello era un sogno irrealistico, forse si sarebbero persi e basta, come rette incidenti che si incontrano in un punto dolente e poi continuano ognuna per la propria strada.
A tavola non si parlarono, seguirono in silenzio i discorsi del resto dei Wang. A un certo punto Yao si azzardò a prendergli la mano da sotto il tavolo. Kiku si lasciò carezzare, strinse quella di Yao a sua volta per un breve momento, poi si riprese la sua. L’istinto di stringerlo che lo aveva preso alla gola un’ora prima si trasformò nella voglia di afferrarlo per il collo, di fargli del male, di dirgli: guardami. Si sentiva umiliato come un bambino in ginocchio sui ceci, come se lo avessero costretto a salire su una sedia al centro di una stanza affollata, indossando una benda con scritto “idiota”. In quel momento gli sembrava che tutti sapessero, i loro sguardi all’apparenza indifferenti gli bucavano la pelle come proiettili.
Quella stessa mattina Kiku venne a sapere che la nave che lo avrebbe traghettato in Giappone sarebbe partita in anticipo di qualche ora, e che sarebbe stato meglio salire sul treno per Shanghai prima del giorno seguente. Yao si offrì di accompagnarlo in stazione. Non si dissero nulla durante il tragitto in macchina, e neppure quando scesero dall’auto. Kiku si era messo addosso lo stesso yukata di quando si erano incontrati la prima volta, quasi volesse tornare indietro nel tempo, cancellare ciò che è accaduto nel mezzo. Yao sapeva che quell’abito voleva essere un simbolo di disciplina, di giustezza, qualcosa che richiamasse l’aura di incorruttibilità che lo circondava il primo giorno, al tavolo della colazione.
Yao insistette per pagare il biglietto, Kiku disse che non era necessario. Gli chiese se avesse soldi a sufficienza per quei due giorni di viaggio, Kiku lo rassicurò. Poi gli disse che aveva fatto sviluppare le fotografie di Nanchino, tirò fuori due copie identiche dalla tracolla di cuoio. Yao aveva una ciocca di capelli davanti alla bocca.
«Sono venuto male.» disse.
«Non dire stupidaggini.»
Yao lo aiutò a sistemare le valige nella cuccetta, controllò che il letto dello scompartimento fosse pulito. Kiku tentava di rassicurarlo con tono distaccato, ma Yao sapeva che i suoi modi celavano la muta preoccupazione che Yao potesse fare qualcosa di indecoroso, che potesse distruggere quella parvenza di normalità che Kiku si era tanto impegnato a costruire. Si guardarono i piedi, Kiku con le mani intrecciate e Yao con le mani nelle tasche, il capostazione fischiò il primo avvertimento. Yao si grattò il naso.
«Allora io vado.»
«Grazie di tutto, Yao-san
Annuì e scese dal treno. Appena oltrepassò l’ultimo gradino avvertì un pugno colpirlo tra sterno e ombelico, gli mancava l’aria. Deglutì a vuoto, sforzandosi di non voltarsi verso il finestrino della cuccetta di Kiku. Se fossero stati i protagonisti di uno dei film di Mei, Yao sarebbe tornato indietro correndo, avrebbe preso Kiku per le spalle e lo avrebbe pregato di rimanere con lui, nella sua casa, nella sua vita. Se te ne vai mi uccidi.
Mentre il capostazione chiudeva le porte del treno e la ciminiera fischiava, Yao comprese per la prima volta in sei lunghe settimane quanto lo aveva amato, così come aveva compreso quanto aveva amato Nilufar solo nel momento in cui l’aveva vista toccare terra, in fondo alla collina.

 
***
 
Arthur lo trovò a fumare sul portico, il sole stava calando e le zanzare gli stavano divorando le braccia. Quando lo vide spuntare da dietro un angolo, Yao si chiese come fosse possibile che stesse andando via dopo Kiku. Che razza di bastardata, pensò. Arthur si appoggiò a un muro con le spalle, fissava l’acqua luccicante d’oro del fiume. «È già andato via?» chiese. Yao lo ignorò. Invece inspirò un tiro profondo di fumo, con l’aria stanca dei vecchi che osservano la vita scorrere loro davanti.
«Avevi ragione Arthur. – borbottò con la sigaretta ancora tra le labbra – L’ho trascinato in un baratro, come avevi previsto. Congratulazioni per la tua intuizione.»
Arthur prese un respiro profondo, poi disse, con estrema fermezza, come se stesse dando un ordine da generale: «Yao, mi dispiace.»
Yao abbassò lo sguardo. «Vuoi sapere la cosa buffa? – scrollò la cenere sul piattino – forse non mi ha mai amato.»
«Ma tu hai amato lui. È abbastanza.»
Yao soffiò una risata amara. «Come fa a essere abbastanza?»
Si voltò a guardarlo, Arthur sorrise. «Perché, alla fine di tutto, l’amore che diamo agli altri è l’unica traccia che lasciamo di noi.»

Ritorna all'indice


Capitolo 15
*** Epilogo ***


Epilogo
 
È ancora lo stesso sogno. Un corridoio, il lampo di luce di una porta che si apre, il sentiero in discesa della collina. Quando Kiku apre gli occhi la stanza è immersa nella penombra del primo mattino, le lenzuola sono impregnate dell’odore di ciò che è accaduto la notte prima. Kiku chiude gli occhi, inspira quell’aroma piantando il naso in un cuscino. Se qualcuno entrasse in quella stanza, gli basterebbe un attimo per capire cos’è successo tra loro, e questa consapevolezza lo diverte, lo frusta come farebbe un amante sadico. Dieci anni prima quello stesso odore lo aveva nauseato, lo aveva sommerso di sporco, adesso invece porta con sé un senso di pace, di natura soddisfatta. È il principio secondo il quale l’acqua nasce dalla terra e il silenzio e la voce si completano e si armonizzano, è la quiete di tornare alla propria radice1.
Voltandosi incontra la figura in controluce di Yao, di profilo di fronte alla finestra socchiusa. È completamente vestito nell’uniforme verde oliva, guarda fuori dalla finestra con una sigaretta tra le labbra. Quando si accorge che Kiku lo sta guardando, inspira il fumo e porta due dita al mozzicone, scrolla la cenere. «Ti ho svegliato?» chiede, la bocca coperta da una nube di fumo.
Kiku scuote la testa, sorride. Si permette di osservare la sua corporatura snella e longilinea, il taglio spigoloso dell’uniforme accentua le spalle larghe. Con quella nuca rasata e i ciuffi corti ai lati degli occhi sembra impossibile cercare di ricordarlo nei panni della concubina Wang Zhaojun. Yao prende il posacenere, avanza verso di lui con una mano in tasca, poi posa il piattino sul comodino e gli si siede accanto. Kiku si sdraia sulla schiena per guardarlo meglio. Si chiede come possa aver trascorso dieci anni lontano da lui, dopo aver assaporato tutta la sua persona. Probabilmente per tutto quel tempo ha vissuto in attesa di questo momento rilassato. Si puntella sui gomiti per alzarsi in piedi, gli toglie la sigaretta dalle labbra per prendere un tiro, Yao gli carezza un ginocchio attraverso le lenzuola.
«Hai dormito bene?»
Kiku annuisce. «Credo di averti sognato.»
Yao forza un sorriso. «Ah sì?»
«C’era una casa in collina. Ogni volta che faccio questo sogno ricordo pochissimo, però so che aspettavo qualcuno. Aspettavo te.»
Yao lo ascolta con quell’espressione tirata, e solo allora Kiku si accorge di come lui lo stia guardando. Sembra studiarlo con urgenza, come se dovesse imprimersi nella mente quante più cose possibili di lui. Kiku sente che la quiete della mattina sta per spezzarsi.
 «Che c’è?»
Yao si fa serio di colpo. Abbassa lo sguardo, si schiarisce la voce. «Ti ricordi Arthur Kirkland?»
Kiku esita per un secondo, poi annuisce. «È… è successo qualcosa?»
«Lavora all’ambasciata britannica a Chongqing. Ludwig… il prete, con quel furgone volevano andare lì.»
Kiku annuisce una seconda volta con la stessa incertezza. «Va bene, quindi…»
«Gli ho comprato io gli attrezzi perché non sa parlare cinese. Ha detto che mi deve un favore.»
Kiku muove le labbra a vuoto per qualche secondo, alla fine gli esce un filo di voce. «Hai fatto tutta questa premessa solo per dirmi che andiamo a Chongqing?»
Yao lo guarda in silenzio, poi abbassa lo sguardo, gli carezza il ginocchio tra le mani. «C’è posto per uno solo di noi.»
Kiku avverte come uno schiaffo dritto sulla bocca, di quelli che fanno sputare sangue. Yao tira fuori un foglio dalla giacca, continua a parlare a ruota libera. «Qui ci sono tutte le informazioni che ti servono. Ti ho scritto un’altra lettera, appena arrivi all’ambasciata dovrai chiedere asilo…»
Kiku si guarda intorno alla ricerca di un appiglio, si passa una mano sotto al naso, sussurra: «basta, basta, basta…»
«…politico, fai in modo che ti facciano parlare con Arthur, ricordati di mostrargli–
«…basta, basta!»
Kiku ha alzato la voce, Yao ha avuto un sussulto. «Non ci vado, non vado da nessuna parte senza di te.»
Yao chiude gli occhi. «Kiku. Ti prego, è già abbastanza difficile per com’è.»
«Non possiamo… – si guarda attorno, alza le mani. – e se restassimo qui?»
«Qui? Ci troveranno, ci giustizieranno. È questo che vuoi?»
«Tu non sai… non puoi…»
«Kiku. – Yao lo afferra per le spalle, ma Kiku non lo guarda, chiude gli occhi – abbiamo più probabilità di sopravvivere entrambi se ci dividiamo.»
Kiku tenta di respirare, socchiude le palpebre per vedere che Yao gli ha allungato una lettera. «Conservala meglio che puoi, appena vedi Arthur–
Yao non fa in tempo a finire, Kiku afferra la busta e la strappa in pochi gesti rabbiosi, le labbra strette. Yao contrae la mascella, da come schiocca la lingua è palese che si trovi al limite della sopportazione. Fa per alzarsi. «Ne scrivo un’altra.»
«Yao!» Kiku lo afferra per il braccio, lo riporta sul materasso. «Tu hai fatto una scelta, ora lascia che io–
«Ma non capisci, non posso lasciare che ti ammazzi così, tanto per il capriccio di starmi incollato! Tu devi vivere. Altrimenti tutto questo sarà stato inutile.»
Kiku lo ascolta senza parlare, la gola gli brucia. La figura di Yao si annacqua, deglutisce. «No…»
Ha atteso il suo sguardo per dieci anni, ha passato metà della sua vita a cercarlo negli altri. La persona che ha più amato in vita sua lo sta lasciando, forse ha visto in lui dei vuoti impossibili da colmare, forse si sta arrendendo.
Yao sospira, gli carezza una mano col pollice calloso. «Va bene così, amore mio. È giusto così.»
Kiku chiude gli occhi, lascia che le lacrime gli attraversino il viso fino al collo mentre Yao poggia la fronte sulla sua. Deve forzare la voce, ma alla fine riesce a dire: «Non amerò mai nessuno come te.» Non è una promessa, è un’accusa.
 
***
 
Ludwig non è contento di averlo con loro, si capisce dal modo in cui ha liquidato i ringraziamenti di Yao, annuendo con un grugnito. Hanno saldato al rimorchio del furgone una copertura trovata per strada, che un tempo doveva essere appartenuta a un camion militare. Kiku viaggia senza bagagli, Yao ha insistito per comprargli almeno un altro cambio d’abiti, ma lui si è opposto. Teme che Yao possa esaurire tutti i soldi che ha a disposizione solo per garantirgli qualche comodità in più. Feliciano ha stipato i pochi averi delle studentesse in un’unica valigia, ci sono anche i guanti viola di Meihua. Dopo aver fatto salire le ragazze sul rimorchio, scrolla il polso per controllare l’orologio, dice a Kiku: «Abbiamo ancora qualche minuto.» Poi si dirige verso le taniche di benzina a ridosso del muro.
Yao gli si avvicina, gli stende una giacca marrone sulle spalle.
«Ti avevo detto di non comprarmi niente.»
«Me l’ha data Meng tài-tai. Ha paura che potresti prendere freddo.»
Kiku sospira, infila le braccia nelle maniche della giacca. Quando ha finito Yao gli sistema una busta nella tasca interna. «Dentro c’è la lettera che devi dare ad Arthur e trecento yuan
«Sei impazzito, ti avevo detto di tenerti i soldi.»
«Ne ho altri con me, non preoccuparti di questo.»
Kiku alza gli occhi al cielo, scuote la testa. Sta lasciando un militare invalido senza il suo ostaggio a girare per le campagne con la metà dei soldi di quando è partito e nessuna possibilità di recuperare altro denaro. «Va bene, sai una cosa? Non vado da nessuna parte.»
«Ricorda cosa ti ho detto.»
Kiku sospira, contrae la mascella.
«Ti ricordi cosa devi fare a Chongqing?»
«Me l’hai detto cento volte.»
«Ripetiamolo lo stesso.»
Così Yao si lancia nello stesso monologo che quella mattina ha accompagnato ogni loro passo, mentre abbottona la giacca a Kiku e gli sistema il colletto. Kiku non lo ascolta, osserva le sopracciglia piatte, le lentiggini sul naso, il taglietto minuscolo sul labbro inferiore. Ha paura che un giorno tutti quei dettagli svaniranno dalla sua testa, che rimanga solo una figura opaca, un nome privo di volto.
«Mi stai ascoltando?»
Kiku tace, Yao sospira. «Nella busta che ti ho dato c’è anche un foglio con le cose che devi ricordare. Vedi di non perderlo.»
Kiku annuisce, Yao lo imita. Poi lo afferra per la giacca per attirarlo contro il suo petto, gli circonda le braccia con le spalle solide. Kiku affonda il naso nel suo collo, inspira l’odore della sua pelle. Non te ne andare, non te ne andare, non te ne andare. Yao ha una guancia premuta sulla sua tempia, sussurra: «Grazie. Per avermi ridato uno scopo.»
Kiku chiude gli occhi, lo stringe più forte. «Verrò a cercarti, te lo prometto.»
Yao sfrega una mano sulla sua giacca, gli preme le mani sulle spalle per allontanarlo. Gli rivolge un sorriso, come a dire: è ora. Se Kiku rimanesse con lui un secondo di più finirebbe per non salire più sul furgone. Così si dirige verso il rimorchio, ai piedi del quale Mo si regge sul bastone. Kiku si piega sui calcagni, la circonda con le braccia e poi la solleva per aria, avendo cura che sia solida sulle sue gambe prima di lasciare la presa. Mo lo ringrazia, Meihua viene verso di lui saltellando e sbracciandosi. Lo tira per la manica della giacca, dice: «Ti siedi con me?»
Kiku le rivolge un sorriso, la aiuta a raggiungere la sorella. In quel momento, mentre il calore del giorno prima lo afferra allo stomaco e al petto, si dice che forse è questo che la sorte ha in piano per lui. Così come all’interno dei circuiti gli elettroni viaggiano per riequilibrare un divario, così anche lui è arrivato fin lì per colmare un vuoto nella vita di Yao, e adesso che quella mancanza è stata soddisfatta Kiku sente che ha davanti un nuovo proposito, un nuovo vuoto da colmare.
«Kiku!»
È già salito sul furgone quando si volta di scatto. Yao si dimena sulla stampella per raggiungerlo, gli allunga un foglio. Kiku si sporge verso di lui, si accorge che si tratta della fotografia sulla porta Jubao. Alza gli occhi verso il volto accigliato di Yao, approfitta di quel contatto per carezzargli la mano col pollice. Poi il volto di Yao si distende, sorride. Kiku capisce che è il suo modo di augurargli buon viaggio.
Il motore borbotta, le loro mani si separano. La figura di Yao rimpicciolisce sempre di più, sfocata dalla nuvola di polvere e fumo sollevata dal furgone. Kiku osserva il suo viso beato, sa che ha trovato la pace.
Nei miei sogni c’è una casa su una collina. Dove un fiume illumina i tronchi degli alberi di riflessi dorati, e le chiome di un’alta magnolia riparano il sentiero che ci conduce l’un l’altro, nel tempio dove conserverò il tuo ricordo. E quando la tua assenza mi taglierà i polmoni, chiuderò i miei occhi stanchi e tornerò qui, ad attendere il tuo sguardo, e trarrò conforto dalla certezza che qualsiasi cosa sia passata in mezzo alle nostre anime erranti sia stato meglio che rimanere ad osservarti dalla finestra della stanza degli ospiti, e non toccare niente.
 
 
Fine.
 
 
 
Nota: riferimento al Dàodéjīng: «Tornare alla propria radice si chiama “quiete”.»
 
 
 
Ringraziamenti
 
Grazie innanzitutto a D., prima lettrice e supporter di questa “cosa” che ho partorito. Grazie a M., che si diverte a dare una voce ai miei pensieri. Grazie a F., che non perde occasione di ricordarmi le mie capacità, e infine grazie a B e t c h i  e a May Jeevas, che si sono dimostrate le supporter più accanite e costanti. Senza i vostri feedback, forse questa storia sarebbe rimasta unicamente sui miei documenti Word.

Ritorna all'indice


Questa storia è archiviata su: EFP

/viewstory.php?sid=4006885