Lathander take the wheel

di NPC_Stories
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Introduzione ***
Capitolo 2: *** La maledizione degli Honeycomb ***
Capitolo 3: *** Inverno alla Locanda dell'Orso ***
Capitolo 4: *** Addestramento alla Locanda dell'Orso ***
Capitolo 5: *** In tempi di carestia, le patate non hanno buccia ***
Capitolo 6: *** Lull-a-bye ***
Capitolo 7: *** Un sole d'argilla splende comunque ***
Capitolo 8: *** Salti e incredibili acrobazie ***
Capitolo 9: *** Il maiale di Natale ***
Capitolo 10: *** Il tempo delle mele ***
Capitolo 11: *** Era sempre colpa di Luel ***
Capitolo 12: *** Decisioni (e relativi sensi di colpa) ***
Capitolo 13: *** Oddly specific ***
Capitolo 14: *** Partenze e nuovi inizi ***
Capitolo 15: *** Viaggi e decisioni ***
Capitolo 16: *** Galeotto fu il baule ***
Capitolo 17: *** Temporale ***
Capitolo 18: *** Credere alla verità ***
Capitolo 19: *** Innamorarsi è una roba da idioti ***
Capitolo 20: *** Riflessi di luce ***
Capitolo 21: *** Il falò di mezza estate ***
Capitolo 22: *** Qualche certezza. Parecchi dubbi. ***
Capitolo 23: *** Panico e decisioni ***
Capitolo 24: *** Nuovi inizi. Nuovi incontri. ***



Capitolo 1
*** Introduzione ***


** Lathander take the wheel **

O come i gemelli Honeycomb sopravivvono in qualche modo ad una maledizione secolare… e a se stessi



C'erano una volta - e ci sono ancora - due gemelli maledetti da un fottuto conigl un antico sacerdote dell'epoca della Prima Fioritura, che accidentalmente è anche un loro antenato. Inconsapevoli della maledizione, Dora e Rupert Honeycomb hanno semplicemente accettato che nella loro famiglia siano tutti mezzi matti, una vena di follia che sembrano aver ereditato dal padre.

Attuali personaggi di una campagna di D&D 3.5 ambientata nel 1371 DR sulla Costa della Spada, Dora e Rupert (per gli amici Rushe) fanno parte di un gruppo di corrieri per l'Emporio di Aurora e sono fedeli seguaci del dio Lathander - la sorella più del fratello.
Tra una missione di fede e una commissione di lavoro, i due gemelli vivono pazze avventure e ricordano il loro passato.
Ma un altro passato, più lontano, rema contro di loro e influenza il loro presente.


Raccolta di oneshot scritte in collaborazione con Dira_ (la giocatrice che muove Dora) e Ikki_the_crow (il giocatore che muove il dr. Christopher). L'autore sarà creditato in ogni singola storia.


Indice delle storie:

  1. La maledizione degli Honeycomb (dark fantasy, lore) di NPC_Stories
  2. Inverno alla Locanda dell'Orso (fantasy, lore) di Dira_
  3. Addestramento alla Locanda dell'Orso (fantasy) di NPC_Stories
  4. In tempi di carestia, le patate non hanno buccia (fantasy, slice of life, lore) di NPC_Stories
  5. Lull-a-bye (fantasy, introspettivo, storia di Natale) di NPC_Stories
  6. Un sole d'argilla splende comunque (slice of life, introspettivo) di Dira_
  7. Salti e incredibili acrobazie (fantasy, comico) di Dira_
  8. Il maiale di Natale (dark) di Dira_
  9. Il tempo delle mele (fantasy, comico) di NPC_Stories
  10. Era sempre colpa di Luel (fantasy, slice of life, comico) di Dira_
  11. Decisioni (e relativi sensi di colpa) (introspettivo) di Dira_
  12. Oddly specific (demenziale) di NPC_Stories
  13. Partenze e nuovi inizi (introspettivo) di Dira_
  14. Viaggi e decisioni (avventura, angst) di Dira_
  15. Galeotto fu il baule (fluff) di Dira_
  16. Temporale (slice of life) di Dira_
  17. Credere alla verità (introspettivo, slice of Life) di Dira_
  18. Innamorarsi è una roba da idioti (azione, sentimentale) di Dira_
  19. Riflessi di luce (sentimentale) di Ikki_the_crow
  20. Il falò di mezza estate (slice of life, sentimentale) di Dira_
  21. Qualche certezza. Parecchi dubbi. (sentimentale, malinconico) di Dira_
  22. Nuovi incontri. Nuovi inizi. (introspettivo, comico) di Dira_


Consigliata anche la lettura di queste storie:
- Il mio nome è Thrip di The_Red_Goliath, in quanto Thrip è un personaggio che poi incrocerà il cammino di Dora e Rupert.
- RS-F-1030-11-11-902, di NPC_Stories, perché Christopher è anch'egli un personaggio che si unirà al gruppo in futuro.
- L'amore non muore mai di Ikki_the_crow, strettamente collegata alla precedente

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Capitolo 2
*** La maledizione degli Honeycomb ***


Autore: NPC_Stories
Genere: dark fantasy, lore. Storia che spiega - o meglio, non spiega, racconta in modo sibillino - l'origine della maledizione degli Honeycomb.
Nota: Yidhra è una figura che viene dai miti di Cthulhu. Per sapere come l'ho importata narrativamente in Forgotten Realms nelle mie campagne e nelle mie storie, rimando a questa pagina.




La maledizione degli Honeycomb



Nessuno può amare più di chi ama incondizionatamente, senza speranza di essere ricambiato. Nessuno può amare più di chi ama una dea.
E come potevo non amarla? Sapevo che mi aveva dato la vita, aveva dato la vita a tutti noi, o almeno è quello che mi avevano sempre insegnato i sacerdoti fin da quando ero bambino. La terra su cui poggiavamo i piedi era la sua casa, il grano che cresceva nei nostri campi era la sua benedizione, gli animali da cui traevamo nutrimento erano scintille di vita che emanavano da Lei. Yidhra, la nostra Grande Madre. La signora dei cicli naturali, custode di tutto ciò che è vivo.
Yidhra, che ci aveva insegnato che la natura è un equilibrio di gentilezza e sopruso, unità nella propria comunità e diffidenza verso gli altri. Yidhra, che sapeva benissimo - lo aveva osservato guardando noi piccoli umani, ma anche gli animali e i mostri e ogni cosa viva - che la naturale pulsione di ogni creatura è sopravvivere dominando il suo ambiente.
Yidhra, che prometteva quel potere - quel dominio - ai suoi fedeli seguaci.
L'abbondanza delle messi e delle mandrie era un suo dono, ma c'era di più per chi osava chiedere di più. Per chi aveva il coraggio e la devozione necessaria per sacrificare qualcosa.
Posso dire senza falsa modestia di essere stato il suo miglior sacerdote, il migliore che abbia mai avuto e il migliore che per sempre avrà. Non c'è limite alle cose che ho fatto e che avrei fatto per lei, per ciò che lei mi dava, ma anche solo per manifestare la mia gratitudine per la sua esistenza. Era amore. È amore.
Essere stato scelto per la trasformazione definitiva, sentirmi decostruito solo per poi essere ricostruito al suo fianco, è stato il momento più alto della mia esistenza. Non ha importanza se ora il mio corpo non è più riconoscibile, non è più umano. Sono il suo servitore, nient'altro ha importanza.
Perfino quando è stata cacciata dal mondo, quando altre divinità della natura - meno coraggiose, meno inclusive - hanno soppiantato completamente il suo culto, io sono riuscito a seguirla nei reami lontani in cui si è rifugiata. Perfino quando è caduta in uno stato quiescente, il sonno profondo degli dèi, io sono riuscito a trovare la sua manifestazione onirica nel mondo dei sogni.
Anche lì lei è una regina. Non potrebbe essere diversamente. Questa è la sua natura. Il suo destino.
Il mio destino invece è appeso a un filo. Sono nato umano e noi umani siamo come candele: bramiamo la luce e il calore, per questo ci avviciniamo a Lei, ma il suo fuoco divino ci trasforma. Distorce i nostri corpi, che come cera molle diventano malleabili, duttili e mutaforma. Questo è il suo grande dono. Ma ci consuma, anche.
I sacerdoti di Yidhra vivono in gloria e accettano il cambiamento del loro corpo, ma anche quello della loro mente. La gente comune ci chiama folli. La grandezza appare come follia agli occhi degli ignoranti, ma è vero che tanta grandezza non può essere contenuta in una mente umana. C'è una ragione per cui viene confusa con la follia, ma la colpa è dei nostri limiti.
E anche se sono vissuto per migliaia di anni al suo fianco, prima come sacerdote e poi come suo strumento, divenendo quello che gli sciocchi mortali chiamano aberrazione, assumendo ogni forma naturale o preternaturale che lei volesse, alla fine io sono ancora sempre io. Perché io, il suo più antico servitore ancora in vita, ho trovato un modo per superare i limiti della mia mente. Un modo che ha suscitato il divertimento della mia dea - o almeno, della sua immagine onirica, la mia Regina di Cuori - e che l'ha spinta a farmi assumere la forma esteriore di un coniglio.
La prole.
Una marea, un esercito, una folla che può esistere solo grazie alla Sua abbondanza. Una lunga catena di discendenti che a loro volta hanno avuto figli, nipoti. Non ho mai avuto una moglie, un sacerdote di Yidhra poteva essere devoto solo alla dea, ma ho avuto molte amanti nella gioia orgiastica delle feste dedicate a Lei. Ho avuto molti figli. Le donne facevano a gara per giacere con un sacerdote che aveva il pieno favore della dea.
Questo può sembrare immorale alle genti di oggi, ho visto come vivono, ma secoli fa - millenni fa - questo era normale. La specie umana era ancora giovane sul mondo di Toril, dove sono nato, ed era minacciata da grandi imperi di non-umani, mostri, draghi. Non si badava ai dettagli, si cercava solo di fare quanti più figli possibile sperando che avrebbero ereditato il mondo.
E i miei figli, posso dire con orgoglio, sopravvivono ancora oggi. Molte famiglie in tutto il mondo portano la mia traccia di sangue, ma non tutti portano ancora con sé la mia eredità.

È stata chiamata maledizione, sicuramente da qualche bifolco ignorante, ma non è così. Io sono troppo vicino alla fiamma divina, la mia mente - seppure immortale - rischia di sciogliersi. Dividere il fardello attraverso i legami di sangue è l'unico modo che mi permette di mantenermi lucido. La mia eredità è più forte quando viene trasmessa dalle mie figlie, ma si indebolisce in poche generazioni quando viene trasmessa per linea maschile. E le mie figlie, custodi e spesso portatrici sane, sono meno prone agli squilibri rispetto ai miei figli maschi. Quanto è vero che le donne sono più vicine a Yidhra!
Mi piace pensare che non si tratti di una linea di follia che viene trasmessa con il sangue, ma di una potenzialità. Mi piace pensare che i miei discendenti abbiano una mente aperta ai sussurri dell'altrove, abbiano più possibilità degli altri di sentire la voce distante di Yidhra, anche se ormai sul mio antico mondo è ridotta a meno di un sussurro del vento. Quanto mi renderebbe felice sapere che la sua benedizione tornerà a risplendere sulla mia famiglia, sul mio mondo!
Ma tocca anche a me fare in modo che accada. La mia Regina di Cuori, la mia amata, la mia padrona, mi ha dato l'importante compito di riportare il Suo culto nel mondo. È riuscita con la sua grande intelligenza a far scavare un passaggio per me, un passaggio che mi consenta di tornare sul Piano Materiale anche se non dovrebbe essermi consentito.
Ricostruirò il Suo culto. Ripartirò dalle campagne, da dove tutto è cominciato. Io so che la gente ha bisogno di Lei. So che è il momento che una vera dea della natura torni nel mondo, una dea che abbraccia tutti, tutto ciò che è vivo, senza fare stupide distinzioni morali. So che è il momento che una dea onesta torni a parlare alla gente comune, torni a parlare di natura umana, equilibrio, prevaricazione, scambio equivalente, e di tutto ciò che appartiene alla verità.
La Regina di Cuori sa che, se il culto di Yidhra tornerà abbastanza forte da risvegliare la dea dal suo torpore, lei stessa scomparirà perché è soltanto una manifestazione onirica; ma lo accetta in cambio di un bene più grande ed è anche per questo che la amo. So che siamo accomunati da un uguale amore verso Yidhra e verso l'intera esistenza.
Spero solo che anche i miei discendenti capiscano l'importanza di questa missione e che un giorno possano udire la mia voce e la Sua.

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Capitolo 3
*** Inverno alla Locanda dell'Orso ***


Autore: Dira_
Genere: fantasy, lore




Inverno alla Locanda dell’Orso

O come Dora Honeycomb scoprì che dovere e volere erano due verbi diversi.



Fattoria Honeycomb, nelle campagne vicino a Secomber, anno 1358


Dora aveva otto anni e non avrebbe dovuto ammalarsi.

Quell'autunno era stato particolarmente rigido nelle contrade di Secomber e Dora aveva dovuto aiutare il padre e i fratelli maggiori a ritirare e proteggere le arnie prima del solito. Aveva fatto un errore: mentre era fuori nei campi non si era coperta bene, nonostante fosse consapevole che i primi venti invernali erano quelli più cattivi, e che ti si infilavano dentro come una lama. Si era così svegliata una mattina con la testa che le doleva e la gola come un tizzone ardente. C'era però così tanto da fare che aveva ignorato la cosa: la mamma aveva partorito da poche settimane e non aveva le forze per badare alla casa, doveva mandarla avanti lei.
Dora avrebbe dovuto riposarsi, ma senza di lei sembrava che le cose non girassero per il verso giusto, e papà non le diceva forse che era l’unica testa buona dei suoi figli?
Il malessere però, alla fine, era venuto a chiederle conto nonostante la famigerata robustezza Honeycomb. Un febbrone da cavallo l'aveva fatta rimanere a letto per diversi giorni, in cui, febbricitante, era rimasta a fissare il soffitto, stupita del silenzio che la circondava. La fattoria non era mai silenziosa, ma era anche vero che le stanze da letto erano lontane dalla cucina, dove si svolgeva tutta la vita femminile, e i fratelli erano sempre fuori a dare una mano o a perdersi in mezzo ai campi per evitare di farlo.
Quel silenzio l’aveva resa ansiosa e triste. Che si fossero dimenticati di lei?

Aveva pregato Lathander di farla stare meglio, che di sicuro i suoi genitori erano troppo impegnati con il lavoro per farle compagnia, troppo, per questo doveva tornare, e mamma doveva riposare un po’, con il bimbo appena nato… Aveva pregato ferventemente per due giorni e Lathander per tutta risposta le aveva mandato suo fratello gemello Rupert.
Meglio di niente, si era detta, anche se quello scemo più che altro veniva per scappare dai suoi compiti e per raccontarle qualche storia strampalata delle sue… Le aveva anche portato del miele però, per la gola, il primo della stagione, e un occhio nero le aveva fatto intuire che quel gesto non fosse stato approvato da nessuno. Lo aveva mangiato comunque perché Rupert gliel’aveva quasi ingozzato a forza infischiandosene delle sue deboli proteste.

La febbre alla fine se ne era andata, a fatica e solo grazie al miele rubato e ai decotti dal saporaccio amaro che mamma le mandava tramite Rupert - il quale ormai si divertiva come un matto a farle da guaritore, sghignazzando sadico delle sue facce schifate. Nonostante fosse fuori pericolo, Dora era uscita dalla malattia debilitata, tanto che la mamma per la prima volta aveva suggerito una cosa che non aveva mai fatto. Aveva suggerito una vacanza.

Beh, non proprio. C'era una locanda ad un giorno di viaggio che offriva ospitalità ai bambini della zona per l’inverno, la Locanda dell’Orso, gestita da quella che tutti chiamavano La Strega.
Dora non era stata contenta dell'idea, un giorno di cammino era lontano e c'era così tanto da fare nella fattoria prima dell'arrivo dell’inverno, non aveva certo bisogno di una vacanza da una strega. La mamma però le aveva spiegato che era un modo sicuro per farli stare al caldo e con le pance piene quando sarebbe giunto il freddo, quello vero; quell'anno infatti il cibo scarseggiava più del solito per via di un estate rovente e di troppe gelate primaverili. Ormai erano sette bocche da sfamare, di cui una era un neonato: avevano bisogno di aiuto.

Alla fine la mamma aveva convinto il papà, che era restio a inviarli lontani e Rupert aveva fatto lo stesso con lei, blaterando di storie incredibili su magie, persone tramutate in polli, uomini albero, e un sacco di altre cavolate che però l'avevano fatta ridere e l'avevano anche incuriosita. La vita alla fattoria Honeycomb non era avventurosa, non come quella delle storie che la gente ascoltava dai bardi itineranti durante le fiere di paese, dove maghi, paladini e stregoni combattevano le forze del male.
Non che si sarebbe aspettata di combattere alcunché alla locanda, come invece cianciava quello scemotto di Rupert, però se non altro sarebbe stato divertente vedere un posto nuovo…
Così aveva detto alla mamma che ci sarebbe andata e si sarebbe riposata.
La mamma, stanca, l'aveva abbracciata frettolosa, le aveva detto che era una brava bambina, e poi era corsa a preparare i bagagli per tutti. Dora l’aveva seguita per aiutarla: perché era una brava bambina.

***


La locanda della strega non era affatto come se l'era immaginata Dora.
Non era neppure come aveva teorizzato Rupert, che aveva blaterato insensatezze come finestre coi denti aguzzi, un cimitero pieno di scheletri armati fino ai denti, un drago nella stalla e la strega pronta bollirli in un'enorme pentola piena di verdure.

La locanda dell’Orso era… una locanda, e basta. Dal tetto di pietra grigia, e dalle mura chiare fatte di mattoni cotti dal sole. I terreni circostanti non erano molto diversi da quelli di casa loro. C'erano le colline, morbide nelle linee ma bruciate dal freddo, c'erano i campi che attendevano addormentati l'arrivo della primavera. Non era poi così diverso da casa sua anche se il giorno di viaggio fatto per raggiungerla le era parso infinito.

Quando erano arrivati alla locanda era ormai notte fonda e la strega li aveva accolti sulla soglia d’ingresso. Dora non aveva mai visto un drow; ne era rimasta impressionata perché la pelle pareva riflettere il buio della notte mentre i capelli il chiarore della luna.
Era bellissima e aliena, e le aveva quasi fatto paura. Il sorriso con cui però li aveva accolti l’aveva un po’ rincuorata. Chi sorrideva a quel modo non poteva essere una persona cattiva.
Lathander, nelle piccole icone di legno dipinte che la zia portava loro da Waterdeep, aveva un po’ quel sorriso lì.
“Sbrigatevi, venite dentro!” li aveva incitati. Un ragazzo umano, poco più grande di loro, aveva preso le redini dell’asino e dopo un cenno di saluto al carrettiere aveva condotto il carretto verso una costruzione più bassa immersa nell’ombra e rischiarata solo dalla luce di alcune torce.
Gli occhi di Dora si erano lentamente abituati alla penombra e così aveva potuto scorgere la locanda nella sua interezza. Era enorme; stando proprio sotto l’ingresso la vedeva stagliarsi nel buio, un gigante dai tetti spioventi già coperti delle prime spruzzate di neve.
“Entrate!” La strega aprì con una mano la porta da cui uscì in una ventata di tepore, odore di cibo e schiamazzi. “Andate ad asciugarvi attorno al fuoco e poi metterete qualcosa nello stomaco, il viaggio è stato lungo e tu…” soggiunse indicandola, “Hai l’aria di chi non sta bene.”
“È quasi morta all’inizio dell’autunno!” cinguettò Rupert. “Non come me, che sono invincibile come un covone di paglia!”
“Ma che cavolo di paragone è, sta’ zitto… ” borbottò Dora arrossendo. “Sto bene, solo…”
“Ti daremo subito qualcosa per farti stare meglio,” la interruppe la drow in tono sbrigativo, ma senza perdere il sorriso. Era bella, aveva ragionato Dora sentendo il primo sorriso della giornata premerle sulle labbra, più bella di qualsiasi donna umana avesse mai visto. E non era l’unica a pensarlo da come i suoi fratelli più grandi avevano inanellato commenti e occhiate timide durante la cena mentre si ingozzavano di una buonissima zuppa che riscaldava quasi meglio del fuoco roboante dentro il camino.
Tutto sommato l’idea della mamma non era stata così male.

Così era iniziato il loro inverno alla locanda dell'orso. La locanda era molto diversa dalla fattoria: prima di tutto era enorme, ma non enorme come la piazza del paese, enorme come il monastero dedicato a Chauntea che una volta era stata. Aveva così tanti ambienti, stanze, stanzini e passaggi che Dora aveva rinunciato a contarli.
Lei e Rupert dividevano un pagliericcio nel dormitorio comune: era soffice come una nuvola e coperto da lenzuola candide e profumate, e Dora si era chiesta brevemente se non c’entrasse la magia della strega. La paglia non era così morbida, e d’inverno manco troppo asciutta.
C’era persino una torre campanaria!
Dora non aveva mai vissuto in un posto così grande; la fattoria aveva solo una manciata di stanze, i campi che avevano attorno era la vera ricchezza. Lì invece era tutto costruito per ospitare gente. Quell’inverno principalmente bambini. I pochi adulti che c’erano erano soprattutto i figli di Krystel: erano belli e scuri come lei.
Erano Krystel e i maggiori a prendersi cura di loro. Tek’ryn, che tutti chiamavano Tek, alto e serio, che zoppicava un po’, insegnava loro a leggere e scrivere e Tinefein, che si occupava dell’infermeria e dunque di eventuali raffreddori, indigestioni e nasi rotti. Nella locanda erano tutti molto gentili e non le lasciavano quasi alzare il cucchiaio. Con tutte quelle premure, e farcita di pozioni, in men che non si dica Dora aveva ripreso le forze.
E lì erano iniziati i problemi.

Dora era stata infilata in una quotidianità in cui, aveva scoperto rapidamente, non doveva lavorare. Giusto dare una mano, un concetto a lei completamente estraneo e dunque destabilizzante. Spazzare il refettorio, ma tipo con altri dieci bambini, rammendare con tutta calma qualche calzino…
La cosa l’aveva mandata ai matti.
Ogni volta che cercava di aiutare in cucina veniva messa a pulire due ortaggi in croce come una poppante, ogni volta che si proponeva per andare a governare le bestie le veniva risposto che c'erano già i ragazzi più grandi a farlo, persino quando aveva seguito Rupert in infermeria, era stata accantonata da un lato a guardarlo piagnucolare mentre Tinefein, con rapidi gesti esperti, aveva fermato l'ennesima emorragia al naso causata da un pugno esasperato di qualcuno.
Che razza di posto era quello?!

Solo la mattina le era concesso di fare qualcosa; imparare. Tek’ryn insegnava infatti ai bambini piccoli a leggere e a scrivere, mentre ai più grandi geografia e storia locale.
Quella era la sua parte preferita della giornata.
All’inizio si era trattato soltanto di tracciare singole lettere centinaia di volte, ma nel corso delle settimane Tek’ryn, notando i suoi progressi, l’aveva spostata tra i più grandi. Le piaceva imparare, e le piaceva il discreto cenno di approvazione di cui la graziava il drow quando faceva una domanda sensata o quando riusciva a leggere ad alta voce un paragrafo senza inciampare nelle parole. Le piaceva essere più brava dei suoi fratelli, persino di Randall, che aveva undici anni e si dava sempre arie da uomo di mondo ma era ancora in mezzo ai seienni a cercare di scrivere il suo nome e cognome.
Che fosse brava a fare le faccende di casa, a badare alle pecore, e a seguire suo padre quando doveva occuparsi delle arnie era una cosa dovuta, una cosa necessaria.
Studiare era una cosa tutta sua che stava imparando da sola perché un giorno, le aveva detto Tek’ryn, sapere quelle cose le sarebbe servito.
Dora dubitava: del resto non serviva conoscere l’economia di Waterdeep, o la geografia della Costa della Spada per amministrare una fattoria; suo padre infatti sapeva giusto scrivere il suo nome, e contare i soldi, quello era importante, ma quello l'aveva già imparato da tempo.
Studiare però, anche se inutile, era una roba sua. E quindi, era un po’ speciale, come un tesoro.

Aveva anche trovato una specie di amica. Tinefein era più grande di lei - essendo un’elfa oscura, tanto più grande - ma quando andava a trovarla in infermeria non le scriveva più di andare a giocare da qualche altra parte.
A furia di vederla sempre ad accompagnare il gemello, che si faceva male un giorno sì e l'altro pure, la mezza drow l’aveva presa in simpatia. Tinefein non poteva sentire né parlare, ma questo non era un ostacolo per loro: nei tempi morti aveva preso ad insegnare a Dora qualche gesto della sua lingua dei segni. Ormai riuscivano, anche grazie alla lavagnetta che la ragazza teneva in tasca pronta all’uso, ad avere brevi conversazioni sui rimedi, le pozioni e le tante erbe che occupavano quel piccolo regno al limitare della locanda.
A Dora piaceva l’infermeria, soprattutto perché non ribolliva di gente. Il silenzio di quel luogo aveva inoltre il beneficio di mitigare la sua ansia, perché un giorno ormai non troppo lontano avrebbe dovuto rendere conto di quella lunghissima vacanza.
E se avesse disimparato a prendersi cura della fattoria? Se fosse tornata e non fosse stata più in grado di svolgere bene il suo lavoro?
Di certo i suoi genitori sarebbero stati molto delusi.
Non poteva raccontare a nessuno di quelle paure, anche perché non aveva nessuno a cui confidarle. Tinefein era molto gentile ma era grande… e le altre bambine volevano solo giocare o discutere di quanto fosse bello Luel, il figlio mezzo fatato di Krystel - che sì, era bello, ma tipo come una statua che peraltro non faceva che prenderti in giro e agitare quelle sue ali a forma di mantello come uno scemo, sai che divertimento sposarsi uno così…
Le sue coetanee avrebbero riso dei suoi pensieri o non li avrebbero capiti.
Un po’ le invidiava.


In una nevosa mattinata piena di luce, Dora era come al solito in infermeria. Quella mattina all’alba gli altri bambini erano andati a pattinare con Tek’ryn e Amber, la figlia che-non-c’era-mai di Krystel. C’era andato anche Rupert e Dora all’alba aveva pregato Lathander con più fervore del solito per farlo tornare indietro tutto intero. Dubitava, dato che lo aveva salutato in piena e strampalata pianificazione di uno scherzo ai danni di Randall e Stedd.
Beh, aveva pensato, se Lathander proprio non riuscisse a custodirlo e lo riempiranno di botte, sarò qui ad aspettarlo.
Tinefein doveva aver notato il sospiro scorato perché aveva fatto un sorrisetto e aveva scritto rapida sulla lavagnetta.
Se sei preoccupata per i tuoi fratelli non facevi prima ad andare con loro?
“A me non piace cadere e farmi male sul ghiaccio,” aveva risposto. “Non mi piace il ghiaccio. E il freddo. Comunque stasera sto in sala comune con gli altri, eh, non faccio la musona…” le aveva assicurato.
Tinefein aveva scrollato le spalle e forse era per questo che era la sua preferita degli adulti; capiva il suo desiderio di solitudine meglio di chiunque altro.

Verso l’ora di pranzo Krystel era entrata in infermeria. Quando l’aveva notata aveva sorriso divertita. “Quindi è ufficiale Tine? Hai un assistente?”
Tinefein aveva segnato qualcosa in risposta, troppo rapida perché Dora capisse, e poi le due donne si erano scambiate un sorriso.
“Come mai non sei andata a pattinare con gli altri?” le aveva domandato Krystel.
“Mi sa che mi è tornato un po’ di mal di gola.” Non le piaceva mentire, ma non voleva che Krystel pensasse che non era grata di tutto quello che lei e la sua famiglia stavano facendo per lei e i suoi fratelli, divertimenti compresi.
“Davvero?” Lo sguardo indagatore della strega l’aveva passata da parte a parte e Dora era arrossita senza capire bene perché. Forse perché stava dicendo una bugia enorme. Aveva lanciato un’occhiata implorante a Tinefein, ma quella stava preparando una pozione e le aveva voltato le spalle.
“Ti va di aiutarmi con il pranzo?” le aveva domandato Krystel. “Con Geyla sono un po’ impegnata. In cucina di sicuro staremo al caldo.”
Dora non ne aveva voglia, perché era vero, la locanda la stava facendo diventare pigra, ma non poteva permettersi quel pensiero. Non era un bel pensiero, e i suoi genitori non sarebbero stati contenti. Probabilmente manco Krystel. Di sicuro non Lathander, che la zia glielo diceva sempre, era contento quando lei si impegnava al meglio delle sue forze.
Quindi annuì decisa. “Certo!”

Krystel l'aveva condotta nella grande cucina della locanda: solo quella a Dora sembrava grande come casa sua. Forse c’entrava la magia, o i grandi soffitti con le volte a botte - si vedeva proprio che la locanda un tempo era stata un monastero.
La cucina era il regno di Krystel; la donna la teneva in perfetto ordine e in continua funzione. Dora si era avvicinata al fuoco per controllare cosa stesse bollendo e la donna l’aveva lasciata gironzolare per qualche minuto, presa a star dietro alla più piccola delle sue figlie. Poi le aveva chiesto - non ordinava mai, ma nemmeno Randall si azzardava a disobbedirle come faceva a casa - di occuparsi di pelare patate per il piatto principale del pranzo. Le aveva recuperato uno sgabello e le aveva porto un coltello e Dora aveva cominciato a lavorare con lena.

“Ti piace stare qui?” le chiese a bruciapelo. Dora, che non si era aspettata di sentirsi rivolgere la parola, rimase un attimo presa in contropiede.
“Sì, ovvio,” rispose perplessa.
“Bene,” rispose Krystel, “te l’ho domandato perché non sembra così.”
“Non è vero…” non era brava a dire le bugie, non lo era mai stata. Poi, mentire ad una strega era proprio una cosa stupida da fare a prescindere, e Krystel aveva sempre l’aria di chi ti leggeva dentro. I suoi fratelli ne erano convinti e per questo sfoggiavano sempre il loro lato migliore quando la drow era nei paraggi. Fosse mai che venissero tramutati in polli, come qualcuno dei ragazzi più grandi aveva raccontato loro facesse Krystel ai ragazzini disubbidienti.
Dora la guardò di sottecchi preoccupata: “Mi piace stare qui… io e la mia famiglia ti siamo grati,” concluse con la formula che la mamma aveva detto loro di imparare a memoria. “Solo che…”
“Solo che?”
“Non vuoi niente in cambio?” domandò tutto d'un fiato. “Cioè, qui mangiamo il tuo cibo, e dormiamo nei tuoi letti, ma non…”
“Non mi date niente in cambio, è questo che ti preoccupa?” Krystel spostò l’attenzione da un momentaneo capriccio di Geyla, che sembrava non aver voglia di mangiare la propria pappa da come agitava la testolina riccioluta di qua e di là, e la contemplò confusa. “I tuoi genitori mi pagheranno per il vostro soggiorno. Miele e formaggio, quando arriverà la Primavera salderemo il conto.”
“Sì, ma quest’anno il miele non è stato tanto e le pecore hanno fatto pochi agnelli… e noi siamo in quattro, e tu ci tieni tutto l’inverno…”
“Non sei un po’ troppo piccola per preoccuparti di cosa fanno o non fanno i tuoi genitori per assicurare che passiate l’inverno?” la domanda era stata posta con tono ironico ma gli occhi di Krystel erano gentili, e un po’ preoccupati.
“Beh, non è che Randall, o Stedd… o tantomeno Rupert si preoccupino di ‘ste cose. Bruce poi è appena nato. E anche papà è un po’...” esitò, perché non si parlava mai male dei genitori, li si rispettava, come Lathander insegnava. Però Dora aveva le orecchie e un cervello, e una memoria, e sapeva che suo padre a volte con i pagamenti ai fornitori era un po’… discontinuo. “Vorrei che tu fossi pagata giustamente.”
“Per questo non fai altro che cercare di lavorare per me?” Krystel suonava divertita e Dora era arrossita di rabbia.
Lo diceva come se fosse una cosa sbagliata!
Krystel sospirò. “Non devi lavorare per me. Sei una bambina e peraltro sei stata malata.”
“Ma ora sto bene! Come ve lo devo dire!” sbottò Dora senza riuscire a frenare l’esasperazione. “Potrei dare una mano, mi farebbe piacere!”
“O senti che è il tuo dovere, visto che hai paura che tuo padre non mi paghi?”
Dora rimase in silenzio, senza sapere cosa rispondere. Non era la stessa cosa? Volere qualcosa era certo un verbo diverso dal dover fare qualcosa. Rupert lo metteva in chiaro ogni singola volta che apriva bocca.
Però lei quello che doveva fare voleva davvero farlo, perché era una brava bambina, e le brave bambine facevano quello che gli veniva detto. Lavorare era come le brave bambine diventavano brave bambine. Aveva cercato di esprimere quel pensiero un po’ confuso alla drow, inciampando nelle parole e le era anche un po’ venuto da piangere per la frustrazione.
“Il tuo lavoro è dare una mano quando serve, e non serve sempre perché ci sono altre persone che possono e devono farlo al posto tuo,” le spiegò Krystel porgendole un fazzoletto di stoffa. “Il tuo lavoro, se vogliamo chiamarlo così, è imparare da Tek’ryn. Mi hai detto che sei passata ad imparare con i ragazzi più grandi, è un buon risultato. Questo non ti rende forse una brava bambina?”
“Non lo so…” ammise Dora. “Mi piace imparare, ma non è che mi servirà a molto conoscere quelle cose. E se disimparo a fare ciò che è importante per la fattoria?”
“Lo trovo improbabile,” rispose Krystel tornando a dare attenzioni alla figlia che reclamava con un pianto piuttosto robusto. “Inoltre, credo che quello che ti sta insegnando mio figlio potrebbe servirti in futuro,” continuò la drow tirando fuori Geyla dal seggiolone per poggiarla a terra. Dora non aveva ancora esperienza di bambini piccoli e non si aspettava che Geyla facesse uno scatto e corresse sotto il tavolo. Krystel non sembrò dare peso alla cosa, lasciando la figlia ai suoi giochi. “Magari diventerai un'avventuriera come vuol fare tuo fratello.”
“Chi, Rupert?” Dora fece una smorfia, riprendendo a pelare le patate. Era rimasta indietro. “Rupert potrà farlo forse, io dovrò rimanere alla fattoria. La erediterò io. Devo imparare adesso tutto quello che c’è da sapere per mandarla avanti, papà dice sempre che lui e la mamma non ci saranno per sempre.”
“Sì, ho sentito dire che la tua famiglia eredita per linea femminile…” annuì Krystel con un’espressione pensierosa. “È strano per gli umani.”
“Non lo è per i drow?”
“Per i drow è la norma,” Krystel le rivolse un sorriso che però non raggiunse gli occhi. “L’eredità nella mia razza è sempre matrilineare.”
“Le donne hanno più cervello, dice sempre papà,” convenne Dora. “È per questo?”
“No,” rispose Krystel, mentre con un gesto esperto faceva scivolare le bucce delle patate verso il bordo del tavolo e le versava tutte in un secchio.
“Comunque, tornando al nostro discorso… non dovresti preoccuparti così tanto del futuro. Non è scritto.”
“Per me lo è in realtà. Erediterò la fattoria e mi sposerò, e avrò dei bambini.”
“È quello che vuoi fare da grande?”
Dora aggrottò le sopracciglia. Era una domanda senza senso. “È quello che devo fare.”
“Ma ti piace l’idea?”
“No.” La risposta le era uscita dalle labbra prima che potesse fermarla e Dora aveva sgranato gli occhi inorridita. “Cioè, sì… sì mi piace! Scusa!”
“Non c’è nulla di cui scusarsi,” rispose Krystel pacata. “Il mondo è molto più vasto dei campi di fronte alla tua fattoria, Dora. Per qualcuno può andare bene vedere un solo orizzonte per tutta la vita, ma per altri no… Un giorno crescerai, capirai cosa vuoi davvero e allora dai retta ad una strega: ascolta il tuo cuore, raramente si sbaglia.”
Dora non aveva risposto, la testa che le ronzava di pensieri, così forti e numerosi da non darle il tempo di tradurli in parole. Erano rimaste in silenzio a preparare il pranzo nella calda luce del mattino.
“Penso che comunque dovrò badare tutta la vita a Rupert, perché senza di me muore di sicuro…” borbottò dopo un po’, mentre l’esercito di patate e l’agnello rosolavano in forno spandendo un delizioso odorino per tutto l’ambiente. “Siamo gemelli, ma lui è un po’ come un neonato… mica posso abbandonarlo.”
“Tu e tuo fratello non potete separarvi facilmente, non preoccuparti.”
“Che vuoi dire?” Dora scoccò un’occhiata perplessa alla donna, ma questa non aggiunse altro.
“Quindi vuoi dirmi la verità sul perché non sei andata a pattinare?” le domandò invece.
“Non avevo voglia. Fa freddo,” ammise con un sospiro. “Preferisco stare in infermeria a dare una mano a Tinefein o nel letto a leggere al calduccio.” Esitò. “Forse sono un po’ pigra.”
Krystel le rivolse un gran sorriso. “Forse ogni tanto va bene così?”
Dora contraccambiò. “Forse sì.”

***


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Capitolo 4
*** Addestramento alla Locanda dell'Orso ***


Autore: NPC_Stories
Genere: fantasy

TW: bullismo, non affrontato nel modo in cui se ne parla oggi, a causa del diverso contesto culturale e storico



Addestramento alla Locanda dell'Orso

O come Rupert cominciò a considerare di diventare un monaco



Verso la fine del mese di Hammer 1359, in una locanda vicino a Secomber


Lo spaventapasseri saltellava come un pugile e si muoveva con scatti repentini, imprevedibili. Rupert alzò goffamente la spada di legno e parò lo schiaffo di una di quelle "braccia" fatte di bastoni. L'oggetto animato non colpiva mai troppo forte, ma un bastone è pur sempre un bastone e il contraccolpo fece vibrare le braccia del ragazzino.
Quella maledetta spada era pesante, questo era il problema. Rupert non sapeva come direzionarla per bene, non riusciva a trovare un equilibrio, e in aggiunta a tutto questo doveva anche preoccuparsi dello spaventapasseri che si muoveva in modo così rapido.
Un altro dei bambini lanciò un grido di sfida e attaccò quella cosa con un fendente dall'alto, mirando alla testa che era un sacchetto di iuta pieno di paglia con una smorfia cattiva disegnata a carboncino. Lo spaventapasseri scartò di lato all'ultimo istante, la spada dell'aggressore picchiò sulla terra gelida e rimbalzò. Il contraccolpo quasi gli strappò l'arma dalle mani.
Rupert Honeycomb fece un passo indietro e si deterse il sudore dalla fronte: così non andava. Il combattimento si stava rivelando frustrante e aveva una gran voglia di buttare la spada per terra e andare a fare qualcos'altro. Non si stava per niente divertendo, anche se era stato un po' buffo vedere Tom Tallstag che sbatteva la spada per terra. Sapeva che avrebbe dovuto lavorare in gruppo con gli altri ragazzi per buttare a terra quel finto nemico, però aveva sognato a occhi aperti di essere lui il miglior guerriero della sua generazione, il migliore di tutti i dintorni di Secomber: allora gliel'avrebbe fatta vedere ai suoi fratelli. Non avrebbero più fatto gli stronzi con lui se avessero saputo che lui poteva menarli con una spada. E quindi, gettato alle ortiche il senso di cooperazione, Rupert ci sarebbe rimasto male se fosse stato qualcun altro a sferrare allo spaventapasseri un colpo decisivo.
Per fortuna nessuno sembrava essere vicino a quel traguardo. Nemmeno suo fratello Randall, che si era tanto vantato di poter sconfiggere quel nemico di legno e paglia in pochi secondi.
Il morale della truppa stava calando in fretta, erano in quattro e non riuscivano ad avere la meglio sul malefico oggetto. Rupert aveva tanto la sensazione che quella spada che gli avevano dato fosse più un impedimento che un aiuto. Ad un certo punto prese una decisione: imprecò (non ad alta voce, sua sorella Dora lo avrebbe sgridato), lanciò la spada addosso allo spaventapasseri come per distrarlo e poi scattò.
Rupert Honeycomb aveva due fratelli maggiori. Sapeva come evitare le botte.
Mentre gli altri bambini distraevano il nemico con i loro colpi, Rupert schivò un movimento casuale delle braccia dello spaventapasseri e si avvicinò così tanto da non poter essere colpito. Lo spaventapasseri non poteva muovere le braccia in modo indipendente, erano formate da un unico bastone che era fissato in modo perpendicolare al pezzo di legno verticale che lo teneva in piedi. Poteva solo compiere ampi movimenti per dare bastonate ma non poteva proteggersi se qualcuno si avvicinava troppo. Rupert gli andò alle spalle e gli si arrampicò sopra. Si appese agli stracci che si fingevano vestiti, ma ottenne solo di trovarsi un po' di tessuto strappato tra le mani. Allora si attaccò direttamente al bastone che costituiva il corpo dello spaventapasseri e si arrampicò, ricordando come si arrampicava sui pali del porticato di casa sua quando voleva sfuggire ai suoi fratelli. Lo spaventapasseri cominciò a girare su se stesso, veloce, cambiando anche direzione in modo repentino. Rupert si ritrovò attaccato alle sue spalle come un mantello, ma non per molto: il peso del ragazzo fu sufficiente per far perdere l'equilibrio all'oggetto animato e per farlo cadere a terra.
A quel punto Randall fece una cosa che lo avrebbe fatto finire nel libro nero di Rupert, se mai Rupert si fosse preso la briga di scrivere: afferrò il sacco di iuta che era la testa dello spaventapasseri e lo strappò via dal corpo. Lo sollevò in aria, vittorioso, prendendosi tutto il merito di quella "uccisione".
Rupert si ritrovò sdraiato a terra sotto la struttura ora immobile dello spaventapasseri. Con un gesto stizzito gettò via quella massa di bastoni e stoffa e si alzò in piedi.
"Ehi, ho fatto tutto io!" Protestò. "Tom! Harold! Lo avete visto che ho fatto tutto io…"
Harold Mills e Tom Tallstag, di rispettivamente otto e nove anni, avevano visto benissimo che era stato il più giovane degli Honeycomb a fare quasi tutto il lavoro; ma Randall era più grosso e, alle spalle del fratellino, li stava fulminando con lo sguardo.
"Be', ma è stato Randall ad avere l'idea di sfilargli la testa" obiettò Harold. "È quello che l'ha ucciso, no?"
"Dai, Rupert, sei stato utile anche tu…" cercò di dire Tom, che odiava prendere posizione. "Però Randall gli ha dato il colpo finale."
Rupert ci vide rosso. Aveva una gran voglia di menare Randall e pure questi due cacasotto.
"Rupert ha avuto una buona idea" intervenne il loro istruttore, che stava facendo il giro dei vari gruppetti di bambini per vedere come procedevano gli allenamenti. "Anche Randall ha avuto una buona idea. È questo il lavoro di squadra."
Il loro istruttore era un drow, ma non uno dei gentili figli di Krystel. Era il fratello della strega, un guerriero dagli occhi di acciaio che li guardava sempre come se non sapesse cosa farsene di loro.
"Rupert. Hai fatto la cosa giusta, ma adesso ti devi calmare. È così che funziona il lavoro di squadra." Tornò a ripetere. "Il lavoro di squadra è sobbarcarti la maggior parte del lavoro e poi vedere qualcun altro che si prende il merito. Lo so" alzò una mano per fermare sul nascere le obiezioni del ragazzino. "Lo so che sembra una merda. Eppure, se questo fosse stato un combattimento vero, tuo fratello ti avrebbe salvato la vita. Non serve a niente buttare a terra un nemico se non c'è qualcuno che lo uccide. Se dai tempo al nemico di rialzarsi, poi sarà lui ad uccidere te. Quindi anche Randall ha avuto una buona idea. Non c'è ragione di negarlo, lavorare in squadra significa che non c'è un solo vincitore. Avete vinto tutti… anche se alcuni di voi hanno vinto senza alcun merito. Tom Tallstag, Harold Mills, siete inutili come un culo senza il buco. Cercate di essere un po' più svegli, come i fratelli Honeycomb."
Si allontanò, perché non poteva fermarsi a lungo con un gruppetto, doveva controllare l'operato di tutti quanti. Rupert e Randall per un momento si guardarono in cagnesco, ma in realtà entrambi erano abbastanza soddisfatti per i complimenti del loro istruttore. Anche perché quelle parole avevano aperto un'affascinante prospettiva: durante l'anno gli Honeycomb vivevano per conto proprio, in una fattoria un po' distante dalla cittadina e dagli altri poderi. Di solito i fratelli potevano battibeccare solo gli uni con gli altri, e il più debole diventava oggetto di bullismo - di solito era Rupert. Ma adesso, in mezzo ad altri ragazzini di altre famiglie, stavano sperimentando una sensazione nuova: unità familiare e campanilismo.
"Già, almeno Rupert è utile a qualcosa" rincarò Randall, all'indirizzo degli altri due. "Voialtri che avete fatto a parte stare lì a fare le belle statuine e prendere a botte il terreno?"
"Il terreno è sempre lì, Tom, mica si sposta" rise Rupert. "Mi sa che è l'unica cosa che puoi colpire!"
Avrebbero continuato ancora un po' con i loro frizzi e lazzi, ma in quel momento Krystel suonò la campana che annunciava la fine degli addestramenti. La suonava sempre al tramonto, per indicare che era il momento di tornare all'interno. Qualcuno sarebbe andato in infermeria, prima, ma una volta tanto Rupert non era tra questi.

Quella sera, dopo cena, raccolti intorno al grande camino del refettorio, Rupert e Randall stavano raccontando la vittoria del giorno alla loro sorella Dora. Lei non partecipava agli allenamenti, perché Krystel lo aveva sconsigliato: qualche mese prima era stata male a causa di un colpo di freddo, non era saggio farle fare sforzi e farla sudare nell'aria gelida del primo mese dell'anno, il cuore dell'inverno. Però era curiosa, e ascoltava sempre i loro resoconti con un misto di invidia e apprensione.
"Ma non ti sei fatto male, Rupert? Mi sembra strano che tu non ti sia fatto male."
"Strano? Perché dovrebbe essere strano, eh?" Protestò il gemello. "Io sono un guerriero in gamba, lo ha detto pure Darren."
"Co… si chiama Daren, con una sola r" lo corresse Dora.
"Ah sì? Io pensavo che fosse un errore. Daren non è mica un nome, dai. Darren è un nome vero, come Darren Barch il mercante di botti."
"Ma che ne sai, sarà un nome drow." Dora scrollò le spalle. "Ma poi sul serio ha detto che sei un bravo guerriero, o hai capito male come al solito?"
Rupert ora sembrava davvero offeso. "Io non capisco mai male. E lo ha sentito anche Randall, non è vero?"
"Veramente ha detto che io sono un grande guerriero, e che tu sei stato utile." Gongolò.
La cosa avrebbe potuto degenerare in fretta: Rupert e Randall stavano di nuovo scendendo una china pericolosa, il loro fratello Stedd era nervoso perché il suo gruppo aveva preso solo batoste dal loro spaventapasseri, e Dora era meno impressionata di quanto i fratelli avessero sperato.
"Ho sentito pronunciare il mio nome invano?" Con sollievo di Dora, stavano arrivando due persone che avrebbero potuto evitare il disastro: due adulti.
"Ciao Darren" Rupert lo salutò con eccessiva confidenza e, di nuovo, con il nome sbagliato. "Stavo raccontando a Dora che oggi siamo stati bravi, come dei grandi guerrieri!"
Il drow non si prese nemmeno la briga di sedersi accanto a loro, rimase in piedi a guardarli dall'alto in basso con un sopracciglio sollevato. Accanto a lui, un elfo molto più accomodante e simpatico teneva in mano una pergamena e un carboncino.
"Buonasera ragazzi" esordì quest'ultimo. "Krystel dice che domani il vento potrebbe calare e sarà di nuovo possibile esercitarsi con l'arco. Siamo qui per chiedere a…" sbirciò rapidamente sui suoi appunti "Randall e Stedd se domani preferiscono tentare il tiro con l'arco anziché addestrarsi nel combattimento con le spade."
Stedd accettò con entusiasmo, non perché gli interessasse il tiro con l'arco ma perché non stava mostrando grandi miglioramenti nella tecnica della scherma, quindi preferiva ripararsi dietro la scusa di aver tentato qualcos'altro. Sapeva picchiare, ma la spada richiedeva troppo cervello, molto più di quanto avesse immaginato, e questo lo rendeva nervoso.
Randall stava per aprire bocca, ma Rupert si mise in mezzo. "Ehi, e io? Perché non lo chiedete anche a me?"
"Magari l'anno prossimo…" altra breve sbirciata agli appunti "…Rupert. Per il momento sei troppo basso per tendere un arco lungo come si deve." L'elfo dei boschi cercò di pacificarlo.
"Sono alto per la mia età!"
"Senza dubbio, ma sei comunque troppo basso per l'arco lungo" tagliò corto il drow. "Di solito i bambini sotto i dieci anni non vengono addestrati all'uso dell'arco, per te l'anno prossimo potremmo fare un'eccezione se sarai alto abbastanza. Fattelo andare bene. Nel frattempo, io e te dobbiamo parlare della tua attitudine al combattimento."
Rupert non aveva ben capito, ma il drow lo prese da parte per parlargli mentre il suo amico Johel parlava con Randall. Dora seguì Rupert, curiosa. Sembrava un discorso importante e di sicuro Rupert avrebbe capito fischi per fiaschi.

"Ho visto come ti muovi, giovanotto" esordì Daren. "È inutile girarci intorno, non hai nessuna tecnica e non sembra che tu abbia affinità con la spada. Però ti sei mosso bene appena hai deciso di lasciar perdere l'arma e attaccare a mani nude. È come se tu, a quello, ci fossi abituato. Hai schivato bene i colpi dello spaventapasseri, e questo nella mia esperienza significa che a casa tua ti capita spesso di prenderle. Sbaglio?" Domandò con un'occhiata penetrante. Dora si sentì un po' a disagio, non era quella l'immagine che voleva dare della sua famiglia, però dopo tutto era vero e anche lei sapeva che era una cosa sbagliata.
"Non più tanto spesso" ribatté il ragazzino con orgoglio. "Be' tranne quando Stedd e Randall si mettono in due per menarmi, allora se riescono a prendermi…"
"Già" sospirò il drow. "E l'unico modo in cui puoi rispondere è menando le mani a tua volta."
"È sbagliato?" Domandò Rupert di punto in bianco. Una domanda che sembrò sorprendere molto l'elfo scuro.
"Non sono la persona giusta a cui chiedere. Un umano ti direbbe che è sbagliato, e che anche quello che loro ti fanno è sbagliato. Io sono un drow e ci sono cresciuto con questa roba, quindi non ti saprei dire. Secondo me è solo il modo in cui va il mondo. Si impara a combattere, oppure si muore. Ma non devi prendere per vero tutto quello che dico, magari qui le cose funzionano in modo diverso. Qui… avete comunque delle battaglie da combattere, ma spesso usate le parole e le leggi anziché le armi e i pugni. Dipende dalla situazione, credo" si strinse nelle spalle. "Però voglio che sia chiara una cosa: sto fornendo a tutti voi le basi del combattimento perché possiate difendervi, perché questa regione è comunque assediata dai mostri dalle colline a ovest e talvolta anche dalla foresta a est, e non cominciamo neanche a parlare della brughiera a sud. Insomma ovunque ti giri piove merda, quindi…" si zittì un momento mentre Rupert rideva per la parolaccia, "quindi, il succo della cosa è che non dovreste usare queste conoscenze per farvi del male l'un l'altro. Specialmente non tra fratelli. Ho bisogno di capire, Rupert Honeycomb, qual è il tuo scopo. Perché hai voluto partecipare a queste lezioni?"
"Perché voglio diventare forte" rispose lui senza esitazione.
"E perché?"
"Perché i deboli le prendono e basta" insistette.
"Ma lo capisci che non puoi usare le armi contro i tuoi fratelli?"
Dora a questo punto si mise in mezzo. "Ehi, va bene che sei un guerriero esperto, sei il fratello di Krystel e stai insegnando a tutti a combattere; noi siamo grati per questa cosa, però… però non mi sembra giusto che tu accusi mio fratello di avere queste cattive intenzioni."
"Perché non posso menarli con la spada?" Piagnucolò lui, infrangendo la bolla di illusioni di Dora.
La bambina per un momento sentì come una voce nella sua testa che urlava, urlava per il semplice peso emotivo che erano la sua famiglia e la sua vita. Sembrava quasi il verso di un opossum, e quel grido per qualche secondo le impedì di seguire la conversazione.
"…una storia." Stava dicendo il drow. "Quando ero piccolo, vivevo in una città sotterranea insieme agli altri drow, e anch'io avevo un fratello. Mio fratello era più grosso di me, e mi picchiava, come fanno i tuoi fratelli con te. Non mi picchiava tanto forte, perché sapeva che dovevamo entrambi lavorare nel negozio di nostro padre, e se io fossi stato troppo malconcio per lavorare lui avrebbe dovuto fare anche la mia parte. Però comunque tutti i giorni avevo qualche livido. Lo sai come funziona, tra fratelli."
Rupert annuì, perché lo sapeva. "E perché tu non gliele rendevi indietro?"
"Perché… perché lui era davvero più grosso di me. E perché nonostante tutto era mio fratello. Ad un certo punto però lui ha esagerato; mi ha picchiato così forte da farmi svenire. Nostro padre si è infuriato e lo ha ucciso. E sai che è successo dopo?"
Rupert esitò per qualche momento, mentre Dora ricominciava a sentire quella specie di urlo nella sua mente. A lei sembrava che quello non fosse affatto un racconto adatto ai ragazzini, era una storia terribile, e quel che è peggio Rupert non aveva ancora la maturità per capire che fosse terribile e avrebbe potuto prenderne esempio. Dora sapeva che suo fratello non era cattivo, ma non aveva nessuna idea di cosa fosse la morte.
"È successo che non ti ha più picchiato?" Indovinò Rupert.
Daren tentennò, preso in contropiede. "Be', lui no, perché era morto. Ma la sua morte ha avuto delle conseguenze. Nostra madre gli era molto affezionata, a modo suo. Ha ucciso nostro padre per vendetta. Così siamo rimasti da soli, io e lei, e il negozio ha dovuto chiudere. Non so che fine abbia fatto quella donna, forse è morta di fame da qualche parte o forse è stata presa come schiava da qualcuno. Io sono finito a fare lo schiavo in una casata nobiliare e poi sono diventato un soldato, e ho preso un sacco di altre botte nella mia vita, molto peggiori di quelle che mi dava mio fratello."
"Woah. E poi sei morto?" Chiese Rupert di getto.
"Rupert, ma ti pare?" Dora gli rifilò un coppino. "È proprio qui davanti a noi, ti pare morto?"
"Sì, sono morto" la sorprese l'elfo drow. "Due volte, ma questa è un'altra storia."
"Ma…" Dora annaspò. "Ma Lathander dice che non si può tornare dalla morte"
Il guerriero la guardò con la stessa espressione paternalista che ogni tanto le rivolgeva Krystel, quella che la faceva sentire piccola e immatura.
"Lathander ha una mazza ma non ha il fodero, se capisci cosa intendo" rispose in tono leggero.
Dora lo guardò con sguardo perplesso, riflettendo su quella strana affermazione. Sembrava un motto, uno di quelli che dicono gli adulti per far vedere che sono saggi, come una metafora. Il senso però le sfuggiva.
L'elfo Johel aveva finito di parlare con Randall e passò vicino a Daren per spostarsi verso un altro gruppo di ragazzini, ma mentre passava gli diede un coppino dietro la nuca. A Dora ricordò tanto le dinamiche fra lei e Rupert.
Il drow sembrava sul punto di dire qualcosa di arguto, ma il gesto dell'elfo e la successiva occhiataccia lo costrinsero ad ammorbidire il suo sorrisetto scaltro. "Vuol dire che Lathander non ripone mai la sua arma, è sempre pronto al combattimento. Per questa ragione a volte cerca nemici anche dove non sarebbe necessario." Ci pensò un momento, poi aggiunse. "Però Lathander non proibisce la resurrezione, a patto che ci sia un valido motivo per tornare."
"Oooh. E com'è, tornare in vita?" Chiese Rupert.
"Costoso. È per questo che la maggior parte delle persone non lo fa." Tagliò corto il drow. "È per questo che mio fratello e mio padre sono rimasti a marcire in qualche angolo della città, o sono stati mangiati dai ragni. Le persone comuni non tornano, per loro la morte è per sempre. Che cosa pensi che possiamo imparare da questa storia?"
Il ragazzo ci pensò per un lungo momento e Daren gli lasciò i suoi spazi.
"Che anche se i tuoi fratelli ti picchiano forte, gli estranei ti picchiano più forte?"
"Uhm, sì, anche. Ma quello che volevo farti capire è che la morte è una cosa che porta molte conseguenze, conseguenze che non si possono prevedere. Una volta che uccidi qualcuno, quello che succede dopo non è più sotto il tuo controllo. Per questo è importante pensarci molto bene prima di puntare la spada contro qualcuno. Non sai mai quali conseguenze avrà il tuo gesto: se non riesci a capire se la persona davanti a te sia un nemico oppure qualcuno con cui si può ragionare, è molto meglio buttarlo a terra con i pugni anziché ucciderlo con la spada. Quindi te lo chiedo di nuovo, vuoi davvero che io ti insegni ad usare la spada per poterti difendere dai tuoi fratelli?"
"Sai… forse no. Con i pugni sono più bravo. La spada è pesante e non la uso bene. Meglio fare a botte, no? Così non rischio di ucciderli però gli faccio anche più male" piegò un braccio come per mettere in mostra il muscolo. "Guarda qui che roba! Questo è acciaio puro, altro che!"
Daren fissò il ragazzino in silenzio, con l'espressione di un saggio che ha insegnato al suo apprendista i profondi misteri dei tarocchi solo per poi vederlo costruirci dei castelli di carte. Un'espressione di resa. Poi gli scompigliò i capelli con una mano.
"Sì. Meglio i pugni. Tu secondo me saresti bravo anche con le testate."



**********
Nota: quando Daren dice "Lathander ha una mazza ma non ha il fodero", quello che voleva sottintendere era "quindi la mazza dovrebbe infilarsela nel culo". Johel l'ha capito al volo e gli ha fatto capire di non dire una cosa del genere davanti a una bambina devota con gli occhioni scintillanti.
Nota 2: e no, le mazze non hanno il fodero. Di default. Si agganciano alla cintura. Ma era parte della battuta.

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Capitolo 5
*** In tempi di carestia, le patate non hanno buccia ***


Autore: NPC_Stories
Genere: fantasy, slice of life, lore
Note: riferimenti alla crisi degli Avatar. Storia che doveva far parte della storia di Natale di domani ma poi sarebbe diventata troppo lunga e quindi ho deciso di pubblicarla come storia a sé, è comunque un prequel della storia di Natale che se tutto va bene pubblicherò domani.




In tempi di carestia, le patate non hanno buccia

O come Dora rimase affascinata dalla magia divina



1359 DR, periodo di Mezzinverno, in una locanda vicino a Secomber

Le casse di cibo messe da parte per l’inverno si stavano svuotando a una velocità preoccupante. Krystel avrebbe tanto voluto che non fosse così, ma purtroppo l’anno precedente il raccolto era stato magro e la sua magia, che lei avrebbe voluto usare per aiutare la fertilità dei campi, era stata a dir poco altalenante.
Era stato un anno strano, l’Anno delle Ombre; grazie al cielo si era concluso. Era successo… di tutto. A sentire la gente, di tutto. Per molti mesi i sacerdoti non avevano ricevuto benedizioni dai loro dèi, non erano stati in grado di lanciare incantesimi. Qualcuno, gente di passaggio a Secomber quando il commercio si era ripreso, giurava di aver visto gli dèi camminare sulla terra. Chi veniva da Waterdeep - che dopotutto non era troppo lontana - raccontava storie a cui era difficile credere. Anche nella Grande Foresta c’erano stati tafferugli, Duvainion non ne era stato testimone ma aveva riferito a sua madre che dei kerpca gli avevano raccontato storie pazzesche, su un avatar del dio Malar che avrebbe causato devastazione in una caccia furibonda; certo non c’era sempre da fidarsi delle parole degli ometti-scoiattolo, spesso le sparavano grosse per darsi un tono, ma questa volta lui pensava che fossero sinceri. C’era stata della devastazione, era innegabile, per fortuna non nella zona dove viveva lui.
Krystel strinse Jaylah fra le braccia come se non volesse mai lasciarla andare, scatenando una protesta da parte della bambina che avrebbe voluto solo sgambettare in giro. La strega non se ne accorse, ancora persa nei suoi pensieri. L’anno precedente per certi versi era stato terrificante. La parte peggiore era l’incertezza. Però in autunno il mondo sembrava aver riacquistato una parvenza di normalità, e poco alla volta la gente aveva tirato un sospiro di sollievo.
Troppo tardi per il raccolto, però. Avevano ottenuto qualcosa dalla seminagione di ortaggi autunnali - carote, altre radici, qualche verdura, le nutrienti zucche che però non erano cresciute al meglio - e quindi qualcosa avevano tirato su, ma il raccolto estivo, il grano e altri cereali, era stato magro.
Per Krystel questo era un problema. Aveva accettato come sempre di prendersi in casa i bambini di tutta la regione, per dare sollievo alle loro famiglie, che quell’anno ne avevano più bisogno che mai. Però qualcuno doveva sfamare quei ragazzini, e quel qualcuno era lei.
Potrei iniziare a ricorrere alla magia, ma non sarebbe facile tirarne fuori qualcosa di buono tutti i giorni… rifletté, vagliando le sue possibilità. Poteva creare una pappa insapore con i suoi incantesimi, in realtà quel cibo poteva presentarsi in qualunque forma lei volesse, ma che creasse semolino oppure stufato la consistenza era sempre più o meno la stessa e il sapore era quasi inesistente. Dopo alcuni giorni di cibo creato con la magia, le persone - specialmente i bambini - cominciavano a deprimersi. Poteva metterci una pezza usando erbe e spezie, ma non era come mangiare cibo vero. Prima della fine dell’inverno sarebbe dovuta ricorrere a quella misura estrema, ma aveva sperato che quel momento non arrivasse così presto. Non aveva mai esaurito le scorte prima di Mezzinverno. Di solito non le esauriva prima dell’inizio del mese di Ches, il mese che vedeva l’inizio della primavera.
Quest’anno siamo in anticipo di almeno un mese, pensò con amarezza. Che gli do da mangiare per un mese?
L’elfa scura sospirò, ma non intendeva darsi per vinta. Era una seguace di Chauntea, la dea della fertilità dei campi, della vita, dell’abbondanza… e anche della cucina. Forse avrebbe trovato qualcosa fra i libri sacri, qualche incantesimo clericale che poteva essere riadattato in un rito magico. Le streghe non avevano pieno accesso al ventaglio di incantesimi che venivano concessi ai sacerdoti, ma con un po’ di inventiva potevano tentare di replicarne gli effetti attraverso complicati rituali.

***


§Per favore, passami quel secchio§ fece cenno la donna, indicando un secchio di legno in un angolo.
Dora ormai capiva abbastanza bene il linguaggio gestuale di Tinefein. Era una ragazzina sveglia e aveva imparato in fretta: sapeva che quando la mezzadrow cominciava una serie di gesti con uno schiocco di dita significava che sarebbe arrivata una richiesta, e uno schiocco di dita seguito da indice e medio incrociati significava ‘per favore, fai…’
Dora corse a prendere il secchio. Le piaceva aiutare Tinefein in infermeria, si teneva impegnata facendo qualcosa di utile e poteva godere della pace di quel luogo silenzioso.
Il secchio, scoprì presto, conteneva bucce di patate. Lo prese e lo portò alla donna, come richiesto.
§Che cosa ci fai con queste?§ Domandò, muovendo le dita in modo ancora un po’ goffo. §Le ho cosate io, sai?§ Dora non conosceva il gesto per ‘pelare’, quindi ripiegò sul segno più generico che indicava ‘un verbo, ma non conosco il segno specifico’, e che lei nella sua mente immaginava come ‘cosare’[1].
Tinefein aveva tra le mani un pentolone, ma lo appoggiò su un ripiano per prendere la lavagnetta che teneva sempre in tasca. Da questo, Dora capì che la spiegazione sarebbe stata troppo lunga o complicata per esprimerla a gesti.
La figlia della strega aveva una calligrafia minuta e molto bella, secondo la bambina, e riusciva a scrivere velocissima. Le sue dita dovevano essere veloci quanto il suo pensiero, perché non poteva esprimersi a voce. Quando Tinefein mostrò a Dora la lavagnetta, c’era scritto:
Farò bollire queste bucce fino a ottenere un concentrato, poi lo metterò in bottiglie di vetro con estratto di bacca di luna, che è un conservante naturale, altrimenti marcisce tutto. Si ottiene un tonico per i capelli. Li rende più forti e li scurisce, copre i capelli bianchi.
Dora aveva ancora molte perplessità. Nella sua esperienza, i capelli erano solo un orpello estetico. Belli, per carità, ma non così importanti da dedicargli delle vere cure.
§Ma perché? Non è meglio mangiare le patate con la buccia?§ Segnalò con il codice gestuale.
Tinefein girò la lavagnetta sull’altro lato e scrisse:
Mia sorella Hilda vende questa roba per corrispondenza. Arriva a Waterdeep, per le grandi dame e le mogli dei mercanti. Pagano molte monete d'argento per succo di buccia di patate! E Hilda ci dà la maggior parte dei proventi. Così possiamo comprare semi per l’anno nuovo e altre cose.
Dora rimase un po’ sconcertata nello scoprire quanto potessero essere stupidi i ricchi. Però, be’, tutto quello che poteva portare guadagno ai contadini era un bene. All’improvviso i lunghi pomeriggi a pelare patate per Krystel assunsero una maggiore dignità ai suoi occhi. Si era sentita un po’ inutile a svolgere compiti così semplici, e invece era stata utile a qualcosa.
§Allora andrò a cosare altre patate§ segnalò con un grande sorriso. §Per aiutarti§
Lo sguardo di Tinefein si fece improvvisamente malinconico. Scosse la testa.
§No. Mia madre ha detto basta. Sono rimaste poche patate. Le mangeremo con la buccia. Sono più nutrienti§ spiegò, poi si rese conto che Dora non aveva capito l’ultimo gesto e riprovò: §Sono meglio per la salute§
Ma Dora, per una volta, non stava più facendo caso a Tinefein. Aveva capito il senso generale e qualcos’altro aveva reclamato la sua attenzione. Negli ultimi giorni avevano mangiato patate sempre più spesso, la varietà del cibo a disposizione si era ridotta, e se ora stavano finendo anche quelle…
§Siamo senza scorte?§ Chiese freneticamente.
Tinefein aggrottò la fronte. §No, non ancora§ poi rapidamente aggiunse: §Nessuno farà la fame. Se finisce il cibo lo creeremo con la magia. Non è molto buono ma è cibo§
Dora fece tanto d'occhi. §Si può fare il cibo con la magia?§
§Sì, anche se non è un incantesimo alla portata di chiunque. Non è una cosa da apprendisti§
§Tua madre è una grande strega§ riconobbe Dora. §Ma se può fare il cibo con la magia perché non lo fa sempre? Perché deve lavorare i campi e l'orto come tutti?§
§Perché il cibo fatto con la magia non è buono, te l'ho detto§ Tinefein ci pensò per qualche momento, come se volesse aggiungere qualcosa. Poi evidentemente decise che la risposta era troppo lunga e prese di nuovo in mano la lavagnetta. Cancellò le precedenti scritte con una manica e ricominciò a tracciare segni con il gessetto.
Mia madre lavora meno di quanto pensi, come contadina. In estate assume dei lavoranti e per pagamento gli lascia tenere una parte del raccolto. Lei fa altre cose, cose da strega. Se non ha figli piccoli viaggia in tutta la regione. Lo spazio sulla lavagnetta era finito, quindi la girò dall'altra parte. Va a rinforzare gli incantesimi che ha lanciato in tutto il territorio. Quelli di fertilità nei campi, di protezione ai confini, e di fortuna sulle strade. Si incontra con altre streghe. A volte cerca apprendiste.
Dora lesse tutto con avidità, ma queste spiegazioni non risolvevano tutti i suoi dubbi.
§E voi come fate senza di lei?§
Tinefein sorrise, ma era un sorriso divertito più che bonario.
§Quanti anni ho secondo te?§
Dora arrossì per l'imbarazzo. Cercare di indovinare l'età di una donna era un terreno pericoloso, la gaffe era sempre dietro l'angolo. Tinefein, come tutti gli elfi, aveva un'età indefinibile. Sembrava giovane e fresca, ma lo stesso si poteva dire di Krystel, anche se Krystel emanava un'aria di maggiore maturità grazie a… Dora non avrebbe saputo dirlo con certezza. Grazie al suo sguardo, forse, o al modo in cui si muoveva. Tinefein aveva il corpo di una donna adulta, e sapeva un sacco di cose come gli adulti, ma il suo desiderio di isolarsi ricordava un po' quello di alcune ragazze adolescenti che Dora aveva visto in paese.
La bambina decise per un approccio cauto.
§Ne hai circa venti?§
§Ne ho circa sessanta§
la corresse la mezzadrow, senza abbandonare il sorriso. §Posso occuparmi di questo posto anche senza la mamma. Sono adulta adesso.§
"Circa che cosa?" Balbettò Dora, dimenticando che l'altra non poteva sentirla. Non si era aspettata una risposta del genere. Rimase a fissare il vuoto per alcuni minuti mentre la donna metteva a bollire le bucce di patata. La mezzadrow aveva saggiamente deciso di approfittare dello stordimento della bambina per portarsi avanti nel lavoro.

***


Luel aveva il pregio di saper vedere il lato positivo in ogni situazione, o almeno così pensava lui. In realtà era più che altro incapace di preoccuparsi di qualunque cosa e questa non era esattamente una virtù. La causa era in parte il suo sangue fatato, in parte la sua giovane età, ma soprattutto una ingenua fiducia nel mondo e un totale disinteresse per le necessità degli altri. Luel sapeva che in qualche modo del cibo sarebbe continuato a finire nel suo piatto ogni giorno, forse non sarebbe più stato buono come all'inizio dell'inverno però a lui non importava molto. Per la gente era difficile da credere - perché è opinione comune che le creature fatate siano dedite ad ogni tipo di piacere ed eccesso - ma alcune di loro sono in realtà molto selettive, e Luel ne era un esempio. Era goloso di dolci, ma tutto ciò che non era dolce gli risvegliava lo stesso grado di interesse: quasi nullo. Non era in grado di apprezzare davvero la differenza fra un galletto ruspante al forno e un piatto di semolino sciapo, e non gli interessava che altre persone invece quella differenza la sentissero. Non era un problema suo, quindi non era un problema.
Luel era contento che si stessero esaurendo le scorte, perché significava che il magazzino si stava svuotando di quei brutti sacchi di iuta e di quelle casse pesanti piene di orribili cipolle. Quando il magazzino si svuotava, per poche decine di giorni ogni inverno, l'ex presbiterio del tempio di Chauntea tornava a sembrare ciò che era stato nei tempi d'oro, la parte più sacrale di una chiesa. Luel non era religioso, le fate non lo sono quasi mai, ma sapeva apprezzare la bellezza. Non che ci fosse chissà quale opera architettonica da ammirare, il clero di Chauntea è pragmatico e avaro di orpelli, ma sul fondo del tempio avevano qualcosa che un bardo non poteva che amare: un organo a canne. Il suono che produceva sembrava venire direttamente da un altro luogo, era come se la voce di un dio, o del mondo stesso, o dello spirito del vento, si piegasse ai desideri di chi sapeva suonare e cantasse per chi sapeva ascoltare. Era una cosa intima, un suono potente che ti entrava dentro e faceva vibrare l'anima; come le percussioni, ma in modo più elegante. Luel non conosceva nessun altro strumento la cui musica ti entrasse dentro come quella di un tamburo, ma senza ricorrere al facile escamotage di imitare il battito del tuo cuore. Ai tamburi piaceva vincere facile, e per questo lui non li apprezzava molto, li considerava rozzi e barbarici.
Il bardo, da parte sua, era più un tipo da violino o da strumenti a fiato. Entrambi quegli strumenti avevano il pregio di conferirgli un'aura interessante mentre suonava, qualcosa che affascinava le persone ma le teneva anche a distanza. Non come gli strumenti a corde pizzicate che sua sorella Amber amava così tanto. C'era qualcosa nei liuti e negli yartig che comunicava 'sono simpatico, sono approcciabile, sono il tipo di bardo che suona in taverna per qualche moneta', e non era l'idea che Luel aveva di se stesso.
"Mamma, non pensi che potremmo spostare quelle casse un po' più a destra?" Propose, indicando gli ingombri che ancora bloccavano la visuale sull'organo a canne.
"Oh, chi si vede" lo salutò Krystel, che però non lo stava davvero guardando. Era impegnata a frugare in alcuni sacchi che, dal rumore, dovevano contenere noci o qualcosa del genere. "Sei qui per dare consigli o per dare una mano, Luel?"
Il mezzofolletto sentì una goccia di sudore freddo scivolargli lungo il collo. Stava correndo il rischio di dover lavorare, un'altra di quelle cose che nella sua ottica si applicavano solo agli altri.
"Pensavo solo che, visto che ormai c'è spazio per spostare le casse e i barili altrove, sarebbe carino liberare l'organo. Potremmo cominciare le nostre serate musicali, i bambini ne sarebbero contenti."
"Oh, i bambini. Ne sarebbero contenti. Sono colpita dall'altruismo del tuo cuore!"
Luel aveva quasi ventitré anni e ormai sua madre non cascava più nella sua manipolazione. Quando era piccolo riusciva a rigirarsela come voleva, ma ormai aveva perso i più grandi privilegi dell'infanzia: essere dispensato dal lavoro ed essere considerato innocente a discapito di qualunque sua birboneria.
Crescendo era maturato, in un certo senso, non gli interessava più molto fare scherzi. Però non era ancora entusiasta di sobbarcarsi certe responsabilità, in particolare il lavoro. Non amava fare le pulizie anche se gli piaceva vivere nel pulito, non pensava che fosse degno di lui dover spostare pesi, e più di qualsiasi altra cosa odiava il lavoro nell'orto e all'aperto in generale. Dover aiutare a riorganizzare il magazzino non era proprio in cima alla lista delle cose che odiava di più, però si piazzava fermamente sul podio delle prime tre.
"Percepisco che non sei d'accordo, mamma. C'è un motivo per cui non vuoi che cominciamo a suonare l'organo?"
"Sì, c'è un motivo" spiegò, emergendo dal grosso sacco di iuta con una manciata di noci tra le dita. "I ragazzini che sono qui da diversi inverni sanno che quando iniziamo a suonare l'organo ogni sera è perché il magazzino si è svuotato e il cibo sta finendo, ma di solito questo significa anche che la primavera è quasi arrivata. Sanno che è un modo per sollevare i loro spiriti nei giorni precedenti al commiato, quando le loro famiglie vengono a riprenderli o mandano qualcuno per portarli a casa. Se cominciassimo a fare questa cosa a mezzinverno finiremmo solo per creare il panico, i bambini penserebbero che non possiamo più nutrirli e che vogliamo mandarli via anche se c'è ancora la neve sulle strade. Quest'anno non possiamo permetterci di liberare l'organo a canne non appena inizia ad essere raggiungibile, purtroppo dovremo fare proprio il contrario."
Luel rivolse a sua madre uno sguardo strano, obliquo. "Stai dicendo che dovremmo mentire a dei bambini?"
"Sì" rispose lei con candore. "È la via di minor resistenza, ed è per il loro bene. Comincerò a creare il cibo con la magia e mescolarlo a cibo vero, aiutami a pensare a dei piatti creativi" ordinò.
L'espressione preoccupata di Luel si distese in un sorriso. Dare consigli e aiutare in cucina erano compiti facili, poteva andargli molto peggio.

I bambini ospiti alla locanda da quel giorno cominciarono a mangiare polpettone sempre più spesso, a volte accompagnato da patate, o dalle poche verdure che erano rimaste dallo scorso autunno. Spesso quel cibo era un po' insipido ma Tinefein aveva messo a disposizione tutte le sue erbe commestibili per dargli un qualche sapore. Non era mai facile identificare gli ingredienti di quel polpettone, però era decente e nessuno si alzava da tavola affamato, quindi nessuno faceva domande. Alla fine dell'inverno la quantità saziava più della qualità.



**********
[1] "Cosare" è riconosciuto come un vero verbo, anche se solo per uso familiare, nel dizionario Treccani online

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Capitolo 6
*** Lull-a-bye ***


Autore: NPC_Stories
Genere: fantasy, introspettivo
Nota: storia di Natale. In realtà, la vicenda si svolge verso la fine della stagione fredda, fra la festa di Mezzinverno (fra la fine del primo mese e l’inizio del secondo mese, nel periodo della nostra Imbolc / Candelora) e l’inizio della primavera.
Non è una storia facile per me, è un progetto ambizioso che vorrebbe mostrare una carrellata di personaggi, parlare delle loro particolarità, dei loro rapporti e della loro psicologia.
PS: Il titolo è un gioco di parole.
Lullaby significa ninna-nanna, ma come l’ho scritto è più fedelmente traducibile con cantare un addio.

Questa storia è dedicata alla mia amica Dira e originariamente avrebbe dovuto essere la storia per il suo compleanno, ma non avrei mai fatto in tempo a scriverla.
È il seguito diretto della storia precedente.


Lull-a-bye

Bada al senso, e i suoni baderanno a se stessi
[Lewis Carroll]



Due settimane dopo la ricorrenza di Mezzinverno perfino i sassi avevano capito che alla locanda non c'erano più scorte. Krystel aveva terminato perfino i condimenti, le spezie e le radici saporite, rimanevano solo alcuni semi (che Tinefein preferiva conservare per le loro proprietà medicinali) e il cibo insapore che la strega creava con la magia. La cosa peggiore forse però non era il fatto che fosse insipido, ma la sua consistenza. Che lei evocasse verdure, carne, pappa di cereali o qualsiasi combinazione di pietanze, tutto aveva più o meno la stessa consistenza morbida. Krystel cercava di risolvere il problema ricuocendo di nuovo il cibo: c'era qualche espediente per rendere alcune verdure più croccanti, aveva inventato perfino delle specie di frittelle di semolino che erano vagamente appetitose (per quanto fossero frittelle al forno perché non c'era più olio per friggere), ma non c'era modo di migliorare la qualità della carne. I bambini se lo facevano andar bene, ma nessuno correva con gioia al refettorio all'ora dei pasti.
Siccome ormai il segreto della loro mancanza di risorse non era più un segreto, Krystel aveva capitolato a proposito dell'organo a canne. Dopo aver chiarito a tutti che nessuno sarebbe stato mandato via prima del tempo, perché tanto la situazione alimentare non poteva peggiorare più di così, Krystel aveva iniziato ad aprire le porte del magazzino ogni sera per i suoi giovani ospiti.
L’organo a canne era un vestigio di quando quella struttura era un tempio e il magico strumento musicale veniva suonato per riverberare in tutto l’ambiente. L’enorme edificio in seguito era stato diviso da Krystel con muri separatori, creando il magazzino nel presbiterio, la cucina in corrispondenza dell’altare (il grande tavolo da lavoro in centro alla cucina era, in realtà, l’ex altare di pietra), e il refettorio della taverna occupava la parte del tempio che era dedicata ai fedeli, alla loro preghiera e al loro lavoro, perché in un tempio di Chauntea la preghiera non è mai una questione oziosa. Krystel aveva sempre pensato che quel tempio fosse ridicolmente grande per le poche decine di chierici che avevano occupato la regione in precedenza, soprattutto perché non erano quasi mai presenti al tempio contemporaneamente; erano spesso in giro per campi e fattorie per benedire qui e consigliare là, un po’ come ora facevano lei e le sue colleghe streghe.
In ogni caso l’edificio non veniva più usato per funzioni religiose e l’organo era stato messo da parte. Veniva suonato solo in quel periodo dell’inverno, per risollevare gli spiriti dei ragazzini nel periodo più freddo dell’anno. Per fortuna i giovani umani non erano critici musicali: altrimenti si sarebbero accorti che l’acustica non era perfetta. Non si può sperare che lo sia, quando uno strumento pensato per un tempio enorme viene suonato in un magazzino che sarà stato, a spanne, un quarto dello spazio originale. Si creava una strana eco, diversa da come avrebbe dovuto essere. Non proprio sgradevole, ma i suoni andavano maneggiati con cautela o ne sarebbe uscita una cacofonia inquietante anziché una musica che rasserena.
Di solito erano in tre a contendersi il privilegio di suonare: Luel, che era un aspirante bardo e si credeva il dio della musica sceso in terra, e Amber e Tek’ryn che suonavano in coppia. Krystel amava la musica dei suoi figli, ma la differenza fra loro era chiara. Luel mirava a raggiungere la perfezione in ogni sua esecuzione, mentre gli altri due suonavano solo perché gli piaceva, perché volevano esprimere un’emozione.
La maggior parte delle volte ci riuscivano, e quando accadeva era meraviglioso.
Amber e Tek’ryn sembravano leggersi nella mente a vicenda, non a livello conscio ma come se sentissero l’uno le emozioni dell’altra. Amber guidava, su questo Krystel non aveva il minimo dubbio, ma Tek’ryn suonando a quattro mani con lei riusciva a starle dietro. Amber improvvisava e lui non sbagliava un colpo. Le stava dietro, anticipava perfino le sue scale e i suoi assoli, creava una musica di contorno che avviluppava i suoni decisi di lei e li rendeva più armonici, più comprensibili. Amber suonava come un torrente in piena e Tek’ryn era l’argine. Sentirli era una cosa che le dava i brividi perché, anche se erano meno bravi di Luel e la loro musica era meno bella, erano così in sincrono da sembrare magia. Solo che se fosse stata magia lei se ne sarebbe accorta, l’avrebbe percepita, e invece no.
Anche i bambini rimanevano sempre affascinati dalle esibizioni dei figli di Krystel, ed erano tanto più speciali perché nessuno dei tre aveva mai avuto un maestro di musica. Suonavano a orecchio, senza conoscere i nomi delle note o delle sequenze che creavano, erano la dimostrazione che tutti gli elfi hanno un orecchio speciale per la musica.
Purtroppo la loro mancanza di preparazione accademica gli rendeva impossibile insegnare la musica agli altri. I ragazzini ospiti alla locanda si divertivano a darsi il cambio per suonare all’organo, con risultati che andavano da ‘quasi accettabile’ a ‘basta, ti prego, ci sanguinano le orecchie!’. Non c’era molta speranza di miglioramento, ma quelle serate non erano intese per essere delle lezioni di musica. Non erano pensate nemmeno per ascoltare concerti in silenzio, ma per giocare e suonare insieme, per mettersi alla prova e passare il tempo in allegria.

Mary Thornwood era di sicuro la peggiore suonatrice che avesse mai toccato quell’organo, erano tre inverni che ci provava ed erano tre inverni che torturava lo strumento tirandone fuori suoni di gatto a cui hanno calpestato la coda. Però lei almeno accettava di suonare in gruppo, insieme a uno o due altri ragazzini. Rupert Honeycomb era un po’ meno stonato ma aveva il bernoccolo del solista. Guai ad avvicinarsi mentre suonava lui: pur di raggiungere le tonalità più distanti era disposto anche a suonare con due mani e un piede, ma non a condividere il fardello con qualcun altro.
Due persone spiccavano sempre per la loro assenza a quelle serate: Daren, che odiava la musica, e Tinefein che non poteva sentirla.
Il loro risultare involontariamente asociali era una cosa che un po’ li univa, ma non approfittavano di quella identica assenza per passare del tempo insieme. Erano parenti, si volevano bene, ma avevano molto poco da dirsi.

Tek’ryn si sentiva frustrato per quella situazione. Voleva bene sia a suo zio che a sua sorella, anche se non erano suoi parenti di sangue. Anzi, forse li amava ancora di più proprio perché non lo erano: Krystel lo aveva adottato, e loro lo avevano accettato. Daren lo aveva preso sotto la sua protezione fin dal primo momento, aspettando con pazienza che si adeguasse al nuovo stile di vita e alla sua nuova madre. Tinefein aveva avuto bisogno di più tempo, i loro inizi non erano stati facili, ma alla fine lo aveva accolto anche lei. Tek'ryn credeva nel diritto all'autodeterminazione e li avrebbe lasciati in pace se il loro desiderio di solitudine fosse stato sincero, ma nessuno dei due in realtà era sereno.
Poteva sembrare un'affermazione arrogante, ma Tek'ryn sapeva come stavano realmente le cose. Nonostante la sua giovane età, il drow non era giovane nell'anima. La sua anima era trasmigrata da un corpo morente all'embrione di un piccolo drow, era passato troppo poco tempo tra la sua morte e la sua rinascita e forse per questo i suoi ricordi non erano stati cancellati, ma soltanto sigillati per un po'. Negli ultimi tempi stava cominciando a ricordare, e soprattutto stava cominciando a riappropriarsi dei suoi poteri innati. Poteri psionici. Per di più, anche il suo padre naturale aveva qualche capacità psionica, anche se non aveva mai imparato a usarla per bene, e Tek'ryn aveva ereditato quei suoi poteri di empata. Sentiva le emozioni altrui, se si concentrava abbastanza.
Non gli piaceva farlo, perché secondo lui era una violazione della sacralità della sfera privata, ma a volte era necessario. A volte era perfino involontario. Quando qualcuno provava un'emozione molto forte non c'era nemmeno bisogno che lui si concentrasse: le emozioni forti non potevano essere contenute, sarebbe stato come chiedere al fuoco di non emanare calore. Le esplosioni emotive degli altri lo colpivano all'improvviso come uno schiaffo. La rabbia e la paura erano le più traumatiche, gli arrivavano in faccia all'improvviso senza neanche dire buongiorno. La gioia era più sottile, perché era un'emozione che veniva rivolta prima verso l'interno, per illuminare e nutrire chi la provava, e solo se era molto forte arrivava anche all'esterno. La tristezza invece era come il silenzio. Per Tek'ryn sedersi accanto a una persona triste era un modo per ovattare tutte le altre percezioni, perché la tristezza creava una specie di campo di bassa frequenza in cui perfino il tempo sembrava scorrere più lentamente.
Era questo che sentiva quando si avvicinava a Tinefein. Non era una tristezza drammatica, era sempre contaminata da altre emozioni, lui sapeva che sua sorella aveva dei momenti di serenità, ma la sua emozione di base era la tristezza. Se la mente di Tinefein fosse stata una canzone, la tristezza sarebbe stata quell'accordo di chitarra a cui nessuno fa caso, che quasi non si sente, ma che detta la melodia e il ritmo per tutto il resto. Era una cosa che nessuno poteva cambiare e che ormai faceva parte della sua identità, e lei non ci soffriva neanche troppo, ma era qualcosa che da una parte le conferiva una certa dose di buonsenso, e dall'altra tarpava le ali ai suoi sogni e alle sue potenzialità. Ogni tanto Tek'ryn faceva un paragone mentale con Amber, che era l'esatto opposto: sempre felice, sembrava che nulla potesse scalfirla, e infatti era una pazza scatenata inconsapevole dei propri limiti. In definitiva era un dare per avere, entrambe le sue sorelle erano in disequilibrio, ma era il loro modo di essere e non c'era un modo giusto e uno sbagliato. Per questo Tek'ryn non pensava di dover guarire Tinefein, o di doverla correggere. Sarebbe stato un pensiero violento e arrogante.
Però ultimamente la sorella maggiore aveva picchi di malinconia più frequenti, e questo era qualcosa su cui si poteva lavorare. La causa era evidente: Tinefein avrebbe voluto condividere quelle serate di gioco, sentire la musica ed emozionarsi come gli altri, ma non poteva.
Tek'ryn aveva avuto solo due settimane per lavorarci su, ma era riuscito a imbastire un piano.

"Domani sarà il primo giorno del mese di Ches e le strade sono libere dalla neve" esordì una mattina mentre teneva lezione per i bambini. "Se non ve l'hanno già spiegato, significa che da domani i vostri genitori cominceranno a venire a prendervi, oppure manderanno qualcuno. Per chi è diretto verso Secomber, penso che passerà il vecchio signor Berchenberg con il suo carro."
"È mio nonno!" Trillò un bimbetto sui cinque anni, tutto orgoglioso.
"Esatto, Bertie. Ci fa sempre molto piacere rivederlo. Ma non è detto che arrivi proprio domani, potrebbe arrivare fra qualche giorno. Però da domani potenzialmente inizieranno le partenze, ed è buona norma iniziare a sistemare i vostri affari, finire i lavori che non avete ancora finito… Ella, ti manca poco per terminare il tuo maglione all'uncinetto, vero? E tu, Peter, hai finito di costruire il tuo arco?"
"Johel dice che è finito e che non è niente male come primo lavoro" rispose con orgoglio un adolescente pieno di lentiggini "ma oggi lo voglio provare per vedere se funziona!"
"Il mio maglione è finito, Tek, ci ho lavorato stanotte. Volevo essere libera oggi per darti una mano" rispose la ragazzina chiamata Ella.
Tek'ryn annuì, fece un passo indietro per abbracciare con lo sguardo tutta la sua classe di studenti e sorrise. "Vi ringrazio per aver dato la vostra disponibilità per il mio progetto. Significa molto per me e comunque andrà sono fiero di tutti voi. Adesso disponetevi in gruppi da tre, in ogni gruppo dev'esserci almeno una persona che sappia come fare una treccia. Ciascun gruppo venga qui a prendere due corde di seta e una d'argento."

Tek'ryn aveva una particolare affinità con i cristalli. Era convinto che ci fosse qualcosa, nella natura di certe pietre, che le rendeva adatte a veicolare le energie. Certi suoi esperimenti psionici gli riuscivano meglio se aveva delle pietre a disposizione, soprattutto pietre trasparenti come i quarzi. Ne aveva trovata una, in particolare, che conduceva da paura. Krystel conservava quel piccolo cristallo nel suo laboratorio, ma vedendo l'interesse di Tek'ryn glielo aveva prestato qualche volta: i risultati erano stati sensibilmente superiori a qualsiasi minerale avesse usato in precedenza.[1]
Ora Tek'ryn stringeva quella scheggia di roccia fra le dita, pensieroso.
"Siete stati tutti molto bravi" si complimentò, studiando il lavoro che i ragazzini avevano portato a termine. "Avete creato delle belle trecce e siete stati capaci di inglobare nelle trecce le schegge di quarzo che vi avevo dato."
In realtà non si trattava di un compito così difficile, i quarzi erano già avvolti in spirali di filo d'argento, era stato sufficiente intrecciare i fili delle trecce con quelli in cui le pietre erano ingabbiate. Però il lavoro era riuscito meglio di quanto avesse sperato.
"Questa qui però è venuta particolarmente bene. Chi ha fatto questi minuscoli intrecci?" Domandò, indicando una delle corde di seta e argento.
L'unico bambino halfling alzò la mano.
"Ricry. Dovevo immaginarlo. Allora mi servirà il tuo aiuto per il compito più delicato. Dovrai usare le tue piccole dita per allacciare tutte le trecce al quarzo che userò come conduttore principale, questo qui" spiegò, rivelando la punta di quarzo che teneva in mano. "Sembra uguale a tutti gli altri, ma in realtà per i miei scopi è molto più potente. Per questo dovrai essere attentissimo a non romperlo."
"Posso farcela, Tek'ryn!" Promise il piccoletto, con convinzione.
"Benissimo. Quando avremo finito qui, dopo pranzo mi servirà aiuto per sistemare tutto nel magazzino. Mi serviranno le braccia dei ragazzi più alti e più forti… e mi occorri anche tu, Rupert, perché sei bravo ad arrampicarti."
"Scommetto che se prendo la rincorsa riesco anche a correre in verticale sulle pareti" si vantò il bambino, tutto orgoglioso.
C'era qualcuno che, però, non si stava sentendo molto utile. Dora Honeycomb aveva aiutato a intrecciare le corde, ma ora non sapeva cos'altro avrebbe potuto fare. Le sue dita erano piccole, ma non abbastanza agili, e infatti per il compito più delicato era stato scelto qualcun altro. Tek'ryn aveva detto di aver bisogno dei ragazzi più alti e forti, e anche se lei era alta e forte per la sua età, era comunque una bambina di otto anni. Non poteva competere con ragazzi di undici, dodici anni. E non era brava ad arrampicarsi quanto suo fratello Rupert. Sarebbe stata relegata a un ruolo di spettatrice?

I bambini furono congedati perché era quasi ora di pranzo e dovevano sgomberare il refettorio delle loro carabattole, per poter apparecchiare i tavoli. Dora iniziò a raccogliere le sue cose per andare via con gli altri.
"Dora, aspetta." Il drow la chiamò prima che potesse uscire. "Rimani, voglio parlarti un momento. Per te ho un compito più difficile."
Dora si guardò intorno come per accertarsi che Tek'ryn stesse parlando proprio con lei, ma ormai non c'era più nessun altro.
"Ho bisogno che tu tenga Tinefein lontana dal magazzino per tutto il pomeriggio, perché io e i miei fratelli dovremo provare. Puoi farlo?" Aspettò un cenno di assenso da Dora prima di continuare con le sue richieste: "E poi stasera devi trovare un modo per convincerla a venire al nostro concerto. A tutti i costi. Non sarà facile, perché Tinefein si sentirà a disagio e cercherà di ritrarsi, come un gatto che non vuole farsi prendere. Ma devi portarla perché altrimenti sarà stato tutto inutile. Puoi perfino dire una bugia se serve allo scopo."
Dora spostò il peso da un piede all'altro, a disagio. "Non lo so Tek. Non mi piace dire bugie."
"Se sei a disagio, vedilo piuttosto come un segreto: Tinefein non deve scoprire che stiamo preparando una sorpresa per lei. Il tuo compito è proteggere questo segreto. Puoi farlo?"
Dora ci pensò per qualche momento. L'idea di mentire non le piaceva, tantomeno se doveva farlo con Tinefein, ma nascondere non era proprio la stessa cosa che mentire. E poi era per una buona causa.
E soprattutto, era felice di potersi rendere utile. Per Tinefein.
Sospirò. "Va bene, spero solo di non fare un pasticcio."

***


Tenere Tinefein lontana dal magazzino per tutto il pomeriggio era stato facile. Quella era una zona che la guaritrice frequentava poco. Di solito teneva le scorte delle sue erbe medicinali nell'infermeria, era raro che fosse a corto di spazio e dovesse usare il magazzino. Dora aveva deciso che, se Tine avesse avuto bisogno di andare a prendere qualcosa, si sarebbe offerta di andare al posto suo; alla fine però non ce n'era stato bisogno. Era riuscita a tenerla lontana dalla locanda stessa, con un semplice escamotage: le aveva chiesto di farle vedere come si raccoglievano certe erbe invernali che crescevano vicino all'orto. Erano da estirpare con tutte le radici, e il terreno congelato lo rendeva un lavoro lungo. La donna e la ragazzina passarono tutto il pomeriggio all'aperto, Tinefein ne approfittò per spiegare a Dora come ammorbidire il terreno con l'acqua calda se c'era proprio necessità di scavare in inverno.
Purtroppo l'ora di cena era arrivata in un lampo e la ragazzina aveva cominciato a sentire l'ansia che montava: non aveva ancora pensato a una scusa per portare la mezzelfa nel magazzino, quella sera. Per fortuna fu proprio a cena che le venne in mente il piano risolutivo: suo fratello Rupert. Stava raccontando a tutti come si era arrampicato bene sulle casse vuote per arrivare fino al soffitto del magazzino, colorando il suo racconto con imitazioni delle sue gesta rocambolesche.
Dora non sapeva fino a che punto crederci, ma si stava inquietando un po'.
"Tek, ma è vero che è sceso dal soffitto con una capriola aerea?" Sussurrò al drow.
Tek'ryn, accanto a lei, si limitò a scuotere la testa con un sorriso. Dora tirò un piccolo sospiro di sollievo.
"Meno male! Se si fosse rotto una gamba o…" in quel momento venne fulminata dall'idea del secolo. Rupert!

***


Una mezz'oretta dopo la cena, Dora corse a bussare alla stanza di Tinefein. La bambina non era mai stata nella casa padronale di Krystel, ma Tek'ryn le aveva dato precise indicazioni per trovare la camera della guaritrice. C'era il rischio che lei non sentisse il bussare, ma la donna aveva costruito un sistema infallibile per accorgersi dell'arrivo di qualcuno: aveva lanciato un incantesimo di Luce su un piccolo sassolino, che stava in equilibrio precario su una decorazione della porta. Quando qualcuno bussava, il sassolino cadeva in un barattolo appeso poco più in basso e la sua luce, anziché illuminare tutta la stanza, veniva incanalata a illuminare solo il soffitto. Accorgendosi della differenza di illuminazione Tinefein sapeva che qualcuno aveva bussato (o che c'era un terremoto, ma era un'eventualità meno probabile). Infatti Dora non dovette nemmeno colpire la porta una seconda volta: sentì subito la guaritrice che abbassava la maniglia.
Tinefein fece una faccia molto stupita quando capì che non era qualcuno di famiglia, ma Dora. I bambini ospiti di solito non entravano nella casa privata di Krystel.
§Mi dispiace. Emergenza!§ Segnalò Dora con il codice gestuale, cercando di darsi l'aria di chi ha una gran fretta. §Mio fratello si è ferito! È grave!§
Tinefein fece subito un'espressione preoccupata e Dora si sentì un po' in colpa. Forse non era una buona attrice, ma l'ansia che stava provando per quell'inganno con un po' di fortuna poteva essere scambiata per sincera angoscia per suo fratello.
§Cosa è successo? Puoi parlare a voce§ le rispose Tinefein, per rammentarle che lei sapeva leggere il labiale.
"Rupert. È caduto" cominciò Dora, scandendo bene le parole. "Stava facendo lo stupido a ritmo di musica, è saltato su una cassa, ha fatto una capriola… e non lo so, non si alza. Grida, ma non so cosa gli fa male."
§È in infermeria?§ Chiese la guaritrice con pochi rapidi gesti.
Dora scosse la testa.
"Tua madre dice che non bisogna spostarlo. Puoi venire? Per favore!"
Tinefein non se lo fece ripetere. Davanti a un ragazzino che si era fatto male - che forse era grave! - mise da parte tutti gli altri impegni della serata, che plausibilmente erano un libro e una tisana.

Da dentro il magazzino Rupert urlava in modo molto melodrammatico, cosa del tutto inutile perché tanto Tinefein non lo poteva sentire.
Quando Tinefein e Dora entrarono di corsa dal portone del magazzino, la mezzelfa fu stupita di trovare un ambiente fin troppo buio, rischiarato solo dalla luce della luna piena che filtrava dalle scarne vetrate. Di solito Krystel illuminava l'ambiente di luci magiche per permettere ai bambini di vedere. Ma la guaritrice non fece in tempo a farsi domande, perché subito Dora chiuse la porta alle sue spalle con un gesto energico. Lei se ne accorse perché l'aria fredda dell'esterno venne chiusa fuori in un istante, e si girò a guardare la bambina con aria spaesata. Dora però adesso stava sorridendo.
§Mi dispiace, ho detto una bugia per portarti qui. È una sorpresa!§
Tinefein era, in effetti, sorpresa. Ma non era molto felice della cosa.
§Perché mi hai portata qui?§ Chiese, amareggiata. §Se tuo fratello sta bene fatti da parte e fammi uscire§
In quel momento però una frotta di bimbetti scalmanati sbucò fuori da dietro le casse e i barili vuoti. Davanti a tutti c'era Jaylah, la sorellina più giovane di Tinefein, che a due anni compiuti ormai correva come una lippa. Jaylah si buttò addosso alle gambe di Tinefein e la abbracciò. Era una cosa che di solito faceva solo con Krystel, quindi la guaritrice immaginò che fosse stata istruita a fare così. Ma da chi? Perché? Quello che era certo era che adesso, con le gambe bloccate in quella piccola adorabile morsa, non sarebbe scappata via facilmente.
Un istante dopo ebbe conferma dei suoi sospetti quando tutti i bambini della locanda sotto ai cinque anni le si attaccarono alle gambe in un abbraccio di gruppo.
§Che cosa sta succedendo?§ Gesticolò a Dora, ma la ragazzina umana si limitò a sorridere e a fare un ampio cenno con la mano a qualcuno che stava alle spalle di Tine. La mezzadrow non sapeva chi fosse la persona a cui Dora aveva fatto cenno, ma qualcuno finalmente accese delle luci. Erano luci tenui, piccole come stelle nel cielo notturno, ma erano all'interno e sembravano essere disposte con una certa regolarità. Ad un secondo sguardo si accorse che non erano luci magiche fluttuanti, ma c'era una specie di rete di corde che era stata affissa al soffitto e che molte corde penzolavano giù: a diverse altezze di queste sottili funi erano stati appesi dei cristalli o qualcosa di simile, che riflettevano la luce… no, non la riflettevano. La emanavano.
Quello spettacolo suggestivo fu accompagnato da "Oooh" di stupore da parte di molti ragazzini, e anche Tinefein si ritrovò suo malgrado a bocca aperta. Sapeva che doveva essere possibile fare qualcosa di simile con la magia, ma qualcuno aveva davvero lanciato un incantesimo di luce su ciascun cristallo separatamente? E allora com'era possibile che si fossero accesi tutti nello stesso momento?
"Funziona" confermò Tek'ryn con un sorriso esaltato. "La rete che abbiamo creato trasmette energia. Oh, sarà magnifico o sarà un disastro! Luel, Amber, al mio tre!"

Accendere quelle luci all'improvviso era stata una buona idea perché aveva predisposto le menti dei presenti ad accogliere la meraviglia. Quando Luel cominciò a suonare il violino e Amber gli andò dietro con il suo liuto drow, tutti i bambini furono subito rapiti dalla musica.
Che era esattamente il tipo di risposta emotiva che serviva a Tek'ryn.
Tinefein smise di cercare di divincolarsi quando cominciò ad avvertire qualcosa. Non aveva parole per descrivere quella sensazione, non l'aveva mai sperimentata prima. C'era qualcosa che muoveva l'aria e arrivava direttamente nella sua testa, ingombrante e invadente, strappava via… il silenzio. Strappava via il silenzio. Quella cosa era rumore!
Si girò di scatto, incontrando con lo sguardo le figure di Luel e Amber intenti a suonare. Tek'ryn aveva un'espressione assorta, ma riuscì a trovare il modo di comunicare con Tinefein:
§Non posso farti sentire i suoni. Posso solo farti sentire quello che proviamo noi.§
Tine rimase a bocca aperta. Ecco cos'era. Ecco perché quella cosa arrivava direttamente al suo cervello come un'intrusione. Non era una sensazione sgradita, anzi. Ma era nuova e non sapeva come gestirla.
Tek'ryn si spostò verso l'organo a canne, senza perdere la concentrazione sul suo rituale psionico. Aveva anche lui un ruolo da giocare.
La voce dell'organo era forte e avrebbe sovrastato gli altri strumenti, per questo quando i tre fratelli avevano provato insieme avevano deciso una linea d'azione: Tek'ryn avrebbe suonato solo una nota ogni tanto, per scandire il tempo e per introdurre nuove variazioni sul tema. Il suono dell'organo riverberava per un periodo più lungo, creava un'ottima base per i virtuosismi del violino e si allacciava bene ai suoni intriganti e alieni del vazhan-do di Amber[2]. L'esecuzione avrebbe dovuto essere un crescendo, perché se fosse diventata più complessa paradossalmente sarebbe diventata più facile per Tinefein da ascoltare: i ragazzini sarebbero stati trascinati dalla musica e avrebbero avuto meno tempo per pensare ai fatti propri, quindi il suono a Tinefein sarebbe arrivato più puro e veicolato da emozioni più legate alla musica.
C'era solo una cosa che Tek'ryn non aveva considerato: la rete di quarzi connetteva tutti loro, ma a doppio senso. Non soltanto Tinefein sentiva le loro emozioni, non soltanto loro si sentivano a vicenda e riuscivano a coordinarsi meglio nel suonare, ma presto iniziarono a sentire anche le emozioni di Tinefein. Era impossibile sbagliarsi: i bambini erano rapiti, ma lei…

Soverchiata. È l'unica parola che potesse descrivere come si sentiva Tinefein in quel momento. Oltre alle sue emozioni stava vivendo anche quelle degli altri, decine di bambini che per fortuna stavano provando quasi tutti la stessa cosa. Per lei era comunque quasi troppo, era abituata alla solitudine e al silenzio. Adesso in lei si era aperto un nuovo canale sensoriale, anche se in modo indiretto, ed era tutto così… troppo. Ma era anche bellissimo. In mezzo a tutta quella musica e quella meraviglia c'era anche altro: affetto. L'impegno dei suoi fratelli, la loro fatica e la determinazione sostenuta dall'affetto per lei. L'affetto di altre persone, le une per le altre, ma anche per lei. Tinefein non percepiva nessuna emozione negativa, da nessuna parte. In quel momento perfino le antipatie fra i bambini erano dimenticate.
Jaylah era ancora attaccata alle sue gambe e le tirò le gonne, per farsi prendere in braccio. Tinefein la sollevò con gesti automatici e la piccola le strinse le braccia intorno al collo. La sua sorellina doveva essere confusa, ma non sembrava spaventata. Se una bambina di due anni non era spaventata, aveva il diritto di esserlo lei?
No, non era spaventata. Non dalla musica e nemmeno da quell'unione mentale troppo intima. Era destabilizzata, perché aveva passato la vita a chiudersi e a non mettersi in gioco e all'improvviso poteva sentire come gli altri e non aveva più scuse per isolarsi. Una parte di lei avrebbe voluto rannicchiarsi o scappare, ma un'altra parte di lei era profondamente commossa. Chissà quante persone avevano lavorato a quella sorpresa - chissà come era stato possibile! - e avevano fatto tutto per lei. Per renderla partecipe di qualcosa che per loro era normale, ma che a lei mancava. E se di solito la sua sordità non le pesava, perché poteva comunicare con i gesti e con le parole scritte, adesso capiva che c'era almeno una cosa che non era sostituibile in nessun modo: la musica e l'emozione che donava.
E quindi, non aveva senso avere paura. L'unico sentimento possibile era la commozione.

Tinefein era in lacrime prima che il concerto finisse. Tek'ryn lasciò andare gradualmente il controllo sul suo rituale, perché quello era un esperimento, un prototipo, e lui non era ancora molto esperto. Il tutto era durato dieci minuti, forse quindici, ma al giovane drow era sembrato un secolo per quanto era stanco.
Tinefein si avvicinò ai suoi fratelli e li avvolse in un abbraccio che pur nel silenzio diceva più di mille parole, e senza bisogno di magia.

***


§Mi dispiace di averti mentito§ tornò a ripetere Dora Honeycomb la mattina dopo.
§Non preoccuparti§ rispose lei sbrigativamente. §Tu credi che mio fratello saprà rifarlo?§
L'espressione preoccupata di Dora si sciolse in un grande sorriso. Tinefein ne era stata contenta! Il suo piccolo espediente aveva funzionato e non c'erano state cattive conseguenze… eccetto il fatto che adesso doveva un favore a Rupert, che era convinto di essere stato un attore bravissimo con i suoi inutili schiamazzi.

***


"Questa sera vuoi unirti a noi?" Propose Tek'ryn, anche se in cuor suo conosceva già la risposta.
"Pfff!" Daren sbuffò una risata. "Certo, come no. Sai che non sopporto la musica degli altri."
"Facci sentire la tua, allora" ribatté subito il nipote. "Hai un flauto, no? Tira fuori la musica che hai dentro e facci sentire"
A questa prospettiva, l'elfo nero tentennò.
"Ma che idea bislacca!" Rispose, un po' troppo tardi. Se ne andò borbottando il suo dissenso, come faceva sempre quando qualcosa rimaneva negoziabile.
Tek'ryn sorrise, soddisfatto dei suoi successi. Forse poteva ancora prendere due piccioni con una fava.



**********
[1] Si tratta della punta di quarzo rampicante che Daren ha recuperato nel dungeon di Atorrnash in Jolly Adventures e che ha portato in dono a sua sorella nella storia Crystal
[2] Il vazhan-do è uno strumento a corde specifico della cultura drow. Solitamente ricorda una cetra - secondo altre versioni una lira - e ha 64 corde. Quello di Amber è più semplice, ha solo 27 corde e per forma è più simile a una chitarra di dimensioni contenute.

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Capitolo 7
*** Un sole d'argilla splende comunque ***


Autore: Dira_
Genere: slice of life, introspettivo
Note: questa è la storia che Dira_ mi ha scritto per il mio compleanno 2022 *.* (sono sciolta per la commozione)




Un sole d'argilla splende comunque



Una locanda vicino a Secomber, Anno 1359
15 di Uktar.


I giorni peggiori per i bambini ospiti della Locanda dell’Orso erano i giorni di pioggia.
Almeno con la neve si poteva uscire fuori a giocare e, quando smetteva di cadere, c’era sempre qualcuno dei figli di Krystel che si prendeva l’onere e l’onore di accompagnarli a pattinare sul ghiaccio.
Ma la pioggia… la pioggia confinava tutti all’interno della locanda che era sì grande e spaziosa, ma pur sempre un posto confinato.
Krystel, la locandiera, non era una donna stupida; era consapevole che tanti bambini e pre-adolescenti annoiati potevano esplodere se vivevano tutti assieme senza un’autorità genitoriale a far loro da timone.
In quei giorni quindi organizzava delle attività che si potevano fare al chiuso; che fossero giochi o momenti in cui si poteva imparare qualche nuovo mestiere… con l’aiuto della quieta creatività di Tek’ryn o di qualche idea trascinante di Amber i piccoli ospiti non venivano mai lasciati al pericoloso tedio.
…Certo, diventava via via più difficile se i giorni di pioggia si protraevano.
Era una settimana che pioveva e l’insofferenza era palpabile.
Per questo Krystel aveva tirato un sospiro di sollievo quando Ricry, un piccolo halfling linguacciuto ma dal cervello svelto, si era proposto di insegnare a tutti a lavorare l’argilla, attività di famiglia da ben cento generazioni - la drow dubitava fosse vero, ma non era poi così importante.
L’idea era comunque buona.
Aveva quindi fatto prendere dai ragazzi più grandi del terriccio argilloso dai campi vicini e con la magia l’aveva lavorato, per poi dividerlo in piccoli blocchi che aveva assegnato a ciascun bambino.
Non era stato difficile ottenere un’ondata di comune assenso: sporcarsi le mani e dare forma alle proprie idee era un istinto ancestrale per gli umani, e la maggior parte dei suoi giovani ospiti apparteneva a quella razza… e per quanto riguardava gli halfling come Ricry, semplicemente amavano le attività rumorose, divertenti e sporchevoli - come le aveva definite il bambino.

“Potremo usare il forno per cuocere l’argilla,” ponderò Tek’ryn osservando l’alacre lavoro dei bambini, anche se a distanza di sicurezza per evitare che qualche artista troppo vivace gli sporcasse i vestiti.
Krystel sorrise. “Perchè no? Sono piccoli oggetti, potremo fare un’unica infornata.”
“Forse si sporcherà troppo?”
“Nulla che un po’ di magia non possa rimediare. E almeno anche questa giornata l’avremo fatta passare.”
“Non puoi fare nulla per far migliorare il tempo mamma? È una tale palla…” si lamentò Amber infilandosi tra di loro e crollando teatrale sulla spalla del fratello.
“Potrei,” ammise fingendo di pensarci davvero, “…ma non manderò all’aria il ciclo di piogge stagionale perché stare chiusi in casa è una palla.” “Noi siamo fortunati. Pensa a chi non ha un tetto sopra la testa,” la rimbrottò severo Tek’ryn.
Amber non parve granché colpita da quella riflessione perché scrollò le spalle. “Dovete vedere com’è bravo il piccoletto halfling!” cambiò discorso. “Ha tirato fuori una statuina di Yondalla che pare proprio uguale uguale a quelle che vendono a Secomber.”
“Probabile sia come quelle che vendono a Secomber perché le produce la sua famiglia,” osservò Tek divertito. “Però questo mi fa pensare… potremo fare un piccolo concorso e premiare i lavori più belli?”
Krystel esitò. “Non mi piace l’idea di metterli in competizione caro… alcuni potrebbero vederlo come uno stimolo, ma altri come una vera e propria guerra.”
I drow si girarono istintivamente verso tre teste bionde e una castana; i fratelli Honeycomb stavano lavorando l’argilla… a modo loro.
Randall e Rupert si stavano contendendo una mostruosità fatta da due blocchi semi-lavorati spiaccicati assieme mentre Stedd se ne stava a distanza a sghignazzare, lanciando occasionali palline di argilla sulla testa del più piccolo. In mezzo come sempre c’era l’unica femmina del gruppo, Dora, che tentava di separare i contendenti a strilli impotenti.
Ricry e il resto dei bambini gli stavano ovviamente alla larga.
“Vado a separarli?” si offrì Amber con l’aria di chi lo chiedeva più che altro per dovere.
“Randall l’ultima volta ha provato a mordermi e Rupert, che probabilmente voleva difendermi, mi ha tirato un pugno nei testicoli…” Tek aggrottò le sopracciglia. “Io eviterei. Prima o poi si calmano.”
“Beh io le palle non le ho, ma posso prendere a calci le lor…”
“Tranquilli,” si intromise Krystel con un lungo sospiro. “Ci penso io.”

La drow aveva ospitato tanti bambini nella sua locanda nel corso degli anni, a volte persino tre generazioni di fila e quindi era avvezza all’esuberanza dei giovani umani… tuttavia gli Honeycomb erano un caso a parte.
Erano volatili come farina. Bastava un innesco da nulla, una parola, un’occhiata, per farli incendiare.
Fortunatamente quegli scoppi erano per la maggior parte rivolti all’interno della loro piccola e serrata cerchia familiare e non verso gli altri ragazzini, cosa che rendeva quasi innocua la loro presenza alla locanda.
Era comunque poco piacevole averci a che fare quando, come in quei giorni, erano nervosi come gatti bagnati.
“Che sta succedendo?” domandò rendendo nota la sua presenza proprio mentre Randall afferrava Rupert per la collottola cercando di spingergli la faccia contro il blocco d’argilla.
Il bulletto si congelò sul posto. “Uh, niente Krystel, scherzavamo!”
“Mollami brutto troll!” ringhiò il minore, divincolandosi impotente.
“Smettiamo subito, scusaci!” esclamò Dora, infilandosi tra i due a forza. “Randall, lascialo, gli fai male!”
“Levati di mezzo Dora!”
“Randall? Fa’ un passo indietro per favore.”
Il ragazzino fissò Krystel con rabbia, come se gli avesse tolto un gioco di mano, ma obbedì.
La drow lo guardò paziente. “Perché sei così arrabbiato? C’è abbastanza materiale per tutti. Se hai bisogno di altra argilla basta chiedere.”
“No… cioè…” il ragazzino tentennò. “Quella che mi avete dato basta,” ammise.
“È che è così scemo che non ha idea di cosa farci!” cinguettò Rupert.
“Sta zitto, sfigato! Perché, a te è venuto in mente qualcosa?”
“Sicuro! Una bellissima effige di me stesso medesimo!”
“Ah! E chi la vorrebbe? Mamma la butterebbe di sicuro nel camino!”
“Non è vero!” esclamò Dora con convinzione un po’ troppo enfatica. “Mamma non butterebbe mai qualcosa di Rupert nel camino!”
“Allora papà! Lo odia perché è un debole sfigato!”
“Smettila, non è vero!”
“Non me importa niente! Siete voi i deboli sfigati!”
“Rupert!”
“Non te sorellona eh, loro!”
"Vabbè, tanto ‘sta roba è una perdita di tempo, perché vi agitate tanto?” osservò Stedd, continuando svogliato a fare palline.
“Pensi che imparare a lavorare l’argilla per farne utensili e oggetti decorativi sia una perdita di tempo Stedd?” domandò Krystel premurandosi di suonare un po’ severa.
Stedd arrossì. “No, non dico questo… solo che noi ‘sta roba mica la sappiamo fare, verrà uno schifo e mamma perché dovrebbe mettersi degli oggetti di merda in casa?”
“Perché li avete fatti voi,” ribatté Krystel e con una punta di sorpresa e tristezza notò come tutti e quattro i fratelli le rivolsero uno sguardo perplesso.
La gratitudine di un genitore nel ricevere un regalo dal proprio figlio, per quanto imperfetto…
Per loro non ha senso.

“Potrebbe essere carino se faceste qualcosa con le vostre mani e glielo portaste in regalo quando tornerete, no?” tentò di spronarli. “Cosa potrebbe piacerle?”
Dora fu la prima a reagire. “Potremo farle… ecco, dei piatti? Sì, i piatti servono sempre.”
Krystel annuì incoraggiante. “Dei piatti decorativi?”
“No, per mangiarci dentro,” ribatté confusa la bambina. “Ne rompono tanti, mamma si lamenta sempre.” Esitò. “È… è un’idea stupida? È che sono più semplici da fare che sculture o brocche o cose simili.”
“No, è un’ottima idea,” la rassicurò Krystel, pensando che in quella famiglia c’era un evidente problema di pragmaticità congenita. “Che ne dite ragazzi? Sono sicura che i vostri genitori li gradirebbero molto.”
I tre maschi Honeycomb si strinsero le spalle ma non si ribellarono all’idea; era evidente che nessuno dei tre fosse entusiasta, ma ora che Dora aveva un piano si piegarono alle sue direttive e al conseguente, equo, porzionamento dell’argilla.
In una manciata di minuti furono tutti e quattro con le teste chine sui propri lavori.
Krystel sfilò di fianco alla bambina, che le scoccò uno sguardo così denso di gratitudine e sollievo che fu inevitabile farle una carezza sui capelli, in un moto d’affetto che di norma non usava con i ragazzini dell’inverno; le erano cari, ma non voleva dar loro troppa confidenza. Passando tanti mesi alla locanda sotto le sue cure non voleva rischiare di sostituirsi ai genitori.
Aveva però sempre avuto un debole per i passerotti con un’ala ferita… e quella povera bambina in quella figura retorica ci cascava con tutte le scarpe.

Il giorno dopo i lavoretti erano pronti, tutti in fila su una delle lunghe panche della sala. Ciascun bambino controllò il proprio operato, ma dato che era spuntato un timido sole, molti preferirono rimandare le decorazioni ed uscirono fuori nell’aia a giocare.
I fratelli Honeycomb non fecero eccezione, anche considerando che i loro piatti sarebbero rimasti disadorni. Solo Dora rimase e chiese il necessario per dipingere.
Tek’ryn, che si era assunto il compito di sorvegliare l’attività, notò che la bambina era tutta rattrappita sul proprio lavoro, come se tentasse di nasconderlo agli altri. Quando incuriosito tentò di capire cosa stesse decorando - non era il piatto su cui aveva lavorato il giorno prima - gli venne lanciata un’occhiata impanicata.
Il ragazzo, intuendo che era qualcosa che Dora non voleva mostrare al mondo, decise di lasciarle la sua privacy e si spostò verso il bambino successivo.

Non era difficile accorgersi quando un piccolo umano ti pedinava.
Specialmente se eri una strega e il piccolo umano in questione era uno degli Honeycomb, mediamente rumorosi come una batteria di coperchi.
Anche se Dora la tallonava a distanza, più che pedinarla, dato che non si stava preoccupando di occultare la propria presenza.
Krystel entrò in cucina - perché comunque era lì che si stava dirigendo - e aspettò che la bambina la raggiungesse.
“Hai bisogno di me tesoro?” le domandò quando questa sgattaiolò dentro.
“Uhm, sì… volevo darti una cosa.”
Dora tirò fuori dalla tasca del vestito di lana un involucro di stoffa e glielo porse. Krystel lo prese incuriosita e lo svolse: dentro c’era un piccolo sole dipinto di giallo ocra fatto di argilla.
“E questo quando lo hai fatto?” domandò stupita: l'aveva vista lavorare ad un piatto come gli altri fratelli…
Però in effetti il suo era più piccolo di quello degli altri.
Aveva sospettato che la bambina avesse donato parte della sua argilla a Randall, ma evidentemente si era sbagliata.
“Assieme al piatto! Poi l’ho dipinto il giorno dopo. Però non è venuto tanto bene, è la prima volta che lavoro l’argilla… comunque è .. è un regalo per te. Per ringraziarti.”
“Di cosa tesoro?”
“Beh… di essere paziente con i miei fratelli e di ospitarci.”
“Non abbiamo già fatto questo discorso?” le ricordò con un sorriso rassegnato. “I vostri genitori mi pagano in miele e formaggio per tenervi qui. Non è carità.”
“Però è buon cuore,” osservò la bambina, arrossendo fino alla punta dei capelli, dato che non era abituata a contestare le parole degli adulti. “Facciamo un sacco di casino e lo so che papà ti dà poca roba
sono io che la preparo.”
Krystel sospirò, scuotendo la testa. Meglio cambiare strategia. “Ma quindi è un pagamento?” la stuzzicò.
Dora aggrottò le sopracciglia. “No!” stabilì. “L’ho fatto pensando a te! Quindi è un regalo!”
“Oh, allora sì, se è così posso accettarlo. È molto bello,” la lodò. Poi se lo rigirò tra le mani, analizzandolo. “Un sole dai colori brillanti… e vedo che hai lavorato con molta cura i raggi, quindi è un sole che scalda. Ce n’è proprio bisogno con questo tempaccio. Molto azzeccato.”
Dora si illuminò. “Ti piace davvero?”
Krystel esitò: con bambine affamate di approvazione e tenerezza materna come Dora bisognava sempre selezionare con cura le parole. Il rischio che la sovrapponessero alla madre era molto più concreto che con altri bambini, che avevano genitori che non li facevano sentire costantemente in debito.
…però Krystel in fin dei conti non era un’educatrice. Era una locandiera, una strega… ma soprattutto era una mamma.
Quindi rispose al sorriso e le fece una carezza. “Certo… e ti dico di più. Lo appenderò con un nastro vicino alla mia finestra. Così quando torneranno i giorni di pioggia lo guarderò e mi tirerà su di morale.”
Dora annuì raggiante. “Il sole tira sempre su di morale anche me!”
“Vero? E a proposito di sole… fila a prendertene una bella scorta fuori con gli altri!”
“Vado!” la bambina corse via con un impeto allegro piuttosto inusuale per lei.
Krystel sorrise. Decisamente, prima di tutto, era una mamma.

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Capitolo 8
*** Salti e incredibili acrobazie ***


Autore: Dira_
Genere: fantasy, comico




Salti e incredibili acrobazie



Una locanda vicino a Secomber, Costa della Spada, undicesimo mese dell'anno 1361


“Ammiratemi!”
Dora sgranò gli occhi ammutolita, mentre attorno a lei la torma di bambini ospiti alla Locanda dell’Orso schiamazzava rumorosa. La voce di suo fratello si levava limpida tra le risate e le grida.
Limpida perché era oltre una decina di metri d’altezza; l’undicenne Rupert Honeycomb era infatti in piedi sul cornicione della torre campanaria, una delle tante tracce che parlava dell’antico scopo di quei luoghi.
“Non farlo!” urlò terrorizzata infilandosi le mani nei capelli e tirando alle radici. Quel brutto vizio l’aveva preso in concomitanza con il treno di ormoni che aveva invece investito il suo gemello: l'aveva fatto alzare di quasi dieci centimetri, stava cominciando a fargli cambiare la voce … e aveva decuplicato la sua follia.
“Mi lancerò da questa torre e con le mie incredibili acrobazie atterrerò illeso!” urlò e pure dal basso Dora riuscì a scorgerne l’espressione esaltata, lontana.
Si ammazzerà.
“Fai una capriola mentre cadi!” sghignazzò Luel, figlio della locandiera e mezzo-fatato. Bello come una notte estiva e stronzo come poche persone al mondo. Era più grande di loro ma aveva il cervello grosso come una noce, perché invece di usare le stupide ali che si ritrovava per recuperare suo fratello se ne stava in mezzo ad un nugolo di ragazzine a sparare battute.
E le cretine, che lo assecondavano in tutto, tifavano rumorosamente perché Rupert si spiaccicasse al suolo.
Dora si guardò frenetica attorno ma non vide adulti, solo un gruppo di ragazzini eccitati in un pigro pomeriggio di Uktar. La tempesta perfetta.
“Mi butto!”
“Porca puttana,” sibilò e Luel abbassò lo sguardo sorpreso.
“Oh-la-là! Una brava bimba come te con in bocca parole così volgari… non farai piangere Lathander?”
“Vaffanculo Luel,” sbottò Dora prima di correre come il vento dentro la locanda. Con tre inverni passati lì conosceva le stanze come il palmo della sua mano. Salì scale e superò persone e poi si arrampicò per la scaletta scivolosa di cacca di piccione, fino a spalancare la botola che dava sull’ambiente della campana: Rupert era sul cornicione sospeso su una gamba sola come un fenicottero lunatico.
“Rupert, scendi subito!”
Il gemello, simile a lei nei lineamenti ma non nei colori e nel fisico allampanato, si voltò sorpreso. “Dora!” esclamò contento. “Sei venuta ad osservare il mio grande salto da una prospettiva migliore?”
“No, sono venuta per portarti giù imbecille, vieni qui!”
Il pavimento del campanile era fatto di assi, che scricchiolarono in modo inquietante mentre Dora mosse alcuni passi verso il fratello. “Se salti muori!”
“Oppure, grazie all’infinita potenza dei miei muscoli no, e che figata sarebbe?” ribatté sorridendo serafico. “Vado! Il pubblico mi attende!”
“Il pubblico ti vuole morto, vieni qui ti ho detto!” Rupert stava crescendo sempre più fuori di testa. L’unica soluzione che avevano trovato i suoi genitori per provare a disciplinarlo era quella di metterlo in punizione, batterlo, o lasciarlo nelle mani di Randall e Stedd. Quella ricetta non stava funzionando, anzi, pareva estremizzare i suoi colpi di testa.
L’asse su cui mise un piede cedette e Dora cacciò uno strillo spaventato. In un baleno Rupert le fu accanto e la afferrò tirandola sul cornicione poco prima che l’asse si rompesse. “Dora! Stai attenta!” esclamò e il sorriso pazzo venne sostituito da un’espressione preoccupata. Quando faceva quella faccia si vedeva davvero che erano gemelli, pensò Dora con il cuore in gola.
“Ce ne andiamo per favore?
Rupert sospirò, lanciò un’occhiata di rimpianto alla folla sotto di loro ma poi si strinse nelle spalle. “Va bene dai…” inarcò un sopracciglio. “Ma parli con Luel adesso? Ti piace?!
“No, ma sei impazzito?!” esclamò e senza pensarci gli diede uno spintone. Rupert ovviamente si sbilanciò. E lei d’istinto lo afferrò.
Precipitarono dalla torre urlando e per Lathander il radioso sarebbero morti quando un battito d’ali e una risata le ricordarono che Krystel non voleva che alla locanda morisse nessuno. Neppure e soprattutto a causa della propria stupidità.
“Voi gemelli siete proprio uno spasso!” sghignazzò Luel, che li aveva afferrati in volo e li stava tenendo come sacchetti di patate, uno per braccio, mentre planava dolcemente a terra. “Avete anche fatto una capriola sincronizzata, che bravi!”
“Vaffanculo Luel!”

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Capitolo 9
*** Il maiale di Natale ***


Autore: Dira_
Genere: dark




Il maiale di Natale



Una fattoria nelle campagne di Secomber, Costa della Spada, anno 1361


“Dov’è finito il maiale?”
Ogni inverno gli Honeycomb, fattori e pastori da ben una generazione, spedivano i propri figli alla Locanda dell’Orso per passare l’inverno in sicurezza e con le pance piene. Era fatto noto. Quell’anno però, su insindacabile decisione di Gorstag, padre e capofamiglia, i figli erano dovuti tornare alla fattoria per il Solstizio d'inverno.
Era stato un buon anno; le arnie avevano fruttato molto miele e a Primavera c’erano state tante nascite di agnelli. Quindi Gorstag aveva acquistato un maialino - ora divenuto un pasciuto maiale - per ammazzarlo il giorno del Solstizio e distribuirne le carni tra vicini e amici. Era un modo per mostrare alla propria comunità che gli Honeycomb se la passavano bene, e grazie tante.
Però che festa sarebbe stata senza i suoi amati figli?
Senza il robusto Randall, senza il divertente Stedd, senza la piccola Dora… e sì, vabbeh, anche senza Rupert.
Che di fronte a quella domanda aveva sfoderato un sorriso da idiota, ma non aveva detto niente.
“Il maiale non è nella sua stalla,” scandì Gorstag passando in rassegna i quattro figli maggiori. Assente giustificato l’ultimo nato, Bruce, che ancora se la faceva addosso.
Gorstag li guardò ad uno a uno, schierati di fronte al tavolo; erano figli devoti e ubbidienti per la maggior parte del tempo, ma avevano purtroppo ereditato il suo maledetto sangue, che si declinava in un temperamento testardo, focoso e prono alle idee del cazzo.
O, come nel caso di Rupert, nell'eccentricità più totale. A differenza dei fratelli, che erano biondi, dalle ampie spalle e dai visi squadrati, Rupert era magrolino, dinoccolato e con lineamenti leggeri, da ragazzina. Come se non bastasse, ad ogni Primavera non poteva mettere piede nei campi perché soffriva di una terribile allergia al polline.
Allergia al polline e al latte, in una fattoria dove si produceva miele e formaggio.
Uno strano per generazione c’è sempre. E lui lo è parecchio.

“Ce l’hanno rubato?” sbottò Randall distogliendolo da quei tetri pensieri. “Saranno stati quelle merde secche degli Shendrel… vado a prenderli a calci papà!”
“Non sono stati i nostri vicini,” lo fermò dandogli però una pacca sulla spalla per fargli capire che aveva apprezzato l’iniziativa. “Dopo la batosta che gli abbiamo dato alla fiera di mezza estate si guardano bene dall’alzare la testa.”
“Magari è scappato…” suggerì Dora. Gorstag sospirò e si mangiò una rispostaccia.
La sua piccola Dora non se la meritava. Era l’unica che avesse un po’ di cervello tra i suoi figli. A volte era come parlare con una piccola adulta dalle guance paffute e sapere che avrebbe lasciato la fattoria nelle sue mani lo rincuorava.
Era proprio vero: ci voleva una figlia femmina per non mandare in malora la famiglia.
“A meno che uno di voi non abbia lasciato la porta della stalla aperta, no. Chi l’ha lasciata aperta?” e guardò verso Rupert, l’ultimo ad essersi occupato di sfamare il maiale quel giorno.
“Non siamo stati noi! Non sappiamo dove sia finito papà!” si inserì Dora; giusto, la sua piccina era l’ombra riluttante di quello scriteriato del gemello. Doveva averlo accompagnato nelle stalle.
“Va bene, va bene…” sbuffò. “Rimane però il fatto. Il maiale è sparito. Quindi andrete tutti a cercarlo… e tu,” afferrò per una spalla Rupert, che stava cercando di sgattaiolare via e strinse la presa finché il ragazzino non si bloccò con un gemito. “Se te ne vai in giro a cazzeggiare come tuo solito lo scoprirò. Mi aspetto il maiale prima dell’alba, dobbiamo ammazzarlo domani e verranno anche i vicini. Sarà una festa e non può mancare la portata principale. Sono stato chiaro?”
“Chiaro!” risposero i quattro in coro, prima di schizzare fuori dalla cucina per andare a vestirsi.

“Siamo nella merda!”
“Tranquilla sorellona, ormai sarà lontano!”
“Lo abbiamo liberato noi!”
“Cicciolo Libero!”
“Shhh! Zitto, non farti sentire dagli altri…”
“Ma non abbiamo fatto una buona azione?”
“Sì,… cioè no… che cavolo, Rupert! Il maiale va ammazzato, ma Cicciolo… beh, l’abbiamo scelto io e te alla fiera, gli abbiamo dato un nome, l’abbiamo cresciuto è… è nostro amico. Non potevamo fargli fare una finaccia.”
“Sono con te sorellona, ma ora dobbiamo ritrovarlo e portarlo indietro. Hai sentito papà.”
“Sì, l’ho sentito… Dai, andiamo, magari con un po’ di fortuna si sarà allontanato abbastanza.”

Quattro piccole figure si aggiravano per i campi immersi nel gelo invernale, illuminate soltanto da una splendente luna crescente.
“Dove si sarà cacciato quello stupido maiale!?” sbottò Randall strofinandosi le mani sulle guance per tenersi al caldo. “Vedete qualcosa?”
“Niente di nuovo sul fronte, Capitano!” rispose Stedd prima di intonare una filastrocca oscena che gli valse un calcio nel sedere da parte dell’altro. “Vuoi fare a botte, eh? Vuoi fare a botte Randello?!” saltellò sul posto. “Avanti, scaldiamoci!”
“Fatela finita,” sospirò Dora, avvolta da un voluminoso scialle che le copriva fino alla punta del naso rosso di freddo. “Ci manca solo che lo facciate scappare con le vostre urla…”
“Aaaaah!” urlò Rupert e Dora sapeva il motivo per cui l’aveva fatto.
Peccato che non lo sapessero gli altri.
“Sta zitto, idiota!” Randall gli tirò uno spintone, molto più forte e cattivo del calcio che aveva tirato a Stedd. Rupert cadde bocconi a terra.
“Ehi, basta!” Dora si frappose tra i due. “Lascialo stare!”
“Ha cominciato lui!” si difese Randall: a quattordici anni era entrato di prepotenza nell’adolescenza e aveva i muscoli, la forza e il vocione da ragazzo. Però, di fronte alla sorellina, era consapevole di dover abbassare i toni. Non solo perché Dora era la cocca dei genitori, ma anche perché era in grado di picchiare duro e sporco quanto loro.
E di solito mirava basso.
“Tu sei il maggiore dovresti avere un po’ di pazienza!” ribatté Dora andando ad aiutare Rupert, il quale, una volta in piedi, gli rivolse un gestaccio. Randall, infreddolito e incazzato fece per partire di nuovo all'attacco, ma Stedd lo fermò prendendolo per un braccio.
“Lascia perdere, che se prendi anche Dora è un casino…” sbuffò. “La cocchina non può tornare a casa con mezzo graffio o ci tocca la cinghia.”
Dora arrossì di rabbia ma rimase zitta. Erano tutti consapevoli di quanto sbilanciato fosse l’affetto dei loro genitori. Lei per prima. “Dai, andiamo verso il bosco… potrebbe essersi rifugiato lì,” mormorò.
“Non ho capito perché sei tu che dai ordini adesso,” ribattè Randall indispettito. “Sono il maggiore, dovreste dare retta a me!”
Dora alzò gli occhi al cielo. “E qual è il piano?”
“Beh… cercare il maiale!”
“Meno male che ce l’hai detto! Non ne avevamo idea!”
Stedd strinse una risatina tra i denti e anche Rupert sghignazzò. Randall sentì le orecchie diventare bollenti di imbarazzo. “Non parlarmi così, le mocciose hanno rispetto dei fratelli più grandi!”
“Il rispetto si guadagna,” replicò l’undicenne incrociando le braccia al petto. “Solo perché sei nato prima non significa che tu sia il capo.”
“Oh-oh!” esclamò Stedd deliziato: pieno di brufoli e sarcasmo, il mezzano dei fratelli Honeycomb adorava quando poteva essere spettatore di uno scontro senza pagarne le conseguenze. “Dora ha ragione, non sei mica il capofamiglia, non erediterai tu!”
Randall strinse i pugni; nessuno nella loro comunità faceva ereditare le femmine. I suoi amici infatti lo prendevano in giro ogni volta che usciva quell’argomento.
Grande e grosso come sei dovrai obbedire ad una femmina per tutta la vita. A quella lagna di tua sorella poi!
Se non ci fosse stata Dora, Randall avrebbe avuto la fattoria e il rispetto dei suoi coetanei. Sarebbe stata tutta un’altra solfa non averla tra i piedi, cocca dei genitori e principessina dispotica di casa.
…a rifletterci, sarebbe bastato portarla da qualche parte e darle una botta in testa per risolvere la situazione. Poi il freddo avrebbe fatto il resto. Magari i suoi l’avrebbero cercata un po’, ma di bambini che morivano tutti gli inverni ce n’erano tanti.
E poi la fattoria sarebbe tua. Come ti spetta di diritto.
Randall si spaventò di quei pensieri. Non parevano manco suoi. Poi si accorse che i fratelli lo guardavano in silenzio a qualche metro da lui. Aveva smesso di camminare.
“Che avete da guardarmi così?” sbottò.
Dora si morse le labbra. “Scusa Randall. Non volevo farti arrabbiare. Hai ragione, non è giusto che erediti io… se potessi, ecco se potessi, non vorrei…”
“Cioè?” spiò Stedd sorpreso. “Che vuoi dire?”
Dora esitò, poi scosse la testa. “Niente. Dai, Randall, ha ragione. Facciamo come dice lui.”
“Allora muoviamo il culo che l’alba è vicina.”
Un improvviso grufolare attirò la loro attenzione. “Il maiale!” esclamò Stedd. “È laggiù!” e indicò il limitare del grande campo in cui erano entrati. Dal lato opposto, vicino alla staccionata, si stava muovendo un’ombra a quattro zampe.
“Tutti zitti. Separiamoci e accerchiamolo,” disse Randall.
Il piano avrebbe funzionato. Avrebbero chiuso la bestia contro la staccionata e poi lui e Stedd, fisicamente più forti, l’avrebbero atterrata e legata con la corda che si erano portati dietro.
Solo che arrivati vicini all’animale, quello si voltò e li vide. E invece di scappare, come si erano aspettati, fece qualcosa di inaspettato.
Lanciò uno stridio assordante, raspando con le zampe anteriori a terra. “Ma che cazzo…” esalò Stedd. “Che sta facendo?!”
“Ci sta per caricare!” realizzò Randall con orrore. Il maiale era un esemplare adulto splendido, pasciuto, enorme… e molto, molto incazzato.
“Lo calmo io!” esclamò Rupert e cominciò a produrre dei grugniti agitando scompostamente le braccia. “Cicciolo, siamo noi! Veniamo in pace!”
“Porca puttana, smettila!”
Il maiale, con il fumo della condensa che gli usciva dal muso si gettò contro di loro. Scapparono in tutte le direzioni e Randall vide con la coda dell’occhio Dora, che era la più vicina al maiale inferocito, inciampare e cadere a terra.
“Dora!”
…se lei non ci fosse…
Randall si bloccò nell’atto di tornare indietro.
Se il maiale la uccide sarà una disgrazia, non sarà colpa tua. È inciampata da sola… è debole, lenta. Di sicuro poi il maiale l’ha liberato Rupert. Darai la colpa a lui.
Sono cose che succedono in natura.

Dora!” gridarono in coro Stedd e Rupert e loro tornarono indietro. Stedd la prese in braccio e Rushe cominciò ad urlare ed agitarsi per distrarre il maiale, il quale sterzò per correre dietro a lui dando il tempo agli altri due di allontanarsi.
Randall riprese a correre. “Di qua! Saltiamo la staccionata!”
Si ritrovarono così al di là della robusta palizzata di legno. Il maiale, dopo aver tentato di sfondarla senza successo, lanciò un grugnito scontento e caracollò via.
Stedd mise a terra Dora. Aveva le spesse calze di lana rotte e le ginocchia sbucciate e sanguinanti. “Stai bene?” le domandò Randall avvicinandosi. “Ti sei fatta male?”
Stavi per lasciarla morire. Che cazzo ti è saltato in mente?
Dora, con le lacrime agli occhi, annuì. Era la sua sorellina, era una bambina.
“Scusate, sono caduta, mi dispiace…”
“Me lo sarei aspettato da quel disastro di Rupert, mica da te Lady Perfettina!” scherzò Stedd togliendosi il mantello e avvolgendocela per tenerla al caldo. “Al diavolo il maiale ragazzi, torniamo a casa. Domani mattina torneremo a cercarlo con papà e i vicini.”
“Va bene,” mormorò Randall e sentendosi osservato, si voltò verso Rupert, che si era appollaiato sulla staccionata e lo stava fissando come un dannato gufo impagliato.
“Che vuoi sfigato?” sbottò. Era impossibile che quel ritardato avesse notato la sua esitazione. Era stata meno di una frazione di secondo in mezzo al casino.
E comunque mica legge nel pensiero. Non ce l’ha neanche un pensiero, ‘sto idiota.
Stedd si mise Dora sulla schiena. “Forza, a casa guerrieri!” e si incamminò, fischiettando allegro come suo solito.
Rupert saltò giù dalla staccionata. Guardò lui, guardò il maiale che si stava allontanando e poi, a sorpresa, gli afferrò un braccio, con una forza inaspettata, che bloccò Randall sul posto per la sorpresa.
“Se lo fai ancora farai la fine del maiale,” disse. Gli occhi gli brillavano di una luce folle, strana e distante… e la presa con cui lo stringeva non era quella di un ragazzino pelle e ossa. Era dolorosa, totale e Randall non riuscì a replicare. Rimase fermo, con la bocca secca e il cuore in gola mentre la luna splendeva sopra la testa di Rupert, nascondendogli il viso nelle ombre.
Per un attimo, la voce con cui gli parlò non parve neanche la sua.
“Se ci provi ancora ti ammazzo. Hai capito Randall? Dimmi che hai capito.”
“Ho capito…” si sentì dire in un sussurro.
Rupert batté le palpebre e sfoderò il suo solito sorriso demente. “Bravo,” e poi si voltò. “Sorellona! Arrivo! Stedd, cantiamo osteria numero mille!” cinguettò saltellando via, sconclusionato e innocuo come suo solito.
“Ma è volgarissima, no!”
“Bravo sfigato, dai! Tutti assieme!”
Randall li raggiunse lentamente, e senza cantare.

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Capitolo 10
*** Il tempo delle mele ***


Autore: NPC_Stories
Genere: fantasy, comico



Il tempo delle mele



Autunno 1362 DR, su una via sterrata che si dipana dalla Strada di Ferro verso le colline a ovest


Non era ancora inverno ma gli alberi da frutto avevano perso tutte le foglie.
Jaylah non era per niente contenta: niente foglie significava meno copertura, ormai sapeva di essere visibile a miglia di distanza quando se ne stava appollaiata sui rami dei meli. Che razza di ranger si faceva individuare a miglia di distanza?
Be', miglia era una parola grossa, ma la bambina di nemmeno sei anni credeva che un miglio fosse tutta la strada che riusciva a correre prima di essere stanca. Non aveva una vera idea delle distanze.
La sua foresta, ad esempio, per lei era gigantesca. Ci voleva un'intera ora sul carretto per attraversarla tutta, e un'ora era un tempo infinito.
Era davvero una grande responsabilità fare la guardia a una foresta così vasta, e senza l'aiuto di nessuno! I suoi fratelli si erano rifiutati di aiutarla e le avevano detto di andare a giocare per conto suo. Ma loro non erano veri ranger, non sapevano che cosa volesse dire proteggere il proprio territorio. Non avevano mai vissuto in un clan di elfi, come lei, che era figlia di un elfo dei boschi che era anche il miglior ranger del mondo.
Jaylah stava ponderando sull'ingiustizia della vita, seduta su un ramo basso, quando vide un carretto svoltare dalla strada principale e imboccare la stradina sterrata che portava alla locanda di sua madre. La stradina sterrata che attraversava la sua foresta.

"Fermi là!" Ingiunse la bimba, in tono imperioso. "Voi umani non potete mica entrare nei miei boschi e fare quello che vi pare!"
Il carretto, che era guidato da un anziano uomo e trainato da un mulo, rallentò progressivamente e si fermò.
"Olà, piccolina! Ti serve un passaggio per tornare a casa?" Chiese l'uomo, che aveva riconosciuto la figlia più giovane di Krystel.
Non che fosse un grande sforzo; la bambina era mezza drow, si capiva al primo sguardo, e l'unica famiglia di drow nella regione era quella di Krystel.
Gli altri occupanti del carretto, una mezza dozzina di bambini di ogni età che avevano approfittato di quel passaggio verso la locanda, agitarono le mani per salutarla con calore.
"Ciao Geyla!"
"Geyla, sei tornata"[1]
"Come sei cresciuta"
Il coro di saluti amichevoli per un momento la prese in contropiede.
"Ciao! È un sacchissimo che non ci vediamo!" Salutò con un sorriso incerto. "Però non potete passare lo stesso, perché siete umani e questa è la mia foresta."
"Ah sì? E dov'è questa foresta, scusa?" Le chiese uno dei ragazzini in tono spavaldo. Jaylah sapeva di averlo già visto, ma non ricordava il nome.
"Comincia lì al bivio, dove siete entrati col carretto" puntò un ditino alle loro spalle "e finisce a casa della mia mamma. È la foresta delle mele e io sono capoclan. E anche capo ranger. Tutto."
"Cioè la tua foresta sarebbe il filare di meli che costeggia la strada? E che foresta è?" Rise il ragazzino.
"È una stupidata! Sei stupida, Geyla?" Rincarò un altro, un pochino più piccolo.
"Rupert Honeycomb! Alec Shendrel! Vi sembra questo il modo di parlare a una bambina?" Li rimproverò l'unica ragazza del gruppetto, che riuscì a gelarli con lo sguardo.
"Hmf. Hai ragione, Dora" ammise controvoglia il ragazzo che aveva insultato Jaylah.
"Scusa, Dora" mugugnò il primo che aveva parlato.
Dora Honeycomb ormai aveva dodici anni ed era rispettata come la voce della ragione nel suo ristretto gruppo sociale, gli altri ragazzi di solito la ascoltavano… nonostante la sua figura autoritaria in quel momento fosse resa un po' meno spaventosa dai due bimbetti che teneva sulle ginocchia, intenti a infilarsi le dita nel naso a vicenda.
"È a Geyla che dovete chiedere scusa!" Insisté lei.
"Sì, vabbè, scusa Ge… quelle sono mele?" Rupert Honeycomb interruppe il suo patetico tentativo di scusarsi quando si accorse del prezioso carico sull'albero che ospitava la bambina. C'era una regola, anzi più una tradizione, per chi si dirigeva verso la Locanda dell'Orso: se portavi un cestino di mele, la locandiera ti avrebbe fatto una torta di mele.
Di solito i fratelli Honeycomb arrivavano alla locanda quand'era già inverno e le mele non c'erano più, ma quell'anno i loro genitori li avevano mandati un po' prima del solito. Forse per liberarsi il prima possibile dei gemellini Theo e Tom, che erano appena entrati nei terribili tre e si comportavano come scimmie sotto zuccheri alle due del mattino. Forse perché il piccolo Bruce, di soli quattro anni, da solo minacciava di svuotare la dispensa prima del tempo. Ad ogni modo quell'anno era andata così, e in un certo senso era un sollievo anche per i fratelli Honeycomb più grandi. Almeno avrebbero avuto un aiuto per occuparsi dei loro fratellini.
Rupert scelse proprio quel momento per dimostrare di non essere adatto al ruolo di babysitter. Sedotto dal miraggio della torta di mele, si lanciò dal carretto e si arrampicò velocemente sul tronco dell'albero: quando voleva, sapeva essere agile come uno scoiattolo.
In seguito a questa decisione improvvisa successero tre cose:
Jaylah lanciò un urletto e tirò fuori dalla tasca dei bastoncini di legno, cominciando a tirarli verso Rupert al grido di "scendi dal mio albero! Beccati queste frecce, invasoro!" e altre imprecazioni in lingua elfica.
Bruce, finalmente libero dal controllo del fratello maggiore, si lanciò in avanti saltando in cassetta accanto al vecchio che guidava il carretto e cercò di sporgersi per accarezzare il cavallino, che in realtà era un mulo dal brutto carattere.
Dora urlò un improperio verso Rupert, si alzò in piedi facendo cascare i gemellini sul fondo del carretto come sacchi di patate e si gettò su Bruce per afferrarlo prima che cadesse andando a finire proprio sotto gli zoccoli del mulo.
Nella confusione del momento, il mulo decise di ricominciare a camminare a passo sostenuto, non come se fosse spaventato ma come se ne avesse le scatole piene di tutta quella caciara. Bruce si ritrovò sbilanciato in avanti, sul punto di cascare di sotto, ma sia Dora che il vecchio riuscirono ad afferrarlo per i calzoni.
Rupert intanto si stava arrampicando sul tronco dell'albero, rapido come una scimmia.
"Geyla smetti di lanciare 'sti cazzo di legnetti!" La apostrofò il ragazzo.
"No! Giù dal mio albero! Giù le zampe dalle mele!"
Jaylah finì presto i bastoncini e non aveva nessuna intenzione di strappare dei rametti per procurarsene degli altri, i ranger non feriscono gli alberi senza motivo.
Rupert, non più bersagliato dalle 'frecce', stava raccogliendo mele e infilandosele in tasca, nei calzoni, nelle maniche, ovunque riuscisse. Erano mele piccole e dure, forse non erano maturate bene a causa del clima che era stato incostante, ma lui sperava che Krystel sarebbe stata capace di tirare fuori una torta decente comunque.
"Mi hai fatto finire le frecce" Jaylah gli si avvicinò con una smorfia arrabbiata, camminando sui rami dell'albero senza esitazione, come se stesse camminando sul terreno. "Sei cattivo, adesso vai giù a riprenderle!"
"Che, devo scendere per recuperare i rametti così tu puoi lanciarmeli in faccia di nuovo?"
"Sì" confermò la piccola, come se non vedesse nessuna incongruenza logica in quella richiesta. "Lo devi fare tu perché io non so più come si scende…"
Rupert la guardò per un momento con espressione basita e occhi vacui, poi buttò la testa indietro e scoppiò a ridere.
"Dai vieni mocciosa, ti faccio scendere dall'albero se tu mi dai in cambio tutte le tue mele."
Era una richiesta ragionevole, perfino per Jaylah. I ranger proteggevano il territorio dalle invasioni, questo è vero, ma qui si parlava di stipulare un accordo che era una cosa del tutto diversa. Una cosa da adulti. E lei era la capoclan della foresta delle mele, quindi la diplomazia era una sua responsabilità.
Si sentì molto matura mentre accettava di aiutare Rupert a prendere tutte le mele, a patto che poi lui la aiutasse a scendere.

Nel frattempo, al livello del suolo, il vecchio carrettiere era riuscito con fatica a convincere il mulo a fermarsi. Dora era scesa dal carro ed era tornata indietro. Arrivò sotto l'albero dov'era suo fratello giusto in tempo per prendersi quasi una pioggia di mele in testa.
"Ma che fai? Rupert sei impazzito? Mettila giù!" Gridò, sbiancando in viso. Rupert se ne stava in piedi su un ramo e Jaylah era in piedi sulle sue spalle. "È pericolosissimo!"
"Nah Dora, è chiaro che tu non lo sai, Geyla è una ranger elfa, non può cadere" esclamò tutto contento. "Guarda Geyla ce n'è una lì, dove quei rami si incrociano."
"Ma non ci arrivo, mi puoi lanciare?"
"Nessuno lancerà nessuno!" Strillò Dora. Schivò un'altra mela che i due avevano lasciato cadere a terra, ad unirsi al mucchio che già avevano accumulato.
"Sorellona fai qualcosa di utile, raccogli le mele, eh?"
"Rupert! Giù! Subito!"
"Ma…"
"Ma? Ma! Ti dico io un ma. Sei mio fratello ma se succede qualcosa a Geyla dirò a Krystel di metterti nel forno!"
Rupert si girò a guardare la sorella dalla sua posizione sopraelevata, come se non fosse troppo preoccupato della minaccia.
"Ma io so' gnucco come una suola di scarpa, mica mi si mangia…"
"Non ho detto niente sul mangiarti" gli fece notare Dora.
Rupert ci pensò un attimo.
"Arrivo. Se Krystel mi mette nel forno, poi non c'è più spazio per la torta di mele" ragionò facendo spallucce. "Dai, ranger elfa. Si scende." Rupert diede un colpetto con la mano a una caviglia di Jaylah. La bimba si lasciò scivolare lungo la sua schiena e gli rimase aggrappata alle spalle come un mantello. Poi, finalmente, il ragazzo scese dal tronco senza tentare salti o acrobazie.
"Sei bravo a rampicarti" una volta a terra, Jaylah gli diede una pacca per complimentarsi. "Quasi come un elfo."
"Sono meglio di qualsiasi elfo" borbottò Rupert. "Dai, raccogliamo queste mele. Se sono troppo dure per la torta possiamo sempre lanciarle addosso a qualcuno" propose con un sorriso da matto.
Jaylah lo guardò come se avesse appena fatto una proposta scandalosa ma innovativa.
Dora si frappose tra i due e afferrò la bambina per trascinarla verso il carretto. Era molto meglio non lasciare una giovane mente impressionabile sotto l'influenza di Rupert.



**********

[1] Jaylah è stata lontana da Secomber dalla primavera 1361 alla primavera 1362, come narrato in Ricostruire un ponte, Niente in Comune e Non era amore, ma almeno era Amyl, mancando quindi l'inverno precedente alla locanda

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Capitolo 11
*** Era sempre colpa di Luel ***


Autore: Dira_
Genere: fantasy, slice of life, comico




Era sempre colpa di Luel



Una locanda vicino a Secomber, Costa della Spada, ultimo mese dell'anno 1362


Comunque era sempre colpa di Luel.
I figli di Krystel erano gli adulti, quelli a cui in caso di problemi potevi affidarti. Persino Amber, che calcolava i ragazzini dell’Inverno come residuali, era genericamente ben disposta verso di loro - anche se dall’alto della sua adolescenza elfica ti guardava sempre come se fossi un buffo cosetto parlante. Il che era ironico perché i drow erano bassi per gli standard umani e Dora a dodici anni era già più alta di lei.
Comunque tutti i figli di Krystel erano gentili e affidabili… tranne Luel.
Luel era l’eccezione. Si comportava come un ragazzino viziato pur sembrando un adulto. Non passava molto tempo con loro, ma quando c’era, adorava avere il codazzo delle ragazzine più grandi ad adorarlo. Suonava il violino, le faceva ballare e tutte facevano a gara per attirare la sua attenzione.
Dora non lo reggeva; e non ne faceva esattamente mistero.
Il mezzo fatato se n’era accorto e la cosa non gli era evidentemente piaciuta. Il fatto che non gli cascasse ai piedi, per quelli della sua razza, era inconcepibile. E dunque, profondamente offensivo. Da quando l’aveva mandato al diavolo per il fatto del campanile, ogni volta che gli arrivava a portata la omaggiava di lazzi e prese in giro. Dora aveva imparato così ad evitare la sala comune quando sentiva le note di un violino.
Tanto aveva l’infermeria della locanda dove rifugiarsi. Tinefein, la figlia più grande, era una guaritrice e a furia di vederla sempre lì, a far domande ed offrire aiuto, aveva accettato di prenderla come sua allieva.
Quel giorno però non poteva evitare di trovarselo tra le scatole, perché Krystel le aveva chiesto di insegnare alle ospiti più giovani ad usare uno dei telai montati provvisoriamente in fondo al refettorio. Era la stanza più calda della locanda e quindi il centro vitale della casa. Infatti Luel era lì a scaldarsi dal freddo come tutti loro.
“Doretta!” la apostrofò scivolandole a fianco. “Proprio non ce la fai a non impartir lezioni, eh?”
“Me l’ha chiesto tua madre,” borbottò di rimando. La ragazzina a cui stava insegnando per poco non rimase incastrata con le dita nell'ordito del telaio, troppo imbambolata dal viso cesellato del ragazzo per prestar attenzione.
“Te ne vai? Ci stai distraendo!”
“Quanto sei cattiva…” Luel fece il broncio. “Guarda che se continui così non ti sposerà nessuno!”
“E chi vuole sposarsi,” ribatté, perché se non poteva evitarlo, poteva almeno tenergli testa. “Magari divento una chierica.”
Sì, come se papà ti lasciasse andare… nei tuoi sogni, forse.
“E quindi consacreresti il tuo cuoricino ad un altare? È uno spreco! Non sarebbe meglio divertirsi un po’, trovarsi un innamorato, e poi chiudersi in un tempio a fare la muffa, se proprio ci tieni tanto?”
Dora strinse i denti. Metà del sangue di Luel apparteneva ai danzatori del crepuscolo, una genia fatata famosa per amare l’estasi e il divertimento. Per il ragazzo ghignante di fronte a lei era insensato che qualcuno desiderasse votare la sua vita ad un ideale più alto.
Non era del tutto colpa sua, e in quanto fedele devota di Lathander avrebbe dovuto fargli vedere il suo punto di vista e convincerlo che era valido.
Solo che non sopportava come la trattava. Le faceva prudere le mani, ma non era proprio il caso di diventare manesca con uno dei figli della sua ospite.
“Sei proprio noiosa…”
Dora vide rosso. “Se l’alternativa è essere stupidi e vanesi come te, grazie tante, preferisco essere noiosa!”
Il silenzio piombò nella sala. Persino i ragazzi, che avevano improvvisato una partita a carte su uno dei lunghi tavoli, ammutolirono quando fino ad un momento prima avevano berciato l’uno sull’altro… Persino Rupert, che sonnecchiava di fronte al fuoco come un gatto, si rizzò a sedere con gli enormi occhi da matto fissi su di loro.
Grandioso.
Stupido e vanesio?” aveva esclamato Luel e per un momento era sembrato sinceramente ferito. Aveva anche fatto un drammatico passo indietro.
Dora a quel punto era stufa e le bruciavano le orecchie dalla vergogna di essere fissata da almeno due dozzine di occhi. “Sì, sei stupido e vanesio. Non capisco perché tutte ti muoiano dietro, non sei niente di che!”
Luel le rivolse uno sguardo indignato. “Sei cieca? O magari sei solo troppo piccola per apprezzare,” disse con l’aria di chi aveva appena trovato una spiegazione soddisfacente.
Dora sbuffò. “Ce li ho gli occhi. Sei per metà di razza elfica, non puoi essere brutto. Però ci sono persone molto più belle di te.”
Luel inarcò le sopracciglia. Ora era davvero sorpreso. “E chi?”
Tipo chiunque dei tuoi fratelli, e tua madre, almeno loro non sono dei palloni gonfiati - pensò, ma la bocca disse qualcos’altro, forse ormai era troppo agitata per infilare una frase intera. “Tinefein.”
Era il primo nome che le era salito alle labbra. Obiettivamente tutta la famiglia di Krystel, Krystel compresa, era composta da gente bellissima, quasi ultraterrena per gli standard umani. Però Tinefein aveva il pregio di accompagnare a dei lineamenti perfetti anche la dolcezza. E la pazienza. E il fatto di non parlare tutto il cavolo di tempo.
Capì troppo tardi di aver fatto un errore madornale. Da come Luel ampliò il sorriso, tingendolo di quella che poteva essere solo classificabile come vittoria. “Ti piace Tinefein!” esclamò con la cantilena di un bambino. “Hai una cotta per mia sorella, Doretta? Che carina!”
“Non ho una cotta!” esclamò paonazza. Sì, Tinefein le piaceva, perché le stava insegnando i rudimenti della guarigione, perché passava ore a darle retta quando era solo una bimbetta umana di dodici anni. E okay, anche perché era bella da far battere il cuore, ma chiunque aveva un figlio preferito di Krystel.
Non era strano. Non era come lo intendeva Luel.
“Non è fredda come pensavamo, gente! Le piace mia sorella!” Luel pareva trovare incredibilmente rinvigorente sentire gli altri ridere. Gli occhi neri gli brillavano come tizzoni e sembrava quasi famelico nel vederla umiliata.
Dora avrebbe voluto scappare, ma era bloccata sul posto dalle risate e da tutta quell’attenzione che l’annichiliva. Non la voleva, non l’aveva mai voluta, le faceva venire da vomitare. “Smettila!” balbettò.
“Almeno si spiega perché passi tutto quel tempo in infermeria con quella musona!” esclamò Luel. Però poi parve rendersi conto delle lacrime che le salivano agli occhi perché il sorriso vacillò per un attimo. “Su, su… non è mica la fine del mondo avere una cotta, non piange-”
“L’HAI FATTA PIANGERE?!” un urlo alle loro spalle li fece voltare entrambi di scatto. “SEI MORTO CARBONCINO!”
E Rupert, che si era avvicinato silenzioso come un gatto, saltò addosso a Luel con un urlo di guerra. Il ragazzo più grande riuscì a spostarsi con grazia ed evitare di essere placcato, ma non riuscì ad evitare il conseguente, sconclusionato pugno in faccia. Barcollò, portandosi una mano alla bocca insanguinata, incredulo.
“Mi hai fatto male…” mormorò confuso e con gli occhi da cucciolo di cane.
Oh, per la radiosità di Lathander, ti ha appena sfiorato! Dovessi vedere come lo conciano a casa!
Dora però afferrò Rupert prima che tentasse una seconda carica. Anche perché il capannello di ragazzine ridacchianti li aveva accerchiati.
E aveva smesso di ridere.
“Bestie! Avete fatto male al povero Luel!” sibilò la più grande che sembrava davvero troppo grande per frequentare ancora la locanda, ma a quanto pare l’avevano mandata anche quell’anno.
Ed era anche sicuramente mezza-orca dalla stazza.
La tipa si scrocchiò le nocche. E Dora capì che la miglior difesa, in quel caso, era una sola.
Afferrò il gemello mentre un nugolo di ragazzine iniziava ad inseguirli fuori dal refettorio urlando.
“Ti ho difeso sorellona!” esclamò gioioso Rupert. “Sono o non sono stato bravo?!”
“Che cavolo hai in testa?! Mi hai difeso per poi farci linciare?! Quelle ci ammazzano!”
“Sì, ma hai visto la faccia di quel cretino alato?! Ne è valsa la pena!” sghignazzò Rupert, girandosi per fare una pernacchia all’inferocita folla adolescenziale. Nonostante tutto Dora scoppiò a ridere.

Tek’ryn e Amber vennero a recuperarli dall’albero sopra il quale si erano issati solo a ora di cena, e solo dopo che Luel decise magnanimamente di perdonarli avvertendo chi di dovere.
Fortunatamente non ci furono conseguenze: Amber confidò loro che il fratello era stato insolitamente onesto ed era dunque stato spedito in infermeria dopo un rimprovero da parte di Krystel.
“Se attacca briga con i ragazzini vuol dire che non ha preso abbastanza schiaffi,” concluse la drow con un ghigno. “Tranquilli, pensiamo tutti che se lo sia meritato e sotto sotto lo pensa anche lui se è andato a farsi sistemare da Tine senza fare troppe lagne.”
Tinefein. Le dirà tutto?!
Dora, rosa dall’ansia, era arrivata alle preghiere dell’alba senza chiudere occhio.

Con sua grande sorpresa, la mattina dopo, la mezza drow la accolse come al solito, tranquilla e senza strani sguardi imbarazzati.
Non le ha detto niente?
Forse perché il gioco alla fine gli si era ritorto contro. Forse perché era meno stronzo di quanto tutti pensassero…
Però mentre Dora guardava la giovane guaritrice spostarsi i lunghi capelli scuri dietro le spalle, lasciando scoperta la curva del collo, e sentendo il cuore dare un'accelerata, pensò che Luel era sì un cretino… ma aveva ragione in un modo che fino a quel momento non aveva mai realizzato.

Sì, era tutta colpa di Luel.

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Capitolo 12
*** Decisioni (e relativi sensi di colpa) ***


Autore: Dira_
Genere: introspettivo
TW: linguaggio politicamente scorretto




Decisioni

(e relativi sensi di colpa)



Una fattoria vicino a Secomber, Anno 1363, Estate


“Smettila di essere così testardo, Gorstag! La bambina ha un futuro a Waterdeep… non può buttarlo via per ereditare una fattoria!”
“La mia fattoria! Una delle più floride della Contea! O voi cittadini con la puzza sotto il naso pensate che il cibo si materializzi sulle vostre tavole per magia?!”

Dora ascoltava dalla porta socchiusa il litigio tra suo padre e la zia Jhessail, una cugina alla lontana di mamma e chierica di Lathander. Erano ore che stavano andando avanti su quel tema; la zia era venuta a trovarli a Mezzestate, per officiare lei stessa la Canzone del Mattino, la cerimonia che la loro piccola comunità di devoti di Lathander non mancava mai di organizzare a tutti i passaggi di stagione. Dora l’aveva aiutata attivamente, come aveva sempre fatto, ma quell’anno la zia, invece di limitarsi ad un generico ringraziamento e qualche regalino dalla città, l’aveva trattenuta una buona parte della serata, interrogandola sulla sua fede.
E quella mattina era arrivata alla fattoria con una proposta: l’anno prossimo, una volta compiuti tredici anni, avrebbe potuto seguirla a Waterdeep ed entrare nel Tempio delle Spire del Mattino.
Dora ci era stata una sola volta, quando la zia era stata ordinata Maestro dell’Alba e se ne era innamorata come ci si innamorava di un’opera d’arte; il Tempio era grande, splendente e candido quasi fosse fatto della stessa sostanza del sole, dalle enormi guglie a spirale ricoperte d’oro e d’argento, immerso in una città grandissima e caotica.
Davvero la zia pensava che avrebbe potuto studiare lì?
“Gorstag, cerca di ragionare…” la zia continuava a parlare con calma, ignorando i pugni che suo padre stava dando al tavolo. “Dora è intelligente, le piace studiare. Sarebbe uno spreco non darle l’opportunità di farlo.”
“Quei maledetti musi neri della locanda l’hanno convinta che serva a qualcosa!”
“Caro…” mormorò la mamma, ma suo padre tirò un altro cazzotto al tavolo e questo bloccò le parole della donna sul nascere.
“Intendi la locanda gestita da quella drow?” la zia fece un sospiro. “Neppure io ho simpatia per la razza, ma a quanto mi è stato detto è un buon luogo dove mandare i propri figli a passare l’inverno. Mi sembra che voi ne abbiate approfittato ampiamente, no?”
“Un’idea del cazzo di mia moglie!” ruggì l’uomo. “Vedi che succede a mandarli via? Poi se ne escono con delle idee assurde, dei grilli per la testa! Diventano disubbidienti, ribelli!”
Dora deglutì; stava origliando e non avrebbe dovuto, ma non era colpa sua se la porta della cucina era socchiusa e se stavano tutti parlando ad alta voce!
Dietro di lei, Rupert fece una smorfia. “Chi è che ha i grilli in testa? Non ho capito…”
“Shh, fammi ascoltare.”
“Ma siamo nei guai?”
“No, stavolta no,” Dora fece una pausa. “Credo.”
“Dora ha una fede molto profonda, e un sincero desiderio di aiutare il prossimo… ha una vocazione, lo capisci? Le vuoi davvero tarpare le ali?”
“Io capisco solo che ho fatto un’unica figlia normale, e tu me la vuoi portare via!” sbottò l’uomo, ma stavolta senza maltrattare il tavolo. Appoggiò le grosse mani sul legno e sospirò. “Quando sarò vecchio a chi dovrei lasciare la fattoria secondo te? A Randall? Ha più pugni che cervello… o a Stedd, che per fargli fare una roba lo devi pregare in ginocchio. E lasciamo perdere Rupert e Bruce, quei due mi son venuti ritardati.”
“Vaffanculo vecchio di merda,” cinguettò Rupert dietro di lei. Dora gli rifilò una gomitata, ma non se la sentì di zittirlo.
“Tu e Miri siete giovani, potete avere ancora altri figli.”
“Caro… Jhessail non ha tutti i torti,” mormorò sua madre. “Avere un figlio chierico è una grande benedizione. Pensa a quando tornerebbe a casa, come sarebbe benvoluta dalla nostra comunità…”
Suo padre fece una smorfia, passandosi una mano tra i radi capelli biondi. “Potrebbe diventare qualcuno in città?”
“Ha buone potenzialità,” rispose senza sbilanciarsi la zia. “Sicuramente si impegnerà con tutta sé stessa e ad un novizio di Lathander non si chiede altro.”
“Quindi te ne vai?” Dal tono di voce sbigottito, Rupert pareva aver afferrato solo in quel momento l’argomento della discussione.
Dora fece per rispondere, ma la voce di suo padre la fermò.
“Dora! So che sei lì dietro, vieni qui!” Una pausa. “E porta anche quell’imbecille di tuo fratello.”
Dora deglutì e, prendendo per mano un silenziosissimo Rupert, entrò in cucina. “Scusa papà, mi dispiace aver origliato…”
Suo padre fece un gesto come per scacciare una mosca. “Hai sentito tua zia. Dice che potresti diventare una chierica. Tu che vuoi fare?”
Vuoi…
Ricordava il discorso che Krystel le aveva fatto qualche anno prima di fronte ad un sacco di patate. Ricordava di non averci capito molto, ma adesso sì. Adesso capiva.
Da una parte c’era la fattoria, un’eredità che le toccava per nascita. Dall’altra la possibilità di servire il suo dio nel modo che voleva davvero: studiando, imparando cose nuove in una città grandissima, in un tempio alto e splendido.
“Voglio diventare una chierica come la zia.” La voce le uscì stabile, con una forza che non si era aspettata. Forse era Lathander a guidarla.
La zia sorrise soddisfatta. “Abbiamo il tuo benestare Gorstag?”
Suo padre si alzò, raggiungendola e chinandosi alla sua altezza. Aveva i suoi stessi occhi; seri e scuri. “Dora, io e la mamma vogliamo la tua felicità, lo sai. Ci mancherai molto però, e la fattoria non sarà la stessa senza di te. Mancherai anche ai tuoi fratelli. Come farà Rupert senza di te?”
Dora si voltò verso il gemello, che era pallido come un cencio. Aprì e chiuse la bocca un paio di volte e Dora capì che se le avesse chiesto di rimanere, lo avrebbe fatto. Con rimpianto, ma sarebbe rimasta alla fattoria.
Non ci siamo mai separati da quando siamo nati. Se me ne vado, finirà per ammazzarsi in qualche modo stupido…
“Ragazzo, apri quella bocca! Non fai altro per tutto il giorno, renditi utile almeno stavolta!”
Rupert inspirò. E poi fece spallucce. “Mah… farei bene uguale. Sì, mi mancherà ma se deve andare deve andare. La gloria di Lathander e tutta quella roba lì, no? Si divertirà a studiare roba barbosa… mi sembra una cosa sensata, no? Cioè, regolare. Vai Dora, alla fattoria penserò io!”
Suo padre fece una faccia strana, come se volesse mollargli un manrovescio. “Beh… già. Insomma,” borbottò. “Vuoi veramente andare Dora?”
“Sì,” annuì facendo un sorriso alla zia. “Mi piacerebbe molto.”
“Allora è deciso!” esclamò la zia, battendo le mani come a sancire la cosa. “Tornerò all’equinozio del prossimo anno, per celebrare come sempre la Canzone. Intanto ci saranno un po’ di preparativi da fare, ma penserò a tutto io… hai fatto la scelta giusta tesoro,” le disse facendole una carezza. “Sono sicura che non sprecherai l’opportunità che ti abbiamo regalato io e i tuoi genitori, non è vero?”
“Vi renderò fieri di me!” confermò mentre con la coda dell’occhio notò Rupert sgattaiolare via, ormai ignorato da tutti. “Ora però… ecco, avrei un sacco di cose da fare, vi lascio parlare!” e senza aspettare risposta corse dietro al gemello.
Rupert era uscito nell’aia e stava prendendo a calci la polvere. “Ehi!” lo chiamò. “Guarda che puoi venire a trovarmi!”
Rupert si voltò, gli occhi rossi dalla polvere che si stava mandando in faccia. “Lo so!” sbottò. “Viva Lathander, eh?”
Dora sorrise appena, e poi lo raggiunse. Lo afferrò per un braccio e lo sentì irrigidirsi. “Mica ti picchio…” E lo abbracciò. Rupert la strizzò di rimando. “Ahia, piano!”
“Lathander mi sta sul cazzo,” borbottò appoggiandole il mento sopra la testa. Dora odiava quando lo faceva.
Ma sbuffò e glielo lasciò fare. “Smettila di bestemmiare.”
“Gnè gnè!”
“Per favore fa’ il bravo e non morire mentre non ci sarò.”
“Chi, il magnifico me che muore? Ma quando mai!”
Dora sospirò e lo strinse più forte. “Mi mancherai anche tu, scemo.”

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Capitolo 13
*** Oddly specific ***


Autore: NPC_Stories
Genere: demenziale



Oddly specific



1364 DR, primo mese dell'anno, in una locanda vicino a Secomber


Jaylah stava imparando a usare il telaio, anche se era ancora troppo bassa per tessere da sola e le sue conoscenze erano ancora di natura teorica. Però aiutava, reggendo rocchetti di filo e passandoli alle ragazze più grandi mentre queste creavano figure che si dipanavano magicamente sulla tela.
"Quando ero piccola pensavo che prima si dovesse fare un telo bianco, e poi ci andassero disegnate le figure con un pennello" commentò, osservando ammirata il lavoro di quelle giovani. "Mamma dice che tra un paio d'anni anch'io saprò tessere, perché mi insegnerà. Mi dispiace un sacco non essere capace di farlo già adesso" commentò, abbattuta.
"Perché ti dispiace?" Anita Ashtree, la più giovane di quel gruppetto, la guardò con aria perplessa. "Crescere è una fregatura perché si deve iniziare a lavorare, e tu vuoi iniziare prima del tempo?"
"Ho quasi sette anni, mica sono piccola" rivendicò Jaylah con orgoglio. "E poi, a dire la verità, è perché Rupert è un po' triste. È triste perché Dora in primavera va via. È così mogio che ha pure smesso di lanciare la cacca giù dal tetto. Quindi, accidenti, se sapevo già tessere potevo farle io le tende per Dora…"
Le quattro ragazze che stavano lavorando al telaio si fermarono per guardarla con aria interrogativa.
"Le tende." Ripeté lentamente una di loro, la più grande del gruppetto.
"Le tende?" Quella di Anita invece era proprio una domanda. La ragazzina era incapace di frenare la sua curiosità.
"Le tende, sì! Ho sentito che Dora andrà in una grande città, in un tempio, perché lì ci sono le tende." Corrugò la fronte, segno che stava riflettendo velocemente. "Non lo so perché è così fissata con le tende, ma penso che le piacciano un sacco. Dice sempre "viva le tende!", e "per le tende"; io penso che lei da piccola credesse che, facendo sempre la brava, sua mamma le avrebbe cucito delle tende. Però è chiaro che non l'ha fatto perché adesso Dora andrà in una città per cercarle. Forse a casa Honeycomb non ci sono proprio le tende."
Le ragazze più grandi si scambiarono un'occhiata basita e poi, senza più riuscire a trattenersi, scoppiarono a ridere.
"Geyla, Dora dice 'Lathander'" le spiegò una di loro, con pazienza. "Dice 'sia lode a Lathander' e 'per Lathander'…"
"Sì, anche lei ha questa pronuncia strana" confermò Jaylah. "Sua mamma dovrebbe insegnarle meglio come si parla. Invece Dora sta sempre con Tine, e questo non è che aiuta" scosse la testa con aria saputa, dandosi arie da adulta. "Tine mica si accorge se lei parla strano."
Sentendo il tono così convinto della seienne, le altre fanciulle - che avevano quasi smesso di ridere - ebbero una ricaduta.
"Le tende" mormorò una di loro, senza fiato per le risa. "Eh sì, quelle del tempio devono essere molto più belle di quelle che si producono qui in campagna" commentò, stando al gioco.
"Scommetto che sono trasparenti e hanno tutti i colori dell'alba" scherzò un'altra.
"Adesso sono curiosissima" ammise Jaylah. "Chissà come sono belle!"
"Be', Dora tornerà pure a trovare la sua famiglia ogni tanto" ipotizzò Anita Ashtree. "Potresti chiederle di portarti una tenda per vedere come sono."
La giovane mezzadrow annuì dopo una breve riflessione. Quello sì, era un buon compromesso.

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Capitolo 14
*** Partenze e nuovi inizi ***


Autore: Dira_
Genere: introspettivo




Partenze e nuovi inizi



Una locanda vicino a Secomber, Anno 1364. Poco prima della primavera.


Era arrivato il momento di lasciare la Locanda dell’Orso. Succedeva ogni anno da sei anni, ma stavolta per i gemelli Honeycomb era diverso.
Quello sarebbe stato l’ultimo inverno che avrebbero passato lì; con l’arrivo della primavera Dora sarebbe andata a Waterdeep a studiare da chierica e Rupert sarebbe tornato alla fattoria per lavorarvi a tempo pieno.
Sarebbe cambiato tutto.
Dora si sentiva divisa a metà mentre, in dormitorio, preparava la sacca sua e degli altri fratelli per la partenza; da una parte era entusiasta all’idea di aprire quel nuovo capitolo della sua vita. Andare a studiare in una grande città, nel tempio di Lathander più importante della regione… seguire il suo sogno di aiutare la gente sotto lo sguardo radioso del suo dio!
Dall’altra… non sarebbe più stata Dora della fattoria Honeycomb, non avrebbe più dovuto lavorare nei campi, curare le arnie, aiutare la mamma a casa e badare ai suoi fratelli, grandi e piccoli. Non avrebbe più dovuto rendere conto a suo padre.
Strinse la cinghia della sacca con un sospiro.
Non avrebbe più visto Tinefein.
Le guance, quasi a comando, le avvamparono e ricacciò quel groviglio confuso di emozioni da dov’era arrivato, perché Rupert era accanto a lei che faceva palleggiare annoiato una vecchia palla di stracci e non era il caso se ne accorgesse.
Non sarò più l’allieva di Tinefein.
Tinefein era stata, assieme a Tek’ryn, la sua mentore. Ma se Tek era l’insegnante di tutti i ragazzini dell’inverno, Dora considerava Tinefein come solo sua. Anche perché non è che avesse altre allieve.
Perché erano maestra e allieva, ecco. Al massimo amiche. Quegli altri pensieri che aveva da due inverni a quella parte, dovevano finire spinti giù in un buco profondissimo dentro di lei.
Strinse di nuovo la cinghia e metà della roba nella sacca uscì fuori con un'esplosione di vestiti e mutande. Rupert si voltò di scatto, ridendo. “Ehi, è un nuovo gioco?”
“Ma che gioco… ho stretto troppo,” mugugnò raccogliendo un paio di camicie.
Rupert le si avvicinò inclinando la testa da un lato come un gufo scemo. Era il suo modo di indagare l’animo altrui. “Vuoi una mano?”
“No, faccio da sola.”
Rupert aprì la bocca per dire qualcosa, ma non gli diede il tempo. “Non hai altro da fare che darmi noia? Va’ a giocare fuori prima di rompere qualcosa!”
“Va beeeene…” l’altro alzò gli occhi al cielo, afferrò la palla e si diresse ciondolante verso la porta. Si fermò però sullo stipite. “Hai una faccia strana.”
“Va’ fuori!” quasi gridò. Rupert fece un saltello sorpreso, una linguaccia ma finalmente se ne andò.
Dora diede un calcio al pagliericcio, ma poi finì per gettarcisi sopra e seppellire il viso contro il cuscino. Si sentiva un'idiota. Stava per affrontare un nuovo inizio, e i nuovi inizi erano sempre positivi. Perché allora non era felice?

Il giorno della partenza era arrivato, e Dora e i fratelli erano nella rosa di chi avrebbe preso il primo carretto. La giornata era il preludio di una splendida primavera, ventosa, limpida e con il profumo dei primi fiori a spandersi nell'aia.
Dora aiutò Rupert a caricare i loro pochi bagagli sul carretto e poi si voltò verso la locanda, che quel giorno splendeva ai raggi del sole. Da dentro si udivano gli schiamazzi degli altri bambini, e da qualche parte esplose uno scoppio di risate. Dora percepì lo stomaco stringersi in una morsa.
“Fate buon viaggio,” disse Krystel, che era venuta ad accomiatarsi e forse anche ad assicurarsi che non dessero fuoco o distruggessero qualcosa nei preparativi - un'ipotesi non lontana dal reame delle possibilità se c’erano gli Honeycomb di mezzo.
Avevano già salutato tutti gli occupanti e villeggianti della locanda, chi con abbracci, chi con strette di mano o semplici cenni. Si erano accomiatati da Tek’ryn e Amber a colazione mentre avevano incrociato Luel per i corridoi; il mezzo-fatato come al solito aveva sparato una delle sue cattiverie e lui e i gemelli si erano detti addio con una reciproca sfida di gestacci.
Dora però non aveva salutato Tine; ad essere onesti l’aveva accuratamente evitata per tutta la giornata precedente… e per quella ancora prima.
Era da maleducati, ma non era riuscita a varcare il cortile che separava la locanda dall’infermeria. Ogni volta che aveva provato era stato come se un incantesimo blocca persone le avesse incollato i piedi a terra.
Se la saluti sarà un addio.
“Tornateci a trovare. Siete sempre i benvenuti.”
Dora si morse le labbra e fu Rupert, saltando giù col carretto, a rispondere per lei. “Sicuro Kry! Dora sarà troppo occupata a fare la dama di città, ma io verrò tutti gli inverni!”
“Magari non tutti,” scherzò Krystel, ma neanche troppo. “Saltane pure qualcuno.”
“Ma come?!”
“Grazie di tutto,” mormorò Dora con un groppo alla gola che non la faceva quasi parlare. “Mi saluteresti Tinefein… per favore?”
Krystel inarcò le sopracciglia e fece per rispondere, quando Tinefein apparve alle loro spalle. “Direi che non ce n’è bisogno,” commentò la strega con un sorriso mentre Dora sentiva la faccia andare in fiamme.
Brutta idiota, è dovuta uscire lei per venirti a salutare! Sai che non le piace allontanarsi dall’infermeria. Sarà di sicuro arrabbiata!
Alzò lo sguardo, ma Tine… era Tine. Le restituì un sorriso gentile e segnò con le dita: §Fate buon viaggio. Fatti onore nella grande città.§
§Scusa se non ti ho salutato§
sbagliò sicuramente qualche segno per l’agitazione, ma l’altra capì il senso generale perché si strinse nelle spalle.
§Sono venuta io, non è un problema.§
Attorno a loro Rupert litigava con i fratellini per farli rimanere sul carro, il carrettiere chiacchierava con Krystel e Dora sentiva l’ansia bloccarle il petto.
Non me ne voglio andare. Non voglio smettere di essere la tua allieva. Voglio che tutto rimanga com’è.
La locanda era il suo luogo sicuro, dove c’erano persone che conosceva da una vita. Dove Krystel si assicurava che non morissero, dove Tek insegnava loro i fatti del mondo, dove Luel la prendeva in giro e dove c’era Tine. E lei stava abbandonando tutto quello per l’ignoto.
Era stato un errore scegliere di diventare chierica così lontano da casa. Forse avrebbe dovuto chiederle di prenderla davvero come apprendista, e rimanere lì per sempre… al sicuro.
Non voglio che le cose cambino! Non voglio andare via!
Una mano sulla sua spalla la fece sobbalzare. Alzò il viso e Tinefein la stava guardando con espressione carica di affetto. §Andrà tutto bene. Diventerai una brava chierica e guaritrice per il tuo dio. Sono orgogliosa di te. Non dimenticarti di noi.§
La lingua dei segni di Tinefein non era fatta per esprimere concetti lunghi, o particolarmente emotivi. Però bastò.
Dora le gettò le braccia al collo scoppiando a piangere e, dopo una breve esitazione, la drow ricambiò l’abbraccio. Da quando era così piccolina? si interrogò Dora… Da quando l’aveva superata in altezza?
Forse era davvero arrivato il momento di andare.
Grazie. Grazie di tutto Tinefein. Ti voglio bene.
Dora non avrebbe mai voluto lasciare la presa, ma ovviamente doveva.
Anche perché alle sue spalle sentì un grido. Era il carrettiere.
“Ragazzino, molla subito le redini!”
“GLI ADDII SONO PER PERDENTI!” berciò Rupert, in piedi sulla cassetta e con le redini in mano. Diede un energico strattone e il mulo nitrì selvaggiamente e partì al galoppo, lasciando il carrettiere, Dora e le due drow in una nuvola di polvere. Da lontano si udì partire un coro di squillanti voci infantili. Erano Bruce e i gemelli Thom e Teo, i suoi fratellini.
“Osteria numero mille! IL MIO CAZZO FA SCINTILLE!”
“ARRIVO MONDO DEGLI ADULTI!”
“Ma porca puttana…” mormorò Dora. Lanciò un’occhiata sbalordita a Krystel e Tine ma le due parevano essersi aspettato quell’ennesimo colpo di follia da parte della sua famiglia. Tine addirittura sbuffò una cosa molto simile ad una risata.
“Credo che dovresti andare Dora,” disse Krystel. “E buona fortuna. Per tutto.”
Mi servirà, pensò Dora inseguendo il carretto che sbandava da tutte le parti tra le urla disperate del povero carrettiere.

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Capitolo 15
*** Viaggi e decisioni ***


Autore: Dira_
Genere: avventura, angst
TW: bullismo, violenza, accenno a maltrattamento di animali




Viaggi e decisioni



Una fattoria vicino a Secomber, Anno 1364. Primavera.


Rupert era scappato di casa.
Una mattina qualunque di primavera si era vestito, era scivolato via dal pagliericcio che condivideva con Bruce, era uscito nell’aia e aveva cominciato a camminare.
Direzione? Waterdeep. Obiettivo? Cercare Dora e il suo stupido tempio luccicante ed andarci ad abitare anche lui.
Alla fattoria non sarebbe tornato mai più.

Rupert era scappato di casa ma non aveva valutato una cosa piuttosto importante: non aveva idea della direzione da prendere.
Aveva vagato per un po’ in mezzo ai campi, per far perdere le sue tracce, casomai suo padre si fosse accorto della sua sparizione e avesse deciso di sguinzagliare Randall e Stedd. Lui era veloce ma quei due, specialmente Randall, avevano il fiuto di un segugio e lo trovavano sempre.
Sputò a terra, mentre il labbro spaccato dall’ennesima scarica di botte gli bruciava da morire.
Una volta che Dora se n’era andata le cose erano peggiorate; a sua madre non importava di difenderlo. Si accorgeva a malapena della sua esistenza, presa dai bisogni di Bruce e i guai che combinavano Thom e Theo. Ed era pure di nuovo incinta.
Suo padre, quando lo vedeva tornare dai campi dietro ai fratelli, faceva una smorfia ai suoi lividi e al sangue che gli si seccava addosso, come se fosse l’ennesima delusione il fatto che non riuscisse a restituire le botte.
Non che non ci provasse, ma due contro uno era una roba da stronzi. E non c’era più Dora a gridare giustizia e mettersi in mezzo. Non c’era più sua sorella a servire a tavola. C’era sua madre, che non controllava se Randall si sporgeva a sputargli nel piatto o gli tirava un cazzotto nelle costole lasciandolo senza fiato e rubandogli le uniche cose che poteva mangiare senza correre al cesso.
Era una settimana che si cagava addosso perché tutto quello che gli veniva lasciato era formaggio. E come se non bastasse, era arrivata la Primavera, e con essa il suo carico di starnuti e naso gonfio.
Rupert tirò su con il naso, arrampicandosi su una staccionata e facendosi scivolare dall’altro lato. Da lontano gli sembrò di scorgere una strada.
Non una gran strada, ma una strada da percorrere. Magari avrebbe incontrato qualcuno a cui chiedere indicazioni. Ormai era sufficientemente lontano da Secomber per non essere riconosciuto.
Lanciò un’occhiata alle sue spalle, alle colline e alle torri del paese. Erano puntini lontani nella luce sfavillante del mattino e sotto, in mezzo a tutte quelle ondulature d’erba e fiori, c’era casa sua.
Rupert sputò di nuovo, strinse meglio il fagotto di stracci che erano i suoi pochi possedimenti, e continuò a camminare.
In qualche modo, annunciò a sé stesso, sarebbe arrivato a Waterdeep.

Non sarebbe mai arrivato a Waterdeep.
Anche se le prime ore del suo viaggio non erano andate tanto male. Era riuscito ad arrivare alla strada principale e da lì aveva chiesto indicazioni… era sicuro di aver imbroccato la direzione giusta. Si era quasi rilassato, pregustando l’odore pulito del mare e l’abbraccio stritola-reni della gemella.
Lo avrebbe sicuramente rimpinzato di roba buona da mangiare. E, dato che avevano quasi quattordici anni, forse ci sarebbe scappato pure un boccale di birra?
Poi, però, era andato tutto storto; aveva sentito dei cani latrare e si era spaventato. Randall aveva preso un paio di cuccioli da un vicino, e li aveva tirati su a botte e fame, tanto che erano aggressivi come cazzo di lupi. Glieli aveva sguinzagliati addosso un paio di volte ed erano così pericolosi che persino Stedd, che di solito osservava, lo teneva fermo o rideva, aveva urlato al fratello di richiamarli prima che lo sbranassero.
Sudando freddo si era tuffato in un campo contiguo ed aveva cominciato a correre con tutto il fiato che aveva in corpo.
Aveva mancato un intero giorno di lavoro: Randall l’avrebbe ammazzato. Era diventato matto dalla notte della fuga del maiale. Quella notte si erano intesi.
Se non mi ammazzi prima tu, lo faccio io. Fammi trovare solo una scusa.
Rupert non voleva ammazzarlo: come aveva promesso a Darren, il gemello di Kry, non avrebbe mai levato una lama contro i suoi fratelli. Qualche pugno sì, per forza, ma la morte no.
Non voleva ammazzare Randall, ora che Dora era al sicuro al Tempio. Però Randall voleva ammazzare lui.
Rupert ansimò e si guardò freneticamente indietro: i latrati dei cani erano lontani. Attorno a lui solo campi infiniti di grano verdissimo.
Aveva perso la strada.
Starnutì e si ficcò un dito in bocca. Alla Locanda dell’Orso Tek’ryn aveva insegnato loro a cercare il Nord nel muschio degli alberi e la direzione del vento sentendolo soffiare su un dito umido di saliva.
Il vento andava sempre al mare, no? O era il fiume? Comunque, Waterdeep era sul mare.
Rupert si accorse che nella fuga aveva perso il fagotto delle sue cose ed imprecò: non poteva tornare indietro e cercarlo, c’erano i cani.
Si incamminò seguendo la direzione del vento.

Quella notte decise di accamparsi in un boschetto di querce perché sulla strada avrebbero potuto vederlo. Era primavera ma la temperatura la sera scendeva ancora molto e si trovò a battere i denti.
Nonostante il freddo, la fame e la stanchezza non sarebbe tornato a casa. Waterdeep e Dora erano l’unica possibilità.
E se Dora non ti volesse?
Glielo sussurrò una vocina che lo fece voltare a destra e a manca: non c’era nessuno. Era tipo la sua coscienza, forse? Però non pareva proprio la sua voce. Aveva un tono malevolo e strascicato. Assomigliava un po’ alla voce di Stedd, e quella del vecchiaccio… e quella di Randall, tutte mischiate assieme.
Se n’è andata perché non ti sopportava più.
Rupert si abbracciò le ginocchia e ci seppellì la testa.
Sei solo adesso. Devi badare a te stesso. Devi diventare più forte.
È la legge della natura, Rupert. Mangia o vieni mangiato. Uccidi o sarai ucciso.
Se Randall ti trovasse, sai cosa devi fare? Devi essere il più forte.
Uccidere o essere ucciso.

Rupert si tappò le orecchie e gridò. Lanciò un grido che sovrastò la voce.
“STA’ ZITTO! IO SONO FORTE! SONO IL PIU’ FORTE DI TUTTI!”
La voce si quietò e da lontano un cane lanciò un ululato. Rupert scattò in piedi e iniziò a correre.
La fame, la paura e la stanchezza erano più forti e più veloci. Gli cedettero le gambe e crollò a terra. Svenne.

Lo svegliò qualcosa che gli leccava la faccia.
Rupert spalancò gli occhi sul mattino e sul muso di un cane. Lanciò uno strillò e provò a tirargli un pugno ma la bestia scattò indietro, abbaiando e scodinzolando. Rupert si tirò indietro strisciando di culo e solo dopo si accorse che il cane non era grosso e scuro come quelli di Randall. Era a macchie bianche e nere ed era super peloso.
“Ehi, ehi, lascia stare Joomba,” disse una voce. Rupert si voltò e si trovò di fianco un mezzelfo. Era facile riconoscerli: erano come gli umani ma avevano le orecchie a punta. Questo qui era più giallino del consueto e aveva gli occhi stretti come se gli desse fastidio il sole, ma sicuro, era un mezzelfo.
Era anche mezzonudo e Rupert fu pronto a difendere la sua virtù quando si accorse che i pantaloni il tipo li aveva, anche se di una foggia tutta strana, più larghi in fondo e color giallo piscio. E poi aveva una specie di fascia, sempre gialla, che gli attraversava il torso abbronzato. Sembrava un grosso limone stronzo.
Però era anche tutto un muscolo. Persino il collo era muscoloso e la testa era liscia come un uovo. Era vestito come un coglione, ed era un mezzelfo, quindi un po’ fighetta… ma quei muscoli e quel cane lo classificarono ai suoi occhi come tipo pericoloso.
“Chi cazzo sei?” domandò mostrandogli i pugni. “Non ho soldi! E richiama quel sacco pulcioso!”
“Il sacco pulcioso ha un nome, sii gentile. Si chiama Joomba.”
“Sì, vabbeh… tienimelo lontano, i cani non mi piacciono e io non piaccio a loro!” disse mentre il cane si avvicinava annusandolo qua e là. Rupert, fingendo di non essere terrorizzato, gli spostò il testone e la lingua penzolante piena di bava, di nuovo in dirittura della sua faccia.
“Peccato perché tu piaci a lui,” ribatté. “Mi chiamo Oktai, e non ho intenzioni cattive, come non le ha Joomba. Ti abbiamo trovato svenuto sul ciglio della strada. Eri messo male, così ti ho portato al mio campo…” e indicò tutto attorno. Rupert vide una tenda e, di fronte a sé, un focolare. Subito dopo notò la cosa più importante: era acceso e aveva una pentola fumigante sopra.
Lo stomaco gli si contorse in un borbottio entusiasta e l’uomo rise.
“Immaginavo avessi fame. Ho preparato un po’ di brodo di quaglia e radici. Appena è pronto lo mangeremo assieme.”
Rupert avrebbe voluto gettarsi sulla gavetta ma il cane gli stava davanti scodinzolante e Testa d’Uovo era davvero grosso. E lui era molto debole.
Si abbracciò le ginocchia limitandosi a guardarli in cagnesco.
“Come ti chiami piccolo viandante?”
Rupert fece per rispondere con un insulto, ma si trattenne. Doveva giocare d’astuzia, il tipo aveva da mangiare e lui moriva di fame. “Mi chiamo Ru… Ru-u-she,” balbettò perché doveva dare un nome finto, casomai Pelatone fosse in combutta coi suoi fratelli.
Dubitava, dato che Randall odiava chiunque non era umano o, genericamente, sé stesso, ma era meglio andare sul sicuro.
“Ti sei perso, vero? Dove ti ho trovato non saresti andato da nessuna parte,” commentò il mezzelfo. “Eri in viaggio con qualcuno… la tua famiglia forse?”
Rupert si morse un labbro indeciso su cosa raccontare. Magari una storia epica, dove la sua famiglia era stata trucidata da un drago e lui lo aveva ucciso rimanendo però l’unico superstite?
O che era alla ricerca di vendetta, dopo che i suoi genitori erano stati rapiti da dei malvagissimi sacerdoti malvagi?
“Capisco, sei un orfano,” sospirò Oktai richiamando il cane che gli si accucciò ai piedi. Lo guardò con aperta pena. “Viaggi da molto?”
“Un botto…” rispose perché era passato solo un giorno e si era già rotto le palle. “Dei… briganti armati di sciabole e coi denti a sciabola mi hanno attaccato e mi hanno rubato tutto! Io mi sono difeso e ne ho sconfitti un sacco, ma poi sono dovuto scappare perché erano tipo duecento!”
Oktai gli scoccò un’occhiata perplessa. “Sembri aver avuto una vita difficile.”
“Altroché! Mi menavano tutti i giorni!”
“I briganti?”
“Chi? Ah… sì! Erano malvagissimi, dei veri stronzi!” afferrò la ciotola piena di zuppa che gli porgeva e se la scolò con gusto, ruttando contento. Tanto non c’era Dora a scappellottarlo intimandogli di non fare il buzzurro.
Ah… Dora!
“Senti pelatone, io devo andare a Waterdeep! Da che parte devo andare per andare dove voglio andare?”
Oktai accarezzò la testa del cane. “Dalla parte opposta rispetto a dove siamo ora. Siamo vicini al villaggio di Zelbross[1], ma tu dovresti prendere la strada per Daggerford. Sei proprio fuori rotta, piccolo Rushe.”
“Piccolo sarà tua sorella,” sbottò sostenuto. Porse la ciotola all’uomo che gliela riempì di nuovo. “Comunque beh… grazie. Finisco di mangiare e poi vado.”
“Che devi fare a Waterdeep?”
Rupert fece per rispondere, ma di nuovo la vocina melliflua sovrastò i suoi pensieri.
Dora sta diventando qualcuno là. Hai ascoltato le lettere che manda al vecchiaccio. È felice. Vuoi rovinare tutto? Perché rovineresti tutto. Sei ancora troppo debole. Ti vuoi di nuovo attaccare alle sue gonne?
“Boh,” mormorò. “Cioè… mi è venuto in mente così… c’è il mare…”
Oktai annuì come se avesse detto una cosa molto sensata. Era un tipo apposto, quell’Oktai. Grande, grosso e forte. Di sicuro era lui che metteva paura alla gente, con tutti quei muscoli.
“Ohi, come faccio a diventare come te?”
“Come me?”
“Sì, grosso e forzuto!”
Oktai sorrise. “Dovresti prima sapere ciò che sono e ciò in cui credo. Sono un monaco dell’Anima del Sole, Rushe. La mia fede in Lathander e la disciplina mi hanno reso l’uomo e il combattente chi sono.”
“…di nuovo Lathander…” sbuffò incredulo. Quel cavolo di dio prima gli rubava Dora, e ora gli sventolava in faccia quanto si potesse essere grandi e cattivi grazie a lui!
Gli stava proprio sul cazzo.
“Di nuovo?”
“No… niente, è che… con i briganti malvagissimi era tutto un Lathander qui e Lathander là…”
Il monaco si rabbuiò. “Capisco, hai incontrato dei seguaci di Bane. Ne girano fin troppi in queste zone ed è mio compito ripulirle.”
“Vuol dire che li meni fortissimo?”
Il monaco sembrò preso in contropiede dal suo tono enfatico. “Sì, anche…”
“E quelli scappano piangendo e non ti menano più?”
“La gloria di Lathander guida i miei colpi e metto in fuga gli empi, certo.”
“Figata,” ammise. “Non sapevo che Lathander ti insegnasse anche a picchiare. Pensavo ti facesse solo a pregare e cantare canzoncine!”
Oktai continuava a guardarlo strano, però annuì, anche se un po’ più lentamente. “Noi monaci dell’Anima del Sole facciamo anche quello, ma soprattutto celebriamo il Signore del Sole attraverso la disciplina e lo studio delle arti marziali.”
“E siete buoni, giusto?" controllò.
“Naturalmente.”
“Ah, bene… o Dora chi la sentiva… allora posso venire con te? Così mi insegni a prendere a calci i malvagi. So già fare a botte e sono bravissimo ad arrampicarmi… guarda qua!”
E anche se ancora un po’ debole si esibì nel suo repertorio migliore di calci e pugni. Prese la rincorsa e scalò una vicina conformazione di rocce saltando ed atterrando poi di fronte ad un festante Joomba.
“Hai ammirato la potenza, pelatone?” Domandò con il fiato corto. Era un po’ in ansia: quel tipo forse era LA soluzione. Poteva farlo diventare come lui.
Così sarò forte. Anche più forte di lui. Il più forte di tutti.
Oktai lo osservò a lungo. Poi si accarezzò il mento pensieroso. “Alla fine del mese mi riunirò ai miei fratelli, e i giovani di buon cuore e forte tempra sono sempre i benvenuti tra di noi. Ti avverto però, Rushe, l’addestramento sarà duro.”
“Per me sarà una passeggiata!”
Rispetto a Randall di sicuro.
Il monaco sospirò. “Non si può dire che ti manchi la fiducia in te stesso.” Poi sorrise. “È un bene, perché ti servirà.”
“Sta’ sereno pelatone… ne ho in abbondanza!”
Sarò forte. Il più forte di tutti. E Randall non potrà uccidermi. E non sarò un peso per Dora. E quando ci rivedremo non dovrà più curarmi o difendermi e andremo in giro a salvare la gente.
“Rushe il mitico al tuo servizio!”



**********
[1] Considerando che Zelbross è circa a metà strada fra Secomber e Loudwater, e confrontando la mappa della wiki con la mappa della 3e abbiamo stimato con questa mappa interattiva che siano circa 50-60 miglia. Un umano di taglia media (Rupert è ormai alto come un adulto) ce la potrebbe fare in sedici ore di cammino, ma all'arrivo sarebbe sfiancato. Nessuna sorpresa che Rupert sia svenuto per la fame e la stanchezza.

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Capitolo 16
*** Galeotto fu il baule ***


Autore: Dira_
Genere: fluff




Galeotto fu il baule



Tempio delle Spire del Mattino, Waterdeep, Anno 1364 Autunno.

Vivere in una città come Waterdeep era un’esperienza completamente diversa dal vivere nelle campagne profonde di Secomber.
Waterdeep era una città vera; aveva un castello imponente, gremito di torrioni e circondato da altissime mura, aveva dei quartieri gremiti di case, negozi, taverne che si avvicendavano stretti l’un l’altro tra strade lastricate di ciottoli e traboccanti di gente. E poi c’era il mare.
E Dora viveva lì; non solo, era una giovane adepta del Tempio delle Spire del Mattino, che la maiuscola se la meritava tutta perché alla prima lezione di Storia e Religioni avevano detto che era il più grande e splendente della Costa della Spada.
E lei studiava lì; ogni giorno passeggiava tra le grandi sale foderate di marmo rosa, alzava il viso verso le sette imponenti torri, che terminavano in guglie a spirale ornate di rame, argento e oro. Ad ogni preghiera dell’alba luccicavano come se Lathander stesso si fosse chinato per sfiorarle con un bacio. Le mille piccole fontane che ornavano e arredavano le grandi sali circolari cullavano lo studio, le conversazioni… e la facevano dormire serena.
Dora ogni mattina, prima di infilarsi la tunica gialla e oro da novizia, si tirava un pizzicotto nell’incavo del braccio, giusto per controllare che fosse tutto vero, che fosse davvero lì.
Dora era felice.
Però
Dora era anche Dora; c’era una piccola spina in quella estasi perfetta, un sassolino nella scarpa che non riusciva a togliersi.
Le mancava la sua famiglia… ed era preoccupata per Rupert.
Rupert, dopo solo un mese che era partita, era scappato di casa; Dora non se ne era stupita, il gemello odiava lavorare alla fattoria. E poi, c’erano i soprusi di Randall e Stedd a mettere la ciliegina sulla torta.
Per fortuna però, pur con tutte le sue bizzarie, suo fratello non era uno stupido; era capace di scegliere il miglior corso d’azione per sé stesso e infatti, qualche settimana dopo la lettera della mamma, ne era arrivata un’altra.


cara sorellona,

Sono in un monastero di Lathander e mi insegneranno a tirare calci e pugni.
Quando ci rivedremo sarò un figo. Baci Baci.

Rushe il mitico



Chi cavolo è Rushe?
Vabbeh, i monaci almeno lo terranno in vita. E chissà che tutta quella disciplina non gli faccia bene…

Aveva scritto ai genitori per rassicurarli e poi si era buttata a capofitto nei suoi studi.
La preoccupazione rimaneva, ma non poteva permetterle che la distraesse: essere una Risvegliata del Tempio non era uno scherzo. La giornata iniziava all’alba e finiva al tramonto, ed era piena di studio, esercizio fisico e momenti di profonda preghiera.
Dora aveva pochi attimi per sé stessa e li sfruttava tutti, come in quel momento; nel dormitorio grazie ad un complesso sistema di lucernari e finestre la luce rimaneva calda e soffusa per tutto il pomeriggio, anche d’autunno, e per questo aveva deciso di rimanere a leggere un libro, rinunciando a seguire le sue compagne nella grande piazza del mercato per una passeggiata e qualche acquisto.
Con la sua biblioteca, un imponente edificio adiacente ai dormitori, il Tempio era letteralmente il paradiso della conoscenza, e quando l’aveva scritto a Tek’ryn, il drow le aveva risposto che avrebbe dovuto approfittarne. Cosa che Dora aveva fatto a piene mani, prendendo a prestito qualsiasi libro stuzzicasse la sua curiosità.
Però c’era un problema.
Lanciò un’occhiata al baule in fondo al letto, unica suppellettile dove contenere effetti personali; era semiaperto perché debordante di libri.
Avrebbe dovuto rinunciare a qualcuno, ma ne aveva ancora così tanti da leggere… e così interessanti! C’era un trattato sulla Storia delle Religioni a Waterdeep, un diario di viaggio di un Chierico nel Kara-Tur, e poi come non citare quel meraviglioso racconto sulla Città dei Morti, perfetto per le notti buie e tempestose…
Lanciò un’occhiata al letto accanto a sé. Vi era un baule gemello ma vuoto perché il posto non era occupato. Quell’anno le giovani adepte erano state meno del solito.
Se lo usassi non darei fastidio a nessuno…
Dora sbirciò la porta socchiusa del dormitorio e poi si decise; cominciò la distribuzione dei libri. Quando era chiuso nessuno avrebbe notato che lo stava usando lei.

“Ehilà, quel letto è tuo?”

Dora si congelò sul posto. Una voce giovane l’aveva sorpresa alle spalle. Era una delle sue compagne? Si voltò avvampando di vergogna.
E questa chi cavolo è?
Capelli scuri, occhi chiarissimi, lentiggini e pelle diafana… doveva essere un’illuskan. O forse no, dato che quel popolo era famoso per essere alto e robusto e la tipa era più bassina ed esile di lei.
Mi sa che però sono io ad essere fuori scala.
Ci mise un attimo a riconoscerla, perché non era del suo anno; ma non era una faccia nuova.
Ah, è una degli orfani!
Ovvero un piccolo gruppetto di studenti che invece di arrivare al Tempio, ci era letteralmente cresciuto dentro, grazie alla munificità del loro dio, amante della gioventù e delle seconde possibilità.
“Scusa, ma il letto è tuo?” ripeté la ragazzina.
“Beh… cioè… in realtá no.”
“Ti sei allargata?”
Dora avvampò, colta con le mani nel sacco. “Scusa… pensavo non venisse più nessuno…”
L’altra gettò la propria sacca, rattoppata ma pulita sul materasso, buttandocisi poi sopra senza troppe cerimonie. “E invece mi hanno spedita qui da voi nuove leve!” e sorrise irriverente.
Dora si morse un labbro irritata. “Non sembri tanto più grande di me. Quanti anni hai?”
“È che sono un’orfana magra e denutrita!” esclamò spalancando gli occhi. “Povera me! Quanti anni mi dai?”
Dora trattenne un mezzo sorriso, perché la mimica facciale della sua nuova vicina era irresistibile. Finse di rifletterci. “Boh… dodici?”
L’altra sgranò di nuovo gli occhi, stavolta sinceramente shockata. Poi, notando il suo sorrisetto, ridacchiò. “Simpatica… sono un anno avanti a te. Mi chiamo Kethra, piacere!” e le porse la mano.
Tipico nome Illuskan. Avevo ragione.
Dora la strinse, sentendola asciutta e calda al tatto. Aveva una presa forte, cosa che le piacque. “Dora Honeycomb, altrettanto.”
“Volevi fregarmi il baule Dora Honeycomb?”
“Non è rubare se non c’è padrone.”
Kethra ampliò il sorriso. “Mi avevano detto che eri una noiosona e invece sei una sveglia!”
Dora sentì il sangue scivolarle via dal viso. “Chi te l’ha detto?”
Parlano male di me?
Eppure aveva fatto tutto giusto. Era gentile, disponibile e cercava di essere utile a tutti… cos’aveva sbagliato stavolta?
Kethra esitò, forse notando il suo repentino cambio d’umore. “Tua zia, ma in realtà ti ha descritta con un sacco di lodi, dovresti tipo essere un buon esempio per me. Noiosona l’ho detto io, scusami.” Si sporse per toccarle un ginocchio, dato che entrambe erano sedute sui rispettivi letti. “Era solo una battuta, e pure un po’ stupida… dato che saremo vicine cerchiamo di andare d’accordo, va bene?”
“Certo,” rispose in automatico. Kethra era palesemente nella schiera dei troppo vivaci, specialmente se l’avevano declassata di camerata… ma avrebbe trovato modo di instaurare un rapporto cordiale anche con lei.
Non può essere peggio dei miei fratelli. Nessuno è peggio.
Kethra le diede un calcetto sulla caviglia per attirare la sua attenzione. “Ehi, se vuoi puoi avere il mio baule… io ho poca roba e la posso tenere nella sacca. Quando stavo all’orfanotrofio facevo così.”
“È contro il regolamento,” ribatté pronta Dora. “Anzi, se vuoi riferire la cosa di prima alla guardiana…”
Kethra la contemplò come se fosse l’essere più bizzarro del Toril. “Ma sei scema? Ti metterebbe di sicuro in punizione!”
“Sì, ma me lo meriterei.”
“Beh, non lo farò! Che tipa che sei!”
Dora si strinse nelle spalle. Avrebbe voluto tornare al suo libro, ma Kethra non dava segno di volersene andare. Sospirò. “Grazie…” perché andava detto. Poi cercò un argomento di conversazione, uno qualsiasi per non farsi fissare come un dannato gufo impagliato. Notò che tra i capelli, acconciati in una treccia che le cadeva sulle spalle, l’altra aveva un fermaglio a forma di farfalla.
Era argentato, ma sicuramente non era di metallo nobile; sembrava fatto di ferro coperto da piccolissime perline di vetro, uno di quei tanti accessori che venivano venduti nel Quartiere dei Mercanti per poche monete di rame. Lo indicò. “È molto bello… dove l’hai preso?”
Kethra si toccò i capelli. “Ah, questo?” se lo sfilò. “L’ho vinto giocando d’azzardo.”
“Scusa?” l’acuto che le uscì fece scoppiare a ridere l’altra. Una risata piena, di pancia, che la mandò stesa sul materasso.
Dora avrebbe voluto arrabbiarsi, ma era una risata così genuina e simpatica che non riuscì a frenare una risatina di rimando. “Ma che cretina!”
Kethra sogghignò. “Me lo dicono sempre!” E poi, dopo essersi alzata di scatto, si chinò su di lei.
Cosa…
Il volto dell’altra e le sue tantissimi lentiggini, era letteralmente ad un millimetro dal suo. Dora rinculò mentre il cuore le dava una brusca accelerata.
Kehtra era molto carina. Aveva i lineamenti che parevano dipinti e degli enormi occhioni grigi con ciglia lunghe e scure. Indossava la sua stessa tonaca ma sulla sua corporatura armonica e minuta cadeva con molta più eleganza.
Era una delle ragazze più belle che avesse mai visto, e Dora aveva conosciuto Krystel e i suoi figli.
Questa, completamente ignara di quei pensieri, le appuntò il fermaglio ai capelli con dita leggere. “Come sono morbidi,” commentò. “Come li lavi?”
Dora deglutì. “Cos… i capelli? Ehm… acqua ed erba saponaria?”
“Che fortuna, li hai così al naturale allora! Va’ come ti sta bene!” Esclamò mettendosi teatralmente le mani sui fianchi. “Sembra fatto apposta per te, te lo regalo!”
Dora toccò il fermaglio. Era ruvido e freddo e un po’ pesante. Non se lo tolse. “Grazie, sei gentile ma…”
“Ma ho già deciso!” replicò dandogli una pacca energica sulla spalla. Era minuta e sembrava una bambolina, ma aveva le mani pesanti. “Tranquilla, l’ho pagato di tasca mia.”
“Appunto, ti devo qualcosa…”
“È un regalo, Honeycomb, accettalo e basta! Però se non ti piace…”
“No, no, mi piace! Solo… perché?” Che ho fatto per meritarmelo? Era la domanda conseguente ma Dora la fermò in tempo perché sarebbe suonata un po’ strana. La gente si faceva regali, di continuo; solo che non era mai capitato a lei, se non per il compleanno, ma quello era diverso e comunque di solito lo divideva con Rupert.
Tra l’altro, non era corretto accettarlo; se Kethra era un’orfana doveva avere al massimo una piccola indennità per le spese personali data direttamente dalla Chiesa. Quel fermaglio non sembrava costoso ma era di buona fattura, di certo doveva aver risparmiato per acquistarlo.
“No, senti…”
“Oooh, e se mi va di regalartelo?” fu la risposta perplessa. “Si fa così tra ragazze. Ce l’hai mai avuta un’amica?”
“Sì, chi non ce le ha?”
No, e Tine non è mai contata. La facevo contare per egoismo mio…
Dora si sistemò il fermaglio in modo che non cadesse. “Grazie allora. Però vorrei darti qualcosa in cambio, mi sentirei a disagio a non farlo…”
Kethra continuava a fissarla perplessa. “Certo che sei un bel po’ strana… ma va bene, sono strana anch’io, andremo d’accordo!” sancì battendo le mani. “Se proprio ci tieni a farmi un favore, vieni con me!” e la afferrò per un braccio obbligandola ad alzarsi.
Dora mollò il libro perplessa. “Dove?”
“A dare un senso a ‘sto pomeriggio!” Le passò un braccio attorno alle spalle e avvicinò il viso al suo con fare cospiratorio. “Tu… mi sembri proprio una brava a fare il palo.”
“Per cosa?
“Niente di illegale o contro le regole, sta’ serena. Solo divertente. Conosci il concetto?”
Dora pensò a tutti i pomeriggi folli passati col gemello, ai guai in cui si erano cacciati, al terrore… e alle tante, tante risate.
Sorrise. “Lo conosco.”
“Ottimo! All’avventura allora!”

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Capitolo 17
*** Temporale ***


Autore: Dira_
Genere: slice of life




Temporale



Tempio delle Spire del Mattino, Waterdeep, Anno 1364
Tardo autunno.

Dora odiava le notti di pioggia.
Non per la pioggia in sé; Lathander le aveva concesso la fortuna di vivere dove aveva sempre avuto un tetto sopra la testa.
No, il problema di Dora erano gli annessi e connessi della pioggia.
Un tuono squarciò assordante il dormitorio dei Risvegliati al Tempio delle Spire del Mattino di Waterdeep, e la tredicenne si tirò di scatto le lenzuola sopra la testa.
Dora odiava i tuoni ed era l’unica, tra le sue compagne, ad avere quel problema.
Il dormitorio delle nuove adepte contava unicamente una dozzina di ragazzine della sua età… un’età in cui quel genere di fenomeno atmosferico ormai destava più fastidio, che viscerale terrore.
Per questo Dora non aveva detto ad anima viva di quella sua sciocca paura infantile. Non voleva che le nuove compagne pensassero che era strana.
Voleva che pensassero bene di lei, e stava lavorando sodo per quell’obiettivo. Era gentile con tutti i piccoli gruppetti che si erano inevitabilmente formati in una socialità ampia e stratificata come quella del Tempio; ascoltava compunta i figli dei nobili, che non facevano che riempirsi la bocca delle ricchezze e le connessioni dei propri genitori… annuiva ammirata ai racconti dei figli di paladini e chierici avventurieri, che ciarlavano di gesta epiche che un giorno avrebbero imitato… e cercava di tenersi buoni gli orfani, che erano un gruppetto compatto e perennemente sulla difensiva.
Dora sarebbe dovuta appartenere al gruppo di quelli che venivano dalle campagne, da figli di contadini e fattori. Avrebbe dovuto cercare lì degli amici e confidenti.
Solo che, come alla Locanda di Krystel, le riusciva difficile aprirsi con qualcuno che non fosse la sua famiglia. E sua zia Jhessail non era proprio indicata per quel genere di confidenze.
Quindi in quel dormitorio non c’era davvero nessuno a cui potesse chiedere il favore più grosso e ridicolo di tutti.

Dormiresti con me?

Aveva passato l’infanzia a dividere il letto con Rupert e poi, una volta cresciuti, con almeno uno dei suoi fratelli più piccoli e nelle notti di tempesta averli vicino le era sempre stato di conforto.
Però ora era in un dormitorio, zeppo di sconosciuti, a miglia di distanza.
Un ennesimo lampo illuminò a giorno le file di letti e il conseguente rombo fece vibrare le vetrate schizzate di pioggia.
Dora si infilò talmente sotto le coperte che i piedi nudi spuntarono dalla fine del letto.
“…ma che cazzo…” sentì una voce soffocata alla sua sinistra.
Era Kethra Brightraven. Adepta del secondo anno, ma punita per le sue marachelle con una retrocessione nel dormitorio delle novizie.
Kethra una tipa… strana. Sembrava non avere un problema al mondo e saltellava da un gruppo di adepti all’altro, amica di tutti e di nessuno.
Nelle lezioni che frequentavano assieme o se ne stava a dormire nelle ultime file o tempestava i maestri di domande, intelligenti, ma poste in maniera sfacciata.
Quando non era in giro per i fatti suoi.
Seguiva regole tutte sue e per quanto zia Jhessail e gli altri chierici cercassero di imbrigliarla, Kethra marciava su una musica invisibile, diversa da quella di chiunque altro.
E non avendo i genitori non c’era davvero nessuno di cui avesse timore e, temeva, anche rispetto.
Dora, che non era esattamente capace di dire di no, si era ritrovata invischiata in un paio delle sue alzate d’ingegno ma, abituata com’era ai disastri che combinavano i suoi fratelli, non le erano sembrate così terribili.
Non si era fatto male nessuno dopotutto.
La giovane chondatan non era sicura se lei e la compagna potessero definirsi amiche, ma doveva ammettere che la giovane illuskan le era simpatica.
“…ehi Honeycomb, sei sveglia? Ti sento agitarti come se avessi i topi nei pantaloni.”
Dora sospirò, voltandosi verso il letto dell’altra. Kethra era seduta sopra le coperte, in camicia da notte ma sveglia come un gufo.
“I tuoni sono un po’ forti…” minimizzò con un sussurro. “Danno fastidio anche a te?”
“Nah, ci sono abituata. Il Tempio con tutte le sue guglie è uno splendido parafulmini,” indico il soffitto con un dito. “All’orfanotrofio erano così forti che le pareti vibravano.”
Dora deglutì, serrando le dita sulle coperte. “…e non avevi paura?”
“Sono solo tuoni, mica possono farti male. Certo, a meno che tu non sia fuori sotto un albero. O che non siano tuoni naturali, ma lanciati da un chierico della tempesta seguace di Talos…”
Kethra spostò lo sguardo verso le vetrate e poi si voltò, con espressione e tono lugubre. “Sarà mica Talos?”
“Dai…” pigolò Dora mentre il cuore le sprofondava nello stomaco. “Smettila.”
Kethra sghignazzò piano. “Ti stavo prendendo in giro.”
Dora fece per aprire bocca e risponderle per le rime quando l’ennesimo tuono la fece sussultare. Lanciò anche un gridolino, anche se fu svelta a soffocarlo con una mano.
“Ma hai paura sul serio?
“No,” rispose Dora rapidamente. Troppo rapidamente da come l’espressione perplessa della compagna non mutò di una virgola. “…non sono mica una bambina,” borbottò, “mi ha solo colto di sorpresa.”
“Come le ultime trenta volte?”
“Mi fanno paura i tuoni,” ammise sconfitta. “Quando ero a casa era diverso, dormivo con mio fratello gemello, e lui russa e si agita e parla nel sonno… e poi quando siamo cresciuti dovevo comunque dividere il letto con i miei fratelli più piccoli e…”
Kethra sbuffò. “Sembra un fottuto incubo.”
Dora ridacchiò. “Abbastanza, ma c’ero abituata e mi distraeva. O forse era solo dormire accanto a qualcuno.”
“I tuoi fratelli ti devono mancare un botto.”
Dora annuì: forse era per quello che Kethra non la metteva a disagio come facevano il resto delle sue posate e gentili compagne di studi.
Per certi versi l’esuberanza dell’illuskan e la sua propensione a cacciarsi nei guai le ricordavano quelle dei suoi fratelli.
“Lo so che è una paura stupida…”
L’aria da presa in giro della compagna venne sostituita da un’inattesa espressione gentile.
“Ma va’. Sei qui da poco… è questa è la prima vera tempesta della stagione. Ti abituerai.”
Dora annuì, un po’ rinfrancata. Il fatto che una in gamba come Kethra non la giudicasse la faceva sentire meno stupida e spaventata.
“Dai, fammi spazio.”
“…Come?”
“Se per adesso non riesci a dormire senza qualcuno che ti russa affianco, ti concederò la mia compagnia. Tiro anche dei gran bei calci.”
Dora sentì la faccia scottare. Non aveva mai dormito con un’amica… con una ragazza.
L’idea le piaceva.
Un po’ troppo?
Seppellì quel pensiero nel posto in cui aveva seppellito tutti gli altri.
Kethra si mosse per trovare la posizione ideale poi appoggiò la testa sul cuscino e chiuse gli occhi. “Dormi Honeycomb, dai tuoni brutti e cattivi ti difendo io.”
A quel tono solenne a Dora venne da ridere. Non si era aspettata che proprio Kethra Brightraven facesse un gesto simile per lei, e ne fu commossa.
Era proprio vero che la luce di Lathander splendeva nel cuore dei buoni.
E Kethra era buona.
“Grazie.”
“Prego, prego… buonanotte.”
Dora chiuse gli occhi e quando l’ennesimo tuono squassò le vetrate, la mano di Kethra strinse la sua.
“Sta’ tranquilla. Sei al sicuro,” le mormorò assonnata.
Dora si addormentò.

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Capitolo 18
*** Credere alla verità ***


Autore: Dira_
Genere: introspettivo, slice of life




Waterdeep, Tempo delle Spire del Mattino, Anno 1364
Inverno.


Dora non apprezzava particolarmente il momento dei pasti al Tempio. Non perché si mangiasse male: le porzioni erano abbondanti e il cibo gustoso, persino ricercato per il suo palato di figlia di contadini.
No, il problema per Dora non era mangiare: era con chi.
Se capitava mangiava con gli accoliti del suo anno, ma altrettanto spesso non c’era posto per lei nelle panche in cui i suoi compagni si sedevano.
Avrebbe dovuto essere lei a farsi avanti; ma non era mai stata brava a farsi notare, troppo occupata ad evitare che i fratelli si notassero troppo.
Cosí, semplicemente, la gente si scordava di lei. La cosa le dispiaceva ma non sapeva come rimediare.
Almeno ci fosse Kethra mangerei con lei.
La sua vicina di letto però raramente si faceva vedere in refettorio; nelle ore libere era sempre in giro per il Tempio e per questo spesso sgraffignava cose dalle cucine fuori dai pasti.
Dora sospirò e occhieggiò i lunghi tavoli già occupati per trovare un posto libero. Fu sorpresa quando un ragazzo dalla carnagione scura e il naso aquilino, poco più grande di lei, le fece cenno di avvicinarsi.
Fu ancora più stupita quando ripeté il gesto chiamandola per nome: non aveva idea di chi fosse.
Sapeva però a che gruppo apparteneva; a quello dei figli dei nobili, la cerchia sociale più esclusiva degli accoliti del Tempio.
Si avvicinò.
Il ragazzo le rivolse un sorriso amichevole. Indossava la stessa identica veste dei Risvegliati che aveva lei, ma i ricami della sua erano stranamente più brillanti. Inoltre, indossava una vistosa spilla a chiudere la parte superiore della tunica; aveva il simbolo di una delle Casate nobili di Waterdeep. “Risvegliata Dora, giusto? Non ho detto una sciocchezza, spero. Siediti con noi!”
“Ehm, sì, Dora. Grazie.”
“Ti aggiravi come un cucciolo sperduto alla ricerca di un posto,” motteggiò facendo cenno agli altri di farle spazio. “Non potevo non salvarti.”
Il tono canzonatorio - anche se non apertamente ostile - non piacque a Dora, ma non si poteva trattare male un nobile. Potevi solo sorridere e annuire.
“Mi chiamo Dervinus,” si presentò porgendole la mano. Aveva una presa abbastanza molle, e Dora evitò di stringere com’era abituata a fare dalle sue parti. “Questa è mia sorella Drusilia,” presentò una ragazzina esile che pareva aver annusato qualcosa di sgradevole. Anche lei aveva la stessa spilla, ma la sua aveva un grosso zaffiro proprio in mezzo.
Dora pensò che era un po’ pacchiano, mentre il giovanotto passava a introdurla agli altri membri della tavolata.
“Grazie per il posto, ma non volevo…”
“Nessun fastidio,” la anticipò anche se non era quello che intendeva dire. “Sotto la luce di Lathander siamo tutti uguali. Da dove vieni?”
“Da Secomber,” mormorò Dora sconfitta.
“Dalle campagne, se non sbaglio. I tuoi hanno una fattoria?”
“Sì.”
Non aveva mai ricevuto le attenzioni di un nobile, ma aveva la vaga impressione che gente del genere non chiamasse a sé un popolano per fare una chiacchierata in simpatia.
Aveva paura di scoprire quale fosse il motivo. Si sentiva la schiena fradicia di sudore.
“Non sei una chiacchierona, eh?”
“Io…”
“Con tutte queste domande la metti a disagio Dervinus!” esclamò una ragazza alla sua sinistra. “Dille il motivo per cui l’hai chiamata, dai.”
Quindi c’è un motivo.
Dora deglutì, fissando il suo piatto come se volesse caderci dentro. Dervinus e gli altri erano nobili; poteva rifiutarsi di starli a sentire? Non ne era sicura.
“Che noiosa…” Il giovanotto sbuffò, poi la guardò con quella che Dora interpretò come indulgenza. “Mi sa che ti ho messo sulla graticola, eh? Ti chiedo scusa. Volevo darti un consiglio in realtà.”
“Su cosa?”
“Mi hanno detto che sei diventata amica di Kethra, una degli orfani.”
Dora aggrottò le sopracciglia, presa in contropiede. “Sì?”
“Beh, visto che sei la nipote di una Signora dell’Alba, e suppongo tu debba tener alta la reputazione, volevo consigliarti di non frequentare quella ladruncola.”
“...Kethra non è una ladra.”
Dervinus ridacchiò. “Eccome se lo è. Sai cosa faceva prima che un paladino dell’Ordine dell’Astro avesse pietà di lei?”
“Ha importanza?” le uscì senza riflettere e da come l’espressione indolente del ragazzo si contrasse in una smorfia di fastidio, capì di aver detto la cosa sbagliata. “Cioè … una volta che siamo qua dentro siamo tutti sotto la guida e tutela del nostro Dio,” cercò di spiegarsi. “Non … non dovrebbe avere importanza il nostro passato, una volta accolta la luce di Lathander nel nostro cuore.”
Dervinus fischiò, mentre Drusilia la fissò come se fosse scema. “Però, sai davvero le scritture a memoria.”
Non dovresti anche tu?
Evitò di dirlo. “Kethra è una brava persona,” disse invece.
“Kethra ruba!” esclamò Drusilia stizzita, come se le desse fastidio il suo ribattere. “Sarebbe dovuta finire in prigione, ma gente come lei non paga mai per i propri sbagli. E quindi continua a fare quello che le pare, indisturbata.”
“...Come scusa?”
“Via, Drusi… un po' di garbo,” sospirò Dervinus. “Perdona la franchezza di mia sorella, però non sbaglia. Kethra indossa le nostre vesti, ma non è come noi. Quando nasci in certi quartieri … è come se avessi una malattia addosso, una da cui non puoi guarire.”
“Ma ha fatto qualcosa… qui?”
Dervinus annuì compunto. “Kethra è stata retrocessa nel dormitorio dei novizi perché è stata accusata di furto nei dormitori. Ha rubato a diverse ragazze, compresa mia sorella … non è mai stata colta in flagrante, ma beh… immagino che persone come lei sappiano come evitarlo. Tua zia non può espellerla senza prove, così non ha potuto far altro che darle una punizione e allontanarla.”
Dora si morse un labbro; non aveva idea di cosa dire. Aveva intuito, da qualche parola o racconto della compagna, che era cresciuta in strada in condizioni difficili, e poteva immaginarsi che per sopravvivere aveva dovuto fare cose non proprio edificanti… e sì, aveva il vizio di rubare cibo dalle cucine.
Però rubare alle proprie compagne di camerata era un’altra storia. Era una cosa grave.
“Io e mia sorella volevamo avvertirti. Ci sembri una brava ragazza e ci dispiacerebbe se ti mettesse nei guai.”
Dora annuì assente. “Sì… grazie per avermi avvertito.”
Dervinus fece un sorriso soddisfatto. “Non c’è di che. Tutti abbiamo bisogno di buoni amici.”
Dora non rispose e diede una forchettata al suo stufato ormai freddo.

“Allora Dora, di cosa volevi parlarmi?”
Dora si mosse a disagio sulla sedia. Era una sedia di legno scomoda, come scomodo doveva essere lo scranno su cui era seduta sua zia. Tra di loro, la scrivania del suo ufficio: in quel momento pareva scura e immensa, illuminata dalla luce di diverse lampade ad olio, un valico insormontabile.
L’espressione di sua zia era sempre piuttosto severa, ma non era una novità: aveva sempre quella faccia lì.
Dora deglutì e si fece coraggio. “Volevo farti una domanda su Kethra.”
Le labbra dritte della chierica si fecero ancora più serrate, mentre alzava gli occhi al cielo. “Cos’ha combinato stavolta?”
“Niente! È che… mi hanno detto delle cose su di lei, e volevo il tuo parere.”
Zia Jhessail sospirò, come se lo fosse aspettato e questo non fece sentire meglio Dora.
“Dimmi.”
“...tu pensi che sia una brava persona?”
La donna rimase in silenzio per più di qualche momento e Dora attese con il cuore in gola.
“Kethra è una brava persona,” disse infine e Dora sentì sciogliersi un grumo che le aveva afferrato il petto. “Però è anche una ragazza difficile,” aggiunse. “Non è nata sotto una buona stella, e per lungo tempo è stata esposta alla cattiveria e alla corruzione di questo mondo… questo lascia un segno, è inevitabile. Dovrà combattere tutta la vita contro l’oscurità che le sue esperienze le hanno lasciato nel cuore. Solo Lathander sa se riuscirà a vincere la luce o l’ombra.”
“Ma sta vincendo la luce no? Ora che è qui.”
“È quello che speriamo tutti. Sicuramente il Tempio le darà gli strumenti giusti, ma starà a lei decidere se utilizzarli o meno.”
“Possiamo darle una mano a farlo però,” suggerì Dora. "Sì, non ubbidisce tanto e si mette sempre nei guai, ma è una brava ragazza!”
Zia Jhessail la guardò come se la stesse soppesando. “Dora… è lodevole il desiderio che hai di aiutare gli altri. Ti ha reso una figlia devota e ti renderà un giorno un’ottima chierica, ma sta’ attenta a non concentrare i tuoi sforzi su un’unica persona. Un chierico di Lathander serve la comunità, non il singolo. Tu hai la tendenza a prenderti cura delle persone in difficoltà… come Rupert. Non vorrei che Kethra fosse un nuovo Rupert.”
“Non si somigliano affatto,” ribatté, divertita al paragone. Però rifletté sulle parole da dire: sua zia era preoccupata, glielo leggeva in faccia. Cosa le avrebbe fatto piacere sentire e avrebbe quietato le sue ansie?
“ …magari il mio buon esempio può aiutarla a comportarsi meglio?”
Zia Jhessail apprezzò la sua risposta perché le rivolse uno scarno sorriso. “Sì, questo è vero. Sono certa che sarai una buona influenza per lei.”
Dora annuì soddisfatta. C’era però ancora una spina nel suo cuore. “Mi hanno detto… che l’hai punita per aver rubato dalle sue compagne…”
Zia Jhessail fece una smorfia. “È l’accusa che è arrivata, ma non ho mai avuto prove che sia stata lei. Non l’ho punita per quello però, ma perché mi si è rivolta con insolenza quando le ho chiesto spiegazioni. Non tollero mancanze di rispetto.”
Dora annuí. “E tu credi che gli altri abbiano ragione che… che l’abbia fatto davvero?”
“Ciò che si crede e la verità sono spesso due faccende separate, Dora.” Zia Jhessail si alzò, come a sancire la fine di quella conversazione e Dora la imitò, intuendo che aveva fatto sprecare anche troppo tempo alla donna. “Io credo nella verità e mi aspetto che tu faccia lo stesso.”
Dora fece un piccolo sorriso. “Sí, zia.”

Nell’attesa di parlare con sua zia Dora aveva evitato Kethra. Erano stati solo quattro giorni e non sapeva se la compagna se ne fosse accorta; probabilmente no. Ogni volta che le si sedeva a fianco a lezione o sulla branda pareva sorpresa di trovarsela davanti.
…quindi ci mise un po’ a capire che Kethra stava facendo la stessa cosa con lei.
Quella mattina, quando dopo le preghiere provò ad avvicinarsi, l’altra sgusciò tra le compagne, sparendo chissà dove.
A lezione si stravaccò nel banco più in fondo, in cui mai lei si sarebbe seduta perché sentiva malissimo il maestro.
A pranzo, manco a dirlo, non c’era e infine nelle ore libere del pomeriggio il suo letto rimase vuoto.
Dora chiese un po’ in giro, ma non si stupì quando le compagne di camerata le risposero con scrollate di spalle e facce perplesse.
Era come cercare di stanare un gatto randagio che aveva deciso di ignorarti. Dora lasciò dunque le sue amate letture pomeridiane e si mise alla ricerca dell’altra: scale, corridoi, sezioni del Tempio dove venne più o meno gentilmente scacciata, stanze vuote e uffici dove le toccò chiudere rapidamente la porta prima di venir rimbrottata da un’alta carica.
Trovò Kethra dopo aver perso la messa serale, rischiato tre punizioni e fatto una corsa per evitare un sorvegliante; l’illuskan si era rifugiata al terzo e ultimo piano del Tempio ed era seduta ad una delle finestre che davano sulla baia.
Essendo da poco tramontato il sole la superficie del mare era un vuoto scuro, limitato dalle tante luci della città. A Dora faceva un po’ impressione.
Si avvicinò mentre l’altra se ne stava in quieta e insolita contemplazione. L’aveva sentita arrivare però, perché si voltò prima che aprisse bocca.
“Non dovresti essere a messa?”
“Pure tu se è per questo,” ribatté. “Ti cercavo.”
“E mi hai trovata. Hai bisogno di qualcosa?”
Dora realizzò in quel momento che aveva passato ore e ore a cercare Kethra… senza un motivo preciso.
Non voleva certo riferirle della sua conversazione con Dervinus, né tantomeno quella con sua zia Jhessail.
“Non ti trovavo da nessuna parte…” disse imbarazzata sotto lo sguardo penetrante dell’altra. “E… e… ecco, sì. Mi sono preoccupata.”
“Dai, dì piuttosto che ti ha mandato tua zia a controllare che non fossi in giro a far casino.”
“No!” protestò. “Non sa che sono qui. Io… volevo passare del tempo con te,” ammise sperando che non fosse strano dirlo.
Kethra aprì la bocca per ribattere, ma poi la chiuse e le diede di nuovo le spalle, voltandosi verso il mare. “Meglio di no.”
Dora sentì un peso sprofondarle nello stomaco. “Perché? Cioè… se… se ho fatto qualcosa o se non ti sono simpatica…”
Kethra scrollò le spalle. “No, Honeycomb, sei una a posto. Per questo non dovresti frequentare una come me.”
L’aveva chiamata per cognome quando avevano cominciato a chiamarsi per nome già da un po’... non era un buon segno.
Dora si prese qualche attimo per soppesare quelle parole, per realizzarne il significato… e per arrabbiarsi, ma non con Kethra: con quei nobili e stronzi e con sé stessa per aver dato loro retta.
Le toccò con gentilezza la spalla: l’altra ragazzina si voltò con un’espressione dura e chiusa, come quelle che facevano i suoi fratelli dopo che venivano battuti da suo padre.
“Una come te in che senso?”
“Mi hanno detto che hai parlato con quello stronzo con il culo foderato di seta di Dervinus e quella strega di sua sorella. Ti avranno raccontato tutta la storiella di Kethra manolesta, no?” Fece spallucce, voltandosi di nuovo verso la baia, quasi volesse istintivamente allontanarsi dal tempio. E da lei. “Che poi manco hanno torto… prima di venire qua ho davvero rubato. Ad un sacco di gente e in un sacco di posti. Non me ne pento,” sbottò. “Dovevo sopravvivere. Non me ne pento manco un po’.”
“E lo fai ancora? Di rubare le cose alle persone?”
Kethra si incupì, ma prima che potesse rispondere, Dora la anticipò. “Crederò a quello che mi dirai.”
“Che scemenza. Potrei dirti una bugia…”
“Ti crederò comunque.”
Kethra si morse le labbra lanciandole un’occhiata di sottecchi. “...non ho mai rubato a nessuno qui dentro,” mormorò. “Drusilia mi ha accusata perché non sopportava di avere una pezzente che puzza di miseria come vicina di letto,” fece un sorriso amaro. “Quando la Tulach mi ha chiesto spiegazioni mi è partita la brocca e… beh, le ho detto cose poco carine. Così mi ha spedito dai novizi… ma te lo giuro, non ruberei mai alle mie compagne.” Dora con cautela - perchè erano davvero molto in alto - si sedette sul davanzale accanto all’altra. “Ti credo.”
“Non ti ho detto una bugia.”
“Lo so. Per questo ti credo.”
Kethra sbuffò una risata. “Sei proprio una tipa strana.”
Dora sorrise. “Senti chi parla.”
Si sentiva più leggera; i sorrisi melliflui di Dervinus e il disdegno di Drusilia le sembravano lontani come ricordi mentre se ne stava a spenzolare i piedi nel vuoto con Kethra.
“Comunque sono io ad averti detto una bugia.”
“Tu?” Kethra si mise teatralmente una mano sul cuore, spalancando i grandi occhi grigi. “Per il Radioso, non tu!”
Dora ridacchiò. “Quando ci siamo presentate per la prima volta e mi hai preso in giro…”
“È facilissimo prenderti in giro, che vuoi farci.”
Dora le tirò una gomitata. “Mi hai chiesto se avevo delle amiche, ti ricordi? Ti ho detto che le avevo. Non è vero. Non ho mai avuto amici. I miei fratelli non contano.”
Kethra la guardò incuriosita, ma non disse niente.
Dora inspirò. “Non mi importa di quello che dice di te gente come Dervinus e Drusilia. Non voglio che siano loro i miei primi amici. Mi viene ansia solo a pensarci! Quando invece sto con te mi sento a mio agio.”
“Anche quando ti chiedo di farmi da palo?”
Dora fece spallucce. “I miei fratelli mi hanno costretta a fare di peggio. Quindi vorrei… che fossi… ecco, tu. La mia prima amica. Se… se ti va, eh, non sei obbligata o altro, ecco.”
Aveva formulato la richiesta come un idiota e non si sarebbe stupita se Kethra si fosse messa a ridere.
Invece l’altra le fece un gran sorriso, dandole una spallata giocosa. “Siamo già amiche, tonta.”
“Davvero?” non poteva peggiorare la situazione più di così, ma Kethra aveva il meraviglioso dono di non scomporsi alle sue uscite da disadattata, perché ridacchiò e le passò un braccio attorno alle spalle.
“Davvero. Sei un palo perfetto, e poi menti anche a tua zia per pararmi il culo!”
“Non ti ci abituare! Non lo farò di nuovo!”
“Va bene, va bene…”
Dora le cinse la vita con un braccio: le sembrava giusto farlo e poi erano praticamente sporte nel vuoto e Kethra si muoveva con un po’ troppa disinvoltura. “Ho detto un’altra bugia…” sospirò scatenando una sghignazzata trionfante all'altra. “Ora però scendiamo da qui che mi vengono le vertigini per favore?”

Dora era una tipa piuttosto divertente.
A prima vista pareva un’ingenuotta dalle idee rigide, ma più Kethra la conosceva, più si rendeva conto che la caratteristica principale della sua nuova amica era un’altra: una sconcertante nobiltà d’animo.
Forse era così che doveva essere un chierico di Lathander…
Probabilmente. Sicuro. Tutto molto bello. Però…
Nella vita reale una così durava cinque minuti prima di venir masticata dal mondo. Per questo doveva proteggerla dai suoi stessi slanci cavallereschi.
Quindi non si tirò indietro quando qualche giorno dopo Dervinus Hedare fece cenno a Dora di avvicinarsi mentre erano nel refettorio.
Kethra la seguì mettendo su la sua migliore faccia da strada.
“Mi spiace constatare che non hai dato retta ai miei consigli,” disse il ragazzo con tono di sufficienza. “Purtroppo succede quando dai perle ai custodi di porci.”
Dora contemplò per un attimo il giovane rampollo.
Poi parlò e disse l’ultima cosa che Kethra si sarebbe aspettata.
“La mia famiglia ha le pecore, coglione.”
“…come scusa?”
“Abbiamo pecore da formaggio e arnie per le api da miele. Non siamo porcari. Se mi devi prendere in giro almeno informati.”
Dervinus avvampò mentre i nobilotti par suo ridacchiavano, sbalorditi dall’improvvisa verve di Dora.
Anche Kethra era sorpresa: forse l’aveva giudicata più disarmata di quanto non fosse.
Un punto a te, Honeycomb.
“Erano una battuta razza di bifolca!”
“L’avevo capito, ma faceva schifo. Come fanno schifo i tuoi consigli. Non mi interessano.”
Drusilia affilò lo sguardo. “Non ti conviene fare l’arrogante con noi…”
“Oppure cosa?” domandò Kethra facendosi avanti. “Ve la prenderete con la nipote della Tulach? Sarà contenta di sentirsi dare della guardiana di maiali. Garantito.”
I due ragazzi esitarono: neppure il loro sangue blu poteva difenderli dal terribile monolite permaloso che era Jhessail Tulach.
Dervinus fu il primo a crollare: “Non ho chiamato la Signora dell’Alba Jhessail cosí!”
“Meno male. Perché quando si incazza finisci coi nuovi arrivati. Una vitaccia. Farebbe piacere ai tuoi?”
Drusilia le guardò con rabbia impotente. “Siete due pezzenti, è inutile perdere tempo con voi…” borbottò.
“Infatti dovreste impiegarlo a migliorare voi stessi,” ribatté Dora. “Perchè non state facendo un gran lavoro.”
Kethra ridacchiò, ma capí che non era il caso di tirare troppo la corda. Fece un inchino beffardo al gruppo di nobili e si portò via l’amica.
Si sedettero ad un tavolo ben lontano, ma Dora continuò a guardare la sua zuppa in corrucciato silenzio.
“Che c’è, sei preoccupata? Derpiscio e sorella sono tutti chiacchiere. Se la Tulach si lamenta che ti bullizzano, passano dei guai. La loro famiglia ci tiene troppo alla facciata di fedeli buoni e devoti.”
Dora ridacchiò, ma poi tornò seria. “No, è che…” la guardò di sottecchi. “È tanto una vitaccia con noi novizi?”
Kethra sbuffò divertita e le tirò un pezzo di pane. “Nah,” ghignò. “Ho esagerato per drammaticità. A me non è andata male. Ho fatto amicizia con una guardiana di pecore molto simpatica.”
Dora le fece un sorrisone e prese a mangiare di buona lena.

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Capitolo 19
*** Innamorarsi è una roba da idioti ***


Autore: Dira_
Genere: azione, sentimentale




Innamorarsi è una roba da idioti



Waterdeep, Tempio delle Spire del Mattino, Anno 1365. Tardo pomeriggio.

Kethra Brightraven aveva sempre pensato che innamorarsi fosse roba da idioti.
Il fatto fosse nata in un bordello e avesse vissuto per strada fino agli otto anni, tra crimini e generica crudeltà, aveva soltanto rafforzato quella convinzione.
L’amore vero, quello disinteressato, non esisteva. Era per le canzoni dei bardi e le penne dei romanzieri, non certo per la gente comune, la gente vera. Quindi innamorarsi di qualcuno, affidargli sé stessi e la propria felicità, era una scommessa destinata ad essere persa.
E a Kethra non piaceva perdere.

Questo però non significa lasciare nella merda le persone abbastanza stupide da cascare in quella gabola.

Come Aisha, dai biondi capelli ricci e la pelle di pesca. Aisha era cresciuta alla Ragazza che Ride esattamente come lei, ma da quel bordello non era mai uscita; non aveva però abbandonato la ridicola convinzione che un giorno un paladino dall’armatura scintillante si sarebbe innamorato di lei portandola via dalla miseria in sella al suo bianco destriero.

“Kethra, perché sei così cinica? Proprio tu! I tuoi erano davvero innamorati, sono solo stati sfortunati! Mamma lo dice sempre!”
“Ancora con ‘sta storia che mio padre era un pirata che voleva portare via mia madre sulla sua nave? Dai, Aisha, siamo serie, non siamo più bambine…”
“Sono serissima! Potrebbe succedere anche a me!”
“Te l’ho detto mille volte, se vuoi cambiare vita basta che me lo dici, e un posto al Tempio te lo trovo, ma…”
“Non voglio solo cambiare vita, voglio che ne valga la pena!”


Aisha era scema in culo ed era solo questione di tempo prima che si cacciasse nei guai.
E infatti…
Un mese prima era scappata dal bordello. Le altre tenutarie, preoccupate per quella fuga improvvisa, avevano provato a richiamare l’attenzione delle autorità, ma senza troppo successo. Una ragazza di vita che si dava alla macchia non era inusuale, anche se seccante per chi l’aveva nel libro paga. Erano state fatte indagini svogliate che non avevano portato a nulla. Per questo l’avevano raccontato a lei, sperando di raggiungere qualcuno più in alto nella scala sociale.
Kethra non si era sottratta. Non aveva però portato la cosa al Tempio, manco per sbaglio.
Tanto le avrebbero detto che non era affar loro. Non ne aveva parlato neanche con Dora, nonostante l’amica ci avesse messo meno di mezza giornata ad annusare la sua preoccupazione. Le aveva rifilato una palla e, come sempre, aveva fatto da sé.
Alla fine, a furia di domande alle altre ragazze, e qualche indagine nel quartiere, aveva scoperto cos’era accaduto. Aisha aveva conosciuto il suo “paladino” dall’armatura scintillante.
…che ovviamente non era un paladino, ma un tizio di nome Tristan, ultimogenito di una delle famiglie più pericolose di contrabbandieri del porto. Il giovane si era invaghito di Aisha dopo un paio di incontri al bordello e le aveva chiesto di diventare sua moglie… e la ragazza, ovviamente, ci era cascata con tutte le scarpe.
I due avevano deciso così di imbarcarsi nella prima nave diretta verso le isole Moonshae, ma la loro fuga aveva avuto vita breve perché lo zio di lui li aveva scoperti.
Il ragazzo era tornato in strada dopo qualche giorno, gonfio di botte e con l’aria da cane bastonato, e di Aisha non si avevano più avuto notizie.
Kethra non si era rassegnata.
Era un settimana che la cercava, sacrificando notti di sonno e arrivando alle preghiere dell’Alba più simile ad una non-morta che ad un essere umano, beccandosi ramanzine da quella stronza di Jhessail e continua domande ansiose da parte di Dora…
Che palle…
Tutti i suoi sforzi però alfine erano stati ripagati: dopo l’ennesimo giro di bevute e paroline dolci a qualche canaglia, aveva scoperto cosa ne era stato di Aisha.
Aisha era ancora viva, ma le buone notizie finivano lì: lo zio del suo “paladino” aveva deciso di venderla. La schiavitù era illegale e duramente punita a Waterdeep, ma questo non scoraggiava i contrabbandieri con più pelo sullo stomaco.
Kethra aveva però avuto l’impressione, parlando in giro, che lo zio del novello innamorato volesse vendicarsi, oltre che fare un affare. Tristan era un papabile successore e non c’era niente di peggio che avere il proprio pupillo invischiato con una prostituta.
Io manco lo sono stata ma basta esserci nata, in un bordello, per puzzare agli occhi di tutto il Tempio…

Paura per l’amica e rabbia avevano infiammato l’animo di Kethra, che aveva deciso di agire quella notte stessa.

“Non posso abbandonare Tristan!”
Kethra non si riteneva una persona violenta. Però di fronte allo sguardo lacrimoso di quella rincoglionita di Aisha per la prima volta nei suoi sedici anni di vita provò l’impulso di tirare un cazzotto secco sul muso di un’altra persona.
“Stai scherzando spero! Ti vogliono vendere come schiava!”
“E che ne sarà di Tristan?”
Kethra fu ad un passo dal cedere all’impulso e scaraventare Aisha fuori dalla finestra che con certosino lavoro era riuscita a scassinare. “Il tuo prezioso Tristan ti ha mollata, o ci sarebbe qui lui e non io!” sbottò saltando dal davanzale dentro la stanzetta angusta dove la ragazza era stata segregata.
Aisha tirò su con il naso. “Mi aveva promesso che ci saremmo rifatti una vita con una piccola casetta sul mare, lui sa pescare sai…”
“Di certo a te ti ha tirato su come un tonno!” sbottò. “Aisha, ti sei innamorata di un codardo, Tristan non verrà! Scappiamo prima che ci becchino!”
Le labbra dell’altra ragazza tremarono. “Mentre ci separavano ha detto che mi avrebbe trovata e salvata…”
“E invece non l’ha fatto. Non lo fanno mai. Ste cose succedono solo nelle ballate, dai, cresci un po’!”
Aisha scoppiò a piangere e Kethra realizzò che fretta e ansia avevano avuto la meglio sulla sua sensibilità.
Abbracciò l’amica. “Ehi, senti, mi dispiace… forse ci credeva sul serio, ma la sua famiglia è pazza e controllante, e non ha potuto aiutarti. Però non sei da sola. Le ragazze del bordello mi hanno chiesto di aiutarti e per Lathander, farò il possibile per riportarti a casa!”
Aisha si soffiò rumorosamente il naso nel fazzoletto. “Non voglio diventare una schiava. È peggio che essere una prostituta.”
“Questo è lo spirito!” Kethra guardò fuori dalla finestra. La notte era limpida e la luna brillava piena. Sarebbe stato un casino scendere senza essere viste. Sarebbero dovute passare dai tetti… e dubitava che sarebbe stato facile, con Aisha che aveva la prestanza fisica di un panino morbido.
Lathander guida i nostri passi stanotte. Perché se inciampiamo ci rompiamo di sicuro l’osso del collo.
Kethra ispirò e le rivolse il suo miglior sorriso incoraggiante. “Pronta?”

Non era andata male perché non erano morte… ma non era andata neanche benissimo.
Come aveva supposto, Aisha era stata uno stramaledetto peso morto. Il baccano infernale che aveva fatto inciampando e lamentandosi, le aveva fatte scoprire, e conseguentemente inseguire.
La fuga era stata rocambolesca; ad un certo punto avevano tentato anche di colpirle con delle balestre.
Come se non bastasse, quando erano quasi arrivate, Aisha era scivolata. Kethra era riuscita ad acchiapparla al volo, ma cercando di non precipitare nel vuoto aveva sbattuto violentemente la spalla. Non aveva controllato fosse rotta, si era solo lanciata un cura ferite leggere per non svenire dal dolore e aveva continuato a correre trascinandosi dietro l’amica riccioluta.
Alla fine, con la grazia di Lathander, erano riuscite a seminare i loro inseguitori e tornare al bordello.

Era stata la matrona ad aprire, affrettandosi a farle entrare. “Kethra, ci sei riuscita!” l’aveva salutata con un abbraccio profumato ed opulento. “Sei proprio incredibile gattina!”
“Sì, evviva, hurrah per me… ” borbottò masticando un’imprecazione quando la donnona le schiacciò inavvertitamente la spalla dolorante. “Ascolta Alanthra, devo telare, devo tornare al Tempio prima delle preghiere dell’Alba… ed è già l’alba.”
E chi la sente adesso Dora. Si sarà già svegliata e non mi avrà trovata in branda.
“Oh, ma al Tempio lo sanno già gattina!” esclamò la matrona congelandola sul posto. “Una tua compagna è qui!”
“Una mia… cosa?” pigolò rinculando contro la porta d’ingresso, purtroppo chiusa a doppia mandata. La Tulach l’aveva trovata?
L’avrebbero espulsa a calci in culo!
“L’ho fatta accomodare nel salone,” continuò la donna, ignara del suo terrore. “Ti porto da lei. Levamela dai piedi per favore, che parata a festa com’è mi inibisce la clientela!”
“No aspe-” Kethra non riuscì a finire, perché il donnone la spinse dentro il salone senza troppe cerimonie.
Kethra caraccolò nello stanzone. Era in effetti sgombro di persone, ad eccezione del vecchio Thom che smascellava uno sbadiglio dietro il bancone del bar e due giovani nobilotti con l’aria imbarazzata, seduti sul divanetto più lontano da…
…una ragazza della sua età con la tunica bianca e oro degli accoliti. Il simbolo, un'alba brillante, le splendeva sul petto.
“È l’alba e non sei nella tua branda,” disse Dora. “Sono venuta a prenderti.”

“Sei completamente impazzita?!”
“Potrei farti la stessa domanda!”
Kethra spalancò la porta del bordello marciando fuori. Aveva bisogno d’aria… d’aria e distanza da quella rompiballe allucinante della sua migliore amica.
Dora la seguì a breve distanza, camminando come se avesse, al solito, una scopa particolarmente rigida su per il sedere.
Kethra non sapeva se ci era nata o aveva invece imparato alla perfezione la camminata marziale tipica dei chierici e paladini del Tempio. In ogni caso la rendeva ancora più insopportabile.
“Ti sei fatta tutto il Quartiere del Porto conciata come uno stramaledetto paramento da tempio! È un miracolo che nessuno ti abbia derubata!”
“Non sono nata ieri, Kethra! Sono stata attenta e conoscevo la strada.”
“Come?! Non ti ho mai portata al bordello!”
Dora arrossì. “Beh, mi hai detto il nome ed ho studiato il percorso.”
“Sei pazza!”
“No, tu lo sei!” Dora la raggiunse, fronteggiandola. Era più alta di lei e quando erano così vicine si notava sul serio, perché le torreggiava addosso. Istintivamente Kethra si tirò indietro.
Dora lo notò, perché avvampò e fece un passo a lato. “La matrona mi ha raccontato cosa sei andata a fare…” mormorò. “Hai fatto una cosa pericolosissima!”
“E qual era l'alternativa, lasciare Aisha nelle mani dei suoi rapitori?”
“La guardia cittadina…”
“Aisha è una prostituta,” la fermò a muso duro. “La guardia cittadina non muove un dito per quelle come lei.”
Dora distolse lo sguardo. Sapevano entrambe che aveva ragione. “Potevi dirmelo però. Ti avrei aiutato.”
Kethra sospirò. “Senza offesa… ma non credo. Io so muovermi in queste situazioni. Tu no.”
“Avrei potuto…”
“Non ho bisogno del tuo aiuto,” tagliò corto dandole le spalle. Perché era stufa di litigare e perché non le piaceva l’espressione ferita di Dora.
La faceva sentire in colpa ed era stupido. Non se la sarebbe potuta portare dietro. L’avrebbe solo rallentata, e avrebbe fatto rischiare la vita a lei ed Aisha.
Non aveva bisogno di Dora. Non aveva mai avuto bisogno di nessuno.
Kethra sospirò. “Dai, torniamo al Tempio che è tardissimo…”

“Eccola lì! È la ragazza che ha fatto scappare la puttana!”

Da uno dei vicoli spuntarono due uomini che Kethra riconobbe come i tizi che avevano inseguito lei e Aisha su per i tetti.
…Come diavolo…
Ovvio, sapevano di Aisha. Non li avevano seminati come aveva pensato, piuttosto erano loro ad essersela presa comoda appostandosi vicino al bordello.
Dora, scappa!” Kethra incitò l’altra chierica, ma non fu abbastanza veloce da seguire il suo stesso consiglio.
L’uomo più vicino le fu addosso in un attimo, buttandola a terra e tenendola ferma con il suo peso. Le puntò un coltello alla gola. “Spiacente puttanella, sei scappata una volta, non una seconda!” Si voltò verso l’altro. “Quella è una chierica, bloccala prima che faccia danno!”
“KET-” l’urlo di Dora fu soffocato di colpo e Kethra si voltò atterrita. L’amica era stata placcata dall’altro bestione, che l’aveva spinta contro un muro, strappandole di dosso il simbolo. Lo gettò a lato, tappandole nel contempo la bocca e facendole sbattere la testa violentemente contro i mattoni. Dora, anche se era allenata e di stazza per la sua età, non poteva nulla contro un uomo adulto e si afflosciò come un sacco di stracci.
DORA!
“Ben fatto!” esclamò il suo aggressore trionfante. “Ora che la chierica è fuori gioco possiamo concentrarci su di te, cara la mia ladruncola…”
Kethra si divincolò. Il suo simbolo era sepolto sotto almeno due strati di vestiti e il tipo le aveva bloccato le braccia. Certo, a differenza di Dora, aveva ancora la bocca libera ma non aveva preparato nessun incantesimo a componente verbale che potesse lanciare.
“Vaffanculo!” sibilò. “Schiavisti del cazzo!”
L’uomo le rifilò un manrovescio che le tolse il fiato. “Dov’è la puttana?”
“Al sicuro! Non la potete più toccare!”
“E allora ci prendiamo te e la tua amichetta! Due al posto di una, scommetto che il capo ci perdonerà. Farete furore nel mercato giusto…”
Kethra tentò di nuovo di liberarsi, terrorizzata. “Lasciatela stare! Prendete solo me! È una chierica di Lathander! Vi attirerà le ire di tutto il Tempio se la fate sparire!”
L’omaccione parve rifletterci per qualche istante e tentennare. Kethra tentò di approfittare del momento per infilare la mano sotto la camicia ma l’uomo si accorse del movimento e le afferrò la spalla, stringendo con forza.
Kethra cacciò un grido di dolore mentre lampi di bianco le comparivano nella visuale.
Per fortuna l’adrenalina le impedì di svenire e nel mentre, successe qualcos’altro: udì un urlo, che non era il suo e questo distrasse anche il suo aggressore. Entrambi alzarono lo sguardo.
Il tizio che teneva Dora era crollato in ginocchio di fronte alla ragazza. Dora teneva qualcosa in mano, ma non era il simbolo: era un mattone, ed era sporco del sangue che il tizio stava copiosamente perdendo dalla testa.
“Ma che cazzo…” Sibilò l’uomo sopra di lei. “Alzati imbecille! Immobilizzala o userà un incantes-”
No che non lo usa - pensò sbalordita Kehtra mentre Dora calciò con forza il petto dell’uomo mandandolo lungo disteso. Con un ringhio ferale - non c’era altro modo per descriverlo - gli saltò addosso tirandogli un’altra mattonata secca in faccia. Poi si voltò a guardarli. Il volto era una maschera di rabbia.
Ma che cazzo?! Dora?!
Kethra non aveva tempo per riflettere. Il suo aggressore era distratto. Si divincolò e finalmente riuscì ad afferrare il simbolo. Lo tirò fuori e castò luce.
Un lampo radioso investì l’uomo che gridando si portò le mani al viso, accecato.
Incespicando crollò culo a terra, liberandola finalmente dal suo peso.
Kethra si tirò rapidamente in piedi. “Dora! Scappiamo! ” gridò all’amica: questa era rimasta immobile a puntare l’accecato come un cane da caccia. Kethra la raggiunse, strattonandola per un braccio. “Lascialo perdere, andiamo!”
Corsero come se avessero un branco di non-morti alle calcagna.

Ripresero fiato solo quando arrivarono alle mura del Tempio. Ansimando si diressero verso una delle uscite secondarie, quella che portava alle cucine: a quell’ora veniva aperta per dare la possibilità ai poveri di venire a ritirare qualche provvista. Sorpassarono la lunga fila di questuanti ed entrarono dentro. Gli accoliti che gestivano le operazioni lanciarono loro qualche occhiata, ma le lasciarono passare senza far rimostranze.

Si fermarono solo quando furono ben all’interno del tempio, riparate dalle possenti mura di pietra e marmo. “Aspetta,” Kehtra fermò Dora, perché la ragazza si stava dirigendo verso la chiesa come un golem. “…non possiamo farci vedere così. Facciamo un passaggio dai dormitori a cambiarci.”
Dora annuì senza dire niente. Era pallidissima e si strofinava il collo dove le era stato strappato il simbolo. Sembrava ancora sotto shock.
“Dora?” Kehtra la prese per mano, voltandola verso di lei. “Stai bene?”
Dora per una manciata di secondi la guardò con un’espressione distante, quasi non la riconoscesse. Poi batté le palpebre e scosse la testa come a scrollarsi di dosso qualcosa. “Sì… credo… credo di sì.”
“Sei stata incredibile!” le prese anche l’altra mano. “Sul serio! Hai conciato quel coglione per le feste! Ti avevo sottovalutata, sai decisamente il fatto tuo in una rissa!”
Altroché. Che cavolo di posto è Secomber per insegnare ai suoi ragazzi a menare così?
“Ci avrebbero fatto del male…”
“Beh, di sicuro! Per fortuna però…”
Non fece tempo a finire la frase che Dora la avvolse in un abbraccio. Tremava.
Il senso di colpa serrò la gola di Kethra. “Ehi… scusami. Non volevo metterti in quella situazione di merda. Ora è tutto finito. Sei al tempio, sei al sicuro…” la strinse di rimando.
Aveva avuto paura anche lei.
Stavolta hai rischiato grosso, Brightraven. Se non fosse stato per Dora quei tipacci ti avrebbero portata via come un sacco di patate.
“Grazie per essere venuta… ” mormorò accarezzandole i capelli e controllando al contempo che non avesse ferite. L’aveva vista sbattere la testa contro il muro dopotutto. “Però adesso hai capito perché ho preferito lasciarti al Tempio? Mi fa piacere portarti a far baldoria, ma stavolta era troppo pericoloso…”
Dora si scostò. Aveva gli occhi asciutti e bruciavano di determinazione.
“Se non mi porti con te ti verrò a cercare,” dichiarò. “Finché sarò viva non permetterò che nessuno ti faccia del male.”
“Che… che paroloni! Esagerata!” balbettò Kethra mentre il cuore prendeva a batterle all’impazzata.
E non era paura stavolta.
“Non devi mica fare giuramenti, non sei un paladino!”
“Non c’entrano i giuramenti né la mia vocazione. Lo dico come Dora. Tu sei la mia migliore amica. Nessuno ti deve toccare.”
Kethra fece per aprire bocca e sdrammatizzare con una battuta, ma l’intenzione si infranse come un’onda sulla battigia.
Dora era mortalmente seria, come in tutto quello che faceva: non poteva non crederle.

“Mentre ci separavano aveva detto che mi avrebbe trovata e salvata…”
“E invece non l’ha fatto. Non lo fanno mai. Ste cose succedono solo nelle canzoni dei bardi, dai, cresci un po’!”

…Ah.

Un rumore di voci alle loro spalle le distrasse. Il Tempio si stava svegliando.
Kethra ne approfittò per rompere il contatto visivo. Era troppo… intenso. “Dai che se ci beccano neanche io riesco a inventarmi una palla convincente. Andiamo a toglierci ‘sti stracci di dosso.”
Dora annuì passandosi di nuovo una mano sul collo. Fece una smorfia.
“Mi dispiace per il tuo simbolo…” Kethra si sfilò il suo e glielo mise al collo. “Per il disturbo,” spiegò imbarazzata. Quello stupido batticuore non accennava a diminuire perché quella stupida di Dora continuava a guardarla come se non esistesse altro che lei.
Mica sono in fin di vita, smettila!
Dora si rigirò il simbolo tra le dita e abbozzò un sorriso.“Sei sicura? Posso dire che il mio l’ho smarrito…”
“Tu? Non ci crederebbe nessuno. Dirò che il mio l’ho regalato a qualche poverello e me farò dare uno nuovo.”
“E a questo zia Jhessail crederebbe?”
“Beh, mica posso dire che l’ho dato ad una chierica dall’armatura lucente che mi ha salvato la pellaccia!”

Chierica… paladino dall’armatura lucente.
Ragazza mia, adesso ci esprimiamo come Aisha?

Kethra diede le spalle a Dora per evitare che l’altra la vedesse avvampare.
“Ma non indosso l’armatura…”
“Dettagli!”
Aisha era scema come la morte ad essersi innamorata.
Perché il vero amore non esisteva.

Giusto?

“Kethra?”
“Mh.”
“La prossima volta che ti viene in mente di fare l’avventuriera di quartiere per favore mi porti con te? Dico sul serio.”
“…Facciamo così. Ti dirò dove vado. E… e se le cose dovessero diventare serie ti chiederò aiuto. D’accordo?”
“D’accordo!”
“Ma non ti regalerò ogni volta il mio simbolo, quindi vedi di tenerlo di conto!”

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Capitolo 20
*** Riflessi di luce ***


Autore: Ikki_the_crow
Genere: sentimentale
Note: questa storia era stata scritta da Ikki_the_crow come regalo di compleanno per Dira_




Riflessi di luce



Waterdeep, Tempio delle Spire del Mattino, Anno 1366. Tardo pomeriggio.

“Do-o-o-ra?”
La ragazza bionda, china su un mucchio di pergamene e tomi dall’aria antica, sospirò. Al tempo stesso, però, non riuscì a trattenere un sorriso, nascosto dalla manica dell’ampia tunica da novizia che aveva addosso.
Con un tonfo sordo che riecheggiò nel silenzio della sala studio e fece voltare non poche teste, una seconda ragazza si lasciò cadere sulla sedia accanto a lei e le avvolse un braccio attorno alle spalle. A prima vista, non sarebbero potute essere più diverse: la prima era bionda, dalla pelle olivastra e gli occhi scuri; la seconda era pallida, con i capelli neri e gli occhi grigi, la pelle costellata di lentiggini. A parte l’età e il vestiario, non sembravano avere niente in comune.
“Ciao Kethra.” Dora sospirò ancora. “Non strillare. Vuoi farci sbattere fuori?”
Stavolta toccò all’altra sospirare platealmente. A dirla tutta, abbassò anche leggermente la voce. Ma appena appena. “Sei ancora dietro a quello stupido compito?” Si sporse un po’ di più, per osservare quello che l’altra stava scrivendo. Istintivamente, Dora si piegò in avanti per coprire il foglio con il corpo; così facendo, le due si ritrovarono praticamente guancia a guancia.
“Non è ancora finito! Piantala!” sibilò Dora, sentendosi arrossire.
“Il culto di Lathander e le religioni barbariche orchesche: similarità e differenze” scimmiottò Kethra. “Che palle.”
“Non è la cosa più divertente del pianeta, ma è un compito.” Dora spinse via l’altra, che ricadde sulla propria sedia con un risolino. “E poi ci sono più punti in comune di quanto potresti pensare. Sapevi che in un carteggio di Lord Elorfindar Floshin si fa riferimento a –”
Kethra gettò la testa all’indietro ed emise un rumoroso grugnito, come un orso in letargo. Questa volta, molte più teste si voltarono verso di loro e qualcuno intimò loro di fare silenzio con un sibilo. “Noioooooso!” Kethra si rigettò in avanti, appoggiando un gomito su uno dei tomi che Dora stava consultando. Era un codice miniato di almeno cento anni prima, e la ragazza bionda ebbe un fremito. “Senti, lascia perdere questa roba e vieni con me. Devo farti vedere una cosa.”
“La relazione va consegnata entro tre giorni.” Con delicatezza, Dora sfilò il libro da sotto il braccio dell’altra e lo mise da parte. “Non possiamo parlarne stasera in camerata?”
Anni prima, alle due ragazze erano stati assegnati due letti vicini, probabilmente nella speranza che l’influenza positiva (un eufemismo per dire “essere squadrati come un dado”) di Dora potesse mitigare un po’ l’esuberanza di Kethra. Aveva funzionato, almeno in parte, ma solo perché la ragazza illuskan aveva iniziato a sfogare gran parte della propria energia in discussioni e giochi con Dora. Questa, abituata fin da piccola a gestire un’orda di fratelli di varie età, non aveva avuto grossi problemi a ricadere nelle vecchie abitudini: in pochissimo tempo, si era affezionata a quella specie di gatto randagio che le avevano affibbiato, e ora che avevano entrambe quasi sedici anni la considerava la migliore amica che avesse mai avuto.
D’accordo, forse l’unica amica che avesse mai avuto. Dettagli.
“In camerata siamo metà di mille. Questa è una cosa personale. Per favo-o-o-re?” Kethra iniziò a sfregarle la testa contro il braccio, come faceva sempre quando voleva convincerla a fare qualcosa, gli occhi spalancati e luccicanti. Dora resistette per esattamente quattro secondi.
“D’accordo. Fammi solo mettere via le cose e poi andiamo.”
“Evvai!” L’altra ragazza saltò in piedi e mimò un pugno verso il soffitto, scatenando un concerto di sibili e soffi nella sua direzione, e perfino qualche “silenzio!” a metà tra un grido e un sussurro. Vedendo uno dei guardiani che si alzava dalla propria postazione con aria agguerrita, Kethra si lasciò sfuggire una mezza imprecazione.
“Ops. Meglio che vada. Facciamo che ti aspetto al solito posto.”
Prima ancora che Dora potesse reagire, era già sparita. La ragazza bionda sospirò di nuovo, gettando uno sguardo sconsolato alla pergamena scritta a metà che aveva di fronte.
Dovrò passare un paio di notti in bianco per finirlo. Spero che qualunque cosa sia, ne valga la pena.

Mezz’ora più tardi, dopo essere passata al dormitorio a lasciare le proprie cose, Dora era in piedi di fronte alla scalinata che collegava i vari livelli della torre ovest. Era il punto di ritrovo che le due ragazze utilizzavano da anni, abbastanza frequentato da non attirare l’attenzione ma non così tanto da non consentire un minimo di privacy. A una certa distanza, poteva sentire i fedeli che sciamavano nella sala principale per la messa serale: non era frequentata come quella del mattino, e pertanto i novizi non erano tenuti a partecipare, ma Dora si sentiva comunque in colpa a non essere ad uno dei portoni a dirigere i fedeli verso le panche ancora libere. “Eccoti, finalmente!” La voce di Kethra, che era comparsa alle sue spalle apparentemente dal nulla come suo solito, la fece sobbalzare. Si voltò con aria seccata.
“Veramente sono qui da almeno dieci minuti! Sei tu che sei in ritardo!” Nel tempo che ci mise a finire di pronunciare quelle parole, il fastidio si era già dissolto. Non riusciva a restare arrabbiata con l’amica, non importava quanto ci provasse.
L’altra non parve per nulla impensierita. “Avevo un paio di cose da sistemare.” Le tese una mano. “Andiamo?”
Dora la fissò con sospetto. “Dove?”
“Quante domande. Non ti fidi di me?”
“Io…” Per qualche motivo, la domanda fece incespicare Dora. “Mi fido… Ma non mi fido, se capisci cosa voglio dire.”
Non lo capisco nemmeno io.
Per tutta risposta, Kethra rise e le afferrò la mano. “Ottima risposta. Andiamo! Non te ne pentirai!” Insieme, si inerpicarono su per le scale. Kethra sembrava avere una certa fretta, ma al tempo stesso era guardinga come una tigre in caccia. Un paio di volte costrinse Dora a gettarsi in qualche nicchia nelle pareti o in un qualche angolo buio per evitare uno dei chierici più anziani che pattugliavano quelle zone in cerca di ladri, fedeli dispersi e novizi intenti a fare qualcosa che non avrebbero dovuto fare. Un po’ come loro in effetti.
“Kethra, mi vuoi dire cosa –”
“Shh!” La ragazza mise una mano sulla bocca di Dora e la spinse ancora di più nell’intercapedine tra il muro e la statua dietro cui si erano nascoste. Erano talmente vicine che Dora poteva sentire il respiro dell’altra sul collo, il calore del suo corpo contro il proprio attraverso le tonache. Le faceva pizzicare la pelle, ma non era una sensazione sgradevole.
“D’accordo, via libera,” bisbigliò Kethra dopo qualche secondo. Spostò la mano e fece un passo indietro, permettendo a Dora di fare un paio di respiri profondi. Si sentiva senza fiato.
“Via libera per cosa? Dove stiamo andando?”
“Calmati, principessa. Ci siamo quasi.” Con un sorriso furbo, la ragazza mora ricominciò ad inerpicarsi per le scale, e Dora non poté fare altro che rimangiarsi una rispostaccia e seguirla. Alla fine, arrivate in un punto all’apparenza del tutto anonimo, Kethra si fermò.
“Adesso guarda.” Si sollevò le maniche e piegò le braccia nell’esagerata imitazione di uno scaricatore di porto. Quindi appoggiò entrambi i palmi contro un pannello di legno del rivestimento interno e spinse. Per qualche secondo non successe nulla; poi ci fu un clic appena udibile e l’intera sezione iniziò a scorrere all’indietro.
“Ma che…”
Dora era senza parole. Quello che sembrava un semplice pezzo di muro era appena scivolato su cardini invisibili, rivelando uno stretto passaggio oltre il quale si intravedeva luce arancione.
“Passaggio di servizio. Per la manutenzione del tetto. Vieni.” Kethra si mise a quattro zampe ed iniziò a strisciare nel cunicolo. “Riaccosta bene la copertura, mi raccomando,” bisbigliò, la voce che rimbombava nello spazio stretto.
Dora dibatté con sé stessa per un paio di secondi, prima di abbassarsi e iniziare a strisciare a sua volta dietro l’altra. C’era davvero poco spazio, tanto che le spalle di Dora sfioravano le pareti in marmo ogni volta che si muoveva. Con attenzione, spinse il pannello dietro di sé (che per fortuna aveva una maniglia all’interno per poterlo riaprire) finché non sentì di nuovo il blocco che scattava, per poi avanzare sulle tracce della sua amica. Quando Kethra spinse con le spalle un secondo sportello, l’intero passaggio fu invaso di luce arancione, e per un attimo Dora rimase immobile a battere le palpebre, abbagliata.
Quando finalmente poté rimettersi in piedi, si ritrovò a fissare una distesa di tetti. Erano su uno dei contrafforti del lato ovest, e sotto di loro si spandeva l’intera Waterdeep – o almeno, la sensazione era quella – invasa dalla luce del tramonto. Dietro di loro, una delle spire di bronzo, oro e argento che davano il nome alla cattedrale luccicava negli ultimi raggi del sole.
E poi, oltre le mura, il mare. Era uno spettacolo mozzafiato. “Ehi, non farti cadere la mascella.” Kethra tirò all’altra una gomitata nel fianco, riscuotendola. “Forza, o facciamo tardi. Di qua. Attenta a dove metti i piedi.”
“Tardi per cosa?” Dora ricominciò a seguire l’amica, muovendosi con attenzione lungo il tetto. La pendenza non era eccessiva, e c’era uno strato di foglie secche e altri detriti che rendeva il fondo poco scivoloso, ma in ogni caso era meglio stare attenti: un volo da quell’altezza sarebbe stato fatale, a meno di un intervento divino.
Kethra non rispose, limitandosi ad arrampicarsi lungo il tetto e poi per una scalinata che si avvolgeva a spirale lungo la guglia, i gradini tanto sottili da dover procedere di lato come granchi. Dopo quella che a Dora parve un’eternità, all’ennesima svolta della scala, la ragazza bionda si accorse che l’amica non era più di fronte a lei. Ebbe un attimo di panico, pensando al peggio – è caduta di sotto! – prima che una mano le afferrasse il polso. Fece un salto per lo spavento, perdendo l’equilibrio, ma si sentì tirare verso il muro. Atterrò pesantemente sopra qualcosa di morbido, all’interno di una nicchia scavata nella parete della guglia. Sotto di lei, Kethra sbuffò.
“Mi sa che hai messo su peso,” rise.
Dora si districò dall’abbraccio dell’altra e si guardò intorno, il cuore in gola per lo spavento. Erano in quello che una volta era stato l’alloggiamento di una statua, identico agli altri mille che punteggiavano la cattedrale. In un momento non meglio precisato, l’inquilino doveva essere crollato sotto il peso degli anni e delle intemperie: era rimasto solo il basamento, da cui spuntavano i moncherini di un paio di gambe. Quasi tutto il resto era stato fatto sparire, probabilmente per evitare che cadesse in testa a qualcuno in una giornata ventosa, e mai più ripristinato. A occhio, doveva essere così da decenni. Il metallo che ricopriva le pareti era brunito e opaco, ma pulito. Il fiato corto, Dora tornò a guardare la sua amica. “Come hai trovato questo posto?”
Kethra sorrise. “Lo sai che a lezione mi annoio. Quando posso, svicolo fuori e mi metto a esplorare.”
La ragazza mora si chinò a raccogliere qualcosa dietro quel che restava del piedistallo della statua. Quando si raddrizzò, aveva in mano un involto di tela. Lo sistemò con cura sopra il piano di pietra e lo aprì con gesto teatrale, rivelando una torta di ricotta e uvetta.
“Ta-da!” esclamò. “Buon compleanno, Dora!”
L’altra la fissò come se le fosse appena cresciuta una seconda testa.
“Cosa… Come… È oggi?” balbettò.
Kethra le rivolse un’occhiata a metà tra il divertito e il rassegnato.
“Te ne sei dimenticata anche quest’anno. ” La sua non era una domanda. “Com’è possibile che ti ricordi il compleanno di tutti i tuoi fratelli ma non il tuo?”
“Beh, dovevo organizzare le feste per tutti… e non avevo mai tempo per la mia… dovrò scrivere a Rupert e trovargli un regalo o se la prenderà a morte…” Dora si avvicinò al piedistallo. Notò che grosso pezzo di pietra, probabilmente resti della statua, erano stato fatto strisciare sul pavimento fino ad essere posizionato come un ampio sedile improvvisato, vista mare. Dovevano pesare almeno dieci chili: il pensiero che Kethra si fosse messa a spostare un sasso di quelle dimensioni, da sola, in una nicchia a decine di metri d’altezza, solo per farle una sorpresa le fece salire un groppo in gola. Per un attimo la vista le si appannò, e dovette battere gli occhi un paio di volte per ricacciare indietro le lacrime.
“Ehi ehi ehi. Non diventarmi emotiva adesso, eh?”
La ragazza mora si avvicinò, il lembo di una delle maniche della veste stretto in mano, e sfiorò con delicatezza le guance dell’altra per asciugargliele. Per un istante parve sul punto di dire qualcos’altro, poi il momento passò.
“Scusa.” Dora tirò su col naso e si ricompose. “Mi hai anche preso una torta… Non dovevi.”
“Lo so. Questa è per me.” Kethra le fece un occhiolino, poi rise all’espressione confusa dell’altra. “Sto scherzando. Forza, siediti qui. Sta per iniziare.”
“Sta per iniziare cos – ” Dora non fece in tempo a finire la frase. I raggi del sole, arrivato quasi al punto più basso del suo arco prima di sparire oltre l’orizzonte, colpirono direttamente la parete dietro di loro e si spezzarono in un nugolo di riflessi multicolore, che riempirono la nicchia con migliaia di minuscole luci. Sembrava di essere in mezzo ad uno sciame di lucciole, solo che invece di essere tutte dello stesso colore giallo-verdastro, quelle luci erano di ogni sfumatura dell’arcobaleno. Dora fece una piroetta su se stessa, guardandosi lentamente intorno, gli occhi spalancati per la sorpresa. Sentì una risata affacciarlesi sulle labbra, e non fece nulla per fermarla. Poco più in là, appoggiata ad una parte, Kethra la osservava con un mezzo sorriso sulle labbra. “Allora?” Quando il sole fu sprofondato oltre il mare e le luci si furono spente, Kethra si chinò per tagliare una fetta di torta con un coltello che doveva aver sgraffignato in sala mensa. Aveva un ghigno che le andava da un orecchio all’altro. “Me la sono meritata questa torta, o no?”
“Puoi mangiarla anche tutta.” Dora era ancora senza fiato. “E puoi avere il mio dolce per una settimana, se lo vuoi. Kethra, è… È stato… Incredibile.”
La ragazza mora ridacchiò, poi passò una fetta di torta all’altra. Insieme, si sedettero sul basamento della statua, la torta in mezzo a loro, ad osservare il tramonto oltre il mare di tetti. “Non è che rischiamo di restare bloccate quassù, vero?” domandò Dora. Stava scherzando solo fino a un certo punto.
L’altra scosse la testa. “Si vede abbastanza bene almeno per un’ora dopo il tramonto. E poi comunque possiamo creare delle luci. Siamo Chieriche in fondo. Ne ho preparate quattro stamattina, giusto nel caso.”
Dora prese la mano dell’altra e la fissò dritta in viso. “Grazie. Davvero,” disse. “Nessuno aveva mai fatto niente del genere per me.”
A quel punto, Kethra fece qualcosa che Dora non si sarebbe mai aspettata. Invece di ridere e fare una battuta come suo solito – qualcosa tipo “sapevo che avevi avuto un’infanzia di merda, ma non così tanto” – arrossì e distolse lo sguardo. Sembrava imbarazzata.
“Figurati,” mormorò, gli occhi fissi sulla fetta di torta sbocconcellata che teneva in mano. Prese fiato, come per dire qualcos’altro, ma Dora la anticipò. Con un movimento rapido, avvolse l’altra tra le braccia e le appoggiò la testa contro il suo petto. Iniziò ad accarezzarle lentamente i capelli lisci. “Grazie. Davvero,” ripeté. “Sei l’amica migliore che una persona possa desiderare.” Per un attimo, sentì l’altra irrigidirsi contro di lei. Poi Kethra si rilassò di nuovo e strofinò il viso contro la tunica di Dora.
“Lo so,” mormorò. “È a questo che servono le amiche, no?”

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Capitolo 21
*** Il falò di mezza estate ***


Autore: Dira_
Genere: slice of life, sentimentale




Il falò di mezza estate



Secomber, Fattoria Honeycomb, Estate 1366

La notte del Solstizio non era importante per i lathanderiani quanto i festeggiamenti dedicati alla Canzone dell’Alba, ma ci andava abbastanza vicina.
La fattoria Honeycomb, essendo la più grande della zona, si candidava ogni anno ad ospitare quei festeggiamenti notturni e finora non aveva avuto rivali, aveva detto Dora a Kethra. Poi era sparita, inglobata dal turbine di preparativi.
In quanto ospite dalla città la giovane illuskan aveva avuto ben poco da fare: aveva dato una mano nelle decorazioni intrecciando tralci d’edera assieme a nastri oro e rossi fino alla nausea… ma poco altro. E in tutto quello si era annoiata a morte, perché le donne coinvolte, ragazze dei poderi vicini, dopo i primi minuti di lingua comune a suo beneficio, erano scivolate nel dialetto chondatan della zona, rendendole difficile seguire la conversazione a causa dell’accento.
Come se non bastasse non aveva beccato Dora che per pochi attimi durante la giornata: la sua migliore amica era sempre con qualche fratellino in collo o alle calcagna, o con le braccia piene di roba da spostare, cucinare o preparare.
Nel pomeriggio l'aveva vista uscire con Gorstad sul carretto: l’amica le aveva gridato che andava con il padre a fare il giro dei vicini per confermare la presenza per quella sera.
Kethra aveva cercato di non rimanerci male; aveva capito quanto Dora fosse indispensabile alla famiglia, fin troppo considerando che a regola era un’ospite pure lei. Alla fine però aveva dovuto rassegnarsi al cattivo umore: quelle erano le loro vacanze lontane dal Tempio.
Sarebbero riuscite a passare il solstizio assieme?

Quella domanda era perdurata anche durante la festa: non intravedeva che scampoli della capigliatura biondo fragola dell’amica, trascinata da un capannello di vicini all’altro.
Kethra non era più sola però: Stedd Honeycomb aveva deciso di farle compagnia.
“Andiamo a sederci vicino al falò!”
Da quando era arrivata alla fattoria il ragazzo non aveva fatto altro che ronzarle attorno, riempiendola di chiacchiere, complimenti e salamelecchi, senza ovviamente ascoltare mezza risposta. La classica testa vuota innamorata di sé e dell’effetto che faceva sugli altri.
Sempre meglio di Randall.
Il maggiore dei fratelli Honeycomb la fissava come se volesse spogliarla. Kethra conosceva abbastanza il tipo da sapere che doveva stargli alla larga.
Almeno Stedd non le dava l’impressione di volerle dare una botta in testa e trascinarla nel fienile. Era gradevole da guardare, con i lunghi capelli chiari e il viso sempre aperto in un sorriso. Dei fratelli che aveva conosciuto era quello che somigliava più a Dora.
“Allora, che te ne pare della nostra festa?”
“Bella…”
Brutta scema, dove sei?
Kethra scoccò un’occhiata malmostosa all’ennesimo flash di capigliatura bionda che scorse in mezzo alla folla di contadini e braccianti. Probabilmente manco era Dora, ma uno dei suoi infiniti parenti. L’aia degli Honeycomb era piena di gente, e le persone, aizzate dai musicisti, avevano cominciato a ballare dopo essersi riempiti doverosamente la pancia.
Era una serata divertente e lei non si stava divertendo. Affatto.
“Vuoi ballare?” propose Stedd.
Kethra non riuscì a trattenersi. “Non con te.”
Il ragazzo, invece che offendersi come si sarebbe aspettata, inclinò la testa da un lato e la studiò. “Vorresti che ci fosse mia sorella al posto mio,” attestò. “Lo vuoi un consiglio? Io non ci spererei troppo.”
Lo so che Dora è occupata,” e davvero non era gelosa delle attenzione che la sua migliore amica rivolgeva a tutti tranne che a lei…
“No, non intendevo quello.”
Kethra aggrottò le sopracciglia, dandogli attenzione. “Cosa allora?”
“Dora è un’egoista. Se ne fotte di noi e torna solo per le feste comandate. La capisco eh, questa famiglia fa schifo. L’unico modo per cavarsela è mollare la scialuppa e fottersene come hanno fatto lei e Rupert.”
“Questo non è vero! Non fa che parlare di voi, e scrivervi lettere!” Kethra non avrebbe dovuto arrabbiarsi. Non era affar suo cosa un ragazzo insopportabile pensava di sua sorella.
Ma stava parlando di Dora, la sua Dora.
“Non la conosci affatto! Si fa in quattro per gli altri!”
“Si fa in quattro per tutti,” la corresse. “E quindi per nessuno. La sua famiglia è nel mischione. Lei non ha persone speciali, ha solo Lathander. Se tra voi le cose diventassero… complicate… ti metterebbe da parte come ha fatto con noi.”
Kethra sentì un nodo allo stomaco. Il tono pacato, persino gentile, di Stedd le stava facendo venire dei dubbi.
Forse ha ragione.
Se Dora avesse saputo che si era presa una stupida cotta per lei l’avrebbe bollata come una complicazione per la sua sfavillante carriera e l’avrebbe allontanata?
L’avrebbe considerata un’orfanella bisognosa che si aggrappava alla prima persona che le dava una carezza? Era un copione che aveva visto accadere tante volte quando era ragazzina e si era ripromessa che lei non sarebbe mai stata così, non sarebbe diventata dipendente da qualcuno.
Solo che non riusciva più ad immaginare una vita in cui Dora non c’era.
“Ti sto solo avvertendo. Puoi non credermi.”
Kethra serrò le labbra. “No, non ti credo,” sbottò.
Dora non mi abbandonerebbe mai. Me l’ha promesso.
Era una speranza stupida e flebile la sua, una fiammella patetica che uno starnuto avrebbe potuto spegnere… del resto, la sua intera infanzia era praticamente stata una folata di vento.
Però Dora, da quando la conosceva, era sempre rimasta. Quando c’era una punizione da beccarsi, quando c’era un sorvegliante troppo zelante da distrarre o seminare…
Era lei quella che aveva paura che l’amore portasse solo rogne. Era lei quella che scappava.
Allora era Dora ad andarla a cercare. E si impuntava finché non la trovava, nell’angolo più angusto dei sottotetti del Tempio, nella stradina più malfamata del Quartiere del Porto… aveva pure rischiato di essere venduta come schiava per colpa sua!
“Tu pensi di conoscere tua sorella, e forse l’hai conosciuta quando viveva qui,” disse guardando in faccia quel ragazzo che somigliava tanto alla sua migliore amica. La stessa forma del naso, gli stessi lineamenti, lo stesso modo di corrucciarsi. Lui e Dora avevano lo stesso sangue ma non potevano essere più diversi. “Però io ho conosciuto un’altra persona… e non c’entra un cazzo con quella che descrivi tu,” lo afferrò per il colletto della camicia e lo abbassò alla sua altezza. “E, coso, dì ancora una sola parola contro di lei e ti troverai il naso dall’altra parte della faccia per un cazzotto!”
Stedd sgranò gli occhi sorpreso ma poi l’espressione si sciolse in un sorrisetto da schiaffi.
“Accidenti, ti piace un sacco la mia sorellina!”
Kethra sbuffò, mollando la presa e voltandosi verso il falò per giustificare il calore che le era salito in volto. “Quello che non capisco è perché non piaccia a te.”
“Ti sbagli,” disse Stedd tranquillo. “Le voglio molto bene. Voglio bene a tutta la mia famiglia… ma non significa che mi piacciano. Credimi, al di là di tutta sta pagliacciata di buon vicinato che vedi oggi, non piacciamo a nessuno.”
Kethra gli lanciò un’occhiata. Il ragazzo si guardava le mani con aria assorta. Sembrava sincero… e doveva ammetterlo, quello a cui aveva assistito in quei pochi giorni gli dava ragione.
Tutti maschi, tutti agitati e in continuo conflitto. Il padre li controlla con urla, minacce e botte e li fa lavorare come muli. Batte anche i bambini… e ce ne sono più di un paio che avrebbero bisogno di un chierico specializzato in afflizioni della mente, non di botte.
Dora quando scoppiava una lite o una punizione particolarmente violenta si metteva in mezzo, anche fisicamente: era l’unica in grado di calmare il padre, anche perché la madre sembrava completamente disinteressata a qualunque cosa tranne l’ultimo nato.
Sono una famiglia arrogante, violenta e piena di sé. Non c’è molto amore. Paura e controllo, più che altro.
Niente di nuovo per la giovane illuskan, che aveva vissuto nei bassifondi di Waterdeep: però le aveva fatto male notare come la sua amica si affannasse per mettere pace, curare e asciugare lacrime. Aveva dovuto frenarsi per non intervenire.
Gli importa eccome di voi. Pure troppo.
“Quindi avere una famiglia è una gran merdata?” domandò neutra.
Stedd fece spallucce. “Forse non sempre è così. Che ne so, ho solo questa.” Rivolse il viso al cielo scuro, punteggiato da migliaia di stelle. “Me ne andrò presto da qui. Farò la scelta egoista, come i gemellini meraviglia.”
“Magari ti farà essere meno stronzo,” motteggiò Kethra, sorridendo quando il ragazzo accettò l’insulto con una sghignazza divertita. “Comunque, la famiglia te la puoi anche scegliere.”
“Dici?”
“Eccome. Io l’ho fatto.”
Dora nel frattempo si era staccata dall’infinita conversazione in cui suo padre l’aveva coinvolta con i fattori della zona. Si era diretta verso il lungo tavolo che ospitava cibo e bevande e aveva preso due bicchieri di coccio riempiendoli da un grosso otre panciuto. Fece volare lo sguardo qua e là e quando lo diresse verso di lei si illuminò sollevata.
Kethra le rivolse un cenno con la mano e l’altra per poco non rovesciò i bicchieri per imitarla.
Stedd sbuffò divertito. “Che tonta. Almeno il vecchio ha allentato le grinfie, pensavo l’avrebbe tenuta in ostaggio per tutta la sera...” Poi lanciò un’occhiata al di là del grande falò che bruciava in mezzo all’aia. Anche lui stava cercando qualcuno. Kethra seguì la direzione dello sguardo e notò un capannello di ragazzi: al centro, chiaramente visibile perché più alto e grosso, c’era Randall. La stava di nuovo fissando.
Se si avvicina gli pianto un coltello nelle palle.
“Non molla,” mormorò Stedd. “Beh, non importa, sta arrivando il cambio,” e si alzò, spazzolando i pantaloni con un paio di gesti energici.
…mi ha fatto compagnia per evitare che quel maniaco si avvicinasse?
Sembrava proprio così perché il ragazzo dai capelli lunghi si stiracchiò con l’aria di chi aveva palesemente perso ogni interesse per quella conversazione e per lei.
Kethra rifletté: a ben pensarci, aveva fatto il cascamorto appiccicoso unicamente in presenza di Randall e in assenza di Dora.
Aspetta un po’…
“Quindi non ci stavi mettendo il cappello. Su di me intendo. Con tuo fratello…”
Stedd fece spallucce. “Diciamo che neanche tu sei il mio tipo… ti manca qualcosa sotto ed hai qualcosa di troppo sopra,” e le strizzò l’occhio.
Kethra soffocò una mezza risata, sorpresa ma divertita. “Chiaro. Grazie allora.”
“Noi Honeycomb siamo più di quel che sembriamo … tranne Randall. Lui è esattamente ciò che sembra. Ehi sorellina!” Stedd fece una mezza giravolta voltandosi verso Dora, che intanto si era avvicinata reggendo i bicchieri con comica attenzione per non tracimare liquido.
“Grazie per le libagioni!”
“Cos… non è per te!” si lamentò la ragazza mentre il fratello le sfilava un bicchiere dalla mano. “Stedd!”
Questo la ignorò allontanandosi. “Buona serata fanciulle! Andate a ballare, invece che rimanere sedute sui vostri graziosi sederini! Altrimenti Lathander piange!”
“Stedd… ma che…” Dora alzò gli occhi al cielo e sospirò. “Scusalo, è stato tanto insopportabile?”
Kethra si spostò per farle spazio sul ceppo. Il cuore le saltò un battito quando l’altra si sedette praticamente contro di lei. “No, quasi tollerabile…”
“Meno male.” Dora le porse il bicchiere di coccio superstite. “È delle vigne dei nostri vicini, l’ho annacquato e mischiato con il nostro miele così non è troppo forte. Volevo fare un brindisi, ma…”
“Lo dividiamo.” Kethra ne bevve un sorso e ripassò il bicchiere all’altra, che sorrise e la imitò.
La festa intanto era entrata nel vivo e così la musica, suonata da un gruppo di arditi ragazzotti a cui si aggiunse anche Stedd con il proprio liuto: la gente, adorna di corone di fiori, ballava sollevando nuvole di polvere, ebbra di caldo e alcool. L’atmosfera calda e pastosa si arricchiva del blu profondo del cielo e delle sue tante stelle. Odore di legna che bruciava, di grano appena tagliato, di vino e fiori.
Non c’era niente di simile in città e Kethra lo trovò semplice, ma bellissimo. Non sarebbe stato male vivere in un posto del genere, un giorno. Lì la presenza di Lathander era pura.
“Scusami se ti ho lasciata sola stasera,” disse Dora. “Mio padre… lui, ecco, ci tiene a mostrare in giro sua figlia, la futura chierica.” Abbassò lo sguardo imbarazzata. “Avrei preferito passare il solstizio con te.”
Era una fortuna che le fiamme del falò colorassero di arancio e rosso il volto di tutti, perché Kethra si sentì avvampare per la seconda volta.
Afferrò il bicchiere dalle mani dell’altra e ne diede un vigoroso sorso. “Tranquilla, mi ha fatto compagnia tuo fratello.”
Dora esitò. “Avresti… avresti preferito che fosse rimasto lui?”
“No.” Kethra passò un braccio sotto quello dell’altra e strofinò il viso contro la sua spalla.
“Sono venuta qui per te, noiosona mia, non te lo dimenticare.”
Dora appoggiò la guancia contro la sua testa e sospirò contenta. “E io che pensavo che fossi venuta per, e cito, rimpinzarmi di cibo, fare la bella vita e dormire fino a tardi.
Kethra rise, alzandosi e tirandola in piedi con sé. Il vino stava facendo effetto e lei non riusciva a rimanere ferma. “Con te che mi svegli all’alba per trascinarmi in mezzo alle galline a pregare?”
“Dai… lo sai che è il momento migliore.”
“Non siamo al tempio! Quindi ti devi far perdonare!”
Dora la seguì in mezzo alla folla di buon grado, con gli occhi che le scintillavano di divertimento: Kethra pensò che di quell’espressione aveva un po’ il monopolio.
Sarebbe davvero difficile farsi passare una cotta con quelle premesse.
Però per quella sera non aveva importanza.
“Tuo fratello una cosa giusta l’ha detta. Non rimarremo tutta la sera sedute sui nostri culi. Fammi ballare una delle vostre danze contadine, Honeycomb!”
Dora scosse la testa, ma poi le fece un inchino farsesco a cui Kethra rispose con una riverenza esagerata. Scoppiarono a ridere.
Dora la prese per mano e la portò in mezzo ai ballerini e Kethra sentì che difficilmente sarebbe mai stata più felice di così.

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Capitolo 22
*** Qualche certezza. Parecchi dubbi. ***


Autore: Dira_
Genere: sentimentale, malinconico




Qualche certezza. Parecchi dubbi.



Waterdeep, Anno 1367, Tempio delle Spire del Mattino. Inizio estate.

La camerata dei Risvegliati all’ora di pranzo era baciata dal sole in maniera a dir poco gloriosa. Le grandi finestre ad ogiva, ricoperte di vetrate istoriate il cui colore predominante era l’oro e il rosa, gettavano luce dorata su ogni anfratto, cancellando ogni ombra.
Non era il momento migliore per star lì però, specialmente quando era il mese di Kythorn - intorno al Solstizio d'Estate - e il calore del sole rendeva lo stanzone più simile ad una fornace che ad un luogo di riposo.
Non che a Kethra importasse. Non quando la sua migliore amica era lunga distesa sul proprio letto con la testa nascosta sotto il cuscino.
La Risvegliata Kethra aveva diciotto anni ed amava due cose: primeggiare e prendere in giro, e non necessariamente in quest’ordine. Primeggiare negli studi, negli allenamenti e nel beneplacito generale era soddisfacente… ma sfidare il mondo a colpi di ironia lo era molto di più.
Specialmente quando il suo mondo si racchiudeva spesso nella seriosissima Risvegliata Dora.
Tranne oggi a quanto pare.
“Do-o-ra?” cantilenò chinandosi all’altezza del viso dell’altra. “Non lo sai che l’ozio fa piangere Lathander?”
L’amica emise un borbottio ma non diede segno di volersi muovere dalla sua posizione.
Kethra, senza troppe cerimonie si sdraiò sopra di lei pesantemente, battendo con le mani sul cuscino. “Ohi? Non crepi di caldo?”
“Lasciami in pace…” arrivò da sotto. “Va’ via.”
“Sì, ti piacerebbe,” ribatté scivolandole accanto. Le brandine del dormitorio non erano fatte per ospitare due persone, specialmente se una aveva la stazza della sua amica chondatan, ma Kethra era bravissima a ritagliarsi angoli anche nei posti più angusti.
Vecchi privilegi da orfano di strada, avrebbe vociferato maligno qualcuno. Abilità che continuo a tenere in allenamento, avrebbe risposto lei.
Kethra sollevò il cuscino abbastanza per rivelare la faccia dell’altra: aveva il viso rosso dal caldo e l’espressione corrucciata con cui l’aveva conosciuta.
Tre anni prima la Signora dell’Alba Jhessail Tulach, responsabile dei novizi e palo in culo di rara levatura, l’aveva spedita per punizione nella camerata assegnata ai nuovi arrivi.
Kethra si era aspettata di dover eludere la sorveglianza dell’ennesimo compagno rompipalle, ma era rimasta piacevolmente sorpresa nello scoprire che si era sbagliata. E di grosso.
Meno lo era stata la vecchia Jhessail, che si era trovata due ragazzine che non solo avevano legato per la pelle ma che erano diventate virtualmente impunibili. Perché se lei era quella con le idee, era Dora che pianificava l’esecuzione perfetta - principalmente per evitare la pubblica gogna, ma anche perché, perfettina com’era, amava i piani ben riusciti.
E così: perfetti raid nelle cucine, uscite anticipate da lezioni barbose, violazione del coprifuoco per andare per taverne fino all’alba…
Dietro quella patina da brava bambina Dora nascondeva un'indole ribelle come la sua. Erano un duo rodato.
Notando che il cipiglio di Dora non accennava a rilassarsi, Kethra si preoccupò. “Oh, ma che c’hai oggi?”
“Niente… non è giornata.”
“Sarà meglio che lo diventi perché ‘sto pomeriggio abbiamo gli allenamenti con i culi di latta.”
“Non chiamarli così, sono Paladini.”
“Sono aspiranti Paladini,” la corresse. “E pure loro hanno nomignoli per noi, che ti credi?”
Dora sbuffò un sorriso. “Sì, ma non hanno il coraggio di usarli quando siamo poi le stesse persone che devono rattopparli.”
Kethra sogghignò; era riuscita a farla sorridere, ora poteva concentrarsi su cose più serie. “Stai poco bene?”
“No, no… è solo che… non ho voglia di andare all’arena stasera.”
Kethra inarcò le sopracciglia sorpresa; Dora, come lei, amava vincere, anche se mascherava la cosa come desiderio di migliorare sé stessa. Non che fosse sincera nei suoi ideali, ma il modo in cui combatteva nell’arena non parlava tanto di crescita personale, quanto piuttosto di ti sbatto nella polvere, cazzone.
Cosa che la rendeva la migliore amica del mondo, almeno secondo i suoi standard.
“Tu? Che non hai voglia? Come mai?”
Dora evitò di nuovo il suo sguardo.
Kethra aveva vissuto i primi sette anni della sua vita nei bassifondi di Waterdeep, Quartiere del Porto, un luogo poco adatto ad una bambina… a meno che suddetto frugoletto non fosse stato capace di leggere le intenzioni della gente per trovarne i punti deboli e poi sfruttarli. Era così che sopravvivevi nel lato sbagliato della Città degli Splendori.
Kethra aveva abbandonato quella mentalità da un pezzo, ma capire le micro-espressioni era uno dei talenti che si erano portata dietro, e c’era da dire che con Dora aveva la strada spianata: l’amica era un libro aperto.
“Qualcuno t’ha trattata male?”
Il loro Dio non si limitava a pretendere una forma fisica perfetta soltanto dal proprio braccio armato. La consigliava caldamente anche al suo braccio misericordioso.
Quindi, tre volte a settimana, si allenavano con i Paladini della vicina caserma dell’Ordine dell’Astro. Kethra odiava quei momenti e li trovava inutili considerato che non aveva intenzione di competere ai giochi di Mezzestate. Inoltre, in quanto chierica, avrebbe finito per combattere soprattutto con la magia: e infatti, come la maggior parte dei compagni, ci andava per dovere.
Dora no; Dora per quei giochi si allenava duramente, e negli scontri caricava a testa bassa, incalzando il partner della giornata fino a che questi non perdeva ogni facciata cavalleresca e le dava un combattimento onesto. Ne usciva sempre malconcia e spesso sconfitta, ma con un sorriso capace di illuminare l’intero Tempio.
Solo che quel suo atteggiamento aveva attirato commenti salaci da parte degli altri chierici.
Deve sempre strafare? Si calmasse un attimo, è solo un allenamento…
“No, i paladini sono sempre così gentili!” esclamò Dora perplessa. “Perché? Ti hanno detto qualcosa?”
“Ma va’… se non è quello, allora cos’è?”
“Mi prometti che non lo dici a nessuno?”
“Sei scema?” argomentò annoiata. “Dai, apri quella ciabatta Honeycomb! Qual è il problema?”
“Jherek si è dichiarato. Mi ha detto che è innamorato di me.”
Kethra ci mise qualche attimo a fare mente locale; non aveva gran memoria per i nomi delle persone. Poi ricordò che l’amica aveva passato gli ultimi allenamenti a menarsi sempre con lo stesso tipo con una voluminosa zazzera rossa, che parlava troppo ma sapeva il fatto suo con spada lunga e scudo. Si erano spesso trattenuti a chiacchierare dopo. E ora ricordava…erano anche usciti per una bevuta allo sciccoso Quartiere del Castello, dove viveva il tizio!
Era stata una serata di un palloso allucinante, perché avevano bevuto poco e male, e il tipo aveva passato tutto il tempo a misurarsi la mazza con i suoi compagni di merende.
Però a Dora quelle cose non davano fastidio; era cresciuta in mezzo ad una ridda di fratelli, tollerava meglio di lei le spacconate testosteroniche. Lei si era divertita.
Kethra sentì un peso nel petto. “Ah… hai fatto colpo… Non sei contenta?”
“Beh… credo che dovrei, vero?”
“Ti piace o no?”
Non voleva saperlo. Nel momento in cui glielo chiese comprese che non aveva nessuna intenzione di ascoltare la sua migliore amica sbrodolare su Jerry il Paladino.
Kethra ebbe l’impulso di alzarsi e andarsene; scappare a nascondersi in qualche punto alto e raccolto, come le piaceva fare da bambina, quando la strada diventava troppo cattiva e dura. Un gatto randagio rimane tale anche se lo porti in casa, aveva commentato una volta quella stronza di Jhessail pensando che non la stesse ascoltando.
Aveva ragione però; solo che in quel caso rintanarsi in buco non l’avrebbe aiutata.
Dora, ignara dei suoi pensieri, si tirò a sedere sul letto. “Jherek è simpatico e combatte bene… sarà un ottimo paladino. E zia Jhessail ha detto che la sua famiglia è molto devota e grande contributrice del Tempio.”
“Ne hai parlato con tua zia?
“Ma figurati! È stato Jherek, è andato a chiederle il permesso di farmi la corte.”
“Molto cavalleresco da parte sua…” non riuscì a frenare l’amarezza e stavolta Dora - benché di solito fosse inconsapevole come un neonato nato sotto un cavolo - la fissò assorta.
Ti prego non capirlo.
Perché l’aveva capito lei e aveva capito anche un’altra cosa.
Che è una cazzata.
Dora le voleva bene ma non le voleva bene nello stesso modo in cui gliene voleva lei. Dopo averla vista battersi feroce nell’arena, non se la sognava la notte svegliandosi accaldata, e confusa, con il terrore di voltarsi e farsi leggere tutto in faccia.
Non era gelosa di chiunque le si avvicinasse durante le lunghe ore di studio e preghiera.
Quando si facevano la doccia nei bagni comuni, non passava tutto il tempo a fissare le piastrelle come una maniaca perché non poteva permettersi di guardare la linea dei muscoli dell’altra, e il modo in cui l’acqua le scivolava lungo il solco dei seni, verso gli addominali e…
Kethra non si reputava una cattiva persona, ma quei pensieri, quelle pulsioni la facevano vergognare. Specialmente perché Dora le donava un amore puro e privo di doppi sensi.
“Kethra, che hai?”
Si riscosse tirando fuori il migliore dei suoi sorrisi. “Scusa, mi ero distratta… dicevamo, il belloccio in armatura! Che farai?”
“Tu che faresti?”
Lo corcherei di incantesimi finché non si farebbe passare la voglia di farti diventare sua moglie.
“Beh… la corte non la sta facendo a me. La scelta è tua. Che gli risponderai?”
Dora si mordicchiò un labbro. “Che non voglio diventare sua moglie.”
Kethra l’avrebbe baciata. Lì, in mezzo al dormitorio caldissimo, con il rischio di essere beccate da chiunque, con il sudore che le colava a fiotti lungo la schiena. Le avrebbe preso il viso tra le mani e l’avrebbe baciata finché non avrebbero dovuto rianimarle perché avevano smesso di respirare un’ora prima.
Fu un pensiero che venne e passò. Non era stupida.
“Allora rifiutalo alla svelta prima che si faccia strane idee.” Notando l’espressione sconfortata di Dora sogghignò. “Aspetta… è per questo che non vuoi venire ad allenarti?”
Dora si nascose il viso tra le mani. “…non prendermi in giro…”
Kethra scoppiò a ridere, placcandola e buttandola sul letto tra le sue proteste. “Do-o-ra è una cacasotto!” cantilenò facendole il solletico. “Do-o-ora si vergogna a rifiutare un culo di latta!”
“Sta’ zitta!” sbuffò ridendo e cercando di spingerla via. “Rifiuterei chiunque, non è perché è un paladino… è che non voglio sposarmi, lo sai!”
Kethra si fermò, scivolando stesa accanto all’altra. Le posò una testa sulla spalla, soffiando per spostarle una ciocca di capelli. Dora le piazzò una mano sulla bocca. “Lo so…” bofonchiò contro il palmo. “…sei sposata a Lathander. In effetti è difficile reggere il paragone con il nostro dio figone.”
Dora alzò gli occhi al cielo e tolse la mano. “Non è questo. È che se voglio fare la differenza, aiutare la gente di questa città e servire Lathander con tutta me stessa… non posso legarmi ad una persona sola.”
Kethra sorrise. Era per questo che si era innamorata di lei. Perché ardeva di desiderio di cambiare il mondo. Potevano essere diverse per tante cose ma su quello erano anime gemelle.
“Guarda che se ti sposi potresti comunque continuare a servire il Tempio,” le fece notare. “Nessuno ti chiederebbe di rinunciare ad essere una chierica.”
Dora scosse la testa. “Mi conosco, se mi sposassi… finirei per dedicare tutte le mie energie al mio sposo, come facevo quando dovevo badare a Rupert. Non posso permettermelo… non quando ho lavorato tanto per arrivare fin qua.”
Kethra annuì.
Ecco perché, caro il mio Jerry, né io né te abbiamo mezza possibilità.
“Allora digli questo. Vedrai che capirà.”
“E se mi odiasse? Mi piace allenarmi con lui. Non voglio perdere la sua amicizia.”
Dora si voltò verso di lei, fissandola con quei suoi grandi occhi color nocciola: erano banalotti, ma le ricordavano le foglie d’autunno, le castagne e un sacco di cose buone, e calde.
Dora non era l’unica ragazza al mondo, né la più bella e Kethra era consapevole del suo aspetto… piaceva e avrebbe potuto facilmente avere altre persone. Forse innamorarsene. Forse dimenticarla.
Ma un gatto randagio rimane un gatto randagio. E sceglie solo una persona. La sua.
“Non ti odierà. Magari ti terrà il muso per un po’, ma sono sicura che rimarrete amici.”
“Lo pensi davvero?”
“Lo so. Fidati,” mormorò. “Rimarrete amici…”
Dora le sorrise. “Grazie. Anche per essere venuta a controllare dov’ero finita.”
Kethra sentì il cuore dolere. Era una sensazione strana, perché non era fisica era più… dentro. Inspirò, alzandosi in piedi di scatto. “E come faccio senza la mia noiosona preferita? Mi annoio!”
“Non ha molto senso quello che hai detto…”
“Dettagli!” le tese la mano e l’altra la prese. “Su, che sto bollendo viva qua dentro, andiamo a picchiare un po’ di Paladini!”
“Più che picchiarli, le prendiamo…” le fece notare Dora alzandosi. Poi le passò un braccio attorno alle spalle e le posò il mento sulla testa, un gesto tutto suo per dimostrare affetto. “E a questo proposito, stavolta cerca di non sgusciare via come un'anguilla quando ti attaccano. Lasci sempre la guardia aperta e poi mi tocca difenderti.”
“Solo se posso blastarli con la magia.”
“Non sono queste le regole!”
Fuori il sole splendeva glorioso preannunciando un'estate torrida.
Però forse andava bene. Forse, finché Dora fosse rimasta dell’idea di non sposarsi, e lei avrebbe fatto lo stesso, avrebbe funzionato.
Kethra si asciugò il sudore dalla fronte.
Forse.

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Capitolo 23
*** Panico e decisioni ***


Autore: Dira_
Genere: introspettivo, malinconico




Panico e decisioni



Una locanda vicino a Secomber, Costa della Spada, Inverno 1368.


Erano anni che Dora non tornava alla Taverna dell’Orso.
Sarebbe tornata più spesso, ma d’estate era precettata dai festeggiamenti della Canzone dell’Alba e da quelli, conseguenti, del Solstizio. Come se non bastasse, nella fattoria era il periodo più impegnativo, tra campi da mietere, pecore da pascolare e arnie da curare. Doveva dare braccia e testa alla sua famiglia, non aveva tempo.
Quell’inverno però si era organizzata per avere una settimana libera prima di tornare a Waterdeep. E aveva intenzione di passarla alla locanda dei suoi vecchi amici.
Dora socchiuse gli occhi, guardando il cielo lattiginoso. Minacciava neve. Il carretto procedeva lento sulla strada di campagna spruzzata di brina, ma le coperte che il vecchio carrettiere aveva dato ai passeggeri per tenersi al caldo erano spesse e confortevoli, fatte della lana che si filava nella zona delle colline.
Allungò un lembo della sua sulle gambe di Kethra, seduta di fronte a lei. L’amica, che sembrava dormire, aprì un occhio e sbuffò.
“Ce l’ho già, pensa a non congelare tu…”
Dora sospirò: a primavera si sarebbe tenuta la cerimonia di investitura che da semplici accolite le avrebbe fatte diventare Cerimoniere dell’Alba, il primo grado di una radiosa carriera al tempio delle Spire del Mattino.
La preparazione a quel rito di passaggio - che prevedeva recitazioni di infinite preghiere, e riti complessi - era lunga, estenuante e dura. Le vacanze invernali erano arrivate come una benedizione.
Kethra sbadigliò, alzando la testa verso il cielo. “Dici che nevicherà?”
“Sì, è aria di neve questa.”
“Pensa che bello sarebbe se rimanessimo bloccate qui fino alla Primavera…”
“Non lo sarebbe affatto! Per fortuna Krystel è una strega, mi ha scritto che potrà aiutarci nel caso gelassero le strade. Non possiamo permetterci di rimanere indietro con lo studio.”
Kethra alzò gli occhi al cielo. “Non pensi ad altro tu…” borbottò.
Dora strinse le labbra ma non rispose: a differenza sua, Kethra non stava prendendo granché sul serio quei preparativi. Erano più le volte che doveva trascinarla in biblioteca o pregarla di rimanere a lezione che quelle in cui l’illuskan mostrava sincero impegno. Usciva quasi tutte le notti, scappava dalle lezioni e rispondeva male alle reprimende di sorveglianti e maestri.
Zia Jhessail era ad un passo da strangolarla e buttare il suo corpo nella baia.
Aveva provato a parlarle, capire se ci fosse qualcosa che non andava, ma l’amica l’aveva sempre rassicurata.

“Tranquilla, che alla cerimonia farò un figurone. Non mi serve tutta ‘sta preparazione nevrotica. Potrei fare la Cerimoniera domani mattina!”

Era vero che Kethra era sempre stata un po’ ribelle; però ultimamente era terribilmente oppositiva ad ogni minima osservazione da parte dell’autorità del Tempio. Anche il loro rapporto era diventato teso. Aveva così sperato che quella gita avrebbe fatto bene ad entrambe.
Il suo pronostico si era rivelato azzeccato: Kethra fuori da Waterdeep aveva riacquistato la parlantina e il sorriso. Aveva ripreso a prenderla in giro… anche se non aveva ripreso a toccarla.
Erano mesi che l’amica aveva raffreddato le esternazioni fisiche: non si infilava più nel suo letto e non invadeva più il suo spazio fisico, neanche per sbaglio. Niente abbracci, niente mani intrecciate, niente morsetti sulla faccia o solletico per farla incavolare.
Stavano diventando adulte e forse non era più… appropriato… interagire a quel modo: però le mancava comunque.

La locanda era rimasta identica a come Dora la ricordava: grande, dagli infiniti spazi che ricordavano il vecchio passato monastico del luogo, ricolma di bambini e di chiasso. Per tanti inverni era stata casa sua e ritrovare tutto uguale, ospiti a parte, era stato dolcemente nostalgico.

Krystel l’aveva accolta con calore offrendo a lei e l’amica la camera migliore, ed era stato emozionante riabbracciare il posato Tek’ryn, l’ironica Amber e la piccola palla di energia e chiacchiere che era Geyla… era stato persino tollerabile salutare Luel, anche se poi l’idiota aveva fatto il cascamorto con Kethra rischiando un cazzotto sul naso.
Era stato bello rivedere Tinefein. La giovane guaritrice l’aveva accolta come sempre nella sua infermeria, e Dora era stata felice di presentarle la sua migliore amica. Erano entrambe persone molto importanti per lei e aveva sperato che diventassero amiche.
…non era andata così.
Appena le aveva presentate Kethra era stata gentile, ma dopo una ventina di minuti di conversazione, fatta a gestualità drow che l’altra padroneggiava quasi meglio di lei, un broncio incomprensibile le si era stampato in faccia, e non c’era più stato verso di farle cambiare espressione. Non aveva più voluto accompagnarla in infermeria, e ogni volta che Dora pronunciava il nome della drow l’altra la piantava dov’era e andava a farsi un giro.
Non è perché Tine è drow… con gli altri non ha problemi. Anzi!

Kethra, infatti, dopo un iniziale comprensibile timore, si era comportata splendidamente con chiunque tranne che Tine: rintuzzava Luel con battute salaci che purtroppo sembravano deliziarlo, chiacchierava piacevolmente con Krystel e aveva acconsentito a tenere una lezione su Waterdeep alla classe dei bambini più grandi di Tek’ryn. Si intendeva alla perfezione persino con Amber, la figlia più sfuggente di Krystel!
Dora non capiva il perché di quella chirurgica antipatia, ma aveva deciso di non insistere; era inutile, la prima risposta che Kethra dava era sempre quella definitiva.

Non ho niente che non vada. Va’ ad aiutare Tinefein, a me non va di chiudermi in infermeria.
Vado a farmi un giro.


Quando Dora non capiva una cosa però, precipitava in uno stato d’ansia autogenerante, notabile da… chiunque. Tanto che quel pomeriggio, uno dei tanti dove Kethra era chissà dove a fare chissà cosa con Amber, Tek’ryn la prese da parte, togliendole di mano le tavole da scrittura con cui avevano insegnato i rudimenti dell’alfabeto comune fino a poco prima.
“Prendiamoci una pausa,” propose. Dora annuì e si sedettero accanto al fuoco con una tazza di tisana bollente ciascuno. Era il terzo giorno che minacciava neve e forse sarebbe stato quello buono. Faceva il freddo giusto.
“Va tutto bene? Mi sembri preoccupata.”
“Kethra è arrabbiata con me,” buttò fuori. Tek’ryn era in grado di leggere le persone, e non metaforicamente. Era inutile tener su la facciata. “Non capisco perché.”
Il ragazzo bevve un sorso dalla propria tazza. “La tua amica mi sembra una persona piuttosto arrabbiata in generale…”
“Non è così di solito! È sempre allegra e spensierata! Ma è da quest’estate che c’ha una piva che non finisce più, e credo sia perché a Primavera ci sarà la cerimonia di investitura, e siamo tutti stressati, ma lei…”
“Lei lo è di più?”
“Non lo so. Forse no. Hai ragione tu, è più arrabbiata che stressata. Vorrei aiutarla, ma mi dice che va tutto bene. Non me lo lascia fare!”
Tek’ryn rimase un attimo in silenzio. “E come vorresti aiutarla?”
“Boh, ascoltandola? Risolvendo un problema, se lo ha? Sapessi qual è ti direi la soluzione!”
Tek’ryn sospirò. “Forse non c’è soluzione.”
Dora serrò le labbra. “Posso sempre aiutarla!”
“Vedere star male le persone che amiamo è brutto,” convenne il drow. “Però a volte ci sono cose che non abbiamo il potere, o il diritto, di risolvere. L’unica cosa che puoi fare è starle vicina, suppongo.”
Dora inspirò. Tek’ryn era in grado di leggere nei cuori e nelle emozioni delle persone, e quelle parole sembravano frutto di un’esperienza diretta. Non poteva controbattere.
“Quando saremo finalmente chieriche si risolverà tutto…”
Kethra si tranquillizzerà, io mi tranquillizzerò. Avremo la nostra investitura e cominceremo a fare sul serio a Waterdeep. Tornerà tutto com’era prima. Andrà tutto bene.
“... e voglio starle vicina! È lei che non fa altro che scappare di qua e di là con tua sorella,” borbottò. Nonostante concordasse con l’approccio di Tek’ryn non apprezzava comunque esser stata piantata in asso. E da giorni.
Tek’ryn sorrise. “Ah, ma quello è perché tu stai sempre con Tinefein.”
“…In che senso?”
Tek’ryn ampliò il sorriso bevendo un altro sorso dalla propria tazza. “Dora, alla tua amica piace essere al centro delle tue attenzioni, e tu passi molto tempo in infermeria. Ti sta semplicemente ripagando con la stessa moneta. Questo è risolvibile. Basta che la rassicuri del tuo affetto.”
“Ma lo sa!”
Tek’ryn si strinse nelle spalle. “La gente ha la memoria corta quando si sente trascurata. Amber sa di essere mia sorella, ma guai se ha solo la vaga impressione di non essere la mia preferita.” Ci penso un po’ su. “Quelle due si somigliano…”
Dora sbuffò, rigirandosi la tazza tra le mani. “Anche lei ti manda costantemente a gambe all’aria la vita?”
Tek’ryn annuì divertito. “Certo, ma mi annoierei molto se non lo facesse. E poi, qualcuno deve essere con loro quando si cacciano in guai fuori dalla loro portata, no?”
Dora sorrise di rimando. “Già.”
Rimasero in quieto e riposante silenzio, bevendo la tisana guardando il fuoco scoppiettare nel grande camino di pietra scura.

Finalmente arrivò la neve. Grossi fiocchi si posarono sulla terra gelata, imbiancando rapidamente le colline e i campi. Dora e Kethra come ogni sera cenarono nel salone, e l’amica intrattenne tutti con un colorito racconto di come lei e Amber per poco non fossero affogate sfidandosi ad una gara di pattinaggio sul ghiaccio.
Kethra era di buonumore quindi a Dora sembrò il momento giusto per tentare di risolvere la questione attenzioni mancate.
“Andiamo a guardare la neve?” le propose a pasto concluso, quando i bambini si erano ormai ritirati per la notte e gli adulti trascorrevano le ultime ore della giornata accanto al fuoco a leggere, rammendare o a raccontarsi storie.
Kethra inarcò le sopracciglia. “Con ‘sto freddo?”
“Ci copriamo bene, e non hai mai visto la prima neve sui campi … è veramente bella.”
Kethra esitò, poi fece un ghignetto. “Rischi di prenderti una pallata di neve in faccia.”
“Ah, ma questo anche tu.”
“Lo vedremo!”

Non si presero a pallate di neve in faccia. Kethra di fronte allo spettacolo dei campi innevati sotto la luce argentea di una luna quasi piena perse ogni verve pestifera. Spalancò gli occhi e camminò lentamente in mezzo agli ultimi fiocchi di neve, rapita. Dora la affiancò in silenzio.
“Hai ragione… sembra di essere su un altro Piano. È magico.”
“La neve non è così in città,” convenne Dora. “Quest’anno poi ne è caduta tanta.”
“Eccome!” Kethra si voltò verso di lei con un sorriso. “Grazie per avermi convinta.”
Dora inspirò, mentre l’altra si voltava e continuava a camminare.
Forza, inizia tu o non inizierà nessuno.
“Lo sai che ti voglio bene, vero?”
Kethra si bloccò, voltandosi verso di nuovo. Aveva un’espressione indecifrabile nonostante la luce della luna illuminasse l’atmosfera. “Sì, certo che lo so…” disse con un mezzo sorriso.
“Cos’è, con la neve mi diventi emotiva?”
“Mi pareva giusto ricordartelo. In questo periodo litighiamo spesso e … sono pesante con la faccenda dello studio, e delle responsabilità, me ne rendo conto… e forse ti ho un po’ trascurata per dare una mano a Tinefein…”
Prevedibile come un tramonto il volto di Kethra si adombrò. “Non fa niente, è chiaro che ci tieni a lei…”
“Sì, ma tengo di più a te!” ribatté. “Sei la persona più importante della mia vita. Tinefein è stata la mia mentore, e le sono grata per tutto quello che mi ha insegnato, e quando sono qui cerco di sdebi…” si fermò perché Kethra aveva annullato la distanza tra di loro, arrivandole praticamente ad un soffio. Quando erano così vicine l’amica doveva alzare la testa per guardarla in faccia.
“Sono la persona più importante della tua vita?” mormorò.
“Sì, è quello che ho appena detto.” Dora ebbe la sensazione che dovesse fare qualcosa: Kehtra la stava guardando, mordicchiandosi un labbro indecisa, come se stesse aspettando qualcosa… o volesse fare qualcosa anche lei.
Invece parlò. “Non voglio diventare un Cerimoniere dell’Alba. Voglio fare l’avventuriera.”
“…come scusa?”
Kethra inspirò, guardando un punto a caso vicino alla sua clavicola. “Non… non voglio rimanere a fare la muffa in città. A Waterdeep ci sono più chierici che in un Tempio il giorno della Canzone dell’Alba! Voglio fare del bene dove ce n’è bisogno, e non in un posto dove degli stramaledetti tuniconi mi tarpano le ali! Voglio essere in grado di fare la differenza!”
Fece un passo indietro, indicando con braccio attorno a loro. “Il mondo è vasto ed ha bisogno di aiuto! Amber mi ha raccontato un sacco di storie, e altrettante le ho ascoltate nelle taverne. Gli avventurieri non sono soltanto mercenari al soldo dei potenti come dice tua zia… sono eroi! Io voglio essere un eroe! Tu no?”
Dora ascoltò le parole che uscivano dalla bocca dell’amica, e vi trovò senso e ragione. Erano così da lei.
Come aveva potuto essere così miope da non capire che l’insofferenza di Kethra non era soltanto per lo studio?
Non ne può più del Tempio.
“Dora…” Kethra le prese le mani, “vieni via con me. Porteremo la luce di Lathander dove ce n’è davvero bisogno. Saremo delle eroine e la faremo vedere a quelle tuniche polverose del Tempio. Che ne dici?”
Dora per un attimo immaginò quel futuro: lei e Kethra, a combattere fianco a fianco contro le ingiustizie, mazza, scudo e incantesimi nella punta delle dita. Come nei libri. Come nelle ballate migliori.
Poi arrivò la doccia fredda.
E la tua famiglia?
Aveva abbandonato la sua famiglia per diventare una chierica. Se ne sarebbe andata all’avventura come una disperata qualsiasi?
Dopo tutto quello che hanno sacrificato per te?
Dora si scostò. “No. Devo servire il Tempio. Non posso farlo.”
Kethra abbassò lo sguardo e fece un sospiro, quasi se lo fosse aspettato. “Certo… no, è un’idea stupida. Scusami se te l’ho chiesto.”
“Dobbiamo studiare, e poi potremo migliorare le cose da dentro…”
“Non fa per me,” sbottò. Alzò lo sguardo ed era duro e determinato. Quando Kethra diceva una cosa, era quella, e non si tornava indietro. “Non diventerò Cerimoniere. Appena andrà via il gelo mi metterò in viaggio. Me ne andrò da Waterdeep.”
Dice sul serio. Se ne andrà.
Dora sentì il cuore cominciare a battere all’impazzata, come se volesse uscire dal petto. Era ansia, ma era cento volte peggio del solito perché era così forte, così totale che cominciò a girarle la testa.
Rimarrai sola.
“…Dora, ehi…” Kethra fece per toccarle una spalla, ma Dora fece un paio di passi indietro.
“Scusami… io… credo di dover rientrare.”
Non diede il tempo di ribattere all’altra: le diede le spalle e corse via.
Dora corse come una furia nell’unico luogo che era sicura fosse vuoto in quel momento: l’infermeria.
Si accovacciò nell’angolo più lontano dalla porta, dove, anche aprendola, non sarebbe entrata luce rivelando la sua posizione: aveva imparato quel trucchetto quando doveva nascondere Rupert dalla furia di suo padre.
Fu lì che Tek’ryn la trovò. Il giovane drow entrò zoppicando nella stanza, reggendo un candelabro che spandeva luce fioca, ma bastevole per identificare la sua forma rannicchiata dietro uno scaffale pieno di ingredienti e pozioni.
Invece di chiederle cosa fosse successo, il ragazzo sospirò. “Quando eri piccola ti rifugiavi sempre qui quando gli altri bambini facevano troppo chiasso… Stavolta però non credo sia questo il caso.”
Dora non rispose: stava tentando di tenere a bada l’orribile sensazione di non avere più fiato nei polmoni e di stare per morire. Strinse gli occhi e due lacrimoni le scivolarono lungo le guance.
“Dora… respira,” sentì che le diceva Tek’ryn. “Fai dei respiri profondi e conta con me.”
Dora, che era abituata ad obbedire, all’udire quel tono gentile ma perentorio attivò gli schemi familiari. Imitò Tek’ryn e dopo qualche minuto percepì che la stretta al petto si allentava.
Riprese a respirare.
“…che…”
“Attacco di panico,” la anticipò il ragazzo sedendosi accanto a lei e posando il candelabro a lato. “Non stavi morendo, è solo la tua mente che era entrata in modalità sopravvivenza… ma queste cose le studi, non ti dico niente di nuovo.”
Dora annuì tremante: quell’attacco doveva essere colpa del periodo di tensione e di studio matto e disperatissimo. L’annuncio di Kethra le aveva dato la botta finale.
Non mi era mai capitato così, ma suppongo ci sia sempre una prima volta.
“Come mi… come mi hai trovato?”
Tek’ryn si strinse nelle spalle. “Non è mia abitudine leggere le emozioni altrui. Solo che voi umani, quando siete giovani, le avete un po’…” cercò la parola. “…urlate. Anche volendo non ho potuto evitarlo. Ho sentito un grido che arrivava da fuori. L’ho semplicemente seguito.”
Dora avvampò. “Scusami, ti ho svegliato.”
“Ero ancora in piedi tranquilla,” le mise una mano sulla spalla. “Vuoi parlarne? A voce però.”
Dora parlò. Più che altro vomitò un fiume di frasi che sperò avessero senso, perché tutto quello che provava era confusione, smarrimento e senso di colpa. Aveva mollato Kethra come una stupida in mezzo alla neve, dopo che le aveva letteralmente aperto il suo cuore e fatta partecipe delle sue decisioni.
Era un'amica di merda.
…e al tempo stesso, lo era anche Kethra perché la lasciava sola, dopo tutti i progetti fatti, dopo tutte le parole spese sul loro futuro.
Mi ha detto un sacco di cazzate allora? Come fa con tutti?
Tek’ryn la ascoltò in silenzio, aspettando che finisse.
“Capisco che tu possa essere arrabbiata,” iniziò. “Kethra ti aveva detto che sarebbe rimasta e non lo farà. Però le persone cambiano idea e non si può fargliene una colpa. Voi umani poi avete una vita breve, quindi credo che capiti persino più di frequente per la vostra razza.”
“Non così di frequente,” ribatté Dora serrando le labbra. “Io non l’ho mai cambiata!”
“Veramente se non ricordo male da bambina volevi prendere in gestione la tua fattoria.”
Dora accusò il colpo e seppellì il viso tra le gambe.
“La tua amica ha scelto una strada che ritiene giusta per sé,” continuò Tek’ryn. “Penso che forse, la sua rabbia, era frustrazione… perché non riusciva a dirtelo. Però alla fine ha preso coraggio e lo ha fatto. Ti ha detto la verità, anche se probabilmente era consapevole che non ti sarebbe piaciuta.”
“Non mi è piaciuta infatti.”
“Però non sta a te decidere come debba vivere la sua vita, no?”
“Ovviamente no!” sbottò voltandosi verso il drow con rabbia. “Non… io…” le veniva di nuovo da piangere. “Vorrei che restasse con me.”
“Puoi convincerla a restare,” ragionò Tek’ryn. “Però quando tieni tanto a qualcuno… a volte bisogna accettare di lasciarlo andare via. Qual è la cosa giusta da fare secondo te?”
Dora riprese la posizione che aveva prima, il volto sepolto nelle ginocchia. “Se… se credi a Lathander questa domanda te la fai spesso.”
Tek’ryn le mise una mano sulla schiena, in un gesto di quieto conforto. “Quindi sei anche in grado di trovare la risposta. Sei allenata.”
“Ci provo…”
Tek’ryn annuì. “Sei una brava persona Dora. Sono sicuro che farai la cosa giusta. Ti lascio la luce, io non ne ho bisogno,” si alzò. “Va’ a letto però, o ti prenderai un malanno.”
Dora annuì, bofonchiando un ringraziamento che il drow accettò con un cenno della mano prima di andarsene. Poi fu di nuovo sola.
Dora non rimase molto in infermeria. Una volta calma capì che doveva tornare in stanza da Kethra: non poteva nascondersi per sempre.
Trovò l’amica già a letto, con le pesanti coperte invernali tirate quasi fin sopra la testa; spuntavano infatti poche ciocche di capelli corvini e la fronte.
Si era stesa nella parte più esterna, mettendo quanto più distanza possibile tra di loro: sembrava stesse dormendo.
Dora si spogliò e si infilò infreddolita nel letto, rimanendo qualche attimo stesa dal lato opposto. Poi si girò sulla schiena. “Scusami per prima…” esordì. “Mi hai colto di sorpresa ed ho reagito male.”
Kethra non rispose, ma il ritmo del suo respiro non era quello di una persona che dormiva.
Dora sperò che la stesse ascoltando.
“Se diventare un’avventuriera è ciò che vuoi, io … io non lo capisco, ma io ti appoggerò,” continuò serrando le mani sulle coperte. Non era quello che voleva, ma non aveva importanza.
Stavolta, se non altro, sarebbe stato per una buona causa.
“Ti è sempre piaciuto aiutare gli altri a modo tuo, e se andare all’avventura è il modo in cui vuoi farlo… fallo. E poi imparerai sul campo, no? Dicono sia la scuola migliore.”
Kethra continuava a rimanere in silenzio e Dora ebbe voglia di voltarla e scuoterla.
Dimmi qualcosa. Non stai mai zitta un attimo da quando ci conosciamo!
Parlami, per favore.
Contemplò afflitta la schiena dell’altra. Alzò la mano, incerta se toccarla o meno. Non voleva rischiare che si scostasse. Le avrebbe spezzato il cuore.
“Voglio che tu sappia… che sarò sempre dalla tua parte. Anche se non saremo più insieme. Anche se… anche se mi mancherai tantissimo,” inghiottì un singhiozzo ma fece un lavoro orribile, perché le si spezzò la voce.
Concentrata nel compito di non crollare, si accorse in ritardo che l’altra si era finalmente voltata. Così la prese di sorpresa quando le gettò le braccia al collo stringendola con forza.
Kethra stava piangendo.
“Dimmi di rimanere…” singhiozzò. “Se me lo dici tu, non me ne andrò.”
Dora la strinse a sé. Aprì la bocca, ma poi la richiuse.
La cosa giusta. Devi fare la cosa giusta.
Accarezzò i capelli di Kethra, baciandole la testa. “Diventerai l’avventuriera più tosta della Costa della Spada, Kethra Brightraven. E io rimarrò al Tempio ad aspettarti, così quando tornerai mi racconterai storie incredibili e io morirò d’ansia.”
Kethra ridacchiò, scostandosi per asciugarsi maldestramente le lacrime. Dora la aiutò con un lembo di lenzuolo.
“Non dovrai aspettare così tanto, ti scriverò tutti i giorni.”
“Non ci credo manco se lo giuri sul simbolo, bugiarda che non sei altro…” la prese in giro facendola ridere. “Mi basterà qualche lettera.”
Kethra annuì, tirando su con il naso. “Ogni volta che mi fermerò in un posto civile, promesso.”
Si accoccolarono l’una vicina all’altra, le teste posate in un unico cuscino, com’erano abituate a fare nel dormitorio. “E se sarai nei guai…” cominciò Dora.
Kethra alzò gli occhi al cielo. “Te lo dirò. Te lo scriverò,” si corresse con una smorfia. “Sarà strano…”
“Sì, ma andrà bene. Sarà un nuovo inizio e sarà radioso. Per entrambe.”
Kethra sorrise e per un attimo lo sguardo le scivolò sulle labbra dell’altra ragazza.
Dora sentì il cuore perdere un battito, ma poi l’amica sospirò e chiuse gli occhi, sistemandosi meglio contro di lei. “Senti … per stanotte possiamo dormire così? C’è troppo spazio in ‘sto letto… e fa un freddo bestiale.”
Non faceva freddo per niente: il camino della stanza era stato ben alimentato in vista della notte e sotto le coperte c’era un tepore piacevolissimo.
Dora però non la corresse, se la tirò contro e chiuse gli occhi.

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Capitolo 24
*** Nuovi inizi. Nuovi incontri. ***


Autore: Dira_
Genere: introspettivo, comico

Note: qui le strade di Dora e Rupert si allacciano a quella di Thrip'ad, simpatico goliath di Il mio nome è Thrip. Questa storia finisce, ma a breve ne inizierà una nuova. La loro.



Nuovi inizi. Nuovi incontri.



Waterdeep, Anno 1370. Inizio inverno.

Rupert era a Waterdeep.
Erano quasi sette anni che Dora non lo vedeva: mentre lei studiava come chierica al Tempio, il gemello era stato accolto dall'Ordine del Sole, monaci fedeli a Lathander che occupavano piccoli monasteri in giro per la Costa della Spada.
Rupert doveva essere arrivato in città per un motivo. Non gliel'aveva detto però, neppure in una delle strampalate lettere che ogni tanto le inviava. Era semplicemente arrivato.
Doveva capire perché. 
“Portatrice dell'Alba!” si sentì apostrofare alle spalle. Dora stava percorrendo uno dei lunghi corridoi che portavano all'uscita del Tempio, in senso opposto alla cattedrale.
E dato che era quasi il Tramonto, questo era per lei insolito.
“Risvegliato Alton…” saluto voltandosi con un sorriso gentile, automatico e comodo come indossare un paio di pantofole da camera.
Dora aveva vent'anni ed era un Cerimoniere dell'Alba da solo un anno, ma gli adepti più giovani la guardavano con ammirazione. Era una responsabilità, ma anche motivo di grande orgoglio.
Solo che in quel periodo era più che altro un fastidio, anche se non dipendeva dal giovane halfling che corse per raggiungerla. “Portatrice dell'Alba, la messa sta per iniziare!”
“Grazie Alton, ma stasera non parteciperò. Vi guiderà nei canti il Portatore dell'Alba Merric.”
“Sul serio?” gli occhi del ragazzino rifletterono delusione; corresse subito il tiro però. “Ah, certo! ” esitò. “Però prima di andare… ecco, avrei bisogno di parlarti.”
Dora era impaziente di prendere la via del Distretto del Campo, dove le era stato detto Rupert alloggiasse, ma Alton era uno degli adepti che le era stato affidato, ed era uno dei migliori, devoto, studioso… e oggettivamente adorabile con quegli enormi occhioni grigi. “Dimmi tutto.”
“Gli altri… beh, si dice in giro che partirai!” buttò fuori il ragazzino. “Raggiungerai la Portatrice dell'Alba Kethra?”
Dora inspirò.
Kethra era partita due anni prima da Waterdeep per unirsi ad una banda di avventurieri, anche se aveva mascherato la cosa come desiderio di fare proselitismo a Nord del Faerûn.
Era partita con lo stesso spirito che aveva da quando la conosceva; d'improvviso e senza dare troppe spiegazioni.
 
“Dai Dora, Waterdeep ha più chierici che un tempio il giorno della Canzone dell'Alba! Che differenza posso fare qui?”
“Puoi diventare Signore dell'Alba e nel frattempo fare del bene al tempio, in città. Volevamo farlo assieme!”
“Non è che se manco io il tempio crolla, eh!”

Sì, ma non è questo il punto.
Dora inspirò, cercando di sorridere al visetto preoccupato del giovane adepto. “Ti hanno detto bene… ma tornerò presto, non sarà un addio.”
Il ragazzino annuì rinfrancato. “Sono sicuro che tu e la Portatrice dell'Alba Kethra farete grandi cose assieme!”
Già. Se la trovo.
Perché Dora non avrebbe raggiunto Kethra; sarebbe andata a cercarla, dato che da mesi la disgraziata non dava più notizie di sé, quando le aveva promesso di mandarle una lettera ogni volta che si fosse fermata in un posto in grado di spedirle.
E mica se n'è andata nelle Terre dell'Orda.
L'ultima volta che le aveva scritto aveva detto di essere a pochi giorni di viaggio da Neverwinter, a Nord, ma di voler tornare presto a casa. E poi era sceso il silenzio.
Avrebbe già dovuto essere qui. Anche andando a piedi, anche fermandosi a celebrare riti e fare proseliti nei villaggi lungo la strada…
Kethra sarebbe dovuta tornare e non l'aveva fatto. La puntualità non era mai stato il suo forte, ma l'amica la conosceva bene: sapeva che se avesse tardato senza dirle niente si sarebbe preoccupata.
Le doveva essere successo qualcosa e Dora dubitava le cose sarebbero migliorate finché non l'avesse ritrovata; avrebbe dormito sonni tranquilli solo dopo averle tirato una sberla in quella faccetta da schiaffi - vado a godermi il mondo Dora! Ciao Ciao!
Avrebbe dormito serena soltanto dopo averla sgridata per averla fatta preoccupare a morte, soltanto dopo averla abbracciata, stretta a sé, ispirando il suo odore e sapendo che finalmente erano assieme, Kethra e Dora, Dora e Kethra, migliore amiche inseparabili da quando zia Jhessail aveva deciso di punire la giovane illuskan esiliandola nella camerata dei novizi…
Soltanto allora.
“Portatrice dell'Alba Dora?”
La vocetta di Alden la riscosse dai suoi pensieri. Si era di nuovo persa in rimuginii e da un po', da come stava venendo fissata in pura perplessità. “Vai Alden,” borbottò arruffandogli i capelli ricci, “Non far aspettare i tuoi compagni e Merric, che sei sempre in ritardo.”
“Buona serata! Che l'alba sia con te!”
“…si dice alla Prossima Alba,” sospirò divertita. Poi si voltò, e marciò fuori dal Tempio, tra le luci sfavillanti della città.
 
Il Quartiere dei Campi era un posto poco adatto ad una giovane chierica di Lathander.
Non perché fosse particolarmente pericoloso - c'erano posti ben più malfamati in città, come il Distretto del Porto, con la sua folla di tagliagole e ladri - ma la povertà che trasudava dalle meste casupole, dai pochi negozi e dall'assoluta mancanza di pulizia poteva essere un campanello d'allarme per chi girava letteralmente avvolto nell'oro e nell'argento.
Il simbolo del suo dio che le dondolava sul petto la rendeva però riconoscibile come un faro nella notte ed era un deterrente sufficiente. Persino i malintenzionati più disperati sapevano che le sarebbe bastato toccarlo per infondere magia alla punta delle sue dita.
Non che abbia preparato incantesimi offensivi…
Sperava non fosse necessario. Dopotutto doveva soltanto trovare suo fratello, che le avevano detto alloggiasse all'Endishift, una taverna al limitare del quartiere, famosa per avere un nutrito gruppo di avventori che faceva parte della Guardia Cittadina. Era un posto dilapidato e dalla pessima birra, ma relativamente sicuro.
Dora lo conosceva, ma non per sua volontà: Kethra ce l'aveva trascinata un paio di volte durante l'adolescenza, quando il desiderio di trasgressione diventava insopprimibile per la giovane illuskan e semplicemente dovevano uscire. Allora indossavano abiti qualunque, nascondevano il simbolo, e andavano in giro per la città a bere, cantare, danzare e giocare a dadi fino all'alba.
Era un miracolo non fosse loro mai successo niente. Un miracolo, e la parlantina di Kehtra.
Quei momenti erano lontani come un sogno. Com'erano i ricordi che aveva con Rupert.
Sembrava passata una vita elfica da quando lei e il suo gemello si cacciavano nei guai nei campi della fattoria o nelle infinite stanze della locanda di Krystel. Si sarebbero riconosciuti?
Dora varcò la porta cigolante della locanda e un mostruoso muro di suoni e voci la investì come un'onda.
Un ragazzo, vestito solo di un paio di pantaloni di tela ed una casacca, assolutamente inadatti per il clima ancora invernale, era in piedi sul bancone e stava facendo roteare una serie di boccali tra le mani, in piedi su una gamba sola come un fenicottero lunatico.
 
“AMMIRATE LA PERFEZIONE E IL CONTROLLO PLEBAGLIA!”
 
…I muscoli, il volto affilato e la statura non potevano fuorviarla. Manco un po'.
Dora sospirò e si passò una mano sul viso.
Rupert Honeycomb era arrivato in città.
 
“…e quindi erano così deboli e patetici che mi sono detto, ho imparato tutto quello che c'è da imparare, è il momento che il grande Rushe spicchi il volo! E così me ne sono andato, ma prima ho detto a dei paladini rincoglioniti che c'era un demone nel monastero, e vedessi come sono entrati di gran carica!”
“…hai fatto cosa?”
Era passata solo mezz'ora da quando lei e Rupert si erano riuniti e Dora già sentiva montare il mal di testa. Forse perché era dalla stessa quantità di tempo che si era infilata le mani nei capelli e aveva cominciato a tirare.
Rupert - che ora rispondeva al nome di Rushe, letteralmente, perché quando aveva provato a chiamarlo col suo vero nome aveva cominciato a gridare e cercare qualcuno che fosse suo omonimo perché lui non si chiamava così - sfoderò un enorme ghigno, come quelli che faceva da ragazzino.
Solo che era un uomo fatto e questo lo faceva sembrare uno squilibrato certificato.
Al monastero non gli hanno insegnato niente.
A parte essere pieno di muscoli e con un'insolita refrattarietà per i vestiti. “Avresti dovuto vedere le loro facce, sorellona!”
“Meglio di no,” borbottò afferrando il proprio boccale e dandone un vigoroso sorso. Sarebbe stato il primo di molti. “Ascolta… non che non sia contenta di vederti e ti trovo… bene?”
“Meravigliosamente bello e sexy vuoi dire?”
“Sì, come no,” inspirò posando il boccale. Le era venuto in mente che sarebbe stata una splendida arma contundente contro la testa del gemello. “Sono contenta di vedere che stai bene, ma che ci fai qui?”
“Boh!”
“Come boh?”
Rushe si lasciò cadere contro lo schienale della sedia, facendo poi spallucce. “Waterdeep è un posto come un altro e sto cercando di capire da dove iniziare la mia nuova grande avventura. Ho girato per un po' per la Costa della Spada, ma non c'è nessun posto che mi ispiri…”
“Quindi sei senza un posto dove vivere e non sai cosa fare?”
“Esatto!”
Dora si passò una mano sul viso. Solo quella ci mancava; oltre che doversi preoccupare per Kethra avrebbe dovuto anche occuparsi di non far morire il gemello nella sua ricerca del senso della vita.
“Però qui ci sei tu.”
Dora alzò lo sguardo, riflettendosi nelle iridi nocciola dell'altro. Avevano gli stessi occhi, lo stesso taglio. Crescendo le somiglianze tra di loro si erano accentuate, lei aveva preso la corporatura robusta e squadrata degli Honeycomb mentre Rushe era snello e slanciato come il lato materno della loro famiglia…
Però se lo guardava negli occhi era come riflettersi ad uno specchio.
Uno specchio rotto, ma vabbeh.
“Mi dispiace non esserti venuta a trovare…” mormorò sfiorandogli un braccio. “Al Tempio c'è sempre tanto da fare, e quando posso liberarmi torno alla fattoria, papà non fa che dirmi che gli manco… e tu non ci sei mai, neppure per la festa di Mezza Estate."
L'espressione allegra di Rushe si rabbuiò di colpo. Fu come veder chiusa una finestra da un colpo di vento. “In quel posto di merda non tornerò mai più.”
Dora si morse un labbro. Avrebbe voluto dirgli che invecchiando il padre si era ammorbidito, ma non era vero. Era sempre il solito… e mentre Stedd era andato nell'Entroterra a cercare fortuna, Randall era rimasto, ed era peggio di prima.
L'ultima volta era così ubriaco che papà l'ha sbattuto a smaltire nella stalla prima che diventasse anche aggressivo…
“Non fa niente sorellona! Sono venuto io, e adesso potremo vederci tuuttte le volte che vogliamo!”
Dora esitò. “A proposito di questo… in realtà no. Parto.”
Rushe batté le palpebre. “Te ne vai? E dove?”
“Non ne ho idea…”
“Ah! Una foglia nel vento come il sottoscritto, capisco! Gran scelta!”
“No… è che… è complicato…”
Gli raccontò tutto. Di fronte al terzo boccale della serata ruppe le dighe e raccontò di Kethra, della sua partenza improvvisa… della sorpresa, la confusione, del dolore. Soprattutto di quello; era forse destino per lei perdere o allontanarsi dalle persone a cui voleva bene?
Prima Tine, poi Rupert, poi Kethra…
Delle tante lettere che si erano scambiate, di come alla fine fosse venuta a patti con quella lontananza inspiegabile e stupida… e della felicità quando l'amica le aveva scritto che sarebbe tornata, con una lettera che lesse ad alta voce al fratello perché teneva sempre con sé.
 

"Mia carissima Dora,
spero che questa lettera ti trovi bene. In questo momento mi trovo a qualche miglio da Neverwinter. Fa molto freddo, la primavera è assai lontana. Sto tornando a casa, o almeno, nel posto che ho sempre ritenuto casa mia. sto tornando a Waterdeep, sto tornando da te. Mi manchi, amica mia, mi mancano i nostri pomeriggi spensierati  passati inseme tra il marmo rosato baciato dal sole. guarda come sto diventando malinconica...
Allora eravamo spensierate, vero? Forse sciocche, ma felici.
non vedo l'ora di abbracciarti, mia dolcissima Dora, ma mi chiedo se tu vorrai riabbracciare me. dov'è la persona che ero un tempo? Forse non sarei mai dovuta partire.
Ci sarà ancora un'altra alba?
Sempre tua,
Kethra Brightraven"


 
“Mmh,” commentò Rushe pizzicandosi il mento. “Mmmmh! Secondo me è suuuuper pentita di aver telato!”
“Vero?” Dora annuì, rinfrancata. “Vero che ha capito di aver sbagliato, che il suo posto è qui, a Waterdeep, al Tempio…”
Con me.
“E poi…” aggiunse, e fece una smorfia, perché quella teoria era stata bocciata da chiunque. “…credo che sia nei guai. Le ultime lettere che mi ha inviato erano come questa, parlavano di quanto le mancava casa, di quanto si sentisse cambiata e… non lo so, non mi hanno fatto una bella impressione. Era come se fosse spaventata da qualcosa.”
“Questa è l'ultima?”
“Sì, e sono passati mesi, per questo sono preoccupata. Devo andare a cercarla, ma non so da dove iniziare… né come,” ammise. “Già ci ho messo un secolo a convincere zia Jhessail a farmi partire.”
Era stata una delle conversazioni più penose della sua vita. Zia Jhessail era stato un punto fermo durante la sua formazione, ma essendo anche il chierico responsabile di tutti i novizi non aveva mai voluto dare l'impressione di favorirla. Per questo era stata una figura d'autorità, più che una parente.
E si era opposta strenuamente alla sua partenza.
 
“Servi qui Dora. Hai un avvenire in questa città. Sei un Cerimoniere dell'Alba adesso, ma puoi puntare molto più in alto… persino più in alto di dove sono arrivata io. La tua fede è grande, ed è un esempio per i giovani Risvegliati. Vuoi forse privarli di una guida?”
“Sarebbe solo finché non trovo Kethra, zia…”
“Kethra ha fatto una scelta, ha deciso un nuovo inizio che non ti coinvolge. Perché non riesci ad accettarlo?”

 
Perché non lo capisco.
Dora premette le dita sul boccale, ormai caldo.
Non lo capisco.
Lei e Kethra, da quel pomeriggio nel dormitorio, non si erano più separate; avevano studiato assieme, si erano allenate assieme, assieme avevano avuto accesso alla magia. Avevano condiviso paure, sogni, speranze. Avevano pianificato il loro futuro all'interno del Tempio; sarebbero arrivate in alto, avrebbero speso tutte le loro energie per la loro comunità e in particolar modo avrebbero curato e potenziato l'orfanotrofio del loro Distretto. Lo avrebbero reso un porto sicuro per la gioventù di Waterdeep. Avrebbero reso il Tempio un faro luminoso che avrebbe illuminato anche gli angoli più scuri e sordidi della città, portandovi luce e risollevando le sorti di tanti bambini e ragazzi che come Kethra avevano perso tutto prima ancora di conoscerne il valore.
E poi l'amica, di punto in bianco, aveva deciso di partire. 
 
“Voglio solo essere sicura che stia bene. Poi riprenderò i miei compiti. Te lo prometto, zia. Ti ho mai deluso?”
Un vago sorriso, una carezza. La seconda che le avesse mai dato in vita sua. La Portatrice dell'Alba Jhessail era una donna retta e giusta. Ma la sua era una luce fredda, invernale, e non aveva mai scaldato.
“No, Dora. Non ho mai rimpianto di aver lottato per te quella primavera, alla fattoria. Non vorrei averne motivo adesso però.”
“E non lo avrai! Zia, io… per favore… non riesco a concentrarmi, a fare nulla, sono rosa dalla preoccupazione… so che Kethra è sempre stata una testa calda ma è una di noi! Potrebbe essere nei guai! Dovremo curarci del prossimo, aiutare, andare oltre noi stessi e i nostri bisogni…”
“E aggrappandoti a quella ragazza vai oltre i tuoi bisogni o tenti di soddisfarli? Sei una donna ormai. Questo tuo attaccamento è morboso. Non sono mai intervenuta perché non ha mai interferito con i tuoi compiti, ma se mi dici che adesso lo sta facendo, devo mettere un punto fermo.”
“Zia, per favore…”
“Dimenticati di Kethra Brightraven. È un ordine.”
 
“Dora?” Rushe le passò una mano davanti al viso. “Ci sei? Sei sbronza?”
Dora scosse la testa; lo era, ma non c'era quantità di alcool che le potesse far dimenticare cosa aveva combinato.
 
“No.”
“Prego?”
“No, non voglio. E se non mi vuoi dare il permesso di partire a cercarla, lo chiederò più in alto. E se non lo otterrò, rinuncerò al simbolo e andrò a cercarla nuda per il mondo. E questo sarebbe un problema anche per te, vero?”

 
Zia Jhessail era diventata pallida come una statua di cera. Non aveva detto nulla, l'aveva lasciata andare via, ma qualche giorno dopo le era arrivato il permesso di  partire per portare la parola di Lathander fuori da Waterdeep.
Dora aveva ringraziato e da allora non si erano più rivolte la parola. Non le interessava. Doveva riportare Kethra a casa.
 
“Potrei unirmi ad una compagnia di avventurieri diretta a Nord… ne passano di continuo in città, e mi è stato detto che accolgono a braccia aperte i chierici… solo che vanno all'avventura, e avrebbero degli obiettivi diversi dai miei. D'altro canto viaggiare da sola…”
“Sola?” Rushe la interruppe con una risata. “No-uh! Andremo assieme!”
Dora scoccò un'occhiata all'altro. Era evidentemente sbronzo quanto lei e gli occhi gli brillavano della solita, familiare scintilla di follia, ma il tono era serio.
“Io vado dove vai tu, sorellona,” biascicò mettendole davanti un pugno. “Gemelli Honeycomb in partenza!”
Dora sentì un sorriso premere sulle labbra, così come lacrime all'angolo degli occhi. Sbatté il proprio pugno con quello dell'altro. “Allora è deciso… viaggeremo assieme.”
“E ritroveremo Catra!”
“Kethra.”
“Sì, sì, quella… la tua fidanzata, giusto?”
Dora avvampò. “Amica! Non siamo… siamo chieriche donne!”
“Ah, Lathander è omofobo?” domandò Rushe grattandosi la testa. “Il tuo dio è pure più merda di quel che pensassi.”
“Sei un monaco dell'Anima del Sole, idiota! È anche il tuo dio! E comunque no, non ha problemi con due donne che… solo che, non… siamo soltanto amiche!” balbettò. Per tutti i non morti, che era venuto in mente a suo fratello? Cosa del suo racconto aveva frainteso?
Non sarebbe la prima volta… - sussurrò una vocina maligna dentro la sua testa.
Dora non perdeva tempo con le malelingue che inevitabilmente serpeggiavano in una socialità ristretta come quella del Tempio, però le orecchie le aveva: non poche persone erano graniticamente convinte che lei e Kethra fossero state amanti segrete, specialmente dopo che entrambe avevano rifiutato possibili matrimoni vantaggiosi (lei uno solo, Kethra molteplici). 
Quelle voci erano ridicole e generate dall'invidia, invidia per qualcosa che gli altri non avevano. Non avevano la loro sintonia, la comunanza di idee e la capacità di comprendersi con un solo gesto - letteralmente, aveva insegnato a Kethra l'alfabeto gestuale di Tinefein.
Era invidia.
Sì, ma Rushe? Che motivo avrebbe per invidiarvi?
Neanche la conosce.
Tacitò quel pensiero. “È la mia migliore amica, tutto qui.”
Rushe si strinse nelle spalle, ingollando un altro sorso di birra. “Come ti pare sorellona.”
“Com'è!” Inspirò. “Va bene… pensiamo alle cose serie. Dobbiamo trovare un posto dove farti dormire stanotte. Puoi venire al Tempio con me, ma devi comportarti…”
Un improvviso tonfo e rumore di legna spezzata li fece girare entrambi di scatto. Trovandosi in una nicchia in fondo alla locanda Dora non capì subito cosa fosse successo, ma intuì che era nei pressi del bancone.
“QUESTA BIRRA È TERRIBILE!!” ruggì un vocione dal forte accento straniero. “TI MERITI ZERO STELLINE!”
“Ma che cazzo…” Dora si guardò con Rushe, che fluido come acqua si alzò in piedi, facendo guizzare i muscoli delle spalle mentre si scrocchiava il collo.
“Botte,” sussurrò con tono orribilmente deliziato.
“No botte,” ribatté afferrandolo per il retro della casacca. “Andiamo a vedere però.”
Si avvicinarono e scansata un po' di gente - che in realtà sembrava avere una gran voglia di andare nel senso opposto rispetto al loro - si trovarono al bancone. Dietro c'era l'oste,  pallido come gesso di fronte ad una montagna di muscoli grigio-azzurri. Un goliath delle montagne, riconobbe Dora deglutendo, grosso come un armadio a due ante, e vestito come chi c'era appena sceso, da un picco. E armato di una grossa ascia.
“È la migliore che abbiamo…” balbettò l'oste facendosi piccolo. “Offre la casa?”
“NON TI VERGOGNI A CERCARE DI COMPRARMI?” ruggì il bestione brandendo l'ascia con aria minacciosa.
Merda.
Caso voleva che quella sera nessun armatura o simbolo della Guardia Cittadina fosse in vista. Erano tutti civili e quasi tutti se l'erano filata.
A guardar bene, a parte l'oste e il barbaro furioso, erano rimasti soltanto lei e il gemello.
MERDA.
“Perdono… non mi uccida…”
Dora doveva intervenire. Era l'unica figura di autorità là dentro… e anche se dubitava che un goliath delle montagne fosse particolarmente avvezzo a dar retta ai chierici umani, doveva comunque cercare di calmare le acque…
Come? Non hai incantesimi preparati, se non i miei soliti di guarigione!
E quelli ho paura che potrebbero servire dopo.
“Ehi, coglione! Lascia stare l'oste!” berciò Rushe. Dora si voltò e sconvolta notò come il gemello fosse in posizione da combattimento. Saltellava anche da un piede all'altro, e al di là del modo perfettamente bilanciato con cui lo stava facendo, era uno spettacolo terrificante.
Perché il goliath si voltò e li guardò sorpreso. “Come mi hai chiamato?”
Il ghigno di Rushe diventò enorme. “Coglione. Hai muschio anche nelle orecchie per caso?”
Il goliath parve rifletterci seriamente. Poi sogghignò ferale. “No, ma tra poco TU non avrai le orecchie,” e urlando in una lingua incomprensibile si lanciò su di loro.
Dora provò una sensazione che pensava di aver dimenticato: l'inebriante desiderio di voler bestemmiare fortissimo.
 
Una rissa, un mucchio di boccali, sedie e tavoli rotti dopo…
 
In qualche modo lei e Rushe non erano morti. E non erano manco stati arrestati per aver messo a ferro e fuoco la locanda. Lathander davvero aveva preso le redini quella notte.
Rushe e il goliath se l'erano date di santa ragione senza risparmiare praticamente nessun pezzo di arredamento. Dora, cercando di evitare che il gemello venisse polverizzato, aveva rimediato un occhio nero, diverse costole ammaccate e un mantello completamente rovinato da birra rovesciata, sangue e quello che sospettava fosse piscio, un grande classico dei pavimenti di quel posto.
Alla fine la situazione era stata robustamente sedata da un drappello di guardie cittadine e sarebbe finita con la successiva gattabuia e zia Jhessail che la strangolava con il simbolo, se tra le guardie non vi fossero stati due giovani paladini che conosceva.
I due ragazzi erano sembrati shockati quanto divertiti dal trovarla lì e in quelle condizioni, e avevano intercesso con il Capitano della compagnia per risolvere la cosa con una semplice reprimenda e parecchie monete d'oro sonanti.
 
Si erano così trovati fuori dalla locanda, nel silenzio della notte, liberi. Lei, Rushe… e il goliath, che si massaggiava la mascella. 
Spero che Rushe gliel'abbia rotta.
“Beh! Tempio?” propose Rushe sputando a terra un grumo di sangue. “Si va?”
“Prima ti curo, pezzo di deficiente, non puoi entrare così…” borbottò sfiorando il simbolo. Un flusso caldo e dorato di magia le illuminò brevemente la mano che poi posò sul petto del fratello. Durante l'operazione Dora sentì gli occhi del goliath su di sé.
“Ah, quindi sei una chierica di Lathander,” esordì placido, come se non si fossero fatti a pezzi fino a poco prima. “Puoi curare anche me per favore?”
“No!” sbottò incredula, prima di schiarirsi la voce. “Cioè… scusa, ma non… ci siamo menati?”
Il goliath annuì. “È stato uno scontro soddisfacente, vi siete battuti con valore per essere due piccoletti. Avete il mio rispetto, e accetto le vostre scuse per esservi intromessi.”
“Vuoi altre botte?” domandò Rushe e Dora lo tacitò con uno schiaffo sulla spalla anche se la pensava come lui.
Il goliath lo ignorò rivolgendosi direttamente a lei. “Non ci sono molti che riescono a tenermi testa in questa città. Di solito strillano e scappano.” Ora che era fuori da quella che doveva essere stata ira aveva un'espressione gioviale sul volto pietroso. Le sorrise. “Mi chiamo Thrip'ad della tribù Kuntana delle Orsraun, posso sapere i vostri nomi?”
“Il mitico Rushe e Dora Honeycomb, fratelli meraviglia,” rispose Rushe per lei gonfiando il petto e sfoderando un sorriso che sarebbe sembrato minaccioso, se non avesse avuto la faccia gonfia come una zampogna.  “E ripeto, vuoi botte Trippa della tribù Corta?”
Per il radioso, ora ci ammazza.
Il goliath non diede segno di aver captato il tono irriverente di Rushe. “Thrip'ad della tribù Kuntana delle Orsraun,” lo corresse gentilmente. “Grazie, ma per stasera basta, sono un po' stanchino. Piuttosto… vi ho sentito parlare. Cercate un modo per viaggiare la Costa della Spada, vero?”
Dora si scambiò uno sguardo con Rushe e annuì incerta. Il goliath continuò: “Io faccio il corriere per l'Emporio d'Aurora, al Distretto dei Mercanti. Vitto e alloggi convenzionati in quasi tutti i villaggi… anche la paga non è male, e si viaggia tanto. Se non volete fare gli avventurieri, perché non venite a lavorare con me?”
Ma anche no.
Dora però fermò il rifiuto a mezze labbra. Perché la proposta in effetti era molto meno pericolosa dell'eventualità di affiliarsi ad una cricca di scalmanati in cerca di tesori.
E poi, chi romperebbe le palle ad uno così?
“Tra pochi giorni parto per una consegna, ma sarei da solo e mi farebbe piacere avere compagnia. Voi mi sembrate saper badare a voi stessi, anche se lui…” e indicò Rushe che si era messo a fare flessioni per terra per chissà quale astruso motivo, “è scemo.”
“Sarai bello te!” sfiatò Rushe cominciando ad usare una mano sola.
“Sì, lo è,” confermò Dora con un sospiro. “Non mi pare però che tu possa permetterti di giudicare. Senza offesa… ma non ci si comporta così in città. Hai rischiato di essere arrestato!”
“Ma non è successo, no?” Ribatté Thrip'ad scrollando le spalle e Dora non ebbe la forza di iniziare l'ennesima discussione con l'ennesimo matto. “Vi ho risolto un problema, credo. Me la merito questa cura?”
Dora alzò gli occhi al cielo. “Domani verremo a parlare con Aurora. Vedremo… nel frattempo voltati, ho visto un pezzo di sedia spuntarti dalla schiena. Inizio da lì.”

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