Legami di Sangue

di _Lightning_
(/viewuser.php?uid=123574)

Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.


Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Ad'ika ***
Capitolo 2: *** Ge'yaim ***
Capitolo 3: *** Aliit ***
Capitolo 4: *** Kyr'Tsad ***
Capitolo 5: *** Ni ceta ***



Capitolo 1
*** Ad'ika ***


PREMESSA:

Cari Lettori,
questa storia vuole essere una serie di spin-off legati alla mia altra long, Vode An. Il focus è principalmente sull’infanzia/adolescenza di Din Djarin, sul suo rapporto con Paz Vizsla e in generale sul periodo che ha trascorso nella Tribù. Altri personaggi rilevanti sono Ruusaan Motir, mio OC e madre adottiva di Din, Azi Sten'ka, altro mio OC e comandante di una divisione della Ronda della Morte, e l’Armaiola della Tribù. La storia può essere parzialmente comprensibile anche senza aver letto Vode An, ma vi preannuncio che, in questo caso, è necessaria una buona conoscenza dell’ex-Universo Espanso di Star Wars o comunque del materiale sui Mandaloriani.

Vi avverto anche che c’è un’altissima presenza di Mando’a e altre conlang di Star Wars – deformazione professionale. Ciò che riporta un asterisco è di mia invenzione e ciò che trovate nelle note ha il relativo apice. Ammetto che questa storia è molto più leggibile su Wattpad, perché ho l’opzione di inserire le note direttamente a margine, quindi se preferite potete leggerla >>qui<< ♥

Ultima nota sulla "genesi": con la conclusione del Volume I di Vode An ho realizzando che molti passaggi, riflessioni e a volte interi capitoli che avevo progettato non hanno più spazio o senso d’esistere. Mi dispiaceva, però, non condividerli con voi, perché rappresentano una grossa parte del world building e dello sviluppo dei personaggi che, nella storia, vedete "già compiuto", con solo dei riferimenti più o meno incisivi. Potrete trovare alcune di queste parti nel Volume II, rielaborate, tagliate o così come sono, ma visto che si tratta di un progetto a lunghissimo termine volevo togliermi lo sfizio ♥
Magari solleverò nuove domande sui personaggi, magari ne risolverò qualcuna. A voi l’ardua sentenza

In ogni caso, scusate il papiro e buona lettura ♥


 


Capitolo I

“Ad’ika”




Il bambino non parla.

Sta seduto vicino al fuoco con una ciotola di zuppa stretta tra le mani e il cappuccio rosso abbassato a coprire gli occhi scuri, immobile. Non ha pronunciato una singola parola e tutti iniziano a chiedersi se non sia semplicemente muto.

Ruusaan sospira. Quel refolo d’impotenza si infrange all’interno dell’elmo con inaspettata forza. Il resto del suo squadrone sta approntando l’accampamento per la notte e altri fuochi da bivacco iniziano ad agitare le loro fiamme, sprizzando ampi ventagli di faville nel cielo notturno.

Di Azi non c’è traccia: sta probabilmente guidando la squadra di ricognizione nei dintorni di Aq Vetina per scovare ulteriori battaglioni di droidi nascosti tra i monti. La Ronda della Morte deve assicurarsi quel settore, prima che i Separatisti lancino un attacco più consistente.

Si rimangia il sospiro, simbolo di inconcludente indecisione, e lo tramuta in un respiro fermo. Si avvicina al bambino ad ampie falcate, con l’armatura che tintinna lieve e gli stivali che si imprimono nel terreno polveroso. Lui alza immediatamente la testa, accogliendo il suo arrivo con un mare nero di diffidenza a inondargli gli occhi.

Si dissipa non appena la riconosce con sguardo acuto, nonostante la sua armatura sia identica a quella di ogni altro membro della Ronda. Lascia posto a una quieta curiosità, seppur venata di circospezione.

«Hai mangiato» osserva Ruusaan, accovacciandosi di fronte al tronco sul quale è seduto per portarsi a livello col suo volto. «Bene, ad’ika. Devi riprendere le forze. Ti senti meglio?»

Il bambino abbassa brevemente lo sguardo sulla ciotola ormai vuota, per poi annuire un paio di volte, rapidamente. I suoi occhi neri tornano a fissare il suo elmo e, dopo un istante di smarrimento, trovano i suoi oltre il visore. Ruusaan lo osserva: non avrà più di otto anni, ma né il suo corpo né i suoi occhi li dimostrano. Sembra più piccolo nel fisico e più grande nello sguardo, in un contrasto doloroso.

È fin troppo tranquillo, per aver perso genitori e casa appena qualche ora fa. Ruusaan sa bene come funziona la perdita. Sa anche che quella non è ancora l’età in cui bussa prepotentemente alle porte dell’anima con la nitida realizzazione di quel che non c’è più. Forse, però, quell’assenza di voce vuol dire semplicemente che i suoi primi messaggeri sono arrivati prima di quanto avrebbero dovuto, suggerendo più maturità di quanto non dimostri il suo volto ancora paffuto.

Vuol dire che, sotto quella tunica rossa e lacera che avvolge un corpo magro di bambino, c’è già una scintilla guerriera, in grado di accogliere il beskar come una seconda pelle. Ci sarà tempo per capirlo. Per adesso, basterà mostrargli l’imbocco della Via e aspettare che sia lui a scegliere di intraprenderla.

Ruusaan porta una mano al collo, scostando l’orlo alto della tuta di volo, e tira fuori il ciondolo in beskar che porta celato sotto all’armatura. Allenta al massimo il legaccio, abbastanza da farlo passare sopra l’ingombro dell’elmo, poi mostra il pendente al bambino. Lui mette da parte la ciotola vuota e si china subito in avanti.

Il lucore delle fiamme sembra rendere liquida la superficie cromata del metallo. Le orbite del teschio sembrano animarsi e occhieggiare fameliche ad ogni scintillio.

«Sai cos’è?»

Il bambino corruga le sopracciglia, osservando meglio il ciondolo, poi scuote piano la testa.

«È un kyr’bes: un teschio di mitosauro. Erano draghi enormi che abitavano Mandalore molto tempo fa. È un simbolo di noi Mandaloriani, il più antico che esista... secoli fa, li domavamo per cavalcarli in battaglia.»

Gli occhi del bambino si sgranano appena, colmi di muto stupore. Ruusaan gli prende una mano, glielo preme nel palmo e richiude con dolcezza le sue dita sul metallo.

«È tuo, se vorrai. Puoi scegliere se tenerlo» gli spiega con pacatezza, racchiudendo in quelle poche parole e in quella mano infantile un intero Credo.

Non è così semplice, scegliere, non quando il mondo che ha sempre conosciuto gli si è sgretolato davanti in una frazione di secondo. Ma può aiutarlo a farlo e tendergli una mano, così come la Ronda l’ha tesa a lei molto tempo fa.

Il bambino, per ora, sembra solo affascinato dal piccolo manufatto. Lo rigira delicatamente tra le dita, studiandolo più da vicino con occhi intenti. Ne saggia il contorno, il profilo delle zanne smussate, segue l’incavo delle orbite allungate con la punta dell’indice, affatto impressionato dal ghigno minaccioso di quell’animale terrificante.

Ruusaan sa che ha capito cosa gli sta implicitamente chiedendo. Lo intravede nel modo quasi sacrale in cui lo maneggia, come se stesse cercando di imprimerlo nei palmi. Non sa, però, se la fiducia che dovrebbe offrirle in cambio sia rimasta in quel seminterrato, sbriciolata dalle esplosioni assieme ai resti d’infanzia di un bambino adesso taciturno, dagli occhi troppo adulti e neri.

Non si aspetta una risposta immediata. Adesso è ora di dormire e di assicurargli sogni tranquilli, per quanto possibile. Fa per alzarsi per accompagnarlo al suo giaciglio nell’accampamento ormai quasi allestito, ma si blocca sul posto. Il bambino si passa il laccio del ciondolo attorno al collo, facendolo scivolare sotto al cappuccio, poi lo stringe finché il beskar non si adagia al centro esatto del suo petto, in contrasto col rosso vivo del tessuto.

Alza di nuovo gli occhi verso di lei e Ruusaan, nella tenacia con cui quello sguardo si aggrappa al suo oltre lo strato di metallo, scorge un vivido sprazzo di cuore mandaloriano a illuminargli l’animo. La scintilla guerriera si fa più intensa, rosseggia al soffio lieve che le ha appena riservato e si fa fiammella flebile ma ostinata.

Ruusaan annuisce con solennità, un unico cenno dell’elmo che suggella quella decisione. Si rialza in piedi, torreggiando su di lui. Il bambino la guarda dabbasso senza la minima stilla di timore a inquinargli le iridi – la guarda solo come se fosse lei, a portare il suo intero mondo sulle spalle. Si scopre pronta a sostenerne il peso, così come ha sostenuto quello del bambino quando l’ha preso in braccio e portato in salvo. È un peso lieve, per ora, lieve quanto quello del ciondolo che lui porta al collo.

«Vieni, ad’ika?» lo chiama, con un segno del capo verso l’accampamento.

Il bambino annuisce e si alza saldo sulle gambe, il cappuccio che si scosta un poco dai capelli corvini. Abbassa lo sguardo sul suo nuovo ciondolo e lo stringe a controllare che sia ancora davvero lì. Poi storce lievemente la bocca, come contrariato, e trova di nuovo i suoi occhi dietro l’elmo, con infallibile precisione.

«Din» pronuncia con fermezza, sorprendendola con la sua voce.

È ancora acuta, anche se già sporcata dal fumo, ma dietro a una patina di gravità si cela una nota più morbida, gentile. Le ci vuole un attimo, per riprendersi dallo stupore e capire che quello è il suo nome.

«Din» ripete quindi attraverso un sorriso, accettando quell’implicita richiesta.

Din’ika.

«Io sono Ruusaan. Ma puoi chiamarmi Ruu.»

«Ruu» ripete subito lui, con naturalezza spiazzante.

Ruusaan sa che non è davvero lei, a pronunciare le successive parole. È la Ruusaan di molti anni fa, quella che non aveva ancora perso niente di troppo vicino al cuore. Ma è anche la Ruusaan di adesso, che l’ha appena ritrovato.

«Vuoi che ti racconti qualcosa sui mitosauri, prima di dormire?»

Din inclina timidamente il mento verso il basso, trattenendo un sorriso fugace come un pensiero. Fa cenno di sì. Lancia un’occhiata fulminea al buio, verso casa. Poi cerca la sua mano e vi si aggrappa. Ruusaan trattiene il fiato, con un sobbalzo sotto alla corazza. Stringe appena la presa. Forse non deve mostrargli la sua Via, ma semplicemente accompagnarlo lungo la propria.

Lo guida per mano e Din la segue, due sagome che avanzano appaiate nella notte, tra i fuochi da bivacco e i canti Mandaloriani che la riempiono.

 

Note&Glossario:

ad'ika:
bambino/figlio. Termine affettuoso (tutto ciò che in Mando'a termina in 'ika è un vezzeggiativo/diminutivo).

Piccole precisazioni: il passato di Ruu troverà lumi nella long principale, ma qualunque riferimento abbiate notato/noterete in questa e le future shot è assolutamente coerente con essa. Questa shot fa un po’ parte a sé, essendo nata molto prima della stesura di alcune parti di Vode An, ma non vi sono discrepanze evidenti, se non ai miei occhi :P

L'aesthetic/banner qui sotto è opera mia e riporta il vecchio titolo, Mando'ade (Figli di Mandalore) che è poi diventato il titolo del Volume II di Vode An – tanto perché non riesco a tenere un'idea per più di due secondi :D
Grazie a chiunque abbia letto fin qui ♥

-Light-

 Questa shot fa un po' parte a sé, essendo nata molto prima della stesura di alcune parti di Vode An, ma non vi sono discrepanze evidenti, se non ai miei occhi :P

 

 

Ritorna all'indice


Capitolo 2
*** Ge'yaim ***



Capitolo I

“Ge’yaim”




Nevarro, 20 BBY ca.

Nevarro li accoglie con le sue distese laviche, simili a ferro cangiante sotto il cielo cupo che assedia di nubi l’orizzonte. 

Piove raramente, su Nevarro, perlopiù violenti temporali dovuti alle costanti eruzioni e fumate vulcaniche. Sulle cime più alte, l’acqua in eccesso provoca devastanti lahar che inghiottono il paesaggio e ogni cosa sul loro cammino, rimodellando pianure, scolpendo nuove colline e scavando crepacci aperti dai terremoti. Le prime, timide gocce si abbattono sull’elmo di Ruusaan e sul cappuccio di Din quando imboccano la strada maestra di Gyra, la città principale.

«Sembra un po’ Aq Vetina» mormora Din, circospetto.

Ruusaan non capisce se lo dica in modo contento o meno.

«Siamo quasi arrivati» evita di rispondere.

Lo guida attraverso le bancarelle fatiscenti di un mercato. Din scruta le merci in vendita da sotto il cappuccio rosso, osservando ortaggi ed esseri più o meno noti sui banchi traballanti. Un mercante Weequay dal tipico volto raggrinzito come cuoio lo trapassa con lo sguardo; vi aggiunge un mezzo ringhio, forse scambiandolo per un ladruncolo, quando lui si sofferma troppo a lungo a osservare un mazzo di chuba essiccati che pende dalla sua tenda.

«Cheespa bo coopa!1» sibila in Huttese, rendendo chiaro l’invito a girare alla larga col tono, più che con le parole.

Din nemmeno sobbalza, limitandosi a ricambiare con un’occhiata altrettanto ostile. Sembra intenzionato a rispondere per le rime. Quando Ruusaan si ferma lì accanto, lasciando intuire che viaggia con lui, il Weequay sgrana leggermente gli occhi alla vista dell’armatura della Ronda e si affretta a impegnarsi nel retrobottega. Din fa una smorfia, come se fosse deluso.

«Non attirare l’attenzione» intima Ruusaan, rimbrottandolo. «As woor

Come il vento. Din scrolla le spalle, annuisce e concentra gli occhi sulla strada davanti a sé. Ruusaan non aggiunge altro, ma pensa che gli addestramenti di Azi l’abbiano reso troppo spavaldo. Spera che la Tribù sappia smussare quel difetto prima che lo metta nei guai con qualcuno o qualcosa di più pericoloso di un Weequay.

Arrivano all’ingresso del Rifugio senza ulteriori imprevisti e imboccano le scale che si addentrano sottoterra. Percepisce Din esitare sul primo gradino, restio a seguirla. Ruusaan si volta a guardarlo, con l’improvvisa realizzazione che, per un bambino sopravvissuto chiuso dentro una cantina a un bombardamento, quello potrebbe non essere un luogo che ispira un senso di sicurezza.

Sta per incoraggiarlo, per poi vederlo deglutire con forza e scendere i gradini. È teso, questo è evidente, ma avanza senza tentennare. La paura di essere un codardo è più forte della paura stessa. Anche per questo deve “ringraziare” Azi. Ruusaan sospira senza farsi sentire. A volte ha l'impressione di vedere un adulto in miniatura, sotto quel cappuccio che si calca sempre in testa.

«Non è lontano» lo rassicura.

Lui non risponde, osservando le ombre che si fanno più dense attorno a loro con ogni passo. Lei ha il visore dell’elmo a renderle meno spaventose, mentre Din fa schizzare qua e là le pupille, con la mano vicina al fodero della vibrolama.

Normalmente, una madre prenderebbe un bambino di undici anni per mano e lo guiderebbe nell’oscurità. Ma lei non è più una vera madre e Din non è più un bambino: sono entrambi Mandaloriani ed entrambi guerrieri. Sa che Din non le perdonerebbe un gesto simile, non più.

Così continua a guidarlo verso la Forgia, dove lo aspetta, forse, la promessa di una nuova casa.

 

 

A Din questa

A Din questa “nuova casa” non piace neanche un po’.

È buia, fredda e piena di ombre e vicoli ciechi. Non sa nemmeno se ci sia qualcuno, là dentro, perché potrebbe benissimo nascondersi dietro un angolo, invisibile. Invidia l’elmo di Ruu, che le permette di vedere come un lothcat al buio. La tallona da vicino, ma non troppo, per non far vedere quanto gli metta ansia quel posto sotterraneo, così simile alla cantina. È quasi convinto di sentire le bombe che cadono sopra di loro, sganciate dai droidi.

Dopo pochi minuti di cammino, si rende conto che non sta immaginando quel suono: solo, è molto più cadenzato e acuto di un bombardamento. Sembra metallico. Si distrae per un istante dai suoi timori, cercando di capire cosa sia, mentre Ruu sembra guidarlo proprio in quella direzione.

Giungono infine a un ingresso ad arco, poco dopo una svolta particolarmente buia. Al di sopra, è appeso un teschio di mitosauro in beskar. Din percepisce il suo ciondolo, dalle fattezze simili, che gli preme contro le clavicole. A volte si dimentica anche di indossarlo.

Una luce più intensa si propaga fin lì dall’apertura, calda e di un vivo color arancio.

«Eccoci, ad’ika» annuncia Ruu. «Siamo arrivati. Ora lascia parlare me e, quando sarà il momento, ringrazia come ti ho insegnato. Ti ricordi la formula?»

«Vor entye par ge’yaim» ripete Din, distratto dai colpi ora vicinissimi e con gli occhi fissi dietro di lei, verso la luce. «Grazie per l’ospitalità» aggiunge, a confermare di non star ripetendo tutto come un paroot ammaestrato.

Ruu annuisce e, senza preavviso, allunga due nocche per dargli un buffetto sotto il mento, come non faceva ormai da tanto tempo – odia quando lo fa, come se lui fosse un bambino. E poi, lo sta lasciando indietro, invece di portarlo a combattere con sé. È troppo interdetto per protestare e Ruu si è già avviata verso l’ingresso della stanza.

La segue dappresso, entrando in un ampio ambiente circolare. Non capisce cosa stia guardando: al centro c’è una specie di piattaforma rialzata da cui scaturiscono alte fiamme verticali di un blu acceso, disposte a circolo. Sulle pareti vi sono miriadi di attrezzi, a molti dei quali non saprebbe dare un nome. Vede tenaglie, seghetti, martelli di ogni forma e dimensione e, dall’altro lato, un assortimento di armature lucide e brillanti... perde il conto quando si rende conto che la stanza non è vuota.

Una figura piuttosto minuta armeggia attorno al pozzo di fuoco con un paio di lunghe tenaglie, gettando pezzi di metallo al suo interno con rapidità, dove si liquefanno rapidamente. Din capisce solo in quel momento, nel notare l’incudine lì accanto, che è una forgia.

Nel vederli, la figura posa l’attrezzo ed emerge da dietro lo schermo blu delle fiamme. Din sgrana gli occhi nel trovarsi di fronte il Mandaloriano più strano che abbia mai visto. Ha l’armatura color oro, dalla cui corazza pende quella che sembra una specie di tunica rinforzata che le arriva sopra il ginocchio, e una corta stola di pelliccia bruna le scende dalle spalle. Ma il dettaglio più bizzarro è l’elmo dorato, con un visore che non è perfettamente a T, ma ha degli occhi sagomati che sembrano scrutarlo. Una fila di piccole spine emerge sopra la calotta, quasi a renderlo più minaccioso.

«Olarom, Ruusaan Motir, bal ad’ika.2»

Quando parla, Din si rende conto che è una donna.

«Vor entye, Maarva Gasurr3» ringrazia Ruu, con un cenno dell’elmo.

Din la imita, senza però parlare. Quella Mandaloriana lo mette in soggezione.

«Non uso più quel nome, ner vod» replica lei, scendendo dal gradino. «D’ora in poi puoi chiamarmi Bes, semplicemente, come il beskar che forgio.»

«Cin vhetin totale?» commenta Ruu, in modo incomprensibile.

«A volte dobbiamo crearci un nostro “campo bianco”. Come stai facendo tu, d’altronde, anche se non più per te stessa.» Fa una breve pausa, prima di continuare: «Tu devi essere Din Djarin.»

La Mandaloriana punta il visore verso di lui, facendolo quasi sobbalzare quando pronuncia il suo nome. Din deglutisce, cercando di capire il senso di quelle parole. È in parte sollevato che non stiano parlando in Mando’a, come facevano Azi e Ruu – lo fa sentire più in controllo della situazione.

«Cos’è un cin vhetin?» si arrischia a chiedere, spingendo la guerriera a inclinare il suo insolito elmo.

Stringe un poco i pugni senza sapere se verrà zittito o riceverà risposta.

«È quando un Mandaloriano ricomincia la propria vita, seppellendo i suoi errori sotto uno strato di neve immacolato. Sono ancora lì, ma invisibili a occhi estranei, che vedono solo un “campo bianco”» spiega la Mandaloriana, in tono molto più gentile di quanto si aspettava.

Din annuisce, abbastanza sicuro di aver capito. Anche se non sa se sia una cosa buona – sta per lasciare la Ronda, questo è certo, ma cosa vuol dire davvero? Quali errori ha commesso?

«Bes, non abbiamo molto tempo» interviene Ruu. «La Ronda ha indetto il ba’slan shev’la4, ma devo essere pronta al richiamo d’adunata.»

Bes annuisce in modo grave.

«Lo so. So anche che Pre Vizsla è morto, che un dar’jetii5 siede sul trono di Mandalore impugnando la Darksaber e che Bo-Katan Kryze ha rinnegato la Ronda. Prevedo tempi bui, per noi Mando’ade

«Mandalore non è ancora perduta, ner vod. Io e Kryze, la legittima erede, abbiamo...»

«Non esistono eredi» obietta duramente Bes. «Esiste solo chi si dimostra degno di impugnare la Ne’tra’kad

«Non è così semplice, stavolta. Un aruetii6 non era mai riuscito a...»

«E non ci sarebbe mai riuscito, se Pre Vizsla si fosse dimostrato degno e meno assetato di sangue e potere. È anche per questo, che le Tribù lo hanno rinnegato e hanno abbandonato le forge di beskar su Concordia.»

«Azi non sarà meglio di Pre. Potrebbe addirittura essere peggio e per questo va fermato.»

Bes scuote la testa all’ultima affermazione di Ruu, per poi fissare di nuovo lui, come rendendosi conto solo ora che è ancora lì. Din si acciglia: certe cose sono ancora uguali e, se prima si fidava poco, adesso si fida ancor meno, nonostante l’apparente gentilezza di Bes.

Ha seguito quello scambio serrato con la confusione a rimbalzargli in testa. Sa che la Ronda è in difficoltà, altrimenti Ruu non l’avrebbe mai portato via, ma non sa chi sia quel “traditore” o “estraneo” di cui parlano e che siede sul trono – lui non sapeva nemmeno che ci fosse un trono – né cosa sia la “lama buia” che sembra così importante per loro. Non riesce a capire cosa c’entra lui, in tutto questo – o meglio, perché non gli viene permesso di capire.

È un guerriero della Ronda e, che ne faccia ancora parte o meno, se c’è una guerra in arrivo vuole essere al fianco di Ruu, non rintanato in un rifugio sottoterra come ad Aq Vetina. La Mandaloriana, però, lo ignora e scambia un cenno con Ruu, poi si avvia verso l’uscita e si sporge oltre la soglia.

«Paz! K’olar!7» chiama a gran voce, che rimbomba e riecheggia nei sotterranei del Rifugio.

Uno scalpiccio di passi accompagna quel richiamo e, poco dopo, un altro Mandaloriano fa il suo ingresso nella forgia.

«Me’copaani?8»

Din si sorprende nuovamente nel vedere come anche la sua armatura sia molto diversa da quella della Ronda, seppur blu come la loro. A indossarla non è un adulto, a giudicare dall’altezza e dalla voce ancora acuta, anche se non quanto la propria. La Mandaloriana non risponde alla domanda, facendo invece un gesto verso lui e Ruu. Il ragazzo trattiene in modo udibile il fiato, in un moto di sorpresa.

«Su’cuy9, ba’vodu!» esordisce allegro, facendosi incontro a Ruu con inaspettata energia.

«Su’cuy, Paz’ika» risponde lei, in modo altrettanto caloroso.

Din si incupisce nel sentirle rivolgere quel termine affettuoso a un perfetto sconosciuto. Sconosciuto per lui, realizza poi, non per Ruu. Squadra con sospetto il ragazzino, “Paz”, non riuscendo a decifrarne con chiarezza l’età. È sicuramente più grande di almeno un paio d’anni. Indossa già l’elmo: tozzo, squadrato e di un blu stinto, con una sottile riga argentea in rilievo a dividerne a metà la calotta. Sembra di beskar.

«Su’cuy, ner vod» Paz si rivolge a lui, tendendogli una mano. «Jate kar’tayl gar

Din fa istintivamente mezzo passo indietro, nonostante quelle siano parole amichevoli – fin troppo. Fratello? Piacere di conoscerti? Lui non ha mai visto quel ragazzo in vita sua. Al suo silenzio, lui inclina l’elmo di lato.

«Ah, non sai ancora il Mando’a?»

Din coglie un lieve rimprovero in quella domanda, ma non reagisce. Fissa la sua mano guantata, in un chiaro invito a ritrarla. Lui, al contrario, la allunga per stringergli il polso.

«Dopo tutto questo tempo, pensavo che Ruu ti avesse già...»

«Ne shab’rud’ni10» sbotta Din, sottraendosi al gesto prima che possa serrare la presa.

«Din!»

Lo scappellotto di Ruu lo raggiunge sull’orecchio, più forte di quanto si aspettasse – e se lo aspettava, dopo aver parlato in quel modo volgare. Avvampa, sentendosi addosso gli occhi del ragazzo che, lo potrebbe giurare, sta sogghignando sotto l’elmo alla scena.

«Mostra rispetto per chi ti ospiterà.»

Din le lancia un’occhiata risentita. Non vuole essere “ospitato”: vuole ripartire con lei e combattere al suo fianco, che sia con o contro Azi. Serra però le labbra, rimangiandosi ogni protesta. Riporta lo sguardo sull’altra Mandaloriana. È così immobile che sembra una statua, ma intuisce che lo sta scrutando, in attesa.

«Vor entye par ge’yaim» pronuncia infine, scandendo la formula che gli ha insegnato Ruu.

Non porge la mano a Paz e gli scocca una fulminea occhiata a Paz: certo, che sa il Mando’a.

«Olarom, ad’ika» replica la guerriera come di rito, con un lento movimento dell’elmo spinato e accogliendolo di fatto nella Tribù.

Fa poi un cenno al ragazzo, che subito si avvicina ancora. Din gli arriva alla spalla.

«Paz’ika, fagli da guida. Mostragli il Rifugio, gli alloggiamenti e le vie d’uscita, poi aspettateci nella sala comune. Noi arriviamo.»

«Sì, buir11

Din sposta lo sguardo tra i due e poi su Ruu. Tu non vieni?, vorrebbe chiedere, ma si rimangia la domanda e annuisce, fingendo tranquillità. Non si fida di Paz, non si fida della nuova alor12 e non si fida nemmeno di Ruu, in questo momento.

Si accoda a Paz, senza un solo cenno di saluto a Ruu.


 

A Din questa

 


Note&Glossario:

Cari Lettori, scusate per la quantità enorme di note... come vi dicevo, su Wattpad la lettura è molto più scorrevole perché ho la possibilità di metterle direttamente accanto al testo.
Vale anche per i capitoli successivi: la comprensione esatta di ciò che viene detto in Mando'a/altre lingue è solo un "plus", perché tutto ciò che è fondamentale alla comprensione della storia viene esplicitato nel testo, tramite commenti o pensieri di Din, o direttamente dai personaggi, come nel caso del "campo bianco" o della formula di ospitalità.
Spero che il capitolo vi sia piaciuto e, se vi va, lasciate un commento per farmi sapere cosa ne pensate ♥

-Light-


0. Ge'yaim: lett. "quasi-casa", quindi per estensione "ospitalità".
1. Cheespa bo coopa: stai attento/attento a te.
2. Olarom, Ruusaan Motir, bal ad’ika: benvenuti, Ruusaan Motir e figlio/bambino.
3. Vor entye, Marva Gasurr: grazie, Marva Gasurr.
4. ba'slan shev'la
"tacito addio" o "partenza silenziosa", una tecnica di scioglimento e ricongiungimento dei ranghi in uso tra i Mandaloriani.
5. dar'jetii: lett. "non-Jedi", di conseguenza un Sith. È un riferimento a Darth Maul, che dopo aver ucciso il comandante della Ronda conquista la Darksaber diventando sovrano di Mandalore.
6. aruetii: estraneo/traditore; in generale, non-Mandaloriano.
7. k'olar: vieni
8. me'copaani: cosa vuoi?
9. su'cuy: ciao, lett. "sei ancora vivo". Ba'vodu non è tradotto volutamente, si spiegherà nel prossimo capitolo.
10. ne shab'rud'ni: "non rompermi le palle/sta' alla larga", espresso in modo più volgare.
11. buir: madre/padre (il Mando'a è privo di genere).
12. alor: capo, comandante, guida.


 

Ritorna all'indice


Capitolo 3
*** Aliit ***



Capitolo II

“Aliit”

A Din questa


 

 

 

Nevarro, 20 BBY ca.

Più esplora il Rifugio, più Din vorrebbe tornare alla luce del sole, anche se su quel pianeta è grigio e stinto. 

Il labirinto di tunnel sembra non finire mai, eppure Paz gli fa da guida senza mai esitare a nessuna svolta. Di tanto in tanto, gli indica questo o quell'ingresso, dicendogli che è l'armeria, o i bagni, o l'alloggio di un Mandaloriano. Una parte del rifugio sembra scavata nella roccia a mani nude, l'altra è invece più regolare, con compatte pareti in permacrete. Non capisce cosa sia venuto prima – il Rifugio o i Mandaloriani della Tribù.

«Quello è una via di fuga d'emergenza» gli spiega in quel momento Paz, indicandogli una pesante grata rotonda a un paio di metri da terra. «Sbuca nella cantina.»

Din annuisce, trattenendo però uno sbuffo: perché un Mandaloriano dovrebbe fuggire? Ripensa con irritazione ad appena due giorni fa, quando Ruu l'ha obbligato a scappare come un codardo prima dell'attacco. Non gli importa della Ronda, né di Azi, né della maggior parte dei compagni d'addestramento: gli importa solo di non essersi comportato da Mandaloriano.

Poteva guadagnarsi l'elmo, con quella battaglia. Invece è bloccato in una "nuova casa" che si era dimenticato di aver chiesto. Scocca un'occhiata intrisa d'invidia a Paz, che può già vantare un elmo e un'armatura e parla di vie di fuga come se fosse normale.

Il ragazzo non gli presta attenzione, anche se gli sembra che parli con lui in un modo un po' impacciato. Forse è per via del modo scostante in cui si sono presentati, o perché risponde alle sue spiegazioni sul Rifugio con semplici cenni del capo o "sì" stringati, ma non gli importa molto. Cerca solo di capire cosa sta facendo Ruu adesso, di cosa stia parlando con Bes – di lui, lo sa, e vorrebbe essere lì. E continua a vorticargli in testa la stessa domanda.

«Come hai chiamato Ruu, prima?» sbotta infine, facendo quasi sobbalzare Paz, che gli fa strada un paio di passi più avanti.

«Ba'vodu» risponde poi, voltandosi. «Vuol dire "zia". Non di sangue, ovviamente.»

Ovviamente. Din aggrotta le sopracciglia, squadrandolo dal basso. Da quanto si conoscono?

«La zia è la sorella di un...»

«So cos'è una zia» lo interrompe Din. «L'alor1 è tua madre?»

«Non è l'alor. È la Naur'alor2, l'Armaiola. E sì, è la mia buir

«È comunque il capo» conclude Din, tagliando corto. «Sai se ci farà rimanere?»

«Tu sei un Trovatello, quindi sicuramente sì.»

Din arriccia le labbra nel sentire quel nome e gli scocca un'occhiata ostile. Non è un "trovatello", ma un Figlio della Ronda. Non lo contraddice, però, perché Paz è più alto e più grosso e anche più vecchio, quindi più esperto. Non è sicuro di poter avere la meglio su di lui, anche se Azi gli diceva sempre che era abile nel corpo a corpo.

«Non so per tua madre, però» aggiunge il ragazzo, guidandolo oltre una biforcazione del tunnel senza voltarsi verso di lui.

«Non è mia madre. È la mia cabur3» obietta stavolta Din, seccamente.

Paz sembra sorpreso, dal modo in cui si ferma e inclina l'elmo in avanti.

«A maggior ragione, allora. Qui accogliamo solo aliit

Din non replica a quell'affermazione. Lui e Ruu non sono un clan, né una famiglia, perché lei non l'ha mai adottato. Inizia a sentire un formicolio nello stomaco – paura, la riconosce. La ricaccia dentro di sé, nello scantinato in cui ha imparato a rinchiuderla. Alla sua assenza di reazioni, Paz sospira e riprende ad avanzare nel dedalo di cunicoli.

Din cerca di ricordare la strada percorsa, ma non riesce a trovare punti di riferimento e non è certo che saprebbe ritrovare i propri passi da solo. Non c'è nemmeno un filo di luce dall'esterno, solo fiaccole al plasma appese alle pareti che spandono un tenue alone giallastro, ma nessun calore.

«Sei nato qui?» chiede Din, dopo un po'.

«Sì.»

Quella risposta laconica non ha seguito e rimane appesa fra loro. Din non insiste.

«Tu di dove sei?»

«Aq Vetina» risponde altrettanto lapidario Din, fissandolo schivo ed evitando di rivelare il suo pianeta.

Come prevedeva, Paz non conosce quel nome, perché scrolla le spalle larghe senza un commento. Din, però, continua a sentire mille domande che gli pungono le labbra.

Vuole saperne di più su Paz, sul Rifugio, sulla Tribù, se davvero finirà per viverci. Se davvero Ruu non rimarrà con lui, come ha già detto di non potergli promettere, quel giorno lontanissimo in cui è diventato un Mandaloriano. Non si arrischia a fare domande, preferendo aspettare di sapere per certo se rimarrà qui o meno.

La conversazione muore di nuovo, persa nei gocciolii umidi dei cunicoli e nel fischio sottile del vento nelle tubature.

Il silenzio viene pian piano riempito da un mormorio distante. In fondo al tunnel scorge un chiarore più naturale: luce grigia filtra da alcune grate in alto, a livello della strada, e vi è quello che sembra un ingresso simile a quello da cui sono entrati lui e Ruu. Sotto le grate, un gruppetto di Mandaloriani è riunito attorno a quelli che sembrano tavoli da gioco, parlottando a voce contenuta.

Alcuni si voltano a guardarlo, uno lo indica apertamente. Din ringrazia il cappuccio che gli copre in parte il volto. Paz svolta a destra, verso un'apertura che non aveva notato. 

Oltre vede quella che deve essere la sala comune, al momento occupata solo da un paio di guerrieri, di cui uno apparentemente addormentato su un giaciglio nell'angolo. L'altro è intento a intagliare un pezzo di legno, seduto vicino alle braci rosseggianti del grande fuoco centrale. Canticchia qualcosa a mezza voce, di cui Din coglie solo un verso confuso in Mando'a:

Kandosii sa ka'rta, Vode an5.

Quel ritmo ha un che di familiare, rassicurante. Si chiede se l'ha già sentita da qualche parte, ma non ha tempo di rifletterci.

«Ecco, questa è la sala comune, la karyai. Il "cuore del Rifugio"» lo riscuote infatti Paz, con un ampio gesto verso di essa. «Siediamoci lì, staremo più al caldo» aggiunge poi, indicando i rozzi sedili più vicini al focolare.

Din non sa come abbia fatto a intuire che avesse freddo, perché non se n'è accorto nemmeno lui finora, ma accetta volentieri e si siede sulla pietra tiepida. L'umidità del sottosuolo gli è entrata nelle ossa. Ormai è troppo abituato a pianeti caldi.

Paz si lascia cadere accanto a lui, con uno sbuffo che, Din non ne è certo, ha forse camuffato un "kriff" a denti stretti. "Dank farrik", vorrebbe replicare lui, ora che è fuori portata da Ruu. Neanche lui è entusiasta di essere bloccato con una compagnia poco gradita. Rimane in silenzio, con le mani gelide tese verso il fuoco che crepita e fa abbastanza rumore da non richiedere una conversazione. Paz però si agita all'improvviso, raddrizzando la schiena.

«Ti va un po' di uj'alayi?»

Din si volta a guardarlo, perplesso.

«Di cosa?» solleva le sopracciglia, incuriosito, suscitando un verso incredulo di Paz.

«Di torta uj. Non l'hai mai mangiata?» Din scuote la testa. «Aspetta qui.»

Paz si rimette in piedi e si avvicina al Mandaloriano che continua a canticchiare e intagliare il legno, seduto nei pressi di una rientranza nella parete seminascosta da un tendaggio. Smette di armeggiare con il coltello, rivolgendo il visore verso di lui. Paz prende a confabulare brevemente e sembra che stia tentando di convincerlo, dal modo in cui gesticola.

L'altro Mandaloriano, un guerriero dall'armatura viola in cattive condizioni, sbotta a ridere sonoramente, rivelando la voce rauca e un po' sfiatata di un vecchio. Poi scosta la tenda e invita Paz a frugare tra gli scaffali stipati di contenitori – la dispensa comune, evidentemente.

Il vecchio si volta d'un tratto verso di lui, rivolgendogli un cenno con l'elmo al di là del fuoco. Din ricambia esitante, sentendosi d'un tratto nudo, senza nulla a coprirgli la testa, anche se non ha ancora mai indossato un buy'ce.  Il vecchio però non dice una parola, limitandosi a mostrargli la figurina che sta sagomando – Din distingue quello che sembra un falco urlatore in picchiata, simbolo della Ronda – per poi tornare al suo lavoro e alla sua canzone.

«Vor entye6, Tal'kyc!» esclama Paz in quel momento.

«Non vi ingozzate!» intima il vecchio in Basico, assestandogli una pacca sull'armatura quando gli passa accanto con il bottino.

Paz si siede di nuovo accanto a lui. Apre il contenitore metallico e gli offre entusiasta un pezzo di quello che, più che una torta, sembra un impasto piatto, caramelloso e un po' bruciacchiato, in cui Din distingue quelle che sembrano noci warra.

Lo accetta, sentendolo appiccicoso sotto le dita, ma aspetta che sia Paz a mangiare per primo. È curioso di sapere che faccia abbia sotto l'elmo, ma con sua sorpresa non lo toglie. Si limita ad alzare appena il bordo così da poter addentare il dolce, per poi farlo scivolare a coprire di nuovo la bocca. Din coglie solo un accenno di pelle chiara e, forse, una ciocca bionda che sfugge sotto la mandibola.

«Guarda che non è sleemo7» commenta Paz, masticando.

Din si rende conto di averlo fissato con troppa insistenza e si affretta a dare un morso, tanto per farlo contento – è abituato a non chiedersi nemmeno più cosa stia mangiando, finché placa la fame.

Si blocca, registrando il sapore dolcissimo e speziato dell'uj, totalmente sconosciuto. Una nota piccante gli brucia la lingua, ma si ritrova a prenderne un altro boccone, più convinto, rischiando di slogarsi una mascella sulle noci warra e di staccarsi un paio di denti mentre mastica in fretta il composto colloso.

«Buono, eh?» ridacchia Paz compiaciuto.

Din esita, facendo sparire l'ultimo morso dell'uj che gli ha già impiastricciato le mani, senza poter negare che ne mangerebbe un altro camtono. Potrebbe rimanere in silenzio e lasciare Paz col dubbio, nonostante la sua reazione vorace abbia già detto tutto.

«Sì» si lascia sfuggire alla fine, assieme a un sorriso minuscolo.

Paz in tutta risposta gli offre di nuovo il contenitore e Din accetta, goloso come quando rubava le frittelle di kisiwa a sua madre prima che arrivassero in tavola.

«Non farti vedere da Tal'kyc. Ci tiene, al suo uj» scherza, prendendone anche lui un'altra porzione.

Din lo fissa per un momento nel visore, sentendo un'improvvisa morsa allo stomaco che non ha nulla a che vedere con la fame. L'ha trattato malissimo, se ne rende conto. I suoi genitori si vergognerebbero di lui: non è questo, che gli hanno insegnato. Nemmeno Ruu gli ha insegnato questo, anche se in modo diverso – gli ha insegnato che tra guerrieri c'è sempre rispetto, che siano alleati o meno.

Fissa il pezzo di torta uj, la cosa più buona che ha mangiato negli ultimi due anni, poi fissa l'elmo di Paz, segno che è un guerriero come lui – forse anche migliore di lui. Ripensa alle parole di Ruu e prende un grosso respiro, poi si volta verso Paz. Gli tende la mano, fissandolo serio dove sa che sono i suoi occhi, anche se non li ha mai visti.

«Din Djarin. Jate kar'tayl gar7

Paz lo fissa interdetto per un attimo, a metà di un morso piuttosto ingordo. Poi scuote il capo, si riassesta l'elmo e gli stringe il polso con una presa salda, subito ricambiata.

«Paz Vizsla. Olarom

Benvenuto. Stavolta, Din quella parola la sente davvero, non solo con le orecchie.

Continuano a mangiare fianco a fianco, con il fuoco che crepita a tempo delle note mormorate dal vecchio – Manda'yaim a'den mhi, Vode an – e si fonde nel suo cuore, finalmente più calmo. Quando arrivano al fondo del contenitore e si ritrova a sorridere scaltro a Paz, con la pancia piena e il petto caldo dopo non sa più nemmeno quanto, pensa che magari quella non è la casa che si aspettava, ma potrebbe diventarlo, almeno per un po'.

 

Note dell'Autrice:

 


Note dell'Autrice:

Ta-daaa, eccoci qua! Non volevo far passare secoli prima di pubblicarla, ma è successo ahahah
Alla fine mi sono lasciata prendere la mano, quindi continuerò a esplorare questa fase della vita di Din, cioè il passaggio tra la Ronda e la Tribù. Potrete ritrovare qualcosa in Vode An, ma vedremo cosa salterà fuori...
Per ora, godetevi un Paz tredicenne-quattordicenne che cerca di fare l'adulto e non ci riesce – per i contrasti veri e propri, tranquilli, che arriveranno :P

Grazie a chi ha letto e commentato/aggiunto alle liste la storia ♥

-Light-


0. Aliit: Tribù, ma anche "famiglia", "clan".
1. alor: capo, comandante.
2. Naur'alor: titolo onorifico per l'Armaiola, mio neologismo (da nau'ur, forgiare, e alor, capo).
3. cabur: guardiano, tutore
4. 
Kandosii sa kar'ta, Vode an: verso del canto "Vode An", che dà il titolo alla storia ♥
5. vor entye: grazie
6. sleemo: "schifezza" in Huttese.
7. jate kar'tayl gar: "piacere di conoscerti"
NB. Tal'kyc viene nominato in Vode An ed è il Mandaloriano catturato assieme a Paz dagli schiavisti Zygerriani. Quella parte di storia verrà ovviamente approfondita in futuro ;)

A Din questa

Ritorna all'indice


Capitolo 4
*** Kyr'Tsad ***



Capitolo IV

“Kyr’Tsad”




 

«Azi è intrattabile come lo ricordo?»

La voce dell’Armaiola sovrasta di poco il tintinnio del martello contro l’incudine.

«Non so come lo ricordi tu, ma è peggiorato» risponde Ruusaan, poggiandosi contro un bancone da lavoro con le braccia incrociate.

Bes – si sta ancora abituando a identificarla con quel nuovo nome che si è scelta – spinge tra le fiamme della fornace altri pezzi di metallo. Se all’inizio Ruusaan ha mal sopportato l’obbligo di non togliersi l’elmo all’interno del Rifugio, adesso ringrazia lo schermo del beskar contro le feroci vampate di calore che arrivano fin lì.

«Non mi sorprende. La Ronda l’ha preso troppo presto... non si torna indietro, dopo essere stati cresciuti da loro.»

Ruusaan tace, a quell’affermazione. Si chiede se Din possa ancora tornare indietro, dopo che Azi ha tentato di plasmarlo per tutto quel tempo. Bes sembra leggerle nel pensiero:

«Da quanto il bambino è con voi?»

Ruusaan finge di pensarci, anche se sa la risposta col cuore, più che con i calcoli:

«Poco meno di tre anni standard.»

«E adesso quanti ne ha?»

«Undici. L’ho protetto finché ho potuto mentendo sulla sua età, ma Azi li considera pronti per l’addestramento già a otto anni. Speravo di riuscire a portarlo qui prima» conclude, a voce più bassa.

Bes non commenta per un po’, presa dal suo lavoro. Smuove i pezzi di metallo che si stanno già liquefacendo sulla griglia di fusione, mentre lo stampo posto sotto la bocchetta della forgia si riempie pian piano di un rivolo di metallo incandescente.

«L’hai portato qui in tempo, prima che venisse spedito nei Corpi di Combattimento» si pronuncia infine, voltando l’elmo verso di lei. «Non sembra un ragazzino facile. Paz e io avremo il nostro daffare con lui, ma tornerà sulla Via.»

«Paz?»

Ruusaan la incita con un cenno interrogativo dell’elmo e l’altra alza appena le spalle ricoperte dalla stola di pelliccia.

«Giurerà al Credo tra un paio di mesi. Gli sto affidando i nuovi Trovatelli per vedere se merita davvero il beskar del suo elmo.»

Ruusaan sorride appena, al pensiero che il ragazzo sia già cresciuto così tanto. Si era stupita, quando dieci anni fa Bes aveva deciso di adottare un orfano salvato da Azi stesso. Si era stupita ancor di più quando aveva saputo che quell’orfano era uno degli ultimi rampolli del clan Vizsla, scampato alle lotte fratricide del suo clan.

Azi voleva crescerlo come possibile pretendente al ruolo di Mand’alor, educandolo personalmente non appena fosse stato abbastanza grande da impugnare un’arma. Bes aveva mandato all’aria i suoi progetti abbandonando senza preavviso le forge di Concordia con l’intera Tribù appena qualche mese dopo.

Aveva privato Azi sia della sua carta vincente, sia della millenaria conoscenza dei fabbri Mandaloriani, lasciando le armature in beskar della Ronda a deteriorarsi.

Paz era cresciuto ignaro del suo lignaggio tra forge, incudini e martelli, diventando a sua volta custode di quel sapere, così come voleva la Via della Tribù. Se Ruusaan aveva temuto di scorgere prima o poi in lui la spietatezza di Pre o la brama di sangue di Tor Vizsla, suoi predecessori, era stata smentita dal bambino irruento, ma onesto e di buon cuore che la accoglieva entusiasta ogni volta che faceva tappa al Rifugio.

«Sono sicura che se lo meriti» dice, indicandola con un cenno dell’elmo.

«Staremo a vedere, come vedremo se Din lo meriterà» replica lei, inflessibile come il metallo che è abituata a temprare. «Tu cosa hai intenzione di fare?»

Ruusaan torna seria, riassestandosi contro il bancone. Quella è una domanda a cui lei stessa fatica a rispondere – forse perché è una risposta che non le piace affatto.

«Continuerò a seguire Azi... o almeno, a fingere di farlo.»

«L’erede dei 
Kryze non ti ha offerto di combattere al suo fianco?» ribatte Bes, le sembra con una traccia d’ironia che sceglie di ignorare.

«Sì, ma non tornerò su Mandalore. Posso essere più utile rimanendo nella Ronda, ma farò in modo che la nostra casa non vada perduta.»

Bes si china a raccogliere lo stampo ormai pieno di metallo rovente, rilasciando un respiro quasi seccato.

«Mandalore non ha più alcun valore» commenta poi, posando lo stampo nella vasca di raffreddamento e tornando a lavorare le altre parti dell’armatura che sta assemblando sull’incudine.

«Manda’yaim» pronuncia semplicemente, scandendo quella parola. «Casa dei Mandaloriani. Furono i nostri antenati a darle questo nome, decidendo che Mandalore sarebbe stata la nostra casa.»

Bes scuote la testa.

«La nostra casa è il nostro popolo» dichiara, per poi interrompere i colpi di martello. «A me non interessa del tuo futuro, ner vod, né tanto meno di quello di Mandalore. L’unico futuro che conta è quello del bambino.»

«È proprio per questo che l’ho portato qui.»

«Per educarlo alla Via?»

Ruusaan esita, colta in fallo. Rispetta la Via della Tribù, ma non è una vita resecata in quei cunicoli che vuole donare a Din dopo gli orrori della guerra. Se solo la Ronda cessasse di esistere... anche Bes, Paz e tutti gli altri Mandaloriani considerati traditori potrebbero tornare a mostrare il proprio elmo nella Galassia. Deve tenerlo a mente, quando arriverà il tempo delle decisioni difficili.

«Per... nasconderlo finché non potrò educarlo io.»

Bes continua a fissarla, statuaria. Il riverbero blu della forgia sembra rendere liquida la sua armatura dorata, animandola di fiammelle metalliche.

«Finché sarà qui verrà educato al Credo, come tutti gli altri Trovatelli. Imparerà a seguire la Via di Mandalore» dichiara infine, come fosse una sentenza.

Ruusaan si umetta le labbra, prima di rispondere:
«Non ho nulla in contrario.»

«Jate.»

Il martello torna a riempire il silenzio tra loro due, riecheggiando tra le pareti claustrofobiche della sala.

Ruusaan potrebbe andarsene, ma non lo fa. Bes sa essere dura e spesso indelicata, ma darebbe vita, elmo e armatura per proteggere i Trovatelli. Si fida, e sente che in quegli anni è stata per lei una guida più di quanto non lo sia stato Azi. Senza Bes, sarebbe probabilmente molto più simile a lui.

Spera che possa avere la stessa influenza benefica su Din, che con ogni giorno che passa diventa sempre più chiuso, sempre più aggressivo e incapace di comunicare persino con lei, come se entrare finalmente nei Corpi di Combattimento sia l’unico modo per dimostrare a tutti di valere qualcosa – per dimostrare ad Azi che un giorno dovrà avere paura di lui.

Sa che una parte di lui la odia per averlo portato lì, privandolo di quella possibilità, e sa che la odierà ancor di più quando, tra poco, scoprirà che dovrà rimanerci da solo. Però sa anche che, sebbene non sia ancora in grado di comprenderlo, è contento di essere finalmente lontano da Azi.

Non importa se Din non sentirà narrare di Mandalore il Grande o della Battaglia di Malachor; non importa se non imparerà a danzare il Dha Werda Verda o non saprà quanti fratelli ha sparsi nella Galassia; non importa se indosserà per sempre il beskar, celando il proprio volto all’universo intero.

Sarà al sicuro e potrà insegnargli tutto al suo ritorno – perché tornerà. Ruusaan lo spera, nello stesso modo infantile in cui ha sperato, troppi anni fa, che quelle navi da guerra su Eriadu fossero soltanto un miraggio. Ogni giorno, nella sua testa, accetta e rifiuta la mano che Azi le ha teso allora tra le macerie. Ogni giorno, mille scenari diversi si dipanano nella sua testa, attraversando la Galassia in modi impensabili, con o senza il beskar.

Se lei non avesse compiuto ogni singola scelta da quel momento fino a quella mattina caliginosa ad Aq Vetina, però, quel bambino col cappuccio rosso sarebbe morto in uno scantinato, dimenticato dal mondo. Ruusaan compirebbe di nuovo ogni singola scelta sbagliata, se significasse tendergli la mano e tirarlo fuori dal buio.

Ogni singola scelta. Anche la più terribile, che le cova nel cuore come una scheggia avvelenata. Senza quella, lei non sarebbe mai stata lì per salvarlo – forse non ce ne sarebbe nemmeno stato bisogno.

«Bes?» si trova a dire, in un richiamo sottile che non le appartiene. «Non raccontargli mai della Ronda.»

Lei la squadra per quella che sembra un’eternità, il martello sollevato, lasciandola altrettanto sospesa sul ciglio del baratro.

Non dirgli cosa faceva la Ronda. Non dirgli del sangue versato, dei "sacrifici necessari", di quanto sia sporco il blu che porto... del perché non l’ho adottato.

«Voglio essere io a dirglielo, quando sarà il momento» aggiunge, fissandola visore contro visore.

Bes annuisce, un cenno appena percettibile.

«Noi anziani non pronunciamo più il nome della Kyr’tsad da molti anni, ormai. Non siamo più Figli della Ronda. Abbiamo rinnegato loro e la scia di sangue tracciata da Mandalore. Qui stiamo crescendo dei nuovi Mandaloriani, una generazione che non avrà mai conosciuto lotte fratricide per il potere.»

Ruusaan dovrebbe accettare quelle parole in silenzio, grata del favore – dei molti favori – che le sta concedendo Bes, ma non le riesce di tenere a freno la lingua:

«Din verrà a sapere cosa ho fatto. Non ho intenzione di nasconderglielo per sempre. Ciò che vuoi fare tu, invece, è ingiusto.» Esita per un istante, sapendo di sferrare un colpo basso, poi continua lo stesso: «Pensa a Paz e al nome che si porta sulle spalle. Quando scoprirà la verità sul suo clan, su Mandalore, su tutto quello che non hai...»

«Allora, cosa?» la interrompe Bes, senza alzare di una tacca la voce e ottenendo comunque il silenzio. «Verrà a conoscenza di faide e conflitti tra persone morte da decenni di cui non conosce nemmeno il nome, che non ha mai avuto alcun ruolo nella sua vita. È un cin vhetin definitivo, ner vod. Per impedire che bambini come Paz e Din si ritrovino a uccidere altri bambini come Paz e Din.»

Ruusaan scuote la testa, ma non obietta ulteriormente. Non condivide questa linea d’azione: le sembra di nascondere gli errori del passato sotto un velo di neve pronta a sciogliersi. L’ha fatto anche lei e lo sta facendo tutt’ora... ma non sarà per sempre.

Prende un respiro profondo. Tornerà, perché deve a Din quelle verità. Deve mostrargli la vera Via, quella che le ha indicato Bo-Katan il giorno in cui Din è diventato un Mandaloriano e lei ha pensato che, forse, non voleva più esserlo.

«Vai a salutarlo ora. Poi vattene» dice all’improvviso Bes, senza interrompere i suoi traffici. «Ho esteso l’ospitalità fin troppo a lungo per qualcuno che non segue il Credo, che veste il blu e che sta per abbandonare un ad’ika

Ruusaan incassa il colpo e annuisce, anche se le volta le spalle. È un abbandono temporaneo, ma chiamarlo in quel modo non ne smorza il significato.

«Tornerò il prima possibile.»

«E tornerai per restare?»

Ruusaan alza il mento, sostenendo lo sguardo che adesso le rivolge Bes dietro il visore.

«Tornerò per far capire a Din che non l’ho abbandonato. Tornerò tutte le volte che potrò. E quando questa guerra sarà finita, lo porterò via con me. È una promessa.»

Bes smette di torcere il metallo con una pinza, creando una pausa di sibili e sfrigolii.

«Haat, ijaa, haa’it?»

Ruusaan risponde in un battito di cuore:

«Ori’haat.»

Bes annuisce, temprando quel giuramento come fosse il beskar rosseggiante che ha appena tuffato nell’acqua.

«Hai un’unica possibilità, Ruusaan. Se dopo la guerra varcherai di nuovo quella soglia per andartene senza Din, sarà per sempre.» 

Rivolge il visore verso di lei, con le spirali di vapore che le accarezzano l’elmo. 

«Questa è la Via.»

Ruusaan fa un unico, lento cenno del capo, suggellando la sua parola a tempo con l’ultimo colpo di martello sull’incudine.

«Questa è la Via.»


Note dell’Autrice:

Cari Lettori (se c’è ancora qualcuno di vivo in questo fandom),
c’è una regola non scritta per farmi tornare a scrivere, ovvero vedere qualcosa che mi piace da impazzire e aspettavo da tempo e scoprire che hanno rovinato tutto. Ogni riferimento alla terza stagione di The Mandalorian è puramente casuale.
Lasciando da parte questo dettagli, torno su questi schermi con una capitolo molto vecchio, scritto nel 2022 (o forse addirittura 2021), che ho giusto riletto e revisionato prima di pubblicare qui. Sto riprendendo a scrivere il secondo volume di Vode An, ma volevo riprendere un po' la mano con questa serie di racconti slegati.
Spero abbiate apprezzato la lettura, che voi siate vecchi o nuovi lettori e, in quest'ultimo caso, che vi sia venuta voglia di scoprire un po' di più su questa storia ♥

-Light-

 

Ritorna all'indice


Capitolo 5
*** Ni ceta ***



Capitolo V

“Ni ceta”

A Din questa
 

Ruu se n’è andata.

Ieri gli ha dato un bacio di Keldabe, posando il beskar dell’elmo contro la sua fronte, ha promesso che sarebbe tornata e se n’è andata.

Lui non è riuscito a dire una sola parola. Ha solo annuito più volte, senza capire davvero ciò che gli stava dicendo. Poi l’ha vista salire le scale d’uscita e sparire oltre la soglia, nella luce stinta del crepuscolo di Nevarro. Din le ha voltato subito spalle per non guardarla troppo a lungo e rischiare di ricordarsi quel momento, come ricorda ogni istante di quello in cui i suoi genitori l’hanno messo al sicuro in uno scantinato prima di chiudere le porte – in alto, irraggiungibili.

Non ha dormito, quella notte, per paura di tornare là sotto nei suoi sogni. Ha fissato il muro della sua nicchia per ore, stringendo il ciondolo in beskar come non faceva da anni, poi è sgusciato giù dalla branda prima che il sole sorgesse.

È contento che Paz gli abbia mostrato ogni nicchia e anfratto del Rifugio, perché così è riuscito a evitare gli altri Mandaloriani della Tribù per l’intera giornata, semplicemente cambiando strada nel sentire dei passi o voci in avvicinamento. Basta acquattarsi contro il muro in una zona d’ombra per diventare del tutto invisibile.

Tiene la testa e il corpo impegnati in quel gioco di nascondino che non ha nulla di divertente. Non può continuare per sempre, né può scappare da lì. Ruu tornerà, prima o poi. Gliel’ha promesso e lui le ha promesso di aspettarla, anche se adesso sente di odiarla più di chiunque altro al mondo – quasi più di Azi. 

Per ora, però, giocare a nascondino da solo basta per tenerlo impegnato. Sa che l’Armaiola lo sta cercando, probabilmente, ma non gli importa. Continua a girovagare per i tunnel, iniziando a imboccarne alcuni che non ricorda di aver percorso con Paz, né con Ruu. Meglio. Vuol dire che si sta allontanando dal cuore del Rifugio e che quella zona non è molto frequentata. Inizia anche a fare più caldo.

Dopo qualche altro minuto, intravede la fine del tunnel e quello che sembra un fiume rosso. Man mano che si avvicina, il calore diventa sempre più intenso e, quando arriva a pochi passi, non riesce a capire cosa sta guardando.

È un fiume che scorre in un tunnel di roccia, ma non è fatto d’acqua: sembra quasi solido e scorre un millimetro alla volta, sfociando all’esterno nelle pianure grigie di Nevarro. Sulla superficie arancione e chiazzata di nero scoppiano bolle dense che mandano schizzi incandescenti fin laggiù.

Un fiume di fuoco.

Din se ne sente attratto, anche se il calore gli brucia quasi la pelle già da quella distanza. Si guarda intorno, in cerca di qualcosa da gettarvi dentro, per il puro gusto di vedere cosa succede. Non trova nulla sul pavimento spoglio del Rifugio e le rocce del tunnel sono troppo calde.

A corto di altre idee, si avvicina più che può alla riva, si sporge in avanti e sputa al centro del fiume, balzando subito all’indietro per sicurezza. Per una manciata di secondi non succede nulla, poi la superficie gommosa del fiume ribolle e sfrigola in quel punto e scaglia in aria uno zampillo più forte degli altri.

Din trattiene un sorrisetto divertito. Sta giusto pensando che ha trovato il passatempo giusto per il resto della giornata, quando sente una voce alle sue spalle:

«Ehi! Ti ho cercato dappertutto.»

Din si volta e si incupisce un po’ quando inquadra la sagoma di Paz nel cunicolo alle sue spalle. Stringe qualcosa tra le mani.

«Che ci fai qui?» chiede Paz, sbucando nel corridoio naturale.

Din scocca uno sguardo al fiume di fuoco e medita se dirgli della sua scoperta, ma torna a guardare l’altro con un’alzata di spalle.

«Niente.»

«Non è molto sicuro per te, qui» commenta Paz, facendogli quasi alzare gli occhi al cielo, ma lo sorprende con le successive parole: «Soprattutto senza questo.»

Paz gli porge ciò che stringe tra le mani e Din si rende conto solo ora che è un elmo con visore a T. Sembra in durasteel e la vernice rossiccia è scrostata in più punti. Due piccoli triangoli blu rivolti verso l’alto lo decorano sulla fronte, dove termina la fascia centrale che la attraversa dal visore alla nuca.

Din sente il cuore che comincia ad aumentare i battiti in un misto di emozione e paura. È per lui? Cosa ha fatto per meritarselo? Scocca un’occhiata improvvisamente ostile Paz, con un nuovo sospetto che gli striscia in testa.

Cosa deve fare per meritarselo?

Per guadagnarsi il diritto di essere chiamato "Mandaloriano" ha dovuto superare una prova di sangue. Azi gli ha detto che per guadagnarsi il beskar ce ne sarebbe stata un’altra, ma pensava avrebbe avuto almeno un altro anno per prepararsi.

Non sa se quella di Paz sia una sfida o solo uno scherzo di cattivo gusto. È stato gentile e gli ha offerto anche quella torta uj buonissima che gli ha fatto brontolare lo stomaco per tutta la notte al solo pensiero di mangiarne ancora, ma non lo conosce davvero.

Per quanto ne sa, quella è una sfida a duello per conquistare l’elmo.

«Non lo prendi?» lo esorta invece Paz, sollevando appena l’elmo e facendo un piccolo sbuffo. «C’era solo questo colore, non fare lo schizzinoso.»

Din vorrebbe prenderlo, ma la voce di Azi lo frena, severa: non sei ancora degno del blu. Non può dirlo a Paz senza rischiare di risultare debole, inadeguato.

«Non voglio metterlo» risponde invece, calcando quelle parole.

Paz abbassa le mani, lasciando ricadere l’elmo contro la tunica.

«Questa è la Via» ribatte, suonando però incerto.

Din non ha idea di cosa voglia dire e rimane in silenzio. Conosce la Via, gliene ha parlato Ruu, e non vuol dire certo mettersi in testa un elmo non suo.

L’altro sembra spiazzato e, dopo qualche altro secondo di esitazione, incastra l’elmo tra braccio e fianco, alzando le spalle.

«La... prossima volta, allora» dice prima di voltargli la schiena, chiaramente a corto di parole e, gli sembra, con un po’ di irritazione.

Din non ha idea di come dovrebbe rispondere, né vuole chiedere cosa kriff significhi tutta quella recita. Se vuole sfidarlo per metterlo alla prova come Mandaloriano, perché non lo fa e basta? Decide di chiedere solo una cosa, tra le tante che gli ronzano in testa:

«Tu da quanto porti l’elmo?»

Paz si volta a guardarlo un po’ bruscamente e, dietro il visore, Din è certo che sia ancora più confuso.

«Da sempre. Sono nato nella Tribù.»

Din spalanca un poco gli occhi a quell’affermazione.

«Da sempre?»

Paz annuisce, piantandosi la mano libera dall’elmo sul fianco in un gesto che lo fa sembrare più adulto.

«Cioè, questo qua in beskar ce l’ho da poco... ma porto l’elmo da quando riesco a ricordare» si corregge poi, con un piccolo scatto laterale del capo.

Din lo scruta confuso, ragionando su quelle parole. Uno dei primissimi ricordi che ha – poco più di un’olofoto sbiadita nella sua memoria – è il tappeto che stava in salotto ad Aq Vetina, quello con le righe rosse e arancioni a zig-zag dove giocava per ore con modellini di astronavi e speeder. Non aveva più di tre anni, ne è sicuro, ed è la prima immagine che riesce a ricrearsi dietro gli occhi.

E a tre anni – nemmeno a quattro o cinque, se è per questo – non si può affrontare uno strill con una vibrolama e sopravvivere. Non si può combattere per conquistarsi l’elmo. Storce la bocca, scrutando con sospetto Paz. Gli sta mentendo, oppure...

«Vuol dire... che non hai combattuto per averlo?»

«Ma che stai dicendo? No.»

«Non sei un Mandaloriano, se non combatti per l’elmo.»

Sente Paz che sfiata dal naso, come trattenendo la rabbia, poi lo indica brusco con l’indice.

«Allora perché tu non ce l’hai ancora, nemmeno in durasteel? Quanti anni hai?»

«Undici» risponde Din, prima di poter pensare, e si corregge con una mezza bugia: «Quasi dodici. E anche se non ho ancora l’elmo, sono un Mandaloriano.»

Paz scoppia a ridere in modo così improvviso che Din si sente avvampare fino alla radice dei capelli. Il ragazzo fa un gesto con la mano, quasi a scacciare quelle parole.

«Non sei un Mandaloriano, se non porti l’elmo» gli fa il verso, quasi cantilenando.

«Sì, invece! Ho superato la prova.»

Din stringe i pugni e cerca di abbassare la voce, anche se la sente impennarsi. Gli sembra di sentir pulsare la schiena, nei punti in cui Kyr’ad l’ha graffiato quel giorno. È quasi sul punto di togliersi la tunica per mostrargli le tre cicatrici verticali e farlo tacere, ma Paz scuote la testa con fare incredulo.

«Eh? Che kriff stai dicendo? Il Mand’aab è un rito, non una "prova"» impreca Paz.

Qualcosa cambia, nella sua voce, che si fa più tagliente. Avanza di un passo e Din si impone di non indietreggiare, anche se adesso Paz sembra ancora più alto di lui. 

Esamina in fretta quella parola nuova, Mand’aab: "passo del Mandaloriano". Allora è così che si chiama, la prova d’iniziazione? Né Azi né Ruu gliel’hanno mai detto – e adesso li odia ancor di più, perché continua a fare la figura di quello che non sa mai nulla. Raddrizza le spalle e alza il mento, appuntando gli occhi oltre il visore del ragazzo.

«Ho superato il mio Mand’aab quando avevo otto anni. E adesso avrei anche un elmo, se fossi rimasto a combattere.»

Invece di scappare quaggiù con voi, non dice, almeno non a parole.

Paz lo fissa per un lungo momento, lasciando scivolare le mani dai fianchi. Din lo sente liberare un sospiro molto rumoroso, prima di parlare di nuovo:

«Hai giurato al Credo a otto anni?»

Quale Credo? quasi si lascia scappare Din, ma trattiene la domanda. Sente il cuore che accelera in modo quasi doloroso nel ripensare a quel giorno – se lo ricorda perfettamente, anche se non vorrebbe. Sente di nuovo Azi che gli tira i capelli sulla nuca per premergli la fronte contro la sua, e poi di nuovo quella frase sussurrata con voce gelida: la Ronda della Morte ti riconosce come figlio.

Era quello, il giuramento di cui parla Paz? Non ha tempo di rifletterci; non vuole rifletterci e ripensare a quel giorno che lo fa sentire debole, così caccia fuori la risposta di getto, come un colpo di blaster:

«Sì.»

Paz sbuffa dal naso, derisorio.

«Non hai un elmo, non vuoi seguire la Via, non hai nemmeno uno straccio di armatura e dici di aver giurato al Credo e superato la "prova" a otto anni. Più che un Mandaloriano, a me sembri solo un bugiardo.»

Din sente un crampo all’altezza del petto, dove è nascosto il ciondolo in beskar che gli ha dato Ruu. Gli sembra che uno zampillo di magma l’abbia colpito in pieno volto, ma è solo la rabbia che gli risale alle guance come fuoco.

Paz scuote un’ultima volta la testa e getta con stizza l’elmo in durasteel per terra, facendo per superarlo e andarsene. Din agisce in quell’istante. Si muove rapido, come ha imparato durante l’addestramento: fa un passo in avanti, uno di lato e dà una spallata a Paz con tutto il peso del proprio corpo, sbalzandolo via con forza.

«Kriff!»

Paz impreca, sorpreso e sbilanciato, ma Din non ha modo di costringerlo a terra che ha già riacquistato l’equilibrio e l’ha afferrato per le spalle della tunica. Lo solleva da terra con un verso di sforzo, per poi scagliarlo via.

Din non cade – mai cadere durante uno scontro, se cadi sei morto – mulina le braccia per mantenersi in piedi e si dà di nuovo la spinta per tornare all’attacco. Paz stavolta è pronto e lo accoglie con una ginocchiata. Din incassa il colpo – fa malissimo, si sente sul punto di vomitare – ma resiste, afferra il suo braccio, ruota su se stesso e tira verso il basso.

Paz è più alto e pesante, ma ha visto Azi e Ruu mettere al tappeto Mandaloriani grossi il doppio di loro con quell’identica mossa. Gli riesce a metà: Paz si sbilancia di nuovo, ma mentre capitombola a terra lo trascina con sé. Din impatta di faccia contro il permacrete e un istante dopo si ritrova immobilizzato con le ginocchia di Paz sulle spalle – il suo peso è di nuovo un vantaggio.

Sente la guancia che pulsa nel punto in cui ha sbattuto e il fiato corto, in modo troppo simile a quella volta a cui non vuole pensare, quando Kyr’ad l’ha inchiodato a terra e l’ha quasi sbranato. Il suo cuore se lo ricorda troppo bene e continua a tambureggiare tra le costole.

«Muoviti e ti spacco la faccia, dar’manda» ringhia Paz, spostando il peso sulle ginocchia in modo intenzionalmente crudele.

Serra i denti a quell’insulto, che lo colpisce come una pugnalata. Senza-manda. Feccia. Rinnegato. Sa bene cosa vuol dire, perché sarebbe meglio la morte che diventare un dar’manda.

Quando Paz prova anche solo a sfiorargli il retro del cappuccio per afferrarlo, Din scatta di nuovo, come se qualcuno avesse tirato la leva di salto di un’astronave. Si divincola, sgroppa con tutte le forze che ha e, appena Paz vacilla un istante, gli molla una gomitata in mezzo alle gambe. Il ragazzo guaisce per quel colpo basso e Din agisce senza nemmeno pensare: libera del tutto il braccio, si gira sulla schiena e allunga la mano verso l’alto ad afferrare il bordo dell’elmo di Paz.

«No!»

Din tira di scatto prima che lui riesca a piantare le mani sulla calotta e l’elmo si sfila con un fruscio, senza alcuna resistenza. Il clangore del beskar che impatta a terra accanto al suo orecchio è assordante, tanto da fargli male al timpano. Poi a fargli male è la testa, quando un pugno lo raggiunge sulla tempia.

Din ha a malapena il tempo di vedere Paz in volto – è biondo, ha gli occhi di un blu che non ha mai visto e un velo di lentiggini sul naso – che la sua vista si oscura e lampeggia.

Il secondo pugno lo colpisce sul naso con uno schiocco e Din sente il sapore del sangue in gola.

La sua mano si muove da sola: corre alla cintura, si stringe attorno all’elsa della vibrolama e la attiva. Il fendente sfreccia verso l’alto in una scia biancastra e sfiora Paz sulla guancia, lasciando una traccia rosso vivo. Paz nemmeno urla, con gli occhi chiari inondati di furia, ma vede la lama pronta a colpire di nuovo e si scansa d’istinto.

Din interrompe la finta e riesce a sbalzarlo via, tornando libero di muoversi. Alza l’arma, mirando al retro del ginocchio per recidere i tendini e incapacitare l’avversario, ma non fa in tempo a colpire che lui gli è di nuovo addosso e gli immobilizza il polso in una stretta ferrea, torcendolo.

Vede nero per un istante.

Quel gesto gli ricorda così tanto Azi che Din smette di combattere con la freddezza che gli ha insegnato lo stesso comandante della Ronda, come se anche così potesse fargli del male. Si scaglia in avanti d’istinto, assestando a Paz una testata sul mento che lo spedisce all’indietro. La presa sul suo polso scompare e stavolta è lui, a balzargli addosso e inchiodarlo a terra con le ginocchia premute sulle spalle.

Sta per puntargli la lama alla gola, intimandogli di non muoversi, ma Paz non sta opponendo resistenza: si copre solo il volto affilato con entrambe le mani. Quando scorge due scie umide oltre le dita serrate e sente un singhiozzo che gli scuote le ginocchia, Din frena il gesto. Esita, ansimando e deglutendo quello che sembra un groppo di ferro, mentre il sangue non smette di uscirgli a fiotti dal naso.

Non sa che fare. Ha vinto?

Non ha il tempo di capire se si senta soddisfatto o meno, che Paz si rianima di colpo. Scosta di scatto le mani dal viso, lo agguanta per la tunica e lo scaglia da parte con così tanta forza da mandarlo a sbattere con il fianco contro la parete più vicina e fargli sfuggire la vibrolama di mano.

Rintronato, vede Paz che si tira su sulle ginocchia, si asciuga le lacrime e il sangue che gli cola dal labbro spaccato e lo guarda con degli occhi inferociti che gli ricordano Kyr’ad.

«Gar kyrayc

Sei morto.

Din non si permette di provare davvero paura da molto tempo. Stavolta, però, sente una stretta spiacevole sotto lo stomaco e ogni singolo nervo che gli grida di scappare – e invece rimane paralizzato lì.

Quando Paz afferra la sua stessa vibrolama e lo immobilizza di nuovo a terra, molta più forza di prima, è convinto di essere morto per davvero.

«Gev! Gev, jii!»

Una voce stentorea sovrasta il rombo del sangue nelle sue orecchie. Din riprende a respirare non appena Paz si rialza di scatto, lasciandolo libero di muoversi. D’istinto, afferra di nuovo la vibrolama abbandonata a terra, ma, quando guarda il suo avversario, vede con sorpresa che è prostrato in ginocchio con la fronte premuta a terra. L’Armaiola avanza a falcate lente verso di loro.

«Ni ceta, buir, ni...» mormora Paz, in un tono acuto che sembra terrorizzato.

«Ne’johaa

Taci. Paz ammutolisce, obbedendo e continuando a respirare affannato contro il suolo. L’Armaiola si ferma a un passo da loro. Sposta il suo elmo verso di lui e Din si sente quasi risucchiato dal buio delle orbite sul suo elmo.

«È così, che ricambi l’ospitalità, Din Djarin?»

La sua voce non tradisce nemmeno una goccia di rabbia, ma lo inchioda a terra. Din si irrigidisce, preparandosi alla punizione. Non gli fa paura, non più di quanta gliene faceva Azi, ma si ritrova ad abbassare lo sguardo come non aveva mai fatto con lui.

«Per un atto del genere, dovresti essere bandito seduta stante dalla Tribù» aggiunge, senza però accennare ad afferrarlo o colpirlo. «Ruusaan si vergognerebbe di te.»

Fa molto più male di qualsiasi manrovescio gli abbiano mai assestato Azi o i sergenti. Tiene lo sguardo puntato a terra mentre cambia posizione, arrivando anche lui sulle ginocchia. Stringe tra le mani l’elsa della vibrolama, ora spenta. Non posa la fronte a terra come Paz, ma tiene il capo chino come se un peso invisibile glielo premesse verso il basso. Goccioline di sangue gli scendono dal viso e vanno a macchiare il pavimento. Sembrano lacrime rosse.

«Ni ceta» mormora infine. Perdonami.

Azi gli ha detto di non pronunciarle mai, che per un Mandaloriano chiedere scusa in ginocchio è un’umiliazione, ma in quel momento gli sembrano quasi un sollievo. Non sa spiegarsi cosa sia successo e si sente la testa nebbiosa, ma sa di aver sbagliato. Non vede la reazione dell’Armaiola, perché si è già rivolta a Paz.

«Tu, Paz Vizsla. Hai alzato le mani contro un fratello più piccolo che avresti dovuto educare, ti sei fatto battere da un bambino e hai perso il tuo buy’ce prima ancora di averlo davvero conquistato. Non sei pronto per giurare al Credo.»

L’Armaiola si china a raccogliere il suo elmo, incastrandolo sotto il braccio. Paz non si muove, ma Din sente un respiro più pesante e umido infrangersi contro il terreno e lo vede contrarre le dita con uno scricchiolio di cuoio.

«L’ho colpito io per primo» esala Din, a voce bassissima, tanto che non crede di aver parlato. «Lui si è solo difeso.»

L’Armaiola getta uno sguardo all’altro elmo in durasteel abbandonato a terra, ma non accenna a raccoglierlo.

«Non importa. Sa benissimo quali sono le regole.» Fa una breve pausa, per poi indicare entrambi con un cenno del mento appuntito dall’elmo. «In coro, entrambi.»

«Ba’jur bal beskar’gam, ara’nov, aliit, Mando’a bal Mand’alor – an vencuyan mhi.»

Paz pronuncia quella cantilena senza la minima esitazione. Din tace, boccheggiando a vuoto nel tentativo di far almeno finta di ripetere le parole che riconosce – armatura, famiglia, Mando’a – ma il senso completo gli sfugge.

«Non conosci i Resol’nare? I Sei Atti?» chiede l’Armaiola.

Stavolta Din si azzarda ad alzare lo sguardo, incrociando le fessure del suo elmo. Per un attimo ha l’istinto di mentire. Poi fa cenno di no, strizzando la stoffa dei pantaloni nei pugni, sotto la vibrolama. Sente un’ondata liquida che gli riempie il petto all’improvviso e la trattiene appena in tempo.

Cos’altro non sa?

L’Armaiola rimane in silenzio per quella che sembra un’eternità, scandita dal lento sobbollire della lava in sottofondo.

«Cosa ci rende Mandaloriani?» chiede, senza preavviso, alzando un palmo in direzione di Paz per frenarne la risposta.

Din deglutisce e si asciuga il sangue dal naso imbrattandosi le nocche, senza osar dire di getto ciò che ha imparato – coraggio, forza, onore – perché ha l’impressione che non sia la risposta giusta.

Ripensa ad Azi, a Kyr’ad che l’ha quasi sbranato e che lui ha quasi ucciso – quello l’ha reso un Mandaloriano? Ma si era sentito un Mandaloriano anche prima, quando ha indossato il ciondolo in beskar. Quando Ruu gli ha detto che esistono una Via e un manda che guideranno i suoi passi e gli ricorderanno chi non c’è più. Quando si sono promessi di tornare e aspettarsi sempre.

Din si rende conto solo allora che non è certo di crederci davvero, in quell’ultima parte. C’è una parte di lui che si aspetta di non veder mai più tornare Ruu. Paz ha ragione, forse: se non crede a quello, se non si fida di ciò che gli ha detto la persona che è la cosa più simile a una famiglia che gli è rimasta... che Mandaloriano è?

«La... la  famiglia» risponde infine a voce bassa, schivando per un istante il suo sguardo e seguendo l’onda di quei pensieri che, adesso, fanno più male che mai.

«È un inizio» commenta lei, annuendo piano col capo. «In piedi, ad’ike» ordina poi.

Din obbedisce, imitato più lentamente da Paz, che continua a tenere la testa china in avanti. L’Armaiola gli si avvicina e lo obbliga ad alzarla con una mano, per poi esaminare lo spacco sul labbro e la bruciatura sullo zigomo. Din scorge di sottecchi come tenga comunque gli occhi bassi, le guance screziate di un rosso acceso dalla vergogna.

L’Armaiola non commenta e Din sobbalza quando fa lo stesso con lui, controllandogli il naso, la sbucciatura sulla guancia e il livido che sente allargarsi in un alone caldo sulla tempia. Senza preavviso, gli preme i due pollici ai lati del naso e preme di scatto, con uno schiocco che lo fa sobbalzare e vedere le stelle. Trattiene come può ogni lamento e sente che adesso respira meglio, anche se fa un male del kriff.

L’Armaiola, con un gesto così naturale da coglierlo alla sprovvista, gli toglie la vibrolama dalle mani, riponendola nella propria bisaccia. Din non protesta, ma segue quel movimento con un sobbalzo, come se gli avesse di nuovo raddrizzato il naso.

L’Armaiola si scosta infine da loro, facendo cenno di seguirla.

«Una lezione di ripasso non farà male a nessuno dei due.»


 


Note dell’Autrice:


Ho fatto 30, perché non fare 31?
Anche questo capitolo ha la sua età (scritto a inizio 2022), ma rimane uno dei miei preferiti che ho scritto nel contesto di questa storia.
Spero che la lettura vi sia piaciuta e ogni commento è gradito ♥
Ci sono molti riferimenti a questo capitolo di Vode An, nel caso aveste dubbi e perplessità.

-Light-

Ritorna all'indice


Questa storia è archiviata su: EFP

/viewstory.php?sid=4011504