L'ALTALENA

di erikagardin86
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** MEZZANOTTE ***
Capitolo 2: *** L'ALTALENA E LA QUERCIA ***
Capitolo 3: *** PHOEBE ***



Capitolo 1
*** MEZZANOTTE ***


E' appena trascorsa la mezzanotte. Non riesco a dormire, così mi alzo dal letto e scendo al piano di sotto, nel mio studio, a visionare dei documenti che un mio cliente mi ha portato proprio ieri.

Sono un avvocato, specializzato in diritto di famiglia. A dirla tutta discendo da una stirpe di avvocati: mio padre, mio nonno furono illustri rappresentanti della magistratura e nella mia città sono sempre stati considerati motivo di vanto. La mia famiglia ha donato lustro da secoli con il suo nome, una responsabilità con tutti gli annessi e connessi. 

Lustro che io, Eric Barnes, ho pensato bene di mandare a puttane.

Ho intrapreso controvoglia gli studi di giurisprudenza, con la spada di Damocle del perpetrare e mantenere vivo il prestigio dei "Barnes", che pendeva sulla mia testa già da quanto ero soltanto un bambino.  Il mio sogno è sempre stato quello di diventare uno scrittore, ma non era ammesso.

<< Uno scrittore? Ma che idee ti saltano in mente?! Vuoi disonorare la famiglia e vivere come un poveraccio? Non avrai nessun futuro, Eric. Noi Barnes siamo illustri avvocati da generazioni e tu non sarai da meno. Questa è la tua strada!>>

Parole che mio padre soleva ripetere sino alla nausea quando, timidamente, tentavo di spiegargli le mie passioni e i miei progetti per il futuro.

E mia madre, bhe, non fu mai d'aiuto. Anaffettiva, asettica. La classica signora d'alto rango, attenta più alle apparenze e ai gioielli che ai sentimenti.

Medico di professione, anch'essa proveniente da una famiglia di medici da generazioni. Insomma, non si può dire che i miei genitori non fossero ben assortiti. Matrimonio di convenienza più che altro. Sempre per mantenere "alto" il buon nome e bla, bla, bla.

Ed eccomi qua.

Ho lasciato la mia città natale per trasferirmi nel nord dell'Inghilterra, a York.

Sono un avvocato, come voleva mio padre, ma non ho ottenuto grandi successi, anzi, ho collezionato più di qualche fallimento. Ho volutamente tenuto sempre un basso profilo, senza nessuna voglia di distinguermi ed eccellere, come gli altri della mia famiglia.

Diciamo che il lavoro mi serve per guadagnare da vivere, sono professionale, ma nulla più. E' l'abitudine che si attacca alla pelle come una gramigna. Non mi posso certo lamentare, tuttavia. Non sarebbe nemmeno onesto.  Conduco una vita agiata, in una piccola villa di periferia a ridosso di un piccolo bosco, con del personale di servizio che sbriga tutte le incombenze domestiche. Tra l'altro ho come confinante un chirurgo in pensione, Leopold Barrett, con la passione dell'escursionismo in montagna che mi ha coinvolto più di qualche volta nelle sue uscite in mezzo alla natura, il che ha contribuito a far nascere un bel legame d'amicizia. Ho anche un divorzio alle spalle e una figlia di quattordici anni, Noemi, che vive con la madre e vedo, se tutto va bene, due volte al mese.

Insomma una vita agiata, ed adagiata, nelle certezze delle abitudini.

Dopo essermi versato del bourbon, ne bevo un sorso e focalizzo l'attenzione sui documenti che ho davanti.  Una pratica di divorzio , tanto per cambiare.

Comincio a leggere le prime pagine del faldone e scopro che il nome della parte richiedente non mi è per nulla sconosciuto, anzi. Phoebe. Phoebe Anderson. Ho un sussulto. La forte sensazione  di annaspare, di sentire lo stomaco completamente scisso dal corpo. Ricordi, che arrivano come l'alta marea.

Il tempo aiuta ad allontanare, ad affievolire, ma non a cancellare. Non si può dimenticare la persona che sai di avere sempre amato e che, nonostante tutto, porterai dentro di te per tutta la vita, amandola per sempre.

La vita prosegue, si va avanti facendo finta che quella persona non ci sia, che è andata così, come doveva andare. La mente tende ad offuscare, a nascondere dentro un pozzo profondo chilometri ciò che ci danneggia, per un senso di protezione, per non farci impazzire in preda all'esasperazione.

Ma quando ti ritrovi davanti alla presenza, anche del solo nome, quello che esso scatena è devastante.

Una semplice parola può essere così viva! Un'entità che pulsa di energia propria e si insinua, attecchisce, nutrendosi della tua razionalità.

La vita, spesso, ha una tale perfezione nelle sue macchinazioni da sfidare il limite dell'umana comprensione. Giri assurdi di vite, di situazioni, di attimi da far paura al più abile scacchista.

Perché, in fin dei conti, la vita non è che una partita. Una partita da giocare più o meno bene., questo è certo. Ma assolutamente, indiscutibilmente da giocare, sperando di vincere. Vincere cosa? Il premio, quello lo decidiamo noi, in base alle nostre  scelte.

C'è chi ambisce allo scacco matto e chi si ritrova pedone per arrivare a mangiare la Regina. In un sol boccone, o soccombere. Questione di punti vista, opportunità e di decisioni.

Phoebe. Proprio a me doveva rivolgersi? Sapeva che ero proprio io?

A pensarci bene, ieri non avevo accolto personalmente chi aveva portato i documenti. Due giorni prima, mi aveva contattato telefonicamente un cerco Lucas Shawn, chiedendomi un consulto.

Era tardi, l'ora di cena era già trascorsa, così ci accordammo che l'indomani mi avrebbe portato tutti gli incartamenti allo studio per una prima valutazione e una breve chiacchierata a scopo conoscitivo.

Purtroppo un'improvvisa  e urgente telefonata dal tribunale non mi permise di mantenere fede all'impegno preso con Shawn e delegai l'incombenza alla mia segretaria.

In tribunale ne ebbi per le lunghe e ritornai tardi in ufficio. Presi la cartella di Shawn e la portai a casa per lavorarci su nei giorni successivi.

Solo ora rammento che Lucas mi aveva accennato ad una pratica di divorzio. Ma chi è questo Lucas? Il marito di Phoebe?

Devo calmarmi e liberare la mente, in fin dei conti si tratta solo di una coincidenza. Domani devo assolutamente approfondire e chiedere informazioni a Catherine, la segretaria.

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Capitolo 2
*** L'ALTALENA E LA QUERCIA ***


Mi alzo lentamente e sposto la sedia nella quale sono seduto, producendo uno stridio secco e graffiante che rimbomba in tutta la casa, silenziosa e quieta nel torpore della notte. Mi dirigo alla finestra che dà su un angolo del giardino curatissimo quello, a mio parere, più bello e suggestivo. L'occhio viene subito rapito dalla vecchia quercia che domina il piccolo parco. Sta lì, come una regina, in fondo al selciato ricoperto da un tappeto di foglie dalle tinte rosse e brune, reso lucente dalla bruma di novembre sotto la luce fioca dei lampioni, posti a lato del sentiero. La signora Quercia regna serafica da non so quanti anni. Ho acquistato questa magione dieci anni fa, da una ricca e anziana coppia che avevano deciso di trasferirsi vicino ai loro figli. Ed è stato proprio quell'angolo di giardino, con la maestosa presenza della grande quercia, a convincermi definitivamente a procedere all'acquisto della villetta. E poi c'è l'altalena. Una vecchia, tradizionale altalena dal sedile in legno, agganciata ad un ramo nodoso, un braccio gentile segnato dal tempo, con della grossa corda che la tiene sospesa. Mi sono sempre preso cura di quell'altalena, non ne ho mai compreso il motivo, ma è come se emanasse una sorta di influenza, di antico significato legato alle storie passate di quella casa. Tantissime volte, quando ho bisogno di pensare e di isolarmi dal mondo. mi siedo su quell'altalena e mi dondolo lentamente, lasciandomi cullare dal piacevole, ipnotico movimento fino a dimenticarmi del resto. Ci sono dei momenti, poi, nei quali aumento la velocità di più, sempre di più fino a farmi girare la testa e sentire l'adrenalina pervadere il mio corpo, come se la mente fosse sconnessa da tutto e si librasse leggera nell'aria. Svuotata. Ma stanotte c'è qualcosa di diverso. O i miei occhi stanchi stanno giocando un brutto scherzo o sull'altalena c'è seduto qualcuno. Dapprima cerco di aguzzare la vista per capire meglio, ma per colpa della distanza non sono sicuro di ciò che vedo quindi, senza star lì tanto a pensarci, esco dalla porta a finestra e mi accingo a percorrere il vialetto sino alla vecchia quercia. Man mano che mi avvicino ora ne sono sicuro. C'è davvero qualcuno sull'altalena. Comincia a scendere una sottile coltre di nebbia che penetra nelle ossa e rabbrividisco ad un pungente alito di vento, che smuove le foglie sul selciato producendo un inquietante fruscio che si amplifica nel totale silenzio di una notte di novembre. <> la mia voce riecheggia , un suono che svanisce nel vuoto. Sono praticamente dietro all'altalena e ora vedo nettamente una sagoma scura avvolta in un alone di nebbia e luce. E' la figura di una donna. Riesco a distinguere i capelli raccolti in una lunga, unica treccia e un elegante cappotto scuro, indossato alla perfezione, che la protegge dal freddo. << Mi scusi, signora... tutto bene?>>. Nessuna voce, nessun rumore. Solo la continua sinfonia del fruscio delle foglie agitate dal vento, uno scricchiolio che entra prepotentemente nella mia testa. Mi azzardo a toccare lievemente la spalla nuda della donna, dove il cappotto è sceso, lasciando intravedere lo scollo a barca della maglia o del vestito che porta. << Scusi...>> ritento. La mia voce fa trasparire, questa volta, una nota di insicurezza e di agitazione. Quasi paura. Finalmente lei si volta. Lentamente volge il volto verso di me. Mi basta riconoscerne il profilo che rimango pietrificato. Il respiro diventa un'azione secondaria, rimango in apnea: vorrei muovermi, parlare, abbracciarla, senza lasciarla andare. Mai più. Ma in realtà riesco solamente a rimanere lì, immobile, a fissarla. << Ciao>> Sento la sua voce finalmente. Dopo anni. Il suo timbro sommesso, ma cristallino, mi trascina sott'acqua in un fiume di ricordi, in balia della corrente nella quale sono felice di annegare. << Ciao, Phoebe>>. Quelle due parole mi escono a singhiozzo, completamente divorate dall'emozione.

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Capitolo 3
*** PHOEBE ***


<< Come stai, Eric?>> mi chiede. La sua voce ora sembra più lontana, come distorta da una specie di eco. << Io sto bene. Cosa ci fai qui?>> Esco con un tono duro, quasi rabbioso, ma al tempo stesso le parole si impastano, sono biascicate come se fossi ubriaco. E' incredibile come, anche dopo a distanza di anni, una persona possa destabilizzarti in questo modo. MI sento stranito, come se non fossi io, come se mente e corpo fossero sconnessi. Due parti scisse. Il cervello sta andando in una direzione e il corpo nell'esatta parta opposta. << Volevo salutarti>> dice lei, puntando i suoi occhi verde smeraldo su di me. Uno sguardo spento, acquoso che si confonde con l'umidità velata della nebbia. Un sottile muro dai contorni indefiniti, che rende tutto onirico, sfumato senza una rassicurante concretezza collegata al mondo reale. << Tu come stai?>> le chiedo, cercando di scrollarmi di dosso quel tono secco e tentando di prendere controllo di me stesso. << Sono qui per te. Avrai visto i documenti, immagino>> risponde Phoebe. << Sì, ci stavo proprio dando un'occhiata prima. Non riuscivo a dormire. A proposito, chi è Lucas? Ho avuto a che fare con lui solo telefonicamente ... >> Mi pento subito di averglielo chiesto così a bruciapelo. Avrei piuttosto dovuto interessarmi sulle motivazioni del divorzio, sia dal punto di vista professionale, sia sul piano personale. Su come si sentisse. Sono stato sicuramente poco delicato. Ma cosa mi sta succedendo stanotte? Sono insicuro e inadeguato come un adolescente alla sua prima cotta. << Cioè... scusami. Mi stavo solo chiedendo chi fosse, così, per curiosità. Piuttosto, ti va di raccontarmi del divorzio, se posso permettermi?>> cerco subito di rimediare e senza accorgermene, impulsivamente, cerco la sua mano per stringerla. Ma appena la sfioro lei sussulta, si libera dalla presa e il suo sguardo si fa ancora più vacuo, assente. La bocca di deforma in un ghigno quasi feroce che mi fa arretrare. << Non toccarmi! >> urla lei, singhiozzando. << Ok... scusami. scusami. Non volevo fare nulla di male. << No, no scusami tu per la mia reazione. E' che... è che... non importa. Mi chiedevi chi fosse Lucas. E' mio fratello. Il mio fratellastro, per la precisione. È il frutto della storia d'amore tra mia madre e un giovane poliziotto appena assunto in servizio. Sembrava procedere tutto bene ma, quando Lucas aveva circa due anni, lui non ne ha più voluto sapere. Se ne è andato non si è fatto più vedere. Quasi dopo un anno mia madre ha conosciuto mio padre nel negozio di abbigliamento dove lavorava come commessa. Si sono sposati solo dopo sei mesi e dopo un altro anno sono nata io. Praticamente io e Lucas ci passiamo di quattro anni e mezzo. Si sta occupando lui di tutta la faccenda del divorzio. Non mi ricordo se l'avevi mai conosciuto, ma forse no. Appena conseguita la laurea in economia decise di trasferirsi a New York e dare una svolta alla sua vita. E ce la fece. Alla faccia dei nostri genitori che non hanno mai creduto in lui. L'hanno sempre considerato l'anello debole della famiglia, per via del suo carattere introverso. A differenza di me, che sono sempre stata una testa calda. Più mi venivano imposti confini, più mi ribellavo e cercavo di abbatterli. Sono stata io a far pressione a Lucas sul fatto che se ne andasse, con mio grande dolore, per avere l'opportunità di farsi una vita lontano da casa, dove poter trovare il proprio posto nel mondo ed eccellere nel suo campo. Io e Lucas siamo sempre stati legati da un rapporto simbiotico, siamo cresciuti uno sulle spalle dell'altro, difendendoci e supportandoci in tutto e per tutto. Ora è da un paio d'anni che è tornato nel Regno Unito e, per fortuna, ci siamo ritrovati>> Mi racconta tutto senza fermarsi un attimo, come se avesse una gran fretta di raccontare la sua storia, quasi fosse una corsa contro il tempo e , nello stesso momento, avesse bisogno da secoli di parlare con qualcuno. << E poi>> aggiunge << mi è stato vicino con la questione del divorzio>> A questo punto mi viene naturale avvicinarmi nuovamente ma, appena faccio un passo nella sua direzione lei si irrigidisce e fa un impercettibile segno di diniego, davanti al quale decido di fermarmi e mi siedo nella panca posta a lato del sentiero, di fronte all'altalena. <> Silenzio. Phoebe volta leggermente il di lato e fissa un punto imprecisato nel vuoto. <> Si riprende dal suo stato catatonico e si rivolge nuovamente a me. << Diciamo che mio marito, durante l'ultimo anno. ha iniziato a comportarsi in modo strano. Era diventato schivo, nervoso e a casa non c'era mai. Diceva che aveva problemi al lavoro, ma non me ne parlava. Mi sono ritrovata ad essere da sola con mio figlio di dieci anni. Si chiama Thomas. Finché una sera... >> Smette di parlare e il suo volto si bagna, pian piano, di lacrime troppo a lungo trattenute.

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