La Principessa e il Re

di Razaghena
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Stendardi ripiegati ***
Capitolo 2: *** Fango sotto gli stivali ***
Capitolo 3: *** Calici e boccali ***
Capitolo 4: *** Il prezzo del miele ***
Capitolo 5: *** All'ombra degli ulivi ***



Capitolo 1
*** Stendardi ripiegati ***


DISCLAIMER: Questi personaggi non mi appartengono, ma sono di proprietà di J.R.R. Tolkien. Questa storia è stata scritta senza scopo di lucro.

                                        Éomer proseguì ad ignorare la giovane moglie che gli sgambettava timidamente attorno e che ancora andava farfugliando ragioni, cercando il suo sguardo, la sua attenzione. Non poteva affrontare la questione in quel momento. Era arrabbiato. Furioso. Sentiva di doversi allontanare al più presto da lei.

La sua armatura però non sembrava voler collaborare. Dopo aver nuovamente fallito a sganciare lo spallaccio con cui stava armeggiando, trattenne a stento un ringhio in gola. Sentiva l’acido caldo del suo temperamento scorrergli nelle vene, pronto a detonare. Si arrese. Sarebbe uscito a cavalcare così, in armatura, non aveva importanza.

Si sollevò in piedi e incontrò in quel momento gli occhi confusi di Lothíriel, che ancora non aveva smesso di argomentare, anche se più debolmente. Il torrente di emozioni crude che gorgogliavano nel suo petto si placò per un istante.

La sua mano si mosse da sola e si insinuò nella chioma scura della ragazza. Chiuse il pugno sulla sua nuca, attirandola a sé, facendola finalmente tacere. La ragazza sussultò appena, stupita, ma rispose comunque al suo brusco bacio. Serrò di più il pugno attorno i capelli di lei, costringendola a dargli maggiore accesso alla sua piccola bocca, che esplorò avidamente. Sentì vibrare contro la lingua un gemito soffocato che gli fece allentare di poco la presa.

Quando si separò dalla moglie le impresse un ultimo, possessivo, bacio, poi la superò, lasciandosela alle spalle.

«No». Un sussurro pressoché inudibile raggiunse Éomer quando era già alla porta.

«No?», voltò appena la testa verso di lei.

«No», ribadì Lothíriel con maggiore convinzione, «Vorrei- Voglio che usi le parole. Parlami… Spiegami».


Non finì nemmeno di ascoltarla. Era già al suo terzo passo lungo il corridoio quando si bloccò sul posto. Sospirò, frustrato, rendendosi conto di averla lasciata con uno sbuffo quasi derisorio.

Tornò indietro, affacciandosi alla stanza. «Questa mattina…», si appoggiò allo stipite, «Questa mattina ti avevo detto di aspettare. Se-… Iriel, maledizione, se ti fosse successo qualcosa…». Serrò gli occhi, inspirando profondamente.

«Lo so, lo so. Sono stata avventata, lo so. Ma solo perché sapevo che stavi per arrivare».


Éomer guardò negli occhi sua moglie e si sforzò di addolcire la propria espressione. No, lei non poteva capire. Non poteva capire quanta paura gli facesse. E lui non era stato preparato a tutto questo. Non aveva messo in conto che amare qualcuno potesse essere così spaventoso. «Iriel…», sospirò passandosi una mano sul viso. «Tu non puoi-… Io- Sono così- così arrabbiato…».


«Qui», un altro sussurro.


«Qui?».


«Sì. Non parlarmi da lì, sulla porta. Parlami da qui», gli chiese mentre indicava lo spazio che li divideva. «Ti-ti prego…», aggiunse più docilmente di fronte al suo aggrottamento di sopracciglia.  


Éomer inspirò di nuovo, lasciando che il silenzio calasse nella stanza. Poi si avvicinò a lei lentamente, mantenendo gli occhi nei suoi. Si fermò a un passo di distanza, torreggiando sulla moglie.

«Tu. Tu. Non ascolti mai», iniziò pacato, «Corri rischi evitabili. Di continuo», la sua voce cavernosa andava caricandosi di irritazione, «Tu. Sei così-».

Questa volta fu Lothíriel a zittirlo con un bacio. Aveva agganciato le dita nella parte superiore del suo pettorale per attirarlo a sé, sollevandosi sulle punte fino ad arrivare a unire le labbra alle sue, modellando impazientemente la bocca contro la sua. Éomer non tardò a circondarla con le braccia. Attraverso la sua schiena, poteva sentirle il cuore battere imbizzarrito.


«Ti chiedo scusa». Lothíriel esalò con un filo di voce contro le sue labbra. Il fiato già corto, le guance colorate.


«Tu- Mmh- Uhmf-». Éomer tentò di pronunciare una risposta ma la moglie non aveva smesso di rubargli baci. Abbandonò la vita di lei per prenderle il viso tra le mani, «Lasciami parlare, Iriel», le intimò con tono pacato ma fermo.


Non voleva le sue scuse. Voleva arrabbiarsi, rimproverarla. Farle capire. Ma quando incontrò il suo sguardo, lei gli sorrise. Gli sorrise, con uno dei suoi sorrisi, quelli belli, che le sollevavano gli zigomi e coinvolgevano gli occhi, facendoli brillare ancora di più. Maledetti quei suoi occhi che brillavano. Gli sorrise e lui si ritrovò a ricambiarla, mentre sentiva qualcosa tendersi e squarciarsi dentro la sua cassa toracica.


«Maledizione…», esalò esasperato prima di tornare a baciarla.


L’amore era davvero qualcosa di spaventoso.

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Due anni prima...

14 settembre 3019, Terza Era

Campo dei Tumuli, Edoras, Rohan
288 miglia a nord

                                        Settembre di quell’anno memorabile era iniziato più dolcemente di quelli precedenti. Il vento era gentile e sorprendentemente caldo, correva vivace sui pascoli per poi spazzare le piazze di Edoras, accarezzando con le sue dita invisibili i visi dei passanti. Gli eorlingas esorcizzavano il ricordo dell’Ombra che aveva abitato le loro terre tessendo arazzi per il re defunto e componendo canti in onore degli ospiti che si attardavano ancora nel Palazzo d’Oro: il sovrano di Gondor e il suo nobile seguito.

Éomer stava risalendo la strada verso i Cancelli, conducendo Zoccofuoco a piedi, quando gli giunsero alle orecchie le voci che si sollevavano dai cortili della città. Sorrise tra sé e sé mentre i suoi occhi si spostavano sui tumuli che costeggiavano la via, fermandosi su quello dello zio.


«Lo senti, mio signore?», parlò a bassa voce, «Canta, la tua gente. Guarisce».

Passò lentamente la mano sui bianchi ricordasempre che stavano gradualmente prendendo possesso del nuovo tumulo, facendoli scuotere piano. Avrebbe volentieri indugiato un po’ più a lungo, ma tre uomini che conversavano tra di loro gli stavano già venendo incontro.


«Siamo stati ingannati, Re Éomer. A Gondor si dice che i venti del Mark non conoscano moderazione», il Principe Imrahil lo apostrofò bonariamente appena lo avevano raggiunto; accanto a lui, Éomer riconobbe il figlio che lo aveva accompagnato in guerra, Erchion. Un’ottima spada e immagine del padre, anche se decisamente meno impostato e formale, come aveva avuto modo di osservare nei mesi passati.


Il suo amico, Brandwine*¹, passeggiava con loro.


«Eppure», proseguì il Principe dopo che gli uomini si erano scambiati un cenno di saluto con il capo, «Questo vento è più tenero della brezza della nostra costa. Inizio a credere che fossero solo dicerie per scoraggiare i visitatori».


«Non mi stupirebbe se queste dicerie fossero provenienti da Rohan», Éomer rivolse un sorriso dal sapore amaro al Principe, «Temo che non siamo stati una terra particolarmente accogliente negli ultimi anni».


«Non ditelo nemmeno, mio signore. Noi gondoriani abbiamo trattato con sospetto i nostri stessi fratelli, se vivevano anche solo un passo fuori dalle nostre mura. Ma è vano guardare al passato ora», Imrahil allungò un braccio e strinse la spalla del Re in un moto di affetto, «Guardate Meduseld, guardate come fiorisce! Uomini, Elfi, Nani, Mezzuomini… Tutti accolti dalla vostra gente con canti e calici traboccanti. Non credo possibile che qualcuno di noi chiamerebbe mai Rohan inospitale».


«Che sia come avete detto, Principe. Che sia come avete detto». Éomer si rivolse al suo amico, «Dove porti oggi i nostri ospiti, Brandwine? Non è tardi per uscire a piedi?».


«Oh, io non credo ci siano luoghi qui nei dintorni che i Principi non abbiano già visitato. Stasera li accompagno solo alla Guardiola Est».


«Uhm», Éomer annuì. Poteva pensare solo a una ragione per recarsi in un posto così banale. «Un altro messaggio da Sud, Principe?».


«Temo…», Imrahil tossicchiò quasi imbarazzato, «Temo sia di nuovo così, mio signore».


«State forse cercando di governare tutto il Belfalas via lettera?».


«Ci credereste se vi dicessi che i messaggi non sono indirizzati a me?».


Gli occhi dei presenti si indirizzarono sul Principe Erchion, che si era semplicemente stretto nelle spalle.
«Non sapevo aveste moglie», Brandwine inquisì, curioso.

«Oh no, no-no-no», il giovane si affrettò a correggerlo, «Non una moglie. Ma una sorella. Una sorella così avida di notizie che se fosse possibile esigerebbe da me il rendiconto dei capelli in capo a nostro padre».


Imrahil sospirò, «Erchion… Queste conversazioni non interessano i nostri amici».


«E che se potesse cavalcare», continuò il giovane non curandosi del velato richiamo del padre, «Sarebbe già venuta a riportarlo da sé».


«Le vostre donne non cavalcano?», domandò Éomer, mal celando la propria confusione.


«Oh… Mia figlia cavalca, mio signore».


«È questo il problema». Erchion si schiarì la gola cercando di nascondere il sorriso dietro al pugno.


La cagnesca occhiata che Imrahil aveva appena riservato al figlio cozzava buffamente con i suoi lineamenti nobili. «So che per voi può risultare difficile da comprendere, ma mi fa dormire meglio la notte sapere che mia figlia non ha sempre a disposizione un cavallo».


«Uhm… Capisco», Éomer asserì. Non capiva affatto. Ma era saggio abbastanza da non pretendere di comprendere gli usi della nobiltà gondoriana in tutte le sue numerose declinazioni. Con la coda dell’occhio, colse Brandwine incrociare le braccia sul petto e assumere quella che avrebbe potuto descrivere come la postura della pettegola del villaggio. Inspirò profondamente. Sapeva che l’amico – come suo solito – si preparava a immischiarsi in affari che non lo riguardavano.


«Posso immaginare che un padre preferisca far scortare la figlia ovunque si sposti», Brandwine cercò di approfondire la questione.


«Pft-…», Erchion si affrettò a premere le labbra in una linea, visibilmente divertito. «Sì. L’intento di mio padre era quello, esatto. Per quanto riguarda l’attuazione… L’attuazione è risultata lacunosa, possiamo dire».


«Uhm-mmh…». Éomer si limitò nuovamente ad annuire, ma Brandwine incoraggiò il giovane Principe con uno dei sui «Oh~ È così».


«Dovete sapere che mio padre aveva in tasca la strategia perfetta», si era lanciato il giovano gondoriano che ci aveva evidentemente preso gusto nel testare la pazienza del genitore. «Un figlio per ereditare il principato. Un figlio per la guerra», così dicendo indicò se stesso, «E un terzo figlio per custodire mia sorella, la più piccola».


«Erchion…», Imrahil si stava massaggiando la rughetta verticale che si era formata tra le sue sopracciglia scure.


Brandwine lo incentivò, con fare interessato, «Sembrerebbe un ottimo piano».


«Un ottimo piano sulla carta. Ma il vero scherzo del destino è la complicità tra mio fratello minore e mia sorella. La stessa che sarà il solo motivo per cui un giorno mio padre diventerà il primo della nostra stirpe ad avere la chioma completamente bianca».


«Erch-… Ah, basta così», frustrazione, esasperazione e imbarazzo si susseguirono nel tempo di un secondo sul volto di Imrahil, che si fermò ad esalare un sospiro. «Vi chiedo scusa, mio signore. Perdonate e ignorate ciò che esce dalla bocca insolente di questo giovane. Pago ogni giorno le conseguenze del non aver insegnato le buone maniere a questo… questo mio... figlio per la guerra, come ha deciso di definirsi», scosse la testa con disapprovazione.


Prima che il giovane principe potesse controbattere, una folata di vento portò con sé lo scalpitìo di zoccoli in avvicinamento. L’attenzione dei quattro uomini si spostò sulla linea dell’orizzonte da cui videro presto spuntare un vessillo azzurro raffigurante un argenteo cigno. Era diventata una visione piuttosto familiare.


«Credo che non dobbiate più arrivare alla guardiola», commentò Éomer, segretamente sollevato che la conversazione avesse trovato una naturale conclusione.


Il cavaliere proveniente dal Belfalas li raggiunse in poco tempo. Smontò prontamente di sella esibendosi in un profondo inchino. «Vi saluto Re del Mark, vi saluto Principi. Viaggio sotto lo stendardo del Cigno d’Argento e porto un messaggio da Dol Amroth», si annunciò con la formula di rito, aspettando di ricevere una risposta prima di risollevare il capo.


«Bentornato Rìathos», Éomer lo salutò chiamandolo per nome, avvicinandosi per accarezzare il collo del suo animale. «E bentornata Filiher», riconobbe la giumenta grigia. Con la recente impennata di scambi tra Dol Amroth e Edoras, Éomer aveva avuto modo di conoscere a rotazione quasi tutti i destrieri delle stazioni di cambio tra il Belfalas e i Monti Bianchi.


Erchion si fece avanti, «Con il vostro permesso, sire, vado ad assolvere ai miei doveri di informatore segreto. Del resto, suppongo che il messaggio sia indirizzato a me, corretto?».


«Sì, mio signore, ho una lettera da consegnarvi». Dopo aver parlato, il messaggero sembrò esitare. Aprì e chiuse la bocca, pensieroso.


«C’è altro, Rìathos?», lo incalzò Imrahil.


«Non per quanto riguarda il mio incarico, Principe».


«Parla liberamente».


«Nel Lamedon, mentre aggiravo i Monti Bianchi, ho visto dall’alto, guardandomi alle spalle, altri messaggeri percorrere fianco a fianco la via per Rohan. Tre in tutto. A meno di mezza giornata di viaggio dietro di me».


«Sotto che stendardo viaggiavano?», s’informò Éomer.


«È proprio questo che mi ha portato a sollevare la questione», Rìathos sembrava parlare con cautela, «Nessuno. Nessuno stendardo esposto, mio signore».


«E tu sei sicuro che fossero messaggeri?», si volle accertare Imrahil.


«Indubbio, Principe. Viaggiatori senza fagotto. E ho riconosciuto alcuni dei loro cavalli. Li ho usati io stesso in passato».


«Li hai visti nel Lamedon, hai detto…», Erchion si strofinò il collo, «Perciò provengono dalle Province del Sud. E viaggiano con gli stendardi coperti per venire qui, ad Edoras, dove sono ospitati il Re di Gondor e il suo consiglio quasi al completo».


Ci fu un loquace, per quanto rapido, scambio di sguardi tra i principi gondoriani e i rohirrim.


«Rientriamo», sentenziò asciutto Éomer. Sapeva che le buone notizie non viaggiavano a stendardi ripiegati.




26 settembre 3019, Terza Era
Palazzo del Cigno d’Argento, Dol Amroth, Gondor
288 miglia a sud
                                        Lesti passi sul pavimento marmoreo riecheggiavano per i corridoi del Palazzo. Lothíriel camminava senza celare la propria fretta, tenendosi poco elegantemente sollevate le vesti per non inciampare. Sapeva che la ramanzina che il fratello le avrebbe destinato sarebbe stata proporzionale al suo ritardo. Si arrestò di fronte a una doppia porta laccata, riportante un rifulgente emblema del Cigno d’Argento. Si rassettò l’abito prima bussare e spingere la porta verso l’interno.

«Mi hai fatta chiamare, fratello?», si richiuse la pesante porta alle spalle.


«Dove sei stata?». Elphir l’apostrofò incolore, seduto dietro al suo massiccio scrittoio. Aveva parlato senza sollevare gli occhi dal tavolo.


«Ero scesa in città».


«In città dove?».


«Nella Piazza delle Fonticoperte». Seguì un silenzio che la Principessa trovò presto opprimente. «Uhm… In- in città c’era- c’è una compagnia di cantastorie e… E raccontavano dell’incoronazione del nuovo Re. Io ho pensato di- di andare ad ascoltare e…». Si fermò quando il suo cervello registrò di stare straparlando. Dietro la schiena aveva preso a stropicciarsi nervosamente le mani.


Dopo qualche interminabile minuto, il Principe Erede chiuse il registro su cui aveva fatto delle annotazioni e si rilassò contro lo schienale della sedia, alzando per la prima volta gli occhi sulla figura che aveva di fronte. Lothíriel accennò un timido sorriso nella sua direzione, ma il viso di Elphir rimase inespressivo. «Dove hai detto che sei stata?».


«Piazza delle Fonticoperte».


«Accompagnata?».


«Amrothos e Thïria erano con me».


«Thïria?».


«Thïria… La- La mia dama di compagnia, Thïria». A volte Lothíriel dimenticava quanto il fratello maggiore si disinteressasse di imparare i nomi dei domestici.


Elphir annuì appena. «Dunque, veniamo al motivo per cui sei qui. Il Comandante Sîrfalas si unirà a noi per la cena di questa sera. Mi aspetto da parte tua un abbigliamento adeguato», gli occhi di Elphir si soffermarono sul semplice abito da giorno che Lothíriel stava indossando, «e maggiore impegno per quanto riguarda la conversazione. Non credevo fosse necessario farti queste raccomandazioni, ma tant’è». L’uomo accompagnò le sue parole con un sospiro.


La sorella sentì la gola farsi secca. «Il Comandante? Ci-… Ci ha fatto spesso compagnia negli ultimi mesi».


«Ti stupisce?», inarcò un sopracciglio, «Si attarda dopo le riunioni del Consiglio per dipanare questioni amministrative. È comune cortesia che io lo inviti a rimanere a cenare, Iriel». Il “non essere sciocca” iscritto nel suo timbro mordace era sottinteso, ma affatto velato.


«Sì… Naturalmente… Dico sol-».


«Non farfugliare», la interruppe, freddo, «Parla a modo, Iriel. Ne sei capace».


Lothíriel deglutì. Sentiva il pizzicore delle unghie che aveva affondato nella carne del suo stesso polso. «Mi chiedevo solamente se non fosse sconveniente ospitarlo così frequentemente. Il Comandante potrebbe fraintendere».


«Nessun fraintendimento. Nostro padre non ha interrotto il suo corteggiamento».


«Ma ha respinto la sua proposta di matrimonio».


Elphir si fermò a studiare la sorella. Gli occhi taglienti, quasi felini, ma del tutto imperscrutabili.
«Sorella…», cominciò piano, la voce bassa e innaturalmente calma, «Voglio essere franco con te in modo da non dovermi ripetere in futuro. Nostro padre non ha concesso la tua mano per questioni di tempismo, non di partito. Non ti ingannare. L’iniziativa del Comandante non è stata accolta per via della guerra imminente. Esclusivamente per via della guerra imminente. Inizia a familiarizzare con quest’idea, Iriel. Il nuovo Re di Gondor è stato incoronato, come anche il nuovo Re di Rohan; esauriti i suoi impegni diplomatici, nostro padre non può che fare ritorno e, se dovessi azzardare una previsione, prima della fine dell’anno la proposta del Comandante sarà riesaminata».

Anche se il padre non era stato schietto con lei come lo era stato Elphir in quel momento, Lothíriel sapeva che il fratello le stava dicendo il vero. Allora perché sentiva lo stomaco attorcigliarsi in quel modo su se stesso?


«Fratello, non sarebbe-… Non- non credi che sarebbe più opportuno aspettare il ritorno di nostro padre per- prima di-… Insomma, promuovere la frequentazion-».


«Parla come si deve, Iriel!», il fratello la sgridò mentre gli angoli della sua bocca prendevano la più lieve increspatura verso il basso, «A sentirti balbettare così mi chiedo a cosa siano serviti quindici anni di precettorato. Quel vecchio si starà rivoltando nella tomba».


«I-il», la ragazza si interruppe quando udì la propria voce uscire ancora più tentennante del solito. Si sforzò di deglutire. «Il mio precettore è vivo. Ora gestisce l’archivio del Consiglio. Lo sai, lo incontri ogni settimana».


«Allora si starà rivoltando nell’archivio», Elphir mosse una mano per aria come a voler scacciare una mosca, «Non vedo come questo cambi il fatto che inciampi nelle tue stesse parole. Ad ogni modo», sospirò, «Non ho altro da dirti per ora. Ti rivedrò a cena». Bruscamente come gli ebbe rivolto la sua attenzione, gliela stava ora togliendo. Gli occhi dell’uomo erano di nuovo sui documenti di fronte a lui.


Se il Principe Erede diceva che la conversazione era chiusa, allora la conversazione era chiusa. Lothíriel ne era più che cosciente. Lasciò lo studio in silenzio e appoggiò la fronte alla porta che aveva appena richiuso. Si prese un momento per poter far entrare aria nei polmoni, mentre i suoi occhi seguivano sovrappensiero le venature del pavimento in marmo. Il suo sguardo cadde sulla mano che ancora teneva sulla maniglia della porta. Avrebbe dovuto indossare un abito a maniche lunghe per la cena.



Note dell’autrice
• Alcuni personaggi introdotti o nominati in questo capitolo sono del tutto inventati ma rivestiranno ruoli ricorrenti. Tra questi segnalo:
            *¹ Brandwine, dal Rohirric brand (lancia) + wine (desinenza maschile che significa “amico”). Personaggio originale, amico d’infanzia di Éomer e suo secondo in battaglia.

            *² Thïria, dall’Ovestron tyriw (fanciulla snella) + (desinenza femminile); origine Sindarin. Personaggio originale, fedele dama di compagnia di Lothíriel.

Feedback riguardo la formattazione
So che è formalmente sbagliato evidenziare in grassetto i discorsi diretti, ma personalmente la ritengo una soluzione efficace per quanto riguarda la lettura su schermo. Fatemi sapere se, al contrario, vi disturba l’uso che ho fatto del grassetto e provvederò a riformattare.

• Vi ringrazio per aver letto questo capitolo! Il cuore della storia sarà ovviamente la relazione tra Éomer e Lothíriel, ma permettetemi di prendere le cose un po’ alla larga. Parole chiave: combustione lenta. A presto!
Razaghena
La storia ti sembra familiare? Una prima versione di questo racconto è stata pubblicata sul sito 10 anni fa, sotto lo stesso titolo. Ho rimosso la storia precedente solo di recente, per non creare confusione.
Chi ha letto la versione precedente deve rileggere tutto da capo? Questa nuova versione è frutto di una radicale revisione: sono stati tagliati alcuni personaggi, caratterizzati diversamente altri. Molti dei nodi della trama sono rimasti però invariati. I capitoli originali che si discostano al 100% dalla versione precedente inizieranno dal decimo capitolo.

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Capitolo 2
*** Fango sotto gli stivali ***


                                           Un giovanotto biondo era seduto sul primo gradino delle scale in pietra di Meduseld. Sopra la sua casacca luccicava un medaglione tondo, d’oro e di smalti, raffigurante un cavallo bianco. Il ragazzo lasciava vagare lo sguardo sui tetti di Edoras, illuminati dagli ultimi, orizzontali raggi dorati, mentre l’aria della sera si faceva gradualmente più pungente. Alle sue spalle, due soldati montavano silenziosamente la guardia all’ingresso. Il disordinato rumore di stivali in avvicinamento disturbò la quiete che stava regnando sulla terrazza del Palazzo.

«Éomer! Devi venire subito!». Una testa ramata spuntò dal fondo della gradinata. Un ragazzo, troppo smilzo per la sua notevole statura, risalì le scale quattro gradini alla volta, sfruttando tutta la lunghezza delle sue gambe. «Forza, in piedi», gli ribadì con il fiato corto e un luccichìo che non prometteva nulla di buono negli occhi.

I Custodi della Porta non sembrarono scomporsi. Non doveva essere una scena a loro nuova.

«Sai che non posso venire, Brandwine. Sto aspettando di andare a cavalcare con il Re», Éomer rispose incolore all’amico. Nessun cenno che indicasse la sua volontà di alzarsi.

«Uno dei carri, giù, alla piazza inferiore, è bloccato nel fango e sbarra la via principale», l’eccitazione evidente nella voce del ragazzo.

Éomer lo guardò con aria interrogativa per qualche secondo. «Quindi?».

«Quindi?!»

«Quindi.»

Brandwine si esibì in una sequenza di gesticolamenti per aria. «Oggi c’è il mercato. Ci sono le ragazze che fanno commissioni per le madri. Le ragazze, Éomer. Sai quelle graziose creature in cui rischieresti seriamente di imbatterti se tu non passassi il tuo tempo immerso nel letame delle scuderie».

Il nipote del Re inarcò un sopracciglio. Una delle guardie alle loro spalle si lasciò sfuggire uno sbuffo divertito. «Mi hai cercato per questo?».

«Sì. Ed è un ottimo motivo, se posso permettermi di dire tanto. Ma non possiamo perderci in chiacchiere ora», Brandwine gli girò attorno per portarsi dietro la sua schiena. «Alza il tuo regale didietro e andiamo a liberare quel carro prima che lo faccia qualche troppo zelante passante», lo spintonò sgraziatamente fino a farlo sollevare.

«Brandwine non scenderò in piazza per-… per esibirmi o qualsiasi cosa tu abbia in mente. Ho degli obblighi, dei doveri. Tra questi, la cavalcata serale con il-».

«Con il Re, sì-sì-lo-so. Lo so. Non volevo iniziare con questo, ma ammetto che», Brandwine si fece più vicino, «c’è Rowan», gli sussurrò accompagnando le sue parole con una lunga occhiata d’intesa.

Éomer guardò inespressivo l’amico, inspirando profondamente. «Tu sai che quel nome non mi dice nulla, vero?».

«Row-! Te ne ho sicuramen-… Sai, in quanto tuo amico- Che dico, siamo sinceri, in quanto tuo unico amico, mi ferisce il tuo disinteresse per i miei affari». Brandwine non aveva smesso di trascinarlo come meglio poteva per un gomito o per la casacca. Erano ormai a metà scalinata.

«Hai blaterato fino a ieri di… di Ingrid! Ti stupisce che Rowan mi suoni estraneo?».

«Ingrid? Ingrid, Éomer?!», Brandwine alzò gli occhi al cielo con finta esasperazione, «Segrid. Si chiamava Segrid. E non faceva per me, per quanto possa suonare triste».

«Tragico». Éomer a questo punto si stava lasciando spintonare per le spalle, opponendo a malapena resistenza. Anche se non lo avrebbe mai ammesso, le bizzarrie di Brandwine rappresentavano spesso il punto più alto delle sue giornate.

«Ma l’amica della sorella di Segrid, invece…! Rowan! Oh, Rowan! Credo di aver trovato moglie. Éomer devi venire a vederl-».

I due giovani si fermarono appena in tempo per non scontrarsi con un uomo che era apparso ai piedi della gradinata del Palazzo. Alto, spalle larghe e un’armatura tirata a lucido. Éomer e Brandwine lo riconobbero ancora prima che si togliesse l’elmo. Un rapido scambio di sguardi si susseguì nell’istante di silenzio che si aprì. Gli occhi di Théodred passarono velocemente sui due giovani, esaminandoli.

Aprì bocca per primo. «Ho sentito», si indicò alle spalle, «che hanno bisogno di una mano giù alla piazza del mercato». Il sorriso complice in cui si aprì dissipò la tensione.

«Oh, è così, mio signore? Credo che dovremmo andare a dare una mano allora. Nevvero, Éomer?», Brandwine colse l’attimo. Superò Théodred trascinandosi dietro Éomer nel mentre.

«Brandwine», l’Erede lo apostrofò a distanza di qualche gradino.

«Sì, mio signore?».

«Inizia ad adoperarti per trovare una moglie anche per Éomer. Bisogna sottrarlo alle scuderie».

«Lo consideri fatto, mio signore. Più ardua l’impresa, maggiore la mia gloria».

Théodred si era voltato per rivolgere ai due ragazzi un ultimo affettuoso sorriso. «Andate», i suoi occhi si spostarono su Éomer, «Parlerò io con mio padre. Va’ e non farmi sfigurare!».



Dieci anni dopo

28 settembre 3019, Terza Era
Palazzo del Cigno d’Argento, Dol Amroth, Gondor
288 miglia a sud


                                           Lothíriel passò sotto l’ampio arco che delimitava l’ingresso alla cucina splendidamente intonacata di bianco. Il suo sguardo non ebbe il tempo di registrare ciò che stava accadendo nella stanza che individuò la divisa fiordaliso della sua dama di compagnia. «Eccoti, Thïr-».

La serva si voltò al suono del suo nome e, con esasperati gesti delle braccia, si affrettò a indicare alla Principessa di nascondersi. Negli istanti successivi, tutto accadde molto velocemente. Lothíriel si era resa conto della presenza dell’anziana cuoca, Madegar; quest’ultima si era voltata verso l’ingresso, armata di un notevole coltello e un’espressione accigliata in volto; «Chi è arrivato?», aveva domandato mentre Lothíriel si era prontamente lasciata cadere sulle ginocchia.

«Nessuno. Niente. Io non ho sentito proprio niente e soprattutto nessuno. Uhm, cosa-…», Thïria reindirizzò l’attenzione della cuoca, «Cosa mi stavate raccontando, cos’è successo all’alba?».

«Dov’ero rimasta? Ah, sì, ecco. Poco dopo l’alba, come mio solito, sono andata dal pescivendolo, giù al porto. Gli ho chiesto i migliori pesci di stagione e mi ha confezionato un pesce spada, parecchie sogliole e qualche branzino. Oh bambina mia, bambina mia! Avresti dovuto vedere quanto velocemente ha incartato quei branzini! Non mi piaceva proprio la faccia del pescivendolo stamattina, nemmeno i suoi baffi stavano ritti. E a Madegar certe cose non sfuggono».

«Inteso», confermò Thïria.

Approfittando della sentita narrazione della cuoca e dall’incoraggiante rumore del coltello sul tagliere, Lothíriel aveva gattonato fino al massiccio tavolo da lavoro situato al centro della cucina. Si sedette con la schiena contro quest’ultimo, tirandosi le ginocchia al petto, accogliendo con un sospiro silenzioso il suo destino.

«I miei sospetti si sono rivelati fondati quando la testa di uno dei branzini è sbucata fuori durante l’incartamento. Saresti dovuta esserci, Thïria, figlia mia, per vedere la testa di quel branzino! Aveva l’occhio infossato! INFOSSATO, ti dico!». Le parole della cuoca furono accompagnate da una serie di preoccupanti fruscii. A Lothíriel non fu difficile immaginare che Madegar stesse tirando fendenti per aria, come da sua consuetudine. Nascose il viso tra le mani, pregando che non fosse quello il giorno in cui l’anziana accoltellava se stessa o qualcuno. «Allora ho preteso che mi mostrasse il branzino, ma quel farabutto continuava a trovare scuse. Si è finto perfino offeso quando l’ho accusato di volermi vendere del pesce poco fresco! Perché sai, bambina mia, Madegar si procura solo il pesce migliore per la tavola del Principe! Se avessi mandato un inserviente al porto, non si sarebbe accorto dell’inganno, ne sono certa!».

«Iriel, allora sei q-», la voce di Amrothos giunse dall’ingresso. Lothíriel spalancò gli occhi e gesticolò qualcosa in direzione del fratello.

«Chi- Chi ha parlato?», la domanda della cuoca era arrivata un istante dopo che il giovane si era abbassato.

«Nonhosentitonulla. Ma ditemi, Madegar, come fate a scovare sempre il pesce più fresco?», Thïria si immolò in un moto di lealtà.

«Non dirmi che non ti ho mai insegnato come distinguere il pesce fresco, figliuola», l’indignazione evidente nella voce della cuoca, «Vieni qui, avvicinati. Prima di tutto, il pesce deve avere l’occhio vivo, lucido e splendente. Come questo, vedi? Brillante e in rilievo».

Amrothos aveva raggiunto la sorella camminando a quattro zampe. «Chi ha osato turbare Madegar oggi?», le sussurrò mentre le sedeva accanto.

«Il pescivendolo. Ha provato a venderle del branzino poco fresco», gli bisbigliò in risposta.

«Principiante», Amrothos fece una smorfia. «Thïria? Riusciamo a tirarla fuori dall’impiccio?».

«Ne dubito. Madegar non rinuncia mai al suo pubblico».

«È vero. Farò avere alla sua famiglia un’indennità, non credo la rivedranno a breve. E a che punto della narrazione siamo? Avevo piani per la mattinata. Ero venuto a chiederti se volevi accompagnarmi ai porti commerciali».

La Principessa rivolse uno sguardo loquace al fratello.

«Capito. Siamo ostaggi», esalò sconfitto. Allungò un braccio, tastando il tavolo alla cieca, quando lo ritirò teneva in mano due fichi. «Tieni, mangiamo. Non possiamo prevedere quanti inverni rimarremo bloccati qui».

I due fratelli consumarono la loro colazione occultati dal robusto tavolo; in sottofondo, l’anziana cuoca illustrava con esacerbante enfasi i suoi segreti a spese dell’inerme Thïria, i cui versi d’assenso giungevano sempre meno convincenti. Gli occhi di Lothíriel continuavano ad andare sul viso del fratello, per poi tornare sfuggenti sul motivo delle mattonelle del pavimento. Era qualche giorno che dibatteva con se stessa se parlargli della sua apprensione riguardo al corteggiamento del Comandante. Non era certo la mancanza di complicità che la faceva esitare, piuttosto il focoso astio che il fratello nutriva per il Primogenito. Non voleva essere lei a rimarcare quel solco. Una leggera gomitata nelle costole le ricordò che non era mai stata brava a nascondere qualcosa al fratello.

«Quindi? Di cosa si tratta?», Amrothos le sussurrò.

Lei si limitò a fare spallucce. «Cosa intendi?».

«Lo sai. Quello che muori dalla voglia di dirmi. Forza, ti ascolto».

«Non è qualcosa di grave…», cominciò la Principessa.

«Mmh…», Amrothos sospirò, «Ma è qualcosa che mi farà arrabbiare. Sentiamo allora».

«Sei consapevole di non essere molto incoraggiante, vero?».

«Non volevo esserlo», il fratello accompagnò le sue parole con una scrollata di spalle e un mezzo sorriso.

«Che visione», una voce dal timbro inconfondibile risuonò nella cucina, Lothíriel sussultò, «Principi di Gondor che mangiano per terra». Elphir era in piedi di fronte a loro con le mani raccolte dietro la schiena. La sua divisa blu notte era impeccabile, come sempre. «In piedi». La voce distaccata. Anche quello come sempre.

Amrothos si chinò verso la sorella, non curandosi veramente di non farsi udire, «Allora è vero che piove sul bagnato… Guarda un po’ com’è profonda la ruga di Elphir già dal mattino». Si sollevò in piedi per rivolgersi direttamente al maggiore, «Cosa ti porta fin qui, fratello? Forse non ne sei a conoscenza, ma in questa zona alloggiano e lavorano i domestici».

Seguì un momento di silenzio in cui i due fratelli si soppesarono con lo sguardo. Persino il brusio della cuoca era cessato. Il Principe Erede riusciva dove finanche il nobile padre capitolava; era l’unico a mettere in soggezione Madegar. Gli occhi azzurri di Elphir si spostarono lentamente su Lothíriel. Chiaramente, aveva deciso di soprassedere.

«Iriel, se hai finito di fare colazione va’ a prepararti. Anche tu, Amrothos. Le vedette mi hanno avvisato che nostro padre e nostro fratello dovrebbero essere ormai alle porte. Se posso osare chiedervi tanto, cerchiamo di non accoglierli sul pavimento della cucina».

«Quando? Quando arrivano?», Lothíriel inquisì ansiosa. Gli occhi di Elphir si spostarono sulle dita di lei che si erano aggrappate al suo braccio.

Lo squillante suono di un corno raggiunse in quel momento il Palazzo. La ragazza sussultò di nuovo sul posto e prima che potesse rendersene pienamente conto stava già scendendo di corsa la scalinata d’ingresso. Si precipitò giù per la via principale, correndo fino a sentire un sapore ferroso in bocca. Il cuore le tamburellava contro la cassa toracica, le orecchie le pulsavano. Negli angoli degli occhi iniziò a sentire il pizzicore delle lacrime, che ignorò. Come ignorò la polvere e il fango che andavano sgualcendole l’orlo delle vesti.

Il suono di altri due corni riempì l’aria, il corteo doveva essere arrivato alla cinta interna. Lothíriel accelerò la corsa e, quando la via si tuffò nella Prima Piazza, si trovò davanti a un muro di persone venute ad acclamare i Principi. Si immerse nella folla, senza abbandonare con lo sguardo gli stendardi d’azzurro e d’argento che vedeva sopraggiungere. Riusciva a sentire il selciato tremarle sotto ai piedi al ritmo degli zoccoli in avvicinamento. D’improvviso la folla ringhiò, urla gioiose si levarono all’unisono alla vista del Principe Imrahil che guidava il corteo con il Secondogenito al suo fianco. Dopo sei mesi dalla partenza per Minas Tirith, il Principe era tornato.

Lothíriel si spinse fino alla prima fila. Padre. Aprì, chiuse e riaprì la bocca. Boccheggiò ancora ma non aveva fiato in corpo per emettere suoni. Padre, guardami.

Gli occhi del Principe incontrarono i suoi tra la folla. «Iriel!».

La Principessa sgusciò tra le guardie per raggiungerlo. Imrahil rimase in sella ma sfilò prontamente lo stivale da una delle staffe; la stessa staffa su cui la figlia appoggiò il piede per gettargli di slancio le braccia al collo. E mentre si stringevano tra le acclamazioni degli amrothiani, nascondendo entrambi il viso contro la spalla dell’altro, la Principessa sentì la mano del padre accarezzarle amorevolmente i capelli.

«Sono tornato. Sono tornato».

Dopo sei mesi dalla partenza per Minas Tirith, suo padre era tornato.



1 ottobre 3019, Terza Era
Edoras, Rohan
288 miglia a nord


                                           La vita nel Mark aveva subito un’improvvisa accelerata dopo l’arrivo dei messaggeri con gli stendardi oscurati. Il fumo rigettato dalle fucine anneriva da settimane i cieli sopra l’Ovestfalda, e tutte le cuoierie e sellerie del regno lavoravano incessantemente per far fronte alle commissioni.

Notizie nefaste erano giunte dal Lebennin: notizie di incursioni di Sudroni e villaggi di confine scomparsi nella notte. Qualcosa si stava silenziosamente muovendo nel Harondor, strisciando nelle ore senza luce lungo la foce dell’Anduin e, quantunque non ne riuscissero ancora a cogliere l’entità, Re Elessar e i suoi alleati non avrebbero lasciato le province del Sud sole di fronte alla nuova minaccia. Una spedizione congiunta tra Gondor e Rohan era stata pianificata. Al termine di lunghe giornate di Consiglio gli ospiti gondoriani avevano lasciato il Mark, con la promessa di ricongiungersi nel Lebennin il mese successivo per stanziare un accampamento.

Organizzare una campagna militare dal termine incerto non era cosa da poco. Provviste, materiali per il campo, armature; tutto doveva essere ordinato, forgiato, conciato, eventualmente riparato, per poi convergere ad Edoras, città da dove sarebbero partiti i quattromila cavalieri di Rohan.

E proprio nella guardiola all’ombra dei Cancelli di Edoras stanziava come ogni giorno il Re del Mark, impegnato a convogliare il massiccio arrivo d’equipaggiamento e uomini provenienti da ogni angolo del regno. Tra il fremente vociare dei Marescialli e ufficiali, si udì un cavallo fermarsi bruscamente di fronte all’edificio, ed una testa ramata comparve poco dopo sulla soglia della guardiola.

«Re Éomer! Abbiamo un problema!», si annunciò Brandwine mentre entrava a grandi passi, chinando il capo per non sbattere contro le travi del soffitto troppo basso per lui.     

Éomer sospirò. «In magazzino?».

«No, la situazione delle scorte è sotto controllo. Ma ho appena intercettato un uomo a cavallo proveniente dalla strada per Dunclivo, uno dei carrettieri del carico di ferro e rame che stavamo aspettando. È stato mandato avanti dai suoi compagni perché uno dei loro carri è bloccato in mezzo alla via. Ha riferito di due ruote sprofondate nel fango. I suoi abiti riferivano la stessa storia. Hanno bisogno di una mano per liberarlo».

Un moto di frustrazione attraversò Éomer come una scarica. Lo manifestò a malapena, serrando e rilasciando la mandibola un paio di volte. Non erano già abbastanza in ritardo? Fece un cenno di saluto in direzione degli ufficiali presenti ed uscì, seguito da Brandwine.

«Chi vuoi che mandi? Bastano due o tre uomini e i loro cavalli per aiutare i carrettieri», chiese l’amico mentre montavano in sella.

«Dov’è l’uomo con cui hai parlato?».

«In attesa al bivio Sud della via. Gli ho detto di aspettare i cavalieri che avresti mandato. Chi faccio chiamare? Éomer…?», Brandwine doveva aver letto qualcosa di spiacevole nella sua espressione, «Éom-… Éomer. Chi vuoi che mandi?». La risposta era facilmente intuibile.

Un sorriso increspò appena le labbra del Re. «Prendiamo aria, Brandwine. Andiamo noi. Onoriamo i vecchi tempi». Spronò il cavallo risalendo la via per Dunclivo.




                                           Tirò la catena verso il basso e il secchio si rovesciò sopra la sua testa. L'acqua fresca gli pizzicò feroce la pelle ed Éomer si affrettò a lavarsi il fango di dosso. Accanto a lui, Brandwine aveva già infilato la casacca ed era passato a pulire gli stivali.

«È stata la nostra più grande scoperta quella delle docce degli scudieri. Ci ha evitato parecchie tirate d’orecchi quando eravamo più giovani», Brandwine commentò con un sorriso nostalgico che gli danzava negli angoli della bocca.

«Sono stato rimproverato da mio zio per tante cose, ma sono sempre tornato a Palazzo più pulito di prima che lo lasciassi». Éomer concluse la doccia e iniziò a raccattare i suoi indumenti.

«Più pulito di prima, ma con un sentore di letame addosso», specificò Brandwine, ricevendo in risposta solo uno sbuffo. «Sai, sono contento di vederti più disteso, anche solo per un attimo. Sono stati giorni intensi questi».

«Sì… Intensi. Un mese di preparativi consumato in un battito», Éomer sospirò. In quelle settimane aveva sentito il peso della sua corona gravargli addosso. Sollevò gli occhi sull’amico che stava barbaramente sbattendo gli stivali in terra, distribuendo fango a raggiera. «Chi l’avrebbe mai detto», rifletté ad alta voce, «che saremmo finiti così. Io sul trono e tu… Tu…».

«Io?». Brandwine assottigliò lo sguardo.

«Tu… Così…».

«Così come?», Brandwine si alzò dallo sgabello e iniziò lentamente ad allungare un braccio verso un forcone appoggiato lì accanto. «Finisci la tua frase, mio signore».

«Sposato, credo. Non ci avrei scommesso un soldo di rame».

Brandwine ridacchiò. La sua mano si reindirizzò dal forcone alla spalla di Éomer. La risposta dovette averlo soddisfatto. «Con Rowan per giunta!», esclamò orgoglioso.

Uno scudiero li avvertì della sua presenza schiarendosi la gola all’ingresso della stalla. «Sire», si inchinò, «Il Capo delle Scuderie si chiede se potrebbe sottoporvi una questione».

«Ci sono problemi con i nuovi finimenti?».

«No, mio signore, vorrebbe chiedervi di stimare una giovane giumenta».

Éomer e Brandwine si scambiarono uno sguardo e un’alzata di spalle. Fintanto che non si trattava di nuovi problemi, il re avrebbe stimato volentieri ogni giumenta del suo regno.




                                           Mentre passava la mano sul collo muscoloso del cavallo e sentiva le familiari scintille mordergli i polpastrelli, le parole scivolarono fuori dalle labbra di Éomer senza volerlo. «Dove ti tenevano nascosta?».

«È magnifica, non trovate, sire?», l’anziano Capo delle Scuderie si avvicinò, «Gléodis, questo è il suo nome, ha compiuto sette anni. Ha terminato la formazione alla monta ed è pronta per essere destinata a qualcuno, mio re».

Éomer fece a malincuore un passo indietro per lasciare Gléodis libera di trottare nel pascolo. Non riusciva a staccarle gli occhi di dosso. «Ti viene in mente qualcuno?», si rivolse a Brandwine.
«Nessuno. Ma sono molti i soldati che hanno da poco perso il proprio destriero. Anche se…», l’amico scosse la testa, combattuto, «Devo ammettere che questa giumenta è notevole. Siete certo che sia nata nella stalla giusta?».

«Non è un mearas, ve lo garantisco», il Capo delle Scuderie assicurò con una certa solennità nella voce. «Ma riconosco che potrebbe ingannare anche un occhio esperto. Osservate i suoi appiombi, tutti corretti. La muscolatura, tesa e ben sviluppata. La sua corporatura sarebbe ideale per diventare un cavallo da guerra. Ma, se concedete a questo vecchio di parlare oltre, sire…».

«Non mi risparmiare, Holdred».

«Ritengo che sarebbe sprecata come cavallo da carica. Il suo portamento…», l’anziano gesticolò grandiosamente in direzione del cavallo, «Il suo portamento, sire, la rende un diamante tra pezzi di vetro. Sottoporla a un addestramento militare andrebbe a intaccare, sciupare il suo portamento signorile. Questa è la mia umile opinione».

«Mi trovi d’accordo». Gli occhi di Éomer non avevano abbandonato per un istante l’animale che si muoveva flessuosamente nella campagna. I suoi crini folti si agitavano nel vento e il manto morello esposto al sole appariva straordinariamente lucido. Benché avesse una conformazione solida, le andature erano elastiche, eleganti e rilevate. Era apparente che il suo portamento spiccasse su quello dei cavalli con cui stava pascolando.

Un’idea. Un’idea bizzarra si fece spazio nella sua mente. Per un attimo si sentì sollevato, come se avesse trovato un incastro perfetto. Poi le possibili ricadute gli balenarono in mente, spezzando il suo spirito iniziale. Prese a massaggiarsi il collo.

«Chi?», Brandwine lo riportò sulla terra. «A chi hai pensato adesso?».

«Ti ricordi… Dei Principi di Dol Amroth?».

«Il Principe Imrahil e suo figlio? Non hanno perso i loro cavalli in guerra, che io sappia».

«No, è così… Ricordi bene, ricordi bene…». Éomer inspirò profondamente. «Pensavo piuttosto…», non era certo di voler esprimere ad alta voce ciò che aveva in mente, «Alla conversazione che i Principi hanno avuto ai Tumuli… Qualche giorno prima della loro partenza».

Sulla fronte di Brandwine si susseguirono una progressione di aggottamenti. Quando colse ciò a cui l’amico si stava riferendo, la sua espressione cambiò del tutto. Ci mancò poco che le sue sopracciglia raggiungessero l’attaccatura dei capelli. «Parli della…?».

«Sì, Brandwine».

«Stiamo pensando alla stessa cosa? Intendi proprio la… la Principessa?», si volle assicurare l’amico. Il Capo delle Scuderie drizzò la schiena, in allerta. La conversazione a cui stava assistendo stava prendendo una piega intrigante. Brandwine continuò imperterrito, «Ho capito bene? Vuoi donare Gléodis alla Principessa di Dol Amroth? Alla giovane, con ogni probabilità molto bella Principessa di Dol Amroth? Anzi, alla giovane, con ogni probabilità molto bella, e molto… molto… MOLTO nubile Principessa di Dol Amroth?».

«Sì», Éomer esalò in un sospiro. «Era solo un’idea. Una pessima idea. Chiederò ai Marescialli se hanno qualche candidato in mente per Gléodis».

«No-no-no-no. Non fraintendere il mio stupore. Io dico di esplorare quest’idea». Brandwine accompagnò le sue parole con sentiti ed esagerati cenni della testa a cui si aggiunse persino il Capo delle Scuderie, che Éomer fulminò con lo sguardo. «Perché ti è venuta in mente la Principessa di Dol Amroth?», lo incalzò l’amico.

«Non mi è venuta in mente lei. Mi è venuta in mente quella conversazione. Questo sarebbe il cavallo perfetto da inviare in dono a dei nuovi alleati. A degli amici».

«Sì, ma…», Brandwine sembrò quasi sofferente, «Ti ho già fatto notare quanto straordinariamente nubile sia la principessa in questione?».

«Più volte. Ma non è lei il punto. Imrahil ha un figlio che necessita di un cavallo, noi abbiamo un ottimo cavallo. Un cavallo a cui, siamo convenuti, vorremmo risparmiare l’addestramento militare. Ha veramente importanza che il figlio in questione sia… una figlia?».

Brandwine inspirò platealmente, guadagnando tempo prima di esalare un poco convinto «Nnno~…? No».

«Sì». I due uomini si voltarono verso il Capo delle Scuderie che ora si stava tappando la bocca con le mani.

«No, no. Non ha necessariamente importanza. Non così tanta», Brandwine sembrò cercare di convincere se stesso quanto il re. «Rimane però la questione della decisione del Principe. Si era detto contrario a dare un cavallo alla figlia».

«Di certo non è aggirare la volontà del Principe ciò che voglio», Éomer rifletté ad alta voce, «Potremmo… Potremmo indirizzare Gléodis a lui e lasciare che sia lui a scegliere se tenerla nelle proprie scuderie o appuntarla alla figlia. In entrambi i casi, non finirebbe su un campo di battaglia». Saggiò nuovamente con gli occhi il magnifico cavallo che pascolava poco distante da loro. Per qualche motivo, riusciva a trovare pace all’idea che quel cavallo fosse nelle cure del Principe Imrahil. Lo reputava un uomo degno di stima e lo aveva osservato con il proprio destriero. Gléodis sarebbe stata in buone mani. Tornò con lo sguardo sull’amico, che si stupì di trovare ancora in silenzio. Aveva un’espressione pensosa e un luccichìo fin troppo familiare negli occhi. «Tutto qui? Hai già esaurito le obiezioni?».

Brandwine alzò le mani. «Non ho altro. Me ne occupo io se tu vuoi tornare ai Cancelli».

«Te ne vuoi occupare tu?».

«Sì».

«Ora te ne vuoi occupare tu?».

«È così».

Nulla nel tono candido che stava esibendo l’amico avrebbe potuto convincere meno il Re della sua sincerità. Gli puntò l’indice contro, «Brandwine… Bada bene-…», i suoi occhi si spostarono sul Capo delle Scuderie che stava allungando il collo per cogliere ogni inflessione delle loro voci con mal dissimulata curiosità. Ritirò il dito con un sospiro. «Occupatene tu. Io ho fretta di rientrare in città, mi stupisce che non sia venuto ancora nessuno a cercarmi. Prepara un messaggio, un buon messaggio. Chiaro, infraintendibile. Brandwine…», gli rivolse la migliore delle sue peggiori occhiate, «Infraintendibile, mi hai sentito?».

«Infraintendibile, sì».

«Prepara il messaggio e fai scortare Gléodis alla sua nuova terra», concluse prima di allontanarsi verso la strada che conduceva in città. Con una spedizione militare alle porte, Éomer non aveva altro tempo da investire in questa faccenda. Oltretutto, pensò, quanti danni avrebbe potuto mai fare Brandwine?


Note dell’autrice
• Vi ringrazio per essere tornati a leggere questo secondo capitolo e per il vostro feedback. Leggo avidamente le vostre recensioni e i vostri messaggi più o meno nel momento stesso in cui premete ‘Invio’; il mio ritardo nel rispondervi è dovuto soltanto al mio desiderio di darvi una risposta significativa e non scritta di fretta. Un grosso grazie per la vostra pazienza.
   
        *¹
Un diamante tra pezzi di vetro, citazione da “Pericle, principe di Tiro” di William Shakespeare.

Aggiunta delle sintesi di fine capitolo - Mi sono ripromessa di aggiornare questa storia più volte al mese e cercherò di tenere fede alla mia parola. Ho deciso però di iniziare a lasciare una sintesi del capitolo corrente in fondo alla pagina, per permettere ai lettori occasionali di rimanere al passo con i nodi principali della trama. È una soluzione che, da lettrice, io amo trovare, soprattutto in storie la cui pubblicazione si protrae nel tempo.
Razaghena

Riassunto Capitoli 1 e 2 Settembre 3019. Il Principe Imrahil e il suo secondogenito Erchion sono ospitati a Edoras come parte del seguito di Re Elessar. Durante una passeggiata, Éomer apprende che la figlia di Imrahil non ha un cavallo per volontà del padre, che desidera in questo modo salvaguardarla. Giungono ad Edoras alcuni messaggeri con gli stendardi ripiegati, portatori di cattive notizie: le incursioni dei Sudroni vicino alle foci dell’Anduin gettano un’ombra sulla pace di Gondor. Viene pianificata una spedizione congiunta tra Gondor e Rohan e gli ospiti gondoriani tornano alle loro terre per riorganizzare le forze.
A Dol Amroth, in assenza del padre, governa l’austero primogenito del Principe, Elphir. Lothíriel apprende dal fratello che il corteggiamento di un nobile della città, il Comandante Sîrfalas, culminerà con ogni probabilità con il matrimonio. La Principessa viene però allietata dal ritorno del padre.
Ottobre 3019. Éomer, nel pieno dei preparativi per la partenza dei suoi cavalieri, è chiamato a decidere del destino di Gléodis, una magnifica giumenta della sua scuderia. Per risparmiarle l’addestramento militare, decide inaspettatamente di inviarla alla Principessa di Dol Amroth. Assegna a Brandwine, suo amico e braccio destro, l’incarico di scrivere un messaggio chiarificatore e organizzare la consegna del dono.

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Capitolo 3
*** Calici e boccali ***


4 ottobre 3019, Terza Era
Baia del Principe, Dol Amroth, Gondor

288 miglia a sud
                                        L a corrente calda che ogni autunno scivolava morbida lungo le coste gondoriane fino ad insenarsi nella Baia di Belfalas si stava quel giorno ribellando. Gorgogliava insolitamente bellicosa, facendo cozzare tra di loro le imbarcazioni attraccate nel pontile poco distante da dove Lothíriel stava nuotando. Aveva da poco iniziato a sentire le spalle intorpidirsi, stanche di lottare contro quel mare imbizzarrito. Si riempì d’aria i polmoni e sparì sotto la superficie dell’acqua. Riemerse quando percepì il familiare innalzamento del fondale sotto di sé; aveva raggiunto la colonna che giaceva stesa nella Baia del Principe, ultima reduce di chissà quale disastro commerciale. Arenata in un banco di sabbia, si trovava alla profondità ideale per permette a chi vi si appoggiava di mantenere il busto sopra il pelo dell’acqua. E così fece Lothíriel, mentre, con un sospiro, lasciava vagare lo sguardo verso l’orizzonte, intenta a placare quel senso di oppressione che da giorni la stava tormentando.

Il ritorno di suo padre, tanto agognato e tanto sofferto, non le aveva restituito l’auspicata pace. Poche erano state le occasioni che avevano avuto per stare insieme. Il Palazzo si era trasformato in un quartier generale, crocevia di alti ufficiali, consiglieri, signori provenienti dalle più disparate città del Dor-en-Ernil. Suo padre e i suoi fratelli passavo gran parte delle loro giornate chiusi nella Sala del Consiglio, intenti a discutere di questioni delle quali a lei non era dato sapere. Malgrado avesse imparato sin da quando era piccola di non torturarsi per faccende in cui non aveva voce, le risultava ancora difficile scrollarsi di dosso l’angoscia che si era annidata nel suo stomaco. Passò forse una manciata di minuti prima che giungesse a lei il suono di irregolari bracciate. Si voltò e vide la sua dama di compagnia annasparle incontro.


«Immergervi e sparire sotto le onde», Thïria iniziò a rimproverarla non appena fu a portata di orecchio, brontolando e sputacchiando acqua salata ad ogni frase, «Come se non sapeste che non posso perdervi di vista, specialmente qui, in mare». Lothíriel tese le mani per aiutarla a salire sul fusto della colonna. «Non pensate alla mia testa, Principessa? Al mio collo? Se la risacca vi dovesse cogliere di sorpresa…».


«Io penso sempre al tuo collo, Thïria. Guarda le creste bianche delle onde, non c’è risacca qui. Non c’era bisogno che mi raggiungessi». La Principessa rivolse un sorriso rassicurante alla sua dama e ricevette una smorfia in risposta. Le loro braccia si intrecciavano sott’acqua alla ricerca di maggiore stabilità contro le onde.


«Ugh…», Thïria rabbrividì visibilmente. Il vento mordeva impietoso i loro visi. «Mi vedo costretta a dover protestare, Principessa, e insistere che questo sia la vostra ultima nuotata. Il tempo non è più sufficientemente clemente».


«Hai ragione, Thïria. Ti chiedo scusa».


«Il riscaldamento delle vasche della Residenza è stato attivato, Principessa. Perché non nuotare a Palazzo?».


«Io-», Lothíriel esitò. Sapeva che quello che la stava opprimendo non era alleviabile semplicemente confidandosi. «Un’ultima nuotata prima dell’arrivo dell’inverno. Tutto qui. Ma ora suona… Piuttosto sciocco, non è così?», strofinò energicamente le spalle della sua dama di compagnia, cercando di riscaldarla. «Prima che il vento e l’acqua abbiano la meglio su di noi, potresti parlarmi di ciò che si dice in città? Thïria… Ti prego?». Informazioni. L’avere informazioni l’avrebbe alleviata.


«Torniamo a riva, Principessa. Vi racconterò tutto ciò che ho appreso in questi giorni».


«N-no. Restiamo…». Il modo in cui le parole avevano lasciato la bocca della ragazza ricordava molto una supplica.


Lo sguardo di Thïria mutò. «Principessa… So che alcuni dei servitori a corte rispondono al Principe Erede, ma questa cautela è… È eccessiva, non credete?».


«Considerando coloro che riferiscono a mio fratello, a mio padre e con ogni probabilità persino al Comandante…».


«Oh, quello sciocco garzone deve essere allontanato», Thïria intervenne con poco velata disapprovazione.


«Ci sono troppe orecchie orientate su chi si muove a Palazzo»
, continuò Lothíriel, «Thïria, io vorrei solo-… Vorrei poter avere qualche conversazione che non mi venisse restituita la sera a cena. E non voglio allarmare nessuno con le mie domande».


«Che cosa vorreste sapere?».


La Principessa si aprì in un sorriso riconoscente, prima di schiarirsi la gola. «Si sta parlando di nuovo di guerra, non è così?».


«Nondimeno, Principessa, nondimeno. Ci sono voci che circolano nelle botteghe e nei porti. Si parla di una minaccia proveniente da Sud. Si parla di ritrovamenti…», abbassò sensibilmente la voce, «Cadaveri…», esalò la parola senza quasi emettere suono, «Trasportati dall’Anduin. E l’urgenza con cui vostro padre, il Principe, ha inviato messaggeri per tutto il Dor-en-Ernil non ha che confermato molti dei sospetti della gente».


«Difficile non notare che il Consiglio è stato convocato. Tuttavia avevo sperato che fosse per tirare le somme della guerra passata, non per prepararne una ventura».


«Il Terzogenito non vi ha davvero confidato nulla?», azzardò cautamente Thïria.


La Principessa scosse la testa. «No. Ho chiesto, certo che ho chiesto. Ma Amrothos segue l’esempio di mio padre. Sembra che potrei sgretolarmi in un cumulo di polvere e ossa se mi venisse riferita una brutta notizia».


«Principessa…».


«Non dirmelo, Thïria, ne sono consapevole», la ragazza sospirò appena, «È per tutelarmi. È per il mio bene». Gli occhi azzurri della Principessa rifuggirono quelli della sua dama e andarono a riposare sulle bianche mura che si elevavano al di sopra delle navi che ondeggiavano nel porto. «D’altronde… Perché dovrebbero dirmelo? Che ci sia un’altra guerra o meno, il mio compito è rimanere qui, dentro le nostre mura, ad aspettare. Soltanto… Soltanto… Cielo, sono appena tornati…». Fu grata che l’incessante sciabordio delle onde avesse coperto l’incrinatura che aveva preso la sua voce. Si schiarì la gola. «Hai idea di quando partiranno?».


«No, Principessa. Ma non lontano da qui, alla Locanda delle Corporazioni che si affaccia sulla Baia», Thïria fece un cenno in direzione della città, «Giungono notizie dalla Capitale. Non so se lo sapete, ma lì stazionano i mercanti in arrivo da Minas Tirith. E parlano, parlano, chiacchierano. Sembra che il nuovo Re stia chiamando a raccolta i suoi uomini con straordinaria rapidità. Temo che questa non sarà una guerra di primavera*¹».


«Oh». Lothíriel rimase in silenzio, sovrappensiero. «Chi partirà?», riportò gli occhi su Thïria, «Lo sai?».


«Non ne sono sicura, Principessa».


«Chi?», ripeté appena udibile, «A me-… Thïria, a me sai che non lo diranno».


«A detta del garzone del fabbro», Thïria iniziò piano, «Sono in riparazione le armature di vostro padre e del Secondogenito. Ma i rifornimenti in arrivo alle Scuderie raccontano un’altra storia. Sembra che anche il cavallo del Principe Erede stia ricevendo la sua bardatura da guerra».


«El- Elphir? Chi reggerà il principato se dovesse partire anche Elphir?». La mente di Lothíriel correva. Amrothos era da poco stato riconfermato Capo della Guarnigione cittadina e il suo disinteresse per la politica lo aveva palesato sin dalla gioventù. Era sicura che suo padre fosse sceso a patti con quella decisione da tempo. Questa decisione le sembrava così discordante.


«Non lo immaginate, Principessa?».


Lothíriel guardò Thïria confusa. «Elphir ha guidato il principato in assenza di mio padre da quando- Non so, da quando aveva la mia età, credo. Dieci anni? Dodici, persino? Ha le sue alleanze in Consiglio, i suoi sostenitori, una fazione. Ha leggi a suo nome. Non c’è nessuno altro in Consiglio, oltre mio padre, inteso, di cui si possa dire lo stesso. Se non-». Lothíriel si bloccò. L’espressione di Thïria le suggerì che era approdata alla giusta conclusione. «No».


«Temo di sì».


«No».


«Temo proprio di sì».


«No…», pigolò sconsolata mentre si lasciava andare all’indietro nell’acqua. Il Comandante. Il Comandante Sîrfalas*² era l’unico nobile che vantava un adeguato peso politico in città. E suo padre stava consegnando nelle sue mani ulteriore potere e prestigio che sarebbero i gran lunga sopravvissuti alla provvisorietà del suo incarico da Governatore.


«Ora rientriamo, Principessa, vi prego. Questo vento… Uff- Ugh, questo vento non è affatto gentile con noi».


«Thïria, precedimi. Io vorrei… Cre-credo che rimarrò qui ancora per un po’. Solo per un po’…».


Sentì una mano chiudersi attorno la sua caviglia, Thïria la stava afferrando. «Il mio collo, Principessa!».




6 ottobre 3019, Terza Era
Edoras, Rohan
288 miglia a nord


                                        Il suono della birra versata nel boccale era qualcosa che un uomo riusciva ad apprezzare in una maniera del tutto diversa la sera, al termine di una giornata penosamente lunga. Éomer distese le gambe sotto il tavolo e si appoggiò allo schienale, gustandosi ogni sorso della bevanda schiumosa. Il suo boccale aveva a malapena toccato il legno del tavolo che Rowan si stava già alzando per riempirglielo di nuovo.

«Ecco a voi, sire. Bevete».


«Rowan». Éomer si sforzò di sorriderle di rimando.


«E tu mangia più lentamente», la donna rimproverò il marito, completamente chino sulla sua ciotola, quasi a volerci entrare con tutta la faccia.


«Donna», la replica di Brandwine arrivò biascicata tra un boccone e l’altro, «Hai idea di quanto tempo passerà prima che io possa mangiare di nuovo del capriolo in umido? Éomer! Éomer, devi ascoltarmi», l’amico sventolò il suo tozzo di pane per aria, «Dovremmo portarci dietro Gárbald. Sì, sì. Portiamocelo dietro, che ne dici?».


«No. Per la quinta volta questa sera, no», gli rispose con calma.


«Ma, MMHPH~», emise il più sentito dei rantoli di piacere. Qualche testa si girò verso il loro tavolo, Rowan nascose il viso dietro una mano. «Non hai notato come il suo stufato migliori di anno in anno? Quando penso che non riuscirà più a stupirmi, bam! Mette qualche erbetta, o qualcosa nel suo sughetto, o… O… O, non saprei, mette una grattata di qualcosa sopra… E io… Ah! Aaah~! Insomma, io non credo di poter rinunciare a Gárbald, Éomer. Non credo di riuscirci».


«Brandwine. Il taverniere rimarrà qui, alla sua taverna».


«E non pensi al morale dei tuoi uomini? Al mio di morale? Sei Re adesso, dovresti pensare al mio morale».


«Darò istruzioni ai nostri cuochi di campo di mettere qualche erbetta o qualcosa nel sugo o grattare qualcosa sopra ai tuoi pasti. Non ti preoccupare, Brandwine. In qualche modo sopravvivrai».


«Ma-».


Rowan ficcò dritto nella bocca aperta del marito il pezzo di pane che aveva fino ad allora agitato davanti alle loro facce, soffocando l’arringa appassionata che, a giudicare dal luccichio nei suoi occhi, si stava preparando a fare. «Mangia, léofa*³. Mangia e risparmiaci».


Éomer sentì emergere l’impulso di ridere, che però sembrò non riuscire a concretizzare. Il suo pessimo umore gli pesava addosso. Lo sentiva sulle spalle, nella punta delle dita, sul volto. Le notti prima di una partenza lo rendevano cupo e irrequieto, più silenzioso di quanto già non fosse incline ad essere di natura. Assorbito dai suoi pensieri, si sentiva insolitamente emotivo, consapevole che ogni istante della serata sarebbe diventato un nostalgico ricordo per i mesi a venire.


In quel momento si udì un brindisi in onore del Re provenire da un tavolo occupato da un gruppo di soldati. La bassa saletta in cui si trovavano Éomer e Brandwine non era del tutto isolata dagli altri locali della taverna; gli fu facile individuare i boccali che si elevavano alla sua salute. Si alzò in piedi a ringraziare i presenti con cenni del capo. Quello era stato il settimo brindisi della serata ed Éomer si lasciò cadere pesantemente sulla panca, esausto di aspettare il sorgere del sole e la partenza.


«Non mangiate più? Sono sicura di aver visto una torta al miele dietro al bancone, ve ne porto una fetta se non gradite più lo stufato», lo interrogò Rowan, facendo già per alzarsi.


«Non ho appetito, Rowan. Ma ti ringrazio».


Evocato da quelle parole, Brandwine riemerse dal suo piatto. «Quelle…», gli occhi puntati sulle sue patate, «non le mangi?». Éomer avvicinò semplicemente il piatto a quello del compagno che si tuffò sul cibo con eccessivo entusiasmo, finendo inevitabilmente per strozzarsi con un boccone. Iniziò a tossire convulsamente.


Rowan sospirò. «Se decidessi di ignorarlo?», si rivolse al Re.


Éomer si strinse nelle spalle. «Non te ne farei una colpa…», osservò come le sopracciglia di Brandwine andavano incontrandosi, mentre le vene sul suo collo avevano preso a ingrossarsi ad ogni colpo di tosse, «La mia offerta di annullamento di matrimonio è ancora sul tavolo, Rowan. Quando sarai pronta, firmo il decreto e torni ad essere una donna libera. Lascia che io usi la mia corona per fare del bene».


«Uhm», gli angoli della bocca della donna fluttuarono nello sforzo di non curvarsi verso l’altro, «La vostra offerta si fa ogni giorno che passa più allettante, mio signore». Nonostante le sue parole, iniziò ad impartire vigorose pacche alla schiena del marito fino a quando quest’ultimo non riuscì a prendere nuovamente respiro. «Per adesso respingo la vostra offerta, ma vi prego fortemente di continuare a ripropormela».


«Sarà fatto».


«Tu», il volto di Brandwine aveva appena riacquistato un colorito normale, «Insolente», tirò bruscamente la moglie a sé circondandole la vita con un braccio. «Tuo marito soffoca e tu tergiversi».


«Ti avevo detto di mangiare più lentamente».


«Questo- Questo è del tutto irrilevante ora, donna».


«Donna?», la voce di Rowan oscillava pericolosamente tra l’irritazione e il divertimento, «Brandwine, continua a chiamarmi così e ci penso io a stroz-».


«Ssh», l’uomo la zittì, il sorriso evidente sulla sua bocca, «Silenzio, do- don-… Moglie?». Le impresse a raffica una serie di baci tra viso e collo a cui Rowan oppose giocosamente resistenza.


Éomer distolse lo sguardo dalla coppia. Era abituato al loro battibeccare, ma alle loro smancerie – specialmente quando si consumavano a un braccio di distanza – si sarebbe volentieri sottratto. Si stiracchiò e lasciò vagare lo sguardo per la taverna. Incontrò sull’uscio un paio di freddi occhi verdi che non si sarebbe aspettato di trovare. Si studiarono inespressivi per qualche secondo, poi il contatto terminò. Éomer tornò al suo boccale mentre la donna si abbassò il cappuccio sulle spalle ed attraversò il salone centrale, fermandosi al tavolo del Re. Non porse i saluti. Al petto teneva stretto un fagottino che continuava ad agitarsi; braccia paffutelle spuntavano e sparivano ripetutamente da sotto la coperta di lana in cui era avvolto.


«Rowan, il bimbo ha fame».


L’interessata spinse via il marito e si affrettò ad accogliere il neonato tra le braccia. «Ti ringrazio, Heruwyn*⁴», strinse affettuosamente una mano dell’amica, «Ti ringrazio per questo tempo. Me ne ricorderò».


«Il piccolo ha dormito tutta la notte, non ci sono stati problemi se non fino a poco fa».


«Sono lieta di sentirlo. Brandwine…», assestò un colpo sulla nuca del marito che era tornato come se nulla fosse a rivolgere l’attenzione al cibo, «Alzati, andiamo a casa a mettere a letto tuo figlio».


L’uomo si sollevò dedicando un’ultima, torbida occhiata alla sua ciotola di stufato e andò a sorridere al rumoroso fagotto che strepitava in braccio alla moglie. Era comicamente alto rispetto alla donna e si dovette curvare di molto per poter lasciare un bacio sulla guancia del figlio che, di rimando, afferrò a due mani la sua barba ramata, urlando di gioia. Éomer sorrise inconsapevolmente.


«Ecco fatto! Ora ci vorrà un bel po' per dividervi!». Rowan cercò inutilmente di aprire la morsa ferrea del neonato. Heruwyn approfittò della chiassosa esibizione del bambino per defilarsi silenziosamente. Éomer fu l’unico ad accorgersi della sua uscita e condivise con lei un ultimo sguardo prima che prendesse la porta.


«Éomer allora io- Ah… Argh-», un Brandwine leggermente dolorante tentò di sollevare la testa verso l’amico senza portarsi dietro un intero neonato gioiosamente scalcitante, «Io aspetto la partenza a casa, d’accordo? Il Piccolo Girasole chiama, e il fabbro non dovrebbe finire prima dell'alba con le ultime spade».


«Va' pure. Ti mando a chiamare quando dobbiamo partire».


Brandwine lo interrogò nuovamente con lo sguardo e lasciò la taverna dopo aver ricevuto un secondo cenno di conferma. Il grande tavolo divenne d’un tratto desolatamente vuoto e per il resto della notte non si sentirono più battibecchi, stoviglie che cozzavano o risate in quell'angolo del locale. Éomer finì in silenzio un terzo boccale di birra e decise di stendere le gambe sulla panca. Passare la notte alla taverna era il suo antidoto all’angosciante attesa e il rumore dei commensali non lo disturbava, al contrario, era esattamente ciò di cui sentiva di avere bisogno. Non si accorse di essersi addormentato fino a qualche ora più tardi, quando fu svegliato da un ragazzino dal volto sporco di ditate di fuliggine.


«Mio-… Mio Re. Vengo dalle fucine. Il Mastro Fabbro vi comunica che l'ordine è stato portato a termine». Il giovane garzone sembrava terribilmente a disagio per aver dovuto disturbare il suo sonno.


Éomer si alzò in piedi, sgranchiendosi le gambe. Mise una mano sulla testa del giovane, «Le spade sono già state trasportate nelle armerie dei Cancelli?».


«Sono stato mandato ad avvertirvi non appena la prima cassa è stata chiusa. Il trasporto sta avvenendo in questo momento».


«Molto bene. Qual è il tuo nome, ragazzo?».


«M-mi chiamo Folca, mio signore», balbettò incerto il giovane, gli occhi puntati sui propri stivali.


Éomer lo afferrò per le spalle e chiamò a sé l'attenzione dell'oste, intento a spillare due boccali di birra dietro il bancone. «Gárbald! Da' da mangiare a questo ragazzo, Folca. Ha lavorato tutta la notte. E quando avrà finito rispediscilo alle fucine con cibo anche per il fabbro e gli altri aiutanti».


Il locandiere agitò vigorosamente la testa, pozzanghere di birra andavano formandosi ai suoi piedi. «Già fatto, sire. Lo consideri già fatto».


Qualche minuto dopo Éomer era all'esterno a dare disposizioni al suo scudiero. Si avvicinava il momento della partenza. L’aria pungente dell’ora prima dell’alba stava dissipando la tensione accumulata, mentre andava facendosi spazio in lui l’eccitazione. Decise di andare di persona ad avvertire Brandwine e s’incamminò cercando voracemente di assorbire il proprio circondario con gli occhi. La via principale, la piazza inferiore, i porticati, le familiari facciate delle botteghe. Fissare ogni polveroso dettaglio di Edoras nella sua memoria gli sembrò d’un tratto cruciale. Arrivato a poche decine di passi dalla sua méta, notò una figura avvolta nel mantello appoggiata a una delle colonne di legno di un portico. Riconobbe all'istante la chioma dorata.


«Cosa succede, Heruwyn?», la apostrofò affiancandosi a lei.


La donna si strinse verso la colonna, sottraendosi al contatto tra le loro spalle. «Stavo andando ad aiutare al forno quando li ho visti».


Éomer seguì il suo sguardo e vide che sotto la finestra della casa antistante sedeva Brandwine con in braccio la moglie, entrambi profondamente addormentati. La corporatura minuta di Rowan la faceva apparire una bambina sulle ginocchia del marito. I capelli ramati dell'uomo scendevano a mescolarsi a quelli biondi della moglie, che riposava sotto al suo mento, avvolta dalle sue lunghe braccia. Éomer non si accorse di stare nuovamente sorridendo. «Dici che sono riusciti a mettere al sicuro il bambino o dovrei ripercorrere la strada verso la taverna?».


«È dentro casa. Credo siano solo usciti a-».


«A litigare. Immagino sia così. Non mi stupirebbe…». Il silenzio si annidò tra i due. Era già qualche anno che non vi erano più molte parole che avrebbero potuto essere dette. In momenti come questi ne erano entrambi penosamente consci.


«Le partenze vi rendono ancora irrequieto, sire?». La voce carezzevole di Heruwyn si insinuò tra i suoi pensieri.


«Non credo che questo cambierà mai», sollevò gli occhi in quelli di lei, «Ma non mi piace essere così».


«Una volta pensavate fossero premonizioni. Credevate non avreste più fatto ritorno dalla battaglia».


Éomer sospirò, reminiscente. «Uhm, è così… Quante notti sprecate a pensare che fossero le ultime».


«Sprecate?», la risposta giunse in un sussurro, «Io me le ricordo tutte, quelle notti». Sentì le dita di lei tracciargli esitanti il profilo delle nocche. Rimase immobile, non ritrasse la mano nemmeno quando il contatto si trasformò in una lenta carezza. Voleva mettere alla prova l’effetto di quel tocco. «Sapevamo come esorcizzare la vostra irrequietezza…», continuò lei. Gli sembrò che gli occhi di lei tremassero nella penombra del portico, intanto che attorno a loro i primi raggi del sole iniziavano gradualmente ad illuminare i tetti delle case. Con la luce li raggiunse anche una folata di vento, che mulinò per qualche istante tra i pilastri del portico.


Éomer si riscosse, «Heruwyn…», allontanò lentamente la mano. C’era stato un tempo in cui aveva desiderato ricambiare quegli occhi vulnerabili, quegli acerbi sentimenti. Ma il mondo era cambiato da allora e lui era cambiato con esso.


Guardò la donna stringersi nuovamente verso la colonna. «Lo so», la voce bruscamente asciutta, la bocca rigida, gli occhi altrove, «Lo so».


«Se ti stai aggrappando al pensiero che un giorno, o una notte, io cambi idea... Questo non accadrà-
».

«Lo so», Heruwyn si voltò verso l’uomo in un palese moto di irritazione. Gli occhi freddi e vibranti. «Lo so, mio re. Siete stato inequivocabile. La maggior parte delle volte, quanto meno», sputò fuori prima di allontanarsi giù per il portico. Mentre guardava come i capelli color del grano le ondeggiavano sulla schiena, Éomer si rese conto che la sofferenza di lei lo feriva meno del previsto. Se ne vergognò.


I vagiti di un neonato rimbombarono sulle facciate delle abitazioni di quel vicolo di Edoras. Éomer si voltò verso la casa di Brandwine e vide Rowan scattare in piedi, allarmata, e sparire dietro la porta d’ingresso. Il marito si agitò brevemente sulla panca per poi sistemarsi in una posizione più comoda. Intanto che il pianto del bambino cessava, Éomer attraversò il piazzale. Spintonò con lo stivale il piede dell’amico, riscuotendolo dal sonno. «È giunto il momento della partenza, Brandwine. Va’, saluta Rowan e tuo figlio».




7 ottobre 3019, Terza Era
Palazzo del Cigno d’Argento, Dol Amroth, Gondor
253 miglia a sud


                                        L’occasionale tintinnio tra le posate e il bordo del piatto era l’unica interruzione al silenzio che gravava sulla sala da pranzo. La cena a Palazzo, specialmente quando circoscritta ai soli membri della famiglia, non era mai stato un momento particolarmente concitato, ma era l’unico pasto della giornata a cui tutti partecipavano devotamente, sottraendosi indistintamente da riunioni di Consiglio, colloqui o visite.

La cena di quella sera era in linea con quelle recentemente svolte: il pasto veniva consumato quasi in silenzio e con un certa fretta. Di tanto in tanto, quando aveva sollevato gli occhi dal piatto, Lothíriel aveva incrociato lo sguardo di Erchion o Amrothos, con i quali aveva scambiato un veloce sorriso. L’atmosfera era troppo plumbea per iniziare una conversazione, specialmente se frivola. E di ciò che non era frivolo, a lei, non era dato sapere. Era evidente sul volto di suo padre e dei suoi fratelli che le loro menti fossero rivolte altrove, verso incombenze che non potevano essere discusse a tavola. Non con lei presente.


Quando Erchion si schiarì la gola, Lothíriel – assorbita nel risultare meno rumorosa possibile e nell’occupare meno spazio possibile – quasi trasalì sul posto. «Padre, credi che siano già partiti? I nostri amici di Rohan, intendo».


«È quasi passato un mese, suppongo che sia così. Sono un popolo affidabile, alleati affidabili. Sì, dovrebbero già aver lasciato Edoras. Avranno sicuramente stimato i tempi di spostamento dei loro uo- delle-», Imrahil si interruppe e a Lothíriel non servì sollevare gli occhi dal piatto per immaginare lo scambio di sguardi che gli uomini stavano avendo.


«I tempi di viaggio», la voce fredda e controllata di Elphir ovviò all’impiccio.


«I tempi di viaggio, esatto».


L’ingresso in sala di uno dei servitori riorientò l’attenzione dei commensali. Si avvicinò al tavolo e presentò con un inchino un vassoio con sopra una lettera al Principe Imrahil, il quale la scorse velocemente con gli occhi. Gli altri uomini rimasero in attesa, le posate a mezz’aria. Le interruzioni erano ormai all’ordine del giorno, raramente i Principi rimanevano a tavola da inizio a fine pasto.


«Oh», Lothíriel percepì su di sé lo sguardo stupito del padre. «Iriel, sembra che il Comandante Sîrfalas ti stia invitando a pranzo. Domani, alla sua tenuta». I suoi fratelli ripresero a mangiare, le loro spalle si rilassarono. Eccezion fatta per quelle di Amrothos.


«Per quale occasione?», inquisì bieco il Terzogenito, dando inconsapevolmente voce ai pensieri della sorella.


«Non lo dice», Imrahil tornò a rileggere l’invito, «Non menziona alcun evento particolare. Credo… Credo sia un semplice pranzo». Il tono del Principe mal celava la sua approvazione, la ruga tra le sue sopracciglia risultava quasi scomparsa. «Mi è stato riferito che è venuto spesso a cena, nei mesi passati. Con ogni probabilità vorrà ricambiare la cortesia».


Amrothos si mosse sulla propria seduta, le labbra premute in una linea. Stava indubbiamente fremendo per aggiungere qualcosa alla conversazione. In termini puramente statistici, nulla di costruttivo. «Allora avrebbe dovuto invitare a pranzo Elphir. Fratello, perché non accetti tu l’invito del Comandante?». Amrothos aveva combattuto e aveva perso, e, soprattutto, aveva accettato la sua sconfitta con un sorrisetto soddisfatto.


Lothíriel sgranò appena gli occhi. «Amrothos…», Erchion e Imrahil fecero eco l’uno all’altro. Elphir proseguì a mangiare, imperturbabile.


«Non ho forse detto il vero? Non è di certo stata lei a proporgli di trattenersi a cena tutte quelle volte. Iriel riesce a malapena a rivolgergli la parola».


«Questo… È…», la Principessa aprì bocca per controbattere, «È piuttosto aderente alla realtà».


«Mi era stato detto che avevate approfondito la vostra conoscenza», suo padre la scrutò con aria interrogativa. «Ho inteso male?», la domanda era rivolta al maggiore dei suoi figli.


«Il Comandante ha presenziato a quindici cene negli ultimi sei mesi. La conversazione è stata ricca durante ognuna di esse».


Amrothos e la sorella si scambiarono una rapida occhiata che Erchion intercettò. «Ricca…? È così, Iriel? Definiresti come ricche le vostre conversazioni?», le domandò quest’ultimo, una nota spiccatamente scettica nella voce.


Elphir poggiò il calice da cui aveva appena bevuto sulla tavola, puntando gli occhi inespressivi in quelli della sorella. L’avere l’attenzione del fratello su di sé fu sufficiente per metterla in soggezione. «Da parte sua, il Comandante è-… È indubbiamente un ottimo conversatore. Questo io-… Io non lo nego-».


«Le ha dato in dono alcuni libri», con una naturalezza derivabile solo dall’esercizio, Elphir si sovrappose alle parole delle sorella, interrompendola.


«Oh. Dei libri…», il viso del padre si schiarì, «Vedo che ha imparato a conoscere i tuoi passatempi, Iriel. Questo mi rasserena. Il Comandante dispone di una ricchissima biblioteca nella sua tenuta. Una raccolta sorprendentemente varia e di pregio. Hai già avuto modo di visitarla?».


Erchion si portò il calice alle labbra, «Una ricca biblioteca per fare ricche conversazioni», mormorò contro il cristallo. Amrothos, che lo aveva udito, sbuffò dal naso.


«No, padre. Se non in occasione del Ballo, non sono mai stata alla sua tenuta».


«Ah sì? Non sei davvero stata…?». Imrahil aveva spostato gli occhi sul Primogenito. Per quanto vano, Lothíriel non riuscì a fare meno di essere attraversata da un impercettibile fremito di frustrazione. Soffriva di come le domande che il padre rivolgeva a lei a parole, le indirizzasse al fratello maggiore con lo sguardo.


«In tua assenza, padre, il Comandante non ha ritenuto opportuno incontrare Iriel all’esterno del Palazzo. Io ho condiviso questa decisione», spiegò Elphir. Alle orecchie di Lothíriel quest’informazione suonò del tutto nuova. Mentre si sforzava di metabolizzare ancora un’altra conversazione che era avvenuta a porte chiuse, sentì lo stomaco stringersi. Deglutì a vuoto.


«Inappuntabile. Ma non mi sarei aspettato di meno da Sîrfalas», Imrahil tornò alla figlia, «Domani. Domani devi necessariamente domandargli di mostrarti la biblioteca. Io ne ero rimasto molto colpito. E sono passati anni dall’ultima volta che sono stato alla Tenuta del Giglio. Immagino che da allora il Comandante abbia ampliato la sua raccolta».


«È già deciso, dunque?». La voce della Principessa suonò più risentita di quanto avrebbe voluto. Dietro ai denti aveva trattenute troppe parole.


Suo padre la guardò con le sopracciglia sollevate. «Per rifiutare un invito, Iriel cara, bisogna avere delle valide motivazioni», precisò con calma, «O avere degli impegni pregressi da far valere. Se invece-… Se sei esitante a causa della tua timidezza, naturalmente sai che non sarai sola. Verrai accompagnata». Imrahil indicò in direzione del figlio minore che si limitò a tirare le labbra in un sorriso poco entusiasta. «Il consiglio che avanzo è di non respingere un invito senza solide ragioni. In particolar modo non in questa fase. Potrebbe aprire la via a fraintendimenti».


«Quale fase, padre? In quale fase mi trovo?».


Imrahil sembrò del tutto disorientato. «Conoscitiva… Sì, la chiamerei così. Non che abbia un vero nome, inteso, ma tu e il Comandante vi state conoscendo».


La ragazza sentiva gli occhi dei presenti addosso. Curiosi, confusi, alcuni ostili. Il bisogno di sottrarsi a quegli sguardi era martellante, ma un’ulteriore contorsione dello stomaco la spinse a continuare a parlare. «Padre, il Comandante è per me… Uno sconosciuto». Come poteva non capirlo, non vederlo?


«Iriel. No. Il Comandante è il tuo promesso. Non è uno sconosciuto». Il tono candido di suo padre la spiazzò. Iriel, no. Si ripeté le parole nella testa. Non è uno sconosciuto. La pungente, per quanto familiare, sensazione di non essere stata considerata le pizzicò sotto le palpebre. «Non ti sto capendo». L’apprensione evidente sulla fronte dell’uomo.


Nemmeno io, sussurrò una voce dentro la sua testa, tuttavia le sue labbra non si mossero. Se lo avessero fatto, sarebbe scivolata via da lei la già sfuggente presa che aveva sulle sue lacrime. E non avrebbe mai più pianto di fronte ad Elphir. Se lo era ripromesso.

Fu incidentalmente assistita dall’arrivo di un secondo messaggio indirizzato al Principe. Questa volta più gli occhi di suo padre scendevano sulla carta, più il suo volto si induriva e fu chiaro che la conversazione, unitamente alla cena, fosse conclusa. Erchion e Amrothos si erano alzati dalle sedie ancora prima che il padre terminasse di riferir loro il contenuto della lettera. «Elphir, Erchion, Amrothos. Mi avvisano che siamo attesi alle Porte. Iriel, se ci vuoi scusare. Dovrai terminare la cena senza di noi».


La ragazza li salutò con inchini del capo, troppo insicura della stabilità della sua voce per potervi fare affidamento. Il Principe Erede era l’ultimo degli uomini ad essere ancora seduto al tavolo, Erchion lo apostrofò dalla porta, «Elphir, non vieni?».


Il maggiore sollevò semplicemente il suo calice, mezzo pieno. «Termino. Sarò dietro di voi».


Lothíriel percepì l’esitazione del Secondogenito. L’aria rarefatta della sala non doveva essergli sfuggita. «Ti aspetto».


«Sarò dietro di voi». Questa volta Elphir scandì maggiormente le sue parole. Le repliche non erano in quel caso ammesse.


«Affrettati», così dicendo, e con un ultimo sguardo alla sorella, anche Erchion lasciò la sala.


Lothíriel smise di spostare da una parte all’altra del piatto il boccone che aveva continuato a tormentare nell’ultima mezz’ora. Era superfluo fingere che avrebbe mangiato altro. Si portò le mani in grembo, stringendole a pugno, trovando ogni secondo che passava più soffocante del precedente. Le pesava addosso lo sguardo scrutatore Elphir, che però si limitò a svuotare placidamente il calice. Giunto all’ultimo sorso, fece roteare il cristallo tra le dita. Sorrise appena. «Mi stavo chiedendo, sorella, quanto arrogante tu debba essere per pensare di poter trascorrere i tuoi anni senza adempiere ai tuoi doveri. Come principessa. Come figlia. Non c’è che dire, una vita invidiabile».


Il rumore di lenti passi che si allontanavano sul marmo riempì gli istanti successivi.



Note dell’autrice
Grazie a chi mi da un prezioso feedback e grazie anche a voi, lettori silenziosi. I vostri Seguiti e Preferiti non passano inosservati. Ho fiducia che se qualcosa dovesse colpire il vostro occhio, favorevolmente o negativamente che sia, troverete il modo di comunicarmelo. Ora vi saluto, ho un pranzo da organizzare e un cavallo da far recapitare. A presto!
   
        *¹ Guerra di primavera, detto medioevale riferito all’usanza dei feudatari di prediligere la primavera alle stagioni fredde per intraprendere campagne militari, al fine di scongiurare carestie.

            Sîrfalas, dall’Ovestron saer (amaro) + phalas (sguardo); origine Sindarin. Personaggio originale, nobile di alto rango di Dol Amroth di retaggio militare, promesso sposo di Lothíriel.
            Léofa, dal Rohirric léof (amore) + a (desinenza maschile che aggettiva i sostantivi o i verbi a cui è unito). Léofa si traduce con l’epiteto “amato”.
            *⁴ Heruwyn, dal Rohirric herû (spada) + wyn (desinenza femminile che significa "gioia"). Personaggio originale, amica d’infanzia di Rowan, Brandwine ed Éomer; con quest’ultimo, in età post-adolescenziale, ha condiviso più di un’amicizia.
Razaghena
Riassunto Capitolo 3 Inizio ottobre 3019. Nel Palazzo di Dol Amroth sono in corso i preparativi per la campagna congiunta, di cui Lothíriel è tenuta scrupolosamente all’oscuro. La Principessa apprende dalla sua dama di compagnia i dettagli della partenza: il padre, Elphir e Erchion saranno alla guida dei cavalieri inviati dal principato. Amrothos sarà l’unico dei fratelli a rimanere in città, la cui guida verrà provvisoriamente affidata al Comandante Sîrfalas, corteggiatore della Principessa. Le iniziative del Comandante non tardano ad arrivare e Lothíriel viene invitata a pranzare alla sua tenuta.
A Edoras i preparativi per la guerra sono terminati. Éomer e Brandwine trascorrono la notte prima della partenza nella taverna. Quando l’amico è chiamato ad adempiere ai suoi doveri di padre, Éomer condivide un momento di reminiscenza con una donna del suo passato, Heruwyn, che culminerà con il suo rifiuto di rivivere tali ricordi.

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Capitolo 4
*** Il prezzo del miele ***


8 ottobre 3019, Terza Era
Palazzo del Cigno d’Argento, Dol Amroth, Gondor

240 miglia a sud


                                           «Oh...», la voce di suo fratello la raggiunse dal basso, «Iriel, sei stupenda». Erchion si era fermato a guardarla da in fondo le scale, un fascio di documenti rilegati in pelle sotto al braccio e un’espressione stupita in volto. «Non mi sarei aspettato di vederti così agghindata».

Lothíriel finì di scendere gli ultimi gradini, afferrando la mano che il fratello le aveva porto. «Non me ne prenderei il merito. Sono stata vestita contro la mia volontà», la Principessa indicò con lo sguardo Thïria, qualche passo dietro di lei.

«In tal caso…», Erchion chinò la testa in direzione della donna, «Hai fatto un ottimo lavoro, Thïria, le mie congratulazioni. Posso immaginare non sia stato un compito facile».

«Dovere, Principe, dovere. Ma vedere la Principessa così bella mi ripaga decisamente delle mie pene».

«Mi ricorderò delle tue pene anche quando preparerò i salari», le promise ammiccante. Il suo sguardo tornò alla sorella, i suoi occhi la percorsero con una certa incredulità. E anche qualcos’altro, che Lothíriel non avrebbe saputo definire. Le strinse di più la mano, «Sembri proprio… Sembri-».

«La mamma», s’inserì Amrothos mentre li raggiungeva d’altro lato dell’atrio d’ingresso. «Woh, Iriel», si arrestò a due passi da loro, la stessa espressione del maggiore. La sua bocca però deteriorò rapidamente in una smorfia. «Tutto questo per il Comandante?».

«Amrothos… Le tue personali antipatie non concernono nostra sorella. Non le sono utili. Ti prego di tenerle per te».

«Da quando sei così diplomatico? Trovi il Comandante sgradevole almeno quanto me. Sono piuttosto certo che lo detestassi con ardente passione durante gli anni dell’Accademia. Nostro padre ha dovuto dedicare un intero cassetto del suo scrittoio alle tue lettere, quelle in cui lo supplicavi di poter essere assegnato a una camerata dove non ci fossero né lui né Elphir».

Erchion emise un sospiro. «Sono passati anni dai tempi in cui eravamo cadetti all’Accademia e-».

«E quindi ora hai una considerazione diversa del Comandante? Mi stai dicendo questo?».

«Nemmeno le mie personali antipatie concernono nostra sorella, è questo quello che sto dicendo. Iriel», tirò le labbra in un sorriso diretto a lei, «Sono contento che tu stia facendo del tuo meglio per non dare ulteriori preoccupazioni a nostro padre. So che questo genere di impegni sociali non sono congeniali alla tua indole, me ne rendo conto, ma so anche che il Comandante non sarà spiacevole con te. Per quanto mi costi ammetterlo, è un uomo acuto, giudizioso. Si contano sulle dita di una mano i suoi passi falsi. E questo fidanzamento è indubbiamente importante per lui».

«Ugh», il Terzogenito scosse le spalle, come attraversato da un brivido. «Smetti di incoraggiare questa grottesca frequentazione, fratello».

«E tu smetti di scoraggiare questa frequentazione, fratello. Nostro padre l’ha già approvat-».

«Corteggiamento volevi dire?». Lothíriel richiamò a sé l’attenzione dei due uomini.

«Cosa intendi?».

«Ha-hai detto fidanzamento poco fa».

«L’ho chiamato così?».

«Sì, lo hai fatto, nonostante si tratti di un corteggiamento. Hai sbagliato termine», le occhiate che si scambiarono i due fratelli non furono delle più promettenti, «Perché hai sbagliato termine, non è così… Erchion…?».

Il Secondogenito la fissò qualche istante, impreparato. Si voltò semplicemente verso il fratello, «Tu dove sei stato fino adesso?», gli diede una pesante pacca sulla spalla, «Questo è un impegno di Iriel, non uno dei tuoi. Non puoi farle fare tardi».

«Chi credi avesse l’incarico di avvisare Madegar della nostra assenza?», si giustificò Amrothos. «Ho ascoltato il resoconto della sua mattinata per venti minuti e argomentato per almeno altri quaranta».

«Argomentato per cosa?».

Amrothos sollevò il paniere che teneva in mano. «Non c’è stato verso. Ha voluto prepararci un pranzo di riserva. Nel caso in cui, e sto citando, quei lavapentole delle cucine della Tenuta ci dessero acqua sporca al posto del brodo».

I tre giovani ridacchiarono. «Tipico di Madegar, mandarvi a pranzo con il pranzo», Erchion allungò una mano e si appropriò a sorpresa della cesta. Il sorriso sulle labbra di Amrothos si spense all’istante. «Tuttavia, sarebbe irrispettoso se vi presentaste con un pasto di ripiego», anticipò le proteste in arrivo, «E i consiglieri saranno lieti di ricevere questo spuntino, la riunione va avanti da ore. Ora andate, i cavalli sono pronti. Se nostro fratello dovesse metterti in imbarazzo, sorella, non me lo terrai nascosto, vero?».

Lothíriel scosse la testa. Amrothos le porse un braccio, che lei accettò. «Pronta?», le sorrise.

«Affatto».

«Ottimo. Questo è lo spirito», commentò senza battere ciglio mentre la guidava verso l’uscita. Salutarono Thïria e il Secondogenito sulla soglia.

«Ah, Iriel». La Principessa si voltò. Erchion la stava di nuovo guardando con quell’espressione malinconica negli occhi. «Al tuo rientro, prima di cambiarti d’abito, passa a salutare nostro padre. Quel lilla, che indossi… Era il colore della mamma. E potreste… No, dovreste parlare del tuo avvenire».


                                         Sebbene il suo rango glielo avrebbe permesso, il Comandante Sîrfalas non alloggiava a Palazzo. In una buona posizione panoramica, su di un crinale con ampia vista sulla Baia del Principe e sui Porti Commerciali, si trovava la sua tenuta di famiglia, conosciuta in città come la Tenuta del Giglio. Il verdeggiante giardino davanti alla villa era in parte pensile e terminava con un emiciclo racchiuso da mura di pietra opalina.

Superati gli alti cancelli, lo sguardo di Lothíriel spaziò sulla facciata principale che si stagliava contro il cielo del mezzogiorno. L’iridescente blasone araldico catturava immediatamente l’attenzione. L’intarsio di madreperla che componeva il giglio di mare al centro dell’insegna nobiliare scomponeva i raggi solari diventando una fonte fulgente di luce rifratta. Si diceva che una nave che giungesse ai Porti di Dol Amroth avvistasse il giglio bianco dello stemma del Comandante ancor prima delle luci faro.

Dopo che i suoi occhi si furono abituati alla luminosità della villa, conversero naturalmente sulla figura del Comandante. Era un uomo dalla notevole fisicità, e il taglio della sua divisa non faceva che sottolineare le sue spalle larghe. Sarebbe spiccato in qualsiasi folla, ma anche così, in piedi sotto il loggiato centrale della sua gloriosa tenuta, il suo portamento era inequivocabile. Inequivocabilmente superbo. Lothíriel inspirò profondamente. Sarebbe andato tutto bene. Era solo un pranzo.

Il Comandante andò loro incontro. «Principessa, benvenuta. Grato che abbiate accettato il mio invito», le sfiorò il dorso della mano con un bacio. Prolungò il contatto tra le loro mani oltre al necessario, mentre le sue iridi di ghiaccio si muovevano sui lineamenti di lei. Sollevò appena un angolo della bocca e ritirò la mano. La ragazza ebbe la sensazione di aver appena superato una valutazione. «Di rado posso godere di una compagnia così piacevole». Il cuore della Principessa tamburellò contro il suo sterno. Era solo un pranzo.

«È vicendevole», Amrothos si affiancò alla sorella con un sorriso di cortesia esposto sulla faccia. «Comandante», chinò la testa.

«Terzogenito».

«La-la tenuta», Lothíriel si schiarì la gola quando il silenzioso braccio di ferro tra i due uomini si era fatto insostenibile, «È-… È veramente magnifica, mio signore. Ho avuto poche occasioni di visitarla all’infuori del Ballo, ma-ma è esattamente come la ricordavo». La sua voce la stava tradendo ancora prima che il pranzo fosse iniziato.

Gli occhi del Comandante abbandonarono finalmente il fratello. «Porremo rimedio anche a questo. Ora», indicò in direzione della villa, «Seguitemi, accomodiamoci all’interno».

Passando per l'atrio e un corridoio riccamente arredato con armi e stemmi, raggiunsero la sala da pranzo. Varcata la soglia, Amrothos soffocò una risata. «Comandante, così mi fate sentire mancante. Nel vostro invito avevate omesso la necessità di portare un binocolo». La tavolata eccezionalmente lunga che troneggiava al centro della sala era stata apparecchiata in maniera peculiare: due posti a un capo del tavolo, un posto all’estremità opposta. In mezzo, svariati metri.

«Mi era stato detto che sarebbe stato sufficiente che la dama di compagnia rimanesse nel nostro stesso ambiente», il Comandante commentò inespressivo.

Lothíriel e il fratello si scambiarono una rapida occhiata. Vide Amrothos inspirare lentamente, il sorriso di cortesia ancora innaturalmente tirato sulle labbra. Intanto che prendeva posto sulla seduta in fondo al tavolo, le lanciò un ultimo, eloquente sguardo, muta richiesta di non trattenersi troppo lungamente.

Sentì una mano alla base della schiena, «Di qua, Principessa». La voce del Comandante suonò sopra al suo orecchio, «Sedetevi».


                                         D opo quella che sospettava essere la terza portata – l’incessante turbinio di salse, intingoli e contorni aveva reso difficile tenere il conto delle portate – Lothíriel iniziò a chiedersi quando si sarebbe potuta sottrarre allo sguardo esaminatore del Comandante. I suoi occhi vigili l’abbandonavano solo il tempo di inforcare il suo prossimo boccone. E trovava la sua aura soffocante. Sicuro, autoritario, dominante. Le tornava continuamente alla mente il maggiore dei suoi fratelli, con cui il Comandante condivideva non solo il portamento, ma anche una decennale  amicizia. Non poteva però negare che l’uomo fosse un naturale oratore, a modo, cordiale, abile nel mantenere viva la conversazione indipendentemente dalle inclinazione del proprio interlocutore. Che, in questo caso, erano pressoché nulle.

«Concedetemi di dirvelo, Principessa. Vi trovo molto gradevole», la noncuranza con cui quelle parole avevano lasciato la bocca dell’uomo la spiazzarono.

«Co-come?».

«Il vostro aspetto», chiarì senza smettere di tagliare il suo filetto di pesce spada, «Siete molto gradevole agli occhi. E c’è un certo candore in voi che trovo apprezzabile».

«Grazie», la voce di Lothíriel perse gradualmente di convinzione. Non era più nemmeno sicura di come si rispondesse a un complimento. Limitarsi a ringraziare sarebbe stato sufficiente? Si stava aspettando altro da lei il Comandante? Sapeva che Elphir si sarebbe già da tempo spazientito di fronte alle sue risposte inadeguate.

Il Comandante chinò la testa di lato, studiandole l’espressione. «Vi ho forse offeso lodando il vostro aspetto?».

«Oh no, mio signore. No davvero». Gli occhi grigi del Comandante non l’abbandonavano. Si sforzò di approfondire la risposta. «No-non sapevo bene cosa dire».

«Principessa, frequento il Palazzo da anni. Sono a conoscenza delle… difficoltà che esibite», la gola di Lothíriel si strinse, «Vorrei assicurarvi che non mi aspetto ora, né mai lo farò, che voi siate versata nell’arte del conversare. È una aspetto che non ha peso ai miei occhi. Tanto più in una donna».

La ragazza deglutì e si impose di far uscire le parole senza tentennamenti. «Pertanto, cosa direste che vi aspettate da me?».

«Se mi state chiedendo cosa mi aspetto da una moglie… Ubbidienza. Lealtà». Si portò la forchetta alla bocca e masticò con indolenza il suo boccone. Aveva assottigliato lo sguardo, come se stesse soppesando qualcosa. «Se invece mi state chiedendo cosa mi aspetto da voi», proseguì lentamente, «il prestigio derivato da uno sposalizio con la figlia del Principe lo reputerò più che sufficiente».

Lothíriel non fu certa di essere riuscita a controllare la propria espressione. Strinse inavvertitamente la presa attorno alle posate. «Siete stato alquanto… di-diretto, mio signore».

«Non ditemi che il parlare onesto vi intimorisce».

«Non è la vostra onestà che mi spaventa. Piuttosto, le vostre intenzioni». Seguì un istante di silenzio. Nonostante fosse riuscita a pronunciare quelle parole senza vacillare, sentì di non avere potere sui propri occhi. Erano incollati al bordo del piatto e non volevano sollevarsi. Nemmeno quando il Comandante si lasciò andare a una risata divertita.

«Elphir, Elphir… Mi ha mentito quando mi ha assicurato che sareste stata docile. Un’opinione, una voce, vedo che ce l’avete. Decisamente interessante…». Quelle parole pronunciate con tanta facilità le si conficcarono dritte tra le costole. «Come può farvi paura qualcosa che è stato palesato, Principessa?», continuò, «Credete forse che io faccia dono della mia schiettezza a qualsiasi fanciulla della Baia?».

«Questo no-non mi è dato saperlo».

«Uhm…», un altro beffardo sbuffo dal naso, l’uomo non sembrava voler nascondere quanto fosse intrattenuto dal loro scambio, «Se potete prendermi in parola, vi assicuro che non è così. Perché dunque pensate che abbia scelto di essere franco con voi?».

«In tutta verità, non saprei dirlo».

«Tuttavia è semplice. Voi diverrete mia moglie, Principessa». Lothíriel trovò il coraggio di sollevare gli occhi in quelli dell’uomo, che sostenne con innata calma il suo sguardo. Le rivolse persino un sorriso. «Per questo ho voluto fare una gentilezza a me stesso, e a voi, e risparmiarci frivole recite. Non ho alcuna intenzione di versare miele nelle orecchie della mia promessa sposa. Nelle vostre di orecchie. Che beneficio ne avremmo ricavato?». Benefici, prestigio, guadagno. Sentir parlare del suo matrimonio in termini economici, politici le stava facendo contorcere lo stomaco. «Ma leggo sul vostro volto del disdegno, Principessa».

«Vi stupisce che io mi possa sentire insultata dalle vostre parole?».

«In realtà no. Suppongo sia la più prevedibile delle reazioni. Ma vi ho conosciuto attraverso le parole di vostro fratello e vostro padre, e so per certo che l’acume non vi manca. L’insulto si trasformerà in lusinga, se pondererete sufficientemente a lungo le mie parole. Quanti uomini portano le loro intenzioni cucite sul petto?».

«Vi ripeto, Comandante, non è la vostra onestà a intimorirmi ma le vostre intenzioni».

«Quanti corteggiatori avete avuto fino ad ora, vostro padre ve lo ha mai riferito?». La brusca virata della discussione la lasciò interdetta. L’uomo la incalzò, «Assecondatemi, vi prego. Conoscete il numero degli uomini che hanno chiesto fin’ora la vostra mano? Inclusi quelli che sono stati preventivamente dissuasi da vostro fratello, inteso».

«Io non… Io non saprei indicarvi un numero».

«Diciassette. E sto volutamente escludendo quelli che hanno avvicinato vostro padre prima ancora che foste in età da marito», l’uomo accennò a una smorfia di disgusto prima di prendere un sorso dal proprio calice. Per tutto il tempo aveva placidamente continuato a pranzare, masticando al contempo il cibo e le emozioni del suo interlocutore. «Ditemi ora, quanti di questi nobili rampolli provenienti da dentro e fuori il Dor-en-Ernil credete non abbiano mai considerato il vostro titolo, la vostra posizione?».

«Non ho modo di saperlo».

«Ma potete supporlo. Fate un’ipotesi, dite un numero. Dieci? Otto, forse? Suona plausibile che metà dei vostri corteggiatori possa non aver mai pensato al vostro titolo? Cinque? Quattr-».

«Suppongo…», lo fermò nella speranza che le pulsazioni che sentiva nelle orecchie si placassero, «Suppongo che tutti loro abbiamo tenuto conto in qualche misura dei privilegi che avrebbero acquisito».

L’uomo le sorrise nuovamente. Tronfio. «Ora, Principessa, ditemi un altro numero. Il numero di uomini che credete avrebbero palesato a voi le loro intenzioni».

«Ho inteso il vostro ragionamento, Comandante. Ciò non toglie che… che…», una mano di Lothíriel andò inconsapevolmente a premersi contro lo stomaco. Respirare stava diventando difficile. «Il fatto che i sentimenti non ricoprano alcun ruolo nel vostro piano è… è per me… Mi-mi disturba».

Il Comandante sembrò per la prima volta preso in contropiede. «Sentimenti…», saggiò lentamente quella parola, facendola scivolare sulla lingua. «Principessa, voi mi amate?».

L’ennesima virata della conversazione le fece girare la testa. «Io-io nemmeno vi conosco…».

«Non sarebbe dunque insensato se vi stessi confessando il mio amore? Eppure…», piegò il collo di lato, «È forse questo ciò che vi manca?».

«No…», esalò la ragazza.

«Dichiarazioni, sonetti? Può darsi che io abbia commesso questo errore? Avrei realmente dovuto prediligere il miele?»

«Trovate così irrisorio aspettarsi di essere considerata più di… di prestigio impacchettato in una forma gradevole ai vostri occhi?».

«Io non escludo i sentimenti, Principessa», la voce del Comandante era tornata asciutta e incolore. «È auspicabile che, negli anni, i sentimenti giungano. Ma non ho intenzione di fabbricarli per compiacervi. Non sarebbe una scelta efficiente». I suoi occhi caddero sul piatto della Principessa, abbandonato da tempo. «Non mangiate più? Vi faccio portare un piatto che non sia freddo, se lo gradite».

«No. Cre-credo… Non ho più appetito». Prese a stirarsi le pieghe dell’abito in grembo, eludendo al suo sguardo.

«In tal caso, siete libera di andarvene, Principessa».

«Co-come?», la voce la stava abbandonando del tutto.

«Credevate forse di essere mia prigioniera? Vi garantisco che la mia tenuta non ha sotterranei e, se li avesse, non vi trovereste le persone che invito a pranzare con me. Sarebbe con ogni probabilità occupata da metà del Consiglio di vostro padre», le rivolse un mezzo sorriso.

Lothíriel rimase per l’ennesima volta interdetta. I continui cambiamenti di tono dell’uomo, le sue indigeribili parole, i suoi freddi ragionamenti, i suoi sorrisi. L’unico aspetto prevedibile del Comandante era la sua imprevedibilità. «Non voglio mancarvi di rispetto. Non lascerò la tavola che avete imbastito per me».

«Davvero non mangerete più?», il suo tono era ora premuroso. Premuroso? Le tempie della ragazza presero a pulsare, preannunciando un terribile mal di testa. «Ho fatto preparare la cotognata*¹ per voi. Ve la faccio volentieri portare, se preferireste passare direttamente a quella».

Il suo dolce preferito. Qualcos’altro che non era stata lei a confidargli. «No… Vi ringrazio, Comandante».

«Allora avete il mio permesso, abbandonate liberamente la tavola. Spogliamoci di inutili sensi di colpa o del dovere. Siamo convenuti che sarà l’onestà a guidare i nostri scambi». Il Comandante si era alzato e si era portato dietro la Principessa, pronto a spostarle la sedia.

«A questo, siamo convenuti?», domandò confusa mentre si alzava in piedi. Accettò titubante il braccio che le veniva offerto.

«È la mia speranza. Io sono stato l’iniziatore, è vero, tuttavia ho fiducia che vi convertirete alle mie vie. Vi chiedo di esaminarvi, Principessa, ve ne darò il tempo», le parlò intanto che attraversavano la sala da pranzo. «Esaminate ciò che vi ha infastidito delle mie parole. Ponetevi attenzione. Credo che, infine, riterrete la verità essere una fondazione più solida del miele. Ora andate, non mi cruccerò di essere stato lasciato prima del tempo. La biblioteca, ve lo prometto, ve la farò visitare al nostro prossimo incontro». Avevano raggiunto Amrothos, che era entusiasticamente saltato su dalla sua sedia al loro primo segnale di movimento.

«Non vi ho mai chiesto di visitare la biblioteca». Lothíriel corrugò la fronte.

«È così? Devo essermi sbagliato».


                                           «Il tempo di un’altra portata e avrei ultimato la mia fionda», Amrothos spezzò il gravoso silenzio che li stava accompagnando da quando si erano lasciati alle spalle la Tenuta del Giglio.

«Cosa hai detto?», Lothíriel riemerse dai turbinosi pensieri.

«Una fionda. La stavo costruendo con le posate, ma ammetto di essere stato messo in difficoltà dal laccio. Mi stavo avvicinando, però. Avrei trovato presto una soluzione».

Lothíriel lo guardò confusa. «Una… una fionda di posate. A cosa ti sarebbe servita una fionda di posate?».

«Per lanciarvi del cibo, naturalmente. O lanciarlo alle vetrate, non ne sono certo. Non ero arrivato a quel punto del piano».

La Principessa accennò un sorriso in direzione del fratello. Sapeva cosa stava cercando di fare e avrebbe parlato con lui. Eventualmente. Non appena fosse riuscita a dare ordine ai suoi stessi pensieri.

Uno scalpitio di zoccoli li fece voltare. Due cavalieri li superarono al galoppo, risalendo la via che conduceva al Palazzo. Montavano magnifici destrieri dalle verdi bardature e sui loro alti stendardi sventolava il Cavallo Bianco di Rohan. Poco dietro di loro, un cavallo dal lucente manto morello li seguiva al trotto. Non era sellato e non portava nemmeno le redini, ma rispondeva con straordinaria ubbidienza ai segnali dei due uomini. Si arrestarono di fronte all’entrata, dove smontarono di sella; due guardie stavano già andando loro incontro.

Lothíriel e il fratello spronarono i cavalli senza bisogno di accordarsi. Non appena ebbero raggiunto gli ospiti, si rivolse ad Amrothos una delle guardie di Palazzo. «Principe», s’inchinò, «Messaggeri provenienti da Rohan sono giunti in questo momento».

«Lo vedo, Damegond, ti ringrazio. Vi do il benvenuto a Dol Amroth, signori. Il Principe Imrahil è al momento impegnato con il Consiglio, potrete riferirgli il vostro messaggio dopo esservi rifocillati. Se l’urgenza del vostro messaggio lo richiede, affretterò l’incontro».

I due rohirrim s’inchinarono in segno di saluto e uno dei due fece un passo avanti. «I nostri nomi sono Eòghann e Cadeyrn, viaggiamo sotto lo stendardo del Mark. Vi ringraziamo per il vostro benvenuto e l’ospitalità. Cerchiamo tuttavia la Principessa Lothíriel, il nostro messaggio è destinato a lei».

Il volto di Amrothos non nascose il suo stupore. «Presto detto», prese per mano la sorella che stava assistendo in disparte di qualche passo, e la presentò. «Questa è Dama Lothíriel, Principessa di Dol Amroth».

I due cavalieri si scambiarono una rapidissima occhiata d’intesa che la ragazza non avrebbe saputo interpretare e s’inchinarono nuovamente in segno di saluto. Lothíriel sbatté le palpebre un paio di volte prima di ricordarsi delle buone maniere. «Be-benvenuti, Eòghann e Cadeyrn di Rohan. Entrate, vi prego. Consumate un pasto caldo. Mando a chiamare qualcuno che si faccia carico dei vostri cavalli».

«Mia signora, siamo costretti a rifiutare l’invito. Siamo entrambi impazienti di ricongiungerci al nostro Re e al suo esercito in marcia verso il Lebennin». Con la coda dell’occhio, Lothíriel vide il fratello muoversi nervoso. Comprensibilmente nervoso. Di eserciti e di guerra nessuno aveva mai proferito parola davanti a lei. «Non vorremmo intrattenerci più del dovuto», gli occhi della ragazza scesero sulle spade che portavano appese alle cinture. Erano indubbiamente soldati oltre che messaggeri. «Del resto non vi ruberemo troppo tempo. Per voi abbiamo un dono».

«Un-un dono, mio signore?», Lothíriel si chiese se fosse stato il loro forte accento ad aver deformato quel termine. «Ho inteso bene?».

«Sì, Principessa. Portiamo il dono del nostro Re, una gemma del Mark», così dicendo si scostò di lato, facendo schioccare due volte la lingua. Il cavallo che non indossava i finimenti rispose al richiamo e si avvicinò fino ad arrestarsi con il muso all’altezza della spalla dell’uomo. «Il nome di questa giumenta è Gléodis, è nel suo settimo anno di età e ha terminato la formazione alla monta. Ed è vostra».

Uno sbuffo divertito sfuggì dalle labbra della ragazza, che si portò le mani alla bocca non appena il suo cervello ebbe registrato quello che aveva fatto. «Non-non rido di voi, signori. Perdonatemi», si affrettò a chiarire, mortificata, «Sono solo… Confusa. Credo».

«Avvicinatevi, toccatela», la invitò il messaggero. «È nata nelle Scuderie Reali di Edoras, discende da una delle razze superiori, imparentate con i mearas. Il Re solitamente onora i propri Marescialli o gli Ufficiali particolarmente meritevoli con un regalo sì prezioso», le spiegò mentre la ragazza avvicinava cautamente una mano al muso dell’animale. Era innegabilmente il cavallo più bello che avesse mai visto. Non era paragonabile ai destrieri della Scuderia di suo padre. Il manto lucido, la muscolatura possente e tesa, gli occhi vispi. Quel cavallo era semplicemente magnifico.

Lothíriel ritrasse riluttante la mano con un’ultima, lentissima carezza alla testa montanina dell’animale. «Io… Io non posso accettarlo. È un dono immeritato».

«Principessa, con tutto il rispetto, chiunque si fosse sentito degno di ricevere un dono simile sarebbe dovuto passare sopra la brace del capretto prima di averlo».

La ragazza fissò interdetta il messaggero che aveva parlato. «Il-il… capretto… dite?», non aveva idea di cosa avesse appena sentito.

Gli uomini di Rohan erano passati a sellare Gléodis con i finimenti che fino ad allora avevano trasportato sulle loro cavalcature. «Accettate a cuor leggero questo dono, mia signora, di cui peraltro avete intuito il valore. Saprete trattarlo di conseguenza», uno dei due aveva finito di imbrigliare il cavallo. La bardatura era differente da quelle a cui Lothíriel era abituata; meno appariscente, senza insegne né stemmi. La mano degli artigiani del Mark visibile nella linea perfettamente ponderata della sella e nel particolare intreccio delle briglie doppie. I cavalieri continuarono ad assicurare le cinghie del sottopancia senza curarsi più di tanto delle proteste della giovane, che, non sapendo come comportarsi, cercò disperatamente con lo sguardo l’appoggio di Amrothos. Quest’ultimo si strinse semplicemente nelle spalle.

«Principessa, in tutta coscienza non posso permettervi di rifiutare un purosangue di Rohan senza prima avervene fatto saggiare l’andatura», così dicendo, Eòghann l’aveva afferrata per i fianchi e fatta salire in groppa al cavallo.

La ragazza si passò il dorso di una mano sulle guance che andavano scaldandosi. A quell’improvviso contatto era a stento riuscita a trattenere in gola un gridolino. Nessuno all’infuori della sua famiglia l’aveva mai toccata in quel modo, per di più con la naturalezza dell’uomo che ora stava pronunciando incomprensibili parole rivolte al cavallo su cui era stata posta. A quel comando, Gléodis scrollò il collo e balzò in avanti.

Ci volle qualche secondo prima che riuscisse a prendere in mano le redini, ma le andature non avevano bisogno di essere riassestate. Percorse a ritroso il selciato che portava al Palazzo e, a tratti, le sembrò che gli zoccoli non toccassero terra, tale era la sensazione di leggerezza che il portamento dell’animale trasmetteva. Non resistette all’impulso di spronarla. Immediatamente i suoi muscoli tonici si tesero e gonfiarono e la sua testa iniziò la sua danza. Lasciò i giardini della Residenza e volò giù per la via principale, scansando gli ignari cittadini con impressionante grazia. La prima piazza, la seconda, poi la terza. Si trovò alle mura inferiori nel tempo di un paio di battiti. Il suo cuore non faceva però fede, stava attivamente cercando di uscirle fuori dal petto.

«Principessa… Siete voi?»,
una volta che si era arrestata sotto le mura, sentì una voce maschile chiamarla dall’alto 

«Ohtar! Abbiamo una buona giornata oggi, nevvero?», rispose raggiante all'anziano guardiano dei Cancelli che la stava guardando moderatamente sconcertato.

«Sì, è… È così, sì».

«Oh no». Lothíriel cercò con lo sguardo la fonte della seconda voce familiare. Eccola, Thïria, all’uscita di una delle botteghe della cittadina bassa. Un cesto rovesciato ai suoi piedi. Gli occhi sgranati, fissi sul suo gigantesco animale morello. «No-no-no-no-no-NO!».

«Oh-oh», l’espressione della sua dama di compagnia non era delle migliori. «Devo andare, Ohtar! Buon lavoro!», diede con i polpacci la guida al cavallo, che schizzò in avanti. Con l’adrenalina che ancora le scorreva in tutto il corpo, risalì la via centrale dovendo a malapena condurre l’animale. In un attimo stava nuovamente percorrendo i sentieri bianchi che ritmavano i giardini del Palazzo. Sulla scalinata d’ingresso si era unita al fratello una nuova figura. Le fu facile riconoscere il padre.

«Credevo di stare avendo una visione quando le vetrate della Residenza hanno iniziato a tremare. Tua madre che galoppa davanti al Palazzo», Imrahil si era accostato al figlio minore, «Ma vedo ora che si tratta di… Iriel. Dimmi, perché mia figlia è in sella al più grande destriero della Baia, Amrothos? Cosa sta succedendo?».

Amrothos si grattò la nuca. «Messaggeri da Rohan, padre. Hanno portato un destriero in dono a Iriel. Da parte del loro Re, pare».

«Éomer? Re Éomer…?», i solchi sulla nobile fronte del Principe si fecero più profondi, «Questo non ha alcun senso».

Lothíriel aveva fermato l’animale di fronte ai gradini della Residenza e smontato di sella gettandosi praticamente tra le braccia del padre, che l’aveva prontamente afferrata. «Questo cavallo, padre, questo cavallo! Ha il completo controllo di ogni suo muscolo, dico il vero. Io non ho mai, mai visto un cavallo così nelle tue Scuderie. Modifica la traiettoria con una precisione tale… E anche ad alte andature non perde in morbidezza, e… e-». Suo padre si schiarì la gola, interrompendo il fiume di entusiasmate parole con cui Lothíriel lo aveva investito. La ragazza riprese fiato, tornando ai propri sensi. Si voltò verso i messaggeri di Rohan; esposti sui loro volti, due grandi sorrisi compiaciuti. «Oh, io con questo non volevo dire che accetterò il regalo, sapete io non posso… Non… Posso…?», guardò il padre da sotto le lunghe ciglia, «Non è così… padre? Io non…».

«Non puoi», Imrahil confermò.

«Non posso accettarlo, mi dispiace», Lothíriel concluse rivolgendo loro un veloce sorriso, «Vi-vi prego comunque di rifocillarvi, se la fretta ve lo permette. Avete affrontato una settimana di viaggio per venire qui, non ripartite senza aver riposato».

Eòghann e Cadeyrn si scambiarono uno sguardo, e fu quest’ultimo ad iniziare a parlare. «Lungi da noi cercare di forzarvi ulteriormente la mano, Principessa. Ma secondo le leggi del nostro popolo, se ci allontanassimo ora con Gléodis, verremo accusati di furto».

«Oh», Lothíriel lanciò un’occhiata al padre. «Furto…», ripeté sommessamente.

«Furto, padre», Amrothos sottolineò in un sussurro. Imrahil inspirò lentamente.

«Altresì, se deciderete di rigettare il dono del Re», proseguì 
Cadeyrn, «Quale messaggio desiderate che io riferisca al mio signore?».

«Umh... Rigettare il dono…», Amrothos esalò sottovoce mentre si stiracchiava la schiena.

Il padre espirò rumorosamente, massaggiandosi ad occhi chiusi la ruga in mezzo alle sopracciglia. Quando li riaprì e guardò la figlia, il cuore di Lothíriel esultò facendo capriole sul suo stomaco. L’uomo aveva un’espressione tormentata, a metà tra il rimprovero e la resa. «Iriel…», iniziò minaccioso.

«Padre».

Imrahil sospirò. «Accompagnata. Sarai sempre accompagnata quando uscirai a cavallo. Sempre. Dentro e fuori dalle mura. Mi hai inteso?».

La figlia si limitò ad annuire con forza ad ogni frase. Aveva paura di parlare, timorosa di spezzare quel momento.

Lo sguardo di suo padre tornò morbido, le sue spalle si rilassarono. «Re Éomer», si rivolse ai due uomini di Rohan, «Vi ha forse spiegato il motivo di questo dono inaspettato? Non me ne aveva fatto parola quando sono stato suo ospite, meno di un mese fa».

«Gléodis è accompagnata da un messaggio per la Principessa. Ho il vostro permesso di riferirlo pubblicamente?».

«Certamente», acconsentì la ragazza.

I due messaggeri temporeggiarono, guadagnandosi qualche istante. Nessuno dei due dava l’impressione di bruciare di desiderio di trasmettere il messaggio. Cadeyrn perse la muta battaglia di occhiate e si schiarì la gola. «Messaggio di Re Éomer a Dama Lothíriel: Un gioiello del Mark per il gioiello del Sud. Un dono propiziatorio per il nostro primo, anticipato incontro».

Nemmeno con due settimane di allenamento, Lothíriel, Amrothos e Imrahil sarebbero riusciti a piegare la testa di lato con l’impeccabile sincronia che avevano appena esibito.

«Come?».
 

208 miglia a nord

                                         É omer torse il collo e strinse gli occhi, premendosi insistentemente un palmo contro l’orecchio. Un improvviso, fastidioso ronzio aveva preso a tormentarlo da qualche minuto. Sotto di lui, Zoccofuoco scrollò di riflesso il possente collo.

«Cosa succede, Éomer?». Brandwine aveva affiancato il cavallo al suo.

«Un-un ronzio», grugnì scuotendo la testa. «È dannatamente persistente».

Tra lo scalpitio degli zoccoli, sentì la risata malamente trattenuta dell’amico. Aprì un occhio per fulminarlo, «Ti diverte?».

Brandwine sorrise, del tutto impenitente, «Ti fischiano le orecchie. Qualcuno deve starti pensando, non credi?».


Note dell’autrice
• Ho optato per l’intramontabile classico dei fischi nelle orecchie. Spero mi perdonerete il cliché. Alla prossima!

            *¹
Cotognata, dessert a base di mele cotogne diffuso in Europa a partire dal Seicento. Si tratta di una marmellata lasciata essiccare e solidificare; servita solitamente a cubetti.

Stato di famiglia – Visto il mio sconsiderato uso di appellativi ufficiali e ufficiosi, ho pensato di lasciarvi un breve riepilogo dei personaggi secondari che animano la famiglia di Lothíriel (20).
Oltre ad Imrahil (64), attuale Principe di Dol Amroth, saranno ricorrenti i suoi tre figli: Elphir (32), Primogenito o Erede; Erchion (29), Secondogenito; Amrothos (25), Terzogenito. Alphros (2), figlio di Elphir, è già nato nell’anno in cui è ambientata la storia anche se, unitamente alla madre, comparirà marginalmente. Erchion e Amrothos sono da considerarsi celibi. La zia Ivriniel (72) è viva e arzilla, e sono quasi certa che si stia godendo la vita in qualche tenuta costiera, totalmente e beatamente ignara delle vicissitudini dei suoi nipoti. La presenza della madre di Lothíriel avrebbe ulteriormente appesantito le dinamiche relazionali. Per tanto, il sole è caldo, l’acqua è bagnata e la madre di Lothíriel è morta di parto. Non avrà ricevuto un nome, ma in compenso offrirà un ottimo retroscena emotivo ai restanti personaggi. Ah, dimenticavo il cugino Faramir (36). C’è, ma è come se non ci fosse. Sapete, Éowyn, l’Ithilien, l’amore.
Razaghena
Riassunto Capitolo 4 Lothíriel si reca alla tenuta del Comandante Sîrfalas per il pranzo. L’uomo palesa le sue intenzioni e propone alla Principessa di considerare un matrimonio di convenienza basato sulla brutale onestà, seppur svuotato dell’amore. Rientrata a Palazzo l’attendono due messaggeri provenienti da Rohan; le consegnano Gléodis come dono da parte di Re Éomer, assicurando il disorientamento generale di tutti i presenti.

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Capitolo 5
*** All'ombra degli ulivi ***


12 ottobre 3019, Terza Era
Palazzo del Cigno d’Argento, Dol Amroth, Gondor

173 miglia a sud


                                         La fronte aggrottata di Erchion riemerse da dietro il resoconto su cui aveva invano cercato di concentrarsi negli ultimi minuti. Poggiò la schiena contro la sedia e lasciò che il suo sguardo vagasse per il soffitto del salottino della colazione. Nel primo mattino, l’ala residenziale del Palazzo era ancora avvolta in un morbido torpore, interrotto unicamente dal ritmico scricchiolio di gusci di noce.

«Mi chiedo…», alla voce del figlio, Imrahil, seduto di fronte a lui, sospese la sua metodica – per quanto elegante – carneficina di frutta secca, «Per un gioiello del Sud… Per. Quel per. Per come ‘indirizzato a’ o come ‘in cambio di’? Da che parte iniziare ad interpretare quel messaggio?».

Il padre mugugnò un mezzo sospiro e riportò la sua attenzione alle noci che giacevano sparse davanti a lui.

«Credi sia un’usanza di Rohan quella di inviare doni propiziatori? Hai mai sentito parlare di qualcosa del genere, padre?».

«Ti prego… Erchion…». Una dopo l’altro, i gusci continuavano a soccombere rumorosamente tra le mani del Principe.

«Potrebbe esserci sfuggito qualcosa», il Secondogenito seguitò a ragionare ad alta voce, deliberatamente noncurante degli occasionali brontolii di insofferenza provenienti dall’altra parte del tavolo, «Era apparente che non fosse uomo da confidenze, ma arrivare a non fare cenno di voler corteggiare Iriel… Certo, Re Éomer è celibe. E giovane. E da poco sul trono. Potrebbe forse essere questa la chiave? È in cerca di una regina e il suo sguardo è arrivato fino a Gondor?».

Un frammento legnoso sfuggì come una scheggia volante allo schiaccianoci del padre. Erchion lo scansò con un sopracciglio alzato. «Padre, ci sono modi più ortodossi per farmi tacere».

Imrahil poggiò lo strumento incriminato sul tavolo. «Erchion», inspirò profondamente, «Non dormo da due notti. Tua sorella non l’ho più vista se non in sella a quel cavallo i-i-indecorosamente… sfacciatamente… grande. Ti ho già detto che il suo scalpitio mi suona nelle orecchie ognora?».

«Credo di avertelo sentito dire».

«Notte e giorno, giorno e notte. Come un monito», Erchion seguì con gli occhi la mano del padre stringersi attorno lo schiaccianoci, «Dai prova di avere un po’ di compassione di tuo padre, te ne prego», lo implorò Imrahil riprendendo a far scoppiettare i gusci sotto le dita.

«Credevo avessi in stima il Re di Rohan».

«È così, è così. Questo non è messo in dubbio. È un giovane pregevole, di una rara tempra. Nondimeno», il Principe diede enfasi alle sue parole fendendo l’aria con il suo luccicante strumento di morte, «tua sorella è già promessa. Ogni ulteriore corteggiamento è fuori discussione».

«Chiaro, chiaro». Erchion riportò di nuovo la sua attenzione sul resoconto. Inutilmente. Era forse passato un minuto prima che tornasse alla carica, «Non sarebbe il primo fidanzamento nella storia del principato a venire interrotto. Le nozze non sono nemmeno state annunc-».

«Perché questa mattina hai deciso di non darmi tregua, figliolo?». Puntuali, altre due schegge esplosero in direzione del Secondogenito, il quale le schivò fulmineo, «Ti senti forse in dovere di compensare l’assenza di Amrothos? A tal proposito, dove sono i tuoi fratelli?», la voce di Imrahil si stava ingrossando di pari passo con la vena sulla sua nobile fronte, «E di grazia, perché oggi le noci non sono state sgusciate?». Si lasciò andare a un sospiro esasperato e prese a stropicciarsi gli occhi, affaticato.

Il giovane Principe ne approfittò per allungare un braccio e allontanare lo schiaccianoci dal padre. «Elphir sta badando i Consiglieri. Amrothos sta badando Iriel. Iriel è con ogni probabilità in sella a un cavallo indecorosamente e sfacciatamente grande».

Imrahil sospirò. «Dentro o fuori le mu-».

«Non chiedere, padre. Non chiedere», Erchion lo anticipò, mal celando il suo divertimento. «Il responsabile delle tue noci non sgusciate è invece la mano ferita di Madegar. Ho risposto a tutte le tue domande, quindi perché non tornare sulle ripercussioni del messaggio di Re Éo-».

«Madegar si è fatta male? Quanto male? Ricordati di essere generoso con il suo salario, non vogliamo che non sia soddisfatta».

«Sappiamo entrambi, padre, che se alzassi ulteriormente il salario della cuoca, Elphir pretenderebbe in cambio il mio primogenito».

«Non possiamo perdere Madegar, figliolo. Tu sai che non possiamo. Nessuno a Gondor mangia come alla nostra tavola».

«Corretto. Ma hai sentito la parte relativa al mio primogenito?», Erchion assottigliò lo sguardo, «Che sarebbe anche tuo nipote…?».

«Posso iniziare a valutare le tue candidate spose?».

«Negativo», un sorrisetto impenitente sulle labbra del giovane.

«Allora rischiare di perdere la cuoca è una questione più stringente di un nipote che non mi hai ancora dato».

«A proposito di questioni stringenti e di pretendenti, discutiamo di quelli di mia sorella?», il giovane lo incalzò senza perdere un colpo.

«La mia testa», Imrahil si passò una mano sulla fronte. «Non ho mai desiderato che un Consiglio iniziasse come questa mattina. Erchion…».

«Dico soltanto, padre, che non genererebbe poi grande scandalo».

«Scandalo? Quale scandalo?».

«La rottura del fidanzamento».

«Erchion, no. Vecchio. Tuo padre è vecchio. E non sono ancora le otto del mat-».

«La famiglia della sposa può permettersi di avere un ripensamento e favorire un nuovo pretendente. Ne sentiamo parlare di continuo». Il Secondogenito prese un veloce sorso del suo tè, valutando come pungolare il fianco esposto. I suoi occhi studiarono i lineamenti stanchi del padre, o quello che del suo volto non era nascosto dall’ampia mano. Aveva da tempo imparato che senza applicare alcuna pressione non era possibile conoscere l’entità di una lesione. «Un re non è esattamente un pretendente che si può scartare così, in maniera avventata. Se questo… Questo dono si rivelasse essere l’avvio di un corteggiamento, non vedo perché non vagliare la possibilità a fondo».

Imrahil scosse la testa, come a voler scacciare quell’idea, «Erchion, tu… Tu sai bene che è più complicato di così. Trascurando il fatto che ho dato la mia parola al Comandante, devo comunque tenere in considerazione la posizione di Elphir in Consiglio. Scandalo o meno, togliere l’appoggio al Comandante significherebbe perdere il suo. Se io- Se questo finisse per danneggiare Elphir…».

Il giovane Principe unì le sopracciglia, «Padre», cominciò piano, «Non può ridursi tutto a questo. Al tuo debito – o in qualsiasi altro modo tu voglia definirlo – con Elphir. Quantomeno non il matrimonio di-».

«Credo di essere stato generoso questa mattina, Erchion», lo interruppe il padre, «Ho assecondato le tue congetture, ma non approfondirò ulteriormente la questione. Arriverà il giorno in cui sarà tuo fratello a dover reggere il principato, appoggiarlo oggi in ciò che potrà garantirgli stabilità in futuro non è che il mio dovere». Il Principe aveva parlato con autorevolezza, nonostante non avesse sollevato gli occhi in quelli del figlio nemmeno una volta. L’atmosfera nella saletta era mutata all’improvviso. C’erano corde che non andavano toccate, faccende che non andavano discusse ad alta voce. Equilibri troppo fragili per essere portati alla luce.

Erchion si fece indietro, figurativamente e letteralmente. Si appoggiò di nuovo allo schienale, «Capisco…», tamburellò sui braccioli di legno. «Dimmi che postura tenere nei confronti di Re Éomer e io seguirò le tue indicazioni. Poco più di una settimana e saremo compagni d’armi».

«Qualsiasi cosa abbia voluto dirci con quel cavallo, l’onere della chiarezza grava ancora su di lui. Non agiamo in base alle nostre speculazioni. Sono certo che avremo occasione di dissipare ogni dubbio nel nostro tempo all’accampamento».

«Inteso».

Un rumore di passi in avvicinamento li raggiunse dall’esterno del salotto. Chiunque avesse calcato con sufficiente frequenza le sale del Palazzo, avrebbe saputo riconoscere quell’andatura. Misurata, controllata. Propria di qualcuno a cui non si poteva mettere fretta. Qualcuno che, del resto, non tardava mai ai suoi doveri. Elphir comparve sulla soglia. Si avvicinò al loro tavolo, arrestandosi a due passi di distanza; lentamente, si chinò a raccogliere qualcosa dal pavimento: frammenti di guscio. Non li commentò, non fu necessario.

«Padre. Fratello. Il Consiglio è riunito, l’ultima seduta sta per avere inizio».

Imrahil ed Erchion si scambiarono un’occhiata. «L’ultima», l’anziano Principe sospirò mentre annuiva con il capo, «Non sembra vero. La partenza è davvero già alle porte».

«Così pare», il Secondogenito raccattò i resoconti che avevano steso attorno – e sopra – le loro colazioni.

«Facci strada, Elphir, grazie. Mettiamoci anche questo alle spalle». Imrahil abbozzò un sorriso, mentre i suoi occhi passavano affezionatamente sui volti dei due figli che l’avrebbero accompagnato in guerra.



                                         Le ginocchia la tradirono non appena i suoi stivali avevano toccato terra. Non ne volevano sapere di rimanere salde.

«Woh, woh», Amrothos sostenne la sorella per un gomito, «Al primo ginocchio sbucciato nostro padre infiocchetta Gléodis e la rispedisce al mittente, tienilo a mente».

«Non ricordarmelo», esalò la ragazza con il fiato corto. Il suo corpo non si era ancora del tutto adattato alle lunghe, concitate cavalcate di quei giorni.

«Riproviamo? Ti lascio andare?», si accertò il fratello.

«S-sì. Grazie».

«Ho mandato a chiamare Thïria, aspettala qui e tornate a Palazzo insieme».

«Tu non rientri?».

«Ho da fare alla Guarnigione. Salterò il pranzo per oggi». L’uomo affidò le redini dei loro destrieri allo scudiero che era venuto loro incontro. Lothíriel fece per allungare una mano, ma il fratello la intercettò, stritolandogliela giocosamente. «E no. Non puoi riaccompagnare Gléodis alla stalla. Saresti di nuovo in sella girato il primo angolo», fece per mordere la mano che lei sfilò appena in tempo dalla sua presa.

La ragazza boccheggiò. «Questo non è… Non è affatto…», avrebbe voluto potersi fingere offesa, «Questo è piuttosto vero», ammise.

«Se faccio in tempo usciamo oggi pomeriggio. Ho una rivincita da prendermi e puoi stare certa che me la prenderò con molta soddisfazione. E il sentiero toccherà a me sceglierlo». Il fratello l’aveva guidata spintonandola leggermente per le spalle fino l’ingresso laterale della Guarnigione; i soldati di guardia li salutarono con un inchino. La fece sedere lì di fronte, sul muretto di pietra che costeggiava il canale del porto.

«Non c’è terreno su cui tu possa superare Gléodis. Non credi sia il momento di ammetterlo, fratello?», lo stuzzicò lei, di buon umore.

«Iriel, mettiamo bene in chiaro una cosa: hai vinto solo perché io ho perso. Intesi?».

«Tu sai che non c’è un altro modo di vincere se non quello che hai appena descritto, vero?».

«La prossima volta ci spingeremo fino al vecchio frantoio e vedremo chi torna prima indietro».

«Il vecchio frantoio? Credi sia ancora in piedi?».

«Il suo ponte di pietra, quello no di certo. Nostro padre lo ha fatto distruggere da almeno un decennio. Credo sia andato ad abbatterlo di persona; leggenda vuole, a mani nude. Per via del tuo ultimo ginocchio sbucciato, se non vado errato», la prese in giro con uno sbuffo piccato, «Ma il frantoio è ancora lì, in disuso. Lo useremo noi, come punto di partenza e ti dimostrerò che i cavalli della Baia non sono da sottovalutare».

«Mio signore…», un soldato si era avvicinato a loro.

Amrothos gli fece un cenno con il capo. «Iriel», tornò a rivolgersi a lei, concentrando tutte le sue raccomandazioni in uno sguardo minaccioso, le sopracciglia unite. La sorella gli rispose con un sorriso.

Non appena il Terzogenito era sparito all’interno dell’edificio, la Principessa iniziò a guardarsi attorno, proteggendosi con una mano dall’alto sole del mezzogiorno, risalendo con gli occhi la via che fiancheggiava il canale del porto. Le botteghe erano aperte, le merci esposte; la cittadina bassa era spumeggiante a quell’ora del giorno, vivace e chiassosa. Lothíriel si ritrovò in piedi prima ancora di rendersene conto. Era già in mezzo al torrente di passanti quando sentì la voce del fratello alle sue spalle.

«Non abbiamo appena avuto una conversazione a riguardo? Tu, che aspetti Thïria. Qui. Ferma. Ricordi?». Le aveva gridato da sotto il porticato della Guarnigione, le braccia conserte. In una mano teneva una fiasca che non le fu difficile immaginare fosse venuto a offrirle.

«Alla tintoria. Vado solo fino la tintoria», tentò di farsi udire, «Dai bambini».

Era ancora sufficientemente vicina da non perdersi il bianco degli occhi che le stava mostrando il fratello. Agitò una mano in aria per salutarlo insolentemente.



                                         Arrivata a metà strada, si rese conto di aver largamente sovrastimato le proprie condizioni fisiche. Sentiva il suo passo farsi più incerto e il pizzicore dei suoi muscoli indolenziti più vivo. Mantenere l’equilibrio sull’acciottolato di quella via che aveva percorso innumerevoli volte non le era mai sembrato così arduo. E dover dissimulare il proprio disagio per prodursi in inchini e ricambiare i saluti dei passanti – tutti, i passanti, ogni singolo cortese, zelante, amabile passante che l’aveva riconosciuta – non fece che aggiungere fatica alla stanchezza. Gli ampi lenzuoli e teli che le segnalavano la presenza della tintoria apparivano ancora in lontananza, coriandoli colorati che oscillavano al vento.

Dopo qualche altro passo, si costrinse a fermarsi a riprendere fiato, appoggiandosi contro il muretto in pietra che separava la via dal molo sottostante. Inspirò a pieni polmoni, asciugandosi le tempie imperlate di sudore. Quando si voltò, lo scontro contro qualcosa di solido la fermò sul posto. Alzò lo sguardo e incontrò due occhi cerulei e un sopracciglio alzato. Prima ancora che registrasse contro chi fosse andata a sbattere, ritirò le mani che aveva istintivamente appoggiato contro il petto dell’uomo. Cercò di farsi indietro, ma vacillò quando i suoi talloni avevano inevitabilmente incontrato la base del muretto. Uno strano verso di stupore le sfuggì dalle labbra.

«Avete appena… Squittito, Principessa?», il Comandante l’aveva attirata a sé afferrandola per la vita. La testa piegata di lato, una punta di divertimento nello sguardo.

«No…», la voce le uscì in un sussurro. «No-no», si schiarì la gola, cercando di dissimulare l’imbarazzo. I suoi occhi evadevano disperati quelli dell’uomo che stava torreggiando su di lei.

«Come dite voi». Sîrfalas ritrasse la mano dopo averla rimessa in piedi. Non l’abbandonò però con lo sguardo. Lothíriel deglutì, sapeva di avere un aspetto a dir poco inadeguato, poteva sentire i capelli appiccicarsi alla fronte ad ogni movimento della testa. Non era di certo preparata a sottoporsi di nuovo a quegli occhi vigili. Troppo presto, una voce nella sua testa continuava a ricordarle, l’aveva rincontrato troppo presto.

La sensazione di un pezzo di stoffa che veniva tamponato contro la sua fronte la riscosse dagli affannosi pensieri. Il Comandante le stava asciugando il sudore con il suo fazzoletto, un’espressione neutra in volto. Quando terminò, le sollevò il mento tenendolo tra due dita, studiandola qualche istante con un accenno di sorriso nascosto in un angolo della bocca. La Principessa si costrinse ad alzare lo sguardo. Non lo aveva mai guardato così da vicino prima di allora. La mandibola decisa, la rasatura impeccabile, la pelle ambrata. E gli occhi taglienti e chiari resi ancora più intensi dalle folte ciglia. Lo aveva notato anche durante il loro pranzo, ma il Comandante era innegabilmente un bell’uomo.

«Vi-vi-…», sentiva la gola stretta e tesa, «Vi ringrazio, Comandante». Distolse gli occhi, incapace di sostenere oltre lo sguardo dell’uomo.

«Verso dove stavate barcollando, se mi è dato saperlo?».

«Alla tintoria, io- Io volevo solo arrivare alla tintoria. Laggiù. La-la mia dama di compagnia sa di… di trovarmi lì. Sta arrivando, comunque. E sono stata accompagnata fino a poco fa». La Principessa smise di parlare, in imbarazzo. Rivolse a se stessa molte parole e tutte poco gentili.

«Non dovete giustificarvi con me, Principessa. Come vedete, non ho séguito nemmeno io. Siamo in due ad essere in fallo. L’onore di entrambi è in serio pericolo», le rivolse un sorriso impudente. Per qualche motivo, il suo cervello registrò soltanto quanto fossero decisi i canini dell’uomo. Gli davano un aspetto felino. Lo assecondò ricambiandolo a sua volta con un esitante sorriso, nonostante le loro condizioni non fossero certo comparabili. C’era differenza tra come un uomo e una donna non sposati potessero muoversi.

«Voi cosa fate qui, alla cittadina bassa, Comandante?».

«Dubitate forse della casualità del nostro incontro?».

«No, io-», la ragazza scosse la testa, «Non intendevo-».

Di fronte al suo farfugliare, il sorriso dell’uomo si era allargato. «Mi stavo solo prendendo gioco di voi», la fermò, «Sono qui per affari. Sapete, gli armatori sono una razza particolare di uomini. Sembrano non essere in grado di stipulare un accordo se non hanno sott’occhio le loro navi. Se vi foste mai chiesta perché la Casa delle Corporazioni è stata eretta sul porto…». Le porse un braccio, «Ma ho stretto mani e firmato carte a sufficienza, vi accompagno alla tintoria».

L’espressione della Principessa non dovette essere di difficile lettura, «Siamo in pubblico. Non ci saranno problemi», la rassicurò, quasi ammiccante.

Lothíriel si guardò attorno aspettandosi che Thïria e la sua divisa azzurra sbucassero provvidenziali da in mezzo la folla. Di fronte a quella mancata apparizione, non poté che accettare il braccio che le veniva offerto. Ad ogni passo, un nuovo paio di occhi curiosi andava a sommarsi ai precedenti. I passanti rallentavano o si fermavano a guardarli, scambiandosi bisbigli e sguardi loquaci, facendosi da parte con profondi inchini. Era quanto di più simile ad un incubo la Principessa avrebbe potuto immaginare. Il colpo di coda le fu inflitto a tradimento dalla sua stessa caviglia; un piede appoggiato male e l’unico ostacolo tra la sua fronte e il selciato fu il suo accompagnatore.

Il braccio di Sîrfalas la mantenne in piedi, di nuovo. «Apparite piuttosto sottovento, Principessa. Non vi starete affaticando troppo con le vostre cavalcate?».

La ragazza sollevò gli occhi nei suoi. Il cavallo. Il dono di Re Éomer. L’argomento di cui avrebbe volentieri fatto a meno di parlare con il Comandante, che ora la stava guardando con l’abituale espressione neutra in volto. Nei suoi occhi, latente, un'astuzia vigile e sottile.

«Non ho intenzione di chiedervelo. Non temete», il Comandate riportò lo sguardo davanti a sé.

«Già s-sapete?».

«Principessa, siete a conoscenza di quali faccende mi occupo?».

Eccolo, riaffiorava – se n’era quasi riuscita a dimenticare – il familiare senso di disorientamento che provava nel parlare con un uomo come lui, che sollevava argini, deviava la conversazione a piacimento, per farla poi convogliare esattamente dove gli era utile. «Siete… Siete Ammiraglio Comandante delle flotte di mio padre». La sua risposta era quantomeno riduttiva, ne era consapevole. I suoi incarichi militari spaziavano dall’Accademia al consiglio disciplinare. Ed era certa che l’uomo amministrasse le proprietà della sua famiglia, i terreni, le attività commerciali; aveva colto conversazioni sparse a riguardo.

«Certo, ma delle mie mansioni, di ciò che faccio giorno per giorno, avete formato un’idea?».

«Se mi state chiedendo della vostra posizione in Consiglio, io non… io non sono m-molto versata-».

«No di certo», poteva sentire quanto fosse intrattenuto a quell’idea, «So che quelle politiche sono questioni che esulano dal vostro reame di interesse. Vi stavo domandando se sapeste cosa faccio per vostro fratello. Fuori da Palazzo, intendo».

«N-no…».

«Valuto. Gli affari, i rischi, ciò che muove le persone. E avanzo previsioni. È un incarico ancora meno accattivante di quanto non suoni. Ma di certo allena lo sguardo di un uomo, per non dire il suo intuito, non concordate? Anche se trovo che parlare di intuito…», l’uomo fece schioccare la lingua, «Sia inaccurato. Volgare, quasi. Le mie sono inferenze. Quando dico inferenza, sapete a cosa mi riferisco?».

«Sì». La risposte le uscì più asciutta di quanto avesse inteso fare. Qualcosa nel tono paternalistico del Comandante le stava mandando piccole, mordenti scariche elettriche lungo la spina dorsale.
 

L’uomo le rivolse un sorriso che a lei sembrò ancora più condiscendente della sua voce. «E in questo caso qual è la vostra, di inferenza? Qual è la vostra conclusione logica?».

«Perciò ora me lo state domandando?».

«Divertente», il Comandante fermò il suo passo per guardarla. «Siete una persona divertente, sapete? Sembrerebbe così, ve lo sto domandando. Voi cosa farete? Eluderete oltre?».

Lothíriel ispirò profondamente, imponendosi di fare uscire le parole senza tentennamenti. «Credo si tratti di un equivoco, non potrebbe essere altrimenti. E uno di quelli fortunati, se penso esclusivamente a ciò che ho acquisito. Immagino fosse un dono rivolto più a mio padre, che a me».

«Mmh…», il Comandante continuava ad osservarla, immobile, la testa piegata di lato. «Siamo giunti a conclusioni simili, allora», riprese finalmente a passeggiare. «Nel mio incarico ciò che è ancora più importante, è il regime da adottare dopo aver avanzato delle inferenze. Ebbene, per quale strategia credete io abbia optato?».

«Voi fate progredire sempre le vostre conversazioni per domande?». Era riuscita a parlare senza farfugliare, ma la sua voce era stata elusiva quanto il suo sguardo. Continuava a contare con gli occhi le navi attraccate al porto come se la sua vita fosse dipesa da questo.

Un altro sbuffo divertito. «Vi infastidisce forse, questo mio modo di fare?».

«N-no. Mi perdonerete però se vi confesso che mi mette a disagio non sapere se state solo adeguando le vostre risposte alle mie».

«Solo uno sciocco non lo farebbe, non trovate?», questa volta l’uomo rise apertamente. «Affascinante…», fermò nuovamente il passo e strinse il braccio al corpo, ottenendo tutta l’attenzione della giovane. Avvicinò il volto al suo, «Se continuate così, Principessa, rischiate seriamente di far nascere dei sentimenti nel vostro pretendente». Fece una pausa, che lei non riempì. «Torniamo alla domanda che avete aggirato».

«Non mi è dato sapere co-come abbiate deciso di comportarvi in… in merito».

«Lasciate che ve lo dica io, dunque. Ritengo che non sia un rischio tale da dovermene preoccupare. Siete stata a me promessa e un regalo, sconveniente per giunta, non è sintomo di altro se non delle cattive maniere del suo mittente. Come vi fa sentire questo?».

Formulare una risposta adeguata in quel momento le sembrò quanto di più irrealizzabile. Non c’era altro che pulsasse nelle sue tempie eccetto il martellante desiderio di sottrarsi a quella conversazione. E a quello sguardo indagatore che la faceva sentire piccola, impotente. Non riuscì a fare a meno di lanciare un’occhiata verso la tintoria, che non avevano ancora raggiunto.

«Vi ho messa a disagio?».

«No», rispose velocemente, riportando gli occhi a lui. Colse distrattamente uno spostamento tra i passanti, qualcosa color fiordaliso si stava muovendo ai margini del suo campo visivo. «Comandante, n-non sono accompagnata, come potete vedere. Credo abbiamo passeggiato insieme più a lungo di quanto fosse opportuno. Se-se me lo permettete, ora…». Fu lieta di sfilare il braccio da quello dell’uomo, mentre salutava Thïria con un cenno. Riservò un inchino anche al Comandante.

«So che siete avida di informazioni». La voce pacata dell’uomo la fermò ad appena due passi di distanza. Era sicura che i suoi occhi confusi fossero stati sufficientemente loquaci, perché continuò, «La vostra dama di compagnia… Thïria, così si chiama, giusto? Vi è molto fedele. Ha solo peccato di troppo zelo nel raccogliere certe notizie per voi, null’altro. Un’innocua domanda rivolta alla persona sbagliata, e io ne sono venuto a conoscenza. A vostro fratello è sfuggito, se questo può esservi di conforto». Lentamente, Sîrfalas aveva compensato la distanza tra di loro. Sul suo viso non era difficile scorgere il compiacimento nell’avere in pugno il suo interlocutore. «Di informazioni, io, ne ho. Anche per voi, Principessa. Vorreste sentirle o sarebbe troppo inopportuno continuare a parlare con me?».

Mentre era lì, immobile, affannandosi in silenzio a formulare una risposta, Lothíriel avrebbe soltanto voluto avere la prontezza di spirito per riuscire a reagire, controbattere con qualcosa di altrettanto sagace o pungente. O, perlomeno, riuscire a mascherare meglio la sua curiosità. Fu il Comandante a mettere fine alla sua muta agonia.

«Due giorni. Due giorni e tre notti, per essere precisi. Questo il tempo prima della partenza di vostro padre e dei vostri fratelli».

Oh. Il cuore prese a martellarle contro lo sterno. Non aveva idea che la partenza fosse così imminente. Nessuno l’aveva informata.

«Perché me lo state dicendo?».

«Fiducia per fiducia, Principessa. Fiducia per fiducia. D’altra parte non vi nascondo che preferirei di gran lunga vedervi struggere per i vostri cari che in sella a quel cavallo del Nord. Lo avete testato a sufficienza negli scorsi giorni, non trovate? Ora potrebbe essere il momento di concedergli un po’ di riposo».

«Principessa, dobbiamo rientrare per il pranzo», Thïria si era fatta avanti con esitazione.

«Gra-grazie», Lothíriel ringraziò l’uomo.

«Dovere», le rispose con tutta l’aria che fosse invece stato un piacere.



15 ottobre 3019, Terza Era
Cancelli della città, Dol Amroth, Gondor

108 miglia a sud-ovest


                                         Le ombre ai piedi delle mura cittadine si allungavano sotto la cintura di ulivi giganti che circondavano Dol Amroth. Il sole non era ancora visibile sopra la linea dell’orizzonte e il cielo era insolitamente fumoso per essere un’alba battuta dal vento. C’era una coltre di silenzio che pesava sopra i soldati dispiegati ai due lati della via principale e che rendeva tutto innaturalmente immobile.

Sotto ai grandi Cancelli, la Principessa si strinse nel mantello. In quel silenzio stava faticando a respirare. «Stanno tardando», sussurrò.

«Il passaggio di consegne a Palazzo. Dev’essere per quello», Amrothos, accanto a lei, le rispose senza guardarla. I suoi occhi vagavano nervosamente davanti a sé, saltellando tra le fila di uomini di fronte a loro.

«Tu non avresti dovuto presenziare?».

«E tu?», chiese premendo una spalla contro quella della sorella. Si scambiarono un’occhiata e tornarono entrambi a guardare la via. «Allora siamo d’accordo».

Sopra le loro teste, il guardiano dei Cancelli suonò il corno, allertando i presenti dell’arrivo del Principe. Il petto di Lothíriel tremò e si caricò di tutta l’angoscia fino ad allora subdolamente latente. Inspirò, espirò ed inspirò di nuovo, come meglio riusciva, lasciando che l’aria fresca le pizzicasse la gola. Inesorabile, lo scalpitio di zoccoli si stava avvicinando a loro. Vide finalmente comparire il padre e i due fratelli maggiori, in sella a cavalli splendidamente bardati, alla guida del loro séguito di ufficiali. Gli stendardi del principato ancora non dispiegati. Smontarono appena fuori dalle mura.

Erchion andò ad afferrare Amrothos per le spalle, che intrecciò le braccia alle sue. Due larghi sorrisi goliardici sui loro volti. «Ma guardati», il Secondogenito esaminava con sfacciata incredulità la divisa formale dell’altro.

«Guardati tu». Il minore fece un cerimonioso inchino con la testa, «Capo della cavalleria», lo salutò.

«Capo della guarnigione», Erchion ricambiò con la stessa energia.

La Principessa si era avvicinata al padre, che stava allungando il collo alla ricerca di qualcuno. «Elphir», si rivolse al figlio maggiore da loro poco distante, «Tua moglie e tuo figlio, non li vedo. Dove sono?».

«Ho preso commiato da loro alla Residenza».

«Io non ho avuto modo di salutarli», un velo di delusione nella sua voce, «Credevo sarebbero stati qui. Se lo avessi saputo prima…».

Il Primogenito attraversò il padre con lo sguardo, come se non fosse stato a un passo di distanza. «Qui fa freddo», fu tutto ciò che disse, incolore. Poi rivolse la sua attenzione altrove.

Il padre guardò allora la figlia, che si fece avanti. Prese le mani di lei nelle sue. «Iriel cara, è giunto il momento di salutarci».

Gli occhi della ragazza elusero quelli dell’uomo. «Questi adii, non mi piacciono...».

«Ma non ti dirò addio, come non te lo dissi prima di partire per Minas Tirith». Chinò la testa per incontrare il suo sguardo, «È mai successo che non fossi tornato da te?».

Lei si limitò a scuotere la testa.

«Figlia mia…», Imrahil iniziò a congedarsi.

Prima che potesse dire altro, gli circondò il petto con le braccia. Era più facile così. «Porterò io i tuoi saluti ad Alphros*¹», gli sussurrò con la guancia premuta contro l’armatura, «Ti manderò anche i suoi disegni, con le mie lettere. E tu dovrai conservarli tutti, senza eccezioni. Anche quelli con le barche piccoline e la matassa di onde per il resto della carta. E… E dovrai rispondere. Sempre. Dovunque ti troverai, do-dovrai rispondere».

Sentì il padre appoggiarle il mento sulla testa. «Ricevuto», le bisbigliò.

Quando sciolsero l’abbraccio, Lothíriel gli rivolse un ultimo, incerto sorriso. Meno convincente e più tremolante di quanto avesse sperato. Premette le labbra in una linea. Si guardò attorno ed Amrothos ed Erchion sembrava si stessero ancora scambiando smancerie, burlandosi a turno della divisa da cerimonia dell’altro. Erano ora passati agli stivali. Spostò gli occhi sul fratello maggiore. «Elphir…», cercò la sua attenzione.

Il Primogenito spostò gli occhi su di lei. Tentò un timido sorriso in sua direzione, ma non venne ricambiata se non con un sopracciglio inarcato. «Sono… Sono certa che tu non abbia bisogno delle mie raccomandazioni, fratello. M-ma stai attento sul… sul campo. E- e fuori. Riguardati».

La differenza d’altezza tra i due non era d’aiuto nel non farla sentire guardata dall’alto verso il basso. Se il viso del fratello fosse stato capace di assumere espressioni, ne era sicura, ce ne sarebbe stata una di disprezzo.

«Sì», fu l’unica risposta.

«Tocca a me chiudere le danze, prima che il sole ci sorprenda tutti ancora qui». Erchion era accanto a loro, «Iri», aprì le braccia per accogliere la sorella. «Qualsiasi cosa ti abbia detto Elphir, ti do ufficialmente il permesso di fare il contrario», le parlò contro l’orecchio, «È sufficiente – non trascurare questa parte che è la più importante – che tu faccia ricadere la colpa su Amrothos». Si separarono, ma il fratello continuò a guardarla tenendola per le spalle. Era chiaro che stesse assorbendo il suo viso. «Non fateci preoccupare, intesi? Sia tu che testa calda, laggiù».

«Ehi», un lamento proveniente dalle loro spalle.

«Voi ricambierete la cortesia?», gli domandò lei.

Il Secondogenito espirò rumorosamente dal naso. «Dubiti di me solo perché non mi hai mai visto sul campo, sorella. L’ultima volta te l’ho riportato, nostro padre, non è forse così?», aggiunse con un mezzo sorriso.

Lothíriel guardò i fratelli e il padre rimontare in sella e portarsi alla guida dell’avanguardia. Con la città non ancora del tutto sveglia, l’esercito del Dor-en-Ernil si mise in viaggio. La Principessa e il Terzogenito rimasero fermi davanti ai Cancelli fino a quando non riuscirono ad udire altro che il fruscio del vento tra le chiome degli ulivi.

«Se la caveranno», Amrothos sospirò, «E anche noi, gambe di gelatina, ce la caveremo».

 


Note dell’autrice
• Potrei essere stata convinta di aver pubblicato questo capitolo più di 10 giorni fa. Senza però averne finalizzato il caricamento. Accoglierò tutti i pomodori a me riservati con umiltà e gratitudine.

            *¹ Alphros, dal Sindarin alph (cigno) + ross (schiuma). Personaggio dei libri, nato a Dol Amroth nel 3017 della Terza Era, figlio del Principe Elphir.

• Dopo due capitoli interamente ambientati a Dol Amroth, Re Éomer dovrebbe avere finalmente coperto 430 (noiosissime) miglia a cavallo. Ora che le forze alleate si ricongiungeranno nel Lebennin, sarà più facile portare avanti la narrazione a due piani.

• Volevo ringraziare le coraggiose recensitrici che affrontano ogni mese il mio fiume di parole. Grazie! Non per ultimo, per la vostra pazienza.
Razaghena
Riassunto Capitolo 5 Il Principe Erchion e il padre, perplessi, discutono di come interpretare il regalo inviato da Rohan. Interrompere il fidanzamento di Lothíriel con il Comandante Sîrfalas è fuori discussione, tanto più che quest’ultimo è un importante alleato politico del Principe Elphir.
Dall’altra parte della città, Lothíriel, di ritorno da una cavalcata, s’imbatte nel Comandante. Passeggiano insieme; l’uomo ostenta il suo disinteresse rispetto la faccenda del cavallo e la informa della data di partenza prevista per la guerra. La Principessa ne era stata tenuta fino ad allora all’oscuro.
Pochi giorni dopo, Lothíriel e Amrothos si congedano sotto le mura della città dal padre e dai due fratelli maggiori. Le truppe di Dol Amroth partono alla volta dell’accampamento nel Lebennin.

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