Julie

di Just_Megamat
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Atto Primo ***
Capitolo 2: *** Atto Secondo ***
Capitolo 3: *** Atto Finale ***



Capitolo 1
*** Atto Primo ***


Era un cheto pomeriggio d'estate di parecchi anni fa. Ero un pargolo, ai tempi: avrò avuto dodici anni o giù di lì. Passavo il tempo in veranda, sfogliando una vecchia raccolta di poesie che da decenni mio padre conservava nella sua biblioteca. Il sole irradiava da lassù, trasformando l'aria attorno in una torrida fornace, e le cicale frinivano a bizzeffe sui fusti degli alberi quando d'un tratto sentii un suono fuori posto: un frusciare di frasche proveniente dalla verde siepe che cingeva le mura della villa. Incuriosito, abbandonai la lettura di quel vecchio libro e lo chiusi portandolo con me, senza scordare di infilare un dito fra le pagine per non perdere il segno. Approcciai l'alta siepe con indosso le braghe e la camicia bianca, e intanto il fruscio si univa al rumore dei passi che pestavano l'erba del giardino. Cos'era mai? Uno scoiattolo esploratore, un passero viandante? Non lo sapevo, ma ero certo che si trattasse di qualcosa che non potevo mancare di vedere. Rivolsi lo sguardo alla cima della siepe, e proprio lì vidi un braccio minuto avvinghiarsi con vigore. Poi un altro, e poi una gamba. Infine, quel che ne sbucò fu una creatura splendida: un'esile ragazza dalla pelle chiara come il sole e i capelli del colore del cioccolato fondente, che dall'alto scrutava i dintorni con i suoi occhi del colore del mare. Ad occhio e croce, aveva due o tre anni in più di me. Non era una nobile, senza ombra di dubbio: aveva il viso sporco di terra, o solo Dio sa cos'altro, le vesti che indossava erano tutte sgualcite e quelli che portava ai piedi non potevano definirsi stivali. Eppure mi affascinò, mi rapì dal primo istante. Quando mi notò ai piedi della siepe, fece per fuggire via ma notando la mia attitudine si ricredette.

«Shh!!», mi fece da lassù, con il dito sulle labbra.

Sussultai, ma non mi allarmai. La fanciulla si calò dalla cima come si era inerpicarta, poi atterrò sul prato della villa e la prima cosa che fece fu esaminarmi da testa a piedi. Quando prese a guardarsi attorno, quasi fosse una ladra in cerca di sguardi indiscreti, mi rivolsi a lei in un saluto.

«Voi chi siete?».

«Voi?». Trasalì e si guardò alle spalle. «Ah, intendi "voi" nel senso ...».

Quella sua voce era così bella. Una dolce melodia che mi cullava. Ella posò quegli entusiasmanti occhi blu sulla raccolta di poesie che tenevo in mano, poi la indicò e l'unghia del suo dito indice era tutta nera. Mi preoccupai all'idea che potesse farle male.

«Quel libro ...», principiò ambigua. «Quanto vale? Cioè, quanto è importante?».

E io, traboccante d'orgoglio, le dissi: «È molto importante! È un pezzo della collezione privata di mio padre, un vero gioiello!».

«Ma non mi dire!», esclamò. «Lo prendo io, se non ti dispiace ...».

E con un'abilità estrema, fu in grado di strapparmelo di mano in un istante. Prese a sfogliarlo per conto suo, rigirandoselo fra le mani con scarsa premura, perciò mi spaventai.

«Fate attenzione!», la pregai. «È assai delicato, potrebbe rompersi! Inoltre appartiene a mio padre, non posso darlo a Voi!».

«Ah, ma ... È tuo padre che mi manda!».

Al che sbarrai gli occhi: «Vi ... Vi manda mio padre?».

«Sì sì!», confermò suggestiva. «Adesso lui è fuori, no? Mi manda perché gli servono alcune cose e vuole che io gliele porti!».

Quella storia era campata per aria, non era assolutamente credibile ... Eppure io, ammaliato dal suo carisma, le credetti.

«M-ma perché mai avete scalato la siepe, se le cose stanno così?», le chiesi impensierito. «Avreste potuto presentarVi ai cancelli, Vi avrebbero fatta entrare!».

Ma lei sospirò e guardò al cielo: «Senti, ero di fretta e non mi andava di fare il giro, tutto qui». Poi, nel guardarmi, si lasciò scappare un sorriso. «Piuttosto, hai altre cose "importanti" qui?».

«... Oh, certo!», mi irrigidii. «Di là, sotto quell'albero, c'è uno stagno zeppo di pesci e di ninfee!».

«N-no, non hai capito: intendo cose più ... maneggevoli», specificò. «Tuo padre cerca quelle, tesoro».

E quando mi nominò "tesoro", potei sentire il cuore dimenarsi nel mio minuscolo petto come fa un puledro quando scalcia. La fissavo che, mentre mi parlava, si lisciava i capelli con una delle mani, e sebbene fossero tutti sporchi e scompigliati ai miei occhi erano meravigliosi.

«V-venite, allora!», la invitai indicandole la veranda. «Vi mostrerò tutta la villa, ogni singola stanza!».

E detto ciò, le tesi la mano in segno di accompagnamento. E lei ridacchiò. Uno di quei risoli sconcertati, che diceva "Non ci credo, lo sta facendo davvero!" ... Eppure io fui accecato.

«Ma che signorino educato!», evidenziò accettando l'invito.

Avvicinò le dita al mio palmo ed esse erano ruvide e aguzze, ma io le percepii come morbide e sinuose. Permisi a quella malvivente efferata, quella sirena ammaliatrice, di girovagare per tutta quanta la villa sotto la mia impeccabile guida, e lasciai che si intascasse qualsiasi oggetto di valore fosse capace di contenere la sacca che portava con sé, alla quale io non feci caso perché ero troppo occupato a bearmi della sua bellezza. Monete, gioielli, stoffe preziose ... Portò via ogni cosa.
E fu solo quando la sua accortezza vacillò che una delle domestiche della casa la vide e si insospettì, perché quella ragazza fu furba al punto da indurmi a fare in modo che gli altri non la vedessero, convivendomi che anche quello era il volere di mio padre. Quando fu scoperta, mi prese per un braccio e insieme a me sfrecciò per i corridoi in vista dell'uscita. Raggiunta la veranda, corse con me ai piedi della siepe e in un misto di adrenalina e gioia, quella splendida ladra trovò il tempo di farmi un gran sorriso, di ringraziarmi e perfino di regalarmi ciò che, una volta per tutte, mi fece innamorare di lei: un bacio. Un bacio frivolo, senza traccia alcuna di amore, che mi diede strizzandomi le guance come si fa con un neonato quando si dimostra adorabile. Un bacio di cui, nonostante ciò, tutt'oggi ho viva memoria.
Dopodiché si inerpicò agilmente sulla parete di foglie e rami, scomparendo in breve oltre le mura. E non la rividi più ... Almeno, non prima di questi dieci anni.

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Capitolo 2
*** Atto Secondo ***


Il fiato corto, la postura poco ortodossa, il colletto della camicia stropicciato sotto quello della giacca. A distanza di dieci anni, nella medesima città in cui ci incontrammo la prima volta, sono finalmente riuscito a ritrovare la mia fatale amata.
E si trova qui ... in prigione ... e le è stata comminata la condanna a morte.
La malavita l'ha trascinata via via in un turbine senza fine di disgrazie, fino a condurla al punto di non ritorno. Setaccio le carceri da quando la mia posizione di diplomatico me lo consente, sempre in cerca di una donna che possa combaciare con la sua descrizione, perché se c'è un posto in cui è quasi certo trovare una malavitosa, prima o dopo, quello non può che essere una prigione. E stamane, un mio aggancio nella magistratura mi ha avvisato di tale caso. Pensavo si trattasse dell'ennesimo falso allarme, e invece ... È proprio lei.
Ho chiesto, anzi ho preteso, di avere un colloquio con lei. Perché forse, e dico forse, v'è una maniera di strapparla alla morte ... Ma non potrò costringerla, se non vorrà ... Sarà dipeso unicamente da lei.
Faccio il mio ingresso nella cella dove è stato allestito il colloquio. Il cuore mi rimbalza in gola. Lì dentro, legata ad una malconcia sedia davanti a un tavolo sporco di solo Dio sa cosa, appare quella donna di dieci anni or sono. Più grande, più forte, e nonostante tutti i malanni più o meno visibili sul suo corpo, più bella. Tanto più bella. Ora i capelli suoi sono più voluminosi, più robusti; gli occhi che veste ricordano ancora il mare più blu, sebbene ora paiano in burrasca; il corpo suo ha assunto le forme e le sembianze di quello di una vera donna, pur essendosi le ferite e gli acciacchi moltiplicati. È lontana dalla fanciulla che vive nei miei ricordi ... Ma è lei, non vi è dubbio alcuno.
Mi accomodo sulla seduta di fronte, e intanto lei mi penetra con quel suo sguardo fulminante. Quanto pagherei per vedere un suo sorriso ... Ma non credo accadrà facilmente: da adulti si sorride un poco di meno.

«Chi sei?», attacca ostile. «Non ti conosco, perché mi hai voluta vedere?».

Anche la voce è la stessa. Più rauca, forse; probabilmente fuma o è una conseguenza del suo stile di vita. E da come parla, oserei dire che non si ricorda di me ...

«Proprio non ricordate ...?», dissi nel tentativo di stimolare la sua memoria. «Io e Voi ci incontrammo dieci anni fa, la prima volta. Commetteste una rapina in una villa della città, una cinta da una siepe verde, e lì trovaste un fanciullo che foste in grado di raggirare ...».

A tal punto, il suo sguardo assume una tonalità nuova: «... Non può essere vero ...».

«Ebbene sì», la incalzo. «Colui ero io».

Non saprei descrivere la sua espressione attuale. È un misto di incredulità, di rabbia e di rassegnazione. Non esiste un termine per definirla correttamente.

«Sul serio?!», sbotta sconcertata. «Mi prendi in giro?! Cos'è, sei qui per vendicarti di quel giorno?!».

«Non è così che stanno le cose ...».

«Allora che vuoi?!», sbraita. «La mia vita è già uno schifo così, non voglio altre seccature!».

La sua ira mi intimidisce al punto che mi riesce difficile mantenere il sangue freddo.

«Porto buone notizie, non Vi adiriate», tento di placarla. «Son qui per dirVi che esiste un modo per evitare la pena di morte che Vi spetta ...».

La donna aggrotta la fronte e immediatamente si quieta.

«Hai voglia di scherzare?».

«Giuocare non è cosa mia», la ragguaglio.

«... Okay, e cosa vuoi?», taglia corto. «Una soffiata? Una fetta delle rapine?».

Scuoto il capo.

«Vuoi ... quello ...? Per forza ...?».

Al che rimango impassibile.

«N-no, aspetta, non lo voglio fare ...!».

Davanti a me, visibilmente turbata, la detenuta si divincola nelle corde che la legano alla seduta e, quando mi alzo dalla mia, ella prende a digrignare i denti ed evita di incrociare il mio sguardo. La raggiungo dall'altro capo del tavolo mentre grida "Non mi toccare! Preferisco morire!"; mi posizionò di fianco a lei e mi accovaccio per arrivarle all'altezza del corpo. Senza fretta, infilo una mano nella tasca interna della giacca e ne tiro fuori una pugnale affilato; avvicino la lama a una delle mani della donna e per prima cosa ... lacerò le corde che ne tengono legato il polso, e la stessa sorte attende quelle all'altra mano e quelle alle caviglie.
Allora smette di gridare, ma non accenna a distendere i nervi, come se da un momento all'altro potessi ghermirla per il busto e scaraventarla sul tavolo, come farebbe un barbaro o un animale che si butta su una preda per mangiarla. Tuttavia, quando mi vede allontanarmi, abbassa finalmente la guardia in un misto di sollievo e spaesamento.

«C-cosa?», tentenna. «Q-quindi non volevi ...?».

«Offendete il mio buon nome», le faccio presente con la dovuta calma. «Sono un gentiluomo. Mai mi approfitterei di una donna ...».

Mani congiunte dietro la schiena, faccio ritorno alla mia seduta e intanto lei si massaggia i polsi per mitigarne il dolore. Dovevano averle strette forte, quelle corde ...

«È difficile trovare un gentiluomo che lo sia di nome e di fatto ...», commenta. «E non so perché, ma non mi sembra strano che tu lo sei veramente ...».

Scelgo di non rispondere. Preferisco invece concentrarmi su come porre quel che le dovrò dire di qui in avanti.

Le miro gli occhi: «Ditemi ... Ho avuto modo di meritarmi la Vostra fiducia?».

«Dimmi perché lo stai facendo. Forse allora mi fiderò ...».

Quel suo sguardo agguerrito, diffidente, deliziosamente suggestivo ... Ora rimembro bene come mai, quel giorno di dieci anni fa, mi ero invaghito così tanto di lei. Ma che dico "invaghito"? Se ho rischiato così tanto solo per lei, quest'oggi, se mi sono esposto tanto per strapparla al braccio della giustizia che inevitabilmente l'avrebbe condotta a morte certa ...

«... È perché sono innamorato di Voi».

È la mia dichiarazione d'amore. La prima in assoluto che abbia mai fatto ad una donna. È speciale. La malvivente mi lancia sguardi a metà fra l'incomprensione e l'imbarazzo, poi realizza che potrebbe trattarsi di un gioco e allora sorride.

«S-stai scherzando ...?». E quasi scoppia a ridere, ma a guardare meglio la mia espressione deve aver capito che non è la mossa migliore. «No ...?», fa confusa. «E ... da quando lo saresti?».

Il suo tono di voce è disagiato, come di una persona che si trova costretta a fare i conti con uno spasimante noioso. Una volta non lo avrei intuito, ma ad oggi ...

«Dal nostro primo incontro», le rispondo.

«Ah ...», bofonchia allibita. «Cioè, una ti prende in giro, ti svaligia casa e tu ... te ne innamori?».

A quella sua domanda retorica, sbuffo indispettito.

«Pensavo di averti fatto fesso perché eri un bambino, ma inizio a pensare che il tuo problema non era quello ...».

«Ascoltate!», la interrompo. «Ho la facoltà di farVi uscire di qui ... Mi darete ascolto?».

Esitante, la donna si lascia andare ad un sospiro: «Okay, dov'è la fregatura ...?».

Non so se "fregatura" sia la maniera più corretta per definire la mia proposta. Anche se, dal suo punto di vista, potrebbe darsi ...

«Siate sincera ... Voi siete felice?».

La donna vicilla un poco: «In che senso?».

«Vi piace la vita che conducete ...?».

«... Hai voglia di scherzare?», ribatte lei offesa. «La vita nei sobborghi fa schifo! È tutta malattie, fame e paura che qualcuno ti tagli la gola da un momento all'altro!».

«Se le cose stanno così!», la incalzo passionale, «... Allora venite con me ...».

Alla proposta, la ladra non può altro che guardarsi attorno, come se il luogo in questione potesse trovarsi vicino: «... Dove, scusa?», chiede in una smorfia.

«Alla mia dimora ... Diveniate mia sposa!».

E ancora una volta, la lasciò sbigottita, senza parole. Ma non mi sentirei di dire che sia stupore indotto dal fascino, il suo: pare più lo scalpore di chi si sente dire qualcosa di inconcepibile.

«C-cioè, fai sul serio?!», sbotta.

«Giuocare non è cosa mia», ribadisco.

«E magari abiti ancora nella villa che ho svaligiato quel giorno, vero?!».

«Sì, e con questo?».

«Oh, Santo Iddio, ma lo senti!?», prende a schiamazzare teatralmente. «Cos'è questa, una favoletta a lieto fine?! Lettore, se ci sei batti un colpo!».

La fisso seccato: «Traboccate di fantasia, Ve lo concedo ... Ma il sottoscritto nutre genuinamente la volontà di salvarVi dal patibolo, e si dà il caso che l'unica soluzione in mio potere sia quella di sposarVi, così da trasmetterVi l'immunità diplomatica di cui io stesso godo».

«Spiegalo nella mia lingua», brontola lei.

«Se diverrete mia moglie, Vi sarà ritirata ogni accusa. Sarete intoccabile», gliela faccio semplice. «Mi rendo conto che tale condizione possa parere un bieco ricatto, ma Vi giuro su Dio che non ho pensato ad altre donne all'infuori di Voi per tutta la vita. E che il mio solo ed unico interesse è quello di salvarVi ... non di possederVi».

La donna ci pensa profondamente.

«... E se non accetto? Cosa farai?».

«Non esiterò ad attuare un disperato tentativo di farVi evadere, ma verremo inevitabilmente catturati e saremo entrambi destinati alla forca ...», le descrivo lo scenario più tragico. «C'è una sola via di fuga che assicuri ad ambedue la salvezza, ed è venir scarcerata dichiarandoVi mia promessa sposa ...».

Finalmente, la condannata a morte sembra dare i primi segni di condiscendenza. Tuttavia, non sembra ancora del tutto convinta.

«Non Vi sto chiedendo di amarmi», tento di rasserenarla. «Sarebbe arrogante e pretenzioso, da parte mia. Quel che Vi esorto a fare, Buon Dio, e di non gettare al vento la Vostra vita ...».

Non pensavo che questo giorno sarebbe mai arrivato. Quello del nostro ricongiungimento, intendo. E mai mi sarei sognato che una mia eventuale proposta di matrimonio si potesse porre in una tale occasione. Ho scoperto solo una manciata di ore addietro che la mia fatale amata si trovava qui, destinata a morire appesa a un cappio, e tutto quel che ho fatto è stato farmi venire in mente un metodo per sottrarla ai boia ... E sebbene sia tutto così avventato, questa è veramente l'unica possibilità in mio potere.
La donna è combattuta: guarda prima me, poi l'insuperabile porta di ferro della stanza degli interrogatori, poi ancora si guarda le mani e guadagna tempo. Non vuole dire di sì, ma sa che è l'unico modo.

«... Va bene ...», crolla infine. «Lo farò ...».

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Capitolo 3
*** Atto Finale ***


E così, sono riuscito finalmente a convincerla.
L'ho scortata fuori dalla camera blindata, poi per i corridoi del carcere, e infine ai tanto bramati portoni d'uscita. E nessuno ha osato ostacolarci perché, in meno di mezz'ora, ella era mutata da "criminale efferata condannata a morte" a "candida promessa sposa del diplomatico".
Fuori ci stava attendendo una carrozza e il cocchiere, paziente, stava boccheggiando tabacco da una pipa quando lo abbiamo avvisato della nostra imminente partenza.
Abbiamo abbandonato così la sede della prigione, poi siamo passati per il centro cittadino e, infine, abbiamo viaggiato fino alla familiare villa del nostro primo incontro, dall'altro capo della città. L'ho fatta accomodare nei saloni e nei giardini; le ho mostrato la biblioteca, le collezioni artistiche e il luogo esatto nel quale ci siamo incontrati dieci anni or sono; abbiamo mangiato, bevuto, e siamo rinsaviti.
... E in tutto questo, la mia futura consorte era completamente spaesata. Risaltava come una pecora nera in un gregge di bianche: quando le ho porto il braccio per accompagnarla fuori dalla cella, lei si è scansata come se si aspettasse una gomitata; quando ci siamo apprestati a montare in carrozza, non capiva come mai volessi far entrare lei per prima; quando siamo giunti alla villa e una delle domestiche si è proposta di depositarle il cappotto, lei l'ha aggredita quasi stesse tentando di rapinarla; quando si è fatta il bagno nella vasca, ha bagnato ovunque; e quando ci siamo seduti a tavola per cenare, la sua scarsa dimistichezza con le posate fu anch'essa palesata.
Ma non mi importa minimamente. Io provo amore per lei, come per i suoi difetti. E non posso biasimarla, se in un ambiente come questo si trova a disagio: lei questo stile di vita non l'ha mai condotto ...
Conclusa la cena, ella ha annunciato che si sarebbe ritirata in camera da letto per riposare un altro po'. Non ho voluto disturbarla. L'ho lasciata sola per qualche ora, trascorrendo il tempo leggendo un giornale di fronte al camino: dicono che la Campagna d'Italia, che ha avuto inizio sotto il comando del Condottiero Napoleone, sta andando a gonfie vele.
Tuttavia si è fatto tardi: è arrivato anche per me il momento di ritirarmi. Mi reco al piano superiore e apro la porta della camera da letto, ma vengo subito investito da un gelido vento.
La finestra è aperta, le tende scalpitano percosse dalla corrente d'aria.
E non vi è traccia di lei.
"Avrei dovuto immaginarlo ...", mi rinfaccio scosso. "È scappata ... Era ovvio che qui non si trovasse a suo agio ...". Fa freddo e l'istinto mi porta a chiudere le ante dell'infisso, ma quando mi trovo a passare di fianco al comò a sinistra del letto, noto una carta svolazzare nel vento, tenuta salda al piano dalla pressione di un candeliere. Incuriosito, mi siedo sul materasso e agguanto il piccolo foglio bianco.
Sopra v'è scritto qualcosa:

"caro gentiluomo

mi dispiace non posso restare, ti ringrazio di avermi salvato la vita ma io non sono fatta per queste cose, la mia vita è là fuori per le strade libera, io non ti posso dare l'amore che cerchi e non voglio mentirti dicendo che ti amo perché in fondo sei un uomo buono e non ti meriti le bugie, scusa anche per quella cosa di dieci anni fa l'ho fatto perché ne avevo bisogno non perché ce l'avevo con te o altro, non sono brava a scrivere spero che si legge tutto bene

ps, apri il cassetto

addio per sempre, Julie"

«Non è che non sei brava: sei un autentico disastro», dico fra me e me, stranamente divertito. «Quindi ti chiamavi Julie ... È il nome più dolce che abbia mai letto».

Perché mi sento così? Sono ... felice, per qualche ragione. Che sia perché, in cuor mio, so che questo non è il suo posto? Sarebbe come costringere una rondine in gabbia. "È giusto così", mi dico. "Le ho salvato la vita ... Mi basta questo ...".

«"Apri il cassetto", diceva ...?».

E così faccio. Avvolgo con la mano il primo pomello del comò in legno pregiato, tiro a me il cassetto e ciò che ne scaturisce è capace di scaldarmi il cuore e nel contempo farmelo piangere: è un vecchio libro rilegato in pelle, oramai tutto squinternato e mancante di alcune pagine. Lo riconoscerei fra mille, anzi fra un milione: è la vecchia raccolta di poesie che quel giorno mi venne da lei rubata. Decido di raccoglierla e di avvicinarla per metterla a fuoco, data la vista indebolita dal buio, ma nonostante la premura c'è il rischio che si strappi ad ogni mossa.
L'ha conservata davvero male ... Ma se l'ha tenuta con sé fino a questa notte, vuol dire che per lei aveva un certo valore. Chissà, forse sotto sotto a me è affezionata. E magari, un giorno, avrò la fortuna di incontrarla di nuovo ... Anche se non credo che potrà mai esserci un lieto fine ...

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