Sotto un cielo avverso

di Vika77
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Il campo di farfalle ***
Capitolo 2: *** 2. Una cattiva decisione ***
Capitolo 3: *** Betty ***



Capitolo 1
*** Il campo di farfalle ***


Disclaimer Disclaimer: Copyright 2022 Tutti i diritti sono riservati

Il campo di farfalle

 

Non l’ho capito finché non è successo e non ho volato. Proprio come una farfalla.

La mamma quel giorno non mi mandò a scuola, diversamente da mio fratello Luca. Mi domandai perché, ma non ebbi il coraggio di chiederlo ad alta voce. Negli ultimi tempi non mi piaceva restare a casa da solo con lei; era strana e piangeva all’improvviso. Pianse anche quella mattina; per tutto il tempo. I suoi occhi erano di nuovo arrossati e gonfi; mi facevano paura. Somigliavano a quelli del mostro sul fumetto di Riccardo. Quando lo dissi a papà, lui mi chiese di avere pazienza, che presto sarebbe andata meglio. Mi spiegò che la mamma era triste per la perdita della mia sorellina.  Solo una settimana prima la mamma era tornata dall’ospedale, ma Virginia non era più nella sua pancia.

“È per questo che piange”, pensai, ma ancora non mi spiegavo perché spesso si arrabbiava con me gridandomi contro. Come non capivo perché papà mi chiedeva di continuo di non farla arrabbiare. Ora l’ho capito!

Eppure quel giorno, credevo di essere stato buono!

Subito dopo pranzo, la mamma mi chiese di fare una passeggiata; la nostra casa era in campagna, tra grandi prati e un grazioso boschetto poco più su.

C’incamminammo e corsi subito pochi passi avanti a lei, stando attento a non allontanarmi troppo. Intanto che procedevo, iniziai a non riconoscere la strada. C’eravamo persi? Mi fermai a riflettere e mi tornò in mente che poco prima, la mamma mi aveva fatto svoltare a destra invece di continuare dritto.

«Dove stiamo andando mamma? Non conosco questa strada», chiesi avvicinandola.

«C’è un campo di fiori più avanti. Mi hanno detto che è pieno di farfalle. Pensavo ti sarebbe piaciuto vederlo.»

La notizia mi rese così felice! Avevo sempre amato le farfalle, non vedevo l’ora di arrivare e iniziai a saltare per la gioia. La presi per mano e la trascinai per un tratto di strada. Già mi vedevo correre nell’erba e tra le farfalle, con il sole a riscaldarmi la pelle e il vento ad asciugarmi il sudore.

Mi staccai da lei dopo poco. In lontananza intravedevo una nuvola scomposta muoversi sopra il prato. Feci per correre, ma le raccomandazioni di papà mi tornarono subito alla mente e mi fermai voltandomi a cercarla. Lei non c’era.

Mi colse la paura. Era già successo una volta; l’inverno appena trascorso. Io, mio fratello Luca e la mamma eravamo nel bosco per raccogliere la legna. All’improvviso ci accorgemmo di essere soli. Ricordo di aver pensato che sarei morto di paura. Continuavo a chiedere a mio fratello come saremmo tornati a casa e lui, mascherando la paura, rispondeva che avremmo trovato un modo.

Allora iniziammo a camminare, Luca mi teneva la mano stringendola di tanto in tanto per tranquillizzarmi. Alla fine raggiungemmo la strada principale. La signora Emilia, di ritorno dal lavoro, ci vide e ci diede un passaggio.

Una volta a casa, ebbi l’impressione che la mamma fosse sorpresa di vederci, ma non riuscii a chiedermi il perché; iniziò a sgridarci e a incolparci di esserci allontanati. Alla fine ci rinchiuse nello stanzino delle scope per punirci; fu papà a liberarci, di ritorno dal lavoro. Era già buio quando tornammo finalmente nelle nostre stanze.

In quel momento, in quel campo di farfalle, mi sentii come quel giorno: sperduto.

«Mamma!?»

La chiamai aspettando una risposta che però non arrivò. Continuai a chiamarla ancora e ancora, alzando la voce che iniziava a tremare.

«Ho solo otto anni», pensavo «non posso restare qui da solo. I cinghiali mi mangeranno e se non loro, lo faranno i mostri appena farà buio.»

Cercai di calmarmi ripensando a cosa avevo fatto di sbagliato per far scappare la mamma. Non farla arrabbiare, essere obbediente, non allontanarmi da casa, combattere la paura… «Se solo fosse facile! Io ho paura porca zozza e la mamma non ha bisogno di un motivo per arrabbiarsi», mi sfogai ad alta voce.

«Domenico!»

Mi voltai cercandola con gli occhi, incredulo nel sentire la sua voce. La vidi accanto a un grande albero; mi tendeva le mani.

«Non è come l’altra volta, non mi ha lasciato.»

«Guarda!», disse.

Seguii con lo sguardo la direzione della sua mano che indicava qualcosa e restai senza fiato quando le vidi.

C’erano farfalle che volavano per tutto il prato. Iniziai a correre felice, tutta la paura e la tristezza, svanite nel nulla; e non era per le farfalle, era per la mamma.

Corsi ridendo come uno sciocco, saltando nel tentativo di raggiungerle, di volare con loro, ma prima volevo abbracciare la mamma, dovevo dirle che le volevo bene. Il vento mi faceva lacrimare gli occhi o forse non era il vento, ma in quel momento non importava. Feci un salto per andarle in braccio e mentre la guardavo, quel salto sembrava non finire mai. Lei, era appoggiata al tronco dell’albero e il suo sguardo…, mi spezzò il sorriso.

Mentre ancora volavo, lei si girò dall’altra parte.

Non capivo perché non riuscivo a raggiungerla. Continuavo a restare sospeso.

Sbattei di colpo contro un muro di terra, che mi strappò un rantolo. D’istinto arrancai con le mani per aggrapparmi a qualcosa, ma per quanto provassi, non riuscivo a fermarmi, ad aggrapparmi. Quando alla fine ci riuscii, vidi che stavo stringendo un ciuffo d’erba con poche radici. Ebbi paura. Una paura folle che mi sarebbe successo qualcosa di brutto.

Alzai la testa in cerca della mia mamma perché sapevo che se l’avessi trovata, tutto sarebbe andato bene, ma quando la trovai, appena sopra di me, la trovai immobile, fissa a guardarmi mentre piangeva. «Mi dispiace», disse. «Mi dispiace.»

Fu in quel momento che i ciuffi d’erba si strapparono, lasciandomi cadere nel vuoto intanto  che gridavo al cielo il mio spavento. Vidi le farfalle volare intorno alla mamma, che si abbracciava cadendo a terra.

Poi tutto finì.

Il mio volo, finì contro una pietra piatta, in fondo al dirupo di un campo di farfalle.

Non ebbi più pensieri, non sentii dolore né tristezza. Anche la paura se ne andò. Solo il sole continuò a brillare e lentamente iniziai a sentirmi leggero. Con titubanza, risalii il dirupo. Trovai il coraggio di guardare giù e mi vidi; ero sdraiato sulla roccia con un cerchio rosso intorno alla testa. Somigliavo a un Santo. Alzai gli occhi e trovai la mamma. La guardai alzandomi sopra di lei. Si asciugava gli occhi con una manica, respirando a bocca aperta, ma aveva la testa rivolta da un’altra parte; non riusciva a guardarmi o forse non voleva.

Lentamente si alzò, facendo attenzione a non far rumore. Sembrava non volesse svegliarmi da quel sonno in cui mi aveva messo e come un fantasma iniziò a camminare lontano da lì.

Non mi regalò neanche un ultimo saluto.

«Perché mamma?», dissi sottovoce «Non ti ho fatto arrabbiare, non ho combinato guai e stamattina ho asciugato le tue lacrime. Ti ho baciato per dirti che ti volevo bene. Ti sono rimasto accanto finché non mi hai relegato a giocare in un angolo della casa perché la mia voce ti dava il mal di testa anche se parlavo sottovoce. Mi dispiace di non essere un bravo bambino per te.»

Sentii il bisogno di seguirla, di avvicinarmi a lei così mi spinsi in quella direzione, ma non riuscii a muovermi, e così rimasi a guardarla sconsolato, capendo che non l’avrei più rivista.

«È colpa della tua malattia, adesso lo so», pensai. «È per colpa sua se non possiamo stare insieme. So che non volevi lasciarmi volare via. È la malattia che te l’ha fatto fare. Ti sento piangere la notte e papà passa tanto tempo fuori casa perché non sa più cosa fare. Sei sempre triste. Piangi per Virginia e a volte mi sono chiesto se non saresti stata più felice con lei; con noi non ridi più. Luca non dice mai niente, ma io so che lo pensa anche lui. La nonna ci ha detto che era bellissima, ma che gli angeli l’hanno voluta vicino a loro. Ha detto che è volata in cielo come una farfalla.»

Il pensiero di questo mi fece sentire immensamente solo così allungai lo sguardo, ma non vidi più la mamma.

Realizzai che non avrei più rivisto nessuno della mia famiglia; papà, la nonna, Luca. Neanche Pipi, il nostro cane. So già che mi mancheranno tantissimo e mi mancherà anche la mamma. Ora so cos’era quella strana ombra che velava i suoi occhi da quando è tornata dall’ospedale. Era dolore.

«Non preoccuparti per noi mamma» dissi a nessuno. «Mi prenderò cura di Virginia e la mia assenza, forse, riuscirà a guarirti. Credo sia per questo che mi hai fatto volare.»

Non so come, ma potei vederla entrare e sedersi al suo solito posto sul divano. “Presto Luca tornerà a casa da scuola”, riflettei. Ero uno sciocco ad arrabbiarmi con lui ogni volta che non voleva rincorrere le farfalle insieme a me! Ora sono felice che non l’abbia mai fatto.

A Luca non piacciono le farfalle. A lui piace leggere, stare con papà, andare dietro alle ragazzine.

«Ti voglio bene mamma, ma spero che nessun altro dovrà volare come una farfalla, per farti guarire.»

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Capitolo 2
*** 2. Una cattiva decisione ***


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Una cattiva decisione

 Per l’ennesima volta, avevo discusso con mio marito. Tollerava poco il mio lavoro e meno ancora, che fossi quella con lo stipendio più alto, senza parlare dei miei orari di lavoro. Dopo diversi anni di gavetta e di sacrifici, ero riuscita a far carriera come Manager nell’azienda per cui lavoravo. Avevo realizzato il mio sogno e per evitare che non sfumasse in una bolla di sapone, per i primi tempi m’impegnai a fondo, facendo molti straordinari e lunghi weekend lavorativi, anche fuori dal paese.

Grazie alla promozione, ci lasciammo alle spalle la vita di stenti e ristrettezze in cui vivevamo. Riuscimmo perfino a cambiare casa. Abbandonammo il monolocale che avevo imparato a odiare in quegli anni di stenti, per un trilocale con una vista invidiabile, a centro città.

Per circa un anno le cose funzionarono bene, tanto che mio marito prospettò l’idea di ampliare la famiglia. Qualcosa per cui non mi sentivo pronta e che rifiutai con la scusa di volermi godere un po’ più a lungo quel momento di serenità economica. “C’è tempo”, dissi.

Non sapevo allora quanto mi sbagliavo!

Allo scoccare del secondo anno, le cose cambiarono di nuovo. I miei impegni e i continui viaggi stavano rendendo il rapporto spigoloso. I weekend insieme divennero pesanti, ogni minima sciocchezza era motivo di lite e iniziai a vivere con una certa apprensione, i momenti di vita con lui. Uscivamo poco, specialmente d’inverno, perché dopo un’intera settimana in giro per il mondo, sentivo il desiderio di crogiolarmi nell’intimità della mia casa. Quasi agognavo quel tempo a casa, dove potevo rilassarmi davanti alla tv o leggere un buon libro.

Non era così per mio marito Roberto che diversamente da me, aveva voglia di uscire, incontrare amici e divertirsi. Lo capivo; passava otto ore a lavorare in un supermercato e il restante tempo lo passava a casa, ad aspettarmi. Oltre alla palestra non aveva nient’altro e credo che a un certo punto, divenne geloso della vita che ero riuscita a costruirmi. Questo almeno, è quello che iniziai a pensarequando le cose degenerarono.

Insomma: i nostri ruoli nella società si erano capovolti.

Iniziò a cambiare e ben presto si passò dalle discussioni momentanee, a quelle lunghe giorni. Il motivo delle discussioni era sempre lo stesso: restare fuori per alcuni giorni per incontri di lavoro fuori sede, rientrare tardi la sera, ricevere chiamate di continuo.

Per diversi lunghi mesi, mi sentii costretta in una situazione sterile, pesante, che mi privava dei miei stimoli più preziosi: la libertà, la serenità, la voglia di fare. Finché un giorno non presi atto di una cosa importante, ma anche molto triste: io, con mio marito, mi annoiavo. Il mio lavoro era diventato non solo un sostentamento economico, ma un’evasione da una vita che mi faceva soffrire.

Lui non capiva. Non capiva me, né la situazione che stavo vivendo. Doveva essere questo, mi dissi o non avrebbe cercato di riportarci indietro a ciò che eravamo. Ero così stanca delle liti, dei ricatti morali, delle scenate, dei bronci e tutto il resto, che non riuscii a considerare neanche l’eventualità di riprovarci. Mi sentivo soffocare, annegare ogni giorno di più e proprio come succede a chi annega, mi sono aggrappata alla prima cosa che poteva darmi di nuovo la possibilità di respirare. Di sopravvivere. Sì, credo che tutto sia successo per questo.

Era il 17 marzo e i primi odori della primavera iniziavano a essere percepiti nell’aria. Stavo guidando in direzione di Firenze. Il mio appuntamento era fissato per le dieci di quella stessa mattina a Prato e stranamente, ero in ritardo. Non facevo troppo caso alla velocità, piantandomi sulla corsia di sorpasso e lasciando che le vetture alla mia destra, diventassero colori informi e sfocati. Ad un tratto iniziai a sentirmi strana, la vista si sfocò e per poco non andai contro un tir. Mi rammentai che ero uscita senza fare colazione a causa dell’ennesima lite con Roberto. Riuscii a riprendere il controllo della macchina, grazie a un clacson che urlava sulla strada. Uscii alla prima stazione di servizio che incontrai per mangiare qualcosa prima di svenire e uccidermi.  Quando fermai la macchina tirai un sospiro di sollievo; mi tremavano le mani e sentivo il mal di testa farsi strada, con un ronzio poco famigliare.

Entrai nel locale e per prima cosa andai in bagno. Camminavo distrattamente mentre guardavo nella mia borsa, quando all’improvviso urtai qualcuno. Pensai di cadere, ma fui afferrata per un braccio e tenuta al sicuro.

Alzando gli occhi, restai imbambolata per un lungo momento nel vedere l’uomo che mi stava sorreggendo. Sentii come un pugno in pieno stomaco colpirmi forte nonostante non riuscissi a muovermi. Non saprei dire cosa mi aveva colpito di più di lui. Forse le proporzioni perfette, i lineamenti gentili o l’intensità dello sguardo. Sembrava uno di quei dei greci che si vedono sui libri. Fui attratta dal colore brizzolato dei suoi capelli. Erano corti, ma ancora abbastanza lunghi da poter essere stretti a pugno. Il colore dei suoi occhi era di un verde intenso, mentre le labbra spiccavano per la linea sinuosa ma grassottella.

«Si sente bene signorina?»

«Anche la sua voce è seducente», pensai. Era calda, profonda, suadente, piacevole da ascoltare e il fatto che s’interessasse a me invece d’inveirmi contro per averlo urtato, mi fece credere che fosse un uomo con del rispetto per le donne. Anche se sono maldestre e stronze come me, (avrebbe aggiunto mio marito). 

«Sto bene», dissi. «Mi dispiace averla colpita, ero distratta.»

Fissai i suoi occhi. Il verde incontaminato m’ipnotizzò. Mi accorsi che stavo cercando di dire qualcosa, la mia bocca si muoveva, ma non ne usciva niente.

Lui sorrise al mio comportamento adolescenziale. Potei vedere i denti bianchi perfetti, spuntare tra le sue labbra carnose. Era divertito. 

«Scommetto che non è la prima volta che gli capita», pensai. «Chissà quante donne gli cadono ai piedi. Devo sembrargli una stupida. Mi sto rendendo ridicola e davvero non vorrei. Ho sempre odiato le donne frivole.»

«È stato un piacevole scontro», mi disse alla fine e bastò questo a darmi un po’ di fiducia, ma allo stesso tempo, mi sentii prendere fuoco senza sapere come fermarlo. Era un problema che avevo da bambina, ma che avevo superato ampiamente e da molto tempo o non avrei fatto il Manager. Com’era riuscito quest’uomo a superare le mie difese e a scatenare in me questa reazione?

«Beh, allora arrivederci. Passi una buona giornata.»

Annuii guardandolo andar via, imbambolata come una scema - gli occhi fissi sul suo fondoschiena - finché non fu inghiottito dalla porta d’entrata.

Le persone che mi passarono accanto per entrare in bagno, mi risvegliarono dalla mia trance facendomi sentire a disagio. Saltai sul posto quando successe. Il che significava che mi ero completamente persa! Inghiottii riprendendomi dalla confusione e dallo sgomento e feci quello per cui ero lì.

Lo rividi soltanto quando finii di consumare la mia ordinazione. Mi stava fissando e fui colpita da una strana sensazione di lusinga. Non potevo negare a me stessa che quell’uomo mi piaceva, molto, ma c’era una sensazione più sottile, in sottofondo, appena percepibile, che non era così buona. Mi era già successo altre volte, ma non ero mai riuscita a capire il motivo che la scatenasse. Comunque sia, quel giorno la ignorai. Ricambiai lo sguardo, i sorrisi e il saluto appena accennato prima di ripartire per la mia meta.

Il ritardo compromise la mia tabella di marcia, facendomi ripartire da Prato solo dopo una cena veloce in ufficio. La stanchezza mi colpì nei pressi della stazione di servizio di quella stessa mattina. Mi fermai sperando avessero una stanza libera per passare la notte e fui fortunata. Mentre uscivo dall’ascensore per andare in camera, vidi lo sconosciuto di quella mattina passarmi davanti. Era insieme ad altre due persone, aveva un tablet in mano e indicava qualcosa ad una ragazza accanto a lui. Ovviamente, non mi vide e ne fui grata o si sarebbe accorto di come potevo diventare ebete in certe circostanze. Qualcosa che continuava a sconvolgere anche me.  

Quella notte ebbi difficoltà ad addormentarmi. Continuavo a pensare a lui. Perfino quando chiamò mio marito, non persi troppo tempo a parlarci e tagliai corto; sapevo che saremmo finiti in una lite e comunque non riuscivo a mantenermi concentrata sulla conversazione. Ero stanca e il viso di quello sconosciuto che continuava a tornarmi in mente, mi faceva sentire…in colpa. «Se solo avessi spento il telefono!»

Rividi il mio uomo misterioso a colazione. Si avvicinò al mio tavolo mentre aspettavo l’ordinazione, prendendomi alla sprovvista e lasciandomi senza parole. Ero tornata l’adolescente che incontra il bello della scuola. Mi chiese senza presentarsi prima, se stavo aspettando qualcuno. Lo lasciai in sospeso per un istante, in cui mi chiesi se stava succedendo davvero. Poi feci cenno di no con la testa e chiusi l’agenda che stavo consultando.

Lui si sedette rimanendo a guardarmi senza dire niente. Era strano, ma mi sentii lusingata per il fatto che mi avesse notato. Mi piaceva che fosse lì con me in quel momento. Mentre ci studiavamo, percepii di nuovo quell’inspiegabile sensazione in sottofondo. Non ero ancora sicura se fosse buona o cattiva e così la ignorai come la prima volta.

Arrivò la colazione nel momento in cui provai a parlare e i suoi occhi li sentii cadere sulla mia bocca. Mi fece uno strano effetto; un mezzo brivido mi colse lungo la schiena, ma fu più veloce nell’andare che nel venire. Il cameriere lasciò il tutto e si dileguò tra gli altri tavoli. «Viaggia molto?», disse d’un tratto. La domanda mi sorprese.

«Sì. Il mio lavoro mi porta spesso a viaggiare.»

«E dove va di bello oggi?», mi chiese ancora. Io sorrisi e guardai la mia tazza di caffè.

«In realtà sto tornando a casa. Ho passato la notte qui.»

«Oh! Spero sia stata bene. Questo è una delle aree di servizio che preferisco.» Lo guardai curiosa e piegai la testa verso la spalla come se farlo mi aiutasse a capire.

«Anche lei viaggia per lavoro?», chiesi.

«Qualche volta. La maggior parte del tempo lo passo qui; questa stazione di servizio è mia. Ne ho altre, ma sono tutte intorno a Roma.»

«Oh!» Ero di nuovo sorpresa. Tutto mi sarei aspettata, meno che questo. «Quindi ieri sera, stava dando istruzioni ai suoi dipendenti? Quanti soldi servono per acquistare delle stazioni di servizio?» Mi sentii un’idiota solo per averlo pensato. Lui mi guardò facendomi un sorriso e io mi sentii prendere fuoco. «Devo essere arrossita di nuovo perché sta sorridendo come chi ha appena fatto tana a qualcuno. Beh, posso accettarlo da uno come lui; ha un sorriso che incanta.»

Qualcuno gli portò una tazzina di caffè senza neanche chiederla. Facemmo colazione mettendo su una piacevole conversazione. Parlammo dei nostri lavori e tutto scorreva via liscio che era un piacere. Quasi non mi accorsi di aver sprecato un’ora del mio tempo per la colazione.

Puntuale come un orologio, mio marito chiamò rompendo l’idillio che stavo vivendo. Mentre rispondevo, vidi Stefano, questo era il suo nome, avvicinare un ragazzo del bar e dirgli qualcosa all’orecchio. Dopo di che, mi sorrise e se ne andò con un mezzo cenno. Non potei far altro che ricambiare il saluto, anche se volevo gridargli di non andare, lanciando il telefono con mio marito dentro, nel cestino più vicino. Spazientita, tagliai la discussione con lui e mi apprestai a pagare, ma il ragazzo non me lo permise. “È offerto da noi”, disse. Mi guardai intorno nella speranza di vedere Stefano, ma non lo trovai. Non mi restava che riprendere la via di casa con una sensazione di delusione addosso.

 

Lo rividi due settimane dopo. Mentirei se dicessi che ero lì per caso; mi fermai nella speranza di rivederlo e così fu. Si fece servire un cappuccino al mio tavolo. Lui si sedette come se avessimo un appuntamento. Mi guardò, bevve un sorso del suo cappuccino e con una naturalezza che mi fece trasalire, iniziò a fare apprezzamenti sul mio vestito e nello specifico sul mio decolté. Giocai con lui, anche quando scherzò sul mio trucco un po’ troppo evidente a suo dire. Notai subito che aveva una bella abbronzatura e gli chiesi se per caso era stato in qualche posto a prendere il sole.

«Sono andato a Miami. Ho fatto degli investimenti immobiliari molto convenienti e ho sfruttato il tempo libero.»

Mi sorprese per la seconda volta perché…, diamine, quante volte può capitare di sentirsi rispondere “Ho fatto un giro a Miami nel tempo libero?” Non mi aspettavo questa risposta e sono rimasta con la tazza a mezz’aria guardandolo incredula. Ovviamente, lui sorrise divertito dalla mia faccia esterrefatta e si sistemò sulla sedia con la tazza in mano, gustandosi il suo bel cappuccino. Stava giocando con me come il gatto col topo?

Ci rivedemmo in quell’autogrill per i successivi sei mesi. Era diventato un tacito appuntamento. Io passavo di lì due, tre volte al mese e lui era sempre lì ad aspettarmi. Diedi per scontato che abitasse nelle vicinanze e mi aveva già detto che quello era il suo lavoro principale. Durante i nostri incontri flirtavamo, qualcuno potrebbe dire che scopavamo con gli occhi e anche nel linguaggio diventammo più intimi e coraggiosi. C’era una tensione sessuale evidente, che cresceva di più ad ogni incontro. In un paio di occasioni ci scambiarono per una coppia e nessuno di noi due si prese la briga di smentirlo.

Fui ammaliata dalla sua galanteria. Non era qualcosa di occasionale per conquistare una donna, ma più una sua peculiarità. A prescindere, qualunque cosa fosse, ci credetti e mi lasciai convincere da quel sorriso che mi dannò l’anima fino al midollo.

Le cose con mio marito intanto peggioravano e negli ultimi tempi degenerarono oltre il sopportabile. Io ero spesa per questa tresca ancora innocente, ma che desideravo ardentemente che sfociasse in qualcosa di peccaminoso. Immaginavo come sarebbe stato essere tra le sue braccia, toccare la sua pelle abbronzata, guardarmi attraverso i suoi occhi profondi e sentire le sue mani accarezzare il mio corpo.

Pensieri questi che compromisero ancora di più il mio rapporto con Roberto. Arrivai a rifiutarmi a lui e questo fu il colpo di grazia. La rottura ufficiale del nostro matrimonio. Ora posso dire che è stato un bene non avere figli con lui; trascinarli in quello che successe dopo, mi avrebbe spezzato il cuore.

Lasciai mio marito Roberto la settimana prima di Natale. Non era previsto, in realtà avevo deciso di farlo dopo le festività per non sembrare del tutto una stronza, ma non ci riuscii. L’azienda m’incaricò d’incontrare dei clienti importanti a Milano. Si trovavano in gravi difficoltà e come Manager, era quello che dovevo fare, senza contare che mi avrebbe fruttato bene, vista l’urgenza. Sarei dovuta restare a Milano solo un paio di giorni, ma volendo stare con Stefano, mentii a Roberto dicendogli che sarei dovuta rimanere per tutta la settimana. Questo perché avevo deciso di portare la nostra relazione al livello successivo.

Ovviamente Roberto mise su l’ennesima discussione e ormai logora di quello che eravamo diventati, gli dissi di prendere le sue cose e di andarsene. Ci rimase male. Lo vidi tentennare sul posto, guardandomi fisso come un bambino appena rimproverato. Non ci credeva. L’avevo preso alla sprovvista e solo dopo un momento di confusione, vidi apparire la consapevolezza nei suoi occhi.

«Da quanto va avanti?», mi chiese.

«Che cosa?» Feci finta di niente, ma sapevo che aveva capito. Mi aveva beccato al telefono più di una volta, parlando sottovoce, chiusa in un’altra stanza. Gli avevo sempre detto che si trattava di lavoro, ma sapevo che non avrebbe retto a lungo. E poi c’erano i continui viaggi che nei mesi precedenti, erano aumentati, così come era aumentato il mio distacco fisico nei suoi confronti.

«Va la, che hai capito. Da quanto va avanti sta storia?», disse seccato

Tentennai, mi guardai i piedi riflettendo e poi decisi di essere sincera.

«Non c’è nessuna storia, ma hai ragione: ho conosciuto qualcuno. Mi ha fatto solo capire che non siamo fatti per stare insieme.»

Seppi in quel momento di avergli inferto una ferita che non si sarebbe mai rimarginata. Lo vidi nell’espressione accartocciata in cui si rifuggiò. Era sempre stato buono con me, paziente, forse anche troppo. Chissà, magari era proprio quello che ci aveva rotto. Sulla porta di casa, un attimo prima che se ne andasse, mi sentii di dirgli qualcosa per fargli capire che volevo fosse felice, nonostante tutto.

E così dissi: «Buona vita Roberto.»


Partii per Milano il giorno dopo. Faceva freddo e il cielo minacciava di far nevicare da un momento all’altro. Pensai stupidamente che mi sarebbe piaciuto svegliarmi l’indomani con Stefano accanto, nel caldo di un letto che anche se non era il nostro, ci dava l’illusione di una favola.  Non lo avvertii del mio arrivo, né che mi sarei fermata per i giorni successivi. Volevo fosse una sorpresa. Mi ripeteva sempre che voleva passare più tempo con me; quale migliore occasione delle feste di Natale?

Quando arrivai alla stazione di servizio, di ritorno da Milano, chiesi a una delle ragazze dove potevo trovarlo. Lei fece una faccia strana e prese tempo. Dopo qualche secondo mi disse che al momento era impegnato e che non aveva idea di quando si sarebbe liberato. Si dileguò in fretta lasciandomi lì ad aspettare come una stupida. Nel farlo, mi voltai guardandomi intorno, più per passare il tempo che per cercare qualcuno. Si rivelò un’azione fortunata perché vidi Stefano infondo alla sala, dall’altra parte del locale. Non era solo. Con lui c’era un’altra donna, molto più grande di lui. Non si parlavano, ma lui la teneva a braccetto. Restai interdetta sul momento, poi vidi la ragazza di prima, avvicinarlo e parlargli all’orecchio. La signora al suo fianco si guardò l’orologio al polso e poi disse qualcosa. Lui le rispose e poi la baciò, velocemente, ma sulle labbra, scatenando tutta la mia gelosia. Lo vidi sorridergli come faceva con me e poi la guardò mentre si allontanava su per le scale. La ragazza di prima era ancora accanto a lui, in attesa di qualcosa. Quando la vecchia signora scomparve, vidi l’espressione di Stefano cambiare da felice a severa. In un primo momento ne fui spaventata. Parlò con la ragazza che continuava ad annuire, gli passò qualcosa e raggiunse la donna più anziana su per le scale, dove lo stava aspettando. Allo stesso tempo, la ragazza si dileguò dalla parte opposta. Ero fuori di me dalla rabbia. Pensai di cercarlo e di fargli una scenata. Mi sentivo presa in giro e volevo sfogare su di lui questo sentimento, ma proprio quando stavo per muovermi, una mano mi toccò la spalla facendomi voltare. Era la ragazza di prima. “Ma come ha fatto…”, pensai. Poi ebbi un pensiero molto più urgente e chiesi: «Chi era la donna che era con Stefano? Perché stanno salendo ai piani superiori?»

La domanda mise in difficoltà la ragazza, che però si riprese bene dopo un momento. «È di famiglia. Il signore mi ha chiesto di dirle che può accomodarsi al ristorante. Ovviamente è nostra ospite. Il signore la raggiungerà appena possibile.»

«Perché, cos’ha da fare di più urgente?» Non so perché lo chiesi, conoscevo la risposta in parte e in parte mi setii tradita, ma ormai era fuori.

«Il signore la raggiungerà appena possibile», ripeté in evidente difficoltà la ragazza.

Sospirai e annuii senza aggiungere altro. Non ero contenta di questo imprevisto, ma certo era che non potevo mettermi in una situazione scomoda prima ancora di aver ottenuto qualcosa di concreto da lui, così cedetti.

Stefano mi aveva fatto accompagnare in una delle stanze del secondo piano, subito dopo pranzo. Ero spazientita e arrabbiata con lui, anche se sapevo di non potermelo permettere.

Qualcuno bussò alla porta intorno alle sei e mezzo di sera, interrompendo i miei  sproloqui mentali. Aprii con una certa veemenza e mi ritrovai a guardare Stefano, appoggiato alla porta con in mano una bottiglia di prosecco e due bicchieri. Aveva la cravatta allentata e il primo bottone della camicia aperta, i capelli un po’ scompigliati rispetto al solito, ma non gli diedi importanza. In realtà non m’importava di niente. Volevo lui e all’improvviso mi sentii audace. In silenzio mi feci da parte così che potesse entrare e poi lo spinsi contro la porta e lo baciai senza un secondo pensiero al mondo. Ricambiò il mio bacio dopo essersi ripreso dalla sorpresa iniziale, facendomi delirare. Sentii la pressione sanguigna schizzare alle stelle mentre mi spingevo contro il suo corpo. Passai le dita tra i capelli e li strinsi nel pugno come tante volte avevo immaginato, percepii la loro consistenza, la loro morbidezza così come sentii la consistenza di qualcos’altro. La sua passione era feroce e gentile allo stesso tempo e quando mi sollevò da terra, mi fece sussultare, ma quasi trasalii quando mi gettò di peso sul letto, seguendomi subito dopo essersi liberato di bottiglia e bicchieri. Potei sentire i suoi muscoli borbottare sopra di me, la sua bocca succhiare e i denti raschiare in successione perfetta. Era perfetto. Il gemito intrappolato nella mia gola, uscì come uno sfogo a quella tensione sessuale che finalmente trovava la sua via, dopo averla repressa per così tanto tempo.

Facemmo l’amore marchiando la pelle ovunque, con denti, unghie e labbra. Non c’importava di chi all’indomani li avesse visti e fatto domande. Non c’era vergogna in quello che stavamo facendo. L’avevo desiderato così tanto, che non riuscivo quasi a credere che stesse succedendo.

Quando ormai stremati, restammo aggrovigliati tra le lenzuola, mi tornò in mente la donna con cui l’avevo visto e tutto il tempo passato ad aspettarlo.

«Chi era la donna con cui eri?», chiesi dal niente. Non credevo alla storia della ragazza.

Lui non rispose. Si alzò passandosi una mano tra i capelli sospirando. Sembrava irritato. S’infilò le mutande e andò in bagno. Restai ad aspettarlo per diversi minuti. Quando uscì, si fermò sulla porta a guardarmi con le braccia conserte.

«Perché mi guardi così?», chiesi.

E lui zitto. Mi appoggiai sui gomiti e mi sentii divertita da quella scena. Sorrisi, ma notando la serietà con cui continuava a guardarmi, iniziai a preoccuparmi.

«Che c’è che non va?», chiesi ancora.

«Non ti fidi di me?», rispose.

«Beh, sto iniziando a farlo, ma è difficile quando mi fai credere una cosa per un'altra.»

«Se non mi credi puoi anche andartene!»

È il mio turno di non sapere cosa rispondere. Ammettere la mia gelosia mi sembrava stupido in quel momento, anche se era la verità, ma anche cedere a questa sua presa di posizione mi sembrava sbagliato. Alla fine, era solo una domanda. Ed è quello che aggiunsi. «Ti ho fatto solo una domanda. La tua reazione mi sembra esagerata.»

«No, la tua reazione è esagerata. Tu-sei-gelosa», disse e stranamente fui felice che l’avesse detto lui.

Dopo un po’ di tentennamento, annuii in risposta, vergognandomene, ma non aggiunsi altro.

«Abbiamo scopato una volta. Non siamo niente. Perché sei gelosa? Mi hai girato intorno per mesi e ora hai avuto quello che volevi. Puoi continuare con la tua vita.»

Il tono con cui lo disse mi fece pensare che forse per lui non era stato solo sesso o forse era quello che volevo credere io: un significato diverso dietro parole che altrimenti, sarebbero state troppo dure da incassare.

«Non era solo sesso per me», dissi con urgenza e lui sembrò ammorbidirsi, ma restò con le braccia conserte. «Ho lasciato mio marito per te.» Ingoiai prima di aggiungere “Non faccio che pensarti.»

A questo le sue braccia si sciolsero, ma i suoi occhi si restrinsero e di colpo mi sentii come messa a nudo, per poi essere controllata in cerca di una bugia o una mezza verità. Non avrebbe trovato niente.

«Sei innamorata?», chiese e io non volli rispondere sul momento.

Si fiondò su di me prendendomi il viso con una mano, spaventandomi a morte. Potevo sentire il fiato caldo sul mio viso per quanto era vicino. La mano che mi stringeva per tenermi in posizione a guardarlo, i suoi occhi smeraldo che d’un tratto erano tempestosi e attraenti come un mare in burrasca.

«Cosa sei disposta a fare per me?» Non seppi rispondere. Con la mano libera mi accarezzava le cosce per poi risalire lentamente e mi accorsi con un certo stupore che mi stavo accendendo di nuovo. Se ne accorse anche lui quando raggiunse il suo obiettivo e mi sorrise come sempre. Mi cadde addosso ancora una volta quella strana sensazione di sbagliato che non sapevo spiegare, non in un momento come quello. Pensai venisse dalle emozioni che stavo provando e che per buona misura mi stavano spaventando. Nessun uomo aveva mai fatto il duro con me, né a letto né fuori dal letto e ad essere sinceri, la cosa mi piaceva, anche se mi vergognavo ad ammetterlo. Mi toccò e non fui capace di tenere gli occhi aperti.

«Sei bella!», disse e anche se non volevo credergli, in quel momento lo feci. «Sei bella e ti voglio, ma devi dimostrarmi che mi vuoi allo stesso modo. E che ti fidi di me.»

«Ti voglio!» biascicai non so come. Mi stava rendendo un pasticcio emotivo e non sapevo come riavere un minimo di controllo. Il mio corpo era alla sua mercé.

«Basta fare quello che ti dico e tutto andrà bene.»

Non risposi, cercai con tutte le mie forse di tenergli testa, non volevo dimostrarmi troppo coinvolta, ma per la miseria: ero completamente cotta.

«Sì. Sì, lo far…»

Non finii di parlare che mi baciò con un ardore tale, da rendermi inerme; eravamo pronti a ricominciare da dove avevamo lasciato.

Solo ora mi rendo conto, che non ha mai risposto alla mia domanda.

 

Il nostro rapporto andò avanti in questo modo per un anno. Un anno in cui riuscì a farmi fare tutto quello che voleva. Mi aveva circuito e il sesso era un deterrente efficace ogni qualvolta facevo domande scomode  a cui non voleva rispondere. I viaggi, le case, i gioielli e tutti gli agi che non avevo mai conosciuto, pensavano al resto e tenevano buoni i dubbi che talvolta mi sorgevano. Quando la foschia iniziale che mi aveva circuito iniziò a sbiadire, iniziai a chiedermi da dove provenissero tutti quei soldi. All’inizio non ci avevo pensato, ma poi realizzai che ne avevo visti passare davvero tanti per quella stazione di servizio e sotto molte forme. Non ritenevo possibile che alcune stazioni di servizio rendessero tanto. Dove trovava i soldi per tutti gli investimenti che faceva di continuo? S’incontrava almeno due volte alla settimana con quelli che lui chiamava i suoi amici in affari e che avevo iniziato a riconoscere col tempo. Ultimamente però, c’era un gruppo nuovo che veniva spesso, a volte anche senza preavviso e di cui non mi disse mai niente, neanche una parola. Ho provato a chiedere un paio di volte e lui ha semplicemente cambiato discorso. Passavano giornate intere chiusi nello studio. Non uscivano neanche per mangiare e ce n’era uno in particolare, che indossava una maschera. Sentii dire da qualcuno del locale, che era per nascondere il viso sfigurato da un’incidente d’auto, un altro disse che era stato vittima di criminali che avevano provato a bruciarlo, altri ancora dicevano che era un boss del crimine che voleva mantenere l’anonimato. Non sapevo cosa credere, ma ero intimorita da tutti quanti loro.  

Intanto, io e Roberto arrivammo ad un accordo per la vendita della casa. Gli avrei lasciato metà del ricavato, per aiutarlo a sistemarsi e a coprire le spese legali. Speravo così di smorzare l’astio che provava nei miei confronti. Non aveva mai detto niente, ma potevo vedere il rancore nei suoi occhi ogni volta che mi guardava. Alla fine era venuto a sapere di me e di Stefano da alcuni amici in comune e un giorno me lo ritrovai alla stazione di servizio che ci guardava da uno dei tavoli. Feci per avvicinarmi, ma lui se ne andò via e io non lo seguii. Non m’importava fintanto che restava fuori dalla mia vita. Non volevo che niente rovinasse quella felicità che per tanto tempo mi era mancata.

Quando ottenni la mia parte, Stefano mi convinse a investirli in un suo nuovo progetto. Rifiutai l’offerta per un paio di volte; la terza cedetti. Ovviamente mi strappò il sì a letto. Non riuscivo a credere di essere diventata così avida di sesso.

Sapevo che mi stava manipolando, ma continuavo a pensare di essere l’unica responsabile della mia condizione. Inoltre, lui stava guadagnando bene dai suoi investimenti; forse potevo fare un po’ di soldi anch’io senza sudare sette camicie!

Il sesso era diventato più duro negli ultimi tempi. I segni sul corpo aumentavano, ma almeno era attento che non fossero visibili. Un giorno mi legò con delle corde morbide, ma ancora abbastanza resistenti da non spezzarsi; mi bendò e mi applicò delle mollette per capezzoli per tutta la durata del nostro tempo a letto. Cercai di oppormi, mentre iniziavo a percepire piccole scosse di piacere in sottofondo, ma quando la pelle morbida della frusta colpì i miei glutei, restai senza parole. Il cervello fece tilt non tanto per il dolore, ma per la sorpresa e il piacere che scoppiò dentro di me, improvviso e debilitante; sapevo sarebbe stato tangibile da lì a pochi istanti. Nello stesso momento una leggera scossa passò attraverso i miei poveri capezzoli sparpagliandosi per tutto il corpo. Vibrai come una molla e l’intensità del piacere che si prolungava mi stordì. Dovetti ammettere con mia grande sorpresa, che non avevo mai provato un tale piacere prima, di certo non nel modo tradizionale di fare l’amore.

Un giorno gli chiesi perché gli piacesse il sesso duro e lui, con una semplicità disarmante, rispose che non gli piaceva, ma che lo faceva per noi, per mantenere vivo il nostro rapporto. Insinuò che ne avevamo bisogno insomma.

Provai a ribattere, arrabbiata per le sue parole e la sua presunzione, ma lui mi zittì aggiungendo: «Tiene il rapporto vivo, non fingere che non sia così. È molto più appagante e se solo ti vedessi! Sei così recettiva quando ti sottometto!»

Non sono sicura se per la sorpresa o per la vergogna, ma non riuscii a ribattere. Da allora, quelle parole mi tornarono in mente quasi ogni giorno. C’era qualcosa tra le righe che mi faceva provare la strana sensazione di sbagliato che avevo provato fin da subito. Era passato più di un anno e ancora non ero riuscita a decifrarlo.

Fu in autunno che cambiarono le cose. Con una telefonata dall’America. Non so cosa gli dissero, ma ricordo ancora il suo volto sconvolto quando chiuse la conversazione.

Non disse niente, non mi guardò neanche quando oltrepassò tutto il soggiorno e si rinchiuse nello studio fino all’indomani. La sensazione di sbagliato tornò con prepotenza, insieme alla preoccupazione per la notizia che gli avevano comunicato e che lui non sembrava voler condividere. Quando lo vidi il giorno dopo, sembrava fosse stato travolto da un treno.

«Stefano stai bene? Ma che succede?» Ero preoccupata per lui, volevo aiutarlo, consolarlo, ma quando mi guardò, lo fece in un modo…  Sembrava vuoto e al tempo stesso scocciato per la mia intrusione. Per la prima volta mi sentii un’estranea. Fu una sensazione orribile.

Da quel giorno le cose andarono sempre peggio.

Usciva presto la mattina per rientrare solo molto tardi e ovviamente non mi raccontava né di dove andasse né di cosa facesse. Vivevamo nell’appartamento della stazione di servizio all’ultimo piano, ma c’era una stanza chiusa in cui non avevo il permesso di entrare. Disse che conteneva vecchie cose appartenute ai suoi genitori; mobili, specchi, fotografie, cose del genere. Erano morti in un incidente aereo e quella stanza era tutto ciò che gli restava di loro. Ovviamente rispettai la sua richiesta, ma continuai a farmi domande al riguardo trovandolo anomalo.

 Le sue assenze divennero sempre più lunghe e il nostro rapporto subì una brusca frenata. Non parlavamo più, non ci divertivamo più e l’intimità si era ridotta a del sesso povero e violento. L’ultima volta mi spaccò un labbro, mi fece un occhio nero e fui costretta a minacciarlo con un tagliacarte per fermarlo. Le cose avevano raggiunto il limite e io non mi accorsi neanche di come c’eravamo arrivati. Sapevo solo che iniziavo ad aver paura di lui.

Non mi chiese mai scusa per quella sera e non perse occasione di mostrare il suo rammarico per non aver terminato la sessione.

Sapevo che quella telefonata aveva innescato qualcosa che aveva portato in superficie il suo lato oscuro e violento, ma non riuscivo a immaginare cosa potesse essere.

Dieci giorni dopo, mi disse che doveva partire per sistemare delle questioni di lavoro. Non aggiunse altro. Fu la prima volta in due anni che non mi dispiacque la lontananza. Avevo iniziato a ripensare al mio ex marito e al fatto che un po’ di quella sua prevedibilità in questo momento, mi avrebbe fatto piacere. Chissà, forse lasciarlo era stata una cattiva decisione.

Partì l’indomani mattina come previsto. Fu l’ultima volta che lo vidi.

Non lo sentii per tre giorni; inutile dire che ero preoccupata.

Il suo telefono era sempre staccato e nessuno lo aveva visto o sentito. Mi vennero in mente gli scenari peggiori. Una parte di me lo amava anche se iniziava ad aver paura di lui e di certo questi ultimi tempi non erano stati facili.

Era primo pomeriggio quando, quello un gruppo di poliziotti bussarono alla porta del nostro appartamento. Avevano un mandato di perquisizione. Uno di loro mi pose davanti al viso il foglio di carta, mentre camminava dentro. Non rallentò e io non riuscii a leggere neanche una virgola. Ero terrorizzata. Gli agenti ribaltarono la stanza e trattarono le mie cose e quelle di Stefano come immondizia. Nessuno voleva dirmi niente.

«Ispettore, qui c’è una porta chiusa a chiave», disse uno degli agenti.

Tutti mi lanciarono sguardi accusatori per poi tornare al loro da fare. Un uomo in jeans e giacca di pelle, pelato, basso e zoppo, si avvicinò guardandomi storto.

«Che cosa c’è in quella stanza?»

«Vecchi ricordi di famiglia. Credo.»

«Crede?», disse l’ispettore irritato.

«Io… Io non ci sono mai entrata. Stefano mi ha detto che vi ha riposto i ricordi dei suoi genitori che sono morti in un incidente aereo.»

Tutti gli agenti si fermarono a guardarmi per poi scoppiare a ridere. Mi sentii stupida e impotente. La sensazione di sbagliato adesso non era più in sottofondo, ma vibrava libera da costrizioni inconsce che fin’ora l’avevano tenuta a bada.

«I suoi genitori stanno benissimo signora. Se le ha detto che sono morti, ha mentito.»

«No! Perché avrebbe dovuto? E perché nessuno vuole dirmi niente?»

«Non ha letto il mandato?», disse l’ispettore calvo, prima di prendere una lunga tirata dalla sua sigaretta spiegazzata. Lo guardai malissimo, contro il mio miglior interesse e poi risposi a tono.

«È difficile leggere qualcosa che ti viene sbattuto in faccia.»

Sapevo che la mia risposta non era delle migliori, ma ero anche infastidita e impaurita da tutta la situazione.  

«Il suo fidanzato è ricercato per una varietà di reati che fanno invidia ad Arsenio Lupin. Abbiamo riciclaggio di denaro sporco, spaccio e prostituzione. Le basta?»

L’ispettore continuava a parlare facendo i nomi di alcune persone coinvolte, ma per me la sua voce era ovattata e riverberante, il suono delle parole che si accavallavano una sull’altra rendendo impossibile capire cosa diceva eppure… Eppure riuscii a sentire il mio nome quando lo fece. Perché stava facendo il mio nome?

« Scusi, che cosa ha detto?»

«Lei è la signora Asia Nelato?»

«Sì, ma... Come fate… Perché ha fatto il mio nome…»

«Perché lei è una degli indagati.» Ci fu un momento di silenzio in cui cercai di capire se quello che stavo vivendo era un sogno o la realtà, perché sembrava tutto troppo folle per essere vero. «Ci risulta che lei ha fatto un investimento all’estero non molto tempo fa. È giusto?», aggiunse l’uomo calvo. Rimase a guardarmi in attesa della mia risposta.

Mi venne subito in mente il progetto di Stefano di cui conoscevo poco e niente e a cui avevo aderito solo perché ubriaca di sesso; sapevo solo che era all’estero, in un qualche punto dell’America e che si trattava d’immobili, ma nient’altro.

«Ho prestato dei soldi a Stefano per un progetto cui stava lavorando, ma…»

«Certo, il progetto di riciclaggio. E mi dica: quanti di questi immobili li trasformate in case chiuse e quanti in laboratori clandestini?»

«Cosa? Ma lei sta scherzando!» Mi risvegliai da quel torpore d’impotenza come colpita da un secchio d’acqua gelata. Fu la paura forse e quella maledetta sensazione di sbagliato, che mi strillava nelle orecchie come un clacson d’autotreno.

«No signora, qui nessuno sta scherzando. Lei è considerata una complice e verrà incriminata per questo. Come tutti gli altri.»

«Ma sono innocente. Non sapevo niente di tutto questo. Ci siamo conosciuti appena due anni fa e mi aveva detto di essere il proprietario di alcune stazioni di servizio. Non sono complice di niente, se mai sono una vittima.»

«Dicono tutti così!», disse l’ispettore lanciando uno sgaurdo ai colleghi intorno a lui. «Quindi», continuò «vuole darci la chiave di quella porta o devo farla buttare giù?»

«Non ce l’ho la chiave! Pensa che me ne starei qui a discutere se l’avessi? Sono una persona per bene, non ho mai neanche preso una multa.»

«Ninooo!» Qualcuno gridò nell’appartamento facendomi salatre per lo spavento. Tutti si voltarono indietro e dopo un momento un uomo si affacciò sul corridoio. Era corpulento, alto e molto simile a Mastro Lindo.

«C’è qualcosa che devi vedere», aggiunse l’uomo. Quelle parole mi gelarono il sangue. Nei film polizieschi, ogni volta che dicono così, scoprono qualcosa di brutto.

Seguimmo i due uomini che si fermarono proprio davanti alla porta chiusa a chiave. L’agente palestrato indicò un punto vicino a una valigetta aperta e subito il ricordo di tutti quei telefilm polizieschi mi tornarono in mente. Sapevo esattamente cosa stavano indicando.

«Sangue?», chiese l’ispettore.

«Non può essere!», ribattei terrorizzata. «Sono sempre rimasta qui, da quando Stefano è partito; me ne sarei accorta se qualcuno sporco di sangue fosse entrato.»

Quello che doveva essere il capo sospirò e si mise davanti a me. «Guardi, se collabora ne terremo conto. Mi creda, le conviene collaborare, perché non so cosa c’è lì dentro, ma quel sangue non fa pensare a niente di buono.»

«Come devo ripeterglielo? Non ho fatto niente e non ho la chiave di quella porta. Mi ha fatto promettere di non entrarci mai e io ho rispettato la sua volontà.»

«Va bene», disse  e dopo una breve pausa in cui continuò a fissarmi, gridò: «Buttatela giù.»

Gli agenti ci misero alcuni secondi a sfondare la porta. Era buio, con un’unica luce rossa d’emergenza in fondo alla stanza. Gli agenti entrarono e io li seguii come un automa.

Continuavo a ripetermi “Fa che non ci sia un morto”, “Fa che non ci sia un morto”, ma le mie preghiere non vennero ascoltate.

Lì, al centro della stanza, riverso a terra, c’era Stefano. Aveva la maglietta sporca di sangue e un rivolo di liquido rosso fuoriusciva al lato della bocca. Gli occhi verdi di cui mi ero innamorata, non c’erano più. Avevano lasciato il posto a un bianco sporco, vitreo e spettrale. L’odore di decomposizione era già asfissiante in quella piccola stanza. Mi portai una mano al viso per sfuggire all’odore che iniziava a farsi opprimente. Quel momento si sarebbe impresso per sempre nella mia mente. Con grande amarezza realizzai che nessuna delle mie esperienze amorose, era finita bene.

In un momento di debolezza, ammisi a me stessa che desideravo Roberto lì con me. Sapevo esattamente cosa avrebbe fatto; mi avrebbe abbracciato, baciandomi sulla testa e sussurrando  parole di rassicurazione e conforto. Mi avrebbe detto che sarebbe andato tutto bene, che avremmo trovato una soluzione insieme e io gli avrei creduto.

Avevo distrutto una certezza per qualcosa che non conoscevo e che mi aveva accecato.

Mi sentii trascinare fuori. Mi voltai e trovai un uomo dal volto squadrato e i capelli neri che mi teneva sotto braccio. Mi portò in cucina e mi fece bere dell’acqua; dovevo apparire davvero sconvolta!

«Si sente meglio?» Annuii, ma non era vero. Mi sentivo uno schifo.

«Sono nei guai, vero?» Lo chiesi dopo un momento in cui cercai di riprendermi.

«Abbastanza. Se è vero quello che dice e non inizia a collaborare con noi, si prenderà tutta la colpa. In questo momento è la maggiore indiziata e anche l’unica che abbiamo in custodia.» Fece un passo più vicino e aggiuse a bassa voce: «Ma questo io non gliel’ho detto.»

Lo guardai paralizzata, cercando di capire il vero significato di quelle parole. Quando lo feci, mi sentii morire.

«Ma io sto dicendo la verità! Io e Stefano ci conosciamo da circa due anni e non mi ha mai parlato nel dettaglio della sua vita o dei suoi affari. Ho lasciato mio marito per lui, credevo fosse un uomo gentile e onesto.»

L’uomo si abbassò al mio livello e quando mi guardò, nei suoi occhi vidi comprensione.

«Sta dicendo che era innamorata di lui? O si trattava solo di sesso?»

«Mi sono innamorata di lui, ma non subito. All’inizio era per il sesso, lo ammetto. Abbiamo flirtato molto, mi sentivo come in uno di quei film degli anni ’40, in cui l’uomo corteggia la donna fino allo sfinimento. Era una bella sensazione.»

«Poi cos’è successo? Perché c’è il suo nome su uno degli investimenti immobiliari incriminati?»

«Mi chiese di aiutarlo a realizzare un progetto. Voleva acquistare immobili per aprire stazioni di servizio, almeno così mi disse. Avevo ricevuto la mia parte di soldi dalla vendita della casa che dividevo con il mio ex marito e mi ha convinto a investire.»

«Sa che tipo di immobili acquistava?»

Riuscii solo a fare un cenno di diniego con la testa, ma non riuscii a spiccicare parola. So che loro lo sanno e che quando lo saprò anch’io, mi darò della stupida per non aver sospettato niente.

«Tutti gli immobili erano venduti all’asta, un’asta corrotta ovviamente. Alcuni venivano trasformati in pub privati in cui spacciare la droga e far prostituire giovani ragazze, altri venivano organizzati in laboratori per lavorare le sostanze. Sappiamo che non era solo nell’operazione. Aveva dei complici e tra quelli c’è anche lei.»

«Io non sono mai stata la complice di nessuno.» Ero sul punto di piangere.

«Era la sua amante però! Un po’ di soldi facili fanno gola a tutti.»

Trasalii a quelle parole, perché era esattamente quello che avevo pensato quando avevo deciso d’investire nel progetto di Stefano.

Insomma, in soli due anni Stefano mi aveva presa in giro e manipolato come una marionetta.

«Inoltre…», aggiunse «Abbiamo trovato dei video in uno di questi immobili. Sono dei porno e da quello che ho capito, potrebbe essere una sorpresa, ma… C’è anche lei su alcuni di quei video.»

Persi l’uso cognitivo per un tempo che ritenni infinito. Apprezzai il tempo che l’uomo mi diede per potermi riprendere dallo choc. E intanto le conseguenze di quella scoperta iniziarono a frullarmi nella testa come succede ai pazzi quando hanno una crisi. Fu la voce del poliziotto a risvegliarmi da quel delirio di terrore.

«Le piace il sesso violento? Lui la picchiava durante l’atto?»

«Oh mio Dio!» Lo sapevano! Che stava succedendo alla mia vita? Pensai che era meglio morire che vivere l’incubo in cui ero pimbata. Tutto quello che avevamo fatto a letto per due anni era stato filmato? Come potevo non essermi accorta di niente? Biasimai me stessa per essere finita in quella situazione senza via d’uscita.

«Signora Nelato, deve venire con noi alla centrale. Le consiglio di chiamare un avvocato, possibilmente bravo, perché ne avrà bisogno!»

L’ispettore scorbutico che mi riteneva colpevole di tutto, ci aveva appena raggiunto. L’agente con cui stavo parlando, si alzò in fretta e si fece da parte lasciando che lui  prendesse il suo posto.

«Ha ucciso lei Stefano Riposti?»

«Nooo! È partito dicendomi che doveva risolvere della questioni d’affari. Credevo fosse andato in America per i suoi soliti investimenti immobiliari», dissi spazientita dall’atteggiamento di quell’uomo.

«Stia calma signora. Sto facendo solo il mio lavoro e lei, è appena stata trovata in casa della vittima, con il suo cadavere chiuso a chiave in una stanza che si è rifiutata di aprire.»

«Non potevo aprirla, non avevo la chiave, non me l’ha mai data. E non ho ucciso nessuno.»

Mi venne in mente d’un tratto, che Stefano era un maniaco del controllo e che aveva piazzato telecamere ovunque; in salotto, in cucina, in soggiorno, nel ripostiglio, ma si era assicurato di spegnere quelle in camera ogni volta che facevamo sesso. Almeno così mi aveva detto. Non avevo mai controllato però, non pensavo ce ne fosse bisogno. Era chiaro che mi aveva preso in giro.

«Ci sono videocamere di sorveglianza in tutta casa. Può controllare…»

«Lo faremo, non si preoccupi. Per ora ci segua: finiremo di parlare in centrale.»

Non attese una risposta. Se ne uscì facendo cenno a uno degli uomini di seguirlo.

L’agente che mi aveva mostrato un minimo di riguardo, si offrì di accompagnarmi e così presi le mie poche cose e uscii con loro. Mi voltai un’ultima volta per guardare quella stanza d’appartamento che mi aveva regalato un sogno bellissimo, ma anche l’incubo più spaventoso che potessi fare.

 

Passarono sette anni da allora.

Il mio avvocato, che mi costò tutto quello che avevo, era riuscito a escludermi dalle accuse più gravi, ma per il resto dovetti aspettare il processo. Le registrazioni mostrarono chiaramente che non avevo ucciso Stefano. In uno dei video lo si vedeva chiaramente rientrare a casa, insieme a l’uomo con la maschera di cui si vociferava tanto.  Era lo stesso che aveva partecipato alle ultime riunioni. Si erano rinchiusi nella camera che nella mia mente chiamavo “ la camera dei cimeli”. Mezz’ora dopo uscì l’uomo in maschera. Da solo. Ripulì la porta dalle macchie di sangue che involontariamente aveva lasciato e poi era venuto in camera dove stavo dormendo. Quando vidi il filmato, morii di paura al pensiero di cosa avrebbe potuto farmi.

Ancora oggi mi sveglio di notte in preda agli incubi.

Non mi fece del male. Solo mi guardò, mi annusò e poi se ne andò. Prima però, prese dal comodino il mio braccialetto. Me lo aveva regalato Roberto per il nostro primo anniversario di fidanzamento. Era qualcosa cui ero rimasta affezionata e scoprire che l’aveva rubato, mi fece sentire ancora più sconfitta.

Alla fine del processo, venni scagionata dalle accuse, ma la mia vita era ormai rovinata. Persi il lavoro e finii su tutti i giornali. Dovetti trovare una sistemazione, ma non avendo un lavoro né più i risparmi di una volta, dovetti accontentarmi di un openspace in periferia. Mi organizzai con piccoli lavoretti, volantinaggio, pulizie e qualsiasi cosa potesse farmi raccimolare dei soldi. I fine settimana non esistevano più, ogni giorno era uguale all’altro e capii finalmente cosa intendessero le persone bloccate in un infinito circolo vizioso che non avevano scelto, ma in cui erano caduti per sbaglio. Grazie al mio avvocato, cui probabilmente feci pena, ottenni un lavoro da badante per una dolce vecchietta non troppo lontano da casa mia e giorno dopo giorno la mia vita  riacquistò una certa normalità; dopo quello che avevo vissuto, mi bastava. Forse presto sarei stata pronta per di più.

Un giorno suonarono alla porta e mi ritrovai davanti il mio ex marito. Qualcosa che davvero, non mi sarei aspettata. Non si era mai fatto vivo durante il processo, né subito dopo.

«Roberto!», dissi sorpresa «Che ci fai qui?»

«Ciao. Mi chiedevo come stessi e allora… Beh, eccomi.»

Non seppi come rispondere, ma avevo un buon ricordo di lui nonostante le nostre liti e la nostra separazione, quindi decisi di farlo entrare. Prendemmo il caffè contornati dall’imbarazzo. Poche parole, frasi corte e di circostanza, sguardi schivi e troppe domande nella testa. Non capivo il perché di tutto quel disagio: avevo passato con quell’uomo quindici anni, conoscevo tutto di lui, era un libro aperto, ma in quel momento non sapevo come interpretarlo. Non mi sarei mai aspettata una sua visita, non dopo quello che gli avevo fatto; conoscevo troppo bene di quanto risentimento era capace. Invece mi sorprese.

«Suppongo tu abbia saputo quello che è successo», dissi alla fine prendendo un po’ di coraggio.

«Come tutto il resto della nazione. Eri su tutti i giornali.»

Un’altra sorpresa. La risposta mi pizzicò non poco, ma dal tono scocciato che usò, capii che  pizzicava anche a lui.

Annuii perché non sapevo come rispondere al suo punzecchiamento.

«Mi sembra che vada meglio adesso. Ti sei sistemata abbastanza bene!», disse guardandosi intorno.

Lo guardai chiedendomi se era una battuta o era serio.

«Se un openspace di 30 mq e pulire merda tutto il giorno per te è essere sistemata bene, allora sì, direi che sono sistemata proprio bene.» So che non avrei dovuto lamentarmi di quello che ero riuscita ad ottenere, visto com’era la mia situazione fino a poco prima, ma il suo prendermi in giro mi fece scoppiare.

«Non volevo dire in quel senso. Intendevo che è un passo avanti rispetto a una cella tre per due.»

«Non sono mai finita in cella per tua informazione e scusami se te lo chiedo: ma perché sei qui? Per infilare il dito nella piaga?» Sono arrabbiata, con lui, con tutti gli uomini di questo mondo perché sono… sono…  O forse sono io che non sono giusta.

«Volevo solo fare un saluto e vedere se avevi bisogno di qualcosa.»

Le sue parole mi zittirono, facendomi sentire in colpa per come avevo reagito. Non avevo dubbi sulle sue buone intenzioni; perché avrei dovuto? Il silenzio divenne nuovamente scomodo, costringendo Roberto ad alzarsi e a incamminarsi alla porta.

«Ti ho messo di malumore; forse è meglio che vada.»

Lo seguii in silenzio senza cercare di fermarlo. Sull’uscio si voltò di colpo.

«Ah sì, dimenticavo. Sono venuto anche per questo.»

Tese la mano chiusa a pugno e io di rimando tesi la mia. Fece scivolare sul mio palmo, molto lentamente e per tutta la sua lunghezza, un braccialetto. La vista mi paralizzò.

Alzai la testa finché i nostri sguardi non s’incontrarono; la mia mascella allentata dallo sgomento.

«Buona vita Asia», disse con uno strano luccichio neglio occhi. Poi se ne andò.

Lo guardai camminare mentre mi tornava in mente quell’ultimo giorno di circa 9 anni fa, quando lo lasciai per Stefano. Sulla porta, gli dissi le stesse parole che lui mi aveva appena detto: Buona vita Roberto.

Mi aveva rovinato per sempre.

 

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Capitolo 3
*** Betty ***


Quella che segue è un’opera di fantasia. I protagonisti e i fatti di questo libro sono opera di finzione. Qualsiasi rassomiglianza con persone, fatti e luoghi è puramente casuale.

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Betty

Le luci al neon le facevano bruciare gli occhi. La puzza di disinfettante era opprimente, infilandosi nel naso prepotentemente fin quasi a togliere il respiro. Pensò che se lo sarebbe portato dietro per un bel pezzo. Come il ricordo di quel giorno. Mai incubo sarebbe stato più terrificante!

“Non ci fossi mai andata!” si rimproverava tra le lacrime. Lacrime pesanti come sassi e silenziose, colme di vergogna.

Il dolore che sentiva in tutto il corpo era niente in confronto a quello che aveva dentro. Era un’invasione al peggior livello possibile. Era ovunque: nella mente, nel petto, nello stomaco, intestino, braccia, gambe eppure… Non era qualcosa di fisico, no. Quel dolore era più infondo, più intimo. Era nell’anima.

Quel maledetto era riuscito a raggiungere la sua anima e ad accoltellarla, a sfregiarla nel modo più subdolo e vile che ci potesse essere. E Betty sapeva che non esisteva cura per quelle ferite. Asciugandosi gli occhi di continuo, con le mani ancora sporche di terra, si mordeva il labbro inferiore nel disperato tentativo di resistere a quel dolore che le rimbombava nella testa.

Una dottoressa la stava ancora visitando nelle parti intime, lasciando per dopo le escoriazioni e le lievi ferite alle braccia. Soprattutto le nocche erano rovinate. Ogni movimento le provocava dolore, ma era tollerabile rispetto a tutto il resto. Aveva provato a difendersi, lottando contro una bestia impazzita, ma per quanti sforzi facesse, niente sembrava funzionare. E alla fine lui aveva avuto la sua strada,si era imposto come una belva sulla sua preda,senza ritegno né rispetto, senza la minima decenza.

La dottoressa tra le sue gambe, si sforzava di essere gentile, le chiedeva se stava bene, se provava dolore, nel disperato tentativo di metterla a suo agio, ma per quanto Betty apprezzasse l’intento, aveva voglia di gridarle in faccia che no, non andava bene per niente. L’avevano appena violentata e malmenata in un vicolo buio dietro il cinema. Continuava a maledirsi per essere rimasta indietro dal resto del gruppo, solo per leggere uno stupido messaggio. Quando aveva rialzato gli occhi, i suoi amici erano già all’ingresso del parcheggio, molto più avanti. Era bastato per cadere vittima di quel criminale. O forse dovrebbe dire pazzo. 

Si era sentita afferrare da dietro e trascinare nel vicolo. Una mano tozza le aveva impedito di gridare. Il resto successe molto velocemente. Gli schiaffi, la stretta infernale e il dolore dell’imposizione, si schiantarono su di lei implacabili come un meteorite in caduta libera. Sembrava non dovesse finire mai, ma come ogni cosa, arrivò anche quella. Guardò il suo violentatore tirarsi su le brache e sorriderle compiaciuto, mentre lei restava a terra inerme, scomposta, la mente svuotata da ogni cosa. Non riusciva a formare un pensiero coerente, ma era solo in grado di ripetere: “È successo a me!”, come un mantra.

Mentre la sua mente riviveva il passato, un’infermiera entrò nella stanza avvicinandosi a lei. Attese che la dottoressa le passasse i campioni di liquidi ematici e seminali per consegnarli al laboratorio. Nonostante parlassero a bassa voce, sentì dire alle due donne che la polizia aveva richiesto i risultati ancor prima che fossero eseguiti. Betty l’aveva guardata con gli occhi arrossati e ancora umidi, chiedendosi cosa avrebbero detto le persone che la conoscevano, di quello che le era successo. Si sentiva così stanca! Avrebbe voluto avere la bacchetta magica per sparire dal mondo. Betty sapeva cosa stava per succedere. Le avrebbero chiesto di denunciare il fatto, di raccontarle i dettagli più spaventosi di quell’esperienza, di fare un identikit per cercare il suo aggressore e sapeva anche, che nonostante gli sforzi e le buone intenzioni degli agenti, non sarebbero riusciti a prenderlo.  Gli scarsi risultati avrebbero costretto la polizia a rallentare le indagini fino a interromperle. Il suo caso si sarebbe trasformato in un fascicolo destinato a essere dimenticato e sepolto sotto ad altri fascicoli come il suo.  Poi il tempo avrebbe fatto la sua magia. Avrebbe sbiadito i ricordi fino a renderli trasparenti, lenito le sue ferite fino a farle smettere di dolere, indurito il cuore fino a dimenticare come usarlo. Beh, lei non aveva intenzione di dimenticare un bel niente!

“Betty”, disse la dottoressa “c’è un ispettore di polizia che vorrebbe farti qualche domanda. Se te la senti.”

“Non lo so se voglio parlarci” rispose lei.

La dottoressa tra le sue gambe si alzò e la coprì con un certo riguardo.

“Ho finito. Manderò qualcuno per darti una ripulita. Ci sono delle docce…”

“Posso farlo da sola.”

L’infermiera lanciò uno sguardo preoccupato alla dottoressa che per contro gli fece cenno di lasciarle sole. E l’infermiera così fece. La dottoressa si prese il suo tempo prima di parlare.

“Betty, capisco che tu sia sconvolta in questo momento; è normale avere paura. So anche che desideri restare da sola, è quello che vogliono tutte dopo… Però vedi, non è un bene per te essere sola in questo momento. Inoltre, hai bisogno di lavarti, ripulirti da…tutto. Il regolamento prevede che ci sia qualcuno con te, per controllare che tu sia al sicuro. Potresti avere un malore improvviso.”

“Non voglio che nessuno mi tocchi” disse Betty con una certa apprensione.

“Certo, lo capisco e va bene; nessuno ti toccherà se non vuoi. Ci basta essere presenti, ma se preferisci…, tua madre è proprio qui fuori.”

“No!” L’orrore distorse il volto di Betty alla prospettiva. “Non voglio che mi veda così”.

La dottoressa sospirò comprendendo lo stato d’animo della ragazza e l’aiutò a sedersi. Betty strinse a morte labbra ed occhi per il dolore che la colpì, quando le sue parti intime toccarono il letto. Lo odiava e già contava i giorni che ci sarebbero voluti per guarire.

“So che fa male. Ti prescriverò delle medicine che ti aiuteranno e vedrai che andrà ogni giorno meglio.”

Betty finse di pensarci, ma dentro sapeva che nessuna medicina al mondo le avrebbe tolto quel dolore, niente l’avrebbe reso meglio e anche dopo, una volta guarita, la sensazione di quel dolore sarebbe rimasto con lei e con la stessa intensità di adesso.
Sorrise comunque mentre si muoveva per andare in bagno; sperava che almeno la preoccupazione si alleviasse. Ma forse sarebbe stato meglio parlare di vergogna. È quella che l’avrebbe perseguitata per un lungo periodo. O per la vita.

L’infermiera si avvicinò alla dottoressa guardando Betty camminare piegata su se stessa.

“Povera figlia! Ha solo ventidue anni. Pensa che si riprenderà?” chiese alla dottoressa sottovoce. L’altra donna ci pensò su un momento e poi disse: “Spero per lei di sì. Potrebbe peggiorare e allora avrà bisogno di tutta la forza possibile per non disfarsi.”

“Che intende?”

“Sta ovulando”.

Betty era rimasta in bagno a piangere per quasi un’ora. Seduta a terra in una doccia dell’ospedale che puzzava di disinfettante e di solitudine, privata della sua privacy ancora una volta a causa dell’infermiera appoggiata al muro del bagno. Si sentiva sola eppure non lo era, perché si trovava in un incubo infernale infestato da spettri e fantasmi che l’avrebbero mai lasciata libera.

 

25 anni dopo
L’orologio segnava le undici di sera e Nathan non era ancora rientrato. Sarebbe dovuto essere a casa per le otto, come ogni sera. Stava frequentando quel corso di scrittura creativa che Betty odiava. Avevano litigato per mesi al riguardo.
Era un corso costoso che avrebbe creato non pochi problemi al loro budget già molto esiguo. Non poteva aggiungere un altro lavoro ai due che già faceva, ma lui aveva insistito fino allo sfinimento, facendola sentire in colpa per non essere in grado di provvedere ai suoi studi come dovrebbe e così alla fine, aveva ceduto. Avrebbe pagato gran parte della quota se lui avesse trovato un lavoro part-time per coprire il resto che mancava. Questa era la sua condizione. Betty era certa che avrebbe fallito e invece trovò lavoro in una libreria e la paga era esattamente il necessario a coprire la sua parte di rata. Guarda tu il caso! Con suo grande disappunto, Betty dovette cedere perché un patto era un patto e lui l’aveva rispettato.

Lo sguardo che Nathan diede a Betty quando gli disse di aver trovato lavoro, fu un’altra coltellata. Il senso di colpa e la vergogna tornarono come ogni volta a divorarla dall’interno, portando con sé quel rammarico che non se n’era mai andato via. Sapeva che non era colpa di suo figlio, non la faceva sentire a disagio di proposito, ma non riusciva a smettere di rimproverargli colpe che non gli spettavano, solo perché non aveva altri su cui scaricarle. E poi… Si sentiva inadeguata per la maggior parte del tempo, chiedendosi se fosse una buona madre perché lei non pensava di esserlo. Così s’isolava nel suo disagio e nel suo silenzio per tutto il tempo perché era più facile che provare a dire qualcosa.
 

“Tsè, degno figlio del suo padraccio!” Se lo ripeteva nella testa ogni volta che discuteva con lui per qualcosa, sentendosi in colpa subito dopo per averlo pensato.

Da quando aveva deciso di tenere il bambino, aveva fatto i salti mortali per crescerlo come meglio poteva. “È quello che fa una brava mamma, giusto?” Si era interrogata molte volte sul motivo dei suoi sentimenti contrastanti per lui e la risposta era ancora troppo facile.

“Alla fine ho fatto la cosa giusta” si diceva ed era quello che l’aiutava ad andare avanti.

Comunque, Nathan era tornato a casa sempre puntuale nonostante le liti e le incomprensioni. Sin dal primo giorno di lavoro, quella dannata porta si apriva alle otto per lasciarlo entrare, con l’aria stanca, ma fin troppo soddisfatta. Si dava una ripulita e poi si univa con lei per la cena.
Stasera le cose erano diverse. Le lancette segnavano le undici e Nathan non era ancora a casa.

“Dovrei preoccuparmi? Si sarà fermato a parlare con qualche amico” pensò.

Quando aveva guardato per l’ennesima volta l’orologio alla parete, si lasciò sfuggire un sospiro esasperato. Si mise le mani in tasca frugando in cerca di niente e continuando a sospirare ogni pochi minuti. “Magari ha fatto un salto da quella ragazza con cui si vede ultimamente. La signora Vilma mi dice sempre che lo vede tutti i giorni al parco con questa ragazza bionda. Mi dice che pranzano insieme seduti su una panchina. E che sembra felice. Ridono molto. Non conosco la risata di mio figlio. Ricordo a stento quella di quand’era bambino, poi crescendo, ho fatto in modo d’insonorizzarla. Non credo che tornerà mai più a vibrare in questa casa. Vilma la sente ogni giorno invece. Dal suo negozio di fiori può vedere le persone che entrano al parco, perché si trova proprio accanto all’entrata principale. Sono invidiosa di lei, devo ammetterlo. Nathan ed io non abbiamo un bel rapporto e so che è per colpa mia. È che ogni giorno che passa somiglia sempre di più a suo padre e lo odio per questo. Non è un odio reale, è solo una parte di lui che vorrei cancellare per sempre. Ma è ancora mio figlio, ho scelto di tenerlo perché era innocente e perché sono contraria all’aborto; forse ho sopravvalutato me stessa. So che lui non è felice con me e le parole della signora Vilma, non fanno altro che confermarlo. Non parliamo mai, non guardiamo mai la televisione insieme. Non facciamo niente di quello che fanno di solito madre e figlio. Anche i pochi pasti sono pesanti, tanto che a volte mi passa l’appetito. Non fingerò che non sia colpa mia, perché lo è, ma è solo troppo difficile anche solo fingere di non averlo avuto come ho fatto.”

Betty si stava avvicinando sempre di più al punto di non ritorno. Quella condizione in cui cade qualsiasi genitore, quando capisce che il figlio o figlia potrebbe essere in pericolo. Ed è allora che si ricordò!
Negli ultimi tempi Nathan sembrava sempre stanco e spesso sul punto di svenire. Ogni volta l’aveva giustificato con una scusa; la doccia troppo calda, il pranzo saltato, la stanchezza del lavoro. E se ci fosse dell’altro?
Lo squillo del telefono la fece saltare come una molla. Automaticamente gli occhi le caddero sulla porta perché per qualche strano motivo, associò quel suono al rumore della serratura. Le ci volle un momento in più per capire che non era ciò che pensava. Si avvicinò al telefono trepidante di paura. Non riconobbe il numero, ma nella sua testa si fece largo l’idea che Nathan la stesse chiamando da casa della sua ragazza per dirle che sarebbe rimasto a dormire lì. Cosa non ti fa credere la paura!

“Pronto?”

“Parla la signora Elizabeth Green?”


“Sì sono io. Chi parla?” La voce di Betty iniziò a tremare per la paura.

“Chiamo dall’ospedale di Bedford. Lei è la madre di Nathan Green?” Il cuore di Betty saltò due o forse anche tre battiti, prima di riprendere a correre.

“Che cosa è successo?  Sta bene?” L’apprensione nella sua voce avrebbe impietosito una roccia, ma non la signora al telefono.

“Signora non posso dirle niente se prima non mi conferma che è la madre di Nathan Green”.

“Sono io, sono sua madre!”

“Sa dirmi la sua data di nascita e…”

Betty rispose con urgenza a tutte le sue domande, morendo dall’ansia di sapere cos’era successo a suo figlio. Quando l’interrogatorio finì, si sentì dire: “Dovrebbe venire qui in ospedale il prima possibile. I dottori hanno bisogno di parlare con lei della situazione di suo figlio”.

Era la mancanza di risposte a mandare Betty oltre i limiti. Com’era possibile che fossero sempre tutti pronti a parlare dei fatti degli altri, tranne quando serviva?

“Vuole dirmi cosa diavolo è successo a mio figlio? È ancora vivo almeno?”

“Cerchi di calmarsi signora, non posso…”

“Come pensa che possa calmarmi quando ricevo una telefonata dall’ospedale alle undici e mezzo passate, solo per sentirmi dire che mio figlio è lì!”

Dall’altra parte nessuno parlò per alcuni lunghi istanti. La signora capiva lo stato d’animo di Betty, ma sapeva anche che il protocollo in questi casi era rigido; in questo momento non le serviva una lettera di licenziamento per un attimo di pietà! Sentiva il sibilo del respiro della povera donna attraverso la cornetta e intanto s’interrogava se dirle qualcosa o meno. La decisione arrivò quando Betty scoppiò in un pianto disperato. I singhiozzi erano così ravvicinati da far pensare non sarebbe riuscita a prender fiato.

“Signora… Guardi non dovrei dirglielo, ma… Suo figlio è stato portato qui un paio d’ore fa da una ragazza. I dottori l’hanno visitato e adesso sta riposando, ma non può essere dimesso.”


C’è una pausa voluta, in cui la donna spera che Betty capisca tutto quello che ha detto per non doverlo ripetere.

“Ok, va bene. Ho capito. Sto venendo lì. Grazie per avermi informato.”

La donna del centralino sospirò di sollievo stando attenta a non farsi sentire per paura che Betty potesse farle altre domande. Salutò in fretta e riagganciò. Betty rimase in silenzio, ferma a guardare il display del telefono, mentre scivolava a sedere schiacciata dalla notizia. Nella sua testa continuava a ripetere parola per parola la conversazione appena avuta finché non le fu chiaro qual era il primo passo da fare; andare da suo figlio in ospedale.

 *** ***

Le parole del dottore le risuonavano nelle orecchie senza riuscire ad afferrarle. Era come se non conoscesse più il significato delle parole stesse, come se di colpo fossero parole di un’altra lingua, una ancora da decifrare. Tutto quello che sapeva, era che stava succedendo qualcosa di terribile al suo bambino e lei non era pronta ad affrontarlo. Come poteva? Doveva ancora superare ciò che le era successo 25 anni fa!

Conosceva il dolore, sapeva come affrontarlo. Certo, all’epoca non l’aveva fatto da sola; l’aiuto e all’amore di genitori e amici erano stati fondamentali per riuscirci. Ogni giorno che camminava fino al lavoro, era stato un successo; ogni sera che andava a letto e chiudeva gli occhi, era stato un passo in più verso la guarigione. Ma c’erano stati anche momenti in cui bastava un termine per rievocare l’orrore. Non c’era stato un singolo minuto in cui non aveva dovuto lottare e stringere i denti per arrivare a fine giornata. E per tutto il tempo continuava a ripetersi che forse, domani sarebbe andata meglio. E così era stato. Ma questo… Questo era diverso. E la paura? Mille volte più profonda di allora.

Quel dottore le stava dicendo che sarebbe successo di nuovo. Tutto il mondo si era improvvisamente colorato di un grigio sfocato e a renderlo peggiore, c’era il fatto che stavolta, anche suo figlio sarebbe affondato con lei.

“Signora mi sta ascoltando?” le disse il dottore.

“Io…, non sono sicura di cosa mi sta dicendo.”

 

Certo che non ne era sicura! Il suo cervello stava cercando come un disperato di trovare un altro significato a quelle parole e nonostante non ci riuscisse, Betty continuava a provare, rendendola ancora più confusa. Il dottore allora si sistemò meglio sulla sedia facendo un sospiro profondo. Lanciò uno sguardo d’intesa all’altra dottoressa nella stanza, che se ne stava con le braccia conserte, appoggiata alla libreria vicino alla finestra. Betty seguì i loro sguardi come in trance, senza riuscire a interpretarli.

“Signora…,”, le disse la dottoressa avvicinandosi “ha notato un significativo cambiamento in suo figlio nell’ultimo periodo?”

Betty ci pensò. L’aveva notato? Certo che l’aveva fatto, è solo che non gli aveva dato la giusta importanza. Si era sforzata così tanto di mantenersi a distanza per non essere ferita, da non accorgersi che suo figlio si stava ammalando? “Mio Dio, quale madre si comporta così?” si disse alla realizzazione.

“Non più del solito” fu la risposta di Betty.

“Mi scusi, ma… Come ha fatto a non vederlo? Suo figlio è bianco come un lenzuolo, ha pesanti occhiaie e…”

“Dottoressa!”

La voce del dottore fermò l’arringa della dottoressa indispettita con Betty per non essere stata una madre migliore.

“Pensano che non sia una buona madre. Pensano che l’abbia lasciato ammalare. Non l’ho fatto. Io… Io gli voglio bene, è solo che… Fa troppo male doverlo riconoscere, accettare, perché se lo faccio allora…, avrò vanificato tutto il tempo passato a odiarlo e se non posso neanche più odiarlo allora…, cosa mi resta?”

“Dott. Fork, questa donna non è in grado di prendersi cura di suo figlio. Se avesse prestato un minimo di attenzione, adesso non saremmo qui a parlare di come salvargli la vita.”

La dottoressa era arrabbiata per l’evidente negligenza di Betty.

“Il ragazzo è maggiorenne, può prendersi cura di se stesso e comunque in questo momento non è il problema principale” rispose il dottore cercando di calmare le acque.

L’accanimento della dottoressa sembrò l’espediente utile a risvegliare Betty dal suo torpore.

“Lei conosce mio figlio?” chiese Betty. La dottoressa la guardò dall’alto in basso in piedi davanti a lei, proprio come si fa con un colpevole sotto interrogatorio.

“Siamo amici” le disse alla fine “Ci siamo conosciuti per caso in biblioteca.”

“Certo” borbottò Betty. Suo figlio passava più tempo in quella biblioteca che a casa. Aveva una passione così profonda per i libri!

“Guardi signora, abbiamo bisogno di sapere se qualcuno in famiglia potrebbe essere disposto a sottoporsi alle analisi per cercare un donatore compatibile.”

Betty spostò tutta la sua attenzione sul dottor Fork, come se potesse proteggerla dall’argomento che più odiava in assoluto.

“Cos’ha mio figlio di preciso? Oltre ai rimproveri, l’unica cosa che mi avete detto è che è arrivato privo di conoscenza. Non può essere così grave da richiedere un trapianto. E poi, un trapianto di cosa?”

“Suo figlio ha la leucemia!” disse spazientita la dottoressa.

“Dottoressa Shuck!

La dottoressa rimase in silenzio, anche se fremeva per ribattere al suo superiore. Betty intanto era caduta di nuovo in confusione. Una confusione dettata dalla paura. Com’era possibile che non avesse capito che stavano parlando di leucemia? Ripensandoci, più della metà dei termini che avevano usato, non li aveva capiti. Se ci fosse stato Nathan al posto suo, l’avrebbe capito al volo.

“Signora!” Il dottore cercò di catturare l’attenzione di Betty, ma lei non era sicura di voler ascoltare. Guardava il dottore e si diceva: “Non ascoltarlo. Se non lo fai, niente di tutto questo sarà vero”. Il continuo richiamare del dottore, alla fine la riportò alla cruda realtà.

“Signora, suo figlio è affetto da una grave forma di leucemia. Purtroppo è a uno stadio avanzato. Cercheremo di rallentarlo, ma… Sarebbe bene iniziare a pensare a un trapianto di midollo osseo. Stiamo provvedendo a inserirlo nelle liste d’attesa, ma… Se ci fosse un famigliare che potesse prestarsi… ”

“Leucemia. Leucemia. Nathan ha la leucemia. La leucemia.”

Questo è tutto ciò che Betty riusciva a pensare. La dottoressa era spazientita e camminava per la stanza come un leone in gabbia. Il dottore smise di parlare quando notò la reazione di Betty. Di certo non stava dando l’impressione di una madre coraggiosa!

È solo che aveva bisogno di un momento in più per reagire, per capire cosa fare. Continuava a ripetersi che alla fine, aveva sempre fatto la cosa giusta, nel bene e nel male. Erano arrivati qui e non avrebbe smesso ora che suo figlio aveva più bisogno di lei.

“Va bene. Cosa devo fare?”

È il turno dei due dottori di restare stupiti. Si guardarono confusi, prima che il dottore riprendesse a parlare.

“Un’infermiera le prenderà un appuntamento. Lei e suo marito dovrete presentarvi qui per sottoporvi…”

Di colpo la dottoressa si bloccò sul posto e Betty sgranò gli occhi talmente tanto che sembravano due piattini da the. Il dottore guardò le due donne.

“Qualcosa non va?” chiese.

Betty chiuse gli occhi per sopportare una fitta improvvisa in mezzo al petto. Iniziò a mancarle il respiro e per un momento pensò che stesse per avere un infarto. Se questo era uno scherzo del destino, era davvero spietato.

“Signora si sente bene?”

Betty si costrinse a respirare e a rispondere al dottore. Doveva arrivare alla fine di questa giornata e domani, sarebbe andata meglio.

“M’infilerete un ago nella schiena?” disse dopo un lungo momento.

“Sì, dobbiamo prelevare delle cellule staminali per farle analizzare.”

Ci fu un momento di silenzio che sembrò l’attesa per qualcosa che stava arrivando. E infatti, arrivò.

“Oltre a lei c’è nessun altro che potrebbe…”

Betty non la lasciò finire.

“Ci sono solo io.” Poi si voltò a guardare la dottoressa con uno slancio tale da farla sussultare. “Se è amica di mio figlio, saprà che non c’è un padre nella sua vita”. La voce di Betty era dura così come il suo sguardo. Era il suo modo di fare un punto su di lei.

“Io e lei sappiamo bene che un padre c’è signora e le consiglio di contattarlo subito perché a suo figlio serve un trapianto il prima possibile e se lei non dovesse essere compatibile allora…,”

Nessuno aggiunse altro nella stanza. Le parole svanirono in fretta, lasciando in sospeso significati ben più agghiaccianti di quelli fin’ora trattati.

Betty non rispose, si voltò indignata e chiese al dottore se poteva vedere suo figlio e lui la congedò con un semplice cenno del capo. Betty due dottori si lanciarono sguardi interrogativi, prima di congedare Betty.

Quando arrivò nella stanza di Nathan, lo fece con uno stato d’animo angosciato, non solo per quello che aveva appena scoperto, ma per quello che non voleva neanche iniziare a prendere in considerazione.

Si fermò sulla porta a guardarlo per un momento. Lui stava guardando fuori dalla finestra; sembrava un uccellino chiuso in gabbia. Si chiese a cosa stesse pensando e spostando lo sguardo, notò un luccichio in controluce sulla pelle degli zigomi; capì così che neanche i suoi pensieri erano felici. Stava piangendo. Con un movimento furtivo si apprestò ad asciugarsi il viso, ma quando si guardò introno per assicurarsi che nessuno l’avesse visto, notò Betty sulla porta. Lo stava fissando con quel suo solito sguardo intransigente e indifferente; aveva iniziato a odiarlo.
Ingoiò in modo evidente per poi distogliere lo sguardo. Nella stanza c’era un altro letto vuoto, un comodino spoglio e due sedie sul lato opposto della stanza. Betty entrò in silenzio sedendosi su una di quelle sedie solitarie. Camminò con una lentezza e un’attenzione tale, da far saltare i nervi anche a un morto.

“Ciao” disse Betty dopo lunghi momenti di silenzio. Non era sicura di come iniziare e si rimproverò per non saper parlare a suo figlio. Doveva aver fatto proprio male se erano a questo punto.

“Mi dispiace che ti abbiano fatto venire fin qui. Avevo detto di non chiamare nessuno, ma hanno insistito.”

Betty annuì guardandosi le mani. “È la dottoressa tua amica che ha insistito?” chiese.

Nathan si voltò a guardarla preoccupato.

“Hai parlato con lei?”

“Beh, più che altro è lei che ha parlato con me, ma sì, abbiamo parlato, io e i dottori.”

Scese il silenzio. Betty si chiedeva se i dottori avessero detto anche a lui di cosa si tratta veramente.

“Non voglio che tu faccia niente” se ne uscì all’improvviso lui e Betty seppe in quel momento che sapeva ogni cosa.

“Ho già preso un appuntamento. Lo risolveremo, vedrai!”

Non sapeva da dove le era uscita quella frase così fiduciosa, ma fu qualcosa che fece irritare suo figlio.

“Non si risolverà un bel niente. E da quando t’interessa cosa mi succede? Non te n’è mai importato troppo di me.”

Le parole di Nathan si attaccarono a lei come tante piccole meduse schifose, mordendola fino a farla diventare matta. Ecco cos’aveva ottenuto con il suo comportamento. Ecco a cosa l’aveva portata il rancore e la rabbia. Solo ad altro rancore e ad altra rabbia.

“Sono tua madre.”

“E da quando significa qualcosa? Non voglio che tu lo faccia.”

Betty non rispose. Decise d’ignorare ogni pensiero le finisse sulla sua lingua perché non sarebbe stata quella giusta. Aveva commesso tanti errori nella sua vita, soprattutto con lui e sapeva che ne avrebbe pagato il prezzo presto o tardi, ma per quanto Nathan avesse tutto il diritto di rimproverarla, continuare a discuterne adesso non li avrebbe portati a niente. Doveva guarire Nathan, poi avrebbe pensato ai rimproveri.

“L’orario delle visite è finito signora.” disse un’infermiera restando sulla soglia della stanza. “Mi dispiace, ma deve uscire.”

“Tornerò domani” disse mentre si alzava. Si sforzò d’ignorare la voce di suo figlio che le chiedeva di non farlo e uscì di lì con il cuore gonfio di pena e di rammarico verso se stessa.

 *** ***

Era passata una settimana da allora e Nathan era ancora in ospedale. Continuava a svenire, si sentiva sempre stanco e il pallore della sua pelle era così evidente da renderlo innaturale. Un paio di volte aveva sanguinato dal naso così tanto, che gli infermieri faticarono a fermare l’emorragia. Il che significava solo una cosa: la malattia stava progredendo.
Come promesso, Betty era tornata a trovarlo ogni giorno. Instancabile, paziente, silenziosa e presente come il giorno e la notte. Si sedeva lì, su quella stessa sedia, ogni benedetto giorno e restava in silenzio ad aspettare che il suo tempo finisse. Nessuno dei due provava mai a dire qualcosa. Nathan fingeva che non ci fosse e continuava a leggere i suoi libri sforzandosi d’ignorarla, anche se ogni tanto la guardava da dietro le pagine del libro, interrogandosi se avrebbe dovuto parlarle. Voleva, ma non era sicuro di come avrebbe risposto. Betty si guardava le mani per gran parte del tempo. Gli lanciava sguardi di nascosto per non farsi vedere, sospirando imbarazzata e tornando l’istante successivo a guardarsi le mani. Nathan l’aveva scambiato per un gesto d’insofferenza. Si era convinto che le pesasse essere lì.

“Perché continua a venire se non vuole essere qui?” si diceva.

 

Betty invece ribolliva dentro per non essere in grado di dimostrare a suo figlio che era preoccupata per lui e che voleva, essere lì. Il fatto che lui leggesse invece di considerarla, la costringeva a restare in silenzio, convinta che lui non la volesse.  Un paio di volte aveva provato a farsi coraggio e a chiedergli come stava, se voleva che le portasse qualcosa da casa o se doveva avvertire qualcuno, magari al lavoro oppure quelli del corso di scrittura; chissà magari riusciva anche a farsi rimborsare una parte dei soldi già versati! Si pentì di quel pensiero non appena lo fece, vergognandosi e arrabbiandosi per la costante condizione di bisogno in cui era costretta, nonostante tutti gli sforzi lavorativi. Così aveva rinunciato a chiedere qualsiasi cosa. Prendeva informazioni dall’infermiera prima di entrare o prima di tornare a casa. Restava a guardarlo, provando una nostalgia profonda per quei tempi in cui poteva ancora tenerlo in braccio e baciarlo come fanno tutte le mamme del mondo, quando poteva far finta che le cose erano ancora facili e si poteva fingere che non avessero questo sapore amaro come un veleno mortale.

Betty si era sottoposta ai test con una calma preoccupante. Non aveva detto una parola, se non per rispondere alle domande dei dottori.  Genitori, amici e colleghi avevano notato il cambiamento e ne erano preoccupati. Se ne stava sempre da una parte, col muso lungo e lo sguardo perso, facendo le sue cose come un robot programmato a dovere. Scandiva i secondi in modo invidiabile ed evitava abilmente ogni perdita di tempo. Da quando Nathan era in ospedale, perfino fare la spesa era diventata una perdita di tempo, tant’è che ben presto le dispense e il frigorifero divennero semivuoti.
Nathan fu dimesso dopo circa un mese. Betty si era proposta di andarlo a prendere, ma lui aveva detto che sarebbe tornato con la dottoressa Shuck.  Per Betty fu un altro brutto colpo, ma non lo diede mai a vedere. Sua madre aveva provato a parlare con lei, ma la sua risposta era stata che doveva sbrigarsi a rendere presentabile la casa per il ritorno di Nathan, dileguandosi poi in bagno fingendo di pulirlo. Era rimasta lì un’eternità! Seduta sulla tazza del bagno a guardare fuori dalla finestra, pensando a prospettive che non voleva neanche prendere in considerazione. Sì perché proprio quella mattina, l’ospedale aveva chiamato dicendo che purtroppo i test l’avevano dichiarata incompatibile per la donazione a suo figlio. Le era caduto il mondo addosso. Di nuovo. La prospettiva che aveva allontanato con tanta caparbietà, adesso stava tornando più nauseante che mai. Non era sicura sarebbe riuscita a farlo.

Quando Nathan e Victoria arrivarono, trovarono la casa riordinata e profumata come Nathan non ricordava di averla mai vista. C’era un dolce profumo che aleggiava nell’aria e quando chiese di potersi sdraiare, anche le lenzuola avevano la stessa fragranza dell’aria. Dei fiori freschi erano in bella mostra sulla scrivania. Aveva risparmiato un pò - non facendo quasi più la spesa – così da avere abbastanza soldi per comprare quei profumi fatti apposta per il bucato, fiori freschi da un fioraio e poi aveva acquistato un libro che sperava gli piacesse; forse così avrebbe fatto qualcosa di buono per lui.
Betty si sentiva come se dovesse in qualche modo rimediare alle sue mancanze, come se un libro fosse in grado di aggiustare le rotture tra di loro. Aveva impacchettato il libro in una bella carta blu, con un fiocco dorato sul lato destro e lo aveva appoggiato sul comodino vicino al letto. Era rimasta a guardarlo per lunghi momenti, la sera prima, fremendo per l’attesa; chissà se lo avrebbe apprezzato?
Nathan rimase in silenzio e indifferente a tutto però; alla casa ordinata, al letto profumato, ai fiori freschi – anche perché parenti e famigliari (i genitori di Betty), avevano portato mazzi di fiori per augurargli una rapida guarigione. Ignorò anche il regalo sul comodino. Volutamente. Dal dispiacere, Betty disse che doveva tirar fuori la torta dal frigo, ma era solo una scusa per non farsi vedere con gli occhi velati di lacrime! Tutti capirono il suo disagio, anche Nathan e se ne pentì. Il fatto è che si era abituato così tanto a ignorarla e a darle la colpa di ogni singola cosa, che non sapeva più come fare a smettere.

"Che cosa dovrei dirle dopo come mi sono comportato con lei in ospedale, ogni volta che veniva a trovarmi?”

Si era chiesto più volte il perché di questo silenzio da parte di entrambi e la risposta fu che, semplicemente, nessuno dei due aveva avuto coraggio.

“È mia madre. Non dovrebbe essere così.”

“È mio figlio. Non dovrebbe essere così” pensarono entrambi.

Nathan trovò il coraggio di scartare il regalo solo quando rimase solo nella sua stanza, dopo che tutti se ne furono andati.

Era tardi e Victoria fu l’ultima ad andarsene. Lei e Betty non si erano scambiate più di poche parole di saluto e Nathan le aveva osservate: c’era tensione tra loro, ma non saprebbe dire perché. Non aveva chiesto a Victoria e di certo non avrebbe chiesto a sua madre; non avrebbe risposto comunque.

Aprì il regalo molto lentamente, staccando lo scotch pezzetto per pezzetto. Un’eterna agonia. Le tornò in mente sua madre quel primo giorno in ospedale, quando impiegò un’eternità nel sedersi su quella sedia. All’epoca, aveva pensato fosse perché non voleva essere lì, ma forse adesso capiva che non era per quello. Forse si era sentita come lui nello scartare il suo regalo: impaurito. Di colpo ogni cosa acquisisce un significato diverso. Ogni gesto, ogni sguardo, ogni sospiro…, non erano di noia, ma di paura. E di tristezza.
Da sotto la carta regalo, fuoriuscì un libro che non aveva ancora letto. Non per mancanza di desiderio, ma perché costava troppo. Era una vecchia edizione di tutte le principali opere di Lovecraft. “Deve averlo pagato un sacco!”
Nathan rimase a guardare il libro per interminabili minuti, accarezzandone il dorso, studiando con gli occhi ogni lettera, ogni rilegatura, annusando il suo profumo colmo di sapienza e del tempo che è passato sul mondo.
Sfogliò le prime pagine di quel libro con reverenza, neanche fosse il libro sacro di qualche civiltà scomparsa. Si bloccò di colpo quando vide una scritta a mano sulla pagina. La scrittura era tremula, quasi incerta, come se avesse timore di quello che stava scrivendo. Scritto in piccolo e un po’ storto al centro della pagina c’erano poche parole.

Forse non ti merito,
ma rinunciare è da vigliacchi.
Sono qui, che tu lo voglia o no.
Sarò sempre qui. È dove devo essere.
È dove voglio essere.

                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                            La tua mamma

Non parlava con sua madre, da quando era entrato in ospedale, ma in quel momento si rendeva conto che la sua presenza era stata una costante importante in quel mese di degenza. Aspettava con impazienza l’ora in cui sarebbe entrato dalla porta per sedersi sulla sedia contro il muro, in silenzio, aspettando che il tempo passasse, rimettendosi a qualsiasi cosa lui volesse, qualcosa che era stato sempre e solo un silenzio pesante.   Ora, con quelle poche righe incerte e intrise di paura, aveva distrutto le sue difese e la sua mancanza, il ricordo della sua voce si fece sentire come un colpo di cannone ravvicinato. Le era mancata sua madre. Una lacrima scese solitaria, con lo stesso silenzio che aveva accompagnato il loro rapporto in quest’ultimo mese.
 

6 mesi dopo

Nathan fu costretto a tornare in ospedale sette mesi dopo aver saputo di essere malato. Si era sentito male durante la notte, vomitando sangue e nel tragitto in ambulanza verso l’ospedale, perse conoscenza tre volte.

“Signora, mi dispiace dirglielo, ma…” il dottore fece una pausa non sapendo come dirle quella triste verità. “Siamo arrivati al capolinea. La malattia di Nathan sta progredendo più velocemente di quanto pensassimo e nonostante i nostri sforzi per trovargli un donatore compatibile, non ci siamo ancora riusciti. Credo dovrebbe iniziare a prepararsi per…, l’inevitabile.”

Betty non disse niente, ma una patina acquosa le offuscò la vista. Stavolta, niente avrebbe fermato quelle lacrime dal venire giù.

“Lui lo sa?”

“Volevamo prima parlarne con lei” disse il dottore.

“Scusi se glielo chiedo signora, ma… Dov’è il padre di Nathan? Perché non parla con lui?” disse la dottoressa Shuck. Betty sospettava ci fosse più di una semplice amicizia tra loro, ma lui non gliene aveva mai parlato e lei non voleva spingere, quindi si tenne per se quella domanda.

“Se lei e Nathan siete amici, allora dovrebbe sapere che non c’è un padre nella sua vita.”

“Forse non c’è nella sua vita, ma dev’esserci da qualche parte, a meno che non sia morto.”

“Sarebbe stato meglio se fosse morto” pensò Betty in cuor suo. “Anche dicendoglielo, dubito accetterebbe di farlo. Non sono neanche sicura che sappia di Nathan!”

“Credo che arrivati a questo punto,” disse il dottore “dovrebbe fare un tentativo. Se Nathan dovesse…morire, lei non si perdonerà mai di non aver fatto quella telefonata.”

Betty si asciugò il viso dalle lacrime e si alzò dalla sedia.

“Se non c’è altro, andrei da mio figlio. Credo sarebbe meglio ci fossimo tutti a dirgli cosa potrebbe succedergli.”

I due dottori si guardarono, prima di muoversi tutti insieme fuori dalla stanza.

Betty uscì da lì con una lentezza disarmante, come se tutto il peso del mondo le fosse caduto addosso e ora non riuscisse quasi più a muoversi. Entrò nella stanza di Nathan in silenzio, come le precedenti volte, sedendosi sulla sedia dall’altra parte della stanza, giocando con le mani e aspettando che il suo tempo finisse. Non c’era l’aspettativa di sentire una parola da suo figlio stavolta, perché era intubato e stava dormendo. Il che le permise di riflettere su quello che si stava accingendo a fare. Sperava solo che tutto andasse bene.

*** ***

Quando una settimana dopo arrivò davanti al carcere di Bedford, i piedi si bloccarono un attimo prima di varcarne il cancello. Faticò a ingoiare. La trachea si era chiusa e non ne voleva sapere di far passare qualsiasi cosa. Niente entra e niente esce, neanche l’aria. Capì che stava per avere un attacco di panico. Non aveva detto a nessuno che sarebbe venuta qua, era sola e ora si pentiva di quella decisione. Sapeva che sarebbe stato difficile, ma questo era peggiore di qualsiasi scenario immaginato. Poteva quasi sentire la puzza in quel vicolo, il suo volto ghignante mentre si forzava su di lui, i suoi gemiti che si contrapponevano alle sue grida interiori, il suo piacere contrapposto alla sua agonia. Gli aveva rovinato la vita e non sapeva davvero come avrebbe fatto adesso a chiedergli di salvare suo figlio, lui che non aveva risparmiato lei da una vita miserabile.

“Signora che cosa fa lì sul cancello? Si sente bene?”

Betty alzò lo sguardo e trovò una guardia, una donna, che la fissava preoccupata, con le mani appoggiate sul cinturone.

“Sto bene grazie” disse. Non sapeva neanche lei dove aveva trovato il coraggio di parlare. “Ho un appuntamento per una visita.”

“Ah sì, lei dev’essere la signora Elisabeth Rupert. Ci hanno avvisato del suo arrivo. Il suo avvocato sta per arrivare?”

“Non ho un avvocato. Sono solo io.”

La guardia non disse niente, solo la osservò con un cipiglio sul volto. Non capiva, pensò Betty. “La capisco, neanch’io so cosa sto facendo.”

“Va bene mi segua. La porto al suo appuntamento.”

Quelle parole nausearono Betty. Non tollerava l’idea di lei e quell’uomo neanche nello scenario più apocalittico possibile; la sola idea le dava la nausea. Betty seguì la guardia in silenzio, il cuore a mille e una strana agitazione che le scuoteva le viscere. La fece sedere in una stanzetta con dei tavoli rotondi e due sedie. Vi erano una decina di tavoli in tutto, con un'unica finestra a filtrare la luce dall’esterno, ma per quanto il sole illuminasse l’ambiente, la sensazione era claustrofobica.
La guardia parlò alla radio trasmittente dicendo di portare il detenuto in sala visite e poi rimase lì, sulla soglia ad aspettare.
Nel silenzio opprimente di quella stanza, Betty s’interrogava su come dire a quest’uomo che aveva bisogno del suo midollo osseo per salvare il figlio nato dal loro unico incontro.  Era certa non si sarebbe prestato; troppo cattivo perché pensi al benessere di qualcun altro oltre al suo.
Passarono dieci minuti e poi si udirono delle voci nel corridoio. Betty si voltò a guardare la porta, neanche fosse quella dell’inferno. Le tremavano le mani e stava iniziando a sudare. Erano passati 25 anni, ma la sensazione di paura di quella sera non se n’era andata, si era solo nascosta nel profondo più remoto di lei, aspettando pazientemente che arrivasse il suo momento. Beh, quel momento era arrivato e non stava risparmiando niente a Betty. Alla fine un uomo con indosso una tuta arancione comparve sulla soglia; dietro di lui due guardie.

“Siediti e comportarti bene.”

Entrarono in due, la guardia – stavolta era un uomo – e Robert, il suo stupratore. La guardia che l’aveva scortata dal cancello fin lì, rimase appena fuori dalla porta. Quando Robert si sedette davanti a Betty, ci fu un ritorno al passato così rapido da darle le vertigini. Strinse il bordo del tavolo con entrambe le mani per tenersi ferma, ma occhi di lui scesero sulla sue mani e un sorriso cattivo gli nacque sulle labbra.

“Guarda guarda chi si vede. E io che pensavo ti fossi dimenticata di me!”

“Dobbiamo parlare di qualcosa” disse Betty racimolando il poco coraggio rimastole.

“Non abbiamo niente da dirci. Se volevi parlare dovevi farlo 25 anni fa, in quell’aula di tribunale. Mi hai fatto apparire come un criminale incallito, facendomi finire qui per un unico, solo errore.”

“Hai avuto quello che meritavi!” La voce di Betty è astiosa, nonostante la calma che ostenta. “E sappiamo entrambi che questa non è la tua prima visita qui. Ti hanno dato dieci anni per quello che mi hai fatto. Ne sono passati 25 da quel giorno. Direi che hai commesso più di un errore.”

“Sporca puttanella, che fai, mi controlli? Non ti è bastato rovinarmi la vita?”

“Non voglio parlare del passato. C’è altro che ha bisogno di essere detto.”

“Hai una bella faccia tosta, lo sai?”

Betty non parla, tiene lo sguardo basso e aspetta che lui sia pronto ad ascoltare. Non vuole farlo e questa è la sua ultima occasione per ripensarci e andarsene di lì, nascondendogli la verità per sempre, ma con lei sarebbe scappata via anche l’ultima possibilità di suo figlio di guarire e non poteva permetterlo. Era sua madre e non importava quanto facesse male, doveva restare e fare quello per cui era venuta.
Robert la osservava, così calma, come se stesse per farle la rivelazione del secolo. Si passò una mano sul viso, evidentemente frustrato.

“Senti, quando ci siamo incontrati…” Le sopracciglia e lo sguardo di Betty scattarono su di lui a quell’affermazione, quasi facendolo saltare dalla sedia. Le guardie li sbirciavano con la coda dell’occhio. “Io… Era un periodo di merda per me, avevo perso il lavoro e la mia ragazza mi aveva mollato per un altro. Mi sono immischiato con gente poco raccomandabile e…, Ho fatto una cazzata, ok? Ma questo non fa di me un criminale.”

Betty non sapeva come contenere la rabbia che sentiva dentro di lei.

“Cos’è, il carcere ti ha mostrato i tuoi fantasmi?” si disse.

Voleva rovesciargli il tavolo addosso e colpirlo come aveva immaginato di fare tante volte, ma si sarebbe messa nei guai e allora chi avrebbe pensato a Nathan? Doveva restare calma.

Betty si fermò a guardare le manette; era come se fossero in procinto di rivelarle qualcosa d’insondabile, una realtà che non conosceva. Ricorda cosa disse l’avvocato al processo, ma in quel momento non aveva ascoltato, c’era solo la sua disperazione che gridava e non c’era posto per altro.
Robert mosse le mani sul tavolo. Il metallo delle manette fece rumore sull’acciaio del tavolo, riportando Betty alla realtà.

“Dal nostro…incontro, sono nate delle conseguenze più ampie di quelle che potresti immaginare.”

Robert rimase immobile, la preoccupazione a quell’affermazione era evidente su tutto il suo viso.

“Sono rimasta incinta.” disse dopo un momento troppo lungo di silenzio.

Gli occhi di Robert si dilatarono e la mascella si allentò visibilmente. Anche le due guardie la fissarono interdetti.

“Ho un figlio?”

“No, ho un figlio. Di quasi 25 anni ed è malato.” Betty fece una pausa per dare il tempo a Robert si digerire l’informazione. Quando vide che non si muoveva e non riuscendo a distogliere lo sguardo catatonico da lei, continuò.

“Ha una grave forma di leucemia. I dottori dicono che non c’è più niente da fare. È stato inserito nelle liste d’attesa per un trapianto, ma ci vuole tempo e noi non ne abbiamo più. Inoltre… Sembra che i suoi anticorpi siano particolari; non saprei ripetere le parole del dottore, ma dicono sia qualcosa di genetico, qualcosa che io non ho, quindi deve averla presa da te.”

Betty si fermò di nuovo. Sapeva che era molto da prendere, ma anche restare incinta del proprio stupratore, era molto da accettare. Negli sguardi della gente aveva sempre letto il loro disaccordo per la sua scelta e anche quello, era qualcosa di abbastanza difficile con cui convivere.
L’istante si prolungò in minuti senza che nessuno dei due parlasse. Le guardie sembravano quasi più in difficoltà di loro. Li guardavano a turno per poi scambiarsi occhiate interrogative, ma il silenzio che regnava in quella stanza era qualcosa di così profondo da mettere i brividi. Sembrava di essere in un'altra dimensione.  

“Lui sa di me?” disse Robert alla fine.

“Certo che no! Che cosa avrei potuto dirgli? Scusa tesoro ma tuo padre non c’è perché ti ha concepito violentandomi all’uscita da un cinema e ora è in carcere?”

Robert si morde la lingua, ma non ribatte. È la prima volta che Betty risponde con un mordente e non se lo aspettava. Non che avessero avuto altri incontri, ma ricordava che per tutto il processo non aveva fatto altro che starsene in silenzio a piangere. E quelle rare volte che aveva parlato, la sua voce era remissiva e piccola come quella di un uccellino morente. Ma tornando a Nathan, non che avesse tutti i torti. I bambini sono curiosi, fanno tante domande e alla fine riescono sempre a trovare un modo per far uscire la verità.

“Quindi… perché sei qui? Per invitarmi al suo funerale?”

Se non ci fosse stato così tanto in gioco, l’avrebbe schiaffeggiato sul momento per quell’uscita infelice. Come può diventare così insensibile una persona? Ma di nuovo: doveva restare lontana dai guai.

“Gli resta una possibilità. Tu. E per quanto mi si rivolti lo stomaco a chiedertelo…” Betty aveva bisogno di un momento. Fece un respiro profondo rispuntando l’aria lentamente prima di finire la frase.  “Vorrei che ti proponessi come donatore.”

Robert restò in silenzio a fissarla per un lungo momento. La tensione crebbe in un batter di ciglia. Le guardie stavano ascoltando in silenzio la loro conversazione. Probabilmente pensavano che la vita era assurda o forse si stavano appassionando a questa strana soap-opera macabra.
Poi Robert iniziò a ridacchiare, rendendo confusa Betty. La risatina divenne in fretta una grassa risata che attirò gli sguardi sgomenti non solo di Betty, ma anche delle guardie.

“Smettila o ti porto in isolamento” disse la donna sulla soglia della porta.

“Non puoi farlo! Sto solo ridendo. Di questa…povera-donna che se ne sta qui a elemosinare il mio aiuto, dopo che mi ha tenuto nascosto di aver avuto un figlio da me. Per 25 anni!”

Il tono di Robert si fa più duro man mano che parla fino a schiaffeggiare con forza il tavolo nel finire la frase.

“Hai la possibilità di fare qualcosa per lui ora” disse con coraggio Betty. “So che uscirai tra un anno.”

A questo la rabbia di Robert passò in secondo piano. Come faceva a sapere quando sarebbe uscito? Rimase in silenzio, dando a Betty la possibilità di finire il suo pensiero.

“Se dovessi accettare, potresti uscire da qui prima. So che potrebbe essere concesso un permesso speciale in questi casi. Resteresti in ospedale, sotto sorveglianza certo, ma saresti fuori di qui e i test porterebbero via un po’ di tempo. Nel caso fossi compatibile a un trapianto poi, beh il tuo avvocato potrebbe chiedere al giudice di anticipare la tua scarcerazione. Magari aderendo a qualche servizio pubblico o entrando in qualche comunità”.

“Mi stai ricattando?”

“Sto dando una possibilità a mio figlio.”

“E cosa c’è per me? Devo lasciarmi punzecchiare da aghi, sottopormi a test, lasciare che una fighetta in divisa blu mi aspiri il midollo. So che fa un male del diavolo. Voglio dire: merito una ricompensa per il lavoro!”

Le mani di Betty strinsero il tavolo così forte da diventare bianche. Si era ripromessa di non fare stupidaggini, ma questo era davvero troppo. Sapeva che non avrebbe ottenuto niente da una rapa come lui.
Betty prese la sua decisione in quel momento. Si era costretta a venire qui, calpestando i suoi sentimenti e ignorando il dolore che ancora provava dentro, la sua dignità ridotta a uno zimbello, solo per salvare suo figlio, un figlio che non aveva cercato, ma che era arrivato lo stesso. Avevano vissuto momenti difficili e lei aveva faticato molto a riconoscere che gli voleva bene come qualsiasi altra mamma, ma l’aveva capito solo alla fine. Non voleva rinunciare così facilmente, ma non poteva fare di più. Robert voleva soldi, l’unica cosa che non aveva. Quindi, doveva lasciare che il resto lo facesse Dio.
Si alzò in silenzio mettendosi la borsa sulla spalla. Robert la guardò confuso, non aspettandosi quella reazione.

“Hai tempo fino a lunedì per prendere la tua decisione. Dopodiché… Buona permanenza qui.”

Betty andò alla porta, dove la guardia si fece da parte per lasciarla passare. Nella stanza l’altra guardia si avvicinò a Robert invitandolo ad alzarsi per tornare in cella. Rimase con gli occhi incollati a Betty finché non sparì oltre i corridoi del carcere.


La settimana successiva

Era ancora molto presto quel giovedì. Betty non si era alzata alle sei del mattino come ogni giorno. Si era presa un permesso dal lavoro perché, per quanto avesse bisogno di soldi, non riusciva a smettere di piangere. Il lunedì era passato in un silenzio esasperante. Nessuna novità dall’ospedale e neanche dal carcere di Bedford. Non aveva ricevuto alcuna chiamata e sì che aveva lasciato il suo numero all’agente prima di andarsene, per inserirlo tra i contatti di Robert.
Il giorno prima Nathan aveva avuto un arresto cardiaco. Vedere il suo corpo smagrito e pallido, sobbalzare sul letto in modo innaturale, con tutti i muscoli tirati dalle scosse elettriche che frustavano il suo corpo, non era stato piacevole. Le aveva lasciato uno strano sapore in bocca, come quando mangi qualcosa di scaduto. Era amaro per non parlare di quello che aveva provato alla vista. Aveva trattenuto il respiro per tutto il tempo e se n’era resa conto solo quando dovette risputarla fuori per non soffocare.
Alla fine, una telefonata sul finire di quel giovedì silenzioso e triste arrivò. Era l’avvocato di Robert. La informava che il suo cliente aveva accettato di sottoporsi ai test per il trapianto, ma poiché in ospedale non c’era più posto, aveva indicato casa sua come luogo per gli arresti domiciliari che era stati già accordati.
Il mondo di Betty iniziò a girare e la bile si riversò in bocca. Avrebbe dovuto condividere la sua casa con il suo stupratore? Mai! Non accetterà mai di farlo. Non può. Non è giusto, non doveva andare così.

“Signora mi sente? Ci sono dei documenti da firmare, dovrebbe presentarsi domani al carcere di Bedford, così una volta firmate le carte, potrete recarvi direttamente in ospedale.”

Betty stava ascoltando, ma non voleva. Non riusciva a dire niente, continuava solo a pensare che non lo voleva vicino a lei. Ma poi le passò davanti agli occhi il corpo straziato di suo figlio, le scosse elettriche che lo facevano saltare, l’agitazione nella stanza, gli ordini del dottore impartiti ad alta voce, rendendo chiaro che stavano lottando per la vita di suo figlio. Come poteva dire di no all’unica possibilità che le restava per cercare di salvare suo figlio?

“Quando devo essere lì?” chiese con un filo di voce.

Dall’altra parte ci fu un momento d’esitazione.

“Lei era al corrente di questo accordo, vero signora? Perché se non fosse d’accordo…”

“Lo sono. È solo… Non ci speravo più” mentì Betty.

“Capisco” disse dopo un momento l’avvocato.

Betty chiese se l’ospedale fosse stato avvertito, prese nota dell’ora dell’appuntamento e riagganciò con il martirio nel cuore.

 

*** ***

Betty era seduta come ogni giorno sulla sedia dell’ospedale nella stanza di Nathan. Di tanto in tanto si appisolava per poi risvegliarsi di soprassalto quando la testa le cedeva. Si diceva che era oltre la stanchezza, oltre lo stress e tutto quello che poteva fare, era sopravvivere.
Robert si era sottoposto ai test, ma solo una volta stabilitosi a casa di Betty. Non le risparmiò niente, né occhiate storte né battutine sgradevoli. Betty sopportava, in silenzio, chiudendo gli occhi e respirando a fondo, proprio come aveva imparato in quel primo anno dopo lo stupro. All’epoca aveva funzionato; chissà che avrebbe funzionato anche adesso.
Robert risultò compatibile con Nathan; il trapianto era possibile.

Quando Betty lo seppe, provò una sensazione di sollievo, come se le avessero tolto un peso dal petto. Certo, non ne aveva potuto godere appieno perché condividere la propria casa già essenziale, con un uomo che disprezzi e temi, non è facile. Si chiudeva a chiave in ogni stanza, dal bagno alla camera e odiava che non ci fosse una porta anche tra la cucina e il soggiorno. Robert aveva occupato la stanza di Nathan, dove passava gran parte del suo tempo e per quello, Betty ne era grata, anche se non si sentiva ancora al sicuro. Portava un braccialetto elettronico al piede e la polizia aveva installato una centralina in casa; in questo modo non si sarebbe potuto allontanare troppo dall’abitazione. In realtà poteva arrivare al massimo sul pianerottolo dell’appartamento.
La prima settimana che Robert si era trasferito, Betty non aveva quasi dormito. Ogni rumore, ogni scricchiolio, perfino il cane che abbaiava nella strada riusciva a spaventarla. Le vorticavano strane idee in testa, immagini di lei accoltellata o strangolata nel sonno, suo figlio costretto a vivere il resto della sua vita con lui, il che era stupido visto che Nathan era maggiorenne, ma si sa, la razionalità in certe situazioni va a farsi benedire!
Il trapianto fu eseguito la settimana successiva.

Nathan perdeva conoscenza di continuo e il tempo a disposizione era finito, quindi dovettero anticipare l’intervento che fu…improvviso.
Il giorno del trapianto Betty scelse di restare seduta sulla sedia nella stanza di Nathan, come aveva fatto sempre durante la sua degenza e si sforzava di pensare, che da un momento all’altro sarebbe entrato da quella porta insieme agli infermieri, rassicurandola che era andato tutto bene. Ma Nathan tardava a tornare in stanza. L’intervento doveva durare un paio d’ore, le avevano detto, salvo complicazioni, ma erano passate da un pezzo e Betty iniziava ad aver paura. Voleva chiedere, ma non ne aveva il coraggio. Ci vollero diverse ore, quasi cinque perché qualcuno le venisse a dire qualcosa.
Era ancora seduta sulla sedia nella stanza di Nathan, con gli occhi chiusi e le mani giunte, borbottando parole incomprensibili a tutti; stava pregando. Aveva smesso di farlo la notte in cui aveva incontrato Robert. Si era convinta che non ci fosse nessun Dio a proteggerti dal male e dalle ingiustizie. Eri solo tu e il mondo. Ma ora, con Nathan in fin di vita, si era sentita così disperata da ricadere nella preghiera.

“Signora Betty?”

La voce della dottoressa Victoria interruppe le sue preghiere riportandola al presente. Betty la fissò in silenzio, incapace di chiedere, nella speranza che l’amica di suo figlio capisse che doveva dirle qualcosa se voleva che riprendesse a vivere.

“Signora, l’intervento è finito. Lo stanno portando in isolamento per evitare infezioni…”

“È vivo?” fu tutto ciò che riuscì a dire Betty. Sapeva che era successo qualcosa in quella sala operatoria, non si resta sotto i ferri per quasi cinque ore senza un motivo. Tutto quello che voleva sapere, era se suo figlio era ancora vivo.
Victoria ingoiò duramente abbassando lo sguardo e sospirando prima di parlare.

“Lui… Ci sono state delle complicanze che…ci hanno rallentato, ma… Alla fine ce l’abbiamo fatta ed è tutto quello che importa in questo momento. Se vuole maggiori spiegazioni, può chiedere al dottor Fork.”

“Va bene” disse Betty. Ci pensò un momento e poi aggiunse: “Posso vederlo?”

“Forse posso riuscire a farglielo vedere un momento, ma solo da lontano. Le spiegheranno la procedura da seguire per fargli visita in questo primo periodo.”

Betty annuì, le lacrime gli velavano gli occhi e aveva come la sensazione che tutto intorno a lei, iniziasse a colorarsi di colori vividi, mentre prima erano grigi e tristi.

“Mi segua; andiamo a dire ciao a Nathan!”

Betty seguì la dottoressa, asciugandosi l’umidità negli occhi mentre camminava.


18 mesi dopo

Betty stava continuando a vivere con Robert. Lavorava mattina e sera per non pensare e si era rifiutata di crearsi una vita sociale. Il suo rapporto con Nathan migliorò, ma mantenne quella patina di gelo in grado di bloccare ogni possibilità di rinascita.
Robert aveva ottenuto di finire la sua condanna ai domiciliari. A casa di Betty. Quando lei l’aveva saputo, non si aveva neanche potuto opporsi perché Nathan non la smetteva di parlare di Robert, ringraziandolo per avergli salvato la vita.
Betty non aveva trovato il coraggio di dirgli chi fosse Robert in realtà e sapeva che lui stava sfruttando la cosa a suo favore. In pratica Nathan credeva fosse uno dei tanti donatori che miracolosamente, era risultato compatibile con lui. 
In quest’anno e mezzo, Nathan guarì tornando a una vita pressoché normale. Quando era uscito dall’ospedale, invece di tornare a casa con Betty, andò a stare dalla dottoressa Victoria Shuck. A quanto pare la ragazza di cui parlava la signora Vilma, quella con cui Nathan pranzava al parco, non era altri che Victoria. Se da una parte Betty era tranquilla che Nathan fosse controllato a vista, dall’altra si sentiva abbandonata anche da suo figlio. E in tutto questo scenario, Nathan iniziò a mostrarsi sempre più grato a Robert, tanto da instaurare un rapporto di amicizia con lui; in pratica lo considerava un eroe. Betty viveva nell’ansia costante che Robert potesse rivelargli tutta la verità, modificandola a modo suo.

Alla fine fu abbastanza per far crollare Betty.  

Aveva messo da parte il suo orgoglio, facendo la cosa giusta, salvando suo figlio da morte certa. Si era sacrificata, come una qualsiasi mamma farebbe e no, non era stata brava con Nathan all’inizio, ma c’era sempre stata per le cose importanti, l’aveva curato, sfamato, vestito, consolato, coccolato… Aveva fatto bene dopotutto. È vero, crescendo le parole «ti voglio bene» erano state dette sempre meno, ma l’aveva dimostrato ogni giorno e in ogni modo possibile. E in cambio cos’aveva ottenuto? Una spalla fredda da suo figlio, i sorrisetti di presa in giro da Robert e un dolore nel petto ogni volta che vedeva li vedeva insieme. Era come se fossero amici da sempre. Era come se il destino si stesse prendendo gioco di lei.
Così un giorno, dopo essere tornata a casa dal lavoro, si fece un bel bagno, si cambiò nel suo vestito migliore, mangiò una cena precotta riscaldata nel microonde, bevve l’ultimo bicchiere di vino e scrisse una lettera che lasciò sul tavolo della cucina insieme alla penna. Poi andò nella sua stanza, preparò tutto l’occorrente e rimase seduta sul letto aspettando che si facesse tardi. Per tutto il tempo, rimase con lo sguardo fisso sul cappio penzoloni.


Tre giorni dopo

Nathan e i suoi nonni, i genitori di Betty, entrarono nell’appartamento di Betty con una strana sensazione addosso. Robert non viveva più con lei da otto mesi, non appena scaduti gli arresti domiciliari.
Erano tre giorni che nessuno la vedeva e la sentiva e non si era presentata al lavoro.
L’appartamento era buio, tutte le finestre erano chiuse e le persiane sprangate, ma per il resto sembrava che non ci fosse niente d’insolito. Non c’erano segni di scasso né disordine in casa e in quest’ordine perfetto, la lettera che Betty aveva lasciato sul tavolo, fu come una lanterna nel buio. Nathan andò dritto da lei.
Victoria lo seguì da vicino, mentre i genitori di Betty controllavano il resto della casa.
Nathan leggeva sgomento da quello che c’era scritto, quando sua nonna cacciò un urlo di terrore. Victoria corse da loro, ma Nathan rimase lì, immobile, come se sapesse già cosa avevano trovato. Aveva gli occhi velati di lacrime.
Sulla porta della stanza di Betty, i suoi genitori erano radunati uno accanto all’altro. Sembravano cuccioli di gatto spaventati per qualcosa. La madre di Betty si teneva una mano alla bocca incapace di rimuoverla, gli occhi arrossati per lo sforzo di non piangere, suo marito con le braccia inermi lungo i fianchi e l’espressione sgomenta, gli occhi lucidi e pronti a partorire fiumi di lacrime. Victoria fu l’unica ad avere il coraggio di avvicinarsi al cappio immobile davanti al letto. Gli passò intorno, allungando lo sguardo lungo la corda fino alla trave dov’era stato fatto un nodo alla meglio, ma comunque funzionale.

“Mio Dio!” borbottò tra i denti mentre si avvicinava al comò sulla parete laterale della stanza. C’era un cassetto semichiuso, dove gli cadde l’occhio. Sembrava strano. L’aprì e lo trovò vuoto. Si accigliò, un’idea iniziò a prendere forma nella sua mente e intanto si spostò a controllare l’armadio in fondo alla stanza. Anche quello era vuoto. C’erano solo delle grucce attaccate in modo disordinato. Un paio erano cadute sul ripiano in basso, accanto all’unica coperta rimasta. Victoria la riconobbe subito: era di Nathan.

“Che cosa hai fatto Betty?” disse la madre.

La sua voce era incerta e tremula come un filo lento disposto al vento.

“Ci ha abbandonati.”

Si voltarono tutti a guardare Nathan sulla porta della stanza, la lettera ancora stretta in una mano, mentre con l’altra si sorreggeva allo stipite.

“Che cosa?” chiese Victoria.

“Se n’è andata.” Nathan entrò nella stanza e si fermò a un palmo dal cappio penzoloni. “Si è stancata di noi. Di me.” aggiunse dopo una pausa.

“Voleva uccidersi, ma ci ha ripensato. Se n’è andata e non vuole che la cerchiamo.”

Fu tutto quello che riuscì a dire. Nathan si rese finalmente conto, che Betty non era stata l’unica a sbagliare, anche lui aveva la sua parte di colpe. L’aveva giudicata e fatta sentire inadeguata. Le aveva fatto credere di non essere abbastanza e la sua amicizia con Robert poi…
Ora che sapeva la verità, non voleva più avere niente a che fare con lui. Se avesse potuto, si sarebbe tolto quello che gli aveva donato. Ora capiva quale immenso sacrificio avesse fatto sua madre per salvargli la vita, ora che l’aveva persa per sempre. Non aveva lasciato un numero di telefono, un indirizzo, persino la sua auto era ancora davanti casa. Era andata; aveva perso la sua occasione.


In un motel del Vermont

“Per quanto tempo occuperà la camera signora?” disse l’uomo grasso con la sigaretta a mezza bocca. Aveva i capelli così unti che Betty pensò avrebbero iniziato a gocciolare olio da un momento all’altro.

“Non lo so ancora. Un paio di notti, forse tre. È importante?”

“Solo se non ha i soldi per pagare.”

“Ecco!” disse Betty tirando fuori una busta bianca contenente dei soldi. Estrasse alcune banconote e le mise sul bancone dell’uomo. “Possono bastare?”

L’uomo prese i soldi avidamente e li contò, fra un misto di fumo puzzolente e l’odore stantio del sudore. Quando finì, quasi fu deluso che ci fossero tutti.

“Giusti giusti per tre notti.”

Betty non disse niente e si rimise in tasca la busta, ma fece attenzione a far trapelare una parte della pistola che teneva infilata lì. L’uomo le diede la chiave della stanza, cambiando il suo sguardo da furbetto a docile, le fece firmare dei fogli e poi restò a fissarla mentre prendeva in mano il suo bagaglio.

“Ho visto che viene da Bedford. Che ci fa nel Vermont da sola a quest’ora?”

Betty fu colpita non tanto dalla domanda quanto dal tono preoccupato che aveva usato.

“Non mi piace restare ferma nello stesso posto per troppo tempo.” rispose senza guardarlo.

L’uomo la fissò mentre le consegnava le chiavi e lei chiedeva informazioni per un lavoro.

“Credevo avesse detto che sarebbe rimasta solo per tre giorni!”

“Ho bisogno di racimolare del contante per proseguire il viaggio.”

“Capisco” disse l’uomo. Sembrò pensarci un attimo e poi, come presa da una spinta improvvisa, parlò d’impulso.

 “Abbiamo abbastanza lavoro qui al motel e la ragazza che ci dà una mano si è ammalata proprio l’altro giorno. Non ci hanno ancora mandato nessuno perché dicono di essere a corto di personale, quindi… se ti accontenti della camera e di una paga base, puoi cominciare anche domani.

“Preso.”

“Ok allora…” disse l’uomo guardando l’anagrafica sul foglio che gli aveva appena restituito. “…Vera Jeskins?”

“Sì, molto lieta.”

“Io sono Frad.  Beh Vera, ti aspetto domattina alle sei in punto proprio qui.”

Betty annuì con un sorriso strano sul viso. Prese i suoi bagagli e s’incamminò lentamente, nel piazzale semibuio del Motel in cerca della sua stanza.
Quando la trovò, portò dentro i pochi bagagli e diede una lunga occhiata all’orizzonte ormai nero, in linea d’aria con il Massachusetts.
Arrivò un messaggio nonostante l’ora tarda. Lo prese dalla sua tasca posteriore e lesse.

«È appena rientrato a casa e sta bene. Nulla di cui preoccuparsi.»

Betty digitò qualcosa in risposta, spedì e poi lasciò il telefono su un tavolo lì vicino.

“Addio Betty” disse piano a nessuno in particolare. Solo il silenzio gli rispose. Sospirò con un velo di nostalgia sul volto e poi chiuse la porta lentamente, come se pesasse tonnellate invece di pochi chili. Per la prima volta, lasciò fuori tutto quello che c’era oltre l’orizzonte. Ora c’era solo lei e una nuova vita da costruire.

 

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