With my bare feet

di CedroContento
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo 1 ***
Capitolo 2: *** Capitolo 2 ***
Capitolo 3: *** Capitolo 3 ***
Capitolo 4: *** Capitolo 4 ***
Capitolo 5: *** Capitolo 5 ***
Capitolo 6: *** Capitolo 6 ***
Capitolo 7: *** Capitolo 7 ***
Capitolo 8: *** Capitolo 8 ***
Capitolo 9: *** Capitolo 9 ***
Capitolo 10: *** Capitolo 10 ***
Capitolo 11: *** Capitolo 11 ***
Capitolo 12: *** Capitolo 12 ***
Capitolo 13: *** Capitolo 13 ***
Capitolo 14: *** Capitolo 14 ***
Capitolo 15: *** Capitolo 15 ***
Capitolo 16: *** Capitolo 16 ***
Capitolo 17: *** Capitolo 17 ***



Capitolo 1
*** Capitolo 1 ***


N.B.: Note dell'autrice in fondo al capitolo, se desiderate avere qualche info sulla storia prima di cominciare pigiate qui.
 
 
 
Oh, misty eye of the mountain below
Keep careful watch of my brothers' souls
And should the sky be filled with fire and smoke
Keep watching over Durin's sons…
 
Ed Sheeran
 
 


 
È sempre così, ad un certo punto Bilbo dice: “So che è così che dovete onorarlo, ma per me non lo è mai stato. Lui era… per me lui… lui era…” le parole non gli vengono in aiuto, ma in realtà non ce n'è bisogno, Balin sa già. 
“Beh, credo che me ne andrò in silenzio. Puoi dire agli altri che li saluto?”
“Glielo puoi dire tu stesso,” gli risponde il nano. 
Bilbo si gira un'ultima volta a guardare la compagnia quasi al completo; ne mancano tre e la loro assenza pesa come un macigno.
Ma gli altri sono tutti lì, i nostri piccoli ma grandi eroi, a salutare il loro affezionato mastro Scassinatore.
E lo sappiamo, lo sappiamo, che non si perderanno, perché spesso i nani nel corso degli anni andranno a trovare Bilbo a casa Baggins, alimentando non poche dicerie sul suo conto. Quella separazione però è triste lo stesso.
Poi Bilbo dà una pacca d'affetto a Balin, uno di quelli con cui ha legato di più, con cui si è confidato qualche volta. Non riesce nemmeno a guardarlo in faccia troppo a lungo, perché lo sa che se lo facesse il delicato equilibrio che gli impedisce di crollare si romperebbe e allora non riuscirebbe più nemmeno a muoversi. E lui deve partire, è troppo doloroso restare ancora.
Non gli rimane che incamminarsi senza aggiungere altro.
Avete sentito anche voi quel poco di cuore che vi rimane spezzarsi ancora un po'? 
Bilbo non si girerà nemmeno un’ultima volta a guardare la Montagna Solitaria, ha lasciato lì un pezzo di sé, ma non ha la forza di regalargli un ultimo sguardo. 
Forse, in fin dei conti, il lungo viaggio di ritorno che lo aspetta, con la sola compagnia familiare di Gandalf, è tutto quello che gli serve. Ha tanti pensieri e ricordi in cui perdersi lungo la via di casa. Lo stregone aveva ragione: quell'avventura lo ha cambiato, non è ancora nemmeno tornato nella Contea eppure non è più lo stesso già da diverso tempo.
Non sa se incontrerà nuove insidie, nuovi pericoli, durante il viaggio di ritorno, ma sa che li affronterà, non importa, non importa ora che Thorin non c'è più.
E la storia arriva alla fine - che poi è l'inizio di un'altra - e non ci rimane che lasciarci prendere dalla malinconia.
Ricominceremo da capo, chiaro; siamo masochisti, quasi speriamo che la volta dopo le cose saranno diverse.
Potrebbero, perché no? 
Allora, se siete pronti, riavvolgiamo tutto ancora una volta.

 
 

 

 
In una gradevole serata d’inizio primavera, in un comodo buco hobbit, Bilbo Baggins si accingeva a gustare la propria cena, ignaro del fatto che di lì a poco il suono del campanello avrebbe cambiato per sempre la sua tranquilla esistenza.
Driiin Driiin…
“Dwalin, al vostro servizio,” si presentò sull'uscio un possente nano, un guerriero a giudicare dalla pesante ascia assicurata al suo fianco, e dall'aria feroce anche. 
Bilbo, ancora saldamente aggrappato alla porta, lo fissò stupefatto diversi istanti, tanto che lo straniero sollevò perplesso una delle sue folte sopracciglia in attesa che lui dicesse qualcosa. 
Fortunatamente le regole della buona educazione esistevano proprio per togliersi da questo tipo di impaccio.
“Bilbo Baggins, al vostro,” rispose così lo hobbit, cercando di immaginare cosa potesse mai portare un nano, non solo nella Contea, ma addirittura alla sua porta! 
Ma anche le buone maniere vennero meno quando il nano, senza troppa delicatezza, lo scostò facendosi strada, non invitato, in casa sua. 
“Ci- ci- ci conosciamo?” chiese stizzito. 
“No,” ammise candidamente il nano, come se constatasse semplicemente qualcosa di ovvio. “Quindi dov'è la cena?” chiese subito dopo, impaziente e quasi scocciato. 
Quel nano era chiaramente un matto.
Bilbo non richiuse la porta: era indeciso se non fosse il caso di correre fuori in cerca d'aiuto, dopotutto quello strano individuo avrebbe potuto aggredirlo, derubarlo; era armato e la cosa più letale che Bilbo aveva in casa era il coltello da sfilettatura con cui preparava il pesce, sempre se fosse riuscito a recuperarlo in tempo. 
“È che non aspettavo ospiti,” decise che cercare di congedarlo con tatto fosse la cosa più sensata da fare.
In quel momento il campanello suonò per la seconda volta, nonostante lui fosse ancora proprio lì, davanti all'uscio aperto, e quindi non ce ne fosse nessun bisogno.
“Balin, al vostro servizio,” si presentò cordialmente un secondo nano dalla lunga e candida barba bianca. 
“Buonasera,” rispose meccanicamente Bilbo con cortesia, anche se ora era decisamente confuso.
Si maledisse mentalmente: era proprio a causa della buona educazione che un nano stava…stava… stava mangiando la sua trota salmonata! E con la salsa sbagliata, che spreco. 
“Sì, lo è. Anche se credo che dopo pioverà,” commentò intanto Balin, facendosi strada in casa, anche lui. 
“Ah, Balin!” ruggì balzando in piedi Dwalin, abbracciando quello che era chiaramente un vecchio amico. 
Bilbo li guardò sempre più sbigottito: perché mai due nani si erano dati appuntamento in casa sua? 
Dimenticò quella domanda quando vide i due aprire e cominciare a frugare in una delle sue numerose dispense, la sua dispensa!
“Ma cosa credete di fare?!” esplose frustrato, mandando all'aria ogni cautela riguardo la propria incolumità.
Chiuse la sua porticina tonda, deciso ad ottenere delle risposte per questo comportamento assurdo, incivile.
E il campanello trillò ancora.
Forse era un sogno, un sogno assurdo e orribile. 
“Fili!” esordì un giovane nano sulla soglia. 
“E Kili!” concluse allegramente quello altrettanto giovane al suo fianco. 
“Al vostro servizio!” dissero all'unisono con un inchino, prima di entrare.
Passandogli accanto i due lo squadrarono da capo a piedi con una lunga occhiata, furba e divertita. 
“Ovviamente, al mio servizio certo…” commentò Bilbo, di umore sempre più nero. “Ma che diamine?!” 
I nani avevano cominciato a cambiare la disposizione dei suoi mobili, sembravano intenzionati ad allestire una lunga tavolata. Oh no, questo voleva forse dire che ne dovevano arrivare altri? Bilbo sperò proprio di no. 
Quasi in risposta, un istante dopo, con grande amarezza di Bilbo, il campanello tintinnò per la quarta volta quella sera.
Questa volta non ebbe bisogno di muoversi, perché la porta si spalancò da sé e altri otto nani irruppero in casa sua.
Sopra di loro torreggiava colui che, Bilbo ne era assolutamente certo, era il colpevole di tutto quel trambusto, anzi, di quel disastro: “Gandalf” ringhiò lo hobbit. 
“Buonasera a te, mio caro Bilbo!” tuonò allegro lo stregone, senza notare, o più probabilmente facendo finta di non notare, quanto fosse contrariato il padrone di casa.
 
 
 
Ciò che seguì per Bilbo fu un vero incubo: quei nani selvaggi e chiassosi avevano definitivamente deciso di demolire casa sua.
Il pavimento, solitamente lindo e lucido, era completamente ricoperto dal fango dei loro sudici stivali, e gli ci sarebbe voluta una bella dose di olio di gomito per toglierlo dai tappeti; nel preparare e imbandire una lunga tavolata quei selvaggi avevano svuotato senza ritegno le dispense, dando fondo fino all'ultimo barile di birra e al suo prezioso vino invecchiato; curiosavano in ogni angolo e cassetto ed erano addirittura riusciti a distruggere le tubature del bagno! Ormai Bilbo aveva ben poche speranze che il caro servizio di piatti di porcellana di sua madre, la compianta Belladonna Tuc, sarebbe sopravvissuto a quella che si prospettava essere una lunga, lunghissima, notte. 
“Gandalf! Mi devi delle spiegazioni, che significa tutto questo?!” sbraitò lo hobbit isterico ad indirizzo del vecchio amico, una volta che lo ebbe individuato in mezzo a quella baraonda. 
“Ti spiegherò tutto dopo con calma, amico mio,” gli disse pacatamente lo stregone, guardandolo con grande affetto, che tuttavia non bastò a placare la rabbia de lo hobbit. 
Una volta che la tavola fu imbandita a Bilbo non rimase che arrendersi e prendere posto a sua volta in mezzo ai suoi 'ospiti'; in fin dei conti non aveva ancora cenato nemmeno lui. 
I nani erano di una compagnia vivace e rumorosa, molto rumorosa: intonavano canti, spesso scoppiavano in fragorose grida e risate, più di una volta fecero sobbalzare Bilbo battendo violentemente le loro massicce mani sul tavolo.
Solo una volta che si furono rimpinzati per bene ed ebbero bevuto a sufficienza si quietarono un pochino. 
Bilbo pensò che quello poteva essere un buon momento per costringere Gandalf a dargli delle più che dovute delucidazioni, quando un possente e deciso bussare alla porta, nonostante fosse dotata di un moderno e più che collaudato campanello, fece calare un silenzio teso, carico d'attesa, sull'intera tavolata.
“È arrivato,” sentì qualcuno mormorare eccitato.
Con una certa apprensione, Bilbo si alzò per andare ad aprire, fino a prova contraria era ancora lui il padrone di casa lì.
Gandalf lo seguì. 
Quando lo hobbit spalancò la porta si ritrovò difronte un nano alto, dal portamento fiero e volitivo. Aveva lunghi capelli corvini striati d'argento e quando abbassò gli occhi su di lui Bilbo vide che erano malinconici e di un azzurro profondo, tanto profondo da togliere il fiato. Rimase di sasso, inebetito, davanti a quello straniero tanto affascinante e virile. 
Fu il nano, che fino a quel momento aveva sostenuto senza imbarazzo lo sguardo de lo hobbit, che si decise finalmente a parlare, rivolto però allo stregone. 
“Gandalf, avevi detto che questo posto era facile da trovare, ho smarrito la via due volte. Non lo avrei trovato affatto se non fosse stato per il segno sulla porta.” 
“Segno…? Segno sulla porta?” chiese Bilbo ritrovando l'uso della parola. “Non c'è nessun segno sulla porta, l'ho fatta riverniciare una settimana fa!” obbiettò, dirigendosi deciso ad aprire l'uscio a riprova di quanto stava dicendo. Infatti: non c'era nulla, nessun segno. 
“Sì c'è, l'ho fatto io stesso la settimana scorsa, quando mi hai educatamente buongiornato,” disse Gandalf. “Comunque, Bilbo Baggins, permettimi di presentarti il capo della nostra compagnia: Thorin Scudodiquercia,” fece le presentazioni lo stregone.
Thorin chinò elegantemente il capo quando Gandalf lo presentò. “E così, questo è lo hobbit” si rivolse a Bilbo, soppesandolo con espressione acuta e intelligente. “Ditemi, signor Baggins, avete combattuto molto?” chiese curioso, girandogli intorno per osservarlo meglio, e facendo arrossire Bilbo fino alla punta dei capelli per l'imbarazzo di tanta sfacciataggine. “Ascia o spada, qual è l'arma che preferite?”
No, non era curiosità, Bilbo si rese conto che quel maleducato lo stava niente meno che prendendo in giro, in casa sua! E pensare che fino ad un istante prima aveva ammirato il suo bel portamento; in realtà non era altro che un prepotente presuntuoso. 
“Beh, sono bravino a tira-castagne, se volete saperlo,” rispose piccato. 
Un guizzo di divertimento passò negli occhi di Thorin: “Lo immaginavo…” 
 
 
 
“Cosa dicono i nani dei Colli Ferrosi, i Durin sono con noi?” chiese a Thorin il primo dei nani che si era presentato a casa di Bilbo un paio d'ore prima, Dwalin. 
“Non verranno” sospirò il nuovo venuto. “Dicono che questa impresa è nostra e solo nostra.” 
“Partite per un'impresa?” chiese Bilbo, ormai curioso più che mai di capire cosa stesse succedendo, colpa del suo dannato lato Tuc. 
“Bilbo, avremo bisogno di un po' più di luce,” si intromise Gandalf.
Senza obbiettare, ma non senza lanciare allo stregone una profonda occhiata di disappunto per essere stato bistrattato in quel modo, Bilbo portò altre candele.  
Lo stregone srotolò sul tavolo la cartina di una regione situata centinaia di chilometri ad est dalla Contea. Bilbo conosceva il nome di quei luoghi, era stato proprio Gandalf a fornirgli diversi libri che ne narravano le leggende.
“Questa è la Montagna Solitaria, se non m'inganno”. 
“Non sbagli, Bilbo. Questa è proprio Erebor, uno dei grandi Regni dei nani e in cui da sessant'anni riposa il drago: Smaug il Terribile”.
“Casa nostra,” mormorò Thorin, con così tanta amarezza nella voce che a Bilbo si spezzò il cuore.
Si chiese il motivo di quella profonda tristezza e assurdamente desiderò di trovare modo di porvi rimedio. Ancora non poteva sapere che quello era esattamente ciò che avrebbe cercato di fare di lì in avanti, anche a costo della sua stessa vita.
“Ma continuo a non capire,” ammise dopo qualche istante invece lo hobbit. 
“La missione della compagnia che vedi riunita qui oggi è quella di sconfiggere Smaug e riconquistare Erebor,” spiegò in tono risolutivo Gandalf.
“Pochi, siamo troppo pochi per questa impresa disperata,” intervenne Balin. “Solo in tredici!”
“E la porta principale è sigillata,” commentò Thorin pensieroso, scuotendo la testa, forse sconsolato per il fatto che a quanto sembrava il suo piano avesse fallito ancora prima di cominciare. 
“A questo possiamo rimediare,” disse Gandalf.
Sul viso dello stregone Bilbo vide comparire quella preoccupante espressione furba, quella che di solito non portava mai niente di buono, mai. Ma Thorin questo forse non lo sapeva, o la chiave che gli stava porgendo lo stregone doveva avere per lui un valore inestimabile, perché il suo volto si accese di speranza. 
“Come l'hai avuta?” chiese con la voce incrinata dall'emozione, ammirando la pesante chiave di ferro di indubbia forgia nanica tra sue le dita. 
“Tuo nonno Thror me l'affidò più di sessant'anni fa, per farla avere a te, Thorin, quando sarebbe arrivato il momento. Sapeva che un giorno avresti cercato di riconquistare ciò che è tuo per diritto. Questa è la chiave per un passaggio segreto per le sale inferiori,” spiegò Gandalf, puntando il dito sul fianco della montagna disegnata sulla cartina dispiegata sul tavolo fra loro. “L'impresa richiede discrezione e una bella dose di coraggio” aggiunse con un'occhiata piena di sott' intesi rivolta a Bilbo, il quale però non la comprese, almeno non subito. 
“Ah, ecco perché uno Scassinatore!” ne dedusse invece uno dei nani più giovani seduto all'altro estremo del tavolo. 
“Ve ne servirà uno bravo” bofonchiò Bilbo, ancora candidamente ignaro. 
“E lo sei?” chiese un altro nano dal centro della tavolata. 
“Io?” fece sorpreso lo hobbit, intuendo finalmente il motivo per cui tredici nani, e uno stregone combina guai, erano seduti nella sua sala da pranzo. “No no no no…” 
“Concordo, non ha la stoffa,” disse secco Balin. 
“Le Terre Selvagge non sono per gli hobbit a modo,” assentì anche Dwalin.
“Sembra più un bottegaio che uno Scassinatore,” aggiunse qualcun altro.
A quel punto ogni nano si sentì in dovere di dire la propria opinione. Attorno al tavolo si scatenò un forte vociare, ognuno parlava sull'altro facendo una gran confusione. Su una cosa però parevano essere tutti d'accordo: Bilbo era inadeguato al compito. 
“BASTA! Se dico che Bilbo è adatto è perché lo è!” tuonò improvvisamente Gandalf, sovrastando quella cacofonia di voci. 
La stanza si adombrò, l'intera tavolata ammutolì all'istante. L'unico che non pareva intimorito, notò Bilbo, era Thorin. Seduto accanto allo stregone, sembrava chiedersi quanta fiducia potesse riporre nelle sue parole. 
“Mi avete chiesto di aiutarvi a trovare un quattordicesimo membro per la compagnia e io ho scelto il signor Baggins. Dovrete fidarvi,” disse Gandalf in tono che non ammetteva repliche.
Lo stregone spostò lo sguardo penetrante su Thorin che aveva ascoltato in silenzio fino a quel momento, e così fecero anche gli altri: la decisione finale spettava a lui. 
“Va bene,” decise il nano senza aggiungere altro, sorprendendo non poco lo hobbit per la decisione e autorità con cui aveva parlato. “Dagli il contratto” ordinò rivolto a Balin.
Bilbo si ritrovò tra le mani un lungo foglio di pergamena, ripiegato diverse volte e ricoperto da una fitta grafia, piccola e ordinata.
Fortunatamente per Bilbo non era inusuale per gli hobbit avere a che fare con documenti di quel tipo: erano molto scrupolosi in fatto di burocrazia, soprattutto quando si trattava di questioni di prestiti di denaro, diritti di proprietà e successioni.
Bilbo lesse con attenzione i termini e le condizioni del suddetto contratto: pagamento in contanti alla consegna, fino, ma non oltre a un quattordicesimo del guadagno netto totale; spese di viaggio assicurate; spese funebri a carico dei nani ecc. Tutto sommato sembrava ragionevole, almeno fino a quando non arrivò alle clausole di limitazione ed esenzione di responsabilità. Era folle. 
“Incenerimento?!” commentò incredulo ad alta voce. Assurdo.  
“No, no, non contate su di me,” decise.
Avvertì un forte bisogno di stare solo, quella serata stava mettendo a dura prova i suoi poveri nervi. Aveva bisogno di raccogliere i propri pensieri, così si appartò nel salotto vuoto, sulla sua poltrona preferita, quella accanto al focolare. 
 
 
 
Gandalf lo raggiunse diversi minuti dopo. 
“Tutto bene, Bilbo?” chiese, prendendo posto su una seconda poltrona difronte alla sua. 
Bilbo scosse la testa. “Perché? Perché li hai portati qui?” 
Lo stregone non rispose subito, si limitò a fissare a lungo il fuoco che danzava nel caminetto. Bilbo cominciò a pensare che lo stregone avesse dimenticato che gli aveva posto una domanda, ma poi la risposta arrivò: “Conoscevo un giovane hobbit, un tempo, che andava per i boschi della Contea alla ricerca di Elfi e Fate, che sognava di poter partire per un lungo viaggio alla scoperta di terre sconosciute, che sognava di vivere un'avventura. Che fine ha fatto quel ragazzo, Bilbo?” chiese Gandalf, accomodandosi come meglio poteva sulla poltrona troppo piccola - era a misura di hobbit, ovviamente - e cominciando ad accendere la lunga pipa. 
“È cresciuto, presumo”. 
“Cresciuto. E cosa direbbe la madre di quel ragazzo?” 
Bilbo gettò al mago un'occhiata risentita, intendeva davvero giocarsi il tutto per tutto quindi.
Bilbo aveva amato infinitamente la madre. Belladonna Tuc era stata una hobbit eccezionale: bella, solare, audace, di un'intelligenza curiosa e vivace; tutti - compreso Gandalf - rimanevano ammaliati da lei. Ma, sopra ogni cosa, Belladonna Tuc era stata una sognatrice, e così aveva cresciuto anche il figlio. Il mondo del piccolo Bilbo era sempre stato popolato di creature leggendarie: elfi, entesse, goblin e, ebbene sì, anche di nani e draghi.
Quelle fantasie però avevano anche finito per rendere sua madre profondamente infelice e frustrata nella tranquilla Contea. I viaggi, le avventure e le gesta eroiche erano destinati a vivere per sempre e solo nei suoi libri, e nella sua sconfinata fantasia.
E ora Bilbo aveva l'occasione di realizzare ciò che prima sua madre e poi lui avevano sognato insieme per tutta una vita, e stava gettando all'aria quell'occasione. “È una cosa troppo grande per me,” disse, più a sé stesso che allo stregone.
“Io invece penso che tu sia la persona giusta per questo compito. E, cosa non meno importante, ne hai bisogno.”
“Ma non è così, Gandalf. Tra l'altro questi nani non mi vogliono, non mi ritengono adeguato,” obbiettò riferendosi a quanto avevano detto prima di lui. “E hanno ragione. Non andrei lontano, figuriamoci poi se riuscirei mai a tornare a casa!” 
Quando tornerai sarai una persona molto diversa.”
Quanto si sarebbe rivelata vera quella frase…
Ma ora le proteste dei nani ancora riecheggiavano nella testa de lo hobbit. Lì per lì non si era reso conto di quanto lo avessero ferito e umiliato, quella consapevolezza era arrivata dopo. Certo, loro sembravano essere tutte persone abituate a quel genere di vita avventurosa, gente pronta all'azione, abituata a difendersi dai pericoli. Bilbo, che non aveva mai nemmeno messo piede fuori dalla Contea, sarebbe stato solo un peso per loro; gli hobbit di solito non sapevano proprio che farsene delle avventure.
“Scusa, Gandalf, non posso farlo. Hai scelto lo hobbit sbagliato.”
 
 
 
Quando il mattino dopo Bilbo si alzò, poco dopo l'alba, casa sua era tornata vuota e quieta. 
Lo hobbit vagò per i corridoi e le stanze, sporchi e completamente sottosopra. Sorprendentemente la cosa non lo toccò minimamente. Tutto ciò che sentiva era un vuoto profondo, una grande delusione; il silenzio sembrava assordante, la solitudine opprimente, il che era ridicolo visto che viveva solo da anni. Lasciò indugiare lo sguardo fuori dalla finestra: poteva vedere la via che portava lontano da casa sua.
Immaginò di poter vedere ancora più ad est: oltre Brea, oltre le Montagne Nebbiose, fino alle Terre Selvagge e poi oltre e oltre ancora. 
Non aveva senso piangersi addosso, la compagnia di Thorin Scudodiquercia ormai doveva essere ben lontana, e con lei anche ogni possibilità di vivere l'avventura della sua vita era svanita. 
Si guardò attorno, indeciso su dove cominciare a sistemare quel disastro.
Fu allora che lo vide sul tavolo: il contratto era ancora lì, proprio lì, con penna e calamaio strategicamente sistemati accanto. 
“Maledetto stregone…”
 
 
 
Angolino dell'autrice:
Benvenuti a voi, cari lettori, in questa mia nuova fic e grazie per aver letto fin qui!
Da tempo mi proponevo di scrivere una Thilbo ma l'ispirazione birichina non era mai arrivata.
Questo fino ad un recente (risalente a diverse settimane fa ormai XD) rewatch su tv8. Ad un certo punto Thorin si rivolge in malo modo a Bilbo e lui ha l'aria così afflitta *sigh*… e basta, la lovestory è finalmente scattata nella mia testa. 
Come scoprirete presto la mia fic non brilla per particolare originalità della trama, anzi, segue più o meno fedelmente le vicende del film, ho semplicemente inserito la mia storia d'amore tra Thorin e Bilbo, magari ho fatto qualche approfondimento in più, qualche scena extra, ma non ho stravolto nulla. 
Quindi, se siete alla ricerca di qualcosa di più posso dirvi che forse questa storia non fa per voi, se invece rivedreste rileggereste cento volte tutto siete decisamente nel posto giusto.
Se avete già letto il primo capitolo (e se non lo avete fatto vi avviso) avrete notato che mi sono agganciata ai dialoghi del film, non ne farò di sicuro mistero: utilizzare quelli è una scelta voluta, anzi, potrebbe esserci anche qualche reminiscenza del libro.  Insomma, se qualche frase vi suona di già sentito probabilmente è perché è così. 
La stesura di questa storia per me è stata puro piacere, mi sono divertita molto a scriverla, affrontatela di conseguenza. Essendo anche un momento particolarmente impegnativo è stato un modo per rilassarmi facendo qualcosa che mi piace senza troppi pensieri, non avrei proprio avuto testa per concentrarmi su qualcosa di più (se state seguendo altro di mio adesso sapete anche perché è tutto fermo), questo è stato un buon modo anche per non smettere di scrivere. 
Ultima cosa, giuro: il mio proposito è quello di aggiornare ogni settimana, la speranza è di pubblicare ogni mercoledì (ovvero il giorno in cui i nani si sono presentati a casa Baggins) il nuovo capitolo, salvo imprevisti.
 
Alla prossima ^^ (su)
 
Cedro

 

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Capitolo 2
*** Capitolo 2 ***


“Sì, ho sempre qualche scampolo di stoffa extra nelle tasche, non si sa mai. E ora che ci penso: Bilbo quel fazzoletto non si è mica scordato di restituirmelo, eccolo qua. Vedi? È riuscito a smacchiarlo e ci ha anche ricamato le mie iniziali. Ormai lo porto sempre con me.”
 
Bofur (1)


 


Bilbo non sapeva come aveva fatto a finire a cavallo di un pony. Lui, che odiava cavalcare ed era terribilmente allergico al crine di cavallo.
Aveva preso così in fretta la decisione di partire che non aveva avuto nemmeno il tempo di pensare a ciò che stava facendo, e forse stava facendo una cosa assolutamente folle.
Ma ormai era andata così: un momento prima si interrogava su cosa mangiare a colazione e quello dopo si era ritrovato a mettere insieme in fretta e furia un bagaglio; non era nemmeno tanto sicuro di cosa ci avesse messo dentro quel suo zainetto.
Poi si era lanciato in una corsa disperata all'inseguimento dei nani, sperando con tutto sé stesso di riuscire a raggiungerli; se non ci fosse riuscito lo avrebbe rimpianto per tutta la vita, mentre correva ne fu assolutamente consapevole.
Aveva quasi rischiato di rompersi l'osso del collo saltando steccati, tagliando per prati e orti - non osava pensare a quante proprietà private aveva invaso -, evitando panni stesi e animali al pascolo; tutto nella speranza che non fosse troppo tardi.
E poi li aveva visti. Aveva scorso la comitiva lungo il Sentiero delle Querce che portava al Ponte sul Brandivino, e il suo cuore aveva esultato. 
“Aspettate! Aspettaaaate! L'ho firmato!!” aveva urlato con tutto il fiato residuo di cui erano capaci i suoi polmoni, non molto. 
“Sembra tutto a posto,” aveva detto Balin quando Bilbo gli aveva restituito il contratto sottoscritto. “Benvenuto, mastro Baggins, nella compagnia di Thorin Scudodiquercia,” aveva aggiunto ammiccando il nano, senza fare mistero, nel suo tono di voce, che era sinceramente contento che Bilbo avesse cambiato idea e fosse lì.
Lo hobbit gliene fu infinitamente grato, lo prese come un buon inizio. 
E ora cavalcava, un pochino impacciatamente, un dannato pony.
Procedeva accanto a Gandalf, che non riusciva a smettere di sorridere. Lo stregone non faceva il minimo sforzo per nascondere la propria trionfante soddisfazione, perché, ancora una volta, alla fine si era fatto come voleva lui.
Ad un certo punto lo hobbit sentì qualcosa sfrecciargli sopra la testa. Erano i nani che sembrava stessero facendo uno strano gioco: si passavano qualcosa di tintinnante al volo. 
“Di che si tratta?” chiese curioso.  
“Mmh, hanno fatto scommesse. Se saresti o no ricomparso. La maggior parte ha puntato sul 'no'“.
Il che spiegò anche a Bilbo come mai Gandalf si dimostrasse tanto gongolante. Aveva chiesto ai nani di fidarsi di Bilbo, poi però non erano riuscito a convincerlo a partire, forse qualcuno gli aveva addirittura detto che lo avevano avvertito che lo hobbit non aveva la stoffa. Ora però Bilbo era lì, a dimostrazione del fatto che lo stregone la sapeva molto più lunga di loro.
Bilbo pensò che per avere conferma di quella teoria non bastasse che fare una sola domanda, e in realtà era anche un po' curioso: “E tu cosa hai scommesso?” 
Con un tempismo perfetto, proprio in quel momento, un sacchettino di pelle pieno di preziose monete sonanti volò in mano allo stregone, che, con dei riflessi sorprendentemente pronti per uno della sua età, lo intercettò e lo infilò allegramente in tasca. 
“Non ho dubitato di te un solo istante!” 
A Bilbo pizzicò il naso e gli sfuggì uno starnuto. “Questo maledetto pelo”.
Si tastò le tasche cercando di ricordare dove avesse messo il suo fazzoletto, un'agghiacciante consapevolezza si fece strada nella sua mente, ed era certo di essere sbiancato: lo aveva dimenticato.
“Oh no, non è possibile…”
Gandalf lo guardò con aria interrogativa. 
“Devo aver dimenticato di prendere il mio fazzoletto da taschino,” spiegò sconsolato. Come avrebbe fatto per il resto del viaggio? Soffiarsi il naso con una foglia era fuori discussione, la pelle del suo naso era troppo troppo delicata. 
Gandalf scoppiò in una fragorosa risata. A quanto sembrava il suo umore non faceva che migliorare, pensò piccato Bilbo. 
“Dovrai fare a meno di questa e altre comodità, mio caro Bilbo!”
“Tieni, prendi, io ne ho uno in più!” disse allegro il nano che cavalcava immediatamente davanti a loro, a Bilbo parve di ricordare che si chiamasse Bofur. 
Bofur gli allungò con un sorriso qualcosa che non sembrava affatto un fazzoletto, somigliava più ad un lurido pezzo di stoffa. Bilbo guardò il nano chiedendosi se per caso non lo stesse prendendo in giro, ma dall'espressione cordiale di quello capì che voleva veramente essere gentile. Bilbo non poteva certo rifiutare quell'offerta, sarebbe stato molto maleducato da parte sua, e non voleva certo offendere nessuno. “Oh, grazie, sei molto gentile”.
Bofur annuì, soddisfatto di aver risolto la faccenda con il suo intervento. Con molta riluttanza Bilbo tenne tra pollice e indice quello straccetto disgustoso, chiedendosi cosa dovesse farne di preciso. Lo appoggiò sullo zaino, facendosi l'appunto mentale di lavarlo per bene alla prima occasione, o bruciarlo in alternativa. 
“Gandalf, vorrei sapere qualcosa di più riguardo alla nostra missione,” disse qualche minuto dopo, magari conversare lo avrebbe distratto dal fastidio del suo naso gocciolante. 
“Chiedimi ciò che vuoi sapere e vedrò se potrò risponderti,” si mise a disposizione lo stregone. 
Bilbo aveva almeno un centinaio di domande in mente: quanto distava la Montagna Solitaria e cosa c'era in mezzo? Qual era di preciso il piano? Di sicuro non potevano entrare nella montagna e basta, no? Quanto era grande questo drago realmente?
Perché avevano aspettato sessant'anni a cacciarlo? E cosa si aspettavano facesse un piccolo hobbit? 
Guardò davanti a sé, cercando di trovare qualcosa da cui cominciare e, forse perché il suo sguardo continuava a venirne attratto mentre guidava la compagnia diversi metri più avanti, chiese: “Chi è di preciso Thorin?” 
Gandalf annuì, prendendosi tutto il tempo per raccogliere le idee e rispondere con calma.
“Beh, Thorin è l'erede del Regno sotto la Montagna, il nipote di Thror, che regnava su Erebor, prima che arrivasse il drago. Un principe dei nani, ecco.”
Un principe. Effettivamente Thorin ne aveva tutto l'aspetto: bello, forte, altero, con quel suo sguardo fiero e risoluto e i modi autoritari. 
“È il nostro spirito e la nostra forza, ecco chi è,” parlò Balin alle loro spalle, che probabilmente aveva seguito la conversazione. 
“Non conosco un nano più forte o un qualsiasi guerriero in grado di batterlo, né qualcuno di altrettanto determinato. Thorin è il tipo di persona che non si arrende mai,” disse.
“Quando il drago ci cacciò da casa nostra e quando poi fummo sconfitti anche nel riprenderci Moria, tutto il nostro popolo si ritrovò a vagare per le Terre Selvagge. Non saremmo mai sopravvissuti se non fosse stato per la guida di Thorin. Ha lavorato tanto, non si è mai arreso o ceduto allo sconforto; si è speso per tutti noi quando avevamo perso ogni cosa. Non ci era rimasto più niente, ma lui, che aveva perso anche di più, non ci ha abbandonati.” 
Bilbo percepì tutta la gratitudine, la commozione e l'ammirazione di Balin in quelle parole, dovevano essere stati tempi davvero disperati e forse ricordarli era doloroso; Bilbo si sentì un po' in colpa per aver riportato a galla certe memorie. 
“Si è comportato con grande onore verso la nostra gente. Ci ha costruito una nuova casa, sulle Montagne Azzurre, una vita di pace e prosperità, di cui non possiamo che essergli grati ogni giorno”.
Bilbo notò i nani vicini annuire solenni, la pensavano tutti allo stesso modo. 
“Merita tutto il nostro rispetto. E non ho dubbi che riusciremo in questa impresa sotto la sua guida, mio caro hobbit,” concluse Balin. 
Anche Bilbo cominciò a sentire un moto di ammirazione per Thorin, che fosse una persona fuori dall'ordinario lo aveva già intuito, ma non aveva indovinato quanto.
Una parte di lui però gli disse che non avrebbe mai voluto essere nei panni del principe dei nani, doveva essere terribilmente faticoso reggere tutte quelle aspettative. 
“Come mai non riusciste ad entrare a Moria? Non sono stati i nani ad erigerla?” chiese, dopo aver ripensato a quanto aveva appena appreso. 
“Ti racconterò volentieri questa storia la prossima volta, mastro Baggins” promise Balin. 
 
 

In un'altra notte passata più sveglio che a dormire Thorin osservava le stelle, chiedendosi se suo nonno fosse realmente lassù e se stesse benedicendo la sua impresa. Lo aveva adorato quando era in vita e anche ora tutto ciò che voleva era renderlo orgoglioso.
Si chiedeva anche se suo padre fosse ormai in compagnia dei suoi avi, il suo cuore gli diceva di no. Non lo aveva mai ritrovato, ma l'istinto gli diceva che suo padre non lo guardava dall'alto del firmamento, Thrain era ancora vivo. 
Per settimane aveva seguito una pista nelle Terre Selvagge, basandosi unicamente su voci di qualche viaggiatore che aveva detto di averlo visto; anche questa ricerca però si era rivelata infruttuosa, con sua grande frustrazione.
Thorin però non si sarebbe arreso, non aveva cuore di farlo: se suo padre era vivo lo avrebbe ritrovato, non importava quanto tempo ci sarebbe voluto, non era pronto a rinunciare al sogno di riabbracciarlo, un giorno. 
I suoi sensi allenati colsero un movimento nel buio. Si rilassò riconoscendo lo Scassinatore, che si era alzato dal suo giaciglio sbuffando.
Una punta di curiosità portò Thorin a chiedersi cosa mai avesse infastidito lo hobbit questa volta.
Gli hobbit erano interessanti, questo doveva ammetterlo, non aveva incontrato spesso persone così semplici e genuine, felici e soddisfatte delle più piccole gioie che la vita poteva offrire. Smarrendosi per la Contea una parte di Thorin aveva fantasticato su come sarebbe stato vivere lì, in pace, in un luogo in cui le dispute più importanti riguardavano chi avesse coltivato la zucca o il cocomero più grosso. 
Bilbo Baggins era fin troppo attaccato alle sue comodità per i gusti del nano, ma non sarebbero stati molti gli hobbit a partire per un'avventura fuori dai familiari confini della loro amata terra. 
Lo hobbit si fece strada zigzagando tra i nani addormentati fino al focolare, proprio verso Thorin.
Avrebbe fatto ancora tranquillamente in tempo ad alzarsi non visto, ma per qualche motivo che lui stesso non si soffermò ad esaminare lasciò che lo Scassinatore lo raggiungesse. 
“Manca ancora almeno un'ora all'alba, mastro Baggins,” disse piano, per non disturbare il sonno dei suoi compagni. 
Lo Scassinatore sobbalzò, confermando a Thorin il fatto che non lo aveva notato prima, forse abbagliato dalle fiamme. Scosse il capo pensando tra sé e sé che sarebbe stato vergognosamente facile per un qualsiasi aggressore, anche il più goffo, coglierlo impreparato.
“Se non riposi domani sarai uno straccio,” commentò notando gli occhi gonfi di sonno. Si trattenne dal dire che gli sembrava già abbastanza in difficoltà così. 
“Lo so, è che non riesco a dormire.” 
Lo hobbit si strinse a disagio nel mantello di lana che portava sulle spalle, forse indeciso se prendere posto accanto a Thorin, davanti al fuoco caldo e scoppiettante, o lasciarlo solo.
Il nano si scostò impercettibilmente di lato sul tronco che avevano adibito a panca, per fargli intendere che poteva accomodarsi, e lo hobbit si rilassò cogliendo l'invito a sedersi. 
“Bombur russa tantissimo,” aggiunse mastro Baggins sedendosi e lanciando al contempo un'occhiata di puro risentimento verso il grosso nano profondamente addormentato, così comica che Thorin non riuscì a reprimere un sorriso sotto i baffi.
“A quello ci si abitua con il tempo”.
“È che di solito dormo da solo,” spiegò lo Scassinatore con un'alzata di spalle. 
“Sì, ho notato l'assenza di una signora Baggins. Nessuna è all'altezza?”
Anche alla tenue luce delle fiamme Thorin notò le guance dello hobbit prendere colore per l'imbarazzo, si chiese se forse non aveva esagerato e avesse finito col chiedergli qualcosa di scomodo. 
“Nessuno adatto,” ammise. 
Per qualche motivo, studiandone il volto, Thorin sospettò che in realtà ci fosse di più di quanto lo Scassinatore non gli dicesse.
“E tu hai una famiglia che ti aspetta a casa?” 
“Ho una sorella, Fili e Kili sono i suoi figli. In realtà qui siamo un po' tutti imparentati” spiegò accennando ai nani che ancora dormivano della grossa. 
“Capisco, quindi io e Gandalf in realtà siamo due intrusi!” disse Baggins. “Tu e Gandalf vi conoscete da molto tempo?”
“Non molto in realtà, no. Ho parlato per la prima volta con lui a Brea, quasi un anno fa. Sapevo già chi era, ovviamente.” 
“Io lo conosco da tutta la vita. Era molto amico di mia madre”. 
Un sorriso amaro e malinconico incurvò le labbra de lo hobbit e Thorin, forse, cominciò ad intuire perché non si fosse legato a nessuno finora. Alcune persone lasciano un vuoto difficile da colmare, e Thorin, che amava e aveva amato la sua famiglia con tutta l’anima, questo lo sapeva bene. 
Dopotutto forse lui e mastro Baggins non erano poi tanto diversi: entrambi potevano vantare un gran numero di parenti, ma nessuno dei due aveva trovato qualcuno da avere al proprio fianco e con cui condividere tutto, ogni giorno.
“Oh, che meraviglia!” esclamò lo hobbit quando il sole cominciò a fare capolino ad est. “Erano anni che non vedevo il sorgere del sole,” ammise. Sulle labbra gli si dipinse un sorriso beato mentre i primi raggi della giornata gli accarezzavano la pelle e chiudeva gli occhi per goderne.
“Una parte bella dei viaggi, vedere l'alba in luoghi sempre diversi” disse Thorin, che approfittando della distrazione di Baggins lo osservò attentamente.
Provò una sensazione che non riuscì a definire del tutto, c'era una certa cosa nello hobbit che non riusciva a definire. Un angolino del suo cuore gli suggeriva che se un giorno avesse mai voluto qualcuno al suo fianco avrebbe dovuto essere così: qualcuno che si meravigliasse delle piccole cose, come il sole che sorge all'orizzonte. 
 
 

 
  1. Da leggersi tipo “intervista”. Ne troverete una ad ogni inizio di capitolo, un piccolo spazio dedicato ad ogni nano. (su)
 
 
 
 

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Capitolo 3
*** Capitolo 3 ***


“Ok, ok… però ci saremo distratti sì e no due secondi! Avevamo trovato un nodo su un tronco che era un bersaglio perfetto e abbiamo fatto un po' di tiro a segno con l'arco. Il fatto che ci fossero i troll nei dintorni proprio in quel momento è stata pura sfortuna!”
 
Fili(1)
 
 


Bilbo si sentiva uno straccio.
Erano ormai diverse notti - praticamente da quando erano partiti - che non riusciva a dormire più di un’ora di fila.
Il problema era che non era abituato a dormire all'aperto, sotto le stelle, e in mezzo ad altre persone.
In più i nani erano rumorosi e molesti anche mentre dormivano: russavano, parlavano nel sonno, si agitavano e si alzavano a turno in ogni momento della notte. 
Perfino Gandalf era inquietante; Bilbo aveva scoperto che lo stregone dormiva con gli occhi aperti.
Quando anche quel giorno di viaggio volse al termine, lo hobbit non fece in tempo ad aspettare che la compagnia avesse finito di sistemare l'accampamento per la notte, che crollò sul suo giaciglio, in un sonno profondo.
Si svegliò di soprassalto, poco prima dell'alba, disturbato dal russare del suo ignaro nuovo acerrimo nemico: Bombur. Decise che in futuro avrebbe fatto attenzione a sistemarsi a distanza di sicurezza da lui. 
La luna era già tramontata e il cielo, ancora puntellato da qualche stella tenace, era di un azzurro scuro e intenso; cominciava a rischiararsi lentamente e man mano che si guardava verso la linea dell'orizzonte si tingeva di un violetto deciso, che sfumava a sua volta in un delicato lilla. Bilbo trovò le sfumature di quei colori stupende. 
Non era l'unico ad essere già sveglio. C'erano Fili e Kili, che bevevano qualcosa di caldo davanti al fuoco, e Balin, intento a fare un rapido inventario delle provviste.
Gandalf aspirava silenziosamente il fumo dalla sua pipa dal lungo cannello intagliato, per poi rilasciarlo sottoforma di cerchi perfetti; si teneva in disparte e sembrava vagare lontano con la mente.
Infine Thorin sonnecchiava non molto distante dal falò, appoggiato alla parete di roccia del promontorio su cui si erano accampati; una valle stretta e boscosa si estendeva ai loro piedi. Bilbo non riusciva a ricordare nemmeno una volta in cui avesse visto Thorin riposare steso accanto agli altri, in realtà non era tanto sicuro di averlo mai visto dormire veramente. 
Lo hobbit si stava avvicinando al fuoco che con il suo scoppiettio, assieme al cinguettare dei merli e dei pettirossi, rompeva il silenzio delle ore che precedono l'alba; pregustava già qualcosa di buono da mettere sotto i denti, quando un rumore sinistro che riecheggiò lontano nella valle lo fece trasalire. 
“Cos'era?” chiese piano ai due giovani fratelli. 
“Orchi” sussurrò Kili, sondando attento la foresta scura.
Bilbo avvertì anche Thorin sussultare nel dormiveglia, d'un tratto vigile e sull'attenti.
“Orchi?” ripeté Bilbo preoccupato.
I racconti sugli orchi lo terrorizzavano quando era piccolo, e quella sensazione di inquietudine associata a loro non era mai sparita del tutto, anche quando era cresciuto.
“Sgozzatori, ce ne sono a dozzine là fuori, soprattutto nelle Terre Solitarie” spiegò Fili in tono grave.
Raramente Bilbo aveva sentito i due nani parlare tanto seriamente, la minaccia doveva essere seria. 
“Colpiscono nella notte quando tutti dormono. Rapidi e silenziosi, niente grida, solo tanto sangue.” 
“Lo trovate divertente?” li rimproverò inaspettatamente Thorin, con la sua voce profonda dal tono, se possibile, ancora più severo del solito. 
Bilbo, sorpreso, per un momento si chiese cosa intendesse dire il nano. Si diede dello stupido un secondo dopo: Fili e Kili lo stavano prendendo in giro, ovviamente, e lui aveva ingenuamente abboccato come una carpa.
“Stavamo solo scherzando,” si giustificò Kili, assumendo l'aria di un bambino che viene sgridato dopo essere stato sorpreso a combinare una marachella. 
“Un'incursione notturna non è uno scherzo,” disse Thorin.
Forse, pensò Bilbo, in parte si sentiva punto nell'orgoglio perché anche lui era caduto nello scherzo quando Kili aveva nominato gli orchi. 
“Non sapete nulla del mondo,” disse, dando loro le spalle e allontanandosi.
Fili e Kili avevano un'aria così contrita che per un piccolo, piccolissimo, momento Bilbo si dispiacque per loro.
Provavano, se possibile, ancora più affetto e ammirazione degli altri per lo zio, dopotutto dovevano essere cresciuti con lui. Cercare di rendere fiero Thorin sembrava arduo, deluderlo era doveva essere mortificante. Bilbo aveva già imparato che Thorin poteva farti sentire molto piccolo quando le sue aspettative venivano disattese.
“Thorin ha più ragione degli altri di odiare gli orchi,” intervenne Balin, nel tono che usava quando stava per cominciare a raccontare una delle sue storie.
Bilbo, come anche Fili e Kili, si predispose ad ascoltarlo volentieri; gli ultimi due sicuramente contenti di venire distratti da quanto appena accaduto. 
“Mastro Scassinatore, avevo promesso che ti avrei raccontato di questa vicenda,” disse Balin ammiccando, e Bilbo capì che probabilmente distrarre i fratelli e distendere l'atmosfera era esattamente il suo intento. Bilbo, contento di essere entrato in confidenza con una persona così gentile e onesta, gli resse il gioco. 
“Allora: dopo che il drago si fu preso Erebor, re Thror cercò di riconquistare il regno di Khazad-dûm, le leggendarie miniere di Moria.
Ma il nostro nemico ci aveva anticipati.
Moria era caduta in mano alle legioni degli orchi, capeggiati dal più vile della loro razza: Azog il Profanatore, l'orco gigante di Gundabad, che aveva giurato di sterminare la stirpe dei Durin.
Azog cominciò quella missione decapitando il re dei nani, il nonno di Thorin.
Thrain, suo figlio - il padre di Thorin -, divenne pazzo per il dolore e scomparve; fu fatto prigioniero o ucciso, non scoprimmo mai la verità. 
Da quel momento fummo senza una guida, sconfitta e morte erano su di noi,” fece una pausa, per controllare l’emozione che portavano con sé quei ricordi dolorosi.
“E fu allora che io lo vidi,” proseguì Balin con un trasporto tangibile nella voce. “Un giovane principe dei nani che affrontava l'orco pallido, un nemico terribile, brandendo solamente un ramo di quercia spezzato come scudo. Azog, quel giorno, imparò a spese del suo braccio sinistro che la stirpe di Durin non sarebbe stata facile da troncare. 
Sotto la guida di Thorin le truppe si rianimarono, respingemmo gli orchi e vincemmo la battaglia. Non festeggiamo mai quella vittoria, l'avevamo pagata numero di morti troppo alto, eravamo sopravvissuti in così pochi.
Ma guardando Thorin pensai, tra me e me, che là c'era uno che avrei potuto seguire; là c'era uno che avrei potuto chiamare re.”
“E l'orco pallido, che fine ha fatto?” chiese Bilbo, tanto rapito dal racconto da
dimenticare dove fosse. Probabilmente per questo, quando Thorin parlò alle sue spalle, per poco non gli venne un colpo.
“Tornò strisciando nel sudicio buco da cui era venuto. Morto per le ferite tempo fa,” disse il nano. 
Gli occhi di ghiaccio di Thorin inchiodarono Bilbo sul posto, Bilbo che avvertì i battiti del proprio cuore accelerare furiosamente nel petto.
Aveva preso parte a quella spedizione pensando che fosse un'impresa lodevole quella di riconquistare un regno perduto, che i nani meritassero di tornare nella loro amata casa sotto la Montagna, quella che avevano costruito con duro lavoro e che gli era poi stata così ingiustamente strappata. Ma per Thorin quella missione voleva dire molto di più. Thorin non era solo stato derubato della propria casa, aveva visto sterminare la sua famiglia in quella vicenda. La riconquista della Montagna non era solo riprendersi ciò che era suo: rappresentava il suo personale riscatto. E Bilbo, che pensava di provare già una bella dose di stima e ammirazione nei confronti di quel principe dei nani, si rese conto che quell’ammirazione era appena cresciuta ancora.
Di sicuro non si sarebbe più stupito del fatto che gli altri nani lo venerassero e che lo avrebbero seguito ovunque. Thorin era un eroe, Bilbo stesso si sarebbe fatto condurre da lui in capo al mondo. 
Quando Thorin distolse lo sguardo, Bilbo riprese a respirare - non si era nemmeno accorto di aver smesso- e, bruscamente ripiombato nella realtà, si guardò attorno.
Si rese conto che ormai doveva essere giorno da un pezzo. Tutti i nani erano ormai svegli e tutti, come lui, avevano ascoltato in silenzio il racconto di Balin. 
Mentre consumavano la colazione i nani erano insolitamente taciturni, raccolsero quasi in silenzio le proprie cose e ripartirono. Sembrava che la malinconia fosse scesa su di loro e li avesse avvolti come un velo di foschia.
Quello di Balin non era stato il solito racconto di epoche lontane, i cui protagonisti e le loro gesta appartenevano ormai alla storia, quelle passate di bocca in bocca centinaia di volte, a cui era abituato Bilbo. Certo, anche nella Contea capitava di ascoltare di prima mano le disavventure di qualcuno, ma solitamente non si trattava di nulla di più di una ruota che si era staccata da un carro sotto un temporale, della pesca di un pesce enorme, di una quantità sorprendente di sidro ingerito; vicende lontanissime dagli scontri con i temibili orchi e le battaglie e i draghi. Chi aveva vissuto quei giorni invece era proprio lì - ad eccezione forse di Fili, Kili e Ori che sembravano fin troppo giovani, ma c'era chi come Bifur invece aveva ancora un'accetta incastrata in fronte! - a condividere una nuova avventura assieme a lui. Lui, che si sentiva più che mai nient'altro che un piccolo hobbit troppo lontano da casa. 
 
 
 
Erano in viaggio da quasi tre settimane (2) sulla Grande via Est. La Contea e Brea erano ormai alle loro spalle, lontane come non lo erano mai state per lo hobbit. 
Bilbo aveva scoperto che l'Eriador dell'est non era poi così spaventoso - per gli hobbit qualsiasi posto oltre Brea era spaventoso - e cavalcare per quelle colline, valli e boschi sconosciuti non era del tutto spiacevole. Gandalf e i nani avevano tanto da insegnare e raccontare, le giornate sembravano volare. Poi arrivò il brutto tempo e Bilbo scoprì anche che niente poteva intaccare lo spirito d'avventura come arrancare sotto la pioggia battente, con i vestiti di secondo in secondo più zuppi e dormire sul terreno umido.
“Ci fermiamo qui” decise Thorin quel giorno, quando arrivarono nei pressi dei ruderi di una casa abbandonata. Abbandonata non troppo tempo prima, sembrava, a giudicare dallo stato del legno. 
Bilbo che cavalca accanto a Gandalf udì lo stregone schioccare la lingua in segno di disappunto, ma lo udì solo lui e il mago non aggiunse nulla al momento. 
Mentre Thorin impartiva ordini e indicazioni ad ognuno affinché si preparassero in maniera più rapida ed efficiente possibile per la notte, lo stregone si distaccò dal gruppo per esaminare i resti dell'abitazione. 
“Sarebbe più saggio proseguire,” sembrò decidere ad un certo punto. “Potremmo raggiungere la Valle Nascosta, Gran Burrone non è così distante da qui (3) . Se partiamo ora e procediamo con un buon ritmo arriveremmo poco dopo il calare delle tenebre, e ad attenderci avremmo del buon cibo e un letto caldo,” disse lo stregone, rivolto a Thorin.
A Bilbo l'idea parve molto allettante. Sarebbe stato faticoso proseguire ancora, ma se in premio poteva esserci un letto all'asciutto e al coperto poteva valerne decisamente la pena.
Thorin però non fu dello stesso avviso: “Te l'ho già detto, non voglio avere niente a che fare con quel posto.”
“Ma gli elfi ci aiuteranno,” insistette Gandalf.
“Non voglio il loro aiuto,” lapidò la questione il nano.  
“Ti ricordo, mio caro Thorin, che abbiamo una mappa che non riusciamo a leggere, Elrond potrebbe aiutarci.” 
“Nessun aiuto venne dagli elfi quando il drago ci attaccò. Rimasero a guardare mentre la mia gente moriva, non parlarmi mai più dell'aiuto degli elfi!” si infervorò definitivamente Thorin. “Ci hanno traditi. Prima mio nonno e poi mio padre, non permetterò certo che si prendano gioco anche di me!” 
“Non potrai rimanere per sempre così testardamente ancorato al passato!” ribatté il mago. 
Bilbo trovò che quella fosse la cosa più sbagliata che Gandalf potesse dire in quel momento, a Thorin poi. Si ritrovò invece pienamente d'accordo con il principe dei nani: se gli elfi per qualche motivo in passato gli avevano voltato le spalle, quando più di ogni altra cosa avrebbe avuto bisogno di sostegno, era del tutto comprensibile che ora non volesse avere più nulla a che fare con loro. 
Thorin non disse più nulla, ma dalla caparbietà con cui fronteggiava lo stregone era evidente che aveva detto come la pensava e non avrebbe cambiato idea per niente al mondo.
Anche Gandalf parve rendersene conto, perché gli voltò le spalle, borbottando qualcosa riguardo alla cocciutaggine dei nani. 
Prima ancora che il resto della compagnia potesse accorgersi che c'era una discussione in corso, lo stregone montò a cavallo e sparì nella foresta senza rivolgere parola a nessuno, nemmeno a Bilbo. 
“Tornerà, vero?” chiese in apprensione lo hobbit a Balin, che però non avendo una risposta si limitò a sospirare ed alzare le spalle. 
“Lo sai come sono gli stregoni: vanno e vengono come piace a loro”. 
 
 
 
“È via da parecchio,” fece notare Bilbo diverse ore dopo, visto che nessuno pareva preoccuparsi dell'assenza dello stregone.  
Si sentiva ansioso ed impotente, si ritrovava spesso a guardare il punto in cui Gandalf era sparito nel fitto del bosco, sperando di veder ricomparire il suo alto cappello blu e il lungo bastone. 
Ma dello stregone non c'era traccia.
La verità era che senza il suo vecchio amico Bilbo si sentiva ancora più perso di quanto non fosse già. La sua presenza gli aveva dato una costante piccola dose di sicurezza, di cui fino a quel momento non si era nemmeno reso conto. 
“Io non mi preoccuperei, Gandalf sa badare benissimo a sé stesso,” minimizzò Bofur, rimestando con un mestolo lo stufato che era riuscito a mettere insieme con le scorte sempre più esigue di cibo che avevano. “Fammi un favore porta questo a Fili e Kili,” aggiunse porgendo a Bilbo due ciotole fumanti.
Lo hobbit accettò volentieri il compito di portare la cena ai due fratelli, che avevano il compito di badare ai pony pochi metri più a valle rispetto dove si erano sistemati.
Avere qualcosa da fare era un modo utile per distrarre la mente, se fosse rimasto ancora lì con le mani in mano i suoi pensieri avrebbero finito per torturarlo.
 
 
 
Quando raggiunse Fili e Kili, li trovò in piedi imbambolati, a diversi metri dallo steccato improvvisato che avevano messo assieme con corde e tronchi. Precauzione inutile visto che i pony erano tranquillissimi, oltre che già abbastanza affaticati dopo la giornata di marcia. I due stavano osservando i cavallini con aria perplessa.  
“Beh, cosa succede?” chiese, sospettando già un altro scherzo. 
“Il fatto è che noi dovremmo badare ai pony,” cominciò a spiegare Kili.
E quello Bilbo lo sapeva già.
“Bene,” disse, aspettando qualche informazione in più. 
“Solo che abbiamo un piccolo problema: dovrebbero essercene sedici, invece sono solo quattordici. Abbiamo ricontato quattro volte, Daisy e Bungo sono spariti,” concluse Fili. 
Bilbo si chiese come avevano fatto quei due a distrarsi al punto da perdersi due mansuetissimi pony.
“Questo non va bene. Però è strano, come hanno fatto a slegarsi?” 
Quei pony erano in gamba, Bilbo glielo doveva, ma anche alla loro destrezza c'era un limite. 
Avvicinandosi allo steccato videro che sembrava essere stato travolto con forza da qualcosa, forse i pony erano usciti da lì, ma come avevano fatto a superare i tronchi spezzati senza inciampare o incastrarsi?
“Non va bene affatto, dovremmo avvisare gli altri,” decise Bilbo, mentre notava che anche gli alberi e i cespugli attorno erano piegati e spezzati. 
“Nah, non facciamoli preoccupare,” disse Fili, che forse sperava ancora di risolvere la faccenda prima che gli altri lo scoprissero ed evitarsi così una bella, e più che meritata, ramanzina. 
“Guardate, qualcosa di grosso ha sradicato questi alberi,” portò Bilbo alla loro attenzione. “Qualcosa di grosso e pericoloso, meglio avvisare gli altri.” insistette, pensando che quella faccenda non prometteva nulla di buono.
Per di più non si fidava per niente dei due fratelli, erano troppo incoscienti ed irresponsabili.
“Fermi, state giù!” disse d'un tratto Fili. “Vedo una luce.”
Bilbo, ormai decisamente allarmato, si acquattò. Procedendo chino si appostò tra Fili e Kili, dietro un grosso albero crollato. Allora li vide: due pallidi mostri, enormi, completamente glabri e svestiti. Erano seduti attorno ad un grosso calderone, che ribolliva sul fuoco mandando un puzzo disgustoso, o forse erano i mostri a puzzare in quel modo terribile, Bilbo non riuscì a capirlo. 
“Troll,” sussurrò Kili. 
D'un tratto nella foresta, preoccupantemente vicino a loro, udirono i rumori di qualcosa di grande che si faceva strada tra la vegetazione.
“Sssht!” fece Fili, mentre un terzo troll passava a pochi metri di distanza dal punto in cui erano nascosti, facendo vibrare il terreno sotto i loro piedi.
Sotto le braccia teneva sollevati, senza troppo sforzo, altri due dei loro sventurati pony. Erano Mirtle e Minty.
Bilbo avvertì un tuffo al cuore. Quei ronzini gli causavano ancora una tremenda allergia, ma questo non gli aveva impedito di affezionarsi molto a loro; quando nessuno lo vedeva allungava loro sempre qualche piccola mela extra, se la meritavano dopo aver camminato faticosamente per tutto il giorno, carichi e senza mai una singola lamentela. Bilbo era molto orgoglioso di loro, gli voleva bene. 
“Li mangeranno, dobbiamo fare qualcosa!” decise. 
“Sì!” Fili lo spinse fuori dal loro nascondiglio senza troppe cerimonie. “Tu dovresti. I troll di montagna sono lenti e stupidi, tu sei così piccolo e gli hobbit sono famosi per il loro passo felpato, non ti vedranno mai!”
“Cosa?! Io-io-” Bilbo cercò le parole per spiegare come mai quella fosse un'idea terribile, ma non gli venne in mente nulla, nessun buon motivo per cui non dovesse almeno provare a salvare i suoi amici. 
Effettivamente, i troll davano le spalle ai pony. Se fosse riuscito ad arrivare furtivamente a loro, slegarli e farsi seguire, avrebbero potuto scappare alla svelta. 
“Noi saremo dietro di te, se ti ritrovi nei guai facci un segno e verremo ad aiutarti,” incalzò Kili, facendo leva sull’esitazione de lo hobbit per convincerlo definitivamente. 
Ormai senza molta scelta, Bilbo avanzò più silenziosamente possibile verso i prigionieri. In ogni caso aveva deciso che non poteva permettere che diventassero la cena di qualcuno senza che lui cercasse di fare quanto in suo potere per impedirlo, non se lo meritavano. 
“Bleah, non ne posso più di mangiare montone,” sentì uno dei troll lamentarsi. 
“Sempre meglio di quel fattore stopposo,” ribatté secco l'altro, quello che stava rimestando il disgustoso contenuto del pentolone.
Ecco che fine aveva fatto il proprietario della fattoria abbandonata, l'intuito di Gandalf aveva avuto ragione. Bilbo pregò che l'uomo non avesse famiglia, o che in caso fossero riusciti a fuggire.
“Questo non è montone, questi sono cavallini freschissimi,” cinguettò il troll che li aveva superati poco prima nel bosco, deponendo accanto agli altri i due poveri animali impauriti.  
Bilbo continuò ad avanzare nell'oscurità, non visto, finché un forte versaccio lo fece saltar su. 
“Guarda, il muco galleggia!” notò ammirato il troll che aveva appena starnutito nel pentolone, perché quel rumoraccio non era nient'altro che uno starnuto. 
L'affermazione fece storcere il naso de lo hobbit, quelle creature erano davvero ripugnanti. 
“Come mai cucini sempre tu? Tutto sa sempre di pollo. Tranne il pollo, quello sa sempre di pesce,” si lamentò il troll che aveva portato i pony.
Pony che intanto Bilbo era riuscito a raggiungere, e che esultarono sollevati quando lo riconobbero. Cercò di zittirli, mentre con sgomento si rendeva conto che i troll non erano completamente idioti: avevano assicurato bene, con spesse corde, le loro prede, e Bilbo non aveva nulla con cui tagliarle. 
“Perché sono l'unico capace! Voi due non capite un bel niente di buona cucina,” stava dicendo intanto il cuoco-troll. 
Bilbo gettò uno sguardo veloce ai tre, per assicurarsi che non lo avessero visto, e allora la notò: una lunga lama, dal manico improvvisato, penzolava dalla cintura di uno dei troll, quello che poco prima aveva starnutito nella loro cena. Era esattamente quello che gli sarebbe servito, ma non sapeva se avrebbe avuto il coraggio di avvicinarsi tanto per cercare di sottrargliela. 
Quando Bilbo avrebbe ripensato a quel momento, negli anni successivi, si sarebbe sempre dato dello stupido per non essere semplicemente tornato da Fili - ora sapeva che il nano girava sempre armato fino ai denti -, avrebbe evitato di combinare tutto quel pasticcio. 
Ma, forse perché temeva che se si fosse fermato troppo a pensare a cosa stava facendo la paura avrebbe preso il sopravvento, convincendolo a darsela a gambe; o forse colpa di Mirtle, che gli diede un buffetto con il muso, ricordandogli cosa c'era in ballo. Comunque, Bilbo decise che avrebbe tentato di recuperare quell'arma.
Sempre in seguito, Kili gli raccontò di aver cercato in ogni modo di fargli cenno di non farlo, che era un'idea terribile. Se solo lo avesse udito, un orrendo troll non si sarebbe mai soffiato il naso con lui, scambiandolo per il proprio fazzoletto, quello che stava vicino alla spada e che Bilbo proprio non aveva notato. 
“Waaah! Guardate che mi è uscito dal naso!” esclamò il troll, stupefatto. 
Lo sgomento bloccò ogni singola fibra de lo hobbit. Un secondo prima saltava, per cercare di raggiungere e afferrare la spada - da lontano non gli era sembrato fosse così in alto -, e quello dopo si era sentito sollevare da terra. E ora era nel palmo di un troll, a un centimetro dal suo gigantesco faccione bruttissimo. Era così spaventato che realizzò appena di essere ricoperto di disgustoso muco verde, viscido e appiccicoso. 
“Ma cos'è? Uno scoiattolo?” chiese uno degli altri due, mentre il troll che lo reggeva lo sollevava un po' per osservarlo meglio. 
“Io sono uno Scass- ehm uno hobbit” si sentì rispondere Bilbo, mentre quel mostro lo deponeva a terra. 
“Uno Scassobbit? Mai sentito.” 
“Sentiamo se è buono che dici?” disse il cuoco-troll, facendo per afferrare di nuovo Bilbo.
Lo hobbit cercò di darsi alla fuga, ma non fu abbastanza svelto. Si sentì sollevare, ancora, ma questa volta per le caviglie. Era finita. Nella migliore delle ipotesi sarebbe stato divorato in un solo boccone da uno di quei mostri orrendi.
I nani avevano avuto ragione, Bilbo non era durato molto. Solo su una cosa si erano sbagliati: avevano decretato che Bilbo non sarebbe sopravvissuto alle Terre Selvagge, però, alla fine, non era nemmeno riuscito a raggiungerle.
 
 
 
  1. Il nostro “intervistatore” ha un’identità che verrà svelata alla fine della storia, ammesso che non capiate prima chi è. (su)
  2. Per questa stima mi sono basata sulle info che abbiamo da “La Compagnia dell'anello”, o ancora meglio sulle date riportate nell' “Appendice B”. Frodo lì ci mette quasi un mese per raggiungere Gran Burrone da casa Baggins (23 settembre - 20 ottobre). È anche vero che Frodo si ferma e si perde più di una volta, va avanti un po' a piedi un po' in pony, ed è anche costretto ad usare vie meno comode perché è inseguito, così ho deciso di ridurre notevolmente questo tempo, considerando che la Compagnia di Scudodiquercia avanzi invece con più costanza, rimanendo bene o male sulla Via Est e senza smarrire la strada (quindi probabilmente non è Thorin a guidare :D). (su)
  3. Sempre basandomi su “La Compagnia dell'anello” nemmeno questo sarebbe vero. Come riportato sempre nelle Appendici Frodo attraversa il fiume il 13 ottobre e arriva al guado appena il 20, ben una settimana dopo e andando di gran fretta, quindi Gran Burrone disterebbe ancora minimo sette giorni di cammino. È anche vero che nel film invece Thorin e i suoi sembrano raggiungerlo quasi in giornata, e a piedi, attraverso le grotte (sarà stata una scorciatoia magica che conosceva Gandalf? Nel film danno ad intendere che si, ma questa è faccenda del capitolo 5), quindi mi sono adeguata. (su)

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Capitolo 4
*** Capitolo 4 ***


“Guarda qua, non rincresce più folta e morbida come una volta dove si è bruciacchiata. Con tutto il tempo che ci avevo messo a farla crescere! Il segreto sta nel tenerla bella pulita e idratata, e togliere tutti i nodi con un pettinino ogni sera.”
 
Nori
 
 


Thorin era ancora di pessimo umore dopo la discussione con Gandalf.
Lo stregone, nella sua presunzione, aveva parlato di cose che non conosceva. Non poteva capire, e non ci provava nemmeno tanto, la natura del risentimento che Thorin provava nei confronti degli elfi; nient'altro che esseri altezzosi ed arroganti, oltre che traditori.
I nani dalla sua compagnia, dal canto loro, ormai sapevano come trattare il loro principe quando era in quello stato d'animo. Per niente intimoriti, avrebbero continuato con le loro faccende come se nulla fosse, fino a quando non avrebbe sbollito da solo l'arrabbiatura.
Thorin li osservava in disparte, torvo, mentre con il solito vivace e apparentemente disorganizzato modo di fare si preparavano a cenare tutti insieme.
In quell'allegra confusione a Thorin saltò all'occhio l'assenza del membro più discreto e pacato del gruppo. 
“Dov'è lo Scassinatore?” chiese a nessuno in particolare, ma con voce abbastanza alta affinché buona parte di loro lo udisse. Era una delle cose che aveva imparato da suo nonno, farsi sentire al di sopra degli altri. Era una delle qualità di un buon capo, gli aveva insegnato Thror; sosteneva che se non sapevi farti ascoltare non valevi molto come guida. 
“Lo avevo mandato a portare qualcosa da mangiare a Fili e Kili, però effettivamente è passato un pezzo,” rispose Bofur, grattandosi pensieroso il mento. “Magari si è fermato a chiacchierare con loro,” ipotizzò. 
Thorin decise di prendere per buona quella spiegazione.
Qualcosa però continuava a non tornare, c'era qualcosa di strano nell'aria. Finì per attribuire quello strano sentore alla tensione che gli aveva lasciato l'acceso scambio di opinioni che aveva avuto con Gandalf. Era solo nervoso, tutto lì. 
Non passò molto prima che l'arrivo di Fili desse invece ragione al suo intuito. Dall'espressione del nipote capì subito che era successo qualcosa di serio. 
“Ci serve aiuto!” ansimò quello, risalendo di corsa il leggero pendio della collina. 
Thorin scattò in piedi: “Che succede?” 
“Troll. Tre. Hanno preso Bilbo.” 
Immediatamente tra i nani si levò una marea di esclamazioni sorprese, non solo perché Bilbo era nei guai, ma anche perché nessuno di loro si era aspettato di incontrare problemi ancora prima di aver oltrepassato le Montagne Nebbiose.
Anche Thorin era sorpreso, i troll delle montagne, sicuramente provenienti dagli Erenbrulli, solitamente non si trovavano in quelle zone, era raro che arrivassero tanto a sud. Cosa poteva averli spinti a spostarsi?
Accantonò quel quesito, ci avrebbe pensato dopo (1) ,ora avevano un altro problema: quell'idiota di un hobbit era riuscito a mettersi nei guai sorprendentemente in fretta. 
“Come diamine ha fatto a farsi catturare?” chiese. 
Fili spiegò che i troll avevano preso quattro dei loro pony e Bilbo aveva imprudentemente cercato di liberarli.
E ora a loro sarebbe toccato andare a liberare lui, aggiunse mentalmente Thorin. Era anche certo però che Fili e Kili ne avessero combinata una delle loro, Bilbo non gli sembrava il tipo da lanciarsi così sconsideratamente in una missione di quel tipo di propria iniziativa. C'era lo zampino dei suoi nipoti, chissà cosa gli avevano detto per convincerlo.
Pensando questo dovette aver gettato inconsapevolmente a Fili un'occhiata sospettosa, perché quello assunse un'aria colpevole, che cercò prontamente di dissimulare, ormai però aveva confermato la teoria dello zio. 
“Forza, muoviamoci prima che banchettino con il nostro amato mastro Scassinatore” disse, sovrastando ancora una volta con la sua voce poderosa e perentoria il vociare concitato dei nani. 
In un gesto abitudinario, prima di un'azione, assicurò e controllò bene la spada nel fodero che aveva sempre al fianco, un piccolo rito che lo aiutava a schiarire la mente e a concentrarsi. In fin dei conti, pensò, era proprio dell'umore adatto a battersi, forse menare qualche colpo gli avrebbe addirittura fatto bene.
 
 
 
Thorin guidò i suoi più silenziosamente possibile attraverso il bosco, continuando a chiedersi come si poteva essere così stupidi da mettersi in pericolo per salvare un paio di dannati ronzini. Se fosse stato solo per i pony avrebbero potuto allontanarsi non visti, ma ora non poteva certo abbandonare mastro Baggins al suo destino. 
Fece cenno ai nani di acquattarsi tra i cespugli quando arrivò al limitare dell'accampamento troll.
Come aveva riferito Fili erano in tre. Non avevano l'aria molto sveglia o particolarmente feroce, Thorin ne aveva visti di molto peggiori in battaglia.
I nani erano pochi, ma tra di loro c'erano guerrieri che avevano affrontato nemici ben peggiori; valutò che avevano buone possibilità di avere la meglio. 
Abbattere un troll non era semplice, ci voleva tempo. Il loro vantaggio era nella stazza, avrebbero dovuto colpirli ripetutamente alle gambe, stando attenti a non farsi pestare o prendere, ma con un po' di colpi ben assestati era possibile ferirli al punto da fargli perdere l'equilibrio, e quindi finirli. 
“Uno scassobbit? Mai sentito,” stava dicendo uno dei troll, osservando incuriosito lo hobbit.  
Dal punto in cui era, Thorin vide lo Scassinatore cercare di scappare alla prima buona occasione, e poi ancora venire subito riafferrato per le gambe.
“Ce ne sono altri di voi?” cominciò ad interrogarlo il troll, tenendolo per le caviglie, appeso a testa in giù. 
“No,” rispose prontamente e coraggiosamente lo hobbit. 
Thorin capì di avere ancora tempo, ne approfittò per studiare la zona in cui si trovavano.
Vide che nel punto della radura esattamente all'opposto rispetto dove si trovavano delle rocce offrivano un punto d'attacco sopraelevato, poteva essere un vantaggio non indifferente.
Decise che avrebbero attaccato i troll su due fronti.
Con il favore della sorpresa, e un po' di fortuna, poteva riuscire a balzare sopra uno di loro e abbatterlo subito senza troppi problemi. 
“Sta mentendo. Mettigli i piedini sul fuoco, vediamo se canta,” propose un secondo troll dalla voce più acuta. 
Thorin aveva sperato di avere ancora qualche momento per mettere in atto il suo piano, ma proprio quando fu sul punto di fare cenno alla metà di loro di seguirlo, per mettersi in posizione, la situazione degenerò.
I troll si convinsero che mastro Baggins non avesse niente da dirgli, e quello che lo teneva stretto in pugno decise di farne un solo boccone.
A quel punto Kili, che probabilmente era rimasto nascosto a sua volta fino a quel momento, senza accorgersi dell'arrivo dei rinforzi, balzò fuori da un cespuglio urlando: “Lascialo stare!” 
Non ebbe scelta.
“Adesso!” ordinò senza esitare oltre, avrebbero improvvisato. 
Al grido di battaglia tutti i nani si lanciarono all'attacco. 
Balzando più in alto che poteva, Thorin puntò come prima cosa all'avambraccio del troll che reggeva lo Scassinatore. Più per lo stupore che per il dolore infertogli dal colpo quello lasciò cadere lo hobbit. 
Dopo essersi assicurato con uno sguardo veloce che Bilbo fosse tutto intero, Thorin cominciò a menare colpi di spada agli stinchi dei troll, schivando e ferendoli alle braccia quando questi cercavano di afferrare lui o uno dei suoi compagni.
Mentre si muoveva, Thorin provò la piacevole sensazione che gli dava l'azione: la nitida percezione del suo corpo e di ogni movimento attorno a lui, l'assoluta concentrazione che richiedeva ogni colpo, i sensi completamente all'erta e la mente piacevolmente vuota da ogni pensiero inutile. 
Uno dei troll cominciò a mulinare a caso per aria una delle sue grosse mani, cercando di schiacciare come mosche chi si trovava sulla sua traiettoria. Thorin lo schivò agilmente quando gli arrivò abbastanza vicino, approfittando poi del momento per affondare la lama della sua spada nel polso del gigante, che ululò di dolore.
Nonostante avessero perso quasi subito qualche piccolo vantaggio, i nani combattevano con un impeto tale che Thorin era certo della vittoria. I troll sembravano confusi e si muovevano in maniera disordinata, senza riuscire a darsi un obiettivo preciso, sarebbe stata la loro condanna. 
Per questo, quando uno dei troll urlò “Fermi!” tenendo lo Scassinatore sollevato in ostaggio, Thorin non riuscì a spiegarsi com'era potuto succedere. 
“Bilbo!” urlò Kili, facendo per lanciarsi addosso al gigante pallido.  
“No, Kili,” lo trattenne Thorin. 
Ora due troll tenevano lo hobbit per un braccio ed una gamba ciascuno, nella muta minaccia di squartarlo se qualcuno avesse mosso ancora un passo.
Thorin valutò in fretta quali altre possibilità gli rimanevano, non trovò un'idea utile per far uscire tutti incolumi da quella situazione. 
“Incrociate le braccia, o gli stacchiamo le sue,” dichiarò il troll, vedendo che i nani li fissavano immobili ma non accennavano ad arrendersi.
Gli occhi di Thorin incrociarono quelli sbarrati per la paura dello Scassinatore.
Si guardarono per un tempo che gli sembrò lunghissimo, e di nuovo Thorin percepì quella cosa, quella che continuava a non capire. 
Pensò che avrebbe avuto un paio domandine da rivolgergli.
Innanzitutto avrebbe tanto voluto sapere perché diamine non si era messo in salvo, come aveva fatto a farsi prendere ancora? In secondo luogo, avrebbe voluto chiedergli perché si ostinava a volergli complicare la vita, impegnandosi a minare tutti i suoi piani. Infine, si chiedeva perché ora lo stesse guardando in quel modo, come se non fosse sicuro di cosa avrebbe deciso di fare. Era davvero convinto che lo avrebbe lasciato morire sotto i suoi occhi, senza fare nulla?
Thorin trovò quel pensiero davvero disturbante. Per un motivo non ben precisato non voleva che lo hobbit pensasse questo di lui. 
Questo cercò di dirgli silenziosamente guardandolo, mentre gettava la spada ai suoi piedi, imitato subito dopo dai nani alle sue spalle, ancora riluttanti alla resa.
Thorin non era il tipo di persona che avrebbe permesso a qualcuno di venire fatto a pezzi brutalmente davanti a lui senza cercare di intervenire.
Un modo per liberarsi lo avrebbero trovato dopo, insieme. 
 
 
 
Thorin stava cercando di sciogliere con i denti lo stretto nodo che lo imprigionava all'altezza del collo. 
Una volta che i nani si furono arresi, i troll li avevano legati e poi meticolosamente imbustati singolarmente in ruvidi sacchi di juta, ad accezione di Ori, Dori, Nori, Bifur, Bofur e Dwalin, che invece erano stati legati ad uno spiedo e ora venivano lentamente arrostiti sul fuoco. Thorin sentiva nell'aria un preoccupante odore di capelli bruciati, forse qualcuno di loro avrebbe dovuto dare una spuntatina alla barba quando tutto sarebbe finito. 
“Non perdiamo tempo a cucinarli!” disse il troll dalla voce più acuta.
Il troll intento a girare lo spiedo lo ignorò: “Andrebbero saltati sulla griglia, con un pochino di rosmarino e salvia,” commentò invece.  
“Sì, ma non abbiamo tempo, l'alba non è lontana” aggiunse il terzo troll.
Thorin vide con la coda dell'occhio lo hobbit alzare la testa di scatto.
Fino a quel momento mastro Baggins era rimasto a testa bassa, troppo impegnato a crucciarsi nel proprio senso di colpa per reagire. Ma ora sembrava gli fosse venuto in mente qualcosa e Thorin aspettò, sinceramente incuriosito, di scoprire cosa fosse. 
“Aspettate!” disse infatti lo Scassinatore, dopo qualche istante di valutazione. “State facendo uno sbaglio”. 
I troll guardarono perplessi lo hobbit alzarsi e saltellare come meglio poteva di fronte a loro. Non dissero nulla, Thorin era in dubbio se fossero curiosi di capire cosa aveva da dire loro quel ometto, o se invece fossero solo troppo lenti ad elaborare. 
“Il condimento. Ma li hai annusati? Ci vuole qualcosa di forte per coprire il loro odore,” cercò di spiegarsi più lentamente e facilmente possibile lo hobbit.
Subito una marea di proteste si levò dai prigionieri: “Traditore!” urlarono, convinti che Bilbo stesse cercando di barattare la sua libertà con una buona ricetta per servire al meglio i nani.
Thorin era certo che invece fosse un altro l'obbiettivo dello Scassinatore, ciò che per lui era frustrante era il fatto che non riusciva a capire quale fosse; avrebbe voluto rendersi utile, se c'era una cosa che odiava era sentirsi impotente. 
“State zitti! Voglio sentire cosa dice lo scrasciobbit” disse il troll che cucinava - che alla fine sembrava anche quello che comandava dei tre - tutto interessato ai consigli culinari de lo hobbit. 
“Il segreto per cucinarli è… spellarli prima,” disse lo Scassinatore, con il tono di chi rivela il prezioso segreto della ricetta perfetta. 
“Ma che sciocchezze!” cominciò a ribattere l'altro troll, quello più diffidente. 
Thorin udì appena il resto, la sua attenzione venne catturata da un movimento alla sua destra, tra il folto degli alberi. C'era qualcuno.
Se non si era illuso, gli era sembrato di intravedere un alto cappello blu.
E finalmente capì, sperò di aver capito: Gandalf! Lo hobbit stava solo prendendo tempo. Thorin non era certo se fosse perché Bilbo avesse scorto lo stregone prima di lui o se fosse una fortunata coincidenza, ciò che contava era che avevano un'occasione, e a loro non serviva altro. 
“No! Quello è infetto,” stava dicendo lo hobbit per evitare che Bombur finisse ingoiato tutto intero. “Ha i vermi. Parassiti. Effettivamente ce li hanno tutti, una faccenda terribile”. 
Per un momento Thorin non poté fare a meno di rimanere colpito dal modo in cui lo Scassinatore stava tenendo a bada la paura, non si sarebbe aspettato una tale prontezza da uno come lui.
Visto che ora aveva finalmente capito cosa stava succedendo, almeno poteva essere d'aiuto. Sperò che Gandalf si decidesse a fare qualcosa in fretta.
Thorin sferrò un calcio a Kili, che stava ancora urlando al tradimento ai suoi piedi, per fargli capire con un'occhiata che doveva reggere il gioco a Baggins.  
Fortunatamente, Kili afferrò al volo e cominciò ad urlare: “I miei parassiti sono i più grandi di tutti!”
Fili lo imitò quasi subito, senza farsi troppe domande, fidandosi di ciò che faceva il fratello.
Gli schiamazzi sortirono l'effetto desiderato: i troll, già abbastanza lenti di comprendonio di loro, apparivano sempre più confusi. 
“E che facciamo secondo te, li lasciamo andare?” chiese uno di loro. 
“Ci hai presi per stupidi razza di furetto?” intuì il troll fin da principio più scettico degli altri.
Si allungò minaccioso su lo hobbit, e Thorin temette che lo avrebbe scaraventato a terra colpendolo; per la grazia di Durin non ne ebbe il tempo. 
“L'alba vi prenderà tutti!” risuonò una voce, antica e imperiosa, nella radura. 
“E quello chi è?” chiesero i troll, quando videro la sagoma dello stregone stagliarsi contro il cielo, che si stava facendo ormai via via più limpido e luminoso. 
Gandalf levò in alto il suo bastone e lo calò energicamente di nuovo a terra.
La grossa roccia su cui stava si spaccò in due perfette metà, nessun bastone da passeggio qualsiasi avrebbe potuto farlo.
I raggi del sole nascente illuminarono tutti loro attraverso la breccia nella roccia, rincuorando i loro animi e decretando invece la fine per i troll. Thorin li udì urlare per la sorpresa e lo sgomento quando si resero conto che avevano perso troppo tempo.
Il sole, letale per loro, era sorto senza che se ne accorgessero, e alla sua luce si trasformarono in pietra.
Finirono così. Le loro statue sarebbero rimaste in quella radura nel bosco fino a quando il tempo e le intemperie non le avrebbero lentamente consumate e ridotte in polvere.
 
 
 
Mentre attorno a lui gli ultimi nani venivano liberati, Thorin si avvicinò a Gandalf. 
“Dov'eri andato, se posso chiederlo?” chiese, sforzandosi di mantenere il tono più conciliante che gli riusciva.
In realtà era davvero contento fosse tornato, ma non era sicuro che la loro lite fosse già dimenticata. 
“A guardare avanti,” rispose lacunosamente lo stregone. 
“E cosa ti ha fatto tornare?” 
“Guardare indietro,” disse Gandalf, concedendogli un'occhiata complice e rilassata, che fece capire Thorin che le cose tra loro erano tornate a posto. 
“Brutto affare, sono ancora tutti interi però,” commentò Gandalf guardandosi attorno, lieto di ritrovare tutti illesi. 
“Non grazie al tuo Scassinatore,” disse Thorin, ancora fermamente convinto che se si erano ritrovati in quel pasticcio era stata tutta colpa de lo hobbit. 
“Almeno ha avuto il buon senso di prendere tempo, nessun' altro di voi ci aveva pensato,” prese le sue difese Gandalf. Prevedibile.
Thorin non si prese il disturbo di aggiungere altro; Gandalf avrebbe difeso il suo amato hobbit fino allo stremo, troppo orgoglioso per ammettere che stava sbagliando a valutarne il valore. 
“Mi chiedo cosa ci facessero in queste zone quei troll,” disse Gandalf pensieroso, ricordando a Thorin che anche lui si era posto la stessa domanda. 
“Non si trovano in queste terre da un Era almeno, quando un potere più oscuro guidava queste terre,” aggiunse tetro lo stregone, nel suo tono più grave. 
Thorin si chiese se non fosse solo l'ennesima volta che Gandalf vedesse qualcosa di oscuro e potente all'opera là dove non c'era. Infondo erano solo tre stupidi troll delle montagne, potevano anche essersi ritrovati lì per caso. Tenne quei pensieri per sé.
“Sia come sia i troll non possono essersi mossi alla luce del giorno, deve esserci una grotta nelle vicinanze,” ipotizzò.
E dove c'era la grotta di un troll c'erano i suoi tesori, dallo sguardo che gli restituì lo stregone capì che non aveva certo bisogno di precisarlo. 
“Thorin,” la voce de lo hobbit lo chiamò piano alle sue spalle. 
Thorin prese un profondo respiro prima di voltarsi, quando poi lo fece, vide che mastro Baggins si guardava i piedi, evidentemente in imbarazzo.
Bilbo si schiarì la voce e si sforzò di guardarlo dritto negli occhi per dire ciò che aveva da dirgli. Anche se Thorin ce l'aveva ancora con lui per averli scioccamente messi tutti in pericolo, dovette controllarsi per non sorridere; era sempre tentato di farlo davanti a quel suo modo di fare. 
“Io… volevo ringraziarti. Sai, per prima, ecco… quando ho rischiato che mi strappassero a metà,” disse, visibilmente ancora turbato all'idea. 
“Lo avrei fatto per chiunque”. 
“Si, lo so. Non era per sentirmi speciale,” si affrettò a chiarire Bilbo, arrossendo. “Solo che quel chiunque questa volta ero io, quindi: grazie.” 
E allora Thorin capì cos'era, la cosa. Era così semplice, eppure quando finalmente riuscì a capirlo rimase di sasso. 
L' aveva visto la prima volta appena si erano conosciuti, quando Bilbo aveva ribattuto con sagacia e ironia alle sue frecciatine. Lo aveva percepito anche poco dopo quel momento, quando lo hobbit si era chinato sulla mappa della Montagna Solitaria, vicinissimo a lui, e ne aveva sentito il delicato profumo di pulito. Ancora una volta, quando avevano guardato l'alba l'uno accanto all'altro, e il sole aveva baciato il suo volto dai lineamenti armoniosi e la pelle candida. Poi di nuovo, quando gli era sembrato così fragile tra le mani degli enormi troll. Infine ora, quando le sue guance erano così deliziosamente arrossite. Era bello, Bilbo era bello. 
A Thorin era già capitato di incontrare altre persone belle, ovviamente, ma di solito prendeva atto dell'aspetto gradevole e la cosa non lo toccava oltre. 
La bellezza di Bilbo invece non lo lasciava indifferente: lo faceva sorridere, ammutolire, lo disarmava, con quei suoi buffi, adorabili, piedoni scalzi.
 
 

 
  1. Gli Erenbrulli, colline che si trovano alle pendici settentrionali delle Montagne Nebbiose, sono infatti dette anche “Colline dei troll”. Sul versante nord si trovano abbastanza vicine a Gundabad, la fortezza in cui si stanno radunando gli eserciti di orchi che poi entreranno in scena ne “La battaglia delle cinque armate”. (su)
 
 
Angolo dell'autrice:
 
Ben ritrovati cari lettori! Sì, ogni tanto rispunto…
Allora, in questo capitolo ho cercato di immaginare qualcosa del passato di Thorin, il rapporto con il padre e il nonno. Ho sempre pensato che lo avessero cresciuto per essere un Re, quindi insegnandogli ad essere forte e autoritario, il che mi ha sempre reso più plausibile il suo carattere fiero e restio a lasciarsi andare.
Finalmente è anche riuscito a capire cosa vedesse di strano in Bilbo, ci ha messo un attimo a capire che semplicemente gli piacesse. Non illudetevi però, la strada per questi due è ancora lunga e travagliata, è un inizio dai.
In realtà mi faccio viva anche perché ho una comunicazione, non troppo bella, per voi: è arrivato il momento delle mie sudatissime e agognatissime vacanze. Questo vuol dire che sarò senza pc per le prossime due settimane e che di conseguenza non potrò aggiornare. Ci ritroveremo con il prossimo capitolo il 30 di giugno.
Ne approfitto per ringraziare chi ha letto silenziosamente fin qui e chi ha listato (ovvero redsparrow), se vi andasse di palesarvi e dirmi che cosa pensate del mio operato mi farebbe molto piacere, giuro che non mordo (almeno non sempre).
In particolare però un enorme grazie e un abbraccio forte forte lo devo a leila91 che con tantissimo affetto ha commentato, listato e mi sta sostenendo fin qui: grazie sei una persona bellissima <3 
 
Cedro

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Capitolo 5
*** Capitolo 5 ***


“Beh, i vermi mica se ne fanno niente delle monete, era un peccato lasciarle lì. E poi fa sempre comodo avere un po' di contante in più nascosto da qualche parte - lo dico sempre anche a Gimli - per le emergenze, sia chiaro. Non si sa mai.”
 
Gloin

  

 
Bilbo aveva deciso che vedere una caverna troll non lo incuriosiva poi più di tanto. 
Anche solo stando all'imboccatura della galleria poteva sentire un odore terribile di qualcosa di putrido salire dal basso, per non parlare dello sciame di mosche che si agitava sopra una massa informe; somigliava in maniera raccapricciante alla carcassa di qualche animale, Bilbo cercò di non pensare al povero fattore. 
“No,” decise, preferendo allontanarsi, mentre invece Gandalf, Thorin, Bofur, Gloin, Nori e Dwalin lo superavano tenendo sollevate due torce accese, pronti all’esplorazione. 
Per quanto riguardava Bilbo le emozioni che aveva provato durante la folle notte appena trascorsa gli sarebbero bastate per un po'. Non gli rimaneva che aspettare che tutti quelli che erano scesi a caccia di tesori riemergessero. Illesi, si augurava.
Si sedette accanto a Balin, i modi di fare tranquilli del nano e la sua saggezza erano quello che gli ci voleva in quel momento, si sentiva ancora tutto sottosopra. 
Non poteva credere di essersi ritrovato faccia a faccia con un troll enorme e orrendo e di essere sopravvissuto per poterlo raccontare. Ad essere onesto non riusciva nemmeno a capire da dove avesse tirato fuori il coraggio per fare quello che aveva fatto; forse lo doveva al senso di colpa per aver fatto catturare tutti.
Aveva agito in modo sciocco, mettendo l'intera compagnia in pericolo e i nani non avevano esitato un momento a battersi per salvarlo, gliene era infinitamente grato, ma si sentiva anche terribilmente in dovere nei loro confronti. 
L'unica cosa positiva era che i pony almeno erano salvi.
“Smetti di torturati, Bilbo,” disse Balin, intuendo perspicacemente quello che passava per la testa de lo hobbit.
“Sapessi quante ne ho combinate io quando ero più giovane, molto molto tempo fa,” ammiccò.
Bilbo sorrise mestamente, non sapeva nemmeno trovare le parole per dire quanto fosse dispiaciuto per il suo errore di valutazione. Per la vergogna non era quasi neanche riuscito a trovare il coraggio di guardare in faccia Thorin, poco prima. 
“Quindi non pensi che gli altri ce l'abbiano con me?” chiese. 
“Ma certo che no! Noi nani abbiamo tanti difetti, ma non portiamo rancore per queste cose,” disse il nano. “E poi siamo tutti qui no!? Smetti di preoccuparti, se ne saranno già dimenticati”.
Bilbo cercò di convincere sé stesso che Balin avesse ragione; non gli sarebbe spiaciuto allentare un po' il nodo che sentiva dentro. 
“Forse, l'unico che fa eccezione è Thorin. Lui è imprevedibile in queste cose, ha la memoria lunga. Sai, ha questa tendenza a legarsi tutto al dito,” aggiunse dopo un po' Balin, scuotendo la testa sovrappensiero. 
Bilbo sentì il cuore sprofondare, era la cosa peggiore che potesse dirgli! Lui voleva piacere a Thorin, ed era già abbastanza difficile provare a riuscirci così. 
“Bilbo!” lo chiamò Gandalf proprio in quel momento, riemergendo dalla caverna troll. 
“Tieni, è più o meno della tua misura,” disse lo stregone, porgendogli un lungo pugnale.
Bilbo prese l'arma, in mano sua sembrava proprio una vera e propria spada, sorprendentemente leggera e maneggevole. Non ne aveva mai tenuta in mano una, non così bella per di più: la lama, la cui forma ricordava quella di una lunga foglia, era incisa con una linea sinuosa e delicata; l'impugnatura era decorata con un motivo a spirale, a richiamare a sua volta un ramo di edera rampicante.
“Non posso accettarla,” disse. 
In quel momento, con l'amor proprio sotto i piedi, non sentiva affatto di essere qualcuno che meritasse di ricevere un dono simile. 
“Sono stati gli elfi a farla, elfi di Gondolin”.
Bilbo ricordava di aver letto un libro riguardo quell’antica città segreta degli elfi, con la sua bianca torre e le bianche mura. 
“Quando orchi o goblin sono nelle vicinanze la lama diventa blu,” spiegò lo stregone, senza fare il minimo accenno a riprendersi la spada che Bilbo gli stava restituendo. 
“Non ho mai usato una spada in vita mia,” replicò lo hobbit, arricciando la bocca disturbato dal fatto che Gandalf lo stesse così palesemente ignorando.
Bilbo gli voleva un mondo di bene, ma qualche volta era irritante. Perché doveva sempre fare così? 
“E spero che non dovrai mai farlo. Ma in caso ricorda questo: il vero coraggio si basa sul sapere non quando prendere una vita, ma quando risparmiarla.”
Bilbo rigirò quella frase nella sua mente, non era certo di aver capito cosa intendesse dire l'amico stregone. Ancora non sapeva che avrebbe sperimentato sulla sua pelle cosa significasse quell'insegnamento, non molto tempo dopo. 
Thorin si avvicinò a loro, osservando Bilbo con la spada in mano.
Lo hobbit lo vide alzare un sopracciglio cercando, senza troppo impegno, di trattenere un'aria divertita. Già mortificato, si preparò ad incassare lo scetticismo del nano, ma il suo commento non arrivò. 
Thorin si irrigidì e la sua mano scattò veloce all'elsa della spada che aveva al fianco, allarmando per un momento Bilbo che aveva stupidamente pensato che ce l'avesse con lui. 
“Arriva qualcosa!” diede l'allarme Thorin, guardando il bosco. 
In un baleno tutti i nani, Gandalf e Bilbo si strinsero in un gruppo compatto, in posizione di difesa, ognuno con la propria arma stretta in pugno.
Perfino lo hobbit strinse la propria spada nuova. Si sentì incredibilmente goffo e ridicolo, era contento che Thorin fosse di spalle, così che non potesse vederlo. 
Se Gandalf aveva detto il vero riguardo a quella spada chiunque fosse in arrivo non era né un orco né un goblin, perché la lama non aveva cambiato colore. Questo non impedì al cuore de lo hobbit di battere all'impazzata per l'apprensione, aveva appena imparato che c'erano altri nemici terribili anche escludendo quelle due razze. 
Effettivamente quello che sbucò dagli alberi non era un orco o un goblin, e non sembrava nemmeno molto minaccioso, era più bizzarro che altro. 
Bilbo aveva davanti agli occhi una slitta trainata da lepri enormi. L'uomo strano che la conduceva sembrava agitato e confuso.
“Ladri, fuoco, assassinio!” sbraitava in maniera incoerente.
Bilbo storse il naso, notando che quelli che avevano proprio l'aria di essere escrementi di uccello gli imbrattavano la punta del cappello e buona parte dei capelli, se si potevano chiamare capelli quell'ammasso grigio e stopposo. 
“Radagast!” esclamò Gandalf, riconoscendo quello che altri non poteva essere che un suo amico. Quelli strani li conosceva tutti lui.
“È Radagast il Bruno,” spiegò lo stregone grigio al resto della compagnia.
Bilbo avvertì la tensione sciogliersi man mano che ognuno riponeva la propria arma e tornava alle proprie faccende, ovvero spartirsi il bottino dei troll.
“Cosa ci fai qui?” chiese Gandalf. 
“Ti stavo cercando, Gandalf” rispose Radagast concitatamente. “C'è qualcosa di sbagliato, qualcosa di terribilmente sbagliato!” 
“Sì…?” lo incalzò Gandalf, in attesa.
Improvvisamente però Radagast sembrava aver dimenticato cosa avesse di così urgente e importante da dire. Assunse un'espressione perplessa. 
“Oh!” esclamò sconsolato. “Avevo un pensiero ed ora l'ho perso. Eppure ce l'avevo qui, proprio sulla punta della lingua,” farfugliò.
Bilbo cominciò a chiedersi se quello fosse realmente lo stregone di grande valore, sapiente e intelligente, di cui gli aveva parlato qualche volta Gandalf con grande affetto. Bilbo aveva l'impressione fosse più un povero vecchietto uscito di senno.
Subito si sentì in colpa per averlo pensato, in fin dei conti non spettava di sicuro ad uno hobbit giudicare. Se aveva imparato qualcosa in tanti anni di amicizia con Gandalf era che con gli stregoni non si poteva mai sapere, e che spesso le apparenze ingannano. 
“Ah no! Non è un pensiero, è un insetto stecco,” disse Radagast tirando fuori la lingua, in modo che Gandalf potesse rimuovergli l'animaletto dalla bocca. 
Una volta che l'insetto fu liberato, Radagast sembrò recuperare un minimo di lucidità. 
“Il Bosco Fronzuto  (1) è malato, Gandalf,” cominciò a raccontare in maniera più sensata lo stregone bruno.
“L'oscurità è discesa su di esso. Non cresce più niente ormai, niente di buono almeno. L'aria è satura di putredine. Ma il peggio sono le ragnatele.” 
“Ragnatele, che intendi dire?” 
“Ragni, ragni giganti. Ungoliant (2) , o io non sono uno stregone” disse Radagast, scuotendo veementemente la testa. “Ho seguito le loro tracce, venivano da Dol Guldur”. 
“Cosa? Ma la vecchia fortezza è abbandonata!” fece Gandalf, evidentemente restio a credere alle sue orecchie, o per niente contento di sentire notizie del genere, Bilbo non seppe decidersi.
“No, Gandalf, non lo è!” esclamò Radagast, quasi urlando. “Un potere oscuro dimora lì, di una forza tale che non ho mai avvertito prima. L'ombra di un antico orrore, l'ombra che può riunire gli spiriti dei morti. L'ho visto, Gandalf, dall'oscurità è giunto un Negromante.”
Bilbo ebbe la preoccupante sensazione che Radagast fosse sul punto di perdere di nuovo la calma. Gandalf dovette pensare la stessa cosa perché gli porse la sua lunga pipa. 
“Prova a fare un tiro, ti aiuta a calmare i nervi,” disse all'amico. “Dunque, un Negromante, nei sei sicuro?” indagò poi, ancora una volta lo stregone grigio. 
In risposta Radagast tirò fuori da sotto alla veste marrone qualcosa di avvolto in un panno.
Bilbo allungò il collo, curioso di sapere di cosa si trattasse, ma non riuscì a intravedere nulla del fagotto che Gandalf teneva nascosto il più possibile agli occhi dei presenti. 
“Non proviene dal mondo dei viventi,” udì Radagast mormorare grave. 
Un rumore nella foresta fece sobbalzare lo hobbit, già suggestionato, distogliendo all'istante la sua attenzione dal pacchetto misterioso.
Gli era sembrato di sentire un verso spaventoso, come un ululato. 
“Cosa è stato? Un lupo? Ci sono i lupi da queste parti?” chiese. 
“No, quello non è un lupo,” rispose Bofur, che era il più vicino a lui. 
Bilbo registrò preoccupato che anche lui sembrava in allarme, nonostante il tono misurato. Ad ulteriore conferma il nano cominciò a guardarsi attorno guardingo. 
Bilbo udì per la seconda volta un verso terrificante, solo che questa volta sembrava un basso ringhio. E sembrava più vicino, molto più vicino…
Con il cuore in gola si voltò di scatto. 
Ad una decina di metri da lui una bestia enorme - decisamente non era un semplice lupo, era almeno tre volte più grande! -, dalle zanne storte e aguzze e il corpo scheletrico e scattante, li osservava feroce, pronta ad attaccare. 
Ciò che avvenne dopo accadde così rapidamente che Bilbo quasi non fece in tempo a realizzare di non essere morto.
Pietrificato, vide il lupo balzare su di loro. Fece per urlare, ma i polmoni non vollero collaborare, non trovò il fiato. E poi, senza alcuna logica, vide il mostro crollare a terra, senza vita. Non capì cos'era successo, fino a quando non distinse Thorin estrarre la sua spada dal collo dell'animale.  
Bilbo udì un secondo ringhio provenire dalla sua destra. Aveva appena fatto in tempo ad accorgersi della presenza dell'altra bestia, e girare la testa per vedere dove fosse, che Thorin stava già urlando: “Kili, usa l'arco!”
Bilbo non sapeva dove fosse Kili, ma dalle sue spalle una freccia sibilò centrando il lupo, che rovinò a terra e fu finito da Dwalin con un fendente della sua ascia. 
“Un mannaro ricognitore, un branco di orchi non è molto distante,” commentò secco Thorin. 
“Orchi hai detto?” non riuscì che ripetere Bilbo, frastornato.
Ebbe la sensazione di essere lento come uno dei troll della notte precedente, solo che lui non potendo contare sulla grossa stazza si sentiva anche inerme e vulnerabile, a differenza loro. 
“A chi hai parlato della tua impresa oltre che a me e alla tua famiglia?” tuonò Gandalf, superando, scostandolo senza troppe cerimonie, un confusissimo Bilbo. 
“A nessuno” ribattè Thorin, con la stessa forza dello stregone nella sua voce. 
“A chi lo hai detto?” chiese Gandalf, alzando ancora di più la sua, sempre più infervorato.
Bilbo non riuscì a capire cosa avesse a che fare ora quella domanda con gli orchi e i mannari. 
“A nessuno, sono pronto a giurarlo. Dimmi che succede!” disse Thorin, per niente intimorito dai modi dello stregone, non sarebbero stati molti quelli in grado di tenergli testa con tanta sicurezza. 
“Ci stanno dando la caccia,” ringhiò Gandalf, sbuffando subito dopo, forse perché non credeva del tutto alle parole del nano. 
“Dobbiamo andarcene,” si intromise Dwalin. 
Dwalin di solito non parlava molto. Bilbo pensò che se il nano aveva deciso di interrompere quel battibecco per dire ciò che pensava doveva essere fermamente convinto che fosse la cosa da fare, e alla svelta. Pensò anche che avesse ragione, non era certo il momento di mettersi a discutere, tutto ciò che chiedeva era di allontanarsi da quel maledetto bosco, e non rimetterci mai più piede, possibilmente. 
“Non possiamo, non abbiamo i pony, sono scappati!” annunciò Ori. 
Quella notizia colpì lo hobbit come un pugno allo stomaco, lasciandolo a bocca aperta. Non era possibile. Dopo tutta la strada che avevano percorso insieme, dopo che Bilbo aveva rischiato la sua stessa vita per salvarli, i pony li avevano traditi fuggendo così. Si chiese se erano stati spaventati dai mannari, o se forse si erano consultati e avevano infine deciso di averne abbastanza di tutti quei pericoli, e se n'erano tornati a casa, approfittando della prima distrazione della compagnia per allontanarsi. Senza nemmeno un saluto, era così ingiusto. 
“Li depisto io!” si offrì Radagast.
Bilbo saltò su udendo quella voce estranea al gruppo, si era completamente dimenticato dello stregone bruno.  
“Sono mannari di Gundabad, non si scherza con loro, ti raggiungeranno,” si oppose Gandalf. 
“E questi sono conigli di Rhosgobel (3) . Che ci provino!” ribatté fieramente Radagast alzando il mento, pronto a raccogliere la sfida.
 
 
 
In pochi minuti i nani della compagnia di Thorin Scudodiquercia raccolsero alla svelta tutti i propri averi.
Non potendo più contare sull'aiuto dei pony divisero tra loro solo l'indispensabile. Nascosero ciò che non potevano trasportare nella caverna dei troll, un giorno, se i Valar avessero voluto, sarebbero tornati a recuperare ciò che avevano dovuto lasciare indietro. Bilbo notò alcuni nani riempirsi le tasche di monete, Gloin in particolare riuscì a infilarsene un gran numero ovunque.
Come aveva promesso, Radagast si congedò, e spronò le lepri a correre più veloce di quanto avessero mai fatto, pronto ad attirare su di sé l'attenzione dei nemici, mentre i nani si lasciavano il bosco alle spalle per lanciarsi a loro volta in una corsa a rotta di collo attraverso le brughiere dell'est dell'Eriador. 
L' aria era fredda e un tetto di fitte nuvole grigie nascondeva il cielo. Il paesaggio attorno a loro non era altro che un saliscendi tappezzato di erba rinsecchita e rocce a perdita d'occhio, ad eccezione di qualche tenace arbusto di erica e ginestra. 
Bilbo non sapeva dov'erano diretti, sapeva solo che non aveva mai corso tanto, e ad un ritmo tanto sostenuto, in vita sua. Sapeva solo che se gli orchi li avessero catturati non avrebbero avuto tempo di intontirli a suon di chiacchiere come avevano fatto con i troll. 
I nani ansimanti, con i loro fardelli e sempre più provati, sgusciarono veloci tra le rocce. Qualche volta il vento freddo portava alle loro orecchie i terribili ululati dei mannari, sollecitandoli a tener duro e correre più in fretta. 
Bilbo continuava a pensare in apprensione a Radagast, al rischio che stava correndo per consentire loro di mettersi in salvo, pur conoscendoli appena. E, anche se non se lo meritavano per niente, pensava ai pony, sparava fossero ormai lontani da lì e in salvo. 
“Dove ci stai portando?” chiese Thorin a Gandalf, durante una delle rare pause che si concedevano per riprendere fiato, quando le rocce consentivano loro di nascondersi.
Con grande sorpresa di Bilbo Gandalf non rispose, possibile che non lo sapesse nemmeno lui? 
Osservò meglio in volto l'amico per trovare una risposta. Ed eccola lì, Bilbo conosceva quell'espressione: Gandalf sapeva bene dove voleva andare, ma evidentemente sapeva anche che ciò che aveva in mente non sarebbe piaciuto affatto a Thorin. 
Si chiese se non fosse il caso di dire qualcosa. Il comportamento di Gandalf, per quanto potesse essere a fin di bene, ne era certo, era del tutto scorretto; avrebbe dovuto essere sincero. Esitò troppo nell'indecisione, Gandalf incoraggiò tutti a proseguire e l'occasione di dire qualcosa sfumò.
Bilbo cominciava ad essere esausto. La notte precedente insonne, la tensione e lo sforzo cominciarono a farsi sentire. Le sue gambe ormai sembravano muoversi da sole solo per inerzia; l'erba ai suoi piedi gli appariva sempre più sfocata. Sempre più spesso incespicava, e si accorse che molti nani che prima erano dietro di lui lo avevano distanziato avanti di diversi metri.
Non passò molto prima che inciampasse su di un sasso e si ritrovasse lungo disteso a terra, con i palmi delle mani, la pancia e le ginocchia doloranti per l'impatto.
Per un lungo istante Bilbo immaginò cosa sarebbe accaduto se avesse ceduto alla voglia di non rialzarsi affatto, se fosse rimasto lì, con il naso affondato nel terreno. Non aveva la forza di tirarsi su, tutto sommato stava bene sdraiato a terra. Cominciava anche a sentire di nuovo le gambe, urlavano di dolore per la fatica. Era anche vero che se gli orchi lo avessero preso sarebbe morto, una morte violenta e orribile. 
Mentre si perdeva in questo pensiero, due vigorose paia di mani lo afferrarono per le braccia, tirandolo su di peso. 
Quasi senza rendersene conto Bilbo stava correndo di nuovo, tra Dwalin e Thorin. 
“Forza, Mastro Baggins. Non ho voglia di venire a recuperati un'altra volta,” disse Thorin.
I due nani tennero la stretta salda su Bilbo per qualche metro. Per sua fortuna, perché non sapeva se le gambe lo avrebbero ancora retto una volta visto che non solo i mannari erano sempre più vicini, ma cercavano già di accerchiare il gruppo in fuga.
Alla fine il nemico li aveva individuati, il diversivo creato da Radagast non li aveva più ingannati. 
Ansimanti i membri della compagnia si rifugiarono sotto uno spuntone di roccia.
A Bilbo ormai sembrava di avere i polmoni in fiamme a causa del fiatone, un po' dovuto allo sforzo e un po' allo spavento. Ma trattenne il fiato quando sentì il sordo ringhio di uno dei mannari provenire dall'alto: un orco era sopra di loro.
Nessuno di loro mosse un muscolo. 
Accanto a lui, Thorin fece un lento cenno con la testa a Kili, che aveva l'arco pronto a colpire.
Con un coraggio che lo hobbit non avrebbe mai potuto sognarsi di avere, il giovane nano saltò allo scoperto. Scoccò rapidissimo un colpo preciso, che andò a segno nel petto del mannaro. L'orco che lo cavalcava cadde assieme alla bestia; pronti Dwalin e Bofur gli saltarono addosso, uccidendolo. L'orco non ebbe tempo di emettere un solo suono.
“Muovetevi, correte!” li incitò ancora Gandalf.
Ripartirono di corsa, ma ormai erano circondati. La brughiera si estendeva ancora per chilometri e chilometri e Bilbo capì che non sarebbero riusciti a scappare ancora per molto in campo aperto; senza un riparo in vista, per loro la fuga sarebbe finita presto. Molti nani probabilmente realizzarono lo stesso, perché smisero di correre e si prepararono ad affrontare il nemico.
Anche Bilbo estrasse la sua spada, non sapeva usarla ma si sarebbe difeso fino all'ultimo. 
La loro unica speranza era che Gandalf avesse qualche asso nella manica; dopotutto si diceva fosse un grande stregone, se non era quello il momento per una potente magia Bilbo non sapeva quando altro avrebbe dovuto essere. 
Si guardò intorno, cercando l'amico. Gandalf però non c'era, era sparito. 
Sorpreso girò più volte su sé stesso tentando di individuarlo, anche in lontananza. Non poteva averli abbandonati. Sentendosi un po' sciocco lo hobbit controllò perfino in alto, in cielo. 
“Da questa parte, stupidi!”
La voce dello stregone arrivò da dietro una grossa roccia, sorprendendo Bilbo con il naso ancora all'insù. Si voltò giusto in tempo per vedere l'alto cappello a punta scomparire di nuovo tra i sassi.
Guidati dall'istinto più che da un pensiero nitido, i poveri piedi de lo hobbit cominciarono a muoversi in quella direzione. I nani stavano facendo lo stesso.
Thorin, fra i più veloci, si portò all'imboccatura di quella che doveva essere una caverna sotterranea, aspettando che tutti si mettessero in salvo e fermando a colpi di spada gli orchi che riuscivano ad avvicinarsi troppo. 
“Kili!” lo sentì urlare, quando mancavano solo loro due. 
Proprio nel momento in cui finalmente anche Thorin scivolò al riparo, il suono limpido di un corno risuonò nella brughiera; l'istinto disse a Bilbo che non apparteneva agli orchi. E dovette essere un’intuizione corretta, perché quelli che seguirono sembrarono proprio i rumori di una battaglia, o meglio di un massacro.
Lo scontro tra chiunque fosse arrivato in soccorso dei nani e gli orchi non durò a lungo. Dal loro riparo la compagnia udì i versi degli orchi che venivano sterminati dai loro silenziosi avversari, come se lo spettro della morte stessa si stesse semplicemente aggirando tra loro, prendendoli con sé. 
Non capirono cosa stesse accadendo fino a quando il corpo di un orco non rotolò giù, tra loro. Una freccia elfica spuntava dal suo petto. 
 
 
 
Quando dall'alto non arrivò più alcun suono, la compagnia cominciò a guardarsi attorno, valutando il da farsi. 
Decisero di seguire il corso della galleria sotterranea in cui si trovavano. Non avevano poi tanta altra scelta, sarebbe stato rischioso risalire all'aperto, dove poteva ancora aggirarsi qualche orco superstite. Thorin in ogni caso non avrebbe corso il rischio di trovarsi faccia a faccia con un elfo se ce n'erano nei paraggi; Bilbo era certo che avrebbe preferito incontrare un altro troll o un intero esercito di orchi piuttosto.
Gandalf invece sembrò fin troppo accomodante nell'accettare il percorso che avevano scelto, non disse molto. Così si addentrarono per uno stretto camminamento. 
In alto, sulla sommità delle ripide pareti di roccia che avevano ai lati, si poteva intravedere il cielo, tornato azzurro e limpido. 
Bilbo lo guardò a lungo. C'era qualcosa di strano in quel cielo, e c'era anche qualcos'altro di bizzarro: attorno a sé avvertiva qualcosa, come una leggera tensione, un delicato e stuzzicante brulichio nell'aria. 
“Gandalf, dove siamo?” chiese. 
“Riesci a sentirla?” chiese lo stregone, alzando le sopracciglia, colpito. Evidentemente conosceva la sensazione che provava lo hobbit in quel momento.
“Sì, ma non so cos'è”.
“È magia, una grande, potente magia” rivelò,sorridendogli con affetto. (4)
Quando sbucarono da quel singolare corridoio di pietra, si trovarono sulla sommità di una parete di roccia.
Bilbo spalancò la bocca per la meraviglia: ai loro piedi si estendeva una vallata che pareva incantata.
Un meraviglioso paesaggio autunnale, un’infinità di cascate di acqua limpida e la meravigliosa luce calda della sera facevano da cornice al palazzo più bello ed elegante che lo hobbit avrebbe mai potuto immaginare. Il clima era mite - Bilbo avrebbe scoperto che non cambiava mai lì - e l’aria profumava di legno e resina.
“La valle di Imladris,” annunciò Gandalf. “Nella lingua corrente è nota con un altro nome”.
“Gran Burrone,” terminò per lui Bilbo, rapito dalla bellezza di quel luogo. 
Gandalf annuì al suo fianco: “Qui si trova l'Ultima Casa Accogliente ad est del mare. O la prima, dipende da dove arrivi”. 
“Era il tuo piano fin dall'inizio” giunse alle loro spalle la voce di Thorin. “Trovare rifugio dal nostro nemico,” disse a denti stretti. 
“Non hai alcun nemico qui, Thorin. Il solo malanimo che trovi in questa valle è quello che porti tu stesso!” replicò Gandalf, facendosi un pochino più alto.
Sicuramente lo stregone sapeva che avrebbe dovuto affrontare quella conversazione. 
“Pensi che gli elfi vorranno benedire la nostra impresa? Tenteranno di fermarci!” ringhiò Thorin, trattenendo a stento la collera, ma cercando di rimanere ragionevole. 
“Certo che lo faranno. Ma noi abbiamo domande che attendono una risposta. Tu lascia fare a me!” disse Gandalf, con quel suo tono che, Bilbo lo sapeva, non prometteva che un altro pasticcio.
 
 

 
  1. Bosco Fronzuto è uno degli altri nomi con cui viene chiamato Bosco Atro. (su)
  2. Ungoliant è uno spirito malvagio che prende la forma di in un gigantesco ragno, è alleata di Melkor. I ragni di cui parla Radagast dovrebbero essere suoi discendenti, così come lo è poi Shelob. (su)
  3. Rhosgobel è il luogo in cui abita Radagast, non si sa con precisione dove sia. (su)
  4. Come dicevo non so decidere se nel film vorrebbero sott'intendere che il passaggio è una scorciatoia magica o se la magia serva solo a celare Gran Burrone ai visitatori indesiderati. Le mie ricerche sono state infruttuose e rimango col dubbio. (su)

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Capitolo 6
*** Capitolo 6 ***


“Non è che non mi piacciono le verdure, è che il cibo verde è strano da masticare, e poi non sa di niente. Sarebbe stata decisamente meglio una bella bistecca con le patatine fritte.”
 
Ori

 
 
 
La valle di Gran Burrone era veramente meravigliosa come Bilbo aveva letto nei suoi libri, e come tante volte gli avevano raccontato Gandalf - o Mithrandir, come aveva scoperto lo chiamavano gli elfi - e sua madre, quando era piccolo.
Belladonna Tuc non aveva avuto occasione di vedere realmente l'Ultima Casa Accogliente, aveva sempre dovuto fare affidamento esclusivamente sulla sua sconfinata fantasia per dipingerla nei suoi racconti. Bilbo avrebbe tanto desiderato che anche lei, almeno una volta, avesse potuto vedere quel luogo meraviglioso con i propri occhi; ma sua madre non ne aveva mai avuto la possibilità, e questo lo riempiva di amarezza.
Nonostante questo rimpianto, Bilbo riuscì a godere dei giorni che trascorse nella Casa di Elrond, furono rigeneranti sia per il suo fisico che per la sua mente.
Imladris era un luogo di assoluta pace e serenità. Bilbo apprezzava l'indole tranquilla e riflessiva degli elfi. Erano dediti alla musica, ai racconti e alla poesia, la loro saggezza era profonda, e anche il buon vino ed il buon cibo non mancavano; questo nonostante gli elfi non mangiassero nulla di origine animale, si nutrivano unicamente di ciò che offriva spontaneamente la natura. (1)
A Bilbo la cosa non disturbava affatto, non quanto questo tipo di dieta disturbasse i nani, almeno. L'indole burrascosa di questi ultimi non era affatto stata smorzata dalla pace di quel posto, anzi, se possibile l'aveva peggiorata.
Di giorno in giorno i nani si facevano più insofferenti e inquieti - Thorin in particolare sembrava più scontento che mai -, facevano sempre un baccano terribile, con grande frustrazione di chi li ospitava. Avevano interrotto praticamente ognuno dei sontuosi banchetti che venivano organizzati in loro onore, con canti sguaiati e lanciando il 'cibo verde' ovunque, erano di una maleducazione vergognosa. 
Bilbo si riscoprì ad evitare sempre più di frequente e volentieri la loro compagnia, preferendo quella degli elfi, o addirittura la solitudine.
Trovava piacevole passare diverse ore solo con sé stesso e, soprattutto, in silenzio. Rimanere in silenzio, essere in grado di ascoltare chiaramente i propri pensieri, gli era mancato moltissimo, solo ora se ne rendeva conto. 
Da quando il primo nano si era presentato alla sua porta, quella fatidica sera di qualche settimana prima, e poi durante il viaggio fin lì, gli era sembrato di essere stato sbalzato a destra e sinistra come in balia di un tornado. Ora, invece, sentiva di aver ritrovato la propria lucidità ed equilibrio. Forse però non era del tutto un bene: sempre più spesso si ritrovava a chiedersi cosa ci facesse lì, non a Gran Burrone, quello era fantastico, ma insieme alla compagnia di Scudodiquercia. Era tutto un enorme sbaglio? 
 
 
 
“Forza, Bilbo, ti insegno ad usare quel tagliacarte!” gli propose Fili, in una di quelle che i nani consideravano un'altra noiosa mattinata.
“Ottima idea!” fece Kili, entusiasta. 
Bilbo decise di accettare l'offerta, in parte perché si sentiva in colpa per aver trascurato la compagnia dei nani e un po' perché voleva realmente imparare ad usare quella sua bella spada. Dopotutto, il loro viaggio, il loro viaggio pieno di insidie, sarebbe proseguito prima o poi e Bilbo voleva essere in grado di difendersi se ce ne fosse stato bisogno, ne aveva abbastanza di sentirsi un peso. 
Fili si rivelò essere un insegnante molto paziente, gli insegnò una serie di mosse che gli fece ripetere in sequenza un’infinità di volte: prima da fermi, poi muovendosi avanti e indietro in linea retta. Qualche volta era il nano ad eseguirle e toccava a Bilbo parare. 
Presto lo hobbit si sentì meno impacciato a maneggiare la spada, era già un buon risultato. 
“Piega bene quelle ginocchia, Mastro Baggins. E girati più a sinistra, più a sinistra!” commentò la voce brusca e profonda di Dwalin, alle loro spalle. 
Bilbo non si era accorto di avere un pubblico, si augurò che lui non fosse tra quello.
“Se sei così delicato non imparerà un bel niente,” fece Thorin un istante dopo, confermando il timore de lo hobbit. Sì, c'era anche lui. 
Bilbo si sentì arrossire fino alla punta dei capelli, chissà da quanto lo stava osservando, in silenzio. E lui era così goffo! 
Completamente distratto dalla presenza di Thorin, Bilbo perse tutta la sua, già precaria, sicurezza. Parò i colpi di Fili sempre più disordinatamente. Inevitabilmente presto mancò un banale montante che aveva intercettato ormai decine e decine di volte e si ritrovò a guardare la spada di Fili ferma ad un millimetro dalla punta del suo naso. 
Proprio come Bilbo pensò che non poteva esserci modo peggiore in cui potesse rendersi ancora più ridicolo, Thorin disse: “Fatti da parte, Fili. Ci penso io”.
Era un incubo.
Bilbo lanciò un'occhiata implorante a Fili, quando fece per cedere il posto a Thorin, come gli era stato chiesto. Il nano colse il messaggio, ma con un'espressione dispettosa si limitò ad alzare le spalle, lasciando intendere a lo hobbit che non riusciva a trovare una buona scusa per non obbedire. Bugiardo che non era altro. 
“Avanti, Mastro Baggins. Colpiscimi,” lo incoraggiò Thorin, che se ne stava lì, con la spada pigramente tenuta bassa lungo il fianco, quasi fosse ancora nel fodero.
Bilbo non voleva farlo, non voleva battersi con Thorin, nemmeno per finta. Si sentiva così a disagio davanti a lui che ebbe la tentazione di girarsi e correre via. 
Ma nemmeno a lui venne in mente una buona scusa per defilarsi; non gli rimase altra scelta che sollevare la spada e calare un fendente poco convinto su Thorin.  
Come aveva ben supposto, il nano non dovette mettere troppo impegno nel parare i suoi primi colpi, in fin dei conti però non stava facendo nulla di troppo diverso da Fili. Bilbo cominciò a pensare che forse si era preoccupato di fare una pessima figura per niente, non era poi così tragico. Sbagliava. 
Thorin non si limitò più per molto solo a parare i suoi deboli attacchi, presto contrattaccò. Bilbo non fece quasi in tempo a finire di caricare un colpo orizzontale che si sentì colpire violentemente al polso dalla mano libera del nano.
La spada gli sfuggì di mano, in parte per l'impatto, in parte perché aveva mollato la presa sull'arma per la sorpresa. Con un rapido movimento Thorin lo aveva disarmato, e ora Bilbo poteva sentire l'acciaio freddo della sua lama sulla pelle del collo; si era fermato giusto in tempo. 
“Forza, ancora una volta,” disse Thorin, lasciandolo andare e facendogli segno di raccogliere la spada. 
Riluttante e con il polso dolorante per la manata del nano, Bilbo raccolse la sua arma e si preparò a colpire ancora. E ancora Thorin lo disarmò e lo immobilizzò, questa volta alle spalle, e poi di nuovo la volta successiva, e quella dopo pure.
Quando per l'ennesima volta Thorin ebbe la meglio su Bilbo, colpendolo con un calcio e facendolo finire con il sedere a terra, Kili si azzardò ad intervenire: “Ci stai andando un po' pesante, zio Thorin”. 
“Deve imparare,” rispose semplicemente quello, senza togliere i suoi occhi di ghiaccio di dosso da lo hobbit.
“Cosa, precisamente?” chiese a quel punto Bilbo, stufo, rifiutando scontrosamente, con uno schiaffo, la mano che Thorin gli stava porgendo per aiutarlo a rialzarsi.
Un gesto del genere non era affatto da lui, Thorin però era stato in grado di fargli perdere il controllo come nessuno era mai riuscito a fare prima di allora.
“Perché non me lo dici, così facciamo prima?” chiese ad un Thorin interdetto, rialzandosi e costringendo sé stesso a tenere la testa alta.
Non si era mai sentito tanto umiliato in vita sua, ma ne aveva decisamente abbastanza di tutta quella prepotenza.
“Ricorda, Mastro Baggins, che se mai ci sarà uno scontro nessuno ci andrà piano con te. Non c'è spazio per chi non è in grado di difendersi, lascia combattere chi sa farlo. Tutto ciò che devi fare tu, è scappare e nasconderti”. 
Era questo il punto quindi: Thorin voleva semplicemente rimetterlo al suo posto, ricordargli quanto fosse inadeguato, quanto sbagliata fosse la sua presenza lì. 
Non si prese il disturbo di rispondergli e nemmeno di raccogliere la sua spada.
Girò sui tacchi e a denti stretti, più ferito di quanto non gli piacesse ammettere, si allontanò. Non voleva più essere costretto a sostenere lo sguardo sprezzante del principe dei nani.
Thorin, con sua grande delusione, si era rivelato essere niente di più che un arrogante presuntuoso. Un eroe agli occhi di chiunque, un combattente e un condottiero al pari di quelli di cui si narrava nei poemi epici, così al di sopra di Bilbo, così al di sopra di tutto e tutti, da non curarsi minimamente di cose come i sentimenti altrui. A Thorin non importava di nessuno, se non di sé stesso. 
 
 
 
Bilbo non desiderò altro che passare il resto della giornata solo, per questo decise di perdersi nei meandri della meravigliosa dimora degli elfi. Se quello non era in grado di restituirgli la calma non avrebbe saputo che altro inventarsi. 
Dopo qualche ora, nel suo vagare, si imbatté in Re Elrond, signore di Gran Burrone.
A differenza di Thorin, nonostante fosse una persona senza dubbio molto molto importante, Elrond era di una modestia e di un'educazione lodevoli. Più di una volta si era già intrattenuto con lo hobbit e aveva conversato con lui, come fosse un suo pari; Bilbo ne era molto onorato.
In realtà non riusciva a spiegarsi come mai Elrond trovasse piacevole passare il suo tempo con lui. Gli hobbit non erano così interessanti, di sicuro non avevano molto di nuovo da raccontare ad un elfo di più di seimila anni. Ma Elrond diceva di considerare i mezz'uomini - era così che chiamava gli hobbit - un popolo molto interessante, dotato di grande valore, un valore che perfino loro stessi sottovalutavano.  
“Non sei con i tuoi compagni?” gli chiese Elrond quel giorno, con la sua incrollabile eleganza e gentilezza.  
Bilbo scosse la testa, cercando di nascondere il proprio stato d'animo. 
“Non gli mancherò,” si limitò a rispondere, lacunosamente. Era più tranquillo, ma non era certo di essere pronto a parlarne. “La verità è che per molti di loro non dovrei trovarmi in questo viaggio,” non riuscì a trattenersi dall'aggiungere. 
“Per molti, o solo per uno?” chiese Elrond, indovinando quale fosse la questione, anche senza che Bilbo avesse bisogno di dire altro. Era sorprendente il suo intuito.
“Conoscevo il nonno di Thorin, Thror, quando regnava sotto la montagna. Hanno lo stesso identico portamento: un carattere forte, fieri e caparbi come pochi,” proseguì l'elfo. 
A Bilbo scappò un sorriso amaro a quell'affermazione. Era proprio vero che non aveva mai conosciuto nessuno testardo quanto il principe dei nani, forse solo Gandalf poteva fargli degna concorrenza. 
Per qualche minuto Elrond e Bilbo rimasero in silenzio. Bilbo adorava quel modo di fare degli elfi: erano in grado di fermarsi a riflettere a lungo nel bel mezzo di una conversazione senza che il silenzio risultasse strano o diventasse imbarazzante; in fin dei conti, con l'eternità davanti, potevano anche permettersi di finire un discorso in tutta calma. 
“Ho sentito dire che gli hobbit sono molto resilienti,” riprese Elrond.
“Sul serio?”
Bilbo si chiese dove lo avesse portato il filo dei pensieri del signore di Gran Burrone per arrivare a quella conclusione. 
Elrond annuì: “Ho anche sentito che sono affezionati alla comodità delle loro dimore”.
Lo hobbit allora capì dove voleva andare a parare, ma non era proprio nello stato d'animo adatto per sentirsi dire che era fuori dal comune, dopo che Thorin aveva fatto di tutto per farlo sentire insignificante, e ci era riuscito benissimo. 
“Io ho sentito dire che non è saggio cercare il consiglio degli elfi, perché risponderanno sia sì che no,” rispose sospirando, azzardando una certa confidenza. 
Il bel viso di Elrond si illuminò mentre sorrideva divertito.
“Ci fa molto piacere se resti qui, se è ciò che desideri, questo lo sai,” disse congedandosi. 
Non era la prima volta che Elrond tentava lo hobbit con l'invito a fermarsi, gli aveva già proposto di rimanere tutto il tempo che desiderava, qualora non avesse voluto proseguire il suo viaggio con i nani della compagnia di Scudodiquercia.
Mai come quel giorno Bilbo fu tentato di accettare.
Gli elfi della Valle Nascosta avevano preso tutti in gran simpatia il piccolo mezz'uomo, una persona semplice, ma colta e a modo. Bilbo aveva trascorso abbastanza tempo con loro da rendersi conto che il disprezzo di Thorin nei loro confronti era del tutto ingiustificato. Ormai era certo che se avevano agito come avevano fatto dovevano aver avuto una motivazione valida e importante, che il nano evitava intenzionalmente di precisare. E ora capiva anche come mai Gandalf avesse più volte preso le loro difese. Lo stregone aveva avuto ragione, Bilbo si fece l'appunto mentale di dargli retta sempre, in futuro. 
 
 
 
Vagava ormai da tutto il pomeriggio, non si sentiva stanco, e soprattutto non desiderava ancora incontrare nessuno dei nani, quando una gran confusione attirò la sua attenzione.
Seguì la direzione da cui proveniva il gran baccano, intuendo già chi ne fosse la causa e, nonostante fosse preparato a cogliere i nani intenti a fare qualcosa di molesto, la scena che gli si parò davanti lo lasciò basito.
I nani, tra schizzi e schiamazzi, stavano facendo il bagno in una delle raffinate fontane scolpite degli elfi, e lo stavano facendo completamente nudi. 
Quattro di loro erano intenti a darsi battaglia nell'acqua poco profonda, Bombur si preparava ad eseguire un tuffo a bomba e qualcuno, che Bilbo non riuscì ad identificare, usava la scultura di Lúthien Tinúviel come fosse uno scivolo d'acqua. 
“O cielo!” esclamò.
Non avevano alcun senso del pudore o rispetto! 
Lo hobbit si voltò veloce, facendosi scudo sugli occhi con una mano, per evitare di vedere inavvertitamente altro; aveva già visto fin troppi sederi pelosi, per non parlare del resto. Ma, una volta che si fu girato su sé stesso, non ebbe tempo ti muovere un singolo passo che si ritrovò a sbattere contro un corpo massiccio, caldo e accogliente.
“Non ti unisci a noi, Mastro Baggins?” chiese Thorin senza scomporsi, afferrando delicatamente lo hobbit per le braccia per scostarlo dal suo petto, quello nel quale era affondato il suo naso.
Un angolino della mente di Bilbo pensò che fosse una sorpresa trovarlo lì, solitamente manteneva un certo contegno e non prendeva parte agli scherzi degli altri nani; probabilmente la voglia di vandalizzare per dispetto una fontana degli elfi era una tentazione troppo golosa.
Il resto del suo cervello registrò invece solo che Thorin era mezzo nudo, e sembrava proprio scolpito nella pietra: le spalle larghe, i pettorali grossi, gli addominali ben definiti. Tutto coperto da una morbida peluria nera e riccia, più folta sul petto, che proseguiva in linea retta proprio sotto l'ombelico e più in basso…
Beh, (s)fortunatamente aveva ancora i pantaloni. 
Thorin alzò una delle sue sexy sopracciglia – ehm, no, era un sopracciglio normale, del tutto normale - visto che Bilbo sembrava pietrificato e non accennava a rispondere.
“Io-io… No, no,” farfugliò lo hobbit. “Ho già visto molto più di quanto non intendessi. E poi, ecco, io sono già pulito. Così è meglio che…” mettere insieme una frase sensata sembrava incredibilmente difficile. 
Bilbo sentì il volto andare in fiamme e la situazione peggiorò, quando notò che Thorin non solo si era accorto del suo imbarazzo, ne doveva aver capito il motivo, e ne sembrava molto molto compiaciuto.
Bilbo avrebbe voluto sotterrarsi.
Come si poteva avere così poco amor proprio da sentirsi attratti da una persona che ti disprezzava e mortificava come Thorin aveva fatto con lui, solo poche ore prima? Ebbe vergogna di sé stesso, per il modo in cui lo faceva sentire, per quella stupida attrazione.
Istintivamente si massaggiò il polso, l'umiliazione di quella mattina ancora bruciava, Thorin rimaneva l'ultima persona che avrebbe voluto vedere, figurarsi stargli vicino a quel modo
“Scusa, devo andare,” disse liberandosi con uno strattone dalle mani di Thorin. 
Mosse appena un passo per allontanarsi che il nano lo trattenne con forza per l'avambraccio. Quando Bilbo lo guardò negli occhi chiari, vide che tutto l'autocompiacimento era scomparso. 
“Quello che intendevo dire stamattina,” cominciò a dire, con l'aria di qualcuno che cerca con cura le parole da scegliere, “è che se mai sarai in pericolo non devi correre rischi inutili solo perché credi di essere in grado di farcela.” 
Ovviamente, come dimenticarsi che per Thorin Bilbo non era buono a nulla. E lui che per un momento si era illuso che volesse scusarsi, che idiota. 
“Lo terrò a mente,” rispose, cercando di nascondere quanto lo ferisse il fatto che Thorin avesse quell'opinione di lui.
Si allontanò in tutta fretta, senza più voltarsi. Pensò che dopotutto l'idea di rimanere a Gran Burrone non era del tutto sbagliata.
Thorin non lo voleva assieme a loro, e nessuno dei nani si era accorto o dispiaciuto della sua assenza in quei giorni. Perché Bilbo non era uno di loro. 

 

 
  1. Perché gli elfi sono vegani, no? (su)

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Capitolo 7
*** Capitolo 7 ***


“Due volte. Per ben due volte ho evitato che qualcuno cadesse giù per quel dannato dirupo, prima Bilbo e poi Thorin. Pensi che mi abbiano detto grazie?! Che poi, provaci tu a tirare su Thorin, non era mica un figurino neanche a quei tempi sai?” 
 
Dwalin
 
 
 
Thorin era inquieto, lo era stato costantemente negli ultimi giorni, quelli trascorsi a Gran Burrone, e
quella sera lo era in particolare. Continuava a rigirarsi tra le mani la spada che aveva trafugato nella grotta dei troll: Orcrist, la Fendiorchi, così gli aveva detto che si chiamava il signore di Imladris, il giorno in cui erano arrivati. 
Thorin era ancora combattuto riguardo quell'arma. Erano stati gli elfi a forgiarla, gli alti elfi dell'ovest, e lui li odiava gli elfi. Era anche vero che da buon nano non poteva non riconoscere la qualità di quella lama; era perfetta, sarebbe stato un vero spreco disfarsene. 
Lanciò un'occhiata distratta al resto dei suoi compagni sparsi nella stanza tutto attorno a lui. Si intrattenevano demolendo la mobilia dei loro ospiti, per dargli fuoco e cercare di abbrustolire l'unico cibo che veniva loro offerto, quelle dannate foglie d'insalata e l'insipido lembas (1) , il pan di via. Fortunatamente avevano ancora qualche salsiccia affumicata e un po' di carne secca nelle loro scorte.
Decise di fare due passi all'aperto, aveva tanti pensieri per la testa e non riusciva a sentirli stando in mezzo agli altri. L'aria era fresca e profumava di fiori, la notte era rischiarata dalla luna crescente, che risplendeva tra le stelle in tutto il suo candore; si sarebbe potuta dire una serata romantica con la compagnia giusta. 
Perso nei suoi pensieri, vagò per le innumerevoli terrazze di Gran Burrone. Nonostante tutto, quel posto era ideale se qualcuno voleva riflettere in pace, questo doveva ammetterlo.
Rimanere nella casa del nemico era snervante, ma Elrond era davvero riuscito ad aiutarli svelando le rune lunari celate nella mappa, quelle che nemmeno Gandalf era riuscito ad individuare.
Gli era costato dare la mappa di Thror in mano all'elfo. Quello era il lascito del suo popolo, era sua da proteggere, così come i suoi segreti, e i segreti dei nani non erano di certo affari degli elfi. Anche Balin si era opposto fino all'ultimo, ma Thorin aveva bisogno di sapere, così erano stati costretti a mettere da parte il proprio orgoglio.
Se non altro ne era valsa la pena. Le rune avevano rivelato che il giorno del Dì di Durin l'ultimo raggio di sole al tramonto avrebbe illuminato il passaggio segreto per accedere alla Montagna.
Ora non avevano più motivo di trattenersi lì, al contrario: non avevano ancora molto tempo da perdere, l'estate stava finendo, l'ultimo giorno d'autunno sarebbe arrivato in un baleno, dovevano muoversi. Come se non bastasse, Elrond non sembrava essere affatto entusiasta della loro missione.
Thorin temeva che il figlio di Eärendil avrebbe tentato di fermarli prima o dopo, ma Gandalf temporeggiava a ripartire, e Thorin non riusciva a capire perché.
Arrivato a metà di una gradinata, si fermò bruscamente, aveva intravisto qualcuno nell'ombra. Era lo Scassinatore, se ne stava lì in piedi da solo, al buio.
Bilbo era uno dei motivi per cui Thorin era nervoso, era dispiaciuto per come erano andate le cose tra loro. Quando Gandalf aveva messo una spada in mano a lo hobbit, Thorin aveva pensato che non fosse una grande idea. Non era perché credesse che a Bilbo sarebbe mancato il coraggio di usarla se avesse dovuto, anzi, aveva già dimostrato di avere più fegato di quanto Thorin non si aspettasse; ma sapeva anche quanto facilmente il coraggio potesse trasformarsi in avventatezza, e Bilbo era ancora così ingenuo ed inesperto. Aveva già potuto vedere con i suoi occhi che tipo di stile di vita conducessero gli hobbit, una vita di pace e tranquillità, e Bilbo incluso, per sua fortuna, non conosceva altro. Per questo Thorin aveva cercato di fargli capire che, che gli piacesse o meno, i suoi avversari avrebbero sempre avuto più esperienza di lui come vantaggio. Ma lo Scassinatore non lo aveva capito a giudicare dal modo in cui si era risentito. Throin era rimasto davvero interdetto per il modo in cui lo hobbit lo aveva affrontato durante la loro lezione di scherma. Perché parlare con Bilbo doveva essere tanto difficile? Thorin non era affatto bravo in queste cose, i nani non erano così sensibili. 
Pensò che quello poteva essere un buon momento per cercare di parlargli, per cercare di spiegarsi. Teneva a farlo, Bilbo gli piaceva, e questo, almeno con sé stesso, non poteva più negarlo. 
Lo Scassinatore non dette segno di essersi accorto di lui, sembrava concentrato su qualcosa. Thorin capì cosa fosse quando le voci arrivarono anche alle sue orecchie.
Lo scroscio dell'acqua, onnipresente a Gran Burrone, attutiva le voci, ma non abbastanza da impedire di distinguere cosa dicessero. 
“Cosa accade se il tuo piano fallisce, se risvegli quella bestia?” udì la voce di Re Elrond arrivare da un punto indistinto più in basso. 
“E se avessimo successo? Se i nani si riprendono la Montagna le nostre difese ad est saranno rafforzate,” ribatté Gandalf.
I due probabilmente stavano conversando non molto lontano e non si erano accorti di non essere soli.
Thorin raggiunse silenzioso la cima della gradinata. Una volta lì si tenne in disparte, alle spalle de lo hobbit, smanioso di sentire il resto della conversazione. Dopotutto non era sbagliato origliare visto che quella questione riguardava anche lui, soprattutto lui. 
“È una mossa pericolosa, Gandalf”.
Quasi un secondo dopo che Elrond ebbe parlato, Bilbo sobbalzò e si voltò, in qualche modo aveva percepito la sua presenza. Nonostante l'attimo di sorpresa ebbe l'accortezza di non fare un rumore. Discretamente, tornò a girarsi e Thorin gli fu grato per quell'attenzione. Ora, se fossero stati scoperti, sarebbero stati complici. 
“È pericoloso anche non fare niente. Avanti, il trono appartiene a Thorin per diritto di nascita! Di cosa hai paura?”
“Hai dimenticato? Una vena di pazzia scorre profonda in quella famiglia. Suo nonno uscì di senno, suo padre soccombette all'identica malattia. Puoi giurare che Thorin Scudodiquercia non farà altrettanto?” 
Thorin, colto alla sprovvista da quell'argomento, sentì un senso di nausea impadronirsi di lui. La domanda che aveva fatto Elrond, non solo era più che lecita, era la stessa che spesso lo tormentava, specie di notte, quando nel sonno era in balia dei propri incubi, per questo dormiva solo lo stretto necessario. Aveva amato immensamente il padre e il nonno, avevano sempre rappresentato una guida ed un modello da seguire per lui, quando era ragazzo; vederli perdere loro stessi, consumarsi giorno dopo giorno, era stato un dolore immenso, di cui non faceva mai parola con nessuno. 
E se quella sorte, quella della pazzia, fosse toccata anche a lui? Non sarebbe più stato sé stesso, forse non ne avrebbe più nemmeno serbato il ricordo. Avrebbe finito per perdersi, come aveva visto succedere a chi amava, senza che potesse fare nulla per salvarsi.
Colpito da questi pensieri, avvertì il familiare senso di panico invaderlo, mentre i contorni di ciò che aveva attorno sfumavano, si confondevano.
“Gandalf, queste decisioni non spettano solo a noi. Non tocca a te o a me ridisegnare la mappa della Terra di Mezzo,” la voce di Elrond arrivò da lontano, come ovattata. 
Stordito, Thorin non notò nemmeno Bilbo avvicinarglisi, in apprensione. 
“Thorin…” lo chiamò piano lo hobbit, posandogli delicatamente una mano sul braccio.
Quel tocco lo riportò alla realtà.
Guardò Bilbo negli occhi limpidi, una luce da seguire mentre era perso nella nebbia più fitta, e piano lo stato d'ansia che si era impadronito di lui passò. Il mondo tornò a definirsi, la mente ritrovò la lucidità, mentre cercava di rilegare in un angolo i pensieri cupi. 
Gandalf e Elrond ormai si erano allontanati, troppo perché potessero udire ancora cosa dicessero.
Thorin ritrovò il controllo, e in quel momento la consapevolezza di cosa significasse ciò che aveva appena udito lo riscosse completamente. 
“Thorin, stai bene?” gli chiese ancora una volta lo Scassinatore, tra il perplesso e il preoccupato.
Bilbo. Bilbo era una visione così dolce in quel momento, mentre era in pensiero per lui, che Thorin lo avrebbe baciato.
Ma non c'era tempo. 
“Presto. Seguimi, mastro Baggins”.
I suoi sospetti erano fondati: Elrond li avrebbe fermati alla prima occasione.
Prese per un braccio lo hobbit e tornò da dove era arrivato, avrebbero parlato un'altra volta. 
“Fate i bagagli. Dobbiamo andarcene adesso!” ordinò, una volta raggiunto il resto della compagnia.
I nani non si fecero ripetere due volte l'ordine di Thorin. In men che non si dica misero insieme i loro pochi averi e ripresero il loro viaggio con entusiasmo e rinnovato vigore. 
Thorin in particolare era contento di poter proseguire, finalmente libero, la sua missione.
Si rendeva conto di aver portato sullo stomaco un grosso peso per tutti i giorni che aveva trascorso nell'Ultima Casa Accogliente, un peso che ora si era sciolto e lo faceva sentire leggero e più motivato che mai. 
La loro partenza non era passata del tutto inosservata: Gandalf li aveva sorpresi proprio all'ultimo. Lo stregone però si era detto d'accordo con Thorin, si offrì addirittura di distrarre gli elfi fin quando gli sarebbe stato possibile, così avrebbero avuto un po' di vantaggio nell'evenienza che avessero cercato di fermarli per davvero, anche se Gandalf aggiunse che non credeva Elrond si sarebbe spinto a tanto. Si accordarono per ritrovarsi con lui tra le montagne.
 
 
 
Thorin, alla guida del gruppo, condusse i nani della sua compagnia alla volta delle Montagne Nebbiose, una lunga catena montuosa che scorreva da nord a sud per migliaia di chilometri.
Quelle montagne erano piene di valichi, passi e sentieri che consentivano di attraversarle, ma ognuno di essi nascondeva anche un gran numero di insidie. Non sarebbe stato facile superarle, una volta arrivati dall'altra parte però si sarebbero ritrovati nelle Terre Selvagge, ancora un passo più vicino alla loro meta finale; Erebor non sarebbe distata più molto da lì. 
Marciarono instancabili per diversi giorni, scalando e spingendosi sempre più in alto, diretti verso le vette dove la neve non si scioglieva mai completamente. Il piacevole clima estivo diventò un ricordo man mano che salivano, la temperatura scese e il tempo peggiorò notevolmente.
Un forte vento sibilava costantemente e fastidiosamente nelle loro orecchie, rallentandoli quando soffiava loro contro. 
Presto il morale crollò, tutti si fecero silenziosi e taciturni, ma Thorin continuava a guidarli, instancabile. Poi il tempo già inclemente peggiorò ancora.
Cominciò a piovere e la pioggia continuò a cadere insistente in ogni momento del giorno. Presto furono zuppi, oltre che stanchi e infreddoliti. Il cielo era sempre buio, sembrava fosse perennemente notte, quando invece doveva essere appena pomeriggio.
Si scatenò un temporale e tuoni e fulmini facevano fremere le montagne attorno a loro.
I nani procedevano attraverso una gola, in bilico su uno stretto sentiero scavato nella roccia, se quello si poteva definire un sentiero. Sotto di loro la parete scendeva a strapiombo per centinaia e centinaia di metri.
Thorin aguzzò la vista alla ricerca di un riparo. Non era saggio continuare a marciare con quel tempo, l'acqua rendeva il terreno scivoloso, un pericolo non indifferente considerando a che altezza si muovevano.
Un altro tuono e sopra le loro teste si sentì un forte crack. Una scarica di rocce sfiorò i nani per un pelo, prima di precipitare nel vuoto. 
Thorin, ormai quasi disperato, udì un’altra frana da qualche parte alle sue spalle e la terra tremò. Quando si voltò per controllare che stessero tutti bene osservò incredulo un enorme masso volare in aria, contro il cielo scuro, sfidando la forza di gravità quasi fosse una bolla di sapone. Sembrava che qualcuno lo avesse lanciato, ma nemmeno un troll sarebbe riuscito nell'impresa, doveva trattarsi di qualcosa di più grande. 
“Guardate!” urlò Balin, indicando qualcosa con il dito. 
Thorin rimase a bocca aperta, non aveva mai visto nulla di simile: un enorme gigante, fatto interamente di pietra, si stava staccando dal fianco della montagna, stiracchiandosi, come se si fosse risvegliato da un lungo sonno.
“Questo non è un temporale, è una battaglia fra tuoni!” esclamò Balin a pieni polmoni, nel tentativo di farsi sentire sopra il rombo della tempesta. 
“Che mi venga un colpo, le leggende sono vere! Giganti, giganti di pietra!” disse Bofur, eccitato più che spaventato.
“Riparati, stupido!” gli gridò Thorin.  
Un secondo masso volò sopra le loro teste. Era stato un secondo gigante di pietra, spuntato da chissà dove, a lanciarlo, così come probabilmente aveva lanciato il precedente. Colpì il primo gigante al petto, proprio dove avrebbe dovuto esserci il cuore; quello incassò piegandosi in avanti, ma non cedette di un passo. 
La terra sotto i loro piedi tremò ancora, distraendo Thorin da quello spettacolo portentoso. Uno squarcio si aprì sotto i loro piedi separando il gruppo.
Con orrore, Thorin realizzò di trovarsi proprio sulle gambe di un terzo gigante; la maggior parte di loro era insieme a lui sul ginocchio sinistro, gli altri nani e lo Scassinatore sul destro. 
Quando il colosso si alzò, tutto oscillò furiosamente, minacciando di farli cadere uno per uno nel baratro. Thorin si appiattì contro la parete alle sue spalle, nel tentativo di mantenere l'equilibrio, in assenza di un appiglio stabile. 
Il gigante su cui si trovavano barcollò sui piedi ancora incerti e facendolo si avvicinò abbastanza a ciò che rimaneva del sentiero che avevano percorso solo pochi minuti prima, la parte ancora ferma e stabile. Thorin vide la loro occasione. Con un urlo di avviso per gli altri, balzò senza esitare via dalle gambe del gigante, con suo sollievo i nani dietro di lui fecero in tempo a fare altrettanto.
Atterrarono incolumi, ma ora il problema era recuperare la parte del gruppo che si trovava ancora in trappola sul ginocchio destro.
I colossi intanto, ignari della loro presenza, si davano battaglia senza esclusione di colpi. Enormi schegge di pietra e sassi grandinavano attorno a loro, alcuni arrivarono a ferirli e graffiarli; erano completamente esposti, non avevano alcun riparo. 
Thorin vide la metà del gruppo ancora in balia del gigante sfrecciare davanti a lui mentre quello si allontanava, inarrivabili eppure così vicini, vicini come con ogni probabilità non sarebbero più stati. Dovevano approfittare di quel momento.
“Saltate, forza!” li incitò.  
Ma proprio in quel momento il gigante venne colpito violentemente alla testa, che si frantumò. Ferito, il colosso di pietra crollò contro il fianco della montagna e la sua gamba destra impattò violentemente sulla dura roccia. Thorin non poté fare altro che osservare sgomento ed impotente i suoi compagni venire stretti da quella morsa letale.
“Nooo” gridò, mentre il gigante sconfitto precipitava nel vuoto.  
Con il cuore stretto, incapace di dare un senso a ciò che aveva appena visto, Thorin si fiondò nel punto in cui erano stati travolti i suoi compagni, preparandosi al peggio.
Con gran sollievo scoprì che erano tutti lì, scossi ma miracolosamente illesi: Fili, Dwalin, Bombur, Oin, Bofur e Bilbo…Bilbo. Bilbo non c'era.
Si voltò di scatto credendo di essersi sbagliato, ma non era con lui di questo era certo, e voltandosi ne ebbe la conferma. Sentì il cuore mancare un battito, non poteva essere vero, lo Scassinatore doveva essere lì da qualche parte, doveva, non poteva averlo perso. 
“Bilbo, dov'è Bilbo! Dov'è lo hobbit?” chiese Bofur allarmato, prima che Thorin riuscisse a parlare.
Non si sentiva in grado di emettere un singolo suono tanto sentiva il petto serrato, gli altri invece cominciarono a chiamare Bilbo a gran voce. 
“Là!” urlò ad un certo punto Bofur, indicando qualcosa in basso. 
Thorin sussultò e seguì con lo sguardo il punto indicato dal nano: Bilbo era aggrappato al bordo del precipizio, gli occhi sbarrati per il terrore di cadere. 
Una parola arrivò infine alle labbra di Thorin: “Prendetelo!” 
Due nani stavano già cercando di afferrare lo Scassinatore anche senza aver udito il suo comando, ma lo hobbit, sempre più sfinito, stava perdendo la presa sul suo appiglio e scivolò ancora più in basso. 
Senza aspettare oltre, Thorin cercò un punto che gli consentisse di raggiungerlo.
Trovò un buon appiglio e si calò a sua volta sulla parete di roccia, riuscì ad aiutare Bilbo ad issarsi, spingendolo dal basso, finché gli altri nani non furono in grado di tirarlo in salvo. 
Una volta che fu certo che Bilbo fosse al sicuro, Thorin fece per risalire a sua volta da dove era sceso. Si allungò nel tentativo di afferrare la mano tesa di Dwalin, ma perse la presa sulla pietra bagnata e si ritrovò con le gambe penzoloni, i piedi che annaspavano nel vuoto, mentre cercava senza successo di puntellarsi sulla parete. Fortunatamente Dwalin, le cui braccia possedevano una forza non indifferente, riuscì nell'impresa di sostenere da solo il peso del suo corpo, e issarlo nuovamente sul sentiero.
Thorin, senza fiato per lo sforzo e lo scampato pericolo, rimase qualche istante carponi a terra, alzò solo brevemente la testa per fare un cenno di ringraziamento a Dwalin. Come era già accaduto spesso in passato, aveva potuto contare ciecamente su di lui, affidandogli la sua stessa vita, e l'amico si era dimostrato all'altezza. Non erano molte le persone di cui Thorin si fidasse fino a quel punto. 
“Credevo l'avessimo perso,” commentò Dwalin, alludendo a Bilbo. 
Era quello che aveva temuto anche Thorin. Una volta che si fu ripreso, sentì l'urgenza di controllare che lo hobbit fosse tutto intero. Quando lo vide lì a terra, ansimante e stremato, quando vide quanta paura c'era ancora nei suoi occhi, dovette reprimere la voglia di prendere il suo viso tra le mani e dirgli che andava tutto bene
D'un tratto sentì un'inaspettata rabbia crescere dentro di sé. Era sbagliato, era tutto sbagliato: Bilbo non avrebbe mai dovuto unirsi a loro; era troppo per lui, avrebbe dovuto rimanere a Gran Burrone, o ancora meglio nella sua adorata Contea, al sicuro. Thorin sapeva che aveva valutato di farlo, lo aveva capito dal modo in cui lo hobbit si era voltato a guardare un’ultima volta la Valle Nascosta prima che la lasciassero.
Bilbo avrebbe voluto rimanere lì, ma Thorin lo aveva esortato a proseguire, senza dargli tempo di riflettere sulla sua decisione. Aveva commesso un errore che stava per costate la vita ad entrambi. 
“Lui si è perso fin da quando ha lasciato casa sua. Non sarebbe mai dovuto venire. Non c'è posto per lui tra noi” disse, forse più duramente di quanto non intendesse, ma gli risultò difficile controllare la collera.
Capì che era meglio che si allontanasse, prima che potesse sfuggirgli qualcosa di cui si sarebbe sicuramente pentito.
Cercò di non tradire ulteriormente il suo stato d'animo, il suo turbamento, la gran confusione che sentiva dentro, che certamente chi lo conosceva da tanti anni avrebbe potuto leggergli in volto; non voleva che qualcuno potesse mettere in dubbio la sua lucidità, avrebbe minato la sua autorità e questo non poteva accettarlo. 
Proseguì lungo la via a testa bassa, sfrzandosi di non guardarsi più indietro.

 

 
  1. Non credo che effettivamente anche gli elfi di Gran Burrone preparino il lembas, dovrebbe essere una cosa più tipica di Lothlorien e degli elfi silvani. (su)
 
 
Scena tagliata:
Bilbo, che chiudeva la fila, si voltò un’ultima volta ad ammirare dall'alto la stupenda Imladris. Gli spiaceva lasciare quel luogo, era stato sereno come non mai lì.
Promise a sé stesso che un giorno ci sarebbe tornato, per una lunga, lunghissima vacanza magari, di quelle da cui si è tentati di non tornare più. Con un lungo respiro assaporò un’ultima boccata d’aria pura, chiuse gli occhi per fermarla nella sua memoria.
“Ti consiglio di tenere il passo, mastro Baggins,” lo colse di sorpresa la voce di Thorin, alle sue spalle.
Il nano evidentemente si era fermato per aspettarlo, Bilbo si chiese da quanto lo stesse osservando, in silenzio. Fece un gran sospiro e pretese di mettere più decisione nei suoi passi di quanta non ne avesse realmente; aveva deciso di mostrarsi sicuro d'ora in poi davanti al principe dei nani, anche quando non lo era per niente.
 

Angolino dell’autrice:
Bentrovati a tutti!
Ricordate quando nelle note del primo capitolo accennavo ad una scena del film che mi ha fatto scattare la lovestory? Ecco, qui c’è la scena incriminata, ovvero quando Bilbo scivola e Thorin urla di prenderlo e sembrano tutti e due sconvoltissimi (beh, Bilbo ne ha anche motivo visto che stava per sfracellarsi, dettagli).
Questa parte, ovvero questo capitolo e i due successivi, sono stati difficili da buttare giù. In realtà potrebbero rientrare tutti in un lunghissimo capitolo che ho dovuto dividere visto che l’azione non si ferma mai del tutto, spero che non mancheranno le emozioni visto che ormai la ship dovrebbe aver ingranato.
Proprio per il tempo che mi ha richiesto la stesura di questa parte (che non mi convince ancora per niente, ma che sono anche stufa di prendere a testate) sono un pochino indietro con la stesura del seguito, quindi non so per quanto riuscirò ad aggiornare ancora con regolarità, posso dirvi che fino ai primi di agosto sì, e poi boh.
Come avete visto ho inserito una scena dopo la fine che avevo buttato giù diverso tempo fa, ma che poi avendo usato il pov di Thorin non ha trovato posto. Mi spiaceva non poter mettere il riferimento alla “lunga vacanza” di Bilbo, così eccola.
In ultimo ringrazio chi ha letto fin qui (battete pure un colpo se ci siete), e in particolare Manzcan e mask89 (alias: coluiacuinonsiriesceanasconderenulla) che mi hanno ricordata, e shilyss che si fionda negli scambi <3
Alla prossima ^^
 
Cedro
 
 

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Capitolo 8
*** Capitolo 8 ***


“Glomi, che sono i glomi? Ah, goblin! Quei maledetti… Hanno sfondato la mia tromba, inservibile. Certo, ne ho una nuova ora, ma non buona come quella vecchia, non so se mi spiego, quella sì che era calibrata alla perfezione.”

Oin

 


 

I giganti sembravano essersi dileguati e, anche se la pioggia cadeva ancora insistente, il temporale si stava placando. 

I nani, ormai completamente sfiniti e sottosopra, fortunatamente non dovettero percorrere molta strada prima di trovare un rifugio: una grotta angusta, ma asciutta e riparata. 

“Sembra abbastanza sicura,” disse Dwalin, guardandosi attorno circospetto.

“Controlla fino in fondo, le grotte delle montagne sono spesso abitate,” ordinò Thorin, sempre prudente. 

“Bene, allora accendiamo un bel fuocherello,” annunciò Gloin, strofinandosi le mani e cominciando ad ammucchiare alcuni ramoscelli che trovò sparsi qua e là.

Se non fossero stati tutti così scossi e stanchi, forse si sarebbero chiesti se non fosse strano trovare tanta legna, così provvidenzialmente a portata e in grande quantità. Non c'erano alberi o arbusti a quell'altezza, si erano lasciati alle spalle gli ultimi un paio di giorni prima.

Sfortunatamente per loro, nessuno quella sera era abbastanza lucido da accorgersi di quella stranezza, nemmeno Thorin, a cui quella caverna in ogni caso non piaceva; non ci si sarebbe mai fermato se avesse avuto scelta.

“No, niente fuoco, non in questo posto. Cercate di dormire, partiamo come arriva l'alba,” disse solo il Principe dei nani. 

 

 

Nonostante fosse esausto il sonno non arrivò per Thorin quella sera. Oltre al fatto che non si sentiva per niente al sicuro in quella dannata grotta, continuava a pensare alle parole che aveva rivolto a lo hobbit. Si era pentito di avergli parlato con tanta durezza, anche se ciò che aveva detto lo pensava davvero. La verità era che lui stesso si era stupito di quanta disperazione aveva provato all'idea che a Bilbo fosse successo qualcosa, non riusciva a capire come avesse fatto ad affezionarsi tanto a lui. Non era affatto nella sua natura perdere la testa in quel modo, tanto da non riuscire quasi ad agire. Una parte di lui faticava ad accettare che Bilbo rappresentasse una debolezza, una debolezza che non poteva permettersi. 

“Dove credi di andare?”

La voce di Bofur risuonò nel buio, strappando bruscamente Thorin dai suoi pensieri. 

“Torno a Gran Burrone”.

Thorin trasalì udendo Bilbo. Lo Scassinatore aveva davvero un passo leggerissimo, nonostante fosse sveglio non lo aveva sentito alzarsi.

“No! No, non puoi tornare ora, fai parte della compagnia, sei uno di noi!” protestò Bofur, nel tentativo di far cambiare idea a lo hobbit. 

Quando Bilbo parlò ancora, però, Thorin sentì un inequivocabile decisione nel suo tono di voce. E anche dell'altro: rabbia.

“In realtà no, vero? Thorin ha detto che non dovevo venire, ha ragione: non sono un Tuc, sono un Baggins.”

Thorin si accigliò, non capendo bene cosa intendesse dire Bilbo. Non sapeva chi diamine fossero i Tuc e che differenza ci fosse nell'essere chiamato in uno o nell'altro modo. Accantonò quell'insensatezza, ripromettendosi di indagare un giorno. 

“Chissà che mi è saltato in testa, non dovevo uscire dalla mia porta,” continuò Bilbo, con amarezza.  

Thorin valutò l'idea di alzarsi e intervenire. Non voleva che Bilbo se ne andasse così, non voleva che finisse così. Ma non era nemmeno disposto a rimangiarsi quanto aveva detto, e non voleva interferire ancora con le scelte de lo hobbit, già una volta aveva commesso quell'errore; doveva permettergli di tornare in un luogo sicuro, se era quello che voleva, era meglio per entrambi.

“Hai nostalgia di casa, lo capisco, io-” tentò ancora Bofur. 

“No, tu non puoi! Tu non capisci, nessuno di voi capisce. Siete nani: siete abituati a questa vita, a vivere per strada, mai fissarsi in un posto, non appartenere mai a niente!” ribatté Bilbo. “No… scusami, non-” aggiunse poi piano, forse dispiaciuto.

“No, hai ragione. Non apparteniamo mai a niente,” ammise Bofur, tristemente.

Thorin sapeva che quelle parole avevano toccato un tasto dolente. Come lui, se gli altri nani avessero avuto scelta, sarebbero stati ben felici di stabilirsi e di poter chiamare di nuovo un posto 'casa'. Era stata nient'altro che la malasorte a costringerli a vivere così, ma Bilbo evidentemente questo non voleva capirlo, tanto era occupato a compatirsi. 

“Ti auguro tutta la fortuna del mondo, dico davvero. Ora va, prima che-” Bofur si interruppe tutto d'un tratto. “Che cos'è?” chiese perplesso.

Thorin non riuscì a controllare l'impeto di sapere cosa avesse sorpreso l'amico, si tirò su giusto in tempo per vedere Bilbo abbassare lo sguardo sulla lama della sua spada: brillava di un azzurro intenso.

Ebbe appena il tempo di realizzare consciamente cosa indicasse quel segnale, e lanciare un grido d'allarme, che avvertì la terra mancare sotto di sé. Sentì come in un sogno le urla di sorpresa degli altri nani. Lo stomaco gli finì in gola, facendogli mancare la voce, mentre precipitava nel ventre della montagna.

 

 

La caduta fu arrestata da una rete realizzata in modo grezzo e approssimativo. Solo orchi, goblin e troll realizzavano manufatti di quel genere, Thorin ne riconosceva lo zampino.

Si ritrovarono tutti schiacciati gli uni sugli altri, e i nani, che si agitavano convulsamente nel tentativo di raddrizzarsi, peggioravano solo la situazione.

Per diversi minuti Thorin non riuscì a distinguere altro che braccia, gambe, barbe e grossi pancioni. Quando finalmente fu in grado trovare un punto stabile e mettere bene a fuoco ciò che aveva attorno, si accorse di avere qualcuno cavalcioni sopra di sé: Bilbo.

Lo hobbit, con il volto in fiamme per l'imbarazzo per quella vicinanza inaspettata, evitava accuratamente di incrociare il suo sguardo. “Adesso… mi sposto…” articolò a fatica, cercando di scacciare la mano di qualcuno da una delle sue orecchie.

Come annunciato, provò a fare leva sulle braccia per cercare di scostarsi, ma Thorin avvertì qualcosa spostarsi sotto di sé e a Bilbo mancò l'appoggio sotto le mani, con il risultato che rovinò, ancora una volta, su di lui. I loro visi finirono schiacciati l’uno sull’altro e, incastrati così, a quel punto non avrebbero più potuto muoversi, neanche volendo. 

“Smetti di agitati,” riuscì finalmente a dire Thorin, con il fiato mozzato. Erano così vicini che quando parlò le loro labbra si sfiorarono.

Thorin si riscoprì a pensare che fosse una deliziosa tortura quella vicinanza. Sapeva di avere gli occhi puntati impunemente in quelli di Bilbo, ma non riusciva a distoglierli. Il peso leggero del suo corpo, premuto contro il proprio, gli dava delle scosse di piacere che si irradiavano fino alla punta dei piedi. Non aveva sospettato di desiderarlo tanto. E non c'era nulla che gli impedisse di allungarsi ancora quel poco e prendersi quelle labbra, se le voleva.

O forse in realtà c'era: quel turbine di emozioni che vedeva agitarsi negli occhi fin troppo sinceri di Bilbo, gli occhi che non poteva più nascondergli, gli stessi occhi che, in un momento, gli ricordarono che lo hobbit aveva deciso di allontanarsi da lui.

“Volevi andartene,” disse, e suonò troppo come un'accusa perfino alle sue orecchie. 

“Ti importa?” 

‘Sì’, avrebbe voluto rispondere Thorin. Fu in quel momento che i goblin li travolsero come un ciclone.

 

 

Bilbo credeva che la notte passata con i tre troll fosse stata la più folle della sua vita, ma aveva dovuto ricredersi: quella appena trascorsa era stata ancora più surreale.

Non era riuscito a distinguere molto dopo che lui è Thorin erano stati così malauguratamente, meravigliosamente appiccicati. Ma non aveva quasi fatto in tempo a desiderare di rubare quel bacio, che si era sentito investire da un'orda irruente di goblin.

Nella ressa aveva percepito Thorin fargli scudo contro il nemico, incassando al suo posto un paio di violenti colpi di frusta; poi, il nano gli aveva inaspettatamente fatto lo sgambetto, e Bilbo non aveva capito subito come mai avesse fatto una cosa del genere.

Bilbo era caduto e i goblin, intenti ad azzuffarsi con i nani, decisi a vendere cara la pelle, lo avevano superato senza badare troppo a lui. Allora aveva capito che Thorin aveva semplicemente trovato il modo più veloce per metterlo in salvo, di nuovo.

A quel punto, quando quella calca violenta e caotica si era allontanata, si era ritrovato solo. Ed indeciso sul da farsi, anche. Doveva seguire i suoi amici, ormai prigionieri, per cercare di liberarli? Quante speranze aveva di riuscire in un'impresa di quel tipo?

Alla fine non aveva avuto occasione di valutare realmente le sue possibilità, perché si era ritrovato faccia a faccia con un orrendo goblin, che verosimilmente doveva essere tornato indietro a controllare che non ci fosse più nessuno. Bilbo dovette estrarre la spada e battersi.

Non si era mai trovato tanto vicino ad un goblin; assomigliavano agli orchi, ma erano più minuti, le loro orecchie erano più appuntite, e soprattutto erano veramente brutti come Bilbo se li era sempre figurati. In un’altra occasione sarebbe bastato l’aspetto di quel mostro a farlo scappare a gambe levate. Se avesse potuto, ma non c'erano vie di fuga. Si trovavano infatti su una precaria passerella di legno sospesa – nient’altro che per miracolo - nel vuoto. Sotto di loro c'era solo un abisso buio e profondo, di cui non si riusciva nemmeno ad intravedere la fine.

L'istinto di sopravvivenza, l'adrenalina e le sue poche ore di lezione di scherma vennero in soccorso de lo hobbit. Aveva attaccato il goblin, con la spada dalla lama azzurra e brillante, proprio come gli aveva insegnato a fare Fili. Lo scontro però non era durato molto. Nella lotta era caduto con il suo avversario dalla pedana traballante, erano stati sbalzati violentemente su rocce e massi, fino a quando non avevano raggiunto il fondo buio e nero come la pece. 

Ad eccezione di qualche ammaccatura, Bilbo era atterrato tutto sommato illeso, sopra una famigliola di grossi funghi. Non era andata meglio al goblin, che nella caduta aveva battuto la testa e perso i sensi. Una vera fortuna. 

Era stato a quel punto che quella creatura era sbucata dall'oscurità.

Si era avvicinata furtivamente a loro, procedendo carponi, con la schiena ricurva e spigolosa, inarcata come quella di un gatto ostile. Era pelle e ossa, il viso tutto occhi, e aveva una grande bocca piena di denti sbeccati e aguzzi che sembravano delle zanne.

Gollum non aveva notato subito Bilbo, che, dal canto suo, si era guardato bene dal palesare la propria presenza. Lo hobbit ebbe modo di registrare subito come quell’essere fosse dotato di una forza sorprendente, nonostante il corpo esile e rachitico. Lo aveva osservato impietrito mentre trascinava con sé il goblin, ancora solo parzialmente cosciente, fino alla riva di un lago sotterraneo, illuminato dalla pallida luce della luna, che filtrava da una breccia nel soffitto a volta, per poi ucciderlo spietatamente e macabramente, brandendo nient'altro che un grosso sasso. Bilbo era certo che il rumore sordo della pietra, che colpiva ripetutamente e sfondava le ossa del cranio del goblin, avrebbero popolato i suoi incubi per un bel pezzo. Era la cosa più raccapricciante a cui avesse mai assistito, dovette tenere a bada la nausea. 

Chissà come, Gollum alla fine aveva percepito anche la sua presenza. Forse era tanto abituato ad essere solo, nelle profondità delle caverne, da accorgersi subito anche del minimo respiro estraneo.

Quella che era seguita era stata decisamente la conversazione più assurda che Bilbo avesse mai sostenuto. Almeno aveva affrontato quel avversario su un terreno che gli si confaceva più dello scontro fisico: con arguzia, un indovinello dopo l'altro. 

Gollum si era rivelato essere più acuto di quanto non si potesse immaginare, ma Bilbo lo era stato di più, e per questo era riuscito a vincere la scommessa che si erano lanciati.

La scommessa in questione prevedeva che se Bilbo avesse vinto Gollum gli avrebbe indicato la via per uscire; in caso di sconfitta, Gollum gli aveva detto che lo avrebbe mangiato, proprio come il mostro di una favola per bambini. Bilbo alla fine aveva avuto la meglio nella sfida, ma Gollum non aveva preso bene la sconfitta, si era infuriato e non aveva mantenuto i patti. (1)

E ora, Bilbo era perso nei bui meandri delle Montagne Nebbiose, in fuga da quell'individuo inquietante, che per quanto fosse piccolo aveva in sé una rabbia e un'aggressività che Bilbo non aveva mai visto in nessuno.

Sembrava che quel dedalo di gallerie non avesse mai fine. Tutta quella fatica solo per finire così, inghiottito dalle tenebre. Se non fosse stato per quell'anello forse sarebbe già morto.

Era un anello magico, rendeva invisibile chiunque lo indossasse, Bilbo lo aveva capito quando lo aveva infilato al dito. Lo indossava anche ora e il mondo appariva sfocato, come se lo si guardasse attraverso il pelo dell'acqua, e amplificato allo stesso tempo. Era un oggetto tanto meraviglioso che come se lo era ritrovato tra le dita Bilbo aveva deciso che lo avrebbe tenuto stretto e al sicuro per sempre, non voleva più separarsene. Sapeva che era appartenuto a Gollum, aveva visto quando gli era sfuggito di dosso, ma non voleva restituire il mal tolto, anche se sarebbe stata la cosa più giusta da fare, e la cosa che solitamente avrebbe fatto da hobbit onesto quale era. Adesso quell'anello però era suo e di nessun altro. Lo aveva trovato lui, quel tesoro, anche se Gollum si ostinava a dargli del ladro. 

Udì le voci e lo scalpiccio degli stivali dei nani quando ancora erano lontani. Il cuore gli balzò in gola mentre seguiva la direzione da cui proveniva il suono, non poteva credere alla fortuna di averli ritrovati lì giù, ancora vivi. Voltò un angolo e, alla luce del suo bastone magico, vide il familiare cappello blu di Gandalf; la visione più dolce di tutta la sua vita. Ma c'era anche dell'altro: tra lui e i suoi compagni c'era Gollum. Inconsapevolmente, nel tentativo di nascondersi da quelli che doveva considerare altri intrusi, stava sbarrando la strada a Bilbo.

Lo hobbit sospirò sconfortato da quella sfortuna, la libertà era così vicina e così inarrivabile. 

Non aveva molto tempo, i nani si allontanavano velocemente, presto sarebbero stati troppo lontani e Bilbo non li avrebbe più ritrovati, doveva decidersi a fare qualcosa. Era invisibile ed era armato, non poteva essere difficile superare Gollum.

Improvvisamente, un’idea lo colpì, e guardò la spada stretta nel suo pugno. Ciò che doveva fare gli apparì evidente, ineluttabile: doveva ucciderlo, non aveva scelta. Nauseato da ciò che stava per fare, alzò la spada, se era quello il prezzo per salvarsi doveva pagarlo. 

Studiò la sua vittima: in quel momento Gollum sembrava terrorizzato da quel trambusto e pateticamente vulnerabile. Bilbo ci ripensò giusto in tempo per fermarsi.

Cosa stava facendo? Lui non era un assassino, non lo era e basta, non aveva mai ucciso in vita sua e non voleva nemmeno cominciare a farlo. Per qualche motivo poi, anche se quello aveva minacciato di mangiarlo, aveva pena di Gollum. Bilbo si era sentito solo come non gli era mai capitato nelle settimane appena trascorse, ma non era paragonabile all'esistenza meschina che conduceva quel mostro, rilegato per chi sa quale motivo nelle profondità delle montagne, lontano dalla luce del sole, senza cibo, compagnia o un letto caldo. Gollum non aveva nulla, un angolino della sua mente confessò anche che Bilbo gli aveva già sottratto tutto ciò che possedeva di più caro. 

Non indugiò oltre, sapeva già che più tardi avrebbe dovuto fare i conti con sé stesso e con quanto aveva anche solo pensato di fare, e tanto bastava. Arretrò quanto potè per prendere una bella rincorsa, e balzò oltre Gollum.

Esultò troppo presto per la riuscita del salto: uno dei suoi piedi urtò il capo calvo del mostro, tradendo la sua presenza. Avvertì Gollum mulinare in alto le braccia, nel tentativo di afferrarlo, fallendo. Mentre se lo lasciava alle spalle, sentì le sue urla, rabbiose e disperate insieme rimbombare nell'ombra, seguite da minacce di odio eterno.

Quelle grida non potevano toccare meno lo hobbit, davanti a sé vedeva la luce del giorno, finalmente era uscito da quell'incubo.

 

 

Correndo a rotta di collo giù per il ripido pendio della montagna, Bilbo inspirò a pieni polmoni l'aria fresca; era meraviglioso essere di nuovo all'aperto.

Non avrebbe saputo dire quanto tempo avesse trascorso nel cuore delle Montagne Nebbiose, aveva perso completamente la nozione del tempo, potevano essere state ore come giorni. Il cielo era limpido e l'aria era tinta di rosa, non sapeva decidere se si trattasse delle prime luci dell'alba o degli ultimi raggi di sole del tramonto. 

I nani correvano veloci molti metri avanti a lui, ignari del fatto che lo hobbit li seguisse. Proprio quando stremato com'era, Bilbo si chiese se sarebbe mai riuscito a raggiungerli, finalmente si fermarono.

Nonostante la distanza, sentì con incredibile nitidezza Gandalf fare la conta dei presenti.

“Dov'è Bilbo? Dov'è il nostro hobbit?” chiese preoccupato lo stregone ad un certo punto, accortosi finalmente della sua assenza.

Lo hobbit avrebbe voluto urlare 'Sono qui!' ma stava ancora percorrendo gli ultimi metri e non aveva assolutamente il fiato per farlo.

“Dov'è il nostro hobbit?!” sbraitò Gandalf, furioso come Bilbo non lo aveva mai sentito, quando non ricevette alcuna risposta dai nani.

Bilbo era abbastanza vicino ormai, e cominciò ad agitare le braccia per segnalare la sua presenza, ma nessuno sembrò accorgersi di lui. 

“Accidenti al mezz'uomo, ora si è perso!” commentò Dwalin, con il suo solito tono infastidito quando si trattava dello hobbit. 

Bilbo si fermò a poca distanza dal gruppo, nessuno si era accorto che era proprio lì. Solo allora si ricordò che indossava ancora l'anello, era invisibile. 

“Mi sa che è sgattaiolato via quando ci hanno catturati,” azzardò Nori.

Sgattaiolato via. Era questo quello che pensavano di lui? A Bilbo venne istintivo nascondersi dietro un albero. Precauzione inutile, visto che comunque non potevano vederlo. 

“Che è successo esattamente?! Dimmelo!” intimò Gandalf a Nori.

Sembrava l'unico preoccupato che a Bilbo potesse essere accaduto qualcosa, e l'unico a non pensare che fosse invece fuggito, l'unico a fidarsi minimamente di lui.

“Te lo dico io che è successo,” eruppe la voce di Thorin, e Bilbo sentì il proprio corpo tendersi. Era ridicolo che gli importasse tanto cosa avesse da dire il Principe dei nani, conosceva già la sua opinione.

“L'ho fatto scappare io dai goblin,” continuò il nano. “Mastro Baggins ha trovato la sua occasione e l'ha colta, non voleva altro: pensava solo al suo soffice letto e al suo caldo focolare da quando ha messo il piede fuori dalla sua porta. Non rivedremo mai più il nostro hobbit, ormai sarà lontano. È meglio così,” concluse Thorin, ma dal modo in cui lo aveva detto a Bilbo non parve tanto soddisfatto della cosa. Ed era assurdo, visto che non aspettava altro che Bilbo tornasse da dove era venuto, anzi, era stato lui stesso a metterlo nella condizione di sparire. 

E forse avrebbe potuto farlo sul serio, poteva davvero tornare a casa. Ormai erano comunque tutti convinti che fosse fuggito, o erano certi che se non fosse stato ora sarebbe stata solo questione di tempo; non sarebbe mai riuscito a far cambiar loro idea, non importava quanto si impegnasse. 

Thorin aveva parlato con sicurezza, Bilbo pensò infastidito che il Principe dei nani credeva di sapere sempre tutto, credeva di sapere tutto su di lui. Beh, sbagliava.

Proprio la presunzione di Thorin fece venir voglia a Bilbo di dimostrargli che aveva torto, torto marcio: “No, invece,” disse, sbucando da dietro l'albero.

Era contento di non avere più il fiatone, perché poté mettere tutta la sicurezza che gli serviva nella voce. 

“Bilbo Baggins! Non sono mai stato tanto felice di rivedere qualcuno in vita mia!” esclamò Gandalf, sollevato. Bilbo non aveva dubbi che fosse la verità. 

“Bilbo! Ti davamo per scomparso!” esclamò Kili, altrettanto rincuorato. 

“Ma come hai fatto a superare i goblin?” chiese Fili. 

“Già, come?” chiese Dwalin, socchiudendo gli occhi, diffidente. Ma che problema aveva? 

“Bah, ma che importanza ha? È tornato!” gli venne in soccorso Gandalf, vedendo che Bilbo si muoveva a disagio davanti a quel interrogatorio, esitando a spiegare cosa gli era successo. 

“Ha importanza, voglio saperlo!” intervenne Thorin, che, insolitamente, non cercava di dissimulare il fatto di essere stato preso in contropiede.

Bilbo sostenne il suo sguardo fieramente, soddisfatto di essere riuscito in quell'impresa, ma in breve il modo in cui lo stava guardando Thorin gli fece perdere tutta la sua spavalderia. Sembrava contento.

“A me importa, m'importa,” continuò il nano, mandando definitivamente in frantumi tutta la baldanza di Bilbo, e rispondendo senza alcun dubbio a quella domanda che solo loro due conoscevano. “Come mai sei tornato?” 

'Perché sono un idiota, ecco perché sono tornato,' sarebbe stata la risposta più giusta, quella più onesta. Ma c'era un'altra cosa che Bilbo voleva, doveva, assolutamente dire, perché ciò che aveva detto a Bofur ancora gli rimordeva senza tregua la coscienza. Aveva parlato con risentimento, senza pensare abbastanza, la sera in cui era quasi sgattaiolato via, mentre tutti dormivano. Doveva rimediare a quelle parole dette con troppa indelicatezza, e che forse anche Thorin stesso aveva sentito. 

“So che dubiti di me, lo so, lo hai sempre fatto. E hai ragione: penso spesso a Casa Baggins. Mi mancano i miei libri, e la mia poltrona, il mio giardino. Vedi, quello è il mio posto, è casa mia. Perciò sono tornato, perché voi non ce l'avete, una casa. Vi è stata portata via, e voglio aiutarvi a riprenderla, se posso,” disse guardando in parte Thorin, ma soprattutto Bofur, al quale aveva bisogno di chiedere scusa in particolare.  

Nessuno aggiunse più nulla in seguito a quella spiegazione. Gandalf si limitò a sorridergli con affetto, gli altri nani della compagnia invece si guardavano i piedi; tutti ad eccezione di Thorin, che non aveva distolto lo sguardo nemmeno un istante da lui. 

Bilbo cominciava a sentirsi un po' a disagio in quel silenzio, sotto quello sguardo penetrante del Principe dei nani, ma lo rimpianse amaramente quando venne rotto dall'inequivocabile ululato di un mannaro. 

“Siamo finiti dalla padella alla brace,” sobbalzò Thorin. 

“Scappate!”

 


 
  1. Non è andata proprio così vero? Il pov però è quello di Bilbo, e, in particolare su questo argomento, già tende a rigirarsi la realtà come gli conviene. (su)

 

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Capitolo 9
*** Capitolo 9 ***


“È Carcharoth, Fauci Rosse, il più grande mannaro della storia. Morgoth lo nutrì di sua propria mano con carne viva, e pose il proprio potere su di lui. Rapidamente il lupo crebbe, fino a non poter più entrare in nessuna tana, ma giaceva, enorme e famelico ai piedi del suo signore. Così il fuoco e la furia dell’inferno entrarono in lui, ed egli fu repleto di uno spirito divorante, tormentato, terribile e forte.”
 
Balin (1)
 
 

 
 
Bilbo aveva le gambe a pezzi, ma si costringeva a correre ancora. Perché finivano per correre sempre?
In quella particolare occasione correvano giù per il versante est delle Montagne Nebbiose, tra rocce e radici sporgenti, che rischiavano di farli ruzzolare a tradimento e senza alcuna pietà, se non stavano bene attenti a dove mettevano i piedi.
La notte, intanto, calava veloce mentre scappavano dai loro inseguitori.
I mannari, leggeri e agili senza nessuno a cavalcarli, con il favore della sorpresa, erano riusciti ad avvicinarsi molto e molto in fretta alla compagnia di Scudodiquercia; di lì a poco li avrebbero raggiunti. Bilbo non vedeva come avrebbero fatto a scamparsela questa volta, e ogni speranza di farcela si dissipò definitivamente in lui quando vide la via arrestarsi di colpo, ai margini di una foresta di pini. Davanti a loro il bosco si interrompeva bruscamente nel nulla.
Nella frenesia della corsa, non si erano accorti di aver imboccato un vicolo cieco, avanzando su uno sperone roccioso che dominava la valle sottostante. E sarebbe stata una vista mozzafiato in altre occasioni, ma quel baratro vertiginoso sotto di loro li aveva messi una volta per tutte in trappola e dopo pochi istanti i loro inseguitori furono tra di loro.
Improvvisamente, Bilbo si ritrovò a fissare il ghigno di un lupo enorme, stava ad un millimetro dal suo naso, poteva addirittura sentire il calore del suo alito - terribilmente fetido - sulla pelle. Lo hobbit lo fissò ad occhi sgranati, mentre la bestia gli ringhiava ad un palmo dal viso, aspettando solo l'ispirazione giusta per sbranarlo. Solamente per un istante, incrociando il suo sguardo ferino, a Bilbo parve di scorgerne l’anima inquieta e sofferente; quelli erano gli occhi di un essere dannato.
Quando il mannaro si decise a scagliarglisi contro, istintivamente, stupendo non poco anche sé stesso, Bilbo gli infilò la spada dritto nel centro della fronte. In realtà lo hobbit non aveva dovuto fare molto, gli era bastato tenere la spada puntata dritta davanti a sé, il lupo ci si era infilzato praticamente da solo, nell'impeto di attaccare. Ma Bilbo non riusciva comunque a credere a quello che aveva appena fatto.
Gli richiese un piccolo sforzo di volontà, ma riuscì a distogliere lo sguardo dalla carcassa del lupo che aveva appena ucciso, solo allora tornò consapevole dei suoi compagni, che attorno a lui lottavano - e avevano la meglio - contro altri mannari; l'avanguardia nemica.
E aveva contribuito anche lui, si era reso utile! 
“Forza salite sugli alberi, tutti. Forza sali, Bilbo, sali!” udì urlare Gandalf, che forse lo aveva visto lì, sorridere soddisfatto, e stupidamente imbambolato.
Bilbo avrebbe voluto seguire subito quel consiglio, ma perso com'era realizzò solo in quel momento di dover ancora recuperare la propria spada. Facendo bene attenzione a rimanere a distanza di sicurezza dal corpo privo di vita del mannaro, Bilbo afferrò l'elsa dello spadino, che però non si mosse di un centimetro. Non riusciva più ad estrarlo, si era incastrato! 
“Arrivano!” urlò qualcuno, mentre Bilbo sentiva il panico invaderlo.
Cominciò a sudare freddo, che idiota era stato a perdere tempo a quel modo. La sua spada non voleva saperne di liberarsi, ma non voleva lasciarla lì, proprio dopo aver avuto prova di quanto fosse portentosa.
Quando finalmente la lama si sfilò, strusciando disgustosamente sulla carne, per la sorpresa Bilbo barcollò all'indietro; inciampò su una radice e cadde. Il suo fondoschiena impattò violentemente sul terreno e una fitta di dolore lo immobilizzò sul posto. Era stato tanto contento di essere riuscito a difendersi, solo un minuto prima, e ora si ritrovava praticamente spacciato, con i mannari che gli sarebbero stati addosso da un secondo all'altro. Si era distratto, e avrebbe pagato quell'errore con la vita. 
“Non è il momento di cincischiare, mastro Scassinatore!” disse una sagoma, che dal nulla si parò rapida davanti a lui. 
Senza troppe cerimonie, Bilbo si sentì sollevare per la collottola dalle forti mani di Thorin. Un pensiero fugace, prontamente ricacciato per non perdere ancora una volta la concentrazione, attraversò per un momento la mente frastornata de lo hobbit: Thorin era tornato indietro, per lui.
Riuscirono a mettersi in salvo giusto per un pelo. Più veloci che potevano, si arrampicarono su per il tronco del pino più vicino, prima che il grosso delle forze nemiche li assediasse.
Dall'alto dei rami, Bilbo, già intento a rimpiangere una fine orribile e dolorosa, poté vedere i lupi cominciare ad affollarsi e aggirarsi nervosamente alla base degli alberi. Ogni tanto qualcheduno ne artigliava violentemente la corteccia, impaziente. Sapevano che i nani non potevano rimanere abbarbicati lì su per sempre, era solo questione di tempo e li avrebbero stanati. Finché d'un tratto, senza motivo apparente, le bestie si fermarono e si zittirono.
Quasi simultaneamente i lupi si voltarono e lo hobbit seguì, incuriosito e un po' perplesso, la direzione del loro sguardo. Illuminati sinistramente dalla pallida luce lunare vide tre lupi, con altrettanti cavalieri in groppa: orchi. Uno dei mannari, quello centrale, era grosso almeno il doppio degli altri, la sua pelliccia era bianca e candida come la neve, e portava un enorme orco, altrettanto pallido, dal cranio rasato e le lunghe orecchie a punta; il suo volto era segnato da numerose cicatrici e i suoi occhi, piccoli e crudeli, erano di un azzurro gelido. Al posto dell'avambraccio sinistro, dal gomito, spuntava un grosso artiglio appuntito. 
“Azog…” sussurrò Thorin, accanto a Bilbo, con l'aria di chi guarda in faccia un fantasma, riconoscendo il suo storico rivale. “Non può essere, sei morto”. 
Azog rispose in una lingua che Bilbo non conosceva, ma Thorin evidentemente sì, perché ciò che gli disse l'orco pallido lo fece infuriare.
Ghignando compiaciuto davanti alla rabbia impotente del nano, Azog sbraitò un ordine e i mannari senza cavaliere ripresero a demolire con le zampe massicce e con la forza delle mandibole possenti i rami dei pini su cui avevano trovato rifugio Bilbo e i suoi compagni. 
Non occorse loro molto tempo o fatica prima che gli esili alberi cedessero sotto la loro furia, presto riuscirono a sradicarne diversi. I nani furono costretti a balzare da un albero all'altro, spingendosi, loro malgrado, sempre di più sull'orlo del precipizio; finché non rimase che un solo povero pino sghembo in piedi, che non avrebbe retto a lungo sotto il peso di tredici nani, uno stregone e un piccolo hobbit.
Ma né Gandalf né tanto meno i nani sembravano disposti a darsi per vinti tanto in fretta. Con l'aiuto della magia, lo stregone grigio appiccò fuoco ad una grossa pigna - l'albero ne era pieno - e la spedì come fosse un proiettile contro i mannari. Gandalf prese in pieno un grosso lupo grigio, dritto sul muso, e quello si ritirò guaendo. Veloci, tutti i nani lo imitarono, passandosi di mano in mano le pigne incandescenti per accenderne di nuove. Il terreno, asciutto e ricoperto di aghi e rami secchi, prese fuoco quasi all'istante, spaventando ulteriormente i lupi che indietreggiarono. E anche Bilbo mise a segno qualche bel colpo, pensando tra sé e sé che tutto sommato essere bravo a tira-castagne alla fine si era rivelato utile per davvero.
Quando i lupi fuggirono, i nani esultarono soddisfatti di quella piccola, per quanto effimera, vittoria.
Azog, invece, dinnanzi a quello spettacolo inaspettato lanciò un ruggito irato e terrificante, che fece venire la pelle d'oca a Bilbo. E proprio a quel ruggito terribile lo hobbit, in seguito, avrebbe attribuito la causa di ciò che avvenne dopo.
Le radici dell’esile pino su cui erano inerpicati alla fine, inevitabilmente, cedettero; l'albero si piegò, inclinandosi e sporgendosi oltre il bordo del burrone. 
Bilbo udì i nani urlare attorno a sé, mentre stringeva con tutte le proprie forze il ramo bitorzoluto a cui era riuscito ad aggrapparsi. Cercando di resistere alla tentazione di guardare in basso, si chiese con rammarico perché si ritrovasse così spesso con le gambe penzoloni nel vuoto, proprio lui, che si era sempre vantato di essere uno hobbit con i piedi saldamente piantati a terra.
Sapeva che non ce l'avrebbe fatta ancora per molto, e anche i suoi compagni cominciavano a cedere; cominciò a temere il momento in cui avrebbe dovuto vedere i suoi amici precipitare, fino a quando non sarebbe toccato anche a lui. Poi qualcosa lo distrasse.
Bilbo percepì un movimento sopra di sé. Quando alzò lo sguardo, si ritrovò a guardare, inspiegabilmente, uno stivale di Thorin.
 
 
 
Il Principe dei nani, senza un segnale o una parola di preavviso, si era issato sul tronco caduto e lo stava percorrendo, fieramente, tra le fiamme, dritto verso il suo nemico. La spada sguainata e, fedele al suo nome, nient'altro che un grosso pezzo di legno come scudo.
Bilbo capì subito che Thorin non aveva alcuna intenzione di attendere la morte aggrappato ad un ramo, aspettando di cadere, non era quella la fine a cui era predestinato. Finché avesse avuto una scelta Thorin Scudodiquercia avrebbe preferito morire combattendo, affrontando i suoi demoni, e, possibilmente, portandoli con sé nella tomba. 
Dopo un primo istante di sorpresa, Azog, che stava assistendo allo spettacolo da poca distanza, sorrise malvagiamente. Spalancò le braccia invitando il suo avversario a farsi avanti.
Thorin percorse gli ultimi metri che lo separavano dalla sua nemesi correndo all'attacco e in risposta anche l'orco pallido lanciò il suo mannaro alla carica. Travolse Thorin senza il minimo sforzo.
Il nano cadde, ma con fatica, nonostante lo stordimento, si rialzò quasi subito. L'orco pallido, senza scomporsi, voltò la sua cavalcatura e caricò ancora; questa volta però levò la sua pesante mazza, colpì Thorin in pieno petto e il nano non si rialzò più. 
“Thorin, no!” urlò Balin alle spalle di Bilbo, seguito da Dwalin e da tutti gli altri nani.
Bilbo invece sentiva di non riuscire nemmeno a respirare, mentre guardava il mannaro bianco prendere il Principe dei nani tra le sue fauci e sbalzarlo violentemente a destra e sinistra, come fosse una bambola di pezza. Thorin si lasciò sfuggire un urlo di dolore, ma stupendo tutti riuscì ancora a difendersi: assestò un vigoroso fendente al muso del lupo, che mollò la presa e lo scaraventò lontano diversi metri. L' impatto con la dura roccia fece perdere a Thorin una volta per tutte i sensi.
Ad Azog, che già sorrideva trionfante, non rimase che dare un ordine ad uno dei suoi tirapiedi, e quello prese ad avanzare verso il nano, minaccioso.
Come in un sogno, Bilbo osservò l'orco avvicinarsi inesorabile a Thorin. Non poteva credere che tutto sarebbe finito così; non poteva essere che quel nano, coraggioso e zuccone che non era altro, morisse a quel modo davanti ai suoi occhi impotenti.
Non sapeva quando era successo, o come avesse fatto, ma si trovò lì, in piedi sul tronco del pino caduto. Aveva preso una decisione senza nemmeno rendersene conto.
Se il Principe dei nani aveva preferito affrontare la morte combattendo poteva farlo anche lui, poteva provare che anche lui valeva abbastanza, che anche la sua vita valeva il tentativo di essere difesa fino all'ultimo, e forse poteva tentare di salvare anche quella del nano.
Con questa determinazione, lo hobbit mosse le gambe in equilibrio su quel benedetto tronco, seguendo le orme di Thorin, con i suoi piedi scalzi. (2)
Corse, senza sapere di preciso cosa intendesse fare, anzi, senza averne la più ben che minima idea. Sapeva solo doveva allontanare quell'orribile orco da Thorin, così gli si lanciò semplicemente addosso.
Colto alla sprovvista, il suo nemico non ebbe la prontezza di riflessi per opporre una qualsiasi resistenza. Perse l'equilibrio e Bilbo ne approfittò per attaccarlo e, nonostante l'importante differenza di stazza, ebbe la meglio. In un eccesso di adrenalina estrasse la spada e infilzò ripetutamente l'orco al petto, alle spalle, alla gola. Una parte di lui si riscoprì preoccupantemente simile a Gollum, quando aveva infierito sul goblin. Ma quello era diverso, Bilbo stava difendendo un amico, da un essere orribile. Era diverso. 
Una volta che fu certo che il suo avversario fosse senza vita, lo hobbit si parò davanti a Thorin, pronto a difenderlo da chiunque avesse cercato di fargli del male.
Le fiamme divampavano tutto attorno a loro, riempiendo l'aria di fumo e cenere, mentre Bilbo mulinava la spada a caso per aria, nel patetico tentativo di sembrare almeno un pochino minaccioso. In realtà non poteva fare molto contro i quattro mannari che avanzavano senza fretta nella sua direzione, lo sapeva lui e lo sapevano sicuramente anche loro. Bilbo non era altro che una piccola scocciatura, una mosca fastidiosa, da schiacciare.
Le bestie si avvicinavano lente e minacciose e lo hobbit aveva una paura matta, il cuore avrebbe potuto esplodergli in petto per quanto velocemente batteva. Poi, d'improvviso, il mannaro in testa al gruppo, voltò di scatto la testa. Bilbo meccanicamente lo imitò.
Nella baraonda che seguì distinse Fili e Kili, che come due saette erano calati alla carica e avevano affrontato gli orchi e i mannari che incombevano su Bilbo e il loro Principe. Come un mare in tempesta, dopo i due fratelli, tutti i nani in grado di farlo si abbatterono sul nemico.
Bilbo, rincuorato, non si sentì più solo e abbandonato al suo destino. Aveva dimenticato di essere parte di una squadra, per la prima volta realizzò veramente cosa volesse dire.
Con rinnovato coraggio, si batté contro il lupo più vicino, ma quasi subito nello scontro venne scaraventato a terra e lì rimase, ignorato. Non era lui che il mannaro voleva veramente. Un istante dopo, infatti, la bestia si voltò verso Thorin. Una voce agghiacciante lo fermò prima che potesse avventarglisi contro. Bilbo alzò la testa ed incrociò lo sguardo dell'orco pallido, che lo guardava minaccioso attraverso la fumera da cui stava emergendo, ed era inquietante più che mai.
Con orrore di Bilbo, cominciò ad avanzare nella sua direzione, o meglio, verso Thorin.
Dolorante, lo hobbit strisciò fino al corpo immobile del nano. Era consapevole di non avere alcuna possibilità di fare qualcosa davanti ad un avversario come Azog, l'unico che avrebbe potuto giaceva lì, accanto a lui, immobile. 
“Thorin, ti prego…” disse, trattenendo a stento l'angoscia. 
Gli tastò il petto, non capiva se il cuore battesse o meno, non avrebbe dovuto avere così tanta importanza visto che di lì a poco sarebbero morti comunque entrambi, ma in quel momento significò tutto. Bilbo non voleva più stare in un mondo in cui Thorin non c'era, anche se solo per pochi minuti. Accarezzò il suo viso spento, la barba scura, i lunghi capelli intrecciati, le sue labbra sottili, rimpiangendo tutto ciò che avrebbe dovuto confessargli, tutto ciò che provava, e che non era mai stato in grado di definire con esattezza, ma che ora gli appariva chiaro, così assurdamente, inutilmente, chiaro. 
“Thorin,” sussurrò, e non poté proprio più fermare le lacrime che spingevano per uscire, appannandogli la vista.
Non desiderò altro che Thorin aprisse i suoi stupendi occhi grigi e lo guardasse ancora come aveva fatto poche ore prima, quando gli aveva detto che gli importava di lui, non chiedeva altro.
Ora però, la fine stava avanzando ineluttabile verso di loro. Bilbo alzò lo sguardo per controllare dove fosse Azog, constatò che ormai non gli sarebbero bastati che pochi passi. Parandosi tra lui e Thorin, Bilbo levò la spada davanti a sé, la lama tremolava miseramente, non poteva farci nulla. 
Ma l'orco non fece in tempo a coprire nemmeno la metà della distanza che li separava, che una violenta raffica di vento lo investì, distogliendolo dai suoi intenti. 
Petali di cenere, fumo e faville invasero l'aria, che cominciò a turbinare irruente tutto intorno a lo hobbit, stordendolo, confondendogli la visuale.
Lupi ed orchi cominciarono a sparire, inghiottiti da qualcosa nascosto nel fumo.
Più allarmato che sollevato, Bilbo si aggrappò a Thorin, terrorizzato. 
Nel caos gli parve di distinguere degli uccelli enormi - aquile, sembravano proprio aquile -, poi avvertì un fruscio alle sue spalle.
“No!” urlò, recependo cosa volesse dire.
Uno di quegli uccelli stava per catturare Thorin!
Bilbo cercò a tastoni la sua spada, l'aveva stupidamente lasciata cadere a terra, riuscì ad afferrarla troppo tardi. L' aquila strinse Thorin tra i suoi artigli e si librò in alto, lontano dalla sua portata.
Le braccia di Bilbo ricaddero impotenti lungo i fianchi. Lo aveva perso. Non era stato in grado di proteggerlo, aveva davvero pensato di essere in grado farlo, aveva fatto tutto ciò che era in suo potere e non era stato abbastanza, aveva fallito. 
Avvertì l'aquila calare anche su di lui e non gli importò. L'uccello lo artigliò e lo scagliò nel vuoto.

 

 
  1. In realtà questo è Tolkien, è una citazione de “Il Silmarillion” (il capitolo dedicato a Beren e Lúthien). Chiaramente Carcharoth nella nostra storia non c’è, ho usato la sua presentazione per parlarvi dei mannari. Il Professore li descrive come spiriti corrotti da Morgoth, imprigionati nel loro corpo di bestia, tormentati e consumati dalla loro condizione. (su)
  2. Da qui il titolo. (su)

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Capitolo 10
*** Capitolo 10 ***


“Mi prendono ancora in giro per quel dannato tordo! Ti sembro uno che se ne intende di uccelli io?! Chiedimi dei funghi, piuttosto, ma degli uccelli no!”
 
Oin
 

Volare era una sensazione stupenda.
Anche se, di fatto, Bilbo soffriva da sempre tremendamente di vertigini e potendo scegliere aveva sempre preferito starsene con i piedi saldamente ancorati alla terra ferma.
Per qualche motivo però, in quel momento, non aveva alcuna paura di cadere, visto che l’aquila si librava stabile e sicura tra le nuvole.
Alte montagne con le cime avvolte dalla foschia, vallate verdi, fiumi e laghi si succedevano uno ad uno sotto di lui. Sembrava tutto così piccolo e lontano, quasi irreale.
L’aria fresca gli scompigliava i capelli e davanti a lui vedeva lontano, senza ostacoli, fino alla linea dell’orizzonte, nel cielo mattutino colorato di rosa che si andava rischiarando.
 
Si era sorpreso non poco, un paio d’ore prima, quando artigliato dall’aquila al posto di precipitare giù nel vuoto era atterrato su un morbido letto di piume.
Per qualche motivo, le creature di Manwë, erano andate in loro soccorso.
Opera di Gandalf, scoprì poi.
“Grazie,” disse Bilbo al maestoso volatile che lo trasportava, anche se non era certo che l’animale potesse capirlo.
 
Proprio quando lo hobbit cominciò a sentirsi intirizzito e dolorante, le aquile scesero di quota.
Planarono in tondo, su un solitario picco di roccia, che sovrastava una valle profonda e lì, uno alla volta, depositarono ogni membro della compagnia di Thorin Scudodiquercia.
 
Bilbo fu tra i primi a toccare terra.
Dopo un rapido inchino di ringraziamento alla sua salvatrice, raggiunse Gandalf.
 
Lo stregone era chino su Thorin, che ancora giaceva privo di sensi.
Con il cuore attanagliato dall’apprensione, Bilbo dovette resistere alla tentazione di buttarsi a sua volta su di lui e scuoterlo per tentare di destarlo. Si costrinse a rimanere in disparte, dicendosi che Gandalf in quel momento era sicuramente più importante e utile di quanto non potesse essere lui. 
Udì lo stregone borbottare qualcosa a bassa voce, poggiando la mano sulla fonte del nano. Poi, Thorin aprì finalmente gli occhi.
 
Bilbo avvertì il nodo che sentiva nello stomaco sciogliersi, avrebbe volentieri pianto dalla gioia e per l’immenso sollievo.
Contro ogni previsione, ne erano usciti, erano riusciti a salvarsi tutti da quella situazione disperata. Erano vivi. 
 
“Il mezz’uomo,” si sforzò subito di dire il Principe dei nani, prendendo Bilbo stesso in contropiede.
Thorin aveva davvero chiesto di lui? 
 
“Lui sta bene. Bilbo è qui, è salvo,” rispose Gandalf pacatamente, incoraggiando con un cenno della mano Bilbo a farsi avanti. 
 
Dwalin e Kili, che già da un pezzo si agitavano impazienti a debita distanza, furono più veloci di lui a raggiungere Thorin.
Il nano mostrò la volontà di alzarsi e i due lo sostenettero, così a Bilbo non rimase altro che rimanere al suo posto, incassando la solita occhiataccia di Dwalin. 
Ma sfoderando un’energia che stupì tutti i presenti considerando le sue condizioni, Thorin
con un gesto stizzito si liberò dalle loro mani premurose per avvicinarsi a Bilbo: “Tu. Cosa credevi di fare? Ti sei quasi fatto uccidere!”
Istintivamente, lo hobbit arretrò, decisamente confuso. Non si era aspettato nulla di particolare, di sicuro non si era aspettato quello.
“Non ti avevo detto che saresti stato un peso? Che non saresti sopravvissuto alle Terre Selvagge? Che non c’è posto per te tra noi?” lo rimproverò Thorin, avanzando minacciosamente verso di lui.
Non trovò parole per rispondere a quelle accuse, riusciva solo a pensare che fosse completamente senza senso che Thorin non solo non gli fosse affatto grato per avergli salvato la vita, ma ce l’avesse addirittura con lui! 
“Non mi sono mai sbagliato tanto in vita mia,” concluse Thorin, afferrando Bilbo tra le braccia, impedendogli di allontanarsi ancora, fosse anche solo di un mezzo passo. 
 
Bilbo era così sorpreso da quanto stava succedendo che ci mise un momento ad elaborare che Thorin lo stava abbracciando.
E lo stava abbracciando forte davvero, e non era arrabbiato con lui!
Ancora mezzo intontito - per l’altra metà rincuorato - piano, fu conscio del fatto di essere tra le braccia di Thorin. Si sentì avvampare.
Il suo corpo massiccio lo avvolgeva completamente e Bilbo non sapeva proprio cosa doveva fare ora.
L’abbraccio era arrivato così inaspettatamente che si era ritrovato completamente colto alla sprovvista, non sapeva più che farsene di sé stesso: delle braccia che penzolavano stupidamente lungo i fianchi, della testa che lo ingombrava e i capelli davanti agli occhi, dei piedi troppo lunghi.
Ma non poteva starsene lì a farsi abbracciare come un pesce lesso, no? Doveva abbracciarlo anche lui?
Tutto ciò che gli riuscì di fare fu cingere a sua volta, come poteva, il busto imponente di Thorin. Gli diede due leggere pacche sulla schiena.
Stava davvero facendo pat pat a Thorin, come si poteva essere così imbranati?! 
 
Dopo non molto, Thorin sciolse l’abbraccio. Come uno stupido Bilbo aveva sprecato quell’attimo, facendosi troppi pensieri, e ora il momento era passato.
Thorin però gli sorrideva - il sorriso più dolce e bello che Bilbo avesse mai visto - e tenne ancora a lungo le mani salde sulle sue braccia, esaminandolo, forse per assicurarsi che non fosse ferito.
Vedendolo, sano e salvo, Bilbo dimenticò tutte le sue sciocche paranoie. 
 
“Scusa se ho dubitato di te,” gli disse piano Thorin, alzandogli delicatamente il mento e guardandolo come nessuno aveva mai fatto prima di allora. 
Bilbo avrebbe dato qualsiasi cosa per sapere cosa stesse passando per la testa del Principe dei nani, mentre lo sondava con tale intensità, così nel profondo, da togliergli il respiro. 
“No, anch’io avrei dubitato di me,” rispose, cercando di darsi un contegno. “Non sono un eroe, né un guerriero. E neanche uno Scassinatore,” aggiunse, senza riuscire ad impedirsi di lanciare un’occhiata di sottecchi a Gandalf, il quale ridacchiò sotto i baffi.
 
Il fruscio delle ali delle aquile che spiccavano di nuovo il volo attirò l’attenzione di tutti.
O meglio, quasi tutti. Quando Bilbo alzò nuovamente la testa verso Thorin, vide che il nano non aveva guardato, come lui e gli altri nani, gli uccelli alzarsi in aria per poi sparire tra le nuvole; Thorin stava guardando dritto davanti a sé, ad est, i suoi occhi erano stati catturati da qualcosa di lontano, sulla linea oltre la quale stava sorgendo il sole.
Guardò a sua volta in quella direzione e, piccola piccola, distinse una cima stagliarsi isolata in mezzo alla pianura. E ora capiva perché venisse chiamata ‘Montagna Solitaria’.
 
“Erebor. L’ultimo grande regno dei nani della Terra di Mezzo,” annunciò Gandalf. 
“Casa nostra,” aggiunse Thorin, senza sforzarsi troppo di trattenere l’emozione nella voce. 
“Un corvo!” esclamò euforico Oin alle loro spalle. “Gli uccelli stanno tornando alla Montagna!” disse, puntando in alto un dito, ad indicare un uccellino che volava leggiadro proprio verso oriente. 
“Quello, mio caro Oin, è un tordo,” lo corresse Gandalf. 
 
“Lo prenderemo come un buon auspicio,” disse Thorin, e Bilbo sentì il suo sguardo posarsi di nuovo su di sé. 
Ne incrociò gli occhi limpidi, mentre avvertiva le sue dita di intrecciarsi alle proprie. Nonostante il cuore che batteva all’impazzata, restituì la stretta senza impaccio, almeno questa volta.
 
Sorrise, con la mano salda in quella di Thorin, ebbe la sensazione che avrebbe potuto essere in grado di fare tutto. Dopo tanto tempo vissuto nell’insicurezza si sentì forte e ottimista come non era da molto. Soprattutto, si sentiva senza più alcuna paura per ciò che aveva in serbo per lui il futuro; sentiva che qualsiasi cosa fosse accaduta, non sarebbe più stato solo. 
“Hai ragione,” disse, “credo proprio che il peggio sia passato”.
 
 
 
Thorin avrebbe giurato di poter sentire Azog avanzare alle sue spalle e il suo intuito non lo aveva tradito, nemmeno quella volta: non avevano quasi fatto in tempo a mettere piede nella valle sotto la grande roccia che già l’ululare dei lupi aveva ripreso a tormentarli. 
L’orco pallido non aveva perso tempo a mettersi sulle loro tracce, sarebbe stato veloce a recuperare il grande vantaggio che l’intervento delle aquile aveva concesso al gruppo di nani.
Thorin era certo che avrebbe spronato i suoi mannari ad avanzare fino allo sfinimento, senza pietà, pur di riacciuffarli. Non che la magnanimità facesse parte della sua natura in altre circostanze.  
 
A peggiorare la situazione c’era il fatto che ci avevano messo davvero troppo tempo a discendere la Carrock (1) . Scoprirono che sorgeva al centro di un fiume; una volta attraversato il guado si sarebbero lasciati definitivamente alle spalle le Montagne Nebbiose per ritrovarsi nella valle che prendeva il nome da quel grande corso d’acqua che la attraversava: la Valle dell’Anduin.
Ma, cosa più preoccupante, pensò Thorin, si sarebbero trovati completamente allo scoperto. 
 
Discussero a lungo su come avrebbero dovuto muoversi, prima di avventurarsi nelle grandi praterie che li attendevano. Su una cosa erano tutti concordi: dovevano accertarsi della posizione precisa e del numero dei loro inseguitori; uno di loro avrebbe dovuto arrischiarsi e andare a controllare.
Prontamente, Fili e Kili si offrirono, ma la scelta più ovvia e sensata ricadde invece su un discreto Scassinatore. I mannari non avevano confidenza con l’odore degli hobbit, diversamente da quello che gli era ben più noto dei nani. 
 
Thorin si riscoprì a non essere affatto tranquillo per la scelta, ma non era riuscito a trovare una buona motivazione per dirsi in disaccordo con la maggioranza, e dentro di sé era ben consapevole di essere di parte; i sentimenti che provava non gli permettevano di essere obiettivo.
Si ritrovò ad attendere con ansia e il fiato sospeso che Bilbo tornasse. Tirò un sospiro di sollievo quando la sua chioma riccioluta ricomparve tra le rocce. Illeso. 
 
“Quanto è vicino il branco?” gli chiese, cercando di dissimulare al meglio l’apprensione che aveva provato.
“Troppo vicino, un paio di leghe non di più. Ma questa non è la parte peggiore,” disse lo hobbit, cercando di riprendersi dalla breve scalata che aveva dovuto affrontare per tornare dai suoi compagni nascosti tra delle rocce. 
“I mannari ci hanno fiutato?” chiese Dwalin. 
“Non ancora, ma lo faranno. Abbiamo un altro problema in realtà…”
“Ti hanno visto! Ti hanno visto?” lo interruppe ancora Gandalf.
“No, non è nemmeno questo, ma-” 
“Che vi avevo detto!? Silenzioso come un topo! Ha la stoffa dello Scassinatore,” sorrise lo stregone compiaciuto, incoraggiando un mormorio soddisfatto generale. 
“Dovete ascoltarmi, vi prego!” tentò di intervenire nuovamente Bilbo, cercando di farsi sentire al di sopra del vociare dei nani.  
“State zitti!” tuonò Thorin, facendo sobbalzare tutti, Scassinatore compreso. “Bilbo, parla pure,” aggiunse, più teneramente di quanto non volesse. 
Vide che Bilbo era arrossito e tutto sommato ne fu soddisfatto; era contento di non essergli indifferente.
 
“Volevo dire che c’è qualcos’altro là fuori,” riuscì finalmente a spiegarsi Bilbo. 
“Quale forma ha assunto?” chiese Gandalf, improvvisamente grave.
E senza che ci fosse bisogno di aggiungere altre informazioni, notò Thorin, ma ormai aveva smesso di stupirsi per queste sue omissioni di informazioni vagamente importanti. 
“Quella di un orso?” incalzò lo stregone. 
“Tu- Sai di che si tratta?” si sorprese invece Bilbo, più ingenuamente. 
Gandalf non rispose alla domanda, assorto, lasciò vagare lo sguardo sulla prateria che si srotolava ai loro piedi.
“C’è una casa, non è molto lontana di qui, dove noi potremmo trovare rifugio,” aggiunse pensieroso, dopo qualche istante di silenzio. 
“A chi appartiene la casa?” chiese Thorin, diffidente. “Amico o nemico?” 
“Nessuno dei due. Lui ci aiuterà… o ci ucciderà,” rispose enigmatico Gandalf, rivolgendo al nano un lungo sguardo penetrante. 
“Che scelta abbiamo?” chiese Thorin, indovinando già la risposta. 
“Nessuna”.
 
 
Così, Gandalf prese il comando della compagnia e guidò i nani attraverso l’Anduin.
I territori tra le Montagne Nebbiose e Bosco Atro erano verdi e lussureggianti. Faceva di nuovo caldo e, almeno quello, era un bel sollievo dopo il clima aspro delle montagne.
Ora, potevano avanzare comodamente tra l’erba alta puntellata di fiori di campo, querce e olmi, che offrivano un gradevole riparo quando si azzardavano a concedersi una breve sosta.
L’aria era deliziosamente profumata di garofani, che crescevano a gruppetti qua e là, quasi ci fosse qualcuno a coltivarli. Thorin notò anche, con una certa apprensione, le dimensioni decisamente fuori dal comune delle api che volteggiavano indaffarate attorno ai fiori.
 
Il basso risuonare di un corno lo riportò bruscamente ad un problema ben più grave. 
Di scatto alzò la testa verso Gandalf, in capo alla comitiva.
Lo stregone restituì lo sguardo e colse al volo il messaggio: “Correte! Svelti!” esclamò. 
 
Thorin lasciò che i suoi compagni lo superassero in modo da poter chiudere le fila.
Fortunatamente, non ebbe bisogno di convincere nessuno a spicciarsi, perfino Bombur stava correndo più veloce di quanto avesse mai fatto, arrivò addirittura a guadagnare le prime posizioni. 
 
Davanti a sé, Thorin distinse quella che doveva essere la loro meta: il tetto in legno di una casupola incastonata in un querceto, circondata da una siepe fitta e spinosa. 
“Forza, ci siamo quasi!” incitò gli altri, prima di voltarsi per controllare se poteva già scorgere i mannari.
Non vide alcun lupo, ma qualcosa, di forse anche più terrificante, stava guadagnando terreno nella loro direzione: una bestia enorme e rabbiosa, che somigliava in tutto e per tutto ad un orso bruno, con la sola eccezione che era grande almeno il doppio. 
“Correte!” urlò, e dovette tradire un certo allarme nella voce, perché diversi nani, istintivamente, si guardarono alle spalle, preoccupati. 
 
Thorin cominciò ad intravedere un pesante cancello di legno tra i rovi. Con uno scatto si portò in testa al gruppo per dare manforte a chi già lavorava per spalancarlo a suon di spallate.
Quando tutti furono all’interno del cortile, Thorin richiuse il cancello, assicurandolo con una trave, pur consapevole del fatto che non sarebbe stato un particolare intralcio per la bestia.
 
Non ebbe tempo di voltarsi, che l’animale, dall’altra parte, impattò sulle assi di legno.
L’intero cancello vibrò sotto lo sguardo ansioso di Thorin. Il legno scricchiolò e si incrinò, ma resse.
Rapido, girò sui tacchi e raggiunse i suoi compagni, che erano già riusciti a forzare il massiccio portone d’ingresso. Quello sì che avrebbe potuto bloccare l’orso.
 
Riuscì appena ad entrare, che udì le assi dietro di sé andare in frantumi.
Fece per chiudere veloce la porta, ma la bestia con due balzi li raggiunse e riuscì ad infilare il muso bavoso nell’ultimo spiraglio aperto.
Con ferocia e forza inaudite, il mostro faceva leva con la testa per farsi strada, mostrando le zanne aguzze.  
 
Come un solo uomo, tutti i nani si buttarono di peso sulla porta, e il peso di tredici nani ben piazzati non era di certo indifferente. Spinsero, finché finalmente non riuscirono a respingere l’animale e chiuderlo fuori una volta per tutte. Dall’interno della casa, la udirono ancora per molto agitarsi furiosa.
 
“Credo che se ne si andata,” sussurrò ad un certo punto Ori.
 
Esausto, Thorin si lasciò andare contro una parete, finalmente poteva riprendere fiato. 
“Quello…cos’è?” chiese ancora Ori. 
“Il nostro anfitrione, il suo nome è Beorn,” spiegò Gandalf, a cui era caduto il cappello dalla testa tutta scompigliata. 
“Il nostro anfitrione?!” esclamò Bilbo incredulo, drizzandosi di colpo. “Gandalf, dimmi che non abbiamo appena chiuso qualcuno fuori da casa sua!” esclamò lo hobbit, che chissà dove aveva trovato ancora energie per indignarsi. Alquanto adorabilmente, pensò Thorin.
“Non possiamo, sono cose che non si fanno, mi rifiuto!” 
Gandalf stesso non poté fare a meno di sorridere: “Dimentico sempre quanto sia sacra la casa per gli Hobbit!” rise divertito. “Farete bene a risposare qui stanotte, saremo al sicuro. E, Bilbo, non temere, domattina avremo modo di scusarci debitamente con il padrone di casa,” liquidò la questione lo stregone.
In fin dei conti non avevano poi molta altra scelta.
 
Distogliendo controvoglia lo sguardo dal grazioso viso contrariato di Bilbo, Thorin si guardò per la prima volta attorno.
Si trovavano in una grande sala semibuia, illuminata solo dal fuoco che crepitava in un camino enorme. I pochi mobili presenti erano smisuratamente grandi, anche se confrontati con quelli degli uomini. Si chiese che genere di individuo abitasse quel luogo, ma tenne il dubbio per sé, non voleva allarmare ulteriormente gli altri. 
 
In un angolo individuarono alcuni materassi, imbottiti di paglia ed erica, e anche qualche coperta di lana, piegata e impilata ordinatamente.
Fu lì che, senza indugiare oltre, sfiniti com’erano, si sistemarono alla meglio per riposare. 
 

Thorin vegliò a lungo, steso nel suo pagliericcio. Aveva dormito poco e di un sonno leggero e agitato.
Quando non fu più in grado di sforzarsi a tenere gli occhi chiusi, osservò per un pezzo gli anelli di fumo che Gandalf - che non si era sistemato accanto a loro, ma era rimasto seduto all’enorme tavolo – plasmava a piacere in ogni dimensione con la sua lunga pipa.
Ad un certo punto non tollerò più nemmeno di stare sdraiato e si unì allo stregone, non senza cedere ancora alla tentazione di guardare, fosse anche solo un istante, Bilbo che dormiva tranquillo. 
 
“Che essere è Beorn?” indagò Thorin, prendendo posto di fronte a Gandalf e tastando le tasche interne alla ricerca della propria pipa. 
“È un mutatore di pelle,” rispose lo stregone, offrendogli del tabacco. “Alle volte è un grosso orso nero, altre volte un omone grande e forte. L’orso è imprevedibile, ma con l’uomo, forse, ci si può ragionare,” spiegò, alzando le folte sopracciglia grigie e cespugliose. “Tuttavia, non è che faccia salti di gioia per i nani”.
 
Fumarono in silenzio, finché dal di fuori non udirono qualcuno affaccendarsi nel cortile. 
 
Con l’albeggiare, pigramente, tutti i nani si destarono. Presto avrebbero dovuto affrontare il proprio ospite. 
 
 

“Bene, ci siamo tutti?” chiese Gandalf, quando i membri della compagnia si affollarono attorno al tavolo gigante. 
“No, Bilbo fa il tiratardi!” disse Bofur, già vispo di prima mattina.
“Mmmh, questi hobbit sono proprio abituati troppo bene,” brontolò Dwalin. 
“Ci penso io,” disse Thorin, individuando con lo sguardo un fagotto solitario tra i giacigli abbandonati. 
 
Cauto, Thorin si avvicinò a lo hobbit, che ancora dormiva beatamente.
Si chinò su di lui e per un momento non si sentì più del tutto certo di volerlo svegliare così in fretta.
“Bilbo…” lo chiamò, senza troppa convinzione. Come previsto, il suo nome sussurrato non bastò a strapparlo dal suo sonno profondo.
Thorin ne contemplò l’espressione serena e distesa, che da diversi mesi ormai non gli apparteneva più quando era sveglio e afflitto dai guai.
Non avrebbe mai pensato che nel corso della sua vita avrebbe avuto tanta voglia di guardare, solo guardare, qualcuno così. In continuazione, registrandone ogni gesto, ogni più piccola espressione.
A Thorin tornò alla mente la prima sera che aveva visto il suo Scassinatore, quando aveva messo subito in chiaro con Gandalf che non sarebbe stato responsabile per la sua incolumità. Chi avrebbe detto che un giorno l’incolumità di Bilbo invece sarebbe stata così fondamentale per lui.
“Bilbo,” ripetè, spostandogli una ciocca riccioluta dal viso.
Bilbo sorrise nel sonno e Thorin non poté fare a meno di sorridere a sua volta.
 
D’un tratto, un sonoro schioppo arrivò dal cortile esterno. Quel rumore secco e improvviso spaventò lo hobbit che balzò a sedere con uno scatto.
Thorin, ancora chino su di lui, e più distratto del solito, non fu abbastanza pronto per evitarlo e le loro teste impattarono violentemente. 
“Ahi!” si lamentò Bilbo, premendosi il palmo della mano sulla fronte. “Thorin, cosa…? Ahia!” esclamò, stringendo gli occhi e massaggiandosi la pelle arrossata. “Ma tu non ti sei fatto male?” chiese sbirciando Thorin che non aveva quasi battuto ciglio.  
“Noi nani abbiamo la testa dura,” rispose quello senza scomporsi, afferrando le mani de lo hobbit, costringendolo a scostarle per esaminargli la testa.
Gli sarebbe venuto un bel bernoccolo. 
“Almeno lo ammetti, finalmente!” fece Bilbo. 
 
L’espressione che si dipinse sulla faccia del nano fu così buffa che a lo hobbit, nonostante le fitte di dolore che si irradiavano dalla fronte, scappò da ridere.
Thorin si ritrovò a fissare inebetito le labbra di Bilbo aprirsi in un sorriso bellissimo. La voglia di rubargli quel sorriso con le proprie di labbra si fece sentire impellente. 
Non riuscì proprio a scacciare dalla testa il pensiero che non avrebbe mai permesso a nessuno di cancellare quel sorriso dal mondo, non avrebbe mai permesso che a Bilbo accadesse nulla di male. 
 
 
“Ah, bene, Bilbo, eccoti qui,” li accolse Gandalf, quando raggiunsero il resto della banda, che già si affollava davanti alla porta d’ingresso. “Allora, questo richiederà una gestione delicata. Dobbiamo agire con molta prudenza, l’ultima persona che lo ha spaventato è stata ridotta a brandelli,” spiegò lo stregone, prendendosi poi il tempo per una pausa ad effetto. “Io andrò per primo e, Bilbo, tu vieni con me”. 
“Ah! Ehm… è una buona idea?” chiese Bilbo, riluttante.   
“Sì,” disse Gandalf, quasi a sott’intendere che lui non aveva mai cattive idee. Questione opinabile, se lo avessero chiesto a Thorin. 
 
In quel caso particolare, però, anche se la cosa non gli piaceva, Gandalf aveva ragione: Bilbo era una persona deliziosa, se c’era qualcuno che aveva una qualche possibilità di ingraziarsi Beorn nessuno poteva essere una scelta migliore di lui.
Con un sospiro rassegnato fece un cenno di incoraggiamento con la testa a Bilbo.
 
“Voi altri invece restate qui, e non comparite fino al mio segnale,” si raccomandò lo stregone. 
“Bene, aspettiamo il segnale!” confermò con decisione Bofur. 
“Aspettate il segnale!” sottolineò Gandalf. 
Un attimo dopo, scassinatore e stregone varcarono la soglia, non prima che quest’ultimo si fosse raccomandato ancora una volta di uscire con cautela, e a coppie - ad eccezione di Bombur che, vista la stazza, contava per due.
 
“Sì, ma quale sarebbe il segnale?” chiese Bofur, dopo che Gandalf fu uscito.
 

 
  1. Carrock è il modo in cui Beorn chiama la grande roccia su cui è atterrata la nostra compagnia. Nel libro viene descritta anche una gradinata, costruita da Beorn stesso, che permetteva di salire e scendere con facilità (su).
 

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Capitolo 11
*** Capitolo 11 ***


“Con il senno di poi, non avremmo dovuto lasciare che fosse Thorin a guidarci attraverso la foresta. Non è quello di noi con il senso dell'orientamento migliore, non so se mi spiego… Mmh, non dirgli che te l'ho detto.” 
 
Dori

 
 
La casa di Beorn sembrava una piccola isola di pace in un quel mondo folle, pieno di pericoli e tanto diverso dalla tranquilla Contea.   
Dopo tutte le fatiche, e davvero troppe emozioni, Bilbo trasse un respiro di sollievo nel trovarsi in un posto dall'aria sicura e, almeno all'apparenza, sereno. Era da quando avevano lasciato Gran Burrone che non era più riuscito a concedersi il lusso di rilassare i nervi.  
 
La tenuta di Beorn era molto più semplice dell'elegante Ultima Casa Accogliente. Consisteva in diversi edifici in legno: granai, stalle, file di arnie con tetti di paglia. 
Un mucchio di animali - tra cui cavalli dal pelo folto e lucente, cani, pecore e pony - si aggiravano liberamente in ogni ambiente, anche dentro casa. 
 
Ovunque risuonava il ronzio delle api giganti allevate da Beorn. Bilbo aveva faticato ad abituarsi a quel rumore costante, qualche volta gli sembrava di non riuscire a sentire nemmeno i propri pensieri in quel baccano; altre, invece, lo percepiva appena. 
 
Ma ciò che sopra ogni cosa lo affascinava, era la bellezza ed il profumo del gran numero di fiori che crescevano indisturbati praticamente dappertutto, molti dei quali non aveva mai visto e di cui non conosceva il nome.  
Ne era così colpito, che era riuscito a mettere da parte il timore per l'omone che li ospitava - ospitava, ma non senza una certa riluttanza - e aveva trovato il coraggio di chiedere a Beorn qualche informazione. Così era capitato che i due fossero entrati in confidenza, accomunati dalla passione per il giardinaggio.  
 
Una volta che lo si conosceva, Beorn si rivelava essere un tipo molto gradevole, a modo e sorprendentemente sensibile nei confronti di tutte le creature, specie quelle che considerava indifese. In effetti, Bilbo era certo che preferisse di gran lunga gli animali alle persone. 
Doveva aver sofferto tanto in passato, questo per lo hobbit era evidente, lo aveva capito anche senza che il mutapelle avesse bisogno di raccontare alcunché. Ad alcuni le cose le si poteva semplicemente leggere negli occhi, e Beorn negli occhi aveva quella perenne malinconia, quella che non se ne va più via, quando la vita arriva a toglierti troppo.  
 
Anche Beorn aveva finito per prendere in simpatia il piccolo mezzuomo; gli aveva addirittura regalato qualche piccolo bulbo e qualche seme da piantare nel giardino di Casa Baggins, una volta - e se - Bilbo vi avesse fatto ritorno. 
 
“È bello qui,” commentò lo hobbit, nel tardo pomeriggio del loro secondo - e ultimo - giorno a casa di Beorn. 
Bilbo si era comodamente sistemato su una panca in veranda ed era intento ad ammirare il giardino fiorito, sorseggiando latte caldo e miele. 
“Casa tua per alcune cose mi ricorda la Contea,” disse a Beorn, che lo stava raggiungendo per accomodarsi sulla sua sedia a dondolo preferita. 
Il gigante concesse la cosa più vicina ad un sorriso che gli riuscisse: “Ed io sono contento di aver avuto occasione di incontrare uno di voi mezzuomini. Se sono tutti come te, siete brava gente. Sarete sempre benvenuti a casa mia.”  
 
Bilbo chinò il capo in segno di ringraziamento, lusingato e sinceramente grato per quello che riconosceva essere un grande onore. Beorn non era proprio un tipo incline a concedere la propria amicizia con leggerezza.
 
“Ma non credo ti capiterà di incontrarne tanti altri al di fuori della Contea, non siamo gente che ama vagabondare in cerca di avventure!” lo avvisò Bilbo. 
Questa volta Beorn sorrise sul serio, un sorriso che durò l'attimo di un battito di ciglia. 
“E fate bene,” approvò annuendo. “Non mi piace che tu te ne vada a spasso con tutti quei nani,” aggiunse, più duramente.  
 
“Come mai ti stanno tanto antipatici?”   
“Devi fare attenzione ai nani, Mastro Baggins. Sono egoisti, avari. Non ci si può fidare, perché se dovranno scegliere, sceglieranno di fare sempre e solo i propri interessi,” spiegò Beorn, rilassandosi contro lo schienale della sedia e allungando le lunghe gambe. 
“E questo discorso vale soprattutto per Thorin Scudodiquercia,” aggiunse, lanciandogli una lunga occhiata eloquente.   
 
Bilbo si sentì arrossire fino alla punta dei capelli; non credeva fosse così evidente.  
“È sangue malato quello che scorre nelle sue vene. Arriverà il giorno in cui potrebbe essere in grado di uccidere anche i suoi stessi cari, alla minima parola sbagliata. Voglio che tu lo tenga bene a mente. Mi sei simpatico, mi spiacerebbe se facessi una brutta fine”.  
 
“Bilbo,” la voce di Thorin alle loro spalle fece trasalire lo hobbit, che non ebbe quasi tempo di elaborare le strane - tutto sommato, forse, ridicole? - raccomandazioni di Beorn. 
 
Colpevole, il suo sguardo volò verso la porta, dove il nano stava in piedi, in attesa. Si chiese da quanto tempo fosse lì, in ascolto. 
Thorin, dal canto suo, però, non guardava affatto lui: i suoi occhi gelidi erano puntati su Beorn, il quale contraccambiava lo sguardo ostile senza troppe finzioni o traccia di rincrescimento. 
 
Il mutapelle, non si era scomposto per niente all'arrivo di Thorin; Bilbo ebbe il sospetto che sapesse benissimo che fosse proprio lì. 
 
“Potresti venire? Ci stiamo riunendo per organizzarci,” disse Thorin, in tono piatto.    
“Certo,” rispose Bilbo, facendo per alzarsi. “Grazie ancora per quella ghianda, Beorn. Spero di riuscire a piantarla presto nel giardino di casa Baggins e che diventi bella e forte come le tue querce,” si congedò.   
Beorn annuì, ma la sua espressione si era indurita, rispetto a poco prima; aveva perso ogni cordialità.  
 
Bilbo seguì Thorin nella grande sala da pranzo, dove gli altri si erano già riuniti attorno all'enorme tavolo da pranzo. 
Le parole di Beorn ancora gli si rigiravano per la testa.  
 
“Di cosa stavate parlando?” indagò Thorin, voltandosi verso di lui e bloccandogli la strada. Erano ancora abbastanza a distanza dal resto del gruppo da non essere uditi. 
 
Bilbo studiò l'espressione DI Thorin, chiedendosi dove volesse andare a parare facendogli quella domanda, quando conosceva benissimo la risposta. Cosa si aspettava gli dicesse? 
“Nulla di importante. Il solito… giardinaggio,” mentì - almeno in parte - decidendo che non gli andava di tirare per le lunghe quella faccenda, che per altro non era certo di capire ancora del tutto. 
 
Thorin annuì, pensieroso. Se la risposta lo aveva in qualche modo deluso, Bilbo non riuscì a capirlo.
 
 
Bosco Atro distava poco più di un giorno a cavallo da casa di Beorn. 
Il mutapelle aveva gentilmente deciso di mettere a loro disposizione i suoi adorati pony - “Badate a quello che fate, sono come figli per Beorn!” li aveva ammoniti Gandalf - se non altro in nome della loro rivalità comune con gli orchi, ma non senza la promessa che sarebbero stati liberati al limitare della foresta. 
 
Seguendo i preziosi consigli del gigante, che conosceva quei territori come le proprie tasche, cambiarono i loro programmi riguardo al tragitto che avevano pensato di seguire in partenza; puntarono a nord anziché a sud. 
 
Così facendo si sarebbero avvicinati nuovamente alle montagne, e al grosso delle forze di Azog, ma convennero che i loro nemici non si sarebbero mai aspettati una mossa simile. Al contrario, osservò Beorn, era molto più facile che gli orchi li avrebbero preceduti a sud, ammesso che non fossero già lì, pronti a tendere loro un’imboscata su uno dei sentieri più noti ed utilizzati per oltrepassare il bosco. 
 
A nord, invece, avrebbero potuto seguire un antico sentiero degli elfi, insidioso e meno battuto, ma che gli avrebbe portati molto vicini alla Montagna Solitaria.
 
Così il loro viaggio proseguì. 
Cavalcarono sull'erba soffice, il clima era quello gradevole di inizio autunno e, nonostante la minaccia costante dei mannari alle costole, si attardarono, impiegando più tempo del dovuto ad attraversare quel tratto. Tacitamente ognuno di loro voleva rimandare, almeno ancora per qualche tempo, l'incontro con i pericoli che aveva in serbo il bosco oscuro. 
 
Nonostante, come fece notare con un certo disappunto Gandalf, se la fossero presa davvero comoda, il limitare della foresta fu presto visibile all'orizzonte. 
La compagnia indugiò ancora qualche ora alle sue soglie, dove gli alberi più esterni allungavano le loro braccia nodose sopra le loro teste. 
 
Sbirciando tra di essi, Bilbo avvertì un brivido corrergli lungo la schiena. Non sapeva se era solo questione di suggestione per la tensione che sentiva tra i suoi compagni, ma percepiva come un senso di allarme. Quel posto gli dava una sensazione terribile: la foresta era vecchia, malata. Era arrabbiata.   
 
“È giunto il momento di restituire i pony al loro proprietario,” disse Gandalf. 
“Vorrei non doverlo fare. Ci farebbero ancora comodo, saremmo più veloci nell'attraversare il bosco,” disse Thorin. 
“Ma lo farete! Non è una buona idea farsi un nemico come Beorn. E poi, hai dato la tua parola, mio caro Thorin,” lo rimproverò Gandalf, increspando le folte sopracciglia grigie. 
“Eppure tu non mi sembri intenzionato a lasciar andare il tuo cavallo” ribatté, aspro, il nano, notando che lo stregone non aveva liberato l'animale dal peso delle sue bisacce. 
“Perché non ho intenzione di farlo. Lo riaccompagnerò dal suo padrone personalmente.”
 
Un coro di proteste si levò dai nani a quell'annuncio. 
Gandalf li aveva già da tempo avvisati che prima o poi le loro strade avrebbero dovuto separarsi per qualche tempo, prima di raggiungere la Montagna Solitaria; uno stregone aveva pur sempre i suoi affari urgenti da sbrigare. Si sarebbero ritrovati senz'altro ai cancelli di Erebor, prima del Dì di Durin, promise. 
 
Bilbo, che fino a quel momento aveva sperato che l'amico avesse cambiato idea, non poté fare altro che salutarlo e poi guardarlo allontanarsi verso l'orizzonte, nella direzione da cui erano venuti. Prima di sparire del tutto dalla loro vista, Gandalf si girò un'ultima volta a salutarli; adorava avere l'ultima parola su tutto, anche quando si trattava solo di congedarsi.    
Lo hobbit sorrise. Gli voleva un modo di bene, nonostante tutti i suoi difetti; si augurò di poter rivedere presto il suo alto cappello blu.
 
 
Con il morale sotto i piedi e tanti pensieri per la testa, Bilbo si chinò sul suo nuovo zaino, per aggiustarlo alla meglio. 
 
Sospirò, chiedendosi quanto a lungo sarebbe riuscito a trasportare tutto quel peso.
Beorn li aveva riforniti di acqua e viveri a sufficienza, almeno fino a Pontelagolungo; lì avrebbero dovuto vedere di arrangiarsi. 
 
“Non ti preoccupare, presto sarà molto più leggero e allora desidererai che fosse più pesante,” disse Thorin, avvicinandosi e indovinando in pieno i suoi pensieri. 
Bilbo annuì, rassegnato. 
 
“Ma non è solo questo, vero?” chiese Thorin. 
“Penserai che è una stupidaggine.”   
“Fallo decidere a me.”   
“Pensavo al mio zaino, quello che ho perso sulle montagne,” spiegò Bilbo.  
“Al tuo zaino…” ripeté Thorin, con un'alzata di sopracciglio, già prevedibilmente sarcastico.   
“Sì,” continuò lo hobbit, lanciandogli un'occhiataccia. “Ci ero affezionato, era uno dei miei preferiti. Ne ho sempre avuto così tanta cura, e questo vale anche per le cose che c'erano dentro, ovviamente. L'ho sempre tenuto pulito, rammendato se ce n'era bisogno, e ora invece chissà dov'è. Ogni tanto penso che se fossi stato un po' più attento, se lo avessi tenuto un po' più stretto, ora sarebbe qui con me. Era il mio zaino e non lo rivedrò mai più, mi fa sentire così triste pensarci… Oh, lo sapevo che non mi avresti preso sul serio!” disse Bilbo piccato, quando Thorin, incapace di trattenersi oltre, scoppiò in una fragorosa risata.   
 
“Non pensarci più, Bilbo,” disse, cingendogli le spalle, quando l'attacco di risa si fu placato. “Uno zaino è solo un oggetto e non sono gli oggetti quelli che contano, non sono quelle le cose per cui rattristarsi. Te ne regalerò un altro, più bello, promesso.”   
“Certo, tutto facile così, perso qualcosa lo si sostituisce e basta. Beh, non ne voglio un altro, era perfetto quello vecchio. Era un pezzetto di casa,” borbottò Bilbo. “Era un buono zaino,” disse, guardando imbronciato quello donatogli da Beorn; lo zaino colpevole di essere quello sbagliato. 
 
Ancora non poteva immaginare che quello stesso zaino logoro, molti anni dopo, sarebbe stato uno dei suoi tesori più preziosi e che non se ne sarebbe più separato. 
 
“Bene, abbiamo perso già abbastanza tempo,” disse Thorin, alzando la voce e rivolgendosi a tutta la compagnia. “La foresta ci aspetta. Ricordate bene quello che ha detto Gandalf: non dovete lasciare il sentiero per nessun motivo. E non toccate l'acqua: è stregata”. 
 
 
Bosco Atro avvolse Bilbo come una coperta rimboccata troppo stretta. Aveva la sensazione di non riuscire a respirare, l'aria era pesante e non tirava un filo d'aria; tutto era immobile, non si muoveva una foglia. 
 
Tutti i nani procedevano silenziosi, in fila indiana, attenti a non perdere di vista il sentiero; erano stati avvertiti: se lo avessero smarrito la foresta li avrebbe divorati per sempre. 
 
Non passò troppo tempo che Bilbo perse ogni cognizione del tempo, complice la luce verdognola e innaturale che permeava tutto e che non aiutava affatto a distinguere quale momento del giorno fosse. Non sapeva più da quanto stessero camminando, avrebbe potuto giurare fossero anni. 
Come se non bastasse, non riusciva a togliersi di dosso la sensazione di essere osservato. Pensava fossero gli alberi. Gli alberi non li volevano lì. 
 
Si sentiva stordito, come se fosse sulle soglie dell'ubriachezza; imputò la cosa alla carenza di ossigeno.
Nel tentativo di rimanere lucido, prese a schiaffeggiarsi delicatamente il viso. Bofur, che camminava davanti a lui, si girò a guardarlo con un'espressione curiosamente perplessa, quasi Bilbo avesse schiaffeggiato lui e non sé stesso. Bilbo restituì l'occhiataccia, diffidente. Improvvisamente, si rese conto che non poteva affatto fidarsi di Bofur, strano com'era. Si voltò per controllare Dori, alle sue spalle, e quello gli sorrise lievemente. No, nemmeno di lui poteva fidarsi. 
 
“Questa non ci voleva,” disse Thorin, ad un certo punto, arrestando bruscamente la processione. 
Molti nani sbatterono il naso contro chi avevano davanti e presto, nell'atmosfera già carica di tensione, scoppiarono un mucchio di discussioni. 
Bilbo ignorò lo scompiglio e si tese per sbirciare quale inconveniente ci fosse. 
 
Vide che il sentiero lastricato che stavano percorrendo conduceva ad un ruscello e che al di sopra di quello c'era, o meglio avrebbe dovuto esserci, un vecchio ponte di pietra per attraversarlo. Il ponte però era crollato, spaccato a metà, i moncherini delle due estremità si allungavano l'uno verso l'altro dalle rispettive rive, come due braccia tese che non sarebbero mai riuscite a raggiungersi. 
Cercare di saltare il buco centrale sarebbe stato difficile per un elfo o un uomo, ma per un nano o un piccolo hobbit era un'impresa impossibile.
 
“Potremmo attraversare a nuoto,” suggerì Bofur. 
“Non ricordi cos'ha detto Gandalf? Una magia oscura sovrasta questa foresta, le acque di questo ruscello sono incantate,” fece Thorin. 
“Non mi sembra tanto incantevole,” obbiettò ancora Bofur. 
Thorin scosse la testa: “Dobbiamo trovare un altro modo per passare”. 
 
“Di qua!” la voce di Kili arrivò non troppo distante, dalla loro sinistra. “Questi rampicanti sembrano belli resistenti,” richiamò la loro attenzione il giovane nano, strattonando alcuni grossi rami che pendevano sull'acqua e testando con le gambe la tenuta di un tronco caduto, che non arrivava proprio del tutto sull'altra sponda, ma ci arrivava molto vicino. Sarebbe bastato dondolarsi, aggrappandosi ai rampicanti, per poter superare senza troppe difficoltà con un balzo l'ultimo tratto d'acqua. 
 
“Kili!” urlò Thorin per fermare il nipote che già stava per tentare la traversata. “È meglio essere prudenti. Mandiamo qualcuno di più leggero”. 
 
A quelle parole, sebbene Thorin non intendesse sottintendere qualcuno in particolare, quasi istantaneamente gli occhi di tutti si puntarono sul povero Bilbo, che, ancora intento com'era a fissare il punto dove avrebbe dovuto esserci il ponte di pietra, ci mise qualche istante a capire come mai tutti lo guardassero. 
 
“Andremo noi. Prima tu, Bilbo, che pesi meno, mentre io sarò proprio dietro di te,” lo incoraggiò Thorin, facendogli strada. 
 
Sebbene si sentisse confuso da tutta quella faccenda, e anche parecchio intontito, le gambe de lo hobbit si mossero quasi da sole. Non ci capiva nulla, ma si fidava di Thorin e tanto bastava; se Thorin aveva deciso che era meglio fare così, voleva dire che quella era sicuramente la cosa giusta da fare. 
 
Fece il primo passo incerto sul legno marcito dal tempo e dall'umidità, tenendosi in equilibrio precario con l'aiuto di rami e liane, che erano ancora più marci e ancora più instabili. 
Più di una volta i suoi piedi persero la presa sul tronco bagnato e scivoloso, ma Thorin, come promesso, lo seguiva a breve distanza, ed era sempre pronto ad afferrarlo in caso di bisogno. Bilbo cercava quanto possibile di guardare avanti a sé e non in basso; aveva la sgradevole sensazione che l'acqua cercasse silenziosamente di attirarlo a sé, lo invitasse a tuffarsi, promettendo un dolce riposo. 
 
Lo hobbit resistette a quella tentazione anche grazie alle parole che Gandalf aveva ripetuto loro fino allo sfinimento, si erano fissate bene nella sua mente: non doveva toccare l'acqua. 
 
Quando sentiva la propria volontà cominciare a cedere, gli bastava voltarsi a controllare che Thorin gli fosse accanto; incrociava i suoi occhi azzurri e ritrovava la forza per proseguire. 
 
Fu così, che quasi senza rendersene conto, dopo un lasso di tempo indefinito, percepì di nuovo la terra sotto i suoi piedi. Gli stivali di Thorin toccarono la riva pochi istanti dopo di lui, gli era sempre stato vicino. 
 
Bilbo guardò l'ultimo tratto, la parte che doveva aver saltato. Se lo aveva fatto, non se n'era nemmeno reso conto. Buffo. 
 
Scosse la testa pesante, cercando di scacciare il sonno. Si sentiva così stanco, se si fosse steso e avesse potuto chiudere gli occhi un momento, avrebbe perso i sensi all'istante. Pensò che nemmeno quello fosse normale.
“C'è qualcosa che non quadra,” borbottò tra sé e sé. 
 
E qualcosa non quadrava veramente, e se fosse stato più lucido si sarebbe subito reso conto dell'enorme errore che avevano commesso: per aggirare l'ostacolo del ponte, avevano scioccamente lasciato alle loro spalle il sentiero. 
 
Bilbo guardò ancora il ruscello e strabuzzò gli occhi alla scena che gli si parò davanti: undici nani, che non avevano avuto la pazienza di aspettare che Thorin è Bilbo fossero giunti a destinazione sani e salvi dando loro l'ok per proseguire, ballonzolavano scompostamente sul ponte-tronco, aggrappandosi a qualsiasi cosa capitasse loro a tiro, anche gli uni agli altri, se era necessario. 
Stavano facendo un grande baccano nella foresta solitamente silenziosa, e Bilbo trovò non fosse una buona idea disturbare gli alberi più del dovuto. 
 
Si voltò per chiedere a Thorin che ne pensava, ma il nano non badava ai suoi compagni; era in ascolto, teso. 
 
Subito, Bilbo si immobilizzò; l'ultima volta che aveva visto Thorin così in guardia per un pelo poco dopo non erano stati fatti a fettine dai mannari. 
Tese le orecchie e udì anche lui qualcosa muoversi nel profondo del bosco. 
Stava fissando il punto in cui, anche col chiasso che stavano facendo gli altri nani, si udivano provenire dei passi, quando apparve: un magnifico esemplare di cervo bianco, il suo manto era candido come neve appena caduta. 
 
Un altro rumore si insinuò nelle orecchie de lo hobbit: uno scricchiolio. Si voltò verso Thorin, giusto in tempo per vederlo tendere la corda del suo arco - un altro dono di Beorn - la freccia già incoccata. 
 
Thorin si mosse adagio e, incantato, Bilbo ammirò per un lungo istante i suoi movimenti sicuri, come ipnotizzato, prima di rendersi conto di quali fossero le sue intenzioni.
 
Aprì la bocca per urlargli di fermarsi, ma non ne uscì nulla e tutto ciò che poté fare fu lanciarglisi addosso. Nell'impatto, la traiettoria dell'arco si alzò bruscamente, proprio nel momento in cui Thorin aveva scoccato. La freccia volò tra i rami, mancando di diversi metri il cervo, che si spaventò e fuggì. 
 
“Non avresti dovuto farlo,” sussurrò Bilbo, ancora addosso al suo petto, mentre guardava il cervo bianco darsi alla fuga e sparire tra gli alberi. “Porta sfortuna,” disse, alzando lo sguardo e incassando - ma senza provare alcun rammarico - l'occhiata di disappunto che gli stava rivolgendo il nano. 
 
“Non credo nella sfortuna. Ci costruiamo da soli la nostra fortuna,” ribatté Thorin. abbassando l'arco e avvolgendo così Bilbo tra le braccia. 
Forse in un altra situazione, se fosse stato più presente a sé stesso, Bilbo si sarebbe sentito in imbarazzo per quella vicinanza: le sue mani poggiate sul torace di Thorin che si alzava e abbassava ritmicamente sotto i suoi palmi. 
“E comunque, parlando di cose che è meglio non fare, nemmeno tu avresti dovuto farlo, mentirmi, quando eravamo da Beorn” gli rinfacciò. 
 
In quel momento, un forte splash fece sobbalzare entrambi. 
Bilbo aveva completamente dimenticato che lui e Thorin non erano soli. 
 
E il tonfo che avevano udito non era niente meno che Bombur, che doveva aver ceduto alle lusinghe del ruscello e ora russava beato, disteso nell'acqua bassa. 
Quello, ora, poteva rappresentare un bel problema. 
 

 

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Capitolo 12
*** Capitolo 12 ***


“Ah! Era così bella mentre ammazzava gli orchi, con quei suoi lunghi capelli rossi che ondeggiavano sospinti dal vento. Sembrava danzasse. È stato lì che l’ho capito, che una così dovevo sposarmela.”
 
Kili
 

Ebbero un gran bel da fare a tirare Bombur fuori dal ruscello in cui era caduto, e non solo perché era il nano più grosso di tutti, ma anche perché dovettero fare attenzione a non toccare l’acqua, finendo addormentati a loro volta. 
Nonostante svariati tentativi, non ci fu modo di strappare il nano al suo sonno; di lì in avanti avrebbero dovuto trasportarlo di peso.
 
Sfiniti, affamati - soprattutto affamati - e di umore sempre più nero, presto i nani cominciarono a litigare tra loro per delle banalità. Più di una volta Thorin fu costretto ad alzare la voce per riportare l’ordine nella compagnia. 
 
“Ci stiamo mettendo troppo,” commentò il Principe dei nani, dopo aver sedato l’ennesima rissa. “Questa maledetta foresta sembra non avere mai fine,” sbottò, sull’orlo della frustrazione. 
 
Bilbo annuì, cercando un modo delicato per comunicare a Thorin che secondo lui ormai si erano belli che persi, perché la verità era quella.
 
Lo hobbit alzò lo sguardo sul cielo che gli sarebbe piaciuto poter almeno scorgere lì in alto, ma che era del tutto coperto dalle chiome scure e fitte degli alberi. Sentiva di avere un bisogno disperato di aria. Se soltanto avesse potuto volare fin lassù, avrebbe potuto respirare liberamente, e magari ci avrebbe capito qualcosa su dove si trovassero. 
 
La foresta doveva avere fine, solo che l’unico modo per orientarsi in cui potevano sperare ormai era avere una visuale dall’alto. 
Bilbo pensò che se fosse stato necessario sarebbe stato disposto ad arrampicarsi su ogni singolo albero di quel maledetto bosco pur di trovare la via d’uscita da quel labirinto.
 
Lì, in alto.
 
L’istinto prese il sopravvento sui suoi pensieri, e Bilbo si ritrovò ad attuare l’idea ancora prima di essere del tutto consapevole di averla avuta.
 
Con un’occhiata veloce, studiò il tronco più vicino, per vedere se poteva fare al caso suo. Decise di sì e cominciò la scalata. 
 
Ansioso com’era di rivedere la luce del sole, non si premurò neppure di avvisare gli altri del suo piano e, concentrato sul suo obiettivo, quasi non si accorse della grande quantità di spesse ragnatele che aveva attorno che gli si appiccicavano ai vestiti e alle dita, costringendolo a fermare la sua scalata per scuotere le mani e liberarsene. Continuò a salire senza lamentarsi anche quando le braccia cominciarono a dolere. Di guardare giù non se ne parlava, quello non osava farlo. 
 
La prima boccata di aria fresca, quando la sua testa sbucò dal tetto di foglie, fu una benedizione. Il cielo sopra la sua testa - il cielo, Bilbo aveva quasi dimenticato quanto fosse bello e immenso! - era tinto di rosso. Il sole era basso, stava tramontando ad ovest, e lo hobbit dovette sbattere gli occhi diverse volte prima di abituarsi alla luce, accecante, dopo tutto quel tempo passato nell’ombra. 
 
Finalmente gli parve di poter tornare a respirare libero. E lo spettacolo che aveva attorno era di una bellezza sconvolgente: centinaia di farfalle - forse disturbate dalla sua presenza - volteggiavano sbattendo delicatamente le ali nere, sembravano fatte di seta. Erano Imperatrici Nigre, riconobbe lo hobbit, che un pochino se ne intendeva.
 
Un’infinita distesa di foglie rosse, gialle e arancioni - i colori dell’autunno - si estendeva per quelli che valutò essere chilometri. Ma non in ogni direzione: ad est Bilbo poteva intravedere nitidamente le acque di un lago, brillanti alla luce del sole calante. Non aveva più dubbi, aveva trovato la fine della foresta. 
 
“Vedo il lago!” urlò, anche se non sapeva bene rivolto a chi. “Vedo il lago!” urlò ancora a pieni polmoni, questa volta sporgendosi verso il basso. 
 
Ma dai nani, da sotto, non arrivò alcuna risposta.
 
 
Thorin aveva detto a Bilbo di non credere nella sfortuna. Eppure, ora stava pensando che fosse una bella sfortuna che lui e l’intera compagnia si fossero ritrovati rinchiusi nelle segrete degli Elfi Silvani. Oppure era stata una fortuna, visto che quegli stessi li avevano salvati dal diventare il pranzo di quei mostruosi ragni giganti; e a finire nelle loro pance ci erano andati vicino, terribilmente vicino. 
 
Con un sospiro rassegnato, Thorin sì appoggiò ad una delle pareti di roccia umida della sua prigione. Era stata premura di Thranduil riservare a lui e a lui solo la cella più profonda e oscura, separata dal resto dei suoi amici. 
Dal sovrano del Reame Boscoso, comunque, Thorin non si sarebbe aspettato niente di meno. Aveva già avuto modo di sperimentare di che pasta fosse fatto, molti anni prima. 
 
Thranduil gli aveva offerto il suo aiuto in cambio di alcune gemme - così prevedibile -, attualmente sepolte ad Erebor e di inestimabile valore per gli elfi. Quelle stesse gemme che il Re degli Elfi Silvani riteneva i nani dovessero restituire al suo popolo, come non aveva mancato di puntualizzare. 
 
Tuttavia, Thorin aveva rifiutato l’accordo in malo modo, senza nemmeno prendere per un istante in considerazione la proposta. Non gli interessava un bel niente di una manciata di stupide gemme elfiche, beninteso, era un’altra la questione che ancora gli bruciava: Thranduil aveva perso la sua fiducia quando era avvenuta la catastrofe, quando il drago aveva attaccato la montagna, e la fiducia di Thorin era una cosa che difficilmente si guadagnava, e che una volta tradita considerava impossibile da riconquistare. 
 
Non credeva a una singola parola di Thranduil, non credeva che avrebbe mai mantenuto le sue promesse; quell’individuo era privo di ogni onore. 
 
Quando dopo l’attacco di Smaug, senza dimora, affamati e stremati, i nani erano andati a cercare il suo aiuto, Thranduil glielo aveva negato. Per mero capriccio, il Re del Reame Boscoso avrebbe lasciato morire di stenti un intero popolo. Thorin non era disposto a perdonare e tanto meno era disposto a prendere accordi con lui dopo quello che aveva fatto.
 
“Resta qui se vuoi, e marcisci,” lo aveva condannato il figlio di Oropher, una volta che Thorin gli aveva detto cosa poteva farsene della sua proposta. “Cento anni sono un mero battito di palpebre nella vita di un elfo. Io sono paziente, posso attendere”. 
 
Ma anche Thorin era sicuro di potersi permettere di attendere, e se Thranduil credeva che avrebbe passato il tempo della sua prigionia tormentandosi nel rammarico per averlo insultato, sbagliava di grosso. Non erano le minacce vuote e pretenziose dell’elfo ciò a cui Thorin continuava a pensare, ma una cosa che gli aveva chiesto frettolosamente Bofur, mentre - dopo essere stati minuziosamente perquisiti e disarmati dagli elfi - venivano trascinati via in catene. 
“Dov’è Bilbo?” 
 
Quella domanda aveva acceso la speranza nel cuore di Thorin. Era Bilbo quella speranza. 
 
Lo hobbit sarebbe riuscito a tirarli fuori di lì. Forse gli ci sarebbe voluto del tempo, ma avrebbe trovato il modo, prima o poi. Questo perché Bilbo era diverso da Thranduil, Bilbo non avrebbe mai abbandonato nessuno, non avrebbe mai abbandonato lui. Ed esserne così certo, pensandoci, lo terrorizzava a morte. 
 
 
La speranza su cui Thorin contava arrivò con un bisbiglio, una notte di tre giorni dopo, poco prima dell’alba. 
 
“Pssst, Thorin…” 
  
“Mastro Baggins!” esultò il nano balzando in piedi, mentre un mazzo di chiavi tintinnava nel buio e la serratura della porta scattava con un rumore secco.
 
“Sono io,” confermò lo hobbit. 
 
Non appena Bilbo lo ebbe liberato, Thorin lo prese tra le braccia e, al colmo della gioia, lo sollevò in aria facendolo volteggiare. Si rammaricò di non riuscire a vedere bene il suo volto nell’ombra. Se ci fosse stata più luce avrebbe probabilmente notato il rossore che colorava le sue guance. 
 
“Non ho dubitato un solo istante che saresti venuto a liberarci,” disse, riappoggiando un imbarazzatissimo hobbit di nuovo a terra, ma tenendolo ancora tra le braccia. “Come hai fatto ad entrare?”
 
“Sarei uno Scassinatore davvero di poco conto se non fossi nemmeno in grado di intrufolarmi nelle segrete di una fortezza elfica blindata e ben sorvegliata giorno e notte,” replicò Bilbo, senza dare tuttavia una vera spiegazione. 
 
“Non sei decisamente ‘di poco conto’ sotto nessun aspetto, mio caro mastro Baggins”. 
 
Mentre Bilbo balbettava una qualche risposta, Thorin aguzzò la vista per cercare di distinguere qualcosa dal punto in cui si trovavano. Non troppo distante riusciva a distinguere la luce calda e tremolante di quella che doveva essere una fiaccola.  
 
Dopo averla cercata a tentoni, afferrò saldamente la mano di Bilbo e cominciò ad avanzare cautamente lungo il corridoio della segreta in direzione della fiamma. Il rischio che lì ci fosse una guardia era alto, ma dovevano correre il rischio, non c’era scelta. 
 
“Dove sono gli altri?” chiese distrattamente, mentre i suoi sensi all’erta erano pronti a captare la presenza di chicchefosse. 
 
“Ai livelli superiori. Non so perché ti hanno rinchiuso qui giù. Ci ho impiegato parecchio a trovarti”. 
 
Raggiunsero un secondo corridoio e la luce che avevano intravisto senza che nessuno li ostacolasse. Thorin staccò la torcia dal suo supporto, almeno non avrebbero più dovuto brancolare nel buio. Senza contare che ora poteva vedere il suo dolce hobbit. 
 
“Thranduil non nutre troppa simpatia per i nani, e ce n’è uno che non gli va a genio in particolare,” spiegò a Bilbo, che annuì con un’espressione adorabilmente seria e non indagò oltre. 
 
Per un lungo istante, Thorin non poté fare a meno di ammirare la persona speciale che aveva davanti e che giorno dopo giorno era in grado di sorprenderlo. Quasi senza pensarci, appoggiò una mano sotto la sua guancia e lo tirò delicatamente a sé, ad un palmo dal suo viso. Fu forse in quel momento che, per la prima volta, seppe davvero dare un nome all’emozione che sentiva nella pancia. 
 
“In questi giorni ho avuto modo di guardarmi attorno,” sussurrò Bilbo, totalmente deconcentrato, guardando le sue labbra al posto dei suoi occhi. “Tutte le porte sono sorvegliate o sigillate, ma credo di aver comunque trovato un modo per uscire. Anche se non sono certo ti piacerà.”
 
Thorin prese nota con un certo piacere della tensione del suo corpo, del modo in cui la sua voce si era incrinata.
 
“Mi fido,” mormorò. 
 
 
“Io là dentro non ci entro!” protestò Gloin indignato, scuotendo con disappunto il capo davanti ai barili che, spinti attraverso una botola, avrebbero rappresentato il loro biglietto di sola andata per l’uscita. 
 
“È una follia!” rincarò Ori. 
 
“Vi prego, non c’è altro modo,” insistette Bilbo.
 
“Io non penso nemmeno di entrarci,” brontolò Bombur. 
 
Sull’orlo di una crisi di nervi, lo hobbit represse un urlo di frustrazione. Essere a stomaco vuoto da giorni lo metteva di pessimo umore, poco incline a portare pazienza per la cocciutaggine dei nani e il fatto che trovassero da ridire su qualsiasi, davvero qualsiasi, cosa. E questo senza considerare che gli stavano facendo perdere un mucchio di tempo prezioso, neanche a dirlo. 
 
Quelli appena trascorsi erano stati tre giorni terribili per Bilbo. Aveva vagato incessantemente, in solitudine e protetto unicamente dalla magia dell’anello, per il palazzo del Re di Bosco Atro, alla ricerca di un modo per tirare fuori tutti loro da quella sciagurata situazione. In qualche occasione era riuscito a sgraffignare qualcosa da mangiare, ma era sempre terrorizzato dall’idea di essere scoperto. Nelle lunghe notti solitarie, quasi non aveva osato chiudere occhio per riposare, tanta era la paura. 
 
La tentazione di abbandonare i nani però non lo aveva mai sfiorato - anche se lo tentava in quel momento, eccome se lo tentava - anche quando era riuscito a guadagnare l’uscita attraverso i cancelli principali. Semplicemente aveva realizzato che non era in grado di farlo. Anche se, prima che gli si presentasse quell’opportunità, si era quasi arreso ed era stato lì lì per andare a cercare Gandalf. 
 
Ma poi la fortuna aveva girato a loro favore. L’occasione che Bilbo aveva pensato di sfruttare non si sarebbe ripetuta tanto presto: la maggior parte degli elfi si trovava ai piani superiori del palazzo, dove si stava tenendo una festa, mentre il capo della guardia - l’elfo che avrebbe dovuto sorvegliare le prigioni e i nani, in particolare - aveva pensato bene di brindare assieme al maggiordomo per consolarlo del fatto che loro due fossero costretti a lavorare mentre gli altri si divertivano. I due avevano rubato qualche coppa di vino del Dorwinion, un pregiato vino prodotto dagli Elfi del Sud e destinato al Sovrano, di cui però avevano sottovalutato l’elevato tasso alcolico. 
 
Con il carceriere fuori gioco e le guardie assenti, non era stato troppo difficile per Bilbo sottrarre un mazzo di chiavi. E ora i nani avevano via libera per darsi alla fuga, prima che qualcuno capitasse lì da basso per caso, li vedesse e desse l’allarme. 
 
Se solo quegli zucconi avessero collaborato! 
 
“Fate come dice,” disse Thorin, con un tono che non ammetteva repliche, e che infatti non ne incontrò.
 
Controvoglia - mettendoci molto più tempo del necessario, notò Bilbo stizzito - i nani cercarono e si infilarono ciascuno in un barile vuoto.
 
Gli elfi, aveva osservato e origliato lo hobbit, facevano scivolare i barili vuoti, che avevano contenuto vino e altre mercanzie, in un ruscello sotterraneo, facendoli trasportare dalla corrente fino a Lago Lungo, dove venivano raccolti dagli uomini che abitavano sul lago. 
 
Una volta che i barili furono sistemati sulla botola con i nani dentro, Bilbo azionò la leva per spalancarla sul torrente. Con una serie di tonfi secchi i barili impattarono sulla superficie mossa dell’acqua e, una volta che si furono bilanciati, cominciarono a scorrere via, trascinati dalla corrente. Li osservò allontanarsi nel buio, pregando di non aver condannato tutti ad una fine orribile per annegamento.
 
Fu solo in quel momento che dovette decidersi ad affrontare una o due questioni che aveva deliberatamente scelto di ignorare, ovvero che: primo, non sapeva nuotare; secondo, lui non si trovava in un barile! Aveva rimandato così a lungo quel problema che ora rischiava di essere troppo tardi. 
 
Con lo stomaco in gola, prima che la botola avesse modo di richiudersi, Bilbo ebbe la prontezza di afferrare una botte e, reggendocisi, lanciarsi in acqua. Come avrebbe fatto ad infilarsi lì dentro sarebbe stata una questione che avrebbe affrontato dopo. 
 
Ma a lo hobbit fu chiaro fin da subito che aveva fatto un grave errore di valutazione riguardo alla forza della corrente e da quanto poco desse spazio di fare altro se non cercare di non farsi trascinare sotto dal suo impeto. Nel panico le sue gambe scalciarono alla disperata ricerca di un fondo, che però non trovarono. Non avrebbe mai avuto il coraggio di lasciare la presa dal suo barile, figurarsi tentare una manovra per saltarci dentro. 
 
Le prime volte che la violenza del fiume lo sommerse furono le peggiori. Terrorizzato, annaspò, affamato d’aria, mentre veniva sbalzato su e giù, dentro e fuori dell’acqua gelida e scura. 
 
Presto la vista gli si offuscò, mentre tutto il suo sforzo era concentrato nel tenersi saldamente, e nel respirare, quando avvertiva la testa sbucare oltre la superficie. Non sempre riusciva ad inspirare per tempo e più di una volta al posto dell’ossigeno era l’acqua - con il suo pungente sapore ferroso - ad invadergli i polmoni, e allora tossiva violentemente. Fu solo la forza della paura più nera quella che gli permise di non lasciare la presa, nonostante i muscoli delle braccia bruciassero dal male. 
 
A tratti gli sembrava di capire qualcosa di ciò che vedeva: gli altri barili, da cui ora inspiegabilmente sporgevano i busti dei nani che urlavano e si agitavano; sagome indistinte sulla riva che lo inseguivano; frecce che volavano ad un pelo dalla sua testa. Gli parve anche di sentire qualcuno urlare il suo nome, forse era Thorin, forse era Balin, o poteva anche essere Fili. 
 
Lottò con tutto sé stesso nello sforzo di non perdere coscienza. Non avrebbe saputo dire quanto durò quell’agonia. Non sapeva dov’era, sapeva a malapena chi era, se non qualcuno che si aggrappava alla vita, così vicina a scivolargli via. Quella era una dolorosa, netta consapevolezza: se avesse mollato sarebbe annegato. 
 
 
“BILBO!” 
 
C’era qualcuno che urlava disperatamente il suo nome. La voce, così dolcemente familiare, lo strappò dalla semincoscienza in cui era sprofondato.
 
“BILBO!” 
 
Udì lo scroscio placido del fiume che ora scorreva più dolcemente, il ritmico ondeggiare del barile a cui ancora era miseramente aggrappato; doveva essersi incagliato da qualche parte, perché sentiva il legno stridere contro la pietra, lentamente, avanti e indietro. 
 
“BILBO!” 
 
Schiuse gli occhi e cominciò a riprendere percezione del proprio corpo. Era stremato, tutto un dolore, completamente fradicio, e stava congelando. 
 
“Bilbo…” 
 
Si sentì afferrare, e le braccia calde e sicure che lo avvolsero ebbero il potere di persuaderlo a staccare senza timore le dita intorpidite dal suo appiglio. Erano le braccia di Thorin quelle che lo stringevano? 
 
“Bilbo, stai bene? Dimmi che stai bene,” gli chiese quello che era, senza più alcun dubbio, Thorin. 
 
“Sono vivo,” concesse, con un filo di voce. 
 
Thorin rise di sollievo: “Sei vivo!” 
 
Sotto alla guancia, ad occhi chiusi, poteva sentire il cuore del Principe dei nani battere all’impazzata, e per un po’ nel mondo di Bilbo non esistette che quello, aveva bisogno che esistesse solo quello. Fino a quando Thorin non lo scostò, solo appena: “Ho avuto paura di averti perso…”
 
Il resto accadde in un battito di ciglia: Thorin indugiò con la mano sul suo viso, la fece scorrere tra i suoi capelli, fino alla nuca. Lo tirò a sé e premette le proprie labbra sulle sue, per poi ritrarsi, ma senza fretta.
  
Anche ripensandoci in seguito, lo hobbit non riuscì mai a capire se Thorin fosse veramente consapevole di averlo baciato, era stato appena un istante. Qualche volta, Bilbo arrivava a dubitare perfino fosse veramente accaduto, perché poteva benissimo averlo anche solo sognato. Sì, forse era stato solo un bellissimo sogno.

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Capitolo 13
*** Capitolo 13 ***


“Uscire da un gabinetto! Cosa direbbe Durin se sapesse come ci siamo ridotti?! E no, checché ne dica la gente i nani che escono dal gabinetto non portano affatto fortuna! Anzi, se mai ti capiterà di vedere un nano che sbuca dal tuo cesso, fai attenzione, perché poco ma sicuro quel nano non sarà troppo di buon umore”. 
 
Dwalin

 

 
Aveva detto di chiamarsi Bard, l’uomo dalla voce rude e il volto severo che aveva acconsentito a dar loro un passaggio fino a Pontelagolungo a bordo della propria chiatta. Non senza richiedere una lauta ricompensa, ovviamente.
 
A Thorin non piaceva quel tizio, ma sembrava sveglio, questo glielo doveva. 
 
Quando Balin gli aveva raccontato che erano semplici mercanti, provenienti dalle Montagne Blu e in visita dai loro parenti sui Colli Ferrosi, Bard non aveva finto nemmeno per un istante di credere alla loro storia. Aveva alzato scettico un sopracciglio, e aveva lanciato uno sguardo ai barili che aveva pazientemente ripescato uno ad uno dalle acque del Fiume Selva, placide in quel punto. 
 
“Si entra a Pontelagolungo solo con il permesso del Governatore, e il Governatore ha un importante giro d’ affari con gli Elfi Silvani. Non metterà in pericolo il proprio guadagno se avete avuto problemi con loro,” aveva detto, picchiettando con fare eloquente le dita su una delle sbeccature lasciate sul legno dalle frecce. 
 
“Scommetto che ci sono modi per entrare non visti,” aveva azzardato Balin, alquanto sfacciatamente. Era sempre stato eccezionale quando c’erano affari da trattare, ed era sempre stato molto bravo a leggere le persone, anche. 
 
“Per quello vi servirebbe un contrabbandiere,” aveva ribattuto il chiattaiolo. A Thorin non era sfuggito il guizzo di furbizia che gli era passato negli occhi; l’intuito di Balin non sbagliava mai. 
 
“Un contrabbandiere saremmo disposti a pagarlo anche il doppio per quel passaggio,” aveva insistito il vecchio nano, con il tono di chi sapeva che ormai era fatta. 
 
Bard aveva taciuto a lungo, soppesando con il suo sguardo acuto la compagnia. “Benvenuti a bordo,” aveva sentenziato alla fine. 
 
Nonostante fosse ormai mattino inoltrato, una fitta nebbia fluttuava sullo specchio d’acqua gelato di Lago Lungo. L’aria era immobile, fredda, grigia. Bard, tuttavia, faceva strada all’imbarcazione con una certa sicurezza. 
 
Mentre gli altri cercavano di mettere insieme la somma che aveva chiesto loro l’uomo di Esgaroth, Thorin se ne stava appoggiato ad uno dei parapetti con le braccia incrociate, intenzionato a non perderlo d’occhio nemmeno per un istante. Se Bard avesse cercato di fregarli, non si sarebbe lasciato cogliere impreparato. 
 
I suoi sensi però non dovevano essere più quelli di una volta, e il suo cuore fece una capriola per la sorpresa, quando lo hobbit si materializzò accanto a Bard e prese a fare amabilmente conversazione. Era sgattaiolato sotto il suo naso senza che lui se ne accorgesse. 
 
“Sapete quello che fate,” osservò Bilbo, a mo’ di educato segno d’apprezzamento. 
 
“Sono nato e cresciuto in queste acque,” rispose Bard, senza distogliere lo sguardo dall’orizzonte. 
 
“Ha famiglia?” chiese lo hobbit. 
 
“Sì, tre figli. Un maschio e due femmine,” lanciando questa volta al mezzuomo un’occhiata a metà tra il divertito e la curiosità - occhiata che a Thorin non piacque per niente. 
 
“Ah! Come si chiamano?” 
 
“Sigrid è la più grande. Poi c’è Bain e la piccola Tilda,” raccontò Bard, abbassando un po’ la guardia. “E tu da dove veni? Non ho mai visto uno come te. Non sembri un nano.” 
 
“No, per carità! Non sono un nano!” E Bilbo non poté udirlo, ma Thorin grugnì a quell’accorato diniego. “Sono uno hobbit. La mia casa si trova ad occidente,” spiegò. “Molto lontano da qui,” aggiunse con nostalgia.
 
“Bilbo,” lo chiamò a quel punto Thorin, infastidito dalla confidenza con cui quei due chiacchieravano, e dal modo in cui lo hobbit si era intristito con quei sciocchi discorsi. Non voleva si mettesse in testa strane idee, tipo tornare indietro; tipo abbandonarlo. 
 
Con suo grande sollievo, Bilbo si congedò prontamente dal chiattaiolo e lo raggiunse. 
 
“Volevo chiederti se hai qualche moneta,” inventò su due piedi, quando gli fu davanti, anche se non era vero; in qualche modo avevano già raccolto il necessario. 
 
“No, ho già dato tutto ciò che avevo a Balin”. 
 
Thorin annuì. “Hai freddo?” chiese, notando che si stringeva le braccia. 
 
“In effetti sto congelando! Non so come facciate voi nani a resistere. Eppure i vostri vestiti sono fradici quanto i miei”.
 
“Non patiamo troppo presto il freddo,” fece Thorin con un mezzo sorriso, prendendogli le mani e scaldandole tra le sue. Avrebbe voluto avere uno dei suoi mantelli più caldi per avvolgerlo, ma tutto ciò che aveva era sé stesso. 
 
Anche se, forse, poteva bastare. 
 
Allargò le braccia, pronto ad accogliere Bilbo e scaldarlo, quando Kili dall’altro lato del ponte li chiamò. 
 
“Bilbo, vieni a sederti tra me e Fili! Non sarà molto, ma almeno possiamo ripararti dall’aria,” propose il giovane nano, e a Thorin non rimase che lasciar ricadere pietosamente le braccia lungo i fianchi, vedendo sfumare l’occasione di poter stringere Bilbo, mentre quest’ ultimo accettava l’invito. 
 
Quando però si voltò e il suo sguardo venne catturato dalla pozza di sangue che si stava allargando da sotto la gamba di Kili, dimenticò velocemente la delusione, ricordandosi che aveva cose ben più gravi e urgenti di cui occuparsi. 
 
Kili era stato colpito da una freccia degli orchi, e nonostante in un primo momento la ferita non fosse sembrata troppo grave, Thorin cominciava a pensare che qualcosa non stesse andando come doveva. Non gli piaceva quella ferita, non smetteva di sanguinare; il taglio avrebbe dovuto essersi coagulato ormai da un pezzo, non gli era sembrato così profondo quando lui stesso lo aveva medicato. 
 
“Stai bene, Kili?” chiese, avvicinandosi al nipote. Era solo una sua impressione il pallore? 
 
“Ce la faccio,” minimizzò quello.
 
Thorin non gli credette, e dal modo in cui suo nipote rispose al suo sguardo severo, anche Kili lo sapeva.
 
“Ho bisogno del denaro,” li interruppe Bard. 
 
“Ti pagheremo quando ci avrai dato ciò che ci devi,” ribatté Thorin, spazientito per essere stato interrotto. 
 
“Se avete cara la vita farete come vi dico. Ci sono guardie più avanti,” insistette l’uomo di Esgaroth, con fare impertinente. 
 
Thorin lo incenerì con gli occhi e, con grande irritazione, si voltò bruscamente per guardare oltre la prua, nel tentativo di capire se il chiattaiolo stesse dicendo il vero o fosse uno dei suoi trucchetti. 
 
Aguzzò la vista nel fitto della nebbia, ma non era certo di ciò che vedeva. Poteva essere che ci fosse un pontile, non troppo distante, ma non poteva esserne del tutto certo. Non aveva scelta che correre il rischio e fidarsi. 
 
Prese il sacchettino pieno di monete che gli stava porgendo Balin e lo allungò al chiattaiolo, ma poco prima che lui potesse afferrarlo lo ritirò e affilò gli occhi in segno d’avvertimento. Era meglio per Bard che non facesse il furbo con loro, o si sarebbe assicurato di farglielo rimpiangere tutta la vita. 
 
Bard annuì una volta, rapidamente. “Devi fidarti. Non credo tu abbia altre opzioni,” ribatté, intendendo che aveva recepito il messaggio, ma che non avevano tempo per quei giochetti. 
 
Thorin fece segno ai suoi di nascondersi nei barili vuoti, come avevano concordato in precedenza. Odiava dover dipendere tanto da qualcuno che non conosceva, e odiò dover aspettare, nascosto come un topolino intrappolato nella sua tana, senza poter fare nulla, se non rimanere in allerta e stare a guardare dove lo avrebbero trascinato gli eventi. 
 
Quello che Thorin aveva scambiato per un pontile si rivelò essere un grande peschereccio ormeggiato a largo, che Bard abbordò e sul quale saltò senza aspettare alcun permesso. 
 
Attraverso un foro nel legno del suo barile, Thorin lo vide parlare con un uomo, al quale dopo non molto strinse la mano. C’era una gran puzza di bruciato in quella faccenda. Perché Bard era stato tanto vago con loro sul suo piano se aveva buone intenzioni? Thorin era certo li avrebbe traditi, doveva solo capire quando avrebbe agito ed eventualmente riuscire a batterlo al suo stesso gioco. 
 
Ma niente si mosse, e Bard conversò ancora a lungo con il suo compare. 
 
Proprio quando cominciava a pensare che non sarebbe più riuscito tanto a lungo ad assistere a stupidi scambi di convenevoli, all’improvviso, un uomo avanti con gli anni e un lurido cappello calato sulle orecchie si affacciò per guardarlo dall’imboccatura del barile. 
 
Thorin si preparò a scattare, ma non ebbe modo di dire o fare nulla, perché l’uomo si ritirò rapido e immediatamente dopo qualcosa di gelido e viscido gli colpì pesantemente la testa, seguito da una cascata di altre cose gelide e viscide. Una pioggia puzzolente, puzzolente di… pesce
 
Si lasciò sfuggire un’imprecazione. Il chiattaiolo li stava facendo ricoprire di pesce fetido! Thorin non si era mai sentito tanto umiliato. 
 
Il Principe dei nani stava ancora maledicendo sé stesso per la serie di pessime scelte che lo avevano portato in quella situazione, quando la chiatta riprese la sua navigazione. 
 
Non seppe dire quanto rimase lì, con il pesce freddo come ghiaccio premuto addosso e la rabbia che gli serrava lo stomaco. Ad un certo punto, comunque, sentì una voce urlare “ALT!” e tornò subito attento e vigile. 
 
“Ispezione merci. Documenti per favore,” udì ancora. “Ah sei tu Bard!”
 
“Sono io, Percy,” disse Bard, da un punto indistinto sopra di lui. 
 
“Niente da dichiarare?”
 
“Nulla, se non che sono intirizzito e stanco. E ho voglia di casa”. 
 
“Io uguale a te,” fece la voce dello sconosciuto. “Mi sembra tutto in ordine”. 
 
“Non così in fretta,” si intromise una terza voce maschile, gracchiante e fastidiosa. “Sui documenti c’è scritto che questi barili dovrebbero essere vuoti. A me non sembra che lo siano”. 
 
“Andiamo, Alf, la gente deve mangiare. I tempi sono duri, si fa fatica a trovare qualcosa da mettere in pancia,” ribatté Bard. Thorin non mancò di cogliere la tensione che gli incrinava la voce. Chiunque fosse il nuovo arrivato, non prometteva nulla di buono. 
 
“Non è un problema mio. E nemmeno tuo, visto che la tua licenza dice che sei un semplice chiattaiolo. Svuotate i barili!” ordinò tale Alf.
 
Thorin avvertì il barile inclinarsi pericolosamente e la pressione dei pesci che aveva sulla testa diminuire, mentre con dei tonfi secchi cadevano in acqua. Si tese, pronto a saltar fuori e battersi a mani nude con chiunque ci fosse lì fuori, se fosse stato necessario. 
 
“Quando la gente si rivolterà perché ha fame, chi lo dirà al Governatore ciò che hai fatto? Allora sì che sarà un problema tuo,” aggiunse Bard, in quello che Thorin riconobbe come un ultimo tentativo disperato. 
 
Funzionò. Venne dato il contrordine. 
 
“Il Governatore ti tiene d’occhio, sa dove vivi. Bada bene a ciò che fai, piantagrane che non sei altro,” aggiunse Alf, acido. 
 
“È una piccola città, Alfrid, tutti sanno dove vivono tutti,” si congedò Bard. E la chiatta si rimise in moto. 
 
Quando Bard disse loro che potevano uscire, Thorin non se lo lasciò ripetere due volte. Balzò in piedi, sparpagliando pesce per tutto il ponte della barca. Che il chiattaiolo se lo ripulisse da sé. 
 
La prima cosa che fece fu controllare velocemente con lo sguardo che i suoi ci fossero tutti, e che fossero tutti illesi; Kili in particolare. Con grande fastidio vide anche che Bard stava aiutando Bilbo a tirarsi fuori dal suo barile, e lo stava facendo con fin troppa gentilezza. 
 
“Thorin,” fu la voce di Dwalin alle sue spalle a costringerlo a distogliere lo sguardo. Si voltò verso l’amico e quello indicò qualcosa all’orizzonte, sopra i tetti delle case di Pontelagolungo. 
 
Il Principe dei nani alzò la testa, e tutto il malcontento che aveva accumulato fino a quel momento venne dimenticato. Erebor, casa sua, illuminata dal sole del pomeriggio, vegliava sulla città di Esgaroth. Ciò gli ricordò che l’indomani sarebbe cominciato l’ultimo giorno d’autunno, e il Dì di Durin sarebbe terminato il giorno dopo ancora. Dovevano arrivare in tempo e, se la sorte non gli avesse voltato di nuovo le spalle, potevano senz’altro farcela. 
 
“Seguitemi,” disse Bard, una volta che in quattro furono riusciti a liberare anche Bombur che era rimasto incastrato. 
 
Bard fece strada attraverso le vie affollate della cittadina, una serie infinita di banchine di legno marcio sospese sull’acqua. Tutto odorava di pece e pesce, anche se forse era Thorin ad avere ancora quell’ultimo odore nel naso. 
 
Al loro passaggio, gli abitanti li scrutavano con grande curiosità - Thorin tenne per sé la considerazione che quello non era esattamente ciò che definiva ‘entrare di nascosto’ -, e non c’era da stupirsi, considerando il fatto che non dovevano essersi visti troppi nani in città negli ultimi decenni. 
 
Ma, nonostante la gran quantità di persone che stava assistendo alla scena, nessuno fiatò, e i più fingevano - non troppo bene, peraltro - di andare avanti con le proprie faccende. ln più di un’occasione Bard venne addirittura aiutato a distrarre le guardie che facevano il giro di ronda, e senza che nessuno chiedesse spiegazioni di alcun tipo. Gli abitanti di Esgaroth erano proprio bizzarri, o forse erano le autorità a non godere di particolare popolarità, così che ogni scusa fosse buona per prendersene gioco; situazione della quale Thorin prese mentalmente nota. 
 
Bard aveva appena girato un angolo e dichiarato che c’erano quasi, quando si fermò di colpo. 
 
“Casa mia è sorvegliata,” spiegò, dopo averli fatti indietreggiare. “Ma ho un’idea su come farvi entrare non visti”. E, chissà come mai, Thorin già era sicuro che la cosa che aveva in mente Bard non gli sarebbe piaciuta per niente.
 
L’unico obiettivo del chiattaiolo nella vita sembrava essere escogitare modi sempre più creativi per mortificarlo, e quasi non si stupì quando venne fuori che la brillante trovata che aveva avuto consisteva nell’immergersi nelle acque putride del canale ed issarsi attraverso la latrina del bagno di casa sua. 
 
Thorin non fu l’unico ad avere delle obiezioni: Dwalin sostenne che piuttosto sarebbe morto, Dori si preoccupò delle infezioni che potevano prendere, Gloin disse che era troppo vecchio per queste cose e Bifur bofonchiò qualcosa che nessuno ad eccezione di Oin capì. L’unico a tacere era Bilbo, che aveva l’aria stremata e non faceva che fissare pietrificato l’acqua torbida. 
 
Dopo lungo discutere, tuttavia, conclusero che non avevano altre soluzioni, o se ce n’erano erano loro ad essere decisamente troppo stanchi per elaborarle. Bard aveva promesso loro un rifugio caldo dove poter riposare un pochino, quello era il modo più veloce per ottenerlo e nessuno di loro riuscì a farsi venire in mente altro. 
 
Si arresero, e ad uno ad uno i membri della compagnia si immersero, non senza lamentarsi e protestare tutto il tempo. Dwalin in testa e Thorin per ultimo, come d’abitudine. 
 
Quando anche Fili si tuffò alle spalle di un sempre più pallido Kili, non rimase che Bilbo a dover affrontare la nuotata. Thorin si accorse che lo hobbit non osava neppure sfiorare l’acqua con la punta del piede. Era chiaro che la sola idea di dovercisi buttare dentro lo terrorizzava; comprensibile, visto che solo poche ore prima aveva seriamente rischiato di annegare. 
 
“Reggiti a me,” gli disse, cercando di suonare il più rassicurante possibile, mentre gli prendeva con estrema cautela la mano e lo guidava piano in acqua, finché questa non arrivò loro al petto. 
 
Bilbo si lasciò trascinare senza opporre resistenza. La mascella serrata e gli occhi sbarrati erano gli unici segnali di panico che mostrava. Thorin fece passare le sue mani sulle proprie spalle e cominciò a nuotare senza troppa difficoltà fino alla meta. Bilbo era leggero, e c’era qualcosa di estremamente piacevole nell’avvertire la vicinanza del suo corpo esile avvinghiato al suo. 
 
Una volta che furono a destinazione, Thorin non resistette alla tentazione di tirare davanti a sé, di attirarlo al suo petto. Le mani de lo hobbit erano ancora strette attorno al suo collo. Non erano mai stati tanto vicini. 
 
“Sei pronto?” sussurrò Thorin, arrivando a sfiorare con il suo naso la punta di quello di Bilbo; avvertiva il suo respiro sulle labbra. 
 
“Per cosa?”
 
In risposta, Thorin alzò la testa e indicò l’apertura da dove avrebbero dovuto issarsi, dalla quale spuntò anche Bofur, pronto ad aiutarli a tirarsi su. Thorin intrecciò le mani per creare un appoggio da cui Bilbo avrebbe potuto darsi una spinta, e un istante dopo era scivolato via dalle sue braccia. 
 
 
Bilbo aveva accettato di buon grado i vestiti di ricambio che gli avevano offerto le dolcissime figlie di Bard. Sentirsi di nuovo asciutto era meraviglioso, anche se gli indumenti non erano esattamente della sua taglia e odoravano di chiuso e di muffa. In realtà, tutto in quella cittadina aveva quell’odore. 
 
Decise di fare buon viso a cattivo gioco e pensò che caldo e asciutto, ma non profumato, poteva essere un buon compromesso. In ogni caso, era certo che nemmeno cento lunghi bagni caldi e una tonnellata di sapone alla lavanda sarebbero mai bastati a togliergli dai capelli il puzzo di pesce. 
 
Prese con un sorriso, che accompagnò a tanti ringraziamenti, anche la tazza di vino caldo - aromatizzato con delle spezie che non riusciva a distinguere - che gli porse Tilda, la più giovane della famiglia. Il sapore era ottimo e il liquido caldo arrivava in pancia rinfrancante. 
 
L’ultima parte del viaggio lo aveva messo particolarmente a dura prova, spinto oltre il suo fisico oltre al suo limite di sopportazione, del freddo, della stanchezza, della fame. Casa Baggins gli mancava più che mai, si sentiva completamente esausto, e la stanchezza lo intontiva, rendendolo quasi incapace di formulare un qualsiasi pensiero intelligente, proprio lui che era sempre stato considerato sempre da tutti una persona brillante. Infatti, non aveva fatto tanto altro che lasciarsi guidare dal gruppo da quando avevano lasciato il Reame Boscoso. 
 
Ma in questa situazione aveva scoperto anche che c’era una persona in grado di farlo andare avanti nei momenti più difficili, una persona cui poteva sempre guardare quando si sentiva perso e insicuro, qualcuno che poteva seguire senza riserve. Finché ci fosse stato Thorin, Bilbo avrebbe semplicemente proseguito assieme a lui. Avrebbe solo voluto essere in grado di dirglielo, quanto bene e quanto coraggioso lo faceva sentire, quanto era arrivato a fidarsi di lui.
 
“Sembri uno che ha visto un fantasma,” disse avvicinandosi al Principe dei nani, che se ne stava immobile davanti alla finestra con lo sguardo perso. 
 
Anche lui aveva ricevuto in prestito dei vecchi abiti, e - anche se Bilbo un pochino rimpiangeva  la perdita della camicia bagnata indossata da Thorin fino a quel momento, che aveva aderito perfettamente ai suoi pettorali e agli addominali scolpiti - notò come potesse indossare qualsiasi cosa, anche la più logora delle casacche, senza che questo potesse fargli perdere il suo aspetto regale e il suo indiscutibile fascino.
 
Quando Thorin lo guardò a Bilbo sembrò che ritornasse da molto lontano, fu comunque contento di notare che le labbra gli si piegarono appena in un sorriso, quando incrociò i suoi occhi. Era felice di essere di qualche conforto, seppur solo standogli vicino, e di non essere solo un inutile peso per lui. 
 
Thorin allungò una mano per accarezzargli il viso, lo sguardo ancora per metà nel presente, con lui, e per l’altra metà perso nei suoi ricordi. 
 
Improvvisamente, il tocco di Thorin gli fece tornare alla mente il momento in cui erano stati stretti nel canale, e se solo ci ripensava, Bilbo ancora si sentiva avvampare. Dovette distogliere lo sguardo dagli occhi azzurri di Thorin, il quale aggrottò le sopracciglia, forse chiedendosi quale pensiero fosse stato causa di tanto improvviso imbarazzo. 
 
“Una lancia del vento nanica,” intervenne Balin, spuntando alle loro spalle e facendoli sobbalzare entrambi. “L’ultima volta che ne abbiamo vista una, una città andava a fuoco. Fu il giorno in cui arrivò il drago e distrusse Dale,” continuò, sbirciando a sua volta fuori dalla finestra, del tutto inconsapevole di aver interrotto qualcosa. “Girion, il signore della città, tentò invano di abbattere Smaug con le frecce nere - l’unica cosa che può scalfire la pelle di un drago -, ma le esaurì tutte senza riuscire a colpirlo”. 
 
“Se la mira degli uomini fosse andata a segno, molte cose sarebbero cambiate,” commentò amaramente Thorin. 
 
“Parli come se ci fosse stato,” fece Bard, entrando nella stanza. 
 
Thorin evitò di rispondere, così Bard, guardandolo con sempre più sospetto, continuò: “C’è una profezia, la profezia della gente di Durin. ‘Il Signore delle argentee fonti, il Re delle rocce scavate, il Re che sta sotto il Monte, riavrà le cose a lui strappate. E la campana suonerà di allegrezza, quando il Re della Montagna tornerà, ma tutto si disferà con tristezza e il lago brillerà e brucerà’,” recitò.
 
Il Principe dei nani tacque ancora, ostinatamente. “Hai preso il nostro denaro, dove sono le nostre armi?” cambiò bruscamente argomento, infine. 
 
Anche senza che ci fosse bisogno dello scontento sul volto di Thorin, Bilbo capì che quelle che Bard tirò fuori non erano proprio le armi che tutti loro si aspettavano. Erano oggetti comuni improvvisati ad armi: mazze da fabbro, vecchi arpioni, perfino un pugnale fissato ad un lungo bastone con una corda. 
 
“Abbiamo pagato per delle armi!” protestò Dori. 
 
“Armi vere, forgiare in ferro!” rincarò Gloin. 
 
“È uno scherzo!” si indignò pure Bofur. 
 
“Migliori ne troverete solo nell’armeria della città,” si schermì Bard. 
 
“Thorin, prendiamo ciò che ci viene offerto e andiamo. Mi sono arrangiato con molto meno, e anche tu,” tentò di convincerlo Balin, e Bilbo si ritrovò pienamente d’accordo con lui. Basta cercare guai. 
 
Ma dall’occhiata che Thorin si era scambiato con Dwalin alla sola menzione dell’armeria, Bilbo aveva capito subito che se le armi che volevano stavano lì, loro sarebbero andati a prendersele. Eccome se lo avrebbero fatto. 
 
E infatti fu quello che fecero. 
 
Per mettersi in azione attesero il calare della notte, anche se il buio non rese facile l’impresa di trovare l’armeria nel dedalo intricato formato dalle vie della città. Bard dal canto suo, trovandosi in forte disaccordo con il piano, aveva offerto loro ben poco aiuto. 
 
Bilbo perse il conto delle volte in cui Thorin si perse e delle volte in cui finirono in vicoli ciechi, finché Dwalin non si spazientì e si mise in testa alla comitiva. 
 
Una volta che l’ebbero trovata, la famosa armeria, fu abbastanza facile per i nani intrufolarsi da una finestra lasciata incautamente socchiusa. Gli armigeri di Pontelagolungo non dovevano aspettarsi furti o incursioni da parte dei cittadini, ed evidentemente non si vedevano troppi stranieri da quelle parti. 
 
I nani si riempirono tasche, cinture, schiene e braccia di armi di ogni genere. Ognuno fu incaricato di trasportare tutto ciò che riusciva a reggere, avrebbero pensato dopo a fare una cernita. 
 
“Ce la fai?” chiese dubbioso Thorin a Bilbo, mettendogli fra le braccia la terza spada.
 
“Certo,” rispose lo hobbit, pregando tra sé e sé di non combinare un altro disastro. 
 
E con il senno di poi non fu colpa sua, non quella volta almeno. Quella fu la volta in cui fu la gamba ferita di Kili a tradirli.
 
Dapprima il giovane nano incespicò sotto il peso eccessivo dell’acciaio che si era caricato in spalla, finché la gamba dolente non cedette e Kili cadde, e con lui tutto ciò che portava rovinò sul pavimento con un gran fracasso.
 
Immediatamente, dall’esterno arrivarono esclamazioni sorprese di quella che doveva essere una sentinella. Nella notte ne riecheggiò una seconda e poi una terza.
 
Seguì un attimo di completo silenzio, un attimo in cui tutti loro si guardarono, indecisi sul da farsi. 
 
Thorin si portò l’indice alle labbra, facendo cenno a tutti di stare zitti e fermi. “Mantenete la ca-” Una porta cigolò. 
 
“SCAPPIAMO!!” urlò a quel punto Dori, scatenando il panico tra i nani che corsero disordinatamente alla finestra dalla quale erano entrati.
 
Non andarono lontano, solo due o tre di loro riuscirono ad uscire, e solo per venire prontamente catturati dalle guardie che erano accorse alle grida di allarme. 
 
I nani, tuttavia, non si sarebbero mai lasciati prendere senza opporre resistenza. In più ora, dopo aver fatto razzia, erano molto ben armati.
 
Al grido di battaglia lanciato da Dwalin, i nani rimasti si buttarono alla carica dei soldati che fecero irruzione nella stanza, e la piccola sala risuonò presto di grida e del clangore di spade e lance che cozzavano le une sulle altre, di rastrelliere che venivano rovesciate e di tavoli ribaltati. 
 
Le guardie di Esgaroth superavano abbondantemente di numero i nani, ma non dovevano essere particolarmente ben addestrato, perché lo scontro si protrasse a lungo, senza che la battaglia sembrasse volgere a favore di nessuna delle due parti. 
 
Nella confusione generale, Bilbo cercò di ritirarsi in un angolino, pensando che se non poteva essere di grande aiuto contro la gente alta, poteva perlomeno fare in modo di non intralciare i suoi compagni che si battevano con grande forza e coraggio. Ma non fu abbastanza attento e, improvvisamente, senza che avesse modo di accorgersi di nulla, si sentì colpire alla testa da dietro. 
 
L’orecchio destro esplose di dolore e Bilbo piombò violentemente a terra, con la testa che gli girava e la vista che si sfocava. I rumori della mischia svanirono all’istante, per lasciare posto ad un rumore indistinto e ovattato, che presto diventò un fischio assordante che soffocò qualsiasi altro suono. 
 
“BILBO!” la prima cosa che riuscì ad udire di nuovo fu l’urlo di Thorin; arrivava da molto lontano. Subito dopo due mani lo afferrarono con violenza per le braccia e con forza lo costrinsero in piedi, anche se non riusciva propriamente a reggersi sulle gambe, che si ostinavano a piegarsi come fossero fatte di carta. 
 
Sbatté più volte le palpebre, cercando di mettere a fuoco la stanza. 
 
Distinse Thorin, battersi come un toro infuriato, contro tre soldati contemporaneamente, dando loro un bel po’ di filo da torcere. E poi avvertì il freddo di una lama puntata alla gola.   
 
“Thorin…” sussurrò, troppo piano.   
 
Ma anche non udendolo Thorin si accorse della minaccia e si fermò all’istante. “Lascialo andare, cane!” intimò, mentre due guardie ne approfittavano per afferrare anche lui ed immobilizzarlo. 
 
“Thorin…”  Mi dispiace, avrebbe voluto aggiungere Bilbo, ma non ci riuscì.   
 
Thorin tentò di divincolarsi, con l’unico risultato che la guardia che teneva Bilbo infierì di nuovo su di lui con un pugno nello stomaco. 
 
Lo hobbit avvertì qualcosa incrinarsi nel petto, forse una o due costole. Se il pugno non gli avesse strappato dai polmoni tutto il fiato che aveva in corpo, avrebbe sicuramente lanciato un urlo fortissimo per il male, ma tutto quello che uscì dalla sua gola fu un versetto strozzato. 
 
Solo a quel punto, con un grido di rabbia e frustrazione, Thorin si arrese, e depose le armi, ordinando anche agli altri nani di fare lo stesso. Precauzione inutile, visto che erano rimasti solo Dwalin e Bombur a combattere, e presto vennero sopraffatti anche loro.
 
“Bilbo!” lo chiamò Thorin, continuando a divincolarsi, mentre li portavano tutti via. 
 
“Sto bene. Non preoccuparti per me,” rispose Bilbo, con un filo di voce. 
 
Non era del tutto vero: le orecchie gli fischiavano, il lato destro della faccia pulsava dolorosamente, e aveva così male all’addome che quasi non riusciva a stare dritto. Ma nulla faceva più male dell’essere stato, di nuovo, l’anello debole di tutta la compagnia. 
 
E se Thorin questa volta non glielo avesse perdonato? Come avrebbe fatto a guardarlo ancora negli occhi, dopo essersi dimostrato per l’ennesima volta un fallimento totale, una persona del tutto indegna del suo affetto?
 
 


 
Il re degli antri che stan sotto i monti
e delle rocce aride scavate, 
che fu signore delle argentee fonti
queste cose riavrà, già a lui strappate! 
 
La sua corona sul capo poserà, 
dell’arpa udrà di nuovo il bel canto
e in sale dorate echeggerà
di melodie passate il dolce incanto.
 
Sui monti le foreste ondeggeranno, 
ondeggeranno al sol l’erbe lucenti, 
le ricchezze a cascate scenderanno 
e i fiumi diverranno ori splendenti. 
 
I ruscelli felici scorreranno, 
i laghi brilleran nella campagna 
e dolori e tristezza svaniranno 
al ritorno del Re della Montagna. 
 
(Lo Hobbit, Capitolo X)

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Capitolo 14
*** Capitolo 14 ***


“Al tempo non ero stato in grado di dirlo - sai, il pezzetto d’ascia che mi si era incastrato in testa mi ha impedito di parlare per molto tempo, era frustrante - ma mi fece uno strano effetto rivedere Dale dopo tanti anni. Nei miei ricordi era una città caotica, piena di vita. Quella che avevamo lì davanti invece era una tomba. Una tomba triste e abbandonata a sgretolarsi su di sé, lassù, tutta sola”. 
 
Bifur
 
 
Erano passati presto dall’essere prigionieri al diventare graditi ospiti, perché nonostante fossero ad Esgaroth da meno di dodici ore, ciò che Thorin aveva visto gli era bastato e avanzato per sapere esattamente cosa avrebbe dovuto dire ai cittadini della città sospesa sul lago per conquistare la loro benevolenza. Gli era bastato sedurre e stordire gli abitanti di quello squallido posto con promesse di ricchezza, promesse di abbondanza.
 
“Ricordo questa città al tempo della sua grandezza,” aveva esordito, innanzi alla platea che si era riunita davanti alla casa del Governatore, dove i nani erano stati condotti in catene. “Flotte di navi attraccate al porto, colme di sete e gemme preziose. Questa non era una città abbandonata sul lago, questo era il centro di tutto il commercio del Nord. Io garantirei il ritorno di quei giorni, riaccenderei le grandi fornaci dei nani e farei fluire benessere e denaro di nuovo dalle sale di Erebor!”
 
Senza sorprendersi, aveva osservato come le sue parole facevano, una dopo l’altra, centro negli animi di quei poveretti, come le lance che avevano puntate addosso si erano leggermente abbassate, come la tensione si era sciolta. 
 
Solo a quel punto aveva spostato il suo sguardo sul Signore di Pontelagolungo, e aveva sferrato l’attacco finale: “Se riusciremo, tutti condivideremo le ricchezze della Montagna. Questo posso prometterlo”.
 
Il Governatore lo aveva soppesato in silenzio per tutto il tempo, ma il suo tacere non aveva preoccupato affatto Thorin. Conosceva le persone come lui, conosceva la natura degli uomini, e sapeva già come sarebbe andata a finire quella faccenda. 
 
“E allora io vi dico… benvenuti, miei cari amici!” Il Signore di Esgaroth aveva spalancato le grasse braccia, facendo tintinnare la quantità spropositata di bracciali e catene d’oro che aveva ai polsi, e aveva aperto loro le porte di casa sua. 
 
Per la gioia dei nani, stanchi e come al solito affamati, venne organizzato all’istante un ricco banchetto per quella sera. In onore di Thorin, figlio di Thrain, figlio di Thror, Re sotto la Montagna. 
 
“Un Re tornerà alla montagna Solitaria e i fiumi scorreranno di nuovo pieni d’oro!” brindarono gli uomini di Esgaroth, quella sera. 
 
Thorin era riuscito a risolvere la situazione a proprio vantaggio in modo veloce e senza alzare un dito, ma quando prese posto per unirsi ai festeggiamenti era comunque di pessimo umore, e il chiasso attorno alla tavolata non faceva che peggiorare il suo nervoso. Nervoso da imputarsi al fatto che aveva discusso con Bilbo, appena poco prima di cena. 
 
Thorin non era pronto a lasciar correre ciò che avevano fatto le guardie nell’armeria; aveva deciso di pretendere giustizia per la violenza inaudita con la quale i soldati avevano trattato lo hobbit, in particolare. Voleva che il Governatore gliene rendesse conto, voleva che chi aveva fatto del male a Bilbo pagasse. 
 
Ma quando aveva fatto l’errore di dirlo a Bilbo, quello lo aveva pregato di non farlo, sostenendo che in fin dei conti lui stava bene, era solo qualche graffio e la cosa più importante era che avevano risolto le cose in modo pacifico. 
 
Thorin non aveva voluto sentire ragione, e l’avrebbe sicuramente spuntata, se alla fine anche Balin non si fosse messo in mezzo. In due erano riusciti a persuaderlo a lasciar correre il torto subito e Thorin aveva dovuto arrendersi, andando contro la propria stessa natura, considerando che in vita sua aveva ucciso per molto meno. Si era fatto convincere solo per amore di Bilbo, che non chiedeva altro che un attimo di pace, ma non era per niente contento della cosa. 
 
Thorin vuotò in un unico sorso il calice di vino che aveva davanti e alzò la testa per cercare lo hobbit all’altro estremo della tavolata, deciso a tornare sulla questione. Quando non lo trovò, seduto vicino a Bofur dove lo aveva lasciato, le sue gambe scattarono d’istinto. Bilbo aveva il dono di riuscire sempre a svignarsela non visto a suo piacimento, e la cosa era molto fastidiosa. Comunque non poteva essere andato lontano, così Thorin lasciò la stanza rumorosa e si avventurò per i locali immersi nel silenzio della grande casa del Governatore. 
 
Avanzò piano lungo i corridoi semibui, illuminati solo dalla luce della luna che filtrava dalle finestre - per quanto la sporcizia che si era accumulata sui vetri concedesse alla luce di passare. Dei tappeti altrettanto sporchi, che in tempi migliori dovevano essere costati una piccola fortuna, coprivano i pavimenti scricchiolanti, almeno erano utili a garantirgli di spostarsi con estrema discrezione. 
 
Svoltò un angolo e pensò di aver fatto centro notando una porta semichiusa da cui usciva uno spicchio di luce. Andò in quella direzione, ma capì presto che Bilbo non doveva essere lì dentro - almeno se lo augurava - perché quelle che arrivarono alle sue orecchie furono le voci del Signore di Esgaroth - il loro anfitrione - di Alfrid e di Bard. 
 
Quest’ultimo, quell’infame maledetto, stava giusto parlando in quel momento: “Morte, ecco cosa ci porterà il nano. Fuoco di drago e rovina. Se quella bestia verrà risvegliata, distruggerà tutti noi!” 
 
Thorin strinse i pugni. L’ipocrita che non era altro stava cercando in ogni modo di mandare a monte i suoi programmi, quando era stato proprio lui stesso a lasciarsi corrompere per accompagnarli nella sua adorata città in grande segretezza. Evidentemente, ora che non rappresentavano più una bella fonte di guadagno, era pronto a sbarazzarsi di loro. 
 
Avrebbe avuto voglia di entrare e farlo tacere una volta per tutte, ma si costrinse a stare fermo, pensando che forse poteva valere la pena di sentire anche il resto del discorso. 
 
“Tu e la tua stupida profezia,” sibilò acidamente Alfrid. “Quasi certamente quel pugno di nani morirà nel tentativo di raggiungere la Montagna senza nemmeno riuscire a metterci piede. Lascia che intanto la gente creda a ciò che vuole credere”. 
 
“Sono tutte baggianate,” convenne il Governatore. 
 
“Le vecchie leggende dopotutto offrono speranza, può essere utile incoraggiarle, abbiamo poco o nulla da perdere,” rincarò il suo braccio destro. 
 
“E in compenso la mia popolarità non è mai stata così alta!” si rallegrò ancora il Signore di Pontelagolungo, vanesio. 
 
“Avete dimenticato ciò che è successo a Dale?” insistette Bard. “È stato solo per la cieca ambizione di un Re della Montagna. Non possiamo commettere lo stesso errore!”
 
“Non dobbiamo essere troppo frettolosi a dare la colpa. Non dimentichiamo che è stato il tuo antenato, Girion, che fallì nell’impresa di uccidere la bestia. Freccia dopo freccia mancò il bersaglio,” fece il Governatore, come se quella constatazione potesse in qualche modo dimostrare quanto in torto fosse il chiattaiolo. “E in ogni caso non c’è nessun noi. Il capo sono io, e ho già preso la mia decisione. Ora vattene!”
 
Thorin udì Bard sospirare e subito dopo dei passi pesanti pestare furiosamente il pavimento. Non accennò a spostarsi nemmeno di un millimetro da dove si trovava, non aveva mai temuto un faccia a faccia con un rivale. Anzi. 
 
Il chiattaiolo sobbalzò quasi impercettibilmente ritrovandoselo davanti, ma si ricompose presto. “Non hai alcun diritto di entrare in quella Montagna,” disse a denti stretti, puntando lo sguardo caparbio in quello di Thorin. Lo avrebbe ostacolato fino a quando avesse avuto vita, questo il nano lo capì subito. 
 
“Io sono l’unico ad averlo,” ribatté, tenendogli fieramente testa. Se voleva guerra, guerra avrebbe avuto. 
 
Bard lo sorpassò urtandolo di proposito. Thorin non raccolse la provocazione, non era ancora il momento. Il tempo per restituire al chiattaiolo pan per focaccia sarebbe arrivato, prima o poi, e se c’era una cosa che Thorin sapeva fare era aspettare. 
 
Quando sentì che anche il Governatore il suo tirapiedi stavano uscendo, si decise a proseguire; meno doveva avere a che fare con gente così falsa e viscida e meglio era, c’era un limite a quello che poteva sopportare la sua pazienza. 
 
Trovò Bilbo all’aperto, affacciato ad un terrazzino che dava su di uno stretto canale. Le acque tranquille brillavano sotto di lui, riflettendo le stelle. 
 
Mosse un passo nella sua direzione e il legno scricchiolò sotto i suoi stivali facendo alzare a lo hobbit la testa di scatto. 
 
Thorin avvertì un moto di rabbia stringergli la bocca dello stomaco, nell’istante stesso in cui guardò il volto di Bilbo, livido per una buona metà, ma si costrinse a domarla. Ricordò all’istante cosa lo aveva indotto ad arrendersi, quando avevano discusso. Vedere Bilbo così fragile era disarmante, e lo faceva sentire fragile a sua volta. Non voleva essere lui la causa di altre preoccupazioni. 
 
“Thorin,” lo salutò lo hobbit, abbozzando un sorriso che non arrivò agli occhi. 
 
“Scusa, non volevo spaventarti. Cosa ci fai qui al freddo?” 
 
“L’aria dentro cominciava a farsi opprimente.” 
 
Thorin annuì. “Anche per me”. 
 
Raggiunse Bilbo alla ringhiera, e quando gli fu accanto non poté impedirsi di sfiorargli l’occhio gonfio e viola. Si sentiva terribilmente in colpa per quello che era successo, per non essere riuscito a tenerlo al sicuro. 
 
“Sono tutti così? Gli uomini,” chiese piano lo hobbit. Non si sottrasse al suo tocco e Thorin gliene fu grato. 
 
“Quelli che ho incontrato nella mia vita sì, la maggior parte sono così.” 
 
“Allora devo rallegrarmi di averci avuto poco a che fare,” fece Bilbo, arricciando il naso. 
 
Thorin si lasciò scappare un sorriso quando lo toccò il pensiero che nemmeno un occhio nero riusciva ad intaccare la sua bellezza, che veniva fuori in particolare quando si indignava per qualcosa - e in effetti quello capitava spesso. Non ricordava di aver mai amato tanto qualcuno, tanto da riconoscerne e volerne scoprire ogni sfumatura. Amare tanto da far male, quando si fermava a pensarci troppo. 
 
“Mi dispiace,” disse Bilbo all’improvviso. “Ho combinato un gran pasticcio nell’armeria”. 
 
Tu ti senti in colpa?!” Si sforzò di reprimere il fastidio che gli causava quell’idea assurda, stupida, anche se ormai sapeva che era tipico di Bilbo incolparsi per qualsiasi sfortuna capitasse loro; una cosa che odiava, per quanto gli fosse possibile odiare un tratto di lui. “Sono io quello che dovrebbe chiederti scusa. Hanno preso te solo per ferire me, mi sono lasciato tradire reagendo e ti hanno fatto questo”. 
 
Bilbo scosse la testa e Thorin notò i suoi occhi riempirsi di lacrime. Lo afferrò all’istante, lo strinse forte, in parte per impedire anche a sé stesso di andare in pezzi. Gli avvolse il viso tra le mani e gli posò un bacio sulla fronte, fermando lì le proprie labbra, mentre lo tratteneva a sé e silenziosamente lo implorava di credere a quanto gli diceva, e magari di darsi tregua, una volta tanto. 
 
Gli accarezzò le guance e il collo scoperto. Sempre più spesso le sue mani sentivano l’urgenza di toccare la sua pelle, aveva bisogno e la voglia di sentirla a contatto con la propria, di sentirne il calore, di sentire il suo cuore che batteva. E posando i palmi delle mani sul suo petto, Thorin scoprì che in quel momento il cuore di Bilbo batteva velocissimo, proprio come il suo. 
 
Fu Bilbo ad alzare la testa e a cercare la sua bocca, a baciarlo per primo. Thorin si fece trovare pronto, perché la verità era che non pensava ad altro da giorni, da quando ne aveva avuto il primo assaggio sulle rive del Fiume Selva. 
 
Contraccambiò, lentamente e dolcemente, ma quando Bilbo si lasciò sfuggire un versetto di piacere, avvertì una scossa di desiderio percorrergli il corpo e aumentò l’intensità del bacio, il respiro sempre più veloce. 
 
Le mani di Bilbo risalirono lungo il suo petto, si intrecciarono alla sua barba, gli sfiorarono il collo, facendogli fremere le terminazioni nervose, annebbiandogli definitivamente la testa. L’unico pensiero che riusciva a formulare era che voleva di più. Voleva tutto. 
 
“Entriamo?” chiese d’impeto. 
 
Bilbo annuì, gli occhi velati di desiderio, e senza aspettare un secondo di più Thorin lo alzò di peso, facendolo ridere; la sua risata fu come un balsamo su una ferita. 
 
Lo trasportò nella camera che avevano riservato a lui solo. Ignorarono il letto di legno marcio e maleodorante che era sistemato in un angolo buio, vicino a una finestra da cui entravano un mucchio di spifferi. Spostarono invece tutte le coperte e i cuscini che trovarono davanti al caminetto acceso, dove poi si accoccolarono, stretti l’uno all’altro.
 
Da quel momento non parlarono molto, se non qualche parolina dolce mormorata tra un bacio e l’altro. Un “Ti voglio” sussurrato mentre si liberavano a vicenda dell’ingombro dei vestiti.
 
Thorin esplorò ogni centimetro del corpo di Bilbo, con le mani, con la bocca, beandosi di averlo lì, completamente avvinto, fremente e decisamente eccitato, come scoprì premendosi contro di lui, accarezzandolo dove era certo di procurargli più piacere. 
 
La sua mano si intrufolò sotto la sua camicia, nei suoi pantaloni, e prima che potesse rendersene conto lo aveva spogliato completamente. Ogni gemito dello hobbit gli causava una fitta di eccitazione che gli risaliva dall’inguine, dritto alla testa. 
 
Bilbo era in assoluto la cosa più bella che avesse mai visto. La sua pelle era morbida e candida, e per qualche oscuro motivo ancora riusciva a profumare di sapone come quando l’aveva conosciuto. C’era una dolcezza che non aveva mai provato nel modo in cui ricambiava i suoi baci e lo toccava, con una tenerezza di cui Thorin nemmeno sospettava di aver bisogno, ma a cui, giurò a sé stesso, non avrebbe mai più rinunciato. 
 
Doveva avere Bilbo, lo voleva solo per sé, non aveva mai voluto tanto qualcosa. E quando sentì che non poteva più resistere, gli aprì le gambe e se lo prese.
 
 
Bilbo venne svegliato da un leggero bussare.
 
“Thorin, sei sveglio?” chiese la voce di Dori, dall’altra parte della porta. 
 
Aveva la guancia appoggiata al petto di Thorin. Il suo corpo era incandescente, lo aveva tenuto al caldo tutta la notte; per fortuna, perché il fuoco nel caminetto si era quasi spento e la stanza era gelida. 
 
“Sì, arrivo subito,” disse Thorin, stiracchiandosi e poggiando un bacio a stampo sulle labbra di Bilbo, che alzò la testa sorridendo e si strinse a lui ancora un pochino, in cerca di altro calore. 
 
“Va bene,” seguì un attimo di silenzio, ma Dori dovette ripensarci e aggiunse: “Dimenticavo, non è che hai visto Bilbo? Non riusciamo a trovarlo”. 
 
“Bilbo è qui con me,” rispose senza esitazione Thorin, lasciandosi sfuggire un sorriso mentre Bilbo nascondeva la testa sotto le coperte per l’imbarazzo.
 
“Ah…” fece Dori. “Be’, vedete di sbrigarvi”.
 
“Thorin! Sei impazzito?!” esclamò Bilbo, quando fu certo che nessuno fosse più in ascolto. 
 
“Che c’è? Io non ho assolutamente nulla di cui vergognarmi,” replicò il nano, rigirandosi appena e avvolgendo Bilbo tra le braccia. 
 
Thorin lo guardò con tanta tenerezza che Bilbo dimenticò all’istante quanto era appena stato sfacciato, e anche tutti i propri disagi. 
 
Cominciava ad avere freddo, il suo stomaco reclamava del cibo e l’occhio gli pulsava dolorosamente, ma non si era mai sentito tanto felice. 
 
 
Dopo una ricca colazione i nani si erano riuniti tutti nell’atrio del palazzo del Governatore. 
 
Le autorità, alla fin fine, avevano messo l’armeria a loro completa disposizione e ognuno di loro era stato dotato di armature ed armi; non delle più moderne e ben tenute, ma che potevano ancora tornare utili se ti apprestavi a scalare una montagna e risvegliare un drago. 
 
Scendendo gli ultimi gradini della scala principale, Bilbo notò che Dwalin stava passando ad Ori un sacchettino tintinnante, accompagnandolo ad un grugnito.
 
“Non avrete scommesso di nuovo?” chiese, una volta che si fu unito al gruppo. 
 
Credeva che i nani avessero dato fondo a tutti i propri averi quando si era trattato di dover pagare Bard, come aveva fatto lui, ma evidentemente non era così. Li esaminò sospettoso, chiedendosi quanti gruzzoletti nascosti avessero in realtà ancora addosso. 
 
“Sì,” fece Ori, “E a proposito, grazie. Non ne ho dubitato nemmeno un istante!” aggiunse tutto allegro.
 
“Grazie?” ripeté Bilbo, interdetto. “Aspetta, qual era l’oggetto della scommessa?” chiese, sentendo il viso che andava in fiamme.
 
“Bene. Se ci siamo tutti andiamo,” li interruppe Thorin, battendo una volta le mani per avere l’attenzione di tutti. 
 
“In realtà siamo a corto di uno. Dov’è Bofur?” chiese Fili.
 
“Dobbiamo trovare la porta prima del calare del sole, non abbiamo tempo da perdere. Se è rimasto indietro lo lasceremo qui, non possiamo permetterci ulteriori ritardi. E comunque può pensarci Kili a trovarlo”.
 
“Cosa?” sobbalzò quello, sentendosi nominare. “Cosa intendi dire?” 
 
Bilbo guardò preoccupato il giovane nano, che se possibile sembrava messo addirittura peggio di lui. Delle gocce di sudore gli imperlavano la fronte e aveva il fiato corto, come se avesse appena corso fin lì da Gran Burrone. In più era così pallido che sembrava un pezzo di pergamena. Era evidente che non stava affatto bene. 
 
“Tu rimani. Dobbiamo andare veloci, ci rallenteresti,” disse Thorin, in un tono che non lasciava spazio ad obiezioni. 
 
“Voglio esserci quando quella porta si riaprirà!” protesta in ogni caso Kili. 
 
Dalla sua espressione a metà fra la rabbia e il dispiacere, Bilbo capì che percepiva quella come una punizione per il pasticcio che aveva combinato nell’armeria, ma sapeva che non era nell’intenzione di Thorin. Teneva molto a Kili, e voleva restituirlo a sua sorella con entrambe le gambe, se possibile. 
 
“Resta qui, riposa. Ci raggiungi quando guarisci,” aggiunse Thorin, con più gentilezza, ma irremovibile. 
 
“Siamo cresciuti con le storie della Montagna, storie che tu ci hai raccontato. Non gli puoi togliere questo!” si intromise Fili, che tuttavia si lasciò tradire da uno sguardo preoccupato alla gamba del fratello. 
 
“Fili, un giorno sarai Re e capirai,” lapidò la questione Thorin. 
 
A quel punto fu chiaro ai due fratelli che per quanto avessero protestato non l’avrebbero mai spuntata. Kili imprecò sottovoce, Fili invece non aggiunse altro, se non che sarebbe rimasto con suo fratello. A quel punto Oin si offrì come volontario per badare a loro, a Kili in particolare, e quando finalmente uscirono dalla porta principale, erano quattro in meno del dovuto. 
 
Trovarono una gran folla ad accoglierli. L’intera Esgaroth voleva assistere alla partenza dei nani che marciavano alla volta della riconquista di Erebor. Il Governatore tenne un sentitissimo discorso e le trombe trillarono allegre, mentre si imbarcavano su una modesta imbarcazione, pronti ad affrontare la traversata del lago. 
 
“Hai fatto la cosa giusta,” disse Bilbo a Thorin, prendendogli una mano, intuendo quanto fosse stato difficile per lui negare a Kili di seguirlo. Aveva dovuto rinunciare lui stesso alla gioia di avere i propri nipoti vicino a sé. 
 
“Lo spero,” sorrise amaramente Thorin, restituendo la stretta. 
 
Durante le prime ore di viaggio, la compagnia fu silenziosa e il morale rimase basso a causa delle recenti separazioni. L’incombere della Montagna Solitaria sulle loro teste non faceva che aumentare la tensione e l’aspettativa. Il momento stava arrivando, dopo tutta quella strada c’erano quasi. 
 
Navigarono per mezza giornata sulle acque scure di Lago Lungo. L’obiettivo era raggiungere la foce del Fiume Fluente che avrebbero risalito. Di lì in poi li avrebbe attesi una camminata di diverse ore. 
 
Thorin impose loro un passo sostenuto, e presto Bilbo rimase indietro, ma almeno era in compagnia di Balin, il quale sostenne che una decina di anni prima era stato in grado di fare quella strada di corsa e in metà del tempo. 
 
Bilbo procedette affondando quanto più possibile il collo nel bavero della giacca. L’aria era fredda, e si stava alzando un venticello fastidioso che pungeva la pelle e gli faceva fischiare le orecchie. La montagna sembrava non finire mai; dietro ogni salita o collina se ne presentava un’altra, ancora più grande, ancora più ripida. Più salivano di quota più l’erba si diradava. I cespugli erano spariti, c’erano solo alberi spezzati e anneriti. 
 
“Che silenzio,” osservò Bilbo, fermandosi un istante a riprendere fiato, quando raggiunsero una piana. 
 
Erano già saliti parecchio di quota e da quell’altezza poteva vedere l’intero lago ai suoi piedi, e Pontelagolungo proprio in mezzo ad esso. 
 
“È la Desolazione del Drago,” disse Balin, approfittando volentieri della scusa per fare una pausa. “Non è sempre stato così. Una volta quelle colline erano piene di boschi e tra gli alberi cantavano gli uccelli.” 
 
“Aspetta, è questo lo spiazzo di cui parlava Gandalf?” realizzò d’un tratto Bilbo. “Non ha detto di attenderlo qui? A nessun cost-”
 
“Tu lo vedi?” li interruppe improvvisamente la voce di Thorin, che probabilmente era tornato indietro per vedere che fine avessero fatto. “Il sole è già a mezzodì, non c’è più tempo. Siamo da soli”. 
 
Thorin ormai si era fatto così impaziente che Bilbo sapeva che sarebbe stato impossibile discutere con lui, quindi annuì senza nemmeno tentare di farlo ragionare. Poteva capire il suo stato d’animo, dopotutto erano anni che aspettava quel giorno, ma avrebbe preferito che le sue emozioni non offuscassero il suo buonsenso. E aspettare Gandalf per affrontare un drago sputa fuoco sarebbe decisamente stato un atto di buonsenso, per come la vedeva lui. Sperò che Gandalf fosse ad attenderli più avanti, che gli avesse già individuati e stesse aspettando il momento migliore per entrare in scena. In fin dei conti era uno stregone, e gli stregoni comparivano sempre e solo quando intendevano farlo, glielo aveva detto Gandalf stesso. 
 
Ci vollero altre due ore di camminata per superare le rovine della città di Dale e Collecorvo, sul quale resistevano ancora le macerie della vecchia torre di guardia eretta dai nani centinaia di anni prima.
 
Raggiunsero le pendici della Montagna appena a pomeriggio inoltrato, dalla via sud, ritrovandosi proprio davanti all’ingresso principale. Da lì deviarono a sinistra, girandoci attorno per raggiungere il fianco Occidentale, che a quanto diceva la mappa era il punto in cui era situato il passaggio segreto. 
 
Quando ormai dovevano essere vicini a destinazione, Thorin cominciò a sondare con lo sguardo le pareti di roccia e a rigirarsi nervosamente la mappa tra le mani, cercando dettagli che evidentemente non conteneva. Bilbo fu certo che si era perso, ma si guardò bene dal dirlo ad alta voce.
 
Al colmo della frustrazione, ad un certo punto, il Principe dei nani fece per appallottolarla, ma fortunatamente Dwalin, con fare altrettanto spazientito, gliela strappò di mano con un grugnito e la esaminò da sé. 
 
Bilbo, in ogni caso, era contento di avere un altro pretesto per fermarsi. Le gambe gli facevano malissimo per lo sforzo, e la combinazione di aria fredda e fiatone gli aveva mandato i polmoni in fiamme. Se non altro il gelo gli aveva anche anestetizzato la faccia. 
 
Si sistemò su una roccia e si guardò attorno, con una mano sul petto, cercando di regolarizzare il respiro. Fu allora che lo notò: come un solco che squarciava la parete di roccia alla sua destra da cima a fondo. Sembrava proprio una stretta scalinata. 
 
“Potrebbe essere quello che cerchiamo?” chiese, alzando la voce per farsi sentire.   
 
Gli occhi di tutti i nani scattarono prima verso di lui e poi nella direzione che aveva indicato. 
Con rinnovato entusiasmo, tutti convennero che sicuramente dovevano andare per di là. 
 
“Hai occhi acuti, mastro Scassinatore,” disse Thorin avvicinandoglisi, l’euforia a stento trattenuta nella voce. 
 
Solo il giorno prima Bilbo si sarebbe sentito soddisfatto e fiero di sé per essere stato d’aiuto, ma in quel momento c’era qualcosa che proprio non gli tornava. Non riusciva a rallegrarsi; si sentiva pensieroso, insicuro riguardo tutto. Imputava quelle sensazioni al fatto che il momento di fare ciò per cui era stato assunto si avvicinava, forse cominciava ad essere teso solo per quello. Ma in un angolino della sua testa una vicina continuava a bisbigliare incessantemente che c’era dell’altro a cui doveva fare attenzione, che c’era qualcosa di completamente sbagliato in quel che stava facendo. O in quel che aveva fatto la notte prima? 
 
Thorin fece per dargli un buffetto sulla guancia. Bilbo si ritrasse, senza sapere bene perché e pentendosi subito della reazione insensata. Thorin per fortuna non se ne accorse e andò avanti.
 
“Ormai sei il suo orgoglio, Bilbo,” lo raggiunse Balin, fermandosi al suo fianco e osservando sconsolato il ripido sentiero che li attendeva. 
 
Bilbo annuì distrattamente, senza togliere gli occhi dal suo bel Principe che si metteva in testa al gruppo. “Ma cosa accadrebbe se dovessi deluderlo?” chiese, se a Balin o a sé stesso non lo sapeva. Forse a entrambi. 
 
Balin ignorò il segnale di partenza di Thorin e si sedette accanto a Bilbo. “Sai, io non so cosa troverai in quella montagna, ma sappi che non c’è nessun disonore nel tirarsi indietro. Non devi andare se non vuoi,” disse il vecchio nano. 
 
“Non posso tirarmi indietro, Thorin non me lo perdonerebbe mai,” rispose Bilbo, domandandosi quanto di ciò che provava avesse davvero intuito Balin. Verosimilmente molto. “Devo almeno provarci”.
 
“Be’, io credo in te, mio caro mastro Baggins,” disse Balin, alzandosi con un sospiro di fatica e mettendosi in fila dietro ai suoi compagni. 
 
Bilbo invece rimase fermo dov’era, a chiedersi se era mal riposta la fiducia di tutti loro, quella di Balin, o quella di Thorin.

Perché lui non aveva la più vaga idea di quello che stava facendo. 
 

 

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Capitolo 15
*** Capitolo 15 ***


“L’incisione sta ancora lì. Se ci danno il permesso un giorno potrei portarti a vederla, assieme a Gimli magari. ‘Qui giace il settimo regno del popolo di Durin. Possa il Cuore della Montagna unire tutti i nani in difesa di questa casa’. Mi sono sentito scoppiare d’orgoglio così tanto a vedere cosa eravamo stati in grado di fare, noi nani, ai nostri tempi d’oro”. 
 
Gloin 
 

 
Il sole illuminava con i suoi ultimi raggi la fredda roccia della Montagna Solitaria, nel punto esatto in cui avrebbe dovuto esserci l’entrata segreta. La porta doveva essere alta un metro e mezzo, e - alla maniera dei nani - costruita in modo da fondersi alla perfezione con la pietra e sembrare parte stessa della Montagna. Se di suddetta porta ci fosse stata traccia. 
 
“Dev’essere qui,” ripeté per la milionesima volta Thorin, muovendosi avanti e indietro davanti al muro spoglio, la chiave stretta in mano. 
 
Gli altri nani avevano smesso ormai da un pezzo di tastare, picchiettare, auscultare o prendere a calci la parete. In cuor loro si erano già arresi all’evidenza: lì non c’era un bel niente. 
 
Forse avevano sbagliato qualcosa, forse non erano nel posto giusto, forse avevano mancato il momento e ora il tempo che avevano a disposizione era scaduto. Fatto stava che avevano fatto tutta quella strada, avevano sperato, rischiato di morire più di una volta in modo atroce, tutto per niente. Tutto solo per ritrovarsi davanti ad un vicolo cieco. 
 
Seduto in disparte, Bilbo guardava pensieroso la luce dorata del tramonto farsi strada tra i cumuli di nuvole candidi; uno spettacolo meraviglioso. Rimuginava sul fatto che se Gandalf fosse stato lì avrebbe certamente saputo cosa fare; forse avrebbe risolto tutto con un pochino di magia. Ma nessuno lo aveva ascoltato quando aveva ribadito che secondo lui avrebbero fatto bene ad aspettarlo. “Il raggio risolutivo del Dì di Durin risplenderà sul buco della serratura,” recitava intanto tra sé e sé. 
 
Aveva sempre adorato gli indovinelli, ma di quello proprio non riusciva a venire a capo. Non esisteva indovinello al quale non fosse riuscito a dare risposta, non c’era. Nessun dannato rompicapo che fosse rimasto un mistero per lui. Di certo non intendeva cominciare ora a perdere quel primato.
 
“Cosa ci è sfuggito?” domandò Thorin, ormai al culmine della disperazione. “Cosa ci è sfuggito, Balin?” chiese, quasi implorando, pur sapendo che il vecchio nano, una volta tanto, non aveva una risposta da dargli. E, nonostante lui fosse stato in cima a tutti a non volergli dare retta riguardo lo stregone, a Bilbo face male vederlo così; avrebbe voluto essergli di qualche aiuto o conforto. 
 
Balin si voltò verso il sole che inesorabilmente stava sparendo oltre la linea dell’orizzonte. “Ci siamo persi la luce,” sospirò tristemente. “Non c’è più niente da fare, avevamo una sola possibilità. È finita”.
 
Sta’ in piedi vicino alla pietra grigia quando picchia il tordo, e l’ultima luce del sole che tramonta nel Giorno di Durin spenderà sul buco della serratura. Tutto lì. Quello era tutto ciò che aveva potuto leggere Elrond, sotto la luce della luna crescente della vigilia di mezza estate, traducendo le rune sulla mappa. 
 
Bilbo aveva la fastidiosa sensazione di essere vicinissimo alla soluzione. L’aveva proprio lì, alla sua portata, eppure gli mancava ancora qualcosa per afferrarla del tutto. Ma cos’era?
 
Continuando ad arrovellarsi il cervello, guardò il cielo, dove il sole era ormai quasi del tutto sparito ad ovest e la luna già cominciava a fare capolino. L’ultima luna d’autunno. 
 
Fu in quel momento che lo udì, un leggero toc toc provenire dalle sue spalle. 
 
Abbassò la testa di scatto e sobbalzò quando si accorse di essere completamente solo. Intento com’era a cercare di risolvere l’enigma, nemmeno si era accorto che i nani avevano cominciato a ridiscendere il sentiero dal quale erano arrivati. Avevano lasciato lì perfino la mappa, accartocciata a terra a riempirsi di polvere. 
 
La raccolse e fece del suo meglio per appiattirla, voltandosi al contempo nella direzione da cui proveniva il rumore. 
 
Si trattava solo di un uccellino tutto nero e il petto giallo picchiettato di macchioline scure. Teneva in mezzo al becco una noce e ne batteva il guscio sulla roccia, probabilmente nel tentativo di aprirla. Nient’altro che un uccellino, un piccolo tordo. 
 
“Ma certo!” gridò lo hobbit, mettendosi dritto in piedi, proprio in quel punto. Accanto alla roccia grigia. 
 
“Venite!” esclamò, euforico. “Ma dove diamine è finito Thorin?! Ci serve la chiave!” urlò, senza osare muoversi. “THORIN!” 
 
Nell’istante stesso in cui la testa di Thorin - che aveva un gran fiatone - ricomparì da dietro l’angolo e un ultimo raggio di sole rosso sbucava come un dito da uno squarcio nelle nubi, Bilbo udì un leggero scricchiolio alle sue spalle. Dapprima pensò che il tordo fosse riuscito nel suo intento di aprire la noce, ma con la coda dell’occhio vide invece una scheggia di roccia staccarsi dalla parete e cadere. Un foro apparve a circa un metro dal suolo. Il sole era ormai definitivamente scomparso, ma la luce della luna risplendeva su quello che aveva tutta l’aria di essere il buco della serratura che cercavano, appena visibile tra le rocce.
 
Thorin gli si avvicinò senza quasi osare respirare. Cautamente, infilò la chiave e la fece scattare, dopodiché appoggiò i palmi sulla pietra e fece una leggera pressione e lunghe fessure diritte apparvero a poco a poco, e si allargarono. A quel punto, Thorin si fermò per cercare con gli occhi Bilbo, e aspettò. 
 
Lo hobbit abbozzò un sorriso incerto, cercando di assumere un’aria incoraggiante. Annuì, e solo allora, con un’ultima spinta, Thorin spalancò la porta, che ruotò su cardini invisibili e si aprì silenziosa verso l’interno. Un cieco abisso che portava dentro e giù. 
 
Ce l’avevano fatta.
 
 
Bilbo venne investito da un forte ondata di aria stantia e polvere. L’interno della Montagna non era freddo e buio come si era aspettato. L’aria era calda e viziata, e una tenue luce arrivava dal fondo della galleria d’ingresso. 
 
“Eccola qui,” bisbigliò qualcuno alle sue spalle, e per poco a lo hobbit non prese un colpo ritrovandosi tutti e otto i nani alle spalle. Non li aveva affatto sentiti tornare. 
 
“Centosettantuno anni (1) . Ti ricordi, Balin, saloni pieni di luce dorata,” sussurrò Thorin, che invece doveva aver percepito la loro presenza. Non aveva ancora mosso un passo. 
 
“Me lo ricordo bene,” rispose il vecchio nano, tirando su col naso.
 
Poi, finalmente, il legittimo erede al trono di Erebor fu pronto a varcare la soglia. 
 
Gli occhi di Bilbo impiegarono diversi minuti ad abituarsi alla penombra, ma quando finalmente riuscì a scorgere qualcosa, capì subito che quelle caverne non assomigliavano a nessuna in cui avesse mai messo piede. Quello non era un rozzo covo di troll delle montagne, e perfino le sale del palazzo di Bosco Atro impallidivano al confronto. Pareti, soffitti e pavimenti erano dritti come righelli, lisci e levigati alla perfezione, ad accezione di raffigurazioni e rune che Bilbo non riusciva a decifrare, che correvano lungo tutta la galleria che stavano percorrendo.
 
L’emozione dei nani attorno a lui era palpabile, mentre, per la prima volta dopo più di cent’anni, lo scalpiccio dei loro passi infrangeva il silenzio solenne, totale, opprimente. Erebor era un luogo antico e sacro, e Bilbo quasi non si azzardò a respirare, per il timore di risvegliare i fantasmi che lo dimoravano. 
 
Per un attimo in lui riaffiorò la sensazione di essere fuori posto tra i nani. Dopotutto, loro avevano pieno diritto di stare lì, appartenevano a quel luogo. Lui non proprio, era sbagliato, e dentro gli crebbe il timore che qualche spettro potesse accorgersene e venisse a tirarlo per i piedi. Scassinatore, per la prima volta, gli sembrò decisamente appropriato come termine per definirsi. 
 
A circa metà del corridoio che stavano percorrendo, Bilbo scorse un grande arco in fondo ad esso. Più si avvicinavano e più riusciva a distinguere i minuziosi intarsi che lo  decoravano per tutta la lunghezza e l’incisione sopra la volta, che però non riuscì a tradurre. Ciò che lo colpì sopra ogni cosa però fu il disegno di un trono, sul quale torreggiava quello che sembrava uno strano diamante, che in qualche modo i nani erano riusciti a far brillare di una luce argentea che si irradiava sulla pietra scura tutt’attorno. 
 
“E quello cos’è?” chiese, indicandola. 
 
“Quella è l’Arkengemma, il gioiello che dà diritto al Re di regnare,” rispose Balin. “Tranquillo, la riconoscerai quando la vedrai”.
 
“Quando la vedrò?” ripeté Bilbo, aggrottando le sopracciglia. 
 
“Quella è il motivo per cui sei qui,” gli fece presente Balin. 
 
“Giusto…” annuì lo hobbit, fingendo nel gesto una convinzione che non aveva. 
 
Ma forse poteva valere la pena cercare di ingannare sé stesso, altrimenti proprio non sapeva dove avrebbe mai potuto andare a pescare il coraggio per proseguire da sé ancora più in giù, nel ventre della Montagna. Perché di lì in poi sarebbe stato solo, completamente solo. E quasi a rendere la cosa ancora più chiara, tutti i nani si fermano una volta che ebbero raggiunto l’arco. Gli occhi di tutti si puntarono su di lui, pieni di aspettativa. Quelli chiari di Thorin pesarono più di quelli di tutti gli altri messi assieme. 
 
Toccava a lui. 
 
 
Il piano avrebbe dovuto essere semplice: raggiungere la Montagna Solitaria, far recuperare ad un mastro Scassinatore esperto l’Arkengemma che lo avrebbe legittimato a diventare Re e radunare i Setti Eserciti dei Nani per scacciare il drago Smaug e riprendersi Erebor; il regno che era suo per diritto di nascita. 
 
Ma ora Thorin proprio non riusciva a spiegarsi perché si sentisse così confuso e titubante. Perché dentro di lui qualcosa urlasse di fermare tutto, per quanto cercasse di metterlo a tacere. 
 
In fin dei conti avevano progettato accuratamente come procedere fin dall’inizio. Ci avevano pensato bene e a lungo, lui e Gandalf. Non aveva che da riporre le sue speranze ne lo hobbit che avevano scelto. Bilbo era in gamba, poteva sicuramente farcela, e Thorin credeva in lui, si fidava di lui come di pochi altri. Bilbo lo aveva stupito tante volte, ma deluso mai, proprio mai. Quelle insicurezze erano solo sue. 
 
L’unico problema era che non si sentiva affatto lucido e obiettivo quando si trattava del suo hobbit, e sebbene avesse una gran voglia di correre a riprenderselo, si costrinse a resistere a quella tentazione. Quell’istinto era dettato unicamente dai suoi sentimenti, e i sentimenti non avevano posto ora. Doveva concentrarsi sulla missione, doveva concentrarsi sulla gemma; recuperarla era tutto quello che contava. 
 
“Ci sta mettendo troppo tempo,” fece notare Nori, interrompendo i suoi pensieri. 
 
“Diamogli altro tempo,” ribatté seccamente. Si stava ingannando da solo, illudendosi che sarebbe stato tutto facile? 
 
“Tempo per farsi uccidere?” si intromise Balin. 
 
“Hai paura,” constatò Thorin, voltandosi per guardarlo negli occhi. 
 
E fu sul punto di dirgli che avere paura era un lusso che non potevano permettersi, che avrebbe fatto meglio a controllarla, come stava facendo lui. Ma lo sguardo severo del vecchio nano lo indusse a mordersi la lingua, proprio come accadeva quando era un ventenne che cercava di capire come si sta al mondo. Dopo tutti quegli anni, Balin era ancora in grado di metterlo in soggezione; in altre circostanze ne avrebbe sorriso. 
 
“Sì, ho paura,” ammise quello, senza traccia di vergogna. “E ho paura per te. Una malattia grava su tutto quel tesoro, una malattia che portò tuo nonno alla pazzia, e tu in questo momento non sei te stesso. Il Thorin che conosco non esiterebbe a entrare u-” 
 
“Non metterò a rischio la riuscita di questa impresa per salvare la vita di…uno Scassinatore,” lo anticipò Thorin, sulla difensiva. Concentrarsi sull’Arkengemma era fondamentale. 
 
Ma Balin non si fece intimidire, e lo sguardo che gli lanciò lo passò da parte a parte. “Bilbo. Lo Scassinatore si chiama Bilbo!”
 
E aveva ragione. 
 
Cosa stava combinando? Non avrebbe mai dovuto lasciare che Bilbo andasse da solo. Era vero che non era lucido, ma non erano i sentimenti per Bilbo a renderlo cieco, era la fissazione per la gemma a fargli dimenticare cosa era veramente importante. E Bilbo era la cosa più importante. Bilbo era mille volte più importante di una stupida pietra, e lui lo aveva mandato dritto dritto tra le fauci di un drago sputafuoco che aveva sterminato intere città senza un briciolo di pietà. 
 
Avrebbero pensato ad un altro modo per recuperare il tesoro, ora doveva assolutamente raggiungere lo hobbit. Doveva salvare Bilbo dal pasticcio in cui lo aveva messo. 
 
Si voltò di scatto portando meccanicamente la mano sull’elsa della spada, e fece per attraversare la porta, ma in quell’istante la terra vibrò sotto i suoi piedi. 
 
Per un attimo che gli sembrò interminabile, tutta la Montagna tremò, e quello poteva significare solo una cosa: il drago era sveglio. Smaug era tornato. 
 

 
  1. Era il 2770 della Terza Era quando Smaug si insediò ad Erebor, e l’avventura per la sua riconquista si svolge tra il 2941 e il 2942 T.E. Sì, lo so cosa pensate, Thorin si porta bene i suoi 195 anni. Bilbo invece ne ha 51 (2890 T.E.). (su)
 
Angolino dell’autrice:
 
Ben ritrovati a tutti! Ogni tanto rispunto per dirvi due parole sulla storia.
Come vi sarete accorti questo capitolo è un pochino più breve degli altri. In realtà originariamente sarebbe stato parte di quello precedente, ma ho preferito tagliarlo perché cominciava ad essere veramente troppo. Il prossimo invece è quello dedicato a Smaug, che merita una bella entrata in scena e non mi andava di unirlo nemmeno a quello. Quindi, eccoci qui con un capitolo di passaggio - che temo zoppichi un po’, soprattutto nella prima metà, ma pazienza. 
Chi tra voi ha letto il libro potrebbe anche notare che ho ripreso molte descrizioni da Tolkien per quanto riguarda Erebor, è una parte che mi piace molto e in qualche modo volevo omaggiare le belle immagini del Settimo Regno dei Nani che ci ha descritto il Professore.
 
Ho anche preferito la versione della profezia che c’è lì, perché credo abbia più senso di quella del film, in cui in effetti non è che i conti proprio tornino con le frasi della mappa, volendole interpretare letteralmente come intendeva Tolkien. 
 
Questo è quanto.
 
Approfitto per un grazie enorme e un grandissimo abbraccio a chi ha seguito la storia fino a qui e continuerà a seguirla, all’Acorn Club perché siete le migliori, e ai nuovi lettori che si aggiungono ogni giorno <3
 
Al prossimo aggiornamento! (E armatevi di pazienza perché ancora siamo in alto mare)
 

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Capitolo 16
*** Capitolo 16 ***


 Da quattordici anni l’occhio della Montagna Solitaria vigilava su Alis, e da molto più tempo ancora vigilava su Esgaroth. 
 
Le voci degli abitanti più anziani della città raccontavano di un drago che dimorava nel ventre di Erebor, un drago con scaglie scarlatte e ali d’oro zecchino, capace di farsi nero come le tenebre stesse, secondo necessità, come quando si insinuava nelle stanze dei fanciulli per rapirli nelle ore più buie della notte. 
 
Insomma, niente più che favole e leggende, se lo avessero chiesto ad Alis. (1)
 
Suo padre si lamentava sempre di quanto facilmente si facesse abbindolare la gente. Diceva che il modo in cui il Governatore si era fatto fregare da quel branco di nani, facendosi pure estorcere un mucchio di soldi, ne era la prova lampante, e lei non poteva che concordare con lui.
 
Come se non bastasse, ora anche il padre di Sigrid e Bain, che era sempre stato un membro stimato dalla comunità, sembrava essere completamente impazzito e se ne andava in giro a vaneggiare di fiamme, morte e distruzione. 
 
Proprio non si capiva dove sarebbero andati a finire andando avanti di quel passo. Pontelagolungo sarebbe diventata una gabbia di matti, poco ma sicuro. Nessuno straniero avrebbe mai più voluto metterci piede. 
 
Alis odiava vivere lì, odiava vivere così, con il puzzo di pesce e di muffa cuciti addosso. Da reietta, senza alcuna speranza in un domani migliore. Quando sarebbe stata abbastanza grande se ne sarebbe andata a vivere in una grande città, senza mai voltarsi indietro, era solita dirlo sempre. 
 
Intanto aspettava, e sognava ciò che sarebbe diventata quando sarebbe arrivato il suo momento. Quando avrebbe lasciato quella cittadina, sudicia e insulsa, di cui nessuno nel resto del mondo si curava, di cui i grandi Signori dell’Ovest stessi avevano perso memoria. 
 
Dall’alto, solo la Montagna, qualche volta, scostava le sue tende fatte di nebbia per guardarli. 
 
Ed era proprio dalla Montagna che la morte era piombata su di loro. 
 
C’era stato qualcosa a svegliare Alis quella notte. Non avrebbe saputo dire cosa fosse stato di preciso. Forse il silenzio, c’era troppo silenzio. Non si sentiva il bubolo dei gufi, non il grufolare dei maiali nelle stalle, non lo scalpiccio di qualche topolino solitario. Perfino la superficie del lago era immobile, piatta come una tavola. 
 
Poi aveva cominciato a soffiare quel forte vento da nord, che aveva fatto sbattere all’impazzata le imposte della finestra della sua stanza. Si era alzata per cercare di fermarle, e uno strano scricchiolio dei pini nella foresta l’aveva indotta ad alzare lo sguardo. 
 
Così lo aveva visto: l’Oscuro Signore in persona scendere da Erebor, mentre attorno a lui il cielo si riempiva di fumo denso e cenere. 
 
Alis non aveva avuto il tempo di infilarsi le scarpe e ora, a piedi nudi, correva tra la calca attraverso i pontili della sua città. Aveva smarrito la sua famiglia, attorno a lei sentiva solo gente urlare, qualcuno pregare, vedeva i volti di chi già sa che la sua ora è arrivata. 
 
Dove o alla ricerca di cosa stessero andando tutti loro, non avrebbe saputo dirlo.
 
Se le avessero chiesto di immaginare l’inferno, probabilmente lo avrebbe descritto così. C’erano persone e animali che correvano terrorizzati in ogni dove, spintonandosi, scavalcando, calpestando tutto e tutti, pur sapendo, nel profondo, che vie per la salvezza non ce n’erano. 
 
Fuoco. Il fuoco divorava ogni casa, inghiottiva ogni anima. Non c’era scampo. 
 
Dal cielo nero, il drago colpiva secondo il proprio capriccio, non c’era un posto dove mettersi al sicuro; nemmeno l’acqua, che con il suo ghiaccio poteva essere letale quanto le fiamme.  
 
Alis corse, corse fin quando il fuoco non arrivò a prendere anche lei. Sì fermò solo quando ne avvertì il calore, insopportabile, sulla pelle.
 
Mentre la notte bruciava, si coprì gli occhi con i palmi delle mani. Non emise un fiato. 
 
Il suo ultimo pensiero fu che almeno ora forse della Città del Lago qualcuno avrebbe parlato. Qualcuno, finalmente, si sarebbe ricordato di loro. 
 
Seppe anche, con disarmante amarezza, che di lei nessuno si sarebbe ricordato. Della sua esistenza, di quella dei suoi cari, non sarebbe importato poi tanto a nessuno. 
 
Perché mai avrebbe dovuto? Alis era una dei tanti, della sua vita sarebbe rimasta solo la cenere, e nel giro di pochi decenni non sarebbe stata altro che una miseria comparsa in uno di quei racconti sulle labbra di un anziano, uno di quelli a cui nessuno dava più retta. 
 
 
“La cosa più orribile è stato il silenzio. Vedevamo Smaug volare sulla città, vedemmo il fuoco, vedemmo tutto bruciare, troppo lontani per poter sentire qualcosa. Ce ne stavamo lì, a guardare e chiederci cosa avevamo combinato. Il silenzio rendeva tutto così irreale. Ma noi lo sapevamo. Lo sapevamo che c’era della gente lì…”
 
Bombur
 

 Al di là di ogni previsione e di ogni più rosea aspettativa, alla fine i nani della Compagnia di Thorin Scudodiquercia erano veramente riusciti nella loro missione: la Montagna Solitaria era stata riconquistata, Smaug era stato sconfitto e il suo corpo esanime giaceva in fondo alle acque di Lago Lungo. 
 
“La voce si spargerà e presto tutte le anime della Terra di Mezzo sapranno che il drago di Erebor è morto!” esclamavano i nani brindando alla loro, fingendo un’allegria che nessuno provava, mentre se ne stavano riuniti attorno a tavole spoglie e grigie, impolverate e piene di ragnatele. 
 
Era troppo amaro però il sapore del trionfo. Scomodo e macchiato di sangue innocente il mare d’oro sul quale sedevano. Ed era forse valsa la pena abbandonare al proprio destino i loro stessi compagni, quelli che erano rimasti indietro? Fili, Kili, Bofur, Oin. Ognuno in cuor proprio si chiedeva che ne era stato di loro, pregando Durin che fossero riusciti a scampare al fuoco del drago. 
 
Non avevano forse giurato l’uno all’altro di rimanere uniti? Non avevano forse tradito il loro stesso onore, non mantenendo la più antica delle promesse?
 
Quelle cose, tuttavia, nessuno osava dirle ad alta voce, perché farlo avrebbe voluto dire fare i conti con la propria condotta e con il proprio senso di colpa. 
 
Il senso di colpa, era quello a logorare lo hobbit, in particolare, mentre se ne stava da solo, sui bastioni che si affacciavano sulla Porta Principale - che, ad eccezione del passaggio segreto, era l’unica via d’uscita a non essere stata distrutta o costruita da Smaug nel corso degli anni. 
 
Da quel punto poteva vedere Dale, la Desolazione di Smaug, Collecorvo, uno scorcio di foresta e infine tutto il Lago Lungo. 
 
L’autunno stava lasciando il passo all’inverno e l’aria del primo mattino era fredda e fumosa. Il fiato di Bilbo si addensava davanti al suo viso, mentre guardava l’orizzonte. Il cielo era tinto di una strana luce rosa e l’aria era intrisa di un pungente odore di affumicato, e una leggera foschia non dava cenno di volersi dissolvere - anche se Bilbo non era così sciocco da illudersi del fatto che quella fosse semplice foschia. 
 
Sbuffi di fumo grigio ancora si alzavano dal centro del lago, proprio nel punto in cui solo il giorno prima c’era stata una città piena di vita. 
 
Bilbo si diceva che forse, se fosse stato uno scassinatore più abile, le cose sarebbero potute andare diversamente. Se fosse stato uno scassinatore più abile, forse Esgaroth non avrebbe dovuto pagare il prezzo più alto.
 
“Mi eviti,” una voce ruvida alle sue spalle lo fece trasalire, ma la sorpresa durò meno di un istante, fece sì di ricomporsi subito. 
 
Quella di Thorin non era stata una domanda, così non si sentì tenuto a rispondergli. E, infondo, Thorin sapeva già benissimo perché non volesse vederlo. 
 
C’era una questione sulla quale stava accuratamente evitando di interrogarsi, e questo perché era certo che la risposta a cui sarebbe arrivato non gli sarebbe piaciuta. 
 
Perché? Voleva sapere perché la stessa persona che gli aveva sussurrato che non avrebbe mai più permesso a nessuno di fargli del male gli aveva puntato la propria spada al petto, poche ore prima? Ed era sicuro che Thorin sarebbe andato fino in fondo, che lo avrebbe trafitto senza esitazione, glielo aveva visto negli occhi. 
 
Bilbo - lo stesso hobbit che aveva sempre diffidato di chiunque, che potendo scegliere aveva sempre preferito starsene solo, e ora capiva di aver fatto bene - sentiva di aver sbagliato tutto. 
 
Aveva aperto il proprio cuore a qualcuno che in realtà non conosceva affatto, a qualcuno che sarebbe stato disposto a passare sul suo cadavere per ottenere ciò che voleva, Thorin lo aveva ingannato per settimane - mesi! - e lui era stato tanto idiota da credere che fossero qualcosa, che Thorin provasse qualcosa. 
 
Invece non era così, e Bilbo lo aveva scoperto nel peggiore dei modi. Il Re dei Nani sarebbe stato pronto a passarlo a fil di spada, ad ucciderlo, tutto a causa di una stupida gemma, uno stupido sasso sbrilluccicante. Che hobbit sciocco e credulone era stato. 
 
“Smettila di torturati per quel drago, Bilbo. Hai cercato di fermarlo. Non hai nessuna colpa, niente da rimpiangere. Per portare a termine la nostra impresa avrei comunque dovuto svegliarlo, e sarebbe successo esattamente ciò che è successo”.
 
“Non è per il drago, Thorin. Non solo, almeno”. 
 
Non riuscì a voltarsi a guardarlo, non perché lo temesse dopo che aveva cercato di ucciderlo, ma perché la rabbia e delusione erano troppo forti. Dietro di sé, comunque, avvertiva Thorin muoversi verso di lui, finché non sentì la sua mano che lo cercava. 
 
La scacciò con un gesto brusco. “Non voglio che mi tocchi,” sibilò.
 
Thorin sospirò. “Non è stata colpa tua, va bene? È Smaug quello da biasimare, ed ora è morto. Non potrà mai più fare del male a nessuno”.
 
“Non è per il drago!” urlò Bilbo, frustrato, sperando che Thorin si decidesse ad ascoltare qualcuno, una volta tanto nella sua vita. “Dimmi perché,” si decise poi a chiedergli, prendendo un respiro profondo. “Perché lo hai fatto?” 
   
“Io… non lo so. Non lo so” rispose alla fine Thorin, insistendo nell’avvicinarglisi troppo, più di quanto Bilbo potesse tollerare. 
 
“Voglio che tu mi stia lontano,” ribadì. “Non avrei mai dovuto lasciare casa mia. Tutta questa faccenda non ha portato che morte e sofferenza, e io sono stanco. Non ce la faccio più”. 
 
“Perdonami,” mormorò Thorin a quel punto, e la sua voce sembrò così piena di dolore che Bilbo fece l’errore di alzare la testa, e i loro occhi si incontrarono. 
 
“Perdonami,” ripetè Thorin. Di nuovo, gli fece male. 
 
Bilbo pensò che era sorprendentemente, davvero, quanto quel nano fosse abile a manipolare le persone; come fosse in grado di tirare fuori due occhi da cerbiatto, quando ne aveva più bisogno. Ed era stupido, ed era del tutto irrazionale, ma una parte di lui avrebbe voluto tornare indietro e continuare a vivere nell’illusione che Thorin lo amasse, che lo amasse quanto lo amava lui. 
 
Perché, nonostante tutto quello che era successo, l’amore per Thorin era ancora lì, Bilbo lo sentiva pulsare dentro il petto in maniera dolorosa. 
 
Scosse la testa, cercando di scacciare le lacrime che sentiva pungere per uscire. “Vorrei solo dimenticare tutto, e vorrei essere a Casa Baggins ora…” 
 
Quando Thorin allungò di nuovo le braccia per stringerlo, Bilbo non riuscì a negarsi. Perché solo le braccia di Thorin erano in grado di tenere insieme i cocci che erano rimasti della persona che era stato; solo le braccia di Thorin erano solide abbastanza in un mondo che stava andando in frantumi. 
 
Bilbo aveva bisogno del conforto di quelle braccia, aveva bisogno di Thorin, non poteva più farne a meno. Opporsi era come tentare di smettere di respirare, semplicemente non poteva, anche se i sentimenti che sperava ci fossero, si erano rivelati una menzogna. 
 
“Lasciami andare,” lo pregò, senza alcuna convinzione. 
 
“Non posso,” sussurrò piano Thorin. “Ho come la sensazione che se ti lasciassi andare ora ti perderei per sempre, e questo non posso permetterlo”. 
 
Si sporse verso di lui, e nemmeno allora Bilbo trovò la forza di ritrarsi. 
 
Non credeva che qualcuno avrebbe mai potuto fargli sentire tante emozioni, tutte contrastanti, tutte insieme. 
 
Thorin non avrebbe esitato a fargli del male alla prima occasione, e Bilbo lo odiava dal profondo per questo. Aveva maledetto il suo nome e giurato a sé stesso che non avrebbe mai più permesso a nessuno di ferirlo tanto. 
 
Ma ora lo stava baciando e Bilbo sentiva di amarlo così tanto da essere disposto a sacrificare tutto per lui, perfino il suo amor proprio. Era un amore autodistruttivo quello, gli era chiaro come il sole. Del tutto folle e sconsiderato. 
 
Permise alle mani di Thorin di infilarsi tra i suoi capelli, alla sua lingua di farsi strada tra le sue labbra, di riempirlo di baci che sapevano di disperazione. Gli permise di attirare a sé i suoi fianchi, di spingerlo contro il muro fino a slacciargli i pantaloni. Gli permise di toccarlo, e non gli negò la soddisfazione di sentire i suoi gemiti di piacere, tentando di soffocarli. 
 
Non seppe se le stava immaginando o meno, le sue labbra velenose piegarsi in un sorriso sulle sue, quando raggiunse il piacere. 
 
Sapeva che Thorin era perfettamente consapevole di averlo in pugno, e quando tutto finì, quella certezza gli lasciò dentro un enorme senso di vuoto. 
 
 
Bilbo visse i giorni successivi nella costante tentazione di prendere la porta e fuggire lontano; in direzione dell’estremo occidente, preferibilmente. Ma presto si rese conto che tutti loro avrebbero fatto meglio a lasciare Erebor. Quel luogo era maledetto, ne era sempre più convinto. 
 
La meraviglia iniziale davanti all’operato dei nani era stata sostituita da una sensazione costante di inquietudine. Quella non era una meravigliosa fortezza nel cuore della Montagna, Erebor era una tomba maledetta; avrebbero fatto meglio a lasciarla a Smaug per sempre. 
 
Ovviamente, di Gandalf non c’era ancora traccia, proprio ora che la presenza di uno stregone avrebbe fatto proprio comodo. 
 
La persona che sopra ogni altra stava sorbendo l’effetto mefitico di quel dannato posto era Thorin. 
 
Thorin non stava affatto bene, più passavano i giorni e più era evidente a tutti. 
 
Non mangiava e non dormiva. Non faceva altro che vagare incessantemente per la stanza del tesoro, facendo frusciare il suo nuovo mantello di pelliccia sulle monete sotto i suoi piedi, ammirando ogni diamante, accarezzando ogni coppa come fosse un’amante, ogni anello, ogni collana. Qualsiasi tentativo di parlargli era inutile.
 
Nemmeno il ritorno di Fili e Kili - sangue del suo sangue, i figli di sua sorella - miracolosamente incolumi, poté nulla. Il suo chiodo fisso rimaneva l’Arkengemma.
 
“Cercatela, tutti voi. Nessuno riposi finché non si trova,” ripeteva in continuazione, costringendo tutti loro a frugare in mezzo all’oro fino allo sfinimento. Bilbo avrebbe potuto vomitare alla vista di un altro singolo centesimo. 
 
Thorin non era più Thorin, giorno dopo giorno Bilbo lo vedeva sparire. La malattia, infine, stava prendendo il sopravvento. Quanto ci sarebbe voluto perché avesse la meglio sulla sua forza di volontà? Ammesso che volontà di combattere ne avesse realmente. 
 
“Hai un aspetto pessimo, Bilbo. Dovresti mangiare qualcosa anche tu,” gli disse Balin, una mattina. 
 
Bilbo sorrise debolmente, continuando a giocherellare con il pezzetto di pane raffermo e il formaggio - dal quale aveva dovuto grattar via un bello strato di muffa - al posto di mangiarli. 
 
Era buffo, era stato quasi costantemente affamato nelle ultime settimane - anzi, durante tutto il viaggio fino a lì - ma ora sembrava aver oltrepassato una soglia oltre la quale non aveva nemmeno più appetito. 
 
Pensava tanto, fino ad avere mal di testa, in compenso. Pensava a ciò che aveva detto Elrond, in quella che gli sembrava una vita prima, a Gran Burrone; a ciò da cui aveva cercato di metterlo in guardia Beorn. A ciò che aveva predetto Smaug. 
 
Lì per lì, non era riuscito a dare un senso alle parole che tutti loro gli avevano rivolto, ma ne avevano ora. 
 
Alzò la testa per assicurarsi che lui e il vecchio nano fossero soli come gli era parso. “Balin, una volta hai parlato della malattia del drago. Mi chiedevo…” gli chiese, premurandosi comunque di parlare molto piano. 
 
Balin si guardò attorno a sua volta con aria circospetta. Per la prima volta, Bilbo notò la profonda preoccupazione sul viso del vecchio nano. L’espressione tesa, le rughe che si erano fatte più profonde. 
 
“L’amore di Thror, il nonno di Thorin, per il suo tesoro era divenuto spietato. Geloso, Bilbo. Una malattia si era sviluppata dentro di lui, era una malattia della mente e dove prospera la malattia seguono brutte cose. La chiamano malattia del drago, perché i draghi bramano l’oro come scuro e feroce desiderio”. 
 
Balin sorrise tristemente. “Tutti dicono che Thorin è la copia sputata del nonno, più che somigliare a suo padre. E quello sguardo che ha ultimamente negli occhi…” scosse la testa. “Io ho già visto quello sguardo”. 
 
E Bilbo capì. “È questo posto,” bisbigliò. 
 
“Parlagli, a te darà ascolto,” lo pregò Balin. 
 
“Non posso, non ci riesco. Non riesco nemmeno a guardarlo”. 
 
Il nano sospirò pesantemente. “Se non puoi farlo tu, non può farlo nessuno.” 
 
Si strofinò gli occhi stanchi e cerchiati di grigio e fece per alzarsi, ma poi Bilbo aggiunse: “Credi che avere l’Arkengemma potrebbe aiutarlo? Che una volta trovata troverà la pace?” 
 
Balin si rimise a sedere, lentamente. 
 
“Ragazzo, quella pietra, il Cuore della Montagna, corona tutto. È la sommità di questa grande ricchezza. Conferisce potere a colui che la possiede. Arresterebbe la sua pazzia? No, io temo che la peggiorerebbe.” 
 
Bilbo si sentì trafitto dai suoi occhi chiari, acuti e tanto bravi, fin troppo bravi, a leggere nell’animo e negli intenti delle persone. 
 
“Forse è meglio che rimanga smarrita”. 
 
Bilbo annuì. L’Arkengemma nella sua tasca non gli era mai sembrata pesante quanto lo era in quel momento.
 
Smaug aveva lasciato che la prendesse, e in quel momento lo hobbit aveva pensato di aver avuto un colpo di fortuna. Non ne era più tanto certo. Smaug era stato molto più lungimirante di così, e sapeva già che quel gioiello avrebbe condotto alla rovina tutti loro. 
 
Sono quasi tentato di fartela prendere. Fosse solo per vedere Scudodiquercia che soffre, osservare come lo distrugge. Osservare come corrompe il suo cuore e lo porta alla pazzia.”
 
Era vero, Erebor era maledetta. Era stato Smaug in persona ad assicurarsi che fosse così. Con le sue parole il drago li aveva condannati alla disfatta. 

 

1. La prima parte del capitolo si ispira ai versi della canzone di Ed Sheeran, “I see fire”.
 
2. Elrond accenna al fatto che Smaug dorma da 60 anni, per me è quindi plausibile che le nuove generazioni possano credere che quella del drago sia una favola per spaventare i bambini. (su)

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Capitolo 17
*** Capitolo 17 ***


“Ecco il punto: noi nani non siamo eroi, bensì una razza calcolatrice con un gran concetto del valore del denaro; ce ne sono di scaltri, infidi e sleali; altri, invece, sono tipi abbastanza ammodo, come Thorin e noi della Compagnia, purché non ci si aspetti troppo da noi”.
 
Balin (1)
 
 
 Nei giorni che seguirono la morte di Smaug e la distruzione di Esgaroth, i sopravvissuti della Città del Lago confluirono a Dale a centinaia. Bilbo li poteva vedere dai bastioni di Erebor. Una fila sottile e interminabile di povere persone che risaliva il sentiero che portava fin là su dal lago. Si trascinavano su gambe stanche, le braccia strette attorno alle poche cose che erano riusciti a salvare dalle fiamme; i bambini più piccoli caricati sulle spalle e gli anziani e i feriti trascinati su barelle improvvisate. 
 
Era uno spettacolo che spezzava il cuore. 
 
Spesso Bilbo sentì l'impulso di correre ad aiutare come poteva. Ma oltre non avere lui stesso nulla da offrire, si era ritrovato assieme agli altri nani della compagnia segregato dentro la Montagna. Da Thorin. 
 
Non appena il Re Sotto la Montagna era venuto a conoscenza dell'arrivo dei rifugiati, aveva convocato tutti loro alla porta principale. Diede l'ordine di sigillarla in modo permanente con un muro di pietra; quella e ogni altro singolo accesso che non era già stato bloccato da Smaug. Nessuno poteva entrare e nessuno sarebbe uscito. 
 
“Questa Montagna è appena stata ripresa, non permetterò che venga riconquistata,” dichiarò, camminando attorno ai nani che si erano messi subito all'opera, nonostante lo scetticismo generale con il quale era stata accolta la decisione del Re. 
 
“Quelli di Pontelagolungo hanno perso tutto, sono qui per bisogno, non per cercare di derubarci. Sono povere persone a cui non è rimasto più nulla,” tentò di far notare Kili, a cui fin da subito la richiesta di Thorin era sembrata del tutto inaccettabile e non si era mai sforzato di nascondere la rabbia che provava. 
 
“Non venire a dire a me cosa significa perdere tutto,” scattò Thorin rabbiosamente. 
 
Bilbo sobbalzò. 
 
Thorin era sempre così arrabbiato e perdeva la pazienza per un nonnulla; rendeva l'atmosfera così tesa che l'aria era diventata pesante e irrespirabile. Bilbo si sentiva costantemente sull'orlo di un crollo nervoso. Qualche volta, durante le ore più buie della notte, si rannicchiava in disparte e lasciava scorrere liberamente le lacrime. Era stanco, sfinito nel profondo. 
 
Kili invece non si scompose. Alzò il mento in segno di sfida, pur non osando aggiungere altro. 
 
Thorin lo fissò a lungo, poi, con grande sollievo di tutti, decise di non raccogliere la provocazione del nipote. Si voltò e sparì a grandi passi lungo il corridoio buio che portava alla Sala del Trono. 
 
Passava molto tempo chiuso lì dentro, Bilbo non aveva idea di cosa gli passasse per la testa nelle ore interminabili che stava da solo, e fino a quel momento si era guardato bene dall'indagare. 
 
Cercava di tenersi il più lontano possibile da Thorin. Non aveva ancora capito se lui se ne fosse accorto o meno. Non era certo che gli importasse se anche se ne fosse accorto. 
 
“Stai più attento a come parli, ragazzo. Quella testaccia calda ti metterà nei guai” bisbigliò Balin. 
 
“Non ho paura di dire ciò che penso,” ribatté con ostinazione Kili, la collera a stento contenuta nella voce. 
 
Fili gli si avvicinò e gli diede delle vigorose pacche sulla schiena. “Troveremo una soluzione per farlo ragionare, cerca di stare calmo”. 
 
Balin sospirò e lanciò una lunga occhiata a Bilbo, il che gli ricordò che forse evitare Thorin era un lusso che non avrebbe più potuto permettersi a lungo. 
 
Erano passati ormai due giorni da quando il vecchio nano gli aveva chiesto di cercare di parlargli, e ora ogni istante avrebbe fatto la differenza tra la vita e la morte per qualcuno lì fuori. C'erano persone che stavano morendo di freddo e di fame solo perché lui non riusciva a tollerare di sostenere lo sguardo di Thorin. 
 
Aveva già causato tanto dolore alla povera gente di Esgaroth aizzando contro di loro la furia di un drago sputa fiamme. Doveva loro almeno il tentativo di convincere Thorin ad aiutarli nel momento del bisogno, o se non altro almeno ad onorare la parola data. 
 
Prima di darsi del tempo per cambiare idea, raccolse il proprio coraggio e imboccò il corridoio lungo il quale era sparito Thorin. 
 
Come previsto, lo trovò in piedi, perfettamente immobile, davanti al suo trono di pietra; fissava il punto in cui avrebbe dovuto esserci il Cuore della Montagna. 
 
Gli dava le spalle, ma Bilbo sapeva che si era accorto del suo arrivo, e difatti non mostrò segni di sorpresa quando lui si schiarì la voce. 
 
Il Re Sotto la Montagna si voltò a guardarlo mentre faceva gli ultimi passi verso di lui. Teneva il mento alto e le spalle larghe dritte. Il suo volto era senza espressione, imperscrutabile; gli occhi gelidi. 
 
Nelle sue ricche vesti e l'aspetto fiero aveva tutto l'aspetto di un Re. Un Re bello e crudele. 
 
Bilbo cercò di soffocare la sensazione di essere piccolo e insignificante a confronto. In fondo era sempre di Thorin che si trattava, avevano mangiato l'uno a fianco all'altro, dormito assieme. Di Thorin non aveva mai avuto paura. Almeno, non fino a quando… 
 
Aveva ripercorso centinaia di volte l'istante in cui lo aveva minacciato, quando lo aveva guardato negli occhi e, per un motivo del tutto inspiegabile, aveva puntato la lama della sua spada dritta sul suo cuore. 
 
In quel momento gli era sembrato che Thorin non fosse nemmeno lì, che non fosse in sé. Immediatamente dopo aveva pensato di averlo solo immaginato, ma più passavano i giorni e più capiva che non era così. 
 
Lo avrebbe fatto, anche ora, a distanza di tempo, Bilbo era certo che lo avrebbe ucciso. 
 
“Non dovrebbe andare in testa quella?” chiese, riferendosi alla corona che Thorin spesso si rigirava tra le mani, ma che ancora non aveva mai indossato. 
 
Thorin lo guardò a lungo, impassibile. 
 
Poi, d'improvviso, le sue spalle si rilassarono e sorrise amaramente. “Mio nonno ha indossato questa corona. Spetterebbe a mio padre ora. Se ora la metto io e mi faccio chiamare 'Re Sotto la Montagna' vorrebbe dire che Thrain è morto. Non so se sono pronto a farlo.”
 
Quella confessione inaspettata colpì Bilbo dritto al cuore. Qualcosa in lui si spezzò, si sentì quasi sul punto di piangere. 
 
Forse si era arreso troppo presto. Forse c'era ancora speranza, perché quello era decisamente un pensiero del Thorin che conosceva - nonché uno dei motivi per cui lo amava così tanto. 
 
Thorin non aveva mai bramato il potere per il mero gusto di averlo, se n'era sempre fatto carico per senso del dovere e di certo, pur essendo inflessibile nelle sue decisioni, non ne aveva mai abusato. 
 
“Tu invece cos'hai lì?” gli chiese d'un tratto, notando che Bilbo giocherellava con qualcosa nella tasca. 
 
Lo hobbit trasalì. 
 
Si era reso conto di cercare spesso quella piccola ghianda senza accorgersene. Semplicemente se la ritrovava in mano. Era arrivato a preferirla perfino a quel suo anello. Il fatto era che ogni volta che la stringeva si ricordava del suo intento di piantarla nel suo amato giardino, e in qualche modo aveva finito per ricordargli Casa Baggins. 
 
“Me l'ha regalata Beorn, ricordi?” disse, mostrando a Thorin il suo piccolo tesoro. 
 
“Ricordo, purtroppo.” Thorin storse il naso quando Bilbo nominò il mutaforma. La cosa lo fece sorridere. 
 
Inconsapevolmente si erano avvicinati fino a sfiorarsi. Bilbo non si era nemmeno reso conto di quanto gli mancasse la sua vicinanza, del disperato impulso che sentiva di rintanarsi tra le sue braccia e farsi consolare, fosse anche solo per un attimino. 
 
“L'hai portata fino a qui,” osservò Thorin, prendendogli la mano, avvolgendola tra le sue. 
 
“La pianterò nel mio giardino,” disse piano Bilbo, sentendo gli occhi pizzicare. 
Gli fece male essere toccato con tanta dolcezza.
 
“Un misero premio da riportare nella Contea.”
 
“Un giorno crescerà, diventerà una forte quercia, e ogni volta che la guarderò, ricorderò. Ricorderò quello che è successo, il brutto e il bello, e la fortuna che ho avuto a tornare a casa”. 
 
Thorin chinò leggermente la testa e si portò le dita di Bilbo alle labbra. “Il mio dolce hobbit”. 
 
Gli sorrise e per un attimo Bilbo seppe con certezza che era lì, il suo Thorin era proprio lì. Sentì il cuore battere all'impazzata, alimentato da quella piccola speranza. 
 
Gli accarezzò dolcemente la barba morbida. Non riuscì a fermare in tempo una lacrima che gli sfuggì lungo la guancia. “Thorin…” la voce gli tremò, ma non importava. 
 
“Sono qui,” disse lui, e qualcosa dietro ai suoi occhi grigi tremolò. “Resta con me. Non lasciarmi, promettilo”. 
 
“Non lo farò. Hai la mia parola”. 
 
Thorin gli sorrise e gli accarezzò il viso, asciugandogli le guance con le dita. 
 
Il senso di colpa si riversò su Bilbo come una secchiata d'acqua gelida. 
 
Thorin stava combattendo la battaglia della sua vita contro la malattia che aveva distrutto la sua famiglia, e lui lo stava lasciando a combattere da solo. Avrebbe dovuto stargli accanto, cercare di aiutarlo, non correre a nascondersi in un angolino buio. 
 
Se Thorin era lì, Bilbo avrebbe provato ad aiutarlo, perché forse il suo amore poteva farlo. Forse il suo amore sarebbe stato abbastanza forte da combattere la follia che tentava di portarsi via quel nano zuccone che amava così tanto; anche se amarlo e stare con lui era diventato doloroso. 
 
Non voleva accadesse, non voleva che Thorin scivolasse via senza che lui provasse il tutto per tutto per sostenerlo, per indicargli la via. 
 
Quel pensiero gli ricordò anche perché lo aveva cercato. “Thorin, penso che dovremmo aiutare gli abitanti di Esgaroth. Quelle persone hanno perso ogni cosa…” 
 
“Voglio che tu ti tolga questi stracci di dosso,” lo interruppe improvvisamente Thorin, indietreggiando di un passo per osservarlo con aria contrariata. “Non ne posso più di vederti girare così, con questi stracci addosso. Ho trovato qualcosa di più adeguato. Vieni con me,” disse afferrandogli una mano. 
 
Bilbo non riuscì più a parlare molto, mentre Thorin gli faceva strada attraverso le sale buie e polverose di Erebor. Sembrava impaziente di dirgli il nome di ogni salone, di ogni corridoio, di ogni statua, e sembrava anche avere un aneddoto per ogni posto. 
 
“Questi erano i miei appartamenti,” annunciò quando furono arrivati a destinazione. 
 
Entrò e si mise a frugare in diversi bauli, scacciando distrattamente polvere e ragnatele, prima di trovare ciò che cercava. 
 
Bilbo lo seguì nella stanza semibuia con qualche esitazione. 
 
“Ecco, li indossavo quando ero ancora praticamente solo un ragazzino, ma credo che dovrebbero andarti bene”. 
 
Tirò fuori degli indumenti di stoffa fine e pregiata, molto probabilmente il solo mantello foderato di pelliccia valeva quanto tutta la mobilia di casa Baggins. 
 
“Forza, spogliati,” lo esortò Thorin, chiudendo la porta alle loro spalle. 
 
Bilbo registrò distrattamente che aveva dato anche un giro di chiave. 
 
Rimase immobile. L'ultima cosa che voleva era rimanere nudo e vulnerabile davanti a lui. Sapeva perfettamente dove avrebbe portato quella strada. 
 
Ma Thorin, che improvvisamente negli occhi aveva uno sguardo da cacciatore che non gli aveva mai visto, non era di certo disposto ad accettare un 'no' come risposta. 
 
Il suo viso si indurì e muovendosi con studiata lentezza, si mise di fronte a lui. Gli posò una mano sul collo e per un attimo Bilbo fu terribilmente consapevole di quanto facilmente avrebbe potuto stringere il pugno e serrargli la gola. Cosa che - ovviamente? - Thorin non aveva intenzione di fare e non fece. 
 
Bilbo avrebbe tanto voluto non accorgersi di quel qualcosa che si era perso di nuovo in lui, del calore che improvvisamente gli aveva lasciato gli occhi. C'era una parte di Thorin era stata spinta di nuovo in basso, nel profondo; fatta annegare sotto uno strato di calcolata freddezza. 
 
Le sue dita ruvide gli accarezzarono la pelle. Usò il pollice per sollevargli il mento e costringerlo a porgergli le labbra. Si piegò su di lui, fermandosi un soffio prima di sfiorarle con le proprie. 
 
“Il Re Sotto la Montagna ti ha appena chiesto di spogliarti, Mastro Scassinatore,” sussurrò, e a quel punto Bilbo non avrebbe trovato la forza di obbedire nemmeno se avesse voluto farlo. 
 
Stava accadendo di nuovo, stava permettendo a Thorin di fare di lui ciò che voleva. Si pentì di aver abbassato la guardia al punto di ritrovarsi di nuovo da solo con lui. 
 
Thorin sospirò spazientito davanti alla sua caparbietà, ma sembrò anche trovare la cosa divertente, più intrigante. Cominciò a sbottonargli da sé la casacca. 
 
E per un istante, Bilbo sperò la trovasse veramente, una volta per tutte, quella stupita gemma. 
 
Cosa avrebbe detto scoprendo che l'aveva lui, la cosa che desiderava sopra ogni altra? Cosa avrebbe fatto una volta scoperto che gli stava mentendo? 
 
Thorin, tuttavia, non badò a ciò che Bilbo poteva o non poteva avere nelle tasche. Era troppo determinato a vincere un'altra battaglia tra loro due. 
 
Tolse strato dopo strato di stoffa, fino a quando Bilbo non rimase con la sola vestaglia addosso. Sentiva le gambe tremare, ma si costrinse a rimanere fermo, la testa alta. 
 
Thorin si mise alle sue spalle e gli baciò il collo esattamente nel punto in cui fino a poco prima c'era stata la sua mano. Quella la fece scorrere lungo la sua schiena, facendo scivolare a terra anche gli ultimi indumenti. 
 
Ogni singolo bacio di Thorin si imprimeva sulla sua pelle come se lo stesse marchiando con il fuoco; bruciavano allo stesso modo. 
 
Ogni bacio era rivendicazione.  
 
La cosa peggiore era che Bilbo sotto quel tocco si sentì accendere. Aveva perso il conto delle volte in cui aveva sperato che le sue carezze e le sue parole sarebbero tornate dolci come lo erano prima. Non voleva altro che le mani di Thorin lo accarezzassero e lenissero il dolore che sentiva dentro, anche se per una buona parte era stato proprio lui a causarlo. 
 
Sapeva che era sbagliato, ma gli sembrava anche di aver esaurito tutta la forza e la volontà per sottrarsi, per dirgli di no. 
 
Stava scoprendo a sue spese che Thorin, quel Thorin che lo aveva fatto sentire come se avesse potuto conquistare il mondo, aveva anche il dono di farlo sentire estremamente fragile; sapeva con precisione in che punto premere per farlo sentire così. Sapeva esattamente come prendersi tutto ciò che voleva da lui. 
 
Odiò sentire l'eccitazione che prendeva il sopravvento su di lui, non riuscì a reprimerla. L'urgenza e la disperazione con cui si voltò cercando la sua bocca, come se ne andasse della sua vita. Si sentì crollare sulle gambe quando Thorin lo attirò a sé e lo baciò con prepotenza e una possessione del tutto nuove. 
 
Quando si ritrovò sul letto, sotto il dolce peso del corpo di Thorin, non riuscì a capire se ce l'avesse portato di forza, o se ci fosse entrato di sua spontanea volontà. 
 
Sentì le sue mani scorrere lungo le sue cosce, afferrargli le natiche per alzargli i fianchi, mentre premeva la propria erezione contro di lui. 
 
Bilbo si insinuò con le mani sotto la sua camicia e fece scorrere i palmi sui muscoli definiti, intrecciando le dita alla morbida peluria che gli ricopriva il petto e che, andando in basso, spariva in linea retta dentro i suoi pantaloni; ne seguì il tragitto con i polpastrelli. Perse la testa sentendo il respiro accelerato e irregolare di Thorin tra i capelli.
 
Era bello e maledetto come un demone, e Bilbo gli aveva venduto la propria anima. 
 
“Sei mio, Bilbo,” gli sussurrò Thorin all'orecchio, tutto il tempo. Mordendogli delicatamente le labbra, il collo, soffermandosi appena sopra la clavicola, sapendo che era il punto che lo avrebbe fatto gemere più forte.
 
Ed era vero, era suo, che lo volesse o meno non sarebbe mai riuscito a sottrarsi a lui. 
 
Non trovò nessuna resistenza da parte di Bilbo quando gli divaricò le gambe e affondò in lui con una spinta decisa. 
 
Quando tutto finì, nel cuore di Bilbo non c'era nessuna traccia del senso di appagamento, della cieca felicità, che aveva provato dopo la loro prima notte insieme a Pontelagolungo. 
 
Fu il senso di vergogna ad investirlo, perché lo aveva fatto di nuovo: si era lasciato usare come un giocattolino. 
 
Era chiaro che la volontà di Thorin era molto più forte, sopraffaceva sempre la sua. Come poteva illudersi di aiutarlo, se non era nemmeno in grado di farsi valere contro di lui? 
 
 
Thorin si era alzato prima dell'alba. Non aveva chiuso occhio nemmeno quella notte, non riusciva a prendere sonno da giorni, ma si sentiva abbastanza riposato. 
 
Bilbo dormiva accanto a lui e si era preso ancora un momento per ammirarlo; lo aveva osservato per ore, ma sembrava non essere mai abbastanza. 
 
Adorava guardare la sua pelle quasi bianca, le forme rotonde ed armoniose, i suoi riccioli ramati sparsi scompostamente sul cuscino e le sue labbra leggermente socchiuse nel sonno. L'espressione così seria, quella lo fece sorridere. 
 
I segni dei lividi sul suo viso, quelli che si era procurato a Pontelagolungo, invece gli fecero serrare lo stomaco per la rabbia. Chi gli aveva fatto del male però stava già pagando a caro prezzo quell'affronto, il che era in qualche modo rincuorante. 
 
Decise che lo avrebbe portato nella stanza del tesoro a scegliere qualcosa, quel pomeriggio.
Il suo bellissimo collo meritava di essere ornato dai diamanti più preziosi che aveva, alle sue dita e sui suoi polsi voleva vedere i gioielli più rari e pregiati che la Terra di Mezzo aveva da offrire. Voleva viziarlo. 
 
Gli era caro, più di ogni altra persona al mondo; era l'unico di cui poteva davvero fidarsi. Si sarebbe preso cura di lui, non avrebbe mai più permesso a nessuno nemmeno di sfiorarlo. Il suo Bilbo. 
 
Ed era per questo che doveva alzarsi e darsi da fare. I suoi tesori più cari erano rinchiusi tra le pareti di roccia della Montagna, e la Montagna andava protetta dagli uomini avari che si stavano radunando davanti alle porte di casa sua, pronti a qualsiasi sotterfugio pur di derubarlo e lasciarlo ancora una volta senza nulla. 
 
Ci era già passato, non avrebbe permesso che accadesse una seconda volta. 
 
Si vestì piano per non svegliare Bilbo. Prima di uscire si riempì un'ultima volta gli occhi di lui. Lo amava da far male. 
 
Uscì e si richiuse silenziosamente la porta alle spalle. Per sicurezza, dette due giri di chiave. Nessuno avrebbe mai osato entrare senza il suo permesso, ma preferiva esserne certo. Doveva tenerlo al sicuro. 
 
Ebbe appena il tempo di muovere pochi passi lungo il corridoio, che si scontrò con Balin.
 
“Come procedono i lavori per sigillare il cancello principale?” si informò immediatamente. 
 
“Da lì non potrà entrare più nemmeno una mosca,” rispose il nano. Ma subito la sua espressione cambiò, si accigliò. “Bilbo non era con te?” chiese, guardando la porta. “Se chiudi a chiave come farà ad uscire?”
 
Che sciocchezza, pensò tra sé e sé Thorin, non avrebbe mai rinchiuso deliberatamente Bilbo da qualche parte. Non avrebbe mai fatto qualcosa che poteva ferirlo. 
 
“No, io…” cominciò a dire, ma si rese conto di avere ancora in mano la chiave.
 
E di nuovo si sentì completamente smarrito, e stanco. Sfiancato. 
 
Vacillò per l'improvvisa debolezza. 
 
Gli sembrò di essersi appena risvegliato dopo una notte in cui aveva dormito troppo poco, dopo uno strano incubo. Un incubo così reale… 
 
Si sentiva così, alle volte, da quando erano arrivati ad Erebor. Non riusciva più a distinguere il confine tra ciò che era vero e ciò che non lo era. Era come se dovesse lottare costantemente per rimanere a galla, per rimanere presente a sé stesso. 
 
La parte più razionale di lui lo sapeva, sapeva cos'era, ma nella sua caparbietà si ostinava ancora e ancora a raccontarsi che lui sarebbe stato più forte. Più forte della Malattia del Drago. 
 
“Giurami che lo proteggerai…” disse, porgendo a Balin la chiave, approfittando di quell'attimo, terribile, di lucidità. Non sapeva quanti gliene sarebbero rimasti. 
 
La paura annidata in fondo alla sua coscienza lo sommerse all'improvviso, gli impedì di respirare. 
 
“Giurami che lo proteggerai da me,” implorò, imponendo alle gambe di mettere più distanza possibile tra lui e lo hobbit, prima che l'oscurità arrivasse di nuovo, prima di che lo spingesse a fare qualcosa di terribile, qualcosa che non si sarebbe mai perdonato.

 
 
  1. Lo Hobbit - Capitolo 12, Notizie dall'interno. (su)

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