Dove trovo te, dove trovi me

di Joy
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Dove trovo te, dove trovi me ***
Capitolo 2: *** Cose belle ***



Capitolo 1
*** Dove trovo te, dove trovi me ***


Autore: Joy Inblue

Fandom: Attack on Titan

Personaggi: Jean/Mikasa (mourning ship, pre-ship)

Tag: Ambientata dopo il finale

 

Scritta per l'Easter Calendar, gruppo facebook Hurt/Comfort Italia

 

Prompt: X ha sempre saputo una cosa che Y teneva nascosta, tornare a casa, albero, acqua calda, pioggia.

 

 

 

 

 

Dove trovo te, dove trovi me

 

 

 

 

“Dovresti tornare a Paradis, Jean.”

Glielo dice Armin in una serata soffocante di fine estate, una di quelle in cui i venti provenienti dal mare non possono nulla sull'afa del continente. Glielo dice di fronte a due bicchieri intatti e sotto la disapprovazione bonaria dell'oste che non sa niente della loro reticenza nel mandar giù un ormai innocuo sorso di vino.

Non che quello sia l'incubo peggiore con cui hanno a che fare, le occhiaie che Armin sfoggia da due mesi a questa parte, ne raccontano alcuni per i quali -Jean ne è sicuro- si strapperebbe il cervello dal cranio se le sorti politiche mondiali non fossero quasi interamente sulle sue spalle.

Schiocca le labbra in un dissenso istintivo e posa il gomito sulla balaustra della terrazza: dalla strada sottostante proviene un moderato brusio.

“Dovresti farlo tu” replica.

Armin non solleva neanche lo sguardo, continua a fissare il porto -ciò che è stato ricostruito- e l'orizzonte che si estende a filo dell'acqua impossibilmente immobile.

“Sai che non posso” risponde, “l'equilibrio delle trattative è davvero precario” si passa una mano sul volto e sospira, “ma tu e Connie potete andare, le vostre famiglie vi aspettano.”

“Paradis è anche casa tua” gli fa notare. Ma in realtà lo capisce, non c'è un luogo in cui tornare e deporre il peso che si portano sulle spalle: la loro casa è da ricostruire al pari di tutto il resto.

“Tornerò anch'io” assicura Armin, “ti chiedo solo di precedermi” solleva lo sguardo e finalmente lo guarda negli occhi, “e di assicurarti che Mikasa stia bene.”

Stare bene.

Come se qualcuno di loro potesse farlo.

 

***

 

Piove quando arriva a Paradis e lei è esattamente dove gli aveva detto Armin, nel distretto di Shiganshina, sotto un albero che fa da monumento al suo dolore.

Lo vede arrivare, Jean non si aspettava niente di meno da lei, eppure c'è qualcosa di rigido nella schiena che appoggia al tronco, nelle braccia abbandonate lungo i fianchi; qualcosa che desta allarme, come se non potesse muoversi, o non le importasse farlo.

“Mikasa” la chiama avvicinandosi e lei gli rivolge uno sguardo vuoto.

Sente i propri piedi affondare nella terra pregna d'acqua e quando la raggiunge, il fango che li ricopre ingoia anche le sue ginocchia.

Non le chiede cosa stia facendo, sa bene che nessuna risposta sarà mai più calzante di un semplice sto soffrendo, e che qualunque cosa possa dirle non servirà a rendere il dolore meno intenso, ma la pioggia l'ha quasi inzuppata e sebbene le temperature siano ancora alte, la pelle, sotto il palmo che le ha posato sul braccio, è gelida.

“Da quanto tempo sei qui, sotto la pioggia?” chiede, ma lei chiude gli occhi senza un cenno e volta il viso dal lato opposto.

Ha la sciarpa di Eren attorno al collo, stretta in volute pesanti che sembrano quasi soffocarla, e Jean l'ha provata sulla sua stessa gola, quella assenza di fiato che segue la perdita di chi si è amato.

La prova ancora, per la verità, anche se sono passati tanti anni.

La sente ogni volta che si corica indossando la casacca di Marco, quella che portava nei giorni di licenza e che lui non ha avuto il coraggio di riconsegnare alla sua famiglia, dopo Trost.

A volte fa male al punto di non sentire altro, nemmeno la voce degli amici.

Forse è per quello che le porge la mano senza dire niente, che rinuncia alle frasi di circostanza come:“Eren non avrebbe voluto questo” e che al suo testardo rifiuto di muoversi o anche solo di guardarlo, risponde affondando ancor di più le ginocchia nella terra.

“Va bene” sussurra togliendosi la giacca e posandogliela sulle spalle. “Adiamo solo ad asciugarci e a mangiare qualcosa” propone “poi torneremo qui.”

E qualcosa cambia nella rigidità della sua posa, Jean avverte il guizzo improvviso che la scuote dal torpore e la spinge per la prima volta a guardarlo davvero.

“J..Jean?” mormora.

“Non dovrai stargli lontana per molto” rimarca lui, “te lo prometto.”

L'aiuta a sollevarsi, anche se è malferma sulle gambe e dopo qualche passo traballante, peggiorato dalla melma, si risolve a prenderla tra le braccia.

Che abbia silenziosamente compreso la perdita che li accomuna è l'unico motivo per cui non si ritrova uno stivale piantato in mezzo alle gambe, Jean ne è sicuro.

Contro la sua spalla, il respiro caldo di Mikasa lo inonda di nostalgia: è passato tanto tempo da l'ultima volta in cui si è preso cura di qualcuno in quel modo, secoli da quando si è permesso il privilegio di stringere a sé il corpo di un altro, senza nascondere l'affetto nei suoi confronti.

“Hai lasciato solo Armin...”

Il sussurro flebile gli raggiunge a malapena l'orecchio e nonostante questo Jean riesce a distinguere un filo di rimprovero nella sua voce.

“È stato lui a mandarmi da te” replica. “Era preoccupato.”

Questa volta contro la stoffa della sua camicia s'infrange un lieve sospiro: “Certo” mormora. “Come volete.”

E sembra quasi rilassarsi contro di lui, nel momento in cui si sgrava a voce alta del peso del suo stesso volere, adesso che non è più costretta a compiere una scelta.

Come quella che ha ucciso lei, prima di Eren.

 

***

 

“Non voglio togliermi la sciarpa.”

Glielo dice subito dopo che l'ha depositata sulla panca di fronte al focolare e poco prima che lui inizi a rovesciare acqua calda nella vasca di rame.

“Va bene, non preoccuparti” la rassicura. “Puoi immergerti anche con quella, del resto è già fradicia.”

Lo sono entrambi, a dire il vero: se sotto l'albero i rami li avevano almeno in parte riparati dalla pioggia, durante il tragitto per raggiungere l'abitazione il temporale estivo li ha inzuppati senza che potessero schermarsi in alcun modo.

Come durante certe missioni, che Jean non vuole più ricordare e che si sono trasformate in incubi ancor peggiori quando ha realizzato che i suoi compagni venivano divorati dai più disperati della loro stessa stirpe e non da mostri dalle sconosciute origini.

Da quando si è ritrovato privo persino della magra consolazione di poter dare un volto al nemico, almeno finché Eren non ne ha procurato a tutti loro uno comune.

Quell'idiota.

Le mani di Mikasa sono ancora sulla sua sciarpa, lui invece le ossa di Marco non le ha più con sé, le ha perse quando è stato trasformato in gigante puro e per quanto abbia cercato dopo che la maledizione era stata spezzata, non le ha ritrovate. Giacciono sul campo di battaglia, come quelle di tutti gli altri soldati.

E loro invece sono ancora lì, a fare i conti con il vuoto.

“Hai bisogno di aiuto?” le chiede una volta rovesciato l'ultimo secchio.

Al suo cenno di diniego, Jean apre il paravento e si ritira verso la parete opposta dandole le spalle.

La casa che Mikasa ha occupato quando è tornata a Paradis e la più vicina alla tomba di Eren, Jean può vedere il grande albero dalla finestra.

“Armin mi ha descritto questo posto” confessa, lo sguardo perso sulle colline al di là del vetro, “sapeva che saresti venuta qui.”

Lo sciabordio dell'acqua accompagna un lieve sospiro; Jean attende in silenzio che anche la sua voce attraversi il paravento: ha imparato ad essere paziente negli ultimi anni, questo deve concederselo.

“In questi luoghi...” mormora Mikasa dopo un paio di minuti, “qui...” esita, “ho quasi l'impressione...sembra quasi che lui...”

“Ti sembra di averlo ancora accanto” conclude per lei. “Lo so.”

Il silenzio che segue gli sembra fin troppo lungo.

“Mikasa?” la chiama incerto, senza voltarsi.

“Per questo trascorri tutte le licenze estive dai Bodt?”

È un mormorio basso e roco, poco più di un sussurro, eppure Jean sente quel nome sbattergli contro il petto con un dolore sordo e lancinante che gli toglie il fiato; posa entrambe le mani sul davanzale e si sforza di respirare piano.

“Come hai fatto a scoprirlo?” riesce a chiederle dopo un istante.

“Lo sapevamo tutti, Jean.”

 

***

 

“Non migliora con il tempo, vero?”

Seduta di fronte al camino, con una camicia pulita e una tazza di tè fumante tra le mani, sembra un po' più simile alla Mikasa che conosceva.

“No” ammette. Stende l'ultimo capo bagnato sulla stufa e siede di fronte a lei. “A volte però va meglio.”

“Quando?”

Avrebbe dovuto saperlo che non sarebbe stato facile, ma alla fine cosa lo è?

Sospira e si appoggia allo schienale della poltrona.

“Ci sono momenti in cui l'assenza diventa solo nostalgia, e non fa male.”

Mikasa gli rivolge uno sguardo intenso, forse il primo da quando si sono conosciuti, e nonostante l'evidente scetticismo, Jean sente che vuole credergli, ha bisogno di farlo.

“Non credo succederà mai” sussurra mesta, chinando lo sguardo.

E Jean vorrebbe dirglielo che anche lui lo pensava, ma che in certi pomeriggi d'estate, quando il sole e la sua calura sono prossimi a tramontare e il duro lavoro nella fattoria volge al termine, Marco è accanto a lui, con gli avambracci sudati appoggiati alla staccionata dei cavalli e il sorriso onesto sul volto affaticato.

E si rende conto che ha sgobbato l'intera giornata solo per quell'istante, per quel momento in cui la sua presenza è così reale che se allungasse la mano potrebbe sentire anche il calore della sua pelle. Finché il crepuscolo non porta via l'immagine lasciando solo la sensazione, e lui si sente in pace, proprio come quando il lavoro nella fattoria dei Bodt era la scusa per trascorrere insieme le licenze estive.

Forse è per questo che non ha mai smesso di andare da loro, perché lì il ricordo lo fa sorridere e in ogni altro posto, piangere.

Vorrebbe dire tutto quanto a Mikasa. Ogni parola.

Ma non ci riesce.

E forse va bene così, magari lei troverà un modo migliore per andare avanti.

Fuori dalla finestra un raggio di sole mette fine alla pioggia, lo sguardo di Mikasa si perde in quella luce.

“Vuoi tornare sulla collina, adesso?” le chiede, alzandosi per aprire il vetro e lasciare entrare l'aria di nuovo tiepida.

“Domani mattina” risponde lei immobile.

“Va bene.”

Quando torna a sedersi lo fa accanto a lei.

Non ha la pretesa di consolarla, sa che non serve; lo fa perché è stanco quanto lei, infelice anche, disilluso.

Ma vivo. Come lei.

 

 

Fine.

 

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Capitolo 2
*** Cose belle ***


Autore: Joy Inblue

Fandom: Attack on Titan

Personaggi: Jean/Mikasa

Tag: Ambientata dopo il finale

 

Scritta per La sfida del bucaneve, gruppo facebook Hurt/Comfort Italia

 

Prompt: Spegni la luce, Se n'è andato, Anche il silenzio.

 

 

 

 

Cose belle

 

 

 

 

“Rimani per un po'?”

 

Mikasa glielo chiede due giorni dopo il suo arrivo.

Non lo guarda mentre lo fa, continua a fissare con occhi assenti il vetro della finestra rigato dalla pioggia: Jean se lo sente dentro al petto, quel cielo grigio e lacrimoso.

 

“No, se ti disturbo” le risponde pacato; l'ultima cosa che desidera è lasciar intendere un risentimento che non prova. Sa per esperienza quanto possa diventare necessaria la solitudine e la maggior parte delle attività che svolgeva con Marco, tuttora, preferisce farle da solo piuttosto che aver qualcuno che non sia lui a ricordargli quanto gli manchi.

 

Uno sguardo, lei glielo rivolge. Frettoloso, schivo, polveroso anche, ma si volta e lo guarda.

“Non c'è molto da disturbare, Jean. Passo le mie giornate a fare niente.”

 

Sottolinea le parole con un gesto vago della mano, come a voler sottolineare l'inutilità delle ore, adesso che non c'è più ragione di renderle operose. Adesso che tutto è finito.

 

“Non è sbagliato prendersi un periodo di riposo...” azzarda.

 

Il silenzio lo investe: Mikasa non è mai stata di tante parole, e i suoi occhi stanno di nuovo perforando la barriera di vetro e pioggia, che la separano dal luogo dopo riposa Eren.

Jean ha imparato a non fremere nei momenti di stallo successivi ad un' opinione che ha faticato a farsi uscire dalle labbra, a non passare il peso del suo corpo da un piede all'altro in attesa di sapere se ciò che ha detto sembra una stronzata oppure no, e a mettere a tacere quella voce malevola che nella testa gli ripete: Ma cosa ne sai, tu?

Perché per una volta lo sa. Lo sa cosa si prova a non trovare pace in un mondo che non ospita più niente di bello.

Si porta al suo fianco; non cerca i suoi occhi, ma solo l'orizzonte che sta scrutando: la traiettoria, la direzione univoca dei suoi pensieri.

 

“Devo comunque raggiungere mia madre entro la fine del mese” aggiunge.

 

Le spalle di Mikasa si sollevano impercettibilmente, la sua espressione non cambia.

 

“Fino ad allora puoi rimanere” mormora. “Se ti va.”

 

C'è uno spiraglio nella sua posa rigida, Jean lo riconosce: è nella leggera esitazione che precede quel sospiro troppo a lungo trattenuto, nella spontaneità con cui raccoglie le ginocchia contro il petto e le circonda con le braccia, nel coraggio esausto di volgere le spalle a quell'unico orizzonte immutabile e guardare dalla parte opposta, dove la vita continua e altre cose possono accadere, forse non altrettanto belle, ma comunque degne di avere il loro momento.

 

“Certo” mormora con un accenno di sorriso. “Rimango.”

 

***

 

Non è ancora riuscito a prendere sonno, quando il fruscio delle lenzuola e il cigolio del letto nella stanza accanto, lo avvisano che nonostante la tisana a base di camomilla, Mikasa è di nuovo sveglia.

Dorme poco e male, Jean non è neanche convinto che sia dovuto alla perdita subita, tutti loro dormono male, da quelli che ormai sembrano secoli.

 

“Posso entrare?”

 

Non riceve risposta, ma l'anta della porta si apre docilmente sotto il tocco lieve del suo palmo: per quanto Mikasa non abbia mai fatto mistero della sua propensione alla solitudine, Jean deve ammettere di non averla mai trovata sbarrata.

È in piedi, china sul lavabo, ma nel chiaroscuro della stanza non riesce a veder altro che le sue spalle tremule, i pugni chiusi e i piedi nudi; non capisce neanche se stia ridendo o piangendo, e a dire il vero, gli fanno paura entrambe le opzioni.

 

“Spegni la luce” ordina Mikasa senza voltarsi.

 

Con il buio è più difficile tornare alla realtà, Jean lo sa, ma abbassa ugualmente lo stoppino fino a spegnerlo ed entra nella stanza.

Ringrazia che le nubi si siano diradate, o non avrebbe avuto dalla sua parte nemmeno la luce fioca della luna a illuminare i contorni del mobilio.

 

“Ehi...”

 

Non ha bisogno di chiederle cosa succeda: la sciarpa scagliata con rabbia sul pavimento è già abbastanza esplicativa.

Lo sono anche le lacrime che la bagnano, quando Mikasa ci ripensa e con uno scatto deciso si china a raccoglierla, portandola al viso.

 

Alcune cose Jean ammette di non capirle.

A volte si chiede come faccia a sopportarlo, di essere stata lei a uccidere Eren. A farsi violenza al punto tale da sradicare dal cuore ogni sentimento e spingere le proprie mani a sollevare la lama contro l'unica persona che abbia mai amato.

Si domanda quanto bruciante sia la rabbia e se la provi contro se stessa o contro di lui, quanto subdolo sia il dolore che si è causata e quanto straziante il rimorso.

 

Se sia infine nato dell'odio in mezzo a tutto quell'amore.

 

E se i pugni chiusi che affonda tra i suoi cappelli, insieme ai denti digrignati ne siano la conseguenza.

 

S'inginocchia di fronte a lei e copre le mani con le sue.

 

“Vieni” le dice, “sediamoci insieme per un po'. In cucina il camino non si è ancora spento e tu sei gelida.”

 

Mikasa volta lo sguardo su di lui: ha gli occhi bagnati e forse qualcosa di ciò che ha detto gli ha ricordato Eren perché per un momento sembra quasi sorridere.

 

“Hai raccolto la legna da solo?”

 

Jean non sa cosa voglia dire, ma sa a chi sono rivolte quelle parole: nonostante se ne sia andato, la sua presenza è ancora palpabile. Soprattutto di notte.

 

“No. Ce n'è a sufficienza, Mikasa, non preoccuparti.”

 

Non si aspetta che ritorni subito in sé, ma sente il fremito che le scuote le spalle, quando appoggiandosi a lui nell'intento di rimettersi in piedi, realizza che non si trova accanto alla persona che sperava. Jean non s'illude su questo, del resto nessuno ha mai avuto mani simili a quelle di Marco, né il suo odore.

 

Arrivano in cucina, prima che lei si decida a parlare e il tragitto sembra più lungo di quella manciata di metri che è in realtà.

 

“Jean?” mormora non appena sfiora il velluto consunto del divano e realizza dove si trova.

 

“Sì. Sono qui.”

 

Lei si siede sospirando: “Mi dispiace. Sono un disastro”

 

Jean non lo pensa. Pensa che sia bella, lo ha sempre pensato.

La osserva mentre il riverbero tremulo dei tizzoni quasi spenti illumina le pieghe della sua camicia da notte.

Ha le gambe scoperte e i capelli in disordine, ma non sembra importarle; si prende tra le dita una ciocca arruffata e la solleva: “Dovrei tagliarli di nuovo.”

 

“Non è necessario.”

 

Non sa da dove siano arrivate quelle parole, sa che avrebbe voluto dirgliele prima, in innocente amicizia.

Dirle che non era costretta a tagliare i capelli se non voleva, poteva semplicemente legarli, come faceva Sasha, ma lei è sempre stata brava a convincersi di desiderare ciò che Eren le suggeriva.

 

Lo guarda, ora, così spaesata che Jean non può fare a meno di allungare la mano e sfiorarle le ciocche che si appoggiano appena alla sua spalla.

 

“Puoi liberarti dei nodi semplicemente pettinandoli” propone, e la sua voce esita un po', perché Mikasa ha fatto ricadere la mano in grembo e non sembra intenzionata a muoverla di nuovo. “Posso farlo per te, se vuoi.”

 

Non è bravo a interpretare i suoi silenzi: nella maggior parte dei casi sembrano risucchiarlo nella loro spirale d'incertezza.“Posso provare” ripete, “se non sei soddisfatta dopo te li taglierò io stesso.”

 

A questa possibilità sembra più propensa: gli volge lentamente le spalle spostandosi sull'orlo del divano.

Con la testa china e la camicia da notte allentata, Jean riesce a vederle il collo nudo e parte della schiena.

Ha la luce della luna sulla pelle, ma nessuna costellazione.

È un po' strano.

 

Si alza per recuperare la spazzola dalla sua stanza e quando torna si accorge del fremito che le attraversa la schiena: è quasi impercettibile, ma Jean riconosce l'onda ruvida di quella attesa incerta sulla pelle diafana.

 

Se prima era riuscito a pensare con lucidità, deve ammettere, mentre solleva la spazzola stringendola contro il palmo, che adesso trema anche la sua mano.

Posa l'altra sulla sua spalla -magari così smetteranno entrambi di vibrare- e passa la spazzola tra le ciocche setose. Il pollice che contro il suo volere accarezza piano la pelle liscia del suo collo gli sembra molto più di un azzardo.

 

“Ti da fastidio?”

Non vorrebbe, ma balbetta.

 

Mikasa rimane in silenzio per qualche istante, poi le sue spalle si abbassano, sgonfiate dal sospiro che le esce dalle labbra.

 

“No” sussurra.

 

Jean impone comunque alle proprie dita di fermarsi, lascia la mano sul suo collo però; lo fa perché ha la sensazione di averla finalmente trovata, in quella notte scura e non vuole perderla di nuovo.

 

Non prima dello spuntare del giorno, almeno.

 

Le setole della spazzola frusciano tra i suoi capelli, scorrono con maggiore facilità di quanto Jean avesse immaginato: non incontrano nodi, solo qualche ciuffo scomposto.

 

Riesce a percepire anche il lieve sentore fresco del sapone che ha usato, ogni volta che li muove.

 

Gli ricorda qualcosa di familiare, che non associa alla caserma o alla vita militare, ma alla sua infanzia: ai fiori che sua madre metteva al centro del tavolo nei giorni di festa. Si concede di inspirare lievemente un' ultima volta, prima di posare la spazzola.

 

“Ecco fatto” mormora. Nel piccolo specchio macchiato riesce a scorgere l'accenno di un sorriso. “Può andare?”

 

Lei annuisce portandosi una mano alla testa esitante; liscia le ciocche, ora ordinate e sospira piano.

Jean ha l'impressione che sia sul punto di parlare, ma non riesca a decidersi a farlo, non è neanche sicuro che voglia farlo con lui: la osserva adagiarsi contro lo schienale e rabbrividire.

 

“Ti preparo qualcosa di caldo.”

 

Le porge la coperta, mentre si alza per mettere il bollitore sul fuoco; la mano di Mikasa che si solleva per prenderla gli sfiora le dita.

 

“Jean...”

 

Il tepore che inizia a invadergli il petto ogni volta che la sente pronunciare il suo nome, è qualcosa che non si aspettava più di provare; si concede di sorriderle in silenzio mentre armeggia al focolare preparando per entrambi una tazza di tè

 

Quando si volta, con l'infuso tra le mani, lei è ancora in silenzio e il suo sguardo ancora su di lui; non riesce a interpretarlo, gli sembra curioso però, come se finalmente lo stesse guardando e non solo vedendo.

 

È bello il modo in cui posa la mano sul velluto consunto del divano in un tacito invito e aspetta che sia seduto al suo fianco prima d'iniziare a sorseggiare il tè.

 

La spalla che sfiora la sua non sembra così casuale: a Jean sembra quasi un grazie, ma forse la penombra della stanza, complice di quella notte surreale lo stanno confondendo più di quanto avesse immaginato.

Gliene è grato lo stesso: non sa più quantificare il bisogno di contatto, calore e conforto, che anno dopo anno è diventato così persistente da sembrargli quasi normale soffrirne l'assenza.

 

Il peso contro di lui aumenta, i capelli che ha pettinato adesso gli solleticano il collo, sente anche il frusciare lieve del respiro di Mikasa vicino all'orecchio.

 

Gli piace, lo fa sentire come se la sua presenza fosse importante, come se lui fosse di nuovo importante per qualcuno.

 

Solleva il braccio e le circonda le spalle senza dire niente.

 

Anche il silenzio è diventato piacevole.

 

 

Fine.

 

 

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