Misterioso, altero, croce e delizia al cor

di Discontinuous Qualia
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Dammi tu forza, o' cielo! ***
Capitolo 2: *** But don't look back in anger, I heard you say ***
Capitolo 3: *** Tu crois l’éviter, il te tient. ***
Capitolo 4: *** Ah, il supplizio è sì spietato che morir preferirò. ***
Capitolo 5: *** Misterioso, altero, croce e delizia al cor ***
Capitolo 6: *** Epilogo - Anyway the wind blows ***



Capitolo 1
*** Dammi tu forza, o' cielo! ***


Tornare a pubblicare su EFP dopo tanti anni fa uno strano effetto, tipo tornare a casa quando si è studenti fuorisede.

Questa storia, nata dopo tanti mesi di attento plotting su un Gdoc che se potesse parlare mi riempirebbe di parolacce, nasce come regalo di Natale e di laurea per la mia cara amica Eli, che oltretutto pur non adorando leggere in inglese si è sempre ritagliata del tempo per dare una sbirciatina al work in progress e farmi sapere la sua spesso in modo esilarante. Se qualcuno è assiduo frequentatore di AO3 e bazzica il tag della Sherliam potrebbe essersi imbattuto nella versione inglese di questa storia, ma in tal caso non allarmatevi, sono sempre io, con il solito nome, che provo a fare la persona bilingue. Ormai scrivo in inglese da un anno e mezzo e la cosa divertente è che nel mio inglese c'è molto italiano (tipo i periodi astronomicamente lunghi che Cicerone potrebbe solo congratularsi) e nel mio italiano c'è molto inglese, tant'è che a volte mi ritrovo a non ricordare su due piedi il corrispettivo di una parola in una delle due lingue.

Prima di lasciarvi ad una lettura che spero sia più piacevole di questo mio sproloquio, un minimo di contestualizzazione di questa storia: si tratta di una modern AU, quindi ci troviamo in quel del 2022, e i protagonisti hanno la stessa età che hanno nel manga dopo il timeskip (27 anni per Sherlock e William, 29 per John, 26 per Louis, 30 per Albert e 34 per Mycroft), quindi se avete familiarità con il manga (e se non la avete prendetela, perché è un vero gioiello) potete immaginare anche abbastanza bene il loro aspetto. Il mondo in cui è ambientata la storia non è niente di troppo fantascientifico, semplicemente avere un'anima gemella è una cosa comune trovare un cucchiaio in una cucina e ogni persona presenta un soulmark diverso per amore dell'eterogeneità. Mentre tutti sono felici e allegri, ci sono dei poveri disgraziati che 'mancano' di qualcosa fino a che non incontrano la loro metà e vengono non troppo segretamente guardati con un pochino di pietà: a questa categoria appartengono William e Sherlock, che ovviamente affrontano la questione in maniera diversa alla luce dei loro caratteri e vissuti diversi.

 



Capitolo 1 - Dammi tu forza, o' cielo! 


“Viaggiare in giro per il mondo potrebbe esserti benefico, Sherly. La lontananza spesso ci ricorda il vero valore delle cose e questa terra ti sembrerà quanto mai bella al tuo ritorno.”

Le lussureggianti sfumature di verde degli alti alberi e delle apparentemente infinite praterie dell’Inghilterra del nord-est avrebbero dovuto essere un vero balsamo per gli occhi sotto il celeste pallido del cielo estivo… se solo non fossero state l’unica dannata cosa su cui aveva potuto posare lo sguardo per le ultime cinque ore.
Un sottile velo di nuvole intesseva una cappa che intrappolava il caldo asfissiante per farlo aderire alla sua pelle alla stregua di una sanguisuga particolarmente persistente.

L’Inghilterra davanti ai suoi occhi non era molto più bella di quella dei suoi ricordi ma, nell’agglomerato di edifici dalle forme più disparate che era Durham il tempo poteva anche essersi fermato del tutto. La succinta descrizione del posto che era spuntata nel momento in cui aveva digitato l’indirizzo fornitogli da John nel navigatore parlava di una cattedrale Normanna e di un castello, di architettura romanica e di un’università il cui prestigio era rimasto immutato sin dall’epoca vittoriana.

Attraversare la cittadina fu un affare che gli rubò poco tempo e che fece il suo sporco lavoro nell’affievolire il leggero formicolare sul retro del suo collo, lì dove il casco non era in grado di proteggerlo dal silenzioso giudizio delle strade poco affollate svegliate dal ruggito della sua moto.

La voce artificiale del navigatore lo avvertì di essere solo ad un chilometro di distanza dalla sua destinazione ma l’imponente tenuta che torreggiava sugli alberi sempreverdi dalla fine della strada rese chiaro come l’uso del GPS non fosse più qualcosa di necessario. Una facciata di un rosa antico divisa in tre piani e fin troppe finestre perché la sua pazienza fosse sufficiente a contarle e un gran giardino erano una vista proveniente direttamente dal 1870, al punto da poterlo portare a definirsi un Marty McFly in un tentativo fin troppo risuscito di viaggio nel tempo, se non fosse per il volto familiare che lo accolse con un leggero sorriso. 

"Sherlock, da quanto!" 

Dell’aria deliziosamente fresca lo avvolase nel togliersi il casco e un angolo delle sue labbra si sollevò di rimando. Dannata calura estiva. “Yo, Mary. Ne è passato di tempo.”

“John mi ha detto che sei stato in giro per il mondo, sarà così felice di rivederti.”

“Heh, rimanere nello stesso posto troppo a lungo non fa che renderlo una noia.” Le chiavi della moto tintinnarono nel roteare distrattamente attorno al suo indice. Oltre la figura minuta di Mary la villa in stile vittoriano si stagliava in maniera vagamente minacciosa. “Ma sì, non potevo mica perdermi il matrimonio del mio migliore amico.”

Il sorriso di cortesia sul volto di Mary sbocciò in uno più sentito, un delicato promemoria del fatto che, anche se ci andava di mezzo un ingombrante fenomeno paranormale, lei e John erano davvero una gran bella coppia. “A proposito di John, dov’è? Pensavo che sareste stati qui insieme.”

“Oh, a dire il vero ha ricevuto una telefonata proprio mentre il signor Jack annunciava il tuo arrivo.” Degli occhi azzurri osservarno la porta in legno con un malcelato velo di preoccupazione. “Sembrava una questione importante, perciò mi sono avviata per prima ma– Oh, John!"

John H. Watson, mantenutosi la copia sputata del se stesso di 26 anni nonostante i 3 anni trascorsi dalla loro laurea, occupò l’uscio in tutta la sua gloria. L’ombra di una smorfia sulla sua bocca si ammorbidì in un sorriso che portava con sé una moltitudine di ricordi delle loro avventure universitarie.

“Sherlock!”

“Ehilà, John,” la sua voce venne fuori gioviale, come se fossero stati separati giusto per la durata delle loro lezioni del mattino. “Vedo che ti sei finalmente rasato quei baffi ridicoli che avevi durante l’ultima videochiamata.”

John, con la sua solita aria vagamente imbarazzata anche a pochi giorni dall’essere un uomo sposato, si coprì  la bocca strappando una risatina a Mary e rubando un sorriso riluttante alla sue labbra “Già,” disse in tono strozzato. “Ma tu di sicuro compensi benissimo quello che ho perso. I tuoi capelli sono diventati ancora più lunghi da allora.”

Lo sguardo di Sherlock cadde sulla coda di cavallo sulla sua spalla. “Tagliarli era una rottura e costava anche, perciò ho smesso di cercare di mantenerli più o meno corti.” E il suo tentativo di taglio fai-da-te potrebbe essergli costato un lavoretto o due, ma si trattava di un dettaglio di cui il suo amico non sarebbe dovuto venire a conoscenza. Mi sembra un po’ presto per farlo andare in modalità mom friend. Con una scrollata di spalle il suo braccio finì prontamente attorno al collo di John. “Bene, vorresti dire al tuo buon vecchio amico cosa ti fa fare la stessa faccia di quella volta in cui Miss Hudson ci ha davvero dovuto alzare l’affitto?”

Gli occhi di John si spalancarno per fare la spola tra lui e Mary e tornare a fissare gli intricati disegni sulle mattonelle che tracciavano il sentiero d’ingresso alla villa. “Dimenticavo come voi due abbiate in comune l’inquietante abilità di leggermi nel pensiero.” Un sospiro. “Il violinista che avrebbe dovuto suonare durante la cerimonia e il ricevimento nuziale ha chiamato per tirarsi indietro. Immagino che potremmo provare a cercare un rimpiazzo a Durham o Newcastle, ma…”

Mary scosse il capo. “Ma non ci sarebbe abbastanza tempo per provare la scaletta con William, vero?”

Noi musicisti siamo proprio una razza volubile, eh? “Beh, vorrà dire che questo ‘William’ se la potrà cavare da solo, se non riuscite a trovare un altro violinista per–” 

Delle iridi castane si alzarono verso di lui con una luce frenetica che fece correre un brivido di terrore lungo la sua schiena nonostante l’inostenibile caldo estivo. Una voce fasidiosamente simile a quella di Miss Hudson lo sbeffeggiò nella sua testa. Oh Sherlock, se solo fossi altrettanto talentuoso nel pagare l’affitto in tempo come lo sei per trovarti sempre con il naso in mezzo ai guai…

Deglutì a fatica. “Non ci pensare nemmeno, John, mi hai sentito?”

“Ti prego Sherlock, sei la nostra unica speranza.”

“Non ci penso nemmeno a suonare un’intero set di quella roba noiosa che si usa a questo genere di eventi.”

Mani familiari si ancorarono alle sue spalle per scuoterle e la speranza negli occhi di John si trasformò nella supplica di un cucciolo di labrador affammato. “Puoi anche non suonare al ricevimento ma ti prego…” La stretta sulle sue spalle si acuì. “Suona almeno per la marcia di Mary verso l’altare.”

Solo i musicisti disperati senza arte né parte, accettavano di suonare ad eventi noiosi e mondani come compleanni e matrimoni. Nonostante questo eventi simili rivestivano una certa qual importanza per la maggior parte delle persone, ragion per cui sarebbe stato molto meglio se John e Mary avessero fatto lo sforzo di cercare qualcuno di più appropriato di lui.

Ma che diamine, cercate almeno qualcuno che la musica possa sentirla.

“Sherlock.” La disperazione evaporò dalla voce di John nell suono nostalgico del suo nome. Sul volto che aveva visto ogni giorno per anni, la sincerità che rendeva John Watson la persona che era brillava in tutta la sua semplicità. “Io e Mary non abbiamo chiesto il tuo aiuto sin dal principio perché non volevamo farti pressioni dopo un viaggio così lunog, ma nulla potrebbe rendermi più felice di avere il mio migliore amico come musicista per le mie nozze.”

Strinse gli occhi e la sua mano cedette all’impellente bisogno di peggiorare il disastro che il casco aveva fatto dei suoi capelli. Un suono frustrato abbandonò le sue labbra. “Ugh, okay, d’accordo, ho capito. Lo farò ma piantala di spiattellarmi roba smielata in faccia, va bene?”

“Grazie mille, Sherlock,” Mary disse con un sorriso. “Sono sicura che duettare con William sarà una bella esperienza, è una persona molto piacevole.”

John offrì un vigoroso cenno di assenso. “Esatto, William è un pianista brillante. È un tipo un po’ riservato ma sono sicuro riuscirete ad andare d’accordo.”

Un duetto piano-violino, eh? Un classico cariadenti per questo genere di occasioni. Anche se c’è da aspettarselo da qualcuno che non ha mai avuto problemi a dire roba sdolcinata in faccia alla gente.

Un sospiro scosse il suo petto. “Sì, sì, ho capito. L’importante è che non faccia troppo schifo.”

Sarà una lunga settimana.

 

§

“Porca miseria Mary, non mi avevi detto di essere straricca.”

“Sherlock!”

“‘Sherlock’ un corno, John. Metà della roba di ‘sto posto consiste in antiquariato che probabilmente vale più di quanto guadagneremo in tutta la nostra vita.”

Mary si lasciò sfuggire una risatina. “Questa villa in realtà non appartiene a me, Sherlock,” disse con l’eco della sua risata nella voce. “Un amico di lunga data della mia famiglia ci ha permesso di usare questo posto come regalo di nozze.”

John annuì. “Il signor Albert è stato così gentile da dirci che possiamo usare la tenuta per tutto il tempo che vogliamo, ma ovviamente non abbiamo voluto approfittare della sua generosità e abbiamo optato giusto per la settimana necessaria a sistemare le ultime cose per il ricevimento.”

Il suo sguardo accarezzò le ampie pareti dalla carta da parati finemente decorata, le scale in legno laccato e l’imponente orologio a pendolo al centro dell’androne. Sopra di esso, uno stemma raffigurante due leoni rampanti recitava le parole “Je crois en moi”. Davanti ad una vista del genere, la sensazione di essere un anacronismo in quella che altrimenti sarebbe stata la perfetta immagine di un’altra epoca fece formicolare il retro del suo collo.

“È perspicace, giovanotto.” Una voce appena rauca risuonò nella stanza. Un uomo di alta statura dai lunghi capelli argentei con indosso una divisa nera da maggiordomo si avvicinò loro con un sorriso distinto. “Questa tenuta risale circa al 1866, quando gli antenati del Padron Albert l’hanno acquisita per farne una residenza estiva.”

Gli occhi di John si illuminarono. “Sherlock, lui è il signor Jack Renfield. Svolge il ruolo di custode di questa villa e aiuterà me e Mary con il mettere in piedi il ricevimento.”


“Lieto di fare la sua conoscenza, signor Holmes.” L’uomo profuse in un elegante inchino, perfettamente a suo agio nel ruolo. “Mi permettiate di scortarvi tutti nel salotto per un rinfresco pomeridiano.”

L’eco dei suoi scoordinati dei loro passi sul marmo immacolato sfumò nell’incontrare la moquette della stanza dove Jack li guidò. Se l’androne emetteva una certa aria di austerità, lo spazio ampiamente illuminato del salotto era un ritratto di opulenza con i suoi tappeti riccamente ricamati il camino incastonato tra le mura ricoperte da librerie. Un peso si posò sul suo petto, urlando di andare da qualche altra parte, in un posto dove l’atmosfera fosse men opprimente della calura che imperversava fuori dalle finestre.

“Ah, Sherlock.” La voce di John, percettivo ma discreto come sempre, interruppe il correre dei suoi pensieri. “Questi sono William e suo fratello minore Louis.”

Seduti su due divani decorati da un ricco motivo floreale, due uomini dai capelli biondi sorseggiavano del te in delle tazzine di porcellana dall’aria costosa. Quello dall’aspetto più giovan dei sue gli offrì un saluto che era poco più di un mormorio con un cenno cortese del capo e riportò la propria attenzione sulla bevanda.

Con un piacevole tintinnio l’altro uomo dei due posò la tazzina sul rispettivo piattino e si alzò per muovere alcuni passi nella sua direzione.

“Lei dev’essere il signor Holmes.” L’uomo parlò con un sorriso cortese che si rifletté nel tono di voce pacato ma in qualche modo reticente, trasudando quella stessa aria di affabilità di cui John e Mary avevano fatto cenno. “È un piacere conoscerla. Il mio nome è William James Moriarty.”

La mano che gli fu offerta si addiceva all’immagine spiccatamente raffinata del suo proprietario. Dita lunghe e affusolate strinsero le sue ricoperte da calli con forza discreta ma ben lontana dallo sfociare nella maleducazione.

“Vedi Sherlock,  William è–”

“Ci arrivo da solo, John.” I suoi occhi si posarono sull’uomo di fronte a lui per ricambiare lo sguardo vagamente diverito di un paio di occhi cremisi. Un sorriso incurvò un angolo delle sue labbra. “Tu devi essere il pianista con cui dovrò suonare nella cattedrale.”

William emise un suono di assenso che tinse di una nota di curiosità il suo sorriso. “Non ero al corrente del fatto che il violinista assunto dal Dottor Watson fosse quel suo amico di cui parla sempre con così grande affetto.”

“Nah, quel tizio gli ha dato buca. Sono un sostituto dell’ultimo minuto e comunque suonerò soltanto per l’ingresso di Mary in chiesa.”

John sollevò una mano per passasela dietro la testa ma si ricompose con un cenno entusiasta. “Anche se non sembra, Sherlock è un musicista incredibile anche se la musica non può senti–” Il suo sguardo si fece colpevole. “Scusami, non volevo–"

Quante storie inutili.

La maggior parte della gente era naturalmente ipocrita. Nel momento in cui veniva a sapere della sua condizione, iniziava a provare a nascondere - con pessimi risultati -  il mix di pietà e disprezzo della loro reazione. Eppure, quando John ne fu messo al corrente, gli aveva sorriso come se avesse appena ricevuto una notizia fantastica e gli aveva detto che era incredibile. Da quel momento era stato il suo fan numero uno.

“Comunque sì, le cose stanno come ha detto John.” Un sorrisetto incurvò le sue labbra. “Ma una cosa del genere significa solo che sono ancora più figo di quello che credi. Perciò puoi stare tranquillo, Signor Pianista.”

Il ragazzo biondo rimasto seduto - Lucas? Leon? Lucian? - gli scoccò un’occhiataccia e mormorò nella tazza una sfilza di parole a malapena compresibili riguardo a “stronzi presuntuosi” che “cercano di rovinare la reputazione di mio fratello”. Il mondo della musica era pieno di simili personalità vincenti e l’incontrarne qualcuna gli provocava un senso di ilarità quasi per riflesso condizionato. Eppure la suddetta non sembrava essere caratteristica comune dei Moriarty, perché l’espressione sul volto di William era impeccabilmente cortese.

“Si tratta di una notizia estremamente rincuorante, Signor Holmes. Allora mi auguro che non ci siano problemi se iniziamo a lavorare già da domani dopo colazione.”

“Eh? Per me non è ‘sto gran problema ma…”

Sei giorni non sono un po’ troppi per provare un singolo pezzo?

Il sorriso sul volto di William divenne una lama affilata. “Non vedo l’ora di ascoltarla dare il suo meglio, Signor Violinista.”
 

§


Il problema del mattino era che questo fosse il peggior momento della giornata. Sherlock compiva lo sforzo immane di svegliarsi e il sole era lì, a rendere tutto troppo caldo e appiccicoso nella maniera meno attraente possibile, mentre il suo cervello canticchiava minacciosamente il suo buongiorno con una scarica di ormoni dello stress nel suo sangue. La scienza continuava a ripetergli come fossero necessari a svegliare e rendere lucido il corpo. La scienza non faceva discriminazioni ma dopo aver passato gran parte della notte in bianco nella stanza stanza pazzesca che gli era stata assegnata, poteva andarsene assolutamente a quel paese.

Non gli interessava assolutamente ricordare che bere caffé di primo mattino fosse qualcosa di ridondante, perché se le sue gambe lo stavano trascinando giù per una scalinata che sembrava spuntare dal set di qualche film ad ambientazione storica era per il puro scopo di garantirgli la prima dose di caffeina e nicotina del giorno.

“Ah, buongiorno, Signor Holmes.” William, perfettamente vestito in un paio di pantaloni color militare e polo bianca, gli offrì un abbozzo di sorriso dalla base delle scale.

“Ehilà, Liam.” Il nomignolo venne fuori in modo spontaneo, portandolo a decretare che, a conti fatti, suonava piuttosto bene. Dopotutto ,se annegando un uomo avesse chiamato William per il suo nome intero in cerca di aiuto, sarebbe morto prima di riuscire a finire la frase. “Dammi il tempo di prendere un caffé e fare una fumata e ci mettiamo al lavoro.”

William sbatté le palpebre. “Non le consiglierei di prendere un caffé a mattinata così inoltrata. Se riesce ad essere un po’ paziente mio fratello e Jack dovrebbero essersi già messi all’opera per il pranzo.”

“Perché n- Aspetta, ‘il pranzo’?”

“Beh, dopotutto è quasi mezzogiorno.” La curva del sorriso di William si fece più tirata. “Ma guardando il lato positivo, mi sono preso la libertà di proporre un pezzo per il nostro duetto agli sposi e questi hanno dato la loro approvazione.”

“Approvazione? Ma la scaletta non erà già fatta e finita?”

“Il Dottor Watson e Mary sono stati così gentili da fidarsi sia del mio che del tuo giudizio, ma devo ammettere che la mia impazienza è dovuta ad un’idea che ha particolarmente colto il mio interesse.”

Delle mani affusolatre gli offrirono diversi fogli scritti ordinatamente a mano con un’invadenza così educata da rendergli impossibile un rifiuto. Il volto di William era il ritratto dell’amichevolezza.

Merda, è incazzato nero.

"Li–”

“Bene, io avrei un treno per Londra da prendere, ma sarò di ritorno per domani mattina. Mi auguro di poter avere per allora il piacere di ascoltare il suo violino.”

William gli scoccò un altro dei suoi sorrisi inquietantemente gentili e, come se non ci fosse stato nessuno sin dal principio, si affrettò a salire le scale.

Le linee scure e i punti che formavano l’immagine fin troppo familiare di uno sparito ricambiavano il suo sguardo nella maniera accusatoria che sapeva di meritare ma che il pianista gli aveva risparimato. In cima alla prima pagina, scritte in una grafia così elegante da ricordargli uno di quei video ASMR che John era solito guardare ai tempi dell’università, le parole “Ave Maria” gli strapparono un gran sorriso.

“Quell’arguto bastardo.”

 

§
 

“Sherlock, è tutto– Che diavolo è successo qui?!”

La punta smussata della matita tra le sue dita tracciò una linea di grafite scura con aria di finalità e cadde sul foglio con un soddisfacente tap. Sulla soglia della sua stanza, John lo guardava pallido e con occhi sgranati.

Annuì. “Mh? Che c’è?”

John boccheggiò e scosse il capo per entrare in stanza. “Sherlock, per caso un uragano è passato da queste parti?”

Sherlock sbatté le palpebre, assorbendo con lo sguardo lo spettacolo dei numerosi fogli accartocciati sparsi sul tappeto, degli abiti gettati in malo modo sulla sedia davanti alla scrivania e alla custodia del suo violino lasciata aperta sul letto. Cavolo. Sorrise. “Sei sempre così drammatico. Mi sono giusto concentrato un po’ troppo sul duetto, ma avevo già in programma di dare una pulita.”

John raggiunse a grandi passi il cestino situato di fianco alla scrivania e lo afferrò con una mano sola. “Sono venuto a controllare perché il Signor Jack ha detto che non hai risposto alla chiamata per la cena.” Un sospiro. “Non sei cambiato di una virgola in questi anni, ti dimentichi dell’esistenza del resto del mondo quando sei concentrato sulla musica.”

Oltre la finestra gli alberi erano sagome nere contrapposte al blu intenso del cielo che si scuriva. Il telefono nella sua tasca vibrò solleticandogli la pelle. “Liam mi ha dato lo sparito del duetto, stamattina. Ma si trattava soltanto del pezzo originale per pianoforte, intonso.”

"Oh." Il frusciò della carta si arrestò e il suono del profondo respiro che John prese riempì il neonato silenzio. “Mi dispiace, Sherlock. Se il tempo non basta non ci sono problemi se lasci fare tutto a William. Alla fine dei conti ti ho praticamente trascinato a forza in questa situazione…”

Non meritava qualcuno di onesto come John, eppure non c’era stata nemmeno una volta in cui John si fosse rifiutato di fare un passo indietro nel momento in cui era convinto di aver commesso un errore.

Una risata sfrontata risalì dalle profondità del suo petto.

“Ah John, sei davvero troppo buono. Ma sono un po’ offeso, sai.” Tamburellò con le dita sui fogli poggiati sulle sue gambe sfoggiando un sorrisetto soddisfatto. “Ho già fatto un signor lavoro. Quell’arguto bastardo non riuscirà a credere alle sue orecchie.”

“... ‘Arguto bastardo’? Intendi William?”

Il sorriso sul suo volto si allargò. “Puoi scommetterci. Liam non è decisamente un musicista qualunque, avevi ragione.”

John aggrottò le sopracciglia in quella maniera che era solita far spuntare una buffa fossetta nel mezzo della sua fronte. “Un momento, lo hai visto suonare?”

“Nah. Voglio dire, certo, è un modo per valutare l’abilità di un musicista, ma normalmente le scelte musicali per eventi particolari possono dirti un sacco di cose su chi ti trovi davanti.”

“Questa cosa non ha molto senso per me, Sherlock…”

Un sospirò gli scosse il petto. Spiegare le complessità di una determinata arte a coloro che non avevano altro che un’infarinatura superficiale della stessa richiedeva una pazienza che normalmente non aveva. Le persone erano incredibilmente dure di comprendomio, ma John era un tipo sveglio e la cosa lo riguardava da vicino, perciò valeva la pena fare un tentativo.

Roteò la matita tra le dita. “Sai, ci sono due composizioni particolarmente famose che hanno ‘Ave Maria’ come titolo. Quella che Liam ha scelto per le tue nozze è un pezzo di Schubert ed è fastidiosamente popolare per essere un pezzo di musica classica.”

“Questo è vero,” John annuì. “Io e Mary l’abbiamo riconosciuta subito quando William ce l’ha fattta ascoltare. Adesso che ci penso ci sono stati diversi artisti famosi che ci hanno cantato su."

Bingo.

Un sorriso d’intesa crebbe sulle sue labbra. “Adesso rifletti, John. Non c’è qualcosa di strano in questa scelta?”

La sua mano libera tastò il pavimento alla ricerca delle sue sigarette. Avere un aspirante medico come comapgno di stanza e trascorrere anni a studiare il mix di sostanze che componevano il piccolo assuefacente miracolo tra le sue labbra aveva cementato in lui l’idea che le cose belle della vita avevano sempre un pezzo d pagare. Era nato sordo alla music ed era finito con l’innamorarsene soltanto guardando le espressioni sul volto di coloro che la suonavano o la ascoltavano. Era una sorta di profezia, e poiché le profezie erano per antonomasia legate ad un finale a cui non era possibile sfuggire, aveva deciso di dedicare la sua anima a ciò che non poteva avere per capire cosa lo rendesse qualcosa di così intrinsecamente legato alla vita.

Il lamento della finestra che si apriva lo riportò al presente.

Le rughe pensierose sulla fronte di John si assottigliarono. “Immagino che sia una scelta poco comune utilizzare un pezzo che è principalmente noto nella sua versione cantata nel momento in cui non abbiamo assunto nessun cantante.”

Una boccata di fumo amaro gli accarezzò la lingua. “Heh, esatto. Detto questo, Liam probabilmente vuole che il violino si occupi della parte vocale per vedere come me la cavo ma ancor più di questo ha scelto questa canzone in particolare per fare un omaggio alla sposa.”

“Capisco, vuole ritrarre Mary come qualcuno pieno di grazia e misericordia come la Vergine Maria,” disse John con tenerezza nel suo sguardo. “È un bel pensiero.”

Sherlock rise fragorosamente e puntò la sigaretta con fare scherzosamente accusatorio. “Beh, di sicuro ha capito che razza di simp sei, se vuoi sapere quello che penso.”

Il John di 26 anni sarebbe diventato un ammasso di chiazze di un rosa vivace, con la punta delle orecchie di una notevole sfumatura di rosso, solo per provare a negare con una certa qual veehemenza la sua appartenenza a quella determinata categoria di persone. Per quanto ingiusto, vederlo andare nel panico davanti alle sue affettuose prese in giro era uno dei suoi hobby preferiti durante la loro convivenza, specialmente quando notizie terrificanti riguardanti l’ascesa di suo fratello arrivavano alle sue orecchie.

“Ehi, è soltanto naturale che io mi senta così nei confronti di Mary.”

Eppure l’uomo davanti a lui, prossimo ai 30 anni, faceva sfoggio di un semplice abbozzo di sorriso, un leggero incurvarsi delle labbra che accompagnava degli occhi ugualmente sorridenti nel menzionare un legame sovrannaturale che sarebbe diventato qualcosa di reale e tangibile nel giro di pochi giorni. Mentre lui era stato via alla ricerca della sua risposta, John aveva trovato un lavoro stabile, messo dei soldi da parte e compiuto tutti i passi necessari a sistemarsi.

Ah, ecco perché Liam ha scelto questo pezzo.

Scosse il capo con un gran sorriso e si alzò. Non che fosse qualcosa che poteva capire davvero.  “Sì, sì, ho capito.” Si stiracchiò con uno scoppiettio di ossa. “Vado a prendere qualcosina in cucina.”

“Di sicuro non riesco a capire come tu faccia ad andare avanti a caffeina e sigarette per la stragrande maggioranza del tempo.”

“E chi ha nominato il caffè, stavolta.” La maniglia scricchiolò piano sotto la sua mano. “Non posso fare tutta tirata se voglio fare bella impressione sul nostro pianista geniale, giusto?”

“Sembra proprio che tu non veda l’ora di suonare con William,” disse John con una malcelata risata nella voce.

Si voltò con un’alzata di spalle. “Mi sembra ovvio. Quel tipo lì è un criminale meravigliosamente scaltro quando si tratta di musica.”


§


‘Il mattino ha l’oro in bocca.’

Quando si trattava dei condiscendenti consigli di vita di quella merdina di Mycroft, il suo inconscio – che per ragioni su cui preferiva non interrogarsi aveva assunto la forma di una versione particolarmente insolente di Miss Hudson – finiva spesso con compiere una notevole opera di rimozione. Non era tanto una questione di mal sopportazione – cosa che ben riassumeva il loro rapporto – quanto piuttosto la mancanza di utlità nei commenti di qualcuno che aveva una visione della vita incompatibile con la sua.

Accolse la luce accecante del primo mattino con uno sbadiglio e un sorso di caffé particolarmente amaro offertogli da Jack.  Solitamente lo prendeva senza latte e con un solo cubetto di zucchero ma il vecchio uomo aveva inistito particolarmente sul fatto che quella particolare infusione desse il proprio meglio amara. Il profumo intenso e vagamente esotico, assieme alla ricchezza del sapore, resero la solita sigaretta mattutina una necessità superflua.

William James Moriarty, facendo sfoggio di un paio di pantaloni marrroni perfettamenti stirati e di una camicia di lino color ocra, entrò con passi misurati nel giardino e si voltò per parlare ad un uomo con indosso una familiare uniforme azzurra. Dagli alberi che circondavano la magione, le cicale piangevano assieme a lui per la levataccia.

Altru due uomini spuntarono dall’angolo che si affacciava verso l’entrata, trascinando con loro una grossa piattaforma su ruote sormontata da un pianoforte a coda che aveva l’aria di essere lo strumento più costoso sui cui avesse posato gli occhi in tutta la sua vita. Mandò giù un altro sorso di caffé.

Amaro è meglio.

“Dove possiamo depositarlo, Signor Moriarty?” Chiese uno dei due uomini con una strana deferenza nella voce.

William si aprì nel più educato dei suoi sorrisi. “Nella serra sul retro, grazie. Il Signor Renfield si è preso cura di lasciare la porta aperta e ha preparato un piccolo rinfresco per voi.”

Portò la tazza alle labbra e assaggiò soltanto aria. “Ehi, nonnetto.”

“Qualcosa non va, Signor Holmes?”

“Che Liam fosse ricco sfondato l’avevo capito, ma non è davvero troppo far trasferire un intero pianoforte a coda nella casa di qualcun altro?”

Un risata rauca risuonò accanto a lui. “Ma come, il padroncino Will e il padroncino Louis sono i fratelli minori di Albert James Moriarty, il solo ed unico proprietario di questa villa.”

Il braccio gli scivolò dallo stipite della porta.



Il titolo di questo capitolo, così come quello della storia, è tratto da "La Traviata", un'opera lirica meravigliosa composta da Giuseppe Verdi e la cui musica è stata, assieme ai Muse, gli Oasis e altro British rock, la colonna sonora della stesura di questa storia. Oltre a questo capitolo ce ne sono altri 4 più un epilogo. Dovrei postare ad intervalli non troppo lunghi, ma capitemi, tradurre a mano è un po' una rottura per testi di una certa dimensione (anche se è un buon esercizio linguistico, suppongo)

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Capitolo 2
*** But don't look back in anger, I heard you say ***


Confesso che mi ci è voluto veramente un sacco per fare una traduzione decente di questo capitolo. Non ci si rende conto di quanto 4000 parole possano essere lunghe fino a quando non le si deve rielaborare in un'altra lingua, per non parlare di quanto inglese e italiano siano strutturalmente diversi. In alcuni punti volevo mettermi le mani nei capelli, perché i miei periodi troppo lunghi suonavano malissimo in italiano, così come altre piccole cose. Spero di essere riuscita a proporre un adattamento pseudo-accettabile o che comunque non suoni troppo legnoso (è dura trovarsi faccia a faccia con i propri problemi stilistici...)
 


2.Don't look back in anger, I heard you say.


“Ah, Signor Holmes, tempismo perfetto.”

William era il genere di uomo che sembrava saltato fuori da un catalogo di moda: vestito impeccabilmente dall’orologio d’argento al polso fino alle lucide scarpe, nessun capello fuori posto e l’impronta evanescente di un sorriso amichevole sul viso. La cosa, in tutta franchezza, non era assolutamente una sorpresa per lui, considerato come i Moriarty fossero proprietari una molto reale e molto costosa magione vittoriana nella campagna del nord est inglese.

Il pianoforte a coda fu un elemento di sorpresa. Una di quelle piacevoli, contrariamente alle sue aspettative. William sicuramente aveva un’immagine che si addice al figlio di mezzo di una ricca famiglia inglese, ma guardarlo sedersi davanti ad uno degli strumenti più belli che avesse mai visto, andò a punzecchiare un pensiero nascente. Tra tutte le cose costose ma mozzafiato che potevano esistere al mondo, nulla gli sarebbe calzato a pennello come quel piano.

Agitò una mano. “Ehilà Liam! Niente male ‘sto posto.”

Anche uno strumento da 30 sterline sarebbe sembrato magnifico in quel tempio di vetro e fiori cremisi che era la serra di Villa Moriarty.

La bocca di William si arricciò con fare vagamente divertito, gli occhi illuminati dall’intelligenza di qualcuno che sa esattamente ciò che sta facendo. “Sono lieto che sia di tuo gradimento. Sono particolarmente affezionato a queste rose e Jack si prende eccellente cura di loro.”

“Be’, vorrà dire che ti darò un ulteriore motivo per essere lieto,” disse con il dolce sapore della vittoria sulla lingua sventolando lo spartito come se fosse un trofeo. “Ho fatto i compiti, Signor Pianista.”

“Qui possiamo suonare indisturbati e senza recare disturbo agli altri, perciò sarà un piacere prestarle la mia attenzione.”

Lasciò cadere lo spartito nelle mani di William e si inginocchiò davanti alla custodia in pelle nera sul pavimento. La vista del lucido legno gli riempì il petto di calore e la sensazione di poterlo stringere tra le mani era il filo rosso che lo legava a ciò che per lui era invisibile e inudibile.

“Quello è… uno Stradivarius,” William disse a bassa voce, come se lo stumento fosse una vecchia ma famosa conoscenza che non pensava di poter reincontrare o che potessero condividere.

Tra le sue dita l’archetto accarezzò le corde con un sibilo sottile, una vibrazione fatta di familiarità che correva attraverso il suo corpo per tradursi in un silenzio innaturale. Da bambino trascorreva il limbo tra sonno e veglia ad immaginare ancora e ancora che suono potesse avere, come sarebbe stato riempire il vuoto che si lasciava dietro.

Era qualcosa di paragonabile al frinire delle cicale tra gli alberi o il leggero fischiare del vento tra le foglie? O forse era qualcosa di completamente diverso, più simile al profondo tremolio che correva nelle sue vene mentre le corde tagliavano i polpastrelli negli accordi di un climax che aveva composto per impressionare?

William lo osservò con occhi cremisi ombrati dalle ciglia dorate, le labbra socchiuse. Una linea delicata gli aggrottò appena la fronte, passeggera alla stregua di una tempesta estiva, per sparire mentre l’eco della canzone formicolava via dalla sua pelle.

“È stato… davvero notevole, Signor Holmes.” Il fantasma di un sorriso rimase sul volto di William nel tessere le sue lodi. “Temo però che una performance così intensa e complessa sarebbe più adatta per un violino solista che per un duetto.”

Distruggere una persona a suon di complimenti era come uccidere qualcuno con il sorriso sulle labbra e il Signor Pianista sembrava avere un certo talento per la cosa, quasi a voler essere all’altezza di quel gioco di nomignoli che si era instaurato tra loro. Le sue dita perlustrarono la tasca posteriore dei suoi jeans per chiudersi attorno al corpo sottile di una delle sue Marlboro Rosse, delizioso veleno per le sue labbra.

“E quindi quale sarebbe la tua idea di duetto, Liam?”

“La mia idea, dice…” Occhi scarlatti baluginavano come la fiamma del suo accendino e si posarono su di lui. “Sa per caso cosa sia una ‘prova elaborativa’, Signor Holmes?”

“Eh?” Una boccata di fumo disegnò linee sinuose nell’aria. “Non è tipo un concetto di psicologia o qualcosa del genere?”

“Lo è, in effetti.” William annuì, il sorriso sulle sue labbra immutato. “Per spiegarlo in termini semplici possiamo dire che eventi associati ad emozioni molto forti hanno maggiore probabilità di diventare un ricordo a lungo termine. Questo sta a significare che il nostro ruolo non è di protagonisti della storia, ma quello della colonna sonora. Il nostro compito è essere la miccia che alimenta queste emozioni ma non la loro causa, perciò dobbiamo suonare come se fossimo un unico strumento.”

Un unico strumento, eh? Quindi come un’orchestra…

I concerti sinfonici erano una noia. Probabilmente persone che, al contrario di lui, non dovevano avere a che fare con un udito selettivo indotto da un fenomeno paranormale apprezzavano l’esperienza che era assistere ad un impressionante numero di strumenti incastrarsi tra di loro in maniera apparentemente naturale. Per lui, però, non erano che un mucchio di rumori sconnessi tra loro che cozzavano con un coro di respiri. Seguivano le mani del direttore senza eccezioni, senza alcuno spazio per essere più rumorosi, forti, unici. Alla fine dei conti anche lui doveva portarsi il pane in tavola, partendo prorprio da bocconi amari di questo genere.

Finché potrà, farà le cose a modo suo. “Ehi, Liam.”

“Signor Holmes?”

“Fammi sentire un po’ come suoni, okay?”

William sbatté le palpebre con la bocca socchiusa e una palese perplessità nello sguardo che gli fece scappare una risata. Geniali o meno, le persone reagivano tutte allo stesso modo. Era facile vivere senza doversi sforzare di pensare in modo anticonvenzionale, dopotutto.

Sherlock spense la sigaretta in un vaso e fece un paio di passi avanti. La superficie del pianoforte era liscia e piacevolmente fresca a contatto con i palmi delle sue mano, tenuto immacolato così come tutte le cose care a qualcuno avrebbero dovuto esserlo. 

“Oh, capisco,” disse William con gli occhi chiusi e qualcosa di indefinibile nella voce. “Lei… sente la musica.”

La maggior parte delle persone era prevedibile, ma era quello a rendere le eccezioni così interessanti. Un sorriso si allargò sulle sue labbra. “Ciò che non hai può essere rimpiazzato con qualcosa di tuo che è ancora meglio.”

“... Ha ragione.” La schiena di William era diritta, l’alzarsi e abbassarsi delle sue spalle un movimento dal ritmo costante. Delle dita pallide e affusolate si aprirono sui tasti neri e bianchi. “È così che dovrebbe essere.”

Le battute iniziali furono delicate, al limite dell'esitante. Percepire le vibrazioni di un pianoforte era più complicato poiché non era un esperto dello strumento, ma il modo in cui William suonava era di una precisione che non aveva mai sentito. Ogni nota e accordo corrispondeva ad una diversa intensità della pressione che spingeva contro i suoi palmi a formare una melodia precisa, qualcosa che non poteva essere percepito dalla lettura di un semplice spartito. E quello stesso spartito era ben lontano dall'essere l'oggetto dell'attenzione di occhi cremisi, occhi che erano concentrati su qualcosa che andava oltre i movimenti delle dita sui tasti.

Solitamente il pianoforte era la parte ritmica di un duetto, limitandosi ad un giro di accordi che si ripeteva per l’intera durata della performance con al massimo qualche variazione qua e là. Il tatto, però, non mentiva. Nel modo di suonare di William James Moriarty nulla si conformava a ciò che era solito e, nonostante i suoi sforzi nel fare sfoggio della propria bravura, Sherlock si ritrovò ad essere un passo indietro rispetto a lui.

Gettò il capo all’indietro e rise di gusto. “Ah Liam, sei proprio un tipo interessante.”

“Ah sì?” Una risatina divertita. “Non dovrebbe sminuirsi, anche lei è un musicista di grande talento, signor Holmes.”

“Heh, arguto bastardo che non sei altro…” Quando era stata l’ultima volta in cui qualcuno gli aveva proposto una sfida abbastanza interessante da far fremere le sue dita? “Dammi solo un po’ di tempo, Liam, e ti farò vedere.”

William gli offrì un sorriso, un leggero arricciarsi delle labbra che raggiunse i suoi occhi creando delle pieghe ai loro angoli. “Attenderò con impazienza, allora.”

 

§



Una grassa risata riempì il silenzio della sua stanza e si perse nel vento piacevolmente fresco che entrava dalla finestra. Fuori il paesaggio era avvolto dall’oscurità, il cielo e la terra indistinguibili lì dove il bagliore delle luci esterne non arrivava.

Un viso ben noto ghignò dallo schermo del suo telefono, con un accenno di lacrime negli occhi e un bubble tea dal colore osceno in una mano. “No, fammi capire, hai passato l’ultima mezz’ora a cantare le lodi di questo pianista biondo e geniale e non hai nemmeno provato a farti avanti con lui?”

Il mozzicone di sigaretta tra le sue dita incontrò una morte violenta contro il fondo del posacenere. Doveva comprarne un altro pacco in città. “Era per darti del contesto, idiota. Non sono qui per posare le mie manacce su di lui.”

“Sei davvero uno sfigato, Ponytail-senpai.”

Il suo viso si contrasse in una smorfia al nomigliolo senza senso. “Tappati quella bocca, Billy.”

L’espressione gioviale di Billy si fece seria e una luce illuminò di interesse il suo sguardo. “Quindi? Che informazioni volevi? A me sembra che tu ne sappia già parecchio sul conto di William e della canzone che dovete suonare.”

“Sì, come no.” Un sospiro frustrato gli scosse il petto al pensiero della sua cronologia internet. “Ho capito che non devo strafare, visto che è il matrimonio di John e non un concerto solista per violino, ma ogni volta che provo a suonare quella dannata canzone non sono per niente convinto di come suona.”

“Ohh, questo sì che è raro sentirtelo dire.” Billy fece un rumoroso sorso del suo té, risucchiando le verdi palline di tapioca nella cannuccia con le sopracciglia inarcate. “Anche se penso di capire cosa sta succedendo.”

Ovvio che fosse raro, era un genio. E i geni non finivano con il rimanere bloccati da problemi stupidi come l’incapacità di capire il giusto modo per suonare un pezzo che per una volta ha un qualche valore sentimentale. William era stato capace di ideare qualcosa che, nella sua semplicità, era riuscito a smuoverlo perciò lui non poteva essere da meno.

Non potrò considerarmi un suo pari se non riesco a portarmi sul suo stesso orizzonte.

Un sospiro ricco di enfasi abbandonò gli speaker del suo telefono. “Il tuo problema, Ponytail-senpai, è che non hai idea di quali emozioni dovresti prendere in considerazione mentre suoni.”  Sullo schermo Billy lo osservava con la fronte leggermente aggrottata e l’accenno di un sorriso empatico. “Sei felice per John perché vedi che è felice, ma non capisci la ragione dietro la sua felicità.”

“Eh? Una ragione?”

“Hai zero interesse nel trovare la tua anima gemella, hai speso tre anni della tua gioventù per perfezionare la tua immagine da ‘bad boy dal cuore d’oro’ viaggiando da solo per il mondo e i tuoi unici amici siamo io, John e la cara vecchia signorina Hudson.”

"Non siete i miei unici–" 

Gli occhi di Billy si illuminarono di malizia. “Vivi praticamente fuori dal mondo per la stragrande maggioranza del tempo quando si tratta di sentimenti, ma per molti trovare la propria anima gemella e trascorrere il resto della vita insieme è una questione decisamente importante, sai?”

Sherlock alzò gli occhi al cielo, tormentato dalla necessità di una nuova sigaretta tra le labbra. “Non capisco che senso abbia credere in quella robaccia sovrannaturale, specie se non fa altro che causarmi problemi.”

“Oh, già, tu non puoi sentire la musica per colpa di quello, vero?”

Anniì. “Il mio cervello e le mie orecchie funzionano a dovere, perciò non è che ci sia qualche altra spiegazione plausibile.”

Una volta eliminato l'impossibile ciò che rimane, per quanto improbabile, dev'essere la verità.

Il pensiero lasciò una nota di amarezza nella sua bocca. La sua condizione era parte di lui, al punto da essere ciò che lo aveva spinto a creare e affinare un nuovo talento da zero solo per poter essere libero di fare ciò che amava. Nonostante ciò, una contraddizione era pur sempre una contraddizione, e l’auto-accettazione non avrebbe cancellato il fatto che parte della persona che era diventato era nata da qualcosa in cui non credeva.

“Non dovresti scervellarti così tanto, Ponytail-senpai.” Billy puntò un dito verso l’angolo esterno del proprio occhio. “Ti verranno le rughe.”

Sherlock scoccò un’occhiataccia allo schermo. “Ho solo 27 anni, è troppo presto perché mi vengano le rughe.”

“Certo, certo. Certo che però questo William dev’essere proprio un tipo interessante se è riuscito a farti impuntare tanto su una canzone.”

L’intricata e colorata fantasia del tappeto ricambiò il suo sguardo. “... non sono tipo le 6 del mattino lì a Tokyo? Piantala di bere roba zuccherata ad orari assurdi e porta il tuo culo nel letto. Io andrò a prendermi qualcosa da bere in città.”

“Sissignore!” Un occhiolino. “Di’ a John che lo saluto!”

Lo schermò tornò a mostrare la finestra del contatto di Billy. Si alzò e infilò il telefono in una tasca dei jeans, raggiunse a grandi passi la giacca di pelle che aveva gettato su una sedia e se la mise sulle spalle. Un po’ d’aria fresca e una fumata avrebbero potuto essere d’aiuto. La sua mano aprì con violenza la porta della sua stanza.

"Sherlock?" 

Sulla soglia, con un pugno sollevato, John lo fissò perplesso.

Sherlock gli offrì un cenno del capo. “Ehi, sto andando a prendere le sigarette e qualcosa da bere in città. Ti serve qualcosa da lì?”

John sbatté le palpebre. “Vai a bere a quest’ora?” La sua fronte si aggrottò. “Qualcosa non va? Fino a poco fa stavi parlando in maniera così animata.”

“Oh, ero in chiamata con Billy. Ti dice ciao, o qualcosa del genere.”

I solchi sulla fronte di John si fecero più profondi.

‘Sei felice per John perché vedi che è felice, ma non capisci la ragione dietro la sua felicità.’

L’ennesimo sospiro della serata gli scosse il petto. “Vuoi unirti a me? Offro io.”

 
§


La superficie immacolata del bancone di legno conferiva alla birra che troneggiava su di esso una sfumatura più calda e scura. Le bollicine raggiungevano la superficie con la stessa lentezza con cui i suoi pensieri andavano alla deriva. Alla radio Noel Gallagher cantava del cuore dell’estate e del non guardare al passato con risentimento, la sua voce coperta di tanto in tanto dal chiacchiericcio dei pochi clienti presenti assieme a loro.

“Sherlock, siamo qui da 2o minuti e sei già metà della seconda birra.” I cubetti di ghiaccio nel whisky di John si mossero con un tintinnio stranamente piacevole. “Mi vuoi spiegare perché continui a non volermi dire cosa c’è che non va?”

Sherlock espirò dalle narici e la sua mano si allungò verso una cartina come se fosse tornato ad essere lo studente squattrinato che era appena ventenne. “John.” L’odore del tabacco scadente lo manteneva ancorato al presente. “Perché vuoi sposare Mary?”

Era più un’accusa che una domanda vera e propria, ma esplorare territori nuovi non gli era facile quando si trattava di avere a che fare con le persone. La gente era troppo fragile e rimaneva ferita con niente e di certo John non meritava di soffire per via della sua mancanza di tatto.

Un risata carica di sollievo riempì lo spazio accanto a lui. “Quindi era questo il problema, mi hai davvero fatto preoccupare per un momento.” John abbassò lo sguardo sul proprio bicchiere con occhi carichi di affetto e un sorriso gentile. “Sai, di solito la gente mi rende abbastanza difficile rispondere a questa domanda, visto che si aspettano di sentire che lo voglio fare perché siamo anime gemelle. Perciò sentirmelo chiedere da te è confortante, in qualche modo.”

Sherlock esalò una boccata di fumo con un’occhiataccia. “Cosa stai cercando di insinuare?”

John rise nella sua maniera spensierata e familiare e si scompigliò i capelli. “Solo Mary ne è al corrente ma… a dire la verità non siamo sicuri di essere davvero anime gemelle.” Un sorriso imbarazzato. “Sai che non ho mai prestato grande attenzione al mio marchio, perciò ci siamo entrambi resi conto che i nostri timer si erano azzerati quando eravamo già insieme da tempo.”

La sigaretta gli sfuggì dalle labbra e le sue mani scattarono per salvare il tabacco appena rollato da una morte prematura. Il contatto della sua pelle contro la fiamma gli strappò un sibilo di dolore.

Questa cosa non ha senso.

"Allora perché–" 

La figura di John tremò in una malcelata risatina. “Allora perché sposarla se non ho alcun genere di obbligo, giusto?”

“Sì, sì, piantala di anticiparmi,” borbottò nella sua birra. “È dannatamente inquietante.”

“Ti conosco come le mie tasche, Sherlock Holmes,” disse John colpendolo affettuosamente con la propria spalla. “Per questo posso dire che, paragonato a persone come te, non sono niente speciale. Il mio aspetto e la mia intelligenza sono nella media e non ho particolari talenti di cui fare vanto.” Una mano si allungò verso il suo tabacco. “Penso che questa sensazione abbia raggiunto il suo picco quando sono diventato uno specializzando. Avevo avuto la mia buona dose di immagini cruente ma quel giorno mi era capitato di dover dare una mano in un’amputazione particolarmente sanguinolenta e… sono svenuto come un novellino.”

Sherlock porse il suo Zippo con mano tremante. Non era una persona sufficientemente decente per provare più di tanto a trattenersi ma John lo guardò con delle guance gonfie che erano tutte un programma e le loro risate riempirono il piccolo pub tra le occhiate perplesse dei presenti.

“Pessimo, vero?” John disse con una risata nasale che fece sbucare lacrime dai suoi occhi. “Quando sono rinvenuto ero straiato sul divano della zona ricreativa e…”

“... e Mary era lì.”

“Era una delle infermiere che stavano assistendo in sala operatoria e io ero assolutamente mortificato, perciò sono finito con il dire che probabilmente non ero troppo tagliato per fare il medico.”

Se John H. Watson, la persona più sincera e paziente che aveva incontrato tra le migliaia di assurde personalità che avevano incrociato il suo cammino in 27 anni di vita, non era portato per essere un medico, allora nessun altro lo sarebbe stato. Anche se un paio di birre non erano abbastanza per far sì che dicesse qualcosa di così oltraggiosamente smielato ad alta voce.

L’estremità della deforme sigaretta di John si illuminò di un arancio fosforescente ma il fumo fuoriuscì dalla sua bocca con un colpo di tosse, dandogli più l’aria di un teenager troppo cresciuto che quella di un uomo prossimo a sposarsi.

“Quindi? Che cosa disse?” lo spronò, troppo stanco e nostalgico per renderlo partecipe dell'analogia. 

John abbassò lo sguardo. "Mi disse che non era possibile che non fossi portato per fare il medico, perché tra le tante persone che ha visto al lavoro ai suoi occhi io ero eccezionalmente gentile."

La radio cantava. Il silenzio lasciato dall'uscita dei pochi clienti presenti nel pub si riempì di parole prive di musica. 

'And I'm a different million people from one day to the next I can't change my mold…' 

Sherlock ingurgitò il resto della birra. “Pensi che sia stato davvero qualcosa di predeterminato? Tipo una sequenza di geni incisa nel nostro DNA che prende le decisioni senza alcun riguardo per la persona che diventiamo con il trascorrere della vita?"

"Sai," disse John spegnendo la sigaretta ancora buona contro il fondo del posacenere. "Siamo egoisti e pessimi giudici di noi stessi, perciò nel momento in cui troviamo qualcuno che ci vede per quello che siamo vogliamo istintivamente tenercelo stretto, conoscerlo e farci conoscere a nostra volta."

“Quindi al diavolo le anime gemelle e i loro segni, eh?” 

“Beh, quando eravamo più piccoli sei stato tu a dire che soltanto noi possiamo decidere chi vogliamo essere e che aspetto debba avere la nostra felicità.”

Chiuse gli occhi con un gran sorriso. “Dannatamente vero.” 

 

§

 

La notte aveva l'odore della carta e della grafite, del fumo di tabacco scadente e di detersivo dal profumo insolito. Sapeva di sigarette e alcol a stomaco vuoto. Scattò a sedere e qualcosa cadde dalla sua faccia con uno sventolio e un leggero tap.  Al buio i contorni delle cose apparivano sfocati, linee che incontravano accarezzate dalla debole luce della luna che entrava dalla finestra accanto al letto. A luci spente la campagna era una tela nera punteggiata di tempera bianca, uno sparito in negativo di una musica sconosciuta. 

Le sue mani tastarono le lenzuola alla ricerca del cellulare, la superficie ancora tiepida e spiegazzata lì dove si era poggiato il suo corpo. La luce dello schermo lo accecò. In ordinati pixel bianchi su una foto piuttosto lusinghiera del suo Stradivarius, l'orologio segnava le 2 del mattino. 

Si alzò con uno scoppiettio di ossa e la camicia appiccicaticcia per il sudore. Qualcosa di duro scricchiolò sotto il suo piede nudo, strappandogli una serie di imprecazioni a bassa voce. La torcia del cellulare illuminò una matita spezzata in due e i fogli di uno sparito sparsi ai piedi del suo letto. 

Ah, già. Mi sono addormentato dopo aver finito di lavorare su di questo. 

La custodia del violino riposava aperta ma indisturbata sul tapped. Una corrente elettrica percorse le sue dita al baluginio delle corde accarezzate dalla debole luce. 

Il sonno era per i deboli. 

§


Essendo stato prima uno studente squattrinato e poi un musicista giramondo, il concetto di opulenza in un qualunque posto che non fosse un teatro era assolutamente privo di senso ai suoi occhi. Non era sufficientemente ipocrita da dire che i soldi non facessero la felicità, considerato quanto diverso era passare la notte in sistemazioni più confortevoli di un motel con materassi di pietra, ma la gente che aveva troppo tra le mani finiva soltanto con lo spendere per soddisfare i desideri più futili e assurdi. Anche se forse alcuni erano più legittimi di altri. 

Sotto un cielo notturno insolitamente terso la serra era un dipinto in chiaroscuro dai dettagli straordinari. Il pianoforte, con la sua forma affusolata e la superficie di inchiostro liquido alla luce della luna, era il cuore di quel capolavoro. Sorrise. 

Nel suo saltare da un ruolo all'altro aveva posato lo sguardo su numerosi tesori musicali e  questi gli avevano offerto un preciso spaccato del tipo di persona che li possedeva. Sentiva spesso dire in giro che gli strumenti riflettevano almeno in parte i loro musicisti. Questo genere di dicerie incontrava il suo scetticismo, vista la mancanza di basi concrete a supportarle, eppure negarle davanti ad un oggetto così magnifico sarebbe equivalso ad ammettere di essere cieco. 

Uno strumento così ben mantenuto poteva essere legato soltanto a qualcuno con un particolare tipo di sensibilità, e William James Moriarty, che pareva essere fatto di bianche porcellane e ori, gli si addiceva senza alcun dubbio. Ciò che però lo aveva realmente scosso era la meravigliosa chiarezza con cui la sua musica vibrava  e che veniva soltanto accentuata dalla fragilità che si insinuava discreta nelle pause tra le note.  Non gli serviva scavare troppo a fondo nella storia della musica per sapere che ciò che realmente muoveva l'animo umano non era la perfezione teorica, ma quei refusi che si lasciavano dietro tracce delle mani che avevano dato loro la luce. Un uomo sordo il cui unico rifugio dai pregiudizi del mondo al di fuori della sua casa era la musica, un uomo che  aveva scritto di donne tragiche nella loro bellezza solo per morire lasciando la sua opera magna incompleta. 

I tasti erano lisci e privi di imperfezioni sotto le sue dita, appena freddi nel ricordargli il piccolo crimine di cui si stava rendendo autore solo per amore della bellezza. 

Una luce ben più forte di quella della luna si rifletté sul corpo dello strumento alla stregua di una neonata stella. Dietro la sua fonte, una sagoma slanciata si ergeva a nuova aggiunta del dipinto. 

“Il sonno non la assiste, Signor Holmes?” 
 



Note

Qualche piccola curiosità:

- Le due canzoni citate sono "Don't look back in anger" degli Oasis e "Bittersweet Symphony" dei The Verve. Non scherzavo quando ho detto che sono andata quasi full british per la colonna sonora di questa storia (la si può definire così, immagino?)

- I due musicisti che Sherlock menziona mentalmente sono Ludwig Van Beethoven (che è stato sordo per gran parte della sua vita) e Giacomo Puccini (compositore di molte e bellissime opere liriche con donne come protagoniste)

- Non capisco quasi niente di sigarette. La mia conoscenza viene per osmosi dal guardare miei conoscenti e ho scelto le Marlboro Rosse per Sherlock semplicemente perché ho sentito dire che sono piuttosto intense (qualunque cosa voglia dire). Tra l'altro nel canon John si lamenta con Sherlock perché il tabacco che quest'ultimo fuma è indecentemente forte, quindi...

 

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Capitolo 3
*** Tu crois l’éviter, il te tient. ***


Il titolo di questo capitolo è tratto da "L'amour est un oiseau rebelle" titolo di una famosissima aria della Carmen, un'opera lirica scritta da Georges Bizet.
Mi sono divertita un sacco a pensare a che canzoni utilizzare per una specifica parte di questo capitolo e visto che la mia conoscenza della musica classica non è proprio vastissima, ho voluto fare un mix di classici veri e classici moderni. Inoltre sono contenta perché la traduzione di questo capitolo è stata meno... difficile (?) dei primi due, forse anche in virtù del fatto che sto iniziando a riprenderci la mano.

 

Per i musicisti i loro strumenti erano sacri.  Nonostante questo, però, gli era capitato più di una volta di sentirsi dire con nonchalance come affermazioni simili non fossero che una conseguenza degli atteggiamenti eccessivmente teatrali tipici degli artisti. Per quanto il pubblico generale fosse orrendamente sciocco, la verità era che non poteva biasimarli per la mancanza di comprensione nei confronti di questo specifico dettaglio. Dopotutto uno dei più grandi fascini della musica era il suo sembrare qualcosa che non richiedesse sforzo agli occhi di coloro che non avevano familiarità con il concetto della pratica.

Un talento che non veniva coltivato aveva ben poco valore e le persone che gli davano del genio - sebbene spesso con la superflua aggiunta dell’aggettivo ‘folle’ - non avevano idea di cosa significasse spendere così tanto tempo nell’imparare le complessità di uno strumento da renderlo un’estensione del proprio corpo. Se qualcuno avesse anche solo sfiorato il suo Stradivarius senza permesso, Sherlock non avrebbe esitato nello spezzare qualche dito.

Le mani di Sherlock caddero ai suoi fianchi accomapgnate da un sospiro. Data la propensione per la riservatezza di William e il fatto che fosse appena stato colto in flagrante proprio mentre infrangeva una regola implicita, l’avere il corpo ancora integro era un traguardo.

“Scusa Liam,” disse con una voce che suonava sorprendentemente imbarazzata persino alle sue orecchie. Per motivi su cui non aveva tempo per interrogarsi, Sherlock non prese minimamente in considerazione l’idea di mentire. “Ma sì, non riuscivo a dormire e questo posto era l’unico che potessi usare per fare un po’ di pratica senza svegliare l’intera magione. O senza essere pugnalato da Louis con un coltello da bistecca, per quel che vale.”

La luce scomparve con la stessa subitaneità con cui aveva abbozzato nuove ombre quella tela camaleontica che era la serra. Dei passi lenti picchiettarono sul pavimento, facendosi più vicini. Sotto la luce della luna, William lo osservò con battiti lnaguidi di ciglia dorate e uno scorcio di denti bianchi che sparì dietro labbra pallide. “Ultimamente anche io soffro di insonnia, perciò mi auguro non ti dispiaccia se le faccio compagnia.”

Le sue labbra si schiusero in un sorriso incredulo davanti all’assurdità della situazione e una risata risalì rumorosa e sfacciata dalle profondità del suo petto. “Ma dai, sei serio?” Non ce la poteva davvero fare quando si trattava di William. “Questo posto è tuo, no? Dovrei essere io a chiedere il tuo permesso.”

William raggiunse la piccola panca davanti al piano in poche falcate evi si appoggiò su con la grazia di qualcuno che aveva compiuto quel gesto per una vita intera. “Se la mette in questo modo…” Il leggero incurvarsi in su delle sue labbra dava ai tratti angelici del suo viso un’affilatezza che contrastava con le note scherzose della sua voce. “Potrebbe sempre suonare qualcosa come forma di pagamento.”

“Perché no.” Sherlock si sporse verso la tastiera, con le braccia posate sull’orlo del piano, per scoccagli un sorriso da canaglia. Venire innocentemente manipolato andava bene, fintanto che il risultato era qualcosa di interessante. “Qualche richiesta in particolare? Ma sappi che non suonerò quella roba orrendamente smielata su cui stiamo lavorando.”

Una ciocca di oro bianco cadde leggera sul cremisi per il modo in cui il capo di William si inclinò di lato con un baluginio divertito nello sguardo. “Mi sorprenda.”

Sherlock si era posto come caposaldo della propria esistenza quello di non suonare con l’esplicito scopo di ingraziarsi qualcuno, poiché nessuna emozione poteva essere definita genuina se richiamata alla superficie da un intento preciso. La sua arte era quella del seguire il capriccio del momento, libero e catartico, perciò il suo corpo intero vibrò con il lento e giocoso allettare di un’habanera, inno di una donna indomita la cui fine giunse per mano della libertà stessa. Era la danza ipnotica di una fiamma, una che desiderava essere ammirata solo per bruciare coloro che osavano toccarla e che sarebbe morta nel calore dello sfarfallio delle sue braci.

"L'amour est un oiseau rebelle que nul ne peut apprivoiser." Le parole straniere fuoriuscirono dall’affilato sorriso di William come gocce di miele, riaccendendo quiete le stesse braci che si erano estinte con il terminare del pezzo. “Devo riconoscere che si tratta di una scelta molto appropiata. Anche se mi sorge spontaneo chiedermi se lei viva anche l’amore con una così spietata idea di libertà.”

Un brivido si disegnò sulla sua pelle nonostante l’umida calura notturna. Non aveva assolutamente preso in considerazione l’idea di trascinare la conversazione in questo genere di territorio e il famoso tango che aveva suonato non era che il risultato di un desiderio del momento di sentire qualcosa di vivace. Evidentemente William James Moriarty era in grado di cogliere parti di lui che nemmeno sapeva di aver esposto.

Sherlock sorrise. “Beh Liam, sarò anche uno spirito libero, ma non ho la più pallida idea di come l’amore o quella roba delle anime gemelle funzionino.” Dare un nome al cocktail di neurotrasmettitori dietro quelle reazioni chimiche che erano i sentimenti era un gioco da ragazzi ma comprendere i dettagli del funzionamento di un meccanismo non equivaleva a padroneggiarlo. “Semplicemente non capisco come qualcuno possa vederti e riconoscere la tua esistenza in mezzo a miliardi di persone al punto da spingerti a mandare tutto all’inferno solo per poter stare con quella persona.”

“Temo di comprendere piuttosto bene il suo riserbo al riguardo.” William alzò lo sguardo e una punta di amarezza si dipinse sulla curva delle sue labbra. “Un fenomeno che si presenta come un’eccezione alle regole non è molto apprezzato nella mia linea di lavoro.”

Un ghigno. “Eppure mi dai l’impressione di essere un tipo romantico.”

“Suppongo che nessuno immaginerebbe un matematico come qualcuno che si diletta in discussioni sulla natura indomita dell’amore, vero?” disse William con una risata delizata a dare colore alla sua voce.

“Quindi fare il pianista è solo un lavoro secondario?”

“Dire che divido equamente il mio tempo tra le due cose sarebbe più appropriato. La musica è matematica, dopotutto.”

Le labbra di Sherlock si contorsero in un broncio. “Ah Liam Liam, facevo abbastanza schifo in matematica ma sono comunque un signor musicista, sai?”

William nascose una risatina nella sua mano. “Allora dovremmo forse provare ancora una volta per testare le capacità di cui vai tanto fiero, Sherlock?”

Era un suono nuovo se pronunciato dal caldo tenore di William, ma non spiacevole. Dopotutto era giusto che al pianista spettasse questo privilegio, visto che questi aveva già un brillante soprannome di suo pugno. “Hah! Mi hai finalmente chiamato per nome!” Sherlock passò una mano tra le ciocche ribelli che gli cadevano sul viso nel tentativo di controllare il gran sorriso che aveva preso il controllo della sua bocca. Non sarebbe riuscito a dormire nemmeno se lo avessero colpito in testa con una padella, in quel momento. “Sai cosa? Ci sto.”

§

 

Rimanere in piedi tutta la notte senza uno straccio di piano B per il giorno successivo era il tipo di idea che diventava sempre peggiore con il passare degli anni. I tempi in cui era un pestifero studente universitario che passava notti in bianco senza mai risentirne erano finiti da un po’ e vivere da solo, passando di continuo da un fuso orario all’altro, aveva iniziato a tirargli brutti scherzi.

Un borbottio proveniente dal suo stomaco risuonò tra i corridoi vuoti della villa dei Moriarty, illuminati ampiamente dal sole del primo pomeriggio che entrava dalle larghe vetrate delle finestre. 

Nessun Moriarty junior in vista. Tutto secondo i piani.

Anche se l’opposto era chiaro come la luce del sole, Louis  James Moriarty non era una persona che gli dava particolarmente fastidio. Era un cuoco eccezionale e aver avuto la possibilità di godersi la sua cucina per i due giorni precedenti lo aveva decisamente viziato. Però, per quanto divertente, la sua tenenza a mettere sotto i riflettori qualunque suo errore ogni volta che provava ad attaccare conversazione con Liam davanti a lui era un po’ frustrante e avrebbe preferito di gran lunga evitare di essere beccato nel suo regno ad orari ingiustificabili.

Il suddetto regno, però, se paragonato alle dimensioni della villa, era soprendentemente piccolo ma non privo di lucidi marmi e utensili ed elettrodomestici di ultima generazione. Davanti al forno una schiena familiare sormontata da una testa di altrettanto familiari capelli biondi si ergeva con un bizzarro… qualcosa tra le mani. Sherlock rallentò il proprio respiro e fece un cauto passo in avanti, mantenendosi quanto più silenzioso possibile. L’oggetto non meglio identficato condivideva una qualche somiglianza con un pasticcio, rotondo e leggermente rigonifio, ma dalla sua crosta dorata sbucavano diverse teste di sardina che lo fissavano con occhi vitrei.

Un momento, quella roba non è forse…

Un’incontrollabile fitta di riso silenzioso gli scosse le spalle. “... Stargazy pie.”

La testa bionda  di William si voltò con un movimento improvviso, facendo sfoggio di un paio di occhi cremisi spalancati e di briciole che punteggiavano le guance appena gonfie. Il pezzo di pasticcio nella sua mano presentava un evidente vuoto a forma di mezzaluna.

“Quindi quel coso esiste davvero,” ridacchiò. Per una volta era grato di come il suo stomaco fosse senza regole e senso di auto-preservazione.  “Posso dare un morso? Ho sempre voluto provare quello vero.”

Un lieve rosa colorò della pelle di porcellana. William si schiarì la voce. “Sei libero di servirti. Temo però di doverti avvertire del fatto che si tratta di un sapore un po’ insolito.”

“Heh, quando giri per il mondo con un budget ristretto non puoi fare lo schizzinoso sul cibo.” Un profumo inaspettatamente piacevole di cipolle sapientemente cucinate gli riempì le narici. La crosta era ancora calda. “Ricordo di aver mangiato del ramen da 99 centesimi al kimchi ultra piccante e scaduto da un mese, perciò questo non potrà essere così male.” 

William spalancò gli occhi in quel genere di espressione che aveva visto sul volto di più di una persona nel menzionare le sue abitudini alimentari ma le sue labbra si allargarono in una curva che si lasciò sfuggire l’abbozzo di una risata. “Tu… tu non finisci mai di sorprendermi.”

“Bene.” Un ghigno. “Non sopporterei essere noioso.”

Sherlock affondò i denti nel pezzo di pasticcio. La crosta era croccante ma ben lontana dall’essere troppo dura e la leggera dolcezza delle cipolle controbilanciava perfettamente il sapore inteso e salato delle sardine. “Cavolo, è davvero buono.”

L’eco della dolcezza del sorriso di William si trasformò in qualcosa di più delicato, un affetto che aveva visto rivolgere solo al suo maestoso pianoforte a coda. “Louis sarebbe felice di sentirlo.”

Avrebbe dovuto immaginarlo. “Quindi è opera di Louis, eh? La sua personalità è terribile ma il cibo che prepara è roba dell’altro mondo per quanto è buono.”

William si abbandonò contro il bordo del bancone in una maniera insolitamente lontana dalla sua condotta sempre così elegante e dignitosa. “Sono consapevole del fatto che Louis dia l’impressione di essere scontroso. Anche se è soltanto un anno più giovane di me è molto protettivo nei confronti miei e di nostro fratello Albert e non se la cava molto bene con gli sconosciuti.” La sua voce era pacata, come se quelle parole fossero qualcosa rivolto solo a William stesso. “Ma ha un animo immensamente gentile che lo rende meraviglioso nel prendersi cura degli altri.”

Sherlock si sistemò accanto a William con un sospiro silenzioso. Il legame di fraterno affetto che legava i Moriarty era un filo dorato cha traspariva chiaro e brillante nelle parole sospese tra di loro. Era qualcosa di molto diverso dalla contorta e sottile relazione che lui a Mycroft condividevano.

“Sai,” disse William con lo sguardo abbassato sul pezzo di pasticcio nella sua mano. “Questo è uno dei miei piatti preferiti. Sono sicuro che Louis lo abbia preparato dopo essersi accorto del fatto che sono tornato nella mia stanza all’alba. Deve aver previsto che avrei dormito oltre l’ora di pranzo…”

L’inviidia era qualcosa per cui non aveva né tempo né diritto, non quando era sempre stato lui a rifiutare gli impacciati tentativi di prendersi cura di lui di suo fratello maggiore. Un sorriso incerto si fece strada sulle sue labbra. “Sì, è un tipo a posto.”

“Il mio intuito mi dice che andreste più d’accordo se iniziassi a fare complimenti sinceri come questo al suo cibo.” Un pizzico di malizia colorò la voce pacata di William. “Sta studiando per diventare uno chef, dopotutto.”

“Beh, non esageriamo.” Soffocò uno sbadiglio. Cavolo, stava davvero diventando vecchio. “Le cose stanno anche bene così fintanto che non prova ad accoltellarmi quando provo a parlarti.”

William si lasciò sfuggire una piccola risata ma il suo sguardo si fece dispiaciuto. “Forse tenerti sveglio fino all’alba è stato un po’ egoista da parte mia, scusami.”

Ah, quest’uomo si alterna tra l’avere la faccia di un angelo e quella di un demone. “Sai, dovrò trovare un modo per farti smettere di scusarti per roba di cui non hai colpa.” Allungò le braccia con uno scoppiettio di ossa. “Inoltre sono spesso e volentieri in preda al jet lag, quindi finisco lo stesso con il fare pratica di notte.”

Probabilmente Billy, che aveva l’abilità di addormentarsi quando e dove volesse alla stregua di un gatto, lo avrebbe preso in giro per un simile affermazione, dicendo che i 30 anni si stavano inesorabilmente avvicinando e che tutte le sue lamentele non erano che una conseguenza del suo invecchiare.

Occhi cremisi si soffermarono su di lui. “Che coincidenza, in questi giorni anche io faccio fatica a dormire. Che ne dici se facessimo buon uso di questo aspetto in comune?”

 

§

 

Una delle caratteristiche della musica che la rendevano così incredibile ai suoi occhi era la facilità con la quale riusciva ad imprimersi nel corpo e nella mente. Ad ogni pressione delle dita, ad ogni movimento dell’archetto, ciò che prendeva forma nella sua mente era una melodia familiare fatta di sottili vibrazioni.

Aveva imparato a riconoscere le sensazioni provenienti dal suo amato Stradivarius e un’occhiata a delle note scritte in nero su bianco si traduceva in una sua personale tipologia di musica. Una musica fatta di tatto e memoria muscolare. Perciò avrebbe dovuto essere quantomeno strano percepire la chiarezza e la profondità del modo in cui il pianoforte di William vibrava attraverso i suoi palmi. Ma non lo era. Riempiva i vuoti che il suo violino si lasciava dietro come se fosse sempre stato lì, al punto da togliergli la necessità di guardare William per trovarsi davanti al sorriso pieno di soddisfazione e divertimento, che era specchio del suo.

“Sono del parere che quest’ultima prova fosse meravigliosamente riuscita, Sherlock.”

Sherlock offrì un cenno di assenso che fece scivolare una goccia di sudore lungo la sua tempia. “Già, l’ho percepita particolarmente bene.”

“Immagino che potremmo fermarci qui con le prove,” disse William rivolgendo uno sguardo pensieroso al chiaroscuro dei tasti. “Anche se, a voler essere particolarmente scrupolosi, dovremmo assicurarci di provare almeno un’ultima volta il giorno prima della cerimonia.”

La perfezione non era uno dei cardin del suo credo musicale. Era una semplice questione di suonare per assecondare i suoi capricci e metterci tutto se stesso fino ad essere completamente soddisfatto. Nessuna sensazione poteva paragonarsi a quella di un pezzo che era giusto sulla sua pelle e l’Ave Maria che indugiava nella sua memoria tattile ne era un meraviglioso esempio.

"... Direi che ci sta."

Altre prove avrebbero reso la questione più simile ad un lavoro e quindi ad uno sprco di quella che avrebbe dovuto essere una riunione e una vacanza assieme al suo migliore amico.

Ah, Sherlock. Che bambino troppo cresciuto che sei quando si tratta di emozioni.

Eppure era stato divertente. Così tanti che quattro giorni erano volati via in un battito di ciglia. Il tempo, nonostante le complesse teorie che lo descrivevano come tale, non doveva essere qualcosa di relativo per un musicista e uomo di scienza ma quando si trattava di suonare con Liam nessun aggettivo poteva essere più appropriato di quello.

“Liam, facciamo una piccola gara,” disse con nonchalance.

Il suo filtro cervello-bocca non aveva mai funzionato granché.

William alzò lo sguardo, gli occhi cremisi leggermente spalancati. “Una… gara, dici?”

“Già. Suoniamo a turni un pezzo di una canzone e l’altro deve riconoscere di quale canzone si tratta.”

“Capisco.” Un sorriso tagliente come le corde sul suo violino balunginò sui lineamenti angelici di William. “Mi sento però in dovere di avvisarla che non accetterò lamentele riguardo l'equità della sfida quando perderà, signor Holmes.”

 

Un brivido fece tremare la sua schiena. “Non vedo l’ora di vedere la faccia che farai quando ti farò mangiare la polvere.” Sorridendo come una canaglia, mosse la mano in un gesto teatrale. “A lei l’onore, Professore.”

William chinò il capo in uno scherzoso inchino e posò le mani sulla tastiera. La canzone che nacque dai movimenti leggiadri ma precisi delle sue dita era un alternarsi vagamente malinconico di accordi profondi che vibravano nelle sue ossa e note più brevi e difficili da percepire. Oh, se quell’uomo pensava che lui, in quanto inglese, non fosse in grado di riconoscere quella che poteva essere definita la canzone, si sbagliava di grosso.

“Ah Liam, vecchia volpe,” disse gioviale, “credevi davvero che non avrei riconosciuto Bohemian Rhapsody solo perché sono un violinista? Devi fare meglio di così se vuoi avere una possibilità contro di me.”

Una risata spensierata riempì la penombra della serra. “Scusami, Sherlock. Mi assicurerò di imparare dei miei errori.”

“Oh, ti conviene farlo eccome.”

Se era un classico ciò che William desiderava, allora sarebbe stato quello che gli avrebbe offerto. Dopotutto assecondare di tanto in tanto i capricci del pubblico era fondamentale per mantenere la sua attenzione durante la performance. La pressione delle sue dita e i movimenti dell'archetto intonarono una sequenza di vibrazioni impetuose come la Bora che scuoteva alberi e mari. 

“Ah, il terzo movimento dell'"Inverno' di Vivaldi,” disse William con un lento battito di mani e una voce che falliva miseramente nel nascondere le risate che scalpitavano per uscire dalla sua bocca. “Una scelta molto elegante, anche se alquanto semplice da riconoscere.”

Avrebbe dovuto aspettarsi che Liam fosse in grado di riconoscere anche il preciso movimento di una composizione, non era uno di quei noiosi palloni gonfiati che aveva incontrato fin troppo spesso nel suo viaggiare. “Ci sono andato troppo piano, eh?” 

“Temo che non ti rimanga altra scelta al di fuori del pentirti di avermi sottovalutato.”

Il corpo nero del pianoforte a coda vibrò con nuova delicatezza, dolce e tenue, una carezza data a qualcosa di prezioso per proteggerlo da ogni male. Le mani di William si muovevano  con ugual leggerezza, come se il minimo eccesso di forza potesse mandare in pezzi la rara tenerezza della canzone.

"Salut d'amour.” Il nome venne fuori in un soffio e il sorrisetto sulle sue labbra si ammorbidì assieme alle parole. “Te l’hanno mai detto che sei un tipo piuttosto romantico per essere un matematico?”

“Mhhh. Penso che qualcuno lo abbia fatto, sì,” disse William con una nota di divertimento nello sguardo e nella voce. “Devo riconoscerlo, l’ampiezza della tua cultura musicale rende ogni round una sorpresa.”

Avrebbe dovuto essere lui a dirlo ma Liam condivideva con John la capacità di anticipare i suoi pensieri solo per portarla a nuovi livelli. E come avrebbe potuto prendere alla sprovvista qualcuno che provava il suo stesso, viscerale amore per la musica? Le luci soffuse di un teatro, i ricchi dettagli dei costumi, l’enfasi della recitazione e del canto, la meraviglia e il rammarico di poter vedere tutto quello senza poterlo apprezzare appieno: sarebbe potuto bastare?

La voce disperata di una donna che era sul punto di sacrificare tutto per quell’emozione che tutti dicevano muovesse il mondo ma che lui non riusciva a comprendere echeggiò attraverso, pelle, carne e ossa. Un sentimento che dava vita e la toglieva con una facilità terrificante. Era una canzone d’amore ma allo stesso tempo un addio, dolore e tenerezza che si intrecciavano per pochi strazianti attimi.

William lo guardò con le labbra appena schiuse e un lampo di comprensione nel suo sguardo che mutò in dolcezza. “Amami Alfredo,” mormorò con una punta di amarezza a tingere le parole straniere. Occhi cremisi scrutarono i suoi. “Dai a me del romantico, ma noto una certa tua predilezione per gli amori tragici.”

“Dovresti sapere che è un tema piuttosto comune nell’opera lirica. Inoltre le cose non stanno come pensi.” Per capire qualcosa, la strada più breve era tradurlo nel suo personalissimo linguaggio. “Quando ero piccolo mio fratello maggiore mi trascinò a vedere La Traviata con lui. Odio ammetterlo ma è stato il momento in cui sono stato più vicino a capire come fosse la musica. Anche se alla fine dei conti metà della sua bellezza è andata comunque sprecata con me.” 

William scosse il capo con un’espressione appena accigliata. “Non credo sia andata sprecata, Sherlock. Forse non riesci a rendertene conto perché non puoi vederti o sentirti mentre suoni, ma sei ben lontano dall’essere il genere di persona che non comprende la bellezza che c’è nelle cose che ama.”

Quand’era stata l’ultima volta in cui qualcuno che non fosse John aveva difeso il suo modo di fare musica con una convinzione così incrollabile? Si conoscevano solo da pochi giorni, ma William lo leggeva con la stessa facilità con cui seguiva uno spartito, come se ascoltarlo fosse tutto ciò che gli serviva per conoscerlo e capirlo. E aveva ben poco tempo a disposiazione per ricambiare la cosa.

“Senti un po’, Liam. Ti va di suonarmi Clair De Lune?”

 

“Oh?” Una nota affettuosamente scherzosa ammorbidì la voce di William. “Direi che la nostra piccola sfida si è conclusa con un pareggio eppure tu sei qui ad avanzare richieste.”

Le gambe di Sherlock tracciarono la strada verso la panca che fronteggiava il piano. Il bordo della tastiera pungolava piano la sua schiena e lo sguardo dell’uomo seduto accanto a lui bruciava la pelle lasciata scoperta dal bavero aperto della camicia. Lo incrociò con un breve movimento del capo e un sorriso sfacciato. “Oh andiamo, accontentami per una volta, ok? Oltretutto sei bravo, perciò sarebbe un peccato se ti tirassi indietro.”

“Beh, immagino di poterlo fare. Sei stato di grande intrattenimento fino ad ora, perciò sarebbe soltanto giusto ripagarti.”

La luce della luna brillava attraverso il vetro del tetto della serra per donare i suoi raggi argentei al piccolo mondo sottostante. Si accumulò sulla superficie lucida del piano come un mare appena nato, dando una sfumatura eterea ai contorni scuri della sagoma di William rendendolo fragile come un’increspatura che si infrangeva sulla riva. Clair De Lune gli si addiceva nel modo in cui si scavava quieto e delicato un posto sotto la sua pelle, nelle profondità del costato, con i suoi accordi più bassi che rimbombavano fino a raggiungere il suo ventre.

Aveva deciso di vivere secondo le sue regole, incurante delle persone che lo guardavano con malcelata pietà solo perché “mancante” di qualcosa che tutti davano per scontato. Poter sentire la musica a modo era stato e continuava ad essere abbastanza, doveva essere abbastanza, perché era inutile soffire a causa di pie illusioni se nulla poteva essere fatto per cambiare lo stato delle cose.

“Ah Liam, vorrei davvero essere in grado di sentirti suonare, in questo momento.” I suoi occhi si chiusero con un piccolo sospiro. “Sono sicuro che questa sarebbe stata una delle cose più belle che abbia mai ascoltato.”

William gli offrì una piccola risata incredula, un suono che si sfaldava alle estremità come una corda troppo tesa. “Sei… Credo che tu mi stia sopravvalutando, in questo particolare frangente. Sebbene io abbia fiducia nelle mie abilità tecniche, nutro seri dubbi riguardo al potenziale emotivo delle mie performance.”

“Dici così perché sei un matematico?” Il silenziò si allungò tra loro, rotto soltanto dal lieve e regolare ritmo dei loro respiri. Cosa devo fare con quest’uomo. “Cavolo, le emozioni nella tua musica sono forti e chiare, se me lo chiedi. Non ho bisogno di sentirla nel modo più comune e banale possibile per rendermene conto, perché la prova di ciò sta in quello che le mie mani hanno sentito.”

Le linee profonde del cipiglio di William si ammorbidirono assieme al suo sguardo. In un momento breve come la pausa tra le note di un pezzo, il suo viso fu quello di un bambino sull’orlo delle lacrime ma il sorriso che vi sbocciò su fu un’altra rosa che si aggiunse a quelle che li circondavano.

“Grazie, Sherly.”

 

§


Merda, farò tardi alle prove con Liam.

Una luce abbagliante illuminò la stanza con l’intensità di un piccolo, gelido sole. Il ruggito di uno tuono scosse il vetro dela finestra e fece fare una capriola al suo stomaco, lasciandosi dietro il picchiettio dell’ensemble di innumerevoli gocce d’acqua.

John aveva menzionato qualcosa riguardo una tempesta estiva ma il suo cervello era ancora mezzo addormentato e aveva immagazzinato quel pezzo di informazione nel cestino della sua materia grigia. Anche se in qualche modo doveva esserci stato un errore di riallocazione, perché la fine delle prove non era decisamente un dettaglio di poco conto ma lui era finito con lo svegliarsi comunque nel mezzo della notte.

I numeri sullo schermo del telefono segnavano la mezzanotte mentre la retroilluminazione bruciava le sue retine nel buio della stanza. Avrebbe cambiato le impostazioni quando gli sarebbe venuto il capriccio di farlo. Sherlock si lasciò cadere sul cuscino, il temporale un piacevole rumore di sottofondo pronto a riconciliargli il sonno. Sarebbe stata la volta buona per liberarsi del jet lag e godersi lo shock sulle facce di John e Louis davanti ad una sua levataccia.

Un altro tuono vibrò attraverso il suo letto.

“Ah, al diavolo.”

 

§

 

La scienza, sua compagna di vita assieme alla musica, diceva che erano necessari 60 giorni per creare un’abitudine. La scienza commetteva raramente errori per via delle sue dure regole ma aveva il difetto di generalizzare, poiché le eccezioni dovevano essere una parte integrante del descrivere un fenomeno. E le eccezioni erano il suo pane quotidiano, accumulandosi una dopo l’altra nella sua vita sempre in movimento.

Rendere un giardino di rose all’interno della serra di una villa che non gli apparteneva nemmeno il suo luogo di conforto era la conseguenza di un’abitudine presa contro ogni regola. L’incapacità di prendere decisioni sagge era sempre stata la causa dei numerosi e affettuosi rimproveri di Miss Hudson.

Davanti al pianoforte a coda a cui si era tanto affezionato, William sedeva con i capelli pallidi grondanti di acqua e il debole bagliore arancio di una sigaretta che disegnava nuove ombre sui suoi lineamenti.

Ma se un uomo fosse venuto in possesso, per quanto in modo temporaneo, di qualcosa che rendesse i suoi desideri realtà, se ne sarebbe davvero privato a cuor leggero?



Note dell'autrice (quelle vere)

Qualcosa si muove. Forse perché Sherlock è un po' un uragano e trascina tutte le persone che incontra con sé? Chi può dirlo. Sta di fatto che persino lui che è così impulsivo si sta prendendo qualche momento per realizzare cosa sta succedendo (o che vorrebbe che succedesse? :D) Questi due comunicano con la musica per morire come uomini ma nulla toglie che in qualsiasi linea di universo (un biscotto a chi capisce la citazione) Sherlock finisca inevitabilmente con l'essere una luce per William, così da illuminare la strada perché questi si salvi da sé. Il prossimo capitolo è uno dei miei preferiti, ma è anche stato uno dei più difficili da scrivere, al punto che ho rotto l'anima a davvero tante persone per avere un parere su certi aspetti. Oltretutto è anche più breve nonostante sia bello pregno di eventi, tant'è che spero di non impiegarci un'altra decade per tradurlo.

 

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Capitolo 4
*** Ah, il supplizio è sì spietato che morir preferirò. ***


Il titolo di questo capitolo è tratto da 'La Traviata', l'opera lirica composta da Giuseppe Verdi che dà il titolo a questa storia. Chi è Violetta e chi Alfredo tra Sherlock e William? Direi c'è un po' di entrambi in ciascuno di loro. 
Avevo detto che speravo di non impiegare una decade a tradurre questo capitolo, e invece con la pausa estiva la mia produttività ha detto addio, salutandomi affettuosamente con una manina. Ma almeno adesso siamo qui e mancano solo un capitolo più epilogo alla fine!

 



Guardare Liam equivaleva a guardare se stesso in uno specchio che rifletteva tutto ciò che non era. Non si trattava di qualcosa di banale come l’invidia, quanto piuttosto qualcosa di intrinseco al modo in cui avevano vissuto e continuavano a vivere. Ciò che in William era formale e discreto era caotico e sfacciato in lui. Eppure i loro universi erano tutto fuorché distanti. Le sue mani eleganti trattavano ogni nota come se meritasse nient’altro che la massima attenzione, tradendo il fatto che William, come lui, nutriva il più viscerale degli amori per la musica.

E così divisero lo stesso spazio su una panca nel mezzo del posto che avevano reso un tempio della musica, con l’odore di un tabacco poco familiare e il confortante picchiettio della pioggia sul vetro a riempire il silenzio che preannunciava l’arrivo di un nuovo tipo di tempesta estiva.

L’aria tremò con l’eco di un tuono e William abbozzò un sorriso, un incurvarsi appena visibile degli angoli delle sue labbra. “Sembra che l’insonnia nutra una certa qual simpatia nei nostri confronti.”

Tirò fuori una sigaretta dal pacchetto nella sua tasca, miracolosamente sopravvissuto al suo viaggio sotto la pioggia. “Poco ma sicuro. Anche se credo che questa situazione sia anche colpa del fatto che sia dannatamente strano non dover più suonare assieme ad orari assurdi.” Le sue dita scandagliarono il resto dei suoi jeans orribilmente bagnati solo per stringere qualche monetina spuntata da chissà dove. “Merda, ho dimenticato l’accendino.”

Le ciglia di William erano fili d’argento che tremavano leggeri in quello spazio immaginario tra di loro dove la luna non arrivava. Creavano ombre serpeggianti sulle sue guanche pallide che si intrecciavano con quelle della sottile colonna di fumo che si sollevava lì dove la punta della sigaretta accesa di William accese con uno sfarfallio di scintille la sua.
Sherlock sbatté le palpebre e il filtro della sigaretta oscillò pericolosamente tra le sue labbra. Lo sguardo di William, però, si spostò sullo spartito riposto sul leggio con un movimento privo di fretta, come se non fosse stato vicino abbastanza da avvolgerlo con il profumo della sua cologna.

Una persona come William non gli restitutiva l’impressione di qualcuno che fosse un fumatore accanito della sua stessa specie. Era piuttosto un’immagine dalla bellezza malinconica che nascondeva un’ombra tagliente ed intensa. Era forse una semplice conseguenza di un bizzarro stile di vita? La sua presunzione di essere riuscito a conoscerlo almeno un po’ attraverso la sua musica suggeriva di no, ma anche che provare ad indagare non  avrebbe dato frutti con una persona così caratteristicamente riservata.

“... Sherly,” William mormorò in un tono delicato che si avvolse attorno alla “e” per strascicarla appena. Un lampo brillò con la stessa intensità della luce del giorno e il tuono ruggì tra le file di fiori rossi. “Suoneresti Ave Maria con me ancora una volta?”

Un’altra volta. Un’ultima volta prima della cerimonia.

Il pensiero si presentò nella sua testa con la stessa, fredda lentezza dell’acqua che scivolava all’interno del collo della sua maglietta. Insonnia o meno, tutto era destinato a finire, prima o poi. Il momento in cui il tempo a loro disposizione si sarebbe esaurito era dietro l’angolo, avanzando con passi silenziosi nelle pause tra le stanze di un rondò e il giocoso richiamo di un’habanera.

Sherlock spense la sigaretta semi-intonsa nel posacenere di cristallo che baluginava sulla superficie del piano e si lasciò sfuggire il principio di una risata incredula. “Certo.”


Il peso dello Stradivarius nelle sue mani era sempre stato il suo più grande compagno, portando con sé un senso di familiarità che aveva imparato ad associare al modo in cui le corde si imprimevano nei suoi polpastrelli mentre l’archetto cantava in silenzio le lodi di Mary - indipendentemente che fosse la figura religiosa, la sua amica o la musica stessa. Ma l’eccesso di familiarità lo rendeva incauto. La sua mente vagò al di là della performance e del delicato picchiettio della pioggia.

William suonava con movimenti determinati delle sue mani sottili, la sua schiena ricurva sui tasti quel tanto che bastava per tracciare l’accenno di un arco e piccoli rivoli trasparenti a tracciare fantasie sconosciute sulla sua pelle. Era una visione di grande impatto, quella di un musicista che dedicava tutto se stesso allo scopo di onorare la bellezza di un pezzo. Non sarebbe arrivato fin lì senza di quello, senza l’infinità di espressioni interessanti che la musica riusciva a tirar fuori dalle persone. Ave Maria risuonò dentro di lui senza la necessità di ricorrere al tatto, crescendo come elettricità nell’aria e il fuoco di una febbre improvvisa.

Aghi invisibili pungolarono la sua pelle e un lampo bianco riempì la sua visuale con il ruggito frastornante di un tuono. Una pausa. Sollevò l’archetto solo per riportarlo sulle corde tese, come se il gesto potesse in qualche modo spegnere il fuoco che scioglieva le sue ossa e bruciava i suoi polmoni. Ma una febbre non veniva mai accompagnata da suoni tanto ignoti, completamente diversi dal pulsare frenetico contro la sua gabbia toracica o dal ruggito del sangue nelle sue orecchie, né ostentava alcuna somiglianza con la pioggia delicata e il tuono violento. Come al solito la sua testa doveva star giocando lui qualcuno dei suoi scherzi. Le poche ore di sonno, la caffeina e la nicotina avevano insidiato le sue difese lasciando che l’irrefrenabile gioia che provava nel suonare con William si manifestasse come il relizzarsi di ciò che aveva sempre evitato di sperare.

Eppure il suo corpo non cessò i movimenti impressi nella memoria dei suoi muscoli, sarebbe senza dubbio morto se lo avesse fatto, perché era proprio lì, era stata lì sin dall’inizio o non sarebbe stata così straziantemente familiare, così bella che morire senza averla sentita almeno una volta sarebbe stato al pari non aver vissuto affatto. Il basso lamento del suo violino e le note profonde e avvolgenti del piano di William eramo il crescendo che protendeva le mani verso quel legame invisibile tra loro per unire e creare qualcosa di nuovo. Qualcosa che si faceva in pezzi per insinursi nell’eco di ciò che era semplicemente stato dimenticato.

Occhi cremisi lo osservarono spalancati nella ritrovata oscurità, baluginando come le braci di quello stesso sentimento che lo stava bruciando dall’interno. Le sue mani si mossero goffe per lasciar andare lo Stradivarius con la minima cura necessaria ad evitare danni e la sua bocca si aprì per dar voce ad una serie di imprecazioni con una lingua di piombo. I passi che tracciarono la via fino al pianoforte piegarono le stesse leggi dello spaziotempo - troppo rapidi eppure mortalmente lenti - ma William si alzò con agonia e desiderio scritti su ogni singola, meravoigliosa curva del suo volto e lo incontrò a metà strada.

E le anime gemelle e i loro marchi potevano andare a farsi dannare, perché il mondo poteva dire quel che voleva, ma William era freddo e leggermente tremante tra le sue braccia e la sua bocca contro la sua mandò in fiamme ogni singolo nervo del suo corpo. I loro arti si aggrovigliarono nei passi malfermi che culminarono nella cacofonia stranamente melodiosa dei tasti che pugnalavano la sua schiena. Frammenti sconnessi di note si insidiarono nel movimento dei pugni che si chiusero sulla sua camicia bagnata, nel battito selvaggio che sfuggiva al petto premuto contro il suo, diffondendosi nel suono strozzto che lasciò la sua gola alla prima carezza delle loro lingue.

“Siamo stati uguali per tutto il cazzo di tempo.” La sua voce venne fuori bassa e graffiata, disintegrandosi nella piccola bolla di suoni che avevano creato.

Accolte tra le sue mani le linee affusolate del viso di William si ammorbidirono in uno sfoggio di straziante tenerezza che faceva affluire il sangue alle sue guance e gli seccava la gola. “Sherly.” La dolcezza nella sua voce era fatta delle stesse note con cui avrebbe composto un addio. Un dito freddo ma delicato tracciò la forma del suo zigomo per portare una ciocca ribelle di capelli dietro il suo orecchio. “Perdonami.”

 

§

 

La calda luce del sole brillava sulle verdi distese della campagna inglese, l’aria piacevolemente più pungente rispetto ai giorni passati. Raggi dorati penetrarono attraverso i resti della pioggia sul vetro della finestra parzialmente aperta della sua stanza per rinfragersi in schegge colorate sui bianchi muri. Lo schiarirsi del cielo dopo la tempesta era di poco aiuto contro  il mal di testa che pulsava contro le sue tempie nè tantomeno era in grado di cancellare ciò che rimaneva del delicato affetto di una mano che gli accarezzava una guancia.

Una parte di lui contemplò l’idea di rotolare via dal materasso per attraversare il corridoio e bussare alla porta della stanza di John come ai vecchi tempi. Avrebbe potuto vuotare il sacco nella più imbarazzante delle maniere e usare la notizia della sua capacità di sentire la musica per ammorbidire l’impatto che avrebbe avuto confessare di essersi limonato William senza grandi preavvisi. Avrebbe causato un piccolo infarto a John ma questi - dopo avergli imposto di raccontare i fatti in maniera più comprensibile - lo avrebbe aiutato a rimettere insieme i cocci.

Ma i vecchi tempi erano vecchi per un motivo. Seneca aveva affermato che il passato non era alterabile e che ciò che contava era il presente, e il suo presente era dominato dalla consapevolezza che il suo migliore amico era a 24 ore di distanza dall’essere un uomo sposato con la donna della sua vita. Sherlock era un talento naturale quando si trattava di essere un pessimo amico, fratello, persona a cui tenere. Ma non questa volta. Non alla vigilia di un giorno così importante.

Qualcuno bussò piano alla porta. “Holmes, posso entrare?”

Ah, perfetto. Il fratello più giovane e iperprotettivo dello stesso uomo causa del suo tumulto emotivo che veniva a fargli la predica era un meraviglioso esempio di karma. Anche se non era del tutto sicuro di meritarsi una punizione così sproporzionatamente grande.

Sospirò. “È aperto.”

Al contrario delle sue aspettative, ciò che Louis James Moriarty reggeva tra le mani non era un coltello da bistecca ma un vassoio con un set da té che emanava un profumo delicato e confortante. I suoi occhi color granato lo osservarono in un silenzio imperscrutabile per poi abbassarsi con un leggero sospiro. “Hol- no. Sherlock,” disse con un voce che trattava il suo nome come una pillola amara da mandar giù. “Non sono qui perché hai… ‘posato le tue zampacce’ su mio fratello.”

La sua bocca si spalancò. “Aspetta un attimo, come fai a–”

“Ti suggerisco di abbassare la voce e chiudere le finestre, se sei nel mezzo di una conversazione privata al telefono.” Un accenno di rosa tinse le guance di Louis ma questi si schiarì la voce come a volersene liberare. Un pezzo di carta accuratamente ripiegato fu posato tra le sue mani. “Comunque sia, dovresti leggerlo. Ti spiegherò il resto quando avrai finito.”

Sherlocò sbatté le palpebre. Sulla superficie bianca vi erano poche frasi scritte in una grafia ordinata e familiare. “Miei cari amici John e Mary,” lesse ad alta voce. Un brivido gelido scese lungo la sua schiena in avvertimento. “Mi addorolora immensamente avvisarvi con così poco preavviso che a causa di circostanze impreviste relative al mio lavoro che mi richiamano a Londra, non sarò in grado di partecipare alla vostra cerimonia di nozze. Lascio il compito di accompgnare la gioiosa occasione dell vostra unione alle mani talentuose del signor Holmes, certo del suo successo. Con i miei più sentiti auguri, William J. Moriarty.”

Louis posò il vassoio sulla scrivania con un leggero tintinnio di porcellana. Osservato di spalle condivideva una somiglianza impressionante con William. “Se te lo stessi chiedendo, il Dottor Watson è già al corrente di tutto.” Passi misurati riempirono la pausa nelle sue parole e una tazza con liquido verde pallido fu poggiata nelle sue mani. “Té verde alla menta. Ha proprietà rilassanti e il suo sapore fresco lo rende appropriato anche per la stagione calda.”

La sua testa si chinò in un cenno di ringraziamento. Si portò la tazza alle labbra e un sapore appena amaro lo sorprese, lasciandosi dietro la tipica freschezza della menta. Il fatto che John fosse al passo con la situazione toglieva un peso dal suo petto ma allo stesso tempo lo rimpiazzava con un bizzarro senso di disagio, simile ad un palloncino incastrato tra i polmoni. I buchi che minavano la sua completa comprensione degli eventi che erano traspirati vi aggiungevano una forte confusione che lasciava spazio solo alla vaga consapevolezza di aver creato una breccia nell’argine tra lui e William. Quello stesso muro che questi poneva tra sé e gli altri era frutto di convinzioni sbagliate riguardanti il suo modo di percepire le emozioni. In un modo o nell’altro avevano condiviso qualcosa, una luce piccola e priva di forma che con ogni nota era diventata sempre più calda e brillante fino a che Ave Maria non era diventata ciò che l’aveva fatta esplodere con la forza della nascita di una stella.
Eppure le crepe negli argini erano fatte per essere riparate prima che la corrente diventasse troppo forte e Sherlock non era che uno sciocco lasciato a domandarsi se quel momento che era durato per la lunghezza di un lampo gli avesse permesso di insinuarvisi abbastanza da impedire che venisse chiusa.

“Sarò schietto con te, Sherlock.” Uno sguardo penetrante lo inchiodò sul posto . “A mio fratello piaci sinceramente e, per quanto la cosa non mi faccia piacere, non ho intenzione di ostacolarvi fintanto che la cosa lo renderà felice.”

Il té gli andò di traverso e la cosa gli fece guadagnare un’occhiataccia da parte di Louis. Le sue guance furono pervase dal calore, come a voler provare quanto una situazione imbarazzante potesse non avere limiti. “Mi dispiace dirtelo ma non sono troppo sicuro di piacere a Liam in quel senso. Voglio dire, ci siamo effettivamente bacia-”

Il volto di Louis si contorse in una smorfia. “Risparmiami i dettagli e vai dritto al punto, possibilmente.”

“... giusto. Beh, a dirla tutta non capisco che diamine stia succendendo, ma tu lo sapevi, vero? Che nemmeno Liam potesse sentire la musica.”

“... Sì, lo sapevo.”

 

Incolpare Louis per non averglielo detto sarebbe stato ingiusto, un ignorare quanto sinceramente questi tenesse alla felicità di Liam. Ci sarebbero potute essere chissà quante diamine di persone al mondo con la loro stessa condizione e la falsa speranza era in grado di distruggere più della disperazione.

Un altro sospiro fuggì dalle labbra di Louis e con esso ciò che rimaneva dell'animosità nel suo sguardo. “Non vorrei essere indiscreto, ma mi vedo costretto a chiedere per amore di mio fratello: credi nelle anime gemelle?” 

Un sorriso amareggiato si stirò sulle sue labbra. “Nemmeno un po'.”

Anche questo potrebbe non giocare a mio favore nel giustificare cosa provo nei confronti di Liam… 

“... Sei proprio come lui, allora.”

“Eh?” 

“Immagino tu sappia già che mio fratello è della stessa linea di pensiero sull'argomento, no?” La sedia davanti alla scrivania stridette contro il pavimento. Un velo di tristezza si dipinse sul volto di Louis. “Il suo lavoro di matematico potrebbe essere stato benzina sul fuoco ma…  è in gran parte colpa mia se lui è così.”

Sherlock si accigliò. “Che vuoi dire?” 

“Sono nato senza un segno delle anime gemelle e per questo sono stato oggetto di forme più o meno discrete di discriminazione. Naturalmente William e Albert sono stati i miei più strenui difensori ma ciò li ha costretti a toccare con mano cosa significhi vedere i propri traguardi venire filtrati attraverso un velo di pietà o disprezzo.”

Una risata amara gli risalì dal petto. Non poteva competere con Liam su davvero nessun fronte. “... Perciò ha nascosto il suo, di segno, per far sì che le sue doti di pianista fossero giudicate in maniera oggettiva, vero?” 

Louis strinse le labbra in una linea sottile e abbassò lo sguardo. “William è particolarmente riservato al riguardo perciò le mie sono solo speculazioni. Però di una cosa sono certo.” Ferrea determinazione e disperazione riempirono occhi color granato. “Ha intenzione di tagliare tutti i ponti con la musica. È andato a Londra perché gli è stato offerto un contratto a tempo indeterminato come professore di matematica.”

“Quell'idiota… Sta cercando di prendere le distanze da ciò che ama gettando al vento quella sua musica meravigliosa.” Mandò giù il resto del suo te in un solo sorso. Il rimpianto aveva un sapore sorprendentemente buono. 

“Sherlock, questa non è una richiesta da parte del Dottor Watson o Mary, ma qualcosa di totalmente egoi-” 

Si alzò in piedi con un brusco scatto che fece attraversare lo sguardo di Louis dal panico. “Non c'è bisogno di fare richieste così formali, renderebbe solo imbarazzanti le cose.” Un sorriso da canaglia. “Sarei andato in missione per riportare il culo di Liam qui anche se tu non
avessi approvato.”

“Molto bene, allora. Dovremmo scambiarci le informazioni di contatto in modo da comunicare efficientemente. Sono riuscito a parlare con mio fratello Albert, che ha confermato che William è arrivato a Londra un paio d'ore fa con il primo treno," disse Louis in tono pragmatico ma non privo di gentilezza. “Lo aggiornerò più nel dettaglio sulla situazione così che possa aiutarti quando sarai lì.”

Essere così palesemente dalla parte del torto  dovrebbe bruciare, specie in virtù del suo vantarsi di essere un buon giudice di carattere. Eppure le parole che gli sorgono spontanee hanno il gusto fresco di una tazza di tè verde consumata troppo in fretta. “Liam aveva ragione. Sei un dannatamente bravo ragazzo, Louis.”

“... per caso mio fratello ti ha colpito alla testa con un oggetto contundente o sono i sentimenti a farti parlare in una maniera che sottolinea ulteriormente la tua stupidità?” 

“Ecco,” disse con un gran sorriso e il cellulare stretto nella mano tesa. “Puoi metterci dentro qualunque tipo di contatto tu voglia, ti farò uno squillo di rimando.”

Louis lo osservò con un sopracciglio alzato e lo sguardo di qualcuno poco in vena di complimenti, ma qualunque cosa volesse dire morì nel sospiro che gli scosse le spalle. La mano che afferrò il suo telefono era coperta da calli e sottili cicatrici ma manteneva la stessa forma elegante di quella di William.

Si somigliano davvero tanto.

“Sherlock, non sarò un matematico o un uomo di scienza come te o il Dottor Watson, ma non credo nel soprannaturale. Non quando ci sono persone che si sentono costrette a subire tutto ciò che viene gettato loro addosso solo perché pensano che sia tutto ciò che meritano. Perciò ti affido mio fratello, nel gesto di fiducia più sconsiderato di cui sono capace.” Una luce gelida come il bagliore di una lama attraversò il suo sguardo. “Per favore, non deludermi.”

Evitare le responsabilità per via della loro natura seccante era stato uno dei terrificanti ma fondamentali principi su cui aveva basato la sua vita. Il problema dell'evitare le cose, però, era il contrappasso da pagare nel momento in cui queste si paravano sulla strada senza possibilità di schivarle in qualche modo. Le parole di Louis erano un peso sulle ali della sua amata libertà ma anziché atterrarlo lo spingevano inevitabilmente a stringere a sé e proteggere quella cosa fragile ma meravigliosa che aveva cominciato a sbocciare con ogni canzone suonata con William. Faceva paura, ma io calore che pervadeva il suo corpo al pensiero era ben più forte del terrore. 

Sorrise con imbarazzante sincerità. “Non lo farò.”

§
 

“Dove credi di stare andando, Sherlock Holmes?” 

John H. Watson aveva sul viso un'espressione che evocava in lui il tepore della nostalgia così come gelido terrore. Era una faccia che riaffiorava dai suoi ricordi solcata da occhiaie scure e accompagnata da spessi libri e sonate per violino ad orari scandalosi della notte. Dietro di lui Jack Renfield si chinò in un profondo inchino di scuse. 

"Sono terribilmente spiacente, signor Holmes, non sono riuscito a trattenerlo.”

“Tranquillo, nonnetto.” Il suo sguardo tornò all'improrogabile compito di controllare per la quinta volta il corretto spelling dell'indirizzo di Londra che Louis gli aveva inviato per messaggio. Un respiro profondo gli gonfiò il petto. “Ehilà, John. C'è una cosetta che è venuta fuori all'ultimo minuto ma sarò di ritorno per stanotte.” 

“Stai andando ad affrontare William?”

Le spalle gli si irrigidirono. Sullo schermo del telefono dei caratteri ordinati parlavano di condizioni ottimali di traffico e di un viqggio lungo 5 ore. “... Sì. Sta raccontando balle a se stesso riguardo a quel che vuole fare davvero, perciò farò in modo che utilizzi quella sua testolina brillante nel modo corretto.”

Un peso caldo gli si gettò addosso e un paio di braccia circondò le sue spalle tese in modo impacciato. “Che sollievo, Sherlock.” La voce di John si incrinò appena sulle sillabe del suo nome. Il suo stomaco si annodò. “Sei sempre così imbranato nel gestire l'affetto che nutri per le persone che ami che per un momento ho temuto che avresti lasciato andare William solo per nascondere ciò che provi.”

La sua mano libera lasciò una pacca sulla schiena di John con fare forzato. Non si era mai meritato di sorbire le vertiginose montagne russe di emozioni che avevano caratterizzato la loro lunga amicizia. I ricordi dei loro giorni all'università erano pieni di risate e spensieratezza ma anche di guai causati dalle sue azioni egoiste.“Ti chiedo scusa, John,"disse piano. Era il minimo che poteva fare ma anche tutto ciò che era capace di offrire in un momento in cui le sue emozioni erano ancora in cortocircuito. “È la vigilia delle tue nozze e io sono qui a far casini.” 

John si allontanò con una sonora risata. “Sai, sono il tuo migliore amico, perciò sono più arrabbiato perché non mi hai raccontato nulla di quello che stava succedendo con William che per altro. Perciò, se ci tieni a farti perdonare, condividi un po' di dettagli con me quando le acque si saranno calmate.”

Un brivido gelido gli scese lungo la schiena. Oh no. “Preferirei non finire in una di quelle storie che ti piace postare online.”

“Ci tengo a farti sapere che 'Herlock Sholmes' è parecchio amato dai miei lettori e stavo pensando di dargli un rivale.” La risata piena di innocente malizia di John è un'eco di quella di uno studente universitario che trovava respiro nello scrivere storie. “Anche se 'rivale' è una parola dai molteplici significati, quando si parla di lavori creativi.”

John davvero non mentiva quando diceva di conoscerlo come le sue tasche. Diamine, lo conosceva così bene che probabilmente aveva capito tutto di lui e Liam solo mettendo insieme quei pochi frammenti di storia di cui era al corrente.

Sì, penso che un viaggio attorno al mondo sarebbe un’esperienza perfetta per te.”

Sherlock gli rivolse una smorfia e spense la sigaretta nel posacenere poggiato sul comodino. “Ti prego John, non dirmi che hai intenzione anche tu di blaterare sulla bellezza dell’Inghilterra al mio ritorno come mio fratello.”

“Eh? Non so cos c’entri Mycroft con questa conversazione, ma quello che volevo dire è che…” John si sporse in avanti e posò un gomito sul ginocchio con uno scricchiolio della sediaa. “Mi fido della tua decisione, Sherlock. Dovresti assolutamente fare quello che ami, anche se dovesse portarti lontano da qui.”

Una risata sfuggì al suo controllo, rumorosa al punto da riecheggiare nell’ampio cortile della villa. Il tempo non li aveva cambiati nemmeno un po’. “Grazie, John. Ti devo un favore.”

“Sì, mi devi un puntualissimo ritorno assieme a William, così da avere tutti e due al mio matrimonio.”

“Certo,” disse con un sorriso sfacciato. L’aria era soffocante con il casco indosso ma aveva vissuto di peggio. “Non vorrei che Mary si preoccupasse troppo.”

 

§


Il sole pomeridiano brillava nel cielo insolitamente terso sulle strade di North London, disegnando ombre dalle forme più disparate sull’asfalto. Considerato quanto schifosamente ricca gli era parsa la famiglia Moriarty, si aspettava che il navigatore lo portasse in posti di alta classe come Notting Hill o Chelsea e non davanti ad una tutto sommato normale casa su due piani nel mezzo di Hampstead.

Una parte del suo cervello registrò il suono di un jingle pubblicitario in lontananza e l’eco distratta della musica di un’auto di passaggio ma questi persero la sua attenzione alla vista di una semplice placca di ottone che sfoggiava tre nomi familiari. Il suo indice tremò appena davanti al pulsante del citofono, determinato a ricordargli il prezzo da pagare per un piano progettato d’impulso. Sospirò pesantemente.

Hai combinato roba al limite dell’illegalità quando eri più giovane, Sherlock. Se te la fai sotto adesso significa che stai davvero invecchiando…

Il ritorno della voce insolente di Miss Hudson gli fece tremare un labbro dall’irritazione m portò anche tutta l’energia nervosa del suo corpo a convergere nella punta del suo dito. Il leggero scampanellio del citofono risuonò oltre la porta rivestita da lucida vernice verde senza ricevere risposta.

Cazzo, spero che non sia uno scherzo di merda.

La porta si aprì con un leggerissimo cigolio, mostrando sulla soglia un giovane uomo dal fisico slanciato e due penetranti occhi verdi. Un sorriso più che palesemente divertito gli fu offerto al posto di un saluto. “Mhhhh. Capelli neri come inchiostro e occhi di un azzurro profondo. Tu devi essere Sherlock.” La curva delle labbra dell’uomo si arricciò ulteriormente. “Myckey ti ha menzionato non poche volte.”

“Porca. Di quella. Miseria.”


 



Note

Confesso che la parte più divertente del tradurre questo capitolo è stata pensare a come adattare le numerose e colorite imprecazioni di Sherlock. Dicono che imprecare aiuti ad alleviare lo stress, perciò secondo questa logica lo Sherlock della mia storia dovrebbe essere la persona più chill sulla faccia della terra.
Scherzi a parte, ai tempi in cui ho scritto questo capitolo ero in totale paranoia sulla scena del primo bacio. Le scene così sono il male assoluto da scrivere perché sono importanti e attese (persino da chi scrive :D) e ci sono aspettative da soddisfare. Fortunatamente ho avuto un po' di persone che, oltre a darmi critiche costruttive incredibilmente utili, mi hanno anche incoraggiata e rassicurata, perciò in un momento di trance sono riuscita a scrivere quella scena e tutto e bene quel che finisce bene. O forse no.
Il prossimo capitolo è quello che mi ha tolto il sonno la notte, perché contiene la scena da cui è nata l'idea per questa storia (alla fine i ficwriter non sono che dei folli che inventano un intero plot per giustificare una singola scena). A volte lo rileggo e non riesco a credere che sia farina del mio sacco.
Stay tuned per William e Sherlock che finalmente decidono di parlare di sentimenti anziché morire come uomini!

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Capitolo 5
*** Misterioso, altero, croce e delizia al cor ***


Stendiamo innanzitutto un velo pietoso sul mio ritardo, non è stato un buon periodo per la creatività.

In secondo luogo, sì, un po' come nei libri/film/anime/qualunque opera creativa, siamo finalmente a quel punto in cui il titolo ha un senso e come ogni serie che si rispetti, ha la sua colonna sonora, perciò divertitevi a sentire Maria Callas che canta La Traviata. E a proposito dell'opera, vi consiglio di vederla, 10/10 would recommend (anche se per l'Opera generalmente o è odi o è amo, nessuna via di mezzo). 

Per il commento tecnico stile Endo e Kobayashi (guardatevi l'anime, fa morire dal ridere!), vi rimando alle note di chiusura così da rimanere spoiler-free.


 



La sua idea di Mycroft - oltre a quella di pessimo fratello maggiore la cui sola presenza bastava a risucchiargli l’energia vitale - era quella di un uomo sposato con i propri studi e con la propria carriera. Quando John gli aveva chiesto qualcosa al riguardo durante i momenti di noia della loro convivenza universitari, gli aveva risposto che Mycroft poteva essere considerato l’incarnazione del governo inglese. Eppure poteva dire che l’uomo davanti i suoi occhi - Albert James Moriarty - aveva compiuto una rivoluzione nella sua personale concezione del sistema solare con un sorriso allusivo e una singola affermazione.

“Tu sei l’ ‘Al’ che ha menzionato quella volta che sono riuscito a farlo ubriacare a San Pietroburgo.” Scosse il capo con veemenza, lo shock e la negazione insistenti nel consumare precocemente la sua corteccia prefrontale con un mal di testa atroce. “Adesso si spiega perché ha iniziato ad indossare tutta quella roba in varie tonalità di verde…”


Albert emise una risata compiaciuta. “Mi lusinga che Mycroft abbia speso del tempo per menzionarmi, ma presumo che tu sia qui per William, no? Dopotutto un certo uccellino mi ha detto nutri un certo… affetto, nei suoi confronti.”
Guh, è come se i muri della villa dei Moriarty a Durham avessero le orecchie…
“Louis mi ha informato tempestivamente del tuo arrivo, perciò mi sono assicurato di trattenere Will a casa con una scusa,” disse Albert facendosi da parte per invitarlo ad entrare. “Ha superato il colloquio senza problemi ma non ha ancora confermato di voler accettare il posto, perciò potresti essere appena-”

“Albert, era il corriere ad aver suonato? Hai bisogno di una…” Dalla cima di una scalinata a chiocciola in stile liberty William li osservava con occhi sgranati e le labbra appena schiuse.

La porta si chiuse alle sue spalle con un cigolio. “Ehilà, Liam,” offrì con un debole sorriso. Non sapere che parole usare in un momento simile era l’unica macchia d’inchiostro sulla pagina bianca che era la sua mente. “Sono venuto a prenderti.”

William si accigliò, le labbra strette in una linea sottile. “Sherly.” Il suono lieve della sua voce si incrinò sul nomignolo a cui aveva dato nuovo significato. “Come hai fatto a… No, dev’essere stato Louis…”

“Liam, cos’è ‘sta storia del voler abbandonare la musica?” Fece un passo in avanti. “Non crederò a mezza parola sul fatto che non sia la tua vocazione, non dopo aver visto la tua faccia nel momento in cui l’hai sentita per la prima volta.”

La bocca di William tremò impercettibilmente e le dita eleganti che la notte prima si erano aggrappate a lui come se fosse stato un’ancora si strinsero attorno al legno scuro della balaustra. “Non so quanto ti abbia raccontato Louis ma il fatto che io adesso possa sentire la musica non cambierà la situazione. Il mio modo di suonare è qualcosa su cui ho lavorato per tutta la vita, non può essere cambiato così facilmente come credi.”

“Sei bravo, Sherlock, ma la musica che suoni è così rumorosa da incutere timore.”

“Le sue capacità sono notevoli, signor Holmes. O quantomeno lo sono per qualcuno vittima di una condizione così sfortunata.”

“Holmes, quante volte devo ripetermi perché ti si ficchi in quella dannata testa? Questa è un’orchestra, non un irish pub il giorno di San Patrizio, perciò piantala di fare casino.”

“ Sebbene io abbia fiducia nelle mie abilità tecniche, nutro seri dubbi riguardo al potenziale emotivo delle mie performance.”

Strinse i denti fino a sentire dolore. “È perché la gente ti dice di non percepire alcuna emozione nella tua musica?” Silenzio. In alto lo sguardo scarlatto di William evitò il suo. “Sai Liam, quelli non capiscono nulla. Ma con ciò? Possono anche andarsene a fanculo. Tu e la tua musica siete amati da molte più persone di quelle che immagini, perciò non va forse bene così? Non va bene fintanto che c’è qualcuno là fuori che capisca?” Un passo risuonò giù per la scalinata. Sorrise. “E comunque a perderci in ogni caso sono solo gli altri. Hai solo 27 anni, hai tutta la vita davanti per migliorare e fare esperienza con ogni genere di musica.”

Dei passi echeggiarono lenti accompagnati dal clamore del metallo. L’espressione che William mostrava sul volto a lui così caro non offriva alcuna traccia dell’imperscrutabile gentilezza o della sottile e inquietante rabbia dei loro primi momenti assieme. Emanava la stessa straziante dolcezza dello “Sherly” pochi istanti prima del loro addio, la rassegnazione di Violetta davanti alla decisione di lasciare Alfredo.

Louis aveva detto che quelle sulla natura delle angosce di William erano soltanto speculazioni e l’orologio continuava a segnare il passare inesorabile del tempo con ogni ticchettio delle sue lancette. Il modo viscerale con cui entrambi amavano la musica, però, era lontano dall’essere una cosa di poco conto e lasciare che il tempo scadesse equivaleva a condannare Liam ad un destino paragonabile alla morte interiore.

“Suoniamo un’ultima volta. Al matrimonio di John. Prenditi un po’ di tempo per pensare a ciò che vorresti fare davvero.” Allungò una mano. “Perciò torna a Durham con me.”

Dita affusolate tremarono a pochi centimetri dalle sue. “Ma la risposta al colloquio…”

“Ti hanno dato del tempo per pensarci su, no?” Appoggiato allo stipite di una porta che conduceva chissà dove, Albert sfoggiava un sorriso elegante che non veniva minimamente scalfito dalla completa serietà del suo sguardo. Non era un caso che lui e Myckey si fossero trovati. “Dovresti andare con lui, Will. Sono sicuro che il mondo preferirebbe piangere la perdita di un matematico piuttosto che quella di uomo la cui musica potrebbe arricchire le anime di coloro che la ascoltano." 

Le mani fredde di William toccarono le sue. Le sue dita si avvolsero attorno ad un polso sottile per strattonarlo con delicatezza. “Andiamo, Liam.”


“Fate buon viaggio,” disse Albert alle loro spalle mentre le strade di Hampstead si snodavano fuori dalla porta davanti a lui. “E Will. Ricorda che, qualunque scelta tu faccia, io sarò sempre orgoglioso di essere tuo fratello.”

La porta si richiuse con un tonfo netto e l’oscurità dell’avvicinarsi della sera li avvolse in una bolla fatta di suoni ovattati. Musica fatta da strumenti ignoti passò nelle loro vicinanze assieme ad una debole folata di vento tiepido. William non era il solo ad avere 27 anni di suoni da recuperare.

“Sherly.” La voce di William era piena di affettuosa esasperazione. “Come faremo a tornare a Durham? Dubito fortemente che troveremo un treno a quest’ora.”

Fece alcuni passi in direzione di una sagoma scura e affusolata su due ruote, l’unico modo stranamente premuroso in cui suo fratello aveva deciso di buttare i propri soldi. “Arriveremo lì su questa bellezza,” disse con voce allegra.

“Una moto?”

Le sue dita armeggiarono con il lucchetto del piccolo baule posto sopra la ruota posteriore e ne tirarono fuori un casco. Mycroft si era sempre divertito ad insistere sulla necessità di averne uno extra nonstante i suoi continui tentativi di convincerlo che la sua bambina - l’unica donna che gli fosse mai interessata - sarebbe stata lontana dalle manacce di chiunque altro.

Una risatina proveniente da William risuonò nella luce fioca della sera londinese. “Ti si addice, in effetti. Sono piuttosto sicuro che diverse donne perdano la testa per questo tuo atteggiamento da cattivo ragazzo con il cuore d’oro.”

William, con la sua morbida voce di tenore e i suoi modi di fare sempre così posati, era il perfetto ritratto di un dongiovanni ignaro. Sarebbe stato in grado di fargli risultare sconcia la lista della spesa ma il suo volto era l’immagine della più sincera innocenza.

Per amore di tutto ciò che è sacro...

“Ah sì? Beh, peggio per loro,” sbuffò infilando la testa nella trappola di plastica come se fosse qualcosa di vitale importanza. “È per te che ho perso la testa.”


§


La vista della villa dei Moriarty, con la luce dorata proveniente dalle finestre e il viale d’ingresso incorniciato da lampade in ferro battuto, era qualcosa che non finiva mai di stupirlo. Le cose perdevano il loro fascino quando diventavano il fulcro di un’abitudine ma, anche dopo aver trascorso una settimana sotto lo sguardo vigile di quella facciata austera, non riusciva a scacciare la sensazione di non dover essere lì, specie con le implicazioni del loro ritorno.

“Liam, sei sveglio?” Senza il ruggito del motore a coprirla, la sua voce era fin troppo gentile. “Siamo arrivati a Durham.”

La pressione del paio di braccia che circondava la sua vita si alleggerì e il caldo peso sulla sua schiena sparì accompagnato dal rumore di passi sull’erba. Con la sua giacca di pelle a creare uno strano contrasto con la sua polo e il casco tra le sue mani, William lo osservava con un velo di preoccupazione nello sguardo.

“Hai guidato cinque ore senza sosta, devi essere esausto.”

“Nah, ci sono abituato. Ho coperto distanze anche maggiori in un botta sola, mentre giravo per il mondo.”

La superficie morbida del prato era un sollievo per le sue gambe indolenzite ma un brivido scese lungo la sua schiena alla perdita del peso pieno di vita che aveva supportato durante la sua odissea. Poteva essere tornato ad Itaca, per certi versi, perché John avrebbe avuto un matrimonio sereno, ma ciò non significava che avesse rimosso la radice del problema.

William si ergeva in mezzo alla luce soffusa del cortile ma il suo sguardo pensieroso passò dallo studiare i dettagli dell’edificio a studiare il suo volto.

Con il senno di poi ciò che era accaduto a Londra non era altro che un discorso a senso unico improvvisato all’ultimo minuto che probabilmente aveva sortito l’effetto sperato solo grazie all’intervento provvidenziale di Albert. Quali pensieri affollassero la mente di William rimaneva ancora un mistero, una matassa che avrebbe volentieri sbrogliato se gli avesse concesso di camminare per i sentieri intricati della sua musica e spiare così nel suo cuore.

Gli ho già creato casini blaterando più cose di quel che avrei dovuto…

"Liam–" 

"Sherly–" 

Un silenzio tragicamente intenso si insinuò tra loro con la stessa grazia di una corda che si spezza nel mezzo di una sentita performance. William sospirò e gli porse il casco con un abbozzo di sorriso.

“Grazie, Sherly.”

“... figurati.”

Le mani di William erano gelide contro le sue ma non lasciarono la presa sul casco tenuto stretto tra loro. Avevano solo poche ore prima che il sole colorasse il cielo con le sue dita di rosa per dare il benvenuto al loro ultimo giorno a Durham.


Face un passo in avanti. “Liam, ascolta–”

“Ah! Sherlock, William, avete fatto in tempo!” Sull uscio John agitò una mano con un sorriso luminoso e volse il capo verso l’interno della dimora. “Mary, Louis, sono arrivati!”

La piccola coda di persone che si riversò fuori dalla villa in stile vittoriano sarebbe dovuta apparirgli come uno spettacolo carico di tenerezza: i suoi amici avevano sprecato ore di sonno prezioso alla vigilia delle loro nozze aspettando il suo ritorno. Eppure il calore nel suo petto era inquinato dal peso delle vette che la sua frustrazione aveva raggiunto, raggiungendo livelli che rasentavano il rimpianto. Le dita di William scivolarono via dalle sue assieme ad un sorriso esasperato.

“Fratello, va tutto bene?”

La curva delle labbra di William si ammorbidì e le sue braccia circondarono le spalle di Louis come un “grazie” sussurrato, una piccola, dolce parola che fece appannare di lacrime lo sguardo del più giovane dei Moriarty.

Una mano lasciò una pacca vigorosa sulla sua spalla. “Ho sentito dire che il governo britannico non dorme mai,” disse John con un gran sorriso che creava delle fossette agli angoli della sua bocca. “E che può avere un itinerario abbastanza flessibile, con il giusto preavviso.”

Sherlock si fece sfuggire una risata. Diamine, è come se avessi vissuto sei anni nel giro di sei giorni. “Dio, essere un adulto è così stancante.”


§

 

A: Fratello Dimmerda

La prima del musical è la prossima settimana.
Ho qualche biglietto.
Ci saranno anche John e Mary.

 

§

 

Da: Numero Sconosciuto

“Nessun dorma! Nessun dorma! Tu pure, o Principessa, nella tua fredda stanza.”
Ultimo piano. Ti aspetto.
- W.


 

§


Nonostante William avesse fatto riferimento ad un “ultimo piano”, la sua stanza non era molto più grande di quella che gli era stata assegnata. Allo stesso tempo, però, era totalmente diversa dal resto della villa. Gli scaffali che adornavano le semplici mura bianche erano riempiti dai dorsi sottili di un numero spropositato di vinili mentre la luce della luna illuminava gli illustri nomi scritti in caratteri eleganti sui libri posti accanto a questi.

Sulla scrivania al centro della stanza un grammofono dorato - che probabilmente valeva più soldi di quanti ne avrebbe potuti guagnare vendendo tutti i propri beni mortali - lasciava che l’inconfondibile voce di Maria Callas riempisse l’aria con quella sottile tensione caratteristica dei posti sacri.

“Come hai avuto il mio numero?”

William, una silhouette del colore della luna in contrasto con l’oscurità del cielo notturno, lo chiamò con un cenno del capo e un sorriso. “Louis mette il telefono sempre nello stesso posto mentre è ai fornelli. Perciò potrei averlo… preso in prestito, per un momento dopo averlo distratto con una scusa.”

“Heh,” ghignò con le gambe che si muovevano sotto l’incantesimo di quel flauto magico che era la voce di William. “Quindi sei un criminale in tutto e per tutto anche quando non si tratta di musica.”

La finestra si aprì, lasciando entrare una ventata di aria tiepida che portava con sè l’odore della terra e degli alberi, del cielo notturno e dei rimasugli del profumo sulla pelle di Liam. “Si è trattato di un crimine commesso per il puro divertimento di farlo, se vogliamo essere precisi.”

Sherlock si lasciò sfuggire una risata roca che si perse nello spazio infinito sopra di lui. Le tegole di terracotta erano fresche e leggermente ruvide sotto i suoi piedi nudi e la bianca distesa della schiena di William era la luce che lo guidava attraverso ciò che era sconosciuto, invitandolo a prenderlo come un bambino durante una partita ad acchiapparello. L’uomo davanti a lui era sia l’incredibile pianista e matematico che il giocoso demone con una tendenza al romanticismo in tutti i sensi del termine, uno con un tetto solitario e un cielo stellato come nascondiglio segreto.

“Bel panorama, complimenti,” disse con l’eco di una risata nella voce. 

Le labbra di William si sollevarono nell’accenno di una curva, lo sguardo perso in un posto lontano oltre i contorni argentei degli alberi. “Quando ero bambino venivo qui con i miei fratelli ogni estate. Ricordo che stavo giocando a nascondino con Louis quando ho scoperto il pianoforte che hai visto nella serra.” Delle dita pallide e sottili accarezzarono la superficie porosa delle tegole e occhi cremisi si posarono su di lui. “Potresti trovarla un’affermazione piuttosto priva di logica, ma all'epoca, nonostante fossi già al corrente di non poter sentire la musica, mi sono ritrovato ad essere irrimediabilmente attratto da uno strumento così bello.”

Sherlock gettò la testa all’indietro, lasciando che i capelli sciolti che scendevano lungo la sua schiena gli solleticassero il collo. “Sì, è illogico, e quindi? Ero praticamente un moccioso quando i miei genitori hanno comprato lo Stradivarius per mio fratello ma solo il diavolo sa se non sono più riuscito a staccargli gli occhi di dosso dalla prima volta che l’ho visto.” Il suo sguardo cercò la sagoma di William nella penombra, William che poteva essere l’unica persona così perfetta per uno strumento maestoso come quel pianoforte a coda, per le sue note più dolci così come per quelle più profonde. “Che ci piaccia o meno siamo soltanto umani, no? Finiamo sempre con l’essere degli stolti che si struggono dal desiderio per ciò che non possono avere.”

“Stolti che si struggono…” William mormorò accigliato tra sé e sé. Il suo sguardo si alzò su di lui e le sue labbra si schiusero in una risata leggera come la brezza notturna. “Hai proprio ragione, Sherly. Ho sempre desiderato la musica perché era l’unica cosa che non potevo avere. Eppure il mio egoismo non ha fatto altro che crescere nel vedere le espressioni deliziate di Louis e Albert nel sentire le mie prime composizioni. Era come se avessi appeso loro le stelle nel cielo e il ricordo di quel momento è una delle cose più preziose che ho.”

‘A quell'amor ch'è palpito dell'universo intero, misterioso, altero, croce e delizia al cor.’

La voce di Maria Callas risuonava leggiadra nell’attico e danzava con gli strumenti che l’accompagnavano fuori dalla finestra, trasportata dalla brezza verso il tetto solitario per riempire il silenzio tra loro. Era totalmente diversa da come l’aveva immaginata, con le note struggenti degli archi e dei fiati a dare nuova enfasi al momento in cui Violetta Valérie realizzava quanto meraviglioso e terrificante l’amore fosse.

William si lasciò scivolare all’ indietro, sostenuto solo dalle sue mani, e alzò il capo verso le buie profondità del cielo. Sul suo volto dagli occhi chiusi rimaneva l’accenno di un sorriso. “Ho passato tutta la mia vita con la ferma convinzione che non avrei mai conosciuto il suono della musica, ma adesso che finalmente l’ho sentito…” Il suo sorriso tremò. “È ancora più bello di quel che avevo immaginato.”

Sherlock chiuse gli occhi. “Sì, lo è.”

Il fruscio della stoffa si perse nel silenzio e un peso freddo ma leggero si posò sulla sua mano. “Grazie, Sherly.”

Le sue dita si strinsero attorno a quelle sulla sua mano. “Per cosa?”

La presa sulla sua mano si fece più forte con il respiro profondo che scosse la figura di William. “Nel mio cuore una parte di me ha egoisticamente pensato che il giudizio delle persone a me care fosse offuscato dall’empatia nei confronti della tragedia che è un musicista che non può sentire la propria musica. Ed è questo il motivo per cui, quando sei arrivato qui con la mia stessa condizione, hai ascoltato la mia musica attraverso il tuo corpo e mi hai detto che era meravigliosa, le poche certezze che avevo costruito durante la mia vita sono crollate sotto il peso delicato delle tue parole. Perciò adesso… non so bene cosa dovrei fare, Sherly.”

Sherlock sbatté le palpebre e si lasciò andare ad una risata incredula. “Ah, Liam. Sei un musicista davvero brillante, perciò dovresti sapere già cosa fare nel momento in cui ti ritrovi con uno spartito vuoto davanti.” Sorrise. “Devi solo riempirlo con le cose che ami. Come nella musica le possibilità sono infinite.”

Le ciglia argentee di William tremarono al tempo della risata che creava linee delicate sulla sua pelle bianca. “Sei davvero incredibile, Sherly.”

Il suo petto si gonfiò. “Ovvio che lo sono.” Una zaffata di vento insolitamente freddo ululò passando sopra il tetto, lasciando la pelle d’oca sulle sue braccia nude. Uno starnuto fece rimbombare la sua testa. “Tempo inglese di merda.”

“Dovremmo tornare dentro,” disse William con il divertimento e l’affetto intrecciati ad ogni inflessione della sua voce. “Non vogliamo che il migliore amico dello sposo si prenda un febbrone il giorno della cerimonia.”

 

 

§

 

La morbidezza dello spesso tappeto sotto i suoi piedi nudi fece scorrere un brivido lungo il suo corpo. Alla luce della luna il piccolo attico era rimasto immutato, una natura morta che insinuava nella sua mente il dubbio di aver avuto uno di quei sogni lunghi e dolci che permanevano con un velo di malinconia anche dopo il risveglio. Sherlock era un tipo tutto fuorché sentimentale ma non era nemmeno un ipocrita. Perciò arrivare alla conclusione che tutte le piccole e preziose cose che gli erano state donate su un tetto in una notte d’estate erano state un prodotto della sua mente avrebbe creato delle crepe irreparabili nel suo cuore.

Eppure William era in piedi davanti a lui, con il fantasma di un sorriso ancora sulle labbra e i suoi capelli di oro bianco leggermente scompigliati dal vento imprevedibile. Gli sarebbe venuto da pensare che fosse una meravigliosa immagine nata da una pia illusione, se non fosse stato per il lieve ma ritmico movimento delle sue spalle e il lento ondeggiare delle ombre lanciate sulle sue guance dalle lunghe ciglia. Era probabilmente ben oltre l’orario ritenuto opportuno per attardarsi nella stanza di qualcun’altro, specie se il proprietario della suddetta stanza, proprio come lui, aveva una levataccia per un evento importante ad attenderlo. Il grammofono, conscio del suo tormento, riempiva l’aria di musica.

“Beh, dovrei andare a dormire,” disse di getto. La fantasia del tappeto era un caos di linee scure nella penombra. “Insomma, finirei con l’essere un cavolo di zombie se non mi faccio almeno un paio d’ore di sonno, e dobbiamo pure provare…”

‘Ch’io mi separi da Alfredo? Ah, il supplizio è così grande che morir preferirò.’

William gli rispose con un leggero suono di assenso, la luce scarlatta dei suoi occhi velata dallo sguardo basso. Una voce nella sua testa, fin troppo bassa e rauca per essere quella di Miss Hudson, implorava i suoi piedi di muoversi, di girare sui tacchi e dare vita alle due falcate che separavano il suo corpo dalla porta dell’attico. Era ironico come la sua mente decidesse di funzionare come quella di un adulto nei momenti in cui la cosa non faceva altro che infliggergli la maledizione dell’autocontrollo.

Delle ciglia color della luna tremarono per infliggergli un anatema ancor più terribile. Le sue gambe si mossero con un suono che si perse nell’intricata sinfonia degli archi. La vita di William era sorprendentemente sottile per un uomo della sua altezza, al punto da incastrarsi perfettamente nella curva del braccio che Sherlock vi passò attorno.

“Pensavo avessi detto che stavi andando a dormire,” disse William con una voce poco più alta di un sussurro.

La sua pelle fresca marchiò la sua fronte. “Beh, nemmeno tu mi stai cacciando.”

“Hai ragione, non lo sto facendo.” Un respirò tremante gli solleticò le labbra. “Non voglio farlo.”

Un brivido corse lungo la sua schiena, schizzando come impazzito lungo i sentieri tortuosi dei nervi del suo corpo fino alla punta della sua lingua, trasformandosi nel suono di un’imprecazione che morì contro le labbra di William. Una mano si aggrappò al dorso della sua vecchia t-shirt, incatenandolo al tepore emesso dal corpo stretto al suo. William aveva il sapore di tè e spezie, confortante e allo stesso tempo capace di creare assuefazione, in una maniera che la scoperta della musica non gli aveva permesso di conoscere a dovere. Non era nemmeno più una questione di tempo o di prontezza di spirito. Dei denti mordicchiarono il suo labbro inferiore e le note suonate dalle loro bocche e dai loro respiri si unirono alla stessa straziante melodia che faceva tremare l’aria.

“Liam…”

Il nome si fece largo dalle profondità del suo petto come una preghiera inframezzata da baci lenti e profondi. Le lunghe ciglia di William tremarono accarezzando le sue guance e incorniciando uno sguardo che fece bruciare la sua pelle. Lo aveva voluto per tutto il tempo, sin dalle primissime note che avevano vibrato attraverso carne e ossa. Sin dalla canzone che era stata la scintilla, il silenzioso ma inevitabile principio delle fiamme nelle quali si sarebbe volentieri gettato.

‘Divisi ei più non ne vorrà... sarem felici…’

Un sorriso che era una curva intagliata con una lama intrisa di miele si aprì sul volto di William, invitandolo inesorabilmente ad avvicinarsi. Le sue gambe si mossero da sole, vittime dell’incantesimo, fino a colpire l’orlo del letto. Il suo corpo vi cadde su con un lieve cigolio delle molle. Sotto di lui, William era una statua di porcellana tinta in oro e argento la cui bellezza gli bloccava il cuore in gola e gli rubava il respiro. Come per la musica, la sua mente gridava che lasciarlo andare sarebbe stato pari a morire, perché lo voleva sentire come il bambino che un tempo era stato voleva sentire ciascuna curva del meraviglioso strumento tra le sue mani.

Delle mani sottili si unirono alle sue nella determinata impresa di aprire i bottoni della camicia che nascondeva il corpo di William ai suoi occhi. Le sue dita tracciarono la delicata discesa di una clavicola, sfiorando il battito scalpitante sotto la pelle e disegnando le sottili linee di uno spartito lungo l’arco di una spalla per ricongiungerle con quelle disegnate dalla luce della luna. La pelle di William tremava come le corde del suo violino, bruciando di vita sotto le sue labbra e sbocciando in rose scarlatte lì dove queste dipingevano un livido. Un suono dolce e flebile riempì gli spazi tra le note dell’addio di Violetta.

Il freddo di dita pallide tracciò l’orlo dei suoi zigomi e si intrecciò ai capelli che cadevano ribelli dalle sue spalle. Lasciò un bacio su un palmo candido e le ciglia dorate di William tremarono nel mostrargli la dolcezza che si nascondeva nei suoi occhi scarlatti.

“Sherly…,” William mormorò in un suono la cui delicatezza gli ricordò le note del suo piano. Sotto le sue guance rosse, le sue labbra si stirarono in un sorriso che gli attorcigliò il ventre nello stesso modo in cui la voce di William abbracciava il suono del suo nome.

Una piccola parte della sua mente si meravigliava alla splendida ironia della situazione. Aveva visitato posti di ogni genere in giro per il mondo, incontrato una moltitudine di persone diverse e stretto amicizie sparse per il globo come semi lasciati in balìa del vento, ma il tassello mancante si nascondeva nel piccolo attico di una villa vittoriana, lontano dagli di coloro che avrebbero potuto scorgerne il reale valore.

Non poteva essere nessun altro se non William, con quel suo sorriso che sembrava contenere tutti i misteri del mondo e un pianoforte che li svelava nella più meravigliosa delle maniere. William, le cui dita avevano ridato forma al suo mondo nello stesso modo in cui ridavano forma al suo corpo affondando nelle sue spalle. William il cui corpo non era che musica che lo avvolgeva dando un nuovo significato al suono del suo nome. Nella piccola dimensione creata dal groviglio del loro abbraccio, le lacrime di William si mescolarono con quelle di amore e tormento cantate da Violetta, scuotendogli l’anima con la promessa di qualcosa di ben più dolce di un addio.

'Amami Alfredo, amami quant'io t'amo…'


 

Quando ho detto che i ficwriter sono creature folli in grado di creare un'intera trama per giustificare una singola scena mi riferivo in particolare alla scena finale di questo capitolo. Inoltre. Persone che come me non sapete scrivere roba NSFW senza tirare fuori roba che sembra Shakespeare o Dante, unitevi!
Ad ogni modo, la traduzione di questo capitolo mi soddisfa parecchio, l'ho decisamente snellito rispetto alla sua controparte inglese, perché ho notato più di un periodo che avrebbe ridotto in lacrime perfino Cicerone. Non siate come me, non abusate dei gerundi solo perché l'inglese ti permette di usare 20 tempi verbali insieme nella stessa frase.
Manca solo l'epilogo, che è un po' più breve rispetto al capitolo medio. Se la buona volontà mi assiste potrei anche tradurre le One-Shot spin-off, chissà.

 

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Capitolo 6
*** Epilogo - Anyway the wind blows ***


Internet non mentiva nel dire che tanto l’interno quanto l’esterno della cattedrale di Durham valessero da soli una visita alla cittadina. Le vertiginose volte della navata centrale davano agli interni in marmo un’aria di austerità che veniva però ammorbidita dai toni dorati conferiti dalle luci. I suoi passi risuonavano lievi sui pavimenti a mosaico mentre una fila di finestre dai vetri vividamente colorati accompagnava il passaggio che portava ad una delle cappelle. Con le dita sottili aperte su un pianoforte molto meno incredibile di quello nella serra, William si ergeva elegante nel suo completo nero, molto più bello di una qualunque delle scene rappresentate sulle vetrate.

“Yo, Liam.”

Gli occhi cremisi di William si posarono senza indugio su di lui, visibilmente divertiti. “Sherly, buongiorno.”

“Che c’è di così divertente?” borbottò per contrastare il formicolio che gli pizzicava la nuca e che minacciava di dare colore alle sue guance.

La mezzaluna del sorriso di William si allargò. Dei passi leggeri annullarono la distanza tra loro e delle mani sottili si portarono al suo colletto. “La tua cravatta,” disse William senza nascondere l’affetto nella sua voce. “È storta.”

Un grugnito seccato lasciò la sua bocca. “Diamine, non riesco ad annodarla bene mezza volta…”

Considerando il modo impeccabile con cui William si vestiva, la naturalezza dei gesti con cui le sue mani sistemarono il tessuto azzurro della sua cravatta non avrebbe dovuto sorprenderlo. Eppure i suoi occhi non poterono fare a meno di seguirlo come una scia con la sua cometa, ripercorrendo la linea delle sue braccia allungate e la morbida curva che univa il collo sottile alle spalle.

Occhi scarlatti si alzarono verso di lui, osservandolo imperscrutabili attraverso le ciglia dorate. “Hai lasciato i capelli sciolti.”

“G-già. Cioè, John e Miss Hudson non hanno fatto altro che rompere per tutto il tempo dei preparativi quando hanno visto la coda, perciò ci ho rinunciato.”

Doveva aver ormai superato quell’età e la mancanza d’esperienza che ne conseguiva e che rendeva terribilmente imbarazzante parlare con la propria cotta, ma a quanto pare non sarebbe mai stato troppo vecchio per fare figure di merda. La voce odiosamente divertita di Billy riecheggiò nella sua testa. “Sei davvero uno sfigato, Ponytail-senpai.”

Una forza delicata lo strattonò appena in avanti. “Ti stanno bene,” disse William con una nota di malizia nella voce, vicino abbastanza da far scottare le sue guance. La sua cravatta, che in quel momento faceva sfoggio di un perfetto nodo alla Windsor, fu posata contro il battito fuori controllo nel suo petto. “Ecco fatto.”

Sherlock sbatté le palpebre solo per osservare William indietreggiare di qualche passo prima di voltarsi e raggiungere il pianoforte. Alla fine non avevano avuto il tempo di provare, considerando che era praticamente un miracolo che fosse riuscito a sgattaiolare nella propria stanza abbastanza presto da rendersi presentabile senza destare sospetti. Eppure le sue mani non tremavano minimamente al pensiero di suonare nuovamente con William. Non avrebbero commesso errori, perché ogni singolo atomo che lo componeva era stato testimone di come fossero fatti per dare vita alla musica insieme.

Ah, capisco…

I suoi passi lo guidarono al posto a cui apparteneva. Lo Stradivarius accolse i suoi occhi e le sue mani con i colori caldi del suo legno e si piegò alla sua volontà alla stregua di un compagno con cui aveva condiviso tutta la vita. Il volto di William fu illuminato da un sorriso radioso al suono del suo accordare. La lingua gli si annodò, lasciando la musica come unico mezzo possibile per trasmettere tutto ciò che era inesorabilmente cresciuto dentro di lui durante quella settimana.

Fammi sentire tutto ciò che hai da dirmi, Liam.

 

§


Il tempo necessario ad accordare il suo violino sotto uno sguardo scarlatto passò in un turbinio di istanti confusi, così tanto da far risultare il silenzio che cadde sulle navate qualcosa di improvviso e assordante. Jack Renfield, vestito impeccabilmente con il suo completo grigio scuro, mosse la mano destra in un gesto fluido ma delicato, non lontano da quelli che aveva osservato in alcuni grandi direttori d’orchestra.

Un suono dolce e delicato riempì l’aria pregna dell’odore dell’incenso. Il respiro gli morì in gola.

Davanti all’altare John strofinava le mani contro i pantaloni del completo in una maniera che, con affetto, gli ricordava tutte le volte in cui i guai che causava avevano provocato reazioni simili nel suo migliore amico. Il suo violino entrò nella canzone senza bisogno di gesti di richiamo, un mormorio basso che era tanto in contrasto quanto in armonia con il pianoforte di William. Dire che il suono della musica gli fosse familiare sarebbe stato una bugia. Ciò che stava nascendo dal loro incontro era per lui qualcosa di meravigliosamente nuovo ma allo stesso tempo sanciva la perdita di quel legame che si era instaurato tra il suo corpo e la musica stessa. Era una sensazione così agrodolce da sposarsi perfettamente con lo struggente sentimento trasmesso dalle note che avvolgevano ogni singola colonna per prendere possesso di tutto lo spazio a loro disposizione.

La figura familiare di Mary camminava lentamente lungo la navata principale con un bouquet di splendidi gigli bianchi tra le mani e un velo a nascondere il suo viso dagli sguardi di coloro che la osservavano con il fiato sospeso. Gli accordi provenienti dal pianoforte di William si fecero più intensi, uniti l’uno all’altro da fraseggi rapidi ma eleganti che permettevano al suo violino di brillare. Forse, dopo anni passati a vivere la musica come un’estensione del suo corpo, era troppo presto per decidere se poter sentire tutto quello fosse una benedizione o una maledizione. Eppure essere lì, in un mondo chiuso tra mura di marmo in cui l’unico suono presente è quello della musica sua e di William che diventano un cosa sola, avrebbe potuto essere il primo istante di sollievo per una ferita che doveva ancora cominciare a rimarginarsi.

Il suono del loro duetto sfumò con la stessa tenerezza con cui aveva avuto inizio, lasciando nient’altro che la propria eco ad accompagnare il tremolio delle mani di John nel sollevare il velo di Mary. Le spalle di William si alzavano e si abbassavano in un ritmo rapido ma regolare. Sul volto che gli era diventato così caro le labbra sottili si schiusero in un silenzioso esalare e una singola lacrima lasciò una scia trasparente sulla pelle pallida. Le dita gli fremettero dal desiderio di asciugarla. La pelle di William era calda al tatto.

“Grazie, Liam.”

§
 


Il cielo si era tinto delle sfumature arancioni del sole che tramontava dietro gli alberi, creando una linea frastagliata sull'orizzonte che separava la villa dei Moriarty dal resto del mondo. L’aria tiepida della sera estiva gli accarezzava le braccia libere dalla costrizione delle maniche - finalmente arrotolate - e portava con sé le allegre note di un pianoforte a coda.

Su un’area di prato libera dai tavoli che occupavano il giardino della magione, Miss Hudson emise una risata deliziata mentre John la faceva volteggiare su se stessa senza alcuno sforzo. A pochi passi di distanza da loro, Jack guidava Mary nei vivaci passi di un valzer. Sotto l’incantesimo di una musica che non apparteneva ad un flauto ma che era altrettanto magica, i suoi passi lo portarono verso l’uomo dietro il pianoforte. Il sorriso spensierato sulle sue labbra e la cravatta cremisi che penzolava allentata dal suo collo lo rendevano un ritratto di gioiosa gioventù da cui non riusciva a non essere attratto. 

Un gran sorriso si aprì sulle labbra di Sherlock. “Ehilà, professore.” La sua schiena si posò contro il fianco del piano. “Ti va di accontentare la richiesta di uno studente fancazzista?”

William gli offrì un sorriso ugualmente brillante, ma il suo sguardo conteneva una punta di malcelata malizia. “Che dire, Mr. Holmes, arriva con tempismo perfetto. Mi stavo proprio domandando quale canzone suonare.”

“Allora che mi dici di qualcosa di Elton John? Mi sembra abbastanza sdolcinato per un ricevimento di nozze, no?”

“In effetti un pianista di bravura notevole merita di suonare un pezzo altrettanto notevole.” Le ciglia dorate di William si abbassarono, adombrando appena il colore scarlatto dei suoi occhi. “Anche se alla luce delle connotazioni romantiche della richiesta mi viene spontaneo chiedermi se qualcuno tra i presenti le abbia catturato il cuore.”

Un ghigno traditore si impadronì del suo volto. Oh, quell’uomo sarebbe stato la sua rovina. “Dovresti saperlo bene, visto che sei tu ad averlo fatto.”

William alzò gli occhi al cielo. “In quanto educatore mi sento in dovere di dirle che le lusinghe non la porteranno da alcuna parte.” Il tenue rossore sulle sue guance sembrava nato direttamente dai colori del tramonto. “Anche se immagino che sarebbe più opportuno consigliarle di ascoltare attentamente per una migliore esperienza di apprendimento.”

Gli accordi che echeggiarono delicatamente nell’aria attorno a loro vennero fuori come una miscela di suoni poco familiari. Una parte della sua testa li registrò come “giusti” per il modo in cui parevano armonizzarsi senza il minimo sforzo, ma la sua mano sinistra accarezzò il fianco del magnifico strumento guidata dall’istinto di una vita. Doveva esserci qualcosa di strano nei circuiti della sua neocorteccia, perché le delicate vibrazioni si inserirono nella canzone come una chiave nella sua serratura. Le parole di una canzone gli riempirono la mente accompagnate dal sollievo tipico delle cose familiari.

I hope you don't mind that I put down in words…

L’affetto che gli riempì il petto possedeva lo stesso calore del sole che brillava attraverso una finestra per illuminare il groviglio di due corpi addormentati e la delicatezza di un sorriso accennato con due occhi cremisi appena schiusi. Avrebbe preso la mano di Liam lì e subito se non gli fosse già stato offerto un cuore da custodire con tenerezza.

I movimenti leggiadri delle dita di William cessarono con la stessa grazia con cui erano iniziati. Lo sguardo che incrociò il suo era dolce abbastanza da spezzargli il cuore e al contempo rimarginare ogni ferita.

“Sherly…”

“Ragaaazzi.” Con un’andatura pericolosamente ondeggiante Miss Hudson si avvicinò a lui e William, seguita a ruota da un Sebastian Moran e un James Bond spassosamente inquieti. “Quella roba che avete suonato in chiesa era cooosì dolce. Caaavolo, così non vale.”

Il viso di Moran si contrasse con un sospiro afflitto. “Andiamo, vecchiaccia, non dire così. Se la sono cavata alla grande, secondo me.”

“Ma… sentirli mi ha fatto venire voglia di innamorarmi come se avessi di nuovo 17 anni!”

 

Sherlock incrociò le braccia al petto con un ghigno. “Ehi, non eri tu l’eterna diciassettenne?”

Se quella era la giusta vendetta per tutte le volte in cui aveva sentito la sua voce rimproverarlo nella testa per ciascuna delle sue terribili scelte di vita, nessuno sarebbe dovuto venirne a conoscenza.

“Lei dev’essere Miss Hudson. Il mio nome è William James Moriarty, deliziato di fare la sua conoscenza.” Un sorriso che sarebbe stato capace di far sbocciare i fiori si allargò sulle labbra di William. “Anche se devo riconoscere che è ancora più incantevole di come Sherlock l’ha descritta nei suoi racconti.”

Delle mani sottili si avvinghiarono alle sue spalle e lo scossero con un familiare eccesso di forza. Il karma ci vedeva fin troppo bene quando si trattava di lui. “Ommioddio Sherlock, è come un principe!”

Beh, non posso darti torto…

Bond gli scoccò un sorriso comprensivo e, con il fascino naturale di qualcuno capace di conquistare facilmente sia uomini che donne, prese le mani di Miss Hudson tra le proprie. “Martha, mia cara, perché non andiamo dentro e lasciamo Will e Sherly alla loro chiacchierata? Ho un sacco di aneddoti su New York da raccontarti.”

“Ehi, Bond!” Sul volto di Moran era dipinto un esilarante mix di terrore e confusione. “Non farle bere altro vino.”

“Non è di Martha che dovresti preoccuparti.”

“Eh?!”

Il sorriso di Bond trasudava benintenzionata malizia. “La nostra incantevole Moneypenny è seduta sola soletta al suo tavolo. Se non ti sbrighi a fare una mossa, potrei farla io.”

Bond rivolse loro un occhiolino e guidò la barcollante Miss Hudson verso l’entrata posteriore della villa. Lo sguardo di Moran si spostò su una giovane donna dai capelli rossi seduta al tavolo posto davanti all’entrata della serra per poi tornare su di loro. Un sospiro sconfitto scosse il petto dell’uomo, che si avviò a passi pesanti verso il tavolo del rinfresco.

“Diavolo, non sono abbastanza ubriaco per tutto questo. Dov’è Albert quando mi serve…”

William emise una risatina. “Quindi conosci sia Sebastian che James. Devo dire che sono piuttosto sorpreso dalla vastità del tuo circolo di amicizie.”

“Nah, non è proprio così,” disse sventolando la mano con noncuranza. Anche se Billy adorava prenderlo in giro per via dell’esiguo numero di persone che considerava sue amiche, Sherlock era soddisfatto della sua situazione e provava un certo orgoglio nel preferire la qualità alla quantità. “Ho conosciuto quel Sebastian solo stamattina ma cavolo se sa il fatto suo quando si tratta di musica.”

“Ah, Sebastian è un eccellente percussionista. Ha fatto il turnista per diversi artisti famosi, ma poiché non rimane molto a lungo nello stesso posto i fan tendono a dimenticarsi di lui.”

Avrebbe dovuto immaginare che William conoscesse svariati personaggi straordinari. Non smetteva mai di sorprenderlo, dopotutto. “Allora non c’è da sorprendersi che entrambi conosciate Bond…”

William gli rivolse un’occhiata incuriosita. “Come hai conosciuto James? Se non ricordo male è stato in America fino ad un paio di settimane fa.”

“Ha fatto il botto come attore in un musical per cui ho suonato mentre ero a New York. È praticamente diventato amico dell’intero cast ma è un tipo così in gamba che non c’è da sorprendersi che lo abbiano richiesto anche qui in Europa.” Rivolse un sorriso a William ma le sue labbra si contorsero in un imbarazzante incrocio con una smorfia. “Anche i direttori erano dei tipi a posto. Sono stato scelto come violino principale per il loro nuovo show, perciò mi tocca tornare in America per la première la prossima settimana.”

Non stava cercando di tenerlo segreto ma l’argomento non era mai venuto fuori nel mezzo della frenesia della settimana passata. Contrariamente alle sue aspettative, però, William gli rivolse il più delicato dei sorrisi. “New York, eh? Un posto che è un tale melting pot di culture si addice davvero tanto a te e alla tua costante ricerca di nuova musica.”

“Liam.” Gli occhi di William meritavano di colorarsi di tutta la felicità del mondo e lui era tanto egoista da desiderare di essere almeno in parte causa di questa. “Che intendi fare adesso?”

“Ho ricevuto un’offerta di lavoro come professore di matematica a Londra, in effetti, ma per via di un certo studentaccio che ha cospirato con i miei fratelli mi sono visto costretto a rifiutare.” William alzò lo sguardo al cielo, lasciando che l’oscurarsi di quest’ultimo si riflettesse nel colore dei suoi occhi. “Ad essere sincero nessuno dei piani che avevo attentamente costruito per il futuro mi sembra rispecchiare più ciò che voglio fare. Immagino che rimanere qui a Durham per un po’ e riflettere su me stesso potrebbe essere un buon punto di partenza.”

“Rimanere qui, eh…” Le sue gambe lo portarono ad inginocchiarsi per cercare lo sguardo di William. L’odore dell’erba e della terra si mischiarono con il profumo da lui indossato. Ghignò. “Cosa ti fa pensare che lascerò che ti liberi di me tanto facilmente?”

William sbatté le palpebre e schiuse le labbra in una maniera che gli ricordò un bimbo sperduto.

“Mi sono reso conto che c’è un sacco di roba sulla musica che devo ancora imparare e immagino che potrei farlo da chissà quante persone. Ma non andrebbe bene, perché nessuna di queste sarebbe te. Perciò vieni a New York con me, Liam.”

Una brezza soffiò leggera tra i capelli dorati di William e riempì il confortevole silenzio creatosi tra loro. Gli facevano male le gambe a stare così piegato e il cuore gli batteva così rapidamente contro lo sterno che non lo avrebbe sorpreso vederlo evadere lì. Eppure, lui non sarebbe scappato per nessun motivo al mondo.

“Stavo pensando che ultimamente ho fatto diverse scoperte su me stesso e sulla musica.” Le spalle di William si sollevarono con un respiro profondo ma il sorriso che si aprì sul suo volto era così carico di affetto che lo avrebbe perseguitato ogni qualvolta le note di un piano avrebbero raggiunto le sue orecchie. “E tra queste quella senz’altro più scioccante è stata notare quanto felice e in pace con me stesso io mi senta quando sono con te. Perciò spero di andarti bene, Sherly.”

Alla fine la risposta era sempre stata nella musica, ma anche se non l’avesse sentita in quel fatidico momento di una notte estiva, avrebbe scelto questo, avrebbe scelto lui ancora una volta. “Lo fai già, Liam.”



NDA


Quello del vento/brezza è un tema ricorrente in Yuumori. Credo sia nato nel terzo musical, in cui William definisce Sherlock la brezza che inizia a smuovere le cose nell'immobilità della "stanza del suo cuore" (letteralmente "kokoro no heya", sì) ma a Miyoshi-sensei la cosa deve essere piaciuta tanto, perché ha iniziato ad usare le metafore di MoriMu praticamente in ogni capitolo post-final problem (non che io mi lamenti, quei musical sono delle perle rare). Ad ogni modo, appena ho pensato di trovare un titolo a questo epilogo che avesse a che vedere con questo tema, Bohemian Rhapsody dei Queen si è fatta strada nella mia testa a velocità supersonica. Mi piace spesso scherzare dicendo che il mondo può essere diviso in chi canta questa canzone imitando malamente ciascuna delle voci e i bugiardi, ma in verità nello scherzo c'è tanta realtà: se questa canzone piace non c'è verso di non riuscire a cantarla.
Alla fine ho fatto suonare Elton John a William, anche se non mi definirei una sua fan. Your Song la conosco per via di quel magico film che è Moulin Rouge, quindi in realtà ogni volta finisco con l'immaginare la versione cantata da Ewan McGregor e Nicole Kidman :'D

E quindi siamo giunti alla fine. Tradurre questa storia è stato un bell'esercizio di lingua che mi è stato utile su diversi frangenti, quindi sono molto soddisfatta di essere riuscita a portare a termine questo compito bizzarro. Inoltre mi ha portata a ritrovare un pochino il mio amore per la lingua italiana: è difficile, è prolissa, ma ha una musicalità tutta sua, non c'è che dire. Dopo anni passati a scrivere direttamente in inglese (cosa che comunque ha portato la mia dimestichezza con la lingua su un altro livello) sono quasi tentata di scrivere qualcosa direttamente in italiano e vedere un po' che magheggi riesco a fare per produrre una traduzione che non suoni terribile nell'altra lingua. 

Ad ogni modo, se giungete fin qui e siete così pazienti da leggervi pure queste note d'autore schifosamente lunghe, sappiate che leggo (e rispondo, anche se magari con molto ritardo) a tutti i commenti/recensioni che lasciate sia qui che su Ao3 e che ogni volta mi illumino tipo bambina la mattina di Natale. Se avete critiche o suggerimenti non fatevi scrupoli, anche perché sono sempre stata dell'opinione che le critiche costruttive siano la strada più breve per il miglioramento. Grazie per avermi seguita fin qui e alla prossima storia!

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