Persi su ARK

di Roberto Turati
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** La sfera ***
Capitolo 2: *** Un'ARK diversa ***
Capitolo 3: *** Ospiti ***
Capitolo 4: *** La caccia e la gita ***
Capitolo 5: *** Jonas e Bob ***
Capitolo 6: *** Il morso del ragno ***
Capitolo 7: *** Una serata spassosa ***
Capitolo 8: *** La scultura del folle ***
Capitolo 9: *** Un'occhiata all'Aberrazione ***
Capitolo 10: *** Una Notte Atroce ***
Capitolo 11: *** Il Mostro Acido ***
Capitolo 12: *** Imboscata al Guado - Parte 1 ***
Capitolo 13: *** Imboscata al Guado - Parte 2 ***
Capitolo 14: *** Piano di Fuga ***



Capitolo 1
*** La sfera ***


PERSI SU ARK

Era passato un giorno da quando Lex era partito per Ragnarok. Rimasta senza l’unica persona con cui poteva discutere seriamente sulle stranezze dell’isola, Aurora non riusciva a non pensare all’ologramma, a quei diari, a tutto quello che c’era di strano in quel posto. Aveva la netta sensazione che di quel passo avrebbe perso la testa, così decise di darsi da fare e rendersi utile per occupare il più possibile il suo tempo e distrarsi. Era un po’ egoistico come proposito, ma visto che si trattava di aiutare si sentiva “giustificata”. Ed ecco perché, in quel momento, si trovava nella foresta con Giselle per raccogliere bacche e frutta per aggiungere mangime alle stalle della base. Le era stato detto che di carne ce n’era già da vendere, quindi le bastavano vegetali. Aveva chiesto lei a Giselle di accompagnarla; non solo perché la piratessa era una delle persone con cui aveva preso più confidenza da quando era coi Difensori, ma anche perché con lei si sentiva molto più al sicuro nelle zone selvagge. Avevano lasciato il tapejara di Giselle ad attenderle in cima ad una roccia, mentre raccoglievano quello che trovavano stando a breve distanza l’una dall’altra. Tuttavia, il silenzio riempito solo dai fruscii e i richiami della boscaglia le metteva inquietudine: voleva fare conversazione. E la prima cosa che le venne in mente fu l'incontro fra Giselle e Nick orchestrato da Jenny con la complicità riluttante di Lex, la sera prima:

«Com’è andata a finire, ieri?» domandò, dopo aver preso tutte le migliorbacche di un arbusto.

«Di che parli?» chiese Giselle, senza voltarsi a guardarla.

«Be’, del tuo avvicinamento a Nick. Sai, quello “incoraggiato” da Lex» spiegò la rossa, con un mezzo sorriso.

Giselle, allora, si irrigidì subito e le sue guance diventarono rosse:

«Oh, quello! Ecco, abbiamo parlato»

«Parlato, eh?»

«Parlato»

«Ho visto. Di cosa?»

Giselle rimase in silenzio per qualche secondo, grattandosi il collo con aria imbarazzata. Poi rispose:

«Oh, niente di particolare: prima i soliti convenevoli, poi abbiamo conversato del più e del meno, io mi sentivo un pesce fuor d’acqua e anche lui, vista la faccia che aveva. D'accordo, sono certa di essere stata un disastro»

Aurora ridacchiò:

«Ma no, vedrai che è solo un’impressione! Questione di prenderci la mano»

«Non lo so, mi sento ancora così in imbarazzo a pensarci!»

«Abbi fiducia, Giselle: vedrai che finirà bene»

Guardando oltre la pianta, Aurora notò un altro cespuglio di migliorbacche a qualche metro di distanza. Ci andò subito e cominciò a raccoglierle, ma fu interrotta da un gridolino dietro di lei e un’imprecazione di Giselle. Si voltò di scatto, allarmata, ma vide solo un esserino dal bruttissimo aspetto correre via nel sottobosco.

«Ehi, tutto bene?»

«Sì, tranquilla: uno stupido pegomastace ha cercato di rubarmi le bacche. Gli ho dato la pedata che meritava»

«Credevo che gli avresti sparato»

«Nah, non vale la pena sprecare piombo per quegli scippatori; anche perché, se avesse voluto, avrebbe potuto rubare direttamente la pistola»

«Cosa? Davvero?» chiese Aurora, sorpresa.

«Certo! Ho sentito parlare di tribù o gruppi che addestrano i loro pegomastaci per rubare di nascosto le armi dei nemici, così partono in netto vantaggio. Tieni gli occhi aperti, nella foresta!»

«Certo, lo farò»

Le ragazze continuarono in silenzio per un po’, addentrandosi nella boscaglia. Il Sole era allo zenit e alcuni dei suoi raggi penetravano nel fitto fogliame come lame di luce, creando effetti molto suggestivi che facevano tanto contrasto con l’ambiente buio e opprimente. Trovarono impronte di raptor e Aurora, ripensando al breve incontro che aveva avuto con l’esemplare alfa alla spiaggia, rabbrividì e si passò d’istinto le mani sulle cicatrici che aveva sulle braccia. Per fortuna, Giselle le assicurò che erano abbastanza vecchie e le bestie che le avevano lasciato erano per forza molto lontane da lì. Poco oltre, in una piccola radura illuminata e a ridosso di un basso crinale da un lato, trovarono un giovane melo coi rami pieni di minuscoli frutti appena maturati e li vollero prendere. Giselle disse che poteva bastare: non potevano trasportare molto altro, del resto, e le creature non erano poi così esigenti. Aurora annuì e fece per voltarsi e tornare indietro, ma la piratessa si accorse di qualcosa ed emise un sospiro beato. La rossa si girò, incuriosita, e vide che stava guardando un salice, sotto la parete rocciosa.

«Un salice! Sai, era l’albero preferito di mia madre» disse Giselle.

«Davvero?»

«Sì. Per questo mio padre ha chiamato la sua nave Black Willow. Non riesco a fare a meno di pensarci ogni volta che ne vedo uno»

Sorridendo, si avvicinò alla pianta a braccia conserte e si fermò sotto le sue fronde pendenti, guardandole con un’attenzione tale da sembrare ipnotizzata. Anche Aurora si fermò a guardare, però vide qualcos’altro: tra le radici, ormai mezzo sepolto dall’erba e dal muschio, intravide quello che le sembrava un vestito. Osservando meglio, ebbe conferma che era una vecchissima e consunta veste in qualche tessuto che non seppe riconoscere. Non resisté alla tentazione di indagare, mentre Giselle fissava ancora i rami: si accucciò e la afferrò. La tirò e sobbalzò con un acutissimo grido, quando si ritrovò faccia a faccia con le orbite vuote di uno scheletro quasi inglobato dai licheni. Aurora, ancora scossa dai brividi, corse a rifugiarsi dietro Giselle per istinto, stringendosi le spalle per sentirsi più riparata e tenendo gli occhi sbarrati. Giselle, invece di spaventarsi, sembrò solo sorpresa.

«Cosa? Oh!»

«Non me l’aspettavo per nulla!» esclamò la rossa, sforzandosi di calmarsi.

«Ehi, rilassati! Non ti morde mica: non può più»

Alla fine, il respiro di Aurora tornò regolare e, non potendo fare a meno di guardare più da vicino nonostante l’inquietudine, tornò dallo scheletro. Era così vecchio che alcuni pezzi si sgretolavano appena li toccava con le dita e gli mancava tutta la metà inferiore. Si chiese ad alta voce cosa potesse essergli capitato e Giselle suggerì che una bestia gli avesse mangiato le gambe: era l’idea più plausibile e la rossa rabbrividì all’idea.

«Certo che dev’essere proprio vecchio per avere il muschio. Quanti anni gli daresti?»

«Non saprei. Di certo è qui da più del doppio dei nostri anni messi insieme: guardalo, è più polvere che ossa!»

«Hai ragione. Aspetta, questo cos’è?»

Si accorse che, tra le falangi contorte e rinsecchite, stringeva qualcosa: un oggetto, a prima vista metallico. Lo prese e tutto il braccio del cadavere si sgretolò, il che le provocò un brivido di raccapriccio. Preso quello che lo scheletro aveva stretto per chissà quanti decenni, Aurora se lo rigirò in mano con attenzione: era una strana sfera di rame, grande poco più di una palla da tennis, ormai arrugginita e resa verde dall'ossidazione. Era più pesante di quello che sembrava e un solco la divideva in due parti uguali. Ma quello che la colpì di più fu ciò che si vedeva attraverso una sorta di piccolo oblò di vetro su uno dei lati: all’interno della sfera c’era un curioso liquido azzurro, denso come il miele e fluorescente. Nel liquido galleggiava un piccolo pezzo di legno contorto che, con grande sorpresa di Aurora, pulsava come un cuore.

«Che roba è?» chiesero entrambe, quasi all’unisono.

«È davvero stranissima. Credi che c'entri qualcosa con l’ologramma che abbiamo trovato?»

Giselle sollevò le braccia:

«Non so dirti niente: quello per me era una novità, tanto quanto questa palla di metallo. Ma se proprio vuoi la mia opinione, dubito che siano collegati. Sono del tutto diversi e non leggo nessun messaggio strano su questa cosa»

«Giusto, hai ragione» rispose Aurora, sentendosi un po’ sciocca.

«Senti, abbiamo fatto il pieno di frutta e qui non sembra esserci altro. Vogliamo rientrare?» chiese Giselle.

«Sì, va bene» rispose Aurora.

La rossa fece scomparire la sfera nel suo inventario e scosse le mani, finalmente libere dal suo peso.

«Che fai, te lo tieni?»

«Be’, sì! Ho intenzione di capirci qualcosa. D'altronde, il proprietario non può più lamentarsene, giusto?»

Giselle ridacchiò e si strinse nelle spalle.

«Come vuoi»

Aurora rimase in silenzio. Rifletté su quella scoperta per tutto il viaggio di ritorno. Un altro mistero che si aggiungeva alla lista. Cos'altro nascondeva l'Isola? Cos’era quell’oggetto e che se ne faceva la persona che ce l'aveva, prima di morire? Al contrario dell'ologramma, che era apparso dal nulla da un giorno all'altro, la sfera sembrava antica. Magari era un particolare strumento di cui disponevano le generazioni più vecchie di sopravvissuti? Doveva approfondire: dentro di sé, sentiva che ne valeva la pena.

Quella sera, chiese e ottenne da Giselle di mangiare da lei, anche se molti dei Difensori si erano radunati alla mensa. La piratessa fece del salmone allo spiedo e ad Aurora piacque così tanto che le chiese se ne aveva altro.

«Certo, ne ho un’intera scorta!»

«Accidenti, sei bravissima! Posso mangiare da te più spesso?» scherzò Aurora, con un sorriso imbarazzato.

«Grazie, l’ho imparato da mia madre! E se vuoi stare qui altre volte, per me va bene: sei simpatica!»

Aurora ringraziò e si appoggiò al muro, in attesa della seconda porzione. In quel momento vuoto, si ricordò della sfera e la tirò fuori dall’inventario. Iniziò a rigirarsela con molta attenzione fra le mani: non era il caso di graffiarsi con la ruggine. Evitò il più possibile di guardare attraverso il vetro: quel legnetto pulsante le faceva troppa impressione per fissarlo. Non riusciva proprio a capire cosa potesse essere. A un certo punto, le venne un sospetto sul solco che divideva a metà la sfera: e se fossero state due componenti separabili? Incuriosita, provò a tirare le due parti: per un paio di secondi, non successe niente, ma poi scoprì di averci visto giusto. La sfera si aprì, divise l’oblò in due e rivelò che il liquido azzurro era contenuto in una boccetta di vetro a cui la sfera di rame faceva da protezione. Ma non era tutto: una sezione della metà inferiore della palla si scoperchiò. Aurora rimase di sasso, perché non avrebbe mai pensato che ci fosse un vano su quella superficie liscia. E in quel vano c'era qualcosa che la sbigottì:

«Una tastiera?» si chiese, confusa.

Si trattava di nove tasti ricurvi disposti in cerchio, formando un anello. Su ciascuno di essi, c'era un numero di tacche oblique che partiva da uno sul primo tasto e finiva a nove sull'ultimo. Al centro dell'anello, si trovava un tasto più grosso e circolare. Su di esso non erano disegnate tacche, bensì l'icona stilizzata di una casa, formata da un quadrato privo del lato superiore sormontato da un triangolo senza base. Il cuore di Aurora iniziò a battere all'impazzata per l'emozione: la sfera era un telecomando? Cosa rappresentavano i numeri e il simbolo della casa? Da un lato, la tentazione di premere quell'invitante bottone rotondo era molto forte, ma poi la rossa pensò di evitare per sicurezza: non sapeva cosa facesse, forse fare una prova nella casa-nave di Giselle non era la migliore delle idee. Aurora rimase in attesa due minuti e la sfera si richiuse di colpo, tornando uguale a prima.

«È pronto!» la chiamò Giselle.

«Eh? Ah, arrivo!»

Aurora mangiò il secondo salmone con molta meno voracità di prima, perché la sua mente ormai era del tutto assorbita da quella palla enigmatica. Doveva assolutamente indagare. Doveva capire al più presto quale fosse il luogo e il momento più adatto a fare una prova, dove nessuno avrebbe corso rischi inutili. La brama di saperne di più era tale che Aurora non chiuse occhio, quella notte. Ci rifletté a lungo e, alla fine, decise di fare domande alla persona che aveva più probabilità di saperne più degli altri, prima di sperimentare da sola.

La mattina dopo, chiese di Nick e lo trovò vicino alla riva del lago. Siccome il capo dei Difensori era uno dei sopravvissuti che erano in circolazione da più anni, la speranza che almeno lui sapesse dirle cos’era la sfera era concreta. Invece, come temeva, il capotribù scosse la testa con perplessità, quando si trovò davanti la palla di rame:

«Non ho mai visto niente di simile. Non sembra nemmeno un apparecchio a base di TEK» le disse.

«Già» mormorò Aurora, delusa.

«Dove l’hai presa?»

«Ieri, nella foresta. Ce l’aveva uno scheletro vecchissimo»

«È davvero strano. Sembra estranea a qualunque cosa ci sia sulle Arche» commentò lui.

«È la stessa cosa che ho pensato io quando ho visto il TEK, a dirla tutta. Be’, dovrò spremermi le meningi da sola per capire cos’è!» ridacchiò la rossa.

Il suo sorrisetto imbarazzato diventò una smorfia allarmata, appena Aurora si accorse dello sguardo contrariato di Nick. Capì solo a quel punto di aver fatto un passo falso: c'era un motivo, se aveva sentito parlare male delle ricerche private di Lex, e Giselle le aveva detto che Nick non era mai stato contento quando si trattava dei segreti dell'Isola. Ebbe paura che il capotribù le ordinasse di consegnarle la sfera ma, proprio in quel momento, un gruppo di persone chiamò Nick da lontano e gli chiese se poteva venire, per cui il capo dové congedarsi. Appena la salutò in tono distratto, la rossa tirò un sospiro di sollievo: l'aveva scampata. Sarebbe stato un vero peccato perdere una pista così intrigante. 

La settimana successiva passò nella totale ordinarietà: Aurora ammazzava il tempo libero fissando la sfera aperta; non osava premere i tasti, nonostante l’impulso di fare una prova. Talvolta si malediceva per essersi cacciata da sola in quello stallo che, a tratti, le metteva ansia. Quando ne aveva l'occasione, andava in giro con Giselle per fare qualcosa di utile, andava alla stalla per salutare il suo equus e riempire le mangiatoie delle altre creature, oppure faceva un salto nell’infermeria per salutare Jenny, ancora impegnata con la riabilitazione. Com’era abbastanza ovvio, finì per conversare spesso sulla sfera anche con lei. Il primo pensiero di Jenny era sempre chiederle di aggiornarla su eventuali novità o pettegolezzi per poterci ficcare il naso come suo solito, persino mentre era ricoverata; comunque, anche la storia dello scheletro e della palla di rame la incuriosiva molto. Aurora le promise di informarla subito, se avesse fatto qualche scoperta; il problema era che non ne faceva mai. Tuttavia, non smise di provare a capirci qualcosa, fino al ritorno di Lex da Ragnarok. Non vedeva proprio l’ora di sentire la sua opinione.

Purtroppo, il rientro del suo unico vero confidente non andò come pensava. Un giorno, Aurora era nel suo alloggio, con la mente che rimbalzava di continuo dall’ologramma alla sfera, che in quel momento era riposta su una mensola come se fosse un cimelio. Rimuginò fino a procurarsi un mal di testa. D'un tratto, sentì un rumore nella stanza adiacente. Jerry dormiva tranquillo al suo fianco, ma scattò in piedi all'improvviso e rizzò le orecchie quasi allarmato.

«Che succede?» esclamò Aurora, preoccupata.

Jerry annusava l'aria e scese dal letto. Dalla camera accanto provenne un tonfo preoccupante, seguito da un lamento e un colpo di tosse. Aurora scattò in piedi e aprì la porta al jerboa.

«Lex? Sei tu?»

Bussò alla porta, che sembrava bloccata. Si ricordò che Lex l'aveva chiusa a chiave, per evitare che lei frugasse in giro senza il suo permesso. Sentiva qualcuno che si trascinava sul pavimento; poco dopo, la chiave girò nella toppa, ma la porta non si aprì quando la ragazza premette la maniglia.

«Non si apre» disse.

Lex le rispose con voce roca e affaticata:

«Non devi entrare, chiama subito Nick»

Un violento colpo di tosse gli mozzò il fiato. Aurora annuì; stava per uscire, ma si ricordò di avere una radio. Contattò Nick direttamente con quella e descrisse tutto ciò che stava sentendo. Nick annunciò che sarebbe arrivato il prima possibile, e così fece. Pochi minuti dopo, era nel corridoio comune insieme ad Aurora. Indossava la solita armatura TEK e spiegò che l'avrebbe isolato da qualsiasi malattia avesse contratto Lex. Mentre entrava in camera col permesso di quest'ultimo, arrivò anche Sophie. Nick la fece attendere all'esterno, prima di riaprire la porta e consegnare alla ragazza dai capelli neri una boccetta con un intruglio verde all'interno.

«L'effetto durerà un paio d'ore, ti isolerà dalla megarabbia - disse - Nessun'altro deve entrare, a parte me. Una volta finito l'effetto, uscirai, intesi? Dobbiamo fare in fretta: ha bruciature gravi e un brutto morso alla gamba. Immagino che sia stata una megalania»

Aurora ascoltava, ma non capiva. Stette a sentire finché Nick non la guardò e le consegnò un foglio:

«Va' con Giselle e raccogli gli ingredienti sulla lista. Mi servono urgentemente. Mi sono rimaste solo due boccette e non basteranno, se vogliamo che quell'incosciente sopravviva»

Aurora annuì, ancora confusa, ma sapeva che Giselle le avrebbe spiegato tutto. Non c'era tempo per fare domande, quindi corse all'esterno alla ricerca dell'amica. Trovò Giselle da Jenny e la trascinò via a forza. Come si aspettava, gli ingredienti erano difficili da trovare e i terizinosauri erano le cavalcature migliori per raccoglierli, poiché selezionavano con cura i fiori rari e i funghi rari. Più difficile sarebbe stato reperire il sangue di sanguisuga, ma dovevano tentare tutto il possibile. Così si fecero accompagnare da altre cinque persone. Avrebbero coperto un'area più vasta e si sarebbero guardati le spalle a vicenda in un luogo pericoloso qual era la palude. Strada facendo, la piratessa spiegò quanto era pericolosa la megarabbia. Per fortuna, Aurora era stata abbastanza veloce da avvertire Nick in tempo. Con un po' di fortuna, Lex se la sarebbe cavata, ma il percorso di guarigione sarebbe stato lungo e difficile.

Non accadde niente di importante per tutto il mese succesivo. Se non altro, questa volta, Aurora riuscì a distrarsi abbastanza dai misteri dell'Isola: fece amicizia con Yannis, il ragazzo che si occupava della stalla assieme a lei. Col tempo, l'amicizia diventò qualcosa di più, soprattutto grazie all'esuberanza di Yannis.  Nel frattempo, Lex se la vedeva con la megarabbia. Tutti i giorni, Nick passava regolarmente in camera sua per controllarlo, poi usciva. Ogni volta che si faceva visitare, Lex smetteva di tossire e rantolare per qualche ora, ma la tosse tornava sempre violenta e insistente come prima.  Da ciò, Aurora dedusse che Lex prendeva qualche medicina. Una volta decise di chiedergli, attraverso la porta, come stava; le fu risposto che non sapeva se era peggio respirare a malapena o non poter mai uscire, con tutte le cose che aveva in mente di fare. La rossa lo capiva benissimo. Intanto, però, la brama di scoprire qualcosa di più sulla sfera cresceva e non potergliela mostrare era frustrante. E fu per questo che, alla terza settimana, decise di osare mettere mano alla tastiera.

Era il tramonto e Aurora si trovava alla spiaggia dove i Difensori tenevano il titanosauro. Era seduta a gambe incrociate sulla tiepida sabbia. Teneva in mano la sfera aperta e fissava il grosso bottone centrale con l'icona della casa, il più allettante di tutti. Indugiò ancora per qualche istante, ma alla fine, in un impulso di coraggio e curiosità, lo premé con vigore col pollice.

"Vediamo che sai fare" pensò.

La reazione della sfera fu immediata: sul lato inferiore dell'involucro di rame, si aprì un buco e tutto il fluido azzurro si rovesciò sulla sabbia, di fronte a lei. Nella boccetta di vetro, rimase solo il pezzo di legno. Aurora scattò subito in piedi, in parte per lo stupore, in parte perché quella sostanza la inquietava. La pozzanghera gelatinosa che si formò iniziò a espandersi, superando il metro e mezzo di diametro, e la ragazza fu costretta a fare un passo indietro per non toccarla. Solo dopo qualche secondo, ebbe il coraggio di sporgersi verso la pozza fluorescente e fissarla più da vicino, per osservarla meglio. Non poteva credere a ciò che vide: il centro della pozza era più trasparente di una finestra pulitissima e, attraverso il liquido, Aurora vedeva un piccolo scorcio. Si trattava di un prato fiorito e, ai margini della pozza, si intravedeva la base del tronco di una betulla. Il dettaglio più curioso, però, era che in mezzo all'erba non c'erano solo fiori, ma anche formazioni di cristalli bianchi con sfumature rosa. Meravigliata da quella scena, Aurora dimenticò il suo iniziale disgusto ed ebbe la tentazione di toccare il fluido, ma non fece in tempo: rapida come si era formata, la pozzanghera iniziò a evaporare e restringersi a vista d’occhio. In pochi secondi, svanì del tutto, come se non ci fosse mai stata.

«Incredibile!» esclamò Aurora, emozionatissima.

Non era affatto ciò che si aspettava che la sfera facesse; era molto di più. Il che rese ancora più difficile attendere che Lex guarisse, visto che aveva finalmente scoperto qualcosa di concreto al riguardo. Questo cambiava proprio tutto: la palla di rame, se il sospetto di Aurora era giusto, serviva a viaggiare da un'Arca all'altra. Era come gli obelischi, ma tascabile. Cosa non avrebbe dato, per farsi dare un'armatura TEK e precipitarsi nella stanza di Lex perché lo vedesse coi suoi occhi! Ma decise di frenare l'entusiasmo e pazientare, almeno finché Lex non fosse uscito dalla quarantena. In fondo, poteva sempre passare bei momenti con Yannis, nel frattempo.

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Capitolo 2
*** Un'ARK diversa ***


Lex guarì dalla megarabbia alla fine di quel sereno, ma lungo mese. Aurora fu contentissima di sapere che ora il suo amico era uscito dalla quarantena e poteva andare in giro; ma era ancora più entusiasta al pensiero che, finalmente, poteva parlargli della sfera. Tuttavia, era consapevole che Lex era ancora convalescente e aveva ancora bisogno di riposo. Una volta, Giselle le disse pure che il poveraccio non poteva nemmeno salire una rampa di scale senza tossire e che e gli mancasse il fiato. Non era proprio il caso di stressarlo troppo. Così la ragazza si impose di avere pazienza ancora qualche giorno, aiutata anche dalla compagnia di Yannis. Il suo collega stalliere riuscì persino a farle dimenticare tutti i misteri dell’Isola per un giorno, quando le organizzò un appuntamento a sorpresa.

Nei giorni che seguirono, Aurora iniziò a valutare tutte le occasioni possibili per andare da Lex e raccontargli della sua scoperta. Vedeva che il biondo si stava rilassando il più possibile: andava spesso in posti tranquilli a pescare o alla stalla per coccolare il suo grifone, quando non c’era nessuno; altre volte andava alla baia per dare da mangiare alle sue cavalcature marine, che Giselle faceva sempre salire in superficie per risparmiargli un’immersione e il rischio di asfissia. Alla fine, la rossa optò per avvicinarglisi appena fosse andato alla stalla, un giorno in cui Yannis non era di turno. Aveva imparato molto presto che quest’ultimo non vedeva Lex di buon occhio; questo la infastidiva non poco, ma non aveva voglia di rischiare momenti imbarazzanti o equivoci. Una mattina, cinque giorni dopo, Aurora si stava dirigendo alla stalla per rifornire le mangiatoie e vide Lex entrare. Era il momento.

Con un sorriso eccitato, Aurora corse alla stalla, all’inseguimento dell’amico. Come si aspettava, Lex era lì per accarezzare Griff, che si lasciava coccolare stando sdraiato con gli occhi chiusi e tubava indispettito, quando il padrone gli arruffava le piume sulla testa per gioco. La rossa fece un respiro profondo per frenare l’emozione e raccogliere i pensieri sulle cose da dire. Si avvicinò alle spalle di Lex e si schiarì la voce per annunciare la sua presenza. Il biondo si voltò, con un’espressione incuriosita, e le rivolse un sorriso amichevole: sembrava contento di vederla.

«Ciao» la salutò, sereno.

Aurora si mise le mani dietro la schiena e gli rivolse un sorrisone ancora più ampio:

«Ehi, Lex! Come stai?»

«Meglio di prima, ma non mi sono ancora rimesso del tutto. Se non altro, ho parecchio tempo libero» scherzò il giovane.

La rossa annuì, empatica:

«Be’, è già qualcosa»

A quel punto, si rese conto di non sapere con certezza come iniziare l’argomento della sfera. Senza notarlo, si incantò e iniziò a fissare il vuoto. Lex la guardò con perplessità per qualche secondo, poi tornò ad accarezzare Griff, quando il grifone gli diede una spintarella col becco per avere la sua attenzione. Appena si accorse di essere caduta in un silenzio imbarazzante, Aurora si riscosse ed ebbe il batticuore per un attimo. Decise di non indugiare oltre e di andare subito al punto:

«Lex, c’è qualcosa che devi proprio vedere»

Il suo amico si voltò di nuovo e alzò un sopracciglio:

«Di che si tratta? Hai trovato un altro ologramma?»

La ragazza scosse la testa:

«No, è diverso. Non ho potuto parlartene finora perché ti sei ammalato, ma mentre eri via ho trovato questa»

Aurora alzò il braccio sinistro e attivò il suo innesto. Aprì l’inventario e fece apparire la sfera di rame nella sua mano. Quando la vide, Lex corrugò la fronte, confuso:

«Una palla arrugginita?»

Aurora annuì e spiegò:

«Stavo raccogliendo bacche nella foresta con Giselle, poi ho trovato uno scheletro vecchissimo sotto un salice. Aveva questa fra le mani»

Lex incrociò le braccia e fissò lo sguardo sulla sfera, sempre più intrigato. Aurora proseguì:

«Ci ho messo un po’ a capire cosa fa, ma alla fine ci sono arrivata. Osserva»

La ragazza aprì la sfera e mostrò a Lex la boccetta di vetro, il suo contenuto bizzarro e la tastiera. Il biondo sgranò gli occhi, stupefatto:

«Che roba è?» chiese.

«Non ne ho idea. Anzi, no: ho un sospetto su cosa sia. Speravo che potessi aiutarmi ad avere una conferma»

Aurora si accostò a Lex, tese in avanti il più possibile e, una volta che si fu accertata che Lex stesse a distanza, premé il tasto con l’icona della casa. Come la volta precedente, il fondo della sfera si aprì e rovesciò il liquido azzurro per terra. Mentre aspettava che nella pozzanghera apparisse l’immagine del prato coi cristalli, la rossa diede un’occhiata furtiva alla faccia di Lex; provò una punta di soddisfazione, nel vedere il suo sguardo rapito e meravigliato. In pochi secondi, nella pozza apparve l’immagine del paesaggio e Lex fece un passo indietro per lo stupore. Fissò Aurora, incredulo:

«È quello che penso io?» le chiese.

Aurora si aspettava una reazione del genere. Il giorno prima, aveva fatto una prova per verificare la sua teoria, e aveva la dimostrazione pronta per il suo amico. Annuì con un sorriso, fece apparire una pietra dall’inventario del suo innesto e la gettò nella pozzanghera. Il sasso attraversò il liquido come se fosse stato lanciato da una finestra; cadde verso il prato per un paio di istanti, prima di schiantarsi sull’erba con un tonfo sordo e rotolare un po’. I due sopravvissuti si guardarono negli occhi:

«È un portale» affermò Lex.

«A quanto pare. Ma la domanda è: dove porta?» chiese Aurora.

Il biondo osservò meglio lo scorcio nella pozza e sembrò riconoscerlo. Le spiegò:

«Devono essere le Isole dei Cristalli: questa è senz’altro la prateria al centro dell’Arca, con quei cristalli bianchi e rosa»

«Conosci il posto?»

«Sì, ci sono stato. È una delle mie Arche preferite: è tranquilla, tutte le tribù che ci vivono sono pacifiche ed è piena di risorse di ogni tipo. Comunque, immagino che questa sfera sia una sorta di “obelisco tascabile”, per così dire»

«È quello che ho pensato anch’io»

Mentre parlavano, la pozzanghera iniziò a evaporare e scomparve in pochi secondi, come le volte precedenti che Aurora aveva provato la sfera. La rossa richiuse la palla di rame e disse:

«Dovrò aspettare fino a domani, prima di poterla usare ancora. Questo liquido schifoso viene dal legnetto nella boccia di vetro: gli ci vuole un giorno per riempire il contenitore»

Lex rimuginava, tenendosi il mento fra il pollice e l’indice:

«Capisco. E vedo che ha solo dieci tasti, quindi le destinazioni sono limitate. Insomma, ha il vantaggio di essere comoda e pratica, ma è molto meno efficace degli obelischi per viaggiare tra le Arche»

Aurora ci tenne a sottolineare l’ipotesi che la incuriosiva di più:

«Sai cosa ho pensato?» gli domandò.

«Cosa?»

«Queste Isole dei Cristalli, come le hai chiamate, corrispondono al tasto centrale, che è segnato col disegno di una casa. E se fosse da lì che veniva chiunque avesse la sfera? Pensi che su quell’Arca potremmo trovare delle risposte su cos’è davvero questa cosa?»

Lex sembrò davvero allettato da quella teoria. Annuì, concorde:

«Sembra probabile. Potrebbe valere la pena controllare: darò un’occhiata in giro sulle Isole dei Cristalli, appena mi sarò rimesso in sesto»

A quelle parole, però, Aurora si indispettì: era merito suo se quel nuovo mistero era venuto alla luce e Lex già pianificava di indagare da solo? Nemmeno per sogno. Quindi si mise i pugni nei fianchi, gli lanciò un’occhiata di rimprovero e dichiarò:

«Se vuoi andare là e cercare risposte, voglio venire anch’io»

Lex trasalì e scosse subito la testa con vigore:

«Oh, no! Non se ne parla, non ho intenzione di correre il rischio che ti succeda qualcosa. Ti ricordo che sono quasi morto su un’Arca che conoscevo benissimo, da solo e con cavalcature. Pensi che andrebbe meglio a te, in un posto che non hai mai visto? E senza bestie, perché è chiaro che quel portale è troppo piccolo»

«Un giganotosauro mi ha mangiata al mio primo giorno su quest’isola, ma sono tornata» ribatté lei.

Lex incrociò le braccia, risoluto:

«Non insistere, non cambierò idea»

A quel punto, dopo una rapida riflessione, Aurora decise di giocarsi il suo asso nella manica. Scrollò le spalle, fece un’espressione indifferente e fece sparire la sfera nel suo inventario. Dopodiché, finse di incamminarsi verso l’uscita della stalla e annunciò:

«Bene, allora non mi resta che andare da Nick e lasciare che si tenga la sfera. Sai, non era molto contento, la prima volta che gliel’ho mostrata»

Come sperava, sentì Lex trasalire alle sue spalle e il biondo esclamò subito:

«Aspetta!»

Aurora non seppe trattenere un sorrisetto trionfante e si voltò, per rivolgergli uno sguardo malizioso. Lex aveva un’espressione contrariata, sconfitta e frustrata allo stesso tempo. Alla fine, dopo una lunga esitazione, strinse i pugni e si rassegnò:

«E va bene, potrai venire con me. Ma voglio che mi prometta un paio di cose»

«Certo»

«Tanto per cominciare, se è vero che ne hai già parlato con Nick, voglio che non ne faccia parola con lui finché non avremo scoperto qualcosa di concreto»

«Nessun problema. Comunque, gliel’ho davvero mostrata. Se non l’avessero distratto, forse mi avrebbe detto di consegnargli la sfera»

«Allora ribadisco che non deve saperne più nulla. In secondo luogo, se ti succederà qualcosa, qualunque cosa, ti dovrai prendere tutta la responsabilità delle tue azioni. Sei tu che hai voluto seguirmi, in fondo»

«Va bene»

«Ottimo. Un’ultima cosa: potrei avere la sfera per qualche giorno, per favore? Mi piacerebbe verificare alcune cose di persona»

Aurora alzò un sopracciglio e gli lanciò un’occhiata diffidente. Quella richiesta era fin troppo rischiosa per lei. Lex alzò gli occhi al cielo e la rassicurò:

«No, non ne approfitterò per andare sulle Isole di Cristallo da solo, tranquilla. So che se ci provassi, andresti a spifferare tutto a Nick. E comunque, adesso non potrei: ho i polmoni distrutti, ricordi?»

Aurora si morse il labbro, ancora poco convinta. Alla fine, però, decise di dare fiducia al suo amico: le sembrava giusto, vista la loro confidenza sui segreti dell’Isola. Fece riapparire la sfera e gliela lanciò. Lex la prese al volo e la mise nel suo inventario, per poi ringraziarla con un cenno. Aurora si mise le mani dietro la schiena e chiese:

«Mi dirai tu quando sarai pronto ad andare? Puoi tenerti la sfera fino a quel momento, comunque»

«Sì, ti avviserò io»

«Va bene. Allora, ci vediamo»

Con un sorriso riconoscente, Aurora si voltò e fece per uscire dalla stalla. Lex, però, la chiamò appena prima che varcasse la soglia. La ragazza si girò, perplessa, e il biondo le disse:

«Grazie per avermi parlato della tua scoperta. Lo apprezzo molto»

Aurora rimase interdetta, stupita da quel ringraziamento. Si sentì arrossire e, dopo una breve esitazione, riuscì a farfugliare una risposta:

«Oh! Figurati! Be’, grazie a te per avermi ascoltata»

A quel punto, i due sopravvissuti si congedarono.

 

CrystalISLAND 2 by RobertoTurati

Gli esperimenti di Lex con la sfera procedevano a rilento, siccome poteva usarla solo una volta al giorno. Ma il biondo si consolava col fatto che questo gli dava tanto tempo per riflettere su ciò che apprendeva e riposarsi nel frattempo. La prima scoperta che fece fu che il primo tasto del cerchio, quello con una sola tacca disegnata su di esso, non funzionava. All’inizio aveva pensato che fosse guasto, ma in seguito gli venne una teoria più plausibile: forse quello era il tasto che corrispondeva all’Isola, quindi non funzionava perché si trovava già lì.

“Dovrei andare su un’altra Arca e verificare” pensò.

Ma le prove sul campo avrebbero dovuto aspettare: era ancora in convalescenza. Quindi, per i giorni seguenti, si accontentò di dare un’occhiata ai paesaggi che apparivano nella pozzanghera, quando premeva tutti gli altri tasti. Verificò otto portali per otto giorni, ma rimase perplesso tutte le volte: nessuno degli scorci su cui si apriva il portale gli sembravano appartenere alle Arche che conosceva. Ma non gli sembrò poi così bizzarro: le Arche erano tantissime, era ovvio che ce ne fossero alcune che non aveva ancora esplorato.

Alcuni dettagli, però, gli fecero sospettare che ci fosse qualcosa che non andava in quelle Arche; qualche volta, sotto il portale c’erano bestie, oggetti o elementi del paesaggio che gli parevano fuori posto, in confronto a ciò che si era abituato a vedere nei suoi dieci anni di sopravvivenza. Tuttavia, dopo averci pensato a lungo, decise che poteva vedere troppo poco da quei portali per trarre conclusioni. In fondo, le Arche non erano esenti da stranezze come creature dell’immaginario folkloristico o strumenti dall’aria fantascientifica. Forse erano solo ancora più varie e fantasiose di quanto pensasse. Insomma, una volta aveva intravisto degli esseri simili a raptor, ma azzurri e tigrati di blu, con musi gialli e creste rosse; un’altra volta, lo scorcio gli era sembrato un pianeta alieno; un’altra ancora, c’era il rottame di una strana macchina a forma di tigre; un’altra ancora, tutto lo scorcio era occupato dall’impronta di una bestia enorme.

Dopo un paio di settimane, però, un esperimento volle azzardarsi a farlo. Ormai la sua respirazione era quasi tornata alla normalità, le rapide occhiate ai portali gli avevano mostrato tutto quello che potevano dare a vedere e Nick non sospettava ancora di nulla. Era il momento di controllare il primo tasto. Una mattina, stando attento a non farsi vedere da nessuno, prese Griff e uscì dal villaggio di nascosto. Fece camminare il grifone per un lungo tratto di foresta, per accertarsi di essere lontano da occhi indiscreti. Quando si sentì al sicuro, decollò e volò fino all’obelisco verde. Accese il terminale col suo innesto, aprì la lista delle Arche per il teletrasporto e selezionò le Isole dei Cristalli. Se la sua teoria era corretta, il tasto con l’icona della casa non avrebbe funzionato e quello con una tacca l’avrebbe riportato sull’Isola.

L’obelisco verde si attivò e, in pochi secondi, l’uomo e il grifone si ritrovarono davanti al terminale dell’obelisco corrispondente sulle Isole dei Cristalli: si trovavano in mezzo a una foresta in riva al mare, a Ovest dell’Arca. Lex tirò fuori la sfera dall’inventario e la aprì.

“È il momento della verità” pensò.

Colmo di aspettativa, premé il tasto con una tacca. Rimase però di sasso: non aveva funzionato. Nonostante avesse cambiato Arca, quel pulsante non faceva comunque succedere niente. A quel punto, si convinse quasi del tutto che fosse proprio rotto. Ma un’ulteriore verifica poteva farla: se davvero i tasti non funzionavano se ci si trovava già sull’Arca dove conducevano, il tasto con l’icona della casa non avrebbe dovuto azionarsi. Dunque lo premé; eppure, con sua enorme sorpresa, la pozzanghera si formò lo stesso e apparve lo scorcio del prato delle Isole dei Cristalli.

“Com’è possibile?” si domandò Lex, incredulo.

A quel punto, l’unica spiegazione sensata gli parve che il tasto con una tacca fosse davvero rotto. Però non ne era del tutto convinto. E se ci fosse stato dell’altro? Anzi, e se i posti che si vedevano attraverso il liquido non fossero state affatto delle Arche? Gli elementi del paesaggio che aveva intravisto dovevano sembrargli così alieni a ciò a cui era abituato per un motivo. Forse c’era davvero un limite alla fantasia a cui le Arche potevano spingersi: a pensarci bene, molte cose si ripetevano abbastanza spesso, da un’Arca all’altra. Perché la sfera lo portava alle Isole dei Cristalli, anche se ci era già? Era davvero quello il luogo di provenienza del proprietario defunto della palla di rame? Un sospetto si insinuò piano piano nella sua mente. Dapprima gli sembrò stupido, ma in fondo non poteva dimostrarlo a se stesso. Alla fine, si pose sul serio la domanda che gli era passata per la testa:

“E se fossero altri mondi?”

L’idea gli era venuta anche grazie alle fantasticherie di un vecchio che aveva conosciuto una volta sul Centro, l’Arca con le tribù più ostili e bellicose che conoscesse. Si erano visti solo per un giorno, per poi non rincontrarsi mai più, tanti anni prima; ma per quel poco tempo in cui avevano parlato, il vecchio aveva fantasticato qualcosa di così bizzarro che Lex non se l’era più scordato. Era convinto che le Arche fossero un universo parallelo a quello da cui veniva, in cui era stato portato dopo che l’avevano rapito e gli avevano cancellato i ricordi. Lex ci aveva riso su, ma ora quella possibilità gli pareva concreta. Non che i sopravvissuti avessero quelle origini, ma che ci fossero gli universi paralleli. Se non ricordava male, il vecchio del Centro l’aveva chiamato “il Multiverso”.

“Immagino che ora abbiamo un motivo in più per indagare” si disse Lex.

Comunque, non c’era più niente da vedere lì. La sfera era scarica e lui aveva effettuato la prova empirica che voleva fare. Soddisfatto, ma anche perplesso per tutte quelle incognite, Lex riattivò l’obelisco e tornò sull’Isola. Fece ritorno alla base dei Difensori con la stessa discrezione con cui era partito. Per fortuna, nessuno lo notò finché non ebbe lasciato Griff nella stalla. Sollevato, il biondo si diresse al suo alloggio; non gli rimaneva altro che aspettare ancora una manciata di giorni per tornare del tutto in forze, prima di partire per la sua spedizione segreta con Aurora.

 

ArkCanon2 by RobertoTurati

Una settimana dopo, arrivò finalmente il giorno in cui Lex si sentì pronto a intraprendere il viaggio sulle “Isole dei Cristalli”, se ancora poteva considerarle tali. La tosse era scomparsa del tutto e adesso poteva fare ogni tipo di sforzo senza che gli mancasse il fiato. Anche grazie al riposo che si era preso per tutto quel tempo, si sentiva più in forma che mai. Perciò, verso mezzogiorno, andò davanti all’alloggio di Aurora e bussò alla porta.

«Chi è?» borbottò lei.

Lex alzò un sopracciglio, perplesso. La voce di lei gli sembrava mogia e abbattuta, quasi seccata. Cosa le era successo?

«Sono Lex» rispose.

La ragazza si limitò a mormorare un “oh” sorpreso. Poco dopo, la chiave girò nella serratura e la rossa gli aprì la porta. Come aveva intuito dal suo tono di voce, la trovò di pessimo umore. Si capiva lontano un chilometro: l’espressione di Aurora era stizzita, teneva gli occhi stretti e le labbra serrate. Inoltre, aveva le braccia incrociate e tamburellava di continuo l’indice sul braccio sinistro, che stringeva così forte da farsi sbiancare la pelle.

«Giornataccia?» chiese Lex.

Aurora sbuffò e scosse la testa, a occhi chiusi. Alzò una mano e disse:

«Guarda, meglio se non te ne parlo. Comunque, entra pure»

Lex varcò la soglia e Aurora richiuse la porta a chiave. Dopodiché, mentre il biondo rimaneva in silenzio perché era indeciso se affrontare o evitare la cosa, si sedé sul letto e iniziò ad agitare nervosamente le gambe. Dopo averla squadrata per un attimo, Lex sospirò e decise che era meglio aiutarla a sfogarsi: lasciarla venire con lui oltre il portale mentre era in quello stato non avrebbe portato nulla di buono. Dunque appoggiò la schiena al muro, con le mani congiunte e a riposo, e le chiese:

«Cosa c’è che non va? Sfogati pure. Non provare a nascondere che sei arrabbiata: si vede»

Aurora gli rivolse uno sguardo incerto:

«Ne sei sicuro?»

«Perché non dovrei? Ti ascolto. Coraggio, butta tutto fuori» la rassicurò lui.

La rossa sembrò pensarci su per qualche istante. Dopodiché, fece un respiro nervoso ed esplose:

«Si tratta di Yannis! Non fa altro che dire cattiverie su di te tutto il tempo!»

Lex intuì subito dove stesse andando a parare e non trattenne una risatina:

«Non è la prima volta che mi parlano alle spalle. È normale»

«Sì, ma lui ti parla alle spalle ogni singola volta che ci vediamo! Non sto scherzando! Va bene una volta, due, tre, ma dopo un po’ basta! Ormai non no più voglia di averci a che fare perché mi sono proprio stufata!»

«Immagino che l’abbia fatto anche stamattina» dedusse Lex, tranquillo.

Aurora annuì e alzò gli occhi al cielo:

«Sì! Guarda, oggi è stata proprio la goccia che ha fatto traboccare il vaso. Allora, stamattina ti stavo cercando, ma Yannis è venuto da me. Ho provato ad andare via, ma mi ha fermata. Mi ha chiesto perché lo evito da giorni e se gliene volevo parlare. Ho fatto del mio meglio per restare calma e ragionevole e gli ho spiegato che mi dà fastidio che si parli male di un mio amico ogni santa volta che ci vediamo. Sai cosa mi ha risposto?»

Lex fece spallucce:

«Senz’altro qualche idiozia su di me o quello che faccio»

Aurora gettò le braccia in alto, esasperata:

«Altroché! Mi ha detto che sei strambo e che mi stai mettendo su una brutta strada. Ti rendi conto?! Allora mi sono davvero arrabbiata. Insomma, non andiamo mica in giro a fare casini! Non facciamo altro che parlare e fare teorie su questo posto! Cosa c’è di sbagliato? E sai cosa ha detto lui?!»

«Cosa?»

«Che farci domande su quest’isola è una cazzata, che piuttosto dovremmo renderci utili per la tribù e che ti sei bevuto il cervello, secondo lui è per questo che sei tornato ferito e malato»

Lex ridacchiò:

«Questa è bella»

Aurora strinse i denti, paonazza:

«A quel punto mi è proprio venuto il sangue alla testa. Sul serio?! Non sei andato su Ragnarok per indagare, eri lì per prendere un uovo di viverna! Stavi facendo qualcosa di concreto per aiutarci contro i Teschi Rossi! E non dovrei arrabbiarmi se qualcuno ti dà del fannullone senza avere idea di come stanno le cose?! Lex, come fai a non infuriarti? Ti ha dato del fancazzista! Ha detto proprio così!»

Il biondo, a sentire quelle parole, fece un sospiro divertito e si staccò dal muro. Le rivolse un sorriso amichevole e la rassicurò:

«Aurora, a me non frega proprio niente delle calunnie. Yannis può pensare tutto quello che vuole di me, non potrebbe importarmene di meno. Apprezzo che tu tenga così tanto a me, ma davvero: non preoccuparti. Sono solo parole, alla fine»

La ragazza fece un lungo sbuffo frustrato e si coprì la faccia con entrambe le mani, stremata. Era ancora rossa in viso, ma stava iniziando a calmarsi. Si concesse un minuto per tranquillizzarsi, poi si ricompose e concluse:

«Insomma, gli ho detto che forse è meglio se io e lui ci prendiamo un po’ di tempo e sono andata via. Sapendo cosa hai rischiato per la tribù, non mi sono andate giù quelle scemenze»

«Hai fatto bene ad andartene prima di scaldarti troppo. È meglio così»

Aurora annuì, mesta:

«Giusto. Grazie per avermi lasciata sfogare, Lex: mi sento molto meglio adesso»

«Figurati. Ricorda, se ti succede qualcosa del genere, sentiti libera di lasciarti andare con me»

La rossa gli sorrise: il suo sguardo era pieno di gratitudine. Il ragazzo la osservò per qualche minuto e constatò che si era rasserenata. Non era più rossa in viso, le braccia e le gambe si erano rilassate e il suo volto si era disteso. Era giunto il momento di rivelarle il motivo della sua visita. Con un sorriso complice, si schiarì la voce e le disse:

«Sai, credo proprio di sapere cosa ti solleverà il morale»

Aurora sembrò capire e sobbalzò, con gli occhi e la bocca spalancati. Lex annuì, compiaciuto:

«Esatto: oggi attraverseremo quel portale. Mi sento pronto»

«Grandioso! Non vedevo l’ora!» esultò lei.

Il biondo tirò fuori la sfera dal suo inventario e gliela passò; Aurora la prese al volo e gli rivolse uno sguardo sorpreso. Lex ammiccò:

«Voglio concedere a te l’onore, visto che l’hai scoperta tu. Mi sembra giusto»

Aurora non ci pensò due volte. Si alzò dal letto, si accostò a lui al centro della stanza, aprì la sfera e premé il pulsante con l’icona della casa. Il liquido azzurro si rovesciò sul pavimento e apparve la solita immagine nella pozzanghera trasparente. I due sopravvissuti si scambiarono un’occhiata determinata, dopodiché Lex si fece avanti, trattenne il respiro e saltò nella pozza. Attraversò il liquido e cadde nel vuoto; gli diede una sensazione molto strana: fu come tuffarsi di piedi in un sottile strato di acqua gelida, ma senza bagnarsi. Il sopravvissuto fece una breve caduta che gli fece sentire un vuoto nello stomaco, per poi atterrare sull’erba sottostante.

«Che strano» commentò.

Aurora lo seguì a ruota e atterrò accanto a lui. Fu scossa da un brivido: doveva aver avvertito anche lei quel gelo anormale per un secondo. I due sopravvissuti alzarono lo sguardo e osservarono il portale sopra le loro teste: si trovava a mezz’aria, come uno squarcio nello spazio. Poco dopo, come al solito, la pozzanghera si dissolse in pochi secondi.

«Bene, eccoci qua» affermò Lex.

 

CrystalISLAND 1 by RobertoTurati

Aurora si alzò lentamente, ignorando il dolore alle giunture dovuto ai due metri di caduta: per fortuna, il terreno erboso era soffice. Si guardò intorno: era nel mezzo della prateria coi cristalli bianchi che aveva visto nella pozza e, finalmente, poteva osservare bene il paesaggio. La distesa erbosa sembrava sconfinata: ovunque si voltasse, c’era una pianura disseminata di betulle e cristalli bianco-rosati che si perdeva all’orizzonte.

«È molto più vasta di quanto pensassi» affermò Lex.

Aurora gli rivolse uno sguardo incuriosito:

«Davvero?»

Il biondo annuì:

«In confronto alle Isole dei Cristalli, questo posto sembra enorme»

Iniziò a indicare tutti i punti cardinali e a spiegare quali biomi si vedevano da quella stessa prateria, sull’Arca a cui quel posto somigliava. Come avevano scoperto fin da subito, invece, da lì si vedeva solo prateria. Lex si mise i pugni sui fianchi e iniziò a riflettere:

«Se lo scheletro che hai trovato viene da qui, abbiamo parecchio da esplorare. Ci serve un punto di partenza»

«Hai già qualche idea?» domandò Aurora.

Il suo amico iniziò a rimuginare, camminando avanti e indietro e tenendosi il mento fra il pollice e l’indice. Nel frattempo, Aurora si ricordò di mettere via la sfera: sarebbe stata inutile fino all’indomani, era meglio avere le mani libere. Così fece per attivare l’innesto per rimettere la palla di rame nel suo inventario, ma rimase di sasso: per quanto cercasse di interagire col dispositivo, esso non reagiva.

«Cosa?»

«Che c’è?»

«Non funziona!»

«Cosa?»

«L’innesto non si accende! Com’è possibile?»

Lex fece subito una prova e constatò che neanche il suo innesto funzionava. I due sopravvissuti si scambiarono uno sguardo sbigottito.

«Come facciamo adesso?» chiese Aurora.

Lex allargò le braccia:

«Be’, è una complicazione, ma di certo non ci impedisce di esplorare. Dovremo solo organizzarci meglio del solito con risorse e attrezzi. Comunque, tornando a noi, sulle Isole dei Cristalli ci sono diverse tribù. Se questo posto è abitato, scommetto che c’è un villaggio in riva al lago di questa prateria. Se c’è gente ed è amichevole, ci facciamo ospitare e facciamo domande. Se questo posto è disabitato, ci accampiamo al lago e ci regoliamo sul da farsi»

Aurora annuì, concorde:

«Sembra un buon piano, ci sto»

«Molto bene, allora seguimi. Se la geografia è identica a quella delle Isole dei Cristalli, la sola differenza è il tempo che ci vuole ad arrivare là»

Lex si incamminò verso Nord-Est e Aurora lo seguì a ruota. Nella prateria, incontrarono solo animali pacifici: parasauri, stegosauri, triceratopi, anchilosauri, pachirinosauri e altri. I due sopravvissuti passavano accanto alle mandrie per non disturbarle; le bestie più vicine alzavano il capo e li guardavano con curiosità per qualche secondo, prima di tornare a pascolare. Non c’era ancora segno di predatori; Aurora sperava di non avvistarne, prima che si attrezzassero a dovere. Dopo un’ora di cammino, Lex individuò i resti di un accampamento. Ora avevano la conferma che c’erano persone in quel posto. La tenda non era in ottime condizioni, ma comunque ancora utilizzabile. Davanti a essa, c’erano le ceneri di un fuoco da campo spento, ai lati del quale c’erano due tronchi da usare come panchine.

«Diamo un’occhiata all’interno?» chiese Aurora.

«Perché no? Potrebbe esserci qualcosa di utile»

Lex scostò uno dei lembi della tenda e guardò dentro assieme alla rossa. A parte una piccola catasta di legna secca, su cui giacevano una pietra focaia e un acciarino, era vuota. Lex rifletté per qualche secondo, poi disse:

«Sai una cosa? Ci serve una creatura. Non so quanto è lontano il lago. Se un carnivoro ci trova lungo il tragitto, saremo indifesi. Tu resta qui, vado a cercare una cavalcatura»

«Vuoi lasciarmi da sola? Avevi detto che non volevi» protestò Aurora.

Lex le rivolse uno sguardo rassicurante e spiegò:

«Non pensavo che avremmo trovato un accampamento. Ora possiamo usarlo come rifugio temporaneo. Se ci metto troppo a domare una bestia o non riesco a prenderne alcuna, avremo un punto in cui passare la notte. Inoltre, se accendi il fuoco, potrò usare il fumo come punto di riferimento: saprò come tornare»

Aurora ragionò sull’argomentazione di Lex e riconobbe che era una strategia valida. Dunque si sentì più sicura e acconsentì:

«Va bene, allora accenderò il fuoco e ti aspetterò»

Il biondo promise ad Aurora che sarebbe tornato da lei prima che facesse buio, se non avesse domato niente entro il tramonto. Aurora annuì e gli augurò buona fortuna. Ebbe l’impulso di raccomandarsi di stare attento, ma si trattenne: le sembrava un po’ troppo sciocco essere quella che lo diceva a lui. Mentre Lex si allontanava, però, le tornò in mente all’improvviso un certo dettaglio. Quindi lo richiamò:

«Ehi, aspetta! Come costruiamo la sella, senza gli innesti?»

Lex si voltò e la fissò interdetto per qualche istante. Poco dopo, però, fece spallucce e rispose:

«Ci arrangeremo: cavalcheremo la nostra bestia a pelo. Sarà scomodo, ma meglio di niente»

Aurora fece una smorfia insicura, ma si rendeva conto che non avevano molta scelta. Quindi lo lasciò andare. Fece un respiro profondo per motivarsi e andò a prendere legna, pietra focaia e acciarino dalla tenda. Non c’era un’esca per il fuoco nella tenda: avrebbe dovuto tentare con l’erba.

 

ArkCanon2 by RobertoTurati

Con sua grande delusione, Lex constatò che non valeva la pena di provare a domare i triceratopi di: non solo si stavano allontanando da dove lui e Aurora si erano accampati, ma stavano tutti mangiando; non aveva alcun senso provare ad offrire loro delle bacche, finché erano sazi. Ma non era ancora disposto a darsi per vinto. Decise di dare un’occhiata a una zona dove le betulle erano più fitte, più a Est. Per precauzione, prima di avventurarsi in quella parte della prateria, volle costruirsi una lancia. Sarebbe stato strano fabbricarla con le sue mani, abituato com’era alla costruzione automatica dell’inventario.

Dopo aver raccolto i materiali occorrenti in giro, si mise all’opera. Prese una pietra e la scheggiò con un grosso sasso fino a darle una forma più o meno appuntita, poi la assottigliò fino a renderla tagliente. A quel punto, strappò alcuni steli da un cespuglio, raccolse un lungo bastone e legò le due parti. Guardò con attenzione il risultato: non l’avrebbe mai salvato da minacce come un superpredatore o un erbivoro arrabbiato, ma almeno era decente contro le bestie piccole. Fatto ciò, si sentì pronto a dare un’occhiata fra le betulle.

Girò a vuoto per un’ora, prima di considerare l’idea di cercare altrove. Ma ecco che avvistò una creatura che lo convinse subito a fare un tentativo: un iguanodonte. Sarebbe stato perfetto per esplorare quelle Isole dei Cristalli “ingrandite”: agile, veloce, versatile e ottimo per il trasporto. Lex Cercò frutta e bacche e ne trovò presto. L’iguanodonte si stava guardando in giro annusando il terreno, segno che stava cercando da mangiare: aveva fame.

Lex iniziò la solita procedura di domesticazione: gettò il cibo da lontano e attese che il dinosauro lo mangiasse, incuriosito dalla sua offerta di cibo. Dopo un po’, uscì allo scoperto e continuò a lasciare le bacche per terra, stando a distanza e aspettando che l’iguanodonte si convincesse a mangiarle. Così trascorse un’altra ora e mezza e il dinosauro iniziò ad accettare il cibo direttamente dal palmo della sua mano. Ormai il sopravvissuto cominciava a pregustare l’emozione di cavalcare quell’erbivoro al galoppo attraverso la prateria.

Tuttavia, mentre lo accarezzava la prima volta, l’iguanodonte si irrigidì e arretrò, allertato da un ruggito. Lex impugnò la lancia e si guardò attorno, a occhi aperti. Tra le betulle apparve un carnotauro. Il teropode cornuto avanzava lentamente, sbavava e osservava guardingo la sua preda. L’iguanodonte si alzò in piedi per apparire più imponente e urlò, mentre indietreggiava. Lex si affrettò a nascondersi in una macchia di arbusti, appena capì che il predatore non badava a lui. Dal suo nascondiglio, osservò i due dinosauri: l’iguanodonte sembrava indeciso tra la fuga o il combattimento. Alla fine, con grande sorpresa di Lex, scelse di difendersi.

Il carnotauro abbassò la testa e partì alla carica; investì l’erbivoro e lo mandò a sbattere contro una betulla. Prima che si riprendesse, fece per azzannarlo alla gola, ma l’iguanodonte sferzò l’aria con l’artiglio del pollice destro e gli graffiò la pelle sotto la gola. Il carnotauro gemé e arretrò. L’iguanodonte si alzò e urlò ancora. Frustò il muso del carnotauro con una codata, ma il predatore rispose subito con lo stesso attacco: lo colpì sul muso e lo fece cadere.

Il carnotauro morse la gola dell’iguanodonte e iniziò a soffocarlo. L’erbivoro prese a scalciare e, alla fine, riuscì a spingere via il carnivoro. Ormai era esausto e faticò ad alzarsi. Il teropode, furioso, sbuffò e caricò un’altra volta. Incornò il fianco dell’iguanodonte e lo scaraventò via. La preda volò dritta verso il cespuglio dove Lex si era nascosto.

Il biondo imprecò e rotolò fuori dal nascondiglio, un attimo prima di essere schiacciato. L’iguanodonte cadde sul cespuglio e rotolò sull’erba. Quando riuscì ad alzarsi, fra un gemito e l’altro, decise di darsi alla fuga. Il carnotauro partì all’inseguimento ma, quando passò davanti a Lex, lo notò e si fermò. Dopo averlo studiato con interesse per qualche secondo, il predatore socchiuse la bocca e gorgogliò, famelico. Il sopravvissuto capì che aveva trovato una preda molto più facile ed esclamò:

«Oh, cazzo!»

Il carnotauro abbassò il capo e lo caricò. Lex si tuffò di lato e lo schivò. Il carnotauro investì una betulla e le corna si incastrarono nel tronco. Lex si diede subito alla fuga, ma sentì ben presto i pesanti passi del carnotauro dietro di sé. Il rumore delle falcate si faceva sempre più vicino. Lex corse all’albero più vicino e vi si arrampicò più in fretta che poté. Si appostò su una forcella appena in tempo.

Quando il carnotauro travolse l’albero come un ariete, la scossa fu così forte che Lex perse l’equilibrio; si aggrappò ai rami un istante prima di cadere. Ora pendeva nel vuoto e cercava di issarsi sulle fronde con tutte le sue forze. Il carnotauro cercava di afferrarlo, ma addentava solo l’aria. Per non farsi prendere, Lex sollevava le gambe, ma sentiva che le sue dita iniziavano a perdere la presa. Spinto dalla disperazione, fece un ultimo sforzo e riuscì ad avvolgere una gamba intorno al ramo. Riuscì a mettersi a cavallo del ramo e tirò un sospiro di sollievo.

Tuttavia, il carnotauro andò su tutte le furie e iniziò a prendere l’albero a testate. Lex non resisté ai continui scossoni e precipitò. Quando si alzò, il suo sguardo spaventato incrociò quello spietato e famelico del teropode e fu come paralizzato dal terrore. Con un gorgoglio, il carnotauro gli si avvicinò, ma il terreno prese a tremare; Lex sentì un tonante rumore di passi che riconobbe subito.

“Non può andare peggio di così” pensò, atterrito.

Dalle distese aperte della prateria, giunse un tirannosauro. Tuttavia, Lex ritrovò la speranza, appena vide che quell’esemplare era sellato: apparteneva a qualcuno. Il carnotauro esitò, mentre il tirannosauro emetteva ringhi intimidatori. Alla fine, il teropode cornuto si voltò dall’altra parte e scappò. Lex tirò un sospiro di sollievo. Quando il tirannosauro tornò da dov’era venuto, il sopravvissuto lo seguì: sperava di stabilire un primo contatto coi sopravvissuti locali, sempre che fossero amichevoli.

Quando uscì dalla macchia alberata e tornò nella prateria, vide un uomo in abiti di tessuto che aspettava il tirannosauro. Lex lo squadrò: lo sconosciuto sembrava un quarantenne, aveva la pelle bronzea, barba e capelli corti e neri, brizzolati qua e là, e gli occhi castani. Aveva un piccolo arsenale di armi con sé: un arco ricurvo e un’ascia sulla schiena, una spada e la faretra alla cintura e un pugnale nello stivale destro. Dallo sguardo, non gli sembrava un tipo pericoloso, per cui Lex decise che poteva tentare il dialogo. Ma, prima che aprisse bocca, lo sconosciuto gli disse qualcosa di incomprensibile:

«Vam tluclapag azimef, elutidamjv?»

Lex rimase sconcertato: quel tizio aveva davvero parlato in una lingua che non capiva? Questo era assurdo: non era mai successo su nessun’Arca. Inoltre, nel suo diario, Mei-Yin notava che tutti i sopravvissuti parlavano la sua lingua, nonostante muovessero la bocca in modo strano. Lex aveva sempre presunto che l’innesto facesse da traduttore automatico. Dunque cosa c’era di diverso, in quel posto? L’innesto non traduceva perché non funzionava? Disorientato, mormorò:

«Cosa?»

Lo sconosciuto gli rivolse uno sguardo mortificato e si schiarì la voce:

«Oh, chiedo scusa. Ora che ti ho sentito parlare, posso farmi capire»

«Eh?»

«Sei ferito, straniero?»

Quelle parole lasciarono Lex ancora più perplesso. Era impossibile che quell’uomo avesse visto lui e Aurora arrivare col portale. Non poteva neanche sapere se erano giunti lì con gli obelischi. In ogni caso, i sopravvissuti non avevano mai avuto un senso di appartenenza o di patriottismo nei confronti della loro Arca; non che lui ricordasse, perlomeno. Lex volle fare chiarezza:

«Perché mi dai dello straniero?»

«Be’, è ovvio che lo sei. Chiunque non abbia il colore e il volto degli Arkiani, viene da fuori»

«Da fuori? Cosa intendi, esattamente?»

Questa volta, fu lo sconosciuto a fare un’espressione confusa:

«Hai battuto la testa?»

«No, è che non capisco quello che dici: tecnicamente, non si può venire da “fuori” un’Arca. Appari su un’Arca e basta. Certo, puoi spostarti da un’Arca all’altra con gli obelischi, ma è impossibile uscirne. A proposito, che posto è questo? Le Isole dei Cristalli? Mi sembra uguale, ma molto più immensa»

Lo sguardo dello sconosciuto diventava sempre più disorientato a ogni parola che Lex diceva. Alla fine, iniziò a innervosirsi:

«Di cosa stai parlando? Straniero, se mi stai prendendo in giro, smettila e vattene: sono impegnato»

Dopo quel monito, l’uomo fece per allontanarsi, ma Lex lo trattenne, deciso a venirne a capo:

«Per favore, spiegami cos’è questo posto!»

«Non sono in vena di scherzi»

«Non sto scherzando! Voglio davvero sapere dove mi trovo!»

«Allora te la faccio breve: ti trovi su ARK, io sono un Arkiano, ed è chiaro che tu sei uno straniero, perché c’è una certa categoria di stranieri che ha la pelle chiara come la tua. Non capisco perché parli di arche. E cosa hai detto che si può fare, con gli obelischi? Non servono certo a viaggiare»

«Come no? È la loro funzione. Non l’hai mai visto? Non conosci nessuno che li usa? Dunque, c’è un terminale sotto ogni obelisco: puoi usarlo per andare da un’Arca all’altra»

Lo sconosciuto scosse la testa, stizzito:

«Stai delirando. E mi stai facendo perdere tempo. Ti saluto»

Lex si arrese e lasciò perdere le domande. Per cui si concentrò sulla sua priorità del momento: trovare vitto e alloggio per sé e Aurora.

«Aspetta! Non sono solo, c’è una mia amica con me. L’ho lasciata in una tenda mentre cercavo di domare una creatura. Se posso chiedertelo, puoi prestarmi il tirannosauro?Prometto che dopo te lo restituirò. Dimmi solo se c’è un posto dove possiamo passare la notte e ci sistemeremo»

«Il tirannosauro no, mi serve per sorvegliare i triceratopi. Un amico mi ha chiesto di prendermene cura per lui»

«Oh, capisco»

«Però posso prestarti un triceratopo. Comunque, vedo che sai come si domano le bestie, qui su ARK. Sei qui da molto?»

«Sono apparso su Ragnarok, dieci anni fa»

«Ragnarok?»

Lex sospirò, frustrato, e alzò una mano per dirgli di lasciare perdere:

«Scusa, è una delle Arche di cui parlo. Ognuna ha il suo nome. Conosco questo posto come le Isole di Cristallo, per esempio. Ma è chiaro che è un posto diverso, per quanto identico»

L’uomo allargò le braccia, con aria sconfitta:

«Be’, è vero che sulla nostra isola ci sono molti cristalli, ma per noi è solo ARK. Proprio non ti capisco, straniero»

Lex sospirò:

«Non fa niente. Toglimi una curiosità: il tuo innesto funziona?ۛ»

Lo sconosciuto alzò un sopracciglio:

«Funziona? In che senso, scusa? Non fa niente. Noi Arkiani ce l’abbiamo dalla nascita, ma non ce ne facciamo nulla»

«Sul serio? Per voi non funge da inventario e fabbricatore?»

Per accertarsi che stessero quantomeno parlando dello stesso innesto, Lex sollevò il braccio sinistro e mise in mostra il suo. Appena lo vide, però, lo sconosciuto trasalì e urlò, sconvolto:

«Cosa?! Com’è possibile che uno straniero sia nato con l’innesto? Cosa sei tu?!»

Lex allargò le braccia, esterrefatto:

«Ehi, calmati! Sono un uomo normale, come te! Dalla tua reazione, pare che solo voi “Arkiani” abbiate l’innesto, in questo posto. È così che fate la distinzione tra voi e gli stranieri? Con l’innesto nel polso?»

Lo sconosciuto sbottò, rassegnato:

«Basta! Ti supplico, basta così! Mi stai facendo venire mal di testa! Se vuoi un triceratopo, prendilo e fa’ quello che devi»

Dopo lo sfogo iniziale, si prese un attimo per respirare a fondo e darsi una calmata. Dopodiché, abbozzò un mezzo sorriso:

«In quanto al sistemarvi: se volete, potete stare una notte a casa mia. A mia figlia piace conoscere gli stranieri, sarà contenta»

«Bene, grazie! Una notte è giusto quello che ci serve: io e la mia amica non vogliamo disturbare»

«Allora siamo d’accordo. Il mio villaggio è facile da trovare: è in riva al lago. Da qui, devi andare sempre verso Nord, non puoi sbagliare»

Dunque, Lex ci aveva azzeccato, sui possibili luoghi in cui potevano trovare insediamenti umani. Fu sollevato dal fatto che quel posto somigliava alle Isole dei Cristalli anche da quel punto di vista. Il biondo sorrise e disse:

«Ti ringrazio! Allora ti raggiungeremo al lago»

«D’accordo. A proposito, straniero, come ti chiami?»

«Lex»

«Piacere. Io sono Drof Ydorb»

I due si congedarono e Lex andò a scegliere un triceratopo.

 

CrystalISLAND 2 by RobertoTurati

Erano passate ore e di Lex non c’era ancora traccia. Aurora non era affatto tranquilla: l’idea di essere di nuovo da sola nella natura selvaggia non le piaceva per niente. Le dava fastidio stare in attesa, senza poter fare niente, ma d’altro canto non aveva senso allontanarsi dal punto di ritrovo. Per fortuna, però, la sua attesa fu ripagata: nel tardo pomeriggio, sentì la voce di Lex che la chiamava. Lo vide arrivare in sella a un triceratopo. Gli corse incontro e lo accolse con entusiasmo:

«Grandioso! Dove hai preso la sella? Sei riuscito ad attivare l'innesto?»

Lex scosse la testa e spiegò:

«Non l’ho domato io. È di un uomo che è stato abbastanza disponibile da prestarmelo» spiegò.

«L’hai incontrato per caso?»

«Non proprio. Ho trovato un iguanodonte, sono stato attaccato da un carnotauro e in quel momento passava lui: mi ha salvato. Ora devo raggiungere il suo villaggio per restituirgli il triceratopo»

«Fantastico! Così possiamo farci ospitare!»

«Sì, ci ha offerto di dormire a casa sua stanotte. Avremo modo di fare il punto della situazione e organizzare il resto dell’esplorazione»

Aurora esultò, contentissima, quindi montò sul triceratopo e lasciò che Lex lo conducesse verso Nord-Est, in direzione del lago nella prateria.

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Capitolo 3
*** Ospiti ***


Lex e Aurora seguirono le indicazioni di Drof, mentre le ombre calavano sulla prateria. Alla fine, una volta raggiunta la cima di un colle, giunsero in vista di un lago in mezzo al verde. Lungo tutta la sponda settentrionale, illuminato dai bagliori di torce e falò, si trovava un villaggio protetto da una palizzata. Da lì, potevano osservare certi particolari: le abitazioni erano grandi, fatte di mattoni e tegole. Dietro il villaggio, erano sparsi numerosi campi coltivati, mentre su una lingua di terra che si estendeva dalla riva del lago era stata costruita una serra.

«Ed ecco il villaggio della tribù di Drof» dichiarò Lex.

«Però, questa gente sarà vissuta qui da parecchio tempo!» commentò Aurora.

«Che intendi?»

«Be’, se hanno avuto il tempo e l’occasione di seminare tutti quei campi laggiù e coltivarli, vuol dire che hanno vissuto qui abbastanza a lungo per averne cura, raccogliere quello che seminano e senza essere disturbati da nessun nemico. O sbaglio?»

«No, no, è una buona osservazione! Molto logica»

Aurora sorrise e arrossì:

«Oh, grazie!»

Lex spronò il triceratopo e ripresero il viaggio. Scesi dal colle, girarono intorno al lago e raggiunsero l’ingresso del villaggio. Quando si fermarono davanti al cancello, si accorsero che sopra di esso era appeso l’imponente cranio di un giganotosauro. Lex la trovava un’accoglienza macabra, da parte di una comunità di contadini. Il cancello era già aperto, quindi entrarono senza problemi. Nelle strade del villaggio non c’era quasi nessuno: c’erano più bestie che persone in giro, in gran parte senza sella. Le creature più curiose li guardavano passare, mentre quelle più socievoli tentavano di avvicinarsi al triceratopo, che però le allontanava scrollando il muso e sbuffando.

Lex provò a chiedere di Drof alla prima abitante che gli capitò di incrociare, una donna indigena che stava rientrando in casa con dei cavoli sottobraccio. Si aspettava di essere ignorato o di dover fare più di un tentativo, invece gli fu subito indicato dove poteva trovarlo. Così ringraziò la donna e proseguì. Lex seguì le indicazioni ricevute e trovò Drof nella piazza del villaggio, al centro della quale si trovava un altare con sopra un altro cranio di giganotosauro.

“Cos’è questa fissazione per quei teschi?” si chiese Lex.

Drof stava accarezzando un carnotauro nero dall’addome bianco, davanti all’altare. Il dinosauro teneva la pancia a terra e gli occhi chiusi, mentre si godeva le attenzioni del padrone. Ogni tanto, l’uomo si accorgeva di alcuni lembi di pelle secca sulle scaglie e le staccava, cosa che il carnotauro sembrava gradire. Quando i due sopravvissuti si avvicinarono, Drof si accorse di loro e si schiarì la voce. Il carnotauro riaprì gli occhi, contrariato perché le carezze si erano interrotte, e alzò il muso.

«Ah, eccoti. Ti stavo aspettando. Lei è la compagna di tribù di cui parlavi, giusto?»

«Esatto. Ti presento Aurora»

«Piacere di conoscerti» salutò lei.

«Bene, ora posso portarvi da mia figlia. Lasciate pure libera la corona puntuta, troverà da sé la sua mandria»

I due sopravvissuti obbedirono e scesero dal triceratopo, che si allontanò a passo svogliato. Intanto, il carnotauro di Drof si alzò e andò via nella direzione opposta. Drof fece loro cenno di seguirlo e i due sopravvissuti si incamminarono dietro di lui. Mentre li scortava, Aurora si accostò a Lex e gli mormorò all’orecchio:

«Perché ha detto “corona puntuta”?»

Lex fece spallucce e rispose:

«Sembra che qui abbiano nomi descrittivi per i dinosauri. Mi danno l’aria di essere un’autentica società primitiva, diversa dalle tribù sulle Arche. Forse il Multiverso esiste davvero!»

Aurora si accigliò, confusa:

«Cosa? Di che stai parlando?»

Lex si rese conto di non avergliene mai parlato e si affrettò a spiegarsi:

«Oh. Ehm… anni fa, ho incontrato un vecchio che credeva negli universi paralleli. Forse non era poi così pazzo»

«Pensi davvero che ci troviamo in un altro mondo? Una realtà del tutto diversa?»

«Ogni cosa sembra confermarlo. Insomma, ci troviamo su una versione alternativa delle Isole dei Cristalli!»

La loro discussione fu interrotta da Drof, che si voltò con fare imbarazzato:

«Che avete da bisbigliare, stranieri?»

«Eh? Ci stavamo facendo un paio di domande» rispose Lex.

Drof alzò le mani, per poi indicare l’abitazione davanti a cui si era appena fermato e annunciare che erano arrivati. Era una casa a due piani di pietra, non di mattoni come la maggior parte delle altre. Accanto alla casa c’era un orto e, dietro di esso, un pesco. Drof si tolse le armi di dosso e le lasciò su una scaffalatura accanto alla porta d'ingresso.

Disse ai due ospiti di stare nel giardino e aspettare. Con un sorriso, spiegò di voler fare una sopresa a sua figlia Acceber: spiegò che adorava fare amicizia con gli stranieri e imparare a conoscerli, ma la entusiasmava ancora di più la rara occasione di poterne ospitare alcuni. Lex e Aurora si guardarono un po’ imbarazzati, poi annuirono e dissero che non c’era problemi. Allora Drof entrò in casa e si richiuse la porta alle spalle. Passò un minuto di silenzio, così Aurora decise di dare un’occhiata al giardino; quando passò sotto il pesco, si fermò per osservare i fiori e godersi il loro profumo. Lex stava per riprendere la loro riflessione sul mondo parallelo ma, proprio in quel momento, sentirono un grido di gioia dentro la casa.

ArkCanon2 by RobertoTurati

Acceber, quel giorno, era stata molto indaffarta a intrecciare cesti di vimini da vendere agli abitanti del villaggio. Era un’arte che le aveva insegnato a sua madre e le riusciva molto bene, quindi approfittava sempre delle giornate in cui non era impegnata a imparare le tattiche di sopravvivenza da suo padre per preparare cesti con cui racimolare qualche ciottolo. Dopo aver ultimato i cesti, verso il tramonto, aveva deciso di dare una ripulita alla casa e di mettere a bollire lo stufato di verdure. Era ancora in alto mare con la polvere al piano di sopra, quando sentì la voce di Drof.

«Acceber, sono tornato!»

La ragazza sorrise e scese le scale per salutarlo, noncurante della polvere che si era accumulata sui suoi vestiti e tra i capelli raccolti alla buona:

«Bentornato, padre! Scusa se sono conciata così, avevo deciso di pulire»

«Non ti preoccupare, hai fatto bene. Comunque, ho una sorpresa per te»

«Davvero? Cosa?»

«Indovina!»

«Oh! Mi lascerai fare il giro dell’isola nella Casa di Tutti?»

«No, ancora meglio!» 

«Cioè?»

«Ho incontrato due stranieri. Cercavano un posto per la notte, così ho offerto loro di riposare qui. Contenta?»
Prima ancora che finisse, Acceber urlò di felicità e corse ad abbracciarlo: per poco, non lo fece cadere.

«Oh! Piano!»

«Grazie! Sono qui fuori?»

«Sì»

«Vado subito a presentarmi! Per la dea, che bello!»

Prima di uscire, si scrollò di dosso più polvere che poté e si sciolse i capelli legati, per nascondere la cicatrice che aveva sul collo. Si lisciò la chioma con le dita e uscì.

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Aurora si ritrovò davanti una ragazza che sembrava appena più giovane di lei. La fanciulla osservò lei e Lex con una gioia tale che la spiazzò e imbarazzò. La rossa guardò Lex con la coda dell’occhio e notò che stava facendo un’espressione identica, benché provasse a nasconderla. Decisa a rompere il ghiaccio il prima possibile per superare l’imbarazzo, Aurora sorrise e mormorò un timido saluto. La figlia di Drof rispose subito:

«Ciao! Sono Acceber, piacere di conoscervi! È sempre bello conoscere nuovi naufraghi! Come vi chiamate?»

«Io sono Aurora»

«Oh, che bel nome! E tu?»

«Lex»

«Come dicevo, molto piacere!»

Acceber strinse la mano a entrambi e l’imbarazzo iniziò a svanire: quella ragazza sembrava davvero buona come il pane, il suo entusiasmo era travolgente come una valanga. Suo padre, apparso in quel momento sulla soglia di casa, le disse qualcosa nella loro lingua:

«Itag tad edev òp ecef idamjv, emef ipjv ademev: edamlacev epudacec ifiz a tjvef! Itab vlamaf emideb emjded?»

«Cos’ha detto?» chiese Lex.

Acceber ridacchiò, a braccia incrociate:

«Mi ha detto che siete un po’ strani, ma che posso stare serena perché sembrate tipi a posto. Be’, volete venire dentro? Avete fame?»

I due sopravvissuti cercarono di ignorare il fatto di essere stati etichettati come strani e annuirono con forza: dopo tutto quello che era successo, un pasto caldo era proprio l’ideale. Quindi seguirono Acceber in casa, dove aleggiava un invitante profumo di zuppa.

«Questo pomeriggio ho messo a bollire le verdure per me e mio padre, ma per fortuna ne ho raccolte abbastanza da avanzarne un po’. Padre, posso dare le altre due porzioni a loro?» suggerì.

«Certo, è il minimo»

«Vi stanno bene le verdure?»

Lex guardò la pentola appesa nel camino e annuì:

«Ma certo, ora mi andrebbe bene qualunque cosa»

Si sederono a tavola e Acceber servì la cena. Il suo stufato di ortaggi insaporito con brodo di pesce era delizioso, tanto che Aurora ne avrebbe mangiato altro molto volentieri, se ce ne fosse stato di più. Durante il pasto, ascoltò la conversazione tra padre e figlia:

«Sai, Acceber, mentre partivo per la prateria con la mandria di corone puntute, ho avuto notizie da Odraccir»

«Davvero? Allora dimmi, hanno davvero intenzione di provarci?»

«Sì. È ufficiale: hanno deciso di mettersi a cercare il mostro acido. Hanno invitato anche me»

«Sapevo che non avrebbero resistito! Secondo te li ha convinti Aisapsa?»

«Ci metto la mano sul fuoco. Be’, una scusa per riunire la combriccola vale l’altra. Sarò contento di rivederli»

«Chissà, magari sarete proprio voi a spuntarla! Chissà se il mostro acido esiste davvero»

La conversazione andò avanti un altro po’, ma Aurora si accorse in quel momento che stava lasciando raffreddare il suo stufato, quindi smise di ascoltarli e finì di svuotare la sua ciotola. Alla fine del pasto, Drof si alzò da tavola e si congedò. Acceber si rivolse agli ospiti con un sorriso accogliente:

«Ora lavo i piatti, poi vi porto nella mia stanza! C’è spazio per due»

Aurora si sentì in colpa:

«Ma tu dove dormirai, allora?»

«Non è un problema: stanotte io e mio padre saremo fuori dal villaggio»

«Capisco»

Quando Acceber finì di lavare i piatti e la pentola, li accompagnò di sopra e li portò in camera sua. Aurora osservò la stanza per un paio di minuti: era piena di soprammobili e oggetti vari che coprivano del tutto le mensole in bambù alle pareti. C’era di tutto: ornamenti, libri rovinati, bracciali, giocattoli e così via. Il letto era sotto la finestra, che in quel momento era spalancata. Dal davanzale, si vedevano quasi tutte le case del villaggio e il lago. Il cielo stellato e tutte le luci delle abitazioni che facevano riflessi sull’acqua rendevano la vista ancora più rilassante, per Aurora.

«Vi piace la mia collezione? Sono tutti gli oggetti stranieri portati dal mare o caduti dal cielo che ho trovato in giro! Non sempre riesco a capirli. Vi andrebbe di darmi una mano, quando avete tempo?» ammiccò Acceber.

Aurora e Lex si guardarono: la rossa era intenerita dalla dolcezza della ragazza, mentre Lex sembrava incerto e disorientato. Aurora decise di venirle incontro:

«Se ne avrò l’occasione, ti aiuterò volentieri a chiarire qualunque dubbio tu abbia»

«Oh, grazie! Ma non adesso: ora ho altre domande da farvi. Ho giusto il tempo di aspettare che mio padre mi chiami e partiamo insieme»

Lex ci rifletté per un breve attimo, per poi accettare:

«D’accordo. Forse potremo aiutarci a vicenda a capire questo posto. Non sono ancora riuscito a ragionare come si deve su tutto questo»

I sopravvissuti si sederono sul letto, mentre Acceber si appoggiò al muro della stanza. Lei poneva le domande, loro fornivano le risposte. Così, a poco a poco, le spiegarono con calma da dove venivano e come si erano ritrovati su quell’isola. Acceber ascoltava con enorme interesse e, con grande stupore di Aurora, prendeva sul serio le loro descrizioni e spiegazioni delle Arche e della sfera di rame. Si chiedeva se fosse una credulona o se le importasse davvero di loro. In ogni caso, una domanda dopo l’altra, riuscirono a riassumere tutta la vicenda. Per concludere, Aurora mostrò la sfera ad Acceber e dichiarò:

«Ed ecco come siamo arrivati qui»

La ragazza rimuginò a lungo, intenta a strofinarsi gli angoli della bocca col pollice e l’indice. Ridacchiò e affermò:

«È davvero affascinante l’idea che i vostri innesti parlino di voi. E che contengano le cose per magia!»

«All’inizio, anch’io ero senza parole» ricordò Aurora.

«Credo che lo siamo stati tutti» suppose Lex.

«Mi sa che dovrete abituarvi in fretta alle occhiate strane di tutti, ogni volta che degli Arkiani vedranno degli innesti al polso di due stranieri. Molti avranno reazioni molto più forti di quella di mio padre, secondo me. Insomma, l’innesto è il marchio dei figli di ARK! Per noi è un assoluto: gli Arkiani hanno l’innesto, gli stranieri no. Forse qualcuno penserà che siate benedetti da Colei che Veglia, la nostra dea»

«Passeremo dei guai?» domandò Lex, preoccupato.

Acceber fece spallucce:

«Uhm… no, dubito che sia così grave. Al massimo, sarete sulla bocca di tutti per qualche settimana. Fidatevi, però: si sentono di continuo storie fuori dal comune, su quest’isola, le cose più disparate. Vedrete che, prima o poi, anche voi diventerete “normali”»

«Ottimo. Non vogliamo guai»

Acceber serrò le labbra: sembrava tentata di dire qualcosa di rischioso. Alla fine, congiunse le mani e propose:

«Allora, se ho capito bene, volete esplorare meglio l’isola? Capire le differenze con le “Isole di Cristallo” che avete menzionato?»

«Sì» confermò Lex.

La ragazza si entusiasmò ancora:

«Allora posso aiutarvi! Se volete, potrei farvi dare un’occhiata ai miei posti preferiti, o mostrarvi le cose più interessanti che si possono fare qui. D’altronde, per voi è tutta una scoperta, giusto?»
Aurora fu davvero tentata da quelle parole. Si sfregò le mani e fece un sorrisetto complice:

«Che offerta invitante! Hai già in mente qualcosa in particolare?»

Acceber le strizzò l’occhio:

«Ovvio: posso portarti all’Apoteosi! Basta che accetti e domani ti porterò alle isole volanti in un lampo»

«Oh, sì! Portamici! Sembra bellissimo»

Lex, invece, sembrava poco convinto:

«Vorrei vedere più che altro come vivono queste tribù. Credo che mi convenga fare domande in giro per quest’isola»

«Be’, potresti andare con mio padre: fa favori a un sacco di persone. Se lo segui, avrai a che fare con membri di qualunque tribù e potrai dare un’occhiata alle tradizioni di ciascuna»

«Grazie per il suggerimento, ci penserò»

«Benissimo! Glielo dirò. Comunque, credo che ora vi lascerò dormire: avrete bisogno di riposo, dopo tutto quello che avete passato. Vado ad aspettare mio padre di fuori»

La ragazza li salutò un’ultima volta, uscì dalla stanza e si chiuse la porta alle spalle. Una volta rimasti soli, Lex garantì ad Aurora che aveva fatto la scelta giusta: le isole volanti delle Isole di Cristallo erano davvero uno spettacolo senza pari, a detta sua. La curiosità di Aurora divenne ardente, ma la stanchezza si faceva comunque sentire. Sbadigliò e chiese a Lex:

«Dunque, prendi tu questo letto o…»

«Prendilo tu: tanto dormo per terra»

«Oh, d’accordo. Allora buonanotte»

«Notte, anche se sarà difficile addormentarsi con l’imbarazzo di trovarmi nella stessa stanza con te»

«Pensi di essere l’unico?»

Entrambi ridacchiarono e arrossirono per l’imbarazzo. Ma, una volta coricati, il sonno non si fece attendere.

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Capitolo 4
*** La caccia e la gita ***


Aurora si svegliò alle prime luci dell’alba: aveva lasciato la finestra aperta, perché da fuori entrava una piacevole aria fresca. Il letto di Acceber era così comodo che si era addormentata quasi subito. Con la bocca impastata e i capelli ancora più arruffati del solto, si mise seduta e notò di essere sola: Lex era già uscito. Diede un’occhiata fuori: di notte si era rannuvolato, ma non stava piovendo. Il cielo era bianco, l’aria era uggiosa e c’era una foschia che nascondeva in parte le sagome delle case. Decisa a cominciare la giornata e curiosa di visitare l’Apoteosi, si vestì e scese le scale. Sentì delle voci e trovò Lex e Acceber che parlavano:

«Buongiorno, che mi sono persa?» chiese.

«Le stavo solo chiedendo una cosa» rispose Lex.

«Il tuo amico ha visto la mia collana e gli è sembrata familiare, gli stavo raccontando da dove viene»

Acceber, seduta al tavolo e intenta a sgranocchiare noci, si tolse un ciondolo che portava collo e lo mostrò ad Aurora. Era un pendente grigio e lucente, a forma di aereo militare, con una piccola gemma rossa incastonata al centro. Il materiale di cui era fatto era inconfondibile e Aurora se ne stupì:

«Ma quello non è TEK?» chiese a Lex.

Il biondo annuì, affascinato:

«Proprio così. Come l’hai avuta, Acceber?»

«Me l’ha regalata la mia amica Diana, sei lune fa. È a capo di una truppa di soldati stranieri dalle armature scintillanti con ogni sorta di strumento miracoloso. Vengono qui ogni mezzo anno per catturare bestie selvatiche, poi svaniscono nel nulla dopo sei lune» spiegò.

Aurora guardò Lex e lui le restituì l’espressione attonita.

«Ti ha mai detto perché lo fanno?»

«È stata la prima cosa che le ho chiesto! Mi ha raccontato che vengono dal futuro. Da dove vengono, il mondo si è ridotto a una landa desolata, così stanno creando delle isole finte nel cielo per salvare la natura. Ma siccome hanno perduto tutti gli animali, vengono su quest’isola per procurarsi le bestie»

Aurora si godé l’espressione che fece Lex dopo quella rivelazione: dire che era affascinato sarebbe stato l’eufemismo del secolo. Il suo amico la guardò e non perse un secondo per rimuginare su ciò che aveva appreso:

«Sembra che questo mondo abbia forti somiglianze col nostro: anche qui, sul pianeta c’è o ci sarà una società basata sul TEK che andrà incontro a una catastrofe globale e, proprio come nel nostro universo, ha intenzione di costruire le Arche!»

Aurora ebbe un dubbio: questo significava che il mondo fuori da quell’isola era già andato perduto? Volle subito una conferma:

«Aspetta, Acceber. Allora sai com’è il mondo fuori da ARK? È come l’ha descritto la tua amica Diana?»

La ragazza scosse la testa:

«Non per tutti»

«Che intendi?»

«Vedete, nessun figlio di ARK ha mai lasciato l’isola, ma sembra che il muro invisibile al largo della costa faccia strani scherzi col tempo. Tutti i naufraghi che approdano qui provengono da epoche diverse, ognuno ha storie uniche da raccontare»

Ora Lex era ancora più rapito:

«Incredibile: in un modo o nell’altro, quest’isola è piena di dettagli in comune col nostro mondo. Persino i sopravvissuti da epoche diverse! L’unica cosa che mi sembra diversa è il contesto dietro tutto ciò»

Aurora si sfregò le mani, eccitata e soddisfatta:

«Caspita, è solo il nostro secondo giorno di visita e abbiamo già così tanta carne al fuoco! Ne è davvero valsa la pena. Ammettilo, Lex: ti stai immaginando la faccia di Nick quando gli mostreremo tutto»

Il biondo fece spallucce, mentre si alzava dal tavolo:

«A me interessa venirne a capo, quella soddisfazione sarà il contorno. Comunque, devo andare: mi sono accordato con Drof per seguirlo e fargli qualche domanda»

«Giusto, intanto io parto con Aurora. Vi porto da mio padre» disse Acceber.

CrystalISLAND 2 by RobertoTurati

Uscirono dalla casa e seguirono la ragazza lungo le vie del villaggio. Quando giunsero alla piazza, videro Drof che li aspettava ai margini. Era in compagnia dello stesso carnotauro della sera prima, mentre tutt’intorno era sdraiata una muta degli stessi lupi giganti che vivevano sulle Arche. Adesso che era mattina, in giro per il villaggio c’erano molte più persone, oltre alle bestie che gironzolavano in libertà. L’uomo accolse la figlia con un sorriso:

«Ah, eccovi!»

«Padre, quale bestia mi consigli prendere per portare Aurora all’Apoteosi?»

Drof si strofinò la barba con aria pensierosa per qualche istante, per poi suggerirle:

«E se facessi sgranchire le zampe ad Anitot? Ormai è vecchia, concedile qualche viaggio»

Sua figlia ridacchiò:

«Hai ragione: finché regge ancora lo sforzo…»

Acceber, allora, si portò le dita alla bocca ed emise tre brevi fischi in rapida successione. Di lì a poco, furono raggiunti da uno smilodonte dal pelo arruffato e scolorito, pieno di cicatrici di battaglia e dallo sguardo mesto. Dopo che Acceber l’ebbe accarezzato un po’, le due ragazze montarono sulla sella del grosso felino, si congedarono e partirono. Quando se ne furono andate, Lex si avvicinò a uno dei lupi e gli accarezzò il muso. Il lupo gigante rotolò sul dorso e tirò fuori la lingua, felice dei grattini.

«Sono tutti tuoi, giusto?» chiese Lex.

«Sì. Sono la nostra famiglia di lupi: i genitori e i loro figli» disse Drof.

«Bello. Qual è il padre di famiglia?»

Drof indicò l’unico lupo del tutto bianco. Lex si avvicinò a quel magnifico esemplare e accarezzò anche lui. Il lupo pretese subito più carezze appena cessarono: mostrava una certa altezzosità che gli altri lupi non davano a vedere. La muta era composta da cinque esemplari, che Drof indicò uno alla volta: c’era il padre, candido come la neve, poi la madre, che invece era nera, e i loro tre cuccioli, tutti colorati con sfumature di grigio diverse. Quando vide tutte quelle carezze, il carnotauro chinò il capo, strofinò le spalle di Drof col muso e gli sbuffò in faccia.

«Ehehe, non cambi mai, vero?» ridacchiò Drof.

Si mise una mano in tasca e ne tirò fuori una striscia di carne essiccata. Il carnotauro la osservò con la bava alla bocca e il suo padrone gliela porse. Se la portò alla bocca con la lingua, con una delicatezza inaspettata. Lex incrociò le braccia e constatò:

«Sembra che ci sia tanto affezionato»

Drof controllò tutte le fibbie della sella e batté con affetto i palmi sul collo del carnotauro. Iniziò a guidarlo verso l’uscita dal villaggio e Lex li seguiva a ruota, circondato dalla famiglia di lupi. L’Arkiano fece un sorriso fiero e confermò:

«È così. Onracoel è la mia prima cavalcatura: l’ho addomesticato durante la mia prova della prima doma e, da allora, io e questo testone ingordo siamo inseparabili»

«La prova della prima doma? È una tradizione che avete?»

«Sì. È un rito di passaggio che i membri di tutte le tribù devono superare a diciotto anni. Serve a dimostrare che un giovane Arkiano è pronto a sopravvivere all’isola senza l’aiuto dei suoi genitori»

«Bene, ho trovato il primo argomento da approfondire!»

«Come vuoi, ma ora partiamo»

In quel momento, uscirono dal cancello del villaggio. Dopo alcune centinaia di metri al passo, Lex salì sulla schiena del lupo bianco e Drof spronò Onracoel. Le bestie partirono di corsa e iniziò la traversata della prateria. La cavalcata fra le rade macchie di betulle e i cristalli rosati si protrasse per un paio d’ore, su e giù per i dolci rilievi.

«Dove stiamo andando?» chiese Lex.

«Ci aspetta una caccia grossa: ho accettato un favore»

«Di che si tratta?»

«Dobbiamo uccidere un giovane spaccaossa. Si avvicina troppo ai campi della mia tribù e ha preso l’abitudine di attaccare le mandrie del villaggio per avere prede facili. Qualcuno deve occuparsene»

«Capisco»

«Dimmi, su queste Arche da cui vieni hai esperienza con la caccia?»

«Ma certo: ho affrontato creature molto più pericolose dei tirannosauri»

«Bene. Non mi è mai capitato di cacciare con uno straniero. Sono proprio curioso di vedere come te la cavi»

Lex ridacchiò, divertito:

«Allora spero di non deluderti. Nel frattempo, ti dispiace se inizio a farti qualche domanda?»

«Va bene, però dopo. Ora pensiamo a cacciare»

«D’accordo»

Sembrava che Drof sapesse già dove cercare la loro preda, quindi Lex si limitava a seguirlo. A un certo punto, i lupi cominciarono ad annusare l’aria e piegarono le orecchie all’indietro: avevano fiutato il bersaglio. I due si lasciarono guidare dal branco. I lupi si fermarono davanti a un masso pregno di liquido che odorava di carne marcia e sale: il tirannosauro aveva urinato lì e, dato che il liquido fumava ancora, era vicino. Drof prese un arco e una faretra dalla sella di Onracoel e la passò a Lex:

«La sai usare?»

«Altroché»

«Molto bene. Le frecce sono piene di veleno di ape»

Lex conosceva bene l’effetto di quei pungiglioni. Capì subito la strategia:

«Oh, quindi il piano è paralizzarlo?»

«Esatto. Allora sei davvero esperto!»

«Da dieci anni» specificò Lex.

Drof prese un arco ricurvo, molto più robusto ed elaborato di quello che aveva rifilato a Lex, e sorrise:

«Sai, potremmo andare molto più d’accordo di quanto pensassi, Lex. Uno straniero che la sa quanto un vero figlio di ARK? Perché no!»

Lex ridacchiò e ringraziò, quindi chiese se potevano andare. Drof lo esortò a scendere dal lupo e lasciar andare il branco. Lex obbedì e i lupi cominciarono subito a proseguire da soli: stavano bassi e fiutavano con attenzione il terreno. Drof ordinò di stare in attesa anche dopo che svanirono alla vista. Lex non era del tutto certo di quale fosse la strategia, ma volle fidarsi. Poco dopo, i lupi tornarono indietro e guardarono i due umani con trepidazione, in attesa che li seguissero. Drof scese da Onracoel e diede il via. Quindi, con calma e in silenzio, si misero a seguire la muta.

Erano controvento, quindi il loro odore non avrebbe raggiunto il tirannosauro prima che fosse alla loro portata. I lupi raggiunsero il bordo di una sporgenza su una collina e si accucciarono. In mezzo al prato, in fondo al colle, c’era il tirannosauro. Drof e Lex si distesero sull’erba per essere meno visibili, mentre Onracoel fece un passo indietro per non stare in vista. Il teropode, che dava loro le spalle, stava spolpando la carcassa di un diplodoco, nel mezzo del prato.

«Sta mangiando, avrà la guardia abbassata» commentò Lex.

«Esatto. Inoltre, intorno a lui l’erba è molto alta e ci sono alcuni massi: possiamo agire come da piano senza problemi»

Fece un cenno al lupo bianco, che a sua volta diede un ordine alla sua famiglia. La muta, allora, scese con agilità dal pendio e si inoltrò nell’erba alta, fino a scomparire alla vista. Drof disse a Onracoel di stare dov’era, quindi fece segno a Lex di seguirlo. Scesero a loro volta, si nascosero nell’erba alta e si rifugiarono dietro uno dei massi, il più vicino al tirannosauro. Il vento era sempre a loro favore, quindi il teropode non si accorse di niente e non smise di mangiare.

Piano piano, i lupi lo circondarono. Il padre si appostò oltre la carcassa, attese il momento giusto e partì all’assalto: usò il diplodoco come trampolino e balzò sul dorso del tirannosauro, che aveva tutta la testa immersa nel fianco spolpato della preda. Affondò i denti nel collo del dinosauro e strinse con forza, prima che il tirannosauro iniziasse a guardarsi intorno, in preda alla confusione. Quando capì di avere qualcosa sulla schiena che lo mordeva, si dimenò e lo scaraventò a terra con un energico scossone. Il lupo bianco ululò e anche gli altri attaccarono.

«Si comincia, Lex!» esclamò Drof.

I due prepararono gli archi, mentre tenevano d’occhio il combattimento. La prima cosa di cui Lex si accorse fu che i lupi non stavano cercando davvero di abbattere il tirannosauro. Mentre schivavano gli attacchi del dinosauro furioso, lo punzecchiavano mordendo con forza gli stessi punti fino a ferirlo, per poi ripiegare subito. Uno azzannò la caviglia e scappò prima di farsi schiacciare; un altro balzò, afferrò una zampa anteriore e la strattonò fino a staccare una delle minuscole dita; un terzo si accanì sul costato e aprì diverse ferite superficiali ma fastidiose sul fianco.

Il tirannosauro si infuriava ogni secondo di più e le provava tutte per ucciderli: menava la coda a destra e a sinistra, tentava di calpestarli, cercava di afferrarli con le fauci; ma i lupi erano agili ed evitarono tutti i colpi, finché una femmina non commise un’imprudenza: imitando il padre, salì sul diplodoco morto e si appese con gli artigli e le zanne al collo del bersaglio. Il tirannosauro la vide arrivare e scosse il capo fino a sbilanciarla; la lupa cadde a terra, il tirannosauro la afferrò per i fianchi e strinse la presa. I suoi denti appuntiti squarciarono gli organi e frantumarono le ossa. La lupa era già morta, quando fu gettata lontano. In compenso, aveva allargato una ferita già inflitta prima dal lupo bianco.

«Maledetto!» imprecò Drof.

Fece un rapido fischio e Onracoel partì di corsa. Sfrecciò giù per il pendio e attraversò il prato in un lampo, con le corna puntate in avanti. Travolse il fianco del tirannosauro proprio mentre si scrollava di dosso la lupa nera, la madre. Il carnotauro lo centrò al ginocchio e il grande predatore si lasciò sfuggire un gemito uggiolante, mentre barcollava indietro e con la zampa dolorante. Mantenne l’equilibrio per un soffio. Onracoel scrollò il capo e ruggì, in segno di sfida, quindi si allontanò di corsa per preparare una seconda carica.

«Ora possiamo cominciare a tirare!» annunciò Drof.

A quel punto, con una velocità stupefacente e una mira precisissima, iniziò a scagliare le frecce nelle ferite del tirannosauro. Non sbagliava un colpo, nonostante il bersaglio si muovesse di continuo. Lex era più lento, ma cercava di compensare prendendo la mira meglio che poteva. Mentre le sue ferite si riempivano di frecce avvelenate, il tirannosauro afferrò un altro lupo e, con una stretta delle fauci, lo squarciò in due.

Il teropode sputò la vittima; gli colavano cascate di sangue dalla bocca aperta. I lupi si scagliarono su di lui con tutta la loro ferocia: il padre gli saltò alla gola e vi rimase appeso per i denti, la madre azzannò e incise il tendine d’Achille e un’altra femmina graffiò la pancia. Fuori di sé, il tirannosauro tentò di atterrare anche loro, ma d’un tratto cominciò a traballare e muoversi a fatica: la tossina sulle punte di freccia stava iniziando ad agire. Nel panico, il teropode ruggì e fece per scagliarsi a peso morto sui lupi, quando la sua zampa fu travolta di colpo con una potenza devastante. Lex udì lo scricchiolio delle ossa persino da lì.

Stavolta, Onracoel era partito alla carica da molto più lontano di prima. Dopo quell’impatto, il tirannosauro mise la zampa in fallo e si rovesciò su un fianco. A quel punto, la tossina prevalse e il predatore non riuscì più a muoversi. Il carnotauro, allora, raggiunse la sua gola e la morse. Serrò le fauci e strappò la trachea con uno strattone vigoroso. Dopo qualche minuto di sospiri gorgoglianti, il tirannosauro spirò. Nonostante la morte di due lupi, la battuta di caccia era finita bene. Drof e Lex scesero dal macigno e si avvicinarono al loro trofeo con le armi a tracolla. L’Arkiano guardò con tristezza i due lupi morti ed esaminò le carcasse ancora calde.

«Peccato per loro, erano ottimi esemplari» affermò Lex.

«Altroché»

Il lupo bianco, la lupa nera e i loro figli si sederono in cerchio intorno alle due carcasse, quindi iniziarono ad annusarle e guaire con sguardi tristi. Il branco era in lutto per le sue perdite. Drof e Lex osservarono la scena in silenzio, dispiaciuti. Con un sospiro, l’Arkiano si sedé su una roccia e disse:

«Dicevi di avere domande. Ora puoi farne quante ne vuoi»

«Oh, grazie»

Il biondo iniziò a riflettere su tutto ciò che voleva sapere nei dettagli, passeggiando avanti e indietro e tenendosi il mento fra il pollice e l’indice. Una volta che ebbe raccolto le idee, si leccò le labbra a prese fiato: sarebbe stata una lunga intervista.

ArkCanon1 by RobertoTurati

Apoteosi by RobertoTurati

Cavalcare Anitot era un’esperienza buffa: vecchia e acciaccata com’era, la sua andatura dava ad Aurora la costante sensazione di stare per cadere. Aurora contò sei cicatrici sul corpo dello smilodonte; c’era il segno di un taglio sul tendine della zampa posteriore destra, il che spiegava la goffaggine. Acceber raccontò che suo padre, per non far perdere smalto ad Anitot, ogni tanto la dava in prestito come bestia da guardia per case e accampamenti da caccia.

La figlia di Drof era piena di aneddoti interessanti, tanto che ad Aurora il viaggio sembrò molto più breve di quanto si aspettava, a forza di ascoltarli. Ogni tanto, per ricambiare, raccontava a sua volta momenti specifici della sua vita alla base dei Difensori. Le descrisse i suoi compagni di tribù e i migliori momenti che aveva trascorso con ciascuno di essi, oltre a spiegare la situazione sull’Isola: raccontò dell’attacco dei Teschi Rossi e delle misure che Nick stava prendendo per aumentare le difese. Acceber ascoltava rapita, con uno sguardo sognante. Ad Aurora si scaldava il cuore, al pensiero della sua nuova amica che provava a immaginare tutto.

Dopo tante ore di viaggio e chiacchierate, le due ragazze raggiunsero la Foce Cremisi, una vasta foresta di mangrovie dalle foglie scarlatte che ricopriva buona parte della costa orientale dell’isola. Per attraversarla, si mantenevano sugli atolli fangosi e nelle lingue di sabbia appena sommersa tra le radici delle mangrovie, per stare lontane dalle acque in cui potevano nuotare i predatori palustri. Aurora si infradiciò di sudore in pochi minuti: in quel posto, c’era una cappa di afa soffocante e dall’acqua si alzavano miasmi di vapore.

Dopo un po’ di tempo, uscirono dalla foresta di mangrovie rosse e giunsero alla costa, al cospetto di uno spettacolo mozzafiato: centinaia di enormi rocce così immense e vicine le une alle altre da coprire il cielo. Ciascuna fluttuava nell’aria a una quota diversa. Le più grosse lambivano la superficie del mare con la loro punta inferiore. Da molte delle rocce fluttuanti uscivano delle cascate. Enormi cristalli arancioni sporgevano dalle loro pareti, le quali erano avvolte da radici colossali che formavano una rete di ponti tra le isole volanti. Aurora notò cime di alberi che sporgevano oltre il bordo delle rocce e intuì che lassù doveva esserci un vero e proprio bosco.

«Incredibile!» mormorò Aurora.

«Non vedevo l’ora della tua reazione» ridacchiò Acceber.

Le ragazze scesero dal dorso dello smilodonte. Acceber indicò una tenda in pelle di rettile allestita poco lontano sulla spiaggia, al limitare della foresta di mangrovie. Spiegò all’amica:

«Lì vive il vecchio Oderffog, un uomo che presta il suo becco a punta a chiunque voglia raggiungere le isole volanti»

«Cos’è un becco a punta?»

«Eh? Oh, è una bestia volante. Mi pare che voi stranieri la chiamate pite… peta…»

«Pteranodonte?»

«Ecco! Grazie»

Detto ciò, Acceber prese un sacchetto che portava appeso alla cintura e lo passò ad Aurora. Spiegò che dentro c’era un piccolo tributo con cui pagare Oderffog per farsi prestare la sua cavalcatura. Aurora dedusse da ciò che l’amica voleva farla andare da sola e ne fu perplessa:

«Non vieni? Perché?»

«Il vecchio Oderffog chiederebbe un doppio pagamento, ma non mi sembrava il caso: l’ho già fatto molte volte, conosco bene l’Apoteosi. Inoltre, ci si gode meglio il paesaggio da soli» ammiccò.

«Se lo dici tu…»

«A proposito, sai cavalcare le bestie volanti?»

«Sì, certo»

«Bene»

Quindi, mentre Acceber dava un pezzo di carne ad Anitot, Aurora si avvicinò alla tenda con fare timido e chiese se c’era qualcuno. Ne uscì un anziano di corporatura minuta e dall’aspetto vispo e arzillo, con pochissimi capelli e una lunghissima barba pettinata. Aurora gli rivolse un saluto cordiale:

«Salve!»

Il vecchio sorrise e indicò le isole volanti col pollice:

«Salve a te, straniera. Vuoi andare lassù?»

«Sì. Pago subito»

Gli porse il sacchetto. Il vecchietto lo aprì, ne controllò il contenuto e la ringraziò. Quindi si portò due dita alla bocca ed emise un lunghissimo fischio. Pochi secondi dopo, dal cielo scese uno pteranodonte dal becco pieno di graffi e la cresta consunta.

«Puoi farlo atterrare dove vuoi, tutte le volte che vuoi: è molto obbediente» spiegò Oderffog.

«Grazie» rispose Aurora.

Il vecchio lanciò un boccone di carne allo pteranodonte, che lo afferrò al volo e lo inghiottì. Quando vide Aurora, girò la testa di lato per osservarla meglio, poi le arruffò i capelli con la punta del becco. Oderffog disse che era il suo modo di fare amicizia coi nuovi visitatori.

«Ehi, ciao! Vuoi essere mio amico, eh?» rise Aurora.

«Si chiama Yxag»

«Ciao, Yxag! Ti va di portarmi lassù?»

A quel punto, Aurora montò in sella e spronò lo pteranodonte, che gracchiò, spiegò le ali e decollò; sfruttò le correnti d’aria oceaniche per salire oltre le rocce fluttuanti. Una volta che poté ammirare l’intera Apoteosi dall’alto, la sopravvissuta ne fu meravigliata. Ogni isola volante era un angolo di paradiso, un boschetto tropicale come nessun altro. Ancora più sbalorditivo era il fatto che vi bazzicavano molte creature delle specie più variegate, dai kentrosauri ai brontosauri. Ne vide alcuni spostarsi da un’isola volante all’altra usando le radici giganti come ponti: era spettacolare.

Le isole volanti più gigantesche contenevano persino dei laghi a forma di anello e, su quella più vasta, il tutto era coronato dalla formazione di cristalli più gigantesca che Aurora avesse mai visto. Si stagliava in mezzo al verde, come una gemma scintillante incastonata in cima a una torre. La bellezza di quel posto era mozzafiato. Voleva godersi appieno quello spettacolo, dunque spronò Yxag e cominciò a planare sopra le singole isole volanti. Erano tutte splendide, ma nessuna poteva competere con quella più grande.

Era tentata di esplorarle tutte a piedi, comprese le caverne sotterranee che intravide fra le cascate, ma si rese conto che non sarebbe bastato un giorno intero. Così, con un sospiro di soddisfazione, tornò al punto di partenza, sulla spiaggia. Una volta che fu atterrata vicino alla tenda del vecchio e scesa dallo pteranodonte, si guardò intorno per diversi istanti e il suo sorriso si spese, quando vide che Acceber era sparita. Anche Oderffog non c’era più.

«Cosa? Ehilà! C'è qualcuno?» gridò, preoccupata.

Iniziò a sentirsi molto irrequieta: sentiva che qualcosa non andava. Poco dopo, Yxag trasalì di colpo. Sembrava terrorizzato, si guardava intorno con rapidi scatti della testa e tubava. A un certo punto, gracchiò e volò via di colpo. Ora il silenzio era totale, a parte il rumore delle onde che si infrangevano sul bagnasciuga.

“Che sta succedendo?” pensò Aurora, agitata.

In quel momento, sentì un cigolio alle sue spalle. Si voltò e vide la testa di Oderffog fare capolino da una botola nascosta alla perfezione sotto la sabbia. Il vecchio, di cui poteva vedere solo la fronte, gli occhi e la mano che reggeva la botola, sembrava spaventato. Sussurrò a denti stretti:

«Scappa, straniera!»

E richiuse la botola. Aurora, disorientata, si inginocchiò e bussò sulle assi di legno per richiamarlo.

«Aspetta! Che succede?»

«Scappa, ho detto!»

«Dov’è Acceber?»

«La sua tigre è scappata e lei l’ha seguita. Fuggi anche tu!»

«Da cosa?»

«Corri e basta!»

«Non posso entrare anch’io?»

«No: c’è spazio solo per me. Salvati!»

Aurora non ci capiva più niente. Che stava succedendo? Perché tutto quel panico? A un certo punto, sentì un uggiolio allegro e al contempo inquietante dietro di lei. Aurora trasalì, si voltò di scatto e si ritrovò faccia a faccia con un teropode che non aveva mai visto. Era snello e longilineo, come un raptor, ma della taglia di un carnotauro e con due piccole corna rivolte all’indietro. La stava fissando a bocca spalancata, con la lingua fuori e la coda che si agitava. Aveva l’atteggiamento giocoso di un cucciolo, ma le zanne appuntite e gli artigli affilati di qualunque predatore.

“Oh no! No, no no no no no!” pensò Aurora, nel panico.

Era stata già mangiata una volta; non avrebbe permesso che succedesse di nuovo, soprattutto non in un mondo parallelo. Quindi, anche se sapeva di non avere speranze, cominciò subito a correre all’impazzata. Aggirò il rettile e si inoltrò nella Foce Cremisi per seminarlo nella palude. Sentiva i passi pesanti e goffi del predatore nel fango e nell’acqua bassa, oltre ai versi divertiti che emetteva di continuo. Si aspettava, da un momento all’altro, di provare ancora quella sensazione atroce di essere sollevata, schiacciata sotto un’infinità di denti aguzzi e triturata viva.

Alla fine fu sollevata davvero da terra, ma avvertì solo un dolore lancinante alla schiena: il carnivoro aveva cercato di afferrarla, ma era riuscito prendere solo un lembo del suo vestito e le aveva lacerato il dorso con le punte dei denti. Aurora pendé a un metro da terra e sentì il vuoto sotto i suoi piedi, e gemé per il dolore alla schiena. Poi il dinosauro scosse la testa di lato, quindi il vestito si strappò e lei fu scaglita via per inerzia. Si schiantò in acqua e, di colpo, si ritrovò senza aria. Annaspando e sbracciandosi, tornò in superficie e si trascinò a riva, fradicia e infangata. Si guardò in giro a occhi strabuzzati e vide di nuovo il teropode ignoto: si stava rigirando il pezzo di vestito fra i denti, convinto di star masticando la preda.

Poi, però, si accorse dell’errore e si guardò intorno, disorientato. La individuò subito. Fece due passi verso di lei, ma un oggetto velocissimo lo colpì sul muso. Aurora guardò ai piedi dell’animale: era un sasso. Entrambi guardarono nella direzione da cui era venuto e la rossa vide Acceber a cavallo dello smilodonte, su un piccolo atollo sabbioso. La ragazza era armata di fionda e Anitot ringhiava, in posa difensiva. Il predatore emise un verso infastidito e partì all’assalto. Aurora tirò un sospiro di sollievo, col cuore a mille.

Mentre Acceber si faceva inseguire dal dinosauro, la sopravvissuta cominciò a camminare il più in fretta possibile attraverso la foresta di mangrovie, nella speranza di cancellare il proprio odore negli acquitrini salmastri. Non sapeva quanto proseguire, prima di nascondersi in mezzo alle radici intricate e aspettare Acceber, ma ora non le importava. Tuttavia, mentre arrancava nell’acqua bassa, si accorse che le mangrovie davanti a lei si stavano muovendo. Dalla vegetazione spuntò qualcosa di ben peggiore: un altro teropode, ma gigantesco.

Aurora si arrestò di colpo e si sentì mancare: era talmente enorme da adombrare la palude. Persino i giganotosauri di Nick erano più bassi di quel mostro, seppure di poco. Aveva le zampe posteriori tozze e il corpo robusto, ma il collo e il muso si assottigliavano in una forma longilinea. Aveva minuscoli occhi arancioni e due corna uguali a quelle dell’altro dinosauro, ma più sviluppate. Le somiglianze tra le due creature erano troppe per essere una coincidenza: Aurora intuì subito che quello di prima era davvero un cucciolo e che quella doveva essere la madre. Il mostro si accorse subito dell’umana e i loro sguardi si incrociarono.

«Merda!»

Il mostro gigantesco la osservò per un attimo e reclinò il capo, in apparenza incuriosito; ma gorgogliò e iniziò ad avvicinarsi. Ora sì che Aurora rischiava di fare la stessa fine che aveva fatto sull’Isola, quando era stata divorata da quel giganotosauro. In mancanza di alternative, fuggì nella direzione opposta e corse a perdifiato fra mangrovie, pozze e atolli. L’acqua, che le arrivava alla cintura, la rallentava e la sfiancava; davanti a sé non vedeva altro che un muro di vegetazione rossa. Ma niente di tutto questo le importava: voleva solo salvarsi la pelle.

Riusciva a percepire l’inarrestabile presenza del colossale predatore, alle sue spalle: prima o poi l’avrebbe raggiunta. Non poteva illudersi di avere scampo, ma valeva la pena provare. Si sentiva i muscoli in fiamme, ma la scarica di adrenalina le diede la forza di continuare la fuga. Si sentiva impotente e spacciata, eppure la disperazione la spingeva a lottare per la sopravvivenza fino all’ultimo. All’improvviso, però, inciampò in una radice sommersa e cadde nella fanghiglia.

Sputò l’acqua e il fango e guardò in alto: il mostro enorme si preparava già a chiudere le fauci su di lei. Gridò in preda al terrore, si rannicchiò e si coprì la testa. Tuttavia, il dinosauro fu interrotto da un fragoroso ruggito. Era un richiamo tonante, rauco e profondo. Aurora si coprì le orecchie, sconcertata, poi si accorse che il grande carnivoro la stava ignorando. Non perse tempo e si rialzò, quindi si mise a correre ancora più veloce di prima. Due minuti dopo, la foresta di mangrovie si aprì e cedé il posto a un canale di acqua dolce.

“E adesso?” si chiese.

Il corso d’acqua era troppo largo e profondo: tentare di guadarlo era troppo rischioso. Poco dopo, il predatore riapparve dietro di lei e la fissò con famelicità. Se fosse scappata a destra o sinistra, l’avrebbe raggiunta, ora che non c’erano più mangrovie: era la fine. Ad Aurora venne da piangere per il terrore e la disperazione. Tuttavia, anche questa volta sentì il ruggito sconosciuto e il dinosauro si immobilizzò per fissare la foresta sulla sponda opposta; sembrava preoccupato. Aurora si domandò cosa potesse mai intimidire un carnivoro così grosso e minaccioso. Osservò l’altra riva a sua volta e sbarrò gli occhi: dalla vegetazione stava apparendo un’enorme creatura maestosa e terrificante al contempo. Al suo passaggio, gli alberi si inclinavano e stormi di dimorfodonti volavano via dagli alberi.

La bestia raggiunse finalmente la sponda del fiume e Aurora la vide bene: un imponente gorilla alto una ventina di metri, dalla pelliccia nera macchiata qua e là di sangue rappreso e la schiena argentata. I suoi occhi bruni erano stretti in un’espressione minacciosa, rimarcata dalle zanne scoperte. Tutto il corpo era una suggestiva mappa di cicatrici, prove di battaglie passate. Aurora era impietrita, ma anche affascinata. Il grande predatore rivolse un ruggito incerto allo scimmione, che rispose con un grugnito intimidatorio e pestò un pugno a terra. I due giganti si scambiarono altre intimidazioni, ma non si spinsero oltre: sembrava che il gorilla gli stesse solo intimando di lasciarlo in pace.

Aurora, intanto, approfittò della sua distrazione per nascondersi in un canneto vicino, dove si immerse nell’acqua stagnante fino al collo, nella speranza di passare inosservata. Le due creature si sfidarono ancora un po’ e, alla fine, il teropode chinò il muso: aveva gettato la spugna. Lo scimmione, in risposta, grugnì con uno sguardo arcigno e si sedé, per poi cominciare a bere l’acqua del canale con una mano a coppa. Il dinosauro enorme si voltò, si avvicinò alla foresta di mangrovie e cominciò a lanciare richiami. Continuò così per una manciata di minuti che ad Aurora parvero un’eternità.

Alla fine, dalla palude apparve il cucciolo, che adesso stringeva un dilofosauro in bocca: Acceber doveva averlo deviato verso un’altra preda. Sotto lo sguardo vigile del gorilla gigante, madre e piccolo si strusciarono il muso con affetto, quindi si allontanarono risalendo la corrente del fiume. Poco dopo, lo scimmione finì di bere, si asciugò il muso bagnato e se ne andò. Aurora era finalmente sola e salva. Le sembrava di svenire.

CrystalISLAND 2 by RobertoTurati

L’attesa sembrò interminabile, ma alla fine fu trovata da Acceber. L’Arkiana si scusò per quel terrificante imprevisto, ma Aurora le disse di non preoccuparsi: in fondo, non poteva certo sapere cosa sarebbe successo. La figlia di Drof le domandò come aveva fatto a sfuggire alla madre del cucciolo; tuttavia, per quanto Aurora tentasse di rispondere, riusciva a malapena a farfugliare: troppo forte lo spavento, troppo travolgente il miscuglio di terrore e sollievo che ancora le offuscava la mente e le faceva tremare le gambe. Alla fine, però, riuscì a ricostruire l’accaduto, una frase risicata dopo l’altra. Acceber rimase a bocca aperta:

«Caspita! Kong!»

Aurora si limitò a fissarla, disorientata. Ormai non capiva nemmeno cosa le succedeva intorno. L’Arkiana tentò di spiegarsi:

«Ti sei salvata grazie a Kong! Il re di ARK in persona! Per noi Frecce Dorate è un onore come pochi, sai? La mia tribù lo adora e lo riverisce da secoli»

Di nuovo, la rossa rimase in silenzio; si mise a fissare il vuoto, in preda ai tremiti e al batticuore. Ormai era concentrata solo sul tentare di calmarsi e farsi passare l’affanno, siccome le faceva ancora male il petto. Acceber le si mise davanti, preoccupata:

«Ehi! Va tutto bene?»

Aurora si sentì intontita per una manciata di secondi, prima che tornasse del tutto coi piedi per terra. Solo allora riuscì a formulare una risposta e fare un tentativo di alleggerire l’atmosfera:

«Eh? Oh! Sì, certo, sto da favola. Di certo a Lex farà piacere sapere di questo re di ARK»

«Altroché! Non avrei parole, se mi raccontassero che un’amica si è salvata da un distruttore grazie a Kong!»

«Cosa? Parli di quel predatore gigante?»

«Sì, quello. Scusa di nuovo, non mi abituo mai alla questione dei nomi. Credo che voi stranieri li chiamate… uhm… non ricordo bene, ma di certo inizia con “giga”»

A quelle parole, ad Aurora venne un tuffo al cuore: quello era un giganotosauro? Com’era possibile? Era ben diverso da quelli che conosceva fin troppo bene sull’Isola. Era più grande, più imponente, molto più terrificante e minaccioso. La sorprendeva che i giganotosauri di quell’isola avessero un aspetto diverso e fossero ancora peggiori. Forse non le era andata poi così male sulla spiaggia, il suo primo giorno sull’Isola. Fu riportata di nuovo alla realtà da Acceber, che schioccò le dita davanti ai suoi occhi:

«Ehilà! Ci sei?»

«Ah! Sì, scusami»

«Ti capisco, sei sconvolta. Andiamo via da qui, ti va?»

«Ottima idea»

Appena si incamminarono, la rossa avvertì una fitta lancinante alla schiena e le sfuggì un gemito. Acceber controllò subito e si allarmò, quando vide la ferita inferta dal piccolo giganotosauro. Prese uno straccio dalla sella di Anitot e diede una prima, grossolana ripulita ai tagli. Dopodiché, affermò che non c’era tempo da perdere ed esortò l’amica a montare in sella. Aurora annuì ma, prima di muoversi, le capitò di infilare la mano nella tasca in cui aveva messo la sfera e impallidì: non c’era. Impallidì, si tastò tutti i vestiti e si guardò in giro: niente da fare, era sparita.

«Oh, no!» esclamò.

«Che c’è?»

«Dov’è la sfera?!»

Non poteva essere vero. Le doveva essere caduta durante la fuga. Ma a che punto della fuga? Era spacciata: ora come poteva ritrovarla, nella vastità della Foce Cremisi? Il pensiero di doverlo dire a Lex la terrorizzava più del giganotosauro. Come avrebbe fatto a dirgli che, per colpa sua, non potevano più tornare nel mondo delle Arche? Il panico e la vergogna si impadronirono di lei.

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Capitolo 5
*** Jonas e Bob ***


Prima di cominciare il capitolo, una bellissima fanart di Acceber e Aurora, realizzata da MayaPatch! Grazie mille, Maya!

Detto questo, buona lettura!

Aurora supplicò Acceber di lasciarle setacciare la zona il più possibile. L’Arkiana, per qualche motivo, le parve un po’ titubante all’inizio, ma accettò dopo una breve esitazione. Anitot, intanto, ansimava più di Aurora per la corsa che aveva appena fatto per sfuggire ai giganotosauri. Acceber le accarezzò la testa:

«Sei davvero così conciata, vecchia gattona?»

«Allora, cerchiamo di capire dove potrebbe essere»

«Forse ti è caduta sull’Apoteosi» suggerì Acceber.

«No, lo escludo: ricordo di averla sentita nella mia tasca, mentre scendevo dallo pteranodonte»

«Bene, questo è un indizio. Magari… oh! Aurora, la tua schiena!»

Non appena Acceber riportò la sua attenzione sul suo dorso ferito, la rossa avvertì un forte bruciore dove i denti del piccolo giganotosauro le avevano dilaniato la pelle e si lasciò sfuggire un sibilo di dolore, oltre a rabbrividire al pensiero di aver immerso quella ferita nell’acqua sudicia e salmastra della foresta di mangrovie.

«Lo so, il cucciolo mi ha afferrata»

Ricordava quel dolore: era identico a quando il raptor Alfa le aveva ferito le braccia, sulla spiaggia dell’Isola. Non osava immaginare che aspetto avesse il morso ma, se non altro, era ancora tutta intera. Le bastava questo. Acceber esaminò la schiena di Aurora, molto preoccupata:

«Questi tagli faranno infezione presto. Ti riporto subito a casa»

«No, aspetta! La sfera!»

«Non adesso! Tieni di più a una palla di metallo o alla tua vita?»

«Ovvio che ci tengo alla vita, ma se…»

«Se hai paura che sparisca, non ti preoccupare: gli animali non la mangiano di certo! Ci sono molti modi per trovare oggetti smarriti, di solito portando con sé le creature giuste per cercarli. Ti prometto che ti riporterò qui con tutti i mezzi utili per rintracciarla, va bene?»

Aurora esitò ancora un po’, ma alla fine, persuasa dal bruciore sempre più intenso alla schiena, cedé:

«D’accordo, torneremo qui dopo con... oddio, devo dirlo a Lex!» esclamò, nel panico.

Acceber poggiò le mani sulle spalle della rossa e la confortò:

«E allora? Non è stata certo colpa tua!»

A quel punto, l’aiutò a salire in groppa allo smilodonte e spronò Anitot. Non si dissero più nulla per tutto il tragitto: Aurora fissava il vuoto con gli occhi strabuzzati, troppo sconvolta e disperata per parlare.

ArkCanon2 by RobertoTurati

Arrivarono al villaggio verso sera. Aurora sentì ogni singolo secondo del tragitto come se il tempo scorresse al rallentatore e l’angoscia per aver perso la sfera la stava opprimendo. Una volta che lasciò andare Anitot, Acceber portò subito Aurora a casa sua per medicarle la ferita. Quando entrarono, trovarono Lex e Drof impegnati in una vivace chiacchierata sulle tribù dell’isola e le usanze locali, mentre il padre di Acceber appendeva delle strisce di carne all’essiccatoio. Quando le videro entrare, Drof salutò la figlia con un sorriso, ma entrambi si allarmarono appena videro le ferite di Aurora.

«Cos’è successo?» sobbalzò Lex.

«Cosa vi ha attaccate?» domandò invece Drof.

«Un piccolo distruttore. Padre, mi aiuti a sistemare questo morso?»

«Certo, subito»

Acceber portò Aurora in una piccola stanza accanto alla cucina, in cui c’erano mensole piene di barattoli di ceramica. Appena vi misero piede, Aurora non poté fare a meno di arricciare il naso: i barattoli emanavano forti odori pungenti. Acceber la fece sedere su uno sgabello e Drof, dopo essersi lavato le mani in una bacinella d’acqua profumata, diede un’occhiata al morso.

«Uhm… è grave, ma non così tanto. Avete detto che è stato un cucciolo di distruttore?»

Aurora annuì in silenzio.

«E gli sei sfuggita? Sono stupito. Come hai fatto a liberarti?»

«Ha afferrato il mio vestito e sono rimasta appesa alla sua bocca, poi si è strappato e sono caduta»

Lex entrò nella stanza dei barattoli proprio in quel momento e commentò:

«Hai avuto una fortuna incredibile, lo sai?»

“Di certo più della volta scorsa” pensò Aurora.

Drof sciacquò la ferita con un panno bagnato, dopodiché prese un altro straccio dalla puzza nauseabonda. Aurora aveva già sentito quell’odore nell’infermeria dei Difensori: era bile di ammonite. Drof avvisò che avrebbe bruciato molto, quindi Aurora iniziò subito a stringere i denti. Quando Drof strizzò il panno sopra le sue ferite, la rossa avvertì una fitta bruciante e sibilò a denti stretti. Il dolore passò poco alla volta, ma era intenso. Drof aspettò qualche minuto, quindi applicò la bile anche ai buchi lasciati dalle zanne. Aurora sopportò il dolore in silenzio.

«Pensi che siano da cucire?» domandò Acceber, alla fine.

Drof osservò le ferite da vicino, mentre Aurora impallidì e sbarrò gli occhi al solo pensiero. Tuttavia, l’uomo scosse la testa e disse che non erano così profonde, per cui la rossa tirò un grande sospiro di sollievo. Anche Lex le parve sollevato, a giudicare dal suo sguardo. Acceber prese delle grosse fasce di lino e le avvolse intorno al torso di Aurora. Quando la medicazione fu finita, il suo cuore iniziò a battere all’impazzata: era giunta l’ora dare a Lex la cattiva notizia. Prese fiato e si preparò a raccontare tutto, ma Acceber parlò prima:

«Ehi, se vuoi ti aggiusto io questa veste!» suggerì.

«Ma no, non disturbarti!»

«Quale disturbo? È il minimo che ti devo: doveva essere un viaggio spensierato, invece sei quasi morta. In qualche modo, dovrò farmi perdonare! Nel frattempo, ti posso prestare un abito dei miei: mi sembra che abbiamo più o meno le stesse misure»

Aurora arrossì un po’ e sorrise:

«Uhm… d’accordo»

Drof tornò a riempire l’essiccatoio e Acceber andò di sopra a prendere un vestito. Rimasto da solo con Aurora, Lex appoggiò la schiena al muro e incrociò le braccia:

«A quanto pare, questa sorta di Arca terrestre ti accoglie a braccia aperte proprio come le nostre»

«Ho notato»

«Almeno ti è piaciuto il panorama, dall’Apoteosi? C’è un’isola volante anche sul Centro, ma queste…»

«Lex, abbiamo un problema grave» lo interruppe Aurora, mortificata.

«Cioè?»

«Ho perso la sfera. Mi è caduta durante l’attacco del giganotosauro» spiegò lei, tutto d’un fiato.

Lex rimase interdetto per alcuni secondi che ad Aurora parvero così lunghi che si sentì più in imbarazzo che mai.

CrystalISLAND 2 by RobertoTurati

Quando Aurora finì di spiegare tutto, i due sopravvissuti e Acceber presero in prestito un gallimimo e si diressero in tutta fretta verso la Foce Cremisi. Vedendo quanto era imbarazzata Aurora, Lex provò a sdrammatizzare un po’:

«Spero che sia ancora dove ti è caduta. Non mi aspettavo di tornare nel nostro mondo tanto presto, ma farei volentieri a meno di restare qui per sempre»

Aurora apprezzava che non se la fosse presa con lei, ma si sentiva in colpa: aveva insistito per venire con lui e Lex si era fidato di lei abbastanza da affidarle la sfera, ed era riuscita a perderla dopo un giorno solo. Era certa che lui non l’avrebbe mai persa, se fosse stato nella sua stessa situazione. Doveva assolutamente togliersi quel peso dal cuore. Quindi, dopo una lunga esitazione, toccò la spalla di Lex, che stava seduto nel mezzo della sella a tre posti del gallimimo, mentre Acceber teneva le redini. Il suo amico si voltò, con un’espressione interrogativa. Aurora si serrò le labbra:

«Perdonami, Lex. Ho smarrito il nostro unico modo per andarcene, e chissà se riusciremo a ritrovarlo!»

«Non fa niente, Aurora»

«Come, non fa niente? Per colpa mia, potremmo non rivedere più i nostri amici! E tutte le faccende in sospeso sull’Isola? I Teschi Rossi, le uova di viverna che volevi prendere, le nostre creature… potremmo non riuscire mai più a finire la nostra indagine! Gli ologrammi, le Arche, quello che…»

Lex alzò una mano e la interruppe, con uno sguardo comprensivo:

«Calmati, Aurora. Un passo alla volta. Non è certo colpa tua, se un predatore è uscito dal nulla e sei stata costretta a scappare. Gli incidenti possono capitare a chiunque. Non ti do nessuna colpa, capito? Faremo tutto il possibile per ritrovare la sfera, e anche se non la troviamo, ci inventeremo qualcosa. Credi davvero che lascerei tutti i misteri che ci siamo lasciati alle spalle irrisolti? Col cavolo!» esclamò, con un sorriso.

La rassicurazione di Lex la fece sentire un po’ meno a disagio e, per solidarietà, Aurora ricambiò il sorriso.

ArkCanon2 by RobertoTurati

Quando arrivarono alla spiaggia orientale, Lex si concesse un attimo per contemplare le isole volanti. Nonostante conoscesse già bene l’Apoteosi dopo i suoi viaggi sulle Isole dei Cristalli, quel posto non smetteva mai di affascinarlo.

«È qui che ha iniziato a inseguirmi. Proverò a ripercorrere i miei passi» affermò Aurora.

Senza fare caso allo sguardo incuriosito del vecchio Oderffog, che era immerso nel mare fino ai fianchi armato di lancia, iniziarono a setacciare palmo a palmo la spiaggia, per poi addentrarsi man mano nella foresta di mangrovie rosse. Fecero del loro meglio per ripercorrere la strada della fuga di Aurora, ma non trovarono nulla. La rossa si sforzò di ricordare bene e, alla fine, riuscì a distinguere il punto esatto in cui il cucciolo l’aveva afferrata e fatta cadere. Ispezionarono i dintorni con cura, ma della sfera non c’era traccia. Acceber si offrì di cercare nella parte più fitta della Foce Cremisi fino al fiume, mentre la rossa e Lex stavano vicini alla spiaggia. La figlia di Drof fu di ritorno dopo più di un’ora, ma sia lei sia i due sopravvissuti erano ancora al punto di partenza. Le speranze già vaghe di Lex iniziavano a dissolversi. Il biondo si sedé su una roccia e valutò tutte le possibilità:

«E se la corrente l’avesse portata via? Magari si è incagliata da qualche parte nel fango o, peggio ancora, è finita nel mare»

«Forse. Vi ho già detto che non può essere stata presa da un animale: non sembra un oggetto con cui abbellire il nido o che possono scambiare per cibo» disse Acceber.

Lex, allora, prese in considerazione un’ipotesi che lo preoccupava più di qualunque altra. Stava per dirlo ad alta voce, ma Aurora ebbe la stessa intuizione e lo precedé:

«Credete che qualcuno l’abbia trovata mentre eravamo via e l’abbia tenuta?»

«Non è da escludere. Acceber, quanta gente passa di qui, di solito?»

«Non poca: le visite all’Apoteosi sono frequenti» rispose l’Arkiana.

«Se è così, è grave: potrebbe essere dovunque sull’isola»

Gli occhi di Aurora si illuminarono e la rossa fece un’espressione speranzosa:

«Se la sfera è stata presa da qualcuno che voleva andare sulle isole volanti, il vecchio che presta il suo pteranodonte potrebbe averlo visto! Chiediamo a lui!»

«Buona idea» annuì Lex.

Tornarono alla spiaggia e videro il vecchio intento a sfilare un celacanto dalla punta della lancia, seduto davanti alla sua tenda. Lex lo chiamò e agitò la mano per attirare la sua attenzione, quindi gli si avvicinarono. Il vecchio fece un’espressione incuriosita, quando vide Aurora e Acceber:

«Siete già tornate? Vi siete scordate di portare il vostro amico?» domandò.

Lex scosse la testa:

«No, no, conosco già l’Apoteosi. Stiamo cercando una sfera, cioè una palla di rame arrugginita. La mia amica l’ha persa quando è stata qui poco fa. Per caso hai visto se l’ha presa qualcuno? È molto importante per noi»

Il vecchio annuì mentre Lex gli parlava. Lanciò una rapida occhiata pensosa alle due ragazze, per poi rispondere al biondo:

«Una palla arrugginita, dici? Sì, l’ho vista un paio d’ore fa»

Aurora si emozionò e fece subito un sorriso speranzoso:

«L’hai trovata?! Ce l’hai tu?»

«No, l’ha trovata l’ultimo visitatore: mi ha chiesto se era mia e gli ho detto di no, così l’ha portata via. Ma non credo che la terrà con sé» rispose il vecchio.

Lex serrò le labbra e si sforzò di soffocare un’imprecazione. Mantenne la calma e gli chiese chi l’aveva presa e dove potevano trovarla. La risposta non significava granché per loro, ma fece mettere le mani nei capelli ad Acceber: il vecchio disse che l’uomo che aveva preso la sfera era una guardia dei fratelli Braddock, la quale era venuta a fare un giro sull’Apoteosi in un giorno libero. Secondo il vecchio, aveva pensato che quell’oggetto potesse interessare a uno dei suoi capi, che collezionava oggetti bizzari.

«E chi sono i fratelli Braddock? Dove possiamo trovarli?» indagò Lex.

«Se ho capito bene, oggi sono al villaggio delle Aquile Rosse, sulle montagne a nord»

«Grazie mille, Oderffog! Spiegherò tutto io a loro, mentre ci andiamo. Volete andarci subito, vero?» disse Acceber.

«Ovvio che sì!» esclamò Lex.

«Allora torniamo di corsa al villaggio: faremo prima se andiamo dalle Aquile Rosse in volo» rispose l’Arkiana.

CrystalISLAND 1 by RobertoTurati

ALCUNE ORE DOPO…

Una volta tornati al villaggio delle Frecce Dorate, Acceber portò i due sopravvissuti a una pista poco lontano dai campi della tribù, dove un piccolo gruppo di passeggeri stava prendendo posto sulla lunga sella di un quetzalcoatlo. Lex la trovava interessante: gli ricordava la sella di gruppo dei diplodochi, ma adattata all’enorme pterosauro. Una volta a bordo, tutti i passeggeri si legarono al proprio sedile con due corde robuste, quindi il volo iniziò. Mentre sorvolavano le Piane Gioiose, Acceber spiegò loro con chi avevano a che fare. Lex fece il punto:

«In pratica, se ho capito bene, questi due fratelli sono petrolieri naufragati qui che stanno diventando sempre più influenti»

«Proprio così. Si dice davvero di tutto sul loro conto: alcuni sospettano che complottino contro i nove capitribù, altri che vogliano diventare i capi supremi dell’isola, altri ancora dicono persino che vogliono sostituire le bestie con mostri di metallo che bevono petrolio e sbuffano fumo. Nessuno sa qual è la verità, fatto sta che ormai sono molto popolari» spiegò l’Arkiana.

Lex era curioso di parlare con persone che venivano dal mondo esterno, quelli che gli Arkiani chiamavano “stranieri” a ragione. Non gli sarebbe dispiaciuto fare un paio di domande su un mondo “normale”, senza un pianeta post-apocalittico e stazioni spaziali a forma di isole preistoriche. Aurora non stava seguendo davvero la conversazione: ogni volta che Lex le dava un’occhiata, era distratta a guardare il panorama dalla sella del quetzalcoatlo. Non la biasimava: tra il brivido di trovarsi a centinaia di metri da terra, col vento che sferzava le loro facce, e la possibilità di godersi il panorama in quel modo, anche lui avrebbe fissato volentieri il paesaggio sottostante per tutto il volo. In poche ore, la pianura cedé il posto a una catena montuosa cosparsa di pini, intervallata da vasti altipiani di tundra. Le cime dei monti più alti erano innevate e immense cascate cospargevano i versanti rocciosi, su cui si trovavano numerosi laghetti e sorgenti. L’aria era sempre più umida e fredda.

Il quetzalcoatlo si librò tra le montagne fino a raggiungere un villaggio di baite di legno, costruito lungo uno strapiombo, in riva a una di quelle maestose cascate. Lo pterosauro atterrò in uno dei grandi spiazzi dove svariati volatili decollavano e si posavano. Una volta giunti a destinazione, Acceber li guidò per le strade del villaggio delle Aquile Rosse. Ormai era il tramonto e, dalla cima del burrone, si poteva ammirare la vista mozzafiato del sole che tramontava su ARK. Le sfumature rossastre rendevano i luoghi più lontani molto più sfumati: sembrava di guardare un dipinto. Acceber chiese dei fratelli Braddock in giro e furono indirizzati verso le terme.

«Siamo arrivati!» annunciò la ragazza.

Le terme non erano proprio un edificio: erano scavate nella montagna e c’era solo una porta che copriva l’ingresso della grotta. Quando entrarono, un addetto arkiano chiese loro che servizio volevano, ma li lasciò passare quando spiegarono che erano solo in visita. Lex osservò l’interno: era una caverna di calcare piena di pozze termali, che gli indigeni avevano levigato e reso più vasta, per poi arredarla. Numerose persone si rilassavano e conversavano nelle sorgenti. Andarono in fondo alla grotta e giunsero davanti alla porta chiusa di una sauna. A sorvegliarla, c’era un manipolo di uomini molto alti e muscolosi; stavano seduti su panche di pietra intagliata o con la schiena appoggiata al muro, si parlavano a bassa voce e osservavano le altre persone.

«Devono essere lì dentro: quella è la loro scorta, conosco alcune delle guardie» disse Acceber.

«D’accordo, ci siamo. Aurora, vuoi venire anche tu?» chiese Lex.

La rossa ci pensò un po’ su, poi annuì, sebbene con uno sguardo timoroso. Allora i due sopravvissuti si fecero avanti, mentre Acceber decise di stare in disparte. Quando Lex e Aurora si avvicinarono, le guardie del corpo si alzarono e si pararono davanti a loro a braccia incrociate.

«Ib tlamev aveclapag, vlutidamjv?» chiesero in arkiano.

Pur non capendo, Lex andò subito al punto:

«Vorremmo parlare coi fratelli Braddock, è importante. Si può?»

Le guardie si scambiarono una rapida occhiata, quindi uno di loro socchiuse la porta del bagno di vapore, si sporse all’interno e fece una domanda a bassa voce. Un secondo dopo, richiuse la porta e disse che avevano il permesso. Però vollero che entrassero disarmati, per sicurezza. Lex, con un sospiro, annuì e consegnò loro l’arco che Drof gli aveva lasciato e la faretra. Le guardie del corpo tornarono ai posti di prima e spalancarono la porta; mentre varcavano la soglia, Lex e Aurora si accorsero una delle guardie stava fissando il sedere di lei con uno sguardo ammaliato. Aurora arrossì di colpo, si avvinghiò subito al braccio di Lex e si strinse a lui, in cerca di un rifugio sicuro. Lex rivolse uno sguardo infastidito al guardone, che chiese scusa e si affrettò a voltarsi dall’altra parte, mentre i suoi compagni lo fulminavano con lo sguardo. Richiusero la porta e furono investiti dal calore e dall’umidità che saliva dai carboni ardenti ammucchiati in un buco al centro della minuscola stanza. L’afa era tale che Lex si sentiva il collo e le orecchie pulsare e aveva la sensazione che i suoi capelli fossero sott’acqua.

Lì dentro c’erano due uomini, ciascuno seduto dal lato opposto all’altro sulle panche a muro. Indossavano solo una fascia attorno all’inguine e avevano un’asciugamano sulle spalle. Il primo, magro e scuro in volto, stava leggendo con aria molto assorta delle lettere scritte su pezzi di pelle conciata: ne aveva due in mano e molte altre ammucchiate ai suoi piedi, i suoi occhi azzurri saettavano freneticamente da una lettera all’altra. L’altro uomo era il suo opposto: grasso, sorridente e dallo sguardo spensierato. Lui, invece che da lettere, era attorniato da belle donne in vestaglie di seta, che si strusciavano su di lui con fare ammiccante e ascoltavano le squallide battute che faceva, fingendosi divertite. Le loro facce, a parte la magrezza dell’uno e la rotondità dell’altro, erano identiche: occhi azzurri, rughe attorno alla bocca e sugli zigomi, capelli neri ben pettinati e dei cortissimi baffetti. Si capiva all’istante che erano fratelli. Quello grasso, appena vide Aurora, strabuzzò gli occhi e spalancò la bocca in un sorrisone ammaliato. Fece una risata bonaria e cacciò via le donne:

«Via, via, mie margherite: è appena entrata una rosa!» esclamò, estasiato.

Aurora distolse subito lo sguardo e la sua stretta sul braccio di Lex si fece molto più potente. Il fratello magro lo apostrofò, senza alzare gli occhi dalle lettere:

«Non farti riconoscere ancora prima delle presentazioni, Bob»

Le donne in vestaglia tirarono un sospiro di sollievo cammuffato da sbuffo di delusione, si alzarono e corsero fuori dal bagno di vapore, passando accanto ai due sopravvissuti senza curarsi di dare spintoni.

«Coraggio, favolosa creatura coronata di rosso fuoco, mettiti comoda accanto a me! Non vorrai stare in piedi con tutto questo caldo, giusto?» ammiccò il grassone.

Aurora, a occhi sbarrati, scosse la testa così forte che la sua chioma ondeggiò come un cespuglio al vento. Lui fece spallucce:

«Be’, peccato: sono grandioso con le donne, soprattutto se hanno le lentiggini!»

Lex capì subito che avrebbe ottenuto informazioni utili solo da quello magro e serio, quindi convinse Aurora a lasciare il suo braccio e gli si parò davanti:

«Voi dovete essere i fratelli Braddock» attaccò bottone.

Finalmente, lo smilzo posò le lettere e lo degnò di uno sguardo:

«Anche gli altri naufraghi cominciano a sapere di noi? Mi fa piacere! Allora il nostro bilancio è in positivo» ghignò.

«Non siamo naufragati, ma sì, non siamo di qui. Sono Lex Gutenberg, e lei è Aurora» si presentò.

«Un Tedesco e un’Italiana? L’ultima combinazione che mi sarei mai aspettato di vedere. Jonas Braddock, piacere mio»

L’altro fratello si intromise:

«E io sono Bob! Io e mio fratello siamo i più potenti petrolieri del Texas. Be’, ora dovremmo diventare quelli di quest’isola, ma ci stiamo lavorando! Comunque, un’Italiana?! Magnifico! È tutta la vita che mi alleno per conquistarne una, sono il meglio del meglio! La modestia guerriera, le forme perfette, il fascino della loro terra… sono tutto tuo, carissima!» esclamò, entusiasta.

A ogni parola che diceva, il disagio sul volto di Aurora diventava più evidente, quindi la ragazza si sforzò di ignorarlo e di evitare a tutti i costi di guardarlo negli occhi, tenendo le mani dietro la schiena per apparire distaccata. Lex lo fissò, ancora più irritato che con la guardia di prima, ma il grassone sembrò non accorgersene nemmeno e continuò risoluto. Jonas, allora, lo rimproverò:

«Finiscila, deficiente! Non vedi che non le importa nulla? Perdonate mio fratello, non credo che sappia di essere un uomo d’affari. Come posso aiutarla, signor… Gutenberg, giusto?»

«Lex va bene»

«Ci diamo del tu? D’accordo. Come posso aiutarti, Lex?»

«Abbiamo saputo che una delle vostre guardie ha trovato una sfera di rame all’Apoteosi e l’ha data a voi. È così, no?»

«Sì, mi ricordo di quel gingillo. Bob l’ha preso e l’ha messo da parte: è a lui che piacciono i gingilli»

«Appartiene a noi e ne abbiamo davvero bisogno, quindi ce la potreste restituire, per favore?»

In risposta, Jonas fece uno sguardo malizioso e gli rivolse un sorrisetto di sfida:

«Ma tu guarda, vi è dunque un’utilità per quella palla arrugginita? Di che si tratta, se non mi trovi indiscreto?»

«È una faccenda complicata, non capiresti. E serve molto più a noi che a voi»

«Ascolta, sento profumo di trattativa, quindi che ne dici se discutiamo per bene in privato, eh? Cominciavo giusto a stancarmi del vapore»

Lex, anche se irritato dalla curiosità scomoda di Jonas, capì che non poteva fare altro che stare al suo gioco e annuì. Il Braddock magro, allora, propose di seguirlo sul ciglio dello strapiombo; specificò che voleva che ci fossero solo loro due. Lex accettò e disse ad Aurora di aspettarlo nelle terme. Bob, con una goffa risata malandrina, le chiese se voleva stare con lui e offrirgli una “panoramica” di quello che aveva da offrire, ma la rossa fu sveltissima a dire che di fuori c’era un’amica che la attendeva e seguì di corsa Lex e Jonas, lasciando Bob da solo e con le pive nel sacco. Lex la sentì sussurrare:

«C’è mancato poco»

Quando raggiunse Acceber e le spiegò che dovevano aspettare Lex, la figlia di Drof le sorrise e le disse di aver pagato una sosta al pediluvio, in caso avessero deciso di fermarsi un po’. Allora Aurora, che non vedeva l’ora di farsi passare dalla mente le ridicole avance di Bob chiacchierando con lei, accettò di buon grado e la seguì ad una delle piccole vasche in cui si immergevano i piedi.

ArkCanon2 by RobertoTurati

Lex seguì Jonas, che si era messo un abito di seta dipinto di nero, fino al parapetto costruito lungo l’orlo dell’immenso burrone. Mentre guardavano il paesaggio ormai notturno di ARK, ripresero il discorso:

«Lo chiederò ancora: a cosa serve quella sfera?» indagò Jonas, coi pugni sui fianchi.

«Te l’ho detto, non capiresti. E comunque, non posso dirlo»

L’espressione di Jonas cambiò; da sorniona e punzecchiante, diventò cinica e minacciosa:

«E io non posso tollerare che un Tedesco senza autorità e senza nome salti fuori dal nulla e pretenda di potermi chiedere una cosa che possiedo come se fosse in condizione di farlo»

Lex non si fece intimidire:

«Ma prima che la trovaste era nostra, quindi abbiamo il diritto di farcela ridare!»

Il ghigno provocatorio tornò sul volto di Jonas:

«E chi ci obbliga a darvela? In fondo, non sapete dove la teniamo. Ma forse, se accetterai di fare alcuni lavori per noi, potrei decidere di rendervela, fare finta che sia solo un’inutile palla di rame e andare avanti per la mia strada»

«Mi stai ricattando?» chiese Lex, stizzito.

«Tu lo chiami “ricatto”, io lo chiamo “scambio di favori”. Non serbarmi rancore: ogni imprenditore cerca sempre di trarre vantaggio da qualunque cosa, come può. Nel tuo caso, ho pensato di sfruttarti per disfarmi di alcuni pesi, usando la sfera come valuta. Equo, non è vero?»

Lex era sul punto di arrabbiarsi sul serio, ma sapeva benissimo che Jonas aveva il coltello dalla parte del manico. Quindi decise di assecondarlo: l’importante era arrivare comunque alla sfera, in un modo o nell’altro.

«Cosa dobbiamo fare?» chiese.

«Oh, sono contento che ci capiamo! Dimmi, avete già sentito che siamo imprenditori, che siamo texani e che siamo petrolieri, no?»

«Sì. Da quale epoca?»

«Ehi, chi ti ha detto di fare domande? Facciamo così: per ogni incarico che svolgete, vi guadagnate un invito nella nostra dimora e una conversazione amichevole dove sarete liberi di scoprire quanto volete su di noi! Ci stai?»

«Bah, che diamine! Va bene, accetto»

«Così mi piaci, Lex! Mio padre diceva sempre che i Tedeschi sanno farsi apprezzare. Comunque sia, ecco il primo favore. Finora, io e mio fratello ci siamo arricchiti facendo i commercianti, ma non mi piace rinunciare al petrolio; un paio di settimane fa, ci è giunta notizia di un giacimento sotterraneo nel deserto a sud dell’isola: non abbiamo tardato ad assumere un manipolo di braccianti e a far scavare loro delle gallerie per la miniera. Vogliamo far scoprire agli indigeni il valore del petrolio, così si evolveranno e potremo diventare ancora più agiati!»

«Dov’è la fregatura?»

«La fregatura è che, un bel giorno, da chissà dove si è intrufolato un lucertolone bastardo che dorme di giorno e dà fastidio ai nostri minatori privati di notte, ha iniziato a ucciderli tutti uno per uno nell’oscurità»

«Un megalosauro»

«Sì, credo che si chiamino così. Stavo per far mettere una taglia sulla bestiaccia, ma ora che sei arrivato tu…»

«Ho capito: mi occuperò del megalosauro. Cos’altro vuoi?»

«Accidenti, quanta fretta! Una cosa per volta, d'accordo?»

Jonas era forse uno degli uomini più irritanti che Lex avesse mai incontrato.

«E va bene»

«Ottimo! Allora non abbiamo nient’altro da dirci. Arrivederci, Lex Gutenberg! Quando avrete finito, ci potrete trovare in una villetta sulla costa a est, un indigeno qualsiasi saprà indicarvela meglio»

Detto questo, Jonas lo salutò con un cenno di due dita e tornò alle terme. Anche Lex, con un sospiro, ci rientrò per prendere Aurora e Acceber. Sembrava che avrebbero trascorso ancora del tempo in quel mondo parallelo, davvero parecchio tempo.

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Capitolo 6
*** Il morso del ragno ***


«Ah, perché non sono sorpreso? Ho sentito parecchi dire che i fratelli Braddock si approfittano di tutti. Vedo che è vero. Mi dispiace che siate finiti in questo giro»

Questo fu il commento di Drof quando tornarono a casa sua, a notte fonda. Aurora si era potuta rilassare un po’ al pediluvio, con Acceber, ma quella era stata comunque una giornata intensissima ed era molto stanca. Lex non sembrava essere da meno, anche se era decisamente più abituato di lei. Non vedeva l’ora di dormire, quindi salutò tutti e andò nella camera di Acceber. Si addormentò quasi subito, nonostante il pensiero del nuovo casino in cui si erano cacciati con la sfera.

«Be’, credo che andrò anch’io» disse Lex, dopo qualche minuto di riflessione in silenzio.

«D’accordo. Io invece vado al lago a tirare su le reti: magari ho preso qualche celacanto. Comunque, vuoi che ti dia una mano col megalosauro nel deserto?» suggerì Drof.

«Saresti disposto?» chiese Lex, sorpreso.

Il padre di Acceber annuì:

«Come ho detto, cominci a starmi davvero simpatico: mi servirebbe più spesso una mano come quella che mi hai dato tu oggi, col tirannosauro. E poi sembra che dobbiate tornare da dove siete venuti il prima possibile, quindi se posso aiutarvi a fare più in fretta, lo faccio volentieri. Così anche Acceber sarà contenta»

«Be', grazie»

«Di niente»

Detto questo, anche Lex andò a riposarsi. Però, diversamente da Aurora, rimase sveglio per un pezzo, con la mente piena di pensieri.

La mattina dopo, quando Aurora si svegliò, vide che Lex si era già alzato da tempo anche questa volta. Mentre si strofinava gli occhi con una mano e sbadigliava coprendosi la bocca con l'altra, uscì dalla stanza e sobbalzò quando trovò Acceber ad aspettarla oltre la soglia, con un ampio sorriso. Tra le mani aveva il suo vestito, rammendato così bene che i rattoppi si notavano solo osservando con attenzione.

«Ecco, ho finito!» esclamò Acceber.

«Oh, grazie! Hai già terminato?»

«Sono stata sveglia tutta la notte per lavorarci!»

Aurora prese l’abito e passò le dita sulle cuciture, poi sollevò lo sguardo e si accorse che, in effetti, l’Arkiana aveva le occhiaie scavate e lo sguardo assonnato.

«Non dovevi! Non ti ho mai detto di fare in fretta»

«Lo so, l’ho fatto perché mi andava. E perché sei una delle ragazze più simpatiche che conosca. Forza, siamo già pronti ad andare: cambiati e raggiungici fuori!»

Aurora arrossì e l’Arkiana, a quel punto, scese le scale e la lasciò sola. Aurora lasciò il vestito preso in prestito appeso nell’armadio e si rimise il suo classico abito con la striscia viola e scese le scale. Prima di uscire, notò delle ciliegie in un portafrutta di legno accanto alla porta e le venne la tentazione di mangiarne un paio. Ci stette a pensare un secondo, poi cedette e ne mangiò due. Sputò i noccioli nella latrina e uscì.

«Ciao» salutò Lex, quando lo raggiunse.

«Ciao. Hai di nuovo il tuo vecchio vestito»

«Acceber è stata così pazza da ricucirlo tutto in una notte. Ora non so come ripagare»

Lex fece una risata sommessa:

«Fidati, non serve: da quel che vedo, averti vicina le basta ad essere al settimo cielo»

I due sopravvissuti andarono alla stalla comune e trovarono padre e figlia ad attenderli, affiancati da due tapejara. Drof, accarezzando il collo di uno dei due pterosauri, spiegò:

«Buone notizie: sono riuscito a convincere due conoscenti a prestarmi questi tapejara, così potremo andare al villaggio dei Piedi Sabbiosi abbastanza in fretta. Una volta lì, noleggeremo bestie e attrezzi per andare a cercare il megalosauro»

Lex annuì:

«Va bene. Allora fate strada!»

Allora, Drof e sua figlia salirono su uno dei tapejara, Lex e Aurora sull’altro. Portarono i volatili ad uno spazio senza ostacoli accanto alla pista dei quezal e i due Arkiani presero il volo, seguiti a ruota dai due visitatori. Iniziava così il viaggio verso la prima missione affidata da Jonas.

Aurora ebbe subito la sensazione che l’aria stesse diventando più calda, perché anche se il cantone desertico era solo una striscia gialla in lontananza, era preceduto da una savana dove i cristalli erano viola. Il paesaggio mutava così improvvisamente da farle quasi effetto. Quando i due tapejara sorvolarono le grandi formazioni rocciose e le distese di sabbia, l’aria diventò soffocante. La rossa era sempre costretta a coprirsi la fronte con una mano per non farsi accecare dal Sole. Aveva l’impressione che le sue braccia scoperte stessero come rosolando. Il villaggio dei Piedi Sabbiosi era un ammasso rossiccio all’orizzonte costruito in prossimità di quella che Drof chiamava l'Oasi Serena, ma si avvicinavano piuttosto rapidamente. Nel mentre, le venne una curiosità e chiese a Lex:

«Quell’Arca da dove vengono i diari di Dahkeya e Raia, Terra Bruciata, somiglia in qualche modo a questo deserto?»

Lex rispose dopo qualche secondo:

«Sì, c’è parecchia somiglianza. Solo che qui non c’è quel senso di sconfinatezza»

La rossa fece un sorrisetto:

«Allora pensi che ci troveremo delle creaturine come Jerry? Vorrei così tanto averne uno anch’io»

Il biondo scosse la testa:

«Non credo, mi spiace. I jerboa sono tra le creature di fantasia ricreate dalle Arche, come il mio grifone. Quando ho parlato con Drof di questo posto, mi è sembrato di capire che su quest’isola vivono solo animali esistiti per davvero, nella preistoria»

«Oh, peccato»

«Ci siamo, loro due stanno scendendo sul villaggio» avvisò lui.

Nel giro di due minuti, atterrarono davanti alla stalla comune del villaggio. Aurora si precipitò subito sotto la tettoia e sospirò di sollievo: finalmente un po’ di ombra. Chiese a Lex se non gli dava fastidio quel caldo torrido e lui, con una risata, rispose semplicemente che ormai ci aveva fatto l’abitudine, tra una visita a Terra Bruciata e l’altra, anche se era sempre meglio avere le giuste riparazioni. Drof si avvicinò e annunciò:

«Eccoci qua. Ora aspettate qua: vado dall’armaiolo e prendo l’equipaggiamento per tutti e quattro»

«No, tutti e tre: io non vengo» lo interruppe Acceber.

Drof era sorpreso:

«Cosa? Non ti sei mai tirata indietro da…»

«No, non è questo: mi sono ricordata solo ora di una cosa che devo sbrigare. Hai presente il rotolo di seta che avevo chiesto ad Alcet la settimana scorsa?»

«Oh, adesso sì. Non puoi pensarci dopo questa caccia? Devi ancora migliorare molto negli scontri nelle caverne e l’anno prossimo dovrai…»

«No, padre, voglio togliermelo subito di torno: così domani potrò portare subito Aurora da Logan!»

«Chi è Logan?» domandò Aurora, perplessa.

Acceber ridacchiò:

«Lo scoprirai, per ora sappi solo che è uno straniero che aiuta i naufraghi ad “ambientarsi” più in fretta su ARK; sai, almeno quelli interessati a cacciare o avere a che fare con le creature selvatiche»

Detto questo, si allontanò, lasciando i due sopravvissuti soli con suo padre. Drof, a quel punto, sospirò e fece cenno di seguirlo. Raggiunsero la piazza del mercato, che si trovava sulla sponda dell'Oasi Serena; la bottega dell’armaiolo fu facilissima da riconoscere, in quanto c’era l’artigiano che batteva del ferro sull’incudine accanto all’uscio.

«Tlabav» lo salutò Drof.

«Tlabav! Evec tjpomec?» chiese l’armaiolo.

Quando rispose, Drof iniziò a tradurre per farsi capire da Lex e Aurora:

«Io e i miei compagni stranieri dobbiamo cacciare un megalosauro in una grotta. Possiamo prendere in prestito tre delle armature migliori che hai?»

Colto alla sprovvista, l’armaiolo sbuffò e si asciugò il sudore dalla fronte, imbarazzato:

«Mi dispiace, ma sono state quasi tutte già prese, tra ieri e oggi. Non so neanche quante torneranno: il becchino sta diventando davvero svogliato a cercare i corpi dei cacciatori caduti, nel deserto»

Aurora si lasciò sfuggire un’espressione colma di disagio, sentendo quell’informazione.

«Capisco. E cosa rimane?»

«Un’armatura in chitina e qualche lancia in ossidiana»

«E va bene, faremo in modo che bastino»

Dunque, l’armaiolo entrò nella sua bottega e ne uscì trasportando un’armatura di corazze di insetto e tre lance con la punta in ossidiana levigata. L’Arkiano pagò al bottegaio i ciottoli del noleggio, quindi disse ad Aurora e Lex di tornare con lui dai tapejara. Mentre camminavano verso la stalla comune, la rossa chiese all’amico, a bassa voce, come mai loro non capivano la lingua degli Arkiani. Lex le rispose subito che era semplice: siccome i loro innesti erano dei traduttori automatici e adesso erano disattivati, trovandosi fuori dal sistema delle Arche, non potevano capire lingue nuove. Per fortuna, gli Akiani erano poliglotti e quindi non era un problema. Come giunsero alle stalle, Drof distribuì le lance, dunque prese la sua balestra dalla sella di uno dei tapejara e chiese chi fosse interessato a prenderla. All’inizio non rispose nessuno dei due, ma alla fine Aurora si fece avanti e disse che era disposta ad usarla. Drof, allora, annuì e gliela passò assieme alla faretra.

«Non so se la usi bene come il tuo amico, ma quei segni che hai sulle braccia mi fanno pensare che tu sappia quantomeno sopravvivere, quindi mi fido»

Aurora chiuse gli occhi e rabbrividì, come tutte le volte che si ritrovava a pensare all’attacco del velociraptor Alfa sulla spiaggia. Senza rispondere, si legò la faretra alla schiena e si appese la balestra a tracolla.

«A proposito, posso guardare meglio questi graffi? Mi sono sembrati strani, quando ti ho fasciato la schiena» aggiunse l’Arkiano.

Anche se perplessa, la ragazza acconsentì e alzò le braccia per mostrare meglio le vecchie ferite:

«Va bene, ma cosa c’è di strano?»

Drof le guardò con attenzione, seguendo le linee di pelle bianca e ruvida da un capo all’altro con lo sguardo e riflettendoci a bassa voce. Lex, vedendo la scena, era quasi stranito, ma non disse niente.

«Tagli precisi, profondi; giovane, molto forte; direzioni diverse, scontro lungo. Sarebbe decisamente un velociraptor, se solo non fosse impossibile» disse infine.

«Cosa? Ma non ti sbagli!» rispose Aurora, confusa.

«No. Nessun velociraptor è mai stato così grosso. Che razza di mostro ti ha attaccata? Un terizinosauro in miniatura?»

«No, era un velociraptor! Un Alfa, come l’hanno chiamato»

«Vuoi dire un capobranco? Solo perché guidano il gruppo, non significa che sono più grandi»

Lex capì il fraintendimento e spiegò:

«D'accordo, è abbastanza chiaro che su quest’Arca non ci siano gli Alfa che intendiamo noi. Te lo dirò meglio più tardi, per ora ti basti sapere che da noi alcuni esemplari sono più grossi e forti e hanno una nebbia rossa intorno al corpo, li chiamiamo Alfa. Fa parte della prova di forza che ti ho accennato»

Drof storse la bocca, perplesso:

«Da dove venite voi, è tutto distorto. Be’, in ogni caso sono certo che questa caccia non sarà difficile per voi due. Possiamo partire?»

I due sopravvissuti annuirono, quindi si tornò in sella e decollarono verso il centro del deserto; ma non prima che, su richiesta di Aurora, prendessero un turbante in tessuto con cui lei potesse ripararsi la testa: infatti, si sentiva come se avesse il capo schiacciato contro una padella d’olio bollente. Lex, con un sorrisetto, pensò che la rossa fosse stata davvero fortunata ad apparire sull’Isola e non su Terra Bruciata.

Finalmente, dopo una decina di minuti, raggiunsero la caverna dove i Braddock avevano mandato i minatori ad estrarre il petrolio: si trovava all'interno della parete della Gola del Morto, un immenso canyon che serpeggiava attraverso l'intero bioma del deserto dividendolo in due, noto per essere pieno di ossa e di predatori in cerca di ripari dal Sole cocente. Come le apparenze suggerivano, i minatori avevano scavato delle gallerie a partire dalla parete esterna del lato settentrionale della gola, poi poi ramificare ed espandere le gallerie sotto di essa. Scesero dagli pterosauri e si avvicinarono all’ingresso: era dell’altezza di una persona, quindi non avrebbero potuto portare delle cavalcature ad aiutarli, anche se ne avessero avute. Accanto alla buia entrata, i lavoratori avevano appeso un cartello che Drof tradusse per i due sopravvissuti:

LAVORI SOSPESI FINCHÉ LA MINIERA NON SARÀ SICURA.

NESSUNO DOVREBBE ENTRARE, A MENO CHE NON SIATE VENUTI A DISINFESTARE.

L’ENTRATA SULL’ALTRO LATO È CHIUSA: L’ABBIAMO FATTA FRANARE PER CHIUDERE DENTRO IL MEGALOSAURO

«Speravano che morisse di fame» constatò Lex.

«Già, ma dubito che abbia funzionato: senz’altro, la loro assenza avrà spinto gli insetti a trasferirsi lì dentro per ottenere un riparo fresco e comodo, quindi avrà cibo in abbondanza»

«Allora dobbiamo uccidere il megalosauro e anche tutti gli insetti che ci sono laggiù?» chiese Aurora, che si rese conto dell’ovvietà della domanda un secondo dopo.

«Guardate il lato positivo: quei due fratelli vi dovranno una ricompensa in più» sdrammatizzò Drof.

Aurora fece un lungo respiro per concentrarsi e prese subito la balestra, preparando una freccia: si sentiva pronta. I tre entrarono nella grotta e trovarono subito uno stretto ascensore di legno mosso da carrucole, che conduceva alla miniera. Si sistemarono nella cabina, Drof tirò la leva e la discesa cominciò. Un avviso diceva che il limite di peso era quello di sei persone, quindi non c’erano problemi per loro. Dopo un paio di minuti, la carrucola li condusse nelle gallerie.

“Eccoci qua” si disse la rossa.

Laggiù, il buio era quasi assoluto: non si vedevano altro che ombre indistinte a qualche passo di distanza, per il resto era tutto nero come una notte nuvolosa. Drof vide una torcia appesa alla parete, quindi la prese e diede fuoco alla paglia che conteneva con l’acciarino e la pietra focaia che si portava sempre appresso. Appena il fuoco illuminò la porzione di grotta tutt’attorno a loro, Aurora ebbe un sobbalzo: appesi al muro, c’erano due bozzoli di seta. La loro sagoma fu facile da distinguere: lì dentro c’erano degli esseri umani. Inoltre, le pareti della galleria che partiva da lì erano tappezzate di ragnatele.

«Araneomorfi. Pòmec!» imprecò Drof.

«Me l’aspettavo: non c’è caverna senza ragni giganti» commentò Lex.

“Oh, fantastico” pensò Aurora.

Il padre di Acceber prese la lancia e sussurrò ai due:

«Per ora, lasciamo perdere il megalosauro: a lui penseremo dopo. Dobbiamo liberarci di questa colonia di araneomorfi, per prima cosa. Parlate a bassa voce e non toccate le tele, o le sentiranno vibrare»

I due annuirono. La galleria proseguiva in lieve discesa e lungo tutto il muro c’erano altre torce spente. Drof le accendeva man mano che proseguivano. Il terreno era cosparso di piccole impronte puntiformi, segno che gli araneomorfi passavano di lì spesso. In quel momento era giorno, quindi erano poco attivi e rifugiati nei buchi più profondi e remoti. Ogni tanto trovavano altre vittime rinchiuse nei bozzoli, che pendevano dal soffitto o dalle pareti come frutti maturi. Aurora, inorridita, si chiedeva come fossero finiti lì, visto che da quel che aveva capito la miniera era stata evacuata del tutto quando i fratelli Braddock avevano messo la taglia sul megalosauro. Forse la risposta giaceva in quelle profondità, da qualche parte; se era così, era certa che non le sarebbe piaciuta. Improvvisamente, vide che Lex e Drof si erano fermati di colpo e, confusa, fece altrettanto. Sempre imitandoli, si congelò come una statua. Ora che erano immobili, li sentì: leggeri e frenetici passi e il ticchettio di un paio di cheliceri. Il rumore sembrava lontano e vicinissimo al contempo. Ascoltando bene, la ragazza si rese conto che veniva da un punto alle sue spalle e, sentendosi raggelare, si voltò di scatto e il suo cuore si fermò per un attimo: di fronte a lei era apparso un ragno grande come un carretto, che sollevava l’addome per lanciarle contro della seta.

«Ah!» esclamò, d’istinto.

Senza nemmeno che se ne accorgesse, il suo dito fece pressione sul grilletto della balestra. Un secondo dopo, la bocca mostruosa dell’araneomorfo fu trapassata dalla freccia; schizzi di poltiglia verdastra imbrattarono i muri. L’aracnide mutilato rimase immobile per un attimo, prima di accasciarsi sulle sue otto zampe. Ancora disorientata, Aurora si girò a fissare Lex e Drof a bocca aperta, non trovando le parole.

«Brava» sussurrò Lex.

«Ehm… grazie»

«Continuiamo, prima che ne arrivino altri» disse Drof, preoccupato.

L’esplorazione della miniera riprese. Ad un certo punto, arrivarono a quella che sembrava a tutti gli effetti una sala di ritrovo dei minatori, probabilmente per le pause: c'erano tavoli e sgabelli, attrezzi, casse con scorte di cibo e altri corpi. Da lì partirono diverse gallerie, ma solo una era opera dei lavoratori: le altre erano molto più recenti, anguste e coperte di ragnatele. Dovevano averle scavate gli araneomorfi, una volta stanziatisi per bene. Drof notò qualcosa su uno dei tavoli: una vecchia lettera, sporca di sangue, scritta in una lingua straniera. La lesse, poi scosse la testa e commentò:

«Bastardi incoscienti»

«Che cos’è?» chiese Lex.

«Il megalosauro era l’ultimo dei loro problemi: questa colonia è qui da molto più tempo e stava già facendo delle vittime. Devono averlo detto ai due fratelli, ma quei geni hanno dato per scontato che se la potessero cavare causando qualche crollo. L’arrivo del megalosauro dev’essere stata la goccia che ha fatto traboccare il vaso per chi lavorava qui. E tutto per del petrolio. Idioti»

Aurora si guardò in giro e domandò:

«Quindi a cosa servono tutte quelle bottiglie? Non sembra roba da bere»

Aveva notato, infatti, diverse partite di bottiglie da cui usciva un fortissimo odore di alcol puro, anche se erano tappate. Il padre di Acceber ne esaminò una, storse il naso per l’odore e affermò:

«Erano già pronti a scacciarli, ma non hanno mai iniziato. Lo faremo noi adesso»

Quindi stappò la bottiglia e, senza dire una parola, andò ad una delle gallerie degli araneomorfi per annaffiarne l’ingresso con tutto il contenuto della bottiglia. A quel punto, gettò la torcia nella galleria. Tutte le ragnatele, per almeno tre metri nel tunnel, presero fuoco. Oltre al crepitio delle fiamme, dalle viscere della terra, iniziarono ad echeggiare gli stridii e i fischi degli araneomorfi che andavano nel panico.

«Forza, aiutatemi a bruciare le altre e andiamo avanti, prima che il fumo ci soffochi» li esortò Drof.

Aurora e Lex non se lo fecero ripetere due volte e gli diedero una mano a completare l’opera. Soddisfatti, presero un’altra fiaccola e ripresero il cammino. Dopo qualche minuto, arrivarono al fulcro di tutto: la galleria finiva e si apriva su un vastissimo spiazzo circolare. Si trovavano a qualche metro di altezza, quindi poterono averne una vista “panoramica”. Al centro della stanza c’era il giacimento di petrolio, circondato da pozzanghere di greggio. Era illuminata dal Sole, grazie ad un grande buco nell’altissimo soffitto. E, in giro, scorrazzava una decina circa di araneomorfi. Sembravano agitati, forse perché erano quelli fuggiti dalla fiamme. Stavano dando l’allarme a tutti i loro simili. Infatti, in quella grotta, c’erano ben cinque, grosse entrate cosparse di tela e il terreno era un mosaico di loro impronte: erano come delle superstrade che convergevano lì.

«Abbiamo trovato il loro crocevia» commentò Lex.

«È un bene o un male?» chiese Aurora.

«Un grande bene: da qui possiamo organizzare per bene la caccia – spiegò Drof – Tuttavia, prima dobbiamo uccidere quelli laggiù»

«Hai un piano?» indagò Lex.

«Sì: improvvisare»

Lasciandoli di sasso, Drof prese la mira con la lancia e la tirò in un lampo, infilzando uno degli aracnidi. A quel punto, saltò nella stanza e si buttò tra la mischia: recuperò l’arma e la usò subito per trafiggere un araneomorfo partito alla carica. Lex fu presto pronto ad aiutarlo e lo raggiunse. Insieme, si aiutarono a coprirsi le spalle a vicenda e colpire i ragni senza che uno dei due rimanesse esposto ai loro attacchi. Aurora, decisa a contribuire, mise in fretta e furia una nuova freccia nella balestra e cominciò a tirare. Eliminò tre ragni al primo colpo, il quarto che prese di mira fu colpito di striscio, ma morì comunque. Alla fine di tutto, i dieci araneomorfi erano stati eliminati con successo.

«Ancora una volta, mi hai colpito: sei riuscito a non farti mordere, né intrappolare mentre mi aiutavi! – disse Drof al biondo – Sicuro che dovete per forza tornare da dove siete venuti? Io e te saremmo un ottimo duo»

Lex ridacchiò:

«Grazie dell’offerta, ma no: a “casa” abbiamo ancora troppe questioni da risolvere. Semmai ripassiamo da voi ogni tanto a salutare»

«E io?» chiese Aurora, dalla sua postazione.

Drof le fece un cenno di approvazione:

«Non contavo molto su di te, ma complimenti per la mira. Cominci a starmi simpatica, Aurora. Non dirlo ad Acceber, o si sentirà invasa»

«Oh! Lusingata!» scherzò lei, con un inchino.

«Forza, vieni qui: è ora di uccidere tutti gli altri in un solo, fiammeggiante colpo»

Dopo essere tornato indietro a prendere la cassa di bottiglie d’alcol, Drof si fece aiutare da Lex e Aurora ad annaffiare gli ingressi di tutti i corridoi usati dai ragni tranne uno. Per quello, in mancanza d’altro, decisero di prendere uno dei barili di petrolio del giacimento accumulati in un angolo e ne rovesciarono il contenuto dentro e fuori la galleria rimasta, quella più grande.

«Dite che quei due se la prenderanno per aver perso un barile d’olio?» chiese Aurora.

«Che importanza ha? Che ne estraggano altro» rispose Drof, con un tono sprezzante.

Poco dopo, la trappola fu pronta. L’Arkiano passò la torcia su tutte le pozze d’alcol, ignorando la macchia di petrolio, e tutti e tre tornarono di corsa sul gradino che era lo sbocco del corriodio da cui erano venuti. Ora non dovevano fare altro che aspettare. Durante l’attesa, infiammarono una freccia e Aurora la caricò nella balestra, per poi cominciare a tenerla puntata verso la galleria più grande. In pochi minuti, tutta la miniera fu attraversata da un coro confuso di fischi e gemiti di ragno, mentre le fiamme divampavano alte e consumavano le ragnatele verso le profondità del sottosuolo, il fumo saliva e usciva dal buco nel soffitto. Poco dopo, finalmente, tutti gli araneomorfi cominciarono a uscire dal buco principale e scivolare sulla macchia di petrolio. Siccome tutte le loro vie erano bloccate, erano stati costretti ad ammassarsi lì e ad emergere uno alla volta.

«Tira!» esclamò Drof, quando decise che ne erano arrivati abbastanza.

Aurora premé il grilletto, la freccia infuocata toccò il combustibile fossile e scatenò l'inferno. Tutto si incendiò: l’olio, le ragnatele, la galleria, gli araneomorfi, tutto quanto. Gli aracnidi cominciarono in men che non si dica a strillare di dolore e diventarono torce viventi. Correvano all’impazzata in giro per la stanza, giravano in cerchio in preda alla confusione; alcuni provavano ad arrampicarsi sui muri, ma il fuoco consumò le loro zampe e precipitarono malamente. Aurora provava emozioni contrastanti: era dispiaciuta per loro da un lato e, dall’altro, provava gusto nel vedere quegli schifosissimi ragni giganti bruciare e morire fra atroci sofferenze. Alla fine, ne contò più o meno una trentina e tutti loro subirono la stessa sorte. Il silenzio piombò di nuovo sulla miniera, a parte il crepitio delle fiamme. Drof aveva ragione: li avevano uccisi tutti in un colpo solo.

«Davvero un buon piano» commentò Lex.

Drof annuì:

«Ora possiamo passare al nostro “vero” obiettivo: il megalosauro. Penso di sapere dove cercarlo: laggiù ci sono delle impronte di teropode, le vedete?» chiese, indicando un’uscita dalla stanza che dapprima non avevano notato.

«D’accordo, allora andiamo?» domandò la ragazza.

«No, noi due andiamo: questa volta, tu resterai qui»

«Perché?»

«Per fare la guardia. Se ci sono degli araneomorfi superstiti che usciranno dalle gallerie, li ucciderai»

«Te la senti, Aurora? Se no ci penso io» si offrì Lex.

«No, per me va bene»

Allora, concordi sul nuovo piano, Drof e Lex scomparvero per seguire la pista del dinosauro notturno. Aurora, allora, andò a sedersi vicino al giacimento di petrolio, con la balestra pronta. Teneva d’occhio le entrate delle gallerie, anche se era difficile non essere disgustata dall’odore degli aracnidi bruciati e dalla vista dei loro corpi anneriti e fetidi, ancora fumanti; ma si sforzò di sopportarlo. Quella missione stava andando bene, dopotutto: forse sarebbero tornati sulla loro Arca molto presto.

FSFSFSFSFSFSFSSSSSSSSSS

Di punto in bianco, i suoi pensieri furono interrotti dalla ripresa del ticchettio di cheliceri. Questa volta, però, era vicinissimo. Appena si voltò di scatto, Aurora sentì un dolore lancinante alla spalla destra e urlò. L’araneomorfo ferito, ma vivo, che la sovrastava sfilò le tenaglie dalla sua carne ed emise un verso furioso. Nell’attimo fugace in cui poté guardarlo, la rossa vide la ferita del ragno e lo riconobbe: era quello che aveva colpito solo di striscio. Non era morto dissanguato e, adesso, aveva approfittato della sua distrazione. La balestra cadde dalle mani della sopravvissuta e, prima che succedesse qualsiasi altra cosa, l’aracnide alzò l’addome e schizzò un mucchio di seta su di lei, inchiodandola al suolo. Quindi, mentre il respiro di Aurora si faceva sempre più affannato e difficoltoso, iniziò a rigirarsela tra le zampe con la manualità di un vasaio e la ricoprì di altri strati di seta, insaccandola del tutto nel bozzolo. Soddisfatto, afferrò la preda e la trascinò verso una delle gallerie.

Scivolando lungo un crinale, Drof e Lex scesero in un livello ancora più basso della caverna. Le impronte erano abbastanza vecchie e sbiadite, segno che il megalosauro non passava lì da giorni. Ad un certo punto, Lex notò dei ciuffi di piume attaccati alle pareti, ne raccolse uno e lo mostrò a Drof:

«Ha lasciato parecchi batuffoli, sfregandosi il fianco» commentò.

«Sì, vuol dire che la tana è vicina»

Era giorno, quindi entrambi non si aspettavano grande difficoltà: il megalosauro era sicuramente aqquattato in un angolo buio, in un sonno così profondo che nemmeno gli odori sconosciuti lo svegliavano. L’avrebbero colto di sopresa e ucciso prima che si alzasse e tutto sarebbe finito in un lampo. Notarono che in quell’area non c’erano ragnatele, dunque gli aranemorfi non invadevano il territorio del rettile o, ribaltando la prospettiva, non l’avevano ancora considerato cibo. Finalmente, qualche minuto dopo, lo trovarono. Ma non fu affatto come avevano immaginato: il megalosauro era morto. Lungo disteso a ridosso del muro, orribilmente mutilato. La sua carcassa era piena di buchi quasi circolari e profondi, che lasciavano intravedere le interiora ormai seccate. Il cranio era orribilmente consumato, come se si fosse sciolto.

«Nessun araneomorfo può aver fatto questo» disse Lex.

«Hai ragione»

Drof si inginocchiò accanto alla carogna e osservò con attenzione le ferite: avevano tutte i bordi frastagliati e sembravano delle ustioni, ma le scaglie non erano state annerite da una fiamma. Inoltre, emettevano un odore pungente, che sapeva di intruglio chimico: un acido. E c’era solo una creatura delle caverne che aveva a che fare con l’acido.

«Attento!» lo avvertì Lex.

Drof sentì un ticchettio di zampe sopra di sé e, capendo tutto, rotolò di lato appena in tempo per salvarsi. Una gigantesca scolopendra si gettò dal soffitto e atterrò sulla carcassa del dinosauro. Ci girò intorno, poi si sollevò come un serpente, per intimidire i due umani con le sue tenaglie: un’artropleura. Il miriapode dal sangue acido aveva eliminato il megalosauro per loro, ma adesso era di lui che si dovevano preoccupare. La situazione era molto delicata: l’artropleura, sentendo le vibrazioni dei loro passi con le antenne, si girava freneticamente a guardare ora Drof, ora Lex, indecisa su chi attaccare per primo. Sapevano entrambi che avrebbe potuto sputare acido su di loro da un momento all’altro. Ora più che mai, Lex rimpianse di non essere protetto da un’armatura antisommossa, così indicate per esplorare le grotte sulle Arche, o di non avere un fucile a pompa. Come facevano gli Arkiani a vivere, così arretrati? Drof, senza fiatare, gli fece cenno di alzare la lancia. Lex, capendo il piano, si preparò a lanciare l’arma. A quel punto, il padre di Acceber gridò:

«Ehi!»

L’artropleura stridé e schizzò il suo sangue corrosivo nella direzione dell’urlo. Piroettando di lato con un’agilità incredibile, il cacciatore evitò il liquido per un soffio. La brodaglia caustica imbrattò le pareti e fece schiuma, sfrigolando. Lex non perse un secondo e tirò la lancia. La punta in ossidiana penetrò il ventre del miriapode, ferendolo gravemente; il manico si dissolse quasi subito a causa del sangue acidissimo. L’artropleura iniziò a contorcersi furiosamente a terra, ad arricciarsi e a rovesciarsi sul dorso, nel panico. Drof, allora, la raggiunse facendo attenzione a non mettere i piedi nelle pozze caustiche e le trafisse la testa. Anche la sua lancia si corrose, ma questa volta il colpo fu fatale: l’artropleura si accasciò a terra, senza vita.

«Ottimo lavoro. Ce l’abbiamo fatta, dunque!» esclamò Drof, contento.

Lex gli fece un cenno di ringraziamento:

«Be’, te l’ho detto: vivo sulle Arche da dieci anni. Qualcosa si impara per forza!»

«Hai imparato tutto quello che serve per essere un cacciatore. Forza, torniamo dalla tua amica»

Quando ritornarono alla grotta del giacimento, entrambi si pietrificarono di colpo e sbarrarono gli occhi: Aurora era sparita. Tutto quello che era rimaneva di lei era la balestra, con una freccia pronta al tiro. Lex, ripensandoci bene, si meravigliò di non aver pensato che lasciarla indietro fosse una cattiva idea. Ma per quella volta gli era capitato un momento di superficialità, o di fretta di finire la missione per ottenere quella dannata sfera e tornare sull’Isola, e questo gli era costato. Sempre con gli occhi sbarrati, Drof cominciò a dare un’occhiata in giro e si accorse di una traccia particolare: un solco appena accennato che partiva dal centro della stanza ed entrava in una delle gallerie bruciate, come se qualcosa di pesante fosse stato trascinato via a peso morto. Inoltre, nel solco c’era anche una scia di sangue di araneomorfo, il che chiariva tutto: la ragazza era stata presa e portata in una tana.

“Sapevo che portare lei non era saggio. Questa è l’ultima volta che fingo di fidarmi di lei per educazione!” si disse, digrignando i denti.  

Chiamò Lex e gli indicò la traccia. Il ragazzo, allora, raccolse la balestra e disse che non c’era un secondo da perdere. I due, quindi, corsero a capofitto nella galleria, dove tutta la ragnatela era diventata fuliggine, e la percorsero più in fretta che poterono. Dopo aver scivolato giù per una discesa, si ritrovarono in una piccola stanza, anch’essa illuminata da un raggio di Sole. Ci trovarono quello che speravano e temevano di vedere: un araneomorfo ferito che sorvegliava una persona avvolta nel bozzolo, circondata da grappoli di uova arancio, incollate alle pareti. Erano arrivati nella caverna in cui gli aracnidi si riproducevano.

«Aurora!» esclamò Lex.

L’araneomorfo, vedendo i due intrusi nella grotta delle uova, si mise subito in posizione d’attacco e stridé per avvertirli, ma Lex sparò subito la freccia, uccidendolo sul colpo. Subito dopo, corse al bozzolo e squarciò la seta con le mani. Sospirò di sollievo: Aurora era viva e conscia, ma era sotto shock; la sua spalla destra era gonfia e cianotica. Al centro dell’infiammazione c’erano i piccoli buchi delle tenaglie del ragno. La gola era altrettanto irritata e la ragazza faceva seriamente fatica a respirare: ansimava freneticamente, a bocca spalancata, e non riusciva a dire una parola. Liberarla dal bozzolo fu come tirarla fuori dall’acqua, a giudicare dal modo in cui prese ad inspirare più a fondo che poteva, nonostante la difficoltà nel provarci.

«Che succede?» chiese Drof, che si stava accertando che l’araneomorfo fosse morto.

«Sembra che sia allergica al loro morso. Dannazione!»

«Fammi vedere. Oh! Decisamente!»

Mentre parlavano, Aurora faceva saettare gli occhi tra loro due, con aria disorientata e spaventata. Drof fece un profondo sospiro, poi affermò:

«Queste uova devono essere tutto quello che resta della colonia: se ce ne fossero altri, sarebbero già venuti di corsa a proteggerle da noi. Le brucerò, tu portala fuori»

«Bene. Spero che questo shock le passi in fretta»

«Ho un’idea: da queste parti c’è una guaritrice piuttosto brava, che si occupa soprattutto di veleni e infezioni. Dovrebbe essere in grado di aiutarla»

Lex, fiducioso, annuì:

«Non vedo perché non dovremmo andarci. Allora ti aspettiamo fuori»

QUELLA SERA, SUL TARDI…

Aurora era migliorata, quando raggiunsero la casa isolata nel deserto della guaritrice: adesso riusciva a parlare, anche se ogni tanto era costretta a fermarsi per riprendere fiato. Una mano non le avrebbe fatto comunque male. Lex fu molto stupito, a scoprire chi abitasse lì: Drof, mentre volavano sui tapejara, gli aveva anticipato che era una coppia di stranieri da due luoghi diversi. Tuttavia, non si sarebbe mai aspettato di trovare nientemeno che John Dahkeya e Raia in persona, i due personaggi nativi di Terra Bruciata di cui aveva i diari. Fu una bella sorpresa incontrare le loro versioni alternative: lo faceva sorridere il fatto che in quell'universo parallelo ci fossero dettagli simili, ma diversi da quelli della loro dimensione d’origine.

Ora, al chiaro di luna, Lex era seduto sul portico della casa, in compagnia dell’ex bandito Apache e di alcuni dei vari animali velenosi domati che si aggiravano per la zona, poiché la sacerdotessa egizia li usava per creare gli antidoti. Drof non c’era più, era tornato al villaggio per ricongiungersi con Acceber. Lex e Dahkeya avevano trascorso il pomeriggio intrattenendo un’interessante conversazione sui rispettivi passati. Il pellerossa aveva lo sguardo di un uomo che aveva finalmente trovato la pace dopo una vita di fughe e lotte; stando seduto su un titanoboa arrotolato su se stesso e tenendosi le mani sulle ginocchia, rispondeva molto volentieri alle domande del biondo. Raccontò del suo passato in Arizona con la banda del fuorilegge Doc Russo, di come era finito su ARK, dell’inizio di una nuova vita lì dopo aver conosciuto Raia e dei tempi in cui avevano vissuto nella versione terrestre di Nosti. Lex trovò interessante il fatto che anche su quell'ARK, la città fondata dalla sacerdotessa egizia fosse stata distrutta in seguito ad una reazione degli obelischi. Dunque venne a sapere che i tre obelischi erano in realtà presenti su quell'isola, erano semplicemente diversi: simili ad effettivi obelischi egiziani, in ossidiana e dalle punte di cristallo dai tre colori tipici.

Fino a che punto differivano dagli obelischi delle Arche? Appena avesse trovato del tempo libero, avrebbe dovuto assolutamente fare un indagine, se lo ripromise: la faccenda si faceva interessante. Alla fine, Dahkeya chiese al ragazzo quale fosse la storia di lui e Aurora. Il Tedesco, visto che non c’era nulla di male, rivelò tutto: delle Arche artificiali, della sua personale avventura in dieci anni di prova e dei Difensori, passando poi alla sfera e a come erano arrivati su quell’ARK terrestre.

«Be’, anche se non ricordi chi eri prima della tua nuova vita, posso decisamente dire che hai vissuto appieno questi dieci anni. Io non sono qui da così tanto, ma puoi stare certo che ne ho passate parecchie»

«Vorresti passarne altre ancora?»

«Affatto: sono felice così, con Raia, e voglio che le cose rimangano come sono adesso»

«Mi sembra giusto»

«E spero onestamente che riusciate a tornare a “casa”: qualunque sia il mistero della vostra isola, sembra che sia importante che lo sveliate»

«Oh, è molto importante, non ho dubbi. C’è solo da mettere insieme gli indizi nel modo giusto, ma una cosa per volta: prima dobbiamo tornare là»

«Non ti preoccupare: Raia ha le mani d’oro coi malati. La tua amica si riprenderà in fretta»

Lex annuì e guardò per un attimo il cielo stellato, mentre una megalania della coppia strisciava pigramente verso il portico ed entrava lentamente dalla porta aperta. Nel frattempo, poco lontano dall'abitazione, il giovane giganotosauro della coppia, ancora grande quanto un allosauro, dormiva raccolto su se stesso sulla sabbia. Dopo una brevissima riflessione, sorridendo all’idea, Lex decise di rivelare a Dahkeya delle versioni “alternative” di lui e di Raia, su Terra Bruciata. John fu molto sorpreso, ma gli credette. In fondo, una volta scoperto il mondo arkiano, uno non si stupisce più di nulla.

«Questa è proprio bella. Dimmi, come è andata perduta l'altra Nosti?»

«È stata inghiottita dalle sabbie, letteralmente»

«Sembra terribile. Immagino che Raia abbia sofferto terribilmente anche nel tuo mondo»

«Invece alla vostra cos'è successo? Come hanno fatto gli obelischi ad innescare la distruzione?»

«È venuto Kong, il gorilla gigante. Ha distrutto tutto e massacrato tutti, senza pietà. A volte, se chiudo gli occhi, rivedo alcuni dei miei fidati uomini schiacciati o gettati via»

«Non me l'aspettavo, ma potevo prevedere qualcosa di simile: mi hanno detto che ha come un ruolo da guardiano. Indagherò»

«Attento a non provocare il re di ARK: è molto diffidente coi grossi cambiamenti sull'isola. E di Raia cosa mi dici? Anche nel tuo mondo ci siamo conosciuti e amati?»

«Far arrabbiare quello scimmione non è tra i miei piani. Comunque sì, tu e Raia vi siete incontrati. Stava nascendo qualcosa tra voi, mentre la aiutavi a proteggere Nosti dalle minacce, ma…»

«Ma?»

«Non hai avuto la stessa fortuna che hai avuto qui: sei morto»

Dahkeya annuì in silenzio, pensoso. Mantenendo la calma, chiese com’era accaduto, scommettendo che erano state le mantidi spadaccine. Stando in tema, aggiunse che adesso si rendeva utile ai raccoglitori dei Piedi Sabbiosi eliminando tutte quelle che decidevano di attaccare gli insediamenti umani, così univa il profitto alla solidarietà.

«No, con loro hai regolato i conti con una bomba. Sai cos’è una viverna?»

«Mai sentito questa parola in vita mia»

Lex, allora, spiegò in breve di che si trattava e conlcluse la storia. John annuì, comprensivo:

«Ucciso da enormi lucertole alate? Fatico a immaginarlo. Almeno la mia morte è servita a qualcosa?»

«Certo: le hai distratte per permettere a Raia di fuggire; grazie a te, ha vissuto molto a lungo»

«Capisco. Be', allora che la mia vita felice con lei sia il premio per l’altro me, anche se non potrà mai saperlo. Grazie per questa storia, Lex: l’ho apprezzata. Non vedo l’ora di condividerla con Raia: si commuoverà senza dubbio» ridacchiò.

«Di niente, è stato un piacere»

In quel momento, sentirono dei passi e Aurora uscì, accompagnata dalla sacerdotessa da Luxor:

«Fatto, le ho messo degli antinfiammatori e un dilatante per la gola. In ogni caso, sta guarendo in fretta: credo che sarà come nuova entro domani!» annunciò Raia.

«Grazie ancora per l’aiuto» disse la rossa, sorridente.

«Dovere. La vostra storia è davvero intrigante, sapete? Parlare con Aurora è stato divertente! Ah, scusa se il nostro ragno ti ha spaventata, quando l’hai visto: ti assicuro che non è cattivo»

«Non fa niente, sul serio! Non l’avevo notato, tutto qui» rassicurò la ragazza.

«Spero per voi che tutto si concluda per il meglio, sia qui, sia nella vostra terra»

I due sopravvissuti si scambiarono un’occhiata compiaciuta e ringraziarono con un cenno. A quel punto, dopo un ultimo saluto, i due salirono sul tapejara e si diressero al villaggio, per ricongiungersi con Drof e Acceber. Quando Raia si sedé accanto al compagno pellerossa, questi le disse che aveva appena sentito un bel racconto dal finale agrodolce su di loro grazie a Lex e si accinse a rivelarglielo, mentre le stelle brillavano nel firmamento.

Mentre volavano, Aurora rimase in silenzio per un po’, poi disse:

«Non riesco a credere che abbiamo incontrato quei due!»

«Lo so, è stato insolito» rispose Lex.

«Scusa se mi sono lasciata fregare da quel ragno: non l’avevo visto»

«Tutta acqua passata, non ti preoccupare: può capitare a chiunque. Che ne dici se ci prendiamo una pausa, prima di tornare da quei due? Direi che è tutto riposo guadagnato»

«Puoi davvero contarci! E poi Acceber ha detto di dovermi portare da questo Logan, quindi tanto meglio»

«Ecco, allora approfittiamone. Intanto, proverò a fare altre domande a Drof: mi è venuta voglia di scoprire ancora di più su quest’isola, magari sulle rovine sparse in giro»

«Non lasciarmi fuori, eh? Sei qui grazie a me!»

«Certo, certo»

Non si dissero altro, quindi Aurora si godé il panorama: anche di notte, era davvero impressionante. Fece un sorriso e sospirò, rilassata: nonostante tutti quegli incidenti, credeva davvero che fosse valsa la pena di finire in quel mondo parallelo per sbaglio. C’era veramente un lato positivo nell'essersi persi su ARK.

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Capitolo 7
*** Una serata spassosa ***


Quando ormai l’aria del deserto di notte era diventata gelida, atterrarono di fronte alla stalla comune e scesero dal tapejara, lasciando che raggiungesse da solo il suo simile. Furono accolti subito da Acceber, che li stava aspettando lì. La figlia di Drof li salutò giovialmente con una stretta di mano e chiese subito di sentire com’era andata alla miniera, confessando di essersi preoccupata da morire quando su padre le aveva detto che Aurora era andata in shock per il morso di un araneomorfo. I due, tranquillissimi, le raccontarono tutto mentre lei li accompagnava alla taverna dei Piedi Sabbiosi, dove aveva già prenotato una camera per loro due; la rossa le assicurò che ormai i sintomi del morso stavano svanendo e che l’indomani sarebbe stata benissimo. Acceber sorrise, dicendosi molto contenta, ma Aurora si accorse di qualcosa: mentre parlava con la ragazza arkiana della sua “disavventura”, questa lasciò trapelare uno sguardo colmo di senso di colpa che, però, svanì quasi subito. Era la seconda volta che glielo vedeva fare, ma perché? Stava per chiederglielo, ma non fece in tempo: erano arrivati all’uscio della taverna e Acceber aveva comunque cambiato argomento. Le disse che l’avrebbe chiamata la mattina dopo per portarla da Logan.

«Ancora non mi hai detto bene cosa fa questo Logan, perché non sei più chiara?» indagò.

«Perché non voglio rovinarti la sopresa! Ora riposa, domani vedrai. Ah, e Lex?»

«Che c’è?» chiese il ragazzo.

«Mio padre ha incontrato i suoi migliori amici per la prima volta da tanti anni, poco fa. Mancavano moltissimo anche a me, a dirla tutta; mi piacerebbe farteli conoscere, ti va?»

Lex rimase interdetto per un secondo, ma poi sollevò le spalle e rispose:

«Certo, perché no? In fondo, io e Aurora ci siamo accordati per rilassarci prima di tornare dai Braddock, per cui…»

«Ottimo! Allora andate di sopra, forza! La vostra camera è la numero tre. Notte!»

Detto questo, diede una chiave a Lex e, dopo un ultimo saluto, uscì dalla taverna quasi vuota, a parte qualche gruppetto di clienti che ancora svuotavano dei boccali. I due sopravvissuti si scambiarono un’occhiata confusa. Dopodiché, salirono le scale e trovarono subito la camera tre. Quando entrarono e vi diedero un’occhiata, Aurora tirò un sospiro di sollievo: c’erano due letti ma, per fortuna, erano ai lati opposti della stanza. Se ci fosse stato un letto matrimoniale, non avrebbe chiuso occhio per l’imbarazzo e Lex, molto probabilmente, avrebbe preferito dormire ancora sul pavimento. Volendosi godere il panorama anche questa volta, la rossa spostò il suo letto sotto la finestra e ci si sedé a gambe incrociate. Continuò a guardare fuori anche dopo che Lex spense le candele nella camera. Da lì, poteva ammirare il villaggio illuminato e poi la distesa di dune e rocce oltre i limiti dell’oasi: molto rilassante, a suo modo. Quando decise di essersi rilassata abbastanza, si distese e si addormentò lentamente, ancora un poco provata dall’esperienza con l’araneomorfo. Sperava di non sognare di essere ancora avvolta nel bozzolo, anche se ne era piuttosto certa.

L’INDOMANI…

Quella mattina Logan Riago, l’autoproclamato allenatore di naufraghi che volevano sopravvivere su ARK, si svegliò di pessimo umore, come tutti i giorni. Aprendo gli occhi nel suo monolocale di terracotta, nel mezzo della vasta distesa di dune nella parte meridionale del deserto nota come "il Mare Dorato", si vestì e barcollò verso l’uscita, ancora reduce della sbronza della notte prima. Quando uscì, il suo compsognato cominciò a gironzolargli intorno alle caviglie pigolando, per chiedergli un pezzettino di carne. Il rozzo e sudicio uomo barbuto dal Montana gli rivolse uno sguardo stizzito, sbuffò e prese un pezzo di carne fresca da un tagliere accanto al focolare. Il compsognato, contentissimo, cominciò a saltellare e a mordere l’aria, in attesa del boccone. Logan allungò il braccio di stacco, ma fece solo finta di lanciare la carne. Il piccolo dinosauro ci cascò e partì di corsa, andando a sbattere contro il muro.

«Ha! Idiota» ghignò Logan, prima di uscire.

Facendo fatica a non cadere per il capogiro, raggiunse la grande zona recintata piena di ostacoli e attrezzi dove le sue bestie, quasi tutte vecchie e malandate e mandate “in pensione” dai loro padroni, aiutavano i cadetti ad allenarsi. Fu salutato dalla sua socia arkiana Acissej, una donna della sua età e coi denti gialli e storti, a cui Logan rispose con un grugnito e la solita domanda del mattino:

«Allora, ci sono nuovi volontari?»

Lei annuì:

«Allora, i quattro della settimana scorsa si sono arresi, il grassone è in arrivo coi suoi guardaspalle e poi c’è una nuova arrivata!»

Logan si sfregò le mani, soddisfatto:

«Bene bene, finalmente una boccata d’aria fresca! Chi è? Adesione piena o di prova?»

«Di prova, l’ha iscritta una ragazza arkiana per lei. Si chiama Aurora, ormai dovrebbe essere qui…»

«Bene, bene, allora va’ a preparare le bestie per i nuovi arrivati, io sto qui ad aspettarla»

Acissej obbedì e andò ad allestire il necessario nell’area d’addestramento, mentre lui si accomodò con le spalle poggiate ad un ulivo morto sul ciglio del sentiero che conduceva alla sua base. Rimase lì, a sudare come un cammello e a masticare foglie di tabacco, finché non vide una ragazza coi capelli rossi e ricci accompagnata da un’Arkiana. Quest’ultima, quando lo vide, lo indicò e mandò l’amica a raggiungerlo, augurandole buona fortuna. Quando la rossa si avvicinò, Logan si staccò dal tronco dell’ulivo e si mise nella posa più autoritaria che riuscì a fare.

«Sei Aurora?» domandò.

«Sì. La mia amica Acceber mi ha detto che puoi insegnarmi qualcosa di nuovo per sopravvivere, così sono venuta qui»

Logan iniziò la sua parte preferita dell’accoglienza, ovvero il teatrino nonnista per spaventare e umiliare i nuovi arrivati:

«Tanto per cominciare, credo che ti chiamerò “cespuglio rosso”»

La rossa sembrò stranita:

«E perché?»

«Perché Aurora non si può sentire, fa schifo! Chi te l’ha scelto? Tua madre o tuo padre?»

«Non lo so»

«Sei fortunata, cespuglio rosso, perché te ne vergogneresti a vita! E adesso passiamo alla tua giornata di prova qui, prima che mi venga voglia di farti notare altri dettagli funesti su di te»

La ragazza rimase a bocca aperta, disorientata da quelle mancanze di rispetto gratuite, ma per il momento le sembrò più conveniente non lamentarsi troppo e seguì il suo nuovo, sbandato istruttore senza fiatare.

Dopo averle fornito una protezione adatta, ovvero una rudimentale tuta di cuoio rinforzata con placche di ferro che non sembrava per niente sicura, Aurora fu condotta alla sua prima prova.

«Lezione numero uno – esordì Logan – Per sopravvivere in mezzo a carnivori che ti vogliono spolpare come si spolpa un’anatra all’arancia, devi saper correre tanto e in fretta»

«Logico» commentò Aurora.

«Ehi, secondo te ho chiesto il tuo parere, cespuglio rosso? E poi i segni sulle tue braccia provano che tu non hai afferrato questo concetto neanche per sbaglio, quindi vergognati per dieci anni della tua miserabile vita per avermi interrotto!» sbraitò Logan.

Aurora alzò gli occhi al cielo, seccata. Logan non incuteva il minimo timore quando sbottava, era solo irritante e patetico. Il suo esercizio, ad ogni modo, consisteva in correre lungo una pista piena di rocce, avanzando a zig-zag tra i macigni, fino ad una bandiera in fondo entro un minuto. Aurora, prendendo la cosa molto sul serio, si concentrò e si preparò con la rincorsa. Quando Logan le diede il via, partì all’istante. Quando inchiodava per girare attorno alle rocce, i suoi piedi scivolavano sulla sabbia e non era facile deviare: un paio di volte, sbatté un fianco contro i massi e perse il fiato, rallentando molto. Ma, in un modo o nell’altro, riuscì a raggiungere il rettilineo finale quando mancavano pochi secondi; tuttavia, di punto in bianco, dalla sabbia di fronte al suo traguardo schizzò fuori un mammifero tutto zanne e saliva che la placcò, la atterrò e cominciò a scrollarla con violenza afferrandole il bavero. Quando finì, Aurora era sul punto di avere un infarto e la testa le girava come una trottola. Appena riuscì a riprendersi, guardò la creatura che l’aveva stesa: una purlovia, che le stava ancora sbavando in faccia. Quando si alzò, Logan la raggiunse con una faccia soddisfattissima:

«Ahahaha! Povera illusa! Credevi che fosse solo una corsetta e via? Le bestie non te la renderanno mai facile su ARK, cespuglio rosso! E hanno ragione: come fai a durare un giorno, con quella chioma color carota che strilla “sono qui, mangiatemi” da mezzo miglio? Hahahahaha!»

Aurora, ancora sconvolta, lo fissò incredula e furiosa al contempo.

«Lezione numero due – annunciò Logan, un paio d’ore dopo – Quando combatti con tanti piccoli avversari, devi spaccare i culi più di loro, o loro masticheranno il tuo a morsi! E direi che con te avrebbero davvero tanta polpa da staccare: davvero niente male!»

«Ehi!» esclamò lei, quando capì che l’istruttore le stava fissando il fondoschiena.

«Ed è per questo che ora ti presento i miei figli adottivi!»

Logan fischiò e, davanti a loro, si radunò un fitto gruppo di troodonti con le piume ingrigite dall’età e sdentati. Quando Aurora, con un certo ribrezzo, chiese come si erano ritrovati così, le fu raccontato che le loro zanne erano state strappate per evitare che narcotizzassero i cadetti e che ora mangiavano solo carne frollata.

«Cespuglio rosso, ti presento Dente, Dentino, Artiglio, Mezzartiglio, Occhidolci, Occhiomorto e Braccino corto! Non farti strane idee, non hanno questi nomi per nessun motivo: è che non avevo voglia di inventarmi altro»

«D’accordo, allora cosa dovrei fare?»

«Prenderli a calci senza che ti sopraffacciano. Facile, no? Così ti sciogli anche le gambe!»

Aurora non ebbe un secondo per prepararsi, che i troodonti partirono subito all’“attacco”. La circondarono e cominciarono a mordicchiarle le gambe, a saltarle sui fianchi e a pizzicarla con gli artigli. Lei cominciò a scalciare del tutto a caso, riuscendo talvolta a colpirne qualcuno. Alla fine, però, uno dei piccoli teropodi si piazzò alle sue spalle, le saltò in testa e cominciò a tirarle i capelli con la bocca. Colta alla sprovvista dal dolore, Aurora smise di tirare calci per provare invano a liberarsi del piccolo impiastro, dimenticando gli altri.

“Guarda, Braccino corto le sta conciando i capelli peggio che ad una piñata! Quasi mi dispiace, ma chi se ne sbatte, è uno spasso!” pensò Logan, più divertito che mai.

Alla fine, Aurora perse l’equilibrio e cadde. I troodonti, avendo finito il loro lavoro, si dispersero. Logan batté le mani e dichiarò che la rossa aveva appena riscritto il significato di “fare pena”. La pazienza di Aurora si stava rapidamente assottigliando.

«Lezione numero quattro: quando non puoi farcela corpo a corpo, devi lottare a distanza e in fretta!» esclamò Logan, nel tardo pomeriggio.

«E quindi cosa devo fare?» chiese Aurora, aspettandosi il peggio.

Arrivò Acissej, che le porse un arco ricurvo e una faretra con dieci frecce. Poi l’Arkiana fischiò e si avvicinò un tirannosauro molto anziano, zoppicante e pieno di cicatrici che facevano provare pena per lui, a cui erano stati appesi diversi bersagli. Acissej spiegò alla rossa che aveva dieci secondi per centrare i bersagli dieci volte, mentre il teropode camminava avanti e indietro per la zona d’addestramento. Mentre Logan andava a prendere Aurora si mise la faretra a tracolla e incoccò la prima freccia; Acissej salì in groppa al tirannosauro, per regolare la sua andatura durante la prova.

«Pronta a fare pena? Via!» esclamò Logan, rovesciando la clessidra.

Quello che successe, questa volta, lo lasciò a bocca aperta: Aurora usò l’arco impeccabilmente e, in metà del limite di tempo, colpì ognuno dei bersagli appesi al vecchio tirannosauro praticamente al centro. Quando finì, Aurora si voltò a fissarlo con sguardo fiero e sorrise, compiaciuta nel vedere di averlo lasciato di sasso. Logan, però, si ricompose subito e ricominciò il siparietto:

«Fossi in te ci penserei due volte, prima di sentirmi ‘sto cazzo! Credi davvero che saper giocare al tirassegno voglia dire saper sopravvivere all’isola? Spiacente, cespuglio rosso, ma non hai capito una beneamata mazza! Adesso…»

«Adesso va’ a prenderti una pausa: te la sei meritata!» si intromise Acissej, con un sorriso gentile.

Logan sbarrò gli occhi e diventò rosso come un pomodoro:

«Acissej! Ma che diamine?! Così il mio ruolo qui non ha più nessun signficato! Ma non hai imparato niente?»

«Chi è l’Arkiano tra noi due? Chi è quello che sa davvero come si insegna la sopravvivenza tra noi due?»

«Be’… ma... io… ma vaffanculo! Hai un quarto d’ora, cespuglio rosso»

Aurora mormorò un muto “grazie” col labiale ad Acissej, che le strizzò l’occhio, e andò a sedersi accanto ad una grossa agave per rilassarsi. Siccome cominciava a sudare tanto per il caldo torrido, prese la borraccia che Acceber le aveva dato a inizio giornata e bevve un sorso. Nel frattempo, osservava le attività della zona di allenamento e le sventure di tutti i naufraghi iscritti, che dovevano sopportare la goffa ed irritante sceneggiata di Logan come lei. Ad un certo punto, però, una voce familiare che non si sarebbe mai aspettata di sentire lì la fece sobbalzare:

«La rosa italiana! Cosa ci fa una creatura così graziosa in questa gabbia di matti?»

Aurora si voltò a occhi sbarrati e vide nientemento che Bob Braddock, ancora intenzionato più che mai a farle il filo. Il fratello di Jonas andò a sedersi accanto a lei, facendola subito sudare il doppio e diventare rossa.

«Mi chiamo Aurora» mormorò, imbarazzata.

«Aurora? Che nome poetico! Dall’orizzonte notturno sorge la tua splendida immagine a rischiarare tutto: una favola! Qualsiasi pettine sarebbe orgoglioso di solcare quegli incantevoli riccioli!»

La rossa cominciò a pentirsi di essersi presa quella pausa. Iniziò ad agitare freneticamente le gambe, in attesa che Logan venisse a richiamarla.

«Ma che ci fai qui?» chiese, iniziando a temere che Bob la pedinasse.

«Che ci faccio qui? Imparo a familiarizzare con l’isola! È da un anno che mi alleno con questa testa di cazzo! Ammettilo, trovi anche tu che lo sia, vero? Tutti i tuoi compagni di corso sono con te»

«In effetti, è proprio vero» annuì lei.

A quel punto, Bob attaccò su un argomento ben più scottante:

«Comunque, vorrei chiederti scusa per come ti ho parlato alle terme: è stato a dir poco oltraggioso investirti con tanta passione al nostro primo incontro!»

«Sì» rispose Aurora, che non era così discorde su quel punto.

«Ho assolutamente intenzione di rimediare con un secondo inizio!»

«Cosa?»

Aurora cominciava seriamente a preoccuparsi, ora.

«Come saprai, carissima… posso chiamarti “carissima”?»

«Ehm…»

«No, troppo espansivo, per ora basti Aurora! Allora, tu e il Tedesco siete già invitati a casa nostra quando ci sarà da sentire cos’ha in mente mio fratello dopo la vostra prima commissione, così ho avuto un’idea che non è brillante, è semplicemente geniale: ti inviterò nel nostro terrazzo per farti vedere la mia collezione di statue di legno!»

Aurora non sapeva più come reagire, sapeva solo che il suo imbarazzo stava salendo in fretta.

«E a questo punto ti chiederai di chi sono quelle statue. La risposta è ovvia, rarissima bellezza fulva: raffigurano la miglior vista di i tuoi occhi potrebbero mai godere: me!»

Le orecchie di Aurora cominciarono a pulsare come se avesse la febbre:

«Ah… ehm… be’…»

«Oh, vedo che sei così entusiasta da non trovare aggettivi per descrivere la tua gioia! È normale, te lo posso garantire. Resterai ancora più senza fiato quando le vedrai!»

«Ecco…»

«Non serve chiederti se accetterai ma, nel dubbio, ci stai? Eh? Dico bene?»

Aurora andò nel panico, essendo costretta a rispondere qualcosa. Iniziò una serie di brevi sillabe rantolate e intervallate da frenetici schiarimenti di gola spontanei, visto che non aveva idea di cosa dire. Alla fine, quasi senza accorgersene, biascicò un fievole “sì?”, con tanto di tono interrogativo. Bob era al settimo cielo e batté le mani con un sorriso a trentadue denti:

«Ah! Lo sapevo! Eh, in fondo sei un’Italiana, hai un talento naturale nel fiutare la vera arte! Credimi, con me sperimenterai piaceri che mai prima d’ora...»

Per grandissimo sollievo di Aurora, a quel punto Bob fu interrotto dall’arrivo di Logan:

«Ma tu guarda! Hai trovato una nuova distrazione, barile di birra?» ridacchiò, con le mani sui fianchi.

«Barile di birra?» chiese Aurora.

Bob sbuffò, umiliato:

«È il nomignolo che ha scelto per me, ne ha uno per tutti. Tu sei il cespuglio rosso, vero? Prima lo sentivo gridare con più foga del solito»

Aurora, imbarazzata, chinò la testa e si coprì il viso con le mani, la sua testa iniziò a somigliare davvero ad un cespuglio rosso fuoco.

«Sì, lei è il cespuglio rosso – rispose Logan per lei – E ha già dimostrato di avere cento volte il tuo talento, trippone! Vergogna! Lei è qui da una giornata e ha già saputo fare quello che con te ho dovuto faticare un anno per fartelo imparare! Fai pena!»

Aurora, piuttosto confusa da quell’improvvisa “ammirazione”, cominciò a far passare lo sguardo da Logan a Bob a bocca aperta. Il petroliere fece la faccia di uno schiavo che viene insultato e rimproverato a gratis dal suo padrone e rimase in silenzio per tutta la sequela di offese, che andò avanti per un altro paio di minuti. Alla fine, Logan gli ordinò di alzarsi e di andare a fare il suo solito riscaldamento di inizio sessione: farsi legare ad un gallimimo e correre intorno allo steccato per dieci minuti tenendo il suo passo. Bob sospirò desolato e iniziò ad allontanarsi come un condannato che va al patibolo, andando verso Acissej, che lo aspettava col gallimimo già pronto.

«Cos’era quella scena?» domandò Aurora, sospettosa.

Logan le strizzò l’occhio, le fece cenno di avvicinarsi e, quando lei obbedì con una certa titubanza, le bisbigliò:

«Vedi, il fatto è che per me fate tutti pietà, però solo fino ad un certo punto. Ma lui è davvero su un altro livello! Appena arriva lui, voialtri sembrate già degli Arkiani con la pelle del colore sbagliato! E allora come faccio io a non riadattare il mio modo di parlare di voi, eh?»

Aurora sospirò e scosse la testa, non sapendo più cosa pensare di quel cialtrone.

«Lezione numero cinque, l’ultima!» annunciò Logan, al tramonto.

“Finalmente!” pensò Aurora.

Acissej si avvicinò portando con sé un velociraptor. Come tutti gli animali di quel posto, quell’esemplare era malandato, zoppicante, pieno di cicatrici e le sue piume erano così rade che si capiva molto poco che ce le aveva. Gli artigli erano stati smussati.

«Adesso il velociraptor, ovvero Harland Sanders…»

«Harland Sanders? Perché?» lo interruppe Aurora, con un sorriso.

«È il mio idolo. E non ti permettere di interrompermi! Cosa sono queste scalate delle gerarchie, eh?» sbottò l’allenatore.

Aurora alzò le mani:

«Scusa, ero solo curiosa»

«E sai quanto me ne frega se sei curiosa?!»

«Logan, chiudi la bocca: sei imbarazzante» si intromise Acissej.

«Ancora mi fai perdere significato?! Bah… dicevo, il generale Sanders correrà verso di te, poi farà un bel salto tipico dei velociraptor per atterrarti. Tu devi scivolargli sotto per schivare, raccogliere un sasso da terra e usarlo per colpirlo. E allora avremo finito! Capito?»

«Sì, ho capito»

Dunque, mentre Acissej metteva il velociraptor in posizione a diversi metri da lei, Aurora iniziò a concentrarsi e a tenersi pronta. Prese la rincorsa mentre Logan faceva il conto alla rovescia e Acissej le rivolgeva uno sguardo incoraggiante; poi Logan fischiò. Il generale Sanders emise un verso fischiante e partì alla carica, quindi la sopravvissuta iniziò a corrergli incontro. Appena vide il teropode piegarsi sulle zampe posteriori per spiccare il balzo, si lasciò cadere e cominciò la scivolata sulla sabbia. Andò esattamente come sperava: il velociraptor le passò sopra, mancandola, e atterrò alle sue spalle. A quel punto, Aurora si alzò in fretta, prese uno dei sassi lì attorno e lo lanciò, colpendo il generale Sanders al fianco. Il velociraptor emise un ticchettio con la gola, guardandosi in giro.

«Ottimo lavoro!» esclamò Acissej.

Logan rimase esterrefatto per alcuni secondi, indeciso se essere onesto o continuare la sua solita recita. Alla fine, però, decise di lasciarsi andare:

«Sì, sei stata brava!»

«Oh, grazie!» esclamò Aurora, fiera.

Il velociraptor, a quel punto le si avvicinò e iniziò a strusciare il muso contro di lei, in cerca di carezze. Aurora rimase interdetta per un secondo, ma poi iniziò ad accontentarlo e il generale Sanders fu molto contento, tanto che la tenne lì ancora qualche minuto.

«Sanders è simpatico!» commentò.

«Esatto – rispose Acissej – Scelgo lui apposta quelli più socievoli, così stiamo certi che durante gli esercizi fingano soltanto di attaccare e non decidano di fare sul serio»

«Mi sembra giusto»

A quel punto, Logan le si avvicinò e batté le mani:

«Cespuglio rosso, la tua giornata di prova è finita. Ora spetta a te decidere se continuare o andartene per la tua strada e morire come una povera stronza, presto o tardi. Adesso vai, che mi sono già stancato di vederti! È venuto qualcuno a prenderti, no?»

«Sì, la mia amica Acceber»

«Bene, allora via da qui, che ho tutti gli altri da allenare»

Una volta che Logan fu lontano, Acissej chiese scusa ad Aurora per il trattamento che aveva ricevuto e le augurò di passare del buon tempo sull’isola, oltre che di sopravvivere, ovviamente. Aurora, allora, non esitò oltre e levò le tende da quella gabbia di matti, come l’aveva chiamata Bob.

Quando tornò al punto dove lei e Acceber si erano lasciate, trovò la figlia di Drof ad attenderla.

«Allora? Com’è stato?» chiese, piena di aspettativa.

Aurora, imbarazzata, ci rifletté un po’ su mordendosi le labbra:

«Uhm… alti e bassi» rispose alla fine.

«Però! Conoscendo la reputazione di Logan, avevo paura che ci fossero solo bassi! Sono contenta per te»

Aurora, colta alla sprovvista da quel commento direttissimo, trattenne a stento una risata sommessa. Acceber le batté una mano sulla spalla:

«Forza, adesso torniamo da mio padre: stamattina gli ha presentato i suoi migliori amici e l’hanno già preso in simpatia. Sarebbe fantastico se li incontrassi anche tu! Facciamo una serata nella prateria, parliamo un po’ di tutto, mangiamo... ti va?»

«Be’, mi sembra un’idea carina! Perché no?»

«Benissimo, allora andiamo! Ti staranno simpaticissimi, vedrai: sono fantastici!» le garantì Acceber, entusiasta.

Quando il Sole era quasi tramontato del tutto, l’argentavis con cui Acceber era venuta a riprendere Aurora atterrò nel mezzo delle Piane Gioiose. La rossa, dall’alto, vide la carcassa di un giganotosauro appena ucciso, circondato da un numeroso contingente di bestie sellate. Poco lontano, c’era un fuoco da campo attorno al quale erano appostate sette persone, tra cui Drof. Guardando bene la zona, Aurora notò che Lex era fuori dal gruppo, accanto ad uno strano pterosauro che non aveva ancora visto sull’Isola. L’argentavis cominciò a girare in cerchio sopra l’accampamento per scendere man mano, poi atterrò in mezzo alle creature, vicino a dove si trovava Lex.

«Quante creature» commentò Aurora, ammirata.

«Sì, i loro contingenti messi insieme fanno sempre un figurone!» rispose Acceber.

Suo padre, vedendola da lontano, salutò la figlia con la mano. Sembrava insolitamente allegro e la ragazza si spiegò perché quando vide che aveva una damigiana di limoncello; Acceber sorrise: era passato tanto tempo dall’ultima volta che suo padre aveva incontrato gli amici di una vita, era giusto che ora si godesse al meglio quella serata speciale. Intanto, Lex raggiunse Aurora e la salutò:

«Ehi! Allora, com’è andata?» chiese.

Aurora sbarrò gli occhi e sbuffò, esasperata:

«Uff, non farmici pensare! È stato tremendo»

Lex rise:

«Ah, sì? Ti credo sulla parola»

A quel punto, Aurora si ricordò del nuovo pterosauro e si avvicinò per osservarlo meglio. Aveva una corta e soffice peluria sulla schiena, non aveva nessuna decorazione sulla nuca e possedeva un becco bizzarro: lungo e spesso, con un rigonfiamento sulla punta, e ne sporgevano parecchi denti aguzzi. Sulla sella era montata una sorta di balista più piccola del solito.

«Ehi, cos’è questa creatura? Non mi sembra di averla vista sulla nostra Isola» indagò, incuriosita.

La creatura volante la guardò negli occhi e gracchiò, vedendo l’umana così concentrata a fissarla. Lex andò ad accarezzarle il collo.

«Perché da noi non c’è, non è tra le specie ricreate dal sistema – spiegò – Oggi ho scoperto due specie uniche di questo posto, e questo è uno di loro. È un tropeognato»

«Interessante! E l’altra specie?»

«Sono i deinonici. Simili ai velociraptor, ma molto più piumati e capaci di scalare le pareti. Oggi mi hanno fatto cavalcare questo tropeognato durante la caccia al giganotosauro, ho potuto provare questa balista da sella… è fantastica! – Aurora poteva percepire l’entusiasmo crescente nella sua voce – È tutto il pomeriggio che provo ad immaginare come potrei adattarla sulle Arche: potrei convertirla in una mitragliatrice! Sarebbe portentoso!»

Aurora non poté fare a meno di sorridere, vedendolo così contento. Furono interrotti da Acceber, che li invitò a raggiungere tutti gli altri e unirsi alla festicciola…

«Ben arrivata, Aurora! Giusto in tempo per i primi giri!» esclamò Drof.

«Ciao» salutò lei, con un sorriso timido.

«Permettimi di presentarti tutti come si deve» disse Acceber.

Tenendola per mano, la portò davanti a ciascun membro della compagnia, che prontamente stringeva la mano ad Aurora e le sorrideva cordialmente. Il primo che le fu presentato fu un uomo, molto alto e muscoloso, calvo, con gli occhi marroni, dei folti baffi degli impressionanti sfregi che gli attraversavano il volto in obliquo, solcando la bocca.

«Lui è Elehcim – disse Acceber – Il più forte e coraggioso del gruppo, o forse solo il più pazzo: si rifiuta sempre di combattere con delle cavalcature, cerca di sconfiggere le bestie solo con le armi e l’astuzia!»

«Però! Piacere, io sono Aurora» sorrise la rossa.

Elehcim ricambiò il sorriso e le strinse la mano, ma non disse nulla, mettendola un po’ a disagio: non sapeva se doveva aspettare che le dicesse qualcosa o se lui si aspettava che prendesse la parola.

«Non può parlare – spiegò Drof – Un velociraptor gli ha strappato la lingua con una zampata mentre lo affrontava con un coltello»

Il pelato rispose con un verso gutturale e aprì la bocca, per mostrarle la sua lingua mozzata a metà. Aurora fu attraversata da un brivido e, d’istinto, gli disse che le dispiaceva. Acceber la portò del secondo amico, che aveva una chioma riccioluta, gli occhi verdi; anzi, un occhio verde, il destro: l’altro era stato cavato ed era coperto da una benda da pirata. Nonostante ciò, aveva un’espressione molto allegra anche le poche volte che non sorrideva e trasmetteva una gran simpatia.

«Questo è Odraccir, un comico nato!» esclamò Acceber.

«Piacere di conoscerti, Aurora! Hai di fronte a te lo spirito guida di tutto il gruppo!» rise Odraccir.

«Non ne dubito!» rispose la rossa.

Odraccir, con fare ammiccante, si rivolse a Lex, che aveva preso posto accanto a Drof e aveva già lasciato spazio libero per l’amica:

«Ehi Lex, la tua compagna è persino più carina di quello che avevo immaginato! È una meraviglia! Nella vostra “ARK artificiale” sono tutte così belle?»

Aurora diventò paonazza all’istante e Acceber la confortò con delle pacche sulla spalla.

«Eeeeeeh, eccolo lì! Ci sta già provando, il furbo!» risero tutti gli altri, quasi in coro.

«Be’, non mi posso lamentare» ridacchiò il biondo.

Odraccir gli strizzò l’occhio:

«Tienitela ben stretta, Lex: in passato sono scoppiate rivolte per donne meno belle! O anche solo spedizioni punitive»

A sentire quell’avvertimento, la rossa ebbe una forte tentazione di precipitarsi accanto a Lex e stringersi forte a lui, pervasa dall’imbarazzo. Ma, siccome era ancora lì in piedi, cercò di resistere e stare al gioco, anche se si sentiva la fronte imperlata di sudore e sapeva benissimo di star facendo un sorriso beota per il disagio. Per evitare ulteriori battute, Acceber continuò col giro di presentazioni; ora toccò ad Odraode, che era il più timido e impacciato del gruppo: dal fisico gracile, un po’ basso, secco come un chiodo, con la pelle smunta per la media della carnagione bronzea degli Arkiani e un’espressione di insicurezza che quasi le faceva tenerezza. Aveva gli occhi azzurri e i capelli corti e unticci.

«Ciao, io sono Odraode!» salutò, a bassa voce.

Aurora, un po’ intenerita, gli rivolse un sorriso caldo:

«Piacere! Scusa la domanda, ma stai bene? Non sembri del tutto in forma»

«Oh, non è niente! È che sono allergico alla carne e ci sono anche altri cibi che digerisco a fatica: con tutta la vita passata a mangiare poco e male, mi sono conciato così. Però me la cavo, stanne certa!» rispose lui.

«Oh, capirai! Certe volte stargli dietro è tremendo: questo filo d’erba è sempre malato!» sbuffò Odraccir.

«Ma come si fa a perdere la pazienza con lui? Ormai ci vogliamo tutti troppo bene, ehehe!» aggiunse Drof, dopo un sorso di limoncello.

Dopo fu il turno di Oilnats che, a dire di Drof, era lo stratega di caccia del gruppo. Era un tipo alto, coi capelli e la barba rasati a zero, gli occhi azzurri e uno sguardo vigile; la sua guancia destra era segnata dalla cicatrice di un morso. La prima cosa che fece mentre stringeva la mano ad Aurora fu squadrarla con grande attenzione da capo a piedi, più e più volte, con un’espressione a cavallo tra il perplesso e il sospettoso. Aurora non capiva perché lo facesse e cominciò a temere di aver detto o fatto qualcosa di strano poco prima, anche se non le risultava.

«Piacere! Toglimi una curiosità» disse Oilnats.

«Cosa?»

«Vai sempre in giro solo con quell’abito? Non metti una tuta mimetica o una corazza di chitina quando vai nelle zone selvagge?»

«Ecco, ieri avevo un’armatura di chitina, ma per il resto…»

«Scusa, ma perché dovrebbe importare?» intervenne Lex, un po’ irritato.

«Certo che importa! L’equipaggiamento è importante: quella striscia viola fa contrasto con quasi tutti i paesaggi dell’arcipelago, allerta subito gli animali anche da lontano e…»

«Oilnats, ti ha appena conosciuto, non tormentarla! Ti sei già lasciato andare abbastanza con Lex, per oggi» lo apostrofò Drof.

«Ma… vabbè, non fa niente, scusami. Comunque, non farci caso se ti sembro disgustato da tutto quello che tocco: mi sento a disagio con le cose sporche e a toccare la gente» rabbrividì.

«Ah, va bene» rispose Aurora, confusa.

«Che eufemismo! Tu sei proprio paranoico! Ehi, ricordi quando io e Ynneb ti abbiamo rovesciato quel secchio di foglie secche dal tetto di casa tua? Hai passato tre ore a lavarti nel fiume!» rise di gusto Odraccir.

Oilnats rabbrividì ancora:

«Aaaaah, finitela di ricordarmelo!»

«Va bene, mentre lui si fa passare lo schifo di dosso, lei è Aisapsa!» si intromise Acceber.

Aisapsa era una donna davvero molto bella e ancora più attraente. Osservandola bene, in qualche modo, ad Aurora ricordò in parte Giselle: quella pelle scura, gli occhi azzurri luminosissimi, l’abbondanza del seno e, più di ogni altra cosa, quello sguardo ammiccante e tentatore; per il resto, era simile ma comunque diversa dalla piratessa: il viso era meno spigoloso e più tondo, i capelli erano più ricci e la muscolatura era leggermente più sviluppata, ma lo si notava comunque bene.

«Ciao, carissima!»

«Ciao!» rispose Aurora, arrossendo un po’.

«Quei segni sulle tue braccia sono un bel trofeo! Il tuo amico ci ha detto qualcosa di questi “Alfa” che ci sono dalle vostre parti. È stata dura?»

«Sì, ho rischiato grosso quella volta»

«Ti dirò, quasi te li invidio! Sarebbero un’aggiunta grandiosa alla mia collezione»

«In che senso, scusa?»

Aisapsa si arrotolò le maniche e sollevò i lembi della veste e delle calzature, rivelando innumerevoli cicatrici di attacchi animali. Le spiegò di essere una domatrice di grande esperienza e che la maggior parte delle bestie del loro contingente di gruppo erano fornite da lei, anche se spesso c’erano stati degli “incidenti di percorso”, come li definì Aisapsa. Allora Odraccir, con una risata complice, aggiunse che per lui e gli altri (tranne Drof) era sempre uno spasso farsi raccontare la storia di una delle cicatrici di Aisapsa, le notti in cui uno di loro passava a letto con lei.

«Non penso che avesse bisogno di quel dettaglio» si intromise Drof.

Lex scosse la testa sorridendo, nel vedere l’ennesima ondata di imbarazzo della rossa.

«Oh, andiamo! Non è mica un tabù!» replicò Aisapsa, disinvolta.

«E ora dirò di più, perché non si finisce mai di imbarazzare Drof: noi lo chiamiamo “il casto”, perché da quando la sua bella Yram non c’è più si rifiuta di avere qualsiasi rapporto con Aisapsa! Non sa proprio cosa si perde da anni» aggiunse Odraccir, divertito.

«Ah…» mormorò Aurora, non sapendo che dire.

Drof si allertò subito e mostrò una sorta di vampata d’ira malcelata:

«Smettila! Non dirlo davanti a mia figlia, è vergognoso!»

«Rilassati, padre! Non mi offendo!» lo tranquillizzò Acceber, tranquillissima.

Infine, toccò ad Ynneb, che Acceber presentò come il costruttore di trappole.

«Ehilà. Senti, dopo la serata ti andrebbe di comprare delle damigiane di limoncello o grappa? Le faccio tutte io, in casa mia! A te farò un prezzo speciale perché sei amica di Drof» ammiccò lui.

«Grazie, ma non credo che mi serva a granché» rispose timidamente la rossa.

«Oh, peccato»

Era il primo Arkiano grasso che Aurora avesse visto da quando aveva scoperto quella dimensione parallela. A dire il vero, non lo era del tutto: gli arti erano atletici come quelli degli altri, però la pancia era rotonda e piena di ciccia e il volto era allargato da un doppio mento. Aveva il naso grosso e aquilino e gli occhi grigi, i capelli erano corti e a spazzola. Aveva un’aria molto rilassata.

«Bene, finalmente hai conosciuto tutti! Possiamo cominciare?» esortò Acceber, felicissima.

«Ben detto. Porgete i boccali!» esclamò Ynneb, mentre Aurora si sedeva accanto a Lex, dove si sentì molto più sicura.

CIRCA UN’ORA DOPO…

Passarono la prima parte della serata raccontandosi storie e vuotando un boccale di limoncello fatto in casa da Ynneb dopo l’altro. Lui serviva la bevanda a tutti da una cassa di damigiane che aveva portato apposta per l’occasione, mentre Oilnats e Odraode facevano a turno per gettare un pezzo di legno nel falò, e descriveva nei minimi dettagli la procedura per fare il limoncello ideale, pieno d’orgoglio. Aurora ne bevve un boccale per cortesia, ma si fermò lì: non le andava più di tanto. Lei non partecipava molto alla conversazione, preferiva ascoltare gli altri o scambiare qualche parola con Acceber, quando la figlia di Drof la interpellava a bassa voce.

«Allora, ti sta piacendo?» le chiese la giovine arkiana, entusiasta.

«Altroché! Sono simpaticissimi!» sorrise la sopravvissuta.

Tutti parlavano principalmente delle loro avventure private per farle scoprire agli altri e la rossa trovò ciascuna delle loro storie alquanto avvincente. Elehcim, ovviamente, non faceva altro che mostrare le sue cicatrici più recenti e a raccontarne la storia coi gesti; Odraccir, che capiva il linguaggio dei segni, faceva da interprete. Aurora dovette ammettere che le storie del muto erano tre volte più spaventose delle altre; ma l’argomento di punta, ovviamente, erano le domande a Lex sulla loro dimensione originaria e le sue somiglianze e differenze con l’ARK terrestre.

«Allora, a che servono gli obelischi che ci sono sulle vostre ARK finte?» chiese Ynneb.

Lex svuotò il boccale e cominciò a spiegare con calma:

«Principalmente, servono ad accedere alle arene dei tre guardiani, delle creature di fantasia molto potenti che servono a mettere alla prova i sopravvissuti. Ma li si può anche usare per viaggiare tra le Arche, che è quello che faccio di solito quando non ho impegni urgenti»

Ynneb si sbatté una mano sul ginocchio:

«Cazzo, adesso vi invidio; farebbero comodo a me, per andare da casa mia alla bottega del vinaio senza sudare come un deodonte!»

Odraccir scoppiò a ridere:

«Eh, certo! E dopo chi ti convincerà a fare qualcos’altro? A momenti, il vinaio diventerà la tua scusa per non seguirci più a caccia! Allora quel doppio mento diventerà triplo»

«Zitto, occhio vispo!»

In quel momento, un deinonico si avvicinò al gruppo e si sedette accanto ad Aisapsa, strusciando il muso sul suo fianco per chiedere del cibo. La domatrice, allora, prese un pezzo di carne essiccata da un sacchetto che teneva appeso alla cintura e lasciò che lo mangiasse. Il deinonico, allora, emise un ticchettio gutturale per ringraziarla e le accarezzò il viso con la punta del muso. Aurora si fece subito attenta, vedendo di persona la seconda specie unica dell’ARK terrestre. Era come Lex le aveva detto: simile ad un velociraptor, ma con un foltissimo strato di piume. Chiese se poteva accarezzarlo e le fu risposto che poteva farlo tranquillamente. Le piume del deinonico erano così morbide che la invogliavano sempre di più ad passarci la mano, e il rettile era così contento che le mordicchiava il polso per trattenerla quando faceva per smettere: quasi quasi, le veniva la tentazione di chiedere a Lex se potevano cercarne uno tutto per lei e domarlo.

«Sembra che gli piaccia!» commentò il biondo.

«Lo credo anch’io!» esclamò lei.

«È così soddisfacente vedere degli stranieri che se ne intendono al volo delle nostre creature! Ho sempre pensato che fosse un’utopia» commentò Oilnats.

Poco dopo, dalla pentola di pietra levigata che avevano appeso sopra il falò cominciò ad uscire un aroma a dir poco delizioso e Drof, che adesso parlava con una strana cantilena per via del limoncello, annunciò che era finalmente pronto. Aurora aveva adocchiato quella pentola da quando aveva preso posto, ma siccome c’era un coperchio non riusciva a capire cosa ci fosse lì dentro; si era promessa di chiederlo un paio di volte, però si era sempre distratta ascoltando la chiacchierata e finiva per scordarselo. Adesso stava per scoprirlo; Elehcim, che era quello che aveva cucinato, andò a prendere una decina di piatti in terracotta dalle borse da sella di uno stegosauro e li riempì del contenuto della pentola. Aurora, come gli altri, ricevé un’invitante porzione caldissima di una sorta di spezzatino, accompagnato da pezzetti tritati di ortaggi verdi e rossi e immerso in un sugo marroncino. Il piatto aveva un profumo di spezie. Quando tutti ebbero preso una forchetta di legno, si misero in bocca il primo boccone e fecero i complimenti al cuoco, prima di rimpinzarsi col resto:

«Lo fai troppo di rado, Elehcim: è sempre ottimo!» esclamò Drof.

Acceber, vedendo che Aurora non l’aveva ancora assaggiato, le chiese cosa stava aspettando. La rossa lasciò che Lex iniziasse a mangiarlo e gli domandò come fosse. Lui le rispose che era buonissimo, ma si raccomandò di stare pronta, perché era molto forte. Allora Aurora, incuriosita, infilzò un pezzo di carne, lo intinse per bene nel sugo e lo mangiò, per poi diventare paonazza e sentirsi la bocca in fiamme: era la cosa più piccante che avesse mai mangiato, le sembrava quasi un’arma chimica. Ingoiò con tutte le sue forze e si asciugò il sudore dalla fronte, mentre tutti gli altri ridevano di gusto a vederla così traumatizzata dalla piccantezza.

«Argh! Che cos’è? Brucia!» esclamò, quando riuscì a riprendersi.

«Si chiama “orgoglio di Arulac” – spiegò Odraccir – Pezzetti bolliti di ovis con verdure miste, conditi con peperoncino e rafano in parti uguali, una perla della cucina dei Teschi Ridenti. Così piccante che l’hanno dedicato al dio dell’estate!»

«Direi che è azzeccatissimo! Aaaaaaah!»

«Sapete, anche Diana aveva la lingua sensibilissima! Mi chiedo cosa mangino nel suo futuro pieno di questo TEK» rise Acceber.

Dopo il primo “impatto”, Aurora si ritrovò completamente anestetizzata dal gusto piccante, quindi riuscì a finire la sua porzione senza problemi. A ripensarci, non le sembrò poi così male, a parte il fatto che dovette ingollare caraffe di latte di mammut per tutto il resto della serata; per fortuna, Elehcim ne aveva portato un’intera scorta, in caso qualcuno non avesse retto l’orgoglio di Arulac.

PIÙ TARDI…

«E così siamo rimasti intrappolati su quello scoglio per tre giorni, prima che qualcuno venisse a spaventare il tusoteutide e a salvarci!» finirono di raccontare Oilnats e Odraccir.

«Cavolo! Che ne è stato delle carbonemis?» chiese Lex.

«Be’, per fortuna avevamo un sacco di lattuga dal villaggio degli Squali Dipinti»

«Non vi siete annoiati, isolati lì per tre giorni?» domandò Aurora, curiosa.

Oilnats scrollò le spalle:

«Non troppo: a tempo perso, sono uno scultore. Ho usato sassi e legnetti per comporre alcune opere»

«E io non mi annoio a prescindere» si vantò Odraccir.

Proseguirono con gli aneddoti ancora un po’, dopodiché Odraode suggerì di far cantare la Pjplabab id Pulà in onore dei due ospiti e tutti accolsero la proposta con entusiasmo. Aurora e Lex chiesero ad Acceber di cosa parlassero e la ragazza, dopo aver sorseggiato altro limoncello, spiegò che significava “Ballata di ARK” e che era la canzone più antica della cultura arkiana che, secondo alcuni, era cantata già dalla prima generazione di nativi, dopo lo sbarco sull’isola avvenuto sessantamila anni prima. Il motivo per cui la cantava Aisapsa era che, per tradizione, la voce che intonava i versi doveva essere quella di una donna, mentre qualcun altro suonava una chitarra. Appena il biondo sentì nominare lo strumento e vide Ynneb andare a prenderlo, gli si illuminarono gli occhi e chiese agli amici di Drof se poteva essere lui a suonarlo. Garantì che era bravo e che sapeva adattare gli accordi ad una canzone, per sventare ogni dubbio. Aurora non poté fare a meno di sorridere, vedendo tutto l’entusiasmo dell’amico. Tutti accettarono la proposta con un certo entusiasmo; Ynneb provò a protestare, non contento per vedersi il ruolo di suonatore soffiato, ma Elehcim lo zittì con una pacca che avrebbe steso un triceratopo e Odraccir ribatté che, tanto, quella chitarra nelle sue mani era come regalare le perle ai deodonti. Così, Lex imbracciò la chitarra, ascoltò le prime parole che Aisapsa intonò per familiarizzare col ritmo e cominciò a pizzicare le corde, dimostrando che diceva sul serio: ci sapeva proprio fare. La domatrice aveva una voce ancora più ammaliante, cantando. Ad Aurora rimasero impressi i primi versi, ma il resto le sfuggì:

«Ev ded ev ev em ab pèmef mef etag, ev ded ev ev edev vag tjzaz ebev»

«Acceber, cosa significa?» sussurrò, per non disturbare.

«Oh, è bellissimo: “io non so se ho la forza per questo, io non so se sono qui tutto solo”» tradusse lei.

Poi arrivò il ritornello, che dal suono le piacque moltissimo:

«Edev eblatag tluc am tjpjzeb edeb! Edev lav em, tjzaz eb evjveb ic tòtovideblat! E plut, eb ev, topibibi! Topibibi!»

«“Sono quello che ha lottato bene; sono il re, tutte le bestiemi obbediscono; è ora, lo so, viviamo, viviamo”» la doppiò Acceber.

«Non male: suona incoraggiante» commentò Aurora.

«Infatti lo scopo è quello!»

Quando Aisapsa finì, gli altri le fecero un piccolo applauso, quindi ne dedicarono un secondo più accorato al “nuovo” chitarrista, a cui si unì anche Aurora.

«Allora, che ne dite di chiudere la serata con la mia specialità di famiglia?» domandò Aisapsa, bevendo per bagnarsi la gola.

«Volentieri» rispose Drof.

Quindi lei andò da un kentrosauro, prese un sacchetto dalle sue sacche da sella e tornò. Fece il giro del falò, distribuendo a tutti dei dolci fatti in casa per la serata: dei biscotti al miele. Quando Lex prese il suo, sorrise e rivelò che anche lui li faceva nel tempo libero, col miele delle sue api vasilisse.

«Oh, davvero?» sorrise Aisapsa, mentre si risedeva.

Aurora mangiò il suo in silenzio e le dispiacque non poter fare il bis: era buonissimo, dolce al punto giusto e con un retrogusto che riconobbe subito: zenzero. Il contrasto non era affatto male. Intanto, le venne quasi da ridere, ad immaginarsi la scena di Lex che faceva biscotti: la faceva sorridere in automatico. Il Tedesco, intanto, stava sommergendo Aisapsa di domandea riguardo, cosa che le suscitava un sorriso ancora più ampio:

 «Tu come li fai? Io uso il latte di ovis e faccio la farina con la lungherba. Ah, e poi ci metto i vari aromi, com’è ovvio, tra cui
 la cannella»

«Lungherba? Cos’è?» domandò la donna.

«Oh, sarebbe il mais. Scusa per l’incomprensione, ma sulle nostre Arche il Sistema ha dato dei nomi specifici alle colture; io ormai sono abituato a quelli»

«Ah, ora capisco! No, nella mia famiglia si usa la farina di grano. Il latte può essere benissimo di ovis, però molti preferiscono quello di fiomia: ha un sapore meno forte, meno invadente. Anzi, i Lupi Bianchi usano quello di mammut come alternativa»

«Questo è vero, ma preferisco quello di ovis»

«E per gli aromi, ti svelo un segreto: sono l’unica che usa lo zenzero. Tutti gli altri apicoltori usano cannella e vaniglia. Mi piace essere unica!»

«E direi che il risultato è una bella soddisfazione» si intromise Aurora.

«Grazie, carissima!»

«Oh, guardatela! Com’è contenta di aver trovato un vero intenditore!» rise Odraccir.

«Acceber, hai ancora in mente di fartelo insegnare? Anche tu hai un grande potenziale in cucina! Tutto merito di tua madre» sospirò Drof, nostalgico.

«Ma certo, padre! Vado all’allevamento di Aisapsa sempre più spesso, non l’hai notato?» ammiccò sua figlia.

La serata era finita da un pezzo, ormai. Il falò era stato spento e tutti erano andati a dormire nei sacchi a pelo, così come gli animali del contingente si erano distesi, a parte quelli lasciati di guardia. Aurora e Lex, seduti in mezzo ad un gruppo di grossi erbivori, si stavano preparando a riposare a loro volta, dopo essersi fatti prestare due sacchi a pelo aggiuntivi.

«Che simpatici, eh?» sorrise la rossa, guardando le stelle; delle vere stelle.

«Molto! Ho capito da prima della caccia che erano brave persone» rispose Lex.

«Che dire, a grandi linee ci sta andando bene, per essere persi in un altro mondo»

«Ma certo: in tutte le Arche che ho visitato c’è sempre stato un modo per cavarsela tranquillamente. Basta solo sapere come muoversi nell’ambiente»

«Uhm…»

«Comunque, domani torneremo da quei due per la sfera» affermò il biondo, deciso.

«Credo che ci daranno almeno un altro incarico, da quello che mi ha detto Bob» avvertì lei.

«Lo sospettavo: quel Jonas è dannatamente furbo. Be’, se tireranno troppo la corda, gli farò capire che non gli conviene spezzarla»

«È il minimo, dopo quello che ho passato con l’araneomorfo!» esclamò Aurora.

E così, dopo un rapido saluto, ognuno dei due si sdraiò a qualche metro di distanza dall’altra e, del tutto rilassati dallo spasso di quella notte, si addormentarono.

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Capitolo 8
*** La scultura del folle ***


Aurora si svegliò sotto un cielo mezzo coperto. La prima cosa di cui si rese conto fu che aveva già fame, come se non avesse mai fatto la mangiata della notte prima. Strofinandosi gli occhi, si mise seduta e coprì uno sbadiglio con una mano. Quando uscì dal suo sacco a pelo, si stirò e si guardò intorno, ancora assonnata. Le creature del contingente misto degli amici di Drof guardavano tranquillamente i dintorni o mangiavano qualcosa. Aurora rimase di sasso: come aveva fatto a dormire così tanto?

“Immagino che quell’arma chimica di un piatto sia bella pesante” si disse.

Un parasauro le passò accanto mentre si dirigeva verso un cespuglio e si fermò per annusarle la testa prima di proseguire. Aurora sorrise e gli accarezzò il collo e il fianco, prima che l’erbivoro proseguisse. Sentì delle voci e si voltò: vide Lex che aiutava gli amici di Drof a sistemare alcune selle, mentre conversavano. Allora si avvicinò e il suo compagno, quando la vide, la salutò:

«Buongiorno, dormito bene?» le chiese, con un sorriso scherzoso.

La rossa levò gli occhi al cielo e stette allo scherzo, fingendosi indispettita:

«Perché non mi hai svegliata, piuttosto?»

Lex fece spallucce:

«Acceber stava per farlo, ma a me dispiaceva svegliarti, vedendoti così, rilassata e le ho detto di aspettare»

Aurora scosse la testa:

«Sì, certo. Allora, adesso torniamo da quei due?»

Le rispose Drof, che stava stringendo la sella di Onracoel e assicurando le sacche con attrezzi e provviste ai ganci:

«Sì, vi accompagneremo io e Acceber tra poco. Vi porteremo fino alla casa di quei due sfruttatori sulla costa a Est, poi finché sarò lì insegnerò qualche dritta sulla pesca nelle acque basse ad Acceber: deve ancora fare pratica per quando le insegnerò a cacciare nella palude»

Acceber, mentre dava dei pezzi di carne ad un kaprosuco, si voltò e chiese all’amica:

«Ora che ci penso, so che Bob Braddock si addestra da Logan. Ieri l’hai incontrato?»

Improvvisamente, ad Aurora tornò alla mente quel momento incredibilmente imbarazzante del giorno prima, quando Bob le si era avvicinato e le aveva praticamente imposto di guardare la collezione di statue di legno di lui, dopo che avrebbero mangiato con lui e Jonas a casa loro per discutere di nuovo sul loro accordo; la rossa diventò paonazza e si coprì la faccia con entrambe le mani, immaginando già il momento. Lex la guardò, divertito:

«Oh, hai rivisto quel donnaiolo ancora più spassoso di Kilani? E perché non me l’hai detto?»

«Secondo te?» sbuffò Aurora.

«Cosa ti ha detto?»

«Mi ha chiesto di guardare delle statue con la sua faccia e non ho potuto dire di no»

Lex sollevò le spalle:

«Be’, a me non sembra poi così male. Poteva chiederti di molto peggio, per come la vedo io»

«Sì, il fatto è che mi toccherà stare a sentire tutti i “complimenti” che mi fa in continuazione»

«Ignoralo, sopravvivrai»

Aurora rimase interdetta. Di lì a poco, i preparativi per la partenza furono terminati. Acceber e suo padre presero Onracoel e un allosauro, mentre ai due sopravvissuti furono concessi due velociraptor dagli amici di Drof, per ringraziare Lex per l’aiuto che aveva dato loro il giorno prima contro il giganotosauro. I due salutarono il gruppo e li ringraziarono ancora per la serata, per poi partire seguendo le loro due guide arkiane. Aurora passò tutto il tragitto a supplicare mentalmente che la cosa fosse il più rapida possibile, così che l’imbarazzo di stare insieme a Bob non superasse una certa soglia di sopportabilità. Lex le garantì che avrebbe fatto in fretta con Jonas senza che lei gli chiedesse nulla, perché leggeva già il disagio crescente nei suoi occhi, ma lei rispose che non si sapeva mai.

“Speriamo. Mio Dio, sarà terribile” sospirò la rossa.

Cavalcarono al galoppo fino alla costa orientale, a Sud dell'Apoteosi e della Foce Cremisi. Si trovavano accanto alla muraglia boscosa che precedeva la Valle Vasta, una labirintica giungla racchiusa in una conca e circondata da una malsana palude disseminata di carcasse. Mentre aggiravano la rigogliosa vallata, Lex continuò a interrogare Drof sulla cultura arkiana: confidò di essere confuso dall'uso dei ciottoli come valuta arkiana e che gli sembrava una moneta insensata, essendo facile da ottenere per chiunque. La spiegazione fu che in realtà non erano dei comuni sassi di fiume, ma dei ciottoli bianchi a cui veniva data una forma specifica da degli speciali artigiani che li levigavano per farli diventare le monete usate dall’isola, che poi la gente si doveva guadagnare. Un altro argomento fu uno che Lex aveva sentito menzionare il loro primo giorno sull’isola: il “mostro acido”.

«Nessuno sa esattamente cosa sia – spiegò Drof – Ma è da parecchio che infesta la foresta di sequoie molto spesso. Caccia solo di notte e attacca di sorpresa persone e animali. Dai racconti, sembra che viaggi sottoterra e che abbia il corpo simile a quello di un teropode, ma il sangue acido come un’artropleura»

«Kong è molto arrabbiato, ultimamente. Si aggira sempre più spesso per la zona delle sequoie alla ricerca del mostro, ma non l’ha ancora trovato. Non sopporta quando qualcosa minaccia l’ordine sull’isola»

«Kong?» chiese Lex.

«È quella specie di enorme gorilla pieno di cicatrici di cui ti ho parlato, quello che ho visto quando mi sono salvata dal giganotosauro» gli rispose Aurora.

«Uhm, capisco, la versione di quest’isola del Megapiteco. È come i guardiani delle Arche, solo che è sempre attivo e a piede libero»

«Non so di cosa tu stia parlando, ma immagino che sia così» disse Acceber.

«Be’, intrigante! Spero di riuscire a vederlo» sorrise il biondo.

«Comunque, i miei amici sono tra i cacciatori che cercano di stanare il mostro acido. Mi sono accordato per unirmi a loro, dopo che vi avremo riportati indietro da questo incontro coi Braddock» concluse Drof.

«Allora buona fortuna» augurò Lex.

Poco dopo, raggiunsero un golfo all'estremità sud-orientale di ARK. C’erano palme sparpagliate ovunque, non molto vicine a loro. La sabbia dorata sembrava un ampio nastro brillante che separava la distesa blu del mare e le imponenti e la muraglia verde della giungla. Dove non c’erano palme o sabbia, c’erano cespugli di bacche dove i dodo e i listrosauri mangiavano o stavano sdraiati all’ombra. Sul bagnasciuga zampettavano i trilobiti, che setacciavano la sabbia bagnata e le conchiglie in cerca di qualcosa da mangiare. La brezza che soffiava dall’oceano verso l’entroterra era molto fresca ed era molto piacevole sentirsela addosso, sotto il sole che batteva. Nel golfo, al largo, nuotavano alcuni sarcosuchi.

«Ci siamo quasi, ora svoltiamo a Sud» annunciò Drof.

Aurora e Lex seguirono padre e figlia lungo la costa, nella direzione indicata. Il paesaggio diventava sempre più tropicale, procedendo verso meridione. Passarono accanto ad un paio di moli dove delle barche degli Squali Dipinti o animali marini domati attraccavano o salpavano e incontrarono dei dilofosauri che cercavano piccole prede sulla spiaggia e si affrettavano a lasciarli passare quando li vedevano. Alla fine, raggiunsero la casa dei fratelli Braddock. Al contrario di quello che si aspettava, Aurora dovette ammettere che non era affatto male: era un’allegra villetta di discrete dimensioni, che ricordava una casa da villeggiatura sul mare per ricchi. Era costruita in mezzo al palmeto, poco lontano dal mare. Aveva due piani ed era fatta in pietra bianca, come le case greche, il tetto era piatto e fungeva da terrazza. Ad ogni piano si contavano cinque finestre. L’ingresso era su un portico rialzato che si raggiungeva con una scaletta e, sotto di essa, si intravedeva un seminterrato da cui emergeva un invitante profumo di cibo e si sentivano delle voci: una cucina. Tutt’attorno, c’erano le varie guardie del corpo dei due fratelli, che conversavano, giocavano ad un gioco di carte che i due sopravvissuti non avevano mai visto e si prendevano cura delle loro cavalcature, le quali bazzicavano per l’area o riposavano in una stalla lì vicino.

«Che dire, si sono sistemati bene» disse Lex.

«Be’, se hanno anche un giro d’affari...» gli ricordò Aurora.

«Giusto. Grazie per il passaggio, voi due!»

«Di niente. Ci vediamo dopo!» li salutò Acceber.

«Quando avete finito, aspettateci qui, vi raggiungeremo. Non ci metteremo troppo» spiegò Drof.

Quando lei e suo padre si allontanarono, Aurora tirò un sospiro di tensione: era ora di rivedere Bob, doveva stare pronta. Una delle guardie del corpo riconobbe i due sopravvissuti dalle terme delle Aquile Rosse, quindi si avvicinò e diede loro il benvenuto. Lex chiese se potevano parlare coi fratelli Braddock e gli fu risposto che Jonas e Bob stavano aspettando proprio loro per il pranzo. Quindi aprì la porta e si fece seguire all’interno. Subito dopo l’ingressso c’era un ampio soggiorno con un tavolo e delle sedie da una parte e una libreria piena di fogli cosparsi di bozze e taccuini dall’altra. Alle pareti erano appesi disegni al carboncino di vari scorci di ARK, firmati da Jonas.

«Buffo, non lo facevo un disegnatore» confessò Aurora all’orecchio dell’amico.

«Io un po’ sì»

«Come no»

«Sul serio, quando l’ho visto me lo sono sentito per un attimo»

«Ci sto credendo» sorrise lei, trattenendo una risatina.

Il buttafuori arkiano li accompagnò attraverso un anticamera a sinistra del soggiorno che conduceva ad una sala da pranzo. Da lì sentirono le voci dei due fratelli che discutevano del più e del meno. Aurora sbirciò oltre le spalle della guardia del corpo e li vide, seduti ad un tavolo a quattro posti: Bob aveva i capelli pettinatissimi e indossava un abito di tessuto dipinto di un vistosissimo e pacchiano giallo canarino, con una rosa appuntata sul petto. Quella scena la fece ribollire dentro: aveva preso quella proposta molto fin troppo sul serio. Jonas, invece, era ancora preso a leggere lettere e documenti come quando l’avevano incontrato al villaggio delle Aquile Rosse. Sempre tutto d’un pezzo, sempre concentrato solo sui suoi affari, anche se era confinato su un’isola sperduta e separata dal resto del globo, in cui vivere come l’imprenditore che era non aveva più lo stesso senso di prima. Bob stava sommergendo suo fratello di aneddoti e opinioni su qualcosa che la ragazza non afferrò bene, ma Jonas non lo guardava nemmeno negli occhi. Quando entrarono nella sala da pranzo, Aurora colse le parole che il fratello grasso stava dicendo in quel momento:

«E a quel punto mi ha detto che sono uno scherzo della natura, perché normalmente nessuna andrebbe mai a letto con un “tricheco diabetico”! Ti rendi conto, Jonas? Che razza di ipocrita! E perché, lui che ha la faccia più picchiabile del mondo si crede più affascinante di me?! È il bue che dà del cornuto all'asino!»

«Dal Manzanarre al Reno, Bob» rispose Jonas.

«Eh?»

«È l’estensione dell’accidente che me ne sbatte. Sai come so citare Manzoni? Mentre tu hai sprecato tutti i soggiorni d’affari di papà in Italia a fare il pavone con svariate donne del posto, io ne approfittavo per studiare la letteratura. Ed ecco uno dei tanti motivi per cui non è giusto che ci siamo divisi la sua eredità»

«Bah, come sei pedante!»

«Scusate, è tornato quel Gutenberg» li interruppe il buttafuori, mostrando loro Lex e Aurora.

I due smisero di discutere e Jonas alzò subito gli occhi, accogliendo i due ospiti con un sorrisetto compiaciuto. Bob, invece, balzò in piedi con un sorrisone a trentadue denti e gli occhi spalancati, puntando tutta la sua concentrazione sulla rossa, la quale si affrettò a guardare da un’altra parte e ad accostarsi il più possibile a Lex. Il biondo incrociò le braccia e ricambiò con del sarcasmo pungente:

«Sì, e “quel Gutenberg” ha ripulito il vostro giacimento, come volevate. E con lui c’era anche “quell’Aurora”, che ha dovuto sopportare uno shock allergico per il morso di un araneomorfo»

«Molto avvincente» lo provocò Jonas, infastidito dal tono del Tedesco.

A sentire quel particolare, Bob sobbalzò all’indietro e sbarrò gli occhi, con fare oltraggiato, per poi alzare il pugno e stringere i denti:

«Cosa?! È vero che un ragno gigante ti ha morsa?!»

Aurora, dopo essere rimasta spaesata per alcuni secondi, si strinse nelle spalle e rispose:

«Be’, sì: ho fatto fatica a respirare per tutto il giorno, ma ora sto bene»

«Dannato mostro! Te lo giuro, rosa italiana, se incontro quello schifo a otto zampe, gli strappo le tenaglie con le mie mani e gliele infilo su per il…»

Jonas si alzò e gli tirò una gomitata per zittirlo:

«Bob, smetti di renderti ridicolo. Ti ricordo che, da bambino, ogni volta che vedevi un ragno in casa non entravi più nella stanza in cui l’avevi trovato per una settimana»

«Cosa c’entra? Eravamo piccoli! Comunque, sono contento che sia tutto passato: ti trovo più in forma e splendida che mai! Ehi, che fate ancora in piedi? Mettetevi comodi, siete ospiti! Ehi, Ymmij, vai a dire alla cuoca che può portare da mangiare ora» si rivolse alla guardia.

Il buttafuori annuì e si allontanò, mentre i due sopravvissuti si sedettero al tavolo. Sfortunatamente, Jonas volle che Lex si sedesse al capo del tavolo opposto al suo per guardarlo negli occhi, quindi Aurora fu costretta a fare lo stesso con Bob. Per questo, si ritrovò a fissare continuamente le proprie mani appoggiate sul tavolo per non dover incrociae gli occhi perennemente puntati su di lei di Bob, mentre Jonas tornò a leggere le sue carte e a punzecchiare Lex:

«Mio fratello racconta di aver incontrato la tua amica al campo di allenamento di quello zotico chiamato Logan, nel deserto. Dimmi un po’, Gutenberg, per caso sei meno affezionato a quella tua palla di rame di quello che cerchi di farmi credere? Perché se è così importante, io non perderei tempo così: il mondo degli affari non aspetta nessuno. Tu dov’eri mentre la tua compagna si faceva umiliare da Logan? Qualcosa che non c’entrava con la mia commissione, suppongo»

Lex trattenne un sospiro irritato, ma replicò comunque a tono con voce ferma:

«Diciamo solo che su quest’isola ci sono altre cose oltre a quello che ci hai costretti a fare. E, per inciso, sei tu l’uomo d’affari tra noi due»

«Non è una scusa, Gutenberg. Comunque, da dove viene fuori questo ragno di cui hai parlato? Pensavo che i miei dipendenti indigeni fossero stati cacciati da un megalosauro. Chi è il bugiardo fra te e loro?»

«Il megalosauro era stato ucciso da un’artropleura, gli araneomorfi sono arrivati dopo e hanno fondato una colonia. Sappi solo che ora possono tornare a lavorarci: abbiamo ripulito tutto»

«Capisco. Dunque sai portare a termine gli incarichi, oltre a fare la voce grossa con me senza un minimo di ritegno. Non che ci sia da sorprendersi: ho imparato molto tempo fa che i Tedeschi sono sempre all’altezza delle aspettative»

«Immagino che sia una versione tutta tua di un complimento, quindi immagino di doverti ringraziare»

In quel momento, furono raggiunti da quella che capirono essere la cuoca arkiana dei due fratelli: una vecchia ingobbita coi capelli grigi che, nonostante l’età, si muoveva ancora a passo agile e scattante. Stava portando due piatti di legno con sopra il pranzo ed era seguita da un’altra delle guardie, che la stava aiutando a portare anche gli altri due piatti. Bob richiamò l’attenzione di Aurora, le strizzò l’occhio e le confidò che aveva scelto di persona cosa far preparare alla cuoca per il pranzo coi due ospiti, certo che a lei fosse di gradimento. La ragazza arrossì e Lex rispose a Bob per lei che non avrebbe dovuto “disturbarsi”. Quando il pranzo fu servito, però, Aurora si sentì quasi mancare: quello era salmone zannuto affumicato nell’essiccatoio. Ripensò in un lampo a quello che aveva appena sentito: Bob aveva detto di essere certo di sapere che lei avrebbe gradito la sua scelta e, la sera prima, la rossa aveva raccontato ad Acceber che il suo piatto preferito era il salmone affumicato dopo che la figlia di Drof le aveva chiesto quale fosse, la sera prima. Bob aveva così tanto interesse per lei… sospettosa, si schiarì la voce e gli domandò timidamente:

«Ehi, scusami per la domanda stupida, ma per caso mi stai spiando? Come sai che è il mio cibo preferito?»

Bob fece la faccia più confusa e perplessa che la ragazza avesse mai visto:

«Cosa? No! Assolutamente no! Cosa te lo fa pensare?»

Jonas si voltò verso il fratello e lo fissò con uno sguardo diffidente, cosa che fece aumentare a dismisura la preoccupazione di Lex e il disagio di Aurora:

«Bob, c’è qualcosa che non mi stai dicendo?»

Bob andò nel panico:

«Ehi, si può sapere che vi prende? Non mi sognerei mai di spiare qualcuno! Per quale razza di pervertito mi avete preso? Ho solo scelto il salmone perché sono pochissimi quelli a cui non piace e quindi davo per scontato che avrebbe fatto bella figura! Mi fa piacere sapere che è il tuo cibo preferito, Aurora, ma è stato un caso!»

«Uhm… sì, dice la verità» confermò Jonas, dopo aver guardato il fratello negli occhi per molti secondi.

I due sopravvissuti tirarono un sospiro di sollievo, specialmente Aurora, quindi tutti e quattro decisero di fare finta che niente fosse successo e cominciarono a mangiare. Nonostante i vari e goffi tentativi di Bob di iniziare una conversazione con Aurora, resi evidentemente più difficili dall’inaspettato imbarazzo che l’aveva appena investito, mangiarono senza spiccicare parola, immersi in un silenzio carico di tensione. Più i secondi passavano, più Aurora non vedeva l’ora che finissero. Doveva ammettere, però, che quel salmone era squisito: affumicatura inebriante, condimenti ben equilibrati, sapore deciso… lo mangiò così volentieri che lo finì per prima e Bob, vedendolo, fece un sorriso soddisfatto e sollevato al contempo. Quando terminarono, Jonas si versò dell’acqua, si dissetò ed esordì:

«Bene, ora che ci siamo sfamati, vogliamo discutere di nuovo sui nostri interessi, Gutenberg? In fondo, parlare di affari riesce molto meglio a stomaco pieno»

«Certamente» ribatté Lex.

Bob, allora, si alzò sorridente e porse la mano ad Aurora:

«Ah, allora posso finalmente passare del tempo con Aurora e la mia collezione! Vuoi concedermi l’onore di farti godere della vera arte, rosa italiana?»

La ragazza guardò l’amico con le labbra serrate e uno sguardo supplicante, ma lui le disse solo con lo sguardo di stare al gioco e avere pazienza. D’altronde, le aveva già promesso che avrebbe fatto più in fretta che poteva con Jonas per risparmiarle il più possibile tutto quell’imbarazzo. Quindi Aurora si rassegnò e si alzò, senza prendere la mano di Bob. Il Braddock grasso ci rimase un po’ male, ma le disse comunque raggiante di seguirla al piano di sopra.

Aurora seguì Bob fino alla terrazza sul tetto della villetta. Da lì la vista sulla spiaggia e sul mare non era affatto male, anche se il bianco dell’edificio rifletteva il bagliore del Sole così tanto che lei era costretta a tenersi continuamente una mano sulla fronte per ripararsi gli occhi. E quando si abituò meglio alla luce accecante, vide “finalmente” le statue di legno di cui aveva tanto sentito parlare e rimase a dir poco interdetta: erano tutte allineate lungo il muretto della terrazza e ciascuna di loro era una versione lignea e levigata con incredibile maestria delle più celebri sculture dell’antichità classica o del manierismo, solo che avevano la faccia di Bob. L’impressione che facevano era bruttissima, quasi destabilizzante. Bob, emozionato e fierissimo, iniziò a farle da cicerone:

«Aurora, ti presento l’orgoglio di questa casa, di questa spiaggia e di quest’isola: il posto dove l’arretratezza e la bassezza culturale degli indigeni cede il posto alla più ideale delle bellezze e delle armonie. Una raccolta di statue perfette, rese ancora migliori col mio irresistibile profilo!»

«Si vede» mormorò lei, con un sorriso imbarazzato e tenendo le braccia incrociate.

Bob compì il giro facendole vedere tutte le statue in senso orario: il Discobolo con la faccia di Bob, il David di Michelangelo con la faccia di Bob, il Doriforo di Policleto, il ratto delle Sabine compiuto da Bob e, infine, si trovarono di fronte a quello che Bob definiva il pezzo forte della sua collezione:

«Ohohoho, questa è quella che chiamo vera arte! – esclamò – Ah, mi commuove sempre: mi ricorda quanto in realtà sono fragile ed empatico, nel profondo dell’animo»

Aurora non poteva credere ai suoi occhi: stava osservando la pietà di Michelangelo con Bob al posto di Gesù, morto tra le braccia di Maria, che era sempre Bob. Quella statua rasentava il grottesco e l’imbarazzante. La rossa era pronta a giurare di non aver mai visto un ego così spropositato. Quando Bob le chiese un commento, sudò freddo e andò nel panico: era inorridita, ma cosa avrebbe potuto dirgli? Cercò rapidamente nella sua immaginazione, in cerca della frase di circostanza più adatta, ma alla fine tutto quello che le venne in mente fu una domanda:

«Ho una curiosità: chi ha scolpito queste per te?»

Bob schioccò le dita, soddisfatto:

«Speravo che me lo chiedessi! Ho un fornitore, uno scultore di fiducia. È il falegname e l’artista più incredibile che abbia mai visto, ecco perché ho deciso di commissionargli le mie statue! A dire il vero, avevo ordinato una statua di Laocoonte con le mie sembianze proprio per oggi, dovrebbe arrivare a breve. Così vedrai anche chi ha creato queste bellezze!»

«Davvero?»

Aurora non se l’aspettava, ma non ci trovava niente di male. Non c’era niente di male nell’incontrare altra gente. Quindi, cercando con tutta se stessa di ignorare il fatto che quelle statue avessero degli attributi leggermente esagerati per volere dichiarato di Bob, passò il successivo quarto d’ora fingendo di ascoltare le dettagliate “lezioni” di storia dell’arte di Bob su come i suoi lineamenti si intrecciavano con lo sfondo storico delle sculture: mentre lui blaterava, la rossa pensava a quali posti avrebbe potuto visitare con Acceber in futuro. Dopo un po’, Bob sentì le guardie chiamarlo dalla spiaggia e si affacciò al bordo della terrazza, chiedendo cosa c’era. Gli dissero che un tale Axel era arrivato e che era appena entrato col suo carico.

«Oh, magnifico! Grazie. Aurora, stai per incontrare il creatore di questi capolavori!» esclamò allora Braddock.

«Oh, va bene» rispose semplicemente lei.

Poco dopo, difatti, Aurora iniziò a sentire dei tonfi e due voci salire le scale che conducevano alla terrazza. Nel giro di qualche minuto, vide apparire un telo di lino grezzo che avvolgeva quella che doveva essere la nuova statua. Una volta che fu portata in cima, vide le due persone che la stavano trasportando: un uomo e una donna, entrambi caucasici. Lui dimostrava fra la trentina e la quarantina d’anni, aveva i capelli spettinati che gli coprivano le orecchie e la barba incolta castano chiaro. Aveva gli occhi verdi e un’espressione strana: sembrava che si fosse appena svegliato da un terribile incubo e sembrava continuamente turbato. Lei, invece, aveva le lentiggini, gli occhi verdi i capelli rossi come Aurora, ma lisci, e sembrava avere circa vent’anni. Al contrario del suo compagno, lei aveva uno sguardo radioso e confidente, quasi caloroso. Le sembrarono un duo così strano che ad Aurora venne spontaneo provare ad immaginarsi come si fossero ritrovati a lavorare insieme.

«Ecco, Braddock, Laocoonte è arrivato» disse la ragazza, battendo una mano sulla statua coperta.

«Uh… è stato un po’… ehm… complicato fare i serpenti, ma… uh… alla fine è riuscito tutto bene. Spero che ti piaccia» balbettò l’uomo, deglutendo e torcendosi le mani.

Aurora fece quasi un sorriso intenerito: il modo impacciato, timido e balbuziente con cui parlava era così buffo che glielo fece stare subito simpatico. La donna, mentre il suo compagno toglieva il telo e rivelava la nuova scultura lignea di Bob, notò Aurora e incrociò le braccia:

«Guarda guarda, ne hai già adocchiata un’altra? Che fine hai fatto fare alla Portoghese?» lo punzecchiò.

Aurora diventò paonazza all’istante, ma questa volta Bob arrossì più di lei. Dapprima cercò di trovare una scusa valida, ma alla fine decise di ignorare la provocazione per darsi un contegno e prese ad osservare la statua con le mani incrociate dietro la schiena, senza più proferire parola né voltarsi. L’altra rossa si avvicinò ad Aurora e la salutò:

«Ciao, io sono Nadia e lui è Axel. Come vedi, siamo quelli che viziano Bob con queste statue più belle di lui. Tu chi sei?»

«Aurora, molto piacere»

Bob interruppe il suo silenzio per un attimo e si intromise:

«Un falegname olandese e un’infermiera russa bolscevica: una coppia sgangherata, ma io e Jonas non ci lamentiamo di averli incontrati e averne fatto dei contatti!»

«Sgangherati? Non direi» protestò Axel.

Nadia sbuffò, lo corresse dicendo che era menscevica e tornò a parlare con Aurora, con le mani sui fianchi: 

«Quel belloccio biondo invischiato nelle “proposte” di Jonas al piano di sotto sta con te? Credimi, vi capiamo: agli inizi è stata una vera rottura anche per noi, è stata dura superare la tentazione di mandarli a farsi fottere»

«Ehi!» si lamentò Bob.

Aurora fece una risatina e rispose:

«Sì, lui è Lex. Siamo compagni di tribù»

I due la guardarono con aria confusa:

«In che senso? Siete su ARK da così tanto che avete cominciato a vivere con la gente del posto?»

Aurora si sistemò meglio i capelli dietro le orecchie col braccio sinistro e cercò le parole più adatte per spiegare tutto senza gettare in confusione i due nuovi arrivati:

«Allora, è una storia lunga. Veniamo sempre da ARK, ma non questa: tempo fa mi sono svegliata senza nessun ricordo su una spiaggia di un’isola, sono stata accolta in una tribù chiamata “i Difensori” e adesso sto cercando di capire meglio cosa…»

Improvvisamente, però, Axel urlò dallo spavento facendo stranire tutti i presenti e cominciò ad indietreggiare, terrorizzato e pallido, indicando il braccio di Aurora. La rossa guardò cosa stava indicando: aveva notato il suo innesto nel polso sinistro e, per qualche motivo, la cosa l’aveva scioccato. Axel continuava ad indietreggiare e puntava un dito tremante sull’innesto della rossa, delirando:

«No! No, no, no! Non di nuovo! Non ne voglio sapere più nulla! Lui non mi riavrà!»

E, a quel punto, scese di corsa le scale e sparì. Poco dopo, sentirono la porta d’ingresso della villetta aprirsi di colpo e lo rividero scappare di corsa nella spiaggia, urlando, mentre le guardie lo guardavano senza parole e reagivano ridendo e toccandosi le tempie con l’indice. Nadia si sbatté una mano in faccia e sbuffò:

«Oh no, ci sta ricadendo! Dopo tutti i progressi che ha fatto!»

Bob fischiò, colpito:

«Accidenti, Nadia! Ho sempre sospettato che ad Axel mancassero delle rotelle, ma questo...»

«Non commentare, Braddock, per piacere»

Bob alzò le mani e fece il gesto di cucirsi le labbra, indispettito. Nadia, a quel punto, si rivolse ad Aurora, che era rimasta immobile come le statue di legno intorno a lei per quanto era rimasta interdetta da quello che era appena successo. Guardandosi in giro disorientata, chiese se aveva detto o fatto qualcosa di male, ma la Russa le disse di non preoccuparsi e iniziò a fissare il suo innesto.

«Non posso crederci! Anche voi?»

«Che vuoi dire?» domandò Aurora.

Nadia alzò il braccio sinistro e si arrotolò la manica dell’abito in cuoio che stava indossando, rivelando di avere a sua volta l’impianto nel polso. Non era la versione “artigianale” degli Arkiani, fatta di ossidiana e con strati di pietre preziose levigate: era identico a quello di lei, di Lex e di tutte le altre persone sull’Isola. Aurora era più che sorpresa:

«Venite dalle Arche» mormorò.

«Proprio così. Hai parlato di una spiaggia, quindi dubito che veniate dall’Aberrazione; ma in ogni caso, siete dei sopravvissuti!»

Aurora stava per chiederle cosa fosse l’Aberrazione, ma decise di non cambiare argomento, anche perché la risposta era abbastanza scontata: doveva essere sicuramente un’altra delle tante Arche. Magari dopo avrebbe chiesto a Lex, per una conferma. Prima che potesse aggiungere altro, Nadia le chiese:

«Come siete venuti qui?»

Aurora aveva troppa curiosità di indagare sull’incredibile scoperta appena fatta, quindi replicò con la stessa domanda:

«Prima potresti dirmi come avete fatto voi, per favore?»

«Ohohoho, sembra che la trama si stia infittendo» commentò Bob, alquanto divertito.

Nadia lo fulminò con lo sguardo, cosa che lo fece subito stringere nelle spalle e allontanare, e prese a spiegare:

«Tre anni fa abbiamo trovato un…»

«Nadia! Nadia, sei ancora lì? Andiamocene! Ti supplico! Torniamo alla bottega!»

Axel era riapparso: tornando indietro dalla sua corsa da internato evaso, si era riavvicinato titubante alla villetta dei fratelli Braddock e, mentre le guardie ridevano a crepapelle guardando come si atteggiava, fissava la sua compagna dalla spiaggia stringendosi nelle spalle, tenendo i pugni serrati e congiunti e urlando a pieni polmoni, stando nascosto tra i cespugli che circondavano le palme come se pensasse di essere occultato. Nadia sospirò, con uno sguardo dispiaciuto e sconsolato e gli rispose che stava arrivando.

«Ehi, aspetta, voglio capire! Dammi almeno una spiegazione!» protestò Aurora.

Nadia le sorrise e la rassicurò:

«Tranquilla, lo farò! Ho una bella idea: perché tu e il tuo amico non venite a trovarci alla nostra bottega? Così potremo stare tranquilli e farci tutte le domande e spiegazioni che vogliamo, senza fretta! Inoltre, Axel si sente più al sicuro lì, parlare delle Arche lo turberà meno. Sono certa che abbiamo entrambe un sacco di cose che ci stiamo chiedendo»

«Già, non ne dubito. Dove possiamo trovarvi?»

«Dammi un secondo»

Ignorando le grida di Axel, che non smetteva un secondo di richiamarla dalla spiaggia e che Aurora stava facendo di tutto per ignorare, Nadia si frugò in una borsa di iuta che aveva a tracolla e ne tirò fuori una mappa piegata dell’arcipelago di ARK, lo aprì e indicò ad Aurora un punto su cui aveva disegnato un cerchio rosso:

«Vedi questa rete di crepacci, nella foresta di sequoie nel Nord-Ovest dell’isola?»

«Sì»

«L’abbiamo costruita in una caverna, in una di queste gole attraversate da torrenti. Cercate una doppia cascata, non potete sbagliare. Se avete amici arkiani, farete ancora meno fatica»

«Benissimo, grazie. Sono certa che anche Lex non vedrà l’ora di parlare con voi!» sorrise Aurora, entusiasta.

«D’accordo. Abbiamo sicuramente molte storie da raccontarci. Vi aspettiamo, siete liberi di venire ogni volta che vi pare! Arrivo, Axel!»

A quel punto, anche Nadia scese le scale e uscì dalla casa. Quando uscì, Axel le si avvicinò tirando un sospiro di sollievo e si allontanarono insieme, dirigendosi verso Ovest. Aurora non fece in tempo a vedere dove stavano andando o che cavalcatura avevano portato con loro, perché Bob attirò la sua attenzione toccandole la spalla:

«Allora, la collezione ti è piaciuta? Scusa per il disagio, non pensavo che Axel fosse così fuori di testa!»

Aurora rimase interdetta per un secondo, poi si riscosse:

«Be’, credo di averla gradita»

Gli occhi di Bob si illuminarono:

«Davvero? Mi fa molto piacere! Lieto di sapere che non ti ho invitata per niente»

«Per niente? No no no, figurati»

Pochi secondi dopo, sentirono dei passi sulle scale e apparve Lex: la sua discussione con Jonas doveva essere terminata.

«Abbiamo finito, possiamo andare» disse.

«Va bene»

«Buona fortuna con qualunque cosa mio fratello vi abbia chiesto di fare!» augurò loro Bob.

«Grazie» rispose velocemente Lex, mentre lui e Aurora scendevano le scale.

PIÙ TARDI…

Aurora e Lex erano seduti su una roccia che sporgeva dalle acque basse della barriera corallina, a qualche centinaio di metri dalla villetta dei fratelli Braddock, in attesa del ritorno di Drof e Acceber. La rossa teneva i piedi immersi nel mare e li muoveva avanti e indietro dolcemente, godendosi la freschezza dell’acqua mentre il Sole continuava a scaldarle la testa. Lex, invece, era seduto accanto a lei voltato nella direzione opposta e osservava un trio di compsognati che gironzolavano per la spiaggia in cerca di crostacei o insetti da mangiare. Nel frattempo, si raccontarono quello di cui avevano parlato mentre erano stati in parti diverse della casa:

«Non si sa ancora niente della sfera?» chiese Aurora.

«Purtroppo no, Jonas si è rifiutato ancora di restituirla. La cosa comincia a darmi veramente fastidio»

«Anche a me. Non potremmo costringerlo, rubarla o qualcosa di simile?»

Lex sembrò sul punto di approvare il suggerimento per un istante, ma poi scosse la testa:

«Resta sempre un’opzione, ma per ora direi di aspettare e vedere cosa succede. Accontentiamolo ancora una volta, se poi si ostinerà a tenerci nascosta la via d’uscita da qui la risolveremo a modo nostro»

«D’accordo. Cosa vuole che facciamo, stavolta?»

«Mi ha detto che siccome è rimasto impressionato dal nostro successo con la miniera infestata, ha deciso di affidarci un incarico da cui, da quello che dice, dipende tutta la loro attività col petrolio. In pratica, c’è qualcuno che ruba i loro carichi mentre vengono trasportati e vuole che ce ne occupiamo, perché sia i capivillaggio che qualunque arkiano non è interessato ad aiutarli»

«E così siamo la sua ultima speranza? Non mi dire»

«Eh già. Ci ha suggerito di seguire il gruppo che trasporterà il loro prossimo carico di petrolio, così potremmo scoprire chi lo ruba. Partiranno da un giacimento nella foresta di sequoie e porteranno l'olio alla giungla coi cristalli rossi, mi ha disegnato il tragitto della carovana su una mappa. Mi sembra un lavoro fattibile»

«Trovo anch’io: di certo non potrà superare la colonia di ragni preistorici, su questo non ci piove!» ridacchiò Aurora.

«Sì, hai ragione. Comunque, a te com’è andata col casanova? E chi erano quei due che ho visto entrare? Uno di loro è scappato urlando come un pazzo»

Aurora, a quel punto, cercando di contenere la foga di condividere l’ennesima incredibile scoperta, liquidò molto velocemente la parte delle statue e gli rivelò di Axel e Nadia, della loro vera provenienza e dell’invito della menscevica. Lex fu così sorpreso che si voltò di colpo per guardarla negli occhi:

«Due sopravvissuti dal sistema delle Arche come noi? Perché non me l’hai detto subito?»

Aurora fece spallucce:

«Prima ho voluto lasciarti dire cosa ti ha detto Jonas. Sai, nella remota speranza che avessimo riavuto la sfera. A proposito di quella, credi che anche loro due ne abbiano trovata una uguale?»

Lex rifletté attentamente:

«Be’, a meno che non esistano altri modi per viaggiare dalle Arche a quest’isola, presumo che anche loro o uno dei due abbia fatto la tua stessa scoperta»

«Sai dirmi com’è l’Arca da cui vengono, questa “Aberrazione”?»

«Mai sentita nominare, dovremo fargliela descrivere. Credo di avere un nuovo posto in cui ho in programma di fare un salto, quando torneremo sull’Isola»

«Certo, certo. Allora, mettendo che davvero queste sfere siano due o di più, cosa sono? Chi le ha fatte? Sono parte del sistema o vengono da qui o…»

«Ehi, ne so quanto te»

«Hai ragione, scusa. Andiamo prima da loro o dobbiamo fare la missione per quei due ricattatori? Perché in tutta onesta, io mi vorrei fiondare da quei due e inondarli di domande. Sempre che sappiano rispondere a tutto»

Lex le sorrise:

«Abbiamo fortuna, allora: Jonas mi ha detto che quel trasporto avverrà fra cinque giorni. Abbiamo tutto il tempo del mondo per andare a scoprire di più su questa faccenda e, se vuoi, aiutare Drof e i suoi amici nella caccia al “mostro acido”: mi hanno incuriosito, vorrei vedere anch’io di che si tratta. Se nemmeno i nativi di questo posto sanno cos’è, dev’essere tanta roba»

Aurora ridacchiò:

«Già, decisamente pane per i tuoi denti, eh? Sai, in realtà io preferirei usare questi giorni liberi per passare altro tempo con Acceber: finora, le migliori esperienze su quest’isola le ho fatte con lei. E anche le migliori conversazioni»

«Perché, io sono noioso?» la punzecchiò Lex.

«Cosa? Ma va’! Sai com’è, però: tra ragazze ci si intende»

«Sì, ho avuto modo di vederlo. Più di una volta»

«Ah, sì? Per caso c’è qualche esperienza scottante che non mi racconterai finché non insisterò abbastanza?» lo stuzzicò lei.

«Chi può dirlo?»

«Eddai, dammi almeno un indizio!»

«No»

«Non mettermi alla prova, sai?»

«Se te lo racconto, rinuncerai al volermi obbligare a portarti con me quando vorrò tornare su quest’ARK?»

«Assolutamente no!»

«Allora niente»

«Uffa»   

Rimasero in silenzio per alcuni minuti, ascoltando le onde dell’oceano e i versi lontani degli ittiorniti. Poi, Lex si ricordò di aver visto Axel scappare via urlando e chiese ad Aurora cosa l’aveva fatto uscire di senno. Lei, ripensando alla scena, si ricordò anche di quanto era rimasta interdetta e rispose di non avere la minima idea di perché avesse avuto quella crisi di panico, sapeva solo che l’aveva avuta non appena aveva visto il suo innesto. Lex ipotizzò che dovesse avere avuto per forza qualche esperienza traumatica sulle Arche, anche se non sapeva pensare con esattezza a cosa potesse mai lasciare un disturbo da stress post-traumatico così “spettacolare”. Di lì a poco, comunque, sentirono le voci di Drof e Acceber che li chiamavano in lontananza. Si voltarono e li videro a qualche centinaio di metri da loro che li aspettavano con le cavalcature. Quindi si alzarono e si incamminarono per raggiungerli, pronti a proseguire nella loro avventura.

NEL FRATTEMPO…

«Mio Dio! Mio Dio, dei sopravvissuti! Non può essere! Come hanno fatto a venire qui?! Come?!»

Axel non si era ancora ripreso e continuava a delirare, terrorizzato. Era pallido e tremava come una foglia. I due compagni giunti dall’Arca chiamata “l’Aberrazione”, adesso, si trovavano ai piedi di uno dei colossali alberi morti che torreggiavano in giro per la Valle Vasta, in compagnia di Ruchka, il drago delle rocce di Nadia. Dopo aver lasciato la spiaggia, i due avevano richiamato la loro cavalcatura nativa dell’Aberrazione, nascosta agli occhi di tutti con la sua capacità di mimetizzarsi perfettamente, e avevano preso a dirigersi verso la loro bottega planando da un pendio all’altro e scalando rocce e crinali. Tuttavia, la crisi di Axel non stava dando segni di attenuarsi, così Nadia aveva pensato di fare una sosta per calmarlo: solo lei era in grado di aiutare il povero Axel a superare i quasi ridicoli attacchi di panico che lo affliggevano dai tempi dell’Arca aberrante.

«Axel, calmati»

«Non sono più al sicuro, Nadia: lui mi ha trovato! Sì, è così! Loro non sono qui per caso, li manda lui! Li manda lui! Non ha potuto inseguirmi, così ha mandato altri perduti a prendermi: non sopporta che gli siamo sfuggiti! Devi credermi!»

Nadia gli afferrò la testa e lo costrinse a fissarlo, inginocchiandosi davanti a lui; nel mentre il drago delle rocce li guardava preoccupato, anche se non smetteva un secondo di tenere gli occhi e le orecchie aperti per stare certo che non ci fosse qualcuno nei paraggi: era meglio evitare che li scoprissero o sarebbe stato un casino.

«Axel, ti stai immaginando tutto. Rockwell non ce l’ha con te, non c’è più! Non è su quest’isola!»

«Non me lo scorderò mai: lo voglio dimenticare, ma non ci riesco! mi parlava, lo vedevo, mi ha detto lui che quel posto si chiamava Aberrazione. Ehi, ehi, ascolta! Se non fosse stato per la sua voce, come avrei fatto a sapere che i terremoti erano opera sua? Me l’ha detto lui! E… e… voleva che lo ascoltassi per…»

«Smetti di ripetermelo, ho capito che hai le prove che era reale! Ho visto come sei cambiato col tempo, ti credo. Ti credo, hai capito?»

«Sì, grazie»

«Comunque, leggi le mie labbra: è im-pos-si-bi-le che quei due sopravvissuti siano qui per te. Voglio dire, non sanno nemmeno cos’è l’Aberrazione!»

«Ne sei davvero sicura?»

«Sì, te lo garantisco. E poi io torno regolarmente sull’Aberrazione e posso dirti che non c’è alcun segno che lui ti sta cercando. Ti ha lasciato perdere, Axel!»

«Torni ancora là? Credevo che non lo facessi più. Non ti fa paura?»

«No, certo che no! Pensa al lato positivo: se quei due sono venuti qui come abbiamo fatto noi, forse hanno una sfera come quella che hai trovato, ma che funziona! Potremmo tornare a casa!»

«Tornare?»

«Sì! Rifletti: potrebbe essere un modo per uscire da quest’isola! L’anno scorso non abbiamo fatto in tempo ad andarcene prima che la barriera si richiudesse, ma forse se collaboriamo con loro potremmo trovare una soluzione alternativa!»

«O forse no. Perdonami se ho avuto troppa paura di andare via e ci ho trattenuti qui»

«Ti ho già perdonato per quello, dimenticalo. Ma anche se non servisse a niente parlare con quei due, almeno avremmo delle persone che potranno davvero capirci! Che sanno cos’abbiamo passato e provato! Non credi che farebbe bene a entrambi?»

«Uhm…»

«Fidati, Axel! Mi prometti che accetterai di incontrarli, se verranno?»

L’Olandese rimase in silenzio e fissò il vuoto per degli interminabili minuti. Ci volle molto prima che, in modo molto titubante, annuisse con uno sguardo incerto. Nadia gli sorrise e gli batté una pacca sulla spalla:

«Ecco, vedi che ce la puoi fare? Coraggio!»

«Sì, coraggio»

«Bene. Andiamo a casa, Ruchka!»

Il drago delle rocce emise un verso amichevole. Quando i due sopravvissuti montarono sulla sua sella, tornò invisibile e riprese a planare aggraziato e silenzioso attraverso i meandri della palude, fendendo l’aria come un grosso aquilone.

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Capitolo 9
*** Un'occhiata all'Aberrazione ***


LA MATTINA DOPO…

Quando Lex e Aurora informarono padre e figlia che avevano intenzione di fare visita ad Axel e Nadia alla loro bottega nella foresta di sequoie, Drof rispose di sapere già dove si trovava il posto tramite Oilnats, il quale era solito comprare delle statuette di legno dal falegname olandese per cercare ispirazione per la sua passione per l’intaglio e aveva fatto conoscere Axel e Nadia ad Acceber, sapendo che lei stravedeva per gli stranieri. Passarono la notte all’aperto e, in quel momento, stavano seguendo in barca il corso di uno dei fiumiciattoli che attraversavano la rete di crepacci che suddivideva la Grande Foresta, il bosco di sequoie nel Nord-Ovest di ARK. Era stata una navigazione molto rilassata: mentre Drof si occupava dell’imbarcazione, Lex affilava le loro armi su richiesta dell’Arkiano e gli faceva delle domande sul Megapiteco, per cui stava mostrando un crescente interesse. Lo intrigava il fatto che il corrispondente di quel mondo del secondo guardiano delle Arche fosse l’unico della sua specie sull’isola, che andasse sempre in giro nonostante la sua tana fosse in una grotta sull'Apoteosi e che si comportasse da “guardiano” dell’ecosistema contro le creature pericolose. Era proprio come un sorvegliante dell’isola, come nel sistema delle Arche, ma con sostanziali differenze oltre alle similitudini. Il ragazzo confidava più volte ad Aurora che aveva intenzione di osservarlo, presto o tardi. Nel frattempo, Aurora e Acceber chiacchieravano mentre la figlia di Drof pescava nel fiume:

«Preso!»

Con un ultimo strattone che fece ondeggiare la piccola barca a vela, Acceber sollevò la canna da pesca e tirò la lenza fuori dall’acqua. All’amo era attaccato un giovane celacanto grande quanto una trota, che ormai era troppo stanco per dimenarsi all’impazzata. La giovane Arkiana afferrò la preda, le tolse l’amo dalla bocca e la mise in una cesta, dove altri due celacanti presi poco prima boccheggiavano.

«Brava, con questo siamo a posto per il pranzo» disse Drof.

«Questo era combattivo, eh?» sorrise Aurora, mettendo il coperchio alla cesta.

«Di sicuro, ma così c’è più soddisfazione» sorrise Acceber.

Nel frattempo la rossa, seduta sull’asse posteriore della barca, si guardava intorno: quelle immense angiosperme preistoriche e millenarie l’avevano già impressionata viste dal cielo, quando Giselle le aveva fatto fare un volo in giro per l’Isola, ma starci in mezzo dal fondo di un crepaccio profondo una decina di metri rendeva tutto ancora più suggestivo: la facevano sentire minuscola. Inoltre, la penombra che copriva il sottobosco con l’illuminazione mattutina creava un’atmosfera quasi magica, cosa amplificata dal fatto che gli unici rumori erano lo sciabordio della barca e l’occasionale richiamo di alcuni animali arboricoli, nascosti da qualche tra le fronde: per il resto, c’era un silenzio totale.

«La foresta di sequoie è forse il mio posto preferito di ARK» le confidò Acceber, vedendola così assorta.

«Perché?» chiese la rossa.

L’Arkiana fece spallucce:

«Per tanti motivi. C’è un sacco di specie diverse, non si smette mai di trovare nuove strategie per cacciare qui, è facile nascondersi: presto vedrai perché adoro questo posto! Dopo stamattina avete in mente qualcosa da fare?» chiese, rivolgendosi a Lex.

Il biondo, che stava controllando gli ingranaggi della balestra, si fermò un attimo per risponderle:

«Nulla di urgente per noi due. Drof mi ha chiesto se questo pomeriggio voglio unirmi a lui e i suoi amici per le ricerche sul mostro acido e io gli ho detto di sì. Se tu e Aurora volete fare qualcosa insieme, perché no?»

«Fantastico! Sentito, Aurora? Questo pomeriggio ti farai un bel giro tra le sequoie con me!»

La rossa sorrise, intenerita dall’entusiasmo della ragazza:

«Logan non ha un campo anche qui, vero?» scherzò, anche se parte della preoccupazione era vera.

«Cosa? Ah no, rilassati! Penserò io a tutto e credo che ti piacerà! Niente predatori inaspettati, promesso»

«Non vedo l’ora!»

Proseguirono per un altro tratto della foresta. Ad un certo punto, raggiunsero un meandro e Drof ci svoltò dentro. La corrente non era affatto forte, quindi la barca non faceva molta fatica a risalirla. Più si addentravano nel sottobosco, più i versi degli animali variavano e aumentavano: i dintorni si fecero più pieni di vita, per quanto essa continuasse ad essere invisibile. L’unico avvistamento che fecero fu un megaterio che, seduto in mezzo ad una macchia di felci enormi, spaccava con gli artigli un tronco marcio pieno di titanomirme e larve, per poi raccogliere tutti gli insetti con la lingua. Alla fine, la loro navigazione li condusse ad un laghetto alimentato da una cascata.

«Siamo quasi arrivati, da qui c’è una rapida scalata da fare» spiegò Drof.

«Bene» rispose Lex.

L’Arkiano approdò sulla sponda alla loro sinistra e legò la barca al ceppo di una giovane sequoia. Dopodiché, con un fischio, richiamò Onracoel, l’allosauro e i due velociraptor, i quali li avevano seguiti dalla foresta per tutta la navigazione. Quando Aurora chiese sottovoce ad Acceber perché non avevano cavalcato fin lì, la ragazza le spiegò semplicemente che suo padre lasciava spesso che le sue cavalcature lo seguissero da sole, così che potessero anche cacciare e sgranchirsi a loro piacimento nel mentre. Difatti, l’allosauro aveva le gengive e la mandibola sporche di sangue ancora fresco.

«Venite anche voi?» chiese Lex, mentre si metteva la balestra a tracolla e montava sul suo velociraptor.

«Possiamo, padre?» domandò anche Acceber, speranzosa.

Drof la guardò con le mani sui fianchi, le labbra serrate e uno sguardo apostrofante:

«Suvvia, Acceber, concedi loro un secondo di respiro! Ti stai già prendendo molto tempo con la rossa» le disse.

«Ma no, a me no dà per niente fastidio! Anzi, io ormai spero sempre che Acceber mi faccia nuove proposte» disse Aurora, facendo entusiasmare la ragazza.

«Non ne dubito – disse l’uomo – Però c’è l’accampamento da allestire per mezzogiorno e vorrei anche piazzare qualche trappola per microraptor. Mi hai chiesto di farti vedere come si preparano proprio l’altro giorno, non vuoi venire?»

Gli occhi di Acceber si illuminarono:

«Ooooooooh! Allora resto con te! Fa niente, Aurora?»

«Ma certo, fa’ quello che preferisci» la rassicurò la rossa.

«Perfetto. Allora quando avrete finito, aspettateci pure qui: troverete un fuoco da campo» avvisò Drof.

«Capito. Quindi da qui dobbiamo solo salire sul pendio?» domandò Lex.

«Esatto. Riconoscerete subito la bottega» rispose Acceber.

«Allora andiamo»

Dopo che ebbero salutato i due Arkiani, Aurora e Lex spronarono i velociraptor e cominciarono a salire sul dolce pendio che fiancheggiava i due ripiani della cascata. Aurora dovette alzare la voce per farsi sentire a causa del rombo dell’acqua, quando gli disse che trovava quel posto un bel punto per costruire una base. Lui sollevò le spalle e le rispose che trovava migliore una zona con più visibilità e ancora più rialzata, alludendo ad un certo “incidente” che aveva avuto con uno spinosauro nel suo secondo anno sulle Arche. Com’era ovvio, si rifiutò categoricamente di raccontarlo quando la rossa prese a stuzzicarlo con un sorrisetto e a chiedergli com’era andata. Alla fine, quando furono vicini alla cima, trovarono quello che stavano cercando: nella parete di roccia accanto alla cascata superiore c’era l’ingresso di una caverna, che era stato coperto con un’ampia pelle conciata di parasauro. Su di essa, con della tinta bianca, c’erano due scritte gialle: una a caratteri cubitali e in olandese, l’altra in cirillico e in russo:

TIMMERMAN

медсестра

«“Falegname” e “infermiera”» lesse Aurora, capendo all’istante.

«Questo riconferma quello che avevamo già constatato – commentò Lex – La traduzione automatica sembra l’unica funzione che i nostri innesti hanno mantenuto su quest’isola»

«Secondo te perché?» domandò Aurora, incuriosita.

Lex allargò le braccia:

«Non he ho idea. Magari perché è una funzione insita nel nostro cervello, oppure non richiede un dispendio di energia tale che dobbiamo per forza trovarci nel sistema; non saprei dirti»

«Ma quando gli abitanti di questo posto parlano in arkiano, non li capiamo» gli ricordò la rossa.

«Facile: non è inclusa nelle lingue registrate nel Sistema» rispose lui.

In quel momento, la loro discussione fu interrotta da un brusco movimento della tenda: la pelle di parasauro fu sollevata e, davanti a loro, apparve Nadia, che rivolse subito loro un sorriso accogliente:

«Ah, siete voi due! Benissimo, siete venuti anche prima di quanto immaginassi! Forza, entrate» li invitò con un cenno.

I due sopravvissuti la seguirono e diedero un’occhiata all’interno. La grotta che si apriva subito dopo l’ingresso era una galleria molto spaziosa che si addentrava nelle profondità della collina del lago. Era illuminata da file di lampade a muro e, a ridosso delle pareti, erano allineati diversi mobili, soprammobili o parti da costruzione di legno intagliate a regola d’arte e dallo stile austero, quasi senza decorazioni. Inchiodati ai vari pezzi, su dei fogli di lino, erano scritti i nomi dei richiedenti e il costo. Aurora era colpita da quanto Axel fosse talentuoso nel suo lavoro: poteva passare da imitazioni perfette di famose statue greche e rinascimentali a degli spartani, ma a loro modo ammirevoli pezzi di mobilia. Nadia li condusse fino al fondo della galleria, dove essa si divideva in due cunicoli. Quello a destra conduceva ad una stanza che sembrava un ambulatorio pieno di sostanze e preparati medicinali, chiaramente la caverna dove lavorava la Russa. Lei, invece, si fece seguire a sinistra. Dopo una discesa un po’ ripida, raggiunsero una seconda grotta con articoli di legno e, lì, iniziò cominciò la magia.

«E questi cosa sono?» chiese Aurora, affascinata.

In quella grotta, poste su dei piedistalli improvvisati di pietra semi-levigata, c’erano delle bellissime sculture di teneri e dolci animaletti simili a specie moderne, ma chiaramente diversi. Nonostante fossero di legno, erano modellati, colorati con tinte naturali e resi con una bravura tale, dalle superfici alle pose e alle espressioni, che sembravano veri per un secondo. Tutti avevano degli organi bioluminescenti, rappresentati con la gelatina luminosa dei melanoceti. Aurora gettò un rapido sguardo a Lex e, dall’espressione del suo compagno, capì che anche lui stava vedendo quelle creature (o le loro rappresentazioni) per la prima volta. Nella caverna echeggiava un rumore ritmato e raschiante, che proveniva da un angolo. Si girarono in quella direzione e videro Axel, sudato e coperto di fiocchi di legno, intento a piallare un segmento di tronco. Nadia si rivolse a lui come una madre che dice al figlio piccolo che ci sono ospiti e che deve salutarli:

«Hai visto, Axel? Ci sono qui i due sopravvissuti!»

Axel si innervosì subito, facendo una breve pausa, per poi tornare al lavoro facendo finta di niente.

«Mi hai sentita. Ne abbiamo discusso»

«Mandali via» rispose lui, agitato.

«No, Axel, non prima che avremo fatto una bella chiacchierata. Loro meritano di sapere di noi e a noi potrebbe tornare utile sentire la loro storia»

«Non voglio più avere a che fare con le Arche, ho chiuso! E lui non mi avrà mai!»

Lex lanciò un’occhiata interdetta ad Aurora, come per chiederle tacitamente se era così che aveva visto Axel comportarsi il giorno prima, sulla terrazza dei fratelli Braddock; la rossa, con uno sguardo imbarazzato e con le mani dietro la schiena, annuì in silenzio. Nadia sospirò, scoraggiata, e li guardò scuotendo la testa:

«Purtroppo, come temevo, potrete parlare solo con me: non caverete un ragno dal buco con lui. Ed è un vero peccato, Axel! Mi hai capita?»

«Non mi riavrà!» insisté lui, senza mai distogliere lo sguardo dal suo lavoro.

«Di chi sta parlando?» domandò Lex.

«Ve lo spiego dopo, non va bene parlarne davanti ad Axel» rispose Nadia.

Aurora, invece, si avvicinò incuriosita alle sculture e disse:

«Queste sono bellissime! Ma cosa sono queste creature? Vengono da quell’Aberrazione di cui parlate?»

Raffiguravano varie specie: alcune erano dei buffi esseri al contempo teneri e mostruosi, simili a rane pescatrici con un corpo da carlino, altri erano dei gechi dalla coda luminescente, altri dei falchi dalle penne fosforescenti e altri ancora delle piccole caprette dalle corna luminose. Curiosamente, a quella domanda, Axel cessò il suo lavoro con la pialla e levò per la prima volta lo sguardo verso Aurora e Lex. I suoi lineamenti si stavano facendo via via più rilassati, l’agitazione nevrotica si stava affievolendo: sembrava che il riconoscimento della qualità delle sue creazioni lo aiutasse a calmarsi. Anche se continuava a parlare con la solita incertezza e titubanza, rispose alla rossa:

«Quelli? Ehm… sono i… ecco… be’, nell’Aberrazione ci sono mostri, mostri che vedresti solo nei peggiori degli incubi… ah… però ci sono anche loro. Quelle sono le uniche bestiole adorabili di quell’Inferno buio. E così io ho… ehm… ho pensato che… fosse un bel gesto rappresentarli»

«Sono molto realistici: riesco quasi ad immaginarmeli» affermò Lex, con le braccia incrociate.

«Oh… ehm… vi ringrazio… ne… uh… volete uno?» chiese timidamente il falegname.

Di fronte a quella richiesta, Aurora non seppe resistere: quelle statuette erano così impressionanti da averla conquistata subito. Aveva fatto una piccola scorta personale di ciottoli grazie ad Acceber; magari, se fossero bastati, avrebbe potuto comprarne una.

«Ma certo! Perché no?» sorrise quindi.

«Quale?» domandò l’Olandese.

La sopravvissuta fece un lento giro fra i piedistalli, osservando le sculture da cima a fondo. Alla fine, la sua scelta ricadde su quella di una delle caprette, con la pelliccia color crema, una striscia viola sulla schiena, la parte superiore della testa azzurra, le zampe marroni e gli occhi turchini.

«Quello è un brillacorno – spiegò Nadia – Gli altri sono canbulbi, brillacode e piumelucenti» aggiunse, indicando rispettivamente le pseudo-rane pescatrici, i gechi e i falchi.

«Te lo regalo, è… è tutto tuo» farfugliò Axel.

Aurora rimase interdetta:

«Me lo regali? Ma no, suvvia! Dimmi quanto vale e ti pago il dovuto»

«Voglio regalartelo, sei… sei la prima che… ehm… non li trova… strani» ribatté Axel, con un abbozzo di sorriso.

«Davvero la pensano così? Non li capisco, davvero»

«Grazie. Immagino che ora Nadia voglia parlarvi di… cos’abbiamo passato, quindi d’ora in poi vi ignorerò»

Detto questo, il falegname tornò al lavoro, senza più parlare né fare segno. Nadia sospirò e fece cenno ai due di seguirla. Aurora e Lex si fecero scortare oltre la grotta in cui Axel lavorava: la caverna, infatti, proseguiva oltre. Entrambi i sopravvissuti dovevano ammettere che avevano fatto un gran bel lavoro nel trovare e crearsi una dimora su ARK. Raggiunsero un buco nel terreno, connesso ad un livello inferiore da una scala a pioli. Nadia la scese, seguita a ruota dai due sopravvissuti, accese una torcia e andò ad attizzare i bracieri di quella camera, che erano spenti. Si ritrovarono in un antro in cui si vedeva pochissimo, soltanto che c’erano cianfrusaglie varie a ridosso dei muri. Mentre la menscevica faceva luce, Aurora ebbe come la sensazione di sentirsi osservata. Non sapeva perché, ma si sentiva come se avesse due occhi puntati du di sé, da qualche parte in quella spelonca; quando si accorse che Lex si stava guardando in giro con fare circospetto, si rese conto che anche il suo amico doveva sentirsi così. Inoltre, le parve di sentire era un flebile suono appena percettibile che le parve un respiro, in un istante in cui ci fu assoluto silenzio. Però non ebbe il tempo di chiedersi cosa fosse, perché Nadia finì di illuminare la grotta e si pose al suo centro.

«Potrei passare ore a raccontarvi com’è fatta l’Aberrazione e com’è la vita lì, ma penso che questi ritratti di Axel mi faciliteranno molto il compito» affermò la donna, indicando le pareti.

Aurora e Lex osservarono con attenzione e ammirazione: Axel aveva fatto delle pitture rupestri semplici, ma ricche di particolari, di quattro diversi paesaggi: una landa desolata sotto un cielo stellato, con un obelisco caduto dalla luce viola in lontananza; una rigogliosa foresta di abeti in cui i sempreverdi erano affiancati a funghi giganti di colore arancione, situata in una vallata sotterranea illuminata da fori nel soffitto; una palude buia in cui ogni cosa risplendeva di blu, che scendeva sempre più in profondità nel sottosuolo, dall’atmosfera magica e pericolosa al contempo; un’enorme gola poco illuminata da un bagliore rossastro, percorsa da fiumi di un liquido viola e luminescente, che dava l’aria di non essere per niente sicura.

«Inizio ad immaginare perché quell’Arca si chiama “Aberrazione”» commentò Lex, rapito.

«Tu non hai la benché minima idea» disse Nadia.

«A me sembra quasi un bel posto, cos’è successo ad Axel per diventare così?» chiese Aurora, cercando di moderare i termini per non essere offensiva.

La Russa guardò verso l’alto:

«Il responsabile sembrerebbe lui» disse, indicando con l’indice.

I due sopravvissuti sollevarono lo sguardo e videro una quinta pittura rupestre: un gigantesco mostro che sembrava uscito da un racconto dell’orrore immaginato durante un’allucinazione, con un volto solo vagamente umano, il torace aperto che metteva in mostra gli organi e, per il resto, nient’altro che un groviglio di enormi tentacoli. Era circondato da cascate del liquido viola della gola raffigurata sul quarto muro.

«Cos’è quell’essere?» chiese Aurora.

Con un sospiro, Nadia iniziò la sua storia:

«Vedete, Axel era sull’Aberrazione già da cinque anni quando io mi ci svegliai, tre anni fa. Ero andata a dormire dopo una giornata pienissima a medicare chi era rimasto ferito nei moti del 1917 e, di punto in bianco, mi sono svegliata in una foresta sotterranea, circondata da chissà quali mostruosità. Lui mi salvò appena prima che fossi fatta a pezzi da una muta di razziatori»

«Razziatori?» chiese Lex, incuriosito.

«Sì, delle specie di lupi nudi che vanno in giro per le caverne in cerca di prede facili. Dei veri bastardi, quando non sono dalla tua parte»

«Come molte altre specie delle Arche» sorrise il biondo.

«Axel mi ha ospitato nella sua base e mi ha insegnato a sopravvivere lì. Vi giuro, quel posto sa come essere tremendo, anche quando ormai lo conosci come la tua camera da letto»

«C’erano altri sopravvissuti, oltre a voi?» chiese Lex, per curiosità.

L’infermiera fece spallucce:

«Ogni tanto qualcuno appariva, molto di rado, ma duravano poco. Noi cercavamo di accoglierli, ma rifiutavano tutti. Le creature facevano il resto. Comunque, Axel aveva già dei comportamenti bizzarri, quando lo conobbi, ma non era niente di grave. Tuttavia, col tempo, si è aggravato in una maniera che non avrei mai potuto aspettarmi. Era continuamente terrorizzato, si comportava come se qualcuno gli dicesse cose orribili in ogni istante e, a quanto pare, era tutto vero. Per fortuna, riuscii a convincerlo a confidarmi quello che sentiva e mi descrisse tutto nei dettagli: nella testa sentiva la voce di quell’essere sul soffitto»

«Ma cos’è?» chiese Aurora.

«Da quello che mi ha spiegato Axel, sta nelle profondità più remote dell’Aberrazione e, in qualche modo e la controlla. Mi ha detto che si chiama Edmund Rockwell»

Quando sentirono quel nome, i due sopravvissuti si scambiarono un’occhiata sorpresa; Aurora si accorse che, a partire da quel momento, Lex si era messo a seguire il discorso col doppio dell’attenzione. Nadia notò la loro reazione e, incuriosita e con una nota di speranza nello sguardo, domandò loro se lo conoscevano. Lex le rispose semplicemente che teneva una raccolta di copie di due diari scritti da Edmund Rockwell, sull’Arca da cui provenivano, ma che non sapeva ancora cos’era successo al medico inglese dopo la fine del secondo.

«Quindi non è sempre stato sull’Aberrazione? Allora non ha detto proprio tutto ad Axel» rimuginò Nadia.

«Mi domando come sia diventato così. Nel senso, un mostro in grado di regolare e controllare un'Arca. Qualcosa mi dice che c’entra l’Elemento» ipotizzò Lex.

«Be’, Axel mi dice che Rockwell gli ha spiegato di essere “asceso” grazie a qualcosa che chiama “edmundio”. Ormai, tramite i deliri di Axel e quello che ci è successo, conosco quel materiale piuttosto bene e sono sicura che parliamo della stessa cosa – lo supportò Nadia – D’altronde, è grazie a quello che Axel udiva nella sua mente che abbiamo imparato la verità sulla nostra situazione: sapete, che ci trovavamo su una di tante “arche” nel cosmo, che eravamo in un futuro in cui c’è stata l’apocalisse, che l’Aberrazione era un’Arca distrutta eccetera. È stato parecchio da accettare»

«Immagino» mormorò Aurora.

«Più per Axel che per me. Lui era un marito e un padre di famiglia ad Amsterdam, prima di apparire lì. Io? Be’, diciamo che non mi dispiace così tanto. Insomma, il mondo come lo conoscevo era già il caos: la Grande Guerra, i disordini nella mia cara e fredda Russia, coi dannati bolscevichi che imponevano le loro idee con la forza; a momenti, mi sentivo più a casa sull’Aberrazione, con Axel, lo giuro. E, onestamente, su questa nuova isola ho trovato la felicità, quindi mi considero soddisfatta» ammise la menscevica.

«E così Rockwell ha tormentato il tuo compagno fino a farlo diventare pazzo? Perché?» chiese Aurora.

«Vorrei tanto saperlo, ma solo il più schifoso dei bastardi ridurrebbe un uomo in quello stato! Era arrivato ad un punto in cui non lo riconoscevo davvero più e, ancora oggi, è ben lungi dall’essersi ripreso. Lo potete vedere voi stessi. Alla fine ho potuto andare solo io in superficie e nelle zone blu e rossa a prendere risorse rare, perché Axel era sempre così perso che non poteva rischiare di esplorare le zone più pericolose, soprattutto considerando che gli abissi sono radioattivi»

«Allora come avete fatto a venire qui?» chiese Lex.

Nadia si mise a camminare nervosamente avanti e indietro per la grotta, a testa china:

«L’anno scorso, ho fatto un incontro decisamente inaspettato nel bioma blu. Mentre mi aggiravo per una palude azzurra, ho visto un uomo che veniva fatto a pezzi da un branco di senza-nome»

«Senza-nome?» la interruppe Aurora, confusa.

«Sì: sono piccoli, infami, odiosi figli di puttana che si appostano sottoterra e temono la luce elettrica, brutti come la fame. Forse la cosa che odio di più dell’Aberrazione. Quando li ho uccisi tutti, quel disgraziato era da buttare: aveva più sangue per terra che in corpo e non ho il coraggio di descrivervi il resto – rabbrividì per un secondo, poi riprese – L’ho portato alla base, così avrebbe passato i suoi ultimi momenti in un posto sicuro. Sapete che tipo di uomo era?»

«Cosa intendi?» chiese la rossa.

«Era identico agli Arkiani. Stesso colore della pelle, stessi lineamenti, stessa lingua che non riuscivamo a capire con gli innesti. Quando io e Axel l’abbiamo disteso su un letto, rantolava che doveva tornare a casa e ha tirato fuori questa»

A quel punto, Nadia raggiunse una cassa di legno in un angolo in fondo alla caverna, accanto all’imboccatura di una galleria che portava ancora più in profondità, la aprì e ci frugò dentro. Ne tirò fuori nientemeno che una sfera di Elemento TEK. Era diversa da quella che avevano trovato, ma capirono subito che l’utilizzo era lo stesso. Sembrava letteralmente una versione più avanzata della loro sfera, col rame sostituito dal TEK. I due sopravvissuti ebbero l’impulso di fare dei passi avanti, per osservarla meglio. Lex era visibilmente emozionato, perché stava scoprendo importanti dettagli su quel mistero dei viaggi tra le Arche e l’ARK terrestre.

«Ha cercato di usarla, mentre noi provavamo inutilmente a comunicare con lui. Ci ha detto di essere in esplorazione e che con questa sarebbe tornato alla sua terra»

«Ovvero quest’isola» concluse Lex.

«Esatto. Io ho fatto il possibile per tenerlo in vita più a lungo che potevo, ma alla fine è morto dissanguato. Per alcuni giorni, io ho cercato di capire come funzionava quest’affare e di leggere degli appunti in un libretto che gli ho trovato addosso. A giudicare dai disegni che ci aveva fatto, erano delle spiegazioni su come funziona la sfera, ma era scritta in una lingua che non capivo per niente, così dovevo andare alla cieca; nel frattempo, Axel è peggiorato di colpo: sembrava che Rockwell lo assillasse con molta più cattiveria del solito. È persino arrivato a colpirmi, una volta che ho tentato di avvicinarmi!»

«Immagino, doveva essere veramente al limite: non mi stupisce che ricordare quel posto gli faccia così paura» commentò Aurora.

«Già, è stato molto difficile farlo migliorare, ma un passo alla volta sono riuscita a fargli ritrovare la sicurezza, almeno fino a ieri. Comunque, alla fine ce l’ho fatta: la sfera sembrava essersi rotta durante l’attacco dei senza-nome; ma, dopo averci armeggiato per molto tempo, in qualche modo l’ho attivata e si è aperta una porta magica, come dal nulla! L’abbiamo attraversata e ci siamo ritrovati qui. E, da allora, questa è la nostra nuova vita. Be’, questo è più o meno tutto. Adesso vi dispiacerebbe raccontarmi la vostra storia? Chi siete? Da quale Arca venite? Siete arrivati qui come abbiamo fatto noi?» chiese.

Aurora, dopo alcuni attimi di silenzio per ripensare al quadro generale di ciò che aveva appreso, si schiarì la voce e fece per risponderle, ma Lex la trattenne alzando una mano e disse:

«Un momento: hai detto che l’estraneo che hai soccorso aveva degli appunti che non sapevi leggere. Vorrei darci un’occhiata, dove lo tenete?»

«Oh, li ho lasciati sull’Aberrazione»

«Oh, capisco» fece il biondo, deluso.

«Se volete, però, andiamo a recuperarli adesso. Così ne approfitto per farvi vedere la nostra casa là!»

I due sopravvissuti la guardarono negli occhi, perplessi:

«Aspetta, quindi quella sfera funziona? Avevi detto che era rotta, mi ero immaginato che avesse funzionato solo quando siete passati dall’Aberrazione a quest’ARK» ammise il Tedesco.

Nadia scosse la testa, con un sorriso:

«Oh no, funziona! È rotta, sì, però riesco ad usarla quando voglio per tornare sull’Aberrazione e occuparmi di alcune faccende rimaste in sospeso lì. Ovviamente lo faccio solo io, perché Axel non se lo sognerebbe mai»

Aurora, colta da un lampo di entusiasmo e speranza, aveva il cuore a mille:

«Ma allora noi due potremmo usarla per tornare sull’Isola? Non avremmo più bisogno di farci restituire la nostra da Jonas e Bob!» esclamò.

«Lo penso anch’io» annuì Lex.

Nadia sospirò, mortificata:

«Mi dispiace deludervi, ma purtroppo sembrerebbe rotta proprio in quel senso»

«Cosa?»

«Posso usarla solo per fare andata e ritorno da qui all’Aberrazione. Se uso tutti gli altri tasti, non funzioneranno»

«Oh...» mormorò Aurora.

Lex si morse le labbra, con le mani sui fianchi:

«Era troppo bello per essere vero – commentò – Però mi piacerebbe molto dare un’occhiata all’Aberrazione e a quel diario: è praticamente quello che faccio di solito»

«Prima ditemi di voi, per cortesia» li incoraggiò Nadia, invitandoli a sedersi.

Aurora e Lex presero posto a due sgabelli che c’erano tra le cianfrusaglie accumulate lì dentro e, con calma e chiarezza, le parlarono dell’Isola, dei Difensori e di come stavano le cose lì. Lex, ovviamente, non omise i suoi viaggi da un’Arca all’altra tramite gli obelischi. Proprio come avevano appena fatto loro, Nadia ascoltò tutto con la massima attenzione, annuendo con sguardo comprensivo quando vedeva che tutti i dettagli sul sistema delle Arche che aveva scoperto tramite i deliri di Axel corrispondevano di fatto alla realtà. Fu un po’ colta alla sprovvista quando scoprì che lei e Axel appartenevano alle generazioni di sopravvissuti che mantenevano i ricordi della loro vita passata, mentre quelli di cui i due amici facevano parte avessero la memoria cancellata: ammise di sentirsi molto fortunata a sapere ancora chi era stata in origine e che le dispiaceva per loro. Poi arrivarono alla scoperta della sfera e, a quel punto, Nadia era perplessa:

«È di rame e con delle lettere sui tasti? Strano, sembra una versione più vecchia di quella che abbiamo qui»

«Penso che sia proprio così: Aurora l’ha trovata in mano ad uno scheletro pieno di muschio, tu l’hai vista in mano ad un proprietario vivo. Forse è davvero un modello più avanzato»

«E ho scoperto questo mondo scrivendoci “CASA”. A quanto pare, è la “casa” del proprietario» aggiunse la rossa.

«Però gli Arkiani non sembrano affatto ai livelli del TEK. Voglio dire, non hanno nemmeno l’elettricità…» rifletté Lex.

«Non vi preoccupate, ho già una risposta per quello: dev’essere stato un Pre-Arkiano. Sapete, quelli che hanno costruito le rovine sparse per l’arcipelago»

«Davvero? Ne sei sicura?» la interrogò Lex.

«Certo: gli Arkiani ne parlano spesso e ce ne sono delle prove viventi. A quanto pare, da nove siti in rovina ogni tanto escono cose o esseri letteralmente da altri mondi. E, considerando che la barriera sembra attirare qui cose sia dal passato che dal futuro, fate due più due. Abbiamo avuto la gran fortuna di incontrare uno degli antenati degli indigeni e, quando siamo venuti qui, ci siamo ritrovati in un tempo dove ci sono i loro primitivi eredi. Incasinato ma semplice, non trovate?»

«Sì, è decisamente incasinato» rispose Aurora, grattandosi il collo.

«E ora si torna alla nostra situazione presente: i fratelli Braddock si sono impadroniti della sfera, quindi ci tocca fare delle commissioni per loro per farcela restituire, così finalmente saremo liberi di tornare sull’Isola» terminò Lex.

«Capisco. Be’, buona fortuna: almeno voi avete una vita a cui tornare, con degli obiettivi ben precisi… vi auguro di cavarvela, davvero. Comunque, direi che ora siamo pronti per andare sull’Aberrazione. Pronti?»

I due sopravvissuti si guardarono, quindi annuirono.

«Bene! Aspettate un secondo»

La menscevica, allora, torse le due metà della sfera in Elemento. Essa si aprì, rivelando una tastiera e una boccetta di vetro con dentro il pezzo di legno pulsante che secerneva il liquido azzurro, come la sfera di rame. Poterono vedere, però, due dettagli: il primo era che il legnetto era spezzato e usciva pochissimo liquido. Il secondo era la tastiera: era composta da due cerchi concentrici. Il primo, al centro, era un tasto rotondo con dentro l’icona stilizzata dell’arcipelago arkiano, di cui riconobbero i contorni grazie alle mappe che avevano visto in giro con Drof e Acceber. Il secondo cerchio era diviso in nove parti, ciascuna con un diverso numero di tacche, che andava da una a nove. Nadia provò a premere alcuni di essi, ma non successe niente.

«Ecco, come vedete, questi non funzionano. Se invece faccio così…»

A quel punto, premé il tasto con una sola tacca. Allora la sfera si “risvegliò”, ma non nel modo che si stavano aspettando. Non ci fu nessun rovesciamento del liquido per terra. Invece, il pezzo di legno iniziò a vibrare e la sfera emise un fastidioso fischio acuto e, di fronte a loro, apparve un portale. Come quando era dentro la pozzanghera, era trasparente e si vedeva dall’altra parte. La differenza era che, questa volta, si era aperta una “frattura” di fronte a loro, come una porta, molto più grande di una persona.

«Ecco fatto! Dobbiamo solo saltare dentro. Pronti?» sorrise Nadia.

«Oh, assolutamente!» disse Lex.

«Allora seguitemi!»

L’infermiera russa, senza ulteriori indugi, si avvicinò al portale e lo varcò. Aurora e Lex, dunque, la seguirono a ruota. Ed ecco che, in un battito di ciglia, tornarono nel mondo delle Arche, seppur su una che nessuno dei due aveva mai visto prima di allora.

«Ed eccoci qua» affermò Nadia, mentre il passaggio si dissolveva alle loro spalle.

«Adesso dovremo aspettare un giorno per farlo funzionare ancora, giusto?» indagò Aurora.

«Un giorno? Perché? La vostra sfera fa così? Io posso usarla tutte le volte che voglio» la contraddisse Nadia.

Riflettendoci meglio, la sopravvissuta si ricordò che, in effetti, la boccetta di vetro non aveva rovesciato il fluido per terra, quindi il rametto spezzato non doveva trascorrere una giornata intera secernendone altro. Adesso cominciava a provare davvero invidia per la sfera più avanzata, in TEK.

«Questo ci risparmierà molte scomodità, non c’è che dire» fu il commento di Lex.

Adesso si trovavano al piano terra di un’abitazione in pietra, un unico, grande locale in cui c’era una forgia industriale, un fabbricatore, svariate casse e guardaroba, un angolo adibito a cucina e un tavolo chimico. I due erano decisamente arrivati a poter costruire gli engrammi avanzati da parecchio tempo. Lex volle fare una prova: come si aspettava, essendo tornati sulle Arche, gli innesti potevano attivarsi di nuovo. D’istinto, Aurora fece lo stesso, perché voleva accertarsi di avere oggetti utili che avrebbe potuto tirare fuori prima di tornare su ARK. Non trovò niente di che, come si ricordava, ma ebbe comunque la premura di trasferirvi la statuetta di legno, così non avrebbe rischiato di perderla sull’ARK terrestre. Nadia fece un rapido giro dei vari strumenti sparsi per la stanza e trasferì degli oggetti dal e nel suo inventario, poi aprì la porta e li invitò ad uscire.

«È così suggestivo!» esclamò Aurora, quando mise piede fuori.

Si trovavano nel cosiddetto “bioma verde”, la foresta sotterranea di cui Axel aveva fatto un ritratto nella grotta. Per la precisione, erano sul fondo di un enorme avvallamento che conteneva un lago, al centro del quale si innalzava un gigantesco pilastro di roccia. Ai margini c’erano dei vasti ripiani che conducevano ai livelli superiori del sistema di caverne, dove la foresta di conifere e funghi giganti si faceva più fitta, e la luce del Sole passava attraverso gli squarci sparsi per la volta rocciosa, creando degli affascinanti giochi di luce dall’aria quasi paradisiaca. La base era protetta da un muretto di blocchi di pietra, rinforzato a sua volta da una fila di spuntoni metallici: il perimetro difensivo copriva la base sui lati e sul retro, mentre sul lato frontale c’era la riva del lago. Nel giardino dell’insediamento c’erano altre casse e strutture secondarie.

«Benvenuti al Lago Fertile!» esclamò Nadia, sorridente.

«Cominciamo bene: il posto non è affatto male» disse Lex, osservando il paesaggio intorno a sé.

Aurora poteva vedere molto bene l’emozione e l’entusiasmo che crescevano sempre di più nel ragazzo, di fronte ad un luogo nuovo. E dava per scontato che non vedesse l’ora di esplorare quella nuova Arca da cima a fondo. Tuttavia, erano venuti lì per un altro motivo, quindi era chiaro che si stesse trattenendo dal chiedere a Nadia di permettergli di fare un’esplorazione approfondita: per il momento, il Lago Fertile poteva bastare. Nel caso, una volta che sarebbero stati a posto con tutta la faccenda sull’ARK terrestre, avrebbe potuto aggiungerla alla sua lista delle Arche su cui viaggiare.

«Avete degli animali domati, qui?» chiese Aurora.

«Ma certo! Aspetta, ora li chiamo» sorrise Nadia.

L’infermiera si portò le dita alla bocca e fischiò. Nel giro di pochi attimi, da vari angoli della base, intorno a loro si radunarono tre esemplari delle specie di animaletti luminosi viste prima: un canbulbo, un brillacoda e un piumalucente. Mentre il falchetto, facendo splendere tutte le sue penne bioluminescenti, si posò sul braccio di Nadia e le arruffò delle ciocche di capelli col becco per salutarla, il canbulbo prese a girare intorno alle gambe di Aurora ansimando con un sorriso larghissimo e la lingua fuori, eccitato dal vedere una faccia nuova, e il geco studiava con circospezione Lex, facendo piccoli passi scattosi con delle pause. Erano ancora più socievoli di quanto la rossa si aspettasse.

«Loro sono Lampochka, Fonar e Svecha» spiegò Nadia, indicandoli uno alla volta.

«Ciao! Ma quanto sei bello? Ma quanto sei brutto ma bello, eh?» ridacchiò Aurora.

Si accucciò e accarezzò il canbulbo, che la stava chiaramente supplicando di coccolarla. Contentissimo, il cagnolino-rana pescatrice le saltò addosso e la leccò, riempiendola di bava viscida, mentre la sua antenna luminosa diventò più abbagliante: era su di giri e stava facendo aumentare il senso di tenerezza di Aurora in ogni secondo. Pochi secondi dopo, si sentirono dei rumori e arrivarono due creature molto meno tenere. La prima era una sorta di lupo senza pelliccia, con orecchie da pipistrello e zanne molto lunghe: lo riconobbero come uno dei razziatori che Nadia aveva descritto. Subito dopo, dal terreno emerse un imponente serpente gigante con un muso draconico e tre appendici ossee sulla coda. Aurora provò ad immaginarselo mentre ingoiava un tirannosauro intero e le parve di non essere poi così lontana dalla realtà.

«Vi sono mancata, bellezze? Su, venite qui!» sorrise Nadia, mentre il razziatore le scondinzolava di fronte e il serpentone sondava i due nuovi arrivati facendo ondeggiare la lingua.

«Impressionante, cos’è questo bestione?» le chiese Lex, affascinato.

«Loro sono Hond e il basilisco Slijper. Non sapete quanto ne vado fiera!»

«Posso immaginare»

«Per forza di cose, ora passano la maggior parte del tempo senza di me, quindi li ho abituati a sorvegliare la base in mia assenza»

«Logico» annuì Lex.

«Be’, ora che le presentazioni sono state fatte e io ho preparato gli oggetti per la prossima volta che verrò qui, vado a prendere quel diario»

Nadia cominciò a camminare verso il portico della casa, che aveva anche un primo piano con delle finestre attraverso le quali si intravedevano gli arredamenti di due stanze da letto e ripostigli. Il canbulbo, d’istinto, la seguì trotterellando. Quando l’infermiera arrivò sul portico, aprì un’antina inchiodata al muro e vi tirò fuori un oggetto. Quando tornò dai due sopravvissuti, loro poterono vederlo bene: era un piccolo libro dalla copertina in pelle di rettile e le pagine leggermente ingiallite.

«Ecco a voi» disse, porgendolo a Lex.

Il ragazzo la ringraziò e prese il libro, iniziando a sfogliarlo. Aurora gli si accostò allungando il collo per vedere bene a sua volta, mentre le creature di Nadia e Axel li fissavano incuriosite. Anche il basilisco, benché fosse il più inespressivo del contingente, dimostrava di essere interessato nei confronti dei due sconosciuti. Come Nadia aveva raccontato, nelle pagine di quel volumetto c’erano molti disegni, accompagnati da appunti e didascalie, sulla sfera e sulle sue componenti. Dopo quello, erano raffigurati vari paesaggi molto diversi tra loro, divisi in nove capitoli, in cui le note somigliavano di più ad un testo organico e coeso. Nel primo di essi, riconobbero le Arche, grazie ai paesaggi con gli obelischi e gli animali preistorici. Intuirono che fossero le nove possibili destinazioni a cui i nove tasti della sfera conducevano.

«Le persone che hanno inventato quella cosa dovevano essere davvero incredibili» affermò Aurora.

«Non ne dubito» rispose Lex.

Il contenuto di quel diario diceva sicuramente molto più di quanto immaginavano. Il problema, come sapevano, era che non si capiva una parola di quello che c’era scritto.

«Be’, direi che possiamo tornare indietro. Ho un’idea: gli Arkiani capiscono tutte le lingue, perché non chiediamo ad Acceber di tradurre per noi?» suggerì Lex.

«Ci stavo pensando anch’io, ottima idea – annuì Aurora – Ma, Nadia, tu non ci hai mai pensato? Non vuoi sapere cosa c’è scritto qui?»

«Non lo capiscono neanche loro. Dicono che quanto c’è scritto lì non ha senso: ho provato a farlo leggere a molti indigeni»

«Davvero? Allora anche loro hanno dei limiti con le lingue, dopotutto» osservò Aurora.

Lex si strofinò le guance, pensoso:

«Questa è senz’altro una gran rottura. Io direi di provarci lo stesso: forse è un linguaggio criptato e, se così fosse, dev’esserci per forza un modo per decifrarlo»

«Non so quanto vi convenga sperarci, ma non vedo perché non dovreste quantomeno fare un tentativo»

«Proprio così – annuì Lex – Allora, immagino che possiamo rientrare? Vorrei tanto dare un’occhiata qui in giro, ma preferisco rimandare a quando potrò permettermi di farlo per conto mio»

«Sì, certo»

Allora, dopo aver accarezzato e salutato affettuosamente tutti gli animali, Nadia prese ancora la sfera e la aprì, stavolta premendo il tasto centrale. Il portale riapparve, conducendo alla grotta da cui erano venuti. Varcarono il passaggio, il quale prontamente scomparve dietro di loro. Ora erano tornati su ARK, sulla Terra.

«Comunque, credo di avere già una teoria» esordì Lex, prima di chiudere il diario e metterselo in tasca.

«Cioè?» chiese Aurora, interessata.

«Dai disegni, sembra abbastanza chiaro che il contenitore di vetro per il nodo di legno può essere aperto per cambiare il ramoscello. Questo è rotto. Quindi, perché non lo sostituiamo con quello dentro la nostra palla di rame, una volta che l’avremo ottenuta? Avremmo una sfera migliore, più pratica e che funziona sempre!»

«In effetti, ha senso. Tanto stiamo già cercando di riottenerla, adesso ne abbiamo un motivo in più. Tu che ne pensi, Nadia?»

La Russa annuì, con aria coinvolta:

«Be’, perché no? Voi intanto pensate a riprendervi l’altra sfera, poi si vedrà»

I due sopravvissuti non potevano che essere d’accordo. Seguirono Nadia ripercorrendo a rovescio la strada di prima, fino a tornare da Axel. Il falegname stava ancora piallando il tronco, stavolta canticchiando un motivetto. Quando li vide, osò alzare lo sguardo:

«Quindi, ehm… avete finito?» chiese, timoroso.

«Sì. È stato molto d’aiuto»

«Avete scoperto qualcosa di… ecco… importante?» chiese l’Olandese, speranzoso.

Il biondo gli disse che, almeno per il momento, avevano solo delle teorie e che dovevano aspettare di sistemarsi coi fratelli Braddock per poter fare nuovi progressi effettivi. Axel, deluso, sospirò e augurò loro buona fortuna, quindi tornò a piallare. L’infermiera lo osservò in silenzio per diversi istanti, con uno sguardo dispiaciuto. A quel punto, dopo aver ringraziato Axel e Nadia per l’ospitalità e garantendo che avrebbero fatto sapere loro come stava andando la loro missione, i due sopravvissuti uscirono dalla caverna e si ritrovarono soli. Entrambi, godendosi la melodia dei rumori della foresta di sequoie, inspirarono a fondo l’aria aperta.

«È stato incredibile, vero?» disse Aurora.

«Incredibile? Per come la vedo io è dire poco» ammiccò Lex.

«Hai ragione. Abbiamo fatto proprio bene a indagare su loro due: adesso sappiamo come migliorare e gestire i viaggi da qui all’Isola! Dovremmo proprio tornare qui per una visita decente, quando potremo»

«E io so che tornerò assolutamente sull’Aberrazione. È chiaro come il sole che capirla sarà importante per venire a capo dei misteri dei diari che ho raccolto»

«C’è spazio anche per me, vero?» lo punzecchiò Aurora.

Lex fece roteare gli occhi, ignoradola appositamente, il che la fece ridacchiare dalla soddisfazione. Tornarono dai velociraptor e tornarono al laghetto, dove videro Drof e Acceber accampati, che li stavano aspettando. Adesso che avevano fatto le dovute scoperte nuove, potevano finalmente passare i cinque giorni a venire rilassandosi e godendosi nuovi angoli dell’arcipelago arkiano coi loro nuovi contatti. Aurora non vedeva proprio l’ora di scoprire quale sorpresa Acceber aveva in serbo per lei, quella volta.

Pranzarono coi celacanti pescati da Acceber, che l’Arkiana aveva arrostito sul fuoco da campo, accompagnati dal fragore delle due cascate. Inizialmente, i due amici si limitarono ad ascoltare la ragazza e suo padre discutere in modo molto affiatato su dove era più utile piazzare le trappole per i microraptor, come evitare che i troodonti o i compsognati le rovinassero facendole scattare mentre setacciavano il sottobosco, come prevedere su quali alberi i microraptor sarebbero fuggiti se ne avessero mancati alcuni e così via. Acceber sembrava prendere con molta serietà gli insegnamenti di Drof sulla caccia e il modo di comportarsi con le creature selvatiche. Dopo i pesci, mentre mangiavano delle bacche assortite come frutta, la ragazza si rivolse ad Aurora e Lex e chiese loro cos’avevano fatto nella bottega di Axel. Loro, cercando di non perdersi troppo nei dettagli, condivisero le loro scoperte sul passato dell’Olandese e di Nadia, sulla nuova sfera per viaggiare tra i mondi e dell’Aberrazione.

«Per gli dèi, tutto questo è pazzesco. Si sta aprendo tutto un mondo intero anche per me!» esclamò Acceber, entusiasta.

Suo padre, invece, scosse la testa con aria diffidente:

«Uhm… non sono tanto sicuro che tutta questa faccenda finirà bene. L’ultima volta che degli stranieri hanno armeggiato con cose dei predecessori, è stato a dir poco un macello. E c’era già la guerra con la Nuova Legione in corso. Fossi in voi, starei più attento che a rubare le uova agli uccelli del terrore» fu il suo giudizio.

«Grazie per la preoccupazione, ma staremmo attenti in ogni caso» lo rassicurò Lex.

«Non ne dubito. Sta di fatto che ho un brutto presentimento sulla piega che la vostra vicenda sta prendendo»

«Dai, padre, non portare sfortuna! È l’ultima cosa che gli serve» scherzò Acceber.

«Scusa, scusa! Comunque, se dovesse servirvi una mano, io e i miei amici siamo disposti ad aiutarvi: basta chiedere»

«Grazie per la disponibilità» ringraziò Lex.

Quando ebbero finito di mangiare, spensero il fuoco da campo, raccolsero tutte le loro cose e richiamarono le cavalcature. La loro fermata successiva era il villaggio degli Alberi Eterni, dove gli amici di Drof stavano attendendo lui e Lex per iniziare le ricerche sul mostro acido. Attraversarono direttamente l’interno della foresta, senza raggiungere un sentiero e seguirlo. Dopo un paio d’ore di galoppo, raggiunsero la palizzata del villaggio. Una volta che le guardie li fecero entrare, si diressero alle stalle. Nel frattempo, Aurora si guardava intorno, affascinata: l’insediamento della tribù degli Alberi Eterni era unico rispetto agli altri, per via di come gli abitanti si erano adattati al posto in cui si erano stabiliti: sul terreno c’erano solo i luoghi come il mercato, le stalle e il pozzo. Ma tutto il resto, dalle abitazioni ai locali, era costruito su ampie piattaforme circolari di legno rinforzato con pietra, ancorate ai tronchi delle gigantesche sequoie: ogni albero presentava due piattaforme più piccole nella parte inferiore del fusto e vicino ai rami e una principale al centro. Erano tutte collegate da robusti ponti tibetani; la maggior parte era accessibile con delle scale in corda coi pioli di legno, alcune tra le più importanti erano equipaggiate con un primitivo ma ingegnoso sistema di ascensori mossi da carrucole e azionati da leve. Aurora dubitava che la foresta di sequoie potesse affascinarla oltre, a quel punto.

«Eccoli là» indicò Drof, quando vide i suoi sei amici raggruppati davanti alle stalle comuni.

Mentre si avvicinavano, Elehcim li vide per primo e li salutò agitando il braccio. Allora anche gli altri si accorsero di loro e li raggiunsero, aiutandoli a sistemare le bestie nelle stalle assieme alle altre creature presenti.

«Perfetto, ora ci siamo tutti» disse Aisapsa.

«Abbiamo già parlato col capovillaggio, ci siamo garantiti il posto con l’approvazione di tutti gli interessati e ci siamo fatti raccontare dai cacciatori che ci hanno provato finora cos’è successo a loro: siamo pronti a iniziare, mancavate solo voi» spiegò Odraccir.

«Io ho anche dato un’occhiata ai posti dove il mostro acido è apparso le volte scorse: mi sto facendo un paio di idee su come potremmo fare» aggiunse Oilnats.

«Ah, vedo che siete già a buon punto! – esclamò Lex – Quindi possiamo metterci al lavoro subito?»

«Certo! A quanto pare hanno tutti voglia di farsi sventrare» borbottò Ynneb, sarcastico.

«Di certo non io» scherzò Odraode.

«Lex, tu e Aurora avete detto di avere cinque giorni liberi prima di tornare a lavorare per i due stranieri?» chiese Aisapsa.

«Sì» confermò il Tedesco.

«Be’, allora dovresti riuscire a partecipare a tutta la caccia con noi! Ammesso che riusciamo a stanare quel mostro, altrimenti pazienza»

«Vedrò di rendermi utile»

Mentre loro discutevano prima della caccia, Acceber attirò l’attenzione di suo padre toccandoolo sulla spalla:

«Bene, allora io e Aurora andiamo, adesso. Ti saluto, padre!»

«Divertitevi! Riportala indietro tutta intera, mi raccomando» ammiccò Drof.

«Ha-ha-ha, divertente. Vieni, Aurora: finalmente siamo solo noi due!»

«Va bene, ti seguo» sorrise la rossa, mentre l’Arkiana la portava via con sé tenendola per mano.

POCO DOPO…

«Mi potresti dire dove stiamo andando?» chiese Aurora, per l’ennesima volta.

Era da quando avevano lasciato il villaggio che cercava di farselo dire, ma Acceber rifiutava sempre con un sorrisetto. L’Arkiana aveva preso un gallimimo dalle stalle e aveva fatto accomodare Aurora dietro di sé, sul posto a sedere centrale della sella composita; nel frattempo, si facevano seguire da un terizinosauro, che sarebbe servito per difenderle nel caso in cui avessero incontrato dei predatori, anche se Acceber aveva garantito di aver scelto una zona dove non ce n’erano. Mentre il gallimimo sfrecciava ad ampie falcate nel sottobosco, in direzione Nord-Ovest, l’erbivoro piumato dai lunghi artigli lo seguiva come meglio poteva per non rimanere indietro. Alla fine, Aurora riuscì ad insistere abbastanza da convincere Acceber:

«Esploreremo la Grande Foresta insieme per domare una creatura che sarà tutta tua!»

Aurora non se l’aspettava. Dal modo in cui Acceber non vedeva l’ora che quel momento arrivasse, immaginava che la figlia di Drof volesse farle vedere un paesaggio unico come l’isola volante o portarla a fare qualche attività, domare una creatura per lei era l’ultima cosa che le era venuto in mente.

«Davvero? Grazie!»

«Tanto non potrei domarla per me in ogni caso: non potrò avere un animale mio e soltato mio fino all’anno prossimo, quando domerò la creatura che mi darà il diritto di ottenere l’innesto nel polso»

«Capito»

«Se ricordo bene quello che mi hai raccontato, sulla vostra isola hai domato un equus quando eri da sola, giusto?»

«Sì, è stato quando il raptor Alfa mi ha lasciato questi segni sulle braccia. Sia io che il cavallo ce la siamo vista brutta»

«Bene, questa sarà la tua occasione per riprovarci come si deve, senza incidenti! E io ne approfitterò per fare esercizio: ho intenzione di diventare una maestra domatrice, come Aisapsa»

«Sei davvero incredibile, Acceber: continui a fare tutto questo solo per me»

La ragazza fece spallucce:

«Cerco giusto di farti avere bei ricordi di ARK quando te ne andrai»

«Ah be’, quelli su di te saranno di certo grandiosi!»

«Mi fa piacere! Siamo quasi arrivate, comunque»

«Dove?»

«Conosco un posto in questa regione in cui di solito c’è una mandria di equus. Stiamo andando da loro»

Dopo qualche altro minuto di cavalcata, il gallimimo arrivò e si arrestò, raggiunto pochi minuti dopo dal terizinosauro, ai margini di una vasta radura erbosa cosparsa di felci e attraversata da un ruscello; era uno dei pochi angoli di tutto il bioma in cui il Sole non fosse oscurato dalle immense fronde delle sequoie. Le due ragazze scesero a terra e fecero alcuni prudenti passi nella radura, guardandosi in giro. In quel momento non c’era nessuna traccia di cavalli cenozoici lì, vi era solo un paraceraterio solitario che, abbassando il lungo collo, mangiava placidamente le felci, torreggiando al centro dello spiazzo con la sua mole imponente.

«Non sono ancora arrivati, ma dobbiamo solo aspettare: passano da qui una volta al giorno» spiegò Acceber.

«Va bene, allora ci raccontiamo storie?» suggerì Aurora.

«Molto volentieri!»

Detto questo, le due ragazze si sedettero una accanto all’altra a ridosso di una sequoia e presero a scambiarsi aneddoti sulle rispettive isole, la loro attività preferita da quando si erano incontrate. Nel frattempo, il gallimimo e il terizinosauro cominciarono a razzolare in giro. Il primo, stando sempre all’erta come faceva sempre per natura, strappava pezzi di felce e si guardava continuamente in giro mentre masticava, senza smettere un attimo di gironzolare; l’altro, invece, setacciava e affettava i cespugli e rivangava il terreno con gli artigli alla ricerca di fibre e radici. Così, il tempo trascorse.

«Pronta? Tira!»

Aurora caricò il lancio, prese la rincorsa e gettò il sassolino verso la superficie del ruscello. Il ciottolo rimbalzò una, due, tre e poi un’ultima volta, prima di sprofondare e unirsi alle altre pietre sul fondo della roggia. Era il primo di innumerevoli tentativi in cui la rossa riusciva a far rimbalzare il sasso più di tre volte. Qualche ora prima, mentre conversavano, ad Acceber era capitato a caso di domandare ad Aurora se era capace di fare quel piccolo gioco, che lei usava sempre come passatempo durante le attese solitarie. Alla risposta negativa della rossa, si era offerta di insegnarglielo e Aurora aveva accettato volentieri. Quindi, visto che gli equus non accennavano ancora ad arrivare, avevano trascorso il tempo in quel modo: Acceber mostrava ad Aurora come si faceva e poi le faceva provare. La rossa migliorava molto velocemente e si stava pure divertendo.

«Vogliamo provare ad arrivare a cinque rimbalzi? Se non ti sembra di esagerare» la punzecchiò.

«Esagerare? Allora ti dico che arriverò a sei!» la sfidò Aurora.

«Bene, allora dacci dentro!»

Proprio in quel momento, però, iniziarono a sentire degli scalpiccii di zoccoli e degli sbuffi. Si voltarono e videro che, finalmente, dal fitto della foresta, nascosti dalle penombre create dal sottobosco dal Sole che cominciava a tramontare, erano spuntati gli equus. I cavalli preistorici, uscendo con calma allo scoperto, iniziarono a pascolare placidamente in giro, mantenendosi principalmente sul margine della foresta, facendo compagnia al paraceraterio, che ogni tanto si voltava a guardare con aria distaccata i nuovi arrivati o le due umane.

«Ci siamo! Vieni» sussurrò Acceber.

Aurora obbedì, entusiasta all’idea di stare per domare una di quelle simpatiche creature ancora una volta. La figlia di Drof, raggiunto il gallimimo, prese dalla sua sella e una borsa di cuoio colma di sacchetti di iuta pieni di carote, pannocchie e lattuga: esche per avvicinare e far affezionare a piccoli passi uno degli equus. Allora, Acceber prese anche una fionda e passò il tutto ad Aurora. Le disse che l’avrebbe solo tenuta d’occhio e che avrebbe lasciato fare a lei. Aurora si mise la borsa delle esche a tracolla e prese la fionda e disse all’amica che era pronta. Prima di cominciare, l’Arkiana ordinò al gallimimo e al terizinosauro, che si era sdraiato pigramente sull’erba, di restare dov’erano. Le due ragazze si posizionarono più o meno al centro della radura, vicino al ruscello. La mandria di equus era tutta dall’altra parte, mentre adesso il paraceraterio era intento a bere.

«Non sarà difficile – disse Acceber – In molti hanno già domato degli esemplari da questa mandria, quindi non si spaventano più quando vedono delle persone vicino a loro. Tieni solo la distanza giusta e non scapperanno»

«Benissimo»  

«Do per scontato che non ti servano dritte, quindi ti lascio andare!»

Quindi, mentre Acceber si accucciò accanto ad una macchia di felci, Aurora attraversò il ruscello e fece dei lenti e cauti passi verso la mandria. Quando gli equidi iniziarono a notarla e voltarsi tutti nella sua direzione drizzando le orecchie, capì di non doversi avvicinare oltre. Quindi iniziò il procedimento: prese il primo sacco, allentò i lacci che lo tenevano chiuso per accertarsi che le esche uscissero, lo caricò nella fionda e lo tirò a circa una quindicina di metri da sé. Il sacco di iuta rotolò sull’erba e alcuni degli ortaggi fuoriuscirono. A quel punto, doveva aspettare e scoprire quale equus fosse il meno timoroso, quello che si sarebbe fatto avanti per primo per accettare il regalo. Aurora si voltò con un sorrisetto per vedere Acceber che le mostrava il pollice alzato e annuiva. A quel punto, la rossa si appostò con un ginocchio a terra e la mano libera poggiata sull’altro, stando in attesa. Per diversi minuti, gli equus fecero tutti finta di niente: ogni tanto qualcuno osava levare lo sguardo verso quelle invitanti verdure gratuite, ma alla fine tornavano tutti ad annusare l’erba o i cespugli, facendo finta di pascolare. Non successe niente per così tanto che Aurora fu tentata di lanciare un altro sacchetto ma, proprio mentre lo metteva nella fionda, ecco che finalmente un cavallo più audace degli altri iniziò ad avvicinarsi alle esche, circospetto. Era uno stallone bianco, con le zebrature marrone scuro e la criniera spelacchiata in alcuni punti.

“Oh, ecco!” pensò Aurora, soddisfatta.

Piano piano, un passo alla volta, sempre più sicuro, l’equus raggiunse l’esca. Prima di fare altro, gettò uno sguardo diffidente ma interessato alla rossa, la quale d’istinto gli sorrise. Il cavallo rimase immobile per alcuni secondi, poi finalmente iniziò a mangiare gli ortaggi, masticando con calma e ficcando il muso nel sacchetto alla ricerca di quelli che non si erano riversati sul prato. Quando ebbe finito, tornò a fissare Aurora, agitando la coda e le orecchie. Dopodiché, emise uno sbuffo, scosse la testa su e giù e si riunì ai suoi simili trottando. Tuttavia, da quel momento, non smise più di tenere d’occhio Aurora, mentre si aggirava per il limitare della foresta. La ragazza, contenta di aver individuato l’esemplare che sarebbe stato la sua futura cavalcatura, si azzardò a fare alcuni passi avanti. Come si aspettava, tutti gli equus non si attardarono ad allertarsi e ad allontanarsi un poco, rientrando nella foresta pur restando nei paraggi. L’equus che aveva mangiato l’esca, però, fu quello che si allontanò meno. Quasi un’ora dopo, Aurora decise di tentare di gettare un secondo sacchetto. Il suo “equus” non sembrava molto convinto, all’inizio; ma poi si accorse che anche il paraceraterio sembrava essersi interessato a quelle verdure, quindi nitrì infastidito e trottò verso l’offerta della rossa per mangiare per primo. Questa volta, dopo che ebbe mangiato, non si riunì ai suoi compagni di mandria, almeno fino a quando, ormai a sera calata, non decisero tutti di andarsene da lì. Mentre tutti i cavalli sparivano di nuovo nel fitto della foresta di sequoie per cercare un posto sicuro dove riposare, l’equus spettinato indugiò. Prima di partire, si voltò un’ultima volta a guardare la rossa negli occhi, prima di galoppare in direzione dei suoi simili per non farsi lasciare indietro. Il giorno era finito, così come l’inizio di quella tenera domatura. Aurora, contenta e soddisfatta di quell’inizio promettente, si alzò e si stirò senza smettere di sorridere, mentre Acceber la raggiungeva.

«Sei stava bravissima! Inizio coi fiocchi» si complimentò.

«Grazie, Acceber»

«Hai già pensato ad un nome?»

La rossa si strinse nelle spalle:

«No, non ancora: una cosa per volta. Ci penserò, poi deciderò quando avrò finito»

«Giusto, a pensarci bene lo farei anch’io»

Nel frattempo, anche il paraceraterio decise che era giunto il momento di lasciare quella radura e, seguendo la corrente del ruscello, scomparve a sua volta nel mezzo della foresta, facendo vibrare la terra coi suoi passi e piegando gli alberi più giovani e sottili quando li urtava. L’Arkiana guardò su e vide le prime stelle che erano apparse nel cielo sempre più buio. La radura era ormai quasi completamente all’ombra.

«Be’, è ora di riposarci: domattina mi metterò sulle loro tracce e ti riporterò da loro. Sono certa che il tuo nuovo amico non vede l’ora di un altro regalino»

«Anch’io» disse Aurora.

Quindi le due ragazze si aiutarono a preparare un fuoco da campo e ad accenderlo, mentre i due dinosauri si adagiavano accanto a loro. Cenarono con delle strisce di pancetta di fiomia salata, delle pagnotte e degli acini d’uva che Acceber aveva preso al mercato degl Alberi Eterni prima dell’escursione, raccontandosi ancora alcune brevi storie personali nel mentre. Quando la luna fu alta nel cielo, Aurora decise di coricarsi, mentre Acceber sarebbe rimasta sveglia ancora qualche ora per controllare ulteriormente i dintorni. Distendendosi nel sacco a pelo, nonché a ridosso del soffice e caldo piumaggio del terizinosauro (a cui non dispiaceva affatto dormire con Aurora appoggiata al suo fianco), la sopravvissuta si addormentò pervasa da un senso di pace e di calma, osservando il firmamento. Era sempre più riconoscente per aver casualmente scoperto quella sfera di rame: ARK era un posto fantastico e la sua nuova amica era meravigliosa. Cos’altro poteva chiedere, in quell’avventura sull’isola preistorica? Domani sarebbe stato un altro gran bel giorno, se lo sentiva.

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Capitolo 10
*** Una Notte Atroce ***


ALL’ALBA, AL VILLAGGIO…

Su richiesta di Oilnats, dopo un primo “punto della situazione” sui loro piani, Lex e Drof avevano passato tutta la notte procurandosi materiali per preparare diversi esplosivi artigianali e avevano avuto poco tempo per riposare. Adesso, all’alba, la curiosità di scoprire come fosse il fantomatico “mostro acido” era l’unica cosa che permetteva a Lex di resistere alla sonnolenza appena percettibile, ma comunque insistente. Alla fine, lui e il padre di Acceber avevano fabbricato sei trappole di barili pieni di polvere pirica. Mentre trasportavano tutto verso l’accampamento che il gruppo aveva allestito nei pressi del villaggio degli Alberi Eterni, sul bordo di una delle alture nella Grande Foresta, il biondo tentò di cavare dei dettagli da Drof:

«Neanche tu sai come useremo queste trappole?»

Drof si strofinò gli occhi e rispose tranquillamente:

«Se lo sapessi, te l’avrei già detto»

«Il tuo amico fa sempre il misterioso?»

«Sì: gli piace spiegare le cose solo quando ogni singolo dettaglio è pronto. Non ho mai conosciuto qualcuno di più meticoloso di lui, in vita mia. Avresti dovuto vederlo quando eravamo dei ragazzini»

Lex fece una sommessa risata. Ripensando al quadro generale, si ricordò che quella notte Odraccir aveva annunciato che il mattino dopo avrebbero messo insieme tutti gli indizi, così domandò a Drof a cosa si riferisse. L’Arkiano, dopo aver lasciato che il suo carnotauro si affilasse il corno contro il tronco di una sequoia, raccontò che era già da due mesi che tentavano di organizzare una caccia al mostro acido. Così, come loro sette erano soliti fare quando si coordinavano, avevano iniziato a raccogliere indizi. Ciascuno aveva indagato in luoghi diversi e su aspetti differenti della creatura e, a breve, avrebbero condiviso tutte le eventuali scoperte.

«Avete fatto così anche per il giganotosauro dell’altro giorno?» chiese Lex, per curiosità.

«Certo – annuì Drof – Chi diceva che non fosse Zanna Rossa, in fondo? Se fosse saltato fuori che era lui, non l’avremmo mai attaccato»

«Capisco. Be’, vediamo cosa salterà fuori adesso»

«Sì»

Poco dopo, entrarono nell’accampamento. C’era molta agitazione: gli amici di Drof andavano e venivano con fare scattante, sistemando le cose più disparate, da riempire le mangiatoie per le cavalcature ad affilare le armi. Tutti salutarono frettolosamente Drof, tranne Aisapsa, la quale si degnò quantomeno di fermarsi e sorridergli. Solo uno non si stava prendendo cura del campo: Ynneb. Il costruttore di trappole stava dormendo, russando rumorosamente su un’amaca appesa a due piccole sequoie accanto alla sua tenda, mentre un deodonte setacciava il terreno intorno a lui per mangiare gli avanzi di due cosce di esperornite. Dopo aver scambiato un’occhiata divertita con Lex, Drof gli si avvicinò e fece ruggire il carnotauro, facendo svegliare di soprassalto Ynneb: urlò dallo spavento e cadde di faccia sul fogliame, facendo grugnire e allontanare il deodonte.

«Guarda qua, il ghiottone della squadra!» scherzò Drof.

«Guarda qua, il padre di famiglia santerello» ribatté Ynneb, seccato.

«Non mi stupisce che siamo sempre a corto di provviste: le mangi tutte tu!» continuò Drof, con un sorrisetto.

«Che c’è? Potrei rimanerci secco da un giorno all’altro, non è mai troppo tardi per mangiare»

«Dimmi, perché è toccato a me e a Lex fare le trappole? Fino a prova contraria, è il tuo lavoro»

«Ogni tanto è bello fare qualcosa di diverso: ho fatto il bagno agli animali tutta la notte ed ero appena riuscito a prendere sonno, accidenti a te!»

Drof scoppiò a ridere:

«Questa è buona!»

Lex prese la parola:

«Se è così, allora anche noi dovremmmo farci una dormita quando avremo finito, visto che abbiamo lavorato tutta la notte, ma sul serio»

«Ben detto» lo supportò il padre di Acceber.

I due raggiunsero quindi il centro dell’accampamento. Una volta lì, Lex notò qualcosa che ebbe subito la sua attenzione: un dinosauro che non aveva mai visto prima. I deinonici e i tropeognati non erano le sole specie uniche dell’ARK terrestre. Accanto al falò, Oilnats stava accarezzando un bizzarro teropode.

Era lungo quattro metri, la pelle era protetta da osteodermi, tutto l’addome fino alla punta della coda, la quale terminava con un folto pennacchio, era coperto da piume morbide. Ai lati del muso, sugli avambracci e sulle caviglie c’erano delle spesse membrane e, al centro del dorso, si trovava una strana protuberanza che pareva grossomodo una pinna di squalo. La curiosità e l’entusiasmo di Lex salì subito alle stelle: si avvicinò ad Oilnats e chiese cosa fosse quella creatura.

«Ah, eccovi qua – esordì Oilnats, serio – Comunque, Lex, questo è un concavenator. Dalle tue parti non ce n’è neanche uno?»

Lex, dopo qualche secondo passato osservando con la massima attenzione la creatura da vicino, rispose con tono distratto e senza voltarsi:

«No, mai visto prima»

«In questo caso, ti presento Edimetra: è una femmina. Ho fatto un rapido salto nel deserto a prenderla, stanotte, l’avevo lasciata a casa mia. Danno il meglio di loro in mezzo alle sabbie, ma anche altrove si fanno valere»

La concavenator avvicinò il muso al biondo e lo annusò con interesse, così Lex ne aprofittò per accarezzarle la punta del muso e il lato del collo. La creatura, gradendo il gesto, sbuffò smuovendogli i capelli ed emise un gorgoglio soddisfatto. Drof, sceso dalla sella di Onracoel, affermò che l’aveva subito preso in simpatia. Lex, che si stava già ripromettendo di provare il nuovo dinosauro alla prima occasione, cercò di dare altre carezze ai fianchi di Edimetra, ma fu interrotto da Oilnats, che chiamò tutti a gran voce per radunarli e li invitò a seguirlo fino alla sua tenda. Con un sospiro, Lex fece spallucce e seguì i sette Arkiani, consolandosi pensando che, finalmente, avrebbe scoperto qualcosa in più sulla loro enigmatica preda. Lo stratega del gruppo fece accomodare tutti in semicerchio su degli sgabelli, dopodiché prese una tela vuota con un cavalletto dalla sua tenda e la posizionò davanti a loro. Prese uno stilo intriso di inchiostro nero e, con una mano dietro la schiena, si schiarì la voce prima di iniziare il suo discorso.

«Eccoci, dunque. Ognuno di noi si è impegnato per scoprire almeno un dettaglio in più su quel poco che finora sappiamo di questo mostro e siamo riusciti a far tornare i conti, quindi che ne dite di un applauso?»

I sette amici si guardarono in silenzio per qualche attimo, poi Elehcim sorrise e batté le mani un paio di volte. Gli altri, allora, si persuasero e replicarono simbolicamente il gesto, con compiacimento.

«Ma sì, festeggiamoci da soli: non guasta mai» ironizzò Aisapsa, accavallando le gambe.

Oilnats, dopo aver scritto il titolo Mostro Acido in alto sulla tela, indicò Odraccir:

«Cominciamo dalle basi, quello di cui ti sei occupato tu: perché lo chiamano “il mostro acido”?»

L’orbo si strofinò l’occhio buono, prima di spiegare che aveva chiesto a vari cacciatori che avevano avuto la sfortuna di incrociare il mostro acido: quando le armi o le cavalcature riuscivano a ferirlo, dalle sue vene usciva un liquido caustico come l’emolinfa delle artropleure, che ustionava la pelle e corrodeva i materiali su cui si poggiava. Oilnats annuì e scrisse: “Ferendolo, ci si potrebbe bruciare”.

Il secondo turno fu quello di Ynneb, il quale disse che il mostro agiva solo e soltanto di notte, ma nessuno l’aveva mai visto cacciare o lasciare delle carcasse spolpate dietro il suo cammino. Dunque, Oilnats scrisse: “Notturno, ma non sembra cacciare”.

Dopo toccò ad Aisapsa: la domatrice, spostandosi delle ciocche di capelli dietro le orecchie, raccontò che più o meno tutte le vittime non avevano avuto modo di vedere per bene il mostro prima che l’attacco cessasse, a causa del buio e della rapidità degli assalti; aggiunse, però, che dopo grandi sforzi era riuscita ad ottenere un disegno da un ragazzo che sosteneva di aver guardato la creatura sotto la luce della Luna per una manciata di istanti. Detto questo, la donna frugò nella sacca di cuoio che portava a tracolla e prese un papiro arrotolato, che porse ad Oilnats. Egli prese il rotolo, lo aprì e ne osservò il contenuto per alcuni secondi, quindi lo inchiodò alla tela sotto gli appunti. Strofinandosi le guance con interesse, Lex scrutò il disegno al carboncino: il mostro acido ricordava, dalla forma del corpo, un teropode con zampe anteriori ben sviluppate, la testa grossa e triangolare e la coda che terminava con delle grosse spine ricurve. Non capiva perché, ma la raffigurazione non era poi così lontana dall’immagine mentale che si era fatto.

Era il momento di Drof: il padre di Acceber disse di aver capito, ascoltando degli aneddoti più dettagliati possibili dalle vittime, due cose: la prima era che la bestia non attaccava mai per prima, ma solo quando qualcuno la incrociava lungo il suo cammino e, per spavento, la aggrediva per difendersi. La seconda era che il suo vero bersaglio, una volta provocata, erano gli umani, perché le cavalcature venivano prese di mira con molta meno insistenza e le ferite che aveva visto sui malcapitati e sui loro animali lo dimostrava: quei disgraziati erano messi molto peggio delle loro creature. Oilnats fargugliò uno sbrigativo “eccellente” e scrisse: “Attacca solo se provocato e punta gli umani”.

Odraode, dopo un breve sfogo di tosse, confidò di essere stato in alcuni dei luoghi dove si erano verificati gli attacchi e aveva scoperto un dettaglio che non molti dei testimoni avevano rivelato, sempre che ne fossero al corrente: il mostro acido rilasciava uno strano liquido appiccicoso che si incollava facilmente al corpo di chi lo toccava e rendeva difficilissimi i movimenti. Non poteva capire da quale parte del corpo secernesse quella sostanza, ma dai punti su cui l’aveva trovata e le forme delle pozze, ipotizzava che lo potesse lanciare con forza. Prese un barattolo di vetro e mostrò a tutti che conteneva un disgustoso muco verdastro. Oilnats, molto intrigato, se ne impossessò prima di appuntare sulla tela: “Rallenta le prede con la gelatina”.

Elehcim fece una serie di gesti che furono tradotti in simultanea da Odraccir: il muto constatò che il mostro usava grosse gallerie che scavava nel sottosuolo soprattutto per viaggiare, ma anche per avere un vantaggio tattico su prede o aggressori spuntando improvvisamente dal basso, come una purlovia in attesa del suo bersaglio. Aggiunse che aveva trovato svariate buche create sicuramente dal mostro acido quasi solo nella Grande Foresta, con rarissime eccezioni in altri punti di ARK, segno che il territorio della bestia era il bosco di sequoie e che loro ci erano già molto vicini. Con un sorriso soddisfatto, Oilnats scrisse: “Viaggia sottoterra”.

Infine, toccò proprio a lui. Continuando a sorridere, prese dalla sua tenda una mappa della Grande Foresta che aveva riempito di intricatissime linee nere che si intersecavano, attraversando tutti i dintorni. L’uomo rivelò al gruppo di aver svolto, con l’aiuto di Elehcim e della sua concavenator, una lunga e attenta esplorazione della foresta di sequoie e dei percorsi delle gallerie scavate dal mostro acido. Rivelò che, ormai, la creatura aveva formato un complesso labirinto all’interno dei ripiani rocciosi del Nord-Ovest dell’isola e che, grazie a ciò, era riuscito a stabilire quali erano i sei punti da cui la creatura passava più spesso: ogni notte, era quasi certo che percorresse una fra sei gallerie specifiche. Concluse rivelando che era proprio questo il motivo per cui aveva incaricato Lex e Drof di preparare le trappole esplosive.

«Come voi stessi avete detto, il mostro acido attacca solo se provocato – disse – Il che vuol dire che, se noi vogliamo dargli la caccia, dobbiamo obbligarlo ad uscire allo scoperto e affrontarci. Ma è un essere che vive sottoterra: credo proprio che sappia distinguere esattamente quali e quante creature camminano sopra di lui dai passi o dai battiti del cuore, come fanno tutti gli animali scavatori. Cercare di fare da esca o usarne una non lo attirerà, perché non compie il primo passo. Con le bombe, invece, dovrebbe uscire dalla terra su tutte le furie e sarà allora che gli salteremo addosso per farlo a pezzi!»

«Stando attenti a non farci invischiare dal muco» precisò Odraode, rabbrividendo.

«Ovviamente» lo rassicurò Oilnats.

Intanto, Elehcim guardò tutti sorridendo e annuendo come a dire “non c’è di che”, riferendosi al suo contributo con la mappatura delle gallerie. Tutti, apparendo entusiasti ed incoraggiati, si alzarono e si complimentarono col loro amico. Lex doveva riconoscere di essersi divertito ad ascoltare la loro sessione di “raccolta delle prove” come se fossero degli investigatori. Avvicinandosi a Drof con un ghigno complice, gli confidò all’orecchio che, secondo lui, Oilnats poteva anche risparmiarsi quella “segretezza” solo perché voleva fare scena. Drof fece spallucce e rispose:

«Lascia correre: abbiamo visto che è più creativo coi piani quando fa così. Allora, sei pronto per questa nuova caccia con noi, amico?» ammiccò.

«Non devi nemmeno chiederlo» rispose Lex, sorvolando su quell’“amico”.

Ora più che mai, era curioso di incontrare il mostro acido faccia a faccia e di cavalcare a tutti i costi quella concavenator, almeno per la notte a venire.

Dopo un’ultima, breve esitazione, l’equus accettò finalmente di farsi accarezzare il muso e i fianchi da Aurora. La rossa, sotto la costante supervisione a distanza di Acceber, aveva perseverato nella doma per tutta la giornata, seguendo la mandria di cavalli preistorici dovunque si spostasse all’interno della Grande Foresta e continuando ad offrire ortaggi all’esemplare che aveva scelto ogni volta che sospettava che avesse appetito. Col tempo, Aurora gettava le esche a distanze sempre più brevi da sé e l’equus (che era una femmina), un passo alla volta, smetteva di diffidare. Al termine di quel procedimento lungo e faticoso, ma soddisfacente, la creatura accettò la rossa come sua padrona, dimostrandoglielo con quel gesto di fiducia. Poi le girò intorno trottando sbuffando e scuotendo la testa.

«Come sei brava! Hai visto che non ti faccio niente?» sorrise Aurora, con affetto.

«Manca solo una cosa da fare!» affermò Acceber, allegra.

La figlia di Drof montò in sella al gallimimo e invitò la rossa a prendere posto dietro di lei, spiegando che aveva già portato una sella per equus pronta e che l’aveva lasciata all’accampamento sorvegliato dal terizinosauro. Aurora salì sul dorso del dinosauro e fischiò all’equus per dirgli di seguirle: il suo primo comando, che il cavallo riuscì subito a capire. Le ragazze cavalcarono al trotto nella serenità di quell’angolo della Grande Foresta, caratterizzato dal continuo e rilassante sottofondo dei richiami delle creature arboricole. Quando raggiunsero di nuovo la loro tenda, scesero dal gallimimo e Acceber, dopo aver accarezzato il terizinosauro che faceva la guardia, entrò e uscì subito portando la sella in spalla. Si avvicinò all’equus; con delicatezza, gliela poggiò sul dorso, gli applicò le redini e il morso, per poi stringere e assicurare tutte le fibbie. Quando vide che tutto era a posto, si voltò verso Aurora e le indicò il cavallo allargando un braccio, solenne:

«È tutto tuo!»

«Troppo gentile» scherzò la rossa, ridacchiando.

Quando Aurora ebbe montato il suo equus, Acceber fischiò e, con sorpresa della rossa, il terizinosauro e il gallimimo se ne andarono. Vedendo lo sguardo perplesso dell’amica, la figlia di Drof ammiccò e spiegò che voleva festeggiare quella doma in un posto rilassante, solo loro due e la nuova cavalcatura di Aurora; aggiunse che non c’era nessuna accezione romantica nascosta, per scherzare. L’Arkiana entrò ancora nella tenda e mise alcuni oggetti nella sua borsa di cuoio, quindi chiese alla sopravvissuta di spostarsi un po’ più avanti sulla sella dell’equus per permetterle di prendere posto dietro di lei. Una volta preso posto dietro Aurora, Acceber si spostò delle ciocche di capelli dietro le orecchie e si aggrappò alle spalle dell’amica. Allora le disse di seguire le sue indicazioni, così sarebbero andate in un posticino dove lei andava sempre quando faceva qualcosa di importante e si prendeva qualche ora di solitudine per gioire con se stessa. Aurora, intenerita, annuì e iniziò a far procedere l’equus a seconda di quali direzioni Acceber le dicesse di prendere.

Alla fine della cavalcata, scesero giù per un pendio e si fermarono in riva ad uno dei fiumiciattoli che riempivano le strette ma profonde gole che dividevano i ripiani della Grande Foresta: erano in un punto in cui tre torrenti si incontravano e l’avvallamento si allargava. Acceber scese dall’equus e annunciò che erano arrivate. La rossa, allora, scese a sua volta e accompagnò l’equide fino ad una giovane sequoia, per legare le redini ad un ramo. A quel punto, notò che Acceber si era seduta su un masso nel piccolo lago formato dall’affluenza dei tre fiumi, immergendo i piedi scalzi in acqua. La raggiunse e prese posto accanto a lei, ma senza bagnarsi.

«Dunque, che si fa? Vuoi sapere altro sulla mia Isola?» le chiese, guardandosi in giro.

«Quello che vuoi. Nel frattempo…»

Acceber frugò nella sua sacca e ne tirò fuori una damigiana di limoncello: rivelò che era avanzata dalla serata con gli amici di suo padre e aveva convinto Ynneb a regalargliela in segreto.

«Quando vengo qui, mi bevo un paio di sorsi per rilassarmi di più. Vuoi favorire?»

Aurora rifiutò alzando la mano:

«Grazie, preferisco non bere. Non bevo mai, neanche sulla mia Arca»

Acceber fece spallucce:

«Non fa niente, più limoncello per me. Non dirlo a mio padre, però: a volte rompe su certe cose»

«Resterà fra noi» ridacchiò la rossa.

E così le due ragazze passarono tutto il resto del pomeriggio, senza accorgersi della luce che diminuiva sempre di più, parlando del più e del meno come avevano fatto altre volte: Aurora le raccontava dei suoi amici fra i Difensori, Acceber ricambiava con aneddoti esilaranti su suo padre e i suoi amici. La rossa descriveva i luoghi più caratteristici dell’Isola e l’Arkiana faceva altrettanto menzionando angoli di ARK che non le aveva ancora mostrato. Aurora le avrebbe chiesto più che volentieri di mostrarle la Grotta delle Delizie piena di alveari e miele, se solo non fosse stato così tardi. Però anche il Bosco Semprinfiore le sembrava incantevole; avrebbe senz’altro avuto occasioni per esplorare di più in futuro. Toccarono anche lo spinoso (almeno per Aurora) argomento dei giganotosauri, da cui venne fuori che Drof sognava da anni di averne uno tutto per sé, che non fosse una cavalcatura temporanea presa in prestito. Sicuramente sarebbe stato emozionato alla vista del branco di giganotosauri di Nick; entrambe si accorsero di divertirsi da matte ad immaginare le reazioni dei conoscenti di ciascuna all’isola dell’altra, senza nemmeno sapere esattamente perché. A ogni argomento, Acceber beveva un sorso di limoncello o due e diventava via via più “allegra” e chiacchierona. Quando fu sera, entrambe ridevano talmente a crepapelle che singhiozzavano. Alla fine, rendendosi conto che era meglio non alzare oltre il gomito, la figlia di Drof mise via la damigiana e continuarono semplicemente a conversare. Aurora, quasi senza rifletterci, si ritrovò a chiederle come mai stesse festeggiando quel momento come se avesse domato lei l’equus. Acceber ammutolì per vari secondi, così tanti che Aurora iniziò a preoccuparsi. Alla fine, però, l’amica arkiana rispose con tono serio che avrebbe compiuto diciotto anni abbastanza presto, dunque avrebbe dovuto mettere in pratica tutti gli insegnamenti di suo padre per domare da sola la sua prima bestia e meritare il suo innesto. Aiutare Aurora ad addomesicare l’equus l’aveva fatta sentire un po’ più pronta. Aurora annuì e le augurò buona fortuna, visto che aveva intuito già da tempo che per gli Arkiani quell’innesto era molto importante. Onestamente, la incuriosiva il fatto che su quell’isola avesse un grande valore, pur essendo privo di un utilizzo pratico come sulle Arche.

«Sai già cosa addomesticherai?» le domandò, incuriosita.

Acceber sospirò, nervosa, e annuì:

«Sì. Ma non avrò mai il coraggio di confidarlo a mio padre: cercherebbe di farmi cambiare idea»

«Oh? Cos’hai in mente?»

«Domerò un tilacoleo»

«Però, niente male! Mi hanno detto che sono molto utili, agilissimi, forti, resistenti e…»

«Voglio farlo per mia madre. È così che se n’è andata»

Aurora fu colta alla sprovvista: capendo tutto al volo, iniziò a sentirsi in colpa per aver costretto Acceber a dirle qualcosa legato ad un ricordo tragico. Ma fu anche sorpresa dal fatto che avesse voluto confidare a lei ciò che non voleva dire al padre: non era poco.

«Capisco. Scusami» si limitò a dire.

Acceber scosse la testa per rassicurarla:

«Va tutto bene. Anzi, grazie per avermi dato l’occasione di rivelarlo a qualcuno: era da settimane che sentivo il peso di non poterlo dire a nessuno. Be’, avrei potuto farlo senza problemi, ma non mi andava. Otto anni fa, quando mia madre fu uccisa da un tilacoleo in questa foresta, la mia vita non fece che andare in rovina per anni, poi anche mio… no, non me la sento di andare oltre. Possiamo cambiare argomento?»

«Ma certo: non voglio metterti a disagio»

«Grazie, Aurora. Sei un’amica»

«Suvvia, non serve»

«Ora mi fai venire l’impulso di farti una confessione»

Aurora inarcò un sopracciglio, perplessa:

«Cosa?»

Di colpo, con notevole sorpresa della sopravvissuta, Acceber le sembrò in imbarazzo: aveva tirato i piedi fuori dall’acqua, ondeggiava con la schiena, sudava e stava diventando paonazza. Ad Aurora scappava quasi da ridere: di cosa avrebbe mai potuto trattarsi? Qualche pettegolezzo molto più delicato degli altri che si erano scambiate? Un segreto di famiglia? Una tresca di cui non voleva parlare con suo padre? Sforzandosi di non dare a vedere che era divertita per non offendere l’amica, aspettò la rivelazione. Acceber, tuttavia, sembrava temporeggiare:

«Ci siamo appena dette molte cose, ma forse non te ne ho ancora detta una che hai davvero bisogno di sapere»

Aurora reclinò lievemente la schiena all’indietro e fece un sorriso imbarazzato, continuando a non capire. Acceber proseguì:

«Si tratta… ehm… ecco, diciamo che spiega un piccolo dettaglio su questa situazione»

«Va bene, però adesso dimmelo: mi stai mettendo ansia» la interruppe Aurora, agitata quanto lei.

Acceber, che ormai era sul punto di ansimare, sbuffò:

«Te la faccio breve: hai presente…»

Ma non finì la frase. Aurora vide l’espressione dell’Arkiana mutare di colpo: da nervosa e imbarazzata, diventò attenta e preoccupata. Prima che la rossa potesse sollecitarla a sputare il rospo, la ragazza cominciò a guardarsi in giro, sospettosa. Non capendo, cercò di osservare i dintorni a sua volta per distinguere cosa ci fosse che non andava, ma non notava niente di strano. Non le restava che domandare:

«Cosa c’è?»

«L’hai sentito?» chiese Acceber.

«Scusa, cosa dovrei sentire? C’è il rumore dell’acqua che copre tutto, ma per il resto non ho sentito nulla. Aspetta, è perché non si sente nulla?»

«No. Ho sentito un fruscio, come il rumore di un argentavis quando scende in picchiata, ma più forte. Non era normale»

«Acceber, ora mi stai spaventando. Che significa?»

«C’è…»

La sua frase fu improvvisamente interrotta da una cacofonia di bramiti spaventati provenienti dal fitto della foresta. L’equus cominciò a nitrire e a scalpitare, cercando di liberarsi dalla corda. Aurora impallidì e scattò in piedi.

«Cosa sono?» chiese, sussurrando.

«Megaloceri: qualcosa li sta terrorizzando»

«Ce ne andiamo?» la supplicò Aurora, tesa come una corda.

«Sì, è meglio»

Senza perdere tempo, le ragazze raggiunsero la cavalla e la figlia di Drof, stando attenta a non farsi colpire da un calcio mentre scalpitava, la sciolse mentre Aurora la accarezzava e le sussurrava per calmarla. Ma l’equus non si calmò per niente. Anzi, contro le aspettative delle due, appena fu libero si diede alla fuga senza dare loro il tempo di montare in sella.

«Cosa?» sobbalzò Aurora.

«Dannazione! Qualunque cosa sia, la spaventa a morte!»

Acceber partì all’inseguimento. Non tanto per raggiungere l’equus, che era già arrivato in cima al crinale, ma più per cercare di capire dove stesse andando e sapere dove iniziare a cercarlo. Aurora, che non voleva assolutamente rimanere da sola, andò a prendere la torcia che avevano acceso mentre chiacchieravano e iniziò a seguirla di corsa. All’improvviso, si ritrovarono la strada tagliata da una piccola mandria di megaloceri che fuggivano. Emersero dal fronte boscoso al galoppo, passando davanti alle due ragazze; scesero giù dal pendio, attraversarono a enormi balzi il laghetto e sparirono sul lato opposto, dopo aver risalito il dislivello con un agile balzo.

«Dobbiamo andarcene! Tra poco il loro inseguitore sarà qui!» esclamò Acceber.

La figlia di Drof intimò alla rossa di starle accanto e cominciò a guidarla attraverso il sottobosco, ma non andarono lontano: di punto in bianco, una femmina di megalocero che era stata separata dalla mandria spuntò da dietro un fitto arbusto e, troppo affrettata per notarle, continuò la sua corsa in direzione di Aurora. La rossa se ne accorse troppo tardi, sarebbe stata travolta; ma Acceber, che aveva dei riflessi molto veloci e si era fermata un attimo per accertarsi che l’amica fosse ancora vicina a lei, se ne accorse in tempo e, nella frazione di secondo che aveva per agire, decise di intervenire. Diede uno spintone ad Aurora, gettandola fuori dalla traiettoria dell’erbivoro in fuga, e si raccolse su se stessa per limitare i danni.

«Ah!» gridò subito dopo.

Aurora era confusa: un secondo prima aveva visto un megalocero correre verso di lei, adesso era sdraiata sulla ghiaia. Quando si rialzò, sentì un grido e un tonfo. Si guardò intorno e si sentì mancare: Acceber era a terra, gemente e dolorante. Stava raggomitolata, stringeva i denti e teneva una mano premuta su un fianco. Ad un metro da lei la femmina di megalocero, caduta a sua volta, scalciava a vuoto per rialzarsi. In preda al panico, Aurora gattonò dalla figlia di Drof e, sforzandosi di essere delicata, la aiutò a mettersi seduta.

«Oddio! Stai bene?!»

«Aaaaah! La mia costola… aaaaah!» gemeva Acceber.

«Ce la farai?» le domandò Aurora, quasi soffrendo per lei.

«Lo spero… ma fa male… aaaaaah!»

Il megalocero riuscì finalmente a piantare gli zoccoli sul terreno e ad alzarsi. Ma, d’un tratto, le due ragazze sentirono un fruscio nel bosco: stavolta anche Aurora era riuscita a udirlo. Percepì il fischio del vento che veniva sferzato da qualcosa che planava molto velocemente. Una grande ombra sfrecciò a mezz’aria, sopra le loro teste. E una creatura che non aveva mai visto piombò sull’erbivoro, schiacciandolo a terra con una possente zampa armata di spaventosi artigli uncinati, che fecero a brandelli i suoi fianchi e gli strapparono un bramito agonizzante. Entrambe le ragazze sobbalzarono, terrorizzate.

«Dobbiamo scappare!» esclamò Acceber.

Provò ad alzarsi, ma emise subito un gemito di dolore e cadde in ginocchio, tenendosi un braccio premuto sulle costole. Aurora la aiutò a tornare in piedi, ma non poté fare a meno di osservare quell’incredibile bestia per quei pochi attimi che poteva concedersi. Nonostante il terrore, era anche meravigliata: quella creatura somigliava molto ad un drago orientale. Aveva un imponente corpo da lucertola affusolato e robusto allo stesso tempo. Aveva una testa lunga, con denti piccoli e appuntiti. Gli artigli con cui stava facendo a pezzi il megalocero erano impressionanti e, osservandone la forma, Aurora intuì che gli servivano per scalare le pareti. Aveva le scaglie verde acqua, gli occhi dorati e lunghe piume arancio sulla testa, sulle zampe anteriori e sulla punta della coda. La rossa non avrebbe mai pensato di vedere una bestia così spaventosa e così magnifica al contempo.

La creatura sfilò gli artigli dalla carne della preda e la uccise con un forte morso alla gola, per poco non le staccò la testa. Allora la prese per i fianchi e cominciò a portarla via, in cerca di un posto dove mangiarla… ma si accorse di loro. Aurora si sentì come pietrificata, tanto che allentò la presa su Acceber senza accorgersene. Il drago delle rocce le fissò per alcuni secondi, poi lasciò il megalocero e cominciò ad avvicinarsi con aria attenta. Aurora ebbe come la sensazione che lo sguardo della creatura non fosse tanto famelico, quanto incuriosito. Mentre si avvicinava, il rettile contraeva con forza le narici, annusando le due umane. Alla fine, si trovò a meno di tre passi da loro e si fermò, alzando la testa per squadrarle dall’alto: anche così, il suo modo di essere minaccioso e regale al contempo spiazzava Aurora. Quando il drago inclinò la testa ed emise un gorgoglio, la sopravvissuta chiuse gli occhi e si riparò il capo d’istinto, aspettandosi che stesse per spalancare le fauci e divorarla. Ma, poco dopo, si rese conto che non era successo niente: il rettile piumato le stava solo fissando con quei terrificanti occhi dorati.

«Non fare niente» sibilò Acceber, con un filo di voce.

Aurora la guardò con la coda dell’occhio, troppo spaventata per muovere il capo: era costretta a ricambiare lo sguardo di quel drago, che sembrava indeciso su cosa fare con loro due. Il predatore si leccò via il sangue del megalocero dalle gengive e delle gocce di saliva caddero sul viso della rossa. Nonostante il disgusto e l’odore, non si azzardò a togliersi quella bava calda e fetida con una mano: forse la creatura si sarebbe arrabbiata e l’avrebbe ammazzata senza darle il tempo di pensare. Constatò che Acceber aveva ragione: non le restava che rimanere ferma e sperare che il drago piumato decidesse di mangiare il megalocero al posto loro.

A quel punto, il rettile abbassò il muso, accostò le narici alle guance della rossa e iniziò ad annusarla con attenzione. Il suo cuore era praticamente sul punto di scoppiare: non riusciva a reggere quella tensione: perché ce l’aveva con lei? Perché lo incuriosiva così tanto? Era tesa come mai prima di allora: i suoi muscoli fremevano, le sue gambe erano tese. La ragazza era pervasa dall’impulso di scattare in piedi e correre via, il più lontano possibile, nell’oscurità della foresta di sequoie, ma doveva resistere. Se avesse tentato la fuga, avrebbe condannato entrambe. Doveva resistere, lasciarlo fare, trattenere il respiro. La paura era tale che non si sentiva più le braccia e le gambe; era fradicia di sudore, stava stridendo i denti. Chiuse gli occhi: non aveva nemmeno più il coraggio di guardare. Gli sbuffi del naso del predatore le travolgevano il volto e le muovevano la chioma come un vento caldo. Si sentì mancare, quando il drago emise un ringhio che le penetrò le ossa.

All’improvviso, quello stallo terrificante fu interrotto: da qualche parte nella foresta, ci fu un tonfo profondo come un tuono. Era come se qualcosa di molto pesante si fosse schiantato al suolo, non molto lontano da lì. Aurora, stupita, aprì gli occhi e vide che, adesso, anche il drago sembrava teso; si guardava attorno con gli occhi sgranati. Le sue piume si drizzarono, facendolo apparire più imponente: sembrava un segno di allerta. Tutto d’un tratto, il terrore di Aurora fu spazzato via dalla confusione e dalla perplessità: cosa stava succedendo? Pochi secondi dopo, la rossa udì un rimbombante suono ritmato: era come un tamburo, ma profondo e potente, tanto che le scuoteva le membra. Dopo quello strano battito, sentì la voce di Acceber che sussurrava:

«È lui!»


Appena sentì quel rumore ritmato, il drago dimenticò le due umane e si allertò. Cercando di rendersi più minaccioso, drizzò tutte le sue piume e tese i muscoli, pronto a reagire. Presto, iniziò a sentire un odore che aveva già avvertito altre volte e che aveva imparato a riconoscere come una minaccia: era quello della creatura che dominava sull’isola e che aveva sempre cercato di dargli la caccia. Sapendo che l’avversario aveva capito dove si trovava, il drago si preparò a trovare un punto più adatto per prepararsi allo scontro. Prima di muoversi, però, diede un’ultima occhiata alle due umane e vide che quella coi capelli rossi stava aiutando l’altra ad allontanarsi. Ormai non avevano più importanza, però.

Si girò di lato e, con un energico balzo, si avvinghiò con gli artigli al tronco della sequoia più vicina. A quel punto, diventò invisibile e iniziò a planare veloce come il vento sul sottobosco, fino ad aggrapparsi ad un albero più gigantesco. A quel punto, annusò l’aria con attenzione, per capire dov’era il suo sfidante in quel momento. Non sentendo più alcuna traccia, però, vide un’occasione per scappare. Quindi si diede la spinta e riprese a sfrecciare aggraziatamente in mezzo alle sequoie finché, all’improvviso, un’enorme massa non si abbatté su di lui dall’alto e lo sbatté a terra. Sconvolto e spaventato, il drago perse il controllo del suo mimetismo e tornò visibile, iniziando subito a dimenarsi per liberarsi dalla presa dell’animale che gli era appena saltato addosso dalle fronde. Iniziò ad agitare gli artigli a caso, cercando di colpire qualunque cosa, ma l’avversario gli stava schiacciando la testa per terra e gli impediva di vedere dove colpiva. A un certo punto, il drago si sentì afferrare in due punti diversi della schiena e fu sollevato come se non avesse peso. Volteggiò in tondo per due volte, poi fu lasciato andare e andò a sbattere col fianco contro una sequoia.

Non riuscì a muoversi per il dolore per alcuni istanti, ma alla fine riuscì ad alzarsi e, finalmente, si voltò per guardare l’aggressore in faccia: Kong, il re di ARK. Il gorilla lo fissò per alcuni attimi scoprendo le zanne e stringendo gli occhi, mentre sbuffava con forza facendosi tremare le labbra. Dopodiché si alzò in piedi ed emise un assordante ruggito rauco che risuonò per l’intero sottobosco, battendosi i pugni sul petto. Il drago scoprì i denti a sua volta e rispose alla sfida agitando le piume. Kong pestò i pugni a terra e partì alla carica, prendendo la rincorsa per tirargli una spallata. Il rettile saltò di lato all’ultimo, raggiungendo un altro albero e scalandolo fino ai rami. Girò su se stesso, volgendo il muso verso il terreno, e osservò lo scimmione: aveva colpito il tronco con la spalla e si stava ancora riprendendo dall’impatto. Il drago colse l’occasione: si tuffò dal tronco della sequoia e scese in picchiata sul Megapiteco, con gli artigli tesi in avanti. Lo investì alla massima velocità e lo scaraventò a terra, affondando le unghie nelle sue spalle. Kong emise un lamento e il drago delle rocce lo azzannò alla gola. Prima che iniziasse a serrare le fauci, però, il primate gli appoggiò un piede sull’addome e lo spinse via. Con un ringhio di sorpresa, il drago piumato volò all’indietro e cadde sulla schiena, ritrovandosi senza fiato. Dopo alcuni istanti di confusione, riuscì a rigirarsi e notò che un alberello stava per investirlo in pieno. Con uno scatto, riuscì a passare sotto la pianta prima che lo colpisse. A quel punto, Kong fece un balzo e alzò i pugni, pronto a schiacciargli la testa. Il drago lo schivò con un saltello e lo scimmione atterrò al suo fianco, scavando due solchi con le nocche. Il rettile sferrò una vigorosa zampata, sferzandogli il fianco destro e lasciando delle profonde ferite che impregnarono di sangue la pelliccia nera del primate.

Kong urlò, su tutte le furie, e colpì il muso del lucertolone con un violento manrovescio. Il drago rimase rintronato quando cadde al suolo e iniziò a vederci doppio. Cercò di alzarsi, ma era troppo stordito per mantenere l’equilibrio. Il gorilla gli afferrò la coda, lo sollevò e lo sbatté per terra, sollevando un nugolo di polvere, foglie e aghi di sequoia che coprivano il sottobosco come un tappeto. Il drago, dolorante e senza fiato, guardò negli occhi il gorilla, che si fermò per alcuni momenti per rivolgergli un secondo ruggito minaccioso. Si rizzò ancora in piedi e alzò al massimo le braccia, pronto a schiacciargli il cranio; ma il rettile, ritrovando le energie, scattò e gli azzannò la gamba sinistra, per poi strattonare. Il Megapiteco perse l’equilibrio e cadde, finendo lungo disteso sul dorso.

Il drago non aveva alcuna intenzione di continuare a combattere: era troppo malconcio e stanco, non poteva sopravvivere a quello scontro. Così, prima che Kong tornasse in piedi, ricominciò a mimetizzarsi e si sbrigò ad arrampicarsi sulla sequoia più vicina. Una volta che fu in cima, si voltò in una direzione in cui il percorso era sgombro di ogni ostacolo e prese a planare. Percorse centinaia di metri sfrecciando nell’aria, infine atterrò su un pinnacolo roccioso, dove si fermò per riprendere finalmente fiato e controllare le sue ferite. Sobbalzò quando sentì nuovamente il ruggito del Megapiteco. Immobilizzandosi, prese a guardarsi in giro e ad annusare l’aria. Poco dopo, lo individuò: lo scimmione sembrava aver perso le sue tracce. Lo vide in lontananza, intento a saltare con agilità da una sequoia all’altra dondolandosi sulle fronde con le braccia. Ogni tanto si soffermava su un tronco e osservava la foresta con sguardo vigile. Il drago piumato stava immobile, pronto a reagire se avesse dovuto. Alla fine, però, il gorilla gigante passò oltre e scomparve nel fitto della Grande Foresta. L’aveva seminato. Capendo di essere scampato al pericolo, il drago abbassò le piume e ricominciò ad aggirarsi per il bosco, in attesa di un posto sicuro per nascondersi e riposare fino all’alba.

«Come va? Fa tanto male?» chiese Aurora, mentre aiutava Acceber.

La figlia di Drof annuì, stringendo i denti: si sforzava di non gemere troppo, perché parlare o respirare a fondo le procurava delle fitte. Dopo che il rettile sconosciuto era scappato, le ragazze avevano cercato di allontanarsi il più possibile e Aurora illuminava il sottobosco con una torcia, tenendo d’occhio gli arbusti in cerca degli occhi gialli e brillanti di un eventuale branco di troodonti. Seguendo le indicazioni dell’amica, la stava accompagnando in direzione del villaggio degli Alberi Eterni, ma procedevano molto lentamente: la rossa doveva aiutare Acceber a stare il più rigida possibile, a causa della costola fratturata. Prima di quel momento, un paio di volte, l’Arkiana si era piegata in avanti per il dolore senza accorgersene o aveva premuto troppo con la mano sul punto infortunato e non aveva potuto fare a meno di urlare. Ogni volta, dalla foresta erano provenuti dei versi o dei richiami poco rassicuranti ed entrambe non osavano muovere un muscolo finché non tornava il silenzio.

«Cerca di resistere, prima o poi arriveremo» cercò di rassicurarla Aurora, sorridendole.

Proseguirono per vari minuti finché, quando passarono accanto ad una sequoia caduta completamente marcita e vuota, Acceber non ce la fece più e la supplicò che si fermassero un po’. Aurora non poté che acconsentire e la aiutò a sedersi lentamente sul tronco, sempre facendo in modo che tenesse la schiena dritta. La rossa si sedette accanto alla ragazza, continuando a tenere la torcia bene alzata per illuminare bene i dintorni. Rimasero in silenzio per diversi minuti e Acceber, non dovendosi più sforzare, riuscì finalmente a respirare più piano. Quando Aurora la guardò in faccia, vide che la sua espressione era un po’ meno sofferente. Allora ripensò a quello che era successo quella notte e la ringraziò per averle fatto da scudo prima che il megalocero la investisse. Acceber le sorrise e fece spallucce, per rispondere che non c’era di che. La rossa sospirò e diede un’altra occhiata in giro per accertarsi che fossero ancora sole. Dopodiché, ripensò alla loro conversazione e si ricordò che Acceber non aveva finito di “confessarsi”. Così, con tono innocente, le domandò cosa volesse rivelarle prima che fossero interrotte. Acceber si irrigidì, colta di sorpresa. Guardando la sopravvissuta con un’espressione interdetta, aprì bocca, ma non riuscì a dire niente. Si serrò le labbra e Aurora la incoraggiò, dicendole che non c’era problema. Alla fine, però, la giovane Arkiana mormorò:

«Sai una cosa, perché… ah… non ne parliamo… con calma… ahia… al villaggio?»

Dopo un attimo di riflessione, Aurora si rese conto di quanto inadatta fosse quella situazione per chiacchierare, quindi le diede ragione e si scusò per averla fatta parlare. Acceber sembrò sollevata per non aver dovuto rispondere. Restarono ferme ancora un po’, dopodiché Acceber sussurrò di essere pronta a proseguire. Allora la rossa la aiutò ad alzarsi e, sorreggendola, fece i primi passi nel sottobosco… ma si immobilizzarono quando udirono un richiamo parecchio vicino a loro, che fece raggelare loro il sangue. Veniva dalle loro spalle. Pareva un misto fra il latrato di un cane e una risata. Le due ragazze si voltarono e la torcia di Aurora illuminò un paio di occhi in mezzo agli arbusti. Acceber sussurrò qualcosa in arkiano, mentre dall’oscurità emerse, a passi cauti, uno ienodonte, una iena del Cenozoico grande come un leone.

«Ha sentito… i miei lamenti» sibilò Acceber, dolorante.

Aurora, spaventata e madida di sudore, iniziò a puntare la torcia verso lo ienodonte per tenerlo a distanza, sforzandosi di non mostrare troppo la sua paura. Nel frattempo, lo osservò bene: lo spazzino non sembrava molto in forma. A dire il vero, le sembrava piuttosto malconcio: aveva il pelo arruffato e assente in alcuni punti, era pieno di cicatrici ed era molto magro, tanto che aveva i fianchi infossati e la sopravvissuta poteva contare le sue costole. Puzzava di marcio e morte, non che si aspettasse altrimenti. La rossa cercò di riflettere, pensando a un modo per allontanarlo senza rischiare troppo. Prendendosi cura dei cuccioli nella stalla della base dei Difensori, le era stato spiegato spesso come si comportavano le varie specie delle Arche e gli ienodonti non facevano eccezione; le era stato detto che di solito agivano in branco e che attaccavano solo gli animali feriti o deboli e, comunque, soli. Intuì che quell’esemplare dovesse aver perso il suo branco o che lo avessero scacciato e, ritrovandosi da solo, si era ridotto in quello stato perché faticava a cacciare. Ma ora aveva trovato due prede deboli e non aveva esitato a farsi avanti.

«Se solo… avessi tenuto… oh… le armi!» gemé Acceber, stringendo i pugni.

Purtroppo, invece, le aveva lasciate sulle selle del gallimimo e del terizinosauro, che ora erano al villaggio degli Alberi Eterni. Toccava ad Aurora difenderle. Raccogliendo tutto il suo coraggio, fece un passo avanti e agitò ad ampie bracciate la torcia, sfiorando il muso dello ienodonte con la fiamma. Nel frattempo urlava, cercando di spaventarlo. Lo ienide uggiolò e fece dei passi indietro, intimidito dal fuoco. Convinta che stesse funzionando, Aurora si sentì più determinata e si avvicinò ancora con sicurezza, sventolando la torcia con ancora più forza.

«Via! Sparisci!» esclamava, a pieni polmoni.

Ad un certo punto, però, le cose cambiarono: lo ienodonte piegò le orecchie all’indietro e prese a ringhiare, sbavando e fissandola con uno sguardo che sembrava posseduto. La rossa perse tutta l’audacia e, sconvolta da quegli occhi famelici, indietreggiò tenendo la torcia vicina a sé. Aveva perso credibilità: adesso era la iena preistorica ad avere il coltello dalla parte del manico. Si vedeva che era troppo affamata e disperata per farsi scoraggiare da una patetica fiaccola.

«Attenta!» la avvertì Acceber.

Subito dopo, lo ienodonte fece un piccolo scatto e tentò di colpire Aurora con una zampata che la rossa evitò con un saltello all’indietro. La sopravvissuta fece un altro tentativo di agitare la torcia, ma questa volta il canide provò ad azzannarle il braccio al volo. Lo spavento fu tale che, per poco, Aurora non lasciò cadere la fiaccola. A quel punto, capì che non poteva fare più niente e che lo ienodonte si era convinto che nulla gli potesse impedirgli di sbranarle. Quando lo vide tirare fuori la lingua e tendere i muscoli delle zampe, si accostò ad Acceber e provò a farle da scudo in qualche modo. Lo ienodonte emise un lungo verso gutturale seguito da una “risata” beffarda e le ragazze si prepararono al peggio. Tuttavia, prima che lo ienodonte attaccasse, udirono un nitrito. Proveniva dalla sinistra delle due sventurate.

Sia loro, sia lo ienodonte si voltarono sorpresi in quella direzione. Lo spazzino rizzò le orecchie, allarmato. Sentirono i tonfi di un galoppo, poi il fruscio del sottobosco che veniva agitato. Ed ecco che, dal buio, apparve l’equus di Aurora. La cavalla raggiunse lo ienodonte a passo di carica, gli si parò davanti e, dopo essersi impennata continuando a nitrire, gli pestò gli zoccoli in testa. Lo ienodonte gemé, frastornato, e barcollò. Fece un timoroso tentativo di contrattaccare, ma all’equus bastò sbuffare e raschiare gli zoccoli sul terreno per scoraggiarlo. Alla fine, dopo un ultimo uggiolato, la iena si voltò e fuggì, scomparendo nella notte.

«Oh! Sei tornata! Brava cavalla! Bravissima!» esclamò Aurora.

Sollevata e incredula, si avvicinò alla sua cavalcatura e le accarezzò il muso, ridendo quasi con isteria per la gioia e per lo spavento appena passato. L’equus sbuffò con affetto, agitandole i capelli, e strusciò il naso sulle sue guance. Acceber, avvicinandosi lentamente e col sorriso sulle labbra, le poggiò una mano sul fianco:

«Pare che… ahia... sia tornata appena… ha capito che il lucertolone era andato via. Poi ha sentito che eri in pericolo… sai che… vuol dire?» chiese.

«Be’, se non fossi stata mangiata da un giganotosauro il mio primo giorno sull’Isola, ti direi che vuol dire che ho una fortuna impossibile qualunque cosa faccia» scherzò Aurora, allegra.

Acceber scosse la testa a occhi chiusi, sghignazzando:

«No. Vuol dire che… ti voleva già bene… prima che finissi di addomesticarla. Sei stata proprio fantastica… con questa doma. Ah, che male!»

«Oh, ti ringrazio! Comunque, adesso smetti di sforzarti: ti stai facendo male per niente»

«Sì, ora torniamo... al villaggio»

«Certo»

Allora, senza perdere altro tempo, Aurora aiutò Acceber a montare in sella senza infastidire troppo la costola rotta, quindi prese posto davanti a lei. Dopo un’ultima carezza alla sua cavalla, continuando a tenere la torcia sollevata, la rossa spronò l’equus e iniziò a cavalcare nella direzione indicata dall’Arkiana. Una volta arrivate, la rossa non avrebbe dovuto fare altro che portare Acceber da qualche guaritore e aspettare il giorno dopo, sperando che Lex non avesse problemi nella caccia al misterioso mostro acido. Ma, per ora, doveva concentrarsi sul tragitto.

ANGOLO AUTORE

Un enorme ringraziamento all'unica e inimitabile Maya Patch per aver realizzato, tra tutte le altre fanart e con tantissimo anticipo rispetto alla stesura di questa scena, la bellissima immagine di Kong che affronta il drago delle rocce che potete ammirare in questo capitolo! 

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Capitolo 11
*** Il Mostro Acido ***


DIVERSE ORE PRIMA, AL TRAMONTO…

Il concavenator strisciava agilmente in quella profonda galleria alta il doppio di lui, correndo a quattro zampe e spostando i sassi e altri detriti con gli artigli o col muso ogni volta che ne incontrava. E Lex, aggrappato alla sella con una mano e tenendo la torcia con l’altra, si stava divertendo ancora più di quanto sperasse. Non avrebbe mai immaginato di cavalcare un teropode scavatore, eppure eccolo lì. Se quel dinosauro nuotava nella sabbia come Oilnats gli aveva raccontato, gli sarebbe mancato molto alle sue prossime visite su Terra Bruciata. Intanto, osservava la galleria che stavano percorrendo: nonostante fosse ampia, le enormi radici delle sequoie che spuntavano dalle pareti e dal soffitto come mani nodose aggiungevano una certa atmosfera inquietante. Inoltre, mentre esplorava la rete sotterranea del mostro acido, notava spesso impronte di altri animali che ne approfittavano per spostarsi in sicurezza. A un certo punto, il concavenator aveva incrociato un ratto-talpa rotolante, un’altra creatura che non aveva mai visto su nessuna delle Arche su cui era stato. Il roditore e il dinosauro si erano scambiati qualche ringhio e delle zampate di avvertimento, prima che il ratto talpa scavasse una via d’uscita laterale.

“Spero solo di non incontrare il padrone di casa troppo presto” aveva pensato Lex, dopo quell’incontro.

Per fortuna, quella doveva essere l’ultima galleria da minare, secondo la mappa disegnata da Elehcim. Quando il ragazzo ritenne di essersi addentrato abbastanza nel passaggio sotterraneo, fermò il concavenator, scese dal suo dorso e, muovendosi carponi, prese tutto l’occorrente dalle bisacce appese ai fianchi del dinosauro. Come aveva già fatto più volte, tornò indietro di alcuni metri, rovesciò gli ultimi sacchetti di polvere pirica e tese un filo collegato a due pietre focaie da una parete all’altra della galleria. Una volta terminata l’operazione, si accostò di nuovo al concavenator e tornò in sella, ordinandogli di ripartire. Il teropode accelerava sempre di più il passo man mano che fiutava gli odori della superficie, fino a raggiungere l’uscita. La parte più delicata del piano era finita, ora iniziava l’attesa: quando il mostro acido avrebbe fatto esplodere una delle trappole, Lex avrebbe raggiunto il luogo dello scoppio e si sarebbe fatto inseguire fino al crepaccio dove Drof e gli altri lo stavano aspettando con cavalcature agili e veloci e una scorta di petrolio estratto dall’oceano.

«Coraggio, bella, è ora di appostarci» disse al concavenator, con un sorriso compiaciuto.

Il teropode delle sabbie soffiò, grattandosi il collo con una zampa posteriore. Ormai mancavano pochi minuti prima che il sole scomparisse del tutto: il sottobosco era quasi del tutto in penombra. Il concavenator esplorò guardingo il sottobosco in cerca di un buon punto in cui aspettare. Quando la notte calò e la luna apparve del tutto, si fermò ed emise un ruggito sommesso per attirare l’attenzione di Lex. Oinlats gli aveva spiegato che faceva così quando voleva scavare, quindi il biondo scese a terra e si fece da parte per non disturbare la sua cavalcatura. Il concavenator tastò il terreno con gli artigli e ci strofinò la coda, prima di iniziare a scavare con vigore. Quando ebbe finito, aveva preparato una buca di un paio di metri e creato una montagnola di terrriccio e aghi di sequoia. Emise un verso amichevole per invitare Lex ad entrare e il ragazzo scese nella fossa, per poi sedersi accanto al concavenator.

«Certo che sei proprio brava» commentò il biondo, soddisfatto.

Adesso non rimaneva che aspettare. A poco a poco, il silenzio del tramonto fu sostituito dai suoni che facevano eco per la foresta di sequoie di notte. Gli animali diurni si erano addormentati e quelli notturni avevano preso il loro posto. Lex, nel frattempo, cercava di immaginare quale potesse essere l’effettivo aspetto del fantomatico mostro acido. Sapevano che aveva un fisico da teropode, ma quali caratteristiche doveva possedere per essere un cacciatore sotterraneo così sfuggente? Magari delle zampe anteriori sviluppate con artigli robusti, una coda muscolosa e potente, colori scuri che lo facessero confondere con la terra e il buio. Perché no, magari era cieco, visto che percepiva le vibrazioni, stando alle deduzioni di Oilnats. In ogni caso, c’era da sperare che il piano fosse adatto a qualunque aspetto avesse. Sapendo che il suo sangue era acido, avevano deciso di ferirlo col fuoco, in modo che le cavalcature non dovessero ustionarsi mordendolo. Le riflessioni del ragazzo andarono avanti quasi per un’ora, finché un’improvviso boato non fece eco per tutta la foresta di sequoie, facendolo sobbalzare assieme al concavenator.

“Ci siamo” pensò Lex, montando in sella.

L’esplosione proveniva da qualche parte alla sua destra, quindi spronò il dinosauro e seguì l’eco ancora rimbombante dello scoppio, attraverso arbusti e tronchi caduti. Percorsero un centinaio di metri verso Ovest, finché non raggiunsero il punto da cui il rumore era venuto. Un lungo tratto della galleria era franato e adesso era a cielo aperto, solcando il terreno della foresta come una grossa crepa. Al suo interno, Lex vide qualcosa che si agitava nei detriti e nei sedimenti, scrollandosi polvere e sassi di dosso. Alla fine, la creatura si issò sul bordo della trincea e si mostrò: Lex spalancò gli occhi alla vista del mostro acido, in soggezione e meravigliato allo stesso tempo. In effetti, il fisico era quello di un teropode, ma aveva un aspetto quasi alieno. La grossa testa aveva quattro spuntoni sulla nuca che la facevano somigliare ad un elmo o ad una corona; il muso era largo, con occhi minuscoli e luccicanti, una bocca piena di zanne lunghe e lisce e una bizzarra luce rossastra che usciva dalla gola. Sulla schiena c’era una vistosa cresta. Due spuntoni laterali emergevano dai fianchi, la coda terminava con una sorta di tridente acuminato che grondava una sostanza verde. Sia le zampe posteriori che quelle anteriori erano possenti e muscolose, armate di grandi artigli.

«Ehi, tu!» lo chiamò Lex.

Attirato dalla voce, il mostro acido si voltò verso di lui e lo fissò con quegli spaventosi occhietti luminosi. Andò subito su tutte le furie ed emise uno stridulo ruggito graffiante. La sua bocca spalancata brillò come un faro, con quella luce bizzarra che gli usciva dalla gola. Lex non perse tempo e spronò il concavenator, dopo averlo fatto voltare dall’altra parte. Ricordava la strada per tornare dagli altri, non gli restava che correre. Mentre il ragazzo scappava nel sottobosco, il mostro acido lo inseguiva a grandi falcate, schiacciando cespugli e facendo stortare piccole sequoie al suo passaggio. Riusciva a tenere il passo meglio del previsto. Ad un certo punto, voltandosi indietro, Lex lo vide fermarsi e sollevare di scatto la coda sopra la sua testa, gettando uno schizzo di quel muco verde. Li mancò per poco, quindi ruggì e riprese a rincorrerli. Finalmente, raggiunse il bordo del crepaccio in cui il gruppo di caccia era in agguato e vi scese scivolando lungo il crinale.

«Arriva! Si comincia!» li avvisò.

Drof e i suoi amici, allora, presero i vasi di terracotta pieni di petrolio e accesero le torce, mentre Lex si univa a loro in attesa che il mostro acido li raggiungesse.

«La trappola gli ha fatto qualcosa?» domandò Oilnats.

«No, neanche un graffio» scosse la testa il biondo.

«Bene, allora che fuoco sia!» esclamò Aisapsa, determinata.

Le loro cavalcature scattarono sull’attenti quando sentirono il ruggito del mostro. La creatura apparve in cima al crepaccio e vi scese con un balzo. Quando si ritrovò davanti il gruppo che lo aspettava, strinse gli occhi e mise in mostra le punte sulla coda, sbavando ed emettendo un verso tintinnante.

«Ma che cazzo è quella cosa?!» sobbalzò Ynneb, sconvolto.

«Addosso!» ordinò Odraccir.

L’orbo lanciò subito il suo vaso, che si frantumò contro il fianco del mostro acido. L’essere guardò stranito la macchia di petrolio sulla sua pelle, poi ringhiò e lanciò muco verso il gallimimo che Elehcim, Odraccir e Odraode condividevano. Il dinosauro corridore schivò agilmente il fluido e prese a sfrecciare intorno al mostro, facendosi inseguire. Tutti gli altri entrarono in azione subito dopo e Lex non fu da meno: Drof gli passò in fretta e furia un vaso di petrolio e il biondo prese ad osservare con attenzione la bestia che cercava invano di mordere o colpire con la coda il gallimimo, in attesa di un’occasione. Appena il mostro si voltò verso di lui, gli lanciò il vaso in pieno muso. Il petrolio gli coprì gli occhi, facendolo lamentare e barcollare disorientato.

«Faccio fuoco!» avvertì Aisapsa.

La domatrice, a cavallo di un deinonico, infiammò la punta di una freccia, la incoccò e la tirò sulla testa della creatura. Il dardo toccò il combustibile e tutto il corpo del teropode alieno andò in fiamme. La foresta di sequoie fu illuminata come da un rogo, mentre il mostro acido strideva per la furia e si agitava, avvolto dal fuoco. Lex si accertava di mantenere le distanze, sempre cauto, e lanciava un altro vaso ogni volta che Drof o gli altri gliene passavano uno. Ogni volta che lo colpivano, l’essere diventava più infuriato ed emetteva una vampata di fiamme sempre più grande. Dopo un po’ di tempo, però, Lex iniziò a preoccuparsi:

«Non sembra che lo stiamo ferendo tanto: è coriaceo!» constatò.

Aveva ragione: ormai era da diversi minuti che il mostro acido bruciava vivo, eppure il ragazzo vedeva solo delle ustioni e delle ammaccature sulla sua corazza. Inoltre, la creatura non sembrava sofferente, solo sempre più irritata, finché non andò fuori di sé. A un certo punto, ruggì al cielo e si precipitò a fauci spalancate su Oilnats e il suo tilacoleo. Il marsupiale lo evitò balzando sulla parete del crepaccio, così il mostro scelse un altro bersaglio: Lex. Appena il sopravvissuto si rese conto di essere stato puntato, non fece in tempo a dare un ordine al concavenator, perché la bestia sferzò l’aria con la coda; sia lui che il dinosauro furono coperti di quella gelatina verde da capo a piedi. Di punto in bianco, Lex si ritrovò a terra e immobilizzato: quel muco rivoltante era come la colla, lo ancorò al terreno in pochi secondi e il minimo movimento diventò uno sforzo immenso. Lex ce la mise tutta per districarsi, ma riuscì solo a liberare un braccio, prima che la creatura ancora in fiamme lo caricasse ruggendo. Il biondo si preparò all’impatto, ma all’ultimo il mostro acido fu investito da Onracoel: il carnotauro lo travolse a testa bassa su una zampa, facendolo barcollare e cadere su un fianco.

«Grazie» disse Lex a Drof, con un cenno.

«Figurati. Ynneb, liberalo!» esclamò il padre di Acceber.

L’amico accorse subito col suo calicoterio. Il bizzarro mammifero infilò gli unghioni nella gelatina e la rimosse un pezzo alla volta raschiandola via, aiutando Lex a liberarsi. Ynneb liberò anche il concavenator e Lex tornò in sella, prima di tornare a guardare come stava andando lo scontro: il mostro acido aveva spento in parte il fuoco rotolandosi per terra e adesso stava attaccando tutti alla cieca: sferrava artigliate, gettava in aria sassi e polvere con potenti codate, lanciava il muco. Ma le cavalcature degli Arkiani riuscivano sempre a non farsi colpire e lo mandavano in confusione. Oltretutto, ogni tanto il carnotauro di Drof lo distraeva caricandolo per fargli perdere l’equilibrio, permettendo agli altri di lanciare altro petrolio e infiammarlo. Tuttavia, sembrava tutto futile: per quanto gli dessero fuoco, il mostro acido non sembrava mai né ferito, né più stanco. Non smetteva di scagliarsi sull’animale più vicino a lui, per poi tentare subito con un altro.

«Il bastardo non si arrende!» esclamò Odraode, mentre il gallimimo evitava un colpo di coda.

«Ci vuole qualcosa che lo tenga fermo!» suggerì Aisapsa, scoccando un’altra freccia infuocata.

«E che cosa? Sembra più duro di un anchilosauro!» si lamentò Ynneb, dopo che il suo calicoterio ebbe lanciato una pietra alla creatura per distrarla.

Quelle parole fecero venire un’idea a Lex. Ormai gli altri erano così concentrati a tenere testa al mostro furioso che non gli passavano più vasi d’olio; in compenso, però, anche la bestia era così impegnata ad attaccare loro sette che non aveva più notato lui, rimasto in disparte dopo essere stato liberato. Aveva tutto il tempo per allestire un diversivo o una nuova trappola. L’idea gli piacque così tanto che abbozzò un sorriso soddisfatto. Assicurandosi che il mostro acido non lo adocchiasse, osservò con attenzione il terreno nel crepaccio e notò un punto a ridosso di un crinale in cui, al posto della roccia madre, c’era il morbido terriccio della foresta. Era quello che cercava. Fece andare il concavenator sul posto e gli ordinò di scavare una buca, come quella in cui si erano appostati. Fu pronta abbastanza in fretta; quando Lex tornò a guardare lo scontro, vide che le cose non erano molto cambiate: il mostro caricava e attaccava, le cavalcature del gruppo schivavano e lo irritavano.

«Ehi! Quaggiù!» li chiamò, sbracciandosi.

Lo sentì solo Drof, che si voltò verso di lui con uno sguardo perplesso. Lex indicò la fossa e gli occhi del padre di Acceber si illuminarono: aveva capito. Così spronò il suo carnotauro con un colpo di tacchi: il teropode con le corna scosse la testa, prese la rincorsa e si buttò sul mostro acido, dandogli una spallata sul torace mentre inseguiva il tilacoleo. Quando ebbe l’attenzione della creatura, Drof fece ritirare Onracoel e lo fece correre fino a Lex: entrambi si misero davanti alla fossa, per nasconderla. Il mostro acido ci cascò: li minacciò con un urlo e partì alla carica. I due fecero scansare di lato le loro creature all’istante e la bestia non riuscì a fermarsi in tempo: mise una zampa in fallo nella buca e cadde rovinosamente, schiantandosi sulla pancia.

«È la nostra occasione! A morte!» urlò Odraccir.

«Il piano di riserva è pronto!» aggiunse Oilnats.

Lo stratega infilò di scatto una mano nella sua borsa da sella e ne tirò fuori una rete piena di bombe a mano dotate di miccia. Ne accese una e buttò l’intera rete vicino alla testa del mostro acido, che si stava rialzando. Aspettandosi che la soluzione d’emergenza sarebbe stata usata in quel momento, Lex fu subito pronto a mettersi in fuga, facendo correre il concavenator verso la foresta il più veloce possibile. Mentre scalava il crinale del crepaccio, sentì l’assordante esplosione dietro di sé e avvertì la spinta dell’onda d’urto, che lo fece piegare in avanti e fece traballare un po’ il suo dinosauro. Quando fu in cima, si voltò per controllare in che condizioni era il mostro: il terreno era stato crivellato dai frammenti delle bombe e anche la creatura era piena di schegge frastagliate che si erano conficcate nella sua corazza. Gocce di liquido scuro cadevano dalle sue ferite, facendo corrodere e fumare il terreno su cui cadeva. Adesso, finalmente, sembrava stanco: fece due passi incerti fuori dalla fossa, ma poi si fermò e prese ad ansimare, con la lingua fuori.

«Porca troia! È ancora in piedi?!» esclamò Ynneb, incredulo.

«L’abbiamo sottovalutato» affermò Odraode, timoroso.

Se doveva essere sincero, Lex non credeva che continuare quello scontro fosse una buona idea: il loro asso nella manica aveva solo ammaccato il bersaglio, il fuoco l’aveva soltanto scalfito, e le loro risorse erano limitate. Fu allora che il mostro fece qualcosa di imprevisto: si spostò al centro della depressione e iniziò a scavare nella roccia viva, senza il minimo sforzo. Lex sbarrò gli occhi: portarlo lì era stato inutile.

«No, no no no no! Sta scappando! Merda!» imprecò Aisapsa.

In un paio di secondi, la creatura era già immersa a metà nel terreno. Era solo una questione di attimi prima che sparisse.

«Lex, inseguilo! Tienilo occupato!» esclamò Oilnats.

Il biondo lo guardò sorpreso e, in parte, contrariato:

«E come dovrei fare?»     

«Vagli dietro e basta! Lo perderemo!»

La creatura era appena entrata del tutto nella nuova galleria che stava costruendo. Lì per lì, Lex fu tentato di controbattere, ma alla fine imprecò a denti stretti e decise di provarci. Il concavenator strisciò agilmente nel tunnel e iniziò a seguire la pista del mostro acido. Oltre la luce della torcia, Lex riusciva ancora a distinguere la sagoma della sua coda ma, non appena si trovarono in mezzo alle radici delle sequoie, il mostro acido le spezzò una a una al suo passaggio e il suolo cedette. Ci fu un crollo e Lex si ritrovò di colpo con la strada sbarrata a un muro di sassi e terriccio. Capì che anche tutto il resto della galleria gli sarebbe franato addosso, dai rumori che il suolo emetteva, così fece voltare il concavenator dall'altra parte e si precipitò di fuori. Avevano fallito: la loro preda era ancora a piede libero su ARK e non avevano risolto nulla, a parte diventare i primi che lo affrontavano per davvero.

«L’hai perso» constatò Ynneb, deluso.

«La galleria mi stava per crollare addosso. Non potevo rischiare» spiegò Lex, scrollandosi la polvere dai vestiti.

«Hai fatto bene: sempre meglio sconfitti, che morti» annuì Drof.

«Sì, ma ora che si fa?» chiese Odraode.

Dopo quella domanda retorica, ci fu un lungo silenzio imbarazzante durante il quale tutti e otto si scambiarono sguardi sconsolati e imbarazzati. Alla fine, Odraccir allargò e braccia e serrò le labbra:

«E adesso rientriamo, non abbiamo altro da fare» rispose.

Elehcim si strinse nelle spalle, concorde.

«Giusto. Avanti, torniamo alle tende a prendere la roba e le bestie e andiamo via da qui» esortò Aisapsa.

A quel punto, il gruppo iniziò a dirigersi verso il punto di ritrovo, dove il resto del contingente li stava aspettando. Mentre procedevano, la foresta di sequoie tornò alla sua solita calma placida: le creature si ripresero dal timore di tutto quel caos e tornarono a farsi sentire ovunque, nel sottobosco e tra le fronde. Drof si accostò a Lex e gli disse:

«Bella trovata, con quel buco. Hai imparato in fretta a usare la nuova creatura, eh?»

Il biondo gli rivolse un sorriso complice:

«È così tutte le volte. Scoprire altre creature è sempre una bella novità»

«Capisco. Comunque, mia figlia adorerà la storia che avrò da raccontarle»

«Immagino. Credo di poter dire lo stesso per Aurora. E sono abbastanza sicuro che stanotte si è divertita molto più di me, soprattutto perché lei non si sarà riempita di terra e polvere» scherzò, sarcastico, togliendosi altre zolle dai capelli.

Drof ridacchiò:

«Avrai tutto il tempo di raccontarle della nostra caccia finita male dopo che ti sarai ripulito. D’altronde, chi ha mai avuto fretta di parlare di un fallimento?»

Lex non rispose nulla, ma pensò tra sé e sé che Drof non avesse idea di quanto aveva ragione.

All’alba, Aurora era seduta su un cumulo di paglia accanto al suo equus nella stalla comune degli Alberi Eterni, esausta ma incapace di addormentarsi. Se ne stava a gambe incrociate su quell’improbabile giaciglio pungente ma morbido, in attesa che Lex e i sette Arkiani tornassero dalla loro caccia per avvisare Drof dell’infortunio di Acceber e raccontare di quello strano drago invisibile. Ogni tanto, tra una strofinata agli occhi cerchiati e l’altra, accarezzava il muso dell’equus, che ricambiava strusciandole il muso contro le guance. Portare Acceber fino al villaggio era stato molto più facile a cavallo che a piedi, ma la tensione e la paura di incontrare altri predatori dopo lo ienodonte era stata così tanta che non era riuscita a calmarsi per ore, dopo il rientro, motivo per cui non aveva chiuso occhio. L’unica consolazione era stata che, dopo il controllo del guaritore del villaggio, le ragazze avevano avuto la conferma che la figlia di Drof si era rotta solo una costola e che non era scomposta: la ragazza avrebbe dovuto stare sdraiata e ferma per alcune settimane, praticamente com’era successo a Jenny dopo l’assedio dei Teschi Rossi. La rossa aveva lasciato l’amica a riposare nella locanda degli Aberi Eterni, prima di scendere alla stalla per stare col cavallo. Finalmente, dopo che i raggi del sole mattutino furono entrati dalle finestre della stalla, sentì le voci familiari di Lex e Drof che si avvicinavano. Uscì dal box e andò da loro; si sorprese di vedere Lex ricoperto di terra e trucioli di legno: doveva essere stata una battaglia intensa.

«Oh, ciao! Sei già qui?» la salutò Lex, quando la vide.

«È stata una notte atroce: ci siamo prese un…» iniziò la rossa, con la bocca impastata.

Prima che riuscisse a finire la frase, le sfuggì uno sbadiglio che coprì con una mano. Le scesero due lacrimucce e se le tolse dagli occhi.

«Scusate» borbottò.

«Dov’è Acceber?» chiese Drof, con uno sguardo sospettoso e un tono che tradiva una certa preoccupazione.

«C’è stato un incidente – spiegò la ragazza – Dei megaloceri ci sono corsi incontro, Acceber è stata investita mentre cercava di aiutarmi e si è rotta una costola»

L’uomo trasalì:

«Oh, merda! Dov’è adesso?! È grave?!»

«Sta riposando nella locanda. Drof, non ti preoccupare, poteva andare molto…»

Il padre di Acceber non la ascoltò neanche: era già balzato giù da Onracoel ed era uscito di corsa dalla stalla. Lex si grattò il collo, con fare sconsolato:

«Sembra che abbiate avuto una nottataccia anche voi. Cos'è successo?»

«Ah! Nottataccia! Magari…» commentò Odraccir, sarcastico.

Ma ormai Aurora era talmente incuriosita sul mostro acido che non fece caso alla domanda dell’amico e chiese a sua volta:

«Com’è andata? Avete trovato il mostro acido?»

Lex scese dal concavenator e andò ad appoggiarsi al muro della stalla, a braccia incrociate, prima di annuire e raccontare:

«Siamo riusciti a farlo venire fuori e ci abbiamo combattuto, ma è scappato. L’abbiamo sottovalutato: dopo tutto quello che gli abbiamo fatto, era solo stanco e ammaccato»

Ynneb fischiò e aggiunse, a conferma delle parole del biondo:

«È il figlio di puttana più duro che abbiamo mai visto. È stato come prendere a pugni un anchilosauro, solo che questo era arrabbiatissimo e lanciava quello schifo di gelatina»

«Oh… - reagì Aurora, intrigata – Insomma, che aspetto ha?»

Lex allargò le braccia:

«Non ho mai visto niente di simile nemmeno sulle Arche: è una sorta di teropode "alieno". È la prima parola che mi viene in mente»

Quella risposta le fece tornare alla mente l’incontro spiacevole che lei e Acceber avevano fatto quella notte, quindi la rossa non indugiò oltre e condivise la sua storia:

«Sai, anche io e Acceber abbiamo trovato una creatura mai vista prima»

Lex parve molto sorpreso e gli amici di Drof, che si stavano occupando di sistemare le loro bestie, si voltarono di scatto verso la rossa, sull’attenti. Aurora, dopo essere stata scossa da un brivido al pensiero del muso del drago piumato a pochi centimetri dal suo viso, andò avanti:

«Per caso, tu sai qualcosa su delle specie di draghi col corpo da lucertola e piume coloratissime, che diventano invisibili e si arrampicano?»

Il biondo fece un’espressione tanto confusa quanto interessata, mentre i sei Arkiani si scambiavano sguardi sconcertati. Lex scosse la testa:

«No, non mi risulta. Gli unici draghi che ho presente sono il Drago e le viverne, lo sai»

«Giusto»

«Non ci posso credere – disse Aisapsa – I mostri sono due? E questo da dove salta fuori?»

Oilnats fece una smorfia titubante per qualche secondo, per poi rimuginare:

«Forse ha a che fare col nostro nuovo amico rabbioso e sfuggente. Dimmi, rossa, cos’altro sai di questo “drago” con le piume?»

Aurora rifletté, spostandosi delle ciocche di capelli dietro le orecchie:

«Be’, come ho già detto, può diventare invisibile. Poi…»

Oilnats levò gli occhi al cielo:

«Non in quel senso, parlami di cos’è successo. Come si comporta? Perché è sbucato fuori? Come ne siete uscite vive?»

«Be’, quei megaloceri scappavano da lui, in realtà. Ne ha ucciso uno, ma quando ci ha viste è venuto da noi per annusarci. È stato terrificante, ma non sembrava per niente che volesse mangiarci, sembrava che ci stesse solo dando un’occhiata. Come se fosse curioso, ecco»

Elehcim fece una smorfia compiaciuta e, attirando l’attenzione di tutti con un colpo di tosse, fece una serie di gesti mantenendo un’espressione ispirata. Quando finì, Odraccir tradusse:

«Dice che trovarlo potrebbe essere facile, perché gli animali curiosi si fregano facilmente. Che dire, bestione, non va sempre così: alcuni sono curiosi e stupidi, altri curiosi ma prudenti»

Odraode sbuffò, contrariato:

«Ehi, aspettate! Siamo appena rientrati dalla caccia più disastrosa di sempre e pensate già ad un’altra bestia uscita dal nulla e di cui abbiamo solo una storia? Almeno riprendiamoci!»

«Non ti preoccupare, eterno ammalato, avrai tutto il tempo del mondo per riposarti dopo questa» lo rassicurò Aisapsa, dandogli una pacca sulla spalla.

«Oh, be’, avevamo già intenzione di dividerci dopo questa caccia. Se ne riparlerà la prossima volta che potremo unirci – disse Oilnats, rilassato – In fondo, voi due non dovete forse fare quell’altro favore ai fratelli del petrolio tra pochi giorni?»

«Esatto, dobbiamo accompagnare una loro carovana. Ci prenderemo giusto questo paio di giorni per riposare prima che sia il momento» gli confermò Lex.

«Be’, è stato un piacere averti con noi! Speriamo di rivederti, prima o poi. Adesso vi lasciamo» sorrise Aisapsa.

Detto questo, gli amici di Drof sistemarono le cavalcature nei box e se ne andarono per le strade del villaggio, discutendo animatamente. Una volta rimasti soli, i due sopravvissuti uscirono a loro volta e, spontaneamente, decisero di fare due passi per discutere meglio sulle nuove scoperte. Mentre parlava e ascoltava, la rossa ne approfittava per dare delle occhiate migliori alle stupende case sulle piattaforme ancorate alle sequoie e ai ponticelli che le collegavano. Era particolare vedere un villaggio sospeso da terra. Comunque, le ci volle poco a rivolgere tutta la sua attenzione sull’argomento:

«Ben due creature di cui gli abitanti di quest’isola non hanno mai sentito parlare? Non ho alcun dubbio che siano gli unici di entrambe le loro specie» ragionò il biondo.

Aurora concordò:

«Ha senso. Se il mostro acido è saltato fuori pochi mesi fa e del drago non si sapeva niente prima che io e Acceber lo scoprissimo, da dove pensi che vengano?»

«Niente di tutto questo può essere un caso. E se penso a come due mostri unici nel loro genere abbiano fatto a venire qui, mi vengono in mente solo due spiegazioni sensate: o questo posto è gestito artificialmente come le Arche o quelle due bestie vengono da un altro mondo, come noi»

«Tu dici?»

«Non so come spiegarmelo, altrimenti. Ormai siamo certi che al di fuori di quest’isola c’è il pianeta Terra come lo conosciamo, quindi è escluso che vengano dal mondo esterno»

«Magari vengono dal futuro» azzardò Aurora.

Lex alzò un sopracciglio:

«Uhm… no, mi sembra un'ipotesi troppo "di fantasia", al punto che ho la netta sensazione che vengano proprio da un’Arca»

«Di fantasia? Cioè creature che a un certo punto le Arche hanno creato per rendere tutto più difficile, come le viverne e i vermi delle sabbie su Terra Bruciata?»

Il suo amico sembrò apprezzare che si ricordasse così bene le sue spiegazioni da quando le aveva raccontato le vicende dei diari:

«Proprio così, brava. Il mostro acido mi dà quell’idea, pensandoci bene. E, guarda caso, conosciamo due persone che vengono proprio dalle Arche e che ci possono tornare in ogni momento»

Aurora fece subito due più due e, sapendo bene che il sospetto di Lex aveva più che senso, rimase quasi a bocca aperta:

«Vuoi dire che dietro tutto questo ci sono Axel e Nadia?»

Lex allargò le braccia:

«È l’idea più sensata. Loro due vengono dall’Aberrazione, l’Arca a cui non posso accedere perché è guasta. A giudicare dalle creature che abbiamo visto con le sculture e alla base di Nadia in quelle grotte, il mostro acido mi sembra davvero un animale che potrebbe venire lì. Il drago piumato com’era, esattamente? Puoi darmi dei dettagli in più?»

Aurora ripensò alla creatura per un minuto, prima di grattarsi il collo con un certo imbarazzo:

«Scusa, non so proprio in che altro modo descriverlo. Era letteralmente un lucertolone enorme con degli artigli lunghi e appuntiti e delle piume colorate sulla schiena, sulla testa, sulla coda e sulle ali. Da quel poco che ho visto, si arrampica benissimo e plana»

Lex ci pensò su, annuendo:

«Plana e si arrampica? Sì, sembra decisamente una creatura pensata apposta per delle caverne. Ehi, ora che ci penso, come vi siete salvate?»

«È apparso di nuovo quel gorilla gigante, lo stesso che ha mandato via i due giganotosauri qualche giorno fa. Ha attaccato il drago e noi due siamo andate via mentre combattevano»

«Interessante. Del resto, ho sentito che Kong è una sorta di guardiano. Ho sempre più voglia di dare un’occhiata da vicino anche a lui: questa versione alternativa del Megapiteco mi incuriosice»

«Anche a me, ma ora cosa facciamo coi due mostri? Andiamo da Axel e Nadia e chiediamo se ne sanno qualcosa? E se ci sbagliassimo? Anzi, e se fosse vero e la prendessero male?»

Lex alzò una mano per interromperla:

«Piano, anche se ci sembra ovvio, è comunque un sospetto e niente di più. Vorrei cercare delle prove, prima di affrontare la questione con loro. In ogni caso, è meglio se ci togliamo di mezzo l’impegno per Jonas: quando ci avrà restituito la sfera, potremo anche pensare ad altro. Evitiamo di pestare altri vespai, per ora»

«Uhm… sì, hai ragione. Allora non ci resta che aspettare. Hai in mente qualcosa da fare?»

«Oh, sì: un bel bagno, ne ho assolutamente bisogno» rispose Lex, indicando la sporcizia che aveva addosso.

«Penso che dovrei lavarmi anch’io: tra la fuga nella foresta, i sudori freddi e la stanchezza, mi devo davvero riprendere. Poi andrò a trovare Acceber»

«Bene. Per il resto, cercherei di evitare di fare altro: rimaniamo in zona e stiamo tranquilli» propose lui.

Aurora non poteva essere più d’accordo. Le dispiaceva proprio che adesso Acceber fosse costretta a letto: la ragazza sarebbe stata la compagnia perfetta per trascorrere quel paio di giorni in totale serenità, anche soltanto dando un’occhiata in giro e raccontandosi storie come ormai si erano abituate a fare. Non che non potessero più fare così, ma era un po’ triste scambiarsi aneddoti senza poter andare in qualche bel posto, come avevano fatto quella dannata notte.

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Capitolo 12
*** Imboscata al Guado - Parte 1 ***


Era la mattina del giorno prestabilito per il secondo lavoro per Jonas. Lex aspettava che Aurora lo raggiungesse all’ingresso del villaggio degli Alberi Eterni; teneva le braccia conserte e la schiena adagiata contro il fianco di un orso dal muso corto che Drof gli aveva dato per l’incarico. Perché ovviamente, come notava irritato il biondo, i fratelli Braddock non facevano nulla per facilitargli le loro richieste già rognose. Dopo una decina di minuti di attesa, sentì la voce di Aurora che lo chiamava:

«Eccomi, Lex»

La rossa arrivò a cavallo di un deinonico. Lex riconobbe l’esemplare dai colori e dalle decorazioni sulla sella e sorrise: era la cavalcatura di Aisapsa. Gli faceva davvero piacere che Drof e i suoi amici fossero così generosi.

«La domatrice ti ha dato il suo pezzo forte, eh?» commentò, con un sorrisetto.

Aurora ammiccò:

«Ho voluto cavalcare questi raptor morbidosi da quando li ho visti per la prima volta»

«Ti capisco. Aspetta solo un secondo, voglio dare un’ultima occhiata all’equipaggiamento. Solo per sicurezza»

«Va bene»

Lex si accertò di aver affilato la spada che aveva scelto come arma per quella missione, poi chiese ad Aurora, che portava un arco a tracolla, di contare le frecce nella sua faretra. Non sapevano come sarebbe stato, se il misterioso ladro di petrolio si fosse fatto vivo, ma Lex confidava che così bastasse, al pensiero che avrebbero avuto un intero contingente. Alla fine, soddisfatto, esortò:

«Bene, possiamo andare. Jonas ha segnato sulla cartina dove ci aspetta la sua carovana»

Detto questo, montò sull’orso e lo spronò. I due sopravvissuti si addentrarono nella foresta di sequoie, diretti a Sud.

Lex e Aurora giunsero al punto di incontro: una macchia di giovani sequoie abbattute in mezzo alle quali si trovavano alcuni pozzi di petrolio, in riva a una sorgente nel fondo di una delle gole della Grande Foresta. Vi trovarono un po’ di fermento: numerosi uomini sporchi di greggio erano indaffarati a riempirne una gran quantità di barili, per poi trasportarli e caricarli su un grosso carro a cui erano legati due rinoceronti lanosi. Altri animali aspettavano con pazienza di partire, adagiati intorno al carro. Lex osservò le cavalcature lì presenti: vide cinque fororaci, quattro parasauri, tre stegosauri e un terizinosauro.

«C’è un bel po’ di creature» commentò Aurora.

Lex serrò le labbra, poco convinto:

«In tutta onestà, mi aspettavo di meglio. Per forza ai Braddock rubano sempre i carichi»

I due sopravvissuti si avvicinarono e attirarono l’attenzione della carovana. I fororaci si alzarono, si scrollarono la polvere dalle piume e si avvicinarono al deinonico. Lo circondarono e presero a dargli occhiate curiose, mentre si scambiavano gracchi insicuri. Il deinonico emise un soffio minatorio, ma si rilassò quando i fororaci fecero un passo indietro. Nel frattempo, uno dei carovanieri, un uomo abbronzato con le spalle larghe e i capelli scuri, si avvicinò a Lex e lo salutò con un musicale accento portoghese:

«Salve. Jonas ci aveva detto che sarebbero venuti un uomo biondo e una ragazza rossa ad aiutarci per questa consegna. Mi chiamo Bartolomeu»

«Piacere, Lex» rispose il sopravvissuto.

«Aurora» sorrise la rossa.

Il Portoghese si voltò e chiamò i suoi compagni a gran voce:

«Ehi, gente, venite a salutare i nostri protettori! Per gentile concessione di Jonas» disse, sarcastico.

Tutti i suoi colleghi interruppero le loro mansioni e si avvicinarono per presentarsi. Alcuni salutarono, altri fecero un cenno, altri ancora li guardarono in cagnesco. Lex squadrò i vari carovanieri che avrebbe dovuto difendere: in totale, erano sette naufraghi di provenienze diverse e altrettanti Arkiani. Mentre li guardava, Lex notò varie differenze nei loro modi di vestire; Drof non era sceso nei dettagli, quando gliene aveva parlato, ma gli aveva spiegato che poteva distinguere la tribù di provenienza di ogni Arkiano dal suo abbigliamento. Incuriosito, non perse occasione di chiedere ai sette nativi a quali tribù appartenevano. Erano quattro Rocce Nere, una Freccia Dorata come Drof e Acceber, un Piede Sabbioso e uno Squalo Dipinto.

«Piacere di conoscervi tutti!» sorrise Aurora, raggiante.

I quattordici carovanieri ricambiarono il saluto, più o meno allegramente. Dopo i convenevoli, Bartolomeu batté le mani e tornò a esclamare ordini:

«Forza, forza, muoviamoci! La scorta che ci avevano promesso è arrivata, ora non si perde più tempo! Tiriamo su il resto del petrolio e partiamo»

Il Portoghese aiutò il resto del gruppo a caricare i barili. Intanto, le quattro Rocce Nere si avvicinarono agli uccelli del terrore e li richiamarono; li misero in fila accanto ai rinoceronti e montarono in sella. Aurora, allora, decise di posizionarsi col deinonico dall’altro lato, affiancata dallo Squalo Dipinto. Lex attese in groppa all’orso, finché un ragazzo asiatico non annunciò che era tutto pronto, dopo aver legato la catasta di barili assieme a un uomo che sembrava provenire da qualche arcipelago del Pacifico. Un Arabo dai lunghi baffi e il turbante bianco prese posto come cocchiere. Bartolomeu salì in groppa a uno degli stegosauri e ordinò:

«Forza, si parte! Tutti al villaggio delle Rocce Nere!»

La carovana iniziò la sua lenta marcia. Lex doveva ammettere di essere incuriosito da quel gruppo così variegato. Voleva saperne di più, perciò decise di affiancare l’orso allo stegosauro di Bartolomeu e fargli qualche domanda durante il tragitto.

«Insomma, sono intrappolato qui, in mezzo a belve diaboliche sputate dall’inferno e costretto a lavorare per due arroganti, ma è sempre meglio che stare su una nave, senza sapere se rivedrai mai la terraferma!»

Bartolomeu aveva appena finito di raccontare la sua storia a Lex, mentre la carovana attraversava le Piane Gioiose seguendo la costa occidentale dell’isola. Il biondo aveva iniziato la conversazione: gli aveva chiesto da dove veniva e come era arrivato su ARK. Il racconto era stato persino più interessante del previsto: infatti, Bartolomeu era un marinaio della flotta di Magellano e, a causa di un naufragio, era finito sull’isola durante la circumnavigazione del globo. Il Portoghese era un narratore così coinvolgente che Lex non si era nemmeno accorto di quanta strada avessero fatto, finché non finì l’aneddoto. Diede una rapida occhiata ad Aurora: la rossa stava conversando in tranquillità con gli Arkiani del gruppo, i fantini dei fororaci; parlavano a bassa voce, quindi non distingueva le parole. Il Tedesco decise di continuare a chiacchierare coi naufraghi:

«E voialtri come siete arrivati qui? Alcuni di voi mi intrigano – ammise – Tu, per esempio. Cosa ti è successo?» chiese all’Arabo.

Il cocchiere incitò i rinoceronti lanosi, che stavano rallentando il passo, prima di rispondergli:

«Mi chiamo Aziz; sono il più fidato esploratore e studioso di creature esotiche del mio sultano»

«Che anno è, per te?»

«È il 364, per il mio calendario»

«D’accordo. Come sei arrivato qui? Dall’Arabia al Pacifico, è un lungo viaggio»

Aziz rispose annuendo a occhi chiusi e labbra serrate, con fare comprensivo. Si lisciò i baffi e rispose:

«Hai proprio ragione: sono partito dalla mia terra ben quattordici anni fa. Ho viaggiato sempre più a Est, senza voltarmi indietro: avevo promesso al sultano di portare nel suo serraglio delle creature che nessuno aveva mai visto prima e non mi sarei fermato finché non ci fossi riuscito. Tuttavia, non importava quanto mi addentrassi nell’Oriente, ogni animale che osservavo aveva un’aria familiare, dai rinoceronti alle scimmie. Così, quando ho trovato il grande oceano, sono partito in cerca di nuove terre»

Lex fece un sorrisetto, divertito dall’ironia della sorte:

«Che dire, di certo qui hai trovato quello che volevi»

«Molto più delle mie fantasie più sfrenate! Ma non posso portare nessuno di questi mostri al sultano. Forse, ormai, crede che sia morto»

«Mi dispiace per la tua missione. Almeno puoi studiare creature che non avresti mai immaginato»

«Mi sono messo il cuore in pace»

A quel punto, Lex si rivolse al ragazzo giapponese:

«Qual è la tua storia, invece? Come ti chiami?»

Lo stegosauro del giovane nipponico borbottò e si voltò per guardare il padrone. Questi infilò una mano in una borsa appesa alla sella e gli offrì una carota. Rispose a Lex mentre l’erbivoro sgranocchiava l’ortaggio:

«Il mio nome è Ikko. Ero un pilota durante la guerra: combattevo in aereo contro gli Americani. Un giorno, una tempesta mi ha fatto precipitare e sono caduto qui»

Detto ciò, si affrettò a richiudersi nel suo silenzio. Il Giapponese era forse il più riservato del gruppo: non diceva niente finché non era chiamato in causa e, se lo interpellavano, diceva solo l’essenziale. A malapena guardava gli altri negli occhi: chinava lo sguardo quasi subito.

«Capisco. Vedo che le tempeste hanno fatto un brutto scherzo a molti di voi» commentò Lex.

«Sì, anche a me» gli rispose il Filippino.

Il biondo si voltò e lo guardò, interessato a sentire un altro racconto. L’uomo bronzeo capì dal suo sguardo che aspettava di sentire la sua storia, quindi lo accontentò:

«Non mi è successo niente di speciale: mentre pescavo, l’oceano ha deciso di mandarmi una burrasca e ora sono qui. Per fortuna, a casa non c’è nessuno ad aspettare che ritorni»

«Qual è il tuo nome?»

«Tereroa»

Mancavano solo gli ultimi naufraghi della carovana: tre uomini bianchi sudici e all’apparenza ubriachi. Per tutto il viaggio, avevano parlato più che altro fra di loro e poco di quello che dicevano sembrava avere senso. Lex non era proprio convinto che valesse la pena di rivolgere la parola a degli individui come quelli, perciò stava per lasciar perdere. Tuttavia, Bartolomeu li chiamò e chiese loro di raccontare a Lex anche la loro storia. Per tutta risposta, uno dei tre gli mostrò il dito medio e i suoi due compagni scoppiarono a ridere. A quel punto, si batterono pacche sulla spalla e condivisero una damigiana di vino.

«Rozzi, sporchi, volgari topi» si lamentò Aziz, a denti stretti.

«Dopo questo lavoro, Jonas li manderà via come gli ho chiesto, o ci penserò io – affermò Bartolomeu – Lex, se vuoi ti spiego io da dove vengono. Non che sia importante»

«Sono solo dei galli che starnazzano» disse Tereroa, tra sé e sé.

Lex osservò i tre ubriaconi ridere e canticchiare, infastidito e costretto ad accettare che, a quanto pareva, in ogni singola richiesta dei fratelli Braddock doveva esserci qualche seccatura. A un certo punto, alzarono il tono così tanto che i loro parasauri si voltarono stupiti e Aurora smise di conversare con gli Arkiani per lanciare loro una rapida occhiata interdetta. Alla fine, il biondo sospirò e fece spallucce:

«Perché no? Raccontami pure»

Bartolomeu, allora, si schiarì la voce e spiegò:

«Quello a sinistra è Tucker, quello in mezzo è Eli e il terzo è Mason. Ma, in tutta onestà, non so davvero chi è chi: sono sempre così ubriachi che a volte si confondono tra loro! E poi, a momenti non li si vede in faccia, sporchi come sono sempre»

«Perché mai Jonas e Bob dovrebbero farli lavorare per loro?» chiese Lex, davvero curioso di saperlo.

Il marinaio portoghese fece spallucce:

«Nulla di più semplice: sono forzuti e fanno tutto quello che gli dici senza protestare, finché gli offri da bere. Te lo giuro: basta una damigiana di sidro e quei tre potrebbero portare un barile pieno in capo al mondo a piedi!»

Lex non trattenne una lieve risata e si concesse una battuta:

«Però! Perché domare un triceratopo, quando ci sono quei tre e gli alcolici? È perfetto»

Tutti gli altri risero di gusto, prima che Bartolomeu continuasse:

«Comunque, sono dei balenieri da Seattle. Un capodoglio ha distrutto la loro barca mentre lo arpionavano; fra tutta la ciurma, solo loro sono arrivati qui vivi»

«D’accordo»

Bartolomeu aprì bocca per aggiungere altro, ma a quel punto la conversazione fra Lex e i naufraghi fu interrotta da Aurora:

«Ehi, Lex, laggiù inizia un boschetto. Mi sembra di vedere un fiume» avvisò la rossa.

Aurora e gli Arkiani indicarono davanti alla carovana e il biondo guardò: a un centinaio di metri da loro, iniziava una zona acquitrinosa in riva all’oceano. Lex si aggrappò saldamente all’orso e gli ordinò di rizzarsi in piedi. Quando l’orso si alzò, il Tedesco diede un’occhiata migliore ai dintorni: la vasta e tranquilla distesa erbosa delle Piane Gioiose cedeva il posto a una macchia di salici e mangrovie, attraversata da una rete di canali stagnanti che formavano un intricato delta, in riva all’oceano. Conosceva quel punto, dalle sue visite alle Arche: faceva parte della foce del grande fiume al centro delle Isole di Cristallo. Su ARK, stando alle sue chiacchierate con Drof, si chiamava “l’Arteria d’Acqua”.

«Eh sì, siamo arrivati al guado» disse Tereroa.

«Questa è la parte più fastidiosa del viaggio, ma non c’è problema: andremo nel punto più facile da guadare e saremo dall’altra parte in men che non si dica» rassicurò Bartolomeu.

Lex era contento di quella notizia: se c’era una costante fra le Arche, era che gli acquitrini erano sempre posti molto sgradevoli; restarci più del dovuto portava solo a grandi rotture, se non vere minacce.

«Bene, allora andiamo. Fate strada, ragazzi»


Aurora aveva approfittato del tragitto per farsi spiegare alcuni dettagli sulla civiltà degli Arkiani dai fantini degli uccelli del terrore, che erano delle Rocce Nere. Tuttavia, non le dispiaceva neanche godersi il paesaggio: per una volta che stava facendo una traversata sicura con un gruppo numeroso, voleva osservare bene i dintorni senza temere qualche predatore. Seguire la costa nelle Piane Gioiose le dava una sensazione rilassante: da un lato, c’era l’immensa distesa blu dell’oceano; dall’altra, la vastità delle praterie disseminate di betulle e cristalli bianco-rosati. Avrebbe tanto voluto farci una passeggiata in serenità, senza pensare a niente. Dopo tutte le sventure che le erano capitate finora, era bello avere una missione tranquilla.

Quando raggiunsero la foce dell’Arteria d’Acqua, la magia sparì. La pianura cedé il posto a boschetti di salici che cospargevano le rive dei rigagnoli stagnanti di quel delta, che invece erano disseminati di mangrovie dove l’acqua era più bassa. Aurora non sapeva perché, ma quel posto la metteva a disagio. Voleva superare quel posto il più in fretta possibile, soprattutto dopo che uno dei compagni arkiani le mormorò che quella foce era territorio di barionici e sarcosuchi.

Per fortuna, Bartolomeu disse che avrebbe indicato alla carovana dov’era meglio attraversare. Il gruppo iniziò a guadare i canali nei punti in cui i loro letti erano meno profondi; siccome dovevano raggiungere il punto più adatto a ogni guado, procedevano a zig-zag e la loro avanzata era lentissima. Ogni volta, lei e gli Arkiani coi fororaci attraversavano per primi, seguiti da Lex con l’orso e dal terizinosauro. I parasauri guadavano dopo di loro e i due rinoceronti col carro del petrolio erano i prossimi. Gli stegosauri passavano per ultimi. Ogni volta, era necessario fare attenzione che le ruote non si incastrassero nella fanghiglia o che non urtassero una roccia sul fondale, quindi la procedura rallentava ancora di più.

Nel pomeriggio inoltrato, raggiunsero il canale più ampio del delta. Dalla riva, Aurora riusciva a capire che era abbastanza profondo, a giudicare da quanto era lontana la sponda opposta. Quella volta, furono costretti a seguire la corrente fino alla costa: l’acqua si abbassava subito prima che il fiumiciattolo entrasse nel mare. Doveva essere comunque piuttosto alta, perché la rossa non riusciva a vedere il fondo.

«Bene, gente, questo è l’ultimo sforzo – annunciò Bartolomeu – Dopo questo canale, la Conca Sanguigna sarà in vista!»

«Perfetto. Aurora, vuoi procedere?» la esortò Lex.

La rossa non era del tutto convinta, ma annuì comunque, a labbra serrate. Chiese alle Rocce Nere di starle davanti e loro acconsentirono. I fororaci iniziarono ad attraversare, un po’ camminando sul fondo con le punte degli artigli, un po’ nuotando facendo scattare i colli avanti e indietro come anatre. Il deinonico emise un lieve ringhio: non sembrava contento di guadare lì. Aurora sorrise e gli accarezzò le piume, per confortarlo:

«Coraggio, bello, solo un ultimo bagno»

Il deinonicò chiuse gli occhi e pigolò, felice per la carezza. Tuttavia, quando la rossa lo spronò coi talloni, prese a osservare il boschetto col collo teso e lo sguardo vigile. Iniziò a ringhiare più forte e a sibilare.

«Ehi, cosa ti prende?» chiese la ragazza.

«Sembra allarmato» disse Aziz.

«Forse ha fiutato qualcosa in mezzo alle piante» ipotizzò Tereroa.

Aurora rivolse uno sguardo interrogativo a Lex, che fece un’espressione preoccupata.

«Dev’esserci qualcosa che lo allarma, qui vicino. Un motivo in più per muoverci. Vengo con te» si offrì.

La rossa non sapeva ancora se era il caso di preoccuparsi, ma fu comunque sollevata per essere affiancata dal suo amico. Il deinonico e l’orso guadarono insieme, anche se il plantigrado arrivò dall’altra parte molto più in fretta e senza fatica. Alla fine, con uno sforzo notevole, il deinonico raggiunse l’altra riva e iniziò a pettinarsi le penne con gli artigli.

«Va bene, adesso tocca a voi» disse Lex.

Bartolomeu annuì e spronò la sua cavalcatura. I parasauri e il terizinosauro fecero per entrare nel canale, ma tutte le bestie si innervosirono di colpo. Cominciarono a fare versi agitati e si voltarono verso l’entroterra. Aurora guardò nella direzione in cui erano girate e vide che l’acqua profonda al centro del canale si stava agitando. Di lì a poco, un’enorme sagoma emerse in superficie. Apparve un gigantesco coccodrillo, persino molto più grosso di un sarcosuco. Era sellato e sul suo dorso era sdraiato un uomo, aggrappato alle redini.

«Un coccodrillo gigante!» esclamò una delle Rocce Nere.

Il colossale rettile acquatico si fermò al centro del guado e bloccò il passaggio alla carovana. Voltò il capo verso i rinoceronti e aprì la bocca; emise un gravissimo gorgoglio, con la gola che pulsava. Il suo padrone si alzò in piedi e si voltò verso il carro, coi pugni sui fianchi. A gran voce, in tono presuntuoso, esclamò:

«Voi, Arkiani che vi siete abbassati a lavorare per due schiavisti!»

Mentre lo diceva, si girava di continuo verso l’uno e l’altro gruppo, guardando i membri arkiani della carovana. Con un’espressione sdegnosa, continuò:

«Questo è il vostro unico avvertimento: se avete uno straccio di amor proprio, scendete dalle vostre bestie, andate via da qui e raccontate che i fratelli Braddock sono stati puniti ancora una volta! Se rifiutate, sarete dei traditori della vostra isola e non meriterete pietà!»

Aurora lo guardò in faccia: era alto e atletico; aveva gli occhi verdi, i capelli rasati a zero e un paio di folti baffoni che gli scendevano sui lati della bocca. Al collo e ai polsi aveva bracciali e una collana pieni di ami da pesca in osso, segno che era uno Squalo Dipinto. Lex lo sfidò:

«E tu chi saresti, per dire parole così grosse?»

Lo sconosciuto rimase interdetto e chinò lo sguardo, come se stesse cercando le parole giuste per rispondere. Ma ritrovò subito la spavalderia e ribatté:

«Uno che protegge ARK dalla corruzione! Adesso parlo a voi, stranieri: questo petrolio è sequestrato, e anche voi! Vi ordino di inginocchiarvi tutti davanti a me con le mani alzate, o sarete ingoiati vivi! Sono stato chiaro?»

Aurora e Lex si scambiarono uno sguardo d’intesa: sapevano già cosa fare. Jonas li aveva ingaggiati per fare i conti col ladro di petrolio e il colpevole si era fatto vivo. Dovevano solo occuparsene, adesso. Quindi il biondo fece un cenno agli altri membri del gruppo, sia quelli al suo fianco, sia quelli dall’altra riva. Aurora si aspettava che qualcuno rispondesse a tono al ladro o che lo insultasse; o, ancora peggio, che la situazione precipitasse subito con l’inizio di uno scontro. Lex prese la parola:

«Ascolta, cerchiamo di ragionare»

Lo sconosciuto lo fissò, alzò un sopracciglio e scoppiò a ridere:

«Ahahaha! Davvero? Pensi di farmi cambiare idea?»

Lex spronò l’orso coi talloni e la sua bestia, con fare cauto, fece alcuni passi avanti; avanzò nel canale, senza perdere d’occhio le fauci aperte del coccodrillo gigante. Lex rispose, calmo:

«No, cerco di evitare che qualcuno si faccia male. Il tuo deinosuco potrà ferire qualcuno, ma sei pur sempre da solo: quanto pensi di riuscire a fare, prima che ti fermiamo?»

«Sei curioso di scoprirlo?» lo provocò l’altro.

Aurora si sentiva sempre più nervosa: più Lex si avvicinava al coccodrillo gigante, più era certa che stava per succedere qualcosa. Il suo deinonico sembrò accorgersi della sua ansia, perché si agitò ancora e tese tutti i muscoli, pronto a scattare. A un certo punto, la rossa guardò oltre il deinosuco e sbarrò gli occhi: uno dei tre balenieri aveva preso una lancia e stava per lanciarla. Quando tese il braccio e fece il tiro, non seppe resistere: d’istinto, sobbalzò ed esclamò:

«Aspetta!»

Lo sconosciuto, vedendola guardare alle sue spalle, fece un’espressione allarmata e si voltò. Fece appena in tempo a notare la lancia e inclinarsi di lato: fu mancato per un soffio. La lancia passò oltre e si conficcò nella fanghiglia, a pochi passi dalla sponda. Lex guardò l’arma a occhi e bocca spalancati, poi lanciò un’occhiata allarmata e confusa a lei. Aurora aveva l’impressione che volesse chiederle perché mai avrebbe dovuto fermare il baleniere, ma Lex non glielo chiese. Invece, tornò a osservare lo sconosciuto, che invece aveva uno sguardo oltraggiato:

«Figli di puttana! È così che mi ringraziate per avervi offerto di arrendervi subito?» sbraitò.

Bartolomeu iniziò a urlare imprecazioni e invettive ai tre balenieri, mentre tutto il resto del gruppo metteva mano alle armi, come in automatico. Aurora, per stare sicura, prese l’arco di cui si era munita quella mattina, prima di partire. Lo sconosciuto fischiò, per poi affermare:

«Vi siete scavati la fossa! All’attacco!»

Aurora notò del movimento, sull’altra sponda: la terra ai lati della carovana iniziò a smuoversi e sollevarsi. Di colpo, numerose purlovie scattarono fuori dal terreno e si avventarono sui fororaci. Gli uccellacci striderono e provarono a sferrare qualche calcio, ma furono sorpresi e sbattuti a terra. Le purlovie serrarono subito le fauci sui loro colli spogli e li sgozzarono a morsi. I fantini degli uccelli furono scaraventati a terra e le purlovie non esitarono ad assalirli. Le urla straziate non durarono molto. Aurora tese subito l’arco e mirò a uno dei mammiferi furtivi, pronta ad aiutare, ma fu distratta da un ruggito dell’orso di Lex.

«Oh, merda!» imprecò il biondo.

Aurora si voltò, allarmata. Un’altra purlovia era spuntata vicino a loro ed era balzata addosso all’orso. Adesso il plantigrado cercava di scrollarsela di dosso con gli artigli, alzandosi in piedi di continuo; la purlovia non cedeva e penzolava con la bocca stretta sulla sua spalla. Lex tentò di reggersi forte, ma lo scalpitare dell’orso lo fece cadere a peso morto dalla sella. Senza pensarci due volte, la rossa puntò l’arco e scoccò. La freccia colpì la purlovia alla schiena: la bestiaccia lasciò la presa con un lamento, si rotolò a terra e le rivolse un ringhio furibondo. Lex si rialzò da terra e sfoderò la spada. La purlovia lo puntò e gli saltò addosso; prima di essere placcato, il ragazzo si fece scudo con la lama e iniziò a premerla contro la gola della bestia, per impedirle di morderlo.

«Colpiscila!» la esortò.

Aurora non se lo fece ripetere e incoccò un’altra freccia. Tuttavia, prima che tirasse, notò movimenti strani con la coda dell’occhio: qualcosa di colorato era apparso in mezzo agli alberi, alla sua destra. Confusa, la rossa non poté fare a meno di guardare e rimase a bocca aperta: adesso, sopra il boschetto, stava volando un nutrito sciame di falene giganti. I ringhi della purlovia la riportarono alla realtà; Lex era ancora in pericolo. Aurora tirò una seconda volta. La purlovia gemé e Lex la spinse via con un calcio. L’orso le fu subito addosso e le squarciò la gola con gli artigli.

«Grazie» disse Lex.

Entrambi, a quel punto, osservarono preoccupati lo sciame di falene, che adesso volteggiavano sopra tutto il gruppo. Lo sconosciuto, intanto, fece un ghigno soddisfatto e fischiò. Il suo deinosuco tornò nell’acqua profonda e si immerse con lui.

«Le falene di Terra Bruciata? È più organizzato del previsto» ragionò Lex.

«Ehi, che significa tutto questo?!» esclamò Tereroa all’altra riva, preoccupato.

«Copritevi la faccia!» esclamò Lex.

All’improvviso, le falene iniziarono a spruzzare una densa polvere gialla dalle punte degli addomi. La polvere si diffuse nell’aria e formò una nuvola, prima di calare in fretta sul guado. Aurora rimase come incantata per un attimo, prima di ricordarsi l’ordine di Lex e provare a proteggersi il viso con gli avambracci. La polvere gialla la raggiunse e fu tremendo: la ragazza iniziò ad avvertire un bruciore insopportabile su tutta la pelle; se la sentiva in fiamme. Era un prurito così forte e insistente da farle male. In pochi secondi, la polvere le entrò nel vestito e le raggiunse la pancia e la schiena: era un incubo. Aurora cercò di resistere più che poté, ma alla fine non ce la fece più: si tolse le braccia da davanti alla faccia per grattarsi il collo e un fianco. Non l’avesse mai fatto: la nuvola gialla le raggiunse gli occhi, le narici e la bocca.

«Non respi… coff coff coff!» tossì Lex.

Aveva provato ad avvertirla, ma era troppo tardi anche per lui. Aurora andò nel panico: le venne un bruciore infernale agli occhi, non riusciva a respirare e non poteva fare a meno di tossire in continuazione. Era accecata e iniziò a piangere a dirotto. Prese ad annaspare, come quando era stata morsa dall’araneomorfo. Anche il deinonico impazzì e la rossa, anche se era cieca, capì che stava barcollando in giro a casaccio. Nel frattempo, sentiva un gran caos intorno a sé: l’intera carovana era in preda al dolore e al panico. Quella tortura le sembrò durare un’eternità ma, finalmente, la vista iniziò a tornarle a poco a poco. La sua pelle prudeva ancora fin troppo, ma almeno stava iniziando a sopportarlo. Gemendo a denti stretti, la ragazza si strofinò gli occhi gonfi e arroventati dal pianto e li strizzò, sforzandosi di guardarsi intorno. Quando finalmente riuscì a vedere bene, tirò un sospiro di sollievo.

Tuttavia, si spaventò appena vide cos’era successo nel mentre: come dal nulla, era apparso un branco di bizzarri e inquietanti mammiferi che sembravano un orrido incrocio fra un lupo e un cinghiale. Le terrificanti bestie con gli zoccoli si erano avventate sui parasauri e gli stegosauri, mentre una di loro urlava al terizinosauro; l’erbivoro piumato, per tutta risposta, allargava le zampe anteriori e metteva in mostra gli unghioni. In mezzo a quel massacro, i due rinoceronti lanosi muggivano e si agitavano, ancora legati al carro. Il povero Aziz, con un’epressione terrorizzata, ce la stava mettendo tutta per calmarli, strattonando le redini. Alcuni dei membri arkiani della carovana giacevano a terra senza vita, in mezzo ai fororaci e due parasauri.

Aurora si sentiva del tutto sopraffatta dalla frenesia e dalla repentinità di quell’imboscata. Si guardava intorno e non riusciva a decidere cos’era meglio che facesse. Doveva dare man forte a Lex? Doveva soccorrere chi era ancora vivo sull’altra sponda? Stavano succedendo troppe cose nello stesso momento. Il suo cuore stava battendo all’impazzata: era certa di essere sul punto di impazzire per la paura. D’un tratto, però, si accorse di un nuovo intruso: dal guado era appena emerso un kaprosuco. Era cavalcato da un altro sconosciuto, molto più giovane del primo: poteva essere un suo coetaneo. Era più esile dell’altro, aveva capelli lunghi fino al collo e baffetti cortissimi; anche lui aveva gli occhi verdi e ornamenti di ami. Il ragazzo si guardò intorno, con uno sguardo furbo; quando vide che nessuno stava badando a lui, fece nuotare il suo coccodrillo fino a riva. Scese a terra e saltò sul carro.

«Ehi!» esclamò Aziz.

«Sta’ buono»

Il ragazzo sferrò un destro all’Arabo: lo colpì in mezzo agli occhi e lo tramortì all’istante. Lo spinse via e si mise alle redini del carro. Lottò coi rinoceronti per calmarli, ma alla fine riuscì ad ammansirli coi suoi strattoni forti e determinati. Aurora sapeva che doveva fermarlo: non poteva permettere che il carico che dovevano difendere fosse rubato. Tuttavia, non aveva intenzione di uccidere nessuno. Decise di tirare un colpo di avvertimento: prese la mira con l’arco e scagliò la freccia accanto al ladro. Il ragazzo sobbalzò, quando la freccia si conficcò nel legno a pochi centimetri da sé; alzò lo sguardo e le lanciò un’occhiata di sfida:

«Non ci pensare neanche! Non rovinerai il mio grande momento!»

A quel punto, fischiò al suo kaprosuco e indicò la rossa. Il coccodrillo si voltò di scatto con un soffio e si immerse nel guado; nuotò verso di lei, veloce come un fulmine. Prima che Aurora potesse incoccare un’altra freccia, il kaprosuco balzò fuori dall’acqua e la ragazza vide la sua bocca spalancata volare verso di lei.

Appena Lex si riprese dagli effetti della polvere di falena, vide il suo orso in difficoltà contro una sorta di porco-cane e accorse per aiutarlo. Preparò un affondo e, con tutte le sue forze, infilzò il fianco della creatura. L’orso lo graffiò subito sul muso e lo fece barcollare. Il biondo ne approfittò per tornare in sella e guardarsi intorno: la situazione era più grave di quanto pensasse. Mentre non vedeva niente, era arrivato un intero branco di quegli esseri e aveva iniziato a decimare la carovana. Lex aveva già visto quei bizzarri mammiferi: li aveva scoperti grazie al gruppo di Drof, il giorno in cui il padre di Acceber gli aveva presentato i suoi amici. Per gli Arkiani erano i “marcia-fiumi”, ma Drof gli aveva detto che alcuni stranieri li chiamavano “andrewsarchi”.

L’orso dal muso corto e l’andrewsarco si scambiarono un ruggito, prima di tornare all’attacco. L’orso si alzò e si abbatté di peso sull’avversario; lo agguantò con gli artigli e gli morse più volte i lati del collo. L’andrewsarco, però, azzannò l’orso al petto e lo spinse. L’orso traballò all’indietro, ma riuscì a non cadere; graffiò ancora il nemico e gli sfregiò il lato della testa. Mentre l’andrewsarco gemeva, l’orso caricò e lo buttò a terra. Iniziò a bloccarlo a terra sotto il suo peso e a morderlo di continuo. Lex capì che era la sua occasione: scese a terra, raggiunse la testa dell’andrewsarco e affondò la lama nella sua gola, per poi torcerla. Quando la sfilò, lo strano mammifero si dissanguò, tra lenti sospiri gorgoglianti.

Dopo essersi concesso un respiro profondo per calmarsi, Lex diede un’occhiata a come procedeva l’imboscata, sull’altra sponda. Trasalì, appena vide che un secondo sconosciuto stava scappando col carro del petrolio; Aziz sedeva svenuto accanto a lui. Il biondo imprecò, tornò subito in sella all’orso e fischiò, per ordinargli di inseguire il cocchiere. L’orso risalì la corrente di corsa per un po’, prima di buttarsi in acqua e attraversare il guado. Una volta sulla riva opposta, l’orso riprese l’inseguimento; galoppava a grandi falcate e la sua velocità aumentò a poco a poco. In poco tempo, riuscì ad accostarsi al carro in fuga. Lex si alzò in equilibrio sulla sella, prese la rincorsa e saltò. Si aggrappò alle funi che legavano i barili di petrolio; riuscì a non cadere per un soffio. Si arrampicò sui barili, dopodiché saltò al posto del cocchiere, accanto al ladro.

«Mio fratello non ti ha fatto capire l’antifona, eh?» disse il ragazzo, sprezzante.

Si sfilò un coltello di pietra dalla cintura e provò a pugnalare Lex, ma il biondo schivò girando il torso, dopodiché gli afferò il polso e gli colpì il braccio, disarmandolo. A quel punto, Lex gli afferrò spalle, lo sollevò e lo spinse fuori bordo. Il ladro cadde in acqua. Lex si sedé, prese le redini e le strattonò; i due rinoceronti lanosi piantarono le zampe nel fango e inchiodarono. Il sopravvissuto tirò un sospiro di sollievo, poi ordinò ai rinoceronti di non muoversi con un fischio e tornò sull’orso. Sarebbero tornati al carro dopo essersi occupati degli aggressori.

Quando si incamminò per tornare dagli altri, si imbatté in Ikko che, col suo stegosauro, se la stava vedendo con un terzo sconosciuto a cavallo di un sarcosuco. L’età di quell’altro assalitore sembrava a metà strada fra quelle degli altri due sconosciuti. Aveva le tempie rasate e una barba trasandata; come gli altri due, aveva gli occhi verdi e ami d’osso ai polsi e al collo. Il suo coccodrillo soffiava e tentava di azzannare la testa dello stegosauro, ma l’erbivoro lo allontanava sempre con le frustate della sua coda. A un certo punto, l’aggressore si tuffò in acqua, si arrampicò sul fianco dello stegosauro e si piazzò alle spalle di Ikko.

Lex spronò subito l’orso, che partì al galoppo. Il Giapponese si voltò e provò a difendersi con un’ascia di pietra, ma lo sconosciuto lo colpì in testa con l’impugnatura di una lancia. Ikko svenne e l’Arkiano lo buttò giù, per poi tornare a terra. Lo stegosauro fu spaventato e confuso dalla perdita del fantino e indietreggiò, con un muggito. Lex batté i talloni sui fianchi dell’orso per farlo accelerare ma, all’improvviso, un grande schizzo d’acqua si alzò dietro lo stegosauro e riapparve il deinosuco. Il coccodrillo colossale afferrò lo stegosauro e lo scuoté come una bambola di pezza, prima di stringere la presa; Lex sentì un fortissimo scricchiolio e l’erbivoro fu schiacciato nella morsa. Si afflosciò e vomitò un fiotto di sangue, mentre le sue interiora pendevano fra i denti del carnivoro.

Il sopravvissuto fece subito fermare l’orso e lo fece nascondere in mezzo alla boscaglia: non era affatto il caso di essere scoperto da quei due, era in netto svantaggio. Per fortuna, i due assalitori non lo notarono. Lex li osservò per alcuni istanti, attraverso il fogliame, e rifletté su come avrebbe potuto disfarsene. Ebbe subito una buona idea: si era appena lasciato i rinforzi alle spalle. Pertanto, scese dall’orso e gli ordinò di tornare dagli altri: avevano senz’altro bisogno di tutto l’aiuto possibile. Del resto, stava per avere una cavalcatura ancora più adatta.

Mentre il deinosuco si rigirava lo stegosauro in bocca e lo ingoiava intero, il suo padrone si accostò al sarcosuco e aspettò che il suo fantino vi tornasse in groppa, dopo aver caricato lo straniero con la pelle gialla dietro di sé.

«Oig, dove cazzo è Orutr?» gli chiese, stizzito.

L’altro fece spallucce e gli rivolse uno sguardo indifferente:

«E io che ne so, Edef? Sono suo fratello, mica la sua balia»

Il fratello maggiore si sentì pervaso da una vampata d’ira e pestò un pugno sul capo del deinosuco:

«Argh! Dannazione!»

«Oh, che vuoi? Sei tu che fai sempre il papà ansioso, dopo fa apposta a farti incazzare»

«Quel… argh! Senti, cambio di programma: prendiamo il petrolio!»

«E gli altri stranieri?»

«Si fottano! Il capo dovrà accontentarsi di quello lì»

«Come vuoi. Ah, ma certo: ecco perché stava scappando»

Edef alzò un sopracciglio, sospettoso:

«Scappando? Avremmo dovuto prenderlo alla fine di tutto»

«Infatti: nostro fratello l’ha preso in anticipo»

«Cosa?! E perché mai?!»

«Secondo te? Per fare bella figura, come vuole sempre fare»

«Oh, porca troia! D’accordo, lo striglierò dopo. Andiamo al carro»

Edef e Oig spronarono i loro coccodrilli e iniziarono a risalire la corrente. Tuttavia, quando raggiunsero il loro bersaglio, videro che lo straniero biondo si era ritrovato lì in qualche modo e stava slegando i due rinoceronti lanosi.

«Maledetto! Fermalo, Oig!» ordinò Edef.

Il sarcosuco tornò a riva e iniziò ad aggirare il carro per attaccare il biondo dai lati. Subito dopo, però, lo straniero liberò i rinoceronti e fischiò, indicando il deinosuco. I due mammiferi cornuti sbuffarono e partirono subito alla carica, col capo abbassato. Edef grugnì e tirò la redine destra; il coccodrillo gigante si voltò di scatto e frustò il rinoceronte più vicino con la coda, sbattendolo nel fiume. Il secondo, però, lo raggiunse e lo incornò nel fianco. Edef sentì l’impatto e, per poco, non fu sbalzato giù dalla sua cavalcatura. Il deinosuco incespiscò e gorgogliò, sofferente. Preoccupato, il suo padrone diede un’occhiata al punto colpito: il rinoceronte aveva affondato tutto il corno nella carne del coccodrillo. Quando lo sfilò, un getto di sangue gli inzuppò la testa e la pelliccia.

«Adesso ti faccio vedere io!» esclamò Edef.

Fece girare ancora il deinosuco e il bestione azzannò il dorso del mammifero. Lo sbatté a terra una volta, poi lo lanciò via, facendolo schiantare quasi all’altra sponda. Dopo aver fatto un respiro profondo, Edef diede un colpo d’occhio al carro, certo che ormai Oig avesse fatto a pezzi quell’irritante capellone biondo. Invece rimase di sasso: lo straniero era ancora vivo e vegeto e stava cercando di riscuotere l’uomo coi baffi e il turbante che faceva da cocchiere.

«Oig, ti dai una mossa?!» sbraitò.

«Dillo a lui!» replicò suo fratello.

Edef si girò verso la sua voce e gli venne voglia di sbattersi una mano sulla fronte: la Freccia Dorata a cavallo del terizinosauro era spuntato dalla boscaglia e aveva fermato il sarcosuco di Oig. Adesso, ogni volta che il coccodrillo dal naso grosso tentava di mordere, il dinosauro piumato lo colpiva con gli artigli, sfregiandogli il muso e il collo.

«Chi siete? Perché ce l’avete con noi?» chiese la Freccia Dorata.

«Dovevate pensarci prima di servire gli stranieri» replicò Oig.

Il sarcosuco si voltò e sferrò una codata; il terizinosauro inciampò, ma il suo fantino riuscì a stare in sella. Riuscì ad alzarsi prima che il coccodrillo tentasse un altro assalto e colpì per primo: gli lasciò tre solchi sul dorso. Il sarcosuco soffiava e dimenava la coda, minaccioso. Oig digrignò i denti e disse:

«Senti, stronzo, è una giornata dura per tutti, quindi perché non scappi finché sei in tempo?»

La Freccia Dorata, per tutta risposta, sputò per terra. Edef sbuffò, concorde con Oig, e scosse la testa: doveva sempre risolvere lui i problemi dei suoi fratelli. Non sapeva quale dei due era più infantile: uno era uno zotico, l’altro faceva solo guai per farsi bello agli occhi del capo. Gli rendevano la vita impossibile. Agitò le redini per attaccare; il deinosuco spalancò la bocca e partì all’assalto, ma qualcosa lo investì a tutta velocità da destra.

«Argh!» sobbalzò Edef.

Per un soffio, non volò via per inerzia. Ancora stravolto, si guardò in giro e vide il responsabile: lo straniero col turbante si era svegliato e, adesso, stava cavalcando uno dei rinoceronti lanosi. Edef pestò un pugno sul capo del deinosuco, furibondo: quell’operazione stava andando sempre più a rotoli.

Aurora alzò la faccia dalla fanghiglia, mezza stordita e ancora terrorizzata. L’ultima cosa che aveva visto erano le fauci del kaprosuco che volavano verso di lei, poi il piccolo coccodrillo aveva travolto in pieno il suo deinonico e lei aveva era caduta. Era rotolata sulla riva e ora giaceva prona, coperta di fango da capo a piedi. Si tirò su coi gomiti e guardò davanti a sé: era rivolta alla boscaglia e il caos della battaglia risuonava dietro di lei. Il suo cuore iniziò a battere ancora più veloce, appena si rese conto di averla scampata per poco. Sentì un ruggito che riconobbe subito: l’orso di Lex. La rossa sbarrò gli occhi, si voltò e si mise seduta.

Del suo compagno di tribù non c’era più traccia, ma il suo orso stava lottando col kaprosuco davanti a lei. Il coccodrillo e il mammifero si rotolavano l’uno sull’altro, stringendosi in una continua presa di morsi e graffi. La ragazza ebbe subito l’impulso di aiutare l’orso, ma si accorse presto di aver perduto l’arco e impallidì. Doveva esserle caduto dopo l’impatto. Aurora capì subito che non era sicuro restare allo scoperto, quindi si voltò e, più in fretta che poté, gattonò fino a raggiungere la boscaglia di salici. Si nascose dietro un albero e sbirciò, per tenere d’occhio la battaglia.

A un certo punto, l’orso riuscì a respingere il kaprosuco con un calcio. Erano entrambi malconci: esausti e pieni di tagli sanguinanti. Purtroppo, il coccodrillo le dava l’impressione di avere molta più energia. Aurora si guardò in giro; possibile che non potesse fare nulla? Poco dopo, però, individuò il suo deinonico: si stava trascinando sulla sponda proprio in quel momento, in riva all’oceano. Aveva un morso sull’addome e aveva tutte le piume sporche di sangue, ma sembrava ancora in forma. La rossa verificò che nessuno la potesse notare, prima di strisciare nel sottobosco fino al mare e avvicinarsi al deinonico. La sua cavalcatura, felice di rivederla, pigolò e strusciò il muso su di lei, per poi porgerle il fianco per farla tornare in sella.

«Perfetto» mormorò Aurora.

Non aveva un’arma, ma il deinonico le bastava. Lo spronò subito coi talloni e lo indirizzò verso il kaprosuco. Tuttavia, proprio mentre vedeva l’orso e il coccodrillo avvicinarsi per tornare a combattere, il sonoro urlo di un parasauro attirò la sua attenzione. Aurora fermò il deinonico e guardò l’altra sponda: uno di quei porci-cani li stava minacciando. I parasauri tentavano di scoraggiarlo con le loro grida assordanti, ma la bestia non faceva che rispondere a gran voce. Oltretutto, aveva già dissanguato uno degli stegosauri, che giaceva in un lago di sangue in mezzo ai parasauri. La rossa sapeva che li avrebbe attaccati di lì a poco e i loro padroni sarebbero stati in grave pericolo. Lanciò un’ultima, rapida occhiata all’orso di Lex, ma ormai aveva preso una decisione.

“Meglio aiutare gli altri prima” pensò.

Fece un fischio sommesso e puntò il dito contro la bestia inquietante, per indicarla come bersaglio. Il deinonico, allora, prese la rincorsa e partì a tutta velocità; compì un lungo balzo e atterrò in acqua, vicino alla riva opposta. Si inerpicò sulla sponda e attirò l’attenzione del mammifero con un sibilo. Il lupo-cinghiale si voltò, grugnì minaccioso e partì alla carica, ma il deinonico si scansò all’ultimo con un saltello a destra. La bestia con gli zoccoli lo superò e inchiodò, confuso. Il dinosauro balzò subito e si aggrappò alla sua schiena, stringendo la presa con tutte e quattro le zampe. Il mammifero cominciò a scalciare in tutte le direzioni, ma il deinonico si reggeva forte. Appena l’avversario si stancò, allungò il collo e lo azzannò alla gola. Il lupo-cinghiale barcollò, prima di cedere. Il deinonico saltò giù prima che cadesse, per poi sferrare il colpo di grazia. Aurora tirò un sospiro di sollievo e lo accarezzò:

«Sei stato bravo» sorrise.

La rossa si voltò verso i fantini dei parasauri e chiese loro se stavano bene. I balenieri e Tereroa annuirono e la rassicurarono con un cenno della mano. Tereroa si asciugò il sudore dalla fronte e le sorrise:

«Rossa, ci hai salvato la vita! Grazie infinite»

Aurora, appena si rese conto del suo gesto, arrossì un po’ e chinò il capo, ma ricambiò il sorriso e rispose:

«Di nulla»

Ora che un problema era risolto, la rossa controllò l’orso. Si stupì, quando scoprì che era rimasto da solo: il kaprosuco era sparito e non lo vedeva da nessuna parte. L’orso dal muso corto era malconcio e affannato, ma si reggeva ancora in piedi. Si guardò in giro, vide Aurora e la raggiunse: attraversò il guado con calma e si scrollò l’acqua di dosso, tranquillo. Poco dopo, però, si sentì un’esclamazione non molto distante:

«Ehi, qualcuno mi aiuti!»

Era la voce di Bartolomeu. I presenti si voltarono nella sua direzione e videro che lo stegosauro del Portoghese era circondato da purlovie. Le teneva a distanza con codate di avvertimento, ma le malefiche bestiacce non smettevano di saltellargli intorno e sbavare, a zanne scoperte. Aurora ne aveva contate sei, prima che le falene la accecassero con la loro polvere; adesso ce n’erano quattro. La rossa guardò i balenieri, serrò le labbra e chiese il loro aiuto:

«Pensate di potervene occupare?» domandò.

I tre uomini rozzi le risposero con grugniti irritati, ma obbedirono. Spronarono i loro parasauri, che raggiunsero di corsa lo stegosauro. Le purlovie mostrarono loro i denti, ma i tre dinosauri crestati urlarono a pieni polmoni e all’unisono: questo bastò per terrorizzare le purlovie, che indietreggiarono, prima di scappare nella boscaglia e sparire nel fogliame.

«Per una volta, ne avete combinata una giusta» disse Bartolomeu ai balenieri.

Mason alzò il dito medio. Il gruppetto si radunò e le cavalcature si misero in cerchio. Il Portoghese si schiarì la voce e fece il punto della situazione:

«Allora, siete tutti interi?»

«Sì» rispose Aurora.

«Dove sono il tuo amico e gli altri?»

«Non lo so, sono caduta in acqua e non ho capito più niente. Mi spiace»

Tereroa prese la parola:

«Li ho visti io: sono tutti andati a monte. Uno dei ladri ha rubato il carro e il biondo l’ha inseguito. Gli altri due gli sono corsi dietro»

Bartolomeu si strofinò il collo, preoccupato:

«Me lo sentivo che il ladro di petrolio avrebbe colpito, ma è stato ancora peggio del previsto. Be’, andiamo da Lex a dargli man forte!»

Aurora annuì, determinata, e si preparò a spronare il deinonico. Tuttavia, scoprirono subito che non avevano più bisogno di muoversi. Con loro sorpresa, tutti e tre gli assalitori, coi rispettivi coccodrilli, apparvero davanti a loro nuotando verso il mare. I tre rettili si fermarono al guado e si voltarono verso monte, a fauci aperte. Aurora sentì i muggiti dei rinoceronti, si girò e restò a bocca aperta: Lex e Aziz arrivarono di lì a poco, ciascuno a cavallo di un rinoceronte lanoso, seguiti dal terizinosauro e dal suo padrone arkiano. I tre si riunirono ai loro compagni di carovana e Lex si accostò ad Aurora.

«Stai bene?» le chiese.

«Sì: il tuo orso mi ha salvata» rispose lei.

«Bene»

A quel punto, i carovanieri squadrarono i loro tre aggressori, pronti a riprendere a combattere al minimo cenno di assalto. Bartolomeu si fece avanti col suo stegosauro e incrociò le braccia:

«Bene bene, cosa abbiamo qui?»

Il ladro più giovane fece un’espressione fiera, gonfiò il petto e rispose:

«Avete a che fare con gli Izevlufaz, sporchi stranieri!»

Quello più anziano diventò paonazzo e gli tirò uno schiaffo sulla nuca:

«Non dirgli chi siamo, idiota!»

«Che vuol dire?» chiese Aurora, curiosa.

Il fantino del terizinosauro la guardò e le spiegò:

«Significa “patrioti” in arkiano»

La rossa non poté fare a meno di riflettere al riguardo: a giudicare da cosa dicevano e come si chiamavano, le sembrava palese che quei tre non rapinassero i trasporti di Jonas e Bob per guadagnarci. C’era qualcosa di ideologico sotto, a quanto pareva. Ma ci avrebbe pensato meglio dopo: ora era meglio prestare attenzione. Lex indicò Ikko, disteso privo di sensi sulla sella del sarcosuco, e disse:

«Tanto per cominciare, restituiteci il nostro compagno»

«Perché non vieni a prenderlo?» lo sfidò il padrone del coccodrillo.

«Se preferisci farti incornare, nessun problema» ribatté il biondo, secco.

Lo sconosciuto più anziano rimuginò per alcuni attimi, poi gli si illuminarono gli occhi e propose:

«Che ne dite di uno scambio? Il nanerottolo giallo per il carro!»

Gli rispose Bartolomeu, sprezzante:

«Ho un’idea migliore: ci ridate Ikko e non uccideremo né voi, né i vostri rettili»

Il più giovane dei tre alzò il pugno ed esclamò:

«Meglio la morte, che assecondare i servi dei Braddock!»

«Zitto, buffone!» lo zittirono gli altri due.

Il più vecchio fece una smorfia imbarazzata:

«Scusate nostro fratello: gli piace fare l’esaltato»

«Stiamo ancora aspettando Ikko» lo stuzzicò Aziz.

Il fratello di mezzo alzò gli occhi al cielo, sbuffò e disse al maggiore:

«Edef, mi sto stancando di questa sceneggiata. Perché non chiamiamo Oirebit?»

«Zitto, gli farai scoprire il piano d’emer… oh, merda» sospirò il più anziano.

«Cosa? Non ci siete solo voi?» indagò Lex.

All’improvviso, un fischio lontano fece eco per il delta del fiume; nessuno dei presenti aveva fiatato. Aurora si guardò intorno, a occhi aperti: voleva capire da dove sarebbe arrivato un nuovo attacco. La sorpresa con le falene le era bastata, per quel giorno. Tuttavia, per quanto aguzzasse la vista, sembrava tutto tranquillo: nella boscaglia non si muoveva nulla, in cielo non c’erano volatili; le falene di prima ormai erano sparite. Poco dopo, però, uno dei balenieri indicò l’oceano alla loro destra ed esclamò:

«Là! Qualcosa di grosso!»

Tutti si voltarono all’unisono e Aurora notò una sagoma nell’acqua. Una massa imponente stava sfrecciando verso la costa, tracciando una scia a forma di V nel mare. La rossa provò a distinguerne la forma, ma la spuma che sollevava la nascondeva. In pochi secondi, la sagoma raggiunse la foce del corso d’acqua e, dal mare, si sollevò un’immenso schizzo. Aurora si riparò il viso col braccio, mentre l’acqua salmastra le cadeva addosso e la inzuppava. Un po’ d’acqua le entrò in bocca e i suoi capelli si appiccicarono alla faccia: non vedeva nulla. Tossicchiò, si spostò i capelli fradici da davanti agli occhi e impietrì: davanti a loro, come apparso dal nulla, torreggiava uno spinosauro.

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Capitolo 13
*** Imboscata al Guado - Parte 2 ***


Lex si maledisse per non aver sospettato una svolta del genere: in fondo, gli era sembrato troppo facile, quando avevano ripreso il controllo della situazione. Però, prima che potesse fare qualunque cosa, lo spinosauro emise un gorgoglio e partì all’attacco: aveva puntato lui. Il sopravvissuto riuscì a saltare a terra appena in tempo: non appena si separò dall’orso, la sua povera cavalcatura fu afferrata dalle fauci del teropode. Lo spinosauro si alzò in piedi, schiacciò l’orso fra i denti e si fece largo tra la carovana: con artigliate e codate, fece allontanare tutti e marciò verso monte. Verso il carico di petrolio. I tre fratelli esultarono e lo seguirono a nuoto.

«Lex! Tutto bene?!» gridò Aurora.

La rossa lo raggiunse in fretta col deinonico, con un’espressione apprensiva. Lex si alzò da terra e la rassicurò, con un cenno. Era un peccato aver perso la cavalcatura, ma era comunque tutto intero. Bartolomeu si fece avanti col suo stegosauro e gli tese il braccio:

«Salta su, forza»

Il sopravvissuto gli afferrò la mano e il Portoghese lo aiutò a issarsi sulla sella dello stegosauro, dietro di lui. La carovana si radunò, ancora stravolta per l’accaduto. Tereroa fece accomodare dietro di sé il Piede Sabbioso, rimasto senza lo stegosauro. Terrorizzato, esortò:

«Non possiamo farcela contro quel mostro! Scappiamo, lasciamo perdere il petrolio!»

Bartolomeu, invece, esclamò:

«Hanno preso Ikko! Non possiamo lasciarlo indietro!»

Aziz, dal canto suo, sembrava già rassegnato:

«Si sono impossessati del carico e di un nostro compagno. Non voglio essere catturato come lui: non possiamo fare niente, contro quel mostro con la vela sulla schiena»

«Perché siamo ancora qui?» borbottarono i balenieri, agitati.

Lex guardò Aurora negli occhi e vide che la rossa lo fissava con aria di attesa; la sua espressione era incerta, ma fiduciosa. Il sopravvissuto capì che la sua compagna di tribù avrebbe appoggiato qualunque scelta avrebbe fatto di lì a poco. Ragionò sul da farsi: ora che era apparso uno spinosauro, i rischi erano enormi. Avevano perso il vantaggio. Ma qual era l’alternativa? Finire quel lavoro per i fratelli Braddock era la chiave per riavere indietro la sfera e tornare sull’Isola. Se si fossero arresi, cosa avrebbero fatto? Avrebbero preso la sfera con la forza? Accettato un’altra richiesta scomoda? In entrambi i casi, le cose si sarebbero complicate molto più del dovuto. Lex fece un respiro profondo e prese la sua decisione. Quindi annuì e dichiarò:

«Sono d’accordo con Bartolomeu: dovremmo fermarli, o comunque provarci. Per salvare Ikko e per il carico»

Come si aspettava, Aurora annuì subito con determinazione e disse:

«Ci sto anch’io»

Gli altri erano ancora scettici, quindi il biondo tentò la prima argomentazione che gli venne in mente:

«Ascoltate, anche se provassimo a scappare, chi gli impedisce di inseguirci? Li avete sentiti, prima: ci vogliono catturare. Pensate di riuscire a sfuggire a uno spinosauro? Dovremmo affrontarlo a prescindere»

Il gruppo lo fissò in silenzio per un po’, ma alla fine si convinsero e si annuirono. Bartolomeu, allora, si mise in testa col suo stegosauro, affiancato da Aurora e seguito dagli altri naufraghi e i pochi compagni arkiani rimasti. Avanzarono a passo svelto verso monte e giunsero in vista del carro. Adesso lo spinosauro teneva le zampe anteriori sui barili, come se li stesse custodendo, mentre i tre coccodrilli facevano la guardia. Stavano per attaccare, prima che dal bosco di salici apparisse ancora lo sciame di falene. Alla loro vista, tutti trasalirono.

«Non di nuovo!» esclamò Aziz.

Lex controllò chi aveva delle armi da lancio: il Piede Sabbioso e Tereroa avevano degli archi. Dunque li esortò subito a colpire le falene del deserto, prima che spruzzassero altra polvere urticante. Entrambi si sfilarono gli archi di tracolla senza esitare e cominciarono subito a tirare. Per fortuna, le falene erano lente e goffe in volo, bersagli facili: una alla volta, furono trafitte e caddero in acqua in modo sgraziato. Le falene rimaste, invece, si spaventarono e volarono via. Lex stava per tirare un sospiro di sollievo, quando notò che c’era un’ultima falena sopra le loro teste; era cavalcata da una persona.

«E quello chi è?» chiesero i balenieri.

La falena scese di quota davanti al gruppo. A quel punto, il nuovo arrivato saltò a terra e si frappose tra loro e il carro rubato. Incrociò le braccia e lanciò una rapida occhiata delusa al trio coi coccodrilli, prima di squadrare Lex e gli altri con aria di sufficienza. Il sopravvissuto lo osservò: era un uomo calvo e imponente, indossava una spessa armatura rivestita di ossi e, alla sua cintura, pendevano cinque teschi umani. Portava una grossa clava di legno coperta di spuntoni a tracolla. Bartolomeu lo ammonì, stizzito:

«Hai una bella faccia tosta, per guardarci così! Venite ad ammazzarci e derubarci e pensi di fare lo splendido davanti a un contingente intero? Ti conviene sparire! E porta quei tre idioti con te, già che ci sei!»

Lo sconosciuto pelato si rivolse al maggiore dei tre fratelli, senza voltarsi a guardarli:

«Edef, cosa ti avevo detto prima di cominciare?»

L’uomo coi baffi si grattò il collo, imbarazzato:

«Di aspettare che le falene finissero? L’abbiamo fatto, Oirebit»

«Non quello, prima»

Il fratello di mezzo fece un’espressione strafottente, tirò un pugno al braccio del fratello minore e rivolse uno sguardo provocatorio al maggiore:

«Ti aveva detto di tenere d’occhio questo piccolo sfrontato che vuole sempre leccare il culo al capo» gli disse.

Edef lo fulminò con lo sguardo, ma l’altro rise solo di gusto. Il pelato annuì e continuò:

«Eppure mi è toccato scomodare Yar, perché stavate perdendo tempo. Stasera vi aspetta una bella predica»

Il fratello minore si arrabbiò e fece per protestare:

«Senti, stavo per…»

Oirebit chiuse gli occhi e lo zittì ad alta voce:

«Chiudi la bocca, bimbo! Ora guarda come i veri guerrieri compiono una missione»

Il pelato fischiò e, come se appartenessero a lui, i coccodrilli dei tre fratelli partirono subito all’assalto. Lex, che era ancora sorpreso per la discussione a cui aveva appena assistito, sfoderò la spada appena i tre rettili si fecero avanti e superarono il guerriero calvo. Il kaprosuco balzò subito alla gola dello stegosauro di Bartolomeu. L’erbivoro si impennò con un gemito, Lex perse l’equilibrio e cadde a terra.

«Forza, difendetevi!» esortò il Portoghese.

Lex si rialzò subito e decise di allontanarsi dalla mischia: il rischio che una delle bestie lo schiacciasse nella foga dello scontro era troppo grande. Appena si allontanò dalle creature, però, il guerriero calvo si parò davanti a lui e gli sorrise, con aria di sfida. Il sopravvissuto afferrò l’elsa della spada con entrambe le mani e alzò la guardia. Oirebit prese la sua clava e ridacchiò:

«È la prima volta che vedo uno straniero che sa usare la spada. Non vedo l’ora»

L’Arkiano si avvicinò, ma Lex notò che alle sue spalle stava per arrivare il terizinosauro e rispose:

«Dovrai aspettare»

Oirebit si voltò e, all’ultimo istante, schivò un’artigliata dell’erbivoro piumato con una capriola. Adesso che il nuovo arrivato era distratto, Lex diede un’occhiata alla battaglia, per capire dove fosse meglio intervenire. Si allontanò dagli scontri per studiare la situazione; si arrampicò su una roccia che affiorava dal corso d’acqua e iniziò a osservare i combattenti dall’alto. Poco dopo, sentì un fruscio nella boscaglia, poco lontano. Guardò in direzione del rumore e vide Aurora spuntare dalla vegetazione: lei e il suo deinonico avevano aggirato il campo di battaglia di soppiatto e, adesso, si stavano unendo a lui.

«Tutto bene?» gli chiese Aurora.

«Per adesso» rispose Lex.

Un fragore di passi e un cigolio legnoso attirò la loro attenzione. Si voltarono verso il corso d’acqua e videro che lo spinosauro, nel frattempo, stava spingendo via il carro del petrolio e lo stava trasportando verso monte. Mentre tutti erano distratti dai ladri, il carico se ne stava andando sotto il loro naso.

«Cosa facciamo?» domandò la rossa, preoccupata.

Lex ragionò, poi le disse:

«Fermalo»

Aurora sbarrò gli occhi, incredula:

«Io? Dovrei fermare quello?»

«Sì»

«Come dovrei affrontarlo, scusa?!»

Lex alzò una mano, per rassicurarla:

«Non voglio che lo affronti, solo che lo tenga occupato. Distrailo e cerca di non farti prendere»

«E tu cosa farai?»

«Cercherò di aiutare gli altri, poi veniamo da te»

Aurora indugiò, titubante, ma alla fine la sua espressione diventò determinata e la ragazza annuì, dopo aver fatto un respiro profondo. Lex le sorrise e le augurò buona fortuna, quindi si divisero. Il compagno di carovana più vicino era Bartolomeu: il suo stegosauro tentava di tenere a distanza il sarcosuco del fratello di mezzo con le sferzate della sua coda, ma non faceva che indietreggiare, mentre il coccodrillo lo incalzava e avanzava. Il rapinatore sghignazzò:

«Hai paura, vero?»

«All’inferno!» gli replicò il Portoghese.

Fece un fischio e lo stegosauro muggì. L’erbivoro partì alla carica, si voltò e sferrò una fortissima codata. Gli spuntoni graffiarono il muso del sarcosuco, ma l’impatto non lo sbilanciò. Il fratello di mezzo fece una smorfia trionfante e agitò le redini. Il coccodrillo, allora, gorgogliò e scattò con un saltello. Afferrò di colpo la zampa posteriore dello stegosauro, che gli dava ancora le spalle. L’erbivoro spalancò gli occhi ed emise un fortissimo gemito di dolore.

«Merda!» imprecò Bartolomeu, spaventato.

L’aggressore si appiattì sul dorso del sarcosuco, il quale iniziò a rotolarsi sulla fanghiglia subito dopo. La sua preda perse l’equilibrio e si rovesciò sul fianco; Bartolomeu fu scaraventato a terra e rotolò lungo la sponda.

«Prendilo, bello» ordinò l’Arkiano.

Il sarcosuco mollò la presa sulla zampa dello stegosauro, ormai dilaniata e fratturata, e puntò l’uomo. Lex era stato costretto ad assistere alla scena mentre si avvicinava di corsa, ma adesso doveva agire in fretta, prima che Bartolomeu venisse divorato. Ma cosa poteva fare? Senza il suo orso, aveva solo la spada per difendersi.

“Al diavolo, me la farò bastare” pensò.

Proprio mentre il sarcosuco apriva le fauci, all’inseguimento di Bartolomeu che tentava di strisciare via, Lex lo raggiunse e alzò la spada sopra la sua testa. Poi, con tutte le sue forze, la abbatté sull’occhio del coccodrillo. La lama squarciò il bulbo oculare e lasciò un solco verticale lungo il lato del muso. La bestia barcollò di lato, disorientata e furibonda, mentre il suo padrone si guardava in giro, sbigottito.

«Ma che cazzo?! Tu! Pezzo di merda!» urlò, quando lo vide.

Lex tirò un sospiro di sollievo per avercela fatta. Senza dire una parola, guardò l’avversario negli occhi e gli puntò la spada insanguinata contro, in segno di sfida. Il fratello di mezzo digrignò i denti:

«Ti credi un duro, eh? Puoi scordarti che ti prendiamo vivo, stronzo!»

Strattonò le redini e il sarcosuco si voltò verso Lex, con le fauci spalancate. Iniziò ad avanzare e Lex, mentre stringeva l’elsa della spada con entrambe le mani, arretrava. Bartolomeu si alzò in piedi ma, prima che facesse qualunque cosa, il coccodrillo dal naso grosso piegò la coda e lo travolse con una potente sferzata che lo buttò via. Il Portoghese andò a sbattere contro il suo sventurato stegosauro e rimase a terra, privo di sensi. Più Lex indietreggiava, più il rettile apriva la bocca e il suo cavalcatore rideva di gusto:

«Che c’è, ti sono cadute le palle? Non è stata una buona idea far incazzare il mio bestione con quella spadina, vero?»

Il sopravvissuto non faceva caso alle sue provocazioni: era impegnato a guardarsi intorno, in cerca di qualcosa nei paraggi che potesse sfruttare per guadagnare un vantaggio. Il sarcosuco piantò le zampe e appiattì il ventre contro il suolo: stava per balzare. Lex si preparò a rotolare via per schivare la sua presa. All’improvviso, però, un ruggito fece eco per l’intero guado e tutti i combattenti, sbigottiti, interruppero la battaglia per guardare. Lex guardò il canale e non seppe trattenere un sorriso soddisfatto: Aurora stava facendo il suo dovere a meraviglia.

Lo spinosauro stava barcollando in giro per il corso d’acqua, in preda alla furia. Girava su se stesso di continuo, mentre andava avanti e indietro alla cieca, e si graffiava e mordeva le spalle e i fianchi. Il deinonico della rossa era aggrappato al teropode anfibio, sfregiato da decine di graffi profondi. Continuava a spostarsi da un lato all’altro della vela dorsale, ogni volta che il predatore gigante provava ad afferrarlo. Ogni tanto, gli strappava anche pezzi di carne con un morso. Aurora si teneva saldamente aggrappata all’agile rettile piumato e cercava di non farsi disarcionare dagli sbalzi continui.

«Yar! Quale cazzo è il tuo problema? Prendilo subito!» sbraitò Oirebit.

Lex diede un’occhiata alle spalle del sarcosuco: l’omone calvo si era distratto per urlare allo spinosauro. Fece un grave sbaglio: il terizinosauro ne approfittò subito per colpirlo coi suoi artigli. Oirebit fu scagliato in acqua e uno schizzo di sangue sporcò la riva.

«Oirebit!» esclamarono Edef e Orutr, quasi in coro.

«Oh, no!» sobbalzò Oig.

Il biondo, in quel momento, ebbe un’idea. Agitò le braccia per farsi notare dalla Freccia Dorata, ancora in sella al terizinosauro, e gli disse a gran voce:

«Lo spinosauro è distratto! Fallo cadere!»

Gli occhi dell’Arkiano si illuminarono, quindi la Freccia Dorata annuì, determinata. Spronò il terizinosauro e gli indicò lo spinosauro. L’erbivoro piumato si avvicinò con cautela al predatore, osservando bene i suoi movimenti casuali. Pochi istanti dopo, nel tentativo di mordere il deinonico alla sua destra, uscì dal canale e si frappose proprio fra il sarcosuco e il resto del gruppo. La Freccia Dorata fischiò in quel momento; il terizinosauro sollevò una zampa e sferrò un colpo di artigli alla caviglia dello spinosauro, proprio sul tendine. Il grande carnivoro zoppicò, con un gemito, prima di perdere l’equilibrio. Dapprima lentamente, poi all’improvviso, si inclinò verso il sarcosuco.

«Oh, cazzo!» sobbalzò Oig.

Il fratello di mezzo si alzò in piedi e si gettò a terra a peso morto, all’ultimo secondo. Il suo coccodrillo, però, non fuggì in tempo e fu schiacciato dall’imponente mole dello spinosauro. Lex sentì le voci dei suoi compagni esultare, ma aveva in mente altro: doveva portare Bartolomeu al sicuro. Lo raggiunse di corsa, se lo caricò sulle spalle e lo sistemò sulla sella del suo stegosauro. Dopodiché, mentre confortava la povera creatura con carezze e parole dolci, la fece zoppicare fino a dietro il carro. Lo spinosauro l’aveva spinto abbastanza lontano, prima che Aurora lo fermasse: Bartolomeu avrebbe dovuto essere al sicuro lì, finché non si fosse svegliato.

«Salta! Salta!» esclamò Aurora.

La rossa si affrettò a spronare il deinonico, appena capì che lo spinosauro stava per cadere. La cavalcatura balzò a terra all’ultimo secondo, con una grazia sorprendente. Tutti quanti esultarono. Aurora, dal canto suo, era solo felice di essere ancora tutta intera dopo quella follia. Le sembrava che il suo cuore fosse sul punto di scoppiare e, a giudicare da come il deinosuco ansimava, anche lui doveva essere stremato. La sopravvissuta decise di riprendersi e mandò la sua bestia a rifugiarsi tra i salici. Dalla boscaglia, Aurora poteva osservare come procedeva la battaglia senza farsi notare.

Da un lato, lo spinosauro e il sarcosuco si contorcevano l’uno sopra l’altro, entrambi incapaci di rialzarsi. Invece, alla sua destra, Aziz stava coordinando i due rinoceronti lanosi per fronteggiare il deinosuco di Edef. Il fratello maggiore guardava di continuo i due erbivori, che camminavano in cerchio intorno al rettile; il coccodrillo stava sulla difensiva, soffiando a fauci spalancate. I due rinoceronti sbuffavano con le narici e agitavano i corni.

«Arrenditi e ti lascerò in vita. Affrontami e ti farò patire quanto gli uomini che avete ucciso» lo minacciò Aziz.

L’Arkiano dai folti baffi lo schernì:

«Sei sfortunato: se tu fossi un Arkiano, accetterei l’offerta»

«Hai fatto la tua scelta» sentenziò l’Arabo.

Aziz alzò le redini, pronto a partire alla carica. All’improvviso, però, il kaprosuco di Orutr spuntò dall’acqua e galoppò verso il rinoceronte del cocchiere. Senza dargli il tempo di reagire, lo afferrò al volo con un balzo e lo strinse tra le fauci. L’Arabo fu subito lanciato via e poi bloccato a terra, con la faccia contro il fango. Orutr diede un’occhiata colma di aspettativa al fratello maggiore, che esultò:

«Bella mossa! Vedi che, quando vuoi, torni utilissimo?»

«Grazie» rispose il ragazzo, fiero.

Adesso i due rinoceronti lanosi erano disorientati, senza Aziz che li coordinava. Edef ne approfittò subito: ordinò al suo deinosuco di attaccare quello davanti a loro. Il gigantesco coccodrillo spalancò la mandibola e la serrò sul collo del mammifero, lo sollevò di peso alzando il capo e, con un’ultima stretta, gli spezzò il collo. Aurora sentì lo scricchiolio delle ossa fino al suo nascondiglio e fu scossa da un brivido. D’istinto, si portò la mano sul collo, come per proteggerlo.

Il secondo rinoceronte, dapprima spaventato, emise un muggito e colpì una zampa posteriore del deinosuco col corno. Il rettile gigante, per tutta risposta, si voltò di scatto e gli lanciò addosso il suo simile morto. Il povero rinoceronte fu sbattuto quasi fino all’altra riva e andò a sbattere contro un macigno. Senza esitare un secondo, il deinosuco lo raggiunse, gli afferrò la testa e lo tenne fermo con una zampa. Dopo un lungo strattone, il capo del rinoceronte lanoso si staccò dal suo collo.

«No! Maledetti, ero affezionato a quei rinoceronti! Li ho allevati di persona!» urlò Aziz, disperato.

«Avreste dovuto arrendervi all’inizio» gli rispose Orutr.

Aurora decise che doveva intervenire. Il deinosuco era andato all’altra riva, mentre il sarcosuco era bloccato sotto lo spinosauro: aveva un’occasione per cogliere di sorpresa il kaprosuco e liberare il cocchiere. Dunque, dopo aver rassicurato il deinonico con una carezza sulla testa, lo fece preparare all’agguato con un tocco di talloni. Il teropode sibilò e si accucciò, pronto a scattare. Aurora fece un respiro profondo, prima di emettere un fischio. Il deinonico partì di corsa e balzò, con gli artigli protesi verso Orutr. All’improvviso, però, Aurora fu investita da una grossa massa scura e il mondo iniziò a vorticare intorno a lei. Un istante dopo, era distesa su un fianco e dolorante, a pochi passi dal deinonico, stordito a terra come lei. In mezzo a loro, giaceva la carcassa massacrata del terizinosauro.

«Cosa?» mormorò Aurora.

Un grido disperato attirò la sua attenzione e la rossa si voltò, appoggiandosi su un gomito. Lo spinosauro era tornato in piedi e, proprio in quel momento, stava masticando quel poco che rimaneva della Freccia Dorata. Attorno a lui c’erano i corpi esanimi dei balenieri e delle loro cavalcature, brutalmente dilaniati. Il grande predatore gorgogliò, con pezzi di armatura e budella incastrate fra le zanne, si alzò su due zampe e iniziò ad avvicinarsi al carro. Aurora sapeva che Lex era lì vicino, e anche Bartolomeu, privo di sensi. Doveva fare qualcosa per aiutarli. Quindi gattonò in fretta e furia fino al suo deinonico, si rialzò assieme a esso e montò in sella. Senza badare ai due fratelli che la fissavano sorpresi, spronò la cavalcatura e la fece correre a tutta velocità all’inseguimento dello spinosauro. Alle sue spalle, sentì Orutr gridarle:

«Dove credi di andare?!»

Ma Edef lo fermò:

«Lasciala andare: ci penserà Yar. Oirebit! Ripesca Oirebit!»

Aurora li ignorò e si avvicinò allo spinosauro, che ormai aveva quasi raggiunto il carro del petrolio. Il deinonico giunse accanto al grande carnivoro, si abbassò e spiccò un balzo. Affondò gli artigli nelle ferite che aveva già aperto nella carne dello spinosauro poco prima e strappò un lembo di carne con un morso. Lo spinosauro ruggì e Aurora, costretta a stringere le redini per non cadere, fu assordata dal frastuono. Il teropode anfibio sbatté il fianco contro il carro, per schiacciare il deinonico. La bestia di Aurora, però, vi saltò sopra all’ultimo e mantenne l’equilibrio, nonostante lo scossone che fece traballare i barili legati. Lo spinosauro e il deinonico si fissarono e si sfidarono, rispettivamente con un gorgoglio furioso e un fischio acuto. Ansimando, forse per il dolore dovuto ai tagli, lo spinosauro allargò la zampa anteriore sinistra: era pronto a sferrare una potente artigliata. Aurora si tenne pronta, mentre il suo deinonico si preparava a saltare giù. Tuttavia, sentì la voce di Lex alle sue spalle:

«Ehi, dove vai? Fermo!»

Prima che la rossa si voltasse per vedere cosa succedeva, accanto allo spinosauro apparve lo stegosauro di Bartolomeu. L’erbivoro attirò l’attenzione del predatore con un gemito. Lo spinosauro si voltò, perplesso, e abbassò un po’ la zampa. E così, all’improvviso, lo stegosauro girò su se stesso e affondò gli spuntoni della coda nell’arto dell’avversario; lo perforò con tanta forza che le punte emersero dal lato opposto della zampa. Il grido che lo spinosauro emise a quel punto fu atroce: Aurora si sentiva inorridita e in pena allo stesso tempo. Quella scena era raccapricciante. Lo stegosauro tirò, ma lo spinosauro gli schiacciò la testa con l’altra zampa e gli azzannò la gola. Con uno scatto della testa, gli frantumò le vertebre del collo. La bestia cercò di sfilare gli spuntoni dalla sua zampa, ma non ci riusciva. A ogni suo movimento, le punte laceravano di più le sue carni e le ossa sporgevano fuori dalle ferite. Aurora dovette sforzarsi per non vomitare.

«Non ce la faccio» mormorò.

Ordinò al deinonico di voltarsi dall’altra parte e di scendere a terra. A quel punto, la ragazza chiuse gli occhi e si prese una boccata d’aria: cercava di non pensare a cosa aveva appena visto. Ma lo strappo e il rumore di schizzi di sangue che sentì subito dopo le provocarono un conato. Aprì gli occhi, in cerca di Lex: voleva almeno sapere se il suo amico stava bene. Lo vide poco lontano: stava trascinando il corpo svenuto di Bartolomeu verso il bosco di salici. Aurora tirò un sospiro di sollievo e iniziò ad avvicinarsi a lui. Ma sentì il gorgoglio di un coccodrillo alle sue spalle; Lex alzò il capo, guardò alle spalle di lei e sbarrò gli occhi.

«Salta giù!» esclamò.

Aurora non sapeva cosa stesse succedendo ma, come in automatico, obbedì all’esortazione del suo compagno senza esitare. Appena scese dalla sella del deinonico, la sua cavalcatura fu afferrata dal sarcosuco di Oig. Il coccodrillo scosse il capo, ignorando i graffi disperati della preda, per poi rotolare di lato senza lasciarla andare. Aurora sentì numerosi scricchiolii e vide la terra sporcarsi di sangue a poco a poco. I lamenti del deinonico si interruppero quasi subito. Appena il sarcosuco si accorse che la sua vittima non si opponeva più, la mollò. La rossa era così sconvolta che non urlò nemmeno: rimase zitta e immobile, a guardare la carcassa sfigurata del deinonico di Aisapsa. La splendida cavalcatura che, in un singolo pomeriggio, l’aveva salvata più e più volte.

«Ora basta» disse una voce dietro di lei.

Un istante dopo, Aurora avvertì una botta fortissima sulla nuca. Le sue orecchie fischiarono e il mondo diventò sfocato e ondeggiante. La rossa si sentì flaccida tutto d’un tratto e si afflosciò sulle ginocchia, prima di cadere prona. Nonostante il fischio, sentì Lex esclamare il suo nome e vide la sua sagoma indistinta correre verso di lei. Ma una figura imponente, con la schiena ferita, si frappose tra loro e gli puntò contro una clava.

«Voi due state davvero tirando fin troppo la corda. Adesso ti inginocchierai accanto a lei con le mani dietro la schiena, o giuro che le spappolo il cervello con la mia clava!» tuonò l’uomo.

Lex indugiò per qualche istante, ma alla fine gettò via la sua spada e alzò le mani. Si accostò ad Aurora e si mise in ginocchio. La ragazza, con uno sforzo tremendo, alzò il capo per guardare il suo amico. L’uomo pelato gli si avvicinò, afferrò la mazza di legno a rovescio e colpì Lex alla tempia col manico. Il biondo gemé, prima di accasciarsi su un fianco. In quel momento, la vista di Aurora iniziò a offuscarsi ancora di più e tutto prese a diventare nero. Riconobbe la voce di Oig, il fratello di mezzo:

«Caspita, bestione, ti credevo fottuto! Come hai fatto a salvarti? Quegli unghioni sono tremendi!»

«Mi ha colpito di striscio» borbottò l’omone.

Edef sbuffò:

«Uff, che giornata di merda. Tutto quello che poteva andare storto, è andato quasi storto»

«E il povero Yar ha una zampa conciata malissimo! Secondo voi dovremo tagliarla?» chiese Orutr.

«Molto probabile – sospirò Oirebit – Gli stranieri sono tutti vivi?»

«Sì, a parte i tre stronzi che mi hanno tirato una lancia. Abbiamo il petrolio e gli ostaggi: missione compiuta» affermò Edef.

Oirebit annuì:

«Bene. Ora ficcate questi due nella rete e prepariamoci. La rossa e il biondo li regaliamo alla piccola Aramat: hanno alzato troppo la cresta»

L’ultima cosa che Aurora vide furono Oig e Orutr che torreggiavano su di lei e calavano una rete sul suo corpo, prima che tutto sprofondasse nel buio.

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Capitolo 14
*** Piano di Fuga ***


Aurora sentì delle grida in lontananza. Le sembravano molto distanti, ma nell’oscurità non riusciva a capirlo. A dirla tutta, non riusciva nemmeno a comprendere se fosse sveglia o se stesse sognando. Ci fu un breve silenzio e la ragazza si sentì scivolare di nuovo nel sonno. Poi, però, udì un grido ancora più forte e, stavolta, era molto vicino. La voce straziata le fece venire la pelle d’oca e Aurora spalancò gli occhi di colpo, piena di angoscia. La prima cosa che vide fu pietra; un mare grigio, duro e gelido in cui si sentiva galleggiare. Ebbe l’istinto di nuotare ma, appena mosse gli arti, si graffiò i gomiti e le ginocchia contro la superficie ruvida. La rossa alzò la testa con fatica e capì di essere sdraiata sulla roccia. Era ancora buio e Aurora dové stringere gli occhi per mettere a fuoco le immagini. Quando la sua vista si abituò all’ambiente poco illuminato, distinse delle sbarre di legno tutt’intorno a lei.

“Una gabbia?” pensò, stupita.

La sorpresa le diede l’impulso di mettersi seduta. Quando si sollevò, si ritrovò a guardare un muro di roccia frastagliata e umida. Non c’erano né muschio né funghi sulla parete: era un luogo spoglio e privo di vita. Il suo disagio cresceva ogni secondo di più. Si rese conto allora che lì si gelava: non ricordava di aver mai avuto così tanto freddo. Si raggomitolò e si strinse le ginocchia contro il petto, in preda al tremore. All’inizio si sentì del tutto disorientata e non capiva come fosse arrivata lì. Ma le bastò sforzarsi di ripercorrere la sua giornata per ricordare tutto: la carovana, il guado, l’imboscata; la botta in testa. Appena ci ripensò, avvertì una fitta pulsante sulla nuca e si portò la mano sul punto dolente. Tastò del tessuto ruvido e il dolore aumentò all’improvviso; immaginò che l’avessero fasciata. All’improvviso, sentì una voce bianca dietro di sé:

«Non c’è due senza tre!»

Confusa, Aurora si rigirò sul sedere e si voltò dall’altra parte. Quando vide cosa stava succedendo, sussultò per la paura: Lex era proprio lì, davanti alla gabbia in cui era rinchiusa, seduto a ridosso della parete opposta con mani e piedi legati. Accanto a lui, una bambina gli stava strattonando un dente con una pinza; grugniva e tremava per lo sforzo di tirare. Lex emetteva gemiti insensati e gridava; aveva la bocca e il mento sporchi di sangue. Alla fine, la bambina gli strappò un molare e rischiò di perdere l’equilibrio nel farlo. Lex emise lo stesso urlo che aveva scosso Aurora dal sonno, cosa che fece rabbrividire la rossa più di quanto non stesse facendo già per il freddo. La bambina si rigirò il dente fra le dita e lo contemplò come un trofeo, con un sorriso beffardo:

«Un altro braccialetto per me! Ehi, guarda che belli: non c’è neanche una carie! Ma perché quei babbei non possono rapire stranieri puliti come te più spesso? Butto sempre metà dei denti perché sono tutti marci»

Lex rantolò e sputò sangue accantò a sé. Si leccò le labbra e ansimò, per poi sollevare lo sguardo e fissare la bimba con uno sguardo perplesso. La sua piccola aguzzina era distratta a giocherellare coi tre molari che gli aveva strappato, quindi il biondo si guardò in giro. Quando il suo sguardo incrociò quello di Aurora, tirò un sospiro di sollievo e le annuì, come per rassicurarla che stava bene. O meglio, la rossa sperava che intendesse quello e che fosse proprio così. Aurora gattonò fino alle sbarre di legno e cercò di dare un’occhiata in giro: era chiaro che si trovavano in una caverna. Una spelonca larga, ma bassa e poco estesa. L’uscita era ad appena una decina di metri e il fondo era ancora più vicino.

La grotta era piena di sacchi e tavoli con attrezzi da lavoro e strumenti affilati, incrostati di sangue rappreso e schegge di legno. Ma la cosa che saltava all’occhio era un gruppo di altre gabbie identiche alla sua; alcune erano vuote, altre erano occupate da persone impaurite o dallo sguardo pieno di odio. Aurora avrebbe voluto richiamare la loro attenzione, ma non aveva il coraggio di attirare quella della piccola torturatrice, dunque si limitò a osservarli uno a uno. Notò subito un dettaglio che accomunava tutti: nessuno degli ostaggi era arkiano. C’erano varie etnie di qualunque età, ma erano tutti gente da altre parti del mondo. Nessuno badava a lei: gli sguardi di tutti erano puntati sull’aguzzina.

“Un momento, ma è una bambina!” pensò Aurora di colpo.

Come aveva potuto sembrarle normale, all’inizio? Non si era resa conto che la pazza che aveva appena cavato i denti a Lex con una pinza non poteva avere più di undici anni. La paura e l’angoscia la pervasero: che razza di marmaglia era quella? Se una bambina frequentava i quattro assalitori che li avevano catturati, com’erano tutti gli altri? Anzi, quanti ce n’erano, in totale? Tutte quelle domande non fecero che accrescere il suo panico e il cuore iniziò a martellarle nel petto.

«E quattro!»

Di nuovo, la bambina afferrò un molare di Lex, tirò con la pinza, lo fece urlare di dolore e strappò il dente. Il biondo sputò altro sangue, ma poi ridacchiò. L’aguzzina corrugò la fronte e lo fulminò con lo sguardo:

«Non dirmi che ti piace, perché se è così mi fai davvero pena»

Lex le rivolse uno sguardo divertito e mormorò:

«Mi hai tolto i denti del giudizio»

«Sì, e allora?»

«Be’, grazie: era da anni che mi davano fastidio. Comunque, sei una pessima dentista»

La torturatrice trasalì, diventò rossa dalla rabbia e alzò la pinza, pronta a colpirlo in testa. Aurora stava per gridarle di fermarsi, quando nella caverna fecero eco dei passi e la piccola si bloccò. Tutti i prigionieri volsero gli sguardi all’uscita della grotta, sgomenti. Preoccupata, Aurora guardò a sinistra e vide che stavano arrivando tre uomini. Nessuno di loro era uno degli assalitori della carovana. L’uomo a sinistra era basso e tarchiato, di mezza età, una cicatrice gli spaccava il sopracciglio destro e aveva il naso rotto. L’uomo a destra era giovane, forse un coetaneo di Lex; era magro, aveva i capelli arruffati e occhiaie gonfie.

L’individuo al centro era il più minaccioso, ma al contempo dava ad Aurora un senso di regalità, in un certo senso. Indossava un sontuoso mantello in pelle di rettile e vestiti con ricami variopinti. Aveva un aspetto affascinante: alto e in forma, con una barba curata, i capelli rasati sulle tempie che scendevano fino al collo sulla nuca. Tuttavia, la sua espressione la metteva a disagio: quello sguardo era colmo di disprezzo, quasi disgusto. Il trio si fermò tra Lex e la gabbia di Aurora. La bambina buttò la pinza sul tavolo e nascose le mani coi denti dietro la schiena. L’uomo a destra sospirò a occhi chiusi, si pizzicò il naso e la prese in disparte. Aurora li sentì discutere a bassa voce, ma poco importava. L’uomo col mantello guardò prima Lex, poi lei, quindi si rivolse al compare:

«Sono questi due?»

L’uomo basso annuì.

«Sei sicuro di quello che dice Oirebit?»

«Ho controllato di persona: i loro polsi non mentono»

«Voglio proprio vedere. Inizia a radunare gli ostaggi nella fossa»

Dal tono e dal portamento, Aurora dedusse che l’uomo col mantello dovesse essere il capo di quella marmaglia. L’altro sconosciuto rispose con un cenno del capo e iniziò ad aprire le gabbie e fare avanti e indietro per la grotta per scortare fuori gli altri prigionieri, che si lasciavano accompagnare con lo sguardo chino. Intanto, per timore, Aurora strisciò indietro fino alla parete della gabbia e si raggomitolò. Osservò il capo accucciarsi davanti a Lex e chiedergli:

«Mi dicono che tu e la tua amica avete degli innesti, come quelli di tutti noi Arkiani»

Tacque per qualche istante, per poi voltarsi e chiedere ad Aurora:

«È vero o no? Fammi vedere»

Senza fiatare, Aurora si sbrigò a tendere il braccio e mettere in mostra il polso sinistro. Il piccolo rombo azzurro al centro dell’innesto emanava un lieve riflesso nell’oscurità; l’Arkiano lo contemplò per un lungo attimo, quindi scosse la testa e fece un’espressione oltraggiata:

«Cos’è questo affronto? Che razza di insulto alla mia gente è mai questo, eh? Ora siete così arroganti da voler copiare quello che rende unici i figli di ARK? Cercate di mescolarvi con noi, come se ci somigliaste! Volete far credere alle tribù di essere loro amici, così prenderete il sopravvento non appena abbasseranno la guardia!»

Più parlava, più alzava la voce e il suo tono si scaldava. Si rialzò in piedi coi pugni stretti e si girava di continuo tra i due sopravvissuti, sempre più adirato:

«È a questo che siamo arrivati?! Non c’è limite alla vostra superbia! Per la dea, forse il tempo sta davvero per scadere! E io che pensavo che i fratelli Braddock fossero il punto di svolta!»

Lex reclinò il capo e lo interruppe:

«I fratelli Braddock; siete voi che rubate il loro petrolio. Perché lo fate?»

Lo sconosciuto lo fulminò con lo sguardo:

«Ciò che stiamo preparando salverà l’isola e i suoi abitanti, come lo faremo non è affar vostro. Piuttosto, dove avete preso quegli innesti? A chi li avete strappati? Avete ucciso due Arkiani e vi siete cuciti i loro innesti nella carne, non è così?!»

«No»

«Bugiardo! In che altro modo potreste averli presi, eh? Solo i figli di ARK nascono con l’innesto! È questo che ci distingue da voi!»

«Evita di chiedercelo: non crederai mai alla verità»

Lo sconosciuto si passò la mano tra i capelli e fece una risatina beffarda:

«Capisco: cerchi di incuriosirmi, solo per il gusto di raccontarmi qualche idiozia. Non te lo concedo»

Detto questo, sputò in faccia a Lex. Il biondo chiuse gli occhi e arricciò il naso, disgustato. L’uomo basso tornò in quel momento e disse al capo che mancavano solo quei due. Quest’ultimo annuì:

«Bene, porta anche loro a lavorare»

L’uomo basso afferrò Lex per un braccio e lo aiutò ad alzarsi. Fatto ciò, lo accompagnò fuori dalla caverna a spintoni. Nel frattempo, il capo rimaneva in silenzio e fissava Aurora; la rossa era impietrita e non riusciva a distogliere lo sguardo da lui, nonostante il disagio di cui la colmava quell’espressione sprezzante. Alla fine, fu il suo turno: arrivò l’altro uomo e aprì la porta della gabbia. Le fece cenno di uscire. Aurora obbedì in silenzio e, per quanto fosse curiosa di saperlo, non osò chiedere cosa fosse la fossa di cui parlavano: tanto l’avrebbe scoperto di lì a poco, meglio evitare di provocarli.

«Fermo lì!»

La voce della bambina risuonò per la grotta e tutti e tre si voltarono, perplessi. L’aguzzina li fissava coi pugni sui fianchi e un’espressione indispettita:

«Dove pensi di andare con la rossa, Oilum?»

L’uomo basso allargò le braccia:

«Secondo te?»

«Mi avete promesso di lasciarmi qualcuno per provare i miei nuovi giocattoli!»

Aurora trasalì e sudò freddo: se quella marmocchia si divertiva a strappare denti con la pinza, cosa avrebbero mai potuto essere i suoi “giocattoli”? Suo malgrado, si ritrovò a sperare di essere ancora destinata alla fossa. Almeno sarebbe stata vicina a Lex. Il giovane smilzo si parò davanti alla ragazzina, a braccia conserte e con un’espressione seccata:

«Aramat, ti sembra questo il modo di parlare in presenza del capo?»

Lei alzò gli occhi al cielo e sbuffò:

«Datti una calmata, padre! Le promesse si mantengono! Me lo ripeti sempre fino alla nausea, ma quando sono gli altri a farle a me possono fare finta di niente?»

«Non va bene che ti promettano di lasciarti fare del male alle persone! Anzi, non va bene per niente che tu lo voglia fare! Enab, diglielo anche tu! Siamo sempre stati d’accordo che mia figlia si prenda cura dei prigionieri, non che li faccia a pezzi!»

Il capo si mise le mani dietro la schiena e annuì, comprensivo:

«Capisco la tua preoccupazione, Onaizit. Ma mi sembra infondata: prima eravamo in guerra, adesso stiamo punendo gli stranieri. Tua figlia ha compreso che per sanare ARK ci vuole durezza»

Il ragazzo sbarrò gli occhi:

«Ma capo, così non mi aiuti a educarla: non sono certo cose che…»

Aramat lo interruppe e gli puntò il dito contro:

«Zitto, tu! Il capo ha parlato, la rossa è mia»

Enab si avvolse nel mantello e sentenziò:

«Così sia. Vado a fare un bel discorso ai nostri nuovi lavoratori»

Il capo e Oilum si allontanarono. Onaizit fece per dire qualcosa, ma tacque e sospirò. Aurora era terrorizzata: la bambina iniziò a ridacchiare e squadrarla dalla testa ai piedi e la rossa suppose che stesse immaginando tutte le atroci torture che avrebbe potuto infliggerle. Aramat si diresse ai tavoli da lavoro e iniziò a rovistare in mezzo agli attrezzi, mentre suo padre la osservava con uno sguardo rassegnato e deluso. Poi si voltò verso Aurora e la sopravvissuta ebbe la sensazione che avesse pietà di lei. Così, disposta a tutto per salvarsi, gli rivolse uno sguardo supplichevole e gli chiese di fare qualcosa col labiale. Onaizit sembrò indeciso per qualche istante, ma poi si schiarì la voce e chiamò la bambina:

«Aramat?»

«Che vuoi, padre?»

«Non ti stai dimenticando qualcosa?»

«No. Tutti i pezzi del rivolta-organi sono al loro posto, li ho controllati prima»

«Allora te lo ricordo io: hai cambiato la paglia e le torce nell’incubatrice?»

La piccola Aramat sobbalzò e le cadde il coltello di pietra che aveva appena raccolto. Si voltò piano piano, con uno sguardo mortificato, e fece un sorrisetto complice:

«Chi lo sa? Quassù la paglia fresca e quella marcia sono identiche, con questa nebbia e questo freddo!»

«Allora ti converrà dare un’occhiata, così ti passa il dubbio. Non vuoi che il tesoro del capo vada in malora, o sbaglio?»

«Certo che no!»

«Brava. Ora vado a sistemare il deposito; mi raccomando, quando torno voglio che tu abbia già finito»

Le fece segno che la teneva d’occhio e uscì dalla grotta. Ci fu un lungo silenzio carico di tensione, in cui Aurora e Aramat si fissarono con le labbra serrate. Alla fine la bambina sbuffò e ammise:

«L’ultima cosa che volevo fare oggi era cambiare la paglia a quello stupido uovo»

Quelle parole fecero vedere un barlume di speranza ad Aurora, che si affrettò a usare l’argomento a suo favore:

«Un uovo? Avete delle uova da incubare?»

«No, solo uno: è di Anitteb, la distruttrice del capo. Per lui è proprio una fissa, sai? Come se fosse suo figlio o qualcosa del genere»

«Oh, non mi dire! Da dove veniamo io e il mio amico, faccio la stalliera. La mia specialità sono i cuccioli. Che ne dici se mi prendo cura io del vostro uovo?»

La piccola Aramat reclinò il capo, con aria diffidente:

«Lo faresti?»

«Certo! Adoro i piccoli. Pensa che mi prendo sempre più turni che posso per passare del tempo con loro! Che ne dici? Io faccio questo lavoro al tuo posto e tu non mi torturi: ti servo tutta intera, per badare all’uovo»

La bambina si strofinò il mento; sembrava tentata. Alla fine, fece un sorriso soddisfatto e annuì:

«Ci sto! Anzi, se sei davvero così brava, lo dirò al capo e gli chiederò di nominarti stalliera»

Aurora fece la falsa modesta:

«Addirittura? Non devi»

«Figurati: tanto il capo mi accontenta sempre. Forza, seguimi»

Aurora seguì la bambina fuori dalla grotta. Una volta che furono fuori, fu travolta da un vento gelido e rabbrividì. Il terreno era innevato e non si vedeva a un palmo dal naso: c’era una nebbia fittissima che copriva tutto. Si intravedevano solo sagome di grossi pini e luci offuscate di fiaccole. Nell’aria vibrava uno strano ronzio, come se l’atmosfera fosse carica di elettricità.

«Benvenuta sull’Isola Arcana, rossa! Fa freschino, eh?» ridacchiò Aramat.

«Eh, sì!»

«Sbrighiamoci, allora: la distruttrice attende»

Lex approfittò della breve camminata per guardarsi intorno e studiare la situazione il più possibile. Non era certo facile, con quella foschia, il freddo che gli penetrava nelle ossa, la fretta impostagli dal suo carceriere e la preoccupazione per Aurora che lo distraeva. Se non altro, era un ambiente a lui familiare: conosceva quella montagna avvolta da nebbia e fulmini, ci era stato nelle sue visite all’Arca delle Isole dei Cristalli. Per un attimo, si chiese se anche quella versione fosse infestata da scheletri non morti delle bestie arkiane. Ma di quello si sarebbe preoccupato dopo: ora doveva pensare a esaminare la base dei nuovi nemici. Dedusse che, per volersi nascondere così bene, la banda di Enab doveva avere in mente qualcosa di grosso. Oilum lo portò alla fossa di cui si era parlato: era un’ampia cavità dai bordi irregolari e profonda un paio di metri.

«Salta giù» ordinò Oilum.

Lex si concesse una battuta per provocarlo:

«Cos’è, un’arena della morte?»

L’Arkiano ridacchiò e rispose:

«Lasciamo certi lussi ai Teschi Ridenti. Ora salta o ti ci butto io»

Il biondo sospirò e obbedì. Atterrò sulla neve fresca e un brivido più intenso degli altri lo scosse fino alle radici dei capelli. Come avrebbe voluto una bella pelliccia di rinoceronte lanoso, in quel momento! Coi denti che gli battevano, si strofinò le braccia e fece qualche passo avanti. Non appena la nebbia nella cavità si diradò grazie a una folata di vento, Lex si accorse di non essere solo: c’erano altri prigionieri lì. Alcuni erano sconosciuti, altri erano quelli rinchiusi nella caverna con lui e Aurora. Gli ostaggi si stringevano gli uni agli altri come uccellini in inverno e si sussurravano domande e congetture all’orecchio.

Il sopravvissuto decise di dare un’occhiata migliore alla fossa e ne fece un giro; cercava comunque di muoversi di continuo per ignorare il freddo. Notò subito diversi barili unti di petrolio, fasci di stoppa impilati in giro e corde. Incuriosito, si avvicinò a uno dei barili e guardò dentro: era pieno fino all’orlo. Controllò il fianco dei barili e vide che portavano tutti il cognome dei fratelli Braddock scritto in bianco, proprio come quelli che avrebbe dovuto consegnare la carovana alle Rocce Nere. Stava per indagare oltre, quando sentì una voce familiare:

«Ehi, eccolo lì! Biondo! Siamo noi!»

Lex si voltò e, alla successiva dispersione della nebbia, vide Bartolomeu che agitava il braccio, circondato dagli altri compagni di carovana. Mancavano solo i balenieri. Il sopravvissuto si avvicinò al gruppetto, separato dal resto degli ostaggi.

«E così siamo davvero tutti qui» commentò Aziz.

«Mi fa piacere che stiate bene» affermò Lex.

«Alcuni più degli altri» mormorò Ikko.

«Avete capito chi sono questi tipi? O cosa vogliono fare?»

Tereroa allargò le braccia e rispose:

«Ci siamo fatti una mezza idea. Il loro capo parla tutto il tempo di “punire gli stranieri” o cose del genere»

«E il petrolio che rubano?»

Bartolomeu fece spallucce:

«E chi lo sa? Non vogliono venderlo, lo tengono qui assieme a noi e basta. Forse…»

Il marinaio portoghese fu interrotto da Oilum, che apparve sul bordo della fossa e si schiarì la voce. Tutti gli ostaggi si voltarono subito verso di lui e cadde il silenzio. L’Arkiano basso e tozzo camminò lungo il margine della cavità fino al lato opposto, quindi salì su una sorta di palco di legno allestito accanto alla fossa. Una volta lì, annunciò:

«Stranieri, tra poco vi spiegherò cosa farete per il resto delle vostre vite sventurate, ma prima il nostro prode comandante vuole aiutarvi a capire meglio il nostro progetto. A chi parla, mozzerò la lingua»

Dopo quella minaccia, scese dal palco, vi rimase accanto e attese a braccia incrociate. Lex capì che quella era l’occasione per cercare di cogliere informazioni utili sulla situazione, quindi si preparò con le orecchie aperte. Udì dei passi e dal banco di nebbia, come un attore che entra in scena in mezzo al fumo, apparve Enab, avvolto nel suo mantello squamoso. Il capo della banda si portò i pugni ai fianchi e osservò la folla di prigionieri con un sorriso compiaciuto. Dopodiché, si aprì il mantello e iniziò a parlare:

«Metterò subito in chiaro una cosa: non meritate le spiegazioni che sto per darvi. Dovreste solo stare zitti, fare come vi dico e aspettare di diventare inutili. Ma io sono migliore di così; sono migliore di ciascuno di voi. Per questo vi concederò questa minuscola considerazione. Dunque, se vi state chiedendo perché siete stati portati qui con la forza, il motivo è che lavorate per i fratelli Braddock, quei viscidi e luridi approfittatori che ogni giorno che passa cercano di mettere piede in ogni spiraglio della società delle tribù. Sarebbe giusto uccidervi subito solo per questo, ma credo nelle punizioni costruttive. Invece, se vi chiedete cosa dovete fare per noi e perché, eccovi ciò che vi è dato sapere: vi daremo dei recipienti di vimini. Prendete il petrolio dai barili, riempiteci quei recipienti e tappateli con la stoppa. Quando finite, radunateli tutti nelle casse e i miei uomini faranno il resto. È così semplice. Sapete farlo, vero?»

Lex si guardò intorno: nessuno fiatava. Enab fece spallucce:

«Lo prendo come un sì. Se siete davvero così impacciati da non esserne in grado, imitate i compagni. Quello che state facendo qui oggi salverà l’isola da voi! Ricordatevi queste parole»

Finito il discorso, il capo della banda si riavvolse nel mantello e scese dal palco. Oilum si stirò e sbadigliò, per poi battere le mani ed esortare la folla:

«Forza, al lavoro! Avete sentito le istruzioni»

I prigionieri si sbrigarono a cercare i materiali occorrenti in mezzo alla nebbia e si misero al lavoro. Lex decise di aggregarsi ai carovanieri, nella speranza di poter ragionare su quel poco che Enab aveva fatto trasparire sul suo progetto e possibili modi per escogitare un piano di fuga. Lui e Aurora si erano cacciati in qualcosa di troppo grosso: dopo questo, Jonas poteva scordarsi di usarli come garzoni. Sarebbero fuggiti da lì, avrebbero preso la sfera dalla villa dei fratelli Braddock e sarebbero tornati sull’Isola. Ma una cosa per volta. Mentre riempiva coppette di vimini di petrolio e cercava di ignorare la puzza di quella sostanza viscosa, il biondo chiese a bassa voce:

«Uno di voi è riuscito a dare un’occhiata migliore a questo posto?»

Ikko annuì e rispose:

«Io sì, ma per poco»

«Cos’hai visto?»

«Questo posto è circondato da spuntoni. Mi sono svegliato lungo il perimetro: hanno recinti pieni di bestie, sul confine. Ero ancora sulla schiena del coccodrillo»

«Quanti mostri hanno?» domandò Aziz.

Bartolomeu fece una sommessa risata sconsolata:

«Che importa? Di certo troppi per ribellarci»

Tereroa si intromise e rivelò:

«Ho sentito alcuni di loro parlare di una “distruttrice” e di un uovo da tenere caldo»

«E allora?» chiese il Portoghese.

«Ne parlano molto e con timore. Dev’essere qualcosa a cui tengono tanto. Magari possiamo farci qualcosa? Il capo ci tiene davvero, a quanto ho capito»

Lex serrò le labbra e, dopo aver coperto l’ennesimo recipiente con la stoppa, commentò:

«Anche se fosse, ci vorrebbe qualcuno che impari bene com’è fatto questo posto. Finché ci sorvegliano così, è impossibile. Dovremmo vedere se…»

All’improvviso, la voce di Oilum tuonò dai margini della fossa:

«Ehi! Cos’è questo bisbigliare? Risparmiate il fiato e lavorate! Vedrete come starete caldi, poi»

Il gruppo si zittì subito e si voltò verso la sentinella, con sguardi irritati. Lex e gli altri si scambiarono un’occhiata di intesa e ricominciarono a versare petrolio nei recipienti in silenzio. Il sopravvissuto tenne d’occhio Oilum e attese che andasse a controllare l’angolo della fossa più lontano da loro. Stava per riprendere la discussione, quando sentì qualcuno schiarirsi la voce dietro di sé:

«Se avete intenzione di fuggire, potrebbe interessarvi ciò che ho da dirvi»

Lex sbarrò gli occhi, stupefatto: aveva riconosciuto quella voce. Quando si voltò, si ritrovò davanti proprio John Dahkeya in persona; lo stesso con cui aveva avuto il piacere di conversare giorni prima nel deserto. L’Apache lo guardò negli occhi e lo riconobbe a sua volta, quindi sorrise e affermò:

«Mi era parso di vedere un viso familiare tra la folla. Mi spiace che abbiano preso anche te, Lex»

«E questo chi è? Com’è che vi conoscete?» domandò Bartolomeu, confuso.

Il sopravvissuto ignorò la domanda e chiese a Dahkeya:

«Tu che ci fai qui?»

«Era da mesi che cercavo di scoprire chi fossero gli Arkiani che rapivano naufraghi e rubavano petrolio in tutta l’isola. Quando ho trovato questa base, mi hanno scoperto e preso»

«Ehi, ti ho fatto una domanda» insisté Bartolomeu.

«Mi chiamo John Dahkeya e, come ho già detto, so come aiutarvi. Ma dovremo collaborare, perché il mio piano funzioni»

«Non dire altro. Che dobbiamo fare?» domandò Aziz.

Il nativo americano scosse con forza le mani per staccarsi le gocce di petrolio di dosso e rispose:

«La mia compagna è alla mia ricerca, con una bestia in grado di seminare abbastanza caos da permetterci di scappare. Ma non ci troverà mai con questa nebbia, quindi ci servirà un segnale, qualcosa che le permetta di trovarci»

«Come un fuoco d’artificio?» chiese Ikko.

«Sarebbe meglio qualcosa che si veda di continuo, per guidarla meglio. In ogni caso, saremo scoperti subito, quindi dovremo prepararci per tutto. Dobbiamo sapere come agire senza farci notare troppo presto e come tenere impegnati questi banditi mentre la aspettiamo»

Lex mise l’ultimo recipiente nella cassetta che stavano riempiendo, si offrì di trasportarla e la sollevò, per poi annuire:

«Dovremo studiare la situazione nei minimi dettagli. Finché non conosciamo questo posto a menadito, dovremo fare finta di niente e pensare a come esplorare la base»

«Giusto. A proposito, dov’è la tua amica coi capelli rossi? Anche lei è qui con te?»

«Sì. Eravamo insieme nella grotta, non so perché non l’hanno portata qui»

A quel punto, si allontanò dal gruppetto con la cassa. Si unì alla fila di prigionieri con le cassette piene e adagiò la sua sulla catasta che si stava formando poco alla volta. Oilum torreggiava proprio sopra di loro, a braccia conserte e con uno sguardo vigile. Lex indugiò un attimo per fissarlo, prima di andarsene. Tuttavia, mentre si avviava verso i suoi compagni, sentì la vocetta di quell’odiosa bambina:

«Ehi, chiattone, senti qua»

Incuriosito, si voltò per assistere alla scena. Oilum era trasalito ed era diventato paonazzo:

«Devi smettere di chiamarmi così, mocciosa! Tuo padre non si decide mai a insegnarti il rispetto?»

La piccola Aramat scoppiò a ridere:

«Ahahaha! Rispetto? Lui? Ma se ha paura persino di me!»

«Che vuoi?»

«Sono venuta ad avvisarti che la rossa non lavorerà qui»

«Perché no?»

«Ho scoperto che è una brava stalliera. D’ora in poi baderà lei all’uovo di Anitteb: il capo è già d’accordo»

Oilum si accigliò:

«Enab permette a una straniera di avvicinarsi all’uovo?»

«Eh, sì: è brava. Il capo ha detto che se non ci crea problemi, le affiderà anche i recinti, così voialtri avrete più tempo per il resto dei vostri compiti»

L’uomo tarchiato fece spallucce:

«Molto bene. Grazie dell’avviso. Ora sparisci»

«Volentieri»

Fu allora che Lex ebbe un’illuminazione. Forse avevano appena trovato la soluzione al problema di esplorare la base. Avevano appena trovato la spia perfetta, non doveva fare altro che aspettare di rivedere Aurora e dirle del piano di fuga. Quando tornò dagli altri, aveva ancora il sorriso sulle labbra. I carovanieri lo notarono e John gli chiese:

«Hai un’idea?»

Lex annuì, speranzoso:

«Sì. So chi mandare a esplorare la base. Ora, cosa pensi di fare per il segnale?»

QUALCHE MINUTO PRIMA…

Aurora seguì la piccola Aramat fino a una piccola baracca di legno da cui proveniva il crepitio di un fuoco; la ragazza poteva intravedere la luce tremolante attraverso le assi. Questo la rese ancora più contenta di aver colto quell’occasione: sarebbe stata al caldo anche lei. La bambina tolse l’asse di legno che bloccava la porta della baracca, aprì e si fece seguire all’interno. Aurora entrò e vide subito un imponente uovo grosso quanto lei al centro della stanza. Il pavimento era cosparso di ciuffi di paglia e c’erano delle torce a ogni angolo della baracca. La bambina disse:

«Ecco la fissazione del capo. Volevi prendertene cura? Datti una mossa»

Mentre Aramat chiudeva la porta, la sopravvissuta iniziò a osservare meglio l’interno della stanza e com’era sistemato l’uovo. Le condizioni di quell’incubatrice erano terribili, persino penose. Con sincero disappunto, si rivolse all’aguzzina a occhi spalancati:

«Il vostro capo tiene così tanto a quest’uovo?»

La bambina annuì con forza:

«Altroché! Lo considera il suo tesoro personale. Pensa che Oirebit ha dovuto insistere per convincerlo a farci sistemare quassù, perché non voleva che la sua Anitteb deponesse l’uovo al freddo»

«Allora perché lo tenete così male?»

Aramat sobbalzò e andò nel panico:

«Eh?! Che vuoi dire?!»

«Potrebbe morire, così! Perché le torce sono così lontane? E che senso ha mettere la paglia intorno all’uovo? Deve starci sopra: anche quella serve a fare calore. E ce n’è così poca! Per non parlare dell’incubatrice: è di legno. Sarebbe molto meglio una struttura di terracotta, così l’ambiente rimane secco e si scalda ancora di più. Non ci avete mai pensato?»

La bambina rimase lì impalata per una manciata di secondi, in preda ai sudori freddi. Aurora credé di essersi lasciata trasportare troppo, abituata com’era a lavorare nella stalla, e si affrettò a rassicurarla:

«Certo, capisco che per voi dev’essere difficile trovare dell’argilla da queste parti, quello non è colpa vostra»

Aramat fu come ringalluzzita da quella giustificazione e ritrovò la sfrontatezza:

«Ehi, provaci tu a vivere nascosta in mezzo alla nebbia, a congelarti le dita! Be’, visto che sei così esperta, che idee hai?»

Aurora si portò le mani ai fianchi e serrò le labbra, decisa a farsi valere nel suo campo:

«Se avete della paglia di scorta, portamela. Intanto faccio quello che posso»

La bambina annuì e uscì di corsa. Un attimo dopo, però, tornò indietro e rinchiuse Aurora nella baracca. La rossa si strofinò le mani per scaldarle e si mise al lavoro. La paglia sparsa sulle assi di legno era inutilizzabile: era umida, gelida e puzzolente. La raccolse tutta e la ammucchiò in un angolo, visto che non poteva uscire per buttarla via. Fatto ciò, sfilò le aste delle torce dal pavimento e le spostò intorno all’uovo: le dispose in cerchio vicino al guscio, così che ricevesse subito il calore delle fiamme. Si convinse di poter fare ancora qualcosa; si accorse di un sacco a ridosso del muro, accanto alla porta. Conteneva sassi, ramoscelli e pietre focaie. Con un sorriso, allestì un falò accanto all’uovo e provò ad accenderlo. Non fu facile perché, proprio come la paglia, il legno era inumidito dalla nebbia e le scintille non attecchivano. Ma la ragazza insisté e, dopo una dozzina di tentativi ed essersi schiacciata un dito per ben due volte, riuscì ad accendere il fuoco. Fece un passo indietro per ammirare la sua opera: adesso l’uovo era circondato da fonti di calore e la stanza iniziava a intiepidirsi.

“Dovrò giusto tenere la porta socchiusa per il fumo” pensò.

Poco dopo, sentì l’asse che veniva tolta e Aramat aprì la porta con una spallata. Trasportava a fatica un grosso sacco pieno, da cui sporgevano delle spighe gialle. Lo depositò con uno sbuffo affaticato e lo aprì.

«Così va bene?» chiese, ansiosa.

Aurora diede una prima occhiata alla paglia: era dorata e sembrava rigida, come il grano seccato sotto il sole. Ne afferrò una manciata e se la rigirò tra le mani: era asciutta, si spezzava con facilità e profumava ancora di erba.

«Perfetta»

«Oh, meno male! Eh? Che hai fatto? Da dove viene quel fuoco?»

«Tengo l’uovo il più al caldo possibile, come si dovrebbe fare. Ora gli aggiungo lo strato morbido»

Aurora spostò un paio di torce per darsi spazio, fece rotolare l’uovo fuori dal cerchio e iniziò ad ammucchiare paglia al suo interno; la dispose a forma di nido. Partì con una rozza base fatta di pezzi grossi e duri e, poco alla volta, accumulò strati sempre più fitti e soffici, fino a creare una vera e propria culla. Si sdraiò accanto al “nido” per controllare di averlo reso abbastanza grande, quindi riportò l’uovo nel cerchio. Si accovacciò, fece appello a tutta la sua delicatezza e lo afferrò dal basso, per poi sollevarlo appena appena da terra e posarlo sul suo nuovo giaciglio. Ricompose il cerchio di torce, si scrollò le schegge di legno dai vestiti e sorrise:

«Ecco fatto! Ora non soffre più il freddo. Dovrò cambiare paglia come minimo una volta al giorno e alimentare il fuoco di continuo. Per il resto, bisogna solo aspettare»

La piccola Aramat si avvicinò al falò, si accucciò e tese le mani per scaldarsele. Intanto, si voltò verso Aurora e si lasciò sfuggire un’espressione ammirata:

«Caspita, rossa, portarti qui è stata un’idea fantastica! La sai così lunga anche con le bestie adulte?»

«Certo! La mia specialità sono i cuccioli, però sì, so badare anche alle cavalcature. Le striglio, le nutro e tutto il resto»

Aramat scattò in piedi e squittì:

«Oh, sì! Allora posso farti vedere le bestie che ho rattoppato! Puoi pensare anche a loro e vedere le modifiche che ho fatto!»

Aurora era sorpresa: in quell’attimo fuggente, Aramat le era sembrata una bambina normale, tenera e pura, entusiasta di poter mostrare le sue cose ai grandi; sotto la pazza che staccava denti e godeva nel torturare i prigionieri, restava uguale ai suoi coetanei. La sopravvissuta ridacchiò:

«Se dici che posso, volentieri»

«Guai al capo se non te lo permette! Anzi, ora corro a dirglielo»

Sfrecciò di corsa fuori dalla baracca. Aurora badò di uscire a sua volta, per timore che la rinchiudesse di nuovo. La bambina esitò un secondo, si voltò e le chiese:

«Ah, giusto: se vuoi conoscere la futura madre, è lì dietro. Ti conviene farla abituare al tuo odore»

Detto ciò, corse via e scomparve nella nebbia. Incuriosita, Aurora girò intorno all’incubatrice. Dapprima, vide solo le punte acuminate di una barriera di spuntoni di legno; doveva essere il limite della base dei banditi. La rossa seguì il perimetro di qualche passo e si trovò davanti a una staccionata. Tuttavia, la nebbia era così fitta che non riusciva a capire cosa ospitasse il recinto. Si appoggiò allo steccato e si sporse in avanti; a poco a poco, intravide un’enorme massa scura nella foschia. Poco dopo, il vento cambiò direzione e la nebbia prese a diradarsi. Così la sagoma informe prese le sembianze di una testa lunga e stretta, un piccolo occhio e due arcate di denti appuntiti. Aurora ebbe un tuffo al cuore: era un giganotosauro sdraiato.

«Oh!» sobbalzò.

Appena si lasciò sfuggire l’esclamazione, l’occhietto si aprì e la pupilla si fissò su di lei. Aurora andò nel panico e indietreggiò fino a sbattere contro la parete dell’incubatrice alle sue spalle. Era incredibile: perché dovunque andasse, si trovava di fronte i giganotosauri? Ormai era come una maledizione! Per giunta, quella era la seconda femmina con un piccolo che le capitava, da quando era in quel mondo. Rimase immobile, col cuore in gola e la bocca secca. Anitteb sollevò il muso da terra con pigrizia e annusò l’aria. Avvicinò la punta del muso a lei ed emise un sommesso gorgoglio, facendo pulsare la gola. Aurora non ne era sicura, ma le sembrò di avvertire una sorta di diffidenza in quel verso. Magari ad Anitteb non piaceva vedere una sconosciuta vicino al suo uovo? D’istinto, la sopravvissuta si accucciò piano piano, sfregando la schiena contro il legno della baracca; si strinse le ginocchia al petto e cercò di farsi piccola piccola: voleva far capire in qualche modo a quel mostro che era sottomessa.

«Una volta mi è bastata» sussurrò.

Dopo un’ultima annusata, il giganotosauro scoprì i denti e adagiò di nuovo la testa al suolo, per poi richiudere l’occhio. Non appena il contatto visivo si interruppe, Aurora osò rilasciare tutta la tensione e tirò un profondo sospiro di sollievo. Il cuore le batteva ancora forte e lei si accorse solo ora di essere madida di sudore: il freddo era diventato ancora più intenso. Doveva tornare subito al caldo, o si sarebbe presa il peggior malanno della sua vita. Si alzò e si avvolse le braccia intorno al petto. Stava per avviarsi, quando sentì dei passi alla propria destra. Si voltò e vide Aramat ed Enab in persona emergere dalla nebbia:

«Una creatura maestosa, non è vero?» domandò lui.

Aurora non riuscì a rispondere, se non con un versetto sarcastico. Lo sguardo di Aramat guizzava di continuo da lei al capo della banda, colmo di speranza e di aspettativa. Il giganotosauro riconobbe la voce del padrone e sollevò di nuovo la testa. Gli avvicinò la punta del muso e la sollevò, con uno sbuffo. Enab ridacchiò e prese a grattarle la punta del mento.

«Oh, povera Anitteb! Sei così fredda, tutta sola, senza prede da massacrare! Vuoi fare un giro, bella? Vuoi fare una strage? Non si può, sei troppo vistosa! Presto, cara, presto»

Nel vedere quella scena, Aurora ebbe la tentazione di ridacchiare: era abbastanza divertente. Ma d’altro canto non voleva farsi sentire: temeva che Enab si sarebbe arrabbiato, soprattutto visto quanto disprezzava lei e Lex in particolare. Quando ne ebbe abbastanza, il giganotosauro ritrasse la testa e tornò a dormire. Enab si mise le mani dietro la schiena e osservò Aurora, incuriosito:

«E così, abbiamo una stalliera di professione»

La rossa annuì in silenzio. Enab si grattò la barba e proseguì:

«Il solo pensiero di affidare un compito così delicato e importante a una straniera mi fa rabbrividire, ma Aramat ha proprio tessuto le tue lodi e ci serve davvero qualcuno che tenga le bestie in buono stato in questo posto da incubo. Non vedo perché dovrei fare lo schizzinoso per niente. D’ora in poi sarai la balia dell’uovo della mia Anitteb e terrai in ordine gli altri recinti, così gli altri saranno tutti più liberi di gestire il resto. Vedi di non sprecare questo privilegio, perché non capiterà mai più. Hai domande?»

«Dov’è il mio amico?»

«Sta facendo quello che dovresti fare anche tu se non fossi così preziosa, ti basti sapere questo. Ora sai cosa fare, perciò non perdere altro tempo. Ma mi raccomando: passo tre volte al giorno a controllare come sta il piccolo. Se trovo anche solo una crepa sull’uovo, non ti concederò il lusso di morire. Sono stato chiaro?»

«Chiarissimo»

«Ottimo. Aramat ti farà vedere le nostre cavalcature, dall’altra parte della base»

Enab si congedò e si allontanò. Quando non sentirono più il rumore dei suoi passi, Aramat gettò le braccia in alto e festeggiò:

«Sì! Sei la stalliera! Vieni, rossa, ti faccio vedere i miei lavori alle bestie!»

Senza darle neanche il tempo di fiatare, la bambina le afferrò la mano e iniziò a trascinarla con sé attraverso la base, senza badare a quando Aurora inciampava o alle sue richieste di rallentare.

Dopo tante ore di lavoro ripetitivo e alienante, Oilum annunciò che la giornata era finita e, allo stesso modo in cui li aveva portati alla fossa, iniziò a portare via i prigionieri uno alla volta. Gli ostaggi, spossati e impiastrati di petrolio da capo a piedi, aspettavano in fila indiana nel buco, in attesa del loro turno. Lex e Dahkeya fecero apposta a mettersi in fondo, in modo da avere tutto il tempo per rivedere insieme le basi del piano di fuga. John sussurrò, alle spalle di Lex:

«Ricapitoliamo: cosa dirai alla tua amica?»

«Di imparare a conoscere il più possibile questo posto»

«Per fare cosa?»

«Così deciderà qual è il punto migliore da cui lanciare il segnale»

«Glielo consegnerai subito?»

«Non ancora: non vorrei che glielo trovassero addosso prima del tempo. Prima le dico di ambientarsi, poi tutto il resto»

«Sai già come spiegarle tutto senza farti notare?»

«Non ti preoccupare, ho trovato una soluzione. La più silenziosa che mi è venuta in mente»

«Molto bene. Per ora dovrebbe funzionare»

«Se la caverà»

«Quei carovanieri che sono venuti qui con te saranno pronti per il diversivo, mentre aspettiamo Raia?»

«Hanno accettato di fare la loro parte. Stanno già spargendo la voce: più siamo, meglio è»

«Bene, benissimo»

Erano arrivati a metà fila. Nell’attesa, Lex si infilò la mano nelle braghe e tirò fuori un lembo che aveva strappato dalla sua veste. Lo dispiegò e lesse il messaggio che ci aveva scritto sopra: sintetiche istruzioni per Aurora. Le aveva scritte con un polpastrello intriso di petrolio, ma aveva dovuto piegare lo straccio e metterlo via in fretta e furia per non farsi scoprire da Oilum. Voleva controllare che si leggesse bene tutto. Alcune lettere si erano deformate un po’, ma tutto sommato gli parve che le spiegazioni si capissero quanto bastava. Sollevato, Lex ripiegò il lembo di tessuto e se lo nascose ancora nei pantaloni. In quel momento, sentì Dahkeya sospirare con malinconia, dietro di lui. Pensò che l’Apache potesse essersi ricordato di una possibile falla nel piano, quindi volle accertarsi:

«Qualcosa non va?» gli chiese.

«Oh, non è niente. Ho solo ricordato i miei vecchi piani di fuga dalle prigioni di contea, quando ero nella banda di Doc Russo. La prigionia mi è molto più familiare di quanto mi aspettassi»

Lex non poté fare a meno di sorridere: sapeva esattamente di cosa stava parlando John. Aveva letto tutti gli accenni alla sua vita da rapinatore nel diario della sua controparte di Terra Bruciata. Era quantomai bizzarro sentire quelle stesse allusioni da un altro Dahkeya. Chissà se da qualche parte c’era anche un altro Rockwell? O un’altra Helena, magari? Le sue fantasie furono interrotte da un colpo di tosse irritato di Oilum: toccava a lui. Senza fiatare, il biondo si issò fuori dalla fossa e chinò il capo per comunicare che era pronto. Per un attimo, temé una perquisizione, ma il loro sorvegliante si limitò a spingerlo e ordinargli di camminare.

“Meno male che danno per scontato che non proviamo a scappare” pensò.

Come all’andata, fu indirizzato a spintoni alla destinazione. Tornarono alla caverna e Lex fu riportato in gabbia, assieme agli altri prigionieri. Aurora era già lì, rannicchiata nella sua gabbia con uno sguardo angosciato. Il volto della rossa si rasserenò quando vide che Lex era tornato e lo salutò in silenzio, con un sorriso sollevato. Lex ricambiò il saluto e attese che Oilum se ne andasse. Per sicurezza, cercò di dare un’occhiata all’interno della grotta per quanto possibile; non gli parve che ci fosse la bambina pazza o il suo giovane padre. Quindi non perse tempo e si sfilò il messaggio dalle braghe.

Aurora gli lanciò un’occhiata perplessa ed era sul punto di fargli una domanda. Lex la fermò portandosi l’indice davanti alla bocca e le mostrò che stava per lanciarle lo straccio appallottolato. Aurora capì e si preparò, col braccio teso fuori dalle sbarre di legno. Lex le gettò il lembo e le disse col labiale di leggerne il contenuto. Incuriosita, la ragazza srotolò il messaggio e lo lesse; man mano che i suoi occhi scorrevano lungo le righe, il suo sguardo passò da confuso a stupito, infine divenne determinato. Fissò il suo compagno di disavventure, alzò il pollice e annuì con convinzione. Il biondo rispose col gesto dell’OK e Aurora si nascose il messaggio nella scollatura. Fu allora che il sopravvissuto, a scanso di equivoci, si azzardò a bisbigliarle:

«Se qualcosa va storto, cerca qualcosa da usare per prendere tempo. Qualunque cosa possa fare da merce di scambio o su cui si possa fare leva»

La rossa ci rifletté per qualche secondo, dopodiché le si illuminarono gli occhi e fece un sorrisetto malizioso:

«So già cosa posso usare»

«Bene»

In quel momento, udirono i passi di Oilum e si affrettarono a voltarsi dall’altra parte. Lex si girò verso l’uscita della caverna a braccia conserte e rimase impassibile finché l’uomo tarchiato andò via. I preparativi del piano di Dahkeya erano stati iniziati; adesso spettava ad Aurora garantire la riuscita dell’evasione. Lex si pentì giusto di non averle chiesto di cercare di capire meglio chi fossero quegli Arkiani xenofobi, ora che ci pensava; d’altro canto, però, restava un argomento per dopo. Sempre che fossero riusciti a lasciare l’Isola Arcana.

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