In my veins

di TheSlavicShadow
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo I ***
Capitolo 2: *** Capitolo II ***
Capitolo 3: *** Capitolo III ***
Capitolo 4: *** Capitolo IV ***
Capitolo 5: *** Capitolo V ***
Capitolo 6: *** Capitolo VI ***
Capitolo 7: *** Capitolo VII ***



Capitolo 1
*** Capitolo I ***


Dicembre 2009

 

Noi creiamo i nostri demoni. Non ricordava dove lo avesse sentito la prima volta, ma le era sempre piaciuta come frase. Probabilmente l’aveva letto in un libro o sentito in qualche film, ma non era importante. 

Suo padre aveva creato molti dei suoi stessi demoni. Aveva nemici in ogni dove nonostante avesse sempre fatto il piacione con tutti. Ma lo sapevano tutti che i suoi amici si contavano sulla punta delle dita. E su alcuni aveva dovuto ricredersi. 

Lo stesso si poteva dire di lei. Aveva creato molti più demoni rispetto a suo padre. In ogni angolo degli Stati Uniti sicuramente, se non anche del mondo intero. E le persone su cui poteva affidarsi, ma non era sicura nemmeno di questo, si contavano sulle dita di una mano. La sua paranoia costante non l’aiutava di certo a fidarsi del prossimo. E i suoi comportamenti passati non l’avevano di certo aiutata a farsi amare dalle persone. 

C’era stato un periodo davvero buio e se ci ripensava provava quasi vergogna per sé stessa. Aveva trattato spesso le persone come pezze da piedi e se ne era resa conto troppo tardi. Lei era Natasha Stark e aveva tutto il diritto di comportarsi come più le piaceva. Di questo era stata fin troppo convinta, a causa della giovane età, del potere economico che improvvisamente possedeva, e del collasso emotivo in cui era. Il danno era stato fatto e ora doveva solo continuare a raccogliere i cocci disseminati lungo il suo cammino.

Sei mesi prima, solo sei mesi prima, aveva visto l’opinione pubblica spaccarsi letteralmente a metà per quello che la riguardava. Una volta sarebbe stata quasi unanime nella condanna che lei fosse una minaccia a qualsiasi cosa. Invece adesso c’era una parte sempre più consistente della popolazione che la stava ammirando. Si stupiva sempre di come potessero dei bambini prenderla come esempio e di quanto potessero essere scellerati quei genitori che lo permettevano. Capitan America sarebbe stato un ottimo esempio da seguire. Non di certo Iron Woman. 

Lei al massimo poteva essere un ottimo esempio per il tossico della stazione.

Si era passata una mano sugli occhi. Stava di nuovo finendo in una spirale di cattivi pensieri quando avrebbe dovuto rimanere concentrata sul lavoro e sul migliorare l’armatura. Non si ricordava ormai nemmeno quante ne avesse costruite. 

“Signorina Stark, dovrebbe dormire. Sono quasi 72 ore che non ha praticamente chiuso occhio.”

“Devo finire prima qui, poi posso dormire.” Aveva morso con forza un pezzo di stoffa prima di inserirsi degli impianti sottocutanei. Stava oltrepassando con molta probabilità ogni limite della decenza umana e scientifica, ma non le stava minimamente importando. 

Quando Loki, il dio dell’inganno e della rottura di scatole, l’aveva lanciata dalla Stark Tower sarebbe morta se non avesse avuto i braccialetti creati apposta per richiamare l’armatura. Aveva passato i successivi mesi a creare qualcosa che potesse avere sempre addosso e che richiamasse l’armatura allo stesso modo.

Dei microchip sottocutanei erano stati la risposta. Sarebbero stati contenti tutti i complottisti se l’avessero vista. Dei veri microchip inseriti in un corpo umano, collegati ad un’intelligenza artificiale che poteva controllare poi un’armatura a distanza. 

Si era superata e se ne era stupita. Quella idea le era venuta in uno dei suoi vaneggiamenti notturni con troppo alcool e poco sonno in corpo. 

“Signorina Stark, mi dispiace insistere, ma si ricorda l'appuntamento di questa sera?”

“No.”

Lo ricordava. Lo ricordava benissimo, ma non ci voleva pensare. Non era nemmeno un appuntamento. Era solo un impegno all’ultimo. Era soltanto una visita di cortesia di un vecchio amico. Nulla di importante. Nulla per cui strepitare. 

“J., ne va della mia sanità mentale finire questo progetto e vedere che funziona. Tutto il resto in questo momento è totalmente superfluo. Devo solo capire di non essere totalmente andata fuori di testa per essermi iniettata tutte queste cose nelle braccia.”

Non erano stati mesi facili quelli che erano seguiti a New York. Era scappata nuovamente da quella città e si era rinchiusa nel suo eremo per potersi lasciar andare ai pensieri distruttivi che continuavano a ronzarle in testa. Nulla dopo New York era stato facile. Aveva scoperchiato il vaso di Pandora e dentro c’erano solo vermi. La speranza non dimorava in quelle mura e questo già lo sapeva da tempo. 

Quando si era lasciata andare alle confessioni con Steve Rogers, non aveva trovato quella pace che sperava. Non c’era da nessuna parte ormai. E la battaglia aveva solo accentuato ancora di più quel malessere che continuava a vivere. 

Spesso il male di vivere ho incontrato”, diceva un poeta italiano, ed era lo stesso male che anche lei provava in continuazione. Arrancava per andare avanti a tentativi. Inciampava lungo la strada e cadeva ancora più in basso. Non trovava quella salvezza di cui parlava il poeta. Quella indifferenza, quel distacco di cui il poeta scriveva lei non riusciva a metterlo davvero in pratica. Solo a parole. A fatti cadeva, cadeva e cadeva e non c’era un posto in cui riuscisse davvero ad aggrapparsi e fermare quella caduta. 

Quando le sembrava di aver trovato un terreno stabile in cui fermarsi anche solo per un attimo, questo si frantumava sotto ai suoi piedi e non c’era molto da fare. 

“Il capitano Rogers sarà qui tra poco. Le consiglierei almeno di farsi una doccia prima del suo arrivo.”

“Steve mi ha vista in condizioni peggiori, e poi ha deciso lui di passare. Non è stato invitato e quasi non gli è stato dato il permesso.” Aveva pulito una traccia di sangue con lo straccio che aveva morso fino a pochi attimi prima. Aveva finito con gli impianti sottocutanei. Ora doveva solo provare se funzionavano davvero una volta inseriti sotto pelle. Ma la sua intelligenza artificiale continuava a distrarla. 

Steve Rogers le aveva telefonato quella mattina che sarebbe stato a Los Angeles per lavoro e che sarebbe passato a trovarla. Gli aveva risposto di fare come preferiva. Non voleva sembrare felice o scossa o qualsiasi cosa, così aveva optato per l’indifferenza. Sperava che facendo così Steve avrebbe lasciato stare, ma l’uomo aveva riso al telefono e le aveva semplicemente detto l’orario in cui sarebbe arrivato. 

Non sapeva nemmeno lei come prendere quella notizia esattamente. Aveva fatto finta di non averci pensato per tutta la giornata, quando invece questo pensiero continuava a distrarla più del dovuto. 

Si erano incontrati un paio di volte in quei sei mesi, ma era solo per lavoro e sempre in qualche sede dello S.H.I.E.L.D.. Non avevano scambiato più di qualche parola e sempre inerente a quello per cui si erano incontrati. Civili e professionali, nulla di più erano stati.

“Se questo non funziona, avrò un bel problema col togliere questi impianti.” Si era alzata in piedi osservando i punti rossi sulle braccia. Aveva superato il limite, vero? Una persona normale non avrebbe mai neppure pensato a fare una cosa simile, figuriamoci metterla in atto su sé stessa. Ma lei aveva ormai superato ogni limite. Lo aveva detto la Vedova Nera stillando il suo bel rapporto su di lei. E lo aveva dimostrato col suo bel stunt a New York.

Almeno una volta al mese riceveva una telefonata da Fury in persona. Sembrava preoccupato, o questo coglieva dalle domande che le faceva e che non avevano nulla a che fare col lavoro. Era una mina vagante, una spina nel fianco. Glielo aveva detto più di una volta in passato. E a quanto pare entrare volontariamente in un buco interdimensionale era considerato autolesionista. O questo era ciò che coglieva dalle sue parole.

“Coraggio, ragazzi. Vediamo se l’ultima cosa che ho partorito avrà senso. U, tu filma. DUM-E, tu sei solo l'addetto antincendio. J, tu monitora i parametri vitali una volta che avrò avviato il tutto.”

“Come sempre, signorina.”

Con un movimento della mano aveva dato inizio al processo di vestizione. Aveva pensato a questo metodo perché anche con i polsi legati sarebbe riuscita a farlo e a richiamare l’armatura. Sempre se avesse funzionato.

I primi tentativi con solo alcuni pezzi erano stati fruttuosi. Avevano funzionato al primo tentativo. Ma tutta l’armatura non era sicura si sarebbe composta nei punti giusti. Anche perché, doveva ammetterlo, non sempre era stata molto lucida nei momenti in cui lavorava. Considerando che quasi non dormiva. 

I pezzi dell’armatura volavano verso di lei, agganciandosi nei punti giusti senza alcuna difficoltà. Si sentiva quasi un cavaliere dello zodiaco con la sua lucente armatura e quando anche l’ultima parte si era chiusa aveva sorriso soddisfatta. Aveva funzionato al primo tentativo e non poteva essere più orgogliosa di sé stessa. 

“I suoi parametri vitali sono perfetti, signorina Stark. L’armatura si è chiusa con precisione in ogni punto.” La voce dell'intelligenza artificiale si era subito fatta sentire all’interno dell’elmo e facendole comparire davanti agli occhi un’immagine olografica dell’armatura stessa.

“Sinceramente sono stupita di esserci riuscita al primo tentativo.” Aveva guardato una mano ricoperta di metallo e si era resa conto che ormai quella armatura era davvero una seconda 

pelle. Forse avrebbe davvero dovuto andare da uno psicologo , uno vero, e non maltrattare telefonicamente Bruce Banner ogni volta che aveva bisogno di parlare con un essere umano. Mascherava quel bisogno dicendo di dover parlare di scienza con qualcuno che la capisse. Ma in realtà lo usava solo come valvola di sfogo quando i pensieri si facevano troppi e troppo pesanti. 

“Le faccio i miei complimenti, anche se ormai queste armature le costruisce con molta facilità.” 

“Anche troppa.” Aveva ridacchiato tra sé e sé. Era un passatempo ridicolo, ma le piaceva troppo mettere le mani sulle vecchie armature e ricrearne di nuove. Sempre migliori. Sempre più leggere ma resistenti. “J., sincero, ho fatto bene a non dirgli di non passare?”

“Signorina Stark, questa storia con il capitano Rogers è peggio di una soap opera messicana, ma vedere una faccia amica ogni tanto non le farà male.”

“Cosa vorresti dire? Devo anche vedere Rhodes domani per pranzo. Vedo le persone, ogni tanto.” Con un altro gesto della mano aveva dato il comando all’armatura di togliersi e rimettersi in piedi completamente assemblata. Era stata brava anche questa volta, doveva dirselo. “Steve non so nemmeno perché dovrebbe passare. Non credo sia la prima volta che viene a Los Angeles.”

“Potrà chiederglielo tra mezz’ora circa. Per questo motivo le suggerisco di farsi una doccia e di mettere qualcosa di pulito. Non vorrà farsi trovare con una maglietta sporca di sangue per farlo preoccupare inutilmente?”

Voleva ribattere qualcosa, ma non avrebbe avuto senso. Steve si sarebbe davvero preoccupato se avesse visto la maglia sporca o qualche traccia di sangue sulle sue braccia. E l’ultima cosa che voleva era avere Steve Rogers addosso che si preoccupava per lei. Lo ricordava ancora con fin troppa vividezza tutte le volte che era entrato in modalità mamma chioccia e non la mollava nemmeno per un attimo. Era piacevole e soffocante allo stesso tempo. E adesso l’ultima cosa di cui aveva bisogno era qualcosa che la soffocasse. Era scappata da New York proprio per questo motivo. Lì era diventato tutto troppo soffocante.

“Vado a lavarmi. Tu ordina cinese per cena.”

 

✭✮✭

 

Era appoggiata al muro dell’ingresso quando la porta si era aperta. J.A.R.V.I.S. aveva aperto il cancello quando il citofono aveva suonato e lei era quasi corsa all’ingresso. Ovviamente avrebbe sempre negato di averlo fatto e si era appoggiata al muro fingendo nonchalance. Aveva ancora i capelli bagnati, ma si era cambiata. Aveva indossato dei leggins e una maglietta puliti. Aveva anche pensato di mettere qualcosa di più carino, ma quella era solo una visita di cortesia, si era ripetuta. Tutto il resto era nella sua testa da TSO. 

La porta si era aperta ed era entrato un raggio di sole. E quel raggio di sole era Steve Rogers che sorrideva.

“Ciao, Tasha. Scusa per questa visita improvvisa.”

“No problem, Cap. Tanto ero a casa oggi e non avevo molto da fare.” Si era staccata dal muro e aveva mosso qualche passo verso di lui che stava entrando. Jeans, maglietta, anfibi, giubbotto di pelle. Avrebbe venduto la propria anima al diavolo per vederlo ancora in sella alla sua moto così. 

“Ero nei paraggi e volevo vedere come stavi davvero.”

“La casa è ancora in piedi come puoi vedere, e non ho fatto aggiunte o altro.” Oh, come avrebbe voluto gettarsi tra quelle braccia e addormentarsi su quel petto. Quello sarebbe stato un ottimo piano per avere qualche ora di sonno in più. “Sento Fury su base bisettimanale e Coulson minimo settimanale. Chiamano con le scuse più disparate, ma non sono così stupida da non aver capito cosa stiano facendo.”

“Glielo avevo detto che non dovevano usare scuse.” Steve aveva scosso la testa e aveva messo le mani in tasca. Sembrava quasi imbarazzato, ma del resto si era autoinvitato da solo. Che avesse seguito il proprio istinto e poi si fosse pentito? 

“La stessa cosa che gli ho detto io l’ultima volta che li ho sentiti. Vieni, ho ordinato cinese.”

“Ah, non pensavo di fermarmi. Volevo solo passare…” Si era passato una mano sulla nuca, prima di passarla sul viso e restare in silenzio. Pensieroso. Combattuto.

Aveva inarcato un sopracciglio mentre lo osservava. Era in imbarazzo davvero. Non sapeva nemmeno lui cosa stava facendo. 

Il leggendario Capitan America messo in crisi dalla presenza della famigerata Iron Woman. Sarebbe stato un titolo perfetto per gli articoli di giornale. O per le fanfiction su di loro che si era ritrovata a leggere di notte. La gente davvero non aveva molto da fare se scriveva su di loro inventandosi storie su storie. A volte anche simpatiche, doveva ammetterlo. 

“Volevi passare per un ciao e andartene?” Aveva incrociato le braccia e gli aveva sorriso. “Tutto sto sbattimento nel traffico serale solo per un ciao? E lo sbattimento di J.A.R.V.I.S. nell’ordinare la cena, vuoi mettere?”

“Fare una telefonata non lo definirei sbattimento, signorina. Buonasera, Capitano Rogers. Spero che non abbia trovato troppo traffico per arrivare fino a qui.”

“Salve, J.A.R.V.I.S..” Steve aveva fatto un leggero sorriso dopo aver spostato la mano dal viso. “Non molto, pensavo molto peggio in realtà.” L’aveva guardata e amava e odiava essere guardata da lui. Era troppo per lei e per il suo povero cuore martoriato. Martoriato da lei stessa poi, perché era la causa del proprio male sempre. 

“Steve, una cena assieme che male può farci?” Molto. Si era risposta, ma non voleva farsi sfuggire quell’occasione. Steve le mancava sempre. Non lo diceva mai, non lo avrebbe mai ammesso a nessuno e quasi nemmeno a sé stessa. Ma Steve, la sua presenza, le mancava. Le mancava anche solo l’amicizia che li aveva sempre legati. Per questo non era riuscita a dirgli di non passare. Ci avrebbe, come sempre, pensato in seguito a rialzarsi dalle spirali depressive in cui finiva per ricadere. 

“Giusto. Non può farci del male.” Era quasi sicura che Steve la pensasse come lei. Sarebbe stata una serata distruttiva per entrambi e loro erano autolesionisti da manuale. A fine serata ognuno si sarebbe messo in un angolo a leccarsi le ferite facendo finta di stare bene. 

Steve l’aveva seguita in cucina, dove lei aveva stranamente già apparecchiato. Non che avesse dovuto fare molto. Aveva solo tirato fuori dalle buste le scatole con la loro cena e aveva messo la birra in tavola. Quella era sempre stata la loro tipica cena di ripiego. Quella di quando Steve rientrava tardi dal lavoro e lei ovviamente non cucinava. 

Era una cosa nostalgica, ma lo erano del resto entrambi. Anche se lei, al contrario di Steve, non lo ammetteva mai. Forse tra i due era in realtà lei quella nostalgica davvero. 

“Era da un po’ che non entravo in questa cucina, ma non è cambiata molto.”

“Non è cambiato nulla in tutta la casa. Come l’hai lasciata, così è rimasta.” Si era seduta, indicando a Steve di fare lo stesso. Era da un po’ che non aveva compagnia per cena. Rhodes era spesso via per lavoro. Pepper aveva i suoi impegni, ed Happy la seguiva ovunque come un fedele cagnolino. Avrebbe dovuto indagare anche su cosa stavano facendo quei due perché non gliela raccontavano giusta. 

“Strano.” Steve aveva sorriso e si era seduto prendendo subito degli spaghetti con gamberi e verdure. Lo aveva osservato mentre iniziava a mangiare e non avrebbe mai pensato di rivederlo in quella cucina. Era davvero una situazione strana. Piacevole, ma molto strana. 

“Sono stata molto impegnata in questi mesi. Ho costruito nuove armature.” Aveva iniziato a mangiare anche lei, cercando di sforzarsi a mantenere la conversazione leggera. Voleva fosse una delle solite conversazioni che avevano avuto a quel tavolo. “A te com’è andata al lavoro?”

“Brancoliamo nel buio.” Lo aveva visto sospirare e lo aveva osservato incuriosita. “Hai sentito parlare del Mandarino, no? Sembrerebbe essere a capo dei Dieci anelli.”

“Ah, ora capisco perché sei qui.” Aveva mormorato riempiendosi la bocca di cibo. Doveva immaginare che Steve si sarebbe preoccupato di fronte ad una minaccia simile. “Dopo New York sto mantenendo un profilo basso su tutti i fronti, e non produco più armi. Non il tipo che potrebbe interessare a loro.” L’Afghanistan non l’avrebbe mai lasciata in pace. Quel ricordo sarebbe tornato a perseguitarla fino alla fine dei suoi giorni, ne era certa. Non se ne sarebbe mai liberata. 

“Sì, lo so che te ne stai qui buona. Fury mi tiene informato.”

Steve le aveva sorriso e c’era qualcosa che non tornava in tutta quella situazione. Lei si era solo soffermata a Steve che passava a trovarla e non aveva pensato a tutto il resto. Il suo cervello era troppo stanco per collegare le sinapsi e farla ragionare. 

Steve lavorava pur sempre per lo S.H.I.E.L.D.. Era, come lei e tutti gli altri, un Avenger solo per hobby. E quell’uomo aveva informazioni che lei non aveva e non aveva nemmeno cercato. 

“Cosa non so?” Aveva solo guardato il telegiornale, nemmeno prestandovi attenzione.

“Non sappiamo ancora esattamente cosa vuole il Mandarino. Ci sono stati alcuni attentati rivendicati da lui, ma non abbiamo mai trovato le bombe.” Steve aveva sospirato e si era solo allora accorta che sembrava stanco. Fisicamente e mentalmente. Non ci aveva fatto caso in un primo momento. Era solo stata elettrizzata all’idea di vederlo entrare in casa e tutto il resto non aveva senso. 

“In effetti anche Rhodes non mi ha detto nulla di degno di nota su questo tizio. E io li ho anche conosciuti, ma non posso aiutarvi in alcun modo. Ero chiusa nella grotta e loro volevano solo il Jericho.” Aveva giocato con le bacchette nel cibo e improvvisamente le era passata la fame. I flash di quei mesi non avevano aspettato a farsi vedere. “E non so effettivamente nulla di loro. Per me erano solo i miei aguzzini e li ho fatti fuori tutti. O così pensavo.”

“Da te nessuno vuole niente, Tasha. Non sono venuto qui per conto dello S.H.I.E.L.D., volevo solo vedere se eri davvero al sicuro.” L’uomo aveva allungato una mano oltre il tavolo e l’aveva messa sulla sua. “Sono qui come Steve, non un agente dello S.H.I.E.L.D..”

“Così fai emozionare il mio cuoricino malandato.” Aveva inarcato un sopracciglio e lo aveva guardato. Sorrideva lievemente, ma non aveva spostato la mano dalla sua. Doveva immaginare che Steve si sarebbe preoccupato. Dopo l’ultima conversazione seria che avevano avuto, non si stupiva più di nulla. 

“Non era esattamente quello il mio scopo, ma temo di non poterci fare nulla.” Aveva spostato solo allora la mano, ma non aveva smesso di sorridere. E lei non aveva fatto altro che guardarlo mentre riprendeva a mangiare con tranquillità. Si era rilassato. Rilassato davvero e tutti i dubbi che aveva avuto si era dissipati. 

“Dimmi, Steven.” Aveva appoggiato il viso sul palmo della mano e l’uomo l’aveva guardata con gli spaghetti a metà fuori dalla bocca. Avrebbe voluto sempre fotografarlo in quei momenti per metterli in giro per la città. Quello era il vero volto di Capitan America. Non la postura rigida e autoritaria con cui lo raffiguravano sempre. Quello era il vero volto di Steven Grant Rogers. “Sharon sa che sei qui?”

Non voleva trovarsi sotto il fuoco incrociato. Andava bene tutto, non sarebbe stata la prima volta che si trovava in mezzo a coppie che litigavano a causa sua. Ma sapeva che qualcosa era cambiato in lei. Se una volta erano situazioni che non la toccavano e la divertivano ora non più. A 15 anni era divertente. A 23 non le interessava minimamente cosa potevano pensare gli altri e faceva quello che voleva. A 29 se ne sentiva 90 ed era stanca dei continui flirt, scandali e tutto quello che ne seguiva. Soprattutto non voleva macchiare ulteriormente la reputazione di Steve e trascinare in questo anche Sharon. Aveva troppo rispetto per sua zia Peggy per fare una cosa simile.

“In verità, non stiamo più insieme da qualche mese.” Steve aveva sospirato e si era appoggiato con la schiena alla sedia. Aveva toccato un tasto dolente e ora se ne pentiva. “Dopo New York le cose non sono più state le stesse.”

“Non per colpa mia.” Aveva alzato entrambe le braccia in aria. “Non sono stata io quella che ha baciato l’altro, per una volta.”

“Per assurdo non è stato nemmeno quello il motivo. Dopo tutta la rabbia, ha concluso che era colpa del momento ed era vero. Fosse stata qualsiasi altra situazione non lo avrei fatto.”

“Quindi devo morire ancora per farmi baciare da te?”

Steve le aveva sorriso, ma aveva ignorato il suo commento. 

“E poi sono iniziati i problemi. Più da parte sua che da parte mia in realtà. Capisco che lavora per lo S.H.I.E.L.D. anche lei e che deve sempre tenere un profilo basso, ma era diventata paranoica. Se prima di New York ogni tanto siamo usciti a cena fuori, improvvisamente lei non voleva farsi vedere accanto a Capitan America, testuali parole. E da lì la situazione ha iniziato a precipitare.”

“Beh, eri così anche tu con me all’inizio. Certo, è diverso, io sono Natasha Stark tutti mi conoscono e non ho mai avuto una bella fama. E tu sei il simbolo dell’integrità americana corrotta da me. Ho probabilmente rovinato la tua immagine pubblica nel periodo in cui uscivamo assieme.”

“Direi che io ho migliorato la tua.” Steve le aveva sorriso. “La capisco, davvero. Ci sono appunto passato anch’io con te, ma uscivamo di casa anche quando nessuno sapeva chi ero. Siamo andati anche alle sere di gala assieme proprio perché lo S.H.I.E.L.D. ci protegge anche con false identità. Ma era diventata paranoica dopo New York. E anche per me la situazione era diventata insostenibile, perché comunque ogni tanto saltava fuori la storia del bacio.”

“Stai riuscendo a farmi sentire in colpa per una cosa che non ho fatto, ti rendi conto? In questo momento vorrei quasi averti baciato quando ci siamo salutati a New York così almeno avrei la coscienza a posto sapendo che è davvero colpa mia.”

Steve le aveva sorriso ancora e aveva ripreso a mangiare. Per un attimo era rimasto in silenzio, e lei aveva solo continuato ad osservarlo. Ne avevano passate tante in quella cucina, anche se sempre per un breve periodo. 

Stavano sempre insieme per brevi periodi e poi le cose precipitavano. Anche se finivano sempre per ruotarsi attorno come attratti da una gravità che non riusciva e non voleva spiegarsi. La sua era ossessione, ne era sicura. Era cresciuta con il mito di quell’uomo. Era la sua cotta per una celebrità, una di quelle cose stupide ed infantili che a volte non superi in alcun modo. Quella di Steve non sapeva come definirla. Ma quando meno se lo aspettava, quell’uomo ricompariva nella sua vita. 

“Resterò a Los Angeles ancora per qualche giorno. Magari posso ripassare a trovarti.”

“Se non vuoi tornare al quartier generale, puoi rimanere anche qui. C’è una stanza vuota. Sei un po’ lontano dal lavoro, ma almeno stacchi da quel postaccio.”

“E se mi vedono uscire da questa casa domani mattina?” Steve l’aveva guardata e aveva sorriso. Si era stupita che non avesse rifiutato subito. 

“Oh, dichiarerò che c’è stato un ritorno di fiamma di quelli molto focosi.” Aveva incrociato le braccia al petto e inarcato un sopracciglio nella sua direzione. “Tutta la notte sesso selvaggio in ogni angolo della casa. Ti ho lasciato anche graffi così profondi sulla schiena che nemmeno il tuo corpo da super soldato è riuscito a rimarginare subito. E dovrebbero vedere in che stato è ridotto il tavolo della mia officina dopo che mi ci hai sbattuta sopra.”

Steve Rogers aveva riso. Riso di gusto, con una delle sue risate profonde che gli uscivano da dentro e sembravano far vibrare tutto il suo corpo. E le faceva piacere vederlo ridere così per una stronzata detta da lei. Non ridevano insieme da troppo, troppissimo tempo.

E anche questo le era mancato. Non doveva illudersi. Non era un ritorno di fiamma. Non sapeva nemmeno se poteva definirlo davvero così visto che da parte sua non si era mai spento proprio nulla. Ma vedere Steve Rogers seduto al tavolo di quella cucina, cenare e ridere con lei, quello era un tuffo nel passato e le aveva scaldato il cuore. Le aveva fatto dimenticare per qualche istante tutto quello che la preoccupava e non la faceva dormire di notte. Steve era come sempre un salvagente nelle situazioni critiche. E se avesse voluto parlarne sapeva che l’avrebbe ascoltata e non avrebbe sminuito il problema. Perché Steve era sempre così con lei. Probabilmente con tutti, ma le piaceva pensare di avere un posto speciale nel suo cuore. Avevano passato davvero tante notti seduti sul divano a parlare delle cose che li tenevano svegli. Si ascoltavano in silenzio e forse era quello di cui avrebbe avuto bisogno anche in quel momento.

 

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Capitolo 2
*** Capitolo II ***


Dicembre 2009

 

“Aspetta, riavvolgi il nastro e ripetilo più lentamente, ti prego.” James Rhodes l’aveva guardata come se le fossero spuntate altre due teste e almeno altri 10 occhi. Avevano appuntamento per pranzo in un locale mediamente affollato. Un posto per lo più per le famiglie. Era rumoroso. La gente parlava. I bambini schiamazzavano senza ritegno. “Ho sentito male, vero?”

Aveva bevuto un sorso dalla sua bottiglia di birra e si era guardata attorno. Lo sapeva che era una cattiva idea dirglielo. Ma era Rhodes. E con quell’uomo non aveva quasi segreti.

“E’ passato, abbiamo cenato ed è rimasto a dormire.” Aveva evitato di guardarlo. Sapeva che la stava giudicando, o si preparava all’ennesima ramanzina. Quel tira e molla aveva stancato anche lui. Soprattutto lui. “Stamattina è uscito prima che mi svegliassi, stranamente ho dormito diverse ore anch’io, e ha lasciato caffè e colazione pronti. Lo odio.”

Rhodes aveva sospirato passandosi una mano sul viso. Era rimasto in silenzio per qualche istante, per cercare probabilmente di raccogliere le idee ed evitare di riempirla di insulti.

“Non so più cosa fare con voi due, davvero. Dovreste farvi vedere da uno bravo e anche da un consulente di coppia perché non è normale sta cosa. Sono più di dieci anni che ormai fate così e io non vi sopporto più. Anche perché poi sono io quello che deve sopportare te, i tuoi piagnistei, le tue sbronze, e tutto quello che ne consegue.”

“Non è successo nulla, Rhodey. Abbiamo solo cenato e parlato un po’. E’ tornato single.” Aveva aggiunto con nonchalance evitando di guardarlo.

“Ecco appunto. Cosa ho appena detto? Che dovrò sopportarti quando fra sei mesi scoppierete di nuovo. Ma oh no no. Stavolta me ne lavo le mani. Ormai sei adulta, lo siete entrambi. Arrangiati.”

Lo aveva osservato e aveva sorriso. Era proprio da Rhodes reagire così quando gli parlava di Steve. Anche se poi era sempre stato il primo a fare il tifo per loro e schierarsi da una parte o dall’altra, in base a chi combinava il danno. 

“E’ preoccupato per la mia incolumità, lo sai? Per questo è venuto a vedere come stavo. Solo che I Dieci Anelli non mi fanno più paura. Non sono più impreparata e con chi dovrebbe proteggermi a pugnalarmi alle spalle. Ora ho tutte le armi per combatterli e difendermi.”

“Sempre a fare il guerriero solitario. Ti viene male come ruolo, dovresti saperlo.”

“Perché nessuno di voi mi da la possibilità di esserlo davvero.” Aveva bevuto un altro sorso di birra e poi aveva appoggiato i gomiti sul tavolo sporgendosi verso Rhodes. “Non avete informazioni rilevanti nemmeno voi? Perché lo S.H.I.E.L.D. non sa dove sbattere la testa.”

“Uguale a noi. Non riusciamo a capire cosa vogliono davvero. Ci sono stati un paio di attentati rivendicati dal Mandarino, ma non abbiamo capito cosa volessero colpire e quale sia davvero il loro scopo. Vuole distruggere gli Stati Uniti, ma non sta colpendo nulla di davvero rilevante militarmente o politicamente.” Anche Rhodes aveva bevuto un po’ di birra. Sembrava preoccupato pure lui per quella situazione che sembrava quasi di stallo. Non sapeva nessuno come muoversi o cosa cercare. Potevano tutti soltanto aspettare. “Non sembri nemmeno essere tu l’obiettivo. Non stavolta.”

Ormai l’unica arma che aveva era lei stessa. Con l’armatura era sopravvissuta agli alieni. Avrebbe ormai potuto sopravvivere a qualsiasi cosa. I terroristi li aveva battuti con una armatura costruita da pezzi di scarto in una caverna buia e fredda. Non potevano nemmeno pensare di poter competere con le sue nuove armature.

“Proverò ad indagare per conto mio.”

“No, tu ti riposi perché hai la faccia di una che non dorme da giorni.”

“Stanotte ho dormito ben 3 ore! Ho recuperato le 80 ore che non ho dormito nei giorni precedenti.”

“Sei delirante da privazione di sonno, te ne rendi conto?”

“Tesla dormiva 2 ore a notte se andava bene e guarda quali cose geniali ha inventato. Non ci fosse stato lui, non ci sarei io. Ti ricordo anche il mio dottorato in ingegneria elettrica, un puro omaggio a lui e soltanto lui.”

“Sei delirante, come al solito. E sai che io sono dalla parte di Edison.”

“Non capisci davvero nulla. Quello rubava i brevetti e basta. Tesla era il genio! Ah, se solo fosse vissuto in questa epoca così tecnologicamente avanzata, chissà quali cose avrebbe inventato!”

Rhodes aveva scosso la testa. Quella era una discussione in cui non avrebbero mai trovato un accordo. Era dai tempi dell’università che ne discutevano e non erano mai riusciti a trovare un terreno neutrale o un accordo su quella disputa. Lei avrebbe sempre tenuto per il piccolo genio serbo, mentre Rhodes per il grande capitalista americano. 

“Strano che tu non abbia ancora comprato una Tesla allora. Solo per omaggiarlo.”

“E tradire così le mie bambine Audi? Non c’è paragone con le macchine tedesche. Ricordati il motto dell’Audi: “All’avanguardia della tecnica”. Sono dei gioiellini orgasmici.” 

Rhodes l’aveva guardata in assoluto silenzio. Era abituato a quei deliri. Ci era davvero troppo abituato. 

“Se non ti conoscessi e non sapessi che sei un meccanico, direi che sei pazza. Ma poi mi ricordo la quantità di automobili che possiedi e tutto è chiaro.”

“Dimentichi la cosa più importante. Sono Iron Woman.” La donna aveva sorriso e si era messa più comoda sulla sedia. Era da un po’ che non usciva di casa, doveva ammetterlo. Quasi le era mancato stare seduta a pranzo in un posto così affollato. Negli ultimi mesi era sempre uscita in posti poco affollati con Rhodes. Molto più spesso si erano visti direttamente a casa sua.

Teneva un profilo molto molto basso dalla battaglia di New York, come l’avevano chiamata i media. La gente quasi si poteva dimenticare della sua esistenza visti gli ultimi mesi da eremita. Non era andata a nessuna serata di gala. In ufficio si era presentata sporadicamente lasciando in mano a Pepper tutte le riunioni con i clienti. Lei aveva solo lavorato alle sue armature e ai progetti delle Stark Industries. 

Si era tenuta lontana dal mondo, lontana da tutto quello che avrebbe potuto distruggere quella parvenza di calma di cui aveva bisogno. Mentalmente non era sicura che avrebbe retto altri scandali romantici, o anche semplicemente l’opinione pubblica. In gran segreto si era organizzata per ricostruire New York, per istituire un fondo per tutti quelli erano rimasti in qualche modo danneggiati da quello che era successo. Non poteva fare molto, ma era un modo per alleggerirsi la coscienza. Quella era l’unica cosa che poteva fare. Mentre tutti parlavano di lei e Steve Rogers, soffermandosi più su quel bacio che su tutto il resto, lei si era mosso nell’ombra e aveva fatto grandi cose per la città, o almeno così credeva e sperava.

Anche se in realtà non era neppure una sua responsabilità. Non aveva usato lei il Tesseract per fare gli esperimenti. Per quello che ne sapeva doveva essere ben custodito in un caveau, non usato per creare armi. Non usato per aprire portali. Non usato per richiamare gli alieni.

“Ehi, Terra chiama Tasha.” Rhodes le aveva sventolato una mano davanti agli occhi. “Dove eri finita?”

“Oh, non vorresti saperlo. Un luogo vietato ai minori.” Aveva sorriso e mangiato una patatina dal proprio piatto. Non aveva senso far preoccupare Rhodes inutilmente. 

“Se si tratta di Steve Rogers, no, non lo voglio sapere. Ma perché ti sono ancora amico?”

“Perché sono adorabile e carina.” Aveva ammiccato e l’uomo di fronte a lei aveva sbuffato. “E magari riesco a sedurlo di nuovo. Si sa mai che concludo questa astinenza che dura da sei mesi.”

“Ti prego, non farlo. Davvero. Dovresti ormai aver imparato che non finisce mai bene tra di voi. Cosa avevi?, 18 anni la prima volta che non avete funzionato? Ne hai quasi 30 e siamo allo stesso punto. Siete anime gemelle, ma non di quelle che possono stare assieme.”

“Guardi troppi film romantici. Non esistono le anime gemelle, è solo chimica. Più schifosamente, attrazione al sudore delle persone.” Non ci credeva in realtà nemmeno lei a quelle parole. Riusciva a spiegare sé stessa e Steve Rogers solo come anime gemelle. Sfortunate. Distrutte. Incompatibili. Ma anime gemelle. Sennò non riusciva davvero a spiegare in modo razionale questo continuo gravitarsi attorno e non riuscire ad andarsene nonostante di occasioni ne avessero avute fin troppe. “Non lo avrei mai cercato, Rhodey. Non l’ho fatto per tutto questo tempo, non avrei avuto motivo per farlo dopo New York. Si è presentato lui con una scusa stupida e banale. E mi manda in crisi le sinapsi come se fossi ancora la ragazzina di 16 anni che smaniava per conoscerlo.”

Rhodes aveva scosso la testa. Aveva bevuto un lungo sorso di birra. Ed era rimasto in silenzio per qualche minuto. Il tempo necessario perché anche lei analizzasse bene le ultime parole che aveva detto, e rendersi conto che smaniava ancora per passare del tempo con Steve Rogers. Cercava sempre di non pensarci, di relegarlo in qualche angolo del proprio cervello e lasciarlo lì a marcire. Ma in realtà questo desiderio era sempre presente. Sempre vivo. E non si era mai affievolito nonostante tutte le cose che erano successe.

“Vai coi piedi di piombo però. Non buttarti in situazioni che poi ti lasceranno a pezzi. Sai che sarò qui in ogni caso, come sempre, ma non so quanto bene potrebbe fare a te.”

“Penso che anche lui non abbia alcuna intenzione in quel senso, sai? Ieri voleva andarsene subito, appena mi ha vista.” Aveva sorriso al ricordo di uno Steve Rogers imbarazzato e confuso al suo ingresso in casa. “Sembrava un Pokémon che si colpisce da solo.”

“I tuoi paragoni sono sempre al top devo dire.”

Natasha aveva bevuto altra birra quando aveva visto avvicinarsi dei bambini. Avevano dei disegni in mano ed era sicura che volessero un autografo. Non era raro ormai che le si avvicinassero con disegni di Iron Woman fatti da loro. Se ne stupiva ogni volta, anche se ormai era qualche anno che ricopriva quel ruolo. Solo che vedere, sapere di essere un esempio da seguire le sembrava così strano. 

Cinque anni prima era tutto fuorché un esempio da seguire, e poi si era ritrovata ammirata da bambini di tutte le età. Un po’ riusciva a rivedersi in loro. Era stata allo stesso modo ammaliata da Capitan America e la sua leggenda per tutta l’infanzia. Anche se non avrebbe mai pensato di diventare mai un supereroe a sua volta.

Un supereroe con una scintillante armatura rosso fuoco. Era stata lei stessa il suo cavaliere, anche se con una armatura poco scintillante, a salvarsi dai guai. 

“Signorina Stark, potrebbe farci un autografo?” Una bella ragazzina bionda, con fratellino accanto, le sorrideva. Un sorriso enorme. Le occupava tutto il viso. Avrebbe avuto la stessa espressione anche lei se avesse conosciuto Steve Rogers a quell’età o prima? Sarebbe stata in estasi ogni volta che lo avesse incontrato? Le avrebbe messo una mano sulla testa e fatto una carezza veloce prima di chiudersi con Howard a parlare di solo dio sa cosa? 

Essere stata adolescente quando lo aveva conosciuto aveva reso quella ammirazione qualcosa che probabilmente non doveva esserci. Steve una volta glielo aveva detto. Avevano dei vissuti completamente diversi, venivano da due epoche troppo diverse. Era questo che non li faceva funzionare? O erano semplicemente troppo stronzi e non riuscivano a togliere la testa dal culo per essere abbastanza adulti?

Doveva smetterla. Quei pensieri in pubblico non dovevano essere ammessi. Non quando le persone aspettavano una sua risposta.

“Ma certo. Fatemi vedere sto disegno.” Lo aveva preso in mano e come poteva immaginare era raffigurata New York. Tutti parlavano solo di quello ormai. Del portale sopra la Stark Tower. Degli alieni per strada. Degli Avengers. Era un incubo costante. Non era solo un incubo la notte, era diventato un incubo anche quando era ben sveglia.

Dal ritorno dell’Afghanistan aveva problemi a dormire. Era normale. Sindrome da stress post traumatico. Lentamente aveva imparato a gestirlo e riusciva anche a dormire senza troppi problemi. 

New York aveva gettato tutto nel baratro più profondo e non era più sicura che lo avrebbe mai superato veramente. Con molta probabilità no. Quello che era successo. Quello che aveva visto. Era tutto troppo per lei. 

“Pensa che torneranno gli alieni? Voi Avengers li combatterete ancora?”

Aveva deglutito, cercando di firmare velocemente quel disegno così se ne sarebbero andati. Non voleva pensarci. Non poteva pensarci. Non in pubblico. Le veniva sempre la nausea quando ci pensava che poteva tutto essere solo provvisorio. Che sarebbero tornati. Che li avrebbero trovati impreparati. 

Non poteva pensarci. Ogni volta che lo faceva sentiva il cuore pulsare nelle tempie e non riusciva più a respirare bene. Ogni volta le sembrava che le si annebbiasse la vista e che i rumori attorno a lei si facessero più attutiti. 

Era un attacco di panico in piena regola e stava avvenendo in un luogo pubblico, pieno di persone. Persone che l’avrebbero osservata. Filmata. Probabilmente derisa.

Era Natasha Stark. Era Iron Woman. E stava avendo un attacco di panico in un ristorante per famiglie per una semplice banalissima domanda del cazzo. 

“Devo andare.” Si era alzata da tavola senza guardare nessuno. Non Rhodes. Non i due bambini che ancora aspettavano una sua firma. Potevano dire che con loro Iron Woman era stata una stronza, ma in quel momento non le stava importando. Aveva bisogno di aria.

E aveva bisogno della sua armatura. Aveva bisogno di sentirsi al sicuro. Aveva bisogno di correre a casa e chiudersi nella sua officina e non uscirne più per giorni.

“Tasha!” Rhodes era dietro di lei, l’aveva seguita subito e non si sarebbe aspettata diversamente da quell’uomo. Non c’era a New York. Si era fortunatamente perso quella follia. Ma aveva visto cosa aveva fatto a lei e questo gli bastava per farlo preoccupare. “Ti riaccompagno a casa.”

“Non serve. Non ti preoccupare. Chiamo un taxi.” Non stava ragionando, era fin troppo evidente. Il suo cervello era andato in tilt e davanti agli occhi aveva solo il buio gelido di sei mesi addietro. 

“Taxi un corno.” L’aveva fermata per un polso non appena erano usciti all’aperto, e lei si era come bloccata. Sentiva la stretta ferma e calda di Rhodes sulla propria pelle e le sembrava quasi che tutto potesse andare bene. Ma era davvero così? Quanti alieni c’erano ancora? Quanti avrebbero attaccato la Terra nei prossimi mesi o anni?

“Rhodey… Devo tornare a casa.”

“Ti accompagno io. Come ti ho recuperata stamattina, ti ci riporto adesso. Ok?”

Aveva annuito. O almeno credeva di averlo fatto. Sentiva solo le tempie pulsare senza sosta e voleva nascondersi da qualche parte finché tutto sarebbe passato. 

Era la donna più patetica d’America. Con un attacco di panico per una domanda davvero banale. Ma era proprio per quelle domande che non aveva mai fatto dichiarazioni stampa o interviste negli ultimi mesi. Aveva delegato ogni rapporto col pubblico ad altre persone e aveva davvero fatto la vita da eremita nel suo rifugio a Malibu. New York era un nuovo argomento tabù e non voleva parlarne con nessuno. Nemmeno con chi lo aveva vissuto con lei quell’inferno.

 

✭✮✭

 

“Happy, ho bisogno di parlare con Pepper.” Aveva ripetuto per una seconda volta, mentre il suo ex autista e guardia del corpo continuava a parlare di come la gente non portasse il badge identificativo all’interno della sede delle Stark Industries. Sembrava non la stesse nemmeno ascoltando. “Happy, ho saputo che per la storia del badge le lamentele del personale sono salite al 300% da quando sei tu a capo della sicurezza. Non ti troverai mai una donna se continui così.”

“Capo, per me è un complimento se ci sono le lamentele. Vuol dire che sto facendo bene il mio lavoro.” Lo aveva visto sorridere dall’altra parte dello schermo e voleva colpirlo con qualcosa da tanto era compiaciuto.

“Non è un complimento. Se dovessero farti fuori non me ne stupirei. Quella gente non scherza. Sono scienziati e ricercatori, saprebbero come far sparire il tuo cadavere. Mi puoi passare Pepper? E’ da mezz’ora che chiamo sia in ufficio che il suo cellulare ma non mi sta rispondendo.”

“E’ impegnata in un colloquio, credo.”

“Con chi? Stiamo assumendo di nuovo?” Di solito sapeva se arrivava qualche curriculum interessante. Spesso selezionava lei stessa chi sarebbe stato assunto e chi no. E stavolta non sapeva nulla.

“Killian Aldrich.” Happy lo aveva detto quasi sottovoce, guardandosi in giro guardingo.

“Dovrebbe dirmi qualcosa?”

“Lo abbiamo conosciuto in Svizzera. L’ha fermata in ascensore, prima che lei salisse per festeggiare in camera.”

“No, non mi ricorda nulla.” Si era messa davanti al pc per digitare velocemente il nome appena sentito. Risuonava con prepotenza nel suo cervello, tipo un campanello d’allarme, ma faceva fatica ad associarlo davvero a qualcosa.

“Per forza. All’epoca non era decisamente il suo tipo, ora sicuramente lo starebbe ad ascoltare.”

Aveva guardato le foto che erano comparse sullo schermo del suo pc e all’improvviso non era affatto vero che non se lo ricordasse. Certo, quella sera lo aveva ignorato totalmente. Aveva altri piani per la serata, e non quello di ascoltare uno storpio che voleva parlare di lavoro. Gli aveva anche detto di aspettarla. Che lo avrebbe raggiunto. Ma poi non si era mai presentata a quell’appuntamento. Aveva passato la notte in modo molto piacevole e poi aveva lasciato l’albergo alle prime luci dell’alba.

Quella era stata anche la notte in cui aveva conosciuto anche Yo Hinsen. 

“Cosa vuole da Pepper?” 

“Non lo so, le sta facendo vedere qualcosa. Sembra il suo cervello.”

Aveva alzato lo sguardo dallo schermo del pc e si era voltata verso il cellulare. 

“Cosa significa il suo cervello? Si è aperto il cranio?”

“Non sono io lo scienziato, capo! Sembra una di quelle diavolerie olografiche che usa anche lei quando lavora.”

Aveva sospirato ed era tornata a leggere gli articoli che continuavano a comparirle davanti. Se lo ricordava bene Killian Aldrich. Ricordava che le aveva chiesto di lavorare assieme. Voleva usare le Stark Industries come trampolino di lancio per la sua A.I.M., solo che all’epoca lei non era minimamente interessata a queste cose. Lavorava solo ed unicamente per portare all’apice di ogni successo inimmaginabile la sua azienda.

Ci aveva pensato Obadiah Stane a finanziarli, aveva scoperto in seguito. Non era riuscita a scoprire come esattamente, questo Obadiah era stato bravissimo a nasconderlo, ma li aveva aiutati. 

Aveva guardato attentamente una foto recente. Doveva aver subito qualche operazione o avevano replicato il siero del supersoldato con successo, perché non riusciva a spiegarsi un cambiamento simile. Sembrava una persona completamente diversa da quella che aveva conosciuto così tanti anni fa. 

“Happy, ascoltami bene. Informami quando se ne va. Di a Pepper di chiamarmi quando ha finito questa cosa qualsiasi essa sia, ed è davvero importante che mi telefoni, ok?”

“Ok, capo.”

“E smettila di chiamarmi capo, ormai sei alle dirette dipendenze di Pepper.”

“Sì, perché era ridicolo essere la guardia del corpo di Iron Woman. Venivo bullizzato dalla gente per questo.”

“Ancora con questa storia…” Si era massaggiata le tempie e voleva sbattere la testa sul tavolo. Happy non era più stato contento di lavorare per lei da dopo la Stark Expo, quando aveva combattuto contro tutti i droni di Hammer. Da quel momento aveva iniziato a lavorare con Pepper, a farle da autista e guardia del corpo, visto che lei ormai era capace di difendersi da sola da tutto quello che la circondava. “Happy, devo andare che ho ospiti a cena. Ricordati di dire a Pepper di chiamarmi.”

“Chi ha a cena? E’ un incontro di lavoro? E’ stato approvato da qualcuno?”

“Happy, sono abbastanza grande da avere gente a casa senza l’approvazione di qualcuno. E poi è Steve.”

“Il capitano Rogers? Capo, che storia è questa? Lo sa che la signorina Potts non sarà contenta di questo? Ma l’ha informata di questo appuntamento?”

“Ciao, Happy. Ci sentiamo domani.” Aveva agganciato e aveva fatto un lungo, lunghissimo sospiro. Aveva già troppe cose nella testa senza dover anche pensare a Killian Aldrich e cosa volesse di nuovo dalle Stark Industries. Sapeva che la A.I.M. aveva ottenuto fondi militari e si erano ingranditi così. Cosa potesse volere ancora da lei non riusciva a capirlo. Non produceva più armi. Si erano davvero spostati su tutt’altro. Non aveva nemmeno più alcun fondo militare per le sue ricerche. 

Le mancava solo che alla sua porta suonasse Maya Hansen e sarebbe stata al top. La donna con cui aveva passato un magnifico weekend in Svizzera aveva cercato di contattarla più di una volta quando non l’aveva trovata nella camera da letto che avevano condiviso. Ma non si era mai fatta trovare. Per lei era superfluo continuare a mantenere un qualsiasi rapporto dopo essersi divertita. La scienziata era una mente brillante, questo lo ricordava bene. Aveva delle idee grandiose ma non aveva effettivamente mai letto che il suo esperimento avesse avuto successo. 

I rami recisi delle sue piante ricrescevano come per magia, ma non aveva mai letto altro. Ricordava perfettamente come per farle vedere come funzionava la sua formula aveva reciso un ramo di una pianta. Davanti ai suoi occhi quel ramo era ricresciuto subito, rigoglioso come se non fosse mai stato tagliato. Ed era una cosa sorprendente. Ancora adesso, dopo tutto quello che aveva visto e vissuto era una cosa magnifica. Solo aveva un piccolo difetto. Esplodeva. 

Era così instabile se non usato correttamente, che esplodeva dall’interno. E da quello che le risultava Maya Hansen non aveva mai perfezionato la sua creazione. Se lo avesse fatto ne avrebbero parlato tutti. L’avrebbero già usata, probabilmente più per il male che per il bene. Ma non c’erano notizie al riguardo da nessuna parte. Maya Hansen stessa sembrava essere scomparsa dalla scena scientifica mondiale. 

E se non avesse avuto un appuntamento per lei importante a cena, avrebbe passato la notte a fare ricerche.

 

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Capitolo 3
*** Capitolo III ***


“Niente S.H.I.E.L.D. oggi?” Era scesa in cucina e vi aveva trovato Steve che preparava la colazione. Lo aveva sentito scendere, ma aveva fatto finta di nulla restando in camera propria per continuare a leggere. Era convinta avrebbe preparato la colazione e sarebbe poi uscito. Anche se non pensava sarebbe rimasto a dormire ancora una notte in quella casa. 

Avevano cenato tranquillamente. Avevano ordinato una pizza. L’avevano divorata sul divano guardando un film. Non avevano parlato molto, ma la vicinanza le era bastata per darle modo di rilassarsi e riuscire anche a dormire qualche ora. 

“Buongiorno, Tasha.” Si era voltato solo un po’, continuando a friggere uova e pancetta. E lei non poteva fare altro che guardarlo. Era tutto così nostalgico. Steve che cucinava in pigiama. Lei che scendeva in quelli che decisamente non erano pigiami. L’odore di pancetta e caffè che impregnava la cucina. “Stamattina no. Mi ha telefonato Fury per darmi la giornata libera, senza darmi ulteriori dettagli.”

“Sicuro ti vuole qui a farmi da baby-sitter. Tu continui ad essere troppo ingenuo quando si tratta di Fury. Dopo New York pensavo ti fossi svegliato un po’.” Si era avvicinata alla cucina e aveva preso le tazze per il caffè dal mobile. Anche quella era una routine. Steve preparava da mangiare, lei apparecchiava. 

C’erano stati periodi in cui avevano funzionato. Ed era questa consapevolezza che le faceva male. 

“So che mi nasconde qualcosa, e sono il primo ad essere venuto qui per farti da baby-sitter ancora prima di aver ricevuto ordini sottintesi.” Steve aveva sorriso, mentre spegneva il fuoco del fornello. Nonostante tutta la casa fosse all’avanguardia e fosse alimentata a elettricità, Steve una volta le aveva detto che preferiva i vecchi fuochi per cucinare. Gli aveva messo la cucina che preferiva lui, e non l’aveva mai più cambiata. Come se avesse sperato di vederlo ritornare a cucinare tra quelle mura. “E forse mi ci vuole un giorno libero ogni tanto.”

“A Natale cosa fai?” Doveva accendere il filtro cervello-bocca, lo sapeva, se lo ripeteva sempre. Ma con Steve non aveva mai funzionato. “Facciamo un pranzo qui. Siamo quattro gatti, eh. Vengono Pepper, Happy e Rhodes. Forse viene anche Bruce, ma non mi ha ancora dato una risposta.”

“Sei rimasta in contatto con Banner?” L’aveva guardata stupito, mentre impiattava la colazione.

“Che domande, ovvio no? Stai parlando di Bruce Banner, Steve. Lo so che per te sono cose assurde, ma ci ho passato notti intere a studiare i wormhole dopo New York.” Gli aveva dato una leggera gomitata e gli aveva sorriso maliziosamente. “Oppure sei geloso, Steven?”

“Geloso? Non direi proprio. Banner decisamente non rientra nei tuoi gusti, visto che l’ultimo tuo ex era un belloccio senza cervello.” Si era spostato senza guardarla e l’aveva spiazzata. Era rimasta a fissarlo con le tazze piene di caffè in mano e non era riuscita a dire nulla. 

Steve era geloso? Steve Rogers era geloso di Johnny Storm? 

“Mi hai mandato il blocco il cervello, Rogers.” Dopo un attimo di smarrimento lo aveva seguito, appoggiando le tazze sul tavolo e sedendosi di fronte a lui per fissarlo. Steve continuava a non guardarla, facendo tutt'altro. Aveva acceso la tv. Aveva aperto il quotidiano che leggeva ogni mattina. Aveva bevuto un sorso di caffè. Come se non avesse detto nulla che poteva avere altri modi di essere interpretato. O forse era lei che aveva guardato troppi film e se ne faceva di propri nella testa dovendo trovare significati nascosti in ogni sua parola. 

“Magari lo avessi fatto. Se almeno una volta si fermasse, probabilmente riusciresti a dormire di notte.” Non la guardava ancora, con gli occhi scorreva i titoli di giornale. Non aveva detto nulla sul fatto di avere il quotidiano in casa, pur sapendo che lei non li leggeva mai. Ma lei non aveva mai disdetto l’abbonamento di Steve che li faceva recapitare ogni mattina a casa. Ogni mattina ritirava il giornale e lo abbandonava in cucina. Lo aveva fatto in quegli ultimi anni sempre, senza mai farsi sfiorare dall’idea che non era un comportamento sano nemmeno quello. Forse doveva davvero andare in terapia come Bruce Banner le aveva accennato qualche volta. 

“Stanotte ho dormito. Non tutta la notte, ma ho dormito.” Aveva bevuto del caffè, per poi addentare un pezzo di pancetta. Avrebbe dovuto iniziare a cucinare solo per prepararsi quelle colazioni.

“Hai programmi per la giornata?”

“Solo starmene in officina. Ho un’armatura da finire. Dovrebbe passare Pepper, perché le ho lasciato almeno 15 messaggi in segreteria ieri sera, ma non hai mai risposto.”

“Mi nasconderò da qualche parte allora.” Steve le aveva sorriso e lei non aveva fatto altro che ricambiare. Pepper non lo aveva mai perdonato per essersene andato, glielo aveva detto più di una volta. Happy accettava tutto, bastava che la vedesse felice in quel momento. Pepper no. Per questo si stupiva di non aver ricevuto nessuna telefonata minatoria la sera prima. 

“Ti proteggerò io, non ti preoccupare, tesoro.” Gli aveva fatto l’occhiolino e Steve aveva riso. Adorava quella risata. Non poteva farci nulla se la sentiva ancora vibrare dentro sé stessa e le scaldava l’anima. Quello non sarebbe mai cambiato, qualsiasi forma avesse avuto il loro rapporto. “Sono seria, eh. Sto progettando un nuovo tipo di armatura.” Aveva allungato le braccia sul tavolo, facendogli vedere gli avambracci. “So che sei troppo educato per chiedere, ma ho notato che non hai fatto altro che guardare questi segni. Non mi sto bucando. O almeno non nel senso normale del termine. Ho inserito dei microchip sottocutanei per rendere l’armatura controllabile anche a distanza. Risponde se la chiamo, e si assembla su di me. Ora devo solo provare se si assembla da sola e se si muove controllata da remoto.”

“Sei ad un passo dal programmare Skynet quindi.”

Aveva riso lei questa volta. Quando Steve usava battute da nerd se ne stupiva sempre. Non sapeva mai quanto davvero gli potessero piacere i film che gli faceva vedere e se davvero li seguisse. Ma quando poi aveva battute simili, voleva dire che non li guardava solo per far piacere a lei. Steve aveva allungato una mano per sfiorare i segni delle punture. Osservava le sue braccia e sembrava molto assorto nei propri pensieri. 

Sicuramente la reputava una cosa da folli, per questo lei stessa non ne aveva mai parlato con nessuno. Non con Rhodes, non con Banner. Steve solitamente era l’unico che capiva i suoi voli pindarici senza fare troppe domande e troppe prediche. 

“New York ha cambiato tutto per me. Credevo che fosse l’Afghanistan il mio risveglio dal ghiaccio, ma New York è su tutto un altro livello.” Aveva deglutito perché in realtà non voleva pensarci, ma era un chiodo fisso. Gli ultimi sei mesi li aveva passati a pensare ad un piano B per proteggere al Terra. Il piano A era il deterrente nucleare del Consiglio Mondiale di Sicurezza, ed era bocciato su ogni livello.

“Ti sei presa del tempo di svago in questi mesi?” Aveva alzato lo sguardo sul viso di Steve, che non aveva ancora smesso di passare un pollice con delicatezza sul suo avambraccio. “A me l’hai sempre ripetuto che dovevo prendermi del tempo per svagare il cervello, testuali parole, quando il passato mi perseguitava, ma come sempre non sei brava a seguire i suoi stessi consigli.”

“Non ho avuto tempo.” Aveva fatto una smorfia alle sue stesse parole. Di tempo ne aveva avuto quanto ne voleva. Quello decisamente non le era mai mancato. Men che meno nei sei mesi che aveva passato da eremita. 

“Allora oggi usciamo.”

“Oh, ma Steven. Nick ti ha mandato qui per tenermi al sicuro e tu vuoi farmi uscire?” Era in realtà stupita dalle sue parole, ma non voleva darlo a vedere. Uscire con Steve avrebbe portato a moltissime conseguenze, ma l’uomo la guardava con una espressione seria in volto. Era sicuro di quello che aveva detto. Anche se uscire insieme avrebbe significato esporre entrambi all’occhio critico dei media. Avrebbero scritto ancora di loro e non sapeva se era davvero pronta a questo. 

“Nick non mi ha dato alcun ordine ufficiale in realtà, quindi posso agire come meglio preferisco. E io voglio uscire con te oggi.”

“Così mi fai emozionare come una verginella.” Se le avesse toccato in quel momento il polso si sarebbe accorto che il suo battito cardiaco era aumentato, perché stupidamente davvero la aveva fatta emozionare. Steve riusciva sempre a farla emozionare come se fosse ancora una ragazzina. “Usciamo in moto?”

“Usciamo in moto.” Steve aveva sorriso, e il cuore le aveva fatto male. Farsi volontariamente del male in modo simile era da TSO immediato. Tempo quanto?, 10 giorni?, e avrebbe raccolto i cocci in un angolo della propria officina. 

“Non sei costretto a farlo, sai? Non sei nemmeno costretto a stare qui. Puoi andartene quando preferisci, anche adesso, ed andrà bene anche così. Non serve che tu ti senza obbligato per un qualsiasi motivo a restare qui. Ed è meglio se sto zitta, vero?”

“Sì, sarebbe meglio in effetti.” Steve aveva spostato la mano, ma non aveva smesso di guardarla. “Che tu ci creda o no, sono qui di mia spontanea volontà. Mi sono preoccupato quando ho saputo con chi avevamo a che fare.” I suoi occhi erano caduti sul reattore arc che illuminava la sua maglietta. Era preoccupato. La guardava allo stesso modo in cui l’aveva fatto quando era appena tornata dall’Afghanistan e non sapeva cosa fosse quella cosa che la teneva in vita. 

“Sono passati meno di cinque di anni da quei giorni e a volte mi sembrano un tempo lontanissimo.” Si era passata una mano tra i capelli. Li aveva lasciati crescere. Da cortissimi che erano quando era ritornata dalla prigionia, ora erano lunghi. Fastidiosi, ma lunghi. “E non pensavo di rivederti più in questa casa dopo la nostra ultima conversazione seria.” 

“Non lo credevo nemmeno io.” Aveva fatto un mezzo sorriso. “Ma non è andato tutto come avevo previsto.”

“Le cose vanno sempre più raramente come previsto, non trovi?” Aveva bevuto un lungo sorso di caffè quando la colazione era stata interrotta da J.A.R.V.I.S..

“Signorina Stark, la signorina Potts sta arrivando. Il signor Hogan ha parcheggiato adesso la macchina all’ingresso.”

“Se vuoi nasconderti adesso hai un piccolo margine di tempo.” Aveva guardato Steve che aveva semplicemente risposto con un sorriso. Dall’ingresso si sentiva il rumore dei tacchi di Pepper. Veloci e precisi. Ah, quanto non le era mancato sentire quel rumore ogni mattina entrare nella sua officina. “Buongiorno, Pepper.”

“Buongiorno un corno, Tasha. Happy mi ha detto solo stamattina cosa sta succedendo qui.”

“Ecco perché non sei arrivata prima. Caffè? Happy è in macchina?”

“Perché lui è qui?” Con un gesto della mano aveva indicato Steve, che decisamente voleva essere ovunque tranne che lì. Era successo qualcosa tra quei due in passato. Avevano avuto delle discussioni che la riguardavano e non erano più andati d’accordo. Non aveva mai indagato a fondo cosa fosse successo, e non lo avrebbe fatto nemmeno in quel momento.

“La visita di un vecchio amico preoccupato per quello che sta succedendo nel mondo?” Aveva sospirato e si era messa comoda sulla sedia. Aveva guardato prima Steve ed era davvero stupida perché lo avrebbe difeso sempre di fronte a chiunque e qualunque fosse stata la situazione. E poi aveva guardato di nuovo Pepper. “Va tutto bene, Pep. Dorme nella stanza degli ospiti se può consolarti, ed è solo una cosa di qualche giorno. Anche se l’ho invitato per Natale ma non mi ha dato una risposta.”

“Devo vedere dove sarò spedito da Fury.” Steve aveva sorriso lievemente e questo probabilmente avrebbe fatto venire una sincope a Pepper.

“Steve, dopo come se ne è andato l’ultima volta pensa davvero che potrei mai perdonarla?”

“Pepper, credo di dover essere l’unica a doverlo perdonare in caso. Ma non mi interessa nemmeno più.” Aveva passato nuovamente la mano tra i capelli, frustrata da quella situazione. “Stiamo parlando di Steve poi. Sai che avrò questa cotta pazzesca per lui finché campo. Non è vero, Steve?”

“E’ una celebrity crush, nulla di più.”

“Visto, lo conferma anche lui!” Sapeva che Virgina “Pepper” Potts era solo preoccupata per lei. Quella donna aveva lavorato per lei quando era al punto più basso della sua esistenza. L’aveva vista cadere più e più volte facendo molta fatica a rialzarsi. E aveva sempre avuto il terrore che ogni caduta sarebbe potuta essere l’ultima. Solo che non voleva vederla sempre così preoccupata, avrebbe tanto voluto rassicurarla dicendole che almeno in apparenza sapeva cosa stesse facendo.

“Virginia.” Steve si era alzato dalla sedia e si era avvicinato alla donna. “Non sono venuto qui per sparire di punto in bianco e cercherò di contenere i danni della mia presenza.”

“Doveva restare tre anni fa.” Aveva osservato Steve deglutire, ma non distogliere lo sguardo da quello di Pepper. Perché tutto del loro passato li avrebbe perseguitati per sempre. 

“Pepper, lo sai che è proibito parlare di quel periodo in questa casa.” Lei era brava a fingere, fingeva sempre di aver dimenticato tutto, di esserselo lasciato alle spalle. Ma la realtà era che se non se ne parlava era molto più facile per tutti. “Parliamo invece delle mie venti telefonate di ieri sera a cui non hai risposto. Killian Aldrich?”

“Oh, mi spia adesso? Come fa a sapere che ho visto Killian?”

“Telefonata giusta al momento giusto. Il tuo capo della sicurezza è un mio grande fan.” Aveva alzato le spalle, osservando le due persone in piedi. Steve non si era ancora seduto, ma anzi si era spostato verso i mobili per prendere una tazza per poter versare del caffè a Pepper. Che lo aveva anche accettato con un grazie. Sarebbero potuti essere amici quei due, se solo non ci fosse stata lei in mezzo. Erano fedeli, leali. E due ottimi cani da guardia per una come lei. 

“Voleva come sempre che finanziassimo un suo progetto, ma ho rifiutato subito. Ha una formula, una tecnologia, non so neppure come definirlo esattamente, per riscrivere il dna umano e mi è sembrato troppo pericoloso. Così ho semplicemente rifiutato.” Pepper aveva sorseggiato il proprio caffè, e Steve si era seduto. “Non ne è sembrato molto contento. Di nuovo. Ma non ho potuto fare altrimenti. Mi sembra una cosa troppo da film poter usare il 100% del cervello umano modificando il suo codice genetico.”

“Pep, tesoro, ci sono stati gli alieni sulla Terra. Più volte negli ultimi anni. E tu ti preoccupi per questo? Io vorrei usare il mio cervello al 100%. Già così sono un genio, immagina cosa potrei fare potenziandomi!” 

“Allora la prossima volta lo incontri lei, potrebbe anche essere diventato il suo tipo adesso. Prenderebbe due piccioni con una fava.” Aveva riso sguaiatamente alla battuta della sua ex segretaria, sia per la sua espressione contrariata che per le parole da lei pronunciate. Fosse stato qualche anno addietro non avrebbe decisamente rifiutato una simile offerta. Unire l’utile al dilettevole era una cosa che le era sempre piaciuta. Si risparmiava la fatica nel fare le cose. 

“Attenta a quello che dici. Steven potrebbe essere geloso.” Aveva messo una mano accanto alla bocca, come se stesse sussurrando un segreto. “E’ ancora geloso di Johnny Storm. Dici che dovrei rivederlo solo per far schizzare il testosterone nella stanza ai massimi storici?”

“Perché non può essere seria per una volta?”

“Guarda che io non sono affatto geloso.”

I due avevano parlato all’unisono e poi si erano guardati. Steve aveva sorriso a Pepper, che con un minuscolo timido movimento della bocca gli aveva risposto. C’era stato un periodo in cui effettivamente erano andati d’accordo. Subito dopo l’Afghanistan, quando Steve era rimasto accanto a lei per tutto il tempo. Pepper lo aveva conosciuto, le era piaciuto. Poi le cose erano precipitate in modo vertiginoso. 

“Vi manca Rhodes per questo bel teatrino. Aspettate.” Aveva subito preso in mano il cellulare e aveva fatto partire una videochiamata.

“Se mi stai chiamando chiusa in officina a piangere sbronza a quest’ora del mattino a causa di Rogers, non ti voglio stare ad ascoltare. Sono le 8 del mattino e io sto lavorando.”

“Ciao, Rhodey. Fai ciao agli altri.” Gli aveva sorriso e poi aveva girato il cellulare prima verso Steve e poi verso Pepper. Steve gli aveva sorriso. La donna aveva portato una mano sul viso, sospirando frustrata. Le sue persone preferite contemporaneamente nella stessa stanza le mancavano. Steve era uscito dalla sua vita. Rhodes faceva avanti e indietro da varie basi militari. E Pepper era diventata molto occupata come CEO delle Stark Industries. “Manca Happy a questo simpatico quadretto, ma è fuori in macchina.” 

“Rhodes, tu lo sapevi?” Pepper aveva appoggiato la tazza di caffè sul tavolo e aveva incrociato le braccia sul petto.

“E’ adulta e non sono il suo babysitter. Ho espresso il mio disappunto, ma che altro potevo fare? Sedarla e portarla via da qualche parte?”

“Sì.”

Natasha aveva sorriso guardando Steve, che guardava un punto indefinito della sua colazione. Le sue persone importanti erano sempre molto protettive con lei. Sempre. Qualsiasi fosse l’occasione, lei era sempre protetta da qualcuno. 

“Pepper, raccoglieremo i cocci dopo, come ogni volta. Lasciala in pace a godersi il momento.”

“Guardate che vi sentiamo.” Aveva spostato lo sguardo su Pepper e le aveva sorriso. Non era affatto arrabbiata o turbata per le loro parole. Sapeva di avere le spalle coperte qualsiasi cosa fosse successa. Le persone si comportavano così perché le volevano bene. Davvero bene. “Festeggiamo insieme anche l’ultimo dell’anno? Invitiamo magari anche gli altri Avengers per rendere la serata ancora più movimentata con spie, assassini e divinità?”

“Perché tu sai dove si trovi Thor adesso?”

“Assolutamente no, e non so neppure come contattarlo.” 

Steve le aveva sorriso e lei aveva ricambiato. In sottofondo sentiva Rhodes e Pepper battibeccare in videochiamata, ma la sua testa si era focalizzata solo su Steve e il suo sorriso. Avevano ragione gli altri. Avrebbe finito per spaccarsi la testa ancora una volta. E tutto per quel dannato sorriso che le mandava in corto circuito le sinapsi.

Poteva l’amore essere così stupido e cieco da non vedere tutti i pericoli che gli altri vedevano? La risposta era semplicemente sì.

 

✭✮✭

 

“Non vuoi ancora rientrare?” Steve Rogers l’aveva guardata, o almeno sentiva il suo sguardo su di sé. Lei continuava a guardare il cielo stellato sopra di loro. L’immensità dell’universo la terrorizzava da morire, ma non riusciva a distogliere lo sguardo dalle tantissime stelle che vedeva splendere chiedendosi quali pericoli stessero celando.

“Pensi che torneranno?”

“Spero di no.” Steve aveva sospirato e aveva guardato anche lui verso il cielo. “Però siamo riusciti a batterli ed eravamo totalmente impreparati. Non avevamo nemmeno le armi adatte per fronteggiarli. Credo che lo S.H.I.E.L.D. stia sperimentando nuove armi per combattere gli alieni.”

Avevano passato una giornata in sella alla moto di Steve. Una giornata piacevole. Una giornata spensierata e fatta di risate. Avevano mangiato in un’anonima tavola calda trovata lungo la strada. Avevano mangiato un gelato passeggiando su un molo. Avevano parcheggiato la moto quasi sulla spiaggia e si erano sdraiati a guardare le stelle quando era calato il buio. E il buio notturno le faceva sempre venire in mente pensieri poco piacevoli. 

“Si dovrebbe creare uno scudo a protezione della Terra. Qualcosa che faccia in modo ci sia un margine di tempo per poterci preparare per tempo.” 

“Su cosa stai lavorando?”

“Sulle mie armature.” Prima di uscire di casa aveva lavorato. Doveva fare un tentativo per vedere se la sua nuova armatura poteva essere pilotata anche da remoto. E stranamente aveva funzionato. Aveva mosso l’armatura stando tranquillamente seduta nella propria officina, mentre questa aiutava Steve ad apparecchiare la tavola per il pranzo. “Sono diventata ossessionata dal migliorarle. Farle funzionare a distanza. Farle funzionare nello spazio. Cose così.”

“Non ti sembra esagerato lavorare senza tregua così?” Steve si era sporto un po’ sopra di lei per poterla guardare. Quando era stata l’ultima volta in cui aveva guardato le stelle sulla spiaggia con qualcuno? Era sempre stato con Steve, da quello che ricordava. L’ultimo Natale che avevano trascorso insieme avevano passato buona parte della notte in terrazzo a guardare le stelle. A parlare. A fantasticare. A perdersi nell’infinità dell’universo sopra di loro con il rumore del mare che si scontrava con gli scogli.

“No. Ho passato gli ultimi mesi in un limbo senza fine pensando ai se e ai ma.”

“Ti ho quasi persa a New York.”

“E io ti ho salvato. Questa è l’unica cosa che conta per me. Tu saresti stato vivo e vegeto.” Aveva girato il viso verso di lui e non le era piaciuta l’espressione di Steve. A lui non sarebbe importato di essere salvato. Lo poteva tranquillamente intuire da come la stava guardando. Perché continuavano ad essere così stupidi e non parlarsi apertamente? “Non guardarmi così, ti prego.”

“Scusami. Non dovrei neppure essere qui, ma ero davvero preoccupato dopo tutto quello che è successo.” 

“Finirai per confondermi ancora con questa tua preoccupazione, lo sai? Tu sei sempre preoccupato per me, e finiamo sempre per fare di peggio.” Aveva allungato un braccio per potergli accarezzare il viso. Non aveva nulla da perdere ormai. Quello era il suo personale inferno, continuare a ricadere sempre tra le braccia di quell’uomo. Farsi male, rialzarsi e ricadere ancora. Un loop infinito che non riusciva a spezzare. 

“Non è questo che voglio. Volevo solo assicurarmi che tu stessi bene, che tu non fossi stata presa di mira da qualcuno. Te l’ho detto, quando ho sentito che si trattava dei Dieci anelli non sono riuscito a restare a Washington e aspettare l’evolversi degli eventi.”

“Ti sei lasciato con Sharon per questo? Col cazzo che sono mesi che vi siete lasciati, non è vero?” Aveva spostato la mano e si era messa seduta. Si sentiva così stupida. E pure in colpa per qualcosa che davvero non dipendeva da lei, quanto da quell’idiota di Steve Rogers. Lo aveva realizzato solo in quel momento di essere davvero lei la causa della finita relazione di Steve e voleva sbattere la testa da qualche parte.

“Sì e no. Davvero erano mesi che continuavamo ad essere on/off senza sosta. Il lavoro. I gossip. La paranoia. Ho sbagliato a New York e ho cercato di rimediare, ma sempre con scarsi risultati. Alla fine mi sono dato la zappa sui piedi da solo chiedendo a Fury il permesso di venire qui.”

“Che deficiente che sei.” Si era alzata in piedi e lo aveva guardato. Si sentiva di nuovo usata, come se fosse un burattino nelle mani di qualcuno. E non era giusto. Era la causa di una rottura e questo la infastidiva. Perché si trattava di Steve. Steve doveva restare con la sua morale integra da Capitan America, non diventare un uomo qualsiasi che faceva di queste cazzate. Avevano avuto le loro infinite occasioni e le avevano lasciate andare in fumo tutte quante. “Non puoi arrivare qui, bello come il sole a farmi lo splendido e mandarmi a fanculo i circuiti. Vuoi davvero farmi finire da uno psicologo?”

“Sai che male non ti farebbe. Io ci sono andato.”

Lo aveva guardato in assoluto silenzio. Non lo sapeva. Non si era mai posta effettivamente il problema su come Steve avesse gestito tutto. E ne aveva di cose da superare anche lui. Il risveglio dopo 50 anni. I traumi del passato. I traumi del presente. E Steve era diverso da lei, quando ne aveva davvero bisogno lui non si faceva problemi a chiedere aiuto. 

“Ci sono andato anche per James e mi ha aiutato tantissimo a superare il tutto.”

“Non lo nominare.”

Steve le aveva fatto un piccolo sorriso. Compassione, tristezza, comprensione. Riusciva a leggere tantissime emozioni sul suo viso. Steve aveva superato. Era andato avanti. Perché loro effettivamente erano ancora vivi. Avevano una vita davanti ed era giusto che la vivessero. Steve aveva accettato quello che era successo. Non lo aveva superato. Non si supera mai un lutto simile. Si impara ad accettarlo, a conviverci. E si finisce con l’andare avanti.

Quello che lei non aveva mai fatto davvero. Lei lo aveva semplicemente chiuso in sé stessa, continuando a negarlo. Continuando a negare che sia mai successo dal principio. Si comportava come se non fosse mai stata madre. Perché era più facile così. 

“Va bene, non lo farò. Ma ritengo che dovresti parlarne con qualcuno di tutto quello che stai trattenendo nella testa perché finirai per scoppiare. Ti sono successe troppe cose per poter portare il peso di tutto, Tasha.”

“Mi hai appena aggiunto altro peso addosso con la tua rottura con Sharon.” Aveva passato entrambe le mani sul viso. Quello non era un problema suo. Steve era adulto e vaccinato e i suoi errori erano soltanto suoi. Perché doveva farsene carico lei?

“Questa non è colpa tua, ma solo mia.” Steve le aveva sorriso e si era alzato. “Quello che ti ho detto a New York è sempre vero, penso che lo sapesse anche lei e quindi è stata solo una questione di tempo.”

“No. Quella sera ci ho messo una pietra sopra e per me la cosa era chiusa lì. Non puoi comparire dal nulla e sganciarmi queste bombe addosso. E’ sleale da parte tua.”

“Non sto chiedendo nulla da te, credimi. Se non ci fosse questo Mandarino in giro, non sarei neppure qui proprio per tutto quello che è successo in passato. Proprio perché non sarebbe giusto nei tuoi confronti.”

“Non ti facevo così stronzo ed egoista però. E Sharon, Steve? Hai iniziato a frequentarla quasi da subito quando ci siamo lasciati!” E allora aveva capito. Sharon era un tappabuchi, proprio come per lei lo era stato Johnny Storm per qualche mese. Quello che gli era successo li aveva segnati irrimediabilmente entrambi, ed entrambi avevano cercato di andare avanti come meglio potevamo. Anche cercando conforto in altre persone. “Lei lo sa…?”

“Sì, gliene ho parlato. Non subito ovviamente, ma poi gliene ho parlato. Al contrario di te, ho proprio sentito il bisogno di parlarne con altre persone.”

Aveva abbassato lo sguardo sentendosi quasi giudicata perché lei covava le cose dentro di sé lasciandole macerare per bene per fare poi ancora più male. Era successo così. Per questo si erano lasciati. Nella sofferenza di entrambi, lei era concentrata solo sulla propria. Invece di superare la cosa come una coppia, lei si era comportata da ragazzina egoista. 

“Per me non è facile parlare con altre persone.”

“Questo lo so.” Steve le aveva sorriso. “Te l’ho detto. Ho sbagliato anch’io ad andarmene, ma in quel momento non stavo affatto bene e tu non mi rendevi le cose per nulla facili.”

“Non rendo mai le cose facili, dillo pure.” Aveva sospirato e lo aveva guardato. Steve non la odiava. Non l’aveva mai odiata anche se lei aveva sbagliato così tanto. Se solo non fosse stata così accecata dal dolore si sarebbe resa conto che in Steve poteva avere una spalla su cui piangere e superare il lutto. Distruggere la nursery in un impeto di ira non le aveva dato alcun sollievo, solo altra rabbia che non aveva saputo dove sfogare. “Andiamo a casa. Ho bisogno di un drink adesso.” Aveva notato Steve inarcare un sopracciglio. “Uno ho detto. Non ho detto una bottiglia di whisky. Ma per chi mi hai presa? Sono una donna adulta ormai, so controllare il mio lato alcolista.”

“Oh, scusami donna adulta!” L’uomo aveva alzato le braccia in segno di resa, ma le aveva sorriso ancora. Le era mancata tutta quella leggerezza e odiava il fatto che solo con Steve riuscisse a far cadere tutte le maschere che portava abitualmente. 

“Disse il finto pensionato.” Aveva mosso qualche passo sulla sabbia avviandosi alla moto di Steve. Voleva davvero tornare a casa e buttarsi sul divano. Magari con Steve accanto. Quello sarebbe stato un ottimo in più per una bella serata. Avrebbe anche potuto addormentarsi così, sul divano accanto a lui, e sarebbe stata la notte migliore di sempre. 

Sarebbe stata una serata perfetta se solo non avesse suonato il suo cellulare in contemporanea con quello di Steve.

 

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Capitolo 4
*** Capitolo IV ***


Se ne stava seduta su una sedia scomoda e continuava a martoriarsi con le unghie ed i denti una pelliccina sul dito. Lo faceva quando era nervosa, quando le cose sfuggivano al suo controllo, quando non sapeva come reagire. Il suo cervello andava in tilt, e l’ansia prendeva possesso del suo corpo. 

Fissava l’uomo sdraiato su un letto d’ospedale attaccato a mille tubi. E lei odiava gli ospedali. Li aveva sempre odiati e negli anni il suo sentimento si era solo accentuato di più. 

Era un luogo che collegava solo a cose brutte e fin troppo spesso alla morte. 

E Happy Hogan non poteva morire. 

Era accanto a lei da così tanti anni. Aveva fatto tantissimo per lei in tutti gli anni che le aveva fatto da bodyguard, e anche dopo era rimasto una presenza fissa nella sua vita. Si sentivano su base quotidiana, la maggior parte delle volte perché lui le telefonava per riferirle come andavano le cose alla sede delle Stark Industries. Altre volte le telefonava la sera dopo aver finito di vedere la puntata settimanale del suo telefilm preferito e gliene parlava come se anche lei lo avesse seguito. Era costante nelle sue telefonate, ed erano quella routine che a lei faceva bene. Che le faceva sentire che stava andando tutto bene. Che non doveva preoccuparsi di nulla.

Era veramente assurdo che ogni suo attimo di pace finiva per sgretolarsi da un momento all’altro senza che avesse alcun tipo di controllo su quello che succedeva. 

Aveva spostato lo sguardo da Happy a Steve che fuori dalla stanza parlava con degli agenti dello S.H.I.E.L.D.. Lo avevano subito chiamato. Mentre lei riceveva una telefonata da una Pepper in lacrime, Steve veniva chiamato dallo S.H.I.E.L.D.. Pepper non aveva saputo dirle cosa fosse successo. Le aveva parlato di una esplosione al Chinese Theater e di Happy portato d’urgenza in ospedale, ma era troppo scossa e non sapeva nemmeno lei cosa fosse successo.

Ci aveva pensato Steve ad informarla che era stato un attentato rivendicato dal Mandarino, ma per lei non aveva senso la presenza di Happy in quel posto. Era pura casualità? Stava pedinando qualcuno? Era stata del resto lei a dirgli di tenere d’occhio Aldrich Killian, ma la sua doveva essere solo una battuta per la mania di avere tutto in sicurezza del suo ex bodyguard. Ma conoscendolo poteva davvero aver seguito qualcuno che aveva considerato losco.

Aveva passato una mano sugli occhi cercando di ragionare e mettere in ordine i pensieri. Ma non c’era assolutamente nessuna logica in tutto quello che era successo. Non riusciva a trovare un nesso tra Happy, il Chinese Theater e l’esplosione. Non le era mai sembrato che a Los Angeles ci potessero essere dei luoghi tanto importanti da rivendicare un attentato. New York sì. Washington assolutamente. Ma Los Angeles? Dove la gente andava al mare anche il giorno di Natale? Dove la cosa più famosa era la scritta Hollywood?

“Tasha, dovresti tornare a casa e riposare.” Steve era entrato nella stanza e aveva chiuso la porta alle proprie spalle. “Se ci sono sviluppi di qualsiasi tipo verrai informata.”

“Non posso tornare a casa. Finirei per non riposare in alcun modo.” Lo aveva osservato, e sembrava preoccupato. Stanco e preoccupato. Forse, come lei, desiderava un attimo di pace anche lui, ma non lo aveva. Probabilmente anche ogni suo attimo di pace veniva distrutto da una telefonata dello S.H.I.E.L.D..

“Torno con te, direi che questo sia abbastanza scontato adesso.” Steve le aveva sorriso e poi si era avvicinato al letto di Happy. Aveva osservato l’uomo con preoccupazione. “Resteranno alcuni agenti qui fuori, anche se credo non fosse lui il bersaglio, ma solo una vittima accidentale.”

“Lo credo anch’io. Chi vuoi che possa voler morto uno così? Al massimo qualcuno all’interno dell’azienda, ma non abbiamo roba simile in magazzino.” O forse sì? Ci poteva essere ancora qualcuno che dall’interno stava vendendo armi ai terroristi? 

“Lo S.H.I.E.L.D. è sul posto ad indagare, ma per ora non hanno trovato assolutamente nulla. Non ci sono neppure i resti di una bomba o di qualsiasi altro dispositivo.”

“Queste sono le informazioni che poi non mi fanno dormire la notte, dovresti saperlo.”

Steve le aveva sorriso. E lei continuava a odiarsi perché in quel momento ne aveva un disperato bisogno. Steve era un’ancora di salvezza in quei casi. Anche se non diceva nulla. Anche se le sorrideva e basta. Ma era qualcosa a cui poteva aggrapparsi per continuare a non cadere negli abissi dei suoi pensieri che erano sempre tutt’altro che positivi. 

“Lo so, per questo torno a casa con te stasera e non torno allo S.H.I.E.L.D. disobbedendo agli ordini diretti di Fury.”

“Mi ecciti quando fai il ragazzo ribelle.”

Steve aveva ridacchiato alle sue parole, portandosi una mano sulla bocca. Lo aveva fatto imbarazzare e lo trovava sempre strano. Conosceva quell’uomo da quasi 15 anni, avevano fatto sesso in lungo ed in largo, ma riusciva a farlo imbarazzare ancora nonostante Steve fosse ormai prossimo agli anta.

“Sei davvero un pessimo elemento tu, Natasha Stark. Davvero pessimo.” Le si era avvicinato di più e l’aveva guardata. Sapeva di doversi alzare da quella sedia, ma aveva anche paura di lasciare Happy da solo. Certo, non sarebbe stato da solo. Pepper sarebbe ritornata da un momento all’altro dalla caffetteria e avrebbe passato la notte lei su quella sedia. Ma aveva il terrore che potesse succedere qualcosa e lei non sarebbe stata lì. “Tasha.” Steve si era inginocchiato di fronte a lei. “Happy adesso è stabile, ma soprattutto non sarà da solo. Tu qui non puoi fare nulla al momento, ma sappiamo entrambi che da casa farai tutto il possibile per capire le dinamiche di questa esplosione.”

“Mi conosci troppo bene, Rogers.” Aveva sospirato mentre spostava lo sguardo da Steve all’uomo sul letto. Sapeva che non poteva fare nulla lì, Steve aveva ragione. Lì poteva solo continuare a pensare e cadere in vortici di pensieri pericolosi senza nulla che potesse distrarla. A casa almeno aveva J.A.R.V.I.S., i suoi robot, le armature. Poteva anche solo mettersi in terrazzo a fissare il nulla.

“Sarebbe strano il contrario, casomai. Dopo tutto quello che abbiamo passato, almeno posso dire di essere l’unico che conosce davvero Tasha Stark.”

“Stupido.” Aveva sorriso perché sapeva che quell’uomo aveva ragione. Non si era mai aperta con nessuno come con lui. Nemmeno Rhodes sapeva certe cose che aveva raccontato solo a Steve. E c’erano volte in cui odiava il fatto che fosse Steve quella persona speciale che sapeva tutto di lei, che era capace di leggerla come un libro aperto. La guardava e sapeva già cosa avesse per la testa. Anche quando avevano passato molto tempo separati.

“Andiamo, torneremo qui domani mattina, ok?” Odiava anche il suo tono di voce, che le parlava come se fosse un animale impaurito sul ciglio della strada. Le parlava con la voce calma e bassa, e odiava il fatto di trovarla così rassicurante. Steve era un leader, e questi erano i momenti in cui si rendeva perfettamente conto perché tutti lo adorassero e seguissero. 

Sarebbe stata la prima a gettarsi anche tra le fiamme dell’inferno per quell’uomo.

“E’ ovvio che tornerò qui domani mattina.” Si era alzata dalla sedia, guardando subito Happy. Vederlo così le faceva uno strano effetto davvero. Era sempre abituata a vederlo energico e rompiscatole. Aveva sempre qualcosa da obiettare a chiunque, e non sentire la sua voce era davvero frustrante. Come era frustrante non poter fare nulla per aiutarlo. I limiti del corpo umano la mettevano sempre in crisi. Se fosse stato un robot l’avrebbe riparato in un paio d’ore. Avrebbe saputo esattamente cosa toccare, cosa aggiungere o togliere o sostituire. Con qualsiasi cosa di meccanico per lei era semplicissimo, le veniva naturale. Con gli esseri umani non sapeva molto spesso nemmeno quali parole usare, figuriamoci il resto. 

La porta della stanza si era aperta ed erano entrati Pepper e Phil Coulson. Ormai era sicura che Coulson fosse il suo personalissimo agente S.H.I.E.L.D. perché mandavano sempre lui quando succedeva qualcosa. 

“Agente, dovresti stare a casa a riposare, sei appena rientrato al lavoro.”

“Potrei dire lo stesso a lei, Tasha.” L’uomo le aveva sorriso. Teneva una mano sulla schiena di Pepper, la quale era davvero troppo scossa. Lo si vedeva lontano un miglio che aveva anche pianto. “Dovrebbe tornare a casa anche lei e dormire un po’.”

“Perché siete tutti così ossessionati con le mie ore di sonno se non lo sono io per prima? Siete assurdi.” Non aveva smesso di guardare Pepper la quale era tutta concentrata su Happy. Doveva immaginare ci fosse qualcosa tra di loro. Era solo troppo concentrata su sé stessa, come al solito, per accorgersi di quello che le succedeva intorno. “Pep, vedrai che si riprenderà. Si tratta comunque di Happy.”

“Ha iniziato a comportarsi in modo strano dopo la visita di Killian Aldrich. Cosa gli ha detto?” 

“Per assurdo nulla. Penso fosse geloso perché ti stava facendo vedere il suo cervello.” Aveva sospirato e incrociato le braccia sul petto. Perché tutti pensavano sempre che c’entrava anche lei sempre ed in ogni cosa? Se avesse davvero avuto il potere di controllare le azioni delle persone sarebbe stato mitico, ma non poteva. “Vorrei capire anch’io perché fosse lì e cosa stesse cercando. Non è una zona della città di suo interesse normalmente.”

“Appunto. Per questo mi chiedevo se gli avesse detto qualcosa, perché so che vi sentite costantemente.”

“No, oggi mi ha fatto il solito rapporto che ti ha portata al lavoro e poi a casa sana e salva. Non ha aggiunto altro. Non sapevo nemmeno fosse uscito dopo il lavoro, altra cosa di cui di solito mi informa.” Aveva leggermente spostato lo sguardo da Pepper ai due uomini accanto alla porta. Coulson parlava con Steve, probabilmente lo stava aggiornando e lei aveva bisogno di informazioni. Voleva trovare una soluzione a tutto quello che stava succedendo. Finché il Mandarino era solo una spina nel fianco di CIA, FBI e S.H.I.E.L.D. non lo riteneva un problema suo. Aveva già troppa gente che gli stava alle calcagna. E lei aveva altre cose per la testa. Aveva smesso con i terroristi per un po’, si era detta tempo addietro, ma ora era una cosa personale. In questo era egoista, se una cosa la toccava in prima persona, allora era un problema suo.

“Tasha, andiamo?” Steve doveva essersi accorto che lo stava guardando. In qualche modo se ne accorgeva sempre. Nonostante tutti gli anni che si conoscevano, quella cosa riusciva sempre a stupirla. 

“Pepper, ti chiamo non appena scopro qualcosa. Sono sicura che dallo S.H.I.E.L.D. non scoprirò nulla, ma sai che per Happy farei di tutto.” Pepper aveva annuito, per subito dopo guardare l’uomo nel letto. 

Come si sarebbe sentita lei se ci fosse stato Steve su quel letto d’ospedale? Sarebbe rimasta seduta al suo capezzale oppure avrebbe smosso mari e monti immediatamente? Non aveva mai vissuto una situazione simile. Steve era sempre rientrato con al massimo qualche graffio dalle sue missioni. Non lo aveva, fortunatamente, mai visto stare male tanto da essere bloccato a letto. Sminuiva anzi anche quei pochi graffi con cui lo aveva visto. Le diceva sempre per tranquillizzarla che se era già a casa voleva dire che non era mai stato ferito e che se c’erano dei graffi sarebbero scomparsi subito. E scomparivano davvero velocemente. Non aveva mai avuto modo di sperimentare lo stare accanto alla persona che amava e questa era bloccata a letto. 

Steve invece era sempre rimasto accanto a lei. Dopo il salvataggio in Afghanistan. Dopo il combattimento contro l’Iron Monger. Dopo l’avvelenamento da palladio. Dopo il parto. Ad ogni ricovero in ospedale, Steve non si era mai allontanato da lei. Sedeva sulla sedia dopo averla posizionata accanto al letto, ed era capace di restare in assoluto silenzio anche per ore se ne era necessario. Si allontanava solo se costretto, sennò le restava attaccato tanto da risultare a volte quasi fastidioso. Fastidioso era soprattutto quando stava zitto e sembrava quasi preparare la paternale perfetta da farle. Perché le arrivavano prima o poi le sagge parole del suo vecchietto a cercare di risollevarla ma contemporaneamente a darle qualche insegnamento di vita. 

Aveva voltato leggermente la testa per guardarlo. Se ne stava accanto alla porta aspettando per portarla a casa e la stava guardando a sua volta. L’ultima volta che erano stati insieme in ospedale quasi non la ricordava. Quella volta era stata così annebbiata dal suo stesso dolore che non riusciva a mettere insieme dei ricordi nitidi. Ma sicuramente Steve le aveva tenuto la mano per tutto il tempo, anche mentre andavano alla macchina alla dimissione. Faceva così normalmente, la teneva come se avesse paura che potesse scomparire da un momento all’altro.

Erano due disastri ambulanti, ognuno con i propri problemi e traumi. Questo dovevano scrivere su di loro e sul merchandising che ne producevano. Non erano supereroi, non erano due esempi da seguire. Erano soltanto due persone segnate dalla vita come qualsiasi altro essere umano.

 

✭✮✭

 

Il buio la perseguitava in continuazione. Lo percepiva tutto attorno a sé e non riusciva a trovare una luce per potersi orientare. Aveva gli occhi aperti, ma non vedeva nulla.

Solo buio e gelo a perdita d’occhio. 

Doveva ormai esserci abituata. Erano mesi che come chiudeva gli occhi tutti i suoi incubi si manifestavano in modo fin troppo reale. Grotte. Ospedali. Lo spazio infinito. Era tutto nella sua testa. E voleva svegliarsi. Dio, se voleva svegliarsi. 

Urlava, ma non usciva nemmeno un suono. Cercava di divincolarsi dal buio che la imprigionava, ma ogni suo muscolo era congelato. Era un semplice spettatore che voleva solo fuggire, ma le era impedito.

Non poteva fare nulla. Non poteva scappare dalla grotta e salvare Yinsen. Non poteva uscire dall’ospedale felice con suo figlio tra le braccia. Non poteva sconfiggere in alcun modo le minacce dallo spazio.

Non poteva salvare i suoi amici. Non poteva salvare Steve Rogers.

Ogni suo incubo era sempre uguale. In ogni suo incubo perdeva lei. Non c’era alcuna speranza e nessun riposo quando chiudeva gli occhi. 

Voleva svegliarsi. Voleva che i suoi occhi fossero aperti anche nella realtà. Voleva che qualcuno sentisse le sue urla e la svegliasse. 

Voleva essere salvata anche lei da qualcuno.

Il rumore di qualcosa di metallico che sbatteva violentemente contro il muro o il pavimento le aveva fatto spalancare gli occhi di colpo. Aveva il cuore che pulsava con violenza e lo sentiva rumoroso nelle tempie. Aveva il fiato corto di chi avesse corso una lunga maratona e ogni muscolo del suo corpo era teso. 

Era abituata a risvegli bruschi causati dal suo stesso cervello che voleva salvarla da attacchi di panico notturni, ma questa volta era stato un rumore esterno a svegliarla di colpo.

Steve Rogers era in piedi accanto al letto con le braccia ancora alzate e la sua ultima armatura era a terra in pezzi sparpagliati. 

“Steve…” La sua voce era bassa e le ci era voluto qualche secondo di troppo per ricordarsi che quell’uomo aveva dormito nel suo letto, nel loro vecchio letto. Le ci era voluto qualche attimo per rendersi conto che non era un sogno ma la realtà.

“Questa cosa mi stava per attaccare.” Le dava ancora le spalle, guardando probabilmente l’armatura per essere sicuro che non si ricomponesse e lo attaccasse di nuovo. 

“Colpa mia. Credo di averla attivata nel sonno.” Si era messa seduta portandosi entrambe le mani sugli occhi. Cosa stava facendo? Quella armatura serviva per proteggere chi amava, non per attaccarli per proteggere lei. Avrebbe dovuto riprogrammarla immediatamente per evitare altri risvegli simili.

“Incubi?”

“Come sempre.” 

Steve si era allora rilassato e aveva abbassato le braccia. Si era lentamente voltato verso di lei, anche se era rimasto a distanza. La capiva sempre, anche quando lei non aveva ancora detto nulla, e questo non poteva essere normale. Non succedeva così tra le persone. Nessuno la aveva mai capita. Solo Steve Rogers la capiva davvero. 

“Spero di non averla rotta, ma a mia difesa posso solo dire che mi sono trovato l’armatura addosso e ho reagito prima di pensare.”

“Se è rotta la riparo, questo non è un problema.” Aveva sospirato e si era appoggiata alla testiera del letto. Non aveva tolto gli occhi dall’uomo che la guardava a sua volta. Era rimasto con lei tutto il tempo da quando erano tornati a casa. Avevano bevuto un drink insieme parlando di quello che era successo e cercando di mettere insieme più informazioni possibili tra quelle che avevano entrambi. E poi erano saliti in camera da letto. 

Gli aveva chiesto se poteva rimanere con lei e Steve aveva accettato senza aggiungere nulla. Aveva bisogno di sentire la presenza di qualcuno, di non sentirsi completamente abbandonata a sé stessa dal mondo intero. Sapere che I Dieci Anelli avevano ferito qualcuno a cui teneva la spaventava. Poteva essere casuale. Poteva essere un attacco mirato.

Non erano riusciti a farla fuori una volta, potevano cercare di ferirla nel peggior modo possibile. E lei non poteva permettersi di perdere altre persone importanti.

Steve si era seduto sul letto, lanciando ancora qualche occhiata ai pezzi dell’armatura sparsi sul pavimento. E poi aveva sospirato.

“Non c’è mai una notte di pace con te, Stark.” Si era voltato verso di lei e le aveva accarezzato una guancia.

“Gli incubi erano il motivo per cui ti ho chiesto di rimanere qui, l’armatura non era contemplata. Ma ottimi riflessi per un anziano, Rogers.” Lo aveva visto sorridere e questo l’aveva fatta rilassare almeno un po’. Si odiava, ma quando succedeva qualcosa di brutto vedere il viso di Steve Rogers la tranquillizzava. Tutto questo perché i suoi stupidi sentimenti per quell’uomo non erano mai cambiati in tutti quei anni, nonostante stessero lontani per periodi davvero lunghi. 

“Devo tenermi in forma per stare accanto ad una come te.”

“No, scegli bene le parole. Questo accostamento non mi piace proprio per nulla.” Stava per fare qualcosa di davvero stupido. Lo sapeva che lo stava per fare. Era la vicinanza di Steve, era il suo odore. Erano i suoi ormoni impazziti come quelli di una adolescente. Era l’ennesimo incubo da cui si era appena svegliata. Ma stava per fare qualcosa di davvero stupido di cui avrebbe pagato le conseguenze per settimane.

Si era sporta e lo aveva baciato. Semplice, le aveva detto il suo cervello, ti sporgi e appoggi le tue labbra sulle sue. Era un gesto che aveva fatto così tante volte in passato. Tutto era iniziato così, con un casto bacio sulle labbra dato in una pessima serata a casa dei suoi. Aveva sognato quel bacio tantissimo da ragazzina. E li sognava sempre quando era lontana da quell’uomo.

Steve aveva spostato la mano dalla sua guancia alla sua nuca e aveva approfondito il loro bacio. Come poteva essere sbagliato abbandonarsi in quel bacio? Perché tra loro doveva essere sempre tutto così difficile? A lei quel momento sembrava perfetto. Certo, la perfetta circostanza in cui poi avrebbe pianto quelle poche lacrime che le rimanevano in corpo, ma era tutto perfetto. O quasi.

“Scusami. Non so cosa mi sia preso. Volevo solo la tua presenza, non altro…” Si era staccata solo un po’, solo per riuscire a guardarlo illuminato dalla fioca luce che entrava dalla vetrata e dal suo reattore arc. Steve la guardava con intensità, come aveva fatto tantissime volte in passato. E quando l’aveva guardata così aveva sempre percepito quasi fisicamente tutti i sentimenti che provava per lei. 

“Lo so, non serve che ti scusi. E’ solo il pathos del momento.”

“No, e lo sai meglio di me.” Aveva sorriso e lo stesso aveva fatto Steve. Erano tutte scuse di due cretini che si erano lasciati scappare fin troppe occasioni. Lei non aveva avuto alcuna relazione funzionale al di fuori da quella con Steve, e Steve si era fatto mollare a causa sua. Erano davvero due cretini che non sapevano fare pace con sé stessi, col proprio orgoglio o con qualsiasi cosa fosse. 

“So solo che adesso sembri essere più calma e questa è la cosa più importante ora.” Le aveva passato una mano tra i capelli, stringendone qualche ciocca tra le dita. Era il pathos del momento, si era ripetuta solo per cercare di convincersi che ci fosse una motivazione irrazionale dietro al suo gesto. Ma mentiva a sé stessa. Mentiva sempre a sé stessa quando si trattava di Steve Rogers. Negare le cose sembrava che la aiutasse nell’immediato ad andare avanti. Ma era una bugia anche quella. Aveva costruito una torre di bugie per proteggersi e andare avanti come se nulla fosse. Anche se questa continuava a crollare e lei a ricostruirla costantemente. 

Steve non era importante. Senza Steve lei stava benissimo. Era una donna adulta che sapeva come andare avanti e superare i propri traumi. Era facile dire a voce alta queste parole, non le costava alcuna fatica. Anni di pratica a dire le cose che gli altri volevano sentirsi dire. Il problema si presentava quando era da sola. Quando nel silenzio della sua officina i fantasmi del passato le facevano visita. In quel momento tutte le sue bugie collassavano con tutto il loro peso su di lei.

Avere Steve accanto a lei mentre tutte le sue bugie crollavano poteva essere sia un bene che un male, perché non sapeva mai come sarebbe finita tra di loro. Sarebbe rimasto? Sarebbe andato via all’alba? Sarebbe stata lei quella che lo avrebbe mandato via? Gli avrebbe chiesto di rimanere? 

In una situazione come quella in cui si stava trovando, sarebbe stata in grado di essere una persona razionale o si sarebbe lasciata guidare dall’istinto? Anche se l’istinto non era mai stato proprio il suo forte, doveva ammetterlo. E in quel momento non sapeva nemmeno lei quale fosse la cosa giusta da fare. Avere Steve lì, in quel luogo, in quel momento, le sembrava la cosa più naturale del mondo, come se quello fosse il suo posto. Solo che era sbagliato il momento, davvero sbagliato. Quell’uomo aveva mandato a rotoli una relazione per lei e questo non le sembrava giusto perché Steve era sempre una bussola morale per lei e per tutti quanti. Sapere di essere la causa della sua deviazione dalla retta via le creava fastidio. 

Ma Dio se era felice di averlo così vicino in quel momento.

 

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Capitolo 5
*** Capitolo V ***


Svegliarsi tra le braccia di Steve Rogers aveva un che di dolceamaro. Era un momento così nostalgico che le riportava alla mente i ricordi di un periodo felice, un periodo in cui era davvero felice. E allo stesso tempo le ricordava che tutto era finito, scoppiato come una bolla di sapone non lasciando nulla dietro di sé. Colpa sua, colpa di Steve, colpa di entrambi e del destino che amava giocare con loro. 

In un mondo normale non avrebbero nemmeno dovuto mai incontrarsi. Steve sarebbe dovuto rimanere soltanto un eroe di guerra che li aveva salvati tutti sacrificandosi in mezzo ai ghiacci e lei sarebbe rimasta solamente la viziatissima figlia di Howard Stark morta da qualche parte in Afghanistan. Non avrebbero mai dovuto incontrarsi. Non avrebbero mai dovuto amarsi. 

Invece qualche strana potenza cosmica aveva voluto diversamente ed eccoli lì entrambi con i loro bagagli pieni di traumi per continuare a far danni uno con l’altro. Due persone normali non sarebbero tornate solo a causa di situazioni potenzialmente mortali. E con loro era sempre stato così. Steve era sempre comparso quando per lei le cose si mettevano male in qualche modo.

Fisicamente poteva anche salvarsi da sola, lo aveva dimostrato più volte, ma mentalmente la pace la raggiungeva quando sapeva di averlo vicino. 

“Devo andare in terapia.” Aveva mormorato a sé stessa chiusa nella propria officina. Era rientrata da poco a casa dopo essere stata in ospedale per vedere come stavano Happy e Pepper. Era stata davvero cieca, non si era nemmeno resa conto che tra i suoi amici c’era qualcosa e loro erano sempre stati davvero bravi a nasconderlo. Non sapeva nemmeno da quanto tempo stesse andando avanti la loro relazione. Ma a vedere Pepper così preoccupata doveva tenerci davvero molto. 

La donna le aveva richiesto, in modo anche piuttosto aggressivo, se c’entrava lei qualcosa con tutta quella storia. Se lo stavano chiedendo tutti, perché tutti sapevano chi avesse rivendicato il suo rapimento anni addietro. Ma non lo sapeva nemmeno lei se e in quale misura potesse c’entrare davvero. Nessuno aveva attaccato lei o le Stark Industries direttamente. Happy sembrava solo la vittima accidentale di quell’attacco, ma non poteva essere sicura nemmeno di questo. Non era mai sicura di nulla dopo tutto quello che aveva vissuto in quei ultimi anni. 

Il mondo era troppo cambiato. C’era stato un contatto con delle sedicenti divinità. C’erano stati esseri umani colpiti da raggi spaziali e quindi trasformati. Da qualche parte negli Stati Uniti c’era un uomo che raccoglieva attorno a sé ragazzi con particolari capacità. Gli alieni erano stati sulla Terra e avevano perso. Erano tutte cose che una volta avrebbe potuto vedere soltanto nei film, e ora era tutto troppo reale e surreale. 

“Signorina Stark, il capitano Rogers è al telefono con il colonnello Fury. Il suo piccolo stunt di fronte all’ospedale pare non sia piaciuto.”

Aveva alzato la testa per guardare il soffitto prima di chiudere gli occhi. Un giornalista l’aveva irritata parecchio. L’avevano attesa all’uscita dall’ospedale per porgere le domande più inutili del pianeta e la cosa la aveva messa di umore ancora peggiore di quello che già non aveva. 

Alieni. Perché quelli erano comunque un argomento sempre spinoso su cui nessuno si esprimeva. Non lei, non i piani alti. Gli altri Avengers erano poi tutti come scomparsi dalla faccia della Terra. Quindi chiediamolo a Natasha Stark ogni volta che la incrociamo per strada.

Il Mandarino. Perché sicuramente c’entrava qualcosa lei. Lo sapevano tutti chi l’aveva rapita in Afghanistan. Non sapeva come, ma le notizie finivano sempre per trappelare in qualche modo. Anche solo parzialmente, ma trapelavano.

Steve Rogers. Perché ovviamente li avevano visti assieme il giorno prima e quindi perché non fare illazioni su questa cosa. Tanto che fastidio poteva dare alla nostra Tasha che è avvezza a ogni tipo di pettegolezzo sulla sua vita privata. Una domanda in più non potrà di certo cambiare qualcosa.

Solo che quella mattina aveva cambiato tutto. Aveva perso le staffe con un povero coglione che le aveva posto le domande sbagliate al momento sbagliato. Chiederle di Steve era stata la cosa peggiore, perché in quel preciso momento non sapeva nemmeno lei cosa rispondere. Era frustrata da tutta quella situazione e dal non avere alcuna risposta in mano. La sua testa era piena di domande e dubbi. E questo tizio tutto sorridente le chiedeva in un momento simile, mentre stava uscendo da un ospedale in cui era ricoverato un uomo a cui teneva moltissimo, quale fosse la sua situazione sentimentale con Steve Rogers in quel momento. 

Non ci aveva visto, le era salito il sangue al cervello, e ancora prima di realizzare cosa stesse facendo aveva preso il piccolo registratore dalle sue mani e lo aveva lanciato contro il muro. Era stata fotografata e filmata per quel gesto. Le sue parole trascritte e trasmesse ovunque. 

“Cosa volete sapere? Se Steve Rogers è a casa mia adesso? Sì, lo è, ma per nessuno dei motivi per cui voi vorreste lo fosse. C’è un terrorista in giro e il vostro unico pensiero è se mi sto o meno scopando Capitan America? Patetici. Siete davvero patetici. Ho comunque un augurio di buone feste per tutti voi, soprattutto per il Mandarino. Sono Natasha Stark e non mi fai paura. So che sei un codardo perciò ti avverto che sei morto. Vengo a prendere il tuo cadavere. E nel caso tu non fossi un codardo ti lascio il mio indirizzo: 10880, Malibu Point, 90265.”

“Fury vuole che te ne vada immediatamente da questa casa. Hanno un elicottero che sta arrivando a prenderti.” Steve stava scendendo le scale con il telefono ancora in mano. Non aveva stranamente messo in lockdown l’officina, perché forse voleva avere uno scontro con lui. Era stata una mattinata pessima ed era proseguita in un pomeriggio pessimo. E forse quello che le ci voleva era sfogare tutta la sua rabbia e frustrazione su qualcuno.
“Sto lavorando, Steve. Non me ne vado da nessuna parte.” Stava osservando una proiezione olografica del piazzale del Chinese Theater. “La gente in questa cazzo di piazza è stata polverizzata all’istante da un calore che potrei quasi paragonare a quello del sole e non ci sono ordigni da nessuna parte. Guarda tu stesso. Osserva cosa ho scoperto qui.”

Con un gesto della mano aveva fatto scomparire la piazza ed erano apparsi degli articoli di giornale.

“Cosa sarebbe?”

“Un ragazzo nel Tennessee ha usato un ordigno per suicidarsi. Chi era con lui è stato polverizzato allo stesso modo. La temperatura sprigionata dall’esplosione ha raggiunto i 3000°. Stessa situazione, solo che è antecedente agli attentati del Mandarino e qualcosa non torna.”

“Hai di nuovo hackerato S.H.I.E.L.D. ed FBI?”

Si era coperta il viso con le mani per soffocare un gemito di frustrazione. Steve non capiva o non voleva capire. Non voleva capire la gravità della situazione e aveva continuato a ripeterle di lasciar perdere. Non la voleva coinvolta in alcun modo e cercava di sabotare ogni sua teoria in ogni modo possibile.

Era preoccupato. Era lì mosso da quel motivo e lei non aveva fatto altro che aumentare la sua preoccupazione con quella piccola sceneggiata di fronte all’ospedale. Aveva smosso mari e monti per ritrovarla quando era stata rapita, con molta probabilità non voleva ripetere l’esperienza.

“Ho hackerato nuovamente anche il Pentagono, se proprio vuoi tutta la verità al riguardo.” Aveva nuovamente fatto comparire il piazzale del Chinese Theater davanti ai loro occhi. “Guarda e ascoltami per una volta. Ci sono troppe cose che non tornano in tutto questo. Primo perché Happy fosse lì. Chi ha seguito?” Si era aggirata lentamente attorno agli ologrammi, cercando di capire ancora una volta le dinamiche. “Perché a terra non c’è nessuna traccia di una bomba. Osserva qui. Da qui è partita la deflagrazione a giudicare dai segni per terra. Tutto nelle immediate vicinanze è svanito. Come? Chi ha prodotto una simile potenza senza lasciare traccia? Alieni? Mutanti? Nemmeno le Stark Industries all’apice della produzione di armi sono state capaci di produrre una cosa simile. J, prepara un piano di volo per il Tennessee. Devo andarci il prima possibile.”

“Stai delirando, Tasha. Sei di nuovo fuori controllo. Hai dato il tuo indirizzo di casa al terrorista #1 del momento e io dovrei starti ad ascoltare?” L’uomo le si era avvicinato e si era sentita piccola sotto le sue parole. Stava davvero esagerando? A lei sembrava che nessuno stesse facendo abbastanza e doveva fare qualcosa. Happy era stato ferito, e la colpa era probabilmente sua.

“Happy è in ospedale per colpa mia e non so chi sarà il prossimo bersaglio. Devo quindi proteggere l’unica cosa senza la quale non potrei vivere. E resti sempre tu quella cosa!”

Steve si era zittito di colpo e l’aveva guardata intensamente negli occhi. Si era pentita subito dopo aver pronunciato quelle parole. Non dovevano esserci più coinvolgimenti sentimentali. Non faceva bene a nessuno dei due. Ma era così vero che lei non potesse vivere in un mondo senza Steve Rogers. Aveva visto come quella assenza aveva reso triste Peggy Carter, ed era sicura che per lei sarebbe stato ancora più devastante.

“Sono abbastanza forte, non credi? Sono sopravvissuto 50 anni nel ghiaccio artico.”

Natasha aveva abbassato lo sguardo, sentendosi quasi stupida per quello che aveva detto. Aveva ragione Steve. Era forte. Era molto forte e con un fisico unico al mondo.

“Sai che non sto parlando di questo.”

Una mano di Steve si era appoggiata sulla sua guancia e istintivamente aveva alzato lo sguardo per guardarlo ancora.

“Non mi piace quando ti vedo strafare a questo modo perché non finisce mai bene. Vorrei che tu lasciassi fare il loro lavoro allo S.H.I.E.L.D. e al Dipartimento della difesa.”

“Rhodes ha detto che stanno brancolando nel buio anche loro. Non sono ancora nemmeno riusciti a capire da dove manda esattamente i suoi videomessaggi. Questo psicopatico ha ucciso una persona in diretta tv.”

“Motivo in più perché tu te ne tenga alla larga questa volta. Non voglio setacciare nuovamente il deserto per trovarti.”

“Questa volta non sono più solo Natasha Stark. Sono Iron Woman proprio grazie a Obie che mi ha venduta ai terroristi.”

L’uomo aveva continuato a guardarla. Non gli aveva mai chiesto esattamente cosa fosse successo nei mesi in cui era stata prigioniera. Era un altro capitolo della sua vita che preferiva tenere chiuso a tenuta stagna da qualche parte del suo cervello. Di quei mesi di prigionia voleva solo continuare a ricordare l’elicottero sulla sabbia e le braccia di Steve. Nulla di più.

“Ho solo paura di perderti ancora una volta, tutto qui, Tasha.”

Non andartene mai più allora. Voleva dirglielo. Voleva quasi urlarglielo, ma non poteva. Non voleva rivivere tutto da capo per poi trovarsi distrutta ancora una volta. La presenza di Steve era solo momentanea. Era preoccupato, ma poi se ne sarebbe andato. Sarebbe tornato a Washington o a Brooklyn. E lei sarebbe rimasta a Malibu rinchiusa nella sua officina. Al massimo sarebbe andata a settimane alterne a Manhattan, giusto per farsi vedere alla Stark Tower. Quella situazione era solo provvisoria e si sarebbe conclusa non appena avessero trovato il Mandarino. 

Non avrebbe potuto riprendere una relazione con Steve Rogers, per quanto in realtà lo desiderasse. Lo avrebbe sempre guardato ricordando cosa avevano perso e come lei non era affatto riuscita ad andare avanti. 

“E questo?” Si era chinata quando con la coda dell’occhio aveva notato qualcosa e con le dita aveva ingrandito la sezione di ologramma sotto la mano di Happy. Era palesemente una dog tag quella che stringeva in mano. “J ripulisci l’immagine, per favore. Si legge qualcosa?”

“Jack Taggart, signorina. Un veterano dell’Esercito americano. Come lo era il ragazzo del suicidio a Rose Hill.”

Aveva alzato lo sguardo su Steve e la osservava con le sopracciglia corrugate. Stava pensando quello che aveva in mente anche lei. C’era qualcosa che non tornava.

“Devo telefonare a Fury. Tu telefona a Rhodes. Questa è un’informazione nuova che non avevamo.” Steve si era allontanato di un passo, prendendo subito il cellulare dalla tasca dei pantaloni.

“Almeno un grazie me lo merito! Grazie Tasha per essere così testarda e geniale, senza di te non riusciremo a fare proprio nulla!”

Ma Steve aveva fatto qualcosa che non si sarebbe mai aspettata. Qualcosa che l’aveva mandata in blocco e contemporaneamente elettrizzato tutto il suo corpo.

Si era avvicinato e chinato per darle un leggero, leggerissimo bacio sulle labbra.

“Grazie, Tasha.”

“Prego…” Gli aveva dato le spalle grattandosi la nuca. Era troppo. Avere lì Steve era davvero troppo. Era una mina vagante che la colpiva a tradimento. Ma era così piacevole. Si sentiva come un tossico che finalmente aveva la dose della sua droga preferita dopo un lungo periodo di astinenza. Era come riprendere fiato dopo aver tenuto la testa troppo sott’acqua. Era una sensazione così piacevole che si chiedeva come era riuscita ad andare avanti senza. 

Aveva sbagliato così tanto a chiudersi a riccio quando aveva perso il bambino, se ne era resa conto troppo tardi. Se avesse lasciato uscire tutto il proprio dolore e avesse permesso a Steve di condividerlo con lei, era sicura sarebbero guariti insieme. Così invece si era trascinata per tutto quel tempo da una relazione senza senso all’altra cercando di colmare il vuoto che aveva dentro. 

Le ci era voluto nuovamente Steve per darle una scossa dall’inerzia in cui stava sopravvivendo. New York le aveva dato nuovi input. Parlare finalmente con Steve le aveva dato altri punti di vista. Quei ultimi 6 mesi era tornata ad essere sé stessa davvero, nonostante li avesse passati quasi totalmente nella propria officina a costruire armature su armature. Ma del resto era così che lei funzionava al meglio. Era quello il suo habitat naturale.

“Torno subito.” Lo aveva sentito dire e poi le era giunto alle orecchie il rumore dei suoi passi sulle scale. Gli era stata d’aiuto. Questo la rendeva sempre orgogliosa di sé stessa. Lei era un civile, come all’infinito le aveva ripetuto ogni volta che si intrometteva in affari militari e top secret, ma era così dannatamente orgogliosa di sé stessa quando scopriva qualcosa. Quando faceva qualcosa per aiutarlo soprattutto.

“J, pensi che siano correlate queste due esplosioni?” Aveva osservato il piazzale, aprendo in contemporanea anche l’articolo su Rose Hill. Anche lì non c’era stata alcuna traccia dell’ordigno. Solo corpi polverizzati così velocemente da lasciare solo tracce di sé sul muro. 

“In questo potrebbe aiutarla solamente il colonnello Rhodes, signorina. Tutte le schede di ogni soldato in attività o meno sono nei loro archivi.”

“Chiamalo. Se non risponde lasciagli un messaggio e digli di richiamarmi.” Aveva guardato l’ora. Rhodes le aveva detto che sarebbe stato impegnato in quei giorni. Doveva fare bella figura al fianco del presidente con la sua bella armatura tinta di nuovo. Rhodes le aveva mandato la foto del restyling dell’armatura. Il suo bel War Machine era diventato Iron Patriot tinto di bianco, rosso e blu, e la cosa era disturbante da vedere a suo avviso. Tutto in nome di una vana propaganda di unità nazionale scoppiata dopo la battaglia di New York.

Aveva osservato ancora le dog tag che Happy aveva stretto in mano. Non era la prima volta che qualche veterano usciva di testa. Il PTSD era fin troppo spesso non trattato in alcun modo. Lei stessa ne era un perfetto esempio del resto. Quando era ritornata dall’Afghanistan aveva cercato di fare qualcosa, ma con scarsi risultati. Lo Stato lasciava fin troppo spesso allo sbando quei poveri uomini e donne che sacrificavano la propria sanità mentale per il bene superiore. Se non morivano sul campo, tornavano a casa perseguitati dagli incubi. Lei ne sapeva qualcosa, anche se lei aveva rifiutato qualsiasi aiuto, ma sapeva anche che molti non ricevevano alcun aiuto. Mutilati nel corpo e nella mente dovevano cavarsela con le proprie sole forze, ma questo diventava molto difficile. Lei aveva avuto Steve, Pepper, Rhodes. Aveva i suoi hobby costosi. Era anche riuscita a sfuggire alla piaga dell’alcolismo che spesso accompagnava i veterani. Beveva, ma con molta più moderazione rispetto a quello che aveva fatto nel periodo pre-Afghanistan. 

Era del resto una privilegiata. Era quel 1% della popolazione mondiale che aveva tutto e che avrebbe potuto avere tutte le cure di cui necessitava. Per qualsiasi problema sarebbe potuta andare nella più lussuosa clinica di disintossicazione. Per qualsiasi problema di salute sarebbe potuta andare in qualsiasi ospedale e farsi curare senza dover badare se avesse l’assicurazione o meno, o se coprisse quelle specifiche cure. Era nata nella ricchezza e certi problemi non se li era mai posti. 

L’unica cosa era che nessuno si azzardava a toccare il suo reattore arc. Nessuno si voleva assumere la responsabilità di un intervento così delicato, mai eseguito prima e che probabilmente nessuno avrebbe mai eseguito. Era l’unico caso al mondo con quel problema, e tale sarebbe rimasta. Anche se aveva contattato qualche luminare per farsi togliere le schegge dal petto. Voleva avere ancora una parvenza di normalità quando si spogliava e si guardava allo specchio, senza vedere ogni volta il reattore risplendere nel suo petto.

“Signorina Stark, c’è al cancello la signorina Maya Hansen che chiede di vederla.”

“Maya…?” Perché i fantasmi del suo passato tornavano sempre a trovarla? Tiberius Stone era sempre presente anche se lei ignorava la sua presenza la maggior parte delle volte. Killian Aldrich ogni tanto ricompariva chiedendo fusioni, collaborazioni, fondi, e così via. Sentir nominare Maya Hansen dopo tutti quei anni era stranissimo. Soprattutto perché solo un paio di giorni prima le era tornata in mente e l’aveva cercata su Google. “Se è da sola falla entrare.” 

Aveva osservato ancora una volta l’ologramma del piazzale prima di farlo scomparire. Ci sarebbe ritornata dopo e avrebbe continuato a sezionare ogni centimetro alla ricerca di indizi intanto che aspettava qualche risposta da parte di Rhodes o dallo S.H.I.E.L.D..

Lentamente aveva fatto le scale. Non aveva alcuna fretta di vedere Maya. Cosa potevi dire del resto ad una persona che non vedevi da anni e che ricompariva così dal nulla senza alcun apparente motivo? Avrebbe dovuto accoglierla con l’armatura addosso, giusto per essere sicuri e non correre rischi? Non avrebbe nemmeno dovuto farla entrare perché era tutto così sospetto? Era solo paranoica per nulla? 

La porta d’ingresso si era aperta per far entrare una donna con lunghi capelli sciolti sulle spalle. Sembrava aver fatto di corsa il tragitto dal parcheggio all’ingresso di casa. 

“E’ da un po’ che non ci si vede.”

“Già, da Berna.” La donna le aveva risposto con un sorriso tirato, restando ferma sull’ingresso. “E non sarei qui se non fosse una questione di vita o di morte.”

Lo sapeva. Doveva immaginarlo che non c’era nulla di buono in quella visita. Forse avrebbe davvero dovuto accoglierla con l’armatura addosso per essere pronta a qualsiasi cosa. 

“Tasha, con chi stai parlando?” Steve era rientrato in casa dal balcone, con il telefono ancora in mano, e ora non sapeva come spiegargli la situazione. Anche perché non la stava capendo nemmeno lei.

“Maya Hansen. Una botanica conosciuta qualche anno fa.”

“Biologa genetista.” L’aveva corretta la donna. Lo sapeva quale fosse la specializzazione di Maya Hansen. Ma era più divertente non dare reali definizioni.

“Una vecchia fiamma?” Steve aveva inarcato un sopracciglio mentre si avvicinava. L’aveva guardata e lei non sapeva davvero cosa rispondergli seriamente.

Era un momento imbarazzante. Non aveva mai affrontato con Steve l’argomento sulla sua sessualità. Non gli aveva mai confermato o smentito tutte le voci che la volevano in flirt con uomini e donne indistintamente. Per lei non faceva alcuna differenza, ma non aveva mai affrontato davvero quel discorso con Steve. Steve era di un’altra epoca. Una in cui se non eri super etero finivi male. Suo padre era un chiaro esempio degli anni in cui era nato e cresciuto, per quel motivo non aveva mai parlato con Steve di alcune cose. 

“Non credo di potermi definire tale.” Maya aveva sorriso a Steve e l’uomo l’aveva guardata. “Più una storia da un weekend e basta.”

“Solito modus operandi di Tasha, giusto? Mastica e sputa, come dicevano le riviste di gossip anni fa.”

“Voglio essere inghiottita dalla terra adesso.” Aveva alzato gli occhi al cielo e poi aveva guardato Steve. “Non farmi ste scenate di pseudo gelosia adesso. Non stavamo insieme all’epoca, non stiamo insieme adesso. E avere storie di una notte è più facile che coltivarne una seriamente. Nessuna offesa, Maya, non è nulla di personale.”

“Nessuna offesa. Credo che non saremo mai potute funzionare come coppia in ogni caso.”

“Nulla di nuovo sotto il sole, quello che dicono tutti.”

Steve aveva sorriso alle sue parole. Gliele aveva dette anche lui una volta e stava davvero pensando a quanto avrebbe dovuto nascondersi in qualche luogo sperduto e costruire da lì le sue armature e i progetti per la Stark Industries, evitando qualsiasi contatto umano.

“Signorina Hansen, non vorrei essere sgarbato, ma stanno venendo a prenderci.”

“Io non vado da nessuna parte. Ho un lavoro da finire. Non voglio essere volgare, ma sai cosa può fare Fury.” Natasha lo aveva guardato, incrociando le braccia al petto. Era sicuro che se Steve avesse telefonato a Fury questi avrebbe mandato qualcuno a prenderli e portarli in qualche sede S.H.I.E.L.D. o safe house.

“Il lavoro lo puoi finire ovunque, ma che tu voglia o no sull’elicottero che sta arrivando ti ci infilo con le buone o le cattive.”

“Despota.”

“Mi dispiace interrompere questa simpatica scenetta, ma sono qui proprio per questo. Ho motivo di credere che il mio capo lavori per il Mandarino.”

Si erano entrambi voltati verso Maya Hansen i cui occhi passavano prima ad uno poi all’altra. Steve aveva mosso un passo verso di lei, in full Capitan America mode, e Natasha aveva istintivamente allungato un braccio per fermarlo. Spaventarla e farla scappare non era un’opzione che potevano permettersi in quel momento. 

“E il tuo capo sarebbe?” Natasha l’aveva guardata negli occhi. Doveva avere un brutto presentimento? Perché era venuta proprio da lei invece di andare alla polizia o all’FBI o dove preferisse? 

“Killian Aldrich.” A quel nome Natasha aveva subito guardato Steve. Era una cosa personale. Oltre a lei poteva colpire Pepper, anche se fortunatamente era con una scorta dello S.H.I.E.L.D. in quel momento. “Ho iniziato a lavorare per lui subito dopo Berna. Vedeva del potenziale nel mio Extremis.”

“L’Extremis era instabile. Ho il ricordo di un ficus che esplodeva dopo essere ricresciuto a ritmi innaturali.” Li aveva realizzato. Non del tutto, ma una strana idea si stava facendo largo nel suo cervello. Stava mettendo insieme più informazioni del dovuto, si mescolavano con quelle che aveva già. Aveva Killian Aldrich usato l’Extremis sull’essere umano? Su sé stesso? Era quello il motivo per cui il suo aspetto si era trasformato in modo così importante? “L’ha trasformato in un’arma? Non volevi usarlo per la medicina?”

“L’idea era quella, ma nessuno mi dava i fondi.” La donna aveva risposto con una alzata di spalle. I fondi per le ricerche erano sempre un problema, lo sapeva benissimo visto quante persone avevano bussato alla porta delle Stark Industries per lo stesso motivo. 

“J.A.R.V.I.S., chiama ancora una volta Rhodes. Ho bisogno di quei file sui veterani subito.” Steve le aveva messo una mano sulla spalla e si era voltata verso di lui. Non sapeva cosa aspettarsi da quel momento in poi. 

“Ce ne andiamo da qui. L’elicottero di Fury sta arrivando e andiamo in un posto sicuro.”

“Potrei quasi darti ragione, ma non voglio andarmene da qui.”

“Hai dato il tuo indirizzo di casa al terrorista del momento e uno che conosci lavora per lui. Direi che ce ne andiamo eccome da qui. Non voglio venire a cercarti chissà dove o peggio.”

Stava per rispondere, quando Maya Hansen aveva preso la parola.

“Sono d’accordo sull’andarsene. Anche perché quella mi sembra casa tua, no?” Aveva indicato il televisore accesso su cui effettivamente stavano inquadrando casa sua presa di mira da un paio di elicotteri che sembravano quasi militari.

“Non sono quelli dello S.H.I.E.L.D..” 

Erano state le ultime parole che aveva sentito pronunciare da Steve prima che qualcosa colpisse la casa. Erano sotto attacco. Non sapeva nemmeno quale tipo di missile fosse appena stato usato contro la sua casa, ma sapeva che un secondo colpo avrebbe distrutto la struttura. La crepa sul pavimento era un chiaro segno che la casa non avrebbe retto.

Il secondo missile non aveva tardato ad arrivare e lei era stata divisa da Steve. 

La sua armatura non aveva tardato ad arrivare e avvolgersi attorno al corpo di Steve, modellandosi sulle sue forme. Aveva funzionato. Non aveva ancora fatto una prova, non sapeva nemmeno come dire a Steve che lavorava su qualcosa per proteggerlo letteralmente. Era stato protetto dal soffitto che gli stava per cadere addosso. Non era esattamente quello il pericolo su cui stava lavorando, ma il senso c’era.

“Dopo parliamo di questa cosa.” 

“Puoi dire di essere un cavaliere con una scintillante armatura ora.”

“Lascia le battute stupide per dopo.” Steve si era avvicinato a quello che una volta era il suo bel balcone e aveva mirato contro uno degli elicotteri come le aveva visto fare più volte. Il piccolo missile aveva abbandonato l’armatura per centrare il suo bersaglio. Solo che aveva fatto peggio di quello che credeva.

L’elicottero stava per schiantarsi contro quello che rimaneva della casa. Aveva solo una frazione di secondo per reagire. Solo un battito di ciglia per portare Steve il più lontano possibile dalla traiettoria dell’elicottero.

“J., porta Steve subito fuori casa, e poi torna da me.”

La sua intelligenza artificiale aveva obbedito immediatamente. Aveva visto l’armatura rossa e oro sfrecciare davanti ai suoi occhi. E poi l’impatto.

 

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Capitolo 6
*** Capitolo VI ***


Aveva aperto gli occhi e se J.A.R.V.I.S. non avesse parlato immediatamente le sarebbe venuto un attacco di panico in piena regola. Era ferma, immobile dentro l’armatura e attorno a sé non sentiva alcun rumore. 

Non sapeva nemmeno dove si trovasse. L’ultimo ricordo che aveva era l’armatura che portava Steve al sicuro, o almeno lo sperava, e poi un tuffo nell’oceano che non aveva preventivato in alcun modo. Non sapeva quando e come l’armatura fosse corsa da lei. Non sapeva dove fosse. Non sapeva dove fosse Steve. E cosa fosse successo a Maya Hansen.

Non capiva nemmeno perché Maya Hansen fosse venuta a casa sua. Che aiuto poteva darle lei contro Killian Aldrich? Perché era Iron Woman? Perché era una esperta di armi? 

“Signorina Stark, faccia un respiro profondo. Il suo battito cardiaco sta accelerando.”

“Dove siamo, J? Riportami a casa.”

“Siamo vicino a Rose Hill, Tennessee. Era l’ultimo piano di volo in memoria. Purtroppo non sono riuscito a portarla più vicino di così.”

Natasha aveva sospirato. Voleva partire per cercare informazioni prima che l’inferno si abbattesse sulla sua casa. La sua casa. Che ormai non esisteva più. 

“Non mi interessa più stare qui. Riportami a casa. Riportami da Steve.”

“Mi dispiace, signorina. L’armatura non ha più energia. I sistemi si spegneranno entro breve. Le consiglio di uscire da qui prima che si blocchi tutto completamente.”

“Che significa che si blocca tutto?” L’armatura si era aperta per permetterle di uscire dalla sicurezza che le dava quell’involucro. “Sono in mezzo al nulla qui. Dove diavolo siamo? Perché fa così freddo? J?”

“Sono veramente desolato, signorina Stark.” La voce artificiale di J.A.R.V.I.S. aveva iniziato a trascinarsi, proprio come se si stesse scaricando del tutto. Questo l’avrebbe mandata di nuovo nel panico. Era ormai una crisi di panico dietro l’altra. Non era normale e non era salutare. “Temo di avere bisogno di riposo.”

Gli occhi luminosi dell’armatura si erano spenti. Era adesso completamente da sola nel bel mezzo di una foresta innevata, e vestita in modo tale da morire assiderata in pochissimo tempo. E nessuno sapeva dove fosse. Nessuno sarebbe venuto a cercarla lì.

Non aveva parlato a nessuno del piano di partire per Rose Hill. Solo a Steve. Gli aveva accennato delle scoperte che aveva fatto, e che aveva intenzione di partire, ma l’uomo si era subito opposto. E di certo non poteva pensare che l’ultimo piano di volo potesse davvero essere Rose Hill. 

“Pensa, Tasha, pensa.” Si era battuta un pugno sulla fronte. Doveva fare qualcosa velocemente. Era vestita davvero in modo troppo leggero. Le temperature notturne in Tennessee in quel periodo dell’anno potevano scendere a -10° gradi e la sua t-shirt poteva fare ben poco. 

Era di nuovo l’Afghanistan. Era di nuovo da sola in mezzo al nulla, vestita in modo non adatto alla situazione e con sempre gli stessi terroristi a cercarla. Di nuovo volevano qualcosa da lei e lei non gliel’avrebbe data. 

Già una volta era stata catturata e imprigionata dai Dieci Anelli. L’avevano torturata in ogni modo possibile e non avevano ottenuto quello che volevano. Avevano anzi ottenuto l’esatto contrario. Li aveva sconfitti da prigioniera. Cosa gli faceva credere che questa volta avrebbe ceduto? Volevano usare le persone che amava per far leva sulla sua volontà?

Avevano catturato Steve?

Erano riusciti a mettere le mani su Capitan America in qualche modo? Era impossibile, si era detta. Era un super soldato. Come avrebbero potuto catturarlo? Era arrivato lo S.H.I.E.L.D. a portarlo al sicuro? C’era ancora Maya Hansen con lui?

Doveva mettersi in qualche modo in contatto con lui, ma non aveva nemmeno il proprio cellulare con sé. Non aveva nulla se non ciò che indossava. E un’armatura da 70 chili da trascinarsi dietro, non avendo poi nulla con cui legarla per aiutarsi nell’impresa. 

Era una situazione così tragica che voleva ridere dalla disperazione.

Dispersa nel nulla eterno, ancora una volta, senza possibilità di avvertire chi la stava cercando. Se la stavano cercando. Potevano tranquillamente crederla ancora una volta morta e non venire a cercarla. Il mare avrebbe restituito il suo cadavere un giorno e ci avrebbero pensato allora, no?

Solo che c’era Steve. Aveva smosso mari e monti già una volta per trovarla. Aveva setacciato il deserto da cima a fondo per mesi. La stava sicuramente cercando anche stavolta. Stavano pur sempre parlando di Steve Rogers. Nonostante tutto non l’avrebbe mai abbandonata al proprio destino. Era venuto da lei proprio perché era preoccupato da quella situazione. I Dieci Anelli gli avevano fatto drizzare le orecchie ed era accorso per accertarsi che tutto fosse a posto.

“Devi muoverti, Tasha. Altrimenti diventi un ghiacciolo qui, ma non hai alcun siero del super soldato in te.” Aveva fatto un profondo respiro e si era chinata per agguantare l’armatura sotto le ascelle. Se la sarebbe trascinata nella neve fino al primo rifugio che avesse trovato per strada. Muovendosi almeno avrebbe evitato di morire di freddo, anche se era fin troppo pungente. Aveva anche i piedi già bagnati perché le sue scarpe da ginnastica di certo non potevano sperare di tenere fuori la neve. 

Lei viveva in California, non aveva mai visto la neve lì. Si preparava a festeggiare Capodanno con un abito che di invernale non aveva assolutamente nulla. Non sapeva nemmeno se avesse davvero qualche vestito che potesse chiamare invernale nel proprio armadio da quando viveva a Malibu.

Mentalmente si era messa a catalogare i vestiti e le scarpe che ricordava di avere. Era sicura di aver dimenticato qualcosa nella sua lista, sicuramente aveva molti abiti con ancora l’etichetta attaccata e che non avrebbe mai messo. Ma intanto cercava di catalogare il tutto per tipo e colore. Tutto pur di tenere il cervello impegnato e continuare a camminare.

Era da sola. Dispersa nel nulla del Tennessee, in balia del tempo e degli animali selvatici. Non aveva nemmeno nulla di serio con cui difendersi se qualcosa l’avesse attaccata. Poteva al massimo tirare qualche calcio e pugno, come Steve le aveva insegnato tempo addietro. Ma nulla di troppo serio con cui difendersi veramente. Gli allenamenti di Steve servivano più per tenerla in forma che altro. E doveva ammettere che prima o poi avrebbe dovuto riprendere, ma la mancanza di voglia era molta. Non era mai stata una persona molto sportiva. Faceva sempre il minimo indispensabile. Lo sport lo guardava al massimo in televisione, ma da quando Steve non c’era non aveva più guardato nulla. Non c’era nessuno che monopolizzava il televisore con baseball e football.

Doveva tristemente ammettere che la casa era molto silenziosa da quando aveva ripreso a vivere da sola. Si era abituata troppo velocemente alla convivenza con Steve in passato. Era stato naturale. Non aveva dovuto cambiare nulla delle proprie abitudini. O quasi nulla. Certe cose erano cambiate da sole con l’uomo in casa. 

“Ma perché sono così fissata? Ha ragione Bruce quando mi dice di andare seriamente in terapia.” Aveva mormorato a sé stessa. Aveva la schiena a pezzi. Sembrava che non si fosse mossa da dove era atterrata con l’armatura. Solo neve e alberi aveva attorno, e non sapeva nemmeno se si stesse muovendo nella direzione giusta o se si stesse solo perdendo in una foresta.

Poteva già immaginare i titoli dei giornali in futuro. “Trovato cadavere congelato nei boschi del Tennessee”. “Tasha Stark cerca di emulare Steve Rogers ghiacciandosi in battaglia o perdendosi semplicemente?”. 

Se fosse morta lì nessuno l’avrebbe trovata per molto tempo. Sarebbe diventata il pasto di qualche animale selvatico. Avrebbero ritrovato solo un’armatura malandata e il suo reattore arc, nel più roseo dei casi. Forse doveva dare retta a tutti quelli che le dicevano che non doveva intromettersi. Che doveva lasciare ad altri il compito di fare ricerche.

Ma era più forte di lei. Ormai era entrato nel suo dna cercare di trovare una soluzione, semplicemente perché non poteva accettare che le persone che amava venissero ferite. Era egoista, assolutamente. Era mossa da istinti puramente personali. Non sapeva nemmeno se nel Tennessee avrebbe davvero trovato qualcosa. Era un’idea, ma tutto lì. Poteva trovare tutto o poteva tornarsene a casa con un pugno di mosche. 

Steve come stava? Dov’era? Questi erano i pensieri che continuavano però a tornarle in mente. Non riusciva a pensare lucidamente perché era preoccupata per l’uomo. Pensiero probabilmente stupido ed inutile essere preoccupati per uno che era soppravissuto 50 anni nel ghiaccio artico, ma era il suo sesto senso. Il suo istinto le diceva che qualcosa non andava. Qualcosa stonava in tutta quella storia. Solo non riusciva esattamente a capire cosa.

Come poteva esserci Killian Aldrich dietro gli attacchi del Mandarino? Cosa aveva creato che potesse essere così appetibile per un terrorista? E Maya Hansen che ruolo aveva in tutto questo? 

E aveva lasciato Steve completamente da solo. Era sciocco preoccuparsi trattandosi del primo e unico supersoldato della storia, ma anche Steve aveva fatto passi falsi in passato ed era stato catturato dal nemico durante qualche missione. Per poi liberarsi da ovviamente da solo e raccontarglielo quasi divertito, ma era successo. E lei ora non sapeva con chi lo avesse lasciato davvero. Non sapeva cosa sarebbe successo in seguito. Non si aspettava nemmeno un attacco simile alla sua casa.

Se ne fosse uscita viva in qualche modo era certa che Steve, Pepper, Rhodes, chiunque le avrebbe fatto la predica sulla incoscienza delle sue azioni. Decisamente nulla di nuovo. E in quel preciso momento avrebbe pagato per sentire le voci lamentose e arrabbiate dei suoi amici. In quel momento li avrebbe lasciati parlare anche fino alla sfinimento e non avrebbe in alcun modo contestato le loro parole. Avrebbero avuto ragione su tutti i fronti. Sapevano tutti che lei non era brava nei momenti di crisi. Le emozioni troppo intense le davano alla testa e non sapeva cosa fosse giusto o sbagliato. Dare il proprio indirizzo al Mandarino o a chi per lui? Sbagliatissimo. Ma come poteva spiegarlo che era tutto perché Happy Hogan era in ospedale a causa sua? 

Lei non funzionava in modo corretto. Non lo aveva forse mai fatto con le proprie emozioni. Non avrebbe di certo iniziato in quel momento.

Aveva sospirato mentre arrancava nella neve trascinandosi dietro l’armatura. Non sapeva davvero quanto ancora sarebbe riuscita a camminare così. Faceva freddo. L’armatura era pesante. E iniziava ad essere stanca. Era stanca da molto tempo ormai. Forse troppo, ma era tutto davvero amplificato. 

La stanchezza fisica e mentale l’avrebbero portata alla morte in quel posto dimenticato da Dio e dagli uomini. La prossima volta non avrebbe lavorato solo agli upgrade delle armature, si sarebbe fatta impiantare un cellulare sottocutaneo in modo da essere sempre rintracciabile e in modo da poter chiamare lei in caso di bisogno, proprio come in quel momento. Come aveva fatto a non pensarci prima? Aveva già vissuto un’esperienza analoga, come non le era mai balenata in mente una soluzione simile? Era stata rapita, era stata in mano ai suoi aguzzini per mesi, e mai una volta aveva pensato ad un impianto di localizzazione per sé stessa. Pensava a tutte le cose più stupide del mondo e molte le aveva costruite, ma non a qualcosa che per lei sarebbe stato davvero utile. Il gps era dentro l’armatura e funzionava solo se questa era accesa. Ma non aveva mai pensato di costruirsi un semplice orologio così o di mettere qualcosa nell’armatura che la rendesse sempre raggiungibile. 

Le cose veramente utili le venivano sempre in mente troppo tardi. Ma dopo questa spiacevole esperienza doveva mettersi un post it mentale che se se la fosse cavata si sarebbe rinchiusa in officina finché non usciva con una idea decente e concreta in mano. 

Non sapeva nemmeno quanto avesse davvero camminato quando finalmente era uscita dalla foresta e aveva visto una strada. Questo voleva dire che era sulla giusta via per il mondo civilizzato, anche se non sapeva esattamente verso dove. Ma era qualcosa di molto positivo. Doveva però spostarsi da un posto così visibile. Sicuro la credevano tutti morta, di nuovo, e per un po’ sarebbe andata bene così. Ma doveva avvertire Steve. Doveva trovare un modo per arrivare in contatto con Steve e dirgli che era viva. L'aveva vista cadere in acqua e con molta probabilità la credeva ancora la sotto. Doveva raggiungere un posto civilizzato e mandargli un messaggio in qualche modo.

Aveva mosso ancora qualche passo nella neve con la speranza che quella strada l’avrebbe portata da qualche parte, era l’unica cosa che le rimaneva in quel momento. Essere mossa dalla speranza era così ridicolo, ma che altro poteva fare?

“Sei Tasha Stark. Sei Tasha Stark. Sei fatta di ferro. Oddio, no, il ferro non funziona bene nel ghiaccio. Neppure nel fuoco in realtà. Morirò qui sul ciglio della strada come un animale selvatico colpito da una macchina.” Parlare a voce alta la aiutava sempre, anche se erano solo dei vaneggiamenti senza alcun senso. Il silenzio era qualcosa che non aveva mai sopportato. Sentiva solo il rumore dei suoi passi e dell’armatura trascinata sulla neve, ed era un rumore troppo ovattato perché potesse darle sollievo in qualche modo. 

“Qualche passo ancora. Dai che troverai un posto dove passare la notte e stare al caldo. Magari trovi anche un telefono e dai un colpo di telefono a Steve o a Fury e avverti qualcuno dove sei così ti vengono a prendere. Il massimo sarebbe trovare anche un panino e una birra, ma questo è chiedere proprio troppo.” 

Era così simile alla sua passeggiata di salute nel deserto sotto il sole. Aveva fame, sete e caldo quella volta, per poi gelare di notte. Questa volta invece gelava direttamente senza passare per il caldo, ma la stanchezza era sempre la stessa. Mentale e fisica. 

Se Steve non fosse ricomparso nella sua vita con molta probabilità non avrebbe nemmeno voluto combattere per tornare a casa. Si stava trascinando e basta da anni e non aveva una reale voglia di vivere. Era una stupida e patetica donna che aveva trovato un guizzo di vita in un uomo che era tornato solo perché era stato piantato dalla donna con cui l’aveva sostituita. Solita situazione patetica alla Tasha Stark dalla quale non sapeva come togliersi, ma che alla fine avrebbe in qualche modo risolto. O almeno lo sperava questa volta. 

Aveva camminato ancora per quello che era sembrato un tempo infinito quando finalmente aveva visto quella che sembrava una casa con un vecchio fienile. Avrebbe potuto ripararsi lì per la notte e il mattino dopo avrebbe potuto cercare una soluzione. Poteva chiedere magari aiuto. Non sarebbe stato in linea con il suo personaggio, ma per una volta poteva bussare alla porta di qualcuno e chiedere di fare una telefonata. Ma per prima cosa doveva nascondere assolutamente l’armatura da qualche parte. 

Sapeva che non poteva facilmente passare inosservata, ma almeno poteva nascondere l’oggetto che l’aveva resa ancora più famosa in tutto il mondo. Mentre la teneva nascosta, poteva magari anche cercare una presa elettrica e tentare di caricare almeno un minimo l’armatura. Avrebbe dovuto anche cercare un metodo per perfezionare questo: non era possibile che si scaricassero così velocemente. Certo, non si ricordava l’ultima volta che l’aveva seriamente messa in carica, ma doveva trovare un metodo di autoricarica per le armature. Tenerle sotto costante carica del reattore arc sarebbe stata una ottima idea e l’avrebbe messa in pratica non appena fosse tornata in una qualsiasi delle sue officine.

Con un calcio aveva rotto un lucchetto arrugginito, come le aveva insegnato Steve una volta, che teneva chiuso il portone di legno e senza troppi pensieri era entrata. Non le importava cosa poteva celarvisi dentro, aveva solo bisogno di nascondersi in un posto riparato per non morire assiderata da qualche parte. 

A tentoni aveva cercato un interruttore della luce e lo aveva stranamente trovato. La lampadina accesa aveva illuminato uno spazio che sembrava la sua officina. Molto più rudimentale e palesemente opera di un bambino, ma aveva visto un tavolo pieno di attrezzi e potenziali invenzioni. Con un pizzico di fortuna poteva trovare qualche arnese per rimettere a posto i danni dell’armatura. Non ci sperava tantissimo, ma era pur sempre un inizio di qualche tipo. 

Aveva fatto un ultimo sforzo trascinando l’armatura fino ad un vecchio divano logoro, lasciandosi cadere accanto ad essa stremata. Tutta l'adrenalina che aveva avuto in corpo fino a quel momento si stava pian piano riassorbendo e il suo corpo era stanco. Aveva trovato una coperta altrettanto logora e se l’era avvolta addosso. Qualche anno addietro non avrebbe probabilmente mai fatto una cosa del genere. Una coperta logora sarebbe rimasta in un angolo a marcire perché dall’alto del suo piedistallo non si sarebbe mai abbassata ad usare una cosa simile. Ma le persone cambiano. Dio se possono cambiare.

“Chi sei?” 

Un piccolo essere umano armato di uno sparapatate era comparso sulla porta del fienile interrompendo il suo attimo di relax. Come si parlava con i piccoli umani? Cosa poteva dire in quella situazione? 

“Un meccanico che ha bisogno di una officina.” 

“Perché hai quella?” Il ragazzino aveva puntato l’arma rudimentale verso l’armatura, e lei non voleva davvero rispondergli. Era una domanda così ovvia che la risposta sarebbe stata ancora più ovvia. 

“Non puntarle addosso quel lanciapatate. Ne ha vissute troppe oggi e non riuscirebbe a difendersi. Perché hai un lanciapatate? Non siamo il tuo bullo scolastico personale.” 

Aveva osservato il ragazzino puntare l’arma verso di lei e avrebbe tanto voluto lanciargli qualcosa contro. Aveva invece alzato le mani in alto, come se fosse una sorta di riflesso incondizionato.

“Perché sei viva?”

Aveva inarcato un sopracciglio a quella domanda, guardandolo curiosa.

“E’ uscita un’edizione straordinaria del quotidiano. Sei morta a Malibu e non sono riusciti a recuperare il corpo. Quindi sei morta.” 

Si era portata le mani al viso soffocando un gemito di frustrazione. Credendola morta poteva agire nell’ombra e cercare di fare qualcosa. Ma credendola morta Steve sarebbe stato come un cane pazzo senza guinzaglio. Avrebbe dovuto cercare di contattarlo e fargli sapere che era viva. Non dirgli dove fosse, ma solo dirgli che era viva e vegeta. 

“Ragazzino, hai un cellulare?”

“Mi chiamo Harley.”

“Non te l’ho chiesto, ho chiesto un cellulare.” 

“Devi chiamare Capitan America? Siete tornati insieme? Perché vi siete lasciati? Siete tornati insieme a New York? Vi sposerete?”

“Ommioddio, ma prendi mai fiato?” Si era alzata dal divano, stringendosi ancora addosso la coperta. “Devo lasciare un messaggio a Steve, questa è l’unica cosa che devi sapere. Almeno lui deve sapere che sono viva sennò gli parte un embolo grosso come tutto il Tennessee. Per questo mi serve un telefono, bambino.”

“Mi chiamo Harley.”

“Sai che non lo memorizzerò. Dai, muoviti. Portami anche un caffè.”

Aveva guardato il ragazzino sorriderle prima di uscire dal granaio. Non era andata male come primo contatto con un piccolo essere umano. Di solito andava molto peggio quando incontrava dei bambini. Diventavano tutti matti, volevano toccare l’armatura, volevano vederla volare, sparare, qualsiasi cosa. Questo ragazzino le chiedeva di Steve Rogers. Questa cosa poteva essere quasi positiva, almeno non le stava chiedendo di New York e del suo viaggetto spaziale.

Si era guardata nuovamente attorno cercando con lo sguardo qualcosa che potesse aiutarla a rimettere in sesto l’armatura. Avrebbe anche dovuto metterla in carica per poterla far funzionare. E doveva ripararla. Doveva fare così tante cose e non sapeva da che parte iniziare. 

Steve. Telefonare a Steve era in cima alla lista per quanto stupido potesse sembrare in quella situazione, ma doveva telefonargli. Non sapeva nemmeno se le avrebbe risposto. Non aveva idea se avesse il cellulare addosso, se fosse rimasto schiacciato dai detriti della casa, se fosse finito in acqua. Non sapeva nulla e questo la uccideva. E odiava il fatto che Steve fosse ripiombato nella sua vita. Senza di lui nell’equazione non avrebbe dovuto fasciarsi la testa anche sulla sua sorte, invece era una donnetta qualsiasi preoccupata per il soldato in guerra. 

Era più preoccupata per Steve che cercare di capire chi fosse davvero il Mandarino, se lo fosse davvero Killian Aldrich, se ci fosse lui in combutta con Stane per il suo rapimento in Afghanistan. Avrebbe dovuto cercare delle risposte a tutto quello, ma alla fine tutto ruotava sempre attorno a Steve come quando era una ragazzina affascinata da un eroe d’altri tempi.

“Ti ho portato anche dei vestiti, così rischi di congelare. Che temperature ci sono a Malibu? Fa davvero così caldo? Vuoi mangiare qualcosa? Posso farti un sandwich con il burro di arachidi.”

“Oddio, ma davvero non la smetti mai di parlare? Ma quanti anni hai? Non si smette con le mille domande a 3 anni?”

“Ho 12 anni e i bambini iniziano a fare tante domande a 3 anni. Ho una sorella più piccola, so di cosa parlo. Si vede che non hai proprio esperienza con i bambini.”

“Ma meno male se sono tutti come te.” Era sgradevole. Lo sapeva che era sgradevole, ma quel ragazzino le aveva sorriso. “E questa felpa enorme?”

“Era di mio padre. Ne abbiamo un armadio pieno.”

“Oh, mi dispiace.”

“Anche a me. E’ uscito qualche anno fa per comprare le sigarette e non è più tornato. Credo sia andato direttamente in Colombia a piedi.”

Si era bloccata, con la felpa infilata per metà, e lo aveva guardato negli occhi. Era serio e calmo mentre le parlava. 

“Mio padre diceva sempre che il sarcasmo era un ottimo metodo per misurare l’intelligenza di una persona. E lo diceva riferito a me e il mio QI, per la precisione. Ma sei sulla buona strada, ragazzino. Che cosa vuoi fare da grande?”

“Finire le superiori e andare a lavorare?” Aveva alzato le spalle e si era guardato la punta delle scarpe. Natasha lo aveva osservato ancora. Osservare il linguaggio del corpo delle persone diceva moltissimo senza dover usare le parole. Natasha Romanoff lo diceva spesso e se era una spia famosa magari poteva imparare qualcosa da lei.

“In effetti ho fatto una domanda scema. Con una madre single devi puntare alla borsa di studio per andare all’università. Fammi un fischio tra qualche anno. L’indirizzo della Stark Tower lo trovi facilmente su internet.” Aveva preso il cellulare che il ragazzino le stava porgendo. “Ci sono novità? Sono stata un po’ isolata dal mondo per qualche ora.”

“Nulla che possa interessarti, credo. Stanno solo facendo vedere il filmato della tua casa distrutta e un video del Mandarino che rivendica l’attacco perché l’hai minacciato. Dice che ti ha uccisa e che l’America ha perso la sua guardia del corpo.”

“Quello è Rhodes, non io.” Velocemente aveva digitato il numero del cellulare di Steve ed era rimasta in attesa. Uno squillo. Due. Tre. Ma Steve non rispondeva. Era partita la segreteria telefonica e aveva la tentazione di imprecare perché questo non risolveva nulla. Non sapeva se Steve stesse bene e lui non poteva sapere che stesse bene lei. “Ehi, Steve, sono io. Sono ancora viva e vegeta. Sono in Tennessee , a Rose Hill per la precisione. Devo fare qualche ricerca, riparare l’armatura, e poi vengo a cercarti ovunque tu sia. Spero che tu sia con Fury, credimi. Sai quanto è assurdo detto da me, ma spero che lo S.H.I.E.L.D. sia intervenuto velocemente.” Aveva chiuso la telefonata, guardando ancora un attimo il cellulare. Era questo ciò che Fury intendeva quando le aveva detto anni addietro che loro due erano un problema per lo S.H.I.E.L.D.? Che andavano in crisi se all’altro succedeva qualcosa? Steve aveva smosso mari e monti per trovarla in Afghanistan. Lo avrebbe fatto ancora. Se era con lo S.H.I.E.L.D. adesso sicuro avrebbe cercato di localizzarla in qualche modo. “Ehi, Harley. Quanto distiamo dalla città? Ce la facciamo ad arrivare a piedi in centro?”

“Sarà una decina di minuti a piedi. Cosa devi vedere qui? Non c’è nulla a Rose Hill. Abbiamo una chiesa battista, un cimitero, la tavola calda dove lavora mia madre.”

“Chad Davis, so che viveva da queste parti.”

 

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Capitolo 7
*** Capitolo VII ***


A piedi avevano raggiunto il centro della cittadina di Rose Hill. Harley Keener, così si era presentato il ragazzino, aveva continuato a parlare tutto il tempo senza mai chiudere bocca. Era quasi insopportabile stare a sentirlo parlare di sua sorella, sua madre, le sue invenzioni, del suo bullo a scuola per il quale aveva effettivamente costruito lo sparapatate. Ma parlavano sempre così tanto i ragazzini? Lei parlava tanto, ma non ricordava di averlo fatto quando aveva la sua età. Forse effettivamente parlava da sola, visto quanto tempo aveva passato all’epoca in officina o in camera propria. Quanti anni aveva detto di avere quel ragazzino? 12? Cosa faceva lei a quella età? Era sicuramente in collegio, pronta a farsi espellere e passare i mesi peggiori della sua esistenza - fino a quel momento - fino alla partenza per il MIT.

Cercava di concentrarsi su quello. Su ricordi di un tempo troppo passato e di cui in realtà non le importava nulla, perché sennò sarebbe andata fuori di testa.

Steve Rogers non le aveva risposto al telefono. Aveva provato a telefonare altre due o tre volte, ma non aveva mai risposto. E lei non sapeva di chi altro potersi fidare in quel momento. Aveva sempre avuto grossi problemi di fiducia, li avrebbe sempre avuti, e quando succedevano delle tragedie non sapeva davvero a chi rivolgersi. Telefonare a Nick Fury forse avrebbe avuto senso, ma questo non le avrebbe permesso di continuare ad indagare sul Mandarino. E lei non voleva essere messa in panchina perché era una cosa troppo personale. Avevano ferito una delle sue persone. Avrebbero potuto farlo con altri. E non sapeva nemmeno che fine avesse fatto Steve. 

Questo la faceva impazzire. Aveva davvero ragione Fury. Non dovevano avere nulla a che fare uno con l’altro perché questo avrebbe mandato a puttane ogni missione in cui erano coinvolti entrambi. Bastava vedere come non riuscisse a ragionare in quel momento. E non osava nemmeno immaginare Steve in quel momento. Nonostante tutto quello che gli era successo nel corso degli anni, continuavano ad essere troppo legati. Era un legame troppo forte per poter essere spezzato solo dal tempo passato lontani uno dall’altra. 

“Signorina Stark, mi stai ascoltando?”

“Decisamente no.” Aveva guardato Harley Keener che aveva alzato gli occhi al cielo. Il suo subconscio aveva ascoltato ogni parola detta dal ragazzino, anche se non gli aveva risposto a nessuna domanda. Ne poneva troppe. Non sapeva se era curiosità sincera o solo voglia di farsi gli affari degli altri, ma nel dubbio non gli rispondeva. Aveva altre cose a cui pensare. Altre cose per cui fasciarsi la testa invece di fare qualcosa di veramente concreto.

Doveva telefonare a Fury. Nick sicuramente avrebbe smosso qualcosa che lei non poteva. Se le avesse dato retta, non trattandola come una pazza visionaria, forse avrebbero anche potuto catturare questo terrorista.

Forse avrebbe finalmente messo fuori gioco I dieci anelli e avrebbe chiuso per sempre quel capitolo della sua vita. Perché non era possibile che tutto tornasse a tormentarla. Che tutto fosse solo un cerchio senza fine. Come un serpente che si morde la coda e che non le permetteva di avanzare, di andare avanti con la propria vita. Era ferma in un loop temporale in cui ogni volta che sconfiggevano una minaccia ne compariva subito una seconda all’orizzonte. Per Steve erano sempre terroristi di qualche tipo, per lei era anche il consiglio di amministrazione che le stava con il fiato sul collo. Ed ora era MIA per la seconda volta, lasciando l’azienda sicuramente in subbuglio. 

“E’ esplosa qui la bomba?” Si era fermata tra due case, dove doveva sorgerne una volta una terza. La detonazione doveva essere meno potente di quella che aveva colpito il Chinese Theater, ma abbastanza da far crollare la casa e non lasciare traccia delle persone coinvolte.

“Sì, dicono che sia andato fuori di testa quando è tornato dall’esercito. Parlano di sindrome da stress post traumatico e che questo l’abbia portato a suicidarsi.”

Natasha aveva osservato il ragazzino che si era mosso in quello che era ormai un memoriale per le sei vittime. Ma c’era qualcosa che non le tornava. Continuava a guardare le ombre sui muri lasciati dalle vittime, e qualcosa non le tornava. 

“Hai detto che sono morti in 6, incluso Chad Davis, ma qui ci sono solo 5 corpi.”

“Sì, ma dicono che queste sono le ombre delle vittime innocenti. Quella di Chad Davis non c’è perché è andato all’inferno.”

Natasha aveva fatto una smorfia perché quelle spiegazioni preistoriche le facevano sempre storcere il naso. Certo, avrebbe dovuto mettere in discussione tutto quello in cui credeva. Aveva un vero dio nella sua cerchia di conoscenze a quel punto della sua vita. Ma quelle spiegazioni così religiose non facevano proprio per lei. 

“Non credo sia andata proprio così, ragazzino. L’Aldilà è un concetto che non esiste nelle spiegazioni logiche, e qua abbiamo bisogno solo di logica.” Aveva osservato ancora le 5 ombre. Aveva osservato i punti in cui erano disposte, e cercava di ricordare come fossero disposte sulla piazza del Chinese Theatre. Voleva arrivare in fondo a quella storia il prima possibile. Voleva anche lasciare quella città dimenticata da Dio e andare alla ricerca di Steve Rogers. Sicuramente lo S.H.I.E.L.D. era già sulle sue tracce, magari lo avevano già trovato. Ma lei doveva sapere che stesse bene. 

“Ho solo 12 anni, così mi hanno raccontato.”

“L’età giusta per iniziare a porti domande, non credi?” Il ragazzino aveva alzato gli occhi al cielo dopo averla guardata, e lì si era resa conto che come madre sarebbe stata davvero pessima. Quella era una frase che avrebbe pronunciato suo padre, e suo padre nonostante tutto non è mai stato insignito del premio padre dell’anno. Tutti le avevano sempre detto che Howard le aveva voluto bene, che la ammirava, ma lei questo non lo aveva mai percepito. E adesso si era sentita esattamente come lui.

“Spiegami allora, grandissima Stark, cosa è successo qui. Visto che ne sai più dei federali.”

“Questo sarcasmo potrebbe portarti da qualche parte in futuro. Anche in galera.” Harley le aveva sorriso e le si era avvicinato. Probabilmente si sentiva come si era sentita lei la prima volta che aveva visto Capitan America. Incontrare un proprio eroe era per i ragazzini l’esperienza di una vita intera.  

Steve era la sua vita intera.

Si era data uno schiaffo mentale perché non aveva davvero altro tempo per indugiare in quei pensieri. Doveva trovarlo e salvarlo, se non ci era già riuscito Fury, ma doveva anche prima trovare delle risposte in quel luogo.

“Guarda, 6 vittime ma solo 5 ombre. Se avesse tenuto la bomba in mano ci sarebbe anche la sua ombra tra quelle degli altri. Ma se fosse stato lui stesso la bomba si sarebbe disintegrato senza lasciare traccia.” Si era passata una mano sugli occhi. Era un vero azzardo quello che stava dicendo, ma era l’unica spiegazione logica che le era venuta in mente. Anche al Chinese Theatre mancava una ombra tra quelle delle vittime. E lei era abbastanza esperta in armi per poter fare congetture quanto più verosimili. 

E aveva già assistito in passato ad una esplosione interna. Era assurdo che le venissero dei  collegamenti proprio con quel ricordo. Ma conosceva appunto qualcuno che aveva inventato una cosa che esplodeva, e quel qualcuno le aveva confermato che lo avevano usato sugli esseri umani. Se avesse scoperto che quei veterani esplosi erano in qualche modo collegati a Killian Aldrich e alla sua AIM avrebbe fatto bingo e risolto tutti quei quesiti che le venivano in mente. 

Se solo avesse potuto abbandonare quel posto dimenticato da Dio immediatamente. 

“Ha fatto anche un bel cratere la sua esplosione, non credi?” Harley l’aveva guardata sorridendo, e non le piaceva il suo sguardo. Non le piacevano i ragazzini in generale. Soprattutto ora che aveva a che farci davvero. “Mi ricorda tantissimo quel enorme buco nel cielo di Manhattan.”

“Smettila. So che smani per chiedermi di New York da quando mi hai vista, ma io sto continuando a non volerne parlare.” Era messa male davvero se anche solo sentir nominare quella battaglia le faceva venire la tachicardia. Aveva subito percepito una sensazione di nausea alla bocca dello stomaco, e il cuore le batteva con così tanta forza da sentirlo nelle tempie. Succedeva così ogni volta. Ogni volta che ci pensava la sensazione di panico, di impotenza, e anche di terrore la assaliva. Nemmeno la prigionia in Afghanistan, così lunga e traumatica, le faceva venire un attacco di panico istantaneo. Invece New York l’aveva ferita su tutto un altro livello. Aveva colpito da qualche parte nel profondo e la terrorizzava fino nelle viscere. 

Dall’Afghanistan era scappata con le proprie forze. Si era salvata con una delle sue armature. Aveva avuto il potere di farlo. A New York aveva avuto solo un colpo di fortuna, perché poteva rimanere bloccata dall’altra parte del portale. E rimanendovi bloccata il suo corpo avrebbe continuato a vagare nello spazio infinito per sempre, senza la possibilità di essere salvata o ritrovata. Quando aveva deciso di spedire la bomba ai Chitauri aveva creduto di essere pronta a sacrificarsi. Ma non lo era. Aveva assistito ad uno spettacolo senza precedenti, ma non era pronta a morire lì.

Quella sensazione di impotenza le attanagliava le viscere ogni volta che ci pensava. Credeva di poterlo superare. Se ne autoconvinceva in continuazione, ma senza alcun risultato reale. Quella paura di essere persa nello spazio infinito le era entrata troppo nel profondo. 

Si era seduta per terra cercando di respirare profondamente. Aveva preso la testa tra le mani cercando di ricordare dove fosse e perché fosse lì. Aveva una missione, doveva portarla a termine. Doveva trovare informazioni in quel luogo. Doveva riuscire ad andarsene. A quel punto avrebbe contattato Fury e anche Rhodes. Avrebbe cercato di rintracciare Steve. E tutti insieme avrebbero sconfitto i Dieci Anelli, chiunque essi fossero. Era così semplice e lineare nella sua testa. 

Ma il senso di nausea e vomito non la abbandonava. 

Voleva tornare a casa. Voleva stare in un posto sicuro. Voleva i suoi robot e J.A.R.V.I.S.. Anche se quel luogo era stato distrutto. Era anche questo ad aumentare il suo stato di ansia. Il luogo che aveva scelto come proprio eremo, il luogo in cui doveva essere protetta, non c’era più. Non sapeva nemmeno cosa ne fosse davvero rimasto. Tutte le cose importanti, tutti i ricordi che aveva di quel luogo, erano andati perduti.

“Signorina Stark, tutto bene?” I piedi di Harley erano entrati nel suo campo visivo, ma non riusciva ad alzare la testa per guardarlo. Aveva davvero la sensazione che avrebbe vomitato se solo si fosse mossa.

“Ti pare che stia bene? E’ una giornata di merda e ti ci metti pure tu con domande inutili.” Si era passata entrambe la mani sul viso. Togliendo poi il cappellino che il ragazzo le aveva dato per cercare di travestirsi un minimo. “Ragazzino, ci sono cose che non puoi ancora capire, ma ti dirò una verità sconvolgente: gli adulti non sono affatto dei fighi senza macchia e senza paura. Siamo probabilmente più traumatizzati di voi, ma lo nascondiamo bene.”

“Tu non lo nascondi affatto bene.” Harley le aveva sorriso, dondolandosi sui talloni, con le mani profondamente infilate in tasca. “Ma sei Tasha Stark. Quindi sei figa anche così.”

Lo aveva guardato, incredula di quello che aveva appena sentito. Era davvero percepita così dalle persone o era solo Harley? Il ragazzino poteva averla davvero presa a esempio vista l’officina niente male che si stava creando e le cose che costruiva. Ma poteva davvero essere presa come esempio?

“Presumo dovrei dirti grazie.” Si era lentamente alzata in piedi, restando appoggiata contro il muro perché non era sicura che le gambe l’avrebbero davvero retta. “Non so se l’hai detto tanto per dire o meno, ma grazie.”

“Sei Iron Woman. Tutti quelli che conosco vogliono essere come te ed avere un’armatura come la tua. Probabilmente se ti avessero vista oggi cambierebbero idea, ma resti Iron Woman.”

“Tutto questo sarcasmo spero ti serva nella vita.” Si era rimessa il cappellino prima che qualcuno potesse riconoscerla e aveva guardato ancora una volta il cratere lasciato da Chad Davis. “Ehi, gnomo, aveva famiglia Chad Davis?”

“C’è sua madre. Non so quanto possa esserti d’aiuto perché dal giorno della bomba sta sempre al pub. Alcuni dicono che sia impazzita e continua a ripetere che suo figlio non si sarebbe mai fatto esplodere.”

Lo aveva osservato e gli aveva messo una mano sulla testa. 

“Sei ancora troppo piccolo per capire cosa può provare una donna che perde un figlio. Sii indulgente almeno tu con lei, ok?” Aveva atteso un cenno di risposta da parte di Harley. “E ora portami da lei, voglio fare almeno un tentativo per avere delle risposte decenti.”

 

✭✮✭

 

Doveva, nella sua testa, andare tutto liscio per una volta. Doveva solo trovare la signora Davis, farle qualche domanda e abbandonare quel posto dimenticato da dio.

Non doveva esserci tutta quella distruzione che pareva seguirla in continuazione. Ovunque andasse sembrava che avesse la sfortuna alle calcagna e lasciasse soltanto macerie al suo passaggio. 

Avevano ragione a crederla una minaccia globale?

“Dove hai imparato a rubare macchine?” Harley Keener era rimasto al suo fianco tutto il tempo e lei lo aveva messo inutilmente in pericolo. A sua discolpa poteva dire che non si aspettava un attacco da parte dei Dieci Anelli proprio lì. Ma era una difesa molto labile. Non avrebbe mai dovuto coinvolgerlo. Era stata spinta dalla necessità ad affidarsi a qualcuno, anche se questo qualcuno andava ancora alle medie.

“Che tu ci creda o no, me l’ha insegnato Steve. Ma questa qualche stupido l’ha lasciata aperta.” Si era seduta al posto di guida dopo aver aperto la macchina. Sperava che avessero lasciato le chiavi da qualche parte, perché sennò accenderla non sarebbe stato semplice. Era Steve l’esperto a riguardo. “Mi ha detto che lo aveva imparato in Francia durante la guerra. Ed era molto più semplice all’epoca.” 

“Posso venire con te?”

“Nemmeno per sogno. Ho bisogno di te qui. Devi restare accanto alla mia armatura, controllare che si carichi e stai vicino al telefono. Capito?” Aveva rischiato di farlo uccidere, e se gli fosse successo qualcosa non se lo sarebbe mai perdonato. Non poteva avere altre morti sulla coscienza. Non in quel momento. Non vittime innocenti che avevano solo avuto la sfortuna di conoscerla. E aveva causato già abbastanza distruzione in quella cittadina.

Harley le aveva indicato la signora Davis non appena erano entrati nel pub. Non sarebbe stato difficile riconoscerla in ogni caso. Aveva il cuore spezzato e glielo si leggeva sul volto. E affogava questo dolore nell’alcool. Un pattern che conosceva, perché aveva fatto lo stesso anche lei. Era il modo più semplice per cercare di dimenticare tutto, di metterlo a dormire da qualche parte almeno per un attimo.

Ma era un dolore che non si placava mai.

Lo avrebbero mai superato?

“Devo andare a salvare Steve, Harley. Non so come, ma quell’idiota si è fatto catturare e ho visto troppi film per ignorare quello che vogliono probabilmente fare di lui.” 

“Pensi che vorranno sezionarlo in qualche modo?”

“Una cosa simile.” Aveva sorriso, anche se era preoccupata davvero. Le persone che avevano incontrato, che erano lì anche loro per la signora Davis, avevano letteralmente preso fuoco dall’interno. Non aveva mai visto una cosa simile. Andava molto oltre quello che Maya Hansen aveva fatto con le sue piante. Si rigeneravano ed esplodevano, ma quello andava oltre. Quelli erano esseri umani potenziati, dotati di una forza sovrumana.

Ed erano bombe ad orologeria pronte a saltare in aria quando meno se lo aspettavano. E adesso era sicura che anche Chad Davis e l’altro erano loro le bombe. Nessun attentato vero e proprio. Solo poveri disgraziati che avevano probabilmente cercato aiuto dalle persone sbagliate.

“Allora, ragazzino, dammi il numero di telefono di casa tua.” Era un povero disgraziato anche quello a cui stava rubando la macchina ed il cellulare. Ma era spinta dalla necessità, e trovare quella macchina aperta era stata una manna dal cielo. Il proprietario era sicuramente scappato quando la città aveva iniziato a saltare in aria. “E, questo è molto importante, tu non mi hai mai vista qui. Non vantartene con i tuoi amichetti e nemmeno con i tuoi bulli. Non voglio che qualcuno ti prenda di mira a causa mia e già stasera abbiamo rischiato molto.”

“Ti sei affezionata a me?”

“No, non voglio altri sensi di colpa addosso è diverso.” Gli aveva sorriso, mentendo spudoratamente. Si era affezionata molto velocemente. Quel ragazzino era brillante ed era stato facile affezionarsi, anche se avevano trascorso insieme davvero pochissimo tempo. “Torna a casa ora. Tua madre si preoccuperà se non ti dovesse trovare a casa al suo rientro.”

“Penserà che sono chiuso in garage e la babysitter figurati se si accorge che scompaio.” Harley si era stretto di più nella coperta che gli avevano dato i paramedici accorsi in città dopo il disastro che avevano provocato.

“E’ una dura vita anche la tua, eh?” Gli aveva tirato una guancia, e un sentimento dolceamaro l’aveva pervasa. Se avesse avuto dei figli sarebbero stati costantemente in pericolo. Sarebbero stati il suo punto debole, quello da colpire se volevano arrivare a lei. L’essere un supereroe non avrebbe mai potuto combaciare con l’essere genitore. E nel suo caso, suo figlio aveva rischiato di averne ben due di supereroi per genitori. Quello sarebbe stato come mettergli addosso un bersaglio enorme con la scritta “vi prego rapitemi, mio padre è Capitan America e mia madre è Stark”.

E ancora più tristezza le metteva il pensiero che per quel figlio, per amarlo e proteggerlo, lei avrebbe fatto qualsiasi cosa. Letteralmente qualsiasi cosa. E questa era una delle cose che più la stupiva di sé stessa.

Dal non voler assolutamente avere dei figli, era passata al lato opposto fin troppo velocemente alla fine. Ed era soltanto colpa di Steve Rogers. Solo e soltanto sua. Sua e della sua incredibile dolcezza, della sua positività, del suo amore incondizionato verso di lei. Steve Rogers era riuscito a darle in tutti gli anni che lo conosceva quello che aveva sempre cercato e desiderato. E lo stupido sogno di Steve di mettere su famiglia era diventato improvvisamente anche il suo.

“Ci vediamo, ragazzino. Proteggi la mia armatura.” Aveva messo in moto la macchina, senza aspettare un qualsiasi tipo di saluto da parte di Harley. Era all’improvviso pervasa da una sensazione di tristezza e non le piaceva farsi vedere così da nessuno. 

Natasha Stark non era mai debole. Natasha Stark cadeva con stile e si rialzava in modo altrettanto elegante. Le sue cadute dovevano essere condite con qualche scandalo succulento, non con tristezza a palate. Quella non faceva per lei e la Stark persona che aveva costruito per il pubblico. 

Già si era resa abbastanza ridicola e penosa dopo New York. Non servivano altre cose. Non serviva che la verità uscisse sui giornali, che diventasse di dominio pubblico. Non aveva bisogno della compassione dell’opinione pubblica, che a questo modo avrebbe cercato di psicoanalizzarla ancora. Già si stavano sicuramente sbizzarendo nel cercare di capire come mai lei e Steve erano di nuovo stati fotografati insieme durante quello che sembrava un appuntamento. Perché era un appuntamento alla fin fine. Era una delle scampagnate senza meta che ogni tanto si erano concessi. 

E poteva significare tutto come poteva non essere nulla. Poteva essere un nuovo inizio, come poteva tranquillamente essere solo l’ultimo tizzone di un fuoco che si era spento totalmente. Anche se questa opzione era abbastanza ridicola da pensare per entrambi. Razionalmente avrebbero anche potuto vivere separati per il resto dei loro giorni. Erano bravi in quello. 

“Pronto?” Una voce burbera aveva risposto dopo qualche squillo. Voleva potersi immaginare la sua faccia mentre vedeva un numero sconosciuto telefonare al suo numero super personale.

“Ciao, Nick. Sono viva.”

 

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