IN PACE REQUIESCANT

di Dorabella27
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** 1. ***
Capitolo 2: *** 2 ***



Capitolo 1
*** 1. ***


IN PACE REQUIESCANT
1.
 
“E poi, mia cara moglie, ritengo che dovremo andare a fare visita alla prozia Hortense; in fondo, glielo dobbiamo: se abbiamo riunificato i vigneti qui in Normandia, pacificando una lunga inimicizia fra due rami della famiglia, lo dobbiamo solo alla sua opera accorta e intelligente di mediazione, oltre che al suo generoso lascito”, osserva il Generale Jarjayes, dopo aver ingoiato, con soddisfazione, il primo boccone del piccione farcito, magistralmente cucinato da Nanny.
“Naturalmente, naturalmente”, annuisce la Contessa Marguerite dall’altro capo della lunga tavola, tamponandosi leggermente le labbra con il tovagliolo di candida fiandra. La prozia Hortense de Jarjayes era la sorella minore del nonno del Generale, nata dal secondo matrimonio dell’avo di Augustin Réynier de Jarjayes, e di quasi venticinque anni più giovane dei fratellastri, l’ultima rimasta in vita, per molti lustri, dopo la morte dei fratelli, dei cognati e, naturalmente, dei genitori: ormai anch’ella una vegliarda, aveva lasciato il giorno prima questa valle di lacrime che è il mondo terreno, come aveva comunicato al Generale uno stringato biglietto, scritto da un lontano cugino e consegnato a mano il giorno prima, proveniente da Rouen, ove la donna viveva ormai da molti anni, pressoché segregata nel suo elegante palazzetto con la facciata a graticcio che dava sulla piazza del mercato vecchio, proprio là dove era stato innalzato, secoli prima, il rogo di Giovanna D’Arco.
 “E credo anche che nostro figlio, Oscar, dovrebbe venire con noi a fare visita alla defunta pro-prozia, e dovrebbe anche presenziare al funerale, giacché è per affetto nei confronti dell’erede del casato che la prozia Hortense si è adoperata per ricomporre gli screzi fra cugini, oltre a lasciare erede dei suoi vigneti nostro figlio, per il quale nutriva un affetto tutto speciale”.
La Contessa Marguerite annuisce, silenziosa: quando mai si è potuta permettere una diversa reazione alle idee, che presto diventano imposizioni, partorite dalla ferrea volontà del marito? E annuisce anche se, ancora in quel momento, sentire definire Oscar “nostro figlio”, declinato al maschile, la sconcerta, come sempre da sei anni a questa parte, e le fa ribollire il sangue: per la lucida follia del marito, e per la sua debolezza nell’assecondarlo, nella speranza, inizialmente, che presto potesse desistere da quel balzano proposito. Ma la volontà del Generale è più dura del ferro, e il sangue della Contessa Marguerite, di animo gentile, ma troppo debole per cercare lo scontro diretto, ribolle ormai con estrema discrezione ed eleganza.
La famiglia Jarjayes, o quello che ne resta, dopo che le cinque figlie maggiori sono stata disperse nei migliori educandati di Parigi, si trova  già da una settimana in Normandia per un breve soggiorno estivo, nella villa affacciata sul mare costruita dagli avi del Conte: il progetto originario prevede che, dopo alcuni giorni deputati a sbrigare alcune faccende legali relative alla compravendita di terreni, frutteti e animali per le fattorie che gli Jarjayes possiedono, disseminate nella regione, il Generale si allontani per due settimane di esercitazioni militari con il suo reggimento, lasciando la moglie Marguerite a godere della tranquillità e del clima della costa, più temperato e dolce di quello di Parigi in estate.
E Oscar? Fra qualche mese compirà sette anni, e da poco più di dodici mesi accanto a lei è comparso, compagno di giochi inseparabile, André, il nipote della loro fidata governante, Nanny, che, rimasto orfano di entrambi i genitori, si è trasferito a Palazzo Jarjayes: una compagnia ormai irrinunciabile, per Oscar, che non ha vissuto tanto da potere ricordare molte estati; ma, fin dove la memoria la sostiene, quando guarda nel suo passato, ricorda la stagione come una teoria di giornate noiosissime, abbandonata al vuoto di impegni e alla cessazione di ogni attività, un vuoto talmente spaventoso da far rimpiangere persino le lezioni di catechismo dell’elemosiniere di casa Jarjayes, l’Abbé Armand. Invece, l’estate precedente, trascorsa con André correndo per spiagge e meleti e facendo mille giochi interessanti e mai pensati prima, è stata divertentissima, anche se è volata.
E ora, Oscar, seduta a metà del lungo tavolo, equidistante dai genitori, senza la compagnia di André, in ossequio alla volontà del Generale, il quale tiene molto a che il figlio pranzi una o due volte alla settimana al tavolo degli adulti “per acquisire le maniere signorili che il suo rango esige”, scopre non solo di dover andare a fare una noiosissima visita alla pro-prozia morta, ma intuisce anche, con quell’acume che talvolta anche l’infanzia ha, che quella visita dovrà farla in compagnia dei genitori, senza André.
Quanto alla pro-prozia, apprendere della sua morte non suscita in Oscar la benché minima reazione: si trattava, in fondo, di una vegliarda, che Oscar non conosceva e cui non aveva mai avuto nulla da dire, avendola peraltro vista solo in due o tre occasioni: una vecchia signora robusta e dal colorito giallognolo, con il mento ispido che le pungeva il viso delicato con i suoi peli bianchi, quando, gentilmente sollecitata dalla madre, Oscar avvicinava la sua guancia infantile e liscia al volto della vecchia parente per farsi baciare. Il tratto forse più interessante del viso della prozia Hortense era però il segno scuro sotto il naso, esito dell’abitudine di fiutare il tabacco, un vizio testimoniato dalla tabacchiera d’oro massiccio che la vegliarda stringeva fra le mani. Per il resto, la pro-prozia Hortense era completamente sorda: pertanto, anche volendo, Oscar non avrebbe avuto non soltanto gli argomenti, ma nemmeno i mezzi per un qualsiasi dialogo o scambio di battute con lei; inoltre, assai irritantemente, in tutte le occasioni in cui aveva incontrato Oscar, dopo il rituale bacio  - sapeva di canfora, tabacco e aglio, la prozia! – la vecchia signora levava il viso verso il pronipote e, immancabilmente, esclamava: “Come cresce bene questo bambino, mio caro Augustin! Trovo che vi somigli moltissimo, specialmente nell’espressione volitiva degli occhi! Ma soprattutto, guardate quanto è bello! Non ho mai visto un bambino più bello in vita mia: se non lo sapessi, direi che si tratta di una bambina vestita da maschio!”, suggellando poi quella che credeva una sottile spiritosaggine con una risatina chioccia.
Oscar si dispone dunque alla rassegnazione: l’indomani sarebbe stata una giornata persa, è certo. Nel pomeriggio, si materializza anche un sarto, venuto da Rouen, che le prende le misure e le fa provare alcuni abiti – giustacuore e pantaloni neri, gilet nero con ricami argentati, calze e scarpe nere, con un tricorno scuro dalla piuma bianca – capi che, evidentemente, egli tiene sempre pronti, iniziati e finiti a mezzo, nel suo laboratorio, adatti a bambini e ragazzini di varie età e taglie: abiti bisognosi solo delle ultime cuciture e delle rifiniture, per quando un cliente distinto gli avesse fatto un ordine urgente per qualche nobile e ricco fanciullo che doveva provvedersi al volo di un abito da lutto.
Il vestito, elegantissimo nella sua sobrietà austera, viene consegnato il mattino dopo alle  sette in punto e Nanny lo fa indossare con ogni cura a Oscar, dopo averle servito la colazione prestissimo mentre André, eccezionalmente, ancora dorme; e nemmeno si è ancora alzato per salutare la sua compagna di giochi quando, un’ora dopo, Oscar sale in carrozza con i genitiori, ugualmente eleganti nei loro abiti da lutto, e si avvia verso Rouen, con la certezza che André le mancherà terribilmente per tutto il giorno.
Nella casa della prozia, la colpisce l’affollamento di figure  nerovestite: tutte parlano fra di loro, sommessamente, con tono grave ed espressione intenta, e Oscar può cogliere qualcuna delle parole che si rincorrono negli stretti corridoi e nei salottini per gli ospiti: “Una autentica fortuna, in diamanti ....” “Il notaio Lafforge .....”  “... I vigneti del Périgord...”, “Il palazzetto a Parigi..:”, “Quando il cugino Jules vorrà ...”; “Si sa, come sono le vecchie signore...:”; “Ostilità immotivate ... antipatie illogiche”;  “... Ovvio: non lo poteva soffrire...”; “Ma sicuro... “; “Vedrete che sorpresa..:”; “Capricci di zitella, si capisce...”; sino a un irriverente: “Vecchia strega”.
Al passaggio del Generale, seguito dalla moglie e da Oscar, la folla di parenti si apre, come il Mar Rosso dinanzi a Mosé, e la piccola famiglia Jarjayes viene ammessa nella sala dove è esposta la salma: la stanza, da cui sono stati sgombrati tutti i mobili, a parte alcune sedie imbottite contro le pareti, per quanti vogliano sedere recitando il Santo Rosario, è desolatamente vuota, fatta eccezione per un sacerdote grigio e curvo che, a pochi passi dalla defunta, mormora senza sosta un Requiem aeternam dopo l’altro. Al centro, un cataletto di legno, sopraelevato, con accostata una breve scaletta, composta da dieci o quindici gradini, sempre di legno, per chi voglia vedere il viso della morta. E poi, sparse sul vasto pavimento privo di tappeti, mele, mele, e ancora mele, più numerose e fitte sotto il cataletto: una infinità di mele, di cui Oscar non comprende il motivo, per cui lo chiede, levando la testa con un cenno interrogativo, all’indirizzo della madre, che è rimasta con lei pochi passi dietro il padre, il quale già, con la sua consueta andatura marziale, ha salito i gradini e ha rivolto alla prozia uno sguardo intento, segnandosi velocemente e accompagnando al segno della croce una veloce orazione.
“Ti chiedi il perché di tante mele?”, sussurra la contessa, chinandosi leggermente verso la figlia, che fa cenno di sì, impercettibilmente.
“Per l’odore, Oscar, per coprire l’odore della morta”, sussurra la madre, in un soffio, all’orecchio di Oscar, che, adesso, dopo che la madre gliel’ha detto, inizia a percepire, sotto il profumo dolce e appena pungente dei frutti ancora acerbi, un altro sentore dolciastro, un odore sgradevole, che sa di marcio, che le punge il naso e le fa lacrimare gli occhi, e che, soprattutto, la turba.
Mentre sale gli alti gradini e fa un segno della croce distratto di fronte al corpo della prozia; mentre scende le scale e ascolta, apparentemente attenta, in realtà lontanissima con la mente, i discorsi dei parenti e le frasi di circostanza che scambiano con i genitori; durante il viaggio in carrozza verso la chiesa e poi al banco durante la fastosa messa funebre, quando nelle sue narici entra, prepotente, e le offende senza riguardo, insieme all’odore dell’incenso, il profumo pungente dei fiori più costosi che, colti  da poco per intrecciare corone, stanno già appassendo e marcendo, seviziati dal caldo estivo; in tutti quei momenti, Oscar non riesce a togliersi dalla mente una sequenza di pensieri molesti, che le occupano la testa e che le impediscono quasi di rendersi pienamente conto degli avvenimenti che si dipanano sotto i suoi occhi.
Non è certo la prima volta che Oscar viene a contatto con la morte: sa benissimo in che cosa consista il “morire”, e sa anche che quando una persona è morta la sua anima (qualunque cosa essa sia), come l’Abbé Armand insiste a inculcare a lei e André, va in  Paradiso, in Purgatorio o all’Inferno, mentre il suo corpo non parla e non respira più, e “si disfa nella tomba”, dice l’Abbé, con tono grave, come di minaccia. Oscar potrebbe elencare una  lunga serie di persone che sono morte: i suoi nonni, per esempio, che lei non ha conosciuto, appunto, perché sono morti prima che lei nascesse; e poi il marito di Nanny, che è vedova, come le ha spiegato, chiarendole il significato di quella parola che le sentiva pronunciare spesso; anche i genitori di André sono morti, e, a riprova del fatto che quando si è morti non si torna più, il suo compagno di giochi si è trasferito definitivamente a Palazzo Jarjayes, proprio perché nel villaggio dove aveva vissuto sino a sei anni non c’era più nessuno a occuparsi di lui. E poi era morta anche una loro cameriera, Marianne, che Oscar ricordava vagamente: aveva i capelli scuri e gli occhi chiari, come i suoi, e rideva spesso. Poi a un certo punto non l’aveva più vista, e Nanny le aveva spiegato che era malata ed era tornata al suo paese per curarsi meglio, ma lei, Oscar, aveva subito dubitato di quelle parole: lo sanno tutti che a Parigi ci sono i medici migliori di tutta la Francia; per cui, per quale motivo quella cameriera, Marianne, avrebbe dovuto tornare nel suo sperduto villaggio, che, le spiegava la donna quando Oscar le chiedeva di raccontarle qualcosa, mentre era intenta a lucidare l’argenteria, era piccolissimo e lontano da Parigi, affacciato com’era sull’Oceano?
No, no, qualcosa non quadrava: e infatti Oscar, spiando i discorsi delle altre cameriere di casa, aveva capito, un giorno, che la conversazione verteva proprio su Marianne, e che era morta: “Morta”, aveva sentito, e poi. “funerale”, e infine, la cameriera personale di sua madre aveva sentenziato, con aria saputa, chiudendo il discorso: “Eh, già. La tisi non perdona”, lasciando Oscar in preda a un interrogativo che l’aveva ferocemente torturata: che cosa è mai la tisi? L’aveva chiesto a Nanny, mentre la governante la preparava per la notte, con i consueti gesti insieme svelti e delicati, ricavandone però solo un borbottio scandalizzato; “Madamigella Oscar, che domande sono queste?! Non dovreste nemmeno sapere che esistono certe brutture! Ah, ma se scopro chi vi mette in testa certe curiosità, mi sentirà, eccome se mi sentirà!”.  Ne aveva ricavato la nozione vaga e imprecisa, ma spaventosa, di un qualcosa di terribile, tanto che Nanny, che le voleva bene, era intenzionata a tenerla all’oscuro della faccenda il più a lungo possibile.
Oscar però, sino a quel momento, non ha mai visto un morto; a parte, ovviamente, il gattino che lei e André avevano trovato, piccolissimo, in giardino, mentre miagolava disperato, e che avevano allevato e cercato di addestrare per mesi, ma che poi era morto, sotto le ruote della carrozza di uno degli ospiti del Generale, e che lei e André avevano raccolto e ricomposto, e seppellito insieme vicino a un cespuglio di rose di Damasco.
Ma una persona, un essere umano morto, Oscar non l’ha visto mai, mai sino al funerale della zia Hortense: e all’improvviso la turba il fatto che, benché la prozia fosse molto vecchia, e non avesse certo un buon odore, e andare a trovarla fosse sempre una grande noia, tuttavia è una persona, anzi, era una persona: era una persona e adesso non lo è più, non respira più, non parla più, non mangia più, non sbatte più le palpebre, non dice più quelle sue solite frasi irritanti. Eppure, è sempre lei: la faccia era ancora la sua, anche se giallognola e come indurita nei lineamenti, e così il mento aguzzo, e le mani rugose e piene di macchie sul dorso, l’ha vista bene.
Chi sa se le hanno lasciato addosso i suoi anelli? Non ci ha fatto caso, quando ha salito la scaletta che portava alla bara per guardarla.
Chi sa se hanno chiuso nella bara con lei il grande anello che portava sempre, quello con quella grossa pietra, verde come gli occhi di André?
E se sì, che se ne fa adesso la prozia?
Però, in fondo, l’anello era il suo, ed è giusto che resti alla prozia, che ora se ne sta, chiusa nella bara, sotto il coperchio di legno. E se già nella sua casa fresca e nel salone in ombra, fra le mele sparse dalla servitù attenta, non aveva certo un buon odore, chi sa adesso come puzza! Anche lei, come dice l’Abbé, “si disfa nella tomba”?
E come deve essere una persona che si sta ... disfacendo?
 Come succedeva, in pratica? Si staccavano le dita, il naso cadeva....i lineamenti si rimescolavano -... o cos’altro?
Quanto è brutto, e strano, e che disagio le mette addosso pensare che una persona sia ancora presente, in mezzo a noi, eppure non ci sia più, e puzzi come un pezzo di carne dimenticato a marcire fuori dalla ghiacciaia, con le mosche che ci si posano golose sopra ... anche sulla bocca della prozia c’era una mosca, quando aveva salito quella breve rampa per salutarla per l’ultima volta: zampettava sugli zigomi e sulle labbra, si levava in volo e poi, dopo un attimo, planava nuovamente sulla faccia ...
Per tutto il giorno, anche dopo il funerale, quando con i genitori raggiunge ancora la casa della prozia, dove viene offerto un rinfresco ai parenti più prossimi – un rinfresco che Oscar non riesce a nemmeno a toccare, tanto la vista della carne fredda le dà la nausea -, e dopo il rientro a casa, nel tardo pomeriggio ancora baciato dal sole ardente del mese di agosto, non fa che pensare a quella cosa assurda e insensata che è la morte.
Poi, sulla soglia di casa, ecco attenderla André, l’aria timida, ma gli occhi sfavillanti di gioia non appena la vede scendere dal predellino della carrozza.
Mentre i genitori entrano nel fresco opaco dell’anticamera, e la madre si ritira immediatamente nelle sue stanze per mettersi un abito da casa di mussola leggera, e per cospargersi le mani, i polsi e le tempie di essenza di rose, e il padre si rifugia nello studio, dove lo attende l’amministratore per gli eterni controlli dei conti della tenuta, Oscar, benché stanca e accaldata, non ha altro pensiero che correre incontro ad André, e abbracciarlo: è vestito semplicemente, con una camiciola leggera e un paio di pantaloni chiari, e tuttavia deve avere sudato anche lui, data la calura della giornata, anche se meno di Oscar, che indossa un completo fastoso, di pesante panno nero, con tanto di tricorno. Oscar lo stringe forte, e gli mette il naso fra il collo, cosparso da goccioline minuscole, e il colletto della camicia: come sa di buono! Che buon odore ha André, sempre: odore di sapone, odore dell’acqua di Colonia della nonna, odore di spigo, che esala da tutta la biancheria della casa, è vero, ma che si combina in modo così particolare e così riconoscibile con l’odore della pelle di André, quello stesso odore che Oscar cerca quando, di notte, lo raggiunge nella sua camera e lo abbraccia stretto sotto le coperte.
Non vuole perdere André: nemmeno per un giorno, si dice, mentre lo abbraccia, e il bambino, stupito da tanto affetto, risponde al gesto impetuoso di lei, sorridendo, quasi incredulo, e forse anche un pochino imbarazzato.
“André; per favore, non morire mai! Profuma sempre così! Resta sempre con me!”, pensa Oscar, mentre lo stringe forte.
 
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Ringrazio per la fan art Galla88, vittima sacrificale, ormai, e Ifigenia costante.

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Capitolo 2
*** 2 ***


IN PACE REQUIESCANT
2 .
Perché le viene in mente proprio adesso, quel ricordo?
Da quali sabbie mobili della coscienza turbata e sconvolta emergono, ora, quelle memorie infantili?
Se ne sta seduta sui gradini di una chiesetta, di una anonima parrocchia nel cuore di Parigi, in un quartiere popolare: dentro, fra i corpi ricomposti dei caduti della giornata, c’è anche André:
André...
Se ne rende conto solo in quel momento: tutti i suoi peggiori incubi infantili si sono avverati; tutti i pensieri più neri, le paure più nascoste, quelle che erano state come dimenticate negli anni dell’età adulta, quando era André, sempre, immancabilmente presente e protettivo, a salvarla da ogni pericolo che lei correva, sconsideratamente, senza risparmio, hanno preso corpo, all’improvviso, in un attimo, in un momento banale, per il gesto banale e irriflesso di un soldato, un soldato qualsiasi, addestrato, come lei, come André.
Ossessivamente, fra un brivido e l’altro, che la scuotono, nonostante la nottata estiva così tiepida, cerca di scacciare dalle narici l’odore del sangue secco che ha sulla divisa (eppure non può non sentirlo), cerca di dimenticare l’odore del corpo, delle carni di André che sentono già l’offesa dell’afa e della morte, quell’odore che non può essere del tutto coperto nemmeno dal sentore pungente dell’olio canforato con cui Rosalie l’ha cosparso prima di ricomporlo nella bara, e che nemmeno i fiori, quei fiori di campo dai colori così semplici e allegri, raccolti chi sa dove, possono coprire: anzi, poco prima, un conato l’aveva assalita quando alle nari le era salito l’odore dolciastro di quelle corolle che stanno lentamente sfiorendo, e marcendo, a coprire un altro odore sottilmente dolciastro e marcescente che le punge il naso e l’anima.
Rosalie, mentre sistemava, - così le aveva detto, pudicamente - insieme con un paio di altre donne, André, l’aveva allontanata dalla stanza, e con quale fermezza: con una autorevolezza e una decisione che non le aveva mai conosciuto, negli anni che la ragazza aveva trascorso a Palazzo Jarjayes, e, insieme, con una premura quasi materna. Erano nella sacrestia di quella chiesetta, e, dopo che una ragazza, andata di corsa a casa dei coniugi Châtelet, ne era ritornata con una camicia bianca, certo di Bernard, per rivestire André, Rosalie aveva sfiorato la spalla di Oscar, immobile presso la porta, e poi, prendendole la mano fra le sue, le aveva detto: “Madamigella Oscar, adesso, per favore, non restate qui: mi occuperò io di André, meglio che posso, ve lo prometto, ma voi .... voi dovete cercare di stare un poco tranquilla, almeno per un momento”.
Oscar aveva ubbidito: aveva sceso meccanicamente i pochi gradini che separavano la sacrestia dalla navata, e si era seduta sulla prima panca, proprio davanti all’altare: nel tabernacolo, la fiammella ardeva, perpetua e beffarda, e non si sentiva un solo suono provenire da dietro la porta di legno pesante che Rosalie aveva chiuso alle spalle della sua antica benefattrice.
A un tratto, la porta si era aperta, e la ragazza che era accorsa prima con la camicia bianca fra le mani aveva fatto pochi passi in direzione di Oscar, porgendole quello che lei aveva prima creduto un banale panno scuro macchiato. Poi, presolo fra le mani, si era resa conto che era la maglia dell’uniforme di André, bucata dal proiettile, e impregnata del suo sangue ormai secco. Ci aveva tuffato il viso, cercando l’odore di André, e aveva iniziato a piangere, in silenzio, sino a quando accanto a lei non si era materializzata Rosalie, che gliel’aveva presa fra le mani, dopo una breve resistenza di Oscar, vinta con una semplice rassicurazione: “Non la getto via, Madamigella, non mi permetterei mai; ma permettete che la tenga io, ora: non vi fa bene in questo momento”.
Poi, si era allontana, e Oscar era rimasta sola.
Non aveva retto a lungo la vista di André composto nella bara: semplicemente, le era inconcepibile.
Sentendosi impazzire, era uscita e si era seduta sui gradini davanti al piccolo portale di legno scuro. Così poteva, insieme, restare vicina ad André e insieme non sentirsi mangiata dal furore contro se stessa e dal dolore lancinante vedendoselo sotto gli occhi: o, almeno, questo era stato il suo pensiero. Ma così non era stato.
Adesso, completamente sola, tende la stoffa dell’uniforme sin sotto il suo naso, per sentire l’odore aspro e dolce insieme del sangue, del suo sangue, versato perché lei non era stata abbastanza attenta, abbastanza veloce, abbastanza capace di proteggerlo: lo stesso odore ferroso e insieme dolce che aveva sentito nel naso e nella gola quando...prima....era chinata su di lui, quando... l’aveva perso.
E insieme, si sente ancora nel naso, e addosso, il suo odore, l’odore della sua pelle e del suo sudore: sentendosi colpevole, stupida, come se stesse compiendo una eresia, una leggerezza imperdonabile, quasi un capriccio da donna frivola  e stupida, che non capisce la gravità della situazione, in quel momento, non riesce a resistere, e scosta leggermente i lembi dell’uniforme, e solleva lo jabot della sua camicia bianca sotto il naso, e sente, o si illude di sentire, l’odore di lui; slaccia lo jabot e il colletto, quasi vergognandosi, e sollevando la stoffa leggera e fine che le copre la parte alta del petto e il punto dove il collo si innesta nella spalla, sente l’odore del proprio sudore, dopo quella giornata infernale in cui nessuno ha avuto requie, e, soprattutto, sente ancora, sulla sua pelle, l’odore di lui, e a stento riesce a realizzare che solo la notte prima, in quello stesso momento, lo stava respirando dal suo collo e dal suo petto, mentre lo stringeva e lo copriva di baci, e lui faceva lo stesso, e ora, invece, tutto quello che di vivo è rimasto di André è il suo odore addosso a lei...e presto anche di questo non resterà niente, di André non resterà niente, di quelle mani che la accarezzavano e la rassicuravano, di quella bocca che la baciava e diceva sempre quello che la tranquillizzava, di quel corpo che era André e cui lei non può smettere di pensare, non resterà più niente: e tutto per colpa sua.
Una vertigine, a pensarci.
 Un pozzo nero in cui le sembra di cadere, sempre con nel naso il ricordo della pelle di André, bagnata di sudore, con un sottile sentore di lavanda, di acqua di Colonia, un leggero odore di buono - lo definiva da bambina - che non si dissipava mai, nemmeno dopo una giornata di lavoro nelle scuderie, nemmeno dopo un assalto turbolento e una fuga affannosa come quelli della sera prima. La sera prima....la notte prima... si sente sciocca, quasi colpevole, perché non si possono pensare certe cose, non è dignitoso, non si può pensare al corpo di lui sul suo e nel suo, non così, non in un momento come quello, non più; eppure, anche se vorrebbe, anche se ci prova, non riesce a togliersi dalla mente l’immagine di André la sera prima, sotto quel cielo illuminato dalle stelle, nell’aria resa magica dalle lucciole, e poi, dopo, l’odore della sua pelle respirato con la testa appoggiata sopra il suo petto, e il sapore della sua saliva nella bocca di lei.
Si sente ancora sulle mani il caldo della sua pelle (e adesso, come sarà?, si chiede, e non osa alzarsi per andargli a sfiorare la fronte e le guance, non ce la fa, sa che le cederebbero le ginocchia prima di trovarselo davanti agli occhi), se lo sente ancora fra le mani, caldo su di lei e dentro di lei, sente ancora la goccia di sudore che, mentre lui le era sopra, le era caduta sul viso sulle labbra, e il suo gusto salato e vivo, che aveva assaporato, mentre André, con un sorriso, le sussurrava, “Scusami”, per poi chinarsi sulla bocca di lei...
Sta impazzendo, è chiaro: se non morirà presto, come intuisce che succederà, impazzirà, ne è certa; e se lo merita.
Poi, vede avvicinarsi una sagoma, che cerca di mettere a fuoco nel buio: è Alain, che viene certo a tentare di portarle un poco di conforto...... e allora cerca di ricomporsi, almeno per un attimo, perché anche André, forse, avrebbe voluto così.
 
Si ringrazia per la fan art Galla88.
 
Come vi dicevo, una storia decisamente cupa.
In questo periodo, va così...Prometto che però mi saprò emendare con il prossimo racconto, che non avrà queste tonalità.
Grazie a voi che siete arrivati sin qui, e a presto.
d.

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