Gabbia dorata

di Padme Mercury
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo uno ***
Capitolo 2: *** Capitolo due ***
Capitolo 3: *** Capitolo quattro ***
Capitolo 4: *** Capitolo tre ***
Capitolo 5: *** Capitolo cinque ***
Capitolo 6: *** Capitolo sei ***
Capitolo 7: *** Capitolo sette ***
Capitolo 8: *** Capitolo otto ***
Capitolo 9: *** Capitolo nove ***
Capitolo 10: *** Capitolo dieci ***
Capitolo 11: *** Capitolo undici ***
Capitolo 12: *** Capitolo dodici ***
Capitolo 13: *** Capitolo tredici ***
Capitolo 14: *** Capitolo quattordici ***
Capitolo 15: *** Capitolo quindici ***
Capitolo 16: *** Capitolo sedici ***
Capitolo 17: *** Capitolo diciassette ***
Capitolo 18: *** Capitolo diciotto ***
Capitolo 19: *** Capitolo diciannove ***
Capitolo 20: *** Capitolo venti ***



Capitolo 1
*** Capitolo uno ***


Capitolo uno




{18.12.2005 - Londra, 221B Baker Street}
 
Un leggero nevischio aveva iniziato ad imbiancare le strade di Londra in quel pomeriggio di metà dicembre. Il cielo era di un bianco accecante e si potevano udire i borbottii infastiditi dei londinesi che marciavano a passo spedito anche sotto la neve e le esclamazioni di sorpresa o di disperazione da parte dei turisti che volevano godersi la città sotto Natale ma non avevano messo in conto la possibilità di un cambiamento meteorologico. Quasi come se anche nei loro paesi d'origine alle soglie della stagione invernale non si mettesse mai a nevicare.
 
Charlotte si allontanò dalla finestra, lasciando che la tenda scivolasse dolcemente nella sua posizione d'origine, e si stirò la schiena. Si concesse di guardarsi attorno, dal momento che era sola nell'appartamento. Il famoso 221B di Baker Street, il luogo in cui tutti i disperati andavano a rifugiarsi per chiedere aiuto ad un uomo dall'intelligenza sovrumana che era in grado si risolvere tutti i loro problemi. Sherlock Holmes, la speranza dell'Inghilterra, l'unico in grado di risolvere enigmi incomprensibili. Chissà i tabloid cosa avrebbero detto se lo avessero conosciuto davvero. Se sapessero chi si nascondeva dietro la maschera.
 
Si lasciò andare sulla poltrona di Sherlock con un piccolo sospiro. Non entrava in quella casa da molto tempo, da quando lui aveva trovato un compagno di indagini. Sherlock sosteneva fosse troppo pericoloso, poteva farsi del male ed era sicura che non l'avrebbe fatta entrare neanche in quel momento. Charlotte aveva però fatto in modo di arrivare quando lui era fuori, facendosi aprire dalla signora Hudson (quanto sei cresciuta! Sei bellissima!) che le aveva dato volentieri il permesso di accomodarsi di sopra.
Aveva fatto un piccolo giro del piano, osservando quanto fosse diverso da come si ricordava. Tralasciando la cucina, piena di oggetti di vetro ed elementi chimici ed organici, il resto era più ordinato di come l'aveva visto la prima volta. Che fosse opera della signora Hudson o di quello che era stato il sul coinquilino, non lo sapeva. Ma ne era grata, perché altrimenti non ci sarebbe stato spazio neanche per respirare lì dentro. 
 
Incrociò le gambe sul cuscino della poltrona e fissò lo sguardo sulla libreria, che occupava l'intera parete. Accennò un piccolo sorriso e un pensiero si insinuò nella sua testa. Provaci. Chiuse gli occhi e inspirò a fondo. Le parole di Sherlock le echeggiavano nella mente. Chiuditi al mondo, ascolta i battiti del tuo cuore, fai un passo indietro rispetto alla realtà. Quando riaprì gli occhi, cominciò ad accarezzare con lo sguardo i dorsi dei libri, le mensole, ogni singolo granello di polvere. Quella libreria parlava di due persone completamente diverse ed era divisa in maniera quasi meticolosa. Gli scaffali più alti erano popolati da trattati scientifici, anatomici e di qualsiasi altra scienza possa esistere. Non vi era alcuna traccia di narrativa e quello le diceva che il proprietario non apprezzava avventurarsi in storie irreali e, a volte, ben poco realistiche. Era una persona pragmatica, interessata a tutto quello che poteva toccare con mano e che poteva tornargli utile in un secondo momento.
Le mensole più in basso, invece, erano sicuramente di una persona meno alta della prima e dall'indole totalmente diversa. Vi erano testi medici, e da questo poteva benissimo comprendere il lavoro che facesse, ma vi erano anche diversi libri di narrativa. Fantasy, soprattutto, da quello che riusciva a scorgere dai titoli e dal grande tomo complessivo del Signore degli Anelli di Tolkien. Un dottore, militare a giudicare dal rigore con cui aveva ordinato i suoi libri e da alcuni trattati storici nascosti qua e là, che ogni tanto aveva bisogno di allontanarsi dalla realtà. Riusciva inoltre a vedere quali fossero i libri più usati. Il legno era infatti più consumato dove le copertine lo avevano sfregato più volte e lo strato di polvere era meno spesso. Aveva anche notato dei leggeri dislivelli dove Mycroft aveva posto delle cimici per tenere sotto controllo il suo fratellino. Accennò un piccolo sorriso. Probabilmente Sherlock le avrebbe detto che aveva dimenticato le cose più importanti, ma per lei era già tanto così.
 
Si allungò appena per recuperare il violino che giaceva quasi dimenticato sotto la poltrona. Lo osservò, mettendolo in controluce. Le setole dell'archetto erano molto consumate, come se fossero sul punto di rompersi, ma l'intero strumento era coperto da una sottile coltre di polvere. Sherlock lo usava per pensare e a giudicare dal suo stato, poteva capire che per un periodo lo aveva utilizzato assiduamente. Così spesso e con così tanta forza da causare l'usura dell'archetto. Ma ormai era tempo che non ne aveva più bisogno, tanto che era anche completamente scordato e il legno rischiava di rovinarsi a causa dell'umidità.
Lo accordò con rapidità e ci soffiò sopra, giusto per togliere la maggior parte della polvere. Sistemò il violino sulla spalla e lo assicurò col mento, cominciando a suonare. L'archetto scivolava con facilità e destrezza sulle corde, producendo un suono cristallino e dolce che andò a riempire l'intero appartamento. Non stava suonando una composizione in particolare, stava improvvisando e non aveva idea di quello che sarebbe stato il prossimo suono. Si lasciava semplicemente trasportare dalla musica, come faceva spesso, e ad occhi chiusi poteva quasi immaginare di essere in un altro mondo dove non esisteva niente se non lei e quelle note.
 
Persa com'era nella musica, non si accorse della porta d'entrata che si aprì e si richiuse in poco tempo, così come non sentì i passi sulle scale e i commenti fatti ad alta voce. Forse perché, almeno per quanto riguardava una delle persone che erano entrate, conosceva talmente bene il modo di camminare che inconsciamente non fu messa in allarme. 
 
"Diciamo che i fuochi d'artificio di Natale li ricordavo diversi!" commentò uno dei due uomini, John Watson, ancora sulle scale. 
 
Si concesse una piccola risata e si sedette su uno scalino. Si tolse un po' di cenere dai capelli, ripensando alla fine di quel caso che non era andato come speravano. Sherlock preferiva catturare i criminali, costringerli a confessare. Quella volta invece il killer aveva mandato in aria tutto lo stabile abbandonato che aveva trasformato nella sua base. Lui si sarebbe buttato nel fuoco, ma John era stato abbastanza veloce da tirarlo via ed evitargli, nel migliore dei casi, una bruciatura di terzo grado. Se l'erano cavata con dello sporco sul viso, qualche granello di cenere tra i capelli e l'orlo dei vestiti leggermente bruciato.
 
Sherlock osservò John a quella battuta, ma dopo qualche secondo lo imitò nella risata. Erano come due bambini, alla fine della fiera, che riuscivano a trovare qualcosa da ridere anche nelle situazioni peggiori. Si fermò quasi immediatamente, sentendo la musica arrivare da dentro al salotto. Anche John se ne era accorto e, dalla sua espressione, era pronto ad attaccare nuovamente. Si era alzato in piedi, la schiena appena protesa in avanti e la mano destra pronta a recuperare la pistola dalla fondina. Se qualcuno era riuscito ad entrare a Baker Street quando loro non c'erano, pensava sicuramente John, vuol dire che era pericoloso.
Sherlock allungò un braccio, facendo un gesto con la mano come per dirgli di non preoccuparsi. Sorrise, togliendosi il cappotto per appenderlo proprio sopra a quello che si trovava già sull'appendiabiti. Uno che non c'era prima, di una ragazza giovane e decisamente più minuta rispetto a lui. Aprì la porta, facendo solo un passo all'interno della stanza.
 
"Sei sempre stata più brava di me a suonare."
 
Charlotte fermò l'archetto e alzò lo sguardo su Sherlock. Sorrise, imitata dall'uomo, che era rimasto fermo sulla soglia con le mani dietro la schiena.
John decise di entrare attraverso la cucina dato che l'amico pareva essersi piantato in quel punto. Si guardò intorno, notando che niente era cambiato da quando avevano lasciato la casa quella mattina. C'era solo una ragazza seduta sulla poltrona di Sherlock, ma aveva l'aria abbastanza innocua. Che fosse una nuova cliente? Ma come aveva fatto ad arrivare lì? E perché aveva l'aria di essere totalmente a suo agio, come se conoscesse quell'appartamento? Le parole del detective, poi... Si conoscevano e pareva da molto tempo. Non lo aveva mai sentito usare quel tono o ammettere che un'altra persona era più brava di lui. Chi era quella ragazza? La sua mente andò per un secondo a Irene Adler, la Donna. L'unica che era riuscita davvero a manipolare Sherlock Holmes, a sorprenderlo, a batterlo. Ma lei non sembrava pericolosa, il suo sorriso era troppo dolce e genuino e i suoi occhi non nascondevano macchinazioni. Eppure... 
 
"Le ha aperto la signora Hudson, mi sembra ovvio," affermò Sherlock con la sua solita voce calma, girando appena la testa in direzione di John. 
 
Raggiunse poi con due falcate la ragazza, che appoggiò lo strumento e si alzò in piedi. Sherlock la studiò per qualche secondo, guardando i suoi occhi color dell'ambra e i suoi capelli d'oro, le sue labbra, le spalle e l'abbigliamento. Qualsiasi cosa potesse dirgli quello che cercava, quello che lei non avrebbe mai voluto confessargli. Con grande stupore di John, il detective allungò le braccia e la strinse a sé, appoggiando il mento sulla sua testa. Charlotte ricambiò la stretta, talmente forte da raccontare a Sherlock tutto quello che voleva sapere.
 
John rimase a bocca aperta a quella scena. Era rimasto stupito più di una volta. Quando Sherlock era rimasto affascinato e ammaliato da Irene Adler. Quando aveva chiesto scusa a Molly Hooper e si era dichiarato dispiaciuto per aver ferito i suoi sentimenti. Erano tutti atteggiamenti che non avrebbe mai immaginato propri di Sherlock Holmes, ma quello... Se tutto il resto era comunque controvoglia, con lui che cercava di resistervi, in quel caso... Era stato lui ad iniziare quel contatto.
 
"Mi sei mancato molto, sai?" disse piano la ragazza quando si separarono, guardandolo dal basso con occhi brillanti. Sherlock accennò un sorrisetto guardandola, poi si mise dietro di lei con le mani sulle sue spalle. Guardò John, la sua espressione sconcertata, quasi scandalizzata.
 
"John, lei è Charlotte. Lotte, lui è John Watson, ovviamente."
 
 
 
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[Note autrice]
 
Hello fellow Sherlockians!
 
Volevo anzitutto ringraziarvi per aver dato una chance a questa storia. È un'idea che mi frulla nella mente da un po' di tempo, il personaggio di Charlotte esiste da anni ma ha subito diverse trasformazioni prima di arrivare a quella definitiva: questa. Spero che vi piacerà tanto quanto piace a me, o che almeno vi susciti una qualche emozione - anche negativa.
 
Come già avvisato nella trama, la timeline della serie è un po' mischiata. John è già sposato con Mary e hanno quindi già vissuto alcune delle avventure della terza stagione. Ma Moriarty è ancora vivo, quindi Reichenbach non è ancora successo. Spero che questo non provochi troppo disturbo ♡ 
Anche le età dei personaggi sono modificate leggermente, di poco, e il tutto è tirato indietro nel tempo come ho scritto ad inizio capitolo (2005 invece che 2010). Per il resto, tutto è esattamente come nella serie. Spero che anche i personaggi rimarranno fedeli a loro stessi, almeno per la maggior parte!
 
Concludo ringraziandovi nuovamente per avermi dato una possibilità con questa storia. Sherlock è e sarà sempre una delle mie serie preferite. Un grazie infinito anche a chi commenterà, anche negativamente.

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Capitolo 2
*** Capitolo due ***


Capitolo due




John rimase per qualche istante a guardare entrambi, incredulo. Quella piccola presentazione era stata totalmente inutile, ora sapeva il suo nome ma ancora non aveva capito come si conoscessero. Spostò il peso da una gamba all'altra, avvicinandosi poi per stringerle la mano, il braccio rigido. Faceva fatica a fidarsi delle persone di cui non riusciva a capire l'indole e il suo istinto di sopravvivenza prendeva il sopravvento.
Ma la stretta della ragazza, sicura eppure rassicurante, lo fece ripensare a tutto. Era la stretta di mano di un Holmes, così familiare per lui ormai. E la sua pelle era così liscia e delicata, non doveva aver mai fatto lavori pesanti in vita sua. Chissà cosa pensava delle sue, ruvide e con qualche piccolo callo dovuto all'uso delle armi e degli attrezzi medici.
 
Si allontanò poi di un paio di passi e indicò la stanza con un gesto delle mani.
 
"Mi dispiace per il disordine. Se avessimo saputo che sarebbe venuta..."
 
Charlotte scosse la testa con un piccolo sorriso.
 
"Nessun problema. So com'è fatto e questo è ancora ordine nella sua mente," ridacchiò, dando un'occhiata veloce al tabellone di Cluedo attaccato di fianco allo specchio, "ma devo ammettere che quella è una novità!"
 
John accennò un sorriso a sua volta, aprendo e chiudendo la mano sinistra più volte. Soppesò le parole che continuavano a girargli in mente e che premevano per uscire. Quella ragazza era particolare e lo incuriosiva, ma ancora di più voleva sapere cosa la legasse a Sherlock Holmes.
 
"Come... come vi conoscete, voi due?" chiese infine, indicandoli entrambi con un gesto del mento.
 
Sherlock sorrise e si spostò di lato. Si sedette sul divano, accavallando le gambe. Indicò la ragazza con entrambe le mani e si strinse appena nelle spalle.
 
"Scoprilo. Provaci. Se a Lotte va bene."
 
Charlotte guardò Holmes per qualche istante, poi spostò lo sguardo su John. Sorrideva in maniera rassicurante, incoraggiando il medico a provare a leggere qualcosa su di lei. Tenne le mani dietro la schiena, sentendosi come se fosse una statua in un museo. John aggrottò le sopracciglia in direzione dell'amico, poi alzò le mani come se si stesse arrendendo. Scosse la testa.
 
"Ah, no! Non ci casco un'altra volta. Non sono io il detective dei due, Sherlock, e-"
 
"Avanti, dottor Watson. Le assicuro che nessuno la prenderà in giro," sorrise, piegando appena la testa di lato. I capelli le solleticarono la spalla, rimanendo a dondolare dolcemente di lato.
 
John si schiarì la gola e guardò da tutt'altra parte. Gli ci volle qualche secondo per tornare a fissare lo sguardo su di lei. La luce che entrava dalla finestra alle sue spalle si rifletteva sui suoi capelli d'oro creando una sorta di alone luminoso attorno al suo corpo. Era bella, molto bella, ma di sicuro era molto giovane. Aveva un rapporto particolarmente intimo con Sherlock, come se si conoscessero da anni ma in maniera diversa rispetto a loro due. Che fosse... no, era impossibile. Lei non era la Donna e non c'era nessuno come lei. Eppure... il modo in cui si guardavano non poteva mentire. John non era bravo a dedurre, a capire tutto da una semplice occhiata, ma era abbastanza sicuro di riconoscere i sentimenti delle persone. Da quello che poteva vedere, i loro cuori sembravano battere all'unisono.
 
"Oh, Dio, ti prego! No!" esclamò Sherlock con una smorfia. Charlotte rise divertita. "È la figlia di Mycroft."
 
Per un istante, il mondo sembrava essersi fermato. John non si sarebbe mai aspettato una rivelazione del genere. Continuava a passare lo sguardo da Sherlock a Charlotte. Non aveva niente degli Holmes. Dall'altezza ai colori, neanche lo sguardo o il modo di parlare. E poi di Mycroft... come era possibile? Si passò una mano sulla nuca, scuotendo piano la testa. Sherlock e Mycroft poi non andavano d'accordo, le cose potevano davvero cambiare per la figlia di uno di loro?
 
"Adottata. Sono stata adottata, dottor Watson. So che se lo stava chiedendo," disse la ragazza usando un tono dolce. Era così diversa dagli altri due, anche se anticipava le sue domande.
 
Eppure non sembrava avesse quella scintilla negli occhi. Quell'aria di essere sempre un passo avanti a tutti, di dimostrare di essere intelligenti. Era più un'intuizione quella che aveva avuto, dettata sicuramente dall'aria smarrita che aveva il medico in quel momento. John accennò un sorriso.
 
"Mi dispiace, io non..." cominciò lui, facendo seguire a quelle parole un sospiro mentre distoglieva lo sguardo. "È che mi sembra strano non averla conosciuta prima."
 
Charlotte alzò un angolo della bocca in un sorriso mesto e si strinse nelle spalle.
 
"Per protezione. Sia papà che lo zio hanno troppe persone che potrebbero usarmi come... 'merce di scambio'," mimò le virgolette con le dita, sistemandosi nuovamente sulla poltrona di pelle nera. John annuì, accettando quella risposta. "A proposito, ho letto degli ultimi casi dal suo blog. Pensavo di incontrare anche sua moglie."
 
"Oh! Mary aveva il turno in ospedale, non ha potuto accompagnarci," sorrise John, accomodandosi a sua volta sull'altra poltrona.
 
"Cosa dici, Lotte, il nostro caro dottore ha mentito?" si intromise il detective, appoggiando gli avambracci sulle ginocchia. Charlotte si strinse nelle spalle, guardando attentamente John.
 
"Non lo so. Forse solo un pochino, magari vuole tenerla al sicuro."
 
"E questo lo hai capito da--"
 
"Semplice buon senso, zio," lo interruppe prontamente. "Se è sua moglie, la ama e non vorrebbe metterla in pericolo. Non serve essere dei geni per capirlo..." borbottò. Sherlock fece una piccola smorfia, a cui John rispose con un sospiro.
 
"Okay, avanti. Dì quello che devi e facciamola finita," commentò il medico, roteando gli occhi.
 
"Si è toccato la fede quando l'hai nominata, guardandola con affetto e un mezzo sorriso. Se gli avessi toccato il polso avresti sentito che era accelerato, quindi sì, vuole tenerla al sicuro. Ma non è tutto. Gli si è contratto per qualche secondo il muscolo della mascella e ha lanciato una veloce occhiata verso di me, credendo non lo avrei notato perché stavo guardando te. Dovresti saperlo, John, che mi accorgo di tutto. Ha esitato a rispondere, probabilmente stava pensando ad una scusa. Ma no, perché mentre eravamo fuori, e anche qui dentro mentre stavamo parlando con te, ha controllato più volte l'orologio per assicurarsi di non stare fuori più a lungo di lei. Quindi lei non sa che lui è qui. Probabilmente le ha chiesto di coprire il suo turno, o lo ha scambiato con uno dei suoi. Ha evitato di parlare di lei sino a quando l'hai nominata e Dio solo sa quanto si stia impegnando a farsi notare. Quindi no, non è solo per proteggerla, ma è anche per paura di essere sostituito perché lei--"
 
"È più brava di me, sì lo so!" esclamò John, facendo una smorfia. Sherlock serrò le labbra, infastidito dall'essere stato interrotto due volte in meno di dieci minuti. "Lo dici sempre. Perché non ti prendi lei come assistente?" sospirò e scosse la testa. "Vado a fare un po' di the, lei ne vuole?" chiese con tono più dolce, rivolgendosi alla ragazza.
 
Lei sorrise e scosse la testa. "No, grazie. Papà mi ha già tempestata di SMS, vuole che lo raggiunga al Diogenes. Holmes o non Holmes, tutti i papà sono uguali quando si tratta di figli." Si alzò a sua volta, rassettandosi la gonna. "Anche se a volte vorrei smettesse di trattarmi come una bambina. Ho diciannove anni e lui mi vede ancora come se ne avessi otto," ridacchiò.
 
John non poté fare a meno di sorridere. Da una parte faceva fatica ad immaginarsi un Mycroft Holmes premuroso ed affettuoso, magari anche protettivo nei confronti di una ragazzina. Chissà se almeno con lei faceva trasparire qualche sentimento o se continuasse imperterrito a recitare la parte dell'uomo di ghiaccio.
Dall'altra non poteva fare a meno di pensare a come si sarebbe comportato lui. Se anche lui avrebbe fatto così. Si immaginava di avere anche lui una figlia, bella come la ragazza che aveva davanti. Una bambina da coccolare e proteggere, da amare più di qualsiasi altra cosa.
 
Rimase lievemente turbato dalla rivelazione della sua età. Era così giovane... Non aveva neanche vent'anni e lui l'aveva trovata immensamente bella. Lui, che di anni ne aveva trentatré ed era sposato, si era lasciato ammaliare, anche se solo per un attimo, da una teenager. Si sentì ricoperto da una coltre di vergogna, ma cercò di convincersi di non aver fatto niente di male. Non era sbagliato apprezzare la bellezza di una persona, e poi in fin dei conti non aveva fatto niente di concreto.
 
La guardò avvicinarsi a Sherlock per salutarlo. Gli mise una mano su una guancia e gli baciò l'altra. Lei sapeva bene che non apprezzava quel tipo di contatto, ma non le importava. Anzi, un po' si divertiva a dargli fastidio, a vedere fino a che punto poteva spingersi prima di toccare il filo rosso. Prima di uscire, però, si fermò vicino a John. Gli toccò l'avambraccio, nel modo esatto che le aveva insegnato suo zio, così che lui non sarebbe stato in grado di dirle di no. Sfoderò uno dei suoi sorrisi migliori e lo guardò direttamente negli occhi.
 
"Spero di vederla a Natale. Assieme a sua moglie, ovviamente," disse semplicemente.
 
Lui annuì piano e la guardò uscire dalla porta. Rimase forse imbambolato per troppo tempo, perché la voce di Sherlock che chiedeva il the lo riscosse dal suo torpore. Si concesse un sorrisetto.
 
"Hai sorriso," lo prese in giro. Sherlock aggrottò le sopracciglia, guardando l'amico. "Quando ti ha baciato," spiegò, picchiettando un dito sulla propria guancia. "Sherlock Holmes ha un cuore!" rise, entrando in cucina.
 
"Certo che ho un cuore, John. È un organo fondamentale per la vita e tutti gli esseri viventi ne hanno uno."
 
"Non è quello che intendevo, e lo sai bene," replicò John. Si era appoggiato allo stipite della porta con una spalla, le braccia incrociate sul petto. Dietro di lui la teiera borbottava piano sul fuoco, in attesa che l'acqua si mettesse a bollire. "Tu, mio caro Spock, hai un cuore. Ed è appena uscito da questa casa."
 
Sherlock lo guardò in silenzio per qualche istante e John sostenne il suo sguardo. Sapeva di non sbagliarsi, non in quello. Aveva visto come la guardava, come sopportava il suo contatto, aveva sentito il suo tono di voce. E non aveva intenzione di cedere.
Distolsero entrambi gli occhi quando la teiera si mise a fischiare. John gli volse le spalle, entrando in cucina, mentre Holmes prese un giornale sulla cui prima pagina campeggiava la notizia shock di un uomo che aveva una rivelazione shockante sull'alta società. Probabilmente un inserto scandalistico, uno di quelli che sarebbero piaciuti alla signora Hudson.
 
Non alzò lo sguardo nemmeno quando John posò la tazza sul tavolino davanti a lui. Bevvero il loro the in silenzio, uno troppo orgoglioso per ammettere di essere stato scoperto e l'altro troppo buono per infierire.




Spazio autrice

Hello there!
Lo so che questi due primi capitoli non sono niente di speciale, non succede niente eccetera eccetera. Diciamo che erano più una presentazione, ecco! In questo modo avete una prima idea di chi sia Charlotte, come mai conosca così bene Sherlock e perché il nostro consulting detective si comporti in modo così atipico con lei.

La storia prenderà ritmo più avanti, ve lo prometto. Prendetela un po' come i libri di Stephen King (ovviamente di qualità infinitamente inferiore perché, ehi! King è il re e nessuno è come lui): ci mettono sempre un po' ad ingranare con la trama e l'inizio è più character e world building.

Spero comunque che vi sia piaciuto questo capitolo e che la storia di Charlotte vi incuriosisca anche solo un pochino. Come al solito, ringrazio chi legge in silenzio e chi, invece, commenterà. Grazie di cuore, davvero ♡

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Capitolo 3
*** Capitolo quattro ***


Capitolo quattro




Charlotte rimase immobile per qualche istante. C'era una sola persona al mondo che la chiamava 'chérie', ma non poteva essere lì davvero. Spostò lo sguardo sbigottito su suo padre, che le rivolse un semplice sorriso e mosse le labbra per formare un silenzioso 'buon Natale, bambina mia'.

La ragazza deglutì a vuoto e guardò nuovamente il ragazzo fermo sulla porta. David Godfrey, il suo fidanzato, era davvero lì davanti a lei, con indosso una divisa pulita e un sorriso che raccontava del viaggio che aveva appena fatto. Charlotte non poteva crederci. Erano mesi ormai che era dall'altra parte del mondo, costretto a combattere in una guerra che non era la sua e con cui non voleva avere niente a che fare. Ed erano settimane che non riceveva sue notizie, che non sapeva se era vivo o morto, se si era dimenticato di lei o se stava lottando con tutte le sue forze per tornare tra le sue braccia.
In parte aveva anche paura che, una volta a casa, non sarebbero andati d'accordo. Aveva sentito che la guerra cambia le persone e spesso, chi ritornava, faceva fatica a riadattarsi alla vita quotidiana. Forse per chi era in marina, come David, era ancora più difficoltoso perché la vita in nave era drasticamente diversa da quella sulla terraferma. Guardare i suoi occhi verdi ora era diverso rispetto a prima che fosse partito. Erano passati solo cinque mesi ma quelli erano gli occhi di un uomo adulto. Ma in fondo, dietro le iridi e le pupille, era sempre David. Il suo David, il ragazzo che le portava una tazza di the e un dolcetto mentre studiava per l'ammissione a Oxford e che la stringeva al petto quando le sembrava di non essere abbastanza forte da sopportare il peso del suo mondo sulle spalle.

In un secondo qualcosa nel suo cervello scattò e capì tutto. Comprese che le volte che suo padre si era allontanato, in quei giorni, non era per lavoro. A meno che non fossero missioni segrete, in effetti, non cambiava stanza quando parlava al telefono. Lui non parlava con i suoi colleghi, ma con i vertici della Royal Marine. Era stato lui a tirare le corde, a promettere magari favori o far valere dei crediti che aveva nei loro confronti, per far tornare David. Per farle una sorpresa, vederla sorridere e tirarla fuori dalla nube nera che la stava avvolgendo. Così come poco prima, non era il lavoro ma probabilmente era lui che lo avvisava di essere quasi arrivato.
Avrebbe dovuto capirlo subito, non aveva la solita rigidità delle spalle quando aveva risposto. Era più rilassato e anche il suo modo di camminare non parlava di affari.

"Dave..." sussurrò pochi istanti prima di avvicinarsi piano a lui.

Alzò una mano per accarezzargli una guancia. Aveva quasi paura a toccarlo, come se con le dita lo avrebbe fatto sparire. Ma quando lui poggiò la mano sulla sua e le baciò il palmo, come era solito fare, lei non riuscì più a trattenere un minimo di decoro. Gli gettò le braccia attorno al collo e lo strinse forte, senza riuscire più a tenere le lacrime dietro le palpebre. Piangeva per la felicità, per la tensione di quegli ultimi mesi che si lavava via, per l'incredulità.
Le braccia forti di David si chiusero attorno alla sua vita ed era sicura che anche lui stava piangendo in quel momento. Si stringevano talmente forte che sembrava dovessero fondersi in un solo corpo e avessero paura che, se solo avessero lasciato andare un pochino la presa, l'altra persona sarebbe scomparsa.

Anche Mary non era riuscita a nascondere la sua commozione nel vedere quell'amore così giovane. Si dileguò quindi in cucina, accampando qualche scusa come 'forse è meglio se dia una mano alla signora Holmes'. John la guardò andare via, poi raggiunse Sherlock dall'altra parte del tavolo nello stesso momento in cui anche Mycroft si accomodava al fianco del fratello.

"Sei diventato sentimentale." commentò il minore, senza però staccare gli occhi dalla coppia. John si sentiva a disagio al posto suo: era un momento così intimo per i due giovani che rimanere a guardarli sembrava invadere la loro privacy. Gli sembrava di sbirciare in affari che non lo riguardavano e, dal canto suo, non avrebbe mai voluto che qualcuno lo facesse con lui.

"Era l'unico modo per proteggerla." replicò il maggiore, con un sorrisetto che sembrava più una smorfia.

John non sapeva bene a cosa si riferisse, perché dovesse proteggerla facendo venire il suo fidanzato, ma poteva farsene un'idea. Ma la cosa che non riusciva a capire, per quanto ci provasse, era perché non poteva ammettere di farlo perché le voleva bene. Lui non era certamente un genio, non era in grado di capire tutto da una sola occhiata come loro due, ma i suoi gesti erano inequivocabili. Una carezza, quel bacio sulla fronte, anche solo aver fatto tornare il ragazzo. Era evidente l'amasse, nel suo modo strano e incomprensibile, ma ancora, dopo anni, non riusciva ad ammetterlo. John si chiese se almeno una volta, in tutta la sua vita, glielo avesse detto. Se lei lo sapeva che quell'uomo sempre così freddo la amava più di ogni altra cosa o se si era abituata a credere che la tenesse con sé solo per decenza umana.

"Oppure, Mycroft, potrebbe ammettere che per una volta nella sua vita ha fatto qualcosa di altruista, senza un tornaconto personale." si introdusse John nel discorso, rivolgendo a Holmes il suo migliore sorriso che pareva dire 'non provare a mentire, tanto ti ho beccato'. Sherlock sbuffò una leggera risata nasale e Mycroft fece una smorfia in direzione del medico ma non rispose.

A John piaceva prendersi quelle rivincite ogni tanto. Non odiava Mycroft, ma certe volte lo trovava fin troppo borioso e fastidioso. Gli ricordava alcuni dei suoi vecchi professori di medicina, troppo presi dalla loro sapienza da dimenticarsi come ci si rivolge ai pazienti. A volte era così anche Sherlock, ma lui aveva un lato umano più sensibile e con cui si poteva lavorare di più. Sherlock era il medico che ti insegnava sul campo e ti faceva da "mentore", mentre Mycroft era il primario, lontano e inarrivabile.
Ma John aveva smesso di assecondare quel tipo di comportamento da anni ormai. Se all'inizio era rimasto impressionato e quasi impietrito di fronte all'austerità e all'ostentazione di potere di Mycroft Holmes, ormai tutto quello non gli faceva più effetto. Ormai sapeva che sotto era molto più simile a Sherlock di quanto credesse e volesse ammettere.

Bastarono pochi minuti prima che i due ragazzi si ricordassero di non essere da soli nella stanza. Con le guance leggermente rosse dall'imbarazzo per la scena che avevano appena creato, si sedettero al tavolo di fronte a loro. Charlotte guardava David adorante, sempre impressionata dalla scioltezza con cui riusciva a parlare alla sua famiglia. In molti si sarebbero spaventati nel trovarsi davanti Sherlock e Mycroft e avere a che fare con loro su base quasi quotidiana. Ma lui no, lui non si era tirato indietro e li aveva affrontati senza abbassare mai la testa. Forse era un po' sfacciato, fin troppo confidenziale, ma a quanto pareva era la tattica giusta perché nessuno dei due si era lamentato del suo comportamento.
Poteva notare con la coda dell'occhio che anche John era rimasto piacevolmente sorpreso dalla tranquillità che il ragazzo mostrava nei confronti dei fratelli Holmes. Teneva un braccio attorno alle spalle di Charlotte e le accarezzava distrattamente, ogni tanto, il braccio. Tanti ragazzi si sarebbero sentiti in imbarazzo a mostrare affetto anche in quel modo innocente di fronte al padre della propria fidanzata, ma lui sembrava tranquillo. Come se non fosse niente di speciale. Mycroft, dal canto suo, non faceva nulla per farlo sentire in difetto. Da fuori poteva sembrare che fosse così perché non gli importava niente, ma in fondo Charlotte sapeva che era perché si fidava di David. Aveva capito subito che aveva un buon cuore e che non le avrebbe fatto del male, che con lui sua figlia sarebbe stata protetta e al sicuro.

La giornata passò incredibilmente tranquilla e più simile ad un Natale tradizionale di quanto John si aspettasse. La signora Holmes aveva preparato ogni genere di squisitezze per la tavola e non accettava che qualcuno si alzasse da tavola senza averle assaggiate quasi tutte - Sherlock e Charlotte compresi. Era rimasta particolarmente felice nel vedere la voracità di David, che non smetteva di elogiare la cucina della donna. John poteva capirlo. Anche lui quando era tornato dalla guerra sarebbe stato capace di mangiare qualsiasi cosa gli si parasse davanti e la cucina casalinga di sua madre era stata quasi in grado di farlo piangere dalla commozione.
Facevano delle pause ogni tanto, tra una portata e l'altra, in cui si dedicavano alle attività più comuni del Natale. Aprivano i regali, la cui sorpresa era puntualmente rovinata da Mycroft e Sherlock che facevano a gara su chi sarebbe stato il primo ad indovinare. Si erano raccolti attorno al pianoforte per cantare alcune carole, Charlotte sul seggiolino con le dita che si muovevano abili e veloci sui tasti e David seduto di fianco a lei con una chitarra classica ad accompagnare. In quei momenti Mycroft e Sherlock erano capaci di sparire tanto rapidamente quanto un gatto di fronte all'aspirapolvere, ma tutti sapevano che si trattenevano abbastanza vicini per sentirla suonare.

Durante il pomeriggio, dopo che Wanda aveva presentato sul tavolo il tacchino arrosto più grande e succoso che avesse mai visto, John si scusò ed uscì nel giardino sul retro. Il cielo era grigio ma vuoto di nuvole e la luce polverosa dell'inverno copriva ogni elemento lì presente. C'erano ancora alcuni giochi di plastica ormai scoloriti dal sole e dal tempo, usati sicuramente da Mycroft, Sherlock e in ultimo da Charlotte. Si chiese come potesse essere crescere in una famiglia così, se fosse possibile avere un'infanzia normale.

"Non ce la faceva più a stare lì dentro, eh?"

John voltò la testa e vide Charlotte, avvolta nel suo cappotto bianco con un pacchetto di sigarette e un accendino in mano. Le sorrise e scosse la testa.

"No. E dovevo fare due passi per digerire, sa com'è... non sono abituato a mangiare tanto!" esclamò, battendosi una mano sullo stomaco per sottolineare le sue parole.

Charlotte rise, buttando indietro la testa mentre teneva la sigaretta appena accesa tra le labbra e faceva scivolare il resto in tasca. John si rese conto che aveva una risata molto bella, diversa da quella di Sherlock. La sua era più libera, più genuina.

"Posso capirla. La nonna non si trattiene mai quando ha ospiti." sorrise, soffiando via il fumo. Si strinse poi nelle spalle e alzò la mano destra, dove teneva la sigaretta stretta tra indice e medio. "Vizio di famiglia." spiegò al medico, che la stava guardando con le sopracciglia leggermente corrugate.

Avrebbe voluto dirle che fumare fa male, che era troppo giovane per rovinarsi così, ma che autorità aveva? Non poteva permettersi di parlarle in quel modo, non era neanche suo amico in fondo. Lo avrebbe mandato a quel paese in una frazione di secondo e avrebbe avuto ragione.
Rimasero lì in silenzio per qualche istante, l'unico rumore che si sentiva era il leggero vento e il crepitio della sigaretta che bruciava. John guardava quello che succedeva dentro il salotto. Timothy sembrava aver catturato Mary e David con un racconto, chissà di che tipo. Si soffermò a guardare il ragazzo, la sua altezza che poteva benissimo competere con quella degli Holmes, i suoi capelli castani. Aveva un sorriso dolce e lo sguardo ancora buono e da ragazzino. Gli si strinse il cuore a pensare che gli sarebbe scomparso, che avrebbe visto il mondo in tutt'altro modo.
Vide poi Mycroft battibeccare con Wanda su qualcosa che non riusciva ad interpretare e Sherlock da solo con la testa china sui fogli che si era portato dietro da Baker Street. Anche a Natale Sherlock preferiva isolarsi, tenere le persone lontane. Era il suo migliore amico eppure a volte avrebbe voluto scuoterlo fino a rimescolargli il cervello.

Charlotte seguì lo sguardo di John e sorrise.

"Fa questo effetto a tutti." Il medico la guardò con le labbra leggermente tirate in avanti. "Mio zio, intendo. Si è sempre a metà tra l'amarlo come se non ci fosse un domani e la voglia di ammazzarlo." ridacchiò.

Anche John si concesse una risata, realizzando che le sue parole erano forse la migliore descrizione che potesse esistere del rapporto che si può avere con Sherlock Holmes. Charlotte si prese qualche secondo per guardarlo, per studiare il suo profilo colpito dalla flebile luce di dicembre. Aveva decisamente un bell'aspetto, non poteva negarlo. Il suo volto era regolare, gli occhi del blu più profondo che avesse mai visto. Cercava di capire qualcosa della sua personalità dalla sua fisionomia, ma non riuscì ad arrivare a molte conclusioni.

"Da quanto tempo state insieme? Lei e David, intendo." chiese poi John. "Se non sono indiscreto, ovviamente."

Charlotte sorrise e prese un grosso respiro.

"Quattro anni. Ci conosciamo dalle elementari, ma ci siamo fidanzati solo quattro anni fa. Mi ha aiutata molto in un periodo brutto." girò la testa verso di lui e sorrise, giocherellando con il piccolo anello che indossava all'anulare destro. "Ora sono io che devo sostenere lui. Sa, Dave non voleva arruolarsi. L'ha costretto il padre, era un ammiraglio. Lui vorrebbe fare lo psicologo per bambini."

Perché gli stava dicendo tutto quello? Non si era mai sentita così vicina a qualcuno in quel modo e nessuno era mai stato in grado di farla parlare così liberamente. Neanche David, per quanto le costasse ammetterlo. C'era qualcosa in quell'uomo che la portava a fidarsi, una spinta che la costringeva a confidargli i suoi pensieri e i suoi dubbi.
John sorrise dolcemente.

"Beh, potrà farlo quando tornerà. E non si preoccupi troppo, è giovane. Non gli faranno fare niente di troppo pericoloso."

"Da quanto tempo era in Afghanistan quando le hanno sparato alla spalla?" chiese lei a bruciapelo, facendo perdere un battito a John. Non si sarebbe mai abituato a parlare di quel periodo della sua vita e avrebbe preferito non farlo con una ragazza così giovane.

Inspirò a fondo e aprì e chiuse il pugno più volte. Alzò il mento, tenendo le labbra serrate e aspettò qualche istante prima di parlare.

"Tre anni. Ero lì da tre anni."

Non intendeva parlarle con quel tono asciutto, ma non riusciva a controllarsi quando l'argomento veniva fuori. Lei però non sembrava averla presa troppo male, forse si era resa conto di quanto ancora lo facesse soffrire. Si limitò a rivolgergli un sorriso mesto e sussurrare delle scuse, a cui lui risposte con un cenno della testa.
Charlotte spense la sigaretta, ormai arrivata al filtro, contro la staccionata. Appoggiò la schiena al legno e sospirò, guardando il cielo come se cercasse qualcosa o qualcuno. Scrutava ogni minimo centimetro di quella coperta universale, ogni sprazzo di grigio e azzurro che i suoi occhi d'ambra riuscivano a vedere. John rimase per un attimo incantato. Era bellissima, una delle persone più belle che avesse mai visto, ma sembrava fragile quanto una bambola di porcellana. Quanti colpi poteva incassare prima di rompersi? E quanti gliene avevano già dati i fratelli Holmes?

Sentì nel petto una forza che, se assecondata, lo avrebbe costretto ad avvicinarsi a lei e stringerla forte. Avrebbe voluto accarezzarle i capelli e dirle che tutto sarebbe andato bene. Chissà se aveva sempre avuto quel fondo di tristezza negli occhi, quell'aria di solitudine così simile ma, al tempo stesso, totalmente opposta a quella degli Holmes. Lei faceva parte di quella famiglia e, al pari di suo padre e suo zio, pareva irraggiungibile, come se fosse di qualche gradino più in alto rispetto a lui e tutti i comuni mortali. Ma gli scalini per raggiungerla erano più bassi e accessibili rispetto a Sherlock e Mycroft. Sembrava aspettare a braccia aperte chiunque volesse tentare di conoscerla, di portarla via da quella bolla di isolamento.

Aveva appena mosso un passo involontario verso di lei quando, da dentro casa, vide Mary agitare una mano per attirarlo dentro. Si ritrovò di colpo a Horsham, nel cortile di Wanda e Timothy Holmes, con il freddo che cominciava a fargli venire i brividi lungo la schiena. Sorrise alla moglie e le fece cenno che stava per rientrare. Volse la testa verso Charlotte, che annuì semplicemente, allora si diresse alla portafinestra.

"Ah, un'ultima cosa." la ragazza lo richiamò all'ordine e lui si fermò con la mano sulla maniglia. "Charlotte. Mi chiami semplicemente Charlotte e mi dia del tu, per favore, dottor Watson."

John sorrise, rilassando le spalle.

"Solo se tu mi chiami John."

Charlotte alzò gli angoli della bocca e John fu contento di vedere che i suoi occhi si erano leggermente illuminati. Annuì e lo salutò con la mano.
Quando lui fu di nuovo dentro, Charlotte sospirò e volse le spalle alla casa. Si allontanò, anzi, andando più vicina all'altro capo del cortile. Si avvolse le braccia attorno al corpo per proteggersi dal freddo.
Guardò lontano, verso il bosco in cui amava andare da piccola. C'erano delle fotografie di quando aveva circa due o tre anni, in cui aveva i codini, le calze pesanti e un vestitino verde smeraldo. Le scarpette erano sporche di fango ma lei aveva un sorriso enorme sul viso. In alcune di queste era assieme a Mycroft, allora così giovane da sembrare quasi un'altra persona. Era una delle rare volte in cui non indossava il suo solito completo ma dei pantaloni informali e un cardigan morbido. Al braccio aveva il suo immancabile ombrello nero e uno piccolo, tutto rosa, che apparteneva a lei. Erano alcune delle pochissime foto in cui c'era anche lui, che odiava farsi ritrarre. Ma a lei piaceva guardarle. Solo in quelle occasioni riusciva a vedere veramente l'amore che Mycroft provava per lei, solo lì trovava il padre che avrebbe voluto tutti i giorni accanto a sé.
Tra le sue preferite c'era sicuramente quella della sua laurea. Lei era molto piccola e non poteva ricordarsi niente, ma quella fotografia era ormai indelebile nella sua memoria. Vi era ritratto uno dei sorrisi più genuini di Mycroft mentre la teneva in braccio. Il morbido cappello nero era sulla testa di Charlotte e le spalle dell'uomo erano coperte dalla toga. Lei rideva, tenendo una mano sulla testa e lui semplicemente la guardava, il sorriso più grande che avesse mai fatto e gli occhi che brillavano. Aveva scoperto che ne teneva una copia nel portafogli - sicuramente lui aveva fatto in modo che lei se ne accorgesse. Non le importava come fosse arrivata a saperlo, ma vederla le aveva riscaldato il cuore. Allora gli importa davvero di me, aveva pensato allora.

"Oh, ma quale luce irrompe da quella finestra lassù? Essa è l'Oriente, e Giulietta è il sole!"

Charlotte sorrise e scosse la testa. Si girò, incontrando il sorrisetto soddisfatto di David. Il ragazzo si avvicinò a lei, le mani nelle tasche.

"Quanto sei scemo." commentò, facendolo ridere piano. Le passò un braccio attorno alla vita e lei poggiò le mani sul suo petto. "Non hai freddo senza cappotto?"

"Nah, ho la pellaccia dura!" le fece l'occhiolino e le diede un bacio sulla testa. "E poi, se dovessi ammalarmi, avrei un'ottima infermiera a prendersi cura di me." sorrise, sollevandole il mento. "Anche se mi farebbe impressione vedere tuo padre con un vestito bianco!"

Charlotte lo guardò basita per mezzo secondo, poi gli tirò un pugno scherzoso sul braccio facendolo ridere divertito. La strinse poi a sé, accarezzandole i capelli dolcemente. Charlotte si concesse un sorriso e ricambiò l'abbraccio, ascoltando il battito del suo cuore.

"Quanto rimani qui?"

"Poco, amore. Devo ripartire il 2 gennaio."

Charlotte si morse il labbro inferiore e lo strinse un po' di più. Avevano solo poco più di una settimana da stare insieme, poi lui sarebbe andato via di nuovo. Non voleva che la lasciasse di nuovo, era egoista ma voleva che rimanesse per sempre al suo fianco. Si passò la lingua sui denti, mandando indietro il groppo che si sentiva in gola.

"Starai dai tuoi?" chiese a mezza voce. David scosse la testa.

"No, loro non sanno neanche che sono qui. Tuo padre mi ha detto di stare da voi." le sorrise. "E questa volta, non mi ha raccomandato neanche di tenere la porta aperta!"

Charlotte alzò la testa per guardarlo negli occhi e ricambiò il suo sorriso. Aveva il tono allegro, ma lei lo conosceva bene. Poteva vedere nei suoi occhi che non era affatto felice, che avrebbe voluto rimanere lì. Che aveva paura, gli tremavano le mani quando pensava di dover tornare dall'altro capo del mondo. Avrebbe tanto voluto tenerlo con sé, evitargli tutto quello, ma credeva che nemmeno suo padre avrebbe potuto fare niente, non senza sacrificare qualcosa.

"Sono proprio la persona più fortunata dell'universo." esclamò David dopo qualche secondo. Charlotte aggrottò le sopracciglia. "Beh, ho la ragazza più bella del mondo che mi aspetta. Ed è tutta mia!" rise, sollevandola da terra.

"Dave! Mettimi giù!" strillò la ragazza, cercando di sembrare autoritaria ma tradendosi con una risata. Lui scosse la testa.

"Mai!"

La tenne meglio, mettendole un braccio sotto il sedere per farla appoggiare. Lei gli passò le gambe attorno alla vita e le braccia intorno al collo, così da stabilizzarsi. Sorrise, sfiorandogli il naso col proprio.

"Sei proprio uno scemo, David."

"Mi ameresti altrimenti?" le chiese con tono beffardo, un sorrisetto sulle labbra. Lei parve pensarci su un istante.

"Ti amo proprio perché sei così." sussurrò, annullando poi la distanza tra loro con un bacio.

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Capitolo 4
*** Capitolo tre ***


Capitolo tre




Natale in casa Holmes era sempre stato diverso da quello nelle altre famiglie. Se per tutti si trattava di un ritrovo allegro tra parenti che venivano dalle parti più disparate del mondo e che non si vedevano da mesi, per loro non era niente di diverso da una riunione con fin troppo cibo. Per John era anche divertente vedere Sherlock ritornare quasi bambino. Come se in fin dei conti, davanti alla mamma, nessuno potesse fare niente se non ascoltare ed obbedire. E la signora Holmes non sembrava affatto il tipo da lasciar correre la benché minima trasgressione.
Wanda Holmes era sicuramente stata una donna stupenda. Era bellissima anche in quel momento, ma a John non era sfuggita la fotografia del matrimonio con Timothy. Da giovane era davvero meravigliosa, con un sorriso che illuminava la stanza e gli occhi dell'azzurro più limpido che avesse mai visto. Timothy, invece, era uguale identico a Sherlock, per lo meno di aspetto. Avevano lo stesso taglio di labbra, lo stesso mento, lo stesso sorriso. Nessuno avrebbe mai potuto mettere in dubbio che fosse suo figlio. Era Mycroft che non somigliava a nessuno dei due, tranne che per gli occhi. Quelli erano identici a quelli di sua madre.

"Mio padre." esortò la signora Holmes, passandogli di fianco con un pentolone di acciaio tra le braccia forti.

John la guardò e aggrottò le sopracciglia, confuso dalle sue parole. Lei sorrise, poggiando la pentola contro il fianco e indicando, con la mano ora libera, un'altra foto che il medico non aveva visto.

"Somiglia a mio padre," disse semplicemente, sparendo poi in cucina.

Con le labbra appena in fuori, John si avvicinò alla fotografia più piccola che stava sulla cornice del caminetto. Non si sarebbe mai abituato ad essere anticipato così, ad essere così semplice da capire. Ma in parte era divertente. Sì, si divertiva anche ad accontentare gli Holmes e farli sentire più intelligenti del resto del mondo. Lo stesso doveva essere per Timothy, perché lo aveva visto fare un piccolo sorriso alle prime parole che gli aveva rivolto Sherlock quel giorno - hai ripreso a pescare. Non era una domanda, non voleva neanche accertarsene. Ma quando erano andati in salotto, il detective gli aveva spiegato che qualche anno prima si era rotto il gomito e ci era voluto del tempo prima che trovasse di nuovo il coraggio di prendere in mano la canna.

Poggiò la fotografia - sì, decisamente Mycroft era uguale a suo nonno, sorrisetto sarcastico e stempiatura precoce inclusi - quando sentì la porta d'ingresso aprirsi. Anche Sherlock sollevò la testa dai fogli che aveva davanti, sentendo che le acque si sarebbero agitate in pochissimo tempo. La porta sbatté contro gli infissi, ma non fu un'entrata gioiosa, sebbene esagerata. John si girò verso Mary, seduta sul divano, che si strinse nelle spalle. Rivolse allora la sua attenzione a Sherlock, che si limitò a sollevare un angolo della bocca e toccarsi l'orecchio, come per dirgli di stare zitto e ascoltare.

"Dico solo, Charlotte, che dovresti organizzarti meglio," la voce di Mycroft attraversò l'ingresso e arrivò, flebile, fino in salotto. John non riuscì a trattenere un sorriso divertito nel sentirlo, forse per la prima volta, sgridare qualcuno in quel modo. "Sono anzi stupito che non mi abbiano ancora chiamato dall'università."

"Oh, Dio santo, papà! Non sono mai in ritardo, okay? È capitato una volta! Ho studiato fino a notte fonda e non ho sentito la sveglia! Ammazzami, non lo so! Ma datti una calmata, è Natale!" il tono di Charlotte era sicuramente molto più acuto ed esasperato, tanto che anche i coniugi Watson e Sherlock riuscirono a sentirla senza problemi.

Mary non riuscì a non ridere a quello scambio e anche John non poté trattenere una risatina. Non sembrava quasi si trattasse degli Holmes, quello era un battibecco classico tra genitori e figli. Quanti ne aveva avuti con sua madre, quando era ancora viva e lui un adolescente a cui piaceva infrangere il coprifuoco. Si urlavano sempre contro ma finiva ogni volta con abbraccio e una tazza di the con del latte e un biscotto. Lui sapeva che lei lo faceva solo perché gli voleva bene e si preoccupava per lui. Ma era troppo giovane e stupido per capirlo subito. Adesso che non c'era più, che aveva solo Harry da qualche parte nel Regno Unito, rimpiangeva tutti quei battibecchi, quel modo grezzo e magari anche sbagliato di tenerlo al sicuro.

"Anche a Natale vanno rispettati gli orari! Come puoi pretendere di lavorare c-"

"Sì, okay, va bene!" sbottò la ragazza, esasperata, e John fece fatica a trattenere una risata sonora. Aveva zittito Sherlock qualche giorno prima e ora anche Mycroft. Aveva del talento, doveva riconoscerglielo. Bastò uno sguardo fugace perché capisse che anche Mary la pensava allo stesso modo, nonostante non l'avesse ancora conosciuta.

"Ciao, nonna. Dimmi la verità: papà era così rompipalle anche con te?"

Ora la voce era più vicina, si era fermata in cucina a salutare i due più anziani. Wanda sorrise e le diede un bacio sulla guancia, dicendole che era peggiorato con l'età e beccandosi uno sguardo torvo dal diretto interessato. La ragazza andò poi a salutare il nonno, che la strinse forte in un abbraccio con un sorriso che andava da un orecchio all'altro. Timothy Holmes era diverso dalla moglie e dai suoi figli. Lui non aveva quell'intelligenza sovrumana ed era un uomo semplice. A lui bastava poco per essere felice: una mattinata al laghetto a pescare con altri pensionati, una fetta della torta di pere fatta da sua moglie, una serata passata a guardare un film con una tazza di the tra le mani e Wanda accoccolata al suo fianco. Ma sapeva sempre quando qualcuno aveva bisogno di un abbraccio o di una parola dolce. Era il tipo d'uomo che andava in giro con la tasca destra piena di caramelle e quella sinistra di noccioline se gli capitava di incontrare uno scoiattolo. Doveva comprare una sciarpa a settimana durante l'inverno perché le regalava ai senzatetto e a volte aveva speso tutti i soldi che aveva con sé per comprare loro del cibo.

Quando Charlotte trotterellò in salotto, sembrava quasi che la discussione con Mycroft non fosse mai successa. Si avvicinò, anzi, a passo sicuro a Sherlock e gli calcò in testa un berretto da Babbo Natale, beccandosi uno sguardo torvo dall'uomo. La ragazza però lo ignorò e gli rivolse un grande sorriso prima di abbracciarlo forte e schioccargli un bacio umido e plateale sulla guancia - quelli che odiava più di tutti e che lei faceva apposta per dargli fastidio.

"Buon Natale, Grinch!" esclamò, sedendosi poi di fianco a lui.

Faceva sempre così quando discuteva con Mycroft: andava a fare la ruffiana con Sherlock e i nonni. Sapeva che avrebbero preso le sue parti, a parte alcune rare occasioni in cui aveva davvero sbagliato, e l'importante per lei era far sentire suo padre in minoranza. Mycroft si limitava a roteare gli occhi e alzare le mani, abbandonando la crociata. Erano poche le volte in cui nessuno si intrometteva, neanche Sherlock che comunque cercava sempre un modo per contrariare il fratello.

"Microeconomia?" le chiese, anche se il suo tono sembrava più un'affermazione in attesa di una conferma che una domanda vera e propria. Lei annuì e appoggiò la fronte sul tavolo.

"Non vedo l'ora di mollare la parte di economia l'anno prossimo." si lamentò. Rialzò la testa e incrociò lo sguardo interrogativo di John e Mary. "Studio 'Filosofia, Politica ed Economia' a Oxford," spiegò, accontentandoli. Si alzò poi e si diresse verso di loro per salutarli e presentarsi alla donna.

Mary sembrava una persona piacevole, da quello che aveva potuto vedere in quei pochi secondi. Le aveva sorriso con calore e le aveva stretto la mano in modo affettuoso. C'era però qualcosa dietro quegli occhi, qualcosa di pericoloso che però lei non riusciva a capire. Bastò una velocissima occhiata a Sherlock per comprendere che anche lui cercava di leggerla, di scoprire cosa nascondesse. Ma, se poteva fidarsi del suo istinto, Charlotte non credeva che Mary fosse cattiva. Qualsiasi cosa nascondesse, lo faceva a fin di bene. Di quello era sicura.

Mary e John salutarono Mycroft con un cenno del capo quando entrò. L'uomo ricambiò e si tolse il fazzoletto dal taschino. Si avvicinò alla ragazza e le tenne il mento fermo, sfregando il lembo di stoffa vicino all'angolo della sua bocca.

"Papà!" si lamentò lei, mettendogli le mani sui polsi per cercare di allontanarlo.

"Mi avresti rinfacciato di averti lasciato il trucco sbavato," spiegò semplicemente, raddrizzando la schiena. Catturò per qualche istante lo sguardo apparentemente divertito di Sherlock, ma si trattenne dal lanciargli una delle solite frecciatine. Perché, per quanto lo apprezzassero o meno, l'uno con l'altro erano sempre come due fratelli normali. Ma in quel momento non aveva voglia di iniziare uno dei loro soliti bisticci, non quando c'era loro madre nell'altra stanza pronta a tirarli entrambi per le orecchie.

Riportò lo sguardo sulla ragazza, che stava borbottando qualcosa sul non essere più una bambina e cercava di coinvolgere John e Mary nella sua crociata. Si concesse un leggerissimo sorriso, impercettibile a tutti tranne a chi sapeva guardare veramente, e le poggiò una mano sulla testa. Le ricordava così tanto Sherlock quando faceva così. Anche lui da piccolo non voleva essere trattato come un bambino e si arrabbiava talmente tanto quando lui invece lo faceva apposta che sembrava sul punto di scoppiare tanto era rosso.

"Oh, ne sono sicuro, Lotte." le concesse con uno dei suoi soliti sorrisi che parevano essere solo di sfottò. La ragazza infatti lo guardò male, le braccia incrociate sul petto. Le fece cadere e abbassò le spalle quando sentì il cellulare di Mycroft suonare. Lui lo prese in mano, guardò il nome sul display e sospirò. "Devo rispondere."

"Ma papà, è Natale!" si lamentò, cercando di convincerlo a non rispondere. Odiava il suo lavoro, a volte, perché le toglieva tanto tempo da passare con lui. Che fosse Natale, il suo compleanno o una vacanza, c'era sempre qualcuno che disturbava.

Mycroft le prese la testa tra le mani e poggiò le labbra sulla sua fronte, vicino all'attaccatura dei capelli. Sapeva cosa voleva dire quel bacio. Scusa amore mio, ma. Ma era in pericolo la vita della Regina. Ma doveva per forza andare altrimenti sarebbe successo qualcosa di molto grave. Ma Sherlock era in pericolo e non poteva lasciarlo da solo.
Lo guardò uscire dalla stanza mentre rispondeva alla chiamata, elusivo come sempre. Si rannicchiò quindi sulla poltrona, delusa e arrabbiata per quell'inconveniente. Sperava che almeno quel giorno nessuno avrebbe disturbato, e invece si trovava per l'ennesima volta a dover fare i conti con un uomo che non poteva dimenticarsi per un attimo il suo lavoro e fare semplicemente il papà.

Mary guardò John per un istante e, ad un suo piccolissimo cenno del capo, si alzò e andò a sedersi sul bracciolo della poltrona. Toccò una spalla della ragazza e le sorrise incoraggiante quando lei girò la testa nella sua direzione.

"Non devi prendertela, sai?" le parlò con tono dolce, la voce tanto bassa e calda che non si accorse nemmeno che aveva iniziato a darle del tu. Era passata ad accarezzarle i capelli e Charlotte si avvicinò inconsapevolmente a lei. Era come se non avesse il controllo del suo corpo e cercasse il calore di quella donna che non conosceva ma che si stava dimostrando tanto dolce nei suoi confronti. "Se è sempre così occupato lo fa anche per te, sai?"

"Ma mi lascia sempre da sola..." si lamentò con la voce abbastanza bassa che solo Mary poté udirla.

Per Charlotte era a volte troppo semplice fidarsi delle persone. Dava sempre tutto per chiunque riuscisse a fare breccia nel suo cuore e spesso si trovava con un pugno di mosche. Aveva quindi provato ad indurirsi, a diventare come suo padre e suo zio, ma era così dannatamente difficile. Soprattutto in quel momento, quando avrebbe dovuto trattenersi e non fidarsi totalmente di Mary. Ma lei era così dolce, le parlava e la coccolava come solo una madre poteva fare. Forse era proprio questo che le mancava: una mamma. Non che non amasse suo padre, per carità. Ma a volte desiderava il tocco di qualcuno di più affettuoso, un bacio che non implicasse altro, un abbraccio più lungo del solito.
Quello era ciò che Mary le stava offrendo in quel momento, senza però forzarla a spingersi dove si sarebbe sentita a disagio. Le carezzava semplicemente la testa, incrociando le dita ai fili d'oro dei suoi capelli e lasciava che si appoggiasse al suo fianco morbido.

"Lo so, cara, lo capisco. Ma fidati, preferirebbe anche lui passare un po' di tempo in più con te."

Charlotte alzò la testa e la guardò, studiando quel viso e quel sorriso, quello sguardo così limpido in quel momento.

"Dici davvero?" chiese poco sicura, senza rendersi conto di averle dato del tu. Non è educato, signorina le disse una vocina nel cervello che lei allontanò immediatamente. Mary annuì.

"Ne sono sicura, si vede dai suoi occhi. Ti svelo un segreto," si avvicinò di più al suo orecchio, "né tuo padre né tuo zio la fanno franca con me. Possono ingannare John, ma non me." le sussurrò, facendola sorridere.

"Grazie. Forse ti sembra stupido, ma... è importante, per me." si strinse nelle spalle e si rimise meglio sulla poltrona, così da lasciarla libera. Si rendeva conto ora di quanto potesse sembrare debole e patetica. Chissà cosa pensava di lei in quel momento. Probabilmente che era una ragazzina stupida che giocava a fare la grande ma, in fondo, era ancora solo una bambina.

Mary si limitò a sorriderle e lasciarle un'ultima carezza prima di allontanarsi. Aveva capito che in quel momento voleva rimanere con sé stessa, forse per recuperare la sua dignità o per pensare a quello che le aveva detto. O magari per entrambe le cose. Si avvicinò quindi a suo marito, che la guardò interrogativo. Lei gli rivolse un leggero sorriso e un cenno leggero del capo, come a dirgli che era tutto a posto.
Sembrava essersi preso a cuore quella ragazza e nessuno dei due sapeva spiegarsi il perché. Forse si immaginava come si sarebbe comportato lui in quella situazione, nei panni prima di Mycroft e poi di Charlotte. Di sicuro la sua reazione non sarebbe stata così pacata, a vent'anni era un vulcano di energia pronto ad eruttare e che era stato smorzato solo dai tre anni in guerra. Ma se fosse stato lui il padre? Avrebbe davvero permesso al suo lavoro di rubare del tempo a sua figlia? Aveva paura sarebbe stato obbligato a farlo, un medico poteva ricevere chiamate in qualsiasi momento del giorno o della notte. Ma cosa avrebbe scelto, a cosa avrebbe rinunciato?

John si riscosse dai suoi pensieri quando vide Mycroft tornare in salotto. Aveva appena posizionato il telefono nella tasca interna della giacca e ora si stava lisciando l'indumento, come se non fosse mai stato interrotto. Non si fermò, tuttavia, a parlare con loro ma attraversò la stanza con decisione per uscire dalla porta sul retro.
Sherlock tenne lo sguardo fisso su di lui senza far trasparire alcun tipo di emozione. Catturò con la coda dell'occhio l'espressione di Charlotte, che si era fatta di nuovo abbattuta e delusa. Mosse la gamba sotto il tavolo e sentì un'ignota e fastidiosa morsa allo stomaco. Odiava vedere quello sguardo smarrito e ferito, ma allo stesso tempo non poteva aprire bocca. C'erano stati un paio di gesti da parte del fratello che gli avevano fatto capire che cosa stava facendo, ma non poteva fare sfoggio delle sue deduzioni. Non in quella occasione.

Passarono pochi minuti prima che la porta di ingresso si aprì nuovamente e dei passi svelti si introdussero in casa. Era il rumore di quattro piedi che si seguivano, ma non vi era alcuna voce che potesse far comprendere di chi si trattasse. Eppure a Charlotte pareva di riconoscere quei rumori. Uno era sicuramente suo padre, aveva il suo passo cadenzato ed elegante, appena udibile ad un orecchio non allenato. L'altro era più pesante, più stanco ma anche decisamente più giovane.
Si alzò in piedi e Sherlock sollevò la testa e le spalle. Un piccolo sorriso arricciò un angolo della sua bocca. Allora forse aveva capito. L'aveva sottovalutata. Magari era solo un'intuizione inconscia, un desiderio del suo animo, ma qualcosa l'aveva aiutata ad arrivare alla conclusione che lui aveva dedotto da tempo ormai.

Proprio mentre la ragazza mosse i primi passi per aggirare la poltrona, Mycroft entrò in salotto. Dietro di lui c'era una figura avvolta in un cappotto scuro, con un berretto in mano e un sorriso esausto e tirato sul volto.

"Ciao, chérie."

 

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Capitolo 5
*** Capitolo cinque ***


Capitolo cinque



Il due gennaio era arrivato troppo in fretta, per i gusti di Charlotte. I giorni tra Natale e Capodanno trascorrevano ad una velocità come minimo doppia rispetto al normale. Era come se il tempo lo facesse apposta, un dispetto a tutte le persone che lo davano per scontato e lo prendevano in giro. Famiglie e persone amate che si rivedevano solo in occasione delle feste a causa di mille impegni erano destinate a passare pochissimo tempo assieme. Giornate che duravano la metà, in cui guardavi l'orologio alla mattina e, dopo cinque minuti, era già pomeriggio inoltrato. Era come se il mondo non vedesse l'ora di finire il suo giro, di far terminare l'anno ed iniziarne uno nuovo fatto di false promesse che non si sarebbero mai mantenute e speranze illusorie.
E così amanti venivano separati, gli zii d'America tornavano a casa loro. I figli salutavano i propri genitori e partivano per un'altra città, forse un paese o addirittura un continente diverso. Quasi si poteva sentire in tutta Londra lo stesso discorso: mi raccomando, fai attenzione. Chiamami quando arrivi. Ti voglio bene, non dimenticarlo. Fatti sentire ogni tanto, Peternon farti pregare ogni volta.
Rimanevano giusto gli ultimi strascichi, stanchi e lenti, che portavano fino all'epifania, poi sarebbe stato gennaio. Il primo mese dell'anno, Giano bifronte che guarda al periodo appena trascorso con un sorriso beffardo e, con l'altro viso, fronteggia il futuro che avrebbe iniziato a scorrere lento.

A Charlotte aveva sempre fatto un po' di tristezza quel periodo. Finite le feste e scemata l'euforia, non rimaneva niente se non qualche luce velata di malinconia e dei sorrisi pieni di rammarico per non aver approfittato di quel periodo. Gli anni scorsi forse non ci aveva fatto particolarmente caso, ma quell'inverno tra il 2005 e il 2006 le fece davvero assaporare quella prospettiva. Fu il primo, grande passo che la portò nella vera e propria età adulta, quando l'eccitazione dei regali e della festa lasciava spazio alla malinconica allegria di un altro anno che si aggiungeva al carico.
Non aiutava di certo il dover essere su una pista di decollo privata con il suo fidanzato in procinto di partire. Avrebbe raggiunto in aereo il punto di controllo mediorientale - Charlotte non si era data la pena di imparare il nome, non le importava e non l'avrebbe di certo aiutata - dove si sarebbe imbarcato e tornato in mezzo ai suoi compagni.

Era come se Londra avesse letto dentro i loro cuori quel giorno. Il cielo era grigio e coperto di nuvole, non si vedeva neanche un raggio di sole. Faceva freddo, talmente tanto da aver costretto anche Mycroft ad indossare un cappotto più pesante del solito e una sciarpa. Per un momento, però, né Charlotte né David lo sentirono. Stretti l'uno all'altra, come se volessero fondersi in un unico corpo, nessuno dei due pareva accorgersi delle intemperie esterne. Era come se fossero chiusi in una bolla, un mondo in cui esistevano solo loro e il loro amore. Lei non voleva lasciarlo andare e, dal canto suo, neanche lui voleva separarsi dalla ragazza. Avrebbe vissuto tra quelle braccia per sempre, stretto al suo seno morbido e con l'odore del suo shampoo alla camomilla nelle narici se solo avesse potuto.
Quella settimana non si erano quasi mai separati e a David era sembrato un sogno. Passavano la notte tra le braccia l'uno dell'altra, a fare l'amore o semplicemente a coccolarsi e sussurrarsi parole dolci. Aveva sfiorato ogni centimetro del suo corpo, le curve ancora troppo spigolose dei suoi fianchi, i suoi glutei, i suoi seni. Aveva assaporato la sua pelle, con la paura di farle del male perché lei era così minuta e delicata e invece lui aveva messo su parecchia massa muscolare. L'aveva guardata studiare, apprezzando la semplice vista della ragazza che amava concentrata a costruirsi un futuro solido. Le portava qualcosa da mangiare o da bere, cercando di non disturbarla, e a volte si allenava per tenersi occupato mentre lei era impegnata con i libri. Ogni tanto erano usciti, la sera per andare a bersi una birra o al pomeriggio, quando lei implorava una pausa, per una passeggiata al parco o una visita a Sherlock.
Aveva notato con piacere anche un leggero cambiamento in Mycroft. Lui che era sempre stato così rigido ed inquisitorio nei suoi confronti, che lo guardava sempre come se non stesse aspettando altro che un suo passo falso. Il suo sguardo era sempre pungente e sembrava leggergli all'interno della mente e dell'anima, ma si era ammorbidito. Il suo tono di voce non era più sarcastico ma lo trattava come un essere umano. E allora David aveva capito. Aveva capito che finalmente Mycroft si fidava di lui, abbastanza da affidargli una parte del suo cuore da custodire e proteggere.

Per quanto avrebbero voluto rimanere sempre abbracciati, arrivò il momento di separarsi. Si scambiarono un bacio, uno di quelli che somigliavano tanto ai baci di quei film americani che guardavano spesso assieme. Era un bacio in cui volevano dirsi tutto quello che non erano riusciti a fare a parole, che sottintendeva la promessa di ritrovarsi e di amarsi in un momento migliore, quando nessuno li avrebbe mai più separati.
Con un ultimo sorriso e una carezza sulla guancia, David si allontanò per salire sugli scalini che l'avrebbero portato all'interno dell'aereo. Charlotte quasi corse verso Mycroft a cercare protezione, come faceva sempre da bambina. Gli si sistemò di fianco e gli passò le braccia attorno, poggiando la testa contro di lui. L'uomo le mise la mano sulla schiena e gliela sfregò appena in una carezza impacciata. Rimasero in silenzio a guardare l'aereo decollare e portarsi via un ragazzo troppo giovane per combattere per un'ideologia che non era la sua.

"Stai bene?" le chiese in tono morbido, senza distogliere lo sguardo dall'aereo che, ora, stava diventando sempre più piccolo contro il cielo.

"Sì." Charlotte rispose dopo un sospiro. Stava mentendo e lo sapevano bene entrambi.
Cercava di convincersi che fosse così, forse dirlo poteva aiutarla. Ma Mycroft non ci era cascato, che fosse la sua incredibile intelligenza o il suo 'superpotere da papà', come lo chiamava lei da piccola. Non era mai riuscita a mentirgli o tenergli nascosto qualcosa, anche quelle più imbarazzanti come il primo ciclo mestruale o la prima volta che aveva fatto l'amore.

"Sto... bene." ripeté, forse più a se stessa che a lui. Le parole erano in contraddizione con i suoi gesti, tuttavia. Due grosse lacrime le avevano bagnato le guance e aveva stretto più forte il padre, chiedendogli in quel modo di non lasciarla.

Tutto nel suo corpo gli diceva che lei, in quel momento, aveva bisogno di lui. Non doveva fare niente, non avrebbe neanche saputo cosa avrebbe dovuto in fare, in caso. Doveva solo rimanere con lei, almeno per un paio d'ore, così da far scemare la fase acuta del distacco. Le accarezzò la testa e la guardò, concedendosi un sorriso sincero e pieno d'affetto che lei non vide. Stava crescendo, stava diventando una donna ma era sempre una bambina. Sarebbe sempre stata la sua bambina con i codini biondi e le guance paffute che gli si arrampicava sulla schiena appena ne aveva la possibilità.

"Oggi non inizio a lavorare prima delle due. Andiamo a pranzo fuori, ti va?" le chiese in tono apparentemente casuale.

Continuava ad accarezzarle i capelli, come aveva sempre fatto. Non era il tipo da gesti affettuosi, ma quello gli era sempre venuto naturale. Tutte le volte che da piccola gli si rannicchiava al fianco chiedendo di essere coccolata (e Mycroft sapeva quanto fosse stato difficile accontentarla), quando aveva un incubo e si intrufolava nel suo letto. Pian piano era diventato un'abitudine. Ogni mattina, quando lo raggiungeva al tavolo a fare colazione, le dava una carezza sulla testa. Quando tornava a casa da scuola, prima che lui uscisse per andare a lavorare.

Charlotte tirò su col naso e annuì alla sua proposta. Alzò la testa per incontrare i suoi occhi solo quando il velivolo non fu più visibile nel cielo. Per Charlotte quello sguardo era sempre un enigma. Non riusciva mai a capire a fondo quello che gli passava per la mente, i motivi per cui le dicesse certe cose o ne facesse altre. Lo conosceva abbastanza bene, quello era vero. Tanto da poter anticipare alcune delle sue mosse, quelle più prevedibili. Quelle che lui ti permette di anticipare le disse una vocina che lei scansò malamente. In quel momento, però, sapeva che glielo aveva chiesto perché lei voleva che glielo chiedesse. Voleva che stesse con lei, aveva paura a rimanere da sola. Aveva bisogno di qualcuno che la spronasse a compiere le attività quotidiane e non le permettesse di cadere in uno stato di apatia.

Uscirono dall'hangar a passo lento, ancora vicini l'uno all'altra. Era il classico rovesciamento delle parti. Di solito erano i figli ad essere i bastoni della vecchiaia dei genitori, erano loro a sostenerli. In quel caso, era Mycroft il punto di appoggio di Charlotte, come lo era stato tante volte prima, che lei se ne fosse resa conto o no. Era lui a doverla sostenere, a non farla cadere e guidarla. In un certo senso gli faceva anche piacere, era proprio come se niente fosse cambiato e, beh... ogni padre, anche se rispondeva al nome di Mycroft Holmes, faceva fatica ad accettare che la propria figlia stesse diventando adulta e sempre più indipendente.

Andarono a pranzo in un ristorante greco, dove Mycroft ordinò uno stifado d'agnello con un bicchiere di vino Retsina e Charlotte sbocconcellò una porzione di moussaka. Non parlarono di David o della sua partenza, scambiarono due parole sull'università e su come stavano andando gli studi. Ma la maggior parte del tempo la passarono in silenzio e Charlotte non poteva esserne più grata. Non aveva molta voglia di parlare e aveva paura di dire cose a sproposito.
La accompagnò poi a casa, prima di andare a lavoro. Le rivolse un piccolo sorriso, le passò un dito sulla fronte e vi lasciò un piccolo bacio proprio al centro. Se ne andò subito, raccomandandole di studiare e non perdere tempo. E ci aveva provato. Voleva studiare senza distrazioni, ma ovunque si girasse in quella casa rivedeva David in quell'ultima settimana.
Sospirò e chiuse il libro con un tonfo secco. Non poteva continuare in quel modo, non sarebbe riuscita a concentrarsi. Prese una cartella a tracolla e vi infilò i testi universitari e i suoi appunti. Recuperò le chiavi, uscì di casa e si diresse verso Baker Street. Magari lo zio era fuori e poteva studiare tranquilla lì. Se fosse stato in casa... beh, magari avrebbe potuto studiare lo stesso. O sarebbe andata in biblioteca. Non voleva stare da sola, anche essere circondata da persone silenziose e senza nome le andava bene. Almeno non si sarebbe sentita da sola ed essere in compagnia l'avrebbe aiutata ad abbassare il volume delle voci che continuavano ad echeggiarle nella testa.

Si fermò un istante al piano inferiore per salutare la signora Hudson, che la strinse in un abbraccio più forte di quello che poteva dare ad intendere la sua corporatura. Charlotte rimase interdetta per un secondo, ma poi fece passare le braccia attorno al torace della donna e ricambiò la stretta. Martha Hudson aveva sempre avuto un debole per gli Holmes, soprattutto Sherlock, e questo si estendeva ovviamente anche a Charlotte. L'aveva sempre coccolata le volte che l'aveva vista, prendendo in giro Sherlock e Mycroft assieme a lei in nome di quella che aveva chiamato 'solidarietà femminile'. Anni prima Charlotte non capiva cosa intendesse, ma col passare del tempo ci era arrivata. Era un legame che univa tutte le donne del pianeta e che lei aveva provato raramente nella sua vita perché era sempre stata circondata da uomini. Era anche quella sapienza innata che permetteva alle donne, soprattutto quelle più anziane e alle mamme e nonne, di capire se c'era qualcosa che non andava.
Accampando mille scuse, Charlotte riuscì ad uscire dall'appartamento della signora Hudson, non senza aver guadagnato una quantità di biscotti esagerata per una sola persona. Salì leggera sulle scale, saltando il gradino rotto, e aprì la porta dell'appartamento. Era vuoto, nessuno vi aveva messo piede da qualche ora. Sospirò, riempiendosi i polmoni dell'odore flebile di fumo (Sherlock aveva ripreso a fumare) e di sostanze chimiche. Era completamente diverso dall'odore che aveva casa sua, sempre così pulita e profumata da qualche diffusore di essenze.

Si avvicinò al tavolino e spostò qualche carta, dando un'occhiata a quello che le capitava sotto mano. Ritagli di giornale, fotografie, appunti. Doveva avere un caso interessante tra le mani, la scrittura era veloce e nervosa e aveva visto qualche spartito manoscritto qua e là. Sorrise appena e si accomodò sulla sedia. Tirò fuori il libro di filosofia generale e degli evidenziatori colorati. Cominciò ad addentrarsi nella storia dei filosofi e dei loro pensieri, nelle teorie sull'uomo e sull'universo.
Al contrario di economia, filosofia le piaceva. Trovava interessante osservare come l'uomo si è sempre posto domande su sé stesso e quello che lo circonda e vedere come la concezione del sé cambiasse a seconda del periodo storico. Poteva rapportarla alla musica, la sua vera passione, mentre economia era... era una montagna aspra e rocciosa, dalla sommità impraticabile. Il ramo politico era più semplice, invece, forse perché ci era stata immersa sin da bambina.

Nonostante fosse concentrata sul libro, sentì comunque i passi di due uomini salire le scale ed entrare nell'appartamento. Senza perdere un istante, recuperò le chiavi del 221B e le lanciò a John, che le afferrò al volo e la guardò confuso.

"Scusa, John, ma è più facile rubare a te che allo zio. Ho fatto una copia, comunque."

John ridacchiò, scuotendo leggermente la testa e mettendosi il mazzo in tasca.

"Ecco che fine avevano fatto... Direi che hai una rivale, Sherlock."

"Oh, davvero?" replicò il consulente investigativo. L'angolo destro della bocca era alzato in un sorrisetto di scherno e aveva sollevato una mano, in cui stringeva, tra pollice e indice, la fede del medico.

Watson guardò l'anello in mano dell'amico, poi la sua mano e di nuovo l'anello. Aggrottò le sopracciglia e mosse la bocca, indeciso su quale delle mille frasi che gli giravano in mente dire. Alla fine optò per un "Sherlock!" con tono di rimprovero e gli strappò la fede dalle mani per poterla rimettere. Sherlock ridacchiò e si avvicinò al tavolo, dove Charlotte lo accolse con una smorfia.

"Quando la smetterai di far diventare tutto una gara?"

"Quando tu non vorrai più fare colpo su chiunque ti circonda. E soprattutto su di me." rispose beffardo, chinandosi verso di lei.

"Allora i giochi rimangono aperti, zietto caro." sogghignò e gli schiacciò il naso. "Allora, il caso di Laura Palmer?" chiese, spingendo un pochino più lontano il libro e accavallando le gambe. Si era girata verso i due uomini, giocherellando con l'evidenziatore rosa che teneva in mano.

Entrambi la guardarono senza riuscire a comprendere appieno le sue parole. Lei alzò le sopracciglia e piegò leggermente la testa di lato.

"Twin Peaks?" tentò, ma sospirò quando vide che non aveva aiutato minimamente. "La ragazza che avete trovato morta in un sacchetto di plastica. Dio, ma non avete davvero visto una delle serie più famose del mondo? Da te, zio, me lo aspettavo, ma non da te, John!" spiegò, indicando la fotografia della vittima che aveva notato prima mentre sistemava.

Sherlock la guardò per un istante, poi recuperò l'immagine e la girò. Si mise le mani sui fianchi e osservò la ragazza con aria di rimprovero.

"Sai che tuo padre non vuole." le disse, il tono tuttavia era calmo e quasi carezzevole.

"Ho solo visto una foto, non ho cercato di intrufolarmi." si difese, alzando le mani. Il sorrisetto sul suo volto, però, diceva tutt'altro e John conosceva bene quella scintilla negli occhi tipica degli Holmes. "Allora? Avete scoperto qualcosa? C'entra Moriarty, vero?"

Sherlock aveva aperto la bocca per iniziare a dirle delle nuove scoperte fatte analizzando i pochi residui non rovinati dall'acqua del Tamigi. Ma a quelle ultime parole si bloccò e si girò verso di lei con gli occhi spalancati.

"Tu non dovresti sapere di lui." disse a voce bassa. La interruppe appena lei tentò di parlare. "Se tu sai di lui, lui sa di te."

"Tutti sanno di lui, John ne ha scritto sul blog!" esclamò indicando il medico con una mano. Era infastidita da quel tono, era come se fosse una bambina che non poteva parlare con i grandi.

"Ma tutti non sono te, Charlotte. Può usarti per arrivare a me, sai che lo farà se sarà necessario." le spiegò nello stesso modo in cui si spiega qualcosa ad un bambino o a un idiota.

Charlotte rimase qualche istante a guardarlo, furente. Odiava quando la trattava in quel modo, come se volesse farla tacere mettendola davanti ad una logica senza errori. Inoltre, per una volta, credeva si fosse genuinamente preoccupato per lei e per la sua incolumità. Ma no, alla fine girava tutto attorno a lui. Sempre e solo tutto attorno a lui, come da qualche anno a quella parte. Mise a posto tutte le sue cose e le gettò nella cartella. Rivolse un solo sguardo a suo zio, poi si infilò il cappotto e tirò John per una manica mentre stava uscendo.

"Accompagnami in biblioteca." gli disse semplicemente, come se fosse un ordine. Forse suonava proprio in quel modo, il tono fin troppo ruvido e i modi quasi sgarbati. Ma non se ne era accorta, era troppo impegnata a non farsi saltare i nervi e avventarsi contro la giugulare dello zio come un cane rabbioso. Il medico si strinse nelle spalle e non poté fare altro che seguirla.

Una volta fuori dall'appartamento, e abbastanza distanti dalla porta, sospirò e guardò la ragazza. Sembrava essersi calmata e ogni traccia di irritazione era sparita dal suo volto.

"Allora... perché mi hai trascinato via?" si azzardò a chiederle, sperando di non scatenare nuovamente la sua ira. Lei si limitò a girare la testa verso di lui.

"Perché volevo farti passare un po' di tempo con un membro della famiglia Holmes davvero piacevole."

"Oh, ci sono i tuoi nonni?" scherzò, rivolgendole un sorrisetto divertito. Sperava di non farla arrabbiare di nuovo, voleva essere solo uno scherzo per rompere la tensione e farla ridere. Lei fece un'espressione falsamente offesa e girò la testa dall'altra parte.

"Basta, non ti parlo più!" esclamò, ma subito si mise a ridere così come il medico. Si avvicinò nuovamente a lui e lo prese a braccetto. "Scusa per prima. Mi da fastidio quando mi trattano ancora come una bambina."

John la guardò, sentendosi appena a disagio. Sentiva che era sbagliato quello che stavano facendo in quel momento, ma... di preciso cosa stavano facendo? Lui la stava solo accompagnando in biblioteca. Certo, era incredibilmente vicina e poteva sentire ogni centimetro del suo corpo premuto contro il suo braccio. Deglutì e si costrinse a guardare in avanti. Aveva ragione, cercava a tutti i costi qualcuno che la aiutasse ad uscire da quell'isolamento tipico degli Holmes. Lei cercava il contatto fisico, era affettuosa. Quando si stringeva a qualcuno, quando baciava qualcuno o lo accarezzava, non lo faceva con malizia. Era solo alla ricerca di un tocco che le assicurasse di non essere da sola, di essere apprezzata. Ma non capiva che, a volte, era difficile. Avrebbe potuto accontentarla, passarle un braccio attorno alle spalle come faceva con sua sorella quando erano più giovani, ma cosa avrebbero pensato i passanti? Si umettò le labbra.

"È normale. Non è facile accettare che la piccola di casa stia diventando grande, sai?" le rispose. "Ma posso provare a parlare con Sherlock. Non ti prometto niente, ma... ci proverò." le sorrise, tenendo le mani nelle tasche del giaccone.

Passeggiarono chiacchierando del più e del meno. A Charlotte piaceva poter parlare così liberamente a qualcuno, senza sentirsi giudicata o 'indietro'. Gli raccontò dei suoi studi, di quanto avrebbe voluto studiare musica al suo posto e degli strumenti che sapeva suonare. Gli parlò anche di David, di come fosse stato difficile lasciarlo andare quella mattina e John la sorprese con qualche racconto della sua esperienza in guerra. Le svelò anche della sua cicatrice, che ogni giorno gli ricordava di come era cambiata la sua vita, di quanto l'aveva odiata e, invece, adesso era semplicemente parte di lui.
Quando arrivarono alla biblioteca, ad entrambi dispiacque doversi lasciare. Charlotte non ricordava di essersi mai trovata così bene con qualcuno conosciuto da poco e John aveva trovato estremamente piacevole la compagnia di quella ragazzina. Si salutarono con un cenno della mano e John si girò per tornare a Baker Street, dove Sherlock lo attendeva per studiare i risultati ottenuti quella mattina al Bart's. Il caso di Laura Palmer lo aveva chiamato Charlotte. John ridacchiò, scuotendo la testa, e si cacciò nuovamente le mani in tasca. Trovò un pezzo di carta che prima non c'era e lo tirò fuori.
Vi era scritto un numero di telefono con una piccola nota scritta in una grafia elegante e leggera. 'Se mai avessi voglia di parlare con la parte umana degli Holmes. CHx'. John sorrise e si fermò per registrare il numero sul suo cellulare.

Spazio autrice

Hello there!

Ogni tanto mi faccio risentire anche io! Vorrei anzitutto ringraziare chi sta seguendo la storia. Vi vedo che leggete in silenzio, e per me è già tantissimo così. Grazie, davvero, di cuore. Soprattutto alla mia Watson personale che, leggendo i capitoli ad alta voce, ogni tanto se ne esce con delle perle come John che non esiste ma è solo frutto dell'immaginazione di Sherlock dopo che si è fatto qualche pera di troppo. RIP John e RIP me dopo questa rivelazione (I love you, Cosa, you know that).

Mi spiace se magari Mycroft vi sembra OOC e troppo umano, ma non riesco ad immaginarmelo completamente freddo e distaccato con Charlotte. Non sarà mai il padre modello che abbraccia, coccola e dice "ti voglio bene", per carità, però... Se si ha in mente la serie, dopotutto, anche con Sherlock non è mai completamente distaccato. Si preoccupa, cerca in qualche modo di proteggerlo, lo vede sempre come se fosse un bambino indifeso. Ed è un po' come lo immagino con Charlie, anche se deve lasciarsi un po' andare perché è più irruenta ed espansiva e non accetta un no come risposta.
Quindi niente, scusatemi davvero dal profondo se vi ha dato fastidio vedere Mycroft in questo modo!

Adoro scrivere i battibecchi tra Charlotte e Sherlock! Anche per quanto riguarda loro... Mi spiace molto se qualcosa da fastidio, se anche Sherlock sembra troppo umano. Ma loro li vedo proprio come se fossero complementari, una sola persona divisa in due: Sherlock ha preso tutta la mente e Charlotte tutto il cuore. Assieme bisticciano e si stuzzicano, ma funzionano come due ingranaggi di un orologio. Si completano e si spronano l'un l'altra ad esplorare parti di loro stessi da cui cercano sempre di fuggire. Probabilmente è il rapporto più puro e sincero che ci sarà in tutta questa storia, a dire la verità...

Non saprei cosa aggiungere, se non un altro grazie a chiunque sia arrivato fin qui. Lasciatemi un commento, se vi va! Così posso sapere se devo correggere il tiro e sistemare qualcosa.
Grazie mille, davvero ♡

 

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Capitolo 6
*** Capitolo sei ***


Capitolo sei



Dopo pochi giorni, Charlotte tornò a Oxford. Era sempre difficile per lei lasciare Londra, la sua casa. Lì conosceva a memoria tutte le strade che avevano fatto parte della sua vita, riconosceva il profumo di ogni parte della città e poteva nascondersi facilmente tra gli abitanti e i turisti. Spesso scivolava fuori di casa e si mescolava alle persone, si sedeva su una panchina al parco o faceva un giro in un museo. Guardava i passanti, persone sole, coppie e famiglie, cercando di immaginare quello che le aveva portate in quel posto, cosa le aveva rese quello che erano diventate.
Tuttavia, non le dispiaceva neanche essere lontana dalla sua famiglia. Per quanto li amasse, e sarebbe stata in grado di rinunciare a qualsiasi cosa per loro, se rimaneva con loro per troppo tempo finiva per dimenticarsi di essere una persona a sé stante. Non riusciva più a mantenere una sua propria identità, a non assumere inconsciamente tutti gli atteggiamenti tipici di Mycroft e Sherlock. A Londra rimaneva sempre la "figlia di", la "nipote di". Erano loro che si erano fatti un nome, che erano conosciuti. Certo, in parte era dovuto al fatto che Mycroft la teneva quasi nascosta. Era come se avesse paura che qualcuno potesse portarla via una volta scoperta la sua identità.
In un'altra città, invece, dove c'era solo lei a rispondere al richiamo 'Holmes' e suo padre e suo zio erano conosciuti solo per il nome, era lei ad essere la protagonista. Era lei che decideva della sua vita, che veniva presa in considerazione e non doveva aver paura che le parlassero solo per arrivare ad altri. Era come prendere una boccata d'aria fresca dopo essere stata in una stanza chiusa da settimane. Oxford voleva dire libertà di essere se stessa, di decidere di per sé e non vivere nell'ombra degli Holmes. Lì era lei l'unica Holmes, era lei a dirigere i fili della sua vita.

Londra, d'altro canto, sembrava essere diventata molto più tranquilla da quando lei era partita, o almeno così sembrava agli inquilini e frequentatori del 221B di Baker Street. Era strano a pensarci, ma la sua presenza aveva animato le vite delle persone che aveva incontrato e reso le giornate diverse dal solito. Per John, almeno, era la novità che lo aveva lasciato colpito. Non si sarebbe mai aspettato di vedere Sherlock comportarsi in quel modo con qualcuno, cambiare appena il tono di voce quando le parlava. Lo conosceva abbastanza bene da non sbagliarsi riguardo quel suo cambio repentino di atteggiamento. Con tutte le persone che, come minimo, rispettava manteneva sempre un certo distacco. Lestrade, Molly, Mary, persino John stesso. Avrebbe affidato loro la sua vita, ne era certo, ma sarebbe stato disposto a mostrare del sentimento? Ne dubitava. Non lo aveva mai fatto, neanche con lui che gli era amico da anni ormai. Migliore amico, anzi. O almeno, così era per John. Non c'era mai stato nessuno come Sherlock, nessuno lo aveva mai fatto sentire 'normale' e non giudicato come lui. E sapeva, in una parte recondita della sua coscienza, che anche per Sherlock non era molto differente. Sapeva che teneva a lui, nel suo modo bizzarro e fuori dagli schemi.
Ma con Charlotte... John non poteva nascondere una punta d'invidia. Quei due erano complementari, due ingranaggi della stessa macchina che si incastravano perfettamente e funzionavano con precisione e fluidità. Avevano il loro linguaggio, si parlavano senza proferire parola e, a volte, senza neanche essere vicini o nella stessa stanza. Un solo sguardo bastava per comunicare quello che stavano pensando, un solo tocco leggero carico di dolcezza era in grado di trasmettere più informazioni di un discorso. Quello che lo aveva colpito è infastidito di più, però, era la loro perfetta coordinazione. Non un gesto era sprecato, mai una penna che cadesse a terra quando se la lanciavano. Era evidente che si erano modellati l'uno attorno all'altra, si erano adattati alla gestualità e i movimenti dell'altra persona e ora, dopo quasi vent'anni, erano come un'unica anima scissa tra due corpi.
John si sentiva lasciato da parte quando quei due erano nella stessa stanza. Lui che si era sentito speciale tante volte per il solo motivo che Sherlock aveva scelto lui come partner di indagini, aveva deciso di fidarsi di lui e di fargli immergere un piede nel grande lago che era la sua vita dietro la maschera. Ma quando Sherlock e Charlotte erano assieme, John riusciva a vedere la stanza riempirsi in ogni anfratto del loro ego senza lasciar spazio al medico. Si trovava a soffocare in mezzo a quei discorsi silenziosi, quelle frasi lasciate a metà ma comprese perfettamente da entrambe le parti, quei veloci gesti che parlavano di una complicità che lui non avrebbe mai avuto col suo migliore amico. O con chiunque altro, a dire la verità. Non aveva mai visto due persone così in sintonia, così simili senza neanche rendersene conto.

"John, tesoro, è normale. Tu non sei un Holmes" gli aveva detto Mary una sera. Lei si era accorta di quel malumore e aveva fatto di tutto per farsi confessare quello che gli passava per la mente. Era grandiosa, Mary, e riusciva sempre ad ottenere quello che voleva. Non lo aveva giudicato e non aveva riso quando le aveva confessato i suoi pensieri e le sue emozioni, ma gli aveva dato un bacio dolce e aveva detto quella frase. Avrebbe voluto ribattere che neanche lei era una vera Holmes, che non aveva il loro stesso sangue e la loro intelligenza. Che anche Charlotte era esattamente come loro, due persone normali che si erano scontrate con altre di un'intelligenza superiore e avevano dovuto adattarsi per non finire schiacciate. Ma sapeva, in fondo, che non era così. Lei non era una persona normale, non lo sarebbe mai stata. Lei era stata cresciuta da Mycroft Holmes, l'uomo più razionale e calcolatore che John avesse mai conosciuto. Per quanto non possedesse l'acume tipico della sua famiglia di adozione, il padre le aveva insegnato come dissimularlo, come capire le mosse degli altri in anticipo e non farsi mai prendere alla sprovvista. Aver vissuto tutta la vita assieme a Sherlock Holmes le aveva insegnato a comportarsi come lui, ad entrare nella sua testa e imparare la sua lingua. L'aveva portata a vivere quasi in simbiosi con lui, ad essere forse solo un'appendice del grande detective.
John si immaginò Charlotte bambina, che saltellava attorno alle gambe di Sherlock per attirare la sua attenzione. Nella sua mente la vide scacciata in malo modo, come se fosse un insetto fastidioso, sentì le parole dell'amico dirle che non doveva lasciarsi andare ai sentimenti e di mantenere un po' di decoro. La immaginò allora, dopo le prime delusioni profonde, emulare il suo comportamento, la sua postura, il suo modo di parlare sino a diventare una sua copia esatta. Un'immagine riflessa che, però, non aveva la sua stessa sostanza. John aveva sospirato e, con quelle immagini in mente, non si era più sentito geloso. Aveva visto dietro quella maschera, aveva potuto parlare davvero con lei e godere del suo reale sorriso. Lei era una persona a sé stante, meravigliosa ed interessante ma che faceva fatica ad emergere quando si trovava con suo zio. Il medico si diede dell'idiota per aver anche solo provato dell'invidia nei suoi confronti. Crescere in quella famiglia non era di sicuro semplice e richiedeva sacrifici e una fortezza d'animo  Lui, probabilmente, non sarebbe riuscito a sopravvivere in quel modo per tutti quegli anni.

Gli ci erano voluti alcuni giorni per trovare il coraggio di scriverle, almeno perché anche lei avesse il suo numero se fosse stato necessario. Se fosse successo qualcosa durante un caso, se Sherlock si fosse fatto male, se avessero avuto bisogno di un aiuto... Erano queste le motivazioni che aveva dato alla sua decisione. Gli ci era voluto del tempo, tuttavia, perché il suo stupido orgoglio misto all'inutile gelosia che aveva provato nei suoi confronti lo avevano trattenuto dal contattarla. Aveva capito che non poteva avercela con lei per qualcosa di cui non era colpevole: non era colpa sua se era stata adottata proprio da quella famiglia e non era colpa sua se, per quel motivo, era in sintonia con loro molto più di chiunque altro. Gli aveva lasciato scritto con quella grafia elegante ed aggraziata di essere la parte umana degli Holmes. John decise di interpretarlo non solo come se lei fosse l'unica Holmes in grado di mostrare i sentimenti, ma anche come se lei riuscisse a tirare fuori l'umanità dei due fratelli. Era il loro lato umano, la persona che dimostrava che anche loro due erano in grado di amare e preoccuparsi per qualcuno.
Il primo SMS che le inviò era semplice. 'Ehi, ciao. È stato divertente vedere Sherlock comportarsi in quel modo mentre eri qui. - John Watson'. Lei aveva risposto qualche minuto dopo inviandogli delle emoticon che ridevano. Nei giorni successivi si scambiarono giusto qualche messaggio di circostanza, tutti incentrati su come stesse Sherlock, se Mycroft continuava a ficcare il naso nel loro lavoro per proteggere il fratellino, se l'assassino era stato trovato. 'BOB' lo aveva chiamato Charlotte e aveva spiegato a John che era il nome dell'entità sovrumana che aveva ucciso Laura Palmer in Twin Peaks. Aggiunse un devi guardarlo assolutamente, sei un eretico che fece ridere John di gusto.

Man mano che si scambiavano notizie pratiche, scivolavano argomenti più leggeri nelle loro conversazioni. A John piaceva parlare con lei, aveva quasi vent'anni - scoprì che il suo compleanno sarebbe stato il 9 febbraio, era nata proprio il giorno dell'ultimo passaggio della cometa di Halley - ma non sembrava infantile come lo erano tanti ragazzi e ragazze a quell'età, ancora in equilibrio tra la spensieratezza dell'adolescenza e le responsabilità della maturità. Aveva la battuta pronta ed era brutalmente onesta, come suo zio, ma non si riusciva ad arrabbiarsi con lei a causa del modo candido con cui esponeva le sue argomentazioni. Non vedeva malizia né saccenza nelle sue parole, come invece succedeva spesso con Sherlock. Con lei era... Semplice. Non c'erano doppi fini e non c'erano giudizi velati quando rimaneva indietro e non capiva al volo.
Non poteva nascondere però una parte di vergogna, di colpa. Lui era sposato con Mary e Charlotte era fidanzata. Inoltre avevano quattordici anni di differenza, lei era ancora una ragazzina. Perché continuava a messaggiare con lei, anche nei momenti di pausa dal lavoro - e di sicuro durante le sue lezioni? Perché lo teneva nascosto da sua moglie, dicendole che erano soltanto check in estemporanei perché lei non si preoccupasse troppo per Sherlock? Ogni volta che ci pensava si mordeva il labbro e scuoteva la testa. Non stava facendo niente di male, erano solo chiacchiere con un'amica. Mary avrebbe interpretato male, tutto qui, non voleva darle altri pensieri. In quell'ultimo periodo sembrava già preoccupata per qualcosa che John non conosceva e non poteva vedere, era sempre sull'attenti. Spesso rimaneva fuori fino a tardi e quando tornava aveva un'espressione che gli spezzava il cuore da quanto era sconsolata ed impaurita. Non riteneva quindi necessario aggiungere altre preoccupazioni al carico, renderle la vita ancora più difficile. Charlotte era una semplice amica, forse l'unica che poteva comprendere come fosse vivere con un Holmes.

In quella fredda mattinata di fine gennaio, John era seduto sulla sua poltrona al 221B di Baker Street. Era il suo giorno di riposo in ambulatorio e quindi aveva deciso di passarlo lì, a svolgere il suo secondo - e decisamente più interessante ed eccitante - lavoro. Non aveva tenuto conto, però, dello zelo che Sherlock metteva nell'analizzare ogni minima sostanza. Non vi erano stati neanche clienti, che avevano deciso di evitare di combattere contro la neve che stava scendendo lenta ed annoiata e che avrebbe ricoperto le strade in poco tempo.
Aveva bevuto un the portato su dalla signora Hudson ed era rimasto ad annoiarsi sulla poltrona mentre Holmes continuava ad analizzare in maniera ossessiva le scarse sostanze che aveva trovato suo corpo della vittima. Aveva quindi inviato un SMS a Charlotte, giusto per passare il tempo, chiedendole se anche lei si era mai trovata a dover ammazzare la noia mentre Sherlock sembrava aver intrapreso una relazione a lungo termine con il suo microscopio. Pochi istanti dopo il trillo del telefono lo aveva avvisato di un nuovo messaggio. 'Certo. Quando è così, puoi anche rubargli le mutande senza togliergli i pantaloni che non se ne accorge', era stata la risposta della ragazza. John rise a quelle parole, immaginandosi la scena e trovandola più che plausibile.
Quello scambio di messaggi andò avanti ancora per qualche minuto, finché John non si vide comparire una mano davanti agli occhi che gli strappò via il telefono. Alzò gli occhi e incontrò lo sguardo infastidito di Sherlock. Stringeva il cellulare tra le dita lunghe quasi come se volesse romperlo e pareva volesse rimproverare John di qualcosa. Ecco, ci siamo, ha capito che parlo con Charlotte e vuole farmi smettere fu il primo pensiero del medico, che tuttavia si schiarì la gola. Si appoggiò con gli avambracci alle ginocchia e sbatté un paio di volte le palpebre, guardandolo come per dirgli di parlare.

"Smettila di flirtare con mia nipote." il tono era basso e distaccato come sempre, ma quell'accento sul possessivo aveva turbato John. Era... geloso, per caso? Avrebbe voluto dirgli che non stavano flirtando, ma il detective non gli diede la possibilità di farlo. "Quel continuo ticchettare mi distrae."

John alzò un sopracciglio, allungando la mano per farsi ridare il telefono. Non sapeva perché, ma quella frase gli sembrava falsa. Non del tutto, per carità. Sapeva che quando Sherlock doveva pensare, anche il respiro di un'altra persona gli dava fastidio. Ma in quel momento non riusciva a non pensare che quelle parole fossero state pronunciate principalmente per gelosia. Che fosse di vedere il suo migliore amico preferire la compagnia, sebbene virtuale, di un Holmes che non fosse lui o il rischio di allontanare ancora di più sua nipote, non sapeva dirlo. O forse, quest'idea si fece spazio strisciando lenta e subdola nella parte posteriore del suo cervello, stava cercando di evitare che entrambi facessero un errore.
Sherlock gli restituì l'oggetto, riluttante, e tornò a sedersi di fronte al microscopio. Odiava quella situazione di stallo, in cui non aveva nuovi casi che gli permettessero di distrarsi dal suo punto di blocco e il suo cervello continuava ad avvilupparsi su se stesso. Chiunque fosse stato ad uccidere quella ragazza era stato furbo. Non aveva lasciato tracce e quelle inevitabili impronte organiche si erano deteriorate a causa dell'acqua del Tamigi tanto che erano ormai inutili. Ci aveva provato lo stesso, si era accanito su ogni minimo dettaglio ma non riusciva ad arrivare ad una conclusione. Quella situazione era insostenibile per la sua mente, si sentiva affogare e non riusciva a tornare in superficie.

Si portò le mani alle tempie e chiuse gli occhi, tentando di entrare nel suo palazzo mentale per poter calmare le pulsazioni del suo cervello. Si sentiva come in un videogioco, impossibilitato ad entrare nella nuova stanza senza aver prima conquistato tutti gli oggetti di quella precedente. Era la prima volta che il suo posto lo rifiutava, lo faceva rimbalzare all'indietro, e lo faceva infuriare. Infuriare come sentire quel continuo rumore dei tasti del cellulare e della suoneria che indicava un nuovo messaggio in entrata. Strinse più forte gli occhi e premette con più forza, rischiando di esplodere, ma un leggero tonfo lo fece fermare.
Aprì gli occhi e vide il cellulare di John sul tavolo, posato appena davanti a lui. Girò la testa per incontrare il volto dell'amico, che lo guardava severo e con aria di rimprovero. Indicò l'oggetto con un cenno della testa.

"Leggili." gli disse, asciutto. Incrociò le braccia sul petto e si allontanò leggermente. "Parliamo quasi solo di te."

Sherlock non distolse lo sguardo mentre la sua mano, lenta, si impossessava del telefono. Lo studiò con le dita e il palmo, deducendo involontariamente ogni cosa. Lo teneva vicino in ogni momento, anche quando era in bagno. Era tiepido, segno che lo teneva in mano molto spesso, e i tasti stavano perdendo la copertura stampata. Era un cellulare vecchio, non aveva i soldi o la voglia - no, i soldi - per cambiarlo eppure lo teneva come se fosse l'oggetto più prezioso che possedesse. Sapeva che quello che stava facendo non sarebbe piaciuto alla moglie e per questo non se ne separava mai, neanche quando faceva la doccia o dormiva. Ma aveva deciso di aprirlo a lui, di ammettere le sue colpe, sempre che ce ne fossero.
Aprì i messaggi e fissò lo sguardo sullo schermo. Scorse veloce su quelli di Charlotte e confermò le parole di John. La maggior parte di quei messaggi riguardavano lui o i loro casi. C'erano anche una manciata di conversazioni private e un SMS inviato da lei nel pieno della notte (Scusa per l'ora, John, ma ho fatto un brutto sogno. Posso chiamarti?). Ma, a fare una stima, il 90% dei loro scambi riguardavano Sherlock e il suo lavoro.

Il detective sentì una scossa attraversargli tutto il corpo. Era... senso di colpa? Possibile si sentisse in colpa per aver sbagliato una deduzione, per aver pensato male di due persone innocenti? Rimase immobile per qualche secondo a fissare lo schermo nero, cercando di raccogliere gli ultimi sprazzi di dignità che gli rimanevano dopo quella terribile gaffe. Probabilmente per John non era niente di che, ma l'irritazione per non riuscire a concludere niente sul caso della ragazza avvolta nella busta di plastica non gli permetteva di pensare con lucidità.
Sospirò e allungò il braccio, rendendogli l'oggetto. John lo afferrò con un po' troppa decisione, dimostrandogli che era ancora arrabbiato per la sua presunzione.

"John..." cominciò, cercando le parole per formulare una scusa che non risultasse patetica e non comprendesse le parole 'scusami, ho sbagliato'.

Fu interrotto dal suono del campanello e istintivamente buttò fuori l'aria dai suoi polmoni con fare di sollievo. Entrambi tesero le orecchie, all'erta come felini. Lo scampanellio era insistente ed urgente, con almeno tre riprese. Si guardarono con la consapevolezza negli occhi, lo screzio ormai dimenticato come se fosse avvenuto secoli prima.

"Un cliente!" esclamarono allo stesso momento.

Gli occhi di Sherlock si illuminarono e le sue labbra si piegarono in un sorrisetto soddisfatto.

"Finalmente."

 

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Capitolo 7
*** Capitolo sette ***


Capitolo sette


"Io davvero non riesco a capirti, Sherlock!" esclamò John, alzando le mani con le cinque dita ben larghe. Lo guardava irritato e incredulo, come quando becchi un familiare o un amico a fare qualcosa di grave che aveva spergiurato che non avrebbe mai fatto.

Erano passati solo pochi secondi da quando il nuovo cliente se ne era andato, sbattendo la porta e urlando contro Holmes che lo avrebbe avuto sulla coscienza. John aveva cercato di scusarsi in tutti i modi, assicurandogli che avrebbe parlato con Sherlock e avrebbe tentato di fargli cambiare idea, ma era stato preso a male parole a sua volta e quindi aveva scelto di desistere. Non capiva comunque perché Sherlock non aveva voluto accettare il suo caso. Sembrava interessante e l'uomo era sincero. Si vedeva la reale paura che si era impossessata dei suoi occhi. Quell'uomo non mentiva e John, per un attimo, aveva avuto la visione di quel corpo martoriato, quegli occhi marroni privi di vita che sembravano giudicare e rimproverare il detective che, a suo tempo, non aveva voluto accogliere il suo caso. Vide il sangue rappreso, nero e grumoso contro i vestiti e le sue ferite, la posa del collo innaturale, gli arti mancanti. Aveva immaginato una decina di morti diverse per lui e tutte erano terribili quanto la precedente.

"Era un caso da quattro, John. Noioso a dir poco." commentò il detective, reclinando indietro la testa così da appoggiarla allo schienale della poltrona da cui pendevano appena i morbidi ricci neri. Giunse le mani e si toccò il naso con la punta delle dita.

Randall Thompson era un ometto qualunque. Un buon lavoro sotto un politico o uomo d'affari influente gli aveva permesso di garantire un ottimo tenore di vita alla sua famiglia - moglie e due figli. Il povero Randy non brillava di intelligenza, ma era sicuramente un uomo fidato a cui poter consegnare documenti top secret da portare a clienti e contatti. Talmente fidato da permettergli di portarli a casa, sapendo che sarebbero stati al sicuro assieme alla sua amorevole famiglia. Era il tipo d'uomo che, di ritorno dal lavoro, baciava la moglie, abbracciava i figli, aiutava a cucinare e poi voleva sapere tutto della giornata dei suoi cari. Randy amava ascoltare i loro racconti, di come Millicent, nel suo lavoro part time da segretaria, avesse dovuto introdurre al suo capo la persona con il nome più divertente che avesse mai sentito, e di come Laura e Tim avevano passato le ore di scuola.

Un giorno, però, a Randy capitò sotto mano una cartella più interessante delle altre. La scritta, 'TOP SECRET NON APRIRE SOTTO NESSUNA CIRCOSTANZA', era così diversa dalle altre che aveva visto nei suoi 15 anni di onorata carriera. E poi non era chiusa in una busta, era lì libera. Sembrava invitarlo ad aprirla, a sbirciare quello che c'era scritto dentro. La portò a casa, come aveva fatto spesso, ma prima di scendere dall'auto si azzardò a sollevare la copertina. Dentro vi erano diversi fogli, di quelli che si vedono nei polizieschi americani. Fototessere tenute con una graffetta sopra tutti i dati sensibili di quelle persone e, in fondo, altre informazioni. Un rapporto della polizia, delle dichiarazioni, altre fotografie e un foglio fitto di parole. Lo prese in mano e lo lesse. Ad ogni riga i suoi occhi si allargavano, le pupille si dilatavano e il cuore batteva sempre più forte.
Quella sera entrò in casa pallido e baciò distrattamente Millicent. Salutò in modo debole i suoi figli e si mise a tavola senza aiutare né aspettare che fosse pronto. Nella sua testa continuavano a circolare quelle parole, quelle immagini. Tutte quelle identità. Era un segreto troppo grande da tenere per un Randall Thompson qualunque, eppure sapeva che non poteva aprire bocca. Sapeva che se lo avesse detto a qualcuno sarebbe successo qualcosa di grave, e perdere la stima del suo capo e magari anche il suo lavoro era il minore dei mali.

Il giorno dopo consegnò il materiale all'indirizzo che gli era stato comunicato e si impose di dimenticare tutta la faccenda. Di come sembrava che qualcuno volesse fargli leggere tutto quello, fargli sapere quello che era successo davvero quella notte. Si chiese chi era che ce l'avesse così tanto con lui, chi poteva aver fatto arrabbiare tanto. Dopotutto lui era Randy, l'uomo che alle cene aziendali portava sempre i dolcetti alla cannella fatti in casa dalla moglie e che offriva sempre il caffè a chiunque si trovasse alla macchinetta o al bancone del bar assieme a lui.
Erano passati pochi giorni prima che cominciassero ad arrivare le minacce. Prima erano semplici sensazioni, poi erano diventate lettere, email, SMS. Ogni cosa arrivasse alla sua scrivania o in casa sua era una possibile minaccia di morte. Prendevano di mira lui, la sua famiglia, tutti coloro con cui intratteneva rapporti. Lo tormentavano, dicendogli che se solo avesse aperto bocca, allora quello che leggeva in quelle righe sarebbe diventato reale.

"Lei non capisce, signor Holmes." lo aveva supplicato, seduto sul bordo della sedia e con le lacrime agli angoli degli occhi che minacciavano di scendere lungo le guance. "Quello che ho scoperto potrebbe far cadere tutta l'Inghilterra. Mi vogliono morto, signor Holmes. Me e tutta la mia famiglia. La prego, mi tenga al sicuro... Almeno loro. I miei figli... Loro sono così giovani. Laura ha 16 anni e Tim, il piccolo Tim, ne ha solo 8." mentre parlava aveva tirato fuori il portafogli, da cui aveva estratto una fotografia che ritraeva la famiglia felice.

Era di qualche anno prima, sorridevano tutti. Randall aveva l'aria più rilassata, i suoi occhi marroni brillavano mentre teneva un braccio sulle spalle di Millicent, i cui lucenti capelli neri erano tenuti fermi da alcuni fermagli brillanti. In mezzo a loro c'erano i ragazzi. Laura, che era la fotocopia di Millicent ma col sorriso del padre, e il piccolo Tim con lo sguardo furbo e il sorriso sdentato che parlava di guai.
John sorrise appena nel vedere quel piccolo ritratto, mentre Sherlock rimase impassibile, i suoi occhi di ghiaccio non tradirono alcuna emozione né pensiero. Appoggiò le mani sui braccioli della poltrona e sembrava quasi volesse far penetrare le dita nell'imbottitura. Si sta alterando aveva pensato John, una campanella di allarme era partita nel suo cervello. Voleva fermarlo, ma non era stato abbastanza veloce e il treno di parole aveva già lasciato la galleria di corde vocali.

"Lei ha tradito la fiducia del suo capo leggendo un documento che non avrebbe dovuto avere tra le mani e che conteneva informazioni sensibili per l'intera nazione. Ora, Aldy" aveva calcato la voce sul soprannome, facendo rabbrividire il cliente. Probabilmente non sentiva quel nome da anni oppure era il modo in cui solo chi era davvero intimo con lui lo chiamava. "Lei è un idiota - no, non si arrabbi, lo siete tutti, anche John - e non si è accorto di un dettaglio ovvio. Chiunque le abbia dato quel documento voleva che lei lo leggesse. La domanda è: perché? Probabilmente si annoiava, o più probabilmente qualcuno vuole il suo posto di lavoro o il suo capo vuole licenziarla ma non sa come fare perché non ha un motivo valido, dato che è sempre stato il suo mulo più fidato. Ha quindi fatto in modo che lei leggesse il contenuto della busta e che il destinatario se ne accorgesse. Ora, queste informazioni, se divulgate, potrebbero distruggere l'intero tessuto del Regno Unito e causare una vera rivoluzione. Lasciare che un uomo semplice e di basso intelletto come lei le custodisca sarebbe da idioti. Non mangia da giorni, è sempre nervoso ed è stato sul punto di crollare e di raccontare tutto a sua moglie. E poi è venuto qui, da me, a spiattellare la verità, piangendo perché io la proteggessi dagli uomini cattivi. Ucciderla sarebbe la mossa più sicura, un uomo morto non parla. Ma..." aveva sollevato un angolo della bocca. "Oh, ma lei è più furbo di quello che sembra. Perché c'è un'altra persona che lo sa. Qualcuno di molto vicino a lei, che potrà vendicarla se dovesse succederle qualcosa. Sua moglie? No, troppo pettegola, uscirebbe di sicuro durante uno degli incontri settimanali con le sue amiche. Sua figlia è un'adolescente e ha già troppo a cui pensare - a proposito, fossi in lei non le permetterei di uscire con quel ragazzo. Quindi è suo figlio. Il secondogenito, il suo preferito. A otto anni non ha grossi pensieri per la testa e farebbe di tutto per il suo papà. Quindi, come vede, è tutto risolto." si appoggiò con la schiena contro la poltrona e riprese fiato per un attimo. "Non le succederà niente, perché ci sarà sempre qualcuno che sa la verità e può minacciare di farla uscire."

Erano rimasti poi in silenzio per alcuni minuti, prima che Randy si alzasse e facesse la sua uscita plateale. Ci fu un'altra pausa di qualche minuto in cui John ingoiò una serie di ingiurie e insulti che avrebbe voluto rivolgergli e si limitò a lanciargli quella frecciata.

"Quell'uomo rischia la sua vita e quella di tutta la sua famiglia!" John si sentiva stranamente infuriato, come se stesse riversando su Sherlock tutta la rabbia che teneva in corpo. Il detective lo guardò con occhi limpidi.

"Non scaricare le tue tensioni su di me. Non è colpa mia se continui a litigare con tua moglie." gli disse con tutta calma e John evitò di chiedergli come sapesse che litigava con Mary (erano discussioni private, nessuno dei due ne avrebbe parlato con altri. Beh, John forse lo aveva accennato a Charlotte in un messaggio, ma era sicuro che lei non avesse detto niente allo zio) o anche solo di rispondergli. "E poi ho già avvisato mio fratello. I segreti di stato sono di sua competenza." terminò rimettendosi comodo.

"Hai sempre la risposta pronta tu, eh?" replicò John con tono amaro, stirando le labbra sottili in un sorriso caustico. Attraversò il salotto e recuperò il suo giaccone.

"Dove vai?"

"A farmi un giro, Sherlock!" rispose con forse troppa enfasi. Si era reso conto di aver urlato. "Ho bisogno di aria." concluse con tono più calmo. Sherlock annuì e John uscì di casa con le mani nelle tasche.

Non gli piaceva litigare con Mary. Lo metteva di cattivo umore e rischiava di rispondere male a chiunque. Ma era inevitabile, ormai. Non riuscivano più ad avere una conversazione normale da alcuni giorni a quella parte. In parte John sentiva che era colpa sua e di come prestava più attenzione ai messaggi che si scambiava con la nipote del suo migliore amico. Dio, che idiota che era. Era una ragazzina e John continuava a parlarle come se anche lui fosse di almeno dieci anni più giovane. Ma Charlotte era una ventata d'aria fresca. Era leggera come la brezza del mare e dolce come il gelato alla vaniglia. Era brillante, tanto da riuscire a rigirarsi gli Holmes come voleva - e lì, forse, giocava il fatto che fosse la piccolina di casa per entrambi - ma non lo faceva mai sentire inferiore, al contrario di Sherlock e Mycroft. Con lei poteva parlare di qualsiasi cosa, di argomenti normali e a volte anche banali, ma che per una volta lo facevano sentire parte del mondo là fuori. Così lo chiamava sempre lei: là fuori. Fuori dalla famiglia Holmes, da Baker Street, dai casi e da persone con il complesso di Dio. E John amava quel modo di dire, era così semplice e così evocativo al tempo stesso.

Non poteva imputare solo a se stesso la colpa, tuttavia. Se lui continuava a dedicare sempre più tempo alla ragazza era anche perché si sentiva allontanato dalla sua stessa moglie. Era come se lei continuasse a nascondergli qualcosa, come se gli sfuggisse e non volesse essere presa. John sospirò, creando una nuvoletta di vapore nell'aria fredda di Londra. Le relazioni umane erano uno schifo e troppo complicate. Ma almeno si rallegrava nel vedere che neanche Sherlock e Mycroft ne erano immuni, dopotutto.

 

{06.02.2006, Abingdon-on-Thames, St. Cecilia's Church}

Il reverendo Carlton Valence amava fischiettare mentre lavorava. Spesso sceglieva canti di chiesa o comunque approvati dalla maggior parte dei benpensanti e dei vecchietti che frequentavano la sua parrocchia, ma quando non lo sentiva nessuno amava scegliere canzoni rock e pop da reinterpretare con i suoi fischi intonati. Quando ci pensava gli veniva da ridere. Chissà cosa avrebbe detto la signora Rostell se lo avesse visto picchiettare il piede a ritmo di Highway to hell degli AC/DC.
Valence amava anche occuparsi del giardino della canonica. Immergere le dita nella terra, piantare semi, potare i rami malati e secchi. I fiori e gli alberi erano pur sempre creature di Dio, aveva sempre detto, e preferibili agli umani oltretutto. Non rispondevano, non potevano commettere pensieri impuri, non mentivano. Capiva San Francesco e il suo amore per gli animali: erano creature innocenti dal cuore puro e l'anima immacolata. Il Regno dei Cieli sarebbe dovuto appartenere esclusivamente a loro. Vero, gli animali erano capaci di uccidere e, a volte, di torturare le proprie vittime. Ma le bestie non erano dotate di raziocinio e non sapevano distinguere il bene dal male. Non avrebbero mai fatto del male per il gusto di farlo.
Allo stesso modo, Valence vedeva le piante. Anzi, esse erano ancora più innocenti. Si appoggiavano a chiunque si prendesse cura di loro, si fidavano della mano umana anche dopo uno, due, mille sgarri subiti. Si piegavano dolcemente alle indicazioni di chi le faceva crescere e non avevano alcun mezzo per difendersi se non qualche spina o scheggia.

Quel lunedì sera, il reverendo Valence aveva celebrato i vespri alle 18.00 in punto. Erano presenti sempre le solite vecchiette tra cui la perpetua Amber Rostell con le sue amiche Patricia Hinnfer, Gloria Mole e Mildred Donahue. Finita la celebrazione, la maggior parte dei presenti era fuggita a casa per preparare la cena e sedersi sul divano a guardare probabilmente qualche replica di East Enders Coronation Street. I più coraggiosi si sarebbero avventurati in una storia de L'Ispettore Barnaby mentre i più nostalgici avrebbero trovato un vecchio film, come Gli uomini preferiscono le bionde oppure Il gattopardo di Luchino Visconti.
Ma non loro quattro. Loro rimanevano a chiocciare allegramente tra loro, attendendo che il prete si cambiasse d'abito e le invitasse ad uscire dalla chiesa. Allora si riunivano in un cerchio sul sagrato, i loro vecchi e larghi corpi schiacciati l'uno contro l'altro come se al centro ci fosse l'unico sprazzo di fuoco che poteva riscaldarle. A volte riuscivano a coinvolgere anche Valence, che era costretto a rimanere con loro e annuire con un sorriso benevolo alle loro parole. Ma a lui non interessava niente quello che si dicevano. Come poteva lui, un giovane prete di appena quarant'anni e ancora una non indifferente zazzera di capelli rossi sulla testa, poter trovare interessante la conversazione di quattro ultrasessantenni che non parlavano d'altro se non dei loro nipotini e il mio è così bello! Il mio sa già contare fino a 100 e ha solo tre anni! Il mio nipotino è appena nato e guardate che bei piedini che ha, due salsicciotti tutti da mangiare!

Quella sera era riuscito ad allontanarle abbastanza presto. Si erano trattenute solo un quarto d'ora, poi se ne erano andate con la loro andatura ciondolante e il passo pesante e veloce. Le aveva guardate sparire per la strada, le loro figure uguali e quasi flaccide che tremolavano in lontananza. Una volta appurato che la chiesa fosse vuota, spense le luci e chiuse i portoni, lasciandone solo uno aperto così che, se fosse passato di lì un senzatetto, avrebbe avuto un posto tiepido e al chiuso dove dormire. C'erano delle nuvole nere e minacciose in cielo, di lì a poco avrebbe iniziato a piovere.
Cenò, dopo aver ringraziato il Signore per ciò che aveva sulla tavola, con una zuppa di cavolo e patate accompagnata da un tozzo di pane, del formaggio Cheddar alle cipolle e una generosa dose di vino rosso. Aveva quindi ritenuto opportuno occuparsi del suo giardino prima che cominciassero a scendere le prime gocce di pioggia. Le rose avevano bisogno di una potatura, l'erba era ormai troppo alta e, in generale, tutta la zolla di terreno necessitava di una sistemata.

Aveva giusto infilato le mani nella terra e si sentiva vivo. Vivo come non lo era mai stato, in contatto con il Creato e i frutti della Terra che il Signore aveva deciso di donare agli uomini. Lavorava a ritmo di una vecchia canzone degli America, Horse with No Name, e intanto immaginava quanto sarebbe stato bello il suo giardino la primavera successiva. Le rose avrebbero ricoperto una parete della canonica e sarebbero terminate in cespugli rossi, rosa e gialli. Margherite e tulipani di mille colori si sarebbero alternati su tutto il manto e file di iris viola avrebbero costeggiato il piccolo sentiero che permetteva al prete e ai fedeli di accedere alla casa parrocchiale senza calpestare i fiori. Poi un rododendro color rosa acceso avrebbe animato la vista e un melo e un ciliegio avrebbero allietato l'olfatto col loro profumo dolce.
L'orgoglio era uno dei peccati capitali, Valence lo sapeva bene. Tutti quegli adesivi sulle auto che vantavano le doti straordinarie dei figli (Mia figlia è la prima della classe dall'asilo) e i discorsi che sentiva fare ai ragazzi nel suo oratorio (sono il migliore, Pete, è inutile che ci provi. Beh, Tony, tanto la tua ragazza preferisce me) erano il motivo per cui, almeno una volta al mese, durante le sue omelie parlava dei sette peccati capitali e di come evitarli e chiedere perdono. Ma quando guardava il suo giardino, quando lo immaginava tutto fiorito, non poteva evitare di sentire la punta tiepida e confortevole dell'orgoglio che spingeva nel suo cuore. Ci impiegava gran parte del suo tempo, parlava con le piante e le reputava le sue migliori amiche.

Rimase con le mani ferme appena sopra la terra quando vide un'ombra stagliarsi contro la luce artificiale della sua piccola zolla. Alzò la testa, già pronto a dire che ormai aveva terminato e per qualsiasi cosa poteva tornare il giorno dopo. Era sempre pronto ad aiutare chi era in difficoltà, dopotutto era quello il compito principale di un sacerdote. Ma anche lui aveva diritto a riposare, soprattutto dopo una giornata in cui aveva dovuto correre avanti e indietro per accontentare tutti i suoi parrocchiani. Qualcosa nel luccichio degli occhi del nuovo arrivato gli fece però cambiare idea. Era un'anima smarrita, qualcuno che aveva davvero bisogno di una guida in quel momento. Anche solo la mattina dopo sarebbe stato troppo tardi. C'era della disperazione in quegli occhi, un principio di pianto nelle sue labbra serrate e nei pugni chiusi.
Si alzò, facendo scricchiolare la schiena e le ginocchia - avrebbe pagato caro il suo amore per il giardinaggio tra qualche anno - e batté le mani tra di loro per togliere un po' di terra.

"Mi dia qualche secondo e sono da lei." disse alla persona ferma davanti a lui.

Entrò in casa, si infilò il suo abito talare nero lungo fino alle caviglie e sistemò il clergyman. Uscì di casa nuovamente e fece segno alla persona di seguirlo. Entrò in chiesa e si diresse al confessionale. Sentì la pecorella smarrita - aveva iniziato a chiamarla così nella sua testa - sistemarsi dalla parte opposta ed esitare prima di aprire bocca.

"Perdonami padre, perché sto per peccare."
 

[Note autrice]

Hello everyone!

Ogni tanto mi faccio risentire anche io eheh

Spero che questo capitolo vi sia piaciuto. Io sono abbastanza fiera di come è venuto fuori, devo dire la verità. Il piccolo viaggio mentale su Randall, la metà dal punto di vista di Valence... E devo dirla tutta, anche la deduzione di Sherlock. Segnatevelo, perché non capiterà mai più che sia soddisfatta di qualcosa che scrivo ahah

Una piccolissima precisazione: Abingdon-on-Thames esiste davvero come località nella contea dell'Oxfordshire, mentre la chiesa di St. Cecilia's è frutto della mia immaginazione. Avevo pensato di mettere la St. Helen's, che esiste davvero, ma poiché non ci sono mai stata e mi servirà la descrizione degli interni, non volevo rischiare di fare strafalcioni. Quindi ho deciso di inventarne una io. A voi la decisione della confessione religiosa, io l'ho immaginata come anglicana. ❤

Mi è stato fatto notare, nei capitoli passati, che la mia storia manca un po' di descrizioni di personaggi e ambienti. Sarò sincera e vi dirò che in effetti non ho aggiunto descrizioni fisiche dei personaggi canon (Sherlock, John, Mycroft) e di ambienti conosciuti dalla serie (il 221B, la casa dei genitori di Sherlock e Mycroft) perché li ho dati per noti, essendo una fanfiction. Ho sempre ritenuto, e visto, la fanfiction come l'unico genere in cui le descrizioni di elementi non originali sia facoltativa, poiché sono già conosciuti da chi legge e quindi dati per noti.
Detto questo. Se, invece, ritenete siano necessari ditemelo pure. Scrivetemelo in un commento a questo paragrafo, così so se devo ritornare indietro ed incastrarle, magari sacrificando qualche introspezione. Non mi sono mai piaciuti i paragrafetti di sole descrizioni, ma posso inserirli senza problemi se ne sentite il bisogno. Fatemi sapere 💕

Per il resto spero vi sia piaciuto il capitolo, anche se - sigh - non c'era Charlie 💔 Vi prometto che dal prossimo tornerà, più esplosiva e più "Holmes" che mai.
Lasciatemi una recensione, se vi è piaciuta la storia e se vi sta lasciando un po' sulle spine. E se non vi è piaciuta... beh, fatemi sapere cosa posso migliorare 😉

 

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Capitolo 8
*** Capitolo otto ***


Capitolo otto


Charlotte mise in moto l'auto, una piccola Fiat Cinquecento d'epoca color rosso brillante. L'aveva ricevuta in regalo appena conseguita la patente, l'anno precedente. Se ne era innamorata appena l'aveva vista dal concessionario e Mycroft l'aveva accontentata qualche mese dopo. Era un'auto originale degli anni '60, un vero pezzo d'antiquariato, proveniente direttamente dall'Italia e rimessa a nuovo così che rispondesse positivamente a tutte le nuove richieste per la circolazione automobilistica. Era piccola, era vero, ma non le importava. Per fare Londra-Oxford andata e ritorno, con dentro solo lei e i suoi bagagli, era più che sufficiente.
Sistemò l'auricolare nell'orecchio, il cellulare poggiato nel vano porta-oggetti. Lo schermo era acceso e mostrava il tentativo di prendere la linea con il numero di Sherlock. Era la terza volta che lo chiamava e lui sembrava volerla ignorare. Era presto, non poteva negarlo, ma suo zio aveva il sonno molto leggero e di solito rispondeva dopo uno squillo. Due, se era proprio occupato. A volte, con lei, non faceva neanche in tempo a squillare che subito la sua voce le raggiungeva le orecchie. Ma quella mattina aveva deciso di farla impazzire ed innervosire.
Proprio mentre aveva ingranato la marcia e stava uscendo dal parcheggio, finalmente sentì il cellulare prendere la linea.

"Lotte." disse semplicemente, la voce leggermente impastata ma sicura.

"Buongiorno, fiorellino. Non eri quello che non dormiva mai?" commentò, guardando a destra e sinistra prima di immettersi in strada. Non gli diede tempo di rispondere che riprese a parlare. "Devi venire subito a Abingdon-on-Thames. C'è stato un omicidio molto interessante e la polizia non sa cosa fare."

Sherlock ridacchiò e il suono della sua risata andò a sposarsi col ticchettio della freccia dell'auto.

"Devo fidarmi del tuo giudizio? Che voto gli daresti?"

"Almeno un sette o un otto, caro zio." stette in silenzio per un istante. "Un prete è stato trovato appeso al crocifisso centrale. Non so molto altro, sto andando lì anche io."

"Mettiamo caso che tu abbia ragione." replicò Sherlock, e Charlotte lo immaginò buttarsi sul divano. "Non è Scotland Yard, non ci sarà Lestrade. Non mi faranno mai entrare."

"Per una volta ti ho preceduto. Papà mi ha mandato l'autorizzazione. Certo, crede che andrai tu con John e basta, quindi... non dirgli niente." rispose, facendo seguire le parole da un sonoro rumore di clacson. "Se hai deciso di suicidarti, almeno non farlo sotto la mia macchina! Coglione!" urlò contro un passante che aveva attraversato la strada senza rispettare le precedenze.

Sherlock rise per l'irruenza della nipote e si mise seduto. Pensò per qualche istante alle parole della ragazza. Un prete crocifisso era abbastanza interessante, almeno era qualcosa di nuovo da vedere. Probabilmente il caso sarebbe stato noioso e semplice da risolvere. La polizia si perdeva spesso in dettagli inutili, si faceva stupire dalla teatralità e non vedeva che la realtà era molto più semplice di quello che sembrava. Alla fine sospirò e annuì.

"Va bene. Recupero John e arrivo. Tu non fare niente finché sono lì, siamo intesi? Non entrare, non toccare, non parlare con nessuno. Se ti chiedono perché sei lì, puoi dire solo che stai aspettando me. La polizia dell'Oxfordshire mi conosce di nome, non ti cacceranno."

Charlotte sorrise, trionfante. Si rilassò appena alla guida, abbassando le spalle e appoggiandosi allo schienale. Sapeva che lo aveva fatto solo per accontentarla, non aveva intenzione di compiere un viaggio di circa due ore per un caso che considerava già noioso e stupido. Ma lei non aveva intenzione di farlo vincere, non quella volta. Aveva un presentimento su quel caso, sarebbe stato più interessante di quello che suo zio pensava.

In circa un'ora arrivò a destinazione. Girò un po' per trovare un posto dove parcheggiare l'auto e, prima di dirigersi alla chiesa, si fermò a prendere un caffè da portare via. Non fu difficile trovare la scena del crimine, anche se non conosceva Abingdon. Bastava seguire il campanile e il vociare delle persone. Arrivò quindi in coda ad un nutrito gruppo di persone raggruppate attorno ai nastri gialli della polizia.
In prima fila c'erano quattro donne decisamente sovrappeso che avevano passato la mezza età. Una di loro, che stava al centro con un fazzolettino di stoffa premuto contro gli occhi porcini, continuava ad ululare e chiedere che la facessero passare. Charlotte pensò che dovesse essere la perpetua, una donna sola che aveva dedicato la sua vita alla parrocchia. Un marito deceduto oppure assente, figli che vivevano lontano. Non aveva nessuno che le tenesse compagnia e aveva quindi deciso di donare tutto il suo tempo alla chiesa. Charlotte serrò le labbra in una smorfia di dispiacere. Si era affezionata a quel prete, era evidente, e perdere l'unica persona che riuscisse a farla sentire utile e le desse qualcosa da fare non doveva essere semplice.

"Scusi, ma non può passare." la voce del poliziotto la riportò alla realtà. Era ormai arrivata alla barriera e aveva alzato il nastro, che l'agente ora stava indicando con un dito. Lei sorrise sorniona, tranquilla.

"Ho il permesso." tirò fuori dalla borsa il foglio che aveva stampato quella mattina che dava la possibilità a 'Sherlock Holmes et al.' di introdursi nella scena del delitto. Peccato che quel et al. fosse John e non lei e, se suo padre l'avesse scoperto, non si sarebbe risparmiata una ramanzina storica.

Il giovane prese in mano la carta e le disse di aspettare lì un momento. Corse verso quello che doveva essere l'ispettore capo per accertarsi che non fosse falso. Charlotte, ormai dentro i confini, ne approfittò per avvicinarsi alle donne. Stava per disobbedire agli ordini di suo zio, ma non le importava. Lei non era come lui, non era capace di rimanere distaccata di fronte alla sofferenza, lei voleva rassicurare gli altri. Si schiarì la gola e rivolse alle donne un sorriso.

"Troveremo chi ha commesso l'omicidio, ve lo prometto. Sherlock Holmes si occuperà personalmente di questo caso." disse loro col tono più rassicurante che poté formulare.

La perpetua smise di singhiozzare e rimase a guardarla stupita, un po' come se avesse un'apparizione davanti.

"Quel Sherlock... Holmes?" chiese, incerta, una delle sue amiche, quella con gli occhiali e i corti capelli biondi e ricci che, assieme alle guance tonde, la facevano somigliare ad una bambola di porcellana. Charlotte sorrise e annuì.

"Proprio lui."

"Grazie! Non so come ringraziarla, davvero, grazie!" la perpetua si slanciò in avanti per abbracciare Charlotte. La ragazza dovette fare attenzione a non rovesciare il caffè - dannazione, costava 3 sterline e lo aveva appena comprato! - ma le permise di abbracciarla.

Riuscì a divincolarsi presto e vide tornare verso di lei il poliziotto di prima. Le rese la documentazione, accuratamente piegata.

"Ci saranno altri assieme al signor Holmes e a lei?" chiese con fare cordiale e formale.

"John Watson, il suo assistente." confermò lei, mettendo via i documenti.

L'agente annuì e la invitò ad aspettare fuori, vicino al portone d'ingresso. Rimase con lei a farle compagnia e spiegarle quello che avevano visto. Non c'erano forzature, ma una delle porte era aperta, quindi probabilmente l'assassino era entrato di nascosto da lì durante la notte e aveva aspettato il sacerdote. Charlotte nascose un sorrisetto dietro la tazza. Era totalmente fuori strada. Molto spesso, Charlotte lo sapeva, i preti lasciavano una porta aperta per i senzatetto. Si azzardò a suggerire la sua teoria, facendo notare che durante la notte aveva piovuto e non vi erano tracce di fango. Il giovane balbettò qualcosa, imbarazzato per essere stato smentito così semplicemente soprattutto da qualcuno che non era un professionista nel campo.
Le diede poche altre informazioni ben poco utili, cose che avrebbero scoperto anche loro non appena entrati in chiesa. Le disse poi che il suo nome era Andrew Partridge e le lasciò il suo biglietto da visita, se mai avesse avuto bisogno di lui. Per qualsiasi motivo, si era affrettato ad aggiungere. A Charlotte era bastato uno sguardo veloce per capire le sue reali intenzioni. Aveva più o meno la sua età e l'aveva considerata subito molto bella, tanto da avere subito sviluppato un interesse nei suoi confronti. Aveva pensato 'ma sì, o la va o la spacca' e si era buttato, cominciando a provarci con lei. Aveva abbandonato anche la sua postazione dietro il nastro per stare con lei. Non sapeva se fosse fidanzato o meno, se fosse un donnaiolo o stesse seriamente cercando la donna dei suoi sogni.

Rimase lì ad aspettare tranquillamente l'arrivo del detective e del medico. Sorseggiava il suo caffè e ascoltava passivamente i goffi tentativi di flirt dell'agente Partridge. Non era un brutto ragazzo, per carità. Era alto con dei capelli rosso irlandese appena mossi che gli incorniciavano il volto magro e tempestato di lentiggini. Aveva due grandi occhi color nocciola che trasmettevano tutti i suoi pensieri e le sue emozioni senza un filtro di mezzo e le sue labbra sottili si piegavano dolcemente ad ogni parola pronunciata. Gli avrebbe dato una chance se non fosse stata fidanzata, doveva ammetterlo. Ma lei amava David, e di fronte a lui chiunque perdeva d'importanza sino ad avere i contorni sfumati e i tratti irriconoscibili. Tentava quindi di fargli capire che era occupata, mettendo in mostra l'anello che il ragazzo le aveva lasciato mesi prima e buttando in qualche risposta svogliata dei suggerimenti, ma Partridge non sembrava cogliere.
Tirò un sospiro di sollievo quando finalmente scorse i ricci corvini di Sherlock spuntare dalla folla e la testa bionda di John proprio di fianco a lui. Un poliziotto tentò di impedire loro di entrare, ma venne in loro soccorso un collega che gli spiegò chi erano e mise l'accento sul permesso arrivato poco prima. Con sguardo glaciale, Sherlock mollò la sua borsa nera lucida e quella più malandata di John - una piccola valigia che non avevano potuto lasciare in taxi, ovviamente - al poliziotto che li aveva fermati e si diresse a passo sicuro e con tanto di cappotto svolazzante verso Charlotte. Le rivolse uno sguardo di disappunto, al che lei alzò un angolo della bocca in un sorrisetto. Bevve l'ultimo sorso di caffè e lasciò la tazza di cartone, ormai vuota, all'agente. Gli mise una mano sull'avambraccio, le dita che gli sfioravano il polso, prima di andare via e lo guardò negli occhi, sorridendo.

"Grazie per avermi tenuto compagnia, Andrew." disse semplicemente in tono mellifluo, prima di avvicinarsi allo zio. "Alla buon'ora!"

"Perché non gli hai detto che sei fidanzata?" le chiese immediatamente, a bruciapelo. Charlotte sospirò.

"Ho cercato di farglielo capire. Ma potrebbe tornarmi utile, se metto un muro tra di noi..."

Vide Sherlock combattuto tra la voglia di rimproverarla e l'ammirazione per la sua abilità nei sotterfugi. Alla fine optò per un sorrisetto e un 'sei proprio uguale a tuo padre' sommesso prima di entrare in chiesa, cosa che fece ridacchiare la ragazza. Charlotte decise allora di concentrare la sua attenzione su John, che lo tallonava a poca distanza. Sorrise e allargò le braccia.

"John! Ciao!" esclamò, abbracciandolo forte. Il medico ridacchiò e ricambiò la stretta, prima di poggiarle una mano alla base della schiena e sospingerla delicatamente all'interno dell'edificio.

"Si può sapere come hai fatto?" le chiese. Non ci voleva un genio a capire quello che intendeva: come faceva a sapere di quell'omicidio? Era in una cittadina a un'ora di viaggio a Oxford ed era mattina. La notizia non sarebbe passata prima del telegiornale dell'ora di pranzo. Charlotte gli rivolse un sorrisetto misterioso.

"Beh, parte del fascino di essere una Holmes è avere occhi e orecchie dappertutto." gli rispose, prendendolo sottobraccio. "Una sera, con alcuni compagni di corso, sono venuta in un pub qui vicino. Abbiamo fatto amicizia con altre persone e, beh... una di queste mi ha avvisata stamattina. Sa che mi interesso di queste cose, e questo gli è sembrato talmente strano e particolare che ha voluto dirmelo."

La spiegazione terminò quando si trovarono al fianco di Sherlock a metà della navata centrale. Il moro si era piantato in mezzo, così i due nuovi arrivati furono costretti a separarsi per mettersi ai suoi lati, John a destra e Charlotte a sinistra. Tutti e tre guardavano il macabro spettacolo che si trovava davanti a loro. Il giovane prete era inchiodato al crocefisso centrale, ad emulare la posa del Cristo in croce. La testa era reclinata in avanti, il mento toccava il petto e il corpo pendeva appena dalla croce tanto che potevano quasi sentire il rumore delle ossa che si spostavano e delle cartilagini che si rompevano. La luce che entrava dal rosone colorava di rosso, giallo, verde e blu il corpo dell'uomo, dandogli un'aspetto ridicolmente surreale. Ad una prima occhiata, niente all'interno dell'edificio era fuori posto, come se non fosse mai entrato alcun ospite indesiderato.

"È... terribile." mormorò John.

"Quasi poetico." gli fece eco Charlotte.

"Finalmente interessante!" terminò Sherlock, alzando leggermente il volume della voce e facendo voltare nella loro direzione alcuni dei poliziotti presenti.

Si avvicinò a grandi passi all'altare, seguito in tutta fretta dagli altri due. John perse qualche istante a guardare Charlotte e poi Sherlock. Ci provava in tutti i modi, lei. Ci provava ad assomigliargli, ad attirare la sua attenzione. A partire dal cappotto, quasi identico a quello dello zio, ma bianco, le scarpe basse e i pantaloni di taglio maschile. Sentiva un profondo dispiacere per lei, che pareva un cucciolo che cercava in tutti i modi di far sì che il padrone si occupasse di lui. Ma sembrava quasi che lui non la vedesse, che le passasse attraverso e la trovasse... invisibile. Lui che però si dimostrava geloso nei suoi confronti e la difendeva a spada tratta se qualcuno provava a dire una parola sbagliata su di lei.

"Cosa puoi dire del corpo, John?" la voce bassa di Sherlock lo riscosse dai suoi pensieri.

Il medico lo guardò per un istante, poi annuì e si avvicinò di qualche passo. Socchiuse gli occhi per mettere meglio a fuoco e inclinò la testa leggermente di lato.

"Non ci sono segni di armi. L'unico sangue fuoriuscito è quello dai fori alle mani e ai piedi, non abbastanza per ucciderlo. Quindi probabilmente è stato avvelenato oppure soffocato... e poi inchiodato alla croce. Forse era già morto, o forse ha esalato lì l'ultimo respiro. Spero proprio fosse già morto, pover'uomo..." mormorò le ultime parole, immaginando solamente tutto il dolore che avrebbe potuto sopportare se fosse stato ancora vivo una volta caricato lì.

Sherlock annuì e, con le mani dietro la schiena, girò la testa verso Charlotte.

"Vuoi provare, Lotte?" le domandò con voce più dolce. Lei lo guardò incredula e lui sorrise. "Un regalo di compleanno anticipato."

John arricciò il naso, trattenendo una piccola risata che sarebbe stata decisamente fuori luogo. Probabilmente solo gli Holmes potevano considerare quello un regalo di compleanno. Ma dopotutto, durante il primo caso che avevano affrontato assieme, Sherlock aveva esclamato tutto allegro che sembrava Natale. Non si stupì troppo, quindi, quando Charlotte riuscì a malapena a contenere la felicità a quella proposta e tratteneva uno squittio eccitato. Finalmente suo zio la prendeva seriamente in considerazione per qualcosa di importante, qualcosa che avrebbe sempre voluto condividere con lui. Riuscì a non sbilanciarsi e a non stampargli un bacio sulla guancia, ma dissimulò l'eccitazione del momento schierandosi la gola. Prese i guanti in lattice che le porgeva Sherlock e li infilò con cura, guardando con attenzione la scena.

Sembrava un quadro. Un macabro quadro satirico contro il clero. Che fosse un contestatore della religione, che aveva deciso di manifestare il suo dissenso verso la casta clericale? No, troppo palese. E se fosse stato davvero così, perché doveva colpire un pretino insignificante piuttosto che un cardinale o un vescovo? No, il motivo era diverso, ma quale?
Si avvicinò all'altare, vi girò attorno e approcciò l'abside. John aveva ragione, non c'era traccia di sangue se non dalle ferite causate dai chiodi. Ma su una cosa aveva sbagliato: l'uomo era ancora vivo quando era stato appuntato lì. Incosciente ma vivo. Una piccola ruga tra le sopracciglia, resa indelebile dal rigor mortis, le dava la conferma che aveva sentito molto dolore. Lo comunicò immediatamente, senza però il tono di saccenza tipico di Sherlock. Era una semplice constatazione, come dire che il cielo è blu.

Osservò l'abside e vi passò una mano sopra. La stoffa che ricopriva il marmo era leggermente stropicciata in un punto e la simmetria delle candele era stata compromessa. Una questione di pochi millimetri, roba da poco ma abbastanza da suggerire che qualcuno fosse salito lì sopra e poi avesse cercato di sistemare al meglio. Si issò con le mani e saltò su a sua volta, stando attenta a non rovesciare niente. Si trovò, in questo modo, molto vicina al cadavere. Riusciva a sentire l'odore della pelle del prete, ancora troppo fresca per poter contare sulle note dolciastre della decomposizione, e un altro profumo che non riusciva ad identificare in quel momento. Le bastava alzare le braccia per raggiungere le sue mani e doveva accucciarsi per essere all'altezza dei suoi piedi.
Si concentrò sul volto del prete, spostandolo appena a destra e a sinistra per poterlo studiare meglio. Vide alcuni segni scuri sulle guance, simili a quelli che aveva sulla gola. Erano piccoli e di un colore violaceo intenso. Si avvicinò ancora un po', spostandogli le labbra ed esaminando i denti.

"Ogni sera ci sono i vespri. Sarà stato qualcuno che vi ha partecipato." commentò uno degli agenti, un uomo di mezza età che si era avvicinato a Sherlock e John e guardava Charlotte a metà tra lo scocciato e il timore che si facesse male. La ragazza scosse la testa.

"No, era andato a casa. La bocca odora di vino e zuppa. Inoltre ha un paio di foglie tra i denti. E sotto le unghie ha della terra ancora fresca, quindi era andato a casa prima. Qualcuno lo ha richiamato in fretta qui dentro..." replicò e riuscì a percepire un sorrisetto soddisfatto da parte di Sherlock.

"E perché non può averlo ucciso in giardino?" la istigò, tentando di farla ragionare.

"Perché non avrebbe potuto portarlo di peso qui. Non era morto quando è stato appeso e l'assassino non è molto alto. Si è arrampicato, come me." mormorò le ultime parole, continuando ad osservare il cadavere. "È stato soffocato. Ha dei lividi sul viso e sul collo. È un modo di uccidere così intimo e personale... probabilmente l'assassino lo conosceva, ma lui no. Una vendetta?" si girò verso Sherlock e John. "Bisogna vedere se aveva dei nemici."

Sherlock si sistemò il colletto del cappotto e sorrise, soddisfatto. Tutti gli anni di insegnamento avevano avuto i loro frutti, non era senza speranza. Non sarebbe mai stata brillante e veloce come lui o Mycroft, ma batteva di gran lunga tutti gli altri presenti in quel luogo. Neanche John si avvicinava al suo acume e, sebbene Sherlock non lo avrebbe mai ammesso, l'amico era molto più intelligente di quanto credesse.

"Molto bene, Lotte. Hai tralasciato diversi dettagli, ma... Molto bene." commentò, avvicinandosi al cadavere a sua volta.

Charlotte si concesse un sorrisetto soddisfatto e fece per scendere dall'abside. Notò, però, che la mano destra del prete sembrava indicare qualcosa. Vi si accostò e seguì il percorso con lo sguardo. Andava a finire sull'organo, il grande strumento musicale che occupava una nicchia intera nella navata laterale.
Scese e si diresse in quella direzione, osservando lo strumento e ignorando del tutto Sherlock che stava prendendo il suo posto vicino al corpo e le rivolgeva un mezzo sorrisetto soddisfatto. Apparentemente non c'era niente di strano nello strumento, ma... Scostò il seggiolino e vi prese posto. Sfiorò l'intera tastiera di avorio con la punta delle dita, con la stessa devozione di un religioso verso una reliquia o di un amante con la propria metà. Non sapeva suonare l'organo, ma a guardarlo era molto simile al pianoforte, lo strumento con cui era più abile e che conosceva meglio di sé stessa. Si mordicchiò un labbro strappando le pellicine, come era solita fare quando pensava intensamente a qualcosa, e cominciò a schiacciare tutti i tasti. Quando schiacciò il Re minore, tuttavia, il suono venne fuori attutito, come se ci fosse qualcosa che non permetteva all'aria di fare liberamente il suo corso. Ci riprovò, confrontandolo con altre note. C'era qualcosa che impediva al suono di uscire, un oggetto incastrato nella canna. Poteva essere niente, così come invece poteva essere fondamentale alle loro indagini. Un moto di orgoglio le scaldò il ventre. Se fosse stato importante, sarebbe stata lei ad averlo scoperto. Lei e non Sherlock, che avrebbe dovuto congratularsi con lei e ringraziarla. Che avrebbe dovuto rendersi conto che poteva essere utile anche lei in quelle occasioni.
Si alzò e si mise in piedi sul seggiolino, che ondeggiò leggermente sotto i suoi piedi, ma era lo stesso troppo lontana e in basso rispetto al suo obiettivo e il punto di appoggio non era abbastanza stabile, avrebbe potuto cadere in qualsiasi momento. Si guardò intorno, cercando una soluzione al suo problema. Non si fidava abbastanza di quei poliziotti, avrebbero potuto mettere le mani dove non dovevano, anche se poteva benissimo essere la figlia di almeno tre quarti dei presenti, e sicuramente non l'avrebbero aiutata, almeno non senza avere qualcosa in cambio. Sherlock era troppo impegnato a raccogliere campioni e studiare il cadavere per prestare attenzione a lei, infatti non si era nemmeno accorto della sua posizione. Rilassò i muscoli delle sopracciglia e la mascella appena le balenò in mente la soluzione, che era davanti a lei sin dall'inizio. Ma certo, c'era lui...

"John! Puoi venire ad aiutarmi, per favore?" lo chiamò, togliendosi il cappotto per poter essere più comoda nella sua operazione.

John girò la testa verso di lei, le labbra appena in fuori e un'espressione pensierosa. Annuì un secondo dopo, dirigendosi a passo svelto e rigido dove si trovava la ragazza. La guardò, poi girò la testa verso lo strumento musicale, cercando di capire per quale motivo l'avesse chiamato lì e cosa c'entrasse l'organo.

"Dovresti farmi salire sulle tue spalle." disse lei come se fosse la cosa più naturale del mondo. Certo, lei era già molto bassa e John non era di sicuro molto alto, almeno non per un uomo, ma sarebbe bastato. Se lo sarebbe fatto bastare, non aveva alternative. Non perdeva di vista la canna del Re, così che non rischiasse di confonderla con un'altra.

John rimase immobile con le sopracciglia aggrottate per qualche secondo. Il tono usato dalla ragazza era ovvio, pragmatico, uguale a quello che Sherlock usava spesso durante i loro casi quando credeva che un'informazione fosse nota ad entrambi. Annuì infine, sistemando le mani così che potesse usarle come scaletta per sistemarsi sulle sue spalle. Era molto leggera, quindi non ebbe problemi a darle la spinta e non sentì neanche la schiena curvarsi sotto il suo peso. Era anzi fin troppo leggera e, ora che sentiva il suo corpo senza il cappotto di mezzo, era estremamente e pericolosamente spigolosa. Si morse un labbro prima di dire qualcosa a sproposito, prima che la sua coscienza da medico facesse capolino e iniziasse a spargere diagnosi ed ipotesi che avrebbero potuto farla arrabbiare, ma non gli piaceva per niente la situazione. Si chiese se avesse fatto colazione quella mattina o se si era limitata a quel caffè che le aveva visto sorseggiare, se mangiasse a sufficienza o se sacrificasse qualche pasto in nome di un ideale malato a cui aveva visto soccombere fin troppe ragazze e anche molti ragazzi.

"Trovato!" esclamò, tirando fuori una busta di carta che pareva piena di fogli e risvegliando John dai suoi pensieri.

Saltò giù dalle spalle di John, tenendosi a lui per non cadere. Teneva stretta in mano la busta e aveva uno sguardo euforico sul volto. Aveva la sensazione che fosse importante, la chiave di tutto quel caso. Dopotutto, perché nasconderla ma fare in modo che loro la trovassero, altrimenti?

{Spazio autrice}

Hi folks!

Non sono molto sicura di questo capitolo, soprattutto la parte in cui Char esamina il corpo e cerca l'oggetto misterioso nell'organo. Ovviamente, se qualcosa dovesse essere strana e incomprensibile o semplicemente suona male, ditemelo senza problemi ♡

Spero di essere riuscita a dare comunque l'idea, l'immagine che avevo in mente. Sin da quando ho iniziato a scrivere questa storia avevo questa visione di un prete crocefisso nella sua chiesa. Diciamo anzi che era un'immagine che mi perseguitava da anni e da qualche parte, prima o poi, dovevo metterla. E se la sono beccata il nostro trio delle meraviglie, con un'escalation di malattia mentale nel vedere la scena. Ognuno ha quello che si merita, alla fine, no?

Lasciatemi un commento se la storia vi sta piacendo e se volete scoprire cosa è successo al povero padre Valence e che cos'è quella cosa che Charlotte ha trovato nella canna dell'organo.

 

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Capitolo 9
*** Capitolo nove ***


Capitolo nove


Chiunque avesse guardato dal finestrino dell'auto, avrebbe fatto fatica a credere che quelle tre persone potevano veramente stare assieme in uno spazio così ristretto. E soprattutto che due uomini grandi e grossi lasciassero che fosse una ragazzina magrolina e decisamente più piccola di loro a guidare. Ma in effetti Charlotte non avrebbe mai permesso a nessuno di toccare la sua auto, quel piccolo gioiellino rosso che teneva come la cosa più preziosa del mondo.
Non stavano scomodi, alla fine. Con Charlotte alla guida, Sherlock era seduto al posto del passeggero e John dietro. La scelta era stata molto semplice: John aveva le gambe più corte, quindi non avrebbe avuto problemi nei sedili posteriori, mentre Sherlock si sarebbe trovato con le ginocchia in bocca. Erano anche riusciti a stipare le borse nel bagagliaio e ne era rimasta solo una, posizionata di fianco a Watson.

Erano riusciti a cavarsela prima di pranzo, così che potessero tornare a Oxford con calma e cominciare a studiare tutto quello che avevano visto quella mattina. Sherlock aveva riempito provette su provette di ogni minima sostanza, visibile o meno agli occhi degli altri, che gli sarebbe potuta essere utile, mentre Charlotte aveva deciso di scattare qualche fotografia alla scena del crimine. Se mai dovesse servire, si era giustificata davanti al sopracciglio alzato dello zio.
Erano montati in auto quasi in religioso silenzio, ognuno perso nei dettagli di quell'omicidio che più ritenevano singolari. Il silenzio non durò molto, poiché cominciarono a scambiarsi subito le prime impressioni su quel caso. Per lo meno, Charlotte e John cominciarono a parlarne, Sherlock era rimasto perso nei suoi pensieri con le mani giunte appoggiate sulle labbra. Non sapevano nemmeno se li stesse ascoltando, probabilmente incamerava le loro parole senza prestarci particolare attenzione. Le conservava nel suo subconscio, da qualche parte nel suo palazzo mentale, pronte ad essere tirate fuori all'occorrenza.
Ben presto finirono anche quegli scambi di battute, percorso reso ancora più veloce dai continui rimbrotti che Sherlock rivolgeva a Charlotte riguardo la sua guida. Tieni la sinistra. Rallenta. Sei troppo arrabbiata alla guida, devi calmarti. Guarda che il semaforo sta diventando rosso, comincia a rallentare. La ragazza, infastidita da quegli interminabili commenti, rispondeva a monosillabi, cercando di trattenere parolacce ed insulti per il detective.

All'ennesimo rimprovero, però, Charlotte non riuscì più a contenersi e gli si rigirò contro, come un gatto selvatico. Passarono alcuni istanti di assoluto silenzio in quel cubicolo a seguito di quella piccola ribellione. Era un silenzio soffocante in cui i due Holmes sembravano essere a loro agio ma che a John stava stretto. Aveva voglia di aprire la portiera e buttarsi giù dall'auto. Rotolare sull'asfalto sarebbe stata una soluzione migliore rispetto al subire quella situazione, quel discorso senza parole, l'aria pesante che si sentiva tra i due. Era la prima volta che John si sentiva veramente estraneo agli Holmes. Ormai era come se facesse parte anche lui della famiglia, ma in quel momento si rese conto che non lo sarebbe mai stato. Si sentiva un intruso, qualcuno che sarebbe stato meglio da qualsiasi altra parte del mondo piuttosto che lì con loro.
Posò lo sguardo sulle mani di Charlotte. Le nocche contratte, le unghie quasi conficcate nel volante. Era irritata da come Sherlock le aveva parlato ma si stava trattenendo. Non sapeva se perché ci fosse lui con loro o perché erano in auto o per chissà quale altro motivo. Il piccolo cerotto che le aveva messo sembrava sul punto di saltare via. Si era graffiata con il bordo della canna dell'organo e John l'aveva pulita alla bell'e meglio con dell'acqua e un cerotto che teneva in tasca, dicendole che poi, a casa, l'avrebbe disinfettata per bene. Era solo un graffio, ma chissà da quanto non pulivano lo strumento, avrebbe potuto comunque fare infezione. In fondo al suo cuore, tuttavia, non poteva nascondere che sotto quella scusa ci fosse la voglia di tenerle ancora la mano, sentire la sua pelle liscia sotto i polpastrelli. Percepire quel leggero calore che emanava dal palmo e l'impercettibile tremore che la attraversava - per quale motivo tremava?
John decise allora di prendere in mano la situazione e cercare di alleggerire l'atmosfera. Aveva annunciato che Sherlock si era trovato una fidanzata, Janine, e provò uno strano piacere nel vedere l'espressione del detective mutare. Strabuzzò gli occhi e gli lanciò uno sguardo infuocato, mentre Charlotte sembrava una bambina il giorno di Natale e aveva cominciato a riempirli di domande.

Per il resto del viaggio andò così, Charlotte continuava a stuzzicare Sherlock e John le dava man forte. Ogni occasione era buona per prendersi una rivincita su Sherlock Holmes, dopotutto. Il moro si salvò da un ulteriore fiume di domande solo all'arrivo a destinazione, quando la ragazza percorse la rampa che avrebbe portato la sua amata Cinquecento al parcheggio coperto sotto casa. Smontarono dall'auto con tutte le valigie ed entrarono nella piccola villetta a due piani che Charlotte occupava da sola.
John non era riuscito a vederla da fuori, l'entrata dal garage era diretta su un pianerottolo che portava alla cantina da una parte e al salotto dall'altra. Oltre il piccolo disimpegno si apriva, per l'appunto, la sala, semplice e poco decorata. Aveva un divano e un paio di poltrone attorno ad un tavolino basso decorato con un piccolo vaso di fiori e, di fronte, un mobile essenziale con in mezzo una televisione. La finestra a bovindo aveva una panca imbottita che ne seguiva tutto il profilo e, in un angolo, c'era un piccolo pianoforte verticale.
Una porta scorrevole metteva in comunicazione la sala con una cucina abitabile piccola e funzionale, divisa dal disimpegno in cui si trovavano da un bagno provvisto di doccia. Di fronte alla porta d'ingresso cominciava una scalinata che portava al piano superiore dove, John ne era certo, c'era la camera da letto, un altro bagno e forse una o due stanze in più.

La ragazza li invitò ad entrare e poggiare i miseri bagagli vicino ad un mobile a cassettoni. John non riuscì a trattenersi dal guardare le fotografie che ne decoravano il ripiano. Ve ne erano diverse assieme a David scattate in diversi anni, da quando erano piccoli fino a poco prima che partisse. Alcune erano con un altro ragazzo, biondo e dagli occhi celesti e il sorriso più grande che esista. In alcune di queste erano accompagnati anche da un altro giovane, la pelle scura e gli occhi dolci. John si chiese chi fossero, come mai non erano lì con lei in quel momento, ma non osò formulare la domanda a voce alta.
Non riuscì però a trattenere un sorrisetto alla vista di alcune fotografie di famiglia. Mycroft con un'orribile permanente che teneva in braccio una Charlotte ancora in fasce. Un ritratto con tutti gli Holmes, Wanda e Timothy seduti su delle sedie con in braccio Charlotte, che non doveva avere più di tre anni, e dietro di loro, come due angeli custodi, Mycroft e Sherlock. Ne notò una che prese in mano per poterla vedere meglio. Era molto più recente rispetto alle altre, che rappresentavano tutte la prima infanzia della ragazza.

Quella poteva essere di uno o due anni prima, Charlotte era quasi uguale a quel momento ma leggermente più in carne - no, non più in carne, più in forma. Erano vestiti entrambi eleganti, un vestito celeste le fasciava il busto e le gambe mettendo in risalto le forme del suo corpo. Adesso le starebbe largo, si trovò a pensare. I capelli arricciati e raccolti in una pettinatura elegante la facevano somigliare a Cenerentola della Disney. Si teneva abbracciata a Sherlock, una mano poggiata sul suo sterno e la testa dritta, mentre anche lui le teneva un braccio attorno. Il detective aveva il capo inclinato, così da guardarla, e un sorriso che John non gli aveva mai visto addosso. La guardava come se fosse un gioiello, qualcosa di prezioso e bellissimo che aveva paura di perdere. Ma lei non lo vedeva. Lei aveva lo sguardo puntato in camera e sembrava stesse guardando John negli occhi.

"Ti piacciono?"

La voce di Charlotte arrivò dolce e delicata alle orecchie del medico. Gli si era messa di fianco e gli arrivava nelle narici il dolce aroma del suo shampoo e del profumo di rosa che si era spruzzata quella mattina. L'odore dolciastro e nauseante della scena del crimine ora era lontano, non ne era rimasta traccia. John girò la testa e le sorrise, indicando la fotografia che teneva in mano.

"Non lo avevo mai visto così."

Charlie ridacchiò e poggiò il mento sulla spalla del medico, passando le sue braccia sottili attorno a quello più robusto di John.

"Alla fine dell'ultimo anno di liceo hanno organizzato un ballo. David era in accademia e non gli hanno permesso di venire. Allora mi ha accompagnata lui. È stata... una delle cose più carine che abbia mai fatto per me." raccontò, finendo con un sussurro che John riuscì a sentire senza problemi grazie alla vicinanza.

Mise a posto la cornice e fece spostare Charlotte dolcemente. Le prese la mano e le tolse il cerotto, ormai mezzo staccato e rovinato. La tirò piano verso il divano, dove la fece sedere e la raggiunse dopo aver preso il disinfettante, del cotone e un cerotto nuovo. Colse con la coda dell'occhio lo sguardo e il sorrisetto di Sherlock, seduto su una delle poltrone, ma si scrollò di dosso il tutto bagnando il batuffolo con il liquido.

"John, davvero, non ce n'è bisogno." tentò di sottrarsi lei, ma la tenne ferma.

"Char, il medico sono io. Lasciami fare, mh?" la ammonì, alzando solamente lo sguardo sul suo volto come a dirle 'smettila di fare i capricci e dammi ascolto'. Lei sbuffò, ma non si lamentò più e rimase ferma a farsi medicare.

"Quanto avete intenzione di rimanere?" chiese allora, senza però togliere gli occhi da quello che stava facendo John finché non finì di metterle il cerotto nuovo.

"Finché sarà necessario." rispose lapidario Sherlock, prendendo in mano la busta gialla che Charlotte aveva recuperato dall'organo.

"E dove pensate di alloggiare?"

"Qui, ovviamente." Sherlock la guardò come se fosse ovvio, le dita sull'apertura della busta.

Charlotte lo osservò per qualche istante, quasi stesse aspettando che finisse con un 'stavo scherzando, abbiamo affittato due stanze all'hotel qui vicino'. Ma dato che Sherlock non parlava e continuava a sostenere il suo sguardo, si rese conto che non la stava prendendo in giro.

"Non ho spazio, zio." comunicò, scandendo bene le parole. "Ho solo la mia camera."

"Che ha un letto matrimoniale, e quello è un divano letto. C'è posto per tutti." replicò prontamente il detective.

"Non ho intenzione di dividere il mio letto con un uomo che non sia David." lo informò, il tono basso e minaccioso. John notò che la voce le usciva quasi come un ringhio gutturale. Era un avvertimento che Sherlock non sembrava prendere sul serio, anzi. Si sporse appena, le braccia sulle ginocchia e la busta che pendeva pigra dalle sue mani.

"E sappiamo entrambi che stai mentendo. Poco prima di venire qui, hai avuto un incubo e sei scappata nel lettone di papà."

John era sicuro che la ragazza sarebbe scoppiata. Il tono accondiscendente di Sherlock le aveva infiammato le orecchie e aveva stretto la mano in un pugno che teneva sulla coscia. Aveva visto i muscoli della mascella contrarsi, stringeva i denti e contava fino a dieci per non urlare.

"Lui è mio padre, non conta." il respiro era affannato, la voce di qualche tono più bassa. John avrebbe tanto voluto dare una mano, cercare di distendere gli animi. Mosse una mano per toccarle una spalla e tentare di trasmetterle la sua calma, ma ci ripensò immediatamente.

"E io sono tuo zio, anche io non conto." terminò Sherlock, con il tono di chi non ammetteva repliche. "John dormirà sul divano." si alzò e porse a Charlotte i fogli che aveva estratto dalla busta. "Questo è di tua competenza."

La ragazza li prese con stizza, non rinunciando a guardare male lo zio. Se avesse potuto ammazzarlo, si trovò a pensare John, lo avrebbe fatto senza pensarci due volte. Diede un'occhiata anche lui al plico che la ragazza aveva in mano e vide uno spartito pieno di note. Ma c'era qualcosa di strano, non era la notazione che aveva intravisto sugli spartiti di Sherlock. Le note erano quadrate ed ogni rigo musicale aveva solo quattro linee invece che cinque.

"Notazione medievale." dissero Sherlock e Charlotte allo stesso momento e con lo stesso identico tono dalle inflessioni differenti. Sherlock era saccente, Charlotte era affascinata. John scosse appena la testa. Quei due stavano sempre a beccarsi e stuzzicarsi, ma erano più simili di quanto credessero. Il problema era che non lo vedevano.

"Perché dovrebbe essere di sua competenza? Non studia musicologia." disse prima di rendersi conto che non avrebbe dovuto parlare. Si morse la lingua, osservando Sherlock che alzava un sopracciglio con estenuante lentezza.

"Lotte?"

"Ho... Seguito alcune lezioni di musica medievale. Papà non ne sa niente... Ma economia è così noiosa!" tirò in fuori il labbro inferiore, cercando di impietosire lo zio. Lui si limitò a sospirare e alzare il mento, come a dire che non gli importava se stava seguendo le lezioni che doveva ma che, alla fine, era un bene che avesse scelto di bigiare e prediligere quell'insegnamento.

"Comunque posso tradurre lo spartito. Mi servirà un po' di tempo, però... E la prima parte." commentò, sfogliando il plico e poggiandolo poi sulle gambe. John guardò i fogli a sua volta, cercando di capire come avesse fatto a scoprire che mancava una parte. Charlotte notò il suo sguardo e sorrise, indicandogli la prima battuta. "Vedi questa virgolina?" gli disse piano, indicando col dito un segno sotto la prima nota. "È una ligatura. Vuol dire che c'è almeno un'altra battuta prima di questa."

Silenzioso come un felino, Sherlock era andato ad aprire la sua valigia. Ne aveva tirata fuori un'altra busta e la fece cadere sulle gambe di Charlotte.

"Dal caso di Laura Palmer, come lo hai chiamato tu. Per fortuna era dentro un sacchetto di plastica impermeabile e chiuso sottovuoto. La vittima, Carolyn Thrumple, lo aveva tra le mani quando l'hanno fatta riemergere dal Tamigi." la informò, per poi prendere alcune delle provette che aveva riempito quella mattina e dirigersi alla porta. "Divertiti." le augurò prima di uscire dalla porta di ingresso, diretto sicuramente al laboratorio universitario di chimica.

John sospirò e si alzò per sistemare la bottiglia di disinfettante e andare a lavarsi le mani. Charlotte aveva aperto la busta e aveva cominciato a guardare i nuovi fogli. I bordi erano leggermente rovinati dall'umidità, ma la parte interessante era ancora intatta. Scorse fino alla fine e notò che si collegava perfettamente alla prima battuta del nuovo ritrovamento. Impilò tutti i fogli e li soppesò. Non erano più di cinque o sei pagine scritte fronte e retro. Avrebbe avuto bisogno di almeno un paio di giorni per tradurre e poi necessitava di altro tempo per poter aggiustare il tutto secondo la notazione contemporanea. Forse anche di più, considerate le lezioni che avrebbe dovuto seguire, lo studio e sicuramente altri imprevisti causati dalla presenza di Sherlock e John.
Prese un grosso respiro. Ce l'avrebbe fatta. Era una cosa importante e ci avrebbe dato la giusta rilevanza. Se fosse riuscita a svelare quel piccolo enigma, si trovò a pensare, suo zio avrebbe cominciato a considerarla meno stupida, a vederla come una potenziale alleata. Comincerebbe a chiedere aiuto anche a te, Lotte. Si mordicchiò il labbro inferiore, strappandosi qualche pellicina. I suoi occhi saettavano nervosi da un lato all'altro del foglio, cercava di incamerare quante più informazioni fosse possibile. Non era una scrittura particolarmente complicata, non avrebbe avuto difficoltà a sbrogliare la matassa. Non vi erano altre scritte, nessun testo, quindi tutto ciò che c'era da dire era contenuto nella musica.

"Char? Ho preparato qualcosa da mangiare, vieni?" il richiamo di John la tirò via dai suoi pensieri.

Lo guardò, per qualche istante non capì cosa ci facesse lui lì. Poi si chiese perché aveva frugato nella sua cucina, perché si era messo ai fornelli. Una veloce occhiata all'orologio le rivelò che era quasi l'una e dunque aveva avuto forse ragione a preparare il pranzo. Al momento il panico la assalì e le si chiuse la gola. Non sapeva cosa aveva cucinato, in che quantità e con quali ingredienti. In più doveva mangiare davanti a lui, che la osservava e di sicuro l'avrebbe giudicata.
Si fece forza e annuì. Poggiò i fogli sul tavolino e filò in bagno sotto lo sguardo di John che sembrava dire 'se non ti lavi le mani, qui non entri'. Si sedette quindi a tavola, guardando il suo piatto pieno di fagiolini, due piccole fette di petto di tacchino e del pane di fianco. John mangiava la stessa cosa ma in quantità diverse. Non le tolse lo sguardo di dosso finché non la vide mandare giù almeno il primo boccone, allora cominciò a mangiare anche lui.
Le parlò di qualsiasi cosa gli passasse per la mente. Le raccontò di alcuni pazienti bizzarri che gli erano capitati, di scenate che alcuni avevano causato. La fece ridere con l'imitazione di uno di quelli che più lo avevano colpito e che prendeva ancora in giro con Mary a casa. Parlarono poi degli ultimi libri che avevano letto - John era alle prese con la rilettura di Brave New World di Aldous Huxley, uno dei suoi libri preferiti, mentre Charlotte aveva appena iniziato ad affrontare I dolori del giovane Wertheril capolavoro di Goethe. Si ritenne soddisfatto solo quando vide che la ragazza aveva terminato il suo piatto senza neanche accorgersene. Avrebbe voluto chiederle se era stato così tanto difficile, ma si trattenne. Aveva un'altra domanda che gli girava in testa e premeva per uscire, un'informazione che le avrebbe sicuramente mutato l'umore e non aveva intenzione di peggiorare la situazione con un'osservazione superflua.

Sparecchiarono e Charlotte lavò i piatti mentre John si era offerto di preparare il caffè. Si sedettero nuovamente al tavolo, uno di fronte all'altra, zucchero e latte a portata di mano. John inspirò a fondo, guardando il piccolo giardino che si intravedeva dalla portafinestra della cucina. Un giardino curato, imbiancato ora dal freddo e dalla brina che non voleva sciogliersi. Tornò a puntare il suo sguardo su Charlotte, su quella ragazza bellissima ma così triste. Era come un dipinto romantico, uno di quelli con la figura umana piccola piccola di fronte all'immensità e crudeltà della natura. E ora stava per scoccare un dardo anche lui, stava per farla preoccupare e Dio solo sapeva quanto avrebbe voluto evitare. Ma aveva bisogno di risposte.

"Char... Tu cosa ne sai di Magnussen?"

La vide sussultare a quel nome. Alzò la testa e lo guardò con occhi grandi, due pezzi d'ambra che le illuminavano il volto. Rilassò una mano che aveva contratto e rilasciò un respiro che non si era accorta di trattenere.

"Non molto. Papà non ha mai voluto che lo incontrassi. Credo... che sia l'unica persona al mondo che papà teme. Lo rispetta ma ne ha paura." si passò una mano tra i capelli. "Tu come lo conosci?"

"È venuto a Baker Street. Ci ha fatto pipì nel caminetto." fece una smorfia al ricordo. Aveva provato un immediato disgusto per quell'uomo, quasi gli faceva rimpiangere Moriarty che non si faceva sentire da qualche tempo a quella parte. "E poi Mycroft ci ha minacciati di lasciare stare. Ma sai com'è fatto tuo zio..."

Charlotte storse la bocca in un piccolo sorriso amaro.

"Già... ma papà ha ragione. È meglio fare finta che non esista. Se ci stai lontano, non può farti del male." allungò le braccia e gli prese una mano tra le sue. Lo guardava e lui ricambiava il suo sguardo, lasciando che il suo calore gli passasse attraverso le dita fin dentro alla pelle. "Promettimelo, John. Promettimi che gli starai lontano."

John sospirò e posò l'altra mano su quelle di Charlotte. Guardò per qualche istante i loro arti intrecciati, stretti gli uni agli altri. Lei non aveva esitato a stringerle, a toccargli il palmo con dolcezza e urgenza. Così come non esitava mai ad avvicinarsi a lui, prenderlo sottobraccio, fargli le moine come un gatto. E lui come la ripagava? Facendola preoccupare, tirando fuori un argomento che sarebbe dovuto restare nascosto. E se l'avesse messa in pericolo? Magnussen era come Moriarty, anche lui sapeva? Aveva modo di scoprire quando una persona gli arrivava vicino? O magari già sapeva della sua esistenza, aveva già avuto a che fare con lei e Mycroft si era dovuto mettere in mezzo. Per quello aveva avuto quella reazione, esagerata nei confronti di qualcuno che si professava di non conoscere. Forse si era avvicinato a lei abbastanza per toccarla e Mycroft aveva dovuto trovare un accordo perché si scordasse di lei e la lasciasse in pace.
Ma Magnussen non dimenticava niente, lui accumulava tutte le informazioni che poteva.

John alla fine sorrise e le strinse di più le mani. Una stretta rassicurante, affettuosa. Le accarezzò anche il dorso con il pollice, come faceva con sua madre, sua sorella e anche con Mary quando voleva trasmettere loro sicurezza. Stava per mentirle e si sentiva male al solo pensiero, avrebbe preferito farsi sparare o rivivere ogni giorno gli incubi della guerra. Non sapeva se lei lo avrebbe capito o gli avrebbe creduto. Ma dire una bugia a quegli occhi, a quella ragazza che gli aveva aperto il suo cuore con tanta rapidità e fiducia, gli faceva rivoltare lo stomaco e attorcigliare le budella.

"Te lo prometto, Char."

 

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Capitolo 10
*** Capitolo dieci ***


Capitolo dieci


La convivenza fu più semplice di quello che John si aspettava. Charlotte faceva di tutto per farlo sentire a suo agio, arrivando a modificare le proprie abitudini per accomodare le sue. Per Sherlock non si sforzava così tanto, probabilmente la familiarità era più forte rispetto all'ospitalità. Ma Holmes sembrava non curarsene né accorgersene, dopotutto era quasi sempre fuori e spesso in casa rimanevano solo John e Charlotte.
Furono entrambi piacevolmente sorpresi nel vedere quanto facile fosse coordinarsi. I primi tempi in casa con Sherlock erano stati difficili, adattarsi al suo modo di vivere non era stata una passeggiata. Lei, invece, era molto più aperta e disposta a collaborare per rendere agevole il soggiorno anche a John. Certo, il medico a volte si trovava spiazzato di fronte a sbalzi d'umore improvvisi e cambi di idee repentini, ma riusciva a schivare il dardo avvelenato ed evitare il disastro.

Il medico aveva osservato con divertimento il comportamento di Charlotte e Sherlock nei confronti l'uno dell'altra. Sembrava che si percepissero a vicenda, evitandosi all'ultimo momento anche quando avevano il naso sepolto in qualche libro o risultato. Con mezza parola si trasmettevano discorsi lunghi ore e spesso anticipavano i bisogno dell'altro dandosi un bicchiere d'acqua o una penna o qualsiasi cosa avessero bisogno. Si erano ritrovati ogni tanto ad ignorare John involontariamente, troppo presi dai loro compiti e i loro scambi incomprensibili a tutti gli altri per rendersi conto di ciò che li circondava.
Più li osservava, più si rendeva conto di quanto fossero simili. Avevano lo stesso modo di camminare quando erano diretti con sicurezza verso un obiettivo, lo stesso modo di tenere la sigaretta tra le labbra - il filtro era sempre pieno di piccoli solchi provocati dai loro denti, si distinguevano solo dalle leggere tracce di rossetto o burrocacao di Charlotte. Quando riuscivano a sciogliere un nodo che li teneva occupati, avevano entrambi la stessa espressione soddisfatta e la stessa luce negli occhi, che in pochi secondi li spingeva a correre e mettere in pratica le loro idee. A John sarebbe piaciuto sapere se anche loro vedevano tutte queste somiglianze. Se Sherlock fosse in grado di notare quanto brillante e sveglia fosse in realtà la nipote e se Charlotte si rendesse conto che non era poi così diversa dalla sua famiglia come credeva. Ma allo stesso tempo si chiedeva quanto avesse dovuto soffrire quella ragazza per arrivare a quel punto, a quanto aveva dovuto rinunciare, a come si fosse costretta a lottare contro i suoi istinti più basilari. Certo, a giudicare dalle fotografie che teneva sul mobile non era mai stata completamente sola, ma non era circondata di persone. Due amici, un fidanzato e la sua famiglia. Un mondo ristretto, sicuro, che adesso l'aveva lasciata da parte per seguire le proprie ambizioni o semplicemente perché la vita li aveva portati lontani. Chissà quei due ragazzi che aveva visto sorridere con lei dove si trovavano. Di sicuro non erano a Londra, perché mentre lei era lì non li aveva mai incontrati o nominati.
Forse era una prerogativa degli Holmes, pensava John. Non formavano legami e vedevano i sentimenti come una debolezza. Forse era una forma di protezione: avere meno persone che si amano, voleva dire rischiare la vita di meno persone. Dopotutto anche Sherlock non aveva molti amici. Oltre a lui e Mary, c'erano solo Molly, Lestrade e la signora Hudson. Certo, aveva anche tutta la rete di senzatetto che lo aiutava, ma più che amici sembravano collaboratori. Mycroft invece pareva non avere affetti all'infuori della famiglia, e l'unica con cui si poteva vedere un rapporto quasi umano di amore era proprio con sua figlia. Anche Charlotte doveva essere stata condizionata da questi esempi, tanto che la sua vita si era ridotta a girare attorno a pochissime persone.
A pochissimi uomini, volle puntualizzare John. Era una donna sola in un mondo di uomini, e non riusciva neanche ad immaginare quanto difficile potesse essere per lei riuscire ad adattarsi a quell'universo.

Spesso, in quei giorni, l'aveva vista perdere lo sguardo nel cielo. Che fosse giorno o sera, lei cercava qualcosa oltre le nubi e le stelle. Una sera si era seduto a terra in giardino assieme a lei, avvolto nel suo giubbotto. Le aveva portato una coperta che aveva posato sulle sue spalle, notando che con la sua felpa bordeaux ormai aveva troppo freddo, e si era accomodato di fianco a lei. Non aveva detto una parola e si era limitato a seguire il suo sguardo. Il libro di testo era abbandonato sulle sue ginocchia, le pagine aperte sulla teoria filosofica di Aristotele sembravano aspettare un lettore che non sarebbe arrivato per tanto tempo.

"Sto cercando i miei genitori." aveva detto lei all'improvviso. Niente più che un sussurro, così leggero da confondersi con le ombre della sera e così dolce da ricordargli i fiori di maggio.

John distolse per un istante lo sguardo dal cielo per posarlo su di lei. La luce che arrivava dalla cucina la colpiva debolmente, unendosi a quella dei lampioni che illuminavano la strada. Quel riverbero arancione donava un'intensità dorata ai suoi occhi, che in quel momento sembravano due pozze di miele pronte a sciogliersi. Era bellissima, quasi un angelo che aveva perso le ali e soffriva nel non poter tornare a casa sua. Il medico abbassò la testa, poi tornò a puntare lo sguardo sulla volta celeste. Già... anche lui ogni tanto si era trovato a cercare risposte lassù. A cercare gli occhi di suo padre, che aveva visto per l'ultima volta a sette anni prima che partisse per la guerra, destinato a tornare in una bara di legno coperta dalla bandiera inglese. Scandagliava il cielo per ritrovare il sorriso e l'abbraccio di sua madre, morta d'infarto (è morta di dolore, stupido di un John Watson, perché tu l'hai abbandonata) mentre lui stesso era in Afghanistan a combattere per la patria - o forse solo per seguire le orme di un uomo che aveva idolatrato e che vedeva come un eroe?

"Cosa sai di loro?" le chiese con dolcezza, nascondendo i suoi stessi sentimenti. La vide con l'angolo dell'occhio sorridere mestamente e giocherellare con l'orlo della coperta.

"Poco. So solo che erano gli unici amici di papà. Lui... Aveva iniziato l'università prima del tempo, a sedici anni, e loro due avevano preso le sue difese quando un'altra matricola lo aveva preso di mira. Poi lo avevano visto sempre da solo, sempre a schivare le persone, e allora hanno cominciato a parlare con lui ogni volta che lo vedevano, a coinvolgerlo nei loro piani. A trattarlo da amico, da persona alla pari, senza aver paura della sua intelligenza. All'inizio papà cercava di allontanarli, ma col tempo si è affezionato. Dice..." si fermò un attimo, si schiarì la gola e prese un grosso respiro. "Dice che sono uguale a mia madre. Stesso sguardo, stesso sorriso, stessa irruenza. Anche loro non avevano più nessuno, erano da soli e si tenevano compagnia. Papà dice che non aveva mai visto due persone così innamorate l'uno dell'altra, innamorate della vita. Amavano senza chiedere niente in cambio. Forse era questo che aveva affascinato papà, era questo che li rendeva così interessanti e degni di nota per lui."

Poggiò il libro sull'erba di fianco a lei e tirò su le ginocchia. Si circondò le gambe con le braccia e appoggiò il mento, sospirando.

"E... Cosa è successo?" chiese John dopo qualche istante di silenzio, temendo però in quel modo di rovinare l'atmosfera. Il suo cuore martellava nel petto, aveva paura della risposta a quella domanda e non sapeva neanche lui perché.

"Quando sono nata, loro e papà erano quasi inseparabili. A quanto pare è stato il mio padre biologico ad aiutare papà nel suo lavoro. Comunque... Papà era il mio padrino. I nonni li avevano accolti con piacere, forse erano felici che finalmente il figlio maggiore avesse degli amici. Ma ci fu un incidente. Quando avevo poco meno di un anno, un camion prese in pieno la loro auto e morirono sul colpo. Io ero con i nonni, fortunatamente, ma papà è stato chiamato a riconoscere i corpi. E dato che non avevo altra famiglia biologica, sono stata affidata a lui, che mi ha adottata legalmente." terminò il suo racconto con un respiro profondo, sempre guardando il cielo.

John non stava più guardando in alto. Aveva spostato lo sguardo su di lei, seguendo il suo racconto mentre studiava ogni minimo movimento del suo volto. Ma sembrava che raccontare quella storia non fosse tanto diverso dal recitare una fiaba o una poesia. Gli occhi erano fissi, le labbra non tradivano alcun tipo di emozione e la voce era ferma, decisa. Era fredda e distaccata mentre raccontava di come erano morti i suoi genitori, completamente in contrasto a come era apparsa poco prima.

"Char..."

"Ma io non gli credo." lo interruppe con voce ferma. John aggrottò le sopracciglia, confuso. "Insomma, se è andata così, perché non so i loro nomi? Perché non so dove sono sepolti, non siamo mai andati a trovarli? Perché in tutti i documenti, anche il mio certificato di nascita, sono registrata come Holmes?" si morse le labbra, strappandosi le pellicine. Adesso riusciva a vedere la sua emotività, la rabbia per non sapere la verità e il dolore nel dover affrontare quella situazione. "Per questo li cerco ogni sera. Perché spero che mi diano una risposta. Ma sono vent'anni che stanno zitti, che non si fanno sentire, e io non ce la faccio più."

John rimase immobile a quello sfogo. La voce di Charlotte si era rotta più volte in quelle poche parole e dai suoi occhi erano scese alcune lacrime che, alla luce dei lampioni, mandavano riflessi arancioni. Non riuscì a fare altro che guardarla per qualche secondo, preso alla sprovvista dal suo comportamento. Anche lui, spesso, aveva bisogno di sentire la voce dei suoi genitori e chiedere loro tante cose, ricevere molte spiegazioni. Ma almeno lui sapeva i loro nomi, conosceva i loro volti e poteva andare a cambiare i fiori alle loro tombe quando voleva. A lei tutto quello era stato negato, non poteva conoscere le sue origini, e John non poteva immaginare quanto male potesse fare.
Si avvicinò appena a lei e le passò un braccio attorno alle spalle. Esercitò una leggera pressione sul suo braccio, così da invitarla ad appoggiarsi a lui. Lei posò la testa sulla sua spalla, rannicchiandosi contro il suo fianco e asciugandosi le guance con le maniche della felpa. John poggiò la guancia sulla sommità della sua testa, lasciando che lei trovasse una posizione comoda senza costringerla.

"Scusami, John, sono patetica." sussurrò, tirando su col naso. John sorrise, stringendola appena di più per farle capire che non doveva preoccuparsi.

"Per niente. Al tuo posto, io non so cosa avrei fatto. Ma non credo che Mycroft ti abbia mentito per cattiveria... Lo avrà fatto per proteggerti."

"Non ho bisogno di protezione. Tutti pensano che debba essere protetta da qualcosa, ma so cavarmela da sola. Io voglio risposte, voglio la verità." strinse un pugno contro la stoffa e John, di contro, le accarezzò il braccio.

"Oh, ma io lo so bene. Credi che mia madre, se fosse ancora qui, non cercherebbe di proteggermi da qualsiasi cosa? È l'istinto dei genitori." le indicò due stelle vicine che sembravano farsi la corte a distanza di anni luce. "Vedi quelle due? Ecco, io penso che siano mio padre e mia madre. E mi danno il tormento ancora adesso, sai? Sono sempre lì a guardarmi e giudicare quello che faccio. Mettiti la maglia della salute! Stai attento! In cosa ti immischi con quello Sherlock Holmes, sei pazzo?" scherzò, modificando la voce per imitare il modo in cui gli avrebbe parlato la madre. Charlotte si lasciò andare ad una risatina che scaldò il cuore di John. "Ma è colpa dell'amore che provano per noi. E non credo esista un padre che ami i suoi figli più di quanto Mycroft ami te. Devi credermi, Char, l'ho visto nei suoi occhi."

La voce di John era una carezza per le orecchie di Charlotte. Le sue parole erano riuscita a calmarla almeno un po', a farla sentire meno sola. Si strinse di più a lui, passandogli le braccia attorno per abbracciarlo a sua volta. Erano rimasti poi a guardare il cielo assieme per un po' e, quando rientrarono, John notò dall'orologio che era la mezzanotte del 9 febbraio. Sorrise e fermò la ragazza, dandole un ultimo abbraccio e sussurrandole all'orecchio "buon compleanno, Char".

Il giorno dopo, il compleanno della ragazza, tutto sembrava andare alla perfezione. Charlotte aveva passato molto tempo al telefono, i suoi nonni l'avevano trattenuta in linea per circa un'ora, poi aveva ricevuto una chiamata probabilmente dai due amici che John aveva visto in fotografia. Non fu contattata da David, ma affrontò la situazione con un mezzo sorriso. Probabilmente non gli hanno permesso di usare il telefonooppure non prende, aveva detto. John non aveva avuto cuore di dirle che, invece, più probabilmente erano impiegati in una missione e quindi chiamare casa era l'ultimo dei suoi pensieri.
La telefonata con Mycroft fu quella più lunga di tutta la giornata. Oltre ad averle fatto gli auguri, volle infatti assicurarsi che tutto stesse andando bene - papà, lo sai che va tutto bene, le ho viste le tue telecamere -, che Sherlock si stesse comportando bene e che lei si stesse dedicando allo studio.
Anche Sherlock si era un po' lasciato andare quel giorno. Quando si era svegliato ed era entrato in cucina, dove Charlie e John stavano facendo colazione, non aveva detto una parola e aveva fatto alzare la ragazza. L'aveva stretta in un abbraccio, tanto atipico per lui che anche Charlotte rimase interdetta ed impiegò qualche secondo prima di ricambiarlo. "Buon compleanno, piccola" era tutto quello che le aveva detto, abbastanza piano perché solo lei riuscisse a sentirlo davvero.
John aveva sorriso a quella scena, guardandoli come se fossero un'opera d'arte. Non poteva nascondere di essere in parte fiero di Sherlock e dei passi avanti che stava facendo nelle relazioni. Stava finalmente imparando ad accettare il suo lato umano, a non respingerlo, e anche un gesto piccolo come quello rappresentava un grosso traguardo raggiunto. John aveva poi preparato una torta per Charlotte, piccola perché tanto erano in tre e al cioccolato perché aveva imparato che lo amava. Aveva notato che aveva fatto un po' di fatica, soprattutto alla prima forchettata, ma poi si era fatta coraggio e aveva finito almeno la fetta che le aveva messo nel piatto. Che fosse per fargli un piacere o meno, poco importava.

Fu il giorno seguente a mandare tutto a rotoli. La giornata sembrava essere cominciata in maniera normale ed era proseguita senza particolari scossoni. Sherlock era rimasto fuori la maggior parte del tempo, Charlotte si era divisa tra la traduzione dello spartito e lo studio delle sue materie, mentre John cercava disperatamente qualcosa da fare per dare una mano o, almeno, per passare il tempo. Non si erano riuniti neanche per pranzo, e John sentiva che qualcosa non andava. L'apparente armonia di quei pochi giorni si era rotta. Sherlock era nervoso e Charlotte sembrava lo spettro della ragazza del giorno prima. Aveva gli occhi spenti e lo sguardo distante, come se fosse con loro solo col corpo ma la mente fosse altrove. John aveva notato che aveva ripreso quel leggero tremore che era sparito da quando erano lì ed evitava di mangiare con loro o comunque di passare del tempo in compagnia. Stava rinchiusa in una delle stanze al piano di sopra e metteva il naso fuori solo per andare in bagno. Durante il tardo pomeriggio, però, John riuscì ad intercettarla e la fece scendere con la scusa di bere un the. Ignorò i primi tentativi di ribellarsi della ragazza, che però alla fine decise di desistere e lo seguì al piano di sotto, forse solo per farlo felice e farlo smettere di essere così insistente.

La fece sedere in cucina, dove c'era già Sherlock col naso sepolto in diversi fogli che parevano essere i risultati delle analisi che aveva fatto nei giorni precedenti. Alzò appena lo sguardo su di lei, ritenendo quindi più interessante osservarla piuttosto che continuare a studiare quei numeri senza riuscire a venirne a capo. Lei evitava il suo sguardo, continuava ad abbassare gli occhi e ritrarsi a lui come se avesse qualcosa da nascondere. Ma Sherlock rimase immobile, la mascella rilassata e lo sguardo attento.
John si era reso conto di quel piccolo cambiamento. Era lo sguardo che Sherlock usava sui suoi clienti, quello che era dieci passi avanti anche solo al loro pensiero e che non si lasciava sfuggire neanche un dettaglio. Stava deducendo sua nipote e, dalla leggera torsione dell'angolo della bocca, quello che vedeva non gli piaceva. Oh no, non gli piaceva per niente.

"John, portale anche qualcosa da mangiare oltre il the." sentenziò con voce sorprendentemente calma. Ma John ormai lo conosceva abbastanza bene da cogliere quel sottofondo di preoccupazione che non mostrava mai a nessuno, una sorta di urgenza che spingeva per uscire. Riconosceva quello sguardo che voleva dire che se la persona davanti a lui non avesse fatto quello che diceva, allora le cose si sarebbero messe male. Molto, molto male.

"Non ho fame." replicò semplicemente lei, alzando finalmente lo sguardo e incrociando quello di Sherlock.

John osservò quello scambio mentre poggiava le tazze di the sul tavolo - a Sherlock aveva preparato un the nero Darjeeling, mentre aveva imparato che il preferito di Charlotte era il the bianco alla rosa con dentro un goccio di miele. Aveva inconsciamente scelto delle tazze che li rappresentavano così come il liquido all'interno. Quella di Sherlock era scura, solida, trasmetteva sicurezza e fermezza. Per Charlotte aveva invece preso una tazza di ceramica delicata, dal colore chiaro e piccoli disegni color rosa antico e oro. Era fragile e bellissima, come lei, ma incredibilmente resistente.

"Non hai mangiato per tutto il giorno." rincarò la dose Sherlock, piegandosi appena sul tavolo per avvicinarsi alla nipote, che dal canto suo si ritirò appena indietro. E ti ho sentita durante la notte vomitare tutto quello che hai ingerito ieri, avrebbe voluto aggiungere. Lo avrebbe fatto senza pensarci se davanti a sé avesse avuto un'altra persona, ma si morse la lingua davanti ai suoi occhi.

John avrebbe voluto fermarlo, ma non fu in grado di muoversi. Rimase lì, seduto a capotavola come un idiota con in mano la sua tazza di the rosso - l'aveva assaggiato lì da lei per la prima volta e ci aveva completamente perso la testa - che sorseggiava lentamente.

"Neanche tu." rispose la ragazza, alzando il mento in segno di sfida.

"Non mangio mai durante un caso, mi rallenta." si affrettò a puntualizzare il detective, incrociando le dita sul tavolo. "E non vale la stessa scusa per te."

"Oh, avanti! Per te va bene saltare i pasti e per me no?" aveva assunto ormai un tono quasi petulante. John riusciva a vedere la sua reale età in quel momento. Non era che una ragazzina che aveva paura del mondo e che voleva ribellarsi, che non capiva perché le stesse regole non potessero valere anche per gli adulti.

"Io non soffro di anoressia, Charlotte!" non avrebbe voluto usare quel tono perentorio e quasi infuriato, pronunciare il suo nome come un tuono che preannuncia la pioggia. Dentro di sé si rese conto di essere andato troppo oltre, di aver esagerato, ma il suo aspetto esteriore non lo tradì.

Uno, due, tre battiti mancarono al suo cuore quando l'espressione di Charlotte mutò. Prima aveva uno sguardo di sfida, era pronta a contrattaccare. Ora sembrava un gattino bagnato, gli occhi grandi e un principio di lacrime che le bagnava le iridi. John lo guardava accigliato, lo avrebbe sgridato se solo fosse stato sicuro di potersi intromettere, ma in quel momento trovò più sicuro rimanere ad assistere come un testimone silenzioso.

"Sono guarita, zio." disse lei piano, inumidendosi le labbra e distogliendo lo sguardo.

L'aveva ferita, le aveva fatto del male ancora. Tutte le volte che succedeva si prometteva di smetterla, di trattarla in modo diverso, di essere più gentile con lei. Ma ogni volta falliva, ogni volta le spezzava sempre di più il cuore. C'erano le piccole occasioni, in cui la faceva sentire piccola e inadeguata. E poi le situazioni come quella, in cui faceva qualcosa che le lacerava l'anima. Ma bravo, Sherlock, adesso devi riconquistarla di nuovo. Come dicono, la terza volta è quella buona, no?

"No, direi di no. Da quando ti sei trasferita qui hai perso 8 - no, 9 kili. Hai ricominciato ad indossare abiti larghi, forse per nasconderti o forse per non far vedere quanto sei davvero magra. Conti tutto quello che mangi, ti ho vista, e quando ieri John ti ha messo la torta davanti sembravi sul punto di scappare. Ti tremano le mani più o meno sempre, sei fredda e hai un aspetto sempre stanco per quanto cerchi di nasconderlo col trucco. Ti stanno cadendo i capelli, ogni mattina il cuscino ne è pieno, e--"

"Basta!" urlò Charlotte, sbattendo le mani sul tavolo e alzandosi in piedi. John drizzò la schiena, stupito da quel gesto e dalla forza con cui lo aveva compiuto, decisamente più violenta di quanto il suo corpo minuto desse ad intendere. Sherlock ammutolì immediatamente e la guardò. "Adesso... basta." terminò con un tono di voce che voleva sottintendere che non ammetteva repliche.

"Lotte..." disse piano, preso appena alla sprovvista da quella reazione così violenta"Se continui così, dovrai essere ricoverata di nuovo." lo disse con il suo solito tono superiore, come se fosse un dato di fatto. Charlotte non riuscì a nascondere una leggera smorfia a quelle parole, infastidita dal modo in cui si comportava ogni volta.

"E da quando ti importa? A te è sempre e solo fregato dei tuoi casi." gli ringhiò contro, piegandosi sul tavolo. John tese le spalle, pronto ad intervenire, ma Sherlock era tranquillo. La guardava negli occhi.

'Sempre. Mi è sempre importato di te. Ti voglio bene più di chiunque altro, lo sai. Se ti sto dicendo tutto questo è proprio perché sono preoccupato per te' avrebbe voluto dirle, ma dalle sue labbra non uscì suono. Rimase in silenzio a guardarla, i loro occhi si incontravano a metà strada come la spiaggia e il mare. Charlotte alzò un angolo della bocca in un sorrisetto amaro di scherno.

"Come immaginavo." commentò, prima di uscire dalla stanza e tornarsene al piano di sopra.

Sherlock si girò quindi verso John con le sopracciglia appena corrugate. Lo guardava come a chiedergli cosa avesse fatto di male, perché lei si fosse arrabbiata così. John sospirò e scosse la testa, alzandosi per mettere la sua tazza e quella di Charlotte - intoccata e che sarebbe rimasta così per sempre - dentro il lavandino.

"Tanti anni che la conosci, e ancora non sai come prenderla..." commentò rovesciando il the nello scarico e bagnando la spugna per poter lavare le due tazze.

"Ho solo detto la verità. Anche tu te ne eri accorto." replicò tagliente. John sospirò e posò le stoviglie sullo scolapiatti. Si girò, appoggiandosi al lavello con le reni e incrociò le braccia sul petto.

"Certo che me ne ero accorto. Sono un medico, Sherlock, lo vedo se una persona ha problemi di salute. E in questi casi serve dolcezza, non sincerità."

Rimasero per qualche istante fermi nelle loro posizioni, Sherlock con l'attenzione di nuovo catturata dai fogli che aveva sparsi sul tavolo e John che lo osservava. Poi il medico si avvicinò e prese anche la tazza del detective, ormai vuota, per lavarla.

"Non l'hai persa, comunque." gli disse piano prima di tornare al lavello. Era la sua offerta di pace, il suo modo per fargli capire che non era arrabbiato con lui. Era convinto di quello che gli aveva detto, non l'avrebbe persa mai.

 

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Capitolo 11
*** Capitolo undici ***


Capitolo undici


Dopo aver lasciato Sherlock in cucina, John decise di salire le scale. Si guardò attorno una volta arrivato e vide la porta del bagno chiusa. Accennò un piccolo sorriso e ci si avvicinò. Bussò sul legno con due tocchi leggeri. Gli arrivò un "vai via" attutito e sospirò.

"Char, sono John... Mi fai entrare? Solo per un attimo?" le rispose con tono calmo, come quando doveva trattare con un paziente spaventato dal possibile risultato della visita. Non preoccuparti, Carl, è solo un'influenza.

Charlotte rimase in silenzio per qualche istante, poi mormorò un "entra" che John sentì a malapena. Accennò un piccolo sorriso e aprì la porta. Mise piede in bagno e si guardò intorno. In quei giorni lui aveva utilizzato quello al piano di sotto, abbastanza piccolo e con un box doccia che bastava solo per lui. Quello era più grande, con un bel mobile bianco su cui erano poggiate boccette e bagnoschiuma di ogni profumo. Di fronte alla porta c'era una grande finestra che sormontava un'ampia vasca da bagno che avrebbe potuto accogliere due persone senza alcun tipo di problema. Certo, sarebbero state comunque un po' strette, ma non si sarebbero trovate con i gomiti nelle costole.
Fece un passo avanti e si girò per chiudere la porta. Girò la chiave nella toppa, così che nessuno avrebbe potuto disturbarli. Si avvicinò alla vasca, all'interno della quale Charlotte era sdraiata con una sigaretta accesa tra le dita. Si schiarì la gola.

"Posso?" chiese, indicando l'altro lato della vasca. Charlotte annuì, così John si tolse le scarpe ed entrò nella tinozza a sua volta.

Si prese qualche istante per osservarla. Aveva la testa girata verso la finestra e guardava fuori. Gli occhi arrossati gli dicevano che aveva trattenuto delle lacrime, di sicuro quello che aveva detto Sherlock l'aveva ferita più di quanto volesse dare ad intendere. Aspirava lente boccate di fumo e faceva cadere la cenere nel lavandino, che raggiungeva allungando il braccio all'esterno. Faceva fatica, John, a distogliere lo sguardo da lei. Aveva qualcosa di magnetico, quel qualcosa che anche Sherlock e Mycroft avevano ma bordato di dolcezza.

"Non dovresti fumare, lo sai?" azzardò, poggiando le braccia sulle ginocchia. Lei accennò un piccolo sorriso.

"Finalmente hai trovato il coraggio di dirmelo." rispose, senza però accennare a buttare la sigaretta.

John sospirò e abbassò lo sguardo. Le loro gambe erano piegate eppure si incrociavano in quello spazio stretto. I pantaloni le si erano alzati appena e riusciva a vedere quanto fossero sottili le sue caviglie e i suoi polpacci. Era quasi come se non ci fossero lì, come se fosse solo John a riempire la vasca.

"È un vero idiota, vero? Un genio ma un idiota." le disse dopo qualche istante, provando ad introdurre l'argomento. La sentì irrigidirsi appena a quella constatazione, ma le sfiorò una caviglia come a dirle di stare calma, che lui era dalla sua parte.

"Sì. Un perfetto idiota che non sa tenere la bocca chiusa." lo guardò negli occhi, buttando la sigaretta, ormai finita, nel lavandino. "Grazie, comunque. So che te ne eri accorto, ma sei stato... gentile, ecco." mormorò, stringendosi appena nelle spalle.

John sorrise. Era un sorriso dolce, privo di qualsivoglia giudizio. Non era esperto in disturbi del comportamento alimentare, ma aveva studiato qualcosa a riguardo. Era una malattia vera e propria, non dissimile da una bronchite. Nei suoi anni di pratica, inoltre, aveva imparato a non giudicare mai. Soprattutto dopo gli anni passati in Afghanistan, dopo aver visto uomini implorare la morte con gli intestini tra le mani e altri piangere come bambini mentre agitavano un braccio o una gamba in procinto di staccarsi dal corpo e trattenuta lì solo da un lembo di pelle e la stoffa della divisa. Lui stesso aveva zoppicato per mesi dopo essere tornato, anche se la ferita era alla spalla. Stress post-traumatico lo avevano chiamato, pazzia e debolezza aveva pensato lui. Il tutto condito da una giusta dose di depressione e quel continuo tarlo nel cervello che gli diceva che Londra non era il suo posto e sarebbe dovuto morire in guerra, che non c'era posto per i relitti come lui nella società.
Per questo non riusciva a giudicare, a catalogare le persone come pazze per delle malattie di quel tipo. Se lei era pazza, allora lui lo era ancora di più.
Inspirò a fondo prima di parlare.

"Non sai quante volte ho pensato di ucciderlo. Potrei farlo passare come un incidente, con tutti quei suoi esperimenti." le lanciò un'occhiata divertita. "Se vuoi, puoi darmi una mano."

Charlotte rise appena, nascondendo il volto dietro una mano. Scosse la testa.

"Ah, non posso! Poi papà si arrabbierebbe!" replicò ridacchiando.

Anche John rise e, senza pensarci, le passò una mano sul polpaccio. Una vocina nel suo cervello gli stava urlando di smetterla, di spostarsi e lasciarla stare. La soffocò vedendo che lei non accennava a fermarlo. Non lo guardava neanche, a dire la verità, aveva perso lo sguardo fuori dalla finestra, lontano nell'orizzonte. Era quindi probabile che non se ne fosse accorta, che non lo sentisse neanche.

Era così bella e così vicina... John aveva sempre creduto che le ragazze come lei fossero irraggiungibili. Quando era a scuola le vedeva. Le ragazze come lei, bellissime, ricche, apparentemente senza alcun tipo di problema nella vita. Camminavano sollevate da terra di qualche centimetro e guardavano tutti dall'alto in basso, alcune con un'aria di disprezzo mentre le altre semplicemente non vedevano la gente come lui. Si ricordava della cotta stratosferica che aveva avuto al primo anno di liceo per Annette Stevens, del quarto. Lei era tutto quello che un ragazzino di quattordici anni poteva sognare: uno sguardo magnetico, dei meravigliosi e lunghissimi capelli neri, un sorriso da far girare la testa e l'aria adulta. Annette era il sogno proibito di tanti suoi compagni. Li sentiva commentare quando erano negli spogliatoi, prima e dopo la lezione di educazione fisica. Parlavano delle sue gambe, del suo seno (quella è almeno una quarta, ve lo assicuro!), di tutti i suoi attributi fisici. Erano un gruppo di quattordicenni che si gonfiavano il petto come dei tacchini e facevano i gradassi, ma se avessero avuto una donna tra le mani che diceva loro di fare quello che volevano, per Dio, fammi tutto quello che vuoi! probabilmente sarebbero fuggiti in bagno dalla paura.
John li ascoltava con il cuore che batteva all'impazzata. Lui non aveva mai pensato ad Annette in quel modo. Gli altri ragazzi erano dei porci, o così diceva sempre Harry, sua sorella. Erano dei veri porci che non sapevano fare altro che pensare a tette e culi e a come scoparsi meglio la prossima ragazza. Ma John non era come gli altri. Lui non voleva Annette solo per quello - almeno lui era sincero e ammetteva che era ancora vergine all'epoca e non avrebbe saputo da che parte cominciare. A lui Annette piaceva per il suo sorriso, per il suo modo di comportarsi. Il suo sentimento era puro e sincero. Gli piaceva perché una volta che gli era andato addosso e le aveva fatto cadere i libri non si era arrabbiata. Aveva riso e gli aveva arruffato i capelli. "Fai attenzione, tesoro! Rischi di farti male così!" gli aveva detto, prima di fargli l'occhiolino e correre via dalle sue amiche. Le aveva guardate, quattro ragazze perfette che non facevano altro che far risaltare la bellezza di Annette. Aveva sentito le guance infuocarsi e si era trovato a ripensare a quel momento in una quantità innumerevole di momenti, soprattutto a letto prima di addormentarsi.

Eppure, mentre guardava Charlotte e cercava di portarla allo stesso livello di Annette Stevens, non poteva fare a meno di annotare le differenze. Annette era felice, sorrideva sempre, era prosperosa. Charlotte aveva sempre quello sguardo triste, pareva uno scricciolo indifeso e il suo cuore spingeva violento verso di lei per stringerla forte al petto. Avrebbe fatto di tutto pur di vedere quel bel faccino illuminato da un sorriso, uno vero. Uno tutto per lui, che non nascondesse niente dietro la facciata. L'aveva già vista sorridere, per carità, e quelle poche volte che lo aveva fatto con sincerità il suo cuore si era sciolto. Le si illuminava il volto e arricciava appena il naso, assumendo un'espressione molto buffa ma, allo stesso tempo, irresistibilmente adorabile.

"Beh, sai che ti dico, allora?" si allungò verso di lei con un sorrisetto. "Mi piacerebbe invitarla fuori a cena, miss Holmes. Ho visto una brasserie francese davvero deliziosa... Mi farebbe molto piacere se decidesse di accompagnarmi." le prese una mano, proprio come se le stesse facendo una proposta formale.

In quel momento non erano seduti in una vasca da bagno, talmente stretti da avere le gambe intrecciate tra di loro. No, erano in un posto elegante, lei era una principessa e lui il cavaliere che la stava invitando a ballare al centro della sala, con gli occhi di tutti addosso.
Charlotte cercò di ritrarsi, spaventata più dall'idea di dover andare fuori a mangiare - in mezzo ad altre persone! - che dalla situazione.

"John, io non..."

"Avanti, mi piacerebbe tanto andarci. Ma non mi va di cenare da solo... Non sei costretta a mangiare, basta che mi tieni compagnia." la rassicurò, guardandola negli occhi. Aveva appoggiato anche l'altra mano sul suo dorso, sentendo così la reale consistenza della sua pelle. Era così liscia e così fredda...

"Va bene." sospirò e sorrise. "Sarò molto lieta di accompagnarla, dottor Watson." concluse, riprendendo il gioco che aveva introdotto John.

Il medico abbassò appena lo sguardo, senza riuscire a nascondere un sorrisetto. Tornò quindi a guardarla, notando che il volto di Charlotte era un perfetto specchio dei suoi pensieri.

"Allora temo di doverla lasciare, ora. Dobbiamo entrambi prepararci e non credo sia possibile rimanendo in questa vasca da bagno." commentò, uscendo dalla vasca e aiutando anche lei a rimettersi in piedi.

Uscirono dal bagno assieme e, mentre Charlotte si dirigeva in camera a prendere il cambio di vestiti, John tornava al piano di sotto. Gettò uno sguardo in cucina, ma vide che Sherlock era uscito e si era portato con sé tutto quello che stava studiando. Scosse appena la testa e si avvicinò alla sua valigia. Troppo orgoglioso per ammettere di avere sbagliato e per chiedere scusa. Non sarebbe mai cambiato. Eppure aveva visto del rimorso nei suoi occhi, ne era certo.
Scivolò nel piccolo bagno del piano terra, dove poteva darsi una veloce rinfrescata. Entrò nel piccolo box doccia, a malapena largo per permettergli di stare comodo, e si piazzò sotto l'acqua bollente. Gli era sempre piaciuto fare la doccia calda, vedere il fumo che si alzava dal contatto tra le diverse temperature dell'acqua e dell'aria. Nella sua vita aveva dovuto fare fin troppe docce fredde. Quando a sedici anni la sua fidanzatina dell'epoca, Patty Marlon, lo stuzzicava e lo lasciava sempre accaldato ed eccitato. Quando era in guerra ed era finita l'acqua calda. Quando tornava da una caccia all'uomo con Sherlock e doveva togliersi di dosso l'agitazione del momento. In quell'ultimo periodo con Mary, delle settimane orribili in cui si allontanavano sempre di più e nessuno dei due sembrava fare niente per rimediare alla situazione.

Si infilò lentamente una camicia azzurra e un paio di pantaloni scuri. Non era un appuntamento. Continuava a ripeterselo nella sua mente. Lui era sposato e lei era fidanzata. Era un'uscita tra amici, e se qualcuno si fosse trovato a pensare altro... Beh, sarebbero stati problemi suoi. Loro sapevano come stavano le cose, perché dovevano preoccuparsi di quello che pensavano persone che non conoscevano?
Si guardò allo specchio, passandosi una mano tra i capelli. Ma se non era un appuntamento, perché si sentiva come se stesse facendo un errore irrimediabile? Perché aveva quell'orribile retrogusto amaro in bocca? Inspirò, incurante del rumore che fece uscire dalla narice, e si sistemò i capelli all'indietro. Voleva provare una nuova pettinatura e poi... Poi magari si sarebbe sentito meno in colpa se non assomigliava al solito John Watson con il solito taglio corto e rilassato e il solito aspetto. Non erano molte le volte in cui apprezzava quello che lo specchio gli restituiva, ma poteva dirsi soddisfatto quella sera.

Uscì dal bagno e si allacciò al polso l'orologio, che aveva lasciato sul mobiletto della televisione. Non sentiva più neanche l'acqua al piano di sopra, probabilmente Charlotte sarebbe stata pronta in poco tempo. Si schiarì la gola e controllò il cellulare. Nessun SMS, nessuna chiamata. Era via da qualche giorno e Mary si era fatta sentire solo una volta. Non gli piaceva quel comportamento, lo faceva sentire come la seconda scelta. Come se non cambiasse se lui c'era oppure no. D'altra parte ne era sollevato: si sarebbe sentito decisamente peggio ad uscire con Charlotte se, dall'altra parte, avesse avuto una moglie che si preoccupava costantemente di lui.

"Eccomi, scusa se ti ho fatto aspettare!" esclamò la ragazza, scendendo dalle scale e facendo un piccolo saltello dall'ultimo scalino.

Si fermò, le mani giunte dietro la schiena e un sorriso suo volto. John si concesse di guardarla, di osservare come quell'abito longuette rosso le fasciasse il corpo con eleganza e sensualità. Le maniche erano a tre quarti e probabilmente non si era accorta di quanto profonda fosse in realtà la scollatura o non sarebbe stata così suo agio, lei che in quei giorni usava sempre vestiti larghi e molto coprenti. John si schiarì la gola e prese il suo cappotto. Lo tenne in mano, aiutandola ad indossarlo e si coprì a sua volta. Le offrì poi il braccio e la accompagnò fuori.

Cenarono in tranquillità alla brasserie che aveva visto John. Lui aveva preso un croque madame ed era rimasto piacevolmente sorpreso nel vedere che anche lei aveva ordinato qualcosa, una semplice crêpe salata con prosciutto e formaggio. Non l'aveva mangiata tutta, John si era trovato a dover finire anche il suo piatto, ma non gli importava, non in quel momento. Era già tanto che avesse deciso di prendere qualcosa e a lui questo bastava.
Avevano chiacchierato e scherzato durante tutta la cena. Era come se si conoscessero da anni e si trovavano talmente bene assieme che non si accorgevano neanche del tempo che passava. Furono costretti ad alzarsi quando un cameriere si avvicinò a loro per dire che avrebbero chiuso entro pochi minuti, se potete avviarvi alla cassa sarebbe meglio. John riuscì a pagare solo facendola distrarre, ma ricevette uno schiaffetto giocoso sul braccio e un "non ci provare mai più!" seguito da una risata.

Una volta fuori guardarono l'ora e, rendendosi conto che era ancora molto presto, Charlotte lo tirò verso un pub non molto lontano da casa. Conosceva il proprietario, diceva. Il primo giro di bevute, per lei e chiunque fosse con lei, era gratis. Aveva aiutato Danny, il titolare, a scoprire chi fosse a rubare ogni sera dalla cassa e quindi ad evitare che il locale chiudesse. Sorrise allo sguardo di John, dicendogli che non era stato niente di stupefacente: aveva chiamato Mycroft e aveva fatto installare delle telecamere. Da lì avevano potuto vedere che era uno dei nuovi dipendenti, una matricola. Danny lo aveva licenziato e aveva deciso di non denunciarlo, impietosito dalla sua giovane età.
Erano quindi entrati e subito una donna giunonica con le trecce simili a pannocchie strinse Charlotte in un abbraccio fin troppo forte per una ragazza così minuta. Savannah, la sorella di Danny, era espansiva di natura e amava mostrare affetto a chiunque. Appena aveva capito che John era con lei, aveva sorriso e aveva abbracciato anche lui. Il medico ridacchiò, leggermente in imbarazzo, e poi la seguì al tavolo. Sparì poi in cucina, urlando il nome di suo fratello e di venire a salutare Charlie e guarda che bel ragazzo ci ha portato la piccola! Danny uscì in sala, uno straccio abbandonato sulla spalla e il grembiule appena macchiato di cioccolato. Aveva un sorriso sul volto che gli illuminava gli occhi neri e strinse la mano di John, senza trattenersi dal raccontare per l'ennesima volta di come grazie a lei il locale fosse ancora in piedi. A lei, a come aveva trovato il ladro e a come aveva deciso di ripagare di tasca sua i loro debiti. A quel punto la ragazza arrossì leggermente, cercando di farlo smettere, mentre John la guardò con un sorriso. Se all'inizio era sembrato come quella volta con Sherlock da Angelo, ora non c'erano dubbi riguardo la differenza. Entrambi cercavano di farlo passare in secondo piano, ma Sherlock era sempre fiero di quello che faceva. Charlotte invece pensava davvero di non aver fatto niente di straordinario, quando invece quel piccolo gesto aveva cambiato il destino di un'intera famiglia.

Come promesso, il primo ordine fu offerto dalla casa. John prese una birra scura mentre Charlotte optò per un cocktail fruttato. Dopo quello, ve ne furono molti altri, tanto che ad un certo punto John dovette mettere un freno alla ragazza - hai bevuto abbastanza, Char, così minuta rischi un coma etilico! La cosa divertente era che, da ubriaca, Charlotte era senza filtri e incredibilmente buffa. Le si arrossavano le guance e la punta del naso, mentre gli occhi erano più brillanti. Passò una buona mezz'oretta a disquisire sul perché le cannucce si chiamassero proprio cannucce e non, ad esempio, succhiabevi. Più andavano avanti, più i loro discorsi si facevano senza una vera e propria conclusione e più ridevano per qualsiasi cosa. "Lo sai che quella vecchia mummia di Lady Smallwood ha una cotta per papà?" "Non giudico mai le scelte di un uomo, ma..." "Ma lui non è un uomo, lui è... un papà!" e giù a ridere come se fosse la frase più divertente che avessero mai sentito in vita loro.
Quando decisero di tornare a casa, Charlotte barcollava visibilmente e John aveva ancora quel minimo di lucidità che gli permetteva di camminare e di aiutare la ragazza a non cadere, ma rideva per qualsiasi cosa vedesse e sentiva la testa girargli violentemente. Le diede una mano anche a togliersi il cappotto una volta dentro la villetta e riuscì a prenderla per un braccio prima che cadesse inciampando nei suoi stessi piedi.

"Ops!" rise la ragazza, rimettendosi in equilibrio. Lo guardò e scoppiò nuova a ridere rumorosamente, imitata subito dal medico. Si posò un dito sulle labbra, facendogli segno di non fare troppo rumore. "Non urlare o i vicini... i vicini ci sentono!" lo ammonì, sempre ridendo.

Si avvicinò appena a lui, biascicando un nuovo "shhh" mentre poggiava il dito sulla sua bocca. John tenne le mani sulla schiena della ragazza e, inconsciamente, la tirò appena verso di sé. Puntò lo sguardo sulle sue labbra, appena separate e rosse a causa del rossetto e del calore del momento. Le dita di Charlotte passarono ad accarezzargli la mascella e poi andarono ad intrecciarsi ai suoi capelli. A pensarci a posteriori, nessuno dei due sapeva chi era stato ad iniziare. Entrambi si sarebbero dati la colpa di aver cominciato, ma la verità era che furono attratti l'uno all'altra nello stesso istante.

In un secondo, le loro labbra avevano trovato l'incastro perfetto tra quelle dell'altro. Non persero tempo e le loro lingue si incontrarono a metà strada in un abbraccio che non voleva avere fine. I loro corpi erano premuti l'uno contro l'altro senza lasciare uno spiraglio, le dita di Charlotte tiravano i capelli di John e le mani di John esploravano la schiena di Charlotte dalle spalle ai glutei. Si baciavano come se avessero fame l'uno dell'altra e finalmente potessero saziarsi dopo un periodo di carestia. Avevano le narici piene dell'odore della loro pelle, dell'eccitazione di quel momento. I loro cuori battevano così forte che potevano sentirli. Tu-TUM. Tu-TUM. Parevano animali in gabbia che si lanciavano contro le sbarre per poter uscire.

John posizionò le mani appena sotto il sedere di Charlotte e le diede una piccola spinta. Lei fece un piccolo salto e chiuse le gambe attorno alla sua vita, lasciando che le scarpe cadessero disordinate. A passi stentorei, dettati solo dalla memoria, John si avvicinò al divano e lasciò che Charlotte ci cadesse sopra. La seguì, puntellandosi con le mani e continuando a baciarla. Sarebbe morto volentieri su quelle labbra morbide, in quella posizione che gli era capitato di immaginare soprattutto in quegli ultimi giorni. Quella voce che gli urlava sempre di trattenersi e lasciare stare non si faceva sentire. In quel momento nella sua mente c'era solo Charlotte. Charlotte e il suo profumo. Charlotte e le sue labbra, il suo corpo, i suoi sospiri, le sue mani che, lente, gli slacciavano i bottoni della camicia.
Se avesse detto al sé stesso di quattordici anni che si sarebbe trovato a baciare, accarezzare, farsi toccare così da una ragazza come quelle che ammirava così tanto, forse avrebbe riso. Forse gli avrebbe detto di non dire stronzate e di andarsene a fare un giro nel Tamigi per rinfrescarsi le idee. Eppure era lì, sdraiato su un divano con la ragazza più bella che avesse mai visto in vita sua, le sue mani vagavano sul suo petto ormai libero. Si separò dalle sue labbra - Dio quanto erano dolci e quanto era difficile smettere di baciarla anche solo per un attimo - solo per aiutarla a togliersi la camicia. Si avventò di nuovo sulla sua bocca, saggiandone ogni millimetro con urgenza. Era come se avesse paura che scomparisse se solo non l'avesse toccata per qualche istante. Si aggrappava a quel momento come ci si aggrappa ai sogni alla mattina, quando la luce del sole sembra farli sciogliere e svanire in ricordi sbiaditi in qualche recondito anfratto del cervello.

Le passò una mano sulla gamba, dal ginocchio fin su al gluteo. Da lì la fece scivolare sotto la gonna, sul fianco, le costole e si bloccò appena prima di toccare il reggiseno. Sentiva le sue mani che gli accarezzavano il petto e le spalle, gli toccavano anche la cicatrice e se fosse stato in sé l'avrebbe fermata ma in quel momento non gli importava.
Charlotte stessa sembrava bramare il tocco di John. Inarcò appena la schiena quando lo sentì fermarsi sulle costole, invitandolo a continuare. Si lasciò sfuggire un leggero sospiro quando le dita di John si fecero strada sulla stoffa del reggiseno e sfiorarono la pelle liscia del seno, stringendolo appena senza farle male, solo per testarne la morbidezza. Contrasse le dita sulle sue spalle. Desiderava di più, molto di più da John. Voleva che la toccasse davvero, senza niente in mezzo. Voleva che le ricoprisse il corpo di baci, sentire la sua pelle contro la propria. Desiderava essere sua nella maniera più rudimentale e antica che esistesse. Avrebbe mentito se avesse detto che non era stata da subito affascinata da lui, dal suo modo di fare. E poi aveva un'idea che...

Un lampo. Un solo, unico lampo attraversò la sua mente e le restituì la lucidità persa a causa dell'alcol e dell'eccitazione.

David.

"John..." mormorò contro le sue labbra. Non poteva fargli questo, non poteva.

"Char..." sospirò in risposta. Un'ondata di calore le infiammò il basso ventre, costringendola a richiamare a sé tutte le sue forze per dire le parole successive.

"No, John, io..." lo spinse appena dalle spalle. Lo guardò negli occhi. "Non possiamo. Non è giusto..." disse piano.

John rimase qualche istante a guardarla con le sopracciglia aggrottate. Poi Charlotte vide che aveva capito anche lui, che era arrivato alla sua stessa conclusione. Si allontanò rapidamente da lei e si sedette dall'altro capo del divano. Appoggiò i gomiti sulle ginocchia e nascose il visto tra le mani. Charlotte lo guardò e si mise seduta anche lei, vicina a lui. Accennò un sorriso e gli posò una mano sul ginocchio.

"Charlotte, per favore..." mugolò appena sentì il suo tocco. Sospirò e girò la testa verso di lei. "Scusa... Scusami, non avrei dovuto."

Lei scosse la testa e gli prese una mano. Il suo tocco era freddo ma rassicurante, trasmetteva tutto quello che il suo cuore voleva dire. Gli disegnò col pollice dei piccoli cerchi sul dorso.

"Non è colpa tua... Lo volevo anche io. Santo cielo, lo voglio ancora. Ma..." si morse il labbro inferiore e John dovette distogliere lo sguardo perché era così sexy da alimentare la sua eccitazione e fargli male fisicamente. "Non sarebbe giusto nei confronti di Mary e David. Non possiamo fargli questo... Farlo a entrambi."

Gli mise un mano sulla guancia e John vi si abbandonò chiudendo gli occhi per pochi secondi.

"Non potrà più essere come prima, lo sai vero?" sussurrò e Charlotte annuì.

"Lo so... Ma possiamo provare." sorrise e si allungò all'indietro per ridargli la camicia. "È meglio che vada a letto... Buonanotte, John." gli disse in un soffio, lasciandogli un bacio sulla guancia, così vicino alla bocca da fargli venir voglia di trattenerla e terminare quello che avevano iniziato.

Invece mormorò un "buonanotte" di risposta e si accontentò di guardarla raccogliere le scarpe e sparire al piano di sopra. Rimase a guardare la rampa di scale, immaginando ancora il suo corpo fasciato di rosso, sperando che tornasse indietro e gli si gettasse tra le braccia. Ma lei non tornò e il senso di colpa prese possesso della sua mente.
Lei era fidanzata, lui era sposato. In più lei era così giovane, aveva quattordici anni in meno di lui! Si passò una mano sul viso e prese il cellulare. Aprì i messaggi e ne indirizzò uno a Mary.

Come stai? Qui si sente la tua mancanza.

{Spazio autrice}

Hi there!

Finalmente il capitolo che tutti aspettavate! E con tutti intendo John e Char. E con John e Char intendo me stessa. Lo ammetto, ero io che non aspettavo altro che arrivare ad un momento esplicito tra quei due. Come se non fosse stato chiaro tipo dal capitolo 2 ma va beh! Cioè, insomma, si era capito subito che John sta sotto un treno per Char e lei trova ogni scusa buona per strusciarsi contro di lui, quindi... Era solo questione di tempo!

Vi ringrazio per essere arrivati fino qui. Questo capitolo è lunghissimo e non ha risvolti sulla trama gialla, ma ehi... Cosa non si fa in nome della Johnlotte ♡

Spero vi sia piaciuto, non vi tedio oltre con questo angolo. Era solo per dire che ero molto felice di essere arrivata a questo punto.

Alla prossima!

Padme☆

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Capitolo 12
*** Capitolo dodici ***


Capitolo dodici


Charlotte aveva dormito poco quella notte. Aveva continuato a rigirarsi nel letto pensando a tutto quello che era successo quella sera. Il suo cuore non dava l'impressione di volersi fermare e si sentiva così in colpa. Non era solo per quel bacio, per quanto spinto potesse essere, ma soprattutto per la consapevolezza che sarebbe volentieri andata oltre. Che voleva andare oltre, sentire la reale consistenza della sua pelle, toccare i suoi fianchi appena tondi, lasciargli il libero e incondizionato accesso a tutto il suo corpo. Che a dare retta al proprio istinto sarebbe corsa giù dalle scale e dritta tra le braccia di John, ed era sicura lui l'avrebbe accolta senza pensarci su. Sentiva una spina che le faceva sanguinare il cuore e si conficcava sempre più in profondità, come se volesse trapassarlo e farsi vedere dall'altro lato. Aveva cominciato a graffiarla a Natale, un piccolo raspare non dissimile da un lieve mal di gola, e man mano prendeva posto con prepotenza, tanto che ogni volta che vedeva John la lacerava appena di più, le faceva desiderare di mollare tutto e lasciarsi andare al suo istinto.
Forse David avrebbe potuto perdonarle il bacio. Erano entrambi ubriachi, entrambi soli in quel momento e avevano cercato di consolarsi a vicenda. Ma come avrebbe potuto anche solo capire tutto il resto? Il fatto che lei voleva condividere quel momento così intimo con John e non con altri, che ancora bramava il suo tocco e, ogni volta che stava sdraiata supina, sentiva ancora la dolce pressione del suo corpo sul proprio? Gli avrebbe spezzato il cuore, avrebbe pianto e probabilmente avrebbe continuato a stare con lei anche se gli faceva male perché non conosceva altro modo di essere felice se non con lei. Ma lei non voleva farlo, non voleva rovinargli la vita. Amava David, lo amava sul serio con tutto il cuore. Se guardava il suo futuro, vedeva lui al suo fianco sino alla vecchiaia. Aveva già in mente immagini di come sarebbe stata la loro vita: un matrimonio sobrio ed elegante, una luna di miele romantica, due o tre bambini in una grande casa sempre piena di luce, fiori e risate. E poi avventure, rientri a casa accolti da un bacio, una spalla sempre lì su cui piangere o con cui ridere, i figli che si sarebbero sposati, i nipoti e la vecchiaia trascorsa sempre assieme, sempre uno di fianco all'altra fino all'ultimo respiro. Ma John... John era diverso. Con lui si era sentita subito a suo agio, aveva sentito una scarica di energia la prima volta che aveva sfiorato la sua mano. Quando lo guardava negli occhi, quei meravigliosi occhi blu scuro, le girava la testa e il cuore batteva più forte. Quello che sentiva con John era stimolante, eccitante e al contempo familiare. Era come se avesse già conosciuto quelle braccia forti, il calore del suo abbraccio, la musica della sua risata e fosse semplicemente tornata a casa dopo tanto tempo. Era un sentimento irruento e indomabile, come una bestia selvaggia che ha trovato la sua preda e ci si scaraventa addosso. Si sentiva attratta da lui come non era mai successo prima con altri, neanche con David. Soffriva la lontananza dal suo fidanzato e quando si erano rivisti era come se tutto fosse tornato al suo posto, mentre con John era stato diverso. Erano passate solo alcune settimane, eppure quando aveva piantato nuovamente lo sguardo nel suo il tempo non era passato, si erano salutati solo la sera prima, non si erano mai detti addio. Quel tempo separati non era esistito, lei non era mai tornata ad Oxford e lui non era mai rimasto a Londra.
Sentì Sherlock rientrare durante la notte e scivolare silenzioso nel letto di fianco a lei, abbastanza lontano da non sfiorarsi neanche per sbaglio. Se ne era accorto? Come avrebbe potuto, non aveva parlato con nessuno, lo avrebbe sentito. I muri della casa non erano così spessi, dopotutto, e nel silenzio dell'oscurità sarebbe stato possibile sentire anche il minimo sussurro. Ma lui era Sherlock Holmes, dopotutto, era ovvio se ne fosse accorto. Niente sfuggiva al suo occhio attento.

Anche se aveva capito, tuttavia, fu abbastanza umano da non sollevare la questione. C'era un palese imbarazzo tra Charlotte e John, i loro sguardi erano fugaci e non rimanevano mai fissi per più di un paio di secondi. Ma Sherlock non disse niente. Continuava a lavorare, un po' sul caso di Laura Palmer - Charlotte e i suoi riferimenti alla cultura pop che gli rimanevano in testa! - e del prete crocifisso, un po' su Magnussen. Aspettava paziente che la ragazza finisse di tradurre lo spartito e lo adattasse al modo di suonare moderno. Non sarebbe stato così tranquillo con altri, ma non voleva metterle fretta. Sentiva che quel dettaglio era la chiave per tutto il mistero e non voleva rischiare che sbagliasse. Era troppo importante per ammettere un errore, e forse in parte si sentiva anche in colpa per come si era comportato con lei, sia nei giorni precedenti che negli anni.
Doveva ammettere che l'espediente degli spartiti lo intrigava. Era intelligente, non scontato e per niente semplice da comprendere senza una buona conoscenza della musica. L'assassino era di sicuro una persona brillante, capace di pensare fuori dagli schemi e in grado di solleticare il suo interesse come solo Magnussen e Moriarty erano in grado di fare. Aveva per un istante considerato potesse trattarsi di Jim, ma aveva subito scartato quell'idea. Moriarty non lasciava biglietti e, sebbene fosse molto teatrale nelle sue azioni, non era nel suo stile. Lui preferiva instaurare un rapporto diretto, quasi una danza a due con Sherlock, mentre quello era qualcosa di diverso. Qualcosa che non era ancora riuscito ad inquadrare bene, ma che aveva la sensazione fosse ancora più intimo e subdolo dei giochetti di Moriarty.

Fu il pomeriggio del martedì che cambiò la situazione. Pioveva e non avevano messo il naso fuori di casa per tutto il giorno. Sherlock stava per scoppiare, non riusciva a venire a capo delle sue ricerche. Non fino a quando Charlotte non gli avesse mostrato quello stramaledetto spartito. John si era accorto dello stato d'animo dell'amico e cercava in tutti i modi di aggirare il suo mirino per non cadere preda delle sue deduzioni nervose. Arrivò addirittura a concedergli di fumarsi una sigaretta senza dirgli niente, si sa mai che riesca a sciogliergli un po' i nervi. Lo vedeva tamburellare le dita l'una contro l'altra e muovere le gambe allo stesso tempo, come se fosse pieno di un'energia esplosiva che non aspettava altro di avere la spinta giusta per liberarsi.
John guardò le scale e per la prima volta in quegli ultimi giorni sperò che Charlotte lo portasse via da quella situazione. Che arrivasse e gli dicesse che aveva finito oppure che gli chiedesse di accompagnarla a fare una passeggiata sotto la pioggia. Non gli importava cosa di preciso, ma voleva fuggire da lì, da quella situazione. Invece lei se ne stava rintanata nella 'Stanza della Musica', così l'aveva chiamata, al sicuro 'là fuori' dove non arrivavano le influenze degli Holmes, mentre aveva lasciato lui in balia di 'lì dentro'. Ogni tanto si sentiva qualche nota di pianoforte, un'imprecazione, un motivetto canticchiato a voce. Ci stava dedicando tutta la sua attenzione, scordandosi anche dei suoi compiti universitari e di sé stessa. John era stato tentato di salire, aprire la porta e dirle di prendersi una pausa, di mangiare qualcosa e farsi un giro. Aveva desistito ogni volta, sentendosi a disagio sotto lo sguardo inquisitorio di Sherlock che, ora ne era certo, sapeva tutto. Sapeva e negli occhi nascondeva un misto di delusione, tenerezza e rimprovero. Se fosse stato un altro, si rese conto John, lo avrebbe preso a pugni. Se al posto di Sherlock ci fosse stato David l'avrebbe preso a pugni. O anche Mary. In qualsiasi situazione le avrebbe prese, di questo era sicuro, e avrebbe accettato qualsiasi cosa perché, in fondo, sapeva di meritarlo. Ma Sherlock stava zitto, accettava quella situazione con una pacatezza che non gli avrebbe mai attribuito e John gliene era grato come mai prima di quel momento.

John sospirò e si chiese se fosse il caso di dirgli qualcosa. Anche solo un 'è colpa mia, non arrabbiarti con lei', ma come l'avrebbe presa? Cosa gli avrebbe detto poi, come si sarebbe giustificato? 'Mi dispiace, amico, ma è così bella e credo di-'. Non lo avrebbe neanche fatto finire, probabilmente, e avrebbe cominciato con le sue deduzioni che non avrebbero fatto altro che farlo star male perché lui amava Mary. Sapeva di amarla, non l'avrebbe mai sposata altrimenti, ma qualcosa si era rotto. Non era più come prima e Charlotte profumava di libertà e nuove occasioni, di leggerezza e dolcezza. Ma allo stesso tempo sapeva che non avrebbe mai lasciato sua moglie, neanche se ne fosse andato della sua vita. Se aveva sposato Mary, un motivo c'era. Doveva solo ritrovarlo e ridare vita alla fiamma, sperando che non fosse soffocata sotto i carboni.
Fu salvato dalla porta al piano di sopra che si aprì e sbatté contro i cardini. Charlotte si affacciò dalla balaustra, un enorme sorriso le occupava il volto. Bella, bellissima, come il sole di maggio e i fiori di campo. John strinse un pugno lungo il fianco, cercando di cacciare quei pensieri.

"Ce l'ho fatta! Venite su!" li chiamò, entrando nuovamente nella stanza di prima e sedendosi al pianoforte.

Sherlock balzò in piedi e percorse la breve rampa in poco tempo. John lo seguì con più calma ma curioso di sentire il risultato del lavoro di quell'ultima settimana. Quando arrivò, Sherlock era già seduto su una poltrona bordeaux che pareva abbastanza costosa posta all'altro capo dell'elegante e lucido pianoforte a coda. John prese posto sulla sedia vicina ad una chitarra classica dalla cassa nera e i lucchetti dorati.
Charlotte si scrocchiò le dita e portò lo spartito alla sua pagina iniziale. Sfiorò i tasti, lasciando apparire un piccolo sorriso spontaneo. Amava quello strumento, ci aveva affidato tanti pensieri e tante emozioni. Prese un grosso respiro e vide che lo zio aveva chiuso gli occhi e posizionato le mani giunte a coprire le labbra e il naso. Era la sua solita posa di quando pensava e da quello capì che era pronto ad entrare nel suo palazzo mentale. Iniziò a suonare, consapevole che la musica entrava nel suo palazzo mentale e lo aiutava a delineare forme e colori, parole e pensieri, idee e conclusioni. Suonò e gli trasmise tutto quello che c'era in quel biglietto, le parole nascoste nelle note, i sentimenti con cui erano state scritte.

Sherlock aveva sempre detto che suonare lo aiutava a pensare. Lo aiutava anche quando non riusciva a cacciar fuori da violino nient'altro che suoni sconnessi e acri. Quando Charlotte aveva imparato a suonare, era stato molto più semplice. Ascoltarla schiacciare i tasti o pizzicare le corde, creare una musica comprensibile solo alle loro orecchie, lo aiutava a scivolare più velocemente nel suo palazzo mentale.
C'era qualcosa di strano in quella melodia. Vedeva del rosso, tanto rosso. E c'era... C'era una persona. I contorni erano sfumati e non riusciva a riconoscerla. Non era niente più che una silhouette scura su uno sfondo rosso. Si avvicinava a lui, elegante, sinuosa, seducente, gli diceva qualcosa ma lui non riusciva a capire cosa fosse. Gli urlava parole incomprensibili, un nome, una richiesta disperata ma lui non capiva. Si portò le mani alla testa, stringendo così forte che sembrava volesse spremersi il cervello come un'arancia. La musica cessò d'improvviso e le immagini si sciolsero attorno a lui come se fossero liquide, scomparvero come se non fossero mai esistite. Spalancò gli occhi e guardò la nipote.

"Continua!" la esortò. Doveva tornare lì, capire chi fosse quella persona e cosa voleva dirgli. Sentiva che era importante, che sarebbe stata la chiave per risolvere il caso, ma man mano che il tempo passava, le immagini sparivano dalla sua memoria.

"È finita, zio." replicò la ragazza con voce calma. "Ce ne saranno altri. È terminata a metà di una battuta." concluse, rimettendo a posto i fogli.

La consapevolezza di quello che era successo e che sarebbe accaduto si abbatté su di loro. Charlotte si sentiva male all'idea che un altro innocente avrebbe perso la vita per il gioco perverso di un pazzo. John pensò a quanta sofferenza avrebbe ancora sparso e quanto difficile sarebbe stato seguire l'amico in quelle indagini. Sherlock, d'altro canto, era furioso. Tutto quel lavoro non era servito a niente e avrebbe dovuto aspettare che un'altra persona venisse uccisa. Era un fallimento personale e in più odiava dover aspettare. Odiava giocare al gatto col topo, per lo meno quando il ruolo della preda l'aveva lui. Si alzò di scatto e corse fuori, sotto la pioggia, ma non gli importava. Aveva bisogno di stare lontano da tutti, di ripensare alla melodia e cercare di recuperare tutto ciò che sembrava aver dimenticato in quei pochi secondi. Doveva capire e non ci sarebbe riuscito chiuso in quella casa con quei due e i loro pensieri così rumorosi. Quasi li sentiva come se leggesse realmente nelle loro menti, tutti quei problemi e paletti che si mettevano e quel continuo rimuginare su quello che era successo quella sera. Sarebbe stato tutto più semplice se le persone avessero imparato a non nascondere i propri istinti e a parlare tra di loro.

John e Charlotte rimasero qualche secondo con lo sguardo fisso sulla porta da cui era uscito Sherlock. Entrambi non avevano avuto il coraggio di fiatare e cercare di trattenerlo. Sapevano bene che avrebbero solo peggiorato la situazione e nessuno dei due si sentiva nello stato d'animo giusto per diventare il suo sacco da boxe emotivo.
Dopo qualche momento, John si alzò e si passò una mano sul collo.

"Io, ehm... allora andrei giù..."

Non l'aveva guardata negli occhi, faceva di tutto per evitare il suo sguardo e fissare qualsiasi altra cosa presente in quella stanza. Sapeva che se solo avesse incontrato il suo sguardo per sbaglio, non avrebbe resistito. Sarebbe corso da lei, l'avrebbe stretta tra le braccia e non l'avrebbe più lasciata andare. Avrebbe terminato quello che aveva iniziato quella sera, consapevole che era quello che segretamente desiderava anche lei, e l'avrebbe chiamata sua più e più volte, finché gli fosse stato possibile di respirare. Charlotte deglutì a vuoto e guardò un altro piccolo plico di fogli.

"Aspetta." prese il nuovo spartito e lo sostituì a quello che aveva sul leggio. "Stavo lavorando ad una cosa, prima di questo, e... Vuoi sentire?" tentò, cercando di attirare la sua attenzione.

"Charlotte, non credo sia il caso..." disse piano, fermandosi vicino alla porta.

"È solo una canzone, John. Ti prometto che non ti salto addosso." ridacchiò, cercando di alleggerire l'atmosfera.

John la guardò poco convinto, ma poi sospirò e annuì. Si appoggiò al muro con la schiena e incrociò le braccia sul petto, invitandola con un cenno della testa a iniziare. Charlotte allora si mise più comoda e cominciò nuovamente a suonare. Questa volta era una canzone pop, una ballad triste e avvolgente. A John non fu difficile riconoscerla dalle prime note, sebbene lei avesse aggiunto una intro musicale inesistente nell'originale. The long and winding road dei Beatles. Quando si unì anche la voce della ragazza, il medico non riuscì a reprimere un brivido lungo la schiena. Era brava, molto brava e aveva una bella voce. Non gli era difficile immaginarla sul palcoscenico di un teatro di fronte ad un pubblico di donne impellicciate e uomini in giacca e cravatta.
Quando la canzone finì e Charlotte lo guardò con occhi grandi, in attesa del suo giudizio, lui si avvicinò. Si sedette sullo sgabello, di fianco a lei, e schiacciò malamente qualche tasto.

"Io non saprei neanche da che parte cominciare." commentò, guardando il nero contrastare col bianco in maniera così armoniosa. "Come facevi a saperlo?"

"Beh, quando eravamo al pub ti ho visto muovere la testa e tamburellare sul tavolo quando hanno passato Get Back, quindi ho immaginato ti piacessero i Beatles..."

"No, intendo... come facevi a sapere che questa è la mia canzone preferita." si girò verso di lei e la guardò negli occhi. Erano così vicini, troppo vicini, e per John fu difficile non stringerla tra le braccia. Charlotte sorrise.

"Non lo sapevo." rispose e gli prese una mano. Voleva evitare che se ne andasse, ma sapeva che in fondo non lo avrebbe fatto. "Non glielo hai detto, vero?"

"Oh, Dio, no! E non ho intenzione di farlo." replicò, sentendo un peso opprimergli il petto al solo pensiero di quello che sarebbe potuto succedere se avessero aperto bocca. "Né a lui né... a Mary."

Charlotte annuì e si sistemò i capelli su una spalla.

"Non voglio neanche io che David lo sappia." guardò a terra, tormentandosi le dita. Chiuse gli occhi e prese un grosso respiro, raccogliendo tutto il coraggio che riusciva a trovare. "Deve rimanere il nostro segreto."

"Mi dispiace, Char. È stata solo colpa mia, non avrei dovuto spingerti a fare niente."

"Non mi hai spinta a fare niente. Io volevo baciarti, volevo arrivare fino in fondo con te. È questo che mi fa paura, John." fissò lo sguardo nel suo, cercando una conferma che anche per lui era così. "Io... Noi non possiamo controllare come ci sentiamo, quello che proviamo. Ma non voglio perdere la nostra amicizia. Mi hai fatta sentire meno sola in queste settimane, anche solo con i messaggi che ci scambiavamo."

John rimase in silenzio mentre lei parlava e solo alla fine si rese conto di aver trattenuto il fiato. Si passò una mano tra i capelli - aveva desistito dal pettinarli all'indietro, era stato un cambiamento che gli era piaciuto ma non credeva fosse adatto a lui. Finì col sorriderle, incoraggiato da quegli occhi imploranti e incapace di continuare a reggere quel muro di vetro che avevano eretto. La abbracciò e poggiò il mento sulla sua testa.

"Voi Holmes... È impossibile tenervi a distanza." ridacchiò, accarezzandole la schiena. "Ma hai ragione. Preferisco combattere l'istinto piuttosto che perderti." mormorò, sincero come non lo era mai stato in vita sua.

Il cuore di John fece una piccola capriola quando sentì le braccia di Charlotte passargli attorno e stringerlo a sua volta. Erano come una calamita e un pezzo  di ferro che si attiravano, c'era una forza tra loro che non permetteva ad entrambi di allontanarsi. Per quanto i loro pensieri vagassero, per quanto si costringessero a tornare sulla retta via, cadevano di nuovo nel flusso che li attirava verso l'altro. Non sarebbero stati in grado di spiegare a parole il perché, cosa fosse che li univa in quel modo.

"Alla fine si riduce sempre tutto a questo... Holmes e Watson. In qualsiasi ambito della vita." mormorò la ragazza, sovrappensiero. John sbuffò una piccola risata.

"Già, ma grazie al cielo eri tu l'Holmes dell'altra sera." scherzò e anche Charlotte rise di gusto. "Non avevo mai fatto vedere o toccare la cicatrice sulla spalla. Cioè, insomma, a parte a Mary... Ma anche lì ci è voluto un bel po'."

"Ti prego, non dirmi che andavi a letto con lei con la maglietta indosso!" esclamò, spostandosi appena per guardarlo. Si rimise poi comoda contro la sua spalla. "Io la trovo bella. E poi so che tu hai visto le mie. Mi sembrava giusto ricambiare il favore." agitò appena i polsi facendo tintinnare i bracciali, così da attirare la sua attenzione.

John annuì appena. Le aveva viste, sì. A Natale, quando aveva quello stupendo vestito rosso che le lasciava scoperte le spalle e le braccia. Nonostante i braccialetti e i suoi tentativi di non farsi vedere, lui le aveva notate. Una ragnatela di cicatrici che le attraversavano i polsi. Le più piccole in orizzontale, così numerose da rendere la sua pelle ruvida come una grattuggia. In quantità minore, ma più lunghe e più grosse, ce n'erano due o tre per polso in verticale. Seguivano perfettamente il corso delle vene, che ora pulsavano intatte e verdi sotto quei cordoni rosa.
Vi passò sopra le dita senza pensarci, accarezzandole piano e con delicatezza. Avrebbe voluto farle sparire con il suo tocco, cancellare quei segni indelebili di un passato da dimenticare.

"Perché lo hai fatto?" sussurrò. Voleva conoscere quello che le era successo, comprendere cosa l'aveva portata a diventare quella Charlotte che ora stringeva tra le braccia e chiedeva aiuto e amore a gran voce. Lei abbozzò un sorriso triste.

"Era un periodo molto brutto..." disse solo. Non aggiunse altro, rimase in silenzio.

Non amava ricordare quel periodo della sua vita. Era molto doloroso e cercava in ogni modo di allontanarlo dalla sua mente. Avevano tutti iniziato a trattarla in modo diverso, si preoccupavano di più, si muovevano quasi in punta di piedi attorno a lei. Puntò lo sguardo sulle dita di John, ancora ferme sulle sue cicatrici. Le riaffiorarono alla mente ricordi confusi e frammentati di quell'episodio. Sentiva il sapore del sangue in bocca e la freddezza del metallo tra le dita. L'acqua scorreva nel lavandino mentre la porta veniva buttata giù a suon di spallate. Una voce maschile che urlava di chiamare l'ambulanza e una stretta calda, innumerevoli carezze e due braccia che la cullavano. Ricordava il profumo di Sherlock - non farmi questo, Lotte, non odiarmi fino a questo punto - e gli occhi preoccupati di Mycroft - sono qui, amore mio, sarò sempre qui con te - e il bianco accecante della stanza d'ospedale. E poi sentiva delle urla nella sua testa, urla che riecheggiavano nelle sue orecchie e nel suo cervello e una rabbia cieca e immotivata nei confronti della sua famiglia, del personale dell'ospedale, del mondo intero e di sé stessa.

"Ti preparo un the, ti va? Hai bisogno di una pausa, non ti sei fermata un secondo oggi." le propose, rivolgendole un sorriso.

Aveva percepito il cambio del suo umore, Charlotte ne era certa. Quello sguardo non mentiva e quel tono era troppo dolce per non essere stato formulato apposta. Forse se la sarebbe presa se fosse stato un altro, ma lei sapeva che John aveva solo le migliori intenzioni. Lui voleva che lei stesse bene, che sorridesse e lei non riusciva ad arrabbiarsi con lui. Non quando la guardava in quel modo, quando era stretta a lui e riusciva a sentire il suo profumo. Odorava di dopobarba speziato e dello shampoo alla camomilla che gli aveva fatto provare - fidati di me, John, per i biondi come noi è la salvezza! Fallo provare anche a Mary.
Charlotte annuì e si spostò leggermente, così da permettere a John di alzarsi e lasciare spazio di manovra anche a lei. Un the sarebbe andato bene, era un territorio neutrale. Era un'offerta di pace da parte di John, come lo era stata la canzone per suo conto. Un modo di chiedersi scusa per quello che era successo e di dimostrarsi che le cose sarebbero andate bene.

O almeno così sperava.

 

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Capitolo 13
*** Capitolo tredici ***


Capitolo tredici


Il pomeriggio era passato in modo incredibilmente tranquillo e piacevole. Charlotte e John avevano bevuto un the e avevano chiacchierato e riso assieme come se gli avvenimenti dei pochi giorni precedenti non fossero successi. Per Charlotte era incredibile vedere quanto si trovasse bene assieme a John e quanto semplice fosse parlare con lui. Non le accadeva spesso, neanche con David. Quando litigava col fidanzato ci voleva sempre del tempo prima che la situazione si sistemasse, poiché erano entrambi troppo orgogliosi per fare il primo passo e chiedersi scusa. Era più simile al modo che aveva di comportarsi con il suo migliore amico, Leslie Prescott.
Leslie era l'unico che era stato con lei fin dai tempi dell'asilo, si erano conosciuti una mattina tra l'armadio dei costumi e la cesta delle costruzioni e non si erano mai più lasciati andare. Per gli insegnanti, infatti, erano sempre "Charlotte e Leslie", dove andava uno, seguiva anche l'altra. Solo le scuole elementari erano state svolte in plessi diversi, addirittura dalle parti opposte di Londra, ma riuscivano sempre a ritagliarsi del tempo per stare assieme, che fosse un'ora al pomeriggio o un pigiama party durante il weekend. Avevano vissuto tante avventure assieme, dall'esplorazione di un'inquietante chiesetta abbandonata alla prima volta che si erano persi in un grande parco appena fuori Londra ed erano stati ritrovati da Mycroft solo dopo alcune ore e con la paura di non riuscire mai più a ritrovare la via di casa. Avevano affrontato in coppia i problemi adolescenziali, da quelli di cui andare fieri come i primi due peletti sul mento di Leslie a quelli imbarazzanti come l'acne o quella volta in cui Charlotte ebbe un ciclo più pesante del solito e si macchiò la divisa scolastica proprio durante un'assemblea d'istituto, i primi cuori infranti, il coming out di lui con i seguenti tentativi di bullismo da parte di compagni troppo stupidi per capire e il 'periodo buio' di lei durante il quale Leslie si sentiva impotente e inutile. Avevano accolto nel loro rapporto esclusivo David solo dopo due i tre anni che Charlotte l'ebbe conosciuto (avevano tutti e tre circa otto o nove anni e allora entrare in un 'club' del genere era l'avvenimento più importante della vita di un bambino) e, successivamente, quando avevano ormai sedici anni, Max Yearn, fidanzato e ora convivente di Leslie. Si era sentita tradita quando i due avevano annunciato che si sarebbero trasferiti a Parigi, era come se anche loro la stessero abbandonando poco dopo che David era dovuto partire con la Royal Marine, ma in fondo era felice per loro. Leslie voleva studiare per diventare pasticcere e aveva trovato una meravigliosa scuola nella capitale francese che lo avrebbe aiutato a realizzare il suo sogno. Max invece si era iscritto alla Sorbona e sarebbe diventato un fantastico insegnante d'inglese a giudicare dai voti stratosferici che aveva conseguito nei primi esami.

Si era avvicinata l'ora di cena e, sperando in un rientro a sorpresa di Sherlock, John si era messo ai fornelli. Charlotte era rimasta in cucina, aveva apparecchiato e poi aveva deciso di rimanere semplicemente seduta a tavola a guardare John destreggiarsi tra pentole e padelle. Lei non era molto brava a cucinare, se la cavava quel tanto che bastava per non far saltare in aria la cucina o morire avvelenata. Ma non aveva la curiosità, la passione, e la sua avversione verso il cibo soprattutto in età adolescenziale non l'aveva certo aiutata a sviluppare un rapporto sano rispetto a tutto quello che concerneva il mondo della cucina.
Le piaceva però vedere altri immersi nell'attività. Aveva guardato più di una volta Leslie preparare dei dolci, ad esempio. Sia quando aveva appena iniziato e si sporcava di farina e latte fin sui capelli, sia quando ormai era talmente a suo agio nell'ambiente da riuscire a fare tutto senza quasi guardare. Era così fluido e sicuro quando cucinava che sembrava sollevato da terra di un paio di spanne e avvolto dalla luce pura della soddisfazione. Non c'erano dubbi che quello era il suo destino: aveva un'espressione così felice e in pace quando si destreggiava tra zucchero e coloranti che anche il più ottuso avrebbe compreso in che direzione puntava il suo cuore.
John era un po' incerto nei movimenti, sicuramente era a causa della poca familiarità che aveva ancora con quella cucina che non era la sua. Ma a Charlotte non importava, non ci faceva neanche caso. Era rimasta incantata a guardarlo, sorpresa dal suo iniziare a fischiettare un motivetto che non conosceva, forse addirittura improvvisato, mentre mescolava. Non si era accorta del sorriso spontaneo che le era apparso sulle labbra, né di aver assunto un'espressione quasi sognante, la guancia appoggiata su una mano e i capelli che scivolavano lenti di lato. Aveva ragione prima, non potevano controllare i loro sentimenti, le loro emozioni. Quello era impossibile e, aveva notato, più si provava a nasconderle e farle sparire, più quelle tornavano forti e prepotenti. Potevano però trattenersi, evitare di toccarsi, combattere contro sé stessi e mantenere le distanze. Ma, pensò, niente le impediva di guardarlo. Non era bello come David, su quello non poteva mentire. David era un ragazzo stupendo, alto, con gli occhi verdi e la pelle candida e un naso adorabile la cui punta era rivolta vezzosamente all'insù che poteva farlo sembrare snob come pochi ma che lei amava schiacciare in maniera giocosa col dito indice. John, al contrario, aveva un fascino particolare di cui era facile cadere vittima. Non che fosse brutto, per carità, ma riconosceva non fosse la persona che provoca dei giramenti di testa appena entra in una stanza. Quella era suo zio, doveva essere sincera. John aveva però un modo di porsi che affascinava, un certo non so che in grado di attrarre, che lo rendeva sexy e irresistibile. Era forse il suo sorriso che portava ogni cuore a perdere un battito, un sorriso così dolce che faceva credere alla persona a cui era rivolto di essere la più importante dell'universo. O forse quegli occhi di un blu così scuro da somigliare al cielo notturno e così caldi da riuscire a sciogliere anche i cuori più freddi.

"Devo farti pagare il biglietto, se continui così." ridacchiò John vicino al suo orecchio mentre metteva i piatti in tavola. Charlotte arrossì di colpo, cercando di nascondere il volto tra le mani, cosa che fece ridere John ancora più forte. "Dai, stavo scherzando! Mangia, ora... Mi sa che saremo da soli ancora per un po'."

Cenarono quindi insieme, sempre chiacchierando come due vecchi amici. Dopo mangiato Charlotte riuscì a convincerlo a dare un'occasione a Twin Peaks, tirando fuori i Dvd che Mycroft era riuscito a regalarle in anteprima mondiale. Guardarono i primi tre episodi prima che la stanchezza prendesse il sopravvento su entrambi. O meglio, più su John, dato che Charlotte si era spenta già a metà del secondo e sembrava in procinto di addormentarsi. Se ne era accorto perché all'inizio continuava a indicare lo schermo e commentare animatamente mentre ad un certo punto si era limitata a tenere la testa appoggiata sulla sua spalla e guardare la televisione, dicendo ogni tanto quanto Dale Cooper fosse il sogno proibito suo e del suo migliore amico quando guardavano la serie insieme o di come BOB avesse tormentato le sue notti anni prima.
Durante i titoli di coda allora l'aveva scossa appena e aveva represso una risata alla sua esclamazione "ero sveglia, lo giuro!". L'aveva quindi invitata ad andare di sopra e mettersi a letto, aveva bisogno di dormire. Non aveva avuto neanche la forza di ribattere, aveva semplicemente annuito e si era avviata sulle scale sbadigliando. In quella che le era parsa un'eternità si era infilata il pigiama, lavata i denti e messa a dormire.

Quando sentì dei rumori in camera, pensava fosse mattina. Le bastò un'occhiata alla sveglia per rendersi conto che era solo l'una di notte e non le servì altro che sentire il materasso di fianco a lei curvarsi per capire che Sherlock era tornato. Rimase tuttavia girata di lato, gli dava le spalle, e probabilmente lo stava facendo anche lui. Ogni traccia di sonno ormai se ne era andata, sentiva il sangue pulsarle nelle orecchie e una confessione che spingeva per uscire dalle sue labbra. Un'ammissione che non poteva rendere nota davanti a John, qualcosa che di sicuro lo zio sapeva già e che avrebbe senza dubbio peggiorato la situazione. Ma doveva dirglielo, era qualcosa che non poteva tenergli ancora nascosto.
Strinse il lenzuolo tra le dita. Fingeva di dormire, ma sapeva che Sherlock aveva notato che era sveglia. Sapeva che stava aspettando fosse lei a parlare e non sarebbe stato soddisfatto prima di averla sentita.

"Ci ho riprovato." sussurrò infine, consapevole che comunque lui l'avrebbe sentita. Lo percepì contrarre appena i muscoli e si morse il labbro. Non se lo aspettava? Non era quello che voleva sapere?
"Poco prima che arrivaste voi qui. Non... Non ricordo il perché e come sia successo, ma... Mi sono trovata sporta sul davanzale dell'altra stanza, quella che da sul garage. Era come... Come guardare qualcuno che usava il mio corpo. Era il mio corpo, ma non lo era. Non lo controllavo. Si sporgeva sempre di più e io volevo tornare indietro." sospirò. "Poi ho sentito il telefono. Sono riuscita ad allontanarmi e andare a rispondere." terminò il suo racconto stringendosi le braccia attorno, come se cercasse di proteggersi dai ricordi in quel modo.

Ricordava perfettamente il senso di sollievo a quella chiamata ma anche quella punta di stizza. Una voce nel suo cervello urlava ingiurie contro chi l'aveva disturbata e che cercava di convincerla a tornare dov'era e finire il lavoro. Quando aveva preso il telefono in mano e aveva guardato lo schermo, però, non aveva potuto fare a meno di sorridere. Suo padre. Era sempre lui, il suo angelo custode. Sembrava sapesse il momento esatto in cui aveva bisogno.

Sentì Sherlock muoversi sul letto. Si era girato verso di lei ed era rimasto qualche istante a guardare la sua testa bionda. Si avvicinò e le passò un braccio attorno, le prese una mano, tenendogliela stretta. Non era il tipo da esternazioni d'affetto, erano rare le volte in cui la abbracciava. Quelle situazioni poi lo mettevano particolarmente a disagio, lo sapeva bene. Per questo motivo quel tocco era così significativo per lei. Si aggrappò a quella stretta con tutte le sue forze, cercando quel calore e quell'amore che aveva intravisto innumerevoli volte nella sua vita ma che si era palesato solo occasionalmente. Quello era più importante di un abbraccio o bacio dato per cortesia, per accontentare, e le confermava che lui era lì. Che lui c'era, per lei e con lei. Che anche se disapprovava di tante cose, se le faceva del male senza accorgersi, se la dava per scontata... Lui le voleva bene.

"E poi l'ho vista di nuovo. Una sola volta, ma l'ho vista. La donna con i capelli rossi. Non è cambiata. Mi guardava, sempre con gli occhi sbarrati e quel sorriso..." represse un brivido ma non riuscì a mascherare l'incertezza della sua voce. La stretta di Sherlock si fece più forte e lei la ricambiò come se fosse l'unico appiglio alla realtà.

"Ti ha fatto del male?" le chiese finalmente. La sua voce era bassa, calda e per lei ebbe un effetto calmante. Mosse appena la testa per dirgli che no, non le aveva fatto niente, la guardava e basta. Sherlock sospirò. "Meglio così."

Rimasero in silenzio per una manciata di secondi. Stare svegli durante la notte faceva dilatare il tempo, tanto che quei pochi istanti di silenzio vennero percepiti come minuti interi. Alla fine Charlotte prese coraggio per affrontare l'ultimo argomento, quello più importante e che le stava opprimendo il cuore.

"Quando te ne sei accorto?" chiese semplicemente. Sapeva che lui avrebbe capito.

"L'altra sera. Aveva il tuo profumo addosso e tu il suo." Charlotte chiuse gli occhi e si morse un labbro. Era quindi impossibile pensare di tenerglielo nascosto. "Ma avevo già visto come vi guardavate."

"Mi spiace, zio... Mi spiace così tanto." mormorò. Lui scosse la testa.

"Non è a me che dovete chiedere scusa."

"Non lo dirai a nessuno, vero? Né a papà, né a Mary o David..." chiese, sentendo un groppo in gola alla sola idea che potesse succedere.

"Non è compito mio farlo." sentenziò.

E aveva ragione. Non spettava a lui essere sincero con gli altri, confessare quello che era successo. Dovevano essere loro due, ma non avrebbero mai messo a repentaglio le proprie vite per qualcosa che poteva anche essere estemporaneo.
Se c'era una cosa che Charlotte aveva sempre adorato di suo zio, era la totale assenza di giudizio. A meno che non fossero cose veramente gravi, lui non prendeva mai una posizione e non giudicava le scelte di nessuno. Non lo aveva mai fatto con lei, almeno, anche quando sbagliava clamorosamente. Le aveva sempre parlato con calma e, a volte, era stato in grado di farle capire perché aveva commesso un errore piuttosto che sgridarla e basta.

"Domani mattina dobbiamo andare via." le comunicò e lei annuì piano.

"Hai qualcosa di importante da fare a Londra, vero?" chiese, ma non ottenne risposta. Accennò un sorriso mesto. Quel silenzio le diceva che aveva ragione. "Se è quello che penso... Fai attenzione, ti prego. È più pericoloso di quanto credi, non voglio che ti succeda qualcosa." gli confessò, cercando di fargli capire in ogni modo che sapeva cosa aveva in mente.

Sherlock sorrise, uno di quei sorrisi sinceri e carichi di affetto che né lui né suo fratello riuscivano a farle vedere. Non riusciva a fare a meno di preoccuparsi, lei. Forse un po' glielo avevano insegnato loro, sempre preoccupati per la sua incolumità e la sua sicurezza. Ma il modo in cui lo esprimeva era affascinante. Era così sincera e fluviale, non nascondeva mai i suoi sentimenti originari ed era naturale. Non si sforzava a farlo vedere, era qualcosa di troppo forte che non poteva tenere nascosto a lungo. Era così diversa da loro, così spontanea ed irruenta nelle sue manifestazioni d'affetto, ma non riusciva a vederla come tutti gli altri.
Le aveva voluto bene dalla prima volta che l'aveva vista. Aveva tredici anni e all'inizio la odiava. Non la conosceva, ancora non era neanche nata, ma lui già la odiava e serbava rancore nei suoi confronti. Non lo avrebbe mai ammesso a voce alta, ma il sé stesso preadolescente aveva avuto paura di perdere per sempre il suo fratellone. Si era già sentito abbandonato quando Mycroft li aveva lasciati per andare a Oxford, ed erano ancora lontani i tempi in cui non sarebbero riusciti a rimanere nella stessa stanza senza litigare. L'arrivo di quella bambina, di quell'intrusa, non era altro che l'ennesima conferma che ormai si era stancato di lui, che non lo voleva più tra i piedi e quindi Sherlock avrebbe dovuto cavarsela da solo da quel momento in poi.
Quando Wanda e Timothy lo portarono da Mycroft e i genitori di Charlotte, lui non voleva andarci. Puntò i piedi, urlò, tentò di scappare, ma fu tutto inutile, poiché Wanda gli rifilò uno scappellotto e lo minacciò di non fargli più utilizzare il piccolo laboratorio di chimica che avevano allestito assieme. Accettò controvoglia, tenne le braccia incrociate per tutto il viaggio e continuava a ripetersi mentalmente che odiava quella bambina, che sarebbe stata orribile e lui non avrebbe mai voluto averci niente a che fare. Ma poi la vide e sentì i muscoli della fronte rilassarsi e tutti i sentimenti negativi scivolare via. Gliela misero in braccio, sotto lo sguardo attento di tutti gli adulti nella stanza. Lei gli aveva preso il dito e lo aveva infilato in bocca, come se fosse il suo ciuccio, e Sherlock si era quasi messo a piangere. Era una persona totalmente diversa allora, a volte rimpiangeva il sé stesso di vent'anni prima.
Le aveva voluto bene da quel momento, non passava giorno in cui non chiedesse di lei e non volesse vederla. E quando anche lei fu in grado di amare, di avere sentimenti e pensieri che andassero oltre i bisogni fisiologici, aveva visto il perfetto riflesso del suo amore negli occhi della ragazza. Incondizionato, eterno, a volte anche sofferente, ma era sempre lì con una forza tale da fare quasi paura a Sherlock. Sapeva che non si sarebbe fermata davanti a niente per lui, per tutti loro, si sarebbe messa anche in mezzo a costo della sua vita.

"Zio?" lo richiamò, riscuotendolo dai suoi pensieri. Gli volle una frazione di secondo prima di capire cosa voleva dirgli, quali erano le parole che non avevano abbandonato le sue labbra ma che aleggiavano tra loro.

"Lo so." sorrise e anche lei piegò gli angoli della bocca.

"Più degli altri."

"Più di chiunque altro, Lotte." terminò, con un tono di voce che indicava che sarebbe stata la fine di quella piccola chiacchierata notturna.

La mattina dopo, Charlotte aiutò Sherlock e John a recuperare tutte le loro cose e chiamò una delle aiuto di suo padre che li riportasse a casa. Aveva dovuto combattere contro le rimostranze dello zio, ma era riuscita a spuntarla dicendo che, in quel modo, tutte le ricerche di quella settimana sarebbero state al sicuro. Il detective aveva quindi sbuffato e accettato di malavoglia quel compromesso, mentre John aveva esibito un sorrisetto divertito.
In poco tempo l'auto era arrivata e avevano caricato tutto quello che dovevano. Charlotte era anche riuscita a catturare Sherlock in un abbraccio, uno così stretto da togliergli il respiro. Fu sorpresa nel sentirlo ricambiare, nel percepire le sue labbra sfiorarle lievemente la tempia. Tornò poi indietro, dove vide John appoggiato allo stipite della porta con le braccia incrociate al petto e la borsa ai suoi piedi.

"Non sono tranquillo a lasciarti qui da sola." le disse, aggrottando appena le sopracciglia. "Forse è meglio se rimango qui."

Charlotte scosse energicamente la testa e poggiò una mano sul suo braccio. Gli sorrise.

"Devi tornare a casa da Mary. Io starò bene, non preoccuparti." lo rassicurò, e lui fece cadere le braccia lungo i fianchi. "E poi, male che vada, siete solo ad un'ora da qui. Potete venire quando volete."

John sembrò pensarci sopra, ponderare le parole della ragazza. Sapeva in cuor suo che aveva ragione, ma allo stesso tempo non voleva lasciarla da sola in quella casa troppo vuota e troppo silenziosa per lei. Sospirò e poi annuì piano, accettando la sua risposta.

"Prenditi cura di te stessa, okay?" sussurrò, accarezzandole una guancia. Lei sorrise e si sporse per dargli un bacio sulla guancia, terribilmente vicino all'angolo della bocca tanto che John dovette combattere l'istinto di girarle il viso e baciarla sulle labbra.

Scese quindi gli ultimi scalini, la borsa stretta in una mano. Si diresse verso l'auto, pensando a come sarebbe andato il suo ritorno a casa. Avrebbe fatto un salto a Baker Street, dove la signora Hudson gli avrebbe offerto un the con dei biscotti artigianali e non lo avrebbe fatto andare via prima di aver sentito tutto quello che era successo. Poi sarebbe tornato a casa sua, dove avrebbe abbracciato e baciato Mary. Le avrebbe detto che le era mancata, che aveva pensato spesso a lei. Forse avrebbero fatto l'amore, sarebbero rimasti abbracciati nel letto mandando a benedire il lavoro per quel giorno.

"John?" lo richiamò Charlotte e tutti i pensieri del medico si allontanarono rapidamente.

Ci ha ripensato, vuole che rimanga qui, pensò con un moto di speranza nel petto. Avrebbe lasciato le sicurezze di Londra in un batter d'occhio se solo lei glielo avesse chiesto. Si girò e la guardò con gli occhi grandi, le labbra appena separate. Era ferma sulla soglia ed era bellissima. Gli sorrise e si sistemò una ciocca di capelli dietro l'orecchio.

"Avvisami quando siete arrivati, va bene?"

John riprese a respirare normalmente e abbassò le spalle. Cosa si aspettava? Lo aveva detto chiaramente, era stato solo un errore. Lei voleva stare con David, era lui l'amore della sua vita così come Mary doveva essere l'amore di quella di John. Sarebbero stati davvero in grado di stravolgere la loro esistenza, sfidare i giudizi e dividersi a metà per qualcosa che ancora non aveva nome?
Le sorrise e annuì.

"Certo, non preoccuparti." le fece l'occhiolino prima di voltarsi e riprendere il suo cammino, evitando all'ultimo momento l'autista che si stava avvicinando alla soglia.

Aveva una piccola scatola in mano, il rosso e blu scuro del pacchetto contrastavano con il completo nero che indossava. Si fece vicino a Charlotte, che era rimasta a guardare il punto dove c'era John, incantata da quel suo sorriso e quell'occhiolino.

"Miss Holmes?" chiese l'autista, Ted Potter.

Charlotte lo guardò. Conosceva bene il vecchio Ted. Aveva circa sessant'anni e lavorava per suo padre da quando aveva memoria. Aveva una moglie che soffriva di endometriosi e fibromialgia, impossibilitata quindi a lavorare, e un figlio che consideravano un miracolo e che era tutto il loro mondo. Doveva avere circa la sua età, qualche anno in più forse, ma avevano avuto molte difficoltà a concepire a causa delle malattie della donna.
Le era sempre piaciuto, tra gli autisti era uno dei suoi preferiti. Aveva sempre una caramella o un cioccolatino in tasca che le dava di nascosto da Mycroft. Un piccolo vizio, il loro segreto che di sicuro era conosciuto anche a Mycroft ma che, almeno per lei, rimaneva personale. Non si era mai scordato un suo compleanno, mandava sempre gli auguri di Natale e quando andava a prenderla a scuola le chiedeva sempre come era andata.
Charlotte gli sorrise.

"Lo sai che puoi chiamarmi Charlotte, Ted." rispose e lui ridacchiò.

"Devo mantenere un certo contegno davanti ad altri." si schiarì la gola e le porse la scatolina, su cui aveva appoggiato una caramella e una busta. "Il regalo è da parte del signor Holmes. La caramella e la busta sono da parte mia, di mia moglie e di Zeke. Buon compleanno, Charlotte, anche se in ritardo." le sorrise prima di tornare indietro.

Charlotte riuscì a mormorare solo un grazie e guardò l'auto nera andare via. Solo quando fu fuori dalla sua portata rientrò in casa. Scartò la caramella e la mangiò immediatamente - miele e menta, Ted la conosceva bene ormai - e aprì la busta. Non riuscì a nascondere un sorriso nel vedere il bellissimo biglietto realizzato da Zeke. Aveva sempre avuto la passione del disegno e della calligrafia e aveva visto ogni anno i suoi progressi. C'erano poi le firme di tutti e tre. Notò con dispiacere che quella di Loretta era incerta e tremula. Di sicuro era in preda ad uno dei suoi attacchi di dolore.
Decise poi di aprire la scatola. Tirò piano il nastro blu, tenendolo da parte per poterselo mettere tra i capelli. Appoggiò allora il coperchio sul tavolo a cui si era seduta e prese in mano un bigliettino e un bracciale. Era un semplice bracciale in stile tennis con dei brillanti che luccicavano alla luce come stelle. Sulla chiusura erano incise una S e una A in caratteri eleganti e svolazzanti. Spiegò allora il biglietto e cominciò a leggere.

Tuo padre regalò questo bracciale a tua madre quando compì vent'anni. Sarebbe molto felice se ora lo avessi tu.

Buon compleanno, bambina mia.
Papà

Rilesse quelle poche righe e guardò nuovamente il bracciale. Lasciò cadere il pezzo di carta e si portò una mano sulla bocca per soffocare i singhiozzi. Grosse lacrime scendevano sulle sue guance, gocce d'acqua calde e salate. Ma sorrideva, contro il suo palmo si era aperto il sorriso più grande della sua vita.
Non aveva mai avuto prima di quel momento qualcosa che fosse appartenuto ai suoi genitori. Pensare che quel bracciale era stato toccato da suo padre, indossato da sua madre... oh, era come se prendere la prima boccata d'aria dopo una lunga apnea. Riusciva a sentirsi più vicina a loro, come se fosse il primo passo per scoprire chi realmente fossero. S e A... dovevano essere le loro iniziali.
Prese il cellulare e inviò velocemente un messaggio a Mycroft. Grazie, papà, grazie! Ti voglio bene, così tanto che non puoi immaginartelo!

Si allacciò poi il bracciale al polso e rimase ad ammirarlo. Sorrideva mentre immaginava la mano bianca di sua madre al posto della sua.
Sorrideva perché, finalmente, si sentiva vicina alle sue radici.

 

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Capitolo 14
*** Capitolo quattordici ***


Capitolo quattordici


{15.04.2006, Oxford}

Erano passati un paio di mesi circa da quando avevano trovato il corpo del reverendo Valence nella chiesa di St. Cecilia's. Non vi erano state apparizioni dell'assassino, nessun altro omicidio in questo lasso di tempo. Questo aveva dato tempo a Sherlock e John di indagare meglio su Charles Augustus Magnussen, l'unico uomo capace di far tremare Mycroft. Erano riusciti ad infiltrarsi nella sua base, erano così vicini a risolvere il caso ma erano stati costretti alla ritirata perché Sherlock si era trovato con una pallottola nello stomaco. Per fortuna non fu un colpo mortale, ma gli avrebbe assicurato una lunga degenza in ospedale sotto morfina e stretto controllo medico, soprattutto a causa della sua volontà di uscire dalla stanza quando era ancora troppo debole per camminare. John aveva provato più di una volta a farsi dire chi fosse stato, ma Sherlock era rimasto sempre vago. Diceva di non aver visto nessuno in faccia, di essere stato colto di sorpresa. Una parte di John non ci credeva, dopotutto la ferita era sull'addome e quindi fronteggiava il misterioso pistolero, ma non voleva insistere oltre. Sapeva che non avrebbe cavato un ragno dal buco e avrebbe solo rischiato di peggiorare la situazione, aggravando le sue condizioni o portandolo ad aumentare all'inverosimile la dose di morfina tanto che sarebbe stato incapace di parlare.

Erano passati due mesi anche da quella serata proibita che John e Charlotte avevano condiviso. Non avevano smesso di sentirsi via messaggio, erano troppo intrecciati nel tessuto vitale l'uno dell'altra per ignorarsi. Ma di comune accordo, senza neanche dirsi niente, avevano deciso di diminuire quella corrispondenza. Non si sentivano più tutti i giorni e la maggior parte delle volte era davvero solo per sapere come stessero andando le indagini e se stessero tutti bene. Entrambi vedevano quel piccolo allontanamento come un segno della loro volontà a dimenticare l'errore di quella sera, ad impegnarsi meglio nelle loro storie attuali e cercare di farle funzionare. Questo valeva per John, per lo meno, dato che aveva la fortuna di vivere con la sua dolce metà, mentre Charlotte passava ogni giorno a chiedersi come stesse David e ogni notte a tremare dalla paura che non facesse ritorno.
L'unico momento in cui risentirono la voce l'uno dell'altra fu proprio uno degli ultimi giorni di marzo. Lo stesso giorno in cui John aveva pensato di perdere il suo migliore amico nell'ufficio di Magnussen, in cui si era visto le dita sporche del suo sangue mentre gli teneva premuta la ferita e, con mano tremante, chiamava l'ambulanza.

Era riuscito, senza problemi, ad accorgersi che il proiettile era ancora dentro e avrebbe avuto bisogno di un'operazione. Non aveva potuto però farsi un'idea più accurata, in parte perché Sherlock era mentalmente assente e in parte perché i paramedici erano arrivati prima che lui potesse studiare la situazione. Lo aveva seguito in ambulanza, scambiando due parole con i soccorritori riguardo le sue condizioni - sono un medico, so quello che dico - e rivolgendosi direttamente a lui per ricordargli che doveva lottare e che lui era Sherlock Holmes, dannazione! Non poteva andarsene così, cosa avrebbero pensato tutti?
Arrivati in ospedale, il detective venne portato in fretta e furia in sala operatoria mentre John rimase fuori. Chiamò subito Mary, sapendo che anche lei si sarebbe preoccupata per la situazione. Avevano legato molto, lei e Sherlock, a volte sembrava che la preferisse a lui. Era irritato da quel legame a cui non sapeva dare una motivazione valida (insomma, con Charlotte si era abituato ormai, era sua nipote ed era ovvio che l'avrebbe sempre preferita a chiunque, ma Mary la conosceva da molto meno tempo) e si sentiva ogni giorno sempre di più da parte.
Avvisò anche Mycroft per correttezza ma non si aspettava una risposta, era convinto che lo sapesse già. Esitò prima di scrivere anche a Charlotte. Non fu per imbarazzo o sensi di colpa, questo era ben chiaro nella sua mente, aveva un sapore diverso in bocca. No, esitava perché non voleva farla preoccupare, perché voleva proteggerla dal male che quella notizia le avrebbe causato. Un piccolo sorrisetto gli nacque spontaneo sulle labbra. Ci era caduto anche lui, alla fine. Nonostante lo sapesse che non aveva bisogno di protezione, che le dava anche parecchio fastidio essere trattata come un oggettino fragile, aveva comunque pensato di tutelarla da qualcosa che poteva ferirla.

Le aveva mandato un messaggio, alla fine. Un messaggio semplice, senza troppi fronzoli e che la informava di dove si trovava suo zio e che comunque stava bene.
Tempo mezzo minuto e subito il cellulare di John aveva preso a vibrare e suonare e lui si lasciò sfuggire un sorrisetto. Rispose alla chiamata di Charlotte, sentendo subito la sua voce allarmata e preoccupata uscire veloce e squillante dalla cornetta.
Tentò di tranquillizzarla, di dirle che Sherlock stava bene, ma lei non volle sentire ragioni e John fu costretto ad entrare nella sua stanza e passarglielo. Rimase quindi ad osservare Sherlock parlare al telefono con la ragazza per almeno tre quarti d'ora, a dirle che stava bene e che doveva smetterla di preoccuparsi così tanto. Ma poteva notare che gli faceva piacere, in fondo. Aveva gli angoli delle labbra sollevati leggermente in un flebile sorriso, i suoi occhi azzurri brillavano appena e gli illuminavano il volto reso ancora più pallido dalle sue condizioni. Aveva una dolcezza nella voce che gli era capitato di sentire raramente, quasi mai anzi, e all'incirca sempre diretta solo a lei.
Aveva pensato, John, che non gli era mai capitato di vedere due persone amarsi così tanto. Lui di certo non aveva avuto nessuno che lo aveva amato in quel modo, neanche sua sorella o, per assurdo, sua moglie. Chissà, si chiese, se si sarebbero trovati anche se lei non fosse stata adottata da Mycroft. E chissà se questa naturale chimica avrebbe portato ad altro, se ci sarebbe stata lei al suo posto ad accompagnarlo nei suoi casi, a fargli da spalla.

Quando finalmente Charlotte fu soddisfatta e chiuse la chiamata, John si avvicinò al letto del detective per recuperare il telefono. Da vicino si vedeva ancora di più quanto fosse bisognoso di riposo e recupero. La pelle era talmente chiara da confondersi con le lenzuola e la vestaglia e faceva risaltare il nero corvino dei suoi capelli. Gli occhi erano leggermente cerchiati di rosso e il respiro appena affannato, ma i valori erano buoni e stabili. Prese il cellulare, sfiorandogli per sbaglio le dita e sentendo quanto la sua pelle fosse fredda.

"Ci saresti stato comunque tu." disse Sherlock, appena prima che John uscisse dalla porta.

Il medico si fermò un attimo sulla soglia e sorrise. Aveva capito quello che stava pensando, come sempre dopotutto, e per una volta aveva detto la cosa giusta. Senza dire nulla, poiché sapeva che qualsiasi parola sarebbe stata superflua, riprese a camminare e tornò da Mary.

I giorni successivi passarono lenti e noiosi. Sherlock era rimasto in ospedale, aveva avuto modo di parlare con Janine e avevano scoperto entrambi che si erano usati a vicenda. Si erano quindi detti addio senza rancore e con una piccola risata. John cercava in tutti i modi di far funzionare le cose con Mary, ma sembravano allontanarsi sempre di più e si era trovato diverse volte a guardare il contatto di Charlotte sul telefono pensando se chiamarla oppure no. Con lei si trovava bene, era a suo agio e si sentiva importante, ascoltato e capito.

Quando la mattina del due aprile nacque, prometteva di essere una giornata come tante altre. C'era chi si svegliava, faceva una colazione veloce e si dirigeva in chiesa con il suo vestito migliore. Per Amber Rostell, ad Abingdon-on-Thames, la domenica mattina era motivo di festa e si presentava sempre almeno mezz'ora prima dell'inizio della messa per aiutare. Ma ora che padre Valence era morto, sepolto nel camposanto di fianco alla chiesa, entrava nell'edificio sacro solo pochi minuti prima, si sedeva sulla panca a testa bassa e seguiva la cerimonia senza particolare entusiasmo. Il nuovo prete non era malvagio, aveva provato anche a risollevarle il morale dandole una pacca sulla spalla ogni tanto e coinvolgendola nelle sue decisioni e attività, ma non era Valence. Non aveva la sua vitalità, il suo modo di parlare.

Anche Oxford cominciava ad animarsi in quella domenica di primavera. Le temperature cominciavano a farsi più miti e il tempo più clemente, tanto che in molti ne approfittavano per fare piccole gite fuori porta oppure un pic nic nel parco. Giornate come quella erano apprezzate soprattutto dagli studenti che, dopo una settimana rinchiusi in università a seguire le lezioni e in casa a studiare, non vedevano l'ora di sfruttare del tempo libero per svagarsi e divertirsi con gli amici.
Non era però una domenica mattina qualunque a Oxford. L'agitazione che si vedeva per le strade non era infatti data dal timido sole che si faceva intravedere e la voglia di divertirsi. Se si prestava orecchio ai discorsi di tutti coloro che calpestavano l'asfalto con passi svelti e pesanti, si sarebbe compreso immediatamente che era stato commesso un omicidio. Le voci corrono rapide e lisce quando si tratta di eventi del genere, causando in tutti coloro che vi sono vicini un misto di orrore ed eccitazione nel petto che li portava a voler sapere di più.

Charlotte aveva saputo di quell'assassinio alle 7.40 di mattina. Era ancora nel letto, la mente persa nel dolce oblio del sonno, quando il suo cellulare squillò. Non si prese la briga di guardare il mittente della telefonata, rispose con la voce impastata. Dall'altro capo della cornetta si sentì rispondere con una piccola risata imbarazzata e una scusa. Disse di essere l'agente Andrew Partridge e le ci volle qualche secondo per collegare il nome ad un volto. Lo aveva contattato qualche settimana prima per sapere se gli esami patologici avessero rivelato altre informazioni sul cadavere del signor Valence. Avevano passato poi del tempo a chiacchierare, mandandosi qualche messaggio ogni tanto, e avevano scoperto di avere molte cose in comune. Erano diventati amici quasi come succede con i bambini, molto semplicemente e senza neanche accorgersene. Andrew era simpatico, una persona di là fuori che riusciva a farla sentire a suo agio e anche a strapparle una piccola risata occasionale.
La telefonata di quella mattina non era stata di cortesia, tuttavia, ma di affari. Era stato ritrovato il corpo di un professore di storia nel suo ufficio. Il suo assistente aveva provato a contattarlo da qualche giorno senza ricevere risposta e, circa una mezz'oretta prima, era andato davanti alla sua porta per capire se magari si trovava lì. Lo studio era però chiuso a chiave e si sentiva un odore spiacevole permeare dalle fessure dello stipite. Il ragazzo aveva allora chiamato la polizia, che aveva sfondato la porta e trovato il corpo del professore impiccato dietro la sua scrivania.

Mentre il poliziotto parlava ancora e le diceva che le avrebbe mandato i dettagli via SMS, Charlotte si era alzata e aveva radunato i primi vestiti comodi che aveva trovato. Chiuse la comunicazione dopo avergli assicurato che sarebbe stata lì in poco tempo e che avrebbe avuto anche Sherlock Holmes con sé. Si lavò e vestì alla velocità della luce, uscendo di casa dopo pochissimi minuti. Chiamò immediatamente suo zio, che le rispose con un mugugno assonnato e impastato dalla morfina.

"Alzati e splendi, tesoro. È una giornata meravigliosa e c'è un nuovo omicidio per te!" esclamò, evitando all'ultimo un gruppetto di ragazzi che si dirigevano verso il polo degli studi storici.

"Non posso muovermi, lo sai." replicò, facendo seguire alle sue parole un sonoro sbadiglio.

"L'ospedale ti fa molto male, zietto. Ci sto andando io, tu mi segui col telefono. La vittima è un professore di storia, Thomas Lacrosse. Lo ha trovato questa mattina il suo assistente, un certo Jeff Galliano, preoccupato perché non gli rispondeva al telefono da qualche giorno. Non so molto altro, l'agente Partridge mi ha solo detto di andare lì il più velocemente possibile." lo anticipò, sapendo che le avrebbe chiesto almeno quelle prime informazioni. Percepì le labbra di Sherlock piegarsi in un sorriso, ogni traccia di sonno ormai scomparsa.

"Fai attenzione, va bene? L'altra volta c'ero io, questa volta sei da sola. Se dovessi farti del male, non me lo perdonerei."

Charlotte ridacchiò, divertita da quel dolce ammonimento.

"Diventi molto docile con la morfina, forse dovrei portarne sempre un po' con me." sentì anche lo zio ridere a quella battuta, poi la ragazza sospirò. "Ascolta, non mentirmi. Chi ti ha sparato?"

Sherlock si irrigidì nel suo letto d'ospedale. Charlotte lo sentì trattenere il respiro per un secondo e udì il bip dell'elettrocardiogramma farsi appena più veloce.

"Non lo so. Non l'ho vista in faccia".

Bugia.

Tutto in quella risposta le urlava che stava mentendo, che stava ancora nascondendo la verità. Fece un altro sospiro, questa volta leggermente più irrirato di prima.

"Mi stai mentendo. Ti hanno sparato da davanti, quindi hai visto chi era, a meno che non avesse una maschera. Ma ti ricordo che sei in ospedale, ogni cambiamento dei tuoi valori si sente... E l'elettrocardiogramma mi dice che hai il battito accelerato. Poi ti sei tradito, hai detto che non l'hai vista." si mordicchiò il labbro inferiore, strappandosi le pellicine.

"Ti ho insegnato troppo bene." borbottò Sherlock, dando un'occhiata al monitor di fianco a lui. Dannazione, come aveva fatto a non pensare che quello lo avrebbe esposto? E come aveva permesso a quel lapsus di sfuggire al suo controllo?

Charlotte sorrise appena.

"Già... Chi è stato? Chi stai proteggendo?" chiese nuovamente, il tono basso.

Non vi fu risposta dall'altro capo della cornetta e Charlotte cominciò a passare mentalmente tutte le conoscenze di Sherlock. Non poteva essere stato John, lui non era il tipo. Escludeva anche la signora Hudson, suo padre e l'ispettore Lestrade, che dal paio di volte che lo aveva visto non le era sembrato un uomo in grado di ferire un amico. Le balenò un volto in mente. Dei capelli biondi mossi, due occhi azzurri gentili e sfuggenti, un sorriso enigmatico. Quella sensazione di avere a che fare con qualcuno che non diceva chi era veramente, una persona che aveva tanto da nascondere e ancora di più da perdere.

"Mary..." sussurrò e la sua voce incontrò nuovamente il silenzio. Seppe in quel modo che aveva ragione, che era stata lei e che Sherlock non voleva farle passare dei guai. "Sapevo che aveva qualcosa di strano."

"Non dirlo a John." il suo tono voleva sembrare perentorio, freddo come sempre, ma sembrava quasi più una supplica.

"Abbiamo tutti i nostri segreti..." mormorò in risposta, come per dirgli che poteva fidarsi di lei. Non avrebbe riferito nulla ad anima viva.

Si fermò davanti all'edificio del dipartimento di studi storici. Riuscì a sorpassare la folla e la barriera di poliziotti. Vide che Andrew l'aspettava all'entrata, quindi si avvicinò e lo seguì. Mise Sherlock in vivavoce mentre Partridge spiegava tutto quello che avevano potuto notare in quei pochi minuti. Percorsero due grandi e ampie rampe di scale di marmo e poi un corridoio lungo e buio, le pareti decorate da grandi ritratti che osservavano minacciosi chiunque mettesse piede lì dentro. Charlotte camminava sicura tra quelle mura, come se conoscesse a fondo l'edificio. Non che fosse strano, dopotutto gli stabili universitari finivano per assomigliarsi tutti dall'interno. I loro passi erano attutiti dalla moquette rossa che ricopriva tutto il pavimento e in lontananza si poteva sentire il parlottare degli agenti sulla scena del crimine. Giunsero quindi alla soglia dell'ufficio, il terzultimo prima della fine del corridoio, proprio di fianco al bagno, e Partridge la precedette all'interno per avvisare che Holmes era qui.
Quando Charlotte mise piede nello studio, la prima cosa che notò fu il perfetto ordine della stanza. Lo comunicò prontamente a Sherlock, come le aveva raccomandato di fare. Gli descrisse le due vaste pareti colme fino all'orlo di tomi storici, dai più recenti ai più antichi dalle copertine che parevano sgretolarsi solo con lo sguardo. C'era anche un reparto dedicato alle tesi di tutti gli studenti che avevano concluso gli studi assieme a lui, in bella mostra in ordine cronologico come se fosse più fiero lui del lavoro dei suoi pupilli che loro stessi. In fondo, direttamente di fronte alla porta, c'era una grande finestra che dava sui tetti delle villette circostanti, abbastanza in alto perché nessuno potesse vedere cosa succedeva lì dentro. A completare l'arredamento vi era un'imponente scrivania di mogano con intarsi dorati, massiccia ed elegante, su cui era poggiato con cura un computer non di ultima generazione ma nemmeno troppo obsoleto, e diversi libri e fogli su cui il professore stava lavorando. Due sedie imbottite stavano dalla parte dei possibili visitatori, mentre dall'altra parte troneggiava una poltrona girevole rosso scuro. Al di sopra, pendeva il corpo del fu professor Lacrosse, retto da una corda appesa ad una trave.

"Credevo ci avresti portato Sherlock Holmes, non una biondina!" esclamò sprezzante l'uomo a cui Partridge era andato a riferire del loro arrivo.

Andrew impallidì talmente tanto che le sue lentiggini spiccavano come segni di tempera su una tela bianca. Charlotte ammutolì all'istante e rimase immobile, il cuore che aveva smesso di battere per qualche istante. Anche Sherlock aveva trattenuto il respiro, probabilmente aveva ritenuto opportuno evitare di fiatare prima di peggiorare la situazione.
La ragazza decise allora di girarsi ed osservò l'ispettore in questione. Indossava un bolero blu scuro su un paio di pantaloni sgualciti dello stesso colore e delle scarpe rovinate. Passò lo sguardo su tutta la sua figura, dalla curva della sua pancia alle guance flaccide e i corti capelli brizzolati. Fece una piccola smorfia e si avvicinò, puntando lo sguardo nei suoi occhi acquosi.

"Sherlock Holmes non è potuto venire di persona, ma ha mandato l'unica persona che può sostituirlo. Glielo chieda se non è così, tanto è in linea." allungò la mano che teneva il cellulare, così da permettergli di parlare. L'uomo sogghignò e passò lo sguardo dall'oggetto al volto della ragazza.

"Non è un posto adatto ai bambini, questo."

"Infatti non ne ho portati con me, ispettore Garret." rispose Charlotte con un sorrisetto, appena dopo aver dato un'occhiata al distintivo. "E smetta di mangiare ciambelle e carne rossa come se non ci fosse un domani. Certo, se non vuole avere un infarto a circa cinquant'anni." diede una veloce occhiata ad Andrew, che sembrava sul punto di scavarsi una fossa per sparire dalla faccia della terra, e poi tornò a guardare Garret. "Oh, non faccia quella faccia. Sono una Holmes anche io, dopotutto. E sono sicura che sua moglie sarebbe molto felice se lei seguisse il mio consiglio."

Non aspettò neanche la risposta dell'ispettore e si voltò, avvicinandosi alla scrivania. Passò una mano sulla superficie liscia e trovò un punto dove appoggiare il telefono così da avere le mani libere.

"Sono vicina al corpo ora, zio." annunciò, infilandosi i guanti in lattice che uno degli agenti le aveva dato.

"Cosa puoi dirmi a riguardo?" appena la voce di Sherlock fu udita dagli altri, si sentirono dei piccoli movimenti di sorpresa tutti attorno. Forse non si aspettavano ci fosse per davvero Sherlock Holmes dall'altro capo del telefono.

Charlotte girò attorno al mobile e guardò meglio il corpo dal basso. Gli spostò la mano sinistra, passando le dita sotto quelle del cadavere e sul suo palmo. Toccò poi la stoffa dei suoi pantaloni, che odoravano di urina e sperma - tipico degli impiccati - e della sua giacca, guardò la fibbia della sua cintura e i lacci delle sue scarpe. Infilò le mani nelle tasche di quel completo elegante e di qualità, prendendo in mano ogni foglio che riusciva a trovare. Qualsiasi cosa potesse darle una mano.

"È morto impiccato, di questo sono sicura. Non ha lottato per la sua vita, le unghie sono pulite. Può sembrare un suicidio, ma non ne sono convinta... È una sensazione, mi capisci? È più come se... Fosse stato rassegnato." si mordicchiò il labbro. "Credo che conoscesse l'assassino. Non c'è niente fuori posto, nessun segno di lotta o di sorpresa. Anche i libri e i fogli sulla scrivania sono ordinati. E non ha cercato di salvarsi la vita, neanche per un istante."

"Per quale motivo? Tutti cercano di salvarsi, sperano che alla fine si riveli solo un grande scherzo. Ascoltalo, fattelo dire." le disse Sherlock, incoraggiandola a studiare meglio la scena.

"Non vedo come questo possa interessare." si intromise nuovamente Garret, ora in un angolo con uno sguardo truce.

"Ogni elemento può essere importante!" tuonò Holmes attraverso il telefono, tornando poi subito ad un tono più dolce. "Avanti, Lotte."

La ragazza rimase a guardare ancora qualche istante sia il corpo che la scrivania, poi alzò le sopracciglia.

"Era vedovo da poco. Sulla mano sinistra ha ancora il segno della fede, che aveva iniziato a portare al collo. Lei era tutta la sua vita e quando non c'è stata più... Neanche i suoi studenti hanno potuto aiutare." concluse, prendendo in mano dalla scrivania la fotografia di una donna dai capelli castani acconciati con una treccia e un sorriso sbarazzino in volto. "Per questo non ha lottato contro l'assassino, gli ha permesso di ucciderlo."

Rimase in silenzio appena finito di parlare. Cosa avrebbe fatto lei se David non fosse tornato? Se anche lei avesse dovuto vivere senza di lui, svegliarsi ogni giorno sapendo che non avrebbe rivisto più i suoi occhi? Chissà se la pensava uguale Jo- David! Era a David che stava pensando, non ad altri. Era lui che amava, che avrebbe sposato un giorno e con cui avrebbe avuto una famiglia. Era con David che voleva condividere la vita.

"Charlotte?" la voce gentile di Andrew la riscosse dai suoi pensieri. Aveva il respiro appena affannato, come se fosse stata colta in flagrante. Sorrise.

"Dimmi." rispose e si sistemò una ciocca di capelli dietro l'orecchio.

L'agente le fece segno di seguirlo e, dopo aver preso il cellulare, la portò davanti ad una mensola. Le indicò un punto preciso tra due tomi che parlavano dell'Inghilterra in epoca Tudor. Tirò fuori una busta di carta gialla, chiusa per bene e poco voluminosa.

"Mi sembrava fuori posto, ma non ho voluto dire niente a Garret. Credo interessi di più a voi due." affermò, posando la busta tra le mani di Charlotte.

Lei la aprì e tirò fuori i fogli contenuti all'interno. Sorrise vedendo i tetragrammi e le note quadrate, quello stesso stile che l'aveva fatta impazzire un paio di mesi prima.

"Gli spartiti... Zio, è sempre l'assassino del caso di Laura Palmer e del prete." riferì, senza riuscire a nascondere il sollievo nel sapere che potevano continuare ad indagarci su.

"Una direttrice di banca, un prete e un docente universitario. Quale può essere il filo che collega queste vittime?" pensò a voce alta Sherlock.

"Magari si conoscono. Amici d'infanzia o qualcosa con le loro famiglie..." si azzardò a suggerire Andrew.

Charlotte si girò a guardarlo stupita e, per qualche secondo, anche Sherlock rimase in silenzio.

"Agente Partridge, questa è la cosa più intelligente che ho sentito dire da un poliziotto." affermò il detective, poco prima di sentire la porta della sua stanza d'ospedale che si apriva e preannunciava l'arrivo dell'infermiera per il solito giro di controlli. Chiuse quindi la chiamata in fretta e furia, quasi senza salutare.

"Era... un insulto mascherato da complimento?" chiese Andrew, sbuffando una risatina imbarazzata. Charlotte ridacchiò e scosse la testa.

"Oh, no! Quello era un vero complimento!" ridacchiò. "Ho bisogno Drew, che mi fai avere tutti quei fogli che ci sono sulla scrivania e il suo computer, è un problema?"

"No, affatto. Dovrò litigare un po' con Garret, ma... Non mi importa. Tanto è solo un sostituto, e poi mi sta anche antipatico!" le fece l'occhiolino e ridacchiò.

Infilò la busta in borsa e si sistemò il cappotto. Diede un'ultima occhiata alla stanza, al corpo che oscillava lentamente e a quel riflesso dai capelli rossi e gli occhi neri nella finestra che la osservava con un sorriso. Represse un brivido, raccomandò ad Andrew di raccogliere i campioni di qualsiasi cosa fosse presente così che potessero essere analizzati ed uscì quasi di corsa.
Solo una volta fuori, lontana dalla scena del crimine e da quello sguardo spaventoso, riuscì a respirare nuovamente.

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Capitolo 15
*** Capitolo quindici ***


Capitolo quindici


Disclaimer: anticipo i commenti del tipo "ma come, un altro genere?" NO, i generi saranno sempre crime, psychological e romance. Quando arriverete alla terza parte del capitolo (lo immagino diviso in tre parti, vedrete poi perché) e penserete che abbia voluto addentrarmi nell'horror di punto in bianco, senza preavviso né motivo... non preoccupatevi, la spiegazione è molto più razionale di quanto possiate immaginare. Solo che, ovviamente, non sarà data qui ma più avanti nella storia!



"Mi dispiace molto per la tua perdita, Jeff." disse piano Charlotte, posando davanti a lui una tazza di caffè bollente e tenendone in mano una per sé stessa. "E mi dispiace dover riaprire la ferita, ma ho bisogno di farti alcune domande."

Si sedette di fronte a lui e tenne per qualche istante lo sguardo basso sul tavolino rotondo color verde menta. Era riuscita a recuperare il numero di Jeff Galliano, l'assistente del professor Lacrosse, proprio da alcuni fogli che aveva ritrovato nello studio. Lo aveva salvato senza farsi notare e aveva deciso di portare avanti le sue indagini parallelamente alla polizia. Avrebbe informato solo Andrew, l'unico di cui poteva fidarsi, e suo zio ovviamente.
Alzò poi lo sguardo sul giovane uomo davanti a lei e studiò il suo aspetto, i suoi movimenti anche più impercettibili. I capelli castani, appena ondulati e lunghi fino alle spalle, si muovevano ad ogni minimo cenno della testa. Gli occhi neri erano appena bordati di rosso, segno che aveva pianto e aveva passato almeno quella notte totalmente insonne. Si tormentava di continuo le labbra e le mani, che teneva incrociate sul tavolo. Muoveva costantemente le gambe, sembrava l'unico sfogo che avesse di tutta quella energia.
Alla fine sospirò e prese la tazza di cartone con forse troppa forza. Tolse il coperchio di plastica e vi versò dentro una bustina di zucchero di canna e una dose di panna. Gli tremavano le mani, Charlotte se ne accorse subito e lo segnò tra i suoi appunti mentali.

"Ho già parlato con la polizia, non puoi chiedere a loro?" le disse con la voce sottile e stanca.

Quel ragazzo aveva meno di trent'anni, un buon posto di lavoro che gli permetteva di proseguire col dottorato, e già si trovava davanti ad una delle perdite più grandi della sua vita. Lo capiva dal suo sguardo che Lacrosse non era solo il suo datore di lavoro. Era il suo mentore, la persona che Jeff voleva diventare, quasi una figura paterna. A Charlotte dispiaceva dargli altra pena, vedeva dai suoi occhi che era stanco di tutte le domande che aveva ricevuto e delle condoglianze di circostanza. Azzardò un piccolo sorriso, versando a sua volta lo zucchero nel proprio caffè.

"Ma io non sono la polizia." sorrise da dietro la tazza. "E ti prometto che ascolterò quello che dirai. Per davvero." aggiunse.

Jeff accennò un piccolo sorriso e sospirò. Erano stati dei giorni terribili quelli appena passati, in cui chiunque lo incrociasse non faceva altro che parlargli di Lacrosse. Che fossero studenti, colleghi o persone che lo conoscevano perché andava a comprare il pane o le medicine. Spesso non erano che parole vuote, pareri di chi conosceva solo un Thomas Lacrosse, uno solo dei suoi volti. A Jeff dava fastidio, li vedeva come degli ipocriti che si sentivano realizzati nell'aver fatto la buona azione quotidiana e tante grazie, ora si può tornare a sparlare di chicchessia. Jeff preferiva chi stava in silenzio e gli dava una pacca sulla spalla o si limitava ad offrirgli un caffè, chi gli rivolgeva un sorriso fugace e un piccolo cenno di saluto. Erano piccoli gesti che non erano apparentemente legati a quello che era successo, ma che prendevano in considerazione i suoi sentimenti e la sua volontà di non continuare a parlare di quello che aveva visto.
Quella ragazza però aveva un modo di fare diverso. Non gli aveva fatto le sue condoglianze. Appena l'aveva vista, aveva subito capito che era lì per affari. Gli abiti scuri, i capelli chiusi in una treccia ordinata e l'aria determinata non avevano lasciato spazio ai dubbi. Non si aspettava altro, ad essere sincero. Quando l'aveva contattato si era presentata subito come una Holmes, allora aveva fatto velocemente una ricerca su Internet. Aveva trovato informazioni su un certo Sherlock Holmes, pareva fosse un investigatore di Londra di grande fama e talento. Quando aveva visto Charlotte, aveva riconosciuto lo stesso portamento e lo stesso sguardo di quell'uomo visto nelle fotografie di articoli di giornale e blog. Era forse per questo motivo che aveva deciso di fidarsi immediatamente di lei.

"Beh, non che sia un grande sforzo." sospirò e guardò fuori dalla finestra, dove un volantino girava in tondo sospinto dal vento. "La polizia crede che si sia suicidato. Io non ci credo."

"Infatti è stato ucciso." rispose prontamente lei, accavallando le gambe. Jeff si girò di scatto verso di lei, gli occhi spalancati e la bocca leggermente aperta.

"Nessuno mi credeva..." sussurrò e Charlotte sorrise.

"Te l'ho detto che non sono come la polizia." ravanò nella borsa e mise un registratore sul tavolo. "Ti dispiace? Così lo faccio ascoltare a mio zio." lo guardò. "Sherlock." aggiunse quando vide che Jeff non rispondeva. Il ragazzo annuì e allora lei schiacciò un tasto. La lucina rossa prese a lampeggiare, segno che da quel momento ogni parola sarebbe stata registrata.

"Come dicevo... Non credo si sia suicidato. Vero, nelle ultime settimane era nervoso e non sembrava più lui, ma... Non penso sarebbe stato capace di fare una cosa del genere. Lo conoscevo bene, da anni ormai. È stato il mio professore di storia, il mio relatore e poi sono... erano anni che lavoravo per lui. Si fidava di me e capivo sempre se c'era qualcosa che non andava."

"Hai detto che era nervoso... Come mai?" poggiò la tazza sul tavolo e si sporse appena, attenta ad ogni lettera che usciva dalle labbra di Jeff.

"Non lo so. Continuava a balbettare qualcosa riguardo ad una 'cosa terribile' che aveva fatto e..." sbuffò una risatina nervosa. "Non credo che questo possa voler dire qualcosa."

"Ogni cosa può essere essenziale in questi casi, Jeff. Magari è proprio quello che consideri insignificante che può aiutarci a trovare chi ha ucciso Thomas."

"Qualche anno fa, tre o quattro credo, Thomas è stato al centro di un piccolo scandalo. Avevano iniziato a girare voci per tutta Oxford di voti dati in cambio di altri favori. Sesso, soldi... Cose così. Sono stati tanti i professori che hanno perso il lavoro per questo motivo, e sarebbe stato così anche per lui. Non per il sesso, eh!" si affrettò a specificare, poi si schiarì la gola. "Aveva accettato delle mazzette da un paio di studenti. È riuscito ad uscirne pulito, ma non so neanche io come abbia fatto." sospirò e si passò una mano tra i capelli. "Se ne era dimenticato, ma in queste ultime settimane ha iniziato a parlarne di nuovo. Aveva sempre paura..."

"Qualcuno lo stava minacciando, forse? Qualcuno che magari non ha mai dimenticato e che voleva fargliela pagare... Uno studente bocciato, un collega invidioso..." suggerì, incrociando le dita sul tavolo.

Jeff si mordicchiò l'interno della guancia, pensando a tutti i possibili nemici che il professor Lacrosse poteva avere. Infine scosse la testa, sconfitto e senza essere riuscito a trovare un possibile colpevole.

"No, nessuno... O almeno, non che io sappia. Anche se..." picchiettò il tavolo con il dito indice e si sporse in avanti alla maniera dei cospiratori. "Anche se l'ho visto guardare dei vecchi fogli di giornale. Non sono riuscito a leggere niente e non ho riconosciuto nessuno dalla fotografia, ma l'ho sentito piangere e dire che se lo meritavano. Quando si è accorto che ero lì vicino, però, ha nascosto tutto e ha fatto finta di niente. Come se non fosse mai successo."

Charlotte accavallò le gambe sotto il tavolo, dissimulando in questo modo un moto di eccitazione ed orgoglio che quella rivelazione le aveva causato. Era un forte calore che nasceva da sotto lo sterno e si spandeva in tutto il corpo, facendole battere forte il cuore e rendendole difficile stare ferma. Sentiva che era un'informazione importante, avrebbe osato dire essenziale, e suo zio avrebbe saputo perfettamente cosa farne.

"Hai visto dove ha messo quel ritaglio?" chiese, modulando la voce così da non sembrargli una pazza.

"In un cassetto che teneva sempre chiuso della sua scrivania. Credevo ci fossero solo fotografie di sua moglie, Anita. Lei è morta qualche anno fa. Erano in vacanza sulle Highlands, stavano facendo una gita in moto e un pirata della strada li ha fatti cadere. Lui se l'era cavata con un braccio e una gamba rotti, ma lei..." sospirò. "Cadde giù per il pendio della montagna. Batté la testa contro una roccia prima ancora che raggiungesse la valle. Morta sul colpo. Ha passato tutti gli anni successivi a darsi la colpa di quello che era successo, perché era stato Thomas ad insistere ad uscire con la moto." si passò una mano tra i capelli e, poi, si rigirò la tazza tra le dita. "Forse è per questo che sembrava quasi felice quando... Sì, insomma..."

Charlotte alzò un angolo della bocca in un sorriso storto, solo di circostanza.

"Già, l'ho notato anche io. Ti ringrazio, Jeff, sei stato molto d'aiuto. Ti terrò al corrente degli sviluppi."

Jeff annuì, poi si alzò e afferrò il suo giubbotto di jeans, pieno di spillette che mostravano il suo impegno politico (comunista) e i suoi gusti musicali (ovviamente i Clash svettavano sugli altri) e col colletto in lana di pecora. Lo infilò e recuperò anche la sua tazza. Indugiò qualche istante, poi guardò Charlotte un'ultima volta.

"Io... Non so se può essere utile, ma... Qualche giorno prima di morire ha detto una cosa strana. Stavo andando a casa, l'ho salutato e lui ha ricambiato dandomi la buonanotte. Poi ha fatto un sorriso strano e mi ha detto 'credo che Anya arriverà presto'."

Charlotte ritirò la mano, che aveva allungato per spegnere il registratore, e rizzò la schiena. Guardò Jeff, interessata come un gatto davanti alla preda.

"Anya?"

Il ragazzo annuì e si strinse nelle spalle.

"Già. Ma non so chi sia. Forse tuo zio può ricavarci qualcosa." diede un'occhiata al suo orologio da polso (un po' troppo prezioso per un comunista. Che fosse un'eredità di famiglia?) e rivolse a Charlotte un cenno di saluto. "Scusami, ma devo scappare."

"Certo, tranquillo. Grazie mille, sei stato molto utile." sorrise lei mentre lo salutava. Spense il registratore e lo infilò nuovamente in borsa.

Anya... Quel nome poteva dare una svolta alle indagini. Poteva addirittura essere il nome dell'assassino! Uscì quasi di corsa dal locale dopo aver guardato l'orologio ed essersi resa conto di essere in ritardo per la lezione di filosofia.

Continuò a pensare, tuttavia, alle parole di Jeff. Per fortuna aveva registrato tutto e poteva far ascoltare l'intera conversazione a suo zio, che sarebbe stato in grado sicuramente di capire molto più di quanto fosse riuscita lei. Non dimenticò nemmeno le pagine di notazione che Andrew aveva trovato nell'ufficio del professor Lacrosse, e si stupì di notare che tradurle fu più semplice della volta precedente. Ormai aveva capito lo stile del compositore e sapeva dove mettere accenti, pause e modificatori. Provò quindi a suonare la melodia da sola, così da accertarsi che fosse coerente con le prime due parti. Le ci era voluta in tutto poco meno di una settimana, divisa tra quel compito e i suoi impegni universitari, e di certo non l'aveva fatta andare fuori di testa come quando c'erano Sherlock e John. Forse era anche perché era da sola e non aveva paura di deludere nessuno se ci avesse impiegato più tempo del previsto. Aveva quindi affrontato l'ostacolo con tranquillità, riuscendo a sorprendere se stessa per la facilità con cui ottenne il risultato sperato.
Era molto soddisfatta del suo risultato e sapeva che anche Sherlock avrebbe apprezzato. Non glielo avrebbe mai detto chiaramente, quello era poco ma sicuro, ma lo avrebbe capito dal tono di voce. Le sarebbe piaciuto, a volte, sentirsi dire che era stata brava, che aveva fatto qualcosa di giusto, ma d'altro canto sapeva che non poteva pretendere questo genere di esternazioni da parte degli Holmes. Non erano molto inclini ai complimenti e quei pochi che facevano erano così impacciati e mal formulati che forse era meglio non riceverne affatto. Sapeva tuttavia decifrare i loro comportamenti e il loro tono di voce, così da potersi creare lei da sola, nella sua mente, un ringraziamento e un'affermazione delle proprie capacità.

Si decise ad avvisare Sherlock solo dopo aver provato da sola un paio di volte, così da non rischiare di incepparsi nel mezzo della composizione. Fece il numero dello zio al telefono e se lo appoggiò all'orecchio, ascoltando il trillo in attesa che rispondesse. Fu solo dopo svariati squilli che la chiamata venne accettata, tanto che stava già per mettere giù.

"Pronto?"

Charlotte spostò il telefono e guardò lo schermo, aggrottando le sopracciglia. Non aveva sbagliato numero, allora...

"John. Perché rispondi tu, scusa? Lo zio sta bene?" chiese, abbastanza confusa. John rise.

"Sta bene, non preoccuparti. Lo stanno visitando per controllare che risponda bene alle cure." rispose, sedendosi sulla sedia di fianco al letto d'ospedale e accavallando le gambe. "È successo qualcosa?"

"No, niente, non preoccuparti. Ho solo tradotto gli spartiti che ho trovato nell'ufficio del professor Lacrosse e volevo farglieli sentire. Ma richiamo tra un po', in caso..."

"No, no! Tanto dovrebbero riportarlo qui tra pochissimo, era una visita breve." la interruppe, poi si schiarì la gola.

Rimasero entrambi in silenzio per un po', un silenzio per la prima volta imbarazzato. Erano stati così complici fin dall'inizio, sempre con qualcosa da dirsi o comunque a loro agio anche se non volava una mosca. Quella era la prima volta che si sentivano a disagio, in cui avrebbero desiderato essere a fare qualsiasi altra cosa piuttosto che stare lì ad aspettare che la situazione si smuovesse.

"Ehm... Allora, con... Con Mary come vanno le cose?" tentò di iniziare una conversazione. Era un tentativo abbastanza debole, doveva ammetterlo, ma era la prima cosa che le era venuta in mente.

"Oh, uh... Bene, direi. Sì, abbastanza bene. Ogni tanto discutiamo ma penso sia... Normale, in una coppia, no?" rispose lui, cercando di trovare le parole giuste. In realtà non andava affatto bene, non litigavano neanche così spesso. La maggior parte del tempo la passavano in silenzio, senza dirsi niente riguardo la propria giornata o qualsiasi altra cosa. Erano quasi come due estranei che condividevano la casa e il letto.

"Bene, sono... Sono contenta." mormorò in risposta lei. Non ne era contenta affatto e non sapeva se era perché sentiva che le aveva mentito o perché sperava che le cose andassero male tra loro due. E se fosse stata quest'ultima opzione, perché avrebbe dovuto farla sentire meglio, più sollevata? Gli voleva bene, sentiva qualcosa nei suoi confronti che non era ancora riuscita ad identificare, perché allora voleva che stesse così male? Soprattutto non avrebbe portato a niente. Anche se si fossero lasciati, lei non avrebbe mai rinunciato a David, al futuro che avevano immaginato e progettato assieme tante volte.

Per fortuna la previsione di John si rivelò esatta e Sherlock tornò in stanza dopo pochi minuti accompagnato da un giovane infermiere che gli diceva che, se andava avanti così, lo avrebbero dimesso in men che non si dica. Misero il vivavoce da entrambe le parti della chiamata, così che a Londra potessero sentire entrambi gli interessati e per permettere a Charlotte di suonare senza intralci. Poggiò le dita sulla tastiera, pronta ad incominciare, ma rimase bloccata. Guardava i tasti e lo spartito, ma non riusciva a trovare nella sua memoria la chiave per decifrare la scrittura né per sapere quali fossero le note giuste. Si morse un labbro, sentendo che il silenzio dall'altro capo della cornetta si era fatto teso ed impaziente. Ma lei non riusciva a suonare, non si ricordava come si facesse. Appena muoveva le dita qualcosa le diceva che sbagliava e si bloccava, le giunture rigide e contratte. Sentiva i battiti del cuore aumentare ogni istante di più e il sangue pulsare doloroso e prepotente nelle tempie, una sensazione di panico e incapacità l'aveva assalita.

"Non ci riesco..." sussurrò, forse più a sé stessa che ai due uomini che stavano aspettando dall'altro capo della cornetta. Sentiva un pizzicore alla base del collo, come se ci fosse qualcuno che continuava a fissarla con urgenza e una punta di ironia.

"Charlotte?" si sentì chiamare dal telefono, non capì nemmeno se era stato John o Sherlock a pronunciare il suo nome. Si morse il labbro inferiore, talmente forte da rompersi le pellicine e farsi uscire una piccola gocciolina di sangue.

"Non ci riesco!" replicò con un tono di voce più alto. Forse aveva urlato, forse aveva solo parlato normalmente, non avrebbe saputo dirlo. "Non mi ricordo come si fa, come si legge la musica!" si portò le mani alla testa, stringendole come se stesse cercando di spremersi il cervello per ricordare.

"Lotte, ascoltami." la voce di Sherlock si fece strada, calda e tranquilla, nella sua mente. Si fermò, rimanendo ad aspettare col fiato sospeso. "Respira. Non farti prendere dal panico, analizza le cose da fuori. Tu sai leggere uno spartito. Sai suonare, sei la migliore musicista che conosco. Quindi respira e affronta la situazione con calma."

Sentì il cuore rallentare e il respiro tornare normale alle parole di Sherlock. Si immaginò John esterrefatto di fronte al comportamento del suo migliore amico, al modo in cui l'aveva tranquillizzata. Quasi le scappò una piccola risata a quell'immagine, ma decise di optare per un sospiro così da calmarsi del tutto. Tornò a guardare lo spartito, questa volta non aveva più segreti e riusciva a decifrare ogni minimo segno nero sulla pagina bianca.
Si schiarì la gola e si scusò per la scenata di prima. Non diede tempo ai due uomini di ribattere che subito si mise a suonare con decisione e abilità, forse fin troppa foga ma sicuramente senza altre incertezze. Arrivò alla fine della composizione senza fiato, respirava pesantemente e con la bocca aperta. Il suo respiro era l'unico rumore che si sentiva assieme ad alcune auto che passavano sulla strada di fronte all'ingresso. Anche a Londra non volava una mosca, John teneva le labbra serrate dissimulando il fatto che non avesse la più pallida idea di cosa stesse succedendo e Sherlock era con le mani giunte davanti al volto. I suoi occhi si muovevano veloci e nervosi da destra a sinistra, come se stesse leggendo qualcosa, ma il suo sguardo non incontrava altro che il pavimento.

"Non è finito." sentenziò alla fine, prendendo tutti alla sprovvista. John lo guardò e Charlotte sospirò.

"Quindi ce ne sarà un altro..." mormorò rassegnata la ragazza. Si passò una mano sul braccio e poi si sistemò i capelli su una spalla. "Non puoi fare qualcosa? Non possiamo aspettare che questo pazzo uccida altre persone!" sbottò.

"Non possiamo fare altro, almeno per il momento. Posso incrociare i risultati delle analisi di tutti e tre i casi, ma..."

"Ma non subito, non puoi ancora uscire di qui. Ordini del medico." si affrettò a specificare John, incrociando le braccia sul petto. Sherlock rimase in silenzio, puntando lo sguardo sull'amico, mentre Charlotte ridacchiò debolmente dall'altro capo del telefono.

"Ti conviene dargli ascolto, zietto caro. A meno che tu non voglia che chiami la nonna..." lo stuzzicò a sua volta, cercando di eliminare dalla sua mente l'immagine di John che prendeva il controllo della situazione. Di John fin troppo sexy che faceva valere il suo ruolo e teneva le redini in mano per una volta.

Scosse decisa la testa, cercando di allontanare quell'immagine dalla sua mente. Non era giusto pensare a quelle cose, non quando avevano entrambi due persone speciali al loro fianco. Ma John aveva un effetto particolare su di lei, era capace di farle dimenticare tutto quello che la circondava e tutto ciò che aveva imparato nella sua vita. Vedeva solo il blu dei suoi occhi, respirava solo l'odore del suo dopobarba e si sentiva attorno le sue braccia. Sempre, ogni volta che anche solo la sua immagine le attraversava la mente, ogni volta che leggeva il suo nome. Non era in grado di spiegarselo, di dare un nome a quella sensazione. Non era amore, non poteva essere amore. Lei era innamorata di David da anni ormai, era convinta di amare solo lui e che il suo cuore battesse solamente per lui. E quello che sentiva verso John era così diverso, così... unico, avrebbe azzardato a dire. Era qualcosa di forte, non poteva negarlo neanche a sé stessa, ma confuso e senza una vera e propria denominazione.

Chiusero la chiamata dopo pochi istanti e dopo che Charlotte li mise al corrente di quello che aveva scoperto quella mattina, poi lasciò che il silenzio si impossessasse della sua casa. Rimase ferma a fissare i tasti del pianoforte per un tempo indefinito, con lo sguardo talmente fisso da sentire la vista incrociarsi ed appannarsi e confondere i colori appena dietro la retina. Si passò le mani tra i capelli, lasciando che quella cascata d'oro scendesse lungo le sue braccia pallide e sottili. Non aveva voluto farlo notare, ma quel momento di amnesia l'aveva turbata più di quanto sembrasse. Non era la prima volta che si scordava di qualcosa. C'era stata una volta in cui aveva dovuto riprendere il libretto delle istruzioni della lavatrice perché non sapeva più che tasti premere per farla partire. Un'altra volta si era dimenticata totalmente di avere una lezione di filosofia morale, una delle sue materie preferite. C'era stata poi quella volta in cui, appena sveglia, non riusciva a ricordarsi come alzarsi in piedi e camminare. Ma tutte quelle volte aveva dato la colpa allo stress, ai mille pensieri che aveva per la mente, al fatto di essersi appena svegliata.
Non poteva però negare che quella volta si era spaventata e non poco. Vedeva le sue mani tese, nervose, che scalpitavano per fare il loro dovere ma che non ricevevano l'impulso giusto dal cervello. Era come guardare dall'interno le mani di un'altra persona, come se fosse una marionetta guidata da qualcuno che non sapeva da che parte girarsi per iniziare a suonare. Non voleva che qualcuno lo sapesse, soprattutto non voleva fosse suo zio. Aveva paura che, in qualche modo, anche suo padre ne potesse venire a conoscenza e non voleva. Lei non voleva farlo preoccupare, dargli altri pensieri per qualcosa che, ne era sicura, era solo una sciocchezza. Sapeva che, sebbene mantenendo il suo solito distacco esteriore, avrebbe smosso mari e monti per andare a fondo della faccenda. Sperava quindi con tutto il cuore che né Sherlock né John ne facessero parola con lui, neanche un minimo accenno. Voleva vedersela da sola, far passare quell'orribile periodo. Sentiva dentro di sé che, una volta tornato David a casa, sarebbe andato tutto a posto.

Se tornerà, dolcezza.

Scosse violentemente la testa, stringendo ancora di più i capelli. Quella vocina saccente e ironica non stava mai in silenzio. La prendeva in giro, giorno e notte, e a volte se ne aggiungevano altre che non facevano altro che sottolineare quanto di sbagliato facesse nella sua vita, quanto fosse una delusione per tutti quelli che la circondavano. Più spesso però, le voci si sovrapponevano l'una all'altra tanto che le parole non erano comprensibili, continui borbottii che le ronzavano nelle orecchie e la facevano sentire come se continuasse a tenere la testa sott'acqua.
Alzò di scatto la testa, il respiro ansimante e gli occhi sbarrati appena una risata riempì le sue orecchie. Era una risata aspra, di scherno, cattiva. Fece saettare lo sguardo da una parte all'altra della stanza, osservando ogni ombra, ogni silhouette dall'aspetto anche solo vagamente umano. Serrò la mascella, pallida come un foglio di carta e tremante, appena riuscì ad identificare quell'immagine così familiare ed angosciante.

In un angolo, ferma e con il suo solito sorriso tirato, c'era lei. La donna con i capelli rossi. Charlotte rimase immobile, troppo impaurita per riuscire anche solo a muovere un muscolo. Sentiva il cuore battere come un tamburo nelle orecchie e cercò di nascondere le mani per non far vedere che avevano preso a tremare violentemente. La donna la guardava con i suoi soliti occhi neri distanti, il collo piegato di lato e i capelli arruffati ed incrostati di sangue scuro e viscoso sul lato destro. Indossava un vestito nero, molto semplice e lineare, ormai sporco e lacero in diversi punti. Non aveva nient'altro con sé, solo quello stramaledetto sorriso che era in grado di far gelare il sangue nelle vene.

"Perché sei qui?" sussurrò Charlotte.

Poteva sentirla, sapeva che poteva farlo anche se era lontana. La donna allargò infatti il sorriso e sollevò le braccia con una lentezza estenuante. Le tenne allora alla stessa altezza dei suoi fianchi, stirate verso l'esterno come se stesse chiamando a sé un bambino. Charlotte scosse la testa, chiudendo gli occhi, e quando li riaprì la vide nella stessa identica posizione.

"No... Non verrò ancora da te, scordatelo." affermò, questa volta a voce più alta e ferma. Aveva raddrizzato la schiena ma il petto si alzava e abbassava ancora freneticamente, quasi come se avesse corso delle miglia e ora stesse cercando di recuperare il fiato perso.

Osservò la donna abbassare le braccia, sempre con lentezza, e il sorriso sparire dal suo volto. Non distolse però lo sguardo, tormentandola continuamente con quegli occhi neri pieni di... Di cosa, esattamente? Rimpianto? Dolore? Rabbia? Follia? Non sapeva identificarlo con certezza, ma le avevano tormentato i sogni per così tanti anni che sarebbe stata in grado di riconoscerli in mezzo a mille altri.
Charlotte allora si alzò cautamente e fece un paio di passi verso la porta. Constatò che la donna non aveva intenzione di seguirla, rimaneva ferma con la stessa posa di un gatto curioso a guardarla andare via. Si azzardò allora a darle le spalle e varcò la soglia. Era ormai abbastanza lontana, ma non riusciva a sentirsi tranquilla. Percepiva ancora quegli occhi bruciarle sulla nuca, quella risata risuonarle nelle orecchie.
Si girò, giusto per essere sicura che non ci fosse nessuno che la seguiva. Si trovò quindi faccia a faccia con quella donna, sentiva l'odore del sangue nelle narici che le provocò un conato di vomito. Osservò i suoi occhi da vicino, si perse in quella profondità nera tanto che le sembrava di essere caduta in un pozzo dal quale era impossibile risalire e in cui non filtrava neanche un raggio di sole.

La donna le afferrò un polso, senza però farle male. Sentiva le sue dita, fredde come pezzi di ghiaccio, stringerle le ossa del braccio e tirarla appena verso di sé. Charlotte scosse la testa, tentando di liberarsi dalla sua presa. Le tremava il mento, aveva paura e sentiva una morsa d'acciaio alla base del collo che le impediva i movimenti.

"Ti prego... Lasciami andare. Non voglio venire da te, per favore..." supplicò con voce rotta.

Vide la donna fermarsi e guardarla con quella che poteva essere compassione. Allentò la presa quel tanto che bastava a Charlotte per liberare il braccio. Indietreggiò, non aveva il coraggio di girarle le spalle, tanto che cadde su un punto particolarmente scivoloso del pavimento. Si spinse allora con le braccia e le gambe, constatando però che la donna non aveva alcuna intenzione di muoversi. Riuscì a rimettersi in piedi e, veloce e leggera come un'ombra, sgusciò in bagno.

Si chiuse la porta appena fu entrata e rimase ferma per qualche istante ad ascoltare il silenzio. Non c'era più alcun rumore attorno a lei, né risate né parole incomprensibili. Sentiva solo il suo respiro pesante e il suo cuore che batteva all'impazzata. Si passò la lingua sulle labbra, secche come foglie in autunno, e si ravvivò i capelli. Con passo incerto si avvicinò al lavandino e aprì l'acqua fredda. Rimase per qualche istante a guardare il liquido scorrere sulla ceramica bianca e se ne riempì le mani fino all'orlo. Si sciacquò allora il viso più volte, godendo di quell'acqua fredda che sembrava allontanarla da tutto il terrore che aveva vissuto pochi attimi prima.
Allungò allora la mano per prendere l'asciugamano e tamponarsi la pelle così da eliminare le gocce d'acqua in eccesso. Rialzò lo sguardo sullo specchio, aspettandosi di incontrare i propri occhi ancora sbarrati ed arrossati, ancora spaventati da quello che aveva appena vissuto e che continuava a vedere da un po' di tempo a quella parte. Serrò la mascella e sentì una morsa allo stomaco quando notò che dietro di lei, a distanza, c'era di nuovo quella donna. Di nuovo la osservava da lontano, non perdeva neanche il suo più minimo movimento. Charlotte sospirò e ripose l'asciugamano.

"Chi sei? Che cosa vuoi da me? Ti ho sempre vista nei momenti peggiori della mia vita, che cosa vuoi?!" terminò quasi urlando, sentendosi improvvisamente arrabbiata.

Forse la donna con i capelli rossi si spaventò al suo mutamento. Aveva notato le sue spalle alzarsi e il suo sguardo cambiare. Ma tutta quella paura si stava trasformando in rabbia, sentiva come se qualcuno volesse distruggere con le sue mani qualsiasi cosa trovasse. Con un grande sforzo riuscì a piantare le mani ai lati del lavandino, stringendo la ceramica con talmente tanta forza che rischiava di farsi male. Si sentiva lontana da quella scena, come se la stesse vivendo da fuori e vedesse tutto da una posizione più alta, ma allo stesso tempo lei era lì, in mezzo a quella situazione, a combattere contro sé stessa per non cedere agli istinti.
Prese un grosso respiro e chiuse gli occhi. Doveva cercare di calmarsi, di dissociarsi da quel momento e vivere le cose con calma. Doveva pensare a suo padre, a come si sarebbe preoccupato se le fosse successo qualcosa, a quanto si sentisse protetta dal mondo quando era con lui. Doveva pensare a Sherlock e a quanto le volesse bene, a David e il suo amore, a John e la sua voce calda e quegli occhi gentili. Doveva pensare a loro e basta, farsi scivolare via di dosso quell'orribile sensazione.
Quando riaprì gli occhi, vide la donna ancora ferma contro il muro, con quei dannatissimi capelli rossi che le scivolavano lungo il braccio e il sangue che le colava sulla guancia. Percepì un ringhio uscirle dalla gola e si stupì di essere stata lei stessa a farlo. Strinse ancora di più la ceramica.

"Vattene! Non ti voglio vedere! Io ti odio, ti odio!" urlò con tutto il fiato che aveva nei polmoni. "Non verrò mai più con te, hai capito? Mai più! Lasciami stare!"

Si era sporta di più verso lo specchio e notò un altro cambiamento nella donna. Si aspettava che si sarebbe arrabbiata, che l'avrebbe costretta a fare quello che voleva. Ma si limitò a guardarla, questa volta con una tristezza tale che Charlotte si dispiacque di averla ferita così tanto. Stirò le labbra in un sorrisetto che però somigliava di più ad una smorfia di rabbia. Perché non se ne andava, perché era ancora lì?! Strinse la mano in un pugno, che tirò violentemente contro lo specchio. Sentì la lastra rompersi sotto la sua mano, le schegge graffiarle la pelle. Ma tornò a respirare normalmente quando vide, attraverso i pezzi rotti, che era nuovamente sola.

Udì il telefono trillare brevemente per avvisarla di un nuovo messaggio in entrata. Quel rumore la fece tornare ad avere pieno possesso del suo corpo ed osservò la sua mano, ancora premuta contro quello che era uno specchio. Il sangue le colava lento e viscoso lungo il braccio, fino al gomito, per andare ad infrangersi sulla manica larga su cui si stava formando una grande macchia rosso vivo. Sbatté un paio di volte le palpebre. Non sentiva male e neanche bruciare, era più come se stesse osservando la mano di un'altra persona.
Ritirò il braccio e si allontanò dal bagno, lasciando che alcune piccole gocce di sangue cadessero sul parquet del suo corridoio. Prese in mano il telefono, macchiando anche quello, e lesse il messaggio di testo che le era appena arrivato.

Tuo zio non te lo dirà mai, ma sei stata molto più utile di quanto pensi. Saremmo ancora in alto mare senza di te.

 

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Capitolo 16
*** Capitolo sedici ***


Capitolo sedici


{23.04.2006, Whitechapel, Londra}

Randall Thompson non amava finire tardi di lavorare. A lui piaceva tornare a casa verso le 18.30, godersi una cenetta semplice alle sette in punto assieme alla sua famiglia e sedersi poi sul divano a guardare qualche programma della BBC, magari con una tazza di the e un cioccolatino. Gli piaceva quando i suoi figli andavano a dormire e augurava loro la buonanotte, sempre con una carezza e un bacio, e quindi Millicent gli si accoccolava al fianco. A volte si trovavano a fare l'amore su quello stesso divano, un rapporto silenzioso e tranquillo che raccontava di tutti gli anni passati assieme. Più spesso, ormai, rimanevano semplicemente appoggiati l'uno all'altra a fissare lo schermo, con Millicent che si addormentava pacificamente tra le sue braccia e Randall che non si muoveva per non darle fastidio. Erano una coppia normale, non più innamorata e appassionata come i primi anni, ma comunque legata da un affetto profondo che aveva permesso ad entrambi di non perdere interesse l'uno nell'altra.

Capitava, però, a volte che Randall venisse trattenuto a lavoro più del dovuto. Allora osservava il cielo farsi sempre più nero ad ogni quarto d'ora che passava e le stelle accendersi come tante piccole lampadine sul soffitto scuro. Chiamava sempre casa e avvisava di non aspettarlo per cena, poi osservava impaziente l'orologio per sapere quando sarebbe potuto tornare dalla sua famiglia. Li immaginava seduti attorno al tavolo a mangiare e raccontarsi le loro giornate, poi sul divano a scegliersi un film strappalacrime che Tim faceva finta di odiare ma che in realtà lo appassionava più di quanto volesse ammettere.
In quelle occasioni tornava a casa quando ormai erano tutti già a dormire. Scivolava allora silenzioso nelle camere di Laura e Tim, rimboccava loro le coperte e li lasciava con un bacio sulla testa. Andava poi in camera sua, si metteva il pigiama e si infilava nel letto al fianco di Millicent. La donna gli rivolgeva qualche parola assonnata, a cui lui rispondeva con dolcezza prima di chiudere gli occhi e accomodarsi dal suo lato del letto.

Quella sera, però, aveva paura che non sarebbe riuscito a compiere le sue azioni abituali. Quando era uscito dal lavoro erano ormai già le nove di sera. Si era dovuto accontentare di cenare con un cartoccio di ramen consegnati dal cinese all'angolo e dell'acqua frizzante presa alla macchinetta. Appena mise piede fuori dall'imponente edificio, respirò a pieni polmoni l'aria di Londra. Puzzava di fumo, era piena di smog e si depositava pesante nei suoi polmoni, ma per lui in quel momento sapeva di libertà ed era più dolce di qualsiasi altra cosa.
Vedeva le auto sfrecciare, libere dal traffico che durante il giorno intasava tutte le strade, soprattutto in centro. Randall possedeva un'auto, ma soprattutto nelle ultime settimane aveva deciso di utilizzarla il meno possibile. In parte sapeva che sarebbe stato più rintracciabile, la targa era in bella vista e non poteva coprirla per allontanarsi indisturbato. Preferiva quindi utilizzare i mezzi pubblici, dove poteva confondersi tra la gente e passare inosservato anche agli occhi più attenti. Aveva scoperto, poi, che andare e tornare a piedi non gli dispiaceva, quindi aveva spesso scelto quell'opzione.

Anche quel giorno aveva deciso di andare a piedi, tanto che aveva dimenticato di portare la Oyster Card con sé. Non aveva voglia di prendere un taxi per tornare e spendere almeno venti sterline per un viaggio di un quarto d'ora, quindi si era fatto coraggio e aveva stretto la sua ventiquattrore nella mano sinistra. Il lavoro stava andando sempre peggio da quando aveva ricevuto quel dannatissimo fascicolo top secret e ci aveva sbirciato dentro. Si sentiva un idiota ad averlo fatto, ad aver ceduto alla curiosità, ma alla fine era un uomo con tutte le debolezze del caso. Non era stato licenziato, per carità, e tutti i suoi colleghi non sapevano ciò che era successo. Ma sapeva che il suo capo lo aveva capito. Glielo aveva letto negli occhi, quegli occhi di ghiaccio che sembravano schernirlo quelle rare volte che lo incontrava. Randy si sentiva rimpicciolire davanti a lui, che lo osservava sempre dalla sua imponente altezza. Ma anche lui non gli aveva rivolto la parola, non aveva accennato a quel piccolo segreto, e Randall sperò in cuor suo che non sarebbe mai più tornato a galla. Che avrebbe potuto dimenticarsene, così come il suo capo, e che tutto sarebbe tornato alla normalità.
Sospirò alla luce arancione dei lampioni, facendo dondolare avanti e indietro la borsa. Sapeva in cuor suo che non sarebbe successo. Il suo capo non dimenticava mai, niente. Nelle sue parole capitava che facesse comprendere che non aveva scordato avvenimenti successi anni prima, anche piccoli e di poco conto come una dimenticanza o una parola sbagliata. Non era stato licenziato, però, continuava a ripetersi. Lavorava ancora lì, non aveva perso il lavoro, e aveva paura che fosse tutto parte di un terribile gioco sadico del suo capo. Forse voleva giocare al gatto col topo, tormentarlo fin quando sarebbe scoppiato e avesse ammesso le sue colpe. Allora sì che avrebbe potuto lasciarlo a casa, ostracizzarlo, addirittura costringerlo a cambiare paese per non incorrere in conseguenze fin troppo spiacevoli.

Per tornare a casa dal lavoro, Randall doveva passare dal quartiere di Whitechapel e ogni volta si guardava attorno affascinato. Pensava al periodo vittoriano, al famigerato Jack lo Squartatore e si immaginava dove fossero state trovate le vittime. Ogni ombra era il fantasma dell'assassino più famoso della storia, l'unico di cui ancora in epoca moderna non si sapeva realmente il nome. Faceva, nella sua mente, un miliardo di ipotesi che scartava veloci come l'involucro di un cioccolatino. Troppo esplicito, troppo semplice, non avrebbe avuto alcun motivo. Forse solo Sherlock Holmes avrebbe potuto scoprire la sua reale identità, se fosse vissuto all'epoca e se avesse trovato il caso abbastanza interessante.
Strinse più forte la maniglia della borsa. Quell'arrogante stronzo, quel narcisista a cui tutto sembrava dovuto. Aveva letto la sua vita in una frazione di secondo e non si era degnato neanche di dargli una mano. Lo avrebbe pagato, ovviamente, e profumatamente anche, ma lui si era rifiutato di accettare il suo caso. Lui che era l'unico che avrebbe potuto fare qualcosa...
Drizzò la schiena e irrigidì i muscoli quando sentì un rumore dietro di sé. Era passato in una via laterale, buia e senza un'anima che la percorresse. Tagliava sempre per di lì, ma non avrebbe mai immaginato di essere in compagnia. Era vero, erano giorni che si sentiva seguito, che percepiva degli occhi puntati sempre su di sé, ma erano lontani. Chiuse gli occhi e sospirò, fermandosi.

"Chi... Chi è? Perché mi sta seguendo?" chiese con voce tremante, cercando di sembrare il più sicuro possibile. Gli rispose una leggera risata sarcastica.

"Un amico. O il tuo peggiore incubo, a te la scelta." la voce che gli arrivò alle orecchie era dolce, in netto contrasto con le sensazioni gelide che gli faceva provare.
Randall allora si girò per fronteggiarlo e fece un paio di passi avanti, così da poterlo vedere alla luce del lampione.
"Uh-uh." lo fermò immediatamente l'altra persona, facendo in modo di rimanere in ombra. "Se vuoi che sia gentile con te, devi stare alle mie regole, Aldy caro."

Randall percepì un ghigno nella voce dell'altro, come se si stesse divertendo a fare quel gioco, a sentirsi in completo potere sulla vita di un uomo qualunque. Thompson allora si passò un dito sotto il colletto della camicia e mandò giù il groppo di paura e tensione che aveva in gola. Aveva iniziato a sudare, nonostante la temperatura fosse ancora abbastanza fresca da costringere chi si avventurava fuori ad indossare un cappotto leggero.

"Io non la conosco, ma a quanto pare lei conosce me." ignorò la piccola risata, notando dal profilo scarsamente illuminato che aveva messo le mani in tasca. "Che cosa vuole da me? Soldi? Le darò tutto quello che ho, ma la prego, non mi faccia del male. Ho moglie e figli che mi aspettano a casa."

"Oh, non essere così ovvio e banale, Aldy. Se volessi i tuoi soldi, potrei averli senza disturbarmi tanto. Io voglio un'altra cosa da te. E la tua amata Millicent e i piccoli e adorabili Laura e Tim non subiranno alcun danno."

Randall si passò la mano libera sul viso, cercando di pensare a cosa si stesse riferendo quell'uomo. Poi un pensiero gli attraversò la testa. Lui come... non era possibile, insomma... Lo sentì ridere.

"Voi gente normale siete così... ordinari. Basta un niente per arrivare a scoprire tutti i segreti di un uomo. E la tua famiglia non è certo ben nascosta."

"Loro non c'entrano niente!" tuonò allora Randall, lasciando cadere la borsa e stringendo le mani in due pugni. Sarebbe stato in grado di ucciderlo a botte, si trovò a pensare. Sentiva la rabbia ribollire nel petto e nello stomaco e si trattenne dallo scagliarsi contro di lui. Eppure lui sembrava trovarlo così divertente che si chiese se non avesse l'aria di un gattino arruffato.

"Basta giocare, Randall. Quel documento. So che lo hai letto e che in molti ti vogliono morto per questo." recitò freddamente, facendo scendere un brivido lungo la schiena al suo interlocutore. "Io ho potuto darci solo un'occhiata e, oh caro mio... È così dannatamente interessante. Chiunque ne conosca il contenuto ha l'Inghilterra in mano, non è così? Avanti, siamo tra amici, puoi dirlo." lo canzonò, di sicuro con un ghigno sulle labbra che però Randall non poteva vedere. "Non è così?!" ripeté con più enfasi, quasi con rabbia, come se fosse infastidito dalla mancata risposta.

Randall annuì piano.

"Sì, è vero. Ma non ho mai pensato di renderlo pubblico, di divulgare la notizia, io..." cominciò a giustificarsi, ma venne prontamente interrotto.

"No, no, no, NO! Non mi interessano le tue scuse! Voglio sapere dov'è quel documento. Chi lo ha in mano. Perché te lo sei lasciato scappare!" ringhiò e Randall poté percepire tutta la sua frustrazione.

Avrebbe voluto dire che anche lui se lo era lasciato rubare dalle mani, ma non lo fece. Non sapeva se per liberarsi più in fretta di quella scocciatura o per paura che potesse succedergli qualcosa, ma riformulò i suoi pensieri.

"Io dovevo solo consegnarlo alla villa di Elizabeth I Gardens. Non sapevo chi dovesse prenderlo né per quale motivo." ammise, ricordando quella giornata.

Sarebbe rimasto affascinato dalla bellezza di quel posto se solo non avesse avuto il cuore pesante e la vista offuscata per quel lavoro. Un giardino enorme e ben curato, pieno di rose di tutti i colori, circondava una grande villa in stile vittoriano disabitata ma tenuta con gran cura. Probabilmente chi se ne occupava conosceva i padroni precedenti e vi era molto affezionato, tanto da tenerla sempre viva e pulita. Era poi tornato indietro, attraversando tutto il quartiere di St. James's, passeggiando per Pall Mall e Green Park.

"E se il destinatario non era lei, non vedo perché debba prendersela così tanto." azzardò poi ad aggiungere, mordendosi la lingua subito dopo. L'altro rise.

"Perché, perché... Voi non sapete far altro che chiedere perché. Ho un conto in sospeso con un vecchio amico." Randall fece un passo indietro quando lo vide avanzare verso di lui. "Vedi, Aldy, adesso mi hai messo in una situazione molto difficile. Io non volevo farti del male, dico davvero. Volevo solo quelle informazioni. Certo, non sarebbero arrivate alla loro reale destinazione, ma che importa. Ma tu le hai lette, capisci? E questo è un problema. Una persona come te non sa tenere la bocca chiusa. Non vorrei che anche tu facessi la fine del povero, povero professor Lacrosse."

Randall sbarrò gli occhi. Aveva sentito della morte del professore di Oxford, di come era stato trovato impiccato nel suo ufficio. Osservò l'uomo davanti a sé mentre il dubbio, la paura di trovarsi davanti al suo assassino si fece strada in lui.

"Oh, no, non sono stato io. Il mio sarebbe stato un lavoro molto più pulito, ma direi che non è stato male per un principiante." si strinse nelle spalle. "Il problema, Aldy, è che non mi posso fidare di te. Certo, potresti portarmi al mio obiettivo, ma..." si avvicinò ancora, così che fosse completamente sotto la luce del lampione. Sorrise, un sorriso che sembrava innocente. "Ormai mi hai visto in faccia." concluse.

Si voltò quindi, schioccando le dita prima di allontanarsi. Un piccolo cerchio di laser si disegnò sulla fronte di Randall, perfettamente in mezzo alle sopracciglia. L'ultima cosa che vide, fu la figura dell'uomo allontanarsi, i suoi capelli neri che riflettevano la luce dei lampioni e il suo completo elegante che si confondeva col buio della notte.


{24.04.2006, St. Bart's Hospital, Londra}

Sherlock Holmes odiava stare in ospedale. Ogni giorno che passava costretto a letto era una tortura, era come se il suo cervello soffrisse fisicamente e il suo corpo diventava sempre più irrequieto. Quando Mary gli aveva sparato aveva evitato gli organi vitali, ma allo stesso tempo gli aveva causato una convalescenza così lunga da fargli credere di diventare pazzo. Inoltre, tutti lo trattavano con i guanti di velluto, avevano paura di fargli male. John era il più attento di tutti, evitava di farlo mettere in qualsiasi posizione che potesse rivelarsi anche solo minimamente scomoda e, quando era in stanza con lui, controllava in modo ossessivo i suoi valori. Sherlock lo aveva guardato e aveva capito che non lo faceva solo per la preoccupazione nei suoi confronti. Certo, di quella ce n'era in quantità fin troppo elevata, ma soprattutto cercava di distrarsi, di pensare ad altro. Cercava di allontanarsi dal periodo difficile con Mary e di non pensare troppo a Charlotte, di rimanere a Londra con la mente e non viaggiare a Oxford per stringere ancora una volta tra le braccia la ragazza. Aveva visto la sua reazione quando erano al telefono tutti e tre assieme, quando lei aveva avuto un momento di amnesia. Se solo avesse potuto, sarebbe volato immediatamente da lei, glielo aveva letto negli occhi. Avrebbe abbandonato qualsiasi cosa, moglie, lavoro, amici, se solo lei glielo avesse chiesto.

Anche Mary, nonostante tutto, si muoveva quasi in punta di piedi attorno a lui. Che fosse perché si sentiva in colpa, perché aveva paura che avrebbe detto tutto a John o per semplice dispiacere umano, ancora non lo aveva capito. Non era venuta spesso da sola, di solito era col marito, e i pensieri di John erano molto più rumorosi ed evidenti di quelli di Mary.
Le telefonate e i messaggi che riceveva da Charlotte riguardo il caso erano una ventata d'aria fresca. Anche lei spesso cadeva nei soliti "stai bene? Sicuro? Sai che mi preoccupo, non mentirmi", ma in generale sapeva quando trattenersi e dargli solo le informazioni importanti. Non era certo tranquillo nel saperla sola ad occuparsi di tutto quello. Non avrebbe neanche voluto farla andare sulla scena del crimine, ma non poteva fidarsi dei poliziotti e lei era l'unica in grado di vedere ciò che era davvero interessante. Nessuno di loro lo avrebbe detto a Mycroft, ma in fondo sapevano tutti che lui lo avrebbe capito immediatamente. Per lo meno si sarebbero consolati nella consapevolezza di non essere stati loro ad aprire bocca, a tradirsi a vicenda. Un po' come quando lei era piccola e lui la aiutava a disobbedire ad alcune regole, come mangiare un biscotto prima di cena o andare a dormire più tardi del coprifuoco. O quella volta che a quindici anni l'aveva trovata in un pub in una zona molto brutta e l'aveva riaccompagnata a casa in silenzio, senza dire niente poi al fratello.

Quando sentì la porta della stanza aprirsi, non riuscì a capire subito chi fosse entrato. Non riusciva a vedere l'uscio dalla sua posizione e, a dirla tutta, questo lo faceva uscire di testa. Non era John, di questo era sicuro. Lui si annunciava sempre e ormai riconosceva il rumore dei suoi passi. Poteva essere un medico o un infermiere, qualcuno che non aveva ancora avuto occasione di conoscere abbastanza a fondo. Ma sentiva che era un passo troppo leggero, troppo elegante. E aveva chiuso la porta a chiave. Che motivo avrebbe avuto un operatore sanitario di farlo?
Sollevò un angolo della bocca quando comprese. Già, non poteva essere nessun altro che lui. Girò la testa nella sua direzione.

"Buongiorno, Magnussen." lo salutò con tranquillità.

L'ospite si esibì in un piccolo sorrisetto e spostò una sedia vicino al letto. Ci si accomodò sopra e accavallò le lunghe gambe, guardando Sherlock attraverso le lenti ovali dei suoi occhiali.

"Ti vedo bene, Sherlock. È una fortuna che la nostra Mary non ti abbia fatto troppo male." commentò, allungando una mano per passare il dito sul bordo del bicchiere d'acqua lasciato sul comodino.

Sherlock seguì il suo movimento con lo sguardo, reprimendo un moto di disgusto.

"Sei venuto a trovarmi di nuovo. Devo cominciare a pensare che ci siano altri motivi nascosti?" chiese, facendo però fatica a ricordarsi della volta precedente.

Era ancora sotto effetto della morfina, in stato confusionale, e non rammentava molto. Gli tornava alla mente solo la sua fredda e umida mano che teneva la propria, il suo alito acre che gli solleticava il naso mentre gli diceva perché non aveva denunciato Mary. Ricordava che una parte di sé si era sentita vulnerabile, non avrebbe avuto la forza di ribellarsi se lui avesse provato a fare qualcosa. Qualsiasi cosa. Ricordava di aver pensato che Mycroft aveva fatto bene a tenerlo il più lontano possibile dalla sua famiglia, da lei, e gli veniva il voltastomaco a pensare a come avrebbe potuto toccarla.
Magnussen rise piano e prese in mano il bicchiere.

"Niente di nascosto. Credo di aver reso abbastanza noto il mio interesse." sogghignò e incontrò il suo sguardo. Senza distoglierlo si avvicinò il bicchiere alle labbra e passò la lingua su tutto il bordo. "Molto, molto interessante." mormorò, come se stesse parlando con se stesso. Sherlock aggrottò le sopracciglia.

"Che cosa è interessante?" replicò, annotandosi mentalmente di dire alla prima persona che sarebbe entrata di cambiargli il bicchiere.

"La tua lealtà verso la donna che ti ha sparato. Non lo hai detto a nessuno. Certo, la tua dolce nipotina lo sa ma lo ha capito da sola, quindi non conta, giusto?" sogghignò, godendo dell'espressione allarmata che attraversò gli occhi di Sherlock per un istante. Poggiò nuovamente il bicchiere sul tavolino, proprio di fianco alla lampada e al cellulare, a cui diede una veloce occhiata. "Oh, Sherlock, stai diventando così sentimentale... Non è stato così semplice scegliere il tuo punto debole, sai? Ne hai così tanti..."

Sherlock si mosse appena, pronto ad intervenire, ma Magnussen lo bloccò subito col gesto di una mano. Sentiva nelle orecchie il fischio dei macchinari che lo tenevano costantemente monitorato e odiava essere così esposto.

"Insomma, avrei potuto parlare del tuo piccolo... problemino." si toccò il naso in un movimento quasi casuale, che mutò in un gesto per sistemarsi gli occhiali. "Oppure avrei potuto giocare con Moriarty. O meglio ancora..." avvicinò di più la sedia al letto e si sporse verso di lui, le punte dei loro nasi si sfioravano quasi e il suo alito si faceva strada nelle sue narici facendo pensare a Sherlock che, se la morte dovesse avere un odore, sarebbe quello. "Avrei potuto usare la piccola Charlotte come una bambolina. Oh, l'avrei fatta ballare muovendo un solo filo, sarebbe stata mia. Solo a pensarci è un piacere quasi... carnale." concluse, sempre con il suo solito sorrisetto.

"Non la toccare." commentò gelido Sherlock, uno dei rari casi in cui non riusciva a mantenere il controllo. Magnussen si mide nuovamente dritto con la schiena.

"Ma in questo modo ho tutti. Mary, John, tu e infine Mycroft. E l'adorabile Charlotte è un'aggiunta dal sapore così dolce... Rose, direi, e miele. Soave proprio come lei." scostò un lembo della giacca e appoggiò sul comodino un fascicolo. "Un regalo di pronta guarigione."

"Non le hai fatto niente, vero?" proruppe Sherlock, quasi senza farlo finire di parlare.

Magnussen fece un sorriso sarcastico che durò solo una frazione di secondo.

"No. Perché, pensi che dovrei?" gli rispose, ma non aspettò una sua replica. Si voltò e si avvicinò alla porta per andarsene. Si fermò prima, quando ancora era nel campo visivo di Sherlock. "Povero Randall Thompson. È morto ieri notte, sai? Ucciso. Una pallottola in fronte, proprio qui." si voltò e appoggiò un dito tra le sopracciglia. "Se solo ci fosse stato qualcuno a proteggerlo. Un vero peccato... era davvero un bravo asinello."

Sherlock aggrottò le sopracciglia, cercando nella sua memoria qualcosa che gli ricordasse quel nome. Quando riuscì a ricollegarlo a un volto, a quell'uomo che era andato da lui a chiedergli protezione, sollevò entrambe le sopracciglia e aprì la bocca per dire qualcosa. Ma Magnussen se ne era già andato, silenzioso come un gatto. Girò la testa e vide la copertina gialla del fascicolo che gli aveva lasciato, la scritta 'TOP SECRET' in inchiostro nero che spiccava. Accennò un piccolo sorriso.

 

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Capitolo 17
*** Capitolo diciassette ***


Capitolo diciassette


Scoprire la seconda vita di Mary era stato un duro colpo per John. L'aveva vista colpire quella monetina, l'aveva sentita raccontare la sua storia e più la guardava, più vedeva un'estranea al suo posto. Non era più la donna di cui si era innamorato, quella che aveva sposato e con cui sperava di costruire una famiglia. No, era qualcuno che non conosceva, che viveva di menzogne e bugie. Qualcuno di cui non si poteva fidare.
Non era solito arrabbiarsi, le poche volte che lo faceva erano poco più che leggere alterazioni che esplodevano e finivano nel giro di pochissimo tempo. Ma quella volta si era sentito ferito nel più profondo dell'anima, era stato preso in giro dalla persona che avrebbe dovuto amarlo ed essere sempre sincera con lui. Era un dolore sordo, che lo faceva sentire un completo idiota e solo al mondo allo stesso tempo. Non gli ribolliva il sangue nelle vene come quando aveva davanti agli occhi un assassino, ma aveva le viscere che gli tremavano e il cervello che non smetteva di riproporgli, come un film, le immagini e le parole di Mary.
Si sentiva tradito e trovava particolarmente ironico quel pensiero. Era stato lui a tradire sua moglie, a baciare un'altra persona e continuare a volerlo fare. Se solo lo avesse detto, probabilmente avrebbero avuto più possibilità di riconciliarsi, di trovarsi a metà strada essendo entrambi colpevoli di aver taciuto parte delle loro vite. Eppure, più ci pensava, più John si convinceva che non era la stessa cosa. Quello che aveva fatto lui non aveva importanza. Erano entrambi ubriachi, non era successo niente di irreparabile. Mentre Mary aveva ucciso delle persone, gli aveva taciuto il suo vero nome, aveva fatto finta di essere un'altra persona. John si era reso conto di essere sposato con un fantasma, con qualcuno che non conosceva affatto. L'aveva guardata mentre raccontava la sua storia e non aveva visto altro che una cliente, una come tante che si erano sedute lì davanti a loro ed esponeva i suoi problemi.
Le parole di Sherlock erano state poi l'ultimo colpo di cui aveva bisogno. 'L'hai scelta', era come se stesse dando la colpa a lui. È colpa tua, John, se tua moglie è un'assassina. È colpa tua se ti ha mentito, se non è una persona normale, se ti ritrovi in questa situazione. Ci aveva sperato, John, che almeno Mary non nascondesse niente, che fosse una donna come tante, dal carattere forte ma senza segreti così grandi. Aprì e chiuse le mani più volte, come faceva sempre quando era nervoso e arrabbiato. Odiava essere in quella situazione, sentirsi preso in giro da tutti come se fosse lo zimbello del paese. Lo trattavano tutti come un idiota, come qualcuno che non era in grado di comprendere ed era stanco. Era stanco di sentirsi così, di vedere le persone vicino a lui sempre avanti di un passo mentre lui arrancava dietro.

Si passò le mani sul viso e si guardò intorno. La sua vecchia stanza al 221B, il luogo in cui si era rifugiato e da cui non aveva intenzione di uscire per un lungo periodo. Non avrebbe tollerato di vivere ancora sotto lo stesso tetto di Mary, non per un po' di tempo almeno. Doveva assimilare la notizia, farla sedimentare e permetterle di diventare un terreno su cui costruire una nuova storia. Ma per farlo doveva starle lontano, non vederla, così da far cicatrizzare la ferita. Tornare a Baker Street era la soluzione più semplice e più logica in quel momento. La sua stanza era vuota e la signora Hudson lo aveva accolto nuovamente a braccia aperte. Non gli andava molto a genio dover dividere nuovamente l'appartamento con Sherlock, ma dopotutto era solo grazie a lui che era venuto a conoscenza di quel segreto. Era stato lui a far sì che Mary confessasse, che anche John non rimanesse indietro. E poi, con questo voleva giustificarsi, poteva controllare meglio il decorso della sua riabilitazione. Poteva tenerlo d'occhio, assicurarsi che non facesse sforzi inutili che potevano riaprire la ferita e che mangiasse per potersi riabilitare il prima possibile.

Si sedette sul letto, tenendosi la testa tra le mani. Un dubbio atroce lo attanagliava, gli stringeva il cervello in una morsa. Quante persone gli avevano mentito in quel periodo? Mary e Sherlock di sicuro, ma era possibile che anche Charlotte sapesse e non gli avesse detto nulla? Proprio lei, di cui John si era fidato immediatamente e a cui si era affezionato talmente tanto da essere una delle pochissime persone con cui si confidava realmente? Prese il cellulare con la mano sinistra che tremava leggermente e rimase a fissarlo per qualche istante.
Voleva saperlo davvero? Voleva distruggere anche quell'ultimo rapporto, il più semplice e concreto che aveva avuto da anni a quella parte? Una parte di sé lottava per rimettere il telefono in tasca e ignorare quella spina nel cuore. Non ne aveva bisogno. Probabilmente lo sapeva, non credeva ci fossero segreti tra lei e suo zio, ma sentirselo dire avrebbe fatto ancora più male perché sarebbe stata la conferma che lui era più solo di quanto potesse sembrare. Che anche l'unica persona che era convinto gli sarebbe stata sempre fedele e sincera, gli aveva tenuto nascosto qualcosa di estremamente importante.
Accese il telefono ed entrò nei messaggi. Non voleva vivere col dubbio, continuare a non sapere se quello che aveva vissuto con lei fosse reale o no. Avrebbe accettato qualsiasi cosa e, in cuor suo, sapeva che non sarebbe riuscito ad arrabbiarsi con lei. C'era qualcosa che gli impediva di farlo. Quando pensava a lei, a quei bellissimi occhi tristi e quel sorriso mesto e quasi spaventato, sapeva che avrebbe potuto perdonarle tutto solamente stringendola tra le braccia. Sospirò e le inviò un SMS: Sapevi tutto anche tu?

Passò meno di un minuto e vide il display illuminarsi per avvertirlo di una chiamata in arrivo. Il nome 'Char' troneggiava fisso sotto l'icona lampeggiante di una cornetta circondata da virgoline nere. Accennò un piccolo sorriso che non riuscì a trattenere e rispose.

"Allora, sapevi tutto?" ripeté, senza neanche salutarla. La immaginò pensare a tutto quello che poteva sapere, forse anche alla risoluzione del caso, ma nonostante fosse una Holmes lei non riusciva a capire tutto da una sola parola.

"Riguardo cosa?" chiese allora. La sua voce arrivò più debole del previsto alle orecchie di John, come se fosse stanca e stesse parlando a bassa voce.

"Riguardo Mary. E il suo lavoro." replicò, il tono più freddo di quanto volesse.

"Ah." disse semplicemente lei. A John sembrò cadere il mondo addosso. Quel tono voleva dire che allora era vero, era l'unico ad essere rimasto all'oscuro di tutto, e lo mandava in bestia. "So che aveva sparato allo zio, ma nient'altro." continuò, come se volesse mettere una pezza a quanto appena successo. Ma non era una scusa, John aveva capito che diceva la verità.

"Beh, è saltato fuori che è un'assassina e mi ha mentito per tutto questo tempo!" commentò con troppa veemenza, pentendosene immediatamente. "Scusa, scricciolo, non ce l'ho con te." rimediò subito, passandosi una mano sul volto e abbassando la voce. "Perché non mi hai detto quello che sapevi?"

"Perché lo avevo promesso allo zio." rispose. "E comunque non me lo aveva detto. Lo avevo capito." continuò e, a sentire quelle parole, John si portò la mano destra sulla spalla sinistra. Era una cosa che faceva spesso quando era nervoso dopo essere tornato dalla guerra, stringeva la spalla e la massaggiava appena come se stesse cercando di alleviare un dolore che in realtà non c'era.

"Non è colpa tua, Char. Non preoccuparti." sospirò e accennò un sorriso. Aveva sentito il tono della sua voce, così distante e quasi impastato, come se avesse fatto un'anestesia alla bocca che faticava ad andarsene. Aveva paura avrebbe avuto un'altra crisi come quella volta col pianoforte e sperava di aiutarla ad evitarla in quel modo.

"Mi dispiace, John." riprese lei, quasi ignorando le sue parole. "Avrei dovuto dirtelo subito, dovevi saperlo." sospirò e John percepì chiaramente che stava lottando con sé stessa per rimanere lucida. "Come ti senti?"

John accennò una piccola risata triste. Come si sentiva? Una merda, se voleva essere sincero. Avrebbe di gran lunga preferito combattere a mani nude un energumeno alto due metri e largo come un armadio a due ante piuttosto che vivere quella situazione. Ma allo stesso tempo non riusciva a non provare tenerezza per quella ragazza che sentiva stava soffrendo - ma perché stava soffrendo, cosa aveva? - ma il cui primo pensiero era chiedere a lui come stesse.

"Male, non posso mentirti. Mi sento tradito, preso in giro, trattato come un giocattolo. Mi sembra di essere l'ultimo idiota che arriva alla soluzione palese, il cretino da prendere in giro tutti assieme." le riversò tutte queste parole addosso, senza riuscire a fermarsi, senza pensare a quanto avrebbero potuto farle male. Si alzò e si avvicinò alla finestra, appoggiandosi al davanzale. "Tu sei sicura di stare bene? Hai una voce che non mi piace." corresse il tiro, tornando ad utilizzare il tono dolce e calmo che riservava solo alle persone che amava.

"Sì, tesoro, non--" si interruppe e John serrò la mascella. "Hai sentito?" sussurrò, il tono completamente diverso da prima.

Se fino a quel momento John l'aveva sentita distante, dissociata, come se faticasse a parlare, in quel momento era completamente l'opposto. Aveva una nota eccitata nella voce, un'infiammazione dello spirito dettata da quella che era sicuramente paura di qualcosa. Ma cos'era, cosa aveva sentito?

"No, Char, ho sentito solo la tua voce." le rispose, cercando di rimanere il più calmo possibile. Alle sue orecchie arrivava solo il respiro pesante e tremulo della ragazza, riusciva a sentire un piccolo fischio che gli preannunciava che stava andando nel panico.

"È entrato qualcuno. C'è qualcuno in casa mia!" quasi urlò, ma si trattenne dalla paura che potesse sentirla. John fece un paio di passi in circolo nella stanza, passandosi una mano sulla testa e allargando le dita. Sospirò.

"Ok, ok, ascolta. Tu chiuditi in camera e non fare rumore. Aspetta un secondo che--"

"Non chiudere la chiamata!" lo implorò.

"Non lo farò, fidati di me, ok? Devo solo mandare un messaggio." la avvertì, spostando il telefono dal suo orecchio.

Senza mettere giù, aprì la cartella degli SMS e scrisse un messaggio a Mycroft. 'Non mi chiami. Controlli le telecamere in casa di Charlotte: c'è qualcuno, oltre a lei?' Dopo averlo inviato, riportò la cornetta all'orecchio.

"Eccomi, non avere paura. Sei nascosta in camera?" le chiese, stringendo il telefono tra le dita.

Non aveva sentito nulla, lui, ma se fosse entrato davvero qualcuno? Se fosse stato pericoloso, magari proprio l'assassino che cercavano? Avrebbe potuto assistere ad un omicidio in diretta e sapere che sarebbe stata proprio Charlotte la vittima gli faceva stringere lo stomaco dall'ansia. Saperla lì, da sola e impaurita, non lo faceva stare tranquillo e se solo Mycroft gli avesse risposto...

"Sì, sono qui." sussurrò. "Sono a terra, vicino al letto. John, tu non pensi che... Che sia... Insomma..."

"No, Char, non preoccuparti. Non sarà niente, probabilmente è solo un gatto che ha fatto rumore fuori." cercò di tranquillizzarla.

Spostò il telefono non appena lo sentì vibrare, avvisandolo di un nuovo messaggio. 'No, dottor Watson, nessuno. Cerchi di calmarla. - MH'
John sospirò sollevato a quella constatazione, non rinunciando a vedere una punta di stizza in quelle parole gelide.

"Char? Ascolta, non c'è nessuno da te. Ho chiesto a tuo padre di controllare dalle telecamere. Puoi uscire senza paura." le comunicò.

"Io... D-dici davvero?" chiese incerta. John le confermò quello che aveva detto, assicurandole che era completamente da sola e non doveva temere niente. La sentì allora sospirare e alzarsi in piedi. "Scusami, io... Ho dormito poco in questi giorni. Probabilmente me lo sono sognato." ridacchiò nervosamente. "Che stupida, non è vero?"

"No, affatto." le rispose, continuando però a pensare a tutte le motivazioni per cui lei si comportasse in quel modo. Era sicuro non si trattasse di finzione, non cercava di impietosirlo. Lo sapeva in parte perché sentiva dalla sua voce che non riusciva a controllarlo e in parte perché la preoccupazione che aveva visto negli occhi di Sherlock, quella volta in ospedale, era reale.

Chiusero la chiamata dopo qualche minuto, il tempo necessario a John per assicurarsi che stesse bene e fosse tranquilla. Guardò per qualche istante lo schermo spento, quasi si aspettasse che riprendesse vita da un momento all'altro. Scosse poi appena la testa e lo infilò nella tasca dei pantaloni. Si massaggiò appena la spalla sinistra mentre scendeva le scale ed entrava in cucina. Prese il bollitore e lo riempì di abbastanza acqua per due persone, pensando che Sherlock avrebbe apprezzato una tazza di the. Sospirò mentre lo posizionava sul fuoco e lo osservava, attendendo impaziente di vedere il sottile fumo bianco uscire dal bocchettone.

"Quanto era grave?" chiese Sherlock, scivolando veloce e silenzioso in cucina. Precedette John nella credenza, prendendo con facilità le tazze su ripiano più alto - che fosse un modo per farsi perdonare?

"Un po'. Meno dell'altra volta, si è tranquillizzata più in fretta." gli rispose, poggiando le mani sul bancone per nascondere il tremore della mano sinistra.

Sherlock gli diede una veloce occhiata. Lo aveva visto scendere con la mano sulla spalla, un atteggiamento che non gli vedeva dai primi tempi in cui vivevano assieme. Gli tremava la mano, continuava a muovere la testa di lato ed evitava il contatto visivo. Era rimasto scosso da quello che era successo, glielo si leggeva in volto, e di sicuro continuava a ripensarci.

"Sei stato... Bravo." gli diede una leggera pacca impacciata sulla spalla. Che fosse per l'imbarazzo dopo quello che era successo o solamente per la poca abitudine nelle dimostrazioni d'affetto, non poteva dirlo neanche lui. A quanto pareva, però, John aveva apprezzato il gesto, rilassando appena i muscoli e sollevando un angolo della bocca.

"Già... Ma se non dovesse andare bene la prossima volta? Se dovesse farsi del male e io non fossi abbastanza vicino per aiutarla?" chiese a bassa voce, più a sé stesso che al suo amico.

"Mycroft la tiene d'occhio, non le permetterebbe di arrivare a tanto." replicò, prendendo la tazza una volta che John ebbe versato l'acqua. Mosse un paio di volte il filtro, così da aiutare il the a sprigionare il suo profumo.

"Non ha controllato finché non gliel'ho detto io." serrò la mascella e strinse il pugno sul mobile, guardando l'acqua diventare man mano sempre più ambrata. "Ho bisogno di sapere, Sherlock." continuò, scandendo le parole con una voce bassa e minacciosa, calcando soprattutto il nome dell'amico.

"Sai già tutto." Sherlock strinse la tazza appena di più tra le dita. Sapeva cosa intendeva, ma fingere di non capire era la strategia migliore, pensava. Magari si sarebbe convinto e non avrebbe detto più niente.

"Non prendermi in giro." alzò la testa e lo guardò con un sorriso amaro sul volto. "Voglio sapere che cos'ha. Perché ha queste crisi. Perché è sempre così triste, perché è anoressica, perché ha cercato di uccidersi." si girò completamente verso di lui, sentendo nascere di nuovo quella rabbia che si era sopita solo parlando con lei. "Credo di meritarmi la verità, non pensi anche tu? Soprattutto dopo quello che Mary mi ha fatto. Che tu mi hai fatto."

Sherlock rimase in silenzio per qualche istante. Quelle parole lo avevano colpito più di quanto desse ad intendere e di quanto volesse ammettere. Era vero, nonostante fosse Mary la fautrice di quel destino, non poteva negare di sentirsi in colpa anche lui. Aveva dei dubbi da tempo, sapeva che nascondeva qualcosa e gli aveva sparato. Eppure lui non aveva detto niente, non aveva parlato con John e l'aveva aiutata, seppur inconsciamente, a mantenere il segreto con il suo migliore amico. Bevve un sorso di the.

"Hai ragione. Meriti la verità, e nessuno di noi te l'ha mai detta." guardò il the, facendolo muovere piano, mentre John alzava le sopracciglia dietro la sua tazza. "Tranne lei. Ma lei non sa quasi niente... Non ricorda praticamente nulla del suo ricovero." alzò lo sguardo sull'amico, incontrando il blu scuro dei suoi occhi. "Quando aveva tra i sedici e i diciassette anni. Pesava poco più di trenta kili, si era fatta del male e Mycroft non poteva tenerla in casa senza rischiare. Era diventata un pericolo soprattutto per sé stessa."

"E poi?" rincarò John, il tono ancora arrabbiato ma genuinamente curioso. "Anoressia e depressione, va bene, ma non è solo questo. Sono un medico, Sherlock, so riconoscere i sintomi. Quelle crisi... Sono di ben altro. E sono stanco, così stanco di essere l'ultimo a sapere le cose."

"Le hanno diagnosticato la schizofrenia." sbuffò una leggera risata. "Le hanno dato qualche psicofarmaco da prendere per qualche anno e poi basta. Ma è stata una diagnosi errata, basata sulla familiarità e solo alcuni dei sintomi. Quelli che aveva detto lei."

"Familiarità?" John aggrottò le sopracciglia, guardandolo senza capire. Sherlock annuì piano.

"Sua zia. Stava in una clinica psichiatrica, è morta quando Charlotte aveva circa cinque o sei anni. Si è impiccata nella sua stanza." appoggiò cauto la tazza nel lavandino, evitando di dirgli che lei l'aveva vista, che non aveva dormito per tre giorni e che non era più stata la stessa bambina per un po' di tempo. "Ma Charlotte ha dei sintomi diversi. Ai medici e a noi aveva parlato solo delle allucinazioni e dell'autolesionismo. Ho scoperto di queste amnesie circa l'estate scorsa, lei faceva finta di niente ma ho notato che qualcosa non andava."

"E quindi che cos'ha?" continuò, deciso a non far cadere l'argomento, ad ottenere tutte le risposte per una volta.

Sherlock sospirò ed esitò prima di rispondere. Non era semplice ammettere un fallimento, non per lui, anche se si trattava di dirlo al suo migliore amico. A quello che lo aveva visto nei suoi momenti peggiori, quando era talmente frustrato per un caso che non riusciva a risolvere da dare in escandescenze.

"Io... Non lo so." affermò infine, abbassando le spalle in segno di resa. "Ho provato a cercare la risposta nel mio palazzo mentale, ma non la trovo. Non si affama per ideali di bellezza, non si fa del male per farsi notare o per punirsi. È più come se le servisse per rendersi conto che è qui, che può sentire. Che è reale." lo guardò, cercando di trasmettergli che quello che stava dicendo era la verità.

Sapeva che John non si sarebbe fidato ciecamente delle sue parole, non dopo quello che era successo con Mary. Ma era sincero, quella volta. Certo, aveva un paio di idee in mente, ma non ne era sicuro e non si azzardava a fare diagnosi premature. John ricambiava lo sguardo, sempre torvo e con i muscoli di tutto il corpo tesi. Lo stava studiando per decidere se fidarsi oppure no. Sherlock mosse appena gli avambracci, allontanando così le mani dai fianchi, e John sospirò abbassando la testa. Annuì appena, tirando in fuori le labbra, come faceva sempre quando doveva ammettere qualcosa in contrasto con i suoi sentimenti. Sherlock si lasciò sfuggire un piccolo sorriso nel vedere quella nuova vittoria.

"Va bene. Va bene, ti credo. Ma solo perché so che non le faresti mai del male. Non di proposito, almeno." alzò nuovamente la testa e gli fece cenno di seguirlo in salotto, stanco di rimanere lì in cucina. "Hai... Fatto passi avanti nel caso?"

"I tre omicidi?" chiese per conferma, sedendosi sulla propria poltrona. John annuì, accomodandosi sulla sua. "No. L'assassino è stato molto bravo a nascondere le tracce. Non ci sono impronte e le prove sono pressoché inutili. L'unica cosa che può aiutare sono quei dannatissimi spartiti, ma le immagini spariscono dalla mia mente appena finisce la musica." fece una smorfia.

Trovava particolarmente frustrante quella situazione. Certo, ammirava sempre un assassino in grado di farlo impazzire in quel modo, con cui poter giocare al gatto col topo. Era molto furbo e molto intelligente, lo ammirava molto sotto quel punto di vista. Ma allo stesso tempo lo faceva andare fuori di testa, il cervello continuava a lavorare anche mentre dormiva e, ogni volta che pensava di poter toccare la soluzione, quella faceva un passo più lontano così da non permettergli di raggiungerla.

"Che legame hanno?" chiese John, forse più a sé stesso che a Sherlock, il quale lo guardò con le sopracciglia aggrottate. "Le vittime. Se sono state uccise dalla stessa persona, dovevano essere legate in qualche modo."

"Carolyn Thrumple era una banchiera. Aveva di sicuro molti nemici, non puoi arrivare così in alto nella scala sociale senza fartene. Thomas Lacrosse, professore di storia ad Oxford. Abbastanza amato dai suoi studenti, ma è probabile che abbia compiuto alcune azioni losche in passato." si alzò, camminando avanti e indietro. "Ma padre Valence? Era un prete benvoluto, nella sua nuova parrocchia era stato accolto a braccia aperte e in quella precedente è rimpianto da tutti. E in che modo possono essersi conosciuti? Hanno età diverse, quindi non è stata la scuola. Percorsi completamente differenti, probabilmente avevano sentito i loro nomi ma non mi sono mai incontrati. Che cosa mi manca, cosa mi sfugge?"

"L'agente Partridge non aveva suggerito un collegamento tra le famiglie?" azzardò John e Sherlock si fermò per guardarlo. "Magari si conoscevano i loro genitori e quindi si sono incontrati in questo modo. Lavoro, vita sociale, amici in comune..." si strinse nelle spalle.

Sherlock spalancò gli occhi e poggiò le mani giunte sulla bocca. Finalmente un tassello era andato al suo posto, il puzzle prendeva forma nella sua mente. Batté le mani una sola, unica volta e si avvicinò a John.

"Sei stato... Risolutivo!" gli batté le mani sulle spalle e si avviò poi a grandi passi verso la camera, lasciando un John confuso in salotto. Il medico si girò per un attimo a guardare l'amico sparire oltre il corridoio e ridacchiò, divertito dalla sua reazione.

 

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Capitolo 18
*** Capitolo diciotto ***


Capitolo diciotto


Tornare a vivere a Baker Street significava soprattutto lavorare 24 ore su 24. Andare in ambulatorio era ogni giorno più difficile perché era costretto a vedere e parlare con Mary, che lavorava lì come infermiera. Lei gli lanciava delle occhiate quasi imploranti, sembrava spesso sul punto di entrare nel suo studio e parlare di loro, del loro rapporto, ma bastava uno sguardo torvo da parte di John per farla desistere. John, dal canto suo, trovava difficile resistere a quegli occhi tristi, si costringeva a non alzarsi e andare a stringerla tra le braccia, sacrificando il suo amor proprio in nome della stabilità.
Ma in fondo John non voleva perdonarla così facilmente. Quello che Mary aveva fatto era terribile, gli aveva mentito sin da quando si erano conosciuti e ora gli sembrava di essere sposato con un'estranea. Se l'avesse perdonata in poco tempo, avrebbe iniziato ad insospettirsi. Avrebbe dovuto ammettere quello che era successo con Charlotte, dirle che quello che provava per la ragazza era così diverso, così nuovo, così... forte. Non voleva però dirglielo, farle vedere che anche lui era capace di mentirle e di mostrarle anche le sue debolezze. Aveva quindi deciso di lasciar perdere, di continuare a tenere su quella pantomima fino a quando lo avesse ritenuto opportuno.

La situazione in casa non era di certo più rilassante o rassicurante. Sherlock passava la maggior parte del tempo a cercare di sbrogliare la matassa del caso, di capire chi potesse essere la prossima vittima e cosa collegasse le tre precedenti. Una banchiera, un prete e un professore universitario. Figure più lontane non potevano esistere, eppure ci doveva essere sotto qualcosa di importante. Considerare le loro famiglie come punto di unione aveva portato Sherlock a cercare tutte le informazioni che Internet potesse dargli riguardo quelle persone. Trovò un paio di articoli su Lacrosse, una piccola indagine riguardo ad una presunta compravendita di voti andata nel dimenticatoio per mancanza di prove. Per il resto niente, silenzio stampa su tutti i fronti e John riusciva a vedere che Sherlock non sopportava quella situazione. Ammirava l'assassino, non c'erano dubbi, lo notava nel luccichio dei suoi occhi, ma non riuscire a fare passi avanti senza ricevere una spintarella lo mandava fuori di testa.
John aveva capito che in queste situazioni era meglio stargli a debita distanza. Bastava una parola o addirittura un respiro per essere investiti dal fiume di deduzioni nervose e poco gentili che sarebbero uscire dalla bocca di Sherlock, la maggior parte delle quali dette solo per frustrazione. Stava quindi sulla poltrona a leggere un giornale o un libro, oppure si sedeva al tavolo con il computer acceso per fare ricerche che riteneva utili e per aggiornare il suo blog e controllare commenti ed iscritti.
Passava anche molto più tempo al piano di sopra, in camera sua. Rimaneva semplicemente lì, sdraiato sul letto o seduto sul davanzale della finestra a guardare la strada sottostante. Osservava la gente che camminava sul marciapiedi, innamorati stretti gli uni agli altri, lavoratori che correvano per non tardare, turisti che cercavano il Madame Tussaud's o l'entrata a Regent's Park. Visti dall'alto sembravano senza pensieri, felici e soddisfatti delle loro vite, ma quali timori si nascondevano nelle loro menti? Quante bugie, quanti cuori spezzati? Sospirava, John, quando pensava a quelle cose. Non era da lui essere così cinico. Anche quando era tornato dalla guerra, rotto e senza uno scopo nella vita, continuava a nutrire fiducia nelle persone, nella loro bontà e sincerità. Ma in quegli ultimi giorni, non poteva fare a meno di pensare che non esistesse nessuno di puro, che tutti nascondessero qualcosa. Che il cuore di tutti fosse macchiato di un'oscurità forte e invincibile.

Spesso rimaneva a guardare fuori dalla finestra anche alla sera, prima di andare a dormire. Pareva quasi che stesse aspettando qualcuno, una persona che non voleva mai arrivare ma che lui attendeva con speranza. Guardava la strada e il cielo bui, illuminati dai lampioni e le luci di locali e case. Quando pioveva, le gocce d'acqua creavano dei riflessi luminosi dall'aria malinconica.
Pioveva quella sera. Non era un grande temporale, solo una leggera spruzzata d'acqua, la tipica pioggia inglese leggera e gelida. Il vetro era freddo e leggermente appannato e John si era alzato solo quando aveva cominciato a sentire le giunture irrigidirsi. Si era infilato a letto, sotto le coperte, che era da poco passata la mezzanotte. Non riusciva a dormire bene in quei giorni, gli incubi lo tormentavano per tutta la notte. Sognava di nuovo la guerra, quel terribile giorno in cui gli avevano sparato, e poi sognava Mary, la sua confessione, tutto il suo mondo che gli crollava davanti agli occhi. A volte aveva anche sentito la voce di Charlotte ripetergli più volte di non ricordarsi come si suona, di aver sentito qualcuno in casa, ma non durava mai più di pochi secondi prima che si svegliasse.
Appena scivolava nel sonno, vedeva addensarsi attorno a sé le immagini dell'Afghanistan, del suo campo. Immagini così reali da convincerlo di essere ancora lì, ma con un dettaglio sbagliato e disturbante. Spesso era un bambino senza il braccio sinistro e con la mascella mancante, un povero bambino che John aveva visto arrancare e poi morire durante una delle missioni. Gli aveva guardato gli occhi, due pozze nere e umide, e il corpicino che sussultava mentre cercava di respirare e urlare attraverso quei lembi di pelle insanguinata che dondolavano dove una volta c'era l'arcata inferiore dei denti. Era un medico, avrebbe dovuto salvarlo, ma era rimasto spaventato da quella visione e non si era mosso. Lo aveva guardato morire, fare versi che volevano essere parole, una preghiera, una richiesta d'aiuto.
Quella notte il bambino non era apparso. Stava rivivendo il giorno in cui gli avevano sparato, il dolore alla spalla e la convinzione che sarebbe tutto finito lì. Sentiva il sapore della terra afghana in bocca, il caldo appiccicoso sulla pelle e... un telefono? Non avevano telefoni in guerra, non durante le missioni. E poi... Quello non era il rumore che facevano gli apparecchi che avevano dato loro in dotazione.
Si svegliò, mettendosi ritto a sedere sul letto, e notò lo schermo del cellulare illuminato. Erano le 3.30 di notte e fu combattuto tra il maledire e il benedire la persona che lo aveva disturbato nel mezzo della notte. Rispose, senza neanche guardare chi fosse, e biascicò un "pronto" con voce impastata dal sonno. Rimase in attesa di qualche risposta dall'altra parte, ma sentiva solo un respiro affannato e bagnato dal pianto. Spostò il cellulare dall'orecchio e guardò il mittente tenendo le labbra appena separate.

"Char?" sussurrò, ottenendo in risposta solo un singhiozzo. "Char, che succede?"

"J-john..." si lamentò, senza riuscire ad aggiungere altro. Respirava a fatica, John riusciva a percepire che era nel mezzo di un attacco di panico. Doveva essere successo qualcosa di grave, molto grave.

"Calmati, respira con me, mh?" le disse, facendo seguire a quelle parole un respiro rumoroso e lento. Continuò così finché non la sentì imitarlo e tornare pian piano ad un ritmo più normale. "Va meglio?"

"Un... Un pochino..." sussurrò, tirando su col naso. "John, è... è successa una cosa." aggiunse. Il medico riuscì a capire che si era morsa un labbro per trattenere un singhiozzo.

"Dimmi, scricciolo. Ti hanno fatto del male? Posso essere lì in un'ora, Charlotte, dammi il tempo di-" gettò le coperte di lato e si spostò sul bordo del letto, pronto ad alzarsi.

"No, no! Non serve, io..." sospirò e rimase in silenzio per qualche istante. John non fiatò, i piedi piantati sul pavimento freddo e le dita che stringevano convulsamente il cellulare. "Ho fatto una cosa. O almeno... Credo di averlo fatto io..."

John si passò una mano sul viso, alzandosi. Non riusciva più a stare seduto, fermo, allora cominciò a camminare avanti e indietro. Diede un'occhiata fuori dalla finestra, cercando la calma e la forza di parlarle senza far tremare la voce.

"Sei a casa?" chiese e rimase col fiato sospeso prima di sentire un verso di assenso dall'altra parte della cornetta. "C'è qualcuno con te? Char, se sei in pericolo, se hai bisogno che ti mandi qualcuno, devi solo-"

"No." lo interruppe quasi urlando. Riprese fiato a fatica dopo, John poteva immaginare le sue esili spalle scosse dai tremiti e i singhiozzi. "C'è sangue, John... Ce n'è tanto..." sussurrò.

John si strinse la radice del naso tra le dita e piegò la testa all'indietro. Fece appello a tutte le sue forze per non correre di sotto, svegliare Sherlock e letteralmente volare a Oxford da lei. Con o senza il suo migliore amico, non gli importava. Il cuore gli batteva talmente forte che pareva assordarlo e la mano sinistra gli tremava leggermente.

"Se è tuo, riesci a dirmi da dove viene?" le chiese con la voce bassa, cercando di calmare prima sé stesso per poter fare lo stesso con lei.

"Dal... Dal braccio. C'è un paio di forbici, mi sembra, più o meno in mezzo all'avambraccio... Vicino al gomito..." riuscì a dire a fatica, e John vide nella sua mente Charlotte a terra, le forbici conficcate appena sotto l'olecrano e il sangue che le tingeva il braccio e la mano. "Ma io non mi ricordo di averlo fatto... John, te lo giuro, non so come sia successo!" singhiozzò nel ricevitore.

Mentre lei parlava, John aveva già iniziato a scendere le scale. Nel salotto c'era il telefono fisso, avrebbe chiamato un'ambulanza o un taxi, avrebbe deciso una volta di sotto.

"Ti credo, piccola, non preoccuparti. Ma devo chiamare l'ambulanza, devono metterti i punti." le disse e si stupì lui stesso della calma con cui pronunciò quelle parole. Era forse il suo lato medico che aveva preso il sopravvento, quella leggera freddezza che gli permetteva di non prendersi troppo a cuore i propri pazienti e soffrire per loro.

"No, ti prego, non farlo! Posso... Posso fare io, mi dici come fare... Per favore..." lo implorò.

John sospirò e scosse la testa. Sentiva la paura nella sua voce, un tremolio preoccupato che la faceva tornare ad essere la bambina di tanti anni fa. Di sicuro aveva paura che Mycroft lo avrebbe scoperto, che l'avrebbe sgridata o si sarebbe preoccupato. Se c'era una cosa che aveva imparato di lei in quei mesi, era che voleva essere d'intralcio il meno possibile. Preferiva defilarsi, farsi del male piuttosto che provocare il benché minimo disturbo negli altri. Doveva esserle costato molto fare quella telefonata, coinvolgere John e farlo entrare in quel piccolo labirinto, ma si era accorta che non poteva sistemarlo da sola. Non quella volta.

"No, tesoro, non potresti farlo da sola. Rischieresti di farti ancora più male..." le disse scendendo le scale e entrando nel salotto. "Dammi ascolto per questa volta, Char..." la ammonì piano, prendendo in mano il telefono fisso. La sentì esitare dall'altro capo.

"Poi lo sapranno..." pigolò e John sollevò un angolo della bocca.

"Se Mycroft o Sherlock dovessero venire a saperlo, me ne occuperò io, ok? Fidati di me. Sai che puoi farlo."

Charlotte esitò ancora qualche istante, poi sospirò e annuì, anche se non poteva vederla.

"Va... Va bene. Ma non mettere giù, ti prego... Ho... Ho bisogno di sentire la tua voce."

John sorrise e le assicurò che non avrebbe chiuso la chiamata. Col fisso compose il numero del pronto intervento e chiese un'ambulanza per il 122 Tudor Avenue, Oxford. Quando appoggiò nuovamente il cellulare all'orecchio, notò con la coda dell'occhio un'ombra nel piccolo corridoio di casa. Sherlock lo aveva sentito e si era avvicinato, aveva capito che parlava con Charlotte e doveva anche aver intuito che non fossero buone notizie.

"John, mi gira la testa..." biascicò appena.

"Merda!" imprecò sottovoce. Sentiva che Charlotte stava perdendo le forze, era sempre più debole. Probabilmente stava perdendo troppo sangue, soprattutto per le sue condizioni delicate. "Continua a parlarmi. Andrà tutto bene, ok? L'ambulanza sta arrivando, ti metteranno due punti e sarai come nuova, mh?"

Puntò lo sguardo negli occhi chiari di Sherlock, che aveva deciso di entrare in salotto. Lo stava guardando apparentemente freddo come sempre, ma John lo conosceva bene. Fin troppo bene. Poteva vedere che era preoccupato, quasi riusciva a percepire il battito accelerato del suo cuore e il suo cervello lavorare per capire. Senza dire una parola, John premette un tasto e mise il vivavoce, poggiandosi un dito sulle labbra per intimarlo a stare zitto.

"Char, mi vuoi dire come è successo? Quello che ti ricordi, non ti preoccupare..." la incitò con un tono basso e dolce, a sottintendere che non doveva avere paura.

"Io... Non lo so, davvero... Stavo sistemando gli appunti e poi... Poi avevo le forbici in mano e guardavo il braccio ma non era il mio. Cioè, era il mio ma non il mio, non so se ha senso... Vedevo... Vedevo la mia mano muoversi e volevo fermarla ma non ci riuscivo. Era come se fosse qualcuno a farlo con la mia mano e il mio braccio, capisci?" raccontò e John alzò la testa per guardare Sherlock. Voleva vedere le sue reazioni, ma era perfettamente immobile, le sopracciglia corrugate e lo sguardo perso da qualche parte. "Non mi fa neanche male, sai...?" sussurrò alla fine. John sospirò e si passò una mano sul viso.

"Ho capito... Ascolta, andrà tutto bene, ok? Riuscirò ad aiutarti, è una promessa." riuscì a dirle, prima di sentire dall'altro lato l'arrivo dei soccorsi.

Chiusero quindi la chiamata solo quando John fu sicuro che si trovasse in buone mani. Lasciò il telefono sul tavolino e si fece cadere sul divano, poggiando i gomiti sulle gambe e coprendosi il viso con le mani. Aveva mantenuto la calma mentre parlava con lei, ma ora tutta la preoccupazione gli era caduta addosso in un colpo. Sentiva le gambe e le mani che tremavano, il cuore che batteva così forte da fargli pulsare dolorosamente le tempie. Appena chiudeva gli occhi, vedeva l'immagine di Charlotte sola, rannicchiata in qualche angolo di casa sua, ferita e piena di sangue. Lui aveva fatto quello che poteva, ma non riusciva a scacciare dalla mente l'idea che lui doveva essere lì, con lei.
Alzò appena la testa, vedendo Sherlock ancora fermo in mezzo al salotto. Studiò il suo viso, le piccole rughe che gli si erano formate alla radice del naso e l'angolo della bocca torto in una smorfia preoccupata e quasi colpevole. Stava pensando alle sue stesse cose? Aveva visto come si preoccupava di sua nipote, il loro rapporto. Era molto probabile che anche lui si stesse rimproverando per averla lasciata da sola, per non aver previsto quello che sarebbe successo. Avrebbe dovuto dire qualcosa, magari avvicinarsi e prendergli una mano o passargli un braccio attorno alle spalle, era il suo migliore amico, dannazione! Ma sapeva che se si fosse alzato, le gambe non lo avrebbero retto e aveva paura di sentire la sua voce tremare se avesse provato a dire qualcosa.

"Sherlock..." si azzardò, tenendo un tono talmente basso da non permettere di sentire la benché minima incertezza.

Sherlock girò la testa nella sua direzione e John sentì il sangue abbandonargli le guance. Aveva gli occhi appena bordati di rosso e le iridi luccicavano come due pietre dure dal colore cangiante. Era la prima volta che John lo vedeva così vulnerabile, che poteva leggerlo, sentire tutte le sue emozioni. Era la prima volta che gettava del tutto la maschera davanti a lui. Quella piccola fiamma di rabbia e risentimento che aveva provato nel non sentirsi partecipe di quello che succedeva si spense.

"Che cosa è successo?" chiese piano, consapevole che era una domanda stupida. Ma il medico era sicuro che Sherlock avrebbe capito, lui capiva sempre.

Il detective infatti abbassò lo sguardo per un istante, poi prese un grosso respiro. Alzò gli occhi, facendoli saettare da un lato all'altro del soffitto.

"Te l'ho detto, John. Non lo so. Aveva già tentato il suicidio e hai visto anche tu i segni di autolesionismo. Ma questo..." sollevò un angolo della bocca in una mezza risatina nervosa. "Questo è oltre. È automutilazione e non so da cosa derivi. Io non..." si bloccò e sbatté gli occhi un paio di volte.

John scivolò appena sul bordo del divano, le labbra appena separate. Era rimasto colpito più di quanto volesse dare a vedere. Era possibile si sentisse in colpa per tutto quello che le aveva fatto? Per non essere stato con lei più tempo? La amava in maniera indescrivibile, John non aveva dubbi, ma conoscendo Sherlock non le aveva mai fatto neanche capire fin dove si estendeva quell'amore. Fece per dire qualcosa, ma rimase zitto quando lo vide voltarsi e cercare qualcosa tra i molti oggetti che affollavano il tavolo alto posizionato tra le due finestre. Quando trovò il fascicolo desiderato, lo lasciò cadere con un piccolo tonfo sul tavolino basso, proprio di fronte a John.

"Questo era il fascicolo che avevano dato a Randall Thompson. Che, a proposito, è morto." disse secco, nuovamente freddo come suo solito. John passò lo sguardo dalla copertina gialla con la scritta TOP SECRET a Sherlock. "Me lo ha dato Magnussen quando è venuto a trovarmi in ospedale. Ci sono delle cose importanti, che devi sapere. Domani Mycroft verrà a prenderlo." sospirò. "Era lui il destinatario." terminò e tornò in camera sua.

John, invece, rimase sul divano tutta la notte a leggere e rileggere il contenuto di quel documento. C'erano sei schede correlate da fotografie corrispondenti ad altrettante persone. La prima apparteneva ad un certo Batholomew Tudors e, da quello che vedeva dalla foto sotto il timbro rosso che recitava 'DECEDUTO', doveva avere più di cinquantanni. I capelli chiari e gli occhi di un azzurro così limpido da ricordargli il cielo d'estate lo facevano sembrare un personaggio storico, uno dei fantomatici 'ariani' che i nazisti inneggiavano. Faceva parte dell'MI5 e MI6, era parte integrante del governo... Sembrava di leggere la descrizione di Mycroft e John si chiese se per caso non lo conoscesse. La data di morte recitava 14 aprile 1986 e una linea cancellava l'ipotesi che fosse stato ucciso per sostituirla con 'cancro alla prostata'.
Le due schede successive strinsero il cuore di John. Un uomo e una donna molto giovani, troppo giovani per poter riportare anche loro la data di morte annotata a mano. 4 novembre 1986 entrambi, ma sulle loro fotografie non vi era alcun timbro. Era come se avessero voluto segnalare che Bartholomew non era più una minaccia, al contrario di loro due. L'uomo si chiamava Arthur Tudors e non gli ci volle molto a capire che era il figlio dell'altro. Avevano la stessa mascella delicata, lo stesso naso e lo stesso sorriso affascinante. A differenza del padre, però, aveva i capelli di un castano chiaro e gli occhi color miele. La donna, invece, era di una bellezza disarmante. Stella Cromwell si chiamava, e John si soffermò a guardare il suo volto armonioso, i lunghi capelli biondo-rossicci e gli occhi del più bel verde che avesse mai visto.
Diede una rapida occhiata alle date e sentì il cuore pesante. Avevano appena 25 anni quando morirono, strappati alla vita proprio quando quella doveva cominciare. Si chiese chi potesse odiarli così tanto, per quale motivo due persone così giovani fossero state vittime di un destino così crudele.
Guardò anche le schede successive. Cameron Valence, Lancelot Cartwright e Vincent McTiernan, tre uomini di potere dagli sguardi spietati e i sorrisi crudeli. Lesse con attenzione tutte le informazioni su di loro e poi il rapporto della polizia, la corrispondenza con i servizi segreti, il falso rapporto di un fatale e inaspettato incidente stradale. Ad ogni riga, John si trovava sempre più incredulo. Degli uomini di più di quarant'anni avevano fatto uccidere dei ragazzini per quale motivo? Per politica. Perché Arthur aveva idee troppo moderne, perché voleva lottare per abbattere il divario tra loro e il popolo. Perché Arthur voleva che il Parlamento fosse realmente lo specchio della nazione e perdesse la maggior parte dei suoi privilegi, a partire dai tre uomini che avevano orchestrato tutto. E tutti i parlamentari, accantonati i colori e i credi politici, avevano accettato quella decisione. Sapevano tutto e avevano taciuto, erano stati complici silenziosi di quell'atroce delitto. Ora capiva perché Randall Thompson aveva dovuto pagare con la vita quel segreto, perché aveva affermato con tanta sicurezza che ne andava di tutto il Regno Unito. Se quelle informazioni fossero finite nelle mani sbagliati, se fossero state rese pubbliche... Non ci sarebbe stato nessun suddito della corona che non si sarebbe indignato, che non sarebbe insorto contro i politici per vendicare Arthur e Stella, colpevoli solo di aver voluto una maggiore equità.

Rimase tutta la notte a leggere e rileggere quelle righe, a guardare quelle fotografie che gli chiudevano lo stomaco. Era ingiusto, non aveva altre parole per definirlo. Si ricordava di quando al telegiornale era stata annunciata la loro morte. Dopotutto Arthur era il parlamentare più giovane, e in questo non riuscì a non pensare che ci fosse lo zampino di suo padre, e lui aveva quattordici anni quando quel camion colpì la loro auto, facendola rotolare senza speranza lungo la strada. Ma non se ne era interessato più di tanto, non gli importava all'epoca di seguire i fatti di cronaca nera.
Si accorse che era mattina solo quando vide una tazza piena di caffè fumante poggiarsi sul tavolino. Alzò la testa e sbatté un paio di volte gli occhi, infastidito dalla luce del sole ormai alto nel cielo. Vide Sherlock con la vestaglia blu slacciata e abbandonata contro le spalle. Non sembrava aver dormito molto, probabilmente aveva in mente ancora tutto quello che era successo la notte precedente.

"Grazie..." mormorò, prendendo la tazza e bevendo un sorso di caffè, che lo fece sentire immediatamente meglio. Sherlock accennò un piccolo sorriso, bevendo a sua volta dalla tazza che aveva in mano. Guardò fuori dalla finestra.

"Tra pochi minuti arriverà mio fratello. Hai letto tutto?" chiese e John non poté non notare la leggera morbidezza della sua voce. Quello non era Sherlock Holmes, il consulente investigativo, colui che risolveva i casi più complicati. Era solo Sherlock, un uomo che non poteva stare dietro alla sua mente, che si prendeva a carico le sofferenze delle persone a cui teneva. L'uomo dietro la macchina.

John annuì e si schiarì la gola.

"È incredibile che sia successa una cosa del genere. E che Mycroft lo sappia e abbia voluto tenerlo nascosto." replicò tagliente. Un lampo attraversò le iridi cristalline di Sherlock.

"Non aveva altra scelta. Ci sono molte cose, John, che potrebbero succedere se solo anche la minima informazione uscisse da queste mura. E la caduta del nostro governo sarebbe la meno grave." gli rispose, poi mosse una mano come per dire che la discussione era terminata.

Aveva infatti scorto una delle costose e lucenti auto nere di Mycroft fermarsi davanti al 221B. Il maggiore degli Holmes scese con eleganza e si avviò con passo cadenzato alla porta. Non suonò e non bussò, si limitò ad aprire con la sua copia delle chiavi e salì la corta rampa di scale che separava l'ingresso dall'appartamento. Evitò con cura il gradino rotto e aprì piano la porta che separava il pianerottolo dalla sala. Entrò con sicurezza, appoggiandosi poi sinuoso al suo immancabile ombrello scuro. Torse appena le labbra nel vedere il documento nelle mani di John, ma mascherò il suo fastidio con un sorrisetto di circostanza.

"Credo tu abbia qualcosa di importante per me, fratellino." pronunciò, spostando il suo sguardo di ghiaccio su Sherlock.

Anche John lo guardò e notò il ritorno del rapace nei suoi occhi. Non poté nascondere il piccolo sorriso che era nato spontaneo sulle sue labbra, perché aveva capito cosa voleva fare. Non lo aveva chiamato solo per dargli quei fogli, assolutamente. Voleva fargli notare che padre assente fosse stato, quanto avesse trascurato i sintomi di Charlotte tanto che era arrivata a farsi del male. Non aveva delle telecamere in casa sua? Perché non le aveva controllate, non aveva mandato qualcuno a fermarla?

"Siediti, Mycroft. Vuoi del the? O del caffé? Oppure scommetto che tu voglia dare un taglio ai convenevoli, mi sbaglio?" parlò con una freddezza insolita, le dita strette contro il manico. Mycroft assottigliò gli occhi mentre studiava il fratello, ma non fiatò. "Dov'eri ieri notte? Dov'erano i tuoi uomini? Non era pieno di telecamere?" chiese tagliente, appoggiando con forza la tazza sul tavolo.

"Un errore di calcolo, ho indugiato troppo e--"

"E tua figlia stava per morire dissanguata!" tuonò Sherlock e John represse un brivido. Non lo aveva mai sentito così arrabbiato, così coinvolto. Non era mai andato particolarmente d'accordo con suo fratello, ma allo stesso tempo non si era mai scagliato con così tanta forza contro di lui. Quella che aveva detto era un'esagerazione, John lo sapeva bene, ma era come se stesse riversando tutta la rabbia che teneva in corpo contro Mycroft. Rabbia nei confronti del fratello, della situazione ma anche di sé stesso, per averla lasciata sola e averla trattata male più di una volta.

"Sono sicuro non fosse così grave." tese le labbra in un sorriso che aveva ben poco di gioviale. "E poi il dottor Watson ha gestito la situazione in maniera eccellente." pronunciò. John lo guardò per un istante con gli occhi grandi e le labbra separate. Quelle parole potevano sembrare un complimento, ma il modo in cui aveva sputato il suo nome, come se si trattasse di un veleno...

Girò la testa di lato, senza riuscire a trattenere un sorriso e una piccola risata. Quando tornò a guardare Mycroft, lo vide con le sopracciglia corrugate.

"Oh, mio Dio." disse semplicemente, sbuffando un'altra piccola risata. "Lei è geloso. È geloso che Charlotte abbia chiamato me e non lei. Che si fidi di me."

Vide un lampo attraversare per un istante le iridi grigie del maggiore degli Holmes e seppe di aver ragione. Trovava stranamente esilarante quella situazione e, allo stesso tempo, sentiva quasi il petto gonfiarsi come un tacchino di fronte a quella piccola vittoria nei suoi confronti. Non capitava spesso che riuscisse ad essere più avanti di uno degli Holmes, e in quelle rare occasioni non poteva fare a meno che sentirsi particolarmente orgoglioso di sé stesso.

"Mi duole dover tagliar corto con queste... piacevoli chiacchiere." riprese Mycroft, spostando il peso dell'ombrello così da poterlo agganciare al braccio. "Ma sono decisamente in ritardo. Potrei avere ciò per cui sono venuto, grazie?" chiese con un tono che sembrava più un ordine.

Sherlock lo osservò per un attimo, poi si avvicinò al tavolino e si piegò per prendere il fascicolo. Lo lasciò sulla mano tesa di Mycroft, che strinse le lunghe dita attorno al bordo. Lo aprì e lo sfogliò, per controllare che ci fosse tutto dentro, e John notò il cambiamento di espressione nel maggiore degli Holmes. Il suo sguardo si era ammorbidito e sembrava stesse ripensando a qualcosa che era successo tempo prima con un misto di tenerezza e dolore.

"Brutti ricordi?" chiese Sherlock, incrociando le braccia sul petto.

"No. Solo ricordi." chiuse con un colpo il fascicolo e lo tenne al sicuro contro il fianco. Salutò con un cenno della testa e si girò per andare via.

"A quale prezzo?" esordì nuovamente il detective. Mycroft si fermò prima di attraversare la porta e John vide le sue spalle scosse da un sospiro. "Qual è stato il prezzo?" ripeté Sherlock, la voce ferma.

Mycroft si girò e guardò il fratello come se gli stesse chiedendo perdono. Come se fosse stato preso nel mezzo di una brutta azione e dovesse scagionarsi.

"Venti minuti. Solo... venti minuti." disse, voltandosi nuovamente e uscendo dall'appartamento.

"E ne è valsa la pena? Eh, Mycroft? Ne è valsa la pena?!" gli urlò dietro, ma il maggiore proseguì per la sua strada.
Sherlock chiuse i pugni lungo i fianchi e serrò la mascella. Ora John poteva vedere che era davvero arrabbiato, una manifestazione di sentimenti che credeva impossibile da parte del suo migliore amico. Ma non capiva, perché se l'era presa così tanto? Per quanto spesso si beccassero, era consapevole che Mycroft sapeva quello che faceva. Non era uno sprovveduto, erano vent'anni che lavorava in quel campo e sapeva come muoversi. Era abile a trovare i giusti sotterfugi.

"Sherlock, calmati... erano solo venti minuti del suo tempo." provò a placarlo, ma l'amico lo guardò con il fuoco negli occhi.

"Tu non capisci, John. Non erano venti minuti del suo tempo. Erano venti minuti del tempo di Charlotte. Da sola. Con Magnussen."

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Capitolo 19
*** Capitolo diciannove ***


Capitolo diciannove


{20.06.2006, Pall Mall, Londra}



Con la fine del terzo trimestre universitario, Charlotte era tornata a Londra a trascorrere l'estate. Un paio di giorni solamente le erano bastati per ripiombare lì dentro, il mondo degli Holmes, dove lei viveva costantemente nell'ombra dei suoi parenti più brillanti, più influenti, più tutto. Ogni volta diventava sempre più difficile tornare lì, era come se una grande nuvola nera continuasse ad avvolgerla impedendole di tenere la testa alta e lo sguardo limpido.
Non aveva parlato a suo padre dei problemi che aveva avuto nei mesi precedenti. Non aveva parlato dei buchi di memoria, gravi o lievi che fossero, né delle ben più preoccupanti allucinazioni che credeva di essersi lasciata alla spalle anni prima. Una parte di lei sapeva sarebbero tornate, avrebbe mentito se avesse detto che era stata una sorpresa. Aveva ignorato le pillole per fin troppo tempo, dando quindi ai suoi sintomi solo un conto alla rovescia per manifestarsi di nuovo. Le sembrava di essere tornata nello stesso incubo di pochi anni prima, quando non si rendeva conto dei giorni che passavano e l'unico modo per essere sicura di essere ancora viva era sentire dolore fisico. E allo stesso modo, erano tante le volte in cui non ricordava quello che aveva fatto, che si trovava a lottare contro un nemico invisibile che voleva utilizzare il suo corpo anche contro la sua stessa volontà.
Non lo avrebbe ammesso a voce alta ma aveva paura. Paura di perdere totalmente il controllo e fare qualcosa di irreparabile, di riuscire in quel tentativo di suicidio che era stato sventato per caso anni prima. Soprattutto aveva paura di far preoccupare le persone attorno a lei, di vedere la delusione nei loro occhi.


Nonostante le belle giornate, infatti, passava la maggior parte del suo tempo chiusa in camera. Non avrebbe di certo potuto difendersi da sé stessa in quel modo, ma almeno non avrebbe dato adito agli altri di parlare e darle quelli che consideravano consigli utili. Sapeva che a Mycroft quella situazione non piaceva, aveva provato ad esortarla ad uscire con lui solo per qualche istante. Era riuscito a portarla in giardino per fare due passi, ma quando lei aveva sentito un'auto passare e rallentare troppo vicino a casa, si era spaventata ed era voluta rientrare. E lei lo aveva visto. Aveva notato quella piccola torsione dell'angolo della bocca, quel mezzo sospiro e il cambio della luce nei suoi occhi. Si era sentita così in colpa, nonostante lui le avesse passato un braccio attorno alle spalle e se la fosse stretta al fianco. Si era sentita in colpa perché un lampo di tristezza gli aveva oscurato il volto e sapeva che era solo a causa sua.
Vedeva che gli stava facendo del male, che soffriva anche lui per quella situazione, e lei non riusciva a fare altro che aggravarla. Non che lo desse molto a vedere, per carità. Da fuori non era cambiato per niente, aveva sempre la stessa compostezza e lo stesso cipiglio ironico, ma lei ormai lo conosceva bene. Sapeva che quando girava l'anello che aveva all'anulare destro era in ansia, che quando drizzava la schiena e sollevava il mento era nervoso, quando tirava le labbra in un sorrisetto sarcastico era arrabbiato. E soprattutto sapeva che quando lasciava andare le spalle e si passava una mano sul volto, si sentiva sconfitto, in colpa, triste. Sentiva il leggero e impercettibile - ma non a lei - tremore delle sue dita quando le accarezzava la testa e il sospiro prima di baciarle la fronte e sapeva che era preoccupato, che aveva paura di quello che sarebbe potuto succedere.


Una parte di lei avrebbe voluto rifugiarsi tra le sue braccia. Fare come quando era bambina e aveva avuto un incubo, oppure quando era malata, l'unico momento in cui Mycroft non faceva troppe storie se chiedeva le coccole. Allora vedeva l'abbraccio di suo padre come il luogo più sicuro del mondo, l'unico posto in cui niente avrebbe potuto farle del male. Spesso si era addormentata sulla sua spalla, cullata dalla sua voce e avvolta dall'odore di tabacco e dopobarba di marca. Una parte di lei desiderava ancora provare quella sensazione di sicurezza, ma sapeva che non sarebbe stato possibile. Non c'erano mostri da sconfiggere, persone da allontanare. Il problema era lei stessa, quella malattia che, come un parassita, la stava svuotando di tutte le energie e la voglia di vivere. Quella volta, Mycroft non poteva sistemare tutto con un semplice schiocco di dita e Charlotte non sopportava di vedere quello sguardo che la trapassava da parte a parte e le faceva male e rabbia.


Passava quindi molto tempo in camera sua, sul grande letto a baldacchino posto al centro della stanza, seduta a terra sul tappeto bianco o sul balcone che dava sul giardino. In quel periodo era in fiore ed era bellissimo, pieno di colori come la tavolozza di un pittore. Una volta aveva dei fiori e delle piantine anche sul balcone, appese al davanzale, ma non aveva le forze di curarle e quindi erano morte tutte.
Guardava il soffitto bianco con decori in pittura dorata che si era fatta fare apposta dall'imbianchino, la grande libreria piena di classici, fiabe e altri volumi che amava leggere - non aveva mai individuato un genere preferito, passava volentieri dall'horror di Stephen King ai romanzi leggeri di Sophie Kinsella. Ogni tanto si rifugiava anche nella cabina armadio, dove cercava di trovare una scusa per uscire di lì provandosi diversi vestiti ma senza mai riuscire a raggiungere il suo obiettivo.
Evitava di guardarsi allo specchio, soprattutto dopo averlo fatto per errore un giorno mentre era in bagno. L'immagine che le venne restituita le fece paura, stentava a credere di essere lei. Aveva delle occhiaie marcate e le iridi totalmente spente. John le aveva detto più volte quanto fossero belli i suoi occhi, chissà cosa avrebbe pensato nel vederli così. Il color ambra che li caratterizzava ora non era niente più che un marrone chiaro, quasi opaco. La pelle tirava stanca e con un colorito più vicino al grigio che al rosa, mettendo in evidenza gli zigomi e le ossa della mascella. Aveva pianto davanti a quell'immagine, continuando a ripetersi che non era lei, non poteva essere lei. Lei era più bella, non sembrava un cadavere, non era possibile, dannazione, lei mangiava! Aveva fatto talmente tanto rumore che Mycroft non aveva potuto fare finta di niente ed era entrato. L'aveva vista davanti allo specchio sconvolta, a pezzi e se l'era stretta al petto. Le aveva accarezzato i capelli e le aveva sussurrato di calmarsi, che andava tutto bene, riuscendo in qualche modo a nascondere il tremore della voce e il battito accelerato del cuore. Era quasi riuscito a calmarla, quando lei realizzò che era giorno, che lui doveva essere al lavoro e invece era a casa per badare a lei, per colpa sua, e scoppiò nuovamente in lacrime tra le sue braccia. Gli ripeteva di lasciarla pure lì, che se la sarebbe cavata da sola, che doveva andare a lavorare, ma al contempo si aggrappava di più a lui come se avesse avuto paura che se ne sarebbe andato davvero.


Non la lasciò, continuò a svolgere le sue mansioni da casa. Il solo pensiero di dover uscire e non poter intervenire tempestivamente se si fosse fatta male, gli faceva pesare il cuore. Non era pronto a tutto questo quando aveva saputo che avrebbe dovuto fare il genitore. Sapeva che sarebbe stata dura, per carità, ma non sapeva si sarebbe sentito così coinvolto. Non si aspettava di vedere la propria felicità basata su quella di un'altra persona, quasi di vivere per un'altra persona. Eppure ogni volta che la guardava, si diceva che avrebbe potuto fare qualsiasi cosa per lei. Avrebbe voluto proteggerla da tutto, anche da se stessa, ma aveva fallito e ora lei stava così male. Aveva sbagliato, continuava a sbagliare e Dio solo sapeva quanto avrebbe ancora sbagliato in futuro. Le aveva rovinato la vita? Avrebbe dovuto affidarla ad altri, come voleva fare all'inizio? Forse sarebbe stato meglio per lei, sarebbe cresciuta più equilibrata e con una famiglia capace di offrirle amore e stabilità. Però... Non riusciva ad immaginarsi una vita senza di lei, senza tutte le cose che lo facevano arrabbiare e che lo facevano ridere.
Voleva aiutarla, ma come poteva fare? Tutto sembrava solo peggiorare la situazione, o la faceva crollare o la faceva arrabbiare. Era come camminare sulle uova cercando di non romperle, e lui aveva già fatto una frittata.


Quella sera del 20 giugno minacciava pioggia. Il cielo era scuro sin dal pomeriggio e si sentiva elettricità nell'aria, talmente tanta che si preannunciava un temporale estivo coi fiocchi. A Mycroft solitamente non dispiaceva sentire scrosciare l'acqua e il potente rombo dei tuoni, ma aveva fatto sostituire le finestre di casa per avere vetri più spessi siccome Charlotte, da bambina, ne era terrorizzata. In quel modo il rumore era attutito e lei riusciva a dormire o a stare tranquilla durante il maltempo. La prima volta che aveva assistito ad un temporale aveva appena cinque mesi ed era scoppiata in un pianto così forte e così terrorizzato tra le braccia di sua madre che Mycroft aveva avuto paura le sarebbe scoppiata la testa per lo sforzo.
Anche quella sera la testa di Charlotte sembrava sul punto di scoppiare. La guardava mentre erano a tavola, la bistecca di tonno con le verdure ancora intoccata sul piatto della ragazza. Era scesa con le migliori intenzioni, poteva giurare di sentirsi addirittura meglio. Si era ripromessa di essere più morbida, di sforzarsi, di pensare a quanto male gli avrebbe fatto, ma una volta entrata in cucina loro cominciarono ad urlare. Si teneva la testa tra le mani, appoggiata sul tavolo come se fosse l'unico appiglio alla realtà, mentre si sentiva le orecchie invase da urla e risate e il mondo perdeva velocemente i suoi colori. Aveva sentito da lontano il tentativo di dialogo di Mycroft e forse lei gli aveva risposto, gli aveva detto qualcosa che non aveva sentito e non aveva pensato. Si chiese se davvero era in quella posizione, se non se la stesse immaginando e magari era seduta tranquilla a cenare come se niente fosse.
Respirare era sempre più difficoltoso, quasi come se fosse chiusa in una bolla la cui aria stava esaurendosi. E poi sentiva una rabbia che nasceva dalle viscere, una furia cieca a cui non riusciva a dare un'origine, un perché. Sapeva solo che era arrabbiata, furiosa. Strinse di più le dita attorno ai capelli, graffiandosi la cute, ma non sentì il minimo dolore. Si morse il labbro inferiore, soffocando... Cosa? Un singhiozzo, un ringhio, un urlo? Si sentiva come un pupazzo conteso tra diversi bambini, una marionetta mossa da mani diverse. Era come se qualcuno che non era lei volesse piangere attraverso i suoi occhi, come se un'altra persona volesse urlare con la sua bocca. Le era capitato altre volte e lo odiava. Preferiva quando perdeva totalmente il controllo e si risvegliava in seguito, perché faceva meno male. Ma così... Così si sentiva lacerata, tirata in direzioni diverse, fuori posto all'interno del suo stesso corpo.
Farsi del male era l'unico modo in cui riusciva a tornare in sé. Per questo motivo si mordeva, si era tagliata in passato, si conficcava le unghie nella carne. Qualsiasi cosa le facesse provare dolore fisico era bene accetta perché le ricordava che quel corpo era suo ed era lei ad avere il controllo. Anche quando si era ferita con le forbici stava vivendo uno di quegli episodi, talmente forte da arrivare quasi a mutilarsi.


Percepiva Mycroft che parlava, ma non capiva quello che le stava dicendo. Probabilmente gli aveva risposto, perché aveva sentito le labbra muoversi, ma allo stesso modo non riusciva a sentire le sue parole. Aveva la vista annebbiata e faticava a distinguere i lineamenti del padre, il modo in cui teneva le spalle e come la guardava.
Sussultò quando sentì la sua mano sulla spalla. Stringeva piano, ma era abbastanza per farsi sentire e farla tornare quel minimo in sé per girarsi e guardarlo negli occhi. Deglutì a vuoto, abbassando piano le mani sul tavolo. Mycroft le osservò gli occhi, grandi e terribilmente liquidi in quel momento, le labbra strette e le narici che si allargavano seguendo il ritmo accelerato del suo respiro.


"Lotte, non hai toccato cibo. Dovresti mangiare qualcosa." le disse con tono pacato, ritirando la mano senza fare gesti bruschi.


Charlotte abbassò lo sguardo sul piatto. L'idea di mettere qualcosa sotto i denti le faceva venire da vomitare. Storse il naso.


"Non ho fame." sentenziò, il tono più freddo di quanto volesse. Mycroft sospirò.


"Ma devi mangiare, almeno un po'. Lo sai, e in più me l'hai promesso."


Charlotte sollevò un angolo della bocca in un sorrisetto amaro, poi girò la testa nella sua direzione.


"È tutto quello che hai da dirmi? 'Me lo hai promesso', come una ragazzina che sta pregando il suo fidanzato?" chiuse e aprì più volte i pugni sul tavolo, come se quel movimento servisse a scaricare almeno una parte delle sue energie. "Patetico..." sbuffò, abbassando lo sguardo sul piatto ancora intatto.


Vide con la coda dell'occhio la mascella di Mycroft contrarsi e non riuscì a trattenere un sorrisetto. Una parte di lei, quella che aveva il controllo in quel momento, voleva farlo arrabbiare. Voleva mandarlo fuori dai binari, fargli perdere la testa, sfogare su di lui tutta la rabbia e la frustrazione che provava. Ma c'era anche l'altra parte, quella che tentava di trattenerla e che non voleva fargli del male. Quella che desiderava solo mangiare quel benedetto tonno ormai gelido e fare contento quell'uomo che, in fondo, non desiderava altro che vederla star bene.


"Farò finta di non aver sentito." la redarguì con tono severo, poggiando il bicchiere che aveva appena svuotato da un buon pignoletto.


Charlotte sbuffò una risata amara.


"Come tutte le cose che non ti piacciono, no?" piegò le dita sulla tovaglia, spingendo talmente forte con le falangi da far diventare le dita bianche. "A proposito, simpatici quelli della segreteria, no? Quante lezioni hanno detto che ho perso?" esclamò ironica, quasi cattiva.


"Non mi sembra il momento di parlare di queste cose." replicò secco, cercando di evitare di darle un motivo per cui scattare nuovamente. Sapeva, però, che sarebbe stato impossibile farla calmare del tutto, non in quel momento. Lo vedeva dai suoi occhi, così diversi dal solito, così
(cattivi, feroci)
scuri.


"Parliamo allora di dov'eri quando mi sono fatta questo." gli chiese aggressivamente, indicandosi l'incavo trocleare dove ancora si vedeva il segno della ferita. Mycroft seguì il suo dito apparentemente senza interesse, ma si costrinse a non torcere le labbra appena il suo sguardo incontrò la crosta che faticava a rimarginarsi del tutto a causa delle scarse condizioni di salute di Charlotte.


"Sai che non posso assentarmi troppo a lungo da Londra, il lavoro ne risentirebbe." pronunciò, non molto convinto delle sue stesse parole. Cercava di non pensare a quella che era sicuro fosse stata la scena, al sangue (Dio, quanto gli faceva rivoltare lo stomaco il pensiero del sangue) e al panico percepibile dalla sua voce.


"Ah, ma certo, il lavoro! È sempre più importante quello, non è vero?" girò la testa e sbuffò una risata amara. Tornò poi a guardarlo, sempre dura, sempre arrabbiata. "E chissenefrega se nel frattempo muore qualcuno, non è vero?" ringhiò, sporgendosi sul tavolo verso di lui. "A te non frega un cazzo di nessuno se non te stesso, no? L'importante è che non ti si metta in mezzo al tuo importantissimo ed essenziale lavoro, vero?"


"Stai esagerando adesso." replicò fermo, rimproverandola con lo sguardo. Charlotte ringhiò.


"Io sto esagerando?" diede un colpo secco al piatto che finì dritto a terra, seminando in giro pezzi di ceramica, tonno e verdure.


Mycroft sospirò e si alzò in piedi, sistemandosi il polsino della camicia candida. Guardò, serio e severo, Charlotte, senza alcuna voglia di sgridarla. Non in quel momento, almeno, non quando non era in grado di capire. Lo vedeva dai suoi occhi, dal suo modo di serrare la mascella e di respirare. Non era in lei in quel momento, era un'estranea che indossava la sua pelle. Temeva sarebbe arrivato il momento in cui lei non sarebbe riuscita a controllarsi e lui non sarebbe riuscito a fermarla. Il punto di non ritorno, così lo aveva chiamato spesso tra sé e sé e anche con Sherlock.
Ma era stato troppo ottimista, troppo fiducioso e non era riuscito a prendere provvedimenti anticipati. Adesso l'unica cosa che gli rimaneva da fare era la terapia d'urto. Anche Sherlock era arrivato al punto di non ritorno con le droghe e Mycroft era riuscito a riportarlo indietro. Lo aveva letteralmente salvato, sia da quelle sostanze che da sé stesso. Perché non avrebbe dovuto farcela anche con lei? Aveva già in mente tutto il piano sin nei dettagli. Questa volta non si sarebbe accontentato della prima diagnosi presentatagli, avrebbe preteso esami più approfonditi. Non avrebbe più chiuso un occhio davanti alla reticenza di Charlotte, non si sarebbe fatto impietosire dalle sue lacrime e le sue preghiere di lasciarla stare. Sapeva che si sarebbe sentito male nel sentirla urlare e piangere, ma era disposto a farlo pur di proteggerla. Era una decisione che spettava a lui e lui solo, e Dio solo sapeva quanto fosse stato difficile prenderla, quanto fosse difficile guardare negli occhi la propria figlia e sapere che avrebbe dovuto farle più male di quanto potesse immaginare per farla rifiorire.


Si avvicinò piano a lei, tenendo le dita della mano destra appena appoggiate sul tavolo. Alzò appena gli occhi al cielo, come faceva sempre quando cacciava indietro il nervoso (e cos'è quello, Myke? Un groppo in gola? La voglia di piangere? Quanto sei debole e patetico).


"Vai in camera tua, qui ci penso io." le disse piano, senza rabbia ma con tono fermo.


Le passò accanto, in direzione del piatto rotto - non le avrebbe permesso mai di raccogliere i cocci, avrebbe potuto tagliarsi - ma si girò di scatto appena sentì del movimento. Bloccò a mezz'aria senza fatica il polso della ragazza, tenendo ben fermo il braccio. Alla luce giallastra della lampada brillava la lama del coltello, troppo piccolo e arrotondato per fare dei danni reali ma che avrebbe comunque lasciato il segno a giudicare dalla forza con cui lo impugnava.


"Charlotte..." pronunciò piano, in in soffio.


"Tu non ci sei mai!" gli urlò contro, cercando di muovere il braccio invano.


Appena ebbe finito di parlare, un tuono rimbombò tra le pareti della cucina. Era scoppiato il temporale e non se ne erano neanche accorti. Guardò ogni minimo movimento, anche involontario, del volto della ragazza, qualcosa che gli dicesse che Charlotte, quella vera, era ancora lì. Ma non riusciva a distinguerla, a ritrovare i suoi lineamenti. Quando era piccola, ricordava, aveva paura del temporale. Aveva circa due anni e l'aveva trovata nascosta sotto le coperte che tremava e con i lacrimoni agli occhi. Si ricordava di aver trovato curioso quel modo di comportarsi e aveva provato a spiegarle da un punto di vista scientifico e fisico cosa fossero i lampi e i tuoni. Lei lo aveva guardato con gli occhioni spalancati e l'aria di chi non stava capendo niente di quello che sentiva. Si era poi udito un altro schiocco di tuono e lei si era rifugiata tra le sue braccia, aveva nascosto il faccino contro il suo addome con le labbra e gli occhi ben stretti e lui aveva perso il filo del discorso.
Guardandola in quel momento, non riusciva più a rivedere quella che era stata la sua bambina. In quegli occhi lucidi, duri come l'ambra e pieni di rabbia non riconosceva la dolcezza che la caratterizzava anche quando aveva tutti i diritti per odiare chi la circondava. Davanti a lui c'era una donna malata, ferita, arrabbiata. Una donna che ne aveva avuto abbastanza, i cui zigomi erano ormai ben più sporgenti delle guance e i cui capelli, una volta belli e lucenti come l'oro, somigliavano più a della paglia secca.


"Lo so." ammise a voce bassa. "Lo so, Lotte, e mi dispiace."


Charlotte sollevò un angolo della bocca in un sorrisetto ironico, di scherno. Puntò gli occhi in quelli grigi di lui e poté percepire il brivido che gli corse lungo la schiena. Oh, lo odiava, lo odiava come non le era mai successo in vita sua e ogni parola che lasciava le sue labbra era
[vera, è davvero dispiaciuto]
una menzogna.


"Ti dispiace? Forse doveva dispiacerti tempo fa, non credi? Forse non dovevi abbandonarmi tutte le volte che lo hai fatto. Forse dovevi ricordarti che a casa c'ero anche io!" gli ringhiò contro, cercando di muovere di nuovo il braccio, ma la presa di Mycroft era troppo forte per lei.


La guardava e una parte di lei riusciva a capire cosa si nascondeva dietro le iridi. La parte di lei che cercava di fermarsi, che sentiva come se un'altra persona stesse usando il suo corpo per parlare e fargli del male. Quella parte di lei che stava lottando per riprendere il controllo ma continuava ad essere cacciata indietro, ammutolita, perché lei odiava
[papà ti prego, guardami, sono qui, aiutami]
l'uomo che le stava di fronte.


"Lo so. Ho sbagliato tanto con te, me ne rendo conto. Mi dispiace davvero, stellina, non avrei voluto arrivare a tanto." replicò calmo. Quello che gli diceva, che gli stava urlando contro, non era altro che il dolore di anni passati a elemosinare attenzioni, di innumerevoli tentativi di farsi vedere e sentire oltre le barriere che Mycroft aveva costruito per dividersi dal mondo intero.


Charlotte sembrò calmarsi per un istante. Un solo, unico e minuscolo istante in cui Mycroft fu in grado di ritrovare quella ragazza che pareva ormai persa nelle pieghe della sua mente. Riuscì quindi a farle cadere il coltello a terra e gli tirò un calcio, così da allontanarlo da lei, poi allentò la presa suo suo polso. Stava quasi per darle una leggera carezza sulla guancia quando la bocca di Charlotte formò una smorfia che voleva essere un sorriso ironico e la luce estranea di prima le invase nuovamente gli occhi.


"Ma che bravo attore, Mycroft. Bravissimo. Ma non ti credo, sai?" si alzò sulle punte dei piedi, così da essere più alla sua altezza. "Tu sei un bugiardo, Mycroft Holmes. Non hai fatto altro che mentirmi per tutta la vita e vuoi che adesso creda che sei dispiaciuto? Tu? Hah!" rise sprezzante, poggiando le mani sulle sue spalle e dandogli una spinta all'indietro.


Mycroft riuscì a mantenere l'equilibrio e alzò le mani mostrando i palmi. Sospirò e abbassò la testa, scuotendola un paio di volte prima di risollevarla e guardare la ragazza negli occhi.


"Vai di sopra." disse piano, serio. Charlotte sbuffò una risata ironica.


"Pensi di potermi comandare? Sei veramente un idiota se--"


"Ora!" tuonò, allungando un braccio verso la porta della cucina.


La ragazza rimase per un attimo in silenzio, le labbra serrate e i pugni chiusi lungo i fianchi. Passarono alcuni secondi prima che lei avanzasse qualche passo. Gli puntò il dito contro, picchiando sul suo sterno come se volesse bucarlo.


"Ma chi ti credi di essere? Tu... oh, non hai idea di quanto tu mi faccia pena ora. Vuoi fare il duro, quello che ha tutto sotto controllo, ma guardami!" sollevò un angolo della bocca in un sorrisetto di scherno [guardami, ti prego sono qui, sono dietro di lei]. "Guardami! Ti tengo in pugno come una puttanella. E hai anche il coraggio di darmi ordini?" [non le credere, lei non è me] "Ancora non lo hai capito che tu non sei niente per me? Niente." [non crederle, papà, ti prego! Io ti voglio bene, tu sei il mio papà] scandì bene le parole, indietreggiando di qualche centimetro.


Guardò il suo sguardo mutare, un lampo di dolore attraversarlo e lei ne fu [devastata, addolorata] deliziata. Quella vista le fece allargare ancora di più il sorriso, tanto che ormai sembrava una di quelle maschere da film dell'orrore. Una parodia grottesca di quella che una volta era stata una bellissima ragazza con gli occhi grandi. Stava davvero facendo soffrire l'uomo che le aveva asciugato le lacrime da bambina, le metteva i cerotti sulle ginocchia sbucciate e non l'aveva mai lasciata quando era in ospedale?
Sentiva i muscoli delle braccia e delle gambe induriti dalla lotta che aveva ingaggiato con se stessa. Lei, Charlotte, le stava tenendo indietro, ferme, mentre chiunque fosse la persona che Mycroft aveva davanti voleva lanciarsi in avanti, voleva lo scontro diretto. Quella situazione faceva male, un male fisico a cui non era abituata e che era lacerante, come se si stesse letteralmente dividendo in due. Si piantò le unghie nei palmi e, forse, quel gesto bastò a farla tornare in sé quel tanto che bastava per permetterle di uscire di corsa e precipitarsi nella sua stanza.


Si chiuse la porta alle spalle e si portò le mani tra i capelli. Aveva il respiro affannato con un leggero fischio, come se facesse fatica ad inspirare e avesse bisogno di un aiuto. Si guardò intorno, quasi come se vedesse quella stanza per la prima volta nella sua vita. Si inumidì le labbra e sospirò, posando lo sguardo sulla finestra e il grande albero che stava appena fuori. Un mandorlo stupendo, bianco e rosa quando era in fiore, ma i cui frutti erano pieni di cianuro. Lo aveva usato da ragazzina per uscire di nascosto e anche quella sera sembrava la sua unica via di fuga.
Aprì in fretta la portafinestra e uscì sul balcone. Le gocce di pioggia le colpivano violente il volto, ma lei teneva gli occhi bene aperti. Si sporse sul davanzale e, con un piccolo salto, si aggrappò al ramo dell'albero. Sapeva che era pericoloso, che avrebbe potuto farsi male, ma non vedeva altra soluzione. Uscire dalla porta avrebbe significato incontrare Mycroft e dovergli parlare, dovergli spiegare. Riuscì a spostarsi sui rami sempre più bassi finché con un piccolo salto atterrò sull'erba morbida e bagnata. Guardò per un ultimo istante la sua finestra aperta, la luce che ne usciva, poi corse via.


Si lasciò alle spalle quella casa, quel senso di colpa e la consapevolezza che Mycroft non l'avrebbe più guardata come prima. Corse sotto la pioggia, tiranna egualitaria che lavò via ogni sentimento negativo, ogni traccia di quel parassita che aveva preso il controllo poco tempo prima. Ignorò gli sguardi di alcuni passanti, ben coperti dai loro impermeabili e dai loro ombrelli, mentre lei non aveva neanche una giacca, niente a proteggerla dal freddo e dal vento.
Quando si fermò, sotto la luce arancione di un lampione davanti al London Beatles Store, si accorse che il volto non era bagnato solo dalla pioggia, ma anche dalle lacrime. Si guardò attorno e parve rendersi conto solo in quel momento di dove si trovasse. Attraversò la strada e si affrettò a bussare alla massiccia porta di legno che conosceva così bene. Non guardò in faccia la donna che le aprì, ma corse su per le scale e picchiettò contro la porta. Non stavano dormendo, aveva visto le luci accese, almeno uno doveva...


Alzò la testa quando vide la porta aprirsi e quasi la luce del lampadario le ferì gli occhi. Sentì nuove lacrime velarle la vista, lacrime di colpa e di dolore per quello che aveva fatto. Incrociò lo sguardo di Sherlock, che la guardava con le sopracciglia corrugate come se non capisse perché si trovava lì. Ma lo sapeva, lo sapeva benissimo, gli era bastato un solo sguardo per capire tutto.


"Zio..." mormorò, poi gli gettò le braccia attorno e nascose il viso contro il suo petto. Sherlock rimase immobile per un istante, poi mosse la mano destra per fare segno a John di non muoversi. Le passò un braccio attorno e la tirò dentro casa, così da chiudere la porta alle sue spalle.


 

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Capitolo 20
*** Capitolo venti ***


Capitolo venti


"Sì, è qui. L'ho mandata a farsi una doccia, ne avrà per un po'. Sta bene, Mycroft, ha solo preso un po' di freddo e d'acqua. Alla peggio le verrà un'influenza, ma non credo." Sherlock sospirò, tenendo il telefono attaccato all'orecchio. Roteò gli occhi, gesto che fece ridacchiare John, mentre si sentiva la voce di Mycroft uscire metallica e incomprensibile dalla cornetta.


"Sì, ok, va bene. È molto scossa, quindi non credo sia il caso che la chiami. Lo farà lei quando se la sentirà, quando si sarà perdonata. Lo sai che lo farò, Mycroft, non fare domande stupide." aggrottò le sopracciglia, guardando verso il corridoio. "Ha chiuso l'acqua, tra massimo cinque minuti uscirà dal bagno. Ti tengo aggiornato, sì, basta che stai zitto. Ciao." chiuse la chiamata con un colpo secco e uno sbuffo, che fece ridacchiare di nuovo John.


"Non c'è niente di peggio di un papà preoccupato, eh?"


"Non sono d'accordo. Non hai mai visto mia madre." sogghignò nella sua direzione, ridendo poi assieme all'amico. Fu una risata breve, terminata con un sospiro. Si avvicinò alla finestra e guardò fuori. "Cosa ne pensi?"


John si passò una mano sul viso, poggiando il giornale che stava sfogliando in modo svogliato. Si mordicchiò il labbro inferiore e tamburellò le dita sul tavolino.


"Ha bisogno di aiuto. Ho avuto un paio di pazienti che soffrivano di anoressia, e quello stadio," indicò il corridoio, come se Charlotte fosse lì, "non è mai un buon segno. Non credo neanche si sia cicatrizzata la ferita al braccio, è..."


"Un morto che cammina." terminò la frase Sherlock, con tono basso e la voce leggermente inferma.


John trattenne il fiato a quelle parole, non aveva avuto il coraggio di dirlo ma era proprio quello che stava pensando. Guardò Sherlock fermo alla finestra, un braccio a cingersi il petto e l'altro piegato, la mano appoggiata appena sotto il mento. Sembrava calmo a prima vista, ma muoveva pollice e medio l'uno contro l'altro e vedeva i nervi della mascella contrarsi ritmicamente, come se continuasse a stringere e rilasciare i denti. I suoi occhi attenti parevano osservare la strada, ma John sapeva che non vedeva quello che gli stava realmente davanti ma analizzava dati visibili solamente a lui.


Il medico sospirò, guardando la porta che dava al corridoio scuro. Sherlock aveva la camicia ancora appena umida da quell'abbraccio disperato, quella ricerca di protezione tipica di chi non ha posto in cui andare. Continuava a ripetere di aver rovinato tutto, di aver fatto una cosa terribile e che non l'avrebbe mai perdonata, e John si era stupito di quanto delicato fosse stato Sherlock. L'aveva stretta a sé, le aveva accarezzato i capelli, era quasi come se avesse creato una pellicola attorno a loro che non permetteva a John o ad altri di avvicinarsi finché non fosse riuscito a fermare i singhiozzi. Il medico ne aveva approfittato per guardarla, osservare i vestiti che le andavano ancora più larghi dall'ultima volta che l'aveva vista. Guardava la sua mascella spigolosa, il viso e le mani ossute, i capelli secchi e spenti. Era quello l'aspetto che aveva quando era stata ricoverata? Si era spinta ancora a tanto?
Distolse lo sguardo e inspirò rumorosamente, alzando poi la testa in direzione dell'amico.


"Le lascio la mia stanza." disse convinto, come se fosse la cosa più normale del mondo. Sherlock aggrottò le sopracciglia.


"Non ce n'è bisogno, nel mio letto ci-"


"No." lo interruppe e si alzò, passandosi una mano sul collo. "Non soffocarla, ha bisogno di respirare. Dormirà nella mia stanza, stare sul divano un paio di notti non mi ucciderà di certo." accennò un sorriso, poi si diresse al piano di sopra per recuperare il suo pigiama.


Sherlock lo seguì con lo sguardo, sempre serio, sempre analizzando ogni minimo dettaglio. Chissà se si erano entrambi resi conto di quello che li legava davvero, se avevano capito l'entità di quella forza che li spingeva l'uno verso l'altra. Non aveva mai visto nessuno cercarsi in quel modo, avere quasi bisogno l'uno dell'altra per respirare e accettare il mondo che li circondava. Quel bagliore negli occhi, l'elettricità che sfrigolava anche solo quando erano vicini. Era qualcosa di speciale che aveva visto solo una volta nella sua vita, solo con...


"Ho lasciato i vestiti bagnati sul calorifero."


La voce di Charlotte lo riportò al piano del mondo reale. La guardò per qualche istante. La maglietta che le aveva dato le stava larga, le maniche corte le arrivavano al gomito e l'orlo inferiore cadeva a metà coscia. I capelli umidi erano assicurati alla nuca da un mollettone scuro. In quel modo mostrava ancora di più la fragilità del suo corpo, un involucro dalla pelle pallida e sottile che poteva rompersi al minimo tocco. Ma gli occhi le brillavano di una luce che non accennava a spegnersi, che gli diceva che da qualche parte lì dentro c'era ancora la Charlotte brillante e fiera che conosceva. Si permise di rivolgerle un sorriso solo perché era lei, solo perché stava male.


"John ti lascia la sua camera. Accetta la sua offerta, sai che altrimenti si preoccuperebbe troppo." e anche io, avrebbe voluto aggiungere, ma lasciò che fosse solo il suo sguardo a parlare.


Charlotte lo osservò per qualche istante, poi sospirò e annuì.


"Va bene." si passò le braccia attorno al busto e voltò la testa di lato, in direzione della libreria. "Credi che tornerà tutto come prima?" chiese con un filo di voce, cercando di trattenere nuove lacrime. Sherlock scosse la testa.


"No. È impossibile tornare indietro, soprattutto a seguito di determinate prese di coscienza. Ma Lotte..." si avvicinò rapidamente a lei e le prese le mani, facendole voltare la testa per guardarla negli occhi. "Anche se sarà diverso, ti prometto che andrà bene. Fidati di me, di Mycroft," al suo nome Charlotte trattenne il respiro, gesto che non passò inosservato a Sherlock, "fidati di John. Sai che faremo tutto il possibile per aiutarti."


Charlotte ci pensò su, guardandosi intorno, evitando con cura lo sguardo dello zio. Poi gli strinse più forte le mani e si decise ad incontrare i suoi occhi azzurri. Accennò un piccolissimo e timido sorriso e annuì.


"Ti credo. Ma solo perché non penso mi mentiresti mai. Non su questo, non così." Sherlock le sorrise e le diede un lieve bacio sulla fronte, come a sancire quel piccolo accordo. "Posso prendere un libro da lì sopra?" chiese indicando la libreria con la testa e decretando la fine di quel discorso.


"Tutti quelli che vuoi, Lotte." le lasciò le mani, così che lei potesse andare a recuperare qualsiasi cosa volesse.


Lei si avvicinò alle mensole e le scorse con lo sguardo. Dopo qualche istante tirò fuori un volume, quello che aveva puntato fin dall'inizio, come aveva notato Sherlock. Il ritratto di Dorian Gray di Oscar Wilde era il suo libro preferito da quando era piccola, era ovvio avrebbe scelto quello. La guardò poi salire le scale, i piedi nudi che toccavano il legno con delicatezza e furtività.
Quando arrivò in cima, si fermò sulla porta qualche istante a guardarsi intorno. Tante volte era stata in quell'appartamento, ma mai aveva salito quella piccola rampa. Aveva sempre saputo che era la stanza del coinquilino di suo zio, e proprio per questo motivo non aveva mai voluto andare a curiosare. Lei avrebbe odiato sapere che uno sconosciuto aveva ficcanasato tra le sue cose, perché avrebbe dovuto farlo lei stessa?
Strinse leggermente più forte il romanzo che aveva in mano. Era una camera da letto estremamente semplice, con proprio al centro un letto matrimoniale sormontato da un copriletto scuro piegato con cura. A sinistra c'era una finestra alta quasi come tutta la parete e con un davanzale abbastanza grande per potercisi sedere sopra. Al suo fianco un armadio di legno semplice e usurato dal tempo, non troppo grande, chiaro segno che il proprietario non aveva molti vestiti tra cui scegliere.
Poggiò la mano sul comò lucido posizionato appena a destra della porta. Non aveva niente poggiato sopra, era un semplice mobile spoglio e, molto probabilmente, quasi vuoto. Sulla destra della stanza c'era una porta socchiusa che dava su un bagno piccolo ed essenziale, con dentro solo un gabinetto, un lavandino e un mobiletto per i medicinali e i prodotti essenziali come deodorante e schiuma da barba.
Era decisamente la stanza di uno scapolo, di un uomo che voleva fuggire dalla propria vita e non portarsi dietro niente del passato. Charlotte sospirò e mosse qualche passo all'interno della camera. Chiuse la porta alle sue spalle e si avvicinò al letto. Poggiò il libro sul comodino basso e spostò il copriletto. Diede un'occhiata all'interno del bagno e vide John intento a lavarsi i denti. Lui non l'aveva notata e lei ne fu grata. Non sarebbe stato bello farsi beccare a guardare una persona, lei per prima non lo avrebbe apprezzato.


Si accomodò sul letto mentre indugiava appena con lo sguardo sulla figura dell'uomo. In qualche modo la attirava ma ancora non riusciva a spiegarsi il perché. Non era la persona per cui si sarebbe girata in mezzo alla strada, probabilmente non lo avrebbe neanche notato. Era così diverso dal suo ideale, dalle celebrità che ammirava e dai ragazzi reali che considerava belli. Così diverso da David, di una bellezza inarrivabile per lei, la persona che le balenava in mente quando le chiedevano quale fosse il suo uomo ideale. John invece...
John era tutto il contrario e non poteva fare a meno che metterlo a paragone col suo fidanzato. Sovrapponeva le loro immagini, mescolava il verde scuro degli occhi di Dave al blu notte di quelli di John, i loro sorrisi. Passava dalla silhouette alta e slanciata di David a quella più bassa di John e quasi voleva spaccarsi in due la testa perché non riusciva più a tornare con la mente solo su Dave, esclusivamente su Dave.
Aveva capito fin da subito che John era speciale. Lo aveva capito dal modo in cui la guardava, da come le parlava e da come si rivolgeva agli Holmes in generale. Non era solo un soldato o un medico, no, lui era molto di più. Era la voce della ragione di quella famiglia sgangherata, la persona che riusciva a tirare le fila e far tornare all'ovile la pecora che si era persa. Era incredibile il modo in cui, in così poco tempo, anche lei fosse stata catturata in quel modo, forse anche in modo più incisivo rispetto agli altri. Aveva perso il conto delle volte in cui le aveva tormentato il sonno, dei momenti in cui le era sembrato di sentire la sua voce o il suo profumo e si era voltata di scatto solo per trovarsi una strada vuota davanti.


Prese velocemente il libro appena notò che stava per uscire dal bagno. Nascose il volto dietro le pagine, le guance appena rosse per l'imbarazzo di essere stata quasi scoperta. John sorrise appena oltrepassò la soglia e si appoggiò allo stipite con la spalla. Costò a Charlotte un grande sforzo non alzare lo sguardo e seguire la curva del suo corpo, riposare gli occhi sul punto in cui le braccia si incrociavano, riempirsi la mente di quell'immagine che sapeva l'avrebbe accompagnata per molto tempo.


"Sai, credo che sia più efficace se il libro lo tieni dritto." commentò John, soffocando una piccola risata.


Charlotte sentì le guance avvampare mentre lentamente girava il libro. Si maledì mentalmente per non essersene accorta, per sembrare una ragazzina imbranata alla sua prima cotta. Si passò la lingua sui denti, tentando di far rallentare il cuore, che aveva accelerato i battiti in seguito a quel piccolo inconveniente.


"Ehi, che succede?" chiese e Charlotte alzò la testa per guardarlo. "Quando fai così stai sempre pensando a qualcosa." terminò, indicandola.


"Niente, solo che... Dio, devo sembrarti una tale idiota!" poggiò il libro sulle gambe e si coprì il volto con le mani. "Non so cosa sia. Non riesco ad evitare di sembrare una ragazzina quando ci sei tu." non riesco a smettere di guardarti, avrebbe voluto aggiungere, ma non disse niente. John sorrise, un sorriso dolce e comprensivo.


"Davvero? Non me ne ero accorto. Forse ero troppo preoccupato a non sembrare un perfetto imbecille di fronte a te." replicò. Charlotte azzardò un piccolo sorriso mentre abbassava timidamente le mani. Batté sul materasso di fianco a lei.


"Mi fai un po' di compagnia?" chiese e John annuì. Lo guardò staccarsi dallo stipite con un colpo secco e fare il giro del letto per stendersi di fianco a lei. "E comunque, dottor Watson, sappia che un letto matrimoniale nella camera di uno scapolo vuol dire solo una cosa!" lo prese in giro, sistemandosi meglio al suo fianco.


"Ah, e se mi piacesse semplicemente dormire molto comodo?" alzò un sopracciglio, divertito dalla situazione.


"Non ci credo neanche se mi porta le prove. La sua reputazione da dongiovanni la precede, caro il mio dottore."


"Così mi offende, milady. Le sembro un uomo così poco affidabile?" incrociò le braccia e alzò il mento fingendosi offeso. Charlotte rise.


"Scemo!" si schiarì la gola. "Grazie, comunque. Mi hai fatto ridere."


John le accarezzò i capelli e le sorrise, guardandola come si guarda un'opera d'arte.


"Ne sono contento." si sporse appena per avvicinarsi e poggiò le labbra sulla sua fronte. Sentì la ragazza trattenere il fiato, allora si affrettò a spostarsi. "Non hai la febbre, sei fresca come una rosa."


"John, sono orribile vero?" chiese a bruciapelo, quasi senza farlo finire di parlare prima. La guardò con le labbra appena separate, gli occhi spalancati, come se non avesse capito neanche una parola. "Insomma, tra quello che ho fatto e... E come sono, io..."


"Non credo che tu lo sia, Char. Tutti fanno degli errori, ma si sistemano. Tutto può sistemarsi." le sorrise, cercando di trasmetterle quanta più calma gli fosse possibile.


Charlotte girò la testa verso di lui e lo guardò con occhi grandi, tormentando la copertina del libro che aveva in mano. Si passò la lingua sulle labbra e si strappò un paio di pellicine con i denti.


"Dio, sono un disastro... Avevo promesso che non sarebbe successo di nuovo. Ma non lo faccio apposta, io... Ci provo, te lo giuro John, ci provo. Ma c'è... C'è qualcosa, non so cosa, che mi ferma. Che mi fa venire da vomitare quando mangio qualcosa. Che mi porta via e riesco a tornare solo se..." si passò una mano sul braccio, evitando accuratamente di finire la frase. "Non so neanche come fai a guardarmi." mormorò.


John aggrottò le sopracciglia, avvicinandosi appena.


"Cosa intendi?"


"Insomma, guardami! Cosa sono? Sono uno scheletro, una mummia! Non riesco a guardarmi allo specchio senza piangere e non riesco a fare niente per farlo smettere! Faccio schifo e non puoi negarlo. Io non riuscirei a guardare in faccia una come me." sbottò, stringendo i pugni lungo le cosce magre. John sospirò.


"La prima cosa che ho pensato... Nel momento in cui sono arrivato assieme a tuo zio e tu eri lì, sulla poltrona, a suonare. Ecco, in quel momento, il primo in cui ti ho vista... Ho pensato che non esistesse persona al mondo più bella di te. Era forse la luce o il tuo sorriso mentre suonavi... Ma sono certo di averlo pensato. Poi ho iniziato a conoscerti, a capirti. Ho visto che tipo di donna sei, come tieni testa a Sherlock, quanto sei divertente e intelligente. E credimi... Sei ancora la ragazza più bella che io abbia mai visto." finì di parlare, guardandola negli occhi.


Charlotte, dal canto suo, non aveva osato distogliere lo sguardo da lui mentre parlava. Lo fissava incredula, col fiato sospeso e sembrava pendere totalmente dalle sue labbra. Appena John ebbe finito di parlare, agì prima ancora di pensarci e si sporse verso di lui. Gli prese il viso tra le mani e lo baciò, senza pensare che avrebbe potuto allontanarla, senza pensare a quanto fosse sbagliato quel gesto. Ma lui non si scostò, anzi. Le passò le braccia attorno alla vita e ricambiò quel bacio che sapeva di gratitudine, incredulità, sensi di colpa. Solo in quel momento entrambi si resero conto che, per quando avessero cercato di ignorare quell'attrazione, era impossibile cancellarla. Era impossibile per loro rimanere nella stessa stanza ed essere completamente indifferenti l'uno nei confronti dell'altra.
Si persero l'uno nelle labbra dell'altra, dimentichi di tutto ciò che li circondava. Come la prima volta, anche in quel momento non esistevano né Mary né David, non esisteva Sherlock, il 221B, i casi. Esistevano solo loro due, sospesi nel tempo, persi in un secondo eterno. Charlotte si riempì le narici del suo odore, dell'aroma di menta che veniva dal dentifricio e di medicinali e polvere da sparo che ormai pareva far parte della pelle di John, mentre le loro lingue si incontravano a metà strada e si esploravano a vicenda.


Si separarono dopo quella che parve un'eternità, senza alcuna voglia di farlo. Rimasero talmente vicini che le loro labbra si sfioravano ancora e i loro respiri si infrangevano sulla loro pelle. Charlotte si perse nella contemplazione dei suoi occhi di quel blu scuro come la notte con riflessi viola, quegli occhi che vedeva ogni notte quando abbassava le palpebre. Gli accarezzò piano le guance lisce con i pollici, sentì la consistenza della sua pelle e memorizzò nel tocco la sensazione che stava provando in quel momento. Si lasciò sfuggire un piccolo e leggero sorriso nel sentirlo tremare appena sotto le sue dita, esattamente come stava facendo lei. Si sporse appena, per baciarlo di nuovo, per riempirsi nuovamente ogni cellula di lui.


"No." la fermò lui, mettendo le mani sui suoi polsi. Sollevò un angolo della bocca in un sorriso mesto di fronte allo sguardo confuso della ragazza.


"Perché?" sussurrò, ferma e bramosa del suo contatto. John sospirò e fece scivolare le mani fino a prendere le sue. Le accarezzò i dorsi con i pollici, disegnò piccoli cerchi concentrici.


"Perché se non mi fermo adesso, non riuscirò più a farlo. E allora farò l'amore con te per tutta la notte e domani non riuscirò più a lasciarti andare." confessò, incrociando lo sguardo solo alla fine. Un misto di colpa, dolore e tuttavia anche desiderio traspariva dalle sue iridi scure.


"E se fosse quello che voglio anche io?" chiese. Mosse appena le mani così da intrecciare le loro dita e gliele strinse. John sospirò e scosse la testa.


"Non è quello che vuoi davvero, Char. In questo momento ti sembra che lo sia, ma domani mattina penserai a David. Penserai al male che gli avremo fatto. Per cosa poi? Per un momento di debolezza, perché avevi bisogno di sentirti desiderata e perché io sono uno stupido che..." si schiarì la gola. Evitò di terminare la frase, lasciò che aleggiasse nell'aria attorno a loro e che lei capisse quello che voleva. "Credimi, scricciolo, è meglio così."


Charlotte sospirò e abbassò lo sguardo sulle loro mani intrecciate. Si incastravano perfettamente, le sue così piccole e delicate e quelle di John più grandi e ruvide. Si morse il labbro inferiore e rialzò la testa.


"Rimani. Ti prometto che non faccio niente, ma... Sono giorni che non riesco a dormire. Che appena chiudo gli occhi ho incubi. E so che è lo stesso per te. Magari se stiamo insieme la notte farà meno paura..." suggerì, guardandolo negli occhi.


John parve pensarci su qualche istante, poi annuì e si lasciò sfuggire un sorriso leggero.


"Come sai che non dormo neanche io?"


"Ti dimentichi sempre che sono una Holmes." rispose con un leggero sorriso enigmatico sulle labbra.


Gli lasciò le mani solo per recuperare il libro e permettergli di appoggiare la schiena contro la testata del letto. Lei si sistemò contro di lui, la testa sulla sua spalla e il volto così vicino al suo. John le passò un braccio attorno per stare più comodo e, a dire la verità, anche per sentirla ancora più vicina. Appoggiò il mento sulla sommità della sua testa.


"Cosa leggi?" chiese. Senza pensarci cominciò a muovere le dita sul suo braccio in una carezza leggera.


"Il ritratto di Dorian GrayÈ il mio libro preferito da quando sono piccola." sorrise e sfogliò le prime pagine vuote così da arrivare al primo capitolo.


Rimasero poi in silenzio a leggere, anche John seguiva le parole assieme a lei. Ogni tanto si perdeva a guardarla, ad assaporare quel momento che sapeva tanto di estemporaneo e fragile. Sperava che lei non sentisse il suo cuore battere all'impazzata nel petto, così forte da sembrare un animale in gabbia che lottava per essere liberato. Era sbagliato, era tutto così incredibilmente sbagliato, ma non riusciva a fermarsi. Non riusciva ad allontanarsi da lei, a tenerla a distanza, a smettere di desiderare di essere una cosa sola con lei. Sentiva che le loro anime si chiamavano, si gettavano l'una contro l'altra, ma cosa potevano fare? Erano entrambi incatenati da obblighi che non potevano ignorare, avevano entrambi una vita che non volevano abbandonare.
Si accorse che Charlotte si era addormentata solo quando notò che erano ormai troppi minuti che non girava pagina. Ridacchiò sommessamente e liberò il braccio, così da prendere il libro e chiuderlo per appoggiarlo sul comodino. Si sdraiò e la portò con sé, così da farla stare comoda. Lei si rannicchiò di più contro di lui con la testa sul suo petto e un braccio attorno alla sua vita. John rimase perso per qualche istante a guardarla dormire, ad osservare le sue labbra appena separate e le palpebre abbassate.
Mary non aveva mai dormito così con lui. A lei piaceva avere i suoi spazi anche a letto, di solito stava sdraiata sul fianco destro. Il contatto più frequente era la sua mano sopra quella del medico, più raramente lui riusciva ad abbracciarla da dietro e dormire in quella posizione. Ma di certo Mary non era una donna che amava esternare le sue emozioni, i suoi pensieri, i suoi sentimenti. Li dimostrava a suo modo, ma una carezza o un bacio spontaneo erano molto rari. Con Charlotte vedeva tutt'altro mondo. Lei bramava il contatto fisico, che fosse un abbraccio o semplicemente le mani che si sfioravano. In questo forse la aiutava la sua giovane età, il candore che ha solo chi non ha vissuto abbastanza a lungo da essere totalmente disilluso.


Le accarezzò una guancia e abbassò la testa abbastanza per sfiorarle appena le labbra con le sue in un bacio leggero come una piuma. Sorrise nel vederla rannicchiarsi di più, infastidita da quel dolce solletico.


"Buonanotte, Char." sussurrò. Chiuse gli occhi e nel giro di pochi istanti si addormentò anche lui, abbracciato a quella ragazza quasi come se fosse la sua ancora di salvezza.

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